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Full text of "Giornale di filologia romanza"

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N/  1  Gennaio  1878 


GIORNALE 


DI 


FILOLOGIA  ROMANZA 


DIRETTO 


ERNESTO   MONACI 


^-^'"'^^ 


TOSINO     ROMA     FIRENZE 

ERMANNO  LOESCHER  E  C 

VI»  del  Coreo,  807. 


PARIGI  LONDRA 

Libreria  A.  Franck.  Trùbner  e  0. 

HALI4E 

Libreria  Lippe rt 

(M.  Nieraeyer). 


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CONTENUTO  DI  QUESTO  FASCICOLO. 


E  Monaci,  Avvertema P^g*  1 

U»  A.  Cahbllo,  Lingua  e  dialetto •     »  2 

P.  Bajna,  Estratti  di  una  raccolta  di  facde    ,       .       .       .  »  13 

N.  Caix,  Sul  pronome  .       .       ...       .       .       .       .  »  43 

Tarietà 

N.  Cau,  Etimologie  romanee .  >  48 

E.  MoLTENi,  Sul  Libro  Beale      .       .       .       .       .       .       .  »  50 

A.  D'Ahooka,  Fra  (xuittone  e  ti  sig,  Perrens   .       .       .       .  »  53 

Rassegna  bibUograflca 

N.  Giix,  Hasdeu:  Fragmenie  pentru  Istoria  linU)ét  romàne    .  »  55 
A.  D'  Ancona  ,  Novdiine  popolari  rovignesi  race,  da  A.  -Iye    .  »  5.6 
U.  A.  Canbllo,  Sopra  una  caneone  di  Gino  da  Pistoja.  Let- 
tura di  P.  Canal    .       •       .        .        .        .        .        .        -^  »  57 

E.  Monaci,  El  magico  prodigioso,  comedìa  de  D.  P.  Caij>»ion 

DB  LA  Basca  pubL  p.  A.  Mobbl-Fatio.        ....  »  58 

G.  Navone,  Studj  di  erudizione  e  W  arte  per  A.  Bobooononi  •  »  59 

BnUettiao  blUiograflco 

»  Gì 

Periodici 

.  .  65 

Notisie 

»  68 


Questo  Giornale  si  pubblica  per  fascicoli,  possibilmente  tri- 
mestrali, in  media  non  minori  di  pagg.  64  in  8*  ^r. 

Il  prezzo  per  ogni  4  fascicoli  è  di  lire  10  anticipate  in  Italia, 
lire  12  (effettive)  all'Estero;  per  la  Germania  10  Mark, 

Le  associazioni  si  ricevono  dalla  casa  editrice  ErmanxoLokscher 
B  C*  (in  Roma,  in  Torino  e  in  Firenze)  e  presso  tutti  i  princi- 
pali libraj. . 

Per  quanto  s'attiene  alla  compilazione,  e  per  l'invio  di  mss., 
cambj  ed  altre  stampe  l'indirizzo  è  al  prof.  E.  Monact,  Boma^ 
Via  CHulio  Bomano^  115;  per  quanto  poi  si  riferisce  alla  ammi- 
nistrazione r  indirizzo  è  al  Sig.  Ermanko  Loeschkr  e  C*  Bomay 
Via  dd  Corso,  307. 


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^>ù.  COM 

^tPr£M86R  1928 
17636 


GIORNALE  DI  FILOLOGIA 
ROMANZA 


. . .  patriam  diversin  gcntibus  anam. 

KUTI'^IO   NCMABIAKO. 


N.°  1  GENNAIO  ,  18  7  8 


AVVERTENZA 


Questo  Giornale  succede  alla  Rivista  di  filologia  romanza 
fondala  nel  d872  da  me  e  dai  carissimi  amici  miei,  il  conte  Luigi 
Manzoni  di  Ltcgo  e  il  prof.  Edmondo  Slengel  della  Università  di 
Marburg,  Il  tempo  portò  lontani  da  Roma  i  due  miei  compagni 
di  lavoro,  e  la  Rivista  per  cagioni  da  me  indipendenti  nelV  Ot- 
tobre del  i 87 6  interruppe  le  sue  pubblicazioni.  Non  tutti  cre- 
dettero momentanea  cotale  interruzione,  e  quando,  appianate  le 
difficoltà  che  già  furono  d*  inciampo  al  buon  andamento  di  quel 
periodico,  io  stavo  per  rimettermi  alV opera,  un  altro  ostacolo 
mi  sorse  contro  affatto  inopinato.  La  Rivista  aveva  perduto  la 
continuazione  di  piti  d' uno  degli  articoli  riìnasti  incompiuti  nei 
due  primi  suoi  volumi.  Non  essendo  in  islato  di  mantenere  i 
suoi  obblighi y  io  non  potevo  piti  pensare  a  farla  rivivere,  E 
poiché,  d'  altra  parte ^  autorevoli  consigli  di  colleghi  e  di  amici 
pur  mi  esortavano  a  non  desistere  da  una  intrapresa  alla  quale 
la  giovane  scuola  che  or  si  va  formando  in  Italia,  offriva  spon- 
tanea la  sua  cooperazione,  a  me  non  restava  se  non  di  comin- 
ciare un  altro  periodico,  non  dissimile  dal  primo,  tuttoché  da 
quello  non  dipendente.  Tanto  valga  a  spiegare  il  titolo  che  si  legge 
in  fronte  a  questi  fogli  e  a  giustificare  la  mancanza  di  ciò  che 
dicesi  un  programma, 

Ernesto  Moxaci 


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U.  A.  CANELLO  [giornalk  di  filologia 


LINGUA  E  DIALETTO 


Ormai  più  non  v' è  chi  neghi,  od  ignori,  che  gli  elementi  d'una 
lingua  nelle  loro  trasformazioni  obbediscono  a  certe  generali  tendenze, 
che,  ben  precisate,  si  possono  anche  dir  leggi.  Molti  fatti  tuttavia  po- 
trebbero sulle  prime  far  dubitare  di  questa  verità.  E  egli  proprio  vero, 
ad  esempio,  che  le  parole  latine,  nella  loro  trasformazione  italiana,  ob- 
bediscano a  norme  fisse?  Aprendo  un  dizionario  italiano  qualunque, 
noi  troviamo  a  poca  distanza  le  seguenti  coppie  contraddittorie: 

ftaio      e  flato       da  flatus; 

fiorai  e  e  flebile     da  flehilis; 

fiotto     e  flutto      da  fluctus; 

fiore     e  florido   da  flos  e  floridus; 

fiume    e  fluviale  da  flumen  e  flavialis. 

Noi  qui  vediamo  che  o  la  stessa  parola  latina  o  due  parole  che  hanno 
degli  elementi  in  comune,  riappariscono  in  italiano  sotto  duplice  forma  : 
da  un  lato  il  nesso  fl-  diventa  /?-,  e  dall'altro  sì  mantiene  fl-.  Che  anzi, 
tirando  avanti  a  sfogliare  il  dizionario,  potremmo  imbatterci  in  fragello 
accanto  a  flagello  da  flagellum:  dove  lo  stesso  fl-  latino  si  è  trasformato 
in  />•-.  Di  più:  mentre  in  fievole  e  neir arcaico  fievile  il  b  tra  vocali  di 
flebilis  si  è  ridotto  a  t?,  come  si  vede  accadere  anche  in  bevere  da  bibere  e 
in  scrivere  da  scribere^  ecco  che  in  flebile  esso  resta  inalterato;  e  inal- 
terato esso  resta  in  bibita  daccanto  a  bevere,  e  in  scriba  e  scribacchiare 
daccanto  a  scrivere.  Non  bastano  questi  fatti  per  ragionevolmente 
conchiudere  che  in  queste  evoluzioni  fonetiche  non  v'è  norma  alcu- 
na? o  che  anzi  il  regno  della  fonetica  sembra  il  regno  della  contrad- 
dizione? 

Eppure,  meglio  considerando  gli  esemplari  che  abbiamo  ravvicinato, 
le  apparenti  contraddizioni  si  veggono  risolversi  in  accordo  finale  e  so- 
stanziale. In  fatti,  le  voci  in  cui  il  nesso  fl-  si  trasforma  in  /J,  sono  di 
natura  interamente  diversa  da  quelle  in  cui  T/Z-  si  mantiene;  e  solo  la 
caotica  compilazione  d'un  dizionario  le  può  tanto  quanto  ravvicinare. 
Fiato ^  fiore ^  fievole^  fiotto^  fiume  sono  voci  che  appartengono  o  appar- 
tennero alla  lingua  parlata,  alla  lingua  del  popolo,  al  dialetto;  flato j 
florido f  flebile^  flutto^  fluviale  appartengono  o  appartennero  originaria- 
mente alla  lingua  scritta,  alla  lingua  dei  letterati:  sono  di  quegli  ele- 
menti che,  aggiunti  a  un  dialetto  popolare,  lo  fanno  assurgere  a  dignità 


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ROMANZA  N.o  1]  LINGUA  E  DIALETTO  8 

e  nome  di  lingua.  E  pretendere  che  la  stessa  voce  latina  si  comportasse 
nello  stesso  modo  in  bocca  del  popolo  fiorentino  e  negli  scritti  dei  let- 
terati italiani  sarebbe  non  meno  assurdo  del  pretendere  che  i  Francesi 
parlassero  come  gl'Italiani.  Infatti,  le  voci  popolari  e  le  voci  dei  let- 
terati sono  state  formate  in  modo  del  tutto  diverso.  Le  voci  popolari 
fiorentine,  quelle,  cioè,  che  fin  dal  principio  appartennero  al  dialetto  di 
Firenze,  sono  giunte  dall'età  latina  alla  nostra  per  tradizione  continua- 
mente orale:  i  figli  le  appresero  dalla  bocca  dei  padri  e  le  insegnarono 
ai  loro  figlioli;  e  poiché  non  sempre  i  figlioli  riuscivano  a  correttamente 
percepire  la  voce  che  veniva  loro  insegnata,  oppure  non  correttamente 
sapevano  riprodurla,  ecco  che  a  mano  a  mano  essa  si  trasformava,  ac- 
conciandosi agli  organi  delle  successive  generazioni;  e  flatus ,  flos,  fle- 
hilis,  fluduSy  flumen  si  mutarono  in  fiato,  fiore,  fievole^  fiotto^  fiume.  Al- 
l'opposto,  quando  i  dotti  fiorentini  od  italiani  andarono  cercando  nel 
latino  voci  nuove  per  significare  quelle  nuove  idee,  che  essi,  superiori 
al  popolo,  venivano  escogitando  o  disseppellendo  nei  libri  antichi ,  non 
v'era  alcuna  ragione  che  essi,  adottando  flato ^  florido,  flebite,  flutto 
fluv^iale,  mutassero  quel  fl-  in  /?-,  ovvero  il  b  di  flebile  in  t;  :  i  loro  oc- 
chi rilevavano  nettamente  la  parola  latina,  e  le  loro  penne  corretta- 
mente potevano  riprodurla;  e  però  la  conservarono  presso  che  intatta, 
limitandosi  a  toglierle  certe  desinenze,  che  troppo  avrebbero  stonato 
nel  corpo  delle  voci  fiorentine  a  cui  la  nuova  veniva  aggregata. 

L'apparente  contraddizione,  pertanto,  che  scorgevamo  tra  fiato  e 
flaio^  e  tra  fiore  e  florido,  ci  si  mostra  insussistente:  fiato  e  fiore  sono 
perfettamente  regolari  secondo  le  norme  del  dialetto,  secondo  la  par- 
lata popolare;  flato  e  florido  sono  regolari  anch'essi,  ma  secondo  le 
norme  della  lingua  scritta,  della  lingua  dei  dotti:  fiato  e  fiore  sono  stati 
fatti  cogli  orecchi  e  colla  glottide  ;  flato  e  florido  sono  stati  fatti  cogli 
occhi  e  colla  penna. 

Partendo  dal  fatto  costante,  che  tutte  le  lingue  letterarie  risultano 
di  due  strati  di  parole,  uno  dialettale  popolare  e  l'altro  scritto,  lette- 
rario, i  filologi,  nel  rintracciare  le  leggi  evWutive  d'una  lingua,  già  da 
un  pezzo  hanno  cominciato  a  tener  ben  distinti  questi  due  strati,  e  a 
cercare  per  ciascuno  leggi  speciali.  Essi  hanno  per  uso  di  raflfrontare 
dapprima  i  termini  pivi  ovvii,  i  termini,  la  cui  popolarità  non  può 
punto  esser  dubbia:  e  da  questi  desumono  le  leggi  generali  della  lingua, 
che  sono  più  veramente  le  leggi  del  dialetto;  e  quando  così  hanno  gua- 
dagnato un  sicuro  criterio  per  meglio  distinguere  le  voci  popolari,  rie- 
scono a  separarne  con  facilità  le  voci  di  origine  letteraria,  che  fanno 
come  eccezione  alla  regola  fondamentale.  Né  il  distinguere  nettamente 
fra  lo  strato  popolare  e  lo  strato  letterario  è  cosa  vana  o  di  poco  mo- 
mento. Con  questa  distinzione  si  è  già  riusciti  all'ingrosso  a  vedere 
quanto  nella  formazione  e  nell'  arricchimento  d' una  lingua  sia  dovuto 


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4  U,  A,  CANELLO  [giornale  di  filologia 

a  quella  provincia  o  a  quella  città  che  ne  ha  dato  il  fondo  primitivo , 
e  quanto  sia  dovuto  air  opera  concorde  di  tutti  i  migliori  d*  una  nazione 
i  quali  si  sono  serviti  di  quella  lingua  e  vi  hanno  apportato,  colle  nuove 
idee,  le  nuove  espressioni. 

Ma  l'esatta  distinzione  di  questi  due  strati,  quanto  è  feconda  di 
mirabili  rivelazioni,  altrettanto  è  anche  irta  di  difficoltà,  che  finora  sono 
state  mal  a  pena  sentite.  E  le  difficoltà  hanno  origine  doppia.  Poiché 
può  darsi  per  primo  che  molte  voci,  le  quali  in  origine  appartenevano 
al  fondo  dialettale  d'una  lingua,  sieno  poi  state  obbliate  dai  parlanti 
e  surrogate  da  altre,  mentre  pur  continuano  a  far  parte  della  lingua 
letteraria  o  almeno  del  suo  tesoro  lessicale.  Tal  è,  ad  esempio,  il  caso 
di  stèlo ^  che  oggi  dicesi  comunemente  «  gambo,»  e  viene  secondo  le 
norme  popolari  dal  latino  sftlus;  tale  il  caso  di  vèglio  per  e  vecchio,» 
voce  ormai  uscita  dall'uso  corrente  e  rimasta  alla  lingua  poetica,  ma 
che  in  origine  fu  popolare,  poiché  solo  il  popolo  poteva  trasformare  il 
latino  vétulus  veUns  veclus  in  vèglio;  tale  è  il  caso  di  speme,  di  spirto^  di 
rio  (da  retis)^  di  léce  (da  Ucet);  tale  è  il  caso  di  spèglio,  da  spectdum, 
popolare  alle  origini,  poi  rimasto  solo  ai  poeti,  e  ormai  condannato  a 
trascinare  vecchiaia  inoperosa  nei  lessici.  Ma  le  difficoltà  di  questo  ge- 
nere, benché  a  volte  molto  gravi,  non  sono  però  le  più  penose:  lo  studio 
della  fonetica  e  un  buon  dizionario  dell'uso  vivente  vi  rimediano.  La 
distinzione  dei  due  strati  diventa  qualche  volta  presso  che  disperata  a 
motivo  di  quelle  voci,  che  in  origine  furono  dovute  bensì  ai  dotti,  ma 
a  mano  a  mano  sono  poi  state  adottate  dal  popolo  ed  ormai  fanno  parte 
della  parlata  comune.  Tali  sono,  ad  esempio,  poèta,  profèta^  arèna;  voci 
che,  senza  il  criterio  delle  leggi  fonetiche,  saremmo  disposti  a  chiama- 
re, senz'altro,  popolari.  Ma,  secondo  la  fonetica  dello  strato  popolare, 
tutti  gli  e  latini,  lunghi  ed  accentati,  diventano  in  italiano  e  stretti  o 
anche  i;  mentre  restano  e  larghi  nelle  voci  letterarie,  per  la  ragione 
che  i  letterati  pronunciano  ora  con  suono  largo  tutti  gli  e  accentati  del 
latino.  Ora  poeta ^  profeta  e  arena  aveano  in  latino  un  e  lungo  ed  ac- 
centato ,  ed  hanno  in  italiatio ,  invece  d'  un  e  stretto  o  d' un  i ,  un  e 
largo;  essi  dunque  saranno  di  formazione  letteraria,  e  solo  più  tardi  dai 
letterati  li  avrà  imparati  anche  il  popolo.  Consideriamo  inoltre  afflig' 
gére  e  legittimo.  Afflìggere  con  quel  suo  //  conservato  dal  latino  affligere, 
ci  si  rivela  subito  come  voce  di  formazione  non  popolare:  le  voci  po- 
polari mutano,  come  vedemmo,  1'^  in  /?;  ma  viceversa  poi  quel  gg  della 
voce  italiana,  di  fronte  al  g  della  latina,  ci  dice  ch'essa  voce  non  può 
essere  nemmeno  una  creazione  dei  dotti,  i  quali  non  avrebbero  avuto 
nessun  motivo  di  raddoppiare  qui  quel  g  che  hanno  lasciato  scempio  in 
dirigere  prediligere  e  simili.  Dunque,  che  cosa  sarà?  Sarà  che  la  voce 
latina,  adottata  dai  nostri  letterati  sotto  la  forma  originale  ài  affligere, 
passando  poi  in  bocca  al  popolo  diventò  affliggere  sulla  norma  di  leggere 


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BOMANZA  ».<»  1]  LINGUA  E  BI ALETTO  5 

da  legere  e  di  reggere  da  regere.  E  così  legittimo  da  Ie0iinu8^  di  fronte 
al  popolare  légge  da  lègem^  ci  si  mostra  voce  di  formazione  letteraria; 
e  di  formazione  letteraria  la  rivela  anche  quell'i  accentato,  che,  venendo 
da  ì  latino,  avrebbe  dovuto  mutarsi  nella  tradizione  orale  in  e  stretto: 
si  confronti  il  popolare  lécito  e  il  letterario  licito,  tutti  e  due  da  lìcitiis. 
Ma  il  doppio  tt  di  legittimo  di  fronte  al  t  scempio  di  legitimus,  non  può 
essere  opera  dei  letterati  :  può  essere  dovuto  soltanto  alle  pronuncie  po- 
polari. E  così  anche  legittimo  ci  si  dimostra  voce  d*  origine  letteraria, 
trasformata  poi  tanto  quanto  dal  popolo. 

E  la  conclusione?  La  conclusione  sarà  che  la  distinzione  assoluta 
fra  lo  strato  popolare  e  lo  strato  letterario  non  regge  ;  che  tutte  le  voci 
potranno  bensì  distinguersi,  per  ragione  della  loro  origine  prima,  in 
popolari  e  letterarie;  ma,  in  ragione  dell'uso,  converrà  stabilire  molte 
altre  categorie,  entro  le  quali  raccogliere  da  un  lato  le  voci  che  popo- 
lari d'origine  vivono  ora  soltanto  negli  scritti;  e  quelle  altre  molto  più 
numerose  che  formate  dai  dotti  sono  poi  diventate  piiì  o  meno  popolari. 

Sarebbe  certo  importante,  con  questi  nuovi  criteri,  raccogliere  a 
parte  tutte  quelle  voci  di  cui  si  riconosce  la  schietta  formazione  popo- 
lare, per  scernere  poi  di  tra  loro  quelle  non  poche,  le  quali  hanno  ces- 
sato ormai  d' essere  in  corso  e  che  i  lessici  notano  come  arcaismi  o  voci 
poetiche.  Oltre  che  ottenere  così  quasi  un  inventario  della  cultura,  in 
una  data  età,  di  quel  popolo  che  ha  dato  all'italiano  o  al  francese  il 
fondo  primitivo  della  lingua,  noi  vedremmo  in  quelle  altre  pur  popolari 
ed  ora  obbliate  dal  popolo  formatore,  quanto  questo  popolo  stesso  ab- 
bia mutato  della  sua  cultura  e  del  suo  modo  di  concepire  e  chiamare 
le  cose  per  influenza  o  dei  letterati  o  dei  dialetti  e  popoli  vicini,  che 
seppero  far  prevalere  le  loro  idee  e  le  loro  voci. 

Ma  ben  più  importante  è  un  altro  compito  che  spetta  alla  scienza , 
e  che  la  scienza  finora  ha  troppo  trascurato  e  quasi  ignorato:  si  tratta 
di  raccogliere  tutte  le  voci  di  origine  letteraria  e  classarle  in  modo  che 
restino  distinte  quelle  che,  fatte  cogli  occhi  e  colla  penna,  non  sono 
mai  uscite  dai  libri  che  le  hanno  viste  nascere,  o  solo  da  pochi  dotti 
sono  state  pronunciate;  e  quelle  altre,  che  per  qualche  leggera  modifi- 
cazione mostrano  d' essere  passate  qualche  tempo  anche  per  gli  orecchi 
e  per  la  bocca,  se  non  del  popolo  intero,  della  sua  parte  più  colta;  e 
infine  quelle,  che,  senza  aver  raggiunto  il  grado  di  alterazione  proprio 
delle  voci  popolari  primitive,  pur  di  tanto  si  mostrano  cangiate  dalla 
forma  sotto  cui  i  dotti  le  hanno  messe  in  giro,  che  rivelano  un  prolun- 
gato passaggio  per  gli  organi  fonici  del  popolo  intero.  Distinguere  esat- 
tamente queste  diverse  classi  di  parole  :  quelle  fatte  unicamente  cogli 
occhi  e  colla  penna,  e  quelle  alla  cui  elaborazione  oltre  gli  occhi  e  la 
penna  dei  dotti  hanno  contribuito  in  misura  più  o  meno  grande,  du- 
rante un  tempo  più  o  meno  lungo,  anche  gli  orecchi  e  la  glottide  di 


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6  U,  A.  CANELLO  [giornale  di  filologia 

buona  parte  o  di  tutta  la  nazione  ;  e'  vorrebbe  dire  tracciare  con  tutta 
evidenza  la  storia  intellettuale  di  questa  nazione  istessa;  sarebbe  un  sor- 
prendere le  idee  dei  migliori,  degli  studiosi,  nel  loro  lento  e  tranquillo 
insinuarsi  nella  massa  popolare,  e  il  reagire  di  questa  massa  popolare 
che  le  intende  come  può,  e  un  po'  per  volta  le  adotta,  costantemente 
mirando  a  innalzarsi  verso  i  migliori,  verso  quelli  che  le  danno  e  le 
parole  e  le  idee. 

Se  adunque  si  può  ragionevolmente  parlare  d' uno  strato  dialettale  che 
costituisce  il  fondo  primitivo  d' una  lingua  letteraria,  purché  con  questa 
frase  s' abbraccino  solo  quelle  voci  che  proprio  fino  dalle  origini  appar- 
tennero alla  parlata,  quelle  voci  che  sempre,  senza  discontinuità,  furono 
tramandate  cogli  orecchi  e  colla  glottide;  non  ugualmente  ragionevole 
è  parlare  d' uno  strato  letterario,  d' un  fondo  di  parole  dotte.  Le  parole 
d'origine  letteraria  vanno  divise  e  suddivise  in  molteplici  strati  e  stra- 
terelli  sovrapposti  V  uno  all'  altro  e  diversi  fra  loro  per  età  e  qualità. 
Una  lingua  letteraria  si  può  immaginare  costituita  come  il  nostro  pia- 
neta, da  un  nucleo  centrale  omogeneo,  in  cui  non  s'ha  traccia  storica 
di  vita,  e  da  tante  fascie  presso  a  poco  concentriche,  che  si  succedono 
fino  alla  superficie,  narrando  ora  al  geologo  le  fasi  diverse  per  cui  la 
terra  è  passata.  Partendo  dalla  superficie  e  movendo  verso  il  centro,  la 
vita  animale  e  la  vita  vegetale  si  fanno  sempre  più  scarse,  finché  spa- 
riscon  del  tutto,  per  far  luogo  a  quella  attività  latente,  lenta  ma  inces- 
sante, per  cui  anche  le  morte  rocce  si  posson  dire  viventi.  E  così  mo- 
vendo dagli  strati  superficiali  delle  voci  di  formazione  letteraria  noi  vi 
troviamo  il  fiore  della  vita  intellettuale  moderna ,  vita  che  va  scemando 
via  via  che  si  scende  verso  gli  strati  già  popolarizzati ,  già  assimilati 
quasi  da  quel  nucleo  centrale  omogeneo,  in  cui  la  vita  intellettuale,  in 
quanto  è  movimento  continuo,  di  tutti  i  giorni,  verso  nuovi  orizzonti 
del  pensiero  e  del  sentimento,  sembra  cessare  del  tutto  nel  ristagno 
delle  opinioni  e  superstizioni  popolari. 

Io  tenterò  di  mostrare  con  alcuni  esempj,  tolti  dall'italiano  e  dal 
francese,  non  tanto  l'utilità  di  ben  distinguere  in  una  lingua  le  voci 
schiettamente  popolari  dalle  voci  di  origine  letteraria,  quanto  e  piìi  di 
ben  classare  in  diverse  categorie  quelle  voci ,  che  rivelano  un'  attività 
mista  di  letterati  e  di  popolo. 

Pigliamo  l'italiano  libro,  che  i  latini  dissero  liber^  acc.  lihrum.  Il 
latino  libra  ha  dato  all'italiano  libbra  peso,  e  lira  moneta;  e  al  fran- 
cese ha  dato  livre^  moneta  e  peso.  Analogamente  il  lat.  labrum,  per 
labium^  ha  dato  al  nostro  popolo  fiorentino  labbro^  e  a  quello  di  Parigi 
Uvre;  e  faber,  acc.  fabrum,  ha  dato  a  noi  fabbro  e  ai  Francesi  quel  févre 
eh' è  in  orfèvre  «orefice,»  quasi  aurifabrum.  Nell'italiano  del  popolo 
adunque  un  -&r-  latino  o  diventa  -6&r-,  ovvero  si  riduce  ad  -r-;  e  nel 
francese  diventa  sempre  -rr-.    Il  francese  Uvre,  così,  da  librum  è  in  piena 


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ROMANZA  ».•  1]  LINGUA  E  DIALETTO  7 

regola;  e  per  questo  conto  noi  dovremmo  metterlo  tra  le  voci  popolari; 
lihro^  in  italiano,  esce  dalla  forma  popolare,  che  vorrebbe  ìihhro  o  Uro, 
e  però  sarebbe  da  mettere  fra  le  voci  di  formazione  letteraria.  Conclu- 
deremo noi  che  il  lìber  dei  Latini  è  rimasto  popolare  in  Francia  ed  è 
stato  scordato  dal  popolo  fiorentino?  Non  è  ancor  tempo  di  conchiuder 
nulla.  Infatti,  Vi  di  librum  è  breve;  e  come  tale  avrebbe  dovuto  mu- 
tarsi in  e  stretto  nelle  voci  popolari  italiane,  come  si  vede  in  lécito^  féde^ 
véde^  iiéro  ecc.  da  Itcitus,  fides  ecc.;  e  avrebbe  dovuto  mutarsi  in  oi  ov- 
vero in  e  nelle  voci  popolari  francesi  analoghe,  come  si  vede  in  fot,  voit, 
uoir,  doigt  ecc.,  o  in  vert  da  mridis^  in  verre  da  vìtrum,  e  in  net  da 
fìitidus.  Se  adunque  il  latino  liher  Itbrum,  suonando  per  noi  libro,  e  non 
già  Uro  o  lébbro,  mostra  di  non  aver  avuto  vita  continuamente  popo- 
lare; alla  sua  volta  diventando  nel  francese  livre,  e  non  già  ìoivre  o 
ìevre  rivela  le  sue  origini  non  popolari  anche  tra  i  Francesi.  E  noi  con- 
chiuderemo ora  che  Y  idea  e  il  nome  del  liber  latino  sono  stati  obbliati 
nel  medio  evo  sia  in  Francia  che  in  Italia.  Obbliati  però  per  un  tempo 
non  lunghissimo:  che  ben  presto  vennero  a  farlo  ricordare  i  letterati, 
per  opera  dei  quali  livre  rinacque  in  francese  e  libro  in  italiano.  L' uso, 
che  il  popolo  francese  fece  poi  lunghissimamente  di  livre^  si  rivela  an- 
che nella  forma  di  questa  parola,  nel  mutamento  del  b  originario  in  v; 
mentre  nessuna  traccia  materiale  dell'uso  popolare  porta  indosso  il  no- 
stro libro:  ciò  che  si  spiegherà,  non  col  supporre  che  i  Francesi  ab- 
biano fatto  uso  pili  di  noi  di  questa  cosa  e  di  questa  parola,  ma  col 
ricordare  che  in  genere  molto  più  profonde  sono  le  modificazioni  che 
gli  organi  fonici  francesi  fanno  sostenere  alle  voci  latine.  Analogamente 
si  potrebbe  dimostrare  che  il  nostro  bibbia  e  il  frane,  bible^  tutti  e  due 
derivati  dal  latino  ecclesiastico  blblia  (plur.  di  biblion^  diminut.  greco 
di  PcjSao;)  sono  voci  di  origine  dotta,  ma  pur  lungamente  adoperate  dal 
popolo.  Era  questo  il  libro  che  gli  ecclesiastici  insegnarono  a  conoscere 
al  popolo,  mentre  i  letterati  gU  ravvivarono  la  memoria  del  libro  o 
dei  libri  in  generale:  il  popolo  incolto  avea  forse  a  un  certo  momento 
ridotte  le  sue  conoscenze  librarie  al  quaderno,  in  frane.  Cahier^  dal  la- 
tino quafernunìj  che  possiamo  supporre  come  singolare  di  quaterni  e  a 
quattro  a  quattro,  »  o  da  quateìiiio^  «  libretto  di  quattro  carte,  »  forse 
quello  in  cui  i  migliori  tra  i  capoccia  medievali  avranno  notato  le 
spese  di  casa. 

Altri  esempi  di  voci  dotte,  diventate  popolari  nell'italiano,  sareb- 
bero il  consolo  degli  antichi  nostri  comuni,  pataffio  per  epitafio^ pistola 
per  epistola,  micrania  per  emicrania;  e  più  notevole  di  tutti  quelV Itaglia, 
che  molti  deputati  pronunciano  in  parlamento  e  che  un  ministro  ebbe 
la  sbadataggine  anche  di  scrivere.  Italia,  il  nome  del  nostro  paese,  in 
quanto  è  patria  d'una  nazione,  non  s'è  conservato  dai  tempi  latini  fino 


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8  U.  A.  CANE L LO  [giornale  di  filologia 

ai  nostri  nella  tradizione  popolare,  la  quale  pnr  sempre  ricordò  Roma, 
Fireiue,  Napoli,  Milano,  cioè  le  singole  e  piccole  patrie:  il  nome  d'Italia 
s'è  conservato  solo  nei  libri,  dove  fu  ripescato  dai  tanti  animosi  che 
negli  antichi  libri  ricercavano  il  santo  ideale  della  nostra  unità  e  il  nome 
che  lo  rappresentava.  Italia^  infatti,  se  si  fosse  conservato  presso  il  po- 
polo, avrebbe  dovuto  diventare  in  fiorentino  Itaglia^  così  come  folium 
è  diventato  foglio^  e  palea  paglia,  mirabilia  meraviglia,  fUia  figlia.  Le 
voci  dotte  invece  conservano  il  suono  e  l'ortografia  latina,  come  si  vede 
in  Virgilio^  Cornelio,  Giulio,  parelio  e  simili;  in  soglio  o  sólio  da  sólium^ 
e  in  esilio  o  esiglio  da  exUium  si  oscilla  tra  la  forma  popolare  e  la  dotta. 
La  nostra  Italia ,  risorta  nella  mente  degli  studiosi,  di  trammezzo  al 
frazionamento  dei  comuni  medievali,  si  conservò  Italia;  e  solo  ora, 
dacché  se  ne  fa  un  cerio  parlare  anche  fra  il  popolo,  il  nome  comincia 
ad  assumere  le  forme  popolari;  e  se  un  ministro  scrisse  Jifa^r^wi,  nel  Ve- 
neto i  contadini  parlano  dolV  Italgia^  e  dei  Talgiani  capitativi  dal  ses- 
sautasei. 

Ma  per  la  ragione  già  accennata,  che  l'italiano  non  altera  molto 
la  forma  delle  parole  latine,  e  quindi  tra  la  parola  di  origine  letteraria 
e  quella  di  origine  popolare  c'è  spesso  nn  solo  passo;  rade  volte  si  riesce 
col  sussidio  delle  leggi  fonetiche  a  determinare  la,  direi  quasi,  quan- 
tità dell'elaborazione  popolare  di  parole  dotte.  Ciò  riesce  assai  meglio 
nel  francese,  dove  le  voci  puramente  letterarie  sono  tanto  distanti  da 
quelle  puramente  popolari,  che  resta  in  mezzo  molto  spazio,  restano 
molti  gradi  di  alterazioni  intermedie,  per  le  quali  si  rivelano  le  elabo- 
razioni miste  di^  popolo  e  di  letterati.  Cercheremo  di  mostrarlo  collo 
studio  di  due  esemplari ,  la  cui  storia  importa  non  poco  alla  storia  della 
cultura  francese:  i  due  esemplari  saranno  Diett  e  esprit. 

L'idea  di  Dio,  d'un  Dio  supremo,  del  Dio  per  eccellenza,  s'è  ella 
sempre  conservata  presso  i  Francesi,  durante  l'età  gallo-romana,  du- 
rante le  invasioni  germaniche,  nell'età  barbarica  che  accompagnò  la 
caduta  degli  ultimi  carolingi  e  il  venir  su  dei  primi  capetingi,  allo 
spuntare  della  lingua  e  della  nazione  novella?  Io  ne  dubito;  ed  eccone 
il  perché.  Nelle  parole  popolari  francesi  la  sillaba  us  od  um,  finale  la- 
tina, svanisce,  o  si  riduce  ad  e  muta  se  precede  una  doppia  liquida  o 
consonante  muta  e  liquida:  abbiamo  an  (anmis),  chetai  (cahallus),  fruii 
(fructus)^  tout  (totus);  e  poi  verre  (vitrum),  pomme  {pomum)j  peuple 
(populus),  doublé  (duplus)  ecc.  Ma  a  questa  norma  non  obbedisce  Dieu 
o  Deu,  come  anche  si  disse  in  antico:  dove  si  vede  Vus  o  um  finale 
mantenersi.  Nel  provenzale,  dove  anche  nicus  dà  mieus,  noi  troviamo 
perfettamente  in  regola,  e  però  popolare,  il  nome  di  Dio:  Dieu-s;  ma 
nel  francese,  cioè  nei  dialetti  della  Francia  settentrionale,  dove  certo  la 
barbarie  fu  più  lunga  e  più  grave  che  non  in  Provenza,  non  ci  ha  modo 


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BOMAIOEA  N.**   1] 


LINGUA  E  DIALETTO 


di  trovare  nn  analogo  popolare  al  Dieu  (1).  Là  infatti  meus  ha  dato 
mis  e  mes,  non  mieus  come  nel  provenzale,  e  Dieu  o  Deu  deve  esservi 
giudicato  voce  di  formazione  non  popolare,  voce  non  rimasta  vìva  nella 
memoria  del  popolo.  E  chi  V  avrà  insegnata  al  popolo  saranno  stati  na- 
turalmente gli  ecclesiastici,  i  quali  conoscevano  bene  il  loro  Deus  latino 
e  lo  predicavano  tale  e  quale  nelle  omelie  latine  fino  al  principio  del 
secolo  IX ,  nelle  volgari  dappoi.  E  il  popolo  imparò  a  conoscerlo  con 
queir «5  ed  um  finale,  e  così  se  lo  appropriò,  e  ne  parlò  poi  tanto  da 
mutarne  Ve  breve  accentato  in  ic,  come  veniva  facendo  nei  casi  ana- 
loghi. E  così  il  nome  di  Dio  venne  ad  avere  in  Francia  una  forma  mezzo 
dotta  e  mezzo  popolare,  come  mezzo  ecclesiastica  e  mezzo  popolare  era 
stata  la  tradizione  di  questa  idea  filosofica  e  religiosa.  Un  riscontro  no- 
tevole a  questo  semipopolare  Dtew,  antic.  Deu^  ci  è  offerto  dal  moderno 
h^reu,  in  antico  anche  ebré  ébrey  dal  latino  hébrcieus^  di  fronte  al  mo- 
derno Jutf,  in  antico  anche  judeu,  dal  \a,t.judaeus.  Juif^  quasi  ds.judaevuSj 
è  il  termine  popolare  o  maggiormente  popolare,  col  quale  s* indicano 
ora  le  persone  e  le  cose  d' Israele  ;  Mbreu  è  la  voce  dotta  o  semidotta 
colla  quale  si  chiama  la  lingua  dei  Juifs  (2). 

Il  secondo  notevolissimo  esempio  è  quello  di  esprit.  L'esprit,  che 
ora  tanto  abbonda  ai  Francesi,  in  altri  tempi  dev'essere  loro  mancato 
del  tutto,  se  pure  non  l'hanno  chiamato  con  nome  diverso.  La  voce 
esprit  non  appartiene  al  fondo  schiettamente  popolare  della  lingua  fran- 
cese; essa  ne  offende  per  più  modi  le  leggi  fonetiche,  e  meglio  invece 
obbedisce  a  quelle  delle  voci  dotte.  Infatti,  nelle  voci  popolari  del  fran- 
cese, l'accento  si  mantiene,  per  norma,  al  posto  che  occupava  nel  latino. 
Si  badi  a  prétre  ant.  prestre  à^  préshyter ,  évéque  da  episcopus^  rangon 
da  redemptiónem ,  raison  da  ratiónem^  tutte  voci  popolari;  e  si  confron- 


(1)  L'antico  fr.  ha  bensì,  daccanto  a 
de-us,  le  forme  dex^  diex ,  dix;  ma,  se- 
condo il  DiEZ ,  Grammaire  II ,  45,  diex  sa- 
rebbe per  dieu-s,  poiché  «  à  Tanalyse  ap- 
profondie  et  claire  de  Burguy  »  sarebbe 
riuscito  di  dimostrare  l'equazione -a? =m5.  — 
Veramente  il  Burouy,  Gram.  1, 91-94,  parla 
d'una  contrazione  di  -Is  in  -a?,  benché  poi 
Tenga  ad  ammettere  la  scrittura  -x  per  -us, 
eh' è  ammessa  anche  dal  Bartsch,  Chr. 
anc.  ft^an^.  504.  Ma  comunque  sia  di  ciò, 
sia  il  fatto  che  si  hanno  auche  esempj  di 
de  de-s  per  deus:  il  Bartsch  ha  des  nel 
glossario,  il  Burguy  cita  un  ^t  de  noni. 
plur.,  I  271,  lin.  26  dall'alto;  e  la  cortesia 
del  nostro  Monaci  m'indica  un  altro  esem- 
pio negli  Altfranz.  Lieder  del  Matzner, 


(Gassb,  II,  37)  dove  De  è  in  rima,  e  quindi 
sicuro.  E  resta  quindi  provato  che  una  sot- 
tile tradizione  popolare  di  Devs  ci  sia  stata 
anche  in  Francia;  ma  tanto  sottile  da  venire 
interamente  distrutta  dalla  forma  ecclesia- 
stica. 

(2)  E  neppure  il  diavolo  diable  ha  forma 
popolare  nel  francese,  ad  onta  che  in  diable 
si  conservi  l'accento  dell'originario  diafto/»* 
^lajSoXoc.  Come  da  diurnum  s'ebbe  jour, 
cosi  da  diaholus  il  popolo  avrebbe  fatto 
jable  o  qualcosa  di  simile.  Non  popolare  è 
da  dire  ancora  nel  francese  diacre  {didco- 
mts),  diamant  e  altri  simili;  e  in  gene- 
rale non  basta  il  criterio  dell'accento  latino, 
che  si  mantenga  nel  francese,  per  dichiarar 
popolare  l'origine  d'un  vocabolo. 
1* 


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10  V,  A.  CANELLO  [giornale  di  filologia 

tino  colle  seguenti  di  origine  dotta:  Italie  da  Italia^  fragile  da  frdgilis, 
facile  da  fàcilis,  patrie  da  pàtria,  examen  da  exàmen,  colonie  da  colònia 
e  simili;  e  si  vedrà  che  dal  latino  spiritus  non  si  potè  avere  per  tradi- 
zione popolare  un  esprit,  coir  accento  spostato,  quasi  che  si  trattasse 
d'un  latino  5p/n7i/5  (1).  Spiritus,  infatti,  cominciarono  a  leggere  erro- 
neamente i  clercs  medievali  di  Francia,  fino  da  quando  essendosi  svolti 
dal  latino  i  nuovi  dialetti  popolari  francesi,  nei  quali  l'accento  cadeva 
sempre  sulF ultima  o  sulla  penultima,  con  queste  nuove  norme  si  co- 
minciò a  profferire  anche  il  latino;  e  si  disse  spiritus  come  si  diceva 
peupleopeùples,  fcinme  o  fémmes.  C'è  di  più:  i  popoli  di  Francia,  che 
appresero  il  latino,  pare  avessero  somma  difficoltà  a  proferire  un  5  im- 
puro; e  però  per  tempissimo,  pure  scrivendo  schola,  scribere,  spatha, 
pronunciavano  es-cóla,  es-crihere,  es-patha,  cercando  quasi  con  queir  e 
prefisso  di  staccare  lo  s  dalla  consonante  che  segue:  anche  adesso,  in- 
fatti, i  Francesi  mostrano  la  stessa  difficoltà,  poiché  sillabano  es-prit, 
es-tomac,  es-tradc.  Più  tardi,  verso  la  fine  del  secolo  XII,  quel  s  dinanzi 
a  consonante,  parve  ancora  difficile  a  pronunciare,  e  venne  fognato. 
S' intende  però  :  nelle  voci  di  uso  popolare  ;  che  i  dotti  potevano  age- 
volmente scrivere  questo  s  incomodo  alla  glottide  dei  parlanti.  E  così 
le  antiche  forme  escole,  espée,  escrire,  prestre,  évesque  ecc.  divennero 
école,  épèe,  écrire,  prètre,  évèqiie.  Ma  quello  spiritus,  che,  insegnato  dai 
clercs  al  popolo  era  diventato  espirit,  come  infatti  dissero  i  Provenzali, 
od  esprit,  sopprimendo  la  vocale  atona,  non  giunse  fino  al  terzo  grado 
deir  evoluzione,  non  si  fece  éprit:  di  fronte  ad  école,  épce,  écrire  e  si- 
mili, esso  è  rimasto  indietro  di  un  punto,  per  la  buona  ragione  ch'esso 
era  entrato  nell'uso  popolare,  quando  schola,  spatha  e  scrihere  aveano 
già  percorso  un  tratto  della  loro  strada  verso  ccole  ecc.  Questo  esprit 
adunque,  ora  tanto  popolare  in  Francia,  ci  si  rivela  per  voce  indubbia- 
mente di  origine  dotta,  per  voce  fatta  alle  prime  cogli  occhi  e  colla 
penna,  desunta  non  dalla  bocca  dei  latini,  ma  dai  loro  libri.  Ma  esso 
è  entrato  da  tanto  tempo  nella  parlata  francese,  che  vi  ha  dovuto  so- 
stenere parécchie  forti  modificazioni,  le  quali,  di  fronte  alle  forme  let- 


(1)  «  Espir,  (lice  G.   Parts,  Étìtde  svr  vo  difficile  la  caduta  del -t  in  un  nesso  come 

le  vale  de  Vacccnt  latin f  p.  40,  nVst  pas  rare  questo:  si  sarebbe  aspettato  un  espiri,    In- 

(voy.  entr«  autres  Jobj  p.  450,  502;  Iluon  de  fatti  -rt  non  si  riduce  mai ,  eh'  io  sappia ,  a  -r 

Bordeai'Xy  y.  154G;   Trvbert,  v.  1781). —  nel  frane,  ant.:  l'esempio  di  coirr  da  cokor- 

Spiritus,  soufflé  ou  pensée,  a  sans  doute  te-  non  regge,  gli  antichi  dicendo  sempre 

(ìonné  espir;  spiritu.t,  l'esprit  saint,  a  donno  court  {v.L\ttré);  court  perdette  il  suo  -t 

espirit ;  pms  on  a  confondu  Temploi  des  deux  per  la  tendenza  letteraria  a  ravvicinarlo  a 

jnots  >».  —  Ma  r  antico  fr.  espir  non  sarebbe  curia.  Sicché  resta  oltremodo  incerto  se  per 

piuttosto,  come  sospetta  anche  il   Bracuet  spiritus  ci  sia  stata  nemmeno  quella  sottilis- 

{Dict.  Doubl.  sì'ppL  p  £),  il  parallelo  del  no-  sima  tradizione  popolare,  che  pure  abbiamo 

fiXvo  spiro,  nome  estratto  da. «fptraj-e/' Io  tro-  dovuto  ammettere  per  Deus, 


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R03IANZA  X.»  1]  LINGUA  E  DIALETTO  11 

terarie  recenti,  come  specfacle,  specimen ^  spéciàlité^  o  meglio,  di  fronte 
ai  snoi  consanguinei  spirifuel^  spiritualiste^  lo  fanno  credere  schietta 
voce  popolare.  Queste  apparenze  tuttavia  non  ingannano  il  filologo  che, 
studiando  la  forma  di  Dieu  e  di  esprit^  può  dimostrare  con  molta  pro- 
babilità come  qualmente  questo  popolo,  ora  tanto  divoto  e  tanto  spiri- 
toso, in  qualche  remota  sua  età  abbia  nella  sua  grande  maggioranza 
ignorato  e  lo  spirito  e  Dio. 

La  storia  di  esprit  e  di  Dieu  sono  notevoli  anche  per  un  altro  verso  : 
essi  ci  mostrano  quanto  antica  sia  T  immissione  di  voci  dotte  nei  dia- 
letti popolari.  Queste  due  voci  infatti  ci  appajono  antiche  nel  francese 
quanto  il  francese  stesso,  vale  a  dire  quanto  sono  antichi  i  documenti 
di  questa  lingua.  Ma  certo  sono  esistiti  dialetti  francesi  prima  che  ve- 
nissero scritti  con  tanta  abbondanza  che  ne  restasse  a  noi  qualche  prova. 
E  fino  da  quando,  di  fronte  alla  rozza  massa  popolare  venne  costituen- 
dosi in  Francia  un  certo  strato  di  persone  colte,  di  preti,  di  frati,  di 
notaj,  i  quali  leggevano  e  scrivevano  il  latino,  e  sapevano  più  cose  e 
di  più  cose  discorrevano  che  non  la  gente  volgare;  fino  da  allora  al- 
cune voci  letterarie,  alcune  di  quelle  voci,  che  cotesti  clerici  usavano 
nei  loro  libri ,  in  quel  barbaro  linguaggio  che  pretendeva  essere  sempre 
latino,  hanno  potuto  farsi  strada  fra  il  popolo  e  nicchiarsi  accanto  a 
quelle  altre  già  notevolmente  trasformate,  già  mezzo  francesi,  che  il 
popolo  conservava  per  continuata  tradizione  dai  tempi  della  dominazione 
romana.  Quel  barbaro  latino,  che  allora  si  continuava  a  scrivere,  era 
per  il  volgo  ciò  che  ora  è  per  il  volgo  italiano  l'italiano  grammaticale. 
E  come  molte  voci  di  questo  buon  italiano  vengono  adottate  quotidia- 
namente da  chi  parla  i  diversi  dialetti,  così  anche  allora,  ma  certo  in 
misara  più  ristretta,  da  quel  barbaro  latino,  che  si  diceva  grammatica^ 
hanno  potuto  alcune  voci  passare  nelle  parlate  popolari. 

E  ognun  vede  oramai  per  questi  cenni  quanto  sia  difficile  segnare 
le  leggi  dei  diversi  strati,  che  costituiscono  la  dote  letteraria  d'una 
lingua.  Essa  è  divisa  per  strati,  che  formano  una  scala  continua,  la 
quale  conduce  dalle  voci  schiettamente  popolari  a  quelle  di  forma  cru- 
damente latina.  E  i  fatti  che  costituiscono  ogni  singolo  strato,  in  ispecie 
gli  strati  più  profondi,  sono  troppo  pochi,  perché  se  ne  possa  ricavare 
nna  legge.  Ma  la  difficoltà  della  ricerca  non  deve  farla  abbandonare. 
Nella  storia  del  latino  che  diventa  italiano,  francese,  spagnolo  ecc. ,  noi 
siamo  in  queste  condizioni:  che  il  periodo  discendente,  il  periodo  del 
rirabarbarimento  c'è  quasi  del  tutto  nascosto;  noi  non  abbiamo  docu- 
menti che  ci  rivelino  il  lento  e  continuo  obliterarsi  delle  singole  voci, 
che  si  riferivano  all'antica  cultura,  e  che  diventavano  inutili  e  però 
si  dimenticavano  nella  nuova  crescente  barbarie;  ma,  detraendo  dal  te- 
soro lessicale  di  ciascuna  lingua  tutto  quello  eh' è  aggiunta  posteriore, 
eh' è  creazione' letteraria  antica  o  recente,  noi  resteremo  con  un  certo 


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12  LINGUA  E  DIALETTO  [giornale  di  pilolocha 

numero  qua  maggiore  e  là  minore  di  voci ,  le  quali  ci  rappresenteranno 
il  punto  estremo  di  barbarie  a  cui  sono  giunti  i  singoli  popoli  del  mondo 
latino,  ci  diranno  a  qual  misero  numero  d'idee  si  fosse  ristretta  la  loro 
mente;  ci  scopriranno,  insomma,  il  risultato  finale  della  decadenza  e 
insieme  il  primo  punto  di  partenza  per  il  nuovo  periodo  ascendente,  che, 
in  massima,  possiamo  fissare  verso  il  mille.  E  i  tanti  strati  successivi 
delle  parole  dotte  ci  permetteranno  da  questo  momento  in  poi  di  chia- 
rire ciò  che  ci  era  negato  nel  periodo  discendente:  in  questi  strati  di 
parole  noi  avremo  la  prova  storica  della  successiva  immissione  di  nuove 
idee,  che,  partendo  dalla  superficie  tendono  al  fondo;  che,  nate  nella 
parte  più  eulta  delle  rinnovate  società,  tendono  ad  accumunarsi  anche 
agli  strati  meno  colti.  Lo  studio  attento  della  lingua  letteraria,  che  di- 
venta dialetto  popolare,  sarà  lo  studio  delle  idee  dei  dotti,  dei  colti, 
che  diventano  idee  nazionali,  idee  popolari:  sarà  studio  di  ideali  che 
diventano  realtà. 

U.  A.  Càitello. 


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KOMAKZA,   11.*»    1]  P.   BAJNA  18 

ESTRATTI 

DI  UNA  RACCOLTA  DI  FAVOLE 


n  nnmero  168  della  lettera  N,  pJ*  sitp/*  appartiene  nella  biblioteca 
Ambrosiana  ad  un  codice  di  modeste  dimensioni  e  di  poca  appariscenza. 
Son  48  foglietti  di  pergamena,  alti  22  centimetri,  larghi  15.  I  primi  40 
e  il  recto  del  41°  contengono  un  trattato  medico-morale  —  ma  molto  più 
morale  che  medico — che  s' intitola  Liber  de  medicina  anime  (1).  La  scrit- 
tura è  del  secolo  XIII.  Seguono  cinque  facciate  (f.**  41M3'')  di  una  mano 
dÌTcrsa  e  alquanto  posteriore»  che  può  assegnarsi  con  sicurezza  al  tre- 
cento y  con  verosimiglianza  alla  prima,  piuttosto  che  alla  seconda  metà. 
E  questa  parte  del  manoscritto,  che  io  intendo  di  studiare  e  di  pubbli- 
care. Di  quanto  abbiam  qui,  andiam  debitori,  per  ciò  che  sembra,  ad 
un  caso  frequente,  e  benemerito  assai  degli  studi  medievali.  Nel  codice 
era  rimasta  oziosa  qualche  pagina.  Delle  cinque  facciate  solo  quattro  sono 
leggibili  ancora;  la  quinta,  dovuta  essere  per  un  tempo  non  breve  l'ul- 
tima del  manoscritto  senza  che  un  foglio  di  guardia  la  proteggesse,  ci  dà 
caratteri  quasi  svaniti,  e  non  più  decifrabili,  se  non  forse  con  fatiche,  che 
poi  non  avrebber  compenso  adeguato.  Per  essere  esatto  fino  allo  scrupolo, 
avvertirò  che  la  carta  di  cui  questa  pagina  è  il  verso^  si  riconosce,  per 
indizi  non  dubbi,  essere  una  giunta.  Bisogna  supporre  che  lo  spazio  si 
fosse  esaurito  prima  della  materia.  Quanto  ai  fogli  44-48,  non  saprei 
dire  quando  sien  stati  aggregati  al  volume.  Quattro  di  essi  apparten- 
gono alla  categoria  dei  fogli  bianchi,  ossia  di  quelli,  dove  ciascuno  si 
diverte  a  scrivere  ciò  che  gli  piace.  11  quinto  invece,  frammento  sviato 
di  un  altro  codice,  è  coperto  quasi  per  intero  di  scrittura  antica  (2).  Si 
trova  nondimeno  fino  dalla  prima  metà  del  quattrocento  associato  agli 


(1)  Non  so  se  ne  sia  noto  l'autore.  L*es-  quarta  indici.  Vien  poi  la  notissima  pa- 
ser  riuscite  vane  le  poche  ricerche  da  me  rabola  dell' uomo,  dell' unicorno  e  del  ser- 
fatte,  non  basta  a  permettermi  di  affermar  pente,  cosi  ampiamente  diffusa  nelle  nostre 
nulla  in  proposito.  regioni  occidentali,  per  opera  soprattutto  del 

(2)  Vi  si  legge  il  termine  di  una  pre-  Barlaam  e  Giosa fatte,  V.  intorno  ad  essa 
ghiera  latina.  Segue  in  rosso:  Anno  domini  Benpey,  Pantsch.,  I,  80. 

iniUesimo  ducentessimo  nona gesimo primo 


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14  P.    HAJNA  [uiORNALE   Tì\   Pn.OLOGlA 

altri  quattro,  giacché  dev'esser  di  quel  tempo  una  mano  che  vi  cercò 
un  posto  per  le  due  ultime  strofe  di  un  noto  ritmo  alla  Vergine  (1)  che 
aveva  cominciato  a  scrivere  nel  f.°  41. 

Ritorno  alle  mie  cinque  facciate,  ossia,  poiché  ognuna  è  bipartita, 
alle  dieci  colonne.  Esse  contengono  due  testi  distinti.  Il  primo  termina 
alla  metà  circa  della  colonna  settima.  Dopo  un  breve  intervallo,  comincia 
il  secondo  scritto,  che  prosegue  sino  in  fondo  alla  colonna  nona,  dove 
forse  non  finiva  neppure.  Di  quest'  ultimo  ho  poco  a  dire,  e  però  me  ne 
sbrigo  immediatamente.  E  una  raccolta  di  sentenze  in  provenzale:  parte 
ritmiche,  parte  no.  Pubblico  le  dieci  prime,  che  sole  mi  è  dato  di  leggere 
senza  troppo  stento. 

Del  primo  testo  devo  invece  discorrere  molto,  ma  molto  a  lungo. 
Esso  consta  di  215  versi  volgari,  interrotti  da  titoli  latini  in  rosso.  Che 
cosa  son  gli  uni,  che  cosa  son  gli  altri?  —  I  titoli  sono  gli  argomenti 
di  una  serie  di  favole,  di  cui  i  versi  ci  danno  le  moralità.  La  parte  nar- 
rativa manca,  ossia,  fu  tralasciata  nella  nostra  copia,  la  quale  —  essa 
o  un  suo  modello,  poco  importa  —  da  una  mescolanza  d'utile  e  dolce, 
volle  cernere  l'utile  puro.  Che  questa  sia  veramente  l'origine  della  rac- 
colta, e  che  non  s'abbia  qui  nient' aflfatto  l'opera  completa  di  un  ver- 
seggiatore, che  volgarizzasse  e  rimasse  le  sole  sentenze,  è  cosa  più  che 
certa.  Il  carattere  essenzialmente  frammentario  del  testo  e  la  soppres- 
sione materiale  dei  veri  apologhi  risultano,  per  dir  solo  delle  prove  piìi  pal- 
pabili, dalle  voci  e  frasi,  colle  quali  a  volte  s'incomincia  (2)  ;  dalle  allusioni 
al  racconto,  inintelligibili  senza  la  conoscenza  di  quello  (3);  dall' esser 
messe  talora  le  sentenze  sulla  bocca  dei  personaggi  della  favola  (4)  ;  da 
qualche  residuo  di  narrazione,  conservato  accidentalmente  (5);  infine, 
dalla  presenza  e  dalla  natura  delle  intitolazioni  latine. 

Resta  da  considerare,  se  in  cotesti  frammenti  s'  abbia  a  vedere  un 
mucchio  di  ossa,  oppure  uno  scheletro,  spolpato  sì,  ma  non  iscomposto; 
se  essi,  in  altri  termini,  siano  una  mera  accozzaglia,  ovvero  ci  rappre- 
sentino un  testo  uno  e  continuato.  Qui  bisogna  ricorrere  a  paragoni,  e 
in  primo  luogo  istituire  confronti  colle  collane  di  favole  volgari,  che  ci 
sono  pervenute  intere.  Se  i  nostri  frammen  ti  appartenessero  a  taluna 
di  queste,  a  che  fine  perderci  il  tempo  dattorno? 

Or  bene,  fatta  la  prova,  troviam  subito  che  i  frammenti  non  coni- 


ci) È  la  lande  che  comincia  Gratta   te  dove  la  designazione  di  chi  esprime  la  sen- 

reddit ,    Virffo,  gratiosam.  tenza  è  conservata.     Ma  ce  n'A  altri  parec- 

(2)  Si  considerino  i  numeri  I,  XV,  XXIII,  chi  in  condizione  analoga,  sebbene  in  istato 
XXV!,  XXIX,  XXXIX,  e  anche  il  IV.  meno  completo. 

(3)  Si  veda   V,  VII,  XXXII,  XXXVIII.  (5)  V.  i  due  primi  versi  del  n.  XI. 

(4)  Dasti  citare  i  u)  XXVI  e  XXXVIII, 


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BOMANZA, 


1] 


ESTB,  DI  UXA  EACC.  DI  FA  VOLE 


15 


binano,  uè  coir  Ysopet  di  Lione  (1),  né  coli' altro  Ysopct  o  coli'  Ysopet- 
Avionnet  (2)  pubblicati  dal  Robert  (3),  né  colla  raccolta  di  Marie  de  France. 
Confrontando  anzi  le  favole  di  egual  soggetto,  vediamo  non  esserci  altra 
comunanza  che  di  materia. 

Con  ciò  s' è  anche  detto  che  i  frammenti  non  ci  rappresentano  nem- 
meno una  traduzione  del  cosiddetto  Anonymus  Neveleti(4);  poiché  in 
tal  caso,  gli  argomenti  dovrebbero  tutti  identificarsi  con  quelli  dell'  Ysopet 
lionese,  o  della  prima  parte  delV  Ysopet- Avionnet  E  cosi  è  messa  fuori 
di  questione  anche  la  versione  provenzale,  di  cui  un  foglietto  maglia- 
bechiano  ci  ha  conservato  un  misero  avanzo  (5). 

Fin  qui  le  conclusioni  sono  meramente  negative;  sforziamoci  di  ar- 
rivare a  qualcosa  di  positivo.  Proseguendo  i  confronti,  troveremo  che 
le  prime  ventuna  moralità  della  nostra  serie  combinano  esattissimamente 
colle  prime  venti  ed  una  favola  di  Aviano.  Nemmeno  un  disaccordo 
nella  disposizione!  Seguono  altri  sette  frammenti  (XXII-XXVIII),  che 
rispondono  alle  favole  25,  27,  30,  32,  34,  37,  42  del  medesimo  autore. 
Come  si  vede,  salti  continui,  ma  senza  mai  ritornare  indietro  uua  volta. 
A  questo  punto  Aviano  ci  lascia;  ma  immediatamente  eccoci  a  fianco 
l'Anonimo,  per  tanto  tempo  il  più  popolare,  il  piti  diffuso  di  tutti  i 
favolisti. 

Egli  ci  accompagna  per  una  dozzina  di  passi,  ossia  per  i  nostri  nu- 
meri XXIX-XL,  a  cui  è  facile  constatare  come  faccian  riscontro  i 
suoi  2,  5,  8,  17,  19,  23,  32,  43,  47,  56,  27,  42.  Anche  qui  dunque  si 
procede  per  un  pezzo  balzelloni ,  ma  sempre  in  una  direzione  costante. 
Soltanto  alla  fine  s' hanno  due  anomalie.  E  due  altre  ci  sono  pur  date 
dalle  ultime  moralità  della  raccolta,  la  XLI'  e  la  XLII%  le  quali  ap- 
partengono alle  favole,  che  presso  Aviano  occupano  il  24**  ed  il  22**  posto. 


(1)  Devo  all'amicizia  del  prof.  W.  For- 
ster la  comunicazione  di  quel  tanto  del  te- 
sto—  non  pubblicato  ancora,  ma  forse  già 
sotto  il  torchio  —  che  era  necessario  al  mio 
scopo. 

(2)  Indico  COSI  quella  raccolta,  che,  molto 
impropriamente,  il  Robert  designa  con  due 
titoli,  chiamandone  cioè  una  parte  Ysopet  /, 
e  riserbando  per  T altra  la  denominazione 
che  conviene  invpce  al  tutto. 

(3)  Fables  inédites  des  XII*',  X/77«  et 
XIV*-'  siècleSf  et  fables  de  La  Fontaine. 
Paris,  1825. 

(4)  Veramente,  s' avrp)d)e  a  dire  piut- 
tosto il  Polionimof  V.  Du  Mkril,  Poès.  inèd, 
du  moyen-òjej   162,  n.;  Oestkrley,  lio- 


midieSf  p.  xxiv.  La  conseguenza  è  peraltro 
la  stessa.  Stante  la  troppa  abbondanza  di 
nomi  e  di  forme,  sì  è  costretti,  fino  a  che 
la  critica  non  sia  venuta  a  una  conclusione 
a  lasciare  costui  innominato.  È  ciò  che  fa, 
a  mezzo  il  secolo  XV,  anche  Giovanni  de 
Giapànis  —  non  de  Grapanis,  come,  dal  Mu- 
ratori in  qua,  s'è  scritto  sempre —  nel  Flos 
virtittìitn  et  allegationiim  aiictomin  (Cod. 
Ambros.  P.  29.  svp.).  Egli  designa  l'autore 
come  Versifiator  fabularitm  Esopi.  De! 
resto,  il  medio  evo  cita  il  libro  col  semplice 
nome  di  Esopus ,  né  altro  suole  intendere 
con  questa  espressione. 
(5)  V.  Romania,  III,  291. 


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1(^  P.  RAJXA  [gioksale  di  filologia 

Uua  costituzione  cosi  regolare  deve  indurci  a  ritenere  che  le  mo- 
ralità del  codice  ambrosiano  siano  veramente  da  riguardare  come  residui 
di  un  tutto  unico,  che  ci  possa  esser  da  loro  rappresentato.  Ma  non  sa- 
ranno avvenute  omissioni?  —  Intenzionali,  vorrei  dire  che  no.  Non 
saprei,  per  verità,  vederne  un  motivo.  Perché  tralasciare?  Forse  perché 
certe  sentenze  paressero  troppo  intimamente  legate  colla  parte  narra- 
tiva?—  Parecchi  esempi  mostrano  chiaro  come  di  una  siffatta  diflScoltà 
il  nostro  spolpatore  non  s' inquietasse  né  punto  né  poco.  E  una  conferma 
per  r  integrità  della  serie  mi  sembra  di  vedere  anche  nelle  anomalie 
della  fine.  Conferma  tutt' altro  che  assoluta,  intendiamoci;  ma  pure  di 
un  certo  quale  valore.  Delle  tre  favole  di  Aviano  saltate  tra  la  21*  e 
la  25',  due  le  incontriamo  poi  sotto  i  numeri  XLI  e  XLII.  E  prima  di 
quelle  abbiamo  due  supplementi  all'Anonimo.  Ora,  se  anche  s'intendesse 
l'omissione,  mal  s'intenderebbe  lo  spostamento.  Soltanto,  si  vorrebbe 
penetrare  il  perché  di  quelle  quattro  anomalie.  Si  vorrebbe,  ma  sarà 
bene  astenerci  da  congetture  non  necessarie.  Altra  ne  sarà  la  causa,  se 
esse  risalgono  all'autore;  altra,  se  vengono  invece  dallo  Schéletritore ^ 
oppure  anche  da  un  amanuense.  Ipotesi  possibili,  se  ne  presentano  di 
certo  subito  a  chiunque. 

Ma  ci  sono  omissioni  soltanto  apparenti.  Sotto  un'unica  rubrica 
si  trova  talora  un  accozzo  di  ammaestramenti,  che  non  si  vede  come 
possa  esser  riferito  per  intero  alla  favola  di  cui  s'è  avuto  il  titolo.  Que- 
sto accade  ai  numeri  XXXI  e  XXXIV.  Gli  ultimi  quattro  versi  doman- 
dano, e  in  un  caso  e  nell'altro,  di  esser  staccati  dagli  antecedentK  E 
poiché  nell'Anonimo,  per  l'appunto  in  un  posto  intermedio  tra  i  titoli 
che  presso  di  noi  precedono  e  seguono  (8-17:  15;  —  23-32:  29),  incon- 
triamo la  favola  della  volpe  e  del  corvo,  e  quella  della  capra,  del  ca- 
pretto e  del  lupo ,  alle  quali  cotesti  versi  convengono  a  capello,  non  ci 
sarà  lecito  dubitare  che  in  ambedue  i  casi  non  siasi  omessa  una  rubrica , 
sicché  due  morali  distinte  sian  venute  erroneamente  a  saldarsi  insieme. 

Qui  la  cosa  è  sicura.  In  un  altro  luogo  (n.°  XLI),  ho  sospettato, 
senza  che  poi  mi  riuscisse,  né  di  accertai*e,  né  di  eliminare  il  dubbio. 
Se  ne  parlerà  nelle  note.  Ma  si  badi  di  non  immaginare  qualcosa  di 
analogo  ogniqualvolta  i  pensieri  non  pajano  collegarsi  troppo  bene.  Di 
solito  si  tratta  bensì  di  saldaraenti:  ma  d'ordine  interno.  Le  due  parti 
ravvicinate  appartenevano  alla  stessa  favola.  E  questo  un  procedimento 
che  non  ha  bisogno  di  essere  spiegato. 

Orbene:  in  totale  veniam  dunque  ad  avere  quarantaquattro,  o  forse 
quarantacinque  favole;  due  o  tre  più  che  in  Aviano:  una  disparità,  la 
quale,  appunto  perché  piccola,  dà  da  riflettere.  Tuttavia  nemmeno  qui 
perderò  tempo  ad  esporre  mere  supposizioni.  In  genere,  l'intenzione  pri- 
mitiva dovette  essere  di  uguagliare  nel  numero  degli  apologhi  il  favo- 
lista latino. 


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BOHAszA,  x.°  1]  ESTB.  DI  UNA  BACC.  DI  FAVOLE  17 

E  adesso  possiam  dire  di  conoscere,  almeno  alla  superficie,  la  costi- 
tuzione della  nostra  raccolta.  È,  o  piuttosto,  era  un  Ysopet-Avionnet ^ 
come  quello  dato  in  luce  dal  Robert;  con  questa  differenza:  che  là  pre- 
pondera r  Anonimo,  ammesso  anzi  per  intero;  qui  invece  prevale  Aviano; 
là  l'Anonimo  precede,  qui  alF  incontro  segue.  In  cambio  pertanto  di  una 
CompUacio  Ysopi  alata  cum  Avionn^to  —  è  questa  T  intitolazione  del  testo 
robertiano  nel  codice  —  avremo  una  CompUacio  Aviani  alata  cum  Ysopeto» 

Saremmo  di  facile  contentatura,  se  non  desiderassimo  di  saperne  di 
piii.  Per  poco  che  si  ripensi,  subito  s'affacciano  altre  domande.  Questa 
in  primo  luogo.  Siffatta  composizione  della  materia,  per  via  di  salda- 
mento  e  di  scelta,  l'attribuiremo  noi  al  rimatore  volgare,  oppure  la  pre- 
supporremo invece  in  un  modello  latino? — A  priori,  stimo  più  verisi- 
mile la  seconda  ipotesi.  Giacché,  è  ben  raro  il  caso  di  volgarizzatori 
medievali,  che  vadan  molto  più  in  là  del  tradurre,  frantendere,  para- 
frasare. Sfortunatamente  non  ho  potuto  estender  tanto  le  ricerche,  quanto 
mi  sarebbe  stato  necessario  per  parlare  col  fondamento  dei  fatti.  Altri, 
che  abbia  meglio  studiato  nei  manoscritti  il  dominio  della  favola  latina , 
potrebbe  riparare  al  difetto,  e  convertire  la  verosimiglianza  in  certezza, 
oppure,  all'incontro,  infirmarla,  constatando  come  adesso  non  si  trovi 
indizio  di  questo  supposto  esemplare. 

Il  quale,  se  mai  esistesse,  varrebbe  a  chiarire  anche  qualche  altro 
punto,  che  a  me  rimane  discretamente  bujo.  Fino  a  qui  ho  parlato  sempre 
di  Aviano.  Ma  al  nostro  volgarizzatore  stavano  proprio  davanti  le  compo- 
sizioni originarie,  tramandateci  dall'antichità?  Ne  siam  noi  ben  sicuri?  — 
È  noto  difatti,  soprattutto  dopo  gli  studi  e  le  indicazioni  del  Du  Mé- 
ril  (1),  come  Aviano  avesse  nel  medio  evo  una  sorte  singolare.  Gli  toccò 
di  vedersi  trasformato  e  rimesso  a  nuovo  da  non  so  quanti  manipolatori  di 
versi  latini,  i  quali  si  lusingavano  —  e  certo  non  senza  fondamento  —  di 
acquistar  gloria  (2),  sia  coir  imitarlo,  sia  coli'  infiorarne  gli  apologhi  di 
una  forma,  a  loro  senso,  più  eletta,  e,  ad  ogni  modo,  più  grata  non  fos- 
s' altro  per  la  novità  (3).    Il  fatto  è  notevole,  e  non  merita  solo  l'atten- 


(1)  Poés,  inéd.y  165-66;  260-76.  ciana  cosi,  un  pochino  esagerata!  Ma  tale 

(2)  Chi  proprio  non  si  sazia  mai  di  espri-  non  doveva  sembrare  all'autore,  che  in  pro- 
mere  questa  lusinga,  è  l'Anonimo  Astigiano,  cinto  di  terminar  T opera  inneggia: 

di   cui   parlo  sotto.      E   a  costui  pare  di  aver  Deposito  velo,  farat  hos  Urania  caelo 

raggiunto  davvero  lo  scopo,  e  d'essersi,  per  versua  ante  deo»,  dicat  ©t  < 
conseguenza,  suscitata  dattorno  un'invidia 

da  non  dire:  Urania,  forse,  li  avrà  portati,  per  la  gioja 

di  vedersi  liberata  una  volta  dalle  invoca- 

Inridla  aordent,  ai  qui  mea  dieta  remordent; 

aut  non  inrid^ant,  aut  peuitu.  .iieant.  lìoni,  coIlc  quah  1  Anouimo  nou  aveva  ces- 

loTidiam  pasaia,  Urania  rcr.lbaa  aaaia,  satO   UU  momeutO   di  aSSOrdar  lei,  le  SOrelle, 


L.  in,  f.  9. 


quoa  hae  leg«  legaa ,  ut  anper  aatra  vehaa. 
L.  Ili,  f.  8. 


Apollo. 

(3)  Si  ascolti  in   proposito  il  già  citato 
L'ultimo  verso  esprime  una  speranza,  di-     Anonimo: 

2 


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18 


P.  BAJNA 


[giornale  di  filologia 


zione  di  chi  s* occupa  delle  vicende  della  favola;  anche  perché  il  con- 
fronto degli  originali  con  questi  rifacimenti  serve  a  farci  afiferrare,  quasi 
direi,  penna  per  penna  gl'ideali  poetici  di  certe  età,  o,  quando  meno, 
di  certe  scuole.  Inclino  a  credere  che  a  taluno,  se  non  a  tutti,  l'impulso 
a  rinnovare  T opera  di  Aviano  venisse  dall'incredibile  successo  ottenuto 
dolVAesopus  dell'  Anonimo  ;  come,  d' altra  parte,  ho  per  fermo,  che  alla 
produzione  àelVAesoptis  contribuisse  non  poco  l' esempio  che  in  Aviano 
s'aveva  dinanzi. 

Di  questi  Novi  Aviani  ne  possiamo  enumerare,  fino  ad  ora,  almeno 
cinque.  Uno,  d'Alessandro  Nequam,  o  Neckam,  forse  rimastoci  solo  in 
piccola  parte  (1)  ;  un  secondo,  d' un  Anonimo  Astigiano  (2)  ;  un  terzo  ed 
un  quarto,  manoscritti,  l'uno  in  un  codice  di  Vienna  (3),  l'altro  in  uno 
di  Venezia;  un  quinto,  noto  soltanto  dagli  excerpta,  che  ce  ne  ofiFre  un 
florilegio  poetico  della  Nazionale  di  Parigi  (4).  E  forse  non  è  se  non  il 
principio  di  un  sesto  rifacimento  la  favola  De  anu  et  lupo^  messa  in 
luce  dal  Wright  (5). 

Ho  messo  nella  serie  un  testo  di  Venezia.  È  ancora  sconosciuto , 
sicché  bisogna  che  mi  fermi  a  darne  ragguaglio.  Non  era  sfuggito  alla 
diligenza  del  Du  Méril,  o  d'un  suo  autore (6),  come  nel  GioriicHe  de'  Let- 
terati^ t.  IV,  p.  181  (Venezia,  1710),  fosse  parlato  di  un  certo  codice, 


Flore  novo  tellni  nitet  et  renoratnr  avella*; 

valgi  voce  aonnt  qnod  ni»  dieta  novat. 
Dewrit  omne  forum  dlotftt*  referre  priomm: 

ergo  oanend»  novii  ode,  Camcna,  «onis. 

L.  n,  f.  10. 

Ingenlo  vatU  il,  nnmina,  carmen  amatlt, 
cor  non  pmest&tis  fingere  poMO  uttliT 

To«  nova  dieta  aatls  votia  inpendlte  vatls; 
ut  novitate  carent,  cannina  rara  placent. 

L.  n,  f,  IJ. 

(1)  Le  sei  favole  che  sì  conoscono,  fu- 
rono stampate  primamente  dal  Du  Méril, 
Op.  cit.,  p.  262-^7,  e  ripubblicate  poi  dal 
Frohner,  Aviani  fabulae,  Lipsia.  Teubner, 
1802,  p.  55-63.  Rispetto  alKesser  desse  mero 
frammento  d'un  rifacimento  completo»  ve- 
dasi la  nota  dello  stesso  Du  Méril,  1.  e.  p.  267. 

(2)  Primo  a  darne  una  notizia  ed  un 
saggio  fu  il  DocEN,  nei  Beitràge  sur  Gè- 
ttrjiichte  nnd  Literatur  del  VoN  Arrtin, 
IX,  1235  (Monaco,  1807).  Quattro  favole  e 
il  prologo  si  hanno  nell'opera  citata  del  Du 
Mbril,  p.  271-70.  Finalmente,  l'intero  testo 
fu  pubblicato  nel  1808  dal  D.»"  E.  Grosse,  nel 
Programma  del  Fri^dricbs-Collegium  di 
Konigsberg.    Gli  è  grazie  alla  pronta  cortesia 


del  D.»"  Guglielmo  Meyer  della  R.  Biblioteca 
di  Monaco  che  posso  valermi  di  quest'ul- 
tima pubblicazione.  —  Astense,  il  poeta  ci  si 
dice  da  sé  medesimo  al  principio  della  prima 
favola.  E  che  ciò  significhi  d'Asti,  in  Pie- 
monte, è  manifesto,  come  già  fu  osservato 
più  o  meno  esattamente,  dai  luoghi  dove  si 
colloca  la  scena  di  certe  favole.  Il  BtirburAn 
cui  son  travolte  le  due  olle  (  Anon.,'III.  2,  9; 
cfr.  Av.  Il),  è  il  Borbo,  o  Borbore,  che 
passa  alle  porte  di  Asti  e  che  si  scarica  nel 
Tanàro  a  piccola  distanza  dalla  città.  Si- 
milmente, la  Versa,  introdotta  nella  favola 
dell'asino  vestito  della  pelle  del  leone  (1,5, 25), 
anziché  un  fiume  del  Milanese,  come  credette 
il  Grosse,  è  un  altro  torrente,  che  si  gitia 
nel  medesimo  Tanaro,  tre  chilometri  circa 
al  disotto  del  Borbore. 

(3)  Du  MÉRIL,  Op.  cit.,  268 

(4)  Ib.,  276  n.;  Fr<)HNER,  Op.  cit.,  p.  x. 

(5)  Nelle  Reìiquiae  anttquae ,  I,  204. 
Di  là  la  riprodussero,  per  renderla  più  ac- 
cessibile, il  Du  Méril,  Op.  cit.,  p.  262  n., 
efl  il  Froiinrr,  p.  63. 

(6)  Op.  rit  ,  165  n. 


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ROMANZA,  N.*  1] 


^iSfrJB.  BI  UNA  EACC.  DI  FAVOLE 


19 


appartenente  ad  Apostolo  Zeno,  dove,  fra  V  altre  cose,  si  conteneva  un 
Ncyims  Avianus.  Naturalmente  ebbi  desiderio  di  rintracciare  il  mano- 
scritto, se  ancora  esisteva.  E  la  cosa  non  fu  punto  difficile.  La  biblio- 
teca dello  Zeno,  dopo  vicende  abbastanza  fortunose,  è  andata  ad  arricchire 
la  Marciana  (1).  Pur  troppo,  non  senza  aver  prima  sofferto  avarie;  ma, 
fortunatamente,  il  codice  che  mi  stava  a  cuore,  è  tra  quelli  che  sani  e 
salvi  giunsero  in  porto.  Mi  è  mancata  T  opportunità  di  esaminarlo  da 
me;  nondimeno  le  comunicazioni  di  cui  mi  fu  largo,  colla  gentilezza 
che  gli  è  abituale,  V  eruditissimo  Prefetto  della  Biblioteca  cav.  G.  Ve- 
ludo,  vennero  a  supplire  al  difetto.  Siano  rese  le  maggiori  grazie  al- 
l' uomo  egregio  (2). 

H  Novus  Aviantés  di  Venezia,  come  quello  dell'Anonimo  Astigiano, 
comincia  con  un  breve  prologo ,  nel  quale  s' implora  V  assistenza  di 
Febo  e  delle  Muse: 

(f.*  19*)    Phebe,  viam  presta  ceptìs,  ac  me  manifesta 
Doctis  asscribi  vatibos  atque  tibì. 
Quas  huc  invito  (3),  musis,  rogo,  pervius  ito, 
Voce  canens  dare  dulcisone  chitare. 

Son  nove  distici,  che  terminano: 

Disce  lupi  monitis  principio  positÌ8(4). 

Le  favole  conservano  l'ordine  stesso  che  avevano  in  Aviano,  salvo 
lievi  differenze,  che  reputo  accidentali.  Ecco  di  parecchie  il  principio 
e  la  collocazione. 


(1)  Valbntinblli,  Bibl.  manuscr.  ad 
8.  Marci  Venet.,  I,  145  seg. 

(2)  Ecco  com'egli  descrive  il  manoscrit- 
to. «  Il  Codice. ..  appartiene  alla  Classe  XII 
d<»irAppendice  ai  Codd.  Lat.  di  questa  Bi- 
blioteca, ed  è  segnato  col  N  «  CX  Vili. . . .  È 
membranaceo,  del  sec.  XIV,  in  8.^  (alt.  0,15,5; 
larg.  0,13),  di  carte  numerate  33.  La  sua  co- 
perta è  di  legno,  foderato  di  pergamena  con 
piccole  borchie  (legatura  germanica).  Ogni 
faccia  contiene  da  25  linee;  scritte  nitida- 
mente, però  con  molte  abbreviature,  e  glosse 
interlineari  e  marginali. — Nel  Catalogo  della 
Marciana  il  Codice  è  intitolato:  Tebaldi  Ma- 
gistri  Opuscula  metrica  quatuor  inacripta: 
Libtr  morali*  (  car.  1  )  —  Liber  tttilis 
(e  6  i?.<»)  —  Physiologus  (e.  13)  —  Novus 
Avianu»  (e.  19  v.^).  —  I  titoli  e  le  iniziali 


sono  a  caratteri  rossi  ».  —  In  fine  del  Phi- 
siologus  si  leggono  questi  due  versi,  del  ca- 
rattere delle  glosse:  Carmine  finito  sitlaus 
et  gloria  Christo  |  Citi  (si  non  aliij  pia-- 
ceant  haec  metra  Tebaldi.  Tien  dietro  il 
Novus  ArianuSf  preceduto  da  un  Incipit 
novus  Avianus.  Le  singole  favole  non  porta- 
no titoli.  Il  testo  termina  appiè  della  carta  33 
recto.  «  Nella  faccia  verso  havvi  disegnata  a 
penna  la  figura  di  Sanctus  Christophorus.^ 
Segue  nella  parte  interiore  della  Coperta 
una  indicazione,  quasi  tutta  raschiata,  di 
cui  non  avanzano  che  queste  parole:.... 
adscripsit  ac. . .  donavit  què  quisque  \  le- 
gens  proficiat  primutn  deinde  sii  gra^ 
ttts  I  MCCCLXXVIIL  » 

(3)  Il  cod.  immitto. 

(4)  Cod.  positi. 


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20  P.  BAJNA  [giornale  di  filologia 

1.  Villana  e  fanciullo  (Av.  1): 

Bufltica  iuravìt,  puer  eius  dum  lacrìmavit, 
Ni  requiem  caperet,  esca  lupo  fieret. 

3.  Gambero  (Av.  3): 

(20*)    Cancro  natura  dedit  ut  eemper  sua  crura 

Obliquum  querant,  hunc  quoque  retro  ferant. 

6.  Rana  medica  (Av.  6): 


(21*)    Verba  feris  vana  dedit  olim  turgida  rana  ; 
Gurgitibus  luteÌB  edita  dixit  ei8(l). 


16.  Toro  e  becco  (Av.  13): 


(23*)    Taurus  speluncam  fugitans  adivit  aduncam, 
Quem  frendendo  leo  dima  adivit  eo. 


26.  Statuario  (Av.  23): 


(27*0    Formosum  multum  Bachum  de  marmore  sculptum 
Vendere  (2)  vir  voluit;  ante  forum  posuit. 


29.  Leone  e  capra  (Av.  26): 


(28*)    Capram  ieiunus  qnerens  prede  leo  munus, 
Yiderat  in  nemore  rupis  (3)  in  arce  fore. 

37.  Formica  e  cicala  (Av.  34): 

(30*)    Tempus  ad  estivum  frigna  formica  nocivum 
Cogitat  effugere,  grana  solens  legere. 

Riporto  tutta  intera  T ultima  favola: 

40.  Leopardo  e  volpe  (Av.  40): 

(33*)    Pardus  discretus  maculis  contempnere  cetus 

Ceu  sexu  viles  cepit  ovans  similes. 
Natura  donum  genus  accepisse  leonum 

Credebat  miserum  corpore  degenerum. 
Sordentes  vultu  reliquas  (4)  etiam  sine  cultu 

Natura  miseras  credidit  esse  feras. 
Instar  erat  cunctis  variato  corpore  punctis 

Sexus  precipui  nobilitate  frui. 
Yulpes,  vanarum  gaudens  laudante  minarum, 

Callida  corripuit  sicque  locuta  fuit: 
«  Yanis  intente  (5),  picte  confide  iuvente.  » 


(1)  Cod.  et.  (4)  Cod.  reliquias. 

(2)  Cod.  ventere.  (5)  Cod.  intende. 

(3)  Cod.  rupit. 


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EOMAKUA,  N.^»  1]  ESTB.  DI  UNA  BACa  DI  FAVOLE  21 

Come  si  Tede,  manca  per  lo  meno  un  verso.  E  anche  ciò  cresce  ragione 
al  sospetto,  che  gli  apologhi  sian  qui  solo  quaranta,  in  cambio  di  qua- 
rantadue, non  per  il  fatto  dell'  autore,  bensì  per  difetto  della  tradizione. 
Forse  V  esemplare  da  cui  trascriveva  il  nostro  amanuense  aveva  perduta 
una  carta  in  fine. 

Non  ispiacerà  di  trovar  qui  riferita  anche  la  favola  seconda: 

(20*)    Testudo  vovit(l),  quam  tarda  vice  mora  movit, 

Regine  volucrum  tradere  grande  lucrum, 
Unguibus  ut  raptam  faceret  volitantibus  aptam, 

Que  loca  per  quevis  devehit  aura  levis; 
Indignum  referens  quod  paulatim  loca  querens, 

Vi  nulla  pociens,  lassa  foret  tociens. 
Promissis  flexit  aquilani,  fraudem  quare  texit, 

Que  dare  proposoiti  quod  dare  non  habuit. 
Ergo,  mercata  penna  super  astra  levata  (2), 

Perfida,  perfidlam  comperit  eximiam. 
Nam,  dare  quam  posset  cum  nunquam  fore  nosset  (3), 

Fraudem  (4)  frande  luit,  et  moribunda  ruit. 
Tunc  demum  suetam  (5)  vitam  gemit  esse  quietam, 

Nam  felix  potuit  vivere  dum  voluit. 

Nessuno  mi  chiederà ,  chi  sia  V  autore.  Non  saprei  rispondere.  L' at- 
tribuzione a  un  Tebaldo,  che  s'ha  nel  Catalogo  della  Marciana  (6),  manca 
d^ogni  fondamento.  Viene  unicamente  da  ciò,  che  a  Tebaldo  è  assegnato 
in  questo  codice,  come  in  altri  assai  (7),  il  Physiologt^s,  che  precede.  Ma, 
tra  tutti  i  rinnovamenti  di  Àviano,  questo  si  distingue  nettamente  per 
caratteri  suoi  proprii.  Molto  più  degli  altri  si  tien  stretto  all'Aviano 
antico.  Ciascuna  favola  mantiene,  esattamente,  o  quasi,  la  lunghezza  ori- 
ginaria ,  ed  i  distici  si  corrispondono  oramai  uno  per  uno.  La  trasfor- 
mazione colpisce  unicamente  la  forma,  e  quella  ancora,  entro  i  limiti 
segnati  dal  bisogno.  Motivo  e  scopo  del  rinnovare  è  il  ritmo  e  non  al- 
tro: si  vuole  che  Aviano  parli  in  versi  leonini.  Succede  qui  dunque 
qualcosa  di  analogo  a  ciò  che  accadde  neir epopea  francese;  dove,  ad 
un  certo  momento,  si  presero  a  rifare  i  poemi  per  mettere  rime  al  po- 
sto delle  assonanze.  In  ciò  si  contiene  di  sicuro  un  indizio  cronologico; 
non  tale  tuttavia  da  potersene  cavar  partito  per  una  determinazione 
non  troppo  lata,  senza  un  esame  compiuto  e  larghi  confronti. 

Del  ritmo,  una  parola  ancora.  In  distici  leonini  sono  pure  due  altri 


(1)  Cod.  voluit  (6)  V.  qui  dietro,  in  nota,  nella  descri- 

(2)  Cod.  levai.  zione  del  codice. 

(3)  Cod.  noscet,  (7)  Nominerò,  per  es.,  il  Magliabechia- 

(4)  Cod.  freudem.  no  CI.  VII,  931. 

(5)  Cod.  sumptam. 


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22  P.  BAJNA  [giornale  di  filologia 

fra  i  rinnovamenti  di  Aviano:  il  testo  Viennese  e  TAnouimo  d'Asti.  Da 
entrambi  tuttavia  si  differenzia  il  nostro  per  nna  preoccupazione  incom- 
parabilmente minore  di  ottenere  una  rima  pili  o  meno  pura  anche  nel 
pentametro,  dove  essa  non  era  troppo  facile  a  conciliare  colla  brevità 
imposta  alla  penultima  sillaba.  Orbene,  spesso  T Aviano  di  Venezia  si  con- 
tenta di  una  omeotéleìdia  bisillaba,  indipendentemente  dagli  accenti  ;  tanto 
spesso  anzi,  che  nelP  ultima  favola  nemmeno  un  verso  viene  a  fare  ecce- 
zione. Le  rime  trisillabe,  che  la  struttura  del  pentametro  promoveva  con 
tanta  efficacia,  appajono  bensì  usate,  ma  non  già  ricercate  collo  studio  che 
è  così  manifesto  negli  altri  due  poeti.  Siffatta  diversità  conduce  a  sup- 
porre una  differenza  di  patria.  Ma  anche  su  questo  particolare  aspetto 
di  conoscere  il  testo  intero,  prima  di  avventurare  un  giudizio. 

Mi  rimetto  finalmente  in  carreggiata.  Si  veda,  se  possa  esser  lecito 
di  parlare  della  derivazione  di  un  testo  volgare  dall' Aviano  antico,  senza 
tener  conto  di  questi  possibili  intermediarii.  I  quali  tutti,  badiamo  bene, 
dovettero  precedere,  qual  più,  qual  meno,  la  composizione  del  nostro 
volgarizzamento.  Sia  pure  che  tanta  moltiplicità  provi  da  un  lato  la 
grande  diffusione  dell'  Aviano  originario,  e  dia  indizio  dall'  altro  che  nes- 
suno tra  i  rinnovamenti  riuscisse  ad  ottenere  una  notorietà  ampia  e  du- 
revole: due  fatti  confermatici  in  modo  diretto,  l'uno  dalla  copia,  l'altro 
dall'  estrema  scarsezza  dei  manoscritti  (1).  Questo  vuol  dire  soltanto  che 
dovremo  accostarci  all'indagine  senza  preconcetti  di  sorta  circa  le  sue 
probabili  risultanze. 

Orbene,  il  confronto  simultaneo  dei  frammenti  volgari  coU'Aviano 
antico  e  gli  Aviani  rinnovati  conduce  a  mettere  in  disparte,  sì  l'opera 
del  Neckam  —  nonostante  qualche  incontro  speciale,  ma  raro  assai  — 
che  i  testi  di  Vienna  e  di  Venezia  (2).  E,  nonostante  il  poco  che  se  ne 
conosce,  posso  fiduciosamente  colpire  dello  stesso  ostracismo  anche  la 
redazione,  donde  provengono  i  frammenti  del  fiorilegio  parigino  (3). 

Vengo  all'Anonimo  Astigiano.  Qui  le  cose  s' imbrogliano.  Certo, 
v'è  un  numero  ragguardevole  di  casi,  dove  Aviano  ci  offre  un  riscontro  in- 


(1)  II  solo  Anonimo  Astigiano  può  cara-  (3)  Il  Du  Méril  (ì.c)  riporta  13  versi, 
minare  a  testa  alta,  giacché  vanta  tre  codici,  che  gli  pajono  spettare  a  due  favole:  Rana 

(2)  Quanto  alla  parafrasi  prosaica  in-  e  volpe  (Av.  6);  Aquila  e  testuggine  (Av.  2). 
dicata  dal  Du  Méril,  Op.  cit.,  165  n.,  e  Non  credo  errare,  ripartendoli  invece  fra 
stampata  dal  Fròhnbe,  Av.  fab. ,  67-84 ,  non  quattro  :  v.  1-4,  Gambero  (  Av.  3  )  ;  5-8,  Rana 
c'è  nemmeno  bisogno  di  discorrerne.  Le  e  volpe  (Av.  6);  9-11,  Cammello  (Av.  8); 
moralità  vi  son  riferite  testualmente  nella  12-Ì3 ,  Compagni  di  viaggio  (Av.  9).  Come 
loro  forma  poetica;  e  non  sempre  quelle  sol-  si  vede,  il  rifacitore  manteneva  alle  favole 
tanto.  Quindi  V explicit  dice  semplicemente,  il  loro  ordine  primitivo.  Oli  excerpta  ap- 
Expliciunt apologi  Aviani,  Tuttavia  in  qual-  partengono  tutti  alle  moralità.  Come  i  no- 
che  caso  mi  gioverà  recare  a  confronto  an-  stri ,  e  per  la  stessa  ragione. 

che  questa  redazione. 


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«OMAMZA,  N.o  1]  ESTR.  DI  UNA  BACO.  DI  FAVOLE  2S 

contestabilmente  migliore.  E  dicendo  Àviano,  intendo,  naturalmente,  non 
meno  il  testo  primitivo  che  le  sue  superfetazioni.  Gli  epimythia  interpo* 
lata  (1)>  poiché  han  corso  nei  manoscritti  medievali,  non  meritano,  per 
la  questione  che  qui  ci  occupa,  minor  riguardo  che  le  parti  genuine. — 
Citerò,  per  dare  qualche  esempio,  i  nostri  numeri  III,  X,  XVIII,  XXIV, 
XXVI ,  e  pregherò  il  lettore  di  ricorrere  alle  note,  dove  riporto,  favola 
per  favola,  ciò  che  di  corrispondente  mi  offrono  i  testi  latini,  fin  dove 
mi  sono  accessibili.  Il  fatto  è  troppo  chiaro,  perché  ci  sia  bisogno  di 
sottometterlo  alle  lungherie  di  una  dimostrazione.  Ma  ci  sono  altri  casi, 
in  cui  TAnonimo  dà  risposte  più  soddisfacenti.  Passo  in  rassegna  quelli 
che  sembrano  più  degni  di  considerazione,  e  che  richieggono  un  poco 
di  commento. 

Comincio  a  far  sosta  al  n.""  II:  De  limoma  et  aquila.  E  qui,  notata 
di  passaggio  quella  linubzia  sostituita  alla  testuggine^  mi  fermo  al  se- 
condo ammaestramento: 

lei  se  poons  senz  metre 

De  zo  c*om  pò  doner  prometre. 

Certo  Aviano  può,  a  rigore,  spiegarmelo;  e  un  po'  più  agevolmente  me 
lo  spiegherebbe  la  parafrasi  del  codice  di  Venezia,  che  esprime  le  cose 
con  maggior  chiarezza  (2).  Ma  è  certo  altresì  che  il  precetto  riesce  molto 
meglio  motivato,  e  s'impone  con  ben  altra  efi&cacia,  se  lo  si  ravvicina 
alla  redazione  dell' Anonimo.  Quivi,  come  s'è  giunti  in  alto,  l'aquila 
chiede  la  mercede  promessa.    La  testuggine, 

I.  2|  13.    Cum  dare  non  possiti  dolet  iata  qnod  altera  poscit; 
nil  habet  ista  rei;  creditor  instat  eL 

Nasce  quindi  una  contesa;  l'aquila  stringe  tra  le  ugne  la  mancatrice 
di  fede,  e,  già  sanguinosa,  la  lascia  precipitare.  Ecco  dunque  la  promessa 
vera  causa  della  morte  ;  mentre  in  Aviano  —  e  insieme  anche  negli  altri 
rifacimenti  —  si  tratta  solo  della  perfidia,  punita  dalla  perfidia  altrui. 
Volendo  ingannare,  si  rimane  ingannati. 

Salto  al  n.°  IX:  De  duobus  sociis  qui  iuraverunt  simul.  Qui  il  ti- 
tolo merita  davvero  seria  attenzione.  O  lo  si  consideri  da  sé,  o  lo  si 
ragguagli  alla  favola  di  Aviano,  non  si  riesce  a  ben  intenderlo.  C'è,  al 
più,  l'embrione  di  un  giuramento  in  certe  frasi  (v.  3-4),  che  si  presta- 
vano ad  essere  male  interpretate  da  gente  non  troppo  profonda  nel  la- 
tino ;  ma  un  giuramento  vero  non  e'  è  proprio  in  nessun  modo.  Quindi 
si  sarebbe  tratti  a  supporre  che  il  iuraverunt  sia  errato,  e  che  s'abbia 


(l)  Si  vedano  raccolti  ne IK  edizione  del  (2)  V.  p.  21. 

Fróqnrr,  50-54. 


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24  P.  BAJNA  [giornale  di  filologia 

a  sostituirgli  una  Toce  qualsiasi,  la  quale  esprima  un  concetto,  che  par 
qui  necessario  :  si  posero  in  viaggio  (1).  Ma  basta  prender  in  mano  l'Ano- 
nimo per  abbandonar  subito  la  congettura,  e  indursi  a  ritenere  piena- 
mente giustificata  T  intitolazione  quaVè,  e  solo  forse  non  intera: 

ni.  3,  9.    Hac  ratione  pares  duo  con  venere  sodales^ 

quae  valeant,  laedant,  ut  simul  ambo  ferant. 
Numina  divorum  testatur  iuatior  horum, 

turane  malie  mori,  quam  quid  habere  doli. 
Alter,  inope  mentis,  iurat  prius  ossa  parenti s, 

post  mare,  sceptra  poli.  Tartara,  regna  solL 
<  Plus  >  ait  <  hanc  vellem  vivens  amittere  pellem, 

quam,  frangens  foedus,  deputer  inde  reus.  » 

V.  23.    Dum  coniurabant  et  iter  sermone  levabant, 
ursa  repente  ruit. (2). 

Procediam  oltre.  Il  primo  ammaestramento  che  nel  volgare  si  ricava 
dalla  favola,  si  è  questo: 

Bien  croit  qel  descend  da  cura  (3) 
Trovar  engeing  qi  a  rancura. 

Per  verità,  è  un'idea,  che  presso  Aviano  rimane  allo  stato  latente.  Ma 
si  ascolti  il  poeta  da  Asti.    Uno  dei  due  compagni  è  salito  sull'albero: 

V.  27.    Alter,  praeda  ferae,  cepit  sua  dapna  timere; 
vita  velut  desit,  sic  sine  mente  stetit. 
Ingenium  menti  mala  dot  fortuna  timenti; 
ut  qui  mente  vacet,  taliter  ille  iacet 

E  non  basta.    Anche  per  l'altro  precetto. 

Si  in  gran  perigol  des  intrer 
Cognois  en  cui  se  doit  fider, 

ci  conviene,  se  abbiam  sete  di  riscontri,  attingere  alla  stessa  fonte: 

V,  45.    Quem  socium  noacas,  ad  cuncta  pericula  poscas. 

Veniamo  alla  moralità  della  favola  De  venatore  et  tigra^  n.**  XVII  : 

Cil  qi  no  pò  defendre  sei. 
No  crez  chel  possa  tenser  mei. 

Per  dedurre  questo  precetto  dalla  redazione  originaria,  bisogna  proprio 


(1)  Cfr.  il  tìtolo  nei  testi  di  Aviano:  Be  «  Duo  viatores  foedus  pariter  inierunt,»  etc. 
duobus  viatoribus;  Viatores  et  ursa,  etc.  (3)  Si  vedano  per  1* interpretazione  le  note 

(2)  Un  accenno  anche  nella  parafrasi  prò-  al  testo, 
saica  menzionata  in  una  nota  precedente: 


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BOMAxzA,  N.«  IJ  ESTE.  DI  UNA  BACO.  DI  FAVOLE  25 

ricorrere  agli  argani.  Tant'  è  vero,  che  nessun  interpolatore  pensò  a  ca- 
vamelo, e  piuttosto  s'immaginarono  insulsaggini  e  sofisticherie  (i).  E 
in  verità,  non  era  facile  trovare  un  significato  alla  narrazione,  qual'  era 
esposta  da  Aviano.  Ma  ecco  che  presso  l'Anonimo  essa  ci  si  offre  tutta 
trasformata;  certe  idee  spariscono,  altre  invece  acquistan  risalto,  e  di- 
ventano principali: 

IIL  9,  9.    Spicula  non  vane  torquebat  dextra  Dianae, 

et  terrendo  feras  exagitabat  eas. 
Non  pedibus  pigris  fuit  illÌ8  obvia  tigria, 

atque  feras  ridet,  quas  fugitare  vìdet. 
Causam  scrutatur,  facienti  multa  mìnatur, 

et  stetit  in  media,  facta  patrona,  via. 
«  Hio  mecum  sitis,  ne  plus  trepidare  velitis, 

vulnera  nemo  dabit,  ne  timeatis,  »  ait. 
Protinus  emissam  pes  sensit  adesse  sagittam, 

vulnero  tarda  pedis  fit  tigris  ante  levis. 
Yertens  ad  risum  vulnus  vulpeoula  visum, 

inquit:  «  Ob  id  pretium  nolo  patrocinium.  > 

Così  poste  le  cose,  l'insegnamento  offertoci  dal  testo  volgare  emana  spon- 
taneo.   Ed  è  quello  infatti  che  l' autore  ha  messo  in  fronte  alla  favola  : 

V.  5.    lactet  nemo  bonum  se  cuilibet  esse  patronum, 
qui  sese  proprio  non  iuvat  auxilio, 
Talibus  in  culpis  ne  sit  derisio  vulpis, 
tigris  ut  ante  fuit,  vulnera  quando  tulit. 

Un  quarto  ed  ultimo  esempio:  il  n.**  XXI,  ossia  la  moralità  della 
favola  De  rustico  et  alauda.    Ci  leggo,  fra  l'altre  cose: 

Per  fin  qe  fu  rie  e  posent 
Avole  compagnons  ben  cent. 
Sachez  bien,  si  cum  hom  dis, 
Qi  pert  Tavoir,  si  pert  li  amia. 

O  che  c'è  mai  in  Aviano,  che  abbia  potuto  suggerire  quest'idea?  — 
Nulla.  —  Apro  l'Anonimo: 

II.  16,  5.    Busticus  exivit,  segetem  flavescere  vidit, 

vult  ut  falce  metat,  pauperiesque  vetat. . . . 

V.  13.    Hic,  qvLÌQ,  pauper  erat,  vicinos  forte  petebat; 
plebis  ut  est  vitium,  plebs  negat  auxilium. 


(1)  «  CuDCta  licei  soleant  animalia  bruta     necantis,  |  nec  praecìre  palain,  laecleris  unde, 
(ime ri,  |  omnibus  est  illis  plus  metuendus     potes  ».    (Fròuner,  Op.  cit.,  52.) 
homo.  I  More  volani  iaculi  clandestina  verba 


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26  P.  RAJNA  [giornale  di  filologia 

Come  sì  vede,  le  parole  del  volgare  ci  dauuo  il  riflesso  di  un  elemento 
che  Aviano  ignora,  e  che  troviamo  introdotto  presso  il  rinnovatore. 

Ed  ora  si  tratta  di  conchiudere.  Sarà  una  conclusione  diversa  da 
quella  che  forse  si  aspetta.  Che  il  nostro  volgarizzamento  derivasse  dal 
testo  del  verseggiatore  Astigiano,  non  è  cosa  da  pensare.  I  rapporti  spe- 
ciali di  parole  e  di  concetti  coli' Aviano  originario  non  istanno  soli  a 
provarcelo.  Ce  lo  dimostra  altresì  l'ordine  delle  favole,  conservato  lì 
dentro  qual  era,  ed  alterato  invece  in  ogni  sua  parte  dall' Anonimo. 
Questi  volle  distribuire  le  favole  in  tre  libri,  a  seconda  del  contenuto: 

Prooem.  v.  11.    Ne  praeeumatur,  prima  ratione  vetatur... 
V.  13.    Te  vitiis  munda,  perlecta  parte  secuuda... 
V.  15.    Ne  quia  fallatur,  pars  tertia  tota  legatur. . . 

Ne  è  uscita  una  disposizione  così  nuova  (1),  che  impedisce  perfin  di  sup- 
porre che  il  testo  potesse  servire  al  traduttore  insieme  con  quello  di  Aviano. 
Già,  i  rimatori  volgari  non  sono  soliti  darsi  la  briga  di  un  doppio  mo- 
dello; figuriamoci  qui,  dove,  per  trovare  le  corrispondenze,  sarebbe 
bisognato  balzare  ad  ogni  momento  da  un  capo  all'  altro  della  raccolta  ! 
Pertanto  è  necessario  immaginare  qualcosa  di  diverso.  E  l' ipotesi  mia 
sarebbe  questa.  Il  volgarizzamento  proviene  da  un  Novus  Avianus  di- 
verso dai  cinque  che  conosciamo,  e  che,  per  vie  e  ragioni  che  non  sapremmo 
adesso  determinare,  aveva  certi  rapporti  coli' opera  del  poeta  da  Asti. 
Taluno  potrebbe  forse  credere  un  istante  di  ravvisare  il  principio  di 
questo  sesto  rifacimento  nella  favola  solitaria  pubblicata  dal  Wright(2). 
Ma,  meglio  considerando  e  istituendo  confronti  più  larghi,  si  vede,  non 
esser  questa  un'  idea  accettabile.  Proprio,  si  deve  trattare  di  un  anello 
di  congiunzione,  che  ancora  ci  rimane  celato. 

Aviano  ha  richiesta  una  trattazione  ben  lunga.  Per  buona  sorte 
possiamo  invece  sbrigarci  in  breve  della  parte  della  nostra  raccolta  che 
risponde  al  cosiddetto  Esopo,  La  diffusione  portentosa  di  quest'opera 
rese  impossibile  una  vegetazione  analoga  a  quella  che  abbiamo  studiata. 
Di  fronte  ai  cinque  o  sei  Aviani  rinnovati,  possiam  mettere  un  solo 
Novtis  Aesopus:  quello  del  Neckam  (3).    E  questo  non  concorda  col  vec- 


(1)  Credo  utile  dar  tutta  la  tavola  delle  30:  II,  14;  — 31:  I,  16;— 32:  II,  2;  —33: 

corrispondenze:  Av.  1:  Anon.  Ast.  Ili,  1  ;  —  I,  9;  — 34:11,  12;  — 35:  11,3;  — 36:  I,  13; 

2:  1,  2;  — 3:  II,  5;  — 4:  I,  7;  — 5:  I,  5;—  —37:  I,  14;-38:  I,  11;  -  39: 1, 10;  — 40: 

6:  I,6;~7:II,6;  — 8:11,  7;  — 9:111,3;-  I,  17;  — 41:  I,  1;  — 42:  III,  8. 

IO:  II,  9;  — 11:  III,  2;  — 12:  II,  13;—  13:  (2)  V.  pag.  18. 

I,  7;-- 14:  II,  8;  — 15:  I,  12;  — 16:  I,  15;  (3)  Du  Méril,  Op.  cit.,  169  segg.    Quanto 

—  17:  III,  9;— 18:  III.  5;  — 19:  1,8;  — 20:  bWAlter  Aesopus  di  Baldo,  ib.,  213  ftegg., 

Ili,  7;  — 21:  II,  16;  — 22:  II,  4;  — 23:  II,  sebbene  abbia  comune  qualche  favola,  è, 

1;  —  24:  I,  4;  — 25:  III,  4;  —  2&:  III,  6; —  come  tutti  sanno,  cosa  ben  diversa.    Il  titolo 

27:  II,  10;  —  28:   II,  15;  —  29:  II,  11;  —  stesso  io  accenna. 


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«OMAKA,  N.O  1]  ESTR,  DI  UNA  RACC.  DI  FAVOLE  27 

chio,  né  nel  numero  delle  favole,  né  nella  disposizione,  e  nemmeno  sempre 
nei  soggetti.  A  noi  occorre  poco  studio  per  metterlo  in  disparte.  E  pos- 
siamo, almeno  nelle  condizioni  attuali,  starci  contenti  coir  Anonimo,  che 
quasi  in  ogni  caso  risponde  a  tono.  Né  certe  lieyi  dissonanze  danno  mo- 
tivo sufficiente  di  sospetti  ed  ipotesi.  Solo  del  n.°  XXX  si  può  chiedere 
una  spiegazione.  Il  titolo  latino  dice  :  De  cane  qui  ccmisit  formagivm.  Ora, 
nel  testo  dell'Anonimo,  non  meno  che  nelle  sue  fonti  (1),  si  parla  di  un 
pezzo  di  carne,  e  non  di  formaggio.  Ma  il  formaggio  si  ritrova  in  pa- 
recchie altre  redazioni  medievali.    Citerò  Marie  de  France: 

Par  une  foie,  ce  vus  recunt, 
Passeit  un  chiens  desus  un  punt; 
Un  formage  en  se  geule  tint.  .  .(2). 

L'autore  dell'  Tsopet-Avionnet ^  più  dotto,  o  più  scrupoloso,  registra  am- 
bedue le  versioni: 

Un  chien  passoit  un  yave  a  nou, 
En  sa  gueule  un  formage  mou: 
Antres  dient  que  ce  yere  chars.  .  .  (3). 

Poiché  costui  traduceva  pur  dall'Anonimo,  non  saremo  più  in  diritto  di 
meravigliarci  del  caso  nostro.  Il  formaggio  correva,  si  vede  nella  tra- 
dizione. Chi  ve  l'avesse  introdotto,  non  saprei  proprio  dire.  Mi  par  per 
altro  probabile  che  avesse  avuto  origine  da  un  ravvicinamento  colla  favola 
del  corvo  e  della  volpe  (4),  la  quale  ha  con  questa  una  certa  analogìa. 

Per  tutto  ciò  che  riguarda  la  lingua ,  mi  son  tenuto  fino  a  qui  nel 
più  stretto  riserbo.  L'ho  fatto  per  non  accrescere  le  difficoltà,  tirando 
in  campo  più  d'una  questione  alla  volta.  Ora  prendo  dunque  in  esame 
questa  parte.    E  ci  vorrà  del  tempo  prima  che  me  ne  sbrighi. 

Il  linguaggio  parlatoci  dal  manoscritto  è  un  vero  bastardume:  un 
numero  ragguardevole  di  forme  francesi  vi  si  trova  frammisto  ad  un 
ammasso  ancor  più  considerevole  di  vocaboli  d'aspetto  eterogeneo.  Pren- 
diamo qualche  verso,  a  caso;  i  primi,  perché  non  ci  sia  scelta  d'alcuna 
sorta.  CestQj  parrà  provenzale  ;  raison^  o  è  provenzale,  o  francese  ;  ne  (ci), 
appartiene  all'Italia;  master^  è  decisamente  francese;  iw,  provenzale  o 
italiano;  no-s  (non  si),  idem;  de  (deve),  italiano;  nus,  francese;  hom^ 
comune  alle  tre  lingue;  fider,  francese,  quanto  alla  desinenza,  proven- 
zale o  italiano,  per  ciò  che  riguarda  la  conservazione  del  d  tra  vocali.  Una 
bella  mescolanza  davvero  !    Forme  d' ogni  genere,  buttate  là  alla  rinfusa,  e 


(1)  Aggiungerò  anche  il  Nrckam,  n.  13,     de  Roquefort,  li,  78. 
e  Balbo,  n.  1.  (3)  Robert  ,  Fables  inédites ,  II ,  50. 

(?)  Poes.  (le  Marie  de  Fr. ,  pitbl.  par  B.  (4)  Quindicesima,  neirAnonimo  stesso. 


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28  P.    BAJNA  [OIOBNALE  DI   FILOLOGIA. 

caratteri  contraddittorii  ìu  un  medesimo  vocabolo.    Si  continui  l'esame, 
e  si  vedranno  le  cose  procedere  fino  all'ultimo  alla  stessa  maniera. 

Orbene,  penseremo  noi  che  cotesto  gergo  babelico  venga  dall'au- 
tore?—  S'ha  fatica  a  crederlo.  Come  mai,  per  esempio,  la  stessa  persona 
avrebbe  detto  di  nel  verso  66,  e  subito  ed  nel  67?  avia  nel  140,  e  poi 
immediatamente  devoie  nel  141  ?  E  sì  che  avoie,  cioè,  non  solo  la  forma 
analoga,  ma  l'identica  parola,  abbiamo  di  fatto  al  verso  103.  Similmente, 
troviamo  fu  (v.  157)  e  fo  (v.  16);  en  (v,  15,  19,  38)  e  in  (2,  12,  13); 
poit{y.  51), poi  (v,  29)  e  jpo  (v.  8,  17);  doU  (v.  55,  106, 179,  185, 186), 
deit  (v.  12, 115, 159, 162,  200)  e  de  (v.  2,  9);por-ce  (v,  80,  US),por-zo 
(v.  16)  e  per-jso  (v.  162);  ecc.  ecc.  ecc. 

Formiamoci  una  convinzione  ancor  piiì  netta  e  fondata,  interrogando 
le  rime.  Ecco  i  versi  30  e  31  :  devria  o  deuria,  e  sei,  non  c'è  pericolo  che 
si  corrispondano  per  nessun  orecchio  al  mondo.  Manifestamente  c'è  un 
modo  solo  di  ristabilire  l'accordo:  scrivere  devreit,  che  abbiamo  real- 
mente nei  versi  43,  54,  170,  ossia  sostituire  una  forma  francese  ad  una 
italiana  o  provenzale. —^ D' altre  lingue  non  c'è  sicuramente  ragione  di 
discorrere.  —  Resterebbe  da  accomodare  un  piccolo  conto  :  quello  del  t, 
che  sovrabbonda  da  una  parte.  Di  questo,  poi.  Passo  oltre  ai  versi  74-75, 
che  ancor  essi  dovranno  essere  piii  tardi  chiamati  dinanzi  al  tribunale. 
Ma,  ai  V.  86-87,  oltrage^  scuse ,  richiedono  una  modificazione,  per  piccola 
che  sia.  0  scrivere  olirete  nel  primo  luogo,  oppure  —  e  la  scelta  non 
par  duhhìsL  —  sage  nel  secondo.  Taccio,  per  iscrupolo,  altri  mutamenti, 
non  meno  necessarii,  ma  di  significato  meno  sicuro. 

È  dunque  chiaro  che  noi  abbiamo  qui  dinanzi  un  testo,  più  o  meno 
alterato  dagli  amanuensi,  quanto  alla  lingua.  E  allora  ci  chiederemo 
subito,  quale  ne  fosse  il  linguaggio  originario,  vale  a  dire,  in  qual  senso 
le  alterazioni  sieno  avvenute.  S'è  visto  che  nei  due  casi  citati  le  rime 
si  ristabilivano  introducendo,  cioè  rimettendo  al  posto,  le  forme  della 
lingua  d'o'/Z.  E  le  forme  francesi  sono  le  sole  possibili  anche  in  altri 
casi,  dove  il  manoscritto,  9Ìa  pure  con  qualche  scorrezione,  di  cui  sarà 
poi  a  parlare,  ce  le  offre  di  già:  ad  aver,  desirer  (v.  42-43),  a  sacez, 
heltez  (80-81),  a  sofrir^  cair  (v.  84-85),  ad  amer^  mester  (v.  148-149), 
BL  printer y  repenser  (v.  206-207)  non  si  potrebbero  di  certo  sostituire, 
né  i  corrispondenti  provenzali,  né  gl'italiani.  S'aggiunga  grand,  che 
rima  con  cent,  v.  174-175.  E  il  provenzale,  se  non  l'italiano,  è  del  pari 
inarauiissibile  nelle  coppie  v.  82-83,  86-87.  Ne  aggiungerei  altre,  se 
non  volessi  attenermi  soltanto  a  casi  evidenti. 

Qui  abbiamo  una  prova,  un  fondamento  solido.  Però  ci  è  adesso 
ben  lecito  di  allargare  lo  sguardo.  Ora,  la  mano  che  trascrisse  i  fram- 
menti è  italiana  di  certo.  Anzi,  tutto  il  codice  appar  scritto  di  qua  dalle 
Alpi,  né  porta  alcuna  traccia  straniera.  Quindi  la  patria  stessa  della  co- 
pia rende  perfetta  ragione  degli  elementi  meridionali,  mentre  rimangono 


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ROMANZA,  N.<>  1]  ESTB.  DI  UNA  BACa  DI  FAVOLE  29 

da  spiegare  i  settentrionali.  E  anche  la  qualità  di  questi  elementi  dice 
assai.  Alla  lingua  à*óU  appartiene  —  adesso  non  bado  più  alle  rime  sol- 
tanto— una  moltitudine  di  forme  particolari,  che  riposano  assai  spesso  sul 
trattamento  delle  vocali  toniche  ;  il  mezzogiorno  si  f§  invece  valere  pili 
specialmente  nelle  atone  di  uscita,  che  conservano  quasi  dappertutto  Va 
originaria,  e  in  altre  peculiarità,  su  per  giù,  dello  stesso  peso  specifico. 
E  parlo  del  mezzogiorno  in  genere,  perché  si  tratta  di  caratteri  comuni 
per  lo  più  alla  regione  italiana  ed  alla  provenzale.  Insomma,  il  fran- 
cese è  al  fondo,  il  resto  galleggia;  Tuno  costituisce  il  corpo  del  lin- 
guaggio, r altro  non  è  più  che  una  veste,  un  mantello,  tutto  strappi  e 
brandelli,  che  a  fatica  giunge  alle  anche,  e  che  lascia  in  cento  luoghi  tra- 
sparire la  pelle  nuda. 

Sicché,  in  genere,  conosciamo  adesso  il  punto  di  partenza  e  la  di- 
rezione del  moto.  Piantata  questa  biffa,  è  necessario  determinare  meglio 
la  natura  degli  elementi  che  non  appartengono  alla  lingua  à'oih  In  Italia 
sappiamo  positivamente  di  esserci.  È  da  vedere  in  qual  parte.  —  Mani- 
festamente, in  quelle  stesse  contrade,  di  cui  sembra  originario  anche  il 
manoscritto  :  nelle  provincie  settentrionali ,  nella  vallata  del  Po.  Tutto 
quanto  s*lncontra  di  specificamente  italico,  o  ci  trattiene  decisamente 
in  questa  ragione,  o  non  ci  dà  il  minimo  motivo  di  allontanarcene.  Fac- 
ciamo una  brevissima  corsa :^o,  v.  8*  ecc.;  no-g  poliy  10;  scrito^  geni, 
sasa^  16  ;  vénser^  mevìaza,  17 ;ensi^,  27;  azé,  35;  perigei,  48;  e\  59,  ecc.; 
ogna,  65;  /S,  87  ecc.;  quicUò,  112;  fadiga,  123;  alezer,  133;  ecc.  ecc.  ecc. 

Neppure  su  questo  non  cade  dubbio  di  sorta.  Bensì  conviene  pro- 
cedere più  oltre  nell'analisi,  e  vedere,  se  nel  miscuglio  entrino  davvero, 
o  no,  anche  elementi  specificamente  ocitanici.  Dico  davvero:  poiché,  al 
punto  in  cui  siamo,  non  possiam  certo  riguardar  come  tali  le  molte 
voci  che  si  spiegano  di  già  come  modificazioni  di  parole  francesi ,  sot- 
toposte a  un  reagente  italiano.  Fatila,  per  esempio,  v.  6,  fina,  v.  18, 
e  tutta  intera  la  caterva  delle  voci,  in  cui  provenzale  e  francese  diffe- 
riscono solo  per  r  atona  finale,  spettano  a  siffatta  categoria.  Ma  in  ve- 
rità, qualcosa  di  provenzale,  non  ispiegabile  a  questo  modo,  accade  real- 
mente di  trovare.  Sian  pur  pochi  i  casi,  non  richiedono  perciò  meno 
imperiosamente  una  dichiarazione  adeguata.  Noto  agues,  nel  verso  31  ; 
et<,  V.  58;  caiHt4S,  v.  186.  E  anche  in  cause,  cose,  che  ritoma  ben  tre 
volte  (v.  53,  96,  142),  il  reagente  italiano  è  usato  sopra  una  materia 
spettante  piuttosto  alla  regione  dell'oc,  che  a  quella  dell' o??. 

Posti  questi  fatti,  l'ipotesi  ovvia  di  un  testo  originario  francese, 
alterato  da  trascrittori  italiani,  non  è  più  sufficiente.  Sembra  doversi 
aggiungere  un  termine  medio  :  una  sosta  ed  una  prima  alterazione  nel 
territorio  provenzale.  Si  può  dar  cosa  più  naturale  e  verosimile?  No  di 
sicuro.  Peccato  che  nel  problema  ci  siano  ancora  certi  dati ,  che  s' osti- 
nano a  non  volersi  sottomettere! 


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30  P.  RAJNA  [aionxALE  di  filologia 

Ritorno  alle  rime,  nelle  quali,  se  il  testo  è  veramente  nativo  di 
Fi-ancia,  sotto  alle  alterazioni,  dobbiamo  trovare  soltanto  forme  legittime 
francesi.  Ossia:  qualche  limitazione  andrà  messa  innanzi.  Un  intruso 
provenzale  o  italiano  sarà  possibile  nel  caso  di  un  guasto  accidentale, 
riparato  alla  meglio.  E  questa,  come  si  vede,  una  di  quelle  supposizioni, 
di  cui  conviene  usare  con  parsimonia;  vale  per  una  volta,  ma  perde 
ogni  credibilità,  se  occorre  invocarla  spesso. 

E  qui  accadrebbe  proprio  così.  Cominciamo  dal  considerare  i  ver- 
si 74-75.  Vi  abbiamo  porta ,  volta.  Lasciam  stare  la  non  perfetta  con- 
sonanza, a  cui  solo  si  riparerà  trasportandosi  in  un  paese  dove  l  soglia 
mutarsi  in  r;  ma  volta,  nel  senso  che  ha  in  questo  luogo,  è  italiano, 
non,  ch'io  sappia,  francese.  Similmente,  la  voce  rancura,  se  occorre 
anche  nella  lingua  d'(w?,  forse  come  importazione  dal  mezzogiorno,  certo 
vi  è  tutt'  altro  che  abituale.  Ebbene  :  nei  nostri  pochi  frammenti  ec- 
eocela  imposta  tre  volte  dalle  rime:  v.  47,  95,  144.  E  altrettanto  av- 
viene di  traimentj  al  v.  40;  saj^e  e  faze,  v.  82-83;  aoventuz,  v.  124; 
servis,  V.  70;  fadiga  —  si  rigiri  poi  il  vocabolo  come  si  vuole  —  v.  123. 
Né  sappiam  bene  che  farci  di  areseger,  v.  141.  Risquer,  quand'anche 
si  volesse  trascurare  la  sua  insufficienza  sillabica,  par  voce  poco  antica: 
il  Littré  non  mi  dà  esempi  anteriori  al  secolp  XVI.  E  senza  mutazioni 
inteme  nel  verso,  non  è  conservabile  il  isent  del  v.  79,  che  in  francese 
non  si  direbbe  in  modo  così  assoluto:  vorrebbe,  mi  sembra,  dinanzi  a  sé 
un  tonte,  o  qualcosa  di  simile.  Terminerò  la  rassegna  con  malez,  v.  165, 
che  se,  come  participio,  non  è  propriamente  impossibile  di  là  dalle  Alpi, 
ha  tuttavia  novantanove  probabilità  su  cento  di  essere  un  prodotto  della 
forma  che  vige  e  regna  in  tutta  Italia;  malato. 

Con  ciò  ho  anche  espressa  quella  che  a  me  —  e,  spero  bene,  anche 
al  lettore  —  pare  Y  unica  soluzione  possibile.  La  nostra  raccolta  di  fa- 
vole era  opera  di  un  italiano.  Mercé  questa  ipotesi  tutti  i  nodi ,  nessuno 
eccettuato,  si  sciolgono  da  sé.  Non  e'  è  bisogno  di  ricorrere  a  mutazioni 
arbitrarie,  ad  espedienti  sospetti,  che  sempre  poi  finiscono  per  lasciar 
sussistere  magagne,  una  delle  quali  basta  da  sola  a  scompigliare  da 
capo  l'edificio.  Certo,  non  tutte  le  prove  addotte  hanno  le  stesso  va- 
lore; alcune,  forse,  potranno  essere  infirmate  e  scartate;  ma  il  complesso 
dell'  argomentazione  appare  ben  saldo.  Troviamo  in  un  codice  italiano 
un  t^sto  francese,  che,  supposto  un  autore  cisalpino,  non  oflFre  difficoltà 
di  alcuna  specie;  all'incontro,  ne  suscita  molte,  appena  sì  tenti  di  at- 
tribuirlo ad  un  nativo  d'oltralpe;  sappiamo  inoltre  assai  bene  che  il 
francese  fu  una  lingua  molto  in  uso  nell'Italia  del  settentrione,  tanto 
da  scendervi  fino  al  popolo  ;  potremmo  restar  titubanti  ?  A  me  pare  che 
no,  e  considero  il  fatto  come  assodato. 

Tanto  più  avendo  ancora  nel  sacco  un  resto  abbastanza  considere- 
vole d'indizi.    Li  aggiungo,  posto  che  servono  in  pari  tempo  a  renderci 


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ROMANZA,  N.«  1]  ESTR  DI  UNA  EACa  DI  FAVOLE  31 

famigliari  con  certi  caratteri  del  testo  primitivo,  e  in  genere  delle  scrit- 
ture francesi  composte  da  Italiani.  Accade  di  dover  ammettere  rime  non 
ben  esatte,  in  quanto  non  si  tien  conto  d'una  consonante  finale,  che 
l'autore  probabilmente  scriveva,  ma  non  pronunziava.  Oltre  a  devreit, 
sei,  già  menzionati  (v.  30-31),  abbiamo,  o  meglio,  dobbiamo  avere, 
sei^  conseil,  v.  100-101.  E  converrà  riguardare  per  lo  meno  come  licenze 
del  medesimo  genere  i  casi  dove  la  rima  è  perfetta  bensì  nel  codice,  ma  a 
scapito  della  grammatica.  Invece  di  colSj  v.  36,  diner^  68,  dis^  91, 104, 152, 
si  richiederebbe  col,  denierSj  dit.  Si  consideri  anche  l'infinito  aver^ 
V.  42,  che  sarebbe  da  ammettere  facilmente  solo  in  un  testo  scritto  in 
Inghilterra  (1).  Ma  in  tutti  questi  esempi  dovremo  con  ben  altra  vero- 
simiglianza supporre  che  i  diritti  lesi  sian  veramente  quelli  della  gram- 
matica, non  della  rima.  Che,  lo  stato  reale  del  testo  va  pur  tenuto  in 
qualche  conto.  La  critica  moderna,  che  fa  tanto  assegnamento  sull'  esat- 
tezza delle  rime  per  iscoprire  la  vera  patria  di  una  composizione,  non 
deve  poi  essere  inconseguente,  e,  senza  forti  ragioni,  mettere  disaccordo 
là  dove  non  c'era. 

Proseguiam  pure.  Incontriamo  un  futuro  espresso  per  via  dei  due 
elementi  non  ancora  composti  insieme;  precede  il  verbo  avere,  segue 
l'infinito;  sen  a  venger^  v.  177,  non  sembra  esser  altro  che  se  ne  ven^ 
dicherà.  E  il  medesimo  fatto,  o  presso  a  poco,  inclino  ad  ammettere  nei 
versi  187  e  189;  ave.,.avenir^  a  blasmer.  Ora,  questa  condizione  di  cose 
preistorica  per  la  Francia,  è  invece  tuttavia  comune  durante  il  secolo  XIII, 
e  anche  più  tardi,  nell'Italia  del  Settentrione  (2).  Poi,  è  da  menzionare 
il  verbo  /ir,  come  ausiliare  per  il  passivo  :  v.  55,  87,  198.  Si  potrà  espel- 
lerlo :  ma  sarà  una  violenza  bella  e  buona.  E  con  questa  vi  sono  altre 
voci  e  &asi  non  poche,  oltre  a  quelle  che  hanno  il  suggello  della  rima, 
appartenenti  al  lessico  italiano.  Non  ne  faccio  la  rassegna,  perché  al- 
cune possono  appartenere  ai  trascrittori;  ma  non  saprei  mettere  iu 
questa  categoria  il  sin,  fin^  o  fins  qe,  v.  25,  75,  102,  124,  158,  184, 
troppo  frequente  e  costante,  e  nemmeno  il^wr,  dei  v.  121,  165,  213, 
usato  allo  stesso  modo  in  una  scrittura  analoga,  \di.PrisedePampluìie(Z). 

Determiniam  meglio  le  condizioni  originarie  del  testo.  Come  si  è 
visto,  esso  ci  è  pervenuto  attraverso  ad  alterazioni  innegabili.  L'autore, 
pari  in  ciò  a  quanti  in  Italia  scrissero  francese,  e  a  quanti,  in  ogni  luogo 
e  in  ogni  tempo,  si  sforzano  di  adoperare  una  lingua  senza  conoscerla 
a  fondo,  creava  a  volte  vocaboli  e  forme  immaginarie ,  dando  termina- 


ci) G,  Paris,  S.  Alevis,  p.  74.  Mund.,  32;  Zur  Katharinenleg,,  15. 

(2)  MussAFiA,  Beitr,  z.  Gesch.  d.  rom.  (3)  Mussafia,  AUfr.  Ged.,  I,  p.  xv.  Il 

Spr.f  iti  Sitzwngsb.  d.   W.  Ak.,   XXXIX,  senso  di  questo  |>?^r  A,  secondo  me,  «o/fawfo, 

542;  Mon,  ant,  di  dial,  it.,   17;  Altmail.  non  tamen. 


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32  P.2ÌAJNA  [giornale  DI   FILOLOGIA 

zione  straniera  a  parole  italiane;  talora  —  così  mi  spiego  Vcigues  e  il 
caitius  —  confondeva  il  francese  col  provenzale,  tanto  in  uso  ancor  esso 
nei  paesi  circampadani,  come  lingaa  della  lirica;  ma,  con  tutto  ciò,  egli 
si  teneva  certo  ancor  molto,  ma  molto  lontano  dalle  mostruosità  del  ma- 
noscritto. Il  suo  era  un  francese  scorretto,  e  non  poco;  un  francese, 
in  cui  dovevano  coesistere  forme  di  diversi  dialetti;  per  es.,  deU  edoU 
(v.  12,  55  ecc.),  sereit  e  seroU  (v.  163,  164,  194);  un  francese,  dove, 
né  la  fonetica,  né  la  grammatica  erano  su£Scientemente  rispettate;  ciò 
nonostante,  pur  sempre  un  francese.  Certe  forme  verbali,  non  delle  più 
ovvie,  le  norme  della  declinazione,  che  ancora  adesso,  attraverso  a  tante 
vicende y  appajono  rispettate  assai  più  spesso  che  violate,  ci  obbligano 
a  riconoscerlo.  Insomma,  dovevamo  essere  allMncirca  alle  condizioni 
della  Prise  de  FampélunCy  o  àéW  Entree  d' Espagne. 

Nondimeno  è  ben  chiaro  che  tra  i  peccati  dell'  autore  e  quelli  degli 
amanuensi  è  possibile  solo  di  rado  la  distinzione.  Quindi  —  per  dire 
una  parola  delle  norme  seguite  nella  ptampa  —  T obbligo  all'editore  di 
riprodurre  il  testo  qual  è.  Ciò  non  m' impedisce  di  relegare  in  nota  le 
lezioni  manifestamente  errate,  quando  mi  par  sicura  la  correzione.  Del 
resto,  mi  permetto  di  ricorrere  spesso  ad  una  lineetta,  per  distinguere, 
senza  far  sparire  l'unione,  le  voci  agglomerate  nel  codice. 

Non  volendo  metter  nel  testo  nulla  di  arbitrario,  rinunzio  anche  a 
correggere  il  ritmo,  sebbene  il  vederlo  per  1«  più  rispettato  mi  renda 
persuaso  che  gli  ottosillabi  dell'  autore  fossero  tutti  di  misura  giusta. 
E  il  più  delle  volte  non  è  difficile  ricondurveli  di  nuovo.  Talora  basta 
sostituire  una  forma  francese  ad  una  italiana.  Per  esempio,  nel  verso  16 
non  si  avrà  che  a  surrogare  escrit  a  scrito^  nel  v.  34  escripture  a  scrip- 
ture.  Altrove  peraltro  saranno  a  supporre  licenze  speciali,  che  un  na- 
tivo di  Francia  non  si  sarebbe  permesse.  Naturalmente  la  scelta  tra 
più  correzioni  possibili  e  la  sua  precisa  determinazione  fonetica  ri- 
chiederebbe dati,  che  a  noi  mancano.  Restino  dunque  i  versi  quali  sono 
nel  manoscritto. 

Il  tempo  della  composizione  non  si  può  precisare.  Dall'età  e  dalla 
condizione  della  nostra  copia,  combinata  con  quel  tanto  che  sappiamo 
della  letteratura  d'oU  dell'  Italia  settentrionale,  è  lecito  argomentare  con 
verosimiglianza  che  l'anonimo  autore  scrivesse  nel  secolo  XIII,  o,  al 
più  tardi,  sul  principio  del  XIV.  E  come  non  posso  meglio  determinare 
la  data,  così  nemmeno  il  luogo  nativo.  La  lingua  d'oU  fu  in  uso  per 
tutta  quanta  la  vallata  del  Po,  dai  confini  francesi  all'Adriatico.  Da 
una  3'  di  singolare,  dove  ci  aspetteremmo  una  3*  di  plurale,  v.  137,  né 
da  qualche  altra  minuzia  consimile  (1),  non  oserei  dedurre  nulla  in  fa- 
vore della  regione  veneta,  per  più  di  un  motivo. 


(1)  Vedi  a,  come  g»»  p  »  s.  pres.  di  avcrr ,  nella  composizione  del  fuL:  v.  70  e  189. 


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«OMAMZA,  K.o  1]  ESTR  DI  UNA  BACO,  DI  FAVOLE  33 

Ho  largheggiato  nell'esposizione  molto  più  di  quanto  sembrasse  me- 
ritare il  soggetto.  Per  ciò  che  si  riferisce  al  contenuto,  mi  ci  ha  indotto 
il  vedere  tuttavia  assai  imperfettamente  esplorato  il  dominio  della  favola 
medievale.  Àncora  non  ci  rendiam  conto  abbastanza  delle  complicazioni, 
che  i  problemi  presentano.  Ci  crediamo  a  volte  in  campagna  rasa,  e 
siamo  in  un  bosco  fitto.  Anche  senza  arrivare  a  conclusioni  sicure,  il 
persuaderci  che  non  bisogna  trinciar  sentenze  alla  leggiera,  mi  pare  un 
guadagno.  Quanto  alla  forma,  ebbi  un  motivo  d'altro  genere  per  farmi 
lecito  di  sciorinare  dinanzi  al  pubblico  tutta  l'indagine,  invece  di  pre- 
sentarne i  risultati.  Rammentavo  che  in  tempi  vicini  si  assegnarono  alla 
Francia  testi  analoghi  per  linguaggio  a  quello  di  cui  stavo  occupandomi. 
Mi  giovava  quindi  di  prendere  in  esame  tutte  le  possibilità ,  affinché  ciò 
che  a  me  sembrava  e  sembra  essere  il  vero,  restasse  stabilito  in  modo  ben 
chiaro.  Non  già  che  j5er  sé  importi  molto  l' accrescere  di  un  altro  ano- 
nimo la  lista  degli  autori  italiani  :  bensì  importa  alla  storia  della  nostra 
civiltà  e  delle  nostre  origini  letterarie  il  penetrare  quanto  più  si  possa 
nella  conoscenza  d'un  periodo,  tuttavia  misterioso.  Ogni  opera  composta 
anticamente  in  francese  da  Italiani  del  settentrione,  viene  a  spargere 
un  po'  di  luce  tutto  all'intorno.  Se  ne  rischiara,  tra  l'altre  cose,  il  fatto 
singolare  dei  gerghi  franco-italiani.  Il  quale,  checché  si  dica,  proprio 
non  s'intenderebbe,  se  la  letteratura  francese  delle  classi  colte  non  fosse 
stata  di  gran  lunga  più  copiosa  che  ancora  non  paja.  Tanto  più  che 
certi  nomi  soliti  menzionarsi  di  preferenza  quando  si  discorre  di  queste 
materie,  Brunetto  Latini,  Rusticiano  da  Pisa,  Aldobrando  da  Firenze, 
vogliono  essere  considerati  a  parte.  Ben  altro  è  il  fatto  di  Italiani,  i 
quali  — taluni  anche  fuori  d'Italia  e  dietro  istanze  forestiere  —  scrivano 
un  idioma  straniero ,  altro  quello  di  tutta  una  regione  guadagnata  ad 
una  lingua  non  sua,  la  quale  s'infiltra  giù  giù  fin  negli  strati  più  in- 
fimi della  società.  Qui  dunque  resta  senza  dubbio  ancor  molto  a  sco- 
prire, e  però  dobbiamo  esser  lieti  ogniqualvolta  ci  riesce  di  metter  la 
mano  sopra  un  fatto  non  ancor  conosciuto.  Insignificante,  se  si  consi- 
dera isolato,  porta  sempre  qualche  contributo  per  una  miglior  compren- 
sione dell'  insieme.  Del  resto,  nel  caso  nostro,  non  è  solo  un'  opera  che 
viene  ad  aggiungersi  alla  nostra  antica  letteratura  à'oil:  è  un  genere 
nuovo.  E  questo  genere  si  trova  rappresentato  in  modo  caratteristico, 
e  che  si  ricollega  con  altri  fatti.  In  cambio  di  una  nuova  versione  del 
aolito  Anonimo,  troviamo  una  raccolta  mista ,  nella  quale,  più  assai  di 
cotesto  Anonimo,  ha  parte  Aviano.  Una  parte  forse  mediata;  ma  ap- 
punto una  tal  mediazione  desta  uno  speciale  interesse.  Il  presunto  me- 
diatore, aggiunto  all'Anonimo  poeta  Astigiano,  appartenente  ancor  esso 
alle  medesime  provincie  dove  si  compose  il  nostro  volgarizzamento,  viene 
a  farci  penetrare  un  momento  collo  sguardo  nelle  condizioni  della  col- 
tura lungo  il  corso  del  Po,  in  tempi,  per  questo  rispetto,  tuttora  bui. 

3 


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34 


P.  BAJNA 


[aiORNALB  DI   FILOLOGIA 


E  non  sarà  forse  questa  la  sola  parte  che  l'Italia  settentrionale  abbia 
da  rivendicare  a  sé  medesima  nella  copiosa  fioritura  degli  Aviani  rinno- 
vati. Quanto  all'elaborazione  dell'apologo  sotto  forma  latina,  essa  con- 
tinua a  prendervi  una  parte  ragguardevole  anche  nel  secolo  XIV;  e 
dentro  il  breve  periodo  di  forse  vent'anni,  può  mostrare  due  raccolte 
tra  le  più  copiose,  ed  una,  almeno,  anche  tra  le  più  notevoli.  Ma  di  ciò 
in  altro  luogo. 


TESTO 


(I)  De  muliere^  que  volébat  iacere  cum  filio 

suo.  (Av.  1.) 

1         Cesta  raison  ne  voi  moster 

K'in-femena  noa  de  nus  hom  fidar: 
S'ella  cent  ore  se  sperzura, 
De-20  qella  promet  no  cura. 

(II)  De  limazxa  et  aquila.  (Av.  2.) 

5         Bien  vei  qi  voi  so  ver  mesura 
Quo  sanz  fai  ila  petit  dura, 
lei  se  poons  senz  metre 
De  zo  c'om  pò  doner  promotre. 
Plus,  qe  Tom  ne  de  monter 

10    Qe  longament  nog  poli  ster. 

(ni)  De  gambero  et  gambata.  (Av.  3.) 

Cil  hom  qe  voi  altrui  blasmer, 
Inprumer  deit  de  si  penser, 
E  de  cel  vicio  q'est  in-lui, 
No  devria  hom  reprendre  altrui. 

(IV)  De  foco  et  vento.  (Av.  4.) 

15       Ben  ven  sovenz  en  apert. 

Por-zo  fo  scrito,  qe  la  zent  saza 
C'om  no  pò  vénzer  per  meuaza; 
E  qi  de  menacer  no  fina, 
De  raison  cait  en  grant  mina. 

(V)  De  asino,  qui  induit  i)ellem  leoni s. 

(Av.  5.) 

20       Quant  hom  es  montez  plus  en  sus, 


25 


30 


De  tant  al  peis  qant  oait  en  zus. 
No  crez  (fb\  seit  en  segle  nez 
Qi-en  aza  sa  voluntez. 
Senpre  fus  aine,  ben  lo  sai, 
Aine  seras  sin  qe  vivrai. 
Crez  qela  ert  mala  ventura 
Qe  ensis  fors  de  ta  mesura. 
Cascuns  se  deit  amesurer 
E  sa  voi  r  be  zo  qel  poi-fer. 
Lauser  nul  hom  se  devria 
De  cel  qel  no  agues  da-seL 


(VI)  De  ranaj  que  dicebat  se  medicam. 

(Av.  6.) 

Qi  a-3Ì  no-sa  dar  medicina, 
Za  no  vedrà  la  mia  urina. 

(VII)  De  cane  mordente  ocuJte.  (Av.  7.) 

Salamons  dist  per  scriptura: 
35    Sei  malvas  mor,  non  azé  cura. 

Lo  sonail,  qe  tu-a«  al  cols, 

Mostra  qe  es  traitor  e-fols. 

Dolza  mei  as  en  ton  visage: 

Amara  fel  en  ton  corage. 
40    Cascun  qi  voi  fer  traiment 

Voria  ch'aves  tei  sonail  cent. 

(Vili)  De  eamuTlo,   qui  voìebat  cornua. 
(Av.  8.) 

Nuls  hom  zo  qo  no-pod-aver 
No  devreit  mais  trop  desirer. 
E  s'il-lo  fait,  il  noi  avria 
45    Mais  del  so  toist  li-perdrìa. 


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BOMAKZA.,  : 


1] 


ESTK.  DI  UNA  BACC.  DI  FAVOLE 


35 


(IX)  De  duobus  soeUs,  qui  iuraverunt  si- 

mili. (Av.  9.) 

Bien  croit  qel  descend  da  cura 
Trovar  engeing  qi  a-rancura. 
Si  in-grand  perìgol  dea  intrer, 
Cognois  en  cui  se  doit  fider. 
50    Gii  qi  ert  mal  aconpaignez 
Toist  poit  estre  detblez. 

(X)  De  miUte  hàberUe  alienos  capiUoa. 

(  Av.  10.  ) 

Si  cnm  se  lez  en  la  scriptura, 
Tote  cause  stan  sot  ventura. 
Ensi  devreit  chascus  hom  fer: 
55    Se  il  fi  gabez,  ne  se  doit  irer. 
Riant  se  poria  mielz  cobrir, 
E  se  farai  saze  tenir. 

(XI)  De  duahiis  oUis  euntibìis  per  aquam 

curentem,  (Av.  11.) 

«  S'eu  feris  tei,  eu-perderia, 
E  se  tu-mei,  e' -me  fenderia.  » 
60    Li-povre 'stoit  mult  dubiter 
C  al  rich  se  voi  acompagner. 
S'entre  lor  dui  venist  tenzon, 
D-avreit  mala  patizon. 

(Xn)  De  rustico,  qui  invenU  argentum. 
(Av.  12.) 


65 


70 


Seignor,  sachez  qe  la-ventura 
Sotz  sei  tint  ogna  creatura; 
Cil  qela  voi  si  porta  sus, 
E  cel  qela  voi  adus  en-zus. 
Qant  lo  stult  a-quinz  dinar , 
Voi  tenir  vii  le  suen  mester. 
Qand  vorà  guiardon  e-servis, 
Ben  des  saver  qi  te  lo-fis. 


(Xm)  De  tauro  et  leone.  (Av.  13.) 

Quand  li  grand  hom  a-grant  afer, 
Ben  cativo  hom  Io-poi  torber; 
E  cil  q*  è  saize,  sii  porta 
75    Tan  fin  qe  vint  la  soa  volta. 

(XIV)  De  simia  et  rege.  (Av.  14.) 


Cil  qi  voi  trop  sa  ren  loser, 
Et  il  no  pot  de  raison  fer, 
Sazez,  no  guadaina  nient. 
Mais  de  si  fait  gaber  la-zeut. 

(XV)  De  pavone  et  grua,  (Av.  15.) 

80  Por-ce  fo  dit,  ben  lo  sacez, 
Mielz  es  bontez  non  es  beltez. 
Un  deforme9  q'es  pros  e  saze, 
Valt  cent  malvais  con  bele  faze. 

(XVI)  De  quercore  et  vento,  (Av.  16.) 

Cascuns  doit  son  meilor  sofrir. 
85    Qi  zo  no  fait,  test  poit  cair. 
E  cil  qi  cait  per  tei  oitrage 
No  fi  tenuz  ni  prò  ni  saze. 

(XVII)  De  venatore  et  tigra,  (Av.  17.) 

Cil  qi  no  pò  defendre  sei, 
No  crez  chel  possa  tenser  mei. 

(XVIII)  De  quatuor  [iuvencis]  deceptis  a 

leone,  (Av.  18.) 

90       Cil  non  a  del  sen  de  Paris 
Qi  crei  tut  zo  c'om  li-dis. 
Bon  compagnon  non  doit  fauser. 
Ne  lor  ama  qil  voi  severer. 

(XIX)  De  arbore  contempnente  spinedum. 

(Av.  19.) 

Miei  voil  star  bas  ala-segura, 
95    Qa  monter  alt  ala-rancura. 

(XX)  De  piscatore  et  pisce  parvo,  (Av.  20.) 

Le  cause  c^ai  sens  dubitanza 
No  voil  ie  metro  in  esperanza. 
Sa  ren  li  saze  sol  tenir, 
Qel  no-la  voi  pesca  qerir. 

(XXI)  De  rustico  et  alauda.  (Av.  21.) 

100      Dolent  cel  qi  no  pò  per  sei: 
Toat  li-ven  tard  l'altrui  conseil. 
Per  fin  qe  fu  rie  e-posent 


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3G 


P.  BAJNA 


[giornale  di  filologia 


Avole  conpagno  ben  cent. 
Sachez  bien,  si  cum  hom  dis, 
105  Qi  pert  Tavoir,  si  pert  li-amie. 
Nua  hom  sa  maison  doit  levar 
La  un-g'estoit  sempre  dubiter. 

(XXII)  De  puero  deci  piente  latronem, 

(Av.  25.) 

Sovenz  avent,  qi  voi  Taltrui, 
Qel  pert  lo  so,  com  feist  cestui, 
110  Che  a-perdn  son  vestiment, 
£  del  vasel  non  a-nient. 

(XXIII)  De  cornagia  sitiente,  que  inventi  ol- 

lam  cum  panca  aqua.  (Av.  27.) 

Qnialò  pot  ben  estre  coneuz, 
Miei  est  engieing  qa  vertuz. 

(XXIV)  De  rustico  et  porca.  (Av.  30.) 

Qi  de  mal  far  nos  voi  sofrir, 
115  Chil  de  raison  se  deit  pentir. 
Si  fera  il,  senz  dubitanza 
Non  pot  aver  longa  duranza. 

(XXV)  De  rustico  infangato,  qui  non  tu- 

vabat  se,  sed  deprecàbatur  deum, 
(Av.  32.) 

De-ze  aver  qe  e'-porai, 

Quant  e*-porai  me  penerai. 

120  Cascuns  se  deit  per  sei  pener, 

Qel  no  basta  pur  le  prier. 

(XXVI)  De  formica  et  cicada.  (Av.  34.) 

Mais  en  la  fin  dist  la-formiga: 
Gel  aza  Io-gran  q'a  la  fadiga. 
Fin  qel  hom  è  en-zoventuz 
125  Deit  ben  penser  qand  ert  canuz, 
Qel  no  porà  dono  lavorer; 
Sei  no  avrà,  li-astovreit  durer. 


130  Gii  qe  serf,  fé  qe  vos  dia, 
A  l'altrui  sen  senpre  se  guia. 

(XXVni)  De  lupo  et  cavredo.  (Av.  42.) 

Deli  dus  mal,  sachez  seignor, 
Devoms  alezer  lo-menor; 
Gel  qe  possum  miei  sostenir  ; 
135  E  li  maior  devom  fozir. 

(XXIX)  [De]  lupo  turbante  aqiMtn  agno. 

(Anon.  2.) 

Ensi  trova  li-malvas  capson 
Qant  volunt  ofendre  ali-bon. 
Mais  cel  q'a  lo-mond  en-posan^a, 
De  tei  sol  molt  ben  fer  svengan^a. 

(XXX)  [De  ca]ne  qui  amisit  formagium. 

(Anon.  5.) 

140      Gii  q'avia  senz  dubiter 

Ne  devoie  areseger. 

Le  cause  q'ai,  no-lasarìa, 

Por-ce  qe  falir  porla. 

Sovenz  cait  hom  en  grand  rancura 
145  Por  desirer  sover  mesura. 

(XXXI)  De  lupo  et  grua.  (Anon.  8.) 

Gelui  qi  serf  ali-felon 
No  pò  avir  nul  guiardon; 
E  li  malvas  no  sai  amer, 
Se  no  qant  hom  li  fai  mester. 

[XXXP'»  De  vulpe  et  corvo.  Anon.  15.] 

150      Quant  alcun  te  voi  loser, 
Tu  no  te  di  trop  exalter. 
Se  tu  le  creis  ce  qel  te  dis, 
Ben  tost  serais  da  lui  trais. 

(XXXII)  De  catuìo  et  asino  et  domino. 

(Anon.  17.) 


(XX VII)  De  cane  et  leone,  (Av.  37.) 

Meil  voìl  estre  magro  e-franc 
Qe  servo  et  ave  gras  li  flanc. 


Qi  voi  ander  contra  natura, 
155  No-li  sera  bona- ventura, 
Si  cum  cist  aisne  voleit  fer, 
Qe  fu  batuz  per  son  zuer. 


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SOMJLIIZA,  N.°  IJ 


ESTB.  DI  UNA  EACC.  DI  FAVOLE 


37 


(XXXIII)  De  mUuo  petente  veniam  in  mor- 

te. (Akom.  19.) 

Fin  c'om-po-fer  e-ben  e-mals, 
Deit  estre  hom  bon  e  lials. 

160  Qand  lo  hom  a-paor  de-morìr, 
Cascun  se  voi  donca  pentìr; 
E  9*el  per-zo  deit  aver  ben, 
Li-paradìs  sereit  trop  plen. 
Ben  tost  sereit  incignez 

165  Qi  se  pent  par  qant  est  malez. 

(XXXIV)  De  latrane  et  cane,  (Anon.  23.) 

S'alcuns  te  voi  del  so  doner, 
Per  qe  lo  fas,  sce  des  guarder; 
E  se  doner  voi  ad  altrui, 
Des  ben  saver  qe  et  a-cui. 

[XXXI V**-  De  capra  et  hoedulo.  Anon.  29.] 

170      Ensi  devreit  cascun  hom  fer: 
Crer  a-sa  mer  et  a-son  per. 
£  qi  noi  fa»  hom  lo  sol  dir, 
Qel  gen  sol  mult  mal  avenir. 

(XXXV)  De  calvo  et  musca.  (Anon.  32.) 

Sei  pitet  hom  ofend  al  grand 
175  Bien  qatre  veis,  on  vint,  on  cent, 
Se-li  grand  hom  li  voldrà  fer 
In-nna  veis  sen-a  venger. 

(XXXVI)  De  equo  et  asino.  (Anon.  43.) 

Qi  voi  menor  de  si  manger, 

De  raison  doit  si  ariver. 
180  Donc  devoies  tu  penser 

Qe  le  richezes  pont  paser; 

Paser  pot  Tor  et  Tarzent; 

Pois  toma  Torgoil  in  nient. 

Fìns  qel  hom  a  bona-ventura , 
185  Doit  il  aver  sen  et  mesura, 

Ne-li  caitius  doit  escernir; 

Ben  tost  gen-ave  mal  avenir. 

(XXXVII)  De  cervo  despiciente  tibias  lau- 


dando cornua.  (Anon.  47.) 

Se  cel  qe  nois  voi  amer 
E  qe  te  zova  a-blasmer, 
190  Sache  qe  tu  fai  grant  folia; 
Ben  saz  qe  mal  ten-averia. 

(XXXVIII)  De  Vìdpe  et  simia.  (Anon.  56.) 

La  simia  ie  dist,  q'oit  grant  ira: 
«  Gii  qe  plus  a,  e-plus  desidra.  > 
Le  povres  hom  seroit  manent 
195  De  zo  qel  rie  a-por-nient. 

(XXXEX)  De  venatore  et  leporario.  (A- 

NON.  27.) 

Or  voie  ben  qe  l'amor  no  dura 
Pois  qe  se  canze  la  ventura, 
Mais  cascnns  hom  fi  tant  amé, 
Cum  hom  ne  trait  utilité. 

(XL)  De  leone  et  equo.  (Anon.  42.) 

200      Si  deit  avenir  a  celui 
Qi  voi  senpre  inginer  altrui, 
Cum  fist  a-cil,  senz  dubiter; 
Un  sol  les  altres  a  svenger. 

(XLI)  De  milite  et  leone.  (Av.  24.) 

Se  tu  voi  definir  ten[so]n, 
205  D'ambas  les  part  vei  la-raìson. 

Sovenz  nois  li  penser  primer 

A  cil  qe  no  voi  repenser. 

Dunt  zie  ke-repensa  dritamen 

Devria-aver  hon  seguiment 
210  Et  hom  sol  dir:  Dolent  celui 

Qe  castia  si  et  altruL 

(XLII)  De  duóbus  hominibus  invidiosis. 
(Av.  22.) 

L'avar  reprend  qe  non  a-onra, 
Pur  qel  guaidan  en  qalqe  mesura; 
E  cel  q'è  trop  invidios. 
215  Mal  seit  de  lor  entrambes  dos. 


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38  P.  BAJNA  [giornale  di  filologia 

1.  Qi  de  8on-poder  es  ben,  per  ben  deul  hom  tenir  sena  plaifc. 

2.  Qi  ben  voi  comenzar  bons  fait,  si-li  deu  acabar  car  lo  pretz  li  remaigna. 

3.  Qil  seu  no  pod  cobrar,  mal  cobrera  Spaigna. 

4.  Foldaz  es  ab  fol  contendre. 

5.  Senz  per  nul  dotrìnador  senz  bon  cor  non  pod  meillerar. 

6.  A  la  cuìnda  pod  hom  probar  |  amis  de  boca  senz  amar. 

7.  Amar  senz  prò  non  es  fruit  qi-engras. 

8.  A  frane  amis  de  hom  ben  perdonar,  |  e-gensofrir  maltraig  por  gadaing  far. 

9.  Honestaz  es  e-cortesia  |  pensar  tal  ren  qe  bona  sia. 

10.  Pensar  deu  hom  qe  pensar  pens  |  don  posca  a  venir  qalqe  bens. 

11.  Trop  es  hom 


NOTE 


I.  lacere  significa  qui  semplicemente 
riposare,  dormire  in  senso  proprio. 

Av.,  V.  15  :  «  Haec  sibi  dieta  putet,  seque 
hac  sciat  arte  notari,  |  femineam  quisquis 
credidit  esse  fidem.  »  An.  Ast.,  UI.  1,  25: 
«  lamdudum  legi,  non  debet  f emina  cre- 
di, I  cum  soleat  laedi,  qui  male  credit 
ei.  »  liei,  ani,  :  «  Cui  lupus  :  Illusit  fallax 
me  femina,  inrans  |  viscera  visceribus  pa- 
scere nostra  suis.  |  Qui  falli  meruit,  exem- 
plo  discat  in  isto,  |  femineae  fidei  non  adhi- 
bere  fidem.  » 

II.  5-6.  Neck.  {copiose),  v.  3  :  «  Ambitus 
est  pestis  sibi  perniciosa;  ruinam  |  ista 
vexatus  peste  timere  potest.  ^  —  7-8.  Ast., 
I.  2,  10:  «  Et  cum  iam  caeli  poterant  vi- 
cina videri,  |  voce  petit  miti  debita  dona 
sibi.  I  Cum  dare  non  possit ,  dolet  ista , 
quod  altera  poscit;  |  nil  habet  ista  rei: 
creditor  instat  ei.  |  Haec  vacat,  haec  quae- 
rit,  cupit  haec,  hanc  sponsio  laedit;  |  si 
qua  forent,  claret,  quod  peritura  daret.  | 
Iam  lacrimans  orat,  quod  eam  tellure  re- 


ponat,  I  promittendo  fidem,  quod  daret  il- 
lud  idem.  |  Unguibus  insistit  volucris  ver- 
bisque  resistit,  1  et,  sermone  ream,  stringit 
et  artat  eam.  »  V.  pag.  23.  —  9-10  :  Nkck. 
(compend.)  v.  9  :  «  Hunc  metuat  quisquis 
suspirat  ad  ardua  finem.  » 

5.  sóver,  sopra.  Cfr.  v.  145. 

7.  se,  credo  stia  qui  per  il  pron.  rifl. 
di  1*  pers.  plur.  Bonvesin:  se  vòssetn,  se 
possamo  asconder.  Tuttavia  potrebbe  an- 
che equivalere  ti  ce,  e  doversi  collegare 
con  senz, 

9.  Ms.  qel  om.  —  de,  deve. 

10,  nog  =  no  gè,  non  ci.  —  Ms.  pò  li.  Ma 
ò  certamente  il  congiuntivo  ài  potere,  ri- 
spondente airind.  poi,  pale. 

III.  Av.,  V.  11  :  «  Nam  stultum  nimis  est, 
quom  tu  pravissima  temptes,  |  alterius 
censor  ut  vitiosa  notes.  » 

IV.  AsT.,  I.  3,  45:  «  Praemittendo  mi- 
nas  aptat  sibi  quisque  ruinas,  |  cumque  mi- 
nando velit  vincere,  victus  erit.  »  Av.,  v.  15  : 
«  Tunc  Victor  docuit  praesentia  uumina 


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SOMANZA,  K."*  1] 


ESTR.  DI  UNA  BACO.  DI  FAVOLE 


39 


Titan,  I  nnllum  praemìssis  vincere  posse 
minia.  > 

15.  Il  periodo  è  acefalo,  e,  caso  unico, 
abbiamo  un  sol  verso  di  una  coppia. 

16.  Saza,  sappia. 

20-21.  Questi  due  versi  parrebbero  da 
trasporre  in  coda  al  n.*»  II.  Si  cfr.  infatti 
Nkck.,  De  aquila  et  testudine  (copiose),  v.  1  : 
«  Ausus  illicitos  punit  gravis  exitus  ;  alti  | 
ascensus  ingens  esse  mina  solet.  »  Tutta- 
via si  veda  ciò  che  si  riporta  qui  sotto  dal- 
l'AsT.,  ai  V.  26-31.  —  22-23.  Ast.,  I.  5,  15: 
«  Metra  ferunt  vatum,  nihil  est  ad  cuncta 
beatum.  |  Dum  salit  atque  furit,  fraus  ada- 
perta  fnii  >  (?)  —  24-25.  Av. ,  v.  18  :  «  Ast 
mihi,  qui  condara,  semper  asellus  eris.  » 
AsT.,  V.  33:  « ...  mihi  sis  quod,  ascile,  fuisti  ;  | 
parcere  disce  feris  ;  noster  asellus  eris.  >  | 
26-31.  AsT.,  V.  35:  «  Vivere  sub  meta  lex 
praecipit  atque  propheta ,  |  transiliensque 
modum  destruit  omne  bonum.  |  Per  pro- 
prias  laades  iungi  caelestibus  audes  ;  |  qui 
capit  alterius,  decidit  inferius.  >  Av.,  v.  1: 
«  Metiri  se  quemque  decet  propriisque  iu- 
varì  I  Laudibus,  alterius  nec  bona  ferre 
sibi.  > 

20.  Da  collegare  quant . . .  plus, 

21.  ài  peiSt  ha  il  peggio. 

22.  cree,  credo.  Cfr.  v.  89.  Oi'ezo  è  no- 
toriamente forma  frequentissima  negli  an- 
tichi dialetti  dell'Alta  Italia.  Inutile  quindi 
ricorrere  a  riscontri  provenzali.  —  Invece 
di  segU  pare  si  fosse  scritto  prima  sengle. 

23.  In  qien  si  potrebbe  sospettare  una 
forma  di  relativo  personale,  da  mettere 
coir  omofono  spagnuolo.  Cfr.  il  prov.  quinh, 
r  umbro  quegne  (Biv,  di  fil.  rom,,  II,  54), 
questi  in  uso  di  aggettivi.  Ma  il  verso  ver- 
rebbe a  mancare  di  una  sillaba,  che  biso- 
gnerebbe ridargli. 

24.  Nel  V.  156,  aisne. 

26.  Cre2,  qui ,  <  credi  ».  —  Ms.  qd  aeri, 
0  ciert,  cioè,  si  ert? 

27.  Qe  ensiSj  che  tu  esca. 

31.  Volendo  ripristinare  la  rima,  una 
mano  posteriore,  al  di  sopra  delle  parole 
no  agues  de  sei,  scrisse,  fare  élnu  porla. 

VL  Ast.,  I,  6,  4:  «Qui  sibi  non  pro- 
dest,  nil  sapit  atque  potest.  »  Ib.,  v.  17: 
«  Creditis  hanc  aegram  vobis  conferre  me- 


dellam  ?»  |  ....  |  «  Turgida  cum  pallet,  se 
sanam  reddere  mallet.  »  Av.,  v.  11  :  <  Haec 
dabit  aegrotis,  inquit,  medicamina  mem- 
bris,  I  pallida  caeruleus  cui  notat  ora  co- 
lor? » 

VII.  36-37.  Ast.,  II.  6,  31  :  <  Aera,  qui- 
bu3  plaudis,  sunt  designatio  fraudis;  |  si- 
gnant  mota  dolos  ;  est  noia  nullus  honos.  » 
Av.,  V.  17:  «  Non  hoc  virtutis  decus  osten- 
tatur  in  aere  ;  i  nequitiae  testem  sed  geris 
inde  sonum.  » 

35.  mor,  morde.  E  sark  probabilmente 
da  scrivere  mord. 

38-39.  mei,  fel:  il  genere  femminile  pre- 
vale per  questi  sostantivi  nei  dialetti  del- 
l' Italia  settentrionale. 

41.  Ms.  cha  ues. 

Vili.  camullOf  cammello.  —  Av.,  v.  1  : 
«  Contentum  propriis  sapientem  vivere  re- 
bus, I  nec  cupere  alterius,  nostra  fabella 
monet,  |  indignata  cito  ne  flet  Fortuna  re- 
cursu,  I  atque  eadem  minuat  quae  dedit 
ante  rota  ».  Ast.,  IL  7,  19:  «  Contentum 
rebus  propriis  foro  quemque  docemus,  | 
nam  cito  fors  demit  quod  prius  ipsa  dedit.  » 

IX.  V.  pag.23.  Cfr.  Av.,  v.  23:  «  Ne  fa- 
cile alterius  repetas  consortia  dixit,  |  rur- 
8U8  ab  insana  ne  capiare  fera.  » 

46.  descend,  se  non  erro,  deve-se-ne,  o 
ddlba-se-ne.  Ma  Tamanuense,  non  intenden- 
do, a^rk  forse  scritto  inesattamente.  E  in- 
vece ài  àttf  l'esemplare,  secondo  me,  ave- 
va dar. 

49.  se  doit,  da  correggere  forse  in  te 
doÌ8  ?  0  avremmo  mai  qui  il  se  come  ri- 
flessivo di  1*  p.  sing.  ?  (V.  al  v.  7,  e  cfr. 
MussAFiA,  Altmail.  Mund.,  20.)  0  forse 
al  des  del  verso  antecedente  va  sostituito 
deit?  Oppure  se  doit  =  om  doit? 

X.  Per  il  titolo,  v.  Av. ,  v.  1  :  «  Calvus 
eques  capiti  80  litusreligarecapillos  |  atque 
alias  nudo  vertice  ferre  comas ,  »  etc.  — 
54-55.  Ast.,  II.  9,  3:  «  Perdita  naturae  si 
possent  reddere  curae ,  |  arida  quae  florent, 
mortua  viva  forent.  |  Sed,  nec  sicca  virent, 
nec  rursus  mortua  vivent;  |  calve,  quid 
ergo  petis,  quod  reparare  nequis?  |  Nemo 
valet  cura  naturae  solvere  iura,  |  nec,  quos 
privavit,  rursus  habere  dabit.  |  Nec  tristis 
laetus  fuerit,  nec  risio  fletus,  |  nec  caecata 


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40 


P.  RAJNA 


[giornale  di  filologia 


vident,  nec  male  sana  vigent.  |  Fronte  nc- 
qui t  calva  pilus,  ant  procedere  palma,  | 
nec,  quae  semper  obest,  causa  iuvare  po- 
test.  »  —  55-58:  Av.,  v.  16:  «  Se  risu  quicnm- 
que  novo  sciat  esse  retentum ,  |  arte  magis 
studeat  quam  prohibere  minis.  » 

54.  Ms.  En  si;  e  la  parola  h  pur  scritta 
divisamente  nei  v.  136  e  170. 

55.  fi,  ò.  V.  pag.  31. 

XI,  58-59.  AsT.,  m.  2,  35:  «  Subdar 
enim  damnis,  si  me  tibi  conferat  amnis;  | 
vis  tua  me  laedet,  te  mihi  si  ve  feret.  > 
Av.,  V.  13:  «  Nam  me  si  ve  tibi,  seu  te  mihi 
conferat  nuda,  |  semper  ero  ambobus  sub- 
ruta sola  modis.  >  —60-63.  Av.,  v.  15  :  «  Pau- 
perior  caveat  sese  sociare  potenti,  |  nara- 
que  fides  illist  cum  parili  melior.  » 

60.  'stoit,  0  piuttosto  estoit,  giacché  Teli- 
sione  dovrebbe  eleminare  di  preferenza  la 
vocale  d'uscita  di  povre,  ò  il  fr.  estuet, 
esioely  eatoty  precisamente  come  nel  Maca- 
rio, V.  741  (MussAFiA,  AUfr,  Ged.,  II).  La 
stessa  voce  anche  presso  Fra  Bonvesin,  nella 
forma  estove, 

63.  patizon,  può  essere  una  creazione 
deir  autore.  Ma  molto  più  probabilmente 
si  sarà  omesso  un  segno  sopra  Va,  e  do- 
vrà leggersi  partizon,  vale  a  dire  la  voce  che 
nei  testi  corretti  suona  pardon  o  parzon. 

XII.  64-67.  V.  AsT.,  II.  13,  27:  «  At 
mihi  nil  praebes,  cui  te,  miser,  et  tua  de- 
bes,  I  quae  favi  votis,  ditibus  acta  rotis.  | 
Si,  volvente  rota,  fuero  quandoque  remo- 
ta, I  pauper,  ut  esse  soles,  multa  dedisse 
voles.  »  --  68-69.  V.  Av.,  v.  3  :  «  Mox  indi- 
gna, animo  properante,  reliquit  aratra,  | 
semina  conpellens  ad  meliora  boves.  »  — 
70-71.  Av.,  V.  15  :  «  Nam  nimis  accepto  pec- 
cat  grave  quisque  talento,  |  si,  quod  ab 
hoc  sumpsit,  inputat  hoc  alii.  » 

70.  Ms.  uor  (o  noi?  Ma  cfr.  v.  145) 
aguiardon.  Tra  le  correzioni,  neir incer- 
tezza, ho  preferita  la  più  lieve.  Divisioni 
erronee  abbiamo  anche  altrove  (  v.  140  ). 
Vorà  sarebbe  qui  la  2*  pers.    Cfr.  v.  189. 

XIV.  Il  rege  si  giustifica  con  Aviano 
(v.  3,  certatim  ad  rcgem).  —  76-80.  V.  Av., 
10:  «  Ipsura  etiam  in  risum  conpulit  ire 
lovem.  »  V.  15  :  «  Nolo  velis  rerum  quìc- 
quam  laudare  tuarum,  |  Ni  siet  alterius 


ore  probata  prius.  ]  Sic  mos  est  fatui ,  quod 
quicquid  fecerit  ipse,  |  vile  licet  fuerit, 
conprobat  ipse  tamen.  >  Cfr.  la  parafrasi 
in  prosa  (Fròhn.,  Op.  cit.,  72):  «....Si- 
mia  natos  suos  coram  cunctis  afferens,  lau- 
dem  et  victoriam  suis  exhibendam  feti  bus 
praedicabat,  ita  ut  ipsum  lovem,  et  totam 
deorum  curiam  provocaret  ad  risum.  » 

XV.  AsT.,  I.  12,  5:  «  Ingenii  normae 
subsistit  gloria  formae;  |  forma  cadit  geni i, 
vis  manet  ingenii.  > 

XVI.  84-85.  AsT.,  L  15,  33:  «  Nolens 
ergo  mori  magnis  obsistere  noli,  |  qui,  nisi 
tu  cedis,  sunt  tibi  causa  necis.  »  Av.,  v.  19  : 
<  Haec  nos  dieta  monent  magnis  obsistere 
frustra.  » 

XVII.  V.  pag.  24. 

XVin.  Av.,  V.  17:  «...Neve  cito  admo- 
tas  verbis  fallacibus  aures  |  inpleat,  ut  ve- 
terem  deserat  inde  fidem.  > 

XIX.  AsT.,  I.  8,  27:  «  Te,  quia  laude 
nites,  faciunt  subcidere  dites,  |  plantula 
sed  dumi  tuta  manebit  humi.  » 

95.  Qa,  costante  nei  monumenti  del- 
l'Alta Italia  per  il  che  (quam)  compara- 
rativo.  V.  anche  v.  113. 

XX.  Av.,  V.  19  :  «  Incerta  prò  spe  non  ran- 
nera certa  relinque,  |  ne  rursus  quaera?? 
forte,  nec  invenias.  »  Ast.,  IH.  7,  25: 
«  Mixtus  erit  stultis ,  si  metris  credere  vul- 
tis,  I  qui  pedibus  quaeret  quod  sua  dextra 
tenet.  » 

XXI.  Ms.  et  aquila.  L'uccello  è  un'a- 
lauda  anche  nella  parafrasi  in  prosa.  Certo 
è  pervenuta  là  dentro  da  un  titolo  antico, 
dacché  la  troviamo  di  già  nelV originale 
greco:  xoovtóo;  (Babkio,  f.  88).  Quanto 
al  resto  v.  pag.  25. 

100.  Ms.  peri  sen. 

107.  Colà  dove  gli  conviene.  V.  al  v.  60. 

XXII.  Av.,  V.  15:  «  Perdita,  quisquis  erit, 
post  haec  bona  pallia  credat,  |  qui  putat 
in  liquidi»  quod  natet  urna  vadis.  |  Nemo 
nimis  cupide  male  res  desideret  uUas,  |  ne, 
dum  plus  cupiat,  perdat  et  hoc  quod  habet.  » 

XXm.  Ast.,  IL  10,  15:  <  Hac  poterit 
dare  quivis  ratione  notare,  |  quod  tollit 
pretium  viribus  ingeniura.  >  Av.,  v.  9  :  «  Vi- 
ribus  haec  docuit  quam  sit  prudeutia 
maior.  » 


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ROMANZA,  N.^  1] 


ESTR  DI  UNA  BACC.  DI  FAVOLE 


41 


112.  Quiaìò,  qui;  forse  quelita  d&xmad 
(eccu'  hie  età  locum)  ? 

XXIV.  Av.,  V.  17:  «  Haec  illos  descripta 
moneot ,  qui ,  saepius  ausi ,  |  nnnquam  a 
peocatÌ8  abstinuere  manus.  » 

XXV.  AsT.,  IL  2,  19:  «  Numina  sic 
oret,  quod  homo  rogitando  laboret.  » 

125.  Ma.  Md. 

XXVI.  122-23.  AsT.,  H.  12,  25:  «  Quae 
me  grana  petis,  respondit,  amica  quietis,  | 
pectoris  ignavi,  parta  labore  gravi.  »  — 
124-27.  Av.,  V.  1  :  «  Quisquis  torpentem  pas- 
sust  transisse  iuventam,  |  nec  timuit  vitae 
providus  ante  mala,  |  oonfectus  senio,  post- 
quam  gravis  adfuit  aetas,  |  heu  frustra  al- 
terius  saepe  rogabit  opem.  » 

126.  Donc,  allora. 

127.  U  astovreit  durer,  gli  converrebbe 
(o  converrà  ?)  stentare.  In  astovreit  Ve  pro- 
tonico si  è  mutato  in  a,  cerne  in  àlexer, 
V.  133. 

XXVin.  AsT.,  IIL  8,  21  :  «  Si  cui  dam- 
pnorum  supereat  fortuna  duorum,  |  vitet 
deterius,  sustineat  levius.  > 

XXIX.  136-137.  Anon.:  «  Sic  nocet  inno- 
cuo nocuus,  causamque  nocendi  |  invenit...» 

136.  Ms.  En  si.  —  Capson  par  condurci 
a  eapHoj'Onis.  Non  credo  per  altro  che 
l'autore  intendesse  proprio  di  usare  questo 
vocabolo,  bensì  che,  pensando  a  cagione, 
attribuisse  alla  parola  una  falsa  etimologia. 
n  testo  latino  ha  causam, 

139.  svenganga  :  abbiamo  qui  un  s  pros- 
tetico,  ben  comune  nei  dialetti  dell'Alta 
Italia.  V.  Archivio  Glottologico,  I,  415, 
419,  430-431.  E  svengianza  è  anche  di 
Fra  Bonvesin. 

XXX  Aw.:  «  Non  igitur  debent  prò 
vanis  certa  relinquL  |  Non  sua  si  quis  amat, 
mox  caret  ipse  suis.  »  Coi  v.  142-43,  cfr. 
Marie  dr  Fr.,  f.  5:  «  Qi  plus  coveite  que  sun 
dreit,  I  par  li  meismes  se  d69eit.  » 

140.  Ms.  qa  tUa. 

145.  Ms.  Poi,  —  sóver  mesura  :  V.  v.  5. 

XXXI  Am.  :  «  Nil  prodest  prodesse  ma- 
lia: mena  prava  malorum  |  immemor  ac- 
cepti  non  timet  esse  boni.  » 

XXXI.*"  V.  pag.  16.  An.:  «  Fellitum 
patitur  rìsum,  quem  mellit  inanis  |  gloria  ; 


vera  parit  taedia  falaus  honor.  » 

151.  di,  devi. 

XXXII.  An.  :  «  Quod  natura  negat,  nemo 
feliciter  audet  ;  |  displicet  imprudens  unde 
piacere  putat.  » 

XXXm.  158-61.  V.  An.:  «... Dum  sacra 
turbares,  poena  timenda  fuit.  |  Te  cogit 
timor  esse  pium ,  te  poena  fidelem  :  |  hic 
timor,  haec  pietas  cum  nece  sera  venit.  » 

161.  donca  :  anche  qui  il  valore  tempo- 
rale si  scorge  assai  bene. 

163  e  164.  Ms.  se  reit, 

XXXIV.  An.:  «  Si  tibi  quid  datur,  cur 
detur  respice  ;  si  des,  |  cui  des  ipse  nota.  » 

167.  sce  =  ce, 
XXXIV. ^"  V.  pag.  16.  An:  «  Insita  na- 
torum  cordi  doctrina  parentum  |  cum  pa- 
riat  fructum ,  spreta  nocere  solet.  » 

170.  Ms.  En  si. 

172.  Ms.  nói  noi 

XXXV.  V.  An.:  «  Sospes  ero  deciea 
ictus;  semel  iota  peribis.  » 

175.  on,  o;  anche  presso  Bonvesin. 

XXXVI.  An.  :  «  Vindicat  elatos  insta 
ruina  gradua.  |  Stare  din,  noe  honor,  nec 
forma ,  nec  aetas  |  sufficit  in  mundo. . . .  | 
Vive  diu,  sed  vive  miser.sociosque  minores  | 
disco  pati. ...  I  Pinnatis  non  crede  bonis  ; 
te  nulla  potestas  |  in  miseros  armet;  nam 
miser  esse  potes.  > 

XXXVU.  An.  :  «  Spemere  quod  prosit, 
et  amare  quod  obsit,  ineptum  est.  |  Quod 
fugimus  prodest,  et  quod  amamus  obest.  » 

188.  Ms.  qe  no  uoi.  Cfr.  il  latino. 

189.  a  ò  qui  da  prendere  come  2*  pers. 
Cfr.  V.  70. 

XXX Vm.  194-95.  An.  :  «  Id  nimium  ni- 
mioque  magis  ditaret  egenum,  |  quod  ni- 
mium minimo  credis^  avare,  minus.  » 

192.  ie ,  gli ,  le.  —  Ms.  goit. 

XXXIX.  An.  :  «  Nullus  amor  durat,  nisi 
fructus  servet  amorem.  |  Quilibet  est  tanti, 
munera  quanta  facìt.  » 

203.  Cod.  Svengez.  Per  la  prostesi,  v.  al 
V.  139. 

XLI.  204-5.  Av.  V.  19:  «  Nec  pictae  ta- 
bulae ,  nec  testi  credito  per  se  ;  |  nam  pel- 
lectus  eris ,  si  male  credideris.  »  Nasce  un 
certo  qual  dubbio  che  i  v.  206-11  possano 

3* 


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42 


ESTR  DI  UNA  BACC,  DI  FA  VOLE  [qiohnalb  di  pilolooia 


appartenere  ad  un'  altra  favola.  Si  adat- 
terebbero a  quella  del  cavallo  e  dell*  uomo, 
che  abbiamo  in  Fedro,  IV,  4;  Bomólo,  IV,  9. 
Tuttavia,  considerata  la  costituzione  del 


che  un  cantuccio  a  siffatto  sospetto.  Si  noti, 
altresì  che  i  v.  208-9  sono  scritti  d'altra 
mano. 

207.  Il  no,  sebbene  svanito  nella  lettera 


nostro  testo  e  la  provenienza  dell*  ultimo    del  ms.,  si  restituisce  facilmente  per  con- 
numero, sarà  conveniente  non  lasciar  più    gettura. 


1.  Ms.  dd, 

2.  Ms.  lasprera, 

3.  Manca  nel  ms.  la  maiuscola  iniziale. 
6.  cuinda,  par  significhi  prova,  od  anche 

fatto.   Ma  circa  T  etimologia  resto  incerto. 


Forse  il  vocabolo  va  ravvicinato  all'ant 
Bp,cuntir,  acuntir,  accadere?— In  vece  di 
próbar,  il  cod.  par  dica  prohar, 

8.  Ms.  fra. 

10.  Ms.  de. 

P.  Rajka 


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BOMAHZA,  H.M]  N,   CAIX  43 

SUL  PRONOME  ITALIANO 


CI,  VI,   NE. 


Il  Diez  scrive:  «  (7i  e  vi  sono  propriamente  avverbi  di  luogo  col 
senso  di  «  qui  »  e  «  là  »  ;  i  rapporti  tra  il  pronome  e  questa  parte  del 
discorso  sono  abbastanza  noti  in  altre  lingue.  Il  ne  usato  accanto  al 
ci  non  pare  tuttavia  aver  niente  di  comune  colla  particella  ne  (lat.  inde): 
le  frasi  da  inde,  ama  inde  (it.  danne  «  dacci  >,  amane  «  amaci  »)  non 
esprìmono  necessariamente  una  tendenza  verso  chi  parla.  Sembra  piut- 
tosto abbreviato  da  nohis  o  nos;  in  luogo  del  primo  dicevasi  nel  latino 
arcaico,  secondo  Festo,  nis.  » 

Che  ci  sìa  l'avverbio  di  luogo  indicante  vicinanza  alla  persona  che 
parla  {eco*  Me) ^  non  vi  ha  dubbio;  ma  si  potrà  dire  altrettanto  del  vi, 
e  considerar  questo  come  il  correlativo  del  ci?  Anzitutto  notiamo  che 
l'aw.  vi  {=ibi)  non  esprime  relazione  di  luogo  colla  persona  acni  si 
parla,  ma  colla  cosa  di  cui  si  parla;  onde  il  dire  così  in  genere:  egli  vi 
(ibi)  pose  un  segno,  non  avrebbe  potuto  esprimere  «  egli  pose  un  segno 
a  voi  »  ma  «  a  quella  cosa  o  in  quel  luogo  di  cui  si  parla.  »  Oltre  a 
ciò  la  storia  di  questi  pronomi  mostra  che  il  vero  correlativo  del  vi 
(=:vohis,  vos)  non  era  in  origine  il  d,  ma  il  ne  {=nohi^,  nos).  Ac- 
canto a  vi  disse,  vi  amò,  chiamavi  si  usava  ne  disse,  ne  amòj  chiamane^ 
forme  ora  antiquate  e  scomparse  presto  dall'uso  vivo  per  la  ragione  che 
diremo.  E  quello  che  più  importa  di  notare  e  che  toglie  ogni  dubbio 
sulla  correlazione  così  stabilita  tra  il  ne  e  il  vi  anziché  tra  il  ci  e  il  tn, 
è  l'esame  delle  forme  più  antiche  di  questi  pronomi.  Le  più  antiche 
scritture  danno,  in  luogo  del  ci  e  del  vi  (o  accanto  a  questi),  no'  noi 
e  vo'  voi.  Nelle  Lettere  volgari  del  secolo  XIII  (Bologna  1871)  queste 
forme  sono  ancora  in  pieno  uso:  inperò  vo'  mando  pregando^  3;  se  voi 
piace  j  ib.;  se  voi  piacerà  j  4;  e  sapiate  che  vo'  mandamo  cinque  chava- 
lieri,  12  ecc.,  ma  anche  vi  recha,  3;  vi  deono  servire,  5;  el  detto  Boni- 
cho  VI  rispose^  18  ecc.  Per  il  pronome  di  prima  pers.  abbiamo  invece 
ordinariamente  ne.  Ma  in  Guittone  no'  noi  per  ne  è  continuo  :  noi  piace  ; 
HOi  fue  dato;  è  noi  caro  ;  tdel  noi,  accanto  a  vo  vede;  vo  faccia;  piaccia  vo  ecc. 
In  molte  altre  scritture  antiche,  come  mostreremo  altrove,  occorrono 
come  correlativi  no'  e  vo'  in  luogo  dei  moderni  ci  e  vi.  Ciò  posto,  il 
il  passaggio  di  no'  e  vo'  in  ne  e  ve  («?i),  poi  la  separazione  del  ne  dal 


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44  N.  CAIX  [aioBNALK  di  filologia 

ve  (vi)  e  la  sostituzione  del  ci  non  è  difficile  a  spiegare.  Nei  dialetti 
che,  come  l'aretino  e  gli  umbro-romani,  mantenevano  Ve  latino  atono, 
si  aveva  pel  singolare  la  serie  pronominale  enclitica  e  proclitica  me,  te,  se, 
che  dove  facilmente  trarre  seco  il  ne  e  il  ve  per  no'  e  vo'  nel  plurale. 
Come  si  diceva  me  diede  e  diedeme,  te  disse  e  dissete,  si  cominciò  a  dire 
ne  diede  e  diedene,  ve  disse  e  disseve^  in  luogo  di  no  diede  e  diede  noi, 
vo  disse  e  dissevo  come  ancora  scriveva  Guittone.  L'analogia  ha  gran 
parte  nella  determinazione  di  intere  categorie  di  voci,  e  sopratutto  nelle 
serie  pronominali,  come  si  vedrà  più  sotto  per  altri  esempi.  Anche  il 
Diez  notò  come  V  ant.  sio  e  tiOj  che  sono  propriamente  forme  meridio-^ 
nali,  siano  foggiate  suU'  analogia  di  mio.  Ma  nel  toscano  centrale  che 
colla  sua  preferenza  per  i  atono,  aveva  creato  le  serie  enclitica  e  pro- 
clitica mi,  ti,  si^  si  sarebbe  dovuto  avere  al  plurale  ni  e  vi.  E  que- 
st'ultima forma  abbiamo  già  veduto  nelle  Lettere  volgari  adoperata  in- 
sieme colla  più  antica  {vo').  Ma  il  ne  non  pare  abbia  mai  subito,  o 
solo  sporadicamente,  quest'ultima  evoluzione.  E  la  ragione  sta  nell' es- 
sersi fin  da  principio  confuso  coli' altro  ne  (==incfe)  che  finì  poi  per 
prevalere  al  ne  pronome.  La  confusione  fonetica  delle  due  particelle, 
favorita  in  alcuni  casi  da  una  certa  somiglianza  negli  usi,  staccò  il  ne 
dalla  serie  pronominale,  e  lo  ridusse  a  vivere  a  sé  sempre  più  stentata- 
mente, finché  sì  per  il  suono  che  discordava  dalla  rimanente  serie  pro- 
nominale, sì  pel  significato  che  pareva,  per  la  confusione  col  ne  da  twde, 
sempre  più  incerto  e  indeterminato,  esso  fu  sostituito  nelF  uso  popolare 
dal  ci  il  cui  significato  era  più  preciso,  e  questo  divenne  nell'uso  co- 
mune il  correlativo  del  vi.  Nel  sec.  XIII  il  ne  per  no'  è  ancora  popola- 
rissimo; in  seguito  divenne  sempre  più  raro  e  si  lidusse  al  solo  uso  let- 
terario, principalmente  poetico. 


LE. 

La  sorte  contraria  è  invece  toccata  al  pron.  le  (=lei).  Anche  l'ori- 
gine storica  di  questa  forma  va  chiarita.  Il  Diez  :  <  Il  dat.  iUi  ha  dato 
it.  gli,  li,  prov.  ant.  fr.  li,  vai.  i;  il  femm.  illae,  per  iUi,  it.  sp.  port.  le.  » 
Ma  poi  parlando  del  pron.  spagn.  scrive  :  «  I  dativi  le  e  les  erano,  sotto 
l'antica  loro  forma  li  e  lis,  più  vicini  al  lat.  {Ili,  iUis:  dandoli,  pe- 
dirli  ecc.  »  Questa  seconda  osservazione  viene  a  mettere  in  serio  dubbio, 
se  non  c'inganniamo,  almeno  per  lo  spagnuolo  la  supposta  base  lat.  Ulae 
per  il  dat.  femm.  le.  Ora  è  bene  avvertire,  se  non  per  la  questione  eti- 
mologica, almeno  per  la  questione  storica,  che  anche  l'it.  le  non  si  ri- 
connette direttamente  con  un  lat.  ìIUlc,  ma  che  non  è  altro  che  una 
forma  indebolita  di  lei.  Lo  stesso  Diez  osserva  che  «  lui  e  leij  nella 
loro  qualità  di  dativi  antichi,  fanno  qualche  volta  senza  della  preposi- 


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BOMANZA,  N.«  1]  8UL  TEONOME  ITALIANO  45 

zione  a;  per  es.:  risposi  lui;  Dante,  Jw/l,  I,  81  ecc.  >  H  Diez  non  dà 
esempi  di  lei,  ma  Y  uso  stesso  per  questo  secondo  pronome  non  era  che 
una  naturale  conseguenza  di  quello  del  primo.  Come  si  diceva  lui,  noi^ 
voi  piace  per  a  lui,  a  noi  ecc.  così  si  disse  lei  piace  o  piace  lei  per  a  lei. 
Gli  esempi  sicuri  nei  più  antichi  mss.  sono  molti  ;  ma  qui  voglio  limi- 
tarmi a  qualcuno  tratto  da  una  fonte  accessibile  a  tutti,  dal  Canzoniere 
Vaticano,  ediz.  Comparetti  e  D'Ancona.  Qui  leggiamo  : 

Com'io  comfforti  l'amore  ch'i'  lri  porto.  XXXVIII,  38. 
Però  LSI  piaccia  di  me  rallegare.  XuVill,  23. 
Fiace  LEI  che  di  stare.  XXXI ,  37. 

Ma  come  nei  più  antichi  mss.  troviamo  nò'  e  vó*  per  noi  e  voi  enclit.  e 
proclit.  {vó*  manda,  piacciavo),  così  nei  mss.  toscani  occorre  ben  presto 
le  (che  perciò  sarebbe  le')  per  lei.  Nello  stésso  Canz.  Vatic.  questa 
forma  occorre  accanto  alla  prima  : 

Poi  Lv  piacie  c'avanzi  suo  valore.  XXIX ,  1; 

ed  anzi  in  due  versi  consecutivi: 

Le  piacerà  mandare 

Piacie  LEI  che  di  stare XXXI,  36-37. 

Pare  inoltre  che  questo  costrutto  non  fosse  popolare,  ma  piuttosto 
dell'uso  poetico  e  da  questo  solo  più  tardi  passato  nel  linguaggio  ari- 
stocratico e  della  galanteria.  Il  popolo  non  conobbe  e  non  conosce  an- 
che oggi  altro  dativo  che  gli  (K)c=»tTO  per  ambedue  i  generi,  e  gli  per 
le  troviamo  spesso  negli  scrittori  fiorentini  e  nello  stesso  Dante  (Blanc, 
Ital,  Oramm,  263).  Tantoché  il  le  non  abbastanza  confermato  dalle 
scritture  e  ignoto  all'uso  popolare,  non  fu  accolto  senza  contrasto  dai 
grammatici,  e  oggi  ancora  non  è  che  dell'uso  scelto  e  suona  pei  Toscani 
come  qualche  cosa  di  ricercato  o  di  non  naturale.  Quanto  siamo  dunque 
lontani  dal  poter  vedere  nel  le  il  rappresentante  diretto  e  popolare  di 
un  lat.  Ulae!  Se  questo  poi  si  racchiuda  veramente  nel  più  completo 
lei  non  ardisco  qui  neppure  di  discutere.  Ma  è  certo  che  l'argomento 
che  in  appoggio  del  supposto  Ulae  si  volesse  trarre  dall'  esistenza  di  un  le^ 
creduto  antico  e  popolare  e  con  valore  essenzialmente  di  dativo,  si  risol- 
verebbe in  una  mera  illusione.  Ho  detto  che  la  storia  del  Ze  è  il  rovescio 
di  quella  del  ne.  Questo  infatti  di  popolare  che  era,  cadde  poco  a  poco 
d'uso  e  non  fu  più  adoperato  che  per  imitazione  letteraria  nelle  scritture 
di  stile  elevato  o  poetico;  mentre  il  le  adoperato  prima  nello  stile  ele- 
vato e  nel  linguaggio  della  galanteria  divenne,  come  opportuno  mezzo 
di  distinzione  dei  due  generi,  d'uso  sempre  più  generale,  se  non  del 
tutto  popolare. 


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46  N.  CAIX  [giornale  di  filologia 


CAVELLE,   COVELLE. 

Il  Diez  non  parla  di  covèUe  airarticolo  della  Formazione  pronominale, 
ma  nell'^.  TT.  II  a,  lo  ravvicina  al  m.  a.  t.  Kaf  =  pula,  mondiglia.  Ma 
già  da  parecchi  in  Italia  era  stata  proposta  la  derivazione  do  quid  o 
quod  +  velles^  ricordata  anche  dal  Mnssafia  a  proposito  del  romagn.  gud 
(Romagn.  Mund,  §  200),  e  confortata  dallo  Storm  col  raffronto  del  clas- 
sico quidviSf  del  catal.  quisvuUa  ecc.  (Romania  II,  328).  Noi  aggiun- 
gemmo poi  altre  voci  similmente  composte  {Studj  etim.  I)  e  partico- 
larmente Vovelle  che  Dante  attribuisce  agli  Aretini,  che  proponemmo 
derivare  da  tibi  velles.  Questa  derivazione  trovammo  poi  pienamente  con- 
fermata colla  pubblicazione  del  Ritmo  Cassinese  (Riv.  di  fH,  rom.  II,  91  s.) 
ove  occorre  l'intera  forma  óbebeUi,  La  formazione  pertanto  di  pronomi 
con  velles  o  velis^  corrispondente  a  quelle  con  si  voglia^  alle  valacche  con 
va  da  mdt^  alle  catalane  con  vtMa  ecc.  è  pienamente  confermata.  Resta 
ora  a  dare  intera  la  serie  pronominale  così  formata: 

quem  ■\- véUes  : 
chiuvegli  voce  aretina  registrata  anche  dal  Redi;   con  cui  chian. 
chiuve^.    Sta  per  *chiveUi,  donde  chi^v,  chiuv, 

chivel  negli  Uffizj  dramm.  délV  Umbr.j  ed.  Monaci,  VI,  95. 

ehivètli  nelVHisL  rom.  533. 

chivelle  neWHist  aquil.  538. 

chiegli  nel  dial.  di  Rieti  (v.  nella  Gioventù,^  apr.  1866). 

Queste  voci  significano  propriamente  <  chi  si  voglia,  chiunque  > 
poi  anche  «  nessuno  »  (cfr.  fr.  personne).  In  Jacopone  con  nuova  com- 
posizione 

omnechivegli  e  chiunque  »  Land.  LIV. 

guod  +  véUes: 
coveUe  caveUe  =  «  qualche  cosa  »  poi  <  nulla  ». 
cóbeUe  uAVHist  rom.  477. 
cubiéUo  nel  dial.  sannit.  (Giov,  ib.). 
cvel^  quel  in  tutta  l'Emilia. 

ubi  +  velles  : 

ovéUe  voce  aretina,  secondo  Dante.  Significa  <  ove  tu  voglia  »  poi  e  in 
niun  luogo  »  (fr.  qudque  part).  VuoUu  venire  oveUe  =  yuoì  venire  in 
qualche  luogo  pur  che  sia?    Modificazioni  della  stessa  voce  sono 

duvétte  'nduveUe  =  «  in  nessun  luogo  »  nel  chian. 

inveì  nell'Emilia  (Biondelli,  Saggio  267). 


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BOMAKZA,  N.o  1]  SUL  PBONOME  ITALIANO  47 

Connesso  con  queste  forme  pare  anche  il  marchig.  quaveru  =  e  qual- 
cuno», quasi  quem  vdles  untmi  (ossia  quem  unum  vélis).  V.  Canti 
march.  ^  ediz.  Gianandrea,  p.  94. 


CIASCHEDUNO. 

Nella  Crramm.  il  Diez  trae  questo  pronome  da  quisque  et  unu^\  nel- 
V  E.  W.  I,  125  propone  anche  la  derivazione  da  quisque  ad  unum.  Io 
supposi  ciascheduno  nato  da  ciasche-uno  con  d  frapposto  a  togliere  l'iato, 
come  in  Iodico  da  laico  ^  in  redina  da  réina  ecc.  Resta  che  anche  per 
questo  raccogliamo  a  complemento,  e  per  conferma  di  questa  deriva- 
zione, le  principali  forme  sotto  cui  si  presenta  nelle  antiche  scritture 
dialettali  : 

dascheuno  nel  Volgariez.  d'Albert,,  ediz.  Ciampi,  12;  Lett.  volg.  59; 
Ordin.  della  Camp,  di  S.  Maria  del  Carm.  15  ecc. 
cescheuno  nei  Bandi  lucch,  (v.  Gloss.). 
dascahuno  nell'fiis^.  aquU.  81. 

caschaun  chuscatm  nelle  Rime  genov.  II  42,  lY  4,  ecc. 
eascaun  nella  Visione  di  Tantolo  (in  veron.)  16. 

Va  qui  pure  ricordata  l'analogia  del  lucch.  certiduni,  lomb.  sertediin 
da  certi-uni,  che  con  elisione  diede  anche  certuni^  come  ciasche  uno 
potè  pur  dare  ciascuno. 

QUEGNO. 

n  Monaci  mostrò  già  (Biv.  di  filai,  rem.  II,  54)  l'esistenza  nei 
dialetti  centrali  d'un  pron.  quegno,  corrispondente  al  prov.  quinhj  quinha, 
completando  così  la  congettura  del  Canello  che  al  pron.  provenz.  aveva 
ravvicinato  il  chignamente  ricordato  da  Dante  nel  De  Vidg.  Eloquio. 
Importa  far  notare  che  lo  stesso  pronome,  col  significato  di  «  quale  > 
occorre  più  volte  in  Jacopone  : 

Or  vedete  '1  vii  piacere 

quegno  prezo  ci  à  lassato . . .  L.  V. 
Vuol  saper  li  luocora 

et  quegn"  ài  compagnia . . .  L.  Vili  ; 

ma  anche  quigna  L.  II.  Quanto  all'etimologia  il  Diez  inclina  nella 
Crramm.  a  identificare  il  prov.  quinh  collo  sp.  quien  da  quem;  ma  nel- 
VE.  W.  II,  406  accenna  dubbiosamente  al  lat.  quiìiam.  La  voce  ita- 
liana sembra  accordarsi  meglio  con  quest'ultima  derivazione. 

N.  Caix. 


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48  [giobivale  di  filologia 


VARIETÀ 


ETIMOLOGIE   ROMANZE 


fr.   ÉBOURRIFÉ,  it.   RABBUFFATO 

€  qui  a  les  chevenx  en  désordi'e  ».  Il  Diez  non  tocca  di  questa  voce  ; 
Io  Scheler  la  trova  «  di  fattura  strana  >  e  rinunzia  a  spiegarla.  Il  Bugge 
tentò  derivarla  da  ^re-buffare^  che  mal  corrisponde  al  senso.  Ma  que- 
sta voce  non  è  delle  difficili  ;  ébourrifé  corrisponde  esattamente  al  tose. 
sbaruffato,  lomb.  shariifàa,  dall' a.  a.  t.  hiroufan,  donde  il  Diez  trae  il 
com.  baruf  «  ciuffo  >,  il  lad.  barufar  «  arruffare  »  ecc.  E.  W.  I^  360. 
D  fr.  ébourrifé  per  ^ébirouffé  suppone  una  formazione  con  eX'  quale  il 
Diez  ammette  in  éblouìr^  prov.  esbalauzir.  Quanto  all'it.  rabbuffato  a 
cui  il  Bugge  ricorre  in  appoggio  del  suo  rebbuffare,  non  è  esso  stesso 
altro  che  metatesi  di  abbaruffato. 


fr.   FLAGORNER 

€  adulare,  piaggiare  >.  Alcuno  da  flaiter  e  corner  {aux  oreiUes)  «  sof- 
fiare air  orecchio  >.  Littré  vi  scorgerebbe  una  variante  di  ftageoler,  per 
l'intermedio  di  un  flagot  o  flagol  «  flauto  ».  Né  Diez  né  Scheler  aggiun- 
gono alcuna  nuova  congettura.  Mi  par  difficile  separar  questa  voce  dal- 
l'equivalente  sp.  halagar  fahgar  che  il  Diez  molto  felicemente  considera 
come  ampliazione  di  ^flag-ar  da  una  forma  flaihan  che  sarebbe  variante 
dialettale  del  got.  thlaìhan^  o  dallo  stesso  a.  a.  t.  fléhón,  E.  W.  II,  140. 
Anche  flag-orner^  identico  radicalmente  a  ^ftag-atj  si  riconduce  bene  alla 
stessa  fonte  ;  g  da  h  mediano  non  avrebbe  per  sé  stesso  nulla  d' irregolare 
(cfr.  agacer  =  haj^jan)^  ma  occorrono  pure  nell'a.  a.  ted.  forme  con  g: 
fléha  e  fléga  «  assentatio  »  e  al  plur.  «  blanditiae  »,  e  vb.  flegilón  fligUón 
€  adulari  ».  Infine  anche  la  terminazione  ^orner  potrebbe  rappresentare 
qualche  variante  dialettale.  Cfr.  il  cit.  flegilón,  dial.  (svz.)  flakeìn,  e 
l'a.  a.  ted.  pleUiari= flehari  «  blanditor  »  in  cui  p  potrebbe  stare  per 
ph  secondo  Diefenbach  (Gotk  Wort  II,  711). 


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ROMANZA,  N.«»  1  ]  ETIMOLOGIE  BOMANZE  49 


it.    GUIDALESCO 

€  piaga,  ulcera  nella  spalla  del  cavallo  »,  ma  più  anticamente  «  vertebra, 
spalla  del  cavallo  >.  Altre  forme  sono  bidalesco,  vitàlesco  nei  dialetti 
toscani.  Il  Redi  dà  guidaresco  per  forma  aretina.  Il  dotto  Barbieri  cita 
pure  le  forme  videresco  videlesco  che  sarebbero  importanti  ma  che  non 
ho  potuto  riscontrare.  Egli  propone  di  derivare  la  voce  da  vitae  arista 
(Tratt.  di  Mascalcia^  Bologna,  1865,  p.  225,  n.  5).  Non  conosco  altra 
congettura  su  questa  voce  tanto  antica  e  popolare.  Ma  il  gu  iniziale 
accenna  ad  origine  germanica;  e  vi  corrisponde  infatti  pienamente  il 
ted.  Widerrist.  Quanto  a  se  da  st  cfr.  abbruscare  per  abbrustare^  ecc. 


it.    TAFFERIA 

€  largo  piatto,  catino  di  legno  »;  lomb.  stefènia  (Biondelli);  e  il  Redi 
nel  Vocab.  aretino:  Stefania....  i  Fiorentini  dicono  tafferia  >.  Certa- 
mente la  stessa  voce  che  lo  sp.  tafurea  «  nave  piatta  »,  il  cui  significato 
dove  in  origine  aver  valore  più  vicino  a  quello  di  tafferia^  poiché  deriva 
dair  arb.  taifurtya  e  piatto,  scodella  ».  Del  resto  anche  nello  spagnuolo 
at>biamo  altra  voce  afiBne  collo  stesso  valore  dell'italiana,  ed  è  ataifor 
€  piatto  fondo  per  servire  a  tavola  ;  tavola  rotonda  in  uso  presso  i  Mori  », 
dairarb.  at-taifór  (Dozy,  Mots  espagn.  ecc.  209,  345). 


sp.   URCA 

€  embarcacion  ó  barco  grande,  muy  ancho  de  buque  por  en  medio  de 
el  ».  11  Diez,  E.  W.  Il,  189:  «  Secondo  Aldrete  dal  gr.  oXxà?;  ma 
poiché  urea  indica  anche  il  pesce,  lat.  orca,  e  questo  ha  pure  significato 
di  «  vaso  »  r  origine  latina  è  più  verosimile  ».  La  Sig.'*  Michaelis  regi- 
strando, tra  i  duplicati  spagnuoli,  orca^urca,  mostra  attenersi  alla  stessa 
derivazione.  Ma  è  difficile  separare  la  voce  spagnuola  dalle  corrispon- 
denti italiana  e  francese.  L'it.  orca  significa  «  grossa  nave  da  tra- 
sporto usata  specialmente  dagli  Olandesi  >  secondo  il  Fanfani,  il  quale 
pure  aggiunge:  e  forse  presa  la  similitudine  dalla  Orca^  mammifero  ma- 
rino più  grosso  del  delfino  ».  Ma  quella  designazione  di  «  nave  olan- 
dese »  accenna  troppo  chiaramente  all'ol.  ingl.  hulk.  Si  aggiunga  il  fr. 
hourque  «  antica  nave  olandese  »  che  come  mostra  il  h  non  può  avere 
che  origine  germanica.  La  voce  spagnuola*  non  credo  possa  separarsi 
da  queste,  tanto  più  che  anche  urea  è  definito  dalF Accademia  per 
«  vaso  de  carga,  navis  oneraria  maxima  »  ;  designazione  che  trova  per- 

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50  VAUIETA  [giornale  di  fiix)logia 

fetta  corrispondenza  nella  glossa  :  «  naves  actuarie  holchun  kolechen  ». 
(Diefenbach;  Nov.  Gì.  s.  aduaria).  A  mio  avviso  dunque  sp.  urca^  it.  orm, 
fr.  hourqiie=^ìvLQ\.  ol.  hidh^  dall' a.  a.  t.  hólcho^  m.  a.  t.  hclche^  e  navìs 
actuaria  ».  Che  la  voce  germanica  derivi  poi  dal  b.  lat.  holcus  =  gr. 
oXxcÈ;  è  cosa  che  riguarda  più  la  filologia  tedesca  che  la  romanza. 

N.  Caix. 


SUL  LIBRO  REALE 


Qual  fosse,  per  lo  studio  della  lirica  nostra,  l'importanza  del  can- 
zoniere conosciuto  sotto  il  nome  di  Libro  Reale,  ci  fu  mostrato  dal 
Prof.  Monaci  nella  Zeitschrift  fur  BomaniscJie  Pkilologie  I,  375  e  ss., 
coir  appoggio  della  tavola  che  di  esso  ci  fu  conservata  nelle  scritture 
del  Colocci.  Ma,  a  misurar  piii  compiutamente  tal  perdita,  restava  ancora 
a  vedere  qual  relazione  esistesse  fra  il  Libro  Reale  e  gli  altri  canzonieri 
a  noi  conservati,  e  se  mai  tra  questi  alcuno  ve  ne  fosse  che  mostrasse 
d'avere  con  esso  rapporti  più  o  meno  lontani. 

Già  per  riguardo  ai  canzonieri  romani  il  Monaci  stesso  era  giunto 
a  un  risultato  compiutamente  negativo,  e  in  verità  i  rapporti,  che  in 
alcuna  parte  sembrano  intercedere  col  Vaticano  3793,  sono  troppo  lievi 
e  indecisi,  perché  se  ne  possa  trarre  alcuna  conclusione.  A  miglior 
esito  ci  conduce  all'incontro  l'esame  dei  canzonieri  fiorentini,  tra  i  quali 
se  non  ne  troviamo  alcuno  che  ci  rappresenti  compiutamente  il  Libro 
Reale,  uno  ve  n'ha  però  cho  mostrasi  con  esso  in  strettissime  relazioni. 
È  questo  uno  dei  canzonieri  più  importanti  che  a  noi  siano  rimasti,  il 
Laurenziano  Rediano  9,  finora  men  conosciuto  degli  altri  perché  ninno  ne 
diede  precise  notizie.  Ma  non  è  qui  il  laogo  di  trattenermi  a  lungo 
su  di  esso,  ciò  che  forse  farò  fra  non  molto  tempo  se  mi  verrà  fatto 
di  pubblicare  qualche  materiale  per  lo  studio  della  nostra  antica  poesia. 
11  canzoniere  Rediano,  membranaceo  dei  primi  del  secolo  XIV,  quan- 
tunque uno  nel  suo  complesso,  pure  ci  si  presenta  formato  da  varie 
parti  fra  loro  distinte,  e  scritte  forse  separatamente  l'una  dall'altra. 
La  prima  di  queste  parti  va  dal  foglio  1  al  40  e  contiene  le  lettere  di 
fra  Guittone  in  numero  di  35  e  alcuni  sonetti;  la  seconda  da  foglio  41 
a  (30  contiene  le  canzoni  morali  di  Guittone  in  numero  di  24.  Queste 
parti  a  noi  punto  interessano;  quella  che  a  noi  importa  per  ora  è  la 
terza  parte.  Questa  va  dal  foglio  61  al  104,  ha  al  principio  le  canzoni 
amorose  di  Guittone;  comincia  anch'essa  come  il  Reale  colla  canzone 
Scdde  noi  donna  genie,  e  le  poesie  si  seguono  dappoi  nel  Rediauo  e  nel 


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10MAK2A,  N.o  1]  SUL  LIBRO  REALE  51 

Reale  in  un  ordine  quasi  sempre  costante,  salvo  quelle  differenze  che 
ora  brevemente  ricorderò.  Mancano  nel  Reale  le  canzoni  di  Guittone 
Crioia  e  allegraììea  dopo  la  4.*,  Amor  (anf  altamente  dopo  la  17.*,  e  dopo 
la  23.*  qaelle  del  Guiuicelli  Madonna  il  fine  amor,  Donna  Vamor  mi 
sforza,  Al  cor  gentile  ripara,  Lo  fin  pregio  avaìisato;  di  Galletto  Pisano 
Credeam  essere  lasso;  di  Lunardo  del  Guallacha  Sicome  Ipescio  al  lasso; 
di  Notar  Jacomo  Madonna  dir  ui  uoglo,  Bemm  e  iienuto  prima  al  cor. 
Madonna  mia  a  noi  mando,  Meravigliosamente  un  amor  mi  distringe; 
di  Galletto  Inn  alta  donna  o  mizo  mia  ntendanza;  di  Messer  Rugieri 
D'Amici  Già  lungiam^nte  amore;  di  Notar  Jacomo  Vostr  orgoglosa  cera; 
dopo  la  26.*  la  canzone  del  Re  Enzo  S'eo  trovasse  pietansa;  dopo  la  35.* 
quella  di  Dotto  Reali  Di  ciò  eh  l  meo  cor  sente;  dopo  la  59.*  quella  di 
Bacciarone  Sì  farle  m'a  costretto;  dopo  la  75.*  quella  di  Rinaldo  d'Aqaiuo 
Poi  li  piace  c'avanzi  suo  valore.  Tre  sole  canzoni  hanno  nel  Rediano 
una  collocazione  diversa  che  nel  Reale,  e  sono  la  20*  che  sta  invece 
dopo  la  22.*,  e  le  97.*  e  98.*  che  seguono  alla  56.*.  Sono  nel  Reale  e 
mancano  nel  Rediano  la  canzone  70.*  e  quelle  dal  n.""  82  al  96. 

Queste  differenze  sono  certo  notevoli,  ed  avrebbero  assai  impor- 
tanza, qualora  Tesarne  di  quel  poco  che  del  Libro  Reale  ci  è  dato 
sapere,  non  ci  consentisse,  se  non  di  tutte,  almeno  delle  più  notevoli 
una  spiegazione.  Il  punto  più  importante  della  divergenza  fra  i  due 
codici  è  quello  che  segue  al  n.**  23,  dove  terminano  le  canzoni  di  Guit- 
tone; qui  il  Rediano  ha  tredici  canzoni  in  più;  ma  qui  appunto  notiamo 
che  il  Reale  mostra  nella  numerazione  una  notevole  lacuna  di  7  fogli, 
quanti  appunto  basterebbero  a  contenere  le  poesie  mancanti.  E  questa 
lacuna  possiamo  spiegarla  col  supporre  o  una  mutilazione  o  che  questi 
fogli  fossero  rimasti  bianchi;  e  questa  supposizione  crederei  più  proba- 
bile, a  meno  si  volesse  ri  tènere,  che,  per  un  caso  fortunatissimo  e  ri- 
petuto, col  foglio  terminasse  pur  la  poesia  ;  che  altrimenti  chi  scrisse  la 
tavola  del  Reale,  avendo  certamente  innanzi  il  riscontro  del  Vatica- 
no 3793,  non  avrebbe  fatto  a  meno  d'indicare,  come  fece  in  altro  caso, 
se  la  poesia  fosse  mutila. 

Due  altre  lacune  ci  si  presentano  nella  numerazione  dei  fogli  del 
Reale;  l'una  di  otto  fogli,  l'altra  di  quattro;  dove  il  supporre  una  mu- 
tilazione nel  codice  non  ci  spiegherebbe  nulla.  Tali  lacune  precedono 
e  susseguono  immediatamente  quella  parte  delle  poesie  del  Reale,  che 
non  ha  riscontro  nel  Rediano;  ciò  non  può  essere  a  caso,  ma  ci  con- 
duce a  credere  che  queste  poesie  formassero  una  parte  staccata  dal  resto, 
aggiunta  forse  posteriormente,  giacché  esse  appartengono  tutte  ad  un 
periodo  assai  più  recente.  All'  infuori  di  queste  una  sola  delle  canzoni 
che  sono  nel  Reale  non  è  nel  Rediano,  la  .70.*  {S'io  doglo  non  è  mira- 
uiglia  ),  e  di  tale  mancanza  non  so  dare  alcuna  ragione  ;  noto  però  che 
il  Reale  nella  disposizione  delle  sue  poesie  dal  n.°  66  all' 81  mostra  una 


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52  VARIETÀ  [oioBNALE  di  filologia 

certa  relazione  col  Vaticano  3793,  e  qaesto  dopo  la  canzone  di  Notar 
Giacomo  Troppo  sono  dimorato,  che  nel  Reale  è  la  69/,  per  una  mntila- 
zione  manca  di  7  canzoni,  che  però  sappiamo  quali  fossero  (v.  Grion, 
Die  Vaticanische  Liederhandschrift  n."  3793,  nei  Romanische  Studieìi  del 
Boehmer,  I,  62)  e  tra  queste  v'è  appunto  quella  che  nel  Reale  è  la  70.* 

Quello  che  per  ora  parmi  si  possa  ritenere  per  riguardo  alle  rela- 
zioni tra  il  Reale  ed  il  Rediano  si  è  che  ambedue  mostrano  di  essere 
derivati  da  un  comune  prototipo,  che  per  noi  andò  compiutamente  per- 
duto, e  che  ci  è  però  rappresentato  più  compiutamente  nel  Rediano. 

L'ultima  delle  poesie  ricordate  nella  tavola  del  Reale  era  solo  fram- 
mentaria, indizio  questo  che  il  codice,  già  ai  tempi  del  Colocci,  era 
mutilo  al  fine,  e  forse  seguivano  pure  nel  Reale  i  sonetti,  che  sono  una 
parte  essenziale  di  tutti  gli  antichi  canzonieri,  e  che  anche  nel  Rediano 
formano  la  quarta  sezione  dal  foglio  105  al  144.  Né  dalla  mancanza 
dei  sonetti  nel  Reale  potrebbe  trarsi  indizio  alcuno  circa  alla  sua  mag- 
giore antichità,  e  perché  tal  mancanza  può  ritenersi  dovuta  solo  al  caso, 
e  perché,  quando  anche  ciò  non  fosse,  non  si  potrebbe  certo  ammet- 
tere per  i  sonetti  un  periodo  di  produzione  posteriore  a  quello  delle  can- 
zoni; e  gli  uni  e  le  altre  trovansi  del  pari  in  quel  periodo  della  poesia 
aulica  al  quale  appartiene  la  maggior  parte  delle  composizioni  conte- 
nute nel  Reale.  E  che  a  ciò  appunto  egli  dovesse  il  suo  nome,  io  non 
saprei  indurmi  a  crederlo,  che  a  maggior  ragione  questo  nome  se  lo  sa- 
rebbe meritato  qualcuno  degli  altri  canzonieri,  che  ancor  restano  a  noi; 
e  se  ciò  pur  fosse  stato,  più  propriamente  egli  avrebbe  dovuto  chia- 
marsi Libro  Imperiale;  ma  poiché  pure  qualche  spiegazione  bisogna 
metterla  innanzi,  arrischio  io  pure  la  mia,  qualunque  sia  il  valore 
ch'ella  si  possa  meritare.  S'è  visto  che  il  Rediano  contiene  nella  sua 
terza  parte  in  soli  44  fogli  più  composizioni  che  non  tutto  il  Reale  in  72 
fogli,  e  tra  i  canzonieri  a  me  conosciuti  il  Rediano  è  dei  più  piccoli, 
scritto  a  grossi  caratteri,  a  due  colonne  con  margini  abbastanza  estesi; 
e  così  il  Palatino  CCCCXVIII,  di  formato  alquanto  maggiore,  di  scrit- 
tura più  minuta  ma  ornato  e  figurato  con  grande  eleganza,  contiene 
assai  più  composizioni  in  un  numero  di  fogli  di  poco  maggiore;  da  ciò 
si  potrebbe  con  qualche  foudaraeuto  supporre  che  pur  il  Libro  Real3 
fosse  stato  doviziosamente  ornato  dall'arte  per  esser  egli  destinato  ad 
alcuno  che  fra  le  cure  del  regno  non  sdegnava  l'amore  alla  nostra  poesia. 
Ma  su  ciò  io  non  voglio  arrischiarmi  più  innanzi,  e  noto  solo  che  nulla 
s'oppone  a  credere  che  il  Libro  Reale  potesse  appartenere  al  secolo  XIV, 
nella  qual  epoca  più  spontaneo  s'offre  qualche  nome  al  pensiero. 

E.   MOLTENI. 


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BOMANZA,    X."    1]  5Q 

FRA  GUITTONE  E  IL  SIG.  PERRENS 


Il  sig.  Perreas,  recente  storico  della  Repubblica  fiorentiua,  dopo 
parlato  della  sconfitta  di  Montaperti  (voi.  I,  pag.  548),  soggiunge: 
€  Un  Toscan  gémissait  sur  la  chute  d'une  cité  fiUe'ainée  de  Rome.  > 
E  in  nota  riferisce,  traendoli  da  un  mio  scritto  della  Nuova  Antologia 
(Gennajo  1867),  i  seguenti  versi: 

Lealtà  fior  sempre  granata 

E  r onorato  antico  uso  romano: 

che  io  citai  come  di  Fra  Guittone,  nella  sua  Canzone:  Ahi  lasso!  or  è 
stagion  di  doler  tanto  (Rime,  Firenze,  1829,  I,  172),  evidentemente  ispi- 
rata al  misero  stato  in  che  Firenze  trovossi  dopo  la  rotta  dell' Arbia. 
Se  non  che,  il  Sig.  Perrens  così  subito  prosegue:  e  Le  bel  esprit  du 
siede  de  Leon  X  qui  a  écrit  les  poésies  qu'on  attribue  à  Fra  Guittone 
d'Arezzo,  s'inspire  des  passions  guelfes  pour  montrer  à  Montaperti,  le 
droit  méconnu  et  l'injustice  gloritiée,  le  lion  de  Florence  ongles  et  dents 
arrachée  etc.  ».  E  qui  segue  una  breve  analisi  della  Canzone.  Ognuno 
vede  come  i  due  periodi  facciano  a  cozzo  fra  loro;  poiché  lo  stesso  do- 
cumento prima  vien  dato  per  legittimo,  poi  per  apocrifo.  Ma  il  peggio 
sta  nelle  annotazioni.  Dopo  la  parola  e  Fra  Guittone  »,  il  Perrens  così 
annota:  e  C'est  Ugo  Foscolo  (Prose^  IV,  169)  qui  a  signalé  la  main  da 
faussaire.  M.'  Giudici  (I,  107)  dit  que,  postérienrs  à  ceux  de  Pétrarque, 
ces  Sonnets  ont  pu  étre  attribués  à  Trissino.  M/  Cantù  {St.  degli  Ital.^ 
I,  525)  dit  au  surplus  qu'on  ne  sait  pas  en  quel  temps  vivuit  Fra  Guit- 
tone. On  peut  lire  cette  Canzone  dans  Gargaui,  Bella  lingua  volgare  ecc. 
p.  80  ».  Qui  non  v'è  altro  di  chiaro  che  una  gran  confusione  fra  i  So- 
netti e  questa  Canzone  della  rotta  di  Montaperti.  E  sebbene  un  recente 
illustratore  del  frate  aretino,  il  sig.  Prof.  Romanelli  {Di  Gnitt.  d^ Arezzo^ 
Campobasso,  1875),  se  la  pigli  con  quanti  negano,  e  sottilizzando  alla 
smodata  maniera  germanica  »,  che  i  Sonetti  dell'edizione  giuntina  siano 
davvero  di  Guittone,  noi  pure  fermamente  crediamo  che  il  Foscolo,  il 
Giudici  e  quanti  altri  li  seguirono,  si  apponessero  al  vero.  Ma  altri- 
menti procedono  le  cose  rispetto  alle  Canzoni,  e  in  particolare  per  questa 
di  Montaperti  :  e  il  sig.  Perrens  è  stato  mal  avvisato  scrivendo  in  altra 
nota  :  e  Voyez  une  partie  de  ces  vers  dans  le  travail  de  M.'  D'Ancona. 
Cet  auteur  a  le  tort  de  les  prendre  pour  authentiques,  quoique  la  langue 
n'eu  puisse  apparteuir  à  cette  periodo  des  premiers  bégaiements  de 
l'idiome  italien  ».    Io  risponderò  a  mia  volta,  che  lo  storico  francese  ha 


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54  VARIETÀ  [giornale  di  filologia 

torto  -di  sentenziare  con  tanta  sicumera:  e  a  mia  difesa  dirò  solamente, 
che  il  Cod.  Vaticano  3793,  alla  cui  pubblicazione  attendo,  e  che  non 
dev'esser  scrìtto  molto  dopo  la  fine  del  sec.  XIII,  se  non  pure  negli  ul- 
timi anni  di  questo,  porta  la  poesia  col  nome  espresso  del  nostro  autore 
a  carte  47,  n."  50.  Tanto  poco  è  dessa  una  falsificazione  dei  tempi  di 
Leon  X! 

Quanto  poi  all'argomento  della  lingua,  che  il  sig.  Perrens  porta  in  cam- 
po, diremo  solamente,  che  il  solenne  scappuccio  qui  dato  in  materia  diffi- 
cilissima, com'è  questa  della  favella,  e  dove  egli  (ci  scusi)  non  può  esser 
giudice  competente,  infirma  assai  l'altra  sentenza,  altrettanto  autore- 
volmente da  lui  pronunziata,  e  pur  col  solito  criterio  della  lingua,  contro 
Dino  Compagni.  Del  quale  egli  non  discute  punto  l'autenticità  o  la 
falsità:  ma  senz'altro  lo  condanna  pei  suoi  «  néologismes  (I,  pag.  XII)  ». 
Vero  è,  che  Dino  ha  avuto  la  disgrazia  di  esser  creduto  autentico  da 
un  «  auteur  prussieu  (ibid.  e  anche  I,  406)  »,  che  vi  ha  scritto  sopra 
tutto  un  libro.  Or  sarebbe  egli  Dino,  per  avventura,  altrettanto  apocrifo, 
quanto  in  forza  degli  identici  argomenti  filologici,  afferma  il  sig.  Per- 
rens essere  la  poesia  di  Fra  Guittone? 

E  neanche  in  altra  parte  del  suo  libro,  è  il  sig.  Perrens  fortunato 
nel  parlare  del  frate  gaudente.  A  pag.  107  del  voi.  II,  citando  (e  non 
bene,  perché  riferita  come  XII  mentre  è  XIV)  la  Lettera  di  Guittone  ai 
Fiorentini,  dove  si  trovano  forme  identiche  assolutamente  a  quelle  ado- 
perate nella  Canzone,  egli  ce  lo  fa  passare  per  un  ghibellino.  «  Le  bel 
esprit  du  siede  de  Leon  X  »  avrebbe  finto  passioni  guelfe:  il  veridico 
autore  della  Lettera  parlerebbe  e  au  point  de  vue  gibellin  >,  rappresen- 
tando fra  le  altre,  Firenze  come  un  «  repaire  d'ours  guelfes  >.  E  poi- 
ché queste  parole  sono  virgolate,  si  dovrebber  credere  testuali.  Ma  il 
testo  dice  «  Oh  che  non  più  sembrasse  vostra  terra  deserto,  che  città 
sembra,  e  voi  dragoni  e  orsi,  che  cittadini  ».  L'epiteto  di  guelfo,  po- 
trebbe dire  Fra  Guittone,  come  Dante  alFasinajo,  non  vi  misi  io.  Indi 
il  sig.  Perrens  prosegue  a  dar  del  ghibellino  a  tutto  pasto  al  frate,  e  a  ve- 
dere nella  descrizione  eh'  ei  fa  di  Firenze,  un  ritratto  delle  conseguenze 
ch'ebbe  la  vittoria  dei  Guelfi.  Ma,  come  dicemmo.  Canzone  e  Lettera 
si  riferiscono  evidentemente  agli  stessi  fatti:  nell'una  e  nell'altra  l'Are- 
tino piange  il  fato  di  Firenze,  venuta  a  mano  degli  liberti  e  dei  cavalieri 
tedeschi.  Neil' un  documento  e  nell'altro,  Guittone  è  sempre  un  guelfo, 
anche  se  si  sforzi  a  parlar  come  uom  giusto  ed  imparziale,  afflitto  da 
triste  spettacolo,  anziché  come  partigiano.  Donde  ha  mai  appreso  il 
sig.  Perrens  che  il  frate  gaudente  d'Arezzo  fosse  un  ghibellino?  Sa- 
remmo davvero  curiosi  di  saperlo. 

A.  D'Ancoxa. 


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XOMANZA,  N.**   1] 


EASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


1.  B.  P.  Hasdeu.  Fragmente pentni  Istoria  limhei  romàne;  elemente  da- 
cice.  I,  Gliiiij  (Cu  Post-scriptum  despre  D.  Cihac  si  Apendice  despre 
D.  ÉuiLB  Picot).    Bucuresci,  1876. 


Quello  che  ora  si  fa  dai  Rumeni  alio 
scopo  di  regolare,  pulire  ed  illustrare  la  loro 
lingua,  come  primo  fondamento  di  naziona- 
lità, non  deve  passare  inosservato.  Accanto 
alle  questioni  che  più  toccano  alla  pratica, 
come  quella  tanto  trattata  dell' ortografìa , 
si  dibattono  vivamente  anche  le  questioni 
delle  origini  e  in  specie  le  etimologiche. 
Anche  qui  ai  più  severi  romanisti  che  vo- 
gliono per  ora  limitate  le  indagini  alle  ori- 
gini più  prossime  nel  campo  storico,  si  con- 
trappongono quelli  che  credono  si  possano 
lin  d'ora  cercare  nel  popolo,  principalmente 
delle  campagne,  traccie  del  primitivo  fondo 
tracico.  11  Sìg.  Ilasdeu  si  è  proposto  questo 
scopo,  e  in  tre  articoli  inseriti  nel  Columna 
lui  Traianu  del  1874  dà  una  lista  di  voci 
attinenti  airagricoltura  e  alla  pastorizia  che 
egli  con  innegabile  facilità  e  ricchezza  di 
combinazioni  si  sforza  dimostrare  apparte- 
nenti alla  lingua  delle  popolazioni  preromane 
del  Danubio.  Il  Sig.  A.  de  Cihac,  noto  au- 
tore del  pregevole  Dictionnaire  d*étym.da- 
co-roniane,  senza  negare  in  principio  la  pos- 
sibilità che  il  confronto  del  valacco  colT  al- 
banese potesse  «  jeter  une  lumière  sur  les 
pages  plus  qu'obscures  de  Thistoire  de  ces 
peuples  antiques  »,  si  è  poi  tenuto  nelle  sue 
ricerche  nel  campo  più  sicuro  delle  origina- 
zioni  dal  latino  o  dalle  lingue  che  principal- 
mente influirono  in  tempi  posteriori  sulla 
formazione  del  valacco,  cioè  i  dialetti  slavi , 
il  magiaro  ecc.  Ond'egli  in  un  articolo  in- 
serito nel  ConvorbirX literare  del  1«>  die.  1875 
combatteva  siffatta  tendenza  a  voler  deri- 
vare voci  moderne  dalia  <  limba  necuno- 
scuta  traco-dacica  »,  proponendo  per  le 
parole  stesse  derivazione  ora  slava,  ora  tur- 
ca ecc.    La  risposta  a  questa  critica  forma 


appunto  l'argomento  della  seconda  parte  del- 
l'opuscolo  di  cui  abbiamo  dato  il  titolo,  men- 
tre la  prima  parte  è  consacrala  a  dimostrare 
l'origine  tracia  di  altre  due  voci  oscure,^// T17 
e  mold.  hojma.  Naturalmente  la  difesa  del 
Sig.  H.  si  converte  alla  sua  volta  in  una 
fiera  critica  delle  derivazioni  proposte  dal 
suo  avversario,  e  dobbiam  diie  che  questa 
parte  negativa  ci  ha  in  parecchi  casi  per- 
suaso. Così  non  intendiamo  perché  il  Sig.  C. 
voglia  trarre  cXoct  piuttosto  dal  mag.  ctvsta 
che  non  dal  lat.  sacci  com'era  già  indicato 
nel  Lex.  Bud.\2\  (cfr.  tose,  cioce ^^  socci , 
onde  ciociaro);  e  anche  parecchie  delle  sue 
etimologie  latine  ci  sono  sempre  parse  ol- 
tremodo problematiche,  quali  lunec  da  /w- 
brico ,  unéltS  da  utensilia  ecc.  Ma  come 
queste  non  tolgono  che  il  Dici,  étytn.  sia  un 
lavoro  ben  fatto  e  di  vera  utilità  agli  studii 
romanzi,  cosi  Tessere  o  no  il  Sig.  C.  riu- 
scito a  dimostrare  l'origine  slava  o  turca 
d'  alcune  voci  non  deve  compromettere  la 
questione  di  metodo,  se  sia  cioè  da  limitare 
per  ora  l'indagine  a  lingue  ben  note  che  fu- 
rono in  continui  contatti  col  rumeno,  o  se 
si  possa  d'  un  salto  e  senz'  alcun  aiuto  di 
anelli  storici,  conginnpere  una  voce  rumena 
ad  un  tema  o  ad  una  radice  del  sanscrito  o 
dello  zendo  per  poter  poi  concluderne  l'ori- 
gine tracia.  Certo,  quando  ci  sono  anelli 
storici  e  quando  il  Sig.  H.  può  mostrarci 
«  migratiunile  cuvintului  »,  ogni  romanista 
leggerà  con  grande  interesse  le  sue  dimo- 
strazioni, com'è  per  questa  di  ghXvj  che, 
anche  prescindendo  dall'origine  tracia,  può 
dirsi  una  dotta  ed  acuta  illustrazione  basata 
sopra  dati  e  testimonianze  di  cui  il  lessico- 
logo dovrà  in  ogni  modo  tener  conto.  Ma 
altre  parranno  sempre  troppo  ingegnose  o 


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50 


RASSEGNA 


[giornale  di  filologia 


artificiose  per  poter  convincere.  Per  rin- 
tracciare dulefi  nel  lidio  xav^avAvi;  egli  è 
costretto  a  vedere,  contro  il  parere  del  Cur- 
tius, l'idea  di  «cane  »  nel  secondo  elemento 
del  vocabolo  anziché  nel  primo,  li  quale  do- 
vrebbe essere  una  forma  verbale  corrisp.  al 
pers.  handan  ecc.  (  Columna,  1874,  p.  173). 
Per  dimostrare  che  tele  è  voce  tracia,  e  che 
il  gr.  ysX).6Ì  <leve  avere  la  stessa  origine  egli 
adduce  che  yiWd  non  s'incontra  mai  nplie 
scritture  classiche.  Ma  quante  voci  latine 
e  greche  rifiutate  dagli  scrittori  non  si  man- 
tennero nell'uso  dei  volghi  e  rivivono  ne- 
gli idiomi  moderni  t  E  qual  è  la  lingua  let- 
teraria che  rappresenta  in  tutto  l'uso  par- 
lato? Quando  poi  il  Sig.  H.  si  fa  a  ravvici- 
nare direttamente  moderne  voci  rumene,' 
siano  pure  attinenti  all'agricoltura  e  alla 
pastorizia,  con  temi  o  radici  del  sanscritto 
o  dello  zendo,  ci  pare  ch'egli  ricada,  con 
tutto  il  corredo  di  argomenti  linguistici  di 
cui  fa  uso,  negli  inganni  delle  somiglianze 
casuali,  che  nelle  sue  Lezioni  rimprovera 
eloquentemente  alia  vecchia  Scuola.  Egli 
certo  non  deriverebbe  apa  dal  scr.  ap ,  che 
anzi  inclina  coll'Ascoli  a  considerare  la  stessa 
forma  sanscrita  come  na ta  da  akc  per  un  pro- 
cesso analogo  a  quello  per  cui  apa  nacque 
da  aqua  {Princ.  de  filol.  eomp.,  Lect.  II, 
p.  55).  Ma  poi  egli  si  propone  di  provare 
l'origine  tracia  di  alcune  voci  col  solo  di- 
mostrare che  esse  si  possono  ravvicinare 
alle   corrispondenti    del    sanscrito  o   dello 


zendo.  II  romanista  alla  sua  vo'ta  gli  con- 
testerà la  validità  e  l'u.iiità  di  siffatti  rav- 
vicinamenti finché  egli  non  abbia  posto  in 
sodo  la  provenienza  tracia  di  quelle  voci. 
Così  siamo  in  un  circolo.  Perché  la  so- 
miglianza d'uua  voce  moderna  con  altra 
d'una  lingua  qualsiasi  può  essere  affatto  ac- 
cidentale ;  e  affinché  essa  acquisti  valore  agli 
occhi  del  glottologo,  occorrono  argomenti 
storici  che  mi  persuadano  di  un  probabile 
nesso  reale  tra  i  due  vocaboli.  Certo  a  noi 
non  verrebbe  mai  in  capo  di  derivare  il  tose. 
cioncarino  «maiale»  (suculus?)  dall'equiv. 
scr.  sùkai'a,  né  il ìomh. emìì. pieina  «ricot- 
ta »,  dsipajin  «  fatto  di  latte  »,  dal  scr.  paja-s 
«  latte  »,  benché  si  tratti  qui  di  voci  attinenti 
alla  vita  agricola  o  pastorale.  Così  quando  il 
Sig.  H.  vuol  persuaderci  a  congìungere  »no- 
socu  o  tnozocu  «  mastino  »  alla  rad.  scr. 
tnac,  d'onde  ìnanaha  «  mosca  »  e  maciina 
«cane»,  il  primo  corrispondente  pel  suffis- 
so, il  secondo  pel  senso,  alla  voce  rumena, 
e  che  in  questa  il  secondo  o  presuppone  un 
primitivo  macuka,  mentre  il  primo  o  sarebbe 
dovuto  ad  assimilazione,  e  quand'egli  collo 
stesso  metodo  riunisce  turca  «  montone  »  col 
scr.  sthura  «  toro  »  e  va  discorrendo,  il  ro- 
manista, fino  a  maggiori  prove,  ha  dì- 
ritto  dì  rispondere  con  un  credat  judaeus 
Apella. 


Firenze,  Dicembre  1877. 


N.  Caix. 


2.  Novelline  popolari  rovigncsi^  raccolte  ed  aunotate  da  Antonio  Ive. 
Vienna,  Holzhausen,  1877.  —  In  8.'  di  pp.  32. 


Ai  canti  popolari  dell'Istria  nativa,  l'I  ve 
fa  seguire  le  novelline  anch'esse  raccolte  in 
Rovigno,  e  ne  dà  in  pubblico  per  occasione 
di  nozze,  un  saggio  che  invoglia  del  rima- 
nente. Quattro  ne  contiene  l'elegante  volu- 
metto: V  Andria7iela ,  Bierde,  Biela  Fron- 
te, la  Cnrona  del  grangiegno.  L'editore 
ha  curato  con  ogni  diligenza  la  stampa  nel 
nativo  vernacolo,  e  a  pie  dì  pagina  ha  ag- 
giunto note  dichiarative  delle  voci  e  frasi 
più  difficili:  in  fondo  poi  a  ciascuna  Novella, 
trovansi  raffronti  assai  ricchi  e  compiuti  con 
racconti  consimili  di  altri  popoli.    Ci  piace 


soffermarci  alla  novella  quarta,  che  è  una 
varia  versione  di  quella  che  vien  conosciuta 
col  nome  del  morto  riconoscente  (Simrock, 
die  dankharen  Todten).  L'Ive  non  ha  co- 
nosciuto una  versione  italiana  già  fin  dal  1868 
stampata  da  chi  scrive  quest^ annunzio:  la 
Novella,  cioè,  di  Messer  Dianese  e  di  Mes' 
ser  GigliottOy  Pisa,  Nistri.  Il  libercolo,  al 
quale  non  mancava  una  prefazioncina  che 
mostrava  le  parentele  della  novella,  andò 
disperso,  come  accade  di  tutte  le  pubblica- 
zioni nuziali:  ma  la  Novella  fu  riprodotta  con 
altre  del  codice  palatino  ond'era  tratta,  dal- 


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ROMANZA,  X.°  1] 


nilìLlOGBAFICA 


57 


rop*»roso  Papanti  in  Appendice  al  voi.  I, 
pag.  XXXVIII  del  suo  Catalogo  dei  Noccl- 
/tert/fa/«ant (Livorno, Vigo,  1871).  Inqnelia 
prefazioncina  rammentavasi  anche  il  poe- 
metlo  italiano,  forse  non  molto  antico,  inti- 
lolato:-  Istoria  bellissima  di  Stellante  Co- 
stantina  figliuola  del  gran  Turco,  la  quale 
fn  rubata  da  certi  cristiani  che  teneva  in 
corte  suo  padre,  e  fu  venduta  a  ìtn  mer- 
cante di  Vicenza  presso  Salerno ^  con  molti 
intervalli  e  successi,  composta  da  Giovanni 
Orazio  Brunetto.  Quantunque  nella  novel- 
lina rovignese  nulla  si  ritrovi  della  singoiar 
gi*ografla  del  rapsodo  popolare,  quantunque 
il  nome  di  Stellante  Co.stantina  non  vi  sia  ri- 
cordato, pure  il  poemetto  italiano  è  la  fonte 
della  tradizione  istriana.  Né  solo  ciò  si  de- 
sume dal  conservarvisi  il  nome  di  Bella- 
fronte,  ma  anche  dal  trovarsi  per  entro 
alla  narrazione  un'intera  ottava,  rimasta  im- 
mune dalla  traslazione  prosaica.  Ecco  Tot- 
lava  nel  vernacolo  rovignese: 

Birarleipial  o  me!o  filgiolo  blelo, 
Chi  mareaiuMÌa  de  duona  fìtto  i  avUe? 
Pkdre  mcìo,  Te  paorto  oAo  biel  su^elo, 
La  poorto  per  lo  priemio  chi  avarite  : 
Nu*  me  ciute  oè  9tta  né  caatlelo, 
Ma  mai  piofin  bici»  duona  vetsto  I  avite: 
La  fcia  del  luitan  che  xi  In  Torcbeia, 
La  pMorio  par  ma  preinta  uiareanseìa. 


K  il  108(0  italiano,  st^condo  la  slam])a  del 
Cordella,  Venezia,  1801,  che  è  la  più  an- 
tica da  noi  conosciuta: 

Ben  Tenghl,  dice   il  padre,  fiKlIunl  bollo, 
Che  nicrcanxia  ai  preato  fatta  avete. 
Kispoae  e  dice:  Padre,  un  gran  gioiello 
Vi   porto  di  gran  pregio,  ora  M|K-to, 
Che  vai  più  che  cittA  o  gran  castello, 
Chi  mai  più  bello  viato  non  avrete  : 
La  figlia  del  aoldano  di  Turchia 
Vi  porto  per  la  prima  mercanzia. 

K  più  sotto  troviamo  questi  altri  due  versi: 

Tei  cu*  la  rana,  e  mei  cn'  la  braK-sicra 
Fuorai  chi  ctapareu  qualche  aardicla. 

E  il  poemetto: 

Con  ramo,  con  la  canna  e  la  barccla, 
Figiiuol,  ai  peaearem  qualche  aardella. 

E  in  una  edizione  toscana: 

Con  l'amo,  con  la  canna  e  la  barchella 
Figiiuol,  noi  piglicrem  qualche  aardella. 

Questa  insolita  persistenza  di  forme  ritmi- 
che in  una  saga,  scoprendo  la  diretta  deri- 
vazione della  Novella,  può  anche  giovare  a 
determinare  le  origini  di  altre  narrazioni 
popolari,  in  che  appajano  consimili  interca- 
lazioni poetiche. 

A.  D'Ancona. 


3.  Sopra  una  canzone  di  Cino  da  Pistoia  altre  volte  attribuita  a  Guido 
Guinicelli.  Lettura  accademica  del  M.  E.  prof.  Pietko  Canal.  (Estr. 
dal  voi.  Ili,  ser.  V  degli  Atti  del  R.  Istituto  vendo  di  scienze,  lettere 
ed  arti,) 


Sono  poche  pagine;  ma  piene  di  sugo. 
La  canzone  di  Gino,  che  il  prof.  Canal  ha 
preso  ad  illustrare,  è  quella: 

Arvegna  eh*  io  non  aggi»  più  per  tempo, 

ricordata  già  da  Dante  nel  F.  E.,  lib.  II, 
cap.  VI.  Accennate  ed  apprezzate  conve- 
nientemente le  diverse  stampe  che  se  ne 
hanno,  il  C.  viene  a  determinare  il  soggetto 
della  canzone  della  quale  dà  un  chiaro  sunto. 
E  da  questa  analisi  logica  e  poetica  egli 
prende  le  mosse  per  la  costituzione  del  testo 
e  r  interpretazione  dei  luoghi  più  oscuri  :  poi- 
ché, pur  riconoscendo  il  molto  soccorso  che 
può  dare  lo  studio  dei  manoscritti  e  la  loro 
classazione,  ei  non  dubita  di  affermare,  che, 


qualora  un  vero  miracolo  non  ci  facesse  sco- 
prire gli  autografi,  ci  si  spenderanno  molte 
fatiche  con  magri  reali  guadagni:  tanto  i 
mss.  volgari  sono  stati  rimaneggiati  o  per 
saccenteria  o  per  ignoranza  o  per  la  gene- 
rale tendenza  dei  copisti  ad  avvicinar  IVspni- 
plare  al  dialetto  proprio.  Lo  studio  dei  mss. 
non  è  dunque  da  trascurare;  ma  «  non  po- 
tendosi sperar  più  che  tanto  dall'argomento 
estrinseco  della  testimonianza  dei  codici, 
convien  ricorrere  principalmente  all'  argo- 
mento intrinseco  del  contesto,  che  in  ogni 
caso  è  il  tribunale  supremo,  la  voce  stessa 
dell'autore,  il  solo  argomento  che  riesca  a 
dare  conchiiisioni  certe,  assolute,  per  quel 
necessario  vincolo  che  hga  le  conseguenze 
4* 


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58 


liASSEGNA 


[gIORXALK    di   FILOI^r.IA 


ai  principi!.  Fu  un  tempo,  in  cui  l'arte  cri- 
tica, rivolta  quasi  unicamente  al  contesto, 
poco  o  nulla  curava  l'esatto  studio  o  ap- 
prezzamento dei  -codici;  e  nessuno  ignora 
quante  arbitrarie  lezioni  sieno  cosi  entrate 
nei  testi*  ma  aggiorni  nostri,  il  dirò  schiet- 
tamente, da  un  estrf^mo  siamo  corsi  all'al- 
tro; e,  mentre  molti  s'adoprano  nelTordi- 
namento  e  nella  collazione  dei  codici,  pochi 
guardano  al  contesto,  o,  se  pur  vi  guardano, 
che  il  prescinderne  in  tutto  è  impossibile, 
fermano  l'occhio  sulle  relazioni  più  prossi- 
me, e  non  lo  spingon  più  là.  Può  bensì  av- 
venire talvolta  che  il  guasto  siasi  diffuso  a 
segno  da  non  aver  lasciata  sana  nessuna 
parte  vitale  del  componimento;  e  in  questo 
caso  i  morti  son  morti,  né  c'è  arte  che  valga 
a  farli  rivivere.  Ma  è  difficile  che  non  sia 
rimasto  tanto  di  sano  che  esaminato  e  raf- 
frontato a  dovere  da  un  occhio  attento  ed 
acuto  non  lasci  vedere  un  concetto  fonda- 
mentale che  domina,  un  intendimento  acni 
mirava  l'autore,  un  ordine  ch'ei  tenne  nel 
suo  lavoro.     Quando  una  volta   siasi  cono- 


sciuto cosi  il  proposito  dell'autore  e  Tordi- 
tura  dell'opera,  molte  emendazioni  segui- 
ranno per  sé,  le  quali  sarebbero  state  im- 
possibili al  grammatico  e  al  basso  critico 
non  ajutRto  da  un  giusto  metodo  e  da  un 
fino  senso  del  vero  e  del  bello.  »  Queste  a 
me  sembrano  parole  d'oro,  e  però  le  ho  ri- 
ferite per  disteso.  «Resta,  soggiunge  il  Ca- 
nal,  che  l'esito  lodi  l'opera  e  la  via  tenu- 
ta ».  E  leggendo  le  note  da  lui  soggiunte 
al  nuovo  testo,  tutti  forse  concorderanno  nel 
dire  che  l'esito  ha  veramente  lodata  l'ope- 
ra. Cosi  volesse  il  dottissimo  ed  acrtissimo 
professore  risolversi  a  dar  fuori  i  tanti  emen- 
damenti che  nelle  sue  lezioni  nell'  Tniversità 
padovana  egli  è  venuto  proponendo  per  il 
testo  de'  nostri  antichi  lirici.  Le  recenti  pu- 
blicazioni  di  mss.  hanno  dato  molto  minor 
frutto  di  quanto  potessimo  aspettarci.  Che 
la  critica  congetturale  si  provi  dunque  anche 
essa  ;  che  nlla  tanta  materia  s' assodi  un  tan- 
tino di  si»irito! 

V.    A.  Ca NELLO. 


4.  El  Magico  prodigioso^  comedia  famosa  de  Don  Pepro  Calderon  de  la 
Barca  publiée  d'après  le  mauuscrit  originai  de  la  bibliothèqiie  du  due 
d'Ostina  avec  deux  fac-siniile,  ime  iutroductiou,  des  variantes  et  des 
notes  par  Alfred  Morel-Fatio.  Heilbronu,  Henninger,  1877.  In-8.° 
di  pp.  LXXVI-255. 


Fra  i  diversi  teatri  moderni  si  distingue 
lo  spagnuolo  per  una  più  decisa  e  genuina 
impronta  di  nazionalità.  Come  nota  anche 
il  valente  editore  di  cui  siam  per  parlare,  là 
non  si  guarda  punto  se  il  dramma  appartenga 
alla  categoria  delle  comedias  de  suntosy  de 
teatro f  de  capa  y  espada  o  a  qualsivoglia 
altra;  in  nessun  caso  i  poeti  spagnuoli  cer- 
carono, non  diciamo  di  riporre  gli  attori 
entro  quel  fondo  storico  che  loro  fu  proprio  — 
cosa  che  neppur  verificossi  nelle  altre  lette- 
rature moderne  —  ma  nemmanco  di  elevarsi 
a  quel  punto  di  vista  umano  eh' è  dello  .Shak- 
speare  e  dei  grandi  poeti  drammatici  fran- 
cesi e  alemanni;  il  poeta  spagnuolo  in  ogni 
circostanza  non  bada  che  a  spagyioliztare 
e  tutto  dipingere  s-^condo  i  costumi,  i  caratteri 
e  le  passioni  del  suo  paese.  Me-^si  j)erciò  da 
parte  i  nomi  delle  [)ersone  e  delle  cose,  può 


dirsi  che  in  quel  teatro  si  ritragga  nel  mudo 
il  più  fedele  e  svariato  la  vita  reale  ed  in- 
tima della  società  spagnuola,  e  il  posse- 
dere un  siffatto  quadro  non  è  certamente 
di  poco  conto  per  chiunque  voglia  studiar 
quella  nazione  si  interessante  ed  insieme  sr 
difficile  ad  essere  adequamente  compresa. 
Né  la  importanza  del  teatro  spagnuolo  fu 
sinora  disconosciuta;  che  anzi  pirecchi  eru- 
diti SI  nazionali  che  esteri,  come  Moratin, 
Duran,Hartzenbusch,Keill  e  varjaltri,hannt» 
laboriosamente  concorso  a  farne  rivivere  la 
memoria  e  a  rialzarne  il  pregio  Ma  nel- 
l'opera complessiva  di  costoro  due  difetti 
massimamente  dominano:  l'uno  è  che  nella 
critica  siasi  attribuito  maggior  valore  alla 
forma  (verseggiatura,  intreccio,  azione  dram- 
matica), che  non  al  fondo;  il  quale  in  que- 
sto  caso   consiste   non   tanto  nella  materia 


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BOMANZA,  N.**  1] 


BIBLIOGRAFICA 


59 


ossia  nel  soggetto  del  dramma,  quanto  nel 
modo  tutto  e  sempre  spagnuolo  di  rappre- 
sentarlo. L'altro  difetto  è  che  i  testi  non 
furon  mai  ri|)rodollì  fedelmente ,  e  che  le 
correzioni,  i  ramraodernamenti,  gli  arbitrj 
insomma  d'ogni  specie  ne  hanno  sempre  più 
guastata  e  sfigurata  la  forma  originale.  La 
quaì  cosa,  se  deplorevole  sempre,  molto  più 

10  diviene  in  questo  caso,  trovandosi  la  mag- 
gior parte  dei  mss.  da  cui  dovrebher  trarsi 
ì  sussidj,  in  mani  private  e  quindi  in  condi- 
zione di  andare  assai  facilmente  spersi  e 
distrutti.  II  Morel-Fatio  omai  abbastanza 
noto  siccome  uno  degli  stranieri  più  compe- 
tenti in  fatto  di  letteratura  spagnuola,  è  slato 
se  non  s'inganno,  il  primo  ad  osservare  tutto 
ciò  e  nella  nuova  sua  edizione  del  Magico  pro- 
digioso non  poteva  offrire  un  migliore  esem- 
pio del  modo  come  dovrebbe  esser  rifatta 
Tedizione,  se  non  di  tutto  il  vecchio  teatro  spa- 
gnuolo, almeno  dei  suoi  principali  monumenti. 

11  Magico  prodigioso^  ì\kìo  pur  che  non  sia 
la  migliore  produzione  del  Calderon,  va  tut- 
tavia noverata  tra  quelle  che  maggiormente 
piacquero  ed  ottennero  uni  celebrità  vera- 
mente europa.  Il  Morel-Fatio,  che  ne  ri- 
corda non  meno  di  19  edizioni  e  di  6  tradu- 
zioni in  lingue  straniere,  ebbe  la  fortuna  dì 
ritrovarne  il  codice  autografo,  e  ciò  baste- 
rebbe perché  la  edizione  sua  dovesse  annul- 


lare tutte  le  precedenti,  le  quali  invero  altro 
non  avevan  fatto  se  non  sempre  più  allon- 
tanarci dall'originale.  Non  daremo  lode  al 
distinto  romanista  per  avere  rigorosamente 
eseguito  il  suo  compito  nella  restituzione  del 
testo.  Ciò  era  il  suo  dovere  né  potevamo 
aspettarci  meno  da  lui.  Bensì  ci  piace  di 
ricordare  la  bella  introduzione  che  vi  premise 
e  nella  quale,  dopo  avere  con  giusti  e  spesso 
nuovi  criteri  determinato  il  posto  che  occupa 
nella  storia  la  commedia  spagnuola,  e  passato 
a  rassegna  le  opere  degli  antiquarj  che  meglio 
ne  trattarono,  si  volge  a  parlare  specialmente 
del  Magico y  ne  studia  parte  a  parte  le  ori- 
gini, le  fonti  leggendarie,  la  lingua  e  la  ver- 
seggiatura, ne  descrive  il  modo  come  fu  por- 
tato sulla  scena,  dà  esatto  conto  del  ms. 
originale  e  della  bibliografia,  e  nulla  infine 
omette  di  quanto  potrebbe  interessare  un 
lettore  colto  nell'esame  di  quella  commedia. 
Possa  cos\  egli  darci  presto  altri  monumenti 
della  bella  letteratura  della  Spagna  e  f^v 
che  questo  volume,  alla  cui  esterna  compi- 
tezza sì  egregiamente  contribuì  la  libreria 
e»litrice  dei  sìgg.  Henninger  di  Heilbronn, 
non  sia  che  il  primo  di  una  serie  abbastanza 
numerosa.  Il  bisogno  è  grande  né  sappiamo 
chi  meglio  di  lui  vi  sia  preparato. 

E.  Monaci. 


5.  Studi  di  erudizione  e  d'arte  (Binda  Bonichi  e  V Intelligenza)  per  Adolfo 
Borgognoni.    Voi.  1.^  Bolo^Da,  Roraaguoli,  1877.  —  In  16.°  pp.  XXII-310. 


In  questo  volume  l'Autore  es;imiiia  le  rime 
di  fìindo  Bonichi  e  si  fa  strada  a  parlare 
di  alcuni  altri  antichi  rimatori  senesi,  pro- 
mettendo di  fare  in  aUro  volume  uno  studio 
sopra  Guittone  d'Arezzo  e  Guido  Guinicelli, 
e  di  dare  uh  saggio  di  storia  del  sonetto 
italiano.  Vuole  dimostrare  come  la  sana  cri- 
tica più  che  l'impressione  o  la  metafisica 
debba  avere  a  fondamento  l'erudizione  e  la 
storia,  e  veramente  con  ampio  corredo  di 
ambedue  rivendica  al  suo  poeta  il  posto  che 
gli  è  dovuto  nella  storia  della  letteratura 
italiana.  Premette  alcuni  cenni  sui  prede- 
cessori di  Bindo  Bonichi  e  parla  più  special- 
mente di  Nicolò  Salimbene  e  di  Fol^xore  da 
S.  Gemignano.  Propone  d'identificare  Fol- 
gore con  V  Abbagliato  di  cui  parla  Dante 
(hi/',  e.  XXIX)  quale  poeta  di  quella  brigata 


godereccia  di  cui  era  capo  Nicolò  Salimbene, 
e  a  ciò  lo  spinge  il  fatto  di  non  ritrovar.^!  al- 
cuna poesia  che  vada  sotto  il  nom*»  dell'Ab- 
bagliato, e  lo  stile  dei  sonetti  di  Folgore. 
In  tal  modo  fa  vivere  qtiesto  poeta  circa  la 
metà  del  secolo  XIII;  ma  poiché  alcuni  so- 
netti che  vanno  col  nome  di  Itii  appartengono 
senza  dubbio  al  secolo  XIV  inoltrato,  nega 
Paufenticità  di  essi  confortatovi  anche  dalla 
diversità  dello  stile.  A  dire  il  vero  non  sa- 
premmo seguirlo  in  questa  serie  d'ipotesi: 
non  v'è  argomento  sicuro  per  ritenere  che 
il  Nicolò  a  cui  Folgore  dedica  i  suoi  sonetti, 
sia  quello  stesso  di  Dante,  né  la  mancanza 
di  poesie  dell' Abbagliato  eia  metafora  ìstessa 
di  questo  nome  sembrano  fatti  concludenti 
per  identificarlo  con  Folgore.  Sopratutto 
poi  è  cosa  assai  grave  di  negare  l'autenti- 


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00 


BASS.  BIBLIOGR 


[giornale  di  filologia 


ciu\  di  tre  sonetti  attribuiti  dai  codici  a  que- 
sto, per  anacronismo  fondato  sopra  un'ipotesi 
o  per  sole  considerazioni  di  stile.  Del  resto 
è  importante  Tesarne  critico  che  l'Autore 
fa  dei  sonetti  e  delle  canzoni  di  Bindo  Bo- 
llichi, per  Tuso  dei  documenti  e  per  la  sa- 
gacia di  alcune  congetture  storiche. 

Segue  un  esame  del  [ioem^V Intelligenza, 
e  delle  varie  opinioni  manifestate  sin  qu\ 
su  r epoca  e  su  l'autore  di  esso.  Assai  abil- 
mente vengono  confutate  le  ipotesi  o  false 
o  gratuite,  secondo  le  quali  il  poema  sarebbe 
opera  di  un  siciliano  o  dì  un  arabo  del  se- 
colo XII  o  XIII.  Sì  dimostra  pure  come  sia 
impossibile  dì  stabilire  che  autore  ne  sia 
stato  Dino  Compagni,  l'avo  di  lui  o  qualsi- 
voglia altro  di  quella  famiglia.  L'analisi  del 
contenuto  del  poema  dimostra  chiaro  che 
v'è  un  fondo  di  derivazione  araba,  non  certo 
immediata  e  speciale,  ma  comune  agli  scrit- 
tori del  tempo  e  attinta  fille  fonti  francesi. 
Questo  fondo  arabo  è  la  filosofia  d'Avicenna 
e  più  forse  dì  Averroè,  la  quale  trasparisce 
anche  nelle  dottrine  su  l'amore  di  Guido 
Onìnicelli  e  dì  Francesco  da  Barberino.  Dice 
che  la  iscrizione  del  codice  Magliabecchìano 
é  di  poco  valore  se  si  consideri  quanto  spesso 
si  trovino  nei  Mss.  attribuiti  scritti  anonimi 
all'autore  di  quelli  che  precedono,e  sopratutto 
che  quella  iscrizione  è  posteriore  di  due  se- 
coli al  Ms..  Non  è  più  concludente  T  argo- 
mento tratto  dalla  somiglianza  dello  stile; 
perché  questa,  fallace  sempre,  è  assai  pro- 
blematica fra  la  Cronica  e  il  Poema,  quando 
non  si  voglia  ravvisarla,  come  fece  il  Car- 
bone, in  un  passo  quasi  tradotto  dal  ro- 
manzo francese  su  Cesare,  il  quale  è  a  sua 
volta  quasi  una  riproduzione  di  Lucano.  Di- 
strutti cosi  i  sogni  del  Grion  e  le  asserzioni 
del  Settembrini,  De  Santis  e  Boehmer  l'au- 
tore fa  per  suo  conto  alcune  congetture  per  le 
quali  il  poema  sarebbe  posteriore  all'an- 
no 1326  e  verrebbe  attribuito  a  Dino  del 
Garbo.    Ma  il  ritrovarsi  in  quello  assai  dot- 


trine fisiche  e  anatomiche  non  sembra  che 
dia  facoltà  dì  conchiudere  che  autore  d*»bba 
esserne  un  m*»dico;  né  l'allusione  alla  seta 
cinese  è  spiegabile  soltanto  col  Milione  «li 
Marco  Polo;  né  la  menzione  della  Romania 
è  possibile  soltanto  dopo  la  conquista  turca 
del  secolo  XIV:  poiché  quel  nome,  seppure 
lo  si  voglia  intendere  in  altro  senso,  ricorre 
anche  nella  Chanson  de  Roland,  ove  si 
legge: 

81  l'en  cimqali  Prorcnce  e  Aqaltalpie 
E  Lumbardie  e  trestute  RoxAmc. 

Anche  questa  seconda  parte  del  libro  é 
molto  pregevole  e  ricca  di  materiale  critico 
assai  ben  disposto  ed  usato,  e  solo  sorprende 
un  po' di  vedere  come  l'autore,  che  professa 
tanto  retti  principi  dì  critica,  e  li  segue  per 
abitudine  con  tanta  rigidità,  si  lasci  talvolta 
trasportare  tropp' oltre  ad  ipotesi  non  fon- 
date abbastanza,  ed  incorra  in  qualche  con- 
tradizione. Cosi  per  esempio  l'esame  dello 
stile  è  dapprima  assai  concludente  per  con- 
trapporlo all'autorità  di  un  ms.  contempo- 
raneo, e  per  qualificare  per  apocrifi  alcuni 
son'^iti  di  Folgore,  ma  perde  poi  ogni  auto- 
torità  quand'anche  lo  si  voglia  invocare  a 
conferma  di  un  ms.  che  attribuisce  a  Dino 
Compagni  la  Cronica  ed  il  Poema.  Si  nega 
ogni  valore  a  questa  iscrizione  quando  sì 
vuole  riferirla  a  Dino  Compagni ,  ma  se  ne 
dà  poi  grandissimo  ad  una  sola  metà  di  essa 
per  fabbricarvi  sopra  un  infero  edificio  in 
favore  di  Dino  del  Garbo.  —  Noi  desideriamo 
che  queste  osservazioni  valgano  a  dimostrare 
all'egregio  A.  la  cura  che  ponemmo  in  esa- 
minare il  suo  libro.  Intanto  siamo  lieti  dì 
riconoscere  che  questo,  non  ostante  i  parti- 
colari rilievi  che  qui  od  altrove  possano  es- 
sergli fatti,  resta  sempre  nel  suo  complesso 
uno  dei  migliori  saggi  di  critica  letteratura 
che  sia  usi  pubblicati  in  questi  ultimi  anni  in 
Italia. 

G.  Navone. 


(l)  [Un  recentissimo  lavoro  di  cui  presto  parleremo,  del  signor  C.  Mazzi  tm  FolcaccUlero  Folcar- 
cbicri,lia  ora  messo  fuor  di  dubbio  che  V IhbaijHalo  non  fu  8c  non  uno  della  famiglia  Folcacchieri.   E.  M.] 


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ROMANZA,    N."    1]  ^"Gl 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


[Il  tempo  e  lo  spazio  ci  mancnno  per  dare  conto  di  tutte  le  pubblicazioni  che  si 
vanno  facendo  nel  dominio  della  filologia  romanza.  Per  supplire  almeno  in  parte,  ag- 
giungiamo questo  BuUetiino,  dando  delle  opere  in  esso  citate  un  cenno  sommario,  o  rin- 
viando, quando  ne  sia  il  caso,  alle  recensioni  che  ^ià  ne  fecero  altri  periodici.] 

1.  Gesta  Apollonii  regis  Tyrii  metrica  ex  codice  Gandensi  edidit  Ernestus 
DiìMMLEB.    Berolini,  apud  Weidmannos,  MDCCCLXXVII. 

In  4.**  gr.  di  pp.  20.  —  Questo  testo,  gi^  erroneamente  attribuito  da  Maurizio 
Haupt  i^Opuscula  III,  1,  22)  a  Valafrido  Strabone,  appartiene  al  sec  X,  è  fram- 
mentario e  conservasi  in  un  ms.  Gaudense  dell' XI  sec.  molto  scorretto.  Il  D. 
l'ha  felicemente  restituito. 

2.  Angilberts  Bythmus  auf  die  Schlacht  von  Fontanetitm  nach  den  Pa- 
pieren  von  G.  H.  Pertz  herausgegeben  von  Ernst  Dììmmler.  Beson- 
derer  Abdruck  aus  den  zu  Ehren  Theodor  Mommsens  herausgegebenen 
philologischen  Abhandlungen. 

In  4.**  di  pp.  5.  —  Di  questo  celebre  ritmo  fatto  conoscere  dal  Lebeuf  {Rtcuetl 
de  divers  écrits  I,  165-68)  e  poi  più  volte  ristampato  secondo  la  lezione  di  un 
codice  del  cominciare  del  sec.  X  della  Bibl.  Kazion.  di  Parigi,  n.*  1154;  il  Beth- 
mann  trovò  un  secondo  ms.,  del  sec.  IX,  ed  altro  dello  stesso  secolo,  ma  di 
lezione  assai  più  corretta  e  completa,  trovò  il  Pertz  nella  biblioteca  del  Conte 
Dzialynski  in  Posen.  In  base  di  questi  tre  codici  ò  costituito  il  testo  dato  dal 
Dummler,  la  cui  edizione  omai  va  sostituita  a  tutte  le  precedenti. 

3.  Jiimc  (li  Francesco  Petrarca  sopra  argomenti  morali  e  diversi.  Saggio 
di  un  testo  e  commento  nuovo  a  cura  di  Giosuè  Carducci.  Livorno, 
Vigo,  1876. 

In  16.*  di  pp.  Lv-t75.  —  Prima  edizione  veramente  critica  di  una  parte  del 
canzoniere  petrarchesco.  A  proposito  di  questo  ottimo  lavoro  non  possiamo 
astenerci  dal  ripetere  ciò  che  ne  scriveva  la  Revue  crìtique  nel  suo  n.°  186 
del  1876:  «  Pourquoi  M.  C.  se  borne-t-il  aux  Foésies  morales  et  dherses?  Il  se 
refuse  avec  une  amertume  visible  à  nous  dire  pourquoi  il  ne  publie  pas  le  com- 
roentaire  complèt  qu'il  a  preparé.  Espérons  que  les  obstacles ,  s'il  y  en  a,  se- 
ront  levés,  et  que  nous  aurons  le  plaiair  de  lire  un  jour  un  Petrarque  complèt, 
publié  et  commentò  par  M.  Carducci.  » 

4.  Delle  origini  del  dramma  moderno  per  Autuko  Graf.    Firenze,  Tip. 
editr.  deir Associazione,  1876. 

In  8."  di  pp.  65,  estr.  dalla  Bivista  Europea,  —  Ne  parleremo  in  breve. 


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6^  BULLETTINO  [giokxale  di  filologia 

5.  Un  Sonetto  in  una  Canzone.  Aneddoto  [per  Adolfo  Borgognoni].  Ra- 
venna, Maldini,  1877. 

In  8.»  di  pp.  15.  —  Alla  Canzone  XXIX  del  Cod.  Vat.  3793  (ediz.  Comparetti 
e  d'Ancona)  gli  editori  notarono  una  irregolarità  nella  misura  di  due  strofe.  Il 
Borgognoni  che  già  nel  Propugnatore  (IX,  1°,  74)  aveva  congetturato  essere  T  ul- 
tima di  quelle  strofe  nulla  più  che  un  altro  componimento  unitovi  dai  copisti, 
qui  viene  a  dare  la  conferma  della  felice  sua  congettura  pubblicando  un  sonetto 
anonimo  ove  ritrovansi  tutti  i  versi  di  quella  strofa  senza  le  altei-azioni  che  vi 
erano  state  introdotte  per  aggiustarla  in  quella  Canzone. 

6.  Come  gli  studj  orientali  possano  ajutare  V  opera  del  Vocabolario.  Le- 
zione del  prof.  Fausto  Lasinio  accademico  corrispondente  [della  Crusca]. 
Firenze,  Cellini,  1877. 

In  8.<*  di  pp.  lo,  estratto  dagli  Atti  della  Crusca j  1877.  —  La  scienza  deve 
rallegrarsi  nel  vedere  uomini  del  valore  del  prof.  Lasinio  esser  chiamati  a  col- 
laborare alla  grande  opera  del  nostro  Vocabolario  nazionale.  Basterebbe  il  suo 
nome  a  darci  guarentia  sulla  bontà  del  contributo  ch'egli  vi  recherà  illustran- 
done la  parte  di  provenienza  orientale,  ed  ora  ne  h  dato  anche  un  bel  saggio 
coir  opuscolo  qui  annunziato  ove  VA.  si  fa  a  dichiarare  parecchi  vocaboli  italiani 
d*  origine  ebraica,  araba,  turca  e  persiana. 

7.  SermiìUese  storico  di  Antonio  Pucci  per  la  guerra  di  Firenze  con  Pisa. 

Livorno,  Vigo,  1876. 

In  16."  di  pp.  14.  —  Ediz.  di  110  esempi,  fuori  di  commercio,  curata  dal 
prof.  D'Ancona  per  nozze  Paoli- Martelli.  Il  Sermintese  comincia  «  De,  gloriosa 
vergine  Maria.  » 

8.  Rispetti  del  secolo  XV.    Livorno,  Vigo,  1876. 

In  16.°  di  pp.  9.  —  Ediz.  di  110  esempi,  fuori  di  commercio  a  cura  del 
prof.  D'Ancona  per  nozze  Gargiolli-Nazzari.  I  Rispetti  provengono  dal  codice 
C.  43.  della  Bibl.  Comunale  di  Perugia. 

9.  Novella  mo^-ale  del  secolo  XIV.    Livorno,  Vigo,  1876. 

In  8.°  di  pp.  16.  —Ediz.  di  130  esempi,  fuori  di  commercio,  curata  dal  cav. 
G.  Papanti  per  nozze  Gargiolli-Nazzari.  La  novella  h  tratta  dalla  Storia  di  Bar- 
laam  e  Giosafatte. 

10.  Strambotti  e  Bispetti  dei  secoli  X/F,  XF,  XVI.    Livorno,  Vigo,  1876. 

In  8.*  di  pp.  27.  —  Servirono  di  testo  i  seguenti  codici  :  Laurenziano  pi.  00, 
n.«»89;  Miigliabechiano  ci.  Il,  n.°  75;  id.cl.  VII,  n.°  271;  id.  ci.  VII,  n.**  7J5;  id. 
ci.  VII,  n.^  1008;  inoltre  una  stampa  s.  a.  n.  1.  esistente  nella  Palatina  di  Fi- 
renze, misceli.  E.  6.  5.  voi.  2.° 

11.  V antico  carnevale  nella  contea  di  Modica.  Schizzi  di  costumi  popo- 
lari per  Seeafiko  Amabile  Guastella.    Modica,  Secaguo,  1877. 

In  8.^  di  pp.  88.  —  Lavoro  asdai  ben  fatto  e  che  mostra  nell'A.  una  parti- 


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ROMANZA,  N."  1]  BIBLIOGBAFICO  6:3 

colare  attitudine  a  questo  js^enere  di  studj.    Una  diffusa  recensione  del  Liebrecht 
può  leggersene  nella  Zeitschrift  del  GrOber,  I,  434. 

12.  Novelline  popolari  livornesi  raccolte  ed  anuotate  da  Giovauni  Papanti. 
Livoruo,  Vigo,  1877. 

In  8.°  di  pp.  29.  —  Ediz.  di  150  esempi,  fuori  di  commercio,  per  nozze  Pitiè- 
Vitrano.  Le  novelline  sono  cinque  e  hanno  per  titolo:  La  Mencherina,  Il 
Majaìino,  La  Friitatina^  Vezzino  e  Madonna  Salciccia,  Buchettino* 

13.  Le  Mystère  provcngal  de  Sainte  Agnès.  Examen  du  mauuscrit  de  la 
Bibliothèque  Chigi  et  de  Téditiou  de  M.  Bartsch  par  M.  L.  Clédat. 
Toulouse,  Chauvin  &  fils,  [1877.J 

In  8.°  di  pp.  13,  estratto  dal  voi.  I  della  Bibliothèque  des  Ecoles  francai scs 
d'Athènes  et  de  Bome. 

14.  Le  Martìjre  de  Sainte  Agnès,  mystère  en  vieille  langue  proveD9ale, 
texte  revn  sur  Tunique  manuscrit  originai,  accompagué  d'une  tra- 
duction  littérale  en  regard  et  de  nombreuses  notes  par  M.  A.-L. 
Sardou.  Nouvelle  éditiou  enrichie  de  seize  morceaux  de  chant  du  XIP 
et  XIIP  siècle  notes  suivant  Tusage  des  vieux  temps  et  reproduits  en 
notation  moderne  par  M.  Tabbé  Raillard.    Paris,  Champion,  [1877.] 

In  8.^  di  pp.  xvi-112,  ediz.  di  200  esempi,  in  carta  d'Olanda.  —  Mentre  la 
revisione  del  prof.  Clédat  metteva  in  luce  i  molti  errori  occorsi  nella  ediz.  del 
Bartsch,  una  nuova  ediz.  assai  meno  esatta  della  prima  è  stata  pubblicata  dal 
8ig.  Sardou.  Un  esame  particolareggiato  ne  diede  il  Meyer  nella  Bomania  n.«*  22  ; 
qui  aggiungiamo  una  notizia  non  inutile  per  la  storia  del  codice,  ed  è  che  nel 
sec.  XYII  questo  trovavasi  nelle  mani  dell' Ubaldini,  il  quale,  parlando  delle 
Rappresentazioni,  così  ne  scrisse.  «  I  Provenzali  l'usarono,  e  presso  dime  sene 
conserva  una  di  S.  Agnese  in  rima  ;  e  perché  queste  si  cantavano,  vi  si  veggono 
le  note  del  canto  diverse  da  quelle  che  oggi  si  costumano.  »  Ubaldini,  Spogli, 
II,  72  (nel  Cod.  Barberin.  XLV-94). 

15.  Der  Troubadour  Guillem  Anelier  von  Toulose.  Vier  provenzalische 
Gedichte  heransgg.  und  erlàut.  von  Martin  Gisi.  Solothurn,  Gass- 
raann,  1877. 

In  4.*»  di  pp.  38.  —  Contiene  una  introduzione,  uno  studio  fonetico,  morfo- 
logico e  ritmico  su  G,  A.  e  il  testo  delle  sue  poesie  accompagnato  da  una  tradu- 
zione in  tedesco  e  da  abbondanti  note.  Una  recensione  del  Suchier  è  nella  Jenaer 
Literaturzeitung,  1877,  n.*>  38. 

16.  La  prise  de  Damiette  en  1219,  Relation  inedite  en  proven9al  publiée 
et  commentée  par  Paul  Meyer.    Paris,  Vieweg,  1877. 

In  8.<»  di  pp.  74,  estr.  dal  t.  XXXVIII  della  Bibliothèque  de  VÉcole  des  chartes, 
tirat.  di  100  esemplari.  —  È  un  frammento  di  874  righe,  trovato  alla  Bibl.  del- 
l'Arsenale in  Parigi.  Il  M.  ne  ha  data  una  edizione  diplomatica,  restituendone 
molta  parte  perduta  per  corrosioni  del  ms.  e  accompagnando  il  testo  con  un  buon 


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64  BULLETT.  BIBLIOGR.  [giornale  di  filol^k.ia. 

glossario.  Nella  ricca  introduzione  che  lo  precede,  il  M.,  con  quella  dottrina 
ed  acume  critico  che  tutti  ornai  sanno  in  lui,  ha  determinato  il  valore  storico, 
atisai  considerevole,  del  documento,  comparandolo  colle  altre  fonti  che  si  conoscono. 

17.  Enigmes  populaires  en  langne  d'oc^  publiés  par  Alphonse  Roque- 
Feeeieb.    Montpellier,  Imprim.  Central  du  Midi,  1876. 

In  8.*»  di  pp.  xxiii-25.  —  <  Regardons-nous  surtout  ce  recueil  comme  une 
pierre  d'attente:  il  aura  le  grand  meri  te  d'indiquer  k  bien  de  gens  qui  ne  s'en 
doutent  pas  Tintérét  que  peuvent  presenter  des  coUections  de  cegenro...  L'edi- 
teur  k  soulevé  la  curieuse  question  des  rapports  des  énigmes  des  différents  peu- 
ples  latin.  »  Bomania,  n.'*  18. 

18.  Die  Handschriften  der  Geste  des  Lohérains.  Mit  Texten  und  Va- 
riali teu.    Von  Dr.  Wilhelm  Vietoe.    Halle,  Lippert,  1876. 

In  8.°  di  pp.  134.  —  Una  recensione,  del  Suchier,  è  nel  Literar,  Central- 
blcUt,  1876,  n.*»  25.  Questo  lavoro  va  anche  colla  data  di  Marburg,  1875,  sic- 
come «  loauguraldissertation  zur  ErlanguDg  der  Doctorwùrde  »,  ma  quella  ediz. 
non  contiene  né  i  testi,  né  le  varianti. 

19.  Ueber  die  Matthaeus  Paris  sugeschriébene  Vie  de  Seint  Auhaìu  Vou 
Ueehànn  Suchiee.    Halle,  Max  Niemeyer,  1876. 

In  8.°  di  pp.  60.  —  Ricerca  a  proposito  di  questo  testo  le  vicende  che  potè 
subire  la  versificazione  francese  passando  nel  dominio  anglo-normanno.  Danno 
conto  di  questo  lavoro  G.  P.  nella  Bomania,  n.°  21,  e  il  Settegast  nel  Literar. 
Centralblat,  1877,  n.'»  20. 

20.  Der  MUncliener  Brut:  Gottfried  vou  Monmoiith  in  franzosischen  Ver- 
sen  des  XII  Jahrhunderts.  Aus  der  eiuzigen  Miinchener  Handsohrift 
zuin  ersten  Male  herausgg.  von  Konbad  Hofman  und  Kael  Vollmollee. 
Halle,  Niemeyer,  1877. 

In  8,»  di  pp.  Ln-124.  —  Vd.  una  recensione,  del  Forster,  nel  Literar.  Cen- 
tralblatt,  1877,  n.«  32,  e  uno  studio,  del  Mussafia,  nella  Zeilschrift  del  Gro- 
ber,  I,  402. 

21.  Li  chevaliers  as  deus  espees.  Altfranzosicher  Abenteuerroman  zum 
ersten  Male  herausgegeben  von  Wendelin  Foeestee.  Halle,  Nieme- 
yer, 1877. 

In  8.0  di  pp.  Lxiv-429.  —  Recens.  del  Muasafia  nella  Zdtschrifl  fùr  die  òster- 
reichisehen  Gymnasen  XXVIII,  197;  vd.  anche  Foerster  nella  Zeitschrifl  del 
GrSber,  I,  91. 

22.  Antologia  portugueza.  Trecos  selectos  coordenados  sob  a  classififào 
dos  generos  litterarios  e  precedidos  de  urna  Poetica  historica  portu- 
gueza  por  Theophilo  Braga.    Porto,  Magalhaes  &  Moniz,  1876. 

In  16.0  di  pp.  xxvii-338.  —  Recensione  del  Dr.  W.  Storck  nella  Zeitschrifl  del 
GrOber  I,  453. 


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BOMANZA,    M.**    1] 


65 


PERIODICI 


[Riprendiamo  questo  ipogllo  al  punto  ove  lo  lasciò  la  Rivista  di  JIM,  romangtu  Essendo  perciò 
molti  i  numeri  arretrati,  dobbiamo  per  ora  limitarci  al  semplici  titoli  delle  memorie  ed  omettiamo  di 
indicare  i  resoconti  bibliografici,  dando  notizia  di  questi  nel  Bullettinc] 


1.  Archivio  glottologico  italiano,  v.  IV, 
pani.  2.»  —  Morosi f  II  vocalismo  leccese. — 
D* Ovidio,  Fonetica  del  dialetto  di  Campo- 
basso.—  Joppi,  Testi  inediti  friulani  dei  se- 
coli XIV  al  XIX. 

.  Rbvub  des  langues  romanes, Deuxìè- 
me  Serie,  an.  1876,  n.»  1-4. — A.  Boucherie,  Une 
Doavelle  ré  vision  des  Poèmes  de  Clermont.  — 
C.  Ckabaneau,  Notes  critiqnes  sur  quelques 
textes  provengaux.  —  Léotard  ,  Lettres  et 
poésies  inédites  de  Pabbé  Nérie.  —  Laga- 
renne,  Notice  sur  le  patois  saintongeais. — 
Noulety  Histoire  litléraire  des  patois  du  midi 
de  la  Frane©  au  XVIII*  siècle.  —  A.  Roque- 
Ferrier,  De  la  doublé  forme  de  Tarticle  et 
dea  pronoms  en  langue  d'oc.  —  A.  Montel 
et  L.  Lambert,  Chants  populaires  du  Lan- 
gnedoc.— Biblìographie. — Périodiques. — Ne- 
crologie: Leon  Vinas.— Chronique. —  Recti- 
fications. 

—  N.o  5.  —  A,  Boucherie,  Une  colonie 
limousine  en  Saintonge  (Saint-Eutrope).  — 
Gazier,  Lettres  à  Orégoire  sur  les  patois 
de  France.  —  A.  Mir,  Cansoun  batismalo.  — 
A.  Fourès,  La  cansou  des  poutous. —  T.  Au- 
banel,  A  Madamisello. —  G.  Azàis,  Lo  bou- 
toa  de  roso.  —  Bibliographie.  —  Périodi- 
ques.—  Necrologie:  Octavien  Briuguier.  — 
Chronique. 

—  N.»  6.  —  A.  Montel  et  L.  Lambert, 
Chants  populaires  du  Languedoc. —  G.  Azais, 
Uno  bouno  lessou.  —  A.  Chastanet,  Lous 
dous  caberts.  —  Bi  bliographie.  —  Chronique 

—  N."  7.  —  E.  Mazel,  Poésies  inédites 
de  Pabbé  Favre.  —  L.  Constant,  L'epitro  de 
Lengodoc.  —  Af  Mila  y  Fontanals,  Enig- 
mes  populaires  catalanes.  —  Gazier,  Lettres 
à  Grégoire  sur  les  patois  de  France.  —  Bi- 
bliographie. —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.®  8.  —  Alart,  Documents  sur  U 
laogue  catalane  des  ancieus  comtés  de  Rous- 


sillon  et  de  Cerdagne.  —  A,  Espagne,  Des 
formes  proven^ales  dans  Molière. —  M.  Fan- 
re,  A.  Madoumaiselo  J.  W.  —  Bonaparte- 
Wyse,  La  cabeladuro  d'or.  —  A.  Chastanet, 
Un  tour  de  moussu  Roumieu.  —  Bibliogra- 
phie. —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.o  9.  —  D,  Noulet,  Histoire  litteraire 
des  patois  du  midi  de  la  France  au  XVIII*' 
siècle.  —  Af.  Mila  y  Fontanals,  Phonétique 
catalane  oe.  —  Ch,  Chabaneau ,  Mélanges  : 
Changement  de  z  (s)  en  r  et  de  R  en  z ,  en- 
tre  deux  voyelles  dans  la  langue  d'oc  ;  Orgies; 
Fimen  ;  Bobs.  —  L,  Roumieux,  A  Jan  Re- 
boul.  —  A.  Mir,  Ratapoun,  ou  lou  rat  pre- 
dicaire.  —  Bibliographie.  —  Périodiques.  — 
La  Philologie  romane  et  les  grands  centres 
universitaires.  —  Chronique. 

—  N.*»  10.  —  A.  Montel  et  L.  Lambert, 
Chants  populaires  du  Languedoc.  —  Th,  Au- 
banel,  Li  Fabre.  —  A.  Fourès,  Le  cant  des 
Poutiès.  —  A,  Chastanet,  Davant  moussu 
lou  juge.  —  Bibliographie.  —  Périodiques.  — 
Chronique. 

—  N.o  11.  —  Af.  AfiZa  y  Fontanals, 'So- 
tes  sur  trois  manuscrits  :  I.  Un  chansonnier 
proven^al  ;  II.  Un  roman  catalan  ;  IH.  Une 
traduction  de  la  Discipline  clericale.  —  A.  Ro- 
qiie-Ferrier,  De  la  doublé  forme  de  l'arti- 
cle  et  des  pronoms  et  langue  d'oc.  —  Casa- 
riego,  Las  dos  Noche-buenas.  —  Bibliogra- 
phie. —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.»  12.  —  A.  Montel  et  L.  Latnbert, 
Canta  populaires  du  Languedoc.  —  A.  B., 
Une  question  de  prononciatìon.  —  Spera , 
Due  edillii  sacri  di  Fortunato  Pin.  —  Gf.^^oi*, 
Li  Judas. — J.  Roux,  L'Empèut.  —  Biblio- 
graphie. —  Périodiques.  —  Chronique. 

3.  Romania,  n.'^M.  — P.  Meyer,  Un  récit 
en  ver»  francais  de  la  première  croisade  fon- 
de sur  B-mdri  de  Bourgueii.  —  V,  Thomsen, 
E  -|-  1  ea  francais.  —  R.  Kiehler,  La  nou- 

5 


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66 


PEEIODICI 


[OIOBNALK   DI    FILOLOGIA 


Telle  italienne  dxi  Prétre  Jean  et  de  TEmpe- 
reur  Frédéric  et  un  récit  islandais.  —  E. 
Cosquin,  Contea  populaires  lorrains.  —  Mé- 
langes:  G.  P.,  La  Sicile  dans  la  littérature 
fran^aise  du  moyen-àge.  —  P,M.^  Dia  daas 
Oirart  de  Roussillon.  —  Comptes-Rendus.  — 
Périodìques.  —  Chroniqne. 

—  N.o  18.  —  A,  Neubauer,  Les  tradu- 
ctions  hébratques  de  Ilmage  du  monde.  — 
A.  Darmesteter,  Phonétique  francai  se.  La 
protoniqueinitìale  non  en  position. —  7.  Storm^ 
Mélanges  étymologiques.  —  E.  Rollando  Vo- 
cabulaìre  du  patois  du  pays  messin.  —  Mé- 
langes: G,P,,  Joca  Clericorum.  —  CA.  Cha- 
baneau,  Supplément  aux  observations  sur 
les  pronoms  proven^aux.  —  Comptes-Ren- 
dus. —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.0  19.  —  P.  Meyer,  De  Tinfluence  des 
Troubadours  sur  la  poesìe  des  peuples  ro- 
mans.  —  F.  Bonnardot,  Dialogus  anime  con- 
querentis  et  rationis  consolantiSf  traduction 
lorraine  du  Xll«  siede.  —  E,  Cosquin,  Con- 
tes  populaires  lorrains.  —  Mélanges:  G.P.^ 
Maufé.  —  P.  M.,  Ch.  Béniont,  Texte  vul- 
gaire  du  pays  de  Soule.  —  Ch.  Chaòaneau, 
Li=LOR  en  proven^al.  —  Ch,  Joret,  Chan- 
son  normande.  —  Note  sur  les  chansons  de 
la  Oruyère.  —  Comptes-Rendus.  —  Périodi- 
ques. —  Chronique. 

—  N.o  20.  —  C.  Nigra,  La  poesia  popo- 
lare italiana.  —  A.  Morel-Fatio,  Fragment 
d'un  conte  catalan  traduit  du  frangais.  — 
P.  Meyer,  Les  manuscrits  des  Sermons  Fran- 
cis de  Maurice  de  Sully. — Mélanges:  P.  M.  , 
R  pour  s,  z  à  Beaucaire.  —  Ch,  Joret,  De 
quelques  modiflcations  phonétiques  particu- 
lières  au  dialecte  bas-normand. —  J.  Bau- 
quier,  Une  particularité  du  patois  de  Queige, 
Savoie.  —  Comptes-rendus. —  Périodiques  — 
Chronique. 

—  N.o  2L  —  P.  Meyer,  Notice  sur  un 
ms.  bourguignon  (Musée  Britannique,  Ad- 
dit.  15606)  sui  vie  de  pièces  inédites.  —  Mila 
y  Fontanals,  De  la  poesia  popular  gallega. — 
J,  Chenaux,  J.  Cortili,  Una  panerà  de  revi 
fribordzey.  Proverbes  patois  du  cantttn  de 
Fribourg  et  spécialement  de  la  Gruyère. — 
Mélanges:  P.  Rajna,  Spigolature  proven- 
zali: \.  Cercalmon.  —  P,  Meyer,  Marca- 
hrun.  —  G.  P,,  Fran^-  lis  R  =  D.  —  C.  Joret, 
Un  signe  d'interrogation  dans  un  patois  fran- 
^ais.  —  C.  Joret,  Emploi  du  pronora  posses- 


sif  a  la  place  de  Tadjectif  demonstratif  et 
norroand.  —  Corrections  :  C.  Chabaneau  , 
Sur  les  Qlossaires  proven^aux  de  Hugues 
Faidit. —  F.  Bonnardot,  Dialogus  animae 
conquerentis  ecc.  Supplément  (v.  Romania 
n.o  19).  —  A,  Mussa fia,  Fragment  d'un  conte 
catalan.  Supplément  (v.  Romania  n.®  20).  — 
Comptes-rendus.  —  Périodìques.  —  Chro- 
nique. 

—  N.o  22.  —  A,  Wesselofshi,  Le  Dit  de 
IVmpereur  Coustant.  =  Fr.  D* Ovidio,  Di 
alcuni  casi  di  raddoppiamento  della  conso- 
nante. —  E.  Cosquin,  Contes  populaires  lor- 
rains.— Mélanges  :J.  Cornu,  Les  nomes  pro- 
pres  latins  en  -itt-  et  les  diminuiifs  romana 
en  -ETT-  -1TT-. — J.  Cornu,  Tanit  dans  lesSer- 
ments.  —  P.  Rajna,  Spigolature  provenzali: 

II.  La  Badia  di  Niort.  —  J.  Cornu,  La  dé- 
clinaison  de  l'arti  eie  conservóe  dans  le  Va- 
lais.  —  L.  Havet,  Franijais  r  pour  d.  —  P, 
Rajna,  Un  nuovo  codice  di  chansons  de  geste 
del  ciclo  di  Guglielmo.  -—  A,  Thomas ,  Du 
passage  d*s  z  à  R  et  d'  R  à  s  z  dans  le  nord 
de  la  langue  d'oc.  —  J,  Battquier,  Termes 
de  péche:  jarret,  bouguière.  —  G,  P.,  Une 
ballade  hippique.  —  Comptes-rendus. —  Pé- 
riodiques. —  Chronique. 

—  N.*  23.  —  L.  Havet,  La  prononcia- 
tion  de  ie  en  fran^ais.  —  A,  Weber,  La  vìe 
de  Saint  Jean  Bouche  d'or.  —  P.  Meyer,  Trai- 
tés  catalans  de  graromaire  et  de  poétique.  — 
P.  Rajna,  La  novella  boccaccesca  del  Sa- 
ladino e  di  roesser  Torello.  —  J,  Cornu,  Pho- 
nologie  de  Bagnard.—  V.Smith,  La  chanaon 
de  Barbe-bleu,  dite  Romance  de  Clotilde.  — 
Mélanges:  L,  Havet,  Colubra  en  roraan.  — 
G  P.,  Soucy,  solside,  somsir.—  G.  P.,  La 
ville  de  Pui  dans  Mainet.  —  6f.  P,,  Ti  signe 
d'interrogation.  —  C.  Chabaneau,  Ti  inter- 
rogatif  en  proven^al  moderne.  —  A.  Lam-' 
brior,  Du  traitement  des  labiales  p,  b,  f,  v, 
dans  le  roumain  populaire.  —  /.  Cornu,  Me- 
tal hèse  de  TS  et  de  dz  en  zn.  —  P,  M,,  Un 
extrait  du  Roman  de  la  Rose.  —  Corrections: 
J.  Bauquier,  Sur  le  Donat  proensal.  —  Com- 
ptes-rendus. —  Périodiques.  —  Chronique. 

8.  —  N.o  24.  —  P,  Meyer,  Mélanges  de  poe- 
sie fran^aise:  I.  Fragments  d'une  redaction 
en  alexandrins  de  Garin  le  Lorrain;  IL  Le 
poème  de  la  Croisade  imité  de  Baudri  de 
Bourgueil,  fragment  nouvellementdécouvert; 

III.  Prolocrue  en  vers  franrais  d'une  histoire 


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ItOMAXZA,   N.*»    11 


PERIODICI 


67 


perdue  de  Philippe  Auguste;  IV.  Plaidoyer 
en  faveur  des  femmes. —  A,  Morel-Fatio,  Le 
roman  de  Blaquerna;  notice  d'un  ms.  du  XIV 
siècle.  —  E.  Cosquin,  Contes  populaires  lor- 
rains.  —  Mélanges:  G,  P.,  Pruekes.  —  G. 
Raynaudt  Deux  jeux-partis  inédits  de  Adam 
de  la  Halle.  —  H.  Schuchardt,  Le  redouble- 
ment  des  consonnes  en  italien  dans  les  syl- 
labes  protoniques. —  Ch.  Joret,  Charrée.  —  V, 
Smith,  Un  debat  chanté.  —  V,  Smith,  Frag- 
ment  d*une  complainte  du  Juif  errant.  —  Cor- 
rections:  P.  3f.,  Le  ms.  bourguignon  add. 
15606  (  V.  Romania,  n.®  21  ).  —  Comptes-ren- 
dus.  —  Périodiques.  —  Chronique. 

4.  Jahrbuch  pur  romanischb  und  enql. 

SprACHB  und  LlTBRATUR  ,  N.  F.  vol.  Ili, 
n.o  1.  —  /.  e.  MattheSf  Die  Oxforder  Renaus- 
handschrift,  Ms.  Hatton  42^  Bodl.  59,  und  ihre 
Bedeutung  fur  die  Renaussage  ;  nebst  einem 
Worte  ùber  die  iibrìgen  in  England  befln- 
d lichen  Renausmss.  —  G.  Meyer,  Romani- 
Rche  Wòrter  in  kyprischen  Mittelgriech. 
—  C.  Michaélis ,  Nachtràge  und  Berich- 
tigungen  zu  den  etymologischen  Versuchen 
in  2.  und  3.  Hefte  des  I.  Bandes.  —  P.  Scholle, 
Die  A-,  Al-,  AN-,  EN-,  Assonanzen  in  der 
Chanson  de  Roland.  —  G.  Gròber,  Die  Eide 
▼on  Strassburg.  —  H.Suchier,  Berìchtigung 
zu  Bartsch's  Verzeichniss  der  Troubadour- 
Gedichte.  —  K.  Bóddeker,  Englische  Lieder 
und  Balladen  aus  dem  16.  Jahrhundert,  nach 
einer  Hnds.  der  Cotlonian.  Bibliothek  des  Bri- 
tischen  Museums.  —  Kritische  Auzeigen.  — 
Zeìtschriften. 

—  N.*»  2.  —  P.  Ilaefelin,  Recherches  sur 
les  patois  romans  du  canton  de  Fribourg.  — 
E.  Kólbing,  Zu  der  Ancren  Riwle.  —  H. 
Rònsch,  Nachlese  auf  dem  Gebiete  roma- 
nischer  Etymologien.  —  Dr.  Gessner,  Esse 
als  Hlifsverb  der  reflexiven  Zeìtworles  in 
Franzòsischen.  —  P.  Lindner ,  Zur  Fop- 
menlehre  des  pron.  rei.  ira  Englischen.  — 
Kritische  Anzeigen.  —  Zeitschriften. 

—  N.*»  3.  —  P.  Haefelin,  Recherches  sur 
les  patois  romans  du  canton  de  Fribourg. — 
D.  P.  Witte,  Pluralbildung  des  Substantivs 
im  Neuangelsachsìschen. —  P.  H.  Alhers,  On 
Christopher  Marlowe's  Tragical  History  of 
Doctor  Faustus. —  G.Lucking,  Zuni  Eula- 
lìaliede.  —  Kritische  Anzeigen. 

—  N.«  4.  —  P.  Haefelin,  Rechercl^es  sur 


les  patois  romans  du  canton  de  Fribourg.  — 
B.  Schàdel,  Bruchstùck  der  Chanson  de  Her- 
vis.  —  P.  Liébrecht,  Zum  Decamerone.  — 
-4.  Ebert,  A.  Tobler,  Bibliographie  von  1874.— 
Register. 

5.  Romanischb  Studien,  N.<»  VI.  —  E. 
Koschwits ,  Ueber  die  Chanson  du  voyage 
de  Charlemagne  à  Jérusalem. 

—  N.<>VII. —  if.  Lahm,  Le  patois  de  la 
Baroche  (Val  d'Orbey).  —  C.  Decurtivi, 
Paraulas  surselvanas.  —  E.  BÓhmer,  Chur- 
wftlsche  Sprich wòrter.  —  E.  Bòhmer,  Pre- 
dicatcasus  im  Ràtoromanischen.  —  W.  For- 
ster, E.  Bohmer,  Beiblatt 

—  N.»  VIIL  —  K  Fost,  Die  Verschiebung 
lateinischer  Tempora  in  den  romanischen 
Sprachen. 

—  N.o  IX.  —  G.  Grober,  Die  Liedersamm- 
lungen  der  Troubadours. 

6.  Zeitschrift  pur  Romanischb  Philoi.o- 
oiB  herausgegeben  von  D.  Gustav  Gròber 
Prof,  an  der  Universitat  Breslau,  voi.  I  n.<»l. — 
Prospect.  —  A.  Tobler,  Vermìschte  Bei- 
tràge  zur  Grammatik  des  Franzòsischen. — 
P.  Scholle,  Die  Balìgantepisode,  ein  Ein- 
schub  in  das  Oxforder  Rolandslied.  —  T. 
Braga,  0  cancioneiro  portuguez  da  Vati- 
cana e  suas  relagóes  com  outros  cancionei- 
ros  dos  seculos  XIII  e  XIV.  —  JC  Bartsch, 
Zwei  provenzalische  Lais.  —  W.  Foerater, 
Catalanisches  Streitgedichte  zwischen  en 
Bue  und  seinem  Pferd.  —  Miscellen:  P. 
Liébrecht,  Portugiesischer  Aberglaube.  Mu- 
charinga.  —  P.  Liébrecht,  Ztì  Marie  de 
France.  —  //.  Suchier,  Die  Quelle  des  Sermo 
de  Sapientia.  —  W.  Foerster,  Zu  Cheva- 
lier  as  deus  espées.  —  W.  Foerster,  Zu  Ri- 
chart  le  bial.— P.  Stengel,  Cod  Vatic.  3207.— 
K.  Volmóller,  Laberinto  ameroso.  —  W, 
Foerster,  Altfranzòsische  Gesundheitsre- 
geln.  —  W,  Foerster,  Altfranzòsisches  Lie- 
beslied.  —  A.  Mussa fia,  Zu  Brun  de  la  Mon- 
tagne. —  W.  Foerster,  Zu  Quatre  livres 
des  Rois.  —  E.  Stengel,  Zur  Zeitbestim- 
mung  des  Schwundes  von  b  und  i  nach  der 
Tonsilbe  in  Nordwestromanischén. — G. Grò- 
ber, Lo,  LI- IL,  I  im  Allitalienischen.  —  Re- 
censionen  und  Anzeigen.  —  Aufruf  des  Co- 
mités  der  Diez-Stiftung. 


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68 


NOTIZIE 


Cattbdrb.  —  Il  prof.  A.  Oraf  fu  incaricato  dell*  insegnamento  di  Storia  comparata 
delle  letterature  neolatine  nella  R.  Università  di  Torino. 

Concorsi.  —  La  Sociètè pour  Vétude  des  langues  romanes  di  Montpellier  ha  bandito  il 
seguente  concorso: 

«  Le  mardi  de  Pàques  1878,  —  année  qui  coincide  avec  le  sécond  millénaire  de  la 
fondation  d'Aix  en  Provence,  —  la  Société  des  langues  romanes  décernera  à  Mompellier, 
dans  la  séance  solennelle  du  deuxième  de  ses  concours  triennaux,  des  prix  aux  meilleurs 
travaux  philologiques  sur  les  idiomes  néo-latins,  ainsi  qu'aux  meilleures  pièces  de  poesie 
fpoème,  drame,  comédie,  ode,  sonnet,  traductions,  recueil  de  pièces  diverses,  etc. )  et 
ae  prose  (histoìre,  roman,  nouvelle,  recuel  de  contea  et  de  narrations,  etc.)  en  langue 
d*oc  ancienne  ou  moderne. 

«  Tous  les  dialectes  du  midi  de  la  France,  le  catalan,  le  valencien  et  le  mayorquin, 
sont  adrais  à  concourir.  » 

Fra  i  premj  di  filologia  più  specialmente  indicati  ai  concorrenti: 

«  Le  premier,  consistant  en  une  somme  de  cinq  centfrancs,  sera  dècerne  à  Tauteur 
du  meilleur  travail  sur  les  dialectes  anciens  de  la  langue  d'oc  (le  catalan  compris),  com- 
parés  aux  dialectes  populaires  qui  leur  ont  succede  dans  le  midi  de  la  France  ou  en 
Catalogne; 

«,Le  second,  un  rameau  de  chene  en  argent,  offert  par  la  Societé  archéologique , 
scientifique  et  littéraire  de  Béziers,  sera  decerne  en  son  nom  à  Tauteur  du  meilleur  raé- 
moire  qui,  en  prenant  pour  base  Vorlhographe  des  Troubadours,  relevera  les  princi- 
pales  altérations  introduites,  depuis  le  XIV»  siècle,  dans  les  idiomes  des  pays  de  langue 
d'oc  et  proposera  un  système  d'orthographe  et  d'accentuation  applicable  à  ces  divers 
idiomes,  en  laissant  à  chacun  d'eux  les  formes  qui  le  caractérisent. 

«  Cinq  médailles  en  vermeil  seroht,  en  ou  tre,  attribuées  par  la  Société  des  langues 
romanes,  aux  meilleures  monographies  des  tous  dialectes  actuels  du  midi  de  la  France; 
ou  bien  aux  meilleurs  glossaires  en  langue  d'oc  moderne,  le  catalan  compris,  des  ac- 
ceptions  spéciales  (substaniifs,  adjectifs,  verbes,  locutions  particulieres,  etc.)  à  une  ou 
à  plusieurs  branches,  soit  de  ragriculture,  soit  de  l'industrie,  soit  des  sciences;  tei  que 
serait,  par  exemple,  un  vecabulaire  des  termes  propres  au  labourage,  au  jardina^e  et  à 
la  culture  de  la  vigne,  ou  méme  encore  une  liste  complète  des  superstitions  médicales, 
ou  celle  des  noms  vulgaires  des  étoiles  dans  les  diverses  régions  du  Midi.  » 

«  Enfln,  à  Toccasion  de  ce  Concours,  un  grand  prix,  qui  est  encore  dù  à  M.  de  Quin- 
tana y  Combis  et  qui  consiste  en  une  coupé  symbolique  en  argent,  sera  dècerne  à  1  au- 
teur  de  la  meilleure  pièce  de  poesie  sur  le  thème  suivant:  le  Chant  du  latin.  » 
Revue  des  lang.  rom.  1877,  n.*»  9. 

Su  questo  secondo  concorso,  il  Canto  del  Latino,  rimandiamo  i  nostri  lettori  al  bel- 
Tartìcolo  che  recentemente  dedicavagli  una  illustre  penna  italiana  nella  Perseveranza  di 
Milano,  n.o  13  Dee.  del  1877. 

In  preparazione.  —  Sappiamo  che  il  prof.  Rajna  darà  presto  alla  stampa  un  volume 
Sulla  poesia  provengale  in  Italia. 

Prossime  pubblicazioni.  —  Sono  annunziate:  Novelle  in  dialetto  bolognese  con  ì  ri- 
scontri di  altri  paesi  d'Italia  e  fuori  raccolte  da  Carolina  Coronedi-Berti  aggregata 
alla  R.  Commiss,  pei  testi  di  lìngua;  Novelle  popolari  montalesi  pubb.  da  G.  Nerucci; 
U Epopea  e  la  filosofia  della  storia  per  Giacinto  Fontana;  I complementi  della  chanson 
d'Huon  de  Bordeaux  per  A.  Grap;  Cancioneiro  do  Collegio  dos  Nobres  heraw^ge^ehen 
von  Caroline  Michablis  de  Vasconcellos.  Tutti  sanno  che  questo  canzoniere,  desi- 
gnato altresì  col  nome  di  Cancioneiro  d'Ajuda,  è,  dopo  il  cod.  Vaticano,  il  più  impor- 
tante monumento  della  antica  lirica  poiteghese,  e  che  l'edizione  diplomatica  datane 
nel  1825  da  Lord  Stuart  fu  limitata  a  soli  25  esemplari.  Un'altra  riproduzione  del  ras. 
non  sarà  pertanto  di  troppo,  massime  dacché  ne  assunse  la  cura  la  sig.""»  C.  Michaélis. 

Il  sig.  Alvaro  Verdaguer  uno  dei  più  intelligenti  editori  di  Barcellona  (Rambla  del 
Centro,  5)  ha  aperto  una  soscrizione  per  la  stampa  del  volgarizzamento  catalano  della 
Divina  Commedia  di  Dante,  fatto  nel  sec.  XV  da  Andrea  Febrer:  La  Comedia  de 
Dani  Allighier  (de  Fiorenza)  traslatada  de  rimas  vulgars  toscans  en  rimas  vulgars 
catalans.  Il  testo  sarà  riveduto  da  D.  Cayetano  Vidal  y  Valenciano  e  formerà  un  voi. 
in  12.»  di  circa  700  pp.  stampato  in  caratteri  elzeviriani  su  carta  filogranata. 


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GIORNALE  DI  FILOLOGIA 
ROMANZA 


. . .  patriam  divcrsìR  gentibua  unam. 

JtUTtLlO    NOKACIAMO. 


N.'2  /  APRILE  187  8 


DI  UNO  STUDIO  DEL  PROF.  U.  A.  CANELLO 

INTORNO  AL  VOCALISMO  TONICO  ITALIANO 


Il  prof.  Canello  ha  in  pronto  da  un  pezzo  un  suo  studio  intorno 
al  vocalismo  tonico  italiano.  Ne  pubblicò  un  primo  saggio,  il  capi- 
tolo sull'i,  nella  Rivista  di  filologia  romanza;  e  un  secondo,  il  capi- 
tolo suU'e,  n'ha  pubblicato  recentemente  nella  Zeitschrift  fUr  roma* 
nische  Philologie  del  Grober,  con  la  promessa  di  darci  il  resto,  se  «  i 
compagni  di  studio  ne  mostrino  desiderio  ».  Io  credo  di  riuscire  inter- 
prete fedele  del  desiderio  degli  studiosi,  esortando  il  Canello  a  darci 
presto  il  compimento  del  suo  bel  lavoro. 

Dall'immortale  capolavoro  grammaticale  del  Diez  il  Canello  estrae 
quel  che  riguarda  le  sole  vicende  italiane  della  vocale  latina,  correg- 
gendo mercé  una  più  esatta  informazione  della  pronunzia  toscana  le 
poche  sviste  del  Diez  (inevitabili  da  uno  straniero,  specialmente  in  opera 
così  vasta  e  comprensiva),  ed  allargando  di  molto  l'inventario  delle  voci 
italiane  iu  cui  trovisi  riflessa  la  vocale  latina.  Scevera  con  molta  cura 
le  voci  di  schietto  conio  popolare  da  quelle  dotte  o  semidotte;  e  mette 
anche  in  rilievo  la  condizione,  finora  poco  osservata,  di  certe  voci,  che, 
popolari  forse  dapprima  e  pronunciate  perciò  in  modo  affatto  cònsono 
alle  norme  della  grammatica  storica^  usciron  poi  d'uso,  e  ripristinato 
infine,  come  arcaismi,  nella  letteratura,  v'assunsero  una  novella  pro- 
nunzia, pari  a  quella  delle  voci  dotte  o  semidotte.  E  poi  sempre  in- 
tento a  metter  in  vista  quei  casi,  in  cui  la  varia  determinazione  della 
vocale  tonica  sia  condizionata  dal  contatto  d'  una  data  consonante  o 
gruppo  consonantico.  Persuaso  inoltre  il  Canello,  che  tra  le  vocali  di 
.  posizione,  latina  o  romanza,  bisogni  sempre  ben  distinguer  quelle  brevi 


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70  F,  D'OVIDIO  [giornale  di  FiLOLoniA 

per  natura  da  quelle  per  natura  lunghe,  che  cioè  la  possibilità  dell' ab- 
breviazione della  vocal  di  posizione  per  effetto  della  posizione  stessa 
(come  nel  supposto  frtgdus  da  frJg[i^dus)  sia  un  mero  sogno  dei  roma- 
nisti, e  che  insomma  i  continuatori  romanzi  delle  vocali  lunghe  o  brevi 
in  posizione  formino  due  serie  tanto  ben  distinte  tra  loro,  quanto  quelle 
dei  continuatori  delle  lunghe  o  brevi  fuor  di  posizione  (1);  persuaso  di 
tutto  questo,  egli  istituisce  per  ogni  voce  dubbia  una  indagine,  risa- 
lendo, con  Tajuto  specialmente  del  Corssen,  alla  stessa  grammatica  sto- 
rica del  latino,  ed  alle  analogie  greche  (2).  E  finalmente,  d'ogni  mi- 
nima eccezione  apparente  o  reale  egli  si  vuol  render  pieno  ed  esatto 
conto,  non  sapendosi  mai  rassegnare  a  vedervi  alcun  che  di  meramente 
casuale  o  capriccioso. 

Un  lavoro  così  condotto  deve  riuscir  necessariamente  utile,  anche 
se  qua  e  là  lasci  qualche  cosa  a  desiderare,  o  se  trascorra  in  qualche 
eccesso.  Tuttavia  non  sarà  mai  male  che  il  Canello  renda  in  avvenire 
vie  più  sicura  l'utilità  del  suo  lavoro,  evitando  certe  sviste,  e  guardan- 
dosi da  un  certo  abuso,  che  gli  accade  talvolta  di  fare,  delle  stesse 
buone  qualità  della  sua  mente.  E  di  tali  sviste  e  di  tali  abusi,  ne' due 
capitoli  già  pubblicati  del  suo  lavoro,  passo  ora  subito  a  fare  T enume- 
razione; con  l'animo  tanto  più  tranquillo,  in  quanto  la  fida  e  schietta 
amicizia,  che  da  gran  tempo  mi  lega  al  Canello,  rende  impossibile  tra 
noi  perfino  il  sospetto  del  malvolere.  Già  il  Flechia,  nella  Rivista  di 
Torino  (anno  IV,  p.  342-45),  fece,  tra  molte  lodi,  alcuni  appunti  al  ca- 
pitolo sull'i;  e  le  amichevoli  osservazioni,  che  io  farò  ora  seguire,  sono 
in  certo  senso  un'appendice  alle  osservazioni  autorevolissime  dell'illustre 
professore  torinese. 

In  prima,  troviamo  qua  e  là  qualche  ragguaglio  inesatto  sulla  pro- 
nunzia stretta  o  aperta  dell' e;  e  propriamente  troviamo  data  per  aperta 
1'^,  che  invece  è  chiusa,  di  creta  (p.  512),  credito  (513),  cicerchia  (520), 
cedro  (518),  decreto  (11,  512),  hnpito  (15)  (3):  e  per  chiusa  Ve  di  Pro- 
venza  (15),  separa  e  cèreo  (513),  dove  invece  si  ha  Ve  aperta:  cosa 


(1)  Insomma,  quella  norma  che  noi  pò-  Zeitschrift  del  Gròber  (voi.  I,  p.  510-522), 
tremmo  formulare  in  questa  proporzione,ren-  e  di  quello  sulPt  cito  le  pagine  della  tira- 
de  (vendit;  efr.  v?numdo,  vèmUis)  :  r^)ìde  tura  a  parte  (p.  1-19). 

(rèdditi  cfr.  rMeo)  ::  vélo  {velum)  -.bène  (3)  Cessa  dunque  il   bisojrno  di  ri|Utar 

(bene),  dev'essere,  secondo  lui,  la  norma  creta  una  voce  dotta;  il  che  al  Canello  stesso 

costante  e  immutabile.  —  Avvertiamo  che  é  non  poteva  piacere,  stante  il  significato  di 

vale  e  stretta,  è  vale  e  aperta,  alla  fran-  questa  voce.    E  cessa  pure  la  necessità  di 

CGse:  cosi  sempre  in  questo  scritto.  spodestare   P  etimo   citrvs  citrum ,   posto 

(2)  Su  questo  punto  il  Canello  ha  qualche  giustamente  dal  Diez  (v.  Etym,  Wórtb,^  s. 
bella  pagina.  Vedi  a  p.  517-8  dello  studio  cedro) ^  e  di  assumere  col  Canello  il  cedrus 
Buir«.  —  Avverto  una  volta  per  tutte,  che  (yJ^^o;), 

dello  studio  suir<?  io  cito   le  pngine  della 


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BOMANZA,  s.o  2]        DI  UNO  STUDIO  DEL  PROF,  CAMELLO  71 

tanto  più  naturale,  iu  quanto  cereo  e  separa  son  voci  non  popolari  (pop. 
è  separa).  Del  resto  il  Canello  s'è  sempre  mostrato  de' più  esperti  della 
pronunzia  toscana;  né  di  poche  sviste  si  può  far  carico  a  chi  non  è  to- 
scano, né  ha  dimorato  iu  Toscana,  e  mentre  i  filologi  toscani  ci  danno 
generalmente  così  poco  ajuto. 

A  pag.  520,  il  Canello  attribuisce  francamente  al  latino  pejus  Ve 
breve  {^n  péjiis  che  sta  per  pes-ius;  cfr.  pes-tis  »),  e  così  si  spiega  Ve 
aperta  di  peggio,  Msipejus,  donde  che  provenga  (1),  ha  indiscutibil- 
mente Ve  lunga,  e  pare  impossibile  che  il  C.  non  se  ne  sia  rammen- 
tato. D'altro  lato.  Ve  aperta  del  nostro  peggio  trova  sufficiente  ragione 
nell'analogia  di  nhèglio  =  mèlius. 

A  pag.  9,  fonda  il  suo  ragionamento  sopra  un  lìnea.  Ma  vera- 
mente è  linea;  ed  egli  stesso  l'avea  riconosciuto  a  pag.  7. 

In  generale  poi  il  C.  inclina  troppo  ad  attenersi,  senz'altro  cura, 
a  quelle  autorità  che  lo  levano  d'imbarazzo.  A  pag.  8  s'attacca  su- 
bito al  claviadum  dato  da  Luciano  Miiller,  senza  prendersi  alcun  pen- 
siero del  clavicula,  che  ogni  lessico  latino  dà,  e  per  buone  ragioni.  E 
così,  non  so  neanche  se  ajutato  dal  Miiller,  pone  un  crattcula,  un 
ericiuSj  come  se  i  lessici  non  dessero,  e  pur  sempre  per  buone  ragioni, 
cradcula  e  ertciiis.  Anche  il  ventrìculus,  che  egli  mette  avanti,  non 
senza  però  grande  esitazione,  a  pag.  13,  è  contrario  a  tutte  le  attesta- 
zioni che  si  hanno  per  la  quantità  dell'i  di  questa  voce. 

A  pag.  13,  mette  assieme,  come  spettanti  alla  stessa  famiglia,  di 
vocaboli,  avvince  convince  vinùulum.  Ma  convincere  italiano  è  tal  quale 
il  convinccì-e  del  lessico  latino  (da  vinco),  e  avvincere  risale  a  tutt' altro 
verbo:  a  vincire,  con  cui  va  anche  vincuhim  (2). 

A  pag.  514,  trae  scelto  da  selectum,  scegliere  da  seligere.  E  questo 
un  semplice  additamento  alla  buona,  e  consapevolmente  inesatto,  del- 
l'etimo latino,  0  è  un  espresso  rinnegamento  dell'etimo  comunemente 
accettato  ^exeligere?  Se  è  quest'ultima  cosa,  confesso  di  non  saperne 
immaginar  le  ragioni. 

A  pag.  11,  pone  chrìsma=^  XP^'^I^^*  Ma  veramente  è  xp^'^i^^»  Ora 
il  Canello  si  sarà  accorto  egli  stesso  dell'errore  (3). 

A  pag.  8,  ammette  come  una  delle  due  ipotesi  possibili,  che  in 
prènce  con  e  aperta  s'  abbia  pronuncia  dotta  di  un   arcaico  popolare 


(1)  Cfr.  CoRSSEN,  Aussprache  ecc.  F,  .'^05.  ovrai*  cof^i  lo  stXria  stilla  (p.  8)  per  sttria 

(2)  Cfr.  CoRSSEN,  Ausspr.  ecc.  I*,  499,  stVia,  V uhimo  empito  dì  p.  15  dove  il  senso. 
540,  542.  vuole  empito,  il  bene  di  p.  515  per  bène, 

(3)  Semplici  errori  tipografici  saranno  Y accorciarsi  di  p.  521  (Un.  8)  per  allun- 
(Txnv^j  (a  pag.  5  e  a  pa^.  520)  per  ffx>jviQ,  garsi,  VE  lunga  accentuata  di  p.  510  per 
àpyì^oJ  (p-  8)  per  «pyDo;,  èoérfio;  (p.  512)  E  accentuata. 

per  èptryiò;,  Troieovra  (p.  518)  per  ttois- 


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72  F,  D'OVIDIO  [oionxALE  di  filologia 

prènce  con  e  stretta  da  princeps.  Ma  il  C.  ha  dimenticato  che  con  le 
sue  dottrine  egli  non  ha  il  diritto  di  far  venire  un  prènce  da  princeps^ 
che  è  certamente  ^nwc^j)5  à^,  prlnius.  Egli,  si  sibi  constare  vult^  non 
può  ammetter  per  legittimo  che  V arca.ìco  prince  (l'avrebbe  Dante,  Pg.  X, 
74;  ma  fuor  della  rima,  e  la  lezione  non  è  sicura,  come  si  può  vedere 
nel  Dante  del  Witte,  in  quel  dello  Scartazzini,  ecc.;  ma  Tha  di  certo, 
e  due  volte  in  rima,  il  Dittamondo^  I,  9  e  26;  V,  17). 

E  poiché  ci  troviamo  così  venuti  ad  errori  piuttosto  d'argomenta- 
zione che  di  fatto,  aggiungeremo  qui  qualche  altra  nota  di  simil  ge- 
nere. A  pag.  6,  per  ispiegarsi  Ve  italiana  da  ^  latino  in  fégato  ed 
artètico^  osserva  come  una  tal  mutazione  siasi  potuta  consumare  in  tali 
voci  prima  che  Vi  vi  diventasse  tonico,  vale  a  dire  quando  esse  voci 
erano  ancora  fìcàtum,  apS-pìrcco;.  Quanto  b,  fégato^  benché  pur  mi  resti 
qualche  dubbio,  non  voglio  nulla  objettare.  Ma  per  artetico,  trattan- 
dosi d'un  vocabolo  greco  ossitono,  e  quindi  ripugnante  alle  norme  ac- 
pentuali  del  latino,  non  è  poi  cosa  tanto  semplice  il  dire  che  in  latino 
stesso  l'accento  di  questa  voce  si  sia  potuto  mantenere  un  bel  po' al 
suo  posto  originario,  tanto  da  dar  tempo  all'i  protonico  di  diventare  e,  A 
che  età  s'immagina  il  Cauello  che  la  nostra  voce  sia  stata  immessa  dalla 
Grecia  in  Italia?  Se  dobbiam  tener  conto  di  arthriticus  che  abbiamo 
in  Cicerone  {Ad  fam,  9 ,  23),  esso  ci  riconduce  a  un'epoca  in  cui  troppo 
ci  ripugna  il  mettere  un  arthretlcó  =  àpBpnrAÓ^,  Io  non  dimentico  qual- 
che esempio  meridionale:  i  leccesi  fu4dó=  cpe).>ó;,  e  asinicói  (campo- 
bassano vaseiìecóla)=^u7th/,óz  (Arch,  glott.  IV,  138).*  Ma  essi  appar- 
tengono a  un  ambiente  diverso,  e  a  un'epoca  diversa:  e  poi  in  essi  la 
conservazione  dell' ossitonismo  greco  è  un  fatto  evidente,  non  un  sup- 
posto. E  infine,  allo  stesso  giuoco  d'accenti  ricorrerà  forse  il  Canello 
per  ispiegarsi  Vo  aperto  di  pitòcco  =  ti*. (si^/i q"]  E  a  che  potrebbe  ser- 
virgli l'accento,  per  spiegare  Vo  pure  aperto  di  tròta  =•■  TfoxTyjs 
tructa?  Il  vero  è  che  in  parole  esotiche  come  queste  è  una  pretensione 
eccessiva  il  voler  trovare  rigorosamente  preservata  la  quantità  origi- 
naria della  vocale;  e  il  Canello  stesso,  a  pag.  11,  a  proposito  della  to- 
nica aperta  di  zenzevero  (e  fin  zenmvero^  zenzòvero;  anziché  zenzévero  = 
zingiheri^=  i^ty-yt^epi)^  dice  di  non  doversene  preoccupare,  trattandosi 
di  voce  straniera.  Or,  per  quanto  il  caso  sia  certamente  non  poco  di- 
verso, a  me  non  costa  grande  sforzo  il  supporre  che  il  latino  popolare 
abbia  considerato  come  i  Vi  del  greco  àpBpJzr/,ig  (come  considerò  per  t 
V  L  di  p^o^T^a),  e  che  se  ne  sia  quindi  avuto  così  un  regolarissimo  ar- 
tctico.  11  quale,  mentre  resta  (e  con  Ve  stretta)  popolarissimo  nel  Mez- 
zogiorno, in  Toscana  è  uscito  dall'uso  comune  (1);  epperciò  v'ha  as- 


(1)  La  miovn  Crusca  non  lo  registra  di-     comunemente  nel  senso  di  «  mania  di  loc- 
faUi  tra  le  voci  d'uso.  —  Nel  Mezzodì  s'usa     car  tutto  » 


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«oMAjfzA,  N.«  2]       DI  UNO  STUDIO  DEL  PEOf.  C ANELLO  73 

sunta  la  pronuncia  dotta  con  è  aperta,  favorita  qui  anche  dalFanalogia 
(Ielle  tante  voci  in  'ètico  (poètico ,  patètico  ^  prof  ètico  ^  aritmètico,  diurè- 
tico, farnètico,  parlèiico  ecc.)  (1). 

A  pag.  12,  il  Canello,  che  ammette  che  strcglia  e  stregghia  rappre- 
sentino i  due  soliti  esiti  italiani  di  -G'L-,  trae  invece  l'altra  forma  stri- 
glia da  *strigìlat  ^strijilat  ^striflat  *stri1jat.  A  me  pare  che  striglia  non 
sia  che  una  semplice  variante  del  primo  dei  due  esiti,  cioè  che  non  dif- 
ferisca da  streglia  se  non  per  la  vocale  mantenuta  inalterata  (cfr.  tri- 
glia =  Tptyln^  e  meridionale  tréglia).  Né  poi  mi  sembra  giusto  il  muo- 
vere da  una  base  verbale,  meramente  ipotetica,  come  ^strigilat^  mentre 
abbiamo  in  pronto  la  base  nominale.  Striglia,  pel  comune  strigilis,  è 
negli  scolii  di  Giovenale,  e  ad  ogni  modo  sarebbe  troppo  facile  a  sup- 
porsi,  come  la  base  che  ha  dato  poi  ^strigilare  (2). 

A  pag.  519,  il  C.  tocca  della  grave  difficoltà  che  presentano  il  nome 
ménte,  la  finale  avverbiale  -ménte  e  il  suffisso  -mento,  per  la  pronunzia 
stretta  che  ha  in  toscano  il  loro  é  tonico.  La  grammatica  storica  del 
latino  non  può  argomentare  che  méntem  ménte  e  -méntum.  La  gram- 
matica neolatina,  specialmente  se  bada  ai  riflessi  spagnoli  e  meridionali 
italiani,  argomenta  pur  essa  un  é,  anziché  un  è,  originario.  Solo  la 
Toscana  rompe  l'accordo.  E  il  male  è  che  il  suo  e  chiuso  non  si  può 
considerare  come  l'effetto  di  una  speciale  e  costante  tendenza  della  pro- 
nunzia toscana  a  chiuder  Ve  avanti  al  gruppo  -ut-;  di  una  tendenza 
cioè  del  genere  di  quella  che  spiega  il  pièno  piego  per  pièno  piego,  e  con- 
siste in  ciò,  che  ogni  e  dopo  i  una  glottide  toscana  non  riesca  a  pro- 


(1)  Ma  il  Canello  ha  troppa  fede  nelle  abbiano  l't  breve;  e  una  tal  questione  è  ben 

rispondenze  esatte  tra  il  greco  e  il  latino,  lungi  dall'esser  risoluta,  se  pur  non  è  anzi 

ed  anche  in  cose  di  natura  assai  diversa  da  risoluta  in  senso  contrario  (cfr.  Curtius, 

quelle  toccate  qui  sopra.    Accenna  egli,  a  Griech.  FerèMwi,  I,  281-2):  e  mi  par  sover- 

pag.  13,  ai  dispareri  dei  lessicografi  greci  «Jhio  ardimento  volerla  risolvere,  come  fa  il 

intorno  alPaccentuazione  (che  è  come  dire,  Canello,  in  modo  doppiamente  indiretto. 

Rtan  i  le  leggi  dell'accento  greco  nella  pe-  (2)  Così,  nella  pagina  stessa,  resta  ini:- 

nultima  sillaba,  intorno  alla  quantità)  della  tile  porre  accanto  al  nome  trebbia  tribbia 

voce  atft;  o  p?'?;  «  dice  che  que* dispareri  la  base  verbale  tribulat;  poiché  il  lessico 

devono  cessare,  avanti  agl'italiani  mésce  e  latino  ci  dà  sùbito,  oltre  il  tribulum  di  Vir- 

méscola  che  accertando  Vi  nei  latini  mi-  oilio   (Georg.  1,164:  Tribulaque  traheae- 

*c^f  ecc.,  vengono  ad  accertare  così  la  forma  que  et  iniquo  pondero  rastri)  e  di  altri,  il 

pt?i;.  Ma  circa  la  brevità  della  rad.  yny^  tribida  di  Columella  (  e  il  Klotz  nota  -ìf-, 

(cfr.  sa nscr.  mt^ras)   in   più   voci   greche,  non  so  perché,  non  citando  egli  nessun  luogo 

come  pttynvott,  ^r/aéo-a,   èutyrjv ,    non   e'  è  dal  libro  X,  il  quale  per  essere  in  versi  ci 

dubbio  alcuno,  sol  che  si  vogliano  scandire  darebbe  la  quantità  dell'i;  il  Porcellini  no- 

i  versi  de' poeti  greci  in  cui  occorrono.    La  tava  trìbula,  ma  aveva  anche  un  trSbla, 

questione  è  se  tutti  i  derivati  d'essa  radice  che  sarebbe  stato  prezioso). 

*  Mi  par  di  ricordarmi  che  il  Flechla  m*  abbia  una  volta  suggerito  un  veneto  liogó  =  y,),t3txov 
•    tiogo  aprico  «.    Al  quale  ben  si  applica  quel  che  io  dico  degli  csempj  leccesi. 


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7-1  F,    jy  OVIDIO  [gIOUNALE   1)1   FILOLOGIA 

nuDziarlo  se  non  aperto.  No;  perché  il  toscano  tollera  benissimo  Ve 
aperta  in  tntte  le  lunghe  serie  dei  participj  e  aggettivi  in  -ènte,  nei  nomi 
in  "ènto  come  vènto,  stènto,  tulhìto,  lènto  (1),  nelle  voci  verbali  come 
sento ^  tento ^  jjènto  (2)  (e  cfr.  i  gernndj  in  -endo^  gli  astratti  in  -ènza). 
11  Canello  «  fino  a  migliore  spiegazione  del  fatto  »  propone  di  vedervi 
«  un  puro  istinto  diflferenziativo  tra  il  nome  ménte  e  il  verbo  mento  zz 
mentior  ecc.;  differenziamento  che  si  allargò  poi  anche  agli  avverbi  in 
'mente  e  ai  nomi  in  -mento  >.  Pur  troppo  io  non  ho  saputo  escogitare 
mai  quella  migliore  spiegazione  del  fatto,  che  il  C.  invoca;  ma  questo 
non  mi  terrà  dal  dire  che  la  spiegazione  sua,  anche  così  in  via  prov- 
visoria, non  mi  par  punto  plausibile.  Mentire  non  è  di  quei  verbi  che 
continuamente  ricorrano  nel  discorso,  benché  la  cosa  ch'esso  significa 
sia  pur  troppo  d'uso  assai  comune  nel  moudo;  e  inoltre  non  ha  che 
quattro  voci  dell'indicativo  e  quattro  del  congiuntivo  con  Ve  accen- 
tata. E  come  dunque,  per  poche  sue  voci,  che  anzi  son  pure  vacillanti 
per  la  concorrenza  fortunata  che  lor  fanno  le  corrispondenti  voci  deboli 
{mentisco  -isci  -isce  -iscono  ecc.),  avrebbe  avuta  tanta  forza  da  obbligare 
ménte,  e  tutta  la  falange  degli  avverbj  in  -mente  e  dei  nomi  in  -ménto^  a 
mutar  pronunzia?  Se  da  una  parte  bisognava  mutare,  era  molto  più 
naturale  mutasser  pronunzia  le  povere  voci  di  mentire. 

A  pag.  513 ,  il  C.  mette  centesimo,  e  simili  voci  numerali  ordinative, 
tra  le  voci  dotte  e  semidotte.  Non  ci  ho  nulla  a  ridire:  l'è  aperto  del 
suffisso  'esimo  =  -èsimus  non  può  esser  eflfetto  che  d' una  pronunzia  non 
popolare  (popolare  è  quarésima  =  quadragesima);  e  così  è  pure  dell' ò 
aperto  di  nòno  =  nonus.  Siccome  però  resta  un  po'  strana  questa  impo- 
polarità delle  voci  numerali,  così  era  bene  che  il  C.  ci  facesse  intorno 
qualcuna  delle  sue  solite  considerazioni.  Non  pare  a  lui  che  l'influsso 
di  dècimo  =  décimus  abbia  ajutato  Ve  per  e  di  -esimo?  E  ad  ogni  modo 
non  era  bene  osservare  come  nelle  nuove  lingue  il  numerale  ordinativo, 
tranne  per  i  numeri  piìi  bassi,  cedesse  quasi  del  tutto  le  sue  funzioni  al 
numerale  cardinale?  Noi  diciamo  i  venti  del  mese,  diciamo  l'anno  mil- 
leottocentosettantotto ,  chiamiamo  il  numero  cinque  chi  occupa  il  quinto 
posto  in  un  convitto,  in  un  albergo,  in  un  carcere,  i  Francesi  dicono 
Louis  quatorise:  tutti  casi  in  cui  i  nostri  padri  Latini  avrebbero  usato 
l'ordinativo.  E  ciò  spiega  come  la  serie  numerale  ordinativa,  pur  ri- 
manendo sempre  presente  alla  mente  nazionale,  le  sia  rimasta  più  in 
forma  letteraria  che  popolare. 

Ma  veniamo  al  nostro  principal  proposito.  11  Canello,  come  s'è 
detto,  si  vuol  render  ragione  della  minima  deviazione  d'ogni  singola 


(1)  Però  mènto^mcntirm  ha  Ve  stretta.  (2)  Però  addormento  ;  oltre,  beninteso,  i 

UsLnpwreVe  s,ireU3i  ménta  (wentha  itiy^x)^     derivati  di  ménte  {rammento^  e  com'esso 
Tréììto  {Tridrntit.m).  \\  gi.\  latino  verbo  commèrcio). 


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ROMANZA,  N.«  2]        DI  UNO  STUDIO  DEL  PliOF.  CAMELLO  75 

parola  dalla  norma  comune,  e  per  ciò  ricorre  or  a  questa  or  a  quella 
supposizione.  L'espediente  però,  per  il  quale  ha  la  maggior  predile- 
zione, è  di  tentar  di  risospingere  ad  epoca  preromanza  ogni  anomalia 
romanza;  di  rappresentarcela  cioè  come  un'anomalia  soltanto  apparente, 
che  in  fondo  si  risolva  in  una  normale  continuazione  d'un' anomalia  an- 
tichissima, surta  già  in  grembo  al  romano  volgare.  Or  con  questo 
espediente  si  posson  veramente  sciogliere  in  dati  casi  difficoltà  non 
lievi,  come  p.  es.  col  porre  a  base  di  tutti  i  riflessi  neolatini  di  ovtim 
{òvum)  e  di  simìd  piuttosto  un  ovum  e  un  scmul,  s'è  sciolta  la  difficoltà 
che  c'era  nell' ammettere  che  casualmente  tutti  gl'idiomi  romanzi  s'ac- 
cordassero a  trattare  l' ó  di  ovum  come  d,  l' e  di  simul  come  è.  Ma  col 
fame  un  uso  intemperante,  noi  non  verremmo  poi  che  a  commettere  spen- 
sieratamente molti  temerarj  anacronismi.  11  toscano  ha  tèmo  con  è 
aperta,  anziché  con  Ve  chiusa  che  timeo  dovrebbe  aver  dato,  ed  eccoci 
subito  a  supporre  un  latino  popolare  temeo  (p.  9);  la  spagnolo  haplicgo, 
ed  ecco  subito  pronto  un  plèco  ^er  plico;  il  toscano  ha  cède^  anziché 
céde^  da  cèditi  ed  è  beli' e  spiegato  con  «  un'antica  base  volgare  cacdit 
o  cédit  >  (p.  512).  Or,  se  ognuna  di  queste  supposizioni  non  ha  in  sé 
nulla  d'assurdo  o  d'inverosimile,  v'è  però  nella  loro  frequenza,  nella 
facilità  con  cui  vi  si  ricorre,  una  tendenza  viziosa  che  va  combat- 
tuta. Poiché  in  ultimo  essa  ci  condurrebbe  a  questo  bel  risultato  (troppo 
bello!),  che  nel  campo  romanzo  tutto  vada  per  la  piana,  tutto  proceda 
liscio,  con  una  regolarità  e  una  precisione  incantevoli,  e  tutte  le  ano- 
malie sieno  sorte  nel  latino  vero  e  proprio.  Risultato  a  priori  poco  plau- 
sibile ;  giacché  in  tutto  quanto  è  romanzo  e  non  latino  classico  noi  dob- 
biamo avere  i  sedimenti  storici  di  epoche  disparatissime,  oscillandosi  piiì 
o  meno  fra  due  punti  estrerai:  il  fenomeno  quasi  due  volte  millenare 
prodottosi  già  nel  latino  delle  plebi  e  dei  coloni  romani,  e  il  fenomeno 
dialettale  di  jeri.  Il  presente  indicativo  napoletano  alzo  =  alzo  è  cer- 
tamente una  forma  tardiva,  perché  coniata,  con  indebita  accentuazione, 
sull'infinito  napoletano  aizare  =  alzare  =  alzare.  Perché  dunque  il 
pur  napoletano  tu  miétte  «  metti  >,  che  invece  d'andare  regolarmente  con 
tu  sicché  «  secchi  >,  tu  vive  «  bevi  »  e  simili,  va  con  tu  liégge  «  leggi  >, 
tu  criepe  «  crepi  >  e  simili,  non  potrà  ritenersi  un  passaggio  meramente 
dialettale  e  recente  dall' analogia  più  corretta  ad  un'analogia  indebita, 
e  ci  dovrà  far  subito  fabbricare  un  latino  popolare  mèttis  per  mittis? 

Veniamo  a  qualcuno  dei  casi  in  cui  ci  riuscirà  meglio  di  dimo- 
strare la  inutilità  o  il  danno  di  tutto  ritrarre  ad  epoca  romana.  A  p.  514, 
il  Canello  pone  un  règnum  per  {spiegarsi  l'è  stretta  del  toscano  régno: 
un  règnum  che  è  smentito  dal  regno  con  e  aperta  che  tutta  l'Italia  non 
toscana  contrappone  al  régno  di  Toscana,  ed  è  smentito  da  règere  (1). 


(l)  Ed  è  smentilo  pur  dal  Corsrbn  {Aics-     messa,  nessuno  sembra  meglio  del  Canello 
»pt\  li',  2C5),  la  cui  autorità,  da  tutti  am-     disposto  a  riverire. 


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7«  F.  D'OVIDIO  [giornale  di  filologia 

Il  fatto  è  che  régno  deve  il  suo  é  a  una  peculiare  tendenza  fonetica  del 
fiorentino  e  dei  dialetti  che  vanno  con  esso.  Già  il  FlecLia  (art.  cit. 
p.  343-4),  due  anni  prima  che  il  Canello  pubblicasse  il  suo  bel  saggio 
suire,  avea  messo  benissimo  in  rilievo  come  in  fiorentino  il  suono  n 
soglia  influire  sulla  vocale  tonica  precedente,  t  od  e,  nel  senso  di  farle 
mantenere  od  assumere  il  suono  più  stretto,  cosicché  avanti  n  Vi  resti 
i,  come  in  comignolo  ^=  cuìmhieum^  gramigna -=  gramtnea  ecc.,  ed  e  sia 
stretta,  come  in  ingégno  =  ingénium  (e  in  régno  =  regnum).  Veramente 
la  norma  messa  in  rilievo  dal  Flechia  si  applica  allo  n  che  risulti  dalla 
formula  latina  N  + J  (li  E)  +  vocale,  non  propriamente  allo  n  risul- 
tante da  GN  latino,  il  quale  n  dev'esser  cronologicamente  diverso,  e 
punto  non  impedisce,  p.  es.,  T evoluzione  à' t  in  é  stretta,  com'è  pro- 
vato da  dégno  =  dignus,  pégno  =pignus,  ségno  =  sigmim,  légno  =  lignum. 
Ma  da  un  lato  può  ammettersi  che  lo  n=:GN,  pur  non  impedendo  l'evo- 
luzione da  t  ad  é,  la  qual  é  alla  fine  è  sempre  un  suono  chiuso,  impedisse 
però  la  pronuncia  dell'  é  come  e  aperta  ;  e  dall'  altro  bisogna  considerare 
che  regno  si  trovava  in  condizioni  affatto  particolari  e  individuali,  stante 
la  mancanza  di  altri  vocaboli  riflettenti  un  -EGN-  latino  ;  ed  era  quindi 
ben  naturale  ch'esso  fosse  attratto  dall'analogia  degli  altri  vocaboli  ita- 
liani in  'égno:  dégno  e  sdégno^  pégno,  ségno,  légno y  oltre  ingégno  (1). 
€  Stante  la  mancanza  d'altri  vocaboli  simili,  cioè  derivanti  da  -ÈGN- 
latino  >  ho  detto;  ed  ho  sbagliato:  c'è  x^régno.  Ma  è  appunto  questo 
che  finisce  di  darmi  ragione:  risalendo  a  "^praegnus  (praegnans),  il  che 
è  come  dire  che  risalga  a  ^prégno-  (cfr.  nap.  priéno  come  ciélo^  e  fem. 
pròna  come  cèca  =  caecat)y  è  la  prova  più  evidente  che  si  possa  avere 
toscanamente  é  =  é  av.  n(GN). 

Ma  gli  ardimenti  del  Canello  vanno  al  di  là  d'ogni  credere,  a  pro- 
posito di  certe  voci  verbali  italiane,  per  ispiegar  le  quali  egli  si  crea 
delle  nuove  e  mostruose  voci,  da  doversi,  a  parer  suo,  ascrivere  al  la- 
tino popolare.  Per  rendersi  ragione  di  temerono  egli  si  foggia  un  latino 
popolare  time{ve)runt  sul  tipo  di  comple{ve)runt  (p.  510);  per  vedemmo, 
avemmo,  egli  si  fabbrica  un  vide{vi)mus,  haòe{vi)mus,  come  comple(vi)mus 
(p.  514);  per  intendere  temesti ^  avesti,  temesse,  avesse,  facesse,  inventa 
time{vi)sti,  habe(vi)sti,  time{vi)sset ,  habe(vi)sset ^  face{vi)sset  (p.  514-5), 
sempre  sul  tipo  di  comple{vi)sti,  comple{vi)sset  !  Tanto  dunque  è  il  ri- 
spetto che  gì' incute  l'w  di  timuisti,  habuisti^  timuerunt,  da  non  fargli 
parer  possibile  che  mercé  la  soppressione  di  esso  si  passasse  da  queste 
forme  direttamente  alle  italiane  temesti,  avesti,  temerono?  Non  è  inau- 
dita la  soppressione  di  un  u  atono  in  iato  :  basti  ricordare  gennajo  = 


(1)  Le  voci  verbali  végno,  legno y  non  poco  salde,  avendo  in  rèrtgo,  tengo,  delle 
poleano  avere  nessuna  efficacia  sopra  una  rivali  ben  formidabili.  —  Quanto  poi  Krite- 
voce  nominale:  tanto  più  che  erano  andie     gno  e  simili ,  v.  Flechia,  art.  cit.  p.  344. 


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ROMANZA,  N.*»  2J        Bl  UNO  STUDIO  DEL  PROF.  C ANELLO  77 

januariìiSj  battere  =^  hattuere  ^  fottere=:futuere ,  vollero  =  vóluérunt ,  Ad- 
da =Addua;  beuclié  in  alcuni  di  questi  casi  si  tratti  anche  di  r  (u)  as- 
similato. E  poi  nel  caso  di  timuisti  =  tetnésii  e  simili  c'era  Tajuto  del- 
r  analogia  di  amasti,  udisti  =^  audisti,  vedesti  =^vidisti^  amarono  ==  anta- 
runt  ecc.;  ed  anche  di  quella  di  compiesti  =^ comple{vi)sti ,  compierono  =^ 
comple{ve)runt,  poiché  al  mio  egregio  amico  sta  tanto  a  cuore  questo 
tipo,  rappresentato  del  resto  in  latino  da  un  ben  scarso  numero  di  verbi, 
e,  per  di  più,  quasi  a  farlo  apposta,  spariti  pressoché  tutti  nella  trasmu^ 
tazione  del  latino  nelle  nuove  lingue  (si  ricordi  fiere,  adolere,  delere...)\ 
E  c'era  pure  che  Vu  di  timuisti^  timuerunt  ecc.,  nel  nuovo  assetto  che 
veniva  prendendo  la  coujugazione  andava  sempre  più  smarrendo,  avanti 
all'intuitiva  popolare,  il  suo  valore  morfologico;  onde,  anche  a  prescin- 
dere dalle  ragioni  fonetiche,  esso  appariva  facilmente  un  inutile  ingom- 
bro, che,  sull'esempio  degli  altri  verbi  che  n'erano  immuni,  andasse 
tolto  di  mezzo.  E  così,  facemmo  nessuno  oserà  dirlo  una  semplice  evo- 
luzione fonetica  di  fecimus;  ma  pure,  a  spiegarlo  non  son  più  che  suf- 
ficienti le  analogie  di  amammo  :=  amar imus,  udimmo  =  audivimtis,  f um- 
nw=fuimus^  e  l'attrazione  esercitata  da  facesti  =  f ecisti ,  e,  quanto  al- 
l'-a-,  l'influsso  delle  altre  voci  dello  stesso  verbo  (facciamo,  faceva  ecc.)  ? 
C'è  proprio  bisogno  di  crearsi  uientemento  che  un  facevimus? ! 

Lo  scrupolo  di  legittimare  ogni  minima  parte  della  parola  romanza 
è  lodevolissimo;  naa  che  per  troppo  scrupolo  da  un  lato,  si  faccia  dal- 
l'altro un  cosi  buon  mercato  della  parola  latina,  mi  pare  una  contra- 
dizione singolare.  Se  pure  non  si  voglia  ammettere,  dimenticando  l'unità 
della  scienza,  che  tutto  il  da  fare  del  romanista  deva  consistere  nello 
scaricar  tutti  i  garbugli  e  i  fastidj  addosso  al  latinista. 

Solo  questo  curioso  proposito  può  far  parere  soddisfacenti  certe  so- 
luzioni, che  in  fondo,  non  riuscendo  che  tutt'al  più  a  spostare  di  qual- 
che secolo  le  questioni,  sono  affatto  illusorie.  «  Abbiamo  »  scrive  il  Ca- 
nello  a  p.  511  <  la  serie  di  -èrio  che  dà  -ièro  -èro^  invece  di  rério  -ero; 
come  si  vede  in  mistèro  (mysterium),  battistèro^  cristèro  (clystèrium)^  mo- 

insterò,  fièra  (fèriam)^  cièra  (cèream  scil.  imaginem) Diremo  che 

da  fèria  s'ebbe  prima /?r;a  con  l'è  abbreviato  dalla  posizione  romanza? 
Ma  già  dovetti  negare  assolutamente  questa  attitudine  della  posizione 

ad  abbreviare  le  vocali  latine Tutte  queste  ed  altre  ipotesi  toruauo 

Tane  quando  si  tenga  conto  d' un' osservazione  prosodica  del  Muller,  De 
re  metr.  359.  Egli  ci  avverte  che  i  poeti  seriori  calcolano  breve  la  vocal 
tonica,  a  cui  sussegua  consonante  semplice  e  nn'i  che  faccia  iato:  co- 
pidsior,  suffràgium,  denàrius  ecc.    Adunque  avranno  calcolato  anche  mysté- 

rium  fériam Ogni  cosa  così  resta  dichiarata,  e  feria  fèria  fera  dà 

il  nostro  fiera,  come  férum  dà  fiero  ecc.  >. 

Ora  io  incomincio  dal  dire  che  le  stesse  licenze  de'  poeti  del  miglior 
tempo,   quando  il  linguaggio  della  letteratura  e  della  poesia   era  in 


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78  F.  D'OVIDIO  foionxALK  di  filolot.ia 

più  vivace  scambio  col  linguaggio  comune,  sarebbe  un'imprudenza  il 
considerarle  senz'altro  come  fenomeni  organici  della  lingua.  È  bensì 
vero,  p.  es.,  che  il  ttUèrunt  di  Virgilio  {EcL  IV,  61)  e  le  altre  forme 
simili  che  occorrono  in  esso  e  in  altri  poeti  a  lui  vicini,  accennano  a 
un'oscillazione  organica  del  linguaggio  comune  tra  la  finale  -èrunt  e 
la  finale  -erunt^  oscillazione  che  si  ripercuote  anche  nelle  lingue  ro- 
manze {temerono  =:timuér uni y  fecero  =  fécèruiit).  Ma  pur  nessuno,  e 
tanto  meno  il  romanista,  si  sentirebbe  di  considerar  come  organiche  le 
forme  àhjete  trisillabo  pel  quadrisillabo  àbidte ,  arjète  per  ariète,  flfivjo^ 
rum  per  fluvìorum,  che  occorrono,  non  che  in  altri,  in  Virgilio  stesso 
(En.  II,  16,  461;  Georg.  I,  482  ecc.  ecc.),  p  il  dystère  per  cìystère 
(x).u7T:5pos, -wpt  ecc.)  di  Emilio  Macro.  Tanto  più  è  necessario  esser 
guardinghi  con  le  licenze  de'  poeti  ai  quali  si  riferisce  l'osservazione  del 
MuUer  (Ausonio,  Boezio,  ecc.),  di  poeti  cioè  che  scriveano  una  lingua 
già  troppo  letteraria  e  artificiata,  già  troppo  aliena  dal  favellare  co- 
mune. Certo,  non  di  rado  la  parlata  comune  s'è  dovuta  come  insinuare 
inavvertita  nella  loro  lingua  scritta,  ma  bene  spesso  pure  le  peculiarità 
del  loro  linguaggio  poetico  devono  essere  state  creazioni  artificiali,  de- 
duzioni erronee  o  eccessive  delle  norme  tradizionali ,  ed  anche  addirit- 
tura trasgressioni  di  queste.  Soprattutto  per  la  quantità  delle  sillabe, 
della  quale  s'era  venuto  sempre  più  perdendo  il  sentimento  vivo,  che 
gran  valore  può  avere  per  noi  qualche  singolarità  o  anche  qualche  abi- 
tudine prosodica,  d'un  Ausonio  o  d'un  Boezio?  Chi  pretenderebbe  che 
la  lingua  d'Apollonio  Rodio  o  d'altro  poeta  alessandrino  facesse  te- 
stimonianza per  la  storia  naturale  della  lingua  greca,  come  la  lingua 
d'Omero  o  di  Sofocle? 

Ma,  lasciando  da  parte  la  questiou  pregiudiziale,  e  volendo  pure 
studiar  senza  diffidenza  i  ragguagli  prosodici  raccolti  dal  Mùller,  che  cosa 
essi  provano  in  realtà?  Intanto,  sui  tredici  casi  da  lui  riferiti,  sette 
sono  di  nomi  proprj  (Florianus,  Juliamis^  Justinmnns^  Majorianus ^ 
Nepotianus^  Vespasianus^  Seplasia)\  ed  ognun  sa  che  i  nomi  proprj  firn 
subito  parte  per  sé  stessi,  e  la  loro  connessione  etimologica  con  le  pa- 
ròle comuni  onde  derivano,  per  quanto  evidente  sia  per  poco  che  vi  si 
rifletta,  resta  facilmente  obliterata  perché  non  vi  si  riflette,  epperciò  di 
essi  le  alterazioni  si  fanno  più  spensieratamente.  Ancora,  sui  tredici 
casi,  sette  son  di  parole  dove  la  vocale  abbreviata  è  fuor  d'accento  (sei 
dei  surriferiti  sette  nomi  proprj,  più  un  meridiamis);  ed  ognuno  intende 
quanto  l'abbreviazione  dovesse  essere  più  agevole  per  le  vocali  atone, 
in  un'epoca  in  cui  già  s'andava  maturando  quello  stato  di  cose,  per  cui 
si  finì  a  concentrare  sulla  sillaba  accentata  quasi  tutta  la  forza  della 
parola.  Di  voci  dunque,  in  cui  l'abbreviazione  sia  un  fatto  veramente 
notevole,  non  ce  ne  son  date  che  cinque:  copiòsior^  denàrius^  duodenà- 
rius,  inscltia,  suffràgium.    Or,  se  alla  abbreviazione  della  vocale  tonica 


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KoMAjizA,  N.*»  2J       DI  UNO  STUDIO  DEL  PBOF.  CANELLO  79 

in  qaeste  parole  noi  vogliamo  cercare  nn  motivo  naturale,  cioè  che  non 
consista  in  un  mero  capriccio  od  inganno  di  que' poeti,  dovremo  pure, 
poiché  la  vediam  condizionata  dal  succedere  alla  vocale  tonica  la  for- 
innla:  consonante  +  i  atono  +  vocale,  riconoscerla  cagionata  da  ciò,  che 
eonsonantizzatosi  Vi  atono  o  propagginatosi  da  esso  un  ;,  si  venisse  così 
a  formare  un  gruppo  consonantico  (5;,  r;,  tj^  gj  —  )  che  avesse  forza 
d'abbreviare  la  precedente  vocale.  E  così  riveniamo  appunto  a  quella 
concessione,  alla  quale  tanto  ripugna  il  Canellò,  che  cioè  la  posizione 
possa  abbreviare  in  certi  casi  la  vocale.  Ed  alla  stessa  nostra  spiega- 
zione mi  par  che  accenni,  benché  molto  confusamente  in  verità,  lo 
stesso  MuUer,  scrivendo  :  «  in  quibus  praeter  alias  causas  credo  adiutam 
correptionem  proprietate  i  litterae  ante  vocalem  sitae  illa,  qua  tempo- 
ribus isdem  parili  sub  couditione  ^  et  e  sonum  mutaverunt  ».  Né  che 
que' poeti  calcolassero  tuttavia  Vi  come  vocale  c'impedirebbe  di  credere 
che  la  sua  attitudine  ad  abbreviare  la  vocale  mediatamente  antecedente 
ad  esso  provenisse  dalla  sua  consonantizzazione  (se  si  ammette  poi  la 
propagginazione  del  j  —Hopiòsjior  —  io.  diflScoltà  non  ha  neanche  luogo). 
In  una  voce  come  su-ffrà-gi-um  per  su-ffrà-gi-um  noi  potremmo  ben 
avere  una  specie  di  compromesso  fra  1* alterazione  fonetica  popolare  e 
la  tradizione  della  lingua  scritta.  E  la  conclusione  di  tutto  è  che  il 
Oanello,  che  per  dispensarsi  dall' ammettere  la  possibilità  della  digrada- 
zione -è/ io  -èrjO"  èrjo  s'appellava  all' osservazione  prosodica  del  Miiller, 
non  è  riuscito  con  ciò  a  nulla,  se  non,  tutt'al  più,  a  meglio  determi- 
nare la  cronologia  dell' abborrito  fenomeno  dell'abbreviazione  della  vocale 
tonica  in  posizione  romanza. 

Del  resto,  se  esaminiamo  davviciuo  gli  esemplari  italiani  recati  dal 
Canello,  levando  di  mezzo  fièra  ^=^  fèria  e  etèra  =z  cèrea,  in  cui  Vie  è  ab- 
bondevolmente  spiegato  dalj  dell'ultima  sillaba  ( v.  Arch.  gloit,  IV,  124  u. 
149n. ),  ci  restano  mistèro^  batt'sth'O^  cristcro,  monistèro;  della  popo- 
larità dei  quali  è  molto  lecito  il  dubitare.  Già,  una  forma  poi  vera- 
mente popolare,  come  l'abbiamo  in  mestièro  =  mimstérmm^  essi  non  ce 
la  danno.  Hanno  semplicemente  quella  forma  -èro^  che  accenna  piìi 
propriamente  a  un'origine  dotta  o  semidotta,  come  nessuno  meglio  del 
Canello  può  sapere.  Ed  io  credo  in  verità  che  sien  proprio  voci  semi- 
dotte. Cristèro  =^ clystèrium  (/J.wjzr^piov^  da  x^ù^o)  lavare)  non  ha  il 
gruppo  iniziale  ridotto  popolarmente  a  kj-,  ma  solo  la  superficiale  altera- 
zione di  l  in  r;  ed  è  voce  della  terminologia  medicale.  Gli  altri  tre 
nomi,  cui  può  unirsi  anche  saltèro j  son  voci  del  latino  ecclesiastico  (1). 
E  a  ribadire  il  loro  -èro  può  aver  contribuito  V  analogia  di  impèro  =^ 
impèrium^  ministèro  ^=- ministèrium  (voci  anch'esse  semidotte,  del  resto, 


(l)  Il  veneto  monastici'  può  essere  un'alterazione  terziariii 


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80  F.    D'OVIDIO  [«lORXALB    DI    FILOLOOIJL 

ma  dove  Ve  originaria  renderebbe  organicamente  legittima  Ye  aperta^ 
anche  se  fossero  voci  popolari),  e  delle  molte  voci  in  -iero  da  -èro- 
(  fièro  =  fcrm . . . .  )  e  da  'Oerìo-  (primièro ....). 

A  pag.  5,  cita  carèna^  in  cui  Ve  mal  risponde  all'I  del  latino  ca- 
rina; e  per  spiegarselo  sospetta  «  un  latino  volgare  o  tecnico  carèna 
caraena  »  che  avrebbe  riprodotto  il  greco  xdpr,va  (con  la  successione 
ideologica:  testa,  guscio,  fondo  di  nave)  come  scena  scaena  riproduceva 
<j<rtviì.  Ma  mi  par  troppo  duro  staccare  carena  da  carina;  né  mi  par 
prudente  far  tanto  assegnamento  sopra  la  oscillazione  della  scrittura  in 
scena  scaena^  che  può  esser  dovuta  a  tante  diverse  cause.  Il  più  che 
noi  possiamo  supporre,  considerato  Ve  di  carèna  e  gli  altri  riflessi  ro- 
manzi che  tutti  mal  s'acconciano  a  un  I  latino,  si  è,  che  s'avesse  un 
carena  iu  latino  oltre  carina  (molte  supposizioni  simili  fa  il  Canello  a 
pag.  6-7),  e  che  un  carena  italiano,  nato  da  quello,  abbia  poi  assunto 
la  forma  semidotta  (carèna). 

Nei  §§  Vili  e  XI  il  Canello  tenta  di  spiegare  fisiologicamente  per- 
ché l'I  lungo  latino  séguiti  a  suonare  i  iu  italiano,  e  l'f  breve  siasi  fiatto 
é;  e  perché  Ve  latino  suoni  in  italiano  e,  eV è  suoni  è  o  iè;  e  perché 
abbiano  insieme  confluito  la  corrente  dell' ^  e  quella  dell'I  II  tentativo 
è  ingegnoso,  né  altrimenti  poteva  essere  poiché  è  del  Canello,  ma  in  fin 
delle  fini  mi  riesce,  se  l'ho  a  dire,  una  fantasticheria  solenne.  Forse 
il  tempo  non  è  maturo  per  potere  rerum  cognoscere,  causas;  forse  i  ten- 
tativi per  iscoprir  queste  non  possono  essere  oggi  che  infelici  (1);  forse 
riusciranno  meglio  quando  sieno  più  compiutamente  raccolti  e  meglio 
appurati  i  fatti.  Comunque  siasi,  il  tentativo  del  Canello  non  mi  pare 
iu  nessun  modo  soddisfacente.  Né  egli  può  pretendere  le  ragioni  di 
questa  mia  poca  soddisfazione,  egli  che  ha  costruito  un  sistema,  tutto 
ipotesi  e  afférmazioni  gratuite.  Sopra  un  sol  punto  però  insisterò  vo- 
lentieri. 

L'è  lungo  latino  è  ora  normalmente  é  stretto  nel  toscano,  negli 
altri  dialetti  del  centro  d'Italia  che  van  con  esso,  e  nei  dialetti  cam- 
pani e  abbruzzesi,  ed  è  i  nel  leccese  e  nel  calabro-siculo.  Se  qualcosa 
dovessimo  argomentare  da  tutto  ciò,  ei  sarebbe,  mi  pare,  che  in  latino 


(1)  11  mio  egregio  amico,  prof.  Morosi,  nostri  dialetti  meridionali,  ha  però  il  dirtongo 
(perdendo  il  quale  la  dialeitologia  ha  tanto  malgrado  V-a  finale  (pìferta,  tiet^a  ecc.),  la 
sC'ipitato,  quanto  ha  guadagnato  la  storia  at-  quale  lo  impedisce  invece  nei  noptri  dialetti, 
tirandolo  a  sé)  ne  ha  fatto  uno  per  spiegare  i  II  meglio  dunque  mi  par  che  sia  rertringersi 
dittongamenli  meridionali  {Arch. glott.,  IV,  per  ora  a  raccogliere  i  fatti,  a  verificare  da 
124  n.), che  egli  riterrebbe  cagionati  dalT-t  e  quali  condizioni  sia  in  ciascun  idioma  ro- 
dair-«  finali.  Io  non  so  obiettargli  nulla;  ma  manzo  determinato  il  dittongamento.  La 
solo  mi  pare  che  non  si  po-^sa  ripoy^ar  sicuri  sintesi  potrà  venir  poi;  e  forse  dovrà  gio- 
sulla  sua  ^spiegazione,  quando  si  pensi  che  Io  varsi  anche  dei  dati  che  si  possan  racco- 
spagnolo,  che  p''re  iu  più  punti  coincide  coi  gliere  dagl'idiomi  non  romanzi. 


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nomxzA,  Ti-  2]        DI  UNO  STUDIO  DEL  PROF.  CANELLO  81 

Ve  lungo  avesse  un  suono  piuttosto  chiuso.  Ma  no:  al  Canello,  per 
ben  architettare  il  suo  sistema,  importa  di  credere  Ve  latino  suonasse 
e  aperto,  e  chiuso  invece  Ve  breve.  E  per' dar  di  ciò  qualche  prova 
storica,  egli  s'appoggia  alle  doppie  grafie  scoia  scarna j  caespes  cespes  ecc. 
(p.  520).  Poiché  il  dittongo  ae  era  certo  un  e  largo,  dunque  (pensa 
il  Canello),  se  scaena  caespes  si  scrivevano  indifferentemente  anche  scena 
cespes  (dove  Ve  dev'esser  per  forza  è),  ciò  vuol  dire  che  anche  Ve  aveva 
nn  suono  come  V  ae,  cioè  un  suono  largo.  Ora,  io  non  ho  tempo  né 
modo  di  entrare  in  un  accurato  esame  critico  di  queste  doppie  grafie, 
le  quali  però  n'avrebbero  un  gran  bisogno;  e  voglio  lasciare  anche  dap- 
parte  T obiezione  pregiudiziale  che  si  potrebbe  fare  all' argomentazione 
del  Canello,  rammentandogli  che,  se  l'oscillazione  dell'ortografia  può 
spesso  sussistere  anche  nella  perfetta  identità  del  suono,  ciò  non  vuol  poi 
dire  che  essa  non  rappresenti  mai  l'oscillazione  della  pronunzia  stessa. 
Mi  restringerò  a  una  sola  osservazione.  E  egli  vero  o  no,  che  le  lingue 
neolatine  riflettono  V ae  latino  come  se  fosse  é  {cielo  =  caelum  come 
piede  =p^de')^  e  che  questo  accenna  a  un'antica  coincidenza  organica 
tra  ae  ed  è?  Se  dunque  il  Canello,  che  certo  non  vuol  negare  questo 
fatto  elementare  della  grammatica  neolatina,  si  ostina  poi  dall'altro 
lato  a  stabilire,  sulla  scorta  di  quelle  tali  doppie  grafie,  l'altra  equa- 
zione tra  o€  ed  ^,  egli  non  potrà  sfuggire  —  se  pure  è  vero  che  due 
cose  eguali  a  una  terza  sono  eguali  tra  loro  —  alla  conclusione  curiosa, 
e  affatto  contraria  all'intento  suo,  che  ^  ed  ^  avessero  lo  stesso  suono! 

A  credere  aperto  il  suono  latino  dell' e  lunga,  dice  il  Canello  che 
ci  deve  confortare  anche  il  fatto,  che  gli  esempj  citati  da  Quintiliano,  I, 
4,  8,  di  è  proferita  e  stretta  sono  tutti  fuor  d'accento  (p.  520)..  Questo 

tutti  però  si  riduce ad  uno!    Il  Canello  deve  aver  preso  un  appunto 

generico  nei  suoi  fogli ,  ed  essersene  poi  giovato  molto  dopo,  quando  avea 
già  dimenticato  il  preciso  contenuto  del  passo  di  Quintiliano,  e  così  ha 
finito  per  dare  a  questo,  senza  volerlo,  una  estensione  eccessiva.  Son 
cose  che  accadono  a  tutti,  anche  ai  migliori,  anche  ai  Canello;  e  bi- 
sogna non  aver  esperienza  di  quel  che  sia  il  lavorare  per  poterne  pren- 
dere scandalo.  Però,  il  fatto  è  che  Quintiliano  non  cita  che  un  unico 
magro  esempio:  «  in  here  »  (jeri)  «  ncque  E  piane  ncque  I  auditur  ». 
E  ne  riparla  dopo  al  §  22  del  capitolo  7.":  «  Here  nunc  E  littera  ter- 
minamus:  at  veterum  Comicorum  adhuc  libris  invenio,  Hcri  ad  me  vetiit: 
qnod  idem  in  epistolis  Augusti,  quas  sua  manu  scripsit,  aut  emendavit, 
deprehenditnr  ».  E  fossero  anche  pia  d'uno,  che  proverebbero  mai  co- 
siffatti esempj?  Cosa  potremmo  dedurre  noi,  per  la  pronunzia  dell'^ 
italiano,  dalle  doppie  forme  dicce  dieci ^  forse  forsi,  stamane  stamane  ecc.  ? 

Una  conferma  eteroglossa  della  naturai  tendenza  dell' ^  lunga  al 
suono  stretto  ce  la  dà  il  greco.  La  pronunzia  i  greco-moderna  dell' y» 
suppone  una  fase  anteriore  di  n  pronunziata  e  stretta.    Qui  forse  il  Ca- 


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82  y.  D^  OVIDIO  [GionNALE  di  filologia 

nello  mi  direbbe  che  T»,  essendo  spesso  an  succedaneo  deir»,  debba 
avere  avuto  perciò  il  saono  di  e  aperta,  cioè  il  più  vicino  a  quello  del- 
l'«.  Ma  io  gli  risponderei  che  ognun  altro,  fuorché  un  romanista,  po- 
trebbe fare  un'argomentazione  simile.  L'è  che  in  francese  e  in  altri 
idiomi  romanzi  sottentra  all' A  tonico  latino,  non  è  essa  di  suono  stretto? 
Nell'antico  francese  le  voci  come  parler^  cìtet  ecc.  non  poteano  assonare 
con  bel^  fer,  ecc.  aventi  Ve  aperta  (cfr.  Paris,  S.  Alexis^  p.  49-53).  E 
siccome  anzi  nell'  antico  francese  anche  Ve  di  pcdre  pere,  medre  mere  ecc. 
era  tuttora  stretta,  così  noi  possiamo  stabilire  questa  bella  propor- 
zione: mere  ant.  fr.  :  madre  ital.  :  :  fx/jryjp  jonico  :  ii^zrjo  dorico. 

Del  resto  la  teoria,  che  Ve  lunga  latina  suonasse  aperta,  è  del 
Corssen  {Ausspr.  ecc.  P,  325-9)  (1);  al  quale  allude,  censurandolo, 
l'Ascoli  {Siudj  critici^  li;  18).  Non  mi  fa  troppo  specie  che  la  propu- 
gnasse il  Corssen,  che  si  aggirava  nell'ambiente  latino;  ma  ben  mi  pare 
strano  che  se  ne  sia  tanto  invaghito  il  Canello,  romanista,  e  solito  quindi 
a  vivere  tutti  i  giorni  tra  fatti  che  solennemente  la  smentiscono. 

A  me  pare  che  nello  stato  presente  delle  nostre  cognizioni  noi  non 
possiamo  asserire  altro  che  questo:  la  differenza  quantitativa  che  correva 
in  latino  tra  è  ed  è  si  risente  ancora,  dopo  tanti  secoli,  in  italiano,  sotto 
forma  di  differenza  qualitativa.  Se  poi  la  differenza  qualitativa  sia  una 
trasforma^ioìie  della  differenza  quantitativa,  o  se,  com'è  più  probabile, 
coesistesse  già  in  latino  quella  con  questa,  dimodoché  sparita  questa  sia 
rimasta  almeno  quella,  è  una  questione,  mi  pare,  non  troppo  facile,  la 
quale  ad  ogni  modo  non  è  stata  punto  risoluta  dalla  metafisica  del  mio 
acuto  ed  arguto  amico. 

Al  quale  mi  permetterò  di  muovere  un'  ultima  censura.  Se  accanto 
al  nome  italiano  deve  notare  il  nome  latino  onde  deriva,  egli  lo  nota 
sempre  nella  forma  dell'accusativo:  céra  cèram, pulcino puììicèmim,  mése 

mcnsem e  fin  possibile  possibilem!  (2)    Avrà  egli  fatto  così  per  far 

ben  capire  agli  amici  suoi,  nemici  della  teoria  dell' accusativo,  che  egli 
non  s'è  punto  lasciato  smuovere  dalle  loro  ciarle,  ed  è  rimasto  impa- 
vido campione  dell'accusativo,  non  men  di  prima,  anzi  più  di  prima! 
Ma  un  intento  simile,  mi  perdoni  il  Canello,  non  è  degno  dell'uomo  di 
studio.  Il  quale,  se  sa  che  sopra  un  dato  soggetto  c'è  una  seria  e  ra- 
gionata discordia  tra  i  suoi  colleghi,  o  entra  a  parlarne  di  proposito 
ovvero  si  astiene  dal  toccarne  così  di  sbieco,  senza  necessità,  nel  trat- 
tare un  soggetto  interamente  diverso,  e  quasi  ad  ostentazione  o  a  di- 


(1)  Quivi  il  Corssen  rimanda  esso  pure  neutrali?!    Ci  sarà  stato  un  tempo  che  il 

a  Quintiliano;  ma  con  una  citazione  inesat-  nostro  volgo  Intino,  per  riferire  le  celebri 

ta:  I,  4,  18;  che   è   pure  nella  prima  etli-  parole  di  Gesù  Cristo,  avrà  detto:  jjafr^m, 

zione  {Aussp9\  ecc.  I',  141).  si  possibilem  est,  transeat  a  me,..V.    Oh 

(9)  Snrà  stato  possibilem  anche  negli  usi  transeat  davvero  un  latino  simile! 


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ROMAxzA,  X.»  2]       DI  UNO  STUDIO  DEL  PROF.  CANELLO  83 

spetto.  Qaando  si  tratta  solo  dell' é  tonico  di  mése^  uou  importa  pro- 
prio nulla  che  questa  voce  sia  semplicemente  mensem,  o  che  sia  il 
risultato  del  livellamento  fonetico  delle  voci  mensis  mensem  mense.  Ac- 
canto a  mése  si  scriva  dunque  questa  volta  mensis^  la  forma  del  no- 
minativo, che  è  quella  sotto  cui  ogni  nome  si  cerca  nel  dizionario  e 
nella  grammatica,  ossia  è,  come  a  dire,  il  nome  del  nome,  e  lascia  im- 
pregiudicata ogni  opinione  personale  intorno  all'origine  dell'  unica  forma 
flessionale  della  voce  italiana.  Notando  la  forma  dell'accusativo,  non 
c'è  che  un  sol  guadagno,  quello  di  dare  ai  maschili  della  seconda  de- 
clinazione un  aspetto  di  neutri;  il  che,  se  per  molti  nomi  {oculum  ecc.) 
è  semplicemente  fastidioso,  per  alcuni  men  noti  (fibrum  il  bévero,  p. 
es.)  può  anche  dar  luogo  ad  equivoci,  giacché  anche  un  lettore  esperto 
del  latino  può  non  ricordare  con  precisione  un  nome  come  fiber.  Ben 
altrimenti  Jal  Canello  fece  il  Diez!  La  grammatica  neolatina  era  tanto 
cosa  sua,  che  quasi  egli  avrebbe  avuto  diritto  a  scapricciarsi  dove  gli 
piacesse;  e  non  aveva  poi  vista  ancor  contrastare  da  nessuno  vivamente 
e  di  proposito  la  sua  teoria  dell'  accusativo  ;  eppure  egli  si  guardò  bene  dal- 
l'andar  seminando  d'accusativi  la  grammatica  e  il  lessico!  Notò  sem- 
pre i  nomi  nella  forma  del  nominativo;  non  facendo  eccezione  neanche 
per  gl'imparisillabi,  dove  son  tentati  a  notar  l'accusativo  gli  stessi  av- 
versar] della  sua  teoria.  E  il  Canello,  che  tante  cose  ha  appreso  dal  mae- 
stro, lo  poteva  imitare  anche  in  questa  bella  temperanza. 

Del  resto,  ci  dia  pur  quanti  accusativi  vuole,  purché  pubblichi  presto 
la  rimanente  parte  del  suo  utilissimo  lavoro. 

F.  D'Ovidio. 


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SI  [OIORXALE    DI    FII.OI.OOIA 

UN  SERVENTESE  CONTRO  ROMA 

ED  UN  CANTO  ALLA  VERGINE 


Chi  non  conosce  il  terribile  Serveutese  di  Guglielmo  Figueira,  D^un 
sirvenies  far?  Ben  di  rado,  altro  che  fra  le  battaglie  della  Riforma, 
toccò  alla  Corte  di  Roma  di  sentirsi  scagliar  contro  un  cumulo  di  così 
fiere  invettive.  La  voce  del  trovatore  destò  ira  e  scandalo  negli  ul- 
tramontani del  reame  di  Francia.  Una  donna,  Gormonda  da  Mont- 
pellier, si  levò  vindice  della  vituperata  sede  Papale;  con  parole  ac- 
cese, se  non  eloquenti  e  persuasive,  esaltò  Roma,  caps  e  guitz  \  de 
totz  selhs  qu'en  terra  \  un  bos  esperita;  e  dopo  di  aver  preteso  di  ribat- 
tere ad  una  ad  una  le  calunnie,  invocò  dal  Dio  del  perdono  la  morte 
degli  eretici  sul  bestemmiatore! 

Roma,  -1  glorioa 
Que  a  la  Magdalena 
Perdonet,  don  nos 
Esperan  bona  estreua; 
Lo  fola  rabios, 
Que  tana  ditz  fals  semena, 
Fassa  d'aitai  for 
Elh  e  8on  thezor 
E  80U  malvat  cor 
'Morir,  e  d'aitai  pena, 
Cum  heretiers  mor. 

(Kayn.,  Choix,  IV,  327). 

La  risposta  di  Gormonda  ha  lo  stesso  ritmo  e  le  stesse  rime  del- 
l'invettiva di  Guglielmo.  Così  volevano  le  norme  dell'Arte.  Però  non 
ci  meraviglieremo  della  concordanza;  bensì  del  trovare  che  le  ultime  tre 
strofe  del  serventese  rimangano  non  rimbeccate.  Bisogna  supporre,  o 
che  la  poesia  del  trovatore  sia  giunta  mutila  alla  pia  donna;  oppure 
che  una  parte  della  composizione  di  costei  si  sia  perduta,  o  resti  tut- 
tavia inedita.  La  prima  ipotesi  troverebbe  appoggio  in  un  fatto.  Una 
fra  le  quattro  copie  che  abbiamo  del  serventese  —  quella  contenuta  nella 
miscellanea  ambrosiana  D.  465  inf,  —  s' arresta  precisamente  ancor  essa 
al  termine  della  ventesima  stanza  (1). 

(1)  Nondimeno  le  stanze  sono  qui  19  in-      P  undicesima  ha  comuni  con  essa  le  rime 
vece  di  20.     Manca  la  decima.     E  poiché     che  servono  di  rappicco,  può  mancare  senza 


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ROMANZA,  N.  2)  L'.V  SER  VENTESE  CONTRO  ROMA  85 

Ma  quanto  è  naturale  la  convenienza  colla  risposta,  altrettanto  riesce 
singolare,  a  prima  giunta,  quella,  inavvertita  fino  a  qui,  con  una  pre- 
ghiera alla  Vergine  Maria.  Si  tratta  del  lungo  canto  Fior  de  paradis, 
messo  alla  luce  ventanni  fa  dal  Bartsch^  nei  Denkmàhr  (p.  03-71). 
Non  c'è  che  dire.  La  struttura  della  stanza  è  identica.  Questo  schema, 
nel  quale  le  lettere  tonde  rappresentano  versi  pentasillabi,  e  con  rime 
femminili,  le  corsive,  esasillabi  (1)  e  con  rime  mascoline,  vale  del  pari 
per  ambedue  le  composizioni  : 

a&a&a&ccc2»c.       ccZcJedeeerfe.       e/'e/* 


La  meraviglia  s'accresce  d'assai,  quando  si  rileva  che  serventese  e 
preghiera  hanno  precisamente  la  medesima  lunghezza.  Entrambi  si  com- 
pongono di  ventitré  stanze:  un  numero  troppo  elevato  ed  insolito,  per- 
ché si  possa,  nemmeno  per  ombra,  pensare  ad  un  incontro  accidentale. 

E  non  basta.  S'aggiunge  a  tutto  il  resto  una  mirabile  concor- 
danza rettorica.  Il  serventese  consta  d'  una  serie  d'apostrofi  a  Roiaa, 
come  il  canto  religioso  d-una  corona  d'invocazioni  alla  Vergifae;  e  co- 
testi nomi,  Roma,  la  Vergine,  si  ripetono  sempre  in  capo  alle  singole 
strofe.  In  due  soli  casi,  per  ciascuna  delle  due  composizioni,  ciò  non 
avviene.  Nel  serventese  hanno  altro  cominciamento  le  prime  due  stanze  j 
nella  preghiera,  la  prima  e  l'ultima.  Non  conto  come  una  vera  ecce- 
zione la  stanza  sesta  della  preghiera,  dove  le  convenienze  ritmiche 
hanno  indotto  il  Verge  a  contentarsi  di  passare  nel  secondo  verso. 

Questo  esatto  combaciare  delle  forme  esteriori  riceve  uno  speciale 
risalto  dall'evidente  contrasto  dei  contenuti.  L'ilna  delle  poesie,  tutta 
mitezza  ed  umiltà,  benedice,  loda  ed  invoca;  l^altra^  fiera  e  superba, 
maledice  e  vitupera.  E  lodi  e  vituperii  scoccano  in  una  medesima  dire- 
zione, sebbene  contro  bersagli  posti  a  distanze  ben  diverse.  Si  prega 
la  Madre  del  Cristo;  si  maledice  colei,  che  del  figliuolo  di  Dio  pretende 
di  essere  in  terra  sola  e  legittima  rappresentante.  Abbiam  dunque  a  fare 
con  due  composizioni,  questa,  pia  in  sommo  grado,  quella,  agli  occhi 
della  setta  dominante  e  de'  suoi  fidi ,  irreligiosa  ed  empia. 

Il  fatto  della  perfetta  concordanza  estrinseca,  compagna  ad  tin' in- 
tima opposizione,  moverà  da  ragioni  contrarie,  a  seconda  che  sia  ante- 
riore il  serventese,  oppure  la  preghiera.  Ecco  un  piccolo  problema  chef 
ci  è  necessario  risolvere.    Se  la  cronologia  non  c'illnmiua,  invano  ten- 


che  ne  nasca  soluzione  di  continuità.    Que-  putando    alla  maniera  francese.    Ma.  sarà 

sta  comunanza  ci  spiega  dunque  il  fatto,  ben  necessario  di  adottare  al  più  presto  un 

Ma  poi  rimane  essa  medesima  un  piccolo  sistema  unico  per  tutto  il  dominio  romanzo, 

problema  da  risolvere.  Tratterò  di  proposito  la  questione  in  altro 

(1)  Dico  pentasillabi  ed  esasillabi  com-  luogo. 


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P.  RAJNA  [giorxalk  di  filologia 

[imo  distinguere  se  alle  nostre  evocazioni  accorrano  ombre  fallaci, 
ro  i  proprii  spiriti  del  passato. 

La  preghiera  ci  è  pervenuta  anomiraa.    Quasi  sospetterei  che  l'au- 
si chiamasse  Martino.    Almeno,  egli  dà  a  conoscere  una  particolare 
Ione  per  questo  santo.     Che,  la  raccomandazione  suprema  da  lui  ri- 
alia  Vergine  al  termine  del  suo  dire,  si  è: 

per  mi 

Pre^atz  de  cor  fi 
Dieu  c*ab  san  Marti 
M'arma  s'en  an  estorta 
AI  jorn  de  la  fi. 

inteso,  queste  parole  possono  anche  esser  dovute  semplicemente 
a  culto  speciale,  che  si  prestasse  al  santo,  là  dove  l'autore  viveva. 
iges,  per  esempio,  e  la  nota  sua  badia,  basterebbero  a  fornirci  una 
azione.  Ed  anche  si  potrebbero  concepire  altre  ipotesi:  meno  ve- 
lili, ma  forse,  ciò  nonostante,  più  vere. 

Jn  altro  luogo  mi  dispone  a  credere  che,  se  mai  il  poeta  era  uomo 
liesa,  non  avesse  peraltro  ricevuti  gli  ordini  maggiori.  Egli  parla 
acrificio  della  messa  in  tuono  di  semplice  spettatore  : 

Verges,  cant  lo  pas 
Es  pausatz  sus  en  Tara, 
E  lo  capei  las 
Ab  Toracio  cara 
-1  ten  entre  sas  mas 
El  mostra  el  prepara, 
^  Say  qu'ea  veraya  deus 

e  vivesse,  o  avesse  vissuto  nel  secolo  mi  è  confermato  da  certe 
liscenze  della  poesia  erotica  dei  trovatori.  La  sua  16.'  stanza  ne 
ia  una  di  Bernardo  da  Ventadorn  : 

Verges,  ajudar  Tan  n'aten  bon'esperansa 

ILq  vulhatz,  qu'en  la  onda  Vea  que  pane  m'aonda, 

2uem  fa  balansar  Qu'atressi  sui  en  balansa 

ns  en  la  mar  preonda,  Cum  la  naus  en  Tonda. 
!o,  que  amparar                                         .    Del  maltrag  quem  dezenansa 

Tom  puesc,  si  no  m'aonda  No  sai  on  m'esconda: 

ja  vostra  merces;  Tota  noit  me  vir'em  lansa 

)oncs,  mayre  verges,  De  sobre  Tesponda.... 
kquest  caitiu  pres 

)elivratz,  qu'en  Tesponda  (Tmit  al:  Bartsch,  Clir.,  50.) 
)e  la  greu  mort  es. 

!i  sarebbe  quasi  tentati  di  andare  un  pochino  più  in  là,  o  di  sup- 


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ROMANZA,  N.«  2}  UN  SER  VENTESE  CONTRO  ROMA  87 

porre  l'autore  uomo  di  studio:  giurisperito,  e  forse,  propriamente  cano- 
nista.   Ne  dà  un  certo  sospetto  la  penultima  strofa: 

Verges,  vos  valer 
Podetz,  lay  on  legista  v 

Xon  pot  prò  tener, 
Ni  negun  decretista; 
Noy  pot  celar  ver 
Bachalier  ni  sofista; 
Ni  ter  ni  caste! 
Noy  vai,  ni  libel, 
Ni  noy  cap  apel, 
Cant  la  mort  dur^e  trista 
Fonh  de  son  clavel. 

S'avverta  specialmente  quel  ìiheXlo  e  qxi^W appello.  Come  si  vede,  l'au- 
tore conosce  la  tecnica  delle  leggi  e  del  foro.  Ora,  che  ad  un  profano 
avessero  a  venire  pensieri  siffatti,  nel  fervore  di  un'orazione  a  Maria, 
non  par  troppo  naturale.  Tanto  più  che  s'affacciano  in  un  momento 
solenne:  quando  appunto  si  sta  per  prender  congedo.  E  anche  una  cir- 
costanza d'altro  genere  esercita  una  certa  quale  attrazione  nel  mede- 
simo senso.  La  nostra  preghiera,  nota  al  Bartsch  in  due  manoscritti 
parigini,  esiste  altresì  in  un  terzo,  della  Comunale  di  Siena  (1).  Essa 
fu  aggiunta,  circa  la  metà  del  trecento,  o  poco  dopo,  sull'ultimo  foglio 
di  un  bel  codice  membranaceo,  che  non  contiene  del  resto  se  non  cose 
di  diritto,  canonico  in  particolar  modo.  E  la  mano  che  la  tracciava, 
potrebV esser  la  medesima,  a  cui  si  devono,  o  in  tutto  o  in  parte,  anche 
certe  inserzioni  di  scritture  giuridiche,  su  fogli  interni  rimasti  primiti- 
vamente in  bianco  (2). 

Ma  queste  congetture,  se  pur  si  posson  dir  tali,  han  troppo  poca 
saldezza,  perché  io  voglia,  nemmeno  per  sogno,  metterle  a  fondamento 
di  un'  indagine  positiva.  Mi  guarderò  dunque  bene  dal  mettermi  a  sce- 
gliere tra  i  molti  Martini,  che  la  storia  del  diritto  mi  offrirebbe,  dal  se- 
colo XII  al  XIV,  e  di  tentare  a  questo  modo  di  procacciarmi  una  data! 
Il  solo  elemento  di  fatto,  che  s' abbia  per  assegnare  un'  età  alla  preghiera, 
consiste,  fino  a  che  si  consideri  il  documento  isolato,  nell'età  delle  copie 


(1)  Segnato  //.  III.  3.  Nessuna  delle  Costituzioni  di  Papa  Clemente  V  (f.^l). — 
tre  lezioni  procede  dalle  altre,  sebbene  vi  2.  Le  Krfrara^aMitf* di  Giovanni  XXII  (f.<>  15). 
8Ìeno  particolari  affinità  tra  la  senese  e  — 3.  La  Somma  de  Sponsalibus  et  Matri- 
quella  del  codice  parigino  1745.  Le  due  moniis  di  Giovanni  d'Andrea  (f.®  17).  — 
hanno  in  comune  anche  qualche  error  ma-  4.  L'apparato  sulle  Clementine  del  mede- 
nifesto.  Del  resto  avvertirò  che  nella  se-  simo  (f.o  21).  Ed  anche  le  scritture  ìnse- 
nese  »i  rilevano  tracce  catalane.  rite  posteriormente  appartengono  al  celebre 

(2)  In  origine,  il  codice  conteneva:  1.  Lo  canonista  bolognese. 


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ss  1\    IxAJXA  [oiOirXALK   DI    F1I.OUKSIA 

che  ne  possediamo.  E  queste  appartengouo  tntte  e  tre  al  secolo  XIV 
iDoUrato  (l). 

Invece  il  serventese  ha  una  data  ben  certa  el  assai  pia  antica.  Esso 
fu  composto  durante  le  ultime  guerre  degli  Albiijesi;  dopo  la  morte  del 
re  Luigi  Vili  (st.  6),  ma  prima  che  Raimondo  VII  accettasse  la  pace 
e  Tolosa  aprisse  le  porte.  Dunque,  dopo  il  10  Novembre  1226,  ma 
avanti  l'Aprile,  anzi,  il  Febbrajo  del  1229.  E  possiamo  anche  ritrarre 
addietro  di  alcuni  mesi  questa  seconda  data.  I  Tolosani  non  avevano 
ancor  veduto  il  peggio  nemmeno  quando  Gormonda  componeva  la  sua 
risposta;  altrimenti  costei,  in  luogo  di  contentarsi  di  semplici  augnrii^ 
avrebbe  di  certo  descritta  trionfalmente  la  loro  umiliazione  : 

Roma,  lo  reys  jjfrans 
Ques  seuhers  de  dreytura, 
Ala  falses  TolzaiiH 
Don  gran  malaventura  ; 
Quar  tot  a  sos  maus 
Fan  tan  gran  desnierura , 
Qu'usqnecx  lo  rescon, 
E  torbon  est  mon: 
Klh  comte  Raymon, 
S'ab  elhs  plus  s^isegiira, 
Noi  tenray  per  bon. 

Soggiungiamo  che  pertanto  Guglielmo  era  tuttavia  in  patria,  allorché 
scagliava  i  suoi  fulmini;  che,  secondo  attesta  il  biografo  provenzale, 
fu  «  quant  li  franses  aguen  Tolosa  »,  ch'egli  «  si  s'en  vene  en  Lom- 
bardia. » 

Fin  qui  si  propenderebbe  dunque  a  ritenere  anteriore  il  serventese, 
e  a  riguardare  la  preghiera  quasi  come  una  specie  di  espiazione,  offerta 
da  un'anima  pia.  0  si  vorrebbe  fors' anche  immaginare  che  Guglielmo 
medesimo,  invecchiato  e  ravveduto,  componesse  questa  palinodia,  per 
impetrare  il  perdono  mercé  T intercessione  della  Vergine?  Certo  Taur 
tore  si  accusa  più  d'uua  volta  come  gran  peccatore  (2),  e  mostra  di  es- 
ser giunto  in  quella  parte  Di  sua  età ,  dove  ciascun  dovrebbe  Calar  ìe 
reU  e  raccoglier  le  sarte  (3).  S.  4-5.  Ed  il  ciclo  abituale  della  vita  dei 
trovatori,  soliti  a  peccare  in  gioventù  ed  a  ravvedersi  nella  vecchiaja, 
fornirebbe  una  conferma  ben  più  che  suflBciente  a  bilanciare  gl'indizi  di 
coltura  giuridica  notati  poco  fa. 

Ma  forse  can^bieremo  opinioue,  dopo  di  aver  introdotto  nella  que- 


(l)  La  poesia  occorre  ben^ì  nel  cod.  La  la  Pt^ovcììce ,  p.  18?,  nota  1. 
VuUière  14 ,  scritio  Intorno  al  1300;  ma  essa  (2)  V.  specialmente  st.  21  ;  del  resto,  2, 

vi   fu  aggiunta  un  mezzo  secolo  più  tarHi.  5,  ecc. 
V.  Mkyer,  Les  dernicvs  Tronbadonrs  de  (3}  St.  19. 


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ROMANZA,  N."  2] 


UN  SER  VKNTESE  CONTRO  ROMA 


89 


stioue  qualche  nuovo  elemento.  Ce  lo  fornisce  la  Doctriua  de  compondre 
dictats:  trattatello  pubblicato  di  fresco  dal  Meyer  (1),  e  che  potrebbe 
bene,  almeno  quanto  alla  sostanza,  esser  opera  di  Ramon  Yidal  (2).  Vi 
si  leggono  certe  avvertenze  intorno  al  serventese,  meritevoli  di  molta 

atteiizione.  «  Si  volz  far  sirventz potz  lo  far  en  qualque  so  te  vul- 

les,  e  specialment  se  fa  en  so  novell ,  e  maiorment  en  90  de  can^o.  E 
deus  lo  far  d^ajtantes  cobles  com  sera  lo  cantar  de  que  pendras  lo  so; 
e  potz  seguir  laz  riraaz  con  tra  semblantz  del  cantar  de  qne  pendras 
lo  so;  atresi  io  potz  far  en  altres  rimes.  »  E  piiì  oltre:  «  Serventetz 
es  dit  per  90  serventetz,  per  90  com  se  serveix  e  es  sotsmes  a  aquell 
cantar  de  qui  pren  lo  so  e  les  rimes  ».  Or  bene,  questa  etimologia  può 
ben  esser  la  vera.  Certo  gli  sforzi  fatti  dai  moderni  per  ispiegare  il  vo- 
cabolo avendo  riguardo  al  solo  contenuto,  sou  tutti  infelici  (3).  La 
prova  si  è,  che  conducono  a  classificare  come  serventesi  molte  compo- 
sizioni, che  gli  autori  stessi  od  i  loro  contemporanei  chiamano  altri- 
menti; e  viceversa  (4).  Per  verità,  è  una  pretesa  abbastanza  curiosa  la 
nostra,  di  voler  dar  lezione  dell'arte  loro  ai  poeti  del  secolo  XII  e  XIII! 
Specialmente  il  vers  ha  mille  ragioni  di  dolersi  di  noi.  Se  anche  dopo 
arricchitasi  la  terminologia,  si  mantenne  e  si  usò  cotesto  nome,  bisogna 
l)en  dire  che,  almeno  da  principio,  gli  si  fosse  assegnato  un  valore  spe- 
ciale. E  noi  invece  crediamo  di  fargli  grazia,  conservandolo  come  una 
specie  di  comparsa,  senza  poi  mai  lasciargli  aprir  bocca.  Il  nostro  torto, 
rispetto  a  queste  materie,  vien  soprattutto  dall' esserci  scordati,  nella 
pratica,  che  la  lirica  provenzale  era  poesia  cantata  e  musicata.  E  spesso 
una  strofa  fu  prima  una  melodia,  che  un  testo  poetico.  Affrettiamoci  a 
riparare  alla  colpevole  dimenticanza,  e  riusciremo  ad  intendere  molti 
misteri,  impenetrabili  fino  a  qui  (5).    La  stessa  colpa  s'era  pur  com- 


(1)  nomati ia,  VI,  ?53. 

(2)  V.  le  osservazioni  premesse  al  testo 
daireilitore. 

(3)  E  non  meno  infelici  sono  di  sicuro  le 
spiegazioni  addotte  da  Antonio  da  Tkmpo  e 
e  da  altri.  V.  il  Trattato  delle  rime  vol- 
gari, Bologna,  1869,  p.  147. 

(4)  Così,  per  esempio,  si  vengono  ad  at- 
tribuire parecchie  canzoni  a  Bertran  de  Born, 
del  quale  il  biografo  provenzale  ci  dice  ben 
chiaro  che,  anc  no  fes  mas  doas  cansoa. 
Aduna  di  queste  saranno  appartenute, m'im- 
magino, le  due  cable  conservateci  dal  bio- 
grafo, Alt  Letnozis,  franca  terra  corteza. 
V  identica  composizione  della  stanza,  e, salvo 
una  differenza  minima,  le  stesse  rime,  tro- 


viamo nel  serventese,  Poa  als  baros  enoja 
e  lor  pesa.  Sappiamo  oramai  che  pensare 
di  siffatta  corrispondenza.  Del  resto,  ho 
detto  serventese.  Il  nome  é  nella  tornado. 
Ma  si  vorrebbe  conoscere,  perché  nella  pri- 
ma stanza  Bertran  dica,  con  apparente  con- 
traddizione,/"arai  c/iarwo.  Forse  gliene  dava 
il  diritto  Tesser  stato  egli  stesso  l'inventore 
del  san  t  —  Qui  propongo  il  dubbio.  Altrove 
cercherò  di  risolverlo,  trattando  ex  professo 
la  materia,  che  qui  mi  accade  di  sfiorare 
incidentalmente. 

(5)  Oltre  al  resto,  i  rapporti  tra  i  ser- 
ventesi e  le  canzoni  o  i  vers,  ci  forniranno 
preziosi  dati  cronologici. 


0* 


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90  1*.  HAJXA  [giornalk  di  filologia 

messa,  fino  agli  ultimi  tempi,  per  la  lirica  antica;  e  se  n'era  anche 
avuta  la  medesima  punizione. 

Dunque,  insieme  col  contenuto,  è  pur  da  considerare  T elemento 
musicale.  E  il  nostro  trattato  e'  insegna  che  i  serventesi  solevano  com- 
porsi sopra  una  melodia  già  esistente.  Ci  vorrebbe  del  coraggio  per 
dubitare  dell* attestazione.  Ma  vogliamo  qualche  esempio?  Ascoltiamo 
un  momento  ciò  che  Ugo  di  Saint  Ciro  dice  ad  un  suo  giullare: 

MessoDget,  un  sirventes 
M'as  qu*8t,  e  donar  l'o  t'ay 
Al  pus  tost  que  ieu  poyrai 
El  son  d'En  Amaut  Plagues  (1). 

(Rayn.,  Citoix,  IV,  288). 

Adesso  possiamo  intendere  anche  certe  espressioni  meno  esplicite.  Sap- 
piamo, per  esempio,  che  voglia  significare  Guglielmo  Auelier  da  To- 
losa, dicendo: 

Ara  farai,  nom  puesc  tener, 
Un  sirventes  en  est  son  gay 
Ab  bos  motz  leus  per  retener. 

(Rayn.,  Choix,  IV,  272). 

Ma  non  abbiani  forse  qualcosa  di  perfettanieute  analogo  al  principio  del 
aerventese  nostro? 

D'un  sirventes  far 
Kn  est  son  que  m\igetì8a , 
Nom  volli  plus  tarzar. 

Le  parole  del  Figueira  sono  anzi  più  chiare,  e  non  ammettono  ragione- 
volmente altre  interpretazioni.  Il  poeta  ha  udito  una  melodia  che  gli 
garba,  e  s'affretta  ad  adattarle  un  serventese.  Riflettiamo  adesso  su 
questa  sua  dichiarazione,  rammentiamoci  la  perfetta  corrispondenza  colla 
preghiera,  conforme  esattamente  dev'esser  ai  principii  insegnatici  dalla 
Doctrina  de  compondre  dictats,  e  quindi  diciamo  se  non  ne  risulti  dimo- 
strato questo  fatto:  il  serventese  di  Guglielmo  è  modellato  sulla  pre- 
ghiera alla  Vergine —  a  meno  che  questa  pure  non  sia  ancella  di  una 
dama  a  noi  ignota. 

Pur  lasciando  aperte  le  porte  ad  una  possibilità  siffatta,  attenia- 
moci per  adesso  al  probabile,  come  se  fosse  propriamente  il  caso.  E 
qui  avvertirò  ancora  una  circostanza.  Le  nostre  due  poesie  non  hanno 
iorvada.    Ora,  una  tale  mancanza,  normale  in  una  laude  religiosa,  riesce 


(\)  Snppoiifro  si  alluda  alla  canzone  lìe  volgra  mi  don s  saubcfì ,  pubblicata  a  p.  357 
i\iA  Parlasse  Ocriiavicìt,  che  io  non  ho  scilo  gli  occhi. 


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ROMANZA,  N.'  2]  UN  SEM VENTESE  CONTRO  ROMA  n 

air  incontro  alquanto  insolita  in  una  composizione  del  genere  di  quella 
di  Guglielmo. 

Né  in  ciò  abbiam  solo  un  nuovo  criterio  per  discernere,  posto  che  i 
due  si  lascino  soli  di  fronte  uno  all'altro,  la  copia  dal  modello.  Io  ci 
vedrei  anche  una  conferma,  che  il  valore  intrinseco  deir  esemplare  non 
fa  il  solo  movente  della  scelta.  Guglielmo  si  appiglia  a  qualcosa,  che, 
nelle  circostanze  ordinarie,  non  avrebbe  fatto  per  lui.  Gli  è  che  c'era 
il  più  amaro  dei  sarcasmi  in  cotesto  imprecar  a  Roma  nel  ritmo  e  colla 
melodia  d'  una  preghiera  alla  Vergine.  L' invettiva  del  trovatore  tolo- 
sano  ci  sembrava  già  prima  fiera  oltremodo:  ora  ci  appare  ancor  più 
tremenda.  Si  fa,  in  certa  maniera,  che  scenda  a  tuonare  contro  il  Pa- 
pato la  stessa  Maria,  la  Regina  del  cielo. 

P.  Rajna. 


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A.  OJiAF  ]<;h»ijnai,k  i»i  l'iLoLfuiiA 

DI  UN  POEMA  INEDITO 

DI  CARLO  MARTELLO  E  DI  UGO  CONTE  D' AL  VERNI  A 


La  Biblioteca  Nazionale  di  Torino  possiede,  manoscritto,  nn  cu- 
rioso monumento  di  epica  cavalleresca,  e  per  la  storia,  in  più  particolar 
modo,  della  diffusione  di  quella  poesia  in  Italia,  importantissimo.  È 
questo  un  poema  di  circa  quattordicimila  versi,  scritto  in  un  dialetto 
veneto  molto  meschiato,  e  in  così  barbaro  stile  da  tornare  alcuna  volta 
assai  malagevole  levarne  il  costrutto.  L'argomento  trattato  in  esso  è 
una  storia  di  Carlo  Martello  e  di  Ugo  conte  d'Alvernia,  assai  poco  dif- 
fusa nel  mondo  dalle  finzioni  romanzesche. 

Il  manoscritto  (1)  contenente  il  poema  è  un  in-quarto  non  molto  gran- 
de, cartaceo,  di  fogli  181,  sebbene  la  numerazione  non  ne  segni  che  179. 
Questa  diversità  è  causata  da  due  errori:  una  reduplicazione  del  f.  43, 
e  una  inversione  e  reduplicazione  dopo  il  f.  61,  dove  i  numeri  proce- 
dono così:  63,  62,  63.  L'inversione  è  dei  numeri  e  non  delle  carte. 
In  fondo  sono  tre  fogli  bianchi  non  numerati.  Le  guardie  son  di  per- 
gamena tracciata  di  note  latine  scritte  in  sul  finire  del  secolo  XIV.  Il 
poema  comincia  al  verso  del  primo  foglio,  il  quale  è  la  più  parte  oc- 
cupato da  una  rozza  miniatura,  rappresentante,  nel  mezzo,  Carlo  Martello, 
vestito  di  tutte  l'armi  e  coronato.  Nella  parte  inferiore  della  prima 
faccia  del  foglio  2  è  dipinto  uno  scudo  di  forma  ovata,  bipartito  oriz- 
zontalmente bianco  e  rosso,  e  con  suvvi  un  leopardo  rampante.  Nel 
corpo  del  volume  son  altre  miniature,  tutte  più  rozze  delle  prime,  e  in 
più  luoghi  mancano,  dove  il  luogo  loro  è  segnato  da  una  inquadratura 
vuota.  Le  iniziali  dovevan  essere  colorite,  ma  fan  difetto  presso  che 
sempre,  e  solo  qua  e  là  ne  appajono  alcune  segnate  con  la  grafite.  Il 
sesto  del  volume  fu  ridotto  alquanto,  probabilmente  allorché  venne  ri- 
legato nella  forma  che  serba  tuttora:  per  questa  riduzione  rimasero 
stagliate  fuori  le  cifre  della  numerazione  primitiva,  di  cui  qua  e  là  ap- 
pariscono i  tratti  inferiori.  La  numerazione  presente  è  posteriore  alla 
scrittura  del  libro,  come  son  posteriori  alcune  correzioni  sparse  nel  testo, 


(1)  Contrassegnato  ora  N,  III,  11). 


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B01IAN2A,  N.«  2]  Bl  UN  POEMA  INEDITO  irò 

segnatamente  in  principio.  La  scrittura  è  trascurata  e  frettolosa.  Sino 
al  f.  119  y.  le  pagine  contengono,  in  media,  quaranta  versi;  da  indi  in 
poi  non  più  di  trentadue  o  trentatré,  con  ispaziature  maggiori,  e  di 
migliore  scrittura.    In  fine  è  la  data: 

Ternus  amen  de .  1441 .  die .6 .de  febrar 

H  poema  è  composto  di  strofe  libere  eguali  alle  laisses  francesi. 
I  versi  non  hanno  alcuna  misura  ne  ritmo,  e  ora  si  prolungano  sino 
ad  avere  venti  sillabe,  ed  ora  si  raccorciano  ad  otto.  Rime  e  assonanze 
non  si  trovano  se  non  per  caso,  e  come  nessuna  cura  fu  posta  dal  poeta 
al  verso,  così  nessuna  cura  fu  da  lui  posta  alle  omofonie,  negligenza 
che  deve  parere  singolarmente  strana  in  un  poema  di  forma  al  tutto 
plebea.  Gli  andamenti  sono  quei  medesimi  delle  chansons  de  geste:  vi 
si  trovano  le  solite  esortazioni  agli  uditori  perché  si  facciano  attenti  al 
racconto,  le  solite  stranezze  circa  la  nobiltà  della  storia  che  si  recita 
loro,  le  solite  citazioni  della  storia,  del  libro ^  dello  scritto^  deìVaiUorey 
che  attestano  e  provano  la  verità  della  narrazione.  Insomma  il  poema 
è,  sotto  ogni  rispetto  una  chanson  de  geste ^  salvo  che  al  francese  s'è 
sostituito  un  dialetto  veneto. 

Se  nulla  di  nuovo  presenta  la  forma  del  poema,  una  gran  novità 
presenta,  per  contrario,  il  contenuto.  Qui  non  sono  più  i  temi  soliti 
delle  vecchie  epopee  cavalleresche,  guerre  tra  saraceni  e  cristiani,  pugne 
di  cavalieri,  innamoramenti;  o  se  pur  sono,  vi  tengono  poco  luogo,  e 
hanno  secondaria  importanza.  L*azion  principale  eccede  gli  ordinari! 
confini  del  mondo  cavalleresco,  anzi  eccede  a  dirittura  i  confini  del 
mondo  umano  e  presente.  Essa  s' inquadra  tuttavia  in  uno  schema  i 
cui  elementi  appartengono  alla  suppellettile  solita  delle  finzioni  eroico- 
romanzesche,  e  tutto  il  poema  mostra,  quanto  a  struttura,  una  note* 
vole  somiglianza  con  VHuon  de  Bordeaicx,  ove,  del  pari,  un'azione  au- 
tonoma e  propria  si  distende  fra  termini  fissi  che  hanno  poca  attinenza 
con  essa,  ma  che  le  servono  di  cornice. 

L'argomento  è,  per  darne  ora  solo  una  indicazione,  il  seguente. 
Carlo  Martello,  volendo  sbrigarsi  di  Ugo  conte  d'Alvernia,  della  cui 
moglie  Inida  è  innamorato,  gli  ordina  di  recare  un  suo  messaggio  aU 
l'inferno,  e  di  ordinare  in  suo  nome  a  Lucifero,  di  riconoscersi  vassallo 
dell'impero  e  di  pagar  tributo.  Ugo  compie,  dopo  infiniti  stenti,  la 
difficile  inpresa,  e  ritorna  in  Francia  sano  e  salvo.  Carlo  Martello,  su 
cui  s'aggrava  finalmente  la  giustizia  di  Dio,  è  portato  via  dai  diavoli. 
Questo  Carlo  Martello  non  è  quel  della  storia,  ma  sì  bene  quello  della 
leggenda,  che  spesso  lo  scambiò  con  Carlo  il  Calvo  (1),  come,  nel  Girart 

(l)  Il  simile  occorre  nella  leggenda  te-    il  Salico,  e  insieme  si  confusero  fatti  del  IX, 
d^sca  del  duca  Ernesto,   dove  si  scambiò     X,  e  XI  secolo. 
Ton  per  l'altro  Ottone  il  Grande  e  Corra«lo  ♦ 


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1»4  A.   (rllAF  [giohxalk  di  FILOI-OC.IA 

de  Rossillon,  e  nelV Heruis  de  Meh.  È  noto  che  nella  genealogia  dei 
Beali  di  Francia  (1.  V,  e.  9)  Carlo  Martello  è  fatto  nipote  di  Carloma- 
gno.  Non  è  qui  il  luogo  di  ricercar  le  ragioni  di  questo  scambio  (1), 
e  del  carattere  odioso  che  dai  troveri  viene  attribuito  a  quel  principe  (2); 
ciò  che  si  vuol  notare  si  è  che  nel  poema  la  perversità  di  Carlo  è  fatta 
maggiore  che  mai,  e  che  da  ultimo,  incontra  il  meritato  castigo.  Senza 
alcun  dubbio  il  poema,  quale  il  manoscritto  ce  lo  presenta,  segna  l'ul- 
timo stadio  di  una  evoluzion  leggendaria,  la  quale  cominciò  forse  col  Girati 
de  Itossillon.  Che  poi  il  Carlo  in  esso  introdotto  sia  veramente  Carlo 
il  Calvo  è  più  che  dimostrato  dal  poema  medesimo,  dove  si  ricorda 
Carlo  Magno,  dove  si  fa  apparire  T ombra  di  Guglielmo  d' Grange,  e  si 
discorre  di  sant' Orlando,  dove,  infine,  si  fa  salire  al  trono  di  Francia, 
rimasto  vuoto,  un  Guielmo  Zapeta,  il  quale  altri  non  è  che  Ugo  Capeto. 
Di  questa  storia  vi  sono  parecchi  testi  in  Italia:  uno  è  quello  di 
pui  discorro,  un  altro  è  in  un  codice  padovano,  e  tutt'a  due  sono  ine- 
diti; un  terzo  di  Michelangelo  da  Volterra,  autore  di  una  Incoronazione 
di  He  Aloysif  inedito  ancor  esso;  un  quarto  di  Andrea  da  Barberino  (3). 
Un  testo  da  tutti  questi  diverso,  e  scritto  in  lingua  che  trae  al  vene- 
ziano, fu  stampato  a  Venezia  nel  1506,  e  a  Milano  nel  1507  (4).  Il  Ter- 
rario non  ne  ha,  pare,  conosciuto  nessuno,  perché  di  nessuno  fa  ri- 
cordo. Il  Graesse  (5),  fa  cenno  della  leggenda,  ma  non  conosce  altro 
testo  che  quello  da  me  citato  per  ultimo,  e  ne  parla  come  di  leggenda 
italiana.  Che  la  leggenda  facesse  parte  di  un  ciclo  maggiore,  e  che 
avesse  forse  connessione  con  Y  Ajolfo^  il  quale  altro  in  fondo  non  è  che 
V  Aiol  e  3Iirabel  (6)  francese,  si  può  in  qualche  modo  arguire  dal  fatto 
che  gli  autori  delle  due  versioni  d^  Ajolfo  che  si  hanno  a  stampa,  scris- 
sero tutt'  a  due  una  storia  di  Carlo  Martello  e  d' Ugo  conte  d'Alvemia  (7). 
Non  pare  che  di  quest'ultimo  esista  piii  nessuna  redazione  francese, 
sebbene  siaci  stata  in  origine.  Guiraut  de  Cabreira,  nel  suo  famoso 
Ensenhamen  rimprovera  a  Cabra  di  non  conoscere  quella  istoria.    Tut- 


(1)  V.  Gaston  Paris,  Ilistoirc  poétiqne  (7)  Carlo  Martello  ricomparisce  nelK-f^jW- 
de  Charlemaffììc ,  p.  438.  fo.  V.  la  prefazione  al  testo  in  prosa  dì  Ax- 

(2)  V.  Faurirl  ,  Ilistoirc  de  la  poesie  drea  da  Barberino,  pubblicato  nella  Colle- 
provengale ,  v.  II,  p.  259.  sione  di  opere  inedite  o  rare  del   Roma- 

(3)  V.  Ha JNA ,  Le  Fonti  deWOrlando  Fu-  gnoli ,  Bologna ,  1863.  Taglio  corto  ad  alcune 
rioso^  p.  462.  considerazioni  che  qui  cadrebbero  in  accon- 

(4)  Mklzi,  Bibliografia  dei  romanzi  e  ciò.  Il  Professor  Rajna  dì  Milano  è  da  più 
poetili  caraìfereschi  italiani,  seconda  edi-  tempo,  come  da  lui  medesimo  ebbi  a  sapere, 
zione,  p:  VX  attorno  a  un  lavoro  sui  testi  e  sulle  versioni 

(5)  Die  yrossen  Sayenkreise  des  Mitt-  della  storia  di  l^go  d'Alvernia,  e  poiché  egli 
elftfters ,  p.  2S}<.  •  è  intendente  di  queste  materie  più  di  chic- 

(6)  Piihììlii^ato  dal  F(»ksthr.  Ileilbronn,  chessia  ragion  vuole  ch'io  m'astenga  dal 
1876.  mettervi  le  mani. 


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ROMANZA,  N."  ^1  DI  UN  POEMA  INEDITO  95 

tavia  io  non  credo  che  nel  XII  secolo  essa  fosse  di  già  pervenuta  al  grado 
di  elaborazione  fantastica  in  cui  ce  la  presenta  il  manoscritto  di  Toriuo. 
Forse  non  sarebbe  cattiva  congettura  quella  che  attribuisse  alla  storia 
di  Carlo  Martello  e  di  Ugo  una  sorte. eguale  a  quella  cui  soggiacque 
la  storia  d'Huon  di  Bordeaux,  la  quale  esistette  in  forma  molto  pili 
semplice,  e  molto  più  rispondente  allo  spirito  severo  dell'epica  primi- 
tiva, che  quella  non  sia  delle  versioni  sino  a  noi  pervenute  (1).  La 
versione  della  storia  di  Carlo  Martello  e  di  Ugo,  quale,  con  leggiere  di- 
versità, noi  abbiamo  nei  varii  testi  esistenti,  dev'esser  frutto  di  un 
lungo  processo  di  elaborazione,  e  non  parmi  si  possa  fare  più  antica 
del  secolo  XIV.  In  principio  tale  istoria  dev'  essere  stata  alcun  che  di 
simile  alla  storia  di  Girart  di  Rossillon,  e  il  suo  intendimento  quello 
di  ritrarre  le  lotte  del  feudalesimo  e  della  monarchia,  lotte  che  non  si 
prolungarono,  in  generale,  oltre  il  regno  di  Carlo  il  Semplice.  La  ces- 
sazione di  quelle  lotte  togliendo  alle  cJuinsous  de  geste  che  le  narravano 
significazione  e  attrattiva,  fece  nascere  il  bisogno  delle  variazioni  e  delle 
amplificazioni  fantastiche.  Che  quella  versione  non  si  possa  far  più 
antica  del  secolo  XIV,  è,  del  resto,  provato  da  alcuni  luoghi  del  poema 
nostro,  ove  di  sfuggita  sì,  ma  in  chiaro  modo,  si  appalesa  la  imita- 
zione della  Divina  Commedia,    Ma  di  questo  farò  parola  più  oltre. 

Come  appena  si  sia  data  una  scorsa  alle  prime  pagine  del  testo,  e 
notata  la  partizione  strofica,  alla  quale  contraddice  il  difetto  della  rima, 
nasce  un  naturale  sospetto  che  il  testo  medesimo  altro  non  sìa  che  una 
traduzione,  e  con  poco  esame  si  scopre  esser  questa  appunto  la  verità. 
11  manoscritto  ci  porge  una  grossolana  versione  di  un  testo  francese. 
Il  Pasini,  il  quale  descrisse  brevemente  il  codice,  e  recò  una  quaran- 
tina di  versi  con  parecchi  spropositi  (2),  ebbe  ad  osservare  la  rozzezza 
ed  il  disordine  della  verseggiatura,  ma  non  s'addiede  punto  di  ciò  che 
si  celava  sotto.  Ponendo  alla  fine  dei  versi,  i  quali,  ho  detto,  non  ri- 
mano se  non  per  caso,  in  luogo  delle  voci  italiane,  le  voci  francesi  cor- 
rispondenti, riapparisce  di  tratto  l'ordine  delle  rime.    Valga  l'esempio. 

Apresso  Ruzero  aue  parla  Terise:  Teiris 

«  dona  fate,    lo  re  de  Parisse  Paris 

per  grande  amore  n'a  quy  yntramise,  iramis 

si  noie  puro  onorare  vuy  e  li  marchese:  mar  quia 

ben  lo  douite  fare,  caro  el  è  suo  amicho.  »  amis 
«  vero,  »  dize  Ynida,  «  me  Tun  l'altro  porta  ynvidia.  »     envis 

quelo  d'Aubespine,  el  coverto  malizioso,  maleis? 

dize  lo  coverto:  «  Dona  non  pò  esere  falìto.  falis 

honorate  el  vostro  signore  e  U  mio  ansie  :  aitisi 


(1)  V.  Romania,  III,  110. 

(2)  Mamiscript,  codd.  bibliothccae  rcgii  T aiir in en s is  Athenaci pars  altera,  \iA\\. 


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OQ  A,  GB.AF  [ojoBXALE  di  filoloolì 

a  questo  se  pò  contare  che  vay  Pauite  yntrameso.  »  tramis 

«  malvase,  »  dize  la  dona,  «  per  la  gola  mente;  menti (1) 

che  più  amo  el  mio  signore  che  ly  ochy  del  mio  vixo.         vis 

che  auite  dito  ?  seria  mai  amatito  ?  (2)  amatis 

trateue  yndrè,  malvase  omo  chatiuo,  chaitis 

che  m' anite  dito  ?  che  nula  bontà  non  auite.  »  

e  luy  tosto  ne  fo  (ne  fo)  repentito:  repentis 

«  nuy  conosemo  ben  che  Vò  vostro  deleto.  »  ddis 

coluy  se  trase  yndreto  de  vergogna  se  represe,  reprist 

e  prese  parole  Berlenzero  lo  marchese,  marqìtis 

a  bona  fede  dize,  senza  malvasa  yntenzione.  non  envU 

Lì  dove  non  ho  supplito  il  vocabolo  francese,  si  potrebbe  pur  fare, 
alterando  alquanto  la  disposizion  del  verso,  e  ponendo  in  fine  che  m'avUe 
dito?  dit.  Un  lavoro  sì  fatto  di  restituzione  delle  rime  si  potrebbe,  con 
poca  fatica,  allargare  a  tutto  il  poema. 

Alcuna  volta  toma  anche  agevole  una  restituzione  intera  del  testo, 
in  modo  che  paja  abbastanza  fedele.  Ciò  facendo,  si  scopre,  come  del 
resto  era  da  credere,  il  verso  dell'  originale  francese  essere  stato  il  de* 
casillabo  epico.    Esempio: 

Testo  Italiano: 

«  Signore,  »  dize  la  dona,  <  entendite  per  amore, 

mal  fa  zascun  chi  a  piata  de  loro, 

anzi  le  douerise  apichare  senza  demore; 

ma  en  reverenzia  del  verase  criatore 

la  morte  li  demeteremo  per  suo  amore. 

me  ano  vergogna,  li  faremo  vergogna  e  desenore.  > 

domandare  feze  la  dona  .4.  soy  seruìdore, 

e  chely  s' apresente  amantinente  senza  demore: 

«  che  comanda,  madona?  »  et  ley  dize  a  lor: 

«  fate  despoiare  tuty  quy  anbasadore 

nudy;  non  ly  lasate  senza  nulla  yntorno,  » 

coloro  responde:  «  madona,  al  vostro  volere.  » 

a  la  sala  vene  amantinente  senza  nul  demora, 

cridando  :  «  a  la  morte,  a  la  morte  tuty  y  traditore  ! 

non  uè  porà  scampare  el  vostro  grande  ynperadore.  > 

Restituzione  : 

«  Signour,  »  dist  la  dame,  »  entendes  par  amour; 
Mal  fait  cascuns  qui  a  pitie  de  lour; 
Ains  les  devries  faire  pendre  sans  demour; 
Mais  en  Thounour  del  verai  criatour 


(1)  Passato  composto.  (2)  11  niss.:  amatita. 


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ROMANZA,  N.-  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  97 

La  mort  lor  demetrons  par  son  amour. 
Honie  m'ont,  si  aront  honte  et  deahonour.  » 
La  dame  fist  mander  .4.  siens  servitours, 
Sempres  8ont  cil  venu  sans  nul  demour  : 
«  Dame,  que  mandes?  »  et  eie  a  dit  à  lour: 
«  Faites  despoillier  tuta  cìls  ambassadoar, 
Nuts  les  laisies,  sans  nule  chose  entour.  » 
«  A  vo  voloir,  »  fu  respondu  de  lour. 
Vienent  en  la  sale,  sans  faire  nul  demour, 
£n  criant  :  «  A  la  mort  tuta  les  traitours  ! 
Ale  n'ares  del  grant  empereour.  » 

Ammesso  che  la  versione  della  leggenda  contenuta  nel  poema  non 
sia  la  versione  primitiva,  e  riconosciuto  che  il  testo  nostro  è  una  tra- 
duzione di  un  testo  francese,  dove  si  dovrà  credere  che  questo  sia  stato 
composto,  in  Francia,  o  in  Italia?  e  T autor  di  esso,  il  quale  ci  è  in- 
teramente sconosciuto  (1),  fu  egli  francese  o  italiano?  A  queste  do- 
mande non  si  può  dare  certa  risposta,  e  solo,  da  alcuni  indizii,  si  può 
trarre  argomento  di  giudizio  probabile.  La  res  tituzion  delle  rime,  che 
io  feci  in  molti  luoghi  del  poema,  non  mi  diede  se  non  forme  corrette, 
e  non  m'avvenni  mai,  salvo  che  in  tre  o  quattro  casi  soltanto,  de'  quali 
non  sono  tuttavia  abbastanza  accertato,  in  alcuna  di  quelle  forme  spurie 
che  sono  caratteristiche  dei  poemi  franco-italiani,  non  esclusi  i  piii  cor- 
retti, quanto  a  lingua.  Debbo  per  altro  confessare  che  questa  parte  ri- 
chiederebbe un  esame  più  diligente  e  più  ampio  che  io  non  feci.  Ad 
ogni  modo  la  correttezza  delle  forme  è  tale  da  far  credere  come  più  pro- 
babile che  l'autore  fosse  francese.  Ciò  si  potrebbe  anche  argomentare 
dall'amore  grande  ch'esso  mostra  d'avere  ai  francesi,  i  quali  in  più  e 
più  luoghi  del  poema*  sono  dichiarati  i  più  valenti  ed  onorati  uomini 
del  mondo.  In  fine  del  poema  è  narrato  come  il  titolo  d'imperatore 
passasse  dal  re  di  Francia  a  quello  di  Germania,  e  tale  narrazione  è 
fatta  con  linguaggio  troppo  avverso  ai  tedeschi,  e  troppo  favorevole  ai 
francesi  perché  non  paja  che  l'autore  dovesse  esser  francese  egli  stesso. 
Io  inclino  dunque  a  crederlo  tale,  ma  stimo  d'altra  banda  ch'egli  di- 
morasse in  Italia  e  componesse  in  Italia  il  suo  poema.  Di  ciò  sono  al- 
cuni indizii,  su'  quali  non  vorrei  tuttavia  insistere  troppo.  L'autore  mo- 
stra d'avere  dell'Italia  una  cognizione  che,  a  petto  di  quella  che  ne  so- 
gliono avere  i  troveri,  può  ben  chiamarsi  esatta:  egli  sa,  per  esempio, 
che  il  Tevere  divide  in  due  parti  la  città  di  Roma.  In  due  luoghi,  i 
quali,  secondo  è  provato  dalla  restituzion  delle  rime,  appartengono  co- 
stitutivamente al  testo  francese,  si  fa  menzione  della  teriaca,  medica- 


ci) Una  sola  volta  si  trova  ricordato  un  Ondinelo,  il  quale  è  detto  autore  del  romanzo; 
comor  devissa  Ondinelo  yn  questo  roman, 

7 


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98  A.  GlxAF  [giouxale  di  filologia 

mento  il  quale  si  usò  bensì  un  tempo  in  tutta  Europa,  ma  che  in  nessun 
altro  paese  fu  divulgato  tanto  come  in  Italia,  e  che  in  Venezia  si  ma- 
nipola ancor  di  presente.  In  un  altro  luogo  si  parla  di  tera  comtma, 
cioè  di  terra  che  si  reggeva  a  comune,  e  questa  è  cosa  in  più  parti- 
colar  modo  pertinente  all'Italia,  sebbene  nel  mezzodì  della  Francia  vi 
sieno  stati  comuni.  Poi  si  trova  fatta  menzione  dei  paterini,  i  quali  pri- 
mamente formarono  la  lor  setta  com'  è  noto  in  Milano,  e  sparsisi  dipoi 
in  varie  contrade  d'Europa,  presero  altri  nomi,  e  quello  conservarono 
più  particolarmente  in  Italia.  L' odio  grande  che  V  autore  professa  ai 
tedeschi,  i  quali  sono  rappresentati  avidi,  rapitori,  e  senza  fede,  non 
mi  pare  che  potesse  nascere  se  non  in  chi  fosse  stato  spettatore  di  qual- 
cuna di  quelle  famose  discese,  o  scorrerie,  degl'imperatori,  che  così  vivo 
e  così  tristo  ricordo  lasciarono  in  alcuni  canti  popolari  dell'Italia  set- 
tentrionale. E  probabilmente  chi  mostra  d'aver  tanta  avversione  ai  te- 
deschi doveva  vivere  fuori  del  dominio  di  Venezia.  In  fine  del  poema 
è  narrato  un  caso  che  naturalmente  si  lega  alle  dissensioni  tra  la  Chiesa 
e  l'Impero  che  per  sì  lungo  tempo  afflissero  l' Italia,  e  la  narrazione  è 
fatta  di  maniera  che  l'autore  si  dà  chiaramente  a  conoscere  per  guelfo. 
Le  tracce  d'imitazione  della  Divina  Commedia  accrescono  probabilità 
alla  congettura  che  il  poema  sia  stato  composto  in  Italia,  sebbene  la 
maravigliosa  rapidità  con  cui  l'opera  di  Dante  si  diflFuse  per  l'Europa, 
non  permetta  di  dare  ad  esse  il  valore  di  prova.  Checchesia  della  pa- 
tria dell'autore  e  del  poema,  certo  si  è  che  il  testo  nostro  è  una  in- 
forme traduzione  di  un  testo  francese,  il  quale  fu  di  gran  lunga  più 
colto  nella  verseggiatura. 

La  lingua  del  testo  nostro  è  il  più  strapagante  mescnglio  che  si  possa 
immaginare.  Il  più  grosso  è  veneto  senza  debbio,  ma  veneto  di  più  sorta. 
Non  è  un  dialetto  specificato  e  distinto,  ma  un'accozzaglia  di  dieci  dia- 
letti. Quello  che  meno  vi  domina,  specialmente  nelle  forme  del  verbo, 
è  il  veneziano  propriamente  detto;  gli  altri,  dal  padovano  al  bergamasco, 
vi  si  trovan  tutti.  Questo  punto  meriterebbe  d'essere  studiato  di  pro- 
posito da  persona  in  particolar  modo  versata  nella  dialettologia  italiana. 
Oltre  a  ciò  vi  si  trova  dentro  una  farragine  di  voci  prese  di  pianta  dal 
francese  e  stranamente  fatte  italiane,  e  non  s'intenda  di  sole  voci  in- 
solite, ma  anche  di  usualissime,  e  di  quelle  stesse  dei  verbi.  Di  tali 
voci  ho  fatto  una  copiosa  raccolta,  e  la  darò  dopo  l'analisi  del  poema. 

Qual  congettura  si  può  egli  fare  intorno  alla  patria  del  barbaro 
traduttore?  era  egli  veneto?  era  egli  italiano?  Anco  questo  è  un  punto 
su  cui  non  si  può  venire  a  conclusione  certa,  ma  solo  a  probabile.  E'  mi 
pare  anzi  tutto  che  se  il  traduttore  fosse  veneto  egli  dovrebbe  parlare 
una  lingua  meno  ingarbugliata,  meno  incerta,  dovrebbe,  cioè,  parlare 
il  dialetto  suo  proprio.  Da  altra  banda,  s'egli  fosse  italiano  di  qualche 
altra  provincia  non  dovrebbe  mancare  nel  suo  mescolato  linguaggio  al- 


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ROMANZA,  N.  '  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  99 

can  eleraeuto  trattovi  dal  dialetto  proprio  di  quella  provincia.  Inoltre, 
quand'egli  fosse  italiano,  (nulla  importa  se  veneto  o  che)  non  ci  sa- 
rebbe, parrai,  verso  d'intendere,  qual  ragione  l'abbia  potuto  spingere 
a  fare  così  largo  uso  di  voci  francesi,  anche  quando  più  naturalmente 
egli  doveva  trovarsi  in  bocca  il  vocabolo  della  lingua  propria.  Non  po- 
trebbe il  traduttore  esser  francese?  Ciò  ammettendo  si  spiegherebbe 
l'uso  di  quelle  voci,  si  spiegherebbe  la  incomparabile  barbarie  dello 
stile,  si  spiegherebbe  la  natura  eterogenea  della  lingua  da  lui  adoperata 
in  quella  parte  che  si  può  chiamare  italiana.  Ma  qui  ci  troviamo  di- 
nanzi un  fatto  che  non  può  accordarsi  con  quella  congettura.  Il  tradut- 
tore pare  che  intenda,  alcuna  volta,  assai  male  il  francese.  Lascio  stare 
che  qua  e  là  certe  frasi  inintelligibili  sembran  derivare  da  una  falsa  in- 
terpretazione del  testo,  e  reco  un  pajo  d' esempii  dove  a  dirittura  si  vede 
che  non  fu  inteso  il  vocabolo.  In  una  serie  in  uè  il  verso  e  il  senso 
vogliono  herbe  drue^  e  il  traduttore  pone  erba  dura.  Altrove  foudres  è 
tradotto  per  frotide:  avrebbe  il  traduttore  letto  fondres  nel  testo,  e  cre- 
duto fosse  quello  il  significato?  Altrove  prière  è  ir Sidoito  parechia^  e 
via  di  questo  andare.  Tali  casi  non  sono  tuttavia  molto  numerosi,  e  si 
può  credere  che  sieno  piuttosto  eflFetto  di  trascuratezza  che  d' ignoranza. 

Questa  poteva  del  resto,  alcune  volte,  cadere,  non  sul  vocabolo  fran- 
cese, ma  sull'italiano,  di  cui  il  traduttore  non  conosceva  forse  il  signi- 
ficato preciso  ;  e  spesso  anche  un  inganno  della  memoria  poteva  fare  che 
costui  attribuisse  al  vocabolo  italiano  un  significato  che  non  gli  si  ap- 
parteneva. Quanto  al  mescuglio  di  elementi  eterogenei  onde  resulta  la 
lingua  del  traduttore,  si  può  spiegar  di  leggeri.  Costui,  girando  di  citta^ 
in  città,  veniva  raccattando  voci  proprie  dei  particolari  dialetti  che  in 
quelle  si  usavano,  e  accozzandole  insieme  ne  formava  un  centone,  il 
quale,  dove  più,  dove  meno,  potev' essere  inteso  da  tutti.  Egli  è  del 
resto  da  dover  credere  che  un  simil  caso  si  ripetesse  più  volte,  e  che 
non  procedessero  altrimenti  i  giullari  francesi  che  venivano  a  esercitare 
il  loro  mestiere  in  Italia,  sulle  piazze  e  pei  trivii. 

Nel  nostro  poema  due  elementi  ideali  primeggiano:  la  devozione, 
che  mai  non  vien  meno,  del  vassallo  al  suo  signore;  un  sentimento  re- 
ligioso che  rasenta  l'ascetismo.  Uno  spirito  di  ventura  indipendente 
non  vi  si  trova,  sebbene  il  Conte  Ugo  sia  chiamato  in  un  luogo  chava- 
lero  erante,  e  sebbene  le  avventure  da  lui  incontrate  sieno  delle  più 
strane  che  immaginar  si  possano.  La  devozione  del  Conte  al  re  è  tale, 
che,  non  solo  egli  si  accinge,  per  obbedirlo  alla  inaudita  impresa,  ma 
poi,  viaggio  facendo,  per  disagi  che  s'abbia,  e  pericoli  in  che  s'abbatta, 
non  vuol  ritrarsene,  e  dissuaso  dal  papa  e  dal  prete  Gianni,  e  prosciolto 
dal  suo  giuramento,  vi  persevera  tuttavia.  Egli  respinge  con  orrore  le 
offerte  dell'imperatore  Enrico  e  di  altri  principi  che  volentieri  gli  da- 
rebber  soccorso  contro  Carlo  Martello,  e  istruito  della  frode  di  costui, 


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1<X)  A»  GRAF  [giornale  di  filologia 

nega  in  sulle  prime  di  darvi  fede.  Compiuta  T  opera,  e  tornato  in  Fran- 
cia, dove  trova  la  città  sua  assediata,  egli,  senza  smuoversi  un  punto 
dalla  fedeltà  sua,  va  a  dar  conto  al  re  del  messaggio,  a  recargli  il  tri- 
buto di  Lucifero,  e  a  offrirgli  in  ginocchio  la  pace.  Questo  esagerato 
sentimento  di  fedeltà  contrasta  in  istrano  modo  col  sentimento  baldan- 
zoso del  proprio  diritto,  che  troviamo  in  Girart  de  Rossillon,  e  supera 
di  gran  lunga  quello  che  si  può  riscontrare  in  Rinaldo  di  Montalbano, 
o  in  Girart  de  Viane,  i  quali,  pur  guerreggiando  col  re  loro,  serban 
per  esso  amore  e  rispetto.  11  sentimento  religioso  da  cui  Ugo  è  domi- 
nato è  piuttosto  sentimento  da  frate  che  da  guerriero,  e  gli  dà  una  strana 
e  ridicola  somiglianza  col  pio  Enea  e  col  pio  Goffredo.  Egli  rifiuta  du- 
rante tutto  il  viaggio  ogni  cibo  che  non  sia  di  radici,  si  chiama  pec- 
catore ad  ogni  momento,  sebbene  il  papa  e  il  prete  Gianni  l'abbiano 
dichiarato  il  più  candido  e  santo  uomo  che  viva,  si  segna  ad  ogni  pie 
sospinto,  si  flagella,  si  percote  co' sassi  senza  una  ragione  al  mondo, 
recita  salmi  ad  ogni  ora,  de' quali  sono  riportati  in  un  lercio  latino  i 
principii,  piange  finalmente  e  si  rammarica  molto  più  che  alla  qualità 
sua  non  convenga,  e  al  portentoso  valore  di  cui  dà  tante  prove.  Ho 
detto  poc'  anzi  che  nel  poema  non  si  trova  un  vero  spirito  di  avventura  : 
i  casi  maravigliosi  che  vi  tengono  tanta  parte,  non  sono  incontrati  dal 
Conte  per  amore  del  mestiere,  per  bizzaria  cavalleresca,  ma  perché,  a 
voler  compiere  l'impresa  commessagli  dal  re  egli  è  forza  incontrarli. 
Il  conte  Ugo  è  un  non  so  che  di  mezzo  tra  il  vassallo,  il  cavaliere,  il 
terrazzano  ed  il  frate. 

Mi  volgo  ora  a  recare  alcuni  passi  e  a  dare  una  succinta  analisi  del 
poema.    Esso  comincia  cosi  : 

El  tempo  de  mayo,  quando  el  fiorise  le  prade, 
tute  reuerdise  li  erbe  «elle  arbosele, 
et  yn  amore  vene  molte  mainare  d'osele, 
perzò  cantano,  e  fano  li  sony  molto  bele, 
tute  ynsemele  fano  done  et  donzele, 
che  per  lor  deleto  entrano  yn  zardine, 
tute  le  polzele  ensemele  com  zovenzele, 
de  fiore  e  de  rosse  zascun  se  fa  capele, 
se  sy  sbaldise  per  che  amore  li  astrenze. 
en  pentacosta,  quando  caualere  nouele  (1) 
desirano  zostra  e  fare  merauiose  zambele, 
el  steua  en  Franza  un  re  molto  crudele, 
selon  che  mostra  cronicha  ordenata, 
che  hognomo  T  apela  lo  re  Carlo  Martelo. 
gran  corte  tenea  che  homo  non  la  uite  za  tale, 
che  una  cessa  adopra  el  ben  com  felo, 


(1)  Corretto  a  sproposito:  ci  cavalerc  nordo. 


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«oMANZA.  X."  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  lol 

qoando  vn  suo  senio  el  oaza  de  eoa  casa, 
e  se  Tenvia  a  querire  trabato  a  Luzifero, 
et  a  cerchare  la  casa  ynfernale 
solo  per  avere  laida  dal  corpo  belo. 

Oldite,  signore,  che  dio  ve  benedicha, 
bona  canzon  dire  ve  uolo  de  soy  antesore 
del  fio  del  re  Lois  che  Franza  avea  yn  balia, 
ohe  Carlo  Mariolo  fo  anomà  a  tuta  soa  vita, 
quel  Carlone  fo  de  molte  gran  nomenanza: 
de  tute  le  tere  che  elio  auea  yn  soa  balia 
doncha  non  perde  zamay  un  sol  pede. 
per  son  argollio  e  per  soua  lezeria 
molte  stranie  tere  el  n^aue  aqnerire, 
tanto  che  luy  li  aue  soto  soua  segnoria 
tuto  el  mondo,  et  (non  è)  yn  la  pagania 
Tobediseno;  non  è  sy  ardy  che  a  luy  desdiga 
quando  luy  vele  fare  soy  comandamento, 
e  s^el  volese  mandare  per  soa  gran  baronia, 
senza  longo  termene  lì  meno  yn  balia 
.V.  cento  milia  homene  de  bona  zente  ben  guarnita, 
senza  li  pedone  e  tute  li  bone  arzere, 
che  la  rota  non  porla  aver  miga. 
per  zo  che  lo  re  se  sente  tanto  auanzare 
più  che  adoncha  non  fo  sy  antiche  miga 
pili  orgoioso  ne  fo  et  più  che  zudeio; 
a  torto  el  tele  altruy  Tauere  et  altruy  el  deserta, 
et  molte  dono  a  vergogna  et  hodiate; 
et  perzò  non  ò  miga  dala  zente  agab^, 
anzo  li  era  la  zente  dola  contri.  (1) 

Za  fate  paze  et  atendite,  signore, 
de  Carlo  Mariolo  che  fo  yraperadore, 
che  yn  suo  tempo  conquistò  tanto  onore: 
come  più  el  conquistò  più  fo  crudele  tute  ore, 
né  a  re,  uè  a  prinzipo,  né  a  duca,  né  a  ualuasore, 
né  a  conte,  né  a  marchese,  né  baron  dentorno 
che  noi  serua  per  dotanza  o  per  amore, 
al  re  vene  talenie  et  yn  coro  vn  zomo 
del  tuto  vedere  de  soy  homene  lo  miore, 
lo  quale  auea  più  forza  et  più  valore, 
conseio  né  presse  al  conte  da  Luzenborgo, 
et  a  Ruzero  lo  sere  de  Nanie  ancora, 
yn  qual  mainerà  le  pork  elio  vedere, 
queste  respondeno  :  «  fate  bandire  per  tuto  ynioma 
the  el  non  romagna  li  grande  né  ly  menore, 
che  tene  da  ty  feu,  né  tere,  né  honore; 
che  a  pentacosia  vegna  tuty  a  toa  corte, 


(1)  Qnì  manca  qualche  cosa. 


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1^*-  A.  GEAF  [<;ioR\ALE  di  filolooia 

e  zascuD  mene  sego  eoa  filia,  ho  soa  vsor, 

ouer  cosina,  ouer  mene  soa  sorela; 

e  chi  a  polzelo  tu  trouaray  signore, 

et  anch' a  le  maridà  tu  faray  grande  honore, 

et  anchora  faray  dy  chavalery  più  e  più, 

et  lor  adobaranse  de  bon  drapo  de  colore, 

e  quily  che  non  virano  si  perderano  tuo  amore.  > 

alora  feze  domandare  presto  li  bandidore, 

e  luy  li  comandò,  li  feze  chaualcare  dentomo, 

e  bandise  la  corte  da  parte  de  lo  'mperadore. 

Bandita  la  corte  accorrono  d'ogni  parte  i  signori,  e  fra  questi 
Ugone  con  la  moglie  Inida,  e  molto  parentado.  Si  fa  una  giostra,  si 
festeggia,  e  Carlo,  veduta  Inida,  perdutamente  se  ne  innamora.  Le 
repulse  di  costei  accendono  maggiormente  i  suoi' desiderii.  Tre  giorni 
passa  egli  rinchiuso  nella  sua  camera  a  disperarsi,  non  osando  fare  ol- 
traggio al  conte,  e  non  riuscendo  a  vincere  la  propria  passione.  Final- 
mente il  menestrello  Sandin  gli  suggerisce  uno  strano  partito  :  si  mandi 
a  chiamare  il  conte,  gli  si  faccia  giurare  obbedienza  e  fedeltà,  e  poi 
gli  si  ordini  d'andar  difilato  all'inferno  a  chiedere,  in  nome  dell'im- 
peratore, tributo  a  Lucifero.  Se  questi  non  vi  si  piega  l'imperatore 
gli  moverà  guerra.  Così  si  fa.  Saputo  a  quale  impresa  il  re  lo  destini, 
Ugo  si  turba  e  contrasta  alquanto,  ma  forzato  dal  giuramento  cede 
al  crudele  comando,  e  si  prepara  a  portare  in  inferno,  a  quél  felloii  Lu- 
isifero^  il  messaggio  e  il  suggello  imperiale.  Raccomanda  al  re  la  donna 
sua  e  il  suo  avere,  e  quegli  lo  segna ^  lo  benedice,  come  Carlo  Magno 
benedice  Ganellone  nella  Chanson  de  Roland.  Si  fanno  le  dipartenze: 
Ugo,  co'  suoi,  torna  in  Alvernia,  e,  dopo. una  festa,  annunzia  loro  il 
volere  di  Carlo.  Inida  si  dispera,  e  svela  al  marito  i  procedimenti  del 
re  di  cui  aveva  insino  allora  taciuto.  Ugo  accoglie  assai  malamente 
queste  rivelazioni  e  le  crede  calunnie  : 

Una  yra  li  sorprende,  lasa  lo  pie  andare 
sì  che  luy  la  fa  auale  contra  tera  trabucare, 
che  per  [p]ocho  che  non  li  feze  al  ventre  alora  crepare; 
may,  quando  el  la  uite  a  tera  spasemk  e  chazù  estare, 
gran  pietà  li  prese,  si  la  uà  susa  a  leuare. 

Ugone  fa  testamento,  conforta  la  moglie,  prega  i  suoi  d'aspettarlo 
sett'anni,  poi,  nel  cupo  della  notte,  mentre  tutti  dormono,  si  leva,  si 
arma,  monta  a  cavallo,  e  ponsi  in  viaggio  verso  l'Ungheria. 

Al  caminare  el  conte  Ugon  s'è  metuto, 
de  zorno  en  zorno  al  nome  Yhesù,  (1) 

(1)  Corretto  malamente  :  al  nome  de  Yhesù. 


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iu)MAN2A,  x.«>  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  10.} 

.de  tera  in  tera,  sopra  lo  caual  corente, 
tanto  che  yn  Ongarìa  si  è  arriuà  e  venuto, 
al  grande  palazo,  a  la  schala  si  è  desenduto, 
e  posa  domandò  onda  el  re  d' Onj^aria  el  fo  ; 
alcun  lì  dezea  sopra  el  suo  palazo  el  stasea. 
presto  lì  montò  ch'el  n'aue  più  aspetta, 
lo  re  troaa  cVauea  vn  conscio  aduna, 
davante  s'aprosima  quando  el  Tane  conosuto, 
luy  lo  saluta  et  aue  (1)  suo  sermon  dito, 
lo  re  lo  conose  che  ben  Ta  recente , 
dizendo:  «  ben  vegna  mio  amico  e  m[i]o  druto. 
quale  la  chasone  per  che  site  venuto? 
zo  che  domandate,  se  puro  auerò  posanza, 
tuto  a  bandon  a  vuy  averazo  metuto.  » 

Ugone  rifiuta  le  armi  che  il  re  d'Ungheria  gli  offre  per  andar  contro 
Carlo,  e  si  parte,  e  in  capo  di  tre  mesi  giunge  a  Roma.  Quivi,  come 
Huon  de  Bordeaux,  si  confessa  all'apostolo,  cioè  al  papa,  che  dichiara 
di  non  aver  mai  trovato  in  saa  vita  men  pecadore  homo,  e  tenta  dis- 
suaderlo dall'impresa,  promettendogli  di  scomunicare,  quando  occorra, 
l'imperatore,  e  di  prosciogliere  i  sudditi  di  lui  dall' obbligo  di  fedeltà: 

e  tute  sue  tere  contradire  li  faremo. 

Ma  Ugone  sta  saldo.  Allora  il  papa  lo  manda  al  santo  sepolcro,  per 
ben  preparsi,  con  quel  pellegrinaggio,  all'ardua  impresa,  e  gli  dà  un 
pezzo  del  legno  della  croce,'  il  quale,  finch'egli  l'abbia  indosso,  non  lo 
lascerà  morire  senza  penitenza,  e  lo  avvolge  in  un  bel  drappo  di  seta, 
e  gli  empie  la  tasca  di  ostie  consacrate.  Il  conte  s'invia  verso  Calabria, 
e,  cammin  facendo, 

de  grande  astenenze  suo  corpo  sazia, 

passa  il  mare,  e  va  a  Tunisi.  Egli  chiede  a  quanti  incontra  notizie 
de'  paesi  infernali,  ma  non  trova  chi  gliene  sappia  dire.  A  Tunisi  si 
confessa  a  un  priore,  e  poscia  riprende,  con  una  nave  di  pirati,  il  viaggio 
verso  Gerusalemme. 

Qui  comincia  una  serie  di  strane  avventure  che  poca  attinenza  hanno 
col  soggetto.  Gerusalemme  è  assediata  dall'imperatore  di  Costantino- 
poli, che  ha  seco  tutto  il  suo  parfor^Oy  piiì  di  centomila  cavalieri,  senza 
ìa  pedonaia  e  li  nobili  ardere.  Una  grande  battaglia  è  impegnata  fra  cri- 
stiani e  saracini:  Ugone,  co' suoi  pirati,  vi  si  caccia  dentro,  in  quella 
appunto  che  i  cristiani  cominciano  a  piegare,  e  mutata  la  sorte  del- 
l'armi, sconfigge  gl'infedeli,  e  li  costringe,  indi  a  poco,  a  cedere  la 


(1)  acca. 


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104  A,  GRAF  [giornale  di  filologia 

santa  città.  Oflfertagli  dall' imperatore  la  corona  di  Gerusalemme,  egli 
ricusa,  e  ricusa  similmente  il  suo  ajuto  per  menar  guerra  a  Carlo;  ma 
si  fa  condurre  al  tempio  de  Salamon,  e  prega,  dopo  avere  accesa  una 
candela  al  santo  sepolcro  : 

signore  dio  padre,  per  tuo  santisimo  nome, 

chi  feze  celo  e  tera  e  U  mare  per  deuisione, 

bestie  et  osely,  aue  dolze  e  pessy, 

fazisty  Adam,  Ena,  e  li  monty, 

a  guardare  li  donassy  lo  terresto  casamento, 

a  Iny  et  a  soa  dona,  che  li  trazise  dal  fidatone, 

tuty  li  abandonasty  fora  vn  fruto,  quel  noe, 

e  se  li  comandasy  che  tocare  noi  douese, 

che  Tera  el  fruto  de  mortai  casone, 

et  apreao  questo  che  de  luy  insesemo, 

dizendo  a  loro  :  «  non  tocare  che  tu  faray  danazione.  »  (1) 

apresso  li  donassy  tute  el  seno  del  mondo, 

el  male  e  U  bonne  li  mostrasy  a  bandone  : 

«  perché  sey  fato  a  mia  imagina  la  bontà  io  te  dono, 

de  le  cose  terene  e  de  tute  le  cose  ohe  11  sono 

si  longo  comò  viuiray  (2)  lo  merito  te  dono: 

fin  a  quy  aoeray  mia  benedizione, 

aneray  zo  che  te  piase  senza  con  tradì  re.  > 

E  così  per  altri  venticinque  versi.  Terminata  la  preghiera,  vien 
giù  un  colombo  con  una  scritta  nel  becco,  dove  a  imperator  di  Geru- 
salemme è  designato  Danfroy,  figlio  dell' imperator  Grifone,  e  dove  si 
esorta  Ugone  a  seguitare  risolutamente  l'impresa. 

Pianto  da  tutti,  da  tutti  abbracciato,  Ugone  si  rimette  in  camino^ 
e  il  poeta  riprende  con  più  ardore  il  racconto: 

Quando  olderite  canzon  avenable, 
quy  non  trouarano  menzogne  nò  fable, 
me  denoie,  et  ancora  questa  istoria  venable.  (3) 
questa  si  ò  vna  ouera  asay  deletable: 
de  gran  pene  el  è  sta  ben  visitable, 
de  prodeze  et  onore  et  asempie  comunable, 
de  gi-andl  afany  sofry  quando  Pera  besognable, 
n* atende  onore,  nb  alcun  ben  mirable. 
chi  n'abia  guerdedon  dal  signore  spertuable: 
pregate  per  Ugon  lo  franche  sififnore  aluernable, 
chi  feze  tal  via  lo  caualero  mirable. 

Poi  stranezze  d'ogni  fatta:  tempeste,  fiere,  un  drago  che  fìama  de 


(1)  Questo  verso  deve  forse  anteporsi  al  (2)  vhitroy. 

precedente.  (3)  auenahle? 


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«OMAJWA,  N.«  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  105 

fogo  él  btUa  per  nare  e  per  de  dre^  selve  piene  di  serpenti  orribili,  fan- 
ciulle saracine  naufragate  e  battezzate  da  Ugone,  diavoli  prigionieri, 
regine  liberate  dalle  mani  di  vassalli  infedeli,  popoli  Convertiti  al  cri^ 
stianesimo,  città  conquistate,  imperi  fondati.  Un  leone  da  Ugo  difeso 
contro  un  drago,  gli  si  fa  seguace;  ventura  tolta  forse  dal  Chevàlier 
au  Lyon.  Una  delle  fanciulle  saracine  battezzate  da  Ugone  riceve  da 
costui  il  nome,  celeberrimo  nei  fasti  della  poesia  cavalleresca,  di  Dru- 
siana.  Durante  tutto  questo  tempo  il  buon  conte  plura^  signa  sito  visso, 
se  chiama  pecadore^  e  alterna  il  canto  dei  salmi  con  l'opere  della  spada. 

Dopo  alquanto  altro  tempo  giunge  al  paese  del  Prete  Gianni,  il 
quale  non  ba  ancora  sua  sede  in  'Abissinia  come  nelle  più  tarde  leggende, 
ma  nel  cuore  dell'Asia  (1).  Egli  lo  trova  in  una  chiesa  fra  quattro  re, 
cento  conti,  sessanta  marchesi,  quarantadue  duchi,  più  di  dugento  tra 
vescovi,  arcivescovi  e  cavalieri,  e  altra  eente  yn  gran  frota.  Gli  con- 
fessa i  suoi  peccati,  gli  racconta  la  sua  storia.  Prete  Gianni,  al  solito, 
cerca  dissuaderlo,  gli  oflfre  onori,  ricchezze,  impero,  ma  tutto  rifiuta  il 
conte,  e  dopo  alquanti  giorni  si  rimette  al  suo  viaggio. 

Qui  il  poema,  di  cui  si  è  svolta  infrattanto  la  terza  parte,  lascia 
Ugone,  e  torna  a  Carlo  Martello.  Per  non  allungarla  di  troppo  basterà 
dire  che  Carlo  manda  suoi  messi  a  luida  per  sollecitarla  a  venire  a 
coite,  che  Inida  risolutamente  rifiuta,  e  fa  punire  con  grande  sfregio 
gli  ambasciatori,  e  che  ne  nasce  una  guerra  la  cui  narrazione  manca 
al  poema.  Una  nota  ne  fa  avvertito  il  lettore:  mancha  quy  corno  Carlo 
Martelo  andò  a  champo. 

Ugone  intanto  naviga  sul  Tigreso  (Tigri),  e  non  gli  mancan  ven- 
ture. Stermina  belve  crudeli,  capita  in  una  città  popolata  di  diavoli  in 
forme  di  donzelle,  e  la  castità  sua  è  messa  a  duro  cimento;  dalla  città 
che  avvampa  tutta  al  nome  di  Gesù  da  luì  pronunziato,  lo  traggon  gli 
angeli;  pugna  con  uccelli  grandi,  che  han  molta  somiglianza  coi  roc 
delle  leggende  orientali,  poi  con  uccelli  piccoli  le  cui  bezzicature  sono 
mortali;  incontra  mostri  metà  uomini  e  metà  pesci,  e  uomini  con  due 
teste.  Finalmente  viene  a  un  monte  infiammato  da  cui  si  levano  la- 
menti: eccolo  giunto  all'inferno,  cioè  ad  un  reame  dell'inferno,  secondo 
gli  dice  un  messo  celeste  che  si  trattiene  alquanto  con  lui.  Ajuta  due 
grifoni  contro  un  drago,  i  quali  si  fan  suoi  compagni,  e  gli  fan  vali- 
care l'acque  e  i  passi  più  malagevoli  levandolo  in  aria.  Qui  il  poeta 
ebbe  a  ricordarsi  del  viaggio  aereo  di  Alessandro  Magno.  Incontra  una 
turba  di  dannati,  fra  cui  sono  Caino,  Cam,  Faraone,  Giuda,  Erode, 
Gano.  Procedendo  più  oltre  giunge  al  monte  Ararat  su  cui  è  V  arca 
di  Noè,  e  dove  Noè  e  Adamo,  coni  alfry  homeny  santy,  vengono  a  far 

(1)  V.  la  notizia  premessa  dal  D'Avezac  alla  Relation  des  Moì^gols  ou   Tartares 
di  Jean  du  Plan  de  Carpin. 

V 


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106  A.    GEAF  [OIOBNALR   DI   KILOLOOIÀ 

festa  il  giorno  di  Tenerdì  sauto.  In  un  cenobio  appiè  del  monte  trova 
tre  frati,  l'un  de'  quali  è  suo  cugino,  e  della  famiglia  di  Bueve  de  Co- 
marchis,  di  cui  si  narrano  i  fatti  nel  poema  di  Adenes  che  porta  questo 
nome,  e  nel  Siège  de  Barbastre. 

Costoro  sono  forse  i  tre  frati  di  cui  si  narra  in  alcune  leggende  del 
paradiso  terrestre,  e  qui  forviati  per  colpa  del  poeta  (1). 

Più  là  Ugone  trova  diavoli  d'intermedia  natura,  i  quali  han  pace 
la  domenica;  poscia  giunge  al  paradiso  terrestre,  in  mezzo  a  cui  è  un 
fonte  che  spande  i  quattro  fiumi. 

UgOQ  86  lena  yn  astante,  e  posa  se  signa, 
e  guardò  sopi-a  la  fonte  e  vite  vno  arboro  longo 
che  sopra  la  fonte  era  piantato  ed  era  tuto  secho 
e.  3.  radize  auea  piantato  sopra  la  fonte, 
e  tuty  y  ramy  parea  sechy,  el  celo  pare  ch'i  toche; 
ausa  me  parea  vna  dona  com(o)  vn  puto  yn  braze, 
pura  la  versene  santa  me  parea  quela. 

Trova,  al  solito,  Enoc  ed  Elia,  i  quali  si  comunicano  con  l'ostie 
da  lui  recate. 

Enea  si  mostra,  vestito  di  tutte  Tarmi,  e  s'offerisce  ad  Ugone  per 
accompagnarlo  nel  suo  viaggio  infernale.  Qui  abbiamo  alcuni  riscontri 
con  la  prima  cantica  della  Commedia  sui  quali  mi  pare  dover  richiamar 
l'attenzione.  Interrogato  da  Ugone  circa  Tesser  suo,  Enea  risponde 
d'esser  nato  avante  lo  hatesimo^  e  soggiunge:  ly  mey  ancesory  donda  tu 
a  fato  domanda  sono  troiany  ;  e  poi  :  cossy  morite  al  tempo  de  y  anzoli 
falsy.    Ugone  gli  parla: 

«  meravilia  azo  olduto,  »  lo  conte  responde: 
«  Santa  Maria!  »  dizelo,  «  andoncha  è  tu  coluy 
de  chy  yo  azo  tante  nouele  yntesso  ? 


bay,  Eneas,  se  tu  avisse  creduto 

ynnanzo  el  fiolo  de  dio  che  de  verzene  è  nasuto, 

yo  me  rendese  a  ty  per  amore  de  coluy 

che  tu  auesse  mer9ede  de  mia  saluazione.  » 

Enea  risponde  : 

«  per  secorere  ty  sento  quy  venuto.  » 

Qui  v'è  riscontro,  non  solo  di  fatti,  ma  di  parole.    Più  oltre  si  no- 
mina la  perduta  sente. 


(1)  V.  la  leggenda  di  Tre  santi  monaci ,  trick's  Purgatori/,  p.  95  e  segg.  intomo  a 
pubblicata  nella  Scelta  di  curiosità  lette-  uno  strano  viaggio  di  tre  monaci  in  Asia, 
rarie,  disp.  106;  raa  anche  Wrigiit,  S/  Pa-     pieno  di  maraviglie. 


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HOMAXZA,  N.'  2]  1)1  UN  POEMA  INEDITO  107 

San  Guglielmo  d' Grange,  pregato  da  Orlando  e  da  altri,  scende  dal 
cielo  per  guidare  i  passi  di  Ugone  che  gli  è  congiunto.  Una  barca  tra- 
sporta essi  ed  Enea  air  inferno.  Guglielmo  dice  ad  Ugone  esser  quella 
la  dimora  dei  dannati:  lo  coide  s* aresta  a  la  paróla  scura.  Le  parole 
oscure  lette  da  Dante  al  -sommo  della  porta  d*  inferno  ricorrono  alla  me- 
moria.   Un  pò*  più  innanzi  ecco  una  similitudine  dantesca  : 

corno  al  sole  fa  desleguare  la  nene, 
Così  la  neve  al  sol  sì  dissigilla.  (1) 

Si  addentrano  negli  orrìbili  luoghi. 

ades  80  yntrate  al  paiesse  crimÌDale, 

piiìi  che  friza  che  d'arche  ponzenta, 

e  coreno  tuty  tre  per  una  scura  strada, 

non  podea  retenire  la  ganba  ponto  ferma. 

lo  conte  d'Alvemia  che  auea  pezor  corazo 

tene  santo  Guielmo  de  dre  per  le  spale. 

quando  el  fo  de  dentro  la  dolorossa  vale 

yn  quel  locho  sono  cride  e  dolore  e  gran  batalia: 

se  insemble  fosse  .X.M.  mareschalche 

che  tute  aponto  foseno  tratuty  ynguale, 

et  altretante  balestre  et  arche  ponzente, 

et  .X.M.  fabrechy  che  martelaseno  tuty  a  un  tratr», 

a  older  questo  serebe  altro  tale  ; 

e  corno  questo  si  è  un  pizolo  canale 

ynverso  lo  maro  quando  T  enfia  senza  falò. 

là  sono  le  cride  e  ly  dolore  mortale, 

aguzy  sospiri  e  lamentar  de  male, 

agury  de  morte  e  biasteme  crudele 

quando  li  fé  nasere  lo  re  celestiale. 

Enea  dice  ad  Ugone:  zo  si  è  la  zente  chi  non  feno  ny  ben  ni  nmle.  (2) 
Trovano  lussuriosi  tormentati  da  vespe  e  da  serpi,  vanagloriosi  con  le 
persone  avvolte  di  fiamme.-  Enea  dice  di  questi  :  aveseno  tufo  lo  tresoro 
de  Carlo  yn  la  mano  \  luto  lo  donaraveno  (3)  per  avere  un  po'  di  tregua. 
Trovan  poi  giocatori  e  ruffiani  immersi  nel  fango  e  diavoli  che  loro  strac- 
cian  la  schiena  con  le  graffe  (4).    Fra  costoro  è  il  menestrello  Sandin.    Essi 

biastemano  lor  padre  e  quily  che  lor  batezono, 
biastemano  la  morte  che  a  lor  (5)  sorpresse: 
«  ziossy  seresemo  se  zamay  non  fosemo  nate.  » 


(1)  Parad.,  XXXIIl,  64.  (4)  Ib.  XXI,  50  e  segg. 

(?)  Cf.  /«/:,  III,  34  e  segg.  (5)  aio. 

(3)  Ib.,  VII,  64  e  segg. 


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Ics  A.  GRAF  [giornale  di  filolooia 

È  cosa  notevole  che  queste  parole,  le  quali  tanto  somigliano  a  quelle 
che  Dante,  nel  III  canto  deìV  Inferno,  pone  in  bocca  sìV anime  lasse  e 
ignude,  precedano,  come  ivi,  il  passaggio  del  primo  fiume  infernale.  Qui, 
come  lì,  il  barcaiuolo  Caronte  vien  gridando  contro  gli  spiriti;  condurò 
vuy  alla  yììfernal  musone  ;  e  il  conte  domanda  a  Enea,  come  Dante  e 
Virgilio:  i)er  cJie  ano  ily  cosy  per  tropo  gran  volere  \  del  trapasare?  La 
sottile  ragion  dantesca  della  tema  che  si  cangia  in  desio  non  entra  al 
poeta,  il  quale  toglie  il  Centauro  armato  a  un  altro  luogo  della  Divina 
Commedia,  e  lo  pone  a  cacciar  l'anime  al  passo  del  fiume.  Quando 
queste  sono  entrate  nella  barca  Charon  demonio  le  batte  col  remo,  e 
scórto  Ugone,  grida,  come  per  Dante, 

«  me  quelo  stranio  chi  è  senza  morte  arivato 
porta  noi  voUio,  tropo  seria  agreuato.  » 

Enea  risponde  quasi  con  le  parole  di  Virgilio:  tote  tosto  de  quy^  mal- 
nasse.    Passano  il  fiume,  e  proseguono  il  viaggio. 

Che  tutti  questi  riscontri  sieno  fortuiti  nessuno  vorrà  sostenere;  il 
poeta  nostro  aveva  per  certo  fra  mani,  o  nella  memoria,  il  poema  di 
Dante.  Tanto  pili  strano  dee  sembrare  però  che  la  imitazione  sua  si 
fermasse  a  cose  di  minor  momento,  e  che  la  topografia  del  doloroso 
regno j  e  l'ordine  delle  pene,  sieno  in  tutto  disformi  da  ciò  che  mostra 
il  poema  dantesco.  Su  tale  argomento  sarebbe  facile  lavorare  di  con- 
getture, e  difficile  venire  a  qualche  buona  conclusione,  e  però  non  mi 
vi  trattengo  altrimenti,  e  m' affaretto  a  condurre  a  termine  quest'analisi 
di  già  troppo  lunga. 

Il  conte,  andando  oltre,  passa  per  varie  regioni  d'Inferno.  Egli 
trova  i  grandi  di  Grecia  e  di  Roma,  e  molti  personaggi  del  mondo  ca- 
valleresco, fra  cui  Eglantine,  Guy  deNantoil,  Agolante,  Tebaldo,  Girart 
de  Frate,  Alessandro  Magno,  Gan elione.  Giunto  dinnanzi  a  Lucifero, 
égli  espone  il  suo  messaggio,  e  ottiene  dal  principe  dell'  inferno  obbe- 
dienza e  tributo.  Riportato,  dopo  di  ciò,  miracolosamente  in  Francia, 
nella  sua  città,  si  presenta  a  Carlo,  il  quale  lo  accoglie  assai  male. 
Carlo  vien  tratto  dai  diavoli  all'  inferno:  i  baroni  vorrebbero  a  re  Ugone, 
ma  egli  rifiuta,  e  Guielmo  Zapeta  succede  sul  trono  di  Francia.  Indi  a 
poco  i  saracini  assediano  Roma.  Il  papa  chiede  ajuto  ai  francesi  e  non 
l'ottiene;  lo  chiede  ai  tedeschi,  promettendo  loro  l'impero.  Questi  scen- 
dono in  Italia,  ma  poi  vi  scendono  anco  i  francesi,  mossi  da  Ugone. 
In  Roma  succedon  gare  e  si  viene  alle  mani  tra  francesi  e  tedeschi: 
i  francesi  sconfiggon  da  soli  i  saracini  e  liberano  la  città  santa.  Il  papa 
non  sa  come  fare  a  mantener  la  promessa  circa  l'impero.  Per  con- 
siglio d'  Ugone  si  commette  alle  armi  la  decisione  del  piato,  con  questa 
coudizion  tuttavia  che  la  Francia  abbia  in  ogni  caso  a  serbarsi  indipen- 
dente.   Combattono,  da  una  parte,  centocinquanta  baroni  tedeschi,  fra 


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KOM  vNZA,  %-.<•  2]  DI  UN  POEMA  INEDITO  m> 

coi   Tommaso  di  Luzemborgo,  dalF  altra,  centocinquanta  baroni  fran- 
cesi, fra  cui  Ugoue.    Essi  si  sterminano  a  vicenda:  al  finir  della  pugna 
Tommaso  e  Ugone  rimangono  soli  vivi,  ma  spiranti  tatt*a  due.    Ugoue 
muore  prima  di  Tommaso,  e  l'impero  tocca  ai  tedeschi. 
Il  poema  conchiude: 

De  qniste  che  son  morte  dìo  li  faza  perdonc. 
de  lo  'mperio  a  Limagne  De  fo  fato  lo  dona, 
et  loro  lo  receuoDO  a  dio  benedizione, 
zascnn  posa  se  meraviò  de  tal  lizione. 
la  corte  era  bandita  senza  demorasione, 
zascun  retoma  verso  de  soy  paiesse; 
altre  ne  fono  alegre,  altre  ne  fo  dolente, 
doncha  non  vite  tal  perzeta  zamay  homo  vivente, 
de  tuta  crìstianet^  le  miore  homene  li  merino; 
fin  a  .1III.C.  any  recoverate  non  aerano, 
de  quily  che  pianzeno  et  che  alegry  ne  fo 
sopra  tute  li  altre  fmnzose  se  lamentarano. 
da  Roma  se  partine,  e  portone  el  corpo  d'Ugon, 
e  sy  lo  feno  seterare  com  molte  grande  procesioa, 
pur  de  dentro  Alvergna,  a  la  soa  maistra  mason, 
et  Ynida  ne  morite  per  lo  dolore  del  baron. 
per  de  dentro  vn  molimento  apreso  del  so  compaguon 
Tanno  elly  metuto  la  zente  del  baron, 
dizendo  che  Pera  santo  cosy  cera  dito  v'abiarao, 
e  molte  grande  miracoly  elo  a  fato  demostranza. 
cosy  feny  lo  romk  sanator  liale  conte  Ugone: 
vuy  che  Tauite  olduto  dio  ve  faza  perdone, 
et  my  che  Tazo  quy  scrito  non  me  faza  danazione. 

Qui  do  l'elenco  delle  voci  e  dei  modi  francesi  piii  spiccati  raccolti 
nel  testo,  mettendo  loro  a  canto  i  corrispondenti  francesi. 

abelise  (li  odore  li);  abelisL  bero  (Ugo  lo);  ber, 

afaitamento;  afaitement  beure;  boire, 

aferante;  auferant,  braio;  brait, 

aficba  (s');  grafiche.  braire;  braire, 

agabà;  gabé,  brocha,  brocono;  broclit,  brochent, 

aide  (li);  li  aide,  cendre;  cenare, 

aire;  air.  chiama  dio,  in  significato  di  prega  ; 

alezemo;  dlosons,  inf.  aloser,  recìaimet  dieu, 

altana;  aUaigne.  colegare;  eouìchier. 

asenita;  asenie,  coraplita,  part.  pass.;  cowplie, 

astante  (el  se  leva  in);  en  estant,  conuenante  (de  tal);  par  lei  covineìtt. 

avinante;  avinanU  coro,  eorno;  cor. 

ausy;  amy,  coro,  corpo;  cors, 

batù  (de  sopra  li  scudi  che  a  ora  sono);  coverto  ;  cuvert. 

a  or  hatu,  dalmazo;  daJmage, 

bazalero;  bacheler,  dcscrocha;  descroche. 


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no 


DI  UN  POEMA  INEDITO         Ichornale  di  filologia 


desevranza  ;  desevrance. 

di  nemisse;  dieu  enemL 

dobitanza;  doutance. 

era,  3.*  p.  fut.;  ert. 

fazone  (  la  bella  Ynida  dala  chiara  )  ; 
fagon. 

fenisOD;  fenison, 

feramente  (Tauo  prega);  fierement, 

feu;  feu, 

fiorita,  in  significato  di  vecchia;  flourie. 

folia,  in  significato  à\  tristizia  (et  elio 
Tave  asolto,  pocho  troua  in  luy  folia); 
foleté, 

forse;  fors, 

frapa;  frape,  inf.  fraper, 

guarny  (gente);  gamie, 

gra  (oltra  a  mio);  gie, 

grevanza;  grevance. 

homo  m' apelo;  on  m' apele. 

imbronchk;  embroncha,  inf.  embroncher. 

1  aremo,  !•  pers.  pi.  fut.;  laironsj  inf. 
laisser, 

larmoiant«  ;  larmoiant. 

liona;  Itone. 

Too ,  !•  pers.  sing.  ind.  pres.  ;  ho ,  inf. 
ìocr. 

ma  (no);  ne  mais, 

masena;  nxaisnée, 

me;  mais, 

mesazo;  mesaise, 

rairaclo;  mirade. 

molliere;  moUier, 

ne,  in  luogo  di  non^  (speranza  che  ne 
monta  un  cerfoio,  e  molt' altri  esempii);  ne, 

niente  (non  te  credemo  de);  de  noient, 

onbrio,  onbrigo;  noììbril, 

orazo;  orage, 

paina;  paiene, 

painory;  paienour  gent, 

parforzo;  parfort. 

parisanta;  parisante. 

paso,  punto,  (me  non  entra  paso  );  pas, 

pe  (pian  pe  de  tera);  plein  pied. 

pieno  (  palazo  )  ;  palais  plenier. 


plura,  3^  pers.  sing.  ind.  pres.;  plurase, 
ecc.;  plure,  ecc.,  inf.  plurer. 

plusore;  pluisor, 

porpensa;  pourpeme, 

prodomeny;  prodonie, 

questa;  queste, 

rata;  raide, 

receuto;  rcQu, 

recevre;  recevoir, 

recollire;  recoiUir, 

redotk;  redoté, 

requero,  1'  pers.  sing.  ind.  pres.;  re- 
quieff  inf.  requetre. 

restasone;  arestison. 

restora ,  3»  pers.  sing.  ind.  pres.  (  prega 
coluy  ch*el  mondo  restora);  estore,  inf. 
estorer. 

retentinar;  retentir. 

rivazo;  rivage, 

roy;  roy, 

smerante;  esmerant, 

souene,  soueve?;  souef. 

spasima ,  3*  pers.  sing.  ind.  pres. ,  nel 
significato  di  sviene;  se  pasme,  inf.  pa- 
smer, 

spiritable;  esperitàble. 

stoltia;  estuUie, 

trabucare;  trebuchier. 

tramise ,  3'  pers.  sing.  perf.  ind.  ;  tra- 
mistf  inf.  trametre, 

trastuty;  trastut. 

tuto  posente;  totpoissant, 

tuty  zorny;  toujours. 

vescusso,  3'  pers.  sing.  imp.  sogg.;  ve- 
scuistf  inf.  vivre, 

yraperero;  emperere, 

yndrito,  in  siguificato  di  sttbito;  en- 
droit, 

ynpiremo,  3'  pei*s.  pi.  pres.;  empirons, 
inf.  empirier. 

ynsemble;  ensemble, 

zornà,  viaggio;  jornée, 

zugolaro;  jugìeor, 

zute  ;  jouòies. 


Vi  sarebbe  da  aggiungere  nn  buon  dato  di  costruzioni  alla  fran- 
cese, come:  a  dio  benedizione,  tal  vasai  non  fo  may per  suo  signore  servire^ 
prendile  vuy  a  ben  volere,  ed  altre  molte  di  questa  fatta. 

A.  Gkaf. 


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XOMANZA.   N.^  *JJ 


111 


LA  VISIONE  DI  VENUS 

AMICO  POEMETTO  POPOLARE 


Il  poemetto  che  segue  è  tratto  da  un  codice  già  appartenuto  al  Rev. 
Stefano  Moniui  Priore  dei  Bagni  di  S.  Giuliano  presso  Pisa,  ed  ora  in 
possesso  del  sig.  Cav.  Giuseppe  Palagi  segretario  dell' Amministrazione 
provinciale  di  Firenze.  All'uno  e  all'altro  faccio  qui  i  maggiori  rin- 
graziamenti per  la  liberalità  meco  adoperata,  ponendo  il  codice  a  mia 
disposizione  e  permettendomi  la  pubblicazione  del  poemetto  (1).  Seguo 
quasi  costantemente  la  lezione  offertami  da  questo  manoscritto,  che  con- 
traddistinguo colla  lettera  a:  le  varie  lezioni  son  tratte  dal  codice  della 
Comunale  di  Perugia  di  n.""  43  che  designo  con  &,  da  un  Laurenziano- 
Gaddiano  n.**  198  descritto  anche  dal  Bandini  (Supplem.  II,  189),  che 
si  citerà  come  e,  e  dal  Laurenziano  XLIII  Plut.  40  (Bandini,  Catalog,^  V, 
pag.  46,  §  IX),  che  noteremo  con  d. 

Il  poemetto  in  tutti  e  quattro  i  codd.  non  porta  nessun  nome  di  au- 
tore; e  perciò  non  sappiamo  su  qual  fondamento,  il  Baldelli,  che  mostra 
aver  conosciuto  il  solo  manoscritto  laurenziano-gaddiano,  abbia  potuto 
ascriverlo  al  Boccaccio.  Nella  Fref azione  alle  Rime  di  Messer  Giovanni, 
egli  adunque  così  scrive:  «  Non  abbiamo  pubblicate  ancora  alcune  ottave, 


(1)  Il  cod.  contiene:  Carte  l-ll  :  La  can- 
eia  di  Belfiore:  poemetto  descrivente  usi 
e  personaggi  fiorentini  :  fu  stampato  nel 
1485,  e  ne  parla  il  De  Blasi,  Opusc,  sicil., 
voi.  XX;  — Carle  12-15:  La  Visione  di  Ve- 
nus;'-C  16-19:  //  Padiglione  di  Mambri- 
no:  poemetto  probabilmente  dello  stesso  au- 
tore della  Visione  di  Venus,  e  che  pubbli- 
cheremo altra  volta  ;  — C.  20-21  :  La  Dama 
del  Verzu:  è  quello  stesso  poemetto  che  S. 
Bongi  pubblicò  col  titolo  di  Dama  del  Ver- 
Miere:  e  corregge  varie  errate  lezioni,  oltre 
dare  genuine  quelle  ottave  che  dali* editore 
furono  rifatte,  perché  mancanti  nel  suo  ma- 
noscritto;— C.  32-81  :  V  Apollonio  di  Tiro: 
noto  poemetto  del  Pucci  in  6  canti  :  lezione 
utile  a  consultarsi  du  chi  volesse  ristampare 


questa  leggiadra  storia  in  rima  ;  —  C.  82-89: 
//  giuoco  del  Mazza  scudo:  poemetto  che 
importa  alla  storia  pisana  e  a  quella  in  ge- 
nerale dei  ludi  popolari  dei  nostri  Comuni;  — 
C.  91-123:  La  Reina  d'Oriente:  poemetto 
del  Pucci  :  da  questa  lezione  si  trarrebbero  al- 
cune buone  varianti  quando  del  poemetto,  mal- 
trattato nella  pessima  edizione  del  Bonucci , 
si  volesse  procurare  una  ristampa;  —  C.  124- 
135:  La  Lusignacca:  offrirebbe  buone  va- 
rianti alla  lezione  di  questo  poemetto,  datoci 
dallo  Zambrini  in  pochi  esemplari  di  su  un 
cod.  riccardiano  erratissimo;  —  C.  135-137: 
Madonna  Elena  imperatrice:  curioso  poe- 
metto popolare,  che  si  riannette  colla  no- 
vèlla boccaccesca  di  Madonna  Zinevra,  e  con 
altri  racconti  consimili. 


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112  A,  D' AXCOXA  [oiohxale  di  filologia 

che  credo  i  suoi  primi  tentativi  poetici  in  quel  metro,  anteriori  anco 
alla  Teseide,  ma  che,  per  essere  trascritte  da  mano  napoletana  e  ine- 
sperta, appariscono  contraffatte  cotanto  da  non  poterne  far  uso  »  (1). 
Come  sia  nata  questa  appropriazione  del  poemetto  al  Boccaccio  può  forse 
argomentarsi  ripensando  all'opinione  generalmente  accettata  sino  a  non 
molti  anni  addietro,  che  il  Boccaccio  sia  stato  il  primo  poeta  che  ado- 
perasse l'ottava,  anzi  addirittura  T inventore  di  questa  forma  metrica. 
Poco  conosciuti  e  meno  curati  erano  i  poemetti  in  ottava  rima  del  XIV 
e  XV secolo;  sicché,  scoprendosene  uno,  veniva  fatto  naturalmente  di  ap- 
propriarlo al  Boccaccio:  ma  poi,  perché  pareva  indegno  dell'autore,  si 
assegnava  senz'altro  agli  anni  giovanili  del  Certaldese. 

Il  poemetto  che  nel  cod.  Monini-Palagi  è  intitolato  Visione  di  Fe- 
ntis,  e  meglio  si  direbbe,  d'Amore,  e  nel  laurenziano-gaddiano  porta  in 
fronte  Dur  (leggi  Dire)  d' amore  in  rima^  non  lo  direi  punto, del  Boc- 
caccio, ma  di  qualche  rimatore  popolaresco  della  seconda  metà  del  tre- 
cento o  dei  primordj  del  secolo  successivo.  Il  Bandini  assegna  al  secolo 
decimoquarto  la  scrittura  del  codice  gaddiano  :  e  al  decimoquinto  quella  del 
laurenziano.  Il  manoscritto  perugino  parmi  certo  del  quattrocento  :  co- 
me è  tale  senza  dubbio  il  codice  Monini-Palagi,  dove  troviamo  questa  data 
al  poemetto  sul  Mazzascudo:  <  Incomincia  il  giocho  del  massa  schudo 
lo  quale  si  solca  fare  in  Pisa  restossi  di  giochare  in  del  MCCCCVII  ». 
L'autore  è  certamente  toscano;  e  quanto  ai  copisti,  quello  del  cod.  a 
diremmo  pisano,  quello  del  b  veneziano:  ne  sappiamo  comprendere  come 
il  Bandini  abbia  visto  una  tnanu  forte  neapoletana  nel  trascrittore  del  cod.  r, 
che  poi  è  diventata  addirittura  e  seuza  dubbio  napoletana  pel  Baldelli  e 
pel  Della  Lega. 

Pubblicando  il  poemetto,  non  come  opera  del  Boccaccio,  ma  come 
documento  dell'epica  popolaresca  antica,  vogliamo  accennare  brevemente 
le  ragioni  che  ci  consigliarono  a  toglierlo  dalla  sua  secolare  oscurità.  I 
versi  non  sono  davvero  gran  cosa:  l'ottava  non  è  ben  contesta:  l'iu- 
venzione  è  poca,  meschino  lo  svolgimento;  ma  noi  non  vogliamo  giu- 
dicare il  poemetto  con  criterj  letterarj,  bensì  con  criterj  storici:  e  alloi-a 
vedremo  ch'esso  ha  la  sua  importanza,  come  nuovo  testimonio  di  certe 
forme  poetiche,  proprie  ai  tempi  a'  quali  appartiene. 

La  forma  del  poemetto  è  quella  della  visione,  come  in  tanti  altri 
componimenti  dell'età  media,  fino  a  Dante  e  anche  appresso:  salvo  che, 
se  la  visione  nella  Divina  commedia  è  estatico  rapimento,  qui  è  puro 


(l)  Rtliz.  Montier,  1834,  pag.  21.    Altret-  berto  Bacchi  Della  Lega,  Bologna,  Ro- 

tanto  è  detto  anche  nella  Serie  delle  edi-  magnoli,  1875,  pag.  144,  dove  sì  riportano 

zioni  delle  opere  di  G.  Boccacci,  latine,  le  prime  3  ottave  del  nostro  poemetto  di  su '1 

volgari f  tradotte  e  trasformate ,   per  Al-  cod.  gaddiano. 


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ROMANZA,  N.«  2]  LA  VISIONE  DI  VEXl'S  11;J 

mezzo  retorico:  e  se  per  quella  è  descritto  fondo  a  tutto  T universo,  qui 
deir  universo  si  accenna  appena  quanto  può  vederne  un  poeta  popolano 
di  non  ampia  cultura.  Il  primo  quadro  di  questa  visione  ci  fa  vedere 
donne  e  giovinetti:  giostre  e  armeggiamenti:  duchi,  conti,  marchesi  e 
cavalieri:  fiori  e  prati:  bracchi  e  sparvieri,  veltri  ed  astori.  È  una  ra- 
pida pittura  e  appena  sbozzata ,  della  gaja  vita  cavalleresca  :  di  quella 
vita  alla  quale  appartengono  le  immagini  contenute  nel  poemetto  e  le 
dottrine  che  vi  si  pongono  in  mostra.  Poi  si  passa  ad  una  descrizione 
del  cielo:  le  stelle,  i  pianeti,  i  segni  dello  zodiaco:  cioè,  la  scienza  vol- 
gare cosmografica  ed  astronomica  de'  tempi.  A  proposito  di  una  sedia 
meravigliosa,  vengono  enumerate  le  pietre  preziose:  anche  qui,  per  sem- 
plice menzione,  vi  è  dunque  un  saggio  della  sapienza  litologica  con- 
temporanea, e  ci  manca  soltanto  di  conoscere  le  virtù  recondite  di  quelle 
pietre,  che  al  lettore  un  po' saputo  tornavano  subito  a  mente,  e  il  can- 
terino poteva  aggiungere  di  suo  e  spiegar  all'uditorio,  fra  un'ottava  e 
l'altra.  Su  quella  sedia  sta  un  giovinetto  non  ancora  ventenne,  circon- 
dato da  due  altre  gentili  forme,  che  lo  incoronano,  e  a' suoi  piedi  sette 
donne  bellissime,  e  sett' altre  in  ginocchioni  a  lui  dinnanzi.  Chi  sia 
questo  giovinetto,  l'autore  non  dice,  e  potrebbe  esser  tale  a  cui  ei  vo- 
lesse far  onore  con  strabocchevoli  lodi;  ma  le  due  donne  che  gli  stanno 
dattorno  sono  Gentilezza  e  Cortesia:  le  sette  ai  piedi,  le  somme  Virtù, 
quelle  dinnanzi,  le  sette  Arti.  Ecco  brevemente  accennati  i  supremi 
principi  della  vita  cavalleresca,  della  vita  morale,  della  intellettiva.  Qui 
cambia  scena,  e  si  avanza  un  Trionfo.  Sopra  un  carro  v'è  una  donna 
ed  uno  spiritello,  probabilmente  Amore:  che  con  quel  nome  di  spiritello 
spesso  lo  designavano  i  poeti  fiore  ti  ni  del  dugento.  Dietro  il  carro  ven- 
gono uomini  e  donne  famosi:  nomi  mitologici,  biblici,  greci  e  romani: 
della  favola  e  della  storia:  della  cavalleria  antica  e  della  nuova,  d'ogni 
ciclo  della  poesia  romanzesca  ;  e  tutti  s' inchinano  al  fiorente  giova- 
netto, come  a  comune  signore.  A  lui  si  raccomanda  anche  l'autore  del 
poema,  e  ne  riceve  benigne  parole. 

Trattasi  qui  soltanto  di  una  poetica  acclamazione  ad  un  giovinetto 
di  belle  forme  e  di  nobile  intelligenza;  ovvero  di  un  amore  greco;  ov- 
vero anche,  il  giovinetto  è  una  personificazione  simbolica?  Lasciamo 
giudice  in  ciò  il  lettore  erudito  :  ma  propendiamo  per  l' ultima  suppo- 
sizione, sebbene  non  sembri  facile  il  riconoscere  qual'ente  astratto  vo- 
gliasi adombrare  in  quel  personaggio.  Ricordiamo  tuttavia  che  nel  Te- 
soretto  del  Latini,  anch'esso  poema  didascalico  con  forme  simboliche,  il 
Piacere  ha  intorno  a  sé  Paura,  Disianza,  Amore  e  Speranza,  che  stanno 
al  suo  comando.  Si  potrebbe  perciò  argomentare  che  anche  qui  il  no- 
bil  giovinetto  sia  Piacere,  o  altra  simil  denominazione,  e  lo  spiritello 
sul  carro,  Amore;  che  è  ben  noto  come  per  gli  antichi  poeti  della  scuola 
cortigiana  e  cavalleresca,  Amore  nasca  da  Piacere,  cioè  da  Beltà  piacente. 

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IH  A.    D\iXCOXA  [(JIORXALK    PI    FILOLOGIA 

Ad  ogni  modo,  quel  che  è  notevole  nel  poemetto  si  è  il  vedere  cou- 
tinuate  sul  finire  del  secolo  decimoquarto  o  in  su'  primordj  del  decimo- 
quinto, che  più  là  né  più  qua  non  potrebbe  mettersene  la  composizione, 
vedere,  diciamo,  continuate  dall'arte  popolare  alcune  forme,  che  ave- 
vano servito  alla  poesia  eulta  del  dugento  e  del  trecento,  e  che  più  tardi 
dovevano  finire  per  cedere  il  luogo  ad  altre  immagini,  da  altri  esempj 
dedotte.  In  questo  poemetto  popolare  abbiamo  un  tardo  e  volgare  esem- 
pio di  quella  foggia  di  poesia  che  gli  italiani  presero  d' oltremonte,  ma 
che  gli  ultimi  autori  della  latinità  avevano  a  tutti  i  nepoti  insegnata, 
e  per  cui  Brunetto  Latini  e  Dino  Compagni  si  ricollegano  con  Boezio 
e  con  Marciano  Capella  per  mezzo  di  Guillaume  di  Lorris  e  di  Matfre 
Ermengau  :  e  questa  foggia  di  poesia  è  quella  che  ha  per  forma  la  vi- 
sione; per  personaggi,  esseri  simbolici;  per  fine,  T insegnamento.  An- 
che nel  nostro  poemetto  V  esaltazione  della  perfezion  fisica  e  morale  di 
nn  giovinetto,  probabilmente,  come  dicemmo,  allegorico,  conduce  ad 
enumerare  rapidamente  le  scienze,  le  virtù,  i  cicli  cavallereschi,  ad  ac- 
cennare nozioni  di  scienze  astronomiche  e  naturali.  Se  non  che  qui  alla 
forma  antica,  che  ricorda  insieme  il  Tesoretto  e  Y Intelligenza y  si  aggiunge 
una  seconda  forma,  più  particolarmente  studiata  nel  Petrarca,  che  forse 
ne  fu  r  inventore  con  quella  sua  fantasia  piena  di  classiche  remini- 
scenze: ed  è  quella  del  Trionfo,  Più  antica  probabilmente  e  popolare 
dovunque,  era  l'immagine  di  un  trionfo,  ma  per  la  sola  Morte:  se  non 
che  nella  fantasia  del  cantore  di  Scipione,  anche  il  trionfo  della  Morte 
non  ha  l'indole  che  mostra  nelle  pitture,  nelle  sculture,  ne' poemi  del- 
l'età media,  ma  è  dipinto  con  classici  colori. 

Il  nostro  poemetto  adunque,  con  evidente  rimembranza  petrarche- 
sca, a  un  certo  punto  cangia  bruscamente  indole  e  diventa  un  Trionfo 
d'Amore;  e  invece  degli  Dei  di  Varrò  vengono  dietro  al  carro  gli  eroi 
prediletti  dell'epopea  popolare.  A' quali  un  copista,  rimatore  inesperto, 
o  meglio  forse  un  rapsodo  di  piazza  aggiunse  altri  nomi  a  render  più 
compiuta  l'enumerazione,  conchiudendo  col  verso  smisurato  come  la  turba 
degli  illustri  amanti: 

El  v'era  la  Tavola  vecchia  e  poi  la  nova. 

Queste  considerazioni  che  ci  vennero  fatte  leggendo  il  Poemetto  nelle 
carte  del  vecchio  codice,  ci  hanno  persuaso  che  esso  non  riuscirebbe  né 
inutile  affatto  né  sgradito  ai  cultori  dell'antica  nostra  storia  letteraria, 
a' quali  l'offriamo. 

Alessandro  D'Ancona. 


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nOMANZA,   N.°  2| 


LA  VISIONE  DI  VENUS 


in 


Già  le  suo  chiome  d*oro  s'atreccìava 
Apollo  nella  Spagna  in  mezo  Tonde, 
E  le  colonne  d'Ercole  lasciava: 
Spento  era  el  dì  che  alumina  le  fronde, 
E  '1  cielo  d'ogni  parte  sì  stellava: 
La  luna  si  dimostra  e  '1  sol  s'asconde: 
Ogni  animale  dorme  e  si  riposa, 
Perché  la  notte  è  scura  e  tenebrosa. 

3  inelU  Spamgn»  »  mese:  a  3  lassava  :  a  i  Spen- 
to è  quel  di:  a;  Già  spento  il  dì:  e;  epento  ci  di  :  A 
6  tutto  quanto:  e,  d;  fa  ritomo:  d  7  si  dorme 
e:  0,  d 

2 

Quando  nel  letto  mi  stava  soletto. 
Ed  eccoti  Venus  a  me  venire 
Nella  mia  sambra  a  guisa  d'angieletto: 
E  ta*  parole  pronte  m'ebbe  a  dire: 
Fa  che  mi  segui,  o  nobil  giovinetto, 
r  mi  levai  per  volerla  ubidire, 
E  Ini  menò  in  un  prato  molto  adorno, 
Con  fiori  e  fronde  e  arbori  d'intorno. 

1  io  mi  stava  nel  mio  letto:  a,d  3  Or:  r;  Et 
vecboti:  d  3  In  la:  6;  zambra:  d;  gaiza:  a,  b; 
angioletto  :  d  6  eiegue  :  b  ;  gentil  :  e  6  volerlo  : 
a,  d  7  Poi:  b;  Menomi:  e  8  fronde  e  f.:  6;  e 
albnsdeli:  a;  alberi:  d 

3 
Ben  mille  giovinetti  in  su'  destrieri 
Con  mille  donne  sopra  a'  freschi  fiori , 
Caccian  lo  e  ucciellando  pe'  sentieri 
Con  bracchi,  veltri,  segugi  ed  astori: 
Poi  più  là  vidi  mille  cavalieri 
Con  duchi,  conti,  marchesi  e  signori: 
Giostrare  e  armeggiare  e  tornìamenti 
Facieano  in  su  quei  prato  quelle  genti. 

1  Bem:  a;  giovanotti:  d;  in  sei:  e  a  Com:  (t; 
dame:  e;  sopra  tr.:  d  3  Giostrando  ed  armigan- 
do:  e  4  aparavieri  e  ast. :  e;  seguci:  d  ft  E  più 
in  là:  e;  milli:  a  6  Principi  duchi  :  e;  marcbczi 
o  stmgnori:  a;  singnori:  d  7  Mai  non  vJditti  sì 
bei:  b;  Giostrando  ed  armigando:  a,  e  8  facie- 
no;  d;  im:  a;  iu  noi  bel:  6;  sul  bel:  e;  In  sai 
bel:  d 

4 

Era  una  nuguletta  a  mezzo  il  prato, 
Con  una  ricca  porta  adorna  e  bella 
D'un  smiraldo  ricchissimo  intagliato; 
Entravi  dentro  per  cotal  novella; 
Dove  el  ciel  vidi  tutto  edificato, 


Ogni  pianeto  con  ciascuna  stella: 
Saturno  v'era  e  Giove  in  quello  stallo. 
Mercurio  e  Vener,  con  Marte  a  cavallo. 

1  Una  gran  nuvola  :  d  3  D'um  ricchissimo  smi- 
raldo: a  4  Entramo:  d  6  tutto  el  cielo:  ò;  el 
cielo  tutto  quanto  :  d  6  Omgni . . .  com  :  a  ;  pia- 
neta: d  7  vidi:  b,  d;  im:  a  8  Venere  e  Marte 
com  M. :  a;  M.  V.  et  Marte  :  d  In  e  manca  tuila 
V  ottava. 


Mostrava  il  Sole  il  suo  bel  lustro  chiaro, 
La  Luna  v'era  col  Toro  e  'I  Montone: 
Giemini,  Cancer,  Lione  e  Aquaro, 
Virgo  colla  Bilancia  e  lo  Scorpione, 
Piscies,  Capricorno  e  Sagiltaro: 
La  Tramontana  ferma  a  sua  magione. 
Che  si  vedea  girare  intorno  intorno, 
Con  mente  fiera  e  col  bel  carro  a  torno. 

1  Mostrami:  a;  Mostrome:  b;  Mostrorai:  d  3 
chiara  Tauro  e  '1:  6;  il  bel  Toro:  e  3  camcier: 
a;  granco:  ò;can8er:  e;  cancro:  d  4  Virgo,  Bi- 
lancia e  poi  :  b  ;  Scarplono  :  d  ;  Pesce  :  d  6  a  sua 
ragione:  a;  a  suo  m.:  d;  e  fresca  iu  sua:  e  7 
Che  la  si  vedea:  b;  La  qual  si  movea  attorno  at- 
torno: e;  Con  ella  si  vede  girar  d'intorno:  d  H 
Vipera  v'era  il  bel  carro  e  il  corno:  a;  e  col  caro 
alicorno:  6;  e  cnm  bel  caro:  e;  Con  mille  atcìld 
el  bel  carro  el  corno:  d 


Era  nel  mezzo  del  cielestìal  coro 
Una  gran  sedia  ricca  e  rilovain. 
Sospesa  in  aria  e  tutta  dì  fin  om 
Di  pietre  preziose  intersiata: 
Mai  non  si  vidde  cosi  bel  lavoro: 
Or  vi  vo' dir  com'era  situata: 
Nella  sedia  era  commissi  diamanti, 
Pietre  e  carbonchi  i'non  saprei  dir  quanti. 

1  Nel  mezzo  era  del:  b;  Nel  mezzo  del:  d  2 
gram:  a  3  e  miasa:  a  4  E  di:  r;  preslose:  a: 
intarsiata:  b,  d;  intaliata:  e  5  um  sì  ricco:  a; 
si  alto  :  e  ;  sì  richo  \  d  6  Or  udirete  :  a  ;  corno  era 
in  sì  fatta:  6;  corno  e  He:  r;  com  eli  e:  d  7 
conmissi  a;  conissi  era:  b;  conmessi:  d;  Questa  se* 
dia  e  commissa  e:  e  8  Pitrc:  a;  Perle:  e; rubini 
non  ve:  b;  e  no:  e 

7 
Smiraldi,  calcedonii  e  be' rubini, 
Di  be' balasci,  granati  e  turchie^se: 
Topazj,  margherite  con  zaflini, 


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116 


A.  D'  ANCONA 


[giodkale  di  filologia 


Entrovi  perle  e  sardole  commesse; 
E  belli  niccoli  e  cristalli  fìni, 
Perlotte  e  roatisse  erari  con  esse: 
Coralli  e  ambra  col  diaspido  pronto, 
Cornoli,  e  altri  assai  ch'io  no' ne  conto. 

1  casidoni:  e;  con  rubini  :h      3  E  bie':  b;  E  be': 

d;  baiassi tarcbese:  e;  tnrchlese:  a      3  To- 

passi:  a;  Lapidi:  b;  saffili:  e  4  Sardoni  cornane 
e  diamante  con  esse:  b;  Gemini,  canser  drento  ve 
com  esse:  e;  Sardoni  e  giemme  dentro  ve  comes- 
se  :  d  6  Berilli  :  d  ;  corali  :  6.  Il  v.  mnnea  in  e  6 
Ambattiste  com  tornisse:  b:  amastisse:  e  7  La- 
pidi giaspri  con  diasrri:  b;  Lapidi  sarai  e  lo  dias- 
se: e;  con  diaspro:  d  8  Corniole:  6;  non  v'ho 
conto:  a;  che  non  som  conti:  ò;  chi  non  vi:  d 

8 

In  questa  sedia,  car  signori,  udite, 
Era  a  sedere  un  nobil  giovinetto; 
Che  le  suo  guancie  avea  molto  polite. 
Di  quindici  anni  mostra  in  nello  aspetto; 
Le  suo  bellezze  che  sono  infinite, 
Della  sua  faccia,  del  busto  e  del  petto, 
Tacier  le  vo',  perché  Tuman  parlare 
Kon  le  potrebbe  in  terra  raccontare. 

1  Im:  a;  simgnori:  a  2  Stava:  e  3  eran  tan- 
to: d  4  Ohe  sedece  anni  mostrava  in  1':  b;  Di 
ditiotanl  mostrava  nel  suo:  e;  di  sedici  anni:  d 
6  bellesse:  a;  si  furon:  b;  erano:  e  6  In  del 
bel  viso:  e  7  Lasiar:  b;  intere:  e  8  intiero:  b; 
perché  mai:  d.  Jl  cod.  e  legge  gttesU  due  versi  a 
qtutto  modo:  Lasciamo  qui,  perché  la  lingua  mia 
Intero  raccontar  non  lo  poria. 

9 

Duo  spiriti  gentil  sopra  a  sua  testa 
Teneano  una  corona  di  fin' oro. 
Volsimi  alla  mia  scorta  eh' è  li  presta 
E  dissi:  Fammi  chiar  chi  son  coloro. 
Rispose:  Tuno  è  gentile^a  onesta. 
L'altro  é  cortesia,  quel  car  tesoro, 
Che  rincoronan  di  cotal  vertue, 
Perché  al  mondo  suo  pari  mai  non  Aie. 

1  spiritelli:  a;  sopra  suo:  d  2  Tenìano:  d; 
«colonna  de  fioro:  e  3  Yolsemi:  a;  schiera:  a;  a 
quella  scorta  :  d  ;  che  gli  presta  :  a  ;  corno  presta  : 
b  ;  manifesta  .*  e  4  fatemi  :  a  ;  costoro  :  6  ;  quiloro  : 
e  6  Risposemi:  a;  rispuose  l'una:  d:  El  disse 
l'ona  si  è:  6  6  l'altra:  d;  cortezia:  a;  el  chia- 
ro: b;  il  car:  e  7  Quella  corona:  a;  di  tanta:  a; 
pip  cotar:  r;  o  fino:  d      8  Più  che  nuli' altro  suo 


paro  al  mondo:  b;  Per  nel  mondo  mai  so  par:  e; 
Perché  un  suo  pari  al  mondo  mai  non  fa  visto  :  d 

10 
Poi  mi  mostrò  dove  tenea  le  piante, 
Sette  donne  gientil,  pien  di  leanza, 
E  nominommi  quelle  donne  sante: 
Giustizia  con  Fortezza  e  Temperanza, 
Prudenzia  è  Fede  eh' è  sempre  costante, 
Insiem  con  Caritade  e  Isperanza: 
Sempre  laudanti  il  giovane  gentile. 
Benigno  nell'aspetto  e  signorile. 

1  nostromi  la  dove  tien  :  d  2  leansa  :  a  8  Dis- 
semi i  nomi  delle:  a  4  Oiustisia...  fortessa.... 
temperansa:  a  6  mi  parean  costante:  a;  corno 
son:  e;  Fé  che  sta  bene  acostante  :  d  6  Insieme 
carità ....  isperausa  :  a  ;  con  isperansa  :  d  7  lau- 
dante: a;  laudando:  d;  quel:  6  8  innell':  b.  Jn 
e  i  due  tersi  dicono  :  Como  discipoli  innansi  aUi  si 
stano  Ingenochone  e  grand  honor  li  £sno. 

11 

Poi  altre  sette  dopo  queste  belle 
Vagheggiano  il  bel  viso  e  la  figura: 
Gramatica,  Rettorica,  e  duo  stelle, 
Musica  e  Strologia  di  grande  altura; 
Giometria  e  Arìsmetica  con  elle, 
Loica  che  nel  parlar  sì  rassicura; 
Come  disciepule  innanzi  gli  stanno 
In  ginocchione,  e  grand' onor  gli  fanno. 

1  de  poi  quelle:  e;  Mostromi  l'altre  sette  dopo 
quelle  :  d  2  vizo  :  a  ;  Vegiendo  nel  bel  volto  la  : 
b;  il  00  bel  viso:  e;  Yaghegiando:  d  3  le  duo:  e 
5  Arìsmetica  e  giemetria:  a;  Oiometria  e  giome- 
tria: b  6  s' asicura:  a;  che  nel  parlar  sicura:  d 
7  discepoli  :  d  :  dinansi:  a;  innanti:  e;  a  lui  si:  6, 
e     8  E  ingitiocchiavasi  :  b;  Con  riverensa:  d 

12 

Mentre  che  in  tanta  gloria  noi  stavano. 
Venne  un  gran  carro  trionfante  e  bello  ; 
Siivi  una  donna  che  alla  destra  mano 
Tenea  una  spada,  e  uno  spiritello. 
Amor,  da  la  sinistra,  per  ciertano, 
Di  porpora  vestito  molto  bello. 
Tiraya  il  carro  duo  bianchi  destrieri, 
E  drieto  a  lui  ben  mille  cavalieri. 

1  glioris:  a;  gìoglia:  6;  grazia  noi  si  starno:  e; 
stavamo:  d  2  V'era:  b;  um  gran:  a;  en  nn:  d 
triunfaro  bello  :  e  8  Suve  :  e  ;  dalla  :  a  ;  che  da: 
d  4  Con:  a;  Tiene:  e;  avea  uno:  a;  aspiriteUo:  e 
5  Amuro  della:  b;  Da  la  sinistra  meno  per  serta- 


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KOMAXZA,  N.  2] 


LA  VISIONE  DI  VENUS 


117 


no:  r;  E  d»  sinistra  Amor:  d  6  vistimento  isne- 
lo:  b;  VeatlU  di  porpora  un  vestimento  bello:  e 
7  quattro:  b;  U  caro  tira  doi  nobil  destreri:  e  8 
E  po'  dopo  Ini  y*era  ben:  6;  Di  rieto  a  lei  bem:  a 

13 

Fra' quai  conobi  Ercole  e  Sansone, 
PoJifemo  con  Giuda  maccabeo, 
Nembrotte,  Achille,  Ettorre  e  Scipione, 
Ciezari,  Paris,  Camillo  ed  Anteo; 
Turno,  Tristano,  Ottaviano  e  Catone, 
E  Lancillotto  e '1  paladìn  Pompeo, 
El  re  Artù,  e  Trofolo  ed  Enea, 
Camilla,  Dido  e  la  Pantasilea. 

1  quali:  a  ;  Ercole,  Sansone  :  h  2  Pulifebo:  a,d; 
Re  P.:  6;  Il  P.:  e  3  Nabrotto:  a;  Nebort:  f; 
Nebrot:  d;  Aqnillo:  e;  Sipione:  e  4  Clesaro:  6; 
Cesari:  d;  Camilla:  a  6  Jallo:  b;  Tristano,  Ot- 
taviano, il  gran  Catone:  e;  Attaviano  e  Catone:  d 
6  Lancillotto,  Saladino  e  P.:  6;  Lancillotto  Sala- 
dino il  gran  P.:  e  7  Artuxe:  6;  Troyllo:  e;  Ca- 
milla vidi:  d  8  Vera  Camilla  e  la  P.:  6;  Ca- 
millo eia  Pantisllea:  e;  Camilla  e  vidi:  d.  Nil  testo 
b  qui  stguono    quette  due  ottava: 

Stftrm  imU*  air*  magno  o  riUTtto 
Re  Alitandro  lopra  ogni  r«o: 
El  ▼{  era  Simisno  incoronato, 
Gnllas,  Davitt  el  ilHat«o; 
Baiamone,  Anaalone  angelleain, 
E  n  bon  Priamo  e  l'aito  re  Te«*o  : 
E  Jaiom  che  combatte  oom  el  tolo« 
Per  arere  Medea  dal  ve'o  dell'oro. 

De  la  tavola  Rotondaci  v'era  el  bom  GalasAO, 
E  Prenctvalle  e  mlalere  Galvano, 
Bmnoro  del  Bruno  che  mantenea  el  gran  panao, 
El  r«  Lucanoro  flolo  del  goldano: 
Da  l'altra  parte  atava  el  re  Gradando, 
Tutti  i  erano  con  le  lor  apade  In  mano, 
8i  corno  claacnno  in  le  arme  a«  prova: 
El  v'era  la  Tavola  vechla  e  poi  la  nova. 

14 

Or  chi  potrebe  raccontar  le  schiere 
Degli  omini  famosi  e  de  le  donne, 
Che  dietro  a  lui  andavan  tanto  altiere 
Che  a  vederle  ben  parean  colonne? 
Mille  be' visi,  mille  vaghe  lumiere, 
Mille  signor  gentili  e  mille  donne, 
A  pena  ch'io  il  potessi  immaginare: 
Pensi  ciascun  com'io  il  potre'  contare. 

1  Chi  poterla:  b  8  Che  van  dirieto  a  qnesto 
giovano:  a  ;  Che  dietro  questo  giovane:  6  ;  Cte  dopo 
qneate  givan  :  d  i  D'ardire  e  gentileese  som:  n  ; 
D'ardimento  e  gentilezza  eran  :  d     5  vizi  :  a  ;  bian- 


chi visi  con  mille  :  d  C  Millepreghi  d' amor  gientil 
madonna:  a;  Mille  signori  mille  cose  adorne:  6; 
Come  r antere  a  noi  scrive  e  pone:  d  7  lo  pos- 
sa: d  ;  nominare  :  b  8  Or  p.:  6  ;  ch'io  noi  porla:  b, 
1  due  rr.  in  e  :  Lasciamo  qui,  perché  l'uman  parla- 
re Intero  non  si  potrebe  raccontate. 

15 

Venian  soave  con  gentile  aspetto. 
Con  lieta  riverenzia  e  puro  amore; 
Ciascun  guardava  con  sommo  diletto 
Il  viso  giovinile  e  lo  splendore; 
E  dimostravan  dentro  in  lor  conspetto 
Con  riverenzia  far  costui  Signore; 
Ormai  pensi  ciascuno  in  quanta  gloria 
Il  giovinetto  stava  con  vittoria. 

1  Veneri  v'era  com:  a;  Venia:  b;  Veniam  lu- 
dono  ai  gentile  aspecto:  e;  Venns  v'era:  d;  2 
Com  riverensia  lieto  e:  a;  Cam  pura  riverenaa  e 
lieto:  e  3  Sempre  mirando  quello  somo  eletto:  b; 
Tuctl  miravano  quel  sommo:  e;  mirava  d  4  vl- 
zo  :  a;  giovenire  e  lo  sprendore  :  e  ;  giovanile  ;  d 
6  dimostravan. ...  im . . .  comspetto  :  a  ;  Ognnn  di 
loro  se  mostra  sogecto:  e;  Sempre  sperando  in  lo 
loro  concetto:  b  6  Com  riverensia:  a;  Fare  mei 
faray  custui  nostro:  6;  Per  reverirlo  e  far  que- 
stui :  e  7  E  giamai  :  b  ;  tanta  :  a  ;  ciascun  pensi  :  d; 
8  giovanetto:  d 

16 
Benché  di  maraviglia  ero  sì  pieno, 
Vedendol  trionfar  sì  altamente, 
Presto  mi  volsi  a  quel  viso  sereno. 
Ove  a  mirarlo  ciascuno  è  fervente: 
E  per  dolcezza  d'amor  venni  meno 
Vedendo  la  sua  forma  sì  luciente; 
Inginochiàmi  senza  più  tardare, 
TrenKindo  tutto,  incominciai  a  parlare. 

1  Sì  che  :  fl  ;  Or  chi  :  e  ;  Perché  :  d  ;  meravega  :  e  ; 
era  :  6,  e  2  Yeggendo  :  6  ;  triomfar  :  a  ;  triunfar  :  e 
3  vizo:  a  4  Dove  '.b,d;  Che  ad  amirarlo  ;  e  ;  ognun 
era  frevente:  e;  servente:  a  6  doglensa:  a;  E 
d'amor  di  doloeza:  6;  Per  dolcessa:  e  6  quel 
bel  viso  risplendente  :  b  ;  faccia  :  d  7  parlare  :  e  ; 
ognuno  sanza  :  d  8  forte  incominciò  :  d  ;  Intero 
non  se  i>otrebbe  raccontare:  e 

17 

Gentil  Signor,  dove  natura  pone 
Ogni  suo  sforzo  d'arte  di  bellezza, 
Vogli  per  servo  tuo  ch'io  mi  ti  done, 
Merzé  io  chieggio  a  la  tua  gientilezza: 


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118 


LA  VISIONE  DI  VENUS 


[giornale  di  filologia 


Io  soQ  pur  tuo,  benché  prosunzìone 
Sìa  la  mia  ad  amar  cotanf  altezza:- 
Ma  io  lo  fo,  che  son  più  da  lodare 
Quanto  più  gentil  cosa  prendo  amare. 

1  simgnor:  a  2  tao:  6;  sue  feto:  e;  belles- 
sa:  a;  di  glentil  belleza:  d;  3  Yuoml  tu:  6;  il 
tao  •erro  me:  a;  Vegli  tao  serro  me  che  mi  ti:  d 
4  dimando:  6;  gientilessa:  a  5  som:  a;  buono 
cbe  per  aogiomo  :  6  ;  prosunzione  :  a  6  mia  ama- 
re :  a;  mia  d' amare i  d;  Lì  mio  amare  aia  di  tan- 
ta: 6;  Sua:  e;  alteaaa:  a  7  il  fo  per  che  som:  a; 
Ma  fallo  perch'io  aon  :  d  8  gientilessa  pongo  :  a; 
gentil  cosa  mi  pongo:  h;  cosa  pongo:  d 

18 
Con  amoroso  ed  angielico  viso 
Volse  i  suoi  occhi  che  parean  duo  stelle, 
Benigno  e  lieto  si  mi  mirò  fiso, 
Proferse  sé  e  le  suo  cose  belle; 
Pensa,  uditor,  s'io  ero  in  paradiso. 
Che  m'acciese  nel  cor  mille  fiammelle; 
E  al  fine  del  suo  parlar  fervente, 
Mi  disse:  Io  sono  al  tuo  voler  piacente. 

lTÌzo:a  Udneochi:  8  Benimgno:  a;  se  me 
mirò:  b\  me  miravau  fisso:  e;  rimirarlo:  d  4  a 
me  le  sue:  6;  Proferseme  delle  sne:  e  5  Pem- 
sa . . .  im  paradizo:  e  ;  s' allora  V:  d  6  Che  el  mi 
mise  in:  6;  Aocesono  al:  et  7  Alfine  disuoe  pa- 
role servente:  a;  Alfln  del  suo  parlar  f.:  b ;  A  la 
fin...  firevente:  e  8  Bispose:  a;  Disse:  b;  pat- 
cer:  a 

19 

praai  pensi  ciascun  gientil  pensiero 
Quant'era  gloriosa  la  mia  vita; 


Mentre  ch'io  vagheggiava  il  viso  altero, 
r  vidi  muover  la  gloria  infinita; 
Spari  ognuno,  e  non  so  dir  di  vero 
Dove  si  gisse,  ch'io  Farei  seguita; 
Per  doglia  e  per  dolor  pensai  finire; 
Ma  pure  spero  in  lui  perché  è  gentile. 

1  Oramai  :  h  ;  Or  pense  omai  :  e  ;  Pensi  omai  :  i 
2  gravosa:  e;  la  sua:  a  3  vizo:  a  i  E  vitte:  (; 
Muovere  vidi  :  d  5  Spariva  ma  io  non  so  il  :  a  ;  ogni 
omo:  6  6  s'andasse:  ò;  se  gesse:  e;  la  via:  e 
7  Ma  per  pena  e  dolor:  6 ;  Per  gran  dogla:  d ;  pen- 
so: a;  morire:  e  8  spero  pure:  d;  più:  e;  xen- 
tiri:  e 

20 

Dogliosi  versi  miei  di  tanta  gloria, 
Girete  a  ciaschedun  ch'ha  gentil  core: 
Prendete  scusa  che  si  ricca  storia 
Non  ho  contato  secondo  il  valore;  [moria 
Che  spesso  quel  ch'à  Tuomo  in  sua  me- 
Ridir  non  sa,  quanto  si  sia  l'ardore; 
Ma  dir  potrete  questo  in  ogni  loco: 
Ch'Amor  mi  stringe,  agravae  tiene  in  foco. 

1  Volgianse  in  verso  a  me  di:  &  2  Torniamo 
a  culai  che  a  mortai:  b;  ad  olascono  gentil:  d  3 
£  conterete  così:  a;  E  diritti  a  loro  che  così:  h 
4  Non  fé  cotanta  sigondo:  a;  Non  lo  cantata  te- 
cundol:  e;  Non  segua  tanto:  d  5  £  spesso:  a; 
Però  che:  e;  Ma  pensa  quello  ch'i'  ò  in:  d;  pei> 
so  :  6  ;  a  sua  :  e  6  Non  sa  quanto  se  sia  :  6  ;  quanto 
sia:  e  7  E  si  direte:  a;  Ma  dire  poterebbe:  h; 
perete  e  8  Amor  mi  strimge  :  a  ;  me  jaca:  6;  ma- 
chassa:  e;  e  tienmi  im:  a;  e  arde  più  che:  e; 
m' aghiaccia  strugie:  d. 


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nouAxzA,  N.«  2]  B.  MALFATTI  111) 

DEGLI  IDIOMI  PARLATI  ANTICAMENTE  NEL  TRENTINO 

E  DEI  DIALETTI  ODIERNI 


Il  signor  Cristiano  Schneller  che,  a  quanto  sappiamo,  è  nativo  del 
Tirolo  tedesco,  e  da  più  anni  tiene  ivi  officio  nel  pubblico  insegnamento, 
dava  fuori  testé  nelle  Mittheilungen  del  Petermann  una  Memoria  col 
titolo:  Tedeschi  e  Rofnani  nel  Tirolo  meridionale  e  nella  Venesia  (1), 
corredando  questo  suo  scritto  di  una  carta  etnografica,  dove  in  modo 
perspicuo  sono  indicati  i  territorj  che  oggidì,  nelle  regioni  veneta  e  trentina, 
si  hanno  da  assegnare  ai  quattro  idiomi:  tedesco,  italiano,  reto-romano 
o  ladino,  e  slavo  (quest'ultimo  su  breve  spazio  della  provincia  italiana 
del  Friuli).  Chi  getti  1* occhio  sulla  carta,  e  la  compari  con  quella  che, 
frutto  di  singolare  acume  e  di  pazienti  indagini,  fu  unita  dall'Ascoli  al 
primo  volume  del  suo  Archivio  glottologico^  vedrà  tosto,  che  il  professore 
tirolese,  per  quanto  concerne  i  distretti  ladini,  ha  ricalcato  le  tracce  del 
nostro  illustre  linguista.  Anche  nell*  indicare  i  territorj  tedeschi,  nulla 
aggiunse  d'importante  il  compilatore  della  nuova  carta  a  quello  che  si 
sapeva  di  già.  Quanto  poi  alla  Memoria,  se  il  lettore  potrà  trovarvi  una 
copiosa  messe  di  notizie,  non  vi  troverà  ugualmente  saldezza  di  critica. 
Né  ciò  dee  far  sorpresa.  A  dettare  questo  suo  scritto  il  signor  Schneller 
non  fu  mosso  tanto  da  intendimento  scientifico,  quanto  da  malumore  po- 
litico. Addetto  a  quel  partito,  assottigliato  è  vero  ma  pur  sempre  vivo, 
che  guarda  con  occhio  losco  al  nuovo  regno  italiano,  e  lo  accusa  di  am- 
bizioni e  cupidigie  sfrenate,  e  rimpiange  la  Lombardia  e  la  Venezia 
come  membra  divulse  dall'antico  corpo  del  Sacro  Impero  della  nazione 
tedesca,  il  signor  Schneller  facendosi  a  mostrare  che  l'elemento  tedesco 
era  un  giorno,  a  mezzodì  delle  Alpi,  molto  più  diffuso  che  noi  sia  adesso, 
altro  non  volle  che  pigliarne  pretesto  per  dolersi  delle  conquiste  dell'ele- 
mento latino,  e  per  raccomandare  che  la  si  faccia  finita  colle  usurpazioni  di 
quest'ultimo.  Che  se  l'Itaca  —  tale  è  la  conclusione  —  pretendesse  di 
estendersi  ancora  verso  settentrione,  varcando  un  confine  segnato  da  quasi 
mille  anni,  toccherà  ai  Tedeschi,  per  tutta  risposta,  di  rivendicarsi  come 
limite  la  linea  dell'Adige,  con  Verona  e  Legnago. 


(1)  Deutsche  xind  Romanen  in  Sud-Tirol  uvd  Voìctìcn  i  Mittheihnigen  ;  2^3  Band, 
X  Heft,  Gotha,  Perthes,  1877. 


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120  B.  MALFATTI  [uiounale  di  kilolooia 

Quale  imparzialità  di  indagini  e  che  calma  di  giudizj  possano  acco- 
gliersi neir animo  di  chi  esce  in  cosiflFatti  propositi,  lasciamo  arguirlo 
al  lettore.  Quanto  a  noi,  alieni  come  siamo  dalle  zufiFe  e  dalle  parti- 
gianerie di  ogni  specie,  avremmo  fatto  a  meno  di  occuparci,  o  di  voler 
intrattenere  altri  di  quel  tale  scritto,  se  la  riputazione  che  il  signor 
Schneller  s'  è  saputa  procurare,  ne  gode  il  dirlo,  con  altri  lavori  più 
gravi  e  proficui  agli  studj  (1),  e  se  la  fama  in  cui  è  salito  meritamente 
il  giornale  geografico  di  Gotha,  non  potessero,  per  avventura,  essere  argo- 
mento a  taluni  di  aggiugner  fede  alle  asserzioni  contenute  nella  Memo- 
ria; asserzioni  inesatte  di  spesso,  altre  volte  arrischiate,  tali  insomma  da 
condurre,  chi  vi  si  fidasse,  ad  avvisi  erronei.  Né  altro  ci  proponiamo 
qui,  se  non  d'indicare  dove  il  signor  Schneller  ha  urtato,  secondo  noi, 
contro  i  documenti  ed  i  criterj  più  sicuri  della  storia  o  della  etnografia; 
dispensandoci  volentieri  di  raccogliere  e  di  respingere  quello  che  V  umore 
politico  gli  ha  fatto  stillare  di  sconveniente  e  di  acre  in  queste  ed  in  altre 
pagine.  Anzi  non  intendiamo  neppure  di  esaminare  in  ogni  parte  le  sue 
opinioni.  Lasciando  ad  altri  di  ricercare  quanto  v'  abbia  di  sussistente  ia 
ciò  che  assevera  sulla  diflfusione  dell'  elemento  germanico  nella  Venezia  ; 
rimettendo  ai  cultori  delle  storie  municipali  e  ai  glottologi  di  quella  re- 
gione di  vedere  se  a  Vicenza,  sei  o  sette  secoli  addietro,  si  parlasse  tedesco 
piuttosto  che  italiano:  se  Padova  e  Verona  fossero  allora  tedesche  la  metà, 
e  se  i  territorj  lunghesso  le  pendici  alpine,  dall'Adige  al  Tagliamento, 
fossero  tenuti  da  popolazioni  prettamente  germaniche  (come  vuole  il  si- 
gnor Schneller)  (2),  noi  piglieremo  unicamente  a  vagliare  ciò  che  egli 
ha  asserito  intorno  agli  abitatori  del  Trentino,  ed  alle  loro  vicende,  e  ai 
loro  idiomi.  Sui  quali  subbietti  l'esame  potrà  camminare  con  abbastanza 
sicurezza,  per  essere,  chi  scrive,  nato  in  quella  provincia;  dov'ebbe  a 
vivere  gli  anni  migliori,  e  ad  occuparsi  anche,  tanto  per  inclinazione 
proprix  quanto  per  varie  circostanze,  della  storia  del  paese  e  delle  sue 
condizioni. 

I 

Di  che  stipite  fossero  gli  abitatori  antichissimi  del  Tirolo  meridio- 
nale (T odierno  Trentino  non  ne  forma  che  la  minor  parte,  sebbene  la 


(1)  Schneller  Chr.,  Die  Romanischen  lica  delle  opinioni  delTAutore,  ch'egli  d'al- 
Volksmundarten  in  Sùd-Tirol ,  T.  I,  Gè-  tronde  non  divide  intieramente.  Nel  suo  ar- 
ra» 1870.  —  Maerchen  und  Sagen  aus  ticolo  il  sig.  Cipolla  fa  cenno  di  tre  altri, 
Wmlschtirolf  Innsbruck,  1867.  pubblicati  sullo   stesso  argomento  dal  prof. 

(2)  NeìV  Archivio  Veneto  (Tomo  XIV;  B. Cetani  nella  (rasztftm  d*  K^w^xia  degli  11, 
parte  2.*)  il  sig.  Carlo  Cipolla  ha  parlato  20  e  24  Dicembre  1877  j  ma  non  abbiam  po- 
teste dello  scritto  del  signor  Schneller;  seb-  tuto  procurarceli. 

bene  per  dar  conto,  piuttosto  che  per  far  la  cri- 


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HOMANZA,  N."  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  121 

più  popolata)  il  signor  Schneller  non  si  ferma  a  discuterlo.  Esclude  solo 
che  fossero  Germani  :  ed  accennando  di  passaggio  che  quei  Reti  o  Kaseni 
potessero  forse  essere  stati  di  origine  celtica,  ammette  che  già  per  tempo 
Tenissero  latinizzati.  Difatti  negli  ultimi  tempi  dell'Impero  il  paese  che 
si  estende  dalla  Chiusa  di  Verona  sino  al  Brenner  faceva  parte  della  pre- 
fettura d'Italia:  tre  strade  militari  l'attraversavano,  segnate  da  parec- 
chie stazioni  militari,  da  castella,  e  città;  e  principale  tra  queste  ultime 
Trento;  che,  ricordata  da  Eliano  come  popolosa,  opulenta  e  chiara  (1), 
godeva  diritti  di  Municipio,  ed  era  sede  di  un  vescovo.  Sopraggiunsero 
i  t«mpi  delle  invasioni.  Già  quattro  secoli  prima  i  Cimbri  avevano  per- 
corso il  paese;  ma  senza  lasciar  traccia  di  sé;  per  quanto  si  supponga 
da  taluni  che  qualche  avanzo  delle  schiere  sconfitte  sui  Campi  Bandii 
andasse  a  rifuggirsi  nelle  valli  tridentine.  Ora  gli  stranieri,  che  scen- 
devano per  la  valle  dell'Adige,  se  non  più  terribili,  erano  più  frequenti 
e  fortunati  di  que' primi.  Eruli,  Gepidi,  Ostrogoti;  e  in  seguito  Longo- 
bardi, Franchi,  Bavari  e  Slavi  venivano  a  mescolarsi  coli' antica  popo- 
lazione reto-romana  e  a  dominarla.  E  tuttavia  il  numero  de'  Germani 
che  posero  stanza  nel  paese,  non  fu  tale  da  disperdere  o  distruggere  in- 
tieramente l'elemento  latino.  Riuscirono  bensì,  ed  i  Bavari  in  ispecie, 
a  germanizzare  il  tratto  di  territorio  dal  Brennero  sino  a  poche  miglia 
sotto  Bolzano;  ma  da  qui  in  giù,  sino  alla  Chiusa,  restò  frequente  la 
popolazione  romana.  Il  signor  Schneller  medesimo  non  nega  che  questa 
si  mantenesse  scevra  quasi  affatto  da  mescolanze  nelle  valli  occidentali 
del  Noce,  del  Sarca  e  del  Chiese  (formano  una  buona  metà  del  Trentino)  ; 
ma  asserendo  insieme  che  nella  Valle  maggiore  dell'Adige,  e  in  Trento 
stessa  e  nelle  valli  ad  oriente,  l'elemento  germanico  venisse  a  diffondersi 
largamente,  anzi  in  modo  da  tenere  il  di  sopra.  Or  questa  asserzione, 
secondo  noi,  non  regge  che  in  parte.  Ci  troviamo  d'accordo  col  signor 
Schneller,  sinché  dice  che  in  alcune  terre,  dove  oggidì  si  parla  l'italiano, 
fosse  usata  in  passato  altra  lingua:  gli  concediamo  cioè  (e  a  tale  avviso 
eravamo  venuti  molto  prima  eh'  egli  non  lo  esprimesse  )  che  nel  tratto , 
superiore  della  Valsugana  si  potessero  allora  incontrare  frequenti  signori 
e  coloni  settentrionali;  di  modo  che  un  rozzo  idioma  germanico  si  sa- 
rebbe disteso,  per  una  zona  angusta  ma  continua,  dai  così  detti  Mò- 
cheni  sino  a  Lavarono  ed  ai  Sette  Comuni.  Gli  concediamo  che  il  te- 
desco fosse  parlato  un  giorno  in  qualche  borgata  e  paesello  al  nord  di 
Trento,  quale  Mezzotedesco  e  San  Michele,  dove  ora  si  usa  l'italiano; 
e  lo  stesso  si  dica  di  Vallarsa  e  di  Terragnolo  all'ovest  di  Rovereto. 
Alcune  piccole  immigrazioni  ebbero  luogo  durante  tutto  il  medio  evo; 
come  quella  dei  minatori  {argentarvi^  silbrarii)  fatti  venire  espressa- 


ci) Af.ham's,  Var.  lllstor.  \Àh.  IX. 


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122  lì.  MALFATTI  («hornale  ih  filolocua 

mente  nel  1216  per  rendere  fruttifere  le  miniere  d* argento:  e  l'altra 
de'  contadini  che  andarono  a  fondare  venti  nuove  masserie  nella  piccola 
e  romita  valle  di  Polgaria.  A  tanto  si  limitò  a  nostro  avviso,  ossia  per 
quanto  n'è  dato  raccogliere  dai  documenti  o  da  una  sobria  induzione, 
il  diffondersi  dell'elemento  tedesco  nel  Trentino  propriamente  detto;  fatta 
astrazione  s' intende  dai  casi  sporadici  di  famiglie  di  dinasti  o  di  mini- 
steriali e  coloni  tedeschi,  che,  per  eflfetto  delle  condizioni  politiche,  venivano 
di  mano  in  mano  a  stanziare  qua  o  là.  I  territorj  germanizzati  non 
dovettero  essere  neppur  la  decima  parte  di  tutto  il  paese.  Quanto  alla 
città  di  Trento,  potrà  il  lettore  persuadersi  in  seguito,  per  più  d'una 
prova  e  con  buoni  argomenti,  che  l'idioma  forestiero  non  vi  ebbe  a  sopraf- 
fare il  paesano;  e  che  ivi,  come  per  massima  nel  contado  e  nelle  valli, 
l'elemento  latino  seppe  civilmente  tener  sempre  il  di  sopra. 

Creda  pure  il  signor  Schneller,  che  a  sostener  questo  non  siamo 
mossi  da  alcun  secondo  fine.  Se  qualcuno  riuscisse  ad  addurre  buone 
prove  del  contrario,  non  esiteremmo  punto  a  disdirci.  E  il  faremmo 
senza  corruccio  ;  perché  la  verità  sta  per  noi  di  sopra  a  tutto  ;  e  per- 
ché nella  lingua  ravvisiamo  bensì  il  primo,  ma  non  il  solo  fattore  delle 
aggregazioni  politiche.  Le  attrazioni  e  repulsioni  etnografiche  si  dispon- 
gono secondo  leggi  di  elezione  naturale  e  di  accomodamento  ai  medj, 
non  già  a  rigore  di  genealogia.  Certo  sarebbe  fatto  meritevole  d'atten- 
zione quello  di  una  popolazione  prevalentemente  tedesca  (tale  il  signor 
Schneller  vorrebbe,  mei  medio  evo,  la  trentina  della  Val  d'Adige)  che 
a  capo  di  non  molte  generazioni  è  riuscita  pel  tipo  fisico  non  meno  che 
per  costumi  e  per  lingua,  ad  essere  italiana.  La  cosa  sarebbe  notabile; 
ma  siccome  non  le  mancherebbe  il  riscontro  di  qualche  altro  esempio, 
cosi  tutto  si  ridurrebbe  ad  indagarne  le  cause.  Nel  caso  nostro  però 
non  v'ha  bisogno  di  tale  indagine.  I  fatti  ci  mostrano,  che  l'elemento 
germanico  non  giunse  propriamente  a  soverchiare  il  latino;  e  della  te- 
nace vitalità  di  questo  non  è  difficile  a  discoprir  le  ragioni.  E  prima 
,  di  ogni  altra  quella  che  il  Trentino,  nell'epoca  delle  prime  invasioni, 
fu  corso  ed  occupato  bensì  da  varie  genti  settentrionali,  ma  non  colo- 
nizzato propriamente.  Era  la  pianura  del  Po  a  cui  tendevano  più  avi- 
damente i  conquistatori  ;  e  le  valli  laterali  a  quella  dell'Adige  erano  in 
massima  troppo  povere  o  troppo  difficilmente  accessibili  per  essere  ricer- 
cate da  altri,  che  da  minuti  venturieri  o  da  fuggiaschi.  Che  l'elemento 
latino  tenesse  ancor  sempre  importanza  ai  tempi  di  Teodorico,  lo  pro- 
vano due  lettere  conservateci  nelle  Varie  di  Cassiodoro  (1).    L'una  di 


(1)  Cassiodor.  Var.  Lib.  Ili,  48  «  Uni-  Trentino.    Si  noti  che  il  Vescovado  di  Fel- 

vcrsis  Gothis  et  Romanis  circa  Vervcam  tre  (e  quindi  possiamo  arguire  anche  ilcom- 

castelhtm  consisteìxtihus  ».  —  Nella   lette-  partimento  politico)  si  estendeva  allora  sulla 

ra  15  del  Lib.  Vili,  viene  imposto  ai  Fel-  Valsugana,  sino  a  poca  distanza  di  Trento, 
trilli  di  ajutare  la  costruzione  d*una  città  nel 


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ROMANZA,  N.«  2]      GLI  IDIOMI  PAUL  ATI  NEL  TRENTINO  123 

esse  è  diretta  «  Ai  Goti  e  Romani  abitanti  intorno  al  Castello  Verruca  > 
(1* odierno  Dosso  di  Trento),  e  tutte  e  due  ci  mostrano  che  quel  re  aveva 
a  cuore  di  munire  e  ristorare  il  paese,  desolato  probabilmente  in  addietro 
dalle  soldatesche  di  Attila  e  di  Odoacre.  Il  Trentino,  durante  la  signoria 
gotica,  non  dovette  trovarsi  a  condizioni  diverse  delle  altre  provincie  ita- 
liane. E  la  stessa  cosa  si  dica  pei  tempi  longobardi.  Da  Trento  pren- 
deva nome  uno  dei  più  cospicui  ducati  :  e  del  persistere  della  popolazione 
latina  abbiamo  più  d'un  argomento;  e  prima  i  nomi  dei  vescovi,  che  hanno 
impronta  romana  (1).  Da  Paolo  Diacono  ci  è  ricordato  inoltre  ripetuta- 
mente un  Secondo,  monaco  o  abbate  trentino  (forse  è  una  sola  persona 
col  Secondino,  a  cui  ebbe  a  scrivere  amorevolmente  Gregorio  Magno)  che 
levò  al  sacro  fonte  il  figlio  di  Teodolinda,  Adaloaldo,  e  dettò  una  suc- 
cinta storia  dei  Longobardi  (2).  A  Trento  adunque  duravano  i  vestigi 
dell'antica  cultura. 

Che  i  tempi  della  signoria  de' Franchi,  succeduti  ai  Longobardi,  non 
fossero  tali  da  favorire  la  diffusione  dell'elemento  germanico,  ognuno 
può  arguirlo  di  leggieri.  Anzi  era  interesse  di  quei  dominatori  di  ricac- 
ciare i  Tedeschi,  ossia  i  Bavari;  che,  ai  tempi  di  Tassilone,  fattisi  pa- 
droni del  tenére  di  Bolzano,  minacciavano  di  spignersi  anche  più  in  giù. 
Gli  Annalisti  dei  tempi  carolingi,  e  Luitprando,  nel  secolo  appresso,  par- 
lano della  città  e  del  ducato  di  Trento  come  della  prima  città  e  Marca 
d'Italia  verso  il  Settentrione  (3).  E  dell'Italia  seguitò  a  far  parte  sotto 
gli  imperatori  Sassoni;  finché  Corrado  il  Salico,  nel  1027,  non  ebbe  ad 
investire  il  vescovo  della  Contea  o  del  Ducato  di  Trento  (si  estendeva 
quanto  la  diocesi,  comprendendo  anche  il  paese  germanizzato  sin  quasi 
a  Bressanone  )  riducendo  cosi  i  vescovi  trentini  a  vassalli  immediati  del- 
l'Impero.  E  tuttavia,  per  tale  mutamento,  il  paese  trentino  non  venne 
ad  esser  legato  al  corpo  politico  tedesco  più  strettamente  che  noi  fos- 
sero allora  le  Marche  vicine  di  Verona  e  di  Aquileja;  nò  la  signoria  dei 
vescovi  fu  a  scapito  della  libertà  civile.  L'elemento  popolano,  o  romano, 
riscossosi  a  Trento  come  nelle  altre  parti  della  Lombardia,  sapeva  gua- 


(1)  Il  catalogo  Udalriciano,  compilato  8ii-  servavano  gli  antichi  nomi  ;  nomi  che  si  sono 
gli  antichi  dittici,  dà  per  T epoca  longobarda  in  parte  mantenuti  sino  ai  di  nostri.  Si  ve- 
la seguente  serie  di  vescovi:  Agnello,  Ve-  dano  in  Paolo  Diacono  (Lib.  Ili,  e.  31)  i 
Fecondo,  Manasse  I,  Vitale  I,  Stablìsiano,  paesi  distrutti  dai  Franchi  nella  invasione 
DominicooDumprocco, Rustico, Romano, Vi-  del  590.  Sono:  Tesana,  Maleto  (Male),  Se- 
tale  lì,  Correnziano,  Sisedizio  o  Silezio,  Gio-  roiana.  Appiano  (Eppan),  Fagitana  (Faédo), 
Tanni  I,  Massimo,  Mammono  o  Maumono,  Cimbra  (Cembra),  Viziano  (Vezzano),  Bren- 
Mariano,  Dominatore.  tonico,  Vulene  (Volano),  Ennemase  (forse 

(2)  Paul. DiACON.//i*(or.I,a«^oò.Lib.lII.  Enni-mansus  =  Manso  di  Enno,  Denno). 

e.  29;  Lib.  IV,  e.  28,42.    Il  ducato  trentino,  (3)  Luidprandls,  Antapodosis,  Lib.  UT, 

attempi  de* Longobardi,  doveva  essere  abba-  e.  49. 
stanza  pop)lato,  con  terre  e  castella  che  con- 


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124  B,  MALFATTI  [giornale  di  filologia 

dagnare  sempre  più  d'importanza.  Certo  è  che,  un  secolo  dopo,  la 
città  di  Trento  godeva  di  suoi  ordinamenti  particolari  e  di  larghe  fran- 
chigie: reggendosi  a  comune  sul  fare  delle  vicine  città  italiane.  Fede- 
rigo Barbarossa  decretò,  è  vero,  nel  1182,  che  a  Trento  s'avessero  da 
abolire  i  consoli,  che  la  città  non  dovesse  esercitar  diritto  di  zecca  e  di 
dazj,  ma  avesse  da  tornare  all'antica  obbedienza  sotto  i  vescovi  (1).  Que- 
sto decreto  però  non  ebbe  che  mediocre  eflSicacia.  Cessarono  i  consoli; 
ma  per  far  luogo  a  sindaci,  come  in  altre  città  di  parte  imperiale;  i 
quali  sindaci  poi  esercitavano  officio  poco  dissimile  dal  consolare.  L'au- 
torità de'  vescovi  nella  città  era  contrastata  e  precaria:  mentre  più  d'una 
delle  vicine  valli  s'amministrava  con  ordinamenti  suoi  particolari,  pat- 
tuitisi in  pubblica  assemblea  dal  vescovo.  In  tutti  questi  fatti  chi  non 
vede  r influenza  delle  vicine  città  italiane?  E  come  creder  possibile  co- 
testa  influenza,  se  l'elemento  latino  non  fosse  stato  abbondante  e  vigo- 
roso nel  popolo? 

Veda  dunque  il  signor  Schneller  se,  per  quei  tempi,  si  possa  asse- 
rire la  prevalenza  dell'elemento  tedesco.  Che  i  vincoli  politici  del  du- 
cato Trentino  coli' Impero  si  mantenessero  più  stretti  che  non  in  altre 
terre  italiane,  di  ciò  non  v'ha  dubbio;  com'è  incontestabile  che  dei  si- 
^']:norotti  e  minori  vassalli,  che  tenevano  terre  e  castella  nel  ducato  (la 
feudalità  vi  aveva  messo  larga  radice)  molti  fossero  tedeschi  di  stirpe. 
Ma  la  popolazione  nella  sua  maggioranza,  ed  a  Trento  non  meno  che 
nel  contado,  era  italiana  di  origine,  d'intendimenti  e  di  lingua.  Sì,  di 
lingua;  ed  insistiamo  particolarmente  su  questo  punto:  perché  il  signor 
Schneller,  ed  altri  insieme  con  esso  (lo  vedremo  fra  poco)  vorrebbero  per- 
suadere, a  sé  medesimi  se  non  altro,  che  l'idioma  che  prevaleva  nel  Tren- 
tino, nel  più  remoto  medio  evo,  fosse  il  tedesco.  Come  male  si  com- 
bini questa  opinione  coi  fatti  della  storia,  l'abbiamo  accennato;  ma  a 
mostrarne  l'insussistenza  possiamo  ricorrere  a  prove  ancora  più  positive, 
e  tali,  a  parer  nostro,  da  togliere  di  mezzo  ogni  dubbiezza.  Trattan- 
dosi di  argomento  che  ha  attinenza  cogli  studj  professati  da  questo  gior- 
nale, non  chiederemo  scusa  al  lettore,  se,  in  sostenere  il  nostro  asserto, 
saremo  per  riuscire  alquanto  diffusi,  abbondando  in  ispecie  di  citazioni 
ed  esempj. 

Chi  ha  preso  pratica  di  scritture  e  di  carte  medievali,  sa  bene  che 
quanto  a  lessico  o  locuzione  esse  variano  tra  loro  secondo  i  paesi;  talché 
la  latinità  delle  carte  italiane  differisce  in  modo  abbastanza  notevole  da 
quella  delle  francesi  o  delle  tedesche.  La  quale  differenza  si  presenta 
tanto  più  spiccata,  quanto  più  si  discende  nei  tempi:  quanto  più,  cioè,  il 
volgare  latino  s'andava  trasformando,  e  si  venivano  svolgendo  le  lingue 


(!)  li  decreto  fu  dato  in  estratto  dal  sig.  Kink  nel  Onlec  Waiìgianvs ,  \*.  42. 


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K0MAX2A,  N.°  2]      GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TliENTINO  125 

moderne;  e  quanto  più  i  Notaj,  salvo  le  formule  consacrate  dalla  consue- 
tudine, s' aiutavano  nello  stendere  gli  atti  con  voci  e  locuzioni  del  parlare 
cotidiano.  Le  carte  italiane  dal  sesto  al  tredicesimo  secolo  sono  miniera 
preziosa  per  chi  ricerca  il  metallo  più  antico  del  nostro  volgare.  Ora 
il  Trentino  conta  una  ricca  suppellettile  di  antichi  documenti,  massime 
dall' undecime  secolo  in  giù.  L'Archivio  de'  suoi  principi-vescovi,  riordi- 
nato per  tempo,  non  aveva  da  invidiare  a  quelli  di  città  anche  più  co- 
spicue. Pur  troppo  al  cominciare  di  questo  secolo  andò  distratto;  che 
venuta  Trento,  nel  1802,  a  far  parte  della  provincia  tirolese,  sotto  la  si- 
gnoria austriaca,  molti  dei  documenti  più  importanti  per  la  sua  storia 
politica  e  civile  furono  tolti  dall'archivio  vescovile,  per  andare  ad  arric- 
chir quelli  di  Innsbruck  e  di  Vienna;  sicché  è  mestieri  recarsi  in  queste 
due  ultime  città,  chi  voglia  attingere  la  storia  trentina  ai  fonti.  Tuttavia 
una  qualche  parte  di  quei  preziosi  cimelj  fu  data  in  luce,  con  non  pic- 
colo benefizio  degli  studiosi;  e  prima  per  merito  del  padre  Benedetto 
Bonelli  trentino,  che  in  sullo  scorcio  del  secolo  passato  pubblicò  quattro 
volumi  di  Storie  e  Documenti  concernenti  la  Chiesa  e  il  Principato  di 
Trento;  volumi  pregevolissimi  ancor  sempre  per  molta  diligenza,  e  non 
comune  acume  scientifico  (1).  Nel  1852  poi,  per  cura  dell'Accademia 
viennese  delle  Scienze,  il  signor  Rodolfo  Kink  metteva  in  luce  il  Codice 
Vanghiano^  vale  a  dire  il  più  antico  cartolario  trentino;  ricco  di  circa  un 
trecento  documenti  che  dal  1082  giungono  al  1281,  abbracciando  cosi 
intieri  due  secoli  (2).  Poche  raccolte  di  documenti  abbiam  letto,  che 
valgano,  meglio  di  questa,  a  rappresentare  la  vita  politica  e  civile  di  un 
paese  in  tutti  i  suoi  momenti,  anche  i  più  minuti;  nessuna  di  maggiore 
importanza  per  la  storia  della  feudalità  ;  la  quale  ne  viene  incontro  dalle 
carte  vanghiane  con  tutte  quelle  forme  molteplici  e  spesso  bizzarre,  a  cui 
s'era  condotta  nell'  alta  Italia  prima  che  altrove.  Ma  non  è  qui  il  luogo  di 
fermarsi  sul  valore  grandissimo  che  può  avere  quel  Codice  per  chi  prenda 
a  studiare  gli  istituti  pubblici  e  lo  stato  del  possesso  in  quei  due  secoli. 
Rifacendone  al  nostro  soggetto,  diremo  piuttosto  che  l'esame  di  quelle  carte 
sarà  per  tornare  d' interesse  e  di  frutto  anche  al  linguista.  Che  prette 
forme  volgari  non  vi  si  incontrano!  Come  non  si  scorge,  di  sotto  alla 
veste  latina,  il  muoversi  e  il  palpitare,  per  dir  così,  di  un  nuovo  lin- 


ci) Bonelli  Ben.  ,  Notizie  Istorico-crit.  zione.  Una  nuova  edizione  critica  del  Codice 

della  Chiesa  di  Trento,  17G0-62  (3  voi.).—  non  sarebbe  fuori  del  caso;  sennonché  mag- 

Monum.  Eccl.  Tridentinae^  1765  (Ivol.).  gior   vantaggio  ancora  recherebbe  alla  Sto- 

(2)  Cadeau   Wangianus  {Fonte s  Rerum  ria    trentina    chi  prendesse    ad   esaminare, 

Aiistriacarum) ^  ed.  Rur.  Kink;   Vienna,  e   possibilmente  a   mettere   in    luce,  il  Co- 

1852.  —  Comunque  pregevole,  questa  pubbli-  dice  diplomatico  Clesiano,  che   si   conserva 

cazioue  non  è  a  dirsi  tuttavia  perfetta.  Pa-  nelP  Archivio    del    Vescovado    di    Trento, 

recchi  documenti  non   vi  sono  dati   che  in  in  un-lici  nitidissimi  volumi  in  pergamena, 
entrato;  e  qua  e  là  incorsero   errori  di  le- 


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126  B.  MALFATTI 


miORXALK   DI   FILOLOGIA 


guaggio!  Certo  che,  a  cogliere  questa  vita,  bisogna  leggere  i  documenti 
nel  loro  complesso  :  che  una  spigolatura  di  brani  o  di  modi  di  dire  non 
può  darne  pieno  concetto.  E  tuttavia  non  sappiamo  dispensarci  dall' of- 
frire al  lettore  un  manipolo  di  quegli  appunti  o  di  quelle  note,  attinenti 
alla  lingua,  che  siam  venuti  di  mano  in  mano  raccogliendo  nello  studiare 
quel  Codice.  Stimiamo  di  fare  con  ciò  cosa  non  inopportuna  ;  anche  per- 
ché il  volume  delle  carte  vanghiane  è  pochissimo  conosciuto,  né  facile  a 
procurarsi  qui  da  noi.  Daremo  le  locuzioni  in  ordine  cronologico,  a  co- 
minciare dal  secolo  XII  sino  al  XIII;  notando  per  ciascuna  la  pagina 
dove  può  leggersi  nella  edizione  viennese. 

. .  si  pensio  ad  prefatum  terminum  soluta  non  fuerit  ;  p.  22. 

. .  dabunt  episcopo  casamentum  unum  congrunm  ;  p.  22. 

..  Rustici  qui  incastellabunt  in  ilio  castro;  p.  31. 

..  per  bergamenam,  quam  sua  manu  tenebat,  custodiam  un'us  donius  feudo  tradi- 

dit;  p.  33. 
. .  dedit  licentiam  ut  castrum  supra  dossum  aedificet  ;  p.  40. 
. .  Maria  cura  Adalpreto,  lega  viventes  romana  (1)  ;  p.  45. 
. .  et  facere  exinde . . .  cum  omni  asio  (2)  et  utilitate  ;  p.  46. 
..  dum  quidam  bonae  opinionis  et  famae  viri  assisterent;  p.  49. 
. .  non  liceat . . .  vexationem  sive  superimpositam  aliquam  facere  ;  p.  50. 
..  Ibique  incontinenti  assurgens;  p.  54. 
.  .  quod  a  casadei  Sancti  Yigilii  retinebat  ;  p.  55. 

..  in  vesti  vi  t  de  eadem  domo  et  cane  va  (3)...cujii8  coherencie  decernuntor;  p.  59. 
. .  sub  pena  dupli  ficti  ;  p,  59. 
..  si  comperare  (sic)  noluerint;  p.  59. 
. .  missus  dare  tenutam  casae  ;  (K). 
. .  si  vero  cambi  um  rescinderetur  ;  p.  62. 

..  Episcopus  ea  castra  comites  racionabiliter  debet  juvare  manutenere;  p.  63. 
. .  bona  quae  prò  sua  dote  et  ejus  restauro  sibi  pignori  obligata  fuerant  ;  p.  67. 
. .  investivifc  de  dominio  et  majoria  et  districto  ipsius  castri  de  Busco  (4)  ;  p.  68. 
. .  Habitatores  sua  casalia  detineant;  p.  p.  68. 
. .  dabat  unam  peciam  panni  Vili  ulnarum  spatzaiufemo  (5)  de  Tridento  ;  p.  72. 

(1)  È  tla  notarsi  che  questa  Maria  e  Canipa ,  Caneva  anticamente  aveva  signì- 
Adalpreto  suo  marito,  che  nel  1183  dichia-  ficato  più  ampio;  cioè  di  magazzeno  conte- 
ravano  di  vivere  a  legge  romana,  apparte-  nente  derrate  od  oggetti  necessari  all^azienda 
ne  vano  a  due  dei  più  cospicui  casati  del  pae-  domestica. 

se.    Si  vedrà  da  altre  formule,  e  da  quanto  (4)  Si  vedano  nel  Ducange  i  diversi  signi- 

saremo    per   dire  in  segui».©,  quale  tenace  Acati  di  ma/orto.    In  questo  papso  indica  si- 

e  larga  vitalità  tenesse  nel  Trentino  T antico  cupamente  fcudum  majoris,  o  feudumcon- 

diritto.  ditionale. 

(2)  Asium,  nel  significato  di  agio,  com-  (5)  Dal  contesto  della  carta  risulta  che 
modo,  non  è  riportato  dal  Glossario  del  Du-  Spatsainferno  è  nome  di  professione.  Il 
CANOE  (ed.  Henschel.  Parigi,  Didot).  Nel  signor  Kink  opinò  che  potesse  significare 
dialetto  trentino  si  usa  dire  tuttavia:  far  el  spazzacamino.  Spazzare ^  nelle  varie  forme 
so  a«i  =  il  proprio  commodo.  verbali,  si  legge  in  carte  italiane  del  basso 

(3)  Cdncva  per  cantina  si  usa  nel  dialetto,  tempo. 


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uoMAszA,  X.-  2]      GLI  IDIOMI  PAHLATI  NEL  TBENTINO 


127 


.  •  cura  menaita  et  cum  omni  jure  quod  predictis  terris  pertinebat  (1);  p.  74. 

. .  erat  feudum . . .  wardiani  et  castaldionis  Formiani  ;  p.  75. 
^. .  Portenariis  de  Tridente . . .  coquo . . .  canevariis . . .  scutellarìis  ;  p.  75. 

. .  Et  si  volebat  eas  sibi  comedere,  comedcbat  ;  et  sin  autem  faciebat  eas  portare  in 
svam  canevam;  75. 

. .  Senatusconsulto  (Vellejano)  omnique  juri  et  racioni,  quod  per  datum  vel  per  con- 
tracambium  habebat...,  renunciavit;  p.  79. 

. .  Omnia  quecumque ...  in  suam  tenutain  (2)  habebat  ;  p.  80. 

• .  et  quod  pi^nus  suprascriptum . . .  non  imbrigabunt  nec  iropedient  ;  p.  87. 

. .  Comes  dedit  Trintinellura ,  per  manum  apprehensum,  in  manum  dni  Conrculi;  p.  88. 

. .  per  beretam...  quam  in  suis  manibus  tenebant,  obligaverunt  quidquid  feodi  (3);  p.  91 . 

. .  secnndum  usum  et  consuotudinem  tridentini  mercati  ;  p.  94. 

. .  Cum  jurassent  discernere  et  consignare  sine  fraudo  totum  comune  intromissnm  vel 
impeditnm  a  XX  annis  usquemodo;  scilicit  pascua,  nemora,  stratas,  semita- 
ria  (4),  aquaria  rizalia,  aquarumque  ductus;  p.  101. 

. .  ut  ipsi  columnellos  (5)  sibi  distinguerent  et  consignarent  ;  p.  103. 

. .  quod  dehinc  nemo  eorum  aliquid  ad  dicendum  super  eorum  bonis...  ha  beat  ;  p.  104. 

. .  Philippum  provisorem  jam  dicti  hospitaiis  ;  p.  106. 

.  .  a  vertice  montis  in  zusum  (6);  p.  108. 

. .  de  viginti  duobus  modiis  siliginis  supra  terram  roncorum  novellorum  (7) . . . .  in 
quibus  contenti  stare  debeant;  p.  115. 

. .  Totum  lucrum  j>er  medium  dividatur;  p.  117. 

..  de  navibus  vero  naulum  (8)...  reddatur;  p.  117. 


(1)  Menaida  j  secondo  il  Glossario ,  è 
«  Vectura  quam  quis  domino  praestare 
debet  ».  Deriva  probabilmente  da  menare, 
che  nel  dialetto  si  usa  costantemente  ed 
esclusivamente  per  condurre  o  trasportare 
da  un  luogo  all'altro  :  el  m*ha  mena  'n  car- 
rosza  —  el  m*ha  menà*n  campagna. 

(2)  Tenuta y  nel  senso  di  possesso,  non  si 
trova  nel  Ducanoe;  che  ha  invece  Tenura, 
per  feudalis  dependentia. 

(3)  In  questa  locuzione,  e  nella  antece- 
dente, abbiamo  due  forme  d'investitura:  colla 
mano,  e  colla  berretta. 

(4)  Da  semitarium  si  formò  sentiero, 
Aquaria  rizaliay  sono  acque  correnti,  rivi; 
che  in  varie  parti  dell'alta  Italia  si  dicono 
roggie,  nel  dialetto  trentino  róza,  róze, 

(5)  Columnelli,  in  questo  passo  significa- 
no le  suddivisioni  del  paese,  stabilite  a  scopo 
di  levare  ed  adunare  le  milizie;  ma  il  voca- 
bolo serviva  anche  ad  indicare  le  milizie 
stesse,  distinte  in  colonne.  Vicino  a  Trento, 
ed  in  altre  parli  del  Trentino,  si  usa  tuttavia 
la  parola  Cohtmèl,  per  indicare  certe  su- 


perAci,  oppur  certi  scompartimenti  di  ter- 
reni, o  certi  consor/j  rurali. 

(6)  Zusum  tss  zóso  ;  forma  dialettale  di 
giusoy  usato  anticamente  anche  nella  lingua 
letteraria.  Oggidì  si  conserva  nei  dialetti 
veneti.  11  trentino  l'ha  troncata  nella  for- 
ma: zòy  en  za. 

(7)  Roncus ,  ronchvs  «  rubetum,  senti- 
cetum  »  dice  il  Ducange.  Ronch  in  tren- 
tino significa  un  campicello  che  s'ottiene  dis- 
sodando un  tratto  di  prunajo,  sui  pendii  dei 
monti  in  ispecie.  I  ronchi  novelli  si  dicono 
e  si  dicevano  (come  ne  avremo  l'esempio) 
con  una  sola  parola  Novdi.  La  parola  Ronco 
è  usata,  con  lo  stesso  significato  press'  a  poco, 
in  parecchie  parti  dell'  alta  Italia.  Gli  esempj 
più  antichi  citati  dal  Ducange  sono  tolti  al 
Bollarlo  Cassinese,  e  agli  Statuti  di  Vercelli. 

(8)  iVatt/um=»  nolo;  resta  nel  dialetto  colla 
forma  nói,  e  col  significato  più  largo  di  pa- 
gamento che  si  fa  p<»r  l'uso  conceduto  di  una 
data  cosa;  onde  Nolesin  ,  ossia  vetturale  che 
a  certa  mercede  trasporta  persone  e  cose  da 
un  paese  all'altro. 


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128 


B.  MALFATTI 


[CHORNALK    ni    FILOLOGIA 


..  juravit  qnod  nnmquam  faciet  aliquem  rassam  (1)  cam  comite  Henrico...  contra 

opiscopatum  ;  p.  123. 
. .  DuUam  vim  in  praedictam  ecclesiam  neque  in  ejusdem  serviciales  debet  infer- 

re;  p.  129. 
. .  ad  refeccionem  infirmorum  ;  p.  129. 
..  juramentum  per  omnes  tenores  adtendere;  p.  131. 

. .  dixit  quod  volebant  cedere  ab  infestacione  et  causacione  de  eremitorio  S.  Mar- 
tini; p.  134. 
. .  constituerunt  se  fidejussores  in  eleccione  venditoris  (2);  p.  136. 
. .  et  hoc  fecit  sub  ypotheca  et  obligacione  tanti  sui  feudi  vel  allodi i  ;  p.  137. 
. .  et  exceptioni  non  nuraeratae  pecuniae  renunciando  ;  p.  139. 
. .  f rater . . .  viva  voce  respondebat  ;  p.  143. 
. .  promisit  qnod  faciet  facere  jam  dictam  refutacionem  ;  p.  145. 
. .  Episcopus  promisit  quod  si  eia  apparuerit  aliqua  briga  (3)  de  eo  castro,  qnod 

eos  manutenebit  ;  p.  145. 
..  de  causa  thelonei,  quod  teutonice  dicitur  zol  (4);  p.  148. 
..  homines  cujuscumque  manerici  (5)  sint;  p.  150. 

. .  A  simili  vero  (6) ...  bauzanensis  homo...  nuUum  theloneum  exhibere  teneatur;  p.  151. 
. ,  juraverunt  dicendi  pure  veritatem  ;  p.  157. 
. .  Abbatissa  debet  ei  (episcopo)  unum  bonum  et  honorabilem  soumarium,  cnm  dno- 

bus  bonis  coffinis,  cum  uno  mantile,  et  toalla,  et  duobus  bacinis  intus,  et  pelle 

orfina  desuper  (7);  p.  158. 
. .  Episcopus  debet  facere  eam  desistere  a  malis  operi  bus  ;  p.  159. 
. .  Episcopus  debet  concedere ...  de  tabulis  palatii  sui  ad  subficientiam  gentis  (  Ab- 

batissae);  p.  159. 
..  Cocus  vero  et  pistor...  nullam  habent  appellaccionem  (8);  p.  159. 
. .  dns  episcopus  debet  dare  abbatisse  omni  anno... XXIV  galetas  (9)  olei,  si  miserit 

prò  eo  ;  et  ipsa  debet  niittere  cellelario  episcopi  panum  decentem ...  et  unum 

coltellum  vel  rasorium;  p.  159. 
. .  debet  dare  faxum  (10)  unum  feni  ;  p.  160. 


(1)  /iaMa  «  conjnratio,  conspiratio».  Oli 
eserapj  che  ne  dà  il  Ditangr,  sono  tolti  da- 
gli Statuti  di  Marsiglia,  e  da  carte  della  Lia- 
guadoca. 

(2)  in  eleccione  venditoris  =-b.  scelta  del 
venditore. 

(3)  Gli  esempj  di  briga  e  imbriga,  nel 
DuGANGE.  sono  meno  antichi  di  quelli  del 
nostro  Codice. 

(4)  Nel  documento  si  dette  la  traduzione  di 
theloneum  =  zoll,  perché  la  convenzione 
era  stipulata  col  vescovo  tedesco  di  Bres- 
sanone. 

(5)  Il  signor  Kink  ha  letto  manerici;  ma 
deve  dire  maneriei.  Maneries,  per  mi- 
niera, è  usato  nel  Chronicon  Pipini  (Mu- 


ratori, Rer.  Jt.  Scr.  IX.  706). 

(6)  A  simili  rero  =  similmente  poi. 

(7)  Co/fitì US  =  corh3.y  canestro;  Manti- 
le  ^  tovagliolo  ;  toalla  =  tovaglia.  Ignoria- 
mo il  significato  delPaddiettivo  orfina, 

(8)  In  alcune  parti  del  Trentino  il  fornajo 
vien  detto  pistór;  ma  nella  città  di  Trento 
lo  si  chiama  piuttosto  formar. 

(9)  Il  yoctiho]o  galét a j  ga leda,  (da  Cala- 
thus)  sì  usa  tuttavia  nel  Trentino  per  indi- 
care una  data  misura  d*olio.  Una  carta  di 
Laon,  citata  dal  Ducanob,  mostra  che  in 
Francia  la  galeta  era  misura  di  grani. 

(10)  Oggidì  ancora  nel  Trentino  il  fieno  si 
vende  a  fascio  ^=  fass  y  fassi. 


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ROMANZA,  N,"  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO 


129 


..  racionem  tantum  sub  albero  juxta  parochiam  (1)  facere  preaumat;  p.  161. 

..  quod  possidet...  sive  per  coìonos,  si  ve  per  asciticios  (2);  p.  1G6. 

. .  et  cum  omni  actione  reali  et  personali  ;  p.  167. 

. .  promisit ...  ab  omni  contradicenti  persona  guarentare . . .  tempore  evictionis  cxti- 
mandi;  p.  168. 

..  ibidem  lealiter...  per  manura  suara  promisit  (3);  p.  168. 

..  in  terria  arati  vis  et  prati  vis;  p.  170. 

. .  vendere  debent  dno  Alberto,  vel  ejus  haeredibus  ad  minus  antea  quam  aliis;  p.  171. 

. .  dna  Leticia  renuntiavit  ausilio  senatusconaulti  vellejani  et  juri  hypothecanim  ;  p.  171. 

..  in  casamento  cum  domo . . .  jacente  in  porta  auriola  (4),  in  qua  Gisla  rabiosa  ha- 
bitat; a  latere  casamenti  et  domus  Manfredinus  caliarius,  ab  alio  via,  retro 
Adam  becarius,  ante  strata  et  alii  coherent;  p.  173. 

. .  omnia  sua  bona  et  suum  podberem  (5)  que  habet  a  patre  suo  ;  et  visa  fuit  haljere 
in  Trento  (sic);  p.  174. 

..  si  aliquis  ministerialis . . .  possit  alienare  aliquid,  vel  in  aliam  personam  transforre 
8Ìne  manu  et  dni  sui  licentia;  p.  176. 

..  Comune  Tridenti  in  concione  piena  eandem  fidelitatem  faciet  (6);  p.  180. 

. .  de  uno  suo  vignale  (7)  cum  vineis  ;  p.  182. 

. .  domus . . .  que  sit  ad  defensionem  ;  que  et  de  batalla  (8)  dicitur  ;  p.  188. 

. .  et  per  omnes  suos  de  sua  parte...  fecit  omnem  finem  in  manibus  dni  epìscopi;  p.  101. 

. .  adjnvabunt  inter  se ...  ab  omnibus  hominibus  qui  vellent  eos  ofendere  ;  p.  103. 

..  fatigando...  dnm  episcopum  damnificaverunt ;  p.  196. 

. .  jussit  Vozolo  viatori  ut  per  civitatem  cridet  illos  extra  bannum  ;  p.  198. 

. .  quidquid  feodi  habet ...  a  rio  (9)  sito  in  là  ;  p.  202. 

..  affidaverunt  per  fidem  et  manus  eorum,  et  lealiter  promiserunt;  p.  206. 

. .  et  omnes  aliae  blavae,  praeter  surgum ,  debent  extimari  ;  p.  207. 

. .  et  braidam  (10)  habere  debet  ;  p.  200. 


(1)  Il  costume  di  trattare  gli  affari  della 
commonilà,  e  di  render  ragione  sotto  un 
grande  albero  vicino  alta  Chiesa,  continuò 
per  secoli.  Di  quegli  alberi  se  ne  vede  an- 
cora qualcuno  nei  villaggi. 

(2)  Forse  per  asciticii  debbonsi  intendere 
contadini  non  vincolati  alla  gleba,  e  fatti  venir 
di  fuori;  come  pare  fossero  quelli  che  an- 
darono a  fondare  in  Folgaria  20  nuove  mas- 
serie. 

(3)  L'avverbio  lealiter  non  è  riportato  nò 
dal  Dt'CANOE  né  dal  Supplemento  del  Dikf- 
PENBAcn.  Il  Glossario  ha  il  solo  aggettivo: 
lealis;  e  Pesempio,  che  ne  dà,  è  dell' an- 
no 1331. 

(4)  Dura  ancora  a  Trento  il  nome  di  Con- 
trada o  Via  Oriola;  e  fu  detta  cosi  dagli 
orefici  che  vi  erano  frequenti.  Ma  questa 
eia  Oriola  è  in  sito  diverso  dalla  Porta  Au- 
riola del  documento.  —  Caligarius  nel  dia- 
letto odierno  suona  caliàr. 

(5)  Di  Podere y  nel  senso  di  possessione, 


il  DiTCANOK  riferisce  parecchi  eserapj. 

(6)  Questo  documento  (dell'anno  1209) 
è  importante,  perché  ci  mostra  come  la 
città  avesse  Sindaci  ed  un  Consiglio  generale 
e  come  si  reggesse  tuttavia  colle  forme  dei 
vicini  Communi  italiani. 

(7)  Il  vigneto  si  chiama  tuttora  nel  dia- 
letto trentino:  vignài. 

(8)  Batalla,  qui  non  è  più  nell'antico 
significato  di  duello,  ma  bensì  in  quello  di 
grossa  pugna. 

(9)  I  più  antichi  esempj  di  rio  per  rivo, 
citati  dal  Glossario,  appartengono  a  scritture 
e  carte  spagnuole. 

(10)  ^raf da  =  «  campus  vel  ager  subur- 
bauus  in  Gallia  cisalpina  ».  Così  il  Glossa- 
rio, Qualcuno  volle  derivare  il  vocabolo  dal 
germanico -Brtftfc,  Gebreite;  altri  da  Prce- 
diwni;  ma  forse,  come  gli  analoghi  raudus^ 
raitus ,  appartiene  all'idioma  antichissimo 
dell'alia  Italia. 


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1:50 


li,   MALFATTI 


[gIOBXALIÙ    di    KILOLdOIA 


. .  debent  in  eo  castro  esse  securi  in  avere  (1)  et  personis  eorum  ;  p.  235. 

. .  Actum  in  curia  interiori  ante  stupam  (2)  ;  p.  242. 

. .  quod  illud  edificium  non  noceat,  nec  Campanie  Avolani  nocere  debeat;  si  vero  alicui 

damnum  fieret  vel  incommodum;  p.  244. 
. .  precipiet  omnibus  ut  debeant  macinare  et  macinent  molendino  eive  molendinis  dni 

episcopi;  p.  244. 
. .  II II  congia  (3)  boni  vini  ;  p.  253. 
..  Item  gastaldio  debeat ...  racionem  eis  (hominibus  Rendenae)  et  inter  eoa  Tacere , 

duos  dica  prò  unaquaque  degania  (4)  ad  eorum  expensas  et  non  plus;  p.  256. 
. .  de  injuriis  et  maleficiis  a  XX  solidis  infra  conputatis  ;  p.  256. 
. .  de  asto  (5)  vulnerato . . .  bannum  accipiat  ;  p.  257. 
..  a  rivo  qui  vadit  zosum  ultra  castrum  et  castagnedum  (6);  p.  261. 
. .  et  de  tota  domu  eorum  murata;  p.  266. 

. .  sciunt  per  sumonimeutum  (7)  suorum  patrum  et  suorum  antecessorum  ;  p.  272. 
. .  in  Roca  de  Bocabruna,  et  in  villa  de  Nogaredo  jacente  a  pede  ipsius  Roce  ;  p.  273. 
. .  isti  omnes . . .  per  se  et  suos  vicinos  absentes  ;  p.  275. 
. .  Episcopus  teneatur . . .  alium  gastaldionem  cumpetentem  ibi  ponere  ;  p.  276. 
. .  faciendo  ipse  talem  securitatem  et  promissionem  ad  illud'  oastrum  salvandum  et 

manutenendum  ;  p.  276. 
. .  Versa  vice  dicti  Regenardus  et  Rambaldus . . .  investiverunt  eum  ;  p.  277. 


(1)  Avér^  ahérf  per  facoltà,  possessi,  si 
trova  frequentemente  nelle  antiche  carte  la- 
tine della  Linguadoca  e  della  Guascogna, 
come  nota  il  sig.  Luchaire  (  Origines  Un" 
guistiques  de  VAquitaine,  p.  45). 

(2)  Stupa  =  stufa;  forma  latinizzata  del 
tedesco  Stube;  nel  dialetto  trentino  stua. 

(3)  «  Congia,  inter  voces  latiao-barbaras 
quibus  Olossarìum  atigeri  potest  recenset 
Bern.  Maria  de  Rubeis  in  Monum.  Eccles, 
Aquilej.  cap.  74;  col.  747;  sed  nec  locum 
proferì,  nec  vocem  explicat  ».  (Ducanob- 
Hrnschel).  Non  è  improbabile,  che  il  de 
Rubeis  incontrasse  il  vocabolo  in  qualche 
carta  trentina  o  del  Veneto.  Congia ,  era 
ed  è  una  misura  di  vino  corrispondente  a 
quella  che  altrove  si  dice  brenta;  ossia  cir- 
ca 50  litri.  Nel  dialetto  trentino  si  dice  an- 
cora conzàl  tale  misura  di  vino,  non  meno 
che  il  recipiente  di  legno  che  serve  a  conte- 
nerlo, e  vien  portato  sul  dorso.  Deriva  evi- 
dentemente dal  congialis  e  congiarium,  che 
leggiamo  in  Plauto,  indicante  vaso  e  misura 
di  sei  sestieri.  A  Firenze  anticamente  si 
chiamava  Cogno  una  misura  di  vino,  che 
variò  secondo  i  tempi.  Il  recipiente,  che 
serve  a  misurare  la  congiale  trentina  e  la 
brenta  milanese,  ha  forma  conica.  Ma  no- 
tando questo,  non  intendiamo  di  dare  la  eti- 


mologia del  vocabolo. 

(4)  Da  questo  e  da  altri  passi  del  Codice 
risulta,  che  nella  Rendena  ed  in  altre  valli 
durava  ancora,  di  nome,  l'antico  comparti- 
mento longobardo  e  franco  per  decanie.  Di- 
ciamo dì  nome;  perché  dal  contesto  appa- 
risce, che  la  decania  nel  secolo  XII  doveva 
abbracciare  un  territorio  e  comprendere  una 
popolazione  abbastanza  ragguardevole;  tale 
da  corrispondere  piuttosto  alla  Centina  d'un 
tempo. 

(5)  A8to  animo y  oppur  anche  Asto  sol- 
tanto (  per  indicare  intenzione  maligna  o  do- 
losa) si  legge  di  frequente  nelle  leggi  e  carte 
longobarde.  Secondo  il  Glossario,  il  voca- 
bolo è  di  derivazione  latina,  da  Astus;  il 
Diez  propende  al  gotico  haifst-s, 

(6)  Castagnedum,  bosco  di  castagni;  come 
(più  sotto)  Nogaredum,  bosco  di  noci.  Ca- 
stagne e  Nogaredo,  oggidì,  sono  nomi  di 
paesi.  Notiamo  i  vocaboli  come  indizi  del 
dialetto  d'allora.  L'attenuarsi  della  dentale 
t  in  d  è  fenomeno  frequentissimo  nel  ver- 
nacolo trentino,  come  per  massima  in  tutti 
ì  veneti.  Si  osservi  pure  che  la  parola  ver- 
nacola per  indicare  il  noce  è  Nogàra, 

(7)  Nel  Glossario  non  si  trova  #w*noni- 
mentum,  bensì  submotiere;  onde  l'antico 
francese  semoner. 


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ROMANZA,  jf.*^  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  rUENTINO 


131 


..  de  cetero  sit  liber  et  absolutus  ab  omni  condicione ,  imposicione,  coUecta;  p.  279. 

. .  jacet  in  capite  rode  (1)  ad  fontaneas  juxta  rius  ;  p.  281. 

. .  ipse  vult  frankitare  (2)  predictum  hospitinm  ;  p.  281 . 

..  prÌTilegiura,  Consilio...  al iorum  discretorum  virorum  indulsimus;  p.  286. 

. .  Jura  quoque  decimarum  novalium  (3)  ibidem  colentium  ;  p.  286. 

..  libram  unam  incensi...  masarius  hospitalis  (4)  representare  nobis  tenetur;  p.  286. 

..  ut  sententiam  sinistre  (5)  partis  evitetis;  p.  287. 

. .  in  dosso,  quod  appellatur  Castellacium ,  in  pertinentia  Tremeni  jacente  ...  debeant 
levare  tres  belfredos,  et  dictum  dossura  spaldare  de  Ugnami  ne  (6);  p.  289. 

. .  debeat  dai-e  prò  velie  suo ...  de  brcddis  (7)  ad  belfredos  ;  p.  ^89. 

. .  dnus  episcopus  debet  illum  portenarium  confirmare,  et  de  ejus  terratorio  (sic)  ei 
dare  et  concedere  ut  bonum  servicium  valeat  lacere;  p.  290. 

.  .  debeat  dictam  ecclesiam  in  se  habere  et  tenere  cum  officio  et  beneficio ...  in  gau- 
dimento;  p.  291. 

. .  dieta  ecclesia  aperta  esse  debet...  sine  inquietacione  et  molestacione  alicujus  per- 
sone; p.  292. 

. .  reddendo  omni  anno  libram  unam  cere  prò  subjeccione  ;  p.  296. 

. .  Et  ita  dns  Lanfrancus . . .  adtendere  proraisit,  et  dedit  ei  verbum  intmndi  in  tenu- 
tam;  p.  296. 

. .  in  domo  Gandulfini  hosterii  ;  p.  297. 

. .  quod  ipse  debeat  in  eadem  ecclesia  facere  cantari  missam  unam  ;  p.  297. 

. .  prò  widhardono  (8)  servicii  hujus;  p.  306. 

. .  de  terra  Ala  exire  volebat ,  et  in  alio  loco  ire  ad  demorandum  ;  quod  multum 
displicebat  sibi;  p.  307. 

..  per  suam  habitanciam  tota  terra  est  melior  et  erit;  p.  307. 

..  regula  quae  fuerunt  data;  p.  310. 

. .  cum  viis  et  senteriis,  muris  et  serraturis  de  castro  Paddo;  p.  315. 

• .  debeant  semper...  fictum  et  amiseras  (9)  et  alia  omnia  servicia  facere;  p.  319. 


(1)  Sembra  che  róde  si  debba  prender 
qui  nel  senso  di  ruota;  e  non  in  altro  dei 
varj  «ij^nificati  addotti  dal  Glossario  alla  pa- 
rola Roda. 

(?)  FranAf7arff  =  affrancare,  è  ignoto  al 
DucANOE,  che  riferisce  in  vece  Francare, 
franquare. 

(3)  Cioè  le  decime  che  dovevano  dare  i 
Noùàli.  L*  origine  di  questa  parola  fu  in- 
dicata dianzi. 

(4)  Massàr,  nel  senso  di  amministratore  o 
custode,  è  parola  usata  tuttavia  nel  dialetto. 

■  Il  vocabolo  hospitale,  in  luogo  del  più  an- 
tico Xenodochion,  si  trova  nelle  carte  ita- 
liane prima  che  in  altre. 

(5)  La  forma  itsententia  sinistrae  par- 
tis »,  per  sentenza  contraria,  è  prettamente 
italiana,  come  ognnn  vede. 

(6)  I  belfredi  (  batti fredi)  erano  torri  ad 
uso  di  guerra.    Spaldare  non  è  riferito  dal 


DucANOE,  che  ha  bensì  Spaldum,  SpalUtiriy 
Spaldatus;  quest*  ultimo  tolto  dal  Chroni- 
con  del  Godi,  presso  il  Muratori. 

(7)  fìredda  non  si  legge  nel  Ducanoe;  il 
quale  ha  tuttavia  Prederia,  Bredda  po- 
trebbe significare  qui  anche  pietra  (nel  dia- 
letto trentino  préda)\  ma  è  più  probabile 
che  stia  in  luogo  di  Predtfria  =  macchina 
per  lanciar  pietre.  In  Rolandino  si  legge 
«  cum  belfredisj  prederiis  et  trabucchis  ». 
(Muratori,  Antiq.  It.  Diss.  XXVI). 

(8)  Widhardon  um  =  guiderdone,  dal  ger- 
manico widhar,  wider,  e  dal  latino  donunif 
è  voce  ibrida;  ma  d'uso  antico  in  Italia,  co- 
me il  mostrano  le  carte  casaurlensi. 

(9)  Che  specie  di  prestazione  o  di  servigio 
sia  indicato  dal  vocabolo  «  amiseras  »,  non 
abbiam  potuto  rilevarlo  né  dal  contesto,  né  dal 
(riossario,  né  dal  dialetto. 


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132 


B.  JI ALFA  ITI 


[giornalr  di  filologia 


. .  cum  eorum  peculio  quod  habent  vel  a  modo  in  antea  acquiatabnnt  (1)  ;  p.  323. 
. .  De  qua  confessione . . .  contenti  steterunt  et  in  accordo  (2)  fuerunt  ;  p.  326. 
..  turris  judicata  erat,  per  laudem  vassallorum,  ad  rejicendam  in  terrara;  p.  329. 
. .  dieta  turria  semper  debet  esse  aperta  dno  Episcopo...  prò  omnibus  suis  afare  (3) 

et  werris;  p.  330. 
. .  Cum  vidisset  destruccionem  burgi  Egnae . . .  dixit  se  velie  longare  dictum  bnrguai 

de  superiori  capite,  videlicet  a  domo  Janex  (4)  in  susum  ;  p.  334. 
. .  investivit  Arduinura ...  de  quatuor  passis  de  terra  per  testam  (5)  ;  p.  335. 
..  investivit  cum...  vaitis,  et  portenariis,  publegis  et  castellantia  pertinentibna  sd 

dictum  castrum  (6);  p.  350. 
,.  ratem,  que  per  Ateaim  ducebatur,  sua  nequicia  prepedivit,  dictam  ratem  ro- 

bando;  p.  357. 
. .  Henricus  vilìannarius  (7)  de  Bolzano . . .  fecit  finem  et  refutationem ...  de  duobas 

mansia;  p.  362. 
..  renunciando  legi...  et  epistole  divi   Adriani  et  nove  oonstitutioni...  promise- 

runt;  p.  364. 
..  revocavi  t  et  cassavi  t  investituram . . .  de  decimis  no  valium  a  rio  sicco  inferius, 

usque  ad  petram  Valaram;  p.  374. 
. .  vocavit  se  bene  solutum  esse  et  pacatum  (8)  de  IV  millibus  librarum  denariorum 

veronensium;  p.  379. 
. .  ad  utilitatem  Castel lancie  et  hominum  terrae  Yiguli  ;  p.  382. 
..  quod  dictum  castrum...  in  salvamento  custodire,  manutenere  et  salvare  debeant 

modis  omnibus;  p.  382. 


(1)  Il  DucANOE  ha  acqvistum,  ma  non 
acquistare. 

<2)  Accordatnentum  ed  Accordium  fu- 
rono usati  prima  di  Accordiim.  LVspm|)ìo  di 
quest'  ultimo,  citato  dal  Glossario^  è  del  1345. 

(3)  Affare t  sì  legge  in  carte  latine  det- 
tate in  Francia  nel  secolo  XIV. 

(4)  Parte  del  borgo  di  Egna  (che  i  tedeschi 
chiamano  Neumarkt)  andò  rovinata  ,  nel 
1222,  per  nna  inondazione  dell'Adige.  11 
nome  lavejc,  che  si  trova  anche  in  altre 
carte  di  quei  tempi,  è  di  tipo  ladino.  11  co- 
gnome Idnes  s'incontra  tuttavia  nel  contado 
di  Trento;  e  Idtiiè  nella  vai  di  Gardena. 

(r»)  Qui  il  ^i  per  testam  »=»a  testa  (trat- 
tandosi di  assegnar  Tarea  su  cui  costruire 
le  nuove  case  di  Kgna)  debbe  intendersi: 
quattro  passi  quadrati  per  ciascuna  persona 
componente  la  famiglia. 

(6)  Vàita  è  forma  ladina,  diremo  così, del 
germanico  wacte  (guardia,  scolla).  Far  la 
sgvdita ,  si  dice  tuttavia  n»^l  Trentino  p*»r: 
tener  d'occhio,  spiare.  Il  cognome  G  uà  ita 
t>  freqiiente  in  Lombardia.  —  Pi'blegìtm ,  se- 


condo il  Glossario,  significa  veciigal.  Ca- 
stellantia non  è  nel  Ducangr;  ma  deve  equi- 
valere press'a  poco  a  Castellania ,  e  signi- 
ficar quindi  i  diritti  congiunti  all' ufficio  di 
castellano,  ed  anche  il  territorio  di pendentf» 
dal  castello.  La  parola  Castellanza  non  s'usa 
più  nel  Trentino,  ma  dura  in  Lombardia. 
Così,  ad  esempio,  la  forma  officiale  per  in- 
dicare tutto  il  territorio  del  comune  di  Va- 
rese è  ancor  sempre  quella  di  :  Città  dì 
Varese,  e  sue  Castellari z e. 

(")  ViUanarius  non  si  trova  né  presso  il 
DucANOK,  né  presso  il  Dieffenba-ch.  Il  pri- 
mo ha  Ville naffium  per  glebae  addictio. 
Ma  il  contesto  non  permette  di  applicare  que- 
sto significato  al  caso  nostro;  anzi  ne  in- 
duce a  credere,  che  il  ViUanarius  fosse 
forma  latinizzante  j)er  Freibauer,  come  si 
disse  di  poi  in  Germania.  Difalti  la  carta  con- 
cerne un  possessore  della  parte  tedesca  del 
Ducato. 

(8)  Pacare  =  pagare;  dal  latino  pacare. 
Documenti  veneti  del  secolo  XIll  ne  recano 
qualche  esempio. 


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ROMANZA,  N.'*  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO 


133 


..  si  expensas  necessarias  fecerint...  in  copericndo  (1)  donium  episcopatiis ;  p.  383. 
. .  vice  loco  et  nomine  Dominorum ...  et  omnium  eorum  sequacium  et  coadjuto- 

rum;  p.  390. 
..  cum  uno  capicio  (2),  quem  in  suis  tenebat  manibus,  investivit;  p.  401. 
..  Alienacio ...  cassa  sit  et  vana,  et  nullius  valoria  et  momenti;  p.  415. 
..  Masculi  et  femine  de  cetero  non  debeant  se  maritare,  seu  nubere  in  personisde 

macinata  (3);  p.  415. 
. .  In  reffitorio  monasterii  Sancti  Laurencii  ;  p.  445. 

..  tantum  unum  manualem  (4)  concedimus  ad  procurandura  ejus  negocia;  p.  447. 
..  Inhibemus  eciam  omnibus  deferre  cui  teli  um  cum  puncta;  448. 
. .  per  voudum  (5)  et  per  plenum...  debent  ire;  p.  451. 
. .  contra  exactorea  colte,  dacie,  sive  aliorum  impositionum  ;  p.  456. 
..  ad  locationea  faciendas,  adhibitis  duodecim  juratis;  p.  457. 
. .  minella  (6)  prò  laboreriis  ;  p.  458. 

..  quod  faciebant  sclavae  (7),  veniendo  zosum  per  Athesim;  p.  458. 
. .  dfius  episcopus  est  in  possessione  ponendi  duas  collectas  annuatim  XX  aolidorura 

prò  quolibet  foco  (8);  p.  463. 
. .  collecta  super  fundis,  et  non  super  focis  ;  p.  463. 

..  duos  manaos  in  pertinenciia  Termeni,  cum  daciis,  coltis  et  biscoltis  (9);  p.  463. 
. .  de  XX  urnia  boni  vini  albi  puri  da  vasa  (iO)  et  bene  bulliti;  p.  468. 


(1)  «  In  coperiendo  domìim  »  ;  è  la  forma 
che  dura  nel  dialetto:  quérzer  la  casa;  far 
el  qiiert, 

(2)  CtfptcìMm  =  cavezzo,  cavezza,  non  si 
trova  nel  Glossario.  La  relazione  simbolica 
col  vassallatico  apparisce  chiara. 

(3)  Intorno  agli  Ifomirtes  de  Macinata 
8i  veda  il  Muratori  {Ant.  It.  IHss,  XIV); 
il  quale  giustamente  fa  distinzione  tra  gli 
homines  di  condizione  propriamente  servile, 
e  quelli  in  condizione  di  semplici  pertinenti. 
Nel  pa<}so  da  noi  riferito  si  allude  a  servi. 
Ma  quando  altrove  si  legge  homines  de  Ma- 
cinata S.  Vigila,  s*  ha  da  intendere  perti- 
nenti della  Casadeiy  chiamati,  ove  occorresse, 
a  prestar  anche  servigio  militare. 

(4)  Manualis  fu  usato  con  diversi  signi- 
ficati: di  confidente,  di  pertinente,  di  gior- 
naliere, e  di  garzone  operajo.  Qui  è  nel- 
r  ultimo  senso,  che  rimase  proprio  alla  pa- 
rola manoàl  del  dialetto. 

(5)  FbudM*  =  vuoto,  non  è  riferito  dal 
DucANGB.    Nel  dialetto  si  dice  vado, 

(6)  Minellus  «e  mensura  frunientaria  »  sta 
nel  Glossario;  ma  non  ha  che  fare  colla 
minella  prò  laboreriis ,  ch'era  un'imposi- 
zione da  pagarsi  dai  minatori.  A  Trento 
oggidì  si  dice  minéla  la  corba  in  cui  dai 


coloni  si  portano  le  frutte  in  regàlia  (re- 
galia) al  padrone.  Nel  vocabolo  v'hanno 
unite  dunque  più  idee,  svoltesi  successiva- 
mente: misura,  imposizione,  recipiente. 

(7)  Sclavae,  specie  di  zattere. 

(8)  Pro  quolibet  foco  =  per  ciascuna  fa- 
miglia. Oggidì  ancora,  nel  contado,  si  usa 
Vòg  (fuoco)  per  significare  famiglia,  ove 
si  parli  di  popolazione,  o  si  tratti  d'indicarne 
la  quantità. 

(9)  Bacio,  datio,  data,  datiunt,  vocaboli 
sinonimi  in  origine,  mutarono  col  tempo  signi- 
ficato; che  mentre  prima  esprimevano  dono  o 
prestazione  volontaria,  finirono  coU'indicare 
tributi  o  gabelle  di  varia  specie.  Colta,  se- 
condo il  DucANQE,  equivale  a  Collecta,  CoUa- 
tio,  ossia  imposizione  generale  sui  possessori 
non  privilegiati.  Biscolta  non  si  trova  nel 
Glossario;  la  composizione  del  vocabolo  fa- 
rebbe arguire  ad  una  seconda  Colletta,  oppu- 
re di  doppio  importare. 

(10)  In  una  carta  di  Berengario  I  deir897 
(Muratori,  Antiq.  It.  T.  II,  97)  si  legge 
«  Vrnas  et  tnutas  tei  ullas  collectas  ». 
Urna  era  misura  di  vino;  e,  sino  a  pochi 
anni  fa,  le  bevande,  nel  commercio  all'in- 
grosso, non  si  misuravano  nel  Trentino  che 
a  Orne  (circa  02  litri).    Muta  era  una  ga- 


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134 


B.  MALFATTI 


[cilORXALE   DI    FILOLOGIA 


. .  non  suffioeret  dare  omni  anno  dictas  XX  urnas  vini  ante  spinam  (1);  p.  468» 

. .  solvere  promisit  libras  V  casei  ad  stateram  vìcinalem  ;  p.  471. 

. .  excepta  terra  vidata  (2)  ;  p.  473. 

. .  excepta  pecia  una  de  terra  prativa,  que  jacet  a  pè  de  Pralongo,  possessa  per  jam 
dietimi  Petrura;  p.  474. 

. .  pecia  una  de  terra  prativa  divisa  in  octo  eortes  (3)  ;  p,  480. 

. .  starios  XII  de  biava  ad  mensuram  rasam  (4);  id  est  IV  siliginis,  IV  milii,  et  toti- 
dem  panitìi;  p.  484. 

. .  investivit  de  uno  broilo  (5)  de  terra  ad  oliva  plantanda  ;  p.  491. 

. .  a  jure  suo  decadant  et  terram  amniittant  ;  p.  498. 

. .  de  una  pecia  de  terra  hortativa  que  jacet  in  lo  broilo  de  Livo  ;  p.  504. 

. .  de  pecia  terre . . .  jacente  ad  inferiorem  isclam  (6) ,  quam  quondam  laborabat  Al- 
bertus; p.  505. 


bplla  da  pagarsi  per  certe  «lernxte,  o  in  certi 
siti.  II  vocabolo  s"  incontra  frequente  nel- 
le antiche  carte  trentine.  In  tedesco  suonò 
tnauth;  e  secondo  taluni  sarebbe  stata  la 
parola  germanica  che  diede  origine  alla  la- 
tina. Ma,  a  nostro  avviso,  il  vocabolo  non 
è  d'origine  latina  né  germanica,  ma  sì  piut- 
tosto retica.  E  prima  il  carattere  fonetico 
lo  raccosta  al  ladino  odierno.  Vuole  osser- 
varsi inoltre  che  muta  =  niautht  non  altro 
signitlcava  dapprincipio  che  una  specie  di  ga- 
bella sulle  imbarcazioni  del  sale.  Ora  è  noto 
che  gli  antichissimi  abitatori  della  Rezia  e 
del  Nerico  sapevano  trar  partito  delle  mi- 
niere di  sale,  e  facevano  traffico  di  tale  der- 
rata; anzi  tramandarono  ai  tedeschi,  venuti 
pili  tardi ,  i  nomi  de'  paesi  e  fiumi  dove  erano 
saline.  —  Vasa ,  per  vaso  o  recipiente,  il  Du- 
TANGE  lo  riporta  da  un  documento  arrago- 
nese.  Ma  a  Trento  anticamente  doveva  usarsi, 
come  8* usa  tuttodì,  per  significare  il  mosto 
contenuto  nella  botte.  Vìnum  purum  de 
vasa,  era  quanto  dire  vino  di  solo  mosto 
d'uva.  Il  dialetto  ha  proprie  anche  le  forme 
verbali  svasar,  stravasar,  attinenti  ad  ope- 
razioni di  cantina. 

(1)  Ante  spinam,  cioè  prima  di  spillar 
dalla  botte  il  vino  nuovo.  Nel  dialetto  tren- 
tino s'usa  dire  tuttavia  '.prima  della  spina; 
avanti  spinar.  Spina,  per  spillo  succhiello, 
lo  si  legge  nella  Destntctio  Monast.  Mori- 
mundensis ,  e  negli  Statuti  d'Asti.  Lo  usò 
anche  Aribone  di  Frisino  a  nella  Vita  di 
S.  Corhiniano;  e  probabilmente  lo  apprese 
nel  Trentino,  dove  la  Chiesa  frisingese  posse- 
deva dei  vigneti. 

(2)  Terra  ridata  =  terreno  messo  a  viti. 


(3)  Si  chiamano  tuttavia  Sórt,  Sórti,  le 
porzioni  di  pascolo  o  di  bosco  comunale,  che 
vengono  assegnate  d'anno  in  anno,  o  per  un 
tempo  determinalo,  a  ciascuna  famiglia. 

(4)  Rasa,  Rasus^  Rasum  sono  nomi  di 
misure  usate  nel  medio  evo.  Ma  nel  caso 
nostro  rasa  è  aggettivo,  usato  per  indicare . 
misura  giusta,  colma.  Difatti  misura  rasa 
si  usa  nel  dialetto,  nel  senso  da  noi  indicato; 
e  di  un  recipiente  empito  intieramente  si  dice, 
che  è  pien  ras. 

(5)  Il  vocabolo  Brolium  (  che  diventò 
Breuil  presso  i  francesi, e  presso  i  tedeschi 
Brùhl)  sembra  veramente  derivato  dal  greco 
peribólon.  Ai  tempi  di  San  Girolamo  doveva 
usarsi  in  Roma  questa  voce  greca  (Hieron.  tn 
Ezechiel.);  ma,  nel  secolo  X,  brolum  era 
diventata  parola  dell'uso  nell'Alta  Italia. 
(LuiTPRANDUS,  Antapodosis,  III,  14;  Leffa- 
tio,  37).  Forse  il  vocabolo  greco  si  lati- 
nizzò e  diventò  comune  ai  tempi  della  do- 
minazione bizantina.  Oggidì,  nel  Trentino, 
broilo  significa  frutteto.  —  Il  broilo,  di  cui 
parla  il  testo,  doveva  essere  messo  ad  ulivi. 
L'ulivo  si  coltiva  tuttora  nel  tenere  di  Arco, 
a  Riva,  e  al  sud  di  Ala.  Ma  la  sua  cultura  nel 
Trentino  doveva  essere  un  tempo  più  diffusa 
che  non  adesso.  Ancora  pochi  anni  fa,  po- 
tevano vedersi  avanzi  di  antichi  uliveti  a 
Gocciadoro  presso  Trento,  e  sulle  chine  apri- 
che vicino  a  Mezzolombardo.  Se  andarono 
scomparendo  in  questi  ultimi  luoghi,  non  fu 
colpa  del  clima,  ma  effetto  di  considerazioni 
economiche;  di  rendere  cioè  più  proficuo 
il  terreno  colle  colture  della  vite  e  del  gelso. 

(6)  Dice  il  Glossario  che  la  parola  Jsdu 
fu  comune  nell'Occitania  e  nella  Provcnia 


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ROMANZA,  5.-  2\       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TliEXTIXO 


l:r> 


. .  vini  colati  (1)  de  vasa  de  ipaìs  vineis,  ad  urnam  et  mensuram  canipe;  p.  r>(» 

. .  agnom  ?el  porketnm  unum  ;  p.  509. 

. .  Unnsqaisque  gastaldionum  annuatim  debet  ei  (episcopo)  centum  brachia  (2)  linei 
panni;  p.  510. 

• .  quisquis  gastaldio  debet  ei  saumarium  unum  cum  omnibus  necessariis  preter  fre- 
num,  et  II  bulcias,  et  II  modios  farine  frumenti  bu^etate  et  sacoura  unum,  et 
manaulam  unam,  pemam  unam,  et  ferra  centum  equis  (3)  ;  p.  510. 

Di  rendere  ancor  più  copiosa  questa  messe  di  voci  e  di  locuzioni, 
ci  sarebbe  stato  facile;  ma  ce  ne  astenemmo,  pensando  che  la  quantità 
esibita  avrebbe  potuto  pur  bastare  alla  dimostrazione  che  ci  eravamo 
proposta.  Tuttavia  per  assodar  meglio  la  cosa,  ne  si  conceda  una  breve 
aggiunta  intorno  ai  nomi  di  paesi  e  di  persona.  La  toponomastica  che 
ci  porge  il  Codice,  non  diflferisce  punto  (salvo  la  desinenza  latina)  dalla 
odierna;  come  può  mostrarlo  il  seguente  elenco,  formato  di  nomi  presi 
nelle  varie  valli  di  cui  si  compone  il  Trentino: 

Ala,  Àlbianum,  Arous,  Bacolinum,  Banale,  Basilica  (^a5f7^a),  castrum  Belve- 
dere, Besinum,  Bolegnanum,  Bi*ancaforum ,  Busintinum,  Cagno,  Calianum,  Cavaleee, 
castra m  Corno,  Civizanum,  Cleis,  Duronis  mons,  Egnia,  Fiemmis  (Fiefnme)y  Fulgaride, 
Fundum,  Ivanum,  Levicum,  Livum,  Litiana,  Lodronum,  Madernum,  Madrutium, 
Maletum,  Maluscum,  Materellum,  M«zana,  Moclassicum,  Murium,  Nacum,  Numium 
{Nomi),  Padernum,  Pagum  (Povo)y  Petrasanum  (Pederzano) ^  Perzines  (Pergtne), 
Pinedum,  Pomarolum,  Penale  portus,  Randena,  Ripa  ,  Romenura,  Sarca  flunien,  Sar- 
dauea,  Sejanum,  Stenecura,  Summoclivus,  Telve,  Tertiolasum,  Trilagus,  Tonalo 
mons,  Turbulis,  Vigni us,  Villazianum,  V arena,  Vallis  Leudri,  Ysera  (4). 


per  significare  alluvione;  adducendone  un 
esempio  dell' anno  1063,  tratto  dal  Cartula- 
rio di  S.  Vittore  di  Marsiglia.  Nel  Tren- 
tino si  dicono  tuttavia  Iscia  i  terreni  di 
formazione  fluviale,  coperti  di  salici  o  di  ve- 
getazione palustre;  e  il  significato,  o  Tuso, 
del  vocabolo  e  più  giusto  qui  ;  perché  Iscia 
deriva  indubbiamente  da  Lisca  «  scirpus, 
papìrus  ».  DiBZ ,  Etim .  Woerterb. 

(1)  Colare,  verbo,  non  s'incontra  nel  la- 
tino letterario;  il  quale  però  conosce  il  so- 
stantivo colatura.  Il  verbo  s'usa  tuttodì  nel 
Trentino. 

(2)  Brackium,  come  misura,  venne  nel 
latino  rustico  a  prendere  il  luogo  di  cubi- 
tilt.  Lo  si  legge  in  una  carta  dell' Impe- 
ratore Enrico  IV  del  1080,  e  in  parecchie 
carte  italiane  del  sec.  XII. 

(3)  Bu^ta  =  bisaccia.  Farina  bugetata 
(hugetatut. non  è  nel  Glossario)  forse  signi- 
fica abburattata.    Anche   manaula  non   si 


trova  nel  Glossario.  Che  fosse  per  avven- 
tura la  fune,  con  cui  guidare  a  mano  il  so- 
miere? Perna  è  una  specie  di  lenzuolo,  o 
pannolino  da  metter  forse  sul  dorso  alla  ca- 
valcatura. 

(4)  La  toponomastica  della  Rezia  servì 
d^argomento  ad  alcuni  per  sostenere  che  gli 
abitatori  antichissimi  fossero  etruschi  ;  ad  altri 
invece  per  dirli  celli.  Senza  entrar  nella 
questione,  noteremo  soltanto  che  a  qual- 
che nome  di  paese  del  Trentino  (Pergine, 
Vessano)  si  può  trovare  riscontro  nella  To* 
scana;  mentre  altri  nomi ,  quali  Cleis  (Cles), 
Clauz  (Clóz),  Faid,  Graum  portano  im- 
pronta ladina  ;  ed  altri  un  tipo  retioo  ancora 
più  antico,  come  ad  esempio  :  Randena,  Leu' 
drum  (Ledro),  Ausugum  (Val  Sugana), 
Telve,  Una  terra  di  nome  Telves,  esisteva, 
nel  secolo  IX,  nella  parte  del  ducato  ormai 
germanizzata  dai  Bavari. 


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1.% 


B,  MALFATTI 


[UIOKN'ALE    DI    FILOLOGIA 


Non  meno  dei  nomi  di  paese  hanno  impronta  italica  i  nomi  di  per- 
sona o  casato  (1):  che  sin  d'allora  era  frequente  nel  Trentino  Fuso  di 
cognomi.  Giudichi  il  lettore  dalle  serie  seguenti:  la  prima  delle  quali 
dà  nomi  di  persone  di  vario  stato  e  professione:  la  seconda  cognomi  di 
famiglie  popolane,  la  terza  di  casati  che  erano  allora  tra  i  più  potenti 
ed  autorevoli  del  paese: 


1.  Adam,  beccarìus;  \ 

Adrianusy  magister; 

Barisellus,  notarius; 

Bellina,  uxor  Venturae; 

Bonavida,  preabjter; 

Bonazucca,  judex; 

Bonfadus,  doctor  Icguni  j 

Bonodomanus,  apothica- 
rìus; 

Bonomua,  magister; 

Bonza  niaus,  medicus; 

Brazebellus,  notarius; 

Brunellus,  famulus; 

Calapinus,  judex; 

Francobalbua,  portenarius  ; 
^   Lanfrancus,  notarius; 

Mallagoradius  (2) ,  muli- 
narius  ; 

Manfredinus,  caliarius; 

Omne bonus,  clericus; 

Ottolinus,  scholaris; 

Petarinus,  syndicus  Trid.; 

Tinaccius,  praeco  curiae  ; 

Zanebello  canonicus; 

Ziliolus,  camerarius; 

Zuliana,  uxor  Coucii; 


Petrus  Battaja; 
Ubertinus  Belleboni; 
Rabaldus  Bertoldini; 
Jacobinus  Biancemane  ; 
Johannes  Bocconelli; 
Bonaventura  Calcagninus  ; 
Martinus  Cane; 
Johannes  Catelli; 
Beraldus  de  Caudalonga; 
Ambrosius  de  Codeferro  ; 
HenricuB  Crassi; 
Albertus  de  Fabris; 
Vivianus  Fotisoceram; 
Albertus  Mitifogo; 
Bontempus  de  Panago; 
Ottobonus  Paparellus; 
Albericus  Pastora; 
Rico  Pauletus; 
Odolricus  Ram baldi; 
Milo  Robatasche; 
Laetitia  Saviola; 
Trintinus  Sporelli; 
Euricus  Uberti; 
Ripraudinus  Zanoliui  ; 


Rambaldinus  de  Arco; 
Ottobonus  de  Eellastila; 
Pelegrinus  de  Besèuo; 
Manelinus  de  B  urgono  vo; 
Cagnoutus  de  Campo; 
Brian  US  de  Castrobarco; 
Bursa  de  Castronoyo; 
Benvenuta  de  Fabriano  ; 
Marsilius  de  Fornace; 
Galapinus  de  Lodrone; 
Odalricus  de  la  Lupa; 
Bonainsigna  de  Madruz- 

zo; 
Adelaita  de  Menzano,- 
Outo  de  Montalbano; 
Matelda  de  Mori; 
Yvanus  de  Porta; 
Gandulfinus  de  Portella; 
Ricabona  de  Pozo; 
Maria  de  Pratalia; 
Pegorarius  de  Roccabru- 

na; 
Albertinus  Salvalanza; 
Graziolus  de  Storo; 
Turisendus  de  Toblino; 
Brunatus  de  Tonno. 


Che  nella  cernita  di  questi  nomi,  come  prima  in  quella  delle  locu- 
zioni, si  sia  adoperato  qualche  artifizio,  speriamo  che  il  lettore  non  vorrà 
neppur  sospettarlo.  Si  faccia  pure  a  scorrere  tutto  quanto  il  Codice  Van- 
ghiano,  anzi  lo  esamini  minutamente;  e  verrà  a  conchiudere  con  noi, 
ne  siam  certi,  che  nel  paese  dove  si  dettarono  quelle  carte,  doveva 
essere  prevalente  la  popolazione  italiana,  anzi  prevalente  in  tutti  i  mo- 
di. Questo  stato  di  cose  ebbe  a  durare  anche  nella  seconda  metà  del 
secolo  XIII.    Le  storie  ci  mostrano  come  Trento  ed  il  ducato  fossero  allora 


(1)  Vogliam  dire,  cioè,  che  di  forma  e  de- 
sinenza somigliano  a  quelli  usati  nelle  altre 
parti  d'Italia,  anche  quando  fossero  per  sé 


stessi  d'origine  forestiera. 

(2)  Possiara  credere  che  nel  volgare  suo- 
nasse: Malati  gì  iràdo. 


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ROMANZA,  N/>  2]       GLI  IDIOMI  PAliLATI  NEL  THENTIKO  1;)7 

in  frequenti  e  strette  relazioni  con  le  vicine  città  italiane.  Prima  Ez- 
zelino da  Romano,  poi  i  Padovani  ebbero,  pib  o  meno  direttamente,  ad 
esercitare  signoria  nel  Trentino  ;  e  Verona  e  Vicenza  strinsero  leghe  con 
esso.  Solo  dopoché  vennero  a  dominare  sul  Tirolo  i  Conti  della  casa 
di  Gorizia,  le  condizioni  mutarono  alquanto.  Prevalendosi  dei  diritti, 
o  delle  prerogative,  che  dava  loro  TAvvocazia  della  Chiesa  di  Trento, 
quei  signori  cercarono  d'indebolire  per  ogni  verso  T autorità  politica  dei 
vescovi,  riducendola  difatti  ad  essere  poco  più  di  un'ombra.  Ma  se  il 
paese  veniva  così  a  dipendere  dai  vicini  conti  molto  più  che  in  passato; 
e  se  naturale  conseguenza  di  tale  soggezione  era  un  nuovo  infiltrarsi  di 
elementi  tedeschi  nella  città  e  nel  territorio,  non  si  creda  però  che 
andassero  rotte  le  relazioni  del  Trentino  colle  città  vicine  della  Lom- 
bardia 0  della  Venezia,  o  che  esso  fosse  ridotto  a  condizione  di  provincia 
tirolese.  Nel  secolo  XIV  e  nel  XV  ancora  la.  sua  storia  s'intreccia  di 
spesso  con  quella  dei  signori  della  Scala  e  dei  Carraresi,  dei  Visconti 
e  di  Venezia:  e,  quanto  a  franchigie,  Trento  non  aveva  fatto  gran  per- 
dita; anche  perché  ai  Conti  tirolesi  importava  di  blandire  i  cittadini,  e 
trovar  seguito  tra  di  essi  nei  loro  disegni  contro  i  Vescovi.  Cosi  il  po- 
polo trentino  veniva  in  certo  modo  a  bilanciare  colla  larghezza  dei  suoi 
ordinamenti  civili  la  dipendenza  dai  signori  tedeschi.  E  quegli  ordinamenti 
erano  veramente  mezzo  efficace  per  mantenere  e  svolgere  la  lingua  e 
lo  tradizioni  nazionali.  S'aggiunga  che  la  diocesi  trentina  faceva  parte 
della  provincia  ecclesiastica  di  Aquileja;  si  guardi  infine  alla  storia  o 
allo  sviluppo  degli  idiomi  italiani  sul  finire  del  secolo  XIII,  ed  al  pre- 
stigio e  alla  prevalenza  che  si  procacciò  la  cultura  italiana  nei  tempi 
successivi;  e  avremo  altrettante  e  buone  ragioni  con  cui  spiegarci  come 
la  favella  tedesca  non  sapesse  nel  Trentino  prendere  il  di  sopra,  neppur 
allora  che  le  circostanze  sarebbero  state  le  più  opportune  ad  ajutame 
la  diffusione. 

Ma  il  signor  Schneller  non  la  pensa  così.  Secondo  lui ,  nella  valle 
trentina  dell'Adige,  e  nelle  valli  e  sui  monti  ad  oriente  di  questa, 
l'elemento  tedesco  (correndo  il  medio  evo)  fu  dapprima  il  dominante; 
poscia  venne  a  parità  coli' italiano;  infine  fu  sopraffatto  da  quest'ultimo 
ed  oppresso  (1).  Si  potrebbe  domandare  al  signor  Schneller  quali  sieno 
i  momenti  o  le  epoche  che  segnano  il  termine  od  il  cominciare  dì  que- 
sti tre  periodi;  non  avendole  egli  punto  indicate,  né  potendosi  ricavare 


(l)  Mittheilungen  (23  Band,  X  Heft);  Deutschen  Nationalkòrper  in  ununterbro- 
p.  372  «...die  Thatsacheu  berechtigen  zum  chenem  Zusammenhange  stehende  Deutsche 
jrewiss  nicht  gewagten  Ausspruche,  dass  ira  Element  ira  Mittf'laUer  Anfaugs  das  herr- 
Elach-Thal  und  in  den  ostlich  davon  gele-  schende,  spater  das  gleichberechtigte»  en- 
genen  Oebirgen  und  Thalern  das  rait  deoa     diich  das  unterdrttckte  gewescn  ist.  » 

9* 


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loJ^  Ji.  MALFATTI  [giuicxalk  di  filologia 

altrimenti  dalla  sua  Memoria.  Ma  gli  rimetteremo  volentieri  la  risposta; 
sembrando  a  noi ,  che  da  solo  amor  di  sistema  potesse  essergli  suggerito 
quella  partiziore,  non,  come  dice,  da  attenta  considerazione  dei  fatti.  I 
quali,  nonché  venire  in  appoggio,  contradicono  sifi'attamente  a  quel  suo 
schema,  da  rovesciarlo,  o  capovolgerlo  sino  a  un  certo  punto. 

Delle  relazioni  che  corsero  tra  l'elemento  germanico  ed  il  latino 
sino  al  secolo  XIII,  abbiam  discorso  prima.  Vediamo  ora  con  quali 
argomenti  il  signor  Schneller  prenda  a  confortare  la  pretesa  superiorità, 
od  anche  solo  la  parità  dell'  elemento  tedesco  nei  due  secoli  susseguenti. 
E  prima  ci  fermeremo  su  d'un  fatto,  che  il  signor  Schneller  tocca  ap- 
pena alla  sfuggita,  ma  a  torto  secondo  noi;  perché  se  il  fatto  sussistesse 
propriamente,  ne  verrebbe  la  più  valida  conferma  a' suoi  asserti.  Vo- 
gliamo dire  dello  Statuto  di  Trento,  che  sarebbe  stato  a  bella  prima 
dettato  in  lingua  tedesca.  Il  signor  Schneller  assevera  che  fii  cosi; 
onde  conclude  che  il  maggior  numero  dei  Trentini,  nel  secolo  XIII  e 
nel  XIV  ancora,  dovevano  parlare  tedesco.  S'avverta  tuttavia  che  il 
professore  tirolese,  in  dir  questo,  lunge  dal  darne  una  opinione  od  una 
scoperta  sua  propria,  altro  non  fa  che  ripetere  le  affermazioni  del  signor 
professore  Tomaschek  di  Vienna;  il  quale,  diciassette  anni  or  sono,  ebbe  a 
pubblicare  per  la  prima  volta  quello  Statuto  néìV  Archivio  per  la  Storia 
Austriaca^  accompagnandolo  di  un  Commentario  (1).  Talché  prendendo 
noi  a  provare  quanto  poco  regga  la  pretesa  priorità  del  testo  tedesco  sui 
testi  in  altra  lingua,  piuttosto  che  al  signor  Schneller  ci  volgeremo  al  si- 
gnor Tomaschek;  il  quale  mostra,  nel  suo  Commentario,  di  non  essere  sce- 
vro neppur  lui  di  quelle  preoccupazioni  e  prevenzioni  politiche,  di  cui 
abbiamo  fatto  cenno  sul  cominciare  di  queste  pagine. 

Ed  ora  veniamo  al  fatto.  Fra  i  manoscritti  che  dall'Archivio  vesco- 
vile di  Trento  passarono  all'Archivio  imperiale  di  Stato,  v'ha  un  codice 
cartaceo,  in  ottavo  piccolo,  che  porta  scritto  sulla  coperta:  <  Statutum 
Trìdentinum  ab  epa  Nicolao  publicatum  ab  omnibus  et  ubique  observan- 
dum  ».  Il  testo  stesso  però  è  in  cattiva  lingua  tedesca;  e  distinto  in  due 
parti:  dei  vecchi  e  dei  nuovi  statuti.  Fu  terminato  di  scrivere  il  27 
Marzo  1303  da  un  <  Heinrich  Laìigenbach  famulus  des  Heinrich  Stang 
capitaneus  Castri  novi  (2)  ».    Non  mancò  di  farne  menzione  il  padre  Bo- 


(\)  Die  aeltesten  Statuten  der  Stadt  und  germanizzato    in   quella    forma.     Sappiamo 

des  Bisthums  Trient,    {Archivi  f.   Kunde  invece   che,   nella   seconda   metà   del    8eco- 

oesterreich.   Geschichtsquelleìi ,   herausge-  lo  XIV,  fioriva  ancora  T antica  famiglia  di 

gebeu  von  der  k.  Akad. der  Wissenschaften;  Castro  novo;  e  che  tra  il  1360  o  il  1370  un 

T.  XXVI,  p.  67-228,  Vienna,  1861).  Corrado  di  Castelnuovo  s'era  reso  reo  di  ri- 

(2)  Il  signor  Tomaschek  dice,  che  il  Hein-  bellione.  {Xlberti^  Annali  del principa" 
rich  Stang  era  della  famiglia  dei  Signori  di  to,  p.  254.)  Forse  che  il  Castello  in  Val 
Stenico;  ma  noi  ne  dubitiamo;  non  avendo  Lagarina  fosse  stato  occcupato,  in  queir  oc- 
mai   visto   che   il   nome  di   Stenico    venisse  casionp,  per  ordine  del  Conte  del  Tirolo?  « 


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ROMANZA,  N."  2]       GLI  IDIOMI  TARLATI  NEL  TBENTIXO  1C9 

nelli  nelle  sue  Memorie  (1):  e  lo  conobbe  anche  T  erudito  barone  Qian- 
giacomo  Gresseri,  il  quale  nelle  Ricerche  storiche  sul  Magistrato  coti  solare 
di  Trento <f  scrisse  <  ch'era  un'assai  rozza  traduzione  in  lingua  tedesca 
di  due  statuti  (2)  ».  Quel  dotto  ed  amoroso  ricercatore  di  memorie  pa- 
trie che  fu  Tommaso  Gar,  ebbe  egli  pure  ad  asserire,  ventanni  or  sono, 
che  lo  statuto  trascritto  dal  Langenbach  era  un  volgarizzamento  (3). 
Però  né  il  Gar,  né  il  Cresseri  esposero  le  ragioni  del  loro  avviso  ;  forse 
perché  l'evidenza  della  cosa  pareva  loro  tale,  da  non  bisognarle  soste- 
gno di  argomenti  o  ragionamenti.  Certo  non  immaginavano,  che  qual- 
cuno sarebbe  venuto  in  seguito  ad  asserire,  essere  stato  lo  statuto  tren- 
tino dettato  alla  bella  prima  in  lingua  tedesca. 

Per  sostener  questo  il  signor  Tomaschek  si  fonda  su  d'un  documento, 
ove  è  detto  che  il  vescovo  Enrico  II,  nel  1275  e  sonata  campana  ìmlatii 
ad  arengam  puhlicam  »,  ricevette  dai  magistrati  e  dal  popolo  giuramento 
di  fedeltà:  facendo  leggere  a  tal  uopo  il  capitolo  o  la  consueta  formula 
«  lUteraliter  et  vtilgariter  »  :  minacciato  l' estremo  sXipplizio  a  chi  si  fosse 
reso  colpevole  di  fellonia  «  ex  mmc  Leg,  Mimicijp,  et  Statuto  Civitatis  (4)  ». 
Dunque,  argomenta  il  signor  Tomaschek,  prima  del  1275  esisteva  uno  Sta- 
tuto, ed  esistevano  prescrizioni  circa  al  giuramento  da  darsi  al  vescovo.  Ma 
tra  i  vecchi  Statuti  del  Codice  tedesco  v'ha  un  capitolo  concernente  questa 
materia:  dunque  essi  Statuti  dovevano  esistere  prima  del  vescovo  Enrico. 
Nel  documento  è  detto  inoltre  che  la  formula  fu  letta  «  litteraliter  et  vul- 
gaì-Uer  »  ;  ora  per  vulgariter  non  si  ha  ad  intendere  altro  che  lingua  te- 
desca, essendo  tale  l'idioma  in  cui  è  giunto  a  noi  il  più  antico  testo  dello 
Statuto  (5). 

Non  ci  fermeremo  a  rilevare  i  vizj  logici  di  questo  ragionamento, 
in  cui  si  dà  per  dimostrato  quello  ch'era  da  provarsi:  vale  a  dire  l'asso- 
luta identità  degli  Antichi  Statuti  del  codice  tedesco  colle  Legihus  Mu- 
nicipii  et  Statuto  Civitatis:  ed  al  vocabolo  vulgariter  si  attribuisce  un  senso 
forzato  per  lo  manco.  Che  il  Comune  ed  il  Ducato  possedessero  per 
tempo  ordinamenti  e  leggi  particolari,  non  lo  neghiamo:  anzi  non  lo  po- 
niamo neppure  in  dubbio.    Sappiamo  che  nel  1182  era  stata  discipli- 


che  queir  Heinrich  Slang  non  fosse  altri  che  (l)  Bonelli,  Monum.  Ecrl,  Trid.  p.  101. 
r Enrico  capitano  generale  del  Conte,  che  è  (2)  II  dotto  lavoro  del  Barone  Cressrri, 
nominato  più  volte  in  quegli  anni  dai  docu-  sì  legge  nella  Bibìinteca  Trentina^  pubbli- 
menti  trentini?  (Alberti,  Op.  cit.  p.  248).  cala  da  Tommaso  Gar;  Disp.  2,  Trento,  1858, 
Esponiamo  qui   una  semplice  conghiettura,  pag.  45. 

non   avendo  alla  mano  i  materiali  con  cui  (3)  Statuti  di  Trento  {Biblioteca  Tren- 

chiarire  la  cosa.    Aggiungeremo  ancora, che  tina)^  p.  XXI. 

il /a»iu7M*  Langenbach  non  fu  che  trascrit-  (4)  Bonelli,  Monitm.  Krrl.  Trid.  p.<M]. 

tore  degli  Statuii,  come  apparisce  da  un'av-  (5)  Tomaschkk,   Die  ad'csten  Statìtten 

vertenza  che  aggiunse  al  cap.  55  della  prima  etc,  p.  1^)4. 
parie. 


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140  B.  MALFATTI  [giurxalk  m  filol<;gu 

nata  la  tnateria  intorno  ai  bandi  (1);  che  circa  quello  stesso  tempo  erano 
state  date  prescrizioni  intomo  all'  imposta  sui  fabbricati  (2)  :  che,  risedendo 
podestà  a  Trento  Sodegerio  di  Tito,  nel  1240,  erano  stati  stabiliti  dei  dazj 
per  la  esportazione  del  ferro  (3)  ;  e  che  prima  del  secolo  XIV  furono  pro- 
mulgate leggi  contro  Tuso  del  portar  armi  nel  contado  (4).  Altre  pre- 
scrizioni si  saranno  pubblicate  di  mano  in  mano  su  materie  di  polizia  e  di 
amministrazione;  e  con  un  particolare  Statuto  si  sarà  provveduto,  pro- 
babilmente, al  modo  di  eleggere  i  maestrati  municipali,  ed  ai  rapporti 
della  cittadinanza  col  Principe;  né  forse  ci  apporremo  al  falso  arguendo, 
che  il  giuramento  al  principe  venisse  prescritto  ai  tempi  di  Federigo 
Vanga,  (1207-1218)  zelante  rivendicatore  dei  diritti  vescovili.  Ma  che 
già  in  quegli  anni,  o  poco  appresso,  si  fosse  compilato  un  Corpo  sta- 
tutario, ci  sa  cosa  molto  improbabile,  e  per  due  ragioni;  la  prima  quella 
che  anche  nelle  altre  città  dell'Alta  Italia  si  tardò  fin  quasi  alla  metà 
del  secolo  a  riunire  ordinatamente  le  antiche  leggi  e  prescrizioni  (a  Ve- 
nezia per  esempio  non  vi  si  attese  che  nel  1242);  la  seconda,  che  lo 
Statuto  di  Trento  ( nell'ultima  sua  compilazionedel  1528)  ricordando  quei 
principi  passati  che  dettero  mano  a  raccogliere  ed  emanare  statuti  (5), 
nomina  come  il  più  antico  il  vescovo  Bartolomeo  Quirini  ;  il  quale  venne 
Alla  cattedra  di  San  Vigilio  nel  1304.  Possibile,  chiedi am  noi,  che  i  Con- 
soli di  Trento,  compilatori  dello  Statuto,  e  che  Bernardo  Clesio,  uomo  di 
acuto  ingegno,  e  raccoglitore  solerte  e  studioso  di  antichi  documenti,  non 
avessero  contezza  del  Corpo  Statutario  del  secolo  XIII,  se  fosse  esistito 
realmente? 

A  nostro  avviso  dunque  la  collezione  più  antica  degli  Statuti  trentini 
non  risale  oltre  all'anno  1307,  come  indica  appunto  il  decreto  di  pro- 
mulgazione del  vescovo  Bartolomeo  (6)  ;  il  quale,  dopo  aver  unite  insieme 
le  antiche  prescrizioni,  le  faceva  seguire  da  alcune  altre,  col  titolo  di  Nuoti 
Statuti,  Ma  non  insisteremo  davvantaggio  su  questa  parte  del  soggetto. 
Quello  che  importa  a  noi  di  porre  in  sodo,  è  l'idioma  nel  quale  poterono 
essere  dettate  tanto  le  antiche  leggi  municipali,  a  cui  si  richiamava  il  ve- 
scovo Enrico  II,  quanto  la  Collezione  Quiriniana  del  1307. 

11  documento  del  1275  dice  che  la  formula  del  giuramento  fti  letta 
«  litteraliter  et  vulgariter  ».  Ora  che  cosa  significa  il  lUteràliter  contrap- 
posto al  mdgariter?    La  spiegazione  più  ovvia  è  quella,  che  la  formula 


(1)  Codex  Wangianus ,  N.»  15,  77.  tutte  le  redazioni   latine.    Non  sì   potrebbe 

{2)  Codex  Wangianus ,  N.»  4,  35,  149.  indurne,  che  lo  Statuto  tedesco  fosse  com- 

(3)  UoRìiWR ,  Geschichte  TiroVs,  1,2.—  pilato  per  uso  particolare  di  castella  o  paesi 
Alberti  Francesco  Felice  (Princ.  Vesc.  del  contado? 

di  Trento),  Annali  del  Principato,  pubblic.  (5)  Statuto  di  Trento  (Lib.  I,  de  Cinli- 

da  T.  Oar,  Trento,  1860,  pag.  115.  bus),  p.  7. 

(4)  Queste  prescrizioni,  conservateci  dai  (6)  Keiccn  Statiti,  cap.  I. 
Vecchi    Statuti    (cap.    142),    mancano    in 


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■OMAXZA,  X."  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  ^EL  TliENTiyO  141 

venisse  letta  dapprima  secondo  il  testo  originale,  ossia  nella  lingua  in 
cui  era  stata  dettata;  e  poi  tradotta  nel!' idioma  comune.  Cosi  difatti  si 
costumava  in  casi  simili.  In  due  lingue  adunque  fu  letta.  Or  quale  poteva 
essere  la  lingua  dell'originale?  Non  altra  che  la  latina,  rispondiamo 
noi;  e  cosi  crediamo  che  sarà  per  rispondere  il  più  dei  lettori.  Gli  scrit- 
tori di  quei  tempi,  allorché  fanno  distinzione  fra  literaliter  e  vulgariter^ 
non  altro  intendono  dire  col  primo  avverbio,  che  lingua  latina  (1).  Ed 
in  qual  altra,  se  non  in  questa,  si  sarebbero  dettate,  nel  secolo  XIII 
ancora,  le  scritture  pubbliche  o  d'oflScio?  (2).  Quanto  al  vulgariter  sap- 
piam  bene,  che  tale  vocabolo  fu  usato  per  indicare  in  genere  T idioma  vivo 
del  popolo;  ma  che  nel  nostro  caso  volesse  dire  tedesco,  il  signor  To- 
maschek  ci  permetterà  di  non  crederlo,  dopo  quanto  ebbimo  a  dire  sulla 
glottologia  delle  carte  trentine  nel  XII  e  nel  XIII  secolo.  S'aggiunga 
che  Trento,  negli  anni  preceduti  a  quelli  del  vescovo  Enrico,  era  stata 
in  relazioni  strettissime  colle  città  italiane  vicine;  si  noti  infine  che  delle 
persone  ricordate  dal  documento  una  sola  ha  nome  straniero,  «  Erardus 
de  Tinginstain,  capitaneus  »,  ossia  comandante  delle  milizie.  I  due  sin- 
daci della  città  sono  «  dns  Riprandus  de  diio.  Gonselmo,  et  Gerardus 
Cappelletti  »;  i  giudici  della  corte  «  Federicus  et  Vielmus  de  Castro- 
barco,  Nicolaus  Spagnoli,  et  Maximianus  »;  i  testimoni  rogati  «  Apro- 
vinus,  Gerardus  et  Nicolaus  de  Castro  novo,  Pelegrinus  de  S.  Benedicto, 
Vielmus  Belenzano,  Gabriel  de  Porta  »:  tutti  nomi  che  non  hanno  nulla 
di  tedesco. 

Né  certo  in  altra  lingua,  fuorché  nella  latina,  fu  dettato  il  Corpo 
Statutario  sotto  il  vescovo  Bartolomeo.  Il  quale  nativo  di  Venezia,  e  stato 
vescovo  di  Novara  prima  di  venire  assunto  alla  sede  di  Trento,  ignorava 
intieramente  il  tedesco;  talché  (lo  racconta  anche  il  signor  Schneller)  (3) 
essendo  venuti  da  lui  degli  «  homines  teutonici  »  a  trattare  di  loro  ne- 
gozj,  fu  mestieri  di  ricorrere  ad  un  interprete.  Chi  vorrà  supporre  che 
il  principe  fosse  per  pubblicar  leggi  in  una  lingua  a  lui  sconosciuta? 
E  chi  teneva  allora  grado  di  Vicecomite,  ossia  di  supremo  officiale  nel 
ducato?    Un  Andrea  Quirino,  consanguineo  del  vescovo  (4).    Quali  i  vi- 


(1)  Ducange;  Glossar  inm  f  ad  voc.  Li-  iìi  Strasburgo,  e  quelli  di  Luhecca  circa  il  1240; 
Uràliter,  Vulgariter.  «  Nullìcs  clericus  ad  (Stobbb,  Gesch.  der  deutschen  Rechtsqvel- 
sacros  ordines  promoveatur  nisi  saltem  li-  len ,  I,  503,  507).  Gli  uni  e  gli  altri  però 
ter aiiter  sciai loquiTt,  (Corte.  To/^t.  a.  1339).  fu rouo  redatti  sopra  un  testo  latino  più  an- 
« /Vtor  autenif  ut  eofpedvre  viderit,  expch-  tico.  Del  resto  è  notissimo  che  Germania, 
nat  vel  literaliter  vel  vulgariter  quae  /tic-  Francia  ed  Occitania  usarono  i  loro  volgari, 
rint  dicenda  circa  materiam  ».  (  Chronic,  nelle  scritture  publiche  e  nei  libri ,  molto  pri- 
MeUieense),  ma  dell'Italia. 

(2)  Nella   Germania,    è   vero,   si  hanno  (3)  Mittheilungen ,  p.  372,  col.  1. 
esenipj  di  Statuti  dettati  in  lingua  tedesca          (4)  Bonelli,  Momim.  p.  86. 

sin  dal  secolo  XIII;  cosi  ad  esempio  quelli 


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112 


B.  MALFATTI 


[iJUiKNALE    DI    riLULOGIA 


carj  incaricati  di  amministrare  la  giustizia?  Un  Giacopino  da  Cremona, 
un  Guidone  da  Pavia,  un  Guido  da  Parma,  un  Gherardo  da  Bologna  (l). 
E  costoro  avrebbero  dovuto  servirsi  di  uno  statuto  tedesco,  e  render  ra- 
gione in  quella  lingua?  Stentiamo  a  crederlo.  Del  resto  la  notizia  degli 
ìwmines  teutonici  e  dell' interprete  è  la  miglior  prova,  a  parer  nostro,  che 
il  linguaggio  tedesco  s'usava  in  via  d'eccezione,  e  che  il  parlare  vuìgari- 
ter^  a  Trento,  era  parlare  italiano. 

Nuove  promulgazioni  di  Statuti  furono  fatte  nel  secolo  XIV  dai  ve- 
scovi Enrico  di  Metz,  lorenese,  e  Niccolò  di  Briinn,  che  tennero  la  sede 
trentina  dal  1310  al  1347  (2).  Quanta  parte  avesse  ciascuno  di  costoro  alla 
legislazione  del  paese,  non  è  possibile  di  determinare:  perché  i  testi  ori- 
ginali dei  più  antichi  Statuti  trentini  andarono  smarriti  o  distrutti,  do- 
poché venne  in  vigore  quello  del  1528  (3).    Noi  sappiamo  soltanto  che 


(1)  Xewen  Statut,  cap.  I.  —  Serie  crono- 
logica  dei  Podestà  o  Pretori  di  Trento, 
Rovereto  e  Riva^  con  Annotasioiìi  stori- 
che {Calendario  Trentino,  1854),  pag.  89. 
Questa  Serie  fu  compilata,  da  chi  scrive  le 
presenti  pagine,  su  degli  elenchi  che  esiste- 
vano nella  Biblioteca  civica  di  Trento,  e  su 
notizie  favoritegli  da  alcuni  culli  concittadini 
suoi.  Ma  il  lavoro,  sia  per  insufficienza  di 
fonti,  sia  per  angustia  di  tem()0,  non  potè 
riuscire  perfetto.  È  da  desiderare  che  qual- 
cuno dia  opera  a  rienapirne  le  lacune,  e  cor- 
reggerne le  mende. 

(2)  II  vescovo  Niccolò  da  Br(inn,dopo  aver 
d:Uo  opera  ad  aumentare  gli  Statuti,  ordi- 
nava nel  1339  il  censimento  o  la  determina- 
zione dei  beni  comunali  della  città  di  Trento. 
Il  documento  col  titolo:  Designationes  Com- 
rnunium  ciritatis  Tridenti,  fu  pubblicato 
da  Tommaso  Gar,  in  appendice  allo  Statuto 
del  1528.  È  documento  importantissimo  per 
chi  studia  le  condizioni  economiche  del  paese 
a  quei  tempi,  e  la  sua  corografia.  Vicario, 
o  Pretore  di  Trento,  era  un  Gino  da  Casti- 
glione d'Arezzo.  A  designare  le  proprietà 
ed  i  diritti  del  Comune  vennero  scelti  126ont 
viri;  3  per  ciascuno  dei  4  quartieri  in  cui 
era  divisa  la  città,  e  furono  «  De  quarterio 
Merchati:  i>."'  March us  de  Belenzanis, 
Philippu.i  Stasonerius ,  Girardìts  Mnsa^ 
ta;  —  de  quarterio  S.  Benedicti:  />."*  Bo- 
naventura qni  dai  Baldini,  Nascimbeniis 
de  Calepiiiis,  Buratinns  de  lìuratinis ;  — 


de  quarterio  S.  Martini:  D»'  Xicolaus  d ic- 
tus Tarn  buri  in  US ,  Xicolaus  mastaxus , 
Hehele  hosterius;  —  de  quarterio  Burgi- 
nori  :  D."*  Franciscus  Palanchus ,  Odori- 
cus  de  Marchadentis ,  Nicolaus  de  Baru- 
fuldis  ».  Dei  dodici  boni  viri,  un  solo  ha 
nome  furestieru,il  Hehele  hosterius  del  quar- 
tiere di  S.  Martino,  nel  quale  quartiere  era 
la  via  più  frequente  di  abitatori  alemanni; 
onde  il  nome  che  prese  più  lardi  di  Contrada 
tedesca. 

l3)  Secondo  il  Gar  {Stat.  di  Trento, 
p.  XXV)  il  più  antico  manoscritto  di  Sta- 
tuti che  si  conservi,  sarebbe  del  secolo  XIV, 
e  conterrebbe  le  norme  pei  Sindaci,  in  ottanta 
capitoli.  Ignoriamo  quanto  concordi  collo 
Statuto  tedesco,  o  quanto  ne  difìferisca.  Il 
raffronto,  come  ognun  vede,  sarebbe  impor- 
tante. Gii  altri  pochi  manoscritti,  che  giun- 
sero sino  a  noi,  sono  della  seconda  metà  del 
secolo  XV.  A  spiegare  del  resto  la  scarsezza, 
per  non  dir  la  mancanza  dei  testi  autentici, 
oltre  alle  ragioni  delle  distrazioni  e  degli 
sperperi,  si  deve  forse  tener  conto  anche  di 
un  fatto,  di  cui  n'è  conservato  ricordo  ne- 
gli Annali (\e\  Principe  Alberti  (p.376);  vo- 
gliam  dire  del  costume  di  inserire  negli  esem- 
plari officiali,  ai  singoli  capitoli,  le  aggiunte 
che  si  facevano  di  mano  in  mano;  e  cancel- 
lare le  parti  che  venivano  abrogate  o  mo- 
dificate. Ai  tempi  del  vescovo  Giovanni  IV 
le  cancellature,  le  abrasioni,  le  alterazioni 
erano  tante,  e  davano  materia  a  così  fre- 


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ROMANZA,  X."  2|       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRUNUXO  Ulì 

i  due  vescovi  accrebbero  gli  Statuti,  e  che  una  parte  di  quello  loro  ajjj- 
giunte  passò  nel  Codice  in  lingua  tedesca.  Ma  né  da  ciò,  nò  dair  essere 
stati  quei  due  principi  forestieri,  nessuno  voglia  argomentare  che  le  leggi 
cominciassero  allora  a  dettarsi  in  altra  lingua,  o  che  il  tedesco  fosse 
riuscito  a  prendere  più  diffusione  o  più  forza.  Le  ragioni  che  per  T  ad- 
dietro avevano  assicurato  la  prevalenza  al  latino,  valevano  anche  adesso. 
Principale  Notare  del  vescovo  Enrico  fu  per  parecchi  anni  un  Bongio- 
vanni  di  Bonaudrea  da  Bologna  (1).  Il  giurisperito  Armanno  di  Parma 
godeva  di  credito  particolare  presso  il  vescovo  Niccolò  (2).  Nella  Sinodo 
diocesana,  che  dal  primo  di  quei  vescovi  fu  tenuta  a  Trento,  nel  1336, 
troviamo  che  dei  27  canonici  del  Capitolo  sei  soli  erano  tedeschi.  Degli 
altri  ventuno,  parecchi  nativi  dello  città  di  Roma,  Velletri,  Bologna, 
Parma,  Milano,  Brescia,  Conegliano,  e  del  Friuli  (3).  Gli  atti  stessi  sono 
dettati  con  uno  stile,  che  rivela  il  Notajo  italiano.  Giudichi  il  lettore 
dai  seguenti  esempj; 

Gap.  V...  Man8Ìonariu8  debeat  suam  in  Choro  facete  septimanam  ; 
...  continue  sit  ad  Chorum  quam  ad  aliam  incumbenciam ; 
Gap.  VII... ad  removendum  omnem  defectum; 
Gap.  IX...  eo  casu  duo  canonici  se  preparent  indilate; 
Gap.  X...  Unus  alium  non  interrumpat  verbia; 
Gap.  XrV...  grandem  contumeliam ,  et  verius  dampnum  . . . cuni  grandi  araaritudinc 

degustati . . . 
Gap.  XIX . . .  sigilla . . .  sub  tribns  diversis  clavibus  in  sacristia  conserventur ...  et  cum 

incuinbit  ad  aliquid  sigillandum  . . . 
Gap.  XXI...  Nullus  audeat  in  armar  iis  si  ve  banchis  claudere  calices,  libros  eie.  ni  si 

hoc  faceret  de  scitu  et  licentia  Sacristae,  vel  saltem  Monachi  (4). 
Gap.  XXni. . .  Cum  ecclesia  nostra.. . in  pararaentis,  et  capis  et  aliis  utensilibus  ma- 

gnum  defectum  paciatur; 
Gap.  XXVI...  sub  ilio  Colonello,  seu  consorcio  censeantur  (5). 

Indicate  così  le  ragioni  principali,  da  cui  siamo  indotti  a  ritenere, 
che  i  più  antichi  Statuti  di  Trento  non  potessero  essere  dettati  in  altra 


qnenii  contestazioni,  che   nel    14S4   fu    me-  e  se?. 

Rtieri  di  venire  ad  un  accor<Jo  circa  il  valore,  (4)  Ogs:idi  ancora*  nel  Trentino,  ed  al  con- 

od  air  applicazione  da  darsi  ai  testi  alterati,  tado  in  ispecie,  si  chiama  3/ò«<»^/i  lo  scaccino. 

Non  ci  potrà  quindi  sorprendere,  che  rior-  deputato  alla  custodia  ed  alla  pulitezza  della 

dinata   la  materia  statutaria,  e  promulprati  chiesa. 

nuovi  Codici  dai  vescovi  Uldalrico  e  Ber-  (5)  Abbiamo  visto  dianzi,  che  cosa  pro- 
nardo ,  quei  più  antichi  testi  andassero  ne-  priamente  sipnificasse  il  vocabolo  ColumneU 
gletti,  e  fors^anco  per  gran  parte  distrutti,  lu.t.    Or  qui  lo  troviamo  applicato  anche  al 

(1)  BoNELLi ,  Xotisie  istorico-critiche,  li,  Capìtolo  della  Cattedrale,  per  esprimere  quel- 
pag.  653-655.  lo  che  altrove  si  diceva  Ordo;  sebb*»ne  con 

(2)  Alberti,  Annali,  p.  229.  applicazione  economica  piuttosto  che  gerar- 

(3)  Synodxis   Tridentina  y  a.  1330;  Bo-  chica. 
NELLI,  "Sntisif  i$toricO'Critirhe,  T.  11,  p.  075 


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1 U  B.  MALFATTI  |oiorxale  di  filoumua 

lingua  che  nella  latina,  prenderemo  ad  esaminare  quel  tal  Codice  tede- 
sco, e  a  ricercare  se  la  sostanza  sua  e  la  forma  sieno  tali  per  avventura 
da  fornire  sostegno  ai  un  avviso  contrario.  Il  signor  Schneller,  invo- 
cando a  sua  autorità  il  signor  Tomaschek,  dice,  per  rincalzare  le  pro- 
prie asserzioni,  che  i  così  detti  antichi  Statuti  trentini  ebbero  a  fonda- 
mento il  diritto  particolare  longobardo  (Langohardisches  Volksrccht).  Dove 
egli  intendesse  di  approdare  in  dir  questo,  noi  sappiamo  comprendere. 
Volle  forse  concludere  che  il  paese,  dove  si  conservavano  traccio  delle 
cadarfrede  longobarde,  doveva  essere  di  necessità  paese  tedesco?  Ma  cosa 
dire  allora  di  Benevento,  di  Salerno,  di  Bari,  dove  la  osservanza  dell'Editto 
durò  più  largamente  e  tenacemente  che  nel  Trentino?  Imperocché  s'egli 
è  vero  che  in  alcuni  Capitoli  degli  Antichi  Statuti  si  rivelano  delle  at- 
tinenze colle  leggi  longobarde  (negli  argomenti  in  ispecie  delle  debili- 
tazioni, degli  adulteri,  delle  falsificazioni,  del  turbato  possesso,  dei  pigno- 
ramenti, della  custodia  del  fuoco,  delle  vendite  dolose,  del  componimento 
e  della  pace  per  gli  omicidj,  della  tutela  delle  donne  e  della  prescrizione); 
vero  è  altresì,  ed  il  signor  Tomaschek  lo  ammette  esplicitamente,  che 
le  tradizioni  del  diritto  romano  ebbero  a  vigere  nel  Trentino  altrettanto 
e  più  di  quelle  del  diritto  longobardo  (1).  La  introduzione  allo  Sta- 
tuto del  1528  dice  chiaro  che  le  leggi  romane  avevano  avuto  in  passato 
vigore  di  diritto  commune,  servendo  gli  statuti  di  mero  sussidio  o  di  com- 
plemento ad  esse  (2).  A  mezzo  il  secolo  XII  vi  erano  in  Trento  dottori 
in  legge,  educati  probabilmente  in  Bologna  (3).  Nel  Codice  Vanghiamo 
troviamo  professioni  di  legge  romana,  mentre  di  longobarda  o  franca 
non  ne  incontriamo  nessuna.  E  in  quello  stesso  Codice,  come  pure  in 
altre  carte  trentine  di  poco  più  tarde,  abbondano  formolo  dell'antica  giu- 
risprudenza, ed  altri  indizj,  dai  quali  concludere  ad  una  diflusa  osservanza 
delle  massimo  romane  circa  ai  contratti,  alle  ipoteche,  alle  donazioni 
ai  testamenti.  La  costituzione  dei  tribunali  poi,  e  le  forme  del  processo 
(momenti  di  ben  maggiore  rilievo  che  non  alcune  singole  disposizioni  o 
sanzioni  di  legge)  erano  nella  Pretura  trentina  secondo  le  norme  romane, 
non  secondo  il  sistema  germanico.  Né  le  consonanze  dello  Statuto  tren- 
tino coir  Editto  longobardo  sono  tali  che  manchi  loro  riscontro  in  altre 
leggi  particolari  di  popoli  germanici  (  Volksrechte)  e  negli  ordinamenti 
delle  altre  città  italiane.  Lo  stesso  signor  Tomaschek  é  pronto  a  rico- 
noscere che  gli  statuti  dei  Communi  lombardi  rampollarono  insieme  col 
trentino  da  uno  stipite  medesimo. 

Che  se  pure  questo  stipite  lo  avessero  dato  le  cadarfrede  longobarde 
(il  lettore  vede  che  il  concediamo  solo  per  ipotesi)  e  che  perciò?    Sarà 


(1)  ToMAsniF.K,  Die  aeltesten  Statuten ,  p.  107  e  sej?. 

(2)  Statuti  di  Trento  (Uh.  I   de  Civilibus),  n^l  Proemino, 
(H)   Codcr   M'avr/iafììfò',  N."  7,  7-^ 


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ROMANZA,  x.-*  2]      GLI  IDIOMI  PAUL  ATI  NEL  TUENTINO 


145 


forse  a  cavarne  la  conseguenza  che  gli  Statuti  venissero  dettati  in  lin- 
gua tedesca?  Ma  Rotari  ed  i  suoi  successori,  ed  i  primi  legislatori 
degli  altri  stati  germanici,  che  idioma  usarono  essi?  In  che  idioma 
furono  scritti  i  più  antichi  Statuti  di  Verona?  anzi  quelli  stessi  della 
città  trentina  di  Riva?  E  perché  a  Trento  si  sarebbe  fatto  altrimenti? 
No:  i  primi  Statuti  trentini  furono,  al  paro  di  quelli  delle  altre  città 
italiane,  dettati  in  latino:  ed  il  Codice  pubblicato  dal  signor  Tomaschek 
non  fa  altro  che  darne  una  grama  traduzione.  La  cosa  sarà  posta  fuor 
d'ogni  dubbio  da  una  breve  rassegna  de' vocaboli  e  delle  locuzioni  usate 
in  quel  Codice.  Cominciamo  dai  primi;  ossia  dal  riferire  quei  passi  dello 
Statuto,  che,  per  la  qualità  o  la  forma  dei  termini,  fanno  argomentare 
con  sicurezza  ad  un  testo  originario  latino.    Eccone  il  saggio: 

Cap.    1.  (Ant.  Stat.)...getreuen  rat  geben  dem  piachoff  oder  ^ìn^m  caintany  (ca- 

pitaneo)  (1); 
»       2...ZW  raeren  oder  zw  raìnderen  die  pen  (poenam); 
»       3. ..di  keczer  p^enant  sein  alhanesen  (2); 

»       9... dem  piachoffe  oder  seinem  hauptinan,  oder  seinem  vicario; 
»     22. ..Item  ob  ein  noder  {notar ius)  macht  ein  falsch  jnafcrument  (3); 
»     35.. .  Item  ob  ein  thauerner  oder  thauernerin  (si  quis  tabernarius  vel  tahernarin) 

der  in  seiner  tauern  gehabt  hat  ein  falsche  mas; 
»     3G. .  .ob  ein  thauerner  oder  beinachenk  hat  einen  napff,  Icopff  (aliquem  nappum, 

coppam  )  ; 
»     49. . .  Die  mit  frawel  ein  pach  auff  eins  andern  possession  keren.  (  De  h's  qui 

fraudolenter  ruinam  aquarum  super  alienam  possessionetn  mover inU  Stat. 

Eoboretana;  e.  237); 


(1)  Poniamo  in  corsivo  le  parole  di  ori- 
gine latina,  o  tolte  senz'altro  dal  vernacolo; 
aprgi ugnando  fra  parentesi  le  rispondenze  de- 
gli Statuti  del  1528. 

(2)  «  Secta  Catharorxnn  divisa  est  in 
tres  partes,  sive  sectas  principales ,  qua- 
rwn  prima  vocatur  Albanenses ,  secunda 
Concorre senses f  tertia  Bajolenses  :  et  hi 
omnes  snnt  in  Lotnbardia.  Caeteri  vero 
Catharif  sive  sint  in  Tuscia  sire  in  Mar- 
chia vel  in  Provincia  f  non  discrepant  in 
opinionibit^  a praedictis  Catharis  ».  Rai- 
neri! Sv.mma,  ap.  Martene,  Thesaur.,  V, 
p.  1761.  Si  veda  anche  poco  dopo,  a  p.  17G7, 
l'elenco  delle  sedici  chiese  de*Cattari,  nes- 
suna dellp  quali  apparteneva  a  paesi  tede- 
schi. L'esistenza  degli  Albanesi  nel  Tren- 
tino, e  l'avervi  più  tardi  predicato  Fra  Dol- 
cino,  e  trovato  séguito  (Frapporti,  Storia 
di  Trento f  p.  485)  è  un'altra  prova,  che  il 


paese  partecipava  a  tutto  il  movimento  mo- 
rale delle  vicine  provincie  di  Lombardia. 
Intorno  agli  Albanesi  vedasi  il  Girsbler 
{ Kirchengeschichte ,  Parte  IV,  p.  G21);  e 
una  Costituzione  di  Federigo  II,  del  1243 
(Mansi,  Concil.  XXIII,  590). 

(3)  Nodér,  e,  nel  capitolo  seguente,  ta- 
vernar^  sono  forme  del  dialetto  antico.  La 
desinenza  in  ér  (per  aro  o  ajo)  cedette  il 
luogo,  di  mano  in  mano,  a  quella  in  àr;  non 
però  da  per  tutto.  A  Trento,  per  esempio, 
prevale  T ultima;  a  Rovereto  la  prima.  Quei 
vocaboli  ad  ogni  modo,  ed  altri  che  riporte- 
remo in  seguito,  mostrano  non  solo  l'opera 
del  traduttore,  ma  sono  anche  indizio  del  co- 
me i  tedeschi,  venuti  a  dimorare  nel  paese, 
anziché  dar  essi  la  lìngua  agli  italiani,  pren- 
dessero da  questi  molti  termini  per  l'idioma 
loro  cotidiano. 


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0:). 

116  B.  MALFATTI  [«iorxalk  di  filologia 

.  ein  noder  oder  ofner  schreiber  (notarlum  avi  publicum  scribam) ...  sol  man 

jn  pussen  an  aeinem  leib  nach  der  Uerrschaft  oder  seines  officiali  willen  (1)  ; 

.  Das  chainerlay  com^romis  noch  tading  (quod  nuUum  compromissum  seu  ar- 

bitrium); 
.80  sol  man  dem  richter  ein  solar j  {solarium)  seczen; 
.und  pflichtig  ist  za  schreiben  %éinQ  jnstrumetvt  ,.,jn  hreviatur  piicher  und 

nit  in  die  czedeln  {in  libro  et  breviaturis  et  non  in  schedidis); 
.Aber  von  den  czedeln  oder  exempelen  {de  scheduUs  et  exemplaribus)  ; 
.sol  man  geben  dem  purgen  ein  frisi  oder  ein  termen  {assignato  tamen prius 
termino  fideiussori)  (2); 
04.  ..die  flaischacker . . .  sindt  pflichtig ...  zegeben  *da8  flaisch  nach  dem  grosaen 
pfant,  daz  da  swar  sey  XVIIJ  uncz  {uncius),  und  sol  geben  kastraune 
flaisch  (3)  ; 
83. . .  so  sol  man  sy  (die  fisch)  aus  den  korben  oder  czisten  {ex  corbis  seu  cistis) . . . 
und  wer  sy  in  der  czistel  halt  oder  andern  wassern  {in  cistis  ipsis  seu 
vasis); 
85... das  ein  yegliche  person  sol  haben  recht  urn^  prenten^  star,  mOtt  {reclos 
cyathoSy  wrnas,  brentas,  starioSy  modios) . . .  und  sol auch  messen  ein  kauf- 
tuch  pey  der  stacion  {ciim  fuerit  ad  stationem) . , ,  und  der  Vicary  des 
comuns  ze  Trint  {et  Vicaritis  Communis  Tri  denti).,. -, 
94. ..  von  einer  yedeu  coniraten  der  jnnen  zucken  oder  rauben  beschicht  {d^  qua- 

libet  centrata  in  qua  robum  factum  fuerit); 
99. ..von  einem  yeglichen  hauss,  und  von  einer  yeglichen  massarey  {de  quaUbd 

massaria)  ; 
101.  ..die  weil  die  rumor  des  feurs  wert  in  der  stat  {quando  rumor  incenda  fuerit 

in  civitate); 
108. . .  ob  ein  saltner  {si  quis  saltuariu^  vinearum) ...  die  weil  er  auff  der  SaUerey 

stet  {stando  in  saltar ia)  (4); 
134... an  dem  anefanck  eins  yeglichen  monats  und  halendas ; 
lG2..,Ifcem  dez  die  paysser  nicht  sollen  payssen  in  prayen  oder  in  den  pan 
{aucupes  sive  paysatores  non  debeant  aucupari  sive  paysare  in  mileis, 
panicis  et  aliis  bladis)  (5); 
163... daz  chainer  nicht  fueren  weder  holcz,  noch  tawfen  {dovoe); 


(1)  Herrschaft  sta  per  Signoria,  nel  si-  (4)  Nel  Trentino  si  chiama  tuttavia  So/(ar 
gnitìcato  che  si  assegnava  al  vocabolo  nei  il  custode  de' vigneti,  durante  il  tempo  della 
Comuni  liberi;  beninteso  che  la  Signoria,  a  vendemmia.  Il  Saltarius,  presso  i  Longo- 
Treuto,  era  costituita  in  primo  luogo  dal  bardi,  era  uno  de' subalterni  del  Castaldo; 
Vescovo.  "^2L  il  nome  non  è  d'origine  germanica;  de- 

(2)  rer7nen  =  termine;  si  usa  tuttavia  nel  rivando  dal  latino  Saltus.  Saltiis  commu- 
dialetto,  riferito  a  tempo  non  meno  che  a  nes y  leggiamo  nelle  leggi  franche  e  longo- 
luogo.  barde  per  indicare  i  pascoli  pubblici;   onde 

(3)  ^a.9fra?mc  flaisch  -carne  di  (agnello)  è  a  credersi  che  il  Saltarius,  in  origin*», 
castrato.-  Che  i  tedeschi  abbiano  adottato  fosse  ìncumbenzato  dal  Castaldo  di  aver  cura 
questo  vocabolo  (lo  si  legge  anche  nogli  Sta-  di  quelli,  e  di  mantenere  V  ordine  tra  i  com- 
luti  di  Merano)  ò  cosa  tanto  più  notevole,  marcani.  che  ne  fruivano. 

che   le  carni  da  macello   (ed  anche  il  più  (5)  Pdi.^s^a  ^  propriamente   Tesca  che  si 

de'beccaj)  venivano  allora  dal  Tirolo,  come  pone  dai  cacciatori  per  attirare  uccelli,  od 

ne  venirono  tuttavia.  altri  animali.     Paixsador,  chi  pone  Pesca; 


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uoMANZA,  N.'^2J       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  117 

Senonché,  più  ancora  dei  singoli  vocaboli,  sono  le  locuzioni  che  ci 
rivelano  T  opera  del  traduttore;  e  di  un  traduttore  così  pecorescamente 
letterale,  che  se  non  ci  soccorresse  il  testo  latino  del  1528,  peneremmo 
talvolta  a  sapere  che  cosa  egli  volesse  dire.  Già  nella  prima  parte,  ossia 
nei  Vecchi  Statuti^  incontriamo  qua  e  là  dei  non  sensi  e  controssensi 
notabili,  da  attribuirsi  unicamente  al  volgarizzatore.  Così  la  locuzione  : 
«  qìwd  ibi  sU  emólumentum^  vbi  est  onus  »  vien  resa  in  tedesco:  «  da^ 
sy  aiAch  da  ìiabent  ein  pesserung  und  daz  sy  habent  ein  mitleidung  ».  Il 
passo:  «  omnis  actio  realis  etpersonalis  vél  aìterius  cujuscumqiie  generis  » 
è  tradotto:  «  haìt  das  da  mer  ist  dan  man  schuldig  ist  und  hlager  ist  ». 
Per  «  quaestionibus  et  differentiis  viarum,  terminorum  etc.  »  si  legge: 
€  alle  KHeg  nnd  Idagung  ali  tveg  und  ende  »  ;  per  «  partes  duae  ad 
minus,  debeant  pacem  facere  »,  leggiamo:  «  daz  die  zben  tail  verhengen 
und  geben  frid  ».  Ma  sono  i  Nuovi  Statuti  dove  si  manifesta  ancor  più  la 
imperizia  del  traduttore;  cosa  naturale  del  resto.  Semplici  e  brevi,- i 
Veccia  Statuti  gli  davano  materia  a  poche  difficoltà;  mentre  nei  nuovi  si 
trovava  alle  prese  con  periodi  lunghi  ed  intralciati,  con  termini  e  con  for- 
mule di  cui  non  aveva  dimestichezza,  seppur  non  ne  ignorava  il  valore. 
Come  riuscisse  a  cavarsi  d'impaccio,  lo  mostreranno  i  seguenti  esompj; 
nei  quali  al  testo  originale  tedesco  premettiamo  il  corrispondente  latino 
dello  Statuto  del  1528,  affinché  il  lettore  possa  giudicare  con  maggior 
sicurezza: 


Cap.  Il quod  quiltbet  habitator  civitatis  Tridenti ,  burgorum  et  subburgo- 

rum  =  e  daz  ein  yeglicher  jn  woner  der  stat  Trint  in  burgen  und 
unter  den  burgen  ». 

Cap.  IV alia  juris  solemnitate  praetermissa  =  «  ander  hochczeit  des  rechten 

unterbegen  zu  lassen  ». 

Cap.  VII De  ascendentibus  vél  coUateralibus  personis  legitimandisin  officio = «  Die 

ym  rechten  auff  und  ab  gesetzt  werden  ». 

Cap.  IX valeat  dictus  Potestas . . .  totum  illud  cum  juris  remediis  executioni 

mandare  «  =  sol  der  ber  vicary . . .  allea  das  mit  der  arczney  des  rech- 
ten bieten  ». 

Cap.  X perseveraverit  ad  banchum  sui  officii  =  «  pelaibt  an  die  banck  seins 

offici j  ampts  ». 

Cap.  XV manu  militari  Potestas  seu  Index  debeat  mittere  Gastdldiones  =  «  mit 

ritterlicber  hant  sol  der  vicary  senden  sein  chnecht  ». 

Cap.  XX reddatur  jus  summarie  et  de  plano  ^  et  sine  strepita  et  figura  ju- 


paissàr,  far  caccia  nel  modo  indicato;  ma  sovraccennati;  e,  nel  senso  di  caccia  e  cac- 

anche  adescar  qualcuno.    Noi  slam  d'avviso  datore,   si   logj]^ono   nuche  nei    più  antichi 

che  questi  vocaboli  sieno  forme  ladine  anti-  Statuti  di  Padova  (del  Sec  XIII)  pubblicati 

chissime,  derivate  da  pasci,  o  pascua.    Si  dai  prof.  Gloria. 
usano  tuttavia  nel  Trentino  in  tutti  i  sensi 


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148  B,  MALFATTI  [giornale  di  filologia 

dicn  =  «  sol  man  das  recht  auramen  und  scblechtlicb,  iind  an  ge- 

schray  und  an  figur  de«  rechten  ». 
Cap.  XXXIV...  (dìquod  pignus  sive  sU praetorium ,  sivejudiciale,  sive  conventionale ; 

=  «  ein  pfandt  es  sey  von  dem  schergen,  oder  ?on  dem  richter, 

oder  gedingt  guet  ». 
Cap.  XXXIX ,,.  et  ipsi  mulieri  satisfacere  in  pecunia  numerata  =  «  und  sol  yr  gnug 

thun  an  der  czal  des  gcits  ». 
Cap.  XLV quod  summarie  et  de  plano  sine  strepitu  et  figura  judicii  procedi  possit 

=  «  die  eachen  sollen  gesumt  und  schlechtlich  an  geachray  oder 

zbilauff  und  ala  ein  ebenpild  gebandelt  wirt  ». 
Cap.  XLVIII, . .  ordinamus  quod  appeUntione  masculi  contineanturetfoeminae=*  wir 

seczen  und  orden  das  das  geding  des  weibs  und  mans  sol  gebalten 

werden  ». 
Cap.  XLIX si  quis  luibuerit  necesse  próbare  se  fili um  in  àliqua  causa,  vdpatrem 

suum  esse  mortuum,  vel  àlium  in  cujus  locum  se  asserit  successisse  ; 

=  «  ob  etwàr  wìir  der  notturft  bet  zw  bewaren  jn  einer  sach,  das 

er  sey  ein  snn  oder  ein  vater,  daz  sein  vater  todt  sey,  oder  ein 

ander,  der  an  sein  stat  komen  ist  ». 
Cap.  L quod  imbrevi aturae  alicujus  pubUci  notarii  mortificate  non  rèleventur 

=»  €  das  die  urbar  pucher  eins  offen  schreibers  die  getodt  sindt 

sollen  nicht  ze  kraft  komment  ». 
Cap.  LXVII....  actiones . , , sive  reales,  sive  personalesy  sive  uttlesj  sive  dir ectae  sive 

quocumque  nomine  censentur  =  *  ein  klag...  belcberlay  die  sey, 

si  sein  umb  gut  oder  bider  seinen  leib,  si  sein  nucz  oder  wie  die 

genant  sein  ». 

Non  aggiugniamo  commenti.  Chi  per  poco  ha  famigliarità  coli' idioma 
tedesco,  sarà  passato  di  sorpresa  in  sorpresa  leggendo  questi  pochi  saggi 
del  Codice;  né  avrà  potuto  trattenere  talora  un  movimento  d'ilarità,  im- 
hattendosi  negli  svarioni  del  povero  traduttore  o  veggendo  il  suo  imba- 
razzo. Or  come  credere  che  si  dettassero  per  Trento  leggi  di  forma  così 
strampalata,  anzi  a  tratti  inintelligibili,  (conceduto  per  un  supposto,  che 
vi  fossero  date  leggi  in  tedesco)  quando  per  la  vicina  Merano,  dipendente 
dai  conti  del  Tirolo,  si  promulgavano  nel  1317  degli  Statuti  tedeschi,  ai 
quali  non  mancavano  la  proprietà  del  dire  e  la  chiarezza?  Né  si  dimen- 
tichi che,  secondo  il  signor  Tomaschek,  i  cosi  detti  Vecchi  Statuti  ireniim 
sarebbero  stati  compilati  assai  tempo  prima,  nel  secolo  XIII.  Ma  la 
lingua  e  la  ortografia  del  codice,  sono  esse  tali  da  poterle  assegnare  a 
quella  età? 

Deve  sicuramente  far  specie  che  il  signor  Tomaschek,  il  quale  come 
insegnante  dell'Università  di  Vienna,  e  come  autore  di  parecchi  lavori 
sulla  storia  del  diritto,  ha  dato  saggi  di  molta  dimestichezza  colla 
legislazione  medievale,  non  abbia  scorto  le  gravi  obbiezioni  che  si  sa- 
rebbero potute  muovere  contro  l'avviso  ch'egli  tolse  a  propugnare  pub- 
blicando il  Codice.  Eppure  la  cosa  è  quale  l'abbiamo  rappresentata: 
né  la  sapremmo  spiegare  altrimenti  se  non  argmentando,  che  il  signor 


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ROMANZA,  N.*'  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TMENTINO  140 

Tomaschek  si  sia  lasciato  abbarbagliare  da  un'idea  preconcetta  in  modo 
da  non  aver  più  occhi  per  la  realtà  dei  fatti.  Del  resto  con  lui  non  ne  oc- 
corre di  discutere  più  oltre:  avvegnacchó  egli  ammetta  (senza  però  darne 
le  ragioni)  che  l'elemento  italico  a  Trento  venisse  nel  secolo  XIV  a  pre- 
valere sul  tedesco;  e  che  però  le  leggi,  da  quel  tempo  in  poi,  potessero 
ivi  essere  state  dettate  anche  in  latino. 

Sennonché  il  lettore  sarà  qui  forse  per  domandare,  come  si  spieghi 
resistenza  di  quello  Statuto  tedesco.  Quand'ebbe  origine?  A  che  fine 
fu  scritto?  Veramente  si  potrebbe  suppon*e  (e  la  forma  difettosissima  da- 
rebbe sostegno  al  supposto)  (1),  che  la  traduzione  venisse  fatta  da  qualche 
officiale  tedesco  del  Principato,  per  suo  uso  particolare  o  per  comodo  di 
qualche  signore  ignaro  della  lingua  latina.  E  nonpertanto  si  potrà  am- 
mettere, che  la  versione  tedesca  (senza  ottenere  sanzione  di  vero  testo 
autentico)  servisse  ad  uso  pubblico;  essendovi  una  buona  ragione  per  far 
creder  questo.  Venuto  a  Trento,  nel  1347,  P imperatore  Carlo  IV,  con- 
cedeva ai  Vescovi,  o,  per  dir  meglio,  restituiva  loro  e  confermava  la 
giurisdizione  civile  e  criminale  su  parecchie  terre  e  castella  dell' odierno 
tenere  di  Bolzano,  ove  si  parlava  il  tedesco;  vale  a  dire  su  Bolzano  stessa, 
su  Kelle,  sul  monte  Ritten,  sul  monte  di  Villanders,  su  Eppan  col  ca- 
stello di  Altenburg,  su  Cortaccia,  Corona,  Zeli,  Caldaro,  ed  Ulten  (2). 
Ma  dal  vescovo  Niccolò  era  stato  prescritto,  che  lo  Statuto  di  Trento 
dovesse  osservarsi  in  tutti  i  tribunali,  e  in  tutte  le  corti  secolari  del 
Principato  (salvo  i  paesi  a  cui  era  stato  conceduto  per  privilegio  di  aver 
leggi  proprie  o  locali)  (3).  Per  quel  decreto  dell'imperatore  adunque  si 
sarà  fatto  sentire,  ancor  più  di  prima,  il  bisogno  di  una  traduzione  per  i 
paesi  ove  si  rendeva  ragione  in  tedesco:  tanto  più  che  ivi  vigeva  l'istituto 
dei  giurati  oppure  dei  boni  homines;  che  e  trovavano  la  sentenza  >  dopo- 
ché la  causa  era  stata  ventilata  e  discussa  sotto  la  direzione  del  vicario 
o  giudice  eletto  e  confermato  dal  Vescovo.  Di  giurati  si  fa  menzione  nel 
Codice  Vanghiano  (4).    Negli  Statuti  tedeschi  poi  vi  è  un  capitolo,  di  ma- 


(1)  Avendo  accennato  a' difetti  di  forma,  signor  Tomaschrk,  che  ne  diede  un  sunto 
dobbiamo  pur  anco  avvertire,  che  molti  de'ca-  (paj?.  96  e  ses^.).  Vedansi  anche  gli  Annali 
pitoli,  nel  testo  pubbiicato  dal  signor  To-  del  Principe- Vescovo  Alberti,  pag.  243. 
MASCiiEK,  recano  in  fine  un  etc,  il  quale,  Dobbiam  qui  prevenire  un'obbiezione  che 
in  qualche  caso, sembra  accennare  veramente  ci  potrebbe  esser  mossa;  che  il  decreto  de  1- 
ad  altre  disposizioni  che  dovevano  seguire,  e  V  Imperatore  Carlo  IV,  vale  a  dire,  non  potè 
che  furono  om messe.  Sì  può  egli  ammettere  avere  piena  esecuzione  per  le  riluttanze  dei 
questo  per  un  testo  autentico?  E  se  il  si-  Conti  del  Tirolo.  Ma  più  o  meno,  e  per  più 
gnor  Tomaschek  ha  stimato  bene  lui  di  met-  lungo  o  più  breve  tempo,  ebbe  pure  efficacia; 
tere  gli  etcetera^  troncando  i  capitoli  per  e  ad  ogni  modo  T  autorità  del  Vescovo  si 
amore  di  brevità,  perché  non  darne  le  ra-  estendeva  su  castella  e  terre  di  lìngua  te- 
gìoni  ?  desca. 

(2)  Il  documento  si  conserva  nelP  Archi-  (3)  Newen  Statut,  cap.  LXXVI. 
vie  imperiale  di  Slato,  e   fu  esaminato  dal  (4)  Codejo  Wangianus ,  N.»  49. 


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150  -B.  MALFATTI  [(uuhnalk  di  filologia 

teria  ereditaria,  il  quale  non  ha  riscontro  nei  testi  latini,  attinto  com*è 
al  diritto  colonico  (coloni  jure  ~  Bauernrecht)  che  vigeva  nel  Tirolo  pro- 
priamente detto  (1).  Ed  anche  questo  sembra  buono  argomento  a  noi  per 
argomentare  che  il  codice,  di  cui  abbiamo  discorso  sin  qui,  fosse  compi- 
lato in  considerazione  di  paesi  dove  si  parlava  il  tedesco. 

Dopo  aver  visto  qual  peso  possa  avere  il  fatto  dello  Statuto  tede- 
sco per  l'assunto  che  tolse  a  propugnare  il  signor  Schneller,  passiamo 
agli  argomenti  ch'egli  chiama  in  suo  appoggio  per  i  tempi  che  corrono 
dal  vescovo  Gerardo  II,  successore  di  Niccolò  di  Briinn,  sino  a  Bernardo 
Clesio  (1347-1510).  Rispetto  ai  quali  noi  conveniamo  col  signor  Schneller 
più  che  in  addietro:  sebbene  non  tanto  quanto  egli  vorrebbe.  Siamo 
pronti  cioè  a  riconoscere,  che,  sotto  gli  ultimi  Conti  goriziani,  e  più  an- 
cora sotto  i  Conti  amburghesi,  eredi  di  quelli,  il  Trentino  venne  di  mano 
in  mano  in  tale  dipendenza  politica,  da  poterlo  dire  di  fatto,  se  non  di 
diritto,  una  provincia  della  Contea  tirolese.  I  vescovi  eletti  secondo  la 
volontà  dei  Conti,  e  costretti  a  tollerare  umiliazioni  e  soverchierie  di 
ogni  fatta  (2);  le  famiglie  signorili  del  paese  subornate  contro  il  loro 
principe  naturale,  ed  allettate  con  favori  e  promesse;  cercato  ogni  mezzo 
di  conferire  a  persone  forestiere  gli  officj  più  importanti  e  le  prebende 
più  laute;  profuse  le  agevolezze,  e  dato  ordinamento  di  maestranze  ed 
arti  distinte  ai  trafficanti  ed  agli  artieri  tedeschi  che  venivano  a  mettere 
stanza  a  Trento.  Se  v'  ebbe  tempo  in  cui  Y  elemento  straniero  stesse  per 
soverchiare  il  paesano,  fu  in  quei  centoscssant'anni,  non  prima.  Ma  pre- 
valenza vera  non  seppe  ottenerla  nemmeno  allora:  tanto  per  la  tenace  vi- 
talità propria  all'elemento  latino,  quanto  per  altre  circostanze;  tra  cui 
nleveremo  la  incoerenza  propria  a  tutte  le  signorie  fondate  su  istituti  feuda- 
li: la  necessità  in  cui  erano  i  principi  absburghesi,  non  meno  dei  goriziani, 
di  lasciare  una  certa  autonomia  alle  città  ed  alle  valli  che  ne  fruivano 
ab  antico;  poi  la  prossimità  dello  Stato  Veneto,  che  nel  secolo  XV  s'era 
esteso  sino  a  poche  miglia  da  Trento,  aggregandosi  la  Valsugana,  la  Valle 
Lagarina,  e  Riva;  e  finalmente  il  continuo  influsso  della  cultura  italiana, 
giunta  ormai  a  tale  altezza,  da  essere  oggetto  di  ammirazione  per  tutti. 
Che  a  Trento  s'agitasse  ancor  sempre  l'antico  spirito  dei  Communi  ita- 
liani, ne  lo  attesta  la  cura  gelosa  di  quel  Municipio  in  conservare  gli  an- 
tichi ordinamenti;  ne  lo  provano  i  frequenti  moti  popolari,  e  quello  in 


(1)  Aelteste  Statuten,  cap.  90.  cognizione  de' fonti  genuini,  e  Jjacoscenziosìtà. 

(2)  Chi  voglia  formarsi  giusto  concetto  Tra  le  storie  più  recenti  ricorderemo  quella 
delle  relazioni  che  corsero  tra  il  Principato  del  signor  Giuseppe  Egoer  {Geschichte 
di  Trento  e  la  Contea  Tirolese,  vegga  gli  Tiror*,  Tom.  I,Innsbruck,  1872)  libro  pre- 
Annali  del  Principe- Vescovo  Alberti;  al  gevole  per  il  buon  uso  che  vie  fatto  de' fonti, 
qnal-%  se  mancarono  alcune  delle  qualità  più  ed  anche,  nel  complesso,  per  iraparziaUtà  di 
elevate   dello  storico,   non  fecero  difetto  la  giudizj. 


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ROMANZA,  N."  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TBENTINO  151 

ispecie  del  1407,  allorché  i  cittadini  insorsero,  né  affatto  indarno,  contro 
gli  officiali  del  Vescovo  e  del  Conte  tirolese  al  grido  di:  Viva  ^l  popolo 
e  7  Signor j  e  mora  i  traditor!  Che  il  paese  poi,  nel  complesso,  incli- 
nasse istintivamente  verso  i  vicini  di  mezzodì  piuttosto  che  verso  quelli 
di  settentrione,  ce  lo  mostra  anche  il  governo  che  ebbero  a  tenere  i  Ve- 
neziani nelle  terre  venute  sotto  il  loro  dominio:  governo  mite  e  da  potersi 
dire  tranquillo,  chi  per  poco  consideri  le  alternative  di  violenze  e  di  ar- 
rendevolezze a  cui  dovevano  appigliarsi  i  principi  tirolesi  per  mantenere 
le  proprie  superiorità  sulle  altre  parti  del  Trentino. 

Se  il  signor  Schneller  avesse  voluto  tener  conto  di  questi  fatti,  che 
pur  gli  devono  esser  noti,  avrebbe  aggiunto  minor  valore,  anzi  trala- 
sciato di  richiamarsi  a  certe  relazioni,  che  secondo  lui  servono  a  pro- 
vare la  superiorità  dell'elemento  tedesco  sull'italiano  nella  città  di  Trento. 
Cosi  ad  esempio  egli  prende  dal  cronista  Mariani  la  notizia  che,  tra  il 
secolo  XVI  e  XVII,  oltre  la  metà  dei  giovani  che  frequentavano  le 
scuole  a  Trento  erano  tedeschi  ;  per  concluderne  che  la  popolazione  ita- 
liana doveva  essere  il  minor  numero.  Ma  nel  venire  a  questa  conclu- 
sione dimenticava  parecchie  cose;  e  prima,  che  le  scuole  a  quei  tempi 
erano  ancora  scarse;  e  che  Trento,  quanto  a  coltura,  superava  il  vicino 
Tirolo.  Dimentica  inoltre  che  le  scuole  di  Trento  erano  destinate  in 
ispecie  a  formare  il  clero  per  la  diocesi,  la  quale  estendendosi  nella  Con- 
tea tirolese  comprendeva  molte  pievi  di  favella  tedesca  (oggidì  ancora 
formano  circa  il  quarto  della  popolazione  diocesana). 

Senonché  il  signor  Schneller  viene  ad  urtare  ancor  peggio  colla  critica, 
quando,  per  provare  che  la  popolazione  a  Trento,  circa  il  1500,  era  tedesca 
la  buona  metà,  e  che  T elemento  tedesco  vi  teneva  il  di  sopra,  prende 
per  sua  autorità  un  frate  Felice  Faber  da  Ulma,  domenicano;  il  quale 
andato  pellegrino  in  Terra  Santa,  passò  nel  1483  da  Trento,  di  cui  la- 
sciò scritto  essere  «  città  che  si  divide  in  due  parti:  Tuna  alta,  abitata 
da  italiani;  l'altra  bassa,  abitata  da  tedeschi.  Ivi  le  due  genti  vivono  in 
discordia  e  liti  continue;  ma  i  tedeschi  sono  essi  i  cittadini  e  rettori  »  (44). 
Che  il  signor  Schneller  si  sia  voluto  far  forte  di  tale  relazione,  ne  ha 
maravigliato  non  poco;  e  perché  egli  stesso  non  sa  nascondersi  essere 
stato  quel  frate  un  credenzone,  ed  un  solenne  spacciatore  di  bubbole; 
poi  perché  egli  sa  benissimo  che  a  Trento  non  si  conosce,  né  si  conobbe 
mai  distinzione  di  città  alta  e  città  bassa.  In  quanto  ai  e  cittadini  e 
rettori  »  possibile  che  il  signor  Schneller,  studioso  com'è  de' fatti  atti- 
nenti all'etnografia  trentina,  non  abbia  avuto  sottocchio  qualche  regi- 


(1)  La  diffusa  relazione  dettata  dal  dome-  gynnationem.    Edi<lit  C.  D.  Hassler,  Stoc- 

nicauo  d'Ulma  intorno  al  suo  viaggio  ha  per  carda,  1843.    l\  passo  da  noi  riferito  è  tolto 

titolo:  Fratria  Felir.is  Fahri  evapatoriiitn  dalla  Memoria  del  siji^nor  Schneller,  nelle 

in  Terrac  sa7ìctae,  Arahiae  et  Aegypti pere-  Mittheih(vgen ,  p.  371. 


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152  B.  31  AL  FATTI  [giounalk  di  filologia 

stro  0  documento  autentico  della  cittadinanza  di  Trento?  possibile  che 
sia  ignaro  degli  ordinamenti  statutarj  di  quella  città,  e  degli  officiali  che 
un  tempo  erano  destinati  ad  amministrarvi  il  commune  ed  a  rendere 
giustizia? 

Nella  Biblioteca  civica  di  Trento  abbiamo  visto  ed  esaminato,  anni 
sono,  una  Matricola  della  Cittadinanza,  che  comincia  dal  secolo  XV  e 
arriva  sino  a  mezzo  il  XVIII.  Non  sapremmo  adesso  indicare  precisa- 
mente in  che  proporzione  vi  stieno  i  casati  tedeschi  rispetto  agli  italiani  ; 
ma  possiamo  assicurare  il  signor  Schneller,  che  il  numero  dei  primi  vi 
è  scarso  ;  tanto  scarso  da  averne  fatto  indurre  sin  da  allora  che  a  Trento 
(come  per  massima  in  tutte  le  città  fornite  di  certa  autonomia)  si  fosse 
molto  gelosi  un  tempo  nell' accordare  diritto  di  cittadinanza  ai  forestieri. 
L'opinione  che  s'è  formata  in  noi  circa  al  numero  dei  tedeschi  a  Trento,  nel 
tempo  della  maggior  frequenza,  ossia  sul  finire  del  secolo  XV,  è  che  essi  fos- 
sero una  quinta  parte  (se  non  anche  meno)  della  popolazione.  Difatti  il 
quartiere  ove  abitavano  in  maggior  numero  (la  cosi  detta  Covtrada  te-- 
desca^  con  parte  del  vicino  sobborgo  di  San  Martino)  era  piccola  parte 
della  città.  I  tedeschi  erano  bensì  costituiti  in  Nazione,  come  si  diceva 
allora;  e  come  tali  avevano  un  proprio  ospedale;  ma  si  noti  che  di 
ospedali  pei  cittadini  italiani  se  ne  contavano  allora  tre.  Si  osservi  an- 
che che  i  tedeschi  non  avevano  parrocchia  propria,  ma  usavano,  in  co- 
mune cogli  italiani,  della  chiesa  di  San  Pietro;  una  delle  quattro  par- 
rocchiali della  città. 

Circa  alla  parte  che  spettava  agli  abitanti  tedeschi  nelF  amministra- 
zione del  Comune,  lo  Stato  Udalriciano,  anteriore  a  quello  del  Clesio 
(fu  compilato  nel  1491  e  promulgato  alla  stampa  nel  1504)  ci  dà  notizie 
precise;  e  tali  da  venire  in  conferma  della  opinione  da  noi  esposta.  Il 
capitolo  LXXX  stabiliva  che  a  far  parte  del  Magistrato  Consolare  (co- 
me si  vede  era  risorto  T  antico  nome)  potesse  eleggersi  qualunque  cit- 
tadino, senza  distinzione  di  nazione;  nulla  però  era  ingiunto  di  partico- 
lare su  tale  proposito.  Bensì  al  capitolo  LXXXII  veniva  prescritto,  che 
delle  otto  persone  (due  per  ciascun  quartiere)  chiamate  a  coadiuvare 
i  Consoli  nel  sindacato  de' magistrati  usciti  d'ufficio,  ed  in  altre  incum- 
benze,  due  almeno  dovessero  essere  tedeschi.  Ma  l'autorità  di  costoro, 
ognuno  il  vede,  non  era  grande;  oltrecché  è  a  credersi  che  la  pre- 
scrizione del  codice  Udalriciano  andasse  presto  in  disuso,  perché  lo  Statuto 
del  1528  la  ommise  del  tutto.  Sarebbe  stato  ciò  possibile,  se  soli  quaran- 
t'anni  prima  i  tedeschi  avessero  tenuto  il  di  sopra  per  numero  ed  autorità? 
Del  resto,  per  negare  la  prevalenza  de'  tedeschi  nel  Magistrato  Consolare, 
non  abbiam  bisogno  di  ricorrere  soltanto  all' induzione,  restandoci  nel- 
l'Archivio e  nella  Biblioteca  di  Trento  documenti  abbastanza,  da  cui 
ricavar  la  serie  di  Consoli,  che  ressero  la  città  nei  tempi  di  cui  parliamo. 
Ne  incresce  di  non  aver  avuto  agio  ed  opportunità  a  quelle  più  minute 


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ROMANZA,  X.'  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  153 

ricerche  che  sarebbero  bisognate  per  rintracciare  i  nomi  di  coloro  cbe 
siedettero  nel  Magistrato  consolare  l'anno  1483;  Tanno  vale  a  dire  pel 
quale  il  frate  svevo  dettò  quelle  sue  peregrine  notizie  (1).  Tuttavia 
possiamo  dare  la  serie  dei  Consoli  dal  1470  al  1478,  desunta  da  antichi 
Cataloghi  della  Biblioteca;  ed  è  la  seguente: 

A.  1470.  M/  Armanu8  de  Feltro  Artium  et  Medicinae  Doetor  ;  Callepinus  de  Calle- 

pinis,  J.  2>.  de  Tridento;  Joachinus  Noi,'  de  Lasino;  Tremenus  de  Pesociis 

de  rric/en^o;  Sigismundus  Saraainus  ;  Odoricus  o,  Saie  Notar ius  ;  Martinus  a 

Pesce  de  Allemania. 
A.  1471.  Cristophorus  de  Mnlinis;  Antonius  Gervasiua  de  Nigris;  Jesamundus  Nota^ 

riu8  de  Arco  ;  Nicolaus  de  Mercadentis  ;  Joannes  Franciscus  de  Sicchis  ;  M/ 

Aldrigettus  aurifex;  Michael  a  Rosa. 
A.  1472.  M.*"  Joannes  de  Aretio  Artium  et  Medicinae  D.*";  Federicus  de  Paho;  Tho- 

masinus  de  Callepinis;  Cristophorus  Cibichinus;  Donatus  a  Birettis;  Giraldus 

Strafonerius  ;  M/  Joannes  Ungerle  niiparitis, 
A.  1473.  Joannes  Antonius  de  Vaschettis  de  Tridento  j  Legum  D/  ;  M.*"  Arcangelus  de 

Capris  de  Tridento,  A,  L.  et  Medicinae  D/,  Balzanus  de  Balzanis  de  TH- 

dento,  Jurisperitus ;  Vigilius  Schrattenperger;  M.'.  Giroldus  a  Pasolis;  Gi- 

rardus  Mirana;  M.»"  Martinus  Sartor. 
A.  1474.  Antonius  de  Fattis  de  Trilaco  L.  D/;  Odoricus  de  Bretio  Juriap,;  Luchi- 

nus  de  Gargnano;  Vigilius  de  Paho;  Pellegrinus  de  Mantuanis  de  Cwneio; 

M.*"  Cristophorus  Venetianus;  Mj  Leonardus  Cramer. 
A.  1475.  Melchior  de  Facinis  de  Padua^  Legum  D/;  Joannes  de  Callepinis;  Augu- 

stinus  de  Grigno  ;  Tremenus  de  Pesociis  ;  Julianus  Gardellini  ;  Joannes  Pau- 

renfaint;  Cristophorus  Notarius  de  Cadeno. 
A.  1476.  Franciscus  Gelpus;  Antonius  Gervasius  de  Nigris,  Joannes  Maria  de  Lipis; 

Antonius  Bonmartini;  Tremenus  de  Pesociis,  Julianus  de  Gardellinis  (2). 
A.  1477.  Joannes  Antonius  de  Vaschettis,  Legum  D/;  Odoricus  Notarius  a  Sale; 

JoB^nnea' Notarius  de  Lasino;  Petrus  Ranzus,  Notarius;  Sigismundus  Sara- 

cenus;  Cristophorus  de  Mulinis;  Michael  a  Rosa. 
A.  1478.  Paulus  de  Fattis  de  TrUacu,  Leg,  D/ ;  Federicus  a  Paho;  Geli asius  de  Campo; 

Lucas  Fustini;  Gratiadeus  Gallasus  Notarius;  ÌS.J  Odoricus  Trober. 

Sopra  cinquautadue  persone  adunque,  sei  o  sette  sole  che,  al  nome  del 
casato,  si  possano  dire  di  origine  tedesca.  E  dobbiam  credere  che  la  pro- 
porzione non  si  alterasse  negli  anni  appresso.  Molti  ed  importanti  di- 
ritti aveva  conservato  la  cittadinanza  di  Trento,  malgrado  le  vicende  dei 
tempi;  tra  cui  quello  di  discutere  e  proporre  le  mutazioni  agli  Sta- 


li) Il  chiarissimo  signor  Francesco  Am-  t)ero  bisognate  molte  e  pazienli  indagini,  a 

^f08i,  bibliotecario  municipale  di   Trento,  cui  non  bastava  il  tempo,  di  cui  potevamo 

*lla  cui  cortesia  andiamo  debitori  dell'elenco  disporre  nel  dar  fuori  questo  scritto. 
<!«' Consoli  che  diamo  qui  appresso,  ci  scrive  (2)  Per  quest'anno,  come  anche  pel  1478, 

che  nei  registri  o  cataloghi  che  egli  potè  i  registri  della  Biblioteca  di  Trento  danno 

conauliare,  s'incontra  una  lacuna  che  va  dal-  soli  sei  nomi;  mentre  il  numero  de' Consoli 

1  anno  I479  al  1486.    Per  riempirla  sareb-  doveva  essere  per  massima  di  sette. 

10* 


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154  B.  MALFATTI  [csiornale  di  filologia 

tuti  ;  non  ritenendosi  obblig  ata  dalle  leggi  o  dalle  prescrizioni  che  altri 
avesse  emanato  senza  il  suo  consenso  (1).  Spettava  altresì  al  Magistrato 
Consolare  di  presentare  al  Vescovo,  di  anno  in  anno,  il  nome  del  Vi- 
cario 0  Pretore  a  cui  sarebbe  commesso  di  presiedere  all' amministrazione 
della  giustizia;  il  quale  Pretore  ebbe  a  riprendere,  circa  Tanno  1450, 
r  antico  titolo  di  Podestà.  Le  norme  stabilita  per  il  podestà  ed  i  suoi 
oflSciali,  erano  quelle  stesse  che  vigevano  un  tempo  nei  liberi  Communi 
italiani.  Fra  le  altre  prescrizioni  era  anche  quella  che  il  podestà  fosse 
nato  fuori  della  diocesi;  prescrizione  che  fu  intesa  sempre  nel  senso 
che  avesse  ad  essere  di  provincia  italiana.  Nel  1481,  cioè  due  anni 
prima  che  venisse  a  Trento  il  frate  Felice  Faber,  era  podestà  un  Gian- 
vittore  de  Burgasio  da  Feltre,  e  nel  1484  un  Paolo  de  Oriano  di  Brescia. 
Negli  elenchi  che  (per  essere  stati  compilati  in  tempi  più  tardi  )  hanno 
qua  e  là  delle  lacune,  ci  sono  ricordati  pel  secolo  XV  i  nomi  di  qua- 
ranta Pretori  o  Podestà  ;  dei  quali  sappiamo  con  certezza  che  9  furono 
nativi  di  Padova,  6  di  Bologna,  4  di  Brescia,  2  di  Mantova,  2  di  Bergamo, 
2  di  Feltre,  2  di  Verona,  ed  1  di  ciascuna  delle  seguenti  città  :  Pavia, 
Ferrara,  Carpi,  Marostica,  Bassano  e  Pordenone.  E  come  a  Trento, 
(la  cui  Pretura  si  estendeva  su  di  un  territorio  che  conta  oggidì  oltre 
ai  50000  abitanti)  così  nelle  valli,  di  oflBciali  propriamente  tedeschi  non 
v'erano  che  i  comandanti  delle  milizie,  o  i  castellani  messi  dai  Conti 
tirolesi.  Nel  1483,  siedendo  vescovo  Giovanni  Hinderbach,  era  burgravio 
del  Castello  del  Buon  Consiglio  (la  residenza  vescovile)  un  Giovanni 
Rezner  (2).  Sei  vescovi  tennero  la  sede  trentina  durante  il  secolo  XV; 
venuti  tutti  e  sei  di  Germania  ;  così  essendo  desiderio  od  interesse  dei 
signori  del  Tirolo;  i  quali  procuravano  anche  di  popolare  il  capitolo  di 
loro  partigiani,  tedeschi  di  nascita.  Se  il  domenicano  d'Ulma,  allorché 
diceva  che  i  Rettori  della  città  erano  tedeschi,  si  fosse  inteso  di  parlare  del 
Vescovo,  di  alcuni  canonici,  e  del  capitano  delle  milizie,  non  avrebbe 
detto  propriamente  cosa  falsa.  Ma  noi  sappiamo  quanto  circoscritta  e 
debole  fosse  ormai  l'autorità  di  governo  del  Vescovo  e  del  Capitolo;  e 
ad  ogni  modo  il  frate  spropositava  asserendo  che  i  cittadini  tedeschi 
formavano  mezzala  popolazione,  ed  erano  gli  arbitri,  per  dir  cosi,  della 
cosa  pubblica.  La  colonia  tedesca  a  Trento,  per  quanto  ci  è  dato  rilevare 
dai  documenti  ed  arguire  dalle  sue  vicende,  non  potè  essere  che  una  ag- 
gregazione avveniticcia  e  mutabile  di  offiziali,  di  mercadanti,  di  artieri  ;  non 
mai  un  corpo  compatto  di  possessori.  Gli  artigiani  in  ispecie,  quantunque 
ordinati  in  corporazioni,  dovettero  per  la  forza  delle  cose  italianizzarsi 
di  mano  in  mano,  come  ne  addurremmo  più  sotto  le  prove. 


(l)  Statuti  di  Trento  (Introduzione  di  G.  Cresseri,  intese  appunto  ad  esporre  e  so- 
T.  Gar),  p.  XXIII;  e  inoltre  le  Ricerche  stenere  le  antiche  franchigie  del  Municipio. 
storiche,  da  noi  citate  prima,  del  barone  G.  (2)  Alberti,  Annali,  p.  374. 


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toMANZA.  «.*>  2]       GLI  IDIOMI  PABLATI  NEL  FBENFINO 


155 


Del  non  aver  saputo  V  elemento  tedesco  prendere  consistenza  nel 
Trentino,  anzi  dell'aver  dovuto  cedere  all'italiano,  sin  quasi  a  scompa- 
rire, il  signor  Schneller  accagiona  particolarmente  il  clero.  E  non  di- 
remo ch'egli  s'apponga  al  falso.  Certo  che  l'elemento  latino  ebbe  dalla 
Chiesa  un  sostegno  efficace.  I  vescovi  furono  bensì  tedeschi  per  quasi  due 
secoli,  e  di  canonici  tedeschi  il  capitolo  ne  ebbe  a  contare  molti  (1);  ma 
i  curatori  d'anime  erano  quasi  tutti  italiani;  e  le  relazioni  con  Roma  si 
mantenevano  tanto  piìi  strette  ed  ossequiose,  quanto  più  era  sentito  il  bi- 
sogno di  averne  difesa  contro  gli  arbitrii  e  le  soperchierie  dei  Conti  tiro- 
lesi. Del  resto  l'elemento  italiano,  più  che  nella  Chiesa,  trovò  forza  in 
se  medesimo:  nell'indole  sua  tenace  ed  espansiva,  nelle  sue  tradizioni, 
nel  prevalere  legittimo  della  sua  cultura.  Trento,  nel  secolo  XV,  poteva 
ad  un  osservatore  superficiale,  che  guardasse  solo  alle  relazioni  politi- 
che, sembrare  città  della  Germania;  ma  etnograficamente  e  civilmente 
era  città  italiana  (2).  Degli  istituti  municipali  abbiam  fatto  cenno. 
Àggiugneremo  adesso,  che  l'instaurazione  intellettuale  per  cui  l'Italia  ve- 
niva a  precedere  ogni  altro  paese,  aveva  trovato  pronta  accoglienza  a 
Trento.  Quell'insigne  umanista  che  fu  il  vecchio  Guarino,  fu  chia- 
mato nel  1425  ad  insegnarvi  lettere  greche  e  latine.  Un  trentino,  Sicco 
de' Ricci  Polentone,  nomo  di  molti  studj,  godette,  sul  cominciare  del 
secolo,  di  bella  reputazione  a  Padova;  e  tra  i  canonici  di  Trento  tro- 
viamo, circa  il  1450,  un  Jacopo  Sceba  di  Cipro,  già  Pro-rettore  delU> 


(1)  Giusta  accordi  presi  coi  Conti  del  Ti- 
rolo,  il  Capitolo  doveva  comporsi  per  due 
terzi  dì  canonici  di  nazione  germanica;  ma, 
formando  il  Principato  parte  delPlmpero,  i 
suoi  abitanti,  e  quindi  anche i  Trentini, erano 
considerati  di  quella  nazione.  La  maggio- 
ranza del  Capitolo  non  si  compose  forse  mai 
di  veri  tedeschi.  Tra  il  1470  ed  il  1480  ai 
tempi  dell*  Hinderbach,  si  contavano  sei  cano- 
nici di  casato  tedesco,  otto  di  italiano  (Bo- 
NBLLi,  Monum.  p.  288).  I  Conti  tirolesi  im- 
posero quella  convenzione  per  assicurarsi 
meglio  del  Capitolo,  evitando  che  v'avessero 
ad  entrare,  come  accadeva  in  passato,  molti 
cherìci  nativi  delle  vicine  città  italiane. 

(2)  Nella  Legazione  all'Imperatore,  che 
è  tra  quelle  del  Machiavelli,  si  legge  una 
lettera  (N.o  VII)  di  Francesco  Vettori  in 
data  di  Bolgìano,  14  febbrajo  1507,  che  viene 
a  confermare  il  nostro  asserto.  Si  trattava 
di  aoa  somma  di  50,003  Horini  d'oro,  da  pa- 
garsi dai  Fiorentini    a   Massimiliano,  che 


s'era  avviato  verso  l'Italia  per  farsi  inco^ 
ronare  imperatore.  Ora  il  Vettori  scrive  alla 
Signoria:  «  Io  avendo  bene  esaminata  la  let- 
tera vostra,  non  volli  fare  altra  offerta;  per- 
ché promettere  cinquantamila  e  la  prima 
paga  in  Italia  in  terra  non  sua,  vedevo  of- 
frir cosa  da  non  essere  accettata;  e  promet- 
tere la  prima  paga  a  Trento,  non  mi  parve, 
per  veder  le  cose  dell'impresa  piuttosto  al- 
largare che  ristringere.  E  perché  vostre  si- 
gnorie intendino,  io  scrissi  per  la  de' 17 
avere  inteso  Trento  essere  in  Italia,  e  che 
promettendo  la  prima  paga  in  una  terra 
tutta  in  Italia f  poteva  l'Imperatore  cavil- 
lare, e  addomandargli  a  Trento,  e  però  volli 
che  vostre  signorie  lo  considerassi  no  »  ecc. 
Sarebbe  stato  veramente  un  cavillo  di  Mas- 
similiano a  dire  Trento  città  tutta  in  Italia, 
dappoiché  faceva  parte  dell'Impero;  ma  che 
cosa  avrebbe  potuto  dar  colore  di  verità  al 
cavillo,  se  non  la  lingua,  i  costumi,  e  le  tra- 
dizioni degli  abitanti? 


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156  B.  MALFATTI  [oiokkalk  di  filologia 

studio  padovano  (1).  Nel  1476  veniva  introdotta  a  Trento  Tarte  tipo- 
grafica; e  nel  1472  usciva  da'  torchi  La  Catima  (traduzione  del  Lusus 
Ebriorum  del  Sicco  ricordato  dianzi)  che  si  crede  la  prima  comedia  in 
lingua  italiana  che  fosse  pubblicata  per  le  stampe  (2).  Il  vescovo  Hin- 
derbach  stesso,  sebbene  di  famiglia  assiano,  aveva  fatto  gli  studj  a  Pa- 
dova, ed  era  stato  ordinato  prete  a  Milano.  Era  grande  raccoglitore 
di  libri  ;  e  nella  sua  corte  si  verseggiava  in  italiano  (3).  Gli  edifizj  del 
secolo  XV,  e  Trento  ne  conserva  parecchi  e  notevolissimi,  s'impron- 
tavano allo  stile  veneziano  dei  tempi  di  Guglielmo  Bergamasco  e  dei 
primi  Lombardi.  Lungo  sarebbe  a  discorrere  del  favore  che  trovarono 
a  Trento  le  arti  e  le  lettere  italiane  per  la  munificenza  del  principe- 
vescovo  Bernardo  Clesio  (1514-1539)  e  dei  Madruzzi  suoi  successori. 
Molti  artefici  di  bel  nome  ed  uomini  studiosi,  il  Dossi,  il  Romanino, 
Marcel  Figolino,  il  Volterrano,  il  Brusasorci ,  il  botanico  Mattioli,  il  man- 
tovano Gian  Pirro  Pincio,  primo  narratore  della  storia  di  Trento  (4), 
furono  chiamati  alla  corte  di  quei  Principi,  e  lasciarono  nel  paese  ampli 
documenti  del  loro  gusto  squisito,  o  del  loro  sapere  (5).  E  Trento,  per 
suo  conto,  dava  in  quel  secolo  all'Italia  uno  scultore  di  non  piccolo 
grido,  Alessandro  Vittoria. 

Potremmo  seguitare  un  buon  tratto,  se  fosse  intendimento  nostro 
di  mostrare  come  il  Trentino,  dal  quattrocento  in  poi,  non  fosse  ulti- 
mo tra  i  paesi  italiani  nel  prendere  parte  alla  cultura  nazionale,  ed  anche 
nel  promoverla.  Ma  ciò  uscirebbe  del  nostro  assunto;  che  era  unica- 
mente di  indicare  in  che  parti  la  Memoria  delle  Mittheilungen  venisse 
ad  urtare  contro  la  realtà  dei  fatti,  per  ciò  che  spetta  al  Trentino. 
Venuto  agli  ultimi  tre  secoli,  il  signor  Schneller  è  molto  più  nel  ve- 
ro; ammette  cioè  che,  a  datare  dal  secolo  XVI,  l'elemento  italiano 
avesse  tanto  vigore  da  soverchiare  l'altro,  o  da  riguadagnare  (questo 
modo  di  dire  ne  sa  più  giusto)  quello  che  aveva  perduto  in  addietro  nel- 
l'alta Valsugana  ed  intorno  a  Pergine,  e  presso  alle  foci  del  Noce  e  ad 
oriente  da  Rovereto.  Per  spiegare  questo  fatto,  il  signor  Schneller  ricorre 
agli  argomenti  del  clero  intento  a  romanizzare  il  popolo  in  tutti  i  modi , 
e  delle  comunicazioni  più  frequenti  e  facili  col  mezzodì  che  non  col 
settentrione.  Ma  delle  qualità,  o  dell'energia  propria  all'elemento  ita- 
liano, non  tiene  tutto  il  g^nto  che  avrebbe  dovuto  ;  né  fa  parola  simil- 


(1)  BoNELLi,  Monumenta  Eocl.  Trid.,  stenti  nelPArchivio  Vescovile,  e  nel  Capi- 
p.  289.  tolare,  p.  363-403. 

(2)  FrapportIjG.  Storia  del  Trentino,  (4)  Iani  Pyrrhi  Pi^cii ^  De gestis  ductim 
p.  549.  Tridentinomm  etc.  Libri  duo,  Mantuse,  1546, 

(3)  Si  vegga  il  Sonetto  riportato  dal  Bo-  (5)  //  magno  palazzo  del  Cardinal  di 
NELLI  {Monum.  pag.  3^5),  e  nello  stesso  Trento,  descritto  in  ottava  rima  da  Pier 
tempo  il  Catalogo  dei  280  Codici  mss,  esi-  Andrea  Mattioli,  senese;  Trento,  1858. 


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laiiANZA,  N.o  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  157 

mente  di  altre  cause,  di  natura  morale,  economica  e  politica,  le  quali 
furono  pure  efiScacissime.  Avvertiremo  quindi,  per  conto  nostro,  che 
sebbene  la  superiorità  dei  signori  absburghesi  sul  Principato  fosse  quella 
stessa  di  prima,  la  loro  ingerenza  nelle  cose  interne  del  paese  s'era  fatta 
se  non  altro  meno  insistente  e  molesta.  I  vescovi  succeduti  a  Ber- 
nardo Clesio  furono,  come  lui,  quasi  tutti  trentini;  né  certo  potrà  sor- 
prendere che  l'elemento  nazionale  trovasse  in  essi  dei  naturali  e  talora 
incoscii  sostenitori,  quando  nelle  corti  stesse  di  Vienna  e  di  Innsbruck 
la  poesia  e  le  arti  italiane  erano  considerate  come  i  più  eletti  strumenti 
di  cultura.  Ed  altre  ragioni  si  potrebbero  addurre  della  prevalenza  te- 
nuta dall'elemento  italiano  nel  Trentino.  Ma  qui  non  è  luogo  a  ciò; 
né  è  pure  il  caso  di  esaminare  come  la  lingua  italiana,  venga  avanzando 
tuttavia  con  passo  lento  ma  continuo  per  la  valle  dell'Adige  verso 
Bolzano;  e  come  gli  attuali  reggitori  s'adoperino  da  un  lato  ad  arre- 
stare questo  movimento,  e  d'altro  canto  a  mantenere  una  vita  fittizia 
nella  scarsissima  popolazione  tedesca,  che  si  trova  dispersa  nel  Trentino. 
Questo  ne* condurrebbe  a  parlar  di  politica;  e  noi,  in  queste  pagine,  non 
ci  siamo  proposto  altro  che  di  salvare  le  ragioni  della  storia.  La  quale, 
a  chi  la  interroghi  con  animo  spassionato,  non  potrà  a  meno  di  dire, 
che  l'elemento  latino  fu  sempre  il  più  numeroso  e  civile  nella  città  di 
Trento  e  nelle  valli  intorno;  e  che  il  Trentino,  nel  medio  evo,  tu  italiano 
per  lingua,  per  costumi  e  per  tradizioni,  non  meno  che  lo  sia  oggidì. 

IL 

Sogliono  i  glottologi,  classificando  i  dialetti,  annoverare  il  trentino 
fra  quelli  del  gruppo  veneto.  Né  è  da  mettersi  in  dubbio,  che  oggidì 
il  parlare  di  Trento  tenga  più  strette  attinenze  con  questa,  che  non 
con  altra  delle  vicine  famiglie  di  vernacoli.  Due  cose  tuttavia  sono  da 
avvertirsi;  e  prima,  che  dal  presente  non  si  deve  inferire  al  passato  più 
lontano;  che  dalle  odierne  somiglianze,  cioè,  non  s'ha  da  arguire  a 
communanza  d'origini,  o  ad  identità  di  stipite  etnografico;  in  secondo 
luogo  poi  che  il  dialetto,  da  dirsi  propriamente  trentino,  non  è  par- 
lato che  in  una  parte  del  paese.  Per  dar  consistenza  a  queste  asser- 
zioni, e  procurare  insieme  maggior  chiarezza  ai  fatti  glottologici  che 
saremo  per  addurre  in  seguito,  stimiamo  opportuno  di  porgere  qui  al- 
cune notizie  intorno  agli  elementi  di  cui  s'  è  venuta  componendo  la  po- 
polazione trentina;  elementi  dei  quali  porta  tuttavia,  più  o  meno,  le 
differenti  impronte  (1). 


(1)  Non  ci  sembrando  il  caso  di  dovere  alle  genti  più  antiche  che  popolarono  il  Tren- 
^PP<>ggJa.re  di  volta  in  volta,  coir  altrui  au-  tino,  indicheremo  i  libri  che  ne  possono  pro- 
torilà,  le  notizie  che  siamo  per  dare  intorno     curare  altrui  giusta  cognizione,  e  che  ab- 


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158  B.  MALFATTI  [<;iorxale  di  filologia 

Il  Trentino,  ossia  quella  parte  del  dominio  tirolese  che ,  dalla  stretta 
di  Cadino,  al  sud  di  Salomo,  si  distende  sino  air  antico  confine  veneto 
tra  Borghetto  ed  Osenigo  (non  indichiamo  altri  confini,  perché  da  ogni 
mediocre  carta  si  possono  rilevare  facilmente)  è  un  territorio  di  6330 
chilometri  quadrati,  con  345000  abitanti.  Non  più  che  7000  di  qnesti 
parlano  dei  rozzi  vernacoli  tedeschi;  e  si  trovano,  per  dir  così,  dispersi 
in  piccole  isole  sporadiche  nelle  valli  dell' Avisio,  del  Fersina  e  del 
Brenta,  e  in  quella  del  Noce.  Scarsi  di  numero,  disgregati,  ed  in  con- 
dizioni economiche  non  certo  le  più  prospere,  vivono  pressoché  igno- 
rati nel  paese;  né  possono  sperare,  tale  almanco  è  il  nostro  avviso,  di 
mantenere  a  lungo  il  proprio  idioma  contro  quello  che  li  strigne  tut- 
t' air  intorno.  Degli  abitanti  del  Trentino  338000  adunque  sono  da  as- 
segnarsi glottologicamente  alla  famiglia  italiana,  o,  per  parlare  più 
proprio,  al  gruppo  latino;  avvegnaché  60000  d'essi,  all' incirca,  ado- 
perino nell'uso  cotidiano  delle  parlate,  che  pur  rivelando  i  lunghi  e  po- 
tenti influssi  della  lingua  italiana,  mostrano  tuttavia  l'antica  e  stretta 
attinenza  colla  famiglia  degli  idiomi  reto-romani,  o  ladini  come  li 
chiama  l'Ascoli.  Abitano  costoro  le  valli  di  Non  e  di  Sole  sulla  destra 
della  Val  d'Adige;  e  sulla  sinistra  tengono  quasi  tutta  la  valle  del- 
l'Avisio;  da  Cembra,  per  Fiemme,  sino  a  Fassa.  Sottraendo  questi,  re- 
stano 278000  abitanti,  che  occupano  per  intiero  la  Val  d'Adige  da  San 
Michele  al  Borghetto,  e  quasi  tutto  il  tenére  di  Pergine;  poi  la  Val- 
sugana  e  le  valli  di  Tesino  e  Primiero;  poi  i  distretti  di  Vezzano,  Arco, 
e  Riva,  la  Val  di  Ledro  e  le  tre  valli  delle  Gindicarie.  Da  tutti  co- 
storo si  può  dire  che  venga  parlato  il  dialetto  trentino,  chi  lo  consideri 
nei  momenti  più  generali.  Che  se  l'esame  proceda  più  minuto,  e  pigli 
ad  analizzare  i  fenomeni  speciali  (quelli  particolarmente  d'ordine  fonetico) 
sarà  mestieri  venire  a  nuove  distinzioni  ;  perché  la  Valsugana  bassa  e 
Primiero  ci  presenteranno  voci  e  suoni  da  confondersi  con  quelli  usati 
nelle  vicine  terre  di  Bassano  e  di  Feltre;  mentre  chi  da  Trento  o  da 
Riva  s' inoltri  nelle  Giudicarie,  troverà  vernacoli  intermedj  fra  i  lom- 
bardi e  i  ladini;  sinché  nell'ultima  Rendena  verrà  ad  incontrare  forme 
schiettamente  ladineggianti. 


biamo  particolarmente  consultato  circa  a  tale  Tirols  (Innsbruck ,  1872  );  Bidermann,  H.  J., 

materia.— GiovANELLi  Benedetto,    Tren-  Die  Romanen  und  ihre   Verbreitung  in 

to  città  de*  Rezj  e  colonia  romana  fTren-  Oesterreich  (Graz,   1877).    Omettiamo  gli 

to,  1824  e  1825);  Pensieri  sull'origine  dei  scritti  minori  e  le  memorie  di  materie  etno- 

popoli  d'Italia  (Trento,  1844);    Steub  L.,  grafica  o  archeologica,  che  l'elenco  ne  sareb- 

Zur  Rhàtischen    Etimologie    (Stoccarda,  be  troppo  lungo.    Lo  studioso  potrà  con  fa- 

1854);  TniERRy  Am.,  Histoire  des  Gaulois  cilità  averne  contezza,  anche  solo  scorrendo 

(Parigi,  1874);  Mommsen,  Storia  Romana  le  opere  generali  accennate  dianzi. 
(Milano,  Guigoni);  Egter,  J  ,  Ocschichte 


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ROMANZA,  N.*  2)       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TREKIINO  159 

Chi  voglia  distiuguere  a  tutto  rigore  adunque,  nou  sarà  per  asse- 
gnare al  dialetto  trentino  propriamente  detto  che  la  valle  dell'Adige, 
quale  ebbiuio  a  segnarla  prima,  coi  territorj  o  distretti  contermini  di 
Pergine,  Levico,  Vezzano,  Arco  e  Riva;  beninteso  che  anche  su  que- 
st'area più  augusta,  dove  si  contano  oggidì  180000  abitanti  all' incirca, 
s'incontreranno  varietà;  sebbene  non  tali  da  costituire  sotto-dialetti,  quali 
si  potrebbero  considerare  i  parlari  della  bassa  Valsugana  e  di  Primiero, 
e  quelli  delle  Giudicarie  esteriori  e  centrali. 

Lasciato  il  tedesco  fuor  del  conto  (e  veramente  non  ci  entra  per 
la  sua  esiguità),  due  famiglie  d'idiomi  si  stanno  accanto  nel  Trentino: 
l'italiana  e  la  ladina.  D'intrattenerci  su  quest'ultima  non  ne  accade, 
dopoché  l'Ascoli  ebbe  a  darne  quell'ampia  illustrazione,  che  segna  epoca 
nella  storia  degli  studj  glottologici.  Toccandone  quindi  solo  quel  tanto 
che  occorre  a  rischiarare  il  soggetto,  noi  ci  fermeremo  piuttosto  sui  par- 
lari italiani,  ossia  sul  dialetto  trentino;  guardandolo  principalmente  con 
l'occhio  di  chi  coltiva  la  storia;  quantunque  non  sarà  ommesso  da  noi 
di  dare  il  debito  rilievo,  negli  esempj  in  ispecie,  a  quei  momenti  ed  a 
quei  fatti  che  possono  interessare  piii  da  presso  chi  s'applica  alla  com- 
parazione dei  linguaggi. 

Un  fatto  di  cui  s'ha  a  tener  conto  anzitutto,  un  fatto  che  ne  si 
presenta  costante  nei  dialetti  trentini  (anche  là  dove  furono  continui 
gli  influssi  della  lingua  letteraria,  e  piii  frequenti  le  relazioni  colle  vi- 
cine Provincie  della  Venezia  e  della  Lombardia;  nelle  città  adunque, 
nelle  grosse  borgate,  nelle  Valli  dell'Adige  e  del  Brenta,  e  sulle  rive 
del  Garda)  è  il  perdurare  d'indizj  ladini.  Abbiam  detto  indizj,  ma  sa- 
remmo più  esatti  a  chiamarli  reliquie;  avvegnaché  quelle  voci  o  quei 
snoni  ci  richiamino  ad  un  substrato  commune  antichissimo  ;  a  quel  la- 
tino rustico,  cioè,  che  dovette  parlarsi  nella  Rezia,  dopoché  fu  ridotta 
a  provincia  romana.  Da  quale  stirpe  provenissero  i  Reti,  e  in  quale 
parentela  stessero  coi  Celti  e  cogli  Italici,  è  quesito  pieno  d'interesse 
certamente,  ma  arduo,  intricato,  e  al  quale  non  potremmo  metter  mano 
senza  uscire  dei  limiti  che  ne  siam  qui  prefissi.  Diremo  nompertanto 
di  stare  con  chi  s'  avvisa  che  le  regioni  alpine  dalla  Valle  del  Rodano  a 
quella  della  Drava  (non  intendiamo  già  di  precisare  i  confini)  fossero 
abitate,  ai  tempi  in  cui  i  Galli  tenevano  pressoché  tutta  la  pianura  del 
Po,  da  popolazioni  affini  ad  essi  o  per  origini,  o  per  mescolanze  ve- 
tuste, o  per  diuturni  contatti.  Le  notizie  degli  storici  e  geografi  anti- 
chi, accordandosi  colle  recenti  indagini  intorno  agli  idiomi  gallo-italici, 
ci  fenno  arguire  che  l'elemento  celtico,  un  tempo,  fosse  diffuso  e  forte 
anche  nella  Rezia,  sebbene  non  tanto  da  impedire  che  vi  penetrasse  o 
vi  durasse  qualche  vena  di  altri  elementi  etnografici;  di  quelli,  cioè,  che, 
malgrado  tutte  le  vicende,  avevano  saputo  conservare  una  certa  vita- 
lità di  fronte  od  accanto  ai  conquistatori. 


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160  B.  MALFATTI  1«iornale  di  filologia 

RistrÌDgendo  Tesarne  al  solo  territorio  trentino  (e  la  storia  istessa 
lo  consente)  diremo  essere  cosa  non  tanto  verosimile  quanto  certa,  che 
già  per  tempo  vi  fossero  penetrate  infiltrazioni  di  Liguri,  di  Veneti, 
di  Etrusci:  e  di  questi  ultimi  in  ispecie.  Se  gli  Etrusci  poi  vi  venis- 
sero come  fuggiaschi,  ai  tempi  della  invasione  gallica,  o  non  piuttosto 
per  effetto  della  forza  espansiva  che  è  propria  ai  popoli  civili  rispetto 
ai  men  culti,  non  istaremo  qui  a  discutere.  Diremo  invece  che  di  mo- 
numenti e  di  bronzi  portanti  iscrizioni  con  caratteri  etrusci  od  italioti 
se  ne  rinvennero  parecchi  nel  Trentino,  e  nel  Tirolo  propriamente  detto. 
Precisare  l'epoca  di  questi  monumenti  non  è  possibile;  ma  l'induzione 
più  accettabile  ci  sa  quella,  che  li  fa  più  antichi  della  dominazione  ro- 
mana. Notevoli  ad  ogni  modo  dovettero  essere  gli  influssi  etrusci  od 
italici;  e  saremo  per  attribuire  ad  essi  principalmente  che  la  lingua  la- 
tina sapesse  mettere  così  tosto  radici  nel  Trentino,  divenuto  provincia 
romana.  (Gli  eserciti  romani  vi  penetrarono  sino  dal  117  a.  C.)  Che 
i  Tridentini  si  latinizzassero  non  meno  rapidamente  dei  popoli  finitimi 
della  valle  padana,  il  possiamo  rilevare  da  ciò,  che  Augusto  li  destinava 
a  far  parte  della  decima  regione  italica,  insieme  cogli  abitatori  della 
Gamia,  dell'  Istria  e  della  Venezia;  ed  alla  Venezia  pare  che  fossero  si- 
milmente aggregati  nella  partizione  decretata  da  Adriano.  Di  una  dif- 
fusa e  vigorosa  latinità  nell*  antico  Trentino  fanuo  testimonianza  le 
molte  iscrizioni  che  vi  furono  scoperte;  alcune  delle  quali  concernenti 
sacri  od  ordinamenti  pubblici. 

Più  lento  sembra  fosse  l'avanzare  della  lingua  e  della  cultura  ro- 
mana nei  paesi  al  settentrione  di  Trento;  e  difatti  la  parte  maggiore 
della  Rezia  non  fu  unita  alla  Prefettura  d' Italia  se  non  ai  tempi  di 
Diocleziano  e  di  Costantino.  Comunque  fosse,  allorché  andò  a  spezzarsi 
la  unità  romana,  l'idioma  fattosi  proprio  alle  Rezie,  non  meno  che  al 
Trentino,  doveva  per  il  lessico  e  per  la  struttura  assomigliarsi  al  latino 
rustico;  mentre  in  certi  suoni  ed  in  certe  forme  particolari  avrà  pure 
conservato  traccia  della  favella  primitiva.  Alcuni  caratteri  di  quel  vol- 
gare latino-retico  possiamo  arguirli  dai  più  antichi  nomi  di  paesi  che, 
salvo  lievi  alterazioni,  si  sono  conservati  sino  ai  di  nostri;  possiamo  ri- 
cavarli inoltre  dall'esame  storico  degli  idiomi  ladini,  e  dalla  compara- 
zione dei  medesimi  con  le  favelle  romanze  che  tengono  seco  relazioni 
più  strette.  Se  i  nomi  di  luoghi  sul  fare  di  Ausugum^  Cardauns,  Gu- 
fidaun^  PcUnaun,  Clumneit^  Glaurait^  Fait^  Cleis,  Clom,  Florauz^  Ca- 
gnoìdt,  Staur,  Taurane^  Teines^  Tesians,  Telves;  e  se  quelli  di  popoli: 
Anaimes,  Genaunes,  Alaunes^  Leutres,  Breones,  mostrano  la  inclinazione 
a  quei  dittonghi  ed  a  quelle  s  finali ,  che  si  perpetuarono  negli  idiomi 
ladini;  l'esame  di  questi  idiomi  stessi,  quali  oggidì  si  presentano,  dovrà 
condurci  ad  arguire,  che  il  volgare  latino-retico  tenesse,  nelle  varie  sue 
fasi,  procedimenti  analoghi  a  quelli  onde   vennero  a  costituirsi   altri 


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ROMANZA,  N.«  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  IGl 

idiomi  romanzi;  che  la  formazione  de'  vocaboli,  vale  a  dire,  fosse  fon- 
data sulla  persistenza  deir accento  tonico,  ma  coli' unirvisL in  molti  casi 
la  soppressione  delle  vocali  brevi  non  accentate,  che  precedevano  la  sil- 
laba recante  l'accento  tonico;  ed  inoltre  il  dileguo  di  alcune  consonanti 
mediane,  o  il  loro  affievolimento,  oppur  anche  la  trasformazione  in  vo- 
cale. Questi  fenomeni  ne  si  presentano  frequenti  negli  idiomi  proven- 
zali. La  rassomiglianza  dei  parlari  ladini  del  Trentino  con  quelli  della 
Provenza  fu  cosa  avvertita  già  nei  secoli  passati  da  piìi  di  uno  studioso, 
e  con  maraviglia  ben  naturale  allora  (1);  né  la  somiglianza  andò  cancel* 
lata  peranco. 

Non  accade  quasi  soggiugnere,  che  le  proporzioni  con  cui  l'ele- 
mento più  antico,  o  retico,  si  venne  a  combinare  col  latino,  furono  di- 
verse, secondo  le  varie  regioni  e  il  variare  delle  circostanze;  sicché 
nella  Eezia  centrale  ebbe  il  primo  a  resistere  piiì  tenacemente  che  non 
nel  Trentino.  Ma  nel  Trentino  stesso  gii  influssi  idiomatici  e  civili 
della  signoria  romana  non  potevano  aver  ottenuto  da  per  tutto  la  me- 
desima efficacia.  Piiì  abbondanti  e  vigorosi  nei  luoghi  non  affatto  di- 
giuni de' rudimenti  d'urbanità,  oppure  in  prossimità  delle  stazioni  ro- 
mane (nella  valle  dell'Adige  adunque  e  nella  Valsugaua,  che  erano 
attraversate  Tuna  e  l'altra  da  strade  militari,  con  qualche  città  e  con 
castella  frequenti)  dovevano  farsi  strada  piìi  lentamente  nelle  valli  del 
Sarca,  del  Noce  e  dell' Avisio;  valli  di  difficile  accesso,  oppure  abitate 
da  genti  che  avevano  combattuto  animosamente  contro  le  prime  legioni 
di  Quinto  Marcio  Rege,  e  contro  quelle  di  Tiberio  e  di  Druso.  Le  con- 
dizioni etnografiche  della  Rezia  e  del  Trentino,  nel  medio  evo,  servono 
a  confermare  quanto  abbiam  detto.  Scarsi  di  numero,  (il  paese  era  co- 
perto per  gran  parte  di  selve)  e  latinizzati  da  meno  temgo,  gli  abita- 
tori della  Rezia  centrale  andarono  travolti,  per  così  dire,  dalle  fiumane 
degli  Alamanni,  dei  Bavari,  degli  Slavi;  non  essendo  rimaste  di  essi 
che  scarse  colonie  di  fuggiaschi  nelle  romite  e  povere  valli  della  Ga- 
dèra  e  della  Boite  (Badia,  Marco,  Livinalongo,  Ampezzo),  in  Gardena 
ed  in  Fassa;  dove  l'antico  linguaggio  potè  vivere  è  vero,  ma  impigrendo, 
come  il  mostrano  le  odierne  sue  forme.  Nel  Trentino  invece  l'elemento 
idiomatico  latino  seppe  non  solo  tener  testa  al  germanico;  ma,  trasfor- 
matosi in  vero  volgare  italiano,  seppe  render  partecipi  dei  propri  svi- 
luppi le  parlate  di  quelle  valli  stesse,  dove  l'elemento  retico,  come  in- 
dicammo testé,  aveva  saputo  resistere  più  lungamente. 

Notevole  davvero,  saremmo  quasi  per  dirlo  sorprendente,  è  il  fondo 
di  schietta  latinità  che  ha  saputo  conservare  il  dialetto  trentino.  Non 
possiamo  dispensarci  di   presentarne  qualche  saggio  al  lettore,  comin- 


ci) Mariani  M.  A.,  Trento,  Descrittiotìe  historica  (Trento,  1673),  p.  5G9. 

Il 


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162  7?.  MALFATTI  (ciornalk  di  kii.«!LO(;ia 

ciando  dai  vocaboli  che  ci  richiaraano  al  latino  letterario  od  arcaico,  e 
che,  in  part^alraanco,  possono  dirsi  esclusivamente  propri  al  parlare  di 
Trento. 

Agràr,  smuovere  ed  ammucchiare  pietre  {Aggerare);  Ambio ^  àmbi,  andatura 
0  maniera  acconcia  (Ambire)-,  Ameda,  zia  (Amita);  Antàna,  altana,  o  solaio  con 
davanti  un  ballatoio  (da  altus,  ma  forse  anche  da  anta);  Ara,  aja  (Area,  hara); 
Asola,  fibbiettina,  occhiello  (Ansula)  ;  Badil ,  badile  (BatiUum);  Brìga,  otre  (Bacar, 
Feste);  Bigoìa,  dimin.  di  Bacca,  tanto  nel  senso  di  coccola,  come  di  sterco  ovino, 
(v.  Pallad.);  Batóccio,  batacchio  (Batuere);  Bazilón,  legno  ricurvo  per  portare  vasi 
o  ceste  alle  sue  estremità  (Bajulare);  Bena,  grande  cesta  da  condursi  con  bovi 
(Benna,  Fe.st.);  Bina,  si  dice  di  due  pani  uniti;  Binar,  mettere  insieme,  raccogliere 
(Binus);  Boghe,  ceppi;  embogdr,  mettere  in  ceppi  (^oja?,  genus  vincolorum,  Fest.; 
Bogia,  torques  damnatorum,  Papias);  Bòra,  tronco  d' albero  {Bwra  =  manico  del- 
l'aratro, VaiT.);  Brocón,  fruttice  che  serve  di  letto  al  bestiame  (Brochon,  Plin.); 
Brozz;  veicolo  alpestre  a  due  ruote  (Pirotus);  Butt,  bottone,  gemma  (Buttare  = 
inflare);  Caliverna,  nebbia,  caligine  (Caligo  hiberna);  CaJzidrél,  secchia  di  rame  per 
r acqua  (da  kàlkeos  e  hi/dria);  Caról,  tarlo  (Caries);  Qenis,  cenere  calda  (Cmia); 
(Jesa,  siepe  baa<3a  di  spini  o  pruni  recisi  (Caesus)',  Cióppa,  coppia  di  pani;  Cobbia, 
coppia  di  cavalli  (Copula);  Cogn,  cuneo;  Cógner,  esser  forzato  a  fare  una  cosa  (Cu- 
neus,  cogere);  Cognóscer,  conoscere  (Cognoscere)-,  Colóbie,  lavature  e  rifiuti  per  ali- 
mento dei  maj  ali  (CoWwu/'e*);  Conzàl,  bigoncia,  (  Congiarium)  ;  Cornicio,  acquedotto 
murato  a  volta  (Cornii,  corwecM/Mw);  Criénte,  crivént,  grano  intristito  che  si  scevera 
dal  buono  per  pixstume  ai  polli  (Cribrare,  crivellum);  Cuna,  culla  (Cunula);  Delézer, 
scegliere  (delegere);  Diana,  il  far  del  giorno;  sonar  la  Diana,  sveglia  mattutina 
(Dies  0  Diana)  ;  De^'ipdr,  sciupare  qualcosa,  renderla  inetta  al T uso  (da  Dissipare,  o 
Decidere?)  ;  En  drittura,  in  linea  retta  (Directura  per  directio,  Vitruv.);  Famét,  fa- 
miglio rustico  (Famulus,  Famel,  Famulaticum,  Fest.);  Fizza,  piegatura;  Fizzól, 
filo  ripiegato  in  matassina,  (Fissio);  Feria,  gruccia,  sostegno  (Ferula);  Fól,  gual- 
chiera (FuUonius);  Frasette,  minuzzoli  di  cosa  spezzata  (Fragium);  Fratta,  terra 
dissodata  di  nuovo  (  Terra  fracta?);  Frudr,  consumare  una  cosa  nel  goderne  od  usarne 
(da  fruì,  piuttosto  che  da  fricare  o  frugare);  Gatizzola,  solletico  (CatuUire);  Gióf, 
giogo  (Jugum);  Gióm,  gomitolo,  (Glomus);  Gémer,  vomere  (  Vomer);  Gorgo  e  gorga 
(Gurges);  Intrég,  intiero  (Integer);  Isca  ,  alluvione  con  vegetazione  palustre  (Lisca); 
Ledrdr,  sarchiare  per  togliere  le  erbacce  (Liturare,  «  lituratum  agrum  »,  Grut.);  Lara 
lorél,  imbuto  (Lura);  Lugdnega,  lucanica  (Longano,  longabo);  Lùser,  splendere 
(Jjucere);  Malta,  cemento  di  calce  (Maltlui);  Mèda,  mucchio  (meta  foeni,  Plin.); 
Mengio,  tentennone,  minchione,  (Mencta,  mentula);  Migola,  bricciola  (Mica);  Móher, 
niugnere  (Mulgere) ;  Nevó ,  nipote  (Nepos);  Nizza,  nipote  (Neptia);  Orna,  misura 
di  vino  (Urna);  Pàbol,  foraggio  (Pabulum);  Pdnder,  manifestare  (Pandere);  Pa- 
noccia,  panocchia;  Panizzól,  panicchio  (Panucula) ;  Papa,  Papoldr,  mangiar  di 
gusto  (Pappare)  ;  Pavèl,  farfalla  (PapUio);  Pétola,  seccatore,  importuno  (Petulans, 
petulcus);  Pollastro,  pollo  (Pullastra  ;  Varr.)  ;  Pólsàr,  riposarsi  (Pausare)  ;  Popò,  bam- 
bino (Pupus);  Provdna,  propagine;  Emprovandr  (Propaginare);  PtUèll,  ragazzo 
(PutiUus);  Prodél,  cavalli  o  bovi  aggiunti  ad  un  veicolo  (ducere  protelo  aratrum, 
Cat.);  Rasin,  piccolo  grappolo  d'uva  (Bacemus):  Ràut,  terreno  sassoso;  Rautàr, 
dissodare  (72ode*s,  raudus,  Fest.);  Reddtol,  nome  d' ucceWo  (Regulus) ;  Besentdr,  ri- 
sciacquare,  ripulire  (Becentiare) ;  Roncar,  zappare  sarchiare  (Runcare);  Jiurfr,  ter- 
minare  (da  ruere:  Ruit  codum  imbribus;  sol  ruit;  ruit  ver,  Virgil.);  Rosdda,  ru- 


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BuMAxzA,  N.-  2J       GLI  IDIOMI  FAliLATI  NEL  TliENTINO 


163 


giada  {Bos);  Bamegàr,  ruminare  {Itumigare)  ;  Ruspar,  frugare  {Buspari);  Buvid, 
ruvido  (BuiduSj  Plin.);  5ar ir,  sarchiare  {Sarrire);  Salantórat  itfója,- salamoj a,  met- 
tere in  molle  (Muria);  Surmentél,  fascinello  di  sarmento  di  vite  (Sarmentum); 
Sbolfràr,  spruzzare,  schizzare  {Exproflare)  ;  Scagnèlj  sgabellino,  gradino  (5camne/- 
lum);  Scdndole,  assicelle  per  copertura  del  tetto  (Scandulce);  Scatondr,  razzolare, 
raspare  (Scalpturire,  scalpturigo)  ;  Scheggia  {Schidia,  Vitruv.);  Scotón,  dicesi  oggidì 
de' frati  alla  cerca  {Cocio,  cotiones);  Scozzonar,  scuotere,  far  risentire  (ExctUiare); 
Sesia,  piccola  falce  per  mietere,  (Secala)  (1);  Sfalsar,  falsificare,  alterare  (Falsare); 
Sgarz  e  sgarzàr,  garzo,  estirpare  (Carduus)',  Sgrognàr,  fare  il  ceffo,  imitando  per 
dilegio  il  parlare  altrui  (Grundlre)  ;  Soturnia,  umor  negro,  Soturno,  triste  (Saturnia, 
neir applicazione  astrologica);  Seneghi,  smunto,  acciaccoso  (senex  «  facies  senicis»); 
Sfessèi,  minutame  di  legne  tagliate  (FisseUum)',  Sfragél,  flagello,  subisso  (FlageTlum)  ; 
Sguddr,  sgurdr,  vuotare  (Excurare)  ;  Snizzdr,  stappare  la  bottiglia  pei  primo  assag- 
gio (Initiarè)  (2) ;  Sordr,  raffreddare  (ex-aurare) ;  Spigol,  spigolo  (Spiculum);  Stdbol, 
^^t ,  tettoia  sotto  cui  riparare  il  bestiame,  e  custodire  i  foraggi  (Stahulum);  Stéla, 
scheggia  di  legno  (Astula)  ;  Straldr,  uscir  del  giusto  (da  trans  e  liquet);  Slrdm,  strame 
(Stramen);  Strania,  G*  aver  de  strani,  esser  nuovo  in  qualcosa,  fuori  delle  proprie 
abitudini  (Ex-straniare) ;  Sirópa,  vimine  (Strupus);  Sùhia,  lesina  (Subula);  Teza, 
solaio  rustico,  specie  di  fenile  (Attegia);  Torcolót,  svinatore  che  torchia  (Torculum); 
Térmen,  termine  (Ternten,  Varr.);  Tinazz,  tino  grande  (Tina,  Varr.);  Uccia,  ago 
(Acucula)',  Vinqél,  rami  verdi  legati  a  fascina  (Vincire)-,  Zerlo,  gerla  (Gero;  geru- 
?ttó  =  facchino) ;  Zegdr,  provocare  (da' e). 

Il  piti  di  questi  vocaboli,  come  avrà  avvertito  il  lettore,  apparten- 
gono ad  oggetti  o  ad  operazioni  rurali.  Sono  di  uso  comune  tra  i  cani- 
pagnuoli  nei  dintorni  di  Trento;  e  per  la  loro  forma  escludono  ogni 
sospetto  di  recente  importazione  o  di  influssi  letterarj.  Che  se  qual- 
cuno volesse  conoscere  più  da  presso  le  attinenze  del  vernacolo  di  Trento 
con  quello  che  suol  dirsi  latino  rustico,  non  ha  che  a  scorrere  la  parte 


(1)  11  signor  ScHNELLER  (  Roman.  Volks- 
mundarten,  p.  181)  congiugne  Sesia  col  te- 
desco Seisse,  cercandone  T  etimologia  nel- 
Tantìco  Sa^^  =  oggetto  tagliente.  Ma  v'ha 
una  parentela  più  naturale,  quella  con  Se- 
cula  che  troviamo  in  Varrone.  Di  fatti  ne- 
gli Statuti  di  Riva  di  Trento,  dell'anno  1274 
(§52),  leggiamo:  «  *i  quia  segaverit  cum 
falce  vel  cum  sexuZa  »;  e  gli  idiomi  ladini 
odierni  ci  mostrano  le  forme:  sesula  (friul.), 
sesola  (livin.),  seisla  (gard.).  Vogliamo  con- 
cedere che  il  tedesco  Seisse,  come  Sichel,  e 
Sciise,  possa  avere  il  suo  fondamento  in 
sahs;  quantunque  non  sarebbe  fuori  del  ve- 
rosimile che  nella  voce  tirolese  Seisse,  e 
Tìe\]B.Seisser-Alp  (Alpe  dei  Falciatori)  presso 
Bolzano,  s'avesse  una  reliquia,  od  un  in- 
flusso dell'amico  idioma  reto-romano. 


(2)  Ne  gode  che  F  opinione  che  ci  erava- 
mo formata  intorno  alla  derivazione  del  vo- 
cabolo snizzdr,  nizzàr  (itiizàr  dell'antico 
veneto)  abbia  l'appoggio  autc)revolÌ6simo 
del  MussAFiA  {Beitrag  z.  Kunde  der  nord- 
ital.  Mundarten,  p.  169)  contrariamene 
allo  ScHNELLER, che  nelle  sue /2o>7?an.  Volks' 
mundarten  (p.l91)  lo  fa  provenire  da  «c^wtf- 
zen.  Aggiugneremo  che  a  Trento  oggid\ 
quel  vocabolo  si  usa,  più  di  sovente,  per 
bevande  :  «  snizzdr  *na  botiglia  »  a  cui  non 
potrebbe  convenire  l'idea  congiunta  a  schnit- 
zen.  Noteremo  puranco  che  la  forma  sniz- 
zar  per  inizàr  non  può  far  specie  nel  dia- 
letto trentino;  il  quale  ha  frequentissima,  ee 
non  propriamente  caratteristica,  l'aggiunta 
di  un  s  ri n forzati vo",  o  prostetico  che  dir  si 
voglia,pei  verbi  indicanti  deci.samente  azione. 


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104  B,  MALFATTI  [giorkjile  di  filologia 

lessicale  deW  Itala  e  Vulgata  del  Roiisch  (l),  cercando  di  mano  in  mano 
i  riscontri  nel  Vocabolario  vernacolo-italiano  pei  distretti  rover etano  e  tren- 
tino dell'  Azzoliui  (2).  Pochi  altri  dialetti  sapranno  mostrargli  più  copiose 
e  patenti  rispondenze.  Dagli  spogli  abbondanti  a  cui  ci  fornì  materia 
quel  primo  libro  (sono  parecchie  centinaia  di  voci)  ne  si  permetta  di 
trasceglierne  e  riportarne  alcune,  che  si  riferiscono  massimamente  al 
vivere  domestico.  Le  diamo  nella  successione  con  cui  ce  le  oflFre  il  vo- 
lume; ommettendo  per  molte,  siccome  superfluo,  il  riscontro  della  lin- 
gua letteraria. 

Aramentum  ==  el  rara  (i  rami);  Lustramentum  =  lustraraént;  Fricamentum  = 
sfregamént  ;  Jaculamentum  =  sgiavelamént  ;  Capitium  =  cavezz  ;  Lacticinium  =  làt- 
te9in;  Mucinium  =  mòc,  mòccàt;  Coopertorium  =  coverdór;  Incastratura  =  encastra- 
dura;  Fricatura  =  sfregadura;  DtUcor  =  dol9Ór;  Titio  =  stizz  (tizzone);  Claror  =■■ 
ciarór;  Manua  =  manàda ;  Polenta  {non  deficit  hydria polenta;  S.  Ambr.) ;  Pruna  = 
brugna;  Sporta  =  spòrtola;  Torta  =  torta;  Ada  =  azza  (matassa;  Ada  significai 
fdum  ad  consuendum  ductuin ,  Ducange  )  ;  Buccea  =  boccàda  ;  Filiaster  =  fiàstro  ; 
Forbex  =  fórbes  ;  Catentda  =  cadenélla;  Tortida  =  torteli  ;  Formella  =  formèlla  (di- 
casi propriamente  del  cacio)  ;  Genicvdum  =  ginoccio;  Linteolum  =  linzòl;  Vinadum, 
vinaccia uvaram  =  vinazze;  Ficatum  =  figa  (fegato);  Fossatum  =  fossa;  Acediosus  = 
9ÌdiÓ3  (uomo  svogliato,  di  malumore);  Temporivus  =^  t^mi^ovìf  (primaticcio);  CoBi- 
garius  =  caliàr;  Casearius  -^  casàr  (che  prepara  il  cacio  nel  Casél  =  taberna  casearia); 
Manuarius  =  manudl;  Portatorius  =  portadór;  Aeruginare  =  ennizenfr;  Buncì- 
nare  =  renzignar;  Matrescere  =  smadrezàr  (far  offici  od  atti  di  madre);  Adaqxuire  =» 
adacquar  ;  Indulcare  =  endol^ir  ;  Beversare  =  roverskr  ;  Intrinsecus  =  entrónseg  (3)  ; 
A  modo  =  amò  (ancora)  ;  De  foras  =  de  fora  ;  De  sursum  =  de  suso  ;  E  contra  =  'n 
contra  ;  Minare  =  menar  ;  Facid  =  fa^il  ;  Carius  =  coràm  (  excoriare  =  scorzar)  ;  Va- 
dus  =  \6  (nome  di  luogo);  Tncare  = 'ntrigar  (ne  te  ^r/ce^  =  no 'ntrigàrte) ;  Sóta" 
rium  =  feolàr;  Mamma  =  mamma  ;  Deliberare  =  deliberar  (nel  senso  di  liberare.  Ee. ; 
deliberar  le  anime  del  purgatori;  «  ad  deliberandas  animas  eorum  de  morte  »  ;  Ter- 
tullian.):  ^x«2)o/?arc  =  despojar  (nel  senso  di  svestire);  Corregia  —  corréza;  Calda- 
ria  =GSÀdékr,  e  caldèra. 

Ed  ora,  in  ultimo,  alcuni  vocaboli  che,  usati  nelle  scritture  medie- 
vali, si  possono  incontrare,  quasi  senza  mutazione,  in  bocca  ai  popolani 
di  Trento: 

^rmormm  =  armar  ;  ArmiUa  =' axméìa,  (anello  o  cintura  intorno  al  collo  del 
cane)  ;  Bigatus  nummus  =  Bagatfn  (per  dire  moneta  od  oggetto  di  poco  valore)  (4); 

(1)  RòNSCH  H.,  Itala  und  Vulgata  (£.*  (4)  Bagattino  {à\cpi  il  Vocabolario):  mo- 
ediz.),  Marburg,  1875.  neta  che  valeva  il  quarto  del  quattrino,  sic- 

(2)  AzzoLiNi,  G.  B.,  Vocabolario  Verna-  come  il  picciolo,  la  quale  s'  usava  a  Venezia. 
colo-Italiano f  pei  distretti  roveretano  e  A  Trento  correva  con  quel  nome  nel  seco- 
trentino,  Venezia,  1856.  lo  XIV;  come  può  vedersi  nella  Cronaca  di 

(3)  Questa  parola,  non  riportata  dall' Az-  Giovanni  da  Parma,  canonico  di  Trento 
zoLiNi,  r abbiamo  raccolta  dalla  bocca  di  un  (Pezzana,  Storia  di  Parma  continuata, 
rozzo  campagnnolo,  del  tenére  di  Civezzano,  Voi.  I,  Append.,  pag.  49  e  seg.;  e  Calenda^ 
che  la  usava  come  addiettivo,  nel  senso  di  rio  Trentino,  1854,  p.  133). 

proprio,  appartenente. 


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HOMANZA,  s.«  21       GLI  IDIOMI  CABLATI  ^EL  TRENTINO  165 

Barbanus  =  barba  (zio) ;  Bova  =ho2k  (valanga)  ;  Buticuìum  =  bottesél;  Botellus  — 
budél;  CabàUarius  =  ca vallar;  Camisia  =  camiaa;  Camìnata  =  caminàda  (caminet- 
to); Cattare  =  ga,ié,r  (trovare);  Cara  =  cava  (buca,  fossa,  e  dicesi  in  ispecie  delle 
petriere)  ;  Canova  =  cane  va  (cantina)  ;  Capritus  =  caorét  (capretto)  ;  Cucus  =  cuco 
(cucnlo);  DtscaZc/ttó  =  descàlz ;  Do^ra  =  dova  (doga);  i^sca  =  lesca  (fungus  fomes 
ignis)  ;  Extra  =  estra  (oltre  a)  ;  Fictm  =  fitto  ;  Focacius  =  fugàzza  ;  Fustis  =»  fre- 
sca (frasta);  Lavina  =  slavina  (valanga);  Mansus  =  maso  (tenuta  colonica,  e 
quindi  Masadór  =  colono)  ;  Massarius  =  massàr  ;  Naidum  =  nolo  ;  Pertica  =  pértega 
(misura  agraria);  Ptper  =  péver ;  Flebs  =  pM  (territorio  di  parrocchia  rurale,  coi 
suoi  abitatori);  P/e6awt*s  =  pióvan ;  i^oòwr  =  róver  (quercia;  e,  per  traslato,  uomo 
robusto);  Saltarius  =  sMéx  (guardia  campestre);  Sca/rare  =  scalvar  (far  capitozze 
e  diramare)  ;  /Sfoca  =:  soga  (fune  di  canapa)  ;  Sparcus  ,  spacus  =  spàg  (spago)  ;  Stri- 
ga =  stria  (strega);  Teloneum  =  telonio  (uffizio,  impiego). 

Altri  di  cosiffatti  vocaboli  n'ebbimo  ad  indicare  già  prima,  discor- 
rendo delle  carte  vanghiane.  Né  v'ha  punto  dubbio,  che  questa  e  le 
precedenti  serie  si  potrebbero  accrescere  ancora  di  molto,  chi  avesse  agio 
a  minute  ricerche  nei  diversi  contadi.  Perché  in  questi  esempi,  e  negli 
altri  che  saremo  per  addurre  in  seguito,  abbiam  voluto  attenerci  al 
solo  parlare  del  territorio  che  ci  è  il  più  conosciuto,  ossia  della  città 
di  Trento,  e  della  campagna  intorno;  ed  anche  per  esso  siam  proce- 
duti con  un  certo  riserbo;  che  vent'anni  e  più  di  lontananza  dal  paese, 
e  di  soggiorno  in  città  di  altri  parlari,  ci  consigliavano  di  non  far  troppo 
a  fidanza  colla  memoria. 

Ad  ogni  modo,  il  materiale  prodotto  ci  sembra  sufSciente  per  so- 
stenere ravviso,  che  il  dialetto  trentino,  allorché  venne  prima  a  for- 
marsi, fosse  il  naturale  svolgimento  del  latino  che  "si  era  parlato  dianzi 
nel  paese.  Ammetteremo  sì,  che  a  tale  sviluppo  contribuissero  i  contatti 
colle  vicine  provincie;  non  però  tanto  da  potersi  dire  che  il  vernacolo 
di  Trento  si  fosse  formato  unicamente  in  grazia  d'essi.  Oggidì  sta  di 
mezzo,  in  certo  modo,  tra  la  famiglia  dialettale  lombarda,  e  la  famiglia 
veneta;  quantunque  pieghi  più  espressamente  a  quest'ultima:  avvegna- 
ché se  tiene  del  lombardo  pel  dileguo  delle  vocali  finali  nei  nomi  ma- 
schili, al  singolare,  e  negli  infiniti  dei  verbi  (oltre  a  qualche  particolare 
fonetico,  nelle  vocali  in  ispecie);  d'altra  parte  si  raccosta  al  veneto  nei 
momenti  grammaticali  delle  declinazioni  e  coniugazioni,  e  nei  princi- 
pali accidenti  di  assimilazioni,  dissimilazioni,  attrazioni,  metatesi,  e  via 
discorrendo.  Sennonché  chi  analizzi  attentamente  il  dialetto  di  Trento 
dovrà  dirsi,  che,  quali  pure  si  fossero  gli  impulsi  e  gli  elementi  venuti 
dal  di  fuori  (e  coi  veneti  e  lombardi  si  hanno  da  mettere  in  conto 
anche  i  ladini  e  i  germanici)  esso  li  seppe  elaborare  e  fondere  insieme 
di  propria  forza,  e  con  piena  conseguenza.  Il  dialetto  trentino  è  dia- 
letto organico,  tanto  nei  momenti  lessicali  quanto  nei  sintattici.  Ana- 
lizzando i  vocaboli,  secondo  i  momenti  fonetici,  sì  può  arguirne,  nel 
più  dei  casi,  la  provenienza  e  l'età.    Ora  riconoscere  un  dialetto  per 


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166  B.  MALFATTI  [giornale  di  kii  ologii 

organico,  e  dovergli  attribuire  priucipj  di  evoluzione  suoi  propri  e  re- 
moti, è  una  cosa  sola.  Il  trentino,  certamente,  prese  a  svolgersi  non  più 
tardi  degli  altri  volgari  d'Italia;  bensì  il  processo  di  sua  elaborazione 
dovette  essere  più  lento  e  piiì  laborioso,  in  ragione  della  maggior  quan- 
tità di  elementi  che  doveva  assimilare  e  ridurre  ad  unità,  e  dei  minori 
ajuti  che  il  sovvenivano  in  Toper^.  Si  guardi  al  lungo  tempo  che  corse 
prima  che  si  fossero  stabiliti  i  caratteri  distintivi  dei  dialetti  veneti  e 
lombardi;  dialetti  parlati  da  genti  numerose,  abbastanza  omogenee, 
civilmente  prospere. 

A  chi  si  tenga  presente  il  lavorìo  che  s'operava  nei  volgari  italiani 
tra  il  XIII  e  il  XIV  secolo,  ed  insieme  rifletta  sulle  relazioni  politiche 
del  Trentino  a  que'  tempi,  e  sulle  sue  condizioni  topografiche,  non  po- 
tranno far  specie  le  parole  con  cui  Dante,  nel  Libro  de  Vulgari  Elo- 
quio^ ebbe  a  toccare  dell'idioma  trentino;  parole  addotte  dal  signor 
Schneller  per  sostenere  che  la  favella  usata  a  Trento,  in  sullo  scorcio 
del  dugento,  non  poteva  essere  propriamente  italiana  (1).  Ecco  il  passo 
dr  Dante,  al  capo  15  del  I  Libro,  secondo  la  lezione  volgare  che  ne 
dà  il  Fraticelli:  «..dico  che  Trento  e  Turino  ed  Alessandria  sono  città 
tanto  propinque  ai  termini  d' Italia,  che  non  ponno  avere  pura  loquela; 
talché  se  così  come  hanno  bruttissimo  volgare,  così  l'avessero  bellissimo, 
ancora  negherei  esso  essere  veramente  Italiano  per  la  mescolanza  che 
ha  degli  altri.  E  però  se  cerchiamo  il  parlare  Italiano  Illustre,  quello 
che  cerchiamo  non  si  può  in  esse  città  ritrovare  ». 

Noi  non  intendiamo  di  attenuare  in  nessun  modo  la  portata  delle 
parole  di  Dante.  Non  istarerao  quindi  a  ricordare  come  il  volgare  dei 
Romani  fosse  da  lui  giudicato  il  piìi  brutto  di  tutti  i  volgari  d'Italia; 
e  come,  movendo  in  traccia  della  loquela  illustre,  avesse  eliminato,  prima 
di  venire  al  trentino,  i  parlari  della  Marca  d'Ancona  e  gli  Spoletani, 
e  dopo  questi  i  Milanesi  e  Bergamaschi,  e  dopo  ancora  gli  Aquilejaui 
ed  Istriani,  e  tutti  in  massima  i  dialetti  dell'Alta  Italia,  e  tutte  le  mon- 
tanine e  villanesche  loquele,  e  avesse  negato  ogni  parlare  italiano  ai 
Sardi.  Dei  concetti  da  cui  mosse  Dante  nel  dettare  il  libro  del  Volgare 
Eloquio^  e  nell' apprezzare  quindi  più  o  meno  i  vari  dialetti,  fu  già  di- 
scorso da  altri,  e  in  modo  sagacissimo  (2).  Per  conto  nostro  diremo 
di  volere  tanto  poco  mettere  in  dubbio  l'infiltrarsi  di  elementi  stranieri 
nel  volgare  trentino,  che  peneremmo  anzi  ad  immaginare,  come  avesse 
potuto  essere  altrimenti.  Dell'aver  poi  Dante  trovato  bruttissimo  il 
parlare  di  Trento,  possiamo  renderci  conto  pensando  a  quella  tal  can- 
tilena, non  bella  di  certo,  eh' è  propria  tuttora  al  volgo  (i  Trentini  la 


(1)  Mittheilungen,  fi.- 312.  —  Die  roma-     quio   di    Dante    (Archivio   Gloltol,   ItaL^ 
ìiischeji  Vnlksmmìdartcn ,   p.  11.  Voi.  II,  p.  58-110). 

i?)  D  Ovidio  Fu.,  Sul  De  Vvlgari  Eh- 


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uoMAxzA,  x.°  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TBEXTIXO  107 

chiamali  pUo);  la  quale  un  tempo  doveva  suonare  ancora  più  spiccata 
e  più  fastidiosa;  e  che,  unita  a'  suoni  particolari  ladini,  con  miscuglio 
di  vocaboli  germanici,  non  poteva  a  meno  di  offendere  l'orecchio  del- 
l'Alighieri, allorché  ebbe  a  dimorare  nel  Trentino  (circa  il  1304  a  quanto 
sembra)  ospite  di  un  Guglielmo  di  Castelbarco.  Eppure  dalle  parole 
del  grande  esule  chi  potrebbe  raccogliere  ch'egli  contendesse  carattere 
italiano  alla  città  di  Trento,  ed  al  suo  idioma?  Poneva  Trento  in  com- 
pagnia di  Torino  e  di  Alessandria  (nobile  compagnia  dicerto)  ;  e,  quanto 
all'idioma,  negava  soltanto  che  lo  si  potesse  aver  fonte  dal  quale  atti- 
gnere l'italiano  illustre.  Ora  da  questo  al  concludere,  come  fa  il  si- 
gnor Schneller,  che  il  parlare  di  Trento,  a'  tempi  di  Dante,  non  fosse 
volgare  italiano,  ma  un  dialetto  prettamente  ladino,  sul  far  degli  odierni, 
il  salto  ne  sa  ardito;  quantunque  si  debba  tener  conto  della  concessione 
a  cui  è  venuto  il  signor  Schneller,  in  grazia  di  quel  tal  passo  di  Dante. 
Concessione  abbiam  detto;  ma  potremmo  chiamarla  anche,  e  meglio, 
contraddizione;  perché  un  dialetto  retico,  simile  a  quelli  di  Gardena  o 
di  Badia,  sarebbe  stato  pur  sempre  un  volgare  di  fondo  latino,  mentre 
il  signor  Schneller  aveva  pure  sostenuto  poco  prima,  che  il  linguaggio 
parlato  comunemente  a  Trento,  nel  secolo  XIII,  era  il  tedesco. 

Ma  la  seconda  sua  opinione,  non  regge  meglio  della  prima;  e  ci 
faremo  a  dimostrarlo  tra  breve.  Intanto,  quasi  ad  ultimo  commentario 
delle  parole  di  Dante,  facciamone  qui  a  ricercare  quali  elementi  ger- 
manici si  sieno  infi  Itrati  e  conservati  nel  dialetto  trentino.  Che  questo 
fosse  stato  per  accoglierne  in  numero  assai  maggiore  degli  altri  verna- 
coli italiani,  sarebbe  cosa  da  non  far  maraviglia,  chi  guardi  alle  condizioni 
topografiche  e  politiche  del  paese.  Eppure  quegli  influssi  furono  più 
scarsi  che  forse  taluno  non  s'avvisa;  o  transitórj  per  lo  manco.  Mal- 
grado le  relazioni^continue,  e  necessariamente  strettissime,  colla  parte 
tedesca  del  dominio  tirolese,  il  Trentino,  di  voci  germaniche  nel  suo 
dialetto,  ne  conta  poco  più,  che  non  ne  possieda  qualunque  altro 
dei  vernacoli  della  Venezia  e  della  Lombardia.  E  di  que'  vocaboli  il 
numero  maggiore  sono  nomi;  pochi  i  verbi;  per  gli  altri  elementi  del 
discorso  non  se  ne  trovano  quasi  punto.  Ma  non  vogliamo  prevenire 
l'opinione  del  lettore;  il  quale  saprà  decidei'e  da  per  sé,  dopo  avere 
scorso  le  due  serie  di  vocaboli  che  gli  esibiamo;  nella  prima  delle  quali 
attenendoci  particolarmente  al  Diez,  abbiamo  raccolto  quelle  voci  di  sti- 
pite germanico,  che,  proprie  alla  lingua  letteraria  italiana,  lo  sono  pure 
al  dialetto  di  cui  ci  occupiamo  (1).    Le  diamo  nella  forma  vernacola, 


(1)  Oltre  al  Dizionario  Etimologico ,  e  dialetti  in  Italia  dpi  Caix  (Parma,  1872); 
alla  Grammatica  del  Diez,  si  veda  anche  in  ispecie  a  p.  XLIX  e  eeg.  deirintrodu- 
il  Saggio  sulla  Storia   della  ìing-ìta  e  dei     zione. 


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168  B.  MALFATTI  [oionxALE  di  filologia 

agginngendo  la  letteraria  soltanto  in  quei  casi,  dove  la  corrispondenza 
non  si  afiTaccia  spontanea: 

Addobbar;  aizzar;  asi  {agio);  aspi  (aspo);  arpa;  ardfr;  bai  con;  banca;  bandir; 
baristi  (bargello);  bazza;  bianc;  binda  (òenda) ;  biónd;  biótt  (nue2o,j)overo;  polenta 
hì6t&  =  8ema  companatico);  birra;  bissa  (òi^cia) ;  bord;  bordél;  bóac;  braghe;  bra- 
mar; brasa  ;  (bragia);  bria  (briglia);  brodo;  brun;  bùio  (bravo,  ardito)  ;  busia;  cazza 
(mestola  di  ferro,  ramajuolo);  cazzóla;  ciappàr  (acchiappare ^  pigliare);  confalon 
(gonfalone);  fòdera;  forbir;  fornir;  frane;  frese;  frezza;  gabella;  garb  (acerfto);  ga- 
loppar; garantir;  gazza;  ghigna;  ghignsir;  giacca  (giacco,  giubbone);  gola;  gram; 
grampa;  grappa;  grattar;  grepp  (grappola) ;  grinta  (ceffo,  cipiglio) ;  grópp  (gruppo) ; 
guadagnar;  guaina;  guant;  guarfr,  guernir;  guidar;  guerra;  ingann  ;  isa  (izza);  lap- 
par ;  leccar;  lista;  manigóld;  marca;  marescdlc;  mozz  (da  mozzicare  =  smozzar) ; 
muffa;  mudio  (muschio);  nastro;  raffar  (carpire);  razza;  ricc;  riga;  roba;  robkr; 
ròcca;  ròsta;  rózza  (cavallo  vecchio  =  fOS«)  ;  rostir;  sala;  sàles  (salice);  sbalengh 
(sbilenco);  sbara  (bara);  scaffàl;  sóett  (schietto);  scherzar;  schivar;  scioccar  (chioC' 
care);  sghizzàr  (schizzare  e  schiacciare);  sghemb;  sguer^  (guercio);  smarrir  ;  smilza 
(  milza);  sciìtHa  ;  sperón  ;  spiar  ;  spiéd  ;  spola  ;  spranga  ;  staffa  ;  stampar  ;  stanza  ;  steoc  ; 
schìnc  (stinco)  ;  straccar;  strozza;  stùa  (stufa);  stuzzegàr;  tàccola  (qtUstione,  difetto); 
tanf;  tass  (nome  d'animale);  tirar;  toccar;  torba;  tovàja  (^or  a  (/ita);  tràmpol;  trin- 
car; tuffar;  auffa(au/fo);  vardàr  (guardare);  vogar;  zata  (zampa);  zópa  (zoUa); 
^uS  (ciuffo)  (ì). 

Facciamo  ora  seguire  i  vocaboli  che,  d'origine  germanica  pur  essi, 
non  s'incontrano  che  nei  dialetti  dell'Alta  Italia,  e  parecchi  dei  quali 
possono  dirsi  esclusivamente  propri  ai  vernacoli  del  Trentino  (2)  : 

Bàgherle  =  c&rTO'zzciiB,  a  un  sol  cavallo  (Wagen,  vcegerl)  (3);  J5ro<i r  =  scot- 
tare, bislessare  (BrUhen);  *JBórrer  =  levare  la  selvaggina  (Purjan);  Coltro  =  csis- 
Betto  =  (G^halter);  *Cdndola,  cànderla  =  cogoms,  (Kanne);  *Canédeli  =  gnocchi  ad 
uso  tedesco  (Knòdd);  *Canópp  =  minatore  (Knappe)  ;  *fère»  =  tino  grande  per  H 
vendemmia  (Zuber)  ;  *Qi solar  =  abbrucciacchiarc  (Zischeln)  ;  *Chiznér  =  bambinaia 
(Kindsdirne)  ;  *Clómper  =  pane  di  rimasugli  di  pasta  (Klump);  Cràchesa  =  arnese 
e  persona  in  malessere  (Krachse);  Crauti  =  cavoli  acidi  (Sauerkraut);  *Crosnóból  = 
uccello  becco  in  croce  (Krummschnabel);  *Crózz  =  roccia  dirupata  (hreosan  ~  preci- 
pitare); *Càcier  =  cocchiere  signorile  (Kutscher);  *Drazdr  =  setacciare  (Brasche); 


(1)  Qualche  altra  parola,  di  quelle  che  Di  fatti  al  contado,  in  luofro  di  questi  voca- 

spettano   al   vocabolario  comune,  si  potrà  boli,  si  adoprano  ancor  sempre  gli  antichi: 

udire  nel  Trentino;  ma  con  suoni  e  forme  Osteria  (oppur  locanda),  èst ,   locandér, 

tali,  da  non  potersi  ascriverle  al  patrimonio  art ,  ortoldn. 

dialettale.    Tali,  ad  esempio:  Albergo,  al-  (2)  Segniamo  con  asterisco  quelle  voci,  che, 

bergatór,  giardin,  giardini^r;  che  necondo  per  quanto  ci  è  noto,  non  si  usano  in  altri 

le  leggi  fonetiche  del  dialetto   dovrebbero  dialetti. 

suonare:  albérg,  albcrgadór,  zardln,  zar-  (3)  Bàjher,  per  carrozzella  a  un  caval- 

dinér.    11  non  essersi  operata  la  trasforma-  lo,  è  voce  propria  al  dialetto  milanese, 
zione  mostra,  che  sono  introdotte  da  poco. 


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ROMANZA,  x.-^  2J       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  109 

*FinfcrU  =  specie  di  fanghi  (Pfilferlinge) ;  Fine  =  fringuello  (Finlc);  Fraila  =  si- 
gnorina (  Fràulein);  Fufignàr  =  ingannare  (forse  da  Pfiffig) ;  Gdbùro  (gabùro  ^bauer)  ; 
Ganga  =  buona  voglia,  destrezza  (Gang)  (I);  Gdnzega  =  banchetto  per  festeggiare 
il  compimento  di  un  lavoro  (da  gagan  e  zeiga);  *(jrar6dr  =  conciapelli  (Goerher); 
Gaz  =  bosco  chiuso  (Gàhagium  nelle  leggi  longobarde;  Geh<ege)\  0  htm  pel  =:  nome 
d'uccello  {Gimpel=^  Pyrrhtda  vulgaris);  Ghirlo  =  vento  vorticoso  {Wirbélwind)  ; 
*G»icc  =  avaro,  che  lesina  (Knicker);  Gr/e^r ^ semolella  {Griesmehl);  Gringola  = 
allegrìa  (forse  da  Rlngilà-ringidà  =  ballo  a  cerchio)  ;  *Grobidn  =  villanaccio  (Grob)  ? 
(rti/fM2o/ =  arcolaio  {Winde)\  G^w^az-er  =  padrino,  santolo  (gotti);  *Lèdec  =  esente 
[ledig  ?)  ;  Loca  =  pozzanghera  {Lache)  ;  Locher  =  viglinolo  {Lugg,  liicke)  ;  Magón  — 
ventriglio  delV  uccello  ;  e  anche  affanno  (  Magen)  ;  *MarlÓ88  =  lucchetto  (  MarlcscMoss) ; 
*3fcwf<7^<r  =  colorirsi  delle  vivande  al  fuoco  {màsà  =  chiazza,  macchia);  MatéU^^ 
ragazzo  {Maga^,  mcedel)  ;  3fo wotór  =  biasciare,  gustare  qualche  cosa  senza  masti- 
carla {Mumméln)\  3f osa  =  intriso,  specialmente  per  nutrizione  dei  bambini  {Mós, 
miAs);  Pa*iaifj  =  uomo  pigro,  melenso  (p«i<on  =  indugiare);  Pacéch  =  melma  (Pai- 
sche);  Patuffiàr  =  scnoteret  percuotere  (Tupfen);  *Peclini  =  aringhe  salate  (Biiclc' 
ling  )  ;  *Pinier  =  bottajo  (  Fassbinder  )  ;  Pióf  =  aratro  (  Pfìug  )  ;  *Pùsol  =  mazzo 
di  fiori  (BUschel);  Jtó/fei  =  graffietto  da  falegname  (Raffi);  J^/a  =  fare  a  ruffola- 
raffola  (Reigen);  i2e/i^a  =  campana  del  palazzo  pubblico  (hringan);  Rengàr  =  \ì' 
tigare,  abbaruffarsi  (Rinkanj  ringen);  *56cWe^a  =  carne  intristita,  frolla  (Schwat- 
tig);  Sfti^e^f dr  =  lavoracchiare,  frugare  (Byseg ,  bezig);  fifòrc^rdr  =  lacerare,  strap- 
pare (  Brechen  )  ;  Sgéva  =  scheggia  (  Skivere,  scheve  )  ;  Sghingolàr,  szinzoldr  =  fare 
air  altalena  (Stoingan);  Sghddr  =  V  emettere  escrementi  degli  uccelli  (Skizan);  S/e;)- 
pa  =  manrovescio  (Schiappe);  Slizzégdr  =  sdrncoióì^re  (Slizan)  (2);  SZ/w^ra  =  scin- 
tilla (Sleizen)  (3)  ;  SUppegdr  =  scivolare  (ScMùpfen,  scklùpferig)  ;  *SUppia  =  delicato 
o  anche  parco  in  mangiare  (Lippe?);  *Slóter=^ sudicio,  mascalzone  (Slote,  e  Lotter- 
bube);  ♦5iózjfer  =  chiavajo  (Schlosser)  ;  Smalzdr  =  condire  con  burro  gettato  (Sckmal- 
zen);  *Smuzzegón  =  sudicio,  sciatto  (Schmutzig);  *Snoll  =  saliscendo  (Schnalle); 
*Slèora  =  imposizione,  gabella  (Steuer);  *Stofis8  =  baccalà  (Stockfisch)  ;  Strdboi  — 
pasta  dolce  fritta  (Straìd>en);  *  Stresserà  =  donna  volgare,  venturiera  (  forse  da  Tross^ 
Trossdirne);  Tanandi=  bailamme,  confusione,  cosa  farraginosa  (forse  da  Tana  — 
sediiiOy  delle  leggi  longobarde);  Taw^andr  =  litigare,  tenzonare  (tanganum,  tan- 
ganare  nelle  Leggi  Salica  e  Ribuaria);  *r/«Zcr  =  stipettaio,  falegname  (Tischler); 
Tnneo  —  brodetto,  intingolo  ( Tunke)  ;  lizzar  =  aizzare  (Hutzen);  Zabai,  Zabaddi  ~ 
chiasso,  tumulto,  garbuglio  (forse  da  Zaba  =  adunatio  illicita,  delle  leggi  longo- 
barde); *<^ccc^tfndr  =  mangiare  in  brigata  all'osteria  (Zeche,  Zechen), 

(1)  Gana,  nel  senso  di  voglia  grande;  questa  voce  serve  poi  ad  indicare  anche 
e  fare  alcuna  cosa  di  gana  per  farla  con  falda  di  neve,  così  pel  fenomeno  luminoso 
imsto  grande,  sì  trova  nel  Vocabolario  tra  s'adopera  più  di  spasso  Slinza.  Noi  ali- 
le voci  antiquate.  Tra  il  Ganga  e  il  Oana  biamo  ammesso  che  Slinsa  provpjiÌ8.«e  da 
non  vi  sarebbe  per  avventura  qualche  re-  Steisen;  mn  non  s^nza  qnalclip  diihl.io  (  hp 
lazione?  Ganga  si  usa  pure  nel  veneziano  potesse  anche  essere  derivato  da  iUinzàr, 
col  medesimo  significato.  Sclinzdr;  che  forse  risalirebbe  alla  sua  volta 

(2)  Sulla  dubbiosa  etimologia  di  questa  a  scintillare.  Oppure  s'ha  da  cercare  un 
parola  si  veda  il  Mussafia  alla  voce  S/iJff-  etimo  comune  e  più  lontano  in  Sc/ot/  (Mus- 
gdr  (  Beitr.  x.  Kunde  d.  Nordital.  Mundar-  safia,  Beitr.  zur  Kunde  d.  Nordital.  Miind- 
ten^  p.  206).  arten,  p.  155,  169,  alle  voci  Fianxisdr,  ini- 

(3)  Nei  vernacoli  trentini  si  usa  pure  fa-  zar).  Lasciamo  giudicare  a  chi  in  questi 
lioa   (favilla)   per  scintilla.     Ma    siccome  argomenti  è  più  competente  di  noi. 

n* 


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170  J?.  MALFATTI  [«jiounale  di  filologia 

Per  quanto  sia  stato  iutendimento  nostro  di  dare  perfetta  quest'  ul- 
tima serie  di  vocaboli,  non  pretendiamo  di  esservi  riusciti  in  modo,  che 
altri  non  possa  appuntarci  d'  omraissioni.  Ommissioni  del  resto  da  nu- 
merarsi scarse;  a  meno  che  non  si  voglia  far  violenza  all'etimologia, 
oppur  dare  per  vocaboli  propri  al  dialetto  quelli,  che  non  s'usano  che 
in  qualche  parte  del  paese,  od  in  via  d'accidente  (1).  Avvertito  ciò, 
ne  si  conceda  qualche  osservazione.  E  prima  di  tutto,  che  l'uso  di  pa- 
recchi vocaboli  da  noi  ammessi  siccome  comuni,  si  viene  diradando  in 
maniera  da  potersi  pronosticare  che  in  breve  sarà  per  cessare  quasi  intie- 
ramente. Voci  come  ciicier,  gainàr,  isa,  slóter,  rengàr^  non  si  odono 
quasi  più.  Allo  scomparire  de' quali  vocaboli,  e  d'altri  simili,  non 
contribuisce  solo  il  più  largo  diffondersi  della  lingua  letteraria,  ma  un 
altro  fatto  puranco ,  di  cui  è  a  tener  conto  :  vale  a  dire,  che  per  alcune 
delle  idee  o  delle  cose,  ad  esprimere  le  quali  si  usano  vocaboli  d'origine 
o  provenienza  tedesca,  il  dialetto  trentino  possiede  voci  di  stipite  ro- 
mano e  d'  uso  antico.  Tant'  è  vero  che  queste  ultime  si  odono  più  di 
spesso  nelle  valli  lontane,  che  non  nelle  città  o  nelle  grosse  borgate; 
dove  le  più  strette  relazioni  cogli  officiali,  colle  milizie  e  coi  trafficanti 
tedeschi  danno  occasione  all' introdursi  di  voci  d'origine  straniera.  Così 
ad  esempio,  nei  contadi,  e  in  quello  stesso  intorno  a  Trento,  invece  di 
Bdgherle,  Qizza^  Fraila^  Gainàr,  Grobidn,  Slóter,  Smuzzegón^  si  udrà 
dire  di  sposso:  Carrettéla,  Cavedlriy  Sioràta,  Begdr,  Villàn^  Slmidrón, 
Sporco;  e  per  Garbar  =  Coìizadór^  per  P Inter  =  Bottdr ,  per  Slózjser=^ 
Ciavàr,  Ferrar^  per  Tìssler^=  Marangòn. 

È  a  questi  ultimi  nomi  tedeschi  d'arti  o  professioni  che  si  riferisce 
la  seconda  nostra  osservazione.  Vogliamo  dire  cioè,  che  da  essi  non  si 
deve  inferire  a  tale  frequenza  dell'elemento  tedesco  nelle  città,  da  avervi 
costituito,  nei  secoli  addietro,  la  classe  degli  artieri.    Per  ridurre  la  cosa 


(1)  È  questo  il  caso  del  sif^nopSciiNRLLKR,  da  una  sola  persona,  come  ciottemàr;  od 
che  nella  prima  parte  dell' Zdtottcon  (Mun-  usarsi  appena  in  qualche  terra,  come /Sefe- 
darten^  p.  105-217)  adduce  una  sessantina  teràr.  E  similmente  non  distingue  tra  le 
circa  di  voci,  oltre  a  quelle  da  noi  indicate,  voci  che  si  sono  connaturate  al  linguaggio 
siccome  voci  che  passarono  dal  tedesco  al  del  popolo,  e  quelle  che  in  forza  di  parti- 
dialetto  trentino.  Ma  una  buona  metà  di  colari  circostanze  politiche  o  sociali,  non  si 
esse  è  tanto  poco  d'origine  germanica,  che  adoperano  che  «la  certe  classi  di  persone, 
nei  Vocabolarj  latino  ed  italiano  se  ne  pos-  ed  a  tempo;  quali  ad  esempio:  profèsen, 
sono  trovare  le  forme  più  antiche  o  le  ana-  shànzega,  stùzzen,  tràer,  zelten  eoe.  E 
loghe.  Lo  abbiamo  mostrato  prima  per  *e.sZa  anche  su  ciò  ne  riserviamo  di  ritornare, 
e  snizzàr;  per  le  altre,  qìiali  ad  esempio;  quando  ne  avremo  più  agio.  Intanto  diremo 
bardèlle,  bdzeri,  berlich  ^  bèga,  ciómpi,  che  come  voci  del  dialetto  riteniamo  sol  quel- 
gréppo,  fita,  sbiségar  ecc.  ne  daremo  la  le,  che  sono  d'uso  comune  e  costante,  e  che 
prova  in  altra  occisione.  —  Qualche  volta  mostrano  anche  di  esserlo  con  una  forma  non 
poi  il  sig.  ScHNRLLER  ascrive  al  dialetto  dei  contraria  alle  leggi  dell'organismo  dialettale. 
vocahoU,  ch'egli  stesso  confessa  di  aver  udito 


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GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  THENTIXO  171 

a'  suoi  giusti  termini,  bisogna  tener  conto  di  parecchi  fatti.  E  prima 
è  da  avvertire  che  per  le  altre  professioni  o  mestieri  non  v'  ha  traccia 
che  si  usassero  nomi  tedeschi.  L'esserne  stati  accolti  per  alcune  arti, 
fu  eflFetto  della  costituzione  di  esse  in  corporazioni  o  maestranze,  con 
appellazioni  e  fors'  anco  con  Statuti  tedeschi  ;  avvegnaché  coloro  che  le 
esercitavano  fossero  nativi,  la  maggiar  parte,  di  certe  determinate  re- 
gioni del  Tirolo  o  dell'Alta  Germania.  Le  maestranze  e  le  arti,  nel 
medio  evo,  avevano  carattere  esclusivo  non  solo,  ma  anche  in  certo  modo 
territoriale.  Esempio  antico  e  celebre  i  Maestri  Comacini;  ai  quali  è 
dovuta  pure  la  costruzione  della  bella  e  maestosa  cattedrale  di  Trento. 
Il  costume  che  i  nativi  di  certi  paesi  si  dessero  a  determinate  arti  o 
professioni,  durò  a  lungo,  anzi  non  è  estinto  neppure  oggidì;  conser- 
vandosi in  ispecie  nelle  valli  alpine  più  povere,  o  dove  sovrabbonda  la 
popolazione.  Dal  Trentino  escono  ogni  anno  stuoli  di  artigiani  ed  operaj: 
arrotini  e  ramaj  ambulanti  dalle  valli  delle  Giudicarie  e  del  Noce;  dalla 
valle  di  Tesino  quei  venditori  di  stampe  che  si  incontrano  in  mezza 
Europa.  Sino  a  pochi  anni  addietro,  la  valle  ladina  di  Badia  forniva 
a  Trento  buon  numero  di  cucitrici  e  di  cameriere  (le  così  dette  Badioite)  ; 
e  dal  paese  ugualmente  ladino  di  Fassa  si  prendevano  servidori  e  don- 
zelli, perché  in  fama  di  sommessi  e  fedelissimi.  Di  cuoche  e  bambinaie 
le  famiglie  agiate  si  provvedevano  nella  vicina  provincia  tedesca;  e  dalle 
valli  ladine  dei  Grigioni  venivano,  anticamente,  nel  Tirolo  i  ciabat- 
tini (1).  Che  certe  arti  manuali  fossero  un  tempo  esercitate  nel  Tren- 
tino da  tedeschi  piuttosto  che  da  italiani,  era  effetto  d'indole,  d'abitu- 
dini, di  circostanze  economiche  diverse;  L'abbondanza  di  boschi  e  di 
pascoli,  destinava  in  certo  modo  il  tirolese  ad  esercitare  la  propria  so- 
lerzia nelle  industrie  dei  legnami  e  delle  pelli;  e  nel  Tirolo  similmente 
s' erano  svolte  per  tempo  la  preparazione  de'  metalli ,  e  le  arti  in  atti- 
nenza con* quella.  Ma  il  suolo,  per  massima,  vi  era  poco  adatto  all'agri- 
coltura; la  quale  prosperava  invece  ab  antico  nelle  valli  del  Trentino; 
in  quelle  dell'Adige  e  del  basso  Sarca  principalmente.  Il  trentino  pre- 
feriva attendere  ai  campi  ed  alle  industrie  agricole  ;  mentre  il  tirolese, 
costretto  dalla  poca  ubertà  del  paese  ad  emigrare,  cercava  di  procurarsi  la 
sussistenza  coli' esercizio  di  arti  manuali.  Ma  recandosi  altrove  a  lavo- 
rare e  guadagnare,  non  vi  si  stabiliva  propriamente.  Gli  artieri  tedeschi 
a  Trento  formavano  una  colonia  avventiccia  e  mutabile.  Ne  lo  attesta 
lo  Statuto  del  1528,  ordinando  che  s' avessero  ad  inscrivere  in  un  libro 
particolare  {Liber  Forensium)  quei  forestieri  che  venivano  a  Trento  per 
esercitare  arti  o  commerci,  ma  senza  potere  o  volere  adempiere  tutte 


(1)  BiDKRMANN  U.  3.,  Die  Homaìicu  uud  ihre  Verbreitiing,  ecc.  p.  128  (nota  2). 


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172  B.  MALFATTI  [uiounale  di  filologia 

)e  couJizioui  richieste  alla  piena  cittadinanza  (l).  Questa  precarietà  ne 
spiega  anch'essa,  come  air  elemento  tedesco  non  venisse  fatto  di  pren- 
dere il  di  sopra.  Quella  che  oggidì  si  dice  la  borghesia,  ossia  la  classe 
mezzana  de' possessori  nelle  città,  si  conservò  sempre  italiana.  A  per- 
suaderci del  resto,  che  da  quei  nomi  tedeschi  di  arti  non  s'  ha  da  con- 
cludere a  grande  diffusione  od  importanza  degli  artigiani  forestieri, 
s'aggii^gne  un  altro  fatto,  e  davvero  significativo;  Tessersi  usati,  cioè, 
jB  mantenuti  nei  vernacoli  i  termini  italiani  per  gli  utensìli  o  gli  attrezzi 
appartenenti  a  quelle  professioni  stesse,  che  si  nominavano  con  voce  te- 
desca (2).  Ora  cotesto  non  significa  forse  che  agli  artieri,  venuti  dal 
settentrione  per  dimorare  a  Trento,  era  d'uopo,  in  grazia  del  maggior 
numero  e  delle  classi  più  facoltose,  di  lasciare  la  propria  lingua,  e  farsi 
famigliare,  di  mano  in  mano,  quella  del  paese? 

A  poco  più  di  dugento  si  può  far  salire  il  numero  de'  vocaboli  d'ori- 
gine germanica,  che  rimasero  propri  al  dialetto  trentino;  il  quale,  come 
abbiam  visto  prima,  ne  ha  comune  una  buona  metà  colla  lingua  lette- 
raria. Degli  altri  un  cinquanta  circa  si  possono  trovare  in  l' uno  o 
r  altro  dei  vicini  dialetti  veneti  o  lombardi.  Di  appartenenti  a  lui  solo 
non  ne  restano  dunque  che  un  sessanta,  a  dir  molto.  Se  questa  ultima 
cifra  è  poco  rilevante,  chi  consideri  la  lunga  dipendenza  politica  del  paese 
ed  il  continuo  infiltrarvisi  di  elementi  tedeschi;  si  avrà  puranco  a  dire 
esiguo  il  numero  complessivo  delle  parole  d'origine  germanica,  in  un 
vocabolario  come  il  trentino,  dove  le  voci  vernacole,  da  dirsi  elementi 
primitivi,  ascendono  dalle  cinque  alle  seimila.  Né  si  creda  che  la  parte 
morfologica  del  dialetto  abbia*  avuto  a  risentirsi'  d' influssi  forestieri. 
Grammatica  e  sintassi  vi  sono  prettamente  italiane;  anzi  lo  sono  in  modo 
da  vincere  per  tal  riguardo  quelle  di  alcuni  dialetti  di  provincie  con- 
termini. Nella  declinazione  dei  nomi,  al  plurale,  è  mantenuta  la  distin- 
zione dei  generi;  ciocché  non  accade  in  certi  vernacoli  lombardi.  Dal 
trentino  si  ignora  similmente  la  trasposizione  della  particella  negativa: 
mi  so  no;  ti  va  no;  fa  fw  questa  ecc.;  fenomeno  che  s'incontra  in  quei 
medesimi  dialetti. 

Più  abbondanti  dicerto,  che  non  gli  elementi  tedeschi,  ci  vengono 
incontro  dai  vernacoli  del  trentino  i  riflessi  reto-romani;  tanto  nella 
parte  morfologica,  quanto  nella  fonetica.  Vocaboli  come;  dói  =  d\xe; 
irei  =  tre  ;  sie  =  sei  ;  af=  ape  ;  béol  =  betula  ;  cuora  =  capra  ;  ^éndro  = 
cenere  ;  descóh  =  scalzo  ;  faitdr  =  acconciare  ;  faméa  =  famiglia  ;  indes  = 


(1)  Statuto  di  Trento  (De  civilibns,  cap.  nare  seuza  il  consentimento  dei  Consoli.    Di 

129).    Per  essere  partecipi  di  tutti  i  diritti  più  doveva   darsi   giuramento   di  fedeltà  al 

della   cilladinanza,    bisognava    stabilirsi    a  Principe. 

Trento  colla  famiglia,  e  comperare  una  casa,  (2)  Una  sola  parola  fa  eccezione:  Gron- 

()  beni  stabili,  del  valore  almeno  di  100  du-  tóbel  {grund  e  hobel)  =■  pialla  da  scavare; 

rati  d'oro;  i  quali  beni  non  si  potevano  alie-  ma  il  vocabolo  va  sempreppiù  in  disuso. 


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ROMANZA,  N.**  2)       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  \T^ 

guardanidio;  Zarc5  =  larice  ;  mezzadro  ■=(io\oxìo  a  mezzerìa;  7?//*=  nido; 
òjo  =  olio  ;  pàja  =  paglia  ;  pléo  =:  gorga  ;  sàbba  =  sabbato  ;  sacrar  =  sa- 
porare;  tónirer  =  tingere;  t€Ssàdro-=  tessitore;  véndro  =  yeneYdì; zinoéél= 
ginocchio  curvo;  j^óòio  =  giovedì  ;  ^oftian  =  gioviale  ;  e  forme  quali: 
gónte  =  ho  io  ?  ;  sónte  =  sono  io  ?  ;  pódom  =  possiamo  ;  fénte  =  facciamo 
(imp.);  déntegJte  =àì2imoci  (imp.);  avést  =  2ivuto  ;  corrést  =  corso  ;  pò- 
desi  =  potuto  ;  lusént  =  lucente  ;  broént  =  che  scotta  ;  digànd  =  dicendo  ; 
téi  =  t\ì  (vocat.);  wó^sa  =  nostra  ;  V(555a= vostra;  rfewo  =  soltanto;  ci  ri- 
chiamano a  quel  substrato  idiomatico  che  informò,  più  o  meno,  quasi 
tutti  i  dialetti  dell'  alta  Italia.  Gli  esempj  da  noi  addotti  son  pochi  in 
ragione  della  suppellettile  di  forme  ladineggianti,  che  possiedono  tutta- 
via i  dialetti  trentini;  sennonché  il  libro  dell' Ascoli  ci  dispensa,  come 
abbiam  detto  prima,  d'insistere  ora  su  quest'ordine  particolare  di  feno- 
meni; il  quale,  ad  essere  esposto  convenientemente,  ci  obbligherebbe  di 
risalire  alle  leggi  che  governarono  la  fonologia  speciale  di  quei  ver- 
nacoli. Cosa,  sulla  quale,  per  verità,  non  mancò  di  feriaarsi  la  nostra 
attenzione,  e  di  cui  in  altro  momento  prenderemo  forse  a  discorrere; 
quando  l'esame  dei  particolari,  cioè,  non  sia  per  farci  dilungare  sover- 
chiamente dall'assunto  principale  (1). 

Bensì  dobbiamo  riprendere  un  quesito,  lasciato  prima  in  sospeso; 
l'opinione  vale  a  dire  del  signor  Schneller,  che  l'idioma  che  si  par- 
lava nel  Trentino  ai  tempi  di  Dante  fosse  un  vernacolo  ladino,  non 
altro.  I  riflessi  ladini  che  s'incontrano  nelle  odierne  parlate  di  Trento, 
di  Roveredo,  di  Riva,  dell'alta  Valsugana,  bastano  essi  a  provare  l'av- 
viso del  professore  tirolese?  Noi  non  sapremmo  ammetterlo.  Concede- 
remo sì  che,  cinque  o  seicent'anni  fa,  la  fonetica  dei  vernacoli  usati  in 
quelle  terre  si  risentisse  molto  piti  che  non  oggidì  delle  origini  o  delle 
influenze  retiche;  ma  crediamo  nello  stesso  tempo  che  fra  i  parlari  pro- 
priamente trentini  edi  ladini  sussistessero  fin  d'allora  diff^erenze  notevoli 
tanto  nei  momenti  morfologici  come  nel  lea^^ico.  Ne  addurremo  qualche 
esempio;  e,  prima  di  tutto,  indicheremo  nella  seguente  serie  di  vocaboli, 
come  il  comune  stipite  latino  avesse  dovuto  già  remotamente  svolgersi 
in  modo  diverso  nelle  due  zone  idiomatiche  (2). 

Lat.  Idiomi  lad.       Dial.  trent.  Lat.  Id.  lad.         Dial.  trkkt. 

Acucuia,  Odia,  Uccia,  Auricula,         Urédla,  Riccia, 

Adula,  Astia,  Stèla,  BiOlìre,  Bulli,  Bójer, 

(1)  Della  fonologia  del  dialetto  trentino  ni  più  nuovi  e  sodi  criterj  scientifici, 

oocnpò  diligentemente  il  signor  Schnrt.ler  (2)  Oli  esempj   di  voci   ladine  che  siamo 

nella  prima  p&rle  deWe  Mundarten.    Se  an-  per  addur  qui,  e  che  addurremo  in  segui- 

che  non  ci  troviamo  d'accordo  seco  intuito,  lo,  sono  tolti   ali*  Ascoli,  allo  Scunellbr 

riconosciamo  tuttavia  di  buon  grado,  che  a  (Mundarten)^  ed  al  Vian  :  Zum  Stttdium 

lui  spetterà  sempre  il  merito  di  avere,  per  der  rhctoladinischen    Dialehtc   in    Tirai; 

il  primo,  studiato  quel  vernacolo  secondo  i  Bozen,  1804. 


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174 

B,  MALFATTI 

[OIORXALJ 

:   DI    FILULOJ 

Crusta, 

Ci'osa, 

Grusa,Gro8ta., 

Lentigo, 

Antigla, 

Lenticia, 

Clavictda, 

Tgiavedla, 

Caviccia, 

Morum, 

MaraudOi, 

Mòra, 

Dulcis, 

Douz, 

DÓI9, 

Genius^ 

Ógle, 

Òccio, 

Falciare, 

Faciar, 

Fal9àr, 

Paupery 

Puér, 

Pò  ver. 

FaviUa, 

Bolifa, 

Fall  va, 

Pausare  y 

Pause, 

Polsàr, 

Ficatum, 

Fujà, 

Figa, 

Pediculus, 

Podi, 

Pióccio, 

FlageUum, 

F161, 

Sfragél, 

Plorare, 

Pluré, 

Puràr, 

Glacies, 

Dla9a, 

Già9, 

PutiUus, 

Piti, 

Putél, 

Glutire, 

Dlutì, 

Engiotfr, 

Somnus, 

Suòn, 

Sógn, 

Labrum, 

Avrei, 

Là  ver, 

Ungula, 

Ondla, 

Òngia. 

Avremmo  potuto  allungare  facilmente,  e  di  molto,  questa  serie  di 
voci,  trascelte  coir  intendimento  di  far  conoscere  alcuni  de' principali 
procedimenti  eh'  ebbero  luogo  nella  evoluzione  del  dialetto  trentino.  Ma 
sebben  poche,  il  lettore  ne  avrà  raccolto  tuttavia,  come  il  vocabolo  ori- 
ginario assumesse  nel  parlare  trentino  tale  forma,  che  senza  potersi  at- 
tribuire ad  influssi  della  lingua  letteraria  si  avvicinava  tuttavia  a  questa, 
in  grazia  di  un  ulteriore  svolgimento  dell'organismo  dialettale,  o  per 
aderenza  più  stretta  allo  stipite  primitivo.  Potremo  proseguire  e  mo- 
strare che  ciò  si  verifica  anche  negli  elementi  secondarj  della  proposi- 
zione; che  elementi  quali:  Co  =  quando  (qmim):  Cossita  =  così  (acque- 
5^?c-i/a);  ^m/>ò  =  nonostante  (1);  Z)ew2Ò  =  soltanto  (de  modo);  Chive  = 
qui  (eccu-hi€-ibi)  ;  iù'e  =  ivi,  colà,  costà  (illic-ibi)  ;  /Sw50  =  in  su  (stirsum); 
Zoso  =  ìn  giù  (deorstim);  Eni  =^ dentro,  in  (intns),  sono  di  formazione 
antichissima,  e  nello  stesso  tempo  differiscono  quasi  intieramente  dalle 
voci  analoghe  di  alcuni  idiomi  ladini;  del  gardenese  tra  gli  altri.  Po- 
tremmo anche  addurre  più  d'un  argomento,  dal  quale  arguire  che  decli- 
nazioni e  conjugazioni  dovessero  prendere  per  tempo  andatura  diversa 
nelle  due  famiglie  di  idiomi.  Ma  piuttosto  che  di  spiegare  nuove  vele,  è 
tempo  di  raccogliere  le  distese.  Non  possiamo  fare  a  meno  però  di 
avvertire  come  nel  materiale  lessigrafico  ci  si  presentino  diflferenze  no- 
tevoli tra  il  dialetto  trentino  e  le  parlate  ladine;  differenze  antiche,  da 
non  potersi  ricondurre  ad  una  stessa  origine  colle  leggi  glottologiche 
comunemente  accettate,  né  spiegare  con  le  varie  infiltrazioni  etnogra- 


(1)  Qupsto  avverbio,  di  uso  frcqueniissi- 
mo  nel  parlare  trentino,  non  è  conosciuto  né 
dal  veneziano  né  dal  milanese.  Il  Vocabo- 
lario del  Fanfani  ha  ampoi;  ma  come  con- 
giunzione limitativa  d' uso  antico,  equivalente 
il  più  delle  volte  a  benché.  In  istretta  atti- 
nenza coW  ampò  trentino  sta  invece  V  ain- 
pódo  che  s'incontra  in  alcune  parlate  pede- 
montane. Kp. :  Ai  rè  di^f^U,  ma*l  farò 
ampòdn.    Si  può  ritener  dunque  che  uno  de- 


gli elementi  di  ainpó  sìa  polis.  Circa  al  va- 
lore dell'am,  incliniamo  a  crederlo  trasfor- 
mazione o  riduzione  di  homo  {uom ,  om,  vm, 
am  )  come  opina  il  prof.  Flecchia  per  Vam 
di  alcuni  costrutti  lombardi.  {Intorno  ad 
wa  pecìtliarità  di  flessione  verbale;  negli 
Atti  dei  Lincei.  Serie  II,  T.  3  ).  Talché  awpó 
verrebbe  a  dire:  uomo  che  può  ;  on\)y\ve\  per 
quanto  è  nel  potere  d'uno. 


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ROMANZA,  X."  2\      GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTISO  175 

fiche  saccedutesi  nei  tempi.  E  queste  differenze  lessicali  concernono 
propriamente  idee  o  cose  delle  più  comuni,  come  si  potrà  rilevare  dal 
seguente  saggio: 

Lad.  Aghél  (da  a<][Ma)  =  treni,  fosskt,  canalùzz  (canale  o  rivo  nei  prati).  —  -4i- 
8uda  =  primavera.  —  Arnaghé  =  adaquar.  —  Audè  (da  aveo)  non  ha  riscontro  se  non 
in  =  desiderar,  brama.  —  Biòsa  =  pégora.  —  Blot  ==  bèli.  —  Caute  =  engrasskr  (leta- 
mare). —  Cìddr  =  risciàr.  —  ^edl  =»  sguerQ,  (guercie  ).  —  Ciddr  =  risciar.  —  D*  longia 
(corrisponderebbe  a  lunghesso)  =  de  fianc,  de  costa.  —  De  dite  =^  de  dentro.  —  Da- 
trai=t'na  volta  o  T altra;  per  a9Ìdent.  —  I''/>àÌ  =  famejót  (garzonetto  del  pastore 
comunale).  —  Flùja  (da  fluere)  =  tela  de  latt  (panna).  —  Fróses  (da  fraceo)  =  fra- 
scàm,  9aspàra  (seccume,  o  fradiciume  di  piante).  —  Fruzè  (da,  frangere)  =  scavezzar 
(rompere).  —  Gonza  =  bozzón  (bottiglia  grande).  —  Giamié  =  cambiar.  —  Grani- 
blin  =  mascèla.  —  Lèsùra  ==»  snodadura  (giuntura).  —  Luèsa,  non  ha  riscontro  nel  dial. 
trent.  (slitta  a  mano).  —  Malciaffià  =  mal  vestì.  —  Mènesòll  =  gióm  (gomitolo).  — 
Mossahia  (lat.  muscipula)  =  sorzaróla.  —  Nodrumo  (da  nutrimen?)  =*  vedéli  o  cao- 
thit  de  latt.  --  No  zis  =  nò  del  tutt  (non  intieramente).  —  Pélmes  =  anipkzena  (favo).  — 
Pance  via  (forse  da  expandere)  =  buttar  via  la  roba,  spànder.  —  Pianta  =  méat  (muc- 
chio di  fieno).  —  Rate  (da  ratum)  =  créder,  stimar,  far  voti.  —  Raidéj  di  incerta  deri- 
vazione, avrebbe  per  equivalente  =  cavillar,  aofistickr.  —  Schedra  =  riga.  —  Scussói  (da 
excutere)  =  9alin  (acciarino).  —  Snòdi  =  ginoccio.  —  Sauridanza  =  asi,  còmod.  — 
S umblin  =^ zeméW  (gemello).  —  Stlit  —  serr&r  (forse  da  exdudere),  —  Se  daudé^^Yer- 
goguarse.  —  Tacclèné  =  bàtter  air  uss  (bussare).  —  'l  Tgé  -=  la  testa.  —  Tlupé  = 
far  erba. —  Udléda  =  occvddti  (sguardo).  —  Var  (in  attinenza  coirital.  Farco)  =  pass 
(passo).  —  Vogara  (la  mandra  communale)  non  ha  il  corrispondente  nel  dial.  trent.  — 
Vósolar  =1  pasturar.  —  ZentUgn  =  grosta  (orliccio).  —  Ziplé  =  entajar  (intagliare, 
scolpire). 

I  vocabolari  degli  idiomi  ladini,  parlati  nel  Trentino  e  nel  Tirolo, 
potranno  offrire  molte  altre  voci  sul  far  di  queste;  voci  cioè,  di  cui  al- 
cune sfuggono,  per  dir  così,  alle  ricerche  etimologiche  ed  appartengono 
forse  al  più  antico  substrato  retico;  mentre  altre,  derivate  dal  latino , 
accennano  ad  un  processo  di  trasformazione  inorganico,  o  almanco  di- 
verso da  quello  che  può  stabilirsi  pel  dialetto  trentino.  Nello  scegliere 
i  vocaboli,  ci  siamo  attenuti  a  quelli  che  esprimono  operazioni  rurali, 
oppure  oggetti  coraunissmi;  ed  è  facile  ad  arguirsi  il  perché  di  tale 
scelta.  Volevamo  cioè  riuscire  alla  domanda:  come  mai  di  quelle  voci 
non  avesse  a  rimanere  più  traccia  tra  gli  abitatori  del  contado  di  Trento, 
e  delle  terre  vicine,  se  il  loro  antico  linguaggio  fosse  stato  veramente 
un  parlare  ladino,  come  quelli  della  Gardena  o  di  Badia?  Ma  a  mo- 
strare r insussistenza  di  quest'ultima  opinione,  abbiamo  un  altro  argo- 
mento, non  meno  valido  di  quelli  già  addotti;  ed  è  la  diversità  di  par- 
late che  s'incontra  nel  Trentino  stesso;  e  più  specialmente  tra  la  valle 
dell'Adige  e  quella  del  Noce.  I  vernacoli  usati  in  quest'ultima  sono 
tali,  che  un  osservatore,  quale  l'Ascoli,  giudicò  doverli  assegnare  alla  fa- 
miglia ladina.  Onde  le  differenze?  Onde  il  carattere  schiettamente 
italiano  del  dialetto  parlato  a  Trento?    Si  vorrà  forse  assentire  a  coloro 


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170  B.  MALFATTI  [uiorxale  di  filologia 

che  dicono  essersi  i  terrieri  della  Val  d' Adige  fatta  propria  tale  favella 
in  grazia  unicamente  delle  più  frequenti  relazioni  colla  Venezia  e  colla 
Lombardia,  e  degli  elementi  civili  che  si  diffondevano  intorno  dalla 
città;  mentre  le  valli,  a  cui  non  giugnevano  quei  contatti  ed  influssi, 
ebbero  a  conservare  gli  antichi  idiomi?  Ma  se  quest'ultima  ragione  può 
valere,  in  qualche  parte,  per  gli  abitatori  della  valle  dell'Avisio,  ossia 
dei  territorj  di  Fiemme  e  di  Fassa,  non  saprebbe  reggere  punto  per  quelli 
della  valle  del  Noce.  Le  relazioni  di  questi  ultimi  con  Trento  e  colla 
Lombardia  furono  continue  e  strettissime;  né  v'ha  gente  trentina  che 
superi  quei  valligiani  per  naturale  acume  d'ingegno,  per  alacrità  e  de- 
strezza neir  operare.  Eppure  i  loro  vernacoli  hanno  qualcosa  di  più 
imperfetto,  diremo  quasi  di  più  pigro,  non  pur  del  parlare  di  Trento, 
ma  anche  di  quello  dell'alta  Valsugana,  o  dei  paesi  a  mezzo  il  corso 
del  Sarca.  Chi  non  vorrà  inferirne  a  differenze  di  caratteri  etnogra- 
fici antichi  e  notevole,  e  a  disposizioni  diverse  di  affinità  elettive?  Né 
si  dimentichi  che  l'efficacia,  o  gli  influssi  del  vivere  urbano  e  della 
lingua  letteraria  furono  nei  secoli  passati  molto  più  lenti  e  più  circo- 
scritti che  taluno  npn  ami  figurarseli  oggidì.  L'essere  Trento  stata  un 
giorno  a  capo  della  vita  politica  e  della  cultura  del  paese,  non  può  ad- 
dursi  coma  sola,  e  neanche  come  prima  ragione  del  carattere  partico- 
lare che  tiene  il  dialetto  della  Val  d'Adige  rispetto  a  quelli  delle  valli 
del  Noce  e  dell'Avisio. 

Di  precisare  le  note  specifiche  di  esso  dialetto,  pei  tempi  più  antichi, 
ne  lo  vieta  l'assoluta  mancanza  di  testi  dettati  in  quel  volgare.  Ma  che 
pel  lessico  e  nella  sintassi  fosse  italiano  sei  e  sette  secoli  addietro,  come 
lo  é  oggidì,  non  ne  potrà  rimaner  dubbio  a  chi  legga  i  documenti  det- 
tati da  notaj  trentini  fra  il  secolo  XII  e  il  XIV  (1).  Dei  caratteri  idio- 
matici del  Codice  Vanghiano  abbiamo  già  discorso.  Contemporaneo  alle 
ultime  carte  di  quel  Codice  ne  si  presenta  un  documento  importantis- 
simo perciò  che  spetta  alla  lingua;  vale  a  dire  il  più  antico  Statuto 
(li  Ulva  (2).  Fu  confermato  nel  1274  da  quel  vescovo  Enrico  II,  che, 
al  dire  del  signor  Thomaschek,  si  sarebbe  fatto  giurare  fedeltà  dal  popolo 


(1)  È  cosa  da  notarsi  che  il   popolo,  nel  d'Italia.    Raumer  ,  Geschichte  der  Hohen- 

Trentino,  per  significare  il  parlare  letterario  staufen  (2.*  edìz.),  Ili,    195;   Frapporti, 

o  ricercato,  usa  dirlo  tuttavia  ^  parlar  e ici-  Stor.  di  Trento,  p.  395;  Equer,  Gesch.  Ti- 

liana  y>.    Chi  troverà  incredibile,  che  gli  in-  rols,  I,  227. 

flussi,  o  almeno  la  conoscenza  della  poesia  (2)  Fu  pubblicato  per  la  prima  volta  da 

e  della  cultura  siciliana,  potessero  giugnere  Tommaso  Gar   nella  Biblioteca   Trentina 

sino  a  Trento?    I  vescovi  trentini,  della  pri-  (Trento,  1801).    Come  accennammo  prima 

ma  metà  del  secolo  XIII,  furono  nei  migliori  di  passaggio,  questo  Statuto  serve  anch'esso 

termini  con  Federigo  II;  anzi  Federigo  dì  a  provare  Pinsussistenza  di  quanto  asserì 

Vanga,  che  taluni  dicono  congiunto  dell'Im-  il  signor  Tomaschek  intorno  alla  lingua  in 

peratore,  fu  suo  Legato  e  Vicario  pe'  regno  cui  fu  dettato  il  più  antico  Statuto  di  Trento. 


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ROMANZA,  x."  2J       GLI  IDIOMI  PAELATI  NEL  TBENTINO  177 

in  lingua  tedesca;  però  il  dettato  de'  singoli  capitoli,  o  d'una  parte 
d'essi  almanco,  s'ha  da  far  risalire  più  in  su,  forse  alla  prima  metà 
del  secolo.  Lo  argomentiamo  da  certe  prescrizioni  concordanti  col  Co- 
dice Vanghiano;  poi  dalla  disposizione  disordinata  e  confusa  di  quei  158 
capitoli,  e  dalle  ripetizioni  che  vi  s'incontrano.  La  lingua  dovrebbe 
essere  la  latina;  ma  in  eflfetto  è  poco  più  che  un  vernacolo  latinizzato* 
Ecco  un  saggio  delle  locuzioni  e  delle  parole,  che  si  potranno  incon- 
trare di  mano  in  mano  in  quello  statuto;  statuto  succinto,  brevissimo, 
che  nell'originale  occupa  non  più  di  otto  fogli  di  scritto: 

....  cum  lanzono,  faucono,  spata ; . . .  cum  bastono,  zacono  ; ...  si  aliquem  appellaverit 
ficagozium(l)  ;. ..  cum  falso  pesarollo  vel  falsa  staera;...  non  debeat  aperire  nec 
desmnrare ; . . .  cugnatura ; . . .  furans  uvas  sine  brento;...  damnum  magius  (sjc);... 
fiucium  pallorum  vel  encinarum  seu  rangonorum  ; .  . .  ligna  de  cesis  ; . .  .  stiop- 
pas;...  montonus,  castronus ; . . .  ligna  a  carbonaria,  sive  ad  calcheram,  seu  ad 
fractam  faccendam  ; . . .  solvat  postam  prò  eo  ; . . .  blavam  illius  fractae  ; . . .  si  quis 
segaverit  cum  falce  vel  cum  sexula;...  qui  secum  habitaret  ad  ignem;...  si  quis 
fecerit  mostum  ante  vindemiam  ; ...  si  quis  cum  civeta  iverit  in  clausura  vineata  ; . . . 
si  quis  luserit  ad  begam  ; . . .  nemo  vendat  letamen  ; . . .  exceptis  bobus  cum  zovis  ; . .  * 
si  quis  venderit  ad  minutum;...  vendat  ad  pesam;...  nemo  debeat  cavare  glevani 
nec  terram;...  si  aliqua  bestia  malata  (sic)  a  morìa;...  nemo  debeat  implere  ali- 
qnem  argnonum ,  nec  infra  pellem  et  camem  suphlare  ; . . .  ponere  in  ^moya  ali- 
quem corium  ; . . .  non  debeat  scarnare  neque  follare  pellem  ; . . .  ponere  in  moya  et 
seccare  ; . . .  unus  molinarius  et  unus  famigolus  ; . . .  non  debeat  pascolare  ; . . .  damp- 
num  seu  vastum  datum  ; . . .  vendere  ad  minutum  drapum  et  pignolacium  ; . . .  ven- 
dens  blavam  in  storis;...  extra  paladam;...  vendere  anvilas  {anguiUe) \ , , ,  si  quis 
conduxerit  vias  {^sic)  alienam  pupem  vel  sandalum,  seu  remum  ; . . .  si  quis  acceperit 
de  remis  gauzonioe  ; . . .  nemo  debeat  de  chaleariis  stare  ad  vendendum  ultra  chan- 
tonum  domus  communis  ; , . .  nemo  de  chaleariis  debeat  ponere  dischos  ad  traversum;. .. 
terrerius  et  foreaterius  ; . . .  sub  domo  comunis  a  cupis  inferius  ; . . .  nemo  debeat  ponere 
carros  nec  carrollos  ; . . .  accipere  argnones,  grassum,  corazias  ; . . .  pannos  de  dosso  ; . . . 
aliquis  merzàder  {sic)  non  vendat  pignolatum  et  pannum  de  colore;...  nemo  non 
debeat  facere  velas  a  vernoUo,  neque  in  portu  Lazisii...  nec  ponere  nassas  nec  ba- 
taellos  ; . . .  nemo  debeat  facere  ledamen  ; . . .  ponere  pajam,  canas,  panigales  j . . .  tenere 
manum  super  temonem  ; . . .  ponere  lignamen  ; . . .  de  danariis  operarum  ; . . .  dare  com- 
panadegum. 

Ed  ora  facendo  uno  spoglio  da  questo  e  dagli  altri  documenti  che 
abbiamo  indicati  prima  (anteriori  tutti  al  secolo  XV)  potremo  avere 


(1)  «  ScagÓQ  »;   questa    parola,   rainac-  telo  dello  Statuto  di  Riva  ci  ricorda  quella 

ciata  di  pena  dallo  Statuto  di  Riva,  siccome  delT  Editto   longobardo,   che    stabiliva   una 

grave  contumelia,  è  ancora  d*uso  frequen-  punizione  per  chi  avesse  chiamato  qualcuno 

tissimo  nel  Trentino,  ma  con  senso  attenuato;  Arga  =  codardo  (  Rothar.,  381.    Cf.  Paul. 

perché  oggidì  dicesi  di  ragazzo  petulante,  Diac,  VI,  24).    Il  Glossario  di  Papias  dà 

o  di  presuntuoso  impotente;  laddove  antica-  ai'ga  equivalente  a  cucurbita;  significata 

mente  equivaleva  a:  vile,  dappoco.    II  capi-  che  s'avvicina  a  quello  odierno  di  scogót;. 

12 


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178  B,  MALFATTI  [ohuixale  di  filologia 

una  suppellettile  di  voci  dell'antico  volgare  trentino;  poco  copiosa  è 
vero,  ma  pure  non  dispregevole;  eerto  poi  più  che  bastante  per  dare 
sostegno  ài  nostri  asserti.  Porgeremo  questa  specie  di  Glossario  se- 
condo i  termini  del  dialetto  trentino  odierno;  e  facciamo  così  per  due 
ragioni  :  per  rendere  più  agevoli  e  sicuri  i  riscontri  a  chiunque  mai  pren- 
desse interesse  ali*  argomento  ;  e  per  mostrare  inoltre  come  l'idioma 
odierno  corrisponda  a  quello  che  i  documenti  ci  indicano  parlato  cinque 
o  sei  secoli  addietro  (1). 

Nomi:  AccQrdo,  afFir,  angruilla,  armar  (ariiiadio),  arbitri,  aei,  Ba^fn,  bastón, 
bah'a  (haiha  Inter pretandi),  bànc,  beccar  ( becca jo),.  bèga,  bérètta,  bestia,  biada, 
bólza  (bisaccia),  bórgo,  borsa,  bosc,  bra9,  bréuta,  briga,  bróilo,  Bus  [Busum  de  Fe7a)(2), 
Càneva,  cambi,  contraccàmbi,  cantón,  casa,  casal,  casamdnt,  capitani,  calcherà  (for- 
nace da  calce),  càrr,  castrón,  canna,  cagn,  caliàr,  calcagnin,  campagna,  castagnàr, 
castellàzz,  cavé9,  cavé9a,  castra,  ^era,  9édola,  9e8télla,  9eaa,  ciusiira  (ortaglia chiusa), 
91  vétta,  comùn,  colouéll,  cógo,  cortéll,  cópa,  cóp  (tégolo),  coradélla,  conzàl,  com- 
proméss,  consòrzi,  contrada,  corba,  corte'll  colla  ponta,  coràra  (cuojo),  companadegh, 
Dagi,  dé9ima,  degania,  difétt,  distrétt,  dÌ8tru9Ìón,  dóghe,  doas,  drapp,  Encombénza, 
esattór,  esemplar,  Fal9,  falcón  (arma),  famigol  (piccolo  famiglio),  fasa  de  fon,  f at- 
tor (Isidorus  factor  in  ipso  castro),  farina  de  forméut,  finestrella,  fitt,  fógo,  fondo 
(possessione),  fontana,  forestér,  fornas,  fornér,  fosina  (?(7>t  erat  fosina),  fratta,  Ga- 
léda  d'ojo,  gastald,  geva  0  sge va  (schegge,  sassi,  ghiaja),  gióf  (giogo),  godimént, 
guardiàn,  guast,  In9ens,  insegna,  iscia,  istrumént  (scrittura  pubblica),  Làn9a,  lan- 
^on,  laorér  (lavoro  a  giornata),  ledam,  legna  da  90»^,  legnam,  locazión,  Maniera, 
manuàl,  mas  (podere),  massar,  massaria,  mei  (miglio),  meroa  (mercato),  mer94der 
(merciajuolo),  minella,  misura,  raòja  (mettere  in  molle),  molin,  molinàr,  mónegh 
(scaccino),  montón,  moria,  Nassa,  negÓ9Ì,  nodér  0  noddr  (notajo),  nogàra  (noce),^ 
nól,novàl,  Officiai,  oliva,  òpere  (giornate  di  lavoro,  mercede  giornfiliera,  e  gli  ope- 
raj  stessi),  ón9a,  orgnón  (arnione),  orna,  ospedal ,  Pai,  palàda  (palizzata,  steccato), 
panÌ9  e  panigai  (panico),  paja  (paglia),  piiramenta,  paissador,  pegn,  pegoràr,  pezza 
de  panno,  pezza  de  terra,  pesa,  pesaroll,  pignola  (pigoolato),  podór,  poppa  (specie  di 
barca),  porchétt,  portélìa,  portenàr,  posaession,  posta,  pozz,  Quartier,  Rangón  (palo, 
troncone),  rasór,  razza,  refettòri,  rem,  ricc,  rio  e  róza  (rivo,  roggia),  Róza  gvanda  (Ragia 
magna)f(S)  roda,  romitòri  (èremo),  ronc,  rumor,  Salàri,  saltar  (guardia  campestre), 


(1)  Tanto  qui,  come  in  altri  luoghi  del  pre-  nantì  raddoppiate  non  v'  ha  quasi  sentore, 

sente  lavoro,  trascrivendo  parole  del  dialetto,  (2)  Bìts  de  Vela  =  Buco  di  Vela;  è  il  no- 

non  abbiamo  osservato  sempre  quei  rigoroso  me  della  stretta,  o  del  valico,  ad  occidente 

sistema  di  ortografia  e  di  accenti,  di  cui  ne  ha  dì  Trento,  per  cui  dalla  Valle  dell'Adige  si 

dato  sì  bel  modello  TAscoLi.   Parecchie  cause  passa   al  bacino  di  Terlago,  e  quindi  alla 

e  considerazioni  ne  indussero  a  discostarcene  valle  del  basso  Sarca.     Le  parole  latine  in 

talvolta.    Delle  ultime  ne  accenneremo  una  questa  serie  sono  ricavate  dai  documenti  del 

sola;  e  fu  quella,  che  i  lettori  non  filologi  (an-  secolo  XIV  e  XV,  che  fanno  parte  dello  Sta- 

che  adessi  volevamo  destinate  queste  i)ai^ine)  tato  di  Trento  del  1528. 

avessero  a  cogliere  più  facilmente  le  rispon-  (3)  Cosi  si  chiama  il  maggior  canale  d' ac- 

denze  del  dialetto  colla  lingua  letteraria.    Hp-  qua,    che,   derivato    dal   torrente    Fersina, 

pei  ò, in  molli  casi, abbiam  segnato  raddoppia-  attraversa  la  città  di  Trento,  e  si  dirama, 

menti  in  mezzo  ed  in  fine  delle  parole,  men-  per  minori  canali  sotterranei,  in  quasi  tutte 

tre  pure  nel  parlare  trentino,  come  in  mas-  le  vie. 
sima  nelle  parlate  dell'alta  Italia,  di  conso- 


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KOMAszA,  ».•  2]      GLI  IDIOMI  PABLATI  NEL  TRENTINO  179 

saccy  8ent<^r,  serradùra,  serviyi,  sesia,  settimana,  sobborgo,  soldo,  sÓ9era,  sòma, 
mezza  sòma,  somàr,  sòrg  (sorgo),  sorimpósta,  sdrt,  spada,  spina,  stadèra,  star,  stàza, 
stazión,  st<5ra  (stuoja),  strada,  stropa  (vimine,  salciolo),  stila  (stuffa),  Taverna,  ta- 
vernér  o  tavernàr,  tenór,  térmen,  terra  pradiva,  terrier,  territòri,  timóu,  tovàja, 
Utensfl,  Vas,  vdsa,  vendéraa,  vicàri,  vigna,  vignài,  vÌ9ini,  Zucca. 

Vkrbi:  Acquistar,  cassar,  cavar,  colar,  comperar,  computar,  condur  via,  consegnar, 
desmuràr,  dispia9ér,  distfnguer,  embrigàr,  enibir,  envestir,  fadigàr,  follar,  garantir, 
litegàr  (catisam  hahuU  litigandi)^  mantegnfr,  masnar,  maridàrse,  offender,  pagar, 
paissàr,  pascolar,  preparàrse,  que'rzer  (coprire),  revocar,  robàr,  salvar,  scarnar,  seccar, 
segar,  sigillar,  slongàr,  soUiàr,  spaldàr,  spazzar. 

Aggettivi  e  participi:  Arati'f,  beli,  bellina,  bon,  belPe  bon,  boi  (bollito),  colk 
(colato),  competént,  discrét,  grass,  mala,  malàda,  malauguri,  mézz,  miuùt,  pien, 
prati'f,  rabbiósa,  ras,  rasa  (colmo  a),  scagÓ9,  seco,  vodo. 

£lementi  ikdeclin. :  Alméu,  en  là,  de  dòss,  en  suso,  a  travers,  via,  zóso. 

Modi  di  dire:  A  pè  (a  piedi);  al  pè  della  rocca;  abitar  en  quel  fóg  (in  quella  . 
casa);  andar  a  dimorar;  andar  colla  9Ì vetta;  aver  da  dir;  bestie  da  carne  (hestias 
a  carnìbus);  bestie  malade  a  morfa;  bra9  de  panno;  buttar  per  terra;  cavar  gieva 
e  terra;  condur  le  so  robe  (rebus  suis  ibidem  conductis);  star  contenti  ;  dar  el  com- 
panadegh;  dar  lÌ9enza;  dir  la  pura  verità;  divider  per  mézz;  esser  d'accordo;  de 
bona  fama;  sotto  pena  del  doppio  fitt;  far  bon  servi9Ì;  far  el  móat;  far  cantar  messa; 
far  ledàm  ;  far  tutti  i  servi9Ì  ;  legna  da  calcherà  ;  legna  da  carbonara  ;  legna  da  fóg 
(tigna  ab  igne);  metter  en  mója;  misura  rasa;  denari  delle  opere;  empieui'r  Torgnón; 
quattro  passi  de  terra  a  testa;  panno  de  color;  sicuri  deir aver ,  delia  persona;  sof- 
fiar tra  carne  e  peli  ;  a  so'  spese  ;  star  a  vedór  ;  tegnir  la  man  sul  timón  ;  terra  da 
piantar  a  olivi;  vender  a  pésa;  vénder  al  miuùt;  vender  al  ma9ell  (vendere  ad  ma- 
ceUum  in  Tridento);  vender  ledàm;  vender  la  biada  en  stóre;  de  nessun  valor;  ve- 
gnir  zó  per  l'Àdes  (Adige);  vinti  ome  do  bon  vin  bianc  pur,  de  vasa,  ben  boi;  vinti 
orne  de  vin,  prima  della  spina;  zugàr  (giocare)  alla  bèga. 

Questa  serie  di  vocaboli  e  di  modi  di  dire  non  rappresenta  che  pic- 
cola parte  della  messe,  che  si  potrebbe  raccogliere  da  quelle  antiche  carte 
trentine,  che  furono  messe  in  luce  sin  qui.  E  quanto  materiale,  prezioso 
alla  storia  del  dialetto  trentino,  non  giace  inesplorato  per  avventura 
nell'Archivio  di  Stato  a  Vienna,  e  in  quello  d'Innsbruck,  e  nell'archivio 
capitolare  di  Trento!  Intanto  anche  il  poco  che  abbiamo  offerto,  sarà 
bastato,  speriamo,  a  non  lasciar  dubbio  che  il  volgare  trentino,  tra  il  XIII 
e  il  XIV  secolo,  doveva  essere  un  dialetto  simile  a  quelli  vicini  della 
Venezia  e  della  Lombardia.  Voci  come:  asio,  bccriséll,,  buso,  caliàr,  cal- 
cherà y  compamidegh,  embrigàr,  famìgól,  fosina,  iner^àdcr,  tnoja^  vodèr, 
tavernér,  icrmen;  nomi  come:  JBattaja,  Bomizucca,  Brazzebèllo,  Malago- 
rado,  Miti  fogo,  Fe§arario,  Zancbdlo,  ZanoVuio^  Zidiana  (gli  uni  e  gli 
altri  ne  sono  tramandati  cosi  dai  documenti)  ci  richiamano  ai  processi 
glottologici,  che  informarono  sin  da  tempi  remoti  le  parlate  dell'alta 
Italia.  Con  quali  di  queste  fosse  in  attenenza  più  stretta  la  trentina, 
non  si  può  determinar  bene,  che  il  materiale  da  comparare  non  è  suf- 
ficiente a  tanto.  Ma  lasciando  parlare  l'induzione,  ragguagliando  cioè 
il  dialetto  odierno  di  Trento  coi  monumenti  più  antichi  dei  volgari  ve- 


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180  B,  MALFATTI  [giornale  di  filologia 

ueti  e  lombardi,  saremo  condotti  all'avviso  (che  può  trovare  appoggio 
anche  dalla  storia)  essere  stato  il  parlare  di  Trento,  già  per  tempo,  in 
più  prossima  parentela  col  gruppo  veneto,  che  non  col  lombardo.  Si 
veda  con  un  esempio  quanto  il  linguaggio  trentino  d'oggidì  s'assomgli 
a  quello  usato  da  fra  Giacomino  di  Verona.  Prendiamo  il  noto  brano 
del  peccatore  arrostito  da  Belzebù  (1)  ;  facendo  seguire  la  forma  prosa- 
stica in  cui  lo  potrebbe  rendere  oggidì  un  popolano  di  Trento: 

Testo 

Stagando  en  quel  tormento,  sovra  gè  ven  un  cogo, 
(,'0  è  Ba9abu,  de  li  pe9or  del  logo, 
Ke  lo  meto  a  rostir,  come  un  bel  porco,  al  fogo, 
En  un  gran  ape  de  fer  per  farlo  tosto  cosro. 

E  pò  prendo  aqua  e  sai,  e  calu9en  e  vin, 
E  fel  e  fort  aseo,  tosego  e  venin, 
E  si  me  faso  un  solfo  ke  tant  è  bon  e  fin 
Ca  ognunca  Cristian  si  guardo  el  re  dìvin. 

A  lo  re  de  T  Inferno  per  gran  don  lo  trameto, 
Et  elo  el  meto  dentro  e  molto  cria  al  messo: 
E' no  gè  ne  darìa,  90  diso,  un  figo  secco, 
K'  b  la  carne  crua  e  U  sango  è  bel  e  fresco. 

Mo  tómagel  endreo  via9amente  tosto 
E  dige  a  quel  fel  cogo  k'el  no  me  par  ben  ceto, 
E  k'el  lo  débia  metro  cun  lo  cavo  90  stravolto 
J)ntro  quel  fogo  c'ardo  sempre  mai  9orno  e  noito. 

E  stretamente  ancor  dige  da  la  mia  parto 
K'el  no  mei  mando  plui,  mo  sempre  lì  lo  lasso. 

Dialetto  trentiHO 

Stand  (el  pecoator)  en  quel  toi*mint,  ghe  vegn  sora'n  cogo;  |  vói  dir  Belzebù, 
un  dei  pézo  de  quel  logo,  |  eh'  el  lo  mette  a  rostir  al  fóg  come  'n  bel  porco  |  ent  en 
gran  spied  de  fer  per  farlo  còser  subit.  |  E  pò  '1  ciappa  acqua  e  sai,  e  cariizen  e 
vin,  I  e  fel  e  asédo  fort,  e  tòssegh  e  velén,  |  e  cossi  1  fa  zo  'n  solfro,  che  Tè  tant 
bon  e  fin,  I  che  *1  Soreddio  ne  varda  ogni  Cristian.  |  Per  farghe  'n  gran  don,  el  lo 
manda  al  Ee  de  l'Inferno,  |  e  quest  el  lo  mette  en  bocca;  ma  pó'l  ghe  9iga  molto 
al  commess,  |  e  '1  dis  cossita:  Mi  no  ghe  n'  dago  en  fig  secc,  |  che  la  carne  l'è  cruda, 
e  '1  sangue  l'è  beli' e  frese.  |  Pórteghel  mo  'ndrio,  destrfghete  sùbit;  |  e  dighe  a  quel 
cagn  d' en  cogo  che  no  '1  me  par  ben  còtt;  |  e  che  '1  lo  deva  metter  colla  testa  'n 
zó,  I  dentro  de  quel  fog  che  l'arde  sempre  dì  e  nott.  |  E  dighe  anca  strettameut  de 
part  mia  |  Che  no  '1  n^el  nianda  pù,  ma  che  'l  lo  lassa  sempr*  lì.  | 

(1)  Nel  canto  Be  Babilonia  civitate  in-  che  ne  dà  il  Bartoli  nei  Primi  due  secoli 

fernali.    Non  avendo  alla  mano  T edizione  della  Letter.  ital.,    piuttosto    che  secondo 

i\elMiJSSAFix{Monum.ant.  di  dialetti  ita-  quella  dell'OzANAM,  ritenuta  dal  Fanfani 

liani,  Vienna,  1864),  riproduciamo  il  brano  (I  poeti  Francescani,  Prato,  1853). 
(meno  i  due  ultimi  versi)  secondo  la  lezione 


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BOMANZA,  N.o  2]      GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  181 

Di  poco  minore  è  la  concordanza  del  dialetto  trentino  colla  lingua 
usata  in  Lombardia  dai  contemporanei  di  Fra  Giacomino,  o  dai  loro  pros- 
simi successori.  Ecco  il  cominciamento  di  un  canto  inedito  di  Fra  Bon- 
vesin  (l): 

Nuy  lezemo  de  uno  pirrato  de  uno  robadore  de  mare 
Lo  quale  roba  va  le  nave  e  feva  ogni  male, 
Avegna  deo  k'el  fallasse  in  lo  peccato  mortale, 
Grande  ben  el  voleva  a  la  matre  del  Re  celestiale. 

Avegna  k'el  fosse  peccatore  e  de  grande  fellonia 
Spesse  volte  se  raccomandava  a  la  vergene  Maria, 
Pregando  ke  ley  lo  tirasse  de  quella  rea  via, 
Azò  ke  r  anima  soa  non  andasse  in  tenebria. 

Pregava  la  regina  con  grande  devotione 
K'ella  non  Io  lassasse  morire  senza  confessione, 
E  molti  ieiunii  faxeva  a  quella  intentione. 
Molto  grande  amore  gè  aveva  beuk*el  fosse  fellone. 

£1  zezunava  (2)  sempre  uno  di  de  la  septimana 
A  honore  de  la  vergene  matre  de  quello  Siore  soprano. 
Pregando  ke  ley  lo  conduga  a  penitentia  sana, 
Ee  ella  non  lo  lassa  morire  a  rea  morte  subitana. 

Possiamo  rendere  questi  versi  nel  dialetto  di  Trento ,  conservandone 
quasi  inalterate  la  misura  e  le  rime: 

Noi  lezém  d'en  pirata,  d'en  gran  ladron  de  mar, 
Ch'el  roba  va  le  naf,  e'I  fava  ogni  mal; 
Ma  'nsibbén  eh'  el  fallass  ent  el  pecca  mortài , 
£1  ghe  voleva  'n  gran  ben  alla  mare  del  He  9elestió,1. 

Ensibbén  ch'el  foss  peccatór,  ch'el  foss  na  gran  gallia, 
El  se  raccomandava  de  spéss  a  la  vergine  Maria, 
Pregandola  che  la  '1  tirass  zo  dalla  mala  strada, 
Perché  la  so  anima  no  Tavess  anàr  dannàda. 

El  pregava  la  regina  con  gran  divozióu. 
Che  no  la  '1  lassass  morir  senza  confessión , 
£  molti  dezuni  el  fa9eva  a  quella  intenziòn, 
En  grand' amor  el  g' aveva  a  ella,  sbanca  Tera  'n  briccón. 


(l)  Ha  per  titolo:   «  De  uno  pirrato  de  singolare  alacrità  gli  studj  romanzi  possono 

mare  tino  btUo  miracolo  »;  ed  è  il  secondo  ripromettersi  notevole  aumento, 

esempio  riferito  dal  BoNVBSiN  nella  sua  ope-  (2)  Di  mutamento   della  dentale  d  nella 

ra:  De  la  dignitade  de  la  gloriola  vergene  spirante  s ,  in  principio  di  parola,  v*haqual- 

Maria.     Lo    trascrisse,   insieme   con   altri  che  esempio  nel  dialetto  trentino.    A  noi  pare 

brani  inediti,  da  un  Codice  dell'Ambrosiana  che  insieme  con   dezùn  si  usi  dal  popolo, 

(Cod.  T,  10,  sup.)   il  signor  Enrico   Mol-  sebbene  raramente,  anche  zezùn;  ma  non 

leni,    valentissimo   allievo    dell'Accademia  vorremmo  assicurarlo.    Siamo  certi  invece 

Scientifico-letteraria  di  Milano  e  dell'Uni-  d'aver  udito  zonxélla  per  donzella  (came- 

versìtà  di  Roma,  dalla  cui  soda  cultura  e  riera). 


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182  B.  MALFATTI  [(hoknalk  di  filolocua 

El  dezunava  sempre  en  di  de  la  settimana 
A  onor  della  Yergiofì  Mare  della  Maestà  sovrana; 
Pregandola  che  1^  1  condiisa  a  penitenza  sana, 
E  cbe^TTO  la  "ì  lassa  morir  de  cattiva  mort  subitana. 

Da  questi  riscontri  non  intendiamo  di  ricavare  illazioni  assolate.  I 
dubbj  stéssi  ed  i  dispareri  a  cui  dà  materia  l'antica  letteratura  dialet- 
tale deiralta  Italia,  non  le  consentirebbero.  Eppure  chi  vorrà  dire  cosa 
fortuita  lo  stretto  rannodarsi  del  dialetto  trentino  colle  reliquie  lingui- 
stiche-piii  vetuste  della  Venezia  e  della  Lombardia?  Per  poco  che  uno 
si  sia  reso  conto  della  natura  dei  linguaggi ,  e  delle  evoluzioni  che  questi 
hanno  necessariamente  a  percorrere,  come  potrà  attribuire  quelle  affi- 
nità ad  influssi  letterarj  od  a  contatti  più  tardi?  Sennonché  qui  ci 
troviamo  di  bel  nuovo  in  disaccordo  col  signor  Schneller;  il  quale  avendo 
sostenuto  che  a  Trento  ai  tempi  di  Dante,  si  parlava  un  vernacolo  la- 
dino, e  pur  dovendo  dar  ragione  del  come  questo  poi  facesse  luogo  ad 
un  dialetto  italiano,  ricorre  all'argomento  della  signorìa  tenuta  dai  Ve- 
neti a  Rovereto,  a  Riva  e  nella  Valsugana- (1).  Né  mancò  chi  facesse 
eco  a  tale  opinione,  cercando  di  sostenerla  con  ragionamenti  ed  argo- 
menti di  varia  specie.  Eppure  T opinione  è  tanto  viziosa  dalle  radici,  da 
non  reggere  al  cimento  di  una  sobria  critica.  Che  dalle  relazioni  fre- 
quenti coi  paesi  veneti  venisse  al  Trentino  una  piìi  ricca  suppellettile 
di  elementi  civili,  nessuno  certamente  lo  nega;  anzi  i  primi  a  riconoscerlo 
sono  i  Trentini  stessi;  i  Trentini,  lieti  di  dovere  gran  parte  della  propria 
cultura  ad  una  gente,  in  cui  la  vivacità  dello  spirito  ha  saputo  contem- 
perarsi così  mirabilmente  colV  assennatezza.  Ma  le  relazioni  con  Vene- 
zia non  datano  solo  dai  tempi,  in  cui  il  vessillo  di  San  Marco  fu  visto  sven- 
tolare dai  castelli  di  Val  Lagarina,  e  dalla  Rocca  di  Riva;  quelle  rela- 
zioni sono  più  antiche  di  secoli.  Quanto  poi  al  volgare  di  Trento,  tali 
e  tanti  sono  gli  elementi  lombardi  che  in  esso  si  contengono,  da  poter 
lasciar  dubbio  in  qualcuno  circa  al  suo  antico  stipite,  ossia  alla  fami- 
glia dialettale  (famiglia  italiana  pur  sempre)  con  cui  si  trovò  dapprima 
in  più  stretta  attinenza.  Ma  quale  sia  il  nostro  avviso  intorno  a  ciò,  il 
lettore  potrà  averlo  raccolto  dalle  cose  dette  prima. 

Come  credere  poi,  che  il  trentino  andasse  debitore  del  suo  presente 
linguaggio  alla  dominazione  veneta,  quando  questa  non  s'ebbe  ad  esten- 
dere che  su  d'un  quarto  appena  del  paese?  Chi  vorrà  ammettere  che 
una  dominazione,  durata  non  intieri  cento  anni,  fosse  capace  di  far 
scomparire  un  linguaggio  secolare,  e  di  imporre  un  nuovo  parlare  an- 
che ai  territorj  che  non  le  erano  soggetti?  Si  adducono,  è  vero,  nume- 
rose famiglie  che  nel  secolo  XV  vennero  a  mettere  stanza  nelle  parti  meri- 


(1)  Schneller,  Mxmdarten,  p    11. 


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ROMANZA,  N.°  2|       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TRENTINO  183 

(lioDali  del  principato  di  Trento  (1);  ed  il  fatto  sussiste;  come  è  fuori 
di  dubbio  che  Rovereto,  piccola  terra  una  volta  con  castello,  dovette 
alla  dominazione  veneta  di  aver  guadagnato  sempre  piiì  d'importanza, 
sino  a  diventare  la  seconda  città  del  paese.  Ma  qualche  centinajo  di 
famiglie  venute  dal  Veronese  e  dal  Vicentino,  di  mano  in  mano,  alla 
spicciolata,  potevano  esse  mutare  sostanzialmente  il  linguaggio  di  ter- 
ritorj  dove  si  contano  oggidì  poco  meno  di  centomila  abitanti?  terri- 
torj  ben  popolati  ab  antico,  con  grosse  terre  e  castella,  come  Riva, 
sul  Garda;  Ala,  Mori,  Avio,  e  Brentonico  nella  Val  Lagarina;  Borgo  e 
Telve  nella  Valsugana?  Avranno  quegli  immigrati  potuto  recare  nel- 
l'idioma paesano  alterazioni  o  modificazioni  secondarie,  d'ordine  fonetico 
in  ispecie,  ma  non  altro.  Così  fu  difatti;  e  noi  possiamo  fino  a  un 
certo  segno  determinare,  quali  fossero  gli  influssi  veneti,  e  sin  dove  ar- 
rivassero, dementino  Vannetti,  ingegno  acuto  ed  elegantissimo,  dettando 
una  lezione  sopra  il  dialetto  roveretano  (è  ormai  piìi  di  un  secolo)  ne 
discorreva  in  questi  termini:  «  la  nostra  patria  (la  Valle  Lagarina)  in 
distanza  intorno  a  ore  due  dal  confine  di  Trento  (2)  ha  un  accento  più 
aperto  e  piìi  naturale  e  meno  canta,  che  colassiì  facciasi;  dove  l'accento 
prevalse  nella  vocale  u  alla  francese,  e  una  cortal  melensa  e  ingrata 
cantilena  dicono  notarvi  i  forestieri.  All'opposto  di  piìi  duro  e  ottuso 
snono  è  il  nostro  di  quello  di  Verona  (3)  ».  Conseguenza  della  domina- 
zione e  delle  infiltrazioni  venete  furono  adunque:  l'accento  più  aperto  e 
naturale  (il  Vannetti  s'intendeva  di  dire,  con  questo,  più  conforme  al 
toscano),  e  qualche  modificazione  nel  suono  delle  vocali;  a  cui  dobbiam 
aggiungnere  qualche  differenza  nelle  desinenze.  Il  parlare  roveretano 
ha  commune  col  veneto  la  frequente  alterazione  in  e  dell' a  tonica  dei 
suffissi  nominali;  dice  quindi,  calliéry  nodér,  pomér;  mentre  il  trentino 
dice:  caliàr,  nodàr^  (notajo),  jpowàr  (melo).  Ha  commune  il  dileguo 
della  dentale  ci  fra  due  vocali,  nelle  sillabe  mediane  non  meno  che 
nelle  finali;  come  in:  hattiie,  préa^  poatira^  sbueìlàr,  mentre  il  trentino 
dirà:  battuda,  prèda  (pietra),  podadiìra,  sbudellar.  Chi  su  d'una  carta 
topografica  venisse  a  segnare  i  paesi  dove  gli  s'affacciano  tali  differenze, 
verrebbe  in  certo  modo  a  distinguere  i  territorj  che  nel  secolo  XV  ap- 
partennero a  Venezia,  e  quelli  che  restarono  sotto  i  Principi- Vescovi. 
Trento,  ed  il  suo  territorio  più  prossimo,  mantennero  un  idioma  meno 
sonoro  del  roveretano,  più  abbondante  di  consonanti  finali,  di  suoni  e 


(l>  BiDERMANN,   Die  Romanen  n.    ikre  della  Casa  austriaca;  ma  a  titolo  di  sub-feu- 

Verhreitung  in  Oesterreich,  p.  122  e  se^.  do,  e  coH'oblìligo  di  riceverne  la  investitura 

(2)  Questo  confine  era    in    prossiniità  di  dai  Principi  Vescovi  di  Trento. 
Galliano.    Sino  dal  1532  fu  stipulata  una  con-  (3)  Vannktti  Clrmentino,  Lezione  xn- 
venzione,  per  cui   la  città  e  il  distretto  di  pra  il  dialetto  roveretano  (  Rovereto,  Mar- 
Rovereto    venivano   a  far  parte  dei  dominj  chesani,  IT^l).  p.  10. 


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184  B.  MALFATTI  [uiornale  di  filolccia 

di  accentazioui  simili  a  quelli  dei  dialetti  lombardi  ;  un  idioma  più  darò, 
ma  anche  più  energico  in  certe  parti,  e  che,  per  queste  qualità  appunto, 
sa  più  di  antico. 

Del  resto,  e  il  lettore  se  lo  sarà  detto  ormai,  le  note  distintive  tra 
i  due  vernacoli  sono  poche,  e  di  poca  entità.  Il  lessico  si  può  dire  il 
medesimo;  che  se  qualcuno  ponga  attenzione  al  parlare  roveretano,  e 

10  raflFronti  con  quelli  dei  territorj  finitimi,  dovrà  convincersi  tosto  che 
è  varietà  del  trentino,  non  già  del  veronese.  Solo  un  osservatore  su- 
perficiale, o  cui  manchi  il  senso  per  le  particolarità  dialettali,  potrà 
asserire  che  i  vernacoli  trentini  si  sieno  formati  per  mera  influenza  dei 
veneti.  Molti  momenti  caratteristici  del  parlare  veneziano,  come  ad  esem- 
pio :  xé,  fio,  faméggia,.sotnéggia,  méggio^  'foggio,  fémo,  piàsso^poriào,  vcgnui^ 
astìi?  avéuP  oggio?  saggio?  scriverai?  ancUmio?  vóstu?  porla?  (notiamo 
i  primi  che  ci  occorrono  alla  memoria)  non  sono  conosciuti  punto  al 
parlare  trentino,  il  quale  adopera  invece:  è  (oppur  sono)^  fiól^  fumèa, 
soméa^  méjo,  vói,  fénte  (facciamo;  imp.),  piasést  o  piasti,  portà^  vegnvsti 
o  vegnùdi.g'àt?  (hai  tu?),  g* ave?  (avete  voi?),  g' ónte?  (ho  io?),  sanie? 
(sono  io?),  scrivere?  andcm?  vói?  (vuoi  in?),  pódela?  (può  lei?),  avvi- 
cinandosi così  notabilmente  alle  forme  lombarde;  mentre  in  qualche 
altro  caso  nulla  avrà  di  commune  né  con  queste,  né  colle  veneziane; 
nel  condizionale,  ad  esempio,  ove  dice: mancheria, poderia,  sentiria,  forma 
ritenuta  é  vero  anche  in  altre  parti  dell'  alta  Italia,  ma  non  saldamente. 

11  veneziano  almanco  usa  dire,  e  forse  più  di  spes?8o:  tnancaràvCf  pode- 
rdve,  sentiràve;  e  il  milanese,  pur  servendosi  di  forma  similissima  a 
questa,  usa  anche  T altra:  mancariss,  podariss,  sentiriss. 

Anche  qui  Vediamo  conservarsi  nel  parlare  trentino  una  forma,  che 
ci  si  fa  incontro  dai  monumenti  dialettali,  non  meno  che  dalla  lingua 
letteraria  più  antica.  Poteva  egli  accader  questo,  se  il  dialetto  si  fosse 
formato  per  opera  degli  influssi  veneti  nel  secolo  XV?  Se  così  fosse 
stato,  non  dovrebbe  il  parlare  odierno  assomigliarsi  al  linguaggio  delle 
scritture  veneziane  di  quei  tempi?  poniamo  gli  Statuti  che  ci  stanno  in- 
nanzi in  una  stampa  del  1477.  Eppure  un  trentino  che  prenda  a  scorrere 
una  legge  od  un  bando  di  Francesco  Foscari  o  di  Niccolò  Tron  ;  e  poi 
la  prosa  di  Fra  Paolino  nel  Regimen  Rectoris  (più  antica  di  oltre  un  se- 
colo), vedrà  specchiarsi  in  questa  il  proprio  dialetto,  molto  meglio  che 
non  in  quelle  scritture.  Di  provare  la  cosa  ci  sarebbe  facile,  che  di 
esempj  raccolti  a  tal  uopo  n'abbiamo  in  mano  buona  messe.  Ma  lo 
spazio  noi  consente.  Noteremo  nondimanco,  che  da  un  confronto  dei 
Vocabolarj,  di  quelli  del  Boerio  e  dell' Azzoliui  ad  esempio,  si  parrà  to- 
sto utta  differenza  -notevole  nella  suppelletile  dei  due  dialetti.  Meno  ab- 
bondante del  veneziano  il  trentino;  ma  né  tanto  povero,  né  tanto  di- 
pendente da  quello,  che  non  possieda  voci  sue  proprie  anche  per  le  idee 


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ROiiANZA,  N.  •  2J      GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TEENTINO  185 

o  le  cose  le  più  communi.    Daremo  qualche  esempio  di  tali  voci  tren- 
tine, limitandoci  alla  lettera  À: 

Aàda  (zia);  abbUoccidr  (adocchiare);  acquaról  (vinello);  acquasarUèl  (piletta); 
(iderida  (adeaione);  ad  invisit  (air improvviso);  affU  (appena);  agfuiro  (nido  d'uc- 
cello); àgola  (aquila);  agràda  (a^jgiramento);  agràm,  e  agramustèl  (gramigna);  ai- 
gudna  (gridatore,  sussurrone);  aldegàrse  (osare);  alquantòt  (un  ìtLniino) ;  aìteradina 
(alterazioncella);  cUgón  (arcióne,  e  arcuccio  da  culla)  ;  ambén  (sebbene);  àmbio  (an- 
datura, destrezza);  ampàzena  (favo);  ampò  (tuttavia);  ampòmoìa  (lampone);  ancói 
(oggi)  ;  dncole  [tirar  le  àncole  =  essere  sfinito);  andadóra  (assito  inclinato  per  salire); 
arrgariàr  (gravare,  molestare);  antàna  (solajo,  sotto  tetto);  appostato  (comme^sj)  ; 
a  prim  intro  (in  sulle  prime);  aràda  (Patto  dell'arare);  arbinàr  (raccogliere);  ar- 
bitrar (arbitrare);  arcadura  deUe  g^e  (arco  delle  ciglia);  argipress  (cipresso);  are- 
della  (canniccio);  àrfi  (respiro);  arióma  (convulsione);  armélla  (collare);  arménta 
(giovenca);  arzàra  (arnese)  ;  arzina  (ultimo  fieno  );  ascia  (ascia  de'  falegnami)  ;  asciàda 
(colpo  d'ascia);  assà  (abbastanza);  assesèlla  (assicella);  assU  (sala  delle  carrozze); 
a  strasóra  (fuori  di  tempo,  a  pazz'ora);  a  tutt*  mane  (per  ogni  caso)  ;  a  tutt  mal,  a 
tutt  pèzo  (alla  più  disperata);  averter  (sparo  della  camicia,  o  di  altro  indumento); 
Aveg  (abete). 

Aggiungeremo  un  ultimo  argomento  per  provare  che  il  dialetto 
trentino,  accogliendo  influssi  delle  parlate  vicine,  ebbe  nondimanco  vita 
iudipendente  e  sviluppi  suoi  propri  sin  da  tempi  lontani  ;  e  V  argomento 
ce  lo  forniscono  le  voci  che,  usate  tuttodì  dai  popolani  di  Trento,  si  tro- 
vano riferite  pur  anco  nel  Vocabolario  Italiano,  Dia  come  antiquate  e  usate 
poco.  Tali  sarebbero  ad  esempio:  Albio  (albone);  ónda;  battolar;  benna; 
boghe;  ciómp;  conzal  (congio);  cavezmja  (cavezzale);  códega  (cotica); 
gòtto;  gualif  (gualivo);  gualivàr;  mézz  (mezzo);  moja  (moUaja);  mutria; 
patta;  pisolar;  riotta;  sbasta  (basina);  pusignàr^  strangossàr;  tàccola; 
tarabdra;  tàUera;  técca.  Notisi  che  qualcuna  di  queste  non  si  trova  nel 
Vocabolario  veneziano.  Quanti  modi  poi  dell'uso  toscano  non  s'incon- 
trano tra  gli  abitanti  del  contado  di  Trento!  Molti  anni  sono,  quando 
prendemmo  la  prima  volta  a  leggere  la  Tancia  e  il  Malmantile^  non  fu 
piccola  la  nostra  sorpresa,  e  colla  sorpresa  la  soddisfazione,  udeudo, 
per  dir  così,  venirci  incontro  dai  campagnoli  toscani  molte  di  quelle 
espressioni  vivaci,  di  quelle  maniere  di  dire  pittoresche  o  incisive, 
che  avevamo  famigliari  sin  dalla  fanciullezza:  Avere  una  buona  sopra- 
scritta;  aver  il  capo  come  un  cestone;  andare  in  fregola;  a  spada  tratta; 
cascar  le  braccia;  cascar  le  brache;  cavarsi  la  stizza;  chi  non  ha  testa 
abbia  gambe;  comandare  a  bacchetta;  pigliar  una  batosta;  cuocersi  nel  suo 
brodo;  cosa  da  dozzina;  dal  capo  in  sino  ai  pici;  dal  vedere  al  non  vedere; 
dar  di  spalla;  dottor  dermici  stivali;  essere  in  scorrotto;  far  badalucco; 
giuocar  alla  buona;  guarda  la  gamba;  intendere  il  giuoco;  lambiccarsi  il 
cervello;  lesto  come  un  gatto;  menar  le  mani;  mettere  la  mano  nel  fuoco; 
mostrar  nero  per  bianco;  non  veder  Vora;  non  esser  carne  né  pesce;  non 

12* 


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185  B.  MALFAI  TI  [cuorxale  di  filologia 

istar  nella  pelle;  occhi  di  civetta;  parer  manna;  pigliarsela  calda;  piover 
in  bocca  le  lasagne;  roder  un  osso  duro;  saper  di  lettera;  saper  a  mena- 
dito; scorticar  il  pidocchio;  starsene  colle  mani  in  mano;  suonar  di  man- 
ganelle; tenere  il  pie  in  due  staffe;  toccare  il  del  col  dito;  voler  la  berta; 
queste  ed  altre  assai  raauiere  di  dire,  che  a  riferirle  sarebbe  troppo 
lungo,  si  potranno  raccoglier  tuttavia  dal  parlare  del  popolo  trentino. 
Certo  che,  più  o  meno,  le  hanno  communi  tutti  i  vernacoli  nostrali;  ma 
che  il  dialetto  di  Trento  si  trovi,  rispetto  alla  lingua  comune,  nelle  stesse 
relazioni  degli  altri,  non  è  forse  prova  che  ebbe  a  percorre  le  stesse  fasi 
di  sviluppo?  Il  signor  Schneller  medesimo  non  può  a  meno  di  rico- 
noscere la  spiccata  italianità  dell'idioma  che  si  parla  oggidì  a  Trento; 
sennonché  per  dar  ragione  di  tale  fatto  immagina  poi  una  causa,  che 
merita,  per  la  singolarità,  di  essere  riferita  testualmente.  «  Di  avere  reso 
italiano  il  parlare  del  paese  (così  egli  scrive),  fu  opera  principalmente 
dei  tedeschi  immigrati;  i  quali  allora  (nel  secolo  XV)  come  sempre,  di- 
spregiando il  rude  vernacolo  ladino,  procurarono  con  tutto  T impegno 
di  farsi  proprio  il  puro  eloquio  italiano,  ossia  la  lingua  letteraria  (1)  ». 
Per  cui  il  popolo  trentino  (quello  delle  campagne,  non  meno  che  quello 
della  città)  avrebbe  appreso  i  modi  toscani  dai  signorotti  e  dagli  arti- 
giani venuti  da  Bruneck  o  da  Innsbruck. 

Il  lettore  sarà  rimasto  sorpreso  della  spiegazione  data  dal  signor 
Schneller  ;  sorpreso  ed  insieme  dolente  che  la  passione  politica  e  le  idee 
preconcette  potessero  far  velo  sì  fitto  al  giudizio  di  un  uomo  tutt*  altro 
che  leggiero  ;  di  un  uomo  che  s' applicò  con  tanta  solerzia  a  studj  di  lin- 
gua e  di  etnografia.  Fermarci  a  ribattere  quelle  sue  proposizioni,  ne 
parrebbe  tempo  gettato.  Però  non  sappiamo  dispensarci  dal  riportare 
ancora  le  parole  che  servono  di  conclusione  al  passo  citato  ;  e  sono  le 
seguenti:  e  Così  soltanto  (ossia  coli* opera  dei  tedeschi  immigrati)  si 
spiega  come  il  Tirolo  italiano  non  abbia  oggidì  un  dialetto  proprio,  in- 
dipendente; mentre  i  parlari  di  Alessandria  e  di  Torino,  ricordati  da 
Dante  insiem  con  quello  di  Trento,  parlari  molto  discosti  dalla  lingua 
letteraria,  hanno  saputo  conservare  il  loro  antico  e  particolare  colorito.  » 
Il  signor  Schneller,  com'è  naturale,  muove  anche  qui  dall'avviso  che 
il  dialetto  trentino  si  sia  forn^ito  per  sovrapposizione  artificiale  di  ele- 
menti, non  per  evoluzione  naturale  dell'antico  idioma;  e  della  insussi- 
stenza di  tale  avviso  non  abbiamo  ad  occuparci  davvantaggio.  Ma  con 
quanta  ragione  asserisce  egli  poi,  che  al  dialetto  trentino  manchi  un 
carattere  proprio-,  indipendente?  Noi  che  ebbimo  ad  usare  quel  dia- 
letto per  trent'anni,  e  a  tener  poscia  dimora  in  terre  italiane  di  di- 
versi vernacoli,  ci  permettiamo  di  professare  un'opinione  contraria.    E, 


(1)  Sc'HNELLKR,  Muìidarteti  ^  p.  11. 


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ROMANZA,  X.-  '2J       GLI  IDIOMI  PABLATI  NEL  TRENTINO  187 

senza  star  qui  a  ricercare  quanto  le  parlate  piemontesi  si  venissero 
più  o  meno  modificando  nel  tempo,  e  che  relazioni  avviassero  colla  lin- 
gua letteraria,  diremo  solo,  che  il  dialetto  trentino  è  dialetto  organico 
quant' altri  mai,  e  che  il  suo  carattere  peculiare,  saremmo  per  dire  il 
merito  suo,  consiste  appunto  nell'aver  saputo  fondere  insieme  armoni- 
camente gli  elementi  dialettali  dell'alta  Italia.  Il  lettore  avrà  potuto 
scorgerlo  dagli  esempj  di  prima.  E  tuttavia  permetta  che  gliene  pre- 
sentiamo un  altro  saggio;  la  traduzione  cioè  di  un  sonetto  milanese  di 
Carlo  Porta;  la  quale,  potendo  dar  materia  a  comparazioni,  sarà  per 
fare  al  caso,  meglio  che  un  brano  di  scrittura  originale: 

La  It^ngua  e  le  paróle,  sior  Manéll, 

Le  é  come  'na  taolózza  de  colóri , 

Che  i  fa  parer  (1)  *l  quadro  brutt  o  bèli, 

Secondo  '1  pii  o  mén  d' àmbi  dei  pittóri. 
Senza  idée,  senza  giSst,  senza 'u  9ervéll, 

Che  daga  U  sugo,  e  tégna  '1  direttóri. 

Tutti  i  parlari  i  va  de  para  a  quóll, 

Che  bàttola  'sto  por  so  tibilóri  (2). 
Ma  le  idée,  ma  U  bon  giì^to,  el  saverk  . 

Che  no  i  è  privativa  de  paesi. 

Ma  de  chi  gbe  n'ha  'n  zucca,  e  ha  ben  studia. 
Tanto  véra,  che  'n  bocca  a  Soasiorfa, 

El  bellitìsim  parlar  dei  S'ienési 

L' é  '1  parlar  pù  minción  che  mai  ghe  sia. 

Si  metta  ora  a  riscontro  il  dettato  milanese  col  trentino,  e  si  dica, 
se  questo  vi  faccia  troppo  meschina  figura;  se  si  mostri,  come  lo  giu- 
dica il  signor  Schneller,  dilombato,  disorganico,  senza  carattere.  Noi 
ci  guarderemo  dal  mettere  il  trentino  a  pari  col  milanese,  dialetto  stu- 
pendamente ricco  ed  energico;  bensì  invidieremo  a  questo  gl'ingegni 
che  lo  presero  a  coltivare  con  tanto  amore,  e  ne  difi'usero  così  larga  la 
fama;  bensì  diremo  che  in  mano  al  Porta  (a  quel  Porta  che  Alessan- 
dro Manzoni  diceva  unico),  anche  il  dialetto  di  Trento  avrebbe  saputo 
ottenere  grande  efficacia,  e  dilettare  e  commuovere  mirabilmente.  Sen- 
nonché limitato  su  angusto  spazio,  e  mancandogli  un  grande  centro  di 
vivere  civile,  giacque  sconsiderato  a  lungo.    I  più  antichi  saggi  di  poesie 


(1)  Parer,  verbo,  tiene  tuttavia  nel  tren-  Tibidói  de  discorso,  per  Tiritera,  o  par- 
lino il  significato  del  latino  jjarerc  =  appa-  lare  sgangherato  e  stravagante  (Boerio.)  — 
rire,  mostrarsi;  Factum  paret,  Cic;  Cui  Battolar,  significa  nel  trentino,  come  nel 
pecudum  fibrae,  coeli  cui  sidera  parent,  venezi&nOj  cicalare,  anfanare.  —  Pdr,  con- 
ViRG.  trazione  di  póer,  póver  =  povero,  si  usa  di 

(2)  Tibilóri,  voce  particolare  del  dialetto  spesso  come  addiettivo;  tutte  le  volte,  cioè, 
trentino,  per  significare  uomo  di  cervello  dis-  che  venga  acconcio  di  far  distinzione  dal 
ordinato,  confuso.    11  dialetto  veneziano  ha:  sostantivo. 


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B.  MALFATTI 


Tgjobxalk  di  filologia 


o  prose  veruacole  a  stampa,  non  risalgono  più  in  là  del  secolo  passa- 
to (1).  Ed  a  rendere  scarso  il  numero  de' suoi  cultori,  contribuì  for- 
s'anco  un'altra  ragione:  la  facilità  che  ha  il  popolo  d'intendere,  e  di 
usare,  scrivendo,  la  lingua  letteraria.  Ancora  trenta  o  quaranta  anni 
fa,  quando  le  scuole  si  contavano  in  minor  numero  d'adesso,  erano 
tuttavia  scarsi  gli  artigiani  ed  i  carapagnuoli  ignari  dello  scrivere, 
o  almanco  del  leggere;  più  scarsi  certamente  che  in  altre  regioni. 
Adesso  poi  che  l'insegnamento  è  più  diffuso,  e  le  occasioni  e  le  neces- 
sità del  leggere  e  dello  scrivere  più  frequenti,  si  può  dire  che  il  Tren- 
tino sia  uno  de'  paesi  che  hanno  minor  numero  d'  analfabeti.  Conse- 
guenza di  ciò  il  rapido  assimilarsi  del  vernacolo  colla  lingua  scritta  (2). 
Voci  e  forme  quali:  g'ho  bù^  nàr,  capinàr,  cógner^  drómer,  gendro^  sóbia, 
pódom,  corréstj  digànd,  g' òrde? ^  sónte?,  cossa  te  fai  ti?^  Fénie,  cossiia^ 
chlve^  Uve,  co,  dónca,  dai,  irei,  sic,  ed  altre  non  poche,  vanno  scompa- 
rendo di  mano  in  mano  dall'uso;  per  far  luogo  a  voci,  dialettali  pur  sem- 
pre, ma  più  vicine  alla  lingua  scritta,  come  sarebbero:  g'ko  ami,  andar, 
camminar,  dover,  dormir^  Qéner^  giovedì,  podém,  córs,  disénd,  g^ho  mi?, 
son  mi?,  cossa  fai  ti?,  fém,  cossi,  chi,  li,  quando,  donque,  dò,  tré,  sèi. 
Anche  le  differenze  fonetiche  vengono  dileguando.  L'w,  col  suono  fran- 
cese o  lombardo  che  dir  si  voglia,  si  fa  udire  sempre  più  raro;  e  così 


(l)  11  primo,  che  con  successo  prendesse 
a  dettare  versi  in  vernacolo,  fu  Giuskppe 
GiVANNi,  vissjito  nella  seconda  metà  del  pas- 
ffato  secolo.  Dopo  di  lui  fecero  buona  prova 
don  Iacopo  Turratti,  e  Giuseppe  Zanolli; 
della  Valle  Lagarina  amendue,  come  lo  era 
anche  il  Givanni.  Chi  volesse  procurarsi 
contezza  delle  loro  poesie,  veda  il  Florilegio 
scienti  fico- storico^letterario  del  Tirolo  ita- 
liano, pubblicato  a  Padova  nel  1856.  —  Di 
Rcriiture  in  prosa,  la  più  antica  ed  impor- 
tante che  ci  sia  venuta  sott' occhi,  fu  un 
libriccino  col  titolo:  La  Cruschetta  trenti- 
na; uscito  in  luce  nella  seconda  metà  del 
secolo  passato.  L'ebbimo  a  scorrere  rapida- 
mente ventisette  anni  or  sono;  ma  per  quante 
ricerche  ne  abbiamo  fatte,  non  ci  lu  possi- 
bile adesso  di  procurarcelo;  anzi  neppur  di 
sapere  do\e  sia  andato  a  finire  l'esemplare 
da  noi  visto.  Il  libriccino,  di  non  grande  va- 
lore per  il  contenuto  o  pei  pensieri,  è  pur 
sempre  importante;  siccome  quello  che  ha 
raccolto,  in  forma  dialogica,  i  modi  che,  circa 
centovent'anni  addietro,  erano  i  più  usitati  nel 
parlare  trentino.  Se  qualcuno  sapesse  met- 
tercene sulle  traccie,  gliene  avremmo  obbli- 


gazione grandissima. 

(2)  Si  vedano  su  tal  proposito  le  osserva- 
zioni, di  cui  l'illustre  Ab.  Giovanni  barone 
Prato,  nel  libro  I parlari  italiani  in  Cer- 
taldo  (p.  647),  accompagnò  la  versione  in 
vernacolo  trentino  della  Novella  IX,  Giorn.  I, 
del  Decamerone.  Sennonché  a  far  menzione 
di  quelle  sue  pagine  siamo  indotti  da  un'al- 
tra ragione  ancora;  quella  di  rammentar© 
al  nostro  onorando  concittadino  ed  amico  la 
promessa  che  ha  fatto  ivi  di  voler  attendere 
ad  un  ordinato  lavoro  sulle  parlate  e  sulle  co- 
stumanze popolari  del  Trentino.  Quanto  è 
più  rapido  il  di  legnarsi  delle  particolarità 
idiomatiche  ed  etnografiche,  e  tanto  più  urge 
di  raccogliere  e  conservare  cosi  gran  parte 
della  storia,  anzi  della  vita  paesana.  Il  si- 
gnor ScHNELLER  col  libro:  Màrchcn  und 
Sagen  aus  Wdlschtirol ,  fece  cosa  commen- 
devolissima  nel  complesso,  ed  aperse  se  non 
altro  la  via;  ma,  per  giugnerne  al  fine,  biso- 
gnerebbe che  il  lavoro  fosse  concepito  con 
più  larghe  vedute  da  chi  è  nativo  del  paese 
e  vi  abita.  Ora  dir  questo,  e  pensare  al  ba- 
rone Giovanni  Prato,  benemerito  per  tanti 
titoli  del  paese,  è  una  cosa  sola. 


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ROMANZA,  N.«  2]       GLI  IDIOMI  PARLATI  NEL  TBENTINO  189 

la  n  finale,  da  confondersi  con  m  (pam,  vim,  piém,  lofìtàm);  parti- 
colarità che  a  Rovereto  e  Riva  s' incontrava  ancor  più  spiccata  che 
non  a  Trento.  L'ò  (ce)  è  scomparso  quasi  intieramente  dal  dialetto 
trentino  propriamente  detto;  tanto  che,  se  mai  vi  venga  incontro,  po- 
trete arguire  quasi  con  sicurezza  che,  chi  lo  adopera,  è  nativo  della 
zona  ladina,  o  ne  ebbe  ad  accogliere  gli  influssi.  Il  divario  che  notava 
il  Vannetti,  cent'anni  fa,  tra  la  parlata  roveretana  e  la  trentina,  viene 
attenuandosi  di  giorno  in  giorno  ;  che  tendendo  V  una  e  V  altra  ad  una 
meta  medesima,  non  possono  a  meno  di  avvicinarsi.  Né  a  questo  pro- 
cesso di  obliterazione  delle  antiche  particolarità  e  di  unificazione  ri- 
mangono estranei  i  vernacoli  di  quelle  valli  istesse,  dove  l'elemento 
ladino  seppe  conservarsi  per  1'  addietro  più  abbondante  e  tenace.  A 
capo  di  non  molte  generazioni,  le  varie  parti  del  Trentino  si  saranno 
fatto  proprio,  salvo  leggere  diflferenze,  uno  stesso  parlare. 

Certo  egli  è  fatto  meritevole  d'  attenzione,  e  diciamolo  pur  anche- 
di  rispetto,  quello  che  ne  si  aflfaccia  nel  Trentino;  l'esempio,  di  una 
gente  che,  scarsa  di  numero  e  rimessa  in  certo  modo  a  sé  sola,  seppe, 
attraverso  a  molte  fortunose  vicende,  custodire  con  sì  forte  amore  il 
retaggio  delle  tradizioìii,  e  mantenere  vivida  la  sua  italianità.  Da 
otto  secoli  non  fa  più  parte  della  famiglia  italiana;  e  tuttavia  il  suo 
idioma  è  dei  meno  dissonanti  dal  parlar  letterario.  Negletta,  obliata, 
non  cessò  dal  tender  l'occhio  là,  d'onde  aveva  ricevuti  i  primi  impulsi 
civili.  E  come  il  Trentino  concorresse  strenuamente  all'opera  del  pen- 
siero italiano  in  questi  ultimi  tempi,  non  abbiamo  bisogno  di  dirlo.  Me- 
glio di  noi  lo  dicono  i  nobili  ingegni  che  crebbero  lustro  alla  nazione 
non  meno  che  al  nido  nativo.  Fu  quel  piccolo  paese  che  diede  Antonio 
Rosmini  alla  filosofia,  Giambattista  Garzetti  e  Tommaso  Gar  alla  sto- 
ria, Giovanni  Prati,  Andrea  Maffei,  Antonio  Gazzoletti,  Francesca  Lutti- 
Alberti  alle  lettere  italiane.  Questi  nomi  possono  confortare  i  Trentini 
delle  asserzioni  meno  giuste  e  dei  paradossi,  che  si  spacciano  sul  conto 
loro;  quasiché  sieno  usciti  da  miscuglio  eteroclito  di  varie  stirpi,  ed 
abbiano  avuto  di  grazia  che  altri  insegnasse  loro  a  parlare.  No;  guar- 
dando indietro  a  sé,  non  troveranno  motivo  di  umiliazione  o  di  ver- 
gogna. Quanto  all'avvenire,  esso  è  in  mano  della  sorte.  Non  però 
tutto;  ed  i  Trentini  lo  proveranno,  ne  siamo  certi.  Comunque  corrano 
o  sieno  per  disporsi  i  casi,  essi  non  cesseranno  dall' emulare  i  fratelli 
neir  arringo  della  cultura,  dal  mostrare  che  il  «  latin  sangue  gentile  » 
che  s'ebbe  un  giorno  a  trasfondere  in  essi,  sa  mantenere  ancora  l'an- 
tica virtù. 

Roma,  nell'Aprile  1878. 

Bartolomeo  Malfatti. 


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100  [oion.NALK    IH    FILOLOGIA 


VARIETÀ 


IL  SECONDO  CANZONIERE  PORTOGHESE 

DI  ANGELO  COLOCCI. 


Una  notizia  che  tornerà  assai  gradita  agli  studiosi  si  è  il  ritrova- 
mento di  quel  Canzoniere  Portoghese,  di  cui  ci  era  rimasta  la  tavola 
compilatane  dal  Colocci  e  pubblicata  dal  Prof.  Monaci  nel  voi.  I  delle 
sue  Communicazioni  dalle  biblioteche^  pag.  xix-xxiv. 

Questo  importantissimo  manoscritto  è  oggidì  posseduto  dall'egregio 
,  sig.  Conte  Paolo  Antonio  Brancuti  della  città  di  Cagli  nelle  Marche, 
in  easa  del  quale  pervenne  per  acquisto  fattone  dal  padre  suo;  ed  io 
debbo  Taverne  conosciuta  l'esistenza  alla  preziosa  amicizia  del  dotto 
Presidente  della  Società  romana  di  storia  patria,  sig.  Costantino  Cor- 
visieri. 

Le  premure  di  un  amico  carissimo,  il  D.'  Luigi  Celli  di  Cagli,  e  la 
somma  cortesia  del  Conte  Brancuti  mi  diedero  modo  di  poter  con  ogni 
agio  studiare  questo  codice,  sicché  spero  di  pubblicare  fra  non  molto 
quella  parte  delle  poesie  che  resta  tuttora  inedita  e  che  forma  un'altra 
p^reziosa  pagina  della  antica  letteratura  portoghese.  Non  mi  dilungherò 
quindi  ora  a  parlare  della  natura  e  delle  particolarità  del  ms.,  né  a 
sgroppare  le  molte  questioni  a  cui  esso  può  invitare  la  critica;  ma  sol- 
tanto mi  limiterò  a  compiere  e  correggere  le  indicazioni  di  già  forniteci 
dalla  tavola  colocciana. 

Chi  abbia  innanzi  quella  tavola  già  conosce  come  il  nuovo  canzo- 
niere presenti  uua  raccolta  più  copiosa  che  non  il  Vaticano,  col  quale 
esso  mostra  d'avere  una  stretta  relazione;  ma  le  diflferenze  che  corrono 
fra  le  due  raccolte  non  sono  per  altro  sempre  quali  la  tavola  ce  le  fa- 
ceva presumere.  Questa  ci  farebbe  spesso  credere  diverso  nelle  due 
raccolte  il  nunaero  delle  composizioni  attribuite  ad  alcuni  poeti,  mentre 
invece  non  lo  è;  e  la  differenza  apparente  è  dovuta  solo  ai  frequenti 
errori  ne'  quali  incorse  i  Colocci  aggiungendo  al  nostro  codice  la  nu- 
merazione delle  poesie.  Grande  diversità  pure  sarebbevi  ne'  nomi  dei 
poeti,  dei  quali  molti  mancano  nella  Tavola,  ma  pur  sono  nel  Vaticano 


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uoMAxzA,  N/'  2|  VABIETÀ  191 

e  nel  codice  Braucuti.  Di  queste  ommissioni  di  nomi  la  Tavola  ce  ne 
presenta  anche  dove  manca  il  riscontro  del  Vaticano,  e  cosi  dobbiamo 
aggiungere  in  essa  i  nomi  di  Ayras  Moniz  Da^ma  al  n.  6,  di  Nuno  Ro- 
driguez  de  Canderey  al  n.**  180,  di  Fero  Garda  Burgales  al  n.°  186,  e 
di  Affonsso  Meendiz  de  Beesteyros  al  n.**  1558;  mentre  dobbiamo  togliere 
all'incontro  il  nome  di  Fero  Amigo  che  fu  posto  per  errore  al  n.**  1450 
(Vat.  1060).  Tuttavia,  tolte  pur  di  mezzo  queste  differenze,  altre  ne  re- 
stano ancora  e  notevoli.  E  innanzi  tutto  giova  osservare  che  come  il 
cod.  B.  ha  delle  parti  che  mancano  nel  Vatic,  così  questo  ancora  ha 
delle  composizioni,  sebbene  in  piccolo  numero,  che  non  sono  nel  B., 
quali  ad  esempio  i  n.^  364,  387,  410,  668.  Altre  lacune  ha  il  Canzo- 
niere B.  per  le  mutilazioni  che  ebbe  a  soffrire  in  diversi  luoghi;  man- 
cano per  questa  ragione  le  composizioni  dal  n.**  8*'*-36,  273-316,  1002- 
1011  =  Vat.  591-601,  1391-1430= Vat.  1000-1046,  1562-1572,  e  dal  1665 
sino  alla  fine.  Quest'ultima  lacuna  può  lasciar  dubbio  se  realmente  il 
Vaticano  sia  compiuto  al  fine,  poiché  nella  Tavola  troviamo  il  nome  di 
Juyano  Bolsseyro  col  n.°  1675,  il  quale  non  avrebbe  corrispondente  nel 
Vaticano. 

Le  mutilazioni  subite  non  ci  permettono  di  stabilire  quale  real- 
mente fosse  il  numero  delle  composizioni  contenute  nel  cod.  B.  Quelle 
che  ora  ci  restano  sono  1567  e  fra  queste,  420  le  inedite,  e  diciamo 
inedite,  riguardo  alla  collezione  vaticana,  ma  non  così  riguardo  alla  coUez. 
d'Ajuda,  colla  quale  anche  questa  parte  contiene  riscontri  e  non  pochi. 
Oltre  alle  poesie,  noi  troviamo  ancora  nel  Canz.  B.  un  frammento  ace- 
falo d'un  importante  trattato  sulla  antica  poetica  portoghese,  le  cui 
prime  righe  furono  aggiunte  dalla  mano  dello  stesso  Colocci:  qui  però 
non  abbiamo  alcuna  traccia  di  mutilazione  a  cui  dar  colpa  dello  stato 
frammentario  nel  quale  il  trattato  ci  è  pervenuto. 

Queste  poche  notizie,  tuttoché  insufficienti  a  dare  del  nuovo  Can- 
zoniere una  compiuta  idea,  basteranno  tuttavia  a  mostrare  come,  mal- 
grado le  relazioni  sempre  piìi  strette  che  si  rivelano  fra  le  due  raccolte, 
esse  restino  pur  sempre  indipendenti  fra  loro,  ma  insieme  accennando 
di  derivare  da  una  unica  fonte  alla  quale  ambedue  convergono.  E  quella 
fonte  non  dovette  essere  sconosciuta  pel  Colocci,  il  quale  non  potè  se 
non  da  essa  avere  attinto  le  aggiunte  che  di  suo  proprio  pugno  tro- 
viamo così  nel  codice  Vatic.  come  nel  Brancuti.  Essa  oggi  sembra 
perduta.  Lo  sarà  per  sempre  ?  Auguriamoci  che  no  ;  ma  in  ogni  caso 
la  nuova  scoperta,  posta  a  riscontro  del  testo  Vatic,  ci  offrirà  d'ora 
innanzi  un  prezioso  sussidio  per  riavvicinarci  abbastanza  a  quella  e  fino 
ad  un  certo  punto  compensarci  di  tale  jattura. 

Enrico  Moltent. 


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11)2 


[({lOnXALK  DI  FILOLOGIA 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


1.  Storia  della  poesia  popolare  italiana  di   Eemolao  Rubieri.    Firenze, 

Barbera,  1877.  —  In  %"  di  pp.  viii-686. 

2.  La  poesia  popolare  italiana.    Studi  di  Alessandro  D'Ancona.    Livorno, 

Vigo,  1878.  —  In  8*»  di  pp.  xii-476! 


Due  imf  optanti  lavori  su  la  poesia  popo- 
lare italiana  si  sono  succeduti  entro  breve 
tempo:  prima  la  Storia  di  Ermolao  Rubieri, 
poi  gli  Studi  del  prof.  Alessandro  D'Ancona. 
Dopo  tante  pubblicazioni  di  canti  popolari, 
dopo  tanti  studi  di  storia,  di  comparazione 
e  di  critica  che  vi  si  fecero  sopra,  tra*  quali 
quelli  notevolissimi  del  Nigra,  del  Pi  tré, 
dello  Schuchardt,  del  Vigo,  è  bene  intrat- 
tenersi sopra  i  due  primi  lavori  sintetici  che 
videro  la  luce,  e  di  mettere  questi  due  libri 
r  uno  in  confronto  dell'  altro.  Il  primo  ha 
orditura  assai  vasta  e  si  divide  in  tre  pani 
che  parlano  della  poesia  popolare  d'Italia 
considerata  estrinsecamente  per  tipi,  forme, 
origini  e  fasi:  nei  suoi  caratteri  psicologici, 
e  nei  morali  ;  ogni  parte  poi  è  divisa  in  molti 
capitoli ,  ciascuno  dei  quali  contiene  la  dimo- 
strazione di  una  specie  di  teorema  storico 
o  critico. 

Volentieri  mi  sarei  astenuto  di  parlare 
dei  primi  capitoli  del  libro  se  in  essi  non 
si  contenesse  come  in  germe  il  risultalo  sin- 
tetico di  tutta  r opera.  L'A.  vuol  dimostrare 
che  nella  poesia  popolare  è  la  prima  mani- 
festazione del  genio  letterario  di  un  popolo, 
che  perciò  in  essa  non  si  dà  importazione 
o  influenza  da  nazione  a  nazione  e  da  pro- 
vincia a  provincia.  Che  il  canto  ritmico, 
anteriore  senza  dubbio  al  metrico,  risale  al 
primo  tempo  dell'idioma,  precede  la  for- 
mazione della  lingua  letteraria  e  della  na- 
zione, rimane  inalterato  nella  soistanza  e  si 
modifica  solo  nella  forma  e  nella  misura  col 
variare  e  con  V  alterarsi  della  favella.  Pren- 
de le  mosse  dai  più  antichi  canti   popolari 


etruschi  e  latini ,  e  non  può  negarsi  che  ab- 
bia posto  molta  diligenza  in  raccogliere  le 
notizie  che  ce  ne  hanno  dato  gli  antichi  scrit- 
tori; ma  decisamente  mancano  air  A.  le  ne- 
cessarie nozioni  di  filologia  storica  e  com- 
parata ed  è  perciò  tratto  inavvedutamente 
a  grandi  e  frequenti  errori.  Crede  ad  «un 
passaggio  della  volgare  favella  dall' opico 
accento  al  latino  e  da  questo  all' italiano  » 
(p.  5),  indi  narra  che  «  il  popolo  ita- 
liano camminò  per  continui  e  insensibili 
gradi  di  volgare  in  volgare  dalla  lingua 
etrusca  giù  per  la  latina  verso  l'italia- 
na »  (p.  29).  Dice  che  «  chi  avrà  comin- 
ciato a  cantare  in  dialetto  o  celtico,  o  etru- 
sco, o  osco,  avrà  seguitato  in  dialetto  o  cel- 
tico-latino,  o  osco-latino  e  avrà  finito  in 
dialetto  o  piemontese  o  lombardo,  o  toscano 
e  romano,  o  napoletano  e  siciliano,  a  seconda 
che  il  nazionale  idioma  passava  dalle  forme 
opiche  alle  romaiche,  alle  italiane  »  (p.  40). 
Altrove  parla  «  della  modificazione  dei  varii 
dialetti  sotto  gì'  influssi  della  etrusca,  della 
latina  e  della  greca  lingua  (p.  42),  ammette 
più  idiomi  latini  assolutamente  diversi  e  di- 
stinti, il  contadinesco,  il  militare  e  il  plebeo 
(p.  34),  ed  applica  ciò  che  i  grammatici 
dicono  della  soppressione  delle  consonanti 
finali  nel  latino  arcaico  al  canto  del  trionfo 
gallico  del  tempo  di  Cesare  (p.  31).  Pre- 
senta una  spiegazione  letterale  di  alcuni 
versi  delle  tavole  eugubine  «  scritte  in  lingua 
etrusca  »  (p.  45),  e  t^nta  la  interpretazione 
di  un'antica  strofa  riportata  da  Varrone, 
nella  quale  parla  «  della  frequente  aggiunta 
di  T  o  D  alle   vocali  finali   onde  lu  detto 


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HOMAXZA,    N.* 


liASSFG^'A  BIBLIOGRAFICA 


19^ 


diet  per  dies,  proedad  per  proeda;  iden- 
tifica huat  con  coeat  e  con  chiudi ,  kanat 
con  cannetta,  sista  con  «i^fe  e  quindi  con 
assesta  (p.  32),  tdtr-eia  con  ^trt,  iamu, 
jierUyjutu.  Non  è  più  corretto  quando  parla 
del  metro  e  vuol  mostrare  che  non  vi  fu  in  Ita- 
lia importazione  dei  metri  greci  perché  ogni 
metro  ha  radici  nel  ritmo,  e  non  s' avvede  che 
il  ritmo  potè  diventar  metro  in  Grecia,  e  poi 
il  metro  greco  essere  sostituito  al  ritmo  ro- 
mano. Insomma  TA.  ha  avuto  il  torto  di 
entrare  in  materia  non  sua,  e  bisogna  pure 
perdonargli  questo  sbaglio  in  vista  dei  molti 
pregi  che  risplendono  nelle  altre  parti  del 
suo  lavoro. 

Ed  infatti  sono  pieni  di  bellissime  con- 
siderazioni  i   capitoli   nei  qnali  egli  si  fa 
ad  esaminare T  indole  della  poesia  popolare, 
i  rapporti  fra  le   varie  forme  di  essa  e  i 
contatti  fra  la  poesia  pubblica  e  la  dome- 
stica.   Solo  sembra  dare  troppa  influenza 
allo  stato  politico  sopra  la  produzione  let- 
teraria, poiché  è  certissimo  che  la  provincia 
più  produttiva  è  stata  la  Sicilia,  dove  meno 
ha  fiorito   la   libertà  politica,  e  che  per  la 
stessa  Toscana  il  secolo  xv  segna  il  deca- 
dimento di  quella  e  V  apogeo  della  poesia 
popolare.    I  lamenti  per  la  libertà  perduta 
non  prevalgono  certo  in  quel  secolo  ai  canti 
carnascialeschi,  alle  ballate,  ai  rispetti.    Il 
popolo,  come  TA.  altrove  riconosce,  «  di  due 
rose  ha  prepotente  bisogno:  di   pregare  e 
di  divertirsi  »  (p.  123),  e  «  per  divertirsi 
ha  bisogno  della  poesia  (p.  145),  tantoché 
la  poesia  sollazzevole  è  una  delle  più  an- 
tiche e  delie  più  diffuse  (cap.  xi),  e  «  la 
stessa  poesìa  storica  e  politica  ha  spesso  il 
semplice  scopo  di  passatempo  e  sollazzo  » 
(p.  113).    Così  il  popolo  del  secolo  xv  cele- 
brava con  ogni  forma  di  poesia  quella  vita 
spensierata  ed  allegra,  per  quanto  servile, 
nella  quale  i  nuovi  signori  lo  lasciavano  tra- 
stallare.—  Una  delle  parti  più  belle  e  più 
importanti    del   libro   è  certamente  quella 
compresa  nei  cap.  xui-xvn,  nella  quale  TA. 
si  fa  ad  investigare  T  antichità  della  poesia 
erotica  popolare  mostrando  «  come  lo  smar- 
rimento deir  antica  poesia  popolare  è  assai 
meno  assoluto  e  meno  irreparabile  di  quanto 
avesse  potuto   a  prima    vista  apparire,  e 
che  gran  parte  dell'antica  si  ritrova  quasi 
intatta  nella  moderna»  (p. 225).    È  questo 


il  primo  risultato  sintetico  del  libro,  e  alla 
sua  grande  importanza  ii;^rinseca  si  deve 
aggiungere  il  metodo,  la  lucidità,  la  pie- 
nezza della  dimostrazione. 

È  anche  questo  il  primo  teorema  che  il 
prof.  D'Ancona  ha  preso  a  dimostrare  nei 
suoi  Studi,  ed  è  mirabile  il  vedere  come  due 
persone  che  lavoravano  isolate  e  lontane, 
siano  giunte  esattamente  allo  stesso  punto  e 
per  lo  stesso  cammino,  riscontrandosi  persino 
nelle  prove  e  negli  esempi,  come  nella  canzone 
deWAvveienato  (R.  p.  121;  D*A.  p.  106)  e 
nella  Serenata  del  Bronzino  (  R.  p.  211  ;  D' A. 
p.  145).  La  poca  distanza  di  tempo  corsa 
fra  i  due  libri  e  sopratutto  il  nome  degli 
autori  rendeva  superfluo  P avvertimento  pre- 
messo alla  seconda  pubblicazione,  e  la  du- 
plicità della  scoperta  non  fa  altro  che  ac- 
crescerle d'ambo  le  parti  il  merito  ed  il  va- 
lore. È  a  lamentare  che  il  R.  non  ci  abbia 
dato  anche  i  raffronti  della  canzone  del  Pe- 
trarca di  cui  fa  menzione  a  p.  208;  reliquie 
cosi  preziose  vanno  mei>se  alla  luce  più  che 
è  possibile. 

Nella  seconda  parte  il  R.  si  fa  a  conside- 
rare la  poesia  popolare  nei  suoi  caratteri 
psicologici.  Distingue  la  vera  poesia  po- 
polare cioè  quella  fatta  dal  popolo  e  per  il 
popolo  da  quella  fatta  dai  dotti  in  forma 
popolare  o  dai  semidotti  con  pretensione 
letteraria.  La  divide  secondo  le  sue  qua- 
lità intrinseche  in  poesia  passionata,  sati- 
rica, galante,  tradizionale,  sollazzevole  e 
memorativa,  e  fa  l'analisi  di  ciascuna  di 
queste  specie  cercando  di  mostrare  la  pre- 
valenza o  la  forma  speciale  che  ciascuna  di 
esse  prende  nelle  varie  provincie.  L'ana- 
lisi è  accurata ,  ma  troppo  minuta  e  le  con- 
clusioni sono  tratte  su  dati  troppo  scarsi  e 
spesso  non  certi.  Cosi  a  torto  l'A.  nega  ai 
latini  la  poesia  satirica  (p.  256),  mentre 
Quintiliano  potè  scrivere  «  satyra  quidem 
tota  nostra  est  »,  e  la  passionata  «  perché 
il  latino  sussiego  poco  si  addice  al  linguag- 
gio della  passione  ».  E  avrebbe  ragione  se 
fosse  un  vero  esempio  di  poesia  popolare  la- 
tina il  rispetto  che  cita  e  che  comincia: 

Giuro  all'eterno  ed  immntabil  Dume 

D'esser  sempre  fedele  al  tuo  bel  core  (p.  247). 

Dà  ai  popoli  subalpini  il  primato  della  poe- 
sia  tradizionale  storica  (p.  291,  297),  ma 
13 


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194 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA     [oiorsale  di  filologia 


non  tiene  conto  della  distinzione  svolta  nel- 
l'aureo studio  dal  Nipra  {Romania ^  n*>  20) 
fra  la  poesia  lirica  ed  epica;  della  sollaz- 
zevole ai  napoletani  (p.  314),  e  ai  siciliani 
quello  della  poesia  passionata  (p.  251)  e 
galante  o  madrigalesca  (p.  288).  Nega  a 
questi  ultimi  ricchezza  di  poesia  storica  tra- 
dizionale (p.  301);  ma  dice  cdl  Vigo  «  che 
il  fiume  della  poesia  narrativa  in  Sicilia  è 
perenne  ed  inesauribile;  corre,  precipita 
dalle  sue  scaturigini  alla  foce,  e  si  perde 
nel  mare  dell*  oblio  mentre  nuove  acque  ne 
ricolmano  V  alveo  >  (p.  303).  Ammette  che 
la  poesia  memorativa  fiorisca  in  Sicilia 
(p.  300)  e  che  essa  sia  eminentemente  tra- 
dizionale (p.  323). 

Ma  sia  pure  che  T indole  di  un  popolo  si 
rifletta  nei  suoi  canti;  T amore,  la  satira, 
il  sollazzo,  la  tradizione  sono  comuni  a  cia- 
scun popolo,  né  è  possibile  dalla  forma  più 
o  meno  esplicita  di  qualche  esempio  attri- 
buire senz'altro  una  speciale  tendenza  a 
questa  o  quella  specie  di  poesia.  E  perciò 
su  questo  punto  non  sembrano  accettabili 
tutte  le  conclusioni  delTA.  —  Segue  un  esame 
delle  intrinseche  qualità  generali  della  poe- 
sia popolare,  e  dapprima  di  quella  stabilità, 
che,  esaminata  già  in  ordine  ai  tempi,  re- 
stava a  dimostrarsi  in  ordine  ai  luoghi. 
La  poesia  più  stabile  è  per  TA.  la  prover- 
biale e  tradirionale;  meno  la  passionata, 
ma  con  qualche  eccezione  nel  caso  di  forma 
assai  splendida  o  di  tema  assai  generale. 
Dimostra  l'assunto  con  Pesame  di  un  pro- 
verbio e  di  due  canti  che  si  ritrovano  eguali 
almeno  nel'a  sostanza,  in  quasi  tutte  le 
Provincie  dMtalia  (e.  viii).  Aggiunge  che 
questa  stabilità  è  T  effetto  di  una  grande 
cedevolezza,  per  la  quale  un  canto  può  pas- 
sare da  una  provincia  all'altra  restando 
integro  nel  tema,  ma  cambiando  la  forma 
nella  frase,  nel  dialetto  o  nel  metro  ;o  con- 
servando la  forma  con  mutazione  di  tema  e 
di  sentimento;  e  che  questa  cedevolezza  si 
mostra  specialmente  nelle  circostanze  di 
tempi,  di  luoghi  e  di  persone  a  cui  è  in- 
spirata la  poesia  popolare  (e.  ix).  L'equi- 
librio fra  questa  stabilità  e  cedevolezza  è 
prodotto  e  spiegato  da  una  omogeneità  di 
essenza,  la  quale  ha  radice  nella  comr- 
nanza  delle  idee,  dei  sentimenti,  dei  casi. 
Così  tutti   gli  uomini  sono  tratti  all'  amo- 


re, e  quando  amano  fermano  il  pensiero 
sulle  più  ordinarie  circostanze  della  vita 
propria  o  della  persona  amata,  come  ì  di 
della  nascita,  del  battesimo,  del  primo  in- 
contro, della  morte,  della  sepoltura;  la  ca- 
sa, la  fenestra,  il  giardino.  La  natura  of- 
fre al  poeta  quanto  ha  di  più  bello  e  me- 
raviglioso: il  sole,  la  luna,  le  stelle,  il  mare, 
i  fiori  e  specialmente  il  giglio  e  la  rosa, 
l'oro,  le  gemme,  il  diamante,  il  rubino,  le 
perle,  il  cristallo,  la  neve.  La  religione  vi 
porta  il  paradiso,  gli  angeli,  i  santi,  l'in- 
ferno, i  diavoli  :  e  sino  la  mitologia  vi  fram- 
mette Venere,  Cupido,  Giove,  Narciso,  le 
fate,  le  streghe  e  tutto  il  patrimonio  comune 
delle  leggende  (e.  x).  S'aggiunga  a  ciò 
quel  fare  fantastico  che  rende  spesso  difficile 
a  comprendere  la  poesia  popolare  (e.  xi), 
la  grande  quantità  di  poesia  artificiale,  con- 
traffatta o  falsificata  che  si  mischia  alla 
vera  (e.  xiv),  e,  per  quanto  si  voglia  am- 
mettere con  l'A.  (ciò  di  cui  è  lecito  dubi- 
tare) la  esistenza  cioè  di  alcune  intrinseche 
qualità  speciali  rispondenti  alle  speciali  qua- 
lità fisiologiche  delle  varie  regioni  (e.  xii), 
si  dovrà  confessare  con  lui  che  è  difficile, 
almeno  con  questi  mezzi,  di  riconoscere  la 
provenienza  dei  suoi  prodotti,  E  l'A.  con- 
chiude: «  che  la  stabilità  con  cui  un  canto 
viene  trasmesso  dipende  dall'indole  del  ge- 
nere di  poesia  a  cui  appartiene,  non  dalla 
potenza  propagatrice  della  regione  da  cui 
proviene,  e  che  perciò  può  servire  a  testi- 
ficare la  paternità  di  questa  regione,  non 
il  grado  della  sua  potenza;  che  tale  stabi- 
lità indica  piuttosto  il  modo  che  la  propor- 
zione con  cui  il  propagamento  si  efiottuò;  che 
perciò  essa  non  diminuisce  né  accresce  la 
parte  di  contributo  che  ciascuna  provincia 
arreca  al  tesoro  poetico  della  intiera  na- 
zione; e  che  in  questo  contributo  ninna  pro- 
vincia gode  un  universale  primato,  ma  cia- 
scuna può  averne  uno  speciale  in  quel  ge- 
nere di  poesia  che  meglio  si  confà  alla  sua 
indole,  alle  sue  abitudini,  alle  sue  tradizio- 
ni »  (p.  475). 

L'A.  cammina  entro  un  vero  labirinto  e 
vi  si  smarrisce:  cerca  la  via  d'uscirne,  la 
trova,  sembra  che  voglia  attenervisi;  ma  si 
caccia  nuovamente  pe'  viottoli  e  finisce  col 
perdersi.  Erano  troppo  incerte,  troppo  sog- 
gettive e  perciò  sottoposte  a  troppo  varie 


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ROMANZA,  N."  2] 


BASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


195 


influenze  le  qualità  psicologiche  perché  po- 
tessero servire  di  guida  nella  ricerca  delle 
origini:  era  necessario  a  ciò  alcun  che  di 
fisso,  di  naturale  e  perciò  sottratto  all'  ar- 
bitrio dell'uomo,  come  la  strofa,  il  metro, 
la  rima.    L'A.  riconosce  che  «  tanta  è  la 
innata  fedeltà  di  ciascun  popolo  al  proprio 
dialetto,  che  la  violazione  di  esso  è  uno  dei 
più  sicuri  segni  della  non  nativa  provenienza 
di  un  canto  popolare  »  (p.  430),  «  che  poco 
meno  che  al  proprio  dialetto  è  fedele  il  po- 
polo al  proprio  metro  »  (p.  431)  e  giunge 
a  dire  «  che  pel  campagnuolo  la  poesia  non 
viene  che  in  grazia  e  in  compagnia  della 
musica;  che  egli  conosce  le  note  prima  delle 
parole  e  si  serve  di  quelle  come  di  una  fal- 
sariga per  queste,  o  piuttosto  come  d'uno 
stampo  invariabile  per  la  variabile  materia 
che  dentro  deve  esservi  improntata  »  (p.  463). 
Ed  infatti  quando  prova  ì  canti  alla  stregua 
del  dialetto  e  del  metro  è  condotto  a  rico- 
noscere l'origine  siciliana  (p.  435,   466); 
ma  poi  si  lascia  vìncere  dalle  difficoltà  che 
presenta  contro  il  dialetto  l' idioma ,  contro 
la  strofa  e  la  musica  la  prevalenza  dell'en- 
decasillabo, fallisce  in  altre  ricerche  (p.  344, 
346,  438,  447),  e  giunge  alle  conclusioni  che 
sopra  si  sono  riportate.  —  Altra  è  la  via  che 
tiene  il  prof.  D'Ancona  e  ben  altro  il. risulto 
che  ottiene.    Si  fa  dapprima  a  raffrontare  i 
canti  delle  diverse  regioni ,  e  da  questa  co- 
piosa e  diligente  comparazione  della  materia 
e  della  forma  di  essi  conchiude  che  non  v'ha 
sola  omogeneità f  sia  pure  estesa  all'avvia- 
mento dallo  sviluppo  del  tema  (R.  p.  370)  ;  «non 
trattarsi   di   rassomiglianze  generiche  pro- 
dotte da  conformità  di  sensazioni  e  di  vicende, 
o  da  esaltamento  intellettuale  e  bollor  dì  pas- 
sioni, o  da  spontanea  tendenza  alla  idea- 
lità; ma  invece  di  sostanziale  identità  del 
componimento  stesso,  modificato  qua  e  là 
variamente  in  alcuni  particolari,  ma  deri- 
vato da  un'unica  e  medesima  fonte  »  (p.  247). 
Dopo  ciò  era  naturale  che  si  facesse  a  ri- 
cercare la  patria  di  questi  canti,  e,  ammet- 
tendo pure  la  eccezione  di  molti   canti   to- 
scani di  cui   non  v'ha  riscontro  siciliano, 
ma  solo  di  altre  provincie  del  mezzogiorno 
(p.  250),  settentrionali  (p.  253) Jatine  (p.  257), 
venete  (p.  260),  o  istriane   (p.  250)  e  dì 
molti  altri  dei  quali  manca  pure  la  versione 
toscana  (p.  272-276);  riconosciuto  che  l'al- 


terazione totale  o  parziale  del  dialetto,  e 
talora  Jino  o  più  versi  toscani  mischiati  al 
canto  valgono  a  togliergli  la  qualità  regio- 
nale (pp.  277-283);  conchiude  <  che  il  canto 
popolare  italiano  è  nativo  di  Sicilia  ».  Con 
ciò  «  non  intende  negare  alle  plebi  delle 
altre  provincie  la  poetica  facoltà  e  che  non 
vi  sieno  poesie  popolari  sorte  in  altre  re- 
gioni italiane,  ed  ivi  cresciute  e  diramate 
attorno.  Ma  crede  che  nella  maggior  parte 
dei  casi,  il  canto  abbia  per  patria  d'origine 
r  ìsola,  e  per  patria  di  adozione  la  Toscana: 
che  nato  con  veste  di  dialetto  in  Sicilia,  in 
Toscana  abbia  assunto  forma  illustre  e  co- 
mune, e  con  siffatta  veste  novella  sìa  mi- 
grato nelle  altre  provincie  »  (p.  285).  È 
inutile  d'aggiungere  che  l'A.  per  provare 
il  suo  assunto  mette  in  opera  tutto  il  ma- 
teriale analitico  da  lui  accumulato  con  studio 
lungo  ed  assiduo,  e  che  nell'  uso  che  ne  fa 
rivela  anche  una  volta  quella  crìtica  rigo- 
rosa e  «aljace  che  appare  in  tutti  i  suoi  la- 
vori. Crede  che  la  trasmigrazione  dei  canti 
popolari  siculi  debba  essere  stata  quasi  con- 
temporanea a  quella  delle  poesìe  illustri  per 
le  quali  Dante  dà  alla  poesia  volgare  l'epi- 
teto di  «  siciliana  »;  e  che  ad  ogni  modo 
non  deve  essere  posteriore  al  secolo  xv, 
quairdo  certamente  erano  noti  e  diffusi  in 
Toscana  (p.  295),  mostrando  come  il  pas- 
saggio fosse  reso  facile  dal  continuo  rime- 
scolamento di  idee,  dì  prodotti  e  di  persone 
portato  dalla  operosità  civile  commerciale 
e  intellettuale  di  quel  secolo  (p.  297). 

Ma  in  qual  forma  passarono  i  canti  dal- 
l' isola  al  continente  ?  Era  questa  la  maggio- 
re difficoltà  a  risolvere.  L'A  riconosce  tre 
principali  tipi  di  canti:  uno  siciliano  e  delle 
Provincie  meridionali  composto  di  otto  versi 
endecasillabi  a  due  rime  alternate  con  uso 
quasi  costante  della  consonanza  atona  ;  un 
secondo  toscano,  al  quale  si  ravvicinano  i 
canti  umbri  e  marchigiani,  composto  di  un 
tetrastico  a  due  rime  alternate  seguito  da 
una  ripresa  caratteristica,  diversa  di  desi- 
nenze e  di  andamento  ritmico,  ma  non  di 
concetto;  un  terzo  che  prevale  in  tutta  l'Italia 
settentrionale  composto  di  un  tetrastico  sem- 
plice a  due  rime  pure  alternate  (p.  300). 
Anche  il  Rubierì  aveva  riconosciuto  la  uni- 
versalità dell'endecasillabo,  e  la  prevalenza 
della  quartina  nei  canti  piemontesi ,  veneti , 


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BASSEGNA  BIBLIOGRAFICA     [aiousAj.K  ui  filologia 


lombardi f  e  un  po' meno  nei  veronesi,  vi- 
centini, roraagnuolì,  marchigiani,  sabini  e 
liguri;  deir ottava  nei  siciliani,  napoletani, 
istriani,  umbri  e  latini,  ma  in  qne&ti  due 
ultimi  allungata  e  sciupata;  e  in  Toscana 
il  predominio  di  una  quartina  con  ritornelli 
(e.  v).  Dopo  ciò  il  prof.  D'Ancona  discute 
le  due  ipotesi:  se  cioè  Pollava  siciliana  sia 
giunta  perfetta  in  Toscana,  perdesse  quivi 
gli  ultimi  versi,  ai  quali  si  sostituì  la  ripresa^ 
ed  abbia  poi  perduto  anche  questa  nelle 
Provincie  settentrionali  rimanendo  semplice 
tetrastico:  oppure  se  un  solo  tetrastico  del- 
l'ottava  siciliana  abbia  passato  lo  stretto, 
ed  abbia  ricevuto  un  allungamento  con  la 
ripresa  toscana.  Esclude  la  prima  ipotesi 
rome  troppo  complicata  e  contraria  ai  fatti 
(pp.  306-308),  e  ritiene  col  Nigra  che  la 
])rimitiva  forma  dei  canti  fosse  tetrastica, 
e  che  poi  abbia  ricevuto  un  allungamento 
col  secondo  tetrastico  nella  stessa  Sicilia,  e 
con  la  ripresa  in  Toscana  (p.  309).  Non 
manca  TA.  di  confortare  la  sua  tpsi  con 
molti  argomenti,  tra  i  quali  ci  sembra  il 
più  valido  quello  del  compimento  del  periodo 
ritmico  e  musicale  in  quattro  versi.  —  Ma 
questa  proposizione  verissima  in  astratto  ci 
sembra  che  debba  essere  provata  con  il  fatto 
e  che  la  prova  più  concludente  debba  esser 
tratta  da  un  esame  comparativo  della  mu- 
sica popolare.  Il  popolo  fa  al  contrario  dei 
dotti:  non  adatta  la  musica  alla  poesia,  ma 
la  poesia  alla  musica,  e  di  ninna  cosa  con- 
s*»rva  tanto  tenacemente  la  tradizione  quanto 
del  motivo  musicale,  il  quale  non  cambia, 
come  la  poesia,  neppure  col  totale  cambia- 
mento della  lingua.  Sembra  esagerazione: 
ma  é  verissimo  che  la  stessa  canzone  s'ode 
dopo  tanti  secoli ,  con  variazioni  appena  sen- 
sibili ad  un  orecchio  esercitato,  in  Siria,  in 
Egitto,  in  Spagna,  nelle  isole  Filippine,  cioè 
dire  nelle  quattro  parti  del  mondo;  e  di  ciò 
daremo  quando  che  sia  le  prove  insieme  ad 
alcune  notizie  su  la  musica  popolare.  — 
L'A.  esamina  pure  lo  Stornello  e  opina  che 
eia  nativo  di  Toscana  e  prediletto  nel  ter- 
ritorio romano  (pag.  320);  che  la  sua  for- 
ma primitiva  sia  distica,  e  che  l'invoca- 
zione del  tìore  si  sia  aggiunta  per  ripi- 
gliare il  canto  e  si  sia  talora  allungata  a 
somiglianza  della  terzina,  escludendo  cosi 
che  la  terzina  possa  aver  avuto  origine  dallo 


stornello  come  alcuno  ha  creduto  (p.  319). 
É  questo  il  caso  in  cui,  come  sopra  si  è 
detto,  la  prova  è  data  dalla  musica:  il  ritmo 
musicale  dello  stornello  si  compie  al  secondo 
verso,  e  per  ripigliare  il  canto  si  ripete  non 
tanto  Tin vocazione  del  fiore,  come  dice  TA., 
quanto  le  cinque  ultime  sillabe  del  secondo 
verso,  le  quali  così  smozzicate  non  hanno 
senso  veruno.  —  Passa  finalmente  ad  esa- 
minare quanta  parte  di  poesia  letteraria  si 
sia  mischiata  a  quella  del  popolo,  e  se  que- 
sto r  abbia  attinta  dai  dotti ,  o  questi  da 
quello.  Esclusi  con  critica  industre  e  sagace 
molti  canti  che  trovansi  nelle  raccolte,  di 
conosciuto  autore,  e  che  nulla  mai  ebbero 
di  popolare,  molti  ne  riconosce  che  il  popolo 
ha  fatto  suoi  modificandoli,  come  è  solito  di 
fare,  quando  gli  danno  nel  genio  canti  com- 
posti da  poeti  culti  con  intonazione  simile  a 
quelle  delle  plebi  (p.  325-352).  Cita  le  prin- 
cipaK  raccolte  manoscritte  e  stampate  alle 
quali  il  popolo  ha  attinto,  e  da  copiosissimi 
raffronti  in  cui  non  si  sa  se  ammirare  più 
la  pazienza  o  la  memoria  delPA.  (  pp.  354- 
422),  stabilisce  che  tre  successive  modifica- 
zioni hanno  avuto  nella  maggior  parte  dei 
casi  i  canti  popolari,  e  che  nella  genealogia 
delle  forme  sta  prima  una  lezione  siciliana 
eulta,  poi  una  traduzione  italiana  eulta,  indi 
varie  versioni  secondo  i  varii  dialetti ,  com- 
preso il  siculo  volgare,  nelle  quali  il  canto 
via  via  che  si  fa  popolare,  perde  non  solo 
la  veste  idiomatica  letteraria,  ma  anche 
smonta  un  po' di  colore,  divenendo  proprio 
delle  plebi  »  (  p.  426).  É  questa  la  parte 
più  originale  del  libro,  e  senza  dubbio  la 
più  interessante.  Se  la  maggior  parte  dei 
canti  del  popolo  avesse  origine  letteraria, 
il  nome  stesso  di  poesia  popolare-  diver- 
rebbe improprio  o  convenzionale.  In  mate- 
ria cosi  grave  è  ad  attendere  che  l'esame  sia 
rigorosamente  compiuto;  frattanto  è  d'uopo 
riconoscere  che  i  fatti  citati  dall' A.  sono 
copiosi  ed  indiscutibili.  Conchiude  dicendo 
«  che  in  ogni  modo  questi  canti  sono  degni 
di  studio,  dappoiché  questa  è  poesia  vivente 
fra  il  popolo;  ma  per  più  di  un  verso,  sia 
che  ella  abbia  porto  esempi  imitabili  ai  let- 
terati, sia  che  dai  letterati  scendesse  alle 
plebi,  altro  non  è  insomma,  se  non  una 
forma  particolare  della  nazionale  poesia  ». 
E   ciò   dà  importanza  alla  ultima   parte 


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ROMANZA,  N.**  2] 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


197 


dHla  Storia  del  sig.  Rubieri,  nella  quale 
e«?li  8i  fa  ad  esaminare  i  caratteri  morali 
df^lla  poesia  popolare  italiana.  La  patria  non 
^  il  soggetto  principale  dei  canti  del  popolo: 
la  poesia  non  destata  dal  sentimento  nazio- 
naie,  oppressa  o  adulata  da  chi  voleva  al- 
lontanare dal  popolo  i  seri  pensieri  (p.  493), 
splende  nel  seoclo  xv  solo  nelle  ultime  lotte 
fra  la  repubblica  e  il  principato,  fra  l'asce- 
tismo e  la  miscredenza  (  p.  498),  dopo  di  che 
perde  il  dominio  per  risorgere  solo  a  lampi 
in  ogni  nuova  occasione  di  popolare  lotta  e 
riscossa  (p.  403).  Si  conserva  più  nelle  re- 
gioni subalpine  (p.  322);  ma  anche  qui  TA. 
ha  lasciato  d'avvertire,  come  fa  benissimo 
il  Nigra,  che  non  tutta  quella  poesia  è  in- 
digena e  nativa  in  quelle  provincie  e  che 
una  lunga  serie  di  canzoni ,  fra  le  quali  mol- 
tissime romanzesche,  sono  comuni  a  tutti  i 
popoli  celto-romanzi  e  trasmesse  dalla  Fran- 
cia per  mezzo  della  Provenza  e  della  Borgo- 
gna. Nel  resto  d'Italia  v'è  assoluta  predile- 
zione dei  temi  d'amore,  e  questa  tendenza 
prevale  su  l'amore  della  libertà  e  della  pa- 
tria (p.  338),  ed  è  assolutamente  contraria 
alle  armi  (p.  349).  Non  già  che  manchi- 
no i  canti  di  guerra;  ma  chi  ama  lascia 
mal  volentieri  l'amante,  è  teme  di  perder 
la  vita. 

Dice  l'A.  che  presso  i  popoli  subalpini 
fiorisce  più  la  poesia  politica  e  militare  per 
l'indole  e  per  gli  ordinamenti  che  vi  pre- 
valgono (  p.  .522-606);  ma  ciò  può  esser  vero 
solo  per  un  breve  periodo  degli  ultimi  tempi 
e  forse  ^^^^  poesia  si  fermò  e  visse  meglio 


in  quelle  regioni  non  tanto  per  maggiore 
trasporto  a  quella,  quanto  per  minore  ten- 
denza alla  poesia  lirica  e  passionata.  La 
poesia  popolare  si  trova  a  disagio  nella  vita 
coniugale  (p.  359),  non  perché  col  matri- 
monio muoia  l'amore;  ma  perché  il  canto 
cessa  con  l'occasione  (p.  572),  e  questa 
manca  quando  manca  quella  continua  vi- 
cenda dì  speranze,  di  voti,  di  timori,  di  ge- 
losie, di  corrucci  che  ispirano  il  popolano 
che  ama:  le  satire  e  le  maledizioni  al  ma- 
trimonio, per  quanto  moltiplicate,  non  ri- 
spondono alla  vita  reale  del  popolo  e  sono 
fatte  da  burla  o  costituiscono  rare  eccezioni 
(p.  573).  Dopo  l'amore  il  sentimento  più 
potente  è  il  religioso;  ma  oscillante  fra  i  due 
eccessi  della  miscredenza  e  della  supersti- 
zione (pp.  574-606).  Tutti  questi  generali 
caratteri,  e  specialmente  la  prevalenza  del- 
l'elemento amoroso  (p.  624)  vengono  mo- 
dificati dai  caratteri  speciali  di  ciascuna  re- 
gione (p.  606)  rispondenti  alla  diversità  delle 
loro  coudizioni  sociali  (p.  657),  e  più  che 
altrove  in  Corsica  (p.  130,  150,  549,  617). 
Anche  facendo  qualche  riserva  per  alcuna 
di  queste  conclusioni  più  minuziose,  bisogna 
rendere  all' A.  un  sincero  tributo  di  lode  e 
di  gratitudine  per  la  luce  che  ha  portato 
sopra  un  punto  sul  quale  da  tanti  anni  era 
rivolta  l'aspettazione  degli  studiosi.  Oli  Studi 
del  prof.  d'Ancona  vanno  più  innanzi,  e,  con 
quelli  del  Nigra  ,  tracciano  la  via  a  chi 
vorrà  dire  l'ultima  parola  su  la  poesia  po- 
polare iiatiana. 

Giulio  Navone 


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1U3  [UIORNALK   DI    FILOLOGIA 

BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


1.  Carmina  medii  aevi  maxima  parte  inedita.  Ex  bibliothecis  Helveticis 
collecta  edidit  Hermannus  Haoeitus.  Bernae,  apud  Georgium  Frobe- 
ninm  et  soc,  MDCCCLXXVIl. 

In  8.°  picc.  di  pp.  xix-236.  —Contiene  circa  15(J  composizioni  latine,  alcune 
delle  quali  assai  importanti.  Una  recensione  (di  A.  R.)  può  vedersene  nel  Li- 
terar,  CentraìblaH  dello  Zarncke,  1877,  n.<»  10,  altra  di  L.  Havet  nella  Botua- 
nia,  n.'»  22. 

2.  Intorno  ad  una  peculiarità  di  flessione  verbale  in  alcuni  dialetti  7om- 
bardi.  Nota  del  socio  Giovanni  FLEcmA  letta  alla  Reale  Accademia 
dei  Lincei  il  18  giugno  1876.    Roma,  Salviacci,  1876. 

In  4.^  di  pp.  7,  estratto  dal  T.  3,*»  Ser.  II  degli  Atti  della  B,  Accad.  dei 
Lincei,  —  Acuta  e  retta  dichiarazione  di  quella  particolarità  che  notasi  nella  fles- 
sione verbale  dell' ant.  milanese  e  di  altre  varietà  lombarde,  consìstente  nel  ren- 
dere la  1.»  pers.  plur.  col  costrutto  offerto  dall'  esempio  am  porta  o  um  porta  = 
«  noi  portiamo  »  ,  e  simili.  Il  Biondelli  giunse  a  vedere  in  queir  am  una  forma 
pronominale  pleonastica  avente  analoghi  neir  armorico  e  nel  cambrico.  Pel  Diez 
e  per  altri  dopo  di  lui,  queir  a  w  non  era  che  l'esponente  personale  del  verbo 
(-am  —  us)  in  questi  dialetti  stranamente  prefisso  al  verbo,  anziché  essergli  suf- 
fisso conformemente  ai  principj  morfologici  di  tutto  il  gruppo  indoeuropeo.  Ma, 
ciò  ammesso,  come  spiegare  V  um  dell' ant.  milanese,  che  in  Bonvesin  da  Riva 
è  anche  on?  Il  nostro  A.  vi  ha  giustamente  riconosciuto  il  latino  homo,  qui 
adoperato  in  modo  analogo  del  frane,  on  {noìts  on  porte  ecc.)  e  la  sua  dimo- 
strazione non  poteva  esser  recata  a  miglior  evidenza.  Così  resta  provato  che 
questo  costrutto,  di  cui  già  a' hanno  tracce  antichissime  nel  latino  volgare,  v. 
Diez,  Gramm,,  III,  83,  292,  non  si  conservò  soltanto  nei  dominj  franco-proven- 
zali ma  coutinuossi  ancora  fra  i  vernacoli  italiani  e  giunse  a  trovar  luogo,  come 
l'A.  notava,  nella  Commedia  di  Dante. 

3.  Sei  tavolette  cerate  scoperte  in  una  antica  torre  di  casa  Majorfi  in  via 
Porta  Rossa  in  Firenze,  per  Luigi  Adriano  Milani.  Firenze,  Succ. 
Le  Mounier,  1877. 

In  8.*»  gr.  di  pp.  18,  estratto  dal  voi.  II  delle  Pubblicazioni  del  R.  Istituto 
di  Studi  Superiori  in  Firenze,  Sezione  di  filos.  e  filologia.  —  Di  cotesto  tavolette 
cerate  aveva  già  data  una  prima  notizia  il  Tabarrini  (neìV Archivio  stor.  ita' 
liana t  ristampata  nei  suoi  Studi  di  critica  storica,  Firenze,  Sansoni,  1876),  e 
testé  il  sig.  Milani  ha  voluto  pubblicarne  l'intero  testo,  ossia  quanto  gli  riuscì 
di  decifrarne.  Fu  una  buona  idea.  L'edizione  sembra  curata  con  molta  dili- 
genza, sobriamente  erudito  il  commento,  abbastanza  prudente  la  critica.  Ma  si 
può  dire  che  questo  documento,  posto  «  tra  gli  estremi  del  sec.  XIII  ed  i  prin- 
cipii  del  XIV  »,  sia  «  forse  il  più  antico  documento  ch'abbia  Firenze  in  iscrit- 
tura  volgare?  > 


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ROMAX2A,  N/'  'ij 


11»9 


PERIODICI 


1.   ReVUB   DBS   LANGURS  ROMANES,  DeUX. 

Serie,  an.  1877,  n.»  1.  —  Mila  y  FontanalSf 
anciennes  enigmes  catalans.  —  Alart,  Trois 
formules  de  conjuration  en  catalan  (1397y.  — 
Ch.  Chabaneau,  Orammaire  limousine.  Ad- 
di! ions  et  corrections  à  la  l.«  .partie.  —  L. 
Goiravd,  Nemausa  (versi  in  dialetto  pro- 
venzale d'Avignone).  —  A.  Fourès,  L*albeto 
(versi  in  dial.  di  Linguadoca).  —  A.  Mir, 
Lou  Reinard  e  la  Cigogno  (versi  in  dial. 
narbonese).  —  W.  C.  Bonaparte-Wyse ,  Li 
vièi  (versi  in  dial.  provenzale  d*Avignone).  — 
Bibliographie.  —  Chronique. 

—  N.*  2-4.  —  Nou/tft,  Histoire  littéraire 
des  patois  du  Midi  de  la  France.  —  A.  Mori- 
tei,  L.  Lambert,  Chants  populaires  du  Lan- 
guedoc.  —  P.  Fesquetf  La  Cabreiro  (versi 
in  dial.  di  Linguadoca).  — -<4.  Langlade,  Lou 
Garda-mas  (versi  in  dial.  di  Linguadoca). — 
Bibliographie.  —  Périodiques.  —  A.  Espa- 
gne, Le  SiAge  de  Toulouse  et  la  mort  de 
Simon  de  Montfort  (  relazione  di  una  confe- 
renza del  sig.  Delpech).  —  A.  Roque-Fer- 
rter,  Les  réunions  du  félibrige  à  Aix  età 
Montpellier.  —  Chronique. 

—  N.<» 5.  —  Alart,  Documents  sur  la  langiie 
catalane  (1310,  1311,  1284). —  yl.  Gazier, 
Lettres  à  Grégoire  sur  les  patois  de  la  Fran- 
ce. —  W.  C,  Bonaparte-Wyse ,  Un  dimen- 
che  dou  mes  de  mai  (  versi  in  provenz.  d'Avi- 
gnone).—  A.  Fourès,  Lou  Garrabiè  (versi 
in  dial.  di  Linguadoca).  —  Bibliographie. — 
Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.<>  6.  —  Mila  y  Fontanals ,  Mélan- 
ges  de  langue  catalane.  —  A.  Gazier,  Let- 
tres à  Grégoire  sur  les  patois  de  la  Fran- 
ce.—  L.  Goirafid,  Bello  proumiero  (pro- 
venz. d'Avignone).  -^  A.  Verdot,  Lou  ma- 
riane astra  (provenz.  d'Avignone).  —  C, 
Laforgiie,  Mater  dolorosa  (dial.  di  Lingua- 
doca). —  Discours  et  Brindes  prononcés  à 


Avignon  par  MM.  Mistral,  Bonapartè-Wy- 
se,  M.  Girard,  Laforgue ,  Tavan.  —  Bi- 
bliographie. —  Chronique. 

—  N  o  7.  —  Alart,  Documents  divers  ap- 
partenant  aux  dialecles  du  Midi  de  la  France 
(dial.  di  Monpellier,  an.  1361;  Carcasso- 
na(?),  1370;  Narbonese,  1380;  Narbonese  (?), 
1397;  Bearnese,  1411  ;  Narbonese,  1421;  Avi- 
gnone (?),  circa  1423).  —  i4.  Montel,  L.  Lam- 
bert, Chants  populaires  du  Languedoc.  — 
Th.  Aubanel ,  Vièio  cansoun  (  provenz. 
d'Avignone).  —  A.  Tavan,  Sounet  (pro- 
venz. d'Avifirnone).  —  C.  Sasato,  Louise  (niz- 
zardo). —  M,  Barthés,  La  maire,  l'enfant  e 
la  filho  (Linguadoca).  —  /.  Hfirti  y  Fot- 
guera,  Las  duas  mares  (catalano).  —  A. 
Langlade,  Lou  Garda-mas  (Linguadoca). — 
Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.o  8.  —  H.  VaschaldCt  Une  inscription 
en  langue  d'oc  du  XV®  siede  à  Lavgentière 
(  Ardèche).  —  Noulet,  Hist.  littér.  des  patois 
du  Midi  de  la  France.  —  C.  Gleizes ,  Las 
Gardios  d'Azilhanet  (Linguadoca).— X.  Rou- 
m,ieux,  Lou  banc  (provenz.  d'Avignone). — 
A.  Fourès,  Las  Gracios  de  Viscounti  (Lin- 
guadoca).—  Th.  Aubanel,  L'erbo  dou  mas- 
sacre  (provenz.  d'Avignone).  —  A.  de  Ga- 
gnaud,  L'aubo  (provenz.  d'Avignone).- — 
J.  Laurès,  L'irme  ( Linguadoca).  —  Biblio- 
graphie. —  Chronique.  —  Rècti  flcation. 

—  N.o  9.  —  Alart,  Études  historiques  sur 
quelques  particularités  de  la  langue  catala- 
ne.—  Th.  Aubanel,  A  Tauro  (  provenz.  d'Avi- 
gnone).—  L.  de  Ricard,  La  Figueira  (cir- 
condario di  Montpellier).  —  A  22ow;r,  Can- 
soun au  Baroun  C.  de  Tourtoulon  (circon- 
dario Lunel-Viel).  —  J.  Verdaguer,  A  una 
rosa  mùstiga  (catalano).  —  G.  Azais,  Lou 
Tais  e  lou  Reinard  (Béziers).  —  Bibliogra- 
phie. —  Périodiques  —  Chronique. 


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NOTIZIE 


Con  piacere  annnnziamo  la  fondazione  dì  una  catedra  di  linguistica  nel  Curso  su- 
prior  de  lettras  in  Lisbona.  Il  candidato  eletto  a  tale  insegnamento  fu  il  D.»"  Adolfo 
Coelbo,  nome  già  abbastanza  conosciuto  da  tutti  i  romanisti. 

Nel  richiamare  P attenzione  dei  nostri  lettori  sulla  notizia  data  addietro  (p.  190)  del 
ritrovamento  del  secondo  canzoniere  portoghese  già  appartenuto  al  Colocci,  qui  aggiun- 
giamo che  la  parte  inedita  di  esso  vedrà  quanto  prima  la  luce  nel  voi.  11  delle  Comuni- 
cazioni del  Monaci.  La  pubblicazione  sarà  fatta  dal  sig.  Molteni  coi  spetta  il  merito  della 
preziosa  scoperta,  e  a  quest'ora  possiamo  annunziare  che  i  primi  fogli  sono  già  in  corso 
di  slampa. 

Stanno  per  venire  in  luce  il  \.^  fase,  delle  Chiose  irlandesi  del  codice  ambrosiano 
edite  ed  illustrate  dalP  Ascoli,  e  un  volume  del  Caix  di  Supplementi  b.\  Dizionario  Etimo- 
logico del  Diez.  —  F.  Mistral  ha  aperto  la  soscrizione  al  suo  grande  i)icetow«atr^pro- 
vengal-franQais  emhrassant  les  diverses  dialectes  de  la  langue  d*oc:  due  volumi  in  4.» 
del  complesso  di  circa  225  fogli  di  stampa. 

Il  D.'  G.  Navone  prepara  una  nuova  edizione  delle  rime  di  Folgore  da  S.  Gennignano 
e  di  Cene  della  Chitarra  rivedute  sui  manoscritti,  e  altrettanto  fa  delle  rime  di  Guido 
Cavalcanti  il  D.'  N.  Arnone,  al  quale  già  dobbiamo  un  buon  saggio  sullo  stesso  poeta, 
pubblicato  nella  Rivista  Europea, 


CORREZIONI  ED  AGGIUNTE 
(al  n."  1.) 

M*era  sfuggito  che  la  1.»  tra  le  sentenze  provenzaU  da  me  stampate  a  pa^.  38  del 
fase  I  è  tratta  da  una  poesia  di  Richart  de  Tarascon,  Ab  tan  de  sen  ecc.,  Mahn.  Ge^ 
dichte^  no  134  st.  2;  e  cosi  pure  che  la  6.*  appartiene  al  vers  di  Peire  d'Alvergne,  Abans 
queill  blanc  poi  ecc.,  st.  4:  C'a  la  coita  (o  cocha)  pot  hom  proar  amie  de  boca  ses 


amor.  Ecco  dnaqu*»  tolra  ogni  raj^ioae  alla  mia  nota.  E  in  luogo  di  nrobar  si  legga  prohar. 
E  poiché  mi  si  offre  rop|)ortunità,  avvertirò  altresì  che  nel  no  0  ho  riconosciuto  tropp< 
tardi  i  due  primi  versi  del  poema  di  Daude  de  Pradas  sulle  virtù  cardinali.    Origini  ana 


lo&rhe  avranno  pure  T  altre  sentenze.  Poco  male  pertanto  se  tutta  una  pagina  è  divenuta 
illeggibile.  A  pag.  18,  n."  2  si  corregga  in  Tànaro  quel  brutto  Tnnàro,  appartenente 
alla  geografia  dei  tipografi. 

(al  n.»  2.) 

Mi  si  permetta  una  sola  nota  anche  alPartìcoletto  contenuto  in  questo  medesimo  fa- 
scicolo. Un  Serventese  contro  Roma  ecc.  Più  mesi  dopo  che  esso  è  stampato,  mentre 
sta  aspettando  di  venire  alla  luc^,  rilevo  da  una  recensione  del  Bartsch  nella  Zeitschrift 
f.  Rom,,  Phil.  II,  132,  che  anche  il  Tobler  spiega  Sirventès  come  «  Dienstgedicht,  in- 
soferu  es  von  einem  anderen  Gedichte  abhìingig,  in  seinem  Dienste  stehend  betrachtet 
wird,  »  e  che  questa  spiegazione  ^  riferita  dal  sig.  Martin  Gisi,  in  un  opuscolo  che  ho 
il  torto  di  non  aver  visto  ancora:  Der  Troubadour  Guillem  Anelier  von  Toiilouse,  Mi 
compiaccio  di  vedermi  d'accordo  col  dotto  professore  di  Berlino. 

P.  Rajna. 


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.ANNUNZI 

delle  opere  perrenuie  alla  DircEÌone  e  delle  quali ,  appena  cbe  lo  spazio  lo  permeta , 
8i  dar^  conto  nella  Rassegna  o  nel  BuUettino. 


P.  Raina  ,  Le  latterefture  neolatine  nelle  nostre  Università,  Estratto  dalla  Nuova  An- 
tologia, OenDajo,  1878. 

Oc.  Fumi,  La  storia  comparata  delle  lingue  classiche  e  neolatine.  Prelezione  detta  nella 
R.  Unirersità  di  Palermo.    Palermo,  Montaina,  1878. 

Q,  Carducci,  Intorno  ad  alcune  rime  dei  sec,  XIII e  XIV  ritrovate  nei  memoriali  del- 
l'Archivio  notarile  di  Bologna.    Imola,  Gaieati,  1878. 

0.  BtAQi,  H  testo  borghiniano  del  Novellino,  Lettera  al  prof.  A.  Bartoli.  Pireaze,  Bar- 
bèra, 1878. 

N.  Arnone,  Guido  Cavalcanti.    Firenze,  tipogr.  della  Gazz.  d'Italia,  1878. 

L.  Fincati, Documenti  d'Amore  di  Francesco  da  Barberino:  Documento  IX,  sotto  Pru- 
denza: De* pericoli  del  mare.    Estratto  dalla  Rivista  Marittima,  Febbrajo,  1878. 

A.  D'Ancona,  Canzone  di  Guido  GuiniceUi  secondo,  la  lez.  del  Cod.  Vatic  3793  con 
raffronti  di  Mss.  e  stampe  e  saggio  di  commento.    Bologna,  R.  Tipogr.,  1877. 

A.  Borgognoni,  Se  Mons,  Pietro  Bembo  abbia  mai  avuto  un  codice  autografo  del  Can- 
zoniere del  Petrarca.    Ravenna,  Lavagna,  1877.5 

E.  Frizzi,  J>i  Vespasiano  da  Bisticci  e  delle  stie  biografie.  Tesi  di  abilitazione.  Pisa, 
Nlstri,  1878. 

U.  A.  Canbllo,  Saggi  di  critica  letteraria  (letteratura  generale,  lelterat.  neolatine,  Iet- 
terai tedesca).    Bologna,  Zanichelli,  1877. 

P.  Vigo,  Le  Danse  Macabre  in  Italia.    Livorno,  P.  Vigo,  1878. 

A.  Hortis,  Accenni  etile  scienze  naturali  nelle  opere  di  Giov.  Boccacci  e  più  partico- 
larmente del  libro  He  montibus,  silvis  ecc.    Trieste,  Lloyd  Austro-Ungar.,  1877. 

—  Cenni  di  Giovanni  Boccacci  intorno  a  Tito  Livio  cementati  da  A.  Hortis.    Trieste, 

Lloyd  Austro-Ungar.,  1877. 

—  Le  donne  famose  descritte  da  Giov.  Boccerei,  Studj  di  A.  Hortis.    Trieste,  Caprin,  1877. 
O.  Bottoni,  Saggio  di  ri»ne  inedite  di  M.  Antonio  Beccar!  da  Ferrara  con  notizie  bio- 
grafiche.   Ferrara,  Taddei,  1878. 

V.  Imbbiani,  Appunti  critici.    Napoli,  Morano,  1878. 

—  Basette  mane-m^zxe.    In  dialetto  d' Avellino .  (Principato  Ulteriore).     Pomigliauo 

d'Arco,  1877. 
A.  Grap,  Considerazioni  intomo  alla  Storia  letteraria,  a*  suoi  metodi  e  alle  sue  ap- 
partenenze.   Torino,  Bona,  1877. 

—  Stuéfj  drammatici:  La  vita  è  un  sogno;  Amleto;  tre  commedie  italiane  del  cinque- 

cento (la  Caladria,  la  Mandragola,  il  Candelaio);  il  Fausto  di  C.  Marlcwe;  il  Mi- 
stero e  le  prime  forme  dell' ^wto  sacro  in  Ispa^na.    Torino;  Loescher,  1878. 

A.  Baragiola,  Giacomo  Leopardi  filosofo,  poeta  e  prosatore.  Dissertazione  dottorale. 
Strassburgo,  Trùbner,  1876. 

A.  D'Ancona,  t^*t  nuziali  dei  contadini  deUa  Romagna,    Pisa,  Nistri,  1878. 

A.  TiRABoscHi,  Usi  pasquali  del  Bergamasco,    Bergamo,  Ga^uri  e  Gatti,  1878. 

G.  Salomonb-Marino,  Tradizione  e  Storia.    Estr,  dalle  Effemer,  siciliane. 

Q.  PiTRÉ .  Cinque  novelline  popolari  siciliane  ora  per  la  prima  volta  pubblicate.  Pa- 
lermo, Montaioa,  1878. 

A.  Iyb,  Fiabe  popolari  rovignesi  raccolte  ed  annotate*    Vienna,  A.  Uolzhausen,  1878. 


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,  4 


F.  Sabatini,  La  lanterna.    Novella  popolare  siciliana  pubblicata  ed  illustrata.    Imola, 

Galeatì,  1878. 
À.  BiROH-HiBscHFELD^  UeòsT  die  den  prùvenzoiischen  Trouòadours  des  XII  und  XJÙ 

Jahrhunderts  bekannten  epischen  Stoffe,    Eìn  Beitrag  tur  Literaturgeschichte  des 

Mittelalters.'   Halle,  Niemeyer,  1878. 
A.  Graf,  I  complementi  della  Chanson  d' Buon  de  Bordeaux;  testi  francesi  inediti  traiti 

da  un  codice  della  Bibl.  Nazion.  di  Torino.    I:  Auberon,    Halle,  Nienaejer,  1873. 
H.  FrEunt>,  Ueber  die  Verbalfleanon  der  dltesten  franzósischen  Sprachdenkmàler  bis 

zumjtolandslied  einschliesslich,   Inaugural-Dissertation,    Marburg,  HeilbronOy  Hen- 

ninger,  1878. 
F.  Neumann,  Zur  Laut-  und  Fleofionslehre  des  Altfì'anzósischen  kauptéàchlieh  ans 

pihardischen  Urkunden  von  Vermandois.    Heilbronn,  Henninger,  1878. 
A.  Rambeau,  Ueber  die  als  echt  nachweisbaren  Assonanzen  der  Chanson  de  Roland. 

Inaugural-Dissertation.    Halle,  Niemeyer,  1878. 
C.  Lebinskj,  Die  Deelinaticm  der  Substantiva  der  oit-Sprache.    Inatfg.-Dissert.    Posen, 

Krasfew&ki,  1878. 
F.  Settegast,   Calendre  und  'seine  Kaiserchronih.    Estratto  dai  Rómanische  Stu- 

dien,  t.  III. 
M.  Menbndbz  Pelato,  Horacio  en  Esperà  (Traductores  y  Comentatores;  la  poesia 

horaciana).    Solaces  hibliogràficos.    Madrid,  Casa  ed.  de  Medina,  [1878]. 
T.  Braoa,  Cancioneiro  portugttejs  da  Vaticana.    Eidic  critica  restituida  eobre  o  texto 

diplomatico  de  Halle,  acompanhada  de  um  glossario  e  de  urna  introduc^ao  sobre  os 

trovadores  e  cancioneiros  portugutfzes.    Lisboa,  Imp.  Nacìonal,  1878. 

Rivista  di  letteratura  popolare  diretta  da  Q.  Pi  tré,  F.  Sabatini.  Fascicolo  3.«:  Pitré: 
Una  variante  toscana  del  Petit-Poucet.  —  Sabatini  :  Saggi  di  canti  popoi.  r onta- 
ni, -^  Parìsotti,  Melodie  popol.  romane.  —  Lumini,  Canti  popol.  calabresi  di  car* 
c^rtf.  —  Kòhler,  Das  Rathsehnàrchen  t)on  dem  ermordetett  Geliebten.  —  Gianairdréa, 
Gitwchi  e  canti  fanciulleschi  delle  Marche. 


Antonio  Costantini  gererUe  responsabile. 


LIVORNO,  dalla  Tipografia  Vigo: 


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CONTENUTO  DI  QUESTO  FASCICOLO 


G.  Navone,  Folgore  da  San  Gemi^nano        .       .       .       .       .       .  >    201 

E.  Stengbl,  La  Leggenda  di  San  Portano  .     '  .       .       .       .       .  >    226 

N.  Cah,  SvA  perfetto  debole  romanzo     .......  »    229 


Varietà 


'283 
2Si 
^1 


E.  Teza,  Jletmi  versi  inediti  del  Pateechia    . 
G.  Lbvi,  Una  carta  volgare  picena  dd  sec.  XIl  . 
P.  RàjhAi  Nota  pd  Donai  Proénsal.       .       .       .       . 
E.  MONACI)  Una  redazione  italiana  inedita  dd  Eoinan  de  la  Rose     .  »    23B 

—         La  leggenda  dei  tre  morti  e  dei  tre  vivi     ....  >    243 

Rassegna  Bibliografica 

E.  Monaci,  Foesiè  popolari  religiose  dd  secolo  XI V  pubblicate  per  la 
prima  volta  dal  prof.  G.  Febbabo.  —  BaceoUa  di  sacre  poesie  po^ 
polari  fatte  da  Giovanni  Pellegrini  nel  1446  pubbl.  dal  medesimo.  »    247 

G.  Navone,  Teorica  dei  verbi  irregolari  ddta  linguattaMana  di  L.  Amedeo.  >    249 


Bnllettiiio  bibliografico 


Periodici 


Nolisle 


251 


203 


256 


I prossimi  fascicoli  conterranna  fra  altri  i  seguenti  scritti  : 
Caix  N.,  Del  nome  italiano.  —  Cobnu  J.,  Anciennes  priòres  de  la  Suiaae  romande.  — 
Mbyncke  G.,  I  bagni  di  Pozzuoli:  antioo  volgariizftmento  inedito  in  dialetto  napo- 
letano tratto  dalla  Bibl.  Nazionale  di  NapolL  —  Monaci  E.,  Postille  al  Glossario  della 
Crusca;  Antiche  leggende  italiane.  —  Rajna  P»,  Sul  Lapidario  attribuito  a  Marbodo  ; 
VAUUa  di  Nicolò  da  Casola  bolognese.  —  Vigo  P.,  Le  rime  di  Fra  Guittone  d'Arezzo. 


GIORNALE  DI  FILOLOGIA  ROMANZA.—  Condizioni  della  pubblicazione.  - 

Ogni  volarne  di  16  fogli  di  stampa  (256  pagine  in  8"  gr.)  distribuiti  per  fasci- 
coli, possibilmente  trimestrali,  da  4  a  8  fogli  cadauno,  costa  10  lire  in  Italia,  10  mar- 
chi in  Germania,  1!^  franchi  negli  altri  paesi  del?  estero.  ~  Gli  abbonamenti  si  fanno 
per  volumi  e  si  ricevono  dagli  editori  (E.  Loescher  e  C.°  Roma,  Torino, Firenze ) 
e  da  tutti  i  principali  libraj. 

Per  quanto  s'  attiene  alla  compilazione,  e  per  l'invio  dei  mss,,  cambj  ed  alke 
stampe  T indirizzo  è  al  prof.  E.  Monaci,  Roma,  Via  Giidìo  Komano,  115  ;  per  quanto 
poi  si  riferisce  alla  amministrazione  P  indirizzo  è  al  signor  Ebmanno  Loescheb  e  C." 
Boma,  Via  dd  Qorso,  307, 


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GIORNALE  DI  FILOLOGIA 
ROMANZA 


...  pfttriam  diversiB  gentibnt  nnam. 
BuTiLio  MimAstAN<y. 


N."  3  trUGLIO  18  7  8 


FOLGOEE  DA  SAN  GEMIGNANO 


Folgore  da  San  Qemìgnano  non  è  al  certo  un  poeta  che  si  confonda 
fra  la  turba  di  quelli  antichi  rimatori,  che  ci  annoiano  con  le  solite  can- 
zoni d*  amore  intonate  sopra  un  liuto  scordato  e  sonato  a  strimpello,  o 
che  c'infastidiscono  con  astruserie  incomprensibili,  le  quali  il  più  delle 
volte  non  hanno  di  scienza  altro  che  la  pretensione.  Egli  più  che  in- 
segnare a  vivere,  mostra  come  si  vìva,  ci  fa  abbandonare  ta  corte  e  la 
scuola,  e  ci  mena  per  le  vie  di  diana  e  di  Firenze,  tra  donzelle  e  tra 
fiori,  a  far  conoscenza  col  popolo,  che  dimentica  in  mezzo  alle  feste  le 
gravi  cure  cittadine,  e  £rpesso  si  lascia  cogliere  nelle  cantine  daf  rin- 
tocchi della  campana  che  lo  chiamano  alle  armi  in  difesa  della  minac- 
ciata libertà  della  patria.  Certo  non  è  il  solo  fra  gli  antichi  lirici  a 
cantare  la  vita  nelle  sue  reali  manifestazioni  ;  tna  tanta  vivacità  di  pen- 
siero, tanta  scioltezza  di  frase  e  di  verso  non  sono  comuni  alle  rime  di 
quel  tempo,  e  in  poche  si  trova  la  verità  del  contenuto  unita  a  tanto 
grande  semplicità  della  forma. 

Il  Monti  fa  dire  a  Folgore  che  «  quantunquef  poeta  come  Dio  volle, 
gli  torna  a  gran  gloria  che  nel  fango  de*  suoi  versi  il  padre  Alighieri 
siasi  degnato  di  razzolare  qualche  granello  d'oro  >,  e"  pone  in  nota  un 
verso  di  Folgore  e  uno  di  Dante,  il  raffronto  dei  quali  noù  ha  alcuna 
importanza,  ed  è  per  giunta  assai  problematico  (1).  Ma  V*é  ben  altro 
lì  dentro!  v'è  tutta  una  rivelazione  di  vita,  di  sentimenti,  dì  aspira- 
zioni.   Ogni  sonetto  è  un  quadro  compiuto:  v'è  il  fondo,  il  rilievo,  il 

(1)  Vincenzo  Monti,  I  poeti  dei  pri-  F.  «  Chll»  ragion  sommotte  a  Tolontade.  » 
mi  secoli  della  lingua  italiana,  nelle  sue  ^-  •  Che  1»  ragion  Bomm«ttono  »1  talento. . 
Opere,  Firenze,  Le  Mounier,  1&47,  V^  p.  311  : 

13^ 


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202  G.  NAVONE  [oiornale  di  filologia 

movimeuto;  T  effetto  del  tutto  non  fa  trascurare  le  parti  auche  più  mi- 
nute; il  senso  del  piacere  non  assorbe  l'ideale  dell'arte.  L^ importatiza 
di  questi  sonetti,  sfuggita  agli  altri  storici,  fu  bene  rilevata  dall'illu- 
stre prof.  Adolfo  Bartoli,  il  quale  per  primo  ei  ha  dato  una  storia  ve- 
ramente ciitica  dei  due  primi  secoli  della  nostra  letteratura.  Egli 
ponendo  Folgore  fra  i  poeti  del  secolo  XIII  ne  fa  addirittura  il  rappre- 
sentante della  scuola  poetica  popolare  toscana,  la  quale,  contrariamente 
alla  maniera  convenzionale,  fredda  e  pedantesca  dell'altra,  s'agita,  si 
commuove,  e  rappresenta  la  vita  nelle  sue  varie  passioni  (1).  Ancte  il 
Borgognoni  chiama  le  due  corone  di  Folgore  due  belle  e  fresche  cose,  e 
crede  che  «  depurando  quei  versi,  e  cercando  di  stabilirne  sui  codici 
una  più  giusta  e  probabile  lezione  in  molti  luoghi,  il  lavoro  si  offri- 
rebbe bello  due  tanti  più  »  (2).  Anch'io  aveva  creduto  cosi,  e  mi  sentii 
tentato  a  rivedere  quelle  rime  sui  manoscritti  e  a  cercare  qualche  no- 
tizia del  poeta,  la  quale  ce  ne  facesse  sapere  alcuna  cosa  con  sicurezza, 
non  fosse  altro,  perché  non  si  scrivessero  più  di  lui  cose  tanto  contra- 
dittorie.  Queste  ricerche  m' hanno  condotto  a  dare  una  nuova  edizione 
delle  rime,  e  a  convincermi  ch'era  d'uopo  variare  d'assai  i  giudizi 
espressi  intorno  ad  esse  e  intorno  alla  persona  dell'autore.  Proponen- 
domi d'esporre  tutto  ciò  che  riguarda  la  critica  del  testo  quando,  e 
sarà  prestissimo,  ne  farò  la  nuova  pubblicazione,  mi  limito  ora  a  co- 
municare i  risultati  dell'indagine  storica. 

Gli  antichi  parlano  di  Folgore  assai  poco  e  senza  alcun  fondamento. 
Leone  Allacci  ne  pubblicò  per  primo  i  sonetti  nella  sua  raccolta  (8); 
ma  fra  le  notizie  storiche  e  biografiche  di  vari  autori,  che  dà  nella 
prefazione  alle  rime,  non  dice  ^Icuna  cosa  né  del  tempo  né  della  per- 
sona di  questo  poeta.  Neppure  il  nome  di  Folgore  è  registrato  nella 
storia  del  Tiraboschi,  e  solo  il  Crescimbeni  che  ne  riporta  un  sonetto 
lo  fa  vivere  circa  la  metà  del  secolo  XIII.  Egli  scrive  ne'  suoi  Commeìi- 
tari:  «  Nei  tempi  che  più  fecero  romore  i  guelfi  e  i  ghibellini,  cioè  intorno 
agli  anni  1260,  visse  Folgore  da  San  Gemignano  rimatore  rozzissimo; 
ma  pure  da  onorarsi  perciocché  egli,  se  non  il  primo,  fu  certamente  tra 
i  primi  che  imprendessero  a  far  trattati  in  versi  volgari  »  (4),  Giovanni 
Vincenzo  Coppi  negli  annali  di  San  Gemignano,  trattando  dei  poeti, 
scrive;  <  Nei  medesimi  miei  antichi  testi  a  penna  trovo  altri  poeti  an- 
tichi di  S.  Gimignano,  tra' quali  uno  è  Folgore  che  fiorì  nei  tempi  di 
Ruberto  re  di  Napoli  ».    Ma  poco  appresso  aggiunge  « Folgore 


(1)  Bartoli,   I  primi  due  secoli  delta  (3)  Poeti  antichi  raccolti  ecc.  da  Mons.*' 
letteratura  italiana^  p.  159.  Leone  Allacci,  Napoli,  d'Alecci,  1661,  pa- 

(2)  Borgognoni,  Studi  d'erudizione  e  gine  314-341. 

d'  arte.  Scelta  di  Cur.  Lett.  Disj>ensrt  CLVI,  (4)  Crrscimreni,  Commentari j  Roma,  De 

pag.  20.  Rossi,  1710,  t,  li,  p.  36. 


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EOMAszA,  N.°  3]  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGNANO  203 

ehe  fiorì  nel  1309  eoi  Petrarca  e  Boccaccio  favoriti  dal  ditto  Re  Ru- 
berto »  (1).  Il  Crescimbeni  avverte  la  inesattezza  e  si  fa  a  rettificarla  po- 
nendo in  appendice:  <  Nel  rimanente  G.  V.  Coppi  negli  uomini  illustri 
di  S.  Gemignano  inseriti  dopo  gli  annali  della  stessa  terra  dice  che  Fol- 
gore fiorì  a'  tempi  del  re  Ruberto  ;  ma  poi  concludendo  che  fiorì  insieme 
col  Boccaccio  e  col  Petrarca  nel  1309  fa  vedere  che  egli  non  sapeva  il 
vero  tempo  di  tal  fiorimento  perché  in  quegli  anni  il  Boccaccio  e  il  Pe- 
trarca erano  fanciulli  »  (2).  E  infatti  Petrarca  avrebbe  avuto  cinque 
anni  ;  ma  per  Boccaccio  dovevano  ancora  correrne  cinque  prima  che  ve- 
desse la  luce.  E  però  in  fatto  di  esattezza  il  Crescimbeni  non  si  mostra 
da  più  dell'altro,  e  poteva  almeno  nel  fare  l'emendamento  indicare  la 
fonte  donde  egli  aveva  tratto  la  data  del  1260.  Da  lui  la  riprodussero 
il  Valeriani  (3),  e  il  Nannucci,  il  quale  nella  sua  sistematica  divisione 
decennale,  pone  Folgore  insieme  a  Lemmo  Orlandi,  Pucciarello,  Alber- 
tuccio  della  Viola,  Ottaviano  degli  Ubaldini,  e  Monaldo  da  Soffena,  cioè 
fra  quei  poeti  che  hanno  preceduto  immediatamente  la  nascita  dell' Ali- 
ghieri (4).  Il  Monti  fa  risalire  Folgore  all'anno  1225  dicendolo  <  ante- 
riore a  Dante  di  quarantanni  »  (5);  ma  non  è  dato  sapere  donde  abbia 
attinto  tale  notizia. 

Confusione  molto  maggiore  è  nata  dalla  relazione  che  si  è  supposta 
fra  il  Nicolò  capo  della  Brigata  senese  a  cui  Folgore  dedica  la  prima 
corona  de' sonetti,  ed  il  Nicolò 

che  la  costuma  ricca 
Del  garofano  prima  discoperse, 

nominato  da  Dante  nel  canto  XXIX  à^W  Iiìferno,  Un  codice  Maglia- 
bechiano  posteriore  all'autore  di  circa  un  secolo  prepone  alle  rime  una 
scritta  che  dice  :  «  questi  sono  i  dodici  sonetti  della  brigata  che  si  chiamò 
la  brigata  ispendereccia  da  Siena  »  (6).  Il  Monti  e  il  Nannucci  sospet- 
tano che  vi  sia  rapporto  fra  la  Brigata  di  Dante  e  quella  di  Folgore; 
ma  non  osano  dare  la  cosa  come  sicura.  Il  prof.  Aquarone  non  ne  du- 
bita punto,  e  sostiene  che  in  ambedue  i  luoghi  si  tratti  di  un  medesimo 
Nicolò  (7). 

Al  sig.  Borgognoni  sembra  «  che  due  Salimbeni  portanti  il  nome  di 


(1)  Giov.  Vincenzo  Coppi,  Annali,  me-  (5)  V.  Monti,  Postille  al  contento  del 
ynorieedhuomini  illustri  di  Sangemiyna^  Biagioli  sul  Purgatorio  di  Dante,  C.  XI, 
no,  Firenze,  Biiidi,  1695,  P.  II,  p.  200.  Firenze,  Le  Mounier,  1847,  IV,  395. 

(2)  L.  e,  p.  433.  (6)  Cod.  Magi.  VII,  1066.    Ne  debbo  Tin- 

(3)  Poeti  del  primo  secolo,  Firenze,  lS\8f  dicazione  al  chiar.  prof.  A.  D*  Ancona,  la 
voi.  II,  p.  168.  collazione  al  D.*"  N.  Arnone. 

(4)  Na^'svccì,  Manuale  della  letteratura  (7)  Aqitarone,  Dante  in  Siena,  Siena, 
del  lìvimo   secolo,   Firenze,   Paggi,   1843.  (iati,  1865,  p.  47. 

voi.  II,  p.  250. 


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204  (r.  NAVONE  [giornale  di  filologia 

Nicolò  siano  stati  fra  i  rimatori  di  Siena;  l'uno  quel  Nicolò  capo  della 
brigata  godereccia,  fior  della  città  senese^  come  l'appella  Folgore,  e  a  lui 
forse  si  può  ascrivere  il  sonetto: 

Degente  scudellin  di  diamanti. 

Questo  Nicolò  che  è  ricordato  da  Dante  non  è  a  confondere  con  Nicolò 
de'Salimbeni  detto  il  Muscia  o  Musa  di  Siena,  rimatore  fiorito  dopo 
il  1300,  o  fors'ancb^  nella  prima  metà  del  1400.  Il  Nicolò  della  brigata 
nohile  e  cortese  fisse,  per  lo  meno,  sul  principio  del  «ecolo  XIII  e  non 
può  aver  nulla  a  fare  col  Musa  vissuto,  a  far  poco,  un  buon  secolo  dap- 
poi »  (1).  f  Che  se  poi  d'altra  parte  si  pon  mente  alla  qualità  dello  stile 
di  Folgore,  io  credo  che  più  sa  del  secolo  XIII  non  possa  portarsi  il 
fiorire  dell'autore.  Laonde  volendo  star  dentro  confini  non  troppo 
stretti,  penso  che  l'affermare  la  Brigata  esistita  nella  prima  metà  di 
questo  secolo,  debba  bastare  sinchiS  intorno  ad  essa  non  si  rinvenga  un 
qualche  documento,  che,  come  si  diee,  tagli  la  testa  al  toro  »  (2).  Ma 
altrove  quelle  date  gli  sembrano  troppo  antiche  e  le  sposta  tutte  di 
cinquant' anni.  Folgore  <  non  può  andar  più  su  del  secondo  cinqnaH'- 
tennio  del  secolo  XIII  »  e  U  Brigata  esiste  <  a  cavallo  della  seconda 
metà  »  di  quel  secolo  (3).  Anche  il  Carducci  nella  illustrazione  alle  an- 
tiche rime  volgari  ritrovate  nei  memoriali  dell'archivio  notarile  di  Bo^ 
logna,  ritorna  su  T  argomento  a  proposito  del  sonetto  di  Nicolò  detto 
il  Musa;  e  aggiungendo  all'autorità  del  Cod.  Vat.  3793,  nel  quale  il 
Musa  è  nominato  in  un  sonetto  di  Rustico  di  Filippo,  che  è  dello  scorcio 
del  secolo  XIII,  quella  del  memoriale  bolognese  del  1293,  corregge  il 
Crescimbeni  e  quelli  che  seguendolo  avevano  fatto  vivere  quel  poeta  nel 
secolo  KIV  o  XV,  e  «  restituisce  al  secolo  decimoterzo  un  altro  rima- 
tore »  (4).  Aggiunge  che  «  autore  del  sonetto  non  è  altri  che  quel  Ni- 
colò di  cui  Folgore  da  San  Gemignano  nel  sonetto  proemiale  dei  mesi 
indirizzato  all^.  nobile  brigata  dice: 

In  questo  regno  Nicolò  corono 
PercJ^'egli  h  fior  della  citt^  sanese; 

altri  non  è  che  quel  Nicolò 

che  la  costuma  ricca 
Del  garofano  prima  discoperse, 

come  Dante  ci  volle  far  sapere:  Nicolò  de'Salimbeni  insomma  uno  dei 
capi  più  ameni  della  brigata,  e  uno  dei  più  nobili  gentiluomini  di  Sie- 
na »  (5)..    Comincia  qijel  sonetto: 


(1)  Propugnatore,  I,  303.  rime  del  secolo  XIII  e  XIV,  Imola,  Ga- 

(2)  Ivi,  p.  306.  leali,  1870,  p.  43. 
({»  Stvdi  ecc.,  p.  22.  (5)  Ivi,  p.  46. 
(4)  Carducci,  Studi  intorno  ad  alcune 


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«OMAOTA,  N.o  3]  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGNANO  205 

Dugento  scudellin  de  diamanti 

Di  bella  quadra  lano  voria  che  avesse. 

"Si  domanda  il  Carducci  «  chi  è  questo  lano^  Non  V ano^  come  scrive  il 
Crescimbeni,  non  Vanno;  ma  Lano^  quell'amico  a  cui  Nicolò  fa  i  larghi 
auguri:  e  queir  amico  perché  non  dev'essere  il  povero  Lano  che  nel 
Becondo  girone  del  settimo  cerchio  dell*  Inferno,  e  proprio  nella  selva 
ove  quelli  che  gittarono  il  loro  avere  sono  puniti  d'altra  pena,  ma  a4 
»n  laogo  e  ad  un  tempo  con  quelli  che  gittarono  la  vita:  quel  povero 
Lano  a  cui  Giacomo  d'Andrea  più  debole  corridore  tien  dietro  rampo- 
gnandolo eon  l'amara  rimembranza, 

Lano  sì  non  furo  accorte 

Ije  gambe  tue  alle  giostre  del  Toppo?  »  (1) 

E  aggiunge:  «  che  il  Lano  dell'Inferno  fosse  da  Siena  lo  dicono  icom^ 
meutatori  antichi  tutti  :  che  e*  fosse  della  brigata  spendereccia  lo  dicono 

r autore  delle  Chiose^  l'Ottimo  e  il  Boccaccio Così  mentre  Nicolò 

scampò  alla  rovina  per  rimetter  giudizio  tanto  da  essere  negli  anni  più 
maturi  vicario  in  Lombardia  dell'imperatore  Arrigo  VII,  i  più  degli 
altri  si  condussero  a  chiedere  per  Dio  e  a  morire  negli  ospitali,  e  più 
nobile  morte  incontrò  volenteroso  il  nobile  Lano  e  gloriosamente  perì 
combattendo  i  nemici  del  suo  Comune  ».  E  conchiude:  «  Il  sonetto, 
col  quale  ne'  bei  giorni  della  gioia  spensierata  il  magnifico  genio  di 
Nicolò  Salimbeni  faceva  a  Lano  que'  desiderosi  auguri,  che  andarono  a 
finire  nella  morte  della  Pieve  al  Toppo,  quel  sonetto  dunque  è,  a  parer 
mio,  anche  un  monumento  poetico  della  brigata  godereccia,  di  cui  a 
Siena  non  rimane  altra  memoria  che  la  palazzina  detta  della  Consuma 
a  porta  Caraullia,  e  rimane  memoria  al  mondo  negli  accenni  di  Dan- 
te »  (2).  Così  il  Nicolò  a  cui  Folgore  dedica  i  suoi  sonetti  dopo  essere 
stato  prima  dei  Salimbeni,  vissuto  almeno  sul  principio  del  secolo  XIII, 
diverso  dall'altro  detto  il  Muscia  fiorito  nel  secolo  XIV  o  XV,  dopo  es- 
sere sceso  alla  seconda  metà  di  quel  secolo,  viene  in  ultimo  a  identifi- 
carsi con  il  Musa,  il  quale  è  anch'esso  del  secolo  XIII. 

Ma  se  il  Nicolò  a  cui  Folgore  dedica  i  sonetti  è  quello  stesso  di 
Dante,  Folgore  doveva  diventare  il  poeta  della  brigata,  ed  essere  non 
altri  che  l'Abbagliato,  il  quale  a  quella  il  suo  senno  proferse.  Vera- 
mente il  prof.  Aquarone  attribuisce  i  due  nomi  a  due  diverse  persone, 
e  ciò  perché  appunto  di  due  persone  ha  bisogno  per  completare  coi  nomi 
ricordati  da  Dante  e  da  Folgore^  i  dodici  che  dapprima  doverono  com- 
porre la  brigata,  secondo  il  commento  dell' Imolese  (3).  Ma  ciò  non 
quadra  al  Borgognoni,  il  quale  continua  a  dire  «  che  l'Abbagliato  può 


(1)  Dante,  Inf.,  C.  XIII,  120.       (2)  Carducci,  op.  cit.,  p.  47-49.       (3)  L.  e,  p.  49. 


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206  G.  NAVONE  [oiobnalr  di  filolooia 

ragionevolmente  credersi  che  non  sia  altri  che  Folgore,  checché  in  con- 
trario sembri  all'Aquarone,  imperocché  antiche  memorie  senesi  ripor- 
tano com'esso  fosse  rimatore  e  molte  cose  di  lui  andassero  intorno.  Ora 
attendendo  a  questo  e  considerando  che  non  si  conosce  nulla  che  vada 
sotto  questo  nome,  può  altri  ragionevolmente  suspicare  che  l'Abbagliato 
non  fosse  che  un  soprannome  del  Sangemignauese,  al  quale  per  verità 
s'attaglia  a  capello  e  1* espressione  di  Dante,  e  quanto  al  proposito  con- 
tano i  più  antichi  commentatori  »  (1).  V'è  però  una  difficoltà:  di  Fol- 
gore non  si  hanno  solo  i  sonetti  in  corona,  l'Allacci  ne  ha  cinque  altri 
nei  quali  si  trova  menzione  di  fatti  storici  di  certissima  data  e  del  se- 
colo XIV  inoltrato.  Il  Borgognoni  ne  cita  tre  soli,  dei  quali  uno  è 
ancora  inedito;  ma  essi  sono  vari,  e  faranno  parte,  insieme  agli  altri, 
della  nuova  edizione.  Il  poeta  vi  parla  della  pace  fatta  con  Pisa  da 
re  Roberto,  del  saccheggio  dato  al  tesoro  di  Lucca  da  Uguccione  della 
Faggiuola  (1314),  della  rotta  di  Montecatini  (1315),  e  se  Folgore  poe- 
tava già  per  il  Nicolò  della  brigata  «  il  quale  visse  almeno  sul  prin- 
cipio del  dugento  »  non  poteva  davvero  vivere  dopo  l'anno  1315.  E  però 
il  Bor  gognoni  conchiude  «  che  non  a  Folgore  sibbene  ad  ignoto  rima- 
tore di  tempi  più  bassi  debbano  tribuirsi  questi  tre  sonetti  »  (2).    E 

non  basta.    Il  Benvoglienti  annunziò  ad  Apostolo  Zeno:   « Folcac- 

chiero  Folcacchieri,  che  ne' nostri  libri  di  Biceherna  è  chiamato  l'Ab- 
bagliato di  Ranieri,  e  del  quale  parla  Dante  nel  XXIX  àeW Lìferno^ 
si  trova  che  fu  gonfaloniere  del  popolo  nel  1279  >  ;  e  perciò  «  se  è  vero, 
continua  quegli,  come  a  me  pare  d'avere  a  sufficienza  dimostrato  al* 
trove,  che  l'Abbagliato  di  cui  parla  Dante  non  sia  altri  che  Folgore  da 
San  Gemignano,  ne  viene  di  piana  e  legittima  conseguenza  che  il  sen- 
timentale trovatore  che  diceva  a  Madonna  d'essere  in  sul  morire  per 
lei,  in  altre  occasioni  e  tempi,  mangiando  i  buoni  fagiani  e  bevendo  il 
vino  d'Auxerre,  cantasse  che  la  vita  era  una  gran  bella  cosa,  massime 
quando  la  si  poteva  passar  così  bene  come  facevano  i  sozi  della  costuma 
ricca  »  (3).  —  Povero  Folgore!  se  fosse  stato  di  cera  non  sarebbe  stato 
tanto  cedevole.  Aveva  dovuto  rassegnarsi  a  prendere  la  figura  dell'Ab- 
bagliato e  passare  per  «  saputa  persona  »  ;  ora  deve  rinunziare  persino 
alla  patria  e  diventare  Folcacchiero  de' Folcacchieri  cavaliere  senese! 

Bisogna  convenire  che  la  confusione  nell'  argomento  non  è  pic- 
cola: partendo  da  un  falso  supposto,  e  ragionando  a  suo  modo,  ciascuno 
ve  ne  ha  messo  la  parte  sua.    Vediamo  ora  di  fare  un  po'  di  luce. 

E  prima  di  tutto:  si  sa  bene  di  certo  chi  sia  il  Nicolò  di  cui  parla 
Dante  :  anzi ,  è  proprio  sicuro  che  egli  abbia  a  fare  con  la  brigata  spen- 
dereccia?   E  d'uopo  ricordare  le  parole  del  poeta: 


(1)  Studi  ecc.,  p.  23  (2)  ivi,  p.  26.  (3)  Pvopvgnatove,  X,  p.  36. 


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ROMANZA,  N.'>  3)  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGNANO  207 

Ed  io  dissi  al  poeta:  Or  fu  giammai 

Gente  sì  vana  come  la  sanese? 

Certo  non  la  francesca  sì  d*  assai. 
Onde  1* altro  lebbroso  che  m'intese, 

Rispose  al  detto  mio:  Tranne  Io  Stricca, 

Che  seppe  far  le  temperate  spese; 
E  Niccolò,  che  la  costuma  ricca 

Del  garofano  prima  discoperse 

Neirorto,  dove  tal  seme  s' appicca; 
E  tranne  la  brigata  in  che  disperse 

Caccia  d'Ascian  la  vigna  e  la  gran  fronda, 

E  r  Abbagliato  il  suo  senno  prof  erse. 

S'io  non  m' inganno,  dalle  parole  di  Dante  non  è  dato  conchindere  che 
Nicolò  avesse  alcuna  relazione  con  la  brigata;  ed  anzi  si  dovrebbe  ri- 
tenere il  contrario.  Alla  domanda  che  fa  Dante  a  Virgilio  risponde 
ironicamente  e  non  interrogato  Capocchio,  V  altro  lebbroso^  nominando 
i  senesi  più  celebri  disperditori  dei  propri  beni  in  vanità  e  gozzoviglie, 
e  specialmente  lo  Stricca,  Nicolò,  e  la  brigata  in  cui  si  trassero  a  ro- 
vina Caccia  d'Asciano  e  l'Abbagliato.  Di  questi  due  ultimi  il  poeta 
dice  espressamente  che  appartennero  a  quella  compagnia:  perché  non 
avrebbe  detto  ciò  degli  altri  due,  e  volle  invece  indicarli,  uno  soltanto 
come  scialacquatore,  l'altro  come  ghiottone?  —  Ma  quello  che  non  dice 
Dante  è  detto  dai  commentatori.  —  Tutti  dicono  che  lo  Stricca  fu  della 
brigata;  ma  quanto  a  Nicolò  sono  essi  concordi?  Iacopo  della  Lana  (1), 
l'Ottimo  (2),  il  Landino  (3),  Vellutello  (4)  e  Bernardo  Daniello  (5)  nar- 
rano che  fu  dei  Salimbene  e  che  fece  parte  della  brigata.  Francesco 
da  Buti  (6)  lo  pone  fra  i  soci  di  quella  compagnia  ma  non  dice  chi 
fosse,  finalmente  Pietro  di  Dante  (7),  l'autore  delle  Chiose  (8),  il  po- 
stillatore Cassinese  (9)  e  Benvenuto  da  Imola  (10)  dicono  che  fu  dei 
Bonsignori  di  Siena.  Anche  dell'Abbagliato  i  commentatori  non  ci 
dicono  nulla:   che  anzi  alcuno  crede  che  quella  parola  si  riferisca  a 


(1)  Iacopo  della  Lana,  Comm .  CoIIez.  (6)  Francesco  da  Buti,  Comm,  aopra 
di  op.  ined.  o  rare,  Bologna,  1866,  p.  641.  la  D.  C.  di  D,  Alighieri,  Pisa,  Nlstri,  1858, 

(2)  L'ottimo  Comm.  della  D.  C. ,  Pisa,  I,  753. 

Capurro,  1827,  p.  506.  (7)  Petbi  Allegherii  sup.  Dantùi  ips 

(3)  Cr.  Landino,  Comento  soprala  C,  ^cn.  como^dtam,  Firenze,  Piatti,  1845,  p.  2r)rJ. 
di  Dan^^,  Vinegia  per Octaviano  Scoto,  1484,  (8)  Chiose  sopra  Dante ,  Firenze,  Pia t- 
al  e.  XXIV  iXeWInf.  ti,  1846,  p.  242. 

(4)  Im  Com.  di  D.  Aligieri  con  la  nova  (9)  Il  cod.  Cassinese  della  Div.  Comm. , 
espositione  di  A.  Vellutello,   Vinegia,  Monte  Cassino,  1865,  p.  164. 
Marcolini,  1544;  Inf.  e.  XXIX.  (10)  Benvenuti  Imolenris,  Com.  m  Da»?- 

(5)  Dante  con  r esposizione  di  B.  Da-  tis  Com,  in  Muratori,  Ant.  It.  med.  aev. 
NIELLO  da  Lucctty  Inf.  e.  XXIX,  Venezia,  l,  1132. 

da  Fino,  1568,  p.  193. 


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208  Gf.  navoni!  [tìion^ALE  di  filolooiX 

Caccia  d^ Asciano  e  denoti  come  il  vizio  l'avesse  abbagliato;  altri  crede 
che  l'Abbagliato  prof  erse  ^  cioè  manifestò,  il  suo  poco  senno  in  pro- 
digamente  consumare  come  gli  altri  le  sue  sostanze;  altri  infine  lo 
dice  saputa  persona.  E  ciò  valga  a  mostrare  come  anche  quegli  anti- 
chi ne  sapessero  poco  di  tale  faccenda,  e  come  non  manchino  su  que- 
sto punto  incertezze  e  contradizioni.  Oggi  il  sig/  Curzio  Mazzi  ha  di- 
mostrato con  documenti  che  V  Abbagliato  non  è  altri  che  un  Bartolomeo 
o  Meo  fratello  di  Folcacchiero,  figlio  di  Ranieri  di  Folcacchiero  che 
nell'anno  1277  è  registrato  fra  i  Consiglieri  per  il  Terzo  di  CamoUia, 
e  che  da  quel  tempo  sino  all'anno  1300  si  trova  nominato  ben  quaran- 
totto volte  nei  pubblici  registri  (1),  non  mai  diversamente  da  quel  sopran- 
nome passato  poi  in  nome  di  battesimo  e  conservato  nella  sua  casa 
fino  agli  ultimi  suoi  discendenti  (2)*  Se  adunque  altri  ha  provato  pre- 
ventivamente che  l'Abbagliato  non  è  la  stessa  persona  che  Folcacchiero, 
o  che  Folgore,  resta  solo  a  provare  che  il  Nicolò  della  brigata  nobile  e 
cortese  non  ha  nulla  a  vedere  con  il  Nicolò  della  costuma  ricca,  foss'egli 
o  no  della  brigata  spendereccia  di  Siena.  Per  questo  effetto  non  ho  che 
a  rimandare  il  lettore  all'ultimo  sonetto  o  «  Conclusione  »  della  corona 
dei  mesi-    L'Allacci,  e  dopo  lui  il  Valeriani  leggono  ai  primi  versi: 

«  Sonetto  mio  anda  oMo  divisi 
Colui  cb'e  pien  di  tutta  gentilezza  » 

e  spiegano,  cioè  non  spiegano:  «  Va  dove  pensi  che  sia  colui  ».  Si  leg- 
ga invece  come  legge  indubbiamente  il  codice  Barberino,  unico  per 
quel  sonetto,  e  se  non  più  unico,  sempre  fondamentale,  come  mostrerò 
altrove,  per  tutte  le  rime  del  poeta;  si  legga,  dico, 

«  Sonetto  mi0  a  Nicolò  di  Nisi  » 

e  l'equivoco  sarà  sciolto. 

Ma  non  potrebb* essere  che  questo  Nicolò  di  Nisi,  fosse  sempre  un 
Nicolò  di  Nigi  o  Dionigi  dei  Salimbene,  cioè  a  dire  il  solito  Nicolò  della 
Divina  Commedia?    Vediamo. 

Potrei  dire  innanzi  tutto  che  ne'  molti  alberi  genealogici  che  si  hanno 
della  famiglia  Salimbene,  non  è  mai  nominato  alcun  Nicolò  di  Dionigi. 
Che  il  programma  di  vita  che  svolge  Folgore  nei  sonetti,  per  quanto 
allegro  e  spensierato,  non  contiene  alcuna  di  quelle  pazzie  basse  e  tri- 
viali, che  si  leggono  della  brigata  spendereccia;  che  anzi  v'è  spesso  al- 


ci) Folcacchiero  Folcacchieri  rimatore  pag.  21-26. 
senese  del  secolo  XIII.    Notizie  e  documenti  (2)  Bullettino  della  Società  senese  di  Sto- 

raccolti  da  Curzio  Mazzi—  Per  nozze  Bian-  ria  patria  municipale ,  I,  44. 
chi-Brini,  Firenze,  Succ.  Le  Monnier,  1878, 


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ROMANZA,  N.»  3]  FOLGOEE  DA  SAN  GEMIGNANO  209 

Iasione  a  cortesia  e  a  prodezza  nell'armi,  come  qnando  invita  la  com- 
pagnia nobile  e  cortese 

<  a  rompere  e  fiaccar  bigordi  e  lance  > , 

e  si  compiace  di  chiamare  il  capo  di  essa  «  il  fiore  della  città  sanese  »  e 
«  colui  eh*  è  pien  di  tutta  gentilezza  ».  Cose  tutte  le  quali  converreb- 
bero assai  poco  all'inventore  dei  fagiani  arrosto  coi  garofani,  dei  bra- 
niangeri,  e  delle  frittelle  ubaldine,  se  non  si  volesse  supporre  nel  poeta 
un'  adulazione  spinta  al  ridicolo.  Potrei  dire  ancora  che  tutto  quello 
che  si  legge  nei  sonetti  «  dei  mesi  >,  si  trova  ripetuto  in  quelli  «  della 
settimana  »,  i  quali  sono  diretti  a  Carlo  di  Miser  Guerra  Cavicciiwli, 
nobile  cavaliere  e  valoroso  soldato;  e  che  perciò,  invece  di  tirare  pe' ca- 
pelli la  relazione  di  quelle  rime  alla  brigata  di  Dante,  sarebbe  assai  più 
verosimile  pensare  che  il  cervello  gaio  e  folleggiante  di  Folgore  si  stil- 
lasse per  fare  gli  auguri  più  sfolgoranti  a  persone  che  egli  stimava  dav- 
vero e  amava  di  sincera  amicizia,  ed  alle  quali  dice,  accomiatandosi 
neir inviar  loro  i  sonetti, 

«  Folgore  vostro  da  San  Geminiano 
vi  manda,  dice,  e  fa  quest'ambasciata: 
che  voi  n'andaste  col  suo  core  in  mano  ». 

Potrei  aggiungere  che  a  Nicolò  inventore  della  costuma  ricca  ^  dissi- 
patore d'immensa  fortuna,  e  molto  più  a  Nicolò  Salimbene,  Folgore  non 
avrebbe  potuto  augurare  imperiai  ricchezza  ^  quasi  rimpiangendosi  che 
non  l'avesse,  perché  la  ricchezza  dei  Salimbene  era  poco  meno  che  im- 
periale se  nell'anno  1274  compravano  dal  Comune  di  Siena  tutte  in 
una  volta  le  terre  di  Tentennano,  Montorsaio,  Castiglion  Senese,  Castel 
della  Selva,  e  il  Castellare  di  Montecuccheri  ;  se  al  tempo  di  Montaperti 
prestavano  le  centinaia  di  migliaia  di  fiorini  al  Comune,  nell'anno  1337 
dividevano  fra  sedici  capo-famiglia  circa  a  fiorini  centomila,  e  nell'anno 
seguente  spendevano  altri  centotrentamila  fiorini  in  acquisto  di  stoflFe  di 
seta  e  tessuti  in  oro  «  dal  gran  mercatante  di  Soria  approdato  in  porto 
Ercole  »  (1).    Ma  v'è  qualche  cosa  assai  più  convincente. 

La  lezione  del  codice  Barberino,  per  quanto  sicura  e  autorevole,  do- 
veva essere  confermata  da  qualche  argomento  estrinseco  :  e  a  questo  in- 
tento mi  diedi  a  svolgere  quante  più  carte  potei  d'antiche  memorie  senesi, 
manoscritte  e  stampate,  e  specialmente  elenchi  di  nomi,  per  ritrovare  la 
traccia  di  questo  <  Nicolò  di  Nigi  »  venuto  fuori,  proprio  come  un  fungo, 
non  so  se  a  rischiarare  o  ad  offuscare  le  idee.  Dopo  lunghe  ricerche  ri- 
maste infruttuose  mi  posi  a  svolgere  le  storie  senesi  di  Sigismondo  Ti  ti, 

(1)  Arch,  Stor.  Ital.,  S.  Ili,  T.  IV,  64;     Andrea  Dei,  Cron.  S^<?«.  in  Muratori,  Rer. 
It.  Scr,  XV,  95,  101. 

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210  G.  NAVONE  [oiobnale  t>i  filologia 

che  si  conservano  in  autografo  nella  biblioteca  Chigiana  (1).  Ivi,  al  to- 
mo III,  pagina  297,  trovo  riportato  il  testo  di  una  pace  fatta  nell'anno  1337 
tra  le  famiglie  dei  Salimbeni  e  dei  Tolomei,  le  quali  dopo  molte  inimi- 
cizie, arsioni  e  ruberie  con  che  avevano  funestato  la  città,  ad  deside- 
rataepacis  exordium  devcncrtwt  (2),  E  subito  appresso  un  altro  testo,  nel 
quale  si  legge:  «  Anno  eodem  et  die  in  domo  domini  Nicolai  —  Omnes 

isti  compromissioni  consenserunt Bindtnus  Nion Nfcolaus  Fran- 

ciscus  et  Stephanus  filii  Bindini  Nioii Omnes  isti   de  domo  Tolo- 

maeorum  »  (3). 

Ecco  dunque  un  primo  passo.  Ma  questi  era  un  «  Nicolaus  Bindini 
Nigii  »  e  non  il  «  Nicolaus  Nigii  »  che  io  aveva  bisogno  di  ritrovare; 
e  sebbene  la  designazione  della  paternità  più  antica  ricorra  spessissimo 
invece  di  quella  immediata,  quasi  preludendo  al  cognome,  tuttavia  non 
v'era  argomento  di  sicurezza  completa.  Ma  quando  ritrovai  un  <  Ni- 
colaus Band  ini  »  di  Siena  intervenuto  nelFanno  1309  come  commissa- 
rio alla  conclusione  della  pace  fra  le  città  di  Volterra  e  San  Gemignano, 
e  poscia  potestà  e  capitano  del  Comune  e  del  popolo  di  San  Gemignano 
nelFanno  1325  (4),  allora  mi  apparve  certa  la  identità  di  quelle  designa- 
zioni nella  persona  di  «  Nicolaus  Bandini  Nigii  >  firmato  nella  pace 
dell'anno  1337,  e  ben  conosciuto  da  Folgore  per  avere  avuto  così  alte 
missioni  ed  uffici  nella  patria  di  lui.  Degli  altri  nomi  ricordati  nei  so- 
netti era  affatto  impossibile  di  riscontrare  alcuna  menzione,  poiché  di 
ninno  è  indicata  la  paternità.  Ma  quell'unico  del  quale  è  espressa  con 
precisione  la  paternità  ed  il  casato,  cioè  <  Carlo  di  Messer  Guerra  de'  Ca- 
vicciuoli  »,  si  trova  più  volte  ricordato  nelle  storie  e  nei  documenti.  An- 
ch' egli  fu  uomo  assai  benemerito  del  comune  di  San  Gemignano  poiché 
si  segnalò  come  condottiero  nella  celebre  guerra  contro  a  quei  di  Vol- 
terra.   Narra  il  Lupi  che  fra  gli  altri  capitani 

Cavicciuliades  equitabat  in  agmine  Carlus  (5). 

Fu  questa  guerra  atrocissima;  scoppio  d'un  odio  covato  a  lungo,  e  ina- 
cerbito da  liti  continue  di  confini.    I  Volterrani  ricorsero  per  aiuto  a 


(1)  MS.  Chig.  a,  L,  32.  Geminiano,  Firenze,  Tip.  Galileiana,  1823, 

(2)  V.    Andrea   Dei,    Cronaca    senese^  p.  745,  753. 

an.  1337,  in  Rer.  Ital.  Scr,  XV,  90.  (5)  Lvpi^ Ann aUsGeminianenses^VihNTl. 

(3)  Nella  stessa  Cronaca,  an.  1340,  si  Mattia  Lupi  nacque  in  San  Gemignano  l'an- 
legge:  «  E  nel  detto  tempo  e  del  mese  di  no  1380,  fu  piovano  d'Aiolo  presso  Prato, 
Luglio  si  cominciò  a  fare  il  muro  nuovo  e  canonico  nella  sua  patria,  mori  Tanno  1468. 
del  Comune  a  pi<»i  il  Prato  fuori  della  porta  Scrisse  in  esametri  latini ,  in  dieci  libri,  gli 
a  castello  a  Montone  el  quale  va  per  la  vi-  Annali  di  S.  Gemignano,  dei  quali  d^  copiosi 
gna  di  Bindino  di  Niffi  verso  la  porta  a  estratti  il  Bandini  nel  Supplemento  HI, 
Santo  Vieno  ».  503-518. 

(4)  Pecori,  Storia   della  (erra  di  San 


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ROMANZA,  Ti-  -ì]  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGNAXO  211 

Siena,  a  Lucca,  a  Firenze,  armarono  duemila  uomini  del  loro  contado, 
comprarono  cavalli,  assoldarono  le  masnade  di  Nello  e  Dino  de' Pan- 
noechiesehi,  elessero  a  capitano  supremo  Gherardo  della  Gfaerardesca, 
fermarono  il  proposito  di  abbattere  la  terra  di  San  Gemignano.  Quei 
di  San  Gemignano  si  apparecchiarono  con  pari  ardore  alla  guerra  con- 
tro i  perfidi  e  nemici  Volterrani.  Elessero  per  sei  mesi  dodici  uflSziali 
della  guerra,  contrassero  un  prestito  di  ventimila  fiorini  d'oro,  stipen- 
diarono capitani  e  conestabili  con  le  loro  masnade,  giurando  di  combat- 
tere sino  air  ultimo  in  onore  dello  stato  e  a  distruzione  e  morte  fiìiale  di 
tutti  i  Volterrani.  Aveva  durato  tre  mesi  questa  guerra  per  ambo  i  Co- 
muni rovinosissima,  quando  le  repubbliche  di  Siena,  Lucca  e  Firenze 
s' interposero  per  la  pace.  Fu  accettata  la  loro  mediazione  ;  ma  più 
d'un  tentativo  fallì,  e  finalmente  ci  vollero  le  minaccie  perché  i  com- 
missari di  quelle  tre  città  potessero  pronunziare  un  lodo  solenne  che 
stabiliva  pace  e  concordia  fra  i  due  Comuni.  Questo  lodo  fu  dei  14 
aprile  1309,  quello  a  cui  intervenne  come  commissario  di  Siena  Nicolò  di 
Bandino.  Ricordi  ora  il  lettore  che  Carlo  di  Miser  Guerra  Cavicciuoli 
è  precisamente  quel  donzello  saggio^  cortese^  bene  ammaestrato,.,^  valente^ 
ardito  e  gagliardo  a  cui  Folgore  dedica  i  sonetti  della  settimana,  e  du- 
biti, se  gli  è  possibile,  che  il  rapporto  che  è  nelle  due  dediche  non  sia 
pure  fra  le  due  persone  che  ne  sono  l'oggetto,  e  che  i  punti  di  contatto 
non  siano  la  guerra  del  1308,  e  la  pace  del  1309. 

Siffatte  brigate  furono  assai  numerose,  né  solo  gli  scapestrati  v'ap- 
partenevano: erano  invece  considerate  come  una  manifestazione  della 
prosperità  del  Comune  e  della  splendidezza  dei  ricchi  e  dei  nobili.  <  Ne- 
gli anni  di  Cristo  1283  —  scrive  Giovanni  Villani  —  del  mese  di  Giu- 
gno per  la  festa  di  S.  Giovanni  essendo  la  città  di  Firenze  in  buono  e 
pacifico  stato,  et  in  grande  tranquillo  e  utile  per  li  mercatanti  et  ar- 
tefici et  massimamente  per  li  Guelfi  che  signoreggiavano  la  terra,  si 
fece  nella  contrada  di  S.  Felicita  oltr'Arno,  onde  furono  a  capo  i  Rossi 
con  loro  vicinanza,  una  nobile  et  ricca  compagnia  vestiti  tutti  di  robe 
bianche  con  uno  Signore  detto  dello  Amore.  Per  la  qual  brigata  non 
s'intendea  se  non  in  giuochi  et  in  sollazzi  et  balli  di  donne  et  di  ca- 
valieri, popolani,  et  altra  gente  assai  honorevole,  andando  per  la  Città 
con  trombe  et  molti  stromenti,  stando  in  gioia  et  aìlegrezza  a  gran 
conviti  di  cene  et  desinari.  La  quale  corte  durò  presso  a  tre  mesi  et 
fu  la  più  nobile  et  nominata  che  mai  si  facesse  in  Firenze  et  in  Toscana. 
Alla  quale  corte  vennero  di  diverse  parti  et  paesi  molti  e  gentili  huo- 
mini  di  corte  et  giuocolari,  et  tutti  furono  ricevuti  et  proveduti  hono- 
revolmente.  Et  nota  che  ne'  detti  tempi  la  città  di  Firenze  co'  suoi 
cittadini  fu  nel  più  bello  stato  che  mai  fosse,  et  durò  infino  li  anni  di 
Cristo  1289  allora  che  si  cominciò  la  divisione  tra  il  popolo  et  grandi, 
et  appresso  tra  Bianchi  et  Neri.    Et  havea  nei  detti  tempi  in  Firenze 


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212  G,  NAVONE  [(jiornale  di  pu^olocia 

da  CCC  Cavalieri  di  corredo,  et  molte  brigate  di  Cavalieri  et  di  don- 
zelli, che  sera  et  mattina  riccamente  metteano  tavola  con  molti  huo- 
mini  di  corte,  donando  per  le  Pasqne  molte  robe  vaie:  onde  di  Lom- 
bardia et  di  tutta  Italia  vi  traevano  baffoni  et  bigerai  et  huomini  di 
corte  a  Firenze,  et  tutti  erano  veduti  allegramente,  et  non  passava  per 
Firenze  nullo  forestiere  nomo  di  rinomio  et  da  ricevere  honore,  che  a 
gara  non  fosse  invitato  et  ritenuto  dalle  dette  brigate,  et  accompagnato 
a  piede  et  a  cavallo  per  la  città  et  per  lo  contado  come  si  conviene  »  (1). 
Vero  è  che  in  appresso  le  cose  cambiarono,  entrarono  in  città  le  parti 
e  i  disordini,  diminuirono  i  guadagni,  le  imposte  crebbero;  ma  le  pub- 
bliche gravezze  non  ridussero  il  fasto  e  la  grandezza  della  vita  <  e  cia- 
scheduno peccava  in  disordinate  spese,  onde  erano  tenuti  matti  >  (2). 
Le  brigate  spenderecce  non  si  disciolsero,  anzi  chi  meno  aveva  cercava 
di  coprire  la  miseria  ostentando  ricchezza,  e  Antonio  Pucci  non  sa  fre- 
nare lo  scherno  quando  ci  descrive  questi  vani  e  spensierati  i  quali 

si  ragunano  insieme 

e  chiamano  un  Signor  di  tutti  quanti 

ned  allor  paion  con  le  borse  sceme 

£  poi  il  dì  di  calen  di  gennaio 

vanno  in  camicia  con  allegra  fronte 

curando  poco  scirocco  o  rovaio 

E  dove  avean  gli  tordi  e  la  pernice 

la  vitella  e  i  capponi  lessi  e  arrosto 

hanno  per  cambio  il  porro  e  la  radice. 
E  quel  eh*  era  Signor  si  vede  sposto 

e  lasciato  il  reame  e  la  bacchetta, 

e  'l  suo  vestire  e  poi  d' un  piccol  cost^  (3). 

Ninno  potrebbe  dire  che  la  brigata  di  Folgore  fosse  proprio  di  questa 
fatta;  ma  i  sonetti,  senza  pure  indurre  a  questa  conchiusione,  restano 
assai  bene  spiegati  dal  raffronto  con  il  capitolo  del  Pucci,  e  insieme  a 
questo  ci  dipingono  mirabilmente  la  vita  e  i  costumi  del  tempo.  Un'al- 
tra indicazione  preziosa  per  la  storia  di  questi  sonetti  ci  offre  una  sen- 
tenza dell'Imperatore  Arrigo  VII,  data  in  Poggi bonsi  l'anno  1313  con- 
tro a' ribelli  di  Toscana.  Si  legge  in  fine  «  Nomina  vero  illorum  qui 
de  praedictis  pubblice  inculpantur,  et  centra  quos  processum  est  et  re- 
perti sunt  culpabiles  de  praedictis  sunt  infrascripti.  In  primis  de  civi- 
tate  Florentiae.  De  sextu  Ultrarni ...  De  sextu  Burgi ...  De  sextu  portae 
S.  Petri...  «  Cantinus  et  Carolus  quondam  Guerrae  de  Cavicciulis  de  Flo- 
rentia  »  (4).    Se  dunque  i  sonetti  di  Folgore  sono  posteriori  all'anno  1309, 


(1)  G.  Villani,  Cron.  VII,  88.  {4)  Lamì^  Hist.  Sicid.  Laur.  Boììif^contr ti 

(2)  L.  e,  XI,  m.  in  Del.  Krvd,  Firenze,  Viviani,  1740,  Vili, 
(I^)  A.  Pucci,  Le  proprietà  di  Mercato  229.  —  Sanct.  Eccl.  Fior.  Monumenta,  Fi- 

Vecchio,  renze,  Tip.  d.  Annunziala,  1758,  1, 127. 


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EOMANZA,  N.»»  3]  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGXANO  "        213 

vi  si  parla  di  «  Guerra  Cavicciuoli  »  come  di  persona  vivente,  e  questi 
era  morto  nell'anno  1313,  la  data  di  quelli  è  fissata  entro  queste  due 
date,  e  con  ciò  sparisce  ogni  anacronismo  ed  il  bisogno  di  negare  a 
Folgore  la  paternità  di  alcuno  dei  sonetti  che  i  codici  hanno  con  il 
suo  nome. 

Cinque  di  questi,  frammento  di  un'altra  corona  che  ne  conte- 
neva diciassette,  ci  furono  conservati  in  uu  foglio  di  un  ms.  Riccar- 
diano,  e  descrivono  l'armamento  di  un  cavaliere:  non  si  sa  a  chi  siano 
diretti,  ma  T occasione  era  ovvia  a  quei  tempi.  Anch'essi  hanno  im- 
portanza specialissima  perché  offrono  esempio  di  un  fatto  che  è  distin- 
tivo della  nostra  letteratura.  Non  è  a  credere  che  l'armamento  di  un 
cavaliere  avesse  sempre,  e  meno  che  altrove  in  Italia,  la  nota  di  un  av- 
venimento epico,  che  anzi  nei  romanzi  di  cavalleria  non  se  ne  trova, 
ch'io  sappia,  altra  narrazione  che  nel  e  Lancilot  du  Lac  »  e  in  e  Per- 
ceforest  ».  Ma  sia  pure  che  anche  contro  regola  debba  ritenersi  più 
soggettivo  che  oggettivo  il  fondo  epico  che  è  nell'Orfana  de  chevalerie 
di  Ugo  di  Tabarye,  resta  sempre  vero  che  lo  stesso  tema  die'  luogo  in 
Francia  ad  una  esagerazione  epica,  e  finì  in  Toscana  in  una  lirica  alle- 
goria. Decisamente  l' epopea  non  attecchì  nel  suolo  italiano  :  vi  fu  im- 
portata quand'era  già  vecchia  e  sfiorita,  vegetò  poveramente  come  una 
pianta  esotica,  e  fu  vero  miracolo  del  genio  se  qualche  ultimo  frutto, 
nato  già  e  ingrandito  fuori,  maturò  al  nostro  sole.  In  un  paese  libero 
retto  a  comune,  ove  s'erano  dimenticati  persino  i  nomi  di  barone  e  di 
feudo,  ove  un  avanzo  glorioso  di  sapientissimi  ordinamenti  sottraeva  alla 
ragione  del  più  forte  la  famiglia  e  la  proprietà,  ove  non  erano  privilegi 
di  casta  e  gli  stessi  nobili  e  i  cavalieri  si  ascrivevano  per  onore  ad 
un'arte,  e  le  bandiere  della  città  e  del  contado  sventolavano  alle  prime 
aure  di  battaglia  raccolte  intorno  al  carroccio,  non  restava  alcun  com- 
pito alla  cavalleria,  e  il  popolo  poteva  considerare  l'armamento  di  un 
nuovo  cavaliere  solo  come  un'occasione  di  festa.  Il  sentimento  fu  quasi 
sempre  lirico,  e  giuuse  sino  a  trasformare  in  lirica  l'epopea.  I  sonetti 
di  Folgore  vanno  posti  accanto  alla  parafrasi  lirica,  pure  in  sonetti, 
nella  quale  andò  a  finire  in  Italia  il  Roman  de  la  Uose  (1). 

Ma  se  è  dato  finalmente  di  avere  qualche  notizia  esatta  intorno  alle 
rime,  mi  duole  di  non  poterne  dare  alcuna  intorno  al  poeta.  Non  ho 
trovato  di  lui  alcuna  menzione,  e  solo  una  volta  m'è  occorso  di  leggere  il 
nome  di  e  Folgore  »  in  un  documento  senese  (2);  tuttavia  ciò  pruova  che 
il  nome  era  in  uso  a  quei  tempi.  Anche  il  Pecori,  diligentissimo  rac- 
coglitore delle  memorie  del  comune  di  San  Gemignano,  ha  dovuto  scri- 


(1)  È  conservata  in  un  ms.   di  Montpel-  (2)  «  Da  Prisciano  p^p  lo  mulino  di  Fol- 

liep:    ne  daranno  T edizione   i  proff.  D'An-      gore  >.   Ricordi  di  una  famiglia  Sanese 
cooa  e  Monaci.  weW  Arch.  iStor.  It.  App.  2,72. 


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G,   NAVONE  {OIOBNALG   DI   FILOLOaiA 

e:  <  Nulla  ci  è  noto  di  sua  famiglia,  nulla  della  sua  vita  letteraria 
ittadina.  In  un  registro  statistico  (Fumante  del  1332  di  lett.  £  n.  10 
sh.  di  Caneell.)  trovansi  descritti  gli  eredi  di  messer  Folgore;  lo  che 
ntre  nel  titolo  di  messere  ce  lo  rivela  di  nobile  condizione,  ci  for- 
ce altresì  una  prova  ond' assegnare  circa  a  quel  tempo  T epoca  della 
i  morte  >  (1).  Ma  se  fu  nobile  dove  certo  esser  povero  :  ce  ne  fa 
e  egli  stesso  coi  lamenti  che  muove  contro  ai  ricchi  avari,  ai  quali 
fortuna  fa  dimenticare  che  hanno  avuta  col  povero  comune  l'origine. 

Cortesia  cortesia  cortesia  chiamo 

e  da  nessuna  parte  mi  risponde, 

e  chi  la  dee  mostrar  sì  la  nasconde, 

e  perciò  a  cai  bisogna  vive  gramo. 
Avarizia  le  genti  ha  prese  alPamo 

ed  ogni  grazia  distrugge  e  confonde. 

però  se  io  mi  doglio  io  so  ben  onde, 

di  voi  possenti  a  Dio  me  ne  richiamo. 


Tutti  siam  nati  di  Adam  e  di  Eva: 
potendo  non  donate  e  non  spendete, 
mala  ha  natura  chi  tai  figli  alleva. 


Ha  nobile  animo,  aperto  all'amicizia,  e  ad  alti  sentimenti:  insegna 
commettere  la  volontà  alla  ragione  e  a 

Seguire  pregio  e  fugger  vanitade. 

E  guelfo  come  il  suo  comune:  ma  si  duole  della  divisione  fra'cit- 
lini,  e  ripete  da  quella  e  dai  tradimenti  il  trionfo  dei  nemici. 

Così  faceste  voi  o  guerra  o  pace, 

Guelfi,  come  siete  in  divisione; 

fra  voi  regna  il  pugliese  e  il  gauellone 

e  ciascun  soffia  nel  foco  penace. 
Non  vi  ricorda  di  Montecatini 

come  le  mogli  e  le  madri  dolenti 

fan  vedovaggio  per  li  ghibellini! 
E  babbi,  frati,  figliuoli  e  parenti 

e  chi  amasse  bene  i  suoi  vicini 

combatterebbe  ancora  a  stretti  denti. 

Ma  i  guelfi  non  s'uniscono,  e  i  ghibellini  trionfano.  Folgore  non  sa 
a  contenersi,  se  la  prende  addirittura  con  Dio,  e  lo  bestemmia.  È 
lello  un  tremendo  sonetto: 

lo  non  ti  lodo  Dio  e  non  ti  adoro, 
e  non  ti  prego  e  non  ti  ringrazio 


(1)  Pecoei,  Storia  di  San  Gemignano ,  Firenze,  Ti]).  Galileiana,  p.  484. 


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RoifAjJZA,  N.o  3]  FOLGORE  DA  SAN  GEMIGNANO  215 

perchè  tu  bai  messo  i  guelfi  a  tal  martoro 
che  i  ghibellini  ne  fan  befie  e  strazio. 

È  dunque  vago  poeta,  e  caldo  cittadino;  gaio  sino  alla  follìa,  e 
animoso  sino  alla  fierezza  ;  canta  all'  amicizia  e  alla  patria.  È  una 
figura  che  spicca  e  che  merita  studio;  ma  per  ora  basti  di  aver  mo- 
strato che  egli  non  è  l'Abbagliato,  né  Folcaccbiero  de' Folcacchieri 
di  Siena,  ma  nient' altro  che  Folgore  da  San  Gemignano,  nato  non  si 
sa  quando,  morto  fra  il  1315  e  il  1331.  Che  la  brigata  a  cui  dedica  i 
sonetti  dei  mesi  non  è  quella  che  nomina  Dante;  che  il  Nicolò  capo  della 
brigata  di  Folgore,  è  un  Nicolò  di  Nigi,  il  quale  non  ha  nulla  a  vedere 
con  l'inventore  della  costuma  ricca,  sia  chi  si  voglia;  che  tutte  le  rime 
di  Folgore  si  riportano  al  principio  del  secolo  XIV,  e  che  perciò  seb- 
bene egli  possa  essere  nato  prima,  ha  fiorito  come  poeta  nella  prima 
metà  di  quel  secolo.  Tutto  ciò  mi  sembra  definitivamente  accertato  per 
la  storia  della  nostra  antica  letteratura. 

Giulio  Navone. 


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216  E.  STENGEL  [oiobnalk  di  filologia 

LA  LEGGENDA  DI  SAN  PORCAEIO 

SECONDO  IL  CODICE   1102  DELLA  BIBLIOTECA  MUNICIPALE   DI   LYON: 

rifacimento  del  Libro  quinto  della  Vida  de  Sani  Honorat 
di  Rajmon  Feraut. 


L'edizione  della  Vida  de  Sani  Honorat  di  Raymon  Feraut  coniparsa 
non  sono  tre  anni  a  cura  del  sig.  A.  L.  Sardou  e  per  incarico  della  Société 
des  lettres,  sciences  et  arts  des  Aìpes  Maritimes,  se  restò  bene  addietro 
alle  legittime  pretese  della  odierna  critica  filologica  (  cfr.  Tobler ,  Jenaer 
Lit.  Zeit.  1876,  art.  123  e  P.  Meyer,  Bomania^  V,  237  ss.),  pure  soddis- 
fece ad  un  desiderio  degli  studiosi,  quello  di  poter  conoscere  e  giudi- 
care nel  suo  complesso  questo  monumento  letterario. 

Ed  in  fatto  il  rapporto  del  poema  di  R.  Feraut  colla  sua  fonte  prin- 
cipale e  specialmente  colla  Vita  latina  comparsa  in  Venezia  nel  1501  fu 
di  già  materia  di  parecchie  discussioni.  P.  Meyer  nel  succitato  articolo 
della  Romania  e  il  sig.  S.  Hosch  in  una  dissertazione  per  laurea,  pub- 
blicata in  Berlino  (  Untersuchungcn  iiber  die  Quellen  und  das  Vcrliàltniss 
der  provengaliscJien  und  dcr  lateinisclien  Lehensheschreihung  des  ìd,  Hono- 
ratus,  Berlin,  1877)  hanno  esposto  su  ciò  delle  vedute  abbastanza  op- 
poste fra  loro.  In  occasione  di  una  rassegna  del  lavoro  del  Hosch  (ved. 
nella  Zeitschrift  fur  Eom,  Philologie,  fase.  I  del  voi.  II)  io  concordemente 
al  Meyer  mi  espressi  in  questo  senso,  che  Feraut  cioè  e  la  Vita  latina 
avessero  attinto  ambedue  ad  una  comune  fonte  principale,  e  che  questa 
sia  poi  passata  letteralmente  nella  Vita  latina,  non  senza  però  alcune 
abbreviazioni  e  raccorcimenti  che  si  permise  Fautore  della  stessa,  ed 
alcune  interpolazioni  tolte  da  scrittori  latini.  Voglio  qui  anche  far  os- 
servare che  R.  Feraut  prese  pure  il  più  del  suo  Libro  V  da  una  rela- 
zione che  incorporata  nella  sua  fonte  principale  avea  per  oggetto  il  mar- 
tirio e  la  morte  di  S.  Porcario,  e  faceva  avvenir  questa  a  tempo  di 
Carlo  Martello,  ponendola  pure  a  carico  di  Genserico  re  de'  Vandali. 

R.  Feraut  ci  dà  questo  nome,  come  pure  la  vita  latina  (cfr.  appresso 
nelle  varie  lezioni  I,  59  ss.).  Hosch  quindi  a  pag.  55  riguarda  a  torto 
il  nome  dì  Genserico  come  aggiunta  del  testo  latino.  La  Vita  del  1501 
anche  qui  ha  avuto  davanti  a  sé,  al  parer  mio,  la  fonte  principale  di 
R.  Feraut,  oltre  al  discorso  di  S.  Cesario,  senza  però  copiarla  in  esteso. 
Questa  del  resto  ci  è  conservata  abbastanza  fedelmente  nel  Martyrium 


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i^oxfAxzA,  N.°  3]         La  leggenda  di  SA^  rORCABIO 


Sancii  Forcarli  stampato  negli  Ada  SS.  Aug.  Il,  737.  Ma  veTosimirniente 
in  seguito  a  considerazioni  critiche,  qui  fu  soppresso  il  nome  di  Gense- 
rico. Hosch  non  ricorda  punto  il  Martyriufn^  il  quale  concorda  esat- 
tamente con  R.  Feraut  appunto  così  come  in  altri  luoghi  la  Vita  del  1501. 
Egli  è  chiaro  adunque  che  nella  fonte  di  R.  Feraut  trovavasi  una  rela- 
zione la  quale,  in  parte,  concordava  alla  lettera  col  Martyrium.  Si  com- 
parino i  seguenti  passi  del  Martyrium,  ristampati  qui  sotto  per  comodo- 
dei  lettore  (I),  col  cap.  V  e  VI  del  testo  che  diamo  appresso. 


(1)  Ada  SS.  Aug.  Ili  p,  "^SS  B:  «  qùi- 
bus  dicit  S.  Porcarius:  Occultemus  veuera- 
biles  reliquias,  ne  a  sacrilegiscontigantur: 
quod  cum  factum  esset,  ilerum  dìxit  eis: 
Sunt  inter  nos,  ut  noQ  ignoratis,  sexdecim 
pueri  et  trigmta  sex  adalescentes  qui  si 
ducti  fuerint  a  profanis,  dubito  ne  blanditiis 
sire  terroribus  seducantui^,  quos  consulo 
mittamus  ad  Italiam,  ut  cessante  hac  furenti 
calamitate  ^edeant,  et  reaedifìcent  hoc  sa- 
cnim  m'onastérium  Lerinense,  et  reveren- 
ter  colant  occultatas  reliquias.  Quod  cum 
ab  omnibus  approbaretur,  iterum  exhortans 
dixit  eis:  Examinate  vos  seduk»,  et  sì  quem- 
quam  ex  vobis  cognoveritis  formidare  mar- 
tyrium, cedat  cum  puei^is,  he  defìciat  in 
extremis,  grandis  nimiruzn  est  càrnis  ani->- 
maeque  distinctio. 

4.  Cumque  se  scrutassent  biduo  dilìgen- 
ter,  reperti  sunt  quingenti  et  quinque,  qui 
solido  animo  ad  suscipiendum  martyrium 
prò  Christi  nomine  sunt  accincti.  Qui  se 
crebrìs  orationibus  praeparantes,  ferventi 
animo  ad  martyrium  an^elabaàt.  Difmautem 
Sacramentis  ecclesiasticìs  se  munirent,  co- 
gnoverunt  duos  ex  ipsis  juvenes  plurimum 
formidare;  quorum  unus  Columbus  et  alter 
Eleutherius  vocabatur;  qui  dìscedentes  a 
caeterìs,  in  quodam  antro  prope  Httus  in- 
fiulae  latuerunt.  Carpens  itaque  gens  pro- 
fana littora  insulae  Lerinensis ,  frendet  et 
murmurat  contra  Sanctos 

5.  Columbus  vero  et  Eleutherius,  qui,  uC 
supra  diximus,  in  scopulòsa  caverna  se 
absconderant,  videnles  per  foramen  obli- 
quum  sociorum  animas  in  aere  sicutstellas 
fulgeutes,  cum  angelis  gloriantes,  et  sese 
invicene  praestolantes,  dixit  Eleutherio  Co- 
lumbus: Nonne  vides  cum  quanta  gloria  fra- 
«res  nostri,  qui  modo  passi  sunt,  nos  expe- 


ctàntes  asccndunt  in  c'aeluin?  Eamus  ergo' 
et  nos,  ut  cum  eisdem  laureati  conscenda^ 
mus  ad  Dominum.  Eleutherio  exire  relu- 
ctante  prosiliit  ah  antro  Columbus,  qui  il- 
lieo martyrum  catervae  associandus  detrun- 

catuff  est  

6 Deìnde  sacram  ittsulam,  custo- 

dem  venerabiiium  taleii-torum ,  solitariam 
non  sine  lacrymis,  ut  credi  potest,  rclin- 
quentes,  Italiam  ad  socios  requirendos  pe- 
tierunt:  ubi  Romae  Summo  Pontitìci  signi- 
ficarùnt  sanctorum  Monac&oruni  necem , 
et  coenobii  Lerinensis  ruióam.  Passi  sunt 
au(2>.  739)1em  sancti  isti  Martyres  circaan- 
nos  Domini  triginta  supra  septingentos,  pri- 
die  Non.  Aug.  (Suspicerne  {sic)  prò  Idus  huc 
irrepsisse  Nonas).  Evolutis  autem  post  hoc 
exitium  aliquibus  annoi^um  curriculis ,  et  per 
potentiàm  Francorum  expulsis  a  provincia 
barbaris,  viri  Domini  Eleutherius  eversum 
Lerinense  monasferium  cum  caeteris  mona- 
chis  ab  Italia  venienCibusprocuraruntresfau- 
rari  et  in  ][)ristinum  statùm  redigi.  Véne- 
remur  ergo  et  nos  hodie,  diléctissimi,  hos 
Martyres  patres  nostros,  qui  ad  hanc  glo- 
rìam  ìejuùiis,  vigiliìs  et  orationibus,  sacri- 
ficioque  salutari  sacram  insulam  extule- 
runt  et  sanctiflcarunt  ut  de  ea  dici  possit: 
0  quam  gloriosa  dieta  sunt  de  te,  civitas 
Dei!  Et  sanctis  operibus  fiequendo  Domi- 
num celebrem  per  totum  mundum ,  ubi  Chri- 
stiana religio  colitur,  reddiderunt;  celebre- 
mùs  hunc  diem  pufo  corde,  in  hymnis  et  voci- 
bus  jucunditatis,deprecando  Dominum  ut  suf- 
fragantibus  nobis  meriiis  ipsorum,  praemia 
aeterna  in  eorum  societate  feliciter  conse- 
quamur.  —  Per  Dominum  nostrum  Jesum 
Christum  qui  vivit  et  regnat  in  secula  secu- 
lorura.    Amen  ». 


14* 


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218  E.  STENGEL  («ion?iALE  »i  filologia 

Che  anche  per  riguardo  alla  metrica  la  Vida  de  S,  Ilonarat  sia  im- 
portante, fu  del  pari  più  volte  dimostrato.  II  poeta  stesso  si  gloria  dei 
suoi  Vers  consonante  e  simples  Rimps  de  manta  maniera.  Cosa  avesse 
voluto  dire  con  ciò,  a  me  per  lo  meno  è  oscuro:  ed  è  troppo  guasto  il 
testo  a  stampa  (36®^®),  perché  si  meritasse  di  riscontrare  quelle  parole 
ed  i  vers  plans  (i^)  colle  rims  consonans  e  sonans  delle  Legs  d'amors. 
La  Vida  consiste  per  la  maggior  parte  di  dodecasillabi  con  rime  ac- 
coppiate, cosa  per  sé  stessa  abbastanza  singolare,  perché  il  verso 
usato  di  solito  nella  sacra  leggenda  è  V  ottonario ,  mentre  general- 
mente i  dodecasillabi  con  rime  accoppiate  non  occorrono  nel  provenzale. 
Il  poema  di  R.  Feraut  accenna  per  questo  riguardo  alla  Vida  de  san 
TrophemOj  la  quale  gli  si  rassomiglia  pure  nel  contenuto  (1)  ed  è  formata  di 
decasillabi  con  rime  accoppiate.  R.  Peraut  ha  pure  usato,  oltre  ai  dode- 
casillabi con  rime  accoppiate,  vari  altri  metri,  come  strofe  di  3  dodeca- 
sillabi (Capitolo  2),  di  3  (risp.  2)  dodecasillabi  con  uno  sciolto  (risp.  con 
rime  accoppiate)  senario  (Cap.  1,  5),  di  un  ottonario  mascolino  e  di  un 
senario  femminile  con  rime  incatenate  (Cap.  17),  di  senari  con  rime  in- 
catenate (Cap.  1),  o  con  rime  accoppiate  (Capo  7,  11,  12,  39,  40,  41, 
82).  Rispetto  al  numero,  preponderano  gli  ottonari  con  rime  accop- 
piate (Capo  3,  4,  6,  21,  22,  32,  49-51).  Nel  Libro  III  e  nel  IV  si 
alternano  regolarmente  gli  ottonari  coi  dodecasillabi,  e  fra  i  Capi  62,  63, 
103,  104,  118,  119  i  dodecasillabi  mancano.  11  Libro  quinto  consiste 
di  4  Capitoli  di  dodecasillabi  (1,  2,  4,  5)  e  di  tre  di  ottonari.  Merita 
ancora  osservazione  il  Tostetnps  che  sta  fuori  del  verso  e  che  incomin- 
ciando dal  Capo  61,  chiude  regolarmente  i  Capitoli.  Prima  lo  si  incon- 
tra soltanto  alla  chiusa  dei  Capi  16,  22^  51  e  anche  qui  coincide  con  un 
mutamento  del  metro.  Il  poeta  si  esalta  perciò  discretamente  riguardo 
alla  forma  poetica  dell'opera  sua;  ma,  se  la  voleva  vedere  difesa  dalle 
mutazioni  e  dai  rimaneggiamenti  (cfr.  pag.  36,  208  a),  il  suo  desiderio 
fu  vano,  almeno  per  ciò  che  riguarda  il  Libro  V.  Di  questo  esiste  un 
rimpasto  che  finora  restò  inosservato,  e  nel  quale  i  dodecasillabi  sono 
quasi  tutti  sciolti  in  senari  con  rime  incatenate,  metro  questo,  che  R. 
Feraut  usò  in  pochi  versi  soltanto  ed  anche  là  irr^olarmente. 


(1)  Il  Bartsch  ne  pubblicò'  il  principio  Entro  a-cal  ad  Arie  decendiam  Car  plus 
nella  sua  Crestomazia  provenzale  secondo  cascus  decendre  non  podian.  I  fogli  1-37 
il  solo  manoscritto  a  lui  noto.  Un  altro  testo  del  raanoscritio  contengono  un  poema  pro- 
assai guasto  trovasi  nel  codice  I.  G.  30  delia  venzale  sulla  fanciullezza  di  Cristo,  su  cui 
Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  del  seco-  io  chiamai  T attenzione  nelle  mie  Mitthei- 
lo  XVII,  fogli  39-49  (♦).  Consta  di  272  hmgen  aus  Turiner  fr.  Hss.  nota  21,  12. 
versi.  La  lacuna  del  codice  Parigino  se-  Nei  fogli  38  e  39  si  contengono  i  12  Venerdì 
condo  la  Cresi.  389,  16,  si  può  colmare  con  di  digiuno  come  pure  i  32  Jor  perilhos 
l'ajuto  del   codice  Napoletano,  foglio  41:  dell'anno. 

(*)  [Sarà  pubblicato  iu  uno  dei  prosBimi  fascicoli.  E.  M,] 


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ROMANZA,  N  «  5}         LA  LEGGENDA  DI  SAN  POKCARIO  219 

Essendomi  fermato  nel  1871  due  giorni  a  Lione  scopersi  questo 
stesso  rimaneggiamento  nel  codice  1102  (antic.  1222)  di  quella  biblioteca 
civica,  lo  copiai  per  la  maggior  parte  e  ne  detti  un  cenno  nelle  Mit^ 
theUungen  aiis  fr.  Hss.  der  Turin.  TJnivers,  Bibl,  p.  45 ,  giacché  ciò  che 
ne  avea  detto  nel  suo  Catalogo  il  Delaudine,  Manuscrits  de  la  bibl,  de 
Lyon.,  Paris,  1812,  II,  143,  faceta  conchiudere  piuttosto  per  un  poema 
sopra  S.  Onorato  affatto  isolato  e  indipendente  dagli  altri  testi.  Il  ma- 
noscritto è  in  bel  carattere  e  data  dalla  seconda  metà  del  secolo  XVI. 
Nel  1682  se  ne  servì  Daniele  Papebrochio,  il  compilatore  della  vita  di 
S.  Onorato  presso  i  Bollandisti,  come  appare  da  una  postilla  dello  stesso 
pubblicata  da  P.  Meyer,  Recherches  sur  V epopèe  fr.  pag.  34.  I  primi  152 
fogli  del  manoscritto  contengono  una  traduzione  provenzale  abbreviata 
dei  due  primi  libri  della  vita  latina.  Secondo  il  Papebrochio,  «  loco 
tertii  interpres  brevem  addit  conclusionem  ».  Il  principio  della  traduzione 
sta  nella  Bomania,  V,  238,  nota  2.  La  chiusa  suona  così,  al  f.  1516  b: 
€  los  quals  miracles  que  fes  sanct  Honorat  apres  sa  firn  sum  quasi  infinis 
et  innumerables ;  per  tant  a  causo  de  (152  a)  breuietat  ieu  los  laissi, 
car  dieus  ajudant  a  lantre  libre  et  a  l(a)utro  lìgendo  de  munsur  sanct 
Porcari  et  de  los  cine  cens  martirs  de  Lerins  (manca  il  verbo).  Per  lo 
presens  non  dicem  autre,  si  num  que  nous  exortam  de  amar  et  seruir 
ben  dieu  et  la  sieu  maire  et  de  esser  denots  de  sanct  Honorat  et  de  ga- 
sanhat  (L  -har)  las  bellos  indulgentios  enstamment  de  gratio,  la  qiiallo 
gratio  nos  uuelho  dieus  donar  em  aquest  munde  et  em  lautre  la  glorio 
eternai  de  paradis  per  los  merits  et  orations  del  glorios  confessor  et 
amie  de  dieu  et  euesque  monsur  sanct  Honorat  nostre  bom  auoecat. 
Amen  ». 

I  fogli  154-192*  contengono  il  nostro  poema,  il  cui  testo  è  ben  pa- 
lese che  qui  fu  arbitrariamente  e  barbaramente  mutilato  e  la  lingua 
foggiata  alla  moderna  dal  principio  alla  fine;  il  capitolo  di  chiusa  di 
R.  Feraut  fu  soppresso  del  tutto.  Dei  1300  versi  e  più  di  cui  si 
compone  il  poema,  io  ne  pongo  alla  luce  471  soltanto.  Essi  baste- 
ranno a  mostrare  chiaro  il  rapporto  di  questo  rimaneggiamento  col 
suo  originale.  Le  parole,  nella  mia  edizione,  scritte  in  corsivo  son 
quelle  che  discordano  dal  testo  Sardou;  appresso  al  testo  sono  aggiunte 
le  varianti  che  se  ne  allontanano.  Aggiungo  ancora  che  dinanzi  agli 
enormi  guasti  della  versione  Lionese  rinunziai  ad  ogni  proposta  di  mi- 
glioramento, perfino  là  dove  la  mia  copia  fatta  in  fretta  sembrava  er- 
rata, e  soltanto  coir  aggiunta  delle  interpunzioni,  cercai,  per  quanto  mi 
fu  possibile,  di  rendere  il  testo  intelligibile. 

E-  Stenuel. 


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?20 


^.  STENGt:!, 


[GIORNAI.E  DI   FILOLOGIA 


FI.    154* 


Aissit  conto  V  istorio  corno  prenguerun  mort  et  passium  hs  stnc  cens 
munges  et  martiris  de  la  sancto  insula  de  Lerins. 


A  la  honor  de  la  sancto  trinitat 
Padre  et  filh  et  sanct  sperit 
3  Escotas  totés  per  caritat 
La  passium  et  lo  martir 
Dals  stnc  cens  munges  de  Lerins, 

e  Or  acommensaral,  gesto 

De  grant  compasston 

Dunt  Taigo  de  ma  testo 
0  Caira  sns  lo  mentoa. 

Adunc  mi  coQuendra 
Plorar  per  pietat, 
12  Dauant  que  finii  aioi 
L'obro  que  ai  acomensat. 

Intrat  sue  al  laberinto 
15  Del  sage  Dedalus,  (154*) 
Cant  penssi  sortir  dindr$, 
Et  ieu  sjuic  laìus  enclus. 

18  Pensaui  esser  quitti 
D'aqueUi  boro  en  aieant, 
Puei  que  compausat  agui 

21  La  vido  del  corps  sanct; 

Mes  eUo  es  uno  nido 
Tant  longo  et  plasent, 
24  Que  a  la  ueire  cornando  ^?) 
EUo  hi  qualumg  grant  temp.  (?)] 

Per  tant  mi  sue  pensai 
87  E  mon  entendement, 
Que  comuenieìU  serio 
De  scrieure  lo  triiment 


to  De  la  sancto  badio, 
Per  donar  deuoctiom 
4-  queUos  que  hi  uendriom.  (155^) 

88  Or  auses  la  passiom 

De  los  munges  sinc  cenjs 
Como  de  bon  corage 
;3«  Morirum  ious  emsens. 
Mais  non  fum  tal  carnage 

Plus  diuers  ni  contrari ^ 

89  Que  fum  de  los  paures  fraires, 
Au  temps  de  sanct  Porcari... 

Lains  Pilo  de  Lerins 
*i  SufFrirum  passiom, 
Per  mans  de  Sarrasins 
Messes  a  destructiom,. 

45  Aussi  am  (Jissipat 
Aquel  glorios  stage, 
Tout  am  asarsinatj 

46  De  que  fum  gran  dalmage. 

Los  temples  et  los  élastros 
De  la  sancto  maisum  (155*) 
54   Tuttos  los  am  brtdados 
Mes  a  fuec  et  carbum .... 

Ainsins  ho  amo  profetisat 
64  Al  temps  que  et  uiuio 
Munsur  sanct  Honorat 
Als  munges  de  la  abadio. 


n 


4-ros  nos  ressiio  Vistorio  em  que  temps  sanct  Porcari  ni  lo^ 
cine  cens  forum  martirisas. 


Al  temps  que  Charlemait\c 
Lo  munde  a  conquistai 
3  Et  gasanhat  Vemperi 


Et  foguet  coronai, 
Hors  forom  plusors  reis 


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BOMANZA,  N.o  3J         LA  LEGGENDA  DI  SAN  POECABIO 


22i 


e  Em  la  mortai  batàlho 
Que  Charlmaine  fes 
Als  Turx  et  autro  canalho..,,, 

9  La  umte  mori  Oliuier 
Et  aiMì  lo  grant  Bolany  (15^*) 
Lo  rei  superbi  et  fier 
is  ApeUat  Aigolant, 

Los  dozer  pars  de  Fransso 
Jents  d'armos  et  chiuals 
15  Morum  a  cops  de  lansos 
Al  plam  de  Rossos-Vals, 

La  umte  Charlemaine 
18  Aguet  umg  cop  mortai 
Dunt  pnei  tant  que  uisquet 
Portano  umg  grant  mal .... 

21  Tro  que  es  uengut  lo  tern^e 

De  la  sieu  sancto  vìdo, 

Que  al  seruici  de  dieu 
^4  Auron  Ione  temps  compTido, 

Per  lo  qual  a  sufFert 
Nftffros  et  cops  mortala,  (15©**) 
S7  Em  dieus  s'es  adormit 
Ala  gaus  spirituaU. 

Mes  apres  la  sieu  mort 
30  Chiualiers  et  baruns 
Noiris  em  la  sieu  cort^ 
Em  sas  reals  maisons^ 

83  Vam  diuisir  Temperi, 

Boialmes  et  principas, 

Aussi  castels  et  uilos 
86  Et  autros  grants  cieutas. 

Dals  hens  de  Charlemaine 
Cascum  si  fa  senhor, 
89  Aussi  de  sum  reialme 
^apropion  las  honors. 

Aussi  deues  notar 
42  Que  aquestos  haruns 
De  dieu  non  am  affar, 
Mais  sum  tous  de  lairuns.  (157^) 


48  Aussi  am  consentit 

A  tout  peccat  et  uici 

Et  de  la  lei  de  Crist 
48  Non  fam  degum  seruici 

Et  non  stimun  dieu 
Ni  n'am  deguno  curo. 
51  Perque  lur  trames  die» 
Toutto  desauenturo, 

Mandet  dieu  los  Sarrasins 
84  Desubr^lurs  terros, 
JEt  si  cascum  dedins 
Ambe  mortalo  gerro, 

.57  Crestìams  tivaT conquistai 
Et  mogut  de  honor, 
A  plam  pet  am  pausat 

Ao  VHos,  castels  t  maisuns.  (IS?**) 

Lo  grant  Ture  et  Saudam 
La  cristiamdat  conquesto  f 
fi3  Tout  ho  a  mes  a  sa  man, 
0  dieus,  la  grant  tempesto! 

Lo  rei  de  Barbarlo 
.66  ^  gasanhat  la  Fransso, 
Ambe  grant  chiuàlrio 
Vo  (?)  a  mes  &os  sa  poissansso, 

.69  A  destruch  la  Prouensso, 
Et  si  Vam  sarsinado, 
Passai  am  la  Durensso 

7.2  Ambe  lur  grant  curmado^ 

Non  es  pas  marauHho, 
Si  am  pres  crestianitat  ; 
7.6  Car  ansins  dieus  uolio 
Punir  nostre  pecc<n^.  (158») 

Plus  erom  de  sent  milio 
78  Los  Turx  de  mal  corage 
Que  am  prea  la  marino 
E  trestout  lo  ribage. 

81  Nnn  lur  podum  deffendre 
Fort  Castel  ni  palaia, 
Tout  ho  aneron  pendre 


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222 


E.  STEXGEL 


[UIOKNAI.R   Di    FILOLOGIA 


9i  Per  forsso  et  per  plais. 

A  lo  eampf  dich  Lisqtians, 
Si  dono  la  batalho 
87  Das  paures  crestians 
Et  de  aquello  cancdho, 

Lisquans  em  Arie  e$ 
«0  Utng  camp  spatios^ 
Umte  lo  rei  francea 
Ambe  tous  808  senhors  (158*) 

•3  Sum  aprestas  em  armos 

Ambe  la  fior  di  lis 

Et  fu8  tout  fes  fach  d^armos 
96  Lo  nóble  rei  Lois. 

Loi8  nóble  rei  frances 
Ambe  fUs  et  nebots 
t«  Lo  prince  Nerboneg 
Em  armos  sauton  tous. 

Plus  de  quatre  yiagt  millio 
lui  De  mort  fum  lo  passage, 
Em  sortent  de  la  Mt7o, 
Sum  messes  em  carnage. 

105  Tout  drech  em  AlisquADS 

Metton  lur  standart. 

Aquites  los  dous  campa 
i«s  Cridom  a  la  qtMrt  a  la  quart 

Aquit  ueirias  grants  cops  (159») 
De  lanssos  et  de  estor, 
111  Or  8i  asemblon  lo  quamps 
Turx  Moros  et  erestians. 

Veirias  la  hatario 
lu  De  la  geni  d*  Armario 
Or  grant  Affre  em  ero, 
0  dieu,  la  mortai  gerro  ! 

117  De  dìuerssos  bandieroa 
Veirias  plus  de  cent  miliOy 
Em  diuerssos  manieros 

120  Tout  lo  munt  bramo  et  erido: 

0  dieiis,  que  desconfort  ! 
Helas  bon  dieus  Jesus, 


118  Los  tieus  crestians  sum  mors, 
Barrasins  los  am  uenssusl 

TaXhom  los  caps  et  testos,  (159^) 
ife  0  dieus,  eaUos  tempestosa,,! 

Corpsses,  spàRos,  quaribos  et  bras, 
A  hi  primo  batalho 
199  Crestians  restom  tous  tuas. 

Eia  quant  ai  lo  grant  dol 
D' esto  mortai  pittati 
189  Aquit  mori  la  fior 
De  toutto  cristiandat. 

Del  camp  de  Rossos-Vals 
is»  Emtro  al  roialme  de  Valensso 
Sum  mors  los  plus  tmlens 
De  toutto  la  Prouensso. 

188  Dals  paures  Crestians 

AqueUos  que  eron  restas 

Ambe  plos  et  plans 
ui  Laisserum  las  citas 

Et  fuium  per  las  Mauros  (160») 

Como  desesperas, 
144  Como  pauro  companho. 

Los  Turx  prenon  las  fremos 

Et  tesaur  et  eadenos     ■ 
147  E  tuom  crestians 

Et  fremos  et  emfans 

Et  cremon  las  uiUos 
160  Et  non  laissum  eros  ni  piUo, 

Non  laisserum  cieutat, 
Si  non  que  Marcelho  et  Toloso, 
158  Or  non  aiom  cremai 
La  gent  malaitoso, 

Gasanhat  am  batalho 
i6«  Das  paures  crestians 
La  missanto  canalho 
Afamos  comò  quans,  (160**) 

lio  De  tornar  em  lur  terrò, 

Car  finido  es  la  gerro, 

Lo  conseUi  es  conclus 
icj  Dal  grant  Saudam  das  Turjc, 


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ROMANZA,  s.-  :n         LA  LEGGENDA  DI  SAN  POBCABIO 


22:^ 


Soes  lo  rei  dàls  Sarrasins 
Di8:  fassam  lur  passage 
165  Per  rilo  de  Lerins, 
Aquit  faram  carnage; 

Car  nH  a  que  i  sum  fugis 
168  Tout  piem  de  crestians. 

Manges  et  heremitans 

De  pahor  das  Turx 
171  Hi  estom  scondus. 

Aquit  sum  scappas 

Que  8tam  spauentaa. 

174  Or  I08  Turx  si  despausom  (101") 


Em  ìur  pai»  r^ornar, 
Em  lur  comselh  perpauswn 
177  Per  Vinssido  passar, 

AduDC  ueirias  uint  milio 
Sarrasins  et  Saudans 
180  Que  aparelhon  lurs  ueUos 
Et  galeros  et  naus, 

Em  rilo  de  Lerind 
18S  Volum  far  lur  passage 
Per  tuar  los  sanes  dedina 
Que  sum  em  Termitage. 


Ili 

Como  sanct  Porcari  prophetiset  lo  iort  que  deuion  uenir  los  Turx 
e  del  songe  que  fes.    (133  linee;  f.  161*-165*.) 

IV 

Como  los  Turx  tuerom  los  fraires  de  Lerins  corno  forom  martirisas. 
Vessi  las  paratdos  de  sanct  Porquari.    (  167  linee  j  f.  165*-170*'.  ) 


Leno  si  sanct  Porcari 
E  uà  dire  a  sas  gens: 
s  Scondum  lo  reliquiari 
Ben  e  deu^tamena 


sum  em  la  sanct  ilio 
6  Per  pahor  das  pagans, 
Que  non  siom  dispumdos 
Ni  las  toccum  lurs  mans. 

9  Cant  ìas  sanctos  reliquios 
Agueron  stimai, 
Sanct  Porcari  predico, 

is  Beire  mais  a  parlai: 

Senhorsy  emtre  nous  ha  (171») 
Vini  et  sieis  emfants 
15  Que  non  am  pas  amcaro 
Compia  uini  et  sinc  ans. 

Jeu  duti  et  ai  grant  pahor, 
18  Que  la  geni  de  Turquio 
Per  duna  ho  per  pahor 


Vo  per  lauanhario 

ai  Non  los  nos  fasson  moure 
De  lur  deuot  talent 
Et  renegar  la  lei  de  dieu  omnipoteot , 

25  De  que  serio  grant  dam. 

Per  tant  conselharioi , 
27  Que  los  tramettessan 

Lains  em  Lumbardio, 

Et  quant  serio  fintdo 
80  La  furor  et  Vesglai 

D'aquesto  gent  marrido  (171*) 
Que  s^aprocho  hueimai, 

88  Alcuns  temps  tornario, 

Que  aquestos  bels  emfanta 

Beffarion  lo  tempie 
80  De  aquest  monestier  sanct, 

E  porrion  reuelar 

Das  corps  sancts  las  Tirtu» 


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224 


E.  STENGEL 


[aiOHNALE   DI    FILOLOGIA 


SO  Que  auen  em  la  sanìct  ilfe 
Muras  et  sconduB. 

Los  fraires  respondemn: 
42  Ben  no8  par  lo  comselh. 
Fraires  responderurti, 
E  dia  lur  sanct  Porcari, 

46  Que  parlessum  emtre  ellos, 

Et  si  hi  a  degum  que  martiri  non  uufelho, 
48  Ambe  los  iouenes 

Em  nauUi  s^acuelhon  ; 


Car  dalmage  serio,  (172») 
51  Cant  uendran  los  pagans, 
Si  degum  si  remdio. 

Bem  sàbi,  que  es  gprant  pabor 
M  Em  alcunos  personos 
De  ueire  tal  furor, 
Si  non  es  pas  uergohho. 

67  Porcari  prem  Tum  Tautrc 

De  la  religiom, 

Et  cascum  si  aparelho 
HO  De  far  comfession, 

Si  que  sino  cens  si  sunt  trohas, 
Que  a  morir  sum  apareìhas, 

«3  Pueis  am  aparelhat 

Et  barquos  et  uaisaéls, 

Metom  hi  \o  tesaur 
6H  Ambe  los  iouensels, 

Calisis  et  argent,  (lt2^) 
Libres  et  par  ameni 

69  Que  Ione  temps  hi  auio 
Despueis  sanct  Honorat 
D^aquel  temps  qUe  uiuio. 

72  Touito  aquello  rìquesso 
Et  aussi  la  nóblesso 

Em  las  barquos  am  mes; 
75  Mais  tant  non  hi  meterum, 
Que  non  la  em  restes 
Tapisses  et  cubertoa 


79  E  aussi  emsenssiers 
Et  cappos  de  colors, 
Palis  de  colors  et  floques. 

81  De  la  sancto  badio 
Fam  ueUo  mantenent, 
Em  terrò  tenum  lur  uio  (173') 

•4  Tant,  que  sunr  arribas. 
Aquellos  que  sum  restaa 

Siam  em  oratiom, 
87  Et  cascum  si  aparelho 
De  pendre  passion 
Et  desirom  soUeu. 

eo  Elas,  si  amquas  uendrio 

Aqudlo  que  em  paradis 

Tramettre  los  deuio! 
93  Bel  senhor  Jesus  Crist, 

Mandas  nos  aquélla  gent  ; 
Car  aparelhas  em 
!>6  De  pendre  lo  trument! 
Abreuio  nos  lo  temps; 

Car  trop  s'auem  stat, 
99  Et  daras  no»  lo  gauch  (173^) 
Que  auem  tant  desirat! 
Or  regardon  souen 

tot  Dedins  em  la  marino, 

Si  cum  quaro  uendrio  la  gent  sarrasino. 

105  Cant  uenc  sept  iors  apres, 

Los  fraire  de  Lerins 

Regardon  uers  la  mar, 
108  Virum  los  Sarrasins 

Venir  a  plens  uellos 
Dauers  solhelh  coquant, 
ni  0  dieus  bonos  nouellos! 
Or  si  cumenion  touts 
Los  glorioses  corps  sancts 

n»  Et  pregon  em  grana  plora 

Lo  uerai  creator, 

Que  non  les  desampare 
ii7  Em  aquesto  furor.  (174^) 


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ROMANZA,  N.*»  3]         LA  LEGGENDA  1)1  SAN  POBCABIO 


225 


Perso  conuengut  am 
Los  munges  de  Tabadio, 
180  Que  emtre  los  cine  cens  am 
Dos  munges  hi  auion 

Que  sam  epanantas 
133  De  grani  mal  em  conio; 
Cum  d'éUos  auia  num 
Et  si  apeUauo  Colump; 
1S6  L'autre  dcH  monesteri 
Si  nomano  Eleuteri, 
Que  ero  tout  trtbtdat 
ii9  E  non  at^io  uoluntat 

De  pendre  lo  martiri. 
Or  sortum  de  las  clastros 
132  Colump  et  EletUeriy 


Bauberum  si  das  autres,  (174*) 
Passum  au  sementeri 

195  Et  uam  pres  de  la  mar 

Et  trobum  uno  balmo, 

Unt  si  uan  stremar 
188  Et  lur  tremolo  Tarmo, 

Portaram  aiudo  et  comfort 
De  pam  et  atUros  uictoalhos, 
141  Car  pahor  am  de  la  mort 
Et  fuion  la  batalho. 

Ar  prenon  Sarrasins 
144  De  Lerina  la  ribage 
Et  cridon  comò  chins, 
Cani  sum  a  lo  carnag. 


VI 


Aisic  recontom  la  ligendo,  corno  prenguerum  martiri  lous  cine  cens  munges 
de  Lerins  (175*)  et  de  lamentation  de  la  sanct  ilio. 


360  Mes  los  dous  que  auen  dich  dauant, 

So  es  Eleuteri  et  Colump, 

Que  scondus  per  pahor  si  sum 
163  Et  s'ieron  anas  arribat 

De  soto  Vescueih  de  la  mar, 

Vesiom  per  uno  fendeduro. 
366  Grant  daritat  que  al  col  duro, 

Vam  uescr  las  armos  et  speris 

Que  muntauon  em  paradis 
869  Ambe  los  angles  em  companhio 

Cantant  em  bdlo  chantario,  (185*) 

Tous  resplandens  desus  em  Taire 
372  S'em  uan  uolant  a  dieu  lo  paire, 

Em  Taire  stam  tous  assemblas 

Las  armos  das  sancts  benauras 
375  Per  atendre  lur  fraires,  si  lur  plasio 

De  uenir  em  lur  cumpanhio. 

Or  quant  los  dous  uirum  la  uisiom, 
378  Dis  Colump  a  sum  companhon: 

Certos  non  ueses  tu  que  a  sus  em  l'aire 

Nos  agardom  nostres  bels  fraires? 
S81  Ajsìm  dumquos  !  que  deuem  far  ? 

Eleuteri  uos  ti  leuar  ? 

leu  ti  pregni,  anem  tu  et  ieu, 


884  Anem  morir  per  amor  de  die. 

0  paures  scondus  em  la  balmo, 

Del  martiri  perdrem  la  palmo  ! 
387  Non  farai  pas  ieu,  si  dieus  plas. 

Si  mi  uos  segre,  mi  segras  (186») 

Tochant  a  mi,  ieu  ai  bon  talent. 
390  Mais  Tautre  iamais  non  conssent 

Dal  matin  (?)  auer  la  corono, 

Trop  li  tremolo  la  persono, 
393  Mes  lo  munge  saui  deuot  Colump 

Ambe  uno  bono  deuotion 

Deuotoment  s'es  presentat 
396  As  Turx  et  emcontinent  fum  ttuit. 

Et  muntet  s*em  Tarmo  en  umg  moment 

Ambe  los  autres  noblament, 
899  0  sennor  dieu,  quant  grant  bonor 

Faguiest  a  Tilo  aquel  iort, 
'  Cant  coroniest  tantos  corps  sancts 
408  Que  eron  stas  norris  emfans 

Em  aquesto  sanct  abadio! 

So  fum  a  doset  iors  et  dio 
405  De  auost,  a  la  honor  de  Jesus  Crist  (186**) 

Sum  coronas  sinc  cens  martris. 

585  Or  recomandon  Tilo  a  dieu  lo  paire 
15 


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22<)                                                        E,  STENGEL  [giornale  di  filologia 

Et  uam  seni  serquar  los  fraires  (191*')  Autre  non  uous  sabi  dire^ 

Qae  lo  tesaur  saauat  auìon.       [rioni,  6o«  Contat  uoua  ai  la  ueritat 

688  Vam  sera  em  terrò  ueire,  8Ì  los  troba-  De  to  quant  que  n'ai  trobat^ 

Metom  las  uellos  em  bon  uent.  Besto  dumcos  per  comclusiony 

A  lios  8um  uengua  breuoment  609  Que  a  Vilo  portem  detiotion; 

bin  Et  am  contat  toutto  la  sumino  Car  es  toutto  sanctificado 

Au  3aact  paire  papo  de  Homo  :  Et  de  glorìoses  sancts  hondrado. 

Lo  martiri  das  corpa  sancts  eis  Membre  uous  doncos  de  Lerins 

594  Et  las  mortala  dolora  et  dans  Et  das  sancts  que  sum  dedins! 

De  la  pauro  ialo  de  Lerins  Or  dieua  em  aio  benefit  et  lausat 

Que  am  destruch  los  Sarrasins.  «is  Et  lo  glorioa  saoct  flonorat! 

597  Lo  papo,  quant  ausit  la  tenor,  Preguem  dieu  et  sanato  Mario 

Penssas  que  n*aguet  grant  dolor!  Et  tous  los  sanct  de  la  abadio 

Et  uà  donar  grani  indulgentios  «is  Or  nos  meton  em  paradis 

eoo  Als  pauros  munges  scapas  Ambe  los  martìrs  de  Lerins; 

Et  aussi  los  a  comfortas,  Car  autre  non  desiram  plu^. 

Reues  uous  aquit  la  firn  osi  Aissot  sio  a  la  honor  de  Jesus! 

603  De  los  sinc  cens  martìrs  de  Lerins  (  1 92»)  Amen,  finis, 

Ausic  finisse  lo  martire. 


VARIANTI  DELLA   EDIZIONE 

I  Rubrica,  p.  19 i:  Ayzi  coraensa  li  pacions  de  san  Porcari  e  dels  cine  centz 
monegues  de  Lerins.  Linee  1-5  mancano;  sono  versi  di  otto  sillabe.  6  comensaray 
7  de  complida  razon.  8  raon  vis.  10  E  don.  11  de.  12  Ans  que  puesca  complir 
13  coraensat.  14  palays.  16  cug  esser  defors.  17  yen  suy  dedlntz.  18  Ben  pen- 
BÌey.  19  deus  aquesf  hora  enant.  20  avìa  complit.  22  ss.  Comandaraent  m'a  facr  Ton- 
ratz  payres  en  Crìst  L'Abas  mossen  Ganselmps,  que  tant  mVn  a  requisì,  E  denfra  al 
monestiers  trastotz  nostres  coventz,  Qu'escrivia  lo  martiri  dels  monegnes  cine  cens 
40  Qu'el.  41  dintz.  44  ìnanca.  45  E  con  fora.  46  le  glorios  estajes.  47  E  tornalz 
en  nient.  49  els  hostals.  51  Arces  (arsses)  e  mal  menatz.  52  a  twoc.  ei  k.  seguono: 
Et.aquist  saneta  Vida  fom  de  lains  mogiida  Qu'entro  en  aquest  temps  avia  estat  per- 
duda  ;  E  sazitz  le  trezaurs  de  la  saneta  abadia:  Adonx  perdei  (pert  de)  ciutas  e  riqua 
mnneniia.  53  Si  con  profetizet  le  glorios  cor  santz.  54  En  lo  temps  de  san  fin.  55- 
56  con  vos  (que)  ay  dig  el  romans. 

II  Rubrica,  p.  192 :  Ayasi  dis  P estoria  que  apres  la  mort  de  Karlle  mayne  e  dels 
aulrea  que  son  scrichs  en  l'estoria,  fom  la  bataiha  en  Aliscamps  dells  Crestians  am  los 
Sarrazins  els  autres  Enfizels.  2  ae  conquistai  Espapna.  3-4  Mantz  palays  e  eieutatz 
e  manta  terra  estragna.  5  Don  morien  mant  due,  mani  persant  e  mant  rey.  6  las  mor- 
tals  balayllas.  7  fey.  8  Gandabupys,  rey  de  Friza,  am  lo  rey  Naamant,  E  Raynautz 
de  Bellanda,  c'aucis  rey  Aygolant  Els  plans  de  Pampalona,  en  los  mortals  esfors  Hon 
Karlles  de  sas  mans  trenquet  tan  millsoudors.  9  E  fom  mortz.  10  e  Rollantz  le  Tas- 
sala. 11-12  mancano.  13  E  fos  los  doze  bar.  14-15  mancano.  16  el  camp.  17  E 
Karlles  i  recetip.  18  eli  cors  mant.  19  con.  20  lo  greugeron  siey;  seguono:  E  fom 
pueysas  totz  jortz  doloyros  et  enclins  So  reiray  li  corronica  que  nos  laysset  Turpins.  24 
avia.  25  cuy  a  tant.  28  celesfials.  31  Cill  que  s'eran  noyrit.  32  sareal  mayzon  33 
Departiron.  34  regnes.  35  Mantz  eastels  e  mantz  borcz.  36  mantas  ricas.  37-39  E 
caseuns  de  son  fieu.  40  volo  sazir  sas.  41-44  mxincano.  45  Mas  pueys.  46  raubarìas 
e  follors.  47  Car.  fé.  48-49  mancano.  50  non  an.  53  E  vengron  Sarazin  e  Ture  e 
Vandales.      54  Sobre  ìa  saneta  terra    que  Karlles  lup  conques.      55-56  mancano.      57 


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ROMANZA,  N.°  3]  LA  LEGGENDA  DI  SAN  PORCAEIO  227 

gitatz.  58  de  regncs  e  d\  59-64  Foudutz  niurs  e  palays  e  autars  e  sanclor.  Cavalca 
Gecerins,  le  dux  de  falsa  jesta,  EU  reys  Miramolins  de  Marroc,  que  conquesta  (p.  i93) 
Domaynes  e  cientatz.  65  eli.  (JQ  Alcuba,  passet.  67  am  sa  cavallaria;  68  Ferali 
Archimaleoh,  quVra  reys  de  Granada,  De  Maresma,  d'Espagna,  n'a  Tholoza  passada;  E 
le  dux  dels  Geynetz  (Jaynes),  lo  guerriera  Ferabraza.  69  Es  intratz  en.  70  a  cuy 
que  pes  o  plasa.  l\-lò  mancano.  78  li  pent  de  fer.  79  E.  81  pot  contrastar.  83- 
84  Ad  Arile  la  cieutat  son  intrat  de  rellays.  85-95  mancano.  96-97  Mays  Loys, 
reys  de  Pransa,  e  Lotiers  d'Alamigna  Am  raantz  nobles  vassaltz  c'avien  en  lur  conopa- 
gna:  Los  comptes  Raynoart  e  Ouiscart  e  Bertran  E  Vezian  lo  due,  am  cavallaria  gran, 
E  Arnaut  lo  baron  e  n'Aymon  lo  marques  E  lo  prinpce  d'Aurenga.  98-100  eli  primpce 
Narbones,  Ara  filllz  et  am  nebotz  de  lur  noble  lignaje.  102  totz  homes  de  paraje.  103- 
104  Aqui  viras  albertz  e  luzentz  e  brunitz,  Elraes  de  fin  assier  e  cambayzons  farcitz, 
Astas  drechas  e  fortz  am  ferres  de  morllans  (?),  Brantz  e  estox  agutz,  e  per  pueys  e  per 
plans,  De  diversas  ensegnas  e  reais  confanons;  Viras  plus  de  des  mìlia  lansas  ambe  pe- 
nons  Ventejar  e  brandir  lay  hon  fey  si  Tacamps.  Ar  s'ajostan  las  hortz.  106-108  Quant 
crestians  assautan  li  jentz  de  mala  jesta,  109  viras  mantz.  110-120  e  trencar  manta 
testa,  Aubarestas  et  arcz  deyssarrar  e  destendre,  e  mill  fora  de  cella  que  non  si  podon 
defendre.  121  Ay  d.  cals.  122  can  mortai  destìnada!  123  Crestians  son  vencut.  124 
per  la  jent  desaslrada.  125-129  En  Aliscamps  sun  mort  ali  vas  de  Vezian  Tan  fera- 
TTientz  los  an  envazìtz  li  payan!  130  gran  dolor.  131  e  can  m.  peccai.  133  la.  135 
tre  al  regne.  136  (ut  li  meyllor.  137  e  dg  tota  P.  138  Per  que  li  cret^tian.  139  cìll 
que  foron.  140-141  Layceron  borx  e  villas,  manta  rica  cieutat;  142  (p.  194)  los  pueys. 
143  e  per  las  grantz  montagnas.  144  Et  an  desamparat  los  plans  e  las  campagnas. 
145-146  E  laysan  los  trezaurs  e  rica  maneutia.  Prenon  castels  e  villas  li  Ture  de  Bar- 
barla. 147  Aucizon.  149-150  Non  fom  tal  mortaldatz  passai  a  tres  centz  nns.  Con- 
qu'eron  Gapenses  e  Monfort  e  Verdun  Tors  e  murs  e  palays  tro  intz  en  -Embrezun. 
151  Ni  non  layssan.  152  sai.  153-154  De  que  agron  trahul  li  gent  malauroza  Que 
non  aian  cremai  e  sazit  tot  Tarney.  155-158  E  mort  los  cieutadans  e  menatz  a  barrey 
Perpausan  en  lur  cor  (v.  176).  160  Mas  non  pensan  aver  afinada.  161-163  Conceyll 
agroD  li  rey  de  Turx,  de  S.  164  Fezessan.  165  en.  166  manca.  167  Hob  s'en  era 
fugit.  168  ganren.  170  per.  dels  payans.  171-173  Car  sobeyranamentz  eran  espa- 
veotatz  Trastut  li  crestian  que  n'eran  escapatz.  174-177  tnancano.  179  esclaus.  180 
azauras.      184  aucire  los  santz.      185  qu'estan. 

Ili  Rubrica:  Ayzi  dis  Festoria  con  Tangel  aparec  a  sant  Porcari  l'abbat. 

IV  Rubrica:  Ayssi  dis  Testoria  con  sani  Porcari  prophetizet  lo  jorn  que  devian  venir 
los  Sarrazìns  per  aussire  los  santz,  diseni  ho  als  frayres. 

V  Rubrica  {p.  i98):  Ayssi  dis  Testoria  que  esconderon  las  reliquias  de  la  sancta 
iella.  Questa  rubrìca  è  del  codice  C  come  le  tre  precedenti.  «  Le  m.s.  B ,  —  dice  il  Sg.*' 
Sardou,  e  il  nostro,  aggiungo  io,  —  ne  fait  point  un  chapitre  particulier  de  ce  qui 
va  suivre  et  par  consèqitent  ne  donne  point  ce  titre  ».  1  Ar  si  leva.  3  Escundam 
las  reliquias.  7  bautugadas.  9  agron  la  sanctor.  10  Qscunduda  e  clavada.  11  coij- 
forta.  12  (rastota  sa  raaynada.  14  so  mi  par,  setze.  15.  16  E  trenta  e  sieys  cor 
santz  que  non  an  pas  treni'.  17  Et  ay  mot.  18  li  esclau.  21  fassan  ostar.  22  boi» 
prepauzament.  23-24  fé  dell  Payre.  2Q  qu*ieu.  27  tramezecem.  29  passada.  30 
le  glays.  32  venran  ad  eslays.  33  tornarien.  34  aquist  bon  bachallier.  5  E  refa- 
rien.  36  sant  monestier.  37  {p.  i99).  39  C'avem.  43  manca.  46-47  n'i.  quell. 
48  Am  los  bons  jovencels.  49  Els  navilis  s'acueylla,  segue:  Ses  denguna  vergogna. 
51  venrien.  53  Car  mot,  segue:  de  perdre  aquesta  vida.  54  Ad.  55-56  en  aytal 
estremida.  57  Ar  espian.  60  e  pren.  61  e  cine  si  troban  mantenent.  62  volon 
de  bon  cor  per  Dieu  penre  turment.  64  huciers.  65  E  met  y  (E  meton).  C&  tra- 
stot  4e  cellariers.  68  e  libres  e  arney.  69-76  E  cesta  sancta  vida  que  sant  Honorat 
fey,  Qu'estet  dous  aquel  temps  perduda  et  ablatata  Tro  Dieus  per  sa  merce  la  nos  a  re- 


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228  E.  STENGEL  [giornale  di  filologia 

velada.  E  meton  eia  naveys.  77  tapitz.  78  Rix  draps.  80  e  siclatons.  82  E  collan 
83  et  an  tengut.  84-85  Cill  que  son  remazut.  86  estan.  87  aparellan  si.  90  ia 
vemrien.  91  Cill  quel)  regne  de  Dieu.  92  nos  devien.  94  traraet  aquesta.  96  de 
far  ton  mandament.  101  E  trameton  espias.  102  soven  a.  103-104  veyrien  los  navilis 
de.  IH  manca.  114  (p.  200).  118  Pero  conegut  an.  119  tut  cill.  120  ccntz. 
121  frayres.  123  et  an  mot  gran  concire;  seguono  129-130.  124-125  L^uns  avia  nora 
Colorap.  126-127  e  Tautres  Eleutheri.  128  manca.  129  Car  non  an  (cf.  123).  131 
Et  yesson.  132  manca.  133-134  sono  trasposti,  134  Embleron  si  dels  frayres.  134 
lo.  137  aplatar.  138  manca.  139  E  porteron  am  luy.  140  e  lur  vitaylla.  141  Paor. 
145  e  forsenan.      146  con  leons  a. 

VI  Rubrica:  Ayssi  retray  li  jesta  lo  martiri  dels  martirs  de  Lerins  B;  Ayssi  re- 
tray  la  gesta  lo  martiri  e  la  passion  dels  V  cens  martirs  de  Lerins  e  con  lo  monestier 
fom  destruch  C.  360  (p.  204^)  c'avia  dig  enantz.  361-362  mancano.  363  Que  s'eran 
annat  aplatar.  364  Desotz  TescucyH  pres.  365  tralucura.  366  clerdat  qu'entro.  367- 
374  Els  esperitz  dels  santz  barons  Que  pueian  sus  en  los  trons,  Plus  resplandentz  que 
le  soleyls,  E  compagna  d*angels  amb  els;  E  vezien  sus  la  gran  clerdat  Que  a  Tuns  Tautre 
agardat,  E  s''estancan  cant  lur  plazia.  375-376  Per  atendre  lur  compagnia.  377  Quant 
han  vista.  379  ve  ti  que.  380  car.  381-382  mancano.  383  Que  son  martìriat  tan 
grieu?  384  Vay  sus,  anem  morir  per  Dieu.  385-387  mancano.  388-389  Hieu  m'en 
vauc,  sec  mi  mantenent.  390  Eleuteris.  391-394  m^ancano.  395  E  Colomps  s'es  ley. 
396  Que  mantenent  fom  detrencatz.  397  {p.  205^  )  puiet  sVn.  398  Am  los  autres  el  fer- 
mament.  399  Bell.  400  Volguìst  far  a  Tislla  cel  jom.  401  tanto  cor  sant.  402  Qu'eran 
noyrit  per  aenant.  404  Qu*e8camperon  lo  dezen.  405  D'aost  lur  sane  per.  406  manca, 
585-586  (p.  206^).  L'isUa  de  Lerins  an  laysat  Ses  capdell  e  ses  governayre;  E  van  s'en 
en  autruy  repayre.  587-588  Per  vezer  sì  la  trobarien  Cels  quel  trezaur  salvai  avien, 
seguono  (p.  207^):  Los  moynes  que  n'avien  trames  Enantz  quell  martires  si  fezes. 
589  Coallan  am  velas  et  am.  590  Roma  s.  v.  breument.  592  apostoli.  593  E  lo.  594  els 
595  sancta.  596  Que  Sarrazin  avien  conquis.  597-605  Per  que  tostemps  mays  er  hon- 
rada  Aquisli  illa  benaurada.  Dig  vos  ay  la  destruxion  De  la  sancta  religioni  Car  las  jentz 
entervan  soven  Con  perderon  lur  pertenemen,  Castells  et  autra  manentia  Quel  cor  sant 
conquis  lur  avia,  Ni  aquesta  glorioza  Vida  Qu'en  aquest  lemps  s'es  espandida.  607  tras- 
tot  so.  608-613  Plus  non  en  puesc  dire  ni  say  (cf.  605)  Car  plus  escrich  trobat  non  ay. 
614  Dieus  en  sia  grazitz  e  lauzatz.  615  El.  616-617  Car  li  sieua  sancta  badia  Tant 
martirs  a  en  sa  bayllia.  618  Que  pregan  Dieus  de.  619  Per  totz  los  frayres.  620- 
621  E  quill  viaje  fay  set  ans  A  Tonor  de  Dieu  e  del  sans.  U ultimo  capitolo  di  Raymon 
Feraut,  nel  quale  il  poeta  parla  di  &é  stesso,  è  soppresso  dall'autore  del  nostro  ri- 
facitnento. 


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BOHAKZA,  K."   3]  229 


SUL  PERFETTO  DEBOLE  ROMANZO 


Il  Diez  scrive  :  <  Au  parfait  on  pouvait  s'attendre  à  avoir  à  la  3*  pers. 
sing.  canta:  au  lieu  de  cela  la  langue  a  préferé  cantò,  qui  ponrrait  venir 
de  cantauit  pour  cantavit  (comp.  oca  de  auica  pour  avica).  Mais  il  est 
difficile  d*admettre  que  la  langae  popnlaire  conservai  le  v  de  la  couju- 
gaison  faible^  qui  déjà  en  latin  tombait  souvent  aux  autres  personnes 
de  ce  temps.  Elle  n'a  fait  qu'ajouter  à  la  forme  sourde  canta  un  o 
comme  voyelle  d'appui,  de  mème  qu'elle  a  ajouté  cette  voyelle  dans 
cantan-o:  cantò  est  douc  syncopé  de  cantao^  comme  vo  de  tao  =  vado. 
C'est  Texplication  de  Delius,  l,  e.  La  3'  pers.  plur.  répète  la  méme 
voyelle  dans  l'archaique  cantarono,  contr.  cantorno  et  méme  cantonno 
pour  cantarono  >.  {Gramm,  des  langue  rom,^  trad.  frane,  II,  137).  Que- 
sta spiegazione  del  Delius  non  mi  pare  la  più  felice  e  non  vedo  neanche 
il  perché,  potendosi  benissimo  spiegare  -au  -ao  -ò  da  -aw[^]  -avt  per 
^av^U,  debbasi  ricorrere  all'ipotesi  della  vocale  d'appoggio  che,  per  il  to- 
scano specialmente,  non  regge  giacché  qui  la  vocale  aggiunta  è  quasi 
sempre  un  e,  raramente  e  solo  in  alcuui  casi  speciali  un  i.  Si  consideri 
ancora  la  difficoltà  di  far  risalire  l'aggiunta  di  siffatta  vocale  d'appoggio 
ad  un  periodo  molto  antico  e  certo  anteriore  al  definitivo  assetto  fone- 
tico della  lingua,  senza  di  che  non  si  spiegherebbe  come  avesse  potuto 
aver  luogo  la  contrazione  in  -o  che  già  troviamo  nei  più  antichi  monu- 
menti, giacché  le  forme  in  -ao  sono  affatto  estranee  al  toscano.  D'altra 
parte  non  è  solo  nell'italiano,  ma  ancora  nello  spagnuolo,  che  abbiamo 
la  3.*  perf.  in  -<5,  e  si  potrebbe  chiedere  a  ragione  come  s'intenda  spie- 
gare questa  coincidenza.  Il  Diez  scrive  soltanto  :  «  Le  parfait  cantc 
s'explique,  comme  en  italien,  par  cantavi,  cantai,  la  3*  pers.  cantò  cor- 
respond  aussi  complètement  à  celle  de  cette  demière  langue  >.  (Ibid.  162). 
Come  ognun  vede  questa  non  è  una  spiegazione.  E  il  bisogno  di  uno 
schiarimento  si  fa  ancor  maggiore  quando  si  consideri  che  anche  la  2.*  e 
la  3.*  conj.  spagnuola  offrono  al  perfetto  3.*  pers.  la  stessa  terminazione  -6: 
vindió,  partió,  per  le  quali  il  Diez  tace  affatto,  mentre  almeno  per  le 
corrispondenti  italiane  vendeo^  parilo  aveva  cercato  una  spiegazione  di- 
cendo: €  Dans  la  langue  archaique  et  dans  la  langue  poétique,  un  e  ou 
un  0  paragogiqne  s'adapte  aux  voyelles  accentnées  finales:  ainsi  dans 
hoe^  stoe,  cnntoe^  poteo,  coprio  ecc.  >  (p.  130).  Ora  io  credo  che  la  spie- 
gazione che  vale  per  lo  spagnuolo  debba  valere  anche  per  T  italiano. 


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230  X.  CAIX  [giornale  di  filologia 

Infatti  vinàio^  partiò  sono  nati  da  limViOj  parfto  come  yo  da  fo,  diós  da 
dioSj  e  To  di  quelle  forme  non  si  può  scompagnare  da  quello  delle  cor- 
rispondenti italiane  vendeo^  partio.  E  poiché  la  teoria  della  vocale  pa- 
ragogica  non  è  applicabile  allo  spagnuolo,  in  cui  anzi  lo  spostamento 
dell'accento  ad  eliminazione  dell'iato  prova  che  la  lingua  non  avversa 
punto  gli  ossitoni,  conviene  andar  in  cerca  di  una  spiegazione  che  si 
adatti  ad  ambedue  gli  idiomi.  Questa  consiste  per  me  nel  ravvisare  nel- 
Yo  la  trasformazione  del  v  vocalizzato  e  rimasto  in  fin  di  parola.  In- 
fatti le  corrispondenti  forme  portoghesi  sono  vendéo^  partio  e  piìi  anti- 
camente veììdeu^  partiu^  che  mostrano  trattarsi  qui  di  un  v  vocalizzato 
come  p.  e.  nel  prov.  bau,  hreti,  estiu  ecc.  Il  Diez  crede  diflBcile  ammet- 
tere la  conservazione  del  v  in  una  sola  persona,  mentre  era  caduto  già 
in  latino  in  altre  persone,  e  nota  infatti  che  <  la  flexion  du  parfait  avi 
evi  ivi  a  subi  partout  et  absolument  la  syncope  du  v  »  (1.  e.  120).  Ma 
in  nota  soggiunge  che  <  en  vieil  italien  ou  écrit  cependant  quelquefois  v 
entre  deux  è,  comme  dans  j>a;Y/n,  chez  Dante  aussi  audivi,  Ivf,  26,  78, 
givif  Purg,  12,  69  >,  benché  egli  paia  considerare  col  Nannucci  queste 
forme  come  puri  latinismi.  Ma  non  sono  punto  latinismi,  ma  forme 
poetiche  comuni  nella  Scuola  sicula,  imitate  più  tardi  dai  poeti  delle 
altre  parti  d'Italia  e  dallo  stesso  Dante  quando  la  misura  del  verso  lo 
richiedeva.     Così  in  Ciacco  dell' Anguillara: 

.  Per  Arno  mi  cavalcava 
Audivi  una  donzella .... 

Che  fossero  popolari  e  non  latinismi  è  provato  dall'essere  quelle  forme 
ancora  in  pieno  uso  nei  dialetti  meridionali.  Ecco  alcuni  esempi  tratti 
dai  Canti  delle  Provincie  meridionali,  pubbl.  da  V.  Imbriani,  Torino  1871-2  : 

'Nu  juorno  mmi  partivi  e  jivi  fora.    I,  51. 
r  sera  mmi  partivi  e  givi  fora.  I,  324. 
Jivi  alla  cnrti  pe'  m'esaminavi.  II,  -1131. 
Arrivo 'mmienzo  mare  e  mmi  piniivi.  Il,  10. 
r  cummi  nei  saglivi  Tata  sera.  II,  89. 

Posto  che  il  V  siasi  mantenuto  finora  nei  dialetti  del  Mezzogiorno, 
cresce  la  probabilità  che  anche  in  altri  dialetti  italiani  e  nello. spagnuolo 
e  portoghese  abbia  potuto  lasciare  traccia,  vocalizzandosi,  nella  terza 
persona.  In  questa  infatti  Vi  che  precede  il  t  dev'essere  caduto  ben 
presto  già  nel  latino  volgare,  poich'esso  non  ha  lasciato  traccia  alcuna 
nelle  nuove  lingue,  forse  perché  Vi  era  divenuto  la  vera  caratteristica 
della  1.'  pers.  come  si  può  vedere  dal  confronto  dei  paradigmi: 

I.' 


it. 

cantai 

prov. 

chantei,     a. 

fr. 

chantai 

sp 

canti 

port. 

cantei. 

» 

vendei 

reìulei  -i 

vendi 

rendi 

vendi. 

^ 

partii 

parti 

parti 

parti 

2>arti, 

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ROMANZA,  N.«  3]        SUL  PEBFETTO  DEBOLE  BOMANZO  231 

dove,  considerando  lo  sp.  canté  come  nato  da  cantai^  si  vede  che  l'i  della 
1.*  pers.  è  generalmente  rimasto,  quantunque  nella  2.*  e  nella  3.*  conj. 
l'i  desinenza  si  sia  fuso,  eccetto  che  in  italiano,  coll'i  del  tema.  Al 
contrario  nella  3.'  pers.  abbiamo: 

it.  cantaO'ó    prov.  chantet^    a.  fr.  chantat      sp.  cavtò    port.  cantou. 
vendeO'é  vendei  vendit  vindió  vendeo-eu. 

partio  4  partii  -f  pariti  parilo  pariio  -iu. 

Nella  terza  persona  non  abbiamo  lo  stesso  accordo  che  nella  prima. 
Nel  dominio  franco-provenzale  è  perduta  ogni  traccia  del  v  ma  si  tol- 
lera il  i  finale;  nell'italiano,  spagnuolo  e  portoghese  è  scomparso  il  t, 
secondo  le  tendenze  fonetiche  di  queste  lingue,  ed  abbiamo  un  o  od  un  u 
che  accenna  al  v  latino.  Ora  è  da  osservare  che  nel  lat.  volg.  si  nota 
ben  presto  la  tendenza  ad  eliminare  il  v  tra  due  vocali  e  insieme  quella 
ad  indebolire  e  sopprimere  la  vocale  nella  desinenza  -ii  della  terza  per- 
sona. Da  una  parte  aetas  per  aevitas^  ditior  da  diviiiorj  iunior  da  iu- 
veniorj  e  le  forme  cantasti^  cantasiis,  cantaruni,  cantaram,  caniarim,  can- 
tasseni,  cantasse  per  cantavisii  ecc.,  e  poi  peiii  per  peiivi  e  più  tardi 
prohai  per  prohavi  (Schuchardt,  Vok.  II,  441,  479);  dall'altra  forme 
come  fecei^  posuei^  riseti  militavei^  poi  pedicard,  faci,  vixi  in  iscrizioni 
del  Mezzogiorno.  A  questo  proposito  nota  giustamente  lo  Storm:  <  Si 
ces  dernières  formes  ne  se  trouvaient  pas,  on  pourrait  supposer  une  e  écri- 
ture  inverse  >  produite  par  la  pronunciation  de  Ve  classique  comme  ì. 
Mais  les  syncopes  décident  la  question.  Il  faut  y  voir  avec  M.  Cors- 
sen  €  cine  irrationelle  Kiirze  »,  i.  e.  une  voyelle  d'un  son  sourd  et  faible 
qui  échappe  à  la  mesure  raétrique,  en  somme  un  é  muet  >  (Voyelles  atO" 
nes  ecc.  nei  Mémoires  de  la  Soc,  de  ling,  II,  93).  Si  noti  inoltre  che 
anche  le  iscrizioni  osche  danno  profattd  accanto  sl  profaited  =  probavU. 
Nei  perfetti  forti  questo  leggiero  suono  indeterminato  non  scomparve 
totalmente  che  al  Nord,  specialmente  nel  dominio  franco-provenzale,  in 
cui  il  i  finale  rimase  a  contraddistinguere  la  3.*  pers.  In  italiano  il  t 
cadde  ma  la  voce  non  potendo  rimanere  sospesa  sulla  consonante  del 
tema,  la  vocale  d'appoggio  fu  conservata  con  suono  più  o  meno  deter- 
minato secondo  i  dialetti  ;  essa  si  ridusse  ad  un  semplice  schevà  in  molti 
dialetti  del  centro,  divenne  e  chiuso  in  toscano,  i  in  siciliano.  Nello 
spagnuolo  la  desinenza  pare  aver  subito  l'influenza  del  perfetto  debole, 
divenendo  o,  probabilmente  anche  per  stabilire  una  distinzione  dalla  1.* 
pers.  che  in  origine  terminava  come  in  italiano  in  i  {vidi,  savi,  irasqui) 
ma  che  prese  più  tardi  per  alleggerimento  di  pronunzia  un  e  (Diez, 
1.  e.  168).  Nei  perfetti  deboli  l' aflievolimento  della  vocale  si  compli- 
cava con  quello  del  v.  Ma  mentre  questo  nella  1.'  pers.,  mantenutosi 
dappertutto  Vi  finale,  si  trovava  tra  due  vocali  e  quindi  facilmente  espo- 


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232  SUL  FEBF,  DEB.  BOMANZO    [giomnalk  di  filologia 

sto  a  dileguarsi,  nella  terza  si  trovò  a  quasi  immediato  contatto  col  t^ 
e  la  sua  stessa  facoltà  a  vocalizzarsi  a  contatto  di  una  consonante  dove 
favorire  il  completo  disegno  di  quel  leggerissimo  e  scevà  >  che  già  troviamo 
trascurato  itf  forme  come  pedicavd,  in  cui  lo  stesso  t  indebolito  in  d  si 
trova  sullo  scomparire,  e  che  accenna  a  forme  come  atnau,  cantau  del 
siciliano,  donde  -ao  -o.  Ad  una  conservazione  del  v  ci  paiono  infine 
accennare  anche  le  terze  pers.  del  plur.  con  o  come  amorno,  antornOy  e 
per  lo  spagnuolo,  le  forme  leonesi  in  -ioron:  cuntioron,  ixioron^  pudio- 
ron^  dixioron,  pusioron.  Le  une  e  le  altre  vengono  dal  Diez  spiegate 
coir  influenza  della  3.*  singolare:  e  Elle  (la  term.  -ioron)  a  été  appelée 
par  Vo  de  flexion  de  la  S*"  pers.  sing.  et  répond  à  la  forme  italienne 
en  'Omo^  qui  s'explique  d'autant  plus  sùrement  par  la  3*  pers.  sing. 
(cantò)  qu'elle  est  tout-à-fait  restreinte  à  la  première  conjugaison  >  (1. 
e.  156-7  n.).  Veramente  quest'argomento  non  prova,  poiché  Vo  risul- 
tando da  au  av  non  poteva  in  italiano  trovarsi  che  nella  1.*  conjugaz. 
perché  in  questa  sola  si  aveva  per  vocale  formativa  Va;  quindi  da  ama- 
veruni  si  potè  fare  *amaumn  onde  amarono^  amorno^  come  da  amavH  si 
fece  "^amault^^-amby  mentre  da  implevèrunt  Hmpleurun  si  dove  fare 
Hmpiéoron  impieron^  come  da  implevH  si  fece  inip'lcn[t'\  =  empieo  poi 
empiè,  0  anche  come  da  déono  si  fece  denno;  e  così  alla  3.'  da  nutrivè- 
runt  si  potè  fare  nutriv'runt  ^nìdriuì-un  ^nutrioron  e  in  fine  ntttriron^ 
nutrirono^  come  da  nutriu[t]  •=  nutria  si  fece  nutru  Invece  nello  spa- 
gnuolo essendo  facile  la  trasposizione  d'accento,  che  abbiamo  veduto  ve- 
rificarsi anche  nel  singolare  si  ebbe  ixioron  da  ixloron=*exiurun  exiv^runt 
exivèrunt.  Anzi  questa  trasposizione  d' accento  conviene  ammetterlo  an- 
che per  la  desinenza  -iéron  che  è  da  '4lv]èruni  come  il  fr.  -irent  e  Tit. 
'trono,  essendo  difficile  ammettere  che  solo  nella  Spagna  si  mantenesse 
il  classico  'ivèrunt. 

N.  Caix. 


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BOMANZA,   H.*  3]  233 


VARIETÀ 


ALCUNI  VERSI  INEDITI  DEL  PATECCHIO 

(da  una  lettera  ad  e.  monaci) 


Mio  caro  collega; 
Le  cose  piccole  vogliono  poche  parole.  Di  Girardo  cremonese  ho  alcuni  versi  da 
aggiungere  a  quelli  ricopiati  dallo  Zeno  e  già  stampati  {Jahrb.  far  rom,  u.  engl.  Liter, 
Vili,  210).  Sono  tolti  ad  un  codice  di  Oxford;  cioè  al  XLVIII  degli  italiani  cano- 
niciani:  e  li  do,  quali  me  li  trascrisse  nel  sessantacinque  un  amico  gentile  che  non 
è  più,  il  Wellesley:  solo  unisco  o  divido  le  sillabe,  e  metto  virgole,  punti  ed  ac- 
centi.   Mi  voglia  bene  e  mi  creda 

Pisa,  25  marzo  1878  suo  aff.mo 

E.  Teza. 


A 


nome  del  padre  altisimo,  e  del  fiol  benedeto, 
Del  Spirto  santo,  in  cui  eo  for9a  me  meto, 
Comeu9are,  finire  e  reirare  voio  per  raxon 
Di  driti  insignaminti  che  fermò  Salamon, 
5  Sì  con  se  trova  scrita  in  proverbii  per  litere 
6ira[r]do  Pateclo  lo  splana,  in  volgaro  lo  voi  metere, 
Per  quili  che  tropo  parlar  (1)  corno  ili  se  dibia  mandare, 
Como  iruxi  e  superbii  se  defa  umiliare; 
Como  i  mati  se  guardi  et  inprenda  savere, 

10  Como  ale  done  se  dexe  tuti  i  boni  costomi  avere 

Como  Tuno  amigo  con  T  altro  stove  andare  dritamente, 
E  comò  i  poviri  e  i  richi  den  star  intro  la  9ente. 
^a  li  savii  no  me  reprenda  se  no  disesse  sì  ben 
Como  se  volesse  dir:  o  s'eo  digo  più  o  men; 

15  Eo  noi  digo  per  lor  chili  sa  ben  90  eh'  i  de' 
Ma  per  gli  cumunal  horiiini  che  no  sa  bone  le'. 
E  quai  voia  si  sia,  se  tuto  el  bene  adrona  (2) 
Che  '1  voia  dir  el  mei  lassi  i  no  pò  far  miglor  ovra: 
Chi  no  podese  tuto  retenir  ad  un  fla 


(1)  parlan  (2)  adovra 

15* 


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234  VABIETA  [qioemalm  di  wiuh^ull 

so  9^  ffl  pocho  non  tira  che  *1  no  sia  miorà. 
'[D]e  la  lengna  ve  yoio  dire  premeramente 
Per  90  eh*  eia  noze  plae  a  gran  parte  de  la  9ente; 
Dal  tropo  dire  se  guardi  chi  se  voi  far  loldare 
E  dia  logo  ai  altri  s*i  voi  anch*i  parlare. 

25  Forsi  gè  (1)  de  lor  che  voi  dir  qualche  cosa 
No  dexe  aconmeu9are  fin  che  Tatro  no  posa; 
Vilan  e  parlente  se  po'  tignir  quelui 
Quando  a  dito  quel  che  voi  che  desplax  ad  altrui: 
Vilan  homo  fi  tignu  chi  parla  sovra  man 

30  A  PÌ90I0  e  a  grande,  a  par  e  sopran; 

Se  U  no  se  yen9a  lo  PÌ90I0,  el  par  forsi  se  lamenta, 
Al  maior  per  vintura  n'a  dito  per  una  trenta: 
Nesuno  homo  no  de*  gabar  algun  desconossente 
Che  *1  ten  lo  mal  per  P090,  e  *1  ben  9eta  in  [n]iente: 

35  Chi  responde  humelmente  ira  no  se  gè  ten 

E  chi  favella  orgaio,  se  la  no  gè  (2),  si  gè  (3)  vene: 

Lengua  depart  Tamor  di  comps^noni 

Non  è  mae  trexoro  el  mondo  no  ma'  ch'il  toma  bon. 

[n  codice  chiude  con  le  parole  seguenti,  sulle  quali  c^è  un  frego  di  penna:] 

Lengua  fae  part  chi  sae. 

(1)  gli'è  (2)gh'è  (3)ghe 


UNA  CARTA  VOLGARE  PICENA 

DEL   SECOLO   XII 


Della  ricca  collezione  diplomatica  recentemente  scoperta  in  un  ri- 
postiglio del  Collegio  Romano  (1)  e  ora  conservata  in  questo  archivio 
di  Stato,  una  parte  cospicua  spetta  alla  Badia  Cistercense  di  Fiastra. 


(1)  La  relazione  di  questo  tpovamento  di  naie  di  Roma,  può  leggersi  nel  Bullettino 
cui  si  va  debitori  alla  solerzia  del  Barone  officiale  del  Ministero  delia  Pubblica  Istru- 
Podestà  egregio  bibliotecario  della  Naiio-     zione,  febbraio  1878. 


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BOMAKZA,  N.o  3]  UNA  CABTA  VOLGARE  PICENA  235 

Ad  essa  esclusi vamente  appartengono  le  pergamene  deirXI  e  XII  se- 
colo, importanti  così  per  il  rispetto  paleografico  come  per  la  storia  spe- 
cialmente ecclesiastica  e  topografica  di  tutto  quel  territorio  della  Marca 
che  si  stende  dal  Tenua  fin  oltre  al  Potenza,  comprendendo  buona  parte 
degli  antichi  comitati  di  Camerino,  Osimo  e  Fermo  (1).  Di  tale  regione  non 
si  è  ancora  trovata,  che  io  mi  sappia,  alcuna  scrittura  volgare  anteriore 
al  trecento;  laonde  queste  pergamene,  che  per  ragione  di  officio  ora  sto 
studiando  e  ordinando,  anche  dal  lato  filologico  acquistano  valore:  poi- 
ché mentre  tutte  sono  scritte  in  un  latino  molto  rozzo  e  spesso  infar- 
cito di  costrutti  e  di  forme  vernacole,  una  poi  me  ne  è  di  già  occorsa, 
colla  data  del  1193,  nella  quale  il  buon  notajo  trovandosi  a  un  certo 
punto  imbrogliato  in  esprimere  clausule  che  non  erano  nel  suo  formu- 
lario, abbandona  addirittura  il  latino  e  va  innanzi  valendosi  della  sua 
lingua  materna. 

In  quest'  atto  che  si  troverà  pubblicato  qui  appresso,  secondo  lo 
stile  di  que' paesi  e  di  que' tempi,  non  è  menzione  del  luogo  dove  fu 
rogato.  Né  dal  nome  del  fondo  si  può  arguirlo  ;  ma  che  debba  ritenersi 
delle  Marche  ne  fanno  fede  e  i  nomi  proprj  che  vi  occorrono,  nomi  dei 
più  usitati  in  quella  contrada;  e  le  formole  latine  identiche  che  ci  offrono 
le  altre  carte  fiastrensi,  ed  infine  i  riscontri  che  similmente  essa  ha  con 
quelle  per  i  modi  volgari.  Del  resto,  un  altro  argomento  per  attribuire  la 
nostra  carta  non  solo  alle  Marche,  ma  più  specialmente  al' territorio 
Fermano,  l'abbiamo  nel  fatto  che  il  nome  di  e  Blandideo  filio  Arduini 
«  Oldrici  >  che  si  trova  in  essa,  ricompare  in  altra  della  collezione 
(del  1197),  per  la  quale  viene  allo  stesso  Blandideo  venduta  una  terra 
che  fu  già  di  «  Phylippus  Alberti  Sancti  Donati  »  posta  «  in  fundo  qui 
dicitur  Collis  Sancte  Marie  >.  Ora,  questo  istromento  è  rogato  da  un 
€  Magister  Matheus  notarius  domini  Marchionis  >  del  quale  si  hanno 
altre  due  carte  (1196,  1197)  che  si  riferiscono  a  terreni  posti  in  «  ca- 
stro Montis  Granarii  >.  E  se  la  data,  l'insolito  nome  di  Blandideo  e 
la  stessa  paternità  inducono  a  credere  che  si  tratti  nelle  due  carte  di 
una  sola  persona;  è  poi  chiaro  che  anche  il  notaio  Matteo  debba  sem- 
pre essere  il  medesimo,  arguendosi  ciò  non  solo  dalla  sua  qualifica  di 
«  notarius  domini  Marchionis  »,  che  di  rado  occorre;  ma  anche  dalla 
identità  della  scrittura  e  perfino  della  qualità  e  dimensione  della  per- 
gamena. 

Gumo  Levi 


(1)  V.  Amatori  D.  Alberico,  Abazie  e  Monasteri  Piceni;  Camerino,  tip.  Borga- 
relli,  1870,  p.  12. 


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236  VARIETÀ  fo 

TESTO  DELLA  CARTA 

[Le  abbreyiatnre  Bono  Bciolte  in  corsivo. ] 


lORNALE   1)1    KII-OLOOIA 


[1]  f  In  nomiwe  domini,  nostri,  ihesu,  x.  Anni  mnt.  M.  C,  XC.  IIL 
iwdictione.  XI.  die  [2]  martir.  (l)  qui  fuit.  settimo  die.  infra 
me;ise.  setembri^.  Paginam.  iiendicti  [3]  onis.  tradictionis.  atqiie 
obligationis.  quam  facio  ego  blandideo.  coWvSem  [4]  tientem.  mihi 
patri  meo  arduuino  oldrici  Ubi  iohanyie  filius  qodam.  alberto 
ofridi  et  ad  tuas  ehré'  [5]  des.  Rem  iuriis  mee  proprietatis.  idesf. 
la  terra  ke  iacet  in  integrum.  [6]  '  in  f undo  la  fonte  fracliti. 
adunata^  cum  omw^ia  q^/e  super  se.  nel  infra  se  ha  [7]  bet.  et 
abet.  fines.  a  capo  la  terra  de  caruone  de  gualtueri.  a  pede  uia. 
ab  u  [8]  no  lato  terra  de  alberti  ca^niuni.  a  quarto  lato  terra 
de  iohanni  ofridi.  Vnc^e  a  te  [9]  recepi  in  pretio.  libras.  XX. 
de  ìucenses.  (2)  et  isti  denari.  XX.  libras.  deole  iohannes.  [10] 
ad  plandeo.  adoienantio.  (3)  da  q?^/stu  saraieli  (4)  prossima, 
ad  III.  anno.s.  com  [11]  pliti.  unu  mese  poi.  se  plandeo  non  potes 
non  uolese.  redere.  li  denari  [12]  XX.  libras.  et, la  mitade  de 
lo  prode,  ke  questa  terra  si  aba  iohanni  ad  proprietate  issu 
[13]  et  sua  redeta.  (5)  se  questo  auere  se  perdesse,  sentia  frodo 
et  sentia  impedimew  [14]  tu  ke  fose  palese  per  la  terra,  ke  la 
mitade  se  ne  fose.  ad  resicu  de  iohanni  [15]  de  tuctu.  et  la 
mitade  de  plandideo.  et  se  plandideo  rede.  ad  iohanni  uo  (6) 
[16]  assua  redeta  isti  denari,  ke  iohanni  uo  sua  redeta.  redese 


(1)  Sic.  sì  ha  per  intero  alla  riga  13,  perché  il  se- 

(2)  Cnf.  in  altra  carta,  del  1175,  lochisi  gno  della  abbreviatura  (un  taglio  orizzon- 

(3)  Da  oggi  innanzi.    Cnf.   in  altre  car-  tale  a  mezzo  l'asta  del  q)  non  consente  esi- 
te: 1151,  de  niodo  nanti;  1157,  da  odier-  tazioni. 

num  die  in  antea.  (5)  Cnf.  in  altra  carta  del  1137,  nostros 

(4)  S.  Michele.  Cnf.  in  altra  carta  del  1105,  redcs;  ed  in  altra  pure  dello  stesso  secolo, 
Alberto  Mieli  (Alberto   di  Michele).  —  La  vestris  rcdibus. 

fornìa  poi  abbreviata  di  quistOf  che  precede,  (6)  ito,  così  anche  nelle  righe  16  e  18,  per 

non  potrebbe  essere  risolta  in  questo,  come  o  (aut)  o  per  vo'  (vtfoi)ì 


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ROMANaA,  N.'»  3]  NOTA  PEL  DONAT  PROENSAL  237 

senti  onnem  [17]  sconditione.  (l)  ista  terra,,  ad  plandideo.  et  se 
plandideo  non  redese  li  denari  [18]  ad  iohannì  et  uo  assua  redeta 
ke  la  terra  sia  loro  a  proprietate.  abeatis  teneatis  [19]  et  possi- 
deatis.  a  nullo  homine  aliq«^audo  contra  dicentem.  non  audea. 
[20]  ad  si  quis  nero  contra  ire  uoluerit  promitto  me  et  meas 
ehredes  tibi  iohannì  tuis  [21]  que  eredibe^.  iure,  defendere,  col- 
tra omnes  ominines  (2).  qmd  si  noluerimws  aut  [22]  non  po- 
tuerim^^.  aut  aliqua  causationem  nohiscnm  inposuerimws.  duplam 
et  me  [23]  liorata?».  nobis  restituamws.  ac  carta  firma 

permaneat  quam  [24]  deniqwe  carta  a  predicto  plandideo.  [25] 
Ego  Qrmus  notarius  rogatus  scribere  scrisi,  et  senebaldo.  gra- 
nariu  [26]  de  actouuni  (3).  et  uliueri.  tadeu  de  morico  adtun- 
dadmmi.  (4)  Kainaldo  [27]  de  girardo  scariti,  in  carta  fuerunt 
testes. 


(1)  Altro   esempio   di    questo  s  preste-  ciò,  ecc.    La  frase  sinit  omni  sconditione 

tico  abbiamo  appresso,  27,  in  Scariti  per  Ca-  corrisponde  all'altra  pure  frequente  in  que- 

rttt;  così  in  altra  carta  della  collezione,  1198  ste  carte,  sine  omni  calumnia. 
Villamagna,  in  scurte  per  in  ciirte,  come  (2)  Sic. 

a\ivoye  de  scurte.   Anche  oggi  nelle  Marche  (3)  In  altre  carte  della  collez.  Attegone, 

si  ode  scardo fano  f  scartoccio,  scarta fac-  (4)  Attone  di  Adamo. 


NOTA  FEL  DONAT  PROENSAL 


Il  Sig.  J.  Banquier  ci  dà  nella  Zeiischrift  fiir  romanische  Philolo' 
gie,  II,  83,  qualche  nuova  proposta  di  correzione  al  Donai  proensal  da 
aggiungere  a  quelle,  assai  giudiziose,  da  lui  messe  innanzi  nella  jBo- 
mania^  n.**  23.  Stavolta  l'egregio  autore  non  è  stato  ugualmente  felice. 
€  30.*  Enarhrar=^  erigere  duos  pedes  et  in  diiohus  sustentari,  ce  qui  ne 
yeut  rien  dire.  Suppléez  manihns  ».  Segue  una  spiegazione,  ingegnosa, 
se  si  vuole,  ma  che  non  fa  al  caso.  Il  testo,  chiaro  a  tutti  in  Italia, 
sta  benissimo:  solo  bisogna  pensare  a  un  quadrupede,  e  propriamente 
al  cavallo  e  famiglia,  non  all'uomo,  come  fa  il  Sig.  Bauquier!  Veda 
inalberare  nei  dizionarii  italiani,  e  si  darà  subito  gran  premura  di  ri- 
tirare la  proposta.  Pio  Rajna. 


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238  VA  "RTKTA  [c.iobnalk  di  fibologia 


UNA  REDAZIONE  ITALIANA  INEDITA 

DEL 

ROMAN  DE  LA  ROSA 


Qualche  anno  addietro  seppi  dal  prof.  D'Ancona  come  in  un  codice 
esistente  nella  Biblioteca  della  Facoltà  di  medicina  di  Montpellier  si 
trovasse  un'antica  redazione  italiana  in  versi  del  Roman  de  la  Rose. 
Questa  notizia  egli  V  aveva  attinta  in  parte  dal  Catalogue  general  des 
Départements ,  voi  I,  p.  458  (1),  ed  in  parte  da  alcuni  schiarimenti  ed 
estratti  fornitigli  dal  sig.  cav.  De  Andreis  R.  Console  italiano  a  Mont- 
pellier; e  poiché  dalla  Facoltà  posseditrìce  del  ms.  aveva  inutilmente 
sollecitato  un  prestito  del  ms.  medesimo,  egli  mi  comnnicò  gli  appunti 
raccolti,  augurandosi  che  a  me  riuscisse  ciò  che  non  era  riuscito  a  lui, 
d'ottenere  cioè  una  copia  di  quello  e  renderla  di  pubblica  ragione.  Ed 
invero^  avendo  nell'  anno  passato  fatte  per  ciò  alcune  pratiche  presso 
il  mio  amico  sig.  A.  Roque-Ferrier,  segretario  della  Société  pour  Vétude 
des  langues  romanes^  residente  in  Montpellier,  n'ebbi  in  risposta  che 
l'egregio  socio,  sig.  H.  Delpech  erasi  gentilmente  offerto  di  procurarmi 
la  copia  desiderata  e  anche  di  unirsi  meco  per  curarne  la  stampa  nelle 
pubblicazioni  speciali  della  stessa  società.  Qui  dunque  ringrazio  pub- 
blicamente i  due  miei  colleghi  per  il  loro  generoso  concorso  in  questa 
opera  che  certo  sarà  di  non  poco  interesse  per  gli  studiosi  della  nostra 
letteratura  medievale,  e  mentre  aspetto  di  poter  compiere  assieme  al 
mio  amico  D'Ancona  la  nostra  parte  di  lavoro,  credo  di  far  cosa  non 
discara  ai  nostri  lettori,  pubblicando  intanto  gli  appunti  che  avevo  rice- 
vuti da  lui  ed  in  parte  anche  dal  sig.  Boucherie,  appunti  che  conten- 
gono tutte  le  rubriche  del  codice  ed  anche  alcuni  saggi  del  testo.  Si 
ha  così  un  elemento  bastevole  per  accertare  quanto  il  D'A.  aveva  feli- 


ci) Il  codice  porta  il  numero  438  e  nel  ci-  lo  schifo.    Latitante  e  ragione.    Lamante 

tato  Catalogo  viene  COSI  descritto:  «N.<>  438.  elamico.    Venus  e  hellaccoglienza.    Lc^ 

Petit  in  4.0  sur  velìn  (Recueil).    l.o  Le  Re-  mante.    Gelosia.     Castità..  Vergogna.   A- 

MAN  DB  LA  Rose;  2.<»  SONETTI  ITALIANI. —  mico.   Falsembiante.   Larmata  di  baroni. 

XIV*  siècle.  —  Fonds  de  Bonhier  ,  E,  54.  La  vecchia  e  falsembiante.    BeUaccoglien- 

Lessonnetsitaliensoccupentyìngt-neuffeuil-  za  ecc.    Le  premier  sonnet  commenee 
lets,  à  huit  sonnets  par  feuiilet.    Ces  son- 

nets  sont  presque  tous  en  dialogue.    Ils  sont  Lo  dio  d*smor  nn  snono  mi  trasse.  » 

intitulés:  Lamante  et  amore.    La  morte  e 


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ROMAMMA,  n,**  3] 


BEL  BOMJlBT  de  LA  BOBE 


2» 


cernente  congetturato  di  sulle  indicasìoni  del  Catciogue  generai^  essere 
cioè  i  €  Sonetti  italiani  »  ivi  descritti  come  esistenti  nel  cod.  438,  una 
specie  di  rifacimento  del  celebre  poema  francese^  e  servirà  per  ora  a 
dare  una  qualche  idea  di  questo  nuovo  e  veramente  curioso  documento. 
Qui  vediamo  il  Romcm  de  la  Base  disciogliersi  in  una  serie  di  232  sonetti 
che  sembrano  riassumere  tutto  il  contenuto  di  quello  e  perciò  condensano 
in  3276  endecasillabi  i  22,810  ottosillabi  del  testo  francese.  Il  passaggio 
dalla  forma  epica  nella  lirica  è  qui  una  particolarità  veramente  carat- 
teristica e  degna  di  considerazione^  e  non  è  men  bello  T  osservare  come 
il  gusto  e  l'arte  italiana  abbian  saputo,  appropriandosela,  trasformare 
la  materia  poetica  di  Francia  e  rifoggiarla  in  un  modo  assai  più  sem- 
plice e,  per  quanto  pare,  più  elegante  dell' originale.  Ma  ora  giudichi 
da  sé  stesso  il  lettore  di  queste  nostre  impressioni  confrontando  il  primo 
sonetto  della  serie  coi  corrispondenti  147  versi  del  testo  francese,  che 
pongo  in  nota  trascrivendoli  da  un  codice  della  Biblioteca  Casana- 
teuse  (1). 


(1)  Cod.  Casanat.  B.  III.  18,  f.  12. '  e.  2.»  Questo  cod.  fu  già  descritto  dal  Toblbr 
nel  voi.  LIV  della  Bibliotheh  d.  Litterar.  Vereins  di  Stoccarda  {Gedichte  von  Jehan  de 
Condet)j  e  dallo  Schblbb  nei  Dita  et  Contea  de  Baudouin  de  Condé,  et  de  Jean  de 
Condé  son  fils,  t.  Ili,  2^  par**  pg*  IX  e  segg.  La  lezione  non  è  sempre  corretta  abba- 
stanza, ma  non  pertanto  la  do  tale  e  quale,  potendo  questo  saggio  riuscire  non  del  tutto 
inutile  per  chi  attenda  alla  critica  di  quel  testo. 


JLd  Dieus  d'amors  qui,  l'aro  tendu, 
Anoit  toute  ionr  entendu 
De  moi  poursieure  et  espiler. 
Si  s'arriesta  soua  X  flguier; 
Et  quant  il  ot  apiercen 
Que  i'  avoie  ainsi  eslen 
Le  bouton  qui  iniex  me  plaisoit. 
Quo  nos  dea  autres  ne  fialsoit, 
n  a  tanioet  pria  une  floke; 
Et  quant  la  corde  fu  en  coche, 
n  enteaa  iusqu'a  l'oreìlle  i 

L'aro  qui  estoit  fora  a  merreiUe, 
Et  traisi  a  moi  par  tei  devise, 
Que  par  mi  l'oeil  m'a  el  cuor  mise 
Le  aaiette  par  grani  roidour. 
Et  lom  me  prisi  une  firoidour. 
Doni  i'ai  dessous  ohaut  pelioon 
Seniue  pois  mainte  fricon. 

i^^ani  i'euo  ainsi  esie  bierses, 

A  tierre  fui  taotost  Tierses; 

Li  cuers  me  faui,  li  onera  me  meni, 

Paames  ino  iUueo  longhement. 

Et  quant  reviog  de  pamison. 

Et  i'oi  mon  sena  et  ma  raison, 

le  tuX  monlt  sains  et  a'ai  onidie 


Orant  faia  de  aano  avoir  yuidie. 
Mais  li    salette  qui  me  point. 
Ne  traisi  onquea  sane  de  mei  polnt, 
Alns  fb  la  piale  ionie  aeke. 
le  pria  lora  a  .IL  maina  la  fleke. 
Et  la  oommencai  a  iirer. 
Et  en  iirant  a  souspirer. 
Et  iani  tirai,  que  i'ai  mene 
A  moi  le  fusi  tout  empene. 
Mais  la  saiette  barbelee, 
,  e  1.]  Qui  Biautes  estoit  appiellee. 
Fu  ai  dedens  mon  ouer  floie, 
Q11  n'en  poei  iestre  hors  sacle, 
Anscois  remest  on  cuor  dedana 
Et  si  n'en  issi  onquea  sans. 
Anguisseus  fai  et  mouli  tourbles 
Por  le  perii  qui  fu  doubles; 
Ne  seno  que  fere  ne  que  dire, 
Ne  de  me  piale  n  trouver  mirre, 
Que  par  bierbe  ne  par  raohinne 
N'en  aniendoie  medechinne, 
Mes  Tlers  le  bouton  se  traioit 
Mea  cuers,  qui  aiUeurs  ne  beoii. 
Se  ie  l'eusse  en  ma  baillie, 
n  m'exist  rendue  la  vie; 
Li  Teoixs  sans  pbis  et  rondonr 


La  premimi /ie- 


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240 


VARIETÀ 


[OIORVALB  DI  FILOLOGIA 


1)  AUora 
)  nome 

)  nomo 


Lo  Dìo  d*  amor  con  su'  arco  mi  trasse 

Perché  guardava  un  fior  che  m'abbellia, 

Lo  quale  avea  piantato  Cortesia 

Nel  giardin  di  Piacier;  e  quei  si  trasse 

Sì  tosto,  eh' a  me  parve  che  volasse; 

E  disse  :  i'  sì  ti  tengo  in  mia  balia. 

Allo'  (1)  gli  piacque,  non  per  voglia  mia. 

Che  di  cinque  saette  mi  piaghasse. 

La  prima,  à  non  (2)  Bieltà,  per  li  ochi  il  core 

Mi  passò;  la  seconda,  Angielicanza , 

Quella  mi  mise  sopra  gran  fredore; 

La  terza  Cortesia  fu  san  dottanza; 

La  quarta  Compagnia,  che  fé  dolore; 

La  quinta  apellaPuon  (3)  Buona-speranza. 


Li  atUtte  e»t  a- 
plHlee  8(mplece. 


M'sicia  moult  de  ma  dolour. 
le  me  comraencai  lora  a  traire 
yiers  le  bonton  qui  souef  flaire. 

JlLmon  avoli  la  recouvree 
Une  autre  fleke  a  or  ouvree. 
Simplìce  ot  non,  c'est  la  seconde 
Qui  maini  homme  par  mi  le  monde 
Et  mainte  fame  fait  amor. 
Qant  Amors  me  vit  en  primer, 
n  traiat  a  moi,  sana  manecier. 
La  saiete  on  n'ot  fler  ne  ader, 
8i  que  par  mi  le  cuer  m'entra 
Li  fialette  qui  n'en  latra 
lamaia,  le  culo,  par  homme  ne; 
Car  au  tirer  ai  amene 
Le  fuat  o  moi  aana  nnl  contens, 
Mea  la  saiette  remeat  ena. 

kJt  sacies  bien  de  verite» 
Se  i'avoie  devant  eate 
eoi.  SJ  Don  bouton  bien  entalentes, 
Or  fu  ffraindre  ma  volentea. 
Et  quant  li  roana  plus  m'anguissoit, 
Et  la  volentea  me  croisaoit 
Tona  ionrs  d'alcr  viers  le  roaete 
Qui  flairoit  miens  que  violete; 
8i  me  venlat  miena  reculer, 
Mais  ne  pooie  refuaer 
Cou  qne  mea  cuer  me  conmandoit. 
Tout  adiea  la  u  II  tendoit 
Me  couvenoit  aler  i)ar  force, 
Maia  li  arciera  qui  moult  a'eaforce 
De  moi  grever  et  moult  se  painne. 
No  m'i  laist  point  aler  aans  palune; 
Aina  m'a  fait,  pour  mlex  afoler. 
Le  tierce  fleke  ou  core  voler, 
o>%rtoiMie.    Qui  Courtolaie  iert  appiellee. 


La  piale  fu  parfonde  et  lee, 
SI  me  coavint  cheir  pasme 
DeaouB  .1,  Olivier  rame, 
Orant  piece  y  iuc  sana  remner. 
Quant  le  me  poi  eaviertner, 
le  pria  le  fleke  et  ai  boato 
Le  ftiat  tantost  de  mon  coaie; 
Maia  le  aaiete  n'en  pene  traire 
Pour  riena  qne  ie  pensee  faire. 

Jbjn  mon  seant  lores  m'aais 
Moult  anguisseus  et  moult  pensis; 
Moult  me  deatraint  yceate  piale 
Et  me  semont  qne  ie  me  traie 
Ylera  le  bouton  qui  m'atalente. 
Maia  li  arciera  me  reapocnte 
[Une  autre  flolche  de  grant  guise; 
La  quarte  fu,  s'ot  non  Franchiae]  * 
Et  me  doi  bien  eapoenter, 
Qn'eacaudea  doit  iawe  dontcr; 
Mea  grant  coae  a  en  estavoir. 
Se  ie  veiaae  llluec  plouvoir 
Quarriaus  et  pleros  pelle  molle 
Ausai  capes  comme  la  grello, 
13J  So  m'estoet  il  que  g'i  alaisse, 
K'Amors  qui  toutes  cosea  passe. 
Me  donnoit  cuer  et  liardcmont 
De  faire  aon  commandcment. 
le  me  sui  lors  em  piea  dreciea, 
Foivlea  et  vaios  com  hom  blecles. 
Et  m'epforcai  moult  de  marcier: 
Nel  laisBai  onquea  pour  l'arcier. 
Vera  le  rosler  ou  mea  cuera  tant. 
Mala  d*espinnes  y  avoit  tant, 
Oardons  et  roinsca,  c'onques  n'oi 
Pooir  de  passer  l'espinnoi, 
Si  c'au  bouton  penisso  ataindre. 
Lea  le  baie  m'estoet  femalndrej 


*  Questi  dne  veiai  che  mancano  nel  codice ,  soao  rappllti  colla  odia.  F.  UicbeL 


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BOMANZA,    N.*'    3J 


BEL  ROMAN  DE  LA  ROSE 


241 


I  due  sonetti  che  seguono  sono  questi,  corrispondenti  ai  versi  1891-2052 
del  testo  francese,  secondo  la  edizione  che  ho  sottocchio  di  Parigi,  1864, 
a  cura  di  Francisque-Michel  : 

L^ Amante  et  Amore. 

Sentendom*  ismagato  malamente 

Del  molto  sangue  ch'io  avea  perduto, 

E*  non  sapea  dove  trovar  aiuto  ; 

Lo  Dio  d'amor  sì  venne  a  me  presente, 

E  disaemi:  tu-saai  veramente 

Che-ttu  mi  se'  intra-sse  (1)  man  caduto  (i)  questo 

Per  le  saette  di  eh'  i'  t' ò  feruto , 

Siche  convien  che-ttu  mi  sie  ubidente. 

Ed  i'  risposi  :  i'  sì  son  tutto  presto 

Di  farvi  pura  e  fina  fedeltate 

Più  eh'  Assesino  a  Vellio  o  a  Dio  il  Presto  (2). 

E  quelli  allor  mi  puose  in  ventate 

La  sua  bocha  a  la  mìa  senz'altro  aresto, 

E  disse:  pensa  di  farmi  lealtate. 


L'Amante  e  Amore. 

Del  mese  di  gennaio  (3)  e  non  di  magio 
Fu  qnand'  i*  presi  Amor  a  signoria 
E  eh'  i'  mi  misi  al  tutto  in  sua  ballia 
E  saramento  gli  feci  e  omaggio; 
E  per  più  sicurtà  gli  diedi  in  gaggio 
Il  cor,  che  non  avesse  gielosia, 
Ched  i'  fedele  e  puro  i'  no  gli  sia 
E  sempre  lui  tenere  a  segnio  maggio  (4). 
Allor  que'  prese  il  cor  e  disse:  amico, 
1'  son  segnior  assa'  forte  a  servire  : 
Ma  chi  mi  serve,  per  certo  ti  dico, 
Ch' a  la  mia  grazia  non  può  già  fallire, 
Ed  a  buona  speranza  il  mi  notrico 
Infin  eh'  i'  gli  fomischa  su  desire. 


(2)  AUuslo. 
ne  alle  note 
leggende  del 
Vecchio  della 
montagna  e 
del  Prete  Jan- 
ni. 


ttaia 


(4)  O  m' ag- 
gio r 


Qai  estoit  as  roRiers  ioingnant 
Faite  d'esplnnes  monlt  polngnant; 
Monlt  biel  me  fa  que  ion  eetole 
Si  prìes  quo  don  bouton  sentoie 
La  donce  oudour  qui  en  issolt, 
Et  dorement  m' abiellissoit 
Chon  que  le  veoie  a  bandon; 
S'en  avole  tei  guerredon 
Que  mc8  inaus  en  entr'onblioie, 
Pour  le  dellt  et  pour  la  fole. 
Tous  fui  garis  et  moult  fui  aise, 
lamais  n'icrt  riens  qui  tant  me  plaisc 
Gomme  ie»tre  illuecqucs  a  scloui  ; 
^'en  qucsisse  partir  nul  *iour. 


J\j.e8  quant  g*l  oÌ  este  grant  p'ece. 
Li  Dieufl  d'amor»  qui  tout  depiece 
Mon  cner,  dont  il  a  fait  biorsaut. 
Me  redoime  J.  uouviel  asnant 
Et  trait,  por  moi  niettre  a  mescief. 
Une  autro  fleque  derecief, 
Si  que  ou  cncr,  sona  la  mamicllo. 
Me  fait  une  plaie  nouvielle. 
Compaingnio  ot  non  11  saiete:        Comp«fntt. 
Il  n'ent  nullo  qui  plun  tost  mete 
col.  2]  A  mierchi  dame  ou  damolsielle 


10 


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242  VARIETÀ  [giornakr  di  filologia 

Ecca  le  rubriche  degli  altri ,  avvertendo  che  quando  sotto  una  stessa 
rubrica  vi  sono  più  sonetti,  indico  appresso  fra  parentesi  il  numero 
di  essi. 

L*  Amante  e  Amare  (4)  —  L'Amante  e  lo  Sisifo  —  L'Amante  (2)  —  L'Amante 
e  Ragione  —  Limante  —  L'Amante  e  Amicò  —  L'Amante  —  Franchezza  —  Pie- 
tà —  Lo  Schifo  —  L'Amante  e  lo  Schifo  —  Venus  —  Venus  e  Bellacoglienza  — 
L'Amante  —  L'Amante  e  BeUacoglienza  —  L'Amante  —  Castità  —  Gelosia  —  Ver- 
gogna —  Vergogna  e  Paura  —  Lo  Schifo  —  Gielosia  —  L'Amante  (7)  —  L'Amante 
e  Ragione  —  L'Amante  —  Ragione  —  La  (sic)  —  Ragione  —  L'Amante  —  Ragio- 
ne —  L'Amante  —  Ragione  (3)  —  L'Amante  —  L'Amante  e  Amico  —  L'Amante  — 
L'Amante  e  Amico  —  Amico  (24)  —  L'Amante  e  Amico  —  Amico  —  L'Amante  e  Ami- 
co —  Amico  (2)  —  L'Amante  (2)  —  L'Amante  e  Richeza  (2)  —  L'Amante  e  Dio 
d' amore  —  La  Strettii  —  Astinenza  —  Dio  d' amore  e  Falsenbiante  —  Dio  d' amore  — 
Il  consiglio  de  la  baronia  —  L' ordinanze  delle  battaglie  de  la  baronia  —  Lo  Dio 
d' amore  —  La  risposta  della  baronia  —  Amore  —  Falsenbiante  —  Falsenbiante  — 
Falsenìnante  (3)  —  Falso  settbiante  —  Dio  d'amore  e  Falsenbiante  —  Falsenbian- 
te (9)  —  Amore  e  Falsenbiante  —  Falsenbiante  —  Amore  e  Falsenbiante  —  Falsen- 
biante (8)  —  Dio  d' amore  e  Falsenbiante  —  Falsenbiante  (9j  —  Lo  Dio  d' amore  e 
Falsenbiante  —  L' armata  d^  Baroni  —  Comm'  Astinenza  andò  a  Malabocca  —  Come 
Falsenbiante  andò  a  Malabocca  —  Malaboca  Falsenbiante  acostè  (?)  Astinenza  — 
Astinenza  —  Malaboca  —Falsenbiante  —  La  ripentenza  Malabocca  —  Cortesia  e  Lar- 
gheza  è  là  vecchia  —  Fcdsenbiaiite  —  La  vecchia  e  Falsenbiante  —  La  vecchia  e  Bella- 
coglienza —  La  vechia  —  Bellacoglienza  e  la  vecchia  (2)  —  La  vecchia  (50)  —  Bella- 
coglienza (2)  —  La  vechia  e  BeUacogtienza  —  L'Amante  e  la  vechia  —  L' Amante  e 
Bellacoglienza  (2)  —  L'Amante  e  lo  Schifo  —  Vergogna  e  Paura  —  L'Amante  (2)  — 
La  bcUtaglia  —  Lo  Schifo  e  Francheza  —  (Seguono  24  ss.  senza  titolo). 

Chi  ora  apra  il  Roman  de  la  Rose  e  si  faccia  a  scorrerne  le  rubri- 
che fino'  a  quella  inclusivaraente  che  nella  edizione  Frane-Michel  tien 
dietro  al  verso  16,240,  potrà  verificare  come  esse  continuino  sempre  a 
corrispondersi  colle  rubriche  del  testo  italiano  sopra  riportate,  ed  è  quindi 
verosimile  che  anche  T  ultima  parte  del  Rom.  de  la  Rose  non  manchi 
di  corrispondenza  coi  Sonetti,  e  che  ciò  sia  appunto  in  quei  ventiquattro 
finali  che  nel  codice  non  hanno  rubrica.  Infatti  il  24."  contiene  ap- 
punto la  chiusa  del  poema  ed  è  questo: 

Malgrado  di  Bicheza  la  spietata, 
Ch'  unquanche  di  pietà  non  seppe  usare, 
(1)  ma.  camino.  Che  del  camin  (1)  ch^  ò,  nome  Troppo-dare^ 

Le  piaque  di  vetarmene  l'entrata; 
Ancor  di  Gielosia  ch'è-ssi  spietata 
Ohed  agli  amanti  vuole  il  Fior  guardare, 
Ma  pur  el  mie  non  sepella  murare 
Ched  i'  non  vi  trovasse  alcuna  entrata  ; 
[0]nd'io  le  tolsi  il  fior  ch'ella  guardava, 
E  sì  ne  stava  in  sì  gran  sospezone 
Che-Ila  sua  giente  tuttor  inveghiavav 


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BOMAxzA,  N.o  3]  DEL  EOMAN  DE  LA  BOSS  243 

BellacoglieDza  ne  teane  in  pre^^^one 
Perch'ella  punto  in  lei  non  si  fidava, 
£  sì  n'er'ella  dona  di  ragione. 

Ma  raffronti  più  sicuri  ed  esatti  potranno  farsi  i;i  seguito  quando 
sarà  conosciuto  l'intero  testo  e  allora  non  mancheremo  di  tornarvi  sopr^ 
e  di  trattarne  più  ampiamente. 

E.   MONACL 


LA   LEGGENDA 
BEI  TEE  MORTI  E  DEI  TRE  VIVI 

IN  ITALIANO 


Alle  infinite  allegorie  dell'Amore  successero  in  sul  dichinare  dell'età 
media  le  allegorie  della  Morte.  La  Danza  Macabra  allora  colle.sue  spa- 
ventose rappresentazioni  e  coi  suoi  lugubri  canti  percorse  l'occidente, 
ammaestramento  insieme  e  satira  della  sbigottita  umanità,  e  le  tre  arti 
sorelle,  poesia,  pittura  e  scultura  gareggiarono  nel  ritrarla  e  nel  ren- 
derla popolare.  Fra  le  diverse  nazioni  l'Italia  soltanto  non  mostrò  molto 
fervore  nell' accoglierla  e,  benché  monumenti  non  ne  manchino  nemmen 
qui,  come  quello  bellissimo  che  ne  lasciò  l'Orgagna  nei  suoi  affreschi 
del  Camposanto  di  Pisa,  o  quello  dipinto  nel  Monastero  di  S.  Bene- 
detto a  Subiaco,  o  l'altro  sulle  mura  esterne  della  chiesa  dei  Discipli- 
nati a  elusone  (1),  tuttavia  nella  nostra  letteratura  se  ne  veggono  ben 
pochi  vestigi.  Il  sig.  P.  Vigo,  che  pur  ora  molto  lodevolmente  illustrò 
le  vicende  della  Danza  Macabra  fra  noi  (2),  appena  riuscì  a  trovarne 
una  sola  redazione  italiana,  mentre  poi  della  leggenda  Dei  tre  Morti  e 
dei  tre  Vivi,  che  forma  un  episodio  di  quella  e  che  ben  presto  si  diffuse 
anche  separatamente  in  numerose  versioni,  egli  non  ne  rinvenne  che 
una  sola,  la  quale  del  resto  essendo  latina,  ne  lascia  abbastanza  incerti 
sulla  sua  nazionalità.  Io  non  voglio  qui  ricercare  le  cagioni  di  cotale 
povertà,  tanto  più  che  già  il  aig.  Vigo  seppe  ass^i  bene  intuirle  e  metr 


(1)  Un^altra  Danza  Macabra  molto  antica  strarla  prima  che  il  tempo  e  T ignoranza 

conservasi,  per  quanto  mi  vien  riferito,* di-  di  quei  buoni  paesani  la  facciano  scomparire 

pinta  a  fresco  nel  chiostro  di  un  monastero  del  tutto. 

abbandonato  a  Montebuono  in  Sabina.  Giove-  (2)  Le  Danze  Macabre  in  Italia,  Studi 

rebbe  che  qualche  studioso  il  quale  sMotenda  di  Pibtro  Vioo.    Livorno,  coi  tipi  di  Fraine, 

di  cose  d*arte,  si  prendesse  la  cura  d'illu-  Vigo,  187S, 


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244 


VARIETÀ 


[giornale  di  FILOLOOU 


terle  in  rilievo.  Bensì,  essendomi  venuta  alla  mano  una  versione  ap- 
punto italiana  della  leggenda  Dei  tre  Morti  e  dei  tre  Vivi,  stimo  non  inop- 
portuno di  pubblicarla  qui  appresso.  Per  chi  non  Io  sapesse,  la  leggenda 
in  sostanza  è  questa,  che  tre  giovani  principi,  o  tre  re,  mentre  un  giorno 
cavalcando  col  falcone  in  pugno  si  recavano  baldi  ed  allegri  ad  una  par- 
tita di  caccia  seguiti  da  uno  splendido  corteggio,  furono  fermati  da  un 
eremita.  Costui,  che  era  S.  Macario,  mostrò  loro  tre  tombe  scoperchiate 
entro  cui  giacevano  tre  scheletri  reali,  e  facendo  loro  considerare  il  mi- 
sero stato  a  cui  quelli,  una  volta  loro  eguali,  erano  ridotti,  li  persuase 
a  mutar  vita  e,  abbandonato  il  mondo,  a  farsi  penitenti.  La  pittura 
adornò  del  suo  meglio  questo  soggetto,  e  una  variante  ci  è  porta  dal- 
l'esemplare di  Subiaco  dove  dei  tre  principi  mentre  uno  si  rimane  a 
far  Tanacorata,  gli  altri  due  fuggono  e  sono  sorpresi  dalla  morte  che 
li  rovescia  da  cavallo  (1).  Anche  in  quello  di  Clusone  appariscono  delle 
varianti  (2),  e  in  genere  si  vede  che  nel  trattare  questo  soggetto  la 
pittura  fu  più  felice  della  poesia  e  che  questa,  perduta  man  mano  la  parte 
descrittiva,  rimase  una  semplice  moralità  dialogata. 

La  presente  versione  mi  fu  communicata  dal  sig.  Molteni,  il  quale 
la  trasse  da  un  codice  Vaticano  Ottoboniano  segnato  1220  (3).  La  roz- 
zezza della  sua  forma  è  resa  anche  maggiore  dalla  rozzezza  del  copista 
che  ce  la  conservò;  il  verso,  ordinato  a  strofe  di  otto  dipodie  che  rimano 
quattro  per  quattro,  spesso  eccede  o  difetta  della  giusta  misura;  le  ri- 
me, e  sien  pure  talvolta  assonanze,  sono  anch'esse  guaste  di  sovente, 
e  dal  tutto  insieme  ben  pare  che  il  dialetto  dell'autore  e  quello  del  co- 
pista, sebbene  ambedue  meridionali,  non  fossero  peraltro  della  stessa 
provincia  e  non  riuscissero  per  ciò  a  trovarsi  abbastanza  d'accordo  nel- 
r  uso  delle  stesse  forme.    Ma  il  documento  ha  più  importanza  letteraria 


(1)  V(J.  la  descrizione  datane  dal  signor 
Vigo  nelPop.  cit.  p.  34. 

(2)  La  descrizione  con  una  riproduzione 
litografica  si  ha  in  Vallardi,  Trionfo  e 
Danza  della  Morte  o  Dama  Macabra  a 
elusone,  Milano,  1859. 

(3)  Il  codice,  secondo  la  descrizione  pure 
datamene  dal  sig.  Molteni,  è  miscellaneo, 
diviso  in  due  parti,  lap^-ima,  f.  1-68,  mem- 
branacea del  sec.  XIV,  la  seconda,  f.  69-130, 
cartacea  del  sec.  XV.  Esso  contiene:  f.  1- 
56.^^  )  Liber  moralium  de  regimine  domi' 
norum,  qui  alio  nomine  dicitur  Secre- 
tum  secretorum,  conditus  ab  Aristotile  et 
tnissus  ad  Alexandrum  regem  ;  —  f.  56.''  ) 
la  poesia  qui  riportata,  la  quale  è  di  scrit^ 
tura  più  recente  che  non  il  Libar  moralium 


e  riempie  una  pagina  già  lasciata  biauca 
nel  codice;  —  f.  50-65.^  )  Excerpta  et  nota- 
bilia  varia;  —  f.  65.*  -  69)  Orationes  in  in- 
troitu  priorum  ;  —  f,  69-75.'  )  Oratio  in  in- 
troitu  potestatiSy  —  Responsio  ae  officii 
receptio  ;  —  75^"  -  76  )  Oratio  Guerrini  vero- 
nensis  ad  matrimonium; —  f.  76^-88) 
Orat.'  variae  inter  quas  plures  Leon.  Are- 
tini;—  f.  88)  Per  Franciscum  Petrarckatn 
in  reditu  a  partibus  ultramontanis  in 
Ytalia?n:  18  esametri,  cornine.  [S]a/M«, 
cara  deo  tellus  sanctissima ,  salve.  Fioisc. 
Salve,  sanata  parens ,  terrarum  gloria , 
salve;  —  f.  89)  Epist.  Docto  de  Doctis;  — 
f.  92-107)  Seneca,  De  tranquiUitatc ;  — 
f.  108-120)  Prudentii  carmina;  —  t  130) 
lettera  di  Lenitilo  ai  Romani, 


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ROMANZA,  K.«  3]  I  TRE  MORTI  E  I  TRE  VIVI  2Ah 

che  lìngnìstica,  laonde  senza  dilungarmi  ad  analizzarne  la  grammatica  e 
tentarne,  senza  troppa  speranza  di  buon  esito,  la  restituzione,  mi  limito 
a  darlo  quale  si  legge  nel  ms. ,  solo  apponendovi  per  comodo  del  lettore 
alcune  noterelle.  E.  Monaci. 


Cod.  Vatic.  OUóbon.  1220  y  fi.  56,* 

Lo  primo  re  che  nance  (1)  giua,  dice  li  (2)  compagnune: 

non  place  (8)  nante,  que  ei  grande  veseone  (4), 

che  dio  uè  mostra  che  serrìmo  per  cheste  soy  rajsune. 

4  tornamene  da  mal  fare,  che  dìo  non  n  abandony, 
lassamo  li  dilecte  el  (5)  cose  mundane, 
ca  tacte  so  false,  gabatrice  e  nane  (6), 
ca  tacte  so  cadute  (7),  malate  e  male  sane, 

8  se-U  ay  lo  iorno  e  la  sera,  no  lu  (8)  troueray  domane. 

Lo  secundo  re  s  ynoltra  et  mostra  con  de  (9)  grande  paura, 
diche  (10):    tremo  et  afrigome  più  eh  està  uita  dura; 
tant  ò  grande  tremore,  che  la  mente  me  fura. 

is  vego  la  nostra  gloria  moltu  uile  (11)  fegura: 
adunca  Vi  preco  (12)  fugìmo  lo  peccato, 
cha  poy  che  lomo  more,  da  tucte  è  despreczatu; 
ne  parente,  ne  filgu,  ne  amico  nond  è  mente  (13)  amato 

16  trouase  di  ciò  e  à  facto  da  poy  eh  è  trapassatu. 

Lo  terzzo,  co  lo  suo  farcene,  dice  ali  altre  duy: 
questu  che  nuy  uidirao,  ne  sengna  mene  et  vuy, 
che  ciasceuno  sy  repenita  di  li  peccate  (H), 

jo  (15)  in  pouertate,  non  siamo  ricchi  pinne: 
ca  li  caute  et  li  rise  e  li  nane  parlamente, 
li  sollanze  (16),  iochi,  li  caualle  currentc, 
auru,  argentu,  corone  co  le  altre  adornamenti, 

14  lu  uoltu  bellu  che  tuctu  torna  a  mente  (17) . . . 

Lo  primo  mortu  prese  a  dire  :  vno  (18)  fuimo  come  vuy  syte, 
re  prudentissirai ,  dilectosi  e  arditi; 
ora  Simo  vile,  cussi  vui  tornarite. 
s6  da  li  nostre  (19)  peccate  gitine  e  penititi, 


(1)  Forse  nante,  cnf.  2.  (2)  a  li  (3)  ?  sic.  (4)  visione.  (5)  corr.  «  le  (6)  Si- 
milmente Buccio  di  Ranallo,  aquilano,  nella  leggenda  di  S.  Caterina  (cod.  XIII,  D,  59 
della  Bìbl.  Nazion.  di  Napoli),  vv.  5-8:  Cha  le  cose  mundane  Sapitc  cha  so  vane,  Cha 

multi  r  au  uno   anno  Chello  altro  senne  vanno (7)  Probabilmente  caduce , 

per  -che.  (8)  corr.  le  (9)  soppr.  de  (10)  corr.  dice?  (11)  cod.  nile.  (12)  prego. 
(13)  legg.  niente t  (14)  agg.  sui,  (15)  Manca  forse  viviamo  o  altra  simile  parola. 
(16)  sollazzi.        (17)  il  senso  resta  interrotto.         (18)  corr.  nui        (19)  corr.  uostre. 


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246  VABIEl^A  [oiobnalb  di  filologia 

ca  non  uale  recceze  (1),  ne  sapere  dicere  (2), 
ne  forza  di  parente,  ne  reale  amore, 
81  consigi u,  ne  arme,  ne-ssegnore  (3). 

Lo  secundo  morta  parlaua  et  dixi  a  li  caualere: 

eo  tenia  sparucre,  bracchi  et  liareri, 

caualeri  con  uallecte  iostrante  e  gintile  distrere; 
ss  non  me  ualse  la  uit  ai  quando  me  fa  mistei>e! 

so  tornata  luvdura,  li  uermi  me  so  segnore, 

li  parenti  mj  caczano,  1  amichi  me  so  dure. 

e  (4)  li  mei  fossero  state  mundi  e  puri, 
39  no  staria  in  queste  pene  d  esti  lochi  scura  (5). 

Lo  terzo  mortu  dixi,  lo  quale  è-ppiù  disfacto, 

che  questu  mundu  -et  superbo  paremi  folle  e  macto  : 

ca^bellecza,  ne  forza  parerne  uno  tractu: 
4s  eo  che  fui  superbo,  caro  meli  acacto. 

ma  quando  potite  leuare  li  peccate, 

precoue  caramente  gitive  e  confessate; 

ca  poy  eh  è  ca  uenutu,  da  tucte  è  dispreczatu, 
47  auru,  argentu  né  amicu  cai  vai  non  trouate. 


(1)  ricchezze.  tre  verso,  che  doveva  chiudere  la  strofa. 

(2)  il  verso  doveva  finire  in  -ore,  (4)  corr.  se. 

(3)  appresso  manca  verosìmilmente  un  al-  (5^  corr.  scuri. 


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BOMAXZA,    ìi,^   3] 


247 


EASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


1.  Poesie  popolari  religiose  del  secolo  X/F  pubblicate  per  la  prima;  tolta 
a  cura  del  prof.  Giuseppe  Febbaro.  Bologna,  Romagnoli,  1877.  In-8% 
di  pp.  85. 

2.  Baccólta  di  sacre  poesie  popolari  fatta  da  Giovanni  Pellegrini  nel  1446 
pubblicata  dal  prof.  G.  Febbabo.  Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1877. 
In-8%  di  pp.  83. 


Il  Big.  prof.  Ferrare  è  pieno  dì  zelo  per 
la  pubblicazione  di  antichi  testi;  in  pochi 
anni  ha  dato  alla  stampa  diversi  volumi  di 
una  importanza  bastevole  a  giustificare  le 
sue  fatiche,  e  nessuno  studioso  vorrà  certo 
negargli  una  lode  pei  servigi  che  in  tal  guisa 
ira  rendendo  alla  scienza.  Ma  il  suo  zelo 
ha  pure  un  lato  debole,  poiché  lo  spinge  ad 
accelerar  di  troppo  i  suoi  lavori,  onde  so- 
vente accade  che  questi  portino  il  segno  dellst 
fretta  che  si  diede  nello  allestirli  e  faccian 
sentire  il  bisogno  di  nuove  cure  e  di  studj 
più  maturi.  Le  due  pubblicazioni  qui  an- 
nunciate, che  formano  il  volume  CLII  della 
Scelta  di  curiosità  letterarie  edita  dal  sig. 
Komagnoli,  sono  una  conferma  di  quanto 
dicevamo,  e  non  ispiaccia  a  quelT egregio 
uomo  che,  con  tutto  il  rispetto  che  c'ispira 
il  suo  buon  volere,  qui  gli  presentiamo  al- 
cune nostre  osservazioni,  da  nu  ir  altro  mossi 
se  -non  dal  desiderio  di  non  vederlo  confuso 
fra  la  turba  infeconda  di  quei  tanti,  che  si 
danno  a  pubblicare  monumenti  della  nostra 
vecchia  letteratura  quasi  per  trastullo  e  senza 
punto  sapere  del  difficile  magistero  delT  edi- 
tore. 

La  prima  di  queste  due  pubblicazioni  ebbe 
occasione  da  un  codicetto  che  il  sig.  F.  trovò 
nella  Biblioteca  Comunale  di  Ferrara.  Quel 
codice  contiene  una  raccolta  di  antichi  ritmi 
religiosi,  parte  latini  parte  italiani,  e  seb- 
bene i  latini  abbiano  forse  maggiore  impor- 
tanza degli  italiani,  il  sig.  F.  nondimeno  volle 
date  la  preferenza  ai  secondi  e  ne  avrà  avuto 
le  sue  buone  ragioni.    Questi  ritrai  n?!  ms. 


«on-0  tutti  anomini,  ma  confrontandoli  con 
altre  raccolte  se  ne  ritrova  l'autore  e  rile- 
vasi che  parecchi  di  essi  appartengono  o  a 
Jacopone  da  Todi  o  al  Bianco  da  Siena  o 
ad  altri  antichi  laudisti.  Ciò  vide  anche  il 
sig.  F.,  come  n'  è  prova  la  tavola  di  tutti  i 
capoversi  della  raócolta,  che  egli  inserì  nella 
sua  prefazione  (pagg.  6-9)  e  doVe  aggiunse 
i  nomi  di  cotali  autori,  avendoli  senza  dubbio 
dedotti  dalle  raccolte  a  stampa.  Dico  rac- 
colte a  stampa,  dacché  altri  codici  mss.  egli 
non  cita,  e  perciò  confesso  che  non  so  com- 
prendere come  poi  fra  i  17  «  inediti  >  ed 
«  anonimi  >  che  scelse  per  questo  volumetto, 
ne  abbia  inseriti  quattro  che  nella  sua  ta- 
vola aveva  già  restituiti  ai  loro  autori  e  che 
trovansi  appunto  stampati  nelle  diverse  edi- 
zioni di  Fra  Jacopone  o  fra  le  Laudi  spi' 
rituali  (ediz.  del  Galletti  data  da  Firenze 
nel  1863  riproducendo  le  stampe  anteriori 
più  rare),  tutte  edizioni  che,  lo  ripetiamo,  il 
sig.  F.  deve  aver  consultate  per  compilare 
ki  sua  tavola.  La  svista  è  un  po'  grossa. 
Questi  ritmi  sono  quelli  da  lui  contrasse- 
gnati per  B,  C,  G,  L  e  cominciano 

B  Ora  alditi  mata  pacia  (edita  in  Jacop. 

da   Todi,  ediz.  Tresatti,   1.  I,  n.o  7  e 

nelle  Laudi  spirit.  p.  303); 
C  Faciamo  fati  faciamo  (iu  Jacop.  ediz. 

cit.  1,  4  e  nelle  Laudi  spir,  p.  315); 
G  Levate  su  orarnay  (nelle  Laudi  spir. 

p.  207); 
L  Benedetto  ne  sia  el  zorno  (nelle  Laudi 

spir,  p.  2S2). 


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248 


BASSEGNA  BIBLIOGRAFICA     [giornale  di  filolocu 


E  meno  male  se  la  nuova  lezione  porta  dal 
codice  ferrarese  fosse  migliore  delle  prece- 
denti! Ma  tutt* altro:  che  oltre  al  presen- 
tarci essa  uno  strano  amalgama  di  forme 
dialettali  di  più  provincie  (prodotto  senza 
dubbio  dai  diversi  copisti  intermedj  che  si 
successero),  abbonda  poi  di  spropositi  i  più 
grossolani,  fino  al  punto  da  rendere  bene 
spesso  quasi  irreconoscibile  il  metro  e  la 
struttura  primitiva  delle  strofe.  L'enormità 
di  tali  sconci  fu  probabilmente  la  cagione 
per  cui  il  sig.  F.  si  astenne  dal  cimentarsi 
alla  critica  del  testo.  Tuttavia  avrebbe  po- 
tuto, almeno  in  nota,  correggere  alcuni  de- 
gli errori  più  evidenti,  come  in  A  str.  5  v.  4 
apigerato  per  apigerata,  desinenza  femmi- 
nina voluta  dalla  grammatica  e  dalla  rima 
anche  in  13,  1-4;  15,  4  ed  altrove;  e  cosi 
poteva  correggere  ivi,  15,3  aguaiti  per  ara- 
guayti;  22,  1  iocutido  per  locando;  51,  4 
addolorato  forse  per  dolento.  Ma  egli  la- 
sciò tutto  stare,  anche  quando  bastava  a  re- 
stituir la  rima  una  semplice  trasposizione  di 
parole,  come  in  H,  2,3,  ove  fu  scritto  assay 
aveva  in  luogo  di  aveva  assay;  e  quest'ec- 
cesso di  rispetto,  non  per  l'integrità  del  testo 
ma  per  le  sue  magagne,  trattenne  l'editore 
fin  dal  riordinare  le  parole  che  nel  ms. ,  come 
di  solito,  stanno  mal  divise  o  male  aggrup- 
pate. Egli  dunque,  a  mo'  d'esempio ,  in  que- 
sto volume  ci  dà  chiè  per  chi  è,  chio  per 
eh*  V  ò,  Ito  per  li  ò,  mea  per  me  à,  iochi 
per  t  {=sgli)  ochi,  in  sul  fogo  per  in  sul 
fogo,  apiato  per  à  piato  {==* pigliato)  e  di 
rincontro  a  covato  per  acorato  (  =  accor.); 
intra  me  doe  per  intramedoe  (=^entram' 
bedue),  ecc.  ecc.  Pare  al  sig.  F.  che  ciò 
sìa  buono  ?  Ammetto  che  possa  disputarsi 
sulla  convenienza  di  aggiustar  sempre  ad 
antiche  scritture  i  moderni  segni  ortografici, 
e  di  sopperire  con  apostrofi  alle  elisioni  ed 
alle  aferesi;  ma  chi  potrà  mai  consentirgli 
che,  tranne  il  caso  di  alcune  edizioni  diplo- 
matiche, sia  tollerabile  un  sistema  come 
questo  adottato  da  lui,  sistema  il  cui  unico 
risultato  qui  è  di  rendere  vieppiù  difficile  la 
lettura  di  un  vecchio  testo  e  di  procurare  ad 
un  buon  editore  la  taccia  di  cattivo  copista? 
Del  resto  il  sig.  F.  spesso  si  dimenticò  di 
cotesto  rigore  e  qua  e  là  troviamo  e  apo- 
strofi e  accenti  e  altri  segni  dell'ortografia 


moderna,  il  che  accresce  non  poco  la  con- 
fusione. 

La  seconda  delle  raccolte  qui  annunciate 
proviene  essa  pure  da  un  ms.  della  Bibl. 
Comun.  di  Ferrara,  e  sebbene  dal  titolo  che 
reca  nel  codice,  sembri  che  le  poesie  ivi 
contenute  appartengano  tutte  a  Giovanni 
Pellegrini,  nondimeno  il  sig.  F.  giustamente 
le  distinse  in  due  gruppi,  e  ad  uno  riconobbe 
l'autorità  del  Pellegrini  —  il  quale  visse  nella 
prima  metà  del  sec.  XV  —  e  l'altro  assegnò 
ad  epoca  più  remota  e  lo  considerò  di  ori- 
gine affatto  popolare.  Facendo  qualche  ri- 
cerca bibliografica,  il  sig.  F.  avrebbe  po- 
tuto accertarsi  meglio  di  ciò  e  avrebbe  ve- 
duto come,  per  es.,  la  poesia  da  lui  con- 
trassegnata per  V,  già  da  più  di  un  secolo 
avanti  al  Pellegrini  doveva  esser  ben  diffusa 
per  tutta  Italia,  trovandosene  codici  assai 
più  antichi  e  trascrizioni  in  molti  dialetti 
italiani.  Avrebbe  anche  conosciuto  che  la 
stessa  poesia,  lungi  dell' essere  inedita,  era 
stata  già  stampata  più  volte  in  passato  e 
pur  di  recente,  come  negli  Opuscoli  mo- 
rali, relig.  ecc.  di  Modena,  t.  VI,  e  fra  le 
Laudi  di  una  compagnia  fiorentina  del 
sec.  X/F  pubblicate  nel  1870  in  Firenze  per 
nozze  da  monsig.'  Cecconi.  Così  fra  queste 
stesse  laudi  edite  da  mons.  C.  il  sig.  F.  avreb- 
be ancora  ritrovato  part«  delle  altre  poesie 
da  lui  indicate  per  A,  B,  H,  R,  e  non  avreb- 
be dato  per  inedite  cose  che  in  parte  o  in 
tutto  erano  già  per  le  stampe.  Circa  al  modo 
con  cui  i  testi  furono  pubblicati  anche  qui 
hanno  luogo  le  stesse  osservazioni  fatte  per 
la  raccolta  precedente  e  non  le  ripeteremo; 
soltanto  è  da  notarsi  che  qui  il  sig.  F.  non 
di  rado  aggiunse  alcune  note  o  glosse  per 
dichiarare  parole  viete  ed  oscure.  E  fece 
bene,  ma  non  sempre  colse  nel  segno,  come 
quando  spiegò  (A,  12)  zio  per  c'Ao,  mentre 
invece  trattavasi  di  zio,  forma  dialettale  di 
giglio,  e  tutto  quel  verso  che  egli  legge 
Niente  zio  fresco  dorto,  andava  letto  llente 
(o  01.)  zio  fresco  d'orto.  La  glossa  ve- 
dette, apposta  alla  parola  vete  (p.  56)  del 
testo,  non  è  che  un  solecismo.  Noteremo  pu- 
re che  i  raff'ronti  di  forme  ferraresi  con  simili 
spagnuole  (p.  60)  o  rumene  (p.  79),  sono  af- 
fatto oziosi.  Vi\  errore  evidente  di  lettura  è  in 
D,  4, 6,  Vi  voi  per  In  voi;  ivi,  st.  6,  si  tolgano 


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ftOMANSA,  N.^  3] 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


249 


tutte  le  virgolette,  non  essendo  più  Tangelo 
che  parla,  ma  il  poeta  che  ha  ripresa  la  sua 
narrazione.  Nulla  poi  diremo  della  punteg- 
giatura che  ò  scorrettissima  e  nemmeno  degli 
errori  di  stampa  che  formicolano  per  tutto 
il  volume  ;  ma  non  possiamo  tacere  di  un* al- 
tra menda  ben  più  grave  e  che  consìste  nel 
non  avere  spesso  saputo  riconoscere  la  giusta 
divisione  delle  strofe.  Cosk  ad  es.  in  E  i 
versi  sono  ripartiti  in  questo  modo:  1, 2, 3  || 
4,  5,  6  II  7,  8,  9,  10,  II,  12  (|  13,  14,   15  jj  16, 


17,  18,  19  II .  Invece,  i  due  primi  versi,  for- 
mando la  volta,  dovevano  star  da  sé  ;  poi 
dovevano  seguire  quattro  strofe  di  quattro 
versi  ciascuna,  avvertendo  ohe  nella  seconda 
strofa  manca  il  secondo  emistichio  del  ver.  3 
e  il  primo  del  v.  4 ,  e  che  gli  ultimi  quattro 
versetti  non  sono  in  realtà  che  quattro  eroi- 
stichj  i  quali  formano  la  seconda  metà  del- 
l'ultima  strofa.  Anche  di  simili  sviste  ne 
occorrono  parecchie  in  questo  volume. 
E.  Monaci. 


3.  Teorica  dei  verbi  irregolari  della  lingv^italiana.    Saggio  di  morfologia 
comparata  di  Luigi  Amedeo.    Torino,  Loescher,  1877.  —  Iii-8**di  pp.  40. 


La  mancanza  di  una  grammatica  scien- 
tifica della  lingua  italiana  ha  mosso  V  A. 
alla  r^cerca  di  una  teorica  dei  verbi  detti 
«  irregolari  »  diretta  a  stabilire  anche  per 
r  italiano  quelle  regole  che  con  tanto  van- 
taggio furono  stabilite  per  i  verbi  greci  e 
latini.  Air  A.  non  sembra  sufficiente  la  trat- 
tazione delPargomento  che  è  nella  gram- 
matica del  Diez,  anzi  ne  crede  errato  il  si- 
stema (p.  5,  6);  crede  che  anche  i  verbi  ita- 
liani debbano  classificarsi  organicamente  a 
seconda  della  loro  radice,  e  che  lasciando 
pure  inaherata  la  unità  della  coniugazione, 
debbano  distinguersi  i  tempi  o  le  forme  forti 
e  le  deboli  come  si  fa  nelle  altre  gramma- 
tiche storiche  e  comparate.  Dice^che  la  na- 
tura e  lo  sviluppo  di  quelle  forme  non  fu 
peranco  da  alcuno  esattamente  definito,  non 
che  spiegato,  e  che  da  ciò  derivò  Terrore 
d'ammettere  una  intera  coniugazione  forte, 
anche  nel  tempo  presente,  mentre  le  forme 
forti  per  la  lingua  italiana  e  latina  sono, 
egli  dice,  possibili  solo  nel  perfetto  e  par- 
ticipio passato  (9).  -  Non  è  qui  il  luogo  di 
trattare  la  quistione  di  grammatica  generale 
intorno  alle  forme  forti  e  alle  deboli,  argo- 
mento svolto  già  con  grande  ampiezza  e  pro- 
fondità, a  parer  nostro,  in  alcune  «  gram- 
matiche storiche  dove  la  morfologia  è  spie- 
gata scientificamente  »  e  in  molte  monogra- 
fie. Ma  neghiamo  recisamente  che  quel  si- 
stema e  quelle  denominazioni  possano  tra- 
sportarsi alla  grammatica  romanza  air  istesso 
modo  che  si  fa  per  le  altre  lingue  indo-eu- 
ropee.   Il  processo  analitico  il  quale  decom- 


pone la  parola  ariana  in  radice,  tema  e  fles- 
sione, sebbene  si  applichi  a  forme  che  pre- 
sentano già  tracce  di  decadenzfT  storica,  si 
riferisce  sempre  ad  un  periodo  genetico  di 
formazione.  Ma  per  le  lingue  neolatine  i 
momenti  di  formazione  rispondono  esatta- 
mente ai  momenti  di  decadenza  delia  lingua 
madre, e  perciò  in  esse  la  ricostituzione  ariana 
è  contraria  non  solo  alla  verità  storica,  ma 
anche  alla  verità  logica.  Chi  dice  che  sum 
sta  in  latino  per  esum,  dice  una  verità  che 
sarebbe  certissima  per  il  solo  confronto  delle 
altre  forrpe  latine  cjp,  est,  estis,  ecc.  e  delle 
lingue  affini,  quand'anche  di  fritto  non  si 
trovasse  la  forma  esutn  nelP antico  latino; 
ma  quando  TA.  per  provare  la  irregolarità 
di  alcune  forme  presenti  del  verbo  «  essere  » 
dice  che  le  forme  regolari  sarebbero  state: 
eso,  escrnoj  eseno  (p.  12)  produce  forme  le 
quali  sono  non  solo  storicamente  false,  ma 
anche  teoricamente  assurde.  Non  so  che 
cosa  abbia  voluto  significare  TA.  quando 
parla  della  lingua  latina  ^i penetrata  in  gran 
parte  dei  dialetti  »  e  di  certe  forme  gram- 
maticali «  conservate  nella  lingua  italiana, 
che  hanno  nulla  di  comune  con  altre  del 
latino  »  (12),  e  perché  creda  «  anco  insoluta 
la  quistione  sull'origine  del  volgare  italia- 
no »  (11),  questione  che,  almeno  nella  sua 
parte  più  generale,  si  ha  il  diritto  di  tenere 
per  già  risoluta  da  lunga  pezza.  —  Sbagliato 
il  sistema  è  chiaro  che  gli  errori  di  appli- 
cazione debbano  esser  continui;  ne  noteremo 
alcuni.  Divide  i  verbi  a  seconda  della  loro 
radice  in  labiali,  gutturali,  dentali  e  11- 
16* 


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250 


BA8SEGNA  BIBLIOGBAFICA    [qiohhalb  di  viLoumi 


qaidi  (20),  e  riconosce  le  forme  forti  dalla 
semplificazione  delia  radice,  dalla  comparsa 
di  un  elemento  estraneo  nella  flessione,  e 
dalla  perdita  quasi  costante  della  vocale  te- 
matica (10).  Ma  le  forme  labiali  sap-s-i, 
rop-S'i,  viv-s-i  (21,  22)  sono  impossibili  vi- 
cino a  sapui,  rupi,  vivi;  piao-s-i  (pieiC- 
qu-i)  (25)  vicino  a  placui;  ì  verbi  guttu- 
rali rinforzati  quasi  tutti  avevano  perduto 
già  nel  perfetto  latino  la  gutturale  tematica 
o  l'avevano  implicita  nella  ap,  la  quale  in 
italiano,  si  è  semplificata  in  s  (23-27),  e  cosi 
le  dentali ,  rinforzate  o  no,  erano  già  cadute 
in  latino  {chiesto  dato  per  eccezione  (28) 
non  assimila  la  dentale  al  suffisso,  ma  con- 
serva quella  di  quaestus  ),  o  si  erano  assimi- 
late alla  s  della  flessione  (28-31).  Non  era 
lecito  d'investigare  se  la  radice  primitiva 
di  «  crescere  »  e  «  cognoscere  >  fosse  pura 
o  finita  in  labiale  per  spiegare  «  crebbi  »  e 
«  conobbi  0  che  non  posson  metter  capo  al- 


tro che  a  crevt,  cognovi;  e  il  verbo  faa-ere 
(fare)  non  solo  non  è  il  più  anomale  (26), 
ma  anzi  è  regola  rissimo  perché  «  feci  >  ita- 
liano non  aliera  nulla  del  latino  feci.  Del 
resto  non  staremo  a  ripetere  quanto  intomo 
alle  forme  forti  e  deboli  dei  verbi  romanzi 
è  stato  scritto  dal  Burguy  nella  Grammaire 
de  la  langue  d'oìl,  da  Gaston  Paris  nel 
suo  aureo  studio  Sur  le  róle  de  Vaccent  latin 
dans  la  langue  franqaise;  da  Camillo  Cha- 
baneau  nella  Hi^toire  et  theorie  de  la  con- 
jugaison  franQaise ,  e  da  Federico  Diei 
nella  Grammatica,  il  quale  anche  su  questo 
punto  non  ha  sbagliato,  ma  fondato  il  si- 
stema, e  tracciata  una  via  per  la  quale  si 
può  bene  andare  più  lontano  di  lui,  ma  fuori 
di  cui 

A  retro  va  chi  più  di  gir  si  «ibnua. 

Giulio  Navone. 


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BOMÀirzA,  N.*  3]  251 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


1.  Sùudi  di  etimologia  italiana  e  romanjsa:  osservazioni  ed  agginnte  al 

«  Vocabolario  etimologico  delle  lingue  romanze  »  di  F.  Diez,  del 
D.  N.  Caix.  Firenze,  Sansoni,  1878. 

Voi.  in  16.0  di  pp.  XXXV-213.  —  L' utilità  di  questo  libro  si  rivela  dallo 
stesso  suo  titolo  e  a  raccomandarlo  basta  il  nome  dell' autore,  che  gli  amici 
della  BÀvista  e  del  Giornale  di  filologia  romanza  conoscono  da  un  pezzo.  Il 
libro  è  diviso  in  quattro  parti ,  delle  quali  «  la  prima  contiene  osservazioni  alle 
etimologie  del  Diez;  la  seconda  aggiunte  agli  articoli  àeW Etimciogisches  WóT' 
terbuch;  la  terza  è  una  specie  di  glossario  di  voci  toscane  cosi  viventi  come 
antiche;  la  quarta  è  uno  studio  di  quelle  forme  di  alterazioni  che  maggior- 
mente voglionsi  considerare  neir etimologia  ».  Com'è  naturale  non  tutte  le 
questioni  etimologiche  qui  studiate  furono  definitivamente  risolte;  e  così  per  es. 
al  n.  128  si  può  tuttavia  dubitare  che  la  forma  pistoiese  abbiaccare  «  soppe- 
stare,  infrangere  »,  sia  una  derivazione  di  *flaccaret  anziché  metatesi  di  abbac- 
chiare,  che  ò  da  bactdum.  Altri  simili  dubbj  furono  testé  promossi  nella  Nuova 
Antologia  (  15  sett.  78)  e  di  altri  ancora  forse  toccherà  in  seguito  il  nostro  Gior- 
nale, Ma  ciò  nulla  detrae  al  pregio  di  un'opera  come  questa,  il  quale  sta 
non  tanto  nelPaver  felicemente  ritrovato  gli  etimi  di  certe  parole,  quanto  nello 
aver  saputo  ricercarli  con  quella  sagacia  e  con  quella  dirittura  di  metodo  che 
fanno  del  Caix  un  filologo  sì  distinto. 

2.  Dd  vocabolario  savia  nota  filologica  di  Giulio  Giani.  Perugia,  Bar- 

telli,  1878. 

In  8.<»  di  pp.  22.  —  L'A.  ha  trovato  questa  parola  nella  Cronaca  del  Ora- 
ziani e  in  altri  antichi  testi  perugini,  e  qui  si  fa  ad  illustrarne  l'etimo,  che  sa- 
rebbe da  ipsa  e  da  via.  Meglio  da  ipsa  e  da  vice,  come  notò  anche  la  Bassegna  Set- 
timanale (22  Sett.  78);  e  per  la  riduzione  da  ipsa,  issa  a  sa  era  ovvio  il  confronto 
della  forma  sarda  (sa)  nò  conveniva  ricorrere^  come  TA.  fece,  per  lo  stesso 
scopo  allo  spagnuolo,  al  francese  ed  al  valaco.  A  pag.  17  parla  TA.  con  un 
certo  mistero  di  un  testo  «  il  più  prezioso  e  quasi  il  solo  veramente  efficace  e 
fecondo  quanto  raro  documento  dell' ant.  dialetto  di  Perugia  ».  Egli  non  lo  no- 
mina ma  promette  di  farlo  conoscere  in  altro  suo  lavoro  e  qui  si  limita  a  dame 
alcuni  passi  ove  ritrovasi  la  parola  «  savia  ».  Non  si  tratta  per  avventura  del 
libretto:  JMe^itacc»  |  dimesser  \  Mario  Podiani,  \  peroscino,  |  Del  medesimo  una  | 
canzone  \  a'  Peroscia;  \  stampato:  In  Peroscia  Per  GiróUamo  Cartolai  |  aUi,VII, 
di  Maggio  M.  2>.  XXX.  V 


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tb2  BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO    [oiornalk  di  filologia 

3.  Tre  sonetti  antichi.  Livorno,  Vigo,  1878. 

In  16.°  di  pp.  12,  per  nozze  Borghi-Pigni.  —  Editore  dell'opuscolo  h  il  sig. 
E.  Molteni.  I  tre  sonetti,  a  quanto  pare,  sono  inediti  e  nei  mss.  d' onde  li  trasse 
l'editore,  vanno  attribuiti,  il  primo  air  «Imperatore  Federigo  »,  il  secondo  a 
«  Giovanni  Villani  >  ;  il  terzo  é  anonimo.  Del  Villani  non  conoscevasì  finora 
nessuna  poesia  :  questa,  come  la  terza,  é  dì  soggetto  politico.  Il  primo  poi,  d' ar- 
gomento morale  e  didattico,  sarà  veramente  di  Federigo  secondo?  La  forma 
del  sonetto  non  si  ritrova  tra  le  sue  poesie  finora  note,  la  maniera  a*ò  alquanto 
diversa,  e  dei  due  codici  che  contengono  la  composizione,  uno  solo  rattrìboìsce 
a  lui  (essendo  anonimo  T altro)  e  quest'unico  è  del  sec.  XV.  ' 

4.  Storia  della  letteratura  italiana  di  Adolfo  Babtoli.    T.  I:  IntrodU" 

eione ^  Caratteri  fondamentali  della  letteratura  medievale.    Firenze, 
Sansoni,  1878. 

In  16.<^  di  pp.  341.  — Ritorneremo  su  questo  interessante  volume  che  ci  giunge 
mentre  chiudiamo  questa  pagina.  Intanto  ne  piace  far  conoscere  la  mente  del- 
l'A.  neir intraprendere  quest'opera,' trascrivendo  le  seguenti  parole  dall'Avver- 
tenza che  vi  premette  :  «  A  chi  mi  domandasse  quale  h  il  mio  intendimento 
nello  scrivere  questa  Storia,  risponderei  che  cerco  in  essa  dì  rendere  di  non 
troppo  difficile  lettura  un  argomento,  intorno  al  quale  molti  hanno  scritto, 
ma  che  forse  aspettava  sempre  chi  sìntetizasse  e  classificasse  i  materiali  che  le 
più  recenti  scoperte  hanno  forniti,  senza  per  ciò  rendersi  troppo  astruso  e  pe- 
sante. Io  «tesso  scrivendo  un  grosso  volume  che...  intitolai  I  due  primi  secoli 
déUe  letteratura  italiana ,  dovei  abbondare  in  note  e  citazioni,  parendomi  che 
fosse  necessario  giustificare  tutto  quello  che  ih  dicevo,  trattandosi  dì  materia 
quasi  affatto  nuova  in  Italia.  Ora  invece  scrivo  un  libro  che  ha  un  intendi- 
mento diverso:  quello  cioè  di  rivolgersi  a  più  numerosi  lettori  rendendo  loro 
conto  delio  stato  attuale  della  scienza  nel  campo  della  storia  letteraria  italiana. 
I  due  libri  così  vengono  a  completarsi  e  si  recano  vantaggio  scambievole.  Questo 
per  ciò  che  riguarda  la  storia  dei  secoli  XIII  e  XIV.  Per  il  seguito  poi  sarli 
mìa  cura  di  conciliare  la  facilità  della  narrazione  colle  esigenze  della  critica.  > 

5.  Parnaso  portuguejs  moderno^  precedido  da  um  estudo  da  poesda  mo- 

derna portugueza  por  Theopmilo  Braga.    Lisboa,  F.  A.  Da  Silva,  1877. 

In  16.**  di  pp.  Lxrv-318.  —  La  raccolta  si  divide  in  tre  sezioni:  I.  Lirici  por- 
toghesi; II.  lirici  brasiliani;  IIL  lirici  gali iziani.  Quest'ultima  parte  contiene 
molti  saggi  di  poesia  popolare. 


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ROMANZA,  K.**  3J 


253 


PERIODICI 


1.  Archivio  oLorroLoaico  italiano,  Vo- 
larne III,  punt.  2.*  —  G.  Flechta,  Postille 
etimologiche.  —  A.  Ceruti,  La  Cronica  deli 
Imperadori  Romani.  —  G.  I,  Ascoli,  An- 
notazioni dialettologiche  alla  Cronica  deli 
Imperadori. 

—  Voi.  IV,  punt.  3.*  —  V.  Joppi,  Testi 
inediti  friulani  dei  secoli  XIV  al  XIX.  — 
G,  I.  Ascoli,  Annotazioni  ai  Testi  friulani 
e  Cimelj  tergestini.  —  G.  Flechia,  Del  libro 
di  B.  Bianchi  sulla  preposizione  A.  —  G. 
Storm ,  Manipoletto  d' etimologie  :  amòscino, 
baccano,  bettola,  bietta,  borchia,  cerboneca, 
facchino,  fanfano,  mucchio,  peritarsi,  retta, 
screzio.  —  G.  I.  Ascoli,  Il  participio  ve- 
neto in  -ésto;  —  Ablativi  d'imparisillabi 
neutri.  —  F,  D'Ovidio,  Giunte  e  correzio- 
ni. —  Indici  del  volume. 

—  Voi.  V,  punt.  1.»  —  G.  L  Ascoli,  Il 
Codice  Irlandese  delPAmbrosìana  edito  ed 
illustrato.    Con  due  tavole  fotolitografiche. 

2.  RbVUB  DBS  LANOUBS  R0MANB8,  DeUX. 

ser.  a.  1877,  n.*»  10.  —  A  Balaguer  y  Afe- 
rino.  Un  document  inédU  relati f  à  la  Chro- 
nique  catalane  de  Jacme  l.^^  —  A.  Glaize, 
Notice  sur  August  Giraud.  —  J.  Roux , 
Énigmes  populaires  du  Limousin.  —  Th.  Au- 
banel,  A  Carle  de  Tourtoulon. —  A.  Fon- 
rès.  Un  parelh  per  vendemios.  —  P.  Vi- 
dal,  Lou  paisau  e  las  dos  oulos. —  W,  C. 
Bonaparte-Wyse ,  Li  tres  flour.  —  Biblio- 
graphie.  —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.*  11-12.  — -4.  Gazier,  Lettres  a  Gré- 
goire  sur  les  patoìs  de  France.  —  A.  Mon- 
tei,  L,  Lambert,  Chants  popul.  da  Langue- 
doc.  —  A.  de  Quintana  y  Combis,  Cango 
latina  (prefaz.  di  A.  Roque'Ferrier),  —  W, 
C.  Bonaparte-  Wyse,  La  vilo  d'Aigo-morto. — 
MHa  y  Fontanals ,  Esperansa.  —  W.  C.  Bo- 


naparte-Wise ,  La  soulitudo.  —  L.  Rou- 
meuw,  Lucho  d' ostello.  —  W.  C.  Bonapar- 
te-Wise,  Un  Deo-gratias.  —  L.  Roumieujff, 
Lou  ventour.  —  Bibiiographie.  —  Le  chant 
du  latin  en  Italie.  —  Chronique. 

—  A.  1878,  n.»  1.  —  Alart,  Etudes  sur 
Thistoire  de  quelques  mots  romans.  —  A. 
Gazier,  Lettres  à  Grégoire  sur  les  patois 
de  France.  —  C,  Glayzes,  Lou  Pech-Tri- 
nal.  —  T.  Aubanel,  Béumouno.  —  A.  Lan- 
giade,  Lou  Garda-Mas.  —  Bibiiographie.  — 
Perìodi  qnes. 

—  N.o  2.  —  M.  Mila  y  Fontanals,  Po«tos 
lyriques  catalana.  —  L.  de  Ricard,  Lou 
Borda  dau  Lez.  — A.  Fourès,  Le  Vincedoa. 

F,  Ubach  y  Vinyeta,  A  trench  d'auba. — 
A,  Chastanet,  Lous  Pouleits.  —  Bibiiogra- 
phie. —  Périodiqties.  —  Chronique. 

—  N.o  3.  —  W.  Foerster,  L*Evangile  se- 
lon  saiu  Jean,  en  proven^  du  Xill»  siò- 
cle.  —  M.  Di  Martino,  Enigmes  populaires 
siciliennes.  —  A.  Espagne,  A  Jùli  Gaussi- 
nel,  après  la  legido  de  soun  Abdona. —  V. 
Lieutaud,  A  Espagne^Donec  gratus  eram. — 
Bibiiographie.  —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.o  4.  —  IK.  Foerster,  L'Évangile  se- 
lon  sain  Jean,  en  proven^al  du  XIU^^  sie- 
de. —  A.  Roque-Ferrier,  Vv  des  infinitifs 
en  langue  d'oc.  —  A.  Arnavielle,  A-n-Anfos 
Tavan,  après  uno  legido  d'Amour  e  Plour.— 

G,  Azais,  Lous  dous  Canards  sanvages. — 
A,  Le  Gagnaud,  I  Latin  d'Americo.  —  Bi- 
biiographie. —  Périodiques.  —  Chronique. 

3.  Romania,  n.®  25.  —  G,  Paris,  Le  Lai 
de  Tépervìer.  —  P.  Raina,  Una  versione  in 
ottava  rima  del  libro  dei  Sette  savi.  ~  V. 
Smith,  Vìeilles  chansons  recueìllies  en  Ve- 
lay  et  en  Forez.  —  A,  Lambrior,  LV  latin 
en  roumain.  —  Mélanges  :  G.  P,,  Turris  ali- 


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254 


PERIODICI 


[aiOBNALB   DI   FILOLOGIA 


thie.  —  G.  i*.,  chauson  anonyme.  —  P.  M., 
Motets.— (?.  P.,  Surge.— P.  Af.,  Lea  dix-sept 
cent  mille  clochers  de  Prance.  —  G.P,,  Ad- 
dition  d'un  t  non  étjmologique  dans  les  pa- 
tois.  —  J.  Cornu,  Gian  et  Aglan.  ^  L.  Ha- 
vet,  On  et  noiis.  —  Comptes-Rendua.  —  Pé- 
riodìques.  —  Chronique. 

—  N.o  26.  —  P.  Meyer,  La  legende  la- 
tine de  Girart  de  Roussillon.  —  E,  Picot, 
La  Sottie  en  France.  —  Mélanges:^.  Wes- 
seloffky,  Un  nouveau  texte  del  Novas  del 
Papagay.  —  C.  Chàbeneau ,  Sur  Io  pronora 
neutre  en  proven^al.  —  Corrections:  Th. 
Sundby,  Sur  le  Dit  de  Constant.  —  Comptet- 
rendus.  —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.o  27.  —  J,  Cornu,  Glanures  pho- 
nologiques.  Voyelles  toniques  :  a ,  a  tonique 
maintenu,  i=é,  i  atone  protonique  et  i  en 
po«ìtion.  Diphthongues:  ao.  Voyelles  ato- 
nes:  suffixe  -atorem,  de  Tìnfluence  regres- 
sive de  Ti  sur  les  dentales.  Consonnes:  d=n, 
-tume=-tudinem,  sce  sci  et  sca  dans  la 
conjugaison,  rr=-tr  dr.  —  P.  Rajna,  Una 
versione  in  ottava  rima  del  libro  dei  Sette 
Savi.  —  (?.  Paris,  Un  lai  d'amors.  —  Mé- 
langes:  L.  Havet ,  Vvt  dans  le  Saint  Lé- 
ger.  — G^.  P,  Trouver.  — /.  Comu,  Conju- 
gaison dea  verbes  aidier,  araisnier  et  man- 
gier.  —  P.  Af.,  manjar.  —  P.  3f.,  Buten- 
trot,  —  Les  Achoparts,  —  Les  Canelius.  — 
Comptes-rendus.  —  Périodiques.  —  Chro- 
nique. 

4.  Zeitschrift  pur  romanische  philolo- 
GiB,  I,  n.o  2-3.  -  W.  Vietar,  Der  Ursprung 
der  Virgilsage.  —  Th.  Braga,  0  cancio- 
neiro  portuguez  da  Vaticana.  —  A.  Stim- 
ming,  Die  Syntax  des  Commines.—  ^4.  Pax 
y  Melia,  Libro  de  Cetreria,  y  una  Profecìa 
de  Evangelista, —^.  Scheler,  Li  prìere  Theo- 
philus.  —  Th.  Aurarher,  Der  sogennante 
poitpvinische  Pseudotnrpin.  —  Miscellen  : 
E.  Mail,  Noch  einmal:  Marie  deCompiègne 
und  das  E  vangile  aux  ferames.  —  A.  Weber, 
Zìi  den  Legenden  der  Vie  de  pères.  —  R. 
Kóhler,  Ueber  die  Dodici  conti  morali 
d'Anonimo  senese.  —  E.  Monaci,  Il  Libro 
reale.  —  P.  Rajna,  Intorno  a  due  canzoni 
gemelle.  —  E.  Stengel,  Studien  ùber  die 
provenzal.  Liederhandschriften:  I.  Die  ko- 
penaguerSamralung  provenzal  ischer  Lieder. 
—   W.  Foerster,  Zur  altfranzòsischen  Ue- 


bersetzung  der  Isidorischen  Synonìma.  — 
A,  Mussa fia,  Zum  altfranzòs.  Gottfried  von 
Monmouth  edd.  Hofmann  u.  Volmòller.  — 
H.  Rònsch,  Romanische  Etymologien.  — 
N,  Caiof,  Voci  nate  dalla  fusione  di  due  le- 
nii. —  H.  Suchier,  Franzòsische  Etymo- 
logien. —  Recensionen  und  Anzeigen.  — 
Diez-Stiftung. 

—  N.o  4.  —  A.  Stimming,  Die  Syntax  des 
Commines.  —  U.  A,  CaneUo,  Il  Vocalismo 
tonico  italiano,  §  IX-XI  (continuazione  dalla 
Rivista  di  fllol.  rom.)  —  A.  Weber,  Zwei 
ungedruckte  Versionen  der  Theophìlussa- 
ge.  —  Miscellen:  H.  Vamhagen,  Die  hand- 
schriftl.  Erwerbungen  des  Mus.  Brit.  auf 
dem  Gebiete  des  Altromanischen  in  dem 
Jahrem  von  1865  bis  Mitte  1877.  —  H.  Var- 
nhagen,  Zu  Deux  redactions  du  roman  des 
Sept  Sages  de  Rome  ed.  G.  Paris.  —  //. 
Suchier,  Zum  Dialogus  anime  conquerentis 
et  rationis  consolantis.  —  A.  Tobler ,  Zum 
Dialogus  anime  et  rationis.  —  W.  Foerster, 
Spanisch  enclenque;  Altfr.  re  «  Scheiter- 
haufen  ».  Vaincre  und  mangier.  Franz, 
selon;  Franz,  beau  aus  belium.  —  V,  A, 
CaneUo,  Perder  Terre.  — Recensionen  und 
Anzeigen.  —  Diez-Stiftung.  —  Register. 

—  Supplementheft  1.  —  Bibliographie 
1875-76. 

II,  n.o  1.  — F.  Perle,  Die  Negation  in 
Altfranzòsischen.  —  A,  Tobler,  Vita  del 
beato  fra  Jacopone  da  Todi.  —  O.de  Toledo, 
Vision  de  Filibert.  —  K  Baruch,  Zu  den 
provenzalischen  Lais.  —  Miscellen:  S.  Bau- 
quier,  Ramon  Feraud  et  son  Comput.  — 
W.  Foerster,  Der  Turiner  Gliglois;  —  Zu 
dem  Alexanderfragment  der  Laurenziana.  — 
H.  Vamhagen ,  Zu  Barsch's  altfranz.  Chre- 
stomathie.  —  H.  Suchier,  Zu  Adgaps  Theo- 
philus.  —  J.  Bauquier,  Corrections  au  Do- 
nai proensal.  —  W.  Foerster,  Etymologien  : 
hanste,  stordire,  spoine,  croccia,  roche, 
ruer,  maintre.  —  J,  Bauquier ,  A  propos 
d'une  lacune  de  nos  dictionnaires  de  geo- 
graphie.—  W.  Foerster,  Das  altfranz.  Pron. 
possess.  abs.  fem.  —  A.  Gaspary ,  Altita- 
lienisch  und  Altfranzósisch  si  fiir  ital.  fin- 
ché, franz.  jusqu'à  ce  que.  —  F.  Rausch, 
Sprachliche  Bemerkungen  zum  Mùsserkrieg 
des  Gian  von  Travers.  —  Recensionen  und 
Anzeigen.  —  Diez-Stiftung. 

—  N.o  2.  —  K.  Bartsch,  Ein  keltisches 


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ROMANZA,   N.^  3] 


PERIODICI 


255 


Versmass  ini  ProvenzalischeD  und  Fpanzd- 
sischen.  —  P.  Rajna^  Il  Cantare  dei  Can- 
tari e  il  Serventese  del  Maestro  di  tutte 
TArti.  —  H.  Suchier,   Die   Mundart  dee 


saillir  la  limace.  —  K,  Bartsch,  Roman. 
Btymologien:  eissa labetar,  estavoir  stover, 
estalvar,  percer,  pievi r,  ré.  —  F,  Settegast, 
Franz.  Etymologien:  Feillon,  Ondee.  —  Re- 


Leodegarliedes.  —  Miscellen:  G,  Baist,  Às-     censionen  und  Anzeigen.  —  Diez-Stiftung. 


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256 


NOTIZIE 


Nel  passato  maggio  ebbe  luogo  in  Montpellier  la  prima  festa  latina  istituita  dai  Fe- 
libri allo  scopo  di  rafforzare  e  cementare  fra  i  popoli  romanzi  il  sentimento  della  loro 
unità  Come  potevasi  aspettare,  le  feste  riuscirono  splendide  e  fu  considerevole  il  numero 
dei  forestieri  e  segnatamente  dei  dotti  che  affluirono.  La  Société  pottr  l'étude  des  lati- 
gues  rotnanes  promette  di  pubblicarne  in  breve  una  relazione  ove  ancora  si  darà  conto 
dei  due  concorsi,  filologico  e  letterario,  banditi  per  tale  occasione  e  che  già  precedente- 
mente annunziammo  (  v.  p.  68). —  Per  il  primo  di  quei  concorsi  la  Società  chiamò  a  far 
parte  del  giurì  di  esame  il  redattore  di  questi  fogli.  Il  medesimo,  trattenuto  allora  in 
Roma  dagli  obblighi  del  suo  officio,  non  avendo  potuto  corrispondere,  com'era  suo  de- 
siderio, a  quell'invito,  sente  il  debito  di  ringraziar  qui  la  Società  per  l'onorevole  e  deli- 
cato incarico  a  cui  volle  in  quella  occorrenza  designarlo.  —  Il  premio  dell'altro  concorso 
per  il  canto  del  latino,  fu  conferito  al  celebre  poeta  rumano  sig.  fì.  Àlecsandri.  Bukarest 
fu  proclamata  a  sede  deUa  seconda  festa  latina. 

In  questi  ultimi  mesi  la  filologia  neolatina  ha  perduto  diversi  suoi  cultori.  In  In- 
ghilterra moriva  Tommaso  Wright,  in  Ispagna  Amador  de  los  Rios,  a  Vienna  il  barone 
A.  de  Varnhagen,  in  Francia  Carlo  Grandgagnage.  Quest'ultimo  forse  meno  conosciuto 
dei  precedenti  occupa  tuttavia  un  posto  distinto  fra  i  romanisti,  essendo  stato  uno  dei  primi 
io  Francia  «  à  comprende,  come  osserva  la  Romania,  la  portée  des  ouvrages  de  Diez  et 
à  travailler  avec  la  méme  méthode  et  sur  les  mémes  bases  ».  Si  ha  di  lui  fra  altri  la- 
vori un  eccellente  Dictionnaire  de  la  lavgue  wallomìe,  che  non  fu  compiuto. 

La  cattedra  di  storia  comparata  delle  lingue  classiche  e  neolatine  nella  Università 
di  Palermo  fu  ottenuta  per  concorso  dal  doti.  F.  G.  Fumi. 

Il  Re  d'Italia  ha  fondato  all'Accademia  dei  Lincei  «  due  premj  annui  di  lire  10,000  ca- 
^launo,  destinati  alle  due  migliori  memorie  originali,  l'una  per  le  scienze  fisiche  matema- 
tiche e  naturali,  l'altra  per  le  morali  storiche  e  filologiche,  e  scoperte  scientifiche  che 
fossero  presentate  all'Accademia  », 

La  Société  des  études  historiques  ha  aperto  il  concorso  per  un'opera  sulla  Histoire 
des  origines  et  de  la  formation  de  la  langue  franqaise  jusq'à  la  fin  du  seizihne 
siede.    Il  premio  è  di  1000  franchi.    (V.  Romania,  n.o  2&). 

La  Romania,  n.o  25,  annunzia  che  G.  Paris  ha  raccolto  tutte  le  copie  dei  diversi 
manoscritti  del  Roman  de  Roncevaux  e  che  si  propone  di  darne  una  edizione  critica,  co- 
me ancora  intende  di  dare  una  nuova  edizione  del  Fterabras  secondo  tutti  i  mss.  conosciuti.  Il 
prof.  Caix  prepara  un  Dizionario  etitnologico  dellalinguu  italiana.  E.  Stbnqel  sta  per  pub- 
blicare una  edizione  diplomatica  ed  una  riproduzione  fotografica  del  testo  di  Oxford  a^llà 
Chanson  de  Roland.  Si  attendono  prossimamente  anche  queste  altre  pubblicazioni:  A. 
Mattioli,  Vocabolario  romagnuolo  italiano  pei  tipi  del  Galeati  d'Imola;  G.  Carducci, 
un  volume  di  Ballate  italiane  pei  tipi  del  Zanichelli  in  Bologna.  Il  Zanichelli  sta  pure 
per  pubbicare  la  quarta  edizione,  notevolmente  accresciuta,  di  quell'utilissimo  lavoro  bi- 
bliografico del  Commend.  Zambrini  che  ha  per  titolo  Le  opere  volgari  a  stampa  dei  se- 
coli XIII  e  XIV  indicate  e  descritte. 

^  Il  prof.  A.  GiANANDREA  ha  cominciata  la  pubblicazione  di  una  Biblioteca  delle  tra- 
dir ioni  popolari  marchigiane.    La  puntata  1  »  testé  uscita  contiene  Novelline  e  Fiabe. 

Chiamiamo  poi  l'attenzione  dei  culturi  dell'antica  letteratura  italiana  sopra  un  recen- 
tissimo lavoro  giuntoci  pur  ora  da  Berlino,  del  sig.  A.  Gaspary,  Die  sicilianische  Di- 
chterschule  des  dreizehnten  Jahrhunderts  (Berlin,  Weidmann).  Il  Giornale  non  man- 
cherà di  darne  conto  a  suo  tempo.  Intanto  perché  si  abbia  una  idea  sul  contenuto  del 
volume,  ne  trascriviamo  qui  l'indice  delle  materie:  I,  Entstehung  und  Charakter  der 
àltesten  italienischen  Lyrik;  II.  Der  Einfluss  der  provenzalischen  Poesie;  III,  Befreiung 
von  provenzalischen  Einfluss;  IV,  Die  Sprache. 


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ANNUNZI 


;tofa8c.  &p.^l}. 

51). 

tip.  democraUi^ 

velli. 

?orÌDO,  Baglìòne. 

iloma,SalviaccL 

Herrmansierfer, 

eia,  GaU. 

,  Zabichenì. 
t  Qara^nanL 


^Da^Rcanagoon. 
^ ,  tipw  Tiberina 


I,  Soliani. 
iìographkiQe  de 

'extegder  Ckan- 
ialle,  Niemeyer. 
oea  and  Glossar. 

tétto  ronanesco. 


ade  di  Jesd^nil 


ria. 

(ìpiJg,  Dtinsky. 


ks  bistoiiques  et 
lin,  Weidmaim./ 


respohsabik. 


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^JÈsm 


N.o  4  i  T.  IL  Faao.  1  e  2  ).  GENNAJO  1879 


GIORNALE 


DI 


FILOLOGIA  ROMANZA 


DIBETTO 


ERNESTO  MONACI 


^^•^'*^^v^ 


TORINO     ROMA     FIBENZE 

ERMANNO  LOESCHER  E  0/ 

Via  del  Ck>no,  807. 


PARIGI  tOHDRA 

Lfbrerift  A.  Frmck.  Trùbner  e  O. 

HALLE 

Ulurerift  Lipperft 

(M.Niemeyer). 


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CONTENUTO  DI  QUESTO  FASCICOLO 


N.  Caix,  SuUa  declinazione  romanza pag.  l 

N.  Caiz,  SuW  influenza  délP  accento  nella  Conjttgazione       ...           »  10 

P.  Viao,  DèOe  Bime  di  Fra  Guittone  cT  Arezzo  .....           »  19 

W.  FoRESTEB,  Un  testo  diàletttale  italiano »  44 

P.  BuLJisA,  Tosto.' »  57 

Varietà 

F.  d'  Otuuo,  Ancora  dd  perfetto  debole ....'...  »      68 
N.  Oaiz,  SuTf  etimologia  spagnuóla » 

N.  Caix,  Utaitato .  »  71 

A.  D'Ancona,  Osservazioni  ad  un  articolo  del  Prof.  A.  Borgognoni 

Std  Sonetto  .       .       . .  .      »  72 

P.  Eajna,  Postilla  alP  art.  un  Serventese  cóntro  Boma       ...  >  73 

Rassegna  blbUograflca 

II.  A.  Caztbllo,  Die  Biographie  des  Tróbadors  OmQem  de  Capestaing 

und  ihr  historischer  Werth  von  EkiL  Brsohmidt     ....  »      75 

A  D*Anoova,  e.  MoLTsm,  Le  Opere  volgari  à  stampa  dei  seeóU  XIII 

e  XlVf  indicate  e  descritte  dal  comm.  Francesco  Zambmìsi.       .  »      79 

G.  Navone,  Die  SicQianische  Dichterschule  des  dreizehnten  Jàhrhun- 

derts  von  Abolv  Gaspabt »    100 

A.  Zenatti,  I  novellieri  italiani  in  prosa  indicati  e  descritti  da  G.  B. 

Passano       ............  »    104 

Bollettino  bibliograiloo 

»    106 

Periodici 

>    115 

Notisie 
>    118 


GIORNALE  DI  FILOLOGIA  ROMANZA 


Ogni  volume  di  16  fogli  di  stampa  (256  pagine  in  S"*  gr.)  distribuiti  per  fasci* 
coli,  possibilmente  trimestrali,  da  4  a  8  fogli  cadauno,  costa  10  lire  in  Italia,  lOmàr^ 
ehi  in  Germania,  12  fra  fichi  negli  altri  paesi  delP  estero^ -<- Gli  abbonamenti  si  fannQ 
per  volumi  e  si  ricevono  dagli  editori  (E.  Loesober  e  •C.^'  Roma,  Torino,  Firemse) 
e  da  tutti  i  principali  libraj. 

Per  quanto  s' attiene  alla  <iompilazione,  e  per  rinvio  dei  ms8.,  cambj  ed  altre 
stampe  T indirizzo  è  al  prof.  E.  Monaci,  Boma,  Piazza  della  Chiesa  Nuova,  33; 
per  quanto  poi  si  riferisce  alla  amministrazione  V  indirizzo  h  al  signor  EaMAinia 
LoBsoBEH  e  C.<»  Boma,  Via  del  Corso,  307. 


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GIORNALE 


DI 


FILOLOGIA  ROMANZA 


DIRETTO 


ERNlTiSTO   MONACI 


TOMO  II. 


ROMA 
ERMANNO  LOESCHER  E  C^ 

Via  del  Corso,  307. 


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INDICE 


N.  Caix,  Sulla  declinazìoDe  romanza pag.  1 

N.  Caix,  Suir  influenza  dell' accento  nella  Conjugazione       ...  :»  10 

P.  Vigo,  Delle  Rime  di  Fra  Guittone  d'Arezzo »  19 

W.  FoBSTBB,  Un  testo  dicUettale  italiano »  44 

P.  Rajma,  Tosto *  57 

F.  NovATi,  Il  Pater  Noster  dei  Lombardi >  \ti 

R.  Poterli,  Un  nuovo  testo  veneto  del  Renard »  153 

G.  BsBNAHDi,  Noterella  al  verso  46  del  III  delPInferno       ...  >  164 

F.  Sbttbgast,  Jacos  De  Forest  e  la  sua  fonte »  172 

A.  D'Ancona,  Strambotti  di  Leonardo  Gii*stiniani       .        .        .        .  »  179 

G.  Salvadori,  Storie  Popolari  Toscane »  194 

A.  Thomas,  De  la  Confusion  entre  r  et  5  xr  en  proyen9al  et  en  fran9ais.  >  205 

Varietà, 

F.  D'Ovidio,  Ancora  del  perfetto  debole »  63 

N.  Caix,  Sull'etimologia  spagnuola *  66 

N.  Caix,  Malato »  71 

A.  D'Ancona,  Osservazioni  ad  un  articolo  del  Prof.  A.  Borgognoni 

sul  Sonetto >  72 

P.  Rajna,  Postilla  all'art.  «  un  Serventese  contro  Roma  »...  »  73 

I.  Giorgi,  Aneddoto  di  un  Codice  DatUesco    .        .        .        .        .        .  »  213 

G.  Lbvi,  Poesie  civili  del  secolo  XV »  220 

G.  Salvadori,  Due  Rispetti  Popolari »  230 

A.  GiANANOREA,  Della  novella  del  Petit  Poucet »  231 

Rassegna  bibliografica 

Beschnidt  e.,  Die  Biographie  des  Tróbadors  GtUUem  de  Capestaing 

und  ihr  historischer  Verth  (U.  A.  Canello) >  75 

Zambrini  F.,  Le  Opere  volgari  a  stampa  dei  secoli  XIII  e  XIV  indi- 
cate e  descritte  (A.  D'Ancona,  E.  Molteni) »  79 

Gasp  ART  A.,  Die  Sicilianische  Dichterschule  des  dreizéhnten  Jahrhun- 

derts  (G.  Navone) >  100 

Passano  G.  B.,  I  novellieri  italiani  in  prosa  indicati  e  descritti  (A. 

Zenatti) »  104 

Zumbini  B.,  Il  Filocopo  del  Boccaccio  (E.  Monaci) »  234 

FoRNAciARi  R.,  Grammatica  italiana  deWuso  moderno  (G.  Navone)    .  >  237 

BASAaioLA  A.,  Italienische  Grammatikmit BerUcksichtigung des  lateini- 

achen  und  der  romanischen  Schwestersprachen  (G.  Navone)  .       .  »  239 


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iv  INDICE 


Ballettino  bibliografico 

Num.  4.° pag.  106 

Num.  5.0 >    241 

Periodici 

Archivio  glottologico  italiano.        .       , pagg.  115,  251 

Reyne  des  laDgues  romanes. >  115,  251 

Romania »  115,  251 

Romanische  Studien >  252 

Zeitschrift  fOr  romaniache  Philologie *  116,  253 

Notizie 

Gennaio  1879 pag.  1 18 

LugUo  1879 »    254 


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GIORNALE  DI  FILOLOGIA 
ROMANZA 


. .  patriam  divorois  gentibns  tmam. 

RUTIMO  Namasiako. 


N.o  4  GENNAJO  18  7  9 


SULLA  DECLINAZIONE  ROMANZA 


I.  L'articolo  italiano 

Fra  le  varie  questioni  sollevate  sull'origine  e  sulla  storia  della  de- 
clinazione romanza,  intorno  alle  quali  mi  propongo  esporre  alcune  mie 
osservazioni,  la  prima  che  si  presenta  è  quella  che  riguarda  l'Articolo 
italiano,  e  Egli  è  spesso  difficile  e  ingrato  studiare  sotto  l'aspetto 
etimologico  delle  parole  di  così  piccola  dimensione  »,  nota  giustamente 
a  tal  proposito  il  Diez,  e  ciò  spiega  come  le  difficoltà  che  su  questo 
punto  si  presentano  non  sono  state  tutte  ben  chiarite,  e  come  i  gram- 
matici volentieri  le  sorvolino,  benché  a  parecchi  non  sia  sfuggita  l'in- 
sufficienza delle  ricerche  fatte  per  rendere  ragione  della  varietà  di  forme 
dell'articolo  italiano  e  per  spiegarne  le  relazioni.  Il  primo  tentativo 
metodico  è  quello  del  Grober:  «  io,  W,  U,  im  AUitalienischen  >,  Zeitsehr. 
fur  rom.  Fhilol.  I,  108.  Trovando  poco  spiegabile  l'uso  promiscuo  di  il 
e  lo  nell'italiano,  e  notata  l'insussistenza  delle  differenze  che  nell'uso 
delle  due  forme  alcuno  aveva  voluto  vedere,  il  Grober  cercò  mostrare 
che  le  due  forme  si  riducono  in  orìgine  ad  una  sola;  vale  a  dire  che 
U  non  è  una  forma  a  sé,  primitiva  al  pari  di  Zo  e  nata  dalla  prima  sil- 
laba di  itle^  ma  una  forma  nata  posteriormente  da  l  enclitico,  che  alla  sua 
volta  non  sarebbe  che  un  lo  apocopato.  E  questa  sua  teoria  egli  non  ha 
mancato  di  corroborare  con  diligenti  e  larghe  indagini  negli  antichi  testi 
italiani.  A  me  si  presentò  sempre  come  più  persuadente,  ad  eliminare 
alcune  almeno  delle  difficoltà  su  cui  insiste  il  Grober,  un'  altra  spiega- 
zione basata  sul  criterio  che  mi  pare  fondamentale  nello  studio  della 
varietà  e  promiscuità  .delle  forme  letterarie  italiane  e  sopratutto  delle 
differenze  tra  l'uso  della  poesia  e  quello  della  prosa  molto  notevoli 
anche  in  questa  parte,  voglio  dire  il  criterio  di  una  primitiva  base 

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2  N,  CAIX  [giornale  di  filologia 

meridionale  della  lingua  letteraria,  che,  come  in  più  occasioni  ho  cer- 
cato mostrare,  rende  ragione  di  non  poche  altre  anomalie  ed  incertezze. 
Posteriori  osservazioni  ed  uno  studio  comparativo  degli  antichi  mss.  mi 
hanno  per  una  parte  confermato  per  Y  altra  completata  codesta  spiega- 
zione, che  verrò  di  mano  in  mano  svolgendo  nello  stesso  tempo  che 
prenderò  ad  esame  gli  argomenti  del  Grober  e  cercherò  mostrare  per- 
che mi  paia  errata  la  sua  teorìa. 

Uno  degli  argomenti  del  Grober  è  «  T  irregolarità  fonetica  consistente 
nel  mantenimento  dell'  i  in  posizione  di  illum^  mentre  egli^  dla^  eglino^ 
elle,  quello,  ecc.  non  meno  che  l'articolo  dialettale  eZ,  e\  mostrano  con- 
cordemente un  e  regolarmente  sviluppatosi  dalla  stessa  base,  non  che  il 
completo  isolamento  di  una  forma  con  i  da  iUe,  che  non  può  ravvisarsi 
neppure  nelle  forme  del^  alj  del,  nel^  ecc.  che  sono  piuttosto  regolari 
accorciamenti  prodotti  dalla  consueta  apocope  di  o  che  segue  a  l  negli 
antichi  de  ìo^  a  lo,  ne  lo  ecc.  >....«  Perocché  nella  teoria  del  Diez, 
Gramm.  IP  27,  secondo  la  quale  U  non  sarebbe  meno  antico  di  el  e  si 
spiegherebbe  colla  tendenza  deiritaliano  a  mantenere  l'i  iniziale,  come 
p.  e.  in  in,  indi,  intra,  infante  vengono  inesattamente  trascurati  i  re- 
golari egli,  ella  ecc.  e  le  forme  come  en,  ende,  entro,  entrare^  endice, 
empiere  ed  altre  che  contrastano  all'esistenza  della  tendenza  accennata, 
e  si  viene  a  considerare  il  fenomeno  fonetico  dello  spostamento  dell'i 
tiWe  in  modo  del  tutto  astratto  e  non  come  egualmente  basato  sopra 
un  mutamento  nel  meccanismo  dell'articolazione  dell'originario  t  ì  nel- 
l'organo italiano  ».  Questo  ingegnoso  ragionamento  prescìnde  da  nna 
considerazione  che  qui  è  fondamentale,  cioè  che  l'articolo  è  una  proclitica, 
che  subordinandosi  all'accento  della  parola  seguente,  viene  a  costituire 
con  questa  una  sillaba  atona,  la  cui  vocale  sì  sottrae  perciò  alle  leggi 
comuni  del  vocalismo  tonico  romanzo,  per  conformarsi  alle  speciali  ten- 
denze che  in  ciascuna  lingua  determinano  le  modificazioni  del  vocalismo 
atono.  Quello  dunque  che  vale  per  iUe  pronome  che  sta  spesso  da  sé 
ed  ha  proprio  accento,  non  vale  per  ille  articolo  che  non  lo  ha  mai. 
(iuindi  se  abbiamo  una  lingua  che  all' atona  segua  diverse  norme  che 
alla  tonica,  dovrà  modificare  diversamente  la  parola  secondo  il  posto  che 
essa  occupa  nel  discorso,  e  il  doppio  riflesso  di  Ule  secondo  che  esso 
è  articolo  o  pronome,  cioè  secondo  che  è  atono  o  tonico,  non  che  co- 
stituire un'anomalia,  dovrà  considerarsi  come  perfettamente  regolare. 
Ora,  che  il  toscano  centrale  e  in  ispecie  il  fiorentino  preferisca  all'attua, 
sopratutto  all'iniziale,  l't  all'è,  non  mi  occorre  qui  di  dimostrarlo,  dopo 
i  tanti  fatti  che  ho  altrove  addotti,  i  quali  provano  che  non  solo  in 
questo  dialetto  l'i  latino  si  mantiene  dove  altri  dialetti  cominciando 
dal  senese  e  dall'aretino  lo  convertono  in  e,  ma  che  in  esso  tende  a 
passare  in  i  anche  Ve  latino,  quando  speciali  influenze  consonantiche 
non  lo  impediscono  (Osserva:^.  Sìd  Vocaì.  Hai,  §.  XI).    La  nota  del  Diez 


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ROMANZA,  N,«  4]      •  SULLA  DECLINAZIONE  liOMANZA  8 

andrebbe  però  modificata  in  questo  senso,  che  invece  di  <  iniziale  »  si 
dovrebbe  porre  e  atono,  specialmente  iniziale  >,  e  così  negli  esempi 
che  egli  dà,  andrebbero  eliminati  quelli  di  i  tonico,  come  vidi,  intra, 
ingmm^  perché  in  questi  la  conservazione  dell' t  spetta  ad  altra  tendenza, 
cioè  a  quella  che  in  toscano  mantiene  talvolta  Vi  tonico  davanti  a  n 
complicato  (pingere  ecc.).  Dalla  stessa  confusione  proviene  la  falsa  affer- 
mazione del  Diez  che  egli  stia  per  igli,  perché  questo  avrebbe  avuto 
suono  disaggradevole,  mentre,  come  vedremo,  anche  la  forma  i(fii  oc* 
corre,  ma  solo  all' atona.  Del  resto  gli  altri  esempi  in,  infante^  infermo ^ 
Ispagna  sono  perfettamente  a  proposito,  poiché  in  quando  è  particella 
essendo  atono  non  meno  che  quando  è  in  composizione,  mantiene  il  suo 
i,  nella  stessa  maniera  che  Ule  mantiene  Vi  e  come  particella  atona  (il) 
e  come  componente  di  Iddio.  E  si  potrebbero  citare  anche  esempi  di  e 
iniziale  latino  passato  in  i  davanti  a  l:  cUestro^  spUonca^  e  in  sillaba 
mediana:  LancUoUo^  dall' ant.  LancdoUo  =  fr.  LancdoL  Tra  gli  esempi 
che  cita  il  Grober  in  contrario  en  non  è  del  puro  toscano,  e  gli  altri 
poggiano  suir accennata  confusione  tra  atona  e  tonica,  perché  entro, 
éndice^  empiere  offrono  e  da  «  tonico  in  posizione.  Anche  in  entrare 
Ve  h  dovuto  airinfiuenza  delle  forme  toniche  etìtro  -i  -a,  come  in  temere 
a  quella  di  temo  ecc.  (cfr.  per  contrario  timone  per  temone)^  in  piegare 
a  quella  di  piego  =  plico  ecc.  La  diversa  forma  perciò  presa  da  Ule, 
secondoché  è  adoperato  come  pronome  o  come  articolo,  è  perfettamente 
regolare  e  rispondente  alle  diverse  tendenze  che  segue  il  fiorentino  per 
le  vocali  atone  e  per  le  toniche.  Una  riprova  di  ciò  è  il  vedere  che 
iUe  anche  quando  è  pronome  congiuntivo  e  perciò  atono  mantiene  il 
suo  i:  U  vidi,  il  dissi  ecc;  mentre  se  al  pronome  atono  con  i  precede 
un'altro  con  accento  proprio,  questo  ha  un  e:  egli  (o  elli),  il  vide  =^  illc 
iUum  vidit.  E,  come  abbiamo  detto,  anche  al  plurale  U  pron.  coug. 
mantiene  in  alcune  antiche  scritture  il  suo  i:  igli  vide  =  li  vide  ecc. 
onde  elli  igli  videro  =  illi  illos  viderunt.  Invece  molto  diflBcile  è  ad  am- 
mettere la  spiegazione  del  Grober  che  vede  in  il  «  una  nuova  forma- 
zione nata  da  l  enclitico  per  prostesi  di  un  i  sull'analogia  di  altre  forme 
con  i  mobile  (f-t7Ì  ecc.)  >  poiché  nessun  esempio  analogo  viene  in  ap- 
poggio di  siffatta  congettura.  D'altronde  se  il  Grober  ammette  che 
l'aret.  el  venga  da  Ule  e  poiché  in  esso  Ve  non  può  essere  egualmente 
prostetioo  »,  come  si  può  separare  el  da,  U?  Per  noi  aret.  el  sta  al  fior, 
ti,  come  l'aret.  en  al  fior,  tw,  come  l'aret.  encom^nsare  al  fior,  incomin- 
ciare ecc. 

Altro  argomento  è  e  il  difetto  di  prove  per  l' esistenza  di  il  in  do- 
cumenti anteriori  al  300  ».  Il  Grober  argomenta  codesto  difetto  dalla 
natura  asillabica  di  il  nei  primi  poeti,  e  dall'uso  sempre  più  raro  che 
ne  vediamo  fatto  dai  prosatori  quanto  più  risaliamo  addietro.  Egli  nota 
che  mentre  «  Matteo  Spinello  (1268)  non  conosce  che  lo  li  »,  nel  Tru- 


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A  N.  CAIX  [qiobnalk  di  filologia 

duitore  di  Àlbertauo  (1279)  troviamo  già  t7,  i,  ma  solo  dopo  le  parti- 
celle terminate  iu  vocale  ;  che  in  Ristoro  d* Arezzo  (1282)  lo  è  più  fre- 
quente di  èl  e  al  piar,  li  è  solo  in  uso,  mentre  in  una  versione  di  Egidio 
Colonna  (1288)  lo,  li  è  piiì  raro  che  U,  i,  il  quale  va  sempre  acquistando 
piede  nelle  scritture  posteriori,  finché  riesce  a  prevalere,  e  Perciò,  con- 
siderato il  tardo  apparire  di  t7,  il  suo  uso  solo  poco  a  poco  fatto  fre- 
quente e  la  sua  natura  enclitica  negli  antichi  poeti  e  prosatori,  non 
pare  si  possa  accordargli  lo  stesso  valore  che  a  eJ  e  derivarlo  da  questo  ». 
Ma  anche  iu  queste  diligenti  osservazioni  del  Grober  non  è  stato  tenuto 
conto  delle  speciali  tendenze  dialettali,  che  qui  erano  tanto  più  neces- 
sarie in  quanto  che  si  riflettono  appunto  nello  speciale  carattere  della 
lingua  della  prosa  di  fronte  a  quella  della  poesia.  Non  si  può  mettere 
la  Cronaca  di  Matteo  Spinello  che  è  in  napoletano  accanto  alle  prose 
toscane.  Lasciando  stare  che  quella  Cronaca  è  ora  considerata  una 
falsificazione,  e  non  può  aver  valore  come  documento  della  lingua  del 
sec.  XIII,  è  certo  che  nel  napoletano  e  in  generale  nei  dialetti  meri- 
dionali lo  li  è^  per  quanto  mi  consta,  il  solo  articolo  adoperato,  ed  è 
naturale  che  sia  anche  il  solo  che  s'incontra  in  quella  Cronaca.  Ma 
si  può  dire  il  medesimo  degli  altri  dialetti?  Se  nel  Traduttore  di  Al- 
bertano  iZ,  i  occorre  solo  dopo  le  particelle  terminate  in  vocale,  vi  sono 
scritture  toscane  più  antiche  e  più  popolari  di  quella  in  cui  i2,  i  è  quasi 
la  sola  forma  adoperata.  In  registri  fiorentini  inediti  trovo  all'an- 
no 1255:  il  podere;  —  tutto  il  loro  podere;  —  il  primaio  pego;  —  U  se- 
condo posto  ivi  apresso;  e  al  1259:  questi  sono  i  cium/ini  ecc.  Nelle  Lettere 
volgari  del  sec.  XIII  trovo,  tenendomi  solo  alle  prime  cinque  che  por- 
tano la  data  del  1253:  molto  servizio  il  quale;  —  in  Perosda  U  deto 
giovidi;  —  servire  il  comune;  —  intendeste  i  patti;  —  sono  i  due  ecc. 
Non  si  può  dunque  mettere  in  dubbio  che  il  sia  nel  toscano  centrale 
altrettanto^  antico  che  el  neir  aretino  e  nei  dialetti  del  Nord.  Che  del 
resto  lo  sia  nel  sec.  XIII  anche  in  Toscana  altrettanto  usato  non  è 
a  negare,  e  rimarrà  a  studiare  in  quali  relazioni  stessero  in  origine  le 
due  forme,  se  cioè  Tuso  ne  fosse  assolutamente  indifferente  o  regolato 
da  certe  condizioni,  e  se  la  prevalenza  dell'una  o  dell'altra  si  collegasse 
con  certe  suddivisioni  dialettali  (1),  ma  è  certo  che  le  due  forme,  per 
quanto  giungono  i  documenti,  sono  egualmente  antiche  e  che  nulla  ci 
autorizza  a  supporre  in  U  una  più  recente  formazione  nata  da  l  enclitico. 
L'  argomento  tratto  dalla  natura  asillabica  di  il  nei  poeti  non 
prova  più  di  quello  che  proverebbe  la  natura  similmente  asillabica  di  in 
tanto  separato  che  in  composizione.    Il  Grober  nota  che  in  Dante  non 


(1)  È  iiotevoìp  p.  e.  che  l'uso  prevalente  di  h  noi   traduttore  d'Albertaoo  che  era 
di  Pisloja,  concorda  coH'ujjo  che  prevale  in  antiche  carte  pistojesi. 


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BOMANZA,  N.^  4]         SULLA  DECLINAZIONE  BOMANZA  5 

8Ì  contano  che  9  casi  di  il  sillabico  che  abbiano  la  sanzione  dei  prin- 
cipali codici,  mentre  nelle  100  canzoni  finora  pubblicate  del  codice  Va-» 
ticano  non  vi  sono  che  3  casi  di  il  ed  uno  di  i  sillabico.  Ma  se  il 
Grober  vorrà  rinnovare  la  stessa  ricerca  per  la  prep.  in  troverà  non 
meno  scarsi  i  casi  di  in  sillabico  nei  poeti.  E  la  cosa  non  potrebbe 
essere  altrimenti.  Le  parole  italiane  terminando  tutte  in  vocale,  accade 
che  nel  discorso  Vi  di  il  e  di  iw  o  formi  dittongo  colla  vocale  prece- 
dente o  venga  da  questa  assorbito;  ma  e  in  un  caso  e  nell'altro  esso 
non  può  far  sillaba  a  sé.  Sia  dunque  che  scriva  tra  'Z  sì  e'I  no  o  tra 
il  sì  e  il  no  l'articolo  U  fa  sempre  sillaba  colla  vocale  che  precede,  e 
quindi  nel  mezzo  del  verso  non  può  che  essere  asillabico  ;  ma  il  mede- 
simo si  può  dire  di  in  potendosi,  senza  alterazione  del  verso,  scrivere 
e  'n  cor  o  e  in  cor  ecc.  Quindi  anche  nel  cod.  Vaticano,  senza  altera- 
zione del  verso: 

XL ,  44    Di  tutto^U  mondo  .  .  • 

XCIX,  25    Istringie  il  core  .  .  . 
ivi,      31     Tal  è  il  disio  ,  .  . 

XXIX ,  12    Perdona  savere  .  .  . 

XLIX,  33    Sieomell  ferro  .  .  . 

che  potrebbero  anche  scriversi:  tutto  'l  mondo  ecc.  L'unico  caso  in  cui 
il  poteva  far  sillaba  a  sé  era  in  principio  di  verso,  e  infatti  i  pochi  casi 
di  il  sillabico  che  il  Grober  ha  riscontrato  nel  cod.  Yat.  sono  in  prin- 
cipio : 

XXXn,  23    TI  doìze  mi  amore, 
LVIII ,  14    I  6e'  sembianti  (f  altra  mi  facia. 
XCVII ,  42    II  vostro  piagimento. 

e  così  i  casi  riscontrati  in  Dante:  Farad.  XIII,  126;  XV,  147;  XXIII, 
92;  XII,  140;  XVI,  98;  XXIII,  88;  XXVII,  107;  XXVII,  78;  eccet- 
tuato un  solo:  Par.  XXVI,  115. 

Né  vale  il  dire  che  in  poesia  si  ammetteva  spesso  il  troncamento 
delle  parole  il  cui  tema  finiva  in  liquida  o  nasale;  poiché  siffatto  tron- 
camento non  era  usato  che  quando  la  misura  del  verso  lo  richiedeva, 
e  però  essendo  per  questa  iudifi^ereute  lo  scrivere  vene  in  cor,  vene  'n 
cor  o  ven  in  cor,  ven  il  re  o  vene  7  re  ecc.  i  poeti  preferivano  evitare 
il  troncamento  e  scrivere  vene  'n  cor,  vene  7  re  ecc.  come  i  più  antichi 
e  genuini  codici  dimostrano.  Insomma  codesto  asillabismo  dell'articolo 
non  è  che  una  delle  varie  forme  d'eliminazione  dell'iato.  Se  non  che 
mentre  nei  casi  ordinari  l'iato  si  elimina  col  sopprimere  la  vocale  fi- 
nale della  prima  parola:  quesfaltro.  Vomico  ecc.  quando  si  trattava  di 
una  parola  cominciante  con  i,  che  è  la  vocale  più  sottile  e  leggiera, 
facilmente  nella  pronuncia  prevaleva  la  prima;  onde  le  grafie  :  lo  'nfermo, 
lo  'nccnso,  la  'nvidia,  sta  'n  cor,  e  similmente  tutto  7  mondo  ecc.    Solo 


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0  N,    CAIX  [OIOBNALE   DI   FILOLOGIA 

più  tardi  per  opera  dei  grammatici  prevalse,  per  analogia,  di  scrivere 
pure:  V infermo,  V incenso  ecc.  Ma  per  il  T antica  grafia,  almeno  nei 
poeti,  non  è  del  tutto  abbandonata.  In  ogni  caso  tanto  il  che  in  man- 
tengono il  loro  valore  sillabico  in  principio  del  discorso  nella  prosa,  e 
in  principio  del  verso  in  poesia.  E  come  in  questa  non  è  frequente  il 
caso  di  cominciare  un  verso  coli' articolo,  e  così  sono  pure  rari  i  casi  di 
il  sillabico.  Ma  non  vorremmo  che  si  considerassero  insieme  Dante  e  i 
poeti  meridionali,  perocché  se  questi  trovavano  nel  loro  dialetto  il  solo 
lo,  K,  Dante  trovava  nel  suo  fiorentino  anche  U  e  non  è  punto  difficile 
che  se  ne  servisse  nel  verso.  Infatti  mentre  negli  altri  poeti  non  si 
trova  esempio  di  U  sillabico  che  in  principio  del  verso,  in  Dante  ab- 
biamo un  esempio  anche  nel  mezzo.  Farad.  XXVI,  115: 

Or,  figliuol  mio,  non  ti  gustar  dd  legno. 

Da  questo  scaturisce  poi  un'altra  conseguenza,  che  cioè  nulla  osta  che 
in  Dante  si  possa  ammettere  anche  un  numero  maggiore  di  casi  di  il 
sillabico,  dove  i  migliori  codici  in  ciò  s'accordino,  mentre  per  i  poeti 
meridionali  anche  i  pochi  casi  notati  divengono  sospetti.  Se  il  Grober 
non  ha  notato  in  Dante  che  9  casi  sicuri,  ha  osservato  però  che  se- 
condo una  parte  dei  codici  il  numero  sarebbe  maggiore.  Invece  nei 
poeti  meridionali  il  numero  dei  casi  sicuri  si  restringerà  ancor  più  quando 
ci  facciamo  ad  esaminarli  da  vicino.    E  così 

XCIX,  5,  U  avoreo  clima 

va  messo  da  parte  poiché  non  dà  senso,  e  il  cod.  Palat.  dà  tlavoreo. 

XXXII ,  23,   il  dolze  mi  amore 

va  corretto  perché  il  raccomandata  dal  verso  seguente,  richiesto  dalla 
rima,  mostra  che  qui  amore  era  stato  usato  al  femminile,  secondo  l'uso 
provenzale,  ciò  che  doveva  suonare  strano  al  copista  il  quale  tornò  a 
fare  amore  mascolino.  Nello  stesso  modo  troveremo  in  un  ms.  la  fiore  ^ 
Volta  fiore  corretto  in  il  fiore,  Volto  fiore  in  altri  mss.  Cosicché  il  passo 
succitato  andrebbe  letto: 

Oi  alta  potestate 

Temuta  e  dottata 

La  dolze  mi^  atnore 

l'i  sia  racomandata. 

L'esempio  a  XCVII,  42  è  di  un  Neri  Poponi  che  non  sappiamo  di 
qual  parte  d^ Italia  sia;  onde  l'unico  esempio  sicuro  di  poeta  meridionale 
sarebbe  quello  di  Giacomino  Pugliese 

LVIII  ,14    I  be'  sembianti  (f  altra  mi  facta 

che  co«ì  isolato  non  è  dubbio  doversi  attribuire  al  copista. 


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nOMANZA,  N.«  i]         SULLA  DECLINAZIONE  ROMANZA  7 

Maggiore  è  il  numero  di  esempi  di  U,  i  in  mezzo  al  verso.  Ma 
qui  sebbene,  come  ho  cercato  mostrare,  la  ragione  dell* asillabismo  non 
possa  togliere  importanza  al  fatto,  è  certo  che  l'alterazione  del  copista 
era  molto  più  facile,  e  che  data  in  questo  l'abitudine  a  scrivere  e  a 
usare  nel  discorso  iZ,  {,  inclinasse  a  scrivere  tutto  il  mondo  anziché  tuttol 
fìWìido  ecc.  E  infatti  il  confronto  dei  codici  riduce  a  un  minor  numero 
i  casi  di  il,  iy  che  troviamo  nel  Vaticano.  Riscontrati  alcuni  passi  di 
questo  codice  contenenti  quella  forma  d'articolo  coi  corrispondenti  del 
Palatino  avremo: 

VAT.  PAL. 

XCIX ,  25  istringie  il  core  stringe  lo  core 

iiv ,  31  tal  è  il  disio  tal  è*l  ,  .  . 

ivi ,  36  laonde  il  disio  la  u*l  ,  ,  . 

XCVIIT,  29  jponire  %  mali  punir  li  mali 

XXIX,  12  perdo  il  savere  perdo  savere 

E  se  nel  Palatino  pure  si  hanno  esempi  di  il  benché  molto  rari, 
anche  questi,  quando  ci  è  dato  riscontrarli  in  altro  codice  più  autore- 
vole, nel  famoso  Laurenziano,  si  riducono  a  un  numero  minore.  Onde 
è  lecito  argomentare  che  nei  poeti  meridionali  il  solo  articolo  in  uso 
fosse  Zo,  Zi,  cosa  assai  naturale  chi  pensi  che  quella  è  la  sola  forma 
nota  ai  dialetti  del  Mezzogiorno.  Ma  d'altra  parte  la  sostituzione  di 
il  a.  lo  e  a,  l  nato  da  lo  per  parte  dei  copisti  toscani,  prova  in  questi 
l'abitudine  a  scrivere  e  a  pronunciare  iZ,  ciò  che  bene  s'accorda  con 
quanto  abbiamo  detto  più  sopra  sull'uso  dell'articolo  nelle  più  antiche 
scritture.  Quando  dunque  troviamo  Z  enclitico  in  poesia,  la  sua  prove- 
nienza può  essere  diversa  secondo  la  patria  del  poeta,  poiché  può  pro- 
venire da  il  per  contrazione  dell'i  colla  vocale  della  parola  precedente, 
o  da  lo  per  apocope  dell' o;  cosicché 

tutto  l  mondo  =  tutto  (i)l  mondo  =  tutto  l(o)  mondo. 

Non  mi  pare  che  si  possano  ammettere  in  poeti  meridionali  nep- 
pure gli  esempi  di  el  che  figurano  qua  e  là  nella  stampa  del  codice 

vaticano  : 

1 ,  36  eh*  el  wf  lavoro, 

XXXVI ,    4  però  cV  el  meo  servire. 

XL ,  60  più,  eh'  el  cor, 

LV ,  26  eh*  el  mio  amore. 

in  cui  si  deve  dividere  che'l.  La  medesima  differenza  tra  i  dialetti  me- 
ridionali e  quelli  dell'Italia  Superiore,  proveniente  dalle  diverse  tendenze 
ritmiche,  si  nota  ancor  più  chiara  nell'articolo  indeterminato  wwo,  da 
cui  si  fece  da  una  parte  ««,  dall'altra  no  nu;  onde 

il:  il'llo]  =  un:  «w-[o] 
lo:  [iiyio  =  no(mf) '-  [uj-no. 


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8  X.    CAIX  [OIOKNALE   DI   FILOLOGIA 

Per  la  stessa  ragione  anche  iUe  pronome  ha  per  lungo  tempo  mantenuto 
le  due  forme  in  Toscana,  cioè  U  accanto  a  lo:  il  vidi,  il  vi  dirò^  il  vi 
manda  s'incontrano  anticamente  non  meno  spesso  che  lo  vidi  ecc.  E 
quello  che  è  più  notevole,  s*  incontra  pure  in  mss.  fiorentini  igli  per 
gli=zAB,L  UH:  igli  disse ^  igli  avea  ecc.  tanta  era  la  tendenza  a  mante- 
nere la  prima  sillaba  di  Ule.  Per  questo  l'origine  delle  forme  oblique 
del^  al^  dal,  si  presenta  come  molto  incerta.  Il  Diez  le  considera  come 
formate  con  iZ,  il  Grober  come  derivate  da  Zo,  e  anche  le  opinioni  dei 
grammatici  italiani  sono  divise.  Dopo  quanto  abbiamo  detto,  foneti- 
camente tanto  è  possibile  dél^  cioè  de  7  per  de  il  (cfr.  e  7  =  a  t7), 
come  del  da  de  lo^  sicché  i  due  processi  potevano  pure  andare  di  pari 
passo  e  concorrere  insieme  allo  stesso  risultato.  Anche  l'esame  delle 
così  dette  preposizioni  articolate  parrebbe  mostrare  come  in  origine, 
essendo  tanto  in  uso  il  che  Zo,  si  preferì  ora  l'una  ora  l'altra  forma 
secondo  la  pronuncia  richiedeva.  Mentre  col  si  trae  bene  da  coUo  =  cm 
lo  (cfr.  noi  da  nóllo  =  non  lo)j  nél^  innd  accenna  ad  in  Ullo]  e  per  s'ac- 
compagna ancora  coli'  uno  e  coli'  altro  (per  lo  più  non  per  il  più).  Ma 
le  ragioni  ritmiche  che  facevano  prevalere  la  prima  sillaba  di  un  iUo 
isolato,  non  sussistevano  più  quando  questo  era  preceduto  da  una  par- 
ticella, e  d'altra  parte  se  i  casi  obliqui  si  fossero  formati  con  tZ,  dif- 
ficilmente si  sarebbe  perduta  ogni  coscienza  della  composizione  di  del, 
aly  dal,  e  compiuta  in  modo  così  perfetto  la  fusione  dei  due  elementi; 
poiché  anzi  il  fiorentino,  a  misura  che  t7 .venne  acquistando  sempre  più 
spiccata  individualità,  sentì  il  bisogno  di  farne  sentire  la  presenza  an- 
che nei  casi  obliqui,  pronunziando  di  il,  a  il,  da  il  come  oggi  si  usa 
dal  popolo.  Né  basta  a  provare  che  il  vi  abbia  contribuito,  il  plurale 
dei,  di,  daij  potendosi  questi  trarre  da  doglia  agli,  da  gli  =^  delti  ^  àlli^ 
alli  =  d^  li,  a  li  ^  da  li  in  perfetta  corrispondenza  con  dello  ^  a?io,  dallo  = 
de  lo  ecc.  E  vero  che  abbiamo  nel  che  pare  supporre  in,  ti,  ma  qui 
potè  la  forma  venir  determinata  sull'analogia  di  del  che  apparisce  spes- 
sissimo in  composizione  con  in,  onde  indél  per  inncl,  nel,  indéla^  indetta, 
accanto  a  inneità,  nella,  in  dei  per  dei  come  è  certo  che  si  deve  all'a- 
nalogia di  de  lo  la  forma  pure  frequente  nei  codici  ne  lo  che  dovrebbe 
essere  sempre  nello  se  derivasse  da  in  ilio. 

Dalle  cose  dette  mi  sembra  dunque  risultare: 

I.  In  italiano  le  due  forme  di  articolo  il  e  lo  sono  egualmente  an- 
tiche e  primitive. 

IL  II,  nato  dalla  prima  sillaba  di  ille  come  un  dalla  prima  di  unus, 
ha  mantenuto  l'i  malgrado  la  posizione  per  la  preferenza  che  all' atona 
suol  dare  all'i  sopra  Ve  il  toscano  centrale  e  sopratutto  il  fiorentino,  di 
cui  è  principalmente  propria  codesta  forma  d' articolo  :  mentre  i  dialetti 
che,  cominciando  dalVaretino,  preferiscono  e  all'  atona,  hanno,  come  lo 
spagnuolo,  el. 


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H0MAH2A,  N.o  4]         SULLA  DECLINAZIONE  ROMANZA  9 

III.  Lo  si  incontra  già  in  molte  antiche  scritture  toscane  accanto 
a  Uj  ma  pare  essere  state  il  solo  in  uso  nei  dialetti  meridionali  e  il  solo 
adoperato  dai  poeti  siculi. 

IV.  L  enclit.  dove  corrispondere  nei  poeti  siculi  a  lo,  ma  nei  poeti 
toscani  anche  a  t7  e  con  questo  fu  poi  scambiato  dai  copisti  nei  codici. 

V.  Alla  formazione  delle  forme  oblique  dély  al,  dal  difficilmente  pos- 
sono aver  contribuito  altre  combinazioni  che  quelle  con  lo. 

N.  Caix. 

PS.  Nel  finire  la  correzione  di  queste  pagine  ricevo  dalla  genti- 
lezza del  Prof.  Grober  un'altro  Studio:  «  Gli^  eglij  ogni;  >  Zeitschr.  f. 
rom.  Phil.  II,  594  ss.,  in  cui,  conformemente  alla  teoria  sopra  esaminata, 
si  cerca  di  trarre  anche  il  plur.  i  da  IL  Secondo  quanto  ho  detto  sopra, 
i  viene  per  me  da  igli  =  iUi,  e  ne  dirò  in  altro  articolo  le  ragioni. 


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1<>  y.  CAIX  [omnxAf.K  m  filologia 

SCLL' liNTLUENZA   DELL'ACCENTO   NELLA   CONJUGAZIONE 

MANDUCARE,  ADJUTABE 


Le  irrfìf^olarità  prodotte  nella  conjugazione  dallo  spostamento  del- 
l'accento  nelle  varie  persone  furono  spesso  notate  pei  verbi  che  hanno 
per  vocale  radicale  e  ed  o,  che  si  dittongano  sotto  l'accento  e  riman- 
gono generalmente  invariate  quando  V  accento  passa  sulla  desinenza. 
In  analoghe  condizioni  si  verifica  il  fenomeno  spagnuolo,  pel  quale  la 
vocale  radicale  modifica  all' atona  secondo  certa  tendenza  dissimilati  va, 
evitando  i-i  ma  serbando  i-w',  i-iò,  e  preferendo  in  qualche  caso  o-i  ad 
U'i  che  può  pure  dirsi  una  parziale  dissimilazione  (siento  sentìmos  sin-- 
tió,  duermo  dormimos  durmió).  E  collo  spostamento  dell'accento  vanno 
spiegate  le  irregolarità  dei  tre  verbi  italiani:  udire ^  uscire^  dovere ,  sui 
quali  non  sarà  qui  inutile  qualche  maggiore  schiarimento  che  farà  me- 
glio intendere  il  fenomeno  analogo  che  avremo  a  studiare  in  manducare 
e  adjutare. 

AvDiRE.  Questo  verbo  ha  un  o  al  presente  nelle  persone  coli'  accento 
sulla  radice,  e  u  nelle  altre  persone  dello  stesso  tempo  e  nel  resto  della 
conjugazione.  Indie:  odo  -i  -e  -ono,  ma  udìwno,  udite;  Congiunt.:  oda, 
-anOy  ma  udiamo,  -iate;  e  così  udiva^  udii^  udissi  ecc. 

Ma  questa  conjugazione  non  è  costante  nei  testi  antichi  e  può  dirsi 
anzi  affatto  fiorentina.  Già  nel  Traduttore  di  Albertano,  che  è  di  Pi- 
stoja,  le  forme  con  o  atono  si  alternano  con  quelle  con  u:  udire  48, 
ma  odirà  46,  odisse  9  ecc.  Così  odire  nelle  Lett  Senesi  22  ecc.,  odimo 
nel  cod.  di  Ristoro  d'Arezzo  8  ecc.  e  così  comunemente  nelle  scritture 
del  centro  d'Italia  {Osserv.  sul  Voc.  it<il,  §  X).  Il  fenomeno  va  dunque 
spiegato  colle  tendenze  che  segue  il  vocalismo  atono  fiorentino,  in  cui 
au  tonico  dà  o,  ma  au  atono  può  passare  all'w  non  meno  che  Vo  pri- 
mitivo. Come  si  ha  pulire^  uccidere,  ufficio  adi.  polire  ecc.  così  ucceUo 
per  occello  =  aucellus  (ven.  osélo\  lusinga  ^::  ^wL  losinga  =  "prov,  lau* 
zenga^  e  ani  urecchia  per  orecchia  =  aurictda,  mentre  o=^aù  in  oca  = 
avica^  lode  =  laus  ecc.    Così  udire  =  odire  ==  audire  ma  odo  ^=  audio  ecc. 

ExiRE.  Presenta  e  alla  tonica,  u  e  anticamente  anche  i  accanto 
a  e  air  atona:  Indie:  esco  -i  -e  -ono,  ma  usciamo  -ite  accanto  ad  escianto 
'ite;  Cong.:  esca  -ano,  ma  usciamo  -iate  accanto  ad  esciamo  -ate;  e 
così  usciva  cscivay  tiscii  escii  ecc.    Anticamente  anche  i,  sopratutto  se  la 


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nosiANZA,  N.°  4 ]        SULV IXFL VENZA  BELV  ACCENTO  11 

tonica  era  pure  i:  iscUe,  isciva.  Questo  ultimo  mutaipento  era  fionforme 
alle  tendenze  del  fiorentino  che  preferisce  all'iniziale  i  all'è,  mentre  il 
mutamento  in  u  era  dovuto  ad  influenza  di  uscio,  come  nel  corrispon- 
dente ant.  fr.  ussir. 

Deb  ERE,  Pure  e  sotto  l'accento,  ma  comunemente  o  all'  atona.  Indie.  : 
devo  -i  -e  ^ono^  ma  dobbiamo,  dovete;  Gong.  :  deva  -ano  ma  dobbiamo,  dob- 
biate; e  così  doveva,  -ei  ecc.  La  vocale  atona  si  è  modificata  in  forza 
della  nota  aflSnità  tra  o  (u)  e  le  labbiali,  come  in  piovano -=  pievano  ^ 
dovizia  =  divizia,  rovescio  =  reversus ,  rovistare  =  revisitare  ecc.  Ma 
questa  norma  non  è  generale  nelle  scritture  antiche,  e  spesso  s'incontra 
desiamo,  devete,  deveva  ecc. 

In  tutti  e  tre  questi  verbi  si  nota  dunque  che  accanto  alla  conju- 
gazione  etimologica  che  manteneva  sempre  intatta  la  vocale  radicale, 
se  ne  venne  formando  un'altra  colla  vocale  iniziale  modificata  nelle  per- 
sone accentate  sulla  desinenza  secondo  speciali  tendenze  fonetiche,  e  se- 
condo le  note  affinità  che  all'  atona  si  mostrano  tra  certe  vocali  e  certe 
consonanti.  Questa  seconda  conjugazione  che  potrebbe  dirsi  fonetica, 
essendo  fondata  sulle  proprietà  del  vocalismo  atono,  fu  di  sua  natura 
difettiva,  perché  sebbene  riuscisse  a  prevalere  totalmente  nelle  persone 
accentate  sulla  desinenza,  non  potè,  neppure  per  forza  di  analogia,  in- 
fluire a  far  mutare  la  vocale  accentata  delle  altre  persone.  Così  questi 
tre  verbi  hanno  oggi  una  conjugazione  mista,  cioè  fonetica  nelle  forme 
accentate  sulla  desinenza,  etioiologica  nelle  altre. 

Il  medesimo  fenomeno  si  osserva  nei  riflessi  di  manducare  e  di  adju- 
tare.  Il  Forster,  Zeitschr,  f.  rom.  FliiL,  1  562,  poi  il  Cornu  e  il  Me- 
yer,  Bomania  1878  p.  420  ss.,  studiarono  già  colla  solita  dottrina  i 
vari  riflessi  di  manducare,  soprattutto  nel  francese  e  nel  provenzale,  e 
dimostrarono  come  le  irregolarità  nella  conjugazione  di  quel  verbo  dipen- 
dano da  una  parte  dalla  diversa  posizione  dell'accento  nelle  diverse  per- 
sone e  forme,  dall'altra  dall'analogia  per  la  quale  si  estesero  alla  to- 
nica le  alterazioni  che  in  origine  avevano  luogo  all' atona.  Il  Cornu 
poi  sagacemente  riuniva  sotto  uno  stesso  capitolo,  come  dipendenti  dalla 
stessa  legge,  i  riflessi  di  adjutare  e  di  *rationare,  avvertendo  che  mentre 
in  manducare  e  adjutare  furono  le  forme  a  desinenza  tonica  che  deter- 
minarono le  altre,  per  *raiionare  si  ebbe  il  processo  inverso.  Ora  qual- 
che cosa  di  analogo  si  riscontra  anche  in  italiano,  ma  con  due  notevoli 
differenze  dal  francese.  La  prima  è  che  l'italiano,  meno  propenso  al- 
l'elisione, preferisce  modificare  o  alleggerire  la  vocale  atoua  anziché 
sopprimerla,  e  la  modificazione  si  fa,  come  abbiamo  veduto  in  dovere, 
secondo  le  affinità  consonantiche.  La  seconda  è  che  in  italiano  la  conju- 
gazione fonetica  si  mantiene,  come  già  abbiamo  veduto  nei  tre  verbi 
citati  sopra,  sempre  difettiva  e  non  riesce  mai  a  soppiantare  la  couju- 
guzionc  etimologica  nelle  forme  in  cui  il  radicale  porta  l'accento,  ben- 


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12  N.  CAIX  [aioBNALE  di  filologia 

che  diveùga  decisamente  preralente  nelle  altre.  Differenza  qnesta  se- 
conda che  dipende  in  parte  dalla  prima.  Perocché  nel  francese  cadendo 
air  atona  la  vocale,  la  sostituzione  per  analoga  delle  forme  della  conja- 
gazione  fonetica  a  quelle  dell'etimologica  si  riduce  ad  una  trasposizione 
d'accento  (cfr.  mànge  e  mangu)^  mentre  in  italiano  non  cadendo  ma 
mutando  la  vocale,  la  sostituzione  di  un  suono  ad  un  altro  sotto  l'ac- 
cento riesce  molto  diffiksile.  Non  c'è  esempio  di  un  dovo  per  devo^  né 
di  un  usco  per  esco  ecc.  L'eccezione  che  qui  fa  ajtUare  va  spiegata,  come 
vedremo,  coli' influenza  francese. 


MANDUCARE 

I  riflessi  di  questo  verbo  in  italiano,  lasciando  da  parte  il  sincopato 
nujìigiare^  presentano  nella  sillaba  radicale  ora  nd^  ora  m,  e  davanti  al 
e  ora  u  ora  i:  manduc-  manne-  mafidic-  manie-.  Ma  queste  forme  non 
erano  punto  usate  indifferentemente.  Già  il  Cornu  notò  che  nel  Ritmo 
Cassincse  abbiamo  u  sotto  l'accento  e  i  fuori  d'accento:  manàttca,  ma 
inandicare,  mandicate.  Da  molto  tempo  avevo  notato  il  medesimo  fatto 
nel  toscano.    Nel  cod.  magliab.  del  Volgarizzamento  di  Albertano  leggo  : 

€  Meno  dorme  e  manuca  cui  pensiero  d'amore  molesta  >  (p.  22). 

«  E  Salomone  disse  :  Guai  a  tte  terra  lo  cui  re  è  fanciullo  e  li  cui 
prencipi  la  mattina  manùcano  >  (p.  39). 

Ma  per  contrario: 

€  Con  questo  cotale  non  vi  mescolate  uè  co  lini  non  manicate  » 
(p.  35). 

«  Onde  disse  Seneca  nelle  Pistole:  Innanzi  è  da  porre  mente  al 
convito  cun  kenti  uomini  tu  mamiche  o  bei.  Manicare  senza  amico  è 
vita  di  leone  e  di  lupo.  Et  lo  profeta  disse  :  Cun  quello  k'  è  superbio 
d'occhi  e  insatiabile  di  cuore  con  lui  non  manicava  »  (p.  19). 

Quest'ultimo  passo  è  il  più  notevole,  vedendovisi  a  piccolo  inter- 
vallo adoperate  le  due  forme  secondo  l'accennata  regola  dell'accento. 
Altri  esempi  del  sec.  XIII  trovo  in  un  mss.  contenente  gli  Statuti  di 
S.  Maria  del  Carmine,  Cod.  mgl.  Vili,  1493,  n."  9,  in  cui  si  legge  ma- 
niellare  o  manicare  (f.  5/). 

Anche  in  Dante  la  stessa  alternativa: 

E  oome  '1  pan  per  fame  si  manuca. 

Jnf.  XXXn,  126. 
Ma  per  contrario: 

E  quei  pensando  eh'  io  '1  fessi  per  voglia 

Pi  manicar 

Inf,  XXXIII,  59-60. 


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ROMANZA,  N.<»  4]       '  SULV INFL  UENZA  BELL'  ACCENTO 


13 


Nel  primo  caso  le  edizioni  hanno  manàvu^,  ma  l'antico  cod.  magi. 
E,  5,  2,  54,  il  più  autorevole  sotto  l'aspetto  ortografico,  ha  manucha 
e  credo  sia  questa  la  vera  lezione,  perché  qui  troviamo  la  stessa  alter- 
nativa notata  più  sopra,  e  non  s'intenderebbe,  se  Dante  avesse  qui 
adoperato  un  latinismo,  scrivendo  manduca^  perché  non  avrebbe  poco 
più  sotto  usato  pure  manducare  in  luogo  di  manicare.  È  inoltre  a  no- 
tare che  anche  nel  sec.  XIV  e  posteriormente  sono  frequenti  gli  esempi  di 
siffatte  forme.  Così  nel  Vocah.  della  lingua  itoL  del  Tommaseo:  e  Dove 
si  manùca  Iddio  mi  vi  conduca.  >  <  Manùcano  pesci  di  mare.  >  «  Manu- 
cano  un  morsello  di  pan  grosso.  >  e  Credete  voi  che  egli  vi  manuchi?  > 
E  invece  quando  si  tratti  di  forme  accentate  sulle  terminazioni,  sempre 
i;  e  negli  esempi  dello  stesso  Vocah.  si  trova:  manicare ^  manicai,  manicò 
manicaronne.  Nel  sardo  occorre  la  forma  mandigare  che  ben  corrisponde 
al  mandicare  nel  Ritmo  Cassinese.  Il  solo  esempio  sicuro  con  u  all' atona 
è  la  forma  che  Da.nte^De  Vtdg.  Eloq.  I,  13,  rimprovera  ai  Fiorentini: 
manuchiamo  introcque^  che  dalle  parole  di  Dante  si  capisce  essere  stata 
affatto  plebea,  e  che  può  considerarsi  come  dovuta  all'influenza  delle 
forme  con  u  tonico,  ma  che  non  prova  un  uso  esteso  di  altre  forme 
simili.  Quanto  a  manducare  non  occorre  che  in  traduzioni  dal  latino 
e  in  scritture  in  cui  abbondano  i  latinismi  e  non  può  ritenersi  che 
come  forma  letteraria. 

Il  paradigma  di  manicare  segue  perciò  passo  a  passo  quello  dei  ri- 
flessi francesi  e  provenzali,  quali  si  trovano  raccolti  nei  citati  studi  del 
Forster,  del  Comu  e  del  Meyer. 


PRESENTE 

INDICATIVO 

IT. 

A.    FR. 

PROV. 

Sing. 

manùco 

manguy  mengue,  menjus 

manduc 

manmM 

manjues,  mangues,  mainjus 

mamlca 

manjuety  merijuc^  mavjtib 

manduja,  menuga,  manjuja 

Plur. 

manichiamo 

menjon 

manjam 

manicate 

mangiez,  mengiez 

mamichano 

menjuent,  menguent 

CONGIUNTIVO 

Sing. 

mamìche  -i 

mengue  (1.*) 

manjuc  (3.») 

(l.»2.»e3.*) 

majuce  (3.") 

Plur. 

manichiamo 

matìjum 

manjem 

manichiate 

mengiez 

manjetz. 

manucìùno 

manjuccnt 

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4 

N.  CAIX                         [aiouxAi 

IMPERATIVO 

IT. 

A.   FR. 

Sing.    manùca 

manjoue, 

'ju,  -jue 

Plur.    manichiamo      mangom 

,  metiòons 

manicale 

mengiez 

Negli  altri 

tempi  sempre  forme  con  *: 

IT. 

A.    FR. 

Impf. 

manicava' 

manjowe 

Perf. 

manicai 

manjai,  -gai 

Piucpf.  Sogg. 

manicassi 

manjasse 

Infin. 

manicare  (e 

Dosì       manger,  -gier  (mengerai,-ereie) 

manicherò, 

-erei) 

Part  pres. 

manicante 

manjant 

Part.  pass. 

manicato 

manjed 

manjar 


maììjat. 


Dal  quale  confronto  si  vede  che  dove  racQ»ntò  cade  sul  radicale 
tanto  r  italiano  che  il  francese  e  provenzale  mantengono  l'w,  mentre 
quando  l'accento  cade  sulla  desinenza  l'italiano  muta  Vu  in  i  e  le  altre 
due  lingue  lo  sopprimono.  La  causa  è  la  medesima,  cioè  il  mutamento 
di  accento  che  porta  seco  l'indebolimento  della  vocale;  ma  questo  in- 
debolimento da  una  parte  si  limitava  ad  un  assottigliamento  del  suono, 
dall'altra  giunge  alla  sua  totale  estinzione.  Ma  si  può  ritenere  che  la 
conjugazione  di  manducare  qual  è  nei  più  antichi  testi  italiani  dove  già 
essere,  almeno  in  parte,  nel  latino  volgare.  Il  Meyer  parla,  per  il  pro- 
venzale, di  una  base  mandtigare^  ma  il  Gomu  ammette  anche  per  il  do- 
minio fr.-prov.  un  <c  intermedio  mandicare  >,  e  cita,  come  esempi  di 
mutamento  di  u  atono  in  i,  l'it.  ginepro  =jùmperum,  e  il  prov.  cominal 
da  commùnis.  Piìi  concludente  sarà  qui  il  considerare  che  a  produrre 
nel  latino  volgare  una  forma  mandicare  concorrevano  e  le  aflBnità  fo- 
netiche, e  le  analogie  morfologiche.  L'affinità  tra  i  (dial.  e)  e  le  gut- 
turali era  antichissima  e  generale  nel  latino  (Corssen,  Ausspr.  II,  807  ss.), 
e  siffatta  affinità  è  uno  dei  caratteri  più  spiccati  che  l'italiano  ha  ere- 
ditato dal  latino,  come  ho  mostrato  altrove  (Osserv.  sul  Voc.  ital,  §.  IV). 
Nel  caso  presente  concorreva  di  più  l'analogia  coi  numerosi  derivati  in 
'icare.  Le  due  cause  unite  mutarono  collocare  in  colicarc^  coricare,  che 
nei  dialetti  che  sostituiscono  cai  divenne  colecare^  allegar  ecc.,  mentre 
altrove  e  particolarmente  nel  dominio  fr.-prov.  si  arrivò  alla  sincope: 
colgar,  eoìAcher,  Sitfiilraente  da  manducare  ben  presto  mendicare  che  già 
troviamo  nel  Ritmo  Cassinese;  onde  da  una  parte  il  sd.  mamligarcy  il 
tose,  manicare^  il  dial.  manecare^  dall'altra  il  fr.  mavger^  prov.  manjar 
che  stanno  a  mandli]care  come  venger,  venjar  a  vindli]care.  Infine  a 
mandicare  accennano  anche  le  forme  dialettali  francesi  citate  dal  Coruu 
che  suppongono  un  e  o  i  iniziale  nato  per  assimilazione  alla  vocale 
s<»gueute:  mandic-    mandec-   onde    mindic-   matdcc'.     Mentre   poi  uè) 


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ROMANZA,  N.-  4J         SULL'  INFL  UENZA  DELL'  A CCENTO  15 

francese  l'influenza  delle  forme  sincopate  si  è  fatta  sentire  anche  nelle 
persone  che  in  origine  avevano  l'accento  suU'w,  così  si  trova  in  italiano 
uno  sporadico  manuchiamo  per  mamchiamo  che  è  una  continuazione  se  non 
un  ritorno  alla  vocale  latina  per  influenza  di  manùco  ecc.  Ben  presto 
poi  trpviamo  nei  testi  del  sec.  XIII  la  forma  sincopata  mangiare  che 
ritengo  forma  francese  o  del  Nord  d'Italia,  ma  che  non  è  meno  estranea 
al  toscano  di  quello  che  lo  siano  vengiare  e  giuggiare.  Ancora  nel  se- 
colo XIV  le  due  forme  italiana  e  francese  si  disputavano  il  terreno, 
come  si  può  vedere  dai  seguenti  esempi  tolti  al  Vocah.  del  Tommaseo  : 

«  Mangiare  conviene  all'uomo  acciocch'e'  viva  e  non  vivere  ac- 
ciocch'  e'  mamìchi  ». 

«  Credete  Toi  che  egli  vi  mamichi?  1  morti  non  mangiano  gli  uo- 
mini ».  (Boccaccio). 

In  seguito  la  forma  italiana  divenne  sempre  più  rara,  ed  oggi  non 
vive  che  nel  diminut.  manicaretto. 

Anche  manicare  dunque  aveva  una  conjugazione  mista,  parte  fo- 
netica parte  etimologica;  e  se  v'è  qualche  indizio  di  estensione  della 
conjugazione  etimologica  nelle  persone  accentate  sulla  desinenza  (ma" 
nuchiamo)^  niun  indizio  vi  ha  di  forme  della  conjugazione  fonetica  che 
per  analogia  abbiano  preso  il  posto  delle  altre,  cioè  d'un  manico  per 
manùco  ecc.,  e  la  conjugazione  sarebbesi  mantenuta  mista,  se  non  vi 
fosse  stata  sostituita  la  forma  francese  mangiare^  in  cui  il  processo  ana- 
logico riuscì  ar  cancellare  ogni  traccia  della  conjugazione  etimologica. 


ADJUTARE 

Il  Darmesteter,  Bomania  1876,  p.  454-5,  mostrò  come  le  irregolarità 
del  vb.  frane,  aidier  dipendessero  da  ciò  che  le  persone  accentate  sulla 
terminazione  perdevano  l' ù^  mentre  quelle  accentate  sul  radicale  lo  man- 
tenevano. Egli  notava  poi  come  quel  verbo  presentasse  alcune  forme 
difficili  a  spiegare  (aie^  aient  corrispondenti  ad  aiue^  aiuent  ecc.).  Il 
Cornu,  nel  citato  studio,  dando  l'elenco  delle  forme  di  quel  verbo  nei 
più  antichi  testi  francesi,  non  solo  notò  che  le  forme  con  i  accentato 
stanno  accanto  a  quelle  con  u  accentato,  ma  eziandio  che  forme  con  u 
nelle  persone  coli' accento  sulla  desidenza  stanno  accanto  alle  corrispon- 
denti con  i,  e  che  anzi  nel  Salterio  di  Oxford  la  conjugazione  di  aiuàr 
è  completa;  onde  conveniva  fare  larga  parte  all'analogia  in  questa  con- 
fusione di  forme  che  scompigliava  la  regolare  distribuzione  voluta  dal- 
l'accento. Di  più  egli  supponeva  che  forme  sorte  per  analogia,  cioè 
ate  per  aiue^  ait  per  aiut  abbiano  dato  luogo  ad  altre  forme  in  cui  ai 
è  pure  dovuto  all'  analogia  (  aidait  ecc.  )  ;  e  così  aidier  avrebbe  prodotto 
aie  poi  aìde^  donde  il  mod.  aide. 


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16  JV.  CAIX  [qiornalk  di  filologia 

In  italiano  la  coujugazione  di  ajutare  presenta  ancora  dei  lati  oscuri. 
In  Dante  abbiamo: 

Ajiìta:        Ajùtami  da  lei,  famoso  saggio.  Inf.  I,  81. 

Vajùta  sì  ch'io  ne  sia  consolata.  »    II,  66. 

Gridando:  Buon  Vulcano  ajùta  ajùta.         »    XIV,  57. 

DalPalto  scende  virtù  che  m't^ùta.  Purg.  I,  68. 

Con  buona  pietate  aiuta  il  mio.  »      V,  87. 

Perchè  la  mano  ad  accertar  n'c^ùta,  »      XII,  130. 

Che  più  la  perde  quanto  più  o* ajùta?         »      XXXIII,  84. 

Ma  or  m^  ajùta  ciò  che  tu  mi  dici.  Par.  Ili,  69. 

Ajuti:         Dicendo:  padre  mio,  che  non  m^ajùti?  Inf.  XXXIII,  69. 

Ed  Urania  m^ajùti  col  suo  coro.  Purg.  XXIX,  41. 
Ajutan:      Ed  ajùtàn  l'arsura  vergognando.  »      XXVI,  81. 

AjiJTiNo:     Ma  quelle  donne  ajùtino  il  mio  verso.  Inf.  XXXII,  10. 

cioè  12  forme  coli* accento  snl  radicale  in  cui  u  si  mantiene.    Inoltre: 

Se  orazione  in  prima  non  m'aito.  Purg.  IV,  133. 

Se  buona  orazion  lui  non  aita.  »      XI,  130. 

cioè  due  casi  di  forme  accentate  sulla  radice  con  «,  ma  tutVe  due  in 
rima.    Invece  coli* accento  sulla  terminazione: 

Ben  si  dee  lor  aitar  lavar  le  note.  Purg.  XI,  34. 

Per  ajutarmi  al  milleamo  del  vero.  Par.  XXIII,  58. 

0  Muse,  0  alto  ingegno,  or  m'c^utate,  Inf.  II,  7. 

Ajutó  sì  che  piace  in  Paradiso.  Par.  X,  105. 

Nel  primo  di  questi  4  versi  vari  codici  danno  cUar^  e  nel  terzo  l' an- 
tico cod.  magliab.  ha  aiate.  Si  vede  che  Dante  nelle  persone  coli'  ac- 
cento sulla  radice ,  come  nei  primi  12  esempi ,  usava  forme  con  u 
fuorché  dove  la  rima  richiedesse  Ti,  come  nei  due  versi  citati  del  Fur- 
gatorio.  Per  contrario  nelle  forme  coir  accento  sulla  terminazione  egli 
pare  aver  usato  aitare  quando  gli  occorreva  una  sillaba  di  meno,  ed  aju- 
tare quando  il  verso  voleva  una  sillaba  di  più.  Quanto  ad  aiate  nel 
terzo  verso  non  può  che  essere  alterazione  del  copista,  poiché  si  richie- 
derebbe per  lo  meno  aitate^  e  del  resto  il  copista  stesso  negli  altri  due 
versi  scrive  ajutarmi j  ajutò.  Anche  in  Francesco  da  Barberino  abbiamo 
da  una  parte  aitare  43,  139,  269  ecc.  dall'altra  ajutranno  274.  Ciò  che 
si  nota  in  Dante  trova  conferma  nelle  prose  toscane,  come  nell'uso  po- 
polare moderno.  Mentre  è  generale  il  mantenimento  dell' t«  nelle  forme 
in  cui  questo  porta  l'accento,  sì  trova  invece  che  le  altre  hanno  il  dit- 
tongo ai  che  dà  spesso  luogo  per  contrazione  ad  a:  aitare,  atare.  Nel 
Volgarizzamento  d'Albertauo  non  solo  il  verbo,  ma  anche  il  nome  aiu- 
torio ^  benché  d'origine  letteraria,  suona  aitorio  ed  atorio.  Questo  spiega 
la  misura  aitare  e  l' alterazione  in  atare  cosi  frequente  nei  mss.  toscani 


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ROMANZA,  N.*>  4]         SVLV INFL UENZA  DELL'ACCENTO  17 

che  la  Crusca  crede  bene  accettarla  anche  per  Dante.  Ma  nello  stesso 
tempo  ajiitare  mantenne  intera  la  sua  conjugazione,  e  così  riuscì  più 
tardi  a  prevalere,  anche  nelle  forme  a  terminazione  tonica,  sopra  aitare 
cUare.  Invece  l'opposta  influenza  delle  forme  di  aitare  sopra  quelle 
con  u  tonico  è  non  meno  difficile  ad  ammettere  per  questo  verbo  che 
per  gli  altri.  Il  trovarsi  aita  così  di  raro  usato  in  Dante  e  solo  in  rima 
fa  molto  dubitare  della  popolarità  di  codesta  forma,  che  anche  oggi 
suona  come  affatto  letteraria.  In  Giulio,  secondo  il  cod.  Vatic,  si  avrebbe 
anche  fuor  di  rima: 

A  meve  non  aitano  amici  nb  parenti.  XXIII,  1. 

e  invece  nel  verso  antecedente  aiutare  contro  ogni  verisimiglianza.  Ma 
comunque  sia  di  ciò,  forme  come  aUa^  aitano  si  possono  facilmente  am- 
mettere e  spiegare  nei  primi  poeti  coir  imitazione  letteraria:  T  influenza 
dell'analogia  delle^  forme  a  terminazione  tonica  sulle  altre  potè  facil- 
mente farsi  sentire  nelle  sfere  letterarie  per  lo  studio  delle  forme  franco- 
provenzali. I  poeti  trovando  un  fr.  aide  da  aidier  poterono  foggiare 
un  it.  atta  da  ditare  quando  la  misura  o  la  rima  lo  richiedeva.  Siffatta 
influenza  straniera  è  evidente  nelle  forme  indebolite  dida,  ardi  usate  in 
rima  da  Guittone,  ed  è  notevole  che  la  prosa  che  più  abbonda  di  tali 
fórme  è  la  versione  del  De  Reg^imine  Princ.  condotta  sopra  un'anteriore 
versione  francese.  In  questa  troviamo  non  solo  aito  -i,  ma  anche  un 
sost.  masch.  aito  =  fr.  aide.  Questa  derivazione  suppone  in  ogni  modo 
un  infinito  ditare  che  così  misurato  troviamo  ancora  nel  Petrarca.  Ora 
qui  torna  in  acconcio  osservare  col  Diez  cb.e  se  aidar  aider  ben  si  spie- 
gano da  aftare,  non  così  Tit.  ditare.  Si  deve  tener  conto  della  poca 
propensione  dell'italiano  a  siffatte  elisioni  a  cui  preferisce  in  generale 
l'alleggerimento  della  vocale  modificata  secondo  le  affinità  latine.  An- 
che qui  inclino  ad  ammettere  lo  stesso  processo  che  per  manducare. 
Come  questo  ha  dato  mandicare,  così  ajutare  dove  dare  *a}itare  in  con- 
formità colle  leggi  fonetiche  latine  e  italiane  e  colle  analogie  morfolo- 
giche. L'affinità  tra  i  e  le  dentali  come  divenne  ben  presto  generale 
nel  latino  (Corssen,  Auss.  II,  292  ss.)  è  non  meno  caratteristica  del  to- 
scano centrale  (Osserv.  sul  Voc.  ital,  §.  V.)  e  qui  era  pure  favorita 
dall'analogia  coi  numerosi  derivati  in  -itare.  Le  due  cause  unite  come 
mutarono  computare  in  compitare,  così  molto  presto  anche  ajutare 
in  *ajitare  donde,  caduto  il  j  (cfr.  maestà ^  Gaeta)  j  aitare,  da  cui  poi 
aitare  atare^  usato  in  origine  solo  nelle  forme  a  terminazione  tonica, 
poi  per  imitazione  letteraria  anche  nelle  altre  quando  la  rima  lo  richie- 
deva. Ma  ajutare  che  aveva  la  conjugazione  completa  e  che  ei^a  il  solo 
usato  nelle  forme  a  radicale  accentato,  finì  per  prevalere  totalmente 
anche  nelle  altre.  Il  contrario  è  avvenuto  nel  francese.  Benché  le 
forme  con  u  siano  frequenti  e  nel  Salterio  d' Oxford  la  conjugazione  di 

2 


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18  SULL'  INFL.  DELL'  ACCENTO    [giornale  di  filologia 

aiuer  appaia  completa,  sì  vede  che  ben  presto,  come  in  manducare^  le 
forme  sincopate  hanno  avuto  un'influenza  prevalente  sulle  altre,  cosic- 
ché aidier  non  solo  ha  preso  il  campo  di  aiuer  ma,  come  abbiamo  ve- 
duto, ha  dato  qualche  rinforzo  alFit.  aitare.  Rimarrebbe  in  ultimo  a 
decidere,  ciò  che  par  molto  difficile,  se  la  base  del  fr.  aider  sia  vera- 
mente ajtare  o  non  piuttosto  *ajUare,  Secondo  il  Cornu  aie  verrebbe 
da  aiue  per  influenza  di  aidier  e  viceversa  ater  aidier  da  influenza  delle 
forme  con  i  tonico.  Come  però  il  Cornu  suppone  un  mandicare  per 
manducare,  così  par  lecito  supporre  qui  due  basi  originarie  ajutare  e 
*ajitare,  ciascuna  con  una  conjugazione  abbastanza  completa,  le  cui 
forme  si  sarebbero  intrecciate,  finché  prevalse  aidier  quando  Fiato  della 
sillaba  iniziale  aveva  dato  luogo  al  dittongo.  Così  anche  T  origine  di 
codesto  iato  avrebbe,  come  neir italiano,  una  più  naturale  spiegazione. 

N.  Caix. 


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BOKAKSCA,  N.*'4]  19 

DELLE  RIME 

DI  FRA  GUITTONE  D' AREZZO 


Chi  volesse  leggere  le  poesie  di  Fra  Guittone  d'Arezzo,  sarà  dopo 
breve  tempo  stanco  ed  oppresso  per  sovrabbondanza  di  parole  quasi 
inintelligibili,  per  frasi  complicate,  contorte,  e  talora  stranissime.  Ma 
scegli  non  si  spaventi  di  questo  male,  e  stia  saldo  nel  fatto  proponi- 
mento, 8^  avvedrà  subito  che  di  mezzo  a  tutto  quel  fango  brilla  qualche 
perla;  o,  per  esprimermi  in  senso  proprio,  fra  il  cattivo  ed  il  comune 
abbiamo  ancora  del  buono  e  deir originale.  Ed  invero,  se  in  Guittone 
troviamo  sovente  ripetizione  di  idee  e  di  pensieri,  numero  eccessivo  e 
continuo  di  antitesi  e  bisticci,  e  periodare  spesso  troppo  intralciato; 
egli  è  notevole  da  un  altro  canto  perché  non  poco  si  stacca  dalla  scuola 
provenzaleggiante,  intrecciando  T  erotico  col  religioso  ed  il  morale  e 
dando  alla  forma  poetica  un  avviamento  novello.  Egli  dopo  aver  pro- 
posto di  darsi  la  morte  se  le  pene  d'amore  non  varranno  ad  ucciderlo, 
viene  a  più  saggi  consigli,  delibera  di  abbandonare  il  mondo,  riconosce 
solo  dal  cielo  ogni  conforto;  quindi  inneggia  a  Dio,  a'  suoi  santi,  alla 
Vergine  Madre,  consigliando  a  tutti  la  fuga  dai  vizi,  il  disprezzo  del 
secolo  e  di  ciò  che  a  lui  piace,  e  l'esercizio  delle  cristiane  virtù.  Ecco 
dichiarato,  se  non  m' inganno,  come  nascono  le  tre  categorie  delle  rime 
di  Guittone,  erotiche,  morali  e  religiose,  che  colla  maggior  brevità  pos- 
sibile verremo  partitamente  considerando. 


E  prima  di  tutto  à  da  dir  qualche  cosa  sulla  vita  di  Guittone:  in- 
certo è  r  anno  della  sua  nascita,  che  fu  però  in  Santa  Firmina  a  due  miglia 
da  Arezzo  fra  il  1220  e  il  1230.  Quanto  sul  Poeta  nostro  sappiamo,  da 
lui  stesso  il  sappiamo;  perché,  per  buona  fortuna,  se  altre  fonti  ci  mancano, 
è  concesso  a  noi  di  ricavare  qualche  notizia  dalle  sue  lettere  e  dalle 
sue  poesie.  Suo  padre.  Viva  di  Michele,  fu  Camarlingo  del  comune  di 
Arezzo,  e  si  unì  in  tal  uflBcio  il  figlio  che,  quantunque  immerso  in  cure 
penose,  pur  seppe  trovar  tempo  ed  agio  allo  studio  della  poesia  e  della 
letteratura  latina.    Dai  versi  di  Guittone  si  conosce  che  questi  non  di- 


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20 


1\  VIGO 


[giornale  di  filologia 


moro  sempre  in  Arezzo;  iu  nessuno  scritto  del  Poeta  si  trova  manifesta 
ragione  di  ciò;  ma  la  congettura  del  prof.  Romanelli  (l)  mi  sembra  ra- 
gionevole e  giusta.  Nella  storia  del  medio  evo  è  famoso  per  le  guerre 
di  parte  nelle  città  italiane  il  secolo  in  cui  nacque  Guittone:  anche  in 
Arezzo,  neiretà  giovanile  del  poeta,  la  pace  dei  cittadini  veniva  turbata 
non  pure  da  guerre  e  scorrerie  di  .masnade  nemiche,  ma  altresì  dagli 
interni  dissidi  delle  fazioni  che  ponevano  nelle  famiglie  T  inquietudine 
e  la  discordia.  11  poeta  quindi  può  essersi  allontanato  dalla  patria  sua 
per  fuggire  la  vista  di  tanti  mali.  Mi  pare  infatti  eh' e' lo  dica  aperto 
nei  versi  che  seguono: 

Gente  noiosa  e  villana, 
E  malvagia  e  vii  signorìa, 
E  giudici  pien  di  falsìa, 
E  guerra  perigliosa  e  strana 
Fannomii  lasso,  la  mia  terra  odiare, 
E  1*  altrui  forte  amare. 
^  Però  m'ei  dipartuto 

Di  essa,  e  qua  venuto   (2). 

Benonché  egli  deplora  di  essersi  dovuto  allontanare  dalla  nativa  città  ed 
aggiunge  : 

E  se  pace  e  ragione 
Lì  tornasse  a  durare. 
Sempre  vorria  là  stare  (3). 

E  della  patria  fa  ognora  ricordo  con  sconfortante  mestizia.  Dove  pas- 
sasse i  giorni  dell'esilio  spontaneo,  non  saprei  dire:  certo  fu  Guittone 
talora  fuor  di  Toscana,  perché  mandando  alla  donna  amata  i  suoi  versi 
così  egli  canta: 

Va,  mia  Canzone,  ad  Arezzo  in  Toscana  (4). 

Tornato  iu  patria  si  die  a  vita  claustrale  e  morì  nel  1294  avendo  fon- 
dato Tanno  innanzi  il  monastero  di  Santa  Maria  degli  Angeli  in  Fi- 
renze in  via  degli  Alfani  (5). 

Gli  studi  a  cui  con  tanto  amore  si  applicò  nell'età  giovanile,  non 
furono  sterili  pel  nostro  autore,  il  quale  secondo  il  vezzo  del  tempo  si 
die  alla  poesia.  Di  vario  genere,  come  abbiamo  dianzi  accennato,  sono 
le  sue  rime:  le  amorose  in  maggior  numero  ma  non  di  maggiore  im- 


(1)  Di   Guittone  d'  Arezzo,   Campo-  (5)  Il  Diploma  contenente  i  patii  per  la 


basso,  ltS75,  cap.  IV,  pag.  32. 

(2)  Canz.  37,  St.  I. 

(3)  Ibid.  St.  VII. 

(4)  Ibid.  St.  X. 


fondazione  <Ji  questo  monastero  esiste  nel 
R.  Archivio  di  Stato  in  Pisa  (Diplomatico, 
San  Michele  in  Borgo,  1293,  lud.  VI)  e 
noi  lo  daremo  nel!' Appendice. 


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ROMANZA,  K.«  4]  DELLE  RIME  DI  FRA  G  UITTOKE  Zi 

portanza  per  noi.  Esse  non  per  l'ordine,  ma  pei  sentimenti  che  le  in- 
formano, si  possono  suddividere  in  poesie  dove  Guittone  ammaestra  e 
consiglia  i  fedeli  d* amore;  e  poesie  dove  parla  di  sé  come  amante,  e  in 
che  si  riferisce  propriamente  alla  donna  sua  (1).  Col  sonetto  i  cui  primi 
versi  sono 

Mi  piace  dir  com'io  sento  d'amore 
A  prò  di  que*,  che  men  sanno  di  mene  (2), 

hanno  principio  gli  ammaestramenti  di  Guittone.  Dice  il  poeta  esser 
r amore  una  passione  che  tutti  provano,  ma  non  certo  nel  modo  mede- 
simo: chi  però  non  è  profano  all'amore  conosce  a  maraviglia  quanto 
sia  grande  la  sua  possanza  che  toglie  ogni  altro  affetto  ed  ogni  altra 
preoccupazione  dell' anima.  Poiché  ognuno  è  costretto  porre  l'affetto  in 
donna,  è  da  vedere  il  modo  di  far  ciò.  Prima  che  l'amante  manifesti 
alla  fanciulla  amata  il  suo  cuore,  miri  se  a  lei  piace  o  no:  ove  alia  donna 
piaccia,  e  voglia  costei  ricambiarlo  dell'amore  ch'egli  le  ha  chiesto,  non 
tema  di  manifestarsi:  rivelato  che  si  è,  la  richiegga  di  un  secondo  ab- 
boccamento altrove;  e  se  il  luogo  è  celato,  dice  il  nostro  frate  poco 
nobilmente  : 

Basci  ed  abbracci,  e  se  consentimento 

Le  vede  alcuno,  prenda  ciò  che  più  monta  (3). 

La  donna  amata,  continua  il  poeta,  si  può  trattare  in  modi  assai  di- 
versi; e  per  far  ciò  conforme  alle  regole  conviene  por  mente  al  grado, 
all'indole,  alia  natura  di  lei;  e  quindi  è  d'uopo  conformarsi  ai  vari  casi 
che  possono  occorrere: 

Che  tal  vuole  minaccia,  e  tal  pregherà, 
E  tal  cortese  dire,  e  tal  villano; 
E  tal  parola  umile,  e  tale  fera  (4). 

Deve  l'uomo  servire  umilmente  la  donna  diletta,  ma  non  mostrarsi  mai 
innamorato  di  lei  oltre  misura:  perocché  potrebbe  darsi  che  inorgo- 
glita di  questo  affetto  mirabile  e  più  che  ordinario,  divenisse  imperiosa 
e  superba  coli' amatore:  ed  in  questo  caso  è  mestieri 

ver  lei  farsi  orgoglioso, 
E  dimostrar  cho  dell'amor  si  toglia, 
E  di  meglior  di  lei  farsi  amoroso  (5). 

Del  resto,  è  ben  piccola  cosa  quello  che  può  essere  insegnato;  e  nel- 


(1)  Romanelli,    Op.   cil.,    Capo    VI,  (3)  Sonetto  180. 
pag.  41.                                                                              (4)  Sonetto  181. 

(2)  Sonetto  173.  (5)  Sonetto  106. 


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22  P.  VIGO  [aiOBNÀLE  di  filologia 

r  oprar  conforme  alle  regole  delF  arte  amatoria  deve  ciascuno  esser  gui- 
dato dal  senno  suo  proprio. 

Ma  notevolissimo  e  degno  di  tutta  T  attenzione  è  il  contrasto  che 
produce  l'amore  nell'animo  del  poeta  aretino.  Egli  infatti  ora  si  ral- 
legra per  la  gioja  che  gli  porta  (1),  ora  si  attrista  perché  ridotto  da 
esso  a  pessima  condizione  (2),  e  sdegnato  inveisce  contro  di  lui  per- 
ché sola  cagione  delle  umane  infelicità  (3).  Di  più  la  donna  del  sno 
cuore  non  gli  appare  sempre  la  stessa  :  ora  è  trista,  spietata,  vil- 
lana (4)  ;  ora  buona ,  pietosa ,  gentile  (5).  In  questo  caso  il  poeta  si 
rallegra  di  aver  posto  i  suoi  affetti  in  loco  degno,  e  scrive  sonetti  per 
invitare  i  fedeli  d'amore  a  farle  onoranza:  nel  secondo  passa  al  bia- 
simo, si  duole  di  averla  amata,  e  maledice  quanto  ha  avuto  parte  nelle 
sue  relazioni  amorose: 

Deh!  che  mal  aggia  e  mia  fede,  e  mio  amore» 
E  la  mia  gioventute,  e  il  mio  piacere; 
E  mal  aggia  mia  forza,  e  mio  valore, 
E  mi*  arte,  e  mio*ngegno,  e  mio  savere. 

E  mal  aggia  mia  cortesìa,  e  mio  onore, 
E  mio  detto,  e  mio  fatto,  e  mio  podere; 
E  mia  canzon  mal  aggia,  e  mio  clamore, 
E  mio  servire,  e  mio  mercé  cherere  (6). 

Talora  si  trova  nelle  poesie  erotiche  di  Guittone  qualche  pensiero  gen- 
tilissimo.   L'immagine  della  sua  diletta  gli  è  sempre  dinanzi  agli  occhi: 

Tantosto,  Donna  mia, 

Com'  eo  vo'  vidi,  fui  d' amor  sorpriso  ; 

Né  giammai  lo  mio  avviso 

Altra  cosa,  che  voi,  non  divisoe  (7). 

La  partenza  d'Arezzo  gli  è  doluta  solo  per  aver  dovuto  lasciare  la  donna 
sua  nello  sconforto  e  nelle  pene: 

Solo  però  la  partenza 

Fommi  crudele  e  noiosa, 

Che  la  mia  gioia  gioiosa 

Vidi  in  grande  spiacenza. 

Che  dissemi  piangendo,  amore  meo  (8). 

Da  lungi  è  essa  il  suo  unico  pensiero;  e  molte  canzoni  sono  inviate  ad 
Arezzo  per  confortarla,  per  ricordarle  che  le  è  sempre  fedele:  non  cre- 


(1)  Canz.  XXIX.  (5)  Canz.  XXVllL 

(2)  Canz.  XXXI.  ((3)  Sonetto  77. 

(^)  Canz.  XXXVI.  (7)  Canz.  XXV,  St.  III. 

(4)  Canz.  XX VII.  (S)  Canz.  XXXVII,  St.  VIII. 


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B0MAK2A,  N.o  4]  BELLE  EIME  1)1  FU  A  GUITTON  E  28 

diate,  le  dice,  o  mìa  Donna,  chela  lontananza  mi  faccia  dimenticarvi; 
nn  cnore  ben  fatto  affina  V  affetto  sno  quando  la  sorte  lo  tien  disgiunto  dal 
caro  suo  bene  (1);  ed  a  consolarla  impromettele  nn  vicino  ritorno  (2). 
Nella  seconda  categoria  delle  poesie  erotiche  di  Guittone  poniamo 
eziandio  quei  sonetti  che  contengono  un  dialogo  fra  lui  e  la  sua  donna  : 
lo  che  riporta  subito  la  mente  nostra  alle  ten^ofii  assai  famose  nella 
primitiva  poesia  volgare.  Esporrò  la  sostanza  della  più  importante  fra 
le  tenzoni  del  poeta  aretino.  Comincia  Guittone  richiedendo  d'amore 
la  donna,  dicendole  d'esser  preso  di  lei  si  forte  da  scordare  ogni  altra 
cosa.  Risponde  la  donna  di  essere  dispostissima  ad  accondiscendere  a 
lui;  perocché  le  fa  fede  che  i  suoi  desideri  partono  veramente  dal  cuore 
e  le  promette  d' esserle  sempre  fedele.  Il  poeta  ringrazia  la  donna  della 
risposta  sì  gentile,  che  egli  pensa 

che  mai  donna  altra  fiata 

Parlasse  tanto  dibonaremente  ...  (3) 

e  la  consiglia  a  non  temere  ;  che  le  sarà  costante  e  pronto  ad  obbedire 
ai  suoi  cenni.  Essa  che  si  dice  accorta  per  modo  che  lei  non  sednr* 
rebbero  punto  i  consigli  di  colui  che  è  lupo  sotto  veste  d'agnello,  es- 
sendo troppo  chiare  e  manifeste  le  parole  dell'amatore,  protesta  di  ao* 
coglierle  con  benevolenza.  Sicuro  dell'amor  della  donna,  Guittone  non 
cape  in  sé  dalla  gioia  (4),  e  conforme  alle  sue  massime  (5)  chiede  alla 
giovane  di  parlarle  altra  volta  in  altro  luogo.  Ciò  è  preso  in  senso 
cattivo:  la  tua  domanda^  dice  la  donna  al  poeta,  non  può  aver  niente 
d'onesto  e  di  buono  (6).  Infatti  non  abbiam  convenuto  di  amarci? 
Non  sei  stato  tu  forse  già  da  me  assicurato?  È  inutile  quindi  quel  luogo 
nascosto,  quel  novello  ritrovo  che  tu  desideri:  ond'è  che  la  tua  domanda 
dev'essere  fatta  per  qualche  ragione  non  bella,  ed  io  ti  rispondo  che 
ciò  mi  offende  e  m'indigna.  Vanne,  che  non  sai  essere  un  vero  ama- 
dore,  sibbene  falso  e  finto:  fuggi  da  me  e  cercati  altra  amante  (7).  U 
poeta  piange  e  si  dispera  per  ciò:  prima  di  partire  da  lei  o  fare  a  lei 
cosa  dispiacente  dice  di  voler  mille  volte  morire;  ma  la  donna  è  ine- 
sorabile e  così  parla  al  poeta: 

Dunque  ti  parti,  e  se  dì  che  non  puoi 
Mutar  la  volontà  del  tuo  coraggio, 
Come  dunque  mutar  credi  Taltroi? 

Or  pensa  di  tener  altro  viaggio.  (8) 


(1)  Canz.  XXXn,  St.  II.  (5)  Si  veda  sopra  alla  pag.  21. 

(2)  Canz.  XXXVIII.  (6)  Sonetto  65. 

(3)  Sonetto  22.  (7)  Sonetto  67. 

(4)  Sonetto  64.  (8)  Sonetto  71. 


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24  P.  VIGO  laioRNALE  di  filologia 

Così  termìua  questa  specie  di  tenzone  che  ha  un  fine  del  tutto  diverso 
da  quella  forse  di  poco  anteriore  attribuita  a  Giulio  d'Alcamo. 

E  qui  cessiamo  Tesarne  delle  poesie  erotiche  del  frate  aretino:  ma 
da  quante  ne  potessimo  riferire  si  dedurrebbe  che  egli  sebbene  sempre 
in  parte  fedele  air  artificio  scolastico  ed  alla  tradizione  provenzale, 
pure  nello  stesso  figurarsi  benevolenze,  sdegni  e  rancori,  nel  pro- 
porre di  non  mostrarsi  troppo  innamorato  di  una  donna,  viene,  se  non 
m'inganno,  ad  esprimere  nuovi  affetti  e  nuovi  sentimenti  e  schiude  il 
sentiero  ad  un  novello  genere  di  poesia.  La  scuola  siciliana  aveva  pro- 
gredito pochissimo  nella  materia  e  nella  forma:  T amore  pe' poeti  di 
questa  scuola  si  rivolge  entro  termini  puramente  convenzionali:  hanno 
essi  poi  per  la  donna  loro,  se  mi  è  permesso  esprimermi  così,  un  vero 
culto  idolatra.  Invece  per  Guittone,  come  osserva  ben  a  proposito 
Claudio  Fauriel  (1):  e  La  dame  n^est  pas  tout  à  fait  une  divitiité^  à  la 
quelle  il  n'y  ait  quo  des  hymnes  à  adresser.  Cest  une  femme  à  la  quelle 
il  peiU  plaire^  quHl  peut  offenser^  du  moins,  sans  en  avoir  Vintention^  à 
la  quelle  il  peut  avoir  à  demander  pardon ,  qu'U  peut  perdre,  avec  la 
quelle  en  un  mot  il  peut  éprouver  tous  Ics  contrastes  de  Vamour  >.  La 
scuola  poi  dei  poeti  che  in  molte  altre  parti  d'Italia  era  sorta,  non  fa 
per  lo  più  che  attenersi  a  quella  nata  e  svoltasi  nella  cort^  di  Fede- 
rigo II  :  Guittone  d'Arezzo  invece,  come  abbiamo  accennato,  se  ne  stacca 
alquanto;  fa  che  la  poesia  amorosa  spazi  in  un  campo  più  largo  e  si 
allontana  in  qualche  parte  dai  modi  propri  della  scuola  provenzaleg- 
giante. 


II 

Nel  mezzo  del  cammiu  della  vita  Guittone  d'Arezzo,  abbandonata 
la  heUa  e  piacentiera  consorte  ed  i  figli  (2)  (lasciando  loro  però  di  che 
vivere  agiatamente)  si  ascrisse  fra  \  cavalieri  di  Santa  Maria  Gloriosa. 
Questo  ordine  istituito  nel  1209  in  Tolosa  ebbe  per  iscopo  di  difendere 
la  fede  cattolica  travagliata  allora  dalle  eresie  degli  Albigesi,  di  soc- 
correre le  vedove  ed  i  pupilli,  di  insorgere  contro  le  usure  pubbliche 
e  le  private  (3).  La  nuova  congregazione  ci  si  mostra  fin  da  principio 
con  aspetto  tutto  suo  proprio.  Ebbe  essa  infatti  non  solo  carattere 
militare  e  religioso,  ma  altresì  forma  di  confraternita  laica:  ed  iu- 


(ì)  Dante  et  les  origines  de  la  lafigue  (3)  Federici,    Istoria    dei   Cavalieri 

et  de  la  littérature  italiennes.    Paris,  Aug.  gaudenti.   In  Vinegia  1787,  Stamperia  Co- 

Durand,  MDCCCLIV,  voi.  I,  pag.  347-48.  leti,  voi.  I,  pag.  3. 

(2)  Canz.  Vili,  Sf.  IV. 


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ROMANZA,  N.«  4]  DELLE  BIME  DI  FRA  G  UITTONE  25 

vero  il  rnatriraonio  nou  faceva  impedimento  a  ehi  volesse  entrarvi;  e  i 
cavalieri  conjagati  quantunque  portassero  abito  ed  insegne  monastiche, 
osservassero  pratiche  devote  e  fossero  soggetti  al  generale  dell'  ordine  ;  pur 
nondimeno  erano  retti  da  un  priore  speciale,  stavano  sotto  la  giurisdi- 
zione dei  vescovi  diocesani  e  non  facevano  voti  di  castità  e  di  povertà. 
Si  avevano  poi  i  frati  conventuali  che  menavano  vita  claustrale  (1). 

L'ordine  de' Cavalieri  di  Santa  Maria  Gloriosa  dalla  Liuguadoca 
passò  in  Italia  e  nel  1233  fu  istituito  iu  Parma  per  opera  del  Beato 
Bartolommeo  da  Vicenza  (2).  Nella  nostra  penisola  la  congregazione 
di  cui  parliamo  ebbe  forma  pili  stabile,  e  più  conveniente  a  società  re- 
ligiosa, insignita,  come  fu,  dai  privilegi  de' sorami  pontefici.  Gregorio  IX 
l'approvava  nel  1234  e  solennemente  la  confermava  Urbano  IV  nel  1261  : 
dopo  di  che  si  propagò  in  tutte  le  città  d'Italia.  Quivi  ai  fini  che 
si  era  antecedeutemente  prefissi,  un  altro  ne  aggiunse  l' ordine  novello. 
La  nostra  nazione,  nel  secolo  XIII,  più  che  in  altro  tempo  del  medio 
evo,  era  funestata  dagli  odi  di  parte:  la  milizia  de' cavalieri  di  Maria 
si  propose  quindi,  prescrivendole  ciò  Urbano  IV  in  una  sua  bolla,  di 
calmare  i  tumulti,  di  togliere  le  discordie,  di  estinguere  le  ire  domesti- 
che (3).  Senonché  dai  santi  propositi  per  tempissimo  deviando  e  pensosa 
dei  comodi  propri  più  che  dell'altrui  bene,  la  congregazione  della  Ma- 
donna fu  detta  de'  cavalieri  Gaudenti  o  con  ischemo  maggiore  de'  Cap- 
poni di  Cristo  (4). 

Guittone  d'Arezzo  pochi  anni  dopo  la  solenne  confermazione  di 
papa  Urbano,  prima  cioè  del  1269,  entrò  fra  i  Cavalieri  Gaudenti,  e  ci 
attesta  il  Federici  che  egli  fu  propagatore  zelantissimo  di  quest'  ordine 
in  tutta  la  Toscana  e  ben  presto  provinciale  (5).  Ascritto  alla  di  vota 
milizia  cominciò  ad  osservarne  con  tutta  esattezza  le  regole:  e  non 
poteva  essere  altrimenti;  perché  egli,  come  apparisce  dalle  sue  stesse 
poesie,  è  pentito  *  de' falli  trascorsi,  e  vuol  farne  onorevole  ammenda 
ponendosi  al  servigio  di  colei  che  fu  detta  avvocata  dei  peccatori. 

Guittone  d'Arezzo  deplora  in  più  luoghi  delle  sue  rime  di  aver  male 
usato  degli  anni  giovanili  passandoli  in  godimenti  sensuali  e  mondani  ; 

Vergogna  ho,  lasso!  ed  ho  me  stesso  ad  ira, 
E  doverla  via  più,  riconoscendo 


(1)  Federici,  Istoria  dei  Cavalieri  ec.  in  Gaittone  Ji  Arezzo,  Canz.  Vili,  St.  5, 
pag.  119.  troriamo: 

(2)  Ibidem,  pag.  178-179.  ^  ,     vx      ,      ,     u.     •  /^    ;,    *• 

'  ^  "  Ben  mgRia  chi  noi  pri»  cbismo  Oandcnti, 

(3)  Ibidem,  pag.  58.  Ch'ogni  uomo,  a  Dio  rendnto. 

(4)  La   denominazione  di   Gaudenti  ai  lq  pju  diritto  nome  è  Ini  gandente. 
cavalieri  di  S.  Maria,  deve  essere  stata  di  ben 

poco  posteriore  alla  istituzione  dell'ordine:  (5)  Ibidem,  pagg.  329  e  373. 

2* 


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26  P.    VIGO  [OIOBNALE  DI  PILOLOGU 

Che  male  usai  la  fior  del  tempo  mio. 
Perché  non  lo  mio  cor  sempre  sospira? 
E  jijli  occhi  perché  mai  finan  piangendo? 
E  la  bocca  di  dir  mercede,  o  Dio?  (1) 

Egli  ha  sottomesso  ogni  cosa  non  al  servigio  di  Dio,  ma  a  qnello  dei 
vizi;  e  di  tutte  le  potenze  dell'anima  sna,  anziché  osarne  al  servigio  del 
Signore,  si  servì  ad  oltraggio  di  lui,  a  danno  degli  altri  ed  a  morte 
deir  anima  propria  (2).  Vergognandosi  cotanto  del  passato,  è  naturale 
che  pel  frate  aretino  il  giorno  in  cui  egli  si  ritrasse  dalla  vita  pec- 
caminosa, sia  quello  che  ridonò  la  pace  alla  sua  mente  ed  al  suo  cuore. 
Entrato  in  una  yia  migliore  Guittone  si  rallegra  seco  stesso,  e  si  com- 
piace della  vergogna  e  del  dolore  che  sente  pei  falli  trascorsi,  anzi  tanto 
è  più  lieto  del  pentimento  quanto  maggiori  sono  stati  gli  errori  ;  quindi 
volgendosi  alla  Vergine  la  ringrazia  dicendole:  Per  favor  vostro,  io  son 
fuori  della  strada  di  perdizione,  perché  voi 

A  vostro  cavalieri 

Mi  convitaste,  e  mi  degnaste  amare, 

E  del  secol  ritrare  (3). 

Del  cangiamento  operatosi  in  lui  rende  il  poeta  dovute  grazie  a  Dio 
«d  a  Maria,  e  così  nascono  le  sue  poesie  religiose  che  hanno  non  piccola 
importanza  per  noi. 

La  canzone  XI  è  dedicata  a  Gesii  Cristo  ed  è  piena  di  amore  verace 
e  di  fede  sincera.  In  essa  il  nostro  poeta  cominciando  dalla  incarna- 
zione, si  ferma  strofa  per  strofa  a  considerare  la  vita,  la  passione,  la 
morte  e  la  risurrezione  del  Verbo  umanato.  Sebbene  assai  rozze,  pure 
per  forza  d' espressione  e  nobiltà  di  concetto,  meritano  di  essere  riportate 
le  strofe  seguenti: 

0  bon  Gesù,  tu  troppo  amando 
La  carne  nostra,  vii  tanto,  prendesti; 
Scendesti  a  terra,  noi  a  ciel  montando, 
E  facendo  noi  Dii,  uom  te  facesti; 
Kiccor,  onore,  gioia  a  noi  donando, 
Povertà  nostra  e  ointa  e  noi'  prendesti,  ecc.  (4) 


0  bon  Gesù,  noi  vedemo  te. 
Come  mendico,  a  piede  afflitto  andare; 
Affamato,  assetato,  e  nudo  se"; 
Né  magion  hai,  né  cosa  alcuna  pare: 


(1)  Canzone  II,  St.  I.  <3)  Canz.  Ili,  St.  3. 

(2)  Canz.  Ili  passim.  (4)  Canz.  XI,  St.  3. 


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ROMAKiA,  N.°  41  DELLE  BIME  DI  FEA  G  UITTONE  27 

Or  non  se'  tu  di  cielo  e  terra  Re, 
Ricco,  cui  è  quant'é  senza  alcun  pare? 
Oh  perché  tanto  abbassare, 
£  farte  di  maggio  minore  (l). 


0  bon  Gesù,  tu  contristato, 
Tu  di  cielo  e  di  terra  ogni  allegrezza: 
È  preso  il  solvitor  d'ogni  legato; 
Laidita  e  lividata  ogni  bellezza; 
Onore  tutto  e  piacer  diaorrato; 
£  dannata  giustizia  a  falsezza; 
£  disolata  ò  grandezza; 
£  vita  ò  morta  a  dolore  (2). 


E  la  Vergine  Maria,  al  cui  culto  si  era  consacrato ,  invocava  cossi  : 

Graziosa  e  pia 
Virgo  dolce  Maria 
Per  mercé  ne  invia  a  salvamento. 

Inviane  a  bon  porto, 
Vero  nostro  conforto, 
Per  le  cui  man  Q*è  porto  tutto  bene. 
In  la  cui  pietanza 
Tutt'è  nostra  speranza, 
Che  ne  doni  allegranza  e  tolla  \^ne  (3). 

Viva  e  surgente  vena. 
La  qual  ben  tutto  mena, 
Preziosa  Reina  celestiale, 
Per  tua  santa  mercede, 
Sovra  di  noi  provede. 
Che  forte  ciascun  sede,  forte  male« 
Ma  tu,  che  poderosa, 
Cortese  e  pietosa 
Se'  tanto,  metti  in  noi  consolamento  (4). 

Anco  lo  ispirano  le  quasi  contemporanee  istituzioni  di  San  Domenico 
di  Guzraan  e  di  San  Francesco  d'Assisi:  allo  strenuo  difensore  della 
Chiesa,  al  propagatole  zelantissimo  della  fede  cattolica,  al  persecutore 
inesorabile  dell'eresia,  fra  Guittoue  d'Arezzo  canta: 

0  nome  ben  seguitato, 
£  onorato  dal  fatto, 
Domenico  degno  nomato 
A  domino  dato  for  patto  (5). 


(1)  Canzone  XI,  St,  5.  (4).  Ibid.  Si.  ult. 

(2)  Ibidem,  St.  7.  (5)  Canzone  XIII,  St.  2. 

(3)  Cani.  XU,  St.  I. 


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28  P.  VIGO  [giodkalg  di  filologu 


Agricola  a  nostro  signore, 
Non  terra,  ma  cori  coltando; 
Fede,  speranza,  e  amore 
Con  vivo  valore  sementando;  ecc.  (1) 


Concetti  che  poterono  forse  ispirare  al  divino  Alighieri  quei  bei  versi 
del  duodecimo  del  Paradiso: 


Quinci  si  mosse  spirito  a  nomarlo 
Dal  possessivo  di  cui  era  tutto. 

Domenico  fu  detto;  ed  io  ne  parlo 
Siccome  delP  agricola,  che  Cristo 
Elesse  all'orto  suo  per  aiutarlo. 


Tu,  o  Domenico,  continua  il  poeta  aretino,  hai  insegnato  agli  igno- 
ranti, hai  sanato  gli  infermi,  come  salda  colonna  hai  sorretto  ciò  che  mi- 
nacciava cadere  ;  tu  sei  vero  e  forte  campione  della  Chiesa.    Prima  di  te 

Orrore  e  stoltezza  abbondava, 
E  catuno  stavano  muto; 
Fede  e  vertù  amorta  va; 
Ond'  era  il  secol  perduto  ecc.  (2). 

ma  Dio  provvide  ai  mali  della  società  cristiana,  e  mandò  te  a  ripararvi. 
Né  minore  ammirazione  mostra  fra  Guittone  d' Arezzo  pel  Poverello 
di  Assisi:  anzi  starei  per  dire  che  riguardo  ad  esso,  il  nostro  poeta  è 
fedele  interprete  del  sentimento  dell'  età  sua  che  lo  fece  di  poco  inferiore 
a  Gesù  Cristo.  Guittone  trepida  a  dover  parlare  dì  lui;  si  dice  indegno 
di  far  ciò,  e  a  tale  impresa  disadatto;  e  si  paragona  ad  un  fanciullo  che 
viene  in  campo  a  tenzone  con  un  valoroso  e  sperto  cavaliere.  Quando  ha 
vinto  questa  trepidazione  e  questo  timore,  il  poeta  ci  dipinge  la  missione 
del  Patriarca  d'Assisi,  con  versi  che  sono  certo  de'  migliori  che  s'abbiano 
del  frate  aretino.  Sentite  infatti  come  fa  cantar  la  sua  musa  per  San 
Francesco  : 

Sformata  e  quasi  morta  era  salute, 

Errore  e  vizio  centra  essa  pugnando, 

Quando  tu  con  magna  ogni  vertute 

Levasti  forte,  e  prò  lor  contrastando. 

Lingue  parlanti  inique  hai  fatte  mute, 

E  mute  parlatrici  a  bon  trattando. 

Cieco  era  il  mondo:  tu  fallo  visare: 

Lebroso;  bailo  mondato: 

Morto;  Thai  suscitato; 

Sceso  ad  inferno;  failo  a  ciel  montare  (3). 


(1)  Canz.  XIII,  St.  3,  vv.  l-l.        (2)  Ibid.  St.  (J,  vv.  1-4.        (3)  Canz.  XIV,  St.  10. 


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ROMANZA,  N.»  4]  DELLE  RIME  DI  FRA  GUITTONE  29 

Nobilissime  adtinque  e  degne  di  tntta  F  attenzione  dello  studioso 
delle  lettere  nostre  sono  le  poesie  religiose  di  fra  Guittouc;  tanto  più 
poi  se  si  consideri  che  iu  Toscana  prima  di  lui,  la  religione  non  era 
stata  ispiratrice  feconda,  ai  poeti  della  lingua  volgare,  i  quali  di  pre- 
ferenza si  erano  dati  a  comporre  rime  amorose. 


m 

Nello  scrivere  le  poesie  morali,  Guittone  d'Arezzo  adempieva  ad  un 
obbligo  dell'Ordine  suo  il  quale,  come  sappiamo,  oltre  di  esaltare  Dio 
e  la  Madonna,  doveva  inculcare  l'odio  al  vizio,  il  desiderio  della  virtù, 
la  pace  e  la  tranquillità  fra  i  popoli  e  le  famiglie.  Il  sentimento  mo- 
rale si  manifesta  nel  frate  aretino  non  poco  nobile  ed  elevato.  Egli 
dice  che  dall'uomo  deve  temersi  piii  l'onta  che  la  morte  e  che  Dìo  ci 
ha  creati  non  a  mangiare  o  a  dormire,  ma  ad  oprare  il  bene,  ad  operare 
conforme  a  virtii  (2).  Questa,  unica  e  indispensabile  condizione  per  viver 
felici;  che  ogni  diletto  che  vien  dal  peccato  o  col  peccato  si  accompagna, 
è  misto  a  pentimento  e  a  dolore  (2).  Ed  ogni  peccato  è  leggero  appetto 
a  quello  di  non  credere  in  Dio,  lo  che  è  proprio  da  stolto:  non  solo 
fanno  testimonianza  di  lui  le  sacre  carte  in  cui  egli  ha  parlato ,  e 
tutte  le  popolazioni  che  lo  confessano,  e  tutti  i  saggi  filosofi,  e  tutti  i 
martiri  ;  ma  e'  è  altresì  il  buon  senso  naturale  che  ci  forza  a  crederlo  : 
perché 

È  impossibile  già  che  figlio  sia 

Se  non  padre  fu  pria; 

E  se  pria  nullo,  chi  secondo  addusse? 

E  se  da  uomo  uom  mosse, 

Fera  da  fera;  terra  e  ciel  da  cui? 

In  cui  ordin,  bellore 

Tal  ò  e  tanto  valore  (4). 

Dell'esistenza  di  un  altra  vita,  dice  Guittone,  ci  è  prova  il  fatto  che 
non  si  trova  nel  mondo  piena  felicità:  il  perché,  non  avendo  quivi 
l'uomo  dabbene  vera  e  perfetta  ricompensa  delle  opere  buone,  ne  deve 
esser  retribuito  dopo  la  morte.  Afferma  il  poeta  di  compiacersi  più 
che  in  ogni  altra  cosa  nel  vedere  un  ricco  limosiniero,  un  cavaliere  che 
difenda  giustizia,  un  mercante  onesto  e  veritiero,  una  donna  saggia, 
fida  all'amante,  paziente,  non  loquace,  casta  e  casalinga;  un  pontefice 
che   adduca  concordia  ov'  è  guerra  di   parte  (4)  :    dappoiché  l' anima 


(1)  Canz.  i.  (3)  Caiiz.  VII,  St.  3. 

(2)  Caiiz.  VI,  Si.  5,  St.  3.  (4)  Cauz.  X,  St.  4. 


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30  P.   VIGO  [giobnale  di  filologia 

umana  non  solo  si  appaga  dell'  esercìzio  della  virtù  ma  si  sublima  ezian- 
dio  agli  esempi  di  essa.  Felici  coloro  che  non  pongono  nelle  cose  mortali 
la  speranza  e  V  affetto ,  e  che  intendono  servire  al  Signore.  Essi  liberi 
dalle  angoscie  e  dai  turbamenti  della  vita  del  secolo,  godono  pace  sicura  (1). 
Fu  anche  ufficio  de' cavalieri  Gaudenti  (e  ciò  risponde  a  quell'ideale 
cavalleresco  tutto  proprio  del  medio  evo)  il  difendere  sempre  le  donne. 
Questa  cosa  fa  Guittone  d'Arezzo  in  varie  sue  poesie  ma  più  special- 
mente, o,  come  sogliamo  dire,  di  proposito,  nella  Canzone  quarantesima 
seconda.  Gli  uomini  tutti,  egli  dice,  hanno  preso  il  malo  abito  di  porre 
in  dispregio  le  donne,  ma  io  vo'  ribellarmi  a  quest'uso  generale,  pren- 
dendo la  difesa  di  quelle:  l'uomo,  continua  Guittone,  ha  signoria  sulla 
donna  non  per  diritto  e  ragione,  ma  per  usanza  malvagia:  ma  la  donna 
è  tanto  migliore  dell'uomo,  che  ben  ella  si  meriterebbe  la  preminenza; 
infatti  non  da  lei  ma  dall'uomo  si  compiono  i  delitti  che  funestano 
ognora  la  terra.  Il  sesso  femminile  inoltre  è  negli  affetti  più  eccellente 
e  pregevole  dell'altro:  quando  la  donna  s'induce  ad  amare  è  più  co- 
stante e  più  tenera  dell'uomo,  e  più  forti  provando  gli  stimoli  sensuali, 
sa  resistere  ad  essi  molto  maggiormente  di  noi.  E  poi  da  dirsi  la  fem- 
mina più  nobile  dell'uomo  per  la  ragione  che  Dio 

De  limo  terra  e  ruoin  fece  e  fonnone, 
E  la  donna  delPuom,  siccome  appare. 
Adunque  è  troppo  più  naturalmente 
Gentil  cosa,  che  Tuomo,  e  meglio  è  nata, 
£  più  sembra  chiamata 
Ella  fosse  da  Dio  nostro  Signore  (2). 

Il  quale,  invero,  per  redimere  il  genere  umano  non  volle  trovare  altro 
mezzo  che  una  donna.  Dalla  donna  noi  riceviamo  tutto  quanto  pos- 
siamo avere  di  meglio,  perocché  mercé  sua  si  svolgono  quei  buoni  germi 
che  in  noi  sono  nascosti, 

.    .  ngegno,  forza,  ardimento,  podere  ecc.  (3) 

e  conclude  che  tutto 

...  il  senno  e  lo  valor,  ch'ha  Tuomo, 

Dalla  donna  tener  lo  dea,  sì  corno 

Ten  lo  scolar  dal  suo  maestro  Tarte  (4). 

Viene  quindi  a  dire  che  le  donne  debbono  esser  gelose  custodi  di  ogni 
virtù:  le  ammonisce  a  guardarsi  dalle  insidie  altrui;  le  consiglia  a  ser- 


ri) Canz.  XX.  (3)  ìh'ul  St. 

(2)  Canz.  XLII,  St.  6.  (4)  Ibùl.  Si. 


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ROMANZA,  N.«  4)  DELLE  RIME  DI  FRA  G  UITTONE  31 

bare   la  castità  che   tanto   le  innalza   agli  occhi  nostri,   ed   è   unico 
mezzo  di  perfezione  verace: 

Vivere  in  carne  fuor  voler  carnale 
È  vita  angelicale  (1); 

anzi  : 

Angeli  castità  hanno  for  carne; 

Ma  chi  rhave  con  carne 

In  tant'è  vìa  maggior  d'Angel  dicendo  (2). 

In  una  serie  di  11  sonetti  (3)  Guittone  d'Arezzo  scruta  l'indole  dei 
principali  vizi  umani  mostrandone  i  tristi  effetti:  nei  versi  seguenti  (4) 
parla  delle  virtù  contrapposte,  facendo  di  tutto  come  un  piccolo  trat- 
tato di  morale. 

Prima  di  dare  un  cenno  sulle  poesie  politiche  di  fra  Guittone 
d'Arezzo  ci  pare  acconcio  l'avvertire  che  noi  le  rannodiamo  colle  mo- 
rali per  questa  cagione.  Un  altro  degli  obblighi  e  dei  piìi  rigorosi  de'  Ca- 
valieri di  Santa  Maria  fu  la  diffusione  della  pace  non  pure  fra  le  fa- 
miglie, ma  fra  i  popoli  ancora:  cosicché  Guittone  d'Arezzo  scrivendo 
siffatti  versi  non  dava  che  un  insegnamento  morale  secondo  i  precetti 
deir  Ordine  :  ecco  perché  abbiamo  serbato  questo  posto  siile  poesie  poli- 
tiche, e  non  ne  facemmo  una  categoria  a  parte. 

Leggendo  le  rime  politiche  del  frate  Aretino,  si  conosce  a  prima 
giunta  ch'egli  appartiene  alla  fazione  guelfa;  e  ai  seguaci  di  questa 
parte  viene  appunto  diretta  quella  canzone,  che  è  senza  dubbio  la  più 
importante  in  quest'ultimo  gruppo  di  poesie  del  Gaudente  d'Arezzo. 
Ognuno  intende  eh'  io  voglio  riferirmi  ai  versi  scritti  da  Guittone  dopo 
la  memorabile  battaglia  di  Montaperti  (1260)  che  fu,  come  tutti  sanno, 
una  vera  rovina  della  guelfa  Firenze.  Nella  canzone  XLI,  una  delle 
più  note  fra  le  poesie  di  Guittone,  si  duole  questi  e  piange  a  veder  Fi- 
renze a  si  cattivo  stato  condotta;  quella  Firenze  che  tante  speranze 
dava  di  sé;  che 

.  .  .  riteneva  modo  imperiale, 

Acquistando  per  suo  alto  valore 

Provincie  e  terre,  e  presso  e  lunge,  mante. 

E  sembrava  che  far  volesse  impero 

Sì  come  Roma  già  fece;  e  leggiero 

Gli  era:  che  alcun  no  i  potea  star  avante  (5). 


(1)  Canz.  XLIII,  St.  5.  (4)  Son.  CXXX. 

(2)  Ibid.  (5)  Canzone  XLI,  St.  2. 

(3)  Dal  son.  CXXII  al  CXXXII. 


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32  ,  P.  VIGO  [giornale  di  filologia 

Se  non  che  al  lamento  succede  l'ironia,  quasi  rimproverì  ai  Fio- 
rentini d'esser  caduti  sotto  gli  Uberti  e  gli  Alemanni  per  colpa  pro- 
pria; quell'ironia  che  è  stata  frantesa  per  modo  dal  signor  Perrens  che 
ei  non  ha  dubitato  di  asserire  appartenere  Guittone  d'Arezzo  alla  fa- 
zione ghibellina  (1).  0  voi,  dice  il  poeta,  che  siete  in  Firenze,  ponete 
mente  alle  mie  parole.  Poiché  avete  in  casa  gli  Alemanni,  serviteli  bene 
e  fatevi  da  loro  mostrare  le  spade  con  cui  vi  hanno  ferito  i  volti,  ed 
ucciso  i  parenti.  Ad  oprar  queste  cose  dovettero  essi  faticare  non  poco  : 
quindi  mi  piace  che  voi  in  compenso  diate  a  costoro  molta  della  vostra 
moneta,  ed  ugualmente 

Monete  mante  e  gran  gioi*  presentate 
Ai  Conti,  ed  agli  Uberti,  e  agli  altri  tutti, 
Ch^  a  tanto  grand'  onor  ▼*  hanno  condutti , 
Che  miao  v'hanno  Siena  in  podestate. 
Pistoja,  e  Colle,  e  Volterra  fann'ora 
Guardar  vostre  castella  a  vostre  spese; 
E  '1  Conte  Rosso  ha  Maremma  e  U  paese  : 
Montalcin  sta  sicur  senza  le  mura  ; 
Di  Ripafratta  teme  ora  il  Pisano; 
E  '1  Pemgin,  eh  '1  lago  noi  tolliate; 
E  Roma  vuol  con  voi  far  oompiignia, 
.j^     Onore  e  signoria. 

Adunque  pare  che  ben  tutto  abbiate 

Ciò  che  disiavate, 

Potete  far  cioè  Re  del  Toscano  (2). 

Questa  ironia  continua  fino  al  termine  della  canzone  che  si  chiude 
così:  ♦ 

Baron  Lombardi,  e  Romani,  e  Pugliesi, 
E  Toschi,  e  Romagnuoli,  e  Marchigiani, 
Fiorenza,  fior  che  sempre  rinovella, 
A  sua  corte  v'appella; 
Che  fare  vuol  di  se  Re  dei  Toscani 
Da  poi  che  gli  Alamani 
Ha  ve  conquisi  per  forza  e  i  Senesi. 

Ma  un'altra  cosa  si  manifesta  nelle  poesie  politiche  di  fra  Guittone: 
l'amore,  cioè,  che  il  poeta  nutre  grandissimo  per  la  propria  città:  al 
vedere  che  questa  da  prospera  e  floridissima  condizione  è  venuta  a  ben 
deplorevole  stato,  lo  prende  compassione  e  dolore.  Nella  canzone  XL 
fa  Guittone  un  contrapposto  fra  l'antecedente  felicità  del  comune  di 
Arezzo  e  la  posteriore  miseria:  e  dopo  avere  inveito  contro  la  iniqua 
ecrudelgente  che  ne  è  stata  cagione,  grida  in  questo  modo  ai  cittadini: 


(1)  Histoire  de  la  repìtbliquc  de  Florence,  li,  107  e  vedasi  pure  questo  Giom,  I,  53. 

(2)  Canzone  XLI,  St.  6. 


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ROMANZA,  N."  4 1  DEL  LE  RIME  DI  FRA  G  UITTONE  33 

Crudeli,  aggiate  mercede 
De'  figliuoli  vostri  e  di  vui  : 
Che  mal  laverebbe  altrui 
Chi  sé  stesso  decede. 
K  se  vicina,  né  divina  amanza 
Non  mette  in  voi  pietanza, 
El  fatto  vostro  istesso  almen  la  i  metta  (1). 

Colle  Canzoni  si  volge  il  poeta  ad  alcuni  celebri  personaggi  del- 
l'età  sua.  Al  Conte  Ugolino,  al  giudice  di  Gallura  (2)  e  ad  altri,  per- 
ché della  loro  potenza,  o  degli  ofiBci  loro  si  valgano  come  comanda  Iddio 
a  tutta  pace  e  prosperità  delle  genti;  a  Corso  Donati,  capo  di  parte 
Nera  in  Firenze,  per  consigliarlo  a  crescere  valore  e  virtii  all'  animo  suo 
nelle  occorrenze  (3);  a  Marzucco  degli  Scornigiani  da  Pisa,  per  lodarlo 
di  un  atto  nobile  e  generoso  (4);  a  Ranuccio  da  Casanova,  per  fargli 
parola  delle  virtìi  prescritte  dall'Ordine  ai  Cavalieri  Gaudenti  (5);  e 
queste  Canzoni  in  forma  di  lettere,  e  come  tali  pubblicate  dal  Bottari 
tra  quelle  del  Frate,  rendono  conforme  al  vero  il  giudizio  del  Carducci, 
che  Guittone  d' Arezzo,  cioè,  aspiri  a  quella  poesia  politica  concionatrice 
levata  poi  sì  alto  dal  Petrarca  (6). 

Esaminati  più  brevemente  che  abbiamo  potuto  i  diversi  generi  delle 
poesie  di  fra  Guittone,  vediamo  di  stabilire  qualche  cosa  riguardo  al 
luogo  eh'  egli  occupa  nella  storia  delle  lettere  nostre.  La  scuola  si- 
cula  si  attiene  strettamente  al  fare  dei  Provenzali,  ed  è  fedele  seguace 
dell'arte  loro  convenzionale.  Volendo  parlare  colla  maggiore  esat- 
tezza possibile,  ricavando  le  consegenze  dagli  studi  che  abbiamo  fatti, 
non  potremmo  dire  che  Guittone  d'Arezzo  faccia  parte  di  quella. 
Inclineremmo  a  dividere  la  scuola  toscana  in  due  gruppi  distinti  :  l' uno 
popolare,  il  quale,  dopoché  il  reggimento  a  comune  ebbe  in  Firenze 
il  massimo  suo  svolgimento,  quivi  crebbe  come  sotto  cielo  propizio; 
l'altro,  rappresentato  specialmente  dai  poeti  pisani  Bacciarone,  Pan- 
nuccio.  Lotto  di  Ser  Dato,  Pucciandone  Martelli,  latineggiante ;  il 
quale  nondimeno  è  indipendente  dai  bolognesi:  poiché  mentre  questi 
per  l'intrinseco  delle  loro  poesie  si  ricongiungono,  o  meglio  cer- 
cano di  ricongiungersi  ai  poeti  latini  e  seguono  le  tradizioni  dell'arte 
e  della  scienza  antica  cosi  svisate  come  le  avea  il  medio  evo;  quelli 
soli  nella  sintassi  si  attengono  ai  classici,  sforzandosi  di  modellare 
la  loro  costruzione  poetica  suU'  esempio  dell'  antichità  (7).  A  questa 
scuola  meglio  che  ad  ogni  altra  accosterei  Guittone  d'Arezzo:  senon- 


CD  Canz.  IX,  St.  5.  (5)  Canz.  TJX. 

(2)  Canz.  XXIII.  (6)  O.   Carducci,  Studi  Letterari.  Livorno, 

(3)  Canz.  LIV.  Frane.  Vigo  Edit.  1874,  pag.  35. 

(4^  Canz.  LVllI.  (7)  D'Ancona,  Corso  Universatario  di  Lett.  It. 

3 


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34  P.    VIGO  [OJOBKALE  DI  FILOLOGIA 

che  egli  ha  tratti  proprio  particolari  e  caratteristici  che  ci  impediscono 
di  farnelo  seguace  scrupoloso  e  fedelissimo.  Il  nostro  frate  infatti  è 
anello  di  congiunzione  tra  il  fare  latineggiaute  e  la  maniera  dei  Pro- 
yenzali  a  cui  si  attiene  pei  bisticci  e  le  antitesi  continuate,  che  furono 
un  assai  brutto  vezzo  dell'  ultima  poesia  ocitanica.  E  i  bisticci  e  le  an- 
titesi continuate  sono  in  verità  piìi  che  abbondanti  nelle  rime  di  Guit- 
tone;  basti  citare:  alter  altezza  (Canz.  Ili,  St.  3  v.  7)  e 

0  vita  vital ,  per  cui  e*  vivo 
For  cui  vivendo  moro,  e  vivo  a  morte; 
E  gaudio,  per  cui  gaudo,  e  son  gioivo, 
For  cui  gaudendo  ogni  dolor  mi  sorte;  ecc.  (1) 

E  gradite  grazire  Le  grazie  e  i  piacer  suoi  (C.  XVII,  st.  2  vv.  11 
e  12),  Sfiorata  fiore  (Canz.  XLI  st.  2  v.  1),  gioia  giojosa  (Canz.  XLV, 
st.  1  y.  1  ).  Ma  v^  è  ancora  di  più.  Spesso  il  poeta  unisce  insieme  pa- 
role identiche  di  suono,  ma  differenti  di  significato.    Per  esempio: 

Già  Inngiamente  sono  stato  punto; 
Si  punto  m'  have  la  noiosa  gente, 
Dicendo  di  savere  ove  mi  punto; 
Sì  tal  punto  mi  fa  quasi  piangente  (2). 

Ed  anche 

Eppure  amare  vo' quella  cui  amo; 
Che  ad  amo  m^ave  si  preso  T amare: 
Pid  eh'  altro  amant^  di  bon  amor  lei  amo. 

Ed  eo,  che  v^amo,  voi  di  bon  amare 
D'amor  consiglio,  che  imbocchiate  Tamo, 
In  eh*  amo,  dico  a  voi  quel  che  ven  pare  (B). 

Quello  poi  che  lega  Guittone  d'Arezzo  alla  scuola  pisana,  è  il  fa- 
ticoso ritorno  alle  forme  latine,  che  si  trovano  spessissimo  nelle  sue 
poesie.  Guittone  per  altro  si  attiene  spontaneamente  alla  maniera  la- 
tineggiaute: egli  va  proprio  apposta  a  cercare  modi  contorti  e  ripu- 
gnanti air  indole  della  lingua  novella,  precisamente  come  artificiose  sono 
quelle  antitesi,  quei  bisticci  di  cui  abbiamo  discorso.  Ed  infatto  non 
naturali  ad  alcuna  maniera  di  scrivere  mi  sembrano  i  seguenti  modi  di 
dire:  Perché  non  lo  mio  cor  sempre  sospira?  (Canz.  II  v.  4).  0  loco  è 
altro  ove  pagar  uom  dea?  (Canz.  VII,  st.  4  v.  16).  E  morte  Laida 
prendendo  traforte^  Vita  a  noi  dando  tutf  ore.  (Canz.  XI  st.  2  v.  9  e  segg.). 
Che  forte  ciascun  sede,  forte  male  (Canz.  XII.  st.  nlt.  v.  6).  A  domino  dato 
for  patto  (Canz.  XIII,  st.  3  v.  4).  Ma  preìido  onde  savere  Degnila  tanta 
in  suo  degno  ritrarc?  (Canz.  XIV,  st.  1  vv.  3  e  4).    E  cielo  ogni  in  alto 


(1)  Canz.  XV,  St.  4.  (2)  Sonetto  CI.  (3)  Sonetto  CLXXXIII. 


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ROMANZA,  N.<»  4]  DELLE  BIME  DI  FRA  G  UITTOXE  35 

(Ibid.  st.  4  V.  8).  Parvo  par ^  magno  fare  a  magno  amante  (Ibid.  st.  6 
V.  5)  Salvò  secolo  esto  (Ibid.  st.  10  v.  8).  E  ne'  tuoi  figli  oh  quanta 
oljsi  grandezza!  (Ibid.  st.  13  v.  2).  Non  laude  amiate  alcuna  (Canz. 
XVIII,  st,  l,v.  19).  Arbore  quel^  che  non  frutta  in  estate  Fruttar  qua/ndo 
sperate?  (Canz.  XXIII,  st.  3  vv.  7  e  8).  Ma  se  non  vuol  di  piano 
vincer^  corno  Vorrà  se  affligend' uomo?  (Canz.  XXIV  st.  2.  vv.  12-3). 
Amore  già  per  la  gioia  Che  'nde  vegna^  non  Vaudo  (Canz.  XXXV, 
st.  4  V.  1).  E'  l  gran  lignaggio  suo  morto  a  dolore  Ed  in  crudel  pri- 
gion  mis'  a  gran  reo  (Canz.  XLI,  st.  3.  vv.  3-4).  E  ciò  gli  Jm  fatto  chi? 
(Ibidem  v.  5).  Ma  lo  suo  piacentero.  Sembiante^  me  nesciente^  in  gioia  è 
mosso  (Canz.  XLVI,  st.  2.  vv.  5-6)  (1). 

Questi,  che  non  sono  davvero  tutti  gli  esempi  che  si  potrebbero 
citare,  dimostrano  a  su£5cienza  che  il  frate  aretino  è  ampliatore  mas- 
simo di  quella  nuova  foggia  di  poetare  che,  se  da  un  lato  si  attiene  al 
fare  provenzaleggiante,  da  un  altro  canto  se  ne  stacca  in  quantoché 
si  avvicina  alla  sintassi  latina:  ma  questa  unione  di  elementi  nuovi 
cogli  antichi,  è  troppo  superiore  alle  forze  ed  ai  tempi  di  Fra  Guit- 
tone:  si  direbbe  quindi  che  questi  non  è  riuscito  che  ad  abbozzare 
una  scultura  che  egli  aveva  intenzione  di  compiere  con  tutto  il  magi- 
stero possibile,  e  di  esporre  agli  occhi  ed  al  giudizio  del  pubblico;  co- 
sicché non  dubitiamo  di  asserire  che  Guittone,  innamorato  com'era 
della  classica  antichità,  se  fosse  vissuto  due  secoli  appresso,  alla  fine  del 
medio  evo,  avrebbe  avuto  ben  altra  fortuna. 

Per  la  conoscenza  e  la  perizia  degli  scrittori  latini,  e  per  l'amore 
a  questi  il  frate  aretino  deve  essere  stato  a'  suoi  tempi  in  grandissima 
stima.  Fra  le  poesie  di  Guido  Guinicelli  si  trova  un  sonetto  mandato 
a  Guittone  d'Arezzo  nel  quale  si  hanno  questi  versi 

Prendete  la  canzon  la  quale  io  porgo 
Al  parer  vostro  che  T agiunchi  e  cimi; 
Che  a  voi  in  ciò  solo  come  mastro  accorgo. 

Ma  della  riputazione  del  poeta  nostro  a  suoi  tempi  ci  fanno  testimo- 
nianza notevole  Dante  Alighieri  e  Francesco  Petrarca.  Il  primo  nel  De 
Vulgari  Eloquio  (2)  se  la  prende  contro  chi  innalza  Guittone  e  dice 
così:  Desistant  ergo  ignorantiae  secfatores  Guidonem  aretinum  extollcntes ; 
e  nel  XXVI  del  Purgatorio  avendo  incontrato  Guido  Guinicelli  amico  e 
maestro  suo  lo  encomia  per  le  sue  dolci  rime  d'amore  dicendogli  che 
sarebbero  durate  in  eterno.  Ma  il  poeta  bolognese  protesta  quasi 
di  non  meritarsi  questo  elogio  si  grande;  che  un   perfetto  artefice  e 


(1)  Per  debito  di  giustizia  debbo  dire  che,  prima  di  me,  raccolse  queste  forme  lati- 
neggianti  T egregio  professore  Alessandro  D'Ancona. 

(2)  Libro  li,  Gap.  VI. 


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36  P.     VIGO  [OIORHALK   DI    PILOLOGU 

maestro  del  proprio  parlare  non  dee  cercarsi  in  Italia  ma  in  Provenza, 
nella  persona  di  Arnaldo  Daniello,  che  soverchiò  tutti  gli  altri  in  rime 
d'amore  e  prose  di  romanzi.  Coloro  che  credono  a  lui  superiore  Ge- 
rardo di  Limoges, 

A  voce  più  che  a  ver  drizzan  li  volti, 
E  così  fermano  sua  opinione 
Prima  ch'arte  o  ragion  per  lor  s* ascolti. 

K  similmente 

Così  fer  molti  antichi  di  Guittone, 
Di  grido  in  grido  pur  lui  dando  pregio, 
Finché  r  ha  vinto  il  ver  con  più  persone. 

Cioè:  egli  fu  approvato  un  tempo  per  testimonianza  di  molta  geute; 
ma  in  appresso  la  verità  è  stata  conosciuta  e  dichiarata  dai  più  e  la 
stima  universale  gli  è  venuta  meno. 

11  Petrarca  nel  capitolo  IV  del  Trionfo  d'Amore  fingendo  di  aver 
visto  in  una  piaggia  fiorita  alcuni  poeti  amorosi  toscani  vissuti  prìua 
di  lui,  pone  fra  essi  Guittone  e  dice 

Ecco  Dante  e  Beatrice,  ecco  Selvaggia, 
Ecco  Gin  da  Pistoja,  Guitton  d'Arezzo, 
Che  dì  non  esser  primo  par  che  ira  aggia: 

lo  che  debbe  intendersi  in  questo  modo:  che  il  nostro  poeta  sentiva 
invidia  di  non  essere  fra  i  suoi  posteri  tenuto  in  quel  gran  conto  nel 
quale  era  stato  presso  i  contemporanei,  dai  quali,  come  anche  apparisce 
da  un  passo  di  Benedetto  da  Cesena,  ei  fu  grandemente  stimato  (1).  E 
tutte  queste  a  noi  sembra  che  siano  prove  della  riputazione  che  il  poeta 
d'Arezzo  come  dotto  e  singolare  nella  maniera  di  scrivere  deve  aver 
goduto  ai  suoi  tempi* 


IV 

Parrà  forse  cosa  strana  a  taluno  che  noi,  parlando  delle  poesie  asce- 
tiche di  fra  Guittone,  non  abbiamo  neppur  fatto  cenno  del  famoso  so- 
netto Donna  del  Cielo^  gloriosa  madre  Del  buon  Gesù  ecc.  Da  questo 
fino  all'ultimo  (una  serie  di  27  sonetti)  comincia  una  foggia  di  poesia 
phe  è  proprio  incompatibile  coU' antecedente  del  frate,  perché  le  darebbe 
un  carattere  diversissimo  da  quello  che  abbiamo  detto  appartenerli.  Chi 
attentamente  si  faccia  a  leggere  quei  sonetti  e  li  ponga  a  rafi^ronto  cou 


(J)  Tract.  de  honore  midieriim,  Lib.  IV,  Capo  2. 


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ROMANZA,  s.«»  4]  DELLE  RIME  DI  FRA  G  UITTONE  37 

gli  altri  di  Guittone  s*  avvedrà  a  prima  giunta  di  una  differenza  non 
piccola.  La  maniera  di  dire  è  assai  più  disinvolta,  la  frase  procede  più 
spedita  ed  ordinata,  la  lingna  è  incomparabilmente  più  pura  e  libera 
da  tutti  quei  bisticci,  che  se  furono  una  ben  trista  abitudine  di  molti 
negli  albóri  della  nostra  poesia,  sono  in  Guittone  quasi  insopportabili. 
Attalché  sorge  spontaneo  il  dubbio  se  una  forma  sì  nobile  e  peregrina 
possa  essere  sorella  legittima  di  una  rozza  e  diciamo  quasi  scomposta. 
Il  dubbio  può  esser  ben  giustificato  dal  fatto  che  questi  sonetti  non  si 
trovano  in  nessun  codice  delle  poesie  di  Guittone.  Non  gli  hanno  i 
due  codici  che  esistono  a  Lucca,  non  gli  hanno  i  codici  romani  e  non 
gli  hanno  neppure  il  Palatino,  il  Riccardiano,  il  Rediano. 

Ma  come  dunque  vennero  fuori?  Essi,  scompagnati  dagli  altri  che 
vediamo  nelle  edizioni  posteriori,  comparvero  perla  prima  volta  nell'ot- 
tavo libro  dell'opera  intitolata  Rime  antiche^  divise  in  undici  lihri^  Fi- 
renze, eredi  Giunti,  1527,  in  8*  e  nelle  successive  ristampe  dell'opera 
medesima  fatte  a  Venezia  dai  Fratelli  Sabbio  nel  1532,  da  Cristoforo 
Zane  nel  1731,  e  nel  1740  da  Simone  Occhi,  il  quale  non  fece  se  non 
rimetter  fuori  l'edizione  dello  Zane  mutandovi  il  frontespizio,  ma  non  il 
foglio  seguente  ov'  era  indicato  il  nome  del  tipografo  :  del  che  pare  che 
egli  non  si  sia  accorto.  Nell'edizione  Giuntina  si  trovano  del  no- 
stro poeta  trentacinque  sonetti,  due  ballate  e  due  canzoni,  cosicché  a 
questa  edizione  sembra  essersi  riferito  l'illustre  Fauriel  quando  par- 
lando di  Guittone  scrisse:  On  a  de  lui  trent-cinq  sonnets^  quatre  can- 
zoni ecc.  (1) 

Il  Valeriani  da  nove  codici,  due  dei  quali  Vaticani,  gli  altri  Luc- 
chesi appartenuti  al  Lucchesini  e  trascritti  per  mano  del  Salvini  e  del 
Biscioni,  tolse  tutte  le  rime  che  si  hanno  oltre  quelle  pubblicate  nel  1527, 
vi  aggiunse  le  altre  dell'edizione  Giuntina  mettendole  in  ultimo  senza 
por  mente  alla  gran  differenza  che  manifestavano  nella  forma,  e  curò 
un'edizione  generale  delle  rime  di  Fra  Guittone,  che  fu  stampata  in 
Firenze  presso  Gaetano  Morandi  nel  1828  in  due  volumi  in  ottavo:  dei 
quali  alla  pagina  212  del  secondo  cominciano  i  sonetti  controversi. 
Copia  più  che  altro  dell'edizione  del  Valeriani  è  la  ristampa  che  delle  poesie 
del  nostro  frate,  fu  fatta  a  Firenze  nel  1867:  fa  parte  della  collezione 
Mazzini  e  Gaston,  ed  è  il  primo  volume  della  prima  serie.  Cosicché 
l'errore  è  stato  successivamente  tramandato  dall'una  all'altra  ristampa; 
né  può  difendersi  in  verun  modo,  in  quanto  i  criteri  diplomatici,  che 
sono  del  massimo  valore  in  questioni  di  siuiil  fatta,  stanno  a  giustifi- 
care il  dubbio  emesso. 


(1)  Davte  et  les  nvigines  de  la  langve  et  de  la  lUterature  itallennes,    Paris,  Au- 
gust  Durand,  MDCCCLIV.     Voi.  I,  pag.  346. 


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38  P.   VIGO  [giornale  di  filologia 

Il  qual  dubbio  però  non  siamo  davvero  stati  noi  i  primi  a  formare. 
Già  Ugo  Foscolo  nelle  sue  Epoche  della  letteratura  italiana  non  temette  di 
dire  che  gli  ultimi  ventisette  sonetti  potessero  appartenere  a  Guittone. 
«  Di  Guido  poeta,  son  sue  parole,  i  versi  che  restano  sarebbero  maravi- 
gliosi  per  queir  età  ;  non  tanto  per  le  idee,  quanto  per  lo  stile  che  spesso 
pareggia  quello  del  Petrarca;  ma  confesso  che  io  credo  le  poesie  di  Guido 
d'Arezzo,  spiritose  invenzioni  di  qualche  bell'ingegno  dell' epoca  di 
Leone  X  (1).  >  Il  Giudici  poi,  prima  di  conoscere  quanto  aveva  detto  Ugo 
Foscolo  sul  frate  aretino,  non  dubitava  di  affermare  che  se  l'autore  dei 
ventisette  sonetti  controversi  e  delle  altre  poesie  fossero  una  stessa  per- 
sona, e  verremmo  costretti  a  supporre  un  miracolo  e  chiamare  in  aiuto 
l'onnipotenza  divina  per  decidere  un  piato  di  minuzie  letterarie»  (2). 

Oltre  dieci  anni  dopo,  narra  l'egregio  critico  essergli  accaduto  un 
fatto  che  potè  avvalorar  grandemente  l' ipotesi  del  Foscolo,  e  i  dubbi  suoi 
propri.  Ci  serviremo  delle  sue  stesse  parole.  <  Tirando  innanzi  il  mio 
lavoro  nel  fare  i  miei  studi  sul  Trissino,  mi  giovai  della  bella  edizione  di 
tutte  le  opere  di  lui  fatta  nel  1727  con  estrema  cura  da  Scipione  MafiFei, 
la  cui  autorità  nelle  cose  di  erudizione  è  tenuta  meritamente  come  quella 
di  giudice  inappellabile.  Immagini  chi  può  la  mia  maraviglia  allorché 
nella  edizione  detta  di  sopra  vidi  il  sonetto: 

Quanto  più  mi  distrugge  il  mio  pensiero 

stampato  fra  le  rime  del  Trissino,  si  che  potei  pensare  di  non  essermi 
male  apposto  (3).  » 

Questo  fatto  indurrebbe  ad  asserire  colla  debita  circospezione  es- 
sere i  ventisette  ultimi  sonetti  attribuiti  al  frate  Gaudente,  o  per  lo 
meno  una  gran  parte  di  essi ,  probabil  fattura  di  quattrocentisti  o  cin- 
quecentisti imitatori  del  Petrarca. 

Ad  avvalorare  i  dubbi  sull'autenticità  degli  ultimi  27  sonetti  può 
servire,  più  che  altro,  un  raffronto  delle  parole  e  modi  degli  antece- 
denti, colle  parole,  e  coi  modi  loro.  Dal  I  fino  al  CCVIII  inclusive  il 
lettore  non  potrà  trovarne  una  brevissima  serie ,  che  non  gli  ponga  sot- 
t' occhio  frasi  assai  poco  naturali  all'indole  della  lingua  italiana,  e  ta- 
lora strane  e  contorte.  E  tali  sono,  a  parer  nostro,  quelle  che  seguono, 
tolte  qua  e  là  dai  sonetti  non  controversi:  esser  manente  (Son.  XXIX, 
V.  3).  Regnare  a  hmiignanza  ed  a  piacere  (Ibid.  v.  4).  Amistate  a 
buon  talento  (Son.  XXX,  v.  2).  Farte  la  vita  a  gran  dolore  (So- 
net.  XXXn,  V.  3).  Chcr  mercè  (Son.  XXXIII,  v.  3).  Se ^n  voi  de- 
gìiasse  fior  valer  mercede;  Ma  ciò  decede  orgoi  die  vi  sta  bene  (Ibid. 


(1)  Citato  in  Giudici, Sr.  della  Leu.  It.  (2)  Op.  cit.  ibid.  pag.  107-108. 

Firenze,  F.  Le  Mounier,  18G3.  Voi  1,  Lez.  Ili,  (3)  Ibid.  in  nota, 

pag.  108  in  nota. 


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ROMANZA,  N."  4]  DELLE  BUIE  DI  FRA  G  UITTONE  89 

vv.  9  e  10).  A  tutta  mia  divisa  (Son.  XL,  v.  11).  Ciò  che  m"  agenza 
(Son.  XLII,  V.  3).  Ma  come  in  ferro  più  che  in  cera  tene  E  voile  in- 
taglia ecc.  (Son.  XLV,  vv.  12  e  13).  Ferde  diritto  Prima  chi  falla^  e 
prender  me  difendo  (Son.  XLVI,  vv.  9  e  10).  Adunque  guarrìa  me 
V altrui  noccnte  (Son.  LXVIII,  v.  14).  Com'  tu  prenderlo  di,  avaccio 
accordato  Fora  per  la  mia  parte^  e  volentieri  (Son.  LXXI,  vv.  3  e  4). 
ma  non  m' è  piacentera  (Son.  LXXV,  v.  7).  CK  io  tei  convento  dar  ben 
dóbhramente  (Son.  LXXXII,  v.  12).  Sì  dólcemente  m'have  trapagato  Lo 
vostro  orrato  dir^  che  son  galdente  (Son.  LXXXIII,  vv.  10  e  11).  Som- 
mariamente quanto  può  ciausire  Di  tutto  ben  uom  bon  conoscidore. 
(Son.  LXXXIV,  vv.  7-8). 

Frasi  consimili  a  queste  si  ripetono  del  continuo  nelle  rime  del 
frate  aretino,  e  avremmo  stancato  certamente  la  pazienza  del  lettore, 
se  tutte  quante  le  avessimo  qui  riferite. 

Ma  oltre  a  ciò  sono  frequentissimi  i  bisticci  nei  208  sonetti;  fra 
i  quali  anzi  ve  ne  ha  alcuno  in  cui  una  medesima  parola,  o  parole  de- 
rivate da  un  identica  radice  compariscono  in  tutti  i  quattordici  versi; 
come  ad  esempio  nei  sonetti  XXXIV,  LIV,  LXX  e  CLXXXIII:  goffo, 
quest'ultimo,  più  di  tutti  gli  altri,  oscuro  e  ridicolo.  Si  trovano  inoltre 
molto  spesso  bisticci  di  due  o  più  parole,  talora  anche  di  un  intera 
strofa,  che  qua  non  riferiamo  per  non  tediare  chi  leggerà  il  presente 
scritto. 

Ma  dal  sonetto  CCIX  fino  all'ultimo  non  abbiamo  più  tutto  que- 
sto, e  se  apparisce  qua  e  là  qualche  forma  antiquata,  non  vi  si  trovano 
frasi  contorte  e  latineggianti  in  modo  non  acconcio  all'indole  della 
nostra  favella:  ma,  invece  di  rozze  ed  oscure  maniere  di  dire,  si  hanno 
le  strofe  seguenti  che  il  gran  Cantore  di  Madonna  Laura  non  sdegne- 
rebbe fra  le  sue: 

Allor  vedrete  alla  mìa  fronte  avvolto 
Un  brieve,  che  dirà,  che  '1  crudo  amore 
Per  voi  mi  prese,  e  mai  non  m'ha  disciolto (1) ; 


oppure  : 


ed  anche: 


Poi  son  ricorso  in  cielo  al  sommo  bene 
Per  fuggir  le  dorate  aspre  quadrella: 
Nulla  mi  giova,  ond*eo  son  fuor  di  speme  (2); 


Ma  quando  io  son  per  giro  all'altra  vita 
Vostra  immensa  piet^  mi  tiene  e  dice 
Non  affrettar  P  immatura  partita. 


(1)  Son.  CCX.  (2)  Son.  CXIl. 


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40  P.   VIGO  [giounale  di  filologia 

La  ?erde  etk,  tua  fedeltà  il  disdice: 
Ed  a  ristar  di  qua  mi  priega  e  invita: 
Sicch'eo  spero  col  tempo  esser  felice  (1). 

Qui  ognuuo,  ci  serviremo  delle  parole  del  Giudici,  può  ravvisare 
tant'arte,  da'  tenere  questi  sonetti  a  buon  dritto  più  belli  di  quei  di 
Gino  da  Pistoia  e  inferiori  solo  alle  rime  del  Petrarca:  i  versi  infatti 
sono  armonici  e  maestosi,  la  lingua  nobilissima,  le  frasi  elette;  e  so- 
prattutto, lo  che  ancor  meno  si  accorda  col  carattere  della  poesia  di 
Guittone,  abbiamo  un  lucidissimo  e  naturalissimo  stile.  Così,  presso  a 
poco,  è  negli  altri,  come  vedrà  di  leggieri  chiunque  si  ponga  a  fare  un 
raffronto. 

Potrebbe  forse  qualcuno  contrapporre  un  verso  del  sonetto  a  Maria 
per  rivendicare  almeno  quest'ultimo  al  frate  aretino:  e  sarebbe  nella 
quartina  che  dice: 

Bisguarda  amor  con  saette  aspre  e  quadre 
A  che  strazio  ne  adduce,  ed  a  qual  sorte. 
Madre  pietosa,  a  noi  cara  consorte, 
Ritrane  dal  seguir  sue  turbe  e  squadre  (2), 

TI  Nannucci  a  questo  punto  soggiunge  :  e  Chiama  consorte  la  Ver- 
gine perchè  l'ordine  al  quale  era  ascritto  Guittone  era  intitolato  di 
Santa  Maria;  >  ma  per  me  quel  consorte  non  ha  certo  siffatto  signifi- 
cato. Secondo  il  concetto  cattolico,  se  Maria  Vergine  non  è  stata  sog- 
getta alle  nostre  debolezze,  ha  per  altro  certamente  provato  tutti  gli 
affanni  propri  del  vivere,  tutti  i  timori,  tutte  le  speranze;  quindi  ebbe 
la  stessa  sorte  di  noi,  è  nostra  sorella,  ed  a  lei  l'anima  pia  si  volge 
sempre  con  più  fervore,  perché  le  pare  che  essa  che  le  ha  provate,  debba 
avere  un  balsamo  più  efficace  a  lenir  le  sue  pene:  ed  è  questo  l'incanto 
del  culto  di  Maria  e  la  ragione  per  la  quale  questo  culto  medesimo  si 
diffuse  rapidamente  fra  i  cristiani  fin  dai  primissimi  tempi  della  Chiesa, 
e  molto  innanzi  che  il  concilio  di  Efeso  lo  stabilisse:  cosicché  il  chia- 
marla consorte  è  darle  uno  degli  epiteti  più  naturali,  più  appropriati, 
e  più  belli;  né  so  spiegare  come  il  Nannucci  non  v'abbia  pensato. 

Riepilogando,  diremo  che  noi  lungi  dall'  abbassare  fra  Guittone 
di  Arezzo  come  fauno  il  Monti  nella  Proposta^  e  il  Perticari  negli  ScrU- 
tori  del  trecento,  lungi  ancora  dal  dargli  un  importanza  ed  un  me- 
rito che  non  gli  spettano,  crediamo  dover  concludere:  che  egli  con 
tutta  la  sua  rozzezza,  colle  sue  ripetizioni,  coi  suoi  bisticci,  col  suo  stile 
duro  e  contorto  è  ampliatore  anzi  istitutore  di  un  genere  di  poesia  che 
sta  di  per  sé  :   genere  che  se  fu  stimato  a'  tempi  in  cui  sorse,   visse 


ri)  Son.  CCXIII.  (2)  Son.  CCIX. 


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ROMANZA,  N.°  4]  BELLE  RIME  DI  FRA  G  UITTONE  41 

per  altro  vita  assai  breve,  perché  per  l'indole  sua  mal  si  affaceva  ad 
nna  età,  in  cui  veniva  sempre  più  a  svolgersi  l'idioma  volgare.  Ab- 
biamo veduto  ch'egli  ha  talora  vigorosi  concetti,  originali,  nuovi,  de- 
gni di  lira  maggiore.  Quindi  lo  studio  di  Guittone  d'Arezzo  sarà  ripu- 
tiito  utilissimo  da  quanti  si  professan  seguaci  di  quella  critica  saggia 
che  anche  delle  più  piccole  cose  tien  conto,  e  da  quanti  amano  di  cono- 
scere intimamente  qual  fosse  il  sentiero  preparato  ai  successivi  cultori 
della  volgare  poesia. 

Livorno,  Gennajo  1879. 

Pietro  Vigo. 


APPENDICE 

(Ved.  pag.  20.  n.6). 


Paiti  e  convenzioni  fermati  tra  Fra  Frediano  pi^iore  di  CanialdoU  da 
una  parte,  e  Fra  Guittone  d'Arezzo  dell'ordine  di  Santa  Maria, 
Gloriosa  dalV  altra  per  edificare  il  monastero  degli  Angeli  di  Firenze. 

(Estratto  dal  B.  Ardi,  di  Stoto  in  Pisa,  Dipi.  1293.  Ind.  VI.  S.  Michele  in  Borgo). 

In  Dei  nomine ,  Amen.  —  Anno  domini  a  nativitate  ejusdem  millesimo,  diicen- 
tesimo,  nonagesimo  tertio,  Ind.  vj»  Romana  Ecclesia  pastore  vacante.  Cum  reverendus 
pater  dominus  Fridianus  prior  Camaldolensis  ex  una  parte,  et  vir  religiosus  frater 
Guittone  ci  vis  Aretinus  de  ordine  militie  gloriose  Virginis  Marie  ex  altera,  din  ha- 
buìssent  simul  tractatom  et  concordiam  super  faciendo  novum  locum  heremiticum 
prout  et  sicut  per  eos  extitit  ordinatum,  tandem  conventiones  et  pacta  infrascripta 
de  ipso  loco  heremitico  faciendo  inter  se  fecerunt  et  concorditer  celebra verunt.  Nam 
in  primis  ordinaverunt  quod  fiat  et  sit  locus  heremitìcns,  et  quod  ab  isto  anno  in 
antea  vitam  heremiticam  faciant  fratres  moraturi  in  eo,  et  ad  minus  sint  ibi  sex 
fratres ,  quattuor  monaci  et  duo  conversi  :  qui  clerici  continue  habitent  infra  demos 
dicti  loci  neo  de  loco  valeant  exire  aliquo  modo  nisi  magna  ymineret  neccessitas, 
et  tunc  de  voluntate  et  consensu  prelati  et  maioris  partis  capituli  dicti  loci. 

Item  teneatur  et  debeat  dictus  frater  Guittone,  dare  et  solvere  prò  dicto  loco 
heremitico  habendo  et  emendo,  ducentas  libras  denariorum  pisanorum  nsque  ad  ka- 
lendas  Januarii  proxime  venturas  ;  omnia  vero  alia  necessaria  et  quocumqne  modo 
opportuna  prò  dicto  loco  heremetico  habendo,  exeqnendo,  et  compiendo,  fiant  et  fieri 
debeant  sumptibus  et  expensis  prout  intra  sequitur,  ita  quod  dicto  modo  et  forma 
dictus  locus  heremiticus  fiat,  compleatur,  et  perficiatur. 

Item  quod  nullus  frater  dicti  loci  prelationem  ncque  officium  unquam  reoipere 
possit  aliquo  modo,  nec  vicariam  vel  custodiam  alicujns  loci,  nec  dominus  prior  possit 
aliquem  ad  hoc  conpellere  ymmo  eum  deneget  omnino  dare. 

Item  quod  locus  sit  subiectus  hcremo  Camaldulensi  in  confirmatione  prelati  et 
visitatione  et  annuo  censn,  dando  sacriate  diete  heremi  unam  libram  cere  infra 
annum  vel  eius  inde  quando  dare  voluerit.  Et  si  non  daret  infra  annum  teneatur 
dare  dictus  locus  duas  libras  cere  nomine  pene. 

3* 


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42  P.  VIGO  [giornale  di  filologia 

Item  dominus  prior  nec  aliqais  prò  eo,  neqne  heremite  Camaldtilenses  possint 
aliquem  monacum  vel  conversum  ponere  in  dicto  loco,  ncque  extrahere  sine  volun- 
tate  prioria  dicti  loci  et  maioris  partia  capituli.  Et  ad  petitionem  prioria  et  capi- 
tuli  dicti  loci  debeat  domimi»  prior  removere  quemcumque  fratrem  voluerint  de 
dicto  loco  infra  mensem. 

Itera  si  dicti  prior  et  capitulura  vellent  recipero  de  ordine  vel  aliande,  dnm- 
modo  8Ìt  infra  ordinem,  ai  est  de  ordine,  dominua  prior  hniusmodi  fratrem  concedat 
eia  libere:  ai  antem  non  eaaet  de  ordine,  libere  poasint  recipere  sicut  alia  monasteria 
ordinia. 

Item  quod  dicti  fratrea  cum  vacaverit  prior atua  dicti  loci  posaint  eligere  quem- 
cumque voluerint  duramodo  ait  de  ordine  Camaldulenai ,  aive  de  dicto  capitulo,  sive 
non.  Et  prior  debeat  hniusmodi  electum  a  capitulo  vel  maiori  parte  concedere,  si 
aliquid  canonicum  non  obsistat,  omni  dificultate  ac  dilatione  omiaaa,  si  tamen  electus 
consensum  suum  voluerit  preatare. 

Item  quod  prior  dicti  loci  non  poaait  recipere  monacum  conversum  vel  alium 
familiarem  aliquem,  aine  requisitione  ac  dicti  capituli  conaenau  et  voluntate. 

Item  quod  dominus  prior  quando  viaitabit,  percipiat  nomine  yisitationis  xl 
Solidea  piaanoa ,  quando  alii  visitatores  ordinia  viaitabunt  x  solidos  pisanos  percipiant 
nomine  visitationia:  et  hoc  semel  in  anno  tantum. 

Item  quod  ncque  dominus  prior  ncque  aliquis  prò  co  vel  heremite  Camaldu- 
Icnaea  poasint  a  peraonia  dicti  loci  aliqnam  collectam,  provisionem,  prestanziam  s^u 
donum  petere  vel  recipere  in  genere  vel  apetie  aliquo  modo  ;  etiam  si  osset  oblatum 
ultra  quantitatem  v  aolidorum  et  omnia  dona  in  toto  anno  non  ascendant  ultra 
quantitatom  xx  aolidorum  pisanorum. 

Item  quod  dominua  prior  omnes  libertates,  exemptiones,  et  immunitates  servabit 
et  servari  faciet  per  priores  et  capitula  dicti  loci  :  prò  conservatione  dicti  loci,  et 
pacis  et  concordie  fratrum,  teneantur  priores  jurare  ad  sancta  dei  evangelia  omnia 
suprascripta  in  confirmatione  sua  servaturos,  et  tunc  se  supponant  in  hoc  capitulo 
sententie  excomunicationia  extunc,  ita  quod  ipso  facto  ait  excomunicatus  et  sit  amotus 
et  privatus  ab  omni  administratione  dicti  loci.  A  qua  sententia  excomunicationis, 
amotionis  aive  privationia  ttiliter  sic  amotua  non  possi t  petere  dispensationem  de  iu- 
ramento  neque  de  administratione  dicti  loci. 

Item  promictat  dominus  prior  facere  hedificari  demos  et  oratorium  et  ecclesiam 
super  terreno  a  dicto  fratre  Guittone  tunc  dato  de  proventibus  et  elemosinis  quo 
pervenerint  ad  manus  dictorum  fratrum  secuudum  possibili tatem  dictorum  fratnmi. 
Et  si  aliquo  tempore  dimiserint  locum  predictum  vel  non  servarent  heremiticam  vitam 
secuDdum  consuetudinem  dicti  loci,  locus  cum  suis  hedifìciis  deveniat  ad  manna  fra- 
trum continentium  sine  contradictione  alicuiua  ;  et  valeant  suo  arbitrio  possessionem 
dicti  loci  de  iure  et  de  facto  vendere  et  pecuniam  expendere  minutatim  in  pauperea 
yiduas,  et  orphanos,  et  alios  pauperes  verecundos:  salvo  quod  Camaldulensibus  non 
vendatur,  nec  ad  eorum  ullo  unquam  tempore  manus  valeat  pervenire  ;  et  beo  obser- 
vent  et  faciant  sub  iudicio  animarum  suarum.  Qui  fratres  si  dictum  locum  non  re- 
ciperent,  vel  non  servarent  predicta,  dictus  locus  cum  suis  hedifìciis  perveniat  ad 
hospitale  de  Ponte  Civitatis  Aretii  et  sint  obligati  non  vendere  dictum  locum  Ca- 
maldulensibus sicut  dictum  est  nec  personis  per  quas  ad  eos  valeat  pervenire  sub 
judicio  animarum  suarum. 

Item  quod  Prior  dicti  loci  et  fratres  eiusdem  quolibet  anno  dabunt  fratri  Guit- 
toni  otto  libras  pisanas  prò  subsidio  vite  sue  in  vita  ipsius  tantum  fratris  Guittonis 
et  hoc  promictat  prelatus  dicti  loci  cum  suo  capitulo.    Et  ad  hec  teneatur  dominus 


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HOMAszA,  N.<»  4]  DELLE  EIME  DI  FRA  G  UITTONE  43 

prior  facere  promictere  observari  per  priorem  et  capitulum  dicti  loci  tamquam,or* 
dinarius  predictorum. 

Que  omnia  supradicta  predictis  dominns  Prior  Camaldulensis  et  frater  Guittone 
simul  et  ad  invioem,  inter  se  promiserunt  facere  obseryare,  adimplere,  et  ad  cft'ectiim 
perducere  in  omnibus  et  per  omnia  sìcut  scriptum  est  superius,  sub  pena  C  libra- 
rum  pisanarum  solvenda  prò  quolibet  capitulo  non  servato.  Et  sub  obligatione  et 
ypotecha  omnium  bonorum  Camaldulensium  et  dicti  fratris  Guittonis  :  renumptian- 
tea  exceptioni  super  hiis  dictorum  pactorum  non  factorum  non  promissorum  et  rei 
et  negotii  non  sic  se  habentis  doli  et  in  factum  et  ad  alii  legum  auxilio  et  pena 
soluta  vel  non,  rato  manente  contractu. 

Actum  Aretii  in  claustro  Monasteri  Sancti  Mìchaelis  ordinis  Camaldulensis,  die 
martis  vij  mensis  Settembris  coram  domno  Temaselo  et  domno  Romualdo  monacis 
Camaldulensibns ,  lanne  tintore,  Pucio  condam  domini  Kigacii  et  Cortesino  condam 
Restauri,  ad  predicta  testibus  vocatis  et  rogatis. 

Ego  Bouavia  notarius  condam  Stephani  predictis  omnibus  interfui,  et  ut  supra 
legitur,  rogatus,  scripsi  et  publicavi  ideoque  me  subscripsi,  signumque  meum  ap- 
posui  consuetum. 

Sunt  enim  xij**"  capitula  in  totum  predicti  instrumenti  pactorum  factorum 
in  principio  hedificationis  huius  monasterii  Sauctc  Marie  de  Angelis  de  Florentia,  set 
.  non  omnia  ratificata  fuerunt  ab  heremitis  heremi  camaldulensis,  nam  non  ratifica- 
verunt  primum  capitulum,  silicet:  ut  nullus  frater  moraturus  in  loco  ipso  possit  pre- 
lationem  recipere  et  cetera.  Set  hoc  solum  non  ratifìcatum  a  dictis  heremitis  pò- 
stulamus  nos  in  nostra  supplicatione  ut  de  gratia  speciali  nobis  ratificetur  propter 
utilitatem  et  stabilitatem  perpetuam  fratrum  presentium  et  futurorum  huius  monasterii. 
Cetera  vero  non  ratificata,  silicet  illa  particula  ottavi  capituli  que  dicit  quod  prior  capi- 
tulum et  heremite  heremi  capituli  non  possint  donum  recipere  a  priore  dicti  loci  ultra 
quantitatem  xx  solidorum  etiam  si  esset  oblatum,  alia  vero  omnia  contenta  in  dicto 
capitulo  ubi  est  hec  particula  in  sua  firmitate  permaneant,  videlicet  quod  ncque 
dictus  prior  ncque  aliquis  prò  eo  vel  heremite  capituli  possint  a  personis  dicti  loci 
aliquam  conllectam,  provisionem,  seu  prestantiam  petere  vel  recipere  in  genere  vel 
spetie  aliquo  modo. 

Item  non  ratificato  et  excepto  capitulo  pene  C  librarum  quod  est  ultimum  ta- 
liter  incipiens.  Que  omnia  supradicta  predicti  dominus  prior  capitulum  et  Frater 
Guittone  et  cetera. 

Item  exceptis  capìtulis  non  ratificatis  que  continent  inpossibilitatem  iuramen- 
tum  et  excomunicatìonem  que  etiam  non  ratificaverunt  ne  possit  ex  eis  animabus 
periculum  generari  silicet  in  viiij  Ò. 

Ratificatio  predictorum  facta  fuit  in  millesimo  ducentesimo  nonagesimo  quinto 
anno  dominL 

Copia  instrumenti  principalis  de  pactis  et  constitutionibus  Monasterii  Sancte 
Marie  de  Angelis  de  Florentia  et  de  capitulis  ratificatis  et  non  ratificatis  ab  here- 
mitis heremi  camaldolensis  ordinis  McC'lxxxx^^v''. 


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44  W.  FOEBSTEB  [qiorkalb  di  filologia 

UN  TESTO  DIALETTALE  ITALIANO 

DEL  SECOLO  XIII. 


Il  componimento  che  qui  si  pubblica  per  la  prima  volta,  fa  da  me 
copiato  Tanno  1872  nella  Biblioteca  Municipale  di  Lione  e  ricopiato 
nel  1877  (1).  Il  codice  che  lo  conservò,  è  un  membranaceo  ora  segnato 
del  num.  584  ;  appartiene  al  sec.  XIII  e  dalla  forma  rotonda  dei  carat- 
teri si  mostra  di  menante  italiano.  Fu  già  descritto  dal  Laudine  nel 
suo  catalogo  sotto  il  num.  645  e  contiene  le  seguenti  materie: 

1)  fol.  l' a  —  b  8**  :  un  poemetto  in  antico  francese  di  circa  1408 
versi,  sulla  passione  di  Cristo,  che  comincia: 

Hoies  moi  trestuit  doucement 
Sana  noisse  fere  et  sana  parlament 
A  passion  dieu  entendez 
Gomant  il  fu  por  nos  penez 
finisce  : 

Qui  tote  creature  peat 
Si  li  a  dit  conaumatum  est 
Et  dist  peres  omnipotent 
Pardone  ceste  male  gent. 

(Cnf.  ms.  Parig.  Arsenale,  B.  L.  fr.  325  fl.  182-202.) 

Appresso,  dopo  undici  righe  vuote  :  <  Secundum  Lucam.  in  ilio  tem- 
pore, dixerunt  pharixei.  ad  itm.  quanta  audiuimus  etc. .  • .  Oracio  denota 
ad  sacrum  corpus  dm  uri  ihu  x'  etc.  »    Poi  due  fogli  bianchi. 

2)  fol.  Il"":  poesia  ant.  fr.  in  onore  della  Vergine  colla  narrazione 
del  sao  transito.    Comincia: 

L'an  aegont  la  passion 
Estoit  la  dame  en  oreison 
En  un  leu  mout  aecreement 
Ou  eie  ploroit  tendrement. 


(1)  I  più  vivi  ringraziamenti  sono  dovuti  smarrita.     Questa  seconda  ho  potuto  coìla- 

ai  conservatori  di  quella  ricchissima  biblio-  zionarla  con  altra  copia  fattane  nel   1875 

teca,  che  allora  erano  i  sigg.  G.  B.  Mon-  dal   mio   valentissimo   amico   prof.   Corna, 

falcon  e  prof.  Mulsant,   ambedue  ben  noti  il  quale,  saputo  che  stavo  pubblicando  que- 

pei  loro  lavori  scientifici.    La  morte  ha  già  sto  testo,  mi  usò  la  cortesia  diluviarmela, 
rapito  il  primo.    La  prima  mia  copia  andò 


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aoMANZA,  N.o  4]  UN  TESTO  DIALETT  ITALIANO  45 

Finisce,  14' a: 

Et  si  prìons  la  gloriouse 

La  sainte  uirge  preciouse 

Si  uoirement  com(e)  diex  Tot  chiere 

Que  elle  entende  uostre  priore 

Et  no8  face  la  ioie  auoir 

Que  iellz  del  quief  ne  peut  ueoir 

Ne  boche  d'ome  contier  (1)  (i)  »ic. 

Ne  oreille  oir  ne  cuer  panser 

Que  diex  nostre  sire  a  promis 

En  son  regno  a  ssez  amia 

Que  il  par  nos  en  face  (2)  (s>  UMc^no  dae  «nube. 

Par  sa  pitie  et  por  sa  grace 

Et  por  sa  mere  sainte  marie 

Amen  amen  chascuns  en  die. 

3)  fol.  14' a:  altro  poemetto  ant.  fr.  in  onore  della  Vergine,  com- 
posto di  29  strofe,  ciascuna  di  quattro  versi  alessandrini  o  dodecasillabi, 
rimati  fra  loro  (aaaa  bbbb  ecc.).    Comincia: 

Dame  resplandissant.  raine  gloriouse. 
Porte  de  paradis.  pucelle  preciouse. 
Dame  sor  tote  dame,  plaisans  et  delitouse. 
Daigne  oir  ma  proiere.  de  t 'oreille  pit(e)ou8e. 

Finisce: 

Dame  sainte  marie,  raine  coronee. 
Sor  totes  autres  dames.  seruie  et  henoree. 
le  uous  pri  mere  dieu.  de  m'arme  Tongombree. 
Qu'ele  por  uostre  aie.  en  soit  el  ciel  por  tee. 
Amen. 

4)  fol.  14'  b:  altro  poema  ant.  fr.  di  192  ottonarj  sui  quindici 
segni  del  giudizio  finale.    Comincia: 

Qui  ore  uiaut  or  (1)  la  meruoille 
Enuers  cui  riens  ne  s'aparoille 
Qiie  face  pes  si  me  regart 
Se  li  dirai  bien  de  quel  part 
Verrà  la  grant  mesauenture . . . 


Finisce  : 


Et  sachies  bien  certainement 
Que  il  uendra  ireement 
Si  nos  i  doint  il  paruenir 
Que  nos  soions  a  son  plaisir 
Dites  en  tuit  comunalment 
Amen  a  dieu  onnipotent. 


(1)  Si  può  facilmente  correggere  «  Qui  or  uiaut  oir  1.  m.  » ,  ma  conosco  un  altro 
aulico  testo  ove  riappare  la  forma  or  =  '  andare  invece  di  audlre. 


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46  TF.  FOEESTEE  [oiornalk  di  filoloolì 

5)fol.  16' a:  altro  poema  ant.  fr.  in  onore  della  Vergine,  di  184 
versi  decasillabi  rimati  aa  bb  ecc.    Comincia: 

Belle  dame  (1)  tres  pie  eopereiris 
Qui  de  dieu(8)  fustes  mere  e  genetria 
Enpereiria  de  rois  et  de  roines 
Virgc(s)  de  virges  gì  ore  de  meschinea 
Finisce  :  • 

Sainte  Marie  par  ta  aeinte  merite 
En  icele  ore  secor  mon  esperite 
Et  li  demostre  ta  gloriouse  face  (2) 
Qu[e]  a  ma  mort  par  sa  pìtie  me  face 
[r|tel  perdon  que  je  soie  en  la  gioire 
De  paradis  qu*es[t]  sou(e)raine  uitoire. 
Amen. 

6)  fol.  17' b:  il  testo  italiano  che  segue.  Noi  lo  pubblichiamo 
come  lo  dà  il  ms.,  solo  restituendo  il  nesso  delle  parole,  sciogliendo  le 
abbreviature  e  adoperando  i  soliti  segui  d^  interpunzione.  Alcune  cor- 
rezioni vengono  proposte  in  nota. 

I.  Oanto  spirto  dolce  glorioso, 
O  Ch  anoncio  1  agnel  Gabriele 
SeD9a  fele      a  la  colonba  fina, 
Ch  e  raina      del  preci  os  tesauro, 
6  Eu  nui  desenda  lume  precioso, 

Tutti  nostri  amari  deuegna  mele. 
San  Michele    1  archangnel  per  deuina  (*3) 
Tut  afina      e  monda  comò  1  auro 
L  aneme  sainte  en  la  sua  bailia. 
10  Le  nostre  aiba  e  tegna  tuta  uia 

Ch  al  seignor  apresentade  sia. 
Lo  comen9ar  del  nostro  dire, 
La  fin  el  me90  si  al  so  plasere. 

IL  TVJegun  a  en  sto  mondo  auere, 
1''  i\   Segnoria,  grande9a  ne  posan9a, 

Ch  en  balan9a      no  sia  decadere, 

De  morire      eu  le  tenebre  scure. 

Zuuentude,  bele9a  ne  sauere 

No  i  pò  9oare  a  la  dubitnn9a, 
so  Se  remenbran9a      no  a  de  ben  uedere 

E  d  audire      le  sante  scriture. 


(1)  La  sillaba  atona  nella  cesura  molte  volte  ha  lo  stesso  valore  che  si  sa  avere 
nelle  poesie  provenzali. 

(2)  Questi  due  versi  nel  ms.  sono  trasposti  e  rimessi  in  ordine  per  b  a. 

(3)  Corr,  San  Michele  (rarchanirnel)  i)cr  [gracia]  devìua. 


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ROMANZA,  N.°  4]  UN  TESTO  DIALETT.  ITALIANO   '  47 

Le  qnal  disen  li  profeti  santi 
E  li  altri  padri,  quili  qne  fonno  enanti, 
Que  del  signor  ne  fauelo  alquanti: 
55  Tutti  disen  de  Tauini mento 

Cristo  (1)  fé  per  nostro  saluamento. 


IH.  /^omo  stemo  (2)  al  dubitamento 
VJ  Ch  e  tanto  greue  e  doloroso, 
Paoroso      mai  sen9a  segurare 
De  durare      li  greui  tormenti 
Engannan  quelo  che  si  corno  uento, 
Lo  mondo  falso  dubitoso. 
Contrarioso      de  tuto  bene  curare, 
Enganare      lomo  con  tradimenti, 
Al  quale  mostra  gran  deletan9e, 
Orgoil,  superbia,  e  smesuran9e 
Che  tute  enno  grande  feride  lan9e  (3), 
Che  1  un  di  lo  mete  en  segnoria. 
De  1  altro  1  fa  fango  de  la  uia. 


40  IV.  r^  nardi  quilli  ch  anno  la  bailia 

vj  De  condur  1  aneme  a  saluamento, 
Che  spauento      fanno  ai  piligrini! 
Plen  de  spine      trouano  lor  iomade 
De  1  error  che  tronan  en  la  uia; 

45  Li  naucler  per  lor  ardimento 

A  conplimento      uolno  (4)  li  bel  9ardini, 
Albur  fini      en  lor  podestade  (5), 
Vnde  molto  n  e  turbato  1  mare. 
Guai  a  loro  che  se  creden  fare, 

Ao  Za  no  se  recordan  del  pasare 

Come  greue  e  de  gran  paura. 
Quando  uene  a  la  morte  scura. 


V.  /^hascun  hom  prenda  in  si  rancura 
V-^  Che  1  cure  re  d  altrui  no  1  engani. 
Li  gran  danni      retornarano  a  loro, 
Se  en  loro      no  anno  ben  pintimento. 
Guardi  donqua  9a8cun  la  scritura, 
Quell  che  disse  Marche  e  lohani , 


(1)  Corr.  [che]  Cristo  fé.  (2)  Af*.  storno.  (3)  Verso  oscuro,  St /ep'^a  [de]  lan^e; 
ma  si  può  anche  dubitare  se  il  cod.  abbia  fetide  o  feride,  attesa  la  gran  somiglianza 
del  t  tf  r  nel  ms.  Il  Cornu  combina:  gran  defeti  de  1.  (4)  Ms.  uoluo  o  uolno;  V  "ultimo 
sarebbe  la  5*  pi.  del  perfetto,        (5)  Ms.  podestate. 


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48  W,  FOERSTER  [.uohxale  di  filoumìia 

Che  grand  anni      e  retratto  per  loro. 
HO  £  eoa  lor      ben  e  aeonpiimento 

Matheo,  Lucha,  li  auangelisti, 

Li  apostoli  enseme  con  quisti, 

Li  sainti  aucturi  qua  fenno  li  aquisti 

De  1  aneme  sante  en  paradiso, 
65  Nui  conduga  la  con  ^ogo  (1)  e  riso. 


VL  i^a  (2)  no  i  naie,  taupiui,  uar  ne  griso, 
\^  Scarlata  ne  drapi  de  colore. 
Cun  dolore      nase  1  omo  en  terra, 
Cun  gran  guerra      nino  fin  la  morte  (3) 
E  no  1  pò  chanpare  bianco  ne  biso 
Ch  elio  no  deuegna  1  gran  tremore. 
Cun  clamore      lo  mete  tosto  en  terra 
£  desera      en  lego  scuro  e  forte. 
No  a  amigo  ne  parente  carnale, 
Per  lui  uolesse  prender  quel  male; 
Tosto  passa,  che  paucho  li  n  chale, 
En  breue  tenpo  e  smentegado, 
A  peua  solo  nome  meu9onado. 


VIL  T^onqua  pare  che  aiban  soniado 
®°  -L^  Parenti,  uiaini  e  amisi 

Li  seruisi      che  li  solean  fare 

Ed  andare      cun  lui  en  conpaguia. 

0  e  quel  chera  tanto  amado, 

Aibudo  90go»,  sola90  e  risi  (4) 
85  E  palasi         fati  de  grande  afare 

£  usare      orguglo  e  folia? 

Andade,  se  ben  no  a  fato: 

Alora  se  terra  per  roato. 

Mo  guardemo  (5)  donqua  da  quel  trato, 
90  Recordemon  che  deuen  morire; 

Si  ne  guardaren  più  da  falire. 


Vin.  /^ue  farà  1  auar  con  so  auere, 

\^  Ch  en  sto  mondo  a  preso  a  guardare 
E  a  saluare      per  altri  bene  certo 
E  oferto      1  a  en  mala  parte? 
A  ben  de  lui  no  n  pò  auere. 


(1)  Ms.  cogo.  (2)  Ms.  Ca.  (3)  ^fs.  niort.  (4)  Ms.  riso.  (5)  Corr.  puar- 
demon'.  —  Mo  può  essere  il  mo,  raoo,  modo  che  l' Ascoli  tratta  nel  num.  68;  mapiut' 
tosto  sarà  ma  (magie)  ed  è  pure  noto  da  altri  testi  veronesi. 


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ROMANZA,  N.»  A\  UN  TESTO  DIALETT.  ITALIANO  19 

Se  no  a  1  anarida  pensare 
E  mal  fare,      per  90  che  n  e  aperto, 
E  auerto      tute  en  la  nml  arte. 
100  No  pò  far  negnna  chausa  a  drito, 

Tanto  1  a  auaricia  consireto, 
E  1  nemigo  che  1  ten  si  aflito 
L  anema  en  porta  en  fogo  ardente, 
Za  no  i  9oa  amigo  ne  parente. 

10&  VIII.  T^onqna  tute  ore  aibamo  en  niente 

JL^  La  passion  del  dolce  lesu  Cristo 

Che  1  acquisto      fé  de  nui  saluare, 

Amare      pene  conuenen  aofrire. 

Licifer  ne  remase  dolente, 
no  Prencepo  d  enferno  fort  e  insto, 

Che  ministro      e  de  mal  oorare, 

Ordenare     le  gran  male  nentare, 

Inuidia,  falsi  raportamenii, 

Sperzurii  (1)  con  grandi  tradimenti 
116  Li  fradeli  fa  esser  maluolenti 

L  uno  a  1  altro,  pur  eh  el  sia  miglore, 

Tuto  1  mondo  uiue  en  questo  errore. 

X.  IVTai  possamo  prender  lo  miglore, 

•L^   Desprisare  le  uane  riche9e, 
130  Le  grande9e      de  terra  qu  e  niente  (2). 

Breuemente      hom  lo  conuen  lasare. 

Papa  no  e,  re  ne  nperadore, 

Che  en  niente  no  turni  lor  altera, 

Ne  bele9a,      tanto  sia  plasente, 
ii5  Che  uilmente      non  conuegna  andare, 

S  el  no  fa  cure  que  pla9a  al  signore. 

Quìlli  enno  recordadi  tute  ore, 

GÌ  amisi  sol  receuen  grande  honore; 

Mati  e  folli  se  pone  clamare 
130  Quilli  che  se  parten  dal  so  amare. 

XI.  T^c^astk  1  omo,  no  ssa  do  andare, 
jL     No  pò  sego  menar  conpagnia, 
Ch  en  bailia      conuene  esser  d  altrui, 
Cun  (3)  grande  hui     lo  mena  en  gran  paura. 
1S5  S  eli  e  reo,  no  i  ual  lo  so  scusare, 

Tosto  el  mete  en  mala  segnoria, 
Tuta  uia     e  senpre  giitii  a  lui  (4) 


(1)  Ms.  Sfperzurii.        (2)  Ms.  nient.        (3)  È  dubio  se  il  ms.  porti  Cun  o  E  un. 
(4)  Verso  oscuro.    Si  può  leggere  girai  o  gita!;  t7  g  è  correttone  di  unn  o  n primitivo, 

4 


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50  W.  FOERSTEB  [oiornalb  di  fumuogìa 

Ki  con  lui      la  sorte  grene  dora* 
S  eli  e  bono,  uane  alegramente, 
140  Nanti  a  Criito  n  e  fato  presente. 

La  corte  1  reeene  grandemente, 
En  paradiso  na  con  1  altri  santi  : 
La  trooa  alegrefa,  laude  e  cantL 

Xn.  (^  uardemo  da  esser  tropo  fanti, 
145  VJComencen  laudar  lo  di  lucente 

E  splendente      chen  mostra  bella  via. 

Tuta  uia      quella  e  la  miglore; 

E  sse  lume  stinto  n  e  de  nanti , 

En  le  tenebre  no  nedren  niente. 
1.S»  Malamente     andar  per  uia 

E  folia     e  de  perdere  lo  roiglore. 

Guardemo  che  1  tenpo  e  tenebroso. 

No  uedrem,  se  o  lume  sera  rasooso, 

De  passare  al  ponte  pauroso. 
155  Andemo  driti  per  la  uia  darà 

Chcn  mostra  i  santi,  sciuaren  1  amara» 

Xin.  T)arten  da  nui  la  ricbe9a  auara 

-ET   E  la  falsa  e  rea  uanagloria! 

En  storia      se  troua  e  en  scritora, 
lao  Pauco  dura     la  sua  segnoria. 

No  sta  d  un  colore,  anche  uara. 

Falsa  e  rea  en  sua  uitoria, 

Memoria      de  fumo,  quando  ascura 

L  aire  pura     ehe  1  uento  cha^  uia. 
165  La  uia  e  bona,  li  lume  aprestadi, 

Andemo  toeto,  nui  seme  aspetadi 

Dal  seignor  ehe  n  a  recomendadi. 

Trouar  lo  podemo  a  conplimento, 

Se  da  nui  no  uen  lo  falimento. 


f7f>  XIY.  r7ascun  aiba  en  si  pensamento 
^  Ch  ogna  di  fina  una  iomada 
Per  la  strada     que  uà  enuer  la  morte, 
Molt  e  forte      a  qui  non  uà  ben  seguro , 
Et  e  ben  certo  que  tipresamento 

17  5  Fané  de  quella  greue  andada. 

Ascurada      no  i  ual  agur  ne  sorte, 
Rocha  forte      ne  ferme9a  de  muro; 
Quando  e  più  sano,  più  se  gì  auisina, 
La  sera  no  sa  de  la  matina. 

ibu  Pancho  ual  grande9a  que  declina, 

Ohe  per  hom  no  pò  esser  defesa. 
Mati  enno  quilli  che  perdeu  la  spesa. 


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BOMANZA,  N."  4]  UN  TESTO  DIALETT,  ITALIANO  hi 


XV.  "C^n  »ui  doDqua  sia  la  defesa 

-1^  De  guardarne  da  g^eàe  pechado 
Ch  e  amado      tanto  da  la  carne, 
Eu  mal  farne  (1)      per  sua  deletanya 
£  pentirne  de  la  greue  ofesa 
Che  fata  auemo  en  lo  tenpo  pasado; 
Adourado  (*^)      en  tuto  no  guardarne, 
Andarne      con  grande  desmesuranza , 
La  qual  fruta  dolorosa  morte. 
Guardemon  de  9un9ere  a  le  porte 
La  0  sera  le  strete  greu  e  forte: 
No  i  uara  grandeza  ne  parenti, 
Ch  a  pascano  spauira  li  denti. 


XVL  r^  uardin  lo  segnore  da  quilli  serpenti, 

Vjr  La  0  e  le  greue  pene  temale. 

Lo  gran  male      che  dura  senza  fine, 

£  la  fine      nostra  pla9a  a  lui. 
soo  £  spetamo  (3)  quilli  auinimenti 

Che  Dui  posamo  salir  su  per  le  scale 

Cun  grande  ale      a  le  conpagne  fine. 

La  0  decline     1  aneme  nostre  e  nui 

A  la  dolce  nostra  auogada. 
305  Cun  nui  sia  quella  fiada, 

Quando  1  anema  farà  1  andada, 

La  presenti  al  so  dolce  figlolo, 

Ch  ella  ne  (4)  senta  mal  ne  dolo. 
Amen. 

La  forma  di  questa  poesia  è  delle  più  artificiose  e  T  artifizio  il  più 
delle  volte  non  è  riuscito  se  non  con  danno  della  chiarezza.  Essa  si  com- 
pone di  sedici  strofe,  ognuna  delle  quali  ha  tredici  versi  quando  di  nove 
sillabe  e  quando,  ma  meno  spesso,  di  dieci,  non  tenuto  conto  dell' ultima 
atona.  La  cesura  è  dopo  la  terza  o  la  quarta  accentata,  ed  ora  è  ma- 
scolina ora  femminina.  Le  uscite  dei  versi  sono  sempre  piane:  solamente 
nei  133:  137  {altrui:  lui)^  199:  203  (lui:  nui)  sono  tronche,  e  semisdruc- 
ciole in  158:  162  (glòria:  vitòria).  Le  rime  sono:  1)  interne,  di  modo 
che  la  uscita  del  2.*"  verso  della  strofa  rima  con  la  cesura  del  3."*  e  ugual- 
mente 4:  5,  6:  7,  8:  9;    2)  alla  fine  del  verso,  secondo  lo  schema  abcd 


(1)  AfJr.  fame.  (2)  Ms.  Adourarne;  la  correttone  era  suggerita  per  la  rima;  ma 
pare  che  si  debba  anche  correggere  adourado  tuto  en  no  guardarne.  (3)  L* unica  volta 
che  appare  una  ì*  pers.  pi.  in  -amo.  (4)  Forse  non  invece  del  ne  dinanzi  al  senivii 
ma  ci  sono  altri  antichi  testi  f piemontesi,  milanesi,  veronesi J,  che  accanto  del  so- 
lito no  ci  mostrano  anche  ne  =  uuu. 


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52 


ir.  FOERSTER 


[OIOBNALE  DI   FILOLOGIA 


abcd  eee  ff^  ed  è  da  notare  che  f  dà  allora  la  rima  a  della  strofa  se- 
guente.    Abbiamo  dunque  questo  tipo: 


b| 


b 
e 
d 
a 
b 
e 
d 
e 
e 
e 
f 
f 
f 

g 
ecc 


I 


II 


Dalla  comparazione  delle  rime  si  possono  indurre  alcune  correzioni  : 
1)  nelle  rime  interne:  60  loro  (ms.  ìor)\  189  adourado  (ms.  adourar- 
iìe)\  2)  nelle  rime  finali:  47  podestade  (ms.  podeslate);  69  morte  (ms. 
mori);  84,  risi  (ms.  riso^  reggasi  anche  la  rima  interna  85);  101  con- 
strito  (ms.  constreto,  cnf.  strete  193);  120  niente  (ms.  nient);  184  pc- 
chado  (ms.  pechato).  Le  rime  finali  sono  sempre  pure;  le  inteme  mo- 
strano qualche  libertà  ben  note  altronde,  come  a)  nella  sillaba  accentata 
16:  17,  cadére:  morìre;  20:  21  uedére:  audire ^  il  che  si  potrebbe  spie- 
gare per  la  grande  affinità  dell' e  stretta  coH'i;  P)  nella  sillaba  finale 
atona  :  43  piligrini  :  spine.  Potendo  queste  atone  dileguarsi ,  si  comprende 
che  i  loro  suoni  non  molto  differiscano  fra  sé;  7)  nel  consonantismo: 
110:  111  tristo:  ministro. 

Dal  complesso  dei  suoi  caratteri  ci  sembra  che  questo  testo  non 
sia  troppo  estraneo  al  territorio  veneto,  ed  eccone  qui  a  conferma  un 
breve  spoglio  grammaticale. 

Per  facilitare  la  comparazione,  abbiamo  adottato  l'ordine  tenuto 
dall'Ascoli  nel  suo  Arch,  glott.  Ili,  2,  248  sgg.  Così  raccoglieremo  non 
solo  le  particolarità  comuni  ai  due  testi,  ma  anche  le  discordanze  che  pure 
vi  esistono  e  che  mi  trattengono  di  fissar  in  modo  troppo  apodittico  la 
provenienza  locale  del  testo  nostro  che  direi  volontieri  veronese. 


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ROMAKZA  M.-  4]  VN  TESTO  DIALETT,  ITALIANO  SS 

A.  Note  fonologiche 

I.  Vocali  toniche, 

!•  Effetto  che  Vi  atono  finale  eserciti  sulla  determinazione  della  to* 
nica:  a)  QÌni:  quilli  23,  40,  127,  130,  182,  196,  quisti  62;  allato 
a  quelo  31,  58.  questo  117,  etc.  b.)  o  in  u:  albur{i)  47,  auciuri  63, 
turni  123,  allato  a  signore  126  etc.  Ma  non  si  trovano  esempj  di 
questo  fenomeno  dinanzi  n;  v.  tradimenti  34,  parenti  80,  194,  ra- 
portamenti  113,  presenti  207,  e  le  rime  113,  4,  e  195,  6. 

e)  Mancano  anche  esempj  pel  tipo  fante:  fenti  (infantes);  sem- 
pre catiti  143y  fanti  144,  enanti  23,  148.  Ma  è  ben  possibile  che 
il  copista  abbia  fatto  sparire  queste  particolarità,  ciò  che  si  deve 
ripetere  anche  per  altri  casi. 

Qui  tocco  anche  dell'  attrazione  dell'  i  postonico  :  aiba  =  ha- 
beat  10,  170,  aiban  79;  anche  fuori  dell'accento:  aibamo  e  v.  il 
num.  50.  —  aire  (aerem)  164. 

2.  Invece  del  5ew=sanctum,  troviamo  la  forma  intermedia:  sainte  9, 
sainti  63;  ma  insieme  santo  1,  21,  santi  22,  142,  san  7. 

3  e  4.  Non  si  trova  il  dittongo  veneziano  dall' ^  (ce)  e  ò  {au)\  sempre: 
greve  28,  vene  52^  ten  102,  enseme  62,  breve  77;  come  pure  trova 
143,  logo  73,  gogò  65,  fogo  103,  paucho  76:  —  così  il  veronese. 

5.  Lat.  in^^en  un  solo  esempio  :  preìicepo  110. — donqua  105,  mondo  17, 

monda  8,  ma  pungere  192.  —  con  37,  60,  etc.  e  cun  68,  69  etc.  — 
orgoil  36,  orguglo  86.  —  turni  123. 

6.  coìistreto  101  in  rima  con  drito^  aftito;  stretc  193. 

6'.  d  =  u:  nui  (nòs)  5  eie. ^  paura  (in  protonica  2>ctwroso  154,  e  pao- 
roso  29). 

7.  au  sempre  intatto:  tesauro  4,  auro  8,  paucho  76,  160,  chausa  100, 

2aiic2e  143;  e  fuori  d'accento:  audire  21 ,  nauder  45;  un  (m  se- 
condario: taupini  66,  —  ma  ogrwr  176. 
Non  c'è  esempio  per  alt  =  aut  etc. 

II.  Focali  a^ow^. 

8.  Dileguo  di  e  i  0  all'uscita:  e:  comengar  12,  condur  41,  prender  75, 

/ar  100,  «ipior  11, 24,  re  (=  ree)  54,  mcd  208,  (ma: i>ias6re  13,  avere  14, 
fare  98,  s^ignore  126,  maZe  175,  etc.)  —  i:  bel  46,  gwoZ  22,  (ma:  ama- 
ri 6,  f ?///i  25,  etc.  )  —  o:  agnél  2,  precios  4,  ^/rf  75,  quell  58,  etc. 
(ma:  glorioso  1,  gweZo  31,  gascuno  195,  etc.) 

9.  Dileguo  dell' e  di  penultima:  ovre  54,  126. 

10.  L'i  di  penultima  passa  in  e:  aneìne  9.    Protonica  interna:  segnar 


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54  W.  FOEESTEB  [oiorsalk  di  filowwia 

re  196,  (ma  seignor  11,  167,  signor  24,  126,  eflFetto  del  seg.  ti), 
vedere  20,  devina  7,  «m^n^e^oda  97;  ma  visini  80,  v.  il  num.  13^; 
complimento  46  ecc. 

11.  a  per  e  primario  di  protonica:  raina  4. 

12.  deven  90. 

18.  seruia  3,  donqua  105,  o^rwa  di  171. 

13.*  avangelisti  61,  ascura  163,  176. 

13.*  ^ptWo  1. 

13.'  corno  (di  cui  tratta  l'Ascoli  alla  fine  del  num.  38),  sempre  cosi. 

18.*  Gli  esempi:  avinimenùo  25,  pintimento  56,  piligrini  42  {i  per  e  lat.), 
e  Lidfer  109  (i=:w),  vmwi  80,  ariswa  178  (i  =  e  lat.  invece 
dell' 6 )  mostrano  forse  l'effetto  di  un  i  sulla  vocale  atona  deUa 
sillaba  precedente  analogo  a  quello  del  num.  1. 

18.'  La  prepos.  in,  fuori  del  v.  53,  sempre  en, 

III.  Consonanti. 

14.  LJ  intatto:  miglore  118,  147,  151,  figlolo  207,  gl(i)4- voc.  (pron.  e 
artic.)  178,  128. 

16.  CL  PL  efcc.  intatti:  clamare  129,  darà  155,  nauder  45,  —più  91,  178, 

plasere  13,  199,  128,  I2i,— flore  Q,  — bianco  70. 

17.  Digradazione  della  sorda  gutturale  interna:  negtm  14,  segurare  29, 

conduga  65,  amigo  104,  nemigo  102,  5^^o  (secura)  132,  avogada  204, 
^5^^  73,  /b^o  103,  gogò  651,  smentegado  97.  —  Dileguo  della  sonora: 
ratwa  4,  si  noti  Gabriele  2. 

18.  coNs.  +  CE,  CI  o  cj  +  voc:  anonciò  2,  precios  4,  5,  mengonado  78,  co- 

twewfar  12,  grandega  15  (comp.  -^^a  18,  119);  -anga  15,  16,  19,  20, 
plaga  126,  199,  5oZafO  84.  —  dj  +  voc:  mego  13  ;  allato  al  :  plasere  13, 
desenda  5,  no^e  68,  disen  22,  25,  vmwi  80.  —  Plur.  :  amisi  80.  —  tj  : 
palasi  85.    Notiamo  infine  eascun  170,  gascun  57, 195,  cJiascun  53  (1). 

19.  Il  suono  corrispondente  al  g  italiano  viene  notato  per  z:  zuventu" 

de  18,  za  50,  sperjsurii  114;  per  f  ;  goare  19,  104,  fo^o  84  (cogo  65), 
gardini  46,  gungere  192,  e  i  in:  Joìiani  58. 

20.  Dentale  sorda:  -atum  sempre  -ado  (msc:  turbato 48, pechato  184,  j>o- 

destate  47),  fradeli  115,  emperador  122. 


(1)  Credo   che  sarebbe  ormai  giunto  il  ve  ricerche  debbono  partire  del  tipo  antì- 

inomento  di  lasciar  da  parte  la  solita  spie-  chissimo  :   cascauvo   (  v.  anche   in  questo 

gazione  con   T impossibile  qitisque  unus  o  Giorn.  I,  47,    le  forme  raccolte  dal  Caix) 

quique  ad  unum  (tipi  respinti  da  tutte  le  che   si  trova  in  un  testo  del  sec.  XII,  nei 

forme  diverse  di  ciascuno,  che  sempre  ri-  sermoni  piemontesi  della  Biblioteca  di  To- 

chiamano  un  a  nella  protonica)  e  cercarne  rino  (Cod.  lat.  D  IX  10)  che  saranno  pul>bli- 

una  nuova  e  più  giusta.    Si  pensi  solamente  cati  nel  13.®  fase,  dei  liomanische  Studien 

«dia  forma  cadawio  già  assicurala.   Le  uuo-  del  Bóhmer. 


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ROHAszA  N.°  41  r.V  TESTO  DIALETT.  ITALIANO  55 

21.   tr:  padri  23. 

23.  Labiale  sorda:  savere  18,  receve  141,  ovrara  33,  avert<^  99. 

24.  Dileguo  di  v:  (oare  19,  104. —  u?  sempre  gu. 
24.*  lk:  vara  194.  l  finale  =  o,  v.  il  num.  39. 

24.^  agnel,  an^n^  =  angelam  2,  7;  ma:  avangélisti  61. 

24.*  M,  N  dinanzi  una  labiale  =  sempre  n:  colonba  3,  fenpo  79,  sen- 

pre  137,  conpagnia  82,  enperadore  122.  —  m  finale:  vetZrem   153, 

ma:  d^en  90,  vedren  149,  91,  145,  156,  157. 
24*  s  impuro:  spirto  1,  scriture  21,  scariola  67,  ^cate  201,  etc. —  comp. 

un  s  impuro  prodotto  dell' aferesi:  (%)sto  14,  {p)sciMro  17,  etc.  sme- 

stirance  36,  etc,  y.  anche  il  num.  34. 

IV.  Accidenti  generali. 

24/  Attrazione,  vedasi  il  num.  1. 

24.'  Aferesi:  (ifi)fanti  144,  (e)ternale  197,  (ó)scuro  17,  (i)^to  17,  93,  e  ve- 
dasi anche  lat.  ex.-  sotto. il  num.  34. 

24.'  Si  noti  ancora  il  raddoppiamento  di  una  consonante:  no  ssa  =  no 
sa  131,  e  sse  =  e  se  148. 

B.  Note  mobfologichb 
I.  Suffissi  e  prefissi. 

28.  DIS-:  desprisare  119. 

29.  de:  desenda  5,  devegna  6,  desera  73,  etc. 

30.  ad:  afina  8,  apresentade  11,  etc.  adovrado  189. 

32.  RE-:  recordan  50,  retratto  59,  recevcn  128,  recomendadi  167,  etc. 

34.  ex:  smesurance  36,  smentegado  97,  spavento  42,  aperto  98,  scusa- 

re 135,  5<i«to  148,  etc. 

II.  Flessione  del  nome. 

35.  Sempre  di  (diem). 

36.  Plur.  fem.  di  terza  deci.:  forte  193,  grande  202,  greve^  temale  197. 

Ma  anche  i  maschili:  lume  165,  accanto  ai  plurali  comuni  in  -t 
senza  desinenza:  guai  22,  albur  47,  etc.  —profeti  22,  avangélisti  61. 

38.  prencepo  110.  conf.  corno,  v.  sopra  il  num.  13.'' 

39.  Articolo.  —  Sing.  lo  dinanzi  conson.  12,  32;  la  9.  —  V  dinanzi 

vocale  7,  8,  etc.;  ben  noto  è  se  o  =  sei  153.  —  Plur.  li  +  cons.  22, 
45,  etc.,  i  +  cons.  156;  del  4,  al  11,  en  lo  188,  ai  42,  K  +  voc.  23, 
61,  gV  +  voc.  128;  V  +  voc.  142.  le  +  cons.  10;  T  +  voc.  9.  — 
Forme  enclitiche:  -l  18  etc. 


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56  UN  TESTO  DIALETT.  ITAL.     Ioiornale  di  pilolooia 

41.  Pronome  personale:  —  a)  ntii  congiunto  65,  e  assolato  5,  107; 
vedasi  e. 

b)  {tu  nessun  esempio). 

e)  se  congiunto  50,  159,  etc.  si  assoluto  (53,  170).  sego  = 
secum  132. 

d)  elU6,ello7hea'139,lSb,ellxx20S,—loS8,12lM207,—li76.— 
prepos. +  ?wi  75,  82;  prep.  + fc?ro  55,  56,  59.  —  altrui  54,  133. 

e)  Forme  congiunte  enclitiche:  ne  (nobis)  24,  91;  —  175,  184, 
187;  n'  108,  90,  146,  156;  n'  + voc.  148,  167.  —  no  ir=no  li  19, 
66.  —  4'  39.  70,  ^  d  136. 

43.  ne  109,  en  103  =  inde. 

44.  Pronome  possessivo:   50,  plur.  sci  128.  — sua  6,  9, 160.  —  ìwstro 

12,  nostri  6,  13,  130,  207,  92. 
44.*  Pronome  dimostrativo:  sto  14,  93  — fo  98. 

III.  Flessione  del  verbo. 

47.  La  terza  sing.  per  la  terza  plur.:  devegna  6,  sia  (rima)  11,  condu- 

ga  65,  guardi  40,  engani  54,  fa  126,  mostra  156,  plaga  126.  —  Iso- 
lato: favelò  (perf. )  24;  ma  più  spesso:  engannan  31,  trm^ano  43, 
trovan  44,  recordan  50,  anno  40,  56,  fanno  42,  pono  129,  perden 
182,  enno  37,  127,  183. 

48.  Nessun  esempio  del  -s  caratteristico  di  sec.  pers. 

49.  50.  Il  participio  perfetto  si  riporta  alla  forma  tematica:  ai- 

budo  84.  —  Altri  partt.  preso  93,  oferto  95,  auerto  99. 

61.  La  terza  del  perf.  ind.  in  o:  anonciò  2,  favelò  24. 

62.  Perf.  ind.  delle  altre  conjugazioni:  /e  26,  107,  disse  b8j  rema^ 

se  109,  —  pi.  fonno  (fuerunt)  23,  fenno  (da  fare  81)  63. 

63.  Futuro:  guarderen  91,  seivaren  156,  retornarano  55,  —  vedrem  149; 

farà  92,  terra  88,  vara  194. 

65.  Presente:  l'pers.  plur.:  avemo  188,semo  166^podemo  168, deve» 90.— 
spetamo?  200.  —  congiuntivo:  guardemo  89,  144,  152,  recordetno  90, 
andemo  155 ,  166 ,  comencen  145 ,  parten  157  ;  accanto  a  aiòa- 
mo  105,  posamo  201.  Altre  persone:  sia  13,  atfta  10,  devegna  6, 
desenda  5,  ^e^rwa  10,  prenda  53,  — gtmrdi  40,  57,  ma  decline  203. 

56.  Imperfetto  indie:  soZean  81.  —  congiunt.  volesse  75. 

IV.  Foria. 

68.  Sempre  -mente  nelP  avverbio  121,  125,  —  60.  ga  66.  —  66.  quella 
fiadu  205.  —  73.  o  193,  203.  oe  83,  197.  do  131.  —  75.  no»i/i  140, 
enawii  23,  denanti  148.  —  77.  fin  (usque  ad)  69. 

Koma,  ottobre,  1878 

W.   FOEBSTEE 


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«0JiAxxA,N.«4]  1'.  MAJNA  57 


TOSTO 


Com'è  ben  noto,  son  due  specialmente  gli  etimi,  a  cui  si  snol  rì- 
condarre  questo  avverbio,  comune  nel  periodo  antico  a  tatto  il  dominio 
neolatino  :  il  participio  tostus,  ed  una  supposta  agglomerazione  tot-dio. 
Altre  spiegazioni,  che  metton  gratuitamente  in  campo  linguaggi  remoti^ 
non  meritano  d'esser  ricordate. 

Tra  le  due  etimologie,  la  prima  è  giudicata  sostenibile  dal  Diez 
(Et.  TF.,  I,  420),  ed  è  accolta  come  sicura  dal  Littré  (Dict.  de  la  l. 
fr.):  €  Tòt....  du  latin  tositi,  brulé,  par  assimilation  de  la  rapidité  de 
la  fiamme  >  etc.  ;  eppure,  guai,  se  si  accostan  le  mani  ai  puntelli,  sui 
quali  essa  è  appoggiata!  al  primo  tocco,  cadono  a  terra.  La  rapidité 
de  la  fiamme  non  ha  che  fare  con  torrere,  voce,  che,  con  tutta  la  sua 
numerosa  parentela  indoeuropea,  ha  sempre  avuto  il  significato  fonda- 
mentale di  inaridire^  disseccare^  privare  delV elemento  acqueo;  e  ciò  che 
pili  solitamente  torret^  è  il  sole,  che  esercita  un'azione  nient' affatto 
rapida.  Ma  e'  è  di  peggio  :  nel  caso  nostro  si  tratta  del  passivo.  E 
qui,  non  solo  è  esclusa  la  rapidità,  ma  quasi  perfino  la  fiamma;  che, 
di  regola,  se  qtwd  torretur  viene  a  prender  fuoco,  in  luogo  di  un  tostum, 
si  avrà  un  combustum.  Insomma  il  torreri  è  in  ogni  caso  un'arsione 
lenta  e  parziale;  una  specie  di  carbonizzazione;  la  quale  si  ottiene  il 
più  delle  volte  sottraendo  la  cosa  che  dev'  esser  tostata  air  azione  di- 
retta e  troppo  viva  della  fiamma,  e  mettendone  a  profitto  semplicemente 
il  calore.  Quindi  si  tosta  il  caffè  rinchiudendolo  nel  tostino,  e  conti- 
nuamente agitandolo;  e  tutti,  anche  gli  etimologi,  posson  sapere,  che 
sorta  di  operazione  rapida  sia  cotesta. 

Quanto  ai  riscontri  addotti,  sia  dal  Diez,  sia  dal  Littré,  caldo  caldo 
italiano,  chaltpas  o  chaut  pas  del  francese  antico,  fusswarms  del  dialetto 
svizzel'o,  non  fan  punto  al  cado;  una  cosa  rimane  tosta  anche  un  se- 
colo dopo  essersi  raffreddata.  La  condizione  che  si  produce  è  durativa, 
anzi  indistruttibile,  non  passeggiera.  Però  anche  il  torris  latino  significa 
tanto  il  tizzone  spento,  quanto  l'acceso;  ed  è  ancora  un  torris  quello 
che  r  accecata  Altea  gitta  sul  fuoco,  donde  l' aveva  tratto  molti  e  mol- 
t'anni  innanzi:  <  Dixit,  dextraque  aversa  trementi  Funereum  torrem 
medios  coniecit  in  ignes  >  {Met.,  Vili,  511). 

Pertanto,  conchiudiam  pure  che  tra  l'idea  di  tostare  e  la  subita- 
neità, non  solo  manca  ogni  rapporto,  ma  c'è  vera  opposizione.    Al  tosttis 

4* 


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58  P.  MAJNA  [gioknalk  di  filologia 

latino  risponde  bensì  presso  di  noi  un  altro  tosto,  del  quale  non  ab- 
biam  qui  ad  occuparci.  Guardiamoci  bene  dal  confondere  i  due  menecmi, 
identici  nelle  sembianze,  dissimilissimi  internamente. 

Riguardo  alla  seconda  etimologia,  proposta  dubitativamente,  ma 
pur  preferita  dal  Diez,  non  troppo  soddisfatto  neppur  egli  dell'altra, 
s'intende  cbe  le  obbiezioni  non  saranno  così  prontamente  esclusive. 
Per  verità,  il  Diez  non  ispiega,  che  cosa  sia  per  lui  il  primo  elemento 
di  quel  tot-citOj  donde  prende  le  mosse;  siccóme  peraltro  soggiunge  a  con- 
ferma €  dass  man  àhnliche  begriffe  >  com^  è  qui  cito  e  mit  totus  ver- 
stàrkte,  zeigt  »  ecc.,  non  pare  s'abbia  a  vederci  l'avverbio  tot;  contro 
il  quale  sarebber  subito  da  mettere  in  campo  ragioni  di  esclusione  as- 
soluta. Tot  è  voce  di  uso  correlativo,  ha  valore  di  plurale,  e  non  può 
stare  con  avverbi. 

Supponiam  dunque  che  il  tot  sia  da  riguardare  come  un  ioto  av- 
verbiale, apocopato,  o,  più  esattamente,  sincopato.  Questo  toto  non  è 
una  creazione  arbitraria.  Un  vecchio  glossario  greco-latino,  citato  dal 
Ducange,  ed  allegato  anche  dal  De  Yit,  nella  sua  edizione  del  lessico 
forcelliniauo,  reca:  «'O.oac;  toto,  omnino  ».  Partiam  dunque  da  toto- 
cito.  Orbene,  posto  che  si  volesse  tener  in  piedi  la  spiegazione,  biso- 
gnerebbe ad  ogni  patto  modificarla.  Quella  sincope  è  inammissibile,  giac- 
ché colpirebbe  appunto  la  vocale,  su  cui,  data  l'agglomerazione  dei  due 
vocaboli,  si  sarebbe  trasportato  l'accento:  totó-cito.  Poi,  Vo  decisamente 
aperto  di  tòsto  non  si  acconcia  a  rispodere  all'ò  di  tottis^  od  in  genere  alla 
vocale  di  quella  qualunque  forma,  che  ne  teneva  il  posto  nel  linguaggio 
volgare.  Ben  altri  sogliono  essere  i  riflessi  :  it.  tutto,  coli'  intera  serie  delle 
varietà  dialettali;  fr.  tuU;  tout.  Conf.  Bomania,  III,  282;  Zeitschrift  f. 
rom.  Phil,,  I,  115^  Per  T Italia  dovremmo  aspettarci  tiisto  o  tòsto,  coll'o 
chiuso.  Inoltre  tótcito  a  noi  avrebbe  dato,  mi  sembra,  tóccito  o  tóggUo, 
anziché  tosto.  Che  una  volta  giunti  a  questa  forma  1'*  si  fognasse,  e 
che  poi  l'esplosiva  palatina  si  trasformasse  in  sibilante  continua,  mi 
par  duro  ad  ammettere,  nonostante  che  il  Diez  dia  a  vedere  di  pensarlo, 
coir  addurre  i  confronti  di  amistà  e  destare,  che  ci  guidano  a  leggere 
nella  Grammatica  (I,  253):  «  Fallt  zwischen  é  und  t  ein  vocal  aus,  so 
ist  der  Palatallaut  nicht  anwendbar  und  gestaltet  sich  zns;  amistà  (*ami- 
citas)y  destare  {de-excitare)  ».  Lascio  destare,  che  non  capisco  come  faccia 
al  proposito;  ma  in  amicitas  l' assibilamento  totale  si  deve,  se  non  erro, 
alla  presenza  dell' ^  che  segue,  ajutato  fors'  anche  da  quello  che  precede, 
ossia  è  anteriore  alla  sincope. 

Ma  c'è  un'altra  via,  che  ci  potrebbe  condurre  da  toto-cito  a  tosto, 
evitando  tutti  questi  inciampi.  La  successione  sarebbe:  totò-cito;  to- 
tosito,  totosto,  tosto.  Avremmo  la  nota  ^semplificazione  di  un'  apparente 
raddoppiamento  iniziale.  Così  all'  italiano  da  0Ìnziltdare  è  venuto  zirlare; 
al  provenzale,  da  papaver,  paver.    E  già  il  latino  volgare  usava  cinnus 


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ROMANZA,    N.o   4]  TOSTO  59 

per  cincinnus;  e  fin  dal  tempo  di  Pianto  i  Prenestini  dicevano  conia  in 
laogo  di  ciconia.  V.  Diez,  Et.  W.^  pref.  XXIII;  Gr.,  I,  295;  Schn- 
chardt,  Vokal.,  II,  383;  Caix,  Studi  di  Etim.  it  e  rom.y  189. 

Tnttavi*,  pur  così  acconciata  o  sconciata,  T etimologia  proposta  in- 
contra ostacoli.  E  il  Diez  medesimo,  canto  ed  acuto  come  sempre,  vi  ac- 
cenna implicitamente,  dicendo:  «  Besser  noch  von  seiten  des  begriffes 
wiìrde  es  sich. ...  erklaren  >  ecc.  E  nella  Grammatica,  II,  472  egli  fa 
seguir  r  etimo  immaginato  da  un  punto  interrogativo.  Il  fatto  si  è 
che  quel  totocito  o  totcito  è  una  mera  ipotesi,  non  sorretta  da  analogie 
abbastanza  valide;  e  che  queir  equazione,  d  =  ^,  per  un  vocabolo  comune 
a  tutta  la  famiglia  neolatina,  e  di  tal  natura,  da  non  potersi  ragione- 
volmente supporre  fornito  da  una  nazione  alle  altre,  è  molto  sospetta. 
Evidentemente  si  tratta  qui  d'una  parola,  che  risale  al  volgare  romano 
dei  bassi  tempi.  L'analogia  di  amistà^  fr.  a.  amistié^  ecc.,  è  d'assai  troppo 
poca  cosa;  tanto  più  che  il  caso  non  è  perfettamente  conforme.  Vediam 
dunque  se  proprio  non  sia  possibile  trovar  di  meglio. 

Teniamo  ben  fermo  che  la  forma  da  cui  si  dipartono  tutte  le  va- 
rianti romanze,  tosto  it.,  sp.  a.,  pg.  a.,  tost  pr.,  fr.  a.,  sp.  a.,  tòt  fr., 
dev'  essere  un  tosto,  identico  alla  voce  italiana.  Poiché  un  etimo  sem- 
plice non  ci  si  offre,  pensiamo  anche  noi  ad  una  composizione.  Uno 
sto  non  e'  è  fatica  a  trovarlo  ;  ce  lo  dà  subito  il  latino  isto.  Con  questa 
voce  penetriamo  in  un  dominio,  dove  ci  troviamo  a  tutto  nostro  agio: 
quello  dei  pronomi.  Rammentiamoci  issa,  adesso;  poi,  certi  composti 
dove  entra  precisamente  il  nostro  iste:  astute  (Diez,  6rr.,  II,  471),  testé; 
come  si  vede,  tutti  avverbi  di  tempo,  di  significato  strettamente  affine, 
e  in  parte  quasi  identico  a  tosto. 

E  subito  si  osservi  una  particolare  agevolezza.  Isto  nel  linguaggio 
popolare  romano  suonava  precisamente  sto  anche  in  tempi  assai  remoti. 
E  tutte  quante  le  forme  di  iste  avevano  la  medesima  sorte.  Gli  esempi 
sono  innumerevoli;  si  veda  lo  Schuchardt,  Fofcd.,  II,  368  seg..  Ili,  278; 
il  Corssen,  Ansspr.^  II,  627  seg.  Quindi  si  sente  il  bisogno  d'insegnare: 
«  istud  per  i  et  5  scribitur  >. 

Quest'  aferesi  iste  la  doveva  specialmente  alla  proclisia ,  che  ridn- 
ceva  Vi  iniziale  alla  condizione  di  vocale  atona;  è  il  caso  identico  di 
lo,  la.  Ma  anche  in  posizione  di  enclitica  incontriamo  il  nostro  pronome 
col  medesimo  risultato:  locosto,  lucesta  (Schuch.,  II,  368).  Qui  abbiamo 
analogie  perfettissime  per  l'uso  nostro.  Anche  i  sostantivi  non  po- 
trebbero esser  più  opportuni  ;  l' uno  indica  precisamente  tempo  ;  quanto 
all'altro,  si  cfr.  illieo,  extemplo^  statini. 

Sarebbe  così  spiegata  la  seconda  parte  della  parola;  resta  la  prima, 
assai  più  difficile  a  dichiararsi.  Scarto  in  silenzio  una  qualche  ipotesi, 
e  ancora  me  ne  rimangon  tre. 

In  primo  luogo  mi  si  affaccia  il  toto^  di  cui  s'  è  detto  dianzi.    È 


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co  P.  RAJNA  [aioBMALE  m  filologia 

ovvio  il  supporre  toto^stOy  tosto,  sottiuteudendo,  anziché  tempore,  come 
si  fa  generalmente  in  casi  analoghi,  momeìvto.  Tuttavia  non  mi  sento 
pienamente  appagato.  Le  frasi  tutto  in  un  tempo,  toute-à-Vheure  (  propr., 
credo,  quando  il  soggetto  non  sia  femminile,  touiràrVheure)  e  simili 
(tut( a  u/n  tratto,  ecc.),  non  bastano  a  persuadermi  dell'uso  rinforzativo 
del  totus  per  il  volgare  romano  in  casi  analoghi  al  nostro,  tanto  più 
che  non  abbiam  mai,  per  quanto  io  veda,  il  collegamento  con  un  av- 
verbio, e  che  in  cotesti  modi  di  dire  il  tutto  è  in  parte  da  concepire 
in  modo  alquanto  diverso  che  non  si  faccia  dal  Diez. 

M' è  dovuto  venir  alla  bocca  momento;  ecco  pronta  una  seconda  ipo- 
tesi. Momento-sto  andrebbe  a  capello  per  il  concetto;  di  confronti  non 
c'è  bisogno;  citerò  tuttavia  il  lombardo  sul  momento.  Per  quel  che 
spetta  alla  forma,  la  perdita  di  due  sillabe  iniziali,  è  un  ostacolo  grave, 
ma  non  insuperabile,  come  ne  avrebbe  Taria.  Qualche  cosa  dicono  le 
analogie  di  gogna  (vereeundia),  Mandeure  {Epamanduoduro),  questa 
seconda,  sotto  la  forma  Mandroda,  dataci  già  dal  Geografo  Raven- 
nate (Schuch.,  Vokal.<i  II,  384).  Ma  attribuirei  maggior  valore  ad  altre 
considerazioni.  L'aferesi  della  sillaba  iniziale  è  fenomeno  comune  a 
tutte  le  lingue  romanze,  e  non  punto  ignoto  al  latino  volgare;  per  il 
caso  presente  la  tendenza  ingenita  doveva  ricevere  un  e£Scacissimo  im- 
pulso dal  significato  del  vocabolo;  si  trattava  di  esprimere  subito,  e  ri- 
pugnava quindi  il  fermarsi  ad  un'  espressione  così  lenta,  com'  era  mo- 
mentosto,  B'  aggiunga  che  le  due  prime  sillabe  offrivano  ancor  esse  uno 
di  quei  soliti  apparenti  raddoppiamenti  iniziali,  che  il  linguaggio  vol- 
gare tendeva  a  toglier  di  mezzo.  Però  non  mi  appare  poi  tanto  assurda 
l'ipotesi  di  un  precoce  passaggio  da  momentosto  a  mentosto,  donde  più 
tardi,  discendendo  di  un  altro  grado,  siasi  arrivati  a  tosto. 

Non  negherò  tuttavia  che  la  doppia  aferesi  non  trattenga  tra  le  ipotesi 
molto  dubbie  la  spiegazione  proposta.  Gliene  metterò  dunque  al  fianco 
un'altra,  a  far  da  competitrice.  Il  Diez  vedeva  nella  prima  parte  del 
vocabolo  un  elemento  rinforzativo;  anche  noi  potremmo  cercarcelo.  Uno 
dei  processi  più  comuni  per  rinforzare  il  significato  consiste  nel  rad- 
doppiamento del  vocabolo;  però,  colla  solita  ellissi,  un  romano  poteva 
dire  assai  bene  isto-sto  e  sto^sto.  Di  analogie  non  ci  sarà  difetto:  sU' 
bito  subito,  presto  presto,  ratto  ratto,  ecc.  Noterò  altresì  che  il  raddop- 
piamento applicato  ad  avverbi  di  tempo  esercita  a  volte  come  un'  azione 
ri  tardati  va:  it.  or  ora,  mil.  desedess.  Propriamente  quest'effetto  non  era 
nelle  intenzioni  originarie,  le  quali  miravano  a  far  apparire  brevissimo 
un  intervallo  non  sempre  breve;  in  ogni  modo  è  certo  che  il  senso  di 
dianzi^  o  tra  poco  s'è  svolto  e  fissato.  E  qualcosa  di  analogo  sembra 
di  rilevare  anche  in  tosto,  che  in  molti  esempi  significa  tra  brevissimo 
tempo,  piuttostoché  in  questo  momento  stesso.  Beuiiiteso,  l'osservazione 
ò  ir  ordine  affatto  sooonrlario. 


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■OMAKZA,  N.»  41  TOSTO  61 

Coutro  qnesta  etimologia  so  bene  che  il  Diez  solleverebbe  la  me-^ 
desima  obbiezione,  che  oppose  a  quella  immaginata  dal  Menagio  per 
testé  {Et.  TT.,  II,  74):  «  . . . .  Nach  Ménage  von  isto  iato  ipso,  se.  /em- 
pore^  welches  aber  stestesso  ergeben  bàtte,  da  anlantendes  s  nicht  schwin- 
det  ».  Non  temerei  peraltro  d' impugnare  la  validità  dell'  argomento. 
Già  il  latino  in  genere  ci  dà  un  numero  considerevole  di  esempi  per 
la  caduta  di  un  s  iniziale  dinanzi  a  consonanti;  e  vari  tra  di  essi  sono 
appunto  di  s  dinanzi  a  t.  Si  veda  il  Corssen,  Aasspr.,  I,  278,  810.  Ma 
la  stessa  tendenza  continuò  e  fece  sentire  ancor  più  viva  la  sua  efficacia 
nel  latino  volgare;  gli  esempi  copiosi  raccolti  dallo  Schuchardt,  U,  354, 
facciasi  pure  con  lui  e  col  Corssen  la  debita  parte  agli  errori  di  scrit- 
tura, ne  danno  prova  non  dubbia.  E  si  badi:  sta  bene  che  si  distin- 
guano gli  esempi  di  s  iniziale  da  quelli  di  s  mediano;  entrambi  tuttavia 
risalgono  ad  una  medesima  causa,  e  nel  caso  di  st^  meglio  forse  che 
negli  altri,  sono  ancora  più  affini  che  non  pajano,  giacché  la  sibilante 
si  avvinghia  strettamente  alla  sorda  dentale,  e  vien  cosi  a  trovarsi  al 
principio  di  una  sillaba,  anziché  all'uscita. 

Oltre  a  questa  considerazione  generale ,  ce  n*  è  una  speciale.  Biso- 
gna ben  tener  conto  delle  ragioni  eufoniche,  le  quali  si  contrappongono 
spesso  vittoriosamente  alle  leggi  della  successione  normale  dei  suoni. 
La  dissimilazione,  e  la  caduta  di  certe  consonanti,  che  può  non  esser 
altro  che  una  dissimilazione  ancor  essa,  sono  effetti  universali  e  troppo 
noti  di  cotesta  lotta.  Cosi  in  italiano  abbiamo,  tra  gli  altri  esempi, 
proda j  rado^  contradìo;  deretano^  Federico^  propio;  sebbene,  né  la  mu- 
tazione di  r  in  dj  né  la  riduzione  di  tr,  dr^  pr,  a  t,  d,  jp,  si  possan  già 
riguardare  come  fatti  normali.  E  V  offesa  fatta'  all'  orecchio  era  in  questi 
casi  minore  di  quella  che  gli  doveva  esser  recata  da  uno  stosto.  Una 
voce  siffatta  poteva  bensì  prodursi,  ma  non  preservarsi  inalterata  per 
una  lunga  sequela  di  secoli  ;  né  certo  se  ne  saprebbe  trovare  l' analoga. 
Si  paragoni  aajSejTov,  nome  di  una  pietra  spesso  ricordata  dagli  scrit- 
tori, divenuto  universalmente  abeston;  e  ancora,  le  mute  aggruppate  colla 
sibilante  eran  qui  tra  loro  diverse. 

Dico  tutto  ciò  nell'ipotesi,  che  a  tosto  s'abbia  ad  esser  pervenuti 
attraverso  a  stosto.  L' ipotesi  della  caduta  della  sillaba  iniziale  vi  ci 
potrebbe  condurre  immediatamente  da  istosto.  Ma  tra  le  due  supposi- 
zioni preferisco  la  prima,  ancorché  meno  piana  in  apparenza. 

Non  credo  che  alle  tre  ipotesi  proposte  per  sciogliere  il  nodo  in- 
tricato si  voglia  opporre  l' o  aperto  del  nostro  vocabolo.  A  ogni  modo 
l'obbiezione  non  sarebbe  grave.  Quest'o  noi  lo  si  ricondurrebbe,  é  vero, 
ad  un  0  originariamente  lungo;  se  non  che  si  tratta  di  un' atona,  su  cui 
l'accento  venne  a  cadere  solo  per  legge  d'enclisia.  Ora',  l'accorciamento 
di  un  0  atono  finale  durante  l'evoluzione  del  latino  è  un  fatto  più  che 
accertato  dallo  studio  dei  documenti  poetici;  e  non  è  del  resto  che  un 


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62  TOSTO  [oionNALE  di  filolocii 

caso  speciale  di  una  legge  ampiamente  comprensiva.  Si  yeda  il  Corssen, 
II,  436-511;  e,  per  ciò  che  spetta  propriamente  all'o,  479  segg.  È  evi- 
dente poi  che  la  lingaa  parlata  dell'età  imperiale  8*era  condotta  su  que- 
sta via  ancor  più  in  là  di  quanto  si  possa  constatare  coir  esame  dei  pro- 
dotti artistici.  Fra  i  tre  o  finali,  di  toto^  momento y  isto,  il  più  pronto  ad 
accorciarsi  dovette  essere  il  terzo,  per  effetto  deir  abituale  proclisia.  In 
ciò  non  cercherei  peraltro  un  motivo  di  preferenza  per  la  terza  proposta; 
chi  a  questa  si  appigli,  lo  farà  per  ragioni  più  solide.  Ed  io  stesso  inclinerei 
a  questa  parte;  tuttavia  non  oso  decidermi,  e  solo  non  mi  perito  ad  asse- 
gnare alla  prima  ipotesi  un  grado  di  probabilità  minore  d*  assai  che  alle 
altre  due.  La  scelta  definitiva  avrebbe  ad  esser  determinata  dallo  studio 
degli  scritti  latini  più  prossimi  al  parlar  volgare,  dove,  verosimilmente,  si 
dovrebbe  incontrare,  ricostituita  artificialmente  nella  sua  integrità  fone- 
tica, la  forma  logora  dell* uso  comune:  sia  momento  isto,  sia  isto  isto. 
Il  mio  articoletto  ha  dunque  bisogno  di  un  complemento,  dal  quale 
aspetta,  sia  una  conferma  ed  una  determinazione  più  precisa,  sia  una 
confutazione  autorevole. 

P.  Rajnà. 


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X031A!«ZA,  N.°  4]  63 

VARIETÀ 

ANCORA  DEL  PERFETTO  DEBOLE 

All'utile  e  giudizioso  articoletto  del  prof.  Caix  intorno  al  <c  perfetto 
debole  romanzo  »  che  si  legge  in  questo  Giornale  (I,  229-232)  mi  con- 
sentano i  lettori  di  fare  qui  alcune  postille. 

I.  Non  è  esatta  Paflfermazione  del  Caix  che  l'i  della  terminazione 
-avit  non  abbia  e  lasciato  traccia  alcuna  nelle  nuove  lingue  >  (p.  230). 
Il  vero  è  che  il  dialetto  di  Napoli,  con  altri  suoi  affini,  dice  cantai, 
purtai,  ecc.  (in  pronuncia  più  plebea:  cantaje,  purtaj^  ecc.)  nella  terza 
persona  tal  quale  come  nella  prima.  Anche  a  non  aver  particolare  fa- 
miliarità col  dialetto  di  Napoli,  la  nota  dissertazione  del  Wentrup  {Beitr* 
8.  Kenntniss  d.  Neap,  Mundart^  pag.  21)  basta  ad  avvertircene. 

II.  Circa  le  forme  vendei,  temei,  ecc.  il  C.  non  dà  alcuna  spiega- 
zione. Eppure  non  si  può  dir  eh'  esse  sieno  del  tutto  chiare  da  sé.  Il 
Diez  dice  vagamente  che  «  la  forma  caratteristica  della  seconda  con- 
jugazione  era  evi,  >  e  che  questa  sia  riflessa  dall'italiano  ei  (Conjuga- 
tionsformen:  Schivache  Flexionsart).  Ma  codesto  evi  in  realtà  non  ha 
un  sodo  fondamento  storico.  Ognun  sa  che  l'ordinaria  uscita  dei  perfetti 
latini  della  seconda  fu  -ui,  e  che  l'-m  non  era  se  non  di  pochissimi 
verbi:  dolere,  adolescere,  consuescere,  ecc.  I  quali,  per  di  più,  com'io  già 
ebbi  a  notare  in  questo  Giornale  (I,  77),  sono,  quasi  a  farlo  apposta, 
spariti  pressoché  tutti  nel  nuovo  latino  (1).  Il  vero  stato  delle  cose 
è,  dunque,  che  siamo  sbalzati  dal  latino  timui  all'italiano  temei.  Il  qual 
temei  fu  probabilmente  una  riconiazioue  analogica,  fatta  tenendo  pre- 
senti le  altre  conjugazioni,  in  cui  la  vocale  caratteristica  persiste  an- 
che nel  perfetto.  Parve  naturale  che  come  a  portava  portare  ecc.  rispon- 
deva portai,  a  dormiva  dormire  ecc.  dormii,  così  a  temeva  temere  ecc. 
rispondesse  un  temei.  Tanto  più  che  già  la  seconda  persona  del  perfetto 
istesso  aveva  Té,  per  regolare  continuazione  fonetica  dell'i  di  posizione 
latina  (temesti  timuisti  come  vedesti  vidisti  ecc.;  cfr.  Arch.  Glott.  IV,  152 
n.).  E  il  Diez  stesso  par  che  l'intenda  in  sostanza  al  modo  che  di- 
ciamo; giacché,  nonostante  il  suo  poco  chiaro  accenno  a  quella  tal  «  Cha- 
racterform  »  -evi,  pure  in  tutt'altro  luogo  (  Woiachische  Conj.:  II  Conj.) 
si  esprime  più  chiaramente  e  giustamente  così  :  e  Im  Ital.  und  Prov.  ward 

(1)  E  abolere,  che  è  rimasto,  è  passato  in  -ire  (compièvi  x=  compiei  e  compii;  ecc.) 
alla  conjugazione  ia  -ire;  e  i  composti  di  Eppure  questo  -^leviò  il  solo  da  cui  si  possa 
'pieOf  oscillano  tra  quella  in  -ere  e  quella     legittimamente  ripetere  una  certa  influenza. 


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04  VARIETÀ  [ilIORNALK   DI   PILOIX)GU 

es  (il  perfetto  debole  di  seconda)  auf  das  derivative  e  gebaat  {vendere 
vendei)  und  so  eine  wahre  E-Conjugation  durchgeflìhrt,  welclier  sich 
nur  das  Particip  (venduto)  nicht  uuterwarf  ». 

III.  Ha  ben  ragione  il  C.  a  dire  che  il  -v-  è  mantenuto  in  molti 
dialetti  merìdionali  anche  nella  prima  persona  del  perfetto.  E  se  non 
si  fosse  voluto  limitare  all'unica  fonte,  che  non  è  per  vero  la  più  sicura, 
dei  canti  popolari,  avrebbe  potuto  addurne  a  prova  non  solo  quei  per- 
fetti in  'ivi  che  adduce,  ma  ancora  quelli  in  -avi  (campob.  puriav^^ 
portai  e  simili,  oltre  durmivfj  dormii,  facive  feci  ecc.:  Arch.  Glott,  IV, 
166,  184;  e  purtavi  -avu  di  dial.  siciliani:  Pitrè,  Fiabe,  ecc.  I,  ccxvn). 
Notevoli  son  pure  i  dialetti  pugliesi,  dove  il  -v-  si  trova  rinforzato  in 
-66-  (cfr.  tose,  crebbi,  conobbi).  A  Bitonto,  p.  es.,  faciébbe  feci  (faciesi^, 
faci)  e  simili;  e  per  estensione  analogica  alla  I  conjugazione  come  in 
provenzale,  cantiebbe  (cantiéste,  cantò)  e  simili. 

IV.  Nelle  giuste  considerazioni  che  il  C.  (p.  231)  fa  intomo  alle 
vicende  del  -y-  della  terza  persona  singolare,  non  avrebbe  egli  dovuto 
ignorare  o  dimenticare  chi  lo  ha  preceduto  nella  stessa  via.  NelF^- 
chivio  Glottologico  (IV,  174-5)  io  ho  richiamata  l'attenzione  degli  stu- 
diosi sopra  un  notevole  riflesso  deìV-avit  latino,  proprio  del  mio  dialetto 
nativo  (campob.  purtatte  portavit,  vulatte  ecc.)  (1),  il  qual  riflesso  pare 
che  intanto  debba  limitare  l'asserzione  che  il  C.  ancora  ripete,  che  il 
-t  deìV-avit  sia  affatto  scomparso  tranneché  nel  dominio  franco-pro- 
venzale. E  l'Ascoli,  pigliando  occasione  dal  riflesso  da  me  arrecato, 
proponeva  quivi  stesso  in  nota  quella  stessa  spiegazione  del  cantò  ita- 
liano e  spagnolo  che  il  Caix  ora  ripropone,  e  ricordando  egli  pure, 
come  fa  il  Caix,  la  forma  sicula  e  calabra  in  au.  Che  se  il  Caix  ha 
più  compiutamente  sviluppata  la  spiegazione,  segnalando  come  proce- 
dente dalla  vocalizzazione  del  -t'-  anche  Vo  (=w)  dell' ital.  ^^ar^w  spagn. 
partió  ecc.,  l'Ascoli  era  già  andato  più  in  là  per  ciò  che  riguarda  i 
riflessi  del  solo  -avit.  Egli  notava  che  nel  francese  chanta  (ant.  chaniat) 
Va  sarebbe  strano,  se  non  fosse  giustificato  dalla  posizione,  e  stabiliva 
doversi  quindi  supporre  mantenuto  intatto  Va  per  efiFetto  dell' ar'^. 
Ora  il  Caix,  dicendo  che  nel  dominio  franco-provenzale  sia  perduta 
ogni  traccia  del  -y-,  viene  a  far  regredire  d'un  buon  passo  la  que- 
stione (2). 

V.  Le  importanti  considerazioni  che  il  C.  fa  intomo  alla  terza  per- 
sona plurale  lasciano  il  desiderio  di  un  maggiore  sviluppo.  —  Perché 


(1)  Ed  è  anche  in  dialetti  della  stessa  fa-  ^roteolare)  ;  maquidubito  dellasua  esattezza, 
miglia,  non  solo  nella  stessa  provincia  di  Mo-  (2)  Poiché  per  il  Caix  P-at  francese  non 

lise,  ma  persino,  p.  es.,  a  Cassino.    Anche  il  sarebbe   che  -a[t?i«]f,   avrebbe  egli   potuto 

W'entrup  (loc.  cit.)  vi  fa  un  lieve  accenno  per  ricordare  a  suo  prò  il  lucreziano  inritàt  \ìer 

Napoli   (a  ogni  modo,  il   vrocciolatte  che  inritavit  (1,'JO:  Inrìtat  animi  virtutem, 

adduce,  sarebbe  vrociolattc  da  rociolarc —  effrinrjcvc  ttt  arta). 


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lOMANEA,  K.o  4]        ANCORA  DEL  PERFETTO  DEBOLE  65. 

empierono^  p.  es.,  dev'essere  stato  in  fase  anteriore  impiéoron  =  imple- 
v'rUnt?  Ognuno  penserà  invece  che  empierono  sia  qaelV  implè[ve]runt  ^ 
che  tutti  han  letto  in  Virgilio  (Ed.  6,  48;  Georg.  4,  461),  come  ama- 
rono è  il  classico  amarunt  —  Della  desinenza  -irono  il  C.  assegna  due 
derivazioni.  Prima  la  fa  venire  da  -ioron  =: -ivWunt :  derivazione,  pare 
a  me,  improbabile,  e  certamente  arbitraria;  poco  dopo  la  fa  venire 
da  't[v}érunt:  salvoché  non  siasi  espresso  poco  esattamente  per  amor 
di  brevità.  Che  se  veramente  egli  trae  -irono  da  -ièruntj  si  può  chie- 
dere perché  da  quest'ultimo  non  si  sia  avuto,  col  solito  spostamento 
deiraccento  {muliere-,  muliére-y  mogliéra),  un  iérunty  e  quindi  un  -ièmo 
0  -èrno.  0  forse  V  accento  si  sostenne  sull'  i  di  -iérunt  per  simmetria  con  le 
altre  persone  del  perfetto  che  han  tutte  Vi?  0  forse  invece  -irono  risale 
a  un  latino  popolare  -llve^runt?  0  è  infine  una  coniugazione  analogica 
prettamente  romanza?  Son  tutti  dubbj  e  ipotesi  che  meritavano  d'esser 
accennati. —  Sul  finire  il  C.  dice  che  il  classico  -ivèrunt  non  abbia  nessuna 
eco  nel  mondo  romanzo.  E  forse  egli  si  restrìnge,  indottovi  dall' anda- 
mento del  discorso,  a  toccar  àéìVAvèrunty  ma  pensa  altrettanto  A^ÌY-erunt 
in  genere.  Io  stesso,  benché  abbia  tenuta  l'opinion  contraria  (vedi  I,  78) , 
inclino  ora  a  credere  che  àoiVèrunt  non  si  abbian  sicure  tracce  romanze. 
Però  le  tentazioni  a  scorgere  qua  e  là  di  tali  tracce  non  mancano  di  certo  : 
in  dialetti  meridionali  (  Arch.  Glott.  lY,  150, 184)  noi  abbiamo  forme  come 
scèrne.,  durmèrne^  vtdèrn^^  facèrn^  ecc.  che  pajono  belle  continuazioni 
delle  latine  exièrunt,  dormièrunt,  voluèrunt,  fecèrunt  ecc.  Se  non  che, 
considerato  che  Ve  aperta  di  quelle  forme  accenna  ad  é  breve  latina 
anziché  ad  é  lunga,  e  considerato  che  le  coniugazioni  latine  II,  III, 
e  IV  sono  divenute  nel  Mezzodì  un'unica  conjugazione ,  nella  quale  il 
perfetto  mantiene,  almeno  nel  dialetto  di  quelle  forme,  il  tipo  della  IV 
latina  (durmiv^.^  scivg^  cadiv§,  facive  ecc.),  mi  sembra  ora  più  proba- 
bile che  quella  desinenza  -èrne  non  sia  che  1'  -iérunt  della  IV  estesosi 
a  tutti  i  verbi  diversi  da  quelli  in  -are  (1).  Ma  anche  in  italiano  vi 
sono  forme  che  ricordano  in  modo  singolare  la  forma  in  -èrunt  La- 
sciando temerono  che  può  parer  timuèrunt,  e  sim.,  chi  non  penserebbe  alla 
prima  che  spanderono  sia  expandèrunt^  sederono  sedèrunt?  Certo,  se  si 
guarda  bene,  poiché  questa  terminazione  -erono  non  ha  luogo  se  non  in 
perfetti  deboli,  si  potrà  ben  dire  che  essa  sia  una  formazione  prettamente 
romanza,  non  men  di  quella  in  -ettero,  e  che  quindi  tra  sedèrunt  e 
sederono  non  vi  sia  alcuna  continuità  storica.  Ma  la  coincidenza  mate- 
riale della  forma  latina  con  la  italiana  è  tale,  che  ne  va  fatto  assolu- 
tamente un  cenno,  se  non  altro  per  avvertire  ne  nos  inducat  in  ten- 
tationem.  P.  d'  Ovmio. 

Napoli,  febbraio  1878. 


(1)  Cfr.  il  sicil.  finivi,  3»  pi.  fineru  (e  con  esso  ripitivi^  ripiteru)  in  Pitré,  loc.  cit. 

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GG  VARIETÀ  [oioekale  di  filologia 


SULL'  ETIMOLOGIA  SPAGNUOLA 


Nello  studiare  il  tanto  giustamente  lodato  lavoro  della  Sig.**  Caro- 
lina Michaelis,  Studim  sur  rmianisclien  WorfscMpfung,  Leipzig,  1876, 
mi  è  avvenuto  come  di  ammirare  la  dottrina,  V  acume  e  la  profonda 
conoscenza  che  ha  l'egregia  Autrice  della  lessicologia  spagnuola,  così 
anche  di  notare  qua  e  là  congetture  e  derivazioni  che  mi  hanno  lasciato 
dei  dubbi.  Non  sarà  perciò  inutile,  considerata  V  importanza  del  libro, 
raccogliere  qui,  tra  gli  appunti  che  mi  è  avvenuto  di  farvi,  quelli  che 
dopo  matura  riflessione  mi  sembrano  i  più  giustificati.  Cercherò,  per 
quanto  è  possibile  in  note  di  questa  fatta,  di  mantenere  un  certo  ordine 
riunendo  insieme  sotto  ad  alcuni  capi  le  osservazioni  fatte  sparsamente. 

L*  A.  pensa  che  sebbene  nelle  lingue  romanze  il  lessico  sia  di  pa* 
role  accettate  beli' e  fatte,  pure  sia  un  errore  il  partir  sempre  da  questo 
criterio  per  l'etimologia  di  molte  voci  oscure.  I  Germani,  secondo  TA., 
recarono  a  così  dire  materia  greggia  che  fu  poi  elaborata  nei  paesi  la- 
tini. «  Gli  elementi  germanici  figurano  spesso  come  temi,  e  come  temi 
furono  considerati  e  differenziati.  >  Ora,  senza  negare  quello  che  ci 
possa  esser  di  vero  in  questo  principio,  non  è,  a  mio  avviso,  senza  pe- 
ricolo, il  raggruppare  insieme  tante  voci  di  significati  tanto  svariati 
per  la  semplice  identità  di  alcune  consonanti  nel  tema,  come  trovo 
aver  fatto  T  A.,  sotto  alle  radici  grbj  skarh.  Tra  quelle  che  a  me  sem- 
brano dover  avere  diversa  origine,  scelgo  qui  alcune  che  mi  sembrano 
avere  una  speciale  importanza  per  la  loro  diffusione  in  parecchi  degli 
idiomi  romanzi. 

garapiSa  €  liquore  congelato  »,  gaeapinar  <  congelare  ».  L*  A.  unisce 
queste  voci  coi  numerosi  derivati  da  una  primitiva  radice  prò,  da  cui 
proverrebbero  anche  voci  significanti  «  Etwas  vor  Kalte  oder  Alter  Gek- 
riimrates,  jede  krause  Speise  »  ecc.  (p.  51  ss.)  Ma  una  delle  voci  che  a 
mio  avviso  si  possono  con  più  sicurezza  staccare  da  quel  cespite  è  la 
presente.  Per  me  garapiha  ha  a  base  il  tema  che  troviamo  nel  pori 
garaim  «  limonade  sucrée  »,  dove  io  non  potrei  vedere  altro  che  T arabo 
Sarah  e  quindi  in  fondo  una  voce  connessa  con  xarope  axarope^  coirit 
sorbetto  ecc.  Infatti  Tit.  carapignare^  derivato  certo  dallo  spagnuolo, 
significa  «  congelare  »  cosicché,  considerata  Tafiinità  etimologica  delle 
due  voci,  carapignarc  il  sorbetto  viene  a  dire  precisamente  quanto  sorbct- 
tare  il  sorbetto  (se  si  potesse  usare).    Del  resto  la  voce  toscana,  sici- 


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EOMANZA,  N.«  4]  SU LV  ETIMOLOGIA  SPAGNUOLA  67 

liaua  e  sarda  non  può  che  provenire  dalla  spagnuola,  perché  in  questa 
lingua  solo  è  foneticamente  spiegabile.  Da  xarab-  xarap-  col  passaggio 
del  X  in  j  si  ebbe  jarap-  (cfr.  jaropc^  jaràbe),  e,  rafforzato  J  in  g^  ga- 
rap'  base  di  garapa.  Il  primo  mutamento  lo  abbiamo  appunto  in  ja^ 
loqne  =  xaloque^  e  il  secondo  la.  guaìatina  =  jaletina ^  ed  anzi  tutti  e  tre  i 
passaggi  in  garifo  in  cui  il  g  si  riconduce  similmente  alla  scìn  araba.  Quindi 
garap' =  jarap' =  xarap"  (arab.  éarah)  come  garifo=jarifo=  xarifa 
(arab.  éarlf).  Rimarrà  a  meglio  chiarire  le  ragioni  di  quel  suff.  -iiìa. 
GARBULLO,  it.  GARBUGLIO  ccc.  che  T  A.  deriva  dalla  stessa  radice,  non 
può  che  essere  un  composto  di  luglio^  comunque  vogliasi  spiegare  la 
prima  parte.  Cfr.  guazzabuglio  «  miscuglio  d'acqua  e  di  neve  >,  poi 
«  confusione  ecc.  »  Se  V  A.  ammette  in  quest'  ultimt^  voce  composi- 
zione con  buglio ,  mi  pare  ben  difficile  il  non  vedere  lo  stesso  elemento 
in  conibuglio^  stibbuglio  e  quindi  anche  in  garbuglio. 

ESGARAFUNHAR,   ESGARA VUNHAR,  ESCARAFUNCHAR  (  port.  )  chc  T  A.   COUnette 

col  tema  skarb^  potrebbe  pur  essere  il  corrispondente  dello  sp.  garra^ 
finar^  it.  sgraffignare,  sic.  sgraffugnari  ecc.  in  fondo  ai  quali  è  certo  il 
ted.  greifen  (cfr.  sparagnare ^=  sparen) ^  che  si  venne  modificando  nel 
senso  e  nella  forma  per  immistione  ora  di  graffio  -are,  ora  di  ugna=:- 
ungula^  ora  di  garra  «  artiglio  »  nello  spagnuolo  ecc. 

Nel  considerare  i  mutamenti  vocalici  sarebbe  stato  bene  distinguere 
le  vocali  atone  dalle  toniche,  poiché  certe  alterazioni  che  si  possono 
ammettere  pelle  prime,  non  si  potrebbero,  fino  a  maggiori  prove,  ac- 
cettare per  le  seconde.  Trovo  perciò  molto  dubbi  i  duplicati  basati  sopra 
mutamenti  nella  tonica  non  ancor  dimostrati  per  lo  spagnuolo,  come 
i  seguenti: 

BALA  —  FELLA,  con  cui  BALOTA  —  PELOTA  238.  Mentre  baia,  "Ota  come  il  fr. 
balle^  ballotte,  e  meglio  ancora  la  doppia  forma  ital.  balla,  palla  accen- 
nano air  a.  a.  t.  balla,  palla,  E.  W,  I,  48,  lo  sp.  pélla  apparisce  rego- 
larmente derivato  da  pila  non  meno  che  il  fr.  x^^ote  ecc. 

BERZA  — bbXsica  266.  Come  gli  equivalenti  italiani  verza  e  brasca,  de- 
rivano da  due  voci  ben  distinte;  la  prima  da  viridia,  E.  W.  1  442,  la 
seconda  da  brassìca. 

calandra  —  CILINDRO  254.  La  prima  voce  non  si  spiega  che  nel  do- 
minio francese,  e,  come  il  suo  speciale  significato  dimostra,  non  è  che 
il  fr.  calandre.  Gli  altri  esempi  di  a  da  i  che  dà  TA.  sono  di  vocali 
atone,  comuni  ad  altre  lingue  (balance,  salvaje),  ad  eccezione  di  cana- 
.s/ra  che  è  esempio  affatto  speciale,  e  che  se  non  è  da  spiegare  con  una 
antica  variante  canastnim,  si  deve  ad  influenza  di  bana^ta,  e  rientra  in 
ogni  modo  nella  numerosa  categoria  delle  voci  a  sufiisso  con  vocale  va- 
riabile: -astro  -estro  ecc. 

argano  —  organo  254.    L'originazione  di  argano  da  of/^jvsy  proposta 


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68  VABIETA  [giornale  di  filologia 

dal  Ménage  non  ha  trovato  seguito  appunto  per  la  difficoltà  fonetica. 
^.  IT.  I  30,  e  Storm  nella  Bomania,  II,  328. 

TARTA  —  TORTA  229.  La  forma  con  a  può  essere  dal  fr.  torte,  ed  è  a 
notare  che  questa  Toce  ha  avuto  diffusione  anche  in  Italia  (cfr.  i  miei 
Studi  di  etim.  Hai.  e  rom.  n.  623). 

CAVA  —  COVA  254.  In  cova  inclinerei  a  vedere  una  vpce  derivata  da 
cubare^  come  appunto  nell'equiv.  it.  covo.  Cfr.  cobil  <  escondite,  rincon  >  = 
it.  covile^  e  sp.  coba  «  gallina  ». 

CHANCLO  —  zocLo  244.  La  prima  voce  era  già  stata  connessa  dal  Diez 
con  mnca^  prov.  sanca  ecc.,  E.  W.  I,  448,  con  molta  verisimiglianza 
se  si  considera  che  la  voce  provenzale  vale  anche  t  coturno  >:  non  porta 
soc  ni  sanca  (P.  Vidal).    Per  la  stessa  ragione 

ZANCO  —  zoco  229,  mi  pare  da  eliminare. 

ARBOLLOM  —  ALBANAL  229.  Quì  il  Cambiamento  della  vocale  tonica 
appartiene  non  allo  spagnuolo  ma  all'arabo;  perché  la  prima  forma 
viene  da  al-halloYCa  la  seconda  da  a2-&aZZd'a;  Dozy  65. 

ORCA  —  URCA  253  e  così  ourque  orque  —  horque  houcre  204.  V.  Siudi 
di  etim.  it.  e  ront.  429. 

A  torto  l'A.  vede  duplicati  fondati  sopra  una  trasposizione  d'accento  in 

NiETO  —  NEPOTE  252.  Più  semplice  pare  derivar  la  prima  forma  da 
fieptiSj  che  usato  al  femminile,  dovè  dare  nieta^  da  cui  un  masc.  nieto* 
Foneticamente  nieta  da  neptis  come  siete  da  septem. 

piEZGo  —  PEzuELO  251  ;  e  così  pejsmélo  =  pedalo  =pedicidum  226.  Ma  vi 
sono  esempi  di  'iolo  -uelo  da  -iculum?  Il  complesso  di  alterazioni  che 
suppone  codest' equazione  pare  poco  conforme  alla  fonetica  spagnuola. 
Pezuelo  si  riconnette  meglio  a  pediolus  petiolus^  che  sappiamo  essere 
stata  voce  usata  in  Ispagua,  poiché  la  troviamo  in  Golumella;  di  qui 
it.  picciuolo^  vai.  picior.  La  terminazione  diminutiva  ha  modificato  il 
senso  nello  spagnuolo,  il  quale  perciò  per  dire  picciuolo  ha  dovuto  mu- 
tare il  suffisso,  {^iceuào  pezon.    E.  W.  II,  53. 

PATERA  —  PATÈNA  252.  Preferirei  trarre  col  Diez  la  seconda  voce  da 
patina  patèna^  in  cui  lo  scambio  frequente  di  -ìnus  e  di  --Inus  renderebbe 
la  trasposizione  d'accento  meno  strana,  e  in  cui  non  ci  sarebbe  la  diffi- 
coltà del  mutamento  di  r  in  n. 

A  tutto  rigore  poi  non  vorrei  considerati  come  fenomeni  dovuti  a 
trasposizione  d'accento  i  participi  tronchi:  pago  per  pagado  226,  fino  — 
finito  252  ecc.,  che  sono  piuttosto  dovuti,  secondo  la  bella  spiegazione 
del  Diez,  ad  analogia  con  aggettivi  che  stavano  coi  verbi  affini  nella 
stessa  relazione. 

Tra  i  duplicati  connessi  coi  vari  mutamenti  consonantici  noterò 
come  più  discutibili: 


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BOMÀNZA,  N.°  4]  SULL'ETIMOLOGIA  SPAGNUOLA  69 

jAZAEiNA  —  JACEBiNA  227  o  COSÌ  joscran  —  oigérien  203.  Questa  eti- 
mologia proposta  già  dal  Cobarruvias,  e  accettata  dall' EDgelmann,  non 
dispiacque  neppure  al  Diez,  E.  TT.  I,  208.  Tuttavia  i  dubbi  sollevati 
dal  Dozy,  p.  289,  non  mi  paiono  dissipati,  soprattuto  se  si  considerano 
le  varianti  pure  di.ìì.i\c\xQ  jaceran^  jaseran^  jasaran,  quantunque  anche  la 
derivazione  da  jaco  —  earad^  dall'  ultimo  proposta,  non  mi  persuada  gran 
fatto.  La  derivazione  da  acerino  sarebbe  meno  dura  se  si  avessero  mag- 
giori esempi  di  j  prostetico  ;  ma  jiride  non  prova  che  per  la  prostesi  di 
;  a  i  di  cui  si  hanno  esempi  anche  altrove  (it.  gire=zj-ire)^  mentre  Jan- 
ciato  è  forma  speciale  delF  andaluso ,  nel  quale  siffatta  prostesi  è  abba- 
stanza comune. 

LISTA  —  EisTEA  230.  L' A  dà  questo  supposto  duplicato  come  esempio 
di  scambio  tra  l  e  r.  Per  me  quelle  due  voci  non  sono  meno  distinte 
di  quello  che  lo  siano  in  italiano.  Ristra  è=:it.  resta=^la.t.  restis^  come 
lo  prova  il  suo  primo  significato  di  «  trenza  hecha  de  los  tallos  de  los 
ajos  ó  cebollas  »,  donde  poi  si  passò  al  senso  figurato  di  t  colocacion 
de  las  cosas  que  van  puestas  unas  tras  otras.  » 

ZAQUE  —  sAYo  o  SAGO  233.  Per  ìsaque  «  otre  »  si  presenta  come  più 
ovvia  la  identificazione  con  gaco^  essendo  propriamente  un  sacco  di 
cuojo  ;  jsf  per  s  come  in  jmcco  =  soco,  isorra  per  sorta  ecc. 

ANTOECHA  —  ENTUEETO,  ENTOECHAE  —  ENTOETAE,  TORCHA  —  TOETA,  TASTA  240. 

L'A.  dà  queste  forme  come  provenienti  da  una  diversa  risoluzione  del 
et  da  un  falso  participio  torctus^  già  supposto  dal  Diez,  E,  W.  1^  418. 
Da  notare  è  però  che  qui  si  tratta  non  del  puro  et  ma  di  rct  pel 
quale  la  risoluzione  in  eh  è  più  difficile  ad  ammettere.  Gli  esempi  che 
il  Diez  e  TA.  danno  sì  per  lo  spagnuolo  che  per  il  francese  e  provenzale, 
sono  di  c^  0  di  nct^  pel  quale  ultimo  nesso  quella  risoluzione  era  age- 
volata dalla  facilità  dell' «  a  combinarsi  con  %  (j).  Cfr.  prov.  Saint  cioè 
sanJU  accanto  a  sanch  ecc.;  Diez,  Gramm.  I,  259.  Il  Diez  medesimo 
trova  più  semplice  spiegare  il  prov.  torcha^  fr.  torche  da  torca  connesso 
con  torcar^  e  il  eh  della  voce  spagnuola  da  z^  e  così  entorchar  da  entorzar, 
che  perciò  deriverebbe  dallo  stesso  tema  di  atrozar^  troza^  torzal  ecc. 
Cfr.  acunzar  e  aconcJiar,  ronzar  e  ronchar,  ed  anche  bolchaca  (hurehaca) 
accanto  a  hursaea  ecc.  Del  resto  quanto  al  semplice  torcha  rimane  sem- 
pre a  vedere  se  non  possa  essere  voce  francese. 

FABAUTE  —  HERALDo  240.  Sccoudo  il  Dicz  farautc  viene  dal  fr.  héraut^ 
come  dal  francese  vengono  altre  voci  con  f  Abl  h  germanico,  Gramm. 
I,  320;  questo  duplicato  parrebbe  quindi  doversi  porre  tra  quelli  di 
origine  straniera. 

FARSETO — FALsoPKTO,  BAL90PET0  242.  Conic  Spiegare  le  alterazioni  che 
supporrebbe  codesta  sincope?  Quanto  a  farseto,  sopratutto  se  conside- 
riamo il  suo  antico  valore  di  «  imbottitura  sotto  la  corazza  >,  la  de- 
rivazione da  farsm  rimane  sempre  la  più  semplice;  E.  W.  I,  173. 
Fcdsopcto  pare  perciò  voce  indipendente,  di  cui  balsopeto  e  gran  borsa  che 


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70  VABIETA  [giornale  di  fflologia 

si  portava  sul  petto  »  sarà  una  corruzione  dovuta  probabilmente  a  in- 
fluenza di  bolsa  «  borsa.  > 

viEJo  —  >TEDRo  251.  Il  secondo  vocabolo,  in  uso  solo  nei  nomi  proprii 
di  luogo,  è  da  vetus  -eris^  mentre  il  primo  è  da  veclt(S=ve((u)lus.  Nella 
stessa  maniera  abbiamo  in  italiano  da  una  parte  Orbivieto  Chvieto  e  Cef- 
vetri,  dall'altra  Civitavecchia. 

ESTKUENDO  —  TRUENO  251.  Sc  uou  v' ha  dubbio  sulla  derivazione  di 
esfruendo  da  tonifrum^  quanto  a  trueno  si  presenta  tònus  con  r  onoma- 
topeica, come  neirit.  irono  -are,  nel  prov.  e  anche  sp.  tron  -ar  ecc. 

BEPROCHE  —  BEPROPio  264.    Cfr.  i  miei  Studi  di  etim.  it.  e  rofiu  n.  115. 

coDENA  —  CUTANEA  205.  La  prima  è  essa  voce  originariamente  spa- 
gnuola?  Si  noti  che  in  questa  lingua  ha  perduto  il  suo  primo  signi- 
ficato, che  ha  invece  mantenuto  nell'it.  cotenna^  fr.  couenne.  Quanto 
al  derivare  cotenna  da  cutanea ^  ci  sono  per  l'italiano  gravi  difficoltà 
fonetiche,  ed  anche  in  fr.  ^enne  =  -anca  sarebbe  poco  regolare.  Del 
resto  la  connessione  con  cwtó  pare  certa,  se  si  considera  T  equiv.  cotica 
e  il  deriv.  cuticagna, 

TORCHE  TROCLA  TRUJA  —  TORCULA  170,  c  trocla  —  torchc  226.  Trocla 
«  polca  >  va  certo  distinta  da  queste  voci,  perché  non  può  che  essere 
Tequiv.  trochlea.  Non  trovo  torche^  ma  solo  torce  <  la  vuelta  o  eslabon 
de  alguna  cadena  >  e  se  questa  è  la  voce,  mi  par  ovvia  la  derivazione 
da  torques. 

CABAL  —  CAUDAL  281.  Il  prov.  c  sp.  càbol  è  una  posteriore  derivazione 
da  cabo,  e  non  avendo  a  base  un  lat.  capitalis,  non  forma  a  rigore  un 
duplicato  con  caudal. 

Aggiungo  qui  alcuni  duplicati  francesi  dati  dall' A.  in  aggiunta  a 
quelli  del  Bracbet,  che  io  non  saprei  ammettere. 

CALIBRE  —  GARBE  GALBE  202.  Auchc  M.  Dcvic,  Bict,  H.  p.  79,  aveva 
fatto  lo  stesso  ravvicinamento;  ma  più  probabilmente  la  seconda  forma 
è  termine  d'arte  proveniente,  come  altri  notarono,  dall' it,  garbo^  mentre 
la  prima  è  d'  origine  araba. 

FEU  —  FOUGUE  203.  Il  Brachct  ebbe  ragione  a  mio  avviso  a  non  am- 
mettere questo  duplicato,  poiché  nel  suo  Dict,  ciym.  egli  considera 
fougue  come  identico  all'it.  foga.  Ora  che  questo  derivi  àsi  fuga  e  non 
da  focus  è  provato,  oltreché  dalle  ragioni  date  dal  Diez,  E,  W,  lì,  30, 
dalla  pronuncia  tose,  fòga  in  pieno  contrasto  con  quella  di  fòco  fuòco, 

MAiGRELET  —  MiNGRELET  204.  Il  Dicz  cousidcrò  bcuc  tningrcUn  come 
affine  a  malingre,  connesso  coli' a.  fr.  heingre  da  acgcr  -ra  -rum;  e  min" 
grclet  non  può  èssere  che  variante  di  tningrelin.  Anche  V  it.  mingher- 
lino potrebbe  parere  variante  di  niagherolino  magrolino^  se  non  vi  ostasse 
il  lomb.  e  pieni,  malingher,    E.  11'.  II  343. 

KoNGER  —  RUMiNER  205.  Il  primo  è  da  rumigare,  E.  W.  II  418,  l'altro 
da  r  fi  minare,  N.  Caix. 


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ROMANZA,    N."    I]  VARIETÀ  71 


MALATO 


Già  il  Cornu,  Ilomania  III,  397,  mostrò  come  in  latino  male  hahitus 
«  malandato,  in  mal  essere  »  si  contrapponesse  al  semplice  haòiius  «  ben 
portante  ».  Sopratutto  significativo  il  passo  di  Massurio  Sabino  riportato 
da  Aulo  Gellio  in  cui  si  legge:  «  Censores...  cum  equum  nimis  strigosum 
et  male  hahitum  sed  equitem  ejus  uberrimum  et  hahitissimum  viderunt...  » 
Il  Corna  proponeva  con  piena  ragione  di  derivare  da  male  habitus^  a 
cui  specialmente  accenna  il  malabd^  nella  Passion  e  il  prov.  malapte 
malaiUj  le  voci  che  il  Diez  riportai  sotto  malato,  E,  W,  I  259.  Egual- 
mente il  Ronsch,  Zeitschrift  fiir  rom,  Fhil,  I,  419,  il  quale  notava  inoltre 
la  corrispondenza  tra  male  habitus  e  male  sanus.  Solo  Tit.  malato  pareva 
opporsi  a  questa  congettura;  ma  già  il  Diez  notava,  proponendo  la 
derivazione  da  male  aptus,  che  il  semplice  t  in  malato  potè  provenire 
da  influenza  di  ammalato,  participio  di  ammalare^  poiché  il  derivato  wwt- 
ìattia  che  non  poteva  soggiacere  alla  stessa  influenza,  presenta  il  doppio 
^,  e  fa  congetturare  un  anteriore  malatto.  Veramente  la  congettura 
presentava  dei  dubbi,  poiché  non  era  impossibile  il  contrario,  cioè  che 
makittia  provenisse  da  un  anteriore  malatia  con  raddoppiamento  poste- 
riore del  t.  Ma  a  togliere  ogni  dubbio  sta  il  fatto  che  la  forma  ma- 
latto s'incontra  in  più  mss.  antichi,  e  così  p,  e.  in  quello  della  Tavola 
Botonda  pubblic.  dal  Polidori  :  <  Dissono  che  aveano  messa  la  reina  tra 
gli  ^nalatti  e  miselli;  >  —  «  come  la  reina  fue  messa  tra  gli  malaiti,,.  > 
(p.  165).  Il  Polidori  spiega  nello  «  Spoglio  lessicografico  >  questa  voce 
per  «  lebbroso  »  ;  e  ivi  pure  nota  come  tal  voce  negli  antichi  Statuti 
senesi  suoni  maladdo,  malagdus,  forma  invero  poco  chiara  da  confron- 
tare col  fr.  malade,  ant.  malabde,  Fass.  de  J.  dir.  116, 

N.  Caix. 


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72  VARIETÀ  [oiornalr  di  piLOLoaiA 

OSSERVAZIONI  AD  UN  ARTICOLO  DEL  PROF.  A.  BORGOGNONI 
SUL   SONETTO 


Il  Prof.  Borgognoni  ha  inserito  nella  Nuova  Antologia  (&9C.  2* 
del  1879)  nn  articolo  sul  Sonetto^  nel  quale  ei  ne  indaga  le  origini  e  la 
formazione.  Non  vogliamo  qui  né  riassumere  le  opinioni  del  valente 
critico,  perché  ognuno  potrà  leggerle  nel  periodico  indicato,  né  dichiarare 
il  nostro  assenso  o  il  nostro  dissenso:  ma  soltanto  fare  alcune  avver- 
tenze su  due  punti  particolari  di  quello  scritto. 

In  primo  luogo  a  pag.  237  ei  professa  di  far  sua  l'induzione  del 
Bilancioni  che  sieno  cioè  una  stessa  persona  due  antichi  poeti.  Il  Bor- 
gognoni mostrasi  troppo  vago  di  questo  ridurre  a  una  sola  persona  più 
antichi  poeti ,  chiaramente  distinti  con  nomi  diversi  negli  antichi  docu- 
menti :  e  già  fu  visto  come  errasse  nelP  immedesimare  Folcacchieri,  l'Ab- 
bagliato e  Folgore  da  S.  Gemignano.  Ora  riduce  ad  uno  Iacopo  da 
Lentino,  già  da  lui  immedesimato,  e  non  sappiamo  se  rettamente,  con 
Giacomino  Pugliesi,  e  Iacopo  da  Leona,  cavandone  conseguenze  che 
restano  gravemente  infirmate  se  V  identificazione  dei  due  poeti  venga  a 
mancare.  Per  noi  non  è  dubbio  che  si  tratti  di  due  poeti  distinti  tra 
loro.  Il  Borgognoni  dice  che  Lentino  dicesi  «  latinamente  Leoniium^ 
di  che  Leona  sarebbe  traduzione  anche  più  schietta  ».  Veramente  Len- 
tini  in  Sicilia  é  latinamente  Leontini^  la  patria  di  Gorgia,  detto  perciò 
leontino:  e  Leona  non  é  altri  che  l'antica  Levane  in  Valdarno,  e  nel  ter- 
ritorio di  Arezzo.  Tratterebbesi  qui  dunque,  di  un  amico  e  quasi  concit- 
tadino di  Fra  Guittone  senza  andar  giù  fino  in  Sicilia. 

A  pag.  243  il  Borgognoni  rifiata  l'ipotesi  del  Wackernagel  che  il 
sonetto  italiano  provenga  dallo  spruch  tedesco:  e  lo  rifiuta  specialmente 
perchè  t  scarsissime  le  relazioni  letterarie  tra  la  Germania  e  l'Italia 
nel  medio  evo:  e  alla  corte  di  Palermo  non  v'è  notizia  che  si  poetasse 
in  tedesco  ».  Ora,  quest'ultima  asserzione  merita  di  esser  rettificata, 
senza  che  perciò  ne  cresca  probabilità  alla  dottrina  del  Wackernagel 
E  poiché  il  documento  che  prova  il  contrario  non  sappiamo  che  sia  stato 
da  altri  notato  in  Italia,  ci  piace  qui  registrarlo.  Sono  alcuni  versi 
dell'antico  poeta  tedesco  Ottocaro  di  Stiria,  al  cap.  IV  della  sua  Cro- 
naca rimata,  inserita  dal  Pez  nel  voi.  3°.  dei  Rerum  ausfriacarum.  Vi 
si  parla  della  Corte  di  Manfredi  e  della  sua  dignità  e  cortesia  di  prin- 


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BOMAN«à,  N.o  4]  OSSERVAZIONI  SUL  SONETTO  1V> 

cipe,  e  poi  si  prosegue  annoverando  per  nome  ben  18  Miunesingér  che 
furono  a  quella  corte.    Traduciamo  letteralmente  quei  versi: 

Ogni  giorno  ed  ogni  notte  |  (Stava)  coi  suoi  musioi:  |  Io  vi  dico  chi  essi  erano.  | 
Uno  non  era  troppo  giovane,  |  E  si  chiamava  Maestro  Yildunco.  |  E  v^  era  qui  un 
uomo  vecchio  |  Che  si  chiamava  maestro  Werner  di  Rustpaco.  i  Y'  era  anche  uno 
ricco,  I  Maestro  Federico  di  Flascenbergo.  |  V'era  uno  molto  grEizioso,  |  Che  si  chia- 
mava Maestro  Beinoldo.  |  E  anche  un  altro  accresceva  il  suo  avere  |  Che  era  chiamato 
maestro  Pah.  |  Era  qui  pure  con  grand*  ornamento  |  Maestro  Walter  della  Sittava.  | 
Anche  v'  era  il  molto  gentile  |  Maestro  Federigo  di  Wirzburgo.  |  Qui  faceva  varj 
giuochi  I  Maestro  Corrado  di  Botenberga,  |  Che  dopo  la  morte  del  principe  |  Dopo 
lungo  tempo  fu  mio  maestro.  |  Era  qui  per  suo  comando  |  Maestro  Seibot  di  Ert- 
burgo  ;  |  Qui  era  anche  Maestro  Ottone  |  Del  quale  si  faceva  grande  scherno  |  Per  la 
gobba  eh'  egli  aveva.  |  Venne  anche  per  preghiera  del  Re  |  Maestro  Enrico  di  Land- 
cron.  l  V  era  qui  anche  un  tale  molto  ricco  {  Che  si  chiamava  Maestro  Gebardo  |  Il 
quale  anche  vi  fu  ucciso.  |  Era  anche  un  grande  soccorso  |  Maestro  Ulrico  di  Qlesein,  | 
Né  qui  si  stava  ozioso  |  Maestro  Ulrico  di  Sweiniz,  |  E  gli  era  anche  molto  caro  | 
Maestro  Alberico  di  Merseburgo.  |  Teneva  qui  anche  molto  volentieri  domicilio  |  Mae- 
stro Corrado  del  Tirolo,  |  E  riceveva  volentieri  il  suo  soldo  |  Maestro  Perichtold  di 
Somereck.  |  A  questi  eh*  io  ho  ora  enumerati  |  Era  concesso  V  onore  |  Di  esser  chia- 
mati maestri. 

À.  D'Akconi. 


POSTILLA  ALL'ARTICOLO 
UN  SERVENTESE  CONTRO  ROMA  ECC.  (I,  84) 


Ebbi  già  ad  avvertire,  non  appena  me  ne  fai  avvisto  (I,  200),  che 
anche  il  Tobler  suol  spiegare  il  vocabolo  Sirventes  come  t  Dienstge- 
dicht  >,  poesia  che  sta,  in  certo  modo,  al  servigio  di  un'altra.  Ora 
mi  è  ben  grato  di  poter  comunicar  al  lettore  alcune  cose  scrittemi  in 
proposito  dal  dotto  Professore  dell' Università  Berlinese  (5  nov.  78). 

€  . , . .  Was  mich  zu  dieser  Ansicht  brachte,  waren  theils  die  von  Ihnen 
angefòhrten  und  ahnliche  Dichterstellen,  theils  die  ausdriickliche  Aus- 
sage  der  Leys  d*Atnors ,  1 ,  340  :  t  sirventes  es  dictatjs  ques  servish  al  may 
de  vers  o  de  chanso;  en  doas  cauzas:  la  una,  cani  al  compas  de  las  co- 
hlaSj  Vautra^  cani  al  so.  E  deu  hom- entendre  cant  al  compas,  so  ^s  a 
ssàber,  que  tenga  lo  compas  solamen  ses  las  acordansas  oz  am  las  acor- 
dansaSj  d^aquelas  meteyshas  dictios  o  d'autras  seniblans  ad  aquelas  per 
aeordansa.  »  Also,  die  Uebereinstimmung  der  Singweise  ist  zunàchst 
vorhanden,  ebenso  (was  daraus  von  selbst  sich  ergibt)  die  des  Stro- 
phenbaues;  dagegen  ist  Uebereinstimmung  im  Reime  nicht  erforderlich; 

5* 


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74  VARIETÀ  [giormalb  di  filolobu 

ist  sie  yorhanden,  so  kann  sie  sich  uber  die  ganzen  Beimworter  erstree- 
ken  oder  anch  nar  uber  die  Beimenden  Wortaasgange.  Nichi  ganz 
sicher  bin  ich,  wie  das  al  may  zu  verstehen  ist;  gewiss  heisst  es  nicht 
tout  au  plus^  wie  es  die  Herausgeber  ubersetzt  haben;  ich  denke  eher 
«  meistens  > ,  <  per  lo  più  >.  Dass  nicht  jeder  Sirventes  an  ein  yor- 
handenes  Gedicht  aulehnt,  lehren  ja  auch  solcbe  Stelle  wie:  Ab  non 
cor  et  ab  novel  son  Volh  un  nou  sirventes  hastir,  und  die  Aussage  der 
alten  Biographie  des  Guillem  Bainol:  e  si  fetz  a  toU  sos  sirventes  sons 
nous.  Àber  gerade  dieso  Aeusserangen  wiirden  nicht  gethan  worden 
seiD,  wenn  das  entgegengesetzte  Yer&hren  nicht  das  gewòhnliche  {d 
mais)  gewesen  wàre.  » 

Contro  la  spiegazione  del  vocabolo  risuscitata  dal  Tobler  e  da  me, 
si  dichiara  il  Meyer,  Romania ,  VII,  626.  Le  sue  parole  meritano  di 
certo  la  massima  considerazione.  Potrei,  per  verità,  desiderar  dimo- 
strata l'affermazione,  che  Sirventese  sia  la  forma  primitiva.  Dato  che 
sia,  non  ho  difficoltà  a  riconoscere  che  Tidea  del  Tobler  e  mia  avrebbe 
fatica  a  reggersi;  Sirventese  condurrebbe  realmente  a  sirvent^  cerne  sh^ 
dentesco  a  studente.  I  Serventesi  sarebbero  dunque  propriamente  canti 
di  Sirvents  (1);  di  sicuro,  per  altro,  non  sarebber  tali  nel  senso  come 
8*  intende  dal  Diez ,  e  da  pressoché  tutti  dietro  di  lui.  Piuttosto  incli- 
nerei a  prendere  come  punto  di  partenza  il  significato  che  sirvent  aveva 
nel  linguaggio  militare. 

Ma  queste,  in  fondo,  son  questioni  secondarie.  L'essenziale  si  è 
che  i  Serventesi  sìeno  canti,  che  per  la  melodia,  il  ritmo,  il  numero 
delle  strofe,  e  a  volte  perfino  le  rime,  sogliano  aggrapparsi  ad  un  mo- 
dello preesistente.  Ammesso  ciò  —  e  in  verità  non  vedo  come  si  possa 
contestare,  contro  le  autorità  antiche  e  le  prove  ancor  più  conclusiTe 
dei  fatti  —  ne  viene  che  lo  studio  di  questo  genere  di  poesia  ha  bi- 
sogno di  esser  ripreso  da  capo  e  con  altri  criterii. 

P.  Bajka. 


(1)  Accanto   a   Sirventes^   Sirventese   abbiamo  Sirventesia.    Nel  primo  caso  il  so- 
fitantÌYO  originariamente  sottinteso  sarà  vers;  nel  secondo  chanso. 


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BOirANKA,  N.^  4] 


75 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


1.  Die  Biographie  des  Trobadors  OuiUem  de  Capestaing  und  ihr  hisio- 
rischer  Werlh,  von  Emil  Beschnidt.    Marburg,  1879.  31  pp.  in  16^ 


Questa  breve  tesi  dottorale,  dedicata  dal 
riconoscente  discepolo  al  prof.  E.  Stengel , 
prova  da  un  Iato  la  bontà  dell'  insegnamento 
che  sMmpartisce  nel  seminario  filologico  di 
Marburg,  e  insieme  la  speciale  attitudine 
dell'autore  alla  paziente  e  rigorosa  ricerca 
letteraria. 

Il  lavoro  è  diviso  in  due  parti:  nella  pri- 
ma si  discorre  del  testo  delle  biografie  pro- 
venzali del  Cabestaing;  e  nella  seconda  del 
loro  valore  storico. 

La  prima  parte  è  senza  dubbio  la  meglio 
riuscita;  ed  è  quella  dove  più  si  veggono  gli 
effetti  d' una  buona  disciplina.  L'A.  confronta 
minutamente  le  sette  redazioni  diverse  che 
della  biografìa  provenzale  del  Cabestaing  si 
contengono  nei  mss.  (1);  ne  trae  fuori  la 
parte  che  è  a  tutte  comune,  e  a  buon  dritto 
scorge  in  questa  il  nucleo  primitivo  della 
narrazione,  il  primo  scheletro,  che  venne 
poi  con  diversi  intenti  e  attitudini  rimpol- 
pato dai  successivi  rimaneggiatori.  Noi  con- 
cordiamo quasi  in  tutto,  per  questa  parte, 
col  signor  Besch.  ;  e  solo  vogliamo  riserbare 
il  nostro  giudizio  sulT  esistenza  d'una  re- 
dazione ancora  più  antica  e  più  scarna  di 
quella  che  all'A.  è  riuscito  di  cavare  dalle 
superstiti  biografie  provenzali. 

La  seconda  parte  del  lavoro  pare  a  noi 
meno  felice  nei  risultati,  sebbene  anche  essa 
dia  belle  prova  dell'acume  dell' A.  Il  signor 
B.  ci  schiera  innanzi  tutti  gli  argomenti  pos- 
sibili contro  l'attendibilità  storica  delle  bio* 
grafie  prov.  del  Cabestaing.  E  validissimo 
fra  tutti,  ben  a  ragione,  egli  considera  que- 


sto: che  nessuno  dei  trovatori  allude  mai 
alla  tragica  fine  di  Guglielmo,  mentre  pur 
avrebbero  avuto  mille  occasioni  per  farlo; 
che  nessuno  dei  tanti  lodatori  di  Alfonso  II 
d'Aragona,  il  protettore  e  intelligente  cul- 
tore della  poesia  occitanica,  lo  loda  quale 
vendicatore  della  misera  fine  di  due  amanti. 
S'  aggiunge  che  nel  medio  evo  ebbero  corso 
parecchie  altre  storielle  analoghe  a  quella 
del  Cabestaing,  principale  fra  le  quali  quella 
del  Castellano  di  Coucy  e  della  dama  du  Fayel  ; 
e,  nessuna  di  esse  offrendo  il  carattere  della 
verità  o  della  verisimiglianza storica,  nasce 
naturalmente  il  sospetto  che  esse  altro  non 
sieno  se  non  rifacimenti  fantastici  d'un  unico 
mito  primitivo,  rifacimenti  messi  sul  conto 
di  persone  le  quali  per  qualche  verso  ab- 
biano preoccupato  le  fantasie  popolari.  E 
qui  il  nostro  A.  vuole  spingersi  ancora  più 
innanzi,  e  trovare  in  questa  storia  del  cuore 
mangiato  o  fatto  mangiare  un  riflesso  d'una 
antica  favola  animale  indiana;  senza  tuttavia 
riuscir  a  trasferire  in  noi,  a  questo  propo- 
sito, quella  persuasione,  che  in  lui  pare  tanto 
robusta.  Comunque  sia  di  ciò,  egli  poi 
mostra  come  sicuramente  questa  storiella 
d'un  cuore  di  drudo  fatto  mangiare  dal 
marito  geloso  alla  donna  infedele  fosse  nota 
anche  ai  trovatori,  e  passa  quindi  a  cer- 
care il  motivo  o  l'occasione  per  cui  questa 
storiella  potesse  esser  messa  sul  conto  del 
Cabestaing.  E  qui  molto  opportunamente 
egli  avverte  che  se  i  Francesi  del  nord  l'at- 
tribuivano al  Castellano  di  Coucy,  ciò  fu 
dovuto  all' intepretazione  troppo  letterale  di 


(1)  Un'ottava,  couosciut»,  ma  non  veduta  dal  signor  B.,  sarà  da  noi  riprodotta  in  calce  a  questo 
artioolo. 


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76 


BAS8EGNA 


[eiOKNAUC  DI   riLULOQU 


alcuni  suoi  versi  in  cui  si  parla  di  «  cuore 
rapito  »  e  di  «  corpo  diviso,  »  e  che  per  si- 
mile motivo  la  stessa  storiella  fu  contata, 
più  tardi,  in  Germania  sul  oonto  del  min- 
nesingero  Reinmann  con  Brennenberg.  Si- 
mili frasi  possono  benissimo,  egli  dice,  es- 
sersi trovate  nei  versi  (perduti)  del  Cabe- 
staing;  ma  qui  il  processo  di  attribuzione 
sarebbe  stato,  secondo  il  B. ,  alquanto  di- 
verso. Egli,  il  B.,  ammette,  cioè,  che  il 
primitivo  biografo  del  Cabestaing  abbia  com- 
messa una  vera  e  propria  frode  storica,  in 
vantaggio  di  qualche  giullare  che  così  vo- 
leva accrescere  il  pregio  delle  poesie  del 
trovatore  :  che,  insomma,  il  biografo  attin- 
gesse la  storia  del  Cabestaing  a  un'antica 
«  histoire  »  forse  latina,  dalla  quale  sarebbe 
derivato  e  il  romanzo  del  Castellano  di  Coucy 
(1220  circa),  e  quella  cronica  prosaica  fran- 
cese del  1380,  di  cui  ha  dato  un  estratto  il 
Fauchet  nel  Recueil  de  Vorig.  d.  l.  langue 
etpoés.  frangaise.  Alcuni  luoghi  delle  bio- 
grafie, messi  a  riscontro  coi  luoghi  corri- 
spondenti della  cronaca  e  del  romanzo  pro- 
verebbero, secondo  TA.y  l'esistenza  di  que- 
sto loro  fonte  comune.  Se  non  che  di  questi 
riscontri  uno  solo  a  noi  par  molto  notevole, 
il  quinto;  e  tutti,  del  resto,  ai  possono  ben 
meglio  spiegare  ammettendo  che  il  compi- 
latore della  cronica  avesse  sottocchio  di^ 
verse  redazioni  della  biografia  del  Cabe- 
staing (  le  quali  possono  essersi  trovate 
riunite  in  un  sol  codice,  com'è  avvenuto 
per  quelle  di  Bertrando  del  Bornio),  e  che 
i  raffazzonatori  delle  biografie  abbiano  avuto 
alla  lor  volta  notizia  del  romanzo.  Il  luogo 
del  cronista:  «  Moult  orent  de  poine  et  tra- 
vati pour  leurs  amours...  si  comme  Vhistoire 
raconte  qui  parie  de  leur  vie ,  dont  il  y  a 
romans  propre  »  (p.  25),  ben  lungi  dal  di- 
mostrare resistenza  d'una  histoire  latina 
o  altro  del  Castellano,  potrebbe  invece  ac- 


cennare senza  più  alle  biografie  prosaiche 
del  Cabestaing. —Ammette poi  il  nostro  A. 
che  il  biografo  primitivo  del  Cabestaing  po- 
leese  scrivere  sotto  l'influenza  e  la  remini- 
scenza del  fatto  ricordato  in  un  sirventese 
del  Mira  vai,  d'un  cavaliere  provenzale  sor- 
preso dal  marito  in  casa  propria  ed  ucciso 
sul  fatto  (1). 

Concludendo,  il  nostro  A.  si  mostra  in- 
chinevole col  Groeber  a  riconoscere  il  tro- 
vatore Guglielmo  Cabestaing  in  quel  Gu- 
glielmo C.  ricordato  trai  combattenti  d'una 
battaglia  del  1212;  e  la  Sermonda  e  Rai- 
mondo di  Rossiglione  nei  due  personaggi 
omonimi  che  ricorrono  in  un  documento 
del  1210. 

Noi  ci  siamo  in  altri  tempi  occupati  della 
biografia  del  Cabestaing;  ma  non  essendoci 
riuscito  d'ottenere  risultati  sicuri  o  per  Io 
meno  altamente  probabili,  ci  siamo  astenuti 
dal  comunicare  al  pubblico  le  nostre  ricerche. 
Non  dispiacerà  forse  tuttavia  ai  lettori,  che 
indichiamo  brevemente  la  strada  per  la 
quale  ci  eravamo  messi:  questi  pochi  cenni 
serviranno  quasi  d'appendice  e  complemento 
al  buon  lavoro  del  signor  B. 

A  noi  era  parso,  dietro  il  cenno  del  Diei 
(L.  u.  W.  90),  che  la  parola  dell'enigma 
potesse  celarsi  nei  versi: 

E  ti  voletz  qn'en  vot  diga  sob  nam 
Jft  no  trobwets  aUs  de  eolom 
Oa  noi  troves  eeorig  tenes  lalenza  ; 

e  mentre  il  Mila  y  Fontanals  pensava  che  il 
poeta  avesse  voluto  indicare  nelle  ali  aperte 
d'una  colomba  un  M,  lettera  iniziale  di  Mar- 
gherita, noi  abbiamo  sospettato  che  il  se- 
greto, abbastanza  palese,  stesse  tutto  in 
queir«alas,  »  costituente  la  prima  parte  di 
Alasais,  nome  assai  comune  tra  le  dame 
di  Provenza.  E  lo  scorcio  francese  Alis  per- 
metterebbe inoltre  di  credere  che  anche  tra 


(1)  Ecco  i  versi  del  Miraval: 


Q'ii  Qr«tgnolok  ausi  contar 
AiHO  qa*ea  gron  «  relnlre, 
C*ua  cavallien  rene  dompnelar 
Ab  la  moUier  deN  Caatolnou; 
Uaa  lui  non  abelUo  palrc; 
Car  lai  iatret  asnea  oonrit 
Si  al  cap  ianiat  e  partiU 


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ROMAMJU,   N.^   4] 


BIBLIOGBAFIGA 


77 


i  Provenzali  Aìàs  fosse  uno  scorcio  familiare 
di  Alfisais;  nel  qual  caso  bisognerebbe  dire 
che  il  poeta  si  sarebbe  mostrato  d*una  in- 
gennità  quasi  eccessiva.  Natoci  il  sospetto 
che  Alas  fosse  il  nome  della  bella  amata 
dal  Cabestaing,  ci  siamo  dati  a  cercare  nel- 
VHist.gen,du  Xan^edoc  quel  la  tra  le  donne 
di  questo  nome  che  potesse  convenire  al  qua- 
dro della  biografìa  del  Cabestaing.  Le  no- 
stre ricerche  furono  principalmente  dirette 
alla  famiglia  dei  Trìncavelli,  cui  spettava 
la  viscontea  di  Bóziers;  e  ciò  per  la  buona 
ragione  che  il  nome  di  Qaucerando,  di  Mi- 
rone  e  di  Guglielmo  Cabestaing  appariscano 
parecchie  volte  in  documenti  riguardanti 
questa  cospicua  famiglia.  E  in  essa,  infatti, 
noi  trovammo  un  visconte  Raimondo,  ma- 
rito prima  di  una  Adelaide  (prov.  Alasais), 
vissuta  sin  verso  il  1150  circa,  e  poi  di  una 
contessa  Saura;  il  qual  Raimondo  ha  ter- 
minato la  vita  per  furore  di  popolo  nel  1167. 
S'aggiunge  che  Alfonso  li  (1162-1196)  d'Ara- 
gona ajutava  il  figlio  di  lui,  Rogero,  a  vendi- 
carne la  morte  (1).  Qui  dunque  noi  avremmo 
una  moglie  Saura  y  la  cui  storica  remini- 
scenza si  potrebbe  vedere  nella  Sorismonda 
del  gruppo  più  antico  delle  biografie;  e  a- 
vremmo  insieme  il  nome  vero  della  donna 
amata  da  Guglielmo,  Adelaide.  Combina 
egregiamente  anche  il  nome  di  Raimondo, 
attestato,  oltrecché  dalle  biografìe,  anche 
dalle  canxoni  del  C;  e  combina  insieme  la 
morte  violenta  di  Raimondo,  e  T  intervento, 
sia  pure  con  altre  ed  opposte  circostanze, 
del  re  di  Aragona,  vendicatore  del  dritto. 
Discorda  il  fatto,  che  Raimondo  non  era 
conte  di  Rossiglione,  né  padrone  del  ca- 
stello di  questo  nome,  circostanza  eh'  è  nelle 
biografie  più  antiche;  ma  questa  difficoltà 
svanisce,  quando  si  consideri  che  il  figlio  di 


Raimondo,  Rogero,  portò  il  titolo  di  conte 
di  Rossiglione,  quale  erede  più  stretto  di 
Gerardo  o  Guinardo,  ultimo  titolare  indipen- 
dente di  quella  contea  (2).  E  potè  anche 
darsi  che  il  titolo  di  Conte  di  Rossiglione 
fosse  dato  dai  biografi  del  Cabestaing  a  Rai- 
mondo, solo  per  ciò  che  sapessero  essere  il 
paesello  di  Cabestaing  nel  Rossiglione,  e 
cercassero  cosi  di  ravvicinare  anche  geogra- 
ficamente, ciò  che  era  storicamente  vicino. 

Ammessa  questa  ipotesi,  che  nulla  ci  sem- 
bra avere  in  se  né  di  contraddittorio  né  d'im- 
probabile, bisognerebbe  naturalmente  iden- 
tificare il  nostro  Guglielmo  C,  non  più  col 
soldato  del  1212,  ma  bensì  con  quell'altro 
che  apparisce  in  un  documento  del  1162  e 
forse  in  un  altro  nel  1153  (3). 

Ma  se  questi  era  il  poeta,  al  quale  non 
consta  afiatto  sia  accaduto  il  tragico  fatto 
delle  biografìe  ;  come  è  che  a  lui  quel  fatto 
venisse  attribuito?  Dopo  lo  studio  del  si- 
gnor B.,  la  questione  è  di  molto  chiarita. 
Noi  ammettiamo  ben  volentieri  che  i  motivi 
impellenti  sieno  stati  per  buona  parte  quelli 
da  lui  addotti  e  che  noi  abbiamo  riferiti; 
non  siamo  tuttavia  con  lui  nello  spiegare  il 
modo  in  cui  l'attribuzione  avrebbe  avuto 
luogo. 

Noi  crediamo  ora,  come  credevamo  prima 
dì  conoscere  lo  studio  del  B.,  che  il  nucleo 
storico  primitivo  della  storia  di  Guglielmo  C. 
sia  da  ricercare  nel  fatto  del  cavalier  pro- 
venzale, ricordatoci  dal  Miraval.  Disgra- 
ziatamente il  Miraval  non  ci  dice  né  il  nome 
del  cavaliere  né  quello  della  donna  :  solo 
scrive  che  il  pronto  vindice  del  proprio  onore 
fu  il  signor  di  Castelnou.  Ora  si  noti  che 
c'è  nel  Rossiglione  un  Castelnou,  come  ce 
n'  é  uno  in  Provenza,  dove  questo  fatto  è  av- 
venuto; e  che  c'è  in  Provenza  un  Cabestaing, 


(1)  Ci  duole  di  non  poter  indicare  i  singoli  luoghi  dell'  Eiat  gen,  du  Long,  ove  stanno  queste 
notizie.  C'è  andato  smarrito  un  libretto  di  appunti  su  questa  materia;  né  in  Padova  è  possibile  tro- 
vare un  esemplare  dell'opera  preziosa. 

(2)  Queato  Gerardo,  trascurando  11  suo  congiunto,  nominò  erede  Alfonso  II  d'Aragona,  che  nel 
luglio  del  11T9  s'afErettò  ad  occupare  laconica,  mentre  fino  dal  1172  aveva  asennto  il  titolo  di  conte 
di  B.  Ofr.  Hisi,  gen,  d.  Long,  m,  30-1,  e  G.  Zubxta  ,  àhoìm  d$  la  corona  d'Aragon,  { Sarago^  1610  )  tom.  I, 
pag.  M.»» 

(3)  6.  de  Capite-Stagno,  in  una  carta  del  1153;  v.  Siat.  gm,  du  Long,  n,  648,  prenves.  Ha  quel  G. 
potrebbe  indicare  anche  Gancerandus,  che  figura  io  parecchi  documenti  di  quel  secolo,  e  sembra  es- 
sere stato  il  capo  della  famigli»  dei  Cabestaing. 


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78 


EASSEGNA 


[OIORNALK  DI   PILOLOOTA 


come  c'è  nel  Rossiglione  il  Cabestaing,  pa- 
tria di  Onglielmo  o  della  sua  famiglia;  e  che 
c*è  finalmente  un  Castel-Rossiglione  tanto 
nella  Provenza  quanto  nella  contea  di  Ros- 
siglione (1):  cosicché  si  rendeva  abbastan- 
za facile  lo  scambio;  e  le  fantasie  popolari 
doveano  tendere  ad  attribuire  il  celebre  fatto 
piuttosto  al  trovatore  ben  noto  per  l'ar- 
dore amoroso  che  ne  ispirava  le  canzoni, 
che  non  all'ignoto  ed  anonimo  cavaliere  di 
Provenza. 

Ma  c'è  forse  qualche  prova  più  positiva 
per  stabilire  che  il  fatto  del  cavaliere  pro- 
venzale fu  attribuito  al  trovatore  rossi- 
glionese. 

Quella  specie  di  proto-biografia  del  Cab., 
che  il  signor  B.  ha  saputo  ricavare  dal  raf- 
fronto di  tutte,  dice  già:  Q.  d.  C.  si  fo  us 
eavcUiers  de  Vencontrada  de  Rossilhon, 
que  confinava  con  Cataloigna  e  con  Nar^ 

bones;  e  più  innanzi:  G.  d.  C. cantava 

de  lieis  e  n  fazia  sas  cansons.  Vale  a  dire, 
che  il  C.  delle  biografie  superstiti  è  già  ros- 
glionese  e  trovatore.  Ma  v*è  qualche  mo- 
tivo per  credere  che  sia  esistita  una  più  an- 
tica redazione,  in  cui  l'attore  principale  o 
era  anonimo  o  si  chiamava  soltanto  Gu- 
glielmo, non  era  poeta,  e  incontrava  lami- 
sera  fine  non  già  nel  Rossiglione,  ma  in 
Provenza.  Una  biografia  di  tal  fatta  deve 
essere  stata  letta  dal  Boccaccio,  che  ne  ri- 
cavò la  39*  novella  dei  Decamerone.  Si  po- 
trebbe opporre,  infatti,  che  il  Boccaccio  di 
suo  capo  avesse  trasferito  la  scena  dell'azio- 
ne in  paese  più  noto,  per  riuscire  a  meglio 
interessare;  ma  non  si  saprebbe  vedere  un 
motivo  al  mondo  per  il  quale  egli,  poeta, 
avrebbe  dovuto  tacere  la  circostanza  che 
Guglielmo  era  poeta.  Certamente  poi  non 
dovè  contenere  l'esemplare  del  Boccaccio  la 
storiella  di  re  Alfonso  vindice  dei  due  infe- 
lici amanti  :  storiella  che  troppo  sarebbe 
piaciuta  a  Messer  Giovanni,  e  che  ben  cor- 
rispondeva allo  spirito  delle  brigate  per  le 
quali  egli  scrìveva. 

È  poi  noto  che  il  Papon,  Hist.  de  Prov. 
II,  261,  cita  il  ms.  2348  della  biblioteca  chi- 


giana,  secondo  il  quale  il  caso  di  Guglielmo 
C.  sarebbe  avvenuto  in  Provenza.  La  pub- 
blicazione del  ms.  2348,  integrato  colla  co- 
pia riccardiana  C2) ,  ha  mostrato  che  l'alle- 
gazione del  Papon  non  ha  fondamento:  quel 
ms.  non  contiene  alcuna  biografia  di  G.  d. 
C.  Ma  il  Papon,  d'altra  parte,  non  può  es- 
sere sospettato  d' un'allegazione  falsa;  e  re- 
sta sempre  il  ragionevole  sospetto  ch'egli 
avesse  in  mente  una  biografia  di  codice  di- 
verso, ora  perduto,  forse  quella  stessa  che 
il  Boccaccio  allegava  col  s^io  «  Raccontano 
i  Provenzali.  » 

Ammessa  l'esistenza  di  questa  antica  bio- 
grafia, in  cui  si  trattava  ancora  di  Gugliel- 
mo provenzale,  non  poeta,  è  facile  vedere 
come  se  ne  svolgessero  poi  le  altre.  La  no- 
torietà del  poeta  fece  abbandonare  ben  pre- 
sto le  indicazioni  topografiche,  che  ormai 
apparivano  erronee;  mentre  la  redazione,  che 
facea  svolgere  il  fatto  nel  Rossiglione  pren- 
deva sempre  maggiore  sviluppo,  mediante  la 
più  o  meno  forzata  interpretazione  dei  versi 
di  Guglielmo. 

La  nostra  conclusione,  pertanto,  sarebbe 
questa:  Guglielmo  de  Cabestaing  è  fiorito 
verso  la  metà  del  secolo  XII,  ed  è  vissuto 
in  rapporti  di  devozione  e  d"*  amicizia  con 
Raimondo  Trincavello,  visconte  di  Beziers, 
e  in  rapporti  d* affetto  colla  moglie  di  lui 
Adelaide  (o  Saura).  A  questo  G.  de  Cab. 
è  stata  attribuita,  forse  verso  il  1250,  una 
storiella  in  parte  vera  e  in  parte  favolosa, 
che  si  contava  di  un  cavalier  provenzale. 
Vera  era  la  storia  della  morte  violenta  per 
opera  d'ofieso  marito;  favolosa  la  giunta 
del  cuore  del  drudo,  fatto  mangiare  alla 
moglie  infedele.  Questa  seconda  parte  della 
narrazione  proveniva  dal  romanzo  del  Ca- 
stellano di  Coucy,  come  fonte  diretta;  e  da 
una  serie  di  storie  popolari  che  per  tutta 
Europa  si  erano  svolte  sullo  stesso  motivo, 
quali  fonti  indirette. 

Così  gli  storici  dovrebbero  ormai  cessare 
di  addurre  come  documento  dei  costumi  me- 
dievali lo  storia  di  Guglielmo  Cabestaing; 
potendo  addurla  pur  sempre  a  controprova 


(1)  Vedi:  Papoh,  HM.  de  Prov.  n,  261;  e  Dna,  l.  u,  W.  85. 

[3)  Die  prov.  BlwiunÌ49e  der  CfUgiana,  ed.  E.  Stemgel,  Marburg,  1878. 


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ROMANZA,  m.^  4] 


BIBLIOQBAFICA 


79 


del  pubblico  sentimento  di  quella  età  che  la 
elaborava  e  volentieri  la  sentiva  narrare. 

Facciamo  seguire  il  testo  della  biografia 
di  G.  d.  C,  contenuto  nel  ms.  ambrosiano 
D.  465  inf.,  f.  8  V.  11  signor  B.,  che  non  ha 
potato  vederlo,  ne  ha  però  sagacemente  in- 
dovinato i  rapporti  cogli  altri.  Questo  testo 
s*accorda  quasi  integralmente  con  quello 
del  ms.  K.;  solo  in  un  punto  se  ne  stacca 
per  accordarsi  con  A  B,  ma  probabilmente 
per  caso.  La  pubblicazione  del  testo  ambro- 
siano, di  cui  avemmo  copia  or  sono  parec- 
chi anni  per  cortesia  del  prefetto  di  quella 
biblioteca,  non  parrà  forse  del  tutto  inutile, 
essendo  ancora  inedito  K,  e  edito  in  libro 
abbastanza  raro  il  testo  di  I,  assai  vicino 
a  K. 

Guillems  de  capestaing  si  fo  uns  cauail- 
lers  de  lencontrada  de  rossiglon.  que  con- 
flnaua  cum  cataloingna.  e  con  Narbones. 
Molt  fo  auinenz  e  presatz  darmas  e  de  seruir 
e  de  cortesia,  et  aula  en  la  soa  encontrada 
una  domna  que  aula  nom  madomna  sere- 


monda.  moiUer  den  ramon  de  caste!  de  ros- 
sillon.  Quera  molt  rics  e  gentile  e  mais  e 
braus  e  fers  et  orgoillos.  E  Guillems  de 
capestaing  si  lamaua  la  domna  per  amor  e 
cantaua  delleis.  e  fazia  sas  chansos  della,  ella 
domna  quera  ioues  e  gentile  bella  e  plaisenz 
sii  uolia  be  maior  que  are  del  mon.  e  fon 
dit  a  raimon  del  castel  de  rossiglion.  et  el 
com  om  iratz  e  gelos.  enqueri  lo  fait.  E 
sap  que  uers  era.  e  fez  gardar  la  muiller  fort. 
e  quan  uenc  un  dia  R.  de  chastel  rossillon. 
troba  paissan  guillem  senes  gran  compai- 
gnia.  et  ausis  lo  e  trais  li  lo  cor  del  cors. 
e  fez  Io  portar  aunescuider  a  son  albero,  e 
fez  lo  raustir.  e  far  peurada.  e  fes  Io  dar  a 
maniar  a  la  muiller.  E  quant  la  dona  lac 
maniat  lo  cor  den  Guillem  de  capestaing. 
en  R.  li  dis  aque  el  fo  et  ella  quant  o  ausi 
perdet  Io  uezer  el  auzir.  Et  quant  ella 
reuenc  si  dis  seingner  ben  mauez  dat  si  bon 
maniar  que  iamais  non  maniarai  dautre.  e 
quant  el  anzi  so  qella  dis.  el  coret  a  sa  espaza 
e  uolc  li  dar  sus  la  testa  et  ella  sen  anet 
al  balcon  e  laisse  cazer  ios.  e  fon  morta. 

U.  A.  Gakello 


2.  Le  Opere  volgari  a  stampa  dei  secoli  XIII  e  XIV,  indicate  e  de- 
scritte dal  comm.  Francesco  Zambbini.  Quarta  edizione.  Bologna,  Za- 
nichelli, 1878.    Voi.  in  4.^  di  coli.  LVM172. 


Dire  i  pregi  di  questo  libro  che  in  pochi 
anni  ebbe  già  quattro  edizioni,  ci  pare  ornai 
opera  vana.  Chi  infatti,  tra  quanti  si  oc- 
cupano de' nostri  studj,  non  dovette  già  più 
volte  ricorrere  air  ultilissimo  volume,  non 
saggiò  la  copia  delle  sue  indicazioni  e  non 
si  sentì  compreso  da  gratitudine  verso  quel 
benemerito  che  tanti  anni  della  sua  nobile 
esistenza  spese  in  questa  bella  quanto  mo- 
desta fatica?  Il  Giornale  si  associa  di  gran 
cuore  alle  Iodi  che  il  fiore  della  stampa  ita- 
liana sinora  tributò  air  illustre  romagnuolo, 
ma  crede  di  potere  anche  in  altra  guisa  e 
meno  sterilmente  testimoniare  a  lui  il  vivo 
interessamento  che  ha  per  tale  sua  opera, 
e  ciò  meglio  si  parrà  dalle  pagine  che  se- 
guono. —  Chiunque  s'intenda  di  bibliografia, 
e  segnatamente  dell'italiana,  non  ha  biso- 


gno di  troppe  parole  per  esser  persuaso  che 
in  sifi'atti  lavori  è  impossibile  ad  un  solo  di 
toccare  la  perfezione,  anche  quando  si  pos- 
sieda la  vastissima  erudizione  dello  Zam- 
brini,  e  siano  state  spese  dattorno  all'opera 
tutte  quelle  diligenti  e  diuturne  cure  che  vi 
furono  spese  da  lui.  Basti  solo  il  pensare 
ai  tanti  incunaboli  che  in  esemplari  rarissimi 
e  talvolta  unici  restano  nascosti  in  una  od 
in  altra  biblioteca  che  non  fu  accessibile  al- 
l' autore.  Non  dee  dunque  recar  meraviglia 
se  anche  alla  quarta  edizione  della  biblio- 
grafia zambriniana  restino  tuttavia  da  farsi 
diverse  rettificazioni  ed  aggiunte,  e  quanti 
concorreranno  a  tale  incremento  per  la  parte 
dove  ne  avranno  l'occasione,  faranno  opera 
non  solo  utile  alla  scienza,  ma  ancora  —  ne 
siamo  certi  —  gradila  ed  accetta  a  quel  va- 


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80 


RASSEGNA 


[giornale  di  filologia 


lentuomo.  Con  tale  fiducia  promovemmo  ed 
ora  accogliamo  in  questi  fogli  la  contribu- 
2Ìone  che  qui  appresso  gli  viene  offerta,  e 
di  essa  il  Giornale  si  professa  debitore,  per 
una  parte,  al  prof.  A.  D'Ancona  che  vi  si 
accìnse  pregato  da  noi;  e  per  l'altra  parte 
ringrazia  il  sig.  E.  Molteni.  I  rispettivi  ar- 
ticoli sono  contraddistinti  dalle  sigle  D'A. 
o  M.;  si  richiamano,  colla  cifra  posta  in  prin- 
cipio, alle  colonne  della  edizione,  ed  offrono 
ora  semplici  aggiunte  di  opere  non  mento- 
vate nel  volume,  ora  schiarimenti  e  rettifi- 
cazioni d'indole  bibliografica  o  di  storia  let- 
teraria. E.  M. 

Col.  10.  Agostino,  Lorationi.  Il  titolo  di 
questa  stampa  potrebbe  forse  indurre  qualcu- 
no in  errore;  essa  non  contiene  alcuna  opera 
di  S.  Agostino  ma  bensì  una  preghiera  a 
lui  indirizzata,  che  non  so  se  possa  tenersi 
fattura  del  secolo  XIV;  consta  di  24  ottave 
ed  incomincia:  «  Allaude  honore  gloria  et  re- 
uerentia.  »  Airinfuori  di  questo,  il  resto  del 
contenuto  è  tutto  latino.  Di  queste  scritture, 
toltane  la  preghiera  di  S.  Gregorio,  trovasi 
pure  un'altra  stampa,  priva  d'ogni  indica- 
zione tipografica,  in  4.^  di  carte  4,  a  due 
colonne  di  linee  24  ciascuna.  11  titolo  è 
circondato  da  fregi,  fra  i  quali  al  basso  ve- 
donsi  le  lettere  /.  M.  intrecciate,  che  proba- 
bilmente sono  le  iniziali  del  nome  del  ti- 
pografo. M. 

C.  16.  Alberto  e  Leopoldo  doxi  de  Oste- 
richa,  Ordine  in  data  24  Novembre  i370 
ad  Enrico  Fuchmann  di  sospender  le  osti- 
lità dietro  la  pace  conchiusa  co*  Veneziani. 

Fu  edito  neWArcheografo  Triestino,  nuo- 
va serie,  voi.  I,  pag.  309,  per  cura  di  T.  But- 
TAZZONi,non  6uffazzoni,com6  per  errore  tro- 
vasi a  col.  962.  M. 

C.31.  Annibale  (Messere).  IICrescimbbni 
è  il  solo  che  faccia  menzione  di  questo  poeta, 
e  dice  ch'egli  a  per  quanto  sì  può  conoscere 
appartiene  al  secolo  XIV  »,  Certo,  a  que- 
st' epoca  spetta  il  sonetto  pubblicato  col  di 
lui  nome,  che  nel  codice  Laurenziano-Re- 
diano  151  trovasi  attribuito  a  Niccolò  Sol- 
danìeri,  e  che  fu  pubblicato  pure  dal  Truc- 
chi, voi.  II,  pag.  253,  col  nome  di  Federigo 
di  M.  Gerì  d'Arezzo;  ma  Messer  Annibale 
come  poeta  apppartiene  alla  storia  letteraria 
di  dne  secoli  appresso,  e  T'occupa  un  posto 


notevole.  Il  Crescimbeni  stesso  ci  mostra 
come  sorgesse  questo  curioso  abbaglio.  Egli 
trasse  la  poesia  dal  codice  Cbigiano  ora  se- 
gnato L.  IV,  131;  non  avendo  essa  alcuna 
indicazione  d'autore,  egli  ne  diede  la  pater- 
nità all'autore  che  nel  codice  era  ricordato 
precedentemente,  ma  non  avvertì  che  la  poe- 
sia che  ne  portava  il  nome,  e  per  la  forma 
e  per  il  pensiero  non  poteva  certo  apparte- 
nere al  secolo  XIV,  e  già  trovavasi  a  stampa 
fra  le  rime  del  Caro,  Venezia,  Aldo,  1569, 
pag.  11.  M. 

C.33.  Antonio  Buffone.  Questo  poeta  cre- 
do che  possa  più  giustamente  annoverarsi  fra 
i  quattrocentisti ,  poiché  in  alcuni  manoscritti 
trovansi  alcuni  suoi  sonetti  indirizzati  al  Bur- 
chiello. Il  Mignanti  e  il  Trucchi  lo  credet- 
tero una  stessa  persona  che  Antonio  di  Mat- 
teo da  Meglio,  del  quale  ci  restano  poesie 
fatte  ai  tempi  di  Eugenio  IV  e  Lorenzo  de' Me- 
dici ,  e  a  cui  si  trovano  dati  i  titoli  dì  refe- 
rendario, cavaliere  e  araldo  della  Signoria 
di  Firenze:  nomi  diversi  ma  che  esprimono 
un  ofiScio  non  molto  dissimile  da  quello  del 
buffone  che  la  Signoria  teneva  a  suoi  sti- 
pendi. M. 

C.  35.  Antonio  Medico.  Le  poesie  pub- 
blicate dall'ALiJica  sotto  questo  nome  tro- 
vansi in  diversi  mss.  sotto  il  nome  di  Maestro 
Antonio  da  Ferrara,  il  quale  infatti  fu  medico, 
come  lo  dice  e  il  titolo  dì  Maestro  e  l'in- 
scrizione posta  sul  suo  sepolcro,  riferita  dal 
Ba RUFFALDI  nella  Biblioteca  degli  scrittori 
ferraresi.  M. 

C.  46.  Atto  di  accusa  presentato  nel 
1353  alla  Signoria  di  Venezia  dai  citta- 
dini di  Pola  contro  Niccolò  Zeno.  Fu  pub- 
blicato per  cura  dì  T.  Luciani  nel  tomo  XI 
déìVArchivio  veneto.  M. 

C.  52.  Bandino  d'Arezzo.  Lo  Zambrini 
nell'accennare  come  le  poesie  pubblicate  col 
nome  di  questo  poeta  in  altre  edizioni  si  tro- 
vino pure  attribuite  a  Bandino  Padovano, 
pare  inclini  a  credere  che  essi  sieno,  come 
già  fu  supposto  da  altri,  una  stessa  persona. 
Per  toglier  di  mezzo  questa  concisione  pro- 
dottasi nelle  stampe  non  v'ha  altro  modo  che 
il  rintracciare  le  fonti  a  cui  furono  attinte  le 
diverse  poesie  pubblicate  sotto  questi  nomi. 

L'Allacci  Ai  il  primo  a  dar  f^ri  i  doe 
sonetti  che  incominciano.  «  Dipo  1  cantàgSo 
ti  dimando  aiuto»,  «  Di  mia  dimanda  però 


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ROMANZA   N.**   4] 


BIBLIOGRAFICA 


SI 


noD  mi  mudo;  »  traendo]!  dal  codice  Bar- 
berino XLV,  130.  Trovandoli  attribuiti  ad 
un  Bandìno,  egli  credè,  non  conoscendo  altro 
poeta  dì  questo  nome ,  che  fosse  il  Bandino 
Padovano  menzionato  da  Dante  ;  ma  la  sup- 
posizione non  ha  alcun  fondamento,  poiché 
r  Allacci  stesso  pubblicò,  senza  però  avver- 
tirlo ,  le  risposte  fatte  a  quei  sonetti  da  Gillio 
Lelli  poeta  perugino  del  secolo  XIV,  e  quindi 
r  autore  di  essi  non  può  essere  anteriore  a 
Dante.  Resta  ora  solo  in  questione  il  so- 
netto che  incomincia  «  Leal  Guìttone  nome 
non  verteri  »  pubblicato  per  la  prima  volta 
nei  Poeti  del  primo  secolo  col  nome  di  Ban- 
dino Padovano,  mentre  poi  nella  Raccolta 
di  rime  antiche  toscane  fu  attribuito,  del 
pari  che  gli  altri  due  sonetti,  a  Bandino 
d*  Arezzo.  Il  codice  da  cui  certamente  fu 
tratto  questo  sonetto  é  il  Laurenziano-Re- 
diano  9,  ma  in  esso  1*  autore  è  detto  sola- 
mente Maestro  Bandino;  la  determinazione 
della  sua  patria  poggia  solo  su  delle  suppo- 
sizioni. Il  Redi  fu  il  primo,  nelle  sue  An- 
notai ioni  al  Bacco  in  Toscana,  a  dirlo 
aretino,  ma  per  nessun  altra  cagione  che 
per  vederlo  in  corrispondenza  con  Guittone. 
Nulla  s'oppone  a  credere  ch'egli  potesse  esser 
padovano,  ma  anche  questa  non  è  che  una 
supposizione,  e  tra  le  due  non  so  quale  possa 
tenersi  più  probabile.  M. 

G.  54.  Barberino  (da)  Francesco.  Do- 
ctanenti  d'Amare  di  Francesco  da  Barbe- 
rino: Documento  IV  sotto  Prudenza:  De' 
pericoli  di  mare  et  insegnasi  come  si 
ponno  in  parte  schivare.  Art.  del  Contram- 
miraglio L.  Fincati  estr.  dalla  Rivista 
Marittima,  fase,  di  Febbraio,  1878,  Roma, 
Barbèra.  D' A. 

Altre  poesie  del  Barberino  furono  pub- 
blicate per  la  prima  volta  dairilBALDiNi  in 
appendice  alla  sua  edizione  dei  Documenti 
d'Amore.  M. 

C.  55.  Bartolomeo  da  Castel  della  Pie- 
ve. Vedi  anche  in  Poesie  Minori  del  see.  XIV 
una  sua  canzone  che  incomincia  <  D'amoroso 
conforto  il  mio  cor  vive  »  che  trovasi  pure 
attribuita  a  Fazio  degli  Uberti.  M. 

C.  56.  Battaglia  {La)  di  Monteaperto.  Sul 
modo  come  fu  stampato  questo  testo  è  da 
vedere  ciò  che  scrivemmo  nella  Rivista  di 
filologia  romanza^  I,  203,  indicando  anche 
la  maniera  come  sanare  le  pretese  lacune 


trovatevi  dall'editore,  e  la  relazione  in  che 
sta  questo  testo  colle  Cronache  di  Niccolò 
Ventura  edite  dal  Porri  nel  1844.      D'A. 

C.  57.  Bbncivenni;  invece  di  iiòne  leggi 
Livre.  Cosi  anche  alla  col.  275,  lin.  16,  invece 
di  Gardini  leggi  Pardini.  Medesimamente 
a  col.  442  leggi  GargioUi  invece  di  6f arpioni. 
Avverti  che  qua  e  là  invece  di  adespoti  è 
stampato  adesposti:  e  che  spesso  l'opera: 
I  primi  due  secoli  della  Letteratura  Itor 
liana  del  Bartoli  è  segnata  come  Storia 
letteraria  d* Italia  di  P.  Villari.       D' A. 

C.  59.  Benvenuto  da  Imola,  Il  Romuleo, 
Per  inavvertenza, dopo  aver  datola  descrizio- 
ne della  stampa  procuratane  dal  Guatteri 
nel  1867,  in  fondo  all'artic.  è  stato  conservato 
un  brano  di  quello  ^he  trovavasi,  ed  era 
appropriato,  nell'edizione  della  presente  bi- 
bliografia fatta  nel  1866;  cioè:  «L'intera  edi- 
zione del  Romuleo  si  sta  ora  allestendo  da 
un  socio  della  Commissione,  anzi  a  quest'ora 
si  sono  già  impresse  le  prime  64  pag,  »  Av- 
vertiamo la  cosa,  perché  altri  non  cada  in 
errore,  e  non  si  producano  equivoci.  D'A. 

C.  74.  Bernardo  (S.)  Lo  Zambrini  ritenne 
il  Volgarizzamento  de*  Sermoni  sopra  le 
solennità  di  tutto  Vanno  lavoro  del  secolo 
XV  ;  ma  il  P.  Antonio  Angelini  in  una  Let- 
tera a  Salvatore  Betti  riportata  negli  Opu- 
scoli Religiosi  Letterari  e  Morali,  t.  IV, 
fase.  11  <1858),  dice  che  d'esso  volgarizza- 
mento se  ne  conservava  un  codice  nella  Bi- 
blioteca del  Collegio  Romano  alla  fine  del 
quale  leggevasi  questa  nota:  «  Hoc  opus 
scriptum  est  per  me  Honofrium  filium  lo- 
hannis  de  Luca  mensis  februarii  die  tertio 
MCCCC  »  e  quindi  autore  di  esso  non  può 
essere  il  B.  0io.  da  Tossignano.  Fino  a  che 
non  si  potrà  determinare  con  maggior  fon- 
damento a  chi  o  a  quale  epoca  debba  attri- 
buirsi, credo  necessario  il  riportare  le  di- 
verse stampe  conosciute  oltre  a  quella  già 
ricordata  dal  P.  Ansehno  di  S.  Luigi  :  Ser- 
moni volgari  del  divoto  doctore  sancto  Ber- 
nardo sopra  le  solennità  di  tutto  V  anno. 
Alla  fine:  «  Stampato  in  Venetia  ad  istan- 
tia  de  li  frati  Besuati  di  S.  Hieronimo 
MDXXIIL  »  In  £ 

Sermoni  ecc.   Alla  fine  «  Stampato  in 

Venetia  del  UDXXVIIL^  Il  Fontanini  cita 

pure  una  edizione  di  «  Venetia  ài  tegno  deìla 

Speranza  iSS8  »  ma  il  Paltoni  crede  trattisi 

6 


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82 


EASSEGNA 


[gIOBNALE  m  FILOLOGIA 


d*un  equivoco  coi  Sermoni  a  una  sua  so- 
rella, che  veramente  furono  pubblicati  nello 
stesso  luogo  ed  anno.  ÌL 

C.  189.  Bonaventura  (San).  NellMndica- 
zione  della  edizione  deììeMeditationi  fatta  in 
Venezia  nel  1487  devesi  correggere  il  nome 
del  tipografo  de  Goncti  in  di  Sancti,  Alle 
edizioni  conosciute  s*  aggiunga  questa  di  cui 
non  posso  riferire  il  titolo,  perché  T esem- 
plare esaminatone  (Casan.  0.  VII,  29)  é 
mancante  d*  alcune  carte.  In  4<*,  di  carte  34, 
di  linee  39,  con  registro  da  a  ad  e,  qua- 
derni i  primi  due,  trierni  gli  altri;  alla  fine 
porta  la  nota  «  Venetia  per  Matheo  di  co 
de  cha  da  Par  |  ma  del  MCCCCLXXXIX 
adi  XXVII de  Februario,  »  e  sotto  ad  essa 
r  insegna  del  tipografo.  M. 

G.  195.  BoNicHi  BiNDo.  Una  canzone  e  un 
sonetto  fnron  pure  pubblicati  dal  Sabtescri, 
vedi  in  Poesie  Minori,  M. 

C.  200.  Bracci  Braccio.  Due  canzoni,  sette 
sonetti  e  due  composizioni  in  quadernari  fu- 
rono pubblicate  dal  Sabtbschi;  vedi  in  Poe- 
eie  Minori  del  secolo  XIV.  M. 

C.  204.  Breve  di  Villa  di  Chiesa,  È  detto 
che  fa  parte  deìÌA  Collezione  di  Storia  Patria 
della  Provincia  di  Torino,  Per  esattezza 
e  per  non  far  confusione  cogli  Atti  della 
Società  di  Archeologia  e  Belle  Arti  della 
Provincia  di  Torino,  dicasi  Historiae  Pa- 
triae  Monumenta,  Adesso  è  già  uscito  a 
luce,  e  forma  parte  del  voi.  XVII  dei  Mo- 
numenta, V.  in  proposito  Archivio  Stor, 
Ital.  serie  IV,  t.  2,  disp.  IV  del  1878  (106 
della  Collezione)  pag.  138.  D*A. 

C.  204.  Brigida  (Santa).  D'una  delle  ri- 
velazioni di  questa  santa  trovasi  un*  antica 
stampa  (Casan.  0.  II,  87)  in  8<*,  di  carte  8, 
di  linee  24  in  carattere  semigotico,  che 
porta  sul  frontespizio  questo  titolo  «  Prophe^ 
tia  di  sancta  Brigida  »,  e  sotto  ad  esso  un 
intaglio  che  rappresenta  la  santa  in  ora- 
zione al  Crocifisso  ;  in  una  fascia  leggesi  il 
nome  di  Roma,  che  indica  il  luogo  dove  fu 
fatta  la  stampa.  La  composizione  è  in  versi 
e  incomincia  «  Destati  o  fier  Itone  al  meo 
gran  grido*;  e  appartiene  certamente  al 
secolo  XIV,  poiché  ci  è  conservata  in  diversi 
manoscritti  antichi.  M. 

C.  205.  Brunellbsco  Ghigo  di  Ottaviano. 
Il  Crbscimbbni  riferisce  come  saggio  delle 
poesie  di  questo  autore  le  tre  prime  ottave  d*un 


poemetto  intitolato  il  Geta  e  il  Birria^  che 
non  è  altro  che  una  versione  d*un  antico 
poemetto  latino  d*egual  titolo.  Ma  il  poemet- 
to non  che  appartenere  al  secolo  XIII,  come 
opina  il  Crescimbeni,  credo  non  si  debba 
neppure  annoverare  fra  le  produzioni  del 
trecento  ;  poiché,  come  avvertirono  il  Guasti 
nella  Bibliografia  Pratese,  Prato,  1844, 
pag.  94,  e  il  Tbucchi,  voi.  II ,  pag.  238,  alia 
compilazione  di  esso  v'ebbe  mano  M.  Do- 
menico da  Prato  che  visse  in  sul  principio 
del  quattrocento.  M. 

C.  206.  Buzzuola  Tommaso  da  Faenza. 
Che  il  faentino  Tommaso  debba  chiamarsi 
Buzzuola  o  Bucciola  molti  affermarono  :  ma 
lo  nega  il  Giuluni  appoggiandosi  al  Zan- 
NONi,  Literat,  faventinor,  V.  Opere  latine 
di  D.  voi.  I,  p.  137.  Firenze,  1878.    D'A, 

C.  212.  Cantare  (II)  dei  Cantari  e  il 
Serventese  del  Maestro  di  tutte  Varti,  pub- 
blicato con  una  bella  illustrazione  del  Rajna 
nella  Zeitschrift  del  Gbóbbb,  II,  220-254, 
419-327.  M. 

C.  216.  Canzone  {Una)  d'Amore.  Il  co- 
dice da  cui  fu  tratta  questa  composizione  è 
quello  stesso  di  cui  a  col.  219;  essa  era  già 
stata  anteriormente  pubblicata  dal  Ciampi 
sotto  il  nome  di  Cino  da  Pistoia  e  fu  ripro- 
dotta nella  Raccolta  Palermitana  e  nella 
recentissima  edizione  delle  Rime  di  Cino, 
Pistoia  1878,  a  pag.  395.  Bl 

C.  216.  Cantone  Cavalleresca.  Fu  pubbli- 
cata dal  Prof.  Rajna  nella  Zeitschrift  fikr 
romanische  Philologie,  I,  381  e  s.  (Intorno 
a  due  canzoni  gemelle  di  materia  caval- 
leresca), mostrandone  i  rapporti  con  una 
Canzone  del  Pucci  già  pubblicata  dal  Car- 
ducci e  dal  Wesselofsky.  Incomincia  «  Al 
tenpo  de  la  Tavola  Ritonda.  »  M. 

C.  216.  Canzone  volgare  del  secolo  XI.  Sa- 
rebbe stato  meglio  riferirla  sotto  il  nome  dì 
Ritmo  Cassinese,  ch'è  la  denominazione  con 
che  è  più  conosciuta.  Dopo  che  dal  Federici, 
fu  ristampata  dal  Grossi,  Scuola  e  Biblioteca 
di  Montecassino  (Nap.  1821)  p.  202,  e  dal 
Caravita,  /  codici  e  le  arti  a  AT.  C,  Tipi 
della  Badia,  1870,  voi.  II,  p.  59.  Su  que- 
st*  argomento  deir  autenticità  ed  antichità 
del  Ritmo,  vedi  Lettera  del  Prof.  A.  D'An- 
cona a  F.  Zambrini  nel  Propugnatore,  VII, 
p.  II,  pag.  394.  Mancano  poi  in  questa  Bi- 
bliografia le  due  seguenti  pubblicazioni  di 


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kOHAHZA ,  K.*'  4] 


BIBLIOGBABICA 


m 


Capitale  importanza  pel  Ritmo  Cassinese: 
R  Ritmo  Italiano  di  Montecassino  del 
èecolo  decimo,  Studi  di  Antonio  Rocchi, 
m^maco  hasiliano  della  Badia  di  Grotta 
Ferrata,  Tipogr.  dì  M.  C,  1875,  (con  fac- 
dmile  cromoiitografico)  ;  Il  Ritmo  Cassi" 
nese  di  nuovo  pubblicato  da  I.  Giorgi  e 
t>.  Navone,  Roma,  Loescher,  1875  (con  facs. 
tfom.)  Estr.  dalla  Riv.  di  fil.  romanza, 
n,  fase.  2.  Ottimo  è  quest*  ultimo  lavoro, 
quanto  cervellotico  Taltro.  Aggiungi  :  Bobh- 
MBR  Eduard,  Ritmo  Cassinese,  in  Roma^ 
fiische8tudien,m,  p.l4S  (HeflX)  Strass- 
burg,  1878.  D'A. 

C.  217.  Canzone  d'anonimo  in  figura  di 
^nna  che  lamenta  la  partenza  del  marito 
nlla  crociata.  É  una  stessa  cosa  col  Lamento 
per  la  lontananza  di  un  marito  passato 
tuia  Crociata  in  Oriente,  notato  alla  col.  532. 
Avvertasi  che  fu  riprodotta  anche  nel  Car- 
bncci.  Cantilene  ecc.  p.  22.  D'A. 

€.218.  Dallo  stesso  Codice  laurenz.  che 
Contiene  la  Canzone  popolare  di  Lisabetta, 
LioNARDO  Vigo  trasse  fuori  ed  inseri  nelle 
Kuove  Effemeridi  Siciliane ,  .11 ,  pag.  330, 
tin* altra  Canzone  popolare  che  comincia: 
«  Bella,  ch'ai  lo  viso  chiaro  ».  Il  Prati,  da  lui 
interrogato,  «  e  che  sta  come  sole  su  tutti 
i  linguai,  la  giudicò  del  1100»;  ma  il  Vigo 
più  discreto  sì  contenta  di  tenerla  coeva  o 
tìi  poco  posteriore  a  quella  di  Giulio  d' Ai- 
tiamo. Quanto  a  noi,  per  più  ragioni  la  di- 
l^mmo  della  seconda  metà  del  300.    D'A. 

C.  223.  Capitoli  della  confraternita  di  S. 
^aria  Recommandata  de  la  Pescara  de  Ma^ 
fo/une.Trovansi  riportati  da  pag. 340-344  fra 
1  Documenti  in  appendice  alla  Storia  di  Ga^ 
lazia  Campana  e  di  Maddaloni  di  GiA- 
biNTo  Db  Sivo.  Napoli,  185^1865.  Sulla 
t)ergamena  originale  era  stata  aggiunta  la 
data  del  1150;  la  scrittura  però  sembra  es- 
sere del  secolo  Xni.  M. 

C.  227.  Carte  (due)  inedite  in  lingua  sar- 
3a  dei  see.  XI  e  XIII,  Il  compilatore  dice 
non  aver  veduta  la  tiratura  a  parte  di  que- 
8t' opuscolo  dall' .4rc^.  Stor.  Gioverà  al- 
taleno sapere  che  queste  carte  furono  stam- 
pate dai  Sig.*  Leopoldo  Tanfani,  archivista 
a  Pisa,  neWArch,  Stor,  Ital.  Ser.  3,  t.  XIII, 
p.  357  (a.  1871). 

Un  Documento  in  dialetto  sardo  dell*  an- 
no 1173  fu  pubblicato  di  sulP originale  dal 


prof.  Edm.  Stengbl  nella  Riv,  di  fiM, 
rom,  I,  52,  (1872),  e  già  anche  prima,  ma 
assai  scorrettamente,  era  stato  stampato  dal 
Tronci  nelle  sue  Memorie  istoriche  della 
città  di  Pisa,  a  pag.  173  della  1»  ediz.  (  Li- 
vorno, 1682,  onde  fu  riprodotto  nel  Codecs 
Diplom,  Sard.  I,  243)  «  a  pag.  348,  voi.  I, 
della  2*  ediz.  (Pisa,  1868).  D'A. 

C.  228.  Carta  di  tregua  d  un  anno  fra 
vari  potenti  signori  occupatori  di  varie 
città,  terre  e  castelli  della  Marca  ed  alcune 
Comunità.  Porta  la  data  del  9  Novem.  1393. 
Trovasi  a  pag.  CXLVIII  della  Appendice 
diplomatica  alle  memorie  storiche  di  Ri- 
patransone,  che  fu  inserita  dal  Colucci  nelle 
sue  Antichità  Picene,  tomo  XVIII,  Fer- 
mo, 1792.  M. 

C.  230.  Cassiamo  Giovanni,  Serventese. 
Perugia,  Vagnini,  1852,  in  8*^  di  pagg.  i4. 
Fu  tratto  da  un  codice  della  Biblioteca  Do- 
minicini  di  Perugia  e  pubblicato  in  occasione 
di  vestizione,  ma  non  appare  da  chi.  É 
la  stessa  composizione  di  cui  a  col.  935: 
Serventese  del  secolo  XIV,  M. 

C.  232.  Castra.  Aggiungasi  che  adesso  la 
canzone  che  Dante  dice  esser  stata  composta 
dal  Castra  fiorentino,  e  che  il  Cod.  Vatic. 
attribuisce  a  Messer  Osmanno,  trovasi  nel 
l**  voi.  delle  Antiche  Rime  volgari  sec,  la 
lezione  del  Cod,  Vat.  3793,  pag.  484.  Ivi 
si  tocca  della  congettura  del  prof.  Grion, 
menzionata  in  proposito  dallo  Zambrini. 
Vedi  altra  congettura  su  questo  Osmanno 
in  Borgognoni,  Studi  d* erudizione  e  d'arte, 
voi.  II,  190.  D'A. 

C.250.  Cavalca  Domenico  (Fra).  Del 
Pungilingua  sono  indicate  due  diverse  edi- 
zioni fatte  in  Firenze  nel  1490,  V  una  da  Ser 
Lorenzo  di  Matto  e  Gio.  di  Piero  Todesco, 
r  altra  da  Ser  Lorenzo  Cherico;  ma  chi  ne 
diede  notizia  incorse  in  errore,  poiché  non 
si  tratta  che  d*una  stessa  stampa  nella  se- 
gnatura tipografica  della  quale  trovasi  in- 
sieme al  nome  di  Gio.  di  Piero  quello  di 
Ser  Lorenzo  di  Mattio  Cherico,  che  nelle 
edizioni  posteriori  si  chiamò  più  brevemente 
Lorenzo  Morgiani.  Non  sarebbe  corso  un 
altro  errore  consimile  nella  indicazione  delle 
due  edizioni  fiorentine  del  1493?  Noto,  seb- 
bene poco  importi  al  nostro  argomento,  che 
il  G.  C.  Bottone  al  quale  dobbiamo  le  no- 
tizie più  accurate  sulle  diverse  stampe  delle 


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Si 


BASSEGNA 


[OIORKALE  DI  FILOLOGA 


opere  del  Cavalca,  non  è  altrì  che  TAudif- 
fredi  che,  non  so  per  qual  ragione,  volle 
celarsi  sotto  questo  pseudonimo.  M. 

C.  261.  Cavalcanti  Ouroo.  Il  Mamiani  ò 
senza  dubbio  autore  del  Liuto,  ch*egli  volle 
dare  come  cosa  del  poeta  fiorentino,  leggia- 
dramente imitandone  la  forma  specialmente 
poetica.  D'A. 

C.  262.  Cecco  d'Ascoli.  Aggiungi  alla  in- 
dicazione del  lavoro  postumo  del  mio  povero 
Frizzi,  anche  quest'altra:  Spalazzi  Prof. 
GtiovaNnt:  Cecco  d'Ascoli,  quadro  storico 
délsig.  Giulio  Cantalamessa ,  Ascoli  Pice- 
no, Carli,  1876.  D'A. 

C.  263.  Cedola  secondo  vuole  essere  facta 
la  rocca  de  Castello  de  la  Pieve, 

Questa  scrittura  fu  pubblicata  nel  Gior- 
nale d' Erudi 3 ione  Artistica  1873  pag.  68-9 
dal  Prof.  Adamo  Robsi,  e  contiene  le  istru- 
zioni date  dai  magistrati  di  Perugia  in  data 
del  28  Ottobre  1326  agli  artefici  che  atten- 
devano a  quella  costruzione.  M- 

C.267.  Il  Giulio  Antimaco,  editore  no- 
vello della  Cronaca  di  Chioggia ,  che  lo 
Zambrini  non  sa  «  proprio  indovinar  chi 
sia  >  è  il  povero  Eugenio  Camerini,  ch'ebbe 
e  adoperò  tanti  pseudonimi  da  farne  far  lun- 
ga lista  ai  futuri  p.  Aprosi.  V.  anche  col.  309 
a   Cronaca  d*  Orvieto,  D' A. 

C.  278.  Cmo  da  Pistoia.  La  Lettera  agli 
operai  di  S.  Iacopo  erasi  già  pubblicata  col 
nome  di  Gino  Sinibaldi  nella  Baccolta  d*opU' 
scoli  del  CaloobrA.,  ma  il  Ciampi  stesso  in 
una  nota  posta  alla  fine  della  parte  VI  avverti 
d'aver  trovato  che  l'autore  di  essa  era  un 
Gino  di  Mario  Tebaldi  ben  diverso  dal  Gino 
poeta,  col  quale  fu  confuso  anche  in  qualche 
altro  capitolo.  —  Qui  poi  merita  di  essere  an- 
che ricordato  il  seguente  scritto:  Sopra  una 
canzone  di  Cino  da  Pistoja  altre  volte  at- 
tribuita a  Guido  Guinicelli;  lettera  del 
prof.  Pietro  Canal.  (Estr.  dagli  Atti  del 
R,  Istituto  veneto  di  sciente,  lettere  ed 
arti,  t.  Ili,  ser.  V.)  M. 

C.  282.  CiULLo  d'Alcamo.  Per  la  bibliogra- 
fia di  Giulio,  alle  pubblicazioni  notate  dallo 
Zambrini  aggiungasi  (intralasciando  le  altre 
qui  non  menzionate,  ma  di  che  feci  parola  nel 
mio  scritto  in  proposito,  contenuto  nel  I*  voi. 
delle  Antiche  Rime  volgari):  Gaix,  CiuUo 
d*  Alcamo  e  gli  imitatori  ddle  Romanze  e 
Pastorelle  francesi  in  Nuova  Antologia  ^ 


Nov.  1875.  —  Gaix  ,  Ancora  del  Contrasto 
di  CiuUo  d'Alcamo,  Firenze,  1876,  Estr, 
dalla  Rivista  Europea.  —  Bartoli,  Di  una 
nuova  opinione  intomo  al  Contrasto  di 
CiuUo  d'Alcamo,  in  Riv,  Europea,  Apri* 
le,  1855.—  Fr.  Maria  Mirabella,  Xa  Can» 
sona  di  CiuUo  d'Alcamo  chiosata  e  comen» 
tata,  Alcamo,  Pi  pitone,  1872.  —  Aggiungati 
ancora:  Oscarrb  de  Hassek,  Vetà,  la  Hnm 
gua,  e  la  paternità  del  Contrasto  d'Amore 
attribuito  a  CiuUo  d'Alcamo,  Trieste,  Ca- 
prin,  1877.  (Estr.  dalla  Rivista  Triestina), 
Notisi  che  questo  signore  de  Hassek  altro 
non  ha  fatto  che  saccheggiare  il  mio  lavoro: 
salvoché,  io  parlai  prima  delle  Costituzioni 
ov'  è  contenuta  la  Defeusa  e  poi  degli  Ago* 
stari,  ed  egli  prima  degli  Agostari  e  poi  della 
Defensa.  Ma  malamente  copiando  e  pani* 
frasando,  a  pag.  11  dice:  «  Nel  1231,  coma 
PIÙ  SOPRA  ABBIAMO  ACCENNATO,  l'Impera* 
tore  pubblica  solennemente  in  Melfi  le  nuova 
Costituzioni»;  e  ciò  avevo  già  detto  io,  non 
egli,  che  ne  parla  invece  a  pag.  17!  Aggiun- 
gasi ancora  questi  altri  due  scritti,  poste- 
riori alla  pubblicazione  dello  Zambrini f  cioè: 
Gaix,  Chi  fosse  U preteso  CiuUo  d* Alcamo^ 
Firenze,  1879  (  Estr.  dalla  Riv.  Europ.); 
ViQO,  Appendice  alla  disamina  e  al  oo^ 
mento  della  tenzone  di  Ciullo  d' Alcamo, 
Alcamo,  Pipitone,  1879.  D'A. 

C.  288.  Colonna  Guido,  Storia  deUa  guer* 
ra  di  Troja.  Non  assentiremmo  a  dirla  «  pub* 
blicazione  eseguita  con  molta  cura  o  diligen- 
za». Vedi  quel  che  ne  accennammo  nel  Propu» 
gnatore,  1,626.  Basti  notare  che  l'editore  Dbl- 
Lo  Russo  dice  nella  Dedica  che  dell'opera  ci 
hanno  «  inediti  varii  volgarizzamenti  »  ;  e  su- 
bito appresso:  «  Le  dette  purissime  scrit- 
ture sono  diventate  rarissime,  come  che  or 
l'una  or  l'altra  di  loro  siano  state  pott« 
quattro  volte  a  stampai  » 

Sugli  antichi  volgarizzamenti  della  Querra 
Trojana,  vedi  Bbnci,  nell'Antonia,  vo« 
lume  XVIII,  p.  44;  e  Tommaseo  pur  nel* 
VAntoL  voL  XLV,  p.  19.  D'A. 

G.303.  Conti  (dodici)  morali  d'anonimo 
senese.  Essendosi  accennato  all'origine  di 
uno  di  questi  Conti  data  dal  Mussafia  ,  gio* 
vera  soggiungere  che  quelle  di  quasi  tutti 
i  rimanenti  furono  date  da  R.  Kóhlbr,  nella 
ZeiUchrift  del  Qbòbbb,  I,  365. 

D'A. 


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■OICAK2A,  H.*"  4J 


BIBLIOGBAFICA 


85 


C.  307.  Costituzionibenedettinedell2^. 
L*  editore  è  Castorina  ,  non  Castorino» 
Sulla  strana  pretesa  delP editore  che  questo 
testo  risalga,  non  che  al  1254,  ma  anzi  al 
1096,  e  snlla  maggior  probabilità  che  essen- 
dovi rammentata  la  festa  del  Corpus  Domini 
isti  tolta  nel  1264,  siano  le  Costitusioni,  come 
anche  altri  giadicò,del  1360  circa,  vedi  un  art. 
bibliografico  nella  Nuova  ^nto^ta,ann.  XI, 
2*  8.,  voi.  Ili ,  p.  219  (  SeU.  1876).       D' A. 

C.  909.  Cronica  degli  imperatori.  Que- 
sto medesimo  testo  fu  pubblicato  dallo  stesso 
editore  sig.  A.  Cbruti  neWArchivio  Olot- 
tologico,  Tol.  Ili,  pag.  177-243,  con  annota- 
zioni deir  Ascoli.  M. 

C.  315.  Dante  Alighieri.  Comedia.  Del- 
la Comedia  ▼*  hanno  due  edizioni  rimaste 
sconosciute  anche  al  Db  Batines;  Tuna  di 
Brescia,  Bonino  di  Ragusi,  1847,  in  f.  (Gor- 
•in.  51.  G.  10);  T altra  di  Venezia,  Paga» 
nino,  1513,  in  18.»  M. 

Vita  Nuova.  Mi  sia  lecito  rettificare 
aiciine  inetattesze  nelle  quali  è  caduto  Tegre- 
gio  bibliograib,  descrivendo  la  mia  edizio- 
ne dell* opera  dantesca.  Ciò  che  è  a  piedi 
pag.  sotto  il  testo,  non  sono  veramente  note 
ma  rarie  lezioni,  e  ehi  vi  lavorò  attorno  fu  il 
Prof.  Pio  Rajna,  non  il  Prof.  Carducci.  Il 
quale  invece  ebbe  parte  nelle  Annotazioni 
che  sono  raccolte  dopo  la  Vita  Nuova,  e 
quelle  a  lui  appartenenti  vanno  distinte  con 
asterisco.  D'A. 

Credo,  Alle  diverse  ediz.  descritte  dallo  Z. 
se  ne  può  aggiungere  una,  ch*io  credo  scono- 
sciuta, la  quale  presenta  una  grande  somi- 
glianza con  quella  ch'egli  registra  come  terza 
e  ne  differisce  solo  nel  titolo  lievemente  di- 
verso, e  nelle  pagine  che  sono  di  sole  28  linee 
(Corsin.  51.  B.  42).  Il  titolo  è  questo:  Cre- 
do che  dante  fece  |  quando  fu  accusato  per 
heretico  essendo  |  a  Rauenna  allo  inqui- 
sitore. 

Anche  in  questa  stampa,  come  in  tutte 
l'altre  che  ho  potuto  vederne,- il  Credo  è 
preceduto  da  alcune  terzine  che  narrano 
Toccasione  di  esso;  solo  il  Gamba  ricorda 
una  stampa  nella  quale  era  accompagnato 
da  un  sonetto j  ma  probabilmente  egli  prese 
abbaglio  e  T edizione  da  lui  veduta  è  forse 
quella  stessa  descritta  dallo  Zambrini  come 
Msta,  la  quale  contiene  anch'essa  le  solite 
terzine.    Sotto  il  nome  di  Dante  avrebbe 


meglio  potuto  registrarsi  la  pubblicazione 
del  WiTTB,  di  cui  a  col.  876,  recentemente 
ristampata  insieme  con  altri  studi  danteschi 
nelle  sue  Dante* s  Forsckungen,         M. 

C.  361.  Dei  Alberto.  Il  De  Angelis,  nel 
pubblicare  il  sonetto  ch'egli  riferisce  col  nome 
di  questo  autore,  avverte  d'averlo  tratto  da 
un  manoscritto  della  Comunale  di  Siena, 
nel  quale  notavasi  ch'era  stato  copiato  da 
un  codice  Chigiano.  Nei  diversi  canzonieri 
della  Chigiana  non  m'avvenne  mai  d'incon- 
trare il  nome  di  questo  poeta,  vi  si  trova 
però  la  poesia  a  lui  attribuita  ma  sotto  il 
nome  di  Messer  Alberto  degli  Albizzi;  e  si 
può  quindi  credere,  senza  tema  d'errare,  che 
l'Alberto  Dei  non  è  che  un  parto  delia  tra- 
scuratezza del  copista  del  ms.  sanese.    M. 

C.  365.  Devozioni  (Due)  antiche,  Sooouna 
sola  e  stessa  cosa  colle  Due  Bappresenta" 
zioni  Sacre  pubbl.  dal  Palermo  e  notate 
alla  col.  856.  Che  il  Palermo  non  opinasse 
«  ragionevolmente  »  supponendo  che  fossero 
state  scritte  dapprima  in  dialetto  romano, 
e  posteriormente  voltate  in  padovano,  vedi 
nelle  mie  Origini  del  teatro  in  Italia,  voi.  I, 
pag.  167.  D'A. 

C.  365.  Diario  d*  anonimo  fiorentino. 
Prima  dell'intera  pubblicazione  di  questo 
Diario  fatta  dal  Ohbrardi,  ne  era  stata  data 
fuori  qualche  parte  solo  dal  Mehus  nella 
Vita  di  Lapo  da  Castiglionchio  dì  cui  a 
col.  231.  Sull'autore  di  esso  T egregio  edi- 
tore non  arrischiò  alcuna  congettura ,  troppo 
scarse  essendo  le  notizie  che  di  sé  stesso 
egli  dà  nel  proprio  lavoro.  Si  sa  ch'egli 
fu  popolano,  del  quartiere  d'Oltrarno,  e  si 
può  crederlo  addetto  alla  Signoria  dalle  mi- 
nutissime notizie  eh'  egli  dà  su  tutto  ciò  che 
da  essa  operavasi.  Quest'  ultima  avvertenza 
farebbe  pensare  ad  uno  scrittore  popolare 
di  quei  tempi,  la  cui  poesia  s'ispirò  bene 
spesso  agli  avvenimenti  della  patria  sua,  ed 
il  cui  nome  ci  è  pur  richiamato  dinanzi  da 
altri  argomenti.  11  buon  diarista  inserì  nella 
sua  narrazione  un  cantare  storico  ed  un 
sonetto  nel  quale  s'invoca  vivamente  la  pace; 
può  essere  ch'egli  raccogliesse  da  altri  que- 
ste composizioni ,  delle  quali  credeva  me- 
ritevole il  serbare  memoria,  ma  la  corrispon- 
denza di  sentimento  che  corre  fra  esse  ed  il 
resto  del  lavoro,  potrebbe  indurre  a  credere 
ch'egli  stesso  ne  fosse  l'autore.    In  questo 


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86 


BAS8EGNA 


[aiOHNALB   DI  FII.OLOeU 


caso  lì  suo  nome  non  ci  sarebbe  più  ignoto, 
poiché  il  sonetto  appartiene  di  certo  ad  An- 
tonio Pucci,  sotto  iJ  cui  nome  fu  pubblicato 
dairALLAcri,  ed  anche  il  cantare  parmi  che 
abbia  assai  della  maniera  di  questo  poeta. 
Se  ciò  potesse  essere,  si  spiegherebbe  facil- 
mente un  altro  fatto,  la  corrispondenza  cioè 
che  corre  fra  il  poemetto  del  Pucci  sulla 
guerra  tra  i  Pisani  e  i  Fiorentini  ed  il  rac- 
conto che  di  questi  avvenimenti  trovasi  nel 
Diario,  la  quale  fu  avvertita  solo  in  parte 
dal  Gherardi  e  che  non  so  come  potrebbe 
in  altro  modo  spiegarsi. 

Ma  su  ciò  a  me  bastiselo  l'accennare,  e 
mettendo  innanzi  questa  mia  congettura  vor- 
rei sperare  che  altri  potesse  con  maggiori 
argomenti  stabilire,  quanta  probabilità  essa 
possa  meritarsi.  M. 

C.  ^08.  Diftcorso  d'autore  incerto.  Trova- 
vasi  già  a  stampa  nelle  Delizie  degli  eru- 
diti ^  t.  IX,  p.  274.  M. 

C.  369.  Documenti  Veneziani  (Anti- 
chi) raccolti  da  L.  Pasini  e  pubblicati  da 
B.  Cecchetti.  Trovansi  nel  tomo  XV  degli 
Atti  dell* Istituto  Veneto.  M. 

C.  3SÌ.  Drusi  Agatone.  Il  sonetto  «  Se'l 
grande  avolo  mio  che  fu  *I  primiero  »,  che  fu 
tirato  tante  volte  in  campo  per  sostenere  la 
priorità  della  poesia  toscana,  fu  messo  fuori 
per  la  prima  volta  dal  Giambullari  nel 
GellOf  ma  già  gli  negarono  fede  il  Crescim- 
beni  ed  il  Salvini  ed  oramai  credo  sia  la- 
sciato affatto  in  disparte.  Non  so  qual  fede 
possa  meritarsi  il  Trucchi  che  di  questo 
poeta  pubblicò  un  nuovo  sonetto  indirizzato 
a  Gino  da  Pistoia  dicendolo  tratto  da  un  co- 
dice Laurenziano  Palatino  118,  di  cui  non 
conosco  proprio  l'esistenza.  M. 

C.  381.  Drusi  Lucio.  Di  questo  autore 
anche  il  Crescimbeni  non  ne  conosce  più  che 
il  nome.  M. 

C.  385.  Elia  (Frate).  Di  costui  non  si  ha  a 
stam[)a  elio  un  solo  sonetto  che  il  Crescimbe- 
ni trasse  da  un  manoscritto  moderno  di  Ippo- 
lito Magnani  contenente  il  suo  trattato  in- 
titolato Lapis  philosophorum.  Il  sonetto 
non  presenta  punto  tracce  di  remota  anti- 
chità, ma  per  giudicare  se  questo  sia  argo- 
mento bastante  da  ritenerlo  apocrifo,  o  se 
non  si  debba  solo  ad  un  rammodernamento 
del  copista,  bisognerebbe  rintracciare  noti- 


zia di  questo  trattato  di  cui  non  mi  Teane 
mai  a  mano  alcun  codice.  M. 

C.  386.   Ensblìcimo  da   Tkbviso.   NcMa 
BìbL  Corsiniana  trovasi  colla  aegnatara  51. 
E.  24,  una  edizione  del  Pianto  della  Madonna 
affatto  seonosoiuta,  la  qaaU  s*  accorda  eoa 
quella  del  1481  oeirattribairla  a  questo  poata 
anziché  a   Leonardo  Giustiniani,  coma  tk 
Tediiione  più  recente  del  1505.    É  ia  4.«, 
di  fogli  30,  s.  I.  n.  a.  ma  indabbiamente  ^ 
sec.  XV.  Manca  ogni  intestaiione,  comincia 
8enz*altro  :  «  Ve  regina  virgo  gloriosa  »;  alia 
fine  del  f.  27  v.   «  Explicit  uòrgeni»  baaU 
lametatio  A  intacte  \  uulgariter  compilata 
cum   ritimis  prolata  ore  \  frairis  Etnei' 
mini  de  triuisio  ordinis  fratrum  \  here- 
mitarum  sancti  Augustintj^  AI  principio  del 
f.  28:  «  Incipit  oratio  siue  grmiiarum  odio 
supra  I  dicti  compillatoris  » ,  la  quala  co* 
Ynincia:  «  Nelle  braccia  toi  Tergine  Maria  »« 
Al  f.  30  :  «  Finisse  il  deuotissimo  pia  \  to  et 
la  gloriosa  uergine  |  Maria  cum  summa 
dilige  I  tia  impresso  ».  Segoe  il  Rboistum. 
Avrei  desiderato  di  poter  dar  qai  qaalcke 
maggior  notizia  sni  poema  deiriBAinxia del 
Salvatore  attribuito  pure  ad  Enselmino  nella 
stampa  romana  del  1541,  ma  bod  mi  riuscì 
di  trovarla  neppure  nella  Vaticana  dove  ora 
conservasi  la  biblioteca  Capponi ,  dal  Cata- 
logo della  quale  Io  Zambrini  n^ebbenotint. 
Vorrei  sperare  che  altri  più  di  me  fortunato 
potesse  rintracciarla  e  dire  se  questo  poema 
sia  quello  stesso  che  ne*  manoscritti  trovasi 
spesso  riunito  agli  altri  poemi  della  Pasaioae 
e  della  Rieurresione.  M. 

C.  405  Fbdbrioo  di  M.  Gbbi  d'Aiibzzo. 
Pubblicò  alcune  sue  poesie  anche  il  Trucchi 
volume  II,  pag.252,  annoverandolo  fra  i  poeti 
del  quattrocento,  senza  però  addurre  argo- 
mento in  appoggio  della  sua  opinione.  Il 
Crescimbeni  ed  il  Carducci  lo  pongono  tra 
i  trecentisti  contemporanei  del  Petrarca,  sotto 
il  nome  del  quale  furono  pubblicati  diversi 
sonetti,  che  nei  codici  stanno  sotto  il  nome 
di  lui.  A  un  Federigo  d'Arezio  sono  indi- 
rizzate due  lettere  del  Petrarca  (  Sen.  IV,  5; 
VIII,  7)  dalle  quali  s*  avrebbe  indizio  a  cre- 
derlo poeta;  nulla  s* oppone  a  tenerlo  usa 
stessa  persona  che  il  Federigo  di  Messev 
0eri.  H. 

C.410.  Fiore<^ Fiorita. DiìmnfmùmbaÉa 


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N.*»   4J 


BIBLIOQEAFICA 


87 


in  ottava  rima  della  Fiorita  diede  notizia  e 
qvalohe  saggio  il  Rajna  {Il  Cantare  dei 
Cantari  eoo.)  nella  Zeitechrift  del  Grobbr, 
n,  «42  e  segg.  D'A. 

C.  412.  Fiore  di  virtù.  Alle  diverse  stampe 
di  quest'opera  fatte  nel  sec.  XV  e  registrate 
dallo  Zambrini  se  ne  deve  aggiungere  un*  al- 
tra rimasta  sconosciuta  al  più  diligenti  bi^ 
bHografi,  noterole  per  aver  preceduto  le 
altre  due  edisioni  già  conosciute,  uscite  da- 
gli stessi  torchi.  Riferisco  il  titolo  del* 
Peperà  quale  si  trova  al  principio  del  se- 
condo foglio,  perché  l'esemplare  ch'io  ho 
potuto  esaminare,  conservato  nella  biblioteca 
Coreiniana  colla  segnatura  51.  F.  52,  è  man- 
cante di  quattro  fogli,  fra  i  quali  il  primo, 
ohe  doveva  però  contenere  solo  il  titolo  del- 
l'opera, poiché  il  testo  non  presenta  alcuna 
mancanza: 

Cementia  vna  opera  chiamata  fiore  de 
Hrtu  :  la  qttale  tracia  de  \  tutti  gli  viiii 
humani:  gli  quali  debono  fugire  gli  ho- 
mini  che  deside  \  rano  vivere  secondo 
dio  etc.  Al  penultimo  foglio  :  <  Finisse  el 
libro  Riamato  fior  di  virtù  lo  quale  ha 
impresso  Matthio  \  di  codeca  da  panna  é 
Bernardino  di  pini  da  chomo  in  uenesia 
adi  \  XI  de  luio  MCCCa  LXVXV^,  Alla 
sottoscrizione  seguono  le  rubriche  del  libro 
che  occupano  tutto  il  recto  dell'ultimo  foglio. 
Consta  di  f.  32,  in  4.»  di  linee  38  nelle  facce 
pienc^  con  registro  da  a  a  (i,  tutti  quaderni, 
mancano  però  le  segnature  a  iiij  d  iiij.      M. 

C.  427.  FOLCAOCBlBRO  db' FOLCAGCHIBRI. 

L'età  vera  di  questo  poeta  (metà  del  sec.  XllI) 
è  chiarita  nella  importante  pubblicazione:  Fo/- 
eaoohiero  Folcmxshieri,  rimatore  senese  del 
sec.  XIII,  Notizie  e  documenti  raccolti  da 
CxmzK>  Maxzi^  Filrenze,  Successori  Le  Mon*- 
nier,  1868  (Nozze  Banchi-Bri  ni).  A  j)ag.  13 
trovasi  anche  la  Cansone,  unica  che  si  co- 
conofca  di  lui,  secondo  la  lezione  del  cod. 
vado.  8793.  D'A. 

C.428.  FoEBfiTAMi  SsaDiNi,  M.  Simone.  Il 
De  Angelis  pel  primo  e  dopo  lui  ì^  Milanesi  e 
il  Sarteschi  avvertirono  che  due  furono  i 
poeti  di  questo  nome,  l'uno  de' quali  visse 
quasi  interamente  nel  secolo  XV;  però  nei 
■taaosortlti  le  poesie  di  ambedue  si  trovano 
fraainiischiat«  fra  loro  in  modo  che  torna 
difficile  .il  distingoere  quali  possono  appar- 
tenere all'uno  o  air  altro. 


Alcune  poesie  pubblicate  sotto  questo  aome 
sono  indicate  dallo  Zambrini  sotto  Poesie 
Minorile  Rhneàx  PieraccioTebaldi.  Delle 
poesie  contenute  nella  stampa  descriita  dal 
Libri  v'ha  un'altra  edizione  del  secolo  XV, 
nella  quale  manca  T indicazione  dell'autore 
della  Disperata.  Io  non  potei  esaminare  che 
un  frammento  di  sole  4  carte,  la  prima  delle 
quali,  segnata  a  ii,  è  in  carattere  semigo- 
tico, in  4.*>,  a  due  colonne  di  linee  37  (Ca- 
san.  0.  II.  99).  Sconosciuta  pure  è  una  edi- 
zione del  secolo  XVI  fatta  Iti  Firenze.  Ap- 
presso alle  scalee  di  Badia,  il  contenuto 
della  quale  è  quello  stesso  della  stampa 
del  1584.  È  in  4.°,  di  carte  4,  a  2  colonne, 
di  linee  48,  con  registro  A  2  (Alessandri- 
na, XIIL  A.  37).  M. 

C.  439.  Francesco  da  Orvieto.  La  canzo- 
ne che  il  Lami  pubblicò  "-otto  il  di  lui  nome,  è 
quella  che  incomincia  «  Io  non  descrivo  in 
altra  guisa  amore  »  che  appartiene  indubbia- 
mente a  Al.r  Francesco  da  Barberino  e  tro- 
vasi al  line  de' suoi  Documenti  d'amore: 
quindi  credo  che  resistenza  di  questo  poeta 
non  abbia  altro  fondamento  che  l'errore  d'un 
copista  malaccorto.  M. 

C.  445.  Frottola  di  tre  suore.  La  credia- 
mo più  probabilmente  scrittura  del  XV  se- 
colo. D'A. 

C.  447.  Galliziani,  correggi  ;  Messer  Ti- 
BBRTO.  D'A. 

C.  448.  Garbo  (Dino  del).  Anche  qui  per 
inavvertenza  fu  conservato  un  brano  che  in 
questa  edizione  non  avea  più  ra^^ione  di  es- 
sere, giacché  il  Trattato  sopra  la pistolen- 
zia  di  Tomaso  di  Dino  del  Garbo  fu  pub- 
blicato già  dal  1866,  come  è  notato  al  ca- 
poverso che  segue  immediatamente.    M. 

C.  449.  Garisendi  Messer  Giikharduc- 
cio.  11  sonetto  pubblicato  dal  Galvani  era  pia 
edito,  come  lo  erano  del  pari  gli  altri  due 
sonetti  contenuti  nel  suo  codice  ora  posseduto 
dal  Conte  Manzoni.  M. 

C.  450.  GAZ2AIA  (della)  Tommaso.  Que- 
sto poeta,  secondo  che  vorrebbe  il  Borgo- 
gnoni ne' suoi  Studi  d'erifdizione  e  d'arte, 
voi.  I,  pag.  35,  apparterrebbe  piuttosto  al 
secolo  XV,  essendo,  com'egli  afferma,  morto 
nel  1432.  A  questa  asserzione  non  manche- 
ranno valide  prove,  ma  non  conoscendole 
non  posso  negar  fede  al  De  Anoeus,  cke 
nel  suo  Catalogo  dei  testi  a  penna  pag.  175 


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RASSEGNA 


[OIOBRALK  DI  FILOLOflU 


e  218  dice  di  posseder  egli  stesso  un  codice 
autografo  delle  rime  di  questo  poeta,  conte- 
nente purediverse  poesie  del  Bonichi ,  scritte 
nel  1367.  Fra  le  due  date  v'ha  troppa  di- 
stanza per  poterle  conciliare  fra  loro;  que- 
sta seconda  però  potrebbe  forse  sembrar  più 
probabile^  togliendo  innanzi  la  necessità  di 
quell'ipotesi  del  Bilancioni  riportata  dal 
Borgognoni;  poiché,  se  Messer  Tommaso  vì- 
veva nel  1367,  poteva  bene  aver  conosciuto 
il  Bonichi  prima  del  1330  od  in  quell'anno 
medesimo.  M. 

C.  456.  Ghbrardo  da  Firenze.  Qui  e 
alle  coli.  20  e  765  sono  registrate  alcune 
pubblicazioni  relative  alle  Carte  d'Arbo- 
rea. Ne  aggiungiamo  altre  dimenticate 
od  omesse,  avvertendo  che  una  abbastanza 
compiuta  bibliografia  in  proposito,  Ano  al 
1870,  trovasi  nell'opuscolo,  tirato  a  parte 
dal  Propicgnatore ,  voi.  Ili:  Delle  Carte  di 
Arborea  e  delle  Poesie  volgari  in  esse  con" 
tenute,  esame  critico  di  Girolamo  Vitelli, 
preceduto  da  una  Lettera  di  Alessandro 
D'Ancona  a  Paul  Meyer,  pag.  17.  Dopo 
d'allora  vennero  a  luce,  per  quel  che  sap- 
piamo, le  seguenti  pubblicazioni: 

Le  Carte  d* Arborea  e  V Accademia  deUe 
Scienze  di  Berlino,  Osservazioni  critiche 
per  F.  Carta  ed  E.  Mulas  (nel  Propugna- 
tore, V,  77-103,  177-214). 

Francesco  Carta,  Appunti  critici  ad 
un  articolo  di  Monsignor  Liverani  sulle 
Carte  d'Arborea,  Cagliari,  Tipografia  del 
Corriere  di  Sardegna,  s.  a.  (  L'articolo 
del  Liverani  è  nella  Rivista  Europea  del 
Dicembre  1870).  Le  poesie  italiane  del- 
le Carte  d*  Arborea  e  il  sig.  Girolamo 
Vitelli.  (Estr.  dal  Corriere  di  Sardegna, 
s.a.) 

Carlo  Baudi  di  Vesmb,  Osservazioni 
intorno  alla  Relazione  sui  m^.  d'Arborea 
pubbl,  negli  Atti  della  R,  Accademia  delle 
scienze  di  Berlino.^  Intorno  all'Esame 
critico  delle  Carte  d'Arborea  di  GiroL  Vi- 
telli, Torino,  1870.  —  Seconda  Poscritta 
alle  Osservazioni  intorno  alla  Relazione 
pubblic.  ecc.  Estr.  ààìVArch,  Stor.  ItaL(  ove 
furono  riprodotte  anche  le  prime  Osserva- 
rioni,  ser.  3»  t.  XIV). 

Prosa  e  poesie  italiane  della  Raccolta 
Arborense  con  un  pensiero  di  Vincenzo 


Fiorentino,  Napoli,  Nobile,  1870.  — fiicfle 
Carte  d'Arborea,  Prefazione  di  Yivceìoo 
Fiorentino,  Firenze,  Le  Monnier,  1874. 

La  quistione  delle  pergamene  e  dei  codici 
di  Arborea,  Lettera  del  Prof,  Francesco 
Randagio,  Palermo,  Tipog.  del  Giornale  di 
Sicilia,  1871.  (Estr.  dalle  Nuove  Effemeridi 
sicil.) — Intorno  alle  Carte  d'Arborea,  altre 
considerazioni  del  Prof.  Francesco  Ran- 
dagio, Cagliari,  Tipogr.  del  Corriere  di  Sar^ 
degna,  187i. 

Lo  scritto  del  Prof.  Borooomoni,  intit 
I poeti  italiani  dei  codici  d'Arborea,  stamp. 
primamente  nel  1870,  è  riprodotto  nei  suoi 
Studi  di  erudizione  e  d'arte,  Bologna,  Ro- 
magnoli ,  1878,  voi.  II,  con  una  Poscritta, 
pag.  67.  Qui  è  detto ,  e  ne  godiamo,  che  lo 
Zambrini,  «  so  e  posso  dirlo  senza  tema  d' io- 
discrezione,  anziché  nel  campo  de' propu- 
gnatori delle  Carte,  veglia  nel  campo  av- 
verso »  :  ma  ciò  non  avremmo  sospettato  dal 
vedere  come  l'egregio  uomo  annunzia  le  scrit* 
ture  in  proposito  del  Martini  e  del  Vesme. 
Meglio  eosìi  poiché  il  suffragio  di  nomo  sì 
intendente  dell'antica  letteratura  non  è  certo 
di  piccol  peso. 

All'elenco  sopracitato  del  Vitelli  ag- 
giungasi :  Sulle  Carte  d'Arborea ,  lettere  dd 
Prof  Luciano  Scarabblu  o/  Cav.  Pietro 
Fanfani,  Cagliari,  Tìmon,  1865. 

Sentiamo  che  recentemente  il  sig.  Ghiviz- 
ZANI  abbia  ripreso  a  difendere,  e  nientemeno 
a  fronte  del  Mommsen ,  la  goffa  falsificazione 
arborense:  ma  ormai  ci  par  causa  persa,  e 
tempo  più  che  perso  l' ulteriormente  occu- 
parsene. Meglio  sarà  vedere  ciò  ohe  dice  su 
questo  proposito  il  prof.  Adolfo  Bartou 
in  appendice  al  voi.  II  deWsi  tua  Storia  delle 
Letteratura  italiana,  voi.  Il,  pag.  389,  Fi- 
renze, Sansoni,  1879.  D'A. 

C.  461.  Giacomo  Notaro.  Le  indica- 
zioni date  sotto  questo  titolo  si  devono  riu- 
nire a  quelle  date  a  col.  507  sotto  Iacopo 
DA  Lentino,  che  è  la  stessa  persona,  e  si 
veda  pure  a  col.  749  sotto  Parlantino.    M. 

C.  461.  Giacomino  Puolibsi.  Vedi  a 
col.  850:  Pugliesi  Iacopo.  Che  costui  fosse 
da  Prato  lo  asserirono  i  primi  editori,  ma 
senza  altro  fondamento  che  il  ritrovarsi  colà 
una  famiglia  di  tal  nome,  e  tale  opinione 
parmì  oramai  abbandonata  da  tutti.    M. 


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BOMANSA,  N.*»  4] 


BIBLIOGRAFICA 


89 


C.475.  Giovanni  (Messer)  di  Gherardo 
DA  Prato.  Dopo  di  ciò  che  il  "Wbssrlofsky 
disse  di  questo  scrittore  nei  Preliminari  al 
Paradiso  degli  Alberti^  si  può  ritenere  es- 
sere egli  una  stessa  persona  col  Giovanni 
da  Prato,  di  cui  a  col.  475,  e  colFAcquet- 
tini,  di  cui  si  trovano  diversi  sonetti  in  al- 
cune delle  antiche  edizioni  del  Burchiello  e 
In  quella  del  1757;  ma  per  esser  egli  fra  i 
contemporanei  del  barbiere  fiorentino  do- 
vrebbe piuttosto  esser  posto  fra  i  quattro- 
centisti. M. 

C.  475.  Giovanni  Fiorentino.  Si  riferisce 
che  il  Poggiali  trovò  il  nome  di  M.  Giovanni 
Fiorentino  in  un  antico  poema  intitolato: 
Istoria  del  mondo  fallace,  e  dubitò  potesse 
esser  l'autore  stesso  del  Pecorone,  Avver- 
tasi che  la  sottoscrizione  Joanw^*  dictusFlo- 
rentinus  trovasi  in  parecchi  poemetti  sacri, 
cavallereschi  e  storici  stampati  in  Firenze 
tra  il  fine  del  sec.  XV  e  il  principio  del  XVI. 
ed  è  indicazione  meramente  tipografica.  D*  A. 

C.484.  Giuliano  Messere.  Questo  poeta  cre- 
do debba  tenersi  come  contemporaneo  al  Bur- 
chiello, poiché  nel  codice  da  cui  rALLAcn 
tolse  il  sonetto  ch'egli  pubblicò,  v'hanno 
solo  poesie  di  quell'epoca.  Forse  è  lo  stesso 
che  Messer  Giuliano  de  Bardi  dì  cui  si  tro- 
vano alcune  poesie  in  altre  raccolte  burchiel- 
lesche. M. 

C.485.  Gotto  Mantovano.  Di  questo  poeta 
non  conosciamo  che  il  nome  per  la  menzione 
fattane  da  Dante  nel  De  Vulg.  Eloq.  e  que- 
sto è  tutto  quello  che  di  lui  ci  sa  dire  an- 
che il  Crbscimbeni,  voi.  in,  pag.  44.     M. 

C.499.  GuiDOTTO  DA  Bologna.  Del  volga- 
rizzamento della  Rettorica  di  Cicerone  v'han- 
no tre  edizioni  sconosciute  tutte  prive  del  pari 
d'ogni  indicazione  tipografica,  e  tanto  si- 
miglianti  fra  loro  che  facilmente  si  potreb- 
bero confondere  ove  non  si  facesse  avver- 
tenza ad  alcune  lievissime  diversità  che 
corrono  dall'una  all'altra  sia  nella  lezione 
che  nella  disposizione  delle  parolft.  Constano 
tutte  di  fogli  56,  di  24  linee  per  pagina.  Per 
distinguerle  riferisco  con  ogni  esattezza  il 
titolo  dì  ciascuna: 

COMINCIA     LA    ELB0ANTI8SIMA    |   doctrina 

de  lo  excellentissimo  Marco  Tullio  Ci  |  ce- 
rone chiamata  rethorica  nona  traslocata 
di  la  I  tino  t  uulgare:  per  lo  eofimio  Mae^ 
stro  Oaleoto  \  da  hologna  opera  utilissima 


et  necessaria  a  gli  |  huomeni  uulgari  e 
indocti.  (  Corsi  n.  51.  C.  43). 

COMINCrA    LA   ELEGANTISSIMA    DOC  |  trina 

de  lo  excelentissimo  Marco  tuli  io  r  ter  rane  | 
chiamata  rethorica  noua  traslatata  di  la- 
tino in  I  uulgare:  p  lo  eanmio  Maestro 
Galeoto  da  bolo  \  gna  opera  utilissima  A 
necessaria  agli  omeni  uulgari  e  indocti, 
(Corsin.  51  C.  45). 

COMfNCIA  LA  BLEOANTISSIMA  |  dOCtrifia  de 

lo  eofcelentissinio  Marco  tullio  cice  \  rone 
chiamata  rethorica  noua  traslatata  di  la- 
ti I  no  in  uulgare  per  lo  esimio  Maestro 
Galeoto^  da  bologna  opera  utilissima  d  ne- 
cessaria agli  I  omeni  uulgari  e  indocti, 
(Casanatense  K.  I.  21). 

Quest'  ultima  stampa  ha  registro  da  a  ad 
/"  tutti  quinterni.  É  notevole  che  mentre  in 
tutte  queste  edizioni  il  volgariuatore  nel  ti- 
tolo ò  chiamato  Galeoto,  nel  proemio  diretto 
all'alto  Manfredi  re  di  Cicilia  ò  detto  sem* 
pre  Guidotto.  M. 

C.  505.  GuiTTONB  d'Arezzo.  Non  il  solo 
sonetto  «  Quanto  più  mi  distrugge  il  mio 
pensiero  »  non  è  certamente  dell'Aretino:  ma 
SI  anche  tutti  quelli  dell' edizione  giuntina, 
in  numero  di  ventinove. 

Vedi  in  proposito  di  Fra  Guittone:  Prof. 
Leopoldo  Romanelli,  Di  Guittone  d'Arez- 
zo e  delle  sue  opere,  Campobasso,  1875,  e  il 
giudizio  non  favorevole  su  questa  Disserta- 
zione nella  Nuova  Antologia,  2.»  s.  voi,  II, 
pag.  677  (Luglio  1876).  D'A, 

C.  506.  HuLDOVicus  ■  de  Ioculo  Sancti 
Georgi,  Memoria  in  volgare  del  1842, 
É  una  breve  notizia  di  alcune  pitture  ese- 
guite in  quell'anno  in  Ferrara,  che  trova- 
vasi  aggiunta  alla  fine  d'un  codice  mem- 
branaceo di  Virgilio  scritto  nel  1198,  già 
conservato  nella  biblioteca  de' Carmelitani 
di  S.  Paolo  di  Ferrara.  Fu  pubblicata  per 
la  prima  volta  dal  Borsetti,  Historia  almi 
Ferrariae  Gymnasii,  Ferrara,  1735,  pa- 
gina 447,  e  riportata  poi  dal  Narducoi  nel 
Buonarroti,  serie  II,  voi.  XII,  Settem- 
bre 1878,  pag.  378.  M. 

C.  506.  Iacomo  da  Montepulciano.  É 
una  stessa  persona  eoi  B.  Iacopo  del  Pecora 
di  cui  a  col.  764,  e  quindi  devono  fondersi 
in  una  sola  le  due  distinte  rubriche.    M. 

C.  518.  Incerti  Rimatori.  Tutta  questa 
rubrìca  andrebbe  rifatta,  a  voler  che  fosse 

6* 


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90 


BASSEGNA 


[oiOBNALt  DI   riLOLOOIA 


reramente  utile,  indicaodo  i  princtpj  delle 
^ime  date  come  dMnoerto  autore,  perché  si 
possa  ritrovare  chi  yeramente  le  ha  com- 
poste. D*A. 

C.  524.  Intromtà  Franobsco.  Aoche  que- 
sto poeta  deve  certamente  porsi  fra  i  oob- 
temporanei  al  Burchiello.  M. 

C.  531.  Lamento  di  nostra  donna,  dm 
questo  titolo  trovasi  uella  biblioteca  Casana- 
tease  alla  segnatura  0.  II.  83  una  stampa  del 
secolo  XV,  di  sole  sei  carte,  a  due  colonne. 
Sotto  il  titolo  V*  ha  un  intaglio,  nel  quale  è 
raffigurata  la  Vergine  che  tiene  in  grembo 
Qesù  deposto  dalla  croce,  e  di  fianco  ad  essa 
dalPnno  e  dalP  altro  lato  vedonsi  tre  santi 
inginocchiati;  nel  fregio  leggesi  il  nome 
Zanolo.  Comincia  al  secondo  foglio  una 
composi  rione  in  ottava  rima  a  forma  di  dia- 
logo fra  Cristo  e  la  Madonna  che  principia: 
e  0  Madre  della  nostra  saluatione  ».  Al 
verso  del  quarto  foglio  v*  ha  questa  indica- 
zione: Lamento  di  nostra  donna  in  altro 
modo,  e  sotto  di  essa  un  intaglio,  in  mezzo 
al  quale  è  rappresentato  Oesù  crocifisso, agli 
angoli  i  simboli  dei  quattro  Vangelisti,  e  al 
basso  la  segnatura  tipografica  di  Martino 
de  Amsterdam,  quale  fu  riprodotta  dall*Au- 
DiFBBDi  nel  Catalogus  romanarum  editto- 
nttm  sec.  XV,  Roma  1783,  a  pag.  476.  Se- 
gue il  Lamento  pubblicato  dallo  Zambrini» 
che  qui  però  manca  di  due  ottave.      M. 

C.  542.  Lapo  Oianmi.  Aggiungasi  :  Rime  di 
Lapo  Gianni  poeta  italiano  del  sec.  XIII, 
Saggio  di  una  nuova  edizione  di  Oiacomo 
Tropea,  Roma,  1872.  D'A. 

C.  549.  Lauda  del  buon  secolo  della  lin^ 
gua  in  onore  di  S,  Ranieri,  Pisa,  Nis^i, 
1873,  in  8.0  di  pagg.  39. 

Fu  pubblicata  per  cura  dell*  egregio  Prof. 
Paganini:  la  lauda  incomincia  «  Reverentia 
facciamo  |  Festa  Laude  et  honore  |  Oggi  del 
confeseore  |  Santo  Ranier  che  fu  nostro  Pi* 
«ano  ».  M. 

Lauda  Spirituale  del  secolo  XIV,  ca- 
vata dal  cod.  Riccardiano  2224. 

Fu  pubblicata  per  nozze,  in  foglio  volante, 
dal  Sac.  Cav.  Pibtro  Volpimi,  sotto  la 
data  deiril  Febbraio  1872.  La  lauda  in- 
oomincia:/K  Sorprendiente  amor  di  paradiso» 
e  fa  più  volte  stampata.  M. 

Lauda    del  Beato   Oherardo    di    fra 


Bartolommeo  da  Pisa  non  mai  fin  qui 
stampata. 

Incomincia  «  Ciascun  devoto  cuor  si  dee 
svegliare  »,  fu  inserita  nelle  Nuove  Effeme* 
ridi  Siciliane,  fase  settembre-ottobre  1871, 
pag.  173,  da  Salvatore  Cocchiara  che  la 
trasse  da  un  codice  della  seconda  metà  del 
secolo  XIV,  del  Sac  G.  L.  Re,  contenente  la 
vita  e  miracoli  del  Beato  Gherardo  in  7 
capitoli. 

Lauda  del  secolo  XIV  in  dialetto  cre- 
monese. Fu  inserita  dal  D.  F.  Robolotti 
nella  Grande  Illustrazione  del  Lombardo 
Veneto  di  C.  Cantù.  Milano  1858,  t.  Ili, 
pag.  431.  —  Un  frammento  d*una  Lauda  tro- 
vasi riportato  in  una  lettera  di  Giuseppe  An- 
tonio Vogel,  dal  Leopardi  avuto  in  oonto  di 
maestro,  pubblicata  da  G.  Cugnoni  nelle 
Opere  inedite  di  G.  Leopardi,  Halle,  Nieme- 
yer,  1878,  voi.  I,  pag.  LXXXVII.  Fu  tro- 
vata a  Matetica  al  rovescio  d*una  pergamena 
del  1256.  L* importanza  di  questo  frammen- 
to e  come  documento  dialettale  e  per  la  sto- 
ria della  drammatica  mMnducono  a  ripor- 
tarlo: 

Cristo.   KU  per  la  primn  peoosta 
Men  padre  fo  ordenatu 
Kio  foste  morte  e  giudicata 
Per  la  prima  peccatore. 

Maria.   Questa  peccata  ben  me  costa 

Noeta  di  a  legere  questa  emposta 
Kio  vedesse  la  tua  costa  ferire 
De  lanza  et  de  baatore  eoe. 

M. 

C.  550.  Laudi  de  Bianchi,  Sei  laude 
riferite  dal  Sercambi  nella  sua  Cronica  e 
cantate  nelle  processioni  dei  Bianchi  furono 
pubblicate  dal  Bini  nella  sua  Storia  della 
Sacra  Effigie,  Chiesa  e  Compagnia  dei  SS, 
Crocifisso  de*  Bianchi,  Lucca,  Giusti,  1855, 
pag.  77-83.  Incominciano  la  prima  «  Nuova 
luce  è  apparita  »,  la  seconda  «  Signor  nostro 
onnipotente  »,  la  terza  «  Vergine  Maria  bea- 
ta »,  la  quarta  «  Mieericordia  etemo  Dio  », 
la  quinta  «  Questo  legno  della  Croce  »,  la 
sesta  «  Peccator  tutti  piangete.  »         M. 

C.  572.  Leggenda  di  S,  Margherita,  La  re- 
dazione in  ottava  rima  pubblicata  dallo  Zam- 
brini  trovasi  con  qualche  diversità  in  una 
antica  stampa  conservata  nella  Caaanatense 
alla  segnatura  0.  II.  106.    Essa  non  porla 


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BOMAITKA,  N.**  4] 


BIBLIOGBAFICA 


91 


alcuna  tndìoazioBe  tipografica  ma  TAuDiPRiiDt 
la  credè  fatta  in  Roma  in  sul  finire  del  se- 
colo XV.  Manca  di  titolo,  e  comincia  sen- 
z'altro la  narrazione  con  nna  invocazione 
«  Patre  eterno  che  lo  mondo  creasti»  che  non 
trovasi  nel  testo  datone  dallo  Zambrini; 
consta  in  tutto  di  63  ottave.  É  in  caratteri 
semigotici ,  in  4o,  di  carte  4,  la  seconda  delle 
qnali  segnata  a  3,  9,  2  colonne  di  4  ottave 
ciascuna.  M. 

C.  603.  Lbvi  Pbbotti  Giustina  da  Sasso- 
PBRRATO.  Di  questa  poetessa  non  si  conosce 
che  un  sonetto  indirizzato  al  Petrarca  che  in- 
comincia «  Io  vorrei  pur  drizzar  queste  mie 
piume»,  al  quale  il  Petrarca  avrebbe  risposto 
col  suo  «  La  gola  e  M  sonno  e  Tociose  piu- 
me ».  Fu  pubblicato  per  la  prima  volta 
dal  Tom  ASINI,  Petrarcha  redivivu$,  Pa* 
dova,  1635,  al  quale  fu  mandato  da  Mons. 
Torquato  Perotti  vescovo  d'Amelia  insieme 
a  diffuse  notizie  sulla  di  lei  vita.  Ma  come 
mal  allora  può  credersi  ciò  che  il  Tomasini 
stesso  riferisce,  che  nulla  potesse  risapere 
di  lei  neppur  nella  patria  sua  il  Card.  Silvio 
Antoniano  che  di  ciò  avea  avuto  incarico 
da  Papa  Clemente  Vili,  cosa  davvero  af- 
fatto sconosciuta  ad  ognuno?  Intanto  nes- 
suna notizia  di  lei  s' ha  nei  tanti  canzonieri 
petrarcheschi  che  si  conoscono,  e  ciò  è,  a  mio 
credere,  argomento  bastante  per  negare 
resistenza  anche  di  questa  poetessa,  almeno 
sino  a  che  non  se  n'abbiano  prove  migliori 
e  meno  sospette.  M. 

C.  6S81.  Libro  di  Novelle,  Lo  Z.  seguendo 
il  Papanti,  registra  una  edizione  milanese 
del  Novellino  fatta  nel  1872;  ma  in  questa 
data  corse  certamente  un  errore  tipografico, 
poiché  essa  mal  s'accorda  col  nome  del- 
r editore.  Il  Passano  riporta  questa  stampa 
al  18S2,  e  avverte  che  la  stessa  composi- 
zione servì  ad  un'  altra  edizione  in  16*,  pub- 
blicala colla  data  del  1831,  per  far  parte 
della  Libreria  Economica  edita  dal  Bottoni. 

Sulla  edizione  giuntina  poi  del  Nooellino 
è  da  vedersi  G.  Buoi,  Il  testo  Borghiniano 
del  Novellino,  Lettera  al  Prof.  A.  Bartoli, 
nella  Rassegna  Settimanale,  voi.  I,  N.  12 
e  a  parte,  dove  si  prova  come  il  testo  di 
quella  edizione  non  meriti  alcuna  fede.      M. 

C.  627.  Libro  dei  sette  savi.  È  da  vedersi 
pure  iJ  lavoro  del  Prof.  Ra  jna,  Di  una  < 


siòne  inedita  dei  sÉtt0  saH  nella  Romania, 
N.  26  e  27.  M. 

C.  633.  Livia  Cbtavblli.  Meglio  avrebbe 
potuto  registrarsi  sotto  Cria  vbi^li.  Il  sonetto 
«  Rivolgo  gli  occhi  spesse  voHe  in  alto  » 
fa  pubblicato  dal  Cinblli  nella  sua  Bikiio^ 
teca  volante,  acansia  XIV,  Venezia,  Al- 
brizzi,  a  pag.  61,  e  dice  di  averlo  avuto 
dal  Padre  Appiani,  che  l'avea  trovato  fra 
alcuni  antichiseimi  manoscritti  esistenti  nel 
Duomo  di  Ascoli:  la  lezione  però  è  quella 
stessa  già  datane  dal  Gilio.  M. 

C.637.  Madonna  Lionessa,  Cantare  inedi- 
to del  sec.  XIV.  Dice  lo  Zambrini:  «  Forse  è 
lavoro  di  Antonio  Pucci  ».  Nella  pubblica- 
zione intitolata:  In  lode  di  Dante,  Capitolo 
e  Sonetto  di  Antonio  Pucci,  Pisa,  Nls- 
tri,  1868,  a  pag.  XIII  avvertii  che  nel  cod. 
Kirkup  r  ultimo  verso  del  Cantare  dice 
espressamente:  «  Antonio  Pucd  il  fieci  al 
voetro  onore.  »  D'A. 

C.  643.  Mala  volti  Pwtro.  L'esistenza 
di  questo  poeta  è  dovuta  ad  un  errore  del 
copista  o  deir editore,  poiché  il  sonetto  pub- 
blicato sotto  il  di  lai  nome  trovasi  neH'AL- 
LAcci  e  in  diversi  codici  fra  quelli  pure  in- 
dirizzati al  Sacchetti  da  Andrea  di  Piero 
Malavolti.  M. 

C.  655.  Matteo  Corbbcmio.  Due  canzoni 
di  lui  stanno  fra  le  Poesie  minori  del  secolo 
XIV:  incominciano  «  Udirò  tuttavia  sanza 
dir  nulla»,  «Gentil  madonna  mia  speranza 
cara  ».  M. 

C.  656.  Mazzino  hi  Antonio  da  Pbrbtola. 
11  nome  di  questo  scrittore  sfuggì  alla  diligen- 
za dello  Z.  ma  pur  non  si  poteva  trascurare 
di  menzionarlo  dopo  che  il  Buoncompaqni 
nel  suo  lavoro  Intorno  ad  alcune  opere  di 
Leonardo  Pisano,  Roma,  1854,  pag.  348  e 
seg.,  pubblicandone  alcune  poesie,  rivendi- 
oava  a  lui  anche  quelle  già  pubblicate  dal 
GiGU  col  nome  d'un  Maestro  Antonio  aris- 
metra  e  astrologo,  che  questi  credeue  non 
esser  altro  che  M.  Antonio  da  Ferrara,  sotto 
al  cui  nome  anche  lo  Zambrini  registra  que- 
ste indicazioni.  M. 

C.  664.  Miraeolide  la  gloriosa  vergenemet^ 
ria.  L'ediz.  principe  di  quest'opera  è  certa- 
mente quella  fatta  ih  Vicensa  nel  1475,  poi- 
ché l'edizione  del  Lavagna  indicata  dallo 
Z.   «oUa  dtfta  del   1469  appartiene,  come 


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92 


EASSEGNA 


[aiOBNALK  DI   PILOLOOU 


egli  stesso  avea  snppotto,  al  U79:  la  qoal 
data  leggesi  assai  chiaramente  in  no  esem- 
plare eh* io  potei  esaminare.  Né  è  merari- 
gha  che  lo  stesso  editore  pubblicasse  nel  se- 
guente anno  un'altra  ediùone  di  quest* opera 
tanto  diffusa  nel  medio  ero.  A  Vicenza  pure 
spetta  Tedizione  del  1476  registrata  dai  bi- 
bliografi come  fatta  in  Firenze,  né  su  di  ciò 
pnò  essenri  alcun  dubbio,  poiché  sulF  ultimo 
foglio  di  essa  leggonsi  questi  rozaissimi  versi  : 

Vrbe  Tincentle  dove  stato  impronta 

L  opra  beat»  de  mlraouli  tanti. 
Di  quella  ohe  nel  del  monta  e  dismonta 

▲oompagnata  con  gli  ansali  e  santi. 
Zoane  de  reno  qniui  si  oonta 

E  stato  el  maestro  de  ai  dolce  canti. 
Setanta  sezto  qnatroclento  e  mille 

Kalende  septembri  facendo  el  sole  fanille. 

Non  saprei  quali  relazioni  abbia  questa 
stampa  colla  antecedente;  noto  che  in  essa 
▼'  è  il  capitolo  VI  :  «  D'una  donna  giouèna 
la  quale  salutaua  ogni  sorno  tre  fiate: 
La  madre  de  ieru  ofpo  »,  che  manca  in  gran 
parte  delle  edizioni  posteriori;  mancano  in- 
vece due  capitoli  al  fine;  i  capitoli  XXVII 
e  XXX Vili  sono  dovuti  ad  una  confusione 
tipografica.  Nella  Casanatense  alla  segna- 
tura K.  VII.  13  v'  é  una  edizione  che  porta 
alla  fine  questa  nota:  «  finiscono  li  miraculi 
de  la  vergene  maria  li  quali  sono  im^ 
pres  I  si  in  cita  de  tarvisio  per  |  lo  dili" 
gente  homo  ma  |  estro  michele  manzolo  da 
parma  \  anno  MCCCCLXXX  a  dì  vin\  ti- 
nove  de  avrile  ».  É  in  4o,  di  f.  52  di  linee  34 
con  registro  da  a  a  ^  quaderni  meno  e  g 
duerni.  È  una  riproduzione  dell*  altra  edi- 
zione pubblicata  dallo  stesso  tipografo  nel- 
Tanno  1479. 

Altre  edizioni  sconosciute  sono  le  se- 
guenti. L'una  in  4®,  di  carte  55,  di  linee  33, 
porta  al  fine  questa  nota  «  Finiscono  li  mi- 
raculi della  vergene  Maria  li  quali  \  sono 
impressi  Anno  MCCCCLXXXIII  a  di 
XIIIJdeIulio9;Begxie  la  tavola  dei  richiami 
di  registro.  Sebbene  manchi  ogni  indicazione 
di  luogo  pure  si  può  credere  che  questa  edi- 
zione sia  stata  fatta  in  Venezia,  poiché  la 
lezione  eh*  essa  .presenta  concorda  perfet- 
tamente con  quella  dell*  altre  stampe  venete. 
(Corsin.  51,  E.  33). 

L*  altra  edizione  è  pare  in  4«,  di  carta  29, 
a  due  colonne,  di  linee  21  ciascuna,  in  ca- 


rattere gotico.  Porta  sul  frontespizio  questo 
titolo  :  Miracoli  de  la  Madona  Istoriadù 
Alla  fine^  v*ha  la  sottoscrizione  tipografica 
«  Impresso  ne  la  inclita  cita  |  de  Venetia 
9  Rinaldo  da  Tri  |  no  de  mòte  fera/to  e 
fradelli  \  nelMCCCCXXXXIIII  adi  \  2 
de  mazo  ».  Per  entro  il  testo  sonvi  lì  inci- 
sioni r argomento  delle  quali  però  non  ha 
relazione  con  esso.  (Corsin.  51.  B.  33).  M. 
C.  684.  NiNA  (Monna)  Siciliana.  I  dubbj 
sulla  esistenza  di  questa  poetessa  siciliana, 
già  manifestati  dal  Lucchesi  ni,  dal  Biamonti 
e  dal  Galvani  e  poi  da  me  {Le  Antiche 
Rime  volgari  I ,  p.  2S6  )  vengono  assai  accre- 
sciuti dal  Borgognoni,  {Studj  di  erudì- 
s ione  e  d' arte ,  Bologna,  Romagnoli,  1878, 
lì,  p.  89-105)  e  dopo  ciò  è  molto  dubbio  se 
possa  più  sostenersi  la  causa  di  questa  prete- 
sa e  romanzesca  amante  di  Dsnte  da  Ha- 
jano.  D*A. 

C.  685.  Nino  da  Siena.  Un  poeta  di  tal 
nome  è  ricordato  dal  Bembo,  dall*  Allacci  e 
dal  Crescimbeni,  ed  il  Db  Angbus,  nel  suo 
Catalogo  dei  testi  a  penna ^  Siena,  Tor- 
ri, 1818,  pag.  182,  crede  che  ad  esso  accenni 
una  iscrizione  volgare  del  secolo  XIV  ritro- 
vata da  lui  sotto  uno  dei  dipinti  del  palazzo 
del  Comune,  e  che  a  lui  possano  attribuirsi 
quelle  iscrizioni  ritmiche  pubblicate  dal  P. 
DELLA  Valle  nelle  sue  Lettere  Sanesi,  1 1, 
Venezia,  1782,  pag.  284.  Sebbene  di  quesU 
opinione  non  si  debba  tener  gran  conto  sino 
a  che  non  sia  confortata  da  altre  prove, 
pure  non  parmi  fuor  di  luogo  il  ricordarla, 
potrebbe  forse  esser  questi  lo  stesso  che 
Mino  da  Siena.  M. 

C.  703.  Novelle  (Due),  Siena,  ecc.  Di 
quesu  pubblicazione  fatta  solo  a  6  esem- 
plari non  dà  maggiori  notizie  neppure  il 
Passano  nella  seconda  edizione  del  sao  acca- 
ratissimo  CateUogo  de*  Novellieri;  ma  il 
sapere  che  Tuna  di  esse,  la  sola  che  potrebbe 
credersi  del  secolo  XIV,  fu  tratta  da  un  co- 
dice Barberino, mi  fa  dubitare  ch'essa  possa 
essere  non  altro  che  la  Novella  di  Lisabetta 
Levaldini,  sulla  quale  possono  consultarsi 
il  Papanti  e  il  Passano  sotto  questo  titolo  e 
sotto  Brevio,  che  è  indubbiamente  scrittora 
del  secolo  XV.  M. 

C.  703.  Novelle  (Due)  antichissime  ine* 
dite,  ho  Zambrini  avverte  che  di  queste 
Novelle,   da   me  passate  per  le  stsuoape  al 


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B0MAKZA,N.°4] 


BIBLIOQEAFICA 


93 


prof.  Ferrato  nel  1868,  un  «  illustre  filologo  e 
letterato  >  gli  scriveva:  «  Non  so  se  il  D'An- 
cona abbia  voluto  far  la  celia  al  Ferrato,  o 
se  anch' egli  sia  d'accordo:  so  solamente 
che  amiche  non  mi  pajono:  anzi  la  contraf- 
fazione mi  par  tale,  che  non  ci  può  rimaner 
colto  se  non  chi  legge  sbadatamente,  o  chi 
non  s'intende  di  queste  cose.  Sbaglierò,  ma 
non  mi  ricredo  se  non  vedo  il  codice  antico.  » 
«  L'illustre  filologo  e  letterato,  »  del  quale 
ha  ben  fatto  lo  Zambrini  a  tacere  il  nome, 
sbagliava  certo:  perché  l'intero  Novelliere 
onde  le  due  furono  tratte,  venne  stampato 
dal  Rapanti  in  Appendice  al  l.o  volume  del 
suo  Catalogo,  come  poi  avverte  io  Zambrini 
stesso,  avendogli  io  ceduto  la  copia  fatta  da 
me  e  dal  prof.  Wesselofsky;  e  quanto  al  co- 
dice ognuno  può  vederlo  e  toccarlo  nella 
Palatina  di  Firenze,  laddove  il  Pepanti  av- 
verte eh'  ei  si  trova.  Intanto  una  cosa  pia- 
cemi  dichiarare,  che  cioè  di  falsità  io  non 
ne  faccio  neanche  per  burla  o  passatempo  : 
e  un  altra  vorrei  osservare,  cioè  l'incertezza 
e  la  facile  erroneità  di  simili  giudizj  sullo  stile 
e  la  lìngua  di  antiche  scritture.  «  L'illustre 
tìlologo  e  letterato  >  sentenziando  cosi  rici- 
samente  su  quelle  autenticissime  Novelle 
mostra  quanto  si  debba  andar  a  rilento  in 
siffatte  faccende.  ^      D'A. 

C.  123.  Orcaona  Andrea.  Molti  sonetti  di 
questo  poeta,  e  fra  questi  la  maggior  parte  di 
quelli  dati  dal  Trucchi  come  inediti,  si  tro- 
vano nelle  edizioni  delle  poesie  del  Bur- 
chiello del  1475,  1477,  1492,  1521,  e  certa- 
mente anche  in  altre  eh*  io  non  ebbi  agio 
di  esaminare,  colia  indicazione  dell'autore, 
la  quale  manca  affatto  nelle  stampe  del  1552, 
1568,  1757,  ove  solo  poste  fra  i  sonetti  del 
Burchiello.  M. 

C.  733.  Ovidio.  Alle  due  antiche  stampe 
della  versione  in  prosa  delle  Pistole  se  ne  po- 
trebbe aggiungere  un'  altra,  uscita  dai  torchi 
del  Silber,  ricordata  nel  Catalogo  Pinelli 
t.  IV,  pag.  377.  lo  m'accontento  d'accen- 
narvi, non  avendo  potuto  esaminarne  alcun 
esemplare.  M. 

C.  739.  Pacifico  (Frate).  11  Crescim- 
BBNi  anziché  riferire  poesie  di  questo  autore, 
dice  di  non  conoscerne  alcuna  e  s'accontenta 
di  riferire  di  lui  le  poche  notizie  datene  dagli 
annalisti  francescani.  Notizie  più  difi\i8e  ed 
Anche  im  frammento  d' una  sua  poesia  tro- 


viamo riportato  per  la  prima  volta  dal  Pa- 
nelli nelle  Memorie  degli  uomini  illustri 
e  chiari  in  medicina  del  Piceno,  Asco- 
li, 1758,  voi.  Il,  pag.  13  :  e  perché  quest'opera 
non  è  cosi  agevole  il  ritrovarla,  credo  non  inu- 
tile il  riportare  ciò  ch'egli  dice:  «  11  P.  Ap- 
piani fa  entrare  il  B.  Pacifico  nel  ruolo  degli 
Accademici  verseggiatori  Ascolani  in  lode  di 
Errico  VI.  L' Abb.  F.  A.  Marcucci  è  in  pos- 
sesso della  seguente  notizia  inserita  nel  Trat- 
tato mss.  di  Araldica  intitolato  Osservazioni 
sopra  le  famiglie  nobili  d'Italia  e  le  loro  Arme 
ed  imprese  di  Niccolo  Marcucci;  trovo  adun- 
que alla  pcu-te  X  carte  9  e  10:  «  Nella  ve- 
nuta nel  1187  in  Ascoli  di  Luglio  di  Henri- 
co  VI  Re  de  Romani  figlio  di  Federigo  1  Barba- 
rossa  Imperatore  gli  furon  fatti  archi  trionfali 
ornati  con  varie  imprese  et  insegne  et  iscri- 
zioni dalli  Ascolani:  come  si  cava  da  un  an- 
tichissimo manoscritto  di  un  mio  amico  ;  e  gli 
fu  recitata  un  Orazione  Panegirica  in  lingua 
nostra  Italiana  allora  nascente  e  rozza  (quale 
i:on  si  è  mai  ritrovata)  e  si  suppone  recitata 
dal  nostro  Archidiacono  Berardo  poi  Arcive- 
scovo di  Messina  et  un  Carme  italiano,  o  sia 
Cantico  encomiastico  recitato  dal  nostro  Vuil- 
liehno  poi  Pacifico  Poeta  quale  nella  sua  età 
avanzata  fu  frate  e  discepolo  di  S.  Francesco. 
Kt  ecco  un  frammento  che  si  ritrova  nel  Car- 
me overo  Cantico  di  Pacifico  il  primo  fatto 
e  sentito  in  Italia  ».  Il  frammento  della  Can- 
zone fu  pure  riportato  dal  Lancette,  Memo» 
rie  intorno  ai  poeti  laurati ,  Milano,  Man- 
zoni ,  1839,  pag.  85.  Le  notizie  su  fra  Pacifico 
trovansi  ripetute  da  Giovanni  Angelo  da 
Mendrisio,  Vita  del  B.  Pacifico  Divini  da 
Sanseverivo,  Lugano,  Agnelli,  1786;  dal 
Cantauelessa  Carboni,  Memorie  intorno 
i  Letterati  e  gli  Artisti  della  città  di  Ascoli 
nel  Piceno,  Ascoli,  1830.  e  dal  Gentili, 
Sopra  f  ordine  serafico  e  sopra  la  Vita  di 
San  Pacifico  D/rtnt, Macerata,  Mancini,  1839, 
Ninno  di  questi  autori  aggiunge  nuove  prove 
e  documenti  che  possano  rendere  un  po'  meno 
sospetta  la  narrazione  del  Marcucci  o  forse 
solo  del  P.  Appiani,  della  veridicità  del  quale 
si  dubita  assai  anche  a  proposito  di  altri  ar- 
gomenti. M. 

C.  768.  Petrarca.  Tolgo  dall'  ottimo 
Catalogo  delle  opere  di  F,  P.  esistenti  nella 
Rossettiana  compilato  dall'HoRTis  l'indica- 
zione dì  alcune  edizioni  ommesse  dallo  Z. 


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94 


BA8SEQNA 


[giobmalb  di  filologia 


e  mi  limito  ad  accennarle  rimandando  a  quel 
lavoro  chi  desideri  avere  mnggiori  notizie. 
Noto  per  la  prima  la  preziosa  edizione  s. 
1.  n.  a.  descritta  a  pag.  174  che  dovea  porsi 
in  luogo  di  quella  pure  s.  1.  n.  a.  registrata 
dallo  Zambrini  sulla  fede  delTHaim,  la  cui 
esistenza  fu  negata  dalPHortis  pag.  12.  Fra 
le  edizioni  s.  a.  furono  tralasciate  quella 
del  Paganino,  fatta  probabilmente  in  Tosco- 
lano  presso  al  Benaco,  in  8°;  e  quella  di 
Venezia,  Francesco  de  Leno,  in  8*»,  conte- 
nente i  soli  Trionfi,  che  appartenj^ono  am- 
bedue al  secolo  XVI.  Fra  le  edizioni  con 
data  mancano  le  seguenti:  Venezia,  Paga- 
nino, Aprile  1515,  in  32.°  Ed  ivi,  Zoppino, 
1531,  in  8o.  Ed  ivi,  Bartolomeo  Zanetti  Ca- 
8terzagense,1538,  in  8.o  Ed  ivi,  Griphio, 
1568,  in  12.0  Parigi,  Charpentier,  1709,  in 
12°,  colla  versione  francese  a  fronte.  Feltre, 
Foglietta,  1754,  in  4.°  Venezia,  Remondini, 
1755,  In  12.0  Modena,  Solìani,  1762,  in  4.» 
Berlino  e  Stralsunda,  Lange,  1875,  in  8.o 
Venezia  e  Parigi,  1787,  in  8^,  che  è  solo  una 
scelta  colla  versione  francese  a  fronte.  Pa- 
rigi, Delalain,  in  12.o  Pongo  da  ultimo, 
fuori  deir  online  che  cronologicamente  le 
sarebbe  convenuto,  una  edizione  del  Zop- 
pino sull'epoca  della  quale  io  sarei  d'un 
parere  diverso  da  quello  dell' Ilortis.  Que- 
sta edizione  porta  la  data  del  MD.  XXI  de 
Marzo,  e  V  Ilortis  la  registra  sotto  la  data 
del  1500,  ritenendo  che  le  ultime  tre  lettere 
della  cifra  si  dovessero  riferire  al  mese  an- 
ziché all'anno;  ma,  se  ciò  fosse, dovrebbero 
riportarsi  al  1500  non  solo  diverse  altre  edi- 
zioni uscite  dagli  stessi  torchi,  ma  al- 
tresì quelle  di  Venezia  1511,  Firenze  1515, 
Milano  1516,  Venezia  1519,  e  parecchie 
altre.  A  confermare  che  quella  edizione 
appartenga  al  1521  s'aggiunge  un  altro  ar- 
gomento, ed  è,  che  fra  le  numerosissime 
pubblicazioni  dello  Zoppino,  non  se  ne  trova 
alcuna  che  porti  la  data  del  1500  o  dei 
primi  anni  che  seguirono  ad  esso.  In  que- 
sto stesso  anno  lo  Zoppino  pubblicò  un'  altra 
edizione  colla  data  del  4  Dicembre;  lo  Zam- 
brini indica  una  sola  di  queste  stampe. 

Sulle  edizioni  registrate  non  ho  a  fare  che 
poche  osservazioni. 

L'esistenza  dell'edizione  di  Parma,  Por- 
tilia,  1473,  è  fondata  solo  sulla  testimonianza 
deirilairo,  né  il  Marsaud   né   l'Hortis   ne 


fanno  parola;  probabilmente  THaim  volle 
indicare  la  stampa  dei  commenti  del  Fi lelfo 
ai  Trionfi.  Sulla  fede  dell' Haim  è  pure  ra- 
gistrata  T edizione  di  Basilea,  Bernardo 
Glicinio,  1474,  ma  qui  \'ha  un  palese  errore 
nel  nome  del  tipografo;  il  Glicinio  è  uno  fra 
i  commentatori  del  Petrarca,  e  i  suoi  com- 
menti trovansi  stampati  nell'edizione  di  Bo- 
logna 14'J5  (che  consta  di  carte  244  anzi- 
ché di  474)  e  in  altre  posteriori. 

Circa  all'edizione  Aldina  del  1501  è  da 
ricordarsi  un  lavoro  del  BoRGonNONi,  Se  3/. 
Bembo  abbia  mai  avuto  xnx  codice  auto- 
grafo del  Petrarca.  Ravenna,  Lavagna, 
1877,  nel  quale  è  dimostrato  com'  essa  non 
sia  punto,  come  vantavasi,  derivata  da^H 
autografi.  Dell'  autorità  e  del  pregio  in  cui 
fu  tenuta  ci  è  prova  la  contraffazione  fat- 
tane probabilmente,  secondo  l'Hortis,  in  Ve- 
nezia nel  1522. 

Nell'indicazione  dell'edizione  di  Venezia 
1542  correggasi  il  nome  del  tipografo.  Ago- 
stino Bandone;  così  nell'edizione  Venezia, 
Bartoli,  l'ì39,  correggrsi  l'anno  in  1736. 

A  proposito  della  edizione  di  Milano  1805 

10  Zambrini  avverte  ch'essa  è  una  ristampa 
della  precedente  fatta  nel  1800  appostavi  la 
data  del  1805;  dovea  dirsi  invece  che  di 
quella  edizione  ne  fu  fatta  una  ristampa  colla 
medesima  data  nel  1820. 

Le  indicazioni:  Firenze,  Società  Editrice, 
1847;  e  Firenze,  1847,  con  prefazione  di 
Emiliani  Giudici,  si  riferiscono  ad  una  stessa 
edizione;  cosi  è  pure  delle  indicazioni:  Fi- 
renze, Le  Monnier,  1851,  in  12o.  e  Firenze, 
Le  Monnier,  1851,  in  IG*». 

Dei  Sovetti  iriediti  pubi,  dal  Saoredo,  il 
secondo  e  il  terzo  trovavansi  già  stampati  nel 
Crescimbeni,  l'uno  al  voi.  Ili,  pag.  177,  sotto 
il  nome  di  Federigo  d'Arezzo,  e  l'altro,  voi.  Il, 
pag.  56,  sotto  quello  di  Marc  bienne  Torri- 
giani.  M. 

C.  79L  Petrarca,  Carmina  incognita. 
Che  i  Sonetti  pubbl.  dal  Thomas  di  Monaco 
come  del  Petrarca,  non  sieno  né  jwssano  es- 
sere suoi ,  dimostrò  chiaramente  il  Pro  fi  Ve- 
RATTI  negli  OpMscoli  Religiosi  ecc.  di  Mo- 
dena. D'A. 

C.  808.  PiccoLOMiNi  detto  il  Ciscranna. 

11  solo  sonetto  che  di  lui  sì  conosce  fu  pub- 
blicato i>pr  la  prima  volta  dall'ALLACxT,  p.  2SG  ; 
e  trovasi  pure  nelle  Rime  dì  If.*"  Franco  ^ 


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ROMANZA,   N.*»  4] 


BIBLIOGRAFICA 


95 


Giannozzo  e  Ms  Iacopo  Sacchetti ^  Roma, 
1856,  (love  però  auzi  che  a  Franco  è  indi- 
rizzalo a  Giannozzo  Sacchetti.  M. 

C.  815.  Poesia  genovese  del  secolo  XIV. 
Si  potrebbe  fondere  in  un  solo  articolo  colle 
Rime  istoriche  a  col.  873,  accordandovi  an- 
che r  altro  pur  a  col.  873  della  edizione  com- 
piuta di  queste  poesie  fatta  neW Archivio  Glot- 
tologico, M. 

C.  820.  Poesie  dei  Re  Svevi  in  Italia, 
È  la  ristampa  fatta  d  d  Pfeiffbr  nei  volu- 
mi della  società  letteraria  di  Stuttgart,  della 
pubblicazione  del  Di  Gregorio,  1821.  Quindi 
va  corretto  il  singolare  errore  che  sian  tratte 
da  un  «  libro  tedesco;  Rosario  di  Grego- 
rio ecc.  »,  come  anche  «  Federico  Uohan  hau- 
fen  »  va  rettificato  in  Hohenstaufen.       D'A. 

C.  824.  Poesie  {IV)  politiche.  La  prima 
di  queste  poesie  già  era  stata  pubblicata  dal 
Trucchi,  voi.  II,  pag.  117,  con  lezione  lieve- 
mente diversa,  la  quale  conferma  pienamente 
una  correzione  al  v.  12  sagacemente  proposta 
dall'egregio  editore.  M. 

C.  830.  Polo  Marco,  H  Milione,  L'edi- 
zione del  Lazari  non  contiene  un  testo  antico, 
ma  mia  traduzione  fatta  dal  Lazari  stesso. 
Quest'edizione  ignorata  dallo  Zambrini,  che  la 
conosce  soltanto  per  averla  veduta  citata  nel 
Giornale  delV  Istituto  Lombardo ,  è  fatta 
a  cura  del  geologo  illustre  Lodovico  Pasini, 
Venezia,  Naratovich,  1847.  D'A. 

C.  831.  Polo  (Messer)  di  Lombardia. 
NegU  Atti  e  Memorie  della  Società  di  Sto- 
ria Patria  per  le  Provincie  dell'Emilia, 
voi.  Vili,  pag.  XXXV,  trovasi  una  comuni- 
cazione del  socio  Prof.  Bernardino  Catelani 
per  mostrare,  contro  l'argomento  adoperato 
dal  Settembrini,  che  le  Lumie  erano  note 
e  cosi  chiamate  anche  a  Reggio,  e  questo 
solo  argomento  non  bastare  perciò  a  far  di 
Messer  Polo  anziché  un  reggiano,  un  siciliano, 
come  il  Settembrini  vorrebbe.  —  11  Borgo- 
gnoni, Studi  di  erudizione  e  d*  arte,  Bo- 
logna, Romagnuoli,  1878,  voi.  Il,  pag.  134, 
lo  farebbe  bolognese,  citando  un  sonetto  di  un 
contemporaneo,  che  dice: 

Me«8er  Paolo  da  Bologna  nato 
E  da  Oaatel  chiamato  dalle  genti. 

Resta  da  dimostrare  che  essendo  uno  stesso 
individuo  Paolo  da  Bologna  e  Paolo  da  Ca- 
stello, costui  sia  anche  una  stessa  persona 


con  Messer  Polo  da  Reggio  oppure  da  Lom- 
bardia. D-'A. 

C.  835.  Prophetia  (Quaedam) ;  Una  poe- 
sia siciliana  del  XIV  secolo  inedita,  stu- 
dio i>aleografico,  letterario  e  storico  di  Ste- 
fano Vittorio  Bozzo,  Palermo,  Virzi,  1876. 

Fu  inserita  nell'  Archivio  storico  sici- 
liano. D'A. 

<J.848.  Pucci  Antonio.  Del  poemetto  sulla 
storia  d'Apollonio  di  Tiro  meritano  d'  esser 
ricordate  anche  le  due  edizioni  seguenti.  La 
prima  (Cors.  51.  B.  41)  non  porta  alcuna 
nota  tipografica,  ma  appartiene  alla  fine 
del  secolo  XV.  È  in  carattere  tondo,  in  4o, 
di  carte  39  di  linee  31,  con  registro  da  a 
ad  e  tutti  quaderni.  La  seconda  (Ales.  XIII. 
A.  58)  porta  questo  titolo:  Apolo  |  nio  de 
Tiro  I  h istoriato  |  <C*  nouamente  ristampa- 
to; al  fine  v*ha  la  segnatura:  In  Vene- 
tia  I  Appresso  Fabio  é  Agostino  Zoppino 
fratelli  MDLXXX.  È  in  carattere  corsivo, 
di  carte  4  di  linee  2S.  Dopo  il  congedo  se- 
guono in  questa  stampa  due  ottave  aggiun- 
tevi dall'editore,  nelle  quali  s' accenna  ad 
una  edizione  anteriore,  probabilmente  ve- 
neta anch'essa,  del  1565. 

Un  sonetto  del  Pucci  trovasi  nella  stampa 
del  Burchiello  del  1475  e  consorti,  coli* in- 
dicazione d'autore,  che  manca  nelle  edizioni 
del  1562,  1568,  1757.  M. 

C.  851.  Raccolta  di  antiche  rime.  Le 
Le  poesie  di  Maestro  Pagolo,  Nastagìo  da 
Monte  Alcino  e  del  Romanello  trovansi  solo 
nella  edizione  del  1753.  M. 

C.  857.  Rappresentazioni  sacre  dei  se^ 
coli  XIV,  XV  e  XVI.  A  conferma  di  quan- 
to nota  lo  Zambrini,  sul  non  esservi  qui 
scritture  del  secolo  XIV,  come  troppo  cor- 
rivamente asserimmo  nel  titolo  della  Raccol- 
ta, vedi  ciò  che  dicemmo  nelle  nostre  Ori^ 
gini  del  Teatro  ,  voi.  I ,  pag.  192.        D'A. 

C.  860.  Regola  di  S.  Benedetto.  Di  questo 
scritto  trovansi  diverse  edizioni,  in  gran 
parte  delle  quali  però  il  testo  è  talmente  tra- 
sformato che  non  presenta  più  alcuna  trac- 
cia di  antichità,  cosi  eh'  io  tralascio  di  regi- 
strarle, all'infuori  della  seguente  nella  quale, 
sebbene  il  titolo  possa  far  credere  diversa- 
mente, il  testo,  tranne  alcune  varianti  di 
lieve  importanza,  è  quello  della  ed.  del  1493: 
Regola  di  Sancto  Benedecto  nuoua  (  men- 
te uulgarizata.    Sotto  il  titolo  v'ha  un  ia- 


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96 


RASSEGNA 


[oiOiaiÀLB   DI    FILOLOaii 


taglio  che  rappresenta  Cristo  colla  croce  fra 
le  braccia.  É  in  8^,  di  carte  48,  delle  quali 
le  tre  prime  sono  occupate  dalla  tavola  d^i 
capitoli,  di  linee  29  nelle  faccie  piene,  con 
registro  da  a  a  d  tutti  quaderni.  SulPul- 
tinao  foglio  v' ha  solo  questa  indicazione: 
fine  della  regola  del  nostro  Sane  \  tissimo 
Padre  Benedecto,  e  segue  ad  essa  una  ta- 
vola di  correzioni.  Mt 

C.  863.  Regola  di  S,  Francesco,  Questa 
stessa  Regola,  pubblicata  insieme  cui  testa- 
mento di  S.  Francesco  come  inedita  nel  1874, 
trovavasi  già  a  stampa  nella  edizione  dei 
Fioretti  fatta  dallo  Zaroto  nel  1477,  e  proba- 
bilmente non  in  quella  sola,  ma  anche  in 
altre  delle  edizioni  ch*io  non  ho  potuto  esa- 
minare. Rannosi  pure  diverse  stampe  della 
Regola  del  terzo  ordine  di  S.  Francesco, 
che  anch'essa  parmi  possa  trovar  posto  fra 
le  antiche  scritture.  Non  ne  indico  per  ora 
che  una  sola  stampa,  Tunica  che  mi  fu 
dato  di  ritrovare  qui  in  Roma.  Nel  fronti- 
spizio sotto  il  titolo  v*èun  intaglio  che  rap- 
presenta S.  Francesco  coi  segni  delle  stim- 
mate, con  un  libro  in  una  mano  e  la  croce 
neir altra,  e  di  fianco  a  lui  due  frati  ginoc- 
chioni. Sull'ultimo  foglia  v'ha  la  nota: 
Finita  la  regola  del  terzo  ordine  di  sancto 
Fran  \  ciscOj  Apititione  di  Ser  Piero  da 
Pescia.  È  in  8^,  di  carte  28,  con  registro 
da  a  a  ^  tutti  duerni.  Oltre  la  Regola  con- 
tiene delle  preghiere  latine  per  diverse  oc- 
casioni. M. 

C.  869.  Ricci  (Giovanni  de*).  Se  della  sua 
valentìa  poetica  non  s'ha  altro  saggio  che 
quello  recatone  dal  Wesselofsky,  si  può  du- 
bitare molto  d'ammetterlo  fra  i  poeti,  poiché 
la  stessa  poesia  era  stata  già  più  volte  pub- 
blicata col  nome  di  Sinibaldo  da  Perugia  (vedi 
col.  938)  al  quale  è  attribuita  da  tre  codici 
diversi.  Né  questi  è  il  solo  a  contenrlergliela  ; 
poiché  il  Vaticano  3212  l'attribuisce  ad  un 
Agnolo  da  Perugia,  ed  il  Vaticano  3213  in- 
sieme col  Chigiano  M.  VII.  142  la  danno 
al  Conte  Ricciardo.  M. 

C.  876.  Rime  inedite  dei  quattro  poeti. 
Delle  poesie  pubblicate  sotto  il  nome  di  Dante 
la  prima  trovasi  col  nome  di  Sennuccio  del 
Bene  nella  Raccolta  di  Rime  Antiche  ag- 
giunte alla  Bella  Mano  ;  la  seconda  col  nome 
di  Dino  Frescobaldi  nel  Crrscimbbni,  voi.  Ili, 
pag.  121  ;  la  terza  come  di  Betrico  d' Arezzo 


pure  nel  Crescimbeni,  III,  123.    Cosi  il  a^ 

condo  de' sonetti  del  Petrarca  era  già  ant*»- 
riormente  stato  pubblicato  per  ben  quattro 
volte.  M. 

C.  883.  Ritmo  anonimo.  Fu  pubblicato 
dal  Bandini,  Cat.  Codd.  Lai,  Bib.  }Ied, 
Laur.^  tom.  IV,  p.  468  nella  descrizione  del 
cod.  VI  pL  XV.  Il  Giornale  ne  darà  quanto 
prima  una  nuova  edizione  riveduta  sul  ma- 
scritto.  M. 

C.  885.  RoMANELLO  G.  Ant.,  Ritmi  vol- 
gari. Crediamo  che  questo  poeta  andrebbe 
espulso  dalla  serie  dei  trecentisti.  Anche  il 
Vedova,  Biorr^fia  degli  scritt.  podor., 
1836,  voi.  II,  pag.  171,  lo  dice  «  del  secolo 
decimoquinto  ».  D'A. 

C.  886.  Rosso  Matteo  da  Messina.  Il 
nome  di  questo  poeta  fu  messo  fuori  per  la 
prima  volta  dal  Trissino  nel  suo  Castellano 
lib.  3,  ma  egli  stesso  nella  sua  Poetica  lo  chia- 
ma solamente  Matteo  da  Messina  e  lo  crede 
una  stessa  persona  che  Mazzeo  da  Messina. 
Di  questo  avviso  fu  pure  il  Crescimbeni  :  i  ma- 
noscritti, e  in  parte  anche  le  stampe,  favo- 
riscono questa  ìdentidcazione  ;  poiché  tutte 
le  poesie  pubblicate  col  nome  di  Matteo 
Rosso  trovansi  in  altre  raccolte  sotto  il  nome 
di  Mazzeo  del  Ricco.  Notisi  che  V  unico 
codice  che  abbia  il  nome  di  Matteo  Rosso 
si  è  il  Palatino  CCCCXVIII.  M. 

C.  012.  Salamone.  In  una  stampa  del 
secolo  XV  (Cas.  0.  II.  104),  insieme  con  una 
canzone  dei  cortigiani  e  con  alcuni  sonetti 
e  strambotti  del  Serafino,  v'ha  una  scrittura 
che  porta  questo  titolo:  Amaestramento  e 
sententie  de  Salomone  de  fare  imparare 
al  figliuolo,  ed  incomincia 

Flgllnol  mio  flglinol  mio  temi  idio 
impara  tapientia  e  vertute. 

Non  parmi  inutile  darne  notizia,  sebbene 
possa  dubitarsi  ch'ella  sia  scrittura  del  se- 
colo XIV.  La  stampa  non  porta  alcuna  in- 
dicazione tipografica,  è  in  caratteri  semigo- 
tici in  4.^,  di  due  carte,  a  due  colonne  di  40 
linee  ciascuna.  M. 

C.  916.  Salutati  Coluccio.  Nella  edizio- 
ne delle  poesie  del  Burchiello  del  1475  e 
consorti  v'ha  un  suo  sonetto  che  incomincia 
«  Qualunque  é  posto  per  seguir  ragione  »,  che 
trovasi  pure  nelle  altre  stampe  ma  senxa 
indicazione  d* autore.  M. 


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BOMANZA,   N.**  4] 


BIBLIOGRAFICA 


97 


C.  920.  Schiavo  db  Baro.  Di  costui 
non  abbiamo  altre  notizie  all' infuori  di  quelle 
dateci  dal  N^ovellino  (nov.  X),  e  però  do- 
vette egli  vivere  innanzi  al  a  compilazione 
di  esso,  la  quale  secondo  il  D'Ancona  {Le 
fonti  del  Novellino  nella  Romania  1873) 
risale  alla  fine  del  secolo  XIII.  Gli  am- 
maestramenti o  Proverbi  che  vanno  sotto 
il  suo  nome,  non  possono  certo  pretendere 
ad  un  origine  così  antica,  e  può  quindi  cre- 
dersi ch'essi  gli  fossero  attribuiti  solo  per 
la  grande  fama  che  correva  della  sua  sag- 
gezza, in  un'  epoca  nella  quale  se  ne  con- 
servava ancora  memoria.  Le  diverse  stampe 
auliche  ind  cate  dallo  Zambrini  contengono, 
insieme  ad  essi,  altre  scritture  d'epoca  più 
recente.  La  sola  in  cui  queste  aggiunte  man- 
chino affatto  è  una  edizione  sconosciuta  (Ca- 
san.  K.  L  41)  del  secolo  XV,  priva  d'ogni 
indicazione  tipografica,  in  4.",  di  carte  6,  la 
terza  delle  quali  segnata  aitV,  di  linea  29, 2S, 
in  carattere  tondo;  essa  non  porta  al  prin- 
cipio che  questa  sola  indicazione  Schiavo  di 
Bari  e  sotto  ad  essa  un  intaglio.        M. 

C.  932.  Seneca  da  Camerino.  Lo  Z.  tra- 
lascia di  registrare  questo  poeta,  ritenendo 
forse  ch'egli  dovesse  annoverarsi  fra  i  quat- 
trocentisti; ma  tuttavia  credo  opportuno  il 
ricordarlo,  poiché  il  Crss'^imbssi,  pubbli- 
cando un  suo  sonetto  (voi.  UT,  pag.  214), 
lo  dice  vissuto  in  sul  finire  del  secolo  XIV, 
e  fra  poeti  di  questo  periodo  trovasi  nel 
codice  Riccardiano  1126.  M. 

C.  932.  Sentenza  dei  Giudici  della  Curia 
del  Procuratore  a  favore  di  Pietro  Bra- 
gadln  rhpetto  a  un  laooro  fatto  indebita- 
mente da  Agnesina  e  Caterinuzza  Polo, 
15  Maggio  1383,  Di  questa  scrittura  fu 
pubblicato  da  V.  Zanetti  s jltanto  un  fra  n- 
menio  nelV Archivio  Veneto,  tomo  XVI,  pa- 
gina 102.  M. 

C.  942.  Sonetti  cinque  ecc.  Ad  illustra- 
zione maggiore  di  questa  importante  pubbli- 
cazione del  Prof.  MussAFiA,  aggiungasi  :  Na- 
poleone Caix,  Di  un  antico  monumento 
di  poesia  italiana  (estratto  dalla  Rivista 
Europea),  Firenze,  Tipografia  dell' Associa- 
zione, 1874.  D'A. 

C.  943.  Sonetti  (  Tre)  in  laudem  Dantis. 
I  primi  due  erano  già  stati  pubblicati  di  sullo 
stesso  codice  dal  Bandini,  voi.  IV,  pag.  34, 
ed  il  terzo  trovasi  nel  Crescimbeni,  III,  141 


sotto  il  no  ne  di  Mucchio  di  Lucca,  e  quindi 
almeno  per  quest'ultimo  non  si  può  dubitare 
che  sia  scrittura  del  trecento.  D'A. 

C.  945.  Sonetti  di  alcune  gentildonne 
da  Fabriano  che  furono  al  tempo  del  Pe- 
trarca. Sono  Leonora  della  Genoa,  Or- 
tensia DI  Guglielmo,  Livia  da  Chiavello. 
Noi  veramente  crediamo  che  queste  rime 
sieno  apocrife:  e  che  l'editore  Andrea  Gillo 
da  Fabriano  o  fosse  ingannato,  o  volesse  in- 
gannar altrui ,  a  maggior  gloria  della  sua  pa- 
tria. Veggano  i  dotti:  noi  dubitiamo  senza 
nulla  affermare.  E  eoa  noi  dubita,  del  re- 
sto, il  Carducci,  Rime  di  Gino,  Disc,  pre- 
limmare,  p.  LXXXI.  D'A. 

I  Sonetti  di  Leonora  della  Geuga  tro- 
vansi  ripjrtati  nella  Storia  di  Fabriano 
dello  Scevolini  DA  Bertinoro,  scrittore  del 
secolo  XVI,  pubblicata  dal  Colucci,  pag.  149 
e  seg.  delle  sue  Antichità  Picene,  t.  XVIII, 
Fermo,  1792.  Lo  Scevolini  dice  d' averli  tratti 
da  antiche  scritture  che  per  troppa  vecchiezza 
non  si  potevano  leggere  a  pieno,  sicché  egli 
stesso  avea  dovuto  supplire  le  due  terzine  del- 
l'ultimo  so:ietto,  le  quali,  a  dir  vero,  pre- 
sentano cosi  stretta  somiglianza  coli' altre  poe- 
sie da  far  crescere  anzi  ch^ dileguare  i  dubbi 
che  si  potessero  avere  sulla  loro  autenticità. 
Lo  Scevolini  ricorda  anche  le  poesie  di  Or- 
tensia e  dice  di  riferirle  nel  seguito  del  suo 
lavoro  che  però  non  fu  pubblicato,  e  non  so 
neppure  se  trovisi  manoscritto.  Le  due  ter- 
zine che  lo  Scevolini  dà  come  fattura  sua,  sono 
dagli  altri  date  senz'altro  come  di  Leonora.   M. 

C.  952.  Spinello,  yotamcn ri.  Aggiungi 
alla  natila  pubblicaz.  del  Minieri-Riccio  que- 
ste altre  due  dello  stesso  autore  :  I  Notamenti 
di  M.  Spinelli  nuovamente  difesi,  Napoli , 
Rinaldi  e  Sellitto,  1874.  —  Ultima  confuta- 
zione agli  oppositori  di  M.  Spinelli,  id. 
ibid.,  1875.  —  Per  la  singolarità  degli  argo- 
menti adoperati  e  T ingenuità  della  critica,  si 
registri  anche:  Sulla  veracità  dei  Notaìnenti 
di  Spinello,  osservazioni  dell*  Avv.  Mat- 
teo Barrella,  Napoli,  Fibreno,  1872.  — 
11  sig.  Bart.  Capasso  oltre  che  nella  pubbli- 
cazione registrata  dal  bibliografo,  ha  soste- 
nuto l'apocrifità  dello  Spinelli  anche  nell'im- 
portante opera  sua:  Uistoria  diplomatica 
Regni  Siciliae  inde  ab  anno  1250  ad  an- 
num  1266  (Napoli,  Tipografia  Universita- 
ria, 1874).  D'A. 
7 


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JRASSEGNA 


[OIOBMALE  DI   FILOLOGI! 


C.  961.  Passione  di  S.  Job  in  tulgare. 
Delle  rime  di  Fra  Boavesin  pubblicate  dal 
Bbkkbr  uei  Bericht  della  Accademia  berli- 
nese, citasi  questo  solo  compouimeiito,  oltre 
la  Vita  b,  Alejoii,  Crediamo  utile  indicar 
tutta  la  serie  delle  Rime,  di  Bonvesin  pub- 
blicate dal  Berker,  e  indicate  soltanto  somma- 
riamente dallo  Zambrini  alla  col.  ÌJ20: 

Dal  Monatsbericht  der  h.  preuss.  Aka- 
demie  der  Wissenschaften  zu  Berlin:  1850, 
pag.  322  Contrasto  di  Satanas  e  Maria  — 
p.  379  De  quindecim  miraculis  quae  de' 
bent  apparere  ante  diem  jtcdicii  —  p.  438 
Vulgare  de  Eleemosynis  (vi  si  comprende 
p.  451  De  S.  Bonifacio;  p.  453  De  milite 
qui  amisit  bona  sua  quem  diabolus  voluit 
uccidere;  p.  456  De  passione  S,  Donati; 
p.  460  De  tribus  amicis;  p.  461  De  civitate 
quae  mittebat  judices  suos  in  desertum; 
p.  462  De  rege  qui  amplectabatur  paupe^ 
rtfj)  — p.  478  Laudes  de  Virgine  Maria 
(vi  si  comprende,  p.  481  De  castellano;  p.  483 
De  pirata;  p.  485  De  Maria  Aegyptiaca; 
p.  4S9  De  monaco  liberato  per  Virginem 
Mariam;  p.  490  De  quodam  monacho  qui 
vocabatur  Frater  Ave  Maria)  —  Dai  Mo- 
natsbericht del  1851,  p.  3  Disputano  Rosae 
cum  Viola  —  p.  9  Disputatio  Muscae  cum 
Formica — p.  85  De  quinquaginta  curia- 
litatibus  ad  mensam  —  p.  90  De  peccatore 
cum  Virgine -^^.  94  Rationes  quare  Virgo 
tenetur  diligere peccatores  (contiene:  p. 95 
De  agricola  desperato) —  ^.  132  De  Ani^ 
mo  cum  Corpore  —  p.  209  Vulgare  de  Pas- 
sione S.  Job.  —  p,  217  Vita  Beati  Alexii-^ 
A  pag.  450  vi  sono  anche  Frammenti,  ma  in 
versi  latini,  del  Liber  Vita  scolastica  dictus, 

A  proposito  specialmente  della  pubblica- 
zione del  LiDFORSS,  //  Trattato  dei  mesi  di 
Bonvesin  de  Riva  (col.  197)  il  Prof.  Wesse- 
LOFSKY  dettò  il  suo  articolo  Intorno  ad  al- 
cuni testi  dei  dialetti  dell'  Alta  Italia  re- 
centemente pubblicati,  inserito  nel  voL  V 
del  Propugnatore  (1872).  D'A. 

C.  961.  Statuto  dello  Studio  di  Perugia, 
Questo  Statuto,  o  matricola  che  dir  si  vo- 
glia, porta  la  data  del  1342,  ma  la  sua  com- 
pilazione probabilmente  è  più  antica.  Ne 
pubblicò  alcuni  capitoli  il  Prof.  G.  Padel- 
LETTi  neìVArchivio  Giuridico,  voi.  VI,  1870, 
pag.  108  e  seg,,  e  furono  ristampati  più 
correttamente  nel  Giornale  d' Erudizione 


Artistica,  1876,  pag.  180  e  seg.,  dal  Prof. 
A.  Rossi.  M. 

C.  963.  Statuto  dei  mercanti  drappieri 
della  città  di  Vicenza,  Vicenza,  Durato,  1879. 
Questo  statuto  fu  scritto  nel  1348  e  fu  messo 
a  stampa,  in  occasione  di  nozze,  dall'Abate 
Capparozzo.  M. 

C.  968.  Storia  di  S.  Alessio.  Nella  Ca- 
sanentese,  alla  segnatura  0.  II.  168,  conser- 
vasi una  antica  edizione  di  questa  leggenda 
Ijen  diversa  da  quella  descritta  dal  MolinL 
Il  titolo  di  essa  è  :  La  storia  et  vita  di  santo 
Alexio  Romano;  nelP intaglio  che  sta  sotto 
al  titolo  è  raffigurato  im  pellegrino  inginoc- 
chialo inanzi  al  Pontefice,  dietro  il  quale  ve- 
doasi  diverse  figure,  una  delle  quali  incoro- 
nata; ma  questa  rappresentazione  parmi  non 
si  riferisca  alla  vita  del  santo,  quale  almeno 
è  data  da  questa  stampa.  É  in  carattere  se- 
migotico, in  4.0,  di  carte  sei,  a  due  colonne 
di 4 ottave  ciascuna,  con  segnatura  aii,  atti.— 
Alla  fine  si  legge:  Finita  la  historia  \  di 
sancto  Alexio  Romano.  La  composizione 
consta  di  ottave  73.  Sebbene  manchi  ogni  in- 
dicazione tipografica,  pure  dal  carattere,  quale 
trovasi  in  altre  stampe  che  portano  l'indica- 
zione del  luogo,  pare  che  questa  edizione  sia 
stata  fatta  in  Roma.  M. 

C.  970.  Storia  de'  SS,  Barlaam  e  Giosa- 
fat.  Di  questa  leggenda  v'ha  una  antica 
stampa  mancante  di  frontispizio ,  e  senza  al- 
cun titolo.  Comincia  senz'altro  la  narrazione; 
«  Lezese  anticamente  che  in  india  ecc.  »  e 
segue  per  79  capitoli  ;  la  lezione  di  essa  non 
è  punto  inferiore  a  quella  dell'edizione  del 
1734.  È  in  4.0,  di  carte  24  di  linee  36,  con 
registro  a,  b  quaderni,  e,  d  duerni.         M. 

C.  972.  Storta  di  S.  Cle^nente.  Di  questa 
leggenda  v'ha  Hn' antica  stampa  (Cors.  51. 
A.  36)  che  è  da  credersi  rarissima,  se  sfuggì 
alle  diligenti  ricerche  dello  Zambrini  che  la 
pubblicò  come  inedita.  Essa  porta  il  titolo 
Legeda  de  sancto  clemente:  a  san  \  cto pie- 
tro  successore  ponti  \  fice  Romano:  histo  \ 
ria  deuotissima  |  e  uera.  Non  ha  alcuna 
indicazione  di  tipografo  né  dì  luogo  ;  è  in  bel 
carattere  gotico,  in  formato  di  4.",  di  carte 44, 
a  due  colonne  di  linee  30 ,  29  ;  avente  registro 
da  a  ad  /  tutti  quaderni,  meno  l  il  quale  è 
duerno.  M. 

C.  980.  Storia  di  Tobia  narrata  dalla  Sa- 
cra Scrittura  e  fatta  italiana  per  un  treeen- 


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BOMÀKZl,   N."   4] 


BIBLIOORAFICA 


99 


Usta,    Roma,  Tip.  Monaldi,  1875,  in  8.o  di 
pagg.  34. 

È  una  ristampa  del  Volgarizzamento  pub- 
blicato dal  Cesari,  di  cui  a  col.  579,  fatta 
dal  sig.  Ruggero  Valenti»,  in  occasione 
di  nozze  d'una  sua  figliuola.  M. 

C.  981.  Storia  di  Florio  e  Biancifiore. 
Di  questo  poemetto  meritano  d'esser  indicate 
due  antiche  edizioni  sconosciute  anche  al  Pas- 
sano. L'una  (CJors.  51.  13.  41)  ha  al  prin- 
cipio il  titolo:  Florio  et  bianciflorio,  e  alla 
fine  la  nota:  Finito  il  cantare  di  |  /Iorio  et 
bianci  \  flore  adi  XI  di  |  Maggio  MCCCC. 
LXXXX;  è  in  4.o,  di  carte  20,  di  linee  li», 
con  registro  a  b  quaderni ,  e  duerno  ;  manca 
in  questa  edizione  V  invocazione ,  e  il  poemetto 
consta  di  137  ottave.  L'altra  (Alessandri- 
na XIII.  A.  57)  ha  questo  titolo:  Un  bellessi- 
mo  innamoramento  \  de  duo  nobilissimi  \ 
amanti^  Nominati  Florio  db  Biance fiore  | 
Nouamente  ristampato;  al  fine:  Venetia. 
Appresso  Fabio  tfc  Agostino  Zoppini  fra- 
telli 1587  ;  è  in  16.o,  di  carte  8.        M. 

C.  1003.  ToMMASUCCio.  Su  questo  autore 
è  a  vedersi  il  seguente  lavoro  dove  pure  son 
riferite  le  sue  profezie  già  a  stampa:  //  Pro- 
feta del  secolo  XIV  o  il  B.  Tot  naso  Un  zio, 
studio  di  L.  C.  Amoni.  Assisi,  Tipografia  Sen- 
si, 1878.  Il  De  Angelis  riporta  soltano  il  prin- 
cipio della  profezia  già  udita:  «  Tu  pur  vuoi 
eh'  io  dica  3».  M. 

C.  1025.  Trebian'i  Lisa  betta  Ascolana. 
Il  sonetto  «  Trunto  mio  che  le  falde  avvieii 
che  bacie»,  fu  pubblicato  pure  dal  Cinelli, 
Biblioteca  Volante,  scansìa  XIV,  a  pag.  24, 
da  un  manoscritto  ascolano,  del  quale  diede- 
gli  notizia  il  P.  Appiani.  M. 

C.  1029.  Uberti  (Fazio  degli).  Cade  qui 
opportuna  anche  l' indicazione  dell'opuscolo: 
Giusto  Grion,  Intorno  alla  famiglia  e  alla 
vita  di  Fazio  degli  Uberti  autore  del  Bit- 
tamondo  disquisizione,  Udine,  Vendra- 
me,  1861.  D*A. 

Di  lui  trovansi  fra  le  Poesie  Minori  del  se^ 
colo  XlV^ive  canzoni  «  0  sommo  bene  o  glo- 
rioso iddio»,  «Quel  che  distinse '1  mondo  in 
tre  parte  »,  «  Io  vorrei  stare  prima  in  mezzo 
al  fango  »;  e  due  sonetti  «  Se  legittimo  nulla 
nulla  è  »,  «  Non  so  chi  sé  ma  non  fa  ben 
colui  ».  M. 

C.  1034.  rouRGiERi  Cecco  di  Meo  Mel- 
lone.   11  nome  di  questo  jioeta  trovasi  solo 


ricordato  dal  De  Angelis  nel  suo  Catalogo 
già  citato,  pag.  206,  che  menziona  un  mano- 
scritto proprio  delle  di  lui  poesie,  ed  a  lui 
credo  egli  di  poter  attribuire  i  versi  che 
stanno  sotto  alcune  pitture  del  1343  nel  pa- 
lazzo del  Comune,  pubblicati  dal  P.  Della 
Valle  nelle  Lettere  Senesi,  t.  II.  M. 

C.  1047.  Vigne  (Piero  delle).  Nel  bel 
lavoro  dell' Huillard-Breholles,  Vie  et  cor- 
respon dance  de  Pierre  de  la  Vigne,  Paris, 
Plon,  1865,  trovansi  riportate  due  canzoni,  la 
prima  a  pag.  421  è  solo  una  parte  di  quella 
che  incomincia  «  Amor  in  cui  disio  ed  ho 
speranza  »,  la  seconda,  a  pag.  422,  è  data  co- 
me inedita  secondo  la  lezione  d' un  codice  della 
Nazionale  di  Parigi  ;  incomincia  :  «  Assai  cretti 
celare  »:.  Anche  questa  però  era  già  a  stampa, 
e  col  nome  di  Stefano  di  Pronto  Notaio  tro- 
vasi nelle  Antiche  Rime  Volgari.         M. 

C.  1063.  Vita  de  philosophi.  Per  cono- 
scere se  quest'  opera  possa  appartenere  al  se- 
colo XIV  si  potrebbero  esaminare  i  rapporti 
ch'essa  ha  col  Fiore  de  Filosofi  attribuito  a 
Brunetto  Latini;  per  ora,  poiché,  lo  Zambrini, 
sebbene  con  qualche  riserva^  l'ammette,  noto  le 
due  seguenti  edizioni  non  indicate  da  lui.  L'una 
in  4.**,  di  carte  40,  di  linee  38,  con  registro 
da  a  a  £2  tutti  quaderni,  porta  alla  fine  que- 
sta nota:  impressum  fuit  hoc  opvs  venetiìs 
per  ioannem  rubeutn  MCCCC.  LXXXVIIIJ 
die  XX  Mail  (Corsin.  51.  E.  52).  Potrebbe 
sorgere  il  dubbio  che  questa  edizione  sia  quella 
stessa  registrata  dai  bibliografi  colla  data 
del  1488. 

L'altra  non  presenta  alcuna  nota  tipogra- 
fica ,  ma  la  crederei  fatta  al  principio  del  se- 
colo XVI;  sul  frontispizio  porta  questo  titolo 
in  rosso  nero  e  caratteri  gotici:  Vite  de  PhUo- 
sophi  moralis  |  sime.  Et  de  le  loro  elegan- 
tissime sententie.  \  Extratte  da  Lahertio  «fi 
altri  antiqv issimi  auctori  Istoriate  A  di 
nono  I  corrette  in  lingua  Toscana.;  sotto 
di  esso  v'  ha  un  intaglio  che  rappresenta  5 
sapienti.  È  in  4.<^,  di  carte  64,  a  due  colomie 
di  30  linee  ciascuna,  con  registro  da  A  a<l  II 
tutti  quaderni  (Casan.  II.  VII.  47).  M. 

C.  1063.  Vita  di  Cola  di  Rienzo.  Lo 
Zambrini  tiene  che  sia  opera  di  autore  incerto, 
checché  si  dicano  alcuni  assegnandola  ad  un 
Tommaso  Fortifiocca.  Salvatore  Betti, 
(Scritti  vari,  Firenze,  Torelli,  1856,  p.  173) 
dice  aver  fra  mano  im  esenìplare  della  Vita 


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100 


RASSEGNA 


[giornali  di  FILOLOeU 


posseduto  già  da  Mons.  Gaetano  Marini  pre- 
fetto della  Vaticana  e  degli  Archivj  pontifici, 
che  vi  scrisse:  «  L'autore  di  questa  vita  è 
Liello  Petrone  cittadino  romano.  Sta  nel 
t.  69  Politic.  dell' Arch.  Vatic.  e  nel  cod.  Ot- 
tobon.  2655  ».  D'A. 

C.  1067.  Vita  di  S.  Girolamo.  Nella  bi- 
blioteca Corsiniana  alla  segnatura  51.  E.  53 
si  conserva  un  bell'esemplare  della  edizione 
di  quest'opera  fatta  in  Messina  nel  14'* 3,  di 
cui  negavasi  l'esistenza;  sulla  data  non  può 
correre  dubbio  poiché  è  scritta  distesamente 
in  cifre  romane  ;  con  ciò  cadono  a  vuoto  tutti 
gli  argomenti  addotti  dal  Salvocozzo  per  dare 
a  Palermo  il  vanto  della  priorità  sopra  Mes- 
sina nella  introduzione  della  stampa. 


Questa  vita  fu  pubblicata,  insieme  colle 
Epistole  di  S.  Girolamo  e  colla  Regola  vol- 
garizzala da  Fra  Matteo  di  Ferrara  povero 
gesuato,  nella  edizione  fatta  a  Ferrara  nel  1497 
per  Mae8ti*o  Lorenzo  di  Rossi  da  Valenza. 

Nel  registrare  le  stampe  più  antiche  si  no- 
tarono due  diverse  ediz'oni  di  Venezia  1473, 
ma  in  realtà  r.on  ve  u*ha  che  una  sola  ùAxs. 
da  Batista  Cremonese  regnante  Nicolao  Trono, 
così  v'  è  una  sola  edizione  &tta  dal  Peth  ed 
è  in  data  del  14*4  5;  furono  pure  indicate  due 
edizioni  fatte  in  TreviFo  nel  1480,  Tuna  dal 
Manzolo,  l'altra  dal  Mauzollno,  ma  quest^ol- 
timo  nome  è  certamente  nulla  più  che  un 
errore  di  stampa.  M. 


3.  Adolf  Gaspakt.  Die  Sictlianische  JDicMcrschuìe  des  dreieélmlen  Jahr- 
hunderts^  Berlin,  Weidiuannsche  Buchhandlung,  1878.  —  In  8.'  di 
pp.  231. 


Quasi  tutte  le  storie  della  nostra  lettera- 
tura s'aprono  con  la  poesia  siciliana,  quasi 
tutte  s'accoi-dano  a  clùamare  svevo  il  suo 
primo  periodo:  sino  dal  secolo  XIV  Dante 
aveva  scritto:  quicquid  poetantvr  Itali  Si- 
cilianvm  vocaivr,  e  Petrarca  fra  i  più  in- 
signi poeti  d' amore  aveva  posto  i  Siciliani 

che  fur  già  primi  e  quivi  eran  da  sezzo. 

Cosi  antiche  e  autorevoli  testimonianze  ave- 
vano indotto  spesso  ad  esagerare  l' importanza 
storica  della  poesia  siciliana  sia  in  ordine  al 
tempo,  sia  ali* influenza  sull'ulteriore  svolgi- 
mento letterario  della  penisola;  ma  nuovi  e 
diligenii  studi  hanno  determinato  assai  me- 
glio il  valore  di  quella  poesia,  i  suoi  rapporti 
con  la  lirica  provenzale  e  italiana,  il  senso  che 
deve  darsi  a  quelle  testimonianze.  I  risultati 
a  cui  era  giunta  la  critica  erano  da  questo 
lato  sicuri:  tuttavia  è  d'uopo  riconoscere  che 
fra  molte  pagine  di  sintesi  lucida  e  talora  an- 
che splendida,  ninna  storia,  ninna  monografia 
aveva  fatto  larga  parte  all'analisi;  la  scoperta 
aveva  tenuto  il  luogo  della  dimostrazione,  il 
consentimento  quasi  universale  sembrava  di- 
spensare da  una  piova  più  rigorosa.  Questa 
mancanza  può  dirsi  riempiuta  dal  hbro  del 
Sig.  Gaspary  nel  quale  si  tratta  assai  larga- 


mente dell'origine  e  della  natura  dell'antica 
lirica  italiana,  mentre  si  svolse  sotto  l'in- 
fluenza provenzale,  e  quando  potè  dirsene 
libera. 

L'A.  riferisce  le  parole  di  Dante  non  alla 
hngua  dei  siciliani,  ma  a  quella  maniera  di 
poetare  anteriore  al  dolce  sdì  ììitoro  che 
fiori  nella  corte  di  Federico,  fossero  o  no  si- 
ciliani i  poeti  che  la  seguirono;  l'influenza 
provenzale  ristringe  ali* incitamento  a  poetare 
e  mostra  come  se  l'Italia  superiore  per  re- 
lazioni più  intime  e  per  una  certa  confor- 
mità di  tendenze  glottiche  fu  soggetta  ad  in- 
fluenza occitanica  anche  nella  lingua,  la  Sicilia, 
ove  era  assai  più  difficile  l'adozione  della 
stessa  lingua  dei  trovatori,  si  fé'  centro  di 
una  poesia  che,  qualunque  ne  fosse  il  conte- 
nuto, si  efl'use  in  lingua  italiana.  Le  notizie 
dei  poeti  di  questa  scuola  e  le  attribuzioni  delle 
poesie  sono  date  quasi  unicamente  dai  codici, 
sempre  in  grande  scarsezza,  e  spesso  con  evi- 
dente contraddizione.  E  vero  che  quasi  tutte 
le  notizie  date  sin  qui  non  hanno  alcun  che 
di  sicuro,  che  molti  tentativi  furono  fatti  senza 
riuscita,  molte  supposizioni  senza  fondamento; 
ma  l'A.  sembra  spingere  tropp' oltre  le  esi- 
genze critiche  su  questo  pimto;  e  se  la  coin- 
cidenza di  nome,  patria,  tempo  e  qualità  per- 


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ROXUUA, 


«.•41 


BIBLIOGBAFICA 


101 


sonali  non  bastassero  per  ammettere  identità 
di  persona,  sarebbe  impossibile  di  por  ten* 
tare  la  investigazione  biografica  e  storica  de- 
gli antichi  autori.  Trovandosi  in  due  docu* 
menti,  riferentìsi  incirca  ali*  epoca  stessa,  men- 
zione di  Guido  delle  Cobnne  giudice  di  Mes- 
sina, si  può  ben  ritenere  che  si  parli  della 
stessa  persona,  senza  supporre  un  figlio  che 
avesse  comune  col  padre,  oltre  al  cognome 
e  alla  patria,  anche  il  nome  proprb  e  la  di- 
gnità. —  «  Se  tuttavia  tali  incertezze  rendono 
difficile  il  giudizio  intorno  a  ciascun  autore 
in  particolare,  può  dirsi  che  il  valore  poe- 
tico dell*  antica  lirica  italiana  è  ben  piccob 
per  mancanza  d'originalità,  d*  ornamento,  d'af- 
fetto e  di  verità;  comincia  ad  elevarsi  in  To- 
scana ove  il  sentimento  politico  che  agita 
r  animo  si  riflette  nella  letteratura  e  dove  la 
poesìa  morale  si  rannoda  alle  reali  aspirazioni, 
ai  veri  mteressi  della  vita  ». 

Segue  un  esame  accuratissimo  dei  rapporti 
fra  la  poesia  provenzale  e  T antica  italiana, 
con  copiosi  e  nuovi  raf[h>nti,  con  citazione  di 
esempi  raccolti  da  ogni  parte,  completati,  ri- 
dotti a  migliore  lezione  per  giuste  correzioni 
o  per  acuti  suggerimenti.  11  sentimento  lirico 
vi  è  considerato  nella  sua  indole  intima,  nelle 
sue  fasi,  nelle  varie  manifestazioni  rispondenti 
alle  contingenze  storiche,  nelle  espressioni, 
nelle  parole,  in  quel  circolo  d*inmiagini,  di 
similitudini,  di  pensieri  entro  il  quale  uni- 
formemente s'aggira.  Può  bene  esprimersi 
il  desiderio  che  V  analisi  dell*  A.  si  fòsse  estesa 
anche  alla  metrica,  ma  è  d'uopo  riconoscere 
che  per  aver  egli  fatto  tanto  non  ha  confe- 
rito il  diritto  di  domandargli  di  più. 

L'amore  cavalleresco  che  aveva  brillatoi 
sia  pure  pallidamente  e  d' un  ultimo  raggio, 
alla  corte  degli  Svevi,  non  potè  ardere  lun- 
gamente neir  animo  dei  liberi  e  spigliati  po- 
polani della  Toscana ,  cui  la  vita  del  comune, 
opposta  precisamente  a  quella  feudale,  ren- 
deva freddi  ad  ogni  ispirazione  della  caval- 
leria: con  Guittone  d' Arezzo  può  dirsi  spenta 
la  lirica  provenzale  in  Toscana.  L'amore  vi 
prende  altra  forma,  la  lirica  s'ispira  al  sen- 
timento reale,  alla  natura,  alla  verità:  ac- 
canto ai  poeti  che  rappresentano  la  tran- 
sUione^  stanno  quelli  che  cantano  la  vita 
nelle  sue  reali  manifestazioni:  Chiaro  Davan- 
zati.  Folgore  da  S.  Gemignano,  Cene  dalla 
Chitarra,  Rustico  di  Filippo,  Cecco  Angiolieri  : 


la  stessa  natura  «cieiitiflca  che  hiforma  ki 
lirica  bolognese,  sebbene  non  sia  un  vero  ele- 
mento poetico,  dà  pure  un  nuovo  svolgimento 
alla  poesia,  l'emancipa  sempre  più  dal  pro« 
venzalismo.  Tutto  ciò  è  detto  con  profonda 
conoscenza  della  materia,  con  esposizione  lu- 
cida e  chiara,  e  se  le  conchiusioni  non  sono 
del  tutto  nuove,  discendono  da  un  esame  am- 
pio, rigoroso,  ordinato. 

Assai  più  ardua  è  la  questione  della  an^* 
tica  lingua  letteraria  italiana,  la  quale  attira 
presentemente  l'attenzione  di  mohi  fra  i  cul- 
tori della  filologia  neo-latina.  Andie  questa 
è  questione  antichissima,  e  può  féni  risalire 
sino  al  libro  De  vulgari  eloquio  di  Dante; 
ma  in  questi  ultimi  tempi  è  entrata  in  una 
nuova  fase,  dalla  quale  ò  dato  sperare  che 
uscirà  dilucidata  assai ,  se  non  risoluta.  Non 
sembra  dunque  che  si  sia  giunti  peranco  a 
risolutone,  sebbene  eminenti  cultori  della 
scienza  abbiano  poste  come  assodate  alcune 
conchiusioni,  che,  potendo  pure  esser  vere, 
non  possono  ancora  ritenersi  sicure.  Chi  prese 
ad  esame  la  lingua  delle  poesie  siciliane  nel 
periodo  %v%io  credè  di  trovarvi  sicure  tracce 
dialettali  specialmente  neir  alterazione  di  al- 
cune rime,  e  conchiuse  senz'  altro  che  la  for- 
ma originale  di  quelle  poesie  dovesse  essere 
stato  il  dialetto  siculo,  scolorato  e  sbiadito 
posteriormente  nelle  acque  dell'Arno,  le  quaH 
si  sarebbero  perciò  stesso  intorbidate  un  pooo 
e  tinte  del  colore  isolano.  «  Le  poesie  sici- 
liane —  fu  detto  —  per  essere  state  in  To- 
scana raccolte  trascritte  e  divulgate  certo  non 
poterono  serbare  la  natia  forma  idiomatica . .  • 
il  toscaneggiare  il  mculo  doveva  parere  un*  op- 
portuna ripulitura  la  quale  non  poteva  sempre 
riuscire  perfetta . . . ,  era  facile  ridurre  amu^ 
rusu  e  nuiusu  in  amoroso  e  noioso  ma 
dove  un  poeta  siculo  avesse  fatto  rimare  amU" 
rusu  e  usu,  nutrisci  e  (tecrisci  non  restava 
che  o  sacrificare  la  rima  ovvero  lasciare  due 
macchie  di  siculismo ...  e  queste  macchie  ba- 
stano a  farci  indovinare  lo  stato  primitivo 
delle  poesie  sicule ...  La  poesia  popolare  era 
più  difficile  a  ridurre,  eppure  la  poesia  di  CiuUo 
è  qua  e  là  attaccata  dall'ambiente  toscano, 
esempio  il  verso  citato  da  Dante,  il  quale  seb- 
bene un  po'  travestito  alla  toscana  ha  pure 
tali  connotati  da  non  poter  serbare  l'incognito; 
e  d'altronde  l'origine  sicula  del  Contrasto  è 
confermata  dal  fatto  che  non  poche  delle  sue 


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102 


MASSEGNA 


[OIOBHALB  DI  FILOLOOIA 


rime  andrebbero  sciupate  se  alle  parole  ri- 
manti non  si  attribuisse  la  forma  siouia  »  (l). 
É  dunque  da  ritenere  che  «  la  veste  di  tutte 
quelle  poesie  fu  il  dialetto  siciliano  modificato 
per  elevarlo  a  maggior  dignità,  col  proven- 
zale e  col  latino.  In  seguito  le  poesie  dialet- 
tali della  Sicilia  presero  forma  toscana  quando 
nell*  ultimo  ventennio  del  secob  XIII  la  cul- 
tura italiana  fu  quasi  esclusivamente  cultura 
toscana;  e  in  questa  nuova  forma  le  conobbe 
Dante,  in  questa  nuova  forma  sono  pervenute 
fino  a  noi  »  (2). 

Ma  «  la  stessa  cantilena  di  CiuUo  d'Al- 
camo sì  scosta,  secondo  altri,  dal  vocalismo 
siculo,  e,  se  non  fu  scritta  originariamente  cosi, 
fa  ben  presto  ridotta,  per  le  abitudini  preva- 
lenti, a  quella  forma  che  correva  al  tempo 
di  Dante.  11  vocalismo  siciliano  cadde  in  parte 
giacché  per  un'  altra  parte  rimase  e  rimane 
ancora  nella  lingua ...  e  dove  era  più  con- 
forme al  latino  e  pareva  perciò  meglio  acco- 
modato all'altezza  lirica,  fu  conservato.  Ri- 
mase il  dittongo  au  atono  tanto  primitivo  che 
secondario,  fu  mantenuta  la  vocale  breve  la- 
tina anche  accentata  senza  dittongamento,  e 
a  più  forte  ragione  poi  si  mantennero  quelle 
proprietà  fonetiche  che  erano  non  meno  dif- 
fuse nei  dialetti  peninsulari  che  in  quelli  del- 
l'isola.  Tali  sarebbero:  la  conservazione  della 
vocale  sottoposta  air  accento  grave,  il  perver- 
timento palatale  dei  suoni  labiali  in  certi  verbi, 
la  prevalenza  data  ad  r  nel  gruppo  rj,  il 
condizionale  in  ia,  alcuni  participj  in  uto  da 
verbi  in  i rtf ,  etc.  E  il  colorito  parte  proven- 
zale parte  latino  di  queir  idioma  spiega  T  in- 
fluenza che  esso  esercitò  anche  sui  poeti  del- 
l'alta Italia  »  (3).  Altri  oppugna  le  conchiu- 
sioni  e  gli  esempi  e  si  fa  a  mostrare  che  quei 
fenomeni  considerati  come  propri  del  siciliano 
sono  invece  comuni  ad  altri  dialetti  peninsu- 
lari, o  sono  semplici  latmismi,  o  spiegabili 
per  sola  influenza  d' analogia  (4). 

In  tanta  disparità  d'opinioni  l'egregio  A. 
riprende  la  questione  sin  da  principio,  e  senza 


porre  alcuna  teoria  espone  soltanto  i  risultali 
del  suo  esame  dei  testL  Riconosce  la  poca 
autorità  che  deve  darsi  alle  lezioni  dei  testi 
siciliani  che  ci  sono  pòrte  dai  mss.  toscani,  ma 
in  mancanza  d' altro,  egli  dice,  è  d' uopo  tenern 
a  ciò  che  si  ha.  Il  ms.  del  Barbieri  con  le  due 
poesie  scritte  in  dialetto  è  per  lui  di  un*au-> 
torità  assai  problematica ,  e  difficilmente  sa- 
prebbe ammettere  che  un  medesimo  scrittore 
usasse  poetando  ora  il  dialetto,  ora  la  lingua 
illustre.  L'argomento  più  grave  in  favore 
del  dialetto  siculo  è  tutto  nelle  rime,  sebbene 
anche  su  tale  argomento  non  manchino  dubbi 
ed  opposizioni.  V  ha  chi  crede  la  canzone  di 
Giulio  scritta  in  Pugliese  (5).  e  chi  ammet^ 
tendo  r  esistenza  di  rime  imperfette  o  sem- 
plicemente consonanti  scuote  le  basi  di  tutta 
la  teoria  su  la  rima  (6). 

L' A.  fa  osservare  che  l' argomento  tratto 
dalle  rime  è  concludente  soltanto  per  quelle 
esclusivamente  siciliane.  Crede  pertanto  <  che 
non  debba  darsi  alcun  valore  alle  rime  avere: 
morire,  fidi:  mercede,  che  trovansi  in  Ia- 
copo da  Lentini,  se  anche  Quittone  d'Areno 
ha  rimato  ancide:  mercide,  dire:  tenire; 
Ruggerone  ha  perisse  :  morisse,  m&piacesse  : 
avesse:  sentisse  ha  pure  Paganino  da  Sar- 
zana,  e  volesse:  venisse  si  trova  in  Iacopo 
Mostacci;  a  nivi  per  neve  rispondono  le  voci 
vice,  nigri  di  Dante;  se  i  siculi  rimano  di- 
mura:  paura,  scura:  dimura  fa  rimare 
Pannuccio  del  Bagno;  se  Guido  delle  Colonne 
scrive  prisay  anche  Dante  ha  scritto  sorpriso 
e  ripriso;  ammessa  la  possibilità  di  un  to- 
scano t  da  un  lat.  i,  è  sempre  dubbio  ae 
trattandosi  di  atone  finali  si  debba  ridurre  avire 
ad  aviri  o  non  piuttosto  sospiri  a  sospire  ». 

L'A.  dimostra  che  per  parlare  con  preci- 
sione si  deve  tenere  in  conto  l'origine  della 
vocale  toscana.  «  La  rima  toscana  «  ( lat.  Y)  : 
t,  ovvero  o  (lat.  H):  u  può  essere  semplice 
latinismo;  e  (lat.  t  in  pos.):  t  pos.,  ovvero  o 
(lat.  a  in  pos.)  :  u  pos.  possono  essere  effetto  di 
tendenze  contrarie  ed  analoghe  del  siculo  e  del 


(1)  D'Ovidio,  Saggi  Critici»  Napoli,  Morsilo,  1879;  p.  383,  88. 

(2)  Baetoli,  Storia  della  ktteratura  italiana,  Firenze,  1879;  II,  pag.  186. 

(3)  Caix,  La  forma ai0H9  degV idiomi  Utterani  otc.  nella  Xuota  Antologia»  voi.  XXVII.pag.  295-97. 

(4)  D'Ovidio  ,  1.  e.  p.  618-30. 

(5)  Caix,  Àncora  i*l  cwtrasto  di  (HuOo  dP  Alcamo  nella  Eitti^ta  Europea,  anno  VD,  voL  II,  p.  547  558. 
|6)  Monaci,  nella  Rifiata  di JOologia  romuuta,  U,  p.  240. 


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mamàUBA,  a*^  4] 


BIBL109BAFICA 


103 


toscano,  dei  quali  il  primo  conserva  t  ed  u  in 
pgaisione,  l'altro  le  cambia  in  e^  o.  —  Re- 
stano adunque  come  fenomeni  siciliani  le  rime 
é  (lat.  è):  i;  o  (lat.  5):  u,  poiché  le  vocali 
lat.  è,  5  divengono  nel  siculo  i,  u,  e  nel 
toscano  restano  inalterate.  Ma  anche  queste 
rime  «  se  si  trovano  in  term'mazioni  verbali 
fiumo  pensare  ad  un  passaggio  di  coniugazione 
o  ad  estensione  analogica,  se  appaiono  in 
poeti  bolognesi  o  lombardi  possono  trarre  ori- 
gine dal  dialetto  deli*  autore,  se  infine  si  tro- 
vano in  poeti  toscani  è  dubbio  nella  maggior 
parte  dei  casi  (specialmente  nel  caso  o:  u) 
se  il  cambiamento  debba  farsi  sulla  base  si- 
cula  cioè  d*o  in  u  o  non  piuttosto  al  con- 
trario, in  continuazione,  come  spiega  il  prof. 
Caix,  di  forme  latine  volgari,  riuscendo  dif- 
ficile di  estendere  a  tutti  i  casi  V  influenza 
romagnola  o  bolognese  ». 

Accenna  anche  TÀ.  a  quella  teoria  per  la 
quale  non  solo  d  ed  e,  ma  anche  ò  ed  «  ven- 
gono ammessi  a  rimare  con  t,  u;  non  la 
crede  impossibile  tenuto  conto  di  certa  par- 
ticolare libertà  di  cui  ha  sempre  goduto  la 
rima  italiana  specialmente  nella  poesia  po- 
polare; ma  le  confrappone  il  fatto  della  fre- 
quenza delle  correzioni  introdotte  proprio  in 
quelle  rime,  da  gran  numero  di  copisti. 

Ridotto  entro  strettissimi  termini  il  va- 
lore deir  argomento  tratto  dalle  rime  in  fa- 
vore della  originaria  forma  dialettale  delle 
poesie  siciliane,  VA.  mostra, come  contro- 
prova, che  se  con  la  restituzione  dialettale 
alcune  rime  andrebbero  ad  accordarsi, alcune 
altre  ne  andrebbero  inevitabilmente  perdute, 
e  che  ciò  ha  condotto  ad  inesattezze  e  a  con- 
traddizioni quelli  che  si  accinsero  a  tradurre 
in  dialetto  le  poesie  de*  siciliani.  E  a  far  que- 
sto mancava  inoltre  il  punto  di  partenza, 
poiché  dei  documenti  in  dialetto  siculo  ri- 
tenuti del  secolo  XIII  non  é  accertata  T  au- 


tenticità o  la  data,  e  quelli  sicuri  sono  po- 
steriori dì  tale  tempo  che  basterebbe  a  fare 
ammettere,  se  non  altro,  la  possibilità  di 
grave  alterazione  e  cambiamento  del  dialetto. 
Nelle  antiche  poesie  una  certa  parte  deve 
farsi  al  particolare  idioma  dell*  autore,  e  ad 
alcune  forme  dialettali  anche  della  stessa 
Toscana,  Je  quali  è  indubitato  che"penetra- 
rono  nella  lingua  comune  della  poesia.  L*À. 
fa  seguire  una  sommaria  rassegna  di  tali 
forme  e  vocaboli,  che  anticamente  apparvero 
in  varie  province,  e  che  oggi  sono  ristrette 
dentro  una  zona  minore,  o  sono  intieramente 
sparite;  fa  pure  un  rapido  esame  dei  rap- 
porti che  potè  avervi  1*  influenza  occitanica, 
e  conchiude  «  che  quand*  anche  non  sia  ne- 
cessario di  ricorrere  cosi  spesso  come  fanno 
taluni  al  provenzale  o  al  francese  per  spie- 
gare forme  o  parole  italiane,  pure  quel  raf- 
fronto é  assai  utile  per  determinare  il  senso 
di  locuzioni  che  non  sono  più  in  uso,  o  che  han- 
no subito  un  cambiamento  nel  significato  ». 

Non  tutte  le  conchiusioni  dell*  A.  sono  cosi 
perentorie  e  sicure  da  non  ammettere  discus- 
sione; ma  è  impossibile  di  negarne  alcuna 
senza  distruggere  i  fatti  sopra  i  quali  è  fon- 
data, o  senza  addurne  nuovi  e  contrari.  Sa- 
rebbe da  esaminare  ogni  pagina  del  libro, 
da  vagliarne  ogni  esempio;  ma  ciò  uscirebbe 
dai  termini  di  una  rassegna  bibliografica, 
tanto  più  che  dopo  quel  libro  chiunque  vorrà 
trattare  la  questione  dell*  antica  lingua  poetica 
d*  Italia  dovrà  cominciare  a  porla  sopra  nuo- 
ve basi,  e  nuovamente  edificare  su  quelle. 

È  poi  sommamente  augurabile  che  su  di  un 
tema  cosi  difficile  ed  importante  nuovi  studi 
si  succedano  Tuno  ali* altro  e  che  tutti,  par- 
tendo da  un  esame  ampio  e  diligente  dei  testi, 
siano  informati  a  metodo  strettamente  scien- 
tifico e  a  critica  rigorosa  come  1*  esempio 
ora  datone  dal  sig.  Qaspary. 

Giulio  Navone. 


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104 


RAS8B&NA 


[OIOBHAUI  DI  FILOLOCU 


4.  1  novellieri  italiani  in  prosa  indicati  e  descritti  da  G.  B.  Pàssaho. 
2.*  edizione,  Torino,  Paravia,  1878.  — Due  volumi  in  8*,  I  di  pp.  X-644, 
n  di  pp.  811 


La  prima  edizione  di  questo  Catalogo  ap- 
parve nel  1864.  Era  un  lavoro  per  più  ra- 
gioni migliore  di  quello  del  Gamba,  ma  non 
per  tanto  i  suoi  difetti  non  erano  pochi,  e  fu 
tosto  sentito  il  desiderio  di  vederlo  seguito 
da  una  nuova  edizione.  A  preparar  questa, 
oltre  le  indefesse  ricerche  dell' A.,  deve  aver 
contribuito  non  poco  il  bel  Catalogo  che  il 
Papanti  pubblicava  qualche  anno  dopo  della 
collezione  di  novelle  da  lui  posseduta  e  nella 
quale  egli  rivelavasi  non  solamente  un  ap- 
passionato raccoglitore,  ma  ben  anche  un  in- 
telligente ed  erudito  bibliografo.  Comunque 
sia,  la  nuova  edizione  del  Catalogo  del  Pas- 
sano è  riuscita  davvero  assai  «  migliorata  e 
notevolmente  accresciuta  »  e  così  com*  è  fa 
onore  a  chi  vi  spese  intorno  tante  f  .tiche  e 
tanto  tempo .  Il  Passano  non  si  limita  a  darci 
le  semplici  indicazioni  bibliografiche,  ma  ag- 
giunge l'argomento  delle  novelle  men  note, 
qualche  raffronto,  e  preziosi  sunti  delle  vite 
degli  autori ,  con  osservazioni  sui  pregi  e  sui 
difetti  del  loro  stile  e  delle  loro  opere;  onde 
scorrendolo,  tu  puoi  quasi  rifare  colla  mente 
tutto  lo  sviluppo  della  nostra  novella,  passando 
dalle  storie  meravigliose  «  dei  Trojani,di  Fie- 
sole e  di  Roma  » ,  che  narravano  le  vecchie- 
relle  del  dugento,  alle  novelle  boccaccesche 
dalla  forma  squisitamente  artistica,  da  que- 
ste alle  oscene  facetie  del  Domenichi  o  del- 
r Aretino,  che  principi  e  prelati  e  dame  del 
cinquecento  e  del  seicento  leggevano  e  rileg- 
gevano tanto  avidamente,  per  arrivare  da  ul- 
timo al  tempo  nostro,  nel  quale  alcuno  ritenta 
le  forme  antiche,  altri  va  cercando  vie  nuove, 
altri  infine  ritoma  alle  vecchierelle  dei  contadi, 
eg^uali  ora  come  nel  dugento,  per  raccogliere 
dalle  loro  labbra  quelle  fiabe  e  quelle  storie 
medesime  che  3000  anni  or  sono  si  raccon- 
tavano sulle  rive  del  Gange. 

Vero  è  che  questo  sviluppo  storico  ed  arti- 
stico della  novella  italiana  si  potrebbe  meglio 
seguire,  ed  anche  la  semplice  ricerca  sarebbe 
facilitata,  se  il  lavoro  del  Passano  (e  lo  fa 
notare  anche  il  Papanti)  tosse  diviso  per  se- 


coli, anziché  in  due  sole  parti  corrispondenti 
ai  due  volumi,  nella  prima  delle  quali  sono 
le  edizioni  dal  principio  della  stampa  fino  a 
tutto  il  secolo  XVII,  nella  seconda  quelle  dei 
secoli  XVIII  e  XIK.  Il  secondo  volume,  oltre 
a  questo  difetto  capitale  di  trovarvisi  indicate, 
assieme  adle  moderne,  preziose  novelle  dei 
primi  secoli  della  nostra  letteratura,  che  eru- 
diti pubblicatori  con  ogni  cura  van  traendo  dai 
codici  e  dair oblio,  ne  ha  secondo  noi  anche 
un  altro,  ed  è  di  presentarci  ad  ogni  tratto 
delle  novelle  inedite  di  scrittori  recentissimi. 
Non  che  non  siano  tutte  belle  ed  interessanti 
e  degne  di  veder  la  luce,  ma  non  era  qui  il 
luogo;  e  a  scusa  non  giova  l'esempio  del  Pa- 
panti, tanto  più  che  quelle  publicate  da  lai 
nel  suo  Catalogo  sono  deUe  più  preziose  che 
vantino  i  primordi  della  nostra  letteratura, 
ed  egli  del  resto  le  aggiunse  in  Appendice. 
Un  catalogo,  perché  possa  venir  consultato 
senza  troppa  difficoltà  e  con  profitto,  deve, 
quanto  più  è  possibile,  essere  anche  di  pic- 
cola mole  e  la  omissione  di  queste  novelle 
moderne,  unita  ad  altri  miglioramenti  sugge- 
riti dal  Papanti,  come  il  limitarsi  molto  più 
che  il  P.  non  £9iccia  nella  descrizione  di  libri 
di  pochissima  importanza,  il  raggruppare  in 
una  lista  concisa  le  Strenne  gli  Almanacchi 
e  i  Giornali  del  nostro  secolo  in  cui  furono 
pubblicate  novelle;  e  infine  l'omissione  di  di- 
verse osservazioni  dell' A.  quasi  inutili  od  estra- 
nee alla  materia  avrebbero  potuto  per  avven- 
tura permettere  la  riduzione  dei  due  volumi 
ad  un  solo. 

I  miglioramenti  introdotti  dal  P.  in  que- 
sta 2.*  edizione,  e  più  i-  difetti  del  suo  lavoro 
furono  maestrevolmente  fatti  risaltare  dal  Pa- 
panti, le  cui  savie  osservazioni  abbiamo  gii 
due  volte  citate,  in  una  Nota  di  ben  108  pp. 
(G,  B.  Passano  e  %  suoi  Novellieri  etc  agg. 
una  Novella  inedita  del  Magalotti  etc,  Li- 
vorno, Vigo,  1878),  Nota  necessaria  a  chi 
possiede  il  Catalogo  del  Passano,  perché  lo 
corregge  e  lo  completa.  Il  Papanti  accusa 
principalmente  il  P.  della  mancanza  di  un 


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BOiuiuA,  n,^  4] 


BIBLIOGRAFICA 


105 


concetto  fisso,  trovando  nel  sno  catalogo  in- 
dicate novelle  che  non  sono  novelle,  e  vice- 
versa esclusi  libri  che  pur  dovrebbero  entrarci, 
come  p.  e.  molti  dal  P.  eselusi  solamente 
perché  d* argomento  osceno!?  Lo  biasima 
pure  per  non  averci  sempre  dato  T  indicazione 
delle  tirature  a  parte  di  qualche  novella.  In- 
teressante è  la  disputa  fra  i  due  bibliografi 
sul  vero  autore  della  novella  Belfagor,  ma  ci 
sembra  che  gli  argomenti  addotti  dal  Papanti 
in  favore  del  Brevio  sieno  validissimi. 

L*  erudito  livornese  loda  ed  a  ragione  il 
P.  per  gli  interessanti  raffironti  di  novelle  che 
qua  e  là  ci  diede  nel  suo  Catalogo;  mostra 
però  con  vari  esempi  che  quei  raffronti  po- 
tevano venire  estesi  molto  di  più,  e  noi  ac- 
cogliamo con  vivo  piacere  la  promessa  ch*egli 
fa  di  un  vasto  lavoro  in  proposito.  La  sua 
interessante  Nota  ci  dà  in  fine  una  lunga  lista 
di  errori  in  cui  incorse  il  P.,  poi  una  di  no- 
tizie da  lui  omesse,  e  da  ultimo  quella  dei 
libri  e  delie  edizioni  di  Novelle  a  lui  ignote. 
A  questa  uliima  anche  noi  ci  permettiamo  di 
dare  le  seguenti  aggiunte. 

Sabino  Nappelli  e  le  sue  imposture,  No- 
vella di  GiovAMPiETRO  Bbltrami; 

La  Menicuccia  di  S,  Clemente,  Novella 
dello  stesso.  In  fine  ad  entrambe  «  Anno  1841  ». 
Si  leggono  a  pp.  76-80  e  109-121  del  Flori- 
legio Scientifico,  Storico,  Letterario,  del 
Tirolo  Italiano;  Padova,  co' tipi  di  Angelo 
Sicca,  1856,  voi.  in  &*,  di  pag.  768,  edito  dal 
Roveretano  I.  Galvani. 

Il  Capris,  eccellente  beffardo,  è  beffato 
da  Nastagio  Botticelli;  paga  una  cena,  e 
dà  occasione  al  proverbio  che  è  a  Trento  : 
Qui  sta  7  punto,  orbo  maledetto  !  Novella 
del  cav.  Luigi  Bernardo  de  Pompeati.  In  fine 
«'Anno  1827  ».  Sta  a  pp.  161-169  della  stessa 
opera,  e  anche  nel  volume  dì  Novelle  di  que- 
sto autore  edite  nel  1827  non  ignote  al  Passano  ; 
e  secondo  quanto  me  ne  scrisse  gentilmente  il 
signor  Fr.  Ambrosi  eh .»<>  direttore  dei  Mu- 
sei e  della  Biblioteca  civica  di  Trento,  sta 
pure  a  p.  240  e  seg.  del  voi.  II  delle  Poesie 
scelte  del  Pompeati,  edite  dair  ab.  Stoffella 
della  Croce. 

H  dente  e  le  frittelle.  Novella  di  Vale- 
RiANo  Vannetti;  nelPop.  cit.  a  pp.  213-218. 


Di  questa  novella  il  P.  conosce  una  edizione 
di  Milano,  Vallardi,  1835. 

La  compera  d' uova.  Novella  dello  stesso; 
nell*op.  oit.  a  pp.  219-223. 

Ferdinando  conte  del  Tirolo,  Novella  di 
Giustiniano  degli  Avancini.  In  fine  «  An- 
no 1825  »  (e  ne  è  nota  appunto  Tediz.  di  que- 
st'anno, B'Overeto,  Marchesani);  nell'op.  cit. 
a  pp.  419-448. 

Bbltbani  Giovaicpibtro,  Fra  Frontone, 
Novella,  Trento,  Marietti,  1872 ;  in  S*»,  di  pa- 
gine 15;  pubblicata  per  nozze  Montel-Covi. 

Perini  Agostino,  Racconti  e  Novelle; 
Rovereto,  Stabilimento  Tipografico  V.  Sotto- 
chiesa, 1875.  In8^dipp.672.  Veramente  sulla 
copertina  esterna  è  detto  «  Estratti  dal  Rac' 
coglitore.  Anno  1874-75-76  i  Rovereto  1876» 
ma  anche  lasciando,  come  fa  il  Papanti ,  dal 
notare  le  novelle  omesse  dal  P.  uscite  in  luce 
dopo  il  1875,  perché  il  Catalogo  era  in  corso 
di  stampa,  lo  posso  fare  per  questo  grosso 
volume  deir  autore  della  Statistica  del  Tren- 
tino, perché  queste  sue  novelle  e  racconti,  che 
illustrano  la  storia,  i  costumi  e  le  bellezze  na- 
turali del  Trentino,  cominciarono,  come  si  vede, 
ad  apparire  nel  1874,  e  d'altronde  in  pochi 
mesi  il  P.  non  può  esser  arrivato  colla  stampa 
della  sua  opera  alla  lettera  P  del  li  volume. 
/  miracoli  deW alfabeto,  racconto  popo- 
lare di  Giulia  S.,  istitutrice.  Milano,  Giac. 
Agnelli,  1873.  Fa  parte  della  Biblioteca  per 
il  popolo;  di  pp.  24  in  12.<* 

La  vesta  fa  il  monaco.  Ant i-proverbio. 
Novellina  di  G.  C.  P.  Occupa  le  pagg.  94 
e  95  delle  Prose  e  Versi  di  autori  vivi  e 
morti,  Padova ,  tip.  Antonelli ,  ded.  alla  con- 
tessa Arpalice  Cittadella-Pappafava  dal  com- 
pilatore Leonardo  Anselmi  (Padova  1  Gen- 
najo  1855). 

Novelle  Piacevoli  dal  Fortunato  raccolte, 
per  diletto  di  quelli,  che  cercano  di  fi^g^ 
gir  Votio  d  allegramente  viuere.  Di  nuovo 
con  diligentia  stampate  &  poste  in  luce.  S.  1. 
n.  a.;  4  carte  in  8^,  con  segnatura  A  2  e  con 
richiami ,  un  esemplare  se  ne  conserva  nella 
Biblioteca  Alessandrina  di  Roma.  Le  novelle 
sono  quelle  stesse  dell'  edizione  di  Verona  per 
Bastian  dalle  donne  et  Giovanni  fratelli,  s.  a., 
in  8*^,  descritta  dal  Passano. 

A.  Zenatti. 


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106  BULLETTINO  [aioBJiALB  di  rihotoatA 


BULLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


1.  Natice  sur  un  manuscrit  de  Lyon  renfermant  une  ancienne  version  la- 
Une  inedite  de  trois  livres  du  Pentatetique  par  Léopold  Délisle.  Pa- 
ris, Champion,  1879. 

In  fol.  di  pp.  4,  con  dne  facsimili.  — -  In  questa  breve  ma  succosa  memoria 
il  sig.  D.  dh  conto  alla  Académìe  des  Inscriptions  di  una  scoperta  che  riuscirà 
graditissima  a  tutti  coloro  che  si  occupano  di  latino  volgare  e  particolarmente 
del  latino  delle  versioni  bibliche.  Trattasi  di  un  codice  o  piuttosto  frammento 
di  codice,  che  si  conserva  nella  biblioteca  municipale  di  Lione  e  che,  già  asse- 
gnato al  IX  secolo,  il  D.  dimostra  appartenere  invece  al  YL  Questo  cimelio  con- 
tenente una  versione  latina  di  tre  libri  del  Pentateuco,  diversa  dalla  Volgata  e 
dair Itala,  e  certamente  una  delle  più  antiche,  fa  parte  di  quel  medesimo  ms. 
da  cui  Lord  Ashburnham  aveva  pubblicato  nel  1868  T  antica  traduzione  del  Le- 
vitico  e  dei  Numeri;  e  la  ricomposizione  di  questo  preziosissimo  codice  fe  tutta 
dovuta  alla  critica  penetrante  e  sagace  dell'  insigne  paleografo.  Noi  ci  auguriamo 
che  il  sig.  Robert,  annunziato  nella  presente  memoria  come  il  futuro  editore  del 
nuovo  testo,  possa  presto  portare  a  compimento  la  sua  bella  impresa,  che  deve 
tenere  in  viva  aspettazione  non  pochi  studiosi. 

2.  Index  zu  Dicz'  Etymólogischem  Worterbuch  der  romanischen  Sprachen^ 
von  D.'  J.  U.  Jabnik.  Berlin,  Langeuscheidt,  1878. 

In  S.^  di  pp.  VI-237.  —  Il  sig.  J.  volle  supplire  a  un  difetto,  che  quanti  ado- 
perano il  Dizionario  Etimologico  del  Dìez  avranno  spesso  sentito,  quello  di  un 
repertorio  alfabetico  di  tutti  i  vocaboli  che  si  trovano  per  entro  quella  opera 
illustrati.  Il  paziente  lavoro  del  sig.  J.  è  riuscito  accuratissimo,  e  di  questa 
utile  quanto  modesta  fatica  che  completa  T  ordinamento  materiale  del  lessico 
Dieziano,  dovranno  essergli  grati  tutti  gli  studiosi.  Peccato  che  quest'Indice  si 
riferisca  alla  terza  edizione  delP^.  W.  e  non  alla  quarta  recentemente  usciixi 
colle  giunte  dello  Scheler;  tuttavìa  anche  per  la  nuova  potrà  essere  adoperato, 
purché  si  tenga  conto  dei  rinvii  per  parole  senza  badare  agli  altri  per  pagine. 

3.  Chi  fosse  il  preteso  CiuUo  d'Alcamo,  di  N.  Caix.    Firenze,  Tipogr.  della 

Gazz.  d'Italia,  1879. 

In  8.<>  di  pp.  24,  estr.  dalla  Bivista  Europea,  16  marzo  1879. 

4.  Cielo  dal  canto  a  proposito  d' una  recente  pubblicazione,  osservazioni 
d'un  dilettante  (Adolfo  Borgognoni).    Firenze,  Barbèra,  1879. 

In  16.®  di  pp.  38.  —  Si  tratta  sempre  di  Giulio  d'Alcamo.  Il  Caix  non  tro- 
vando il  nome  dell'  autore  nelF  unico  testo  antico  del  Contrasto  e  nemmeno  nel 


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B0MAH2A,  N.»  4]  BIBLIOGBAFICO  107 

relativo  passo  del  De  vulg,  éloq.  di  Dante,  entra  a  dubitare  della  nota  Colocoiana 
onde  quel  nome  fu  cavato  e  cerca  per  altra  via  di  determinare  V  autore  del  ce- 
lebre poemetto.  Si  volge  per  ciò  a  studiare  il  sistema  di  composizione  del  cod. 
Yatic.  3793  comparato  con  quello  del  Lauremc-Rediano  9,  e  notando  che  il  con- 
trasto si  trova  nel  Vai  in  mezzo  a  un  gruppo  di  poesie  che  appartengono  a 
Giacomino  Pugliese,  conclude  per  attribuire  a  costui  il  contrasto  eziandio.  Non 
tutti  forse  ammetterano  la  necessità  di  tale  conclusione,  ma  conviene  pur  rico- 
noscere che  anche  questa  volta  il  C.  diede  alla  sua  ricerca  queir  indirizzo  me- 
todico che  distingue  tutti  i  buoni  lavori  scientifici.  —  11  Borgognoni  poi  non  ac- 
cettando altra  autorità  air  infuori  della  nota  Ooloociana,  vuole  ristabilire  su 
quella  il  nome  dell*  ignoto  poeta,  e  la  critica  paleografica  lo  porta  a  delo  dal 
camo.  Ma  se  la  paleografia  lo  impone,  la  storia  T accetterà  senz*  altro?  Ne 
dubitiamo,  almeno  finché  al  B.  non  riesca  di  trovare,  sia  pure  una  volta  sola,  un 
altro  Cielo,  il  che  forse  non  sarà  troppo  facile.  Comunque  poi  vogliasi  pen- 
sare di  ciò  e  ammesso  che  la  questione  debba  essere  studiata  per  ogni  verso, 
non  possiamo  peraltro  nascondere  la  dolorosa  impressione  che  in  noi  od  in 
altri  produsse  il  leggere  la  parte  polemica  di  questo  scritto.  Sia  il  dissenso 
libero,  franco,  senza  complimenti,  e  va  bene;  ma  che  lo  si  condisca  anche  di 
quei  modi  pungenti  che  s'incontrano  quasi  ad  ogni  pagina  di  quesV opuscolo, 
non  ci  pare  bello  nò  buono,  e  forse  V  egregio  autore  tornandovi  sopr  a  con  calma 
non  tarderà  a  convenirne  egli  stesso. 

5.  Dante  Forschungen,  AUes  und  Neues  vou  K.  Witte.    Halle,  Barthel, 
1869;  Heiibronn,  Henninger,  1879. 

Due  voli,  in  16.  di  pp.  XVI-509,  X-604.  —  L' illustre  dantofilo  ha  riunito  in 
questi  due  volumi  la  maggior  parte  dei  suoi  scritti  su  Dante  (1824-1878),  alcuni  dei 
quali  inediti,  ed  altri  ohe  andavano  finora  sparsi  in  varie  Riviste  o  in  opuscoli 
divenuti  ben  rari.  Questi  scritti  sono  55,  e  alcuni  trattano  della  famiglia, 
della  vita,  delle  relazioni  e  degli  studj  di  Dante;  altri  delle  opere  di  lui  e  prin- 
cipalmente del  testo  della  Commedia  j  della  classificazione  dei  mss.,  del  particolare 
valore  di  alcuni  codici  e  delle  edizioni  più  famose  di  essa;  altri  dei  comentarj, 
delle  traduzioni  e  della  bibliografia,  e  tutt*  insieme  formano  quasi  una  enciclo- 
pedìa dantesca,  una  specie  di  manuale  ormai  indispensabile  per  quanti  vogliano 
attendere  seriamente  agli  studj  su  Dante  e  promuoverne  con  efficacia  1*  avanza- 
mento. Corredano  questi  due  preziosi  volumi  un  ritratto  dell*  Alighieri  secondo 
un  antico  disegno  a  penna,  e  una  pianta  topografica  di  Firenze  alla  fine  del 
sec.  Xin,  sussidio  anche  questo  utilissimo.  Peccato  che  T  edizione  per  quanto 
nitida  ed  elegante,  abbondi  di  errori  tipografici,  massimamente  nella  parte 
italiana. 

6.  La  vita  e  le  opere  di  Gitdio  Cesare  Croce,  monografia  di  Olindo  Guer- 
BiNi.    Bologna,  Zanichelli,  1879. 

In  8.<»  di  pp.  XIII-516.  —  Dopo  aver  brillato  nella  palestra  dell'arte  il  si- 
gnor Guerrini  ora  si  è  volto  alle  non  meno  utili  discipline  della  storia  lettera- 
ria. Diamo  il  benvenuto  al  nuovo  autodidatta.  Egli  lavora  in  Bologna,  ove 
seppe  trovare  un  beli* argomento  pei  suoi  studj,  il  noto  libretto  di  Bertoldo  e 
Bertoldino f  scritto  nel  sec.  XVII  dal  Bolognese  G.  C.  Croce,  e  divenuto  popohi- 


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108  BULLETTINO  [giouials  di  filoumu 

rìfltimo,  massime  fra  i  volghi  romagnuoli.  Bello  il  qnadro  cbe  ci  fa  TÀ.  dei 
tempi  che  produssero  il  Croce,  copiosi  ì  documenti  e  le  notine  biografiche  e  bi- 
bliografiche onde  arricchisce  il  suo  volarne.  Ma  la  parte  principale  di  questo 
consiste  nella  ricerca  sulle  origini  della  tradizione  di  Bertoldo,  che  il  G.  sagace- 
mente ricollega  alla  leggenda  salomonica  e  ai  eosidetti  dialoghi  di  Saltmome  e 
MarcolfOt  e  per  questa  parte  VA,  non  dissimula  di  presentire  accuse  di  omissioni, 
che  infatti  non  gli  mancarono,  v.  Nuova  AntcHogia,  15  Genn.  1879,  Zeitsdmfì 
far  rom.  PhU,  III,  121.  Egli  si  difende  col  ricordare  le  eondiiioni  delle  nostre  bi- 
Woteche  pubbliche,  condizioni  che  formano  un  vero  ostacolo  agli  studj  di  era- 
dizione  in  Italia.  Ma  se  una  tale  considerazione  vale  più  per  Fautore  che  per 
il  suo  libro,  il  sig.  G.  può  almeno  rall^rarsi,  e  con  tutta  ragione,  che  dallo  searso 
materiale  che  ebbe  alle  mani,  riuscì  nonpertanto  a  raccogliere  ciò  che  era  più 
essenziale  nella  sua  ricerca,  e  a  determinarne  i  punti  principali.  Ulteriori  spi- 
golature varranno  ad  arricchire,  non  a  menomare  il  valore  del  suo  libro. 

7.  Documenti  storici  Fahrianesi  raccolti  e  pubblicati  a  cura  del  Can.  Au- 
BELio  ZoNOHi  Bibliotecario  Comunale  e  custode  dell' archivio  storico. 
Fabriano,  Tip.  Sociale,  1879. 

In  8.0  gr.  di  pp.  53  con  una  tavola.  —  Contiene  i  Capitoli  della  Fraternità 
dei  Disciplinati  di  Fabriano,  scritti  verosimilmente  nel  sec.  XIY  ma  conserfati 
in  un  cod.  di  età  meno  antica;  inoltre,  un  frammento  Debordine  dèUe  predy 
da  altro  libro  di  quei  Disciplinati,  e  quattro  Laude  con  un  sonetto  alla  Ma- 
donna da  mss.  del  sec.  XIY  ;  tutti  questi  testi  hanno  particolare  importanza  per 

10  studio  deir  antico  dialetto  di  Fabriano,  e  sono  accompagnati  da  una  dotta 
illustrazione  storica  e  paleografica  dell' egregio  editore. 

8.  Lamento  di  Bernabò  Visconti.    Milano,  Bemardoni,  1878. 

In  8.<>  di  pp.  15,  estratto  dair^rc^ivj'o  Storico  Lombardo,  an.  V,  fase.  4.*  — 

11  Lamento  si  compone  di  49  ottave,  «  è  contemporaneo  alla  prigionia  di  Ber- 
nabò >  e  «  il  più  antico  Lamento  politico  in  lingua  italiana  di  cui  s'abbia  no- 
tizia fin  qui  ».  (Conf.  D'Ancona,  Poes.  pop.  ital,  p.  66,  n.  2).  D  testo  è 
tratto  dal  cod.  Marciano  CI.  IX,  n.<»  CXLU  degl'Italiani  e  fu  comunicato  al- 
l'^rc^tt?*o  dal  prof.  Rajna. 

9.  Due  novèlle  di  Giovanni  Sercambi.    Milano,  Bernandoni,  1879. 

In  8.®  di  pp.  16.  pubbl.  dal  sig.  Isaia  Ghiron  per  nozze  Gori-Riva.  —  Le  due 
novelle  sono  «  tratte  dalla  Biblioteca  Trivulzio ....  appartengono  ad  un  codice 
del  XV  secolo,  in  cui  stanno  racchiuse  molt' altre  che  non  videro  la  luce  nella 
più  ricca  edizione  fattane  dal  ch.™°  prof.  A.  D'Ancona  ».  Il  loro  titolo  è  De 
leaUate,  e  De  sapientia  et  vero  judicio. 

10.  Novelline  e  Canti  popolari  détte  Marche.    Pano,  Pasqualis,  1878. 

Elagantissimo  opuscolo  in  8.'»  di  pp.  18,  dedicato  dal  nostro  egregio  amico, 
prof.  Carlo  Gargiolli,  alle  nozze  ImbrianiRosnati.  Le  novelline  sono  due,  El 
fijo  del  Be,  El  fijo  deWOrco,  nove  i  canti,  e  sì  le  une  che  gli  altri  consenrano 
la  schietta  forma  vernacola  nella  quale  furono  raccolti  dal  prof.  Qianandrea. 


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«OMAKEA,  ».•  4]  BIBLIOGRAFICO  109 

11.  P.  ToRRAccA.    Sacre  rappresentazioni  del  Napoletano.    [Napoli,  1879.] 

In  8.®  di  pp.  52,  estr.  àdXÌ^ Archivio  storico  per  le  province  Napolitane,  an.  IV, 
fsc  1.®  —  È  una  memoria  i  cui  materiali  furono  tratti  da  una  interessante  col- 
lezione del  sec.  XVI,  che  trovasi  fra  i  msa.  della  Nazionale  di  Napoli  e  che  nes- 
suno finora  aveva  fatta  conoscere.  Avendo  io  esaminata  qresta  raccolta  nel  1874, 
ne  do  qui  la  registrazione  che  il  sig.  T.  forse  per  dimenticanza  non  indicò.  Essa 
è  XIII.  D.  40,  La  memoria  è  ben  fatta  e  dk  intorno  air  uso  delle  sacre  rappresen- 
tazioni nella  provincia  di  Napoli  dei  particolari  che  formano  un  opportuno  com- 
plemento al  lavoro  generale  del  D' Ancona  sulle  Origini  del  teatro  in  Italia, 
Tuttavia  il  soggetto  è  lungi  dalP  essere  esaurito.  Conosciamo  alcune  Laude  dram- 
matiche provenienti  dalla  città  di  Aquila,  nelle  quali  si  ritrova  cronologicamente 
e  topograficamente  quasi  Panello  di  congiunzione  fra  le  antichissime  rappresen- 
tazioni deir  Umbria  e  i  successivi  esplicamenti  di  questo  genere  nelle  provincio 
napolitane.  Le  copiammo  dal  codice  XIII.  D.  59  della  Nazionale  di  Napoli  e  ci 
riserviamo  di  pubblicarle  con  altri  documenti  che  vi  stanno  accanto  (v.  Riv,  di  fi, 
rom,  II,  24,  114  ).  Di  altra  raccolta  pure  interessante  per  questo  argomento 
toccheremo  in  altro  fascicolo. 

12.  Saggi  critici  di  Francesco  D'Ovidio.    Napoli,  Morano,  1879. 

In  16. <»  di  pp.  XVI-677.  -—  Oltre  a  varj  articoli  di  critica  e  letteratura  con- 
temporanea, questo  bel  volume  del  nostro  amico  contiene  altri  scritti  letterarj 
e  filologici  in  parte  inediti,  in  parte  estratti  da  diverse  Riviste  e  qui  ristampati 
con  correzioni  od  aggiunte.  Non  potendo,  come  pur  vorremmo,  discorrere  lar- 
gamente di  cotesti  scritti,  ne  faremo  almeno  conoscere  i  titoli.  Questi  sono: 
«  Pio  Rajna  e  le  sue  Fonti  deW Ariosto;  —  lì  Fontano  del  Tallarigo;  —  Il  ca- 
rattere, gli  amori  e  le  sventure  di  T.  Tasso  ;  —  Due  tragedie  del  cinquecento 
{V Edippo  delPAnguillara  e  il  Torrismondo  del  Tasso);  — Nota  sul  verso  del  X 
canto  deir  Inferno  :  Forse  cui  Guido  vostro  ebbe  a  disdegno  ;  —  Sul  trattato  De 
volgari  éloqtientia  di  Dante  Alighieri  ;  —  La  metrica  della  canzone  secondo  Dan- 
te ;  —  Lingua  e  dialetto  ;  —  Della  questione  della  nostra  lingua  e  della  questione 
di  Giulio  d'Alcamo;  —  La  lingua  dei  Promessi  Sposi  ». 

13.  Un  document  inédit  sur  Laure  de  Sade  par  M.  db  Berluc-Perussis. 
Aix  en  Provence,  Marino  Illy,  1876. 

In  8.*  di  16  pp.  estr.  dai  Mémoires  de  VAcademie  d'Aix,  —  Non  riuscimmo 
finora  a  vedere  questo  opuscolo  e  solo  ne  leggemmo  un  resoconto  che  ne  dà  il 
sig.  A.  Roque-Ferrier  nella  Bevue  des  langues  romanes,  1878,  pg.  293.  Se- 
condo questo,  dal  documento  di  cui  qui  si  parla,  che  ò  tratto  da  un  nobiliario 
della  Provenza,  risulterebbe  che  la  Laura  amata  dal  Petrarca  sarebbe  stata  so- 
rella e  non  moglie  di  Ugo  de  Sade. 

14.  Die  proveìualische  Blumenlese  der  Biblioteca  Chigiana,  Erster  und 
getreuer  Abdruck  nach  dem  gegenwartig  verstiimmelten  Originai  und 
der  voUstandigen  Copie  der  Riccardiana.  Von  Edmund  Stbngel.  Mar- 
burg,  Elwert,  1877. 

In  4.«  di  pp.  IV-79.  —  È  noto  che  il  cod.  L.  IV.  106  della  Bibl.  Chigiana 
contiene,  oltre  ad  una  copiosa  raccolta  di  poesie  di  Beltramo  dal  Bornio,  un  flo- 


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110  BULLETTINO  [oiornalb  di  filoioou 

rilegio  di  altre  poesie,  parie  intere  e  parte  a  frammenti,  che  spettano  a  di- 
versi trovatori,  parecchie  delle  quali  non  si  trovano  che  in  questo  canzoniere 
ed  alcune  erano  anche  inedite.  Lo  Stengel ,  inaugurandosi  nelP  Ottobre  1877  il 
suo  rettorato  alla  Università  di  Marburg,  pubblicava  per  intero  quel  florilegio,  e 
siccome  il  codice  presentemente  è  mutilo  in  questa  parte  di  10  fogli,  lo  S.  supplì 
la  lacuna  coli'  ajuto  del  cod.  2981  Riccardiano,  che  è  una  copia  con  data  del  1594, 
eseguita  allorché  il  cod.  Chigiano  (allora  Stremano)  era  tuttavia  intero.  L'edi- 
zione è  diplomatica  ed  é  arricchita  da  ottimi  indici  di  riscontro.  Il  Bartsch 
nella  Zeitschrift  del  Grdber  (II,  128)  notò  alcune  differenze  di  lettura;  avendo  ri- 
scontrato quei  passi  in  sul  codice,  ci  riserviamo  di  dare  in  altro  momento  il  ri- 
sultato della  nostra  collazione;  ma  intanto  avvertiamo  che  tali  differenze  si  ridu- 
cono a  ben  poche  e  sono  lievissime. 

15.  Dm  ròle  hìstorique  de  Bertrand  de  Barn  (1175-1200)  par  Leon  Clédat. 
Paris,  Thorin,  1879. 

In  8.®  di  pp.  122,  eatr.  dal  fase.  VII  della  Btbliothèque  dea  écóles  franeaises  éPA- 
thènes  et  de  Rome.  —  Benché  parecchi  si  sieno  occupati  della  biografia  di  Beltramo 
dal  Bornio,  e  taluni  anche  con  lode,  come  il  Diez  ed  il  Laurens,  nessuno  aveva 
peraltro  esplorato  tutte  le  fonti  che  si  conoscono  e  che  possono  giovare  ad  illu- 
strar la  vita  di  quel  famoso  trovatore.  Primo  il  Clédat  si  è  servito  di  tutte  le 
cronache  contemporanee,  francesi  ed  inglesi,  e  oltre  a  ciò  attinse  all'intero  Car- 
tulario di  Dalon,  documento  molto  importante  por  questo  oggetto,  del  quale 
conservasi  una  copia  nella  Nazionale  di  Parigi  e  che  il  Laurens  aveva  appena 
consultato  qua  e  Ik.  Coir  ajuto  di  coteste  fonti  e  per  una  accurata  analisi  di 
tutte  le  poesie  di  Beltramo,  PA.  ò  riuscito  a  precisare  assai  meglio  che  non 
fosse  stato  fatto  per  T innanzi  razione  storica  del  trovatore  di  Autafort  e  a  ri- 
schiarare molti  punti  della  sua  vita  che  finora  erano  rimasti  nella  oscurità.  Nel 
tutto  insieme  questo  studio  è  assai  buono  per  il  metodo  e  per  i  risultati  a  cui 
giunge,  e  fa  onore  al  novello  cattedratico  di  Lione,  come  oAVÉcole  des  chartes 
di  cui  il  Clédat  ò  antico  allievo.    V.  Rassegna  settimanale,  voi.  IV,  n.°  79. 

16.  Bertran  de  Barn,  sein  Lehen  undseine  WerJce,  mit  Anmerkungeu  und 
Glossar  herausgegeben  von  Albert  Stimming.    Halle,  Niemeyer,  1879. 

In  8.°  di  pp.  VI-370.  —  Mentre  il  Clédat  pubblicava  in  Francia  il  lavoro  so- 
pra annunciato,  altro  lavoro  usciva  in  Gei-mania  sullo  stesso  trovatore  per  opera 
di  A.  Stimmig,  nome  già  favorevolmente  conosciuto  fra  i  cultori  della  filologia 
neolatina.  II  Clédat  ha  studiato  soltanto  la  biografia  di  Bertrando,  lo  Stimming 
alla  biografia  ha  aggiunto  una  edizione  critica  delle  opere  poetiche  di  lui,  e  que- 
sta si  può  dire  che  sia  la  parte  principale  del  suo  volume.  Per  la  biografia  lo 
S.  non  attinse  direttamente  al  Cartulario  di  Dalon,  ma  invece  si  servi  del  Lau- 
rens, al  quale  poi  spesso  sembra  accordare  fede  più  che  non  ne  meriti,  onde  in 
questa  parte  il  libro  dello  S.  riesce  inferiore  a  quello  del  C.  Già  però  notammo 
che  Tobbjetto  principale  dello  S.  fu  di  dare  un  testo  critico  delle  numerose  e 
importanti  poesie  (per  la  maggior  parte  storiche  e  politiche)  di  Beltramo,  e  bi- 
sogna riconoscere  che  in  quest'opera  faticosa  e  ardua  egli  si  è  acquistato  un 
merito  eccellente.  Si  potrà  discutere  sulla  preferenza  data  ad  una  o  ad  altra 
variante,  si  potrà  dubitare  della  giustezza  di  qualche  interpretazione,  si  potrà 


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AOMANEA,  N.o  4]  BIBLIOGBAFICO      •  111 

ancora  modificare  questa  o  quella  classificazione  dei  mas.  (v.  per  ora  Clédat  nella 
Bomania  n.<*  30);  ma,  a  parte  ciò  che  in  simili  lavori  vi  è  necessariamente  di 
soggettivo  e  che  come  tale  non  potrh.  mai  essere  sicuro  da  dissensi  e  da  opposti 
giudizj,  resta  sempre  allo  S.  il  merito  di  avere  per  la  prima  volta  raccolto  tutto 
l'abbondante  e  complicato  materiale  critico  e  di  averlo  messo  in  azione  con  me- 
todo rigoroso  e  veramente  scientifico,  il  che  gli  permise  in  passi  difficilissimi  di 
giungere  talvolta  a  restituzioni  che  sono  davvero  felici,  come,  per  esempio,  nel 
n.*»  24  (Non  puosc  mudar).  Questa  bella  edizione  è  arricchita  di  ottime  anno- 
tazioni e  di  un  glossario  che  ci  pare  molto  accurato.  Diedero  conto  di  questo 
libro  Btengeì  néìl^  Jenaer  Lìteraturzeitungf  1879,  n.  25;  Clédat  nella  iJ^rwc  cn- 
tique,  1879,  n.<>  26.  La  Bomania  (n.<'  31  nella  Cronaca)  lo  riconosce  anch*  essa  per 
«  una  importante  pubblicazione  >. 

17.  Las  niocedades  del  Cid  de  D.  Guiìlem  de  Castro.  Reimpresion  con- 
forme a  la  edicion  origiual  publicada  en  Valencia,  1621.  Bonn, 
Weber,  1878. 

In  8.°  picc.  di  pp.  VIII-214.  —  Tre  edizioni  moderne  si  possedevana  di  queste 
due  belle  commedie  del  De  Castro  sul  Cid,  ma  nessuna  abbastanza  accessibile  agli 
studiosi  né  abbastanza  conforme  all' originale.  Per  ovviare  al  bisogno  nei  suoi 
corsi  accademici  il  prof.  W.  Foerster  della  Università  di  Bonn  ha  curata  questa 
ristampa,  per  la  quale,  non  avendo  potuto  adoperare  l'autografo  del  De  Castro, 
pi*ese  a  base  la  edizione  principe  (Valenza,  1621),  secondo  una  copia  fornitagli 
da  un  suo  allivo  di  su  l'esemplare  che  si  conserva  a  Vienna.  La  nuova  edi- 
zione riproduce  dunque  l'antica,  tranne  che  negli  errori  di  stampa  e  nella  con- 
fusione delle  strofe,  e  in  pochi  altri  passi  che  sono  a  suo  luogo  indicati  e  giu- 
stificati. La  stampa  è  accurata  quanto  elegante,  e  oltre  la  tiratura  in  carta 
comune  a  prezzo  mitissimo,  ne  furono  tirati  altri  esemplari  su  carta  distinta  ed 
in  formato  più  grande,  con  inquadratura  della  giustificazione  in  rosso,  che  fa- 
ranno la  delizia  dei  bibliofili.  Un  resoconto  del  Morel-Fatio  è  nella  Bevue 
crttique,  1879,  n,^  15;  un  altro  se  ne  legge  nella  Zeitschrift  del  Gr5ber,  III, 
131  (Lemcke). 

18.  Ueber  Calderons  SibyUe  des  Orients.  Festrede  gehalten  in  der  offentli- 
chen  Sitzung  der  k.  Akademie  der  Wissenschafte?!  zu  Miinchen  zur  Peier 
ihres  einhundert  und  zwanzigsten  Stiftungstages  ani  28  Marz  1879, 
Yon  Wilhelm  Meyeb  aus  Speyer.    Miinchen,  1879. 

In  4.^  di  pp.  28.  —  Dopo  alcune  considerazioni  generali  sulla  importanza  degli 
studj  che  riguardano  il  medio  evo,  l'A.  si  volge  a  dimostrare  come  il  Calderon 
nel  suo  Auto  El  Arbor  del  mejor  fruto  si  sia  servito  della  leggenda  del  legno 
della  croce  in  quella  forma  in  cui  l'ebbe  trovata  nel  libro  del  gesuita  Pineda 
intorno  a  Salomone,  fatto  a  cui  il  Mussafia  nel  suo  bel  lavoro  su  quella  leggenda 
aveva  soltanto  accennato.  Mostra  quindi  probabile  che  il  poeta  spagnuolo  nel- 
r altro  suo  dramma  La  Sibila  del  Orient  y  gran  Beina  Saba  —  che  l'A.  non 
dubita  di  ascrivere  al  Calderon  medesimo,  —  abbia  messa  a  suo  profitto  la  stessa 
opera  del  Pineda  solo  dando  all'  azione  la  forma  drammatica.  Come  tutti  i  lavoii 
del  giovane  erudito  di  Spira  anche  questo  si  distingue  per  copia  di  dottrina,  e 
per  fino  intuito  critico. 


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112  .        BULLETTINO  [aioRNALE  di  fu^looia 

19.  L^ Espagne  au  XVI*  et  au  XVir  siede,  documents  historiques  et 
litteraires  publiés  et  annotes  par  Alfred  Mo&el-Fatio.  Heilbroniii 
Henninger,  1878. 

In  8.°  di  pp.  XI-698.  —  Tutti  i  documenti  qui  pubblicati  sono  importanti  e 
conferiscono  a  meglio  chiarire  o  anche  a  correggere  qualche  punto  della  storia 
spagnuola,  ma  due  soli  hanuo  particolare  interesse  per  la  storia  letteraria.  Questi 
sono:  1)  Cancionero  general  de  obraS  nuovas  hasta  aora  impressas  assi  por  éH 
arte  espanola  comò  por  la  toscana;  2)  Accademia  de  burla  que  se  hizo  enhuen 
retiro  a  la  magestad  de'Philipo  quarto  el  grand,  ano  de  1637.  Del  primo  di 
questi  documenti  aveva  già  rilevato  il  valore  e  datane  una  descrizione  F.  Wolf 
nella  memoria  letta  alF Accademia  di  Vienna  che  ha  per  titolo:  Ein  Beiirag 
zur  Bibliographie  der  Cancioneros  und  zur  Geschichte  der  Spanischen  KunsQyrik 
am  Hofe  Kaiser  KarVs  V  (Sitzungsherichte,  1853,  X,  153-204).  U  M.-F.  Tha 
tutto  ristampato  secondo  Punico  esemplare  che  se  ne  conosce  nella  biblioteca 
ducale  di  Wolfenbiìttel ,  sfuggito  alla  distruzione  della  intera  edizione ,  e  T  ha 
accompagnato  con  una  dotta  prefazione  e  con  copiose  note  e  varianti.  Il  secondo 
«  è  un  episodio  delle  feste  straordinarie  celebrate  a  Madrid  dal  15  al  25  feb- 
braio 1637,  in  occasione  del  voto  degli  elettori  dell'Impero  riuniti  a  Ratisbona, 
che  conferiva  la  dignità  di  re  dei  Romani  al  re  di  Ungheria  più  tardi  impera- 
tore sotto  il  nome  di  Ferdinando  III  ».  Si  tratta,  come  osserva  T editore,  di 
composizioni  improvvisate  dove  non  si  cercava  che  di  cogliere  il  lato  comico  dei 
soggetti,  di  svolgerlo  con  spirito  e  con  grazia,  evitando  le  volgarità  e  le  scor- 
rezioni di  lingua  e  di  verseggiatura  ;  e  se  non  vi  si  ritrova  V  arte  e  lo  stile  gran- 
dioso del  seicento ,  vi  s' incontrano  peraltro  dei  componimenti  ben  condotti  e 
piacevoli  a  leggersi  sì  per  la  forma  che  pel  contenuto.  «  Cette  Académie  —  con- 
clude il  M.  F.  —  est  une  plaisenterie,  parfois  un  tant  soit  peu  risquée,  mais  qu*on 
doit  lire  et  comprendre  comme  telle,  sans  j  attacher  plus  d'importance  qn'elle 
n'en  mérite  pour  le  fond  des  idées  ».  Anche  questo  testo  ha  una  buona  intro- 
duzione e  abbondanti  note  illustrative. 

20.  Dos  altfran^'ósiscìie  RolandsUed.    Genauer  Abdruck  der  Oxforder  Hs. 
Digby  23  besorgt  von  Edmund  Stengel.    Heilbronn,  Henninger,  1878. 

In  8.*»  di  pp.  XI-143.  --  Questa  nuova  edizione  della  Chanson  de  Boland  ri- 
produce fedelmente,  pagina  per  pagina,  abbreviatura  per  abbreviatura,  il  piiì 
importante  dei  mss.  di  quel  poema,  ohe  è  conservato  nella  Bodleiana  di  Oxford. 
Sottostanno  al  testo  brevi  note  che  offrono  succinte  avvertenze  paleografiche  o 
che  fanno  conoscere  le  differenze  di  lezione  e  gli  emendamenti  critici  introdotti 
nelle  edizioni  precedenti ,  e  il  volume  è  accompagnato  da  un  fac-simile  fotografico 
di  due  pagiue  del  codice  medesimo.  Questo  fac-simile  dà  anche  saggio  della 
riproduzione  fotografica  che  lo  Stengel  medesimo  testé  pubblicava  a  suo  spese 
deir  intero  codice ,  col  titolo  Photographische  W leder gàbe  der  Hs.  Digby  23 
(  Chanson  de  Boland)  mit  Genehmigung  der  Curatoren  der  bodleyschen  Bìbìio- 
thek  zu  Oxfordf  veranstaltet  von  D.*^  Edm.  Stengel.  Heilbronn,  Henninger,  1878; 
riproduzione  che  non  meno  della  edizione  qui  annunziata,  sarà  utilissima  prin- 
cipalmente per  le  esercitazioni  scolastiche  dei  corsi  superiori.  A  tale  scopo  i 
fogli  della  fotografia  sono  stati  messi  in  vendita  anche  separatamente. 


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ROMANZA  N.o  4]  BIBLIOGRAFICO  113 

21.  Le  Mystère  de  la  Passion  cPAmotd  Gréban,  pablìé  d*après  les  mss. 
de  Paris,  avec  une  introdnction  et  un  glossaire  par  Gaston  Paris  et 
Gasto!^  Raynaud.    Paris,  Vieweg,  1878. 

In  8."*  gr.  di  pp.  Ln-474.  —  JQ  Mistero  della  Passione  di  A.  Greban  era  finora 
conosciuto  soltanto  per  un  rifacimento  di  Jean  Michel  dell' ant^  1486,  rifacimento 
che  aveva  talmente  trasformato  T  originale  del  Greban,  da  farlo  parere  quasi 
una  composizione  novella.  Il  Paris  e  il  Raynaud  ci  danno  per  la  prima  volta 
la  forma  genuina  di  questo  dramma  (composto  di  34,574  versi),  che  può  dirsi 
uno  dei  principali  monumenti  in  cui  esplicossi  e  poi  si  chiuse  il  mistero  francese 
della  età  media.  L'edizione,  opera  di  molta  fatica,  si  fonda  principalmente  sul- 
rSlG  dei  codd.  fr.  della  Nazionale  di  Parigi,  che  fu  scritto  nel  1473,  circa  23  anni 
dopo  la  composizione  del  dramma ,  e  attinge  le  correzioni  da  altri  due  mss.  meno 
antichi  che  rappresentano  la  lezione  più  diffusa  e  derivano  probabilmente  dalla 
redazione  del  testo  fatta  da  Simone,  fratello  di  Arnoul,  dopo  la  morte  di  questo 
avvenuta  nel  1470.  Utili  materiali  per  T  edizione  si  sarebbero  potuti  raccogliere 
anche  dal  cod.  Corsiniano  già  segnalato  dallo  Steugel  (Biv.  di  filol.  rom.  li,  128), 
e  fatto  meglio  conoscere  dopo  questa  pubblicazione  dal  Tobler  (ZeitscHrift  f. 
rom.  Phil,  II,  589)  ;  ma  gli  editori  pur  riconoscendo  T  utilità  di  estendere  l'esame 
anche  ai  mss.  che  trovansi  fuori  di  Parigi ,  furono  costretti  dal  soverchiare  del 
lavoro  a  chiudersi  entro  limiti  più  angusti  e  ciò,  giova  notarlo,  non  ha  loro 
impedito  di  dare  un  testo  soddisfacente  e  abbastanza  corretto.  Un  ottimo  glos- 
sario chiude  il  volume,  che  d'ora  innanzi  sarà  spesso  sfogliato  da  quanti  studiano 
l'antico  francese,  ed  ò  quasi  superfluo  l'aggiungere  che  l'introduzione  sì  nella 
parte  biografica  come  nella  letteraria  compie  degnamente  questo  volume  che  è 
riuscito  quale  potevasi  aspettare  da  due  editori  si  distinti. 

Recensioni  ed  appunti  particolari  leggemmo  nella  Bevue  des  latigves  roma' 
nes,  1879,  p.  135  (Chabaneau);  Jenaer  Literaturzeitung ,  1879,  n.*»  2  (Stengel); 
Literar.  Centraìblatt,  1879,  n.«»  3. 

22.  Aticassin  et  Nicolette^  chantefable  du  XII"  siècle  tradoite  par  A.  Bida, 
re  vision  da  texte  originai  et  préface  par  Gaston  Paris.  Paris,  Ha- 
chette,  1878. 

In  4.<»  di  pp.  XXXI-104,  con  nove  acque-forti. 

23.  Aucassin  und  Nicolete  nen  nach  der  Handschrift  mit  Paradigmen 
nnd  Glossar  von  Hermann  SucnneR.    Paderbon,  Schòningh,  1878. 

In  8.*»  di  pp.  VIII-116.  —  Le  due  edizioni  qui  sopra  annunciate  hanne  intenti 
affatto  diversi.  La  francese,  pur  cercando  di  ridare  al  testo  una  forma  corretta, 
arricchì  questo  di  una  traduzione  e  di  una  prefazione  che  permetteranno  anche  ai 
non  eruditi  di  gustare  questa  graziosissima  novella,  e  l'elegante  volume  è  princi- 
palmente destinato  a  costoro.  La  tedesca  invece  ha  fatto  dell'  Aucassin  un  libro 
esclusi vameu te  scolastico,  e  sotto  questo  riguardo  il  Paris  stesso,  che  gli  dedicava 
un  bell'articolo  nella  22omama,  n,^  30,  riconosca  che  l' edizione  risponde  perfet- 
tamente al  suo  scopo,  e  non  dubita  che  avrà  quella  riuscita  a  cui  mira.  Il  testo 
è  restituito  criticamente  solo  in  quanto  al  senso  e  alla  espressione,  non  in  quanto 
alla  forma  dialettale.  Corredano  il  testo:  1)  una  tavola  delle  abbreviature  ado- 
perate nell'unico  ms.  ove  si  trova  V Aucassin,  colla  giustificazione  del  loro  sclo- 

8 


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114  BULLETTINO  [giohnalb  di  filologia 

glimento:  2)  alcune  note  esplicative  del  testo  e  delle  congetture;  3)  uno  studio 
accuratissimo  sul  dialetto  del  poema;  4)  i  paradigmi  grammaticali  ;  5)  un  glos- 
sario di  tutte  le  voci  che  occorrono  nel  componimento.  Malgrado  appunti  par- 
ticolari, i  critici  più  competenti  sono  concordi  nel  lodare  il  libro  e  riconoscono 
che  le  ricerche  dell* A.  esposte  nel  §  3  spesso  estendono  ed  approfondiscono  la 
conoscenza  deèl' antico  francese.  —  Oltre  il  citato  articolo  della  Romania,  v- 
Literarisches  Gentralblatt,  1879,  n.*»  18;  Jeaner  Liteì'aturzeitung ^  1879,  n.*  11 
(Stengel);  Zeitschrift  fur  rom.  Fhil,  II,  624  (Tobler). 

24.  Die  nordische  tmd  die  englische  Version  der  Trisfan-Sage.  Herausge- 
geben  von  Euqen  Kolbino.  Erster  Theil:  Tristrams  Saga  oh  Isondar. 
Heilbronn,  Henninger,  1878. 

In  8.°  di  pp.  CXLVIII-224.  —  È  noto  come  i  paesi  scandinavi  e  tedeschi  du- 
rante il  medio  evo  accolsero  con  molto  favore  e  si  assimilarono  una  parte  non 
piccola  delle  tradizioni  epiche  della  Francia;  onde  avviene  che  per  parecchie  di 
tali.'tradizioni,  i  cui  originali  francesi  andarono  perduti,  la  storia  letteraria  at- 
tingendo alle  vei sioni  nordiche  possa  sovente  ricolmare  fino  a  un  certo  punto  le 
sue  lacune.  Una  di  queste  tradizioni  au  cui  vediamo  ora  dirigersi  T  attenzione 
degli  studiosi,  è  la  Saga  di  Tristano,  saga  della  quale  si  ritrovano  tre  versioni 
nella  letteratura  inglese,  nella  islandese  e  nella  tedesca,  e  alcuni  frammenti  di 
una  quarta,  attribuita  ad  un  certo  Thomas,  nella  francese.  Il  Eoelbing,  distinto 
cultore  della  filologia  germanica  e  neolatina,  ha  preso  a  pubblicare  le  versioni 
islandese  ed  inglese  di  cotesta  saga  (essendo  già  a  stampa  la  tedesca  che  è  il 
Tristano  di  Gottfried  di  Strasburgo,  e  in  via  di  pubblicazione  i  frammenti  della 
francese)  e  a  quelle  versioni  pose  innanzi  una  elaboratissima  prefazione,  dove 
sono  accuratamente  e  largamente  studiate  le  diverse  relazioni  che  intercedono 
fra  le  quattro  versioni  anzidette.  Risultato  di  tale  studio  b  che  la  versione 
francese  deve  aver  servito  di  fondamento  alle  altre  tre,  e  che  mentre  la  islan- 
dese (scritta  nel  1226  da  un  chierico  di  nome  Roberto  per  impulso  del  re  Hakon 
il  vecchio)  ci  rappresenta  più  completamente  e  fedelmente  il  poema  di  Thomas, 
la  tedesca  poi  è  quella  che  maggiormente  se  ne  allontana,  senza  guadagnare  per 
questo  in  originalità:  onde  il  valore  poetico  del  celebre  minnesingero  di  Stras- 
burgo resta  omai  considerevolmente  attenuato.  Il  volume  pubblicato  testé,  oltre 
la  detta  prefazione,  contiene  il  testo  islandese  della  saga  accompagnato  da 
una  traduzione  tedesca  e  da  abbondanti  note  filologiche.  Recensioni  di  questo 
libro  possono  leggersi  nella  Romania,  n.°  30  (Vetter);  nella  Jena&r  LUera" 
turzeitung,  1879,  n.^»  25  (Lòschhorn)  ;  nel  Literar.  CeniraJblaU,  1879,  n.*»  23;  Reme 
critique,  1879,  art.  90  (Vetter).  Qui  poi  cade  in  acconcio  di  ricordare  la  interes- 
sante nota  di  G.  Paris  su  Breri,  fonte  di  Thomas,  inserita  nella  Romania,  n."  31, 
p.  425  e  ss. 


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ROMANZA,   N.**   4] 


115 


PERIODICI 


1.  Archivio  glottolooico  italiano,  III, 
punt.  3.  —  U.  A.  CanellOf  Oli  alJòtropi  ita- 
liani. —  G,  P.  Hasdett,  Le  type  syntaclique 
«  homo-ille  ille-bonus  »  et  sa  parentèle.  — 
6.  I.  Ascoli y  Varia:  Le  doppie  figure  neo- 
latine del  tipo  «  briaco  imbriaco  »;  —  brillo, 
brio,  brillare;  —  ascia  ascula;  iscla  Ifichia; 
Peschi©  ;  —  ancora  di  pesclo,  Peschio;  — 
bisca  spagp.;  —  gl9ma  ;  —  Zara,Troyes  ecc. — 
ancora  del  tipo  «  vime  vimine  »;  —  ancora 
del  participio  in  -ésto;  —  Il  testo  istriano 
del  Salviati.  —  Indici  del  volume. 

2.  Romania,  n.«  28.  —  A.  Morel-Fatio, 
El  Libro  de  Exemplos  por  a,  b,  e  de  Cli- 
inente  Sanchez.  —  E.  Cosquin,  Contes  po- 
pulaires  lorrains.  —  Mélanges:  J.  Cornu, 
Mien  =  meum.  —  L.  Havet,  Couturae,  enclu- 
me.  —  P,  JVf.,  Antz  en  langue  d*oc.  —  J. 
Cornu,  Etyraologìps  espagnolea:  burdo, di- 
zer.  —  G,  Raynaud,  Le  dit  de  Jehan  le  Ri- 
golé.  —  E.  Rolland,  ti  signe  d'interroga- 
tion.  —  Correction:  A.  Lùttge,  Sur  la  Vie 
de  Saint  Jehan  buoche  d*or,  —  Comptes-ren- 
dus.  —  Póriodiques  (pp.  625-7,  resoconto  del 
n.**  2  del  Giornale;  nota  snirorifrine  di  Sir- 
ventese e  osservazioni  sulPart.  Di  un  poe- 
ma inedito  di  Carlo  Mertello  e  di  Ugo  conte 
d'Alvernia.  —  Il  resoconto  del  n.*^  1  è  nel 
fase.  27).  —  Chronique. 

--N.<>29. — A.  Longnon,  Uélément  histo- 
rique  de  Huon  de  Bordeaux.  —  /.  Ulrich, 
Miracles  de  Notre  Dame  en  provencal.  — 
G.Paris,  Lais  inèdita:  Tyoipt,  Guiugamor, 
Doon,  le  Lecheor,  Tydorel.  —  A.  Stickney^ 
Chansons  fran<jai?es  tirées  d'un  ms.  de  Flo- 
rence (Strozzi-Magliab.  CI.  VU,n.o  1040).— 
Mélanges:  L.  Ifavet,  L'italien  anche, le  fran- 
Qais .  ncore.  —  GP.,  Diuer.  —  G.  Raynaud, 
Rigot;  à  tire-larigot  —  à  tire  le  rigot. — 
Ch.  Joret,  Non*  et  on.—  G.  Raynaud,  Un 
testament  raarseillais  en  1316.  —  P.  M.,  Un 
nis.  du  XV®  siede  de  la  cronique  de  Dino 
Compagni.  —  C,   Chabaneau,  I  final  non 


étymologiqìie  en  langue  d'oc.  —  /.  Bauquier^ 
Changement  de  ts  final  en  ce  et  toh.  —  R» 
Koehler,  L'àroe  en  gage.  —  V,  Smith, 
Chants  populaires  du  Velay  et  du  Forez; 
fragraents  de  bestialres  chanlés.  —  Cor- 
rections:  C,  Chabaneau,  Marcabrus:  Pax 
in  nomine  Domini;  Cercamon:  Car  vey  fé- 
nir  a  tot  dia.  —  Coroptes-rendus.  —  Périodi- 
ques.  —  Chronique. 

^  N.**  30.  —  H,  D'Arbois  de  Jubain- 
ville.  Dea  rapporta  de  la  versification  du 
vieil  irlandais  avec  la  versification  romane. — 
P.  Meyer,  L'imparfaìt  du  subjonctif  en  es 
(provenQal).  —  {?.  Paris,  La  vie  de  Saint 
Aleii  en  vers  octosyllabiqoes.  —  P.  Meyer, 
Traités  catalans  de  grammaire  et  de  poéti- 
tique  ;  Terramagnino  de  Pise.  —  M.  Cohendy 
d  A.  Thomas,  Strophes  au  Saint  Esprit, 
suivies  des  statuta  d*une  confrérie  du  saint 
Esprit,  en  dialecle  auvergnat.  —  II.  Carnoy^ 
Contes,  petites  légendes,  croyances  popu- 
laires, coutumes,  formujettes,  jeui  d'enfanta, 
recueillis  à  Warloy-Baillon  (Somme)  ou  & 
Mailly.  —  Mélanges:  /.  Ulrich,  Étymologies: 
amonestar,  carestia,  des  ver.  —  G.  P.,  San- 
cier,  essancier.  —  G.  P.,  Un  fragment  in- 
connu.  —  L.  Clédat,  Le  sirventes  Bera  piai 
lo  gais  tempa  de  pascor.  —  Comptea-ren- 
dus.  —  Périodiques.  —  Cronique. 

3.   RbVUE  DBS  LANOUES  ROMANES,   DeUX.® 

Serie,  a.  1878.  n.*  5-6.  —  C.  Chabaneau,  Es- 
sai d'une  traduction  catalane  de  la  Legende 
dorée.  —  P.  Preda,  Trois  poésies  milanaises 
de  Carlo  Porta.—  V,  Smith,  Vn  Alleluia 
pascal  en  Velay.  —  /.  Sant-Rémy,  Pouesias 
dioisas  de  Gusté  Boueiasier.  —  A.  Gazier, 
Leitres  à  Grégoire  sur  les  patois  de  Fran- 
ce. —  i?.  Alecsandri,  Cantul  gintei  latine.— 
Matheu  y  Fornells,  Lo  cant  del  Llati. — 
F.  Mistral,  A  la  ra^o  latino.  —  MM'  L.  Gai- 
rand,  Calabrun.  —  Th.  Aubanel,  Lnno  pie- 
no. —  C.  Laforgue,  La  Bouraiano.  —  M.^ 
L.  de  Ricard,  A  la  mar  latina.  —  A,  Roux^ 


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116 


PERIODICI 


[giOBXALE   di   PILOL06U 


A  Mount-peliè.  —  L.  Roumieux,  Lou  Branle 
de  las  Trelhas.  —  Ch.  Gros,  UAutouna. — 
Bibliographie.  —  Périodìques.  —  Chronique. 

—  X.*  7-8-9.  —  C.  Chabaneau,  Noèl  lan- 
guedocien  inédit.  —  M,  Rivière ^  Notes  sur 
le  langage  de  St-Maurice-de-rExil.  Mou  dera 
coucon.  —  A.  Roque-Ferrier,  Un  fragment 
de  poème  en  langage  de  Bessan.  —  /.  Saint- 
Rémy,  PoueÌ8Ìa8  dioisas  de  Ousté  Boneis- 
sier.  —  yl.  Gazier,  Lettres  à  Grégoire  sur 
lee  patois  de  France.  —  A.  Montel  db  L.  Lam- 
bertf  Chants  populaires  da  Langaedoc.  — 
Piat,  Maucor.  — G^.  Bonaparte-Wyse ,  Lou 
Dióu  vivent.  —  L  Roumieux,  A  Ni?o.  — 
A.  Foures,  La  Semenairo  de  milh.  —  J£°« 
L.  Goirand,  Vespre  d^estiéa. —  V,  Lieu' 
taud,  Marina.  —  L.  Roumieux,  Ponlimnìo.  — 
Bibliographie.  —  Périodìques.  —  S.  Leotard, 
BuUetin  bibliographique  de  la  langne  d*oc 
pendant  Tannée  1875.  —  *  «  «  ,  Le  parage 
a  Maguelone.  —  A.  de  Quintana  y  Combis, 
Discours  prononcé  à  Touverture  de  la  seance 
du  Chant  du  Latin  le  25  mai.  —  Chronique.  ~ 
Errata. 

— N.^  10. —  C,  Chabaneau,  Une  inscription 
provengale  du  XVI*  siècle. —  C.  Chabaneau, 
Noèl  périgourdin.  —  Martin,  Un  sonnet  de 
Ranchin  traduit  en  proven^al  et  en  langue- 
docien.  —  A.  Gazier,  Lettres  à  Grégoire  sur 
les  patois  de  France.  —  M,  Rivière,  Un 
conte  dauphinois  sur  le  Loup  et  le  Renard.— 
Poésies:  L.  Roumieux,  Urous  Naufrage. — 
CLaforgue,  LUver.  —  G,  Bonaparte  Wyse, 
A  Clement  Fanot.  —  A,  Chastanet ,  Moussu 
Chasaud.  —  A,  Galtier,  Le  Pintaire.  —  A, 
Fourès,  Les  Nouiès.  —  Bibliographie.  — Pé- 
riodìques. —  Chronique.  —  Errata. 

—  N.*  11-12.  —  A.  Boucherie,  L'ensei- 
gnement  de  la  philologie  romane  en  France 
(LeQon  d'ouverture  des  Conferences  de  phi- 
lologie romane  à  la  Faculté  de  lettres  de 
Montpellier).  —  /.  Bauquier,  Étude  sur 
quelques  pronoms  provengaux.  —  Poésies: 
V.  Smith,  Le  Moine,  chanson  de  Velay. — 
(7.  Lafórgue,  La  Naturo.  —  A.  Fourès, 
Atos.  —  G,  Bonaparte  Wyse,  Lou  Calignai- 
re.  — /.  Gaussinel,  Sa  maire  Tes  vengut 
cerca.  —  G.  Bonaparte  Wyse,  A  prepaus  de 
la  mori  di  dous  cri-cri  de  Madamisello  Er- 
nestìno  de  Boruier.  —  J.  Roux,  Gondoval. — 
Bibliographie.  —  Périodiques.  —  *  *  *  ,  Le 
Parage  à  Maguelone.  —  Chronique. 


—  A.  1879,  n.'  1-3.  -Affre,  DocumenU 
sur  le  langage  de  Rodez  et  le  langage  de 
Mìlhau  du  XII»  au  XVI*  siècle.  —  l?ato^w«r 
y  Merino,  Ordinacions  y  bans  del  Comtat 
d'Empurìas.  —  F.  Castets ,  Dante  philolo- 
gue.  —  A.  Gazier,  Lettres  à  Grégoire  sor 
les  patois  de  France.  —  J.  Saint-Rémy, 
Poueisias   dioisas   de   Ousté  Boueissier.  — 

F.  Vincent,  Le  Pitit  tro  de  jau.  —  Poésies: 

G.  Aza'is,  La  Roso  de  Margarido.  —  Tk. 
Aubanel ,  La  fio  de  Bornier. —  A.  Fourez, 
Le  coumpousitou.  —  G.  Aza'is,  Uno  meno 
de  sauvages  que  trevo  pas  lous  bosques.  — 
A.  Fourès,  A  Leucado.  —  A.  Carefa  y  Vi- 
dal.  La  can^o  del  rat  penat.  —  C.  Gros,  La 
maire  e  l'enfant.  —  Bibliographie.  —  Pério- 
diques. —  Chronique.  —  Rectiflcation. 

—  N.*  4-6.  —  C.  Chabaneau,  La  langue 
et  la  litterature  proven^ales  (Le^n  d'ouver- 
ture du  Cours  de  langue  romane  à  la  Fa- 
culté de  lettres  de  Montpellier).  —  Balagver 
y  Merino,  Ordinacions  y  bans  del  Comtat 
d'Empurias.  —  A,  Gazier,  Lettres  à  Grégoire 
sur  les  patois  de  France.  —  P.  Fesquet, 
Le  proven^al  de  Nimes  et  le  languedocien 
de  Colognac  comparés.  —  Poésies:  A.  Lan- 
giade,  Lou  las  d'amour. —  M.  Rivière,  Loa 
tems  delle  vandame. —  C.  Malignon^  L'estel- 
lo  dou  Felibrige.  —  L.  Goirand,  Mort  d'uno 
iroundella. — A,  Amavielle^  Tabo! —  T.  Au- 
banel, Lacrymae  florum.^  Bibliographie.  — 
Périodiques.  —  A.  R.  F. ,  Deux  imitations 
d'un  sonnet  de  Fizes.  —  Chronique. 

4.  Zbitschrift  pOr  romanischb  Philo- 
logie, II,  3.  —  Af.  Gaster,  Zur  rumftnischen 
Lautgeschichte  :  Die  Gulturalen.  —  A,  Tobler, 
Vermischte  Beitràge  zurGrammatikdesFran- 
zòsischen.  —  F.  Perle,  Die  negation  in  Altfran- 
zòsischen.  —  P,  Rajna,  Il  cantare  dei  cantari 
e  il  serventese  del  maestro  di  tutte  l'arti.— 
Th,  Auracher,  Der  Brandan  der  Arsenalhand- 
schrift  B  L  F  283.  —  Miscellen:  K  Bartsch, 
Weiteres  Vorkommendes  elfsilbigen  Verses.— 
G.  Gròber,  Franz,  ausi,  f  =  Dentai.  —  P. 
Foerster,  Zu  C.  Michaèlis:  Romanische 
Wortschopfung.  —  Recensionen  und  Anzeigen 
(pp.  501-3  resoconto  e  note  del  Gròber  sul 
n.°  1  del  Giornale).  —  Diez-Stiflung. 

—  N.**  4.  —  A.  von  Flugi,  Die  ladinischen 
Dramen  des  16  Jahrhunderts.  —  0.  Ulbrieh , 
Ueber  die  vocalisirten  consonanten  des  Alt- 


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B^M^KU,  «.o  ,4] 


PEBIODJCI 


H^/ 


franzósischen.  —  A,  Tobler,  Vermischte  Bei- 
trftge  lur  Grammalik  des  Franzosischen.  — 
E,  Gessner,  Alfraozdsisches  si  —  bis ,  bevop.  — 
Miscellen:  E.  Stengel,  Die  wiederaufge^n- 
deoe  Quelle  voo  Raimon  Ferauts  provenza- 
lischem  Gedicht  auf  dea  heil.  Hoaorat  und 
der  1501  gedruckten  lat.  Vita  S.  Honorati.  — 
K,  VoUmòller,  Zur  Bibliographìe  der  Roman- 
oeros^r— J9..  Dinter,.  Altfranzòsisches  Liebes- 
lied.  — iC  Tobler,,  Die  Corsini^sche  Hand-j. 
schrift  des  Mjstère  de  la  PasaioD.  —  J,  Baur^ 
Franz,  aller;  churw.  gomgnia,  giamgia. — 
G^  Groòtr,  Oli,  egli,  ogni.  —  Recensionen 
und  Anzeigen  (pp.  629-35)  articolo  di  H,  J, 
Bidermann  sulla  memoria  del  Malfatti,  Degli 
idiomi  parlati  nel  Trentino,  Giornale  n.^  2, 
sulla  qaale  v.  ancb^  la  Romaipa,  n.^28  p^.  627}. 
JC'Merwart,  TV,  Fo^rster,  E,  Stengel,^  ^r- 
clftrang.  — 7«  Néumann,  Registen 


—  Supplementheft  II.-— Bibliographie  1877. 

—  Ili,  1.*»  —  ^.  Morel'Fatio,  Vicente  No- 
guera  et  son  Discours  sur  la  langue  et  les 
aijteurs  d'Espagne.  —  G.  Gròber^  C,  von  Le- 
binschi,  Collation  der  Berner  Liederhand- 
schrift  389.  —  F,  A,  Coelho,  Romances  popu- 
lares  e  rimas  infantis  portuguezas. — Miscellen  : 
R.  Koehler,  La  fabula  del  Pistello  da  Taglia- 
ta. —  K,  Bqrts,ch ,  Aus  einem  alten  Hand- 
schryien  Kijitalogue.  —  JC  Vollmotl^,  Mit- 
theilungen  aus  spaoiscben  Han4schrii!ten»  — 
G.  Baisi,  Zu  Blanquema.  —  A.  Toìket,  Ro- 
njanische  Etymologien.  —  TT.  Foerster,  Dìp 
altfi*anzòsischeu  Participia  Perfecti  auC  eit 
(-oit).— Recensionen  und  Anzeigen  (pp.  158-9,^ 
nota  del  Tobler  sulTart.  del  Caix  pubblicato 
nel  n.^  1,  pp.  43  e  ss.  del  Giornale }.  —  Diez- 
S^fìung,/ 


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118  [OIOBXALB  01  riLOLoeu 


NOTIZIE 


L* iosegnamento  della  filologia  neolatina  ha  ottenuto  nuove  catedre  in  Francia.  Dopo 
che  a  Parigi,  altre  ne  furono  istituite  ad  Aix,  Bordeaux,  Lione,  Tolosa  e  provvedute  colle 
nomine  dei  proff.  Joret,  Luchaire,  CIódat  e  Couture,  e  due  finalmente  ne  fondava  il  Go- 
verno a  Montpellier  centro  del  movimento  letterario  delle  provincie  meridionali,  chiamando 
ad  occuparle  i  proff.  Chahaneau  e  Boucherie.  A  compimento  poi  di  (Questa  notizia  aggiun- 
geremo che  il  Ministro  della  istruzione  pubblica,  affinché  la  sua  istituzione  non  riuscisse 
niusorìa,  assegnava  subito  alla  Facoltà  di  Montpellier  un  fondo  straordinario  di  sei  mila 
franoki  per  fornire  la  biblioteca  dei  libri  necessarj  al  nuovo  insegnamento.  Auguriamoci 
che  quest* esempio  non  rimanga  del  tutto  sterile  m  Italia,  dove  le  catedre  abbondano,  ma 
le  biblioteche 

Il  prof.  W.  Foerster  ha  pubblicato  nel  fase.  XIII  dei  Romanische  Studiennn  testo  che 
per  la  sua  antichità  ed  estensione  occuperà  un  bel  posto  nella  serie  monumentale  dei  ver^ 
nacoli  italiani.  Questo  testo  consiste  in  una  raccolta  di  ventld ne  sermoni  scritti  in  un  dia- 
letto gallo-italico,  e  il  ms.  che  ce  li  ha  conservati  ò  del  sec.  XII.  Esso  trovasi  nella  Bi- 
blioteca di  Torino.  Di  un*  epoca  così  remota  non  si  conoscevano  finora  se  non  poche  carte 
«  qualche  altro  brevissimo  frammento;  onde  la  pubblicazione  del  Foerster,  non  fosse  che 
per  questo  riguardo,  porta  alla  nostra  storia  lerieraria  un  considerevole  arricchimento.  — 
Un  altro  testo  italiano,  minore  per  mole  ma  anche  più  venerando  forse  per  antichità,  fu 
ritrovato  nella  Bibl.  Vallicelliana  dal  Ds  G.  Loewe  e  communicato  al  prof.  Flechia,  il  quale 
presto  lo  pubblicherà  neir  ^rc^tt^to  dell*  Ascoli. 

Dalla  Romania,  n.^  28,  p.  631.  apprendiamo  che  il  D.'  Ive  ha  trovato  nella  Biblio- 
teca Nazionale  di  Parigi  un  ms.  del  Libro  di  Fioravante  in  dialetto  napolitano.  —  Di  un 
altro  pregevole  trovamento  si  è  debitori  al  prof.  Puielli,  il  quello  nella  Biblioteca  Vesco- 
vile di  Udine  rinvenne  un  antico  codice  contenente  fra  altre  cose  una  nuova  redazione  ve- 
neta di  quella  stessa  branca  del  Renart  che  pubblicò  il  Teza,  e  un  secondo  ms.  del  poema 
di  fra  Giacomino  da  Verona,  De  Jerusalem  celesti  et  de  Babilonia  infernali,  11  prof.  Pu- 
telli  farà  conoscere  questi  testi  nei  prossimi  fascicoli  del  Giornale. 

P.  Mejer  ha  pubblicato  il  secondo  ed  ultimo  volume  della  sua  bella  edizione  del  poema 
sulla  crociata  contro  ^li  Albigesi.  —  Dal  Seminario  tilologico  di  Marburg  abbiamo  rice- 
vuto diverse  dissertazioni  per  laurea  e  ne  daremo  conto  nel  prossimo  bullettino. 

Il  prof.  Caix  pubblicherà  quanto  prima  un  volume  Sitile  origini  della  lingua  poetica  ita- 
liana.— Nel  venturo  novembre  uscirà  il  voi.  II  delle  Comunicazioni  dalle  Biblioteche  con- 
tenente le  inedite  del  Canzoniere  portoghese  Colocci-Brancuti.  —  Sono  annunziate  come  in 
corso  di  stampa:  una  Chrestomathie  catalane  pel  Morel-Fatio;  il  Poema  del  Cid  rive- 
duto sul  ms.  a  cura  del  Vollmdiler;  Ein  spantsches  Steinbuch  per  lo  stesso;  una  tra- 
duzione con  comentario  del  Gir  art  de  Roussillon  per  P.  Mejer,  fa  quale  sarà  seguita  da 
una  edizione  critica  delPistesso  poema;  una  edizione  diplomatica  dei  mss.  di  Parigi,  Lione, 
Cambridge,  Ch&teauroux  e  Venezia  (VII)  della  Chanson  de  Roland  a  cura  di  W.  Foerster; 
una  ristampa  delle  Vies  dee  plus  célebres  et  anciens  pòetes  provenqaux  con  note  stori- 
che e  critiche  dello  Chabaneau;  il  seguito  della  Biblioteca  delle  tradizioni  popolari  si- 
eiliane  del  Pitrè.  Questo  seguito,  composto  di  altri  otto  volumi,  conterrà:  voli.  VIII-X, 
Proverbj  siciliani  raccolti  e  messi  in  rafl'ronto  con  quelli  degli  altri  dialetti  d* Italia,  con 
discorso  preliminare.  Saggio  di  proverbi  lombardi  in  Sicilia;  XI,  Spettacoli  e  Feste  po- 
polari; XII,  Usi,  Credenze,  Superstizioni  e  Giuochi  fanciulleschi;  XIII  Cdkti  popo- 
lari siciliani  inediti;  XIV,  Novelle  popolari  siciliane  inedite;  XV,  Varj  studj  pubblicati 
in  Italia  e  alPestero  Sulle  tradizioni  popolari  siciliane. 

Nei  bei  cataloghi  della  Libreria  Morgand  A  Fatout  (Parigi,  Passage  des  Panoramas,  55), 
che  quella  ditta  spesso  cortesemente  e*  invia,  troviamo  annunciate  queste  pubblicazioni 
d* interesse  pei  nostri  lettori:  Pierre  Gringore  et  les  Comédiens  italiens  sous  Francois  /.•" 
par  Èmile  Picot;  —  Collection  d*anciens  chansonniers  franqais  publiée  sous  la  direc- 
tion du  Baron  James  de  Rothschild,  I:  Noelz  de  Jehan  Chaperon  dit  le  Lasse  de  repos 
Dubliés  d*apròs  Texemplaire  unique  de  la  bibliothèque  de  Wolienbùttel,  par  Émile  Picot;  — 
Notice  sur  Jehan  Chaponneau^  Docteur  de  TEglise  réformée.  metteur  en  scène  du  my- 
stère  des  Actes  des  Apostres,  joué  à  Bourges,  en  1536,  par -Émile  Picot. 


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R0MANJ5A ,  ll.«  4]  NOTIZIE  1 19 

Una  Società  di  studiosi  eotto  J»  direzione  del  prof.  A.  Bartdi  ha  intrapresa  la  com- 
pilazione di  un  Indice  completo  degli  scritti  italiani  che  si  ràcchindono  nei  Codici  delle  tre 
sezioni  della  Biblioteca  Nazionale  di  Firenze  f  Magliabechiana,  Palatina  e  Riccardiana). 
L* opera  sarà  divisa  in  due  erandi  serie:  Poesia  e  Prosa,  ed  dire  un'accorata  descrizione 
dei  rass.,  conterrà  estratti,  facsimili,  e  notizie  artistiche  dei  più  importanti  codici  miaiati. 
Alla  parie  artistica  assisteranno  i  profF.  O.  Milanesi  e  B.  Malfatti.  La  pubblicazione  sarà 
fatta  per  fascicoli  mensili  di  pajrp.  64  in  8»,  e  comincerà  appena  raccolti  100  associati.  Le 
domande  di  associazione  (lire  48  annue  pagabili  in  due  rate  semestrali)  debbono  essere  di- 
rette al  prof.  Adolfb  Bartoli  (Borgo  Ognissanti,  37,  Firenze),  e  noi  facciamo  voti  che  i  cento 
soscrittori  sieno  tosto  trovati,  perché  i^ostri  stodj  possano  presto  avvantaggiarsi  di  un'opera, 
la  somma  importanza  della  quale  non  ha  bisogno  di  essere  dimostrata. 

I  proff.  Carducci  e  Monaci  stanno  preparando  una  edizione  di  tutte  le  poesie  proven- 
zali composte  da  trovatori  italiani.— Il  prof.  Rajna  è  in  sul  compiere  un'opera  bmììsl Epopea 
earlovingia  in  Italia. 

Nella  prefazione  ai  suoi  Sludj  d*etimol.  ital.  e  rom.  il  Caix  diede  notizia  che  due  tra- 
duzioni si  preparavano  contemporaneamente  dell'  EtymoL  Wórterbuch  del  Diez,  una  in 
Francia,  T  altra  in  Italia  a  cura  di  alcuni  studenti  di  filologia  della  Universi là  di  Roma. 
Riguardo  alla  traduzione  italiana  aggiungiamo  che  essa  doveva  essere  seguita  da  un  in- 
dice dì  rinvio  a  tutte  le  giunte  e  correzioni  delle  etimologie  dieziane  che  si  trovano  sparse 
nelle  Riviste  di  filologia,  e  fu  cominciata  durante  il  corso  scolastico  1876-77.  Il  lavoro  era 
ben  progredito  e  vi  attendevano  i  giovani  sigg.  S.  Morpurgo,  A.  Polo,  A.  Zenatti;  ma  non 
essendosi  trovato  in  Italia  un  editore  che  volesse  intraprenderne  la  stampa,  rimase  inter- 
rotto e  dopo  la  notizia  della  traduzione  francese  è  stato  abbandonato. 

Da  una  circolare  trasmessaci  dagli  editori  Sigg.  Henninger  di  Heilbronn,  apprendiamo 
che  i  DD.rf  0.  Behaghel  e  F.  Neumann  colla  cooperazione  del  prof.  Bartsch  pubbliche- 
ranno, cominciando  dal  gennaio  1880,  una  rivista  mensile  intitolata  Literaturblatt  fùr per- 
manische  und  romanische  Philologie  Scopo  del  nuovo  periodico  sarà  di  dar  notizia  di 
tutto  il  movimento  contemporaneo  nel  campo  degli  studj  germanici  e  neolatini,  e  conterrà 
perciò:  bibliografìa  e  recensioni  dei  libri  recentemente  venuti  a  luce;  spoglio  dei  periodici; 
notizia  delle  opere  in  preparazione;  indicazione  di  corsi  universitarj ,  ed  altri  annunzi  che 
possano  essere  utili  agli  studiosi.  Un  numero  di  saggio  sarà  distribuito  nel  prossimo  ot- 
tobre, e  a  suo  tempo  non  mancheremo  di  farne  parola;  intanto  diamo  il  benvenuto  a  (Que- 
sto programma.  —  É  pwe  annunziata  una  specie  di  continuazione  della  Italia  dello  Hille- 
branid  col  titolo  di  Italienische  studien  a  cura  del  D.'  G.  Koerting. 

Per  facilitare  V  avanzamento  degli  studi  critici  sul  testo  degli  antichi  lirici  italiani  sa- 
ranno pubblicate  edizioni  diplomatiche  di  aftri  canzonieri.  Crediamo  che  il  prof.  Compa- 
retti  pubblicherà  il  Laurenziano-Rediano  9;  il  Monaci,  parte  solo  e  parte  m  collabora- 
zione, pubblicherà  il  Vat.  3214,  i  Barber.  XLV-47  e  XLV-130,  il  Palatino  (di  Firenze)  418.  — 
Intanto  il  conte  Luigi  Manzoni  sta  ultimando  un  Indice  di  tutte  le  liriche  antiche  a  stampa, 
che  verrà  a  luce  in  questo  Giornale,  ed  in  seguito  il  Giornale  darà  pure  un  altro  Indice 
generale  di  tutti  i  Canzonieri  manoscritti. 

Il  nostro  amico  Ds  G.  Pitrè  ci  scrive  da  Palermo:  «  Non  potendo  quindMnnanzi  ac- 
cettare la  responsabilità  della  Rivista  di  letteratura  popolare  che  si  pubblica  anche  col 
mio  nome  in  Roma,  ti  prego  di  far  sapere  per  mezzo  del  tuo  Giornale  che  io  non  voglio 
più  rappresentarla  da  condirettore  di  quella  Rivista,  con  la  quale  non  ho  più  da  far  nulla. — 
Avrei  scritta  prima  d'ora  questa  dichiarazione,  se  gravi  malattie  di  famiglia  non  me  lo 
avessero  impedito.  —  Palermo,  25  Sett.  1879.  » 

L'Accademia  delle  Iscrizioni  e  Belle-lettere  di  Francia  nella  tornata  del  13  giugno  1879 
conferiva  il  primo  dei  premj  della  fondazione  Gobert  a  P.  Mejer  per  la  sua  edizione 
della  Chanson  de  la  Croisade  albigeoise.  Altri  premj  furono  conferiti  dall'Accademia 
allo  Chabaneau  per  la  sua  Histoire  etthéorie  de  la  conjugaison  franqaise^  al  Luchaire 
per  i  suoi  Ètudes  sur  les  idiomes  pyrénéen»,  al  De  Chambure  per  il  suo  Glossaire  du 
Morvan, 

Dalla  Romania,  n.^  31,  togliamo  le  seguenti  notizie,  intorno  alla  Società  francese 
dee  anciens  textes.  «  La  Société  des  anciens  textes  va  imprimer  une  édition  critique  de 
la  Vie  de  Saint  Grégoire,  donneo  par  M.  A.  Weber  d'après  le  cinq  manuscrits  connus. 
Elle  a  aciuellement  sous  presse:  le  t.  IV  des  Mirades  de  Nótre-Dame  pubbliés  par  MM. 
Paris  et  Robert;  la  Vie  de  saint  Gile^  publiée  par  MM.  Paris  et  Bos;  trois  versions  de 
VÉvangile  de  Nicodème,  par  les  mémes  éditeurs;  une  chronique  normande  du  XIV« 
siècle  publiée  par  M.  Luce;  la  Chanson  d*Elie  de  saint  Gilè,  publiée  par  M.  G.  Ray- 
naud;  le  Voyage  du  seigneur  d*Anglure  à  Jérusalem,  publié  par  MM.  Bonnard  et  Lon- 
gnon;  le  t.  Il  des  CEuvres  d'Eustache  Deschamps,  ])ubliés  par  M.  le  marquis  de  Queux 
(le  Saint-Hilaire;  l'amati t  rendu  cordolier,  de  Martial  d'Auvergne,  publié  par.  M.  A.  de 


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lao  NOTIZIE 

MoDtaielon,  «aispurler  du  t.  II  du  MUtèrt  du  vUU  Tfstament^  oSéri  p»e  M.  le  barou 
de  Ròthshiid  a«x  membres  de  la  Société. ^La  Société  a  teou  le  18  juini  sa  cinquième 
asMmblée  generale:  elle  a  Dommé  préeident  M.  A.  de  Moataiglon,  vice-présidents  MM. 
Ù  Paris  et  F  fiaudry.  —  Rappellooa  ^ue  la  Société  a  mis  eu  distributiqn  »  au  commea- 
cernevi  de  cette  année»  let  ouvragea  «uivanta;  l^  Débat  des  Hérauts  de  France  et  d'Art- 
fflaterre,  suivi  de  The  DebaU  benoeen  the  Heraidet  of  Englande  and  Fraunce  compiled 
by  John  Coke,  édiiion  commencée  par  L.  Pannìpr  et  aehevée  par  P.  Mejer  (  cette  ourrage 
complète  ì'exercioe  18T7);  le  t  I  des  CEuvree  d'Euetache  Deschampt,  publiés  par  M.  le 
marquis  de  Queuz  de  SaintrHilaire  ;  le  t.  UI  des  Miracles  de  Notre^Dame  lce%  denu . 
ouvrages  appartiennentii' rexercioe' 1873  qui  .sera, comfilété  par  Ì^Voyages  du  seigi^eur 
d*  Anglaterre), 

39  Settembre  1879. 


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ANNUNZI 


di  altre  pìibhlicasioni  pervenute  alla  Direzione  del  Giornale. 


ToRRACA  F.,  Jacopo  Sannazaro.    Note.    Napoli,  Morano.  1879. 

Malfatti  B.  ,  Della  parte  che  ebbero  i  Toscani  all'  incremento  del  sapere  geogra- 
fico.   Firenze  Succ.  Le  Mounier,  1879. 

Croce  £.,  Carta  cT  Italia  illustrativa  della  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri 
con  indice  di  tutti  i  luoghi  in  essa  carta  contenuti.    Genova,  Pellas,  1875. 

ZuMBiNi  B.,  Alla  primavera  o  delle  favole  antiche  canzone  di  Giacomo  Leopardi. 
Napoli,  Perrotti,  1879.    Estr.  dal  Giornale  napol.  di  filos.  e  lettere  ec. 

Mazzi  C,  Alcune  leggi  suntuarie  senesi  del  Sec.  XIII.    Eair.  daW  Arch.  stor»  ital. 

Cerquetti  a.,  Pietro  Fanfani  e  le  sue  opere,    Firenze,  Tip.  d.  Gazz.  d*  Italia,  1879. 

NovATi  F.,  Delle  Nubi  di  Aristofane  sec.  un  cod.  cremonese.    Torino,  Loescher,  1879. 

AuBERT  D.',  Et  grossh  Senatsconsult  om  Thisbceerne  i  Boeotien  fra  Aaret  i70 
f.  Chr.  (Sserskilt   aftrykt  af   Christiania  Videnskabs-Selskabs  Forhandlinger  for  1875.) 

LiBBLEiN  J.,  Bidrag  til  cegyptisk  Kronologi.  (  Sserskilt  aftrykt  af  Christiania  Videns- 
kabs-Selskabs Forhandlinger  for  1873.) 

BuGGB  S.,  Altitalische  Studien,    Christiania,  Brogger,  1878. 

SucHiER  E.,  Zur  Versbildung  der  Anglonormannen.    Estr.  dsiiVAnglia, 

Rajna  P.,  On  the  Dialects  of  Italy  {neXVEighth  annual  address  of  the  President 
to  the  philological  Society).    London,  Trùbner,  1879. 

VoLLMÒLLER  K.,  Poema  del  Cid  nach  der  Madrider  Hndschr.  mit  Einleitung,  An- 
merkungen  und  Glossar  neu  herausgegeben.    1  Th.  Text.    Halle,  Niemeyer,  1879. 

Vigo  P.  ,  Uguccione  della  Faggiuola  potestà  di  Pisa  e  di  Lucca.    Livorno,  Vigo,  1879. 

Canello  U.  a.,  Dei  Sepolcri j  Carme  di  Ugo  Foscolo  comentato  per  uso  delle 
scuole.    2.A  ediz.  interamente  rifusa.    Padova,  Draghi,  1880. 

Cappelletti  L.,  Studi  sul  Decam^rone.    Parma,  Battei,  1880. 

ScHUCHARDT  H.,  Camoens.  Ein  Festgruss  nach  Portugal  zum  X  Juni  MDCCCLXXX. 
Graz,  Buchdr.    Styria,  1880. 

Storce  W.,  Luis* de  Camoens  sàmmtliche  Gedichte.  Zum  ersten  Male  deutsch.  Er- 
ster  Band:  Buch  der  Lieder  und  Briefe.    Paderborn,  Schoning,  1880. 

SucHiER  H.,  Zur  Versbildung  der  Anglonorm,annen.    Estr.  duìVAnglia, 

Lbvy  E.,  Guilhem  Figueira  ein  provenzalischer  Troubadour.    Berlin,  Liebrecht,  1880. 

Braga,  Th.,  0  Centenario  de  Camoes.    Porto,  Impr.  Comercial,  1880. 

D'Ovidio  F.,  Altro  Contrasto  sul  Contrasto  di  Ciullo  d' Alcamo,  Estr.  dal  Giom, 
Napolet. 

Bollati  F.  E.,  Chanson  de  Philippe  de  Savoie  publiée  poup  la  première  fois, 
avec  Prèface  et  Notes.    Milan,  Civellì,  1879. 

FoERSTER  W.,  De  Venus  la  deesse  d'ambir:  altfranzosisches  Minnegedicht  aus 
dem  XIII.    Jahrhnndert  zum  ersten  Male  herausgegeben.    Bonn,  Cohen  A  Sohn,  1880. 

De  Mattio  F.,  Grammatica  della  lingua  provenzale  con  un  discorso  sulla  storia 
della  lingua  e  della  poesia  dei  Trovatori,  un  Saggio  di  componimenti  lirici  provenzali 
con  note  per  la  traduzione  in  italiano  e  col  rispettivo  Vocabolario  provenzale-italiano. 
Innsbruck,  Wagner,  1880. 

Gloria  A.,  Del  volgare  illustre  dal  sec,  VII  fino  a  Dante.    Venezia,  Antonellì,  1880. 


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Casini  T.,  Documenti  dell'antico  dialetto  bolognese  (\2S0'14\1).  Bologna,  Fava  e 
Oaragnani,  ISSO. 

Casini  T.,  La  vita  e  le  poesie  di  Ranibertino  Biivalelli  trovadore  del  sec.  XIII. 
Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1880. 

HuB  IL,  La  Chanson  de  Ueruis  d^  Afe*:  Inaltsangabe  und  Classification  der  Hand- 
schriften.    Heiibronn,  Ilenninger,  18*9. 

Ottmann  il,  Die  Stellung  von  V*  in  der  Veberliefervng  des  altfr.  Rolandslied. 
Eine  Textkritische  Untersiichung.    Heiibronn,  Ilennìnger,  1879. 

EiCHELMANN  L.,  Veber  Flexion  und  attributive  Stelhmg  des  Adj^ctivs  in  den  àl- 
testen  franzòsischen  Sprachdenkmalern  bis  zura  Rolandsliede  einschliesslich,  Marburg, 
Pfeil,  1879.     . 

DòNGES  E.,  Die  Balingtepisode  im  Rolandsliede.    Marburg,  1879. 

Andresen  D.»*  H.,  Maistre  Ware*s  Roman  de  Roti  et  des  Ducs  de  Normandie  nach 
den  Handschriften  von  Neuem  herausgpgeben.*  Zweiter  Band  ;  111  Theil.  Heiibronn,  Hen- 
ninger,  1879. 

Wentrup  D.*",  Beitràge  zur  Kenntniss  des  sicUianischen  Dialectes.  Halle,  Buchdr. 
des  Waisenhauses,  ISSO. 

ToBLER  A.,  Vom  franzòsischen  Versbau  alter  und  neuer  Zeit.    Leipzig,  Hirzel,  1880. 

Meyer  P.,  Fragmentum  provinciale  de  captione  Damiatae.  Accedit  Prophetiae 
cujusdam  arabicae  in  Latinorum  castris  ante  Daraiatam  vulgatae  versio  quadruple!.  Ge- 
nevae,  Fick,  ISSO. 

Monaci  E.,  D'Ovidio  F.,  Manualettl  d"" introduzione  agli  studj  neolatini  composti 
per  uso  degli  studenti  delle  Facoltà  di  ledere:  I  Spagnolo:  Grammatica  di  F.  D'Ovidio; 
Crestomazia  di  E.  Monaci.    Napoli,  1879. 

Pitrè  O.,  Antichi  usi  nuziali  del  popolo  siciliano.    Palermo,  Montaina,  1880. 

D'Ancona  A.,  Jacopone  da  Todi,  il  giullare  di  Dio  del  sec.  XIIL  Estr.  dalla  Nttova 
Antologia. 

[Zambrini  F.]  Leggenda  di  S.  Fina  scritta  nel  buon  secolo  della  lingua.  Imola,  Ga- 
leati,  1S79. 

Pasqualiqo  C,  /  Trionfi  di  Francesco  Petrarca  corretti  nel  testo  e  riordinati  con 
le  varie  lezioni  degli  autogratì  e  di  XXX  mss.,  Con  Appendice  di  varianti  del  Canzoniere. 
Venezia,  Grimaldo  e  C.  1874. 


DICTIONNAIRE 

DE  L'ANCIENNE  LANGUE  FRANCAISE 

et  de  tous  ses  dialectes 

du  ix«  au  Kv*"  siècle 

par  FBÉDÉRIC  OODEFROY 

ptiblié  B0U8  les  auspice^  dn   Ministère 
de  llnstmction  publiqne. 

Parigi:  editore  F.  Vieweq. —  L'opera  sarà 
comj)leta  in  10  volumi.  NV^^ce  uno  all'anno, 
distribuito  in  10  fascicoli.  Prezzo  di  ciascun 
fase.  fr.  5. 


com:^iunicazioni 

DALT.B 

BIBLIOTECHE  DI  ROMA  E  DA  ALTRE  BIBLIOTECHE 

per  lo  stadio  delle  lìn^ae  e  delle  letteralare  ronatie 

a  cura  di  E.  Monaci 

voi.  II: 

IL  CANZONIERE  PORTOGHESE 

COLOCCI-BRANCUTI 

pubblicato 

nelle  parli  che  completano  il  Codice  Vaticano  4S0S 

da 

ENTIICO  MOLTENI. 

Halle:  Niemeycr  editore.  —  Voi.  in   4.**  di 

pp.  ix-200  con  un  facsimile  in  eliotipia. 


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ANNUNZI     . 
di  recenti  pubbUcamni  pervenute  alla  Direzione  del  Giornale 

(Soppltmeoto  del  Bullettino,  t.  p.  106  e  88.^ 

Stickney  a.  The  Romance  of  Dande  de  Pf^adas  on  the  four  cardinal  virtues  edited 
toith  brief  notes.  Ploreoce,  Wurtenberger,  1879. 

D'Ancona  A.  XIX  sonetti  inediti  di  Antonio  Pucc*  —  Estr.  dal  Propugnatore, 

BOBHMBE  K.  Spoìisus  mystère  des  vierges  sages  et  des  vierges.folles  ;  —  Zur  Cler-* 
monter  Passion;  ^-~  Zìi  Ì)ante*s  *  JJe  vulgari  eloqu&ntia  », — Eiìtr,  dai  Roma- 
nische  Studien, 

Gbap  a.  La  leggenda  del  paradiso  terrestre,  Torino,  Loescher,  1878. 

Parecer  apresentado  à  Acodetnia  Real  das  scieneias  de  Lisboa  sobre  a  reforma 
ortographica  proposta  pela   jO&mmissào  da  Cidade  do  Porto,  Lisboa,  1879. 

Flbchia  G.  Sulle  accorciature  dei  nomi  italiani  race,  da  P,  Fanfani.  —  Estr.  dalla 
Hi'o.  di  filologia  classica. 

Del  LuNoa  T.  Notizia  risguardante  la  Cronaca  di  Dino  Compagni, -^  Eéir,  d&U 
V  Arch,  stor.  italiano, 

TiBABOsCHi  A.  Usi  di  Natale  nel  Bergamasco,  Bergamo,  Bolic^,  1879. 

D* Ancona  A.  Usi  natalizi  dei  contadini  della  Romagna.  PiaA,  Nistri,  1878. 

Rajna  P.  L  Rinaldi  o   Cantastorie  di  Napoli.-^ Estr.  dalla  Nuova  Antologia. 

La  fabula  del  PisteUo  da  V  agliata  tratta  da  uo'  antica  stampa  e  La  quistione  d'Amore 
testo  inedito  del  sec.  XV.  Bologna,  Roinaguoli,  1878. 

Lb  Cooltrb  J.  e  Schultzb  V.  JSonecH  composti  per  M,  Johanne  Antonio  de  Petruciis 
conte  di  Polìcastro  publicati  per  la  prima  vòlta  dietro  il  Ms,  della  Bibl,  Na-^ 
'  lionale  di  Napoli.  Bologna,  Romagnoli,  1879. 

Gaboiolli  C.  Lettere  di  Laura  Battiferri  Ammannati  a  Benedetto  Varchi,  Bolo- 
gna, Romagnoli,  1879. 

Ferbabg  O;  Alcune  poesie  del  Saviozso  e  di  altri  autori  tratte  da  Ms.del  sec.  XV 
e  pubblicate  per  la  prima  volta.  Bologna,  Romagnoli,  1879. 

Cattaneo  G.  La  vita  nuova  di  Dante  Alighieri,  Discorso.  Trieste,  Herrmanstor- 
fer,  1878. 

Canbllo  U.  a.  Gli  Allòtropi  itaZtani.  —  Estr.  dallMrc^.  glottologico. 

Pabis.  G.  La  legende  de  Trojan.  Paris,  Imj).  Nationale  1879. 

Lumini  A.  V  ideale  nella  poesia  popolare  italiana.  Catanzaro,  1878, 

ToRRACA  F.  P.  A,  Caracciolo  e  le  Parse  Cacaiole.  Napoli,  Perottj,  1879. 

GiANANDBBA  A.  Festa  di  S.  Floriano  martire  e  tiro  a  segno  colla  balestra  instituito 
nel  i45S.  —  Estr.  dall' ^rcA.  Stor.  Marchigiano, 

Meter  W.  (aus  Speyer)  Vita  Adae  et  Evae  herausgegebcn  und  erkiutert.  Miiiichen,  1879; 

BuGHHOLTZ  H.  Priscae  iatinitatis  originum  libri  tres.  Berolinì,  Dummler,  1877.    " 

KoscHWiTZ  E.  Sechs  Bearbeitungen  des  altfranzósischen  Gediehts  von  KarUdes  Oros" 
sen  Reise  nach  Jerusalem  und  Constantinopel.  Heilbronn,  Hennin£er,  1879. 

Paul  H.  Untfrsuchungen  ueber  den germanischen  KoAa/f>mu*.  Halle,  Iviemeyer,  1879. 

Fbakckb  D."*  K.  Zur  òeschicht^  der  lateinischen  S>chulpoesie  des  XII.  und  XIIL 
Jahrhunderts,  Mùnchen,  Literan-artist.  Aistalt,  1879. 

VoEGELiN  A.  S.  Herder^s  Cid,  die  franzqesische  und  die  spanische  Quelle.  Heil- 
bronn, Henninger,  1879. 

Mattioli  A.  Vocabolario  romagnolo-italiano.  Imola,  Galeati^  1879. 

Rime  di  Messere  Tristano  di  Meliadus  e  della  bella  Reina  i^otto.. Bologna,  Regia 
tipogr.  1879. 

Riardo  della  inaugurazione  del  monumento  a  Boccaccio  in  Certaldo  il  28  (Hu'* 
gno  i879.  Firenze,  Pieri,  1879. 

Bucbholtz  H:  Zu  den  Eiden  vom  Jahre  842.~^^^it,ÒASì  Archiv.  fur  das  Stiidium 
der  neueren  Sprachen. 

BuQHHoLTz  li.  Oskisches  Perfectum  inlateinischer  Inschrift.B&tììn,  Diimmler,  1878* 

CoRNU  J.  Phonologie  du  Bagnard.  —  Estr.  dalla  Romania. 

CoRNU  J.  Glanures  phonologiques.  —  Estr.  dalla  Romania.  , 

CoBAZziNt  P.  Appunti  storici  e  filologici  sulla  Valle  tiberina  superiore.  Sansepolcro, 
Becamorti,  1875. 

CoBAZziNi  F.  Relazione  ai  soci  promotori  della  Società  dialettologica  italiana.  Be- 
nevento, De  Gennaro,  1876. 

Cbcconi  G.  Statuti  di  Offagna.  Ancona,  Tip.  del  Commercio,  1879. 

Lupi  E.  Z)et  caratteri  intrinseci  per  classificare  i  Langobardi  nelle  loro  attinenze 
storiche  cogli  altri  popoli  germanici.  Roma,  a  cura  delia  Soc.  rom»  di  storia  pa- 
tria, 1879.  rx--     ^  f  i- 


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PUBBLICAZIONI  DELLO  STESSO  EDITORE 


Kenier  Adolfo,  La  Vita  nuova  e  la  Fiammetta^  Suidxo  critico.  In  16.^  •'    L.   5«<« 

Visentin!  Isaia  ,  Fiabe  mantovane  in  16** »    5  — 

Forma  il  VII  Tolame  della  collezione  Canti  e  Racconti  del  popolo  Itidiano 

pubblicati  per  cura  dei  sìg.^  Prof.  D.  Comparetti  ed  A.  D^Ancoua.  I  volttnù 

I-VI  pubblicati,  contengono  le  opere  seguenti  : 
1.  Canti  popolari  Monferrini  raccolti  ed  annotati  dal  D,'  Giuseppe  Ferrarò.  >    ?  — 
II  e  ni.  Cfanti  deUe  provincie  Meridionali  raccolti  ed  annotati  da  A.  Casetti 

e  V.  Imhriani .        ..        »0  — 

TV.  Canti  popolari  Marchigiani,  raccolti  ed  annotati  dal  iProC  Oianandrea.  »  4  — 
V.  Canti  popolari  Istriani ^  raccolti  ed  annotati  da  Antonio  Itc.  .  .  »  5  — 
VI   Novelline  popolari  Italiane,  pubblicate  ed  illustrate  da  Domenico  Complurelti. 

voi.  I .       >    4  — 

Pezzi  Domenico,  Glottologia  etria  recentissima.  Cenni  stOTico^critici  •       «       »   5-«- 


AECHIVIO  GLOTTOLOGICO  ITALIANO 

diretto  da  G.  L  AbooU 

V  Archivio  esce  a  liberi  intervalli,  per  fascicoli  da  non  meno  di  sei  iogli^  e  dnesft 

fascicolo,  come  ciascun  volume,  è  posto  in  vendita  anche  separaiamente. 
Se  ne  è  pubblicato  quanto  segue: 

Voi  I,  Proemio  generale  e  Saggi  ladini  di  O.  L  Ascoli,  con  una  carta  dialet- 
tologica  . L.  20  — 

Voi.  II,  1:  Postille  etimologit^e  di  G.  Flechia;  Sul  De  Vulff,  Eloquio,  di  P. 
D* Ovidio:  Sul  posto  che  spetta  al  ligure  nel  sistema  det  dialetti  italiani 
di  O.  I.  Ascoli j»6  — 

Voi.  II,  2:  Rime  genovesi  della  fine  del  secolo  XIII  e  del  principio  del  XIV, 

edite  da  N.  Lagomagoiorb »    6  -*-. 

Voi.  Il,  3:  Postille  etimologiche  di  G.  Flechia;  P,  Meyer  e  U  franco-proven- 
xale^  di  G.  I.  Ascoli;  -Rtcordì  bibliografici,  dello  stesso:  Indici  del  volume, 
di  F.  D'Ovidio »6— . 

Voi.  III,  1:  Fonetica  del  dialetto  di  Val-Soana  (CanaveseJ,  di  C.  Niora; 

Schizzi  franco-provenzali  di  G.  L  Ascoli »    5  «-^ 

Voi.  in,  2:  Postale  etimologiche  di  G.  Flbchia;  La  Cronica  deli  Imper^adori 
Romani,  edita  da  A.  Ceruti;  Annotazioni  dialettologiche  alla  Cranica 
deli  Imperadori,  di  G.  I.  Ascoli        . »750 

Voi.  Ili,  8:  I  Divariati  italiani  di  U.  A.  Canbllo;  Il  tipo  sintattico  itHonuf 
Ule  iUe-honus  »  di  B.  P.  Hasdeu; /ndic^  dtfZ  volume  di  F.  D*  Ovidio  .        »    7*- 

VoL  IV,  1  :  dialetti  *'omaici  del  mandamento  di  Bova  in  Calabria,  descritti 

da  G.  Morosi .       .       .       ►       »    4  -•  • 

Voi.  JV,  2:  Il  vocalismo  leccese  di  G.  Morosi;  Fonetica  del  dialetto  di  CamwH  . 
basso  di  P.  D'Ovidio;  Testi  inediti^  friulani  dei  zec,  XIV al  XIX,  pubbli- 
cati e  annotati  da  V   Joppi *»5'=-' 

Voi.  IV,  8:  Testi  inediti  friulani ^  pubblicati  ed  annot.  da  V.  Joppi j  Annota" 
zioni  ai  Testi  friulani  e  Cimelj  tergestini,  di  G.  I.  Ascoli;  Articoli  vari,   , 
di  G.  Flechia,  G.  Storm  e  Q.  I.  Ascou;  Giunte  e  catTezioni  e  Indici  del 
del  volume,  dì  F,  Vi' Ovidio »8  — 

Voi.  V,  1:  12   Codice  Irlandese  deU*  Ambrosiana,  edito  e  illustrato  da  O.  I, 

Ascoli,  fascicolo  primo;  con  due  tavole  fotolitografiche   .       .       •       •       »  ^8  —, 


Antonio.  Costantini  gerente  responsàbUè.- 


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LIVORNO,  dalla  Tipografia  Vigo 


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X.°  5  (T.  IL  Pasc.  3-4.)  LUGLIO  1879 


GIORNALE 


DI 


FILOLOGIA  ROMANZA 


DIRETTO 


ERNESTO   MONACI 


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TOEINO     ROMA     FIRENZE 

ERMANNO  LOESCHER  E  C 

Tia  del  Corto,  807. 


PABIGI  LOHDBA 

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CONTENUTO  m  QUESTO  FASCICOLO 


F.  NovATi,  H  Pater  Noster  dei  Lornbardi     .       .       . 
R.  PuTiLLiy  Un  nuovo  testo  veneto  dd  Renard     . 

G.  BEHNAXùit  NotereUa,  al  verso  46  del  III  deW  Inferno 
F.  SiTTEOJLST,  Jaeos  De  Foresi  e  la  sua  fonte 
A.  D* Ancona,  Strambotti  di  Leonardo  Giustiniani 
fr.  SÀtvADORi,  Storie  Fopoìdfi  Toscane  .... 
A.  TaoHAt;  De  la  Confusion  entre  r  et  bz  en  provenQal  d  en  frangais 

Varietà 


I.  GiOBei,  Aneddoto  di  un  Codice  Dantesco   . 

G.  Leti,  Poesie  civili  del  secolo  XV 

G.  Salvapori,  Due  Bispetti  Popolari 

A.  GiANAMDBEA,  DéHa  novella  dd  Petit  Poucet 


Rassegna  bibliografica 

E.  Monaci »i7  FUocopo  del  Boccaccio,  per  B.,  Zumbini  .       .       .       . 
G.  Navone,  Shrammatica  italiana  ddCuso  moderno  compilata  da  Rap- 

VASLLO  FOBNACIASI. 

G.  Natone,  Italienische  GrammatiJc  mitberùcksichtigung  des  lateinischen 
und  der  romanischen  Schwestersprachen  von  D.'  Abistide  Baeaoiola. 

BoUettino  bibliografico 


Periodici 


pag.  122 

>  158 
P  164 
»  172 
»  179 
»  194 

>  205 


213 

220 
230 
231 


>  234 
»    237 

>  289 


Notisie 


GIORNALE  DI  FILOLOGIA  ROMANZA 


241 


251 


2M 


Ogni  volunie  di  16  fogli  di  stampa  (256  pagine  in  8*  gr.)  distribuiti  per  fasci- 
coli, possibilmente  trimestrali,  da  4  a  8  fogli  cadauno,  costa  iO  lire  in  Italia»  10  mar' 
chi  in  Germania,  12  franchi  negli  altri  paesi  deir  estero. — Gli  abbonamenti  si  fanno 
per  volumi  e  si  ricevono  dagli  editori  (E.  Loescber  e  C*  Roma,  Torino,  Firenie) 
e  da  tutti  i  principali  libraj. 

Per  quauto  s^  attiene  alla  compilazione,  e  per  l'invio  dei  mss.,  cambj  ed  altre 
stampe  T  indirizzo  è  al  prof.  E.  Monaci,  Boma,  Piazza  della  Chiesa  Nitova,  33; 
per  quanto  poi  si  riferisce  alla  amministrazione  T  indirizzo  è  al  signor  Ermanno 
LoEscHER  e  C*  Boma,  Via  dd  Corso,  307, 


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byGoosle 


GIORNALE  DI  FILOLOGIA 
ROMANZA 


...  pAtrIam  diversis  gcntlbiis  nnitm. 

RCTILXO  NAMAZIAMO. 


N.**  5  LUGLIO  18  7  9 

UNA  POESIA  POLITICA  DEL  CINQUECENTO: 

IL  PATEB  NOSTER  DEI  LOMBARDI. 


I 

In  una  vecchia  Cronaca  scritta  da  Domenico  Bordigallo,  patrizio  e 
notajo  Cremonese,  vissuto  alla  fine  del  XV  secolo,  trovammo  inserita, 
quale  Quotidiana  oratio  et  lamentatio  Jtalum,  la  poesia  che  ora  vede  la 
luce  (1).  Più  tardi  venimmo  a  conoscere  che  di  essa  esisteva  una  ra- 
rissima stampa  Veneta  del  secolo  XVI  ignorata  quasi,  e  della  quale 
un  esemplare  —  probabilmente  unico  —  era  conservato  nella  Biblioteca 
Marciana  (2).  L' edizione  fatta  in  Venezia  per  Mathio  Pagan  in  Frezaria 
al  segno  della  Fede^  sebbene  non  porti  data  d'anno,  pure  ci  sembra  da 
ritenersi  indubbiamente  posteriore  al  tempo  in  cui  il  Bordigallo  racco- 
glieva dajla  bocca  de'  suoi  concittadini  ed  a  noi  tramandava  la  lamen- 
tosa canzone  popolare.  Infatti,  quantunque  dal  Cronista  riferita  sotto 
Tanno  1520,  nulla  però  ci  vieta  di  credere  che  essa  fosse  composta  e 
corresse  fra  il  volgo,  fin  dagli  ultimi  anni  del  quattrocento:  quando  ap- 
punto le  mal  vietate  Alpi  lasciavano  irrompere  nella  penisola  i  primi  ar- 
roganti invasori  del  bel  suolo  italiano  :  ì  Francesi.  E  ne  abbiamo  forse 
prova  nel  fatto  che  mentre  i  primi  versi  della  poesia  suonano,  secondo 
la  lezione  del  Bordigallo  : 


(1)  D.  BuRDiGAU,  Chron.  ab  orig.  della  stampa  air  illustre  prof.  A.  D* Ancona 
mundi  usque  ad  ann,  1527.  Ms. -nella  al  quale  rendiamo  di  questa  e  d*  altre  comu- 
biblioteca  Pallavicino  (C.  978,  fol.  234).  nicazioni,  le  più  vive  grazie. 

(2)  Dobbiamo  questa  notizia  e  la  copia 

9 


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122  1\    NO  VATI  [(ilOUNALK    DI    riLOLOGIÀ 

Audi  il  8npplitio  de  nuy  poveri  Lumbardi, 
Che  da  Francesi,  Guasconi  et  Pichardi 
Crudelemente  siamo  straciati  etc 

nella  impressione  Veneta  invece  si  legge  nel  secondo  verso: 

Che  da  Francesi,  Spagnuoli  e  Alcmani, 

e  questo  associarsi  al  ricordo  dei  Francesi,  contro  i  quali  unicamente  era 
rivolto  il  canto  popolare,  quello  di  altri  stranieri  mostra,  a  nostro  giudizio, 
che  la  stampa  fu  condotta  in  tempo  in  cui  agli  antichi  s'  erano  aggiunti 
nuovi  danni:  ai  barbari  altri  barbari.  Inoltre  del  Pater  Noster  la  Cro- 
naca Cremonese  ofiFre  una  lezione  molto  migliore  che  la  stampa,  dove 
leggesi  guasta,  straziata,  corrotta  in  più  luoghi,  come  era  naturale  che 
avvenisse  durante  quel  ventennio  nel  quale  era  andata  esprimendo  le 
sofferenze  ed  i  dolori  di  tutti  i  popoli  dell'  Italia  settentrionale  (1).  Ma 
comunque  sia  di  ciò,  tanto  nel  ms.  dei  primi  anni  del  cinquecento,  ove 
è  Lamento  dei  Lombardi:  quanto  nella  edizion  Veneta,  ove  divien  l'Ora- 
zione dei  Villani  «  cosa  ridicuìosa  et  bellissima  »  questo  P.  N,  è  poesia 
affatto  popolare.  Tale  la  addimostra  la  trivialità  dei  concetti:  giacché 
non  si  aderge  mai  a  nessun  sentimento  nobile,  dignitoso,  ma  si  aggira 
nella  sfera  ristretta  dei  danni,  delle  privazioni  materiali:  deplorando 
non  r  onta  del  servaggio,  ma  le  busse  toccate,  le  cantine  vuotate,  i  de- 
rubati granai;  —  e  la  addimostran  pure  la  rozzezza  grandissima  della 
forma  ;  le  leggi  della  misura  apertamente  violate  ;  i  versi  zoppicanti,  ove 
più  volte  alla  rima  si  sostituisce  spontanea  ed  inavvertita  V  assonanza. 
Ed  affatto  popolare  si  è  questa  poesia  per  il  genere  a  cui  appartiene: 
genere  curioso  e  poco  esplorato,  del  quale  non  sarà  forse  discaro  ai  let- 
tori r  intrattenersi  alquanto. 


II 

Già  in  secoli  molto  lontani,  come  il  XII  ed  il  XIII,  avviene  di  in- 
contrare esempj  numerosi  e  svariati  del  vezzo  abituale  nel  popolo  di 
servirsi  dei  canti  appartenenti  alla  liturgia  ecclesiastica  a  trattare 
argomenti  di  ogni  fatta,  dall'ammaestramento  morale  alla  canzone 
da  taverna.  Parafrasi  e  versioni  di  inni  sacri,  ispirate  al  pio  intendi- 
mento di  renderle  utili  documenti  di  buon  costume,  erano  composte 


(1)  Questa»  p(I  altre  consideraz'oni  ci  iiuhis-      varianti  dell' Ediz.  Ven.  né  poche,  né  spre- 
Kor.)  a  riprodurre  la  lezione  del   Hordij/allo,      jrevoli,  troveranno  luo^ro  a  pie  di  pagina. 
niaii'enendoiie  '^(•rnpolovameiite  la  irrafìa.     Le 


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ROMANZA,  N."  5]        IL  PATER  NOSTEli  DEI  LOMBAIWI 


123 


assai  di  frequente  in  Italia  dai  monaci,  che  le  distribuivano  ai  fedeli, 
qual  ricompensa  dei  doni  loro  arrecati  ;  sapendo  essi  forse  quanto  grato 
dovesse  tornare  ai  laici  indotti  e  devoti  il  poter  recitare,  intendendole, 
quelle  sante  orazioni,  che  avevano  balbettate  fanciulli  e  delle  quali  la 
nessuna  o  imperfetta  cognizione  dell'idioma  in  cui  eran  scritte,  lor  na- 
scondeva sovente  V  intimo  concetto.  Forse  di  sì  fatto  genere  erano 
que' brevi  che  sui  brandelli  di  pergamena  strappati  ai  codici  venerandi, 
scrivevano  (se  non  è  favola)  i  frati  di  Monte  Cassiuo  ;  e  sen  doleva  il 
Boccaccio.  Mentre  in  una  letteratura,  universale  nell'evo  medio  tanto, 
quanto  forse  non  arrivò  ad  essere  nel  tempo  moderno,  la  francese,  tali 
parafrasi  e  traduzioni  volgari  di  documenti  sacri  non  sono,  a  quanto 
sembrerebbe,  in  gran  copia  (1);  nella  nostra  letteratura  più  antica  invece 
esse  abbondano:  i  codici  del  trecento  e  anche  dei  primi  del  quattrocento 
ne  son  pieni.  Ma  di  tanta  ricchezza  di  poesia  sacra  volgare  non  è  fa- 
cile il  formarsi  adeguato  concetto,  giacché  la  maggior  parte  di  questi 
componimenti  è  sempre  inedita  (2).  Gli  oscuri  rimatori  che  riguarda- 
vano le  loro  fatiche  come  opera  pia,  non  si  spaventavano  dinnanzi  al 
lavoro,  quantunque  ingrato  o  diflBcile;  ed  imprendevano  a  ridurre  in 
volgare  non  solo  le  orazioni  più  note,  gli  inni  più  cantati;  ma  le  stesse 
Sante  Scritture,  e  specialmente  gli  Evangeli  trovarono  molti  parafra- 
sti (3). 


(1)  ì:l9\V Uistoire  littèr,  de  la  Frutice^ 
tomo  XXIII,  p.  254  8i  ricordano:  una  luu- 
(^hissima  parafrasi  in  francese  di  33H6  verdi 
sopra  il  libro  di  Giobl)e,  nella  quale  P amore 
si  perde  in  digressioni  che  non  hanno  nulla 
a  che  vedere  col  testo  sacro;  un  l*aterìiostre 
en  Francois  in  1048  versi  di  un  tal  Silvestro, 
esso  pure  non  men  facile  versificatore  che 
fervido  moralista;  un'anonima  Patenostre 
farsity  che  in  dieci  strofe,  di  sei  ottonari 
l'una,  racchiude  amplissime  esposizioni  del- 
1* orazione  domenicale,  scritte  in  un  rozzo 
linguaggio  mezzo  francese,  mezzo  latino. 
Ricorderemo  ancora  la  Parafrasi  deH\4re 
Maria  di  Rutkbecf,  (Ocuvres  complèies 
de  R.  ree.  par  A.  Jubinal,  Paris,  1839, 
voi.  II). 

(2)  Lo  Zambrini,  Catal.  dei  testi  roig.  etc. 
(IV  ediz.)  non  enumera  che  poche  esposizioni 
(cioè  illustrazioni  e  commenti),  pochissime 
parafrasi  rimate  di  orazioni  e  di  inni:  non 
più  insomma  d'una  decina  di  componimenti 
in  mezzo  a  tanti  che  pur  ne  rimangono.  A 
questi  H  i>ossono  \.e\b  ag^riun^'ere  i  VuììtjfU 


in  versi  composti  per  Castellano  di  Pie- 
rozzo  Castellani,  dottore  Fiorentiìio  (fivc. 
XV)  in  numero  di  trenfasette,  che  ripnhiicò, 
j^iovandosi  di  un'  antica  edizione  fiorenti- 
na (1514)  il  Galletti,  nel  volume  Lande 
spirituali  di  Feo  Bclcari,  Firenze,  Molini, 
18G4. 

(3)  Non  sarà  forse  inutile  il  ricordare  qui 
alcuni  de' più  importanti  fra  siffatti  vol^'a- 
rizzamenti,  che  ci  vennero  sott'occhio  nelle 
biblioteche  fiorentine.  11  Cod.  lliccurd,  17(>4 
(Misceli,  secolo  XV)  ci  offre  una  Passio 
Dominy  nostri gieso  Cristi  secondo  chano 
scripto  i  vangilisti,  che  incomincia; 

Gran  chon8lt»llo  fecciono  gli  Farisei 
Principi  e  sacerdoti  6  gran  giudei  etc. 

Nel  Riccard.  27C0,  esso  pure  del  sec.  XV,  si 
ìoi^^e:  Questo  el  vangello  dela  yeneratione 
di  Xpo  in  volgare  serondo  la  lederà  pero 
chel  decto  Vangelio  non  r  dis'iposlo  in  que- 
sto libro  ne  adietro  ìie  inanzi  il  quale  Van- 
gelio dice  cosi:  (f.  17),  ma  però  è  mutilo 
dopo  pochi  periodi.  A  questo  segue  il  Passio 


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124 


F.  NO  VATI 


GIOUNALE   DI    FILOLOGIA 


m 


Ma  questi  travestimenti  pii,  queste  parafrasi  volte  ad  intenti  mo- 
rali e  religiosi  se  formano  forse  la  parte  maggiore  non  formano  però 
la  più  notevole  in  siffatto  genere  letterario.  In  età,  nelle  quali  incom- 
beva sul  mondo  V  onnipotenza  di  una  religione,  quale  la  cristiana,  noi 


del  nostro  Signore  Gesocristo  composto  per 
M.  Dolcibene  (f.  53): 

P»88io  Domini  noetri  Yha  Cbrieti 
Secondo  oano  scritto  i  vangelisti  etc. 

Deir Evangelo  di  S.  Gìovanai  si  hanno  nella 
stessa  Biblioteca  tre  diversi  volgarizzamenti: 
due  d'anonimi  (Codd.  1155 e  1705);  il  terzo, 
(Cod.  1591)  fatica  di  Francesco  d' Altobianco 
degli  Alberti;  e  degli  Evangeli  quaresimali 
secondo  Matteo  Lucha  Marcho  et  Giovanni 
Evangelisti  ci  offre  pure  il  Cod.  1332  una 
versione  ritmica  che  comincia: 

Sempre  si  vuole  fatare 

In  penitenza  con  vera  intentione, 

Oggi  più  che  stagione 

Cbel  tempo  è  rirtuoso  di  ben  fkre. 

Il  già  citato  Cod.  Riccard.  2760  racchiude  poi 
gli  Evangelii  dela  quaresima  in  volgare  in 
rima  (f.°  1  ),  ai  quali  tangon  dietro,  dopo  pa- 
recchi fogli  /  vangeli  di  fuori  quaresima 
in  rima  e  in  volgare  (  f.**  17).  Agli  uni  ed 
agli  altri  va  premf»s^o  il  medesimo  Proemio, 
la  qual  cosa  potrebbe  farli  giudicare  opera 
d'un  solo  autore.  Il  Proemio  è  degnissimo 
di  attenzione,  giacché,  se  non  andiamo  er- 
rati, giova  molto  a  confermare  quanto  si  è 
di  sopra  accennato,  che  autori  di  siffatti  vol- 
garizzamenti fossero  per  lo  più  dei  monaci: 

Quantunque  i  mi  cognoscba  dignoranzia 
Tanto  picn  che  aio  facessi  mio  dovere 
Celerela  acque  can  de  seno  abondanzla 

Pure  non  posso  volendo  tace  eie 
Quel  che  piacoere  dedeo  chio  manifesti 
Onde  per  rima  diro  mio  parere 

Sopra  Vangclie  quatunque  loro  testi 
Confusi  sleno  a  me  che  pocho  spcrto 
Son  degni  grossa  cosa  e  men  di  questi. 

Alraen  dalchun  che  me  si  mostri  aperto 
Senza  muttar  la  forma  del  chontratto 
Da  qiial  i^artir  nomintcndo  p€-r  certo 


Easlo  me  ne  partissi  in  alchnn  atto 
La  prosa  chebbi  si  può  ripigiare 
Che  cbi  la  scrisse  pin  de  me  ta.  matto 

MtUogìi  in  rima  ptrcogni  mio  pars 
Orotfio  rechandosene  uno  alameni» 
Sì€  più  i^foimato  andando  al  predichare  etc 

In  altro  Cod.  Riccard.  (1155),  che  contie- 
ne varie  versioni  di  inni  e  orazioni,  come 
la  Dispositione  de  la  magnificat  rimata 
(p.  7),  Y  Espositore  del  Miserere  in  rima 
(p.  8),  il  Credo  piccolo  in  rima  (p.  11),  la 
Salce  Regina  (p.  34).  un  altro  Magnificat 
(p.  35),  VAce  Maria  (Ave  Regina  de" su- 
perni cieli)  (p.  3fì),  YAre  Maris  stella  (p. 
36  d."),  si  trova  premessa  alla  maggior  parte 
di  siffatte  poesie  l'indicazione:  compilata 
per  il  decto  frate  (che  non  è  mai  ricordato 
col  nome  suo)  di  S.  Benedetto. 

Un  Codice,  già  appartenente  al  Convento 
di  S.  Marco,  e  secondo  ogni  probabilità  ivi 
scritto,  conteneva  (a  quanto  ricaviamo  dal 
voi.  XIX  p.  48  degli  Estratti  da  mss,  e  rare 
edizioni,  spogli  autografi  di  L.  Mehj's.  che 
si  conservano  nella  Riccard iana,  3351-3376) 
anch'esso  molte  versioni  ritmiche  di  orazioni: 
cosi  V oratione  domenicale  del  P.  N.  detta 
la  Orazione  Signorile  alla  quale  non  si  può 
né  levare  né  porre  fatta  per  Jesu  Christo 
ed  è  in  rima  (com.  O  Padre  nostro  onni- 
potente Iddio)  ;  —  L'Oratione  dell' A.  M.  che 
fu  fatta  dall'Agnolo  messo  mandato  da  Dio 
per  nostra  salute,  che  è  avochata  de' miseri 
peccatori  e  per  nostro  salvamento  (Ave  Ma- 
ria^  che  se'  del  del  regina)  ;  —  //  Simbolo, 
cioè  la  Ballata  degli  Apostoli  in  rima  e 
dice  cosi  :  Credo  in  uno  Dio  vero  Signore  ec 
IIP.N.  disposto  in  rima  per  ternate  scritto 
per  Antonio  di  Matteo  di  Churado  Fioren- 
tino. Abita  a  Vinegia:  a  laude  sia  didio 
(Com.  Pater  dell'  universo  e  del  prò  fondo); 
L'A.  M.  in   rima  e  in   tcrnaie  compilata 


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ROMANZA,  N.*>  5J        IL  PATEB  NOSTER  DEI  LOMBARDI 


125 


la  troviamo  —  strana  cosa  —  vilipesa  iu  ciò  che  meno  si  potrebbe  cre- 
dere, irrisa  nelle  sue  forma  stesse.  Avviene  —  né  è  argomento  di  poca 
meraviglia  —  di  leggere  in  antichi  manoscritti,  talvolta  nel  medesimo 
foglio  (1)  accanto  alla  imitazione  seria  di  una  preghiera,  di  un  cantico 
appartenente  alla  inuologia  sacra,  una  parodia  burlesca,  bacchica  o 
satirica  di  tale  audacia,  di  tal  sfrontatezza,  che  un  devoto  non  poteva, 
né  potrebbe,  chiamar  altrimenti  che  un  sacrilegio.  Eppure  nei  versi 
degli  scolari  vaganti,  di  quei  chierìci  scapestrati,  che  attraversavano 
la  vita  col  sorriso  sulle  labbra,  e  lanciavano  agli  echi  dei  campi,  o  ri- 
petevano nelle  taverne  rumorose  dei  canti  ispirati  al  più  ardente  paga- 
nesimo, in  quello  scolorito  ed  imbarbarito  idioma  che  era  stato  la  lingua 
del  Lazio,  nei  Carmina  Burana^  come  in  tutte  le  altre  raccolte  di  poesie 
medievali,  queste  parodie  abbondano,  pungenti  e  facete  spesso,  irri- 
verenti sempre.  Quindi  del  Laetabundus^  canto  che  recitava  S.  Agostino 
in  un  antichissimo  Mistero  latino  del  Natale,  assai  prima  del  secolo  XIII 
trovasi  una  famosa  parodia  bacchica,  non  ancor  dimenticata  —  dicesi  — 
in  Germania  (2):  e  così  uno  dei  tanti  inni  composti  in  lode  della  Ver- 
gine, il  Verbum  bonum  et  suave  cangiavasi  in  un'ode  al  buon  vino:  Vi- 
num  bomim  et  stmve  (3).    Ma  non  a  sì  modesti  principi  limìtavasi  la  li- 


|)«'  detto  Antonio  Cxirradi  (Com.  Ave  Re- 
gina diddio  figlia  e  madre) \  —  La  Magni- 
ficat rimata  (Cora.  U  anima  mia  magni- 
fica il  Signore);  —  Salve  Regina  in  rima 
per  rinterzato  (Com.  Salve  Regina  di  Mi- 
sericordia) ;  —  Inno  della  Verg.  Maria  (Com. 
Ave  stella  del  mar  tutta  splendente)'^  —  il  Te- 
deo  rimato  (Cora.  Te  Dio  laudiamo  et  te  Si- 
gnor Santissimo  etc.).  Nel  Cori.  Riccartl,  1764 
troviamo  a  p.  123  Qui  comincia  la  sposizione 
deW  orazione  del  santo  pater  nostro  dove 
si  contenghono  sette  petizioni  etc.  a  p.  1G3 
Ave  Maria  in  49  terzine  (Com.  Ave  Reina 
excelsa  umile  e  pia);  a  p.  184  volparizza- 
raento  letterale  in  prosa  del  P.  N.  A.  M.  e  C. 
Nel  Cod.  2734,  scritto,  a  quanto  ci  sembra, 
per  intiero  di  raano  del  poeta  fiorentino  Mi- 
chele del  Gioganre,  a  p.  33  trovasi  il  P,  No- 
stro disposto,  ma  rautilo  sulla  fine;  nel 
Cod.  2760  a  p.  14  il  P.  iV.  disposto  per  sette 
domandamenti  contro  a  sepie  vitti  prin- 
f'ipali;  a  p.  83  lAtntemerata  in  volgare 
(Com.  0  sempre  benedetta  intemerata); 
a  p.  87  Questo  è  il  credo  ritnato  in  volgare 
(Cora.  Credo  in  itn  deo padre  onipotente); 
t'  a  p.  89  la  gloria  in  ejccelsis  in  volgare  e 
in  rima  (com  Gloria  sia  nYgli  alti  luoghi 
a  D/o);  nello  stesso  t.:  ìnagìiifìcat  anima 


mea  in  volgare  e  per  rima  (Com.  L*  anima 
mia  grandi  fica  a  Dio);  e  il  Pater  nostro  in 
volgare  e  in  rima  (Com.  Padre  nostro  che 
se*  in  del  beato);  e  VAve  Maria  in  volgare 
in  uno  madriale  (  com.  Dio  ti  salvi  Maria 
di gratia  piena)  Tuno  e  T altra  assai  graziosi. 
Il  Cod.  2198  (sec.  XIV)  contiene  prre  un'^r^ 
Maria  disposta,  in  15  terzine,  che  com.  Ave 
stella  diana,  luce  serena;  ed  il  Cod.  1540, 
che  racchiude  un  bel  volgarizzamento  di  Boe- 
zio, porta  neir ultimo  foglio  la  Salve  Regina 
disposta  per  uno  valente  Poeta  conventato 
in  ogni  scientia,  che  com.  Iddio  ti  salvi  al- 
tissima allegrezza.  Altra  A.  M.  contiene  il 
Cod.  1246;  un*  altra  in  8  ottave  il  Cod.  1939 
(Com.  Ave  Maria  reina  dello  etterno);  una 
bella  parafrasi  del  Miserere  il  Cod.  1622.  An- 
che il  Cod.  Laur.  già  Oadd.  33  contiene  il 
Credo  il  Magnificat  ed  il  Te  deum  in  ter- 
zine, versificati  con  molta  scioltezza. 

(1)  Ifist.  littér.  de  la  France  1.  e. 

(2)  Wright,  Reliq.  antiq.  t.  II;  Du 
Mkril,  Orig.  latin,  du  theatr.  mod.  p.  IIM, 
e  Poès,  pop.  anter.  au  douz.  siede,  p.  96. 
Carmi  lìur.  p.  84. 

(3)  Du  Mkril,  op.  cit.  p.  96;  Hist.littcr. 
de  la  France,  XXll,  p.  140. 


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126  F,  NO  VATI  [giornale  di  filologia 

cenza:  e  presto  non  solo  gli  inni  e  le  orazioni  più  note,  ma  gli  Evangeli 
stessi  e  perfino  la  Messa  divenivano  argorfienti  di  parodìa.  Si  ebbe 
quindi  la  Missa  de  pofatoribus  o  Missa  gulonis  (1),  nella  quale  a  Bacco 
si  indirizzavano  le  preghiere  dei  bevitori:  Introiho  ad  altare  Bacchi^  ad 
eum  qui  laetificat  cor  hotninis;  ad  esso  il  loro  pentimento:  Confiteor  reo 
Baccho  omnepotanti  et  reo  vÌ7io  coloris  rubei  etc;  affinché  li  conduca:  ad 
majorem  tabernam,  qui  hibit  et  potat  per  omnia  pocula  poculorum.  Stra- 
men.  La  parodia  cade  adunque  perfino  sulle  parole  rituali,  consacrate, 
alle  quali,  per  maggior  derisione,  si  sostituiscono  vocaboli  di  suono 
affine:  così  ad  Anirn,  Stramen;  a  Pax  vobiscum^  dolus  vobiscum;  all' Oi*e- 
miés^  Potemus.  Di  simil  fatta  è  V  Officium  Lusorum(2),  nel  quale  pure 
è  tutto  il  rituale  posto  in  ridicolo,  riferendolo  non  più  a  Bacco,  ma  a 
DeciOj  non  più  al  vino,  ma  ai  dadi;  ed  ai  versetti  segue  V  Oratio^  a  que- 
sta le  Epistólae^  la  lettura  degli  Atti  degli  Apostoli,  la  Sequentia  falsi 
Evangeli  secundum  Marcam  argenti  (3).  Altra  parodia  del  Vangelo  è 
V  Initium  fallacis  evangelii  secundum  lupum  (4). 

Semplicemente  giocosa  e  senza  satiriche  allusioni,  è  invece  una  pa- 
rodia bacchica  dell'  Orazione  Domenicale,  che  si  rannoda  però  per  i  ca- 
ratteri intrinseci  ed  estrinseci  alle  precedenti.  Essa  è  il  Pater  noster 
del  i>ino  (5),  notevole  per  l'ingegnosa  rassomiglianza  del  suono  dei  vo- 
caboli col  modello:  Pater  noster^  qui  es  in  scyplm^  sanctifìcetur  vinum 
istiid:  adveniat  Bacchi  potus:  fiat  tempcstas  tua  sicut  in  vino  et  in  ia- 
berna.  Panem  nostrum  ad  devorandtcm  da  nobis  hodie,  et  dimitte  nobis 
pocula  magna,  sicut  et  nos  dimittimus  potatoribus  nostris^  et  ne  nos  in- 
ducas  in  tentationem  vini^  sed  libera  nos  a  vestimento. 

Dello  stesso  titolo  e  sul  medesimo  argomento,  ma  differente  sia  per 
la  lingua  in  cui  è  composta,  sia  per  la  disposizione  ritmica  —  giacché  ogui 
strofa  in  antico  francese  comincia  con  uno  dei  versetti  latini  —  si  è  un 
altra  parodia  del  P.  N,^  che  spetta  al  XII  o  XIII  secolo  e  nella  quale 
devesi  riconoscere  lo  stesso  spirito  befl^ardo  che  ha  ispirato  la  prima, 
la  Patenostre  du  vin  (6),  che  non  doveva  essere  poi  altra  cosa,  a  giudizio 
nostro,  da  quel  Paternostre  aus  Gouliardois ,  di  cui  pubblicò  le  ultime 
strofe,  traendole  da  un  codice  Parigino  mutilo,  il  Wright  (7).    Nel  fram- 


(1)  Wright,  lieliq.  antir/.  t.  II,  S08-210.  (7)  Wrigiit,  The  latin  Poems  attrib.  io 

(2)  Carm.  ììar.  p.  248.  TT'.  Maj^fs.   London,  1845:  «  ihere  was  a  Fa- 

(3)  Carm.   lìnr.    p.   22.     E    parodia   del  hliau  entiil^d:  Le  Paternoster  aus  Gouliardois, 
Cap.   13  della  Seq.  S.  Evavg.  sec.  loan.  in  a  Ms.  of  the  thirteenth  ceutury  preserved 

(4)  Wright,  lieliq.  antiq.  t.  Il,  5S.  in  the  Bihliothèqne  du  Roi  at  Paris,  but  in- 

(5)  Ved.  Uist.  Littèv.  de  la  Franne,  1.  e.  fortunately,  frora  (he  mutilaiioa  of  the  ma- 

(6)  JriìiNAL,  lo'iìglevrs  et  Trom-crex.  Pa-  nuscrijjt,  the  concludiug  lines  only  are  preser- 
rÌ8  1835,  p.  G9:  veti.  »  (Introd.  p.  XIV). .  lì  lVaiu:uento  è  staiu- 

Paier  uoaUi  :  blaus  sire  Dicx  ecc.  pulo  nelT  Apj>e/id.  VI. 


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MOMANZA,  N.°  5]        IL  PATER  NOSTEB  DEI  LOMBARDI 


127 


mento  del  Wright  e  nel  Fabliau,  pubblicato  per  intiero  dal  Jubiual,  8Ì 
trovano  versi  identici  (1)  ;  e  se  nella  chiusa  diversificano  alquanto,  pure 
non  possiamo  stimar  questo  come  argomento  a  danno  della  nostra  opi- 
nione, essendo  troppo  noto  quali  differenze  di  lezioni  si  incontrino  quasi 
sempre  nelle  poesie  popolari,  raccomandate  prima  che  alla  scrittura  alla 
memoria  ed  all'arbitrio  del  volgo. 

Al  XIII  o  al  più  XIV  secolo,  si  possono  ricondurre  parecchie  altre 
parodie  del  P.  N.  e  del  Credo  :  il  Patenostre  d' Amour s  (2)  ;  il  Fatenostre 
àVU$urier{3);  un  altro  del  medesimo  soggetto  di  quest'ultimo,  ma  peg- 
giore per  le  idee  e  per  le  espressioni  (4)  ;  il  Credo  à  V  Usurier  (5)  ;  il 
Credo  au  Ribaud  (6):  molto  lunghi,  ma  altrettanto  insipidi.  Migliore 
assai  di  queste  parodie  si  è  una  poesia  francese,  la  Letanie  des  bons  Com- 
pagìwns,  nei  quali  è  agevole  riconoscere  dei  Goliardi  o  dei  Ribauds^  stam- 
pata nel  1545,  ma  da  ritenersi  indubbiamente,  a  giudizio  del  Montaiglon, 
assai  anteriore,  del  XTV  o  XV  secolo  (7). 

Così  noi  arriviamo  al  quattrocento.  Ecco  in  Germania  due  pa- 
rodie: del  P.  N.  runa,  l'altra  dell' ^.  M:  ambedue  dialoghi  erotici  fra 
un  frate  ed  una  monaca,  burlescamente- intessuti  colle  frasi  latine  delle 
orazioni  parodiate  (8). ,  Fra  i  medesimi  personaggi  avviene  pure  un 
altro  dialogo  poco  edificante,  composto  di  frasi  tedesche  e  di  versetti  del 


(1) 


Chascuiì  jour  1111  patpnostre 
Rìbaut  et  gouliardois  duivent 
Par  le  pais  tiex  .e.  denìers 

Sed  libera  nos  i  sentieri 
Le  matin  quaat  moy  leverai 
Par  tous  les  vignerons  dirai, 
Pour  les  cepes  qu'ils  ont  piente, 
Qui  du  vin  donnent  a  piente  etc. 


Chascun  jor  coste  patrenòtre 
Di-je  por  toz  cels  qui  bieu  boivent 
Ribaut  et  gouliardois  doivent 
Par  le  pais  tei  e.  deuiers. 

Sed  libera  nog,  I  sentier, 

Au  matin  quant  je  leverai 

Par  toz  les  vignerons  dirai, 

Por  les  cps  que  il  ont  plautez, 

Ou  il  croist  des  bons  vins  assez  etc. 


(2)  Barbazan,  Fabliaux  et  contes  des 
Poetes  Frane,  des  siccl.  Xl-XV.  Tom.  IV, 
p.  441. 

(3)  id.  ibìd.  Tom.  IV,  99. 

(4)  JuBiNAL,  Rapport  sur  les  Mss,  de 
Berne,  p.  32-35.  Ms.  de  Berne  354,  fol.  108. 
Questo -secondo  P.N.de  l' Usurier  porta  il 
nome  dell'autore,  il  Trovatore  normanno 
Richard  de  Lison,  Cfr.  Hist.  Littér,  de  la 
Fr.  le. 

(5)  Barbazan,  op.  cit.  T.  IV,  p.    106. 
(0)  Id.  ibid.  p.  445. 


(7)  A.  De  Montaiglon,  Recueil  des  Ptìés, 
frane,  des  X  V  et  X  VI  siécles.  Paris,  1855. 
Tom.  VII ,  p.  m. 

(8)  Vennero  pubblicati  nella  Germania 
(Voi.  XIV,  Vienna  1869)  da  I.  V.Zingerle, 
che  trasse  T  uno  da  un  Ms.  Viennese  del  1393, 
r  altro  da  uno  d*  Innspruck  del  1456.  Negli  Alt- 
deutschen  Liedersaal  del  Lassleig  (Band 
III)  leggesi  una  poesia:  des  Ruben  Klage, 
nella  quale  un  giovane  recita  al  mattino  il 
P.  N.  e  VA.  M.  frammischiandovi  lamenti  e 
riflessioni. 


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128  F.  NOVATI  [giornale  di  filologia 

Salmo  LXIX  che,  senza  rammentanse  la  data,  riporta  il  Du  Méril  (1).  E 
ritornando  alia  Francia,  ci  soccorre  il  Pater  Noster  des  Verollee  (2),  ove 
nella  forma  troviamo  dei  cangiamenti  ;  il  versetto  dell'  Orazione  non  apre 
più  la  strofa,  come  si  nsava  per  innanzi,  ma  la  chinde,  esempio  che  verrà 
poi  quasi  sempre  seguito.  Quindi  una  parodia  di  carattere  politico,  il 
Pater  noster  des  Angloys  (3),  scritto  probabilmente  in  occasione  del  rin- 
novarsi delle  lunghe  e  disastrose  guerre  fra  i  due  paesi  tanto  vicini,  e 
che  s'odiaron  tanto.  Gli  Inglesi  sgomentati  —  secondo  finge  l'autore  — 
della  nuova  guerra  che  loro  sovrasta,  si  rivolgono  a  Dio  per  soccorso: 

Pater  noster,  dieu  étemel 
Tout-puissant  en  ciel,  en  terre, 
[Vois]  168  Angloys,  qui  ont  la  guerre; 
Lea  Francois  par  mer,  par  terre, 
NouB  feront  des  maulx  infinis;  etc. 

e  cosi  continua  la  poesia  per  alquante  strofe  ;  ma  sulla  fine  lo  scrittore 
che  si  compiacque  a  dipingere  le  angoscie  degli  abborriti  nemici,  butta 
la  maschera  e  con  significante  incoerenza  couchiude  col  dimandar  vit- 
toria per  i  suoi: 

Amen,  pour  finable  conci  usi  on 
Priant  Jesus,  sa  doulce  mère, 
Tenir  les  Fran9ois  en  union 
Et  les  garder  de  vitupero. 
Et  donner  puissance,  victoire 
Au  roy  contre  tous  ses  ennemys: 
Anglois,  notez  ce  pour  mémoire 
Et  vive  le  roy  des  fleurs  de  lys! 

Anche  più  ricca  è  la  messe  nel  secolo  XVI.  In  esso  è  però  a  no- 
tarsi, che  sebbene  si  ritrovino  ancora  parodie  di  canti  religiosi  indiriz- 
zate all'espressione  di  vari  sentimenti,  come  in  Francia  il  De  Profundis 
des  Amoureiix  (4),  pure  nella  pluralità  esse  intieramente  convengono  a 
manifestare  sentimenti  politici.  I  grandi  avvenimenti  che  sconvolgono 
allora  l'Europa:  le  guerre  di  conquista  in  Italia,  di  religione  in  Germania 
attirano  singolarmente  l'attenzione,  risvegliano,  padroneggiandola,  la 
fantasia  dei  poeti  popolari.    Perciò  la  letteratura  francese,  che  fino  ad 


(1)  Du  MÉRIL,  Poés.  popnl.   lat.   antér,  (2)  De   Montaiglon,    op.    cit.    Tom.    I, 

au  douz.  siede,  p.  96-97.  11  dialogo  ioco-  p.  68. 
miiicia:  (3)  Id.  ibid.  Tom.  I,  p.  125. 

r  lìnts  in  adiutorium  mmm  ù>tende  •  W  ^^    MoNTAlGLON,    op.    cit.    Tom.   IV, 

Spraeh  ein  hnbaches  nunutliu  das  was  P*  206. 
bcbonde  ctc. 


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ROMANZA,  N.<>  5]        IL  VATElì  NOSTER  DEI  LOMBARDI  129 

ora  ci  ha  pòrto  il  maggior  numero  di  esempi,  cede  il  campo  alla  italiana 
ed  all'alemanna.  Infatti,  oltreché  il  Fater  Noster  cles  Flamaìis^  Uc- 
iwuyers  et  JBrebansos  e  V  Ave  3Iaria  des  Espagnoh  stampati,  secondo 
giudica  il  Brunet  (1),  fra  il  1520  ed  il  1525,  noi  non  conosciamo  altre  pa- 
rodie, che  appartengano  in  questo  secolo  alla  Francia,  se  non  si  voglia 
ad  essa  ascrivere  quella  vergata  da  mano  francese,  ma  di  argomento 
nostro,  che  è  Le  Patenostre  qui  es  in  coelis  des  Genevoys  en  halade  (2), 
opera  di  Andry  de  la  Vigne,  segretario  della  regina,  di  cui  rimane 
una  rarissima  stampa. 

Italiani  poi  per  il  soggetto  e  la  lingua  sono  anzi  tutto  que'  versi 
conservatici  dal  Sanudo,  fati  a  ferrata  1499  di  fevrer^  per  Mamdio  Lu- 
cense  (3):  parodia  del  Te  Beum  indirizzata  a  Lodovico  il  Moro,  che  pro- 
babilmente trovavasi  ancora  fuori  d'Italia: 

Te  Maurum  ìandamus  cum  voce  e  canti; 
•te  doìninum  fatemur:  non  più  Galli; 

te  elernum  patreiu,  te  vogliamo  avanti. 
2%i  omnes  poptili  fan  balli , 

tihi  rustici  fan  leticia  e  festa, 

Omnes  cìamant  al  gal,  scazialo  e  dalli. 
Vieni  siam  tutti  d*  una  rabia  infesta  : 

omnes  damamus:  dura  Ludovico, 

veni  abassar  al  gal  l'ardita  cresta  etc. . 

Un'altra  poesia,  che  doveva  essere  per  piìi  riguardi  importantissima,  ora 
perduta  o  almeno  ignorata,  è  la  canzone  composta  da  Re  Federigo  di 
Napoli  nel  1501,  anno  in  cui  perse  il  regno;  e  della  quale  conservò  quattro 
versi  l'Oviedo,  che  ne  scrivea:  Questa  canzone  ha  che  si  canta ^  34  anni 
et  non  si  dimenticherà  di  molto  altro  tempo: 

Alla  mia  gran  pena  e  forte 
Dolorosa,  afflitta  e  rea; 
Diviserunt  vestem  meam 
Et  super  eam  miserunt  sortem  (4). 

negli  ultimi  due  versi  noi  riconosciamo  agevolmente  il  versetto  18  del 
Salmo  XXII. 

E  per  un  fatto  inandito,  che  sgomentò  il  mondo  cristiano,  la  presa 


(1)  Brunet  ,  Manuel.  T.  IV,  Part.  I,  A.  Bartoli  e  R.  Pulin  per  nozze  d' Ancona- 
col.  431.                                                  t  Nissim,  iu  XXIV  esemplari. 

(2)  Id.  ibid.  tom.  ITI,  part.  I,  col.  889.  (4)  Oviedo,  Naturale  e  gener,  Historia 

(3)  Vennero  pubblicati  con  altre  Poesie  delle  Indie  ai  tempi  nostri  ritrovate.  Ve- 
storiche  tratte  dai  diarii  di  M.  Sanudo  nezia,  1606,  voi.  HI  <lella  Raccolta  del  Ra- 
(mcccclxxxxix-mdxxii),    (Venezia  1871)  da  musio,  p.  93. 

9* 


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130  F.  NO  VATI  [giornale  di  filologi!. 

ed  il  sacco  di  Roma  nel  1527,  venne  pure  composto  un  Credo  dei  Ho- 
mani  (1),  nel  quale  imprecando  contro  le  infamie  degli  Imperiali,  i  cit- 
tadini si  rivolgono  al  Re  di  Francia  per  soccorso; 

0  tu  ai^or[e]  del  fiorito  giglio 
di  questi  cani  fa  aspra  vendetta, 
segue  del  padre  T  amoroso  figlio, 

qui  concepì  US  est 
Non  vi  valerà  già  fin  V  indo  andare, 
contra  la  synagoga  pesa  deos, 
nemanco  far  la  messa  celebrare 

del  spinto  santo, 
Sconfondi  tutti  questi  cani  iudei, 
Jesu  benigno,  che  la  magior  parte 
tengon  per  certo  che  tu  non  sei 

natus  de  maria  Vergine. 
Italia  mia,  asta  pur  con  lieto  core, 
sta  forte  in  lega  e  non  haver  timore, 
che  te  annuntio  chel  tuo  redentore 

Surrexit  a  mortuis, 
El  bon  Jesù  che  mai  se  trovò  scarso 
ha  exaudito  el  prego  de  Taliani, 
perché  la  voce  del  gran  sangue  sparso 

Ascenda  ad  coeìos. 
Siede  a  man  stancha  quel  chera  Be  Leva 
del  gran  Minos  judice  infernale, 
et  il  CoIona  che  più  degno  era 

Sedet  ad  dexteram. 
Ma  tutto  il  resto  per  gran  punitione 
non  starà  troppo  che  credo  per  certo 
ritorneranno  alla  maleditione 

dei  patris  omnipotentis. 
Anderk  a  Napoli  il  liberatore 
De  Italia  bella  per  poner  il  freno, 
el  Duca  de  Lorena  con  lonore 

inde  venturus  est. 
In  pace  e  in  gaudio  Italia  noi  vedremo, 
tal  che  simil  a  lei  mai  esser  stata 
facilmente  da  noi  stessi  potremo 
iudicare. 

Posteriore  di  alquanto  tempo   e   di  origine  meno  popolare  che   let- 
teraria e  —  forse  per  questo  —  di  minor  eÉBcacia  e  nella  espressione  e 


(1)  Brinkt,  Manuel,  Tom.  IV,  col.  8G3:  Pasq.  e  Marf.  Venezia,  Guadagnino.  Stampa 

Presa  di  Roma  el  lamento  e  le  gran  cru-  rarissima  e  non  mai  se  non  nello  stesso  se- 

deltate  fatte  dentro  con  el  credo  che  ha  fatto  colo  ripubblicata.    Il  Credo  comincia: 

li  Romani  con  un  sonetto  et  un  successo  di  Credo,  so  creder  se  pò  in  la  speranza  etc 


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BOMANZA,  N.«  5]        IL  PATER  NOSTEB  DEI  LOMBARDI  131 

nel  concetto  che  quello  da  noi  pubblicato,  è  un  altro  P.  N^  nel  quale 
r  autore  sconosciuto  lamenta  le  guerre  fra  T  Imperatore  ed  il  Re  Cristia- 
nissimo e  li  esorta  a  volgersi  contro  il  Turco  che  minaccia  l'Italia; 
ciò  che  lascia  luogo  a  stimare  questa  poesia  composta  verso  la  metà  del 
secolo  XVI.  Anch*  essa  è  cavata  da  una  stampa  senza  data  né  luogo, 
rarissima  tanto  da  poterla  a  buon  dritto  chiamare  inedita:  e  per  questo 
rispetto  e  per  il  suo  valore  poetico  e  storico  non  spregevole,  ne  ripro- 
duciamo i  brani  più  rilevanti  (1). 

0  Sommo  Iddio  che  tutto  V  universo 
Di  niente  creasti,  e  poi  volesti 
E^sser  detto  da  noi  in  simil  verso: 

Pater, 
D' Italia  i  tuoi  figliuoli  afflitti  e  mesti 
Con  salda  fé,  con  cuore  umile  e  pio 
Gridano  a  te  che  protettore  resti 

Noster, 
Se  non  T  ajuti  tu,  nel  mondo  rio 
Chi  sarà  quel?  chi  darìi  lor  la  pace, 
Se  non  gliela  dai  tu,  o  sommo  Dio 

Qui  es  in  coelis? 


Liberali,  Signor,  da  Turchi  e  cani: 
Scampali  da  quei  ladri  e  assassini, 
A'  quai  poco  parrebbe  in  le  lor  mani 

Regnum  tuum. 
Signor,  fa  che  ascoltando  nostri  inchini 
Ti  degni  dir,  secondo  sua  dimanda, 
Nauti  li  spirti  tui  almi  e  divini: 

Fiat 

Ch'  abbi  Italia  aver  guerra  ognun  ragiona. 
Per  il  Turco  che  viene,  e  alcuni  sono 
Che  dicon  che  sarà  quivi  in  persona 

Hodie. 
S' Italia  non  soccorri,  signor  buono. 
Già  non  so  altrove  di  voltar  miei  piedi, 
A  me  i  peccati  miei  per  grazia  e  dono 

dimitte. 


(1)  Il  Pricgho  \  d' Italia  detto  \  il  Pa-  hehbe  prima  e  darlipace  uni  (  versale  come 
ter  Noster  \  Fatto  al  sommo  Iddio  |  Nel  hebbe  al  tempo  \  d'Augusto  con  altri  capi- 
quale  ilpriegha  voglia  liberarla  dalle  lon  |  toli  I  cosa  molto  degna  e  \  bella  di  nuovo  | 
ghe  guerre  miserie  et  affanni,  dei  quali  stampata.  8  facciate  e.  a.  n.  I.  Ne  dobbiam 
per  I  longo  tempo  è  stata  afflitta,  e  gli  la  coraunicazioiie  all'illustre  prof.  A.  D'An- 
piac  I  eia  renderli  quella  libertà  r/te  già  \  cona. 


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l'*-  F.  XOVATI  [giorxàlr  di  filologia 

Quanta  gente  mi  strazia  ognora,  il  vedi, 
Da  un  canto  l'Aquila  ho,  dall'altra  i  Gigli, 
E  questa  e  quelli  dicono:  vo',  cedi 

Nohis. 
Ma  io  che  già  ho  provato  con  miei  figli 
Quanto  superbo  sia  lor  fare  e  dire, 
E  in  quanti  posti  mi  hanno,  oltre  i  perigli, 

Debita  ; 
Vorrei  dalle  lor  man,  potendo,  uscire; 
(iridando  i  miei  figliuoli:  o  sommo  Iddio, 
De,  facci  ormai  la  libertà  fruire 

Nostra, 


Porgi  r  orecchio  a  noi,  o  sommo  Iddio, 

Ascoltaci,  signor  invitto  e  degno: 

Da  guerra,  da  tormento  e  afiaimo  rio 

Libera  nos. 
Oh' ognun  di  noi  laddove  al  santo  regno 

Siedi  con  tuoi,  ti  manderà  suo  cuore: 

Liberato  sarà,  quantunque  indegno, 

A  malo. 
Fallo  per  tua  bontà,  dolce  Signore: 

Dammi  libertà,  pace  e  buon  governo, 

Che  sia  tuo  santo  nome  in  tutte  V  ore 
Dall'Italia  lodato  in  sempiterno. 

Né  la  Germania  è  in  questo  secolo  inferiore  all'Italia  nella  produzione 
letteraria  di  parodie  religiose-politiche:  la  pare^^gia  anzi  indubbiamente, 
se  pur  non  la  supera.  In  essa  si  prepara  infatti  e  si  compie  nno  dei 
più  grandi  rivolgimenti  dell'evo  moderno,  la  Riforma:  ed  è  più  che  na- 
turale che  a  manifestare  un'agitazione,  la  quale  aveva  le  sue  origini  in 
questioni  di  fede  e  di  culto,  venisse  preferita  dai  poeti  popolari  una  forma 
che  si  prestava,  svariatamente  atteggiandosi,  così  all'espressione  seria 
come  alla  satirica  e  burlesca  dei  sentimenti  e  dei  fatti. 

Ed  è  in  Germania  appunto  che,  quale  non  ultimo  né  ineflBcace  stru- 
mento a  combattere  la  Chiesa  Romana,  pubblicavasi  nel  lo44  da  Celio  Se- 
condo Curione  quella  curiosa  e  ormai  rarissima  raccolta  di  satire  contro 
la  Curia,  che  si  intitola  Pasquilìorum  Tomi  duo  (1).  In  essa,  fra  le  molte 
e  varie  forme  di  componimenti,  sonetti,  terzine  in  italiano,  epigrammi, 
endecasillabi,  dialoghi  e  ritrai  latini,  si  trovano  pur  anco  due  parodie 


(l)  Pasquillorum  I  TOMI  |  Di'o  |  rpiomm  pii  I  lectaris  animum  |  opprime  |  condu- 

primo  ^eri^ihiis  ac  rhytmiSf  altero  \  soluta  centia,  \   Eorum    catalogìtm    pro.rin\a  \  a 

oratione  eonfirri  \  pta  quamplurima  ronfi-  Pracfatiotìe   pagella  reperies.  \  Eleulhero- 

nentnr  y  \  ad  \  e.rhUarandnm  ^  confirman-  poli  |  MDXLIIII. 
dinnqnc  hoc.  \  perturbai issimo  rerum  statu 


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ROMANZA,  s.'^  5]        IL  PATER  NOSTEE  DEI  LOMBARDI 


133 


latine  degli  Evangeli,  di  molto  interesse.  Se  esse  poi  si  debbano  giu- 
dicare opera  di  italiani  o  surte,  come  le  più  antiche  goliardiche,  da  biz- 
zarro cervello  germanico,  mal  sapremmo  giudicare:  perché  le  scritture 
raccolte  dal  Curione  non  sono  tutte  Pasquinate:  bensì  esso  di  questo 
nome  si  fa  schermo  pubblicando  poesie  più  antiche,  che  giovano  a  mo- 
strare la  secolare  corruzione  della  Chiesa  Romana,  a  giustificare  la  ri- 
bellione recente  (1). 

Le  due  parodie,  di  cui  teniamo  parola,  possono  ricondursi  al  me- 
desimo tempo:  giacché  Tuna  e  l'altra  riguardano  avvenimenti  vicinis- 
simi: la  morte  di  Papa  Clemente  (1534)  ed  ir  viaggio  di  Carlo  V  com- 
piutosi poco  dopo.  La  prima  è  imitata  dal  Capitolo  XXIV  del  Vangelo 
di  S.  Luca  (2),  in  cui  è  descritto  l'incontro  dei  due  Discepoli  che  an- 
davano in  Emaus,  con  Gesù:  ma  Luca  e  Cleofa  divengono  per  Pasquino, 
S.  Pietro  e  la  Curia;  Cristo,  il  morto  Clemente.  Questi  chiede  ai  due 
viaggiatori  di  che  cosa  si  attristino  :  De  Clemente  7*  —  Pietro  ri- 
sponde —  et  vir  iitstus  iniuria  populi  mortuits  est:  nos  autem  timide  ru- 
mores  fugimuSy  quia  ei  sticcessisse  Fauhim  III  audìvimus^  qui  hanc  cu- 
stodiam  rcmovìt^  domumque  orationis  caprarum  ceìlidam  fecit ,  htijtis  prò- 
ventus  suis  nepotibns  contuìity  oh  quae  Topuhis  stupet,  Quare  Clementem 
summopere  cupimus  et  eupcdamns  resurgere,  Ille  aufem  respondens^  dixit  : 
0  staiti  et  tardi  cordis  ad  eredendmn  nonne  oportuit  Clementem  mori,  et 
aìium  surgere  qui  in  vos  peius  tyrannìzaret?  Così  continua  il  dialogo, 
secondo  le  esigenze  della  parodia  più  o  meno  letterale  :  ma  sempre  acuto 
e  pungente,  quale  lama  a  doppio  taglio:  ferisce  il  nuovo  Pontefice  e 
non  risparmia  T  estinto.  Contro  lo  stesso  Paolo  III,  sul  quale  altrove 
Pasquino  barbetta  questa  giaculatoria. 

Oremus  prò  Papa  PaidOy  quia  zelus 
Domus  suae  comedit  illum  (3), 


(1)  Pag.  94  (per  errore  d'imprpssiotie:  si 
corregga  99):  Ad  Lectorem.  Libuit  hic 
subijcere  Qiiereiam  de  fide^pii  et  spiritua- 
lis  cuiuspiam  Parochi^  ut  videtur,  ante 
hoc  nostrum  secnlum,  nuper  in  (ie-nnania 
reperta,  ut  videas,  optitne  Lector,  etiatn 
ante  nos  fuisse  semper  in  Ecclesia  aliquot 
pios  et  sanctos  viros,  qui  rum  publice  non 
aitderent  suum  spiritum  et  sensum  prò- 
/iteri,  tamen  in  angulis  suis,  ut  erat  tunc 
Ecclesia  in  desertum  pulsa  per  Ihmconem 
{ut  Apocalypsis  dicit)  suum  dolorem  ejntil- 
laverunt  et  vìsitationis  dieta  suspirarte- 
runt.  La  Querela  de  fide  ha  lutti  i  carat- 
teri d'un  ritmo  goliardico.    Ma  ciò  che  è  molto 


notevole  e  che,  se  non  erriamo,  sfuggi  fi- 
nora all'attenzione  di  chi  si  occupò  della  poe- 
sia Goliardica ,  si  è  il  fatto  che  a  p.  302  (t.II) 
è  rijwrtata  sotto  il  titolo  di  Evangelium  Pa~ 
squilli  o  I  lim  Romani  iam,  peregrini  Do- 
lus  vobiscum.  Et  camiti  tuo.  Frequentia 
falsi  Evangelii  secundum  Archam  Auri 
et  Argenti.  Gloria  tibi  Auro  et  Argento, 
la  famosa  parodìa  Goliardica,  la  Sequentia 
falsi  Evangeli  secundum  Marcam  argenti, 
che  si  lej?ge  nei  Carm.  Pur.  p.  22. 

(2)  Pag.  308:  Evangelium  secundum  \ 
Marphorium.  In  ilio  tempore  Petrus  et  Curia 
iltani  in  Castello  nomine  Emaus.  etc. 

(3)  Salmo  LXIX  vers.  9. 


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134 


K  NO  VATI 


[aiOBNALB  DI   FILOLOGIA 


SÌ  legge  nello  stesso  volume  altra  violentissima  satira  sotto  forma  di  pa- 
rafrasi del  Mìserere  (1). 

L'altra  parodia  cade  sul  Capitolo  XII  del  Vangelo  di  S.  Gio- 
vanni (2).  Come  abbiamo  già  detto,  ne  viene  colpito  Carlo  V,  al  quale 
Boma,  come  già  Maria  a  Cristo,  efifonde  sui  piedi  preziosi  unguenti.  Ad 
un  francese  che  ne  mormora  (Quare  hoc  unguentum  non  venit  ad  nos 
dccem  millibus  et  non  datur  Francisco?)^  Carlo  risponde:  Sine  iUam:  in 
die  enim  victoriae  meae  lioc  unguentum  servavit.  Vos  enim  Gallos  sempcr 
Bontà  nutrii^  me  vero  non  sempcr.  Crudele  verità  ammantata  da  cru- 
dele ironia!  Al  banchetto  segue  T  ingresso  dell'Imperatore  in  Roma; 
la  preghiera  d' esser  liberato  dalle  francesi  molestie  {transeat  a  me  calix 
Galli)  e  la  affermazione,  che  se  vincesse,  trarrebbe  a  sé  tutti  e  tutto  {et 
ergo  si  exuKatus  fuero  in  viatoria^  omnes  traham  ad  me  ipsum):  il  che  si 
verificò  davvero  (3). 

Venendo  adesso  alla  Grerraania,  appartengono  a  questo  tempo  al- 
cune parodie  in  prosa  del  Benedicite,  del  Gratias,  del  Pater  Noster^  del- 


(1)  Pag. 425:  Psalmus  Miserere  mei,  se  J 
cundum  Aìnbrosiiim,  Pas  |  qvUlo  para- 
paraste: 

MiBorere  mei  Panie  non  socnndnm  Ravignanam 

miserioordiam  tuam, 
Nec  SGoundnm  consuetiidinem  tnam  dde  sostan- 

tlam  mcam  eto. 

Termina: 

Tono  imponent  in  mensam  tuam  in  argento  meo 
capones  et  vitnlos. 

Gloria  Patri  Alio  et  nepotnm  tnornm  choro,  8icut 
fnit  in  Ravenna  et  medice  et  me  et  nuuc  et 
Bomper  et  in  obitiuu  prelatomm.    Amen. 

(2)  P.  305:  Evangelium  \  secundnm  Pa- 
squillum:  In  ilio  tempore  ante  decem  dies 
Pafichae  Carolus  venit  iu  monasterium  |)()st- 
qnam  Clenifns  mortiius  erat  etc. 

(3)  Della  fine  àA  cinquecento,  allusiva  alla 
occupazione  di  Marsiglia  fatta  a  tradimento 
dagli  spapfnuoli.  che  nel  medesimo  modo  la 
perdevano  per  opera  del  Granduca  di  To- 
scana nel  1595,  è  una  parodia  del  Salmo  CXIII, 
conservata  iu  un  Cod.  del  tempo,  ^\h  Spirniano 
ora  Laur.  14;  e  in  un  altro  Riccard:  il  771. 
Essa  è  molto  notevole  ed  è  stata  composta 
da  un  fautore  de'  francesi  : 

In  exitu  Caesaris  de  Ghallia,  Andreas 
de  Boria  de  mari  prof  undo:  facta  est  Mar- 


silia  forti fichatio  regisymonumentvmeius 
Druentia. 

Caesar  Druentiam  vidit  et  fvgit:  Do- 
rias propter  regis  copiosa  classe  conversus 
est  retrorsmn  et  eqintes  Caesaris  exulta- 
bunt  ut  arietes  et  pedites  eius  sicut  agni. 

Quid  est  tibi  Caesar  guod  fugisti  et  tu 
Boria  quare  coyì versus  es  retrorsum  ? 

Marsiliam  munitissimam  vidi  et  fugi: 
propter  Bretoyium  et  Normanorum  dassetn 
ronversus  smn  retrorsum.  Quid  vobis  /uit, 
equitcs,  quod  fugistis  ut  cervi  silvestres  et 
vos  prdites  ut  lepores  campestresì 

A  facic  regis  motus  est  exercitus,  afacie 
eius  motae  sunt  triremes. 

Qui  Marsiliam  in  medio  constituit  et 
Arelatam  propc  fontes  aquarum. 

Non  nobisy  Bomine^  non  nobis  militibus 
regis  y  de  Caesaris  fuga  et  suorum  strage, 
sed  r/'  gloria  nomini  tuo  etc. 

Più  inaanzi  rammenta  gli  alleati  del  Re 
francese:  Bomus  Orlienensis  ducis  spe- 
ravit  in  Boni  ino  et  ab  insidiis  Caesaris  li- 
beravit  eam  Bominus. 

Bominus  memor  fuit  Ioannis  Punii 
Ursini  et  bencdixit  UH. 

BenedÌKÌt  Bominus  Stephano  Prene- 
stino  et  Co  filiti  Rangoni. 

Bcnedùvit  Bomitttfs  omnibus  sub  Rrge 
Gallorum  militantibus  equiiibus  et  pedi- 
tibus ,  etc. 


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BOMAxzA,  N.*^  5J        IL  PATEB  NOSTEE  DEI  LOMBABDI  135' 

V  Ave  Maria:  e  di  queste  due  ultime  orazioni  e  del  Credo  se  ne  hanno 
pure  altre  in  versi  (1).  Del  Salmo  CXIII  cita  pure  una  parodia  politica 
il  Du  Méril  (2)  ;  ed  il  Soltan  pubblicò  il  Vater  Unser  der  Herzogs  Ulrich 
voti  Wiirtemberg  (3) ,  che  comincia: 

Vater  unser: 
Beitling  ist  unser; 
Der  du  hist  in  den  himmdn 
Tilbing  und  Essling  wòUn  wir  auch  hàld  gewinnen. 

Questa  predilezione  del  popolo  tedesco  per  le  parodìe,  continua  nel  secolo 
seguente  e  prende  anzi  maggiore  incremento  coir  aprirsi  della  guerra  dei 
Trenf  anni:  quando  gli  eserciti  Danesi,  Francesi  e  Spagnuoli  apportano 
nelle  ricche  provincie  Germaniche  quel  lutto  e  quei  danni,  che  aveva 
tanto  tempo  sofferto  la  misera  Italia.  Nei  Canti  Storici  già  citati,  il 
Soltan  ha  raccolto  anche  V  Ileidelbergische  und  Eebellen  Vater  Unser  (4) 
del  1621:  ed  un  Der  Soldaten  Vatter  Unser  (5),  che  suona: 

Wenn  der  Soldat  eum  Bauren  keret  ein, 
Grùsset  er  ihn  mit  freundlichem  Schein:  Vatter 

del  quale  ci  occorrerà  di  nuovo  tener  parola.  E  nella  raccolta  di  Canti 
appartenenti  ai  medesimi  tempi,  del  Weller,  un  Mahrisclie  Vatter  Un- 
ser (6)^  in  prosa,  del  1619:  un  altro  del  1631,  svedese:  Das  Schwedische 
Vater  Unser  (7)  ;  e  del  1646,  Das  Forstensohnische  Vatterunser  (8)  ;  tutti 
e  due  in  versi.  Nel  volume  dell'  Opel  e  Cohn  leggesi  pure  Das  pdpstir 
sche  Vater  Unser  (9)  del  1620  unito  a  tre  parodie  di  Salmi,  nonché  varie 
parodie  in  prosa  dell' Evangelo  di  Giovanni  (10),  di  Luca  (XIX)  (11), 
del  Salmo  I  e  II  (12),  della  tentazione  di  Cristo  (13);  una  poesia  intito- 


(1)  Ved.  0.  ScHADE,  Satiren  und  Pa-  (6)  E.  Weller,  Die  Lieder  des  Dru- 
squUlen  aus  der  Reformationsxeit,  2.^^  stigjdrhigen  Krieges,  Basel,  1855,  p.  61. 
Band,  p.  270-71  (Hannover  1856).  Questi  Nella  stessa  pagine  trovasi  das  Bóhmische 
componimenti   si   trovano   agj:^iunti    al  Der  aller  Angen^  pure  in  prosa. 

Papisten  Handthùchlein  (1559).  (7)  Id.  ibid.  p.  204. 

(2)  Du  MÉRiL,  Poés.  lat.  anter.  etc.  p.  96:  (8)  Id.  ibid.  p.  263. 

In  exitu  Landgravii  de  Ilassia;  domus  Saro-  (9)  I.  Open  und  A.  Cohn,  Der  drustig- 

num  de  populo  barbaro  etc.  jàhrige  Krieg,  Etne  Sammlung  von  histo- 

(3)  F.  L.  Soltan,  Ein  Ifundert  deuts-  riscJien  Gedirkten  U7id  Prosadarstellun- 
che   historische    Volkslieder.    2   Ansgabe,  gen.  Halle,  1862,  p.  32. 

Leipzig,  1845,  p.  241.  Sopra  una  Litania  (IO)  Id.  ibid.  p.  100. 

Qermanorumy  cfr.  D.  F.  Strauss,  Hnlrich  (11)  Id.  ibid.  p.  195. 

von  Hutten,  II,  183.  (12)  Id.  ibid.  p.  209  e  210. 

(4)  F.  L.  von  Soltan,  op.  cit.  p.  460.  (13)  Id.  ibid.  p.  99. 

(5)  Id.  ibid.  p.  67. 


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•13(5 


NO  VATI 


[oiOhNALE   DI    FILOLOGIA 


lata:  Il  decalogo  degli  Spagnuoli  {Die  Spanischen  Zelien  Gehot)  (1):  una 
parodia  dell'  In  didci  jubilo  (2)  e  finalmente  alcune  parodie  di  Canti 
ecclesiastici  protestanti  conosciutissimi  (3). 

L' Italia  che  ha  tanta  ricchezza  di  poesie  politiche  nella  letteratura 
colta  di  questo  secolo,  non  manca  di  parodie,  esse  pure  rivolte  a  ram- 
mentare avvenimenti  storici.  Due  però  fra  esse  hanno  altro  carattere  : 
il  De  Profundis  d'una  monaca  disperata  (4),  nel  quale  si  svolge  un  ar- 
gomento assai  gradito,  a  quanto  sembra,  in  quel  tempo;  e  un  P.  N.  di- 
retto contro  il  Senatore  Rossi,  ministro  del  Granduca  di  Toscana,  at- 
tribuito nel  ms.,  da  cui  lo  ricaviamo,  al  bizzarro  ingegno  del  fiorentino 
G.  B.  Fagiuoli:  cosa  che  non  ci  sembra  priva  di  probabilità  (5),  Il  P.  N. 
comincia  : 

0  del  Toscano  ciel  Giove  benigno, 
Avvezzo  ad  influir  con  mani  d*oro, 
Grazie  a  quei  che  ti  acclamano  per  loro 


Pater, 


Noster? 


Qual  fallo  nei  tuoi  servi  mai  scorgesti, 
Che  gli  facessi  dare  in  man  d'  un  cane 
Quel  che  dato  ci  fu  dal  ciel  per  pane 

Rivolti  dunque  a  te,  Rossi  inumano, 
Non  ti  sovvien  che  mulattier  sei  stato? 
Rispondi  or  che  tu  sei  infarinato: 

Qui  €S? 

Cagione  delle  invettive  e  dei  lamenti  si  è  la  ingordigia  del  ministro 
e  la  durezza  adoperata  nelle  esazioni  esagerate: 


(1)  Id.  ibid.  p.  6. 

(2)  Id.  ibid.  p.  91. 

(3)  Id.  ibid.  p.  318.  Molte  di  queste  in- 
dicazioni ci  sono  state  fornite  dalla  genti- 
lezza del  D.'  R.  Kòhier  di  Weimar. 

(4)  Questo  De  Profundis  è  stato  edito  da 
O.  Leti  nella  Vita  di  B.  Arese  (Colonia, 
della  Torre  1682  )  senza  nome  d*  autore.  Ade- 
spoto si  legge  pure  in  un  Codicetto  misceli. 
Riccard.  (il  2883)  intitolato:  Varie  cose  scrit- 
te da  Gio.  Minuti  nel  Collegio  di  Prato  nel- 
l'anno 1713:  e  salvo  parecchi  sformati  er- 
rori di  ortografia  non  differisce  dalla  stampa. 
Fra  le  poesie  di  P.Maura  (1638-1711)  del 
quale  ripublicò  recentemente  (Milano,  Bri- 
gola,  1879)  i  componimenti  in  dialetto  sici- 
liano L.  Capuana,  sono  ricordate  Y A.  M. 
ed  il  P.  N.  di  una  Monaca  :  ambedue  ine- 


dite. Ad  un  Miserere  scritto  contro  la  città 
di  Messina  dopo  la  rivolta  del  1672  dovette 

10  stesso  poeta  la  liberazione  dal  carcere. 
(5)  Cod.  Riccard.  2947.    In  esso  però  è 

taciuto  il  nome  del  Rossi,  contro  al  quale  la 
poesia  è  diretta:  e  dove  occorreva,  come  nel 
primo  verso  della  terza  terzina,  è  stato  sosti- 
tuito con  un  epìteto.  Invece  questi  riguardi 
non  si  sono  avuti  da  colui  che  copiò  la  mede- 
sima poesia  nel  Cod.  Riccard.  2242,  che  pre- 
senta anche  varianti  non  poche  né  senza  va- 
lore. Per  i  brani  che  citiamo,  abbiamo  scelto 
dall'uno  e  dall'altro  Cod.  le  lezioni  che  ci  pa- 
revano più  conformi  air  intento  deir  Autore. 

11  ritrovar  tante  varianti  di  si  breve  poesia, 
può  esser  prova  della  diffusione  che  essa  ebbe 
quando  apparve  in  pubblico. 


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BOMANZA,  x.«  5]        IL  PATER  ^VSTEM  DEI  LOMBARDI 

Se  anderan,  come  credo,  nell'Inferno, 
Metteranno  T appalto  anche  sul  fuoco, 
Giacche  hanno  fatto  questo  simil  gioco 


137 


Et  i)ì  terra. 


E  che  occorre  più  dire  il  Pat^r  Noster, 
Se  ora  appaltato  è  quel  che  ci  consola? 
Per  noi  infruttuosa  ò  la  parola 

I*anem, 

La  disperazione  in  cui  sono  entrati  i  toscani  è,  secondo  il  Poeta, 
grandissima  : 

In  Tripoli,  in  Alfieri,  in  Barberia 
Mandaci,  Serenissimo  Padrone, 
Che  liberi  sarem  dal  ^eo  fellone 

Et  ne  nos. 


Per  concluderla  adunque  dichiaro 
Vi  risolviate  l'impresa  lasciare; 
Ohe  a  fé  de  Dio  voi  ci  farete  entrare 

Sottoporremo  il  capo  al  manigoldo 
Ed  i  suoi  strazi  a  noi  parran  men  fieri, 
Ma  da  navicellai  e  mulattieri 

E  gih  che  1  nostri  queruli  lamenti 
Non  son  sentiti,  bisogna  sbrigarsi. 
Unirsi  ciaschedun  per  liberarsi 


in  tentationeììì. 


libera  nos. 


a  malo. 


E  se  '1  nostro  poter  non  fe  bastante, 
Venga  in  nostra  difesa  U  Turco  e  '1  Moro, 
Gik  che  si  sa  che  il  fiorentin  decoro 
Deve  un  giorno  morir  con  il  turbante. 


Amen. 


Poco  interesse  presentano  due  altre  parodie  dell'  Orazione  domeni-* 
cale,  una  di  proposta,  l'altra  di  risposta,  le  quali  si  possono  ascrivere 
al  medesimo  tempo  (1).  Non  contengono  che  indeterminate  domande  di 
soccorso  celeste  e  altrettanto  vaghi  rimproveri  della  divinità  per  i  com- 


(1)  Si  leggono  nel  Cod.  Riccard.  3464.    11     a  p.  3  segue  la  Risposta  di  P.  N: 
primo  componimento  intitolato  Rime  sopra         Figlluol,  s'io  U  son  padre  e  redentore  etc. 


ti  P.  N.  consta  di  25  terzine  e  comincia: 

Paitr  celeste  Iddio,  onnipotente 
Padre,  sofferma  alquanto  il  tuo  faroro. 
Se  ti  Siam  figli  sempre  ti  stia  a  mento. 


a  p.  12  le  Ri)ne  sul  Salmo  XXV  : 

Ad  ie  Uvati  gli  occhi,  o  Signor  mio, 
A  te  ricorro  l'alma  tribolata, 
A  te  Trinità  santa,  solo  Iddìo. 

10 


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138  F.  NOVATI  [giornalk  di  filolooia 

messi  peccati.  Sono  però  lavoro  di  non  rozzo  versificatore  tanto  esse, 
quanto  un^ amplificazione  (più  che  parodìa)  del  Salmo  XXY  :  lunga  assai 
e  nella  quale  non  vi  sono  che  queste  due  strofe,  le  quali  faccian  cenno 
dei  fatti  contemporanei: 

Omnes  gentes  gran  duol  ci  fan  patire, 
Con  strazi  con  minaccio  et  con  ingiuria 
Sì  che  U  ben  manca  e  cresce  il  gran  martire. 

Principes  persectUi  sunt  con  furia 
Il  popol  nostro  con  acerbi  stenti, 
Et  d' ogni  ben  sentiamo  gran  penuria  (1). 

Uno  de'  maggiori  tentativi  che  la  Potenza  Ottomana,  già  declinante, 
ardisse,  cioè  l'assedio  di  Vienna  del  1683,  che  ha  ispirato  le  magnifiche 
canzoni  al  Filicaja,  viene  pure  rammemorato  da  due  umili  componimenti, 
sin  qui,  a  quanto  pensiamo,  ignoti.  Il  primo  è  parodia  del  notissimo 
inno  sacro,  il  Dies  irae  (2)  : 

Dies  irae  dies  illa 
Turcas  solrit  in  favilla 
Bex  Jouannes  cum  Maxilla. 

Quantus  terror  iam  futurus, 
Si  in  Viennam  intraturus, 
Omnia  strage  vastaturus! 

Tuba  cìrcum  sparsit  sonum 
Per  Provincias  Polonum 
Vocans  Ducem  legionum. 

Facta  dicunt  et  natura 
Quod  Germania  semper  dura 
Sit  Turcarum  sepultura; 

e  COSÌ  continua  piuttosto  lungamente  :  ma  a  noi  sembra  opportuno  fer- 
marci a  tale  saggio:  giacché  questo  ritmo  non  ha  certo  molto  pregio, 
come  ne  ha  pochissimo  un  altro  componimento,  formato  di  tanti  ver- 
setti scritturali,  cavati  dal  libro  de' Salmi,  da  quello  de' Giudici,  da  Ge- 
remia, che  celebra  lo  stesso  fatto,  cioè  la  liberazione  della  capitale  au- 
striaca (3). 


(1)  Pag.  14.  106:  Popxdus  Viennae  ah  óbsidione  divino 

(2)  Si  trova  nel  Cod.  Riccard.  3473,  che  auxilio  liòeratus ,  sic  loquitur  ;  Audlte 
è  un  volume  di  poesie  varie,  autografe  per  haec  oranes  gentes,  auribus  percipite  omnes 
la  più  parte  e  indiriiJzate  al  Fagiuoli:  il  quale  qui  habitatis  orbem  etc.  —  In  fine  si  legge: 
non  solo  deve  essere  stato  il  possessore,  ma  A.  Z,  ex  divinis  scripturis  hos  flores  U- 
il  formatore  di  questa  miscellanea.  Questo  gebat.  Anno  apartu  Virginis  CIO  ,IOC. 
componimento  però  non  ha  nome  d'autore:  LXXXIII  Ex  Psalterio  Davidis,  Ex  libro 
porta  il  N.  11.  ludicinn.    Ex  oratione  Jercmiae.  C.  V. 

(3)  Ck>d.  Riccard.  misceli.  2593,  cart.  105- 


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ROMANZA,  H.^  5J        IL  PATER  NOSTEB  DEI  LOMBARDI  139 

Della  fine  del  seicento,  è  pure  una  parodia  del  P.  N.  diretta  contro 
Alessandro  Vili  (1689-1691),  che  abbiamo  ricavata  da. una  raccolta  di 
Pasquinate  (1).  A  noi  non  occorse  mai  vederla  ricordata  :  è  molto  vio- 
lenta, ma  non  priva  però  di  qualche  eleganza  di  forma.  L*  anonimo  au« 
tore  apostrofa  così  il  Pontefice: 

Oh  tu  che  avesti  il  regno  in  Vaticano, 
E  fusti  eletto  dallo  Spirito  Santo, 
Esser  tu  sol  nostro  sovrano  e  santo 

PateVt 

Tu  fa  che  il  gregge  tuo,  eh'  ò  già  disfatto, 
Non  resti  esposto  al  Gallico  giudizio 
E  che  il  misfatto  altrui  non  sia  supplizio 

Noster, 

0  tu  che  Pietro  ancor  con  tua  follia, 
Con  Prencipi  rimetti  a  competenza. 
Forse  che  non  conosci  in  tua  coscienza 

Qui  es? 

Sei  altro  eh' un  pezzente  rivestito, 
Ch'opera  buona  mai  sapesti  fare, 
£  ti  ricordi  al  fin  che  devi  entrare 

in  coeìis? 

Né  i  desideri  suoi  si  limitano  a  poco.  La  preghiera  che  rivolge  a  Dio, 
è  che  faccia  morire  il  Papa  al  piìi  presto:  giacché  in  Eoma  non  si  può 
più  resistere  alle  vessazioni* dei  ministri  d'Alessandro: 

Roma  sta  male,  né  mai  stette  peggio, 
E  s' i  capi  non  hanno  compassione, 
Non  pagheremo  nell'  occasione 


Debita  nostra. 


Non  s'userebbe  tanta  tirannia 
Se  li  Papi  con  noi  stesser  del  pari, 
E  se  mangiasser  dei  bocconi  amari 

Né  gli  pare  d'  aver  detto  abbastanza  : 


Sicut  et  nos. 


Molto  in  ver  vorrei  dir,  ma  perchè,  so 
Che  della  veritade  ognun  si  picca, 
E  chi  vuol  dir  il  vero  alfin  s'impicca; 

dimiUimus. 

S' i  Veneti  ah  aeterno  furon  pazzi. 
Però  ti  prego,  Padre  onnipotente, 
Che  più  al  governo  di  sì  pazza  gente 

ne  nos  inducas. 


(1)  Gxl.  Uiccai-«1.  25(M,  \^.  22. 


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]  10  F.  NO  VATI  [giornale  di  filologia 


Altro  non  brama  il  popol  che  un  motivo, 
Ter  dar  Roma  principio  a  sollevarsi, 
Che  saria  lor  pensiero  sollevarsi 

a  malo. 
Allora  sì  vorressimo  vedere 
Subito  un  parapiglia,  un  serra  serra 
E  Monti  e  Stelle  e  Quercie  andar  per  terra: 

Amen. 

A  questi  lamenti  dei  popoli  della  media  Italia  contro  i  loro  gover- 
nanti si  uniscono  espresse  nella  medesima  forma,  le  querele  dei  Lom- 
bardi soggiacenti  a  dominio  più  di  tutti  stolto  ed  iniquo.  Una  parodia 
Lombarda  del  P.  N.  per  sé  stessa  notevole ,  ma  che  acquista  per  noi 
maggiore  importanza  per  un  fatto  che  metteremo  ora  in  luce,  veniva 
parecchi  anni  sono  pubblicata  dall'  illustre  letterato  G.  Carducci  in  un 
periodico  fiorentino  (l). 

Il  Carducci  in  una  Notizia  premessa  alla  poesia,  diceva  crederla 
inedita  e  tale  era  difatti  nella  forma  in  cui  usciva  alla  luce.  Eppure 
essa  non  opera  originale  di  ignoto  secentista,  ma  devesi  ormai  conside- 
rare come  rifacimento  letterario  del  P.  N,  plebeo  dell' antecedente  secolo 
contro  i  Francesi.  Curioso  a  dirsi:  la  parodia  misogallica  cent'anni  dopo 
rimaneggiata  e  trasformata  in  parte,  diveniva  misoiberica,  ma  in  fondo 
rimaneva  sempre  la  stessa.  Il  rifacimento  del  secento  si  scosta  e  non 
poco  dal  modello:  opera  di  persona  non  indotta,  essa  non  presenta  più 
quelle  forme  dialettali  a  mala  pena  larvate  da  desinenze  italiane  e  quelle 
licenze  di  metrica  e  di  rima  che  si  incontrano  nella  poesia  anteriore: 
anche  la  distribuzione  dei  versetti  seguenti  ad  ogni  strofa  è  fatta  da  ar- 
bitraria, regolare:  talché  non  ne  viene  ommesso  alcuno;  né  riferito  or 
un  solo  or  molti  a  capriccio  :  ma  per  quanti  mutamenti  siano  stati  intro- 
dotti nelle  espressioni  e  nel  linguaggio,  le  due  parodie  hanno  conser- 
vato una  sostanziale  identità.  I  raffronti  che,  a  dar  forza  alla  nostra 
affermazione,  potremmo  fra  Tuna  e  l'altra  istituire,  sono  troppo  nume- 
rosi per  poterli  riprodurre  in  queste  pagine:  troppo  evidenti  per  non 
indurre  chiunque  sentisse  curiosità  di  farli,  a  riconoscere  l'indiscutibile 
aflBnità  che  lega  le  due  poesie. 

Per  questa  ragione  ci  siamo  indotti  a  ripubblicarla  in  seguito  alla 
prima:  giacché  si  è  questo,  a  giudizio  nostro,  un  fatto  degno  di  consi- 
derazione, e  che  addimostra  una  volta  di  più,  come  nelle  forme  adoperate 


(1)  L'Ateneo  TtaliartOyOìornHÌe  dì  Scieu'  colo  XVII,  p.  90-93.   Venne  tolta  da   due 

zp,  Lettere  ed  Arti  etc.  diretto  da  G.  CniA-  Cotld.  Riccard.   il  2868  (indicato  con  A)   e 

RiNi.  Voi.  I,  fase.  VI   (IHGó).   Puhblicaz.  di  il  2977  (indie,  con  B). 

Senili   Iiu'il.    Ina    Poesia   Storica   del  Se- 


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BOMANZA,  N.o  5]        IL  PATER  NOSTEB  DEI  LOMBABDI 


HI 


dalla  fantasia  del  popolo  all'espressione  de' suoi  sentimenti,  nulla  mai 
si  ritrovi  in  realtà,  sebbene  talvolta  l'apparenza  possa  ingannare,  di  in- 
consueto e  di  nuovo.  Il  popolo  predilige  pur  sempre  quelle  forme  che  tra- 
dizionalmente furono  da  esso  adoperate  :  e  molte,  già  scomparse  e  sepolte, 
veggonsi  rianimate  di  nuova  vita  risorgere,  e  manifestare,  coli'  eloquente 
linguaggio,  la  storia  di  nuovi  affetti  e  di  nuovi  dolori. 

Questi  vincali  di  rassomiglianza  che  annodano  alla  parodia  popolare 
del  cinquecento,  l'altra  più  letteraria  del  secolo  posteriore;  vincoli  che 
noi  stimiamo  prodotti ^da  voluta  imitazione,  e  non  fortuita  coincidenza 
di  casi  e  di  sentimenti  nella  plebe  Lombarda,  intercedono  in  grado  mi- 
nore, ma  non  meno  singolare  fra  i  due  P.  N.  italiani  ed  uno  tedesco  del 
secolo  XVIII,  il  Pater  Noster  dei  Villani  di  Colonia^  composto  nel  1704 
contro  i  francesi  (1). 

La  parodia  germanica  Valer  unser  der  Colnischen  Bauern,  della 
quale  il  modello,  o  certo  almeno  una  redazione  anteriore  si  è  quel  Der 
Soldaten  Valer  Unser,  che  abbiamo  già  rammentato,  del  seicento,  è  molto 
probabilmente  una  cosa  sola  con  la  poesia  popolare  del  Meklenburg  in- 
titolata Bauern  vaterunser,  e  l' altra  rammentata  dal  Prohle,  come  quasi 
identica  a  questa  ultima,  l' Hamwversches  Vaterunser  (2).  E  la  identità 
di  questi  quattro  canti  popolari,  che  potrebbe  forse  ad  alcuno  sembrar 
strana,  non  parrà  più  tale,  quando  si  pensi  che  prodotta  dai  medesimi  fatti, 
esprimendo  gli  stessi  affetti,  questa  parodia  dovette  rapidamente  diffon- 
dersi in  tutte  le  provincie  dell'  Aleraagna  e  divenire  in  ciascuna  di  esse 
la  manifestazione  dei  pianti  e  dei  desideri  comuni. 

Nella  poesia  tedesca  adunque  e  nelle  parodie  lombarde,  che  certo 
non  hanno  altra  relazione  fra  loro  fuorché  quella  prodotta  dalla  origi- 


(1)  H.  Proiile,  Weltliche  xmd  geistli- 
che  Volkslieder  nnd  Volksschaicspiele.  1855  ; 
n.** 99.  Alcune  strofe  (cioè  la  1»,  2%  \2\  e  22^) 
tradusse;  citandole  per  saggio,  il  prof.  E. 
Teza  in  una  nota  apposta  alla  notizia  del 
Carducci. 

(2)  A  meglio  stabilire  questa  relazione  fra 
le  quattro  parodie  crediamo  che  non  sarà 
inopportuno  il  dar  qui  un  brano  di  ciascuna. 
Il  Pater  Noster  dei  soldati  del  XVII  secolo, 
dato  alla  luce  dal  Soltan,  comincia  cosi: 

Wenn  der  soldat  zun  Banren  koret  ein, 
Orùsset  er  Ihn  mlt  freandlichen  Schein: 

Tatter, 

Dankct  ihm  daneben  zìi  aller  Frisi: 
Bauer,  wa«  tlu  ha»t,  uIIuh  ist 

l'iLscr.  utc. 


La  parodia  Meklenburghese,  edita  da  H. 
Gadke  nel  Deutschen  Museum  del  Prutz, 
anno  1855,  n.°  47,  p.  769  non  è  che  una  tra- 
sformazione di  quello; 

Der  Fransoz  der  tritt  ics  Haua  hinein 
Band  sprlcht  zom  Haaawirth  aos  falaohem  Scbein  : 

Vater  eto. 

II  P.  N.  Aunoverese ,  della  fine  dello  scorso 
secolo,  citato  dal  Soltan  (p.  LXXVII)  non 
abbiamo  veduto ,  ma  basta,  crediamo,  T  assi- 
curazione del  Soltan  stesso,  che  lo  dice  quasi 
identico  al  Meklenburghese.  11  P.  N.  dei  Co- 
lognesi  poi,  pubblicato  dal  Prohle,  ò  quasi 
preciso  : 

Wo  nur  der  Franzmann  kehret  ein 
So  grusat  cr  uuh  mlt  falschcni  Schein 

Vater!  ctc. 


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U2  F.  NO  VATI  [giornale  di  filologia 

nana  aflBaità  del  pensiero  del  popolo  in  tutti  i  paesi,  è  mirabile  la  coin- 
cidenza delle  idee  e  del  linguaggio.  I  villani  di  Colonia  soffrono  gli 
stessi  insulti  e  le  stesse  privazioni  dai  Francesi  guidati  dal  re  Luigi, 
che  i  contadini  Lombardi  avevano  patiti  da  Carlo  Vili:  quindi  nella 
parodia  germanica,  che  si  divide  in  ventotto  distici,  chiusi  ognuno  da 
una  parola  o  una  frase  del  P.N.  in  tedesco,  non  in  latino,  troviamo 
come  nelle  italiane,  gli  invasori  tutti  umili  dapprima,  brutali  subito  dopo: 

Wo  nur  dar  Franzmann  kehret  ein, 
So  griisst  er  uns  mit  falschem  Schoin: 

Vater! 
Man  bald  hSret  zur  selben  Frist: 
Mein  Vater,  was  du  hast,  das  ist 

Unser. 

ne  vediamo  istessamente  descritta  la  rapacità: 

Ach  Gott,  wenn's  stfind  in  ihrer  Macht 
Zu  spliindern  waren  sia  bedacht 

dein  Reich. 

e  gli  insulti  all'onor  maritale: 

Solch'Volk  hat  man  gesehen  nie; 
Bei  unsern  Weibern  liegen  sia 

ala  auch  wir. 

e  parimenti  espresso  il  desiderio  di  liberazione: 

Ach  Gott,  lass  sia  bei  uns  nicht  lang, 
Dia  Schelmen  thun  uns  angst  nnd  bang, 

sondern  erlQse  ans  (1). 

Dei  primi  anni  del  secolo  XVIII  sono  pure  due  altre  parodie  del- 
l'Orazione Domenicale.  La  prima,  il  Pater  Noster  di  Mantova  pentitOj 
non  può  riferirsi  che  alle  conseguenze  della  imprudente  deliberazione  di 
Ferdinando  Gonzaga  ;  il  quale  nella  guerra  per  la  successione  di  Spagna, 
sebbene  fosse  soggetto  all'Impero,  pur  volle  stringersi  in  alleanza  coi 
Francesi  ed  aprì  loro  le  porte  della  città,  perdendo  e  libertà  ed  onore: 
e  poco  pili  tardi  (1707),  come  ribelle,  lo  stato.  La  supplica  di  Mantova 
all'Imperatore  è  piuttosto  lunga  e  scritta  con  qualche  eleganza:  ma 
venne  in  piìi  luoghi  guasta  dal  trascrittore  nel  ms.  dalla  quale  la  rica- 
viamo (2).  Nelle  necessità  della  guerra  cerca  scusa  la  città  alla  sua  ri- 
bellione : 


(1)  Cfr.  del  P.N.  contro  i  Francesi,  da  noi     pentita  supplica  l'Imperatore  per  il  per- 

pubblicato,  le  strofe  1,  2,  5, 15,  19:  e  «li  quello      dono  : 

del  Carducci,  la  3,  4,  6,  16,  21. 

/o\  r.  j    r»-  1       •       Il  0101     ^r     *  Ravveduto,  siguor,  del  grave  errore  etc 

(2)  Cod.  Riccard.  misceli.  2121,  Mantova 


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aoMAKZA,  N.o  5]       IL  PATEE  NOSTEIi  DEI  LOMBARDI  143 

Son  rea  di  ribellion,  già  lo  confesso» 
Ma  la  necessità,  tale  mi  rese, 
Per  non  veder  distrutto  il  bel  paese 

Noster. 

Troppo  lo  80,  presume  mia  baldanza 
E  U  temerario  ardir  :  ma  pur  pietade 
Spero  da  te,  esempio  di  boutade 

Qui  es. 
L*ambizion  trasportommi  a  tanto  eccesso, 
E  credendo  il  Re  Gallo  un  altro  Dio, 
Sperai  che  trar  potesse  il  stato  mio 

In  coélis. 

Hora  provo  T  Inferno,  e  quello  istesso 
Che  '1  sollievo  mi  dio,  via  più  mi  noce  ; 
K^  mi  vale  il  gridare  ad  alta  voce: 

Santificetur, 


E  pur  se  sfogar  vói  Tira  terribile 
Sul  duce  mio,  perché  ti  fu  infedele. 
Purché  salvi  il  mio  popolo  fedele, 

Fiat 


Vìò.  breve  assai,  ma  di  gran  lunga  più  vivace  e  pungente  è  il  Pater 
Noster  Francois  en  1708  (1) ,  contro  il  Boi  Soìeil  : 

Nòtre-Pére  qui  est  à  Versailles, 

Son  nom  n^est  plus  precieuz,  t 

Son  Kojaume  n^est  plus  si  grand, 

Sa  volente  n'est  plus  faite 

Sur  la  Terre,  ny  sur  la  Mer; 

Donne-nous  du  pain  qui  manque 

De  tous  oostez:  pardonne  lee  enemys 

Qui  nous  ont  battus  et  ne  pardonne 

Pas  les  Q«neraux  qui  les  ont  laissés  faire; 

Ne  nous  abandonne  pas  auz  caprices 

De  la  Maintenon,  et  delivre  nous 

De  Chamillard  et  de  Partisans. 

Aincy-80it-il. 

Molto  posteriori  sono  tre  parodie  in  versi  italiani,  di  qualche  im- 
portanza. La  prima,  imitazione  della  Salve  Regina^  allude  al  matrimonio 
di  Ferdinando  di  Borbone,  Duca  di  Parma,  con  Amalia  d'Austria.  I 
sudditi,  a  quanto  accenna  la  poesia,  accolgono  con  gioja  l'arrivo  della 
novella  sovrana,  che  deve  ajutare  i  maneggi  di  coloro  che  osteggiano  il 


(1)  Cod.  Riccard.  Misceli.  2593. 


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144  F.  NO  VATI  [giornale  di  filologia 

governo  del  Du  Tillot.    La  poesia  è  anonima,  ma  abbastanza  felice  nel- 
r  accoppiamento,  spesso  arduo,  dei  due  idiomi  : 

Donna  regal,  donna  pietosa  Salve, 

Tu  degna  figlia  d'Austriaca  Regina; 

Verso  i  sudditi  tuoi  mostrati  Mater, 

E  i  segni  fa  veder  Misericordiae: 

E  fa  che  tornì  a  noi  vitae  dulcedo, 

E  che  in  te  cognoscendo  ogni  spes  nostra ^ 

Ognuno  nel  suo  cor  ripeta:  Salce,  etc. 

L' altre  due  parodie  del  P.  N,  furono  scritte,  In  occasione  della  par- 
tenza del  Granduca  di  Toscana,  V  una  ;  di  quella  della  Granduchessa  V  al- 
tra: senza  dubbio  di  Leopoldo  e  della  moglie  che  ascendevano  per  la 
morte  di  Giuseppe  II  al  trono  imperiale  (1790).  L'addio  al  sovrano  non 
è  scevro  di  asprezza: 

Pater,  tu  parti  e  porti  teco  il  noster, 
Contro  il  decreto  del  qui  es  in  codis  ; 
Tu  fosti  finto  qui  sanctificetur, 
Ma  noi  malediremo  il  nomen  tuum. 
Tu  che  facesti  volentier  Vadveniat, 
Se  il  ciel  ti  punirà,  noi  direm  :  fiat, 
Che  iniqua  sempre  fu  voluntas  tua  etc. 

Affettuoso  invece  è  il  saluto  alla  Granduchessa: 

# 

Tu  la  consorte  sei  del  Pater  tioster 

Per  il  volere  del  qui  es  in  coeUs; 

Com'ei  non  fosti  qui  sanctificetur  i 

Perciò  fu  sempre  amato  il  nomen  tuum, 

Sebben  tu  avessi  in  grande  orror  Vadveniat, 

Nulla  potesti  oprar  pel  regnum  tuum; 

Mentre,  quand'egli  detto  aveva:  fiat, 

Inutil  si  rendea  voiuntas  tua. 

Felici  sol  con  te  sicut  in  cado 

Noi  saressimo  stati  etiam  in  terra. 

Mangiato  avremmo  in  pace  il  panem  nostrum 

Lodando  tua  bontà  nel  quotidianum; 

Noi  diremmo  languenti  allor  :  da  nobis 

Qualche  cosa  da  viver  come  hodie; 

Liberi  dal  gridar  dimitte  nobis, 

Non  ci  tormenterian  débita  nostra. 

Lieta  saresti  tu  siciU  et  nos. 

Ma  tu  parti;  noi  mesti  or  te  dimittimus, 

E  nel  libro  riman  de  debitoribus 

Pien  d'afflizion  segnato  ognun  de  nostris. 

Gran  forza  ci  vorrà  ne  nos  inducas 


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B0MAN2A,  N.o  5]        IL  PATER  NOSTER  BEI  LOMBARDI  145 

Di  venir  a  seguirti  in  tentationem. 
Per  quanto  puoi  olmen  da  lungi  libera, 
0  Pier  Leopoldo,  nos  a  malo.  Amen. 

E  nella  penisola  ed  in  ogni  altra  parte  d' Europa  il  grande  conflitto 
d^arnii  e  di  idee  eccitato  dalla  Rivoluzione  Francese,  avrà  certamente 
dato  la  vita  ad  un  numero  ingente  di  parodie  religioso-politiche,  fra  le 
moltissime  poesie  di  forma  e  d' indole  popolari.  A  noi  per  vero  manca 
e  il  tempo  e  la  possibilità  di  estenderci  in  malagevoli,  e  forse  poco  grate 
ricerche  a  tal  proposito.  Ne  ricorderemo  tuttavia  alcune  che  ci  ven- 
nero sottocchio;  così  da  poter  dire  d'aver  seguito,  sebbene  in  modo 
rapidissimo  e  certo  incompiuto,  il  fantastico  cammino  di  questo  bizzarro 
genere  letterario,  dai  secoli  che  diconsi  più  immersi  nella  caligine  me- 
dievale alla  aperta  luce  del  secolt)  XIX. 

In  un  volume  ms.  miscellaneo  conservato  nell'Ambrosiana  che  con- 
tiene discorsi,  proclami,  poesie  pubblicate  in  occasione  della  venuta  dei 
Francesi  a  Milano  e  dello  stabilimento  della  Repubblica  Francese  (1), 
leggonsi,  fra  altri  componimenti,  un  Credo  reptibhlicano  (2),  per  nulla  no- 
tevole, ed  un  Pater  nostro  patriottico  che  vorrebbe  esser  spiritoso  ed  è 
triviale  (3).  Dello  stesso  tempo  è  pure  un  Dialogo  intessuto  di  frasi 
scritturali  fra  il  pontefice  e  vari  stati  d'Italia  e  d'Europa;  i  Doveri  d'un 
cristiano  da  recitarsi  sera  e  mattina  in  onore  e  gloria  della  Sant."^  e  Beat.'''' 
Libertà  ed  altri  (4).  Ma  più  opportuna  a  chiudere  la  nostra  rassegna  è 
da  giudicarsi  la  Orazione  Domenicale  che  recitano  i  Francesi  nel  partire 
dàUa  bella  Italia.  Al  lamento  degli  oppressi  Lombardi,  che  viene  ora 
alla  luce,  così  si  unisce  la  querela  degli  oppressori  : 

Che  infamia  ò  mai  la  nostra,  massime  quella  del  nostro  capo,  che  col  suo  molto 
operare  si  meritò  il  bel  nome  di  Pater, 

Essendo  ridotti  ad  una  miseria  tale,  che  quel  poco  che  possediamo  lo  possiamo  nem- 
meno dir  Nosterl 


(1)  Voi.  segnato  S.  C.  V.  IL  U,  colP  epi-  Non  aUm  beaU©  d«  some: 
grafe:  si  quid  delirant  auctores  ne  typi  cui-  SI  aantifichl  il  tuo  nomo. 

P^*^^^^'  Venghl  tosto  U  tuo  regno: 

(2)  Pag.  134:  »)  Credo  nella  Repubblica  ^Hi  altH  Ee  non  han  aoatogno. 
Francese,  una  ed  indivisibile,  creatrice  del- 
l'Eguaglianza,  Libertà  sociale;  ^•^^  ^«°^^  ^  "''^''^ 

«)  Credo  nel  general  Bonaparte  suo  fi-  ^^^  «^°  ^^^  P^^^  ^  ^"*^ 

glinolo,  unico  difensor  nostro  etc.  Tanto  in  cielo  quanto  in  terra 

Lo  rammenta  anche  N.  Bianchi,    nella  Vuol  pazienza  in  noi  la  guerra  ctc. 
Storia  della  Mon.  Piem.  T.  Ili,  p.  516. 

(3)  Pag.  133.  Comincia:  (4)  G.  De  Castro,  Milano  e  la  lìcpvh» 
O  buon  Dio  che  eoi  in  cielo.  ^'''^«  Cisalpina.     Milano,  Dnmolnrcl,  1879. 

Padre  nostro  e  del  Vongole  I 

10* 


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146  F.  NO  VATI  [giornale  di  filologia 

La  ragione  giusta  e  vera  delle  nostre  disgrazie  si  è  il  non  aver  volato  riconoscere 
qui  ea  in  codis, 

Il  non  aver  voluto  osservare  i  suoi  precetti,  e  sue  feste  aanctificetur. 

Ahi  Francia  infelice  !  Ciò  di  che  dei  più  crucciarti  si  è  questo  che  in  te  non  debba 
rimanere  che  il  solo  infame  nomen  tuunu 

L'Italia  or  gioirà,  e  godrà  de*  nostri  mali,  e  tutta  allegra  e  contenta,  rivolta  verso 
l'Austria  griderà:  Adventat  regnum  tuum, 

Pochi  nostri  partitanti  ci  restano  ancora,  ma  essendo  anche  questi  resi  vili  e  inti- 
moriti dalla  nostra  sorte  fatale,  con  voce  tremante  diranno:  fiat  voluntas  tua. 

Iddio  pur  troppo  sa  mostrarsi  sempre  in  ogni  evento  lo  stesso  sicut  et  in  coda  et  in 
terra. 

Che  ci  resta  or  dunque?    Nuli' altro  che  andar  cercando  il  Panem  nostrum. 

Ma  terminerà  questa  nostra  cattiva  condizione,  o  sarà  il  nostro  disdoro  quotidianum  ? 

Ove  sono  quei  dì  felici,  che  con  tanta  prepotenza,  coli' alterigia  inaudita  ci  presen- 
tavamo agli  Italiani,  quai  creditori  dì  scadute  cambiali,  dicendo:  da  nobis 
hodie  ? 

Ma  ora  ci  tocca  dire:  dimitte  nóbis. 

Ora  è  giunto  il  momento  in  cui  riconoscere,  ma  troppo  tardi,  ddnta  nostra. 

Con  qual  animo  vorranno  gli  italiani  far  fronte  a  chi  si  impadronisce  dei  loro  stati, 
e  difender  noi,  se  sorgono  dal  male  che  gli  abbiamo  cagionato,  sicìd  et  nos 
dimittimus  ? 

Se  anzi  da  moltissimi  Italiani  si  ritiene  che  l'Austria  abbia  da  soddisfare  dd)itori- 
bus  nostris? 

Che  valsero  tutti  i  tentativi  da  noi  usati  per  fare  che  il  popolo  Italiano  ci  ajutaMO? 
Che  giovarono  le  nostre  finzioni  nelle  gazzette,  ne'  fogli  e  ne'  bollettini  per  te- 
ner celata  la  nostra  rovina  ?  Esso  pur  troppo  saprà  le  disfatte  continue  per  la 
nostra  parte  :  per  cui  franco  risponderà  :  et  ne  nos  inducas  in  tenlationem. 

Se  Napoleone  fosse  ancor  grande  come  era,  gli  potressimo  almeno  dire  :  libera  nos  « 
malo. 

Ma  ahi!  che  siam  forzati  a  replicare:  Amen, 


IV 

Il  Pater  Noster,  che  cantava  la  plebe  Lombarda  nel  XVI  secolo,  per 
quanto  si  può  rilevare  dalle  poche  notizie  che  abbiamo  cercato  di  rac- 
cogliere nelle  pagine  antecedenti,  appartiene  adunque  ad  una  categoria 
speciale  nel  genere  delle  Parodie  :  non  spetta  né  alle  imitazioni  serie  del- 
l'Orazione  Domenicale,  né  alle  satiriche  o  semplicemente  giocose.  In 
esso  si  trovano,  come  in  molte  altre  parodie  religiose  politiche  suac- 
cennate, misti  i  due  elementi:  T intenzione  ne  è  seria,  l'espressione 
non  sempre.  Ecco  perché  la  nostra  poesia  è  detta  nella  stampa  ve- 
neta cosa  ridicidosa  e  hcllissima:  eppure  si  tratta  del  Lamento  dei  vtl- 
ìaniy  di  quegli  infelici  che  vedevano  la  messe  dispersa,  gli  armenti 
rubati,  il  casolare  preda  alle  fiamme:  non  gioconda  scena.  Ma  in  essa 
il  pianto  dà  talvolta  adito  al  sorriso:  e  accanto  alla  imprecazione  di- 
sperata contro  l'oppressione  straniera,  v' è  l'ironica  beffa:  in  mezzo  a 


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BOMANZA,  N.«  5]        IL  PATER  NOSTEE  DEI  LOMBABDI  U7 

tante  sventure,  fenomeno  bizzarro,  pur  di  ridere  il  popolo  rideva  di  sé 
medesimo,  delle  proprie  calamità,  della  propria  vergogna:  ed  era  intanto 
pervenuto  a  tal  bassezza  da  giustificare  quasi  T  acerbe  parole  dell' Alione: 

Per  Galli  e  noi  raduti  a  tanto 
Che  se  passemo  la  montagna, 
Podenio  dir  fin  in  Alamagiia 
Con  reverenzia,  siam  Lombardi  (1). 

Quale  è  tuttavia,  nella  rozzezza  della  sua  forma  e  nella  trivialità 
de' concetti,  non  dubitiamo  di  affermare  che  questo  P.  N.  si  unisce  bel- 
lamente a  completare  la  serie  già  copiosa  dei  canti  popolari  d'argo- 
mento politico,  che  possediamo  di  quel  tempo.  Esso  porta  una  nuova  nota 
in  quel  contrasto  veementissimo  di  opinioni  e  d'affetti,  sorto  nell'Ita- 
lia, bruscamente  strappata  ad  una  lunga,  ahi  troppo  lunga!  pace.  In 
mezzo  alle  tante  disastrose  avventure  di  quelle  diuturne  guerre  che  scop- 
piano per  il  Reame  di  Napoli,  per  il  Ducato  di  Milano,  i  poeti  popolari 
profondono  i  loro  versi,  per  ogni  avvenimento  importante,  ogni  vittoria, 
ogni  sconfitta:  ed  i  canti  o  in  metro  lirico,  o  in  terzine  e  in  ottave,  i 
Lamenti^  le  Barzellette,  le  canzoni,  nate  fra  il  popolo  e  per  il  popolo, 
corrono  l'Italia  narrando  indifferentemente  d'Alessandro  VI,  del  Valen- 
tino, del  Moro,  di  Luigi  XII;  la  prigionia  di  Massimiliano  e  quella  di 
Francesco  I,  eccitando  la  compassione  sui  caduti,  o  sovra  di  essi  provo- 
cando le  risa  e  gli  scherni  del  volgo  (2).  Ma  fra  tutti  questi  canti,  mentre 
alcuni  si  preoccupano  soltanto  delle  battaglie,  delle  vicende  de'  Principi, 
che  vertiginosamente  passavano  dalla  reggia  alla  prigione,  altri  invece 
deplorano  i  mali  della  patria  e  piangono  sovra  le  città  saccheggiate  e 
distrutte  :  i  campi  abbandonati  ed  incolti.  A  questi  oscuri  ignorati  ri- 
matori, improvvisatori,  cantori  in  banca  si  aggiungono  nelle  querele  i 
più  eccelsi,  i  più  classici  fra  i  poeti  del  secol  d'oro;  all'Altissimo,  allo 
Strascino  da  Siena,  all'anonimo  scrittore  del  P.  N.,  van  compagni  il  Fra- 
castoro,  il  Bojardo,  l'Ariosto,  il  Vida.  E  tutti  insieme  o  nel  monotono 
ritmo  popolare  e  nel  breve  ottonario,  o  nella  ottava  splendida  e  nell'en- 
decasillabo latino  maestoso  alzano  un  grido  d' angoscia  e  d'affanno  di- 
sperato, una  chiamata  alle  armi,  cui  non  risponde  che  il  gemito  d'un 
popolo  infiacchito  che  non  può  sollevarsi,  lo  sprezzo  dello  straniero  che 
lo  sa  e  ne  approfitta. 

F.   NOVATI. 


(ì)  Commedia  e  farseec.(Farsit.de\FrQ.n-     del  sec.  XVI,  v.  D'Ancona,  La  poes.  pop. 
zoso  alogiato  ec.)  p.  352.  Milano,  Duelli,  1865.      ital.  §  IV,  pag.  41-79. 
(2)  Su  queste   Canzoni  popolari  politiche 


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148  JP.  NO  VATI  [giornale  di  filologia 

FATERNOSTEB 
CONTRO  I  FRANCESI 


Pater  noster, 
Audi  il  sapplitio  de  niiy  poveri  Lumbardi 
Chi  da  Guasconi  Francesi  et  Pichardi 
Crudelmente  sciamo  stradati: 
5    De(b)  non  guardare  a  nostri  gran  pacati, 

Qui  €8  in  codia. 
Quando  lor  veneno  in  le  terre  nostre 
Tanto  pietosi  et  honesti  se  fano, 
9    Che  pareno  con  soi  ofiìcioli  in  mano 

Santificetur» 
Poy  che  in  casa  sono  arrivati 
Pareno  orsi  et  leoni  dsscadenatì: 
13    Biastemano  corno  Cani  renegati 

Nomen  tuum, 
Poy  subito  comentiano  a  ondare  : 
-  Baliate  le  claves  del  granare, 
17    Et  quella  de  casa  et  del  solare 

Adveniat  -. 
Fano  poy  de  nostri  ben  tal  masaria 
Questa  crudel  et  perfida  genia, 
21    Che  in  un  giorno  se  consumaria 

Regnum  timm. 
Se  alcuna  cosa  voleno  domandare 
Et  nuy  sei  baston  nò  volemo  provare 
25    Dir  ci  bisogna,  corno  el  marinare, 

Fiat 
E  se  la  rason  alcuno  domanda 
Perchè  el  gran  Roy  è  passato  in  qste  bande, 
29    El  ci  risponde  certo  che  le  stato 

Vóluntas  tua. 
Poi  te  dirano  che  se  trova  scritto 
Che  luy  sera  imp*atore  del  tuto, 
33    E  questo  afirmano  esser  stabilito 

Sicui  in  coda, 
Sumergeli  qui,  dio  de  passione, 
Si  commo  submergisti  Pharaone, 
37    Et  dalli  in  celo  la  malìditione 

Et  in  terra, 
E  non  li  basta  ancor  far  tanti  mali, 
Che  ne  tractano  corno  animali, 
41     Et  dano  (o  dio)  insino  a  li  cavalli 

Panem  nostrum. 


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BOMANZA,  N.o  5]        IL  PATEM  NOSTER  DEI  LOMBAUVI  149 

E  molti  affani  se  passeno  in  un  momento, 
£  ogni  mal  se  purga  in  qualche  tempo; 
45    Ma  pure  il  dolore  nostro  è  in  un  tormento 

Quotidianum. 
Se  habiamo  caponi  over  galine 
Et  se  voliamo  e'var  per  la  matina, 
41>    Comenziano  a  cridare  in  gran  ruina 

Da  nohis  Jwdie. 
.  Quando  ne  la  Camera  sono  arrivati 
Et  hano  li  boni  vini  retrovati, 
53    Gridano  corno  cani  renegati 

Et  dimitte  nohis. 
Pur  se  volesseno  usar  discretione, 
Si  comò  fano  le  bone  persone, 
57    Doveriano  pagare  cum  rasone 

Débita  nostra. 
Se  habiamo  moglia  over  donzelle 
Le  volano  per  lor  et  le  più  belle, 
61    Et  in  nel  lecto  ancor  dormir  cu  elle 

Sicut  et  nos. 
E  noi  per  non  recevere  le  derate 
De  calzi  e  pugni  e  male  bastonate, 
05    E  anchor  per  schivar  le  cortcllate, 

Dimittimua. 
Pensa  se  questi  sono  gran  dolori! 
Se  fano  si  stessi  procuratori, 
09    Bescodeno  li  dinari  corno  aignori 

Debitoribus  nostris. 
Signor  Idio,  cum  devotione 
Noi  te  pregamo  per  la  tua  passione, 
73    Che  ci  deftendi  da  questa  maleditione 

Et  ne  nos  inducas  in  teniationem. 
Ma  tu  signor  che  sei  justo  e  clemente. 
Da  queste  bestie  e  crudel  gente 
77    Che  ci  consumeno,  presto  ci  deffende: 

Et  libera  nos  ab  eis.  Amen. 

Bibl.  Marc.  Cod.  Misceli,  22 13,  n»  4.  Il  titolo  è  nella  stampa  cosi  espresso:  Lo 
Alphabeto  |  delli  Villani  |  Con  il  pater  noster  e  il  lamen  |  to  che  loro  fanno,  cosa  |  ridiculosa 
A  bellissima.  —  Anche  neW  edizione  Veneta  la  prima  strofa  è  di  quattro  versi.  Verso 
2  de  noi  poveri  villani  —  3  Che  da  Francesi  Spagnuoli  e  Alemani  —  4  Siam  crudelmente 
straziati  —  5  a  li  ni  peccati  —  7  vengono  in  le  case  nostri  —  9  con  suoi  offici  e  pater  no- 
stri— 11  in  casa  nostra  sono  intrati  —  12  Paieiio  leoni  e  orsi  scatenati  —  13  Biastemando 
come  fanno  i  renegati  — 16  Baja  sa  le  chiave  — 17  della  casa  del  cellaro  {francese  collier)  — 
18  Alveniant — 19  E  fan  —  20  gente— 21  in  tre  giorni  gli  —  2JHianno  a  comandare.  —  24  Se 
dal  baston  non  vogliamo  —  25  Dir  ne  bisogna  come  fa  —  27  Se  la  cagion  la  fusse  addi- 
mandata —  28  Perche  cagion  gli  monti  abbina  j>assare  —  29  Risponden  loro  e  dicono  esser 
stata  —  31  E  poi  dic**no  —  32  Che  pt^r  lor  rim;)erator  psst»r  diritto  (?)  —  35  Sommergili 
Signor — 39  Falli  —  40  Che  lor  ne  uccidon  tutti  gli  animali  —  41  Ma  danno  ancor  alli 
lor  —  43  Molli  affanni  passauno  ad  —  44  st*  sana  a  —  45  Ma  Io  male  ns»  è  un  —  47  Se  noi  — 


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150  F,  NO  VATI  [giobjjale  di  filologia 

48  E  volessimo  salvar  —  49  con  —  51  E  quando  in  lo  cellaro  sono  intrati  —  52  già  trovati  — 
53  arrabbiati  —  54  dimitte  —  55  chi  volesse  —  56  Come  fan  gli  gentili  e  buon  —  57  Che 
pagar  ce  volesser.  —  59  E  se  abbiam  mogliere  —  60  per  loro  le  —  61  Ne  li  letti  voleno 
dormir  con  quelle  —  63  Per  non  recipere  de  li  derate  —  64  Che  ci  minaccian  di  bon  col- 
tellate—  65  bastonate  —  67  crudel  —  68  Che  lor  si  fan  ni  procuraldori  —  69  E  voglion  ri- 
scotere  da  gran  —  71  tutti  in  genocchione  —  72  con  devotione  —  73  Che  da  noi  discacci  — 
75  Liberaci  Signor  — 76  Da  questa  fallita  e  disperata  gente  —  77  Che  ne  consuma  e  guar- 
daci al  presente  —  78  soltanto  :  Amen,  Amen  :  In  Venezia  per  Mathio  Pagan  in  |  Frezaria 
al  segno  del  |  la  Fede. 

PATEBNOSTER 

CONTRO  GLI  SPAGNUOLI 


Pietà,  signor,  ch'ogni  speranza  è  morta: 
Porgi  rimedio  a' poveri  cristiani, 
Che  non  sien  strapazzati  da'  marrani, 
4  Pater  noster. 

Questi  son  quei  che  in  su  la  dura  croce 
Sino  alla  morte  ti  fér  sempre  guerra; 
E  peggio  ti  farien  se  fussi  in  terra, 
8  Qui  €8  in  coeìis. 

Quando  son  questi  entrati  in  casa  nostra, 
Vanno  guardando  intorno  umanamente 
Co' colli  torti,  e  paion  veramente 

12  Sancii ficelur. 

Da  una  sera  in  su  si  fan  padroni; 
E  non  si  può  lor  praticare  intorno, 
Perchè  rinnegan  mille  volte  il  giorno 

16  Nomen  tuum. 

La  prima  cosa  che  fa  lo  Spagnuolo, 
Per  ogni  luogo  della  casa  bada; 
E  dove  veda  cosa  che  gli  abrada, 

20  Adveniat. 

Di  poi  dice  al  patron  -  Traiga  aqui  todos  - 
Col  petto  gonfio  e  con  il  viso  altero. 
Che  non  gli  basterebbe  un  giorno  intero 

24  Begnum  Tuum. 

-  Vengas  los  poUos  %j  ìas  gaUinas  : 
Si  non,  quiero  ammattar  con  U  cuciglio  - 
Tal  che  si  convien  dir  con  basso  ciglio, 

2X  Fiat. 

Forse  Milan  per  qualche  gran  periglio 
È  sottoposto  a  questa  gente  ria: 
Bcuchè  si  creda,  o  giunto  Dio,  che  sia 

•'-  Vvlttììtiiii  tua. 


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ROMANZA,  K.-  5]        IL  PATER  NOSTEB  DEI  LOMBARDI  151 

Caccia,  signor,  d'Italia  questi  cani, 

Nostri  nemici  e  tua,  perfidi,  infidi; 

Acciò  che  non  ne  resti  a'  nostri  lidi 
36  Sicìit  in  coelo. 

Signor,  ti  prego  per  la  tua  clemenza. 

Che  questi  che  non  credon  nel  vangelo, 

Sian  maledetti  da  te  sempre  in  cielo 
40  Et  in  terra. 

Non  gli  basta  straziar  e  tòr  la  robba: 
Per  doppio  scorno  di  tutti  e  vassalli 
Danno  in  cambio  di  biada  a'ior  cavalli 
44  Panem  nostrumé 

Signor,  metti  or  mai  fine  a' nostri  mali: 

Chò  ciaschedun  di  noi  si  trova  afflitto. 

Mentre  voglion  per  loro  il  nostro  vitto 
48  Quotidianum. 

S'abbiam  nulla  di  buono  da  mangiare 

Che  salvar  lo  vogliamo  all'altro  giorno, 

Dicon  -  Rinego  Dios  -  sempre  d'intorno, 
52  -  Da  nohis  hodie  -. 

E  questo  lor  non  basta  :  e'  vogliono  anco 

Ch'andiamo  lor  davanti  peccatori, 

E  che  dichiamo:  Per  gli  nostri  errori 
^0  Dimitte  nóbis. 

Dopo  avergli  serviti  e  dato  loro 

11  nostro  aver,  trattano  ognun  da  matto. 

Dicendoci  che  non  li  abbiamo  fatto 
60  Debita  nostra. 

Appress'a  questo  ogni  altro  male  è  poco, 
Che  si  voglion  cavar  tutte  lor  voglie, 
Mettendosi  a  dormir  con  nostre  moglie 
64  Sictit  et  nos. 

Poi  minaccian  dicendo  -  0  vos  ombre, 
Juro  a  Dios  te  dare  una  scarcigliata  - 
E  noi,  per  non  toccar  cotal  picchiata, 
68  Dimittimtts. 

Non  basta  tòrci  la  roba  e  l'onore: 

Vedi  se  son  ribaldi,  iniqui,  avari: 

Voglion  anco  riscuotere  i  danari 
72  Debitoribus  nostris. 

De,  benigno  signor,  fa  ch'oggi  mai, 

Quantunque  grandi  sien  nostri  peccati, 

A  discrezion  di  questi  scellerati 
76  Et  ne  nos  inducas. 

Questi  son  perigliosi  ancor  parlando; 

Che  gli  santi  farian  scandalizzare, 

E  forse  gli  farebbon  anco  entrare 
80  In  tcntationem. 


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152  F,  NO  VATI  [oiohnàle  di  filologia 

Piglia  pur  quanto  vuoi  d'oltramontani, 
Che  di  tutti  peggior  son  gli  Spagnuoli. 
Però  con  nostri  ben,  moglie  e  figliuoli, 
84  Lihei-a  nos. 

Cessa  Tira,  signor,  di  tua  giustizia: 
Che  i  gran  peccati  che  commesso  abbiamo 
Sono  la  causa  che  condotti  siamo 
88  A  malo. 

Metti,  signor,  l'Italia  in  unione, 
Acciò  da  questi  can  siam  liberati: 
E  pigli  Parme  ciaschedun  barone, 
Acciò  che  a  pezzi  sian  tutti  tagliati. 
93  Amen. 


V,  5  Che  strapazzati  non  sien  :  B.  —  b  che  su  :  A.  — 13  che  paion  :  B  — 18-19  In  ogni 
luogo  di  tua  casa  vadi,  Addove  trova  cosa  che  gli  aggradi:  A,  —  21  traino  qui:  A.  Do- 
vrebbe leggersi  todo  ove  nel  testo  è  todos.  E  vale  :  Porti  qui  tutto.  Le  parole  spagno- 
lesche del  testo  valgono:  Porti  qui  tutto,  È  imitile  del  resto  avvertire  che,  dove  si 
contraffa  in  questi  versi  il  parlare  degli  Spagnoli ,  le  dizioni  non  S07i  tutte  spagnole 
né  regolari.  —  25  Traga  aqui  :  B.  Ma  non  va  bene  né  Vuno  né  V  altro.  Quel  testo  po- 
trebbe racconciarsi:  Vengan  aqui  los  pollos  y  gallinas.  —  26  chreo  amcon  Io  scorciglio : 

A.  Quel  testo  dovrebbe  ridursi  così:  Si  non,  quer  matar  el  cuchillo  {seno,  voglio  am- 
mazzar COI}  il  coltello).  Valgono:  voglio  ammazzar  con  il  coltello.  —  27  Si  che:  A. 
torto  ciglio  :  B.  —  29  Invece  di  periglio  probabilmente  doveva  leggersi  peccato.  —  30  a  questa 
cotal  gente:  B.  —  31  Ben  che  ognun  creda,  o  giusto  Dio  potente:  B.  —  35  non  ne  siano  a': 

B.  —  48  basta  saziarsi:  B.  —  42  Per  troppo:  B,  —  48  Cotidiano:  ^.  —  49  Se  nulla  abbiamo 
di  buon  da:  5.  —  50  per  l'altro:  B.  —  53  basta:  voglion:  5. —  54  andiam  da  lor:  2?. — 
55  E  gli  dichiara:  B.  —  57-60  Mancano  in  A.  —61  Appresso  questo:  A.—  62  Toglion 
cavar:  A.  —  63  Voglion  anco  dormir:  A.  —  65  Putto  pebro:  B.  Dove  non  so  che  voglia 
dire  pebro,  se  pure  è  scritto  cosi  nel  cod.  —  66  covillada:  B.  Nel  testo  dovrebbe  dire 
cuchillada.  E  vale:  0  voi  uomo,  giuro  a  Dio  ti  darò  una  coltellata.  —  67  cotal  pric- 
ciada:  B.  — 77  anco:  A.  —  78  farian  :  B.  —  79  forse  li  farieno:  A.  —  81.  Piglia  quel  che 
tu:  ^.  —  81  i  peggior:  ^.  —  83  Però  i  nostri:  ^.  —  85  Cessi,  signor,  l'ira  di:  fi.  — 87  Son 
la  cagion  che  condotti  noi  siamo  :  A.  —  90  Acciò  siamo  da  questi  liberati  :  B.  —  92  Acciò 
che  in  mille  pezzi  sien  tagUati:  A. 


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BoMAszA,  s.»  5]  B.  PUTELLI  1".:{ 


UN  NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  RENARD 


Chiedo  ospitalità  al  Giornale  di  filologia  romanza  per  un  nuovo 
testo  veneto  del  jReìiard,  che  a  me  fu  dato  rinvenire.  Il  testo  che  io 
pubblico,  contiene  le  stesse  avventure  che  trovansi  in  quello  edito,  anni 
sono,  dal  Teza;  T identità  però,  consiste  solo  nel*  contenuto,  che  la  re- 
dazione è  affatto  diversa,  specialmente  nella  seconda  parte.  Nella  quale, 
l'accenno  che  si  fa  (vv.  575-587)  ad  un'  altra  avventura,  di  cui  non  v'ha 
parola  nel  testo  del  Teza,  ci  può  far  credere  che  anche  quella  fosse  co- 
nosciuta in  Italia;  il  che  importerebbe  stabilire,  per  cancellare  mag- 
giormente l'opinione,  un  tempo  accettata,  che  le  ragioni  storiche  e  le 
condizioni  psicologiche  negarono  agli  Italiani  ogni  partecipazione  alla 
gran  satira  che  si  esplica  nel  Renard.  Né  parmi  di  essere  fuori  del  vero, 
se  penso  che  il  nostro  testo  abbia  per  ciò  una  speciale  importanza,  ma- 
nifestandosi di  forma  e  di  contenuto  popolare,  con  quel  suo  prologo 
(vv.  1-42)  a  sentenze  morali,  e  colla  moralità  che  in  fine  (vv.  695-703) 
si  deduce  da  ciò  che  è  stato  narrato.  La  mancanza  di  tutti  i  mezzi 
necessari  mi  tolse  di  raffrontare  i  due  testi  veneti  con  quello,  o  con 
quelli  da  cui  possono  derivare,  e  stabilire  cosi  la  relazione  che  passa 
tra  loro.  Desidero  che  altri  si  accinga  a  questa  ricerca,  e  spero  che  ai 
dotti  riescirà  accetto  anche  il  solo  testo,  quale  io  sono  costretto  a  dare. 

Ho  tratto  il  testo  del  Renard  da  un  codice  miscellaneo,  apparte- 
nente alla  Biblioteca  Arcivescovile  di  Udine,  che  per  errore  figura  nel 
catalogo  dei  codici  latini,  de' quali  segna  il  numero  XIII  degli  in  4**; 
è  membranaceo,  di  carte  complessive  64;  alto  cm.  19,  largo  cm.  14.  È 
rilegato,  e  sulla  costola  porta  la  scritta:  e  Mss.  Asceti[ci]  sec.  XIV  ». 
Nella  faccia  interna  della  legatura  leggesi,  dopo  l'indicazione  4**  XIII, 
questa  nota:  e  Codicem  hunc  |  Bibliothecae  Archiep."  Utiuen.  |  dono  de- 
dit  I  Petrus  Braida  sacerdos  |  et  ejusdem  Bibliothecae  praefectus  |  Kal. 
Decemb.  1783  ».  Insieme  al  codice  è  legata  una  nota,  probabilmente  del 
bibliotecario  Ongaro,  nella  quale  si  dà  una  diffusa  descrizione  del  codice, 
e  si  dice,  cadendo  in  vari  errori,  della  natura  di  ognuna  delle  sette  scrit- 
ture contenute.  L' autore  di  questa  nota  afferma  che  il  codice  «  vuoisi 
supporre  scritto,  se  non  prima,  al  cadere  del  sec.  XIV  »,  ed  infatti  i 
criteri  paleografici  lo  assegnano  alla  seconda  metà  di  questo  secolo. 

Nel  recto  della  prima  carta,  che  un  tempo  faceva  da  foglio  di  cu- 
stodia, si  vedono  i  segni  di  parole  ora  quasi  scomparsi,  e  leggibili 
forse  solo  con  grande  fatica.    Contiene  quindi  il  codice: 

11 


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154  B.  PUTELLI  [giornale  di  filologia 

a)  Una  Somma  sul  modo  da  tenersi  nella  confessione  (e.  1  b  —  8  b). 
Comincia  : 

Incipit  quedam  sumela  sub  brevitate  vulgariter  conpìllata  qualiter  maree  et 
mulieros  debent  sui  [a]  confessionibua  per  ordinem  sua  confiteri  peccata.  In  poi  quello 
che  multi  homini  e  femine  pò  falire  alguna  fiata  e  veramente  falla  per  ìnyiatiga- 
cione  de  lo  diavolo 

Finisce  : 

a90  che  uni  (?)  ne  possa  seguire  utili tade  he  le  altre  persone  ne  possa  piare  bono 
exemplo.  am.  am.  am.  Deo  sit  laus  et  honor.  Explicit  liber  confesaionum  deo 
gratias. 

h)  Il  noto  poemetto  sulla  Passione  (e.  9  a  — 15  b).    Comincia: 

Aldite  bona  gente  questa  mia  raxone 
Col  cor  e  cun  la  mente  e  cun  la  entencione 
La  qual  non  e  parabole  ne  fable  ne  can9on 
Àn9e  de  jesu  cristo  la  vera  passione. 

Finisce:  • 

Li  sant  e  le  sante  mai^tir  e  confessor 

K  elli  per  pietai  fa^a  preg  al  segnor 

Ke  perdon  a  queluj  ke  de  quest  fo  auctor 

£  deali  vita  eterna  en  pres  de  quest  lavor.  Amen. 

11  poemetto  è  intercalato  da  rozzi  disegni  a  penna  coloriti,  che 
rappresentano  i  fatti  della  passione. 

e)  Una  preghiera  latina  alla  Vergine  (e.  16  a);  il  verso  della  stessa 
carta  è  occupato  da  un  disegno  che  raffigura,  nella  parte  superiore  G.  C, 
seduto  tra  due  angeli^  nella  inferiore  molti  santi. 

d)  I  salmi  graduali  (e.  17  a  —  22  b). 

e)  Una  raccomandazione  dell'anima  in  latino,  seguita  da  preci  la- 
tine; senza  alcuna  distinzione  da  ciò  che  precede,  teugon  dietro  due 
preghiere  latine  alla  Vergine  e  a  S.  Giovanni  Evangelista;  a  queste  si 
accompagnano  le  litanie  alla  Vergine  diverse  dalle  Laure  tane,  e  molte 
preci  latine  (e.  23  a— 38  b)  ;  a  e.  33  b,  nelle  ultime  linee,  tra  una  prece 
e  l'altra,  v'ha  questa  curiosa  ricetta: 

Per  la  discorencia.  Tuo  del  ór^o  e  fallo  inbrustularlo  quando  questo  e  fato 
tuo  e  failo  bulir  chom  el  planiagn  quant  el  bavera  ben  bolito  va  chiòlo  de  la  aqua 
mediesema  chel  a  buli  entro  e  tuo  el  rosso  d  un  ovo  e  batilo  ben  e  tu  del  grasso 
della  tella  d  un  becho  e  messeda  tuto  quanto  e  haveray  fato  un  bon  cvistiero. 

Le  parole  in  corsivo  souo  friulane,  e  ci  fauno  pensare  che  il  codice  sia 
stato  scritto  in  Friuli,  tanto  più  che  in  uua  delle  preci  latine  precedenti 
si  invoca  S.  Gallo,  patrono  della  Chiesa  di  Moggio;  ciò  che  fece  pen- 


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BOMAKZA,  N.«  5]      NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  BENABD  155 

sare  all'autore  della  nota  unita  al  codice,  che  questo  provenga  dall'ab- 
bazia di  quel  paese. 

/)  Il  poemetto  di  fra  Giacomino  da  Verona,  e  la  Gerusalemme  ce- 
leste e  la  Babilonia  infernale  »  (e.  39  a,  49  b),  già  edito  dall'Ozanam 
{Documents  iìiedits)  e  dal  Mussafia  {Monumenti  di  atUichi  dialetti  italiam)^ 
del  quale  ci  riserviamo  di  far  conoscere  la  lezione  secondo  questo  nuovo 
codice  in  uno  dei  prossimi  fascicoli  del  Giornale.    Comincia: 

D  una  cita  sanota  ki  ne  voi  oyr 
Cum  eli  e  fata  dentro  un  poco  gè  n  o  dir 
E  90  ke  gen  diro  se  ben  le  voi  retenir 
Gran  prò  gè  farà  senya  uegun  mentir. 

Finisce  : 

L  0  conpilla  de  teste  de  glosse  e  de  sermone 
Ase  ave  enteso  de  le  bone  raion 

emo  tuti  ke  quel  ke  fé  1  sermone 

Ke  Xristo  e  la  soa  mare  ie  fa9a  guedon. 

A  e.  50  a,  un  disegno  illustra  i  versi  di  fra  Giacomino;  nella  parte 
superiore  si  vede  G.  C.  seduto,  alla  sinistra  la  Vergine  e  una  piccola 
figura  di  santo,  alla  destra  un  altro  santo;  nella  parte  inferiore  Luci- 
fero siede  sul  suo  trono,  mentre  altri  diavoli  s'  affaccendano  a  cacciare 
con  forche  i  dannati  in  una  caldaja. 

g)  Il  Betiard  (e.  50  b  —  64  b)  il  cui  testo  riproduciamo  nelle  pagine 
che  seguono,  adorno  anch'esso  di  parecchi  disegni  ispirati  dai  fatti 
narrati.  * 

Raffaello  Putelli. 


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i5a 


R,  FU  TEL  LI 


[giornale  di  fu.oi.ogia 


1  oEgnori  e  done  che  se  qui ,     [50  b] 

Plasve  intender  et  aldir 

Un  sermon  de  grant  sola^, 

A  chi  intender  si  li  plas. 
5  El  e  sermon  de  grande  festa 

A  chi  intendre  se  deleta, 

E  scìeuoia  sen  pò  trar, 

Chi  in  bona  part  la  voi  retrar, 

Che  beìn  dise  la  scritara: 
10  Tate  cosse  voi  mesora. 

Chi  altri  briga  de  inganar, 

L  ingano  in  lui  sol  retronar, 

E  chi  per  altri  fa  la  fossa, 

Entro  el  ca9e  con  soa  volta: 
ift  E  1  omo  ohe  pensa  vadagnar, 

Con  mal[i]oia  aveir  trovar, 

El  gè  perde  quel  et  altro 

Et  e  fora  del  so  salto. 

Nui  om  no  diga  mal  d  altmi, 
to  Che  altri  diga  beiu  de  Ini. 

Chi  voi  dir  ma  del  so  visin, 

Inprima  inpense  par  de  si 

E  soa  rason  si  de  cercar, 

E  postra  (1)  diga  de  altri  mal. 
S5  Chi  de  altri  dise  vilanìa 

Ella  retorn^in  soa  camissa. 

Or,  per9e  che  lo  mondo  se  de  mal  afar 

Et  ogn  omo  briga  de  far  mal, 

Imper90  xristo  veras  signor       [51  a] 
so  Si  ne  a  dado  cotal  rason, 

Che  tuta  9ente  al  mont  vivent 

E  tute  bestie  curent. 

Viva  soto  segnoria 

Che  li  demene  per  dreta  via, 
85  Che  tuti  aibia  soa  rason 

A  soa  dreta  domandason. 

E  si  plasete  a  ieshu  xristo, 

Che  del  mondo  fo  magistro. 

Che  lo  lion  fosse  podestà 
40  E  signor  e  re  clama 

De  tute  bestie  che  al  mondo  son, 

Per  far  a  lor  soa  rason* 

Ur  sta  lo  lion  su  in  una  grant  montagna 
Con  molte  bestie  in  soa  compngna, 

(1)  Cosi  il  nis.  per  poscia. 


46  Et  avea  soi  conscieri 

Quant  li  fasea  mesteri, 

E  comandadorì  e  scrivan 

Si  aveva  d  ogna  man. 

Elo  tegniva  pledo  e  rason 
60  Si  com  re  e  grant  signor; 

Tute  le  bestie  fese  adunan9a 

E  si  fese  grant  lementan9a 

Sovra  reinaldo  corannament 

Deli  soi  grandi  offendiment. 
55  Li  9a[n]tacler  orden  segra 

Si  se  comen9a  a  lementar. 

Or  dise  quelli  :  miser  lion,         [51  b] 

Yui  se  re  e  bon  signor, 

Nui  ve  pregemo  fortement 
60  Entendi  nostro  lementame[n]t. 

Et  a  dreta  demandason 

N  avreine  in  nostra  rason. 

Dananti  vui  fasemo  reclamo 

De  rainaldo  to  vasallo, 
65  Che  sempre  ne  va  mal  metant 

Lo  orden  segre  e  la  nostra  9ant. 

Nui  cantemo  li  officii  e  li  maitin 

Et  el  no  cessa  de  nui  alcir; 

Ancora  non  e  tropo  tenpo 
70  Che  de  nui  a  morti  bein  cinque  cento, 

Cen9a  queli  eh  eli  a  inavra 

E  poco  vivi  li  a  laga; 

E  questa  se  cosa  manifesta 

Ch  io  d  ai  perclada  la  ala  dreta. 
li  Or,  mesier,  per  nostro  honor 

De  questo  vui  ne  fai  rason. 

Si  deo  m  ai,  dis  lo  lion,  [52  a] 

Questa  se  grande  offension 

Ad  alcir  1  orden  segre. 
80  Eo  son  tegnu  de  9ustisier. 

Or  andei,  busnard  lo  criador, 

E  i  mei  cridai  in  bant  mortor, 

E  vui,  simia,  scrivan  facent, 

Scriveme  1  ordenament, 
85  Si  che  per  scrito  sempre  se  trova 

E  bein  ne  sia  in  memoria, 

Che  in  bant  mortor  sia  crida 

Quel  malvasie  omicidial. 

E  la  simia  si  se  aprestava 


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BOMAHZA,  N.o  5]      NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  BENABD 


157 


90  A  far  90  che  lo  lion  comandava. 

Or  e  vegnu  9ilbert  lo  tason 

Che  de  rainaldo  se  compagnon. 

Si  venne  dananti  lo  lion 

£  si  disse  saviamentre 
95  Dananti  lo  lion  so  parlament: 

0  nobel  lion,  per  deo  mar9e, 

Vui  deve  intender  me. 

Molte  false  lementason 

Se  fa  davanti  voi,  baron, 
100  Incontra  rainaldo  loro  vasaio 

Che  sovra  tuti  li  altri  vai.  ' 

Ma  se  rainaldo  fose  qni, 

Chel  soa  rason  podese  dir, 

Bein  vederis,  nobel  lion. 
106  Ora  non  e  qui  rainald,  [52  b] 

Ch  el  e  anda  in  altra  part, 

A  feste  o  a  predicacion, 

Per  inparar  cant  e  ferm. 

Eo  ven  prego,  gentil  signor, 
no  No  mei  mete  in  bant  mortor, 

Che  eo  voio  eser  so  9nrador 

E  dananti  vui  manie vador. 

De  qui  a  trei  9orni  vel  faro  vegnir 

A  rason  far  e  pleido  aldir. 
lift  In  bon  ora,  dis  lo  lion, 

Da  poi  ch  eo  trovo  9urador 

E  per  lui  manlevador, 

Non  e  dreto  ni  rason 

De  cridarlo  in  bant  mortor. 
Ito  Or  andai,  9ilbert  le  tason, 

Per  rainald  vostro  compagnon  ; 

De  qui  a  trei  9orni  mei  fai  vegnir 

A  rason  far  e  pleido  audir. 

Dis  9ilbert  che  bein  lo  farà, 
lift  Partise  de  la  oort  e  si  sen  va 

Dreto  al  castello  de  rainald, 

Sen  va  cilbert  9en9a  revart 

Rainald  era  in  una  montagna,    [53  a] 

De  le  altre  bestie  no  se  da  lagna. 
180  Bein  XV  porte  elo  a  d  andar 

E  bein  quaranta  onde  el  pò  scanpar  : 

El  e  bein  perta9a  la  noit 

Del  man9ar  a  grant  deport. 

Sette  galline,  cinque  caponi 
isft  E  doi  9antacler  grosi  e  boni, 

Ch  el  aveva  porta  de  la  noit 

Per  aver  so  grant  se9orn. 

E  9ilbert  fo  a  le  porte 


E  si  clama  rainaldo  molt  e  forte. 
140  E  rainaldo  respose  in  alt: 

Chi  e  tu  che  ses  vegnu  in  questa  part? 

Eo  son  9Ìlbert  le  tason. 

E  que  voi  tu  far,  bel  compagnon? 

Eo  te  voi  parlar  e  dir, 
146  Dis,  rainaldo,  che  avem  nui  a  partir. 

Eo  vegno  da  la  corte  de  lo  lion 

Che  se  imperer  e  baron; 

Eo  te  digo  novella  tal, 

Che  li  9antacler  orden  segra 
ifto  Dananti  nostro  re  lion 

De  ti  a  fat  lementason, 

Et  eo  per  ti  son  9urador 

Et  alo  lion  manlevador, 

De  qui  a  trei  9omi  ti  presentar 
iftft  A  rason  e  pleid  menar. 

De  90  no  sia  in  ti  rancura,       [53  b] 

Che  nui  semo  si  savi  de  scritura 

E  si  doti  in  la  rason. 

Che,  s  el  torto  fose  d[e]  nui, 
160  Bein  saveremo  nui  si  far 

Ch  el  pleido  avere  vadagnar. 

Chi  a  si  tegna,  90  dis  rainald, 

Eo  no  vegno  in  quella  part, 

Che  remor  de  pò  voi  bein  m  avraf  alcir, 
165  Ch  eo  no  porave  mia  rason  dir. 

Char  compare,  dis  lo  tason, 

Vegni  ala  corte  de  lo  lion  : 

Da  che  eo  son  stado  to  9urador, 

No  me  lasar  in  desenor, 
170  Che  deo  ne  a  dado  si  bon  signor, 

Ch  el  no  sen  ausa  far  remor 

Ni  parola  alsa  dir, 

Se  no  a  chi  el  fa  mestier. 

Dis  rainald  :  eo  vegnero  ; 

176  Eo  cre90  che  mai  no  tornerò. 
Eo  ven  prego,  cilbert  le  tason. 
No  mintrei  a  far  manlevador 
E  non  m  intrei  a  manlevar, 
Se  eo  no  ven  vegno  bein  a  pregar; 

180  Eo  vel  voio  paleismentre  dir, 
Bein  ven  porave  mal  avegnir. 
Quando  eo  te  vegno  a  pregar. 
Che  tu  men  entresi  a  manlevar; 
Quant  prega  1  om  per  grant  amor  [54  a] 

185  No  pò  el  trovar  manlevador. 
Or  dia  9Ìlbert  ch  el  bein  farà. 


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158 


E,  PUTELLI 


[gIOBNALB   di   FILOLOGU 


Partise  intrabi  e  si  sen  va. 
La  mula  de  9ilbert  bein  trota 
E  quella  de  rainald  e  9ota, 

190  La  mulla  de  cìlbert  bein  ambia 
E  qnela  de  rainald  e  stancba. 
Or  son  apres  de  l£^  cort  de  lo  lion 
C[h]e  se  inp[e]rier  e  grant  baron. 
Quando  le  bestie  li  veto  vegnir, 

196  Tute  si  8cumen9a  a  dir: 

De  qua  ven  rainald  e  lo  tason, 
Andemo  a  corte  de  lo  lion, 
0  sia  dret,  o  sia  tort, 
Si  li  farem  donar  la  mort. 

200  Compare  cilbert,  90  dis  rainald, 
Tu  m  ai  conduto  in  mala  part  ; 
Bein  tei  vegni  per  tempo  a  dir, 
Remor  de  povelo  me  ave  alcir, 
Ch  60  no  por  ave  mia  rason        [54  b] 

S06  Dir  ananti  lo  lion. 

Or  semo  apresso  de  la  cort, 
Grant  paura  ai  dela  mort; 
In  corte  semo  delo  lion 
Che  se  imperìer  e  grant  baron. 

aio  Or  intranbidoi  se  apresenta 
E  lo  tason  preis  parlar  : 

Sire  lion,  90  dis  lo  tason. 
Vedi  rainald  meo  compagno [n] 
Che  sovra  tuti  li  altri  vai.  (1) 

216  Ni  che  aibia  si  frane  cora90 
De  bein  portar  un  mesa90, 
Com  fu  rainald,  sire  lion. 
Si  mei  tegni  bein  a  rason, 
Ch  eo  1  incontrai  a  me9a  via 

220  Cen9a  demora  ch  el  vignia. 

Lo  lion  rainaldo  varda,  [55  a] 

Avri  la  boca  e  si  parla: 
Bestia  mala  de  natura, 
Tu  ei  de  si  pigola  figura, 
225  Com  poi  tu  tante  vere  far 
E  tante  brige  demenar? 
Dis  rainald:  miser  lo  lion, 
Imper90  ch  eo  ai  rason. 

Et  isìgrin,  che  rainaldo  non  ama, 
280  Dananti  lo  lion  se  reclama: 


Nobel  lion,  per  deo  mar9e, 
De  rainald  fai  rason  a  me, 
Ch  el  m  a  uni  da  mia  muier. 
De  isigrina,  ch  e  qui  a  river. 

285  Ad  un  pertus  el  1  a  trova, 
A  mal  so  gra  si  1  a  for9a. 
Si  deo  m  ai,  dis  lo  lion, 
Questa  fo  grant  ofFension 
A  for9ar  1  altrui  muier  ; 

240  Eo  son  tegnu  de  9U3tiser. 

nEesponde  9ilbert  lo  tason        [55  b] 

Che  de  rainald  e  compagnoni 

Sire  bon,  per  deo  mer9e, 

Vui  deve  bein  intendre  me; 
245  Molte  false  lementason 

Se  fai  ananti  vui,  baron. 

Per  meo  compare  voio  parlar 

E  voio  soa  rason  cuiter; 

Quel  che  de  9oar  a  rainald 
260  Digo  per  lui  in  questa  part. 

Quel  che  li  devese  noser  per  se 

No  digo  per  lui,  anci  per  me. 

Con  dret  deveres  tu  isigrin 

Far  condur  a  mala  fin, 
255  E  la  putana  de  soa  muier 

Farla  arder  e  brusier. 

Com  poraf  eo  a  meo  signor  dir 

Parole  che  non  e  de  crer. 

Che  rainald,  ch  e  qui  river, 
260  Podes  isigrina  a  for9er? 

Che  isigrina  se  si  forte 

Che  a  dodese  darave  la  morte. 

Or  vel  digo  per  convent 

Del  bant  no  de  1  pagar  nient, 
265  E  fai,  mesier,  comandason 

Che  de  90  più  no  sia  ten9on. 

Se  deo  m  ai,  dis  isigrina, 

£0  me  lomento  de  puta  ostri  na 

De  un  falso  sper9urador,  [5(3  a] 

270  Che  e  bande9a  de  so  signor. 
Rainald  se  ca9a  in  una  tana. 
Et  entro  la  tana  se  aposta; 
Eo  me  ca9ai  entro  la  ter9a  part, 
De  fora  romas  la  quarta  part; 

•276  Uncha  no  poti  dentro  entrar 


(1)  Dopo  questo  manca  uu  verso,  come  kì  vede  .lalla  rima  ♦»  dal  senso. 


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ROMANZA.  N.<»  5]      NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  BENAED 


159 


Ni  de  fora  no  poti  tornar. 

Fora  ensi  rainald  da  1  altra  part. 

De  dreto  me  venne  C6n9a  revart; 

A  ma  meo  gra  si  m  a  for9a, 
tso  Entro  la  via  se  acolega, 

£o  no  me  podeva  corler, 

Per  90  sofri  quel  gref  mestier. 

Dis  rainald:  questo  no  fes  eo  miga, 

Ella  ve  dise  grant  folla. 
8S5  Ella  fo  altra  mala  bestia, 

0  altra  mala  cosa  pessima 

Che  lil  feis  intro  la  tana. 

Sert  eia  e  paleis  putana. 

Se  dio  m  ai,  dis  lo  lion, 
190  El  par  che  rainald  aibia  rason: 

Da  che  1  se  pò  con  dret  defender, 

A  tort  non  li  voio  la  morte  render. 

Li  9antacler  si  s  apresenta, 

Davanti  lo  lion  si  s  alementa  : 
J93  Saipia  bona  ^ent, 

Che  i  era  bein  seto  cent, 

Un  si  n  era  sanguanent  [56  b] 

Che  rainald  trova  la  noit; 

Con  li  dent  li  trase  1  alla  del  corp 
300  Ont  el  parea  eh  el  fosse  mort. 

Quel  eh  era  inavra  e  sanguannent, 

Davanti  lo  lion  si  veni  plan^ent: 

Nobel  lion,  per  deo  mer^e, 

De  raimld  fai  rason  a  me, 
805  Che  1  m  alci  1  orden  segre  : 

Tu  ei  tegnu  de  9ustiser. 

Bein  sai  tu  eh  eo  son  to  9antador 

E  prevede  de  9antar  le  ore. 

SE(o)  deo  m  ai,  dis  lo  lion, 

810  Questa  fo  grant  offension 
Ad  alcir  lo[r]den  segre, 
Eo  son  tegDu  de  custi[s]er. 
Se  deo  m  ai ,  dis  rainald , 
De  queste  parole  eo  son  ben  calt; 

815  De  90  no  responda  negun  per  mi 
Ch  eo  no  li  prego,  si  deo  m  ai  : 
S  el  de  responder  algun  baron , 
Eo  no  la  tegnaro  per  responsion. 
A  vui  digo,  meser  lion, 

880  Eo  ve  credeva  un  bon  signor; 
Vui  se  9per9uro  per  tute  part, 


Mal  de  andar  tute  le  art. 

La  podestà  de  bein  intender      [57  a] 

E  1  apelason  inprendre 

826  E  la  rason  bein  ascoltar 
E  dreta  sentencia  debia  dar. 
Ancora  te  digo,  miser  lion, 
Se  tu  no  me  teines  bein  in  rason, 
Eo  no  te  presio  un  speron. 

830  Deli  9antacler  a  mi  sient 

Eo  n  ai  man9a  bein  cinque  cent. 
£0  son  veglo,  non  poso  vir. 
No  de  ver  ave  a  cort  vegnir, 
Mai  vos  tu  pur  ch  eo  devegna 

335  E  1  to  comandament  mantegna. 
Eo  non  volsi  mai  in  glesia  intrar 
Per  messa  ni  per  maitin  sooltar, 
Se  no  andai  per  galine  prender 
Et  alo  meo  corpo  grant  asio  render, 

840  0  per  galine  0  per  capon 
Ond  eo  me  fes  de  gres  bocon. 
Eo  son  bestia  per  andar 
E  li  auselli  sa  bein  volar, 
Chi  non  voi  lo  mal  fu9ir, 

345  De  rason  lo  de  padir. 

Si  deo  m  ai ,  dis  lo  lion , 

El  par  che  rainald  aibia  rason; 

Da  poi  ch  el  se  pò  con  dret  defender, 

A  tort  no  li  voio  la  morte  render. 
850  Dis  rainald:  grant  marce,  miser  lo  lion. 

Dis  9ilbert:  miser  fase  li  don.      [57  b] 

Dis  lo  lion:  vele  vui  mestier? 

Dis  rainald:  no  voil  mesier, 

Trop  son  vetran,  noi  pos  durer. 
855  Or  a  fato  comandament 

Lo  lion  incontinent 

A  rainald  bel  e  9ent, 

Sota  peina  de  sagrament: 

Eo  ve  comando,  rainald, 
800  Treva  e  pas  in  ogna  part. 

Reteite,  rainald,  do  lavorer 

E  lasa  star  lo  reo  mestier; 

Reteite,  rainald,  de  te  lavor 

E  non  eser  più  scacador. 
8di  Se  più  mal  fasi,  eo  te  faro  prender 

E  la  morte  te  farai  render. 

DAla  cort  rainald  sen  part 
Con  reo  incegno  e  con  mal  art. 


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160 


B,  PUTELLI 


[aiOBNALE   DI    FlLOLOaU 


E  va  digand:  deo  criator, 

370  Que  m  a  fato  9urar  lo  meo  signor! 
Ch  eo  me  mantegDO  de  lavorer 
£  lasa  star  li  rei  mestieri  (1) 
Eo  non  sei  arar,  ni  capar,  (2) 
Ni  sachi  adoso  no  sai  portar, 

876  Ni  travesar  vin  in  ve9ol, 
Ni  capar  fava  ni  fasol. 
Ni  cambiar  or  ni  ar9ent, 
Ni  far  nisun  lavorament: 
Ni  far  nave  ni  sandon,  [58  al 

880  Ne  alguna  lavora  (vora)  son, 
Ni  menar  mercadantia, 
Ni  lavorer  ch  al  mondo  sia. 
Eo  cre9o  bein  eh  eo  me  sper9urero 
El  sagramento  no  tegnero: 

383  Femel  9arar  a  mal  meo  gra, 
Seo  me  8per9ur  non  el  peca. 

In  una  braida  rainald  intra, 

Una  cavra  si  ne  trova. 

Deo  te  salve,  comare  cavra, 
seo  Que  fasta  in  questa  braida? 

Dia  la  cavra  cen9a  rancura: 

Deo  ve  dia  mala  ventura, 

De  qui  se  vui,  mia  compare^ 

Che  vui  m  apelai  vostra  comare  ? 
396  Dis  rainald:  del  cavriel 

Ch  60  te  bati9ai  1  autrer  : 

Bein  te  devrestu  arecordar 

Ch  eo  tei  teni  a  batÌ9ar. 

La  cavra  li  dise  in  quela  ora: 
400  Bein  cre90  ch  eo  mei  recorda. 

Car  conpare,  que  vole  vui  far? 

Or  mei  dise,  se  l  ve  plaa. 

Eo  vegno  de  la  corte  de  lo  lion 

Che  se  imperer  e  gra[n]t  baron, 
406  Eia  m  a  comanda  per  so  art 

Treva  e  pas  in  ogna  part, 

E  ch  eo  me  tegna  de  lavorer    [58  b] 

E  lasse  star  li  rei  (3)  meatier. 

Eo  cre90  bein  che  men  speryurero 


410  Ne  1  sagrament  no  tegnero; 
Femel  9urar  a  mal  meo  gra, 
S  eo  me  8per9uro  non  e  pe^ja. 

La  cavra  responde  e  si  li  dis: 

Vui  no  se  savio  ni  corteis 
416  A  sper9urarve  del  sagrament, 

Fartireseve  da  deo  omnipotent 

E  avei-aae  bando  mortor 

Da  lo  lion  oh  e  inperer  e  baroo. 

Or  mi  e  vui  comunament 
4J0  Semenemo  questa  braida  de  furraent  ; 

Grant  bein  ne  porave  deo  far 

Se  nui  scumencemo  a  lavorar, 

D  un  gran  ne  darà  bein  cent 

Lo  vero  deo  omnipotent. 
436  E  rainald  un  poco  se  inpensa: 

Comare,  nui  non  avemo  8emen9a, 

Arar  tera  8en9a  semenar 

Poco  ne  pora  90var.  [50  a] 

Dis  la  cavra:  bein  la  troveremo 
480  E  tosto  la  recovrerremo. 

Un  vìlan  de  quella  villa 

Si  n  gè  n  a  piena  una  tina  ; 

Doman  per  tenpo  nui  anderemo 

Et  asai  nui  de  involeremo: 
436  Si  la  voremo  semenar 

Grant  bein  ne  poremo  trovar. 

Dis  rainald:  ala  bon  ora, 

Deo  ne  fa9a  far  bona  ovra. 

La  cavra  inver  la  villa  va 
440  E  rainald  con  si  mena. 

Dis  rainald  per  lo  (4)  primer  : 

In  la  villa  no  voio  intrier, 

Che  tuti  li  e  mei  verier; 

Eo  me  staro  pur  da  lu[n]tan, 
4  «6  Ch  eo  ai  vere  con  li  can. 

La  cavra  inver  la  villa  va 

E  de  forment  se  carega. 

Dis  rainald  :  per  mia  fé,  [59  b] 

La  cavra  qui  no  trova  me. 
450  Ella  vein  de  forment  cargada 


(1)  Il  cod.  me  scier. 

(2)  Capar  come  al  v.  376  per  ^apar. 

(3)  Il  cod.  lieri. 

(4)  Il  cod.  prima  di  lo  ha  la  traccia  d'una  lettera  ora  affatto  svanita;  ho  congettu- 
rato fosse  un  p  con  segno  d'abbreviazione,  ed  ho  letto  per. 


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ROMANZA,  N.«  5]      NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  RENARD 


101 


E  rainald  non  a  trova, 
Et  0  alegra,  anauti  sen  va 
E  rainald  si  trova. 
Or  semenemo  lo  forment 
4S5  Intrabidoi  cumunament. 
La  cavra  fo  bo  per  arar 
E  rainald  preis  a  semenar; 
Tant  cercha  rainald  vai  e  dos 
No  li  remase  pel  a  dos. 

460  ol  deo  m  ai,  dia  rainald, 

Eo  8on  conduto  in  mala  part. 

Alto  pare  creador, 

Com  mala  cosa  fo  lavorason: 

Eo  cre90  bein  eh  eo  me  8per9urero 
405  Nel  sagrament  no  tegnero: 

Femel  9urar  a  ma  meo  gra, 

S  eo  me  8per9uro  non  e  1  peca. 

Or  e  semena  lo  furment 

In  la  braida  bel  e  9ent, 
470  Tant  che  1  furment  e  cresu 

E  grant  bein  li  e  deveguu. 

La  cavra  va  per  lo  furment 

E  man9a  la  erba  e  bein  e  9ent. 

So  deo  mai,  dis  rainald, 
475  Vui  men  fare  mala  part, 

Bein  sa  ve  1  erba  (1)  man9ar;      [00  a] 

Eo  d  ai  dura  fadiga  e  pensier, 

Tant  ai  cerca  e  vai  e  dos 

No  me  remas  pel  ados. 
430  Si  deo  m  ai,  la  cavra  dis, 

Vui  no  se  savio  ni  cortes; 

Vui  non  se  uso  de  lavorason, 

Per90  parla  vui  contra  rason; 

An  me  te  cretev  eo  servir, 
495  Bein  sai  a  lavor  che  fai  mistier. 

Atant  che  1  furment  e  cresu, 

E  madur  el  e  vegnn, 

El  a  medu  e  taia, 

Et  al  ara  e  1  porta, 
490  De  un  granel  lind  a  rendu  cent 

Lo  vero  deo  omnipotent. 

AMantenent  rainald  si  dis: 
Questo  furment  se  voi  partir; 


Del  partir  bein  e  rason 

495  La  soa  part  eiba  9a9cadun. 
Eo  faro  la  partita,  dis  rainald, 
E  vui  tore  la  vostra  pai-t: 
Lo  stran  a  la  paia  toi  a  ti, 
E  lo  frumento  eo  voio  a  mi. 

600  A  chi  el  doia,  90  dis  la  cavra, 
La  mia  part  averai  eo  a  casa, 
E  la  mia  parto  bel  e  9ent, 
Intregamentre  del  furment, 
E  la  8emen9a  del  meo  signor    [60  b] 

605  Tuta  dananti  alo  lion. 

Dis  rainald:  lo  sol  fir  a  monta, 
Plai9ar  de  not  me  fai  grant  onta; 
Doman  per  te[nJpo  qua  vegneremo. 
Se  a  deo  plas,  si  s'  acorderemo. 

610  La  cavra  sen  va  per  un  camin, 
E  9ura  deo  e  aant  martin; 
Rainald,  tu  me  voi  in9egner, 
Eo  tei  faro  bein  conprer: 
Se  eo  non  demeino  intrabi  li  mastini 

615  A  questo  furment  partir, 
Samai  no  voio  deo  orer. 
Ne  1  creator  che  ferma  lo  cel  ; 
Se  tu  veines  rainald  a  la  ten9on. 
Se  tu  no  gè  lasses  lo  pi]Ì9on, 

6S0  Samai  no  voio  deo  orer. 
Ni  1  creator  che  ferma  lo  cel. 
A  li  cagnoni  la  cavra  anda 
E  si  li  parla  com  ella  fa. 
Dont  vegni  vui,  mare,  dis  li  cagnou? 

525  Fioli,  de  molto  mala  ten9on. 
Oh  eo  semenai  furment 
Con  rainald  oomunament, 
E  lo  traditor  rainald 
No  me  voi  dar  la  mia  part. 

530  Fioli,  eo  voleva  del  gran. 
Oh  60  ve  voleva  far  del  pan , 
E  si  ve  voleva  dar  man9ar,       jOl  al 
Unde  eh  eo  ve  voleva  alevar. 

Dis  fortinel:  mare,  intendi  mi, 
635  Menci  me  a  quest  furment  partir; 
Se  l  vein  rainald  a  la  tenyon , 
Se  1  no  gè  lasa  lo  pilÌ9on , 


(1)  Il  cod.  lebar:  la  correzione  è  resa  evidente  dal  v.  473.  Noto  die  bar  è  parola  friulana 
e  vale:  cesto,  ccsi)0,  corona  di  foglie  o  raiAoscelli  sopra  una  radice  (Piuona,  Vor.  Friulano). 

Il* 


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162 


R.  FUTELLI 


[giobnale  di  filologia 


9amai  no  voio  dee  orer, 

Ni  1  creator  che  ferma  lo  ceL 

540  Dls  bonapresa:  mare,  intendi  me, 

Da  che  meo  frer  voi  lo  pili^on, 

Sego  no  voio  far  ten9on; 

Ma  in  tanti  logi  lo  scuracero 

E  si  1  ai  romper  e  forer, 
b\h  Che  non  pura  nui  bein  avein 

Dis  la  cavra:  a  bon  ora, 

£o  ven  prego,  fìoli  cagnon, 

Che  vui  vigne  ala  ten9on. 

A  la  maitina  la  cavra  s  a  leva, 
ft^^  Intranbi  li  mastin  si  trova, 

Si  sen  va  bel  e  9ent 

0  e  la  paia  e  1  furment  : 

Soto  la  paia  li  cani  sacolega. 

La  cavra  la  paia  su  li  9ita: 
555  Si  li  covri  e  bein  e  9ent, 

Uncha  no  par  che  sia  nient. 

h  Rainald  sen  va  per  un  camin, 
E  9ura  deo  e  saint  martin: 
Cavra  tu  me  voi  in9egner, 

660  Eo  tei  faro  bein  conprer.  [61  b] 

S  eo  non  demein  isigrin 
A  questo  frument  pa[rltir, 
(^amai  no  voio  deo  orer. 
Ni  1  creator  che  ferma  lo  cel  ; 

566  Se  tu  no  gen  lases  lo  pilÌ9on,  (1) 
^amai  no  voio  deo  orer, 
Ni  1  creator  che  ferma  lo  cel. 
Tant  k  el  trova  isigrin 
Ch  el  noi  tein  per  bon  visin. 

670  Deo  te  salve,  90  dis  rainald. 
Isigrin  sen9a  rancura: 
Deo  te  dia  mala  ventura, 
Per  que  m  intrei  vui  ad  apelar, 
Ch  eo  non  a  mo  dun  dinar? 

675  Tu  credi  eser  verament 
A  la  caneva  del  vilan: 
Tu  menassi  acan  (2)  salear  mancer, 
Poi  me  fasisti  bein  fruster. 
Se  de  m  ai,  dis  rainald, 


580  Eo  ve  menai  in  bona  part; 
E  1  era  asai  carne  salea, 
Vui  ne  mancasse  oltra  mesura; 
Si  ve  fo  streto  lo  capei. 
Che  1  ve  trova  lo  vilan 

-  585  Ch  aveva  lo  baston  in  man  ; 
Per  la  cam  che  avevi  mau9ea 
El  ve  de  una  mala  copea. 


£0  ai  eemena  furment  (62  a) 

Con  una  cavra  grossa  e  9ent: 
69(.  Vui  pori  la  cavra  prender, 

Al  vostro  corpo  grant  asio  render. 

Dis  isigrin:  or  sia  in  bon  or, 

Eo  ve  apello  per  meo  signor. 

Si  se  mete  allo  via90 
695  L  un  e  1  altro  a  frane  corano, 

Si  se  mette  amatiuent 

Ad  andar  la  ch  e  1  furment , 

Amantinent  si  sen  va 

E  la  cavra  si  a  trova, 
eoo  Quant  la  cavra  ve  isigrin, 

C[h]  ella  noi  tein  per  so  bon  visin, 

Ne  a  paura,  ne  voi  fu9Ìr, 

Anci  sta  ardida  e  balda; 

Con  le  graspe  comen9a  graspar 
605  E  con  le  come  a  mane9ar: 

Se  tu  vens  rainald  ala  ten9on. 

Se  tu  no  gè  lasses  lo  pilÌ9on, 

(^amai  no  voio  deo  orer. 

Ne  creator  che  ferma  lo  cel. 
610  Rainald  varda  per  vai  in  perdos, 

E  varda  per  tute  part, 

E  lo  stalo  rainald  varda: 

Ad  una  volta  de  via 

La  paia  cresuda  li  paria. 
615  Si  deo  m  ai,  90  dis  rainald. 

La  cavra  se  de  mala  art  :  [62  b] 

Questa  note  fo  rosea 

E  la  paia  me  par  basea. 

Vede  lo  furment  in  quella  part, 
620  Andai,  compare,  in  quella  part 

E  si  teiere  la  vostra  part  (3) 


(1)  Manca  un  verso  facilmente  ricostituibile,  quando  si  pensi  che  qui  si  ripete  la 
stessa  formula  occorsa  ai  w.  518-521 ,  536-539  e  ai  vv.  606-607. 

(2)  Forse:  uguanno, 

(3)  Probabilmente  qtiesti  tre  versi  non  dovettero  essere  che  due. 


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BOMANZA,  N.°  5]      NUOVO  TESTO  VENETO  DEL  MENARD 


163 


A  mi  se  pres  grant  mal  de  ventre, 

E  sapìai  eh  eo  ai  reo  talento, 

Grant  mal  me  farave  intro  1  era  star. 
635  E  rainald  intro  un  bosceto  se  ca9a, 

Sa  in  un  arbor  si  monta. 

Si  che  lue  e  bel  e  9ent, 

La  0  e  la  paia  e  1  furment. 

Dis  isigrin  a  grant  baldor: 
»8o  Eo  sou  gastaldo  e  partidor 

De  rainald  eh  e  meo  signor. 

Dis  la  cavra:  a  mi  siente, 

Vui  no  portiri  gran  del  furment: 

Vegna  meo  conrpare  rainal, 
635  Si  torà  la  soa  part. 

Isigrin  toat  sen  va. 

Lo  dent  a  col  si  li  ca^a. 

Intranbi  li  mastin  su  leva,        [63  a] 

Portinel  lo  pia  fort, 
640  Per  1  ara  lo  getta  stravolt. 

Bonapresa  Io  scuarca  fore 

Tanto  li  tira  si  che  1  e  mort. 

Si  deo  m  ai,  90  dis  rainald, 

La  cavra  se  de  mal  art; 
6t5  S  eo  fos  anda  al  furment  pa[r]tir, 

Bein  ni  averave  condut  a  fin, 

Mai  meo  compare  isigrin 

Bein  a  conpra  lo  desin. 

De  la  pasava  doi  vilan 
650  Che  aveva  doi  forche  in  man: 

Deo,  dis  1  un  incontr  a  l  altro, 

Varda  la  che  sta  rainaldo; 

Com  el  e  ven^a  de  isigrin         [63  bj 

Che  l  noi  [tein]  per  bon  viain. 
<i55  E  li  cagnon  si  l  aldi  ; 

Entro  lo  bosco  eli  sp-li, 

E  rainald  se  mete  de  l  altra  part  ; 

E  li  cagnon  si  sailuto. 

Si  che  non  1  a  miga  veduto. 
660  Dis  1  un  incontr  a  l  altro  : 

Eo  cre90  che  l  sia  scampa  per  ria  art, 

Ananti  non  e  1  anda , 

Ni  in  dreelo  (l)  non  e  1  trona  : 


El  e  scampCa]  per  art, 
665  Sin  noi  trova  in  nuia  part. 
Rainald  se  pia  ad  una  rama, 
Dre9a  la  coda  inver  la  montagna. 

hi  Li  cagnon  oltra  se  torna; 
Mare,  isigrin  e  mort, 
67  0  E  rainald  ^onyessemo  in  lo  bosco, 
E  se  anda  de  tosto  in  tosto: 
Om  ere  eh  ei  sia  scampa  per  art, 
Avanti  non  e  l  anda. 
Ni  ananti  non  e  1  torna. 

676  iJls  la  cavra  mal  usada. 

Se  lera  arbor  in  la  contrada? 

Si  era  bein  seto  cent 

Petiti  e  grandi  comunamentre. 

Vui  non  vardalle  ad  alto  rainald,  [6^1  aj 
680  Bein  sa  1  montar  in  rama  ad  alt. 

A  chi  el  peis  et  a  chi  e  sen  caia, 

La  cavra  a  1  furment  e  la  paia 

E  la  semen9a  del  so  signor 

Tuta  dananti  a  lo  lion. 
0*5  E  rainald  se  ca9a  inn  un  bosco, 

E  si  sen  va  de  tosto  in  tosto, 

E  gara  deo  lo  creator  : 

El  9amai  no  farà  lavor; 

Ananti  voi  eser  scacador 
690  Sicom  fo  li  soi  ma9or. 

Eo  non  era  uso  de  gran  man9er, 

Ni  de  far  nisun  lavorer; 

Eo  partiva  falsament 

Non  e  meraveia  se  1  mal  men  preujb. 
695  Li  mal  in9egni  sol  mal  fenir: 

Chi  altrui  mantel  voi  retenir. 

Lo  80  ne  sol  bein  remagnìr; 

[Ch]i  a[ljtrui  mantel  voi  in9egner 

[Ljo  so  ne  sol  bein  laser,  [61  bJ 

700  Si  com  fo  quel  de  isigrin. 

Che  de  soa  muier  fo  oni, 

E  si  fo  avergon9a. 


E  si  perdi  tute  l  so  plaid. 

Finito  libro  sit  laus  et  gloria  xristo. 

Qui  scribiit  scribat  semper  cum  domino  vivat: 

Vivat  in  celis  Marcus  in  nomine  Felis. 

Amen. 


(1)  Cum  il  ins. 


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161  G.    JiEliXAEDI  Ir.IOIlN  A  LE   DI    FILOLOGIA 

NOTERELL A 

al  verso  46  del  III  delVlnferno  : 
QrESTI    NON    HANNO    SPERANZA    DI    MORTE. 


Con  parecchi  miei  amici,  ma  in  particolare  col  mio  rimpianto  Al- 
fonso della  Valle  di  Casanova,  tanto  sottile  e  felice  interprete  di  Dante, 
mi  sono  assai  volte  bisticciato  per  questo  benedetto  verso,  ma  senza 
poter  mai  venire  a  una  ragionevole  conclusione.  Io  a  dirgli  :  Quella 
speranza  di  morte^  non  può,  non  dee  significare  speranza  di  annulla' 
menfOj  come  dicono  tutti  i  commentatori.  0  che  gli  altri  dannati  T hanno 
forse  cotesta  speranza  ?  E  se  non  T  hanno,  ctme  sarebbe  venuto  in  testa 
a  Dante  di  notare  pei  soli  dannati  del  primo  cerchio  un  male  che  han 
comune  con  tutti  gli  altri?  —  E  lui:  Ma  che  vuoi  che  significhi,  se  per 
morte  non  si  può  intender  che  la  morte  ;  e  per  chi  è  già  morto  corpo- 
ralmente, che  muoia  anche  neir anima?  —  Io  però  non  mi  rassegnava. 
A  forza  di  pensarci  su,  la  spiegazione  mi  pare  d'averla  trovata  final- 
mente; ed  eccola  qua,  se  piace. 

Incomincio  con  un  lemma ^  coni' usano  alcune  volte  i  matematici. 
Che  cosa  ha  voluto  dir  Dante  in  quell'altro  verso  (117,  Inferno,  I): 

Che  la  seconda  morte  ciascun  grida? 

Francesco  da  Buti,  il  piii  felice  interprete  di  Dante  dice:(l)  «  cioè 
chiama.  Qui  si  dubita  quello  che  l'autore  intendesse  per  la  seconda 
morte,  e  quanto  a  me  pare  che  l'autore  intendesse  della  dannazione 
ultima,  che  sarà  al  giudicio:  imperò  che  per  invidia  vorrebbero  che 
già  ella  fosse  per  avere  più  compagni,  però  che  la  prima  morte  è  la 
dannazione  prima,  quando  l'anima  partita  dal  corpo  è  dannata  alle 
pene  dello  inferno  per  li  suoi  peccati.  La  seconda  è  quando  al  giu- 
dicio risuscitati,  saranno  dannati  ultimamente  l'anima  col  corpo  in- 
sieme; e  questo  ciascun  grida,  perché  ciascun  vorrebbe  come  dispe- 
rato, che  già  fosse  l'ultima  dauuazione.  Altrimenti  si  può  intendere 
della  annullazione,  dicendo  che  la  prima  morte  sia  la  dannazione  del- 
•r anima,  quando  si  parte  dal  corpo;  la  seconda  morte  sarebbe,  quando 
l'anima  fosse  annullata.  » 


(ì)  Comtìicììto  ecc.   pulfblicato  da  Crescentino  Giannini.  Pisa^  1858. 


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ROMANZA,  N.<»  5]  NOTEBELLA  AL  III,  46  INF.  165 

La  chiosa  cassinese,  posteriore  alla  scrittura  del  codice,  è  questa: 
Grida:  Quasi  diceret  quilibet  vellet  iterum  mori  ut  pena  finem  ha- 
beret.  > 

Il  P.  Lombardi  (1)  e  invoca  ad  alta  voce  :  allusivamente  a  quei  del- 
l'Apocalisse:  DesiderabufU  mori,  et  fugiet  mors  ah  eis;  e  dice  la  seconda 
per  rapporto  alla  prima  già  successa  morte  del  corpo.  » 

Brunone  Bianchi  (2),  brevemente  :  <  la  secoìida  morie^  quella  del- 
r  anima.  > 

Il  Giuliani  (3)  :  <  Dolenti,  sì  che  ciasctm  grida ^  chiama,  invoca  ad  alte 
voci  la  seconda  morte ^  che  è  la  distruzione  dell'anima,  l'annullamento 
dell'essere,  perocché  i  dannati  sono  già  veri  morii  {Purg.  XXIII,  122) 
avendo  perduto  Dio,  bene  dell'intelletto  {Inf.  Ili,  17)  e  perciò  la 
prima  vita  dell'anima.  E  poiché  non  hanno  più  rimedio  a  tanto  do- 
lore, bramano  la  morte  seconda,  di  essere  cioè  annullati:  Desiderabunt 
mori,  et  mors  fugiet  ab  eis:  Apoc.  IX,  6.    Mors  secunda.  Ib.  XX,  14.  > 

Mi  fermo  qui;  perché  tutti  gli  altri  interpreti  di  cui  ho  notizia, 
anche  il  Landino,  in  sostanza  non  dicon  né  più  né  meno  né  diversa- 
mente. Mi  attacco  però  a  quella  seconda  citazione  dell'  Apocalisse,  fatta 
dal  Giuliani  (cap.  XX,  14),  e  ne  aggiungo  due  altre  della  stessa  Apo- 
calisse (XX,  6,  e  XXI  8),  dove  ritorna  appuntino  la  mors  secunda.  Or 
S.  Giovanni,  in  tutti  e  tre  i  versetti,  dice  che  la  seconda  morte  é  la  pena 
eterna,  e  non  già  l'annullamento  dell'essere  (4).  E  mi  sembra  assai 
giusfo  questo,  di  chiamare  seconda  morte  la  dannazione. 

Come  vi  son  due  vite,  la  temporale  e  l'eterna,  così  anche  due  morti. 
Entra  l'uomo  nella  prima  morte,  quando  più 

Non  fiere  gli  occhi  suoi  lo  dolce  lome: 

nella  seconda,  quando  la  giustizia  di  Dio  lo  caccia  nella  pena  dell'eter- 
nità, nella  morte  eterna^  come  canta  la  Chiesa.  Or  Dante,  al  quale  era 
assai  viva  e  presente  nella  memoria  l'Apocalisse,  donde  ha  tratte  tante 
immagini  e  allegorie,  si  deve  ragionevolmente  credere  che  abbia  tolta 
di  peso  da  S.  Giovanni  quell'espressione,  usandola  nello  stesso  signi fi- 


(1)  Ed.dellaMinerva.Pa(i.,MnCCCXXII.  «  Tira'ulis  autem,etincredulis,et  execratis, 

(2)  Le  Monnier,  Firenze,  1857.  et  homicidis,  et  fornìcatoribus,  et  veneficis, 

(3)  Metodo  di  commentare   la  Divina  et  idololatris,  et  omnibus  mendacibus,  pars 
Commedia.  Le  Monnier,  Firenze,  1861.  illorum  erit  in  stagno  ardenti  igne   et  sul- 

(4)  «  Et  infernus  et  mors  missi  sunt  in  phure:  quod  est  mors  secunda,  » 
stagnum  ignis.    Haec  est  morx  secunda.  »  Comunque  sì  considerino  questi  luoghi  di 

«  Beatus  et  sanctus,  qui  habet  partem  in  S.  Giovanni ,  sempre  la  mors  secunda  sigui- 

resurrectione  prima:  in  his  secicnda  mors  fica  la  pena  eterna, 
non  haliet  potestatem.  » 


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166  Gr.  BERNARDI  [oiormalb  di  filologia 

cato  (1).  Come  supporre  che,  veduta  in  certo  modo  fissata  dal  santo 
quella  espressione,  come  una  espressione  tecnica,  l'usasse  poi  lui  per  si- 
gnificare tutt' altra  cosa,  cioè  T annullamento  dell* anima?  Ritorna,  sì, 
nel  poema  la  stessa  espressione,  e  propriamente  nel  XX  del  Paradiso: 

E,  credendo,  s'accese  in  tanto  fuoco 
Di  vero  amor,  ch'alia  morte  seconda 
Fu  degno  di  venire  a  questo  giuoco; 

ma  qui  si  parla  di  Trajano,  il  quale,  dannato  air  inferno,  fu  richiamato 
a  vita  per  le  preghiere  di  S.  Gregorio,  secondo  la  leggenda;  e  così  poi, 
giustificato  per  la  fede  e  la  carità  in  Gesù  Cristo,  quando  ritnorì^  fu  fatto 
degno  delle  gioje  del  paradiso.  Qui  è  chiaro  il  senso;  e  non  si  potrebbe 
in  verun  modo  pensare  né  all'annullamento,  né  alla  pena  di  dannazione 
eterna. 

È  vero  anche,  come  si  vede  dall'altro  passo  dell'Apocalisse,  ricor- 
dato dal  Lombardi  e  dal  Giuliani,  che  i  dannati  provano  il  vano  e  pun- 
gente desiderio  di  morire  anche  nell'anima,  cioè  d'essere  annullati;  ma 
nel  verso  in  quistione,  se  si  vuole  stare  con  S.  Giovanni,  conviene  ad- 
durre i  passi  dove  si  parla  della  niors  sccunda,  e  non  già  quello  del  de- 
siderabunt  mori.  Il  desideràbiint  mori  toma  invece  a  capello  in  qu*el- 
r  altro  verso  del  XIII  deW  Inferno^  là  dove  Lano  da  Siena,  inseguito  dalle 
nere  cagne  bramose  e  correnti,  grida  invano. 

Ora  accorri,  accorri,  morte. 

Veniamo  ora  al  grida,  che  tutti  i  commentatori,  eccetto  uno  solo, 
spiegano  chiama,  invoca  ad  alte  voci.  Trentadue  volte  si  trova  questo 
verbo  nel  poema,  stando  al  vocabolario  dantesco  del  Blanc,  e  non  mai 
nel  senso  di  chiamare.  Si  troverebbe  in  questo  senso,  soltanto  nel  verso 
del  quale  ci  occupiamo.  E  in  esso,  e  in  due  altri  soli,  il  gridare  è  usato 
transitivamente,  con  l'oggetto: 

La  fama,  che  la  vostra  casa  onora. 
Grida  i  signori  e  grida  la  contrada, 

{Purg.  Vili). 
L'alto  preconio  che  grida  T arcano: 

(Farad.  XXVI). 


(1)  Al  modo  che  fece  anche  S.  Francesco  Dio,  ha  la  ynorte  sccunda  non  li  farà  male. 

nel  cantico  del  sole,  j^iusta  rai  ricorda  oppor-  Cioè,  perché  essi  sono  immuni  dalia  (Jan na- 

tunaraente  il  D'Ovidio.     Quivi   il   poverello  zione   eterna,   a   cui  vanno  invece  soggetti 

d'Assisi  (o  chi  per  lui)  fatto   prima  cenno  quelli  che  muoiono  in  peccato  mortale.»  Qui 

della  morte  corporale,  dalla  quale  nullo  il  contrapjK)sto  tra  la  morte  corporale  e  la 

omo  vivente  pò*  scappare,  dice  |X)i:  «  gu^i  *<?c»<nrf«  »iorfc rende  sicura  T interpretazione, 

a  quelli  che  muojono  in  peccato  mortale;  e  che  in  Dante  par  disputabile. 
beati  invece,  quelli  che  muoiono  in  grazia  di 


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ROMANZA,  K.°  5]  NOTERELLA  al  III,  46  INF.  167 

e  in  questi  due  casi  significa,  indubbiamente,  prèdica^  puhUica^  mani- 
festa j  handisce^  come  iutendon  tutti.  Questo  senso  però  non  è  applica- 
bile al  verso  in  quistione,  perché  non  se  ne  caverebbe  nessun  costrutto. 
Ch'  io  sappia,  e  confesso  di  sapere  assai  poco,  nessun  poeta  o  prosatore 
usò  mai  gridare  per  chiamare^  e  non  mi  so  persuadere  che  Dante  solo, 
e  una  volta  sola,  l'abbia  usato  così. 

Ma  se  non  s'ha  da  intendere  che  i  dannati  chiamino  la  seconda 
morte,  nel  senso  che  invochino  il  loro  annullamento,  s'ha  da  intendere 
che  cosa? 

Due  codici  autorevoli,  il  vaticano  e  il  cassinese ,  e  l'Aldina  di  Ve- 
nezia (1502),  leggono 

Malia  seconda  morte.  .  .  . 

Or  la  povera  vecchia  Crusca  spiega  il  gridare,  parlare  a  voce  alta;  e  il 
gridare  a  qualcuno,  garrirlo,  riprenderlo,  non  giù  chiamarlo,  invocarlo. 
Anche  dunque  accettando  questa  lezione,  per  cavarne  il  significato  di 
chiamare  converrebbe  che  al  grida  fosse  sottinteso,  sottilizzando  sul  con- 
testo, un  die  venga.  Ma  noi  che  intendiamo  quella  seconda  morte  per 
pena  eterna,  ci  atteniamo  naturalmente  alla  lezione  comune;  perché  se 
no,  i  dannati  butterebbero  via  il  fiato  a  gridare  che  venga  a  loro  quello 
che  hanno,  cioè  quella  pena  eterna  che  già  soflfrono! 

Intanto,  se  non  Tho  buttato  io  il  fiato,  posso  oramai  concludere, 
che  il  grida  la  seconda  morte  significa  :  Ciascun  piange  con  gran  voce  il 
suo  eterno  danno;  ovvero,  si  lamenta  con  alte  strida  della  pena  eterna 
cJie  soffre.  Non  mi  sembrerebbe  tanto  strano  spiegare  il  grida,  in  co- 
struzione transitiva ,  come  lo  spiegò  quélV uno  detto  più  su,  il  Tommaseo, 
per  lamentarsi ,  piangere  (1),  quanto  mi  sembrerebbe  spiegato  per  chia- 
mare,  invocare.  Ma  se  fossi  giunto  a  dimostrare  che  la  seconda  morte 
s'ha  da  ritenere  per  la,  pena  eterna,  non  saprei  quale  altra  significazione 
che  calzasse  gli  si  potrebbe  dare  a  quel  grida. 

Questo  è  il  lemma,  un  po'  lunghetto,  per  verità,  contro  mia  voglia; 
e  vengo  al  verso  per  cui  scrivo  questa  noterella. 

Se  Dante  ha  detto  che  quell'anime,  poste  là  nell'Antinferno,  non 
lianno  speranza  di  morte,  nessuno  potrà  sostenere  che  l'abbia  detto  così 


(1)  Commedia  di  Dante  Alighieri  con  avendo  spiegato  il  grida  per  piange,  dovè 

ragionamenti  e  note  di  Niccolò  Tommaseo;  necessariamente  prendere  la  morte  dell* a- 

Milano,  1865.  —  Ecco  la  nota  al  verso  117:  nima  in  senso  religioso;  in  forza  del  quale 

«  Morte  deir anima.  —  Grida;  piange.  »  È  si  dice  morta  l'anima,  quando  è  priva  in  tutto 

strano  come  al  Tommaseo,  espertissimo  delle  della  grazia  divina,  e  si  trova  nello  stato  di 

cose  bibliche,  sia  sfuggito  il  riscontro  della  riprovazione.   A  ogni  modo,  rafforzata  la  sua 

secondamene  di  questo  verso  di  Dante  con  nota  con  quei  testi  dell' Apocalisse,  essa  di- 

i  passi  di  S.  Giovanni.    Certo  è  però  che,  venta  preziosa. 


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168  G.  BERNARDI  [giornale  di  filologia 

per  dire,  o  per  darci  la  gran  bella  nuova  ch'esse  non  sperano  d'essere 
annullate.  Si  sa  che  non  lo  sperano!  In  tutti  i  quattordicimila  due- 
cento diciassette  versi  del  poema,  egli  ha  mostrato  che  non  è  poeta  da 
cadere  in  siffatte  puerilità,  neanche  dormitans»  Soltanto  uno  che  avesse 
dato  di  volta,  potrebbe  dirmi:  Amico,  sai?  io  non  ho  speranza  di  cam- 
par senza  fine.  — Invece,  se  qualcuno,  roso  dalla  smania  dell'immorta- 
lità, mi  dicesse  che,  per  quanto  ha  fatto,  non  è  riuscito  ad  aver  fama 
fra  i  presenti,  né  spera  d'averla  tra  coloro 

che  il  nostro  tempo  chiamecanno  antico; 

capirei  benissimo  la  tribolazione  di  cotesto  poveromo  per  un  desiderio 
sempre  vivo  e  non  mai  sodisfatto.  Dunque  Virgilio  non  volle  già  dire 
a  Dante  che  quell'anime  li  non  hanno  speranza  d'essere  annidiate y  ma 
che  non  hanno  speranza  d'aver  qualcos'altro  che,  avuto,  le  farebbe  sof- 
frire meno  abbiettamente.  Or  tutto  si  riduce  a  fissare  il  concetto  che 
il  poeta  ha  voluto  esprimere  con  quella  parola  morte.  Vediamo  che  cosa 
dicono  gì' interpreti  Cito  gli  stessi  citati  di  sopra,  per  risparmiare  ai 
lettori  scrupolosi  il  fastidio  di  andarli  a  riscontrare. 

Il  Da  Buti  :  «  Questi  non  hanno  speranza  di  morte  ;  cioè  costoro  son 
fuori  d'ogni  speranza:  imperò  che  eziandio  sono  privati  della  speranza 
della  seconda  morte,  per  la  quale  s'intende  l'annichilazione,  et  in 
questo  si  manifesta  la  loro  miseria,  in  quanto  dice  che  vorrebbero 
innanzi  essere  annichilati,  che  vivere  in  tanta  miseria,  e  soggiunge 
la  lor  miseria  quando  dice:  E  la  lor  cieca  vita  è  tanta  bassa^  Che  in- 
vidiosi son  d'ogni  altra  sorte.  Per  questo  significa  l'autore  che  sono 
tormentati  dalla  invidia  che  è  gravissimo  dolore,  secondo  che  pone 
Orazio  nel  libro  primo  delle  sue  Epistole^  ove  dice:  Invidia  siculi  non 
invenere  tyranni  Majns  tormentum  ecc.:  quasi  dica  Virgilio  a  Dante: 
Questi  sono  in  tanta  oscurità,  et  in  tanta  bassezza  che  ogni  altro  stato 
pare  loro  migliore  che  il  suo;  e  però  d'ognuno  posto  in  qualunque 
stato  anno  dolore  ;  ecco  la  cagione  perché  sono  invidiosi  d' ogni  altro.  » 

Il  Codice  cassinese,  nella  nota  marginale  scritta  di  altra  mano,  ha: 
€  morte.  —  Si  de  essentiali  inferno  loquitur  bene  dicit  quia  ibi  est  mors 
sine  morte.  Si  de  morali  dicendum  quod  intentio  vera  auctoris  est  quod 
isti  viles  ut  plurimum  devenlunt  ad  tara  miserabile  vite  statura  quod 
vocant  mortem  que  eos  spernit.  ^ 

Il  Lombardi  :  e  Sono  certi  di  dovere  nella  loro  miseria  durare  eter- 
namente. » 

Il  Bianchi  :  «  Questi  non  hanno  speranza  di  tornare  al  nulla,  come 
bramerebbero.  » 

Il  mio  carissimo   Giuliani,   richiamando  il   verso    117   del   primo 


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ROMANZA,  M.°  5]  NOTEBELLA  AL  III,  46  INF.  169 

Canto,  scrive:  e  Gridano  essi  la  seconda  morte  (la  propria  annichila- 
zione ),  e  la  morte  si  fugge  da  essi.  » 

Il  Tommaseo  :  «  Morte  :  che  li  tolga  all'  onta  tormentosa.  >  - 
Gli  altri  interpreti,  sottosopra,  dicon  tutti  lo  stesso.  Però  mi  par 
degno  di  nota  il  commento  di  Francesco  da  Buti.  Ma  se  il  panto  sta 
tutto  nel  sapere  che  cosa  si  debba  intendere  per  quella  voce,  morte,  e 
morte  è  per  lui  e  per  tutti  V annientamento  delV anima,  la  quistione  non 
si  può  dire  che  sìa  sciolta,  e  neanche  spianata  per  niente.  Prendiamo 
tutta  la  terzina  di  Dante, 

Questi  non  hanno  speranza  di  morte, 
E  la  lor  cieca  vita  è  tanto  bassa, 
Che  invidiosi  son  d'ogni  altra  sorte. 

La  bassezza  o  abjezione  del  loro  stato  li  fa  invidiosi  dello  stato  degli 
altri;  perché  la  lor  cieca  vita  non  può  significare  che  la  condizione  in 
cui  sou  essi  rispetto  agli  altri  dannati  ;  e  fa  riscontro  con  ciò  che  di  loro 
è  detto  da  Virgilio  quattro  terzine  più  su: 

Questo  misero  modo 
Tengon  P  anime  triste  di  coloro, 
Che  visser  senza  infamia  e  senza  lodo. 

L'invidia  è  naturale  effetto  del  non  aver  essi  speranza  di  mortCj  cioè 
speranza  di  quella  cosa  che  gli  altri  dannati  hanno,  ed  essi  no.  Or  qual 
vita  fu  la  loro  su  nel  dolce  mondo?  Vita  senza  infamia  e  senza  lodo^ 
cioè  vita  senza  valore  nessuno,  né  in  bene  né  in  male,  spregevole  in- 
somma. E  qual' è  la  vita  loro  laggiii?  Egualmente  spregevole;  perché 
son  raeschiati  a  quella  schiera  abiettissima  di  angeli,  che  non  furono  né 
ribelli  né  fedeli  a  Dio,  ma  per  sé  foro;  cioè  che  non  furono  né  caldi  né 
freddi,  ma  tiepidi,  per  paura  di  compromettersi;  e  aspettarono  di  risol- 
versi a  battaglia  finita.  A  costoro  dice  il  Giudice  eterno  {Apoc.  Ili,  15 
e  16):  Scio  opera  tua:  quia  ncque  frigidus  es  ncque  calidus;  utinam  /iri- 
gidìis  esses  aut  ccdidus.  Sed  quia  tepidus  es^  et  nec  frigidus  nec  calidus^ 
incipiam  te  evomebe  ex  ore  meo  (1).  Epperò  il  cielo  li  vomitò,  per  non 
macchiarsi  della  loro  bruttezza;  e  T inferno  non  li  volle,  perché  nessuna 
gloria  (2)  veniva  agli  angeli  ribelli  dall'  aver  compagni  nel  regno  della 


(1)  Ripensando  a  qweWutinam  di  S.  Gio-  calisse  nello  scrivere  di  tali  stomachevoli  ri- 
vanni, starei  per  dire  che  fu  esso  che  ispirò  fiuti  del  cielo  e  dell'inferno. 
a  Dante  Tidea  di  fare  un  luogo  a  parte,  e  (2)  Sto  col  Monti  e  con  gli  altri  che  spie- 
non  propriamente  neir  Inferno,  a  questi  scia-  garono  queir  a/cuna  gloria  per  nessuna  glo- 
gurati,  e  di  attribuire  ad  essi  il  rodimento  ria.  Se  non  s*  intendesse  cosi ,  finirebbe  Tef- 
deir  invidia  che  li  strazia.  Anche  T  evomere  ficacissimo  contrapposto  voluto  dal  Poeta  {per 
(cacciarli  idei.,.,)  mi  fa  sospettare  che  forse  non  esser  men  belli:  —  che  alcuna  gloria 
Dante  ebbe  in  mente  questo  passo  dell'  Apo-  i  rei,,..  ) 

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170  G.  BERNARDI  [qioukale  di  filologia 

morte  quelli  che  non  ebbero  cuore  di  esser  compagni  ad  essi  nella  ri- 
bellione. 

Rifiutati  dunque  dal  cielo,  perché  non  operarono  il  bene;  rifiutati 
dall'inferno,  perché  non  operarono  propriamente  il  male;  e  non  l'ope- 
rarono per  paura  di  uscir  fuori  da  quella  loro  specie  di  autolatria^  spre- 
giati da  tutti  gli  spiriti  celesti  e  infernali,  questi  egoisti  si  rodono  d'in- 
vidia eternamente.  Non  si  lamentano  sì  forte  per  acerbità  esteriore  di 
pena:  benché 

stimolati  molto 
da  mosconi  e  da  vespe  ch^eran  ivi, 

e  costretti  a  tenere  i  piedi  tra  fastidiosi  vermi^  pure  non  si  tratta  di 
nessuno  di  quegli  atroci  tormenti  sofferti  dagli  altri  peccatori;  ma  si  la- 
mentano di  esser  rifiutati  da  tutti,  in  dispregio  a  tutti.  Come  il  mar- 
tirio rero  di  Capaneo  non  è  la  pioggia  di  fuoco  che  lo  marturOy  ma  la 
rabbia  d'essere  veduto  vinto  è  quella  che  lo  strazia  senza  mai  posa;  così 
il  martirio  vero  di  quegli  egoisti,  superiore  a  qualunque  altro,  è  il  di- 
sprezzo in  cui  son  avuti  eternamente.  Per  sottrarsi  a  un  tale  insoppor- 
tabile disprezzo,  parrebbe  a  loro  un  gran  sollievo,  se  potessero  avere  lo 
stesso  destino  degli  altri  dannati  (invidiosi  son  d'ogni  altra  sorte);  ma 
appunto  la  certezza  di  non  poter  mai  trovarsi  con  essi,  e  liberarsi  così 
dair  insopportabile  dispregio,  li  strazia  in  eterno.  Si  ricava  pertanto  da 
tutto  il  contesto,  come  la  speranza  che  non  hanno  della  morte ^  è  questa, 
cioè  di  non  esser  proprio  nell' inferno  vero  con  gli  altri  dannati,  ma 
fuori  di  esso;  vale  a  dire  non  nella  perfetta  seconda  morte,  che  è  vera 
e  compiuta  pena,  ma  in  una  mezza  morte;  la  quale,  se  non  è  più  cruda 
dell'intiera,  certo  è  più  spiacente.  Ed  ecco  in  che  modo,  almeno  come 
sembra  a  me,  quella  seconda  morte  ri  toma  qui  a  spiegare  il  pensiero  di 
Dante,  e  rende  ragionevole  il  senso  del  verso: 

Questi  non  hanno  speranza  di  morte. 

Lassù,  nel  primo  Cauto,  dove  si  trattava  di  determinare  generica- 
mente il  supplizio  di  tutti  i  peccatori,  conveniva  quel  supplizio  chiamarlo 
seconda  morte^  rispetto  alla  prima.  Qua  poi,  dove  i  due  poeti  son  già 
in  sulla  proda 

Della  valle  d'abisso  dolorosa, 

cioè  presso  il  proprio  luogo  della  seconda  morte^  bastava  dire  soltanto 
morte,  senz' altra  aggiunta;  perché  s'intende  di  qual  morte  si  tratti,  es- 
sendo succeduta  già  la  prima,  che  sta  nella  separazione  dell'anima  dal 
corpo. 

Non  voglio  dire  che  Dante  avrebbe  potuto  parlar  più  chiaro,  come 
s' è  detto,  e  non  a  torto,  tempo  fa  dal  D'  Ovidio  a  proposito  di  le  jw- 


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BOMAiwA,  N.»  5]  NOTERELLA  AL  III,  46  INF.  171 

róle  tue  sien  conte;  ma  che  doveva  tenerla  ben  di  conto  la  diflferenza  tra 
scrittore  e  lettore,  per  non  dar  pretesto  ai  futuri  interpreti  di  anuojare 
i  galantuomini  con  notereUe  più  o  men  lunghe  di  questa. 

G.  Bernardi,  cassinese. 


P.  S.  Era  già  scritta  questa  noterella,  quando  dal  trovare  assai  lodato  da  un 
amico  mio,  più  sopra  nominato,  il  Commento  dello  Scartazzini,  ch'io  non  conoscevo, 
mi  nacque  il  desiderio  di  vedere  come  vi  fossero  interpretati  i  due  versi  in  questione. 

Un  altro  amico  mio,  il  sig.  Americo  De  Gennaro,  ebbe  la  gentilezza  di  man- 
darmi trascritti  i  luoghi  che  m'importavano.    Dice  dunque  lo  Scartazzini: 

«  117.  Che  la  seconda  morte  ciascim  grida.  —  Tutti  i  commentatori  intendono 
per  la  seconda  morte  la  morte  dell'anima,  ossia  T annichilamento,  e  spiegano  que- 
sto verso:  «  Ciascuno  desidera,  chiede  con  grida  di  morire  una  seconda  volta,  cioè  di 
rientrare  nel  nulla.  »  Senza  accingermi  a  dare  una  nuova  esposizione  di  questo 
verso,  mi  sia  lecito  di  esternare  alcuni  dubbi.  Primieramente  non  vo'  decidere  se 
il  verbo  gridare  abbia  il  senso  di  desiderare,  chiedere  ad  alta  voce;  ma  appo  il  Dante 
un  tal  senso  il  verbo  gridare  non  lo  ha,  e  sarebbe  questo  il  solo  passo,  nel  quale 
esso  verrebbe  preso  in  questo  significato.  In  secondo  luogo  non  mi  sembra  molto 
probabile  che  Dante  voglia  dire  che  ogni  dannato  chiede  con  grida  ciò  di  che  è 
certo,  non  potergli  esso  giammai  venir  concesso.  In  terzo  luogo  la  frase  seconda 
morte  vuol  dire  qualche  cosa  altro  che  annichilamento ;  eccone  il  senso  (E  qui  l'A. 
riporta  due  dei  tre  passi  da  me  riportati  dell'  Apocalisse,  il  14  del  XX,  e  1'  8  del  XXI). 
Forse  il  Buonanni  aveva  un  ceito  presentimento  del  vero ,  scrivendo  a  questo  verso  : 
«  Cioè  tutti  i  dannati  aspettano  la  resurrezione,  e  di  ripigliar  carne,  >  Ma  ho  già 
detto  che  non  vo' azzardanni  a  darne  una  nuova  interpretazione;  aggiungo  sol- 
tanto che  il  Tommaseo  spiega  grida  per  piange,  » 

«  46.  Speranza  di  morte  :  son  certi  che  il  loro  misero  e  vile  stato  non  avrà  mai 
fine.  Gli  uomini  cercheranno  la  morte  e  non  la  troveranno  :  e  desidereranno  di  mo- 
rire e  la  morte  fuggirà  da  loro.  Apoe,  IX,  6.  » 

<  48.  D' ogni  altra  sorte  :  dunque  anche  della  sorte  degli  abitatori  del  pifi  pro- 
fondo inferno.  Questi  miseri  preferirebbero  al  loro  vestibolo  sinanche  la  bocca  di 
Lucifero.  » 

«  50.  Misericordia  e  giustizia  :  la  misericordia  di  Dio  risplende  particolarmente 
nel  cielo,  la  giustizia  sua  si  mostra  terribilmente  nell'inferno.  Ma  questi  mise- 
rabili sono  esclusi  dall'  uno  e  dall'  altro  luogo  :  non  gli  vuole  né  Iddio  né  il  diavolo. 
Vedi  V.  63.  > 

Ai  dubbi  espressi*  dal  valente  interprete,  intorno  al  verso  117,  vorrei  che  gio- 
vassero le  mie  osservazioni  per  trasformarli  in  certezza.  Quanto  alla  nota  del  Buo- 
nanni, non  so  capire  come  i  giustissimi  dubbi  dello  Scartazzini  si  possono  accordare 
col  presentimento  del  vero  di  un  commentatore,  il  quale,  per  giunta,  ripeto  le  cose 
dette  in  proposito  da  Francesco  da  Buti.    Vedasi  il  commento  che  ho  riportato. 

In  ordine  poi  ai  versi  48  e  50,  ch'egli  spiega  così  bene,  se  gli  avesse  considerati 
intimamente  congiunti  col  verso  46,  forse  non  si  8arebl>e  appoggiato  a  quell'altro 
passo  dell'Apocalisse. 

G.  B. 


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172  F.  SETTEGAST  [giokhalb  di  filoloqu 

JAGOS  DE  FOREST 

E  LA  SUA  FONTE 


Da  più  anni  sto  preparando  nna  edizione  del  Roman  de  Julius  Cesar 
composto  da  Jacos  de  Forest,  e  della  sna  fonte,  che  ora  indicherò,  ed 
ho  al  presente  raccolto  tutto  il  materiale  a  ciò  necessario,  per  quanto 
m' era  conosciuto.  Ma  poiché  questa  edizione  non  potrà  venire  alla  luce 
tanto  prossimamente,  premetto  alcune  osservazioni  relative  a  quei  testi, 
le  quali  spero  serviranno  a  rettificare  ed  ampliare  le  notizie  finora  pub- 
blicate intorno  di  quelli. 

Si  è  creduto  sin  qui  che  il  Roman  de  Juks  Cesar  di  Jacos  de  Fo- 
rest traesse  origine  dalla  Pharsalia  di  Lucano  come  da  fonte  diretta. 
Questa  è  l'opinione  della  Histoire  littéraire  [\)  che  in  un  bell'articolo 
del  sig.  A.  D.  (Duval)  s'esprime  a  proposito  del  poema  in  discorso: 

Cast  Iv  tort,  au  reste,  qu*il  [i.  e.  Jacos]  a  donne  à  son  ouvrage  le  titrede  Ju- 
les-César,  puisqne  ce  n'ost  qu'uno  traduction  de  la  Pharsale  de  Lucain.  Il  est  vrai 
qu'il  a  osé  completar  Tépopée  da  poète  latin  :  il  n'abandonne  Cesar  que  lorsqu'il  en 
a  fait  un  empereur  de  Rome  etc. 

In  queste  notizie  intorno  a  Jacos  de  Forest  il  sig.  Duval  coramu- 
nica  che  nel  Vaticano  (Reg.  824)  si  trova  un  ms.  francese  il  quale  tratta 
appunto  dei  fatti  di  Giulio  Cesare.  Egli  dice  relativamente  a  questo 
ms.  (pag.  686): 

Il  commence  par  une  miniature  presque  entièrement  efFacée,  au-dessus  de  la- 
quelle  on  lit  ce  titre  en  lettres  rouges  :  «  C'est  de  Julius  Cesar  >  ;  et  au-dessous  :  «  Cj 
oomence  li  histoire  de  Julius  Cesar  ke  Jean  de  Cuien  translata  de  latin  en  romnan, 
selon  les  X  livres  de  Lacan.  »  Yoilà  du  moins  un  des  translateurs  de  Lucain  bien 
oonnu:  c'est  Jean  de  Cuien.  Mais  nous  ne  pouvons  rien  dire,  jusqu'à  présent  do 
moins,  de  cet  auteur  dont  nous  trouvons  ici  le  nom  pour  la  première  foia,  ni  de  son 
ouvrage  que  nous  n'avons  point  sous  les  yeux. 

L'ultima  circostanza  allegata  dal  Duval,  che  cioè  non  potè  vedere 
egli  stesso  quel  ms.,  serve   a  scusarlo;  poiché  in  quel  ms.  (2)  non  è 


(1)  Anche    Joly    segue   questa  opinione  (2)  Dal  quale  il  prof.  Monaci  ebbe  la  bontà 

nella  sua  opera:  Btfnott  de  Samt«-3for«,  Pa-     d'inviarmi  copiosi  estratti,  e  che  io  stesso 
rigi,  1870,  t.  I,  p.  383.  neiranno  1878  copiai  in  Roma  per  intero. 


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BOMANZA,  N.«>  5]  JACOS  DE  FOEJEST  173 

scritto  Jean  de  Cuien,  ma  chiarissimamente  Jehans  de  Tuim.  La  stessa 
opera  di  questo  Jeban  è  contenuta  nel  ms.  n.*"  722  della  Biblioteca  pub- 
blica di  St.  Omer(l),  nel  quale  comincia  in  questo  modo: 

Chi  commencent  les  estoires  de  Julius  Cesar,  comment  Jehans  de  Thuun  les 
translata  de  latin  en  romans  salone  les  X  livres  de  Lucan. 

Quest'opera  di  Jeban  de  Tuim  o  Tbuun  (2),  il  quale  deve  essere  vissuto 
circa  la  seconda  metà  del  XIII  secolo,  è  la  fonte  immediata  di  Jacos 
de  Forest;  anzi  può  dirsi  che  il  poema  di  quest'ultimo  non  sia  altro 
che  una  versificazione  di  quel  romanzo  in  prosa.  Ambedue  le  opere 
raccontano  dal  principio  alla  fine  gli  stessi  fatti,  nella  stessa  maniera, 
sovente  con  le  stesse  parole.  Per  mostrare  questa  relazione,  riporto  qui 
sotto  il  Prologo,  il  quale  in  Jeban  de  Tuim  viene  dopo  il  Sommario. 

1.  Jbhan  db  Tuim  (  Vatic.  f.  1^) 

Ci  coumence  Jehans  son  prologue  et  dist  ensi  : 

Puis  qua  volentes  me  semont  ko  je  vous  raconte  en  Pestore  roumain  (sic)  cou- 
ment  Julius  Cesar  coumenca  le  guerre  et  le  maintint  encontre  les  citoaius  de  Roume, 
les  queus  il  desconfi  es  chans  de  Thesale ,  et  commout  il  couquist  toute  le  seignorie 
dou  monde:  bien  est  drois  ke  si  dit  soient  racontet  et  si  fait  ausi  en  tei  maniere, 
que  tout  li  haut  home  ki  terre  ont  a  garder  et  a  gouvrener,  pour  con  que  il  miex 
se  maintiegnent  en  gentilleche  et  an  toutes  bontes,  i  prcndent  examples  et  ensei- 
gnemens;  car  quant  il  fìst  tant  (f.  1*^)  et  conkuist  par  le  viertut  de  nostre  seignour 
premierement  et  par  se  proeche  en  apries,  Vii  fu  oremus  et  redoutes  par  tout  le 
monde  et  ses  nons  ensauchies  et  se  vie,  bien  est  drois  que  si  fait  soient  ramenteut  et 
racontet  apries  se  mor  en  avant.  Pour  cou  ke  Jehans  Tuym  (sic)  veut  ke  la  grans 
bontes  des  preudounies  que  Julius  Cesar  fu  a  son  tans  soit  seue  et  racontec,  il  translata 
Testore  roumain  de  latin  en  roumaut  sclonc  cou  ke  Lucans  en  escrist;  mes  tant  i 
a  k'il  redente  sour  toute  rions  les  me.sdis  des  envios,  k'il  ne  li  atournent  a  folie  cou 
k'il  fait  pour  sens  et  pour  edefiier  les  cuers  des  prodoumcs  ki  Testore  en  ascouteront. 
n  croit  bien  ke  li  mauves  Ten  blasmeront  et  sans  raiaon,  et  s'il  en  devant  ne  le 
font,  si  le  feront  il  en  derriere.  Il  lor  donne  rose  pour  beine  odour,  et  il  li  rendent 
espines  encontre  ;  il  lor  donno  miei  por  doucour,  et  il  li  rendent  fiel  amer.  Mais  pour 
ce  k'il  set  bien  et  voit  que  li  mauves  ne  puet  laissier  (f.  1^)  son  vili  usage  ne  se  mau- 
vesse  acoustumance,  ains  art  tous  de  duel  et  d'envio  pour  le  bontet  k'il  voit  ou  boin, 
ausi  com  li  plons  s'art  pour  l'argent:  nonj  ourquant  Jehans  dist  qu'il  pueent  de  lui 
mesdire,  car  on  sarà  bien  k'il  ne  le  feront  fors  par  envio,  ne  ja  pour  lor  envie  sa 
bontes  n'abaissera,  car  li  biens  si  vaintera  tous  tans;  et  pour  cou  veut  il  revenir  a 
se  matere  et  commoncera  en  tei  maniere. 

2.  Jac  s  DE  FonEST  {Paris ,  Bibl  Nat.  fr.  1457,  fol.  4  r.^) 

Uns  pensers  qui  mon  cuer  ontalente  et  esprent 
be  trover  me  semont  et  a  dire  m'aprent 

(1)  V.  su  ciò  il   CatcUogue  des  Manu-  {%)  Sembra  al  certo  la  città  di  Thuin  nel 

scrits  des  Bibliothéques  des  Départements,     Belgio  (Hainaut). 

t.  m. 


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174  F.  SETTEGAST  [oiobmale  di  fuloloou 

Selonc  Teetoire  vraire  (aie)  endroit  mon  escient 
L*estoire  des  Romains  et  por  quoi  et  comment 
Julia  Cesar  li  preus  qui  tant  ot  hardement 
La  guerre  commeoca  et  mena  loDguement 
Vera  les  citains  de  Rome,  qu'il  par  eaforcement 
Enz  ea  chana  de  Teaaale  deaconfi  plainement, 
Et  qui  par  aa  valor,  ae  Teatoire  ne  ment, 
Citez,  bora  et  chaatiaua  conquist  ai  amplement 
Con  li  cieux  le  mont  coevre  et  la  terre  a'eatent. 
Bien  est  droia,  ce  m^eat  via,  qui  raiaon  i  entent, 
Que  de  celui  aoit  faia  romanz  nouvelement 
Por  aon  pri»  eaaaucier  et  por  ce  enaement 
Que  haua  hom  qui  tient  terre  par  aon  droit  fievement, 
Pour  tant  qu'il  a'en  maintiegne  mieula  et  plus  franchement, 
De  bonte  prandre  (sic)  ezample  et  bon  enaeignement 
A  la  yertu  du  aien  et  a  aon  hardement, 
Qui  tant  fiat  et  conquiat,  que  li  nona  aeulement 
De  lui  fu  redoutez  deai  qu*en  orient 
Et  de  la  dusqu'au  lieu  c'on  apelo  occident; 
foi  4  v.o        Qui  tant  fìat  en  aa  vie,  bien  eat  droia  voiremcnt 
Qu'aprez  aa  mort  en  aoit  loez  a  tonte  gent 

De  Temperor  Ceaar  qui  par  aa  baronnie 

Le  pina  du  mont  conquist  et  miat  en  aa  baillie, 

Qui  fiat  tante  bataille  et  tante  aoraaillie, 

Tant  eator,  tant  aasaut,  tante  dure  envaie, 

Dont  maina  bera  et  maina  cora  d'omme  a  chicre  hardie 

Et  maina  bona  chevaliera  a  perdue  la  vie, 

Qu'il  deaconfi  Pompeo  od  aa  chevalerie 

Et  lea  citains  de  Rome  par  bataille  arramie: 

De  celui  fet  Tauctora,  que  qu'enviouz  en  die, 

Cea  vera  de  tei  matere  qui  n'est  paa  molt  oie; 

Quar  il  Ta  du  latin  tonte  en  romanz  changie 

Et  de  la  vraie  estoire  de  Rome  departie. 

Mea  il  doutent  (sic)  forment  les  mesdis  et  Tenvie 

De  pluaors  gena  qui  sculent  atomer  a  folio 

Ce  que  on  fet  por  aena  et  aanz  losangerie; 

Nea  ce  qui  bien  est  fait  ne  laissent  encor  mie 

Qu'il  n'i  voilent  noter  ou  mal  ou  vilenie. 

Bien  le  croi  qu'envioux  a  tort  me  blasraeront 
Et  capine  por  rose,  fiel  por  miei  me  rendront; 
Quar  ce  que  por  sena  faz  a  folie  atorront 
Et  ce  que  por  bien  di  en  mal  reprenderont, 
El  s'il  nel  font  devant,  en  derrier  le  feront, 
Quar  tex  est  lor  coustume  que  il  pas  ne  lairont 
Por  moi,  ce  poise  moi;  raes  tant  lor  cu  respont 
Qu'ausi  bien  li  mal  vaia  pour  le  bon  se  confont 
Con  fet  li  plons  qui  s'art  por  Targent  ou  il  font: 


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ROMANIA,  N.*»  5]  JACOS  DE  FOEEST  175 

ÀU88Ì  s^ardent  malves  por  cela  qui  vaìUant  soni 

Par  Tenvie  et  par  Tire  qu'il  de  lor  bonte  ont; 

Et  8*il  de  moi  mesdient,  plus  que  moi  s^empìront, 

Con  saura  bien  que  il  d'envie  le  feront; 

Por  ce  petit  me  chaut  de  quanque  il  diront; 

Et  si  porrà  bien  estro  que  il  me  greveront, 

Mais  ja  voir  mon  boin  non  don  tòut  n'abaisseront , 

Quar  ades  en  la  fin  li  bien  se  proveront, 

Et  il  com  mesdìsant  menteor  remainront. 

Or  s'en  voit  envious  et  cil  qui  sordit  sont, 

De  mesdire  se  taissent,  quar  encombrier  nous  font, 

Et  je  dirai  comment  li  premerain  vera  vont 

De  Testoire  de  Rome,  qui  a  verte  respout, 

Que  Tauotors  de?ant  dis  en  romanz  vous  despont. 

Ambedue  questi  passi  bastano  a  far  riconoscere  che  l'uno  dei  nostri 
testi  è  solo  un  rifacimento  dell'  altro.  Un  solo  dubbio  può  tuttavia  sus- 
sistere; si  può,  cioè,  fare  la  domanda  se  Jacos  abbia  posto  in  versi  il 
romanzo  in  prosa,  o  se  al  contrario  Jehans  abbia  ridotto  in  prosa  il 
poema.  Da  questo  dubbio  ci  libera  lo  stesso  Jacos  con  il  passo  se- 
guente (f.  147^: 

Maia  adone  en  son  ost  avint  merveille  granz, 
Quar  une  nuit  a  Tore  que  les  gaites  vaillanz 
Doivent  aler  par  Post  por  guaitier  les  dormanz, 
Adono  fu  une  ploeve  jus  du  ciel  descendanz, 
Qui  molt  fu  perillouse  et  qui  molt  fu  nuisanz; 
Quar  0  la  pluie  estoient  groses  pierres  cheanz, 
Qui  erent  tot  entor  comues  et  poignanz, 
Si  fu  molt  cis  tempcs  les  Romains  apressanz; 
Quar  les  pierres  les  erent  molt  durement  blecanz 
Et  contro  lor  cols  nus  n'avoit  autre  garanz 
Que  ce  que  chascuns  s'iert  de  son  esou  covranz; 
Quar  cote  ne  mantiaus  ne  lor  valoit  una  ganz 
Que  tres  parmi  les  dras  ne  fast  li  cols  sentanz, 
Si  ronpoient  les  pierres  des  tentes  plusors  panz. 
Ensi  c'iert  cis  oragea  Ceaare  molt  grevanz 
Si  com  l'sstoibs  dist  bt  ek  apbes  Jehanz. 

Il  passo  corrispondente  in  Jehan  de  Tuim  dice  (Vai.  f.  74*): 

Maia  une  grana  mierveille  i  avint  adont  une  nuit  ;  car  une  grana  pluie  commenca 
et  avoec  cele  pluie  cheirent  grana  pieres  comues  teles  ke  cotea  ne  mantiaua  ne  draa 
ne  lor  porent  valoir,  ains  se  (Ma,  le)  couvroient  de  lor  escus  et  de  quanque  il  pooient 
avoir  pour  aus  garandir;  et  cheoient  cea  pierea  de  ai  grant  ravine,  k'elea  dearompoient 
les  pana  dea  trea  ki  fort  estoient  et  doublé.  Que  vaut  con  ?  Molt  grevoient  ces  pierea 
a  Ceaar  et  a  aa  gent. 

Da  questo  confronto  si  rileva  che  il  Jehans  (de  Tuim)  menzionato 
da  JacoS;  fu  la  sua  fonte  diretta.    E  da  questa  menzione  della  e  Estoire  » 


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176  F.  SETTEGAST  [giornale  di  filologia 

si  potrebbe  anch'essere  indotti  a  conchindere  che  Jacos  abbia  avuto 
anche  un'altra  fonte  insieme  a  Jehan;  ma  tuttavia  ciò  è  abbastanza 
inverosimile.  Jehans  dall'altra  parte  ha  attinto  il  passo  sopra  riportato 
dal  e.  47  De  hello  Africam.  La  sua  fonte  principale  è  Lucano,  ma  anche 
i  Commentari  di  Cesare  da  lui  non  menzionati  ;  dal  punto  in  cui  Lucano 
interrompe  la  narrazione,  cioè  dal  principio  dalla  guerra  d'Egitto  in 
poi,  egli  segue  (senza  citare  tal  fonte)  la  continuazione  delle  storie  di 
Cesare  De  bello  Alexamlrino  e  De  hello  Africano;  si  è  anche  giovato 
della  storia  De  hello  Hispaniensi. 

Qui  troverà  luogo  anche  una  osservazione  intorno  alla  relazione  fra 
il  testo  di  Jehan  de  Tuim  ed  un  altro  d'eguale  contenuto.  Io  alludo 
all'anonimo  romanzo  antico  francese  intomo  alla  vita  e  ai  fatti  di  Giulio 
Cesare,  contenuto  in  numerosi  mss.  e  compilato  dalle  opere  di  Sallustio, 
Lucano  e  Svetonio.  Lo  citerò  in  seguito  col  nome  di  Vie,  Esso  è  stato 
anche  tradotto  in  italiano,  e  questa  versione  italiana  fu  pubblicata  dal 
Banchi  col  titolo:  I  fatti  di  Cesare  (Bologna,  1863;  una  critica  molto  istrut- 
tiva di  questa  edizione  fu  inserita  dal  Mussafia  nel  Jàhrhuch  fUr  roman. 
Litcr.  VI,  109  ss.)  La  Vie  e  il  testo  di  Jehan  de  Tuim  sono  fra  loro 
indipendenti  ;  le  somiglianze  che  reciprocamente  presentano,  provengono 
generalmente  dall'avere  ambedue  in  parte  la  medesima  fonte,  Lucano. 
Solo  mi  sembra  in  qualche  maniera  verosimile  che  Jehans  abbia  al- 
meno conosciuta  la  Vie.  Dei  passi  che  mi  hanno  condotto  a  questa 
supposizione,  ne  riporto  due  i  quali  forse  sono  adatti  anche  a  dare  un 
po'  di  luce  sulla  domanda:  da  chi  sia  stata  composta  la  Vie,  Jehans  (e 
il  suo  seguitatore  Jacos,  f.  160'')  narra  che  Catone  dopo  la  sconfitta  dei 
Pompeiani  a  Thapsus  si  trafisse  con  la  spada  per  non  sopravvivere  alla 
schiavitù  della  patria: 

Il  avoit  0  lui  pourpenseement  portee  s'eapee  si  Ta  sachie  dou  fuerre  et  s'en  fiert 
ou  costet  seniestre  si  cruelment  qne  Tespee  li  partist  le  cuer  et  lì  sana  en  saut  apries 
le  cop.  (Vat  f.  8P). 

Jehans  si  fa  un  po'  dopo  (f.  83^)  a  sostenere  questo  racconto  della 
morte  di  Catone  come  il  vero,  contrariamente  ad  un  altro,  secondo  il  quale 
Catone  si  sarebbe  ucciso  col  veleno,  e  che  egli  ascrive  ai  e  mestres 
d'Orliens»:(l) 

Ensi  s'ocist  com  je  vous  di  ;  mais  li  mastre  d'Orliens  en  vont  contant  autre  obese, 
car  il  diont  qu'il  s'ocist  par  venim  et  par  ire  ;  mais  li  hestore  ne  s'i  assent  point 


(1)  Come  Jehans  racconta  anche  Jacos  f.  KH'^.  —  La  «  hestore  »  a  cui  si  richiama 
Jehan  è  senza  dubbio  «  De  hello  Africano  »  dove  al  cap.  88  si  legge  :  «  ferrum  iotro  clam 
in  cubìculum  tulit  atquo  ita  se  transjecit.  » 


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«0MA1I8A,  M.'>  5J  JACOS  DE  FORESI  177 

Se  noi  ora  cerchiamo  nella  Vie  il  passo  corrispondente,  troviamo 
difatti  che  qui  si  racconta  che  Catone  s' uccise  col  veleno.  Così  in  uno 
dei  mss.  di  questo  testo  (Bibl.  Nazion.  di  Parigi,  n.°  295  fr.  p.  614)  si 

dice  relativamente  a  Catone:  «  U  adevauca  sa  mort  par  venim il 

s'envenima  et  morut  »  (1). 

11  secondo  passo  si  riferisce  alla  morte  di  Cn.  Pompeo,  figlio  di 
Pompeo  il  Grande.  Jehans  racconta  (secondo  il  Bellum  Hispaniense 
cap.  XXXIX),  che  quegli  dopo  la  disfatta  di  Munda  si  nascose  fuggendo 
dentro  una  fossa,  e  continua: 

Mais  con  ne  li  valut  riens,  car  paissant,  ki  a  Cesar  se  tenoient  de  guerre,  le 

trouverent  la  se  li  cauperent  la  tieste  si  Taporterent  a  Cesar Ensi  com  je 

Yous  di  fu  Pompee  mors,  mais  li  maistre  d'Orliens  en  dient  autre  chose  en  lor  fa- 
bles,  car  il  dient  que  Cesar  (xsega  Fompee  en  Mondain  et  mortit  par  famine  (Vatic 
f.  84^,  Jacos  f.  166  v.«). 

E  qui  nuovamente  corrisponde  ciò  che  è  attribuito  ai  e  maistres  d'Or- 
liens  »  col  racconto  della  Vie,  sebbene  non  in  tutti  i  punti,  almeno  in 
un  punto  principale,  cioè  T  assedio  di  Munda.  Poiché  infatti  in  questo 
testo  (per  esempio  nel  N.**  281  fr.  della  Bibl,  Naz.  f.  226')  ambedue  i 
figli  di  Pompeo  vengono  assediati  da  Cesare  in  Munda  (chiamata  «  Mon- 
de »  e  anche  «  Mede  »).  Diversamente  è  qui  narrata  la  morte  di  Cn. 
Pompeo  (chiamato  nel  n.*  281  <c  Gaio  >  invece  di  e  Gneo  »);  poiché 
quivi  è  detto  che  egli  sarebbe  stato  ucciso  in  una  sortita  fatta  dall'as- 
sediata città  (2). 

Da  ciò  sembra  discendere  che  se  la  Vie  è  davvero,  come  si  può 
supporre,  opera  dei  e  Maistres  d*Orliens,  >  Jehans  ne  aveva  solamente 
un'imperfetta  conoscenza,  o  che  egli,  cosa  che  non  può  sorprendere 
in  uno  scrittore  del  medio  evo,  ha  dato  di  quella  soltanto  una  notizia 
inesatta.  Sempre  però  è  cosa  degna  d'osservazione  che  in  ambedue  i 
passi  nei  quali  il  racconto  di  Jehans  contradice  a  quello  dei  e  Maistres  », 
quest'ultimo  concorda  quasi  in  tutti  i  punti  con  la  Vie.  Io  riassumo  il 
risultato  di  questa  piccola  ricerca  nelle  seguenti  proposizioni: 

1)  Il  Boman  de  JtditiS  Cesar  di  Jacos  de  Foresi  non  è  rifacimento 
diretto  della  Pharsalia  di  Lucano  ma  sibbene  della  Estoire  de  Jviius 
Cesar  di  Jehan  de  Tuim; 

2)  Con  la  menzione  dei  e  Maistres  d'Orliens  »  Jehans  sembra  al- 
ludere agli  autori  della  Vie. 


(1)  I  Fatti,  cap.  XXXV,  narrano  di  Ca-  (2)  Con  la  Vie  concordano  i  Fatti,  capi- 

tone: «  Prese  uno  beveraggio  che  si  chiama     telo  XXXV. 
cicuta  e  mori.  » 

12' 


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178  JACOS  DE  FORESI  [qiohkalk  di  filologia 

Per  conchiusione  mi  sia  lecito  d'aggiungere  che  sarò  gratissimo  a 
chiunque  mi  saprà  indicare  altri  mss.  diversi  da  quelli  da  me  conosciuti 
del  testo  di  Jehan  (Vatic.  Reg.  824,  St.  Omer  722  (1))  e  di  Jacos  (Bibl. 
Naz.  1457). 

Zurigo,  10  ottobre  1879. 

P.  Setteoast. 


(1)  Ultimamente  il  signor  Professore  D.'  Gròber  ebbe  la  bontà  di  darmi  notizia  di  un 
terzo  manoscritto,  il  quale  si  trova  a  Parigi  nella  biblioteca  dell'Arsenale,  n.»  3344. 


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«oiiAMA,  M.o  5]  A.  D'ANCONA  179 


STEAMBOTTI  DI  LEONAEDO  GIUSTINIANI 


Quando  io  metteva  insieme  quegli  Studj  suUa  poesia  popolare  ita* 
liana  che  furono  stampati  nell'anno  1878  dall'editore  Vigo  di  Livorno, 
io  ricordava  di  avere  tra  i  miei  libri  un  opuscoletto  stampato  nel  se- 
colo XVII  di  Stranfìbotti  del  Giustiniani,  e  mi  sembrava  per  una  certa 
rimembranza  che-  me  ne  era  restata,  che  non  dovesse  esser  inutilo 
alle  ricerche  che  allora  facevo,  e  sopratutto  a  meglio  confermare  le 
continue  ed  antiche  relazioni  fra  la  poesìa  cantata  dalle  plc1)i  e  quella 
di  autori  che  imitarono  la  forma  plebea.  Riuscitami  vana  ogni  indagine 
dell'opuscolo,  perdutosi  in  mezzo  a  volumi  di  maggior  formato,  e  non 
avendone  trovato  copia  nello  Biblioteche  pubbliche  e  private  di  queste 
parti,  non  ci  pensai  più,  finché  per  caso  mi  ritornò  sotto  gli  occhi.  È 
desso  un  libercolo  di  8  carte  non  numerate ,  così  intitolato  :  Stuambotti  |  in 

PROPOSITO  I  DI    CUSCTTNO  |  AMATOUB  |  LI    QUALI    SCUISSE  DI  SUA  PROPRIA  |  MANO  |  IL 

NOBILE  MESSEtt  LEONARDO  |  GiusTiNUNO.  |  III  Trcvigi  |  Per  Girolamo  Righet- 
tini.  1641  I  Con  licenza  de'  superiori  |  e  di  nuovo  ristampato.  —  Rilettolo, 
e  colla  memoria  fresca  dei  molti  canti  popolari  che  avevo  dovuto  ri- 
petutamente leggere  nel  comporre  il  volume  degli  Studj,  mi  avvidi  che  vi 
erano  per  entro  non  pochi  Strambotti  tuttora  viventi  sul  lal)bro  dei  nostri 
volghi,  ed  altri  compresi  nel  Cod.  perugino  del  sec.  XV  da  me  ripro- 
dotto in  Appendice  al  mio  lavoro.  Pensai  allora  che  non  sarelibe  stato 
inutile  agli  studj  della  popolare  poesia  il  riprodurre  questi  Strambotti 
del  Giustiniani,  corredandoli  di  qualche  rafiFro)ito  colle  versioni  antiche 
e  moderne;  ed  offro  questa  tenua  fatica  ai  benevoli  del  nostro  Giornale. 
Se  non  che  una  stampa  popolare  del  sec.  XVII  <li  poesie  che  risal- 
gono al  XV  non  offriva  sufficiente  sicurezza  di  huona  lezioue:  e  pensai 
si  dovesse  ricorrere  o  a  manoscritti  o  ad  edizioni  antiche,  o  a  tal  fino  mi 
rivolsi  all'egregio  bibliofilo  e  cortese  amico  il  signor  cav.  Andrea  Tessier 
di  Venezia,  perché  nella  Marciana  mi  trovasse  ciò  che  fosse  a  me  ne- 
cessario. Ed  egli  con  quella  sollecitudine  che  rende  più  graditi  i  fixvori, 
mi  trasmetteva  copia  degli  Siramhotti  del  Giustiniani  secondo  una  antica, 
e  forse  prima  edizione  veneziana,  accompagnando  la  trascrizione  con 
una  lettera,  che  stimo  utile  riprodurre  per  le  notizie  biografiche  e  bi- 
bliografiche che  in  essa  contengousi. 


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180  A.  D"  ANCONA  [giokkàlb  di  rnxiLoeiA 

«  Leonardo  Giustiniani,  che  nacque  intomo  al  1388  e  morì  il  10 
Novembre  1446,  era  patrizio  veneto  e  fratello  al  Protopatriarca  di  Ve- 
nezia, il  B.  Lorenzo  ;  ed  è  autore  degli  Strambotti,  non  meno  che  delle 
Canzonette^  delle  Laudi  Spirituali  ecc.  Di  lui  parlarono  moltissimi  autori, 
fra'  quali  ricordo  i  seguenti:  l'Agostini  negli  Scrittori  veneziani^  tomo  I, 
pag.  135  e  seg.  e  tomo  II,  p.  31;  il  Foscarini  nella  Letteratura  vene- 
jsiana,  a  pag.  368,  nota  94;  il  Contarini  (G.  Battista)  negli  Anecdota 
veneta^  1757,  a  pag.  73  e  seg.;  il  Morelli  a  pag.  193  della  sua  Disserta- 
eione  sulla  cidtura  della  poesia  presso  i  Veneziani^  riportata  anche  nel  t.1 
delle  Operette,  Venezia,  1820:  il  Tiraboschi  nel  voi.  VI,  part.I,  pag.  157-9 
della  Storia  della  Leti,  ital,  e  voi.  VI,  pari  IV  a  pag.  1069  dell' ediz.  di 
Venezia,  1823;  il  Crescimbeni  nei  Commentari  a  pag.  246  del  voi.  Il, 
part.  II;  il  Sansoviuo  nella  Veìiezia  descritta,  lib.  XIII,  cart.  244  tergo; 
il  Quadrio,  voi.  II,  469,  474;  VII,  100-101,  125-6,  200;  il  Comiani  nei 
Secoli  della  Letteratura,  voi.  II,  p.  289;  il  Cicogna,  Inscris,  veìxeziane^ 
t.  II,  pag.  71-3;  t.  V,  pag.  516;  t.  VI,  pag.  775-6;  ed  altri  assaL 

€  Quanto  agli  Strambotti,  oltre  l'edizione  di  Trevigi  da  lei  posse- 
duta, varie  altre  ne  esistono.  La  più  antica  ch'io  conosca  è  la  seguente, 
di  cui  sta  un  esemplare  nella  Biblioteca  Marciana,  ov'è  contrassegnata 
A.  T.  7.  5761  :  —  Questi  Strambotti  scrisse  de  sua  maó  in  prepo  |  sito 
d'  ciascaduno  amatore  il  nobile  misser  |  Leonardo  lustiuiano.  —  Senza 
anno  e  senza  note  tipografiche,  ma  degli  ultimi  anni  del  sec.  XV  o  dei 
primissimi  del  sec.  XVI.  Di  sole  4  e.  in  4**  con  fig.  intagliate  in  legno 
nella  l*  e  3*  carta. 

€  La  stessa  Biblioteca  possiede  le  due  altre  edizioni  che  seguono: 
Tuna  intitolata:  —  Strambotti  |  m  proposito  |  di  cuscuno  j  amatore.  |  Li 
quali  scrisse  di  sua  propria  mano,  il  Nobile  Missier  |  Leonardo  Giusti- 
niano I  In  Trevigi,  con  licenza  de'  Superiori  |  ed  in  Vicenza  per  il  La- 
nezari.  —  Senz'anno,  del  sec.  XVII,  di  4  e.  non  numer.  in  4'.  —  Tale 
esemplare  è  contenuto  nel  voi.  miscellaneo  n.  1945.  L'altra  è  intito- 
lata: —  Strambotti  |  in  proposito  |  di  ciascuno  amatore  )  Li  quali  scrisse  di 
sua  propria  mano  |  Il  nobile  missier  |  Leonardo  Giustinuno  |  In  Trevigi, 
MDCLXII.  I  Appresso  Francesco  Righettini  |  Con  Licenza  de'  Superiori. 
Di  4  e.  non  numerate ,  in  4%  con  fig.  intagliata  in  legno  sul  frontespizio 
e  nell'interno  dell* opuscoletto.  È  nel  voi.  misceli,  n.  2677. 

€  Però  i  detti  Strambotti,  che  sono  i  medesimi  in  ciascuna  delle 
succitate  edizioni,  vennero  tratti  dalle  più  copiose  stampe,  di  cui  mi  è 
dato  darle  una  breve  descrizione,  per  averne  trovato  esemplari  nella 
Marciana.  La  più  antica  è  la  seguente:  —  Comincu  il  fiore  delle  ele- 
gantis  I  siME  Canciouete  dil  nobile  messere  Leonardo  |  lustiniano.  —  In 
fine:  —  Il  fiore  delle  elegantissime  caucionette  di  mes  |  sere  Leonardo 
lustiniano  qui  finisse:  ì  Vene  |  tia  con  ogui  diligentia  impresse  per  An- 
tonio I  de  strata.  a  di  none  Marzo  MCCCCLXXXIl  |  Messere  Giovanni 


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BOMAH8A,  N.«  5]  8TBAMB0TTI  DEL  GIUSTINIANI  181 

mocenigo  inclyto  principe  I  dì  Venetia.  —  In  4*  di  e.  44,  non  nnmer. 
Magnifica  edizione,  contrassegnata  CXIII,  4,  41127.  Altra  edizione:  — 
Queste  sono  le  Canzonette  et  |  Strambotti  damore  compo  |  ste  per  il  Ma- 
gnifico mi  I  ser  Leonardo  Insti  |  niano  di  Venetia.  —  In  fine  :  —  Impres- 
sum  Venetiis  per  Ioannè  |  Baptistam  Sessam  Anno  |  diii  MCCCCC  |  Die 
nero  XUII  |  Aprilis.  In  4%  di  16  e.  non  numer.,  contrassegnato  col 
n.**  2677.  Altra  edizione  :  —  Queste  sono  le  Canzonette  et  |  stramboti 
damore  compo  |  ste  per  el  Magnifico  mi  |  ser  Leonardo  lusti  |  niano  di 
Venetia.  —  In  fine  :  —  Impresso  in  Venetia  per  marcliion  Sessa  |  nel 
MCCCCCVI.  adì  XII  octobrio.  —  In  4%  di  16  e.  non  numer.  Contrasse- 
gnato A.  T.  7.  5761.  —  Altra  edizione: —  Queste  |  sono  le  canzonette 
Et  I  Strambotti  Amoro  |  si.  Composte  per  |  el  Magnifico  |  miser  Leo  | 
nardo  lustiniano  da  |  Venetia.  Stàpa  |  ta  Novamète.  —  In  fine:  —  Stam- 
pata in  Venecia  p  Zorzi  de  Rusconi  |  Nel  M.  D.  XVIIII.  adi  XIII  de 
Novèbre.  —  In  8**,  di  40  e.  non  numer.    Contrassegnato  A.  S.  3.  5003. 

<  Quanto  a  codici  manoscritti,  la  Marciana  ne  possiede  uno  con- 
trassegnato col  n.*"  CV  della  CI.  IX  degli  italiani,  del  sec.  XVI,  in  4% 
il  quale  contiene  Eime  di  vari  antichi  autori.  Fra  queste  àvvene  alcune 
del  Giustiniani,  che  reputo  inedite,  ad  eccezione  di  quella  che  comincia: 
Io  vedo  ben  che  amor  è  traditore,  la  quale  è  stampata  fra  le  Canzonette 
delle  quattro  edizioni  poc'anzi  indicate. 

<  Quanto  a  Laudi  Spirituali  del  suddetto  Giustiniani,  se  ne  trovano 
inserite  in  varie  raccolte  a  stampa,  insieme  con  quelle  di  altri  autori, 
secondo  ne  fa  menzione  il  Gamba  sotto  i  n.'  105,  106,  107,  108  della 
Serie  de'  testi  di  lingua,  Venezia,  1839,  mentre  il  Cicogna  nel  t.  II,  pag.  72, 
col.  1  delle  suddette  hiscrizioni  veneziane  accenna  esistere  la  seguente 
edizione:  —  Le  devotissine  et  sauctissime  Laude.  Cremona,  1474,  in  4**; 
le  quali  Laude  furono  ristampate  più  volte. 

«  Molte  Laudi  Spirituali^  poi,  di  esso  Giustiniani  stanno  nel  ms. 
Marciano  contrassegnato  col  n.**  CLXXXII  della  ci.  IX,  il  quale  è  in 
foglio,  e  del  sec.  XV:  e  taluna  delle  stesse  Laudi  sta  nell'altro  cod. 
Marciano  contrassegnato  col  n.**  LXXVIII  della  detta  ci.  IX,  il  quale 
è  in  foglio  piccolo,  e  della  fine  del  sec.  XVI  o  del  principio  del  se- 
colo XVII.  » 

La  copia  fattami  diligentemente  dal  sig.  Tessier  è  tratta  dall'edi- 
zione s,  a.  ma  della  fine  del  sec.  XV  o  dei  primissimi  del  XVI.  Il  testo 
da  me  prodotto,  ha  per  principal  fondamento  quella  stampa,  contrad- 
distinta colla  lettera  a,  ma  si  giova  anche  dell'  edizione  del  Righet- 
tini  1641,  notandola  con  6. 

Le  relazioni  fra  gli  Strambotti  del  letterato  veneziano  ed  i  Rispetti 
colti  dalla  bocca  del  popolo  per  opera  dei  moderni  editori  sono  evidenti 
dai  paragoni  che  verremo  notando,  e  de'  quali  forse  alcuno  ci  è  sfuggito. 
Ma  riconosciuto  il  fatto,  resta  sempre  da  sapersi  se  il  letterato  imitò 


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182  A,  D' ANCONA  [oiobm aia  di  riuajo&u, 

il  popolo,  o  qaesto  V  altro  :  e  la  questione  è  pressoché  insolubile.  Certo 
il  Giustiniani  dovette  imitare  le  forme  plebee;  e  spesso,  non  che  i  sen- 
timenti e  i  concetti,  riprodusse  nei  suoi  Strambotti  anche  versi  che  ripe- 
tevansi  popolarmente;  ma  a  perpetuare  fra  il  popolo  la  memoria  di  canti 
suoi  propri  ab  antico,  non  poco  dovetter  giovare  le  molte  e  ripetute  ri- 
stampe volgari  di  questi  Strambotti  giustinianei.  Del  resto,  approprian- 
dosi le  ottave  del  poeta  veneziano,  il  popolo  riprendeva  il  suo;  e,  mu- 
tandole e  modificandole  variamente,  vi  imprimeva  il  proprio  suggello, 
come  ha  fatto  sempre  delle  forme  di  poesia  letterata  che  andarongli  a 
genio.  Ad  ogni  modo,  se  questi  Strambotti  che  qui  riproduciamo,  non 
servono  a  sciogliere  la  controversia,  servono  almeno  a  sempre  meglio 
comprovare  ciò  che  nei  nostri  Studj,  con  frase  mercantile  ma  acconcia 
al  caso,  dicemmo  «  partita  aperta  di  dare  e  avere  tra  la  poesia  eulta  e 
la  popolare,  e  conto  corrente  sempre  acceso  fra  i  rimatori  illustri  ed  i 
plebei  »  (pag.  322). 

Alessandro  D'Ancona. 


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noMAHZA,  H.O  5]  STBAMBOTTI  DEL  GIUSTINIANI  183 


I 

Amore  viìol  che  novamente  io  canti, 
Tanta  è  la  pena  che  sente  il  cor  mio. 
Tsono  el  più  fidel  fra  li  altri  amanti, 
E  sempre  vivo  lieto  e  con  disio. 
Bisguardo  ancor  quando  vi  son  avanti 
El  vostro  volto  signoril  e  pio: 
E  poi  ringrazio  Idio  che  vi  produsse, 
E  avanti  aWostri  occhi  mi  condusse. 

1  9Ì9ol:  a, «i  puoi:  b  —  2  Tantalo:  th  N«i:a  — 6  Tt  rUguardo:  a,  JUsffuario  amo:  h^6  bel  v.:  u- 
7  che  d'amor  vi:  a,  Ringratio  i  Dti  ch'ancora:  b  —  8  b€lU  ochi  si  tne:  tk,  E  iMnansi  i:  b. 


n 

Amor  mi  sforza  amare  il  tuo  bel  viso 
Lk  dove  ogni  piacer  chiaro  si  vede, 
Con  quel  suave  e  dilettoso  viso, 
Con  tuo  dolce  parlar,  con  tua  mercede; 
Tu  puoi  d*  inferno  tranne  al  Paradiso, 
Contento  mi  puoi  far,  come  tu  vede. 
Di  tutto  quello  che'l  mio  core  brama, 
0  fior,  eh*  avanzi  ogni  leggiadra  dama. 

1  »i  me  condusii:  a,  «{  io:  a  —4  parlar  tua:  a— 5  poi  da  linftmo:  a,  2^  puoi  di  brutto  farmi 
il  ver  Narciao:  h^6  S  cotUetUo  me  poi:  a,  $i  vede:  h^l  lo  c%tor  mio:  b  — > 8  avatua:  b,  ogni  altra:  a. 


Ili 

In  questo  mondo  Idio  t^ha  mandata 
Per  morte  darmi,  e  non  per  altro  fare; 
Dime:  che  tu  no*  cerche  una  fiata, 
Quando  ci  passo,  dovermi  parlare? 
L'anima  mia  sarebbe  consolata. 
Non  mi  faresti  più  tanto  stentare: 
Tu  hai  diletto  di  farme  languire: 
Deh  guarda  ancor  che  non  t'abbi  a  pentire! 

l  credo  tu  iti  naia:  h-^  2  dormii  non:  buschete  no:  a.  Dimmi  che  noglia  ti  ioria:  b  — 0  S  non:  a, 
A^:  b  —  7  farmi:  b  —  8  eh' ancor  mon;  a,  ancora  non:  b,  abbia:  b. 


IV 

Il  Papa  ha  concesso  quindeci  anni 
De  indnlgeniia  a  chi  te  pò  parlare; 


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184 


A.  ly  ANCONA 


[gJORVALK   di  FUXILOGIA. 


Cento  e  oinqoanta  a  chi  te  tocca  i  panni, 
E  altri  tanti  a  chi  te  pò  basare; 
E  io  che  per  te  porto  tanti  affanni, 
Di  pena  e  colpa  mi  vói  perdonare; 
E  se  basar  potesse '1  t5  bel  viso 
L'anima  e'I  corpo  mando  in  Paradiso. 

Mano»  in  b,  doye,  come  ai  vede,  sono  sUti  modifleati  o  tolti  8onip<dosaiuente  tntti  gli  accenni 
a  oose  More  o  dlTine.  —  ^  e  di  colpa:  a  —  7  qutl  io:  a. 


Se  li  arbori  sapessen  favellare 
E  le  lor  foglie  fusseno  le  lingue, 
L'inchiostro  fosse  T acqua  dello  mare, 
La  terra  fusse  carta  e  Terbe  penne, 
Le  tue  belleze  non  potria  contare. 
Quando  nascesti,  li  angioli  ci  venne; 
Quando  nascesti,  colorito  giglio, 
Tutti  li  santi  fumo  a  quel  consiglio  (1). 

1  Mj»99»tno:  a ,  wptaHr:  b  *-  2  foglie  lor:  a  —  é  carta  T.*  a  —  6  amoli'.  a,  to  gr<uia :  b  —  7  a  r«/.^ 
b.  — 8  Dti\  b. 


(1)  A  pag.  204  del  mio  scritto  sulla  Poe- 
sia popolare  italiana  io  supposi  che  la 
prima  forma  di  questo  Canto  fosse,  come  in 
tanti  altri  casi,  siciliana,  sebbene  in  Sicilia 
non  si  trovaisse  se  non  un  Canio  consimile, 
ma  vòlto  ad  argomento  religioso,  ed  a  glo- 
rificazione di  Maria  (Vigo,  n.**  3297:  cfr. 
n.*»  3944): 

Se  rinca  fusai  lu  mari  snprana , 
La  cela  cca  la  terra  fossi  carti, 
L'anoili'n  celu  e  la  manna  aaprana, 
E  l'orna 'n  terra,  la  natura  e  Tarti, 
Si  ogni  orna  milli  manu  avissi , 
Ed  ogni  mana  milli  penni  e  carti, 
Soriviri  di  Maria  mai  nun  putissi 
Di  li  grazil  ao'la  quinta  partL 

La  forma  toscana,  che  più  si  accosta  a  quella 
del  Giustiniani,  è  la  seguente  (Tommaseo, 
pag.  98): 

Se  gli  alberi  potossan  favellare 
Le  flronde  che  son  su  fossauo  lingue» 
L'inchiostro  foese  l'acqua  dello  mare 
La  terra  fusse  carta  e  l'erba  penne, 
E  in  ogni  ramo  ci  fusso  va  bel  foglio» 


Ci  foste  scritto  il  bene  che  ti  Toglio: 
E  in  ogni  ramo  ci  fosse  nn  bel  breve, 
01  fosse  scritto  quanto  ti  to'  bene  1 

Per  altre  varianti  toscane  vedi  Tigri,  n.*  483, 
Nerucci,  pag.  191;  per  le  venete,  Dalmb- 
DICO,  C.  pop.  venez.  p.  70,  e  C,  popol.  di 
Chioggia,  n.^  29,  e  Bbrnoni,  VII,  30;  per 
le  marchigiane,  Gianandrba,  p.  153;  per 
le  friulane,  ÀRBorr,  n.^  351.  L*  immagina 
è  comune  alla  poesia  di  molte  letterature, 
e  specialmente  alla  popolare,  come  si  Tede 
da  un  artic.  del  Kòhler,  neìi^Orient  und 
Occid,  li,  546:  Wenn  der  Uimmel  tcar 
Papier,  Ma  in  italiano  qual  è  la  forma  ori- 
ginaria, la  popolare  o  questa  del  Giusti- 
niani f 

Gli  ultimi  tre  versi  si  raffrontano  a  quelli 
dei  Rispetti  toscani  (Tommaseo  pag.  61; 
Tigri,  n.*»  93): 

La  vostra  mamma  quando  v'  ebbe  a  fare 
Salì  negli  alti  cieli  a  far  consiglio. 
Da  quattro  Dei  la  ne  prese  parere  eco. 

Quando  la  vostra  madre  v'ebbe  a  fare 
Andiede  in  alto  cielo  a  far  configlio  ecc. 


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ROMANZA,    M."    0  1 


STRAMBOTTI  DEL  GIUSTINIANI 


185 


VI 

Sia  benedetto  il  giorno  che  nascenti, 
E  r  ora  e  '1  punto  che  fusti  creata  ! 
Sia  benedetto  il  latte  che  bevesti, 
E  il  fonte  dove  fusti  battezzata! 
Sia  benedetto  il  letto  ove  giacesti, 
E  la  tua  madre  che  t'ha  nutricata! 
Sia  benedetta  tu  sempre  da  Dio; 
Quando  farai  contento  lo  cor  mioV  (1) 

1  che  tu:  a  —  4  la  fonti  :  a  —  5  dovt  :  a  —  T  A  te  siano  propigj  sempre  %  Dei,  Quando  farai  cOììtfvti 
i  voUr  miei:  b. 


VII 

Non  perder,  donna,  el  dolce  tempo  e' hai: 
De,  non  lassar  diletto  per  dureza: 
Tempo  perduto  non  s'acquista  mai; 
Né  anche  in  donna  non  riman  belleza  ; 
Però,  madonna,  guarda  quel  che  fai, 
Non  perder  tempo  di  tua  gioveneza; 
Sì  che,  donna,  da  voi  debo  venire? 
Con  qualche  modo  mandamel  a  dire. 

ti  tempo:  a  —  7  dama  a' a  te  debba:  b  —  8  bel  m.:  a. 


(1)  Un  Canto  siciliano  dice  cosi  (Salo- 
monb-Marino,  n.**  3): 

Binidittu  la  Din  chi  ti  oriau. 
E  la  mammuzsa  ohi  ti  parturiu, 
E  la  patrussa  chi  ti  giniraa, 
Ln  campati  chi  a  fonti  ti  tinia; 
La  parriaedda  ohi  ti  vattiaa. 
E  l'acqua  oa  lu  sali  ti  mittia  : 
Beniditta  oa'fa  chi  t'addivaa, 
Ca  t' ha  'ddivata  pri  l'amari  mia. 

Un  Canto  Toscano  (Tigri,  n.**  253): 

Benedetto  qael  Dio  che  t' ha  creato, 
E  qaella  madre  che  t' ha  partorito  ! 
E  il  padre  tuo  che  t*ha  ingenerato. 
Benedetto  il  compar  che  t'ha  assistito. 
Il  sacerdote  che  t'ha  battezzato, 
E  alla  luce  di  Dio  t'ha  istituito! 
Benedette  parole,  e  quella  mano 
£  poi  quell'acqua  che  ti  fo' cristiano: 


Gli  ultimi  tre  versi  almeno  sanno  di  ritoc- 
catura letteraria.  La  versione  veneta  (Dal- 
medico,  p.  170)  è  diventata  una  Ninna-nanna, 
ma  ritrae  da  quella  del  Giustiniani,  ancho 
in  qualche  rima  e  in  un  verso  intero: 

Sia  benedeto  a  l'ora  che  nassestl, 
L' ora  e  '1  momento  che  ti  ò  partorito  : 

Sia  benedeto  1  lato  che  bevesti 
A  la  tua  mama  ohe  t'ha  nutricato; 

Sia  benedeto '1  prete,  e  anca'l  compare, 
Che  t*  ha  tegnùo  a  la  fonte  a  batizare. 

Sia  benedeto  '1  prete,  e  anca  '1  zaffheto, 
Ohe  t'ha  messo  quel  nome  benedeto: 

E  benedeto,  e  benedeto  sempre. 
Sia  benedeto  a  chi  te  dormo  arcntc  : 

A  chi  to  dorme  arento  a  ti ,  putcla  ; 
Fame  la  nana,  che  ti  ò  tanto  boia! 


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186  A,  ly  ANCONA  [giornale  di  filologia 


vili 

Presto  me  acorgerò,  donna,  se  m*ami, 
£  se  vói  trarmi  di  questo  martire; 
Presto  m' acorgerò,  donna,  se  chiami 
Contenta  de  l'antiquo  mio  servire; 
Presto  me  acorgerò,  donna,  se  brami 
Di  dar  soccorso  al  mio  giusto  deeire; 
Presto  me  accorgerò  di  tuo  talento, 
Stu  vói  eh* io  mora,  o  che  ahi  contento. 

1  «r  ;  b  —  2  E  voi  .  . .  trarmi  qvisto  mio  :  a  —  4  antico  :  b.  —  6  w'  ;  b  —  C  De  . ..  gran  ;  »  —  T  m'  :  b, 
dtì :  b  —  8  Se.  . .  0  pur  che  sia:  b. 

IX 

stu  sei  donna  gentil,  tu*l  degi  amare, 
Servo  che  del  tuo  amore  sia  ben  degno 
E  l'amor  di  quel  solo  seguitare, 
Usando  verso  d'altri  del  contegno; 
Un  solamente  ti  potr'ia  bastare; 
Per  Dio,  m'agreva  che  dir  tei  convegno; 
Che  non  è  onor  né  non  è  gentileza 
'N  tanti  amanti  voler  aver  fermeza. 

1  Se  vuoi ...  ti  fUgga  :  h  —  i  lU  altri:  a  —  6  patria  ben  :  a  —  6  A  /*  :  b  —  7  ni  meno  ■  h  —  8  In.  .  .  toìer 
avir:  a,  aitr  ìa  tua:  b. 


Gioja  mia  cara,  com'  te  soffre  il  core 
Che'l  caro  amante  stia  da  te  diviso? 
Non  ti  ricordi  il  nostro  antiquo  amore, 
L'usate  feste  e'I  dolce  paradiso? 
Queet'è  la  doglia  che  mi  passa  el  core, 
E  rivoltami  in  pianto  el  dolce  riso: 
0  labri  di  coral,  zucaro  e  mèle. 
Non  hai  pietà  del  tuo  servo  fedele? 

1  Zoia...  soffri:  a,  Cloìi  gentil. .,.  soffri  :  b  — 3  aricordi:  h  —  4  il  dolce:  b  —  5  Qticsta  la:  a  —6  Ri' 

foltatnt  :  a,  E  mt  rtro//«r  :  b.  —  7  corallo  ora  —  8  /o  :  a 


XI 

Io  mi  viveva  senza  nullo  amore, 
Non  era  donna  a  chi  volesse  bene; 


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ROMANZA    N.°    O 


STRAMBOTTI  DEL  GIUSTINIANI 


187 


Denanti  a  me  paristì,  o  nobel  fiore, 
Per  dar  a  la  mia  vita  amare  pene; 
E  sì  presto  m'entrasti  tu  nel  core, 
Come  saetta  che  da  V  arco  vene  ; 
E  come  intrasti,  io  presto  serrai; 
Perché  noli'  altra  donna  e'  entri  mai 


(!)• 


1  Io:  h  —  2  E:  At  a  cui  voUnsi:  b  —  3  Davanti  a  me  paresti:  b,  «o6i7:  h  —  6  tu  m' intrasti:  a,  cosi 
presto  m'entrasti  nel:  h  —  6  tiene:  b  —  7  entrata /osti  io  lo:  b  —  8  eintro  Marnai:  s,  altra  donna  non 
c'entrasse  mai:  b. 

XII 

Gioioso  vorria  star,  ma  la  Fortuna 
Per  molti  modi  par  che  mi  molesta; 
Par  che  '1  ciclo  e  le  stelle  con  la  luna 
Cercan  di  tòrmi  ogni  diletto  e  festa  ; 
D'amarte  non  starò  per  cosa  alcuna, 
E  la  mia  fé'  faretti  manifesta  ; 
Fortuna,  fortuneggia  quanto  sai  : 
Peggio  non  mi  pòi  far  che  fatto  m'hai  (2). 


1  stare  :  %  —  3  S  par  :  b,  del  stelle  : 
8  Che  peso. ../are:  a,  pi40i:  b. 


ft  —  é  cerea  a  —  5  amarti:  b  —  6  /ede:   a  —  7  /oriunda:   a  - 


XIII 


Dio  ti  dia  bona  sera;  son  venuto, 
Gentil  Madonna,  a  veder  come  stai; 
E  di  bon  core  a  te  mando  il  saluto. 
De  miglior  voglia  che  facesse  mai. 
Tu  sei  colei  che  sempre  m^hai  tenuto 
In  questo  mondo  inam orato  assai: 
Tu  sei  colei  per  cui  vo  cantando, 
Giorno  e  notte  me  vado  consumando  (3). 


1  la  h.:i^Ti  do  la  hwma:  b»  e  son  :  b  —  3  Edi  buon  cuor  io 
che  mi  /a  gir:  b  —  8  giorni:  a,  E  giorno  e  notte  andarmi  :  b. 


ti:  b,  tot:  b.  — é  Di.  ../acessi:  b  - 


(1)  È  il  bV  dei  Rispetti  del  Cod.  peru- 
gino da  me  stampati  in  Appendice  al  libro 
sulla  Poesia  popolare  italiana:  e  nel  Cod. 
sta  cosi: 

Io  Tivea  senza  seutir  d'amore, 
E  DO  avea  donna  a  cni  io  voIcbo  bene. 
Quando  m'aparisty  innanzi  bonobel  flore 
Per  dare  alla  mia  vita  amare  pene. 
Subitamente  m'entrasti  nel  core. 
Come  salietta  che  dall'arco  venne  ,- 
La  prima  volta  ohe  merexguardasti 
Lo  cor  miaaperae,  e  tu  dentro  intrastty. 

(2)  Nel  Cod.  perugino,  n.'^  29,  si  leggo 
cosi,  seguendone  la  grafia  in  tutto: 

Giolioxo  voria  star,  ma  la  fortuna 


Per  mily  modi  par  che  mi  molesta: 
E  par  ohe  il  cielo  o  le  stelle  e  la  luna 
^irchi  dintorno  ogni  allegreza  e  festa: 
Damartte  nom  starò  per  cosa  alcuna 
E  la  mia  fede    ttisera  manifesta 
Serotty  Adele  e  tu  lo  poray  videro 
Per  multti  muodi  ettelo  farò  a  savere. 

(3)  Nel  Coti,  perug.,  n.^  99,  dice  così: 

Dio  ti  dia  la  bona  notte,  e  son  venuto 
Bella  madonna,  a  veder  come  stai; 
Fatti  di  fuora ,  e  mo  ti  do  saluto 
De  mioro  volia  ch'Io  foso  giamai. 
Tu  sie  chulio  che  sompro  mattcnuto 
In  qnesto  mondo  innamorato  assai  : 
Però  ttl  pricfro  s  io  tto  ben  servito 
Non  mi  lasaro  a  sì  duro  partito. 


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ISH  j4.  D' ANCONA  [giornalk  di  filologia 


XIV 

Piular  io  ti  vorìa,  e  io  non  osso: 
Tu  che  sai  el  modo  mei  degi  indignare: 
Che  co'  li  occhi  m' ha*  posto  foco  adesso  ; 
,,— ^     Vedi  ch'el  arde,  e  non  lo  vói  stuare; 
Ajutame  per  Dio,  che  più  non  posso 
Cotante  amare  pene,  omè,  durare; 
Se  non  me  ajuti,  moro  per  tuo  amore; 
Agi  di  me  pietà,  ligiadro  fiore  (1). 

1  Parlar  ti:  »,  vorria:  b  —  2  e'  hai  il  modo  mei  debbi  insegnare:  b  —  3  il  /.:  h  —  i  che  l'arde  non  lo 
1-uoi:  b:  —  5  AjxUami  perciocché:  b  —  6  pene  amare  ahimi  :  b  —  7  m'a.:  b  —  8  abbt  pietà  di  me  legata- 
dro  :  b. 

XV 

K  vengote  a  veder,  perla  lizadra, 
E  vengote  a  veder,  caro  tesoro; 
Non  sa'  tu  ben  che  tu  se*  quella  ladra 
Che  m' hai  ferito  il  cor,  tanto  che  moro  ? 
Quando  io  passo  per  la  to  contrada 
De,  lassati  vedere,  o  viso  adomo; 
Quel  giorno  che  ti  vedo,  non  potrìa 
Aver  doglia  nessuna,  anima  mia. 

1-2  vtngott:  b,  che  sei  leggiadra:  b  —  3  gai:  b.  —  é  m* ha:  b — 8  tua:  b  — 6  teder:  a,  o  riso  d'oro: 
b  —  H  mssuna,  o  vita  :  b. 

XVI 

Non  te  maravigliar,  lizadra  donna, 
Se  spesse  volte  passo  de  qua  via: 
Non  sa' tu  ben,  che  non  ho  altra  donna 
Che  signoreza  la  persona  mia? 
Tu  sola  sei  d'està  vita  colonna; 
E  quella  sola  che  '1  mio  cor  desia  ; 
Sapi  per  certo  che  tu  sola  sei 
Quella  che  bramo,  e  quella  eh'  io  vorrei. 

1 .. .  dolce  Madonna  b  —  3  «ni:  b  —  A  signoreggia:  b.  —  &  de  questa:  m,  di  sta:  h  —  7  Sappi:  b  — 
H  rht  r.:  b. 


(1)  Nel  Cod.  porug.,  n.'^  12,  dice  cohi  :  Tutto  m'acende  e  non  me  voi  aitare. 

Vorrlate  favellare,  ma  io  nom  posso, 
Scchurlme  per  Dio,  che  più  nom  posso  Tu  che  sai  ol  modo  mei  dio  insignarc; 

Tanti  crudi  martiri  più  durare:  Vorie  che  tu  fusai  gentile  e  cortese 

Clic  li  occhi  tuoi  m' hu  nuso  el  foco  adn3>o  A  lo  niiv  pene  ch'io  te  fa^o  palese. 


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ROMANZA,  N.«  51  STRAMBOTTI  BEL  GIUSTINIANI  189 


XVII 

Quei  labri  mi  consuma  fin  a  tanto 

Che  non  li  strenzo  un  poco  al  mio  diletto  : 
Dò,  vengati  piet^  de  mi  alquanto, 
Cara  speranza  del  mio  cor  perfetto. 
Tu  sei  colei  che  porti  il  dolce  manto 
B^ogni  mio  bene  senza  alcun  sospetto: 
Tu  sei  colei  per  fin  che  tu  sei  viva 
Ch'io  amerò  se  morte  non  ci  priva. 

1  roHSwmn  :  b  —  2  Ch'io  non  li  stringi:  b  —  8  (f t  m«  :  b  —  8  Hamerò  :  a,  lo  V  amir 


XVIII 

r  t*  6  dipinta  in  s' una  carticella , 
Come  se  fusti  una  santa  de  Dio; 
Quando  mi  levo  la  mattina  bella 
Ingenochion  mi  butto  con  desìo: 

Sì  t'adoro,  e  poi  dico:  Chiara  stella, 

Quando  farai  contento  lo  cor  mio? 
Bìisote  poi,  e  stringo  con  dolceza: 
Posala  mi  parto,  e  vòmen^a  la  mesa  (l). 

1  in  su:  n,  su  una:  b  —  2  Comi  /.:  a,  foHi:  b,  il  vero  idolo  mio:  b  —  4  Avanti  a  t€  mi  fermo  :  b  — 
5  K  8i...poi  d.:  a,  E  si  t'onoro  e  <f.:  b  — 7  Basciottiih,  stringott:  a  — 8  Poscia:  b;  dispario:9k;  e  la- 
scio  tua  bellezza:  b. 

.       XIX 

Dezo  sempre  servire  al  vostro  aspetto 
Che  me  destruge  V  alma  e  '1  cor  ognora  ? 
Non  se  de' mai  porger  qualche  diletto 
Al  tristo  del  mio  cor,  prima  che  mora? 
Dezo  sempre  portar  bagnato  il  petto 
De  lacrime  cotante  che  me  accora? 
Dezo  sempre  servir  chi  più  s^ indura, 
0  maladetta  mia  disa ventura? 

1  Veggio  ...il  e.  ;  b  —  2  Che  V  anima  ed  il  cor  mi  strugo  :  b.  —  3  porgere  :  a ,  «•  die  horamai  pprger  d.: 
a  —  4  -A  /o  tristo  mio:  b,  ch'io:  b  —  6  Leggio:  b  —  6  Di:b, cotattiii  a  —  7  Veggio:  b. tsrvùre:  th seguire: 
h  —  %  Che  maiadeita  sia  la  mia  sciagura  :  b. 


(l)  Nel  Coti,  perug.,  n/*  CO,  dice  cosi:  Ogni  mattino  po' che  aon  levato. 

Guardoli  speRRO,  che  mi  par  pur  quella; 
T' aggio  dipinto  in  una  carticella  :  Poi  ti  priego  te  sia  ricomandato 

Quando  ti  veggio  mi  nto  inginocrbiatn  :  El  più  fidel  che  donna  avesse  mai 

Adoroml  la  Kua  persona  Ixlla  Che  in  questo  mondo  attormentato  Thai. 


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190 


A.  ly  ANCONA 


[OIOBNAI.E   DI   FILOLOGIA 


XX 

Quattro  sospii-i  ti  voria  mandare, 
E  mi,  meschino,  fossi  ambasciatore! 
Lo  primo  sì  te  degia  salutare, 
Lo  secondo  ti  conti  el  mio  dolore. 
Lo  terzo  sì  te  degia  a^ai  pregare 
Che  tu  confermi  questo  nostro  amore; 
E  lo  quarto  io  te  mando  inamorato; 
Non  mi  lassar  morir  disconsolato  (1). 

1  ci:  b  —  2  IO.  ..fosse:  h  —  é  E  lo:  a.  Il:  h  »  conta:  b  — 5  H:  b  — 7  ttO:  b  — 8  lasciar:  b. 


XXI 

Più  lieto  amante  de  sto  mondo  fui, 
Ora  mi  trovo  el  piìi  disconsolato: 
E  questo  ò  stato  pe  '1  dir  mal  d'altrui; 
Che  malanno  aggia  chi  m' ha  incolpato  ! 


(l)  Questo  Canto  è  passato  al  popolo,  che 
lo  legge  in  questa  forma  aulica  {Poes.  pò- 
poi.  ital.,  p.  382): 

Quattro  sospiri  miei  ti  vo' mandare. 
So  che  sono  fedeli  ambasciatori  : 
n  primo  genuflesso  in  adorare, 
n  secondo  a  ricordarti  i  nostri  amori; 
Il  terzo  a  dirti  il  mio  lagrlmare. 
Il  quarto  che  contempli  i  miei  dolori; 
Piangendo  tutti  uniti  poi  cercar© 
Vendetta  a  chi  divise  i  nostri  amori. 

E   nel  vernacolo   chietino  suona  cosi  (Im- 
BRiANi,  C.  prov.  merid.y  II,  p.  30): 

Quattr*  suspir'  mie'  ti  ho  mandaf, 
Nen  sacce  si  so*  fedel*  li  rabawciatur'  ; 
Lu  prim'  gonuflcss'  per  adnrart', 
Lu  Bccond'  a  ricurdarece  lu  nostr*  amor*, 
Lu  terz'a  dirt'ln  mie  lacrimar', 
Ln  quart'  che  cuntempl'  In  mie  dnlor'. 
Piangend'  tutt'  unif,  e  poi  cercand* 

Vindett'a  chi  ha  divis'lu  nostr*  amor. 

* 

E  a  Ribera  in  Sicilia  (Salomone-Marino, 
Tip  182): 

Quattru  suaplri  ti  vnrrìa  mannari, 
E  tutti  quattru  susplri  d' amuri: 
Cu  lu  primu  ti  mannu  a  salutari, 
L'autru  cuntirà  lu  nostra  amuri  ; 


Ma  cu  lu  terzu  ti  mannu  a  vasari, 
L'autru  ti  sta  davanzi  addinucchiuni; 
A  tutti  quattru  li  (arrìa  gridari: 
Giustizia  di  Dio  cu 'sitarti  amuri. 

Questa  è  variante  di  Minèo  (Vigo,  n.**  1447): 

Quattru  suspiri  ti  mannu ,  patruns . 
Tutti  quattru  fidili  ammasciaturi  : 
Unu  a  la  scala  lu  fazzu  mintiri, 
E  unu  a  la  finestra  o  a  lu  barchnni; 
Unu  a  l'oricchia  ti  veni  a  parrari, 
L'atru  ti  cuntirà  li  me'  raggluni  : 
E  tutti  quattru  li  fazzu  bramari: 
Giustizia  di  DIu  cu' cangia  amurll 

Che  nel  Lazio  dice  così  (  Marcoaldi,  n.**  29): 

Quattro  saluti  ti  voglio  mandare 
Come  quattro  fedeli  ambasciatori: 
Uno  verrà  nella  porta  a  bussare, 
L'altro  si  metterà  ginocchioni: 
L'altro  ti  toccherà  la  bianca  mano. 
L'ultimo  conterà  le  sue  ragioni. 

Altre  forme  consimili,  vedi  nei  Rispetti  pe- 
rugini, n."  39,  pag.  449;  e  nei  canti  Toscani 
(Tigri,  n.°  263);  cfr.  anche  Giananbrba, 
pag.  131;  Marcoaldi,  C.p.  umbri,  n.**  69, 
latini,  n.o  40;  Visconti,  n,°  32;  Ive,  p.  72. 
Vedi  La  Poesia  popol.   ital.,  p.  143  e  411. 


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HOMAHZA.  M.o  5]  STEAMBOTTI  DEL  GIUSTINIANI  191 

Ancora  spero  di  veder  colui 

Stentare  al  mondo  per  sto  graii  peccato: 

E  spero  in  Dio  di  veder  vendetta 

Di  quella  lingua  falsa  e  maledetta  (1). 

1  El  più:  a,  di  questo:  n  — 2  trovo  più:  b  —  9  V4r  il  dir:  a  —4  tinga  bene  è:  h^  nu  n'ha:  b  — 
6  Dtibiio  ancora  :  b  —  TE  temo  ancora  :  b  —  6  si  al  dir  mal  peifetta  :  b. 


XXII 

Da  poi  ch'io  vedo  fermo  il  tuo  volere 
£  che  al  tutto  abandonato  m' hai , 
Lassar  te  voglio  per  farte  a  piacere  ; 
Di  quk  per  te  non  passerò  giamai: 
El  piacer  ch'io  ho  avuto  il  vo' perdere, 
E  più  per  servo,  donna,  non  m'arai: 
Fami  quanti  dispetti  che  tu  sai, 
Quel  ch'agio  avuto,  tu  non  mei  torrai. 

1  Dopo  ;  b  —  3  farti  p.:  b  —  4  E  quinci  per  tuo  amore  non  passarò  :  &  —  6  Im  morte  cercherò  per  mio 
piacere:  b,  elvoglio:  a  — 6  E  se:  b  — 7/ai:  b  — 8  to:  a  —  Che  quel  ch'ho  avuto  tu:  b. 


XXIII 

Biastemo  il  giorno  che  me  inamorai, 
Biastemo  il  giorno  che  ti  missi  amore, 
Biastemo  il  giorno  che  in  te  mi  fidai, 
Biastemo  il  giorno  che  ti  dèi  il  mio  core  ; 
Biastemo  il  bene  ch'io  te  volsi  mai, 
Biastemo  l'ahna  mia  che  per  te  more; 
Biastemo  l'assai  beffe  che  m'hai  fato: 
Ancor  biastemo  chi  cason  n'è  stato. 

Manca  in  b.  —  6  beit .  a. 

XXIV 

Non  ti  ricordi  quando  mi  dicevi 
Che  tu  m'amavi  sì  perfettamente? 
Se  stavi  un  giorno  che  non  me  vedevi 
Con  li  occhi  mi  cercavi  fra  la  gente. 


(1)  Nel  Cod.  perugino  (n.*^  2)  suona  così:  Or  malena^a  chi  mena  incolpato. 

Àncora  sploro  di  veder  cbalny 
Più  lieto  amante  di  questo  mondo  fUi,  Stentare  al  mondo  sol  per  sto  peccato: 

Ora  mi  trovo  el  più  disconuolato  :  Ancora  spiero  di  veder  vendetta 

Questo  mi  viene  per  lo  mal  dir  d'altrui:  Di  quella  falsa  lengua  maledetta. 


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192 


A.  D' ANCONA 


[giornale  di  filologia 


E  risgaardando  sta  non  mi  vedevi 
Dentro  de  lo  tuo  cor  atavi  dolente: 
E  mo  mi  vedi,  e  par  non  mi  cognosci, 
Come  tuo  servo  stato  mai  non  fodci  (1). 

3  »>M  :  b  —  5  riguardando:  b,  *é  tu:  a,  chr:  h  —  1  or  :  h,  (  non  mi:  a.  conoati:  b. 


XXV 

Viver  al  mondo  non  voglio  più  mai, 
Né  più  conforto  non  spero  d'avere; 
Poi  che  del  tutto  abandonato  m^hai, 
La  morte  cercarò  per  mio  piacere. 


(1)  Il  principio  del  Canto  è  comune  o  simile 
almeno  a  quello  di  parecchi  Rispetti  toscani 
(Tigri,  n.*»  884): 

E  ti  ricordi  quando  mi  dicevi? 

0  n.«  889: 

Non  ti  ricordi,  turca  rinnegata, 
Quando  t'amavo  e  ti  portavo  amore? 

Ma  più  stretta  simiglianza  ha  con  questo 
tetrastico,  evidentemente  monco  del  principio 
(ivi,  n.*»  887): 

E  se  tu  stavi  un*  ora  e  'n  mi  vedevi 
Ck)n  gli  occhi  riguardavi  fra  la  gente. 
Ora  mi  vedi  e  non  mi  dici  addio; 
Come  80  tua  non  fossi  stata  io. 

Più  intera  e  simile  alP ottava  del  Giustiniani 
è  la  versione  romana  (Nannarelli,  p.  48): 

Dov'è  tutto  quel  ben  che  mi  volevi, 
Dov'ò  tutto  l'amor  che  mi  portavi? 
Se  stavi  un'ora  che  non  mi  vedevi 
Coli' occhio  fra  la  geuto  mi  cercavi. 
Adesso  passo,  e  non  so'  più  guardata, 
O  mai  la  diva  tua  non  fossi  statai 
Adesso  passo,  e  non  mi  riconosci  ; 
Oh  mai  la  diva  tua  stata  non  fossi  ! 

Tornano  al  tetrastico  due  forme  venete  :  V  una 
(Dalmedico,  p.  128): 

Ma  dove  xe  quel  ben  che  me  volevi, 
Quele  careie  ohe  d'amor  me  fèvi? 
Co'  g'era  un'ora  che  no  mo  vedevi 
Del  vostro  caro  ben  vu  dciuandcvi. 


E  l'altra  (Bernoni,  punt.  l.«,  n.°  30),  che 
varia  il  solo  4.'*  v.: 

Co  i  oci  in  tra  la  gente  mo  9erchevi. 

Nel  vicentino  è  un  esastico  (Alverà,  n.^85): 

Do' è  quel  tanto  ben  che  mi  volevi. 
E  quele  carezzine  chi  mi  favi? 
Passava  un  giorno  che  non  ,me  vedevi 
Col  oci  per  le  genti  mi  cercavi: 
Bassavi  1  oci,  e  la  bocca  ridevi, 
Dentro  nel  vostro  cor  mi  saludavi. 

E  nell'Istria  (IvE,  p.  205)  con  evidente  sal- 
datura di  due  tetrastici  diversi: 

Bagasse  bielo,  nuobili  sembianze. 
Testimonio  saruò  li  me  belisse; 
Ku*  xi  uingoùn  che  me  purtasse  amante. 
Bagasso  biel  che  me  farà  caresse. 
E  duve  xi  quii  ben  eh'  i  me  vulivi , 
Duve  li  caresseine,  Amur,  me  Mi 
Un  giorno,  biela,  cu'  i*  nu'  me  vedivi, 
Cu*  i  noci  in  fra  la  zento  i'  me  cerchivi. 

La  forma  toscana  intera,  e  assai  prossima 
a  quella  del  Giustiniani,  è  la  seguente  (Ti- 
gri, n.°  978): 

Non  t'arrlcordi  quando  mi  dicevi 
Che  tu  m' amavi  sì  sinceramente  ? 
So  stavi  un'ora  che  non  mi  vedevi 
Cogli  occhi  mi  corcavi  fra  la  gente. 
Ora  mi  vedi  e  non  mi  dici  addio, 
Como  tua  dama  non  fossi  stat'io: 
Ora  mi  vedi  o  non  mi  riconosci, 
Como  tua  dama  io  Fiata  non  fossi! 


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noMANZA,  s-  5]  STRAMBOTTI  DEL  GIUSTINIANI  193 

Ancora  una  sol  grazia  mi  farai, 
E  poi  contenta  tutto  il  tuo  volere  : 
Dimmel  palese,  e  no'l  tener  celato 
SeU  tuo  amor  ad  altri  Thai  donato. 

2  più  spiro'.  tk—Sal  UUtóx  b— »5  »olaì  a— »6  lo:  a  -*7  non  iHd  tenirì  a—  8  Vantor  htot  h. 


XXVI 

Non  piangerò  giamai  quel  che  t^ho  fato, 
Nè*l  dolce  e  longo  ben  che  t*ho  voluto; 
Ma  ben  me  dolo  chMo  te  sono  stato 
Fidel  amante,  e  non  m^hai  cognosciuto. 
K  per  lo  grande  amor  che  Vho  portato 
Merito  alcun  non  aggio  ricevuto) 
Ma  sempre  arai  piacer  di  poter  dire: 
Ho  fatto  sto  meschin  per  me  languire. 

1  quello  ch'ò  fatto:  b  —  2  lungo",  b  —  3  fon:  a,  mi  duole  perch'io  ti  aott:  b  —  4  Fedeli  b  —  5  l'n- 
l'amor  grande  ch'io  ti  hot  b  —  6  alcuno  non  hot  b  —  8  /aio  questo*,  a. 


XXVII 

Per  fin  che  vita  avrò  non  sarò  stanco 
Do  biastemar  i  giorni  trapassati; 
Oimè,  che  Palma  trista  vien  al  manco 
Pur  in  pensando  i  bei  piaceri  andati! 
Misero  me,  che  per  conforto  abranco 
I  fazoletti  che  tu  m^  hai  donati , 
E  poi  piangendo  dico:  lasso  a  mene, 
Questo  m'avanza  de  tutto  il  inio  bene!  (1) 

1  charo  vita  non  sero  mai*,  a  —  2  Di  biasimar*,  b  — 8  mia  m  9ienei  b  —  i  impensando:  a,  Solo  pen- 
smuLo  ai  bei  piacer  pataaiii  b  ^  6  e  branco:  a,  chi  conforto  io  branco:  b  -*  7  lasio  mem:  b  —  8  Qmtt't 
l'ftmmo:  b, 


(1)  Segue  neir antica  stampa  questo  terzetto: 

Chi  se  dilecta  de  aeqiiitar  amore 
Per  un  Marchetto  dhavor  questo  no  stia 
Che  son  a  preposi to  a  ciascnn  amatore. 


13* 


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101  (}.    SALVADOlil  [tlIOKNALK    DI    FILOLOGIA 


STORIE  POPOLARI  TOSCANE 


AVVERTENZA 

Ho  chiamato  qneste  canzoni  Storie,  perché  così  le  chiama  il  popolo 
che  le  cauta;  e  le  ho  intitolate  toscane ,  perché  in  Toscana  le  ho  sentite 
e  raccolte.  Del  resto  quattro  di  esse  (la  IV,  la  V,  la  VI  e  la  VII) 
sono  oramai  conosciute  da  tutti  per  non  toscane  di  origine;  le  altre 
quattro  invece,  che  credo  nuove,  danno  nell' andamento  e  nella  forma 
indizii  di  molto  probabile  toscanità.  Con  ciò  non  aflfermo  nulla;  espongo 
semplicemente  un  parere  che  non  è  soltanto  mio.  La  sola  esistenza  di 
questi  indizii  è  cosa  degna  di  attenzione,  mentre  fino  a  ora  tutti  o  quasi 
tutti  i  dotti  italiani,  che  si  sono  occupati  di  studj  popolari,  han  dato 
per  certo  che  i  nostri  canti  narrativi  non  riconoscono  patria  diversa 
dall'Italia  traspadana;  perché  i  canti  trovati  di  qua  dal  Po  mostrano 
tanto  ben  distinti  nella  sostanza  e  nella  forma  i  segni  della  nascita,  che 
non  si  può  stare  in  dubbio  nel  battezzarli.  Ed  è  vero:  ma  la  conclu- 
sione è  forse  troppo  recisa;  già  che,  se  la  scarsezza  dei  canti  narrativi 
e  l'abbondanza  dei  lirici  nell'Italia  che  il  Nigra  chiama  inferiore  (cfr. 
Boiìiania,  voi.  V,  p.  423),  lusingava  gli  studiosi  a  raccogliere  piuttosto 
questi  che  quelli,  tanto  che  per  parecchi  anni  ci  fu  un  vero  diluvio  uni- 
versale di  strambotti  e  stornelli;  non  mi  par  giusto  dir  questi  i  soli 
fi'utti  del  paese.  Né  più  mi  par  giusto  lo  star  troppo  attaccati  alla  sen- 
tenza ripetuta  anche  dal  Nigra  in  quel  suo  scritto  pregevolissimo  su 
La  poesia  popolare  italiana  (cfr.  1.  e.  p.  448),  che  la  narrazione  poetica 
è  contraria  all'indole  dei  popoli  italici:  poi  che  è  vero  che  noi  non  ab- 
biamo né  i  Nibelmigen^  né  la  Chanson  de  Roland^  né  il  Romancero  dd 
Cid;  ma  questo"  non  vuol  dire  che  presso  di  noi  non  si  possa  proprio 
trovare  qualche  ombra  di  leggenda  poetica,  qualche  briciolo  di  epopea. 
Si  tirano  in  ballo  i  latini;  ma  presso  i  latini  di  leggende  ce  n'erano  e 
non  poche,  se  non  vogliamo  che  Tito  Livio  e  Virgilio  se  le  siano  fab- 
bricate da  sé;  e  c'erano  ^che,  probabilmente,  dei  canti  popolari  che 
le  conservavano;  anzi  le  tracce  di  questi  canti  sonosi  volute  trovare  da 
certi  critici  tedeschi  nelle  istorie  stesse  liviane. 

Ed  è  impossibile  che  non  sia  così.  L'istinto  epico  si  trova  sempre, 
come  il  lirico  ed  il  drammatico,  presso  tutti  i  popoli  di  questo  mondo. 
L'epico  si  sveglia  primo,  quando  lo  spirito  troppo  occupato  dalle  cose 


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BOMÀNaA,  K.«  51  STOBIE  POPOLARI  TOSCANE  195 

e  dai  fatti  esteriori,  ehe  la  fantasia  gli  riveste  di  luce,  non  è  ancora 
capace  di  rivolgersi  sopra  sé  stesso,  ed  è  qnello  che  lascia  traccie  più 
profonde;  il  lirico  poi,  che  dipende  dalla  prevalenza  del  sentimento  per- 
sonale sa  r impressione  degli  oggetti  esterni;  ultimo  il  drammatico,  che 
non  può  essere. senza  la  conoscenza  del  cuore  umano.  Ora  può  darsi 
che,  per  l'indole  particolare  d'un  popolo  e  per  T effetto  delle  circostanze 
fra  le  quali  ei  s'è  trovato,  l'uno  o  l'altro  di  questi  istinti  sia  più  de- 
bole e  rimanga  in  parte  soffocato;  ma  che  taccia  del  tutto,  no.  Nel 
nostro  popolo  il  lirico  ha  maggior  forza,  e  nessuno  lo  nega;  nei  celtici 
e  più  nei  germanici,  come  osserva  benissimo  il  Comparetti  (cfr.  liassegna 
settimanale^  voi.  II,  p.  45),  prevalgono  invece  i  due  altri:  ma,  come 
sarebbe  contrario  al  vero  dire  che  tedeschi  e  francesi  non  hanno  l'espres- 
sione lirica  dei  loro  sentimenti,  così  mi  pare  un  poco  esagerato  affer- 
mare che  le  genti  italiche  non  abbiano  affatto  rivestimenti  poetici  delle 
nostre  e  delle  leggende  straniere. 

Io  non  dico  queste  cose  perché  si  conceda  un  passaporto  alle  quattro 
storie*  che,  fra  le  qui  raccolte,  credo,  almeno  quanto  alla  forma,  toscane 
di  origine,  che  in  verità  sarebbe  troppo  misera  cosa;  ma  per  combattere 
un  principio  che  mi  pare  e  mi  è  parso  sempre  troppo  dogmatico.  Del 
resto,  ad  una  conclusione  sicura  riguardante  i  nostri  canti  narrativi 
credo  non  si  possa  ancora  arrivare;  e  questo  perché  (come  dice  il  sig. 
John  Addington  Symonds,  dotto  inglese  amantissimo  di  cose  italiane) 
€  abbondantemente  ricche  di  canti  erotici,  rispetti,  strambotti,  stor- 
nelli ecc.,  le  raccolte  recentemente  fatte  con  somma  e  lodabilissima 
industria  in  tutte  le  province  del  Regno,  sono  finora  scarsissime  di 
cauti  narrativi  »  (cfr.  Rassegna  settimanale,  voi.  Ili,  p.  195).  E  il 
D'Ancona  stesso,  in  que'  suoi  Studj  tanto  importanti,  ne  tocca  a  mala 
pena  e  di  volo. 

La  ragione  che  mi  ha  indotto  a  creder  toscane  di  origine  le  quat- 
tro storie  suindicate,  sta  nei  loro  caratteri  esterni  concordanti  precisa- 
mente con  quelli  per  i  quali,  secondò  lo  stesso  Nigra,  si  riconoscono 
facilmente  i  canti  che  non  provengono  dall'Italia  superiore.  E  questi 
caratteri  sono:  la  presenta  dell'endecasillabo,  che  dà  loro  un  andamento 
epico  ben  diverso  da  quello  semilirico  delle  canzoni  norditaliche  ;  la  de- 
sinenza regolarmente  piatta  e  parossitona,  che  però  si  potrebbe  osservare 
non  tanto  necessaria,  forse,  ai  canti  del  centro  e  del  mezzogiorno  d'Italia 
quanto  la  vogliono  il  D'Ancona  ed  il  Nigra;  e  finalmente  V assenza  di 
di  versi  sciolti. 

Debbo  inoltre  avvertire  che,  per  gli  schemi  delle  varie  specie  di 
versi,  ho  adoperato  i  segni  appartenenti  alla  metrica  antica;  indicando 
col  seguo  di  brevità  (u)  le  sillabe  non  accentate,  e  le  accentate  col 
segno  di  lunghezza  (i):  costume  introdotto  recentemente  dal  Forna- 
ciari  con  la  Gnmmiatìca  deiruso  moderno.    Osservando  questi  schemi, 


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10<3  G,  S AL  V ADORI  [giornalk  di  filologia 

sarà  facile  T avvertire:  prima,  che  T endecasillabo,  il  settenario  e  il  qui- 
uario,  sono  sempre  composti  di  serie  giambiche  pure;  poi,  che  molto 
spesso,  cioè  qnaudo  T  accento  grammaticale  non  combina  col  ritmico, 
il  popolo,  nel  canto  e  nella  recita,  sforza  il  primo  ad  obbedire  al  se- 
condo; osservazioni  non  del  tatto  inutili  per  gli  stndj  metrici,  che  solo 
da  poco  tempo  si  cominciano  a  coltivare  un  po'  seriamente  in  Italia. 

Debbo  finalmente  ringraziare  il  eh.""  prof.  Monaci,  che  mi  giovò 
di  consiglio  e  d' aiuto  e  mi  oflfrì  V  ospitalità  nel  Giornale  di  filologia 
romanza, 

Roma,  23  Novembre  1870. 

Grtlio  Salvadori. 


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ROMANZA,  X."  f.|  STORIE  POPOLARI  TOSUANK  107 

I 

LUGGlERI(l) 


[Nella  seconda  parte  di  questa  storia,  che  incomincia  Quando  al  castello,  e  finisce 
con  la  storia  stessa,  c*è,  se  non  erro,  qualche  somiglianza  con  la  seconda  parte  della  bal- 
lata danese  Erlkònigs  Tochter,  tradotta  dal  prof.  Carducci  e  da  lui  pubblicata  sotto  il 
titolo  di  Sir  Oluf  nel  n.*^  1  della  Rassegna  settimanale.  Eccone  gli  ultimi  versi,  che 
fanno  appunto  per  noi: 

T.  25....  £  quando  alla  porta  di  casa  egli  venne.  Ed  ecco  (il  mattino  tremava  ancor  fosco) 

Sua  madre  al  veniente  gnardò  con  terror:  La  sposa  e  l'allegro  corteggio  ne  vien. 

—  Ascolta, mio  figlio:  dì  su,  che  t'avvenne  ? 
Perché  cosi  smorto?  che  è  quel  pallor? 


37     Recavano  cibi,  recavano  vino. 

—  Ov'è  il  mio  sir  Olof,  lo  sposo  dov'è?  — 
29     —  Come  esser  non  debbo  sì  pallido  e  smorto?  —  Usciva  a  sollazzo  pel  bosco  vicino 

Nel  regno  degli  elfi  mi  avvenne  d'entrar.  —  Ck>n  cane  e  cavallo:  verrà  presto  a  te.  — 


—  Ascolta,  mio  figlio,  mio  dolce  conforto  ; 
Ed  ora  alla  sposa  che  debbo  contar? 

33     —  Le  di  che  a  sollazzo  cammino  pel  bosco 
Con  cane  e  cavallo,  provandolo  al  fren.  — 


41     La  sposa  nna  rossa  cortina  solleva: 
E  morto  lì  dietro  air  Oluf  giaceva. 


l'n  fatto  simile,  di  uno  sposo  cioè  ucciso  dai  fratelli  della  sposa,  è  anche  raccontato  nel 
Sigtirdharkvidha  àeWEdda;  dove  lo  sposo  è  SgurJh,  e  la  sposa  Gudruna  sorella  di 
Ounnar  (Cfr.  nella  trad.  del  Pizzi,  Antol.  epica,  Loescher,  1877,  p.  233).  Del  resto  questa 
canzone,  di  cui  lìnora,  per  quel  ch*io  so,  non  sono  state  pubblicate  varanti,  mi  pare  no- 
levolivSsima,  princpalmente  per  la  sua  forma  schiettamente  toscana  e  pel  metro  che  rara- 
niont'»  si  riscontra  nella  po\sia  lìopo'are  (e  anche  non  popolare)  italiana,  si  antica  eh? 
moderna  (Cfr.  Carducci,  int.  ad  alcune  Rime  dei  secoli  XIII  e  XIV  ecc.,  Oa- 
Ifali,  187G,  p.  100).] 


.Kj  l\u  Skj  . 


Era  seren  che  si  rannuvolava  : 

C'era  Lugf^icri  che  moglie  menava. 

E  quando  funno  là.  pella  via  piana, 

E'  prese  la  su'  sposa  pella  mana. 

I  su*  fratelli  stimano  V  onore  ; 

Gli  denno  un  colpo  senza  fa  parole. 

I  su' fratelli  T  onore  stimonno, 

Gli  denno  un  colpo  e  quasi  T  animazzonuo. 

Quando  Luggieri  se  sentì  ferito, 

Diede  una  si^eronata  al  su' cavallo: 

—  Parenti  mia,  venitene  bel  bello, 

Che  me  voglio  condii  verso  '1  castello.  — 

Quando  al  castello  se  ne  fu  arrivato, 


CI)  Già  pubblicala  da  me  nella  Rasseyììa  settimanale,  voi.  III.  p   485. 


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108  G.  SALV ADORI  [giobsalk  di  kiu*logia 

14     Le  porte  del  palazzo  eran  serrate: 

—  0  madre  mia,  aprite  queste  porte  ; 
ir.    Vedarete  Lu^gier  condotto  a  morte: 

0  madre  mia,  apritemi  quest'uscio; 
1»    Vedarete  Luggier  mezzo  distrutto.  — 
I  —  0  figlio  mio,  e' hai  fatto  al  tu'  cavallo, 

20    Che  del  tu' sangue  gronda  propio  tutto?  — 

-—  0  madre  mia,  pensate  a  fk  costie, 
2»    Che  'l  mi'  cavallo  deve  fk  cosfe. 

0  madre  mia,  pensate  a  cucinare; 
24    Quando  arriva  la  sposa,  abbia  a  mangiare.  — 

Quando  la  sposa  a  casa  fu  arrivata, 
«6    Del  su'Luggieri  n'ebbe  a  domandare. 

—  0  nora  mia,  pensate  su  a  mangiare, 
2M    Che  Luggieri  è  nel  letto  a  riposare.  — 

Quando  la  sposa  ebbe  mezzo  pranzato, 
:<u    Del  su'  Luggieri  n'  ebbe  a  domandare. 

—  0  nora  mia,  pensate  su  a  cibarvi, 

s«    Che  Luggieri  è  nel  letto,  e  verrà  tardi.  ~ 

Quando  la  sposa  ebbe  beli' e  pranzato, 
34    Del  su'  Luggieri  n'ebbe  a  domandare. 

—  0  nora  mia,  caviti  testi  panni, 

30    Che  Luggieri  è  nel  Ietto  in  grand' affanni  : 

0  noi-a  mia,  caviti  testi  vezzi, 
38    Che  Luggieri  è  nel  letto  in  gran  tormenti: 

0  nora  mia,  caviti  testi  anelli, 
04    Che  Luggier  l' hanno  ammazzo  i  tu'  fratelli.  — 

—  Sorella  mia,  piglia  cotesti  panni, 
4s    Che  a  casa  noi  te  se  rivuol  menare 

E  un  conte  o  un  cavai ier  te  se  vuol  dai-e.  — 
44    Un  conte  o  un  cavaliere  non  vò  io; 
Voglio  Luggieri  che  l'è  da  par  mio.  — 

(Da  Donata  Ma<»ini  di  Ciggiano,  prov.  d'Arczzc».) 


II 

LA  BARBERA  BELLA 


[Nel  Legenda  RIO  |  delle  Santissime  |  Vergini  |  Le  quali  volsero  morire  per  il 
nostro  Si  \  gnor  Oiesv  Christo,  et  per  mantenere  la  sua  santa  Fé  \  de,  et  virgini- 
tà I  In  Venetia  appresso  Domenico  et  Gio.  Battista  Guerra,  fratelli,  MDLXXVIII;  la 
leggenda  di  S.  Barbara  (p.  172)  è  presso  a  poco  raccontata  come  nella  nostra  sloria 
quella  di  Barbera  bella;  anzi  in  certi  punti  la  corrispondenza  delle  parole  è  veramenie 
notevole:  sì  che  facilmente  si  vede  che  la  Barbara  della  leggenda  cristiana  e  la  Barbera 
della  nostra  storia  non  son  che  una  sola.  É  vero  che  la  prima  ci  appare  martirizzata  dal 


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HOMAKZA,  N.«  51  STORIE  POPOLAHI  TOSCANE  199 

padre  p?r  essersi  l'atta  cristiana,  e  la  seconda  per  essersi  o])posta  alle  tarpi  proposte  di 
lui;  e  che  il  racconto  del  martirio  della  prima  non  procede  in  tutto  e  per  tutto  come  il 
racconto  del  martirio  della  seconda:  ma  chi  sa  quanto  sian  facili  ad  alterarsi  ì  racconti 
affidati  alla  fantasia  e  alla  memoria  del  popolo,  non  ne  farà  le  meraviglie.] 

[  ^  1  \^  1  \j  lyf  1\j1\j1kj1\^Jì\j  1 

—  Sta  sa,  Barbera  bella  costumata, 

t    Che  io  te  vò  con  me  per  maritata.  — 

—  Sta  sn,  padre  diletto; 

4    Lo  sposo  mio  gli  è  Gesù  benedetto.  — 

Quando  1  sa*  padre  gli  sentì  dì  qaesto. 
Alle  prigioni  la  fece  menare; 
7    Tre  giorni  senza  bé,  senza  mangiare. 

—  Sta  sn.  Barbera  bella,  costumata...  — 

—  Sta  su ,  padre  diletto . . .  — 

Quando  '1  su'  padre  gli  senti  dì  questo , 
Alle  segrete  la  fece  menare; 
10    Tre  giorni  senza  bé,  senza  mangifiure. 

—  Sta  su,  Barbera  bella,  costumata...  -  - 

—  Sta  su,  padre  diletto...  — 

Quando  'l  su'  padre  gli  sentì  dì  questo. 
Alle  colonne  la  fece  legare; 
13    Tre  giorni  senza  bé,  senza  mangiare. 

—  Sta  su.  Barbera  bella,  costumata...— 

—  Sta  sn,  padre  diletto...  — 

Quando  *1  su'  padre  gli  sentì  dì  questo, 
Per  terra  ignuda  la  fece  trainare; 
10    Tre  giorni  senza  bé,  senza  mangiare. 

Allor  la  Santa  si  voltò  'n  ve'  '1  cielo  : 

—  Angioli  santi,  fate  coprì  questa  vergogna.  — 
19    Allora  vennon  giù  T  angioli  santi, 

Ed  in  palma  de  mano  la  piglionno 
E  'n  paradiso  con  sé  la  portonno. 
tt    —  Angioli  santi,  su  su  su  'n  ve*  *1  bello  ; 

Io  vado'n  paradiso,  e  te  air  inferno: 
Io  'n  paradiso  con  canti  e  con  suoni  ; 
2s    E  te  all'inferno  con  sospiri  e  duoli: 

Io  'n  paradiso  con  suoni  e  con  canti  ; 
E  te  all'inferno  con  sospiri  e  pianti. 

(Dalla  med.«) 


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2(.H) 


G.  SALVADOBl 


[OIORNALR   DI  FILOL(H>lA 


III 


[Questa  storia  mi  fu  cantata  tutta  storpia  e  malcoDcia;  molti  versi  non  tomanOf 
c'è  qualche  lacuna  fra  mezzo,  e  manca  la  fine.  Ad  ogni  modo,  cosi  com'è  la  pubblico, 
perchè  mi  pire,  nel  suo  genere,  molto  importante.  Del  resto,  di  mostri  divoratori  e  di 
giovinetti  figliuoli  di  re  destinati  ad  esser  divorati  da  loro,  son  piene  le  mitologie  auliche 
e  moderne.] 

Un  mago  *ii  una  macchia  scura  scura 
8    Ogni  giorno  voleva  una  persona. 

Chi  toccherà,  e  quell'anima  cura: 
4    Toccò  al  re;  n'aveva  altro  ohe  una. 

—  Per  in  già  che  mangia  me  la  volete, 
6    Sett'otto  giorni  me  la  lascerete: 

Per  in  già  che  mangia  me  la  volete  mangiare, 
R    Sett'otto  giorni  lasciatemela  stare.  — 

Quando  funno  compiti  i  giorni, 

Il  mago  gli  mandò  d' un' imbasciata 

Che  la  su'  figlia  gli  avesse  mandata. 

Quando  fu  pe'  'na  viottolina  scura, 

Non  ce  batteva  né  éole  né  luna; 

La  se  riscontrò  'n  un  vecchiarello  ; 

Gli  disse:  —  Dov'andate,  o  ragazzina, 

Che  ve  sete  saputa  accomodare, 

Che  pare  che  a  marito  abbiate  a  andare  V  — 

Rispose:  —  Dal  mago  a  fammi  mangiare.  —  (1) 
E  il  vecchiarello  le  disse:  —  Quando  sarai  là 

Sciogliti  i  nastri  del  grembiul,  che  vinchi, 
so    Lo  meni  a  mano  com'un  agnellino.  -— 


(  Dalla  mcd.*  ) 


(1)  Qui  è  interrotta  la  serie  de' Tersi, 


IV 
IL  MARINARO 

[Cfr.  WoLF,  il  marinaro  e  la  sua  bella,   pag.  74;  Ferraro,  Rit\  di  fiioL  ra^.^ 
voi.  11,  pag.  198,  t  tre  marinari;  e  Riv.  di  lett.  pop.,  fase.  1.1 

Bel  marinaro,  che  vai  peli' acqua, 
Che  vai  peli' acqua  col  ciel  seren, 
3    Per  riscontrano  l'amato  ben. 


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RoiiAxzA,  N.O  5J  STORIK  POPOLAMI  TOSCANE 

£  quando  furono  a  mezza  strada^ 
Se  riscontrarono  tutti  e  tre: 
0    —  Dov*anderemo  stasera  a  ce? 

Co  n'anderemo  dalla  bell'oste, 
Dalla  beiroste  che  al  cor  ci  die; 
0    La  più  bellina  de  lei  non  c^è.  — 

Mentre  la  bella  gli  apparecchiava, 
Il  marinaro  la  rimirò; 
it    E  la  su'  mamma  gli  domandò: 

-*-  0  che  rimiri,  bel  marinaro?  ~ 
—  lo  la  rimiro  la  tu'  figliò  ; 
16    Che  per  amore  sposare  la  vò.  — 

E  quando  Tebbe  belPe  sposata, 
11  marinaro  se  la  'mbarcò  ; 
13    Nell'alto  mare  se  la  menò. 

Ma  quando  funno  nell'alto  mare, 

La  su'  barchetta  nel  fondo  andò  : 

itt     —  Mai  più  la  bella  non  rivedrò! 

Se  io  campassi  quattrocent'  anni , 
Il  marinaro  non  lo  fo  più, 
il     Ch'ò  la  rovina 'Ila  gioventù.  — 

(Dalla  med") 

V.  6:  Cniti.     14:  FiylinUt, 


201 


V 


LA  BELLA  INGLBSE 


f  Cfr.  Marcoaldi,  La  tendicatrice ,  pag.  1(56;  Nigra,  Afonferrina,  nella  Itti\  contemp.t 
Voi.  XXlll,  pag.  73-74;  Righi,  paj?.  30;  Ferraro,  La  Movferrina  incontaminata  e  La 
Liberatrice f  pagp.  3  p  4  ;  Wolf,  La  figlia  del  Conte,  aeb,  pag.  47-40;  Caselli,  pag.  191  ; 
Bellermann,  a  Romeira,  pag.  lf)8;  Puymaiore,  Renaud  et  ses  qtiatorse  fentmes,  pag.  98; 
Beppino,  li,  n.°63,  pag.  167;  Villemarqué,  Les  trois  moines  rouges ,  I,  pag.  305;  Am- 
père, pag.  40.] 


—  Dimmelo,  bella  Inglese, 
Se  te  vuoi  marita.  — 

—  Sì  sì,  0  padre  mio, 
Chi  me  volete  dà? 

-  Un  cavai ier  di  Francia 
Te  vuol  per  su'  moglie.  — 

"  Sì  sì,  0  padre  mio, 
Mandatelo  a  chiama.  — 


Quando  gli  fu  arrivato, 

Dal  prete  la  menò; 
Quando  l'ebbe  sposata. 

In  Francia  se  n'andò. 
Lì  fece  trenta  miglia; 

L'Inglese  mai  parlò: 
Lì  fece  l'altre  trenta, 

E  pianse  e  sospirò. 
14 


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2iyi 


O,  S AL  V ADORI 


[giornale  di  filologia 


—  Dimmelo,  bella  Incr|epe: 
Cos'hai  da  sosinra? 

—  Sospiro  padre  e  madre, 
Che  rho  lasciati  andà.  — 

—  Se  tu  sospiri  questo, 
L'avrai  'na  gran  ragió. 

Kimira  quel  palazzo:  — 
E  lei  lo  rimirò: 

—  C'b  trentasei  ragazze 
'Nvaghite  dalPamó; 

Una  de  quelle  sei 

Me  P  ha  ferito  '1  co.  — 

—  Dimmi,  marito  mio, 

M' impresti  un  po'  la  spa  V  - 

—  Dimmelo,  bella  Inglese, 
Che  cosa  ne  vuoi  la?  — 

—  Vò  speronìi  '1  cavallo, 
Che  presto  vò  arriva.  — 

Quando  glie  Tebbe  data 
Nel  cor  se  la  sentì. 

—  Scendi,  marito  mio, 
Quaggiù 'ji  questi  fosso: 


Celi  rospi  e  li  serpi  ; 

Saranno  i  tu'  padró  : 
Il  più  bello  del  mondo 

Sara  '1  padron  de  me.  — 
Rivolta  la  pariglia, 

Addietro  rivoltò; 
Quando  fu  a  mezza  strada, 

'L  fratello  riscontrò. 

—  Dimmelo,  bella  Inglese, 
Tu  sei  rimasta  so? 

—  L'assassini  di  strada 

M' hanno  ammazzo  '1  mari. 

—  Dimmelo,  bella  Inglese; 
L' avrai  ammazzo  da  te.  - 

—  Non  ho  tanto  coraggio 
Da  ammazzano  da  me. 

Manda  a  chiamaìlo  '1  prete 
Che  me  vò  confessa: 

Ce  l'ho  un  peccato  grave, 
Lo  voglio  soddisfìi: 

L'ha  perdonato  a  tanti; 
Perdonerà  anco  a  me.  -- 


(Dalla  med.*) 


V.  0:  Mo>/l,fr(t.    -IH:  Core.     30:  Spndt.     »8:  Fo.ssoui,     48:  Sola. 


VI 


LA  CECILIA 


[Gfr.  BoLZA,  Cecilia,  png.  671;  Wolf,  La  povera  Cecilia ^  pag.  64;  Ferraro,  Ce- 
cilia,  pug.  28;  e  Rìv.  di  filoL  rom.,  voi.  11,  png.  206;  Gianandrea,  pag.  264;  Briz,  La 
(lama  de  Tolosa,  pag.  120;  Mila  y  Fontanals,  La  dama  de  ReuSy  pag.  143;  D'An- 
cona, Studi  su  la  poes.  pop.  it.^  putrj;.  110-123.  Questa  storia  che,  dopo  quella  di  Donna 
iMinbarda,  è  la  più  diffusa  di  tutte  in  Italia,  è  riportata  dai  D'Ancona  verso  la  metà  del 
8  colo  XVI;  e  i  primi  dodici  versi  di  questa  lezione,  che  mancano  nelle  altre,  con  l'ac- 
f, -nno  che  vi  si  fa  alla  causa  dei  fatto  racconUito,  avvalorano  la  sua  opinione.  Qaesto 
fatto  è,  come  appare  chiarameate  da  tutte  le  lezioni,  una  violenza  soldatesca;  e,  come 
appare  chiaramente  da  questa  lezione,  una  violenza  fatta  a  popolani  osservanti  delle  pra- 
tiche cattoliche  da  dispregiatori  di  queste  pratiche:  non  è  difficile  dunque  che  avvenisse 
al  tempo  delle  contese  religiose  p  t  la  Riforma  e  delle  frequenti  calate  in  Italia  degli  eser- 
c  ti  cesarei,  guidati  qualche  volta  e  composti  in  parte  da  riformati.] 


—  Bona  sera,  sor  oste.  — 
—  Bona  sera  anche  a  vó  : 

Siamo  tre  capitani  ; 
Volcm  carne  e  picelo.  — 


Rispose  la  Cecilia: 

—  Questo  non  se  può  fìi. 
Che  l'è  un  sabato  sera 

Giorno  de  devozió.  — 


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BOMAKZA,    N.*'    5] 


STORIE  POPOLABI  TOSCANE 


203 


L'oste  n'andette  in  corte 

A  dì  le  su'  ragìó  ; 
E  fu  preso  e  legato 

E  fu  inesso  'n  prigió. 
Eccola  la  Cecilia 

Che  piange  '1  su'  mari  : 

—  Me  r  han  preso  e  legato  ; 
Me  '1  voglion  fa  morì. 

Senta,  signor  tenente, 
La  grazia  lei  m' ha  a  fa.  — 

—  La  grazia  te  sia  fatta; 
Vieni  a  dormì  con  me.  — 

Cecilia  andette  a  casa; 
Si  mise  il  grembio  bianco 
E  le  scarpette  fi': 

—  Caro  signor  tenente. 
Venuta  sono  qui.  — 

Quando  fu  mezzanotte 

Cecilia  se  svegliò; 
Disse  :  —  L' ho  fatto  un  sogno  ; 


L' è  morto  '1  mi'  mari.  — 

—  Sta  giù,  sta  giù,  Cecilia, 
E  non  te  fk  sentì: 

Siamo  tre  capitani; 

Padrona  sei  de  qui.  — 
Quando  fu  fatto  giorno. 

Cecilia  se  svegliò; 
La  se  mette  'n  camicia; 

S'affaccia  nel  balco: 
Lo  vidde  '1  su'  marito 

'Mpiccato  a  ciondolò. 

—  Senta,  signor  tenente, 
Lei  m'ha  preso  a  tradì: 

M'ha  levato  l'onore; 

La  vita  al  mi'  mari. 
Addio,  bandiere  rosse; 

Addio,  bella  città: 
Le  calceri  de  moda 

Io  più  non  rivedrò. 

(  Dalla  mcd.»  ) 


V.  4:  Piccioni.    23;  Fitte.    44-47:  che  cosa  siano  queste  hnndiere  roane  e  queste  careni  di  moda 
io  nou  ho  potuto  capire.    Ne  lascio  quindi  la  spiegazione  a  chi  ne  sa  più  di  me. 


VII 


LA  DONNA  LOMBARDA 


[Cfr.  Marcoaldi,  D.  L.,  pig.  177;  Nigra,  D.  L. ,  nella  Riv.  contemp.^  voi.  XII, 
pag.  17  e  s-gg.;  Wolp,  D.  L.,  pag.  4C;  Righi,  D.  L.  ,  pag.  37;  Caselli,  D.  L.,  pag.  210; 
Ferraro,  D.  L.,  n^i  C.  |J.  jji.,  pag.  1;  e  Rit\  di  FUol.  rom.,  voi.  II,  pag.  196;  Saba- 
tini, Riv.  di  leti.  pop.  y  fasci;  D'Ancona,  Studi  ecc. ,  pag  117-119;  E.  Dorer-Egloff, 
Zur  Literatur  des  Volksliedes.  Qu -sta  lezione  poi  è  evidentemente  incom pitta:  manca 
il  racconto  della  morte  di  Rosmonda  che  ne  dovrebb' esser  la  parte  più  importante.  E  no- 
tevole p»rò  la  regolarità  del  metro  il  quale,  in  questa  più  che  nelle  altre  lezoni,  si  avvi- 
cina alia  strofa  tristica  quinaria  degli  antichi  celti,  che  fu  probabilmente  Poriginale  (cfr, 
NiGRA,  1.  cit.).  La  irregolarità,  della  strofa  quinta  dipende,  credo,  dall'aggiunta  fattale 
deirultimo  verso  della  strofa  seguente  che  aveva  perduto  i  due  primi.] 


--  Donna  Lombarda, 
Vogliami  bene, 
Vogliami  bè.  — 

—  Com'ho  da  faro 
A  volerti  bene, 
Clio  ci  ho  mari?     - 


'  !<.] 


—  Se  ci  hai  marito, 
Fallo  morire: 
T' insegnerò. 

Vanno  iu  nell'orto 
Del  sii^nor  padio. 
('ho  c'ò  un  sorpò; 


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*20l  G.  SALVADOlil                  [giornale  di  filologia 

Piglia  la  testa  Che  ha  questo  vino 

De  quel  serpente,  ss    Che  turbo  Tè?  — 

Pestala  bè;  _  Saranno  i  tuoni 

16    Dagliela  a  bé.  ^  Dell'altra  sera, 

Torna  '1  marito  i8    Che  turbo  V  è.  — 

Da  lavorare  p^rl5  „n  bambino 

19    C'ha  una  gran  sé:  j^g  ^o^e  n,eai 

—  Donna  Lombarda,  si     De  nove  me: 

Dammi  da  bere,  _  q  padre  mio, 

"     Dammi  da  bé.  —  Non  lo  bevete 

Donna  Lombarda,  3+    Che  c'fe'l  vele.  — 

(  Dalla  med."  ) 

V.  4,5:  L'a  che  coroincift  il  iJ.  '  versti  gi  fondo  oou  IV  ohe  tcrmiua  11  4.o  19:  Sdt.  27:  Var.:  luì- 
rullo  ritto.  31:  Mfni, 


Vili 
LA  SANTA  LUCIA 

[Cfp.  per  questa  storia  il  Legendario  citato  inn-inzi,  a  p.  198,  dove  si  racconta  all'in- 
cii'ca  come  nel  nostro  canto  la  leggenda  di  s.  Lucia.  J 

Santa  Lucìa  vergine  e  polzella 
2    De  quindici  anni  se  richiuse  in  cella. 

Ce  se  richiuse  perch'elPera  bella. 
4    Passò  '1  re  de  Malvagio  pella  via; 

Gli  disse  :  —  Cosa  fai ,  Rosa  Lucia  ?  — 
0    Disse  :  —  Se  vuoi  veni  con  mene  a  stare, 

Oro  e  argento  te  farò  portare, 
H     Padrona  del  mio  regno  te  vò  fare.  — 

Disse  :  —  Né  con  voi  né  cor  uomo  nato , 
1 0  '  Quando  m' èssi  a  ridurre  a  fk  1  peccato.  — 

'L  re  de  Malvagio  se  n*andette  a  casa, 
li     Nel  letto  se  buttò  per  ammalato. 

Ecco  Lucia  dal  coraggio  fino 
u    Se  cavò  Tocchi  e  glie  ne  mandò 'n  piattino: 

—  Dite  che  se  ne  sazii  veramente, 
10    Che  da  Lucia  non  aspetti  più  niente.  — 

E  '1  re  :  —  Gli  manderò  'n  par  de  giovenchi 
is    Che  *un  sian  domati  e  né  da  domare. 

E  allora  Lucia  la  farò  portare.  — 
lio    Quando  i  giovenchi  enno  tocco  Lucia, 

Loro  person  la  forza  e  la  possia: 
lì    Qimndo  i  giovenchi  enno  tocco  la  Santa, 

Loro  persou  la  forza  e  la  possanza. 

(Dulia  iiictl."  ) 


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ROMANZA,  N."  51  A.  THOMAS  205 

DE  LA  CONFUSION  ENTRE  72  ET  ^  J^ 

EN  PROVENgAL  ET  EN  FRAN9AIS 
DOCUMENTS    NOUVEAUX 


7.  Provenqal. 

Le  fait  linguistique  sur  leqnel  nous  noua  proposons  de  fournir  quel- 
ques  documeuts  nouveaux  a  été  sigualé  et  étudié  pour  la  première  fois 
en  proven9al  par  M.  P.  Meyer,  en  1875.  Dans  un  premier  article  (  Jio- 
niama,  IV,  184-194),  réminent  romaniste,  après  avoir  expliqué  et  dé- 
crit  au  poiut  de  vue  phonétique  le  fait  en  question,  en  a  signalé  la 
fréquence  relative  dans  trois  textes:  une  partie  du  Petit  Thalamus  de 
Montpellier,  le  libre  de  Mcinonas  de  Mascaro  et  VEvangile  de  VEnfance  ; 
il  en  a  aussi  relevé  des  exemples  dans  la  nomenclature  géographique, 
et  il  est  arrivé  à  cette  conclusion  «  qne  la  confusion  dV  et  de  5  -g?  s'est 
surtout  manifestée  au  XIV*  siècle  dans  la  partie  du  Languedoc  qui  cor- 
respond  aux  départements  du  Gard  et  de  THérault,  et  qu'il  n'est  pas 
probable  qu'elle  ait  été  frequente  'ailleurs  ni  en  aucun  autre  temps  ». 
Dans  un  supplément  à  cet  article  {ibid.  p.  4G4),  Tauteur  a  cité  des 
exemples  nouveaux,  et  par  la  publication  d'une  lettre  de  M.  Alard,  ar- 
chiviste des  Pyrénées-orientales,  il  a  montré  que  le  méme  fait  s'était  éga- 
leraent  produit  avec  assez  d'intensité  en  Roussillon  au  XIV'  siècle.  Enfin 
dans  un  dernier  article  il  en  a  précise  encore  {ibid.  V,  488-490)  les  li- 
mites  géographiques  et  chronologiques:  «  tout  considéré,  dit-il,  on  peut, 
ce  me  semble,  tenir  pour  certain  que  le  changement  à's  £  en  r  et  in- 
versement  dV  en  s  ;?  ne  s'est  point  étendu,  sauf  en  des  cas  isolés,  au 
delà  du  Rhòne  et  qu'il  a  en  general  cesse  vers  le  commencement  du  XV" 
siècle  >  (1).  D'autres  exemples  relevés  par  M.  Chabaueau  (Bcvue  des 
langués  romanes,  1""  sèrie,  t.  Vili,  p.  238,  et  2"  sèrie,  I,  p.  148-151) 
u'ont  guère  fait  que  confirmer  les  réaultats  obtenus  par  M.  P.  Meyer  sans 
apporter  aucun  élément  nouveau  à  la  question.  Il  n'en  est  pas  de  méme 
de  ceux  qne  nous  avons  publiés  une  première  fois  (Rmnania,  VI,  261- 
2GG):  ils  ont  montré  que  vers  le  milieu  du  XV*  siècle  la  confusion  de  r 
et  de  .s"  ìs  avait  été  très  frequente  dans  les  provinces  du  nord  de  la 


(1)  CVst  évidt'mmeiU  jtar  suite  fl'uu"  fante  d'imprcssion  qu  on  lit  XIV*"  dans  la  Romania. 


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206  A.  THOMAS  [giornale  di  filologia 

laDgue  d'oc,  dans  la  Marche,  le  Limonsin  et  surtont  la  Basse- Au verone. 
Ceux  qae  uous  avons  réunis  depuis  et  que  nous  publioDs  ci-dessons  ap- 
partieuneut  égalemeut  au  milieu  du  XV"  siècle,  contiuuaat  ainsi  à  faire 
fléchir  la  limite  chronologiqae  primitivemeut  établie  par  M.  P.  Meyer;  ils 
dépassent  également  la  limite  topographique  assiguée  JQsqu'ici  à  la  coii- 
fusion  de  r  et  de  5  0,  limite  que  nous  avions  déjà  notablement  élargie 
dans  notre  premier  article.  Ces  exemples  en  efifet  se  diviseut  naturel- 
lement  en  deux  séries  :  la  première  relative  au  département  de  TAude  et 
spécialement  à  Tancien  diocèse  de  Narbonne,  montrera  qu'au  milieu 
du  XV"  siècle  le  confusion  entre  s  js  et  r  o,  été  aussi  frequente  dans 
cette  partie  du  Languedoc  que  dans  la  Basse-Auvergne ;  la  seconde, 
formée  d'éléments  empruntés  à  dififérentes  régions  du  domaine  provenyal, 
prouvera  que  cette  confusion,  à  1  etat  accidentel,  s'est  raanifestée  presque 
partout  à  la  méme  epoque. 

1.°  Département  de  VAudc. 

A.  Diocèse  de  Narbonne.  —  Nos  exemples  soni  empruntés  à  einq 
ròles  d'assiettes  d'impóts  conservés  à  la  Bibliothèque  nationale  de  Paris 
80US  les  n."*  Fr.  23901  et  26071  n.^  4894,  ròles  dont  deux  datent  de  1434 
et  trois  de  1443,  1445  et  1495.  Le  róle  de  1443  (26071  u.^  4894)  est 
le  Seul  dont  le  préambùle  soit  redige  en  proven9al  (les  autres  sont  en 
franjais).  Voici  ce  préambùle  qui,  dans  un  texte  très-court,  nous  oflFre 
déjà  deux  exemples  du  passage  de  5  «e^  à  r: 

<  S'ensiec  la  asaieta  de  X"*  1. 1.  donadas  a  Mossonhor  d'Orliex  (1)  lo  darla  cof^elh 
tengut  a  Monpelia,  en  lo  mas  d'octobre  Pan  M  HIP  XXXXIII,  don  toqua  la  vielha 
e  dieussera  de  Narbona  la  soma  de  VP  XVIII  1.  XIIII  s.  Villi  [d.],  laqual  se  tU- 
veris  coma  s'ensiec  :  » 

Les  exemples  que  nous  avons  relevés  dans  ces  cinq  textes  (exemples 
qui  naturellement  portent  sur  les  noms  de  lieux)  sont  les  suivants:  (2) 

Auriac{^\  1434  A,  B;  1445;  1495.  Ausiac,  1413. 

^i>aw-las-Granolheyra8  (4),  1434  B;  Bi-     U/ran-laa-Granolheyras,  1434  A. 

^an-las-Granoleyras,  1443  ;  Bùan-Grano- 

Iheyras,  14 15;  I^isan-Granolheres,  1495. 


(1)  Il  8*iigìt  du  poète  Charles  d'Orléans,  ignoroiis  la  forme  primitiv,». 

et  la  somme  en  question  lui  fut  donnée  par  (3)  Canton  de  Momhoumet.    La  forme  pri- 

oi"dre  du  roi  pour  Ini  aid»r  à  payer  sa  ran-  mitive  est  rn  r:  castellum  de  Auriago  102S 

<:on  aux  Anglais.  {llist,  de  I^njnedoc,  II,  181). 

(2)  Gomme  on  le  verrà,  dans  ce  tableau  (4)  hìzQn(en*3\ì  Binìano,  /list,  de  Latiff. 
nous  mettons  à  gauche  la  forme  moderne  II,54)*8t  anj.  Bize,  C.^"  de  (nnestas;  nm* 
et  nous  ne  fornions  pas  deux  séries  distin-  nous  ne  voyons  plus  de  traces  de  la  di'stinc- 
cteSjPune  pour  sz=-r  et  i'autre  pourr=3  tìon  de  Bhan-las-Atheiias  et  i\e  Bizan-/fl*- 
«  ^;  cette  distinction  ne  nous  parait  pas  très-  Granolhciras,  à  moìns  quo  Tune  des  dfux 
utile,  et  d'ailleurs  elle  ne  pourrait  pas  étre  localités  ne  soit  Bizanet,  C.^»  de  Naritonne. 
faite  avec  sùreié   pour   Us  mols  dont  nous 


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BOHANKA,    N.'*    5] 


DE  LA  CONF.  ENTEE  R  ET  S  Z 


207 


Bizan'klhejrM,    1445;   Bwan-Aillieres, 

1495. 
Montpezat  (1),  1445;  Montpesat,  1495. 
Montseren  (2),  1434  A,  B;  1445;  Moni- 

seré^  1495. 
Pazan(3),  1443;  Paza,  1495. 
Pa^ii/^  (4),  1495. 

Fosol8(b)y  1495. 

r6zan(6),  1445;  Tesaw,  1495. 


Biran-ìes- Aìhey  Toa,  1484  A;  —  las-Alhey- 

ras,  1434  B;  —  laa-Aleyras,  1443. 
Monperat,  1434  A,  1443  ;  Montperat,  1434  B. 
Monsezen,  1413. 

Para,  1434  A,  B;  Paran,  1445. 
ParwZ.?,  1434  A,  B;  Poruls,  1443;  PoruoU, 

1445. 
Porofe,  1434  A,  B;  1443;  1445. 
Teran,  1434  A,  B;  1443. 


B.  Bìoche  de  Carcassonne.  —  Nous  avons  des  assiettes  d'impóts 
de  1434,  1435,  1438,  1453  et  1455  dans  le  N.  Fr.  23900.  Uu  seul  nom 
nous  fournit  des  exemples,  c'est  Sainfe-Eulalie^  C.""  d*Alzonne.  Cette  loca- 
lité  est  appelée  en  1434  Sainte-Eidalie  comme  aujonrd*hui;  mais  eu  1435 
et  1438,  nous  trouvous  S*'  Atdane,  en  1453  et  1455  Sanf-Atdasia, 
Ces  formes  eu  5  supposent  Texistence  à  la  méme  epoque  d'une  forme 
Sanf'Aidaria  —  derirée  de  Sanf-Aidalia  —  qui  se  retrouve  d'ailleurs 
aujourd'hui  dans  Sainte-Aulaire  (Corrèze),  que  Ton  écrit  à  tort  Saint- 
Aulaire. 

2.°  Dcpartements  divers. 
A.    Gard.  —  Pour  les  diocèses  de  Nìmes  et  d'Arles,   nous  avons 
des  roles  d'assiettes  d'impòts  à  la  Bibliothèque  Nationale,  Fr.  26071 
(N.  4823)  et  23901,  et  nous  y  relevons  les  cas  suivants: 

Ardes8an(l),  1439.  Arder  an\  1438;  1143. 

Gratusieres  (8).  Graturieres,  1443. 

VergesesiS),  1439.  Vergeres,  1438;  Vergieres,  1443,  1491. 

Vizenóbre[\0),  1438, 1439;  Vìsenobre,  1491.  Vircnobre,  1443. 


(1)  C.n«  de  Roquefort-d^s-Corbières,  C.o" 
de  Sigean.  La  forme  latine  n'est  pas  dou- 
leuse:  cVst  Montepelìì^sato. 

(2)  Montsep«^t,  C.o"  de  Lézignan;  costei- 
liim  de  Montesercno  1134  (Jlist.  de  Lang. 
11,473). 

(3)  Pasa,  C.ne  de  Soulatge;  Petiamtm, 
889  {Hist.  de  Lang.  II,  24). 

(4)  Paziois,  C.<»n  de  Tuchan.  Nous  igno- 
rons  la  forme  primitive. 

(5)  Pouzols,  C.<>"  de  Oinestas.  La  forme 
latine  primitive  est  évidemment  Pnteolis, 

(6)  Thézan,  C.»"  de  Durban.  Il  y  a  aussi 
un  Thézan  dans  VUéranhj  castra m  de  Te- 
ciano  1105  {Ilist.  de  Lang.  II,  368). 

(7)  La  forme  primitive  est  Arderancum 
(918);  le  plus  ancien  exemple  de  la  forme 
avec  *  z  est  de  1384  ;  aucun  des  exemples 


réuuis  par  M.  Germe r-Durand  {DictAop.du 
dt'p.  du  Gard)  et  reproduits  pas  M.  P.  Meyer 
n'appartient  au  XV®  siècle.  Il  y  a  pourtant 
dans  Vlntrod.  du  Dict.  top.  p.  XIX,  uu  exem- 
ple d'Ardesan  en  1435  que  l'auteur  a  oublié 
de  reproduire  à  l'article  alphabétique  d'.4r- 
dessan. 

(8)  Cette  localité  était  dans  la  vìguerie  du 
Vigan.  Dans  la  préface  du  Dict.  top.  p.  XXI , 
on  trouve  locus  de  Gratuseriis ,  1384,  Gra- 
tusieres, 1435, 1530;  mais  on  chercherait  en 
vains  dans  le  corps  du  dictionnaire  Gratu- 
sieres ou  Graturieres. 

(9)  La  forme  primitive  est  Ver  seda  1125; 
M.  M.  Durand  et  Meyer  ne  citent  qu'un  exem- 
ple, de  1435,  de  la  forme  avec  r. 

(10)  Auj.  Vezenobre;  form?  primitive:  Ve- 
denobrium  (voy.  le  Dict.  top.). 


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208  A.  THOMAS  [qiornalk  di  filologia 

Les  assiettes  des  diocèses  d'Uzés  et  d'Avignon,  contenues  dans  le 
méme  N.  23901,  nous  fouruissent  deux  exeraples: 

Salazac  (1),  1438,  Salezac  et  Salesac,  1445,     Salerac,  1403. 

1464,  1488. 
Valeguiere(2),  1438,  1445,  1464,  1488.         Valayguese,  1404. 

B.  Haute-Garomie.  —  Assiettes  du  diocèse  de  Toalouse  dans  le 
méme  volume: 

Boqueseriere  (3),  1438,  1449.  Ko^ueserieze,  1439. 

C.  Lot.  —  Une  commune  de  ce  département,  dans  le  cauton  de  Ca- 
stelnau-de-Montratier,  porte  le  nom  de  Sainte-Alauzie.  La  méme  forme 
se  trouve  au  XVIP  siècle,  et  est  traduite  en  latin  par  Sancta-Alausia  (4). 
Mais  il  n'existe  pas  de  sainte  de  ce  nom.  En  1526,  cette  localité  est 
appelée  Sainie-Aìdaye  (5),  et  cette  forme  montre  que  nous  avons  réelle- 
ment  affaire  à  Sancta-Eulalia  (6).  Alauzie  est  une  corruption  de  Aulcusie, 
dont  nous  avons  expliqué  ci-dessus  la  formation^ 

D.  Tarn-ct-Garonne.  —  Dans  ce  département,  commune  de  Lapenche, 
se  trouve  également  une  localité  appelée  Sainte-Aulazie  (7):  e' est  dono 
le  méme  cas  que  ci-dessus. 

E.  Haute -Viemie.  —  Dans  une  pièce  écrite  à  Limoges  en  1430,  on 
lit  deux  fois  evesque  de  Maillerais  (8)  :  il  s'agit  de  l'évéché  de  Maillezais 
{Malleacensis)^  aujourd'bui  réuni  à  la  Rochelle.  Nous  notons  également 
les  formes  MaiUerés  et  Maillerais  dans  deux  antres  pièces  d'origine  lan- 
guedocienne  des  18  octobre  1383  et  4  mai  1450  (9). 


77.  Fran^ais. 

Il  n'entrait  pas  dans  le  pian  de  M.  P.  Meyer  d'étudier  la  confusion 
de  5  ^  et  de  r  en  fran^ais.  Toutefois  il  ne  pouvait  s'erapécher  de  rap- 
peler  après  Diez  Thabitude  que  Théodore  de  Bèze  et  Palsgrave  repro- 


(1)  Forme  primicive  avec  s  (tbùl).  de  L:\penche,  14  hab.  »  et  «  Sainte-Eulalie, 

(2)  Valliguière,  Valle-Aquaria  {ibid.).  Tariwn-Garonne,  C.  de  Lapenche,  10  hab.» 

(3)  La  forme  primitive  u'est  pas  douteuse:  On  trouve  ces  deux  articles  dans  le  Dict, 
Rocca-serraria.  des  Postes  ,  et  nous  pensons  qu'il  font  douWe 

(4)  Pouillc  du  diocèse  de  Cahors ,  p.  p.  emploi:  il  est  néanmoius  curieux  de  voip  les 
M.  LoNGNON  dans  la  collection  des  Docu-  deux  formes  subsistant  cóte-à-cóte. 
inents   inèdits ,    Mélanges ,  2«  sèrie,  t.  II,  (8)  Voy.  notre  travail  intituié  Les  États 
N.  658.  provinciale^;  de  la  France  centrale  sous 

(5)  Ibid.  Charles  VII  (  Paris,  Champion  1879) ,  t.  II. 

(6)  11  y  a  en    effet    encore  auj.  Sainte-  p.  110  et  111). 

Aulaye  dans  la  Dordogiie.  (9)  Bihl.  Nat.  Fv.  20884  f.  13,  et  20S85 

(7)  «  Sa!nt-Aiauzie,  Tarn-e*-Garonne,  C.  f.  25. 


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ROMANZA,  N.o  5]  DE  LA  CONF.  ENTRE  R  ET  S  Z  209 

chaient  aux  Parisiens  de  leur  temps,  habitude  qui  consistait  à  prononcer 
s  pour  r,  et  dont  nous  avons  un  débrit '  incontestable  dans  le  doublet 
cJiaise  et  chaire  (1).  M.  Ch.  Joret  (2),  dans  un  article  évidemraent  inspiré 
par  le  travail  de  M.  P.  Meyer,  bien  que  Tauteur  n'en  dise  rien,  s*est  efforcé 
de  traiter  plus  à  fond  cette  questi*n:  mais  sauf  des  détails  intéressants 
sur  quelques  patois  modernes,  il  n'a  rien  dit  de  bien  nouveau,  et  les 
rapprochements  à  priori  qu'il  établit  entre  des  formes  de  noms  de  lieux 
avec  r  ou  5  manquent  absolument  de  base.  En  somme  on  ne  sait  guère 
sur  ce  sujet  que  ce  que  Th.  de  Bèze  et  Palsgrave  en  disent:  les  pré- 
cédents  du  fait  qu'ils  signalent  n'ont  été  montrés  nulle  part.  Les  quel- 
ques textes  que  nous  avons  réunis  et  que  nous  publions  ci-dessous  servi- 
ront  donc  de  jalons  sur  ce  terrain  inexploré.  Nous  ne  voudrions  par  bàtir 
un  système  avec  des  éléments  si  insuflBsants,  mais  nous  ne  croyons  pas 
nous  éloigner  de  la  vérité  en  pensant  que  la  confusion  entre  r  et  £? 
s'est  produite  en  fran9aÌ8  comme  en  proven9al,  mais  un  peu  plus  tard, 
c'est-à-dire  surtout  dans  la  seconde  moitié  du  XV°  siècle,  que  cette 
confusion  s'est  manifestée  particulièrement  à  Paris,  dans  le  langage 
parie,  et  que  nous  en  trouvons  les  dernières  traces,  au  XVI*  siècle, 
dans  le  fait  cité  par  Palsgrave  et  Th.  de  Bèze. 
1.**  Pièces  isolées  de  provenance  douteuse. 

Un  acte  originai  de  Charles  VII  dauphin  (3)  du  2  février  1420  porte 
allocation  de  150  1.  t.  à  son  chambellan  messire  Guillaume  de  CJiastel' 
Tieuf-de-Randon^  sire  de  Saint- Ramcry;  en  1426-1427  on  trouve  une 
montre  de  Guillaume  de  Saint-Bemery ,  qui  est  éviderament  le  méme 
personnage  (4)  ;  le  26  mars  1420  nous  avons  (5)  une  quittance  où  il  est 
dit  seigneur  de  Saint- Remaisy  :  cette  forme  nous  fait  facileraent  recon- 
naìtre  qu'il  s'agit  de  S*-Remeze  {S.  Remigius)  dans  TArdèche.  —  Dans 
une  quittance  originale  de  1460  (6)  nous  lisons  Girors  pour  Gisors  en 
Normandie,  et  dans  une  autre  (7)  de  1466,  deux  fois  Vierron  pour  Vierzon 
en  Berry  (8). 

2.**  Registres  de  la  Cour  des  Aides  de  Paris  (9). 

A  la  date  du  23  juin  1445  nous  lisons: 


(1)  Au  derniep  moment  nous  relevons  cAa-  (5)  Cab.  des  Titres. 

ieze  cathedrale  dans  un  ms.  de  Jean  Chartier  (6)  Ibid.  au  dossier  Gaucourt. 

dVnviron  1470  (Vat.  Reg.  687,  f.**  7(3,  v.**).  (7)  Ibid. 

M.  Lì  ttré,au  mot  cAai^ff,  ne  ci  te  pas  d'exem-  (8)  On   lit  également    Viarron  dans    la 

pie  antèrieur  au  XVI"  siede.  chroniqu»*  de  Louis  XI  écrite  à  Paris  et  dite 

(2)  Mém,  de  la  soc.  de  linguistique  de  chronique  scandaleuse,cx>ììecL  MiCHAUDet 
Paris,  t.  Ili,  p.  154-162.  Poujoulat,  t.  IV,  p.  252. 

(3)  Bibl.Nat.de  Paris,  Cabinet  des  Titres.  (9)  Aux  Archives  Nat.  Z.  1  A.  15,  16  et  17. 

(4)  A rchi ves Nationales, Cartons des liois, 
n/'  2014  «le  Plnventaire. 

14* 


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210  A.  THOMAS  Igiornalk  di  filologia 

Entre  les  consulz  du  bourg  de  CarcassoDne,  d'une  part,  contre  ceulx  de  Lozan 
d'autre.    Lefevre  pour  lesdiz  de  Carcasaonne  dit  que  lesdiz  de  Lauzerit  etc 

Et  le  26  juin  suivant: 

Entre  les  habitants  de  Carcassonne ....  contre  les  habitants  de  Lauren .... 

La  localité  meutionnée  sous  ces  diverses  formes  est  Laure,  près  de  Car- 
cassonne. —  En  1446  nous  ne  trouvons  pas  moins  de  six  fois  la  forme 
Vierron  pour  Vierzon  (1).  —  En  1448,  deux  fois  Desire  pour  Decize, 
dans  la  Nièvre  (2). 

S.**  Le  mistère  da  sihge  iVOrleans,  p.  p.  MM.  Guessard  et  de  Cer- 
tain.  —  Texte  d*environ  1470,  d'apròs  les  éditeurs.  On  y  reraarque 
plusieurs  exeraples  Aq  jilaisa  ^ovix  pìaira  (3): 

V.  11992.  Ou  il  V0U8  piai  sa  h,  aller. 

V.  12128.  Ce  qui  vous  plaisa  nous  ferous. 

V.  12639.  Quant  y  vous  plaisa  partirona. 

V.  12<)i3.  Ou  il  vous  plaisa  les  bouter. 

V.  12856.  Nous  ferons  ce  qui  vous  plaisa. 

V.  15393.  A  partir  quant  y  vous  plaisa  etc. 

De  nieme  condulsons  pour  conduirons  au  vers  11991  ;  rcìnedisoient 
pour  remrdìroient  (v.  18299)  etc. 

4.''  Procès  de  JaajHcs  d' Armagmic  (4),  fait  à  Paris  en  1476-1477: 

f."  4M  v.°    Et  lui  faisoit  tres  mauvaise  cheze  de  ceste  cause.... 

i>  48  v.<*  Hugues  de  Bournarel,..,  (appelé  ordinairement  Bournazel), 

5.**  Vig'des  de  Charles  VII,  par  Martial  d'Auvergne,  ouvrage  com- 
pose à  Paris  en  1484.  Il  y  a  un  exemple  très-iniportant,  parce  qu'il 
est  assuré  par  la  rime:  la  ville  de  Decize  y  figure  sous  la  forme  Decire 
et  rime  avec  le  verbe  dire  (5).  Peut-étre  y  trouverait-on  plus  d'un 
exemple  analogue. 

6.°  Chronique  univer selle  jiisqiCen  1461,  Ce  texte  est  le  plus  impor- 
tant  que  nous  ayons  à  cause  des  exemples  relativement  nombreux  que 
Fon  y  trouve.  Il  est  contenu  dans  un  manuscrit  de  la  Bibl.  du  Vatican, 
Reg.  811,  in  S.**  de  402  f.*"*  L'ouvrage  est  sans  titre,  et  va  de  la  créa- 
tion  à  la  fin  du  règne  de  Charles  VII:  le  récit  de  ce  dernier  règne  n'est 


(1)  Z.  1  A.  IG  f,''*  19  r/\  21  r.'  d  v.'\  il  ne  faut  dono  pas  voir  là,  du  moÌDS  au 
97  r."  et  260  r.*^  X1I1«  s.,  un  exemple  du  passage  de  r  à  s, 

(2)  Z.  1  A.  17  f.'^»  52  v.«  et  59  r."  (4)  Bibl.  S.t«  Geneviève,  L.  7.  in  4." 

(3)  M.  Gi'ESSARD  fait  remarquer  (p.  XL)  (5)  Nous  avons  fait  cette  observaliou  sur 
ces  formes  plaisa,  condii isons,  mais  il  i 's  un  incnnable  où  les  vers  ne  soDt  pas  numé- 
rapproche  à  tort  de  la  forme  archaique  fise  ut  rotés  et  nous  avons  malheureusement  onblié 
à  coté  de  firent  que  Pon  trouve  au  XII«  et  de  noter  la  page;  en  tout  cas  c'est  à  Pannée 
au  XI1I«  8.  FisENT  derive  de  la  forme  pri-  1440,  à  la  fin  ou  à  la  suite  du  récit  de  la 
in.tive  fisrent  (féctrunt)  par  la  chùte  de  r  Pra.L^uerie, 

comrae  firent  en  derive  par  la  chùte  de  *•; 


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ROMANZA,  s.-  r>]  J)E  LA  CONF,  EKTBE  R  ET  S  Z  211 

autre  que  Touvrage  de  Jean  Chartier.  Le  ms.  est  d'une  écriture  assez 
mauvaise  et  paraìt  avoir  été  exécuté  très-rapidement.  La  date  en  est 
assez  bien  fixée  par  le  fait  suivant  :  à  Tannée  1458  Jean  Chartier  .men- 
tionne  la  mort  d'Arthur,  due  de  Bretague,  et  Tavènement  de  son  suc- 
cesseur  Pran9ois  II;  notre  ms.  ajoute:  «  lequel  f  respassa  en  la  ville  de 
Nentes  Tan  mil  quatre  cent  quatre-vingz  et  huit  en  son  lit  peu  après 
la  journée  de  S*  Aubin-du-Courmier  et  laissa  deux  filles  seules  lieri- 
tieres  ».  Le  texte  est  donc  postérieur  à  1488;  mais  comme  Tune  de  ces 
filles  mourut  en  1490  et  que  Tautre,  la  célèbre  Anne  de  Bretagne,  se 
maria  en  1491  avec  Charles  Vili,  il  n'est  pas  probable  que  Tinterpola- 
teur  eùt  omis  ces  deux  faits  s'il  avait  écrit  postérieurement  à  leur  ar- 
rivée.  Il  est  donc  à  peu  près  sur  que  le  ms.  date  de  1489.  Ajoutons 
que  le  filigrane  du  papier,  identique  pour  tout  le  volume,  est  un  écu 
chargé  de  trois  fleurs  de  lys,  circonstance  qui  pourrait  peut-étre  servir 
à  en  fixer  Torigiue  et  à  y  reconnaitre,  corame  nous  le  peusons,  un  texte 
écrit  à  Paris.  Nous  ne  pouvions  pas  raisonnablement  nous  cbndamner 
à  lire  tout  Touvrage  d'un  bout  à  l'autre  pour  y  relever  des  exemples 
de  s  =  r  et  de  r-=s.  Nous  avons  uniquement  parcouru  les  vingt  pre- 
mières  pages  et  la  plus  grande  partie  du  règne  de  Charles  VII:  voici  les 
cas  que  nous  avons  remarqués;  ils  suffisent  amplement  à  justifier  notre 
affirmation. 

f»  8  v*»:  Quant  Moyse  et  tout  son  peuple  furent  en  ce  desart  qui  estoit  oultre  la 
mer,  ilz  ne  trouverent  nulles  maisons,  nulles  gens,  nulles  vivres,  ne  point  d'eau 
doulce  que  nulle  creature  peuat  hoisCf  et  quant  leurs  vivres  furent  faillies,  les 
peuples  vindrent  ò,  Moyse  et  lui  fisent  grant  murmuration  en  leur  remonstrant 

leurs  necessites  de  boire  et  de  manger Adone  ìk  la  priere  de  Moyse,  Dieu 

envoia  au  peuple  la  manne  du  ciel  pour  manger  et  de  Teau  doulce  pour  boise^ 
eulx  et  leur  baistail. 

f°  333»....  de  laquelle  (de  Maine-la-Geuhais  [sic])  estoit  capitaine  Pierre  Le  Porc, 
lequel  se  deiFendit  moult  vaillamment,  mais  en  la  fin  fut  constraint  de  rendro 
la  ville  aux  Angloys  par  comporicion, .,. 

f**  334*....  laquelle  (ville  de  Pontorson)  fut  prise  bien  toust  apres  par  comporicion, 

f°  338'* ....  et  s'en  alerent  par  comporicion  leurs  corps  et  biens  saufvés  (de  Beaugency  ). 

f"  339*»  Le  roy  luy  respondit  (h  la  Pucelle)  que  creile  diroit  chose  qui  fust  pourfi- 
table,  qu'elle  seroit  creue. 

f"  3  40* ... .  comporicion ....  (de  Troyes  ). 

f*  3t0'*  Et  quant  le  due  de  Bethfort....  scout  les  nouvelles,  il  partit  de  Paris  et 
s'en  alla  à  Corbuel  et  h  Mohm  et  diroit  qu'il  conibatroit  le  roy  de  Franco ... . 

f**  341*  Messire  Loys  de  Luxembour,  evesque  de  Therouane,  lequel  soy  diroit  ch'An- 
cellier  de  Franco. 

f"  314^  ...  Et  envoya  (Florent  d'Ili  iers)  plusicurs  de  ses  gens  ch  lieiix  que  on  diroit 
esquelx  y  avoit  gens  desobeissans  au  roy. 

f*  345'» comporicion.,,  (de  Louviers  en  1431). 

f'  346*  Ilz  firent  une  conclusion  on  dirant  quo  la  place  ((ieiberoy)  n'estoit  pas 
fortifióe. 


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212  A.  THOMAS  [giornalk  di  filologia 

fo  385  v*"...  et  alla  (le  comte  d'Armagnac)  mettre  le  siege  devant  ane  place  nom- 
mée  Eions  ou  il  fut  une  espasse  de  teraps  en  fairant  forte  guerre  aux  Auglois. 

(  Ed  1461  ) . . . .  fut  some  aucun  laagage  en  dirant  que  od  vouloit  empoisonner  le  roy 
de  France ....  et  quant  lo  dit  roy  fut  informe  du  dit  empoisonnement,  il  y  beuta 
tellement  son  ymaginacion  qu'il  cn  lessa  le  hoise  et  le  manger. 

Antoine  Thomas. 


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KOMAXZA,     X."    f)\  2\'\ 


VARIETÀ 


ANEDDOTO  DI  UN  CODICE  DANTESCO 


A  proposito  delle  interpolazioni  trovate  dal  Palmieri  (1)  e  dallo 
Scarabelli  (2)  in  tre  codici  della  Commedia  di  Dante,  il  prof.  D'Ancona 
giustamente  osservò  essere  <  probabile  che  d'ora  innanzi  si  avvertano 
nei  codici  danteschi  altre  simiglianti  interpolazioni,  le  quali  mostreranno 
come  a  più  d'uno  piacesse  nel  sec.  XIV,  per  ragioni  private  o  pubbliche 
di  aggiungere  nomi  e  fatti  al  registro  d'infamia,  e  fors' anche  a  quello 
di  gloria,  composto  dall'Alighieri,  cercando  per  tal  modo  di  raccoman- 
dare i  sentimenti  proprj  alla  fortuna  del  poema  famoso  »  (3).  Ecco 
difatti  un  altro  codice,  ora  esistente  nella  Bibl.  Nazionale  di  Roma, 
offrircene  un  nuovo  saggio,  e  qui  non  si  tratta  più  di  poche  terzine, 
ma  di  due  interi  canti.  Uno  di  questi  canti  è  contro  gli  Usurai,  T altro 
contro  i  Golosi,  e  nel  primo  è  tolto  di  mira  un  certo  Bonafidanza,  nel- 
r  altro  si  ragiona  di  Messer  Filiseno,  di  Lambertaccio  da  Faenza,  di 
Mannello  Scotto,  tutti  nomi  che  per  me  suonano  affatto  nuovi.  Il  codice 
è  un  bel  volume  membranaceo,  alto  0.°*  290,  largo  0."222;  consiste  di 
flf.  146,  scritti  forse  da  tre  mani  diverse  ma  tutte  verosimilmente  del 
sec.  XIV,  ed  essendo  provenuto  dalla  Biblioteca  dei  PP.  Scolopj  di 
S.  Pantaleo,  ora  porta  la  segnatura  e  S.  Pantaleo  8  ».  Mutilo  al  prin- 
cipio e  alla  fine,  presentemente  comincia  col  verso  <  Che  tu  mi  segue 
et  io  sarò  tuo  guida  »,  113*  del  I  Inf.,  e  seguita  colla  Commedia  fino 
al  f.  132,  ove  questa  finisce.  Appresso,  il  Codice  contiene  queste  altre 
materie  : 

F.  132  r.  Quidam  uersua  rithimici  facti  per  dominum  Bmonem  de  EguhiOj  super 
exposiiione  totius  corneale  dantis  et  breuiter:  Pero  che  sia  più  frutto  et 
più  diletto. 


(1)  V.  V  Athaeneum,  21  Agosto  1875,  7     Lana  p.  p.  L.  SrARABELLi,  t.  1,  p.  463. 
Aprile  1877,  24  e  31  Agosto  1878.  (3)  Rassegna  Settimanale  del  9  Febbr. 

(2)  Dante  col  commento  di  Jacop4j  della     1871*. 


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f. 

134  V. 

f. 

135  r. 

f. 

135  V. 

f. 

136  r. 

f. 

136  r. 

f. 

136  V. 

f.l36»'T. 

f. 

137  r. 

214  VARIETÀ  [giornale  di  filologia 

f.  133  V.    Htc  8unt  uersus  editi  de  morte  dantis,  Seu  ufn,  quando  et  qualiter  sit 
defunctus:  Teologus  dantes  nuUius  dogmatis  expers. 

Canzoni  di  Dante  e  di  Guido  Cavalcanti 

f.  134  V.    Poscia  e  amor  del  tutto  m  a  lasciato. 
Io  son  venuto  al  punto  della  rota. 
E  m  incr escie  di  me  si  duramente. 
La  dispietata  mente  che  pur  mira. 
Tre  donne  intorno  al  cor  mi  son  uenute. 
Amor  da  chei  conuen  pur  eh  io  mi  doglia. 
Donna  me  prega  per  eh  i  uoglio  dire. 
Uoi  eh  entendendo  U  tergo  del  mouete. 
Cosi  nel  mio  parlar  non  gli  esser  aspro. 
Doglia  mi  reca  neU  orecchie  ardire. 
Epistola  missa  ad  Regem  romanorum  per  dantem  allegheri  florentinum. 

Versione  italiana  ;  comincia  :  Al  gloriosissimo  et  felicissimo  triunfactore . . . 

Si  clwme  testimona  lo  smisurato  amore.... 
f.  140  r.    n  testo  latino  della  stessa  lettera  ;  comincia  :  Gloriosissimo  atqìie  felicissimo 

Triumphatori . . .  Inmensa  dej  dilectione  testante.... 
f.  142  r.    L' altra  lettera  di  Dante  ai  principi  italiani.    Comincia  :  Uniuersis  et  sin- 

gulis  ytcUie  regibus  et  senatoribus . . .  Ecce  nunc  tempus  accetabile . . . . 

Altre  rime  di  Dante 

f.  144  r.    Parole  mie  che  per  lo  mondo  andate.  f 

0  dolci  rime  che  parlando  andate. 

Amor  che  ne  la  mente  mi  ragiona. 
f.  145  r.    Le  dolci  rime  d  amor  eh  io  solia. 
f.  145  V.    Amor  che  muoui  tua  uirtu  dal  cielo. 

Io  sento  si  d  amor  la  gran  possanza. 
f.  146  r.    Al  poco  giorno  ed  al  graìi  cerchio  d  ombra. 

Amor  tu  uedi  ben  che  questa  donna. 

Donne  pietose  di  nouella  etade. 

Donne  e  auete  intelletto  d  amore. 

In  fine  della  pagina,  precedute  dalle  parole  e  Frate  Ugolino  »  se- 
guono cinque  linee  pressoché  interamente  svanite  e  illeggibili.  Comin- 
ciano «  In  nomine  exccìso  Jesuano^  Philosophum  Insfruenfe  laicum  » 

Al  f.  42  r.  Il  De  Batines  (1)  avendo  letto  le  seguenti  parole  che  tro- 
vansi  dopo  la  Cantica  dell' Inferno:  €  MCCCCXXVIIIJ  Martis  XIIJ 
Decemhris  \  Non  (ma  1.  Nero  noìi)  si  fa  leggero  \  Trar  del  gran  sospetto 
el  mal  pensiero  >  argomentò  da  queste  che  il  Codice  sia  stato  scritto  nel 
sec.  XV.  Ma  chi  bene  osservi  la  scrittura  di  quelle  righe,  tosto  rico- 
noscerà che  sì  per  la  forma  delle  lettere  come  pel  colore  dell' inchiostro 
rosso  che  vi  è  adoperato,  essa  è  affatto  diversa  dalla  scrittura  di  tutto 


(1)  Bibliografia  Dantesca,  II,  208. 


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i 

1 

ROMANZA,  N.°  5]     ANEDDOTO  DI  UN  CODICE  DANTESCO  215  | 

il  resto  del  ms.,  e  se  quella  è  del  1429^  questa  non  si  può  assegnare 
se.  non  agli  anni  che  precedono  la  fine  del  sec.  XIV. 

I  canti  di  cui  sopra  ho  parlato,  si  trovano  ai  flf.  86  e  88,  subito 
dopo  la  Cantica  del  Purgatorio.  La  scrittura  non  differisce  da  quella 
del  resto  del  poema;  ma  la  pergamena  è  un  po*piii  bianca  e  levigata 
che  non  i  fogli  che  ora  stanno  prima;  onde  inclinerei  al  sospetto  che 
vi  sia  stato  uno  spostamento  per  opera  del  legatore,  e  che  in  origine 
quei  due  canti  fossero  destinati  ad  entrare  nella  cantica  dell' Inferno: 
ma  la  robusta  legatura  del  volume  ora  non  permette  di  appurare  que- 
sto dubbio.  Lo  scrittore  del  Codice  conobbe  certamente  che  qui  aveva 
che  fare  con  opera  non  Dantesca,  e  a  sgannare  i  mal  pratici  sulla 
fine  del  secondo  canto  annotò  e  Expliciunt  duo  capitala  fada  per  àlium 
quam  per  daìitem  >  ;  ma  chi  fosse  quest'  altro  egli  stesso  dovette  igno- 
rarlo, né  a  scoprirlo  valse  l'eruditissimo  Cittadini,  il  quale  studiò  su 
questo  codice,  benché  alle  forme  vernacole  vi  avesse  riconosciuto  uno 
della  sua  patria.  Onde  il  medesimo  vi  scriveva  sotto  di  suo  pugno 
€  Quisqtiis  ille  fuerit  seneìms  uidetur  fuisse  talisque  dicitur  ex  idioniate 
proprio.  » 

Qualche  indagine  da  me  fatta  intomo  alle  persone  alle  quali  i  due 
canti  si  riferiscono,  tornò  del  pari  vana;  ma  ciò  non  mi  trattiene  dal 
darli  alla  luce  tali  quali  si  leggono  nel  codice.  Solo  credetti  necessario 
di  riordinare  i  nessi  secondo  le  parole  e  di  aggiungere  la  punteggiatura, 
nell'intento  di  rendere  agevole,  per  quanto  era  possibile  a  me,  l'intel- 
ligenza del  testo.  Debbo  però  confessare  di  non  esser  riuscito  a  spiegare 
diversi  passi  veramente  intricati  ed  enimmatici  che  il  lettore  troverà 
perciò  anuotati  con  un  segno  di  dubbio.  Forse  un  giorno  o  l'altro  sì 
troverà  chi  meglio  di  me  valga  a  chiarire  1  soggetti  di  questo  nuovo 
aneddoto  che  si  volle  intrecciare  alla  storia  del  divino  poema,  e  a  de- 
cifrarne le  parole  oscure. 

L  Giorgi. 


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216 


VAEIETA 


GIORNALE   DI    FILOLOGIA 


[Bibl.  Nazion.  dì  Roma,  S.  Pantaleo  8,  f.  86  r.J 

Capiiulum  De  vsurariis  et  nominatur  honafidanza 


(iOme  le  tre  sorelle,  che  un  sol  occhio 
comune  usauan  riguardando  altrui, 
chi  riguardava  si  uolgea  n  un  rocchio 

Di  dura  pietra;  cosi,  quand  io  fui 
fra  quelle  genti,  che  per  laida  brama 
uisser  con  onta,  non  guardando  cui 

SpoUiasscro  usurando,  unde  lor  fama 
in  questo  et  nel  mal  mondo  e  bassa  et  uile, 
douenni  per  mirar  la  turba  grama. 

Ma  1  alto  ngengno  del  dottor  gentile 
uolse  la  faccia  mia  in  altra  parte, 
celando  a  me  ongni  ueduta  hostile. 

Po,  per  mirabil  8apien9a  et  arte, 
lo  cuor  che  d  ogni  senso  ora  (1)  spogliato, 
rimise  u  possession  di  parte  a  parte. 

Appresso:  o  fìlliuol  mie,  tu  se  smaghato, 
disse  I  buon  duca  sorridendo  un  pocho 
quando  mi  uide  alquauto  confortato: 

Perch  e  si  uil  la  gente  d  esto  locho, 
che  mmobil  uiso  nella  prima  gionta 
fra  llor  uieu  men  come  nell  acqua  foco. 

Omai  la  uista  tua  non  sarà  ponta 
da  brutti  aspetti  eh  ai  press  alle  spalle; 
uoluet  allor,  che  Ila  lor  pena  et  onta 

Non  ti  fia  rea,  ma  guarda  per  la  ualle, 
si  che  nel  mondo  tu  ritorni  experto 
di  quei  che  son  per  lo  molesto  calle. 

0  signor  mio,  che  ma  non  a  sofferto 
mie  mpedimenti  pò  che  techo  foi, 
dissi  a  lini  chol  uiso  dischuperto: 

Que  duo  chi  son  che  uan  dinan9Ì  a  noi  V 
et  ei:  se  tu  uedrai  a  llor  la  faccia, 
farati  certi  li  difetti  suoi. 

Perch  io  :  maestro  mio,  dunqua  procaccia 
come  le  faccio  lor  a  noi  sien  uolte. 
e  1  duca:  anime  uil,  non  ui  dispiaccia 

Che  questo  nino  uostr  esser  ascholte: 
uolget  e  passi  ncontr  a  le  uostr  orme 
uoi  che  corrite  come  fiere  sciolte. 

Et  quelle  allor  despetto  (2)  et  brutte  forme 
isbigottite  et  smorte  s  arrestaro, 
dando  le  spalle  a  le  dolenti  torme. 


Et  io,  quand  elle  a  no  più  s  appressare, 
nidi  animai  che  si  pascien  di  loro, 
come  mastin  cacciati  per  lo  charo. 

Non  eran  d  altro  tallio  che  coloro 
cho  la  in  soria  n  gran  selue  anno  lor  esca 
nome  qui  non  e  fenice  il  moro ,  (3) 

Saluo  e  ognun  la  testa  aue  lupesca, 
quiui  mangiauan  color  facend  un  cerchio 
ciaschun  rotondo,  unde  non  conuien  eh  escha. 

E  1  un  che  di  lor  pelli  abbian  coperchio 
ei  raspaion  rodendo  sopra  1  ossa 
la  carne  che  rinasce  del  soperchio 

Lor;  perch  i  dissi  :  o  uo  eh  en  questa  fossa 
set  aspramente,  com  i  ueggio,  rosi, 
pregho  le  colpe  nostre  saper  possa. 

Et  1  un  di  loro  a  me  :  i  mi  naschosi 
uintesett  anni  la  press  a  maghan9a 
in  una  torre  ou  a  prestar  mi  posi. 

Et  fu  lo  primo  d  esti  che  1  usanya 
posi  nel  mondo  de  romiti  felli, 
et  fecimi  chiamar  buonafidanva. 

I  rodeua  le  carni  a  pouarelli, 
pascendo  uiolent  i  sudor  macri 
lor,  e  spolliando  i  burchi  de  capelli. 

Contra  ponti  ficchai  decreti  sacri, 
et  perch  i  rosi,  uede  chon  che  morsi 
continuo  son  roso  che  più  acri 

So  che  di  fore  uipcre  o  ched  orsi, 
et  questo  mio  corapangno  che  si  tace, 
ne  parlo  poi  che  qui  deniro  lo  scorsi. 

Chon  dio  non  uolse  ma  triegua  ne  pace, 
nell  uopare  et  nel  cuor  fu  si  peruei-ao 
che  non  bastolli  sol  e.^sor  mordace 

In  toUar;  ma  1  fattor  dell  uniuerso 
presumpse  disputar  tanto  che  uolse 
che  non  potassa  mai  esser  conuerso 

Al  primo  poijsessor,  quel  che  mal  tolse, 
et  prouidesi  a  questo  si  dinan9Ì, 
eh  el  nodo  che  legho  mai  non  si  sciolse. 

Et  i  ali  istigian:  di,  come  dian9Ì 
dicesti  1  nome  tuo,  quel  di  costui, 
et  mostraci  n  che  pena  elli  tauan9i, 


(l)  Leggasi  era. 


(2)  L.  d.  spelte. 


(1)  "/*  O^st  nel  Codice. 


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R0MAK2A,  N.*  5]     ANEDDOTO  DI  UN  CODICE  DANTESCO 


217 


Ch  e  tuoi  anaD9an  li  defetti  sui. 
allor  la  man  li  mise  nella  8tro99a 
e  trasse  fuor  la  lingua  di  colui, 

Ch  era  mirabil mente  infiata  et  soc^a  ; 
poi  la  tiro  si  forte,  ch  i  pensai 
allor  che  n  man  li  rimanesse  mo99a. 

Vid  allei  cosa  ch  i  ne.  lacrimai, 
che  1  cuor  del  corpo  li  si  suelse  et  uenne 
fuor  de  la  boccha,  et  io  poscia  guardai 

Buonafidan9a  che  insieme  sostenne 
la  lingua  e  1  cuor  di  quello  sciagurato  \ 
et  quando  presso  al  niso  li  mi  tenne, 

Vid  \m  serpente  ch  era  nuiluppato 
nel  membro  prìncipal,  misero,  ch  era 
di  nero  toscho  tutto  nuetriato. 

Et  quel  facia  la  lingua  grossa  et  nera, 
sopra  la  quale  i  uidi  spessi  spessi 
scarpion  et  uermi  di  crudel  maniera. 

Poi  quel  rimatro  parbe  ch  ali  auessi 
a  ritornar  co  le  dolenti  membra 
nel  luogho  onde  per  for9a  eran  discessi. 

El  mal  romito  poi:  non  ti  rimembra 
che  tu  costui  uedessi  mentre  nisse? 
mi  disse,  et  io  allui:  non  mi  rassembra 

Alcun  oh  a  mia  notitia  peruenisse. 
et  elli  :  1  martir  grane  li  a  trasuolte 
81  le  fa99on  che  n  lui  natura  fisse, 

Che  da  tuo  occhi  non  per  sue  sou  tolte. 
or  ti  sia  conto  che  fu  tuo  uicino, 
ch  ebbe  parole  come  1  opre  sciolte. 

Piagentin  nacque  et  uisse  fiorentino, 
goloso  fu  et  non  ubse  di  starne, 
et  lasso  1  mondo  quando  celestino. 

Et  i:  non  e  mistier  più  ricordarne 


di  suo  condition,  che  sol  per  questa 
cognoscho  ben  ohe  questi  e  neracarne. 

Che,  sano  essendo,  duo  pomello  agreste 
tolser  del  mondo,  et  non  s  acorse  come, 
ora,  maestro  mio,  quelle  moleste 

Ombra,  chu  non  ueggia  se  non  le  chiome, 
giognan,  diss  io;  ma  se  tu  mei  lodi, 
et  quelli  allor  chiamandomi  per  nome: 

Quella  turba  ohola  chu  pianger  odi, 
trafitta  et  morsa  fra  quelle  aspre  ualli 
uendette  1  tempo  per  diuerei  modi. 

Que  dimandar  de  coniati  metalli 
u  la  proprietà  non  e  da  1  uso 
distinta,  ma  chi  presta  insieme  dalli 

Con  uso  et  propneta,  sen^a  altro  abuso, 
oompcnsation  distinta  di  ciascuno, 
di  magri  o  grassi  non  facendo  scuso. 

Et  sempre  ognun  di  lor  parbe  digiuno 
in  agu9ar  lo  ngeguo  in  usurare  i 
ma  se  di  presso  tutti  ad  uno  ad  uno 

Color  guardassi,  non  potresti  trare 
cosa  che  11  andar  nostro  ualesse, 
perche  ti  lodo  di  lassarli  stare. 

Et  ì  :  buon  duca,  quel  e  a  te  piacesse 
mentre  conto  mi  fusse  non  mi  spìacquc, 
ne  potrebb  esser  ma  che  mi  spiacesse, 

Cosi  1  talento  mie  sotto  1  tuo  nacque, 
et  elli:  el  uoler  tuo,  filliuol,  me  conto, 
disse,  uolgendo  li  occhi  sopra  1  acque 

Del  mal  cocito,  che  sor  torna  al  ponto 
di  quella  spera;  pò  diss  io:  m  acosto 
nerso  colu  ch  e  più  dal  ciel  dìgiunto, 
.  Che  per  leuarsi  fu  si  basso  posto. 


ff.  88  r.l 
Hic  itwijyit  de  Gulosis  CapUnìum 


NOu  (l)  era  n  tutto  la  ueduta  sciolta 
di  noi  da  cerber  per  lo  scender  fatto, 
quando  1  maestro  disse  :  uolta  nolta. 

Allor  mi  uolsi  presto,  con  quell  atto 
che  fa  colui  che  per  paura  triema, 
dicendo:  signor  mio,  partianci  ratto > 


Teniam  altro  camin,  che  già  si  scema 
ongni  mio  spirto  per  la  scura  forma 
di  pluto,  si  che  par  da  me  li  prema. 

Et  elli  a  me  s  non  ci  e  mestier  un  orma 
far  i>er  fugir  lo  doloroso  aspetto 
che  temi,  ma  perciò  che  questa  torma 


(1)  Leggasi  Non 


15 


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218 


VARIETÀ 


[giornale  di  filologia 


Vo  ti  sia  conta,  diss  io  con  affetto 
che  tti  uolgessi,  e  or  dico  raguarda 
lo  stato  loro,  et  come  il  lor  difetto 

Segue  la  colpa,  ne  un  punto  tarda: 
uede  la  dolorosa  fiamma  et  bruna 
und  a  ciaachun  la  gola  conuien  e  arda, 

Et  uede  1  altre  pene  che  ciaschuna 
ombra  dolente  de  la  greggia  scioccha, 
che  sotto  al  mastin  cerbero  8  aduna. 

Queste  parole  fuoro  al  mie  cor  roccha 
di  tanta  sicurtà,  che  con  franche9^a 
guardai  color  e  uedi  per  la  bocba 

D  alcun  intrar  di  si  laida  brutte99a 
un  animai,  che  quasi  un  choncodrillo 
K0990  pareua  fuor  de  la  grande99a. 

Questi  facea  fra  11  uno  e  1  altro  cillo 
crespa  la  pelle  altrui  col  forte  on-ore 
che  di  se  daua  ;  ma  chome  e  aprillo 

La  bestiai  boccha,  cosi  uenne  fuore 
del  brutto  neutre  co  la  testa  lorda, 
e  in  boccha  li  torno  con  quel  furore 

Ohe  1  iaculo  s  auenta,  se  a  acorda 
in  alcun  animai  di  fare  assalto, 
quando  conuiensi  che  per  fame  morda. 

£1  peccator  treschaua  con  quel  salto 
che  fanno  quei  che  in  frigia  del  gallo 
beuon  che  reca  lor  li  fumi  in  alto. 

£1  cerebro  lo  turba,  si  che  fallo 
perdar  de  la  ragione  il  nobil  uso 
talora,  si  eh  alcun  mai  non  riallo. 

Pietà  mi  nacque  allor  di  quel  confuso 
et  uolsimi  al  mio  sauio  et  diss  :  io  cheggio 
chi  e  costui  e  a  tanta  pena  et  (1)  chiuso 

Ti  piacci  dirmi,  et  perche  questi  a  peggio 
eh  e  uicin  suoi,  e  anno  di  pena  meno, 
et  elli:  0  filliuol  mio,  si  com  io  ueggio, 

Sappi  che  questi  e  misser  filisene, 
mi  disse,  e  a  la  mal  disposta  gola 
inordinata  mai  non  pose  freno. 

Costui  proferse  la  bestiai  parola 
che  mosse  la  gholosa  ardente  uollia, 
che  parbe  che  mouesse  de  la  schuola 

Del  misero  epycurio,  eh  a  dolila 
maggior  che  questa  per  la  fede  corta, 
che  la  durabil  uita  d  altrui  spollia. 

Questo  dolente  ebe  n  creden9a  morta 


che  11  anima  uiuesse  etemalmente, 
ma  1  uan  diletto  i  fé  la  lingua  achorta 

A  orar  per  lo  corpo  bestialmente, 
cherendo  spesso  a  dio  che  i  concedesse 
longhe99a  de  la  gola  quanta  assenta 

C  abbian  le  grue,  accio  che  ssostenessc 
tanto  maggior  diletto  in  prender  1  escha 
quanto  più  longo  el  collo  si  facesse. 

Perciò  trapassa  la  rabbiosa  trescha 
de  suo  consorti ,  che  quanto  1  affetto 
e  più  pemerso,  più  conuien  che  crescha 

La  pena,  et  io:  maestro,  questo  letto 
tien,  lasso,  lambertaccio  da  ffaen9a, 
e  or  non  udij  biasmar  di  tal  defetto. 

Qual  ebber  quei  che  qui  an  peneten9a 
mala ,  ochat^  eh  enea  porto  in  borsa, 
questi  ebbe  in  ata  a  chomune  8enten9a  (2). 

Perche  e  1  ombra  sua  dunque  chi  morsa 
dal  nero  fuocho  che  Ili  edaci  morde, 
non  e  a  ttorto  in  lui  tal  pena  corsa. 

Et  ei:  filliuol,  geu  non  fu  disorde  (3) 
di  morte  laida,  perche  li  hebrei  folli 
de  nati  lor  facieno  offerte  lorde. 

Et  dato  che  tal  opra  non  da  molli 
fusse,  ma  sse  potesse  dirsi  bona 
in  se,  la  nten9Ìon  rea  condannolli. 

Cosi  la  fama  che  di  costui  sona, 
non  uide  la  nten9Ìon  eh  ebbe  peruersa, 
eh  a  la  uendetta  che  tu  uendi  (4)  el  dona. 

Perche  non  die  parer  cosa  diuersa 
a  tte,  se  non  s  acorda  nostra  fama 
chol  diuino  giudicio  che  qui  1  uersa. 

Che  quest  intese  a  fornir  la  sua  brama 
cupertamente,  et,  per  piacere  a  charlo, 
la  uita  che  nel  mondo  troppo  s  ama, 

Dispose  a  morte,  et  non  già  per  amarlo, 
ne  per  amar  uirtu  fece  opre  molte 
che  parber  da  uirtu;  di  che  lodarlo 

L  umane  uoci,  et  fuor  dal  uero  sciolte; 
che  la  suo  ghola  fu  1  ultimo  fine 
de  1  opre  sue,  per  che  a  tal  fin  (5)  uolte 

Fuoro.  1  uigor  che  mostro  nel  confine 
che  parte  1  queto  mar  da  etyopia 
uerso  gauleon ,  u  uon  uicine 

Son  giamai  serpi,  non  uenne  da  copia 
di  uoler  forte;  ma  1  altr  opre  et  quella, 


(1)  /..  e        (2)  Così  nel  codice.        (3)  Cos'i  nel  codice.        (4)  L.  uedi        (5)  L.  fin 


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ROMANZA,  N.°  5]     ANEDDOTO  DI  UN  CODICE  DANTESCO 


219 


carne  l  gran  lume  uolge  1  elitropia, 

A  sse  riuolse  quella  alplestia  (1)  fella, 
et  perche  l  fine  da  in  tali  opre  il  nome, 
goloso  non  ardito  quei  s  appella. 

Che  Ili  atti  audaci  a  ghola  ordina  come, 
se  1  aspro  faentin  che  si  somise 
legieramente  a  le  più  graui  some. 

Mannello  schotto  alfin  la  uita  mise 
et  prima  si  saria  1  aspetto  spei.to 
che  cotai  uoUie  da  cholui  diuise. 

Et  io  :  0  ducha  mio,  che  m  ai  contento 
sempre,  disse  io,  di  quel  che  da  tte  chiesi, 
chi  e  colui  eh  ali  atto  par  si  uento  ? 

Quand  ebbi  detto  al  caro  duca,  attesi, 
et  elli  a  me:  colui  e  labeone, 
da  chui  molti  golosi  so  discesi. 

Et  labeon  chiamato  ogni  ghiottone 
et  (2)  da  colui,  et  ancho  un  uil  poeta 
che  più  eh  a  uersi  intese  al  garghalone. 

Questi  e  ssi  concio,  che  tten  uerrie  pietà, 
che  fra  putrida  carne  elli  e  sepolto, 
di  ohe  la  gola  sua  spesso  repleta 

Era,  ne  faccia  for9a  auesse  molto, 
del  eh  intesi  che  fu  nero  sepolcro 


di  quell  uu  egli  et  (3)  d  ongni  parte  inuolto. 

La  pena  e  laida  si  eh  io  la  t  apulcro 
per  quel  eh  en tendi,  or  queste  anime  antiche 
che  già  mill  anni  fuor  del  mondo  pulcro 

Qui  messe,  lassa,  et  perche  tu  non  diche 
di  cholui  che  tti  pare  ali  atto  stancho, 
io  non  discerno  anchor  da  quai  fatiche? 

Et  si  appresso  guardai  presso  al  fianco 
et  uede  con  che  rabbia  i  uè  polseggia 
un  gran  serpente  eh  e  dal  lato  mancho. 

Et  non  si  vede  quanto  forte  il  feggia, 
perch  e  cuperto  et  perche  send  allunga 
et  pur  conuiensi  a  for9a  che  qui  reggia 

Matto,  quantunque  lo  trafigha  et  pungha  ; 
eh  el  membro  ou  e  1  principio  motiuo, 
etsichi  (4)  d  ongni  for9a,  prema  et  munga, 

G  appena  scerno  come  riman  uiuo. 
se  non  eh  i  so  e  a  la  uendetta  eterna 
già  non  sarebbe,  se  di  uita  priuo 

Fusse  giamai.  or  uo  che  tu  discema 
come  gli  auari  presso  a  pluto  conci 
son,  color  assai  uo  che  tu  sperna, 

E  11  iracundi  che  men  presso  sonci. 


Expliciutit  duo  capUula  fada  per  alium 
quam  per  danteni. 


(1)   Cosi  nel  codice. 


(2)  Legg.  ^ 


C3)  Legg,  e 


(4)  essicclii? 


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22<»  VARIETÀ  {UIOBNALK   DI    FILOLOGIA 


POESIE  CIVILI  DEL  SECOLO  XV 


Da  UD  codice  miscellaneo  (T,  4,  15,  di  flf.  364  di  circa  e.  m.  15  X  21) 
che  dalla  biblioteca  del  card.  Passiouei  è  passato  airAngelica,  traggo 
alcune  poesie  volgari  che  per  la  forma  e  per  il  soggetto  credo  non  del 
tutto  immeritevoli  di  essere  conosciute.  Il  numero  delle  parti  onde 
si  compone  il  volume,  a  prima  vista  sembra  maggiore  che  non  sia  in 
effetto,  essendo  state  nel  rilegarle  malamente  scomposte:  ma  non  è  dif- 
ficile riordinarle.  La  parte  che  più  ci  preme,  è  di  72  fogli  (ff.  38-109) 
e  appartiene  alla  fine  del  secolo  XV  o  al  principio  del  XVL  Ne  è  prin- 
cipale contenuto  una  raccolta  di  formule  cancelleresche,  come  lettere 
di  nomina  a  podestà,  gonfaloniere,  maestro  di  grammatica;  salvacondotti, 
benserviti  ecc.;  e  insieme,  di  discorsi  da  pronunciarsi  dai  detti  magistrati 
o  dal  cancelliere  del  comune  ueir  accettare  T  ufficio,  o  nel  prenderne  o 
darne  il  possesso,  ed  in  altre  simili  occasioni;  come  anche  per  nozze, 
conviti  e  funerali.  E  in  questi  squarci  oratorj  specialmente  si  vuol  far 
pompa  di  elegante  latinità  e  di  classica  erudizione  ;  erudizione  ingenua, 
che  in  jan  discorso  da  farsi  neir  essere  ammesso  nel  collegio  dei  notai, 
trova  modo  di  citare  tutti  gli  illustri  oratori  romani,  dando  a  ciascuno 
queir  attributo  onde  ebbero  particolar  lode  da  Cicerone.  Degli  atti  pub- 
blici alcuni  non  hanno  indicazione  né  di  città,  né  di  persone  né  di  tempo, 
proprio  a  modo  di  formulario:  altri  invece  sono  dati  quali  uscirono 
dalle  Cancellerie,  specialmente  di  comuni  dello  stato  ecclesiastico  (1); 
e  il  documento  più  recente  è  una  lettera  di  famigliarità  (f.  56)  del  cardi- 
nal Ludovico  del  titolo  di  S.  Lorenzo  in  Damaso,  Camerario  del  papa  (10 
settembre  1482).  In  una  tale  raccolta  trovano  naturai  posto  le  poesie 
volgari  (2)  che  pubblichiamo,  composte  da  un  notaio  o  cancelliere  comu- 
nale (persona  pubblica  e  connina  )  in  onore  dei  podestà  ed  anziani  di 


(1)   Toscanella.   Acquapendente,    Forlì,  (2)  Fol.  40  v.  al  43  v.,  (\o^e  la  poesia  diui 

Spoleto,  Velletri,  ecc.    Di   Roma  abbiamo  et  ejccelsi  resta  interrotta  al  verso  Jone  le 

il  buon  servito  a  Giovanni  «  de  Floribus...  wuse  apollo  ne  xo  arte:  ma  si  trova  il  pe- 

ijni  officium  sacri  senatus....  ultra  consue-  j^niito  al  f.  109,  il  quale  termina  con  la  se- 

tum  tempus  exercnit  »  (  f .  67)  e  ai  suoi  ma-  jiuente  intestazione  di  altra  poesia  che  ora 

rescialii  (f.  08);  del  comune  di  Firenze  ab-  non  si  trova  più  nel  codice:  In  lattdem  Ma* 

bìamo  la   nomina  prndentis  iiiri  Nicolai  dei  lacobi  Civis  Amerini  gonfalonerii  be- 

Franciiici    Ciuis    Bononiensis    a    curiale  neweriti  et  suorutn  collegarwn  domino' 

famigliare  perché  rallej^ri  con  onesta  gio'  mm  Antianoriim. 
condita  i  conviti  (  f.  f51>). 


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ROMANZA,  N.»  5]  POESIE  CIVILI  DEL  SECOLO  XV  221 

Amelia  e  di  Norcia,  dov'  egli  esercitò  il  suo  ufficio,  non  posso  dire  pre- 
cisamente in  qnal  tempo,  non  essendomi  riuscito  di  sapere  quando  sìa 
stato  gonfaloniere  di  Amelia  Matteo  dì  Iacopo  (1),  e  governatore  Gen- 
naro Riccio. 

Al  formulario  il  suo  compilatore  ha  fatto  seguire  un  trattatalo  di 
prosodia  e  metrica  latina  (fif.  86-91  y.),.  ed  è  andato  poi  valendosi  dei 
fogli  rimasti  bianchi  per  appuntarvi  motti  e  sentenze  morali  di  scrittori 
sacri  e  profani,  versi  di  Virgilio,  Dante,  ecc. 

Se  le  poesie  volgari  presentano  un  qualche  interesse  per  una  certa 
novità  del  soggetto  e  pel  curioso  contrasto  fra  la  palese  imitazione  Dan- 
tesca e  la  semplicità  dei  concetti  e  la  rozzezza  della  forma  quasi  popo- 
lare; r  insieme  del  codice  resta  singolare  monumento  degli  studi  di  quella 
schiera  numerosa  di  persone  che  in  qualità  di  cancellieri,  notai,  giudici 
ramingavano  allora  da  un  comune  all'altro  d'Italia:  ai  quali  l'ambizione 
e  il  desiderio  di  vita  più  riposata  faceva  sperare  dal  merito  di  maggiore 
coltura  qualche  posto  più  agiato  presso  le  corti  dei  principi,  dei  cardi- 
nali o  dei  pontefici  ;  per  cui  scrivevano  le  penne  dei  più  eleganti  umanisti. 

Sotto  lo  stesso  aspetto,  poiché  per  lo  meno  ha  appartenuto  a  qual- 
cuno di  simile  condizione  (2),  può  considerarsi  T  altra  parte  del  volume  (3) 
donde  tolgo  la  versione  di  alcuni  distici  in  onore  di  un  Orsini  :  la  quale, 
sebbene  di  argomento  diverso  dalle  precedenti  poesie  e  di  scarso  valore 
letterario,  credo  non  inutile  di  aggiungere  a  modo  di  appendice  per 
riguardo  al  personaggio  a  cui  si  riferisce.  Non  occorre  dare  delle  materie 
contenute  in  questo  codice  particolareggiata  descrizione:  basti  dire  che 
buona  parte  di  esso  è  consacrata  alle  Satire  di  Persio  con  note  inter- 
lineari e  marginali,  seguite  da  copioso  commento;  alla  Poetica  d'Orazio 
pure  con  note,  e  a  Marziale,  di  cui  però  è  perduto  il  testo  e  resta  solo 
parte  delle  illustrazioni.  Accanto  ai  elassici  troviamo  poesie  e  prose  di 
umanisti,  come  due  elegie  di  Paolo  Marso  a  Sisto  IV  e  alcune  orazioni 
di  Gio.  Battista  Volterrano,  le  quali  trovansi  insieme  con  altre  scritture 
di  minor  conto  ne'  fogli  che,  staccati  dal  resto,  stanno  ora  in  principio 
del  volume. 

Al  foglio  271  leggesi  la  poesia  Salve  magne  parens  scritta  con  molta 
cura  e  in  carattere  identico,  parmi,  al  testo  delle  satire  di  Persio.    Sotto  è 


(1)  V.  nota  precedente.  Rendo  grazie  alla  dell'8  gennaio  1520,  questa  del  cardinale 
cortesia  del  signor  Cav.  Carpenti,  Sindaco  di  Francesco  Orsini;  uonchó  un  sermo  prò 
Amelia,  il  quale  a  mia  preghiera  fece  fare  nvptiU  (Roma  1518. ..  giugno)  della  stessa 
le  opportune  ricerche  in  quell'Archivio  Co-  mano  che  al  f.  369  ha  scritto  un  orazione 
mnnale:  ma  senza  frutto.  prò  renando  ejrponitur  cnrpìfx  christi. 

(2)  Di  fatto  in  alcuni  foglietti  inseriti  in  (3)  Ff,  271  al  fine,  e  di  più  i  primi  34 
questo  codice  trovansi  due  littere  hoite  ser-  fogli. 

ritKtis,  una  del  23  marzo   1-1(^2,   e   l'altra 


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222  VARIETÀ  [giuumàlk  di  filologia 

la  traduzione,  che  a  dir  vero  non  mostra  una  grande  conoscenza  né  del 
latino  né  del  volgare.  Tuttavia  fa  credere  che  sia  opera  di  chi  ha  co- 
piato quei  classici  il  confronto  con  nna  scrittura  volgare,  dovuta  alla 
stessa  penna,  dove  si  dà  la  regola  e  il  computo  AqW epatta  per  gli  an- 
ni 1471-1480  (indizio  dell'età  del  codice),  scrivendo  costantemente  li 
andi,  Vanda  (anni,  anno)  come  nei  versi  é  colonda  per  colonna.  A 
tergo  è  un'  altra  elegia  latina  per  le  nozze  fra  un  Giordano  Orsini  e  una 
Chiarina  (1),  delle  quali  non  ho  trovato  alcun  ricordo  né  nel  Litta  né 
altrove.  Tali  distici  ad  ogni  modo  confermano  che  anche  i  primi  sieno, 
come  mostra  la  versione,  dedicati  ad  un  Orsini:  della  cui  casa,  famosa 
più  per  allori  guerreschi  che  letterarj,  dovrebb' essere  anche  il  giovane 
poeta  (parvi....  nepotis)  autore  pure  dei  due  carmi  che  ora  stanno  nel 
foglio  358,  certamente  spostato,  e  scritti  nella  stessa  foggia  dei  prece- 
denti.   L' uno  comincia  : 

Fax  tibii  dine  parens,  ueteri  quam  misit  ab  alto 
luppiter  Augiisto,  coelicolunque  salus: 

Haec  eadem  patruo  etc. 

« 

L*  altro  riporto  per  intero,  sembrandomi  che  ci  offra  i  dati  sufficienti  per 
iscoprire  la  persona  di  questo  illustre  sio  di  cui  si  fa  per  la  terza  volta 
menzione. 

Salue,  diue  sacri  custos;  florentia,  que  te 

Tarn  claram  genuit  sit  quoque  salve  precor, 
Hec  generis  nostri  repeto  sic  facta,  priorum 

Semper  allumaa  pontificumque  domus; 
Neo  simulare  licet,  quamvis  fortuna  fatiget 

Quos  colimus,  nullo  turbine  cessat  amor. 
Te  quoque  certa  fides,  patrui  te  maxima  nostri 

Gratia,  sed  piladis  fedus  utrumque  tenet: 
Ille  flurentino  gaudet  nunc  nomine  preses, 

Nomine  tu  malphe  dignus  honore  micas  : 
Sit  felix  utrumque  decus,  florentia  felix, 

Et,  uos  qui  uinxity  sit  quoque  faustus  amor. 

Non  vi  ha  dubbio  che  questi  distici  sieno  dedicati  a  un  nobile  fioren- 
tino Vescovo  di  Amalfi  :  e  nella  serie  dei  Pastori  di  questa  Chiesa  dal  1475 
al  1483  figura  infatti  Giovanni  Niccolini,  di  famiglia  certamente  illustre 
per  civili  ed  ecclesiastici  onori  (2).    Al  tempo  stesso  (1474-1505)  in  Fi- 


(1)  yec  mirum  ex  alto  iordano  Sattguitte  crelus  [1516],  ilo  tanto  meno  al  Cardinal  Giovanni 

Clarinam  duxit  nobUiiaU  parem.  Jg'  Medici  [  1510-1515] ,  pei  quali  il  vescovato 

Vrsiger  kune  genuit  duro  sub  marte  potente,  jj  Amalfi  fu  una  commenda   non   certo  un 

Illa  pudicitie  d««.  columna  subii.  ^^^^^    y  Ughblli ,  Ital,  Sacr. ,  Vili ,  252  e 

(2)  Non  è  da  pensare  al  Cardinal  Pucci,  per  Uainaldo,  II,  181  (ed.  Coletti). 


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ROMAXZA,  N."  5]  POESIE  CIVILI  BEL  SECOLO  XV  223 

winze  era  Arcivescovo  Rinaldo  Orsini,  fratello  di  Clarice  moglie  di  Lo- 
renzo il  Magnifico,  al  quale  ben  potè  essere  diretta  la  poesia  antecedente 
con  opportuno  augurio  di  pace  quando  il  poeta  altrove  dice  quos  colimus 
fortuna  fatiget;  come  a  lui  è  dedicata  un'altra  elegia  che  comincia  nel 
verso  del  citato  foglio,  proseguendo  nel  f.  369.  E  scritta  con  penna 
frettolosa  e  con  varianti  quali  solo  possono  uscire  dalla  mano  dell'au- 
tore stesso:  anzi  in  fine  sono  ripetuti  con  leggere  modificazioni  i  due 
primi  distici.    Il  poeta,  esule  dal  Lazio,  già  godeva  il  favore  Mediceo: 

Aspice,  diue,  precor  (1)  natum  de  stirpe  latinum, 
Quem  reppulit  puerum  (2)  sede  inalignus  amor. 

Sors  sua  nunc  facilis,  medices  qui  gente  benigna 
Utitur: 

ma  chiedeva  la  speciale  protezione  di  Lorenzo, 

at  melior  cnm  dabis  ipso  manunii 

quando  il  Magnifico  era  scampato  al  ferro  di  un  Pellace  Ulisse  (la  con- 
giura de' Pazzi)  ed  era  gloriosamente  vittorioso  di  re,  di  duci  non  meno 
che  dei  cittadini:  perciò  forse  non  prima  della  pace  del  13  Dicembre  1483, 
né  dopo  il  1489,  quaAdo  nominato  Cardinale  Giovanni  de' Medici  già 
erasi  avverato  l'augurio: 

Maior  adhuc  quondam  poteris  sub  sole  uideri  (3) 
Si  cui  (4)  purpureus  fronte  galerus  erit. 

Cercando  ora  con  tutti  questi  dati  di  scoprire  l' autore  delle  poesie, 
ricorre  subito  alla  mente  il  nome  di  Franciotto  Orsini  nipote  appunto 
dell'Arcivescovo  Rinaldo,  allevato  alla  corte  medicea,  e  della  cui  cultura 
in  mezzo  all'amore  per  le  armi  ci  fanno  fede  le  lettere  a  lui  dirette  dal 
Poliziano  (5).  Se  non  che,  secondo  l'iscrizione  della  sua  tomba,  come 
è  stata  letta  dal  Forcella  (6),  Franciotto  sarebbe  nato  nell'anno  1483, 
ultimo  del  Vescovado  Amalfitano  del  Niccolini.  Ma  certo,  o  la  data 
della  morte  (1544)  o  il  numero  degli  anni  suoi  (61)  è  inesatto:  poiché 
le  lettere  del  Poliziano  (1492)  ce  lo  mostrano  giovane  di  già  vigo- 
roso. Anche  però  accettando  la  lezione  seguita  dal  Litta  che  anticipa 
di  10  anni  la  data  della  morte  (1534),  neir83  sarebbe  stato  ancora  troppo 


(1)  Var.  pio,  (4)  Prima  fu  scritto  sibi. 

(2)  Var.  miserum.  (5)  Politiani,  Opp.  (Basileae  1558),-Ep|). 

(3)  VeiV.  Maior  adhuc  liincta poteris  cnm  lib.  X,  p.  145. 

gente  rideri:  ed  anche  super  a^fra  invece  (6)  Forcella,  Iscriz,  VI,  48,  n.^  174. 

di  sub  sole. 


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224  VARIETÀ  [giobnalis  di  filologia 

fanciullo  per  poterglisi  attribuire  i  versi  diretti  al  Niccolini,  che  del  re- 
sto debbono  essere  stati  probabilmente  scritti  prima  del  1481  (1). 

Senza  far  altre  congetture,  e  solo  considerando  meglio  tutte  queste 
poesie  che  per  lo  stile  e  l' intimo  nesso  che  le  unisce  non  dubito  attri- 
buire ad  un  solo  autore,  io  credo  si  possa  trovare  modo  di  spiegare 
questo  anacronismo.  I  versi  a  Giordano  Orsini  e  gli  ultimi  a  Lorenzo 
presentano  una  notevole  differenza  con  gli  altri,  dove  con  evidente 
compiacenza  si  fa  sempre  menzione  dello  zio:  invece  in  quelli  non  si 
ricorda  affatto  il  vincolo  di  parentela  che  con  Lorenzo  e  cogli  Orsini 
avrebbe  avuto  l'autore.  Inoltre,  a  guardar  bene,  né  Franciotto  né 
altri  di  sua  casa  poteva  implorare  il  favore  Mediceo  così  dimessamente 
come  è  fatto  nei  citati  versi.  Mi  sembra  perciò  di  potere  con  qualche 
ragionevolezza  conchiudere  che  dove  parla  un  nipote  dell'Arcivescovo  è 
per  cortigiano  artificio  di  un  poeta,  aio  forse  del  fanciullo  o  per  altra 
ragione  addetto  al  suo  servizio,  autore  anche  delle  altre  poesie  scritte 
invece  in  proprio  nome. 

Roma,  Novembre,  1879. 

Guido  Levi. 


[Bibl.  Angelica,  Cod.  T.  4,  15;  fol.  40-1 

IN   INTROITU   PRET0RI8. 

Non  chiamare  d  apollo  di  parnaso 

Le  muse  ad  fauorir  lu  nostro  ingresso, 

Ma  solo  hauero  impresso 

Dell  incarnato  nerbo  el  nero  amore. 
Quel  patre  eterno  nostro  redemptore 

Presente  sia  ad  questo  nostro  ofBcio, 

Si  che  nel  summo  hospitio 

Ne  senta  laude  omne  beato  coro. 
Et  per  nirtu  del  celeste  thesoro 

Monarca  di  nirtu  San  benedecto 

Norscìa  col  suo  distrecto 

Triumphi  sempre  in  liberta  et  pace 

Sobto  la  fé  del  pastor  uerace. 


(1)  Non  v*ha  più  dubbio  sulKanno  delia  2ó  Januarij  ClementU  PP.  f.^  Breve y  quo 

morte  di  Franciotto  dopo  che  air  ultimo  mo-  Octavio    IJrsino   concedit  donatque   bona 

mento   ho  trovato  la  seguente  notizia  nel-  omnia  et  jura  ad  Cameram  ApostoUcam 

V Estratto  de' Libri  del  Contelori  (presso  spectantia    super    hereditate    Franciotti 

l'Archivio  Romano  di  Stato)  pag.  318:  «  1534  :  Card,  de  Ursinis  eius  genitoris.  » 


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nc.MAx^cA,  x/'  5|  POKSIK  CIVILI  DEL  SECOLO  XV  225 

Da  pò  che  sooto  ci  cielo  omnuno  ni  chiama 

Ad  gubernar  la  liberta  nursina, 

Questa  breue  doctrina 

Con  fede  iurarete  de  obseruare. 
Promecterete  ad  me  per  le  sacre  bare, 

Come  persona  publica  et  comuna, 

Che  da  gente  importuna 

La  liberta  di  Norcia  saluerete. 
Et  poscia  con  fede  sancta  promectete 

Di  ministrar  rascione  in  equal  parte  : 

Legi)  statuti,  et  carte 

Dèi  alma  norscia  conseruare  inlese, 
Sì  che  le  sol  rascion  sien  ben  difese. 

Lu  publico  thesoro,  o  signor  mio, 

Non  spendarai  che  utìl  non  sia, 

Terrai  quella  uia 

Che  tenne  Rodomante  in  fai*  rascione. 
Sbanditi  latri  et  chi  rebellioj^e 

Con  tra  questa  Republica  ha  usata. 

Che  sia  persequitata 

La  falsa  turba  et  le  genti  maligne. 
Parrete  sì  che  1  adomate  et  digne 

Laudi  che  acquistar  quei  bon  romani. 

Con  necte  et  pure  mani 

Se  sequino  da  noi  con  acto  pio, 

Et  cussi  iurarete  in  fé  di  dio. 
Finis.       Nursi  e. 


IN    PUBLICATlONB  DOMINORUM    AKTIAXORUM    I*OST   BREUEM    ORATIUNCULAM    KXORATAM. 

Gloria  in  excelsis  deo,  in  terra  pace, 

Triuropho  et  stato  del  sucoessor  di  piero, 

Del  suo  collegio  del  protector  uerace; 
Del  bon  legato  sotto  el  cui  emispero 

Questa  proni ncia  uiui  del  naturale 

Don  Gen.  Eiccio  Signor  degno  de  impero. 
Pace,  reposo  di  questa  alma  ciptade, 

Del  quieto,  ciuile  e  degno  stato, 

De  tutto  el  suo  distrecto  forza  e  contato. 
Sia  el  presente  Acto,  questo  Antianpto, 

Con  1  aiuto  de  olimpiades  et  firmìna» 

Si  che  cipta  Amerina 

Viva  vnita  dentro  dal  tuo  ostello. 

Morte  de  chi  ad  te  fusse  rebello. 
Finis,       Ameri  e* 


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2*20  VABIETA  [oiobnalr  di  ftIìOlogia 

IN    INTROITU    DOMlNOnriC    AM'IANOKUN. 

Quella  excelsa  uirtu  che  i  coeli  guberna 

Et  guida  di  ciascun  mortai  suo  curso, 

Sia  quel  nostro  succurso 

Et  nostra  intrata  judica  et  discema. 
Sia  qui  presente  maria  uirgo  superna  » 

Ad  ciò  che  nel  celeste  et  summo  coro 

De  radiante  loro 

Con  fronde  sia  coperto  el  sacro  altare. 
Lagiuto  de  Olimpiades  uoglio  inuocare 

Insieme  con  la  martire  firmina, 

Si  che  questa  amerina 

Patria  triumfi  con  lustitia  e  pace 

Socto  a  la  fé  del  pastor  verace. 
(1)  Il  ms.  eh  col         0  uoi  eh' a  (1)  sorte  publicate  set^ 

8ogno  di  abbrevia-  *  ■•        ,  i  "    , 

tura  attraverso  r A.  Ad  gubernar  nostra  cipta  amerma, 

Questa  breué  doctrina 

De  obseruare  ad  me  promecterete. 
Prima  nostra  Cipta  conseruarete 

In  questo  degno  et  glorioso  stato, 

Si  che  sempre  exaitato 

Sia,  et  de  qui  scacciate  omne  tirampno. 
Tucti  culoro  che  de  intorno  uanno 

Per  occupare  uostre  roche  et  castella, 
(2)  n  ms.  sìriiia  Con  mente  ferma  e  snella  (2) 

Persequitate  sempre  in  omne  parte. 
Solleciti  starete  con  uostre  arti 

Ad  conseruare  prìuilegii  et  ragione , 

Et  sensa  passione 

Tractate  tucti  questi  publici  facti, 

Si  che  chi  justo  uiui  sien  satìsfacti. 
Lu  publico  thesoro,  o  signor  mei, 

Nel  qual  consiste  omne  felice  stato, 

Fate  sia  consemato 

Et  non  se  expenda  senza  gran  bisogno. 
Lu  mio  parlar  già  non  e  in  sogno  : 

Lu  sudor  de  li  orfani  et  pupilli 

Sien  sempre  nanti  ai  cigli 

De  li  nostri  ochi,  et  chiesie  et  hospitale. 
Promecterete  a  me  per  le  sacre  are, 

Como  persona  publica  et  comuna, 

Che  da  gente  importuna 

Le  loro  ragioni  sempre  defendarete. 

Et  cussi  in  fé  di  dio  jurarete. 
La  sancta  vnione  vi  sia  ad  mente 

Di  vostri  ciptadini  si  gloriosi, 

Nobil  degni  et  famosi. 

Che  ne  fie  coronata  1  alma  roma. 


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ROMANZA,  N."  5]  POESIE  CIVILI  DEL  SECOLO  XV 

Quell  alta  donna  che  terra  et  mare  doma, 

Venegia  giusta  et  napuli  gentile 

Con  loro  sensi  virile 

Tucti  son  Bodomante  in  far  rascione. 
Scacciate  latri  et  chi  rebellione 

Centra  lor  justo  uiuar  tentasse, 

Si  che  lor  ossa  lasse 
(1)  Così  il  nis.  Vite  (1),  insepulte,  et  al  tucto  scherniti. 

Che  chi  mal  fa  sempre  sian  puniti. 
Finis.       Amerie. 

IN   PUBLICATIONE   DOMINORLM    ANTIANOUUM. 

Gentes  jam  nidi  de  sinu  Israel, 
Cantando:  osanna,  figliuol  di  dauit, 
Benedictus  qui  venìs  summus  Emanuel. 

Tra  gli  altri  vidi  la  casta  Judit, 
Che  la  divina  gloria  exaltaua, 
Eam  fauendo  dum  olophernes  ocoidit. 

Vidi  el  psalmista^  dolcemente  cantaua: 
Deus  in  adiutorium  meum  intende; 
Gloria  in  ezcelsis,  Tangel  preconizaua, 

Misericordiam  tuam  nobis  estende 
Et  salutare  tnum  da  semper  nobis 
Centra  Caronte  che  tanto  ce  offende. 

Del  mio  parlar  comprende 
Chel  tuo  fauore  inuoco  con  noce  pia 
Cantando,  osanna,  figlici  de  maria. 

Quiui  consiste  la  pace  et  1  unitade 
Di  questa  patria,  o  summo  justo  dio, 
Che  laude  rende  ad  uostra  maiestade. 

Et  perche  sempre,  o  patre,  fusti  pio, 
Sei,  et  serai  di  fin  che  1  secnl  dura; 
Pero  ti  degna,  benigno  signor  mio, 

Infeudare  la  tua  gratia  da  1  altura 
Degli  alti  celi  con  summa  melodia 
Per  contentare  in  terra  la  creatura. 

Manda  qui  Olimpiades  et  quella  diuina, 
Che  collocata  fu  colle  tue  manu 
Nel  diuo  coro,  la  martire  firmina; 

Si  che  questamerina 
Cipta  mantenga  so  santa  unione 
Col  uiuar  justo  et  con  summa  rascione. 
Finis,       Amerie, 

IN   INTROITU   DOMINORUM   ANTIANORCM. 

Diui  et  excelsi  mie  patri  et  signori, 
Justi,  prudenti,  temperati  et  forti, 
Publicati  per  sorte 
Al  degno  Segio  per  duj  mesi  futuri; 


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'12<  VAUIKTÀ  [aioMXALK  ui  filologia 

Nou  chiamaro  li  dei  falsi  et  obscnri 
Joue,  le  muse,  apollo  ne  so  arte, 

Minerua  et  anchor  marte 

Ad  fauorire  el  degno  nostro  ingresso. 
Sol  ne  la  mente  mia  jo  ho  jrapresso 

Chiamar  Jesu  et  la  matre  divina, 

Olimpiades  et  firmina 

Che  sien  presenti  ad  questo  vostro  officio, 

Ad  ciò  laude  ne  senta  el  summo  hospitio. 
Da  poi  che  1  mondo,  li  celi,  et  dio  ai  chiama 

Ad  gubernare  questa  digna  ciptade 

Con  fede  e  caritade, 

Questa  breue  doctrina  observerete. 
Vostra  republica  conseruar  promectete 

Socto  la  fede  del  pastor  verace, 

Con  vnione  et  pace, 

Sempre  scacciando  la  tyrannica  gente. 
Si  come  ad  roma  fece  quel  possente 

Oratio  Cocles,  che  solo  el  ponte  tenne, 

Ad  morte  quasi  uenne 

Sol  per  saluar  la  liberta  di  roma; 
Mutio  sceuola,  che  si  constante  doma 

L  errante  dextra  e  quella  in  fiamma  cosse, 

Perche  ella  non  percosse 

Quello  che  la  sua  patria  subiugaua: 

Et  per  quella  saluare  ad  morte  annaua. 
Justitia  che  di  Ascreo  fu  figliola, 

Sia  uostra  Concubina,  o  signor  mei; 

Castigate  li  rei, 

Li  bon  sempre  exaitate  con  honore. 
Ascolta  patiente,  ad  chi  propone 

Le  nostre  menti  sempre  firme  terrete, 

Benigne  responderete, 

Contentando  ciascun  e  far  rascione. 
Di  nostri  ciui  la  sancta  vnione 

Antiporrete  ad  uostri  cari  figli, 

Orfani  et  pupilli 

Fauorirete  sempre  jn  omne  parte. 
Legì,  statuti,  priuilegij  et  carte 

Dell  alma  Amelia  obseruar  farete 

Et  sempre  obedirete 
(i)Notamargmaie:         Do.  Gen.  Riccio  (l).  Signor  Justo  e  pio, 

Et  cussi  jurarete  in  fé  di  dio. 
Finis,       Amei'ie, 

fFol.  211.] 

Inclito  patre,  excelso  mio  signore, 
tra  sacri  diui  lume,  specchio,  fonte, 
norma  do  costumi  et  fermo  ponte, 
de  genti  ursin  colenda  et  alto  honore. 


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uoMA»zA,  N.»  5J  POESIE  CIVILI  DEL  SECOLO  XV 

In  uuoi  speranza,  fede  et  aero  amoro 
de  mei  parenti  et  anchi  de  passati, 
gloria,  fama,  triumphi  et  alti  fati 
in  uuoi  se  sbelie,  si  eh  ognun  ui  adoro. 

Pietà  prudentia  sblende  più  che  sole 
in  uui,  signor;  qual  idio  mantegna  ^ 

felice  al  mundo  quanto  tra  soi  uole. 

Ynde  ad  mi  gratia  spero  che  trasegna, 
come  da  patre  al  piccolo  ilo 
i  celi  consento  che  pace  vegna 
cuf.         da  mente  benegna  (1). 

Cosi  sperando,  o  car  mio  thesoro, 
Contento  uiuo  et  solo  uui  adoro. 


220 


(1)  Goni  il  ms. 
il  tetito  latino! 


(2)  leggi  laetor 


Salue,  maguQ  pater,  sacre  lux  inclita  gentis, 

Salue  iterum  nostre  sola  columna  domus. 
lu  te  spes  omnis  certa  est  et  prima  parentum 

Gloria,  si  detur  quod  fuit  ante  decus. 
la  te  nera  fìdes,  pietas,  prudentia,  uirtus, 

Presidium  parui  cura  nepotis  amor. 
Lector  (2)  ego,  a  pedante  patrem  plus  forsitaa  ilo 

Oppida  dum  repetis  que  puer  ipse  colo. 
Te  presente,  mihi  crescit  tum  nomen  et  etas 

Gaudet  et  aspectu  subdita  turba  tuo. 
Viue,  precor,  felix,  quo  te  iam  principe  martem 

Comprimat  infensum  pastor  in  orbe  plus. 


*  Vedi  addietro  pag.  221. 


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230  [aiOKNAhK   DI   FILOLOGIA 

DUE  RISPETTI  POPOLARI. 


Il  D' Aucona,  parlaudo  dei  canti  popolari  apocrifi  introdotti  nelle 
raccolte  per  astuzia  o  per  vanità  di  coloro  che  hanno  porto  aiuto  ai  col- 
lettori, e  per  imperizia  o  sbadataggine  dei  collettori  mede  imi  {Studj  su 
la  poes.  pop.  it,  pci^O'  *^24,  e  325),  dà  come  evidente  fattura  di  un 
inesperto  il  seguente  rispetto,  che  nella  raccolta  del  Tigri  è  segnato 
del  n.^  548: 

Caro  amore  mio,  chi  me  lo  avesse  detto 

Ch'io  non  t'avessi  a  por  l'anello  in  dito! 

Il  naso  mi  sarìa  tronco  di  netto, 

E  in  boccon  me  lo  sare'  inghiottito. 
0  Nina  mia,  la  mastico,  la  mastico, 

Ma  mi  pare  un  boccon  troppo  fantastico: 

Troppo  mi  par  fantastico,  e  il  sai  tu: 
0  Nina  mia,  e'  non  mi  vuole  ir  giù. 

Ora,  che  questo  rispetto  sia  apocrifo,  va  benissimo;  ma  fattura  di  un 
inesperto  collaboratore  del  Tigri  non  è.  Difatti  nella  Gambata  di  Ba- 
rincio  di  Lazzaro  Migliorucci,  pubblicata  dal  Trucchi  {Eacc.  di  poes,  il. 
ined.  di  200  aut,  voi.  IV,  pagg.  288-293),  si  leggono  i  segg.  versi: 

V.  105  Tina,  una  volta  chi  m'avesse  detto, 

Ch'io  non  t'avessi  a  por  l'anello  in  dito, 
Staccato  il  naso  gli  averei  di  netto 
Coi  denti,  e  poi  me  lo  sare'  inghiottito 


V.  119  Io  la  mastico  mal,  Tina,  la  mastico; 

Canchero!  gli  è  boccon  troppo  fantastico. 

Ora  non  ci  vuol  molto  a  vedere  che  V  onesto  collaboratore  del  Tigri  ha 
tolto  di  peso  il  suo  rispetto  da  questi  versi. 

Non  così  dell'altro  rispetto  {Oh  quanto  tempo  sola  sono  stata),  che 
subito  dopo  il  D'Ancona  dà  pur  per  apocrifo.  Esso  fu  pubblicato, 
prima  che  dal  Tigri,  da  Tullio  Dandolo,  in  certe  lettere  indirizzate  dai 
bagni  di  Livorno  al  Belgioioso.  E  probabilmente  il  Tigri  lo  prese  di  li, 
giacché,  se  la  memoria  non  m'inganna,  (il  libretto  del  Dandolo  mi  è  an- 
dato perduto  fra  le  carte)  le  due  lezioni  sono  uguali.  Ora  è  possibile 
che  il  Dandolo  abbia  limato  e  pulito  quel  rispetto  per  renderlo  più  ac- 
cetto all'amico;  ma  non  che  lo  abbia  .fatto  o  contraffatto  lui;  non  ci 
sarebbe  stata  ragione. 

G.  Salvadori. 


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ROMANZA,    N."    5|  231 


DELLA  NOVELLA  DEL  PETIT  POUCET 


Una  delle  novelle  popolari  più  difiFase  in  tutta  Europa  è  quella, 
che,  conosciuta  in  Francia  col  titolo  sopra  indicato,  fu  non  ha  guari 
assai  dottamente  e  ampiamente  illustrata  da  Gaston  Paris  nella  sua  mo- 
nografia Le  Petit  Poucet  et  la  grande  Ourse.  A  comprendere  il  significato 
di  questo  titolo,  o  meglio  qual  relazione  possano  avere  i  due  soggetti  in 
esso  espressi,  è  mestieri  notare  che  fra  i  popoli  valloni  il  nome  dato  alla 
nota  costellazione  dell'  Orsa  è  Chaur-Pocè,  e  che  P6cè  è  chiamata  sin- 
golarmente la  piccola  stella,  in  cui  essi  pretendono  vedere  il  condut- 
tore del  celeste  carro.  In  pari  modo  V  astro  medesimo  viene  appellato 
Poucet  tra  i  francesi  del  Nord,  e,  secondo  il  Grimm  con  nomi  analoghi 
lo  si  conosce  tra  gli  Alemanni  e  tra  gli  Slavi.  Il  Paris  pigliando  in  ac- 
curato esame  tutte  le  varianti  di  questa  novella,  richiamandosi  agli  an- 
tichi miti  di  Grecia  e  d*  Asia,  facendo  profitto  dei  sussidi  della  moderna 
scienza  linguistica,  s*  argomenta  di  rinvenire  nel  Petit  Poucet  una  rela- 
zione evidente  col  classico  mito  di  Boote,  il  condottiero  del  celeste  carro, 
che  impropriamente  fu  chiamato  la  Grande  Orsa. 

Ma  di  questo  noi  non  intendiamo  occuparci.  L' intento  nostro  è  di 
rettificare  ora  un  fatto,  circa  la  diffusione  della  novella,  sconosciuto  al- 
r  illastre  filologo  francese.  Egli  afferma  a  pag.  52  della  sua  preziosa 
monografia  che  soit  ce  conte ^  soit  ceite  denomination  trovasi  essenzial- 
mente presso  i  popoli  slavi  (lituani  e  schiavoni)  e  presso  i  germanici  (ale- 
manni, danesi,  svedesi  e  inglesi).  E  dopo  avere  aggiunto  che  Ze^  C09}^ 
des  AlbanaiSf  des  Roumains  et  des  Grecs  modernes  sont  sans  doute  em- 
pruntés  aux  slaves,  e  che  le  nom  toallon  et  le  conte  forézien  nous  mon^^ 
trent  en  France  la  legende  de  Poucet;  mais  elle  a  pu  fori  lien,  comme 
tant  d^autres  recits  semhlables,  y  étre  apportée  par  Ics  GermainSj  afferma 
recisamente  ni  en  Italie,  ni  en  Espagne,  ni  dans  hs  pays  celtiques  je  ne 
trouve  trace  du  conte  ou  du  nom.  Io  non  so,  se  questo  si  possa  rivo- 
care  in  dubbio  per  la  Spagna  e  per  i  paesi  celtici.  Ma  che  la  leggenda 
tra  noi  sia  conosciuta  V  ebbe  già  dimostrato  il  mio  egregio  amico  Dott. 
Giuseppe  Pitrè  (cui  è  noto  quanto  debbano  gli  studi  demopsicologici), 
pubblicandone  nel  fase.  III  della  Rivista  di  letterat.  popolare  (luglio  1878) 
una  variante  toscana  dal  titolo  di  Cecino.  A  me  poi  venne  fatto  di  rac- 
coglierne nelle  nostre  Marche,  e  notisi  bene,  in  una  cerchia  di  esplora- 
zione molto  ristretta  (il  iesino  e  T esimano),  ben  cinque  varianti;  una 
delle  quali,  eh' è  quella  che  qui  si  riferisce,  non  solo  riproduce  nella 


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232  VARIETÀ  [OIOnNALK    di    FIfX»LOGIA 

parte  più  sostanziale  il  racconto  tipo;  ma  ne  conserva  ancora  il  nome: 
Deto  grosso;  che  così  tra  noi  chiamano  il  pollice. 

Giovi  premettere  una  notizia  sommaria  del  racconto  tipo,  quale  dal 
Paris  è  dedotto  da  tutte  le  varianti  per  lui  esaminate.  Le  Pctit-Poucd 
è  un  uomo,  se  così  è  lecito  chiamarlo,  che  nato  non  più  grosso  di  un 
pollice  e,  in  alcune  varianti,  di  un  grano  di  pepe,  di  un  cece,  di  un  fa- 
giuolo  o  qualche  cosa  di  simile,  tale  si  mantiene  per  tutta  la  vita,  del 
resto  non  molto  lunga.  Ma  è  un  eroe,  un  eroe  di  destrezza  e  di  fur- 
beria; un  ladro  audacissimo,  cui  V  estrema  esiguità  come  dà  agio  di  pe- 
netrare per  il  più  piccolo  pertugio,  così  permette  di  celarsi  ad  ogni 
accuratissima  ricerca.  La  sua  vita  e  le  sue  geste  possonsi  ridurre  a 
quattro  o  cinque  episodi  principali:  l.""  la  nascita  soprannaturale  o  per 
lo  meno  non  ordinaria  ;  tratto  che  ne  avverte  qtie  nous  sommes  en  pré- 
sence  d'un  récìt  véritàblement  mytique:  2.**  il  mestiere  di  bifolco,  di  car- 
rettiere 0  semplicemente  di  custode  di  bovi  o  di  cavalli:  che  è  giusta- 
mente a  giudizio  del  Paris,  le  fond  primitif  de  san  histoire;  3.*  Paucd 
ladro,  e  delle  bestie  per  lo  più  colle  quali  ha  che  fare,  voleur  de  boeufs; 
ma  anche  di  pecore  e,  in  alcune  varianti,  di  grano,  denaro  e  via  di- 
cendo; 4°.  e  5**.  Poucet  rapito  o  comprato  egli  stesso  a  gran  prezzo  da 
qualche  persona,  et  réussissant  a  s'enfuir:  ingoiato  da  uno  dei  suoi  bovi 
o  cavalli,  o  da  una  pecora  e  successivamente  dà  un  lupo,  scampandone 
vivo  e  senza  danno.  Una  particolarità  di  secondaria  importanza  poi, 
ma  che  per  la  spiegazione  del  mito  ha  un  valore  incontestabile,  è  que- 
sta, che  il  nostro  eroe  guidando  o  involando  le  bestie,  di  cui  sopra  s'è 
detto,  è  solito  di  prender  posto  nelle  loro  orecchie  o  cacciarsi  tra  le  cri- 
niere, ifciò,  secondo  il  Paris,  se  rattache  a  la  conception  waUonne  dn 
Chaur  Pócè^  in  cui  il  conduttore  del  celeste  carro  vien  collocato  al  di- 
sopra della  stella  di  mezzo  delle  tre,  che  rappresentano  i  cavalli  o  i  bovi; 
mentre  altri  popoli  le  placent  non  pas  là,  mais  au  devant  du  char. 

Il  nostro  Deto  grosso  è  anch' egli,  come  in  quasi  tutte  le  varianti 
di  simile  novella,  e  nella  stessa  toscana,  miraculeiisement  accordò  a  d^spa- 
rents  affligés  d'une  longue  sterilite,  L' incidente  anzi  della  madre  che  pre- 
gava Iddio  ecc.  si  riscontra  ugualissimo  nel  principio  del  racconto  schia- 
vone,  ove  altresì  la  preghiera  è  limitata  al  desiderio  di  avere  un  figliuolo 
pur  che  sia,  e  quand  il  ne  serait  pas  plus  gros  qu'un  moineau.  Mestiere 
principale  del  piccolo  eroe  della  variante  marchigiana,  e  a  cui  si  dà  una 
volta  e  poi  vi  ritorna  per  passarvi  tutto  il  resto  della  vita,  è  quello  di 
2}arare  o  guardare  le  cavalle,  prendendo  posto  tra  la  criniera  di  qual- 
cuna di  esse.  Chi  non  vede  qui  riprodotto  il  tratto  più  caratteristico 
della  leggenda  del  Petit  Poucet  in  una  maniera  che  pochissimo  si  al- 
lontana dal  concetto  primitivo,  se  non  è  il  concetto  primitivo  essa  stessa? 
Nel  vero,  dato  che  il  nostro  mito  si  riferisca  al  mito  classico  di  Boote, 
avrebbesi  per  avventura  nella  variante  marchigiana  un  vestigio  del  modo 


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BOMANZA,  N.'»  5]     DELLA  NOVELLA  DEL  PETIT  POUCET  233 

più  semplice  e  primitivo,  secondo  il  Grimm,  d'immaginare  la  costella- 
zione dell'  Orsa  o  del  carro  come  sette  bovi,  i  septem  triones  di  Varrone , 
viaggianti  pei  campi  del  cielo.  La  trasformazione  dei  bovi  in  cavalli 
ognun  vede  che  poco  altera;  e  nella  più  parte  eziandio  delle  varianti, 
esaminate  dal  Paris,  il  carro  o  T  aratro  di  cui  Poucet  è  conduttore,  vien 
tratto  ora  dagli  uni  ora  dagli  altri.  Di  più,  e  questo  pure  ne  sembra 
degno  di  nota,  il  Poucet  degli  altri  popoli  è  bifolco  o  carrettiere  tem- 
poraneamente, mentre  il  nostro  passa  nel  parare  le  sue  cavalle  la  mag- 
gior parte  della  vita,  e  vi  muore  per  un  accidente,  che  può  anch'esso 
esser  soggetto  di  studio.  —  Sul  terzo  e  sul  quinto  episodio,  che  il  quarto 
non  è  riprodotto  in  questa  variante,  ma  V  abbiamo  nondimeno  in  un'  al- 
tra nostra,  lascio  indietro  le  non  poche  considerazioni,  che  vi  potrei 
fare.  Per  una  notizia  qual'è  questa,  ciò  che  si  è  detto  è  già  quasi  di 
troppo.  Un' ultima  cosa  però  voglio  aggiungere,  ed  è,  che  se  lo  Schenkel 
ebbe  a  trovare  un  legame  molto  stretto  di  parentela  tra  la  leggenda  del 
Petit  Poucet  e  il  mito  omerico  d' Ermete,  l' umile  novella  di  Deto  grosso  e 
le  sue  varianti  marchigiane  potrebbero  offrire  più  d'un  argomento  ad  av- 
valorare la  sua  opinione.  Antonio  Gunandbea. 

DETO  GROSSO 

C'era  na  cita  na  donna,  che  non  ci  avea  nisciun  fijo,  e  pregava  Iddio  che  je 
ne  dacease  uno  magari  piccolo^  piccolo.  Sta  donna  dopo  tanto  preg^  fu  esaudita,  e 
je  vinne  finalmente  sto  fijo,  che  potea  esse  come  un  deto  grosso. 

Quanno  se  fa  fatto  granne,  ma  senza  cresce  più  de  quanno  era  nato,  un  giorno 
fu  chiamato  da  certi  ladri  che  ndera  a  rubbli  le  pecore  nte  na  stalla.  Lu  bboccò 
drente  da  un  bugio,  e  dicea  all'altri  ladri,  che  stera  de  fòri:  —  Ohe!  quale  volete, 
le  bianche  o  le  nere?  —  E  quelli  risponnea:  —  Sta  zitto;  che  sente  '1  padrò!  —  Ma 
lu,  sempre  più  forte:  —  Quale  volete  mbè;  le  bianche  o  le  nere?  —  Infine  se  ne 
ccorse  '1  padrò,  e  ndette  giò  la  stalla.  L' altri  ladri  allora  fi^ò  tutti  ;  e  Deto  grosso 
je  toccò  a  nisconnese  drento  la  crepaccia  de  n  muro.  £1  padrò  va  per  conta  le  pe- 
core, si  era  tutte,  e  mette  la  luma  ntella  crepaccia;  e  Deto  grosso  se  mette  a  sgag- 
già  :  —  Oh  I  m' acciechi  !  —  Allora  '1  padrò  je  vinne  na  gran  paura  ;  e  pensava  che 
i  ladri  ce  fusse  ancora  drento.  Pija  la  luma,  e  se  mette  a  guarda  per  tutte  le  parte; 
ma  ah!  non  potè  vede  gnente;  e  rva  a  dormì!  Deto  grosso  scappa  da  quella  cre- 
paccia e  se  nnisconne  drento  la  lana  de  n  castrato.  La  matina  va  fòri  le  pecore: 
passa  n  lupo,  e  se  magna  '1  castrato  con  Deto  grosso  e  tutto.  Ma  drento  al  lupo 
lu  ce  stette  poco  :  perché  questo  fece  n  bisogno,  e  lu  cuscì  scappò  fora  com  era  prima. 
Allora  per  diversi  giorni  ndette  a  park  le  cavalle,  e  per  badalle  se  nnisconnea  tra 
le  crine.  Dopo  artomò  a  casa,  e  la  madre  je  disse:  —  Tu  n' ht  fatto  mai  be  con 
nisciù  :  va  vvia  eh'  io  n'  ho  voja  de  combatte  con  te.  —  Deto  grosso  ndette  vie,  e  je 
convinne  de  gir^  pel  monne  domannanno  la  carità.  —  Quanno  rrivava  ntelle  case , 
domannava  sotto  le  finestre  n  pezzo  de  pa  :  la  vergara  jel  portava  giÒ  ;  ma  non  lo 
vedea  in  velie  ;  e  lu  ndera  dicenno  :  Che  te  cciechi  !  me  pisti  ?  —  Dopo  ritornò  n  al- 
tra olta  a  casa  de  la  madre,  e  n  altra  olta  la  madre  el  manuò  via;  e  Doto  grosso 
artomò  in  fine  a  para  lo  cavalle;  e  sto  pòretto  morì  n  giorno  sotto  na  zampata 
de  na  cavalla.  (Casonuoye  di  Osimo). 

le 


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2:M 


[UIORNALK    DI    FILOLOGIA 


KASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


1.  Il  Filocopo  del  Boccaccio^  per  B.  Zumbini. 
iiier,  1879.    In  8.°  di  pp.  num.  65. 


Firenze,  Snec.  Le  Mon- 


Considerato  come  cosa  letteraria  il  Filo- 
copo «è  l'opera  più  povera  di  pregi  d'arte 
fra  quante  ne  abbia  scrìtte  il  Boccaccio  ». 
Ma  da  essa  «  più  che  dalle  altre  di  Ini,  pos- 
siamo intendere  il  primo  periodo  dì  sua  vita 
e  quel  primo  dispiegarsi  delle  sue  facoltà  in- 
tellettuali e  morali,  da  cui  derivò  tutto  l'av- 
venire dell'uomo  e  dello  scrittore».  Di  più, 
in  quel  li  )rQ  si  accoglie  «  una  leggenda  dif- 
fusa da  qualche  secolo  innanzi  per  tutta  Eu- 
ropa, ed  obhietto  a  molte  narrazioni  in  prosa 
e  in  verso  »  ;  e  ciò  basta  per  dar  ragione 
della  cura  con  cui  distinti  critici  si  volsero 
in  questi  ultimi  tempi  ad  esaminarlo,  e  della 
importanza  che  fu  riconosciuta  al  Filocopo 
non  solo  nella  letteratura  italiana,  ma  anche 
nella  letteratura  comparata.  Principalmente 
il  Du  Méril,  il  Landau  e  poi  il  Bartoli  dedi- 
carono a  quest'argomento  belle  e  dotte  pa- 
gine; ma  un  lavoro  definitivo  sul  Filocopo 
non  era  stato  fatto  ancora,  e  soltanto  adesso 
può  dirsi  che  sia  stata  pronunciata  su  quel 
libro  l'ultima  parola,  nel  nuovo  studio  dello 
Zumbini,  del  quale  qui  veniamo  a  render 
conto.  In  quello  scritto  l'A.  ha  trattato  i 
seguenti  cinque  capi:  l.*»  delle  fonti  del  Fi- 
locopo; 2.°  degli  elementi  onde  è  formatoli 
suo  contenuto;  3.o  del  suo  organismo;  4.°  del 
suo  valora  come  opera  d'arte;  5.**  dplla  im- 
])ortanza  particolare  che  esso  ha  nella  storia 
del  Boccacc'o. 

Parlando  delle  fonti,  TA.  comincia  dal- 
r aggiungere  nuovi  argomenti  a  quelli  già 
addotti  dal  Du  Méril  per  provare  che  la  leg- 
genda di  Florio  e  Biancofiore,  che  costituisce 
il  fondo  del  Filocopo^  fu  derivata  da  un  ro- 
manzo greco;  mostra  come  i  raffronti  già 
fatti  di  quella  leggenda  coi  romanzi  greci 
sieno  ancor  pochi  al  bisogno,  ed  altri  ne 
produce  egli  interessantissimi,  tratti  dai  rac- 
conti di  Giarablico,  di  Kliodoro,  di  Achille 


Tazio,  di  Eumazio  e  di  Senofonte  Efesio,  fa- 
cendo vpdere  quanto  tali  raffronti  conferi- 
scano per  chiarire  sempre  più  la  parentela 
del  Filocopo  con  i  romanzi  greci ,  e  la  «  gre- 
cità maggiore  nella  narrazione  italiana  che 
non  forse  in  qualsiasi  altra  straniera  intorno 
alla  medesima  leggenda  ».  Diversamente  però 
dal  Du  Méril,  lo  Z.  non  crede  probabile  che 
al  Boccaccio  «  insieme  con  la  materia  della 
sua  storia,  sieno  venute  anche  da  fonte  greca 
(^u^'lle  favole  mitologiche,  onde  è  sparso  il 
suo  racconto  ».  A  ragione  egli  osserva  su 
questo  proposito  che  nella  maggior  parte 
dei  romanzi  greci  «  gP  intervenimenti  degli 
Dei  nei  casi  umani  sono  pochi  in  propor- 
zione dei  fatti  narrati.  Ciò  che  vi  abbonda, 
sono  più  propriamente  gli  amori  degli  Dei 
e  le  loro  trasformazioni,  descritte  ora  a  modo 
di  episodi,  ora  come  esempi,  onde  s'illustri 
l'azione  principale  ».  Cosi  la  mitologia  è 
spesso  in  quelli  piuttosto  «  ornamento,  che 
non  forza  viva  ed  attiva,  da  cui  proceda  o 
abbia  nuovo  impulso  l' azione  dei  perso- 
naggi ».  «  Nel  Filocopo  invece  gì'  interve- 
nimenti degli  Dei  sono  continui,  superflui  e 
diversissimi  da  quelli  che  hanno  luogo  nei 
suddetti  romanzi;  e,  inoltre,  sono  imitati  dai 
poeti  latini,  che  non  furono  mai  tolti  ad 
esempi  dagli  scrittori  erotici  ».  Riprendendo 
quindi  la  questione  già  sollevata  dal  Bartoli 
intorno  alle  tradizioni  orali  delle  quali  il  Boc- 
caccio abbia  potuto  almeno  in  qualche  parte 
giovarsi,  egli  pensa  che  quella  probabilità 
non  sia  esclusa  dall'avere  il  B.  seguito  un 
testo  greco  o  di  provenienza  greca  ;  reca 
nuove  testimonianze  della  diffusione  della 
leggenda  di  Florio  e  Biancofiore  in  Italia  e 
della  sua  popolarità  già  in  tempi  anteriori 
a  quelli  in  cui  fu  scritlo  il  Filocopo;  ma  ri- 
tiene che  sieno  insuffìcenti  gli  argomenti  coi 
quali  fu  sinora  impugnata  la  relazione,  af- 


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ROMANZA,    M.*'   5  ] 


BIBLIOGRAFICA 


235 


fermata  dal  Le  Clerc  e  dui  Landau,  fra  il 
nostro  romanzo  e  i  poemetti  francesi  che 
pubblicò  il  Du  Méril  :  cosa  questa  ben  diversa 
dal  fatto  «  di  uu  testo  in  tutto  o  in  parte  co- 
mune cosi  al  Filocopo,  come  ad  altre  reda- 
zioni straniere  ». 

Venendo  agli  elementi  onde  il  Filocopo 
è  composto,  TA.  combatte  «  T  antico  e  co- 
stante errore  della  critica  italiana,  il  credere 
che  il  Boccaccio  abbia  escluso  dal  suo  rac- 
conto i  soliti  elementi  cavallereschi  e  il  so- 
lito portentoso  dei  romanzi  d'avventura,  e 
posto  al  loro  luogo  le  favole  e  il  portentoso 
della  mitologia  pagana  ».  Addentrandosi  nel- 
r analisi  del  libro  meglio  e  più  compiuta- 
mente che  non  fosse  stato  fatto  per  V  innanzi, 
egli  nota  che  gli  elementi  più  o  meno  feu- 
dali e  cavallereschi ,  quelli  cioè  che  non  sono 
essenzialmente  classici  e  formano  la  sostanza 
dei  poemetti  francesi ,  «  si  trovano  tutti,  senza 
eccezione  di  sorta,  nel  Filocopo  »,  e  così  pure 
altri  ne  ha  comuni  il  Filocopo  colla  ver- 
sione spagnola  e  colia  tedesca  del  Fleck. 
Donde  si  vede  che  il  B.  non  solo  non  voile 
escludere  dal  suo  racconto  questi  elementi 
medioevali,  ma  ve  li  mantenne  in  tutta  la 
loro  ricchezza  e  varietà.  E  se  altri  ve  ne 
introdusse  di  diversa  natura,  quali  le  favole 
mitologiche,  osserva  qui  di  nuovo  il  Z.  che 
r  A.  «  non  usò  quelle  favole  allo  stesso  modo 
che  avevano  fatto  gli  erotici  grt»ci,  ma  imitò 
e  spesso  trasportò  di  peso  nel  suo  racconto 
le  immaginazioni  beli' e  fatte  degli  scrittori 
latini  »;  nel  che  «  era  mosso  non  tanto  dal  bi- 
sogno di  uu  meraviglioso  mitologico,  quanto 
dalla  ammirazione  particolare  per  Parte  dei 
poeti  classici.  »  Du  questi  egli  «  imitò  non 
solo  le  immaginazioni  mitologiche,  ma  an* 
cora  i  caratteri  dei  personaggi ,  le  battaglie, 
i  casi  amorosi  e  altri  fatti  epici  ed  erotici 
di  ogni  sorta  ».  Copiosi  e  affatto  nuovi  sono 
in  questa  parte  i  riscontri  che  il  Z.  rileva 
fra  il  Boccaccio  e  i  classici  latini,  specie 
Virgilio  ed  Ovidio  «  le  due  grandi  fonti  a 
cui  egli  attinse  »;  ma  più  importanti  ancora 
sono  le  osservazioni  ,clie  soggiunge  dopo, 
«  sulPuso  tutto  suo  proprio  che  delle  due 
materie,  Tantica  delia  1  ggenda  e  ia  mito- 
logica, fece  il  nostro  Autore  ».  Quanto  alla 
materia  propria  della  leggenda,  volendo  per 
il  primo  determinare  in  che  consistano  le  al- 
terazioni elio  vi  sarebbero  stat»»  portale  dal 


Boccaccio,  egli  si  ferma  sulla  «  massima  di 
quelle  alterazioni,  che  si  riferisce  alla  pue- 
rizia dei  due  protagonisti  »  diffusamente  nar- 
rata nei  poemi  stranieri,  mentre  nel  Filocopo 
n'è  appena  menzione.  La  maniera  diversa 
di  trattare  quel  primo  periodo  è  per  il  Z. 
«  come  una  riprova  del  diverso  concetto,  che 
gU  autori  s' eran  fatto  di  tutta  la  leggenda  ». 
«  Nel  primo  poema  francese,  come  nel  te- 
desco, sono  meglio  che  in  molte  altre  reda- 
zioni conservati  quelli  che  probabilmente  fu- 
rono i  caratteri  primitivi  della  tradizione; 
perché,  come  si  vede  da  tanti  altri  segni, 
ne'  loro  autori  er^  grande  l'affetto  per  quella 
semplice  e  leggiadra  storia  »,  la  quale  «  ciò 
che  avea  di  più  mirabile  era  appunto  l'amore 
nato  e  divenuto  invitto  nella  primissima  età 
della  vita,  quando  tale  passione  è  ignota  fin 
di  nome.  »  Ma  il  B.  «  s'era  messo  a  scri- 
vere questa  storia  senza  che  ci  si  sentisse 

inclinato,  e  sol  per  ubbidire  a  Fiammetta 

una  leggi  tri  ce  a  cui  rinnamoi*ameuto  dei  due 
bambini,  per  quanto  egregiamente  ritratto, 
sarebbe  dovuto  sembrare  una  insulsa  novella, 
non  buona  nemmeno  a  far  ridere  »;  e^questa 
ragione  spiega  abbastanza  «  perché  il  nostro 
Autore  parla  così  poco,  e  forse  solo  per  un 
residuo  di  ris{>etto  alla  leggenda,  della  pue- 
rizia dei  due  amanti.  » 

Ragiona  poscia  del  modo  onde  furono 
trattati  nel  Filocopo  gli  elementi  mitolo- 
gici, e'  trova  inesatta  la  sentenza  del  Lan- 
dau, che  il  B.  abbia  «tradotto  la  leggenda 
di  Florio  e  Biancofiore,  oltre  che  dal  fran- 
cese nell'italiano,  dalla  sua  forma  me- 
dioevale in  una  forma  pagana  ».  «  Questa 
forma  pagana,  questo  apparato  mitologico, 
secondo  lo  Z. ,  tiene  ancor  molto  del  medio 
evo,  nonostante  lo  studio  che  l'autore  avea 
fatto  dei  poeti  classici  ».  Giunone  che  scende 
a  confortare  il  Papa  contro  gli  Svevi  ;  gii 
Svevi  perseguitati  dalla  moglie  di  Giove  per- 
ché, per  lungo  ordine  d'imperatori  germanici 
e  romani,  discendenti  da  Enea;  la  fede  nei 
Numi  pagani  e  la  devozione  a  S.  Giacomo 
di  Com(>o$tella,  sono  bizzarri  accozzamenti 
che  nulla  sanno  di  classico,  che  fauno  invo- 
lontariamente cadere  il  B.  nel  comico  e  che 
bastano  a  mostrare  «  come  debbasi  esser  ))iu 
cauti  nel  giudicare  della  mitologia  usata  nel 
FilocopOy  e  come  non  sia  giusto  il  farne  un 
vero  e  proprio  segno  di  riuascimento.  Se  i/.a 


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235 


RASSEGNA 


[giornale  di  FILOLOGrA 


che  gli  si  neghi  la  debita  importanza,  si  do- 
vrebbe insieme  riconoscere  quanto  ancora 
di  medioevale  ritenesse  un  simile  uso,  e  come 
esso  significasse  un  certo  retrocedere  dal 
punto,  dove,  adoperando  la  medesima  mito- 
logia, erano  giunti  Dante  e  il  Petrarca.  » 

Lo  scopo  che  aveva  dinanzi  a  sé  il  Boc- 
caccio diverso  da  quello  degli  altri  più  an- 
tichi narratori  della  stessa  leggenda,  come 
influì  nel  modificare  i  caratteri  di  questa  nella 
redazione  italiana,  così  anche  fu  cagione  che 
ne  restasse  modificato  l'organismo.  «  Egli 
volle  servirsi  della  famosa  leggenda  non  solo 
come  materia  da  fame  un  racconto  partico- 
lare, ma  da  innestarvi  quanti  altri  racconti 
eterogenei  gli  venisse  fatto  di  comporre  in 
quella  occasione.  li  qual  suo  scopo  in  tanto 
gli  era  più  facile  conseguire,  in  quanto  quei 
racconti  egli  doveva  comporli ,  e  poi  leggerli 
o  dargli  a  leggere,  volta  p?r  volta,  alla  donna 
da  cui  gliene  era  stato  commesso  Tufficio.  » 
Colta  cosi  la  vera  ragione  dell'opera  e  il 
concetto  della  sua  composizione,  lo  Z.  ha  po- 
tuto molto  naturalmente  spiegare 'a  enorme 
[  polissifà  con  cui  si  svolge  il  Filocopo  «  quat- 
tro o  cinque  volte  pù  lungo  che  non  sieno 
le  più  prolisse  tra  le  tante  redazioni  stra- 
niere della  medesima  leggenda»,  e  così  anche 
la  eterogeneità  de*  suoi  elementi,  i  suoi  ca- 
ratteri, le  incoerenze,  le  contradizioni  e  le  ri- 
petizioni della  narrazione,  e  tutti  insomma 
i  difetti,  le  anormalità  che  si  notario  nel- 
Porganismo  di  questo  romanzo.  Né  per  altra 
ragione  egli  spiega  la  singolarissima  geo- 
grafia ora  fantastica  ed  ora  reale  del  Filo- 
copo: il  Boccaccio  seguiva  or  questa  or  quella 
«  secondo  che  gli  paresse  di  poter  trarre 
maggior  profitto  dall'una  anziché  dall'al- 
tra »,  né  si  dava  gran  cura  «  che  quelle  di- 
verse indicazioni  di  luoghi,  fatte  secondo 
l'occasione  con  criteri  opposti,  non  concor- 
dassero fra  loro,...  perché  la  maniera  onde 
componeva  non  gliene  faceva  sentire  né  il 
bisogno  né  il  dovere  ». 

Cosi  composto  il  Fìlocnpo  s'intende  come 
potè  piacere  a'  suoi  tempi  e  particolarmente 
in  quel  circolo  di  uditori  pel  quale  l'aveva 
scritto  il  Boccaccio  ed  al  quale  è  probabile 
che  egli  lo  recitasse;  ma  la  sua  fortuna  do- 
vette epsere  breve,  e  volendosene  oggi  misu- 
rare il  valor  Iftterario,  bisogna  convenire 
collo  Z.  che  esso  resta  al  disotto  di  tutt»  le 


altre  redazioni  straniere  che  lo  precedettero 
e  massime  alla  tedesca  del  Fleck.  Una  sola 
parte  si  sottrae  a  questo  giudizio,  ed  è  quella 
dove  «  sono  evidentemente  ritratte,  come  nelle 
Questioni  d*  Amore,  persone  e  costumi  con- 
temporanei e  noti  per  esperienza  al  nostro 
Autore...,  e  tutte  le  altre  narrazioni  in  cui, 
sotto  una  veste  mitologica  o  fantastica,  si 
contiene  una  sostanza  tolta  anch'essa  dalla 
realtà  ».  Questa  materia  essenzialmente  sto- 
rica è  esposta  dal  Boccaccio  molto  meglio 
che  non  quella  della  leggenda,  e  vi  si  pre- 
sente il  grande  narratore  che  non  appena  lo 
invade  «  il  senso  della  realtà ,  comincia  a  do- 
mare la  rettorica.  »  Ciò  principalmente  si 
osserva  nelle  Questioni  d'Amore,  dove  a  c'è 
una  verità  mirabile  di  caratteri,  e  finanche 
quella  verità  che  diremmo  topografica  »;  esse 
formano  la  parte  più  piacevole  della  intera 
opera.  Li  «  perfino  Florio  e  i  suol  con>- 
pagni,  che  sono  i  caratteri  ideali  e  .conven- 
zionali, acquistano  sopra  quelle  scene,  ri- 
tratte dalla  realtà,  una  verità  che  nel  Filo- 
copo non  avevano  avuta  mai  fino  allora,  e 
che  poscia  perdono  di  nuovo,  quando,  non 
appena  finite  le  Questioni  e  ricominciato  il 
racconto  principale,  essi  ritornano  sulle  scene 
mute  e  fittizie  della  leggenda  ». 

E  nella  elaborazione  della  materia  storica 
un'altra  qualità  affatto  propria  e  caratteri- 
stica dell'ingegno  narrativo  del  Boccaccio 
è  pur  messa  in  rilievo  dallo  Z.:  quella  di 
moltiplicare  gli  episodj  e  di  dare  a  questi 
tale  svolgimento,  che  lungi  dall'  intrecciarsi 
al  fatto  principale  e  di  cospirar  tutti  ad 
un'unica  catastrofe,  essi  via  via  se  ne  allon- 
tanino sempre  più  fino  al  punto  di  rimanerne 
indipendenti.  Così  nel  B.  si  prepara  incon- 
sapevolmente la  Novella,  e  ciò  che  nel  Fi- 
locopo  è  ancora  un  vizio  capitale,  cui  si  deve 
il  morire  della  simpatica  leggenda  di  Florio 
e  Biancofiore,  più  tardi  maturando  diventerà 
il  fattore  del  racconto  Decameronico.  Il  Fi- 
locopo adunque,  tuttoché  poverissimo  (li  pregi 
artistici,  e  tra  le  versioni  della  leggenda  di 
Florio  e  Biancofiore  l^  roen  bella,  ha  nom- 
pertanto  un  grande  valore  per  la  storia  del 
primo  prosatore  italiano,  poiché  vi  si  sco- 
prono, in  germe  sì  ma  già  abbastanza  di- 
stinte, quelle  qualità  che  più  tardi  faranno 
di  lui  un  sovrano  dell'arte  innovata.  E  al 
Ziimbini  spetta  tutto  il  merito  di  questa  bella 


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ROMANZA,   K.**   5] 


BIBLIOGBAFICA 


237 


determinazione;  ma  il  sno  opuscolo,  che  in 
65  pagine  con  rara  e  perfetta  economia  con- 
densa un  lavoro  pel  quale  ad  altri  forse  non 
ne  sarebbero  bastate  300,  richiama  singolar- 
mente r attenzione  anche  per  altri  riguardi: 
per  il  metodo  cioè  rigoroso  ed  esatto  che 
egli  portò  in  questo  studio,  e  per  la  vasta 
e  profonda  conoscenza  di  che  diede  saggio, 


non  solo  nelle  letterature  del  medio  evo,  ro- 
manze e  germaniche,  ma  ancora  nelle  lette- 
rature classiche ,  specie  nella  greca  della  de- 
cadenza ;  ed  esso  ci  fa  sempre  meglio  sentire 
quanto  altro  debbasi  aspettare  per  la  storia 
delle  lettere  italiane  dalP  eminente  autore  dei 
Saggi  critici  e  degli  Studj  sul  Petrarca, 
E.  Monaci. 


2.  Graniìnatica  italiana  deWuso  moderno  compilata  da  Raffaello  Fob- 
naciam.    Firenze,  Sansoni,  1879.  -  In  16.o  di  pp.  num.  XXV  -  363. 


«  Ognun  sa  oramai  quanto  gli  studi  della 
filologia  abbiano,  anche  nel  campo  delle  lin- 
gue romanze  e  perciò  delP italiana,  trasfor- 
mato i  criteri  ed  il  metodo  su  cui  riposavano 
molte  teorie  grammaticali . . .  Ora  di  questi 
nuovi  studi ,  la  più  parte  dei  nostri  moderni 
grammatici  ed  i  più  autorevoli  non  hanno 
potuto  o  voluto  trarne  profitto:  altri  si  sono 
valsi  largamente  del  metodo  scientifico,  ma 
non  hanno  serbato  tutta  quella  chiarezza  e 
facilità  ohe  ad  uso  dei  non  filologi  sarebbe 
stata  necessaria  {pref.  p.  X  Vili)  ».  In  queste 
parole  sta  la  prima  ed  ultima  ragione  del 
libro,  la  causa,  cioè,  che  Io  produsse  e  il 
fine  a  cui  tende;  v*è  pure  implicita  Tenun- 
ciazione  del  metodo  e  un  cenno  della  più 
grave  difficoltà  a  superare.  V*ha  molti  me- 
todi di  grammatiche:  filosofiche,  storiche, 
comparate;  ve  n*ha  di  empiriche  e  di  scien- 
tifiche, e  per  T italiano  anche  quelle  delPui^o 
classico  e  dell'uso  moderno.  Tutte  hanno 
un  ordine  e  un  fine  particolare;  ma  tutte 
si  connettono  e  si  compiono  a  vicenda,  ed 
una  nuova  grammatica  doveva  tener  conto 
dei  resultati  di  tutte  per  esporre  le  più  esatte 
osservazioni  deiruso  secondo  il  sistema  e  i 
criteri  ultimi  della  scienza.  E  per  essere 
d'usocomun»e  specialmente  scolastico ,  do- 
veva escludere  gli  errori  ed  anche  le  inesat- 
tezze tradizionali  delle  grammatiche  ante- 
riori al  nuovo  indirizzo  scientifico,  senza 
pure  recare  un'innovazione  troppo  grande 
e  improvvisa;  che  una  terminologìa  e  un 
ordine  affatto  nuovo  Tavrebber  resa  meno 
pratica  ed  efficace.  La  difficoltà  era  grande, 
e  TA.  che  Taveva  misurata  (XX)  dev'es- 
sere ben  soddisfatto  d'averla  vinta.  La  sua 
fjram natica  è  chiara,  ordinata,  facile  e  ri- 


spondente, almeno  nel  suo  complesso,  ai 
criteri  della,  scienza  filologica,  tanto  nelle 
parti  che  trattano  dei  suoni  e  delle  forme, 
quanto  in  quella  che  riguarda  la  metrica  e 
il  verso.  Se  qualche  inesattezza  v*è  corsa, 
questa  è  più  che  scusabile  in  un  primo  ten- 
tativo, e  le  osservazioni  che  seguono,  mirano 
soltanto  a  chiamare  l'attenzione  dell'egre- 
gio A.  su  qualche  punto  particolare,  e  si 
rimettono  al  suo  giudizio. 

Distingue  il  suono  chiuso  e  aperto  di  e,  o; 
avverte  che  «  di  tal  differenza  non  si  possono 
dare  regole  sicure  in  tutti  i  casi  (8)  »  e  poi 
ne  fissa  la  pronunzia  «  in  certe  parole  d'uso 
frequentissimo  nel  discorso  e  in  certe  ter- 
minazioni e  suffissi  di  formazione  (9-18)  ». 
Donde  è  tratto  questo  criterio  di  sicurezza? 
certo  dalla  pronunzia  toscana,  se  non  dalla 
fiorentina;  ma  perché  e  sino  a  qual  punto 
la  moderna  pronunzia  toscana  dev'essere  di 
refrola  universale?  non  certo  per  la  ragione 
medesima  della  lingua.  Pertanto  non  sem- 
brano certi  gli  esempi  :  èbbi,  -  ebbe  etc,  -  ètti," 
énto,  -iè,'  osto.  La  stessa  incertezza  è  pure 
nella  pronunzia  aspra  (ts)  o  dolce  (ds)  della  z 
nelle  parole:  loUe,  iucca;  brezza,  frizzo, 
ghiribizzo,  ribrezzo,  sozzo,  scorza,  sfar* 
zo  (29)  e  nel  raddoppiamento  della  conso- 
nante iniziale  prodotto  dall'accento  di  vocale 
finale  o  penultima  in:  da-lloro,  dove-ssei, 
come-ccredi  etc.  (52-3).  —  L'accento  acuto  e 
grave  può  essere  utile  in  una  grammatica 
per  indicare  il  suono  chiuso  o  aperto  delle 
vocali  e,o  (59);  ma  di  regola  non  è  usato 
a  tal  fine  nei  libri  italiani,  ove  soltanto  e 
raramente  si  distinguono  con  l'accento  le 
parole  che  cambiano  il  senso  con  la  sede 
di  quello.  —  Le  declinazioni  dei  nomi  «  quanto 


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238 


BASSEGXA 


[giounale  di  filologia 


a  diversità  fra  singolare  e  plurale,  si  tro- 
vano realmente  nella  nostra  lingua  e  possono 
riuscire  di  molta  chiarezza  e  comodità  a  chi 
studia  questa  per  passar  poi  ai  latino  (XXV)  »  ; 
ma  è  una  concessione  troppo  grande  fatta 
alla  tradizione  quella  di  dividerle  empirica- 
mente in  prima,  seconda  e  terza  (83),  invece 
d'introdurre,  analogamente  al  greco  e  al 
latino,  la  divisione  per  temi.  —  Non  s'intende 
quale  «  amore  di  esattezza  »  consigli  di  con- 
servare nelle  forme  plurali  dì -eia  o-gia 
la  i,  la  quale  nella  pronunzia  non  si  fa  sen- 
tire né  «  poco  (84)  »  né  molto,  ed  è  affatto 
inutile  per  ragione  analoga  di- ciò, -^lo  (86), 
e  contraria  a  quella  che  introduce  Vh  nelle 
forme  plurali  di  -  ca  o  -  ga.  Ne  <  è  necessa- 
rio di  conservare  V  i  quando  il  plurale  potesse 
scambiarsi  con  qualche  altro  nome  »  (ivi), 
perché  anche  per  il  solo  articolo  ninno 
può  confondere  le  ferocie  e  il  feroce,  le 
sagacie  ed  il  sagace,  le  camicie  ed  il  ca- 
mice. Maggior  peso  ha  la  ragione  etimo- 
logica per  la  conservazione  dell' t  organico; 
ma  P uso,  non  potendo  distinguere  T /  orga- 
nico da  quello  puramente  ortografico,  segue 
la  pronuncia  e  tende  a  sopprimerli  entrambi 
nella  scrittura.  É  pure  inutile  il  doppio  i 
nelle  forme  plurali  di  io  (86)  quando  non 
sia  possibile  equivoco.  —  Parrebbe  meglio 
d'escludere  affatto  da  una  grammatica  per 
quanto  «  d'uso  moderno  »  parole  barbare 
come  :  bagher  e  gibus  (93  ).  —  I  plurali  masc. 
in  i  e  femm.  in  a  di  nomi  col  sing.  in  o 
hanno  una  spiegazione  in  tutto  etimologica 
e  la  loro  diversità  di  significato,  special- 
mente metaforico  (95-95),  fu  talora  intro- 
dotta veramente  dall'uso  {bracci  y  braccia  ; 
cigli f  ciglia  etc);  ma  assai  spesso  è  una 
sottigliezza  immaginata  dai  vecchi  gramma- 
tici, che  non  sapevano  come  spiegarsi  quella 
diversità.  —  Difettivi  sono  piuttosto  da  chia- 
mare i  nomi  che  hanno  uno  solo  dei  numeri, 
che  quelli  che  designano  il  loro  femminile 
con  voce  di  diversa  radice  (104).  — Come 
le  declinazioni  dei  nomi,  così  le  coniugazioni 
dei  verbi  sarebbero  state  meglio  distinte  dal 
tema, che  dall'infinito;  bastava  forse  di  chia- 
mare vocali  tematiche  quelle  che  sono  dette 


caratteristiche  (151),  e  distìnguerle  costan- 
temente dalla  flessione.  Io  tal  modo  sarebbe 
stato  possibiTe  d'escludere  assolutamente  la 
divisione  dei  verbi  in  regolari  ed  irregolari, 
la  quale,  per  quanto  solita  e  tradizionale, 
è  contraria  alia  verità,  e  alla  proprietà 
scientifica.  L'A.  ammette  che  <  la  distin- 
zione della  coniug.  debole  e  della  coniug. 
forte  sarebbe  stata  di  vantaggio  a  quelli 
che  studiano  l'italiano  in  comparazione  col 
latino  e  col  greco  ;  »  ma  teme  che  «  a  chi 
studia  soltanto  l'italiano  sarebbe  piuttosto 
di  confusione  che  di  vera  utilità  (186)  >. 
Il  greco  va  messo  da  parte:  e  quanto  al  lati- 
no, anche  a  prescindere  da  una  comparazione 
attuale  e  continua,  la  quale  richiederebbe 
la  conoscenza  delle  due  lingue,  quella  distin- 
zione introdotta  nella  grammatica  italiana 
risponderebbe  benissimo  a  quella  che  è  nella 
grammatica  latina,  e  l'analogia  aiuterebbe 
a  vicenda  Io  studio  delle  due  lingue,  fosse 
Tuna  o  l'altra  studiata  per  prima.  Non 
sono  da  riguardare  alcimi  esempi  che  di  tale 
rinnovamento  si  sono  avuti  (1);  che  quelli, 
per  esser  posti  a  rovescio,  hanno  sconvolto 
un  ordine,  che,  se  non  altro,  era  empirico 
e  tradizionale,  per  sostituirne  uno  contrario 
egualmente  alla  scienza  che  ai  fatti.  Qual- 
che difficoltà  sai'ebbe  di  certo  nel  modo  di 
esporre  con  chiarezza  la  nuova  teoria;  ma 
cesserebbe  l'altra  di  raggruppare  in  modo 
convenzionale  i  verbi  chiamati  irregolari, 
e  un  piccolo  sforzo  dell'intelletto  ne  rispar- 
mierebbe  uno  maggiore  della  memoria.— 
Non  è  detto  con  esattezza  che  <  la  terza  con- 
iug. conserva  dappertutto  la  sua  vocale 
caratteristica  t,  rafforzandola,  nei  tempi  e 
persone  dove  anderebbe  perduta,  con  se 
(166)  ».  La  forma  incoativa  non  è  un  feno- 
meno fonologico  di  rafforzamento;  rientra 
invece  nella  morfologia  anche  quando  sia 
effetto  di  semplice  processo  analogico.  — 
Le  forme  parallele  ai  participi  passati  della 
l.ft  coniug.  non  sono,  come  vengono  quali- 
ficate: «  aggettivi  atfini  di  senso  e  di  forma 
al  participio  stesso,  del  quale  o  sono  o  pa- 
iono un  accorciamento  (169)  »  ;  ma  sono,  per 
la  maggior  parte  forme  di  veri  participi  forti, 


(1)  Teorica  dei  terbi  irre/jolari  della  Ungttu  itnlinun.    Saggio  di  morfc»logi«  comparata  di  Lritu 
Amki>£o;  ToriJio,  Losclicr,  1877.    Cuf.  0 tomaie,  I,  'HO. 


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ROMANZAt    N.**    5| 


BIBLIOGRAFICA 


239 


parallele  alle  deboli,  originarie  come:  adat- 
tato e  adatto,  confessato  e  confesso,  ov- 
vero analogiche  o,  secondo  altri  sincopate, 
come:  pestato  e  pesto,  votato  e  vuoto  etc. — 
Più  minute  osservazioni  non  ci  consente  il 
limite  d* una  rassegna,  e  preghiamo  l'egre- 
gio A.  di  accogliere  queste  come   un  segno 


deir  interesse  che  desta  lo  studio  della  sua 
grammatica,  e  come  espreasione  del  desi- 
derio che  in  una  nuova  edizione,  la  quale 
certo  non  mancherà,  risponda  più  compiu- 
tamente air  utilità  degli  studiosi  e  alle  esi- 
genze dell'uso  scolastico. 

G.  Navone. 


3.  Itàlienische  Grammatik  tnit  herucTtsichtigung  des  lateinisclwn  und  der 
romanischen  Schwestersprachen  von  D/  Aristide  Baragiola.  Strass* 
burg,  Trùbner,  1880.  -  In  8."  di  pp.  uum.  XVII  -  240. 


«  Il  libro  è  diretto  particolarmente  a  quei 
lettori,  i  quali  vogliono  giovarsi  della  cono- 
scenza del  latino  per  lo  studio  deiPitaliano, 
sia  che  intendano  imparare  soltanto  T  italiano 
moderno,  sia  che  vogliano  prendere  cono- 
scenza anche  dell' antico  e  porre  cosi  il  fon- 
dament.)  a  studi  di  filologia  più  profondi  » 
(Vorwort).  L'A.  ha  creduto  opportuno  di 
riunire  tre  scopi  in  uno  e  fare  una  gram- 
matica che  fosse  al  tempo  stesso  comparata, 
storica,  e  d'uso  moderno.  Il  compito  può 
sembrare  subito  troppo  difficile ,  specialmente 
in  quanto  al  metodo  e  all'esposizione;  ed 
infatti  quella  triplice  natura  fa  si  che  il  libro, 
a  parer  nostro,  non  ne  abbia  interamente 
alcuna,  e  i  tre  scopi  raggiunga  imperfetta- 
mente. Fra  i  libri  consultati  si  annoverano 
le  grammatiche  del  Cinonio,  Buonmattei, 
Fornasari,  Valenti  ni,  accanto  alle  opere  del 
Diez,  Brachet,  Eonsch,  Schuchardt;  gli 
esempì  sono  tratti  da  Dante,  Boccaccio, 
Villani ,  Ariosto,  Firenzuola,  Gozzi,  Goldoni, 
Leopardi,  D'Azeglio,  Manzoni  e  De  Amicis. 
Materiali  così  diversi,  per  quanto  disposti  e 
ordinati,  non  potevano  fondersi,  e  T edifìcio 
apparisce  sconnesso  e  screpolato  in  più  par- 
ti. —  La  fonologia  manca  di  base:  semplici 
enunciati  generali,  senza  la  necessaria  di- 
stinzione delle  leggi,  non  servono  né  alla 
scienza  né  all'uso.  Non  giova  sapere  che 
una  vocale,  senza  distinguere  se  iniziale  o 
media,  se  per  evoluzione  propria  e  per  po- 
sizione, sì  modifica  in  un  modo  o  in  un  altro, 
anzi  che  si  modifica  in  tutti  i  modi.  E  questo 
mostra  l'A.  in  un  paradigma  da  cui  risulta 
che  a  ioti.  ital.  viene  da  lat.  a,  e,  i,o,  ea, 
au;  che  u  lat.  in  pos.  dà  tanto  u  che  ò; 
che  5,  d  restano  d,  ò  se  non  s'oscurano  in 


u:  che  t  si  ha  egualmente  da  t,  ì,  è,  H, 
mentre  i ,  X  danno  pure  è,  e,  ed  è,  è  pro- 
ducono alla  loro  volta  è,  é  (6).  Lo  stesso 
avviene  per  le  vocali  atone  e  per  le  conso- 
nanti: s  si  ha  da  «  iniz.  e  med.  e  per  con- 
trario s  iniz.  0  med.  s'ammollisce  in  se  (13); 
t  rimane  inalterato  in  principio  e  in  mezzo 
di  parola,  ma  anche  vi  si  cambia  in  d  (14). 
È  da  aggiungere  che  molti  esempi  non  sono 
addotti  a  dovere:  au  ton.  fPisaurumJ  non 
avrebbe  dato  a  (Pesaro)  se  non  avesse  per- 
duto l'accento;  la  sibilante  doppia  di  rus- 
sum  non  può  essere  considerata  come  quella 
scempia  innanzi  ad  i  dì  vesica;  né  saldo  può 
paragonarsi  direttamente  con  «solidus»;  uè 
madre  deriva  da  «  mater  ».  —  Assai  meglio 
è  trattata  la  morfologia.  La  declinazione  vi 
è  divisa  in  tre  classi  secondo  la  desinenza, 
l'esposizione  è  informa  di  paradigma,  e  in 
nota  sono  date  le  forme  antiche  e  qualche 
cenno  d'etimologia,  a  dir  vero,  non  sempre 
esattissimo.  —  La  parte  più  importante  ò 
quella  dei  verbi.  La  classificazione  in  forti 
e  deboli  vi  è  bene  applicata  anche  all'uso 
di  una  grammatica  prattica;  ma  non  le  ri- 
sponde la  divisione  delle  coniugazioni  basata 
sulla  desinenza  (115)  ;  forse  era  meglio  divì- 
derle prima  secondo  il  tema,  e  mantenere 
per  le  derivate  la  divisione  in  classi  rispon- 
denti alla  vocale  tematica.  —  Per  spiegare  la 
pluralità  delle  forme  nella  coniugazione  an- 
tica e  moderna  non  è  necessario  dì  ricorrere 
all'influenza  letteraria  (116),  la  quale  ha 
piuttosto  unificato  con  la  scelta  e  con  l'esclu- 
sione; né  è  esatto  dire  che  la  nuova  coniu- 
gazione sia  effetto  d' una  nuova  e  particolare 
evoluzione  (117),  poiché  consta  delle  forme 
antiche  più  in  uso  o  di  più  spontanea  ana- 


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240 


BASS.  BIBLIOGB. 


[OIOBMBLE  DI  FILOLOGIA 


logia.    Né  sembrano  accettabili  gli  esempi 
addotti  a  praova  di  quell*  enunciato,  perché 
le  forme  del  pres.  ind. 
mod  :  -  o,  - 1,  -  a,  -  ̀uno,  -  ate,  -  ano 
ant:  -  o,  -  a,  -  a,  -  amo,  -  ati,  -  ano  (  119) 
dovrebbero  essere  costantemente  distinte  per 
le  due  coniugazioni,  mentre  le  antiche  sono 
oscillanti,  e  si  potrebbe  dire  anche  rare  in 
confronto  delle  altre  parallele,  che,  appunto 
perché  più  comuni,  sono  passate  alla  lingua 
moderna.  —  L*ant.  creare ,  apendre  etc.  non 
sono  esempi  di  metatesi,  ma  di  sincope  vi- 
cino air  apocope  di  chieder,  spender;  né 
sembra  che  le  forme  delP infinito  in  ari,  eri, 
iri  debbano  ripetersi  dalle  forme  passive  la- 


tine (127). —  Non  è  chiaro  il  perché  siano 
classificati  fra  i  verbi  che  hanno  la  forma 
incoativa  vicino  alla  semplice:  convertire, 
divertire  (133);  —  nella  prima  classe  delle 
forme  forti  il  raddoppiamento  della  nasale 
di  venni  non  è  «  efletto  di  un*  inclinazione 
deir  italiano  a  quello  »  (145);  ma  piuttosto 
della  vocale  lunga  di  «  veni  ». 

Altri  rilievi  potrebbero  farsi;  ma  questi 
mostrerebbero  sempre  che  se  è  sparsa  nel 
libro  qualche  incertezza  e  talora  anche  un 
pò*  di  confusione,  il  difetto  va  attribuito  in 
gran  parte  allo  scopo  molteplice  e  forse  non 
ben  definito  di  quello. 

G.  Navone. 


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ItOMANZA    X."    5|  211 


BULLETTINO  BIBLIOGKAFICO 


1.  Le  origini  della  Unguu  poetica  italiana:  priucipii  di  grammatica  sto- 
rica italiana  ricavati  dallo  studio  d^i  manoscritti  con  una  introdu- 
zione sulla  formazione  degli  antichi  canzonieri  italiani,  del  Dott. 
C.  N.  Caix.  Firenze,  Succ.  Le  Mounier,  1880. 

In  8.**  gr.  di  pp.  num.  284  ;  forma  la  Disp.  6.*  del  voi.  II  delle  Pubblicazioni 
del  R,  Istituto  di  studj  superiori  in  Firenze  t  sez,  di  filon,  e  di  fdologia.  —  Di 
questa  importantissima  pubblicazione  ci  limitiamo  per  ora  a  dare  il  semplice 
annunzio,  intendendo  di  ragionarne  diffusamente  nel  prossimo  numero. 

2.  Studj  di  critica  e  storia  letteraria  di  Alessandro  D'Ancona.  Bologna, 
Zanichelli,  1880. 

In  16.°  di  pp.  num.  504.  —  Il  volume  non  contiene  cose  nuove,  ma  la  ri- 
stampa con  correzioni  ed  aggiunte  di  quattro  belle  memorie  che  nel  modo  come 
furono  pubblicate  la  prima  volta,  non  erano  rimaste  abbastanza  accessibili  a  tutti 
gli  studiosi.  Queste  memorie  sono  :  1.»  Il  Concetto  déW  unità  ^litica  nei  poeti 
italiani  (prolusione  letta  nella  Università  di  Pisa)  ;  2:*  Cecco  Angiolieri  da  Siena, 
poeta  umoristico  del  sec.  XIII  (già  edita  nella  Nuova  Antologia);  3."  Del  Novellino 
e  deUe  sue  fonti  (edita  la  prima  volta  nella  Bomania)-,  4.*  La  Leggenda  d^ At- 
tila flagellum  Dei  in  Italia  (inserita  nella  Collezione  Nistriana  di  Antiche  scrit- 
ture italiane). 

3.  I  Manoscritti  italiani  della  Biblioteca  Na.ifbnale  di  Firenze  descritti 

da  una  società  di  studiosi  sotto  la  direzione  del  prof.  Adolfo  Bartoli: 
con  riproduzioni  fotografiche  di  miniature,  eseguite  da  V.  Paganori. 
Sezione  prima:  Codici  Magliabechiani ;  Serie  prima:  Poesia.  Tomo  L 
Firenze,  Carnesecchi,  1879-80. 

In  8.*>;  fase.  1-5  da  p.  1  a  3'20  con  tre  tavole  fotografiche.  —  La  scuola  del 
prof.  A.  Bartoli  si  distingue  per  una  operosità  veramente  feconda  e  degna  d*  in- 
coraggiamento. Nel  corso  di  un  anno  appena  di  là  uscirono  i  bei  lavori  del  Biagi, 
del  Bariola  e  dello  Straccali,  dei  quali  si  parla  qui  e  nel  fase,  seg.,  e  là  ora  si  è 
cominciata  la  grande  illustrazione  di  tutti  i  mss.  italiani  che  si  conservano  nella 
Magliabechiana.  Così  mentre  il  maestro  sta  componendo  una  storia  della  nostra 
letteratura  che  fa  dimenticare  tutte  le  precedfnti,  i  suoi  allievi  li  vediamo  con 
bella  gara  intenti  a  lavorare  nello  stesso  campo,  dissodando  ed  esplorando  il  ter- 
reno per  ogni  verso.  Questa  pubblicazione  dei  Manoscritti ^  di  cui  tenemmo  pa- 
rola (Num.  4,  p.  119)  facendone  conoscere  il  programma,  ora  è  di  già  per- 
venuta al  h,^  fascicolo,  e  in  320  pagg.  ha  data  la  descrizione  di  00  codici.  Parrà 
forse  un  pò*  di  lusso  in  queste  proporzioni,  trattandosi  di  un  catologo;  ma  pur 

IG* 


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m2  BULLETTINO  [oiorn ale  di  filologia 

bisogna  notare  che  in  questa  parte  si  descrivono  tutti  testi  poetici,  e  che  di 
ogni  poesia  benché  brevissima  si  àò»  sempre  con  ottimo  consiglio,  oltre  al  tìtolo , 
anche  il  primo  e  V  ultimo  verso  :  s'intende  così  che  non  potevasi  fare  troppa  economia 
di  spazio.  E  le  descrizioni  dei  mss.  sono  accuratissime  ;  qua  e  là  è  pubblicato  per 
intero  qualche  testo  più  importante,  e  vi  si  dà  ancora  conto  minuto  di  tutte 
quelle  particolarità  esterne  od  interne  che  potrebbero  recare  schiarimento  sulla 
storia  del  volume.  Di  tavole  fotografiche  ne  furono  date  finora  tre.  Non  sap- 
piamo che  resterà  di  queste  tavole  da  qui  a  dieci  o  dodici  anni.  Intanto  due 
di  esse  offrono  un  saggio  di  due  codici  danteschi ,  V  altra  rappresenta  una  Danza 
Macabra  inserita  in  una  raccolta  di  Laude  della  prima  metà  del  sec.  XIY.  Es- 
sendo stato  dimostrato  che  V  affresco  del  Camposanto  di  Pisa  é,  non  delP  Orgagna, 
ma  d'altro  artista  che  visse  circa  il  1370,  T anteriorità  della  miniatura  qui  ri- 
prodotta «  può  ritenersi  indubitata  »  ed  essa  acquista  da  ciò  un  grande  valore 
per  la  storia  dell'  arte.  Nelle  descrizioni  dei  mss.  sono  aggiunte  di  tanto  in  tanto 
anche  indicazioni  bibliografiche,  e  della  scarsezza  di  esse  alcuni  critici  mossero 
lamento.  Noi  la  pensiamo  diversamente,  e  se  ci  fosse  lecito  di  dare  un  consi- 
glio, vorremmo  persuadere  gli  egregi  autori  di  questa  pubblicazione  a  lasciare 
affatto  da  parte,  almeno  per  ora,  qualunque  indicazione  di  quel  genere.  Se  in- 
completa, la  bibliografia  è  inutile,  completa  poi  altererebbe  soverchiamente  l'eco- 
nomia del  Catalogo,  il  quale  non  deve  avere  altro  scopo  che  quello  di  far  cono- 
scere i  manoscritti. 

4.  Le  Novelle  Antiche  dei  codici  Panciatichiano-Palatino  138  e  Lauren- 
ziauo-Gaddiano  193  con  una  introduzione  sulla  storia  esterna  del 
Novellino  per  Guido  Bugi.    Firenze,  Sansoni,  1880. 

In  8.<»  di  pp.  nura.  CCVl-2ri8,  con  un  facsimile;  edizione  di  500  esempi.— 
Con  questo  volume  ha  principio  una  nuova  Raccolta  di  opere  inedite  o  rare  di 
ogni  secolo  della  letteratura  italiana,  altra  impresa  promossa  dal  prof.  Bartoli, 
editore  il  Sansoni;  ed  è  uno  dei  più  distinti  allievi  del  Bartoli,  il  D.'  Guido  Biagi, 
che  fa  degnamente  gli  onori  della  inaugurazione.  Le  difficoltà  che  si  presen- 
tavano ad  un  nuovo  editore  del  Novellino  non  erano  poche  nò  lievi,  trattandosi 
di  un  testo,  del  quale  profonde  sono  le  disformità  che  corrono  tra  le  antiche 
edizioni  ed  anche  fra  i  codici  manoscritti.  Che  se  diversi  studj  e  particolar- 
mente quelli  del  D'Ancona  avevano  dato  già  un  buon  impulso  per  avviare  la 
critica  sul  retto  sentiero,  al  Biagi  peraltro  spetta  il  merito  di  aver  portato  que- 
sta crìtica  a  risultati  che  per  gran  parte  possono  dirsi  definitivi.  La  sua  In- 
troduzione sulla  storia  esterna  del  Novellino  ò  un  lavoro  che  fa  veramente  onore 
alla  scuola  italiana.  Essa  è  seguita  dalla  edizione  di  due  distinte  redazioni  del 
Novellino  che  si  conservano  nei  Codd.  Panciatichiano-Palatino  138  e  Laurenziano- 
Gaddiano  193,  e  di  tutto  riparleremo  più  distesamente  dopo  che  sarà  pubblicato 
l'altro  volume,  al  qual  questo  serve  di  prodromo,  e  che,  secondo  promette  il  Biagi, 
conterrà  il  testo  critico  del  Novellino, 

5.  Felice  Bariola,  Cocco  (T Ascoli  e  V Acerba,  Saggio.  Firenze,  Tipogr. 

della  Gazz.  d'Italia,  1879. 

In  8.**  di  pp.  num.  133.  Estr.  dalla  Rivista  Europea  —  Rivista  Intemazio- 
nale, —  Molti  scrissero  anche  recentemente  di  Cecco  d'Ascoli,  ma  si  può  dire 
che  il  sig.  Bariola  ò  stato  il  primo  a  parlarcene  senza  essere  preoccupato  da  spi- 


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HOMANXA,  N.*»  5]  BIBLIOGRAFICO  243 

rito  di  partito  e  dopo  avere  maturamente  studiate  le  opere  di  lui  e  tutto  ciò  che 
si  riferisce  alle  sue  vicende.  Egli  esamina  e  discute  accuratamente  quanto  fu  nar- 
rato della  sua  vita,  sceverando  con  sagacia  quel  che  si  sa  di  certo  dal  dubbio  o 
dal  leggendario  :  passa  indi  a  trattare  degli  scritti  dell'  Ascolano  e  particolar- 
mente dell*  Acerba  j  della  quale  d^  una  minuta  analisi  accompagnata  da  un  buono 
studio  letterario,  e  termina  con  un  saggio  del  testo  di  questo  poema  secondo  la 
lezione  di  uno  dei  mss.  più  antichi,  comparato  con  altri  quattro  mss.  Il  sig.  B. 
lascia  sperare  che  in  seguito  dark  una  nuova  edizione  deìV Acerba,  e  dobbiamo 
rallegrarci  di  questa  notizia,  perché  egli,  massime  per  la  parte  letteraria,  si 
mostra  molto  ben  preparato  a  un  simile  lavoro.  Ma  la  parte  filologica,  nella 
quale  non  volle  ancora  provarsi,  presenta  anch'essa  dei  problemi  che  vogliono 
essere  risoluti ,  principale  dei  quali  quello  della  lingua  in  cui  fu  scritta  l'opera; 
e  non  sapremmo  incoraggiare  l'egregio  A.  di  avventurarsi  in  quella  specie  di 
►  eccletismo  cui  sembra  inclinato  (v.  p.  128),  disperando  già  di  poter  riuscire  nella 
ricostituzione  della  genealogia  dei  codici.  Senza  dubbio' in  siffatto  lavoro  non  è 
sempre  possibile  di  determinare  tutte  le  incognite  ;  ma  riconosciuti  almeno  i  co- 
dici che  sono  fra  loro  indipendenti,  riconosciuto  il  dialetto  dei  copisti,  e  rico- 
nosciuti finalmente  ì  caratteri  del  dialetto  dell'autore,  non  gli  sark  difiicile  di 
procedere  innanzi  e  di  compiere  l'opera  in  quel  modo  che  dobbiamo  aspettarci 
da  chi  vi  diede  principio  con  un  saggio  così  benfatto. 

6.  Sonecti  composti  per  M.  Johanne  Antonio  de  Petruciis  Conte  di  Poli- 
castro  j  pubblicati  per  la  prima  volta,  dietro  il  lus.  della  Bibl.  Naz. 
di  Napoli  da  Jules  Le  Coultre  e  Victor  Schultze.  Bologna,  Ronia- 
guoli,  1879. 

In  16.°  di  pp.  num.  XLVI-102.  —  G.  A.  de  Petruciis  visse  nel  sec.  XV  e  avendo 
preso  parte  insieme  con  altri  gentiluomini  napoletani  alla  celebre  Congiura  dei 
Baroni  contro  re  don  Ferrante  d'Aragona,  nel  1486  fu  fatto  prigione  e  poco  più 
tardi  decapitato.  Durante  la  sua  prigionia  scrisse  i  Sonecti  qui  pubblicati,  i  quali 
se  non  abbondano  di  pregi  poetici,  hanno  tuttavia  un  interesse  storico  che  non 
si  può  disconoscere,  ritraendo  essi  al  vivo  le  idee,  i  sentimenti  e  la  coltura 
di  un  cortigiano  di  quei  tempi.  I  giovani  editori  nel  darli  alla  luce  secondo  un 
ms.  assai  guasto  che  si  conserva  nella  Nazionale  di  Napoli,  arricchirono  il  vo- 
lume di  una  diffusa  illustrazione  storica,  e  vi  aggiunsero  ancora  alcune  note  gram- 
maticali che  ci  sembrano  la  parte  men  buona  di  questo  volume.  Là  dove  peres. 
si  osserva  «  la  confusione  continua  (che  spesso  chiamano  «  equivoco  »)  dell'i  o 
dell' e»  in  sillaba  accentata,  non  abbi»mo  veramente  che  o  il  solito  effetto  del- 
l'azione regressiva  di  un  %  finale  come  in  pmcirt,  ri  ecc.,  o  uno  scambio  di  suf- 
fissi^ome  in  delectivile  {-ibilis  per  -ébilis),  ovvero  affettazione  di  forme  latineggianti. 
Così  pure  non  ò  una  «  originalità  ortografica  »  di  questo  autore  lo  scrivere  per  ch. 
disprecza,  grandecze,  ma  anche  questa  b  una  affettazione  di  ortografia  etimolo- 
gica, frequentissima  nelle  scritture  del  medio  evo  in  Italia  e  particolarmente  nelle 
Provincie  meridionali.  Riguardo  poi  alla  lezione  dei  Sonetti,  importanti  correzioni 
e  supplementi  pubblicò  già  il  Miola  in  un  ottimo  articolo  su  questo  libro,  iuse- 
rito  ueWArch,  stor,  'per  le  prov.  Napol,  an.  1871),  e  a  qncll'  articolo  rimandiamo 
i  lettori  nostri,  anche  per  ciò  che  riguarda  una  poesia  spagnola  che  si  trova 
framezzo  ai  Sonecti  del  l>e  Potrucìi!'  e  che  il  M.  restituiva  a  Diego  Hurtado  do 
Mendoza. 


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211  BULLETTiyO  [giobx ale  di  filologia 

7.  Rispetti  del  scc.  XV.    Ancona,  Civelli,  1880. 

Eatratto  dal  n.°  1  del  Preludio,  —  Sono  ventidue  Rispetti  che  il  aig.  Eduardo 
Alvisi  ha  tratto  da  un  formulario  cancelleresco  del  notajo  Pietro  di  Antonio  da 
S.  Croce  di  Valdarno  (cod.  Gadd.  Laurenz.  n.**  161).  Come  gli  antichi  cancel- 
lieri bolognesi  scrivevano  sulle  pagine  bianche  dei  loro  Memoriali  quelle  Rime 
che  il  Carducci  pubblicò,  così  fece  dei  Rispetti  del  suo  tempo  il  buon  notajo 
fiorentino.  L'AI  visi  ha  scrupolosamente  estratto  dal  codice  e  pubblicato  questi 
documenti  della  poesia  popolare  quattrocentista,  facondo  notare  il  ragguaglio 
del  n.**  3  colle  molte  lezioni  moderne,  e  l'importanza  del  n.**  22  (Venir  ti  possa 
il  diavolo  allo  letto)  menzionato  nella  Mandragola,  e  del  quale  il  D'Ancona 
{Studi  siUla  poesia popoL  p.  160)  riferì  solo  lezioni  moderne  delle  Marche  e  del- 
l' Istria.  Altri  raffronti  da  farsi  sarebbero  i  seguenti  :  il  n.°  2  col  n.°  214  del 
Tigri;  il  n.°  4  coi  n.»  818,  821,  856  pur  del  Tigri;  il  n,^  5  col  4.»  Strambotto  del  ^ 
Giustiniani,  il  n.**  8  collo  Strambotto  riferito  dal  D' Ancona,  op,  cit.  pag.  131  ecc. 

8.  ToRRAC'A  F.,  P.  A.  Caracciolo  e  le  Farse  Cava  Jole,   Napoli,  Perotti,  1879. 

In  8.'*  di  pp.  num.  30.  —  È  questa  un'altra  buona  contribuzione  che  il  prof.  Tor- 
raca  offre  alla  storia  del  teatro  nelle  provincie  Napolitane  (v.  Giornale^  1, 109). 
Dalla  Sacra  Rappresentazione  qui  passa  col  Caracciolo  (sec.  XV)  alla  Farsa,  e  colle 
Farse  Cava j ole  ci  fa  giungere  fino  al  sec.  XVII. .  Del  Caracciolo  disgraziata- 
mente sembra  tutto  perduto,  tranne  gli  argomenti  di  undici  farse  e  alcuni  brani 
di  queste,  che  bastano  per  farci  deplorare  la  loro  perdita.  Le  Farse  Cavajole, 
che  appariscono  nel  secolo  successivo  a  quello  del  Caracciolo,  sarebbero  secondo 
r  A.  uno  svolj^imento  della  farsa  caraccioliana,  che  il  D'Ancona  definì  «  capricci 
semi-improvvisati,  lazzi  senz'arte  e  senz'intreccio,  destinati  a  sollazzare  gli  ascol- 
tanti colla  vivezza  dei  motti,  la  prontezza  delle  arguzie,  i  sali  del  dialetto  ». 
Orig,  del  teatro  itah  II,  214.  Il  Torraca  ne  trovò  nella  Nazionale  di  Napoli  una  bella 
raccolta  compilata  nella  prima  metk  del  sec.  XVII,  e  nell'ultima  parte  di  questa 
memoria  ne  fa  l'analisi,  dopo  avere  illustrata  l' etimologia  del  nomee  la  storia 
del  genere,  uno  schietto  prodotto  indigeno  dello  stesso  paese  che  in  altri  tempi 
fece  gustare  a  Roma  le  Atellaue. 

9.  Mascarata  villanesca  recitata  nel  mese  di  Maggio  1580  di  M,  Ales- 
sandro Sozzini  da  Siena,  ora  per  la  prima  volta  pubblicata  con  Pre- 
fazione e  Note  dal  prof.  A.  Lombardi.  Siena,  Gati,  1879. 

In  8."*  di  pp.  nnra.  35.  —  Elegante  edizioncina  del  Gati,  resa  più  pregevole 
dall'opera  letteraria  del  prof.  Lombardi.  Solo  b  da  notare  che  non  si  sieno  fatti 
rilevare  colla  stampa  i  cominciamenti  metrici  delle  ottave  e  delle  terzine.  Le 
note  sono  attentamente  compilate;  la  prefazione  contiene  rapidi  ma  utili  rag- 
guagli sull'autore  e  sulla  forma  comica  del  teatro  senese  del  cinquecento,  e  una 
congettura  notevole  sopra  la  probabile  etimologia  della  denominazione  di  Bru- 
sccUo,  La  Mascarata  oltre  esser  importante  per  la  lìngua  villanesca,  può  gio- 
vare a  conoscore  alcuni  costumi  della  gente  di  contado  nel  sec.  XVI.  Augu- 
liamo  che  il  Lombardi  faccia  a  queste  seguire  altre  pubblicazioni  congeneri,  e 
che  l'esito  di  c^uesta  edizione  dia  animo  al  Gati  di  accompagnare  la  Mascarata 
sozziniana  con  altri  sa;^gi  doli' antico  teatro  senese. 


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ROMANZA,  N.-»  5]  BIBLIOGRAFICO  245 

10.  Leggende  popolari  siciliane  in  poesia  raccolte  ed  annotate  da  Salva- 
tore Salomone-Marino.    Palermo,  Pedone  Lauriel,  1880. 

lu  16.**  di  pp.  num.  XXIX-435.  —  Questo  voluire  richiamerà  in  particolar 
modo  Patteazione  degli  storici  della  letteratura  popolare.  Fu  già  affermato  e 
soverchiamente  ripetuto  che  la  poesia  del  popolo  siciliano  è  essenzialmente  lirica, 
e  quasi  negavasi  a  quel  popolo  la  facoltà  epica.  A  questa  sentenza  il  Salomo- 
ne-Marino contrappose  la  Baronessa  di  Carini,  simpatica  leggenda  locale  ita  a 
frammenti  e  da  lui  amorosamente  ricomposta  e  studiata;  indi  dava  nel  voi.  Vili 
del  Propugnatore  quattordici  Storie  popolari  in  poesia  siciliana  riprodotte  da 
vecchie  stampe,  e  finalmente  nel  volume  qui  annunziato  ha  fatto  conoscere  sessan- 
tuua  Leggende  verseggiate,  che  potè  raccogliere  dalla  tradizione  orale:  tutte  com- 
posizioni che  se  non  provengono  da  analfabeti,  certamente  però  appartengono  al 
popolo,  che  solo  le  gusta  e  le  mantiene  in  vita.  Vi  si  canta  del  Conte  Ruggeri  e 
del  Vespro  Siciliano,  della  rivoluzione  del  1860  e  della  morte  di  Vittorio  Ema- 
nuele e  di  Pio  Nono,  di  Gioacchino  Murat  e  di  Fra  Diavolo,  e  poi  di  fate,  di 
banditi,  di  santi,  di  monaci,  di  avventurieri,  d'incantagioni,  di  terremoti,  di  ca- 
restie e  di  quant' altro  la  storia,  o  la  immaginazione  impresse  nella  fantasia  di 
quelle  vivacissime  popolazioni.  A  questi  interessanti  materiali  il  S.  M.  aggiunse 
copiose  note  storiche,  raffronti,  e  glosse  per  la  intelligenza  delle  parole  meno  fa- 
cili; onde  ci  sembra  che  il  volume  nulla  lasci  a  desiderare  e  offra  nel  suo  con- 
tenuto una  delle  più  utili  e  pregevoli  contribuzioni  che  in  questi  ultimi  anni 
furono  recate  agli  studj  sulla  letteratura  dei  volghi  italiani.  —  Vd.  su  di  esso  il 
bollo  scritto  del  D'Ancona  nella  Rassegna  Settimanale,  4  Luglio  1880. 

11.  Za  legende  de  Trajan  par  M.  Gaston  Paris.    Paris,  Impr.  Nationale, 
^   MDCCCLVIIL 

In  8.<*  Estr.  dai  Mclanges  puhliés  par  VÉcole  des  hautes  études,  da  pp.  261 
a  298.  —  Le  più  antiche  redazioni  finora  note  di  questa  leggenda  che  trovò  luogo 
anche  nella  Divina  Commedia,  sono  dell*  VIII  e  del  IX  secolo,  in  Paolo  e  in 
Pietro  Diaconi.  Ma  la  sua  origine  risale  molto  più  addietro  ed  ò  riconosciuta  in 
un  aneddoto  che  riferì  Dione  Cassio  dell'imperatore  Adriano.  Costui  un  giorno 
incontrò  una  donna  che  gli  porse  una  supplica.  «  Non  ho  tempo  »  disse  egli 
sulle  prime,  ma  l'altra:  «'Allora  non  regnare  »  gli  soggiunse,  e  l'imperatore 
colpito  da  quella  risposta,  tornò  addietro  e  le  rese  giustizia.  Da  Adriano  facil- 
mente il  popolo  trasportò  questo  beli'  aneddeto  alla  vita  di  Trajano,  il  quale  fu 
per  esso  l' imperatore  buono  e  giusto  per  eccellf  nza  ;  e  in  un  bassorilievo  —  così 
opina  il  P.  —  lungamente  couservatosi  nel  Forum  Trajani  e  rappresentante  l'im- 
peratore a  cavallo  con  innanzi  a  sé  una  donna  ginocchioni,  la  quale  doveva  sim- 
boleggiare una  provincia  conquistata,  il  popolo  credette  dì  raffigurare  il  fatto 
della  vedovella  che  chiedeva  giustizia.  Come  tutti  i  Romani  che  passavano  pel 
Foro,  anche  S.  Gregorio  dicono  che  un  giorno  fermasse  l'occhio  su  quella  rap- 
presentazione, e  tornandogli  a  mente  il  bellissimo  atto  del  principe,  implorò  per 
lui  la  liberazione  dell'inferno,  ecc.  ecc.  —  Tale  in  succinto  ò  la  storia  di  questa 
curiosa  leggenda:  la  quale  se  più  volte,  era  stata  studiata,  e  particolarmente  dal 
Massmann,  dal  D'Ancona,  dell' Oesterley  e  dal  Kòhler,  soltanto  però  in  questa 
bella  dissertazione  del  P.  più  dirsi  che  abbia  ricevuta  una  illustrazione  completa 
e  definitiva. 


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24G  BULL  E  TINO  [giornalb  di  filolooia 

12.  BaccoUa  di  Proverbi  Veneti  fatta  da  Cristoforo  Pasqualioo.  Seconda 
edizione  accresciuta  e  riordinata.    Venezia,  Coletti,  1879. 

In  S.*»  di  pp.  num.  VIII-327.  —  La  buona  accof^lienza  fatta  alla  prima  edi- 
zione di  questa  raccolta  che  vide  la  luce  fra  il  1857  e  il  58,  mosse  TÀ.  a  cu- 
rarne un'altra  che  non  fosse  semplice  ristampa,  ma  largamente  ampliata  e  cor- 
retta sempre  meglio  rispondesse  ai  molteplici  desiderj  della  scienza.  La  novella 
edizione  contiene  oltre  a  cinquemila  proverbj  raccolti  in  Venezia  e  nella  sua  pro- 
vincia, per  la  più  parte  dalla  viva  voce  del  popolo,  ma  in  parte  ancora  da  col- 
lezioni manoscritte  e  da  una  stampa  del  sec.  XVI  (Le  TJiece  Tavole  de  proverbi ^ 
sentenze  ecc.),  che  di  veneti  ne  contiene  circa  300.  Questi  Proverbj  sono  aggrup- 
pati secondo  gli  argomenti,  e  gli  argomenti  sono  disposti  per  alfabeto,  formando 
ben  88  capitoli  che  bastano  a  farci  fare  piena  conoscenza  con  quel  gentile  e  vi- 
vace popolo  che  è  il  veneziano,  e  a  farci  gustare  tutto  lo  spirito  e  il  sentimento 
che  esso  manifesta  nelle  varie  contingenze  della  sua  vita.  Il  testo  dei  proverbj 
è  spesso  accompagnato  da  varianti  e  riscontri,  né  vi  mancano  note  che  dichia- 
rino le  locuzioni  o  i  vocaboli  men  facili  del  dialetto.  Bensì  manca  ai  proverbj 
una  numerazione,  che  pure  sarebbe  stata  molto  comoda  per  chi  voglia  lavorare 
su  questo  interessante  volume.  Nel  fine  di  esso  il  sig.  P.  dà  quest'annunzio: 
«  Perché  agli  studiosi  della  demopsicologia  non  manchi  alcun  elemento  di  giu- 
dizio sul  popolo  Veneto,  verranno  stampati  a  parte  i  Proverbi  erotici,  in  una 
edizione  fuori  di  commercio.  » 

13.  Sul  parlare  dei  Sardi  e  la  derivazione  dcW  articolo  determinativo  nelle 
lingue  neolatine.  Saggio  di  Alessandro  della  Barba.  Reggio  d'Emilia, 
Calderini,  1880. 

In  8.^  di  pp.  num.  55.  E^tr.  dalla  Cronaca  del  R.  Liceo  Spallanzani  di  Reggio 
d*  Emilia,  an.  scoi.  1878-79.  —  Il  Liceo  non  ci  pare  il  luogo  più  opportuno  per  fare 
della  filologia  comparata,  ma  questa  é  ora  la  moda  corrente  in  Italia,  e  se  nem- 
meno il  nostro  A.  seppe  resistervi,  non  dobbiamo  imputarglielo  a  colpa.  In  questa 
dissertazione  egli  dk>  parecchi  ragguagli  sul  dialetto  Sardo,  sul  suo  fonetismo  e 
in  specie  sulle  difl'erenze,  poco  notate  finora,  tra  Sardo  parlato  e  Sardo  scritto: 
ragguagli  che  sì  possono  dire  originali,  poiché  una  dimora  non  breve  fatta  dalP  A. 
nell'isola,  gli  permise  di  raccogliere  da  sé  stesso  materiali  abbondanti  e  sicuri, 
che  sarebbe  buono  facesse  conoscere  in  più  larga  copia  agli  studiosi.  Una  mono- 
grafia metodica  dei  vernacoli  della  Sardegna,  anche  dopo  il  lavoro  del  Delius  che 
si  limitò  al  Sassarese  del  sec.  XIII,  non  può  non  tornare  utile  per  quanti  colti- 
vano la  dialettologia  italiana.  Incorando  a  un  simile  lavoro  il  nostro  A.,  non  dubi- 
tiamo che  egli,  dopo  essersi  meglio  addentrato  nella  struttura  di  quelle  parlate, 
abbandonerebbe  da  sé  T opinione  che  qui  produce,  sulla  origine  dell'  «  articolo  de- 
terminativo »  cercando  di  riconnetterlo  col  greco  e  col  sanscrito.  Pare  strano  a 
lui  che  il  Sardo  abbia  derivato  il  suo  articolo  da  «pse,  mentre  gli  altri  popoli 
neolatini  lo  avrebbero  derivato  da  Ule;  ma  non  variarono  egualmente  le  lingue 
romanze  in  altri  casi  analoghi  ?  come  p.  e.  neir  uso  dei  verbi  ausiliari,  di  guisa 
che  airit  sono  stato,  risponda  il  fr.  f  ai  étc  e  il  port  tenho  sido  e  il  vai.  am 
fost,  ove  vediamo  colla  stessa  funzione  hahere,  esecj  tenere ,  fieri?  Né  T avere  il  Lo- 
godurese  conservato  intero  Vipse  in  qualità  di  pronome,  può  fare  difficoltìi  per 
la  forma  dell* articolo;  perché  questa,  come  proclitica,  avcudo  perduto  Taccento,  sog- 


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ROMANZA,  N.*^  5]  BIBLIOGAFICO  247 

giacque  naturalmente  ad  alterazioni  ben  diverse,  e  so  ed  ipse  (art.  e  pron.  sardo) 
stanno  di  regola  ad  tpse  lat.,  come  lo  ed  egli  (art.  e  pron.  ital.)  stanno  di  regola 
al  latino  iUe. 

14.  Vocabolario  dell'uso  Ahmazese  del  Doti.  Cav.  Geknàeo  Finamobe. 
Lanciano,  Carabba,  MDCCCLXXX. 

In  8.*»  di  pp.  num.  VII-306.  —  Questo  volume,  che  per  la  eleganza  con  cui  fu  stam- 
pato fa  onore  alla  tipografia  Abruzzese,  esce  come  saggio  di  più  vasta  opera  destinata 
ad  illustrare  i  vernacoli  e  le  tradizioni  popolari  degli  Abruzzi,  e  contiene  non  sol- 
tanto un  Vocabolario,  come  parrebbe  dal  titolo,  ma  anche  una  bella  scelta  di  Pro- 
verbj.  Motti  e  Sentenze,  nonché  269  canti  raccolti  in  ventidue  paesi  delle  Pro- 
vincie di  Chieti,  di  Teramo  e  d'Aquila.  Vi  sono  inoltre  copiosi  appunti  fono- 
logici e  morfologici  sulle  parlate  di  quella  regione ,  e  nel  Vocabolario  abbondano 
i  raffronti  delle  varietà  sotto-dialettali ,  di  guisa  che  nel  tutt^  insieme  si  ha  qui 
un  manuale  che  tornerìi  utilissimo  per  la  conoscenza  di  quel  gruppo  di  dialetti.' 
Nel  Vocabolario  TA.  non  volle  omettere  la  dichiarazione  etimologica  di  molte 
delle  parole  registrate ,  e  questa  parte  darebbe  luogo  a  varie  osservazioni.  Ah^ 
herrutà  per  es.  nulla  ha  che  fare  coir  Ungherese  horitàniy  ma  suppone  un 
lat.  adoolutare;  ammuccià  non  h  da  ohmutescerey  ma  già  dal  Diez  fu  ricolle- 
gato al  m.  a.  ted.  sich  mùzen  (cnf.  fr.  musser,  pie.  mucher);  stutà  non  ò  dal 
greco  eOo,  ma  ha  base  in  *tutar e  (v.  Arch,  glottol.  I,  36,  n.);  chiocchia  (=  san- 
dalo) piuttosto  che  ravvicinarla  al  latino  <^ caliga  o  calceus  »,  era  da  ravvicinarsi  a 
ciocia^  che  è  da  sacci,  mutato  genere  e  numero  (v.  Caix,  Studj  d*  etimól.  280),  e 
chiocchia  starebbe  a  soccit  come  chiappine  pure  abruzz.  sta  a  sapinus.  —  Ad  altri 
appunti  darebbe  luogo  anche  la  fonologia,  dove  TA.  prese  a  base  di  confronto 
rital.  letterario  anziché  il  latino;  ma  è  da  ricordare  ciò  che  egli  dichiarò  nel 
modo  il  più  esplicito  nella  prefazione  :  non  aver  qui  voluto  presentare  studj  suoi 
proprj,  ma  soltanto  dei  materiali  per  agevolare  gli  studj  altrui. 

15.  Chrestomaihie  provengale  accompagnée  d'une  grammaire  et  d'un  glos- 
saire  par  Karl  Bàrtsch.  Quatrième  édition,  révue  et  corrigée.  El- 
berfeld,  Friderichs,  1880. 

In  8.°  di  coli.  600.  —  L' essere  in  pochi  anni  arrivato  già  alla  quarta  edizione 
ò  la  più  bella  lode  che  possa  farsi  di  questo  libro,  il  quale  insieme  al  Grundriss 
zur  Geschichte  der  prov,  Literatur  forma  un  manuale  il  più  completo  e  il  più  co- 
modo non  solo  per  V  insegnamento  nelle  scuole  superiori ,  ma  anche  per  tutti  co- 
loro che  vogliano  da  soli  acquistare  una  sufficiente  conoscenza  della  lingua  e  della 
letteratura  provenzale.  Questa  nuova  edizione  presenta  notevoli  miglioramenti 
sulle  precedenti.  L'A.  vi  tenne  conto  delle  critiche  che  gli  erano  state  dirette, 
aggiunse  qualche  nuovo  testo,  altri  corresse  nella  lezione  o  nella  cronologia,  varj 
ne  collazionò  sui  mss.,  accrebbe  per  alcuni  il  materiale  delle  varianti,  ritoccò  la 
grammatica  e  il  glossario,  e  tutto  insomma  il  volume  sottopose  ad  una  revi- 
sione accurata  e  diligente  quale  non  era  stata  fatta  nella  terza  edizione. 

16.  Le  debat  d'Imam  et  de  Sicari  de  Figueiras,  Poèrae  proven^al  publié, 
traduit  et  annoté  par  Paul  Meyer.  Nógent-le-Routrou,  Daupeley- 
Gouverneur,  Avril  1880. 

In  8.<»  di  pp.  num.  53.  Eatr.  dM'Annuaire  Btdletin  de  la  Società  de  VHistaire 
de  France,  an.  1879.  —  Il  Débat  d' Izarn  non  era  ignoto  agli  eruditi.    U  Millot 


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248  BULLETTINO  [giornale  di  filologia 

ne  aveva  data  uoa  analisi  e  varj  brani  tradotti,  degli  estratti  ne  pubblicarono 
il  Raynonard  e  il  Bartach,  il  David  ne  diede  conto  nella  Ilistoire  lUtéraire  de 
la  Fr.  ed  altri  ancora  se  n'erano  occupati.  Coatuttociò  una  edizione  dell* intero 
testo  mancava  ancora,  e  questa  è  stata  procurata  testé  dal  Meyer,  il  quale  T  ha 
inserita  fra  le  pubblicazioni  della  Società  per  la  storia  di  Francia  come  naturale 
appendice  alla  nuova  edizione  che  egli  compì  Tanno  scorso  del  poema  sulla  cro- 
ciata contro  gli  Albìgesi  (v.  Giornale,  n.*»  4,  p.  119).  Il  testo ,  che  riproduce  fe- 
delmente l'unico  ms.  ove  ci  fa  conservato,  è  accompagnato  da  una  traduzione 
in  francese,  e  da  uua  prefazione,  in  cui  l'A.  discute  il  valore  di  questo  poe- 
metto e  mostra  l'importanza  che  esso  ha  per  la  storia  dell' Inquisizione  nella 
Francia  meridionale,  e  per  meglio  chiarire  le  dottrine  professate  dagli  Albigesi. 

17.  Ein  spanisches  Steinhuch  mit  Einleitung  und  Annierkungen  zum  er- 
stenmal  herausgegeben  von  Karl  Vollmolleji.  Heilbronn,  Heunin- 
ger,  1880. 

In  16.**  di  pp.  num.  VI-34.  —  È  un  Lapidario  spagnolo  tratto  da  un  ms.  del 
sec.  XV,  che  si  conserva  nel  Mu^eo  Britannico.  Nella  succinta  introduzione  che 
gli  premise,  TE.  ricorda  gli  altri  lapidarj  spagnoli  di  cui  ebbe  conoscenza,  e 
tocca  delle  fonti  di  questo,  che  sarebbero  le  Ongmes  di  Isidoro  e  il  Liher  de  gem- 
mls  di  Marbodo.  I  riscontri  di  questi  due  autori  accompagnano  il  testo,  il  quale 
e  stampato  con  quella  cura  intelligonte  che  potevasi  aspettare  dall'egregio  pro- 
fessore di  Erlangen,  dal  quale  ci  auguriamo  di  veder  presto  compita  la  sua  edi- 
zione del  Poema  del  Cid. 

18.  Diciionnaire  de  Vaucioine  lanfjuc  frangaisn  d  de  toiis  ses  diàlecfes 
dii  IX  au  XV  siede  compose  d'après  le  dépouillement  de  tous  les 
plus  importants  documeuts  manuscrits  cu  impriiués  qui  se  trouvent 
dans  les  grandes  bibliothèques  de  la  Frauce  et  de  TEurope  et  dans 
le3  principales  archi ves  départemeutales,  municipales,  hospitalières  ou 
privées  par  Frédéric  Godefroy.    Paris,  Vieweg,  1880. 

In  4.°,  fase.  I,  da  p.  1  a  64.  —  L' opera  intrapresa  dal  signor  Godefro}"  risponde 
ad  un  lungo  desiderio  e  ad  un  bisogno  che  ogni  giorno  facevasi  sentire  più  forte 
in  tutti  coloro  che  occupandosi,  sia  di  letteratura  o  di  filologia,  sia  di  storia  o 
di  diplomatica,  hanno  di  sovente  a  spiegare  testi  antico-francesi.  Il  signor  L. 
Favre  credette,  qualche  anno  fa,  di  poter  riempire  una  simile  lacuna  stampando 
i  materiali  raccolti  e  preparati  un  secolo  addietro  dal  Sainte-Palaye;  ma  fu  quello 
uno  stupido  anacronismo,  che  valse  soltanto  a  far  perdere  un  po' di  lire  ai  meno 
accorti,  e  ora  fa  meglio  risaltare  i  pregi  del  Dizionario  del  signor  Godefroy. 
Degno  seguace  del  Littré,  egli  presenta  in  questa  pubblicazione  il  frutto  maturo 
di  trent'anni  di  fatiche  e  di  studio,  dopo  avere  spogliato  da  sé  le  migliori  edi- 
zioni moderne  e  quanti  codici  e  pergamene  potè  vedere  nelle  biblioteche  di  Fran- 
cia e  dell'estero  contenenti  scritture  in  lingua  d'oìl.  La  massa  principale  dei 
vocaboli  da  lui  raccolti  proviene  da  testi  anteriori  al  sec.  XIV;  tuttavia  ne  diede 
ancora  dal  sec.  XV  e  del  XVI  quando  gli  apparivano  di  formazione  p'ù  antica, 
o  gli  sembravano  utili  per  determinare  la  durata  che  ebbero  nell'uso.  Le  varietà 
ortografiche  e  dialettali  vi  sono  raccolte  in  abbondanza;  gli  esempj  copiosi,  bene 
scelti,  accompagnati  sempre  da  indicazioni  precise  e  chiare  delle  fonti;  le  spìe- 


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HOMAHZA,  N."  5]  BIBLIOGRAFICO  249 

gazioni  delle  parole  proposte  con  cautela  e  senz'  arbitrio.  Tutto  infine  ci  dà  a 
bene  sperare  in  questo  primo  fascicolo,  e  giustifica  il  patrocinio  che  questa  pub- 
blicazione, coraggiosamente  intrapresa  da  un  editore  così  solido  e  puntuale  come 
il  Vieweg,  ottenne  in  Francia  dal  Ministero  della  istruzione  pubblica.  L'editore 
promette  di  darne  un  volume  air  anno,  e  saranno  in  tutto  dieci  volumi,  ognuno 
dei  quali  é  distribuito  in  dieci  fascicoli.  Quando  la  stampa  sarh  inoltrata  un 
po'  più,  ne  riparleremo. 

19.  Eapport  à  M.  le  Ministre  de  Vlnstruction  Tnhìiqiie  et  des  Beaux" 
Arts  sur  une  mission  philologique  dans  le  département  de  la  Creuse 
(avec  une  carte)  par  M.  Antoine  Thomas.  Paris,  Impr.  Nationale, 
MDCCCLXXIX. 

In  8.**  di  pp.  num.  55  e  una  tavola  litografica.  Estr.  dalle  Archives  des  mis- 
sions  scientifiques  et  littéraireSj  3.*  Sèrie,  Tom.  V.  —  Su  questo  bel  lavoro  che 
aveva  per  iscopo  «  de  rechercher  les  limites  des  troia  variétés  principales  qui  se 
partagent  dans  des  proportions  inégales  les  patois  me'ridionaux  du  département  » , 
rimandiamo  i  nostri  lettori  alla  relazione  e  air  autorevole  giudizio  che  ne  ah  il 
Meyer  nella  Romania ,  Vili,  469. 

20.  Altfrans^dsisclie  BihliotheJc  herausgegeben  von  D.  Wendelin  Foerster 
Prof,  der  romanischen  Philologie  an  dar  Uuiversitiit  Bonn.  Heilbronn, 
Henninger,  1879-80. 

In  16.0;  voi.  I  di  pp.  num.  XLVII-246;  Voi.  II  di  pp.  num.  113. 

21.  Bibliotheca  Normannica,  Denkmàler  normannisclier  Literatnr  und 
Sprache  herausgegeben  von  Hermann  Suchier.    Halle,  Niemeyer,  1879. 

In  8.*^  di  pp.  num.  LVI-109;  voi.  II  di  pp.  num.  127.  —  La  publicazione  di 
testi  dell'antica  letteratura  francese  va  prendendo  in  Germania  proporzioni  sempre 
maggiori.  Alle  opere  isolate  vengono  ad  aggiungersi  intere  collezioni,  e  due,  a 
distanza  di  pochi  mesi,  ne  furono  di  recente  intraprese  colà,  sotto  la  direzione  di  uo- 
mini non  meno  competenti  che  operosi.  La  prima  è  VAltfranzdsische  Bibliothek 
diretta  dal  Foerster,  V  altra  è  la  Biblioteca  Normannica  pubblicata  dal  Suchier. 
Nella  Altfr,  B.  uscirono  finora  le  seguenti  opere:  voi.  I,  La  vie  de  seìnt  Josa- 
'pliaz,  La  vie  des  set  Dormans,  L%  Petit  Plet^  tre  poemetti  in  ottonarj  rimati 
a  coppia,  di  Chardry  troverò  an^o-normanno  del  sec.  XIII.  La  edizione  fu  cu- 
rata dal  D.  J.  Koch,  il  quale  vi  unì  una  accuratissima  prefazione,  cinquantasei 
pagine  di  note  critiche  ed  emendamenti  al  testo,  e  finalmente  un  glossario  delle 
forme  più  notevoli.  Una  bella  recensione  di  questo  volume  diede  il  Mussafia 
nella  Zeitschrift  del  Gròber,  III,  591.  Nel  voi.  II,  è  uscito  il  Pellegrinaggio  di  Carlo 
Magno  a  Gerusalemme  e  a  Costantinopoli,  del  quale  si  parla  più  sotto.  —  Nella 
B'ibl.  Norm.  i  due  volumi  finora  dati  alla  luce  contengono:  I,  Reimpredigt,  un 
sermone  verseggiato  in  129  strofe,  seguito  da  altro  simile  di  str.  122.  Il  testo 
del  primo  è  costituito  criticamente  in  base  di  tre  mss.  e  vi  sta  innanzi  una  pre- 
fazione elaborata  dal  Suchier,  il  quale  vi  discute  da  suo  pari  tutte  le  questioni 
filologiche  che  hanno  attinenza  con  questo  testo.  II,  Der  Judenknabe,  una  antica 
leggenda  che  narra  di  un  fanciullo  giudeo  liberato  per  miracolo  dal  fuoco  a  cui 
era  stato  condannato  per  aver  communicato  con  fanciulli  cristiani.    Di  questa 

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250  BULL.  BIBLIOGR,  [giornale  di  filologia 

leggenda  il  signor  E.  Wolter  pubblica  qui  cinque  versioni  greche,  quattordici 
latine  e  otto  francesi,  accompagnandole  con  una  erudita  introduzione  che  illustra 
egregiamente  questa  curiosa  tradizione  medioevale.  Ci  auguriamo  che  qualcuna 
almeno  delle  nostre  biblioteche  non  manchi  di  fornirsi  di  queste  due  interessanti 
collezioni,  nelle  quali  anche  gli  studiosi  italiani,  non  fosse  che  per  il  metodo 
da  seguire  nel  dare  alla  stampa  antichi  testi,  troverebbero  pur  tanto  ad  imparare. 

22.  Sechs  Bearbeitungen  des  altfrans'ósischen  Gedichts  voti  Karls  desgrossen 
Reise  nach  Jerusalem  und  Constantinopel  herausgegeben  von  D.  Eduird 
KoscHwiTz,  Privatdocent  an  der  Universi tàt  Strassburg.  Heilbronn, 
Henninger,  1879. 

In  16.*»  di  pp.  num.  XIX-185. —  Il  Pelle^rrinaggio  di  Carlo  Magno  a  Gerusa- 
lemme e  a  Costantinopoli  è  V  argomento  di  una  delle  più  antiche  ed  insieme  più 
iuteressanti  chansons  de  geste  francesi.  Il  signor  Koschwitz  si  ò  posto  da  alcuni 
anni  a  studiarla  con  singolare  amore,  e  primi  saggi  di  questo  suo  studio  furono 
due  belle  memorie,  una  intitolata  Ueber  das  Alter  und  die  Herhunft  der  chanson 
du  Voyage  ecc.  edita  nel  fase.  VI  dei  Romanische  Studien,  T  altra  intitolata 
Ueherlieferung  und  Sprache  der  chanson  ecc.  pubblicata  dagli  Henninger  di  Heil- 
bronn, nelle  quali  si  discutevano  le  principali  questioni  filologiche  cui  da  occa- 
sione questo  poema.  Ora  poi  nel  volume  annunziato  qui  sopra  il  signor  K.  pre- 
senta riuniti  sei  diversi  racconti  dell'  istesso  pellegrinaggio,  i  quali  ad  un  tempo 
dimostrano  la  grande  diffusione  che  quella  tradizione  ebbe  una  volta  nei  volghi 
europei,  e  concorrono  utilmente  alla  illustrazione  del  testo  più  antico,  il  quale, 
composto  a  quanto  pare  neir  XI  secolo,  pervenne  a  noi  in  un  solo  codice  scritto 
nel  XIU  in  Inghilterra  da  un  menante  che  di  francese  sapeva  punto  o  poco,  e 
che  orribilmente  lo  deformò.  Il  primo  di  detti  racconti  è  in  gallese  e  V  accom- 
pagna una  traduzione  inglese  del  sig.  J.  Rhys  ;  tre  sono  in  prosa  francese  e  rap- 
presentano diverse  redazioni  del  Galien  le  retore  o  restare,  che  è  un  rifacimento 
del  Pellegrinaggio,  della  fine  del  sec.  XV  :  due  di  queste  sono  tratte  da  mss. ,  la 
terza  riproduce  una  stampa  popolare  del  1528.  Gli  ultimi  due  sono  scandinavi, 
in  versi,  editi  dal  Kòlbing,  e  si  credono  derivati  da  un  Turpino  gallese.  Tutti 
questi  materiali  dovevano,  secondo  il  primo  disegno  del  dotto  editore,  far  corredo 
alla  sua  edizione  della  Chanson  ;  ma  giuste  ragioni  poi  lo  determinarono  a  darle 
in  un  volume  a  parte,  ed  ha  pubblicato  poi  nel  voi.  II  della  AUfr.  Bibliothdc, 
sulla  quale  vedi  sopra,  il  testo  critico  delkb  Chanson,  lavoro  sagace  e  coscenzioso, 
col  quale  il  signor  K.  ha  degnamente  compiuta  la  sua  fatica.  Vedasi  su  di  esso, 
Mussafia  nella  Zeìtschrift  fùr  d.  òsterr,  Gymnasien,  1880,  n.*»  3. 


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HOIIANZA,    N.'*    T)] 


251 


PERIODICI 


1.  Archivio  glottologico  italiano,  VII, 
punt.  1. —  W.  Foerster,  Antica  parafrasi 
lombarda  del  «  Neminem  laedi  nisi  a  se  ipso  >» 
di  S.  Giov.  Grisostomo,  edita  ed  illustrata.  — 
O.  Flechia,  Antica  confessione  latino- vol- 
gare edita  e  annotata.  —  Varietà:  B.  Biari" 
chi.  Del  vero  senso  della  maniera  dantesca 
«  feraine  da  conio  »  Inf.  xviii,  (SQ.  —  G.  7. 
Ascoli,  «  Tortona  »  e  «  Tortosa  »;  —  «  To- 
sto»; (a  proposito  della  etimologia  discussa 
nel  nP  A  del  Giornale.)  —  Ancora  della  Cro- 
nica deli  Jmperadori.  —  Fondazione  Diez. 

2.  Revue  des  langues  romanes,  a.  1870, 
n.'  7-8.  —  W.  Foerster,  Épitre  farcie  de  la 
Saint-Etienne  en  vieux  fran(:ais  du  XII*  sie- 
de. —  Alat't,  Étude  su  Thistoire  de  quelques 
mots  romans:  Rana,  ran,  rana r,  randa,  ran- 
dar.  —  A,  Boucherie ,  Vienr.  —  Brunier , 
L'Amour  mouillé  d'Anacréon  Irad.  en  lan- 
guedocien.  —  A.  Langlade,  Les  noms  de  la 
pierre  à  batir  à  Lansargues  (Hérault).  — 
Poésìes:  A.  Langlade,  Lous  las  d* amour.  — 
A.  Henry,  Lou  mes  d'abrieu.  —  A.  Fourès, 
Mascarado.  —  L.  Goirand,  Couquiheto.  — 
Bibliographie.  —  Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.*  9-10.  —  F.  Pasquier,  Leudaire  de 
Saverdun.  —  A.  Roque-Ferrier,  Vestiges 
d'un  article  archaTque  roman  conserve  dans 
les  dialectes  du  midi  de  la  France.  —  Ck. 
ReviUout,  Le  a  Pauvre  driile  »  de  La  Fon- 
taine. — A.  Espagne,  k-i\n\i  =  hvLpyxvà^hm,— 
J.  Bauquier,  Le  jargon  Chinook.  —  P.  Fes- 
quet,  Énigmes  populaires  recueillies  ò.  Co- 
lognac(Gard).  —  Poésies:  A.  Mathieu,  Lou 
rescontre.  --  Variétés:  C.  C,  Aire;  —  Sur 
un  vers  de  Pierre  Cardinal  ;  —  Deux  vers 
d'une  danse  provengale.  —  Bibliographie. — 
Périodiques.  —  J.  Bauquier,  Florian  imité 
par  Fabre-d'Olivet.  —  A.  Glaise,  Mistral  à 
Toulouse.  —  lìoucherie,  Discours  prononcé 
à  la  séance  pub.du  3  Sept.  1879. — Chronique. 

—  N.!  11-12.  —  L.  ConstanSf  Quelques 
mots  sur  la  topographie  du  po6me  proven^al 
iiititulé:  Vie   de  Salute  Knimie.  —  Mila  y 


Fontanals,  Lo  Sermó  d'En  Muntaner.  — 
Castets,  Rapport  sur  le  concours  de  philo- 
logìe  de  la  Socìété  des  langues  romanes.  — 
A.  Roque-Ferrier,  Rapport  sur  le  concours 
de  poesie.  —  V.  Smith,  Dieux  complaintes 
du  Velay.  —  Poésìes:  i.  Goirand,  A  Flo- 
rian: remembran^o  d'uno  visito  à  soun  toum- 
bèu,  à  Sceux.  —  L.  Roumieux,  Lo  roso  e 
lou  soulèu.  —  C.  Malignon,  Bèu-Caire.  — 
A.  Arnavielle,  Lous  gorbs.  —  L.  de  Berluc- 
Perussis,  Per  un  eros  que  s'alesiis  dins  uno 
capello  dòu  campestre  prou  ven^au.—  J.  Roux, 
Sent  Marsal  à  Tuia.  —  C.  Gleyzes,  Lous  car- 
rassìés.  —  A.  Roux,  Lou  vela  e  Tanel.  — 
Variétés:  A,  Boucherie,  Le  Chevalier  aux 
deux  épées.  —  Bibliographie.  —  Périodi- 
ques. —  Chronique. 

—  A.  1880,  n.*  1-3.  —  A.  Boucherie,  La 
langue  et  la  littérature  fran^aises  au  moyen 
àge  et  la  Revue  des  deux  mondes.  —  Mila 
y  Fontanals,  Lo  Sermó  d'En  Muntaner.  — 
D/"  Mazel,  Les  prove rbes  du  Languedoc,  de 
Rulman.  —  J.  Bauquier,  Les  proven^alistes 
du  XV1II«  siede,  Lettres  inódites  de  Sainte- 
Palaye,  Mazaugues,  Caumont,  La  Bastie, 
etc.  —  G.  Clément^imon ,  Proverbes  re- 
cueillis  dans  le  Bas-Limousin.  —  V.  Smith, 
Chansons  populaires  historiques.  —  Poésies: 
P.  Gaussen,  La  cigalo. —  W.  Bonaparte- 
\^yse,  À  Mounsegne  Dubreil.  —  G.  Azaìs, 
Lou  sarralher  blu,  lou  picou-vert  e  lou  mer- 
le. —  C.  Bistage,  Contro  l'amour.  —  Varié- 
tés: Z).**  Noulet,  Observations  sur  le  Leudaire 
de  Saverdun  publié  par  M.  Pasquier.  —  A. 
Boucherie,  Oster,  Esfraer  ;  Onde.  —  Biblio- 
graphie. —  Périodiques.  —  A.  Roque-Fer- 
rier, Trois  formes  negli gées  du  substantif 
Diable.  —  A.  Roque-Ferrier,  L'artide  ar- 
chaìque  dans  la  vallèe  de  Larboust  (Haute- 
Garoane).  —  Chronique. 

3.  Romania ,  n.o  31.  — P.  Meyer,  Les  mss. 
frau^ais  de  Cambridge:  I,  Saint  John's  Col- 
lege. —  G.  Paris,  Le  roman  du  Chàtelain 
de  Couci.  —  J.  Ulrich,  Le  Sacrifice  d'Abra- 


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252 


PERIODICI 


[giornale  di  filologia 


ham,  mystèreengadinois. —  O.NlgoUsy  Chute 
de  /  mediale  dans  quelques  pays  de  lang:ue 
d'oc.  —  V.  Smith,  Chants  populaires  du  Te- 
lay  et  du  Forez.  —  Mélanges:  H.  d'A,  de  J., 
«  Lai  »  (Nota  sulla  probabile  derivazione  del 
Lai  fr.  dairìrl.  Loid  o  Laidy  e  sopra  alcune 
forme  di  questa  composizione  ). — G.  P., Breri 
(Nota  relativa  a  Tomas,  l'autore  del  poema 
di  Tristran).  —  F.  J.  Child,  Sur  le  miracle 
de  rima  gè  de  Jésus-Christ  prise  pour  garant 
d'un  prét.  —  K.  Nyrop,  Notice  sur  un  nou- 
veau  ms.  de  la  Chronique  de  Reiros.  —  G.P., 
Figer  (etimologia).  —  H.Wedgwood,  French 
etymologies  (agacer,  blaireau,  boulanger, 
guignon,  pilori,  sentinelle,  sombrer).  —  Ch. 
/orei, Etyraologies  normaodes  (égailler,gade, 
crevette,  crevuche).  —  A,  Thomas,  Une  bal- 
lade  politique,  1415.  —  Comptes-rendus.  — 
Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.''  32.  —  P.  Meyer,  La  vie  latine  de 
Saint  Honorat  et  Raimon  Féraut.  —  A.  de 
Montaiglon,  La  vie  de  Saint  Grégoire  le 
Grand  (testo  a.  fr.  in  versi  contenente  un  vol- 
garizzamento della  vita  di  Gregorio  Iscritta 
da  Giovanni  Diacono).  —  E.  Co.^qvin,  Contes 
populaires  lorrains.  —  Mélanges:  J.  Tailhan, 
Notes  sur  la  langue  vuigaire  d'Espagne  et 
de  Portugal  au  haut  moyen  age  (712-1200).  — 
J.  Fleury,  Rindon,  conte  haguais.  —  L.  Ha- 
vetf  Tapabor  (étiraol.).  —  Comptes-rendus. — 
Périodiques.  —  Chronique. 

—  N.^  33.  —  G.  Paris,  La  Chanson  du 
Pèlerinage  de  Charlemagne.  —  P,  Meyer, 
Traités  catalans  de  grammaire,  et  de  poé- 
tique:  IV,  laufré  de  Foxa.  —  J.  Cornu,  Étu- 
des  de  phonologie  espagnole  et  portugaise 
(grey,  ley  et  rey  disyliabes  dans  Berceo, 
r Apollonio  et  l'Alexandre;  La  3©  pers.  plur. 
du  parf.  en  -ìoron  dans  l'Alexandre;  Par- 
faits  dits  fortsde  Ia2«,  3«  et  4«  conjugalson; 
Parfaits  dits  faibles  de  la  2®  et  3«  conju- 
gaison;  Parfaits  de  la  4«  conjugaison;  L'en- 
clitique  nos  dans  le  poème  du  Cid;  Encore 
-lume  = -tudinem). — A.  Lambrior,  Essai  de 
phonétiqueroumaine. — Mélanges:  J..Ulrich,  , 
Pisciare.  —  /.  Cornu,  Gii  =  hoc  illic.  —  J. 
Cornu,  Trois  passages  de  la  Chanson  de 
Roland  corrigés  à  tort.  —  Ch.  Joretj  Etymo- 
logies  fran^aises  (ébrouer,  s'ébrouer,  brouée, 
br(o)uine;  man;  merlan;  merlus;  orphìe). — 
G.  P.,  Quia.  —  A.  Dclboulle,  Martin-ba- 
tou.  —  F.  Armitage,   Au,   fau,  vau.  —  J, 


Cornu,  Etymologies  espagnoles  et  portu- 
gaises  (corazon,  escada,  escupir,  espedir, 
fazilado,  halagar,  lexar,  llevar,  mienna,  pa- 
lancada,  prendar,  quexar,  sencillo.) — K. 
Nyrop,  Variantes  indiennes  et  danoìses  d'un 
conte  picard.  —  Comptes-rendus.  —  Périodi- 
ques (pp.  159-63:  rivista  dei  no.  3  e  4  del 
Giornale).  —  Chrooique. 

4.  RomanischeStudien,  n.**  X.— E.  Boeh- 
mer,  Nonsbergisches.  —  E.  Boehmer,  Gred- 
nerisches. — F.  Settegast,  Calendre  und  scine 
Kaiserchronik.  —  E.  Boehmer,  Abfassungs- 
zeit  des  Guillaume  de  Paterne.  —  E,  Boeh- 
mer, Catalanisches.  —  E.  Boehmer ,  Zum 
Bocci.  —  E.  Boehmer,  Ritmo  Cassinese.  — 
E,  Boehmer,  Zur  Dino-Frage.  —  E.  Boeh» 
mer,  Ueber  zwei  dem  zwòlften  Jahrhuodert 
zugeschriebene  sizilische  Texte.  Mit  einer 
Photographie.  —  J.  Schmid,  Ueber  zwei  Ma- 
nuscripte  sizilianischerGedichte  des  16.  Jahr- 
hunderts.  —  E.  Boehmer,  Zur  sizilischen 
Aussprache.  —  E.  Boehrner,  Die  beiden  U.  — 
E.  Boehmer,  Z\i  Juan  de  Valdés.  —  M,  Hart- 
mann, Boehmer,  Koschwitz,  Zum  Gxfor- 
der  Roland.  —  W.  Foerster,  Schicksale  des 
iat.  6  im  Franzòsischen.  —  Beiblatt. 

—  N."  XI.  —  H.  Morf,  Die  Wortstellung 
im  altfranzòsischen  Rolandsliede.  —  E.  Ko- 
schwitz,  Der  altnordische  Roland  im  deut- 
sche  iibersetzt. —  E.  Boehmer,  Klang,  nicht 
Dauer.  •—  E.  Boehmer,  Gautier's  Epopéee 
frangaises,  zweite  Ausgabe. — Beiblatt. 

—  N.°  XII.  —  G.  Willenherg,  Historische 
Untersuchung  ùber  den  Conjunctiv  Praesen- 
tisder  erstenschwachen  Conjugationin  Fran- 
zòsischen.—  //.  Stock,  Die  Phonetique  des 
«  Roman  des  Troie  »  und  der  «  Chronique  de 
Ducs  de  Normandie  ».  — E.  Koschwitz,  Der 
Vocali V  in  den  Ultesten  franzòsischen  Sprach- 
denkmftlern.  —  R.  Heiligbrodt,  Fragmentde 
Gormund  et  Isembard.  Text  nebst  Einlei- 
tung,  Anmerkungen  und  vollstadigem  Wort- 
index.  —  E.  Boehmer,  Wie  klang  o/u?  — 
E.  Boehmer,  Dous.  —  E.  Boehmer,  Tirole- 
risches.  —  E.  Boehmer,  EulaUa.  —  E.  Boeh- 
mer, Klang,  nicht  Dauer,  li.  —  Beiblatt.  — 
Berichtigungnn. 

—  N.-^  XIII,  -  W,  Foerster,  Galloitali- 
Rche  Predigten  aus  cod.  mise.  Iat.  Taurinen- 
sis  D.  VI.  10,  12t<»  JahrhunderU  Mit  einer 
photolito'j:raph.     Tafel.  —  W,   Foerste  \    Zu 


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BOMANZA,   N.^   5] 


PERIODICI 


253 


den  altfranzòsischen  Predigten  des  heil.  Ber- 
nhard.—  E,  Boehmer,  Sponsus,  mystère  des 
vierges  sages  et  des  vierges  folles.  —  £.  Boeh- 
mer, Zur  Clermonter  Passion.  —  E.  Boeh- 
mer, Zu  Dante 's  «  De  vulgari  eloquentia.  »  — 
R.  Heiligbrodt,  Zur  Saga  von  «  Gormund 
und  Isenibard  ».  —  R.  Heiligbrodt,  Synopffs 
der  Tiradenfolge  in  den  Ildsch.  des  Girart 
de  Rossilhon.  —  A.  de  Cihac,  Sur  les  études 
romanes  de  M.  Hajdèu.  —  E.  Koschwitz, 
E.  Boehmer,   W.  Foerster,  Beiblatt. 

—  N.'^  XIV.  —  K,  VollmoUer,  Der  Can- 
cionero  Gayongos.  —  K.  VollmoUer,  Aus  dem 
Oxforder  Cancionero.  —  A,  Uorìiing,  Le 
pronom  neutre  il  en  langue  d*oil.  -  -  F.  Ilar- 
seim,  Vocalismus  und  consonantismus  im 
Oxfortler  Psalter.  —  A.  Horning,  Bris,  Bri- 
con.  —  W.  Foe>^ster,  E.  Boehmer,  Nach- 
trag  zu  den  gallo-italisclieu  Predigten.  — 
E.  Boehmer,  Zu  Juan  Valdes,  II.  —  E.  Boeh- 
mer, Klang,  niclit  Dauer,  IH. —  Beiblatt. 

—  N.^  XV.  —  E.  Schwan,  Philippe  de 
Remi,  Sire  d'3  Beaumanoir,  und  seiae  Wer- 
ke.  —  M.  Knj^fer-Schmidt^  Die  Havelok- 
sage  bei  Gainiar  und  ihr  Verhiiltuiss  zur 
Lai  d'IIavelok.  —  A.  de  Cihac,  Le  type  ho- 
nio-ille  i Ile-bonus.  —  A.  de  Cihac,  Meine 
Antwort  an  II.  Dr.  M.  Gastt  r.  —  //.  Varnha- 
ge7ì,  Churwillsche  Handschriften  des  British 
Museum.  —  //.  Varnhagen,  Altfranzusische 
Miscellen.—  E.  Boehmer,  Ein  Brief  von  Cas- 
siodoro  de  Reyna.  —  E.  Boehmer,  Pieniso- 
nant,  seniisoaant.  —  E.  Boehmer,  Diakriti- 
sche  Bezeichnung  der  Vocalbuchsiaben.  — 
Beiblatt. 

5.  ZEiTsamiFT  pur  romanisciie  Puilolo- 
GiE,  III,  2.  —  H.  Varnhagen,  Das  altuor- 
maniiisch(?  C  :  I,  das  Ciro  Oxforder  Psalter.  — 
A.  Tahler,  Eine  Sammlung  von  Dichtungen 
des  Jacopone  da  Todi. —  A.  Coelho ,  Ro- 
mances  populares  e  rimas  infuntis  portu- 
guezes.  —  //.  Rt'insch,  Les  Joies  nostre  Dame 
des  Guillaume  le  Clerc  de  Normandie.  — 
Miscellen:  A.  Gaspary,  Zu  Ariosts  Cinque 
Canti.  —  E.  Stetìgel,  Zum  Mysière  von  den 
klugen  uud  thòrichten  Jungfrauen.  —  K. 
VollmoUer,  Mittheilungen  aus  spanischen 
Handschriften:  London:  Brit.  Mus.  Lansd. 
735:  Obras  satiricas  del  Conile  [de]  Villa- 
mediana.  —  A.  Mussa fia,  Zu  Marc.  Gali. 
IV.  —  W.  Foerster,   Revision  des   Textes 


des  Richart  le  biel.  —  A.  Mussafia,  Zu  Guil- 
laume de  Palerne  ed.  Michelant.  —  A.  Mus- 
sa/la, Zu  Roland  V.  240*,  455,  3860.  —  A, 
3rftwa/?a,Aiol  7645-6  (7644-5),  8188  (8186).— 
A.  Gaspary,  Zu  dem  Ausdruck  ValtePa  pe- 
sca.—  W.  Foerster,  Romanische  Etymolo- 
gien  (it.  menzogna,  ruvido,  fr.  moite,  a.  fr. 
roisie,  fr.  ornière,  fléchir,  here,  son,  a.  fr. 
tarier,  fr.  charade,  it.  accia,  arcigno). — J,  Ul- 
rich, Deutsche  Verba  im  Romanìschen.  — 
J.  Ulrich,  Fr.  accoutrer,  prov.  acotrar.  — 
A,  Mussafia,  Cateron.  —  A.  Mussafia,  Zu 
mien  =  mcum.  —  A.  Mussafia,  Zu  den  Par- 
tic.  Perf.  auf -ect,  und  -est.  —  A.  Mussafia, 
Altital.  ricentare.  —  Recensionen  und  Anzei- 
gen.  —  Nachtràge  und  Berichtigungen.  —  E, 
Stengel,  Berichtigung  zu  Zeitschrìft  III, 
114.  —  W.  Foerster,  Zu  Zeitschrift  III,  160. 

—  III,  3.  —  J.  Aimeric,  Le  DialecteRou- 
ergat.  —  K.  Bartsch,  Keltische  und  roma- 
nische Metrik.  —  0.  Ulbrich,  Zur  Geschichte 
des  franzòsischen  Diphthongen  ci.  —  Mi- 
scellen:  A.  Gaspaty,  Filocolo  oder  Filo- 
copo?  —  H.  Krebs,  Eine  Handschrift  von 
Lionardo  Bruni  Aretino*8  Vita  di  Dante  e 
Petrarca.  —  A.  Englert,  Zwei  limousinische 
Schaferlieder.  —  G.  Gróber,  Bearnische  Tod- 
tenklage.  —  M.  Gaster,  Die  rumànische  Con- 
demnatio  uvae.  —  Recensionen  und  Anzei- 
gen.  —  Berichtigungen.  —  E.  Stengel,  W, 
Foerster,  Zu  Zeitschrift  III,  318. 

—  III,  4. —  TF.  Foerster,  Beitrtige  zur 
romanischen  Lautlehre.  Umlaut  (eigentlich 
Vocalsteigerung) im  Romanischen.  —  A.  von 
Flugi,  Ladinische  Liederdichter.  —  G.  Ja- 
cobsthal.  Die  Texie  der  Lìederhandschrift 
von  Montpellier  H.  196.  Diplomatischer  Ab- 
druck.  -—  Miscellen:  K.  Graf  Coronini,  Ue- 
ber  eine  Stelle  in  Dante's  Inferno  (I,  28, 
29).  —  //.  Suchier,  Zu  den  «  Mainengebe- 
ten  ».  —  W.  Foerster,  Romanische  Etymo- 
logien  (sp.  encentar,  fr.  meublé,  sp.  lóbrego, 
nata,  a.  sp.  boto,  fr.  froisser,  it.  andare,  port. 
eito,  a.  fr.  crueus,  fr.  maquiller,  it.  putto, 
nocchiere).  —  A,  Tobler,  Romanische  Ety- 
mologien  (fr.  ótage,  a.  fr.  cuisen^on,  ban- 
quet,  malade,  it.  fandonia,  prov.  desleiar). — 
Recensionen  und  Anzeigen.  (Gaspary  dà  conto 
dei  n.*  2-4  del  Giornale).  —  Zus&tze  und 
Bcrichtiguugen.  —  Register. 

—  III,  5.  —  Bibliographie  1878. 


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2.>4 


NOTIZIE 


Il  Ministero  della  Pubblica  istruzione  ha  fìnalmente  provveduto  alla  catedra  di  lette- 
ratura italiana  nella  Università  di  Napoli,  rimasta  vacante  per  la  morte  del  Settem- 
brini, ed  ha  chiamato  ad  occuparla  il  prof.  Zumbini.  Con  ciò  lo  Stato  ha  compito  un  atto 
di  giustizia  e  di  dovere,  la  scienza  ha  conseguito  quanto  di  meglio  poteva  desiderare. 

Il  Comitato  Italiano  per  la  Fondazione  Diez  (sulla  quale  v.  V  Arch.  glottol.  Ili,  425  e  ss.) 
ha  chiusa  la  soscrizione,  e  la  somma  raccolta,  consistente  in  L.  2636,  è  stata  trasmessa 
al  Comitato  di  Berlino. 

Il  D.'  Tommaso  Casini  di  Bologna  ci  annunzia  che  attende  da  qualche  tempo  alla  pnb- 
blicazione  del  Poema  d*  Attila  di  Nicolò  da  Casola  e  che  spera  di  cominciarne  la  stampa 
in  breve. 

Il  Sig.  A.  Martelli,  Direttore  dello  Stabilimento  d'eliotipia  e  litografia  in  Roma,  Via 
della  Vite  105,  ha  intrapreso  una  riproduzione  eliotipica  di  quella  parte  del  Codice  Chi- 
giano  C.  V.  151,  che  contiene  il  Mistero  provenzale  di  S.  Ajrnese.  Se  questo  saggio  non 
sarà  male  accolto,  l'editore  darà  altre  simili  riproduzioni  d'interesse  per  gli  studj  della 
letteratura  e  della  paleografia,  dell'arte  e  del  costume  medioevale.  Intanto  cominciò  dalla 
S.  Agnese  appunto  perché  essa  richiama  l'attenzione  non  solo  dei  romanisti,  i  quali  non 
sono  ancor  paghi  delle  due  stampe  che  ne  furono  fatte,  ma  si  raccomanda  del  pari  apli 
studiosi  di  storia  della  musica  e  particolarmente  del  melodramma,  uè  è  affatto  indifferente 
pei  paleografi.    Si  tratta  del  resto  di  un  codice  unico. 

4  Agosto  1880. 


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RECENTI  PUBBLICAZIONI 
pervenute  alla  direzione  del  Oiornale 


D'Ovidio  F.,  Italica:  Un  caso  di  cl=tl  neir umbro  e  due  neiretrusco?  È  autentica 
riscrizione  Osca  di  Nesce?    Estr.  di  Rio.  di  filoL  class,  a.  IX. 

Flechia  G.,  Nomi  locali  derivati  dal  nome  delle  piante.    Torino,  Paravia,  1880. 

Avoli  A.,  Saggio  di  studi  etimologici  comparati  sopra  alcune  voci  del  dialetto  alatrino. 
Roma,  Tip.  di  Roma,  1881. 

Carducci  G.,  Un  poeta  d'amore  del  sec  XII.    Estr.  d.  Nuova  Antologia,  1881. 

Cantare  di  Madonna  Elena  imperatrice.    Livorno ,   Vannini,  1880. 

Cinque  rispetti  inediti  del  sec.  XV.    Firenze,  Tip.  d.  Arte  d.  Stampa,  1881. 

Mazzatinti  G.  ,  Poesie  religiose  del  sec.  XIV  pubbl.  secondo  un  cod.  Eugubino.  Bo- 
logna, Romagnoli,  1881. 

MiNOGLio  G.,  Laude  de  Disciplinati  di  S.  Maria.     Torino,  Paravia,  1880. 

ZoNGHi  A.,  Saggio  di  sentenze  latine  trasportate  in  poesia  volgare  da  Fr.  Giovanni 
di  Ginesio  di  Quaglia  da  Parma.    Fabriano,  Crocetti,  1879. 

Castets  F.,  Il  fiore,  Poème  italien  du  XII1«  siècle  en  232  sonnets  imité  du  Roman  de 
la  Rose.    Paris,  Maisonneuve,  1881. 

Arnone  N.,  Le  rime  di  Guido  Cavalcanti;  sesto  critico.    Firenze,  Sansoni,  1881. 

Rossi  A.,  Un  quaderno  della  Cronaca  Perugina  del  Oraziani,  sconosciuto  a  chi  la 
pubblicò  neir  Archivio  Storico  Italiano.    Perugia,  Boncompagni,  1879. 

Prato  S.,  Caino  e  le  spine  secondo  Dante  e  la  tradizione  popolare.  Ancona,  Tip. 
dell'Ordine,  1881. 

Ferrari  S.,  Documenti  per  servire  all'istoria  della  poesia  semipopolare  cittadina  in 
Italia  nei  sec.  XVI  e  XVII.    Estr.  d.  Propugnatore,  a.  1880. 

Zenatti  a.,  Mazinae.     Verona,  Civelli,  1880. 

GuERRiNi  C,  Alcuni  canti  popolari  romagnoli.    Bologna,  Zanichelli,  1880. 

Bartoli  a.,  Una  novellina  e  una  poesia  popolare  gragnolesi.  Firenze,  Carnesec- 
chi,  1881. 

Prato  S.,  Quattro  novelline  popolari  livornesi  accompagnate  da  varianti  umbre,  rac- 
colte, pubblicate  ed  illustrate  con  note  comparative.    Spoleto,  Bassoni,  1880. 

Dell'Angiolo  B.  ,  Sonetti  in  vernacolo  pisano.    Pisa,  Valenti,  1880. 

ScHMiDT  J.,  Die  alteste  alba.    Estr.  d.  Zeitschrift  f.  deutsehe  Philol.  XII. 

Vigo  P.,  Manumissione  di  una  schiava;  documento  inedito  del  sec.  XII.  Livorno, 
Vigo,  1880. 

Giorgi  I.,  Description  du  Liber  bellorura  Domini  [Rome,  Vatican,  Reg.  Christ.  347]. 
Génes  f  Impr.  des  Sourds-Muets ,  1881. 

BoucHBRiB  A.,  La  langue  et  la  littérature  fran^aises  au  moyen  àge.  Reponse  a  M. 
Brunetière.  Paris,  Maisonneuve,  1881. 

Graevell  D.,  Die  Charakteristik  der  Personen  im  Rolandsliede.  Jleilbronn ,  Jlen- 
ninger,  1880. 

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Marburg,  Elwert,  1880. 

Brunner  il,  Ueber  Aucassin  und  Nicolete.     Halle  •!«,  1880. 

Perschmann  H.,  Die  Stellung  von  0  in  der  Ueberlieferung  des  altfranzòsischen  Ro- 
landsliedes.    Marburg,  Pfeil,  1880. 


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Castets  F.,  Le  Roman  de  la  vie  dea  Perca  hermites.  —  Sonnet  contenant  une  recette 
«l'Alchimie,  attribué  à  Dante  et  au  frère  Helyas.    Paris,  Maisonneuve,  1880. 

Hofmann  K.,  u.  Muncher  F.,  Joufrois,  altfranzòaiachea  Rittergedicht  zum  eraten  Mal 
herausgegeben.    Halle,  Niemeyer,  1880. 

RiESE  L,  Recherches  sur  Tuaage  ayntaxique  de  Froisaart.    Halle,  Niemeyer,  1880. 

Braga  T.,  Theoria  da  hiatoria  da  litteratura  portugueza.  Tercera  edigao.  Porto, 
hnpr.  Portugueza ,  1881. 

Braga  T.,  Bibliographia  Camoniana.    Lisboa,  Rodrigues,  1880. 

Centenario  de  Camoes.  Catalogo  d' una  coUecQao  camoneana  expoata  na  Biibliotheca 
Publica  de  Ponta  Delgada.    S.  Miguel,  Typ.  do  Archivo  dos  Agores. 

Paoli C,  Miscellanea  di  paleografìa  e  diplomatica.  Eatr.  l-III  d.  Arch.  stor.  ital.  1880-81. 

Mestica  E., Esame  critico  degli  Adelphi  di  Terenzio  con  cenni  preliminari  au  la  poeaia 
drammatica  latina.    Foligno,  Campitelli ,  1880. 

De  Chiara  S.,  Saggio  d'un  comento  alla  Comedia  di  Dante  Allaghieri:  Inf.  C.  V.  Na- 
poli, Morano,  1880. 

Cipolla  C,  Una  festa  per  Claudia  di  Francia.     Veroyia,  Franchini,  1880. 

Del  Lungo  I.,  Ritratti  fiorentini:  Un  don  Chisciotte  fiorentino  del  sec.  XVI;  Un  gen- 
tiluomo erudito  del  sec.  XVII;  I  corrispondenti  fiorentini  del  Muratori.  Eatr.  d.  Nuova 
Antologia,  1880. 

ZuMBiNi  B.,  Il  Bruto  Minore  e  T  Ultimo  canto  di  Saffo,  canzoni  di  G.  Leopardi.  Na- 
poli, Perrotti,  1880. 

Mestica  G.,  La  conversazione  letteraria  di  G.  Leopardi  e  la  sua  Cantica  giovanile 
noma.  Barbèra,  1880. 

Moretti  A.,  Commedie  acelte  di  G.  B.  Molière,  traduzione  italiana.  Milano,  Tre- 
ves,  1880. 


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fascicolo,  come  ciascun  Tolcune,  è  posto  in  vendita  anche  separatamente. 
Se  ne  è  pubblicato  quanto  segue: 

Voi.  I.  Proemio  generale  e  Saggi  ladini  di  G.  I.  Ascoli,  con  una  carta  dialet- 

tologica L.  20  — 

Voi.' li,  1:  Postille  etimologiche  di  G.  Flechia;  Sul  De  Vulg.  Eloquio,  di  F. 
D* Ovidio:  Sul  posto  che  sjpetta  al  ligure  nel  sistema  dei  dialetti  italiani 
di  O,  I.  Ascoli *» p6  — 

Voi.  II,  2:  Rime  genovesi  della  fine  del  secolo  XIIZ  e  del  principio  del  XIV, 

edite  da  N.  Lìvgo&ugoiorb »5  — 

Voi.  II,  3:  PoHille  etimologiche  di  G.  Plbchia;  P,  Meyer  e  il  franco-proven- 
xaley  di  GÌ  I.  Ascoli;  Ricordi  bibliografici,  dello  slesso;  Indici  del  volume, 
di  F.  D'Ovidio.        .        . .       .        .       »     6  — 

Voi.  III,  1:   Fonetica  .del  dialetto   di    Val-Soayia  fCanavese)^   di   C.  Nigra; 

Schizfi^franco^provenzali  à\  Oc.l,  A^coiA »     5  — 

Voi,  III,  2:  Postille  etinwlogiche  di  G.  Flbchia;  La  Cronica  deli  Imperatori 
Romani,  edita  da  A.  Ceruti;  Annotazioni  dialettologiche  alla  Cronica 
deli  Imperadori,  di  G.  I.  Ascoli »     7  50 

VoL  III,  3:  /  Divariati  Italiani  di  U.  A.  Canello;  lì  tipo  sintattico  <  homo- 
ille  ille-bonus  »  di  B.  P.  Hasdbu;  Indici  del  volume  di  F.  D'Ovidio  .       »     7  — 

Voi.  IV,  1:  Dialetti  romaici  del  mandamento  di  Dova  in  Calabria,  descritti 
da  G.  Morosi '.       .        .       .       .       .       .       .       »     4  — 

Voi.  IV,  2:  Il  vocalismo  leccese  di  G.  Morosi;  Fonetica  del  dialetto  di  Campo- 
basso di  F.  D'Ovidio;  Testi  inediti  friulani  dei  sec.  XIV  al  XIX,  pubbli- 
cati e  annotali  da  V,  Joppi    .        .       • »5  — 

Voi.  IV,  3:  Testi  inediti  friulani,  pubblicati  ed  annoi,  da  V.  Joppi;  Annota^ 
zioni  ai  Testi  friulani  e  CimelJ  tergestini^  di  G.  I.  AsroLi;  Articoli  varj, 
di  G.  FlechiA,  G.  Storm  e  G.  I.  Ascoli;  Giunte  e  correzioni  e  Indici  del 
volume,  dì  F.  D'  Ovidio »&  — 

Voi.  V,  1:  Ti?  Codice  Irlandese  dell'  Ambrosiana,   edito   e  illustrato   da  P,   I. 

Ascou,  voi.  primo,  fascicolo  primo,  con  due  tavole  fotolitografiche.       .       »     8  — 

Voi.  VI,  I.  II  codice  Irlandese  dell'Ambrosiana,  edito  e  illustrato  da  G.  I.  Ascoli^ 

voi.  secondo,  fase,  primo .        .        »  12  — 

Voi.  VII,  1:  Antica  parafrasi  lombarda  di   un  testo  di   S.  Crisostomo,  edita  da 
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chia ;  Articoli  vari  di  B.  Bianchi  e  G.  I.  Ascou ,     7  ^ 


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Coir  ultimo  fascicolo  uscito  è  compiuto  ranno  nn. 


Antonio  Costantini  gerente  responsàbile. 


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