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UNIVERSITY OF
TORONTO PRESS
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GIORNALE STORICO
LETTERATURA ITALIANA
VOLUME XXXVIII.
(2o semestre 1901).
ili -^
GIORNALE STORICO
DELLA
LETTERATURA ITALIANA
DIRETTO E REDATTO
FRANCESCO NOVATI E RODOLFO RENIER
VOLUME XXXVIII,
ORINO /y '
Casa Editrice
ERMANNO LOESCHEE
1901.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Turino - Ymosyso Bowa. Tip. di 8. H. • de' Kit. Principi.
FRATE PACIFICO
REX VERSUUM
Corone e panegirici non portan sempre fortuna ! Non l'han
portata nemmeno all'uomo che vogliamo studiare, il quale pure
gettò con animo risoluto la corona lontano da sé, e le lodi
chi gli avrebbe detto, povero frate, che un giorno de' tardi e
malsicuri nepoti l'avrebbero tolto fuori dalla pace del sepolcro,
e ricoperto di tutte le lodi di che l'Italia accademica del sei e
del settecento era capace? Ma intanto, per naturai reazione, fatti
scrupolosamente guardinghi, quanti studiano il periodo nel quale
egli pure visse e cantò, quando arrivano a lui sogguardano alla
sfuggita e tiran via : o cotesto frate che ci sta a fare nella storia
nostra ?
Ma tra le scettiche negazioni degli uni e le risolute afferma-
zioni di chi, beato!, sa invece di lui quanto bisogna a tesserne
una copiosa biografia, perchè non ci deve esser posto per una
disamina sincera e spassionata che porti all'accertamento, o,
quando occorra, alla negazione di tutti o di parte i fatti che
intorno a lui si asseriscono?
I quali purtroppo sono assai pochi per la nostra curiosità, e
non tali da permetterci di ricostruire la vita dell'uomo, la fisio-
nomia del poeta. 0 poco o molto però, le antiche leggende e cro-
OiornaU stortco, XXXVni, fase. 112-113. 1
2 U. COSMO
nache francescane di frate Pacifico parlano quasi tutte: e tutte
negli scarsi insegnamenti che danno di lui esattamente concor-
dano insieme.
Queste fonti sono note: la legenda di fra Bonaventura, la
2^ Cetani, lo Speculum perfectionis. Il loro valore non è certa-
mente lo stesso; valore però, per il riguardo nostro, ne hanno
tutte senza dubbio, non fosse altro perchè si compiono insieme.
Su Pacifico per fortuna non cade questione di parte: spirituale,
a dir cosi, o conventuale, che sia la fonte che ci dice di lui,
essa è pura sempre, quando egli è fuori dalle lotte di parte.
Attinsero da queste l'autore della Chronica XXIV generalium
e quello delle Conformilates, poco o nulla aggiungendo di nuovo.
Questo poco lo vedremo lungo la via, che qui non è il caso di
parlarne, come non è il caso di parlare della notizia che ci dà
Tommaso di Toscana nella sua Chronica, e che non ci pare del
resto cosi importante come pensa il Sabatier.
In quanto alle fonti ascolane, ne parleremo a parte in apposita
appendice. Non sarà male però se esprimiamo sin d'ora su di
esse il nostro risoluto giudizio: sono fonti del tutto inattendibili,
che hanno purtroppo intorbate le acque, disviato gli studiosi
dalla verità, e fatto sorgere cosi intorno all'umile fraticello quel-
l'aria di sospetto e di diffidenza, che forse del tutto non svanirà
mai più.
Cominciamo dunque dall'accertamento d'un fatto sul quale non
può cader dubbio, perchè scaturisce da tutte le fonti. Ci fu nei
primordi dell'ordine francescano un cantor e facitor di versi, che
'abbandonò un giorno il mondo, ove sin'allora aveva cantato e
goduto fama grande, per vestire l'abito e seguire la vita del
santo suo fondatore.
Quando? È difficile determinarlo con precisione; ne' primordi
dell'ordine, certo.
Luca Wadding, al quale ritorniamo ora più spesso che alcun
tempo fa non paresse, scrisse: nel 1212(1); ma è data da un
(1) Avmalei, ad a. 1212, n.
FRATE PACIFICO 3
^pezzo abbandonata per quella che è parsa più certa del 1221. Pro-
pose quest'ultima, pensando ad un errore materiale d'amanuense
nel Wadding, il padre Gian Alfonso da Mendrisio, che — sia detto
di passata — discorse di frate Pacifico con critica per i tempi
suoi dotta ed accorta, e primo portò avanti dai manoscritti l'au-
torità della 2'- Celani e della Cronaca dei 24 generali (i).
Il ragionamento del da Mendrisio riesce a tutta prima persua-
dente. La 5* Celani scrive che quando poeta e santo s'incontra-
rono la prima volta, « beatus Pater venerat illuc [ad (juoddam Mu-
« nasterium Pauperum inclusarum] ad Alias cum sociis suis (2) ».
Era venuto insomma, dice il da Mendrisio, ad un convento di
Clarisse, le quali nel '12 certo non ci potevano anco essere. Di
qui la facile correzione da lui proposta: 1212 > 1221.
Che conventi di Clarisse nel 1212 non ne fossero ancora sorti,
non c'è dubbio; ma non c'è dubbio anche che la data del '21
fa a pugni con la storia francescana. Il da Mendrisio del resto
fece dire al da Gelano quel ch'egli s'era ben guardato di dire:
Quoddam munasterium pauperum inclusarum. Che determi-
nata specificazione c'è in questa incerta perifrasi per poter sosti-
tuire con sicurezza un: Clarisse^ Confessiamo tutt'al più chela
dizione è ambigua: lo aveva del resto già avvertito fin dal suo
tempo San Bonaventura, e risolutamente corretto l'equivoca frase
in un semplice: monasierio quodam.Di che ordine egli non sa,
come il Celano non sapeva.
Perchè il da Celano quando vuol parlare d'un ordine, che infine
è lo stesso cui egli appartiene, sa ben egli come appellarlo: ordo
pauperum Dominarum (3). Il quale del resto è il nome che
compare ne' più dei documenti del tempo: elle poi le Clarisse con
(1) Fr. Gian Alfonso da Mendrisio, minore osservante, Yiia del b. Pa-
cifico Divini da S. Severino, Lugano, per gli Agnelli, 1786. Appendice,
pp. 194-202.
(2) 2» Celani, 3, 49.
(3) 1=» Celani, 18, (1, Vili) e ordinem dominarum pauperum, ih., 116
(li, X); che se ciò non basta, nella 2» Celani, 3, 132, c'è un intero capilplo
intitolato: De pauperihus dominahus.
4 U. COSMO
anche maggior precisione e modestia si chiamavano da sé Pau-
peres Sorores. Ma incluse mai e l'aggettivo aggiunto dal Gelano
serve bene a precisare che se povere le monache rinchiuse in
quel monastero erano forse, Clarisse certo non erano (1).
Ma se ad alcuno questo parrà un arzigogolar di nomi impotente
a indur una salda persuasione nell'animo, la storia francescana
negli anni avanti il 1221 è li per provare subito Timpossibilità
di questa data.
Non è questo il luogo di raccontar le condizioni e gli avve-
nimenti dell'ordine francescano nel 1217; vegga altri se vuole
nell'Ehrle e nel Sabatier, per citare i due ultimi che si sono occu-
pati dell'argomento, la narrazione particolareggiata dei fatti. Ma
fatto certo è che dopo il capitolo delle stuoie, nella Pentecoste
(14 maggio) del 1217, ove fu fissato di mandare fratelli ad evan-
gelizzare tutte le terre della Cristianità, frate Francesco in per-
sona si mosse per l'alta terra di Francia. La amava, voleva
morire in lei; lo dice a noi Tommaso da Gelano (2). Ma a Firenze
il cardinale Ugolino non lo lasciò proseguire più oltre: « Et sic
«sanctus redire compulsus, misit in Franciam perfeclissimum
< suum fratrem Pacificum, qui primus ibi ministerii offlcium
« gessit, et illam provinciam proinde gubernavit » (3).
Se dunque del '17 o tutt'al più, ed è già uno sforzare le date,
sui primi del '18, San Francesco poteva mandare fra Pacifico, in
vece sua, a missione alla quale egli stesso voleva andare, vuol
dire che cotesto frate aveva già potuto accaparrarsi del santo
(1) Per le gravi difficoltà di questi nomi (si badi che raggiunto recluse o
incluse ritorna invece nelle Rolle Pontificie) vedi specialmente: Ed. Lbmpp,
Die Anfdnge des Clarissenordens^ in Zeitschrift fùr Kirchengeschichte^
t. XIII (1892), pp. 181-245; Sabatier, Speculum, pp. 320-21.
(2) 2* Gel., 3, 129. Gonfr. Bonav., 131.
(3) Chronica XXIV generalium ordinis minorum, in Analecta frari"
ciscana, HI, 10. Gfr. Anal. fìrane., II, 9, n. 5 e p. xxx, n. 3. ~ Gfr. Ehrlb
in Zeitsch. fùr Kathol. Theologie, anno 1887, XI, 725 e seg. — Sabatier,
Bistoire, etc., p. 232 e seg. E per tutti, Sabatier, Speculum perfec, p. 122
e nota.
FRATE PACIFICO 5
l'afifetto e la fiducia, vuol dire che era già ormai passato del
tempo dacché egli era entrato nell'ordine.
Quando dunque c'entrò? o quando, che fa lo stesso, avvenne
la sua conversione dal mondo e dalla poesia?
Tutto c'induce a tenere per esatta la data del Wadding o a
prolungarla, volendo concedere molto, d'un anno : 1212 o '13(1).
Nell'accensione meravigliosa del suo spirito, frate Francesco
ardeva di stringere a sé il mondo intero, per farlo tutto devoto
del Signore suo. E abbandonò l'Italia, cavaliero d'una nuova
crociata, la crociata dell'amore. Ma la tempesta lo buttò sulle
spiaggie della Schiavonia e di là nell'inverno dal '12 al '13 egli
ritornò all'Italia sua. L'Italia non aveva meno bisogno che le
terre degli infedeli d'essere tornata a Dio.
Era la primavera del 1213 e la parola del frate calda di fede
e di amore risonò per le città e per le campagne della Marca.
Nella Marca egli era stato già altra volta con Egidio; fioriva
anche allora la primavera ed erano da quel giorno passati ap-
pena quattr'anni (1208) (2); non ne aveva raccolto però che
amarezze ed insulti. Questa volta non fu cosi. In quegli anni
d'esercizio la parola di Francesco si doveva essere addestrata
alla predicazione, e poiché usciva calda dal cuore scendeva anche
(1) Chi seguisse la cronologia della Chronica Gener. Min. potrebbe anche
scrivere che fra Pacifico entrò nell'ordine dell'll [An. frane.., 111,7); data
che confermerebbe la Chronica del Glassberger {Anal. frane, II, 7) che
deriva evidentemente dalla prima, quantunque aggiunga qualche leggera mo-
dificazione più di forma che di sostanza. Nel bello, quantunque poco cono-
sciuto suo lavoro, Appunti critici sulla cronologia della vita di S. Fran-
cesco (Oriente Serafico, Rivista Sacra francescana^ a. YU, 1895, p. 104), il
povero P. Patrem mostra di propendere per il 13, e quantunque non ne
dica la ragione, l'autorità grande dello studioso a noi è di conforto non poco.
Ad ogni modo la conversione si spiegherebbe sempre verso i primi tempi
dell'ordine, mai in avanti. Ma ci fu tra il primo viaggio nella Marca e
quello che noi crediamo secondo (1212?) un'altra escursione in mezzo? 0 la
conversione di Pacifico avvenne prima che San Francesco salpasse per la
Schiavonia?
(2) Gonf. Patrem, 1. e, pp. 334-35. — Tre Socii, 33-34. Il Van Ortroy
non crede in questa prima spedizione apostolica del santo e osserva che la
1* Gel. (29-30) contradice formalmente ad essa (Anal. Boll, XIX, 174).
Al nostro racconto il fatto però importa poco.
6 U. COSMO
profonda nei cuori. < Statim namque quamplures boni et idonei
«clerici viri et laici, fugientes mundum et diabolum viriliter
€ elidentes, gratia et voluntate altissimi, vita et proposito eura
« secuti sunt > (1). to dice a noi, ed è preziosa testimonianza, il
da Gelano nella prima sua vita. E quel clerici viri et laici a
noi, per un cumulo di ragioni che chi sia un pò* addentro negli
studi francescani troverà immediatamente, vuol dire: uomini dotti
ed ignoranti. Se non forse è parola che va presa nel senso suo
pregnante e mentre accoglie il significalo che noi le abbiamo
dato, non esce da quello più comune e proprio.
Il tempo che «ingrediente ipso aliquam civitatem, letabatur
« clerus, pulsabantur campane, exultabant viri, congaudebant
« femine, applaudebant pueri et sepe ramis arborum suraptis
4: psallentes ei obviam procedebant » (2) non era forse anco ve-
nuto, ma che la sua parola si traesse ormai dietro turbe di gente
avide di udirla, parmi non si possa punto dubitare.
Cosi sempre lodando il Signore e predicando il santo arrivò à
S. Severino. L'indicazione del luogo là dà primo Bonaventura,
ma è indicazione cosi precisa e cosi rispondente alla verità dei
l'atti, che parmi si debba senz'altro accettare (3). Specie chi pensi
alle informazioni dì Bonaventura, attinte direttamente sui luoghi
e da chi era in caso di saperle. E se ne venne — come s'è ve-
duto — a un monastero di donne fuori dalla città. Doveva esserci
qualche festa a quella chiesa; certo l'uomo che fu poi fra Paci-
fico c*erà venuto a veder una sua parente con un codazzo d'amici.
Io penso a una dì quelle sacre di campagna in primavera 0 in
autunno, a cui i giovani corrono a frotte: davanti a tutti uno,
col suono del suo stromento e con canti e con lazzi fa corta la
via. Nel Marchigiano lo chiamano ancora il poeta 0 il buffone:
trasformazione forse non ultima dell'antico giullare.
Il santo predicava e tutti erano ad udirlo, ma fra tutti o per
il vestito 0 per l'atteggiamento 0 per altra ragione che fosse,
(1) r Celani, 56.
(2) !• Celani, 62.
(3) Bonaventura, 50.
FRATE PACIFICO 7
l'uomo nostro doveva spiccare. Mi torna a mente la descrizione
di fra Guidotto : « bella persona, di sciamito vestito ed à un bel
« capo biondo, pettinato con bella corona di ghirlanda in testa
« et tiene in mano uno maraviglioso stormento, tutto dipinto et
« lavorato di vivorio acconcio et guardato » (1). Tantoché il
santo in mezzo alla folla, o a parte più tardi, si rivolse diret-
tamente a lui, e gli parlò quelle parole che egli sapeva. Gli
agiografi parlano d'una mirabil visione che ebbe l'uomo in quei
momenti o poco prima. Vide dunque S. Francesco segnato da due
spade a mo'di croce. La spada veramente egli la senti nel suo
cuore e fu la parola del Santo ; il giorno dopo vestiva una rozza
tonaca anch'egli, e cambiava il suo nome in quello più umile e
più espressivo di frate Pacifico (2). Il nome glielo impose il Santo
stesso, vedendolo, come dice bene Bonaventura, « ab irrequietu-
« dine seculi ad Ghristi pacem perfecte conversum ».
Ma ora le domande s'incalzano anche più rapide nella mente,
e purtroppo come Don Abbondio noi poco o nulla sappiamo ri-
spondere. Chi era costui?
Gli storici ascolani non si confusero per cosi poco e trovato
neirUghelli un nome d'uomo e una patria, li appiopparono senza
altri riserbi al nostro Pacifico : Guglielmo da Lisciano. Poco ci
vuole ad appagare la curiosità erudita di chi per facile ambi-
zione municipale ha già in testa la risposta ancor prima di for-
mulare nettamente la domanda. Ma chi cerchi nelle testimonianze
del tempo, e solo in esse, la verità, deve, per quanto a malin-
cuore, confessare che il nome dell'uomo noi non sappiamo e non
sapremo forse più mai. In quanto alla patria, è già molto se si
concede che probabilmente egli fu marchigiano. Erat in Marchia
Anconitana, dice il da Gelano (3) e la concessione troverebbe
facile conferma nel fatto che Pacifico — per intenderci lo chia-
(1) Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli. Città di Castello, Lapi,
1889, p. 159.
(2) 2* Gelani, 3, 49. — Bonav., 50-51.
(3) 2» Celani, 3, 49.
8 U. COSMO
meremo d'ora in avanti cosi — era venuto al monastero, ove
s'imbattè nel Santo, per visitarvi una sua parente e insieme con
molti amici. Era ella monaca là dentro o stava li presso? Non
è dato di rispondere con certezza alla domanda. Bonaventura
che precisa il luogo dell'incontro, nulla ci dice sull'argomento,
anzi quasi quasi darebbe adito a pensare — e lo dette agli eru-
diti ascolani — che Pacifico venisse di lontano (1). Lo Speculum
tace e tacciono sventuratamente i ire Soci; cosi che Bartolomeo
da Pisa, che pur tanto seppe e tanto onesto scrupolo portò nelle
sue ricerche, rimane peritoso: credo quod de Provincia fuit
Marche (2). L'Arturo solo nel suo Martirologio ne sa di più:
hic. Picenus crai (3) ; ma con l'Arturo non siamo saliti sin dove
né volevamo né dovevamo salire.
IL
Dopo la patria, il mestiere, se nell'incertezza de' testi qualche
cosa é possibile di ricavare.
Tommaso da Gelano, è noto, é un retore che si compiace d'ogni
falsa eleganza di stile, onde il concetto esce spesso dai suoi pe-
riodi involuto di nebbia. Pur una cosa colpisce subito chi cerchi
in lui : lo sprezzo onde parla del vecchio Pacifico prima che la
parola dolce del Santo lo togliesse dalla via per la quale cosi
spensieratamente s'era messo (4). Concediamo pur molto all'effetto
stilistico con tanta cura cercato dal raccontatore, ma anche l'uomo
del quale egli scriveva e l'arte di che egli campava la vita do-
vevan essere bassi , perchè il raccontatore non si peritasse
di adoperare a rappresentarne la fisionomia morale parole cosi
(1) Bonaventura, 50.
(2) Conformitates, ediz. di Milano, 1510, 1. i", fruct. oct. e. 71 b.
(3) p. 283 (10 luglio).
(4) 2* Gelani, 3, 49.
FRATE PACIFICO 9
sprezzanti. Quale sia cotest'arte il frate non dice chiaro ma tra
mezzo a quel frascume si capisce eh' è l'arte de' versi.
Pacifico era dunque poeta? E Tommaso da Gelano credeva la
poesia strumento di dannazione? La poesia per sé stessa non era
nò sprezzata né dannata dalla Chiesa, e canti e suoni frate Tom-
maso doveva aver udito fiorire sulle labbra del Santo stesso. Ma
c'era una classe di persone che la Chiesa sprezzava e dannava,
e frate Tommaso sotto il cappuccio del Francescano rimaneva
sempre un ecclesiastico. Quale fosse il giudizio che gli eccle-
siastici davano della multiforme classe dei giullari, io non ho
bisogno qui di ripetere, che troppo esso è noto a chi si occupa
di tali studi: appaiati con le meretrici, e con le meretrici dan-
nati (i). Parlando del nostro uomo, Tommaso raccoglie jn una
frase gli elementi di questo giudizio: prostìtuerat se vanitati.
Ma scrivendo anch'egli di tal razza di gente — e sia questo, tra
i molti che si potrebbero fare, il solo ravvicinamento — il Sa-
resberiense malinconicamente esclama dell'età sua: cor prosti-
tuit vanitati (2). Ecco perchè « l'arte dei giullari è tutta
« dannata dai santi » ; ella infatti « non dice altro che menzogne
« e vanitadi e villanie d'altrui » (3). Prostituito dunque al mondo
e «caduto nell'abiezion » della perdizione era Pacifico (4).
(1) Cfr. Acta Sanctorum, octobris, IX, 698 e seg.; Gautier, Les épopées,
II, e. 21, 185-209. Anche qui in Piemonte del resto e non da gente di chiesa,
lo stesso. Cfr. ad es. De zuglaris autem et zuglaresis et meretricihus dictum
est^ ecc. Historiae patriae monumenta (Torino), v. XVI, 22 XL, col. 1113.
Per i giullari di Sicilia v. Cesareo, Le origini della poesia lirica in Italia,
Catania, Giannetta, pp. 31-37. Ed ora mi piace rimandare anche a quello
che ne scrive il Novati, Le Origini^ pp. 14 e seg.
(2) JoANNis Saresberiensis, Opera omnia, Oxonii, 1848. Polycraiici, 1. 1,
e. 8«, p. 43.
(3) Prediche del beato fra Giordano da Rivalto, Firenze, Magheri, 1831,
I, 124. E dopo l'esempio del giullare segue quello della meretrice.
(4) Vabiectus di fra Tommaso non corrisponde al nostro semplice abietto.
San Francesco infatti « miserum cogitat revocare, ne pereat qui abiectus
« erat », perchè non perisca chi ormai era caduto nell'abiezion della per-
dizione.
10 ti. COSMO
Tote sa vie est en ordresce
En puterie et en viltesce (1).
E abietti i compagni di lui, formanti la vanorum turba soda-
lium che insieme con lui eran venuti alla festa davanti il mo-
nastero. Che è parola non a caso ripetuta dallo scrittore: e
senza voler sofisticare sul fatto che sodalis è il nome che assume
il compagno del giullare (2), è bene però avvertire come il vo-
cabolo prese facilmente nel medio evo un senso spregiativo se
non anche addirittura cattivo. Cosi cattivo a volte, da arrivar
perfino a diventare sinonimo di eretico. Per amor del cielo, però:
che alcuno nella interpretazione del nostro testo non si sogni di
arrivar tanto avanti. Troppo avanti, forse, siamo arrivati noi
stessi ! A noi basta fermare che per quell'uomo il Gelano sente
commiserazione, per l'arte sua sprezzo.
Eppure sulla testa di quell'uomo, lo deve egli stesso il frate
con dolore confessare, s'eran posate le mani di un re a cingerla
di corona; eppure re si chiamava lui stesso quell'uomo. Fosse
pure re dei versi soltanto, in ogni modo re. Il medio evo fabbri-
cava volentieri dei re. Nelle lettere o ne' mestieri, tra le fatiche
del lavoro o fra i piaceri della vita, tu trovavi sempre un re (3).
Re dei canonici o dei ribaldi, de' cappellani o delle fanciulle amo-
rose — prendiamo la parola all'antico francese — dell'armi o
de' balestrieri, re della scuola o de' versi, questo nome significava
però sempre il primo dell'ordine, ed era sempre da chi ne aveva
il diritto attribuito (4). Anche il re di Torelore in qualche cosa
si distingueva: noi lo diremmo Geccosuda, ma nel medioevo: re.
11 nostro era re dei versi. Era titolo che egli stesso nella bai-
(1) P. Meyer, Le cheoalier de Dieu^ in BuUetin de la Société des an-
ciens textes^ 1880, p. 58.
(2) < Cantar quidam iocularis ipsa nocte cum sodali sqo apud hospitium
< dormitum ierat ». In Acta Sanct., septembris, I, 722.
(3) L. Passy, Fragments d'histoire littérairey Jehan Bretel, in Btblùh
ìègue de V Ecole des Charles, t. V, p. 497.
(4) Vedi DucANQE, alla voce Rea.
FRATE PACIFICO 11
danza dell'arte sua si era orgogliosamente assunto? Certo dinanzi
a tanta pompa l'umile nome di battesimo aveva finito a poco
a poco per scomparire, e certo di tali titoli « quod — come di-
« rebbe Buoncompagno — per diversitatem nominum sint magis
« famosi », la giulleria non era scarsa (1). Nel nostro caso però
tutto induce a credere che a Pacifico abbia concesso così alto
onore chi più d'ogni altro era in diritto di farlo: l'imperatore
in persona. Sul nome di questo si può, se cosi piace, rimanere
incerti: che una coronazione sia avvenuta non si può negare,
se non si riesce prima a provare che i testi francescani non
hanno a questo punto più alcun diritto di essere creduti. Co-
ronazione di giullare, s'intende, e forse in gara con i colleghi
suoi, e come usava nella terra che de' giullari era stata patria:
non imposizione sul capo augusto del poeta della sacra fronda
peneia. Albertino Mussato e Francesco Petrarca sono ancora lon-
tani (2). È lontano l'uomo cui per cultura larga e svariata, per
sentimento squisito dell'arte poteva « Romani post imperii lin-
« guaeque ruinam » sorridere di rinnovare una forma, onde si
(1) Giullari o trovatori poco importa. Cfr. ad es.: « Girautz de Borneill...
« fo apellatz maestre des trohadors » (Diez, Leben und Werke der Trou-
badour, Leipzig, 1882, p. HO). Jean de Gondé, più tardo però, si chiama
des menestrex le conte. (In Gautier, 1. e, li, 47). Bernart Amour: lo maestre
(Jahrbuch f. rem. Liiteratur, XI, 12). Adenes : le roi des menestrels (Hist.
littèr. de la France, XX, 675-718). Più notevoli perchè più antiche: Un
cantar di cui ci parla Galfridus Monmuthensis (1. !<>, cap. 2, citaz. del Du-
cange alla parola joculator) perchè « omnes cantores in omnibus musicis
« instrumentis excedebat. Deus (dominus?) joculatorum videbatur ». Sul
giullare che « dès la fin du XII siècie se désignait orgueilieusement par
« le nom (yArchipoete » (Du Méril, Poesie pop. du M. àge, p. 8) e sul
nome A" Archipoeta in genere, cfr. l'erudita nota del Novati, Indagini e
postille dantesche., ecc. a pag. 109.
(2) Cfr. le pagine bellissime che ha scritto da ultimo su questo argomento
F. Notati discorrendo de La suprema aspirazione di Dante (in Indagini ecc.,
pp. 73-113), col quale ci è caro di trovarci per questa parte pienamente d'ac-
cordo. Sulle coronazioni medioevali è inutile dopo il Novati consultare la
4. ponderosa compilazione Lancettesca », e invecchiati molto sono oramai gli
« excursus » del Rossetti, in Carmina Fr. Petrarchae, II, p. 365, e del-
l'HoRTis, Scritti inediti di F. Petrarca^ Trieste, 1874, pp. 13-15.
12 U. COSMO
diceva i padri nostri essersi compiaciuti. Perchè non ci può essere
dubbio; quando Pacifico nostro veniva incoronato, Federico II, se
era nato — ed è grande concessione l'ammetterlo — vagiva in-
fante nella culla. Di qui l'indeterminatezza degli antichi biografi
francescani: Federico II l'avrebbero rammentato facilmente; ma
risalire più su chi sapeva? Scrissero che l'imperatore l'aveva
coronalo e s'accontentarono; non il nome ma il grado importava.
Solo più tardi il Pisano volle al grado aggiungere un nome; ma
sbagliò e lo sbaglio suo accettarono molti, magari in contraddi-
zione con quanto avevano scritto. Ne è esempio luminoso il
Wadding, che pur avendo fatto entrare Pacifico, come entrò
realmente, nell'ordine, il milledugento e dodici quando Federico II
non era ancora imperatore, lo fece coronare nientemeno che
dodici anni dopo, nel ventiquattro,.... quando Pacifico, vecchio, a
Siena si beava delle contemplazioni delle cose altissime (1).
Se non il figliolo, il padre dunque. Perchè, scartato per necessità
di tempo Federico II, non resta che Enrico VI; chi non voglia
pensare ad Ottone, e sappia poi conciliare questo nome con la
storia e di questo imperatore e del nostro giullare.
Noi siamo avvezzi a riguardare Enrico VI attraverso i cronisti
nostri, specie meridionali, e la storia delle crudeltà sue efferate.
Ma per quanto la poesia occitanica sia rimasta in genere a lui
imperatore contraria (2), sta il fatto della geniale sua cultura,
onde un contemporaneo potè dire di lui, con un poco d'adula-
zione si, ma senza ombra di menzogna, che per effetto di essa
super omnes coetaneos videbaiur pollere {3). Quando non
ancora ventenne egli reggeva l'Italia per il padre Federico, si
raccoglieva alla sua corte e ci portava le idealità della propria
(1) Conformi tates, ediz. cit., e. 71.»' ; Arthur, Martirologium, p. 283; Wad-
ding, ad a. 1324, n. 32 e cfr. ad a. 1312. Da costoro, naturalmente, l'errore
degli storici moderni.
(2) Cfr. ToRRAGA, Il notaio Giacomo da Lentini^ in N. Antologia, ott.
1894, pp. 421-22.
(3) GoTiPREDi ViTERBiENSis, Pantheon^ in Mon. Germaniae Hist. XXII^
269. Vedi del resto questi giudizi raccolti in Toeche, Kaiser Heinrich VI
(Jahrbùcher der deutschen Gesch.), Leipzig, 1867, pp. 501-02.
FRATE PACIFICO 13
nazione il fiore della nobiltà francese, tedesca ed italiana. Vecchi
cavalieri prò' d'arme, poeti gentili d'amore erano gli amici più
cari del giovane reggente. Presso di lui Federico di Bitch e
Bligger di Steinach, del quale era insegna un'arpa; con lui Fe-
derico di Hausen, maestro insuperato fra quanti erano trovatori
di corte nell'atteggiare il canto e colorarlo alla foggia fran-
cese. « Tu esali il nettare delle muse » diceva l'inglese Gof-
ifredo ad Enrico quando lo pregava di volergli liberare il suo re
prigioniero: e se non poeta egli stesso, ammiratore delle dee
e diffondente intorno a sé un'attiva vita spirituale il giovane
Hohenstaufen era senza dubbio. Ma che letizia di suoni e di
canti quando Gostanza normanna mosse sposa allo svevo potente!
Piovve allora alla sua curia tutto il balaironum et histrionum
collegium, tutta la jaculatorum turba avida di regali.
I giullari a Enrico VI furono senza dubbio accetti; basta per
tutti l'esempio di quel Rupertus ioculator tanto avanti nelle
grazie del re da potere segnare come testimonio i documenti, e
che doveva essere in corte di tutto un po' forse: musico, gioco-
liere, cantore (1). Or s'altri non creda che de' canti e de' suoni
di Ruperto soltanto si sia rallegrata la corte di Enrico VI, è
proprio qui che noi dobbiamo cercare Pacifico nostro. Gli storici
ascolani in questo bene si apposero. E chi cerchi la parola degli
scrittori francescani più addentro che di solito non si faccia»
può anche aggiungere qualche altra notizia all'essere suo.
Inventar secularium. cantionum lo dice il Gelano. Ho io bi-
sogno di provare che cotesto inventore che Bonaventura ripete,
è adoperato nello stesso senso che in fra Salimbene quando
chiama Enzo cantionum inventar (2)? Nel senso che troviamo
(1) € Il mestiere di cantastorie si è appartato affatto da quello del gioco-
€ liere » scrisse, riferendosi a tempi più tardi Pio Rajna, Il cantare dei
cantari, in Zeitschrift fùr romanische Philologie, 223-24. Noi però adope-
riamo la parola giullare in tutta l'estensione del significato, e qui e altrove,
parlando di Pacifico.
(2) Chronica, I, 156; e Federico II lo dice inventar, e : sciehat.... cantilenas
etcantiones m^eniVe », 1, 166. Ancora: Mimus dictorum elegantium et
rythmorum pulchriorum inventar. Th. Wright, Latin Stories^ p. 127.
14 U. COSxMO
m' testi del tempo frequentissimo e risponde infine sotto ogni
rispetto al dicitore in rima dell'antico volgarizzatore opportu-
namente ricordato da ultimo anche dal Novati (1)?
Ma Pacifico non era soltanto un inventor cantionum, era
anche prinpeps canianliMm lasciva: non solo componeva i suoi
versi, ma sapeva anche come nessun altro cantarli^.suoi o d'altri
che fossero. Era la gaia scienza del tempo, e scorrendo le vecchie
biografie de' trovatori, questo è l'elogio in che c'imbattiamo ad
ogni pie sospinto : cantei et troì)et(2). Ma quantunque sapesse trop
ben violar e trohar e cantar, Perigon fo joglar (3); non lo
scordi a proposito di Pacifico nostro chi a troppo alto ufiScio lo
volesse innalzare. Sull'essere del quale, se ci rimanesse qualche
dubbio, ci conforterebbe a perseverare nell'interpretazione nostra
l'autorità dello Speculum, ove due volte solo, è vero, si parla di
lui, ma sempre con parola cosi precisa da togliere recisamente
ogni nostra incertezza. Perchè tutte e due le volte, coU'intenzione
manifesta di caratterizzare la condizione sua, è adoperata la
stessa forma, ed è detto di lui che in saeculo fuit nobilis et cu-
rialis se non addirittura un valde curialis doctor cantorum{4).
Nobilis et curialis sono gli aggettivi che insieme vanno nelle
scritture del tempo a proposito di cotesti cantores(^); ma chi
anche non sente che il doctor cantorum dello Speculum risponde
(1) « Uno grande dicitore in rima, il quale pello suo trovare bellissimo
€ era chiamato re dei versi e di canzone » (Novati, 1. e, p. 105 in nota).
(2) Per altri esempi cfr. D'Ancona, Musica e poesia nell'antico comune
di Perugia {N. Antologia, 1875, v. XXIX, p. 61 e altrove). Cfr. anche
ToRRACA, La scuola poetica Siciliana (N. Antologia, nov. 1894, p. 466). Nel
pensiero e nella frase l'elogio di P. Vidal è, in complesso, lo stesso: cantava
miels com del mon e fo bon trobaire : e lo stesso il Da Buti viene a dire
di Guglielmo II re di Sicilia, quando lo chiamava: buono dicitore in rima
excellentissimo cantatore.
(3) Raynouard, Choix despoésies originales des troubadours, t. V, p. 278.
(4) Sabatibr, Speculum ecc., pp. 108 e 197.
(5) BuoNCOMPAONo, a noi rimasto inaccessibile, in Gautier, Les épopèes
frangaises, 11, 109, di un arpatore vel rotatore : virum curialem pariter
et famosum. Cos'i Guidone di un hystrio : doctorem curialem laudabilem
atque nobilem. Gautier, li, 108 - Benvenuto di Casella; famosus cantor....
FRATE PACIFICO 15
nella sua precisa stringatezza alla frase pomposa di che il da Ge-
lano si serve ad indicare l'ufficio prima della conversione da
Pacifico esercitato?
Sul valore di doctor s' è fatto un gran discutere in questi
ultimi tempi da alcuni nostri valorosi maestri, ma anche dopo
i loro insegnamenti è lecito osservare, allargando un' osserva-
zione del d'Ovidio, che se « nel De Vulgari Eloquentia i
« doctores sono poeti » (1), prima di Dante i maestri non si peri-
tavano d'affibbiare questo titolo anche a persone di meno alto
affare che non siano i poeti da Dante nominati. Cultori di poesia
in ogni modo tutti quanti, qualunque fosse il nome che loro ve-
niva dato (2), e tali sempre da aver in se virtù di poterla
insegnare agli altri, se non direttamente, almeno con l'efficacia
curialis. Lo stesso lo Arnaldo: curialis vir Guillehertus versibus et prosa cu-
rialissimus (Henricus Kuntidonensis, De contemptu mundi, e. 1°, citaz. .
Ducange). e Salimbene sempre, onde ci dispensiamo dalle citazioni.
(1) Rassegna crit. d. letter, ital., II, 224.
(2) In: Bictamina rectorica magistri Guidonis; citazioni derivate dai luoghi
riportati in nota per altro scopo dal Gautier, II, 107-109: « Raimundum
« [hystrionemj doctorem curialem laudabilem atque notum >. Al: ^. Do-
« ctorem .... licentiare curavimus magnis donis quod cantando etc. », Un cu-
rioso riscontro si potrebbe trovare, come gentilmente mi faceva osservare
R. Renier, nel v. il della 2* cobla d'una chanson di Guglielmo Montànhagol.
Consapevole della propria originalità, il poeta afferma solennemente com'è
dato di parlare d'amore senza ripetere il canto di chi l'ha preceduto nel-
l'arringo.
Mas en chantan dizo Ih comensador
Tant en amor, que '1 nous ditz torn' a fays.
Pero nou es, quan dizo li doctor
So que alhor chantan no dis om mays.
(V. JuLES Goulet, Le trobQ,dour Guilhem Montànhagol., Toulouse, E. Privai,
1898). Non tutti i poeti dunque sono doctores, per riprendere la parola latina ;
doctor è il poeta nobilis et curialis, il poeta eccellente insomma dell'arte
sua. Il quale infine è il senso della parola in Dante. Gfr. anche De Lollis
in una sua recensione al lavoro del Goulet (Studi di filologia romanza^
Torino, 1899, VIII, 167). Chi guardi bene, del resto, i testi francescani
possono dare di per sé soli il preciso valore di doctor nel caso nostro.
II Gelano dice che Pacifico era rex versuum perchè : inventor cantionum e
princeps cantantium. Lo Speculum ci fa capire che rex versuum era
titolo di onore, ma tace che Pacifico fosse inventor cantionum^ perchè il
concetto gli pare implicito in rex versuum. Dice solo che egli era doctor
cantorum. Dunque : princeps cantantium = doctor cantorum, e poiché la
16 U. COSMO
dell'esempio. Tutto sommato dunque l'osservazione del Novati ri-
mane vera: «il significato primitivo di maestro rimase sempre
« il più comune » (1).
' Pacifico pertanto non era un giullare qualunque; ma dei can-
tores che allietavano la corte di Enrico VI, per abilità nel trovare
il motto e il suono il primo, se non addirittura il maestro loro.
Questa sua virtuosità ci spiega perchè frate Francesco — tanti
anni più tardi — composto il suo cantico voleva mandare per lui
e dargli compagni perchè l'andassero cantando per il mondo: il
cantico composto da frate Francesco egli doctor canto-rum lo
doveva intonare, mentre insieme doveva a' fratelli joculatores
domini, come un giorno aveva insegnato ai giullari profani,
insegnar a cantarlo. Questa virtuosità ci dice il favore onde era
circondato dal principe e dai compagni di lui; questa virtuosità
in tale luogo e in tale condizione di vita ci spiega la cerimonia
in onor suo compiuta e il nome che gliene era venuto. L'anno
della coronazione è impossibile precisarlo; certo non prima del
1186 né dopo il '90, quando il giovane Hohenstaufen già re, in-
sieme col padre, d'Italia, per la morte di questo cosi miseramente
spento nelle acque del Calicandro, assumeva le redini di tutto
l'impero. Allora — nota bene il Tocche — il gaio circolo dei Min-
nesanger si sciolse: Federico di Hausen aveva trovata la morte
anch'egli laggiù lontano nell'Oriente, ove la poesia e la fede al
suo imperatore l'avevano spinto, e se Blicher di Steinach, se
altri poeti comparvero ancora alla corte imperiale, il freddo che
veniva dalle stragi di Sicilia parve aver agghiacciato ogni fervore
di poesia. Ma negli anni della reggenza d'Italia, in quella spen-
sieratezza giovanile e quel culto dell'amore e dell'arte, rievocare
anche in Italia consuetudini fiorenti di là dall'Alpi e dal Reno,
frase dello Speculum è senza dubbio più precisa, esso ci dà la più sicura
indicazione dell'essere di Pacifico prima della sua conversione ; indicazione
che per la nettezza onde è espressa, per la sicurezza della frase spoglia
affatto d'ogni lume rettorico, ha tutti i requisiti della credibilità.
(1) Hendiconti del R. Jst. Lomb., S. II, v. XXX, f. IV, p. 213.
FRATE PACIFICO i7
nella dolce terra di Francia patria dell'amore e della poesia,
testimone il fiore della baronia delle tre nazioni," dovè parer bello
al giovine re (1) e anche politicamente opportuno. Io non dico
di puis alla corte di Enrico celebrati; ma un convegno di giul-
lari donde Pacifico, che di tutti aveva più chiara la voce e facile
la vena e della corte era musico stimato, usci vincitore coronato,
ci dovette pur essere. E dalla vittoria il nome: Rex versuum.
Il quale fece a poco a poco sparire l'antico; ma della vittoria
rimase insieme ricordo. Come spari quello del re che l'aveva
coronato, divenuto presto imperatore e presto sparito egli stesso
dalla scena del mondo; mentre più tardi la lontananza dei tempi
e la naturale suggestione che usciva da lui, per la luce della
poesia che l'aveva circumfuso, suggerì un altro nome: quello di
Federico II.
Ma furono italiani i versi onde al giullare venne l'onore di
tanto titolo? certo a conferirglielo ebbe più efficacia il canto che
la parola ; ma che la parola fosse in volgare pare molto proba-
bile. Poeta dotto Pacifico non era e il latino forse appena capi :
né che abbia trovato in provenzale parmi si possa ritenere,
chi pensi che la singolarità del fatto in quella età e in quella
regione più facilmente ne avrebbe lasciato memoria. Il Gelano
e Bonaventura lo dicono: invenior secularium cantionum. Se-
cularis non è volgare, ma il volgare è la lingua dei secolari in
opposizione alla lingua dotta dei chierici. Il volgare era capito
alla corte di Enrico VI e non dal re solo; tutti in ogni modo
capivano il canto a cui esso si sposava. E se di giullari l'Italia
allora non difettava (2), giullare contemporaneo di Pacifico dovè
essere quel toscano del quale ci resta in un codice Lauren-
ziano la rozzissima cantilena (3), e aggirantesi anch'egli, almeno
per qualche tempo, e poetante per le Marche.
(1) Per la cultura alla coite di Enrico VI abbiamo seguito Toeche, 1. e,
p. 504 e seg. Ce rimasto inaccessibile: Lachmann und Haupt, Minnessdngs
Frùhling^ citato dal Toeche.
(2) Cfr. Rajna, Le origini d. famiglie padovane, in Romania, 1875, p. 163.
(3) E. Monaci, Sull'antichissima cantilena del cod. Laur. S. Croce, XV,
Giornale siorico, XXX VIU, fase. 112-113.
18 D. COSxMO
Più sfortunato di lui, se non forse poi che si rese a Dio lasciò
deliberatamente cadere tutti i suoi versi, ricordo d'un' età di
peccato, Pacifico non ha lasciato una riga a ricordo dell'arte sua.
Non è certo una sventura per la storia della grande arte, ove
le cantilene dei friullari non hanno luogo; una perdita dolorosa
è però certo. <c Si poco conosciamo intorno alle condizioni delle
« lettere volgari in Italia prima del secolo decimoterzo, che anche
€ le briciole per noi acquistano valore » (1). Avrem.mo cosi più
compiuta la rappresentazione di « quel che dovette essere nel-
« l'Italia centrale la poesia volgare, che preluse all'avvenimento
« della poesia elaborata dai trovatori e dagli scolastici » (2). Però
anche cosi, spingendo le origini della poesia nostra più su che
comunemente non si faccia, è sempre intorno a questa casa di
Svevia che se ne ritrova alcuna parte. Ma mentre prima era
difficile a spiegare in modo naturale come ad un tratto intorno
a Federico II sbocciasse, per l'influenza grande di lui, addirittura
tutta una scuola poetica, ora possiamo facilmente capire come
anche qui ci fu un graduale svolgimento, cosi che partendo da
umili origini a poco a poco si arrivi fino allo splendore. Pacifico
purtroppo non è che un nome; ma è il nome che troviamo a
capo di quella che è stata la prima scuola poetica nostra; che
influenza abbia esercitata non sappiamo, ma sappiamo che nella
Marca ove visse e cantò, nacque puie e passò alcun tempo il
figliuolo di chi l'aveva coronato re dei versi. E se è vero che in
questa corte, prima ancora che Federico ci portasse tutto lo
splendore del suo genio, noi troviamo anche il nome d'un altro
poeta nostro antichissimo, Odo della Colonna (3); se è vero che
6, in Rendiconti della R. Acc, dei Lincei {CI. Scienze Morali)^ S. V, v. I,
pp. 131-43. Ma ora specialmente, Torraca, Su la più antica poesia toscana,
in Rivista d'Italia, a. IV, fase. 2, p. 229-49. Col quale naturalmente mi è
grande conforto il ritrovarmi d'accordo nelle conchiusioni di questo capitolo II
(cfr. Torraca, p. 246 sg!) per la riprova che, senza averla cercata, ne viene
alle mie asserzioni di ordine generale sulla poesia al tempo di Federigo il.
(1) Monaci, ib., p. 332.
(2) Monaci, ib., p. 341.
(3) Vedi la nostra seconda appendice.
FRATE PACIFICO 19
d'un' antichissima canzone nostra, la quale nelle Marche e nel-
l'Umbria dovette essere nota, noi possiamo con tutta sicurezza
fissare l'età come dei primissimi del dugento(l): allora per la
luce che l'un fatto spande sull'altro, non del tutto inutile è stata
la nostra ricerca.
III.
Ma dal giorno — ad usare un'immagine poetica dell'Ozanam —
che l'antico re dei versi celò la sua testa coronata sotto il cap-
puccio di S. Francesco, furono per lui sempre mute le armonie
che aveva tante volte destate?
La vita di lui da quel momento si confonde con quella del
Santo e de' suoi seguaci, e non ha più per lo storico della lette-
ratura l'interesse di prima. Pacifico del resto non era il primo
né fu poi l'ultimo dell'arte sua resosi a Dio.
Io non farò qui, che sarebbe vano e facile sfoggio, l'elenco dei
trobadors e ^q' joglars provenzali che dato l'ultimo melan-
conico saluto à Viróbar e à V cantar , cercarono la pace nelle
mura d'un convento: era storia frequente, e diceva la condizione
psicologica di queste povere anime di reietti (2).
A sentir Ugo da San Vittore, però, queste conversioni erano
spesso effetto di un momento di leggerezza e poco duravano :
facilmente il giullare veniva, facilmente partiva (3). E forse per
molti era cosi, per altri però la conversione fu principio di san-
tità. Ricordiamo per tutti quel Giovanni Bono di Mantova, che
(1) Vedi la nostra terza appendice.
(2) Vedi una lunga serie di citazioni riportate dalle biografie de' trovatori
in Gautier, II, 217-218.
(3) « Joculatores ante conversionem leves, cum ad conversionem veniunt
« saepe usi levitate, leviter recedentes » Hugonis de Sancto Victore, De
bestiis et aliis rebus^ in Patrol. lat. Migne, t. 177, e. 46.
20 U. COSMO
fu sino ai quarantanni giullare e si rese poi all'ordine degli ere-
miti Agostiniani (1).
Quattr'anni appena dopo la sua conversione noi già vedemmo
Pacifico nostro avviarsi, insieme con fra Agnello da Pisa, primo
ministro dell'ordine, nella terra di Francia. Ma non ci dovè stare
a lungo: se la data della lettera di frate Gregorio, ministro pur
egli dell'ordine in Francia, corrisponde a realtà (2), frate Paci-
fico l'anno dopo era già tornato in patria : certo negli ultimi
anni egli fu compagno del Santo.
Luminose immagini d'amore gli avevano scaldato l'estro poetico
ne* giorni suoi belli: visioni tutte piene di spiritualità, ma pur
sempre d'amore, gli sì accendono ora nel cervello infiammato da
fatti onde è spettatore. In una chiesuola abbandonala di San Pietro
di Bovara, nella vai di Spoleto, ove il Santo ha passato solo la
notte, egli è rapito il mattino in estasi, e vede fra le infinite
sedie del Paradiso una più bella, più lucente, più ornata di ogni
altra : è la sedia che era stata di Lucifero e sarà di frate Fran-
cesco. Inconscio preparatore d'una delle più luminose e più
malinconiche insieme fra le visioni politiche dantesche (3).
Altre visioni ancora rifulgono davanti all'anima dell'umile fran-
cescano ; ed egli vìve a poco a poco di questa vita oltre umana
e gli par di sentire la voce del Dio che gli spieghi l'ideai con-
tenuto e significato di esse (4).
Gli è che questi primi compagni del Santo ebbero realmente
come lui l'illusione di essere in diretta comunicazione con Dio.
Illusione che è il sustrato fondamentale psicopatologìco del misti-
cismo, ed è causa del meraviglioso che intorno alla vita di un
santo più tardi si sviluppa.
(1) Boll., Acta Sanct., octobris, t. IX, 701 e seg.
(2) V. pubblicata in appendice dal Sabatier, Specuhtm ecc., p. 332 • Mg.
(3) Speculitm, ed. Sabatier, p. 108-10. Cfr. 2* Gel., 3, 63 ; Bonav., 1W©.
Di qui la fonte di Paradiso, XXX, 133-37. Cfr. U. Cosmo, Noterelle fran-
cescane, 1', in Giom. Dantesco, III, 1-2.
(4) Speculum, ed. cit., p. HO in fine; 2* Cel., 3, 27.
FRATE PACIFICO 21
Sulla via delle visioni frate Pacifico si dovè mettere presto:
era da poco entrato nell'ordine quando nell'accensione della sua
fantasia gli parve di vedere sulla fronte del Santo un grande
ihau di svariato colore (1). Ma ben altri segni che di un povero
ihau egli doveva ammirare nel Santo suo: e con che ingenua
curiosità cercava di vederle quelle stigmate che dovevano fare
così dolorosi gli ultimi giorni del Santo e per lo strazio del corpo
e per la noia de' compagni e de' fedeli avidi di vedere l'ultimo
sigillo (2). Perchè l'ultimo anno di vita del Santo e' dovè essere
se non sempre, certo qualche tempo con lui: il Santo per la sua
pietà lo chiamava : pia madre (3).
Ma ne' giorni angosciosi, quando nell'anima del maestro fiori
spontaneo il cantico delle creature, Pacifico non doveva essere
in Assisi. Io non voglio qui — e non sarebbe del caso — entrare
nella spinosa questione che il Della Giovanna ha con tanto acume
e con tanta scienza risollevato. Ma poiché anche per lui sonvi
nello Speculum non pochi luoghi degni di fede, quel che ri-
guarda fra Pacifico mi pare senza discussione uno di questi. Il
luogo infatti non riguarda la composizione e il testo del canto,
ma dice semplicemente che quando San Francesco l'ebbe com-
posto « volebat mittere prò frate Pacifico qui in seculo vocabatur
« rex versuum et fuit valde curialis doctor cantorum et volebat
« dare sibi aliquos fratres ut irent simul cum eo per mundura
« predicando et cantando laudes domini ». E colui « qui sciret
« predicare melius inter illos, predicaret populo et post predica»
« tionem omnes cantarent simul laudes Domini tanquam jocula-
« tores Domini » (4). Se San Francesco « volebat mittere prò fratre
« Pacifico », questi evidentemente non era in Assisi, ma per santa
(1) 2* Gel., 3, 49; Bonav., 51, ed ora anche: Miracles de S. Francois
d'Assise par T. de Gelai^o, A.nal. Bolland., XVIII, f. Il, p. 115.
(2) Thomae Thusci, Gesta imperatorum et pontificum^ in Monum. Germ.
hht, scrip. XXll, p. 492; 2^ Gel., 3, 76.
(3) Thomae Thusci, I. e.
(4) Speculum, p. 197. Gfr. quel che dice la Franceschina , in Monaci,
Crestomazia^ p. 31.
22 U. COSMO
obbedienza fermato in qualche altro luogo. Ora la 2* Celarti che
in questo punto, anche per chi creda nelle sue parentele con lo
Speculum, è da esso del tutto indipendente, presenta Pacifico a
Siena nella primavera del '26. L'accordo de' due testi è prova
della loro veridicità; e mentre ci consente di trarne un nuovo
fortissimo argomento per l'esattezza di quanto scrive a questo
punto lo Speculum sull'operato di San Francesco, ci consente
anche di pensare che Siena fosse il luogo al frate assegnato dopo
il suo ritorno dalla Francia. Quivi appunto il Santo, ch'era ve-
nuto a curarsi il suo male d'occhi, lo dovè rivedere. Il cantico
delle creature era stato composto nell'autunno dell'anno avanti
e frate Pacifico non l'aveva probabilmente ancora udito. Queste
di Siena dovettero essere del resto ore di soave intimità fra i
due uomini (1); il vecchio joculator dispetto a Dio, il nuovo che
per amore di Dio si voleva fare dispetto agli uomini. Ma a fra
Pacifico i ricordi del passato dovevano riuscir tormentosi, come
d'un tempo mìseramente perduto e che solo le penitenze aspre
potrebbero cancellare davanti al Signore. Io non so se egli si
possa identificare col frate qui fuerat in seculo citarista e
al quale San Francesco a Rieti prima di mover verso Siena,
chiese che gli sonasse sulla chitarra rersum honestum. L'in-
certa notizia che del frate è data e che per Pacifico il Gelano
non avrebbe usata, non permette secondo ogni probabilità l'iden-
tificazione; ma la risposta del frate riluttante ad accontentare
l'ingenua volontà del Santo parmi dipinga quale dovè in tante
altre circostanze essere il sentimento di Pacifico: « verecundor
« non modicum, pater, timens ne levitate hac suspicentur ho-
« mines me esse tentatum » (2).
Dopo quanto abbiamo detto, è quasi inutile l'osservare che a
noi non par nemmeno valga la pena d'essere qui, nonché com-
battuta, riferita l'asserzione di coloro che prima e dopo TOzanam
(1) 2* Gel., 3, 76; Thomas Thusci, 1. e, p. 492.
(2) 2» Gel., 3, p. 66.
FRA.TE PACIFICO 23
vollero che il Santo « quando improvvisava le sue cantiche, desse
« il carico al novello convertito di recarle a metro più esatto » (1).
Come se frate Francesco sentisse il bisogno di costringer dentro
gli artifizi della pedanteria nostra il sentimento irrompente dal
cuore ; il cuore ingenuo che non conosceva altra legge fuori
che l'impulso proprio.
Ma questo impulso fece balzar mai dal cuore del vecchio gio-
coliere la strofe laudativa del Signore o del maestro? Dalla lauda
alle creature per venire a quelle molte di Jacopone corre in
mezzo un tratto lungo di via; ma è via incerta per la quale noi,
almeno perora, non ci sappiamo avventurare. Pur sarebbe proprio
da gridare al miracolo se l'ardito che la tentasse, s'imbattesse
in una loda, in una preghiera qualsiasi uscita dalle labbra di
Pacifico nostro? 0 se il nome, che è più probabile, non trovasse,
dicesse almeno: qualcuna di queste laudi deve infine essere
uscita da lui? Sono domande e non altro: il Pacifico, che noi
conosciamo in questi che pur dovettero essere gli ultimi anni
della vita sua, è un frate dimentico di sé nelle ebbrezze della
visione d'un rozzo crocefisso (2) e forse e più nei ricordi della
visione reale ch'egli aveva avuto delie stigmate impresse da un
amore bruciante nel corpo sfinito del maestro suo. E quasi più
altro non sappiamo: nella loro infinita umiltà questi cavalieri
dell'ideale par abbiano fatto di tutto per occultarsi a' nostri occhi.
A Siena certo egli era ancora nell'agosto del '27, quando Papa
Gregorio, scrivendo alle monache di Santa Maria, che s'erano
congratulate con lui della sua esaltazione alla sedia di Pietro, le
afl3dava al figliuolo suo Pacifico nell'amor di quella croce davanti
alla quale pontefice e frate piegavano umile il capo tutti e due.
Abbeverata di fiele l'anima grande del pontefice, sereno il frate,
al quale non fremevano intorno le torme de' novi crocifissori di
(1) OzANAM, / poeti francescani, trad. del Fanfani, Prato, Alberghetti,
1854, p. 66.
(2) Thomas Thusci, 1. e, p. 492.
24 D. COSMO
Gesù (1). Il frate alle pie donne del monastero, ai fratelli, era
oggetto già di venerazione. E qui in Siena ne' primi anni dopo
il '30 dovè incontrarsi con lui e chiamarsi beato d'averlo cono-
sciuto Tommaso Toscano, autore di quella Chronica che ab-
biamo in quest'ultima parte messa tante volte a partito. Di
Tommaso poco disgraziatamente sappiamo (2); ma poiché egli
nel '45 era cosi avanti nella stima dell'ordine da poter accompa-
gnare frate Bonaventura, generale ministro, al concilio di Lione,
e l'opera sua si estende fino al 1278, nel qual anno o nell'anno
appresso fu finita di scrivere, non par davvero peccare di so-
verchia temerità la supposizione nostra, che appunto in questi
anni intorno al '30 abbia egli, giovane novizio, conosciuto il vec-
chio compagno del Santo.
Giorni tristi correvano allora per l'ordine : quelli che del Santo
erano stati interpreti e soci si tenevano quasi tutti stretti al-
l'ideale che con tanta fede egli aveva proseguito; ma di loro
stessi alcuno e de' nuovi moltissimi cercavano e s'avviavano a
nuova forma di vita. Generale dell'ordine era frate Elia: grandi
idee certo gli infiammavano il cervello, e non gli mancava la
forza per attuarle; solo che le idee sue non erano più quelle del
Santo, anzi ai compagni fedeli di questo — torto o ragione che
avessero ciò non importa — ne parevano addirittura la negazione.
Prosecutori d'un ideale altissimo, e che solo a pochissimi è dato
raggiungere, questi amanti ostinati di Madonna Povertà difesero
la propria fede con l'animo di quegli antichi paladini, onde il Santo
tante volte aveva loro parlato. Ma frate Elia li disperse: «fratres
« sibi resistentes bine inde dispersit » (3).
S'era la voce di Pacifico come quella di tanti altri alzata a
protestare? Vecchio era, ma le energie ribelli dell'uomo antico
non dovevano in lui essere ancora spente tutte. E se veramente
(1) Bullarium Franciscanum, Romae, MDCCLIX, t. I. 33-34. Cfr. Rai-
NALDUS, Annales, ad a. 1227, nn. 64, 65.
(2) Vedi nei Monumenta^ 1. e, p. 482-84, raccolto quel poco che si sa dì lui.
(3) Analecta franciscana, 1, 18.
FRATE Pacifico 25
parlò, egli che del Santo era stato compagno e cui il papa aveva
additato alla venerazione dei Senesi, dovè bene sentire e far sen-
tire che grande in Siena era l'efflcacia della sua parola. Certo,
vecchio ornai abbandonò la città donde forse sperava di raggiun-
gere presto il maestro suo: una lettera di frate Elia, generale
ministro, lo mandava per santa obbedienza nel Belgio lontano (1).
Di là dall'Alpi era andato un giorno — erano ormai più che sedici
(1) Dove finì i giorni suoi frate Pacifico? Nessuno ha risposto mai con
certezza alla domanda. Si può intanto escludere con sicurezza che sua tomba
sia Venezia, e l'epigrafe « Anno Domini MCGGGXXXII » dal Rodulfo ri-
portata in Wadding, ad a. 1212, n. XLII, si riferisce sicuramente ad un altro
Pacifico pur dell'ordine dei Minori, per il quale cfr. Bollano, die VI* Junii,
802-3. Il Papini {Notizie sicure ecc., Firenze, 1822, pp. 141-42) sospettò si
potesse identificare il Pacifico nostro con quel Pacifico « uomo di grande
« santitade » del quale è così poetico il racconto in Fioretti^ cap. XLVI.
(Vedi lo stesso racconto in Chronica gen. ministri, ecc., ediz, cit., p. 213, e
in Conformitates, ediz. cit., carta LXXl). Secondo questo racconto Pacifico
sarebbe morto nel luogo di Suffiano; ma di un fratello suo di nome Umile
pur entrato nell'ordine non si fa menzione nelle cronache francescane ; le
Conformitates e la Chronica gen. min. nulla sanno della morte di Pacifico,
mentre è ovvio pensare che se uomo di tanta fama fosse morto nella Marca
sua nativa non così facilmente se ne sarebbe perduto il ricordo. E chi legga
specialmente le Conformitates, dove de' due Pacifici si parla e a poche carte
di distanza Tun dall'altro, sente subito che l'identificazione è impossibile. Per
noi getta un vero sprazzo di luce su tanta tenebra, e su esso abbiamo ri-
costituito il nostro racconto, quel che scrive il Gonzaga {De origine Sera-
phicae religionis, par. 3, in provincia S. Andreae, conventu IX, 1071), ri-
portato anche in Bollandisti, Jul. Ili, die decima, p. 173-74: « fuerunt
« etiam in hoc conventu [Lemnensi] litterae obedientiales eiusdem Pacifici,
« consignatae a fratre Helia, generali ministro: sed Franciae ministri Pro-
« vinciales eas hinc transtulerunt Peronam Picardorum ». La notizia ha
tutto l'aspetto della credibilità; non si capisce infatti la ragione d'una falsi-
ficazione, che in questo caso supporrebbe un falsario peritissimo della storia
francescana, tanto è perfetto l'accordo dei fatti. Si conservano ancora queste
lettere? Ecco una domanda alla quale non sappiamo per ora rispondere.
Certo è che nel convento di Lemps la memoria di Pacifico vigoreggiò
nei secoli: si diceva il convento fondato da lui intorno il 1220: una fonte
d'acqua saluberrima, e, nella fede degli abitanti, miracolosa, portava il suo
nome e, quel che è di più, extra gorum. si vedeva « vetustissimum monu-
« mentum, cum huiusmodi inscriptione : Sub hoc lapide recondita servantur
« ossa sacra beati Pacifici, ordinis Minorum, qui ipse primus fuit Provinciae
« Franciae minister » (Boll., l. e, p 172-73). Il dubbio è via che conduce
26 U. COSMO
anni — mandato dal Santo suo e ne aveva fatto le veci; ci ritor-
nava ora per aver creduto che la parola del Santo fosse a lutti
nell'attuazione della vita dovere strettissimo. Ambedue le volte,
in ogni modo, obbediente agli ordini di quella Regola a cui si era
per sempre legato. Dove andasse, nell'ignoranza geografica del
tempo, non doveva saper bene nemmeno lui. Lenips è un vil-
laggio n^Ua provincia di Liegi; un piccolo convento, dal tempo
e dalla cattiveria degli uomini distrutto, raccoglieva allora pochi
fratelli osservanti dell'altissima povertà. Lo dissero più tardi
convento eretto da lui stesso quand'era ministro dell'ordine in
Francia (1); se non lo fondò, certo fu dei primi ad abitarlo.
Quivi il vecchio mori; la pietà dei fratelli alzò sulla sua tomba
una rozza pietra che ne perpetuasse il nome; la generosità del
popolo ammirato di tante virtù non senti bisogno di canonizza-
zioni ufficiali, e lui giullare dispetto ai potenti proclamò santo
al cospetto di Dio.
Umberto Cosmo.
a scienza e sta bene: ma negar fede a tanti e così autorevoli monumenti,
voler trovare una falsificazione interessata in documenti che hanno tutta
l'aria della sincerità, è cascare in uno scettfcismo sistematico che impedisce
ogni ricostituzione storica per documentata che sia.
(1) Vedi Gonzaga, in Boll., 1. e, p. 173.
FRATE PACIFICO 27
APPENDICI.
I.
Le attestazioni ascolane.
Di frate Pacifico — ho scritto nel testo — non un verso, non una parola
ci rimane. Ma e i pochi versi — sei in tutto ^ che sulla scorta del Gan-
talamessa e del Lancetti parecchi riportano di lui? (1). È una storia curiosa,
che prova quanto possa sull'animo degli scrittori anche onesti il pregiudizio
cittadinesco, e vai la pena che brevemente si racconti.
Io non so che cosa scrisse e se nulla scrisse — che ne dubito molto —
Lino Diacono, antico cronachista di Ascoli, né che storie abbian dettato il
Bonfini o Quinto di Quintodecimo, compendiatore, a quanto si dice, della
storia Ascolana di questo. Ma so che nessuno mai vide o conobbe l'opere
loro, se pure ci furono; o a dir meglio dice di aver veduto di Lino e di
Quintodecimo qualche frammento l'Appiani, scrittore secentista d' una vita
di Santo Emidio patrono della città: e li cita ad ogni passo e deriva le in-
finite favole ond'è ricca la sua storia, l'Abate Francesco Antonio Marcucci,
unico fortunato mortale che ebbe tra mano i preziosi e da tutti invano ago-
gnati manoscritti. Il Marcucci, che un sicuro conoscitore della storia del suo
paese, il prof. Giuseppe Fuà a me dipingeva così : « uomo senza scrupoli,
« senza metodo critico, passionato, leggero, capace di ogni mistificazione ».
Due storici non volgari ebbe Ascoli nel secento delle cose sue: l'opera del-
l'uno è a stampa (2), dell'altro resta inedita nella biblioteca della città (3).
Ma né l'Andreantonelli, che pure de' minoriti ascolani in qualche modo
segnalatisi parla a lungo, ricorda quello che più degli altri sarebbe stato
(1) G. Gantalamessa Garboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti
della città di Ascoli, Ascoli, 1830, p. 23-31 ; Lancetti, Memorie intorno i
poeti laureati, Milano, Manzoni, 1839, p. 82-86.
(2) Sebastiani Andreantonelli, canonici asculgni Historiae Asculanae
libri IV, Accessit Historiae Sacrae Liber Singularis. Opus posthumum.
Patavii, De Gadorinis, 1673,
(3) Spino Tai.ucci, Delle antichità Ascolane. Ms. autografo nella biblio-
teca civica di Ascoli. Segnatura : Mss. n. 2.
do D. COSMO
famoso; né il Talucci là ove discorre (e. 62) della venuta di Enrico VI
nella Marca si sogna di accennare a frati Pacifici di sorta. Or pochi anni
dopo questi due valentuomini, Paolo Antonio Appiani, gesuita ascolano, pub-
blicò la sua Vita di S. Emidio (1). Uomo erudito l'Appiani fu certo, eru-
ditissimo lo chiama anzi il Crescimbeni; ma quel che siano in genere le
storie delle vite dei santi nel secento ognuno infarinato di letteratura sa
bene. E la Vita di S. Emidio è di queste. Non si canzona: gloria grande
di Ascoli è fra le altre molte di aver fondata Firenze (2); gloria non mi-
nima forse, certo in ogni modo non disprezzabile, il possedere la più antica
accademia d'Italia.
L'accademia dei Discordi, fra le infinite onde fu miseramente ricca nel
secento la patria nostra, sorse, secondo ogni probabilità, intorno il 1668,
dalla disunione degli Accademici Innestati (3); ma per l'Appiani non è così.
Egli aveva letto nell'Ughelli documenti autentici comprovanti il passaggio
di Enrico VI per Ascoli e l'amichevole protezione della curia imperiale
sopra la diocesi ascolana per merito di quel magister Berardo che fu poi
arcivescovo di Messina (4); aveva letto nell'Arturo che frate Pacifico era
Piceno. È poco, ma alla fantasia di un romanziere è bastevole. Nel 1187
Enrico VI arriva in Ascoli; per dove egli deve passare s'alzano archi trion-
fali che s'adornan de' ritratti dei cittadini più notevoli, sonano le musiche
e fra l'altro al magnifico signore si offre « l'erudito trattenimento di brieve
€ encomiastica orazione e d'altri più brevi componimenti poetici nell'italiano
€ idioma ». Proprio come usava nel secento. Fra i recitanti, inutile il dirlo,
c'è anche fra Pacifico; Berardo gli sta presso, lo porta poi con sé in Sicilia
e quando Federico II, ancor non nato, sarà da tanto, lo coronerà poeta.
4 Fu questa la prima volta, per quanto io truovo, e se ben si riflette al
< tempo, pronto a mutar parere, quando sen abbia maggior notizia, che
€ uscisse a farsi sentire pubblicamente in teatro la volgar poesia, benché
« rozza e balbuziente, perchè tuttavia nell'infanzia e in culla; e questa pure,
€ come in abbozzo fu la primiera d'origine fra le accademie d'Italia e forse
€ ancor di Sicilia, nel cui reame si stima che il mentovato arcivescovo di
(1) Roma, Zenobi, 1703.
(2) L. e, pp. 140-41.
(3) Vedi dei mss. autografi di Gaetano Frascarelli nella civica di Ascoli
il ms. 22 a p. 72.
(4) UoHBLLi, Italia Sacra^ Venetiis, Coleti, 1717, I, 459 e seg. Riportati
anche in Colocci, Antichità Picene, XIII, 1-8. I documenti originali si con-
servano e li potemmo vedere nell'archivio Capitolare della città.
FRATE PACIFICO 29
« Messina, fornito di belle lettere e grato singolarmente ad Enrico, a Gostanza
« e a Federico lor figliuolo, le introducesse (1) ». Meno male che a cosi
grosse notizie il gesuita temeva « d'essere accagionato di troppo amore verso
« la patria » !
La notizia, come volgarmente si dice, dovette far colpo. — Ma chi era
quel « famoso Pacifico » prima di vestire il saio francescano ? Perchè certo
facendosi frate egli aveva mutato nome: le leggende di S. Francesco su
questo punto non lasciano dubbio. Ci pensò un mezzo secolo dopo Giovanelli
Panelli d'Acquaviva, « uno dei primari medici della nobilissima città di
« Ascoli » come dice il frontespizio dell'opera sua (2). Non penò molto a
trovarlo: il documento che parla delle numerose largizioni di Enrico VI e
di Costanza imperatrice alla chiesa d' Ascoli a petizione del « reverendus
« Messine archiepiscopus Berardo » mette insieme con lui anche un « fideli'
« Guglielmus de Litiano ». Ecco il secondo ascolano diventato poi frate Pa-
cifico. Il Panelli svela i suoi dubbi all'abate Francesco Antonio Marcucci,
amoroso cultore delle istorie patrie, e questi subito tira fuori o meglio dice
di copiare dall'autentico manoscritto di un suo antenato, Niccolò, la conferma
sicura che «il nostro Vuillielmo » è proprio lui «Pacifico poeta». Più
ancora: un «frammento» di un suo «carme il primo fatto e sentito in
« Italia ».
Poiché il libro del Panelli è molto raro, vale la pena di riportare qui
quanto scrive il preziozo manoscritto di Niccolò Marcucci: « Nella venuta
«nel 1187 in Ascoli di luglio di Enrico VI re dei Romani figlio di Fede-
€ rico I Barbarossa imperatore gli furon fatti archi trionfali ornati con varie
« Imprese et Insegne et Iscrizioni dalli ascolani, come si cava da un « an-
« tichissimo manoscritto » di un mio amico, e gli fu recitata mxì orazione
« panegirica in lingua nostra italiana allora nascente e rozza (quale non si
« è mai ritrovata) e si suppone recitata dal nostro arcidiachiano Berardo poi
« arcivescovo di Messina, e un « Carme » italiano o sia cantico encomiastico,
« recitato dal nostro Vuillielmo poi Pacifico poeta, quale nella sua età avan-
€ zata fu frate e discepolo di S. Francesco. Ed ecco un frammento, che si
« ritrova del carme overo cantico di Pacifico, il primo fatto e sentito in
« Italia ».
« In laude Augusto Senor Henrico sexto rege de Romane, filio de Domene...
(1) Appiani, 1. e, 162-63.
(2) Memorie degli uomini illustri e chiari in medicina del Piceno, Ascoli
Ricci, 1798.
30 U. COSMO
« Friderico Imperatore, qui sta in ista civitate de Esculo cum multo suo
€ piacere e cum multa gloria et triumpho de civitate:
Tu es ilio valente Imperatore
Qui porte ad Esculan gloria et triumpho,
Renove tu, Sefior, illu splennore,
Qui come tanti Sole
Multi Rege in ista a Nui venenti
Civitate prima de Piceno
Ad iste menia lustraru le dia,
Javano grande Funnatore (1), et Pico
Restauratore de magna Provencia, (2)
Non ià come Serviiio et Fonteiu (3) I
Et crudelissimo Strabene, (4)
Ma un altro Julio Cesare Romano
Qui con Ventidio nostro Basso
In transenno, se firmò fra Nui, (5)
(1) Dal Saggio delle cose Ascolane e de* vescovi di Ascoli nel Piceno
Pubblicato da un abate Ascolano [Francesco Antonio Marcucci], in Te-
ramo, pel Consorti e Felicini, MDCCLXVl, derivo alcune note per modo di
dire storiche al carme stesso. Servono a spiegare qualche allusione non fa-
cile a capire da chi ignori la storia (?) della città e a provare le mie in-
duzioni. « Per quanto il Bonfini appresso Quinto ci dice, i Rabbini di Ionia
« sostengono francamente che i primi coloni d'Italia fossero Giavano e Ce-
« thim suo figlio, colla numerosa lor comitiva.... e che essi fondassero ancora
« la nostra città col nome di Escelon, cioè pianura imboschita di quercie >,
p. CLXXIII.
(2) « Scorsi molti anni venne il re Aiabbe o sia Pico, figlio di Cethim,
€ coll'esercito paterno de' Sabenghi o Sabini ad inquietare la repubblica dei
€ nostri Miresciti Ascolani Prese per tanto la città Ci fermò la sua sede
< e dette ad Ascoli e a tutta la Regione il titolo di Aiabitide o sia Picena,
€ facendo alzare per arma il Pico uccello ». Lin. Diac. in Comp. Bonf. ap.
Quint. ex Rabb. lon., luvenal, Strab. Plin. [sono le autorità (?) confermanti
il fatto!], p. CLxxiv.
(3) € Può leggersi in Appiano Alessandrino ecc come [al tempo della
€ guerra sociale] fossero in Ascoli trucidati Q. Serviiio proconsole, Fonteio
< legato e tutti quei Romani che vi erano », p. clxxx.
(4) «Così [può leggersi] come il fiero duce romano Cn. Pompeo Strabene
€ a' 25 di dicembre del 661 s'impadronisce di Ascoli (dopo che Guidacilio
< morir volle glorioso) diroccandola in gran parte dai fondamenti e facendo
< tagliare a pezzi colle scuri tante migliaia d'infelici nobili cittadini », ih.
(5) « Cresciuto intanto in Roma il ' nostro P. Ventidio Basso ' figlio del
FRATE PACIFICO 31
Ta es Henrico o comò Carolo Magno
Pipin et Viginesio Spoletano (1)
A nui poitanno sempit honore,
Ditanno nui de favore;
Fue viso allor el nostro Truntu
In signo esser tantu reverente
Reto se volvesse de sue acque
In transito de magne et alte Rege.
Omne gloria per Te se auge, Henrico
In Esculo, di quante prische fuera.
Iste anno de septe et. ...
Ingresso Titan face in Leone,
Eterno a nui Memoria tua
Per tua presentia et favore.
E con questa roba il buon Panelli credette definitivamente d'aver assicu-
rato ad Ascoli la gloria della lingua.
L'abate Francesco Antonio Marcucci continuava intanto la compilazione
del suo Saggio delle cose ascolane che uscì otto anni dopo in Teramo.
Miracolo davvero! Tutta la sorprendente dottrina storica che il nostro
« Vuillielmo » ostentava nel suo « carme » trovava la sua conferma e spesso
con le stesse parole e lo stesso atteggiamento di pensiero nel Saggio dell'abate
ascolano. Il quale del « nostro Guglielmino » — i vezzeggiativi non stanno
mai male specie in un abate del settecento — sapeva naturalmente vita,
morte e miracoli.
La recita davanti al grazioso sovrano fu fatta il 22 luglio e Guglielmo
aveva 29 anni; il carme era di 100 versi precisi. Non molti, ma fruttiferi,
che Guglielmo fu dichiarato nobile paladino e poeta di corte; e ventun anni
dopo (1303) a Palermo Federico lì ancora ragazzo lo proclamò solennemente
« duce P. Ventidio [e da Ascoli insieme con la madre menato a Roma in
« trionfo da Strabene] fu amicissimo di Giulio Cesare. Andò con lui alle
« Gallie, e con lui ritornando furono unitamente in Ascoli », p. clxxxi.
(1) « Indi Carlo invitando Peppino con Vinigiso [' il piissimo Vinigiso
« detto anche Guinichisio e Winchisio dai notai ' fu ' successore nel ducato
« di Spoleto ' del duca Ildebrando, p. ccx] dentro l'Abruzzo contro il nemico,
« sen venne in Ascoli coi suoi Palatini e con porzion del suo esercito. Du-
« fante la sua permanenza fece Carlo dar principio a tre signorili palazzi....
« Inoltre fece il pio monarca avanti la sacra tomba di S. Emidio quella ce-
« lebre donazione: 'Ego Karolus etc.'», p. ccxi.
32 u. COSMO
suo maestro e re dei versi italiani < per essere egli stato il primo di ta I
«professione in Italia». Gli altri poeti furono tutti «allievi della scuola
« Guglielmina ». Passano altri quattordici anni e Guglielmo « fa la strepi-
« tosa risoluzione » che tutti sappiamo. Morì « nella città di Lenze in Fian-
« dra agli otto di luglio del 1234 in età di anni 76 precisi » (1). Per dare
però maggior autorità alle sue asserzioni e provare che del carme varie
veramente erano le fonti ne pensò una di nova. Il provvidenziale Lino fu
pronto a soccorrerlo. « Lino attesta » che del « carme o sia canzone furono
« dispensate molte copie ». Di qui la gran varietà di lezione, di qui le dif-
ferenze del testo di Lino da quello di Niccolò Marcucci che egli abate
Francesco Antonio aveva dato al Panelli. Lino non ne riporta però che « il
« primo quaternario » e « in cotal guisa » :
Tu sé chillo valente Re e Sennure
Qui porte ad Esculan gloria et triumpho
Non Febo alluma tanto el nostro Trunto
Quanto Henrico da ve a nui luce et splennure (2).
Dopo di ciò io non ho più nulla da aggiungere. Che una serie lunga di
brave persone, le quali non ebbero agio di esaminare a fondo la questione,
abbiano abboccato la preda, si capisce facilmente, né é da moverne rim-
provero ad alcuno: per noi raccontar la cosa é giudicarla (3). Una gloria di
meno per Ascoli (e me ne dispiace); ma una spina anche di meno per chi
studi le origini della nostra letteratura.
(1) Vedi le pagine ccxxix-xxx, ccxxxvii-viii-ix.
(2) L. e, pp. ccxxix-xxxx.
(3) Che la cosa stia veramente così se ne sono del resto persuasi — e lo
diciamo non per nostra ambizione ma per loro onore — due egregi eruditi
ascolani : il prof. Giuseppe Fuà e l'avv. Cesare Marietti. Propendevano prima
ad accettare il racconto tradizionale [cfr. i begli studi: G. FuÀ, Gli studi
in Ascoli Piceno prima del i860, Ascoli, Cardi, 1898, p. 4, n. 6; C. Ma-
BIOTTI, Sul colle di S. Marco, Ascoli, Cesari, 1898, p. 16], ma indotti dalle
nostre ragioni i due egregi amici passarono sopra ad ogni pregiudizio locale
e si ricredettero. Ed ecco infatti, studiando sotto la guida del valoroso
maestro, due bravi scolari del Fuà rigettare in un loro opuscoletto ogni tra-
dizione del passato. Cfr. A. Albertini e A. Silvestri, Accademie letterarie
in Ascoli Piceno, Ascoli, Cardi, 1898, pp. 3-4.
FRATE PACIFICO 33
u.
Per un nome e per una data
nella storia delVantica nostra poesia.
4. La storia della lirica nostra è irta ancora di se, di ma, di forse. Ed è
« piena di lacune ». Lo dice un uomo che di queste ne ha colmate pa-
recchie (i).
I se, i ma, i forse s'addensano poi sopra qualche figura così, che « per
€ ficcar lo viso a fondo » conviene confessare che intorno a lei sono ancora
tenebre fitte. Odo della Colonna è una di queste.
Quel poco che ne sappiamo Tha riepilogato in capo alle due canzoni che
pubblica di lui — e sono le sole che conosciamo — il Monaci (2); l'ha no-
vamente riassunto il Cesareo (3).
Ma pur anche in quelle poche righe quante incertezze, per non confessare
addirittura ch'è tutta un'incertezza. È il Colonna per famiglia romano, come
vuole il Monaci, o, come il codice Vaticano attesta e il De Giovanni (4) e
il signor Empedocle Restivo (5) vogliono, messinese?
Certo le gravi obiezioni messe avanti contro la cittadinanza messinese dei
Colonna dal Monaci (6), cadono dinanzi alla risposta del De Giovanni :
VJhoannes de Columna Jurista scovato fuori dal Restivo come cittadino di
Messina sin dal 1129 prova non esser esatta l'ipotesi che i Colonna fossero
quivi venuti con quel Giovanni che fu nel 1255 eletto arcivescovo della città.
Dopo tali pubblicazioni parve al Parodi che « Odo della Colonna fosse
€ tolto a Roma per sempre » (7). Ma si può anche torlo a Messina per
darlo a Colupna forma latina della greca Stilo? Pro patria l'ha rivendicato
il signor Sinipoli Battaglia (8), ma l'afietto nobilissimo per il luogo natio
(1) Vedi ToRRACA, La scuola poetica siciliana, in N. Ant., nov. 1894, p. 465.
(2) Crestomazia ital. dei primi secoli. Città di Castello, Lapi, 1889, p. 75.
(3) La poesia italiana sotto gli Svevi, Catania, Giannotta, 1894, pp. 43-44.
(4) In Rendiconti della R. Accad. dei Lincei (CI. di se. m.), S. V, voi. I,
fase. 3, p. 190 e seg.
(5) La scuola siciliana e Odo delle Colonne, Messina, tip. Nicotra, p. 15.
(6) In Guido delle Colonne giudice di Messina , nei Rendiconti della
R. Acc. dei Lincei (CI. di Scienze morali, S. V, v. Ili, pp. 179-81).
(7) Bullettino della Soc. Dantesca, N. S. Il, 98. Incerto, ma proclive pur
sempre all'opinione del Monaci resta il Cesareo, Per un verso del Petrarca^
in Su le « Poesie volgari » del Petrarca, Rocca San Casciano, Cappelli,
1898, p. 203.
(8) Una rivendicazione letteraria prò patria. In Riv. calabrese, V, n. 46.
QiornaU storico, XXXYIII, fase. 112-113. 8
34 U. COSMO
non è certo il più avvisato consigliero in cosi intricate e cosi disputate
quistioni.
Dopo tanto battagliare la didascalia del codice Vaticano rimane ancora
Tammaestramento più sicuro, e noi, pur rispettando le ragioni ch'hanno
indotto maestri illustri ad altra sentenza, ci fidiamo ad essa.
Ma il « di Messina » del codice porta subito con sé una non lieve diffi-
coltà. 0 non lieve almeno pare a noi, nella poca nostra conoscenza dell'ar-
gomento. Perchè se € di Messina » Odo è realmente, come si concilia questo
accertamento con l'identificazione che l'industria erudita del Monaci vorrebbe
fare di lui con « quello stesso messer Odo che nel 1238 e nel 1241 fu se-
€ natore di Roma e che Bonifazio Vili, nella sua Bolla contro i Colonnesi
« (10 maggio 1297), dice morto da oltre quaranta anni e accusa di avere
« osteggiato la Chiesa insieme cum damnatae memoriae Frederico olim ro-
«manorum imperatore »?
La difficoltà non è per il Monaci, ma per coloro che non accettando da
lui l'origine romana del poeta, accettano poi la seconda parte così logica-
mente e strettamente con la prima connessa. Le ragioni e le notizie del
Monaci son di quelle però che paion subito persuasive: il nome Odo co-
mune tra i Colonna di Roma; nella famiglia non infrequenti gli uomini
di lettere; lui Odo stretto da vincoli con Federigo imperatore. Ma per
quanto verosimili, se queste notizie non rispondono a realtà, di Odo non
sappiamo più nulla, nemmeno una data che ci consenta d'orientarci nel mare
tenebroso.
In tanta incertezza una asserzione del Monaci pare a noi però ancora
probabile: «quando Guido esercitava l'ufficio di notaio e di giudice. Odo
€ aveva forse già cessato di vivere ».
Ci pare probabile per argomenti intrinseci alla poesia del nostro: poesia
che ha tutti i caratteri più spiccati dell'antichità.
« 11 suo modo di poetare — soggiunge il maestro illustre — è quello dei
«contemporanei del notaio, con i quali nel codice lo troviamo aggruppato».
L'attività letteraria del notaio, come appare dal bello studio del Torraca,
è da riportare al secondo quarto del dugento (1); ma per Odo l'esame delle
sue poesie nulla ci può suggerire di concreto. Là dove manca infatti l'allu-
sione al fatto storico, i criteri dell'arte e della linguistica appaiono subito
manchevoli a determinare una data sicura. E il Monaci stesso che pur vuole
(1) n notavo Oiacomo da Lentini, in N. Antol, 1" ott. 1894. Cfr. anche
la recensione di F. Pbllborini, .in questo Giornale^ 25, 113.
FRATE PACIFICO 35
del Notaro fare un caposcuola, rettamente osservava che di rimatori del suo
ciclo qualcuno forse è più anziano di lui (1).
È Odo di questi ultimi? Se i noti criteri del Monaci a determinare l'an-
tichità d'un poeta si potessero senz'altro applicare, senz'altro anche appari-
rebbe l'antichità di Odo.
Due sole canzoni infatti, e in un solo codice, ci sono rimaste di lui,
mentre è ovvio supporre che più larga dovrebbe essere l'attività sua poetica ;
il collegamento delle stanze è tale da mostrare in lui il poeta antico. Lo
mostra il motivo della più nota delle sue canzoni, dove « non c'è di lette-
< rario se non una leggiera vernice di linguaggio curiale, onde è appena
« velata la greggia naturalezza plebea del motivo popolare > (2), mentre il
motivo stesso né di Provenza o di Francia pare venuto (3).
Di fattura letteraria è parsa ad alcuno — tale anzi da stentar a crederla
opera della stessa mano — l'altra canzone: « Ristretto core ed amoroso » (4).
Eppure la differenza non è cosi grande come a prima vista parrebbe; e se
in: Oi lassa pianse una donna abbandonata, in: Ristretto core si lamenta
un « leale amadore » al quale per il « reo parlamento » di « noiosa e falsa
€ giente » è negato il « piacere amoroso > della donna sua.
Vibra anche qui quella nota calda di passione che tanto piace nel la-
mento dell'abbandonata; e se questa ricorda i giorni avventurosi quando
egli l'aveva « in celato » e le diceva le parole infocate; l'uomo non si pe-
rita di manifestare quasi direi brutalmente « la voglia » onde è preso e il
dolore del « disusare » il « piacere amoroso » della « vita » sua « plagiente >.
E non tardi più :
ca per lunga dimoranza
troppo l'adastia talento.
« Li rei parladori » gridin pure ; ella dia « confortamento »
a lu leali amadori (5).
Donna o uomo che piangano, è febbre insodisfatta di voluttà che li fa
parlare, sol che l'uomo discorre con più stentata ricerca della parola.
(1) Crestomazia^ p. 42.
(2) Gfr. Monaci, Per lo schema della canzone « Oi lassa innamorata > ;
Cesareo , Le origini della poesia lirica in Italia^ Catania, Giannotta,
1899, p. 89.
(3) Cesareo, Le origini, ecc., p. 59.
(4) Cesareo, Le origini^ pp. 58-63.
(5) Il cod. Vaticano e il Monaci leggono « E dare confortamento a li leali
€ amadori »; ma la necessità della sostituzione del singolare è evidente.
Cfr. anche Cesareo, loc. cit., p. 133.
36 u. COSMO
Or sarebbe proprio coatro le ragioni della storia chi pensasse che Odo è
poeta più antico di quel che comunemente si creda e va risolutamente ag-
gruppato con i primi de' poeti nostri e fra questi è già de* più vecchi?
Fra i documenti portati avanti dagli eruditi ascolani a provare che il loro
€ Guglielmino da Lisciano » era tutt'una cosa col Pacifico rex versuum da noi
studiato, c'è un atto — come già dicemmo — datum apud Tranum nell'a-
prile 1195, col quale Enrico VI imperatore, a contemplazione di Berardo
arcidiacono d'Ascoli e medico dell'imperatore stesso, concede alla chiesa di
Ascoli particolari privilegi. Testimone dell'atto insieme con più altri rag-
guardevoli uomini della corte imperiale, compare anche un Otto de Co-
lupna (1).
Identificare è facile, e a furia di identificazioni facile anche è costruire
la biografia di un uomo. Ma una data certa di Odo della Colonna noi non
abbiamo e nulla vieta di credere che oltre a mangiare e bere e dormire e
vestir panni, egli fin dal secolo decimosecondo comparisse anche testimone
in pubblici atti. E se nel '95 firmava, doveva per lo meno esser nato in-
torno il '70; cosicché non molto avanti nel secolo decimoterzo è lecito di
prolungare la sua vita, supposto pure che fosse lunghissima. E compare alla
corte di quell'Arrigo VI del quale pure abbiamo detto che molto si dilettò
in suoni e canti; che abbia aspettato che il figliuolo d'Arrigo desse il tòno
per mettersi a cantare? Perchè Federigo II non sarà stato il primo, ma
prima di lui o dal popolo come Odo, o da poeti dotti d'oltr'Alpe come tanti
altri, qualcuno avrà pure imparato a manifestar nel verso i sentimenti e
gli affetti dell'anima sua.
In ogni modo, anche spingendo qualcuno de' nostri poeti più su con gii
anni di quello che comunemente non si faccia, non ci possiamo allontanar
dagli occhi cotesti Svevi potenti e ogni luce di poesia par sempre rag-
giare intorno a loro.
Noi del resto come, noi nulla vogliamo affermare : ci siamo imbattuti in
un nome e in una data e ci è parso che alla storia dell'antica nostra poesia
^non fossero del tutto trascurabili. Giudichino i maestri illustri, che in questi
ultimi anni si sono con tanta dottrina occupati dell'argomento, se lo storico
ne debba far tesoro. Che se essi sentenzino che nome e data si debbano ri-
gettare, poiché non abbiamo sposata alcuna causa, non intoneremo alcun
< lamento » per rinunziare e all'uno e all'altra.
(1) UoHELLi, Italia sacra, Venetiis, Goleti, 1717, 1, 461. Nell'archivio ve-
scovile di Ascoli noi poi abbiamo personalmente verificata l'autenticità del
documento e della firma.
FRATE PACIFICO 37
III.
Di un antichissimo frammento di canzone
conservatoci dagli scrittori francescani.
La primavera del 1213 vuol essere notata nella storia delle origini nostre
letterarie non per la conversione del Re de' versi soltanto; ma perchè ci
oflFre modo a fermare l'età d'un antichissimo, quantunque trascurato, fram-
mento di canzone volgare.
Dalla Marca San Francesco con frate Leone suo compagno era passato in
Romagna e andando — piglio la parola dai Fioretti, che parola più dolce
e più espressiva io non conosco — « passò a pie' del Castello di Mon-
« tefeltro; nel quale Castello si facea allora uno grande convito e corteo per
«la cavalleria nuova d'uno di quelli conti di Montefeltro; e vedendo San
« Francesco questa solennitade che vi si facea e che ivi erano raunati molti
« gentili uomini di diversi paesi, disse a frate Leone: Andiamo quassù a
€ questa festa, perocché collo aiuto di Dio noi faremo alcuno buono frutto
« spirituale. Tra gli altri gentili uomini, che vi erano venuti di quella con-
* trada a quello corteo, e* v' era uno grande e anche ricco gentiluomo di
« Toscana, il quale avea nome Orlando da Chiusi di Casentino ».
« Giugne San Francesco a questo castello ed entra dentro e vassene in sulla
« piazza, dove era raunata tutta la moltitudine di questi gentili uomini e in
« fervore di spirito montò in su uno muricciolo e cominciò a predicare, pro-
« ponendo per tema della sua predica queste parole in volgare:
Tanto è il bene ch'i'aspetto
Ch'ogni pena m'è diletto;
« e sopra questo tema per dittamento dello Spirito Santo, predicò si divota-
* mente e si profondamente.... ch'ogni gente istava cogli occhi e con la mente
« sospesa verso di lui » (1).
Veramente, secondo i Fioretti, il fatto sarebbe avvenuto « essendo S. Fran-
ge cesco in etade di quarantatre anni, nel mille dugento ventiquattro»; gli
è a dire undici anni dopo dalla data che noi abbiamo più sopra fermato.
L'abbaglio de' Fioretti, dai quali si sono lasciati ingannare tutti i critici
nostri, è però evidente: poiché nell'occasione del suo incontro con frate
Francesco il conte Orlando di Chiusi donò al Santo il molto solitario e
(1) Fioretti. Delle stimmate di S. Francesco, prima considerazione.
38 u. COSMO
molto atto a farci penitenza monte della Vernia ; essi contando le stim-
mate del Santo, confusero Tanno che il monte fu a lui donato con Tanno
che sul monte egli fu stigmatizzato. Se non lo sapessimo da altre parti,
basterebbe a luminosamente provarlo il documento del lunedì 9 luglio
1274, col quale i figli del conte Orlando confermavano ai frati minori il
dono del padre; dono — è data registrata nel documento — avvenuto
rS maggio 1213 (1).
Ma venendo all'argomento che più direttamente ora c'importa, donde de-
rivava frate Francesco nella primavera del 1213 i due versi che proponeva-
per tema della sua predica?
Il motivo non era certo de' più originali, che — osserva bene Francesco
Torraca — « ha riscontri innumerevoli nella lirica provenzale e nella sici-
liana » (2).
Da Odo della Colonna infatti a Pier della Vigna fin a Bonagiunta Urbi-
ciani — per non salire più su — esso ritorna frequente (3).
Ma in Bonagiunta, cosi facile a vestirsi delle penne altrui, sì da far de-
siderare perchè venisse scorbacchiato che
fosse vivo Iacopo notaro,
in Bonagiunta quasi con le stesse parole:
S'eo languisco e tormento
Tutto in giò lo mi conto
Aspettando quel ponto ch'eo disio.
E qual fosse « quel ponto » al lettore arguto non è proprio bisogno della
mia spiegazione per capirlo.
Che frate Francesco fosse in caso d'imbastir lì al momento un paio di
versi, nessuno certo vuol dubitare: che questa volta però lo facesse non mi
pare probabile. Frate Francesco prima d'esser santo era stato cavaliere, e
(1) Bullarium Franciscanum (ediz. SbaraleaX IV, 166, n. h,
(2) La scuola poetica siciliana, in N. Antologia^ nov. 1894, p. 466.
(3) Odo della Colonna [Distretto core ed amoroso)
Ond'io Ungoisco e tormento
per fina disianza.
Pier della Vigna (Amore in cui vivo ed ho fidanza)
Vostro amore mi tiene in tal disire
E donami speranxa e tà gran gioia
Ch*io non caro fia doglia o sia martire.
FRATE PACIFICO 39
de' cavalieri conosceva tutte le gentilezze e le cortesie. E di queste sue co-
noscenze del passato egli si serviva spesso per i bisogni del presente.
Ora a raggiungere il fine suo altissimo di convertire gli animi egli aveva
sopratutto bisogno di far su questi impressione. Di qui i modi svariati del
suo presentarsi in pubblico e predicare. Si può in teoria sprezzare tutta la
scienza e tutta la gaia arte dell'universo; nella pratica della vita chi vuol
parlare alla gente deve sottostare alla prima legge dell'arte rettorica: quella
di far eflfetto. Or che effetto avrebbe ottenuto il frate recitando, là in mezzo
alla folla de' cavalieri curiosi di udirlo, de' versi suoi?
Ma se già in fama di santo e per questo appunto ricercato, butta là ai
cavalieri e alle dame curiose, de' versi che parrebbero a tutta prima in con-
traddizione con la vita e con gli insegnamenti di lui, per il contrasto che
sorge inevitabile nell'animo fra i ricordi che i versi suscitano e quel che
si aspetta dal Santo, l'attenzione del pubblico è già accaparrata, l'effetto è
raggiunto.
Questo di non prendere per testo del proprio sermone « alcuna autorità
€ di teologia » ma versi di una poesia nota, era uso tutt' altro che raro.
Basti per tutti l'esempio d'Etienne de Langton arcivescovo di Cantorbery,
che proprio in questo torno di tempo componeva il suo famoso sermone sul
testo di
Bele Aalis mainz s'en leva
Vesti son cors et para,
E un vergier s'en entra, ecc.
per finir di concludere che la « bele Aalis »
Qui est la flos et li liz
era la vergine Maria (1).
Il fiore e il giglio Maria; il bene aspettato intensamente da Francesco
non è più il ponto o il posto dove gli amanti speran sempre d'arrivare e
che fa rider le belle donne che se lo senton dire, ma è il Paradiso. Con-
clusioni strane tutte e due di strani sermoni stranamente impostati, ma ap-
punto per questo in quella età e in quella coltura efficaci.
1 due versi dunque che frate Francesco prendeva a testo della sua predica
(1) V. il sermone in A. Boucherie, Le dialecte poitevin au XIII siede,
Paris, 1873, pp. 217-21. Gfr. A. Lecoy de la Marche, La chaire frangaise
au moyen dge, Paris, Renouard, 1886, pp. 91-94; Petit de Julleville,
Bistoire de la langue et de la lift, frane, II, 240-41.
40 U. COSMO
dovevano far parte d*una più lunga canzone d'un poeta o d'un giullare qua-
lunque fosse, nota neiritalia centrale. E poiché dalla sua conversione in
poi non è probabile che il frate d'Assisi tendesse l'orecchio ai trovatori
d'amore, è ovvio anche pensare che essa fosse parte d'una di quelle tante
poesie che dovevano esser rimaste nella sua memoria, documento dell'antica
spensieratezza. Risaliamo dunque ancora più su, avanti il "9, che segna la
data della conversione, fino ai primissimi del secolo.
Non vogliamo cìie si mettano i nostri due versi tra i monumenti della
letteratura nostra, ma sta il fatto che di poche poesie nostre possiamo sta*
bilire con tanta certezza l'antichità.
E la poesia ond erano parte, certamente d'amore, doveva essere ardente di
passione sensuale: Francesco infatti non li avrebbe secondo ogni probabilità
ricordati se essi non avessero suscitato nell'uditorio ricordi che egli voleva
combattere provando ad esso che il vero bene è solo nel cielo. Una di quelle
tante poesie giullaresche che correvano per il popolo, e non sono prova
certo di temperanza negli affetti. Ma sono documento prezioso delle condi-
zioni etiche e psicologiche del popolo nostro ; monumento storico irrefraga-
bile della continuità della poesia nostra e anche — che è la questione per
il momento a noi rilevante — della antichità di essa.
Dopo queste modeste osservazioni, dopo quanto da tanti uomini valorosi
s'è venuto in questo ultimo torno di tempo pubblicando, non è lecito oramai
asserire che la poesia nostra nella forma sua schiettamente popolare e giul-
laresca sull'alba del dugonto cantava ormai sicura di sé al sole nuovo?
y/
LA COLTURA E LE RELAZIONI LETTERARIE
DI
ISABELLA D'ESTE GONZAGA
5. — Gruppo emiliano.
Yi si discorre di: Diomede Guidalotti — Floriano Delfo — Filippo Beroaldo
il giovine — Giovanni Sabadino degli Arienti — Girolamo Gasio (pittori
Costa e Francia) — Panfilo Sasso — Jacopo Caviceo — Antonio Gornaz-
zano — Gualtiero di San Vitale (Ludovico Panizza).
Ragion vuole che nel trattare di questo gruppo si prendan le
mosse da Bologna, con la quale città, non altrimenti che con
Padova, Isabella aveva continue relazioni per lo Studio fiorente,
oltreché per l'amicizia e per la parentela che la stringevano alla
famiglia dei Bentivoglio.
Professore di retorica e di poesia nella Università di Bologna,
rimatore della scuola artificiosa dell'Aquilano e del Tebaldeo,
strambottista non ispregevole, fu Diomede Guidalotti, cui la morte
contese la fama, che forse si sarebbe acquistata, recidendo la
sua giovane esistenza nell'agosto del 1505 (1). L'anno prima di
passare tra i più, il 15 aprile 1504, egli licenziava alla pubbli-
cità il suo Tyrocinio delle cose volgari, raccolta di rime varie.
(1) Fantuzzi, Scrittori bolognesi, IV, 330 sgg., che rettifica parecchie as-
serzioni del Quadrio, Storia e ragione, II, 222-24; cfr. 111. 290.
42 LUZIO-RENIER #
tra le quali son pure sei ecloghe intercalate da prose alla ma-
niera déìV Arcadia. Una delle due gentildonne il cui nome figura
nella dedica di questo libro è quella Lucrezia, figliuola naturale
del duca Ercole d'Este, che andò sposa in Bologna ad Annibale
Benti voglio. Non è improbabile che per mezzo suo Isabella im-
parasse a conoscere il Guidalotti. Questi infatti, il 3 giugno 1504,
le inviava il Tyrocinio, con correzioni in più punti, « che per
« incuria de li impressori male intendere si poteano ». Nella let-
tera d'accompagnamento, l'autore si profondeva in elogi smaccati
dei coniugi Gonzaga, chiamandoli « dui lumi de Italia congiunti
« insieme a più splendore l'uno de l'altro » e Isabella in ispecie
proclamando « fautrice di tuti li spiriti gentili ». Nell'inventario
dei libri d'Isabella figura il Tyrocinio e accanto ad esso una rac-
colta slegata, e senza dubbio manoscritta, di Sonetti e canzoni
del Guidalotti (1).
Appartenne pure allo Studio bolognese, e ne fu anzi uno degli
ornamenti Come giurisperito e canonista, un personaggio assai
caro ai Gonzaga, Floriano Dolfo (2). Il marchese Francesco lo
elesse a suo consigliere e gli accordò il privilegio di unire al suo
il cognome dei Gonzaga e di inquartare l'arma gonzaghesca con
la propria (3). Spirito arguto e caustico, sempre ricco di facezie
e di aneddoti, egli usa nella sua corrispondenza col marchese
una libertà di linguaggio incredibile, e talora si abbandona al-
(1) Vedi invent. I, n* 130 e 131. Dice l'Achillini nel Viridario, che il Ty-
rocinio del Guidalotti < è sparso in popoli diversi ». È una esagerazione
retorica, che anzi quella raccolta rimase oscurissima, a segno che nel 1538
potè essere ristampata in Bologna col nome d'un altro.
(2) Fantuzzi, Scrittori bolognesi. III, 256-57. Nei Rotuli dello Studio bo-
lognese editi da U. Dallari appare tra i legisti col nome di Florianus de
DulfoUo, 0 de Dulfolis, o de Dolfolis, o Dulphus. Di lì apprendiamo che
lesse a Bologna il Sesto e le Clementine dal 1466 al 73 (I, 71-88). Negli
anni scolastici 1473-74 e '74-'75 fu a Pisa, ove pure insegnò. Dall'autunno
del 1475 lesse a Bologna le Decretali fino alla sua morte, seguita nel 1506
(1, 97-189).
(3) Fantuzzi, III, 257^; Gaet. Giordani, Della venuta e dimora in Bo-
logna di Clemente VII, Bologna, 1842, p. 77.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE DÌSABELLA D'ESTE 43
l'oscenità più sguaiata. Qui non è il caso di riportare nessuna
delle molte sudicerie che Floriano si permise di scrivere al suo
principesco corrispondente, quantunque esse possano dar la mi-
sura della volgarità dell'animo di Francesco, il quale senza dubbio
se ne compiaceva, e in pari tempo porgano esempio di quella
strana grossolanità onde nel nostro più bel Rinascimento era
bruttato il costume, in tante altre pertinenze cosi raffinato (1).
(1) Il 4 ott. 1493, avendogli il marchese fatto fare da un cavallaro, per
celia, certa turpe proposta, lo rimbeccò il Dolfo dimostrandogli ch'egli avea
« meglio studiato el Morgante che la Rhetorica di Tullio ». Interrogato dal
marchese intorno al caso di certa strega, che diceva d'aver usato col diavolo,
rispose il Dolfo una lunga e vivacissima lettera, datata « ex Termis Porete
« mense et die incertis 1494 », in cui è faitta la più scandalosa pittura del
bagno della Porretta e delle scostumatezze che vi si praticavano. La lettera
è talmente sozza da non poter essere riferita neppur a frammenti f vedasi
Giorn., 37, 407). Riportiamo invece la prima parte di un'altra sua lettera,
con la quale il 14 genn. 1496 si scusava col Gonzaga di non potersi recare
a Mantova per le feste del carnevale : « La S. V. Ill.°i=» me invita et co-
€ manda a venire ne lo instante carnevalle a godere quelli vostri solazi et
« feste, al quale imperio comò buono servo non posso negare la obedientia
« quantunque io mal possa godere li piaceri che a tale stagione si usano,
« vogliando cossi la inclementissima dispositione divina, cum la qual perciò
« havendo poco obligo son privo de le cose che voi altri ne haveti in copia
« et vi satiati usque ad crepationem, comò disse el Tedescho el quale giunto
« a la hostaria domandò a l'hosto dicendoli: quantum posso bibere prò uno
« floreno renensi? Respose presto l'hosto: domine, usque ad crepationem in-
« elusive. Usanza è al tempo del carnevalle trasvestirse in maschara et libere
« solazare per li lochi publici et privati: io non posso gustare questo sua-
€ vissimo cibo, perchè tale transfiguratione è facta per non esser l'homo
« cognosciuto, ma la tortura et debilitate mia de li piedi si contrapone a
« tale piacere, che similmente mi togliono li balli et feste che recbiedono
« molti andamenti et fortitudine di pedi, et solo mi è reservato il videre
« maschere et balli, li quali benché al principio me diano trastullo, pur al
< fine non posso uscire senza peccato de invidia e biastemia, desiderando che
« tale persone gaiarde et fresche tute fosseno zoppe et smanchate comò io,
€ si che non è bono dare a tale gente piacere, si comò se dice che la più
« trista et perduta elemosina che se facia in questo mondo è quella che
« se dà a l'homo ciecho Voi fate giostre in tali tempi dignissime et
< strenuissime, di che dimostro haverne molto piacere; pur a dir lo vero
« essendo li ochi caligati che da longa non ponno videre io ne sto al dicto
« et relatione de quelli che hanno megliore ochio In questa stagione fra
€ li altri delectamenti si costuma il zacagnare, cioè adulteri, stupri et incesti,
44 LUZIO-RENIER
Ma anche in negozi abbastanza seri, Floriano usava col mar-
chese della più rude schiettezza. Fu già pubblicata altrove da
noi una lettera pressoché beffarda con cui il Dolfo investiva il
marchese Gonzaga, che si credea vittorioso e tale era proclamato
< per li quali si fanno tante studiose veglie et feste, che ad altro non si
«attende se non a tali piaceri carnali; et io de tuti per natura et etate ne
€ son stufFo et pieno. Venimus ad canos frigescentemque senectam. Et quando
« anchora mi retrovasse apto et di tal vivanda volonteroso, male me poteria
« svogliarme per esser forassero a Mantoa et le poste esser prese in omni
€ genere da voi Signori et altri gentilhomini, che non voliti vi sia de le
« griffie levato come il leone che el carnevalle passato mai non abandonò
« quello vostro thauro insino che l'hebbe atterrato, et è rasone perchè simili
« scherzi noi usiamo verso li forastieri tropo domestici cum le nostre donne.
« Et a dir pur il vero senza sdegno de V. S., voi setti in Mantoa mal forniti
« di donne belle, et si alcuna si ritrova bella ha portata la formositate da
« altro loco, verbi gratia la 111.™* Consorte vostra da Ferrara et la moglie
« di vostro fratello et dil Conte Guido Torello da Bologna et alcune altre
« che hanno la loro semenza di fora corno la vedovella madonna Costanza
a et la soa divina sorella, che v'ha facto mutare habito costumi paesi et na-
« tura, et alcune altre le quale assai meglio da voi son cognosciute ». E qui
tronchiamo il riferimento, perchè nel resto della lettera si tratta di troppo
sconcia materia. Pare tuttavia che in quel carnevale stesso, forse instante-
mente sollecitato dal marchese, il Dolfo si recasse a Mantova, perchè in una
sua lunga epistola dell'S luglio 1496, in cui descrive al Gonzaga la rappre-
sentazione d'un' ecloga drammatica di soggetto politico, seguita in Bologna,
rammenta d'aver assistito in Mantova « nel carnevalle passato » alla recita
dei Captivi (D'Ancona, Origini del teatro^, II, 370). Il grave disturbo alle
estremità inferiori, di cui il canonista bolognese si lagna, forse dipendente
dalla gotta, è anche rammentato in un epitaffio del Casio:
Al Dolpho, che nei piò mancò natura,
Snplì poi ne la lingaa e ne l'ingegno;
Atto a salvare ed a minare nn regno.
Magno fa in stadio et massimo in lettura.
L'allusione del terzo verso si riferisce all'energia ed abilità del Dolfo nel
trattare negozi politici, doti simboleggiate anche nel rovescio della sua me-
daglia, dovuta al celebre Sperandio. Cfr. Museum Mazzuchellianum, 1, 149;
Armano, Médailleurs, I, 68; Heiss, Sperandio de Mantoue, p. 39. Dell'abi-
lità del Dolfo nelle cose politiche dà la miglior idea una sua eloquente Ora-
zione per la difesa della patria contro Alessandro VI e Cesare Borgia^
recentemente edita da Vincenzo Giusti per nozze Mirafiori-Boasso, Bologna,
Zanichelli, 1900.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D ISABELLA D'ESTE 45
da molli, dopo la battaglia del Taro (i). Con singoiar lucidezza
di mente, il giureconsulto felsineo non si faceva veruna illusione
e si affrettava a disilludere anche il marchese. Al quale due
anni prima (26 febbr. 1494) non s'era peritato a rispondere con
feroce sarcasmo, allorché il Gonzaga gli avea scritto, forse con
mal garbo, di non intendere il suo latino. « Per bavere inteso
« quello che mi era coperto per littere de V. 111.™» Sig."* che
« non siate lectore de prose o versi latini del mio fallo facto
« accorto, da qui inanti non ve mandarò né seri varò cose latine,
« ma in vulgare grosso o in gergone, el quale parlare credo
« V. S. habi imparato da molti che ne la vostra casa ho cogno-
« sciuto de tale lenguagio boni maestri ».
Altro linguaggio teneva il Dolfo con la marchesa Isabella ; anzi
nella lettera con cui maestro Floriano si condoleva secolei per
la morte immatura della sorella Beatrice, dicevale (10 genn. 1497):
«sopra ogni altra donna che hoggi al mondo spiri, sola seti
« aliena da ogni costume et inclinamento femineo et, sbandite
« tute le levitate et sensualitate, di che ne sono per natura le
« donne copiose, vi sete accostata ad li virtuosi et constanti acti
« virili » (2). Ma é pur sempre indizio dell'indole bizzarra di
quel singoiar professore la lettera con che mandò a Isabella, il
20 maggio 1500, i suoi rallegramenti ed auguri pel felice parto
del suo primogenito Federico. Premesso che Tuomo molte volte
« dil suo male si rallegra et del suo bene si lamenta », prosegue:
« per la quale cosa non mi pare fare altro più laudabile officio,
« 111.""* Mad. Marchesana, nel parto di questo fanciulo, lo quale
« Dio per stracheza de le vostre continue et devote oratione et
« importune dimande vi ha gratiosamente concesso (si comò disse
« Christo a donna Rosa per le frequentissime soe petitione facte
« ogni giorno de uno medesimo tenore, dopo uno longo tedio fa-
« vellando quello suo camerario cruci flxo, affannato per tante
(1) Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo, pp. 25-27.
(2) Cfr. le nostre Relazioni d'Isabella con gli Sforza, p. 131.
46 LUZIO-RENIER
«cicaline parole: Rosa, tu me secchi), che cum V. S. congratu*
« landomi, pregare lo eterno Dio che lo facia savio et fortunato
« et che camini per la strata de la justitia cum timore de Dio>.
E qui una lunga fila di sinistri ricordi, di ammonimenti e di
esempi, da cui si ricava che molte volte i figliuoli maschi di-
ventano canaglie, ovvero precipitano nella maggiore disgrazia.
« Pertanto è grande sapientia de la madre (si in donna si ritrova
«spirito sapiente, perchè disse Salomone: mulierem fortem quis
« inveniet?) in tale productione de li figlioli moderatamente fare
< festa, perchè non ci è a noi mortali cognito lo exito de le cose.
«Chi sa si fieno prudenti, si fortunati, si amati, si expulsi, si
< rubati, si occisi, si exuli de li soi regni, come Medici et Sfor-
« ceschi, li quali pareano havere in mano il governo di la for-
« tuna, ecco che in uno punto sono spenti, et la soa gloria prò-
« strata al fondo Ma per usare lo officio del bono servo
« et non dil severo philosopho overo del catolico predicatore,
« 111."* et E\^ Madonna, perchè cognosco la generatione di
« questo fructo masculino esser il magior contentamento et pia-
« cere che quella habia mai conseguito infino al di presente, che
< sera causa de augmentare lo amore del mio terestre dio et
« rescaldare il tepido core verso V. S."» et farli più benevoli li
€ subditi soi, et di smorzare ogni ambitione extranea al marche-
« sato et principato mantovano, et di serare il pugno di la pro-
< digalitate a lo excellentissimo vostro consorte (benché il soc-
« corso sia tardo per esser megio fallito (1), per haver già donato
« et cousumpto ogni suo patrimonio) et divenire più diligente
(1) Quello stesso giorno, 20 maggio 1500, il Dolfo scrisse pure una lettera
al marchese, nella quale, a proposito del parto d'isabella, usci a narrare
aneddoti piccanti e sboccati, riferentisi al suo soggiorno in Pisa (sulla dimora
in Pisa del Dolfo vedasi Fabroni riferito da Fantuzzi, Scrittori bolognesi,
IX, 92). Riguarda uno di questi aneddoti la festa d'un crocifisso miracoloso,
che celebravasi ogni anno a Pisa la terza domenica di gennaio ed era chia-
mata la festa del /*....., perchè quel tal crocefisso avea miracolosamente im-
pedito ad un soldato di prendere diletto di una giovine pisana in una chiesa.
L'altro aneddoto spiega il « proverbio vulgare, per qual causa quando l'homo
< rompe uno bichiero o bochale, dice subito a Pisa^ et si non lui, li cir-
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D ISABELLA D ESTE 47
« a la conservatione dil suo stato et abstinere la soa prompta
« voluntate da molti inordinati appetiti, per non dare tristi do-
« cumenti et exempli al suo figliolino et dopo lui futuro si-
« gnore (1) cura V. III.™* Sig."» mi ralegro et festegio et
« tuto di alegrecia me defundo, quanto et più che si di la mia
« moglie, che mai per sterilità non partorì fructo alcuno, benché
« il campo sia stato bene arato et cultivato et di bona semenza
€ seminato, fosse nato ». A questa strana lettera Isabella fece
rispondere ringraziando il 10 giugno, e senza addentrarsi nelle
parti più scabrose ed intime di quanto avevate scritto il dottor
bolognese, sinceramente gli confessò : « anchora che cura ra-
« sone assai evidente ne exortate ad moderatamente allegrarne
« del felice parto nostro, nello quale nostro Sig. Dio cura tanta
« sua gratia ne ha concesso un figliol maschio, tuttavia cogno-
« cumstanti ». Ma non per questi due aneddoti, che qualche erudito pisano
ben potrebbe illustrare, noi citiamo qui codesta lettera, sì bene perchè Flo-
riano vi dà al marchese avvertimenti non dissimili da quelli contenuti nella
lettera ad Isabella : « per questo fructo et dono divino V. S. da qui inanti
« sera più devota et grata verso Dio, diventerà più diligente et accorta nel
« governo dil suo stato et amerà augmentare et non gittare via le soe facul-
« tate, come ha facto fino a qui, che ha aquistato il nome del prodigo, non
« liberale ». La lettera è firmata cliens Florianiis Dulphus de Gonzaga.
(1) È veramente singolare questo accenno che, scrivendo alla marchesa,
fa il Delfo alle frequenti infedeltà del marito. Già parecchi anni prima ne
aveva direttamente redarguito il marchese, dicendogli in una lettera del
16 die. 1495 : « Dio vi ha dato una formosa, prudente et nobile compagna,
« figliola del bon duca Hercule et per sangue materno de la gentilissima
« casa d'Aragona, coniuncta in matrimonio et nodo coniugale insieme cum
« V. S., non come sogliono li altri mariti et moglie sempre vivere cum onte,
«brontolìi, gielosie, cornei et ire tuta discreta et costumata; madre di la
€ concordia, sempre seconda modestamente li vostri appetiti et non vole per
« soperchiarla esser vincitrice centra a vostra voglia, et le cose per voi facte
« a lei ingiuriose overo odiose finge di non vedere né audire ». Gfr. Luzio-
Renier, Relazioni d'Isab. con gli Sforza, p. 131, n. 2. Nella suddetta let-
tera del 1500 lo ammonisce: « Et perchè la vita paterna è spechio al vivere
«del figliolo, son certo che per non dare tristo exemplo al vostro figliolino
€ V. S. non sarà più cossi prompta et aperta in fare acti lascivi et reprehen-
€ sibili ». Non si direbbe, veramente, che la predica dovesse venire da quel
pulpito! Gonvien peraltro notare che non sempre il turpiloquio è indizio si-
curo di reale corruzione.
48 LUZIO-RENIER
« scendo nui che in questo usati più presto l'oflacio del severo
« philosopho che del civile, perseveriamo nel principiato tenore
« de la leticia nostra, de la quale non sentimmo mai la maggiore
« dappoi che siamo al mondo ».
Un altro professor bolognese fu Filippo Beroaldo il giovine,
nipote del suo omonimo, che era stato uno de' più celebri lette-
rati del séc. XV e usci di vita nel 1505. Filippo Beroaldo il gio-
vine insegnava già lettere in Bologna nel 1498; ma ne' primi
anni del sec. XVI spiccò il volo per Roma, ove godette l'amicizia
degli uomini più insigni del tempo, e professò nell'archiginnasio
romano. Divenuto segretario del card. Giovanni de' Medici, fu
da lui, allorché Giovanni giunse ad essere Leone X, elevato al
grado di bibliotecario della Vaticana, ufficio che tenne dal 5 sett.
1516 al 30 agosto 1518, in cui venne a morte (1). Si citano ge-
neralmente come i migliori amici suoi il Bibbiena, il Molza e
Pierio Valeriano: ad essi andrà aggiunto il Castiglione, che certo
in Roma lo conobbe, e si piacque di rammentarlo nel Coriegidno
pel suo spirito arguto e faceto (2). La marchesa di Mantova udì
forse già vantare da Lucrezia Bentivoglio la valentia del Be-
roaldo (3) ; ma in ogni caso è certo che quando mori la cagnetta
Aura, il Beroaldo da Roma le inviò un carme latino, che figura
nel citato zibaldoncino di versi deploratori tante volte già richia-
mato da noi. Nel poetare latino era il Beroaldo assai reputato;
e però la marchesa fu lietissima di que'suoi versi e ne scrisse
in questi termini, il 16 febbr. 1512, al giovinetto suo figlio Fc-
(1) Mazzuchelli, Scrittori, 11,11, 1017-1020; Fantuzzi, Scritt. bolognesi,
II, 136 sgg.; Giornale storico, IX, 451 e la nota biografica del Gian nella
sua ediz. del Cortegiano, pp. 205-6; J. Paquier, De Philippi Beroaldiju-
nioris vita et scriptis, Lutetiae Parisiorum, 1900.
(2) Cortegiano, L. II, cap. 63.
(3) G. Sabadino degli Arienti fa narrare una delle sue Porretane da Fi-
lippo Beroaldo, di cui vanta la grande dottrina. Ivi dice che il Beroaldo fu
precettore di Annibale Bentivoglio, marito di Lucrezia d'Este. Vedi e. 1T7 r
nell'ediz. di Verona 1540 delle Porretane. Che, del resto, in Bologna, il Be-
roaldo fosse maestro a nobilissimi personaggi, lo attesta anche lo scherzo
del Sadoleto nel cit. cap. del Cortegiano.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE d'ISABELLA D'ESTE 49
derico, che allora trovavasì a Roma : « Ni sono stati acceptissimi
« li eruditi et eleganti versi de mes. Philippo Beroaldo, composti
« per la morte de la nostra cagnolina, essendone da questi nostri
« docti commendati summamente. A noi non potria più piacere
« la inventione quanto facci, et non manco Taffectione che per
« essi versi et per il testimonio tuo et de molti altri ci ha di-
« mostrato, de la quale volemo gli rendi infinite grazie offerendoli
« Topera et auctorità nostra in ogni sua occurrentia » (1).
Ma se furono solamente occasionali e transitorie le relazioni
da noi finora accennate nel presente capitolo, ebbe carattere ben
diverso quella col bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti.
Isabella lo imparò a conoscere e ad apprezzare nella famiglia
paterna, perchè Sabadino, cresciuto all'ombra della gran pianta
bentivogliesca, fu agli Estensi singolarmente devoto. Egli presentò
nel 1472, con apposita orazione, i regali del Reggimento bolo-
gnese in occasione delle nozze d'Ercole d'Este e di Leonora
d'Aragona (2), si trattenne a più riprese in Ferrara, fu beneficato
dal duca Ercole e da Leonora sua moglie, dedicò ad Ercole nel
1483 le sue novelle di sapor boccaccesco intitolate Le porre-
tane (3) e poi la Istoria di Piramo e Tishe (4), scrisse pel ma-
trimonio di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d'Este il tratta-
tela De hymenaeo (5), celebrò la vita di Anna Sforza, prima
(1) Per le relazioni del Beroaldo con Federico Gonzaga vedi Paquier, Op.
cit, pp. 74-75.
(2) Dallari, Della vita e degli scritti di Gio. Sabadino degli Arienti,
Bologna, 1888, pp. 5 e 30. Gfr. Giornale, XI, 208.
(3) Rispetto alle relazioni di Sabadino con gli Estensi, le notizie date da
G. Campori, Giov. Sabadino degli Arienti e gli Estensi, Modena, ÌSld, sono
completate dal Renier in questo Giornale, XI, 207 sgg. e dal Dallari. Per
la bibliografia delle Porretane vedi Dallari, Op. cit., pp. 11-16 e 24-25;
pel loro valore intrinseco Giorn., XI, 212-13 e Rossi, Il Quattrocento,
pp. 132-33. Il cod. di dedica delle Porretane ha oggi il n» 503 nella Pala-
tina di Firenze. Gfr. Cat. mss. palatini, II, 65.
(4) Quest'opera, che per molti anni si credette smarrita, fu rinvenuta in
un ms. di Dresda. Gfr. Giorn., XI, 217.
(5) 11 ms. ne è ora nella Palatina di Parma. Dallari, p. 16.
OiornaU storico, XXXVIII, fase. 112-113. *
50 LDZIO-RENIER
moglie di Alfonso d'Este (1) e dettò un Colloquium per le se-
conde nozze di Alfonso con la Borgia (2). Per questa grande
affezione dell'Arienti alla casa degli Este non poteva riuscirgli
indifferente il più bel fiore germogliato nel giardino ferrarese.
Nella sua dimora in Ferrara avrà l'Arienti avuto occasione di
deliziarsi più volte del suo delicato profumo, onde non potea
trascurarlo quando fu trapiantato sul Mincio, tanto più che già in
addietro il bolognese avea ricorso alla liberalità dei Gonzaga (3).
Allorché ebbe stesa nel 1490 la sua Gynevera de le dare
•
donne (4)y pensò d'inviarne una copia ad Isabella, «intendendo
« la V» IH. S. essere de grandissimo fructo et religione in quello
« marchionale Stato, come vera figliuola del mio felicissimo com-
« patre duca Hercule » (5). Riscris^^e egli medesimo, tutto di suo
pugno, quel libro e il 29 giugno 1492 lo inviò alla marchesa,
vantandosi che quella fosse la seconda copia « che se sia data
« fuori » (6) e supplicando la Gonzaga di inscriverlo « nel numeix)
«de' suoi affectionati servi» e di raccomandarlo al marito, di
cui aveva già tessuto l'elogio « per che certo li sono molto de-
« dicato, come aparirà a la posterità del tempo, se '1 fructo del
« mio exile ingegno bavera alcuna diucturnità , per bavere io
« delle sue glorie facto memoria, quando venne qui a le Nuptie
« Bentivoglie, havendo Sua Gels.°« reportato el Iriumpho dela
« giostra, et deli suoi ornamenti et trophei militari, che ancora
(1) Questa Vita fu pubblicata a Ferrara nel 1874, di su un codice di quella
biblioteca comunale. Dallàri, p. 21.
(2) Dallari, pp. 21 e 36. Gfr. Giorn,, XI, 217.
(3) Vedi le raccomandazioni che per lui inviarono gli Estensi al card. Fran-
cesco Gonzaga: Campori, p. 13; Dallari, p. 32.
(4) Stampata da C. Ricci e A. Bacchi della Lega nella disp. 223 della
Scelta di curiosità letterarie. Per la bibliografia, oltre la prefaz. degli edi-
tori, vedi Dallari, Op. cit,, pp. 16-20; per la cronologia, questo Giornale,
XI 21.V16.
(5) Anche nelle Porretane TArienti chiama il duca suo « compatre » perchè
avea tenuto al fonte battesimale uno de' suoi otto figliuoli, Ercole, che con-
tinuò la famiglia e scrisse anche versi. Gfr. Giom,^ XI, 207 e Dallari, p. 5.
(6) La lettera fu edita nel Giorru, XI, 214 e dal Dallari, Op. cit.^ p. 34.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'iSABELLA D'ESTE 51
« questo bolognese populo ne parla » (1). Del dono fu la mar-
chesa gratissiraa, perchè con vera effusione rispose all'Arienti il
3 luglio '92 : « Havevamo qualche cognitione de le virtù vostre
^ et per questo ve portavamo dilectione; adesso per l'opera che
« ci haveti driciata, composta per vui de mulieribus claris et
« intitulata a la 111.°"* mad. Zenevera Bentivoglio, ne seti facto
« per experientia noto et famigliare ; per consequens non solum
« siamo inducte a diligerve, ma ad amarve et admirarve. Essa
«opera, e per esser cum summa elegantia compilata, et per
« essere de utile matheria, e' è stata ultra modo grata. Legere-
cmola cum attentione et sforzeremose imitare le vestigie de
« quelle ill.°'^ matrone » (2).
Quantunque Gio. Sabadino fosse notaio, l'ufficio ch'egli meglio
disimpegnò per tutta la sua vita fu quello di relatore e di descrit-
tore (3). Anche della marchesa di Mantova egli fu informatore
e corrispondente : spediva ragguagli, come fosse un abile reporler^
disimpegnava piccole faccenduole. Ciò fece particolarmente in
(1) Alluderà al De hymenaeo. Si noti che Tanno dopo (1493) Sabadino
dedicò al march. Francesco Gonzaga una novella storica, che non fa parte
delle Porretane. Fu rintracciata da Lud. Frati nel ms. Vatic. Urb. 1205 e
pubblicata nel 1892 da 0. Guerrini per nozze. Vedi ciò che se ne dice in
questo Giornale, XIX, 226-27. Sia pur rammentato qui che una delle no-
velle delle Porretane è fatta dire da Giustina, moglie di Niccolò da Gonzaga.
Vi si narra una avventura di Gianfrancesco Gonzaga, primo marchese di
Mantova, e se ne trae occasione per tessere un elogio della famiglia Gonzaga.
Ediz. di Verona, 1540, delle Porretane, e. 95r e sgg.
(2) Quantunque nella Gynevera il panegirico soffochi i fatti, quel libro
ha per noi un' importanza storica non mediocre e meriterebbe di essere stu-
diato più a fondo. Asserì il Gabotto {Lettere di Joviano PontanOy Bologna,
1893, p. 20, M. 3) che nella Gynevera sono diluite parecchie biografie del
De claris mulieribus di Jacopo Foresti da Bergamo. Ma il Rossi {Il Quat-
trocento, p. 132) non è alieno dal sospettare che invece il Foresti seguisse
le orme di Sabadino. Lo studio sulle fonti della Gynevera è ancor tutto
da fare.
(3) Vedi le considerazioni che uno di noi fece su quest'uflScio di relatore
nel Giornale, XII, 302-5, ove si dimostra, col sussidio dei copialettere del-
l'Archivio di Parma, che Sabadino ebbe incombenze non dissimili dal vescovo
Ludovico Gonzaga.
52 LDZIO-RENIER
quel periodo fortunoso, nel quale, caduto in disgrazia dei Benti-
voglio, egli vide assottigliarsi d'assai i suoi mezzi di sussistenza,
dal 1495, in cui gli venne meno la provvisione bentivogliesca, al
1507, in cui fu creato gonfaloniere del popolo nel quartiere di
porta Piera (1). Cadono in quel periodo le malinconiche lettere
dirette a Isabella per chiederle la carità di sei sacca di grano,
necessarie al sostentamento della numerosa famiglia in un anno
di scarsissimo raccolto (2). Cadono in quel periodo le interessan-
tissime relazioni che Sabadino forniva ad Isabella intorno alla
recentissima scoperta del Laocoonte, avvenuta in Roma (3), ed
intorno ad un contrasto drammatizzato fra il Carnevale e la Qua-
resima, rappresentato d'innanzi al palazzo dei Bentivoglio (4).
Del 24 febbr. 1508 è un'altra sua lettera, nella quale comunica
ad Isabella come fosse posta sulla facciata del tempio di S. Pe-
tronio la statua di Giulio II ; « Questa statua ha assai sembianza
« de la S.^ del N. S. et il statuario che l'ha facta se chiama
« Michaelangnolo fiorentino. È opera tanto magna et excelsa per
€ chi intende, che se Phidias statuarius vixisset non creditur
(ì) Dallari, Op. city pp. 7-8. Non si deve, peraltro, credere che negli
anni accennati l'Arienti fosse sempre nemico ai Bentivoglio, anzi abbiamo
molti indizi che per essi continuava ad adoperarsi. Si tenga presente questa
letterina da lui inviata al marchese di Mantova nel 1503:
lU.mo Princeps S.r mio charo. Non possendo bora venire ad Gonzaga ad trorare la Ex. V.,
coBa che me preme assai, scrivo questa ad epsa Ex. la quale prego... voglia lare misericordia a
questo miserabile incarcerato de Michele de la BafFa, aciò possa de tanta misericordia consolare
il meo m. Zoanne Bentivoglio, quale tanto se confida et spera in la Ex. Y. a la coi giatia ecc.
Ex Mantua, X Junij 1503.
Sermi perpeinos
Joannes Sabadiniu de Arientit.
(2) Leggansi le sette lettere del 1504, riguardanti quella bisogna, che fu-
rono pubblicate dal Campori, Op. cit., pp. 610. Vedi Giom., XI, 210.
(3) La lettera del 31 genn. 1506 fu pubblicata in questo Giornale, XI,
209-10. È una delle prime relazioni che si abbiano di quella capitale sco-
perta archeologica ed artistica. Gfr. A. Venturi, Il gruppo del Laocoonte
e Raffaello, in Arch. stor. delVarte, II, 98.
(4) Lett. 24 febbr. 1506, edita in Renibr, Gaspare Visconti, pp. 104-5.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D ISABELLA D ESTE 53
« hac statua nobiliorem facere potuisset Hoc opus tara rai-
« randum et excelsum est ut quidem populus videndo et con-
« templando oculos saturare non possit »(1). Il 2 aprile di quel-
l'anno stesso Sabadino descrive alla Gonzaga il supplizio di un
frate al quale assistevano da trenta mila persone. Egli fu bruciato
vivo « perchè havea sacrificato al diavolo, havea cum li pedi
<« conculcata la croce dato una hostia sacrata ad uno gallo »
e commesso altre enormità (2). Nel ritrarre la coltura della
nostra gentildonna, abbiamo già dato conto di altra lettera di
Sabadino del 13 luglio 1509, in cui le descriveva il supplizio
d'una strega. Da tuttociò si apprende di qual natura fossero le
informazioni dell'Arienti. Di tutto un po': pettegolezzi e faccende
politiche, feste e lavori d'arte. Lo spirito vivace della marchesa
a tutto prendeva interesse, e di quelle sollecite informazioni, sia
pur date con quel modo pesante e con quella perpetua lardel-
latura di frasi latine, molto si compiaceva.
Ben s'intende che avendo Sabadino parecchia pretesa di lette-
rato, egli non mancava di spedire alla sua eccelsa corrispondente
i frutti del proprio ingegno. Vedemmo già come le inviasse la
Gynevera. Il 10 giugno 1501 le facea tenere « una epistoletta
« narratrice de uno bel zardino de l'illustre mes. Hannibal Ben-
« tivoglio nominato per lezadria Viola In epsa intenderà la
« verità de la amenità et jocundità del zardino ». Si trattava
del delizioso giardino circostante la villetta della Viola, che An-
nibale Bentìvoglio fece costruire da Gaspare Nadi e frescare da
allievi del Francia, giardino ove è lecito credere che l'Arienti
si trattenesse spesso a conversare con Annibale e con la moglie
di lui Lucrezia (3). E anche opere altrui godeva Sabadino che
(1) Giornale^ XI, 211, ove in nota si riassumono le vicende di quella ce-
lebre statua.
(2) Poscia Sabadino si recò a Roma « ad osculare li sacri pedi del N. S. >
e stette vari mesi del 1508 senza scrivere alla marchesa: di che si scusa in
una lettera del 18 nov. di quell'anno, in cui tocca anche della peste che
serpeggiava in Bologna. Vedi Dallari, Op. cit., pp. 38-39.
(3) Vedasi Giorn., XI, 217. La Descrizione del giardino della Viola fu
54 LDZIO-RENIER
fossero a Isabella dedicate, sicché si affrettò a comunicare alla
signora di Mantova la elegia in morte di frate Pietro Gravasseti
da Novellara, che .l'amico suo e della marchesa, il «divino se-
« cundo mantovano poeta >, avea appunto dedicato alla Gonzaga (1).
Neirinviarle quel componimento, usciva TArienti in una esda-
mazione che abbiamo motivo di ritenere sincerissima: « qual
« madonna et qual signora, in questa feza de ingrata etalc, se
« trova de lettere amantissima, se non la ex."" Marchionissa de
« Mantua?! » (2). Quella madonna e quella signora celebra ti ssi ma
dovette provare non poco dolore allorché nel 1510 le fu annun-
ciata la morte del fido corrispondente bolognese. Fu appunto
Ercole degli Arienti, figliuolo di Sabadino, che le inviò la trista
novella :
111.™* ecc. Cuna lachryme et suspiri ad scriver la presente bora mi movo,
perchè il spargere in carte il duolo et dispiacere è uno renovar l'affanno.
Essendo stato il clariss." et prestante patre mio m. Joanni Sabadino cosa
molto de V. Ex. et tanto affectionato de core quanto dir se possa, et essendo
di questa vita mortai passato cum gran mio danno et dispiacentia, a me è
parso debito darne qualche adviso a epsa V. Ex. Pertanto li significo come
il p^o mio Patre domenica matina prox. ne moritte per una infìrmità grave
de ardentiss.^ febre et cruciato de aspre doglie per la persona, che per
17 giorni crudelmente Thanno oppresso. Et la sera fu sepuito honorifice cum
optime laude li sono state date da tutto il populo per il suo bon nome che
stampata da Gaetano Giordani per nozze nel 1836 e poi da lui ristampata
heW Almanacco bolognese per Vanno 1840. Il Dallari (p. 21), che parla di
questa stampa, non riuscì a rintracciarne i codici. A uno di noi venne fatto
di chiarire che il ms. inviato a Isabella si trova ora nella Comunale di Tre-
viso (Giorn.f XI, 213, n. 6), mentre quello che l'Arienti scrisse di propria
mano per Annibale Bentivoglio esiste ora nella bibl. Landi- Passerini di Pia-
cenza (Giom., XII, 302, n. 4).
(1) Giornale, XI, 213, n. 3. Per quel che riguarda le relazioni deirArienti
con Battista Mantovano e di entrambi con Pietro Gavasseti da Novellara, si
rimanda a ciò che ne fu detto nel capitolo sul gruppo mantovano, ove si
parlò a lungo del Carmelita. Si aggiunga solo che TArienti volgarizzò la
•toria del tempio di Loreto, opera originale di Battista. Vedi Dallari,
Op, cit., p. 16.
(2) X^lt. 13 maggio 1504 in Ca.mpori, Op. cit., p. 5.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'iSABELLA D'ESTE 55
ha di sé lassato, et doglienga universale per essersi cuna epso perso gran
virtute et dote che erano ornamento a la citate, benché l'opre et monumenti
che ni restano in scripto farano che sua virtute non sera al tutto extincta (1).
Credo questa morte senga dubio dispiacerà forte a V. 111.™» S. per esserli
mancato uno fido optimo et honorato servo et che de soi preconij et laude
era una resonante tuba ; ma adviso V. Ex. che se '1 patre gli è mancato,
el figliolo glie resta, quale ha ad essere una imagine paterna se non de la
virtù et suflBcientia sua, che invero non gli è, almeno de fede et observantia
verso epsa V. Ill.^a S. che era il patre. Et perchè pregho quella voglij esser
contenta de farmi hereditare l'amore et affectione ne portava al p.»o mio
patre. Io potendo cosa alcuna operare che sia grata a quella, po' far con-
cepto de havermi sempre ad comandare come a un suo optimo servo et come
a m. Jo. Sabadino. Cussi a la p.*» Ex. V. me dono et recomando sempre.
Quae bene valeat. Bononiae die IIII Junii MDX.
Qui incluso sarà uno Epitaphio vulgare facto per mio patre, quale mando
a V. 111.™» S. che se degni tenirlo per sua memoria, benché alquanti altri
ne sieno stati facti et se ne facino et vulgari et latini.
E. 111. D. V.
servus perpetuus
Hercules Sabadinus de Arientis (2).
Ercole che in questa lettera si profferiva a sostituire il padre
nella fiducia di Isabella, mandò per qualche tempo realmente
corrispondenze non prive d'interesse politico, per es. quelle del
1511 relative al rimpatrio de' Benti voglio; né mancò di inserirvi
qualche sonetto od altra composizione poetica, che era venuto
scombiccherando negli ozi della sua villa di Gamurata presso
(1) Si vede che il figliuolo aveva delle opere paterne opinione non diversa
da quella che mostrò di averne Sabadino medesimo. Si ricorderà come il
vecchio Arienti credesse di contribuire eflBcacemente alla fama del mar-
chese Francesco Gonzaga vantandone le prodezze nel De hymenaeo. Così
pure egli si raccomandava il 20 genn. 1509 al cardin. Ippolito d'Este, ram-
mentando i servigi resi al duca Ercole, « del quale recepitti duoni et honori
« noti a tucto il mundo, come parerà a la posterità del tempo, se il fructo
€ del mio exile ingegno havarà diuturnità alcuna, et come atestano l'opre
€ mie existenti in fra li libri del ea?.™» S. vostro patre ». Dallari, p. 30.
(2) Lettera già edita nel Giornale, XI, 211-12 e dal Dallari, Op. cit.,
pp. 42-43.
56 LDZIO-RENIER
Bologna. A poco a poco però le sue lettere andarono diradando:
né appare che ottenesse mai pienamente il favore d'Isabella,
certo perchè non aveva le doti che rendevano cosi accetto e sti-
mabile il suo genitore. E d'altra parie la marchesa aveva a Bo-
logna un altro corrispondente, che pizzicava di letterato più del
bisogno egli pure e che specialmente la sovveniva nella sua in-
saziata bramosia di oggetti d'arte. Intendiamo alludere a Giro-
lamo Casio.
Il cav. Girolamo Casio de' Medici, il cui vero casato era dei
Pandolfi da Casio, castello del Bolognese, fu uno stravagantissimo
tipo d'uomo.
Visse il Casio mercante zoilero
Et con Apol ebbe sua mente unita:
A Terra santa andò ; scrisse la vita
Di Cristo: or qui è poeta e cavaliero (1).
Queste asserzioni, da lui medesimo, « specialista del genere fu-
« nerario » (2), condensate in un epitaffio, son tutte vere, all'in-
fuori di quel ch'ò detto nell'ultimo verso, giacché se riusci ad es-
sere cavaliere per grazia dei Bentivoglio, poeta, per grazia dell'uno
0 dell'altro giogo di Parnaso, non fu davvero. Scrisse bensi una
quantità di opere in verso, tra le quali alcune oggi rarissime (3):
ma la scintilla poetica non ne sprizza mai come da composizioni
inspirate. E diffatti la marchesa di Mantova profittò dell'opera
sua come gioielliere e come mecenate di artisti (4), né mostrò
veruna curiosità pei suoi versi (5).
(1) Questo epitaffio fu riferito anche dal Mazzoni nella sua raccoltina di
Epigrammi italiani, Firenze, 1896, p. 347.
(2) V. Rossi nel Giornale, XV, 199.
(3) Vedine l'elenco nel Fantuzzi, Scrittori bolognesi. III, 137-40. Gfr. Qua-
drio, li, 227-8 e Harrisse, Excerpta colombiniana, Paris, 1887, p. 196.
Alcune rarissime stampe di lui, ignote al Fantuzzi, sono rammentate dal
Malaoola, Antonio Urceo, Bologna, 1878, p. 248 n.
(4) Sul mecenatismo del Casio cfr. G. Giordani, Della nenuta in Bologna
di Clemente VII, p. 52.
(5) I quali, del resto, furono messi in burletta dai contemporanei. Si rise
del Casio il Firenzuola (v. Sicardi in Giorn., XXVllI, 199-200); lo beffò
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'ISABELLA D'ESTE 57
Conobbero i biografi, sebbene imperfettamente, le relazioni del
Casio con più d'uno dei Gonzaga (1) e segnatamente col card. Er-
cole, figliuolo d'Isabella (2); ma delle varie incombenze aflìdategli
da Isabella non mostrarono di accorgersi. La sua qualità di ore-
11 Berni senza nominarlo nel Dialogo contra i poeti e nominandolo nella let-
tera premessa al Commento al capitolo della primiera. Di lui si burlò pure,
ferocemente, l'Aretino nella Cortigiana, at. II, se. 11, mettendolo in mazzo
con quei poetastri di cui Leone X si dilettava perchè lo facevano ridere; e
più ancora se ne fece giuoco nel secondo prologo della redazione manoscritta
della Cortigiana (vedi Rossi, Pasquinate, p. 81). Il Casio gli avventava
contro de' sonetti ; ma ci volevano ben altri denti per trafìggere la dura co-
tenna dell'Aretino!
(1) Parla il Fantuzzi (III, 135) della dimestichezza che ebbe col card. Si-
gismondo Gonzaga e con Ludovico Gonzaga; ma s'inganna quando crede che
quest'ultimo sia il marchese e in quest'errore cade anche il Lancetti, Poeti
laureati, p, 394. Si tratta invece di Ludovico Gonzaga del ramo di Bozzolo,
figliuolo di Gianfrancesco e di Antonia del Balzo. Nel Libro intitolato Cro-
nica, ove si tratta di epitaphii di Amore e di Virtute, che è l'opera più
comunemente nota del Casio, molti Gonzaga sono celebrati; il vescovo Lu-
dovico, il march. Francesco, Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino, Laura
BentivogliO'Gonzaga, moglie di Giovanni Gonzaga. V'ha una parte del libro
intitolata La Gonzaga, nella quale l'autore esprime in sonetti il suo amore
per una gentildonna di quella famiglia ed inneggia ad altre della medesima
stirpe. E peraltro ignoto sinora come il Casio cercasse di trar profitto dalla
sua famigliarità coi Gonzaga, allorché nell'autunno del 1513 egli fu nomi
nato de' Quaranta dal papa. I Bolognesi non volevano riconoscere quella no-
mina, perchè egli non era nobile, sicché il Casio ricorse al marchese Fran-
cesco affinchè lo nobilitasse. In una supplichevole lettera del 24 ott. 1513
rammenta al marchese di « esser stato ragazzo de la bo. m. del R.*"" Car-
« dinaie di Mantova » e si rimette alla mediazione del pittore Costa, « che
« sa come se governano le cose di qua ». Non essendosi il marchese aflVettato
a compiacere il Casio, questi insistette con sue lettere del 30 ott. e del 4 nov.
1513. Nella prima di esse ripete che come ufficiale pubblico avrebbe meglio
potuto servire il marchese; nella seconda promette doni preziosi e manda
per arra « il Spirito Santo intagliato in una pietra, quale ha li ragi di foco
€ naturali ». Senonchè il marchese gli rimandava alquanto rudemente quel
dono (7 novembre 1513), « reputando che 'l stia meglio appresso voi, come
«persona che meglio di noi conosce la bontà sua, che noi ce intendemo
€ meglio de cavalli et arme che de intagli ».
(2) Parecchie opere del Casio sono dedicate ad Ercole Gonzaga, fra le altre
anche il cit. libro degli epitaffi. Come il Casio ivi dice, egli conobbe Ercole
allorché studiava in Bologna sotto il Pomponazzi, e da lui ebbe poscia l'in-
carico di scrivere dei versi in morte del celebre filosofo. Questo fatto é pur
58 LDZIO-RENIER
fice ricco e intelligente (1) riusciva in special guisa accetta alla
marchesa, che di orefici avea mestieri cosi di frequente. Il 23 ott.
1505, venendo a sapere Isabella che il valente scultore Gian
Cristoforo Romano sarebbe stato accompagnato a Roma dal Casio,
gli scrisse: « Se non sei partito anchor da Bologna, dirai a Hie-
« ronymo Casio che '1 voglia mandami per il presente cavallaro
« quello suo deaspi dove è intagliato Christo, perchè lo volerao
« revedere, e piacendoni lo pagarirao per el dovere » (2). Ma sic-
come poi seppe che il Casio rimaneva a Bologna, gli si rivolse
direttamente con la medesima commissione: «vi pregamo che
<c ne vogliati mandare per il presente cavallaro el vostro diaspis
«dove è intagliato Christo, perchè lo vogliamo revedere, non
rammentato nei versi con cui il Casio inviava ad Ercole il Libro intitolato
Bellona, che è un poemetto in ottave destinato a glorificare Innocenzo Cibo,
legato in Bologna:
Avendo ne' mie' incalti et flebil versi
Composti in epitafSo del Peretto
Felsineo cattedrante eccelso et magno
Filosofo e teologo divino
Compatriota tao, tuo precettore,
Ercol Gonzaga, illostre signor mio.
Ditto, ma pili per ver pronosticato.
Che perso quello, perderem te Alcide,
Nò forza avrà di rivocarti a noi
De '1 Sessa, d' el Spagnolo, o d'altri il nome.
Onde Felsina tua sarà scontenta.
Et perchè festi poi di qua partita
Ogn' hor fatte si son giostr' e dispute
Poste r bo in cart«, acciò che quel eh' udire
Non hai potato, né veder, leggendo
Bellona veggi, et che Minerva ascolti
E i colpi fatti da Cupido et Marte.
Così l'intrata felice et eccelsa
De '1 divin Cibo, Innocentio Legato
Leggi felice et con benegno Fato
Aspetta quel ch'io dissi nel mio canto
Co '1 tempo le due chiavi, il Regno e '1 Manto.
(1) Leone X, nel breve con che esentò Girolamo da ogni dazio nel viaggio
di Terrasanta, non manca di tributargli elogio particolare per la sua intel-
ligenza nel distinguere e valutare le gemme. Cfr. Fantuzzi, 111, 133.
(2) Venturi, Qian Cristoforo Romano, in Arch. stor. dell'arte, I, 118.
Il Casio dettò uno de' suoi sgangherali epitaffi anche per Giancristoforo. È
riferito neWArch. stor. dell'arte, I, 158.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE d'ISABELLA D'ESTE 59
« havendo bene a memoria corno stia. Perchè piacendoni lo rite-
« neremo et vi remetteremo el pagamento, il quale ne signifl-
« careti per vero et ultimo : et non vi remetteti già al arbitrio
« nostro, perchè non lo accepteressimo; ma ancora che '1 ne
« piacesse, vi lo restituiressimo ». Questa lettera è deirs nov. 1505.
L'il nov., malgrado questa esplicita dichiarazione, cosi rispon-
deva galantemente il buon Casio:
Ex. sa et Diva Patrona salute. Hora tornato dalla villa ho ritrovato in casa
la litt.* de di VII! de V. 111. S. ala quale questa sera risposta: et domatina
la penerò a la Ghavalcata, aciò che per il primo garzune de Bernardino sia
subito portata, et insieme lo adimandato Christo nel diaspro verde. Et per
obidientia dirò il pretio. V. 111. S. sera contenta aceptarlo per uno picolo
dono dal Casio, che ne receverà summo piacere; et se pur non mi vuol far
degno di questo, quella ne mandi quel più e quel meno de' XV ducati d'oro
che sera judicato per m.» Zoan frane.» della Grana (1). Ma la satisfacione
mia seria che V. IH.» S. lo tenese con memoria del Casio suo afectionatis-
simo et vero servitore, ala quale de continuo ex corde se le racom.» Bononiae,
die XI Nov. 1505.
E. IH. E. V.
Servìtor Hieronimus
Casiu^.
Di pietre intagliate la marchesa era assai ghiotta (2), e il Casio
ne avea di bellissime (3). Ma quella volta il Cristo non le con-
venne e lo rimandò con la seguente letterina del 18 giugno 1506,
(1) Così chiamavasi comunemente Gio. Francesco de' Roberti, saggiatore
della zecca di Mantova, pel quale vedi il nostro Lusso d'Isabella, p. 42.
(2) Se ne possono trovare testimonianze copiose nel cit. nostro articolo sul
Lusso d'Isabella. In quel medesimo anno Ì505 chiedeva al Casio di ricer-
carle « un qualche intaglio da sigillare ». 11 Casio gliene inviò un paio; ma
alla marchesa non parvero belli abbastanza, sicché li rifiutò. Vedasi Lusso,
p. 40. Altri intagli per sigillare furono mandati dal Casio alla marchesa
nel 1510.
(3) Secondo l'uso del tempo, il Gasio portava sul berretto una grande me-
daglia d'agata, in cui era intagliata la sua impresa, cioè la discesa dello
Spirito Santo sugli Apostoli. Con la spiegazione di quell'impresa il Casio
fece un giorno sbellicar dalle risa papa Clemente VII, come attesta il Giovio,
Dialogo delle imprese, Milano, 1863, p. 9.
60 LDZIO-RENIER
da cui appare che nel frattempo il Casio aveva per lei procurato
parecchi altri oggetti : « Havemo havuto la lettera vostra insieme
« cum una cassetta driciatavi per Zo. Angelo Tobalia (1). La co-
« rona di agate, corniole et calzedoni , che ce haveti mandata,
«vi la remettemo, non perchè ne sia spiaciuta, ma per esser
« fornite di corone. Seco agropato serra l'intaglio de Cristo in
« diaspis, che ne mandasti li di passati, che per non havere noi
< sfornita corona alcuna se non una de agata, meglio se gli con-
« vene l'intaglio di agata, il qual molto più de questo de diaspis
« ni piace; ma cum magior nostra comodità vi mandaremo li
« dinari. El calamaro piombino di curarne et la riga lavorata de
«legname, eh' haveti comperato a Venetia, li potreti retenere
« cossi sin che vi accada venire da noi ». Ma sembra che il Casio,
molto ricco e ambizioso, malvolentieri indicasse alla marchesa il
prezzo degli oggetti che le faceva tenere. Di che essa, un po' im-
bronciata, si lamentava nel seguente biglietto del 17 nov. 1506:
« Anchora che per un'altra nostra ve habiamo scritto che vo-
« lesti avisarni el pretio de le cose ne havete date, che ve man-
« daressimo li dinari, bora che l'interditlo è levato a' Bolognesi,
« nondimeno, visto quanto per la vostra ne haveti scritto prima*
« che habiati recevuta la nostra, habiamo facto extimare a pe-
« riti l'agata intagliata cum Cristo et lo quadro de le frute (2),
« quali sono extimati quatuordici ducati in tutto. Mandamoveli
(1) Si riferisce certo alla seguente ordinazione data al Tovaglia, che stava
a Firenze: «Quando li drappi che vi ordinassimo saranno finiti, potete man-
€ darli in mane di Hieronimo Casio in Bologna, che ce li rimetterà qua in
4 Sachetta, dove habiamo la stantia nostra ». Del 12 maggio 1505.
(2) Il € quadro de le frute » è certamente quel medesimo che il 15 aprile
1506 il Casio inviò a Isabella (insieme con un po' d'olive e con una Madda-
lena di Lorenzo di Credi) cosi designandolo: « uno quadro pieno de fructi
« facto per Antonio da Crevalcore, tra nui in questo exercitio si ngula rissimo,
« ma assai più longo che la natura ». In quella lettera egli le parlava anche
di certa Madonna di un « discipulo del Franza » di cui la marchesa, vedu-
tala, non avrebbe esitato a mandargli € tanti scudi quanto pesa ». Vedi la
lettera edita e debitamente illustrata da A. Venturi, neWArch. stor. del-
l'arte, I, 278.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'ISABELLA D'ESTE 61
« per Francisco correre, cum protexto che da mo' inanti vui ne
« habiati ad scrivere el pretio de le cose che voremo da voi,
« come per l'altra nostra havereti inteso. Si '1 Costa pletore ve-
« nirà in qua, lo vederemo molto voluntieri ».
Quest'ultimo accenno ci richiama ad un'altra specie di inca-
richi, che la Gonzaga dava volentieri al Casio, le trattative con
pittori suoi amici. In sul finire del 1506, come vedemmo, comu-
nicava il Casio che il pittore Lorenzo Costa era disposto a ve-
nire a Mantova. Sin dall'anno antecedente la marchesa doveva
aver ricevuto una sua tela, perchè già il 17 agosto 1505 Giro-
lamo le partecipava: « il r.""" Protonotario nostro Bentivoloiersera
€ me impose facesse intendere a V. Ex. come l'opera che faceva
« il Costa era molto inanti et che omnino sera finita prima che
« a Natale proximo, et per il juditio mio V. Ex. ne resterà sa-
« tisfactissima » (1). Il Costa si recò poi diffatti a Mantova nel
1507 e vi si trattenne alcuni anni, eseguendo diversi lavori per
il marchese e per Isabella, fra cui specialmente famosi due di-
pinti allegorici destinati al camerino della signora ed ora visibili
al Louvre (2). Suppose il Venturi che al trasferirsi del Costa a
Mantova contribuisse il bisogno da lui provato di « scuotere la
« supremazia del Francia », il fortunato e festeggiatissirao fra i
pittori bolognesi. E di ciò infatti può ravvisarsi un indizio nella
lettera d'Isabella a Lucrezia Bentivoglio dell'll sett. 1511, nella
quale la prega di dissuadere il Francia dal recarsi a Mantova
per farle il ritratto, anzitutto perchè « in quest'ultima volta che
« semo state retratte ni è venuto tanto in fastidio la patientia
« de star ferma et immota, che più non vi ritornaressìmo » e
poi perchè « non sapressimo mai usare tanto temperamento in
« racogliere esso Franza che non offendessimo il Costa, et diffì-
« cilmente ni lo conservaressimo amico » (3).
(1) Venturi, Lorenzo Costa, in Arch. stor. dell'arte, I, 251, n. 1.
(2) Venturi, Artic. cit., in Arch. stor. dell'arte, I, 250-53.
(3) Venturi, Artic. cit., in Arch. stor. dell'arte, I, 251, n. 4. Ma prima
in Luzio, Federico ostaggio, p. 61. Cfr. Yriarte, Isabelle d'Este et les
artistes de son temps, in Gazette des beaux arts. Serie III, voi. XIII, p. 27.
^'^ LCZIO-RENIER
Prima ancona che Francesco Raibolini detto il Francia si ado-
perasse a fare il ritratto d'Isabella, egli aveva da lei avuto inca-
rico d'un quadro pel camerino, e mediatore di questa e d'altre
commissioni pel Francia fu Girolamo Casio, a lui particolarmente
stretto d'amicizia, fors'anco per essere orefici entrambi (1). Già
il 2 aprile 1505 troviamo che la marchesa ingiunge al Casio:
« La littera continente la historia che dovea fare quel frate suso
« uno quadro per mettere nel camerino nostro, la qual poi per
< novo ordine desti, o dovevati dare, al Pranza pletore lì in Bo-
« logna per farlo fare a lui, voressimo che ve la facesti restituire
< et mandare qua a noi perchè voressimo mutare el sentimento:
« il che facto, ve la remetteressimo incontinente, acciò che poi
< el Pranza potesse dare principio a l'opera ». E in quella me-
desima lettera del Casio, in data 17 agosto 1505, di cui rift?rimmo
il periodo riguardante il Costa, vien sollecitata Isabella « ad man-
« dare il disegno de la tela ha da fare il Pranza, al quale ho
« portato, per lavorare in quella, azuro oltremarino finissimo ».
Mandi ducati 25 e il disegno al Francia, « qual non aspecta
«altro, né ha voluto pigliar lavoro alcuno». Comunque andasse
la cosa, sta di fatto che per allora quel quadro non fu eseguito,
e che ril genn. 1511 il Francia chiedeva alla marchesa «la
< misura et il lume » per dipingere « la tella del camerino de
« V. S. a' tempi passati ordinata a me per el nostro Casio » (2).
(1) Vuoisi che il Francia rappresentasse il Casio nella figura d*un pastore,
eh' è nel presepio da lui dipinto per il protonotario Ant. Galeazzo Benti*
voglio, oggi nella pinacoteca di Brera. Vedi J. A. Calvi, Memorie della
vita e delle opere di Francesco Raibolini detto il Francia, Bologna, 1812,
pp. 19-20. Il Casio esaltò il Francia in due sonetti delle sue Rime saer4^
nel primo dei quali lo esorta a tenersi sempre fido alla famiglia Bentivoglio,
nel secondo discorre della grande reputazione che il Francia godeva come
ritrattista. Vedi Calvi, Op. ctf., pp. 54-55, e sui ritratti del Francia ed il
loro valore Vasari, Opere, ediz. G. Milanesi, III, 545 e Crowe-Gavalca-
SELLE, Qesch. der ital. Malerei, voi. V, P. II, p. 597. In un orribile epitaffio
della Cronica il Casio encomiò Frama Felsineo^ orafo e pittore. Vedilo
riprodotto dal Fantuzzi e dal Malaoola, Urceo, p. 269.
(2) Lettera edita dal Luzio nel Federico ostaggio^ pp. 60-61.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE d'iSABELLA D'ESTE 63
Nel frattempo il Francia, non potendolo il Costa, aveva stupen-
damente ritratto il giovinetto Federico (1), da cui la madre aveva
(fovuto con dolore distaccarsi, per mandarlo ostaggio alla corte
di Giulio II (2). Quell'opera cosi ben riuscita del Raibolini, do-
veva accendere sempre più nell'animo della marchesa il desiderio
d'averne il dipinto pel camerino, ond' è che il 19 die. 1510 fece
sollecitare il pittore dal Casio, a cui scrisse: « Piacene che '1
« Pranza sii remaste satisfatto de li trenta ducati donatili per il
« retracto de Federico nostro figliolo et che '1 sii in opinione de
«fami il quadro per il nostro camerino passate le feste. Have-
« remo piacere che intendiati se l'ha il tellaro et la tela o vole
« che se la gli mandi de qui, et se l'ha la scripta de la inven-
« tione che gli mandassimo, et gli piace o non, informandovi
« bene de tutto il bisogno, a ciò che se possi provvedere che '1
« non babbi più a perder tempo » (3). Rispose il Francia me-
desimo con la lettera 11 genn. 1511 cui accennammo poc' anzi.
Isabella replicò includendo la lettera per lui in una pel Casio
(6 febbr. 1511), al quale diceva su per giù le medesime cose:
(1) La sostituzione del Francia al Costa nel fare il ritratto di Federico,
accennata dal Venturi (Arch. stor. dell" arte, I, 253), resta chiaramente pro-
vata da questa lettera di Isabella a Matteo Ippoliti: « Scriviamo al Costa
« che '1 faccia un ritracto de Federico et cil facci havere. Ma per che ere-
€ demo ch'el non haverà tempo, dovendo venire a Mantova col S.'« nostro,
« volemo, quando lui non lo facci, tu babbi cura di farlo fare al Pranza
« prima che parteti da Bologna, lassando bon ordine che '1 vi sia mandato
« con diligenza. Et acciò che sapiamo che cortesia usare con el Tp.^° Franza,
« parla con Hieronimo da Casio o altro che '1 te ne sapia informare et avi-
« .sacilo, perchè intendemo de remunerarlo. Mantuae, xxiiij Julii MDX ».
(2) II Casio fu mediatore in tutto questo negozio del ritratto di Federico,
come può vedersi dai documenti prodotti dal Luzio, Federico ostaggio,
pp. 59-60. La storia di quell'episodio potrà essere agevolmente completata
col mezzo delle lettere della marchesa al Casio del novembre 1510, che
esistono nel copialettere.
(3) Già il 29 nov. la marchesa avea pregato il Casio di informarsi se ve-
ramente il Francia fosse disposto a fare quel quadro e avea aggiunto: «ma
« volemo che ben vi chiariti se vorrà .sollecitamente farlo, però che quando
€ facesse pensere di stanchezarni , non voressimo lo principiasse et piglia-
€ ressimo altra via, perchè deliberiamo fare finire décto camerino »,
64 LUZIO-RENIER
Ex.me Francia. La tela del quadro che desideramo bavere di mane vostre
è fornita, e già Thaveressimo mandata, se gli sinistri tempi non ce lo ha-
vessino vetato: quando li tempi siino assettati vi la mandarimo cum la me-
sura et suo justo lume. Et perchè in la littera che scrivessimo ad Hieronimo
Casio gli facevimo instancia che '1 volessi intendere se la inventione di la
pictura vi piaceva, non havendoni di questo havuto alcuno aviso da voi,
piaciavi significami il parere et opinione vostra prima vi inviamo essa tela,
perchè semo per accostami sempre al judicio vostro, et alli piaceri vostri di
continuo ne o£ferimo. Mantuae, sexto februarii 1511.
Poi non ne sappiamo altro, e sembra che il dipinto pel camerino
non sia mai stato eseguito dal Francia. Egli compi invece felice-
mente quel ritratto della marchesa a cui abbiamo accennato, e
per quanto Isabella si rifiutasse di posare d'innanzi a lui, e in-
caricasse Lucrezia Bentivoglio di sovvenirlo co' suoi ricordi, riusci
l'imagine a perfezione, tantoché la Gonzaga vi si trovava « assai
« più bella che non ni ha facto natura », e gli inviava, col solito
mezzo del Casio, trenta ducati (1). Ulteriori relazioni col Casio
non ci sono note; ma è certo che la marchesa dovette trovarsi
con lui molte volte nel 1530 a Bologna, allorché il vanitoso mer-
cante poeta ebbe a fare il maggiore sfoggio della sua opulenza
per mettersi in vista presso i gran signori là convenuti (2).
Fra i lodatori d'Isabella e i devoti ai Gonzaga vuoisi anno-
verare anche un altro verseggiatore emiliano, che levò di sé
molto più grido del Casio, quantunque la sua maniera di poetare
sia contaminata da frivolità e leziosaggini d'ogni specie, il mo-
denese Panfilo Sasso (3). Noi non vorremmo dare per certa, at-
tingendo ad una torbida sorgente com'è lo Zilioli, la sua dimora
in Mantova, della quale non ci sono pervenute notizie documen-
tali (4); ma certamente dei Gonzaga egli fu estimatore costante.
(1) Luzio, Federico ostaggio, p. 61, ed Emporium, XI (1900), pp. 427-29.
(2) Vedi il cit. voi. del Giordani e anche Morsolin, Trissino, p. 165.
(3) Per rinvìi bibliografici intorno a lui vedi G. Rossi in questo Giornale^
XXX, 33-35. Si aggiunga V. Rossi, Il Quattrocento, pp. 393 e 402.
(4) Vedi il cod. Marciano X, 1, a p. 160, ove lo Zilioli scrive: < Ed ebbe
€ onorato trattenimento appresso al cardinale Ascanio Sforza e Lodovico duca
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'ISABELLA D'ESTE 65
Ad Elisabetta Gonzaga duchessa d'Urbino (1) dedicò Panfilo il suo
canzoniere (2), ed in un capitolo, che è una specie di visione,
celebrò le virtù singolari di lei, fingendo che le deità dell'Olimpo,
alle quali era cara, la salvassero da una grave malattia (3). In
un poemetto latino e in parecchie rime italiane esaltò il mar-
chese Francesco Gonzaga e il preteso suo trionfo del Taro, poiché
il Sasso seppe elevarsi talora dalle lambiccature delle rime amo-
rose, lucidate su quelle famosissime di Serafino Aquilano, a poesie
di contenuto più grave, in cui palpita sotto la retorica il senti-
mento della italianità (4). Lodò pure mes. Panfilo il card. Sigi-
« di Milano suo fratello, la potenza de' quali restando oppressa dalle armi
« de' Francesi, nella quale occasione fu fatto anch'egli prigione, si ridusse
«sotto la protezione della casa Gonzaga, e trattenendosi ora in Mantova,
« ora in Bologna, ora in Modena sua patria, consumò lietamente l'avanzo
< de' giorni suoi ». Queste notizie ci sembrano tutte da accogliere con grande
circospezione, tacendone il più accurato biografo che del Sasso fino ad oggi
si abbia, G. Tiraboschi, nella Bibl. Modenese, V, 22 sgg.
(1) Non a Isabella, come per is vista scrisse il D'Ancona, Studi sulla let-
teratura ital. de" primi secoli, Ancona, 1884, p. 219.
(2) Opera del preclarissimo poe \ ta Miser Pamphilo \ Sasso Modenese, j
Sonetti ecce VI. \ Capituli XXVIIJ. \ Egloghe V, Venetiis, per Guilielmum
de Fontaneto de Monferato, 1519 a di primo febraro; è la rara edizione da
noi esaminata ed a cui ci riferiamo.
(3) Cfr. il nostro Mantova e Urbino, p. 95 n.
(4) Vedi sulla poesia politica del Sasso F. Gabotto, Francesismo e anti-
francesismo in due poeti del Quattrocento, nella Rassegna emiliana, I,
288 sgg. Cfr. anche Pèrcopo, Un libretto sconosciuto di Panfilo Sasso, in
Studi di Ietterai, italiana, I, 194 sgg. Che, del resto, il Sasso accudisse
a cose più serie che il convenzionale rimare amoroso, lo prova anche an
fatto alquanto oscuro della sua vita, la scomunica lanciatagli contro per
eresia nel 1523. Le informazioni che noi oggi ne abbiamo rimontano alla
Cronaca modenese di Tommasino de' Lancellotti (Parma, 1862, I, 233-35),
alla quale ricorse al tempo suo anche il Tiraboschi, Bibl. Modenese, Y, 21.
A quanto si rileva dal Lancellotti, la scomunica non ebbe effetto; ma sui
particolari dello strano incidente sarebbe assai utile che qualche erudito mo-
denese ci illuminasse. Rammentiamo che nella tornata del 25 genn. 1861
della Deputazione modenese di storia patria Gius. Gampori produsse docu-
menti che dimostrano essersi il Sasso giustificato dell'accusa di eresia lan-
ciatagli contro dall'Inquisizione. Cfr. Atti e memorie di quella Deputazione,
Serie I, voi. I, p. xxxvi.
Giornale storico, XXXVIII , fase. 112-113. 5
6d LDZIO-RENIER
smondo Gonzaga, al quale dedicò i suoi epigrammi latini, e nel
XVIII de' suoi capitoli tessè l'elogio d'Isabella, di cui ammirava
la bellezza e la sagacia.
A.ltro ammiratore d'Isabella fu quello strano tipo di prete av-
venturiere parmigiano, che rispose al nome di Jacopo Gaviceo(l).
Avendo dimorato a lungo in Ferrara, egli fìnse colà la scena del
suo Libro del peregrino, una pesante e lasciva imitazione del
Filocolo (2), che piacque tanto ai contemporanei da meritare a
quel romanzo, entro i limiti del cinquecento, una ventina di edi-
zioni, non che una traduzione francese ed una castigliana (3).
A Ferrara il Caviceo visse in grande famigliarità con gli Estensi
e coi personaggi che frequentavano la loro corte (4). E là conobbe
sicuramente Isabella, che encomia nel proemio del Peregrino.
Questo proemio è messo in bocca all'anima di Giovanni Boccacci,
che fattosi « incola dela docta città di Ferrara, per contemplare
« una non più vista belleza e forma », dice le più ampie lodi
degli Estensi, cominciando da Lucrezia Borgia, alla quale il libro
è dedicato, e venendo al suocero di lei, duca Ercole, al marito
(1) La vita bizzarra del Caviceo fu narrata da Giorgio Anselmi. Vedasi
quel che ne dicono I'Affò, Mem. dei letterati parmigiani^ III, 79 sgg.; il
LiRUTi, Notizie de' letterati del Friuli^ 1, 424 sgg. ; il Ronchini, in Atti e
mem. per Parma e Modena, IV, 209 sgg.
(2) Per la favola e per la critica del Peregrino vedi specialmente Alber-
TAZZi, Romanzieri e romanzi del cinquecento e del seicento, Bologna, 1891,
pp. 13-33 e Rossi, Il Quattrocento, p. 135. Per quel che riguarda la forma,
il Pellegrino fu giudicato imitazione del Poli/ilo, non sappiamo con quanta
giustezza di criterio. Vedi Gnoli, // sogno di Poli/ilo, Firenze, 1900, p. 41.
(3) La prima ediz. è di Parma 1508. Per la bibliografia del Peregrino
cfr. Passano, Novellieri in prosa^, 1, 211 e Albertazzi, Op. cit., pp. lO'll.
E. Faelli, nella Domenica del Fracassa, II, 45, con l'aria di rivelare grandi
novità, non fa che rimpolpettare quanto altri avevano scritto.
(4) Nell'ultimo capitolo nemica fra i trapassati Ercole Strozzi, segno evi-
dente che l'ultima mano al libro fu data appunto in quel 1508 in cui esso
vide per la prima volta la luce. Rispetto agli amici del Caviceo menzionati
nel Peregrino vedi Affò, Op. cit.. Ili, 92. V'è tra questi Niccolò da Cor-
reggio, al quale è pure diretto un dialogo latino che il cod. Vatic. 7105
attribuisce al Caviceo e fu di recente pubblicato da L. Callari. Cfr. questo
Giornale, XXVIl, 172.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D ISABELLA D'eSTE 67
Alfonso, al cognato Ippolito (1), alla cognata Isabella. Di quest'ul-
tima lo spirito del Certaldese dice: «Accede alia tua [della
« Borgia] excellentia quello lume che extinguere non si può de
« quella vera mortale dea Helisabella Estense de Gonzaga prin-
< cipessa mantuana, alla quale le Muse fanno riverentia » (2).
Abbiamo anche indizio che il Gaviceo si valse della mediazione
di Isabella per venire a Mantova stabilmente, come giudice della
Curia del Podestà, giacché il 3 agosto 1501 troviamo che la
marchesa scriveva in questi termini a Manfredo de' Manfredi:
« Le lettere che V. M. ne ha scripto in favore de M. Jacopo
«Gaviceo parmesano, sono state di tale momento et efficacia,
« che quando per lo ili."'*' S/ nostro consorte già non fussi stata
< facta la ellectione d'un altro, nui non haveriamo mancato di
< usare omne opera possibile perchè esso m. Jacomo fussi substi-
< tuito al q. m. Hectore Ravano » (giudice).
Devoto agli Estensi fu pure Antonio Cornazzano, il Cornazan
per cui Placentia fulge, come lo chiamò Lelio Manfredi (3);
v'ebbe anzi chi addirittura lo considerò come ferrarese, perchè
in Ferrara si stabili con la famiglia e colà visse l'ultima parte
della sua vita (4). Uno de' suoi molti poemi è dedicato a Borso
d'Este, un altro alla madre d'Isabella, Leonora d'Aragona. Nessun
(1) Ad Ippolito dedicò poscia il Gaviceo il suo Confessionale, un dialogo
destinato a fare araiigenda dello scandalo provocato col Peregrino. Vedi
Affò, Op. cit.. Ili, 87-88 e 93.
(2) Queste parole non fanno punto l'impressione che ne riceve il Grego-
Rovius, Lucrezia^ ed. it., p. 322: «Il Gaviceo poteva insino osar di adulare
« la festeggiata Isabella Gonzaga con questo giudizio, che egli l'esaltava ab-
« bastanza, dicendole che si approssimava alla perfezione di Lucrezia ».
Questa pretesa inferiorità di Isabella si basa tutta su d'una interpretazione
sbagliata della frase « accede alla tua excellentia ».
(3) Vedi Flamini nella miscellanea per Nozze Clan, p. 298. 11 Flamini
rinvia ai principali scritti che si hanno sul Gornazzano. Si aggiungano Giom.,
XVII, 142; Gastellani, La stampa in Venezia, Venezia, 1889, p. 22; Rossi,
Il Quattrocento, pp. 165-66 e 170.
(4) Gfr. Rime scelte de' poeti ferraresi antichi e moderni, Ferrara, Po-
matelli, 1713, p. 565.
68 LUZIO-RENIER
dubbio che in gioventù la nostra marchesa dovesse avere più
d'una occasione d'intrattenersi col Gornazzano; ma documento
scritto non ne rimane. Abbiamo solo una letterina che per lei
scrisse Antimaco l'ultimo dicembre del 1503 al vescovo Ludovico
Gonzaga : « R ™« Intendo che la S. V. R."* ha presso sé il Gur-
« gulio et Ulularia, due comedie plautine traducte in vulgare,
« quale essendo io summamente desiderosa de bavere, prego la
« S. V. ad volermine compiacere et mandarle per il presente
« mio cavallaro, che adoperate che le habii gli le rimetterò senza
« alcuno dubio. Del Ourgulio intendo di quello del Coma-
ri zano » (1). L'indicazione non era oziosa, perchè del Curculio
esisteva già da anni un'altra versione, quella di G. B. Guarino (2).
La persona a cui Isabella chiedeva il volgarizzamento del Gor-
nazzano era a lei stretta per affinità di gusti, giacché il vescovo
Ludovico Gonzaga, zio del marchese Francesco, professava a
Gazzuolo un vero mecenatismo pei letterati e gli artisti, e si
mostrava in ispecie passionato cultore della drammatica classica
novamente richiamata in vita (3).
La drammatica ci fti pensare ad un aitro personaggio, fino ad
oggi malnoto, che vuoisi nato nell'Emilia, quantunque a Ferrara
abbia certo trascorso parte ragguardevole della sua vita, Gual-
tiero di San Vitale. Godesto rimatore, rievocato da studi recentis-
simi (4), fu un gran cultore del genere bucolico, in cui conquistò
una vera celebrità, come attestano le lodi dei contemporanei,
segnatamente quelle del Tebaldeo e "del Gasio. L'opera sua era
specialmente desiderata nelle corti, perchè egli componeva quelle
(1) D'Ancona, Originx\ II, 378.
(2) Giornale, XI, 178; Rossi, Il Quattrocento, p. 380.
(3) Vedasi Giornale, XII, 302-3; XIII, 305-7; XIX, 190 sgg.
(4) Vedi ScHERiLLO, Arcadia di Jacobo Sannazaro, Torino, 1888,
pp. ccxxviii-ix e 353 sgg.; V. Rossi, nel voi. per Nozze C¥an, p. 199, n. 3
(cfr. Il Quattrocento, pp. 388 e 437), e specialmente la erudita Appendice III,
che Giorgio Rossi fece seguire alla sua tavola del Codice Estense X *. 34,
in questo Giom., XXXIII, 265 sgg., ove su Gualtiero e sugli scritti di lui
son messe insieme le informazioni più copiose che sinora si abbiano.
COLTURA E RELAZIONI LETTERARIE D'ISABELLA d'ESTE 69
ecl(^he rappresentative, che furono cosi accette ai signori del
nostro Rinascimento e dalle quali in breve tempo sbocciò il
dramma pastorale (1). Di coleste ecloghe appunto venia compo-
nendo per avventura una silloge la marchesa di Mantova, la
quale da Gonzaga, il 16 giugno 1493, cosi ne chiedeva a Ludo-
vico Pio : <■ Desiderando nui fare uno libretto de Aegloge de
«diversi *uctori et sapendo che vui ve delectati de rime, c'è
< parso pregarvi che se ne haveti alcuna de Gualtiero o altro,
< da quella de Pan in fora che nui habiamo, ce ne faciati bavere,
< che ne fareti cosa gratissima >. Il Pio si affrettava a compia-
cere la colta signora, inviandole pochi giorni appresso le ecloghe
che si trovava d'avere. Ecco le letterine accompagnatorie:
III.™* ac Ex.™* D. mea sig.™* In resposta de quanto m'ha scripto la Ex. V.
de le Egloge gli dico che io me ne trovo alcune de Gualtero, al iudicio
mio assai bone, le qualle, per non essere quello ha le chiave del mio studio
in la terra, non le mando a quella, ma desiderando visitare V. Ex., fra tri
0 quatro giorni io me ritrovarò a Gonzaga e porterolle a quella, e pur quando
io non venissi cussi presto infallanter le rimetterò a la Ex. Y. per uno mio
messo . . .
Carpi, 18 Junij 1493.
Fidelis servitor
Ludovicus Pius de Sabaudia.
Ili."** et Ex.™* D.na D.na mea observandissima. A di passati la Ex.ci» V.
mi scripse ch'io gli dovesse mandare quelle poche egloghe mi ritrovava, et
per meser Bartholomeo latore presente gè le mando, et se più presto non
gli ho mandato, pr^o quella me perdoni perchè stava de giorni in giorni
per venire a Gonzaga. Io ancora havrei mandato a quella certi soneti, se
me fossi creduto dovesseno piacere alla Ex.à* V. De le dite egloge gè n'è
ana*la quale quando quella le lezerà me rendo certissimo che Tentenderà.
Et alla Ex.à* V. me racomando et prego se digni comandarmi. Carpi, die
27 Junii 1493.
S. Ludovicus Pius de Sabb.*
Armorum.
(1) Alle obiezioni fatte in proposito dal Carducci rispose, a parer nostro
vittoriosamente, V. Rossi in questo Giornale, XXXI, 108 sgg.
70 LUZIO-RENIER
In queste lettere non è specificato quali fossero le ecloghe in-
viate di Gualtiero; ma esse ad ogni modo confermano che quel
verseggiatore fu co' Pio in molta dimestichezza (1). Nel 1512,
tra i rimatori che inviano versi alla marchesa per deplorare la
morte della cagnetta Aura v' è anche Gualtiero di San Vitale.
Egli le fece avere questo tetrastico insulso e lambiccato:
Aara è qui sempre, benché senza fiato,
Piccol can de Isabella e già gran spasso.
Or a delicie è suo riposo passo:
Speri chi serve a un cuor gentile e grato (2).
Alessandro Ldzio - Rodolfo Renier.
(1) A Giovanni Pio è intitolata l'ecloga di Gualtiero che si legge nel ms.
Marciano it. Zan. 60 (edita dallo Scherillo, Op. cit.^ pp. 353 sgg.)- Di Mar-
gherita Pia, come il Casio aflferma, si dichiarava Gualtiero spasimante, al-
meno in rima.
(2) Si avverta che il Galmeta, nella Yita di Serafino, menziona Gualtiero
fra i poeti che più frequentarono la corte mantovana. Vedi le Rime di Sera'
fino de" CimineUi dall'Aquila, ediz. Menghini, Bologna, 1896, 1,10. Cogliamo
l'occasione per notare che la raccolta di ecloghe fatta dalla marchesa dovette
essere accresciuta anche d'un componimento di questo genere inviatole dal
medico Ludovico Panizza. Dedicata a Isabella è un' ecloga di lui, in terzine,
con tre interlocutori, nella quale « alegoricamente, sub specie di cose pasto-
€ rali » è adombrato in che cosa consista « la felicitade over beatitudine
€ umana possibile a conseguir per natura secondo li phisici ». Quest'ecloga
si conserva manoscritta nel primo fascio, del cod. Marciano it. IX, 211 e ce
la segnalò gentilmente Angelo Solerti. Segue un sonetto che è Imploratione
di soccorso da la Diva Isabella.
VARIETÀ
" Camminata di palagio " and " naturai burella "
{Inferno, XXXIV, 97-99).
When Virgil and Dante, on their way out of Hell, bave com-
pieteci their perilous passage along the shaggy sides of Lucifer,
Virgil disencumbers Dante from bis neck and places bina on a
ledge of rock, on to wbicb be bimself tben cautiously cliinbs.
Tbe place wbere he now finds bimself is described by Dante
as follows:
« Non era camminata di palagio,
Là Veravam, ma naturai burella,
Ch'avea mal suolo, e di lume disagio ».
The commentators and translators differ as to the meaning
of the word camminata in tbis passage. Some take it in tbe
sense of tbe French cheminèe, our chim^ney, and tbink that by
the expression * camminata di palagio ' Dante meant a largo
and easily practicable aperture. Tbe most emphatic supporter
of tbis view is Butler, wbo in bis note on tbe passage says:
' Although no commentator seeras to recognise the meaning (1),
and Du Gange, s. v. caminata, speaks only of « a room with a
« heartb in it », I can bardly doubt that Dante is using tbe
word in the sense of tbe French cheminèe, a sense which it
(1) See, however, Scartazzini's, Enciclopedia Dantesca, s. v. Camminata.
72 P. TOYNBEE
must bave possessed, the French word being found as early as
the thirteenth century. The meaning usually given, « a hall »,
is altogether out of place here. Every Alpine climber knows
what a « Kamin » is '.
Butler's assuraption that the italian camminata must bave
had the sense of ' chimney ' in Dante 's time, because the cog-
nate French word cheminèe bore that meaning at this date,
is hardly a safe one. Nor is it easy to understand why the
meaning ' hall ' is altogether out of place here, as Butler as-
serts. On the contrary, Dante's contrast between * a palace hall '
and the ' naturai burella ' is, as will he seen later, perfectly
naturai and appropriate. The only other contemporary instance
of the Italian word camminata which I bave been able to flnd
occurs in the Tesoretto (written in 1262 or 1263) of Brunetto
Latino, where there can he no doubt as to the meaning. Bru-
netto describes how he saw the figure of Justice with a crown
upon her head, * per una camminata ', that is to say, in a large
chamber;
' E partendomi un poco
r vidi in altro loco
La donna coronata
Per una camminata,
Che menava gran festa,
E talor gran tempesta '
(XIV, 43-48).
This use of the word was quite familiar in Italy, as is evi-
dent from Buti's comment on Dante's use of it; he says: *I si-
gnori usano di chiamare le loro sale camminate, massimamente
in Lombardia '. And Torraca points out a contemporary instance
of the Latin caminata in the same sense, which occurs in the
Fiorentine Consulte for the year 1279, thus proving that this
meaning of the word was familiar in Florence also (1). The pas-
sage in the Consulte runs as follows:
€ Die iovis XXll" februarii.
Gongregatis dominis Xllcim et duobus Sapientibus prò sextu,
congregatis in pallatio Comunis in caminata Potestatis ».
(1) See F. Torraca, Di un Commento nuotjo alla Divina Commedia
(Bologna, 1899), p. 115.
VARIETÀ 73
On the other band, the French word cìierninèe, though it
undoubtedly was used in the modem sense of ' chimney ' in
the thirteenth century, yet also, like the Italian camminata,
bore the meaning of ' hall ', as appears from an entry (dated
1291), which is given under this word by Godefroy in his
Dictionnaire de V ancienne langue frangaise: 'Gis compes fui
fay en la chemeneie par devant touz gros et menuz ' (i. e. This
account was raade in the council-chamber in the presence of
ali, both great and small).
The derivation of camm,inata in this sense (which is now
obsolete), is doublless from the low Latin * (camera) caminata ',
a room with a fire-place in it, a living roora; the substantive
being dropped, and the adjective being used substantively, by
the farailiar process which produced such terms in French as
*sanglier' (for ' porc sanglier ') from * porcus singularis ', *ra-
mage ' (for * chant ramage ') from ' cantus ramaticus ', * domes-
tique ' (for ' serf domestique ') from ' servus domesticus ', and
the like. The suggesled alternative derivation of camminata, in
the sense of ' hall ', from cammiìiare, as being a place which
is spacious enough for walking up and down, has not nmch
io be said for it, in view of the fact that both French cheminèe
and English chimney, which are obviously of the same origin,
are undoubtedly derived from the low Latin caminata, from
caminus, the Greek Kajuivoq, a fire-place.
Besides the fact that, so far as I am aware, no thirteenth or
fourteenth century instance of the word camminata in the sense
of ' chimney ' has as yet been discovered, there is the further
objection to this interpretation, that the force of the antithesis
between camminata, and hurella would in this case be greatly
weakened, if not altogether lost.
This consideration brings us to the question as to what is
the meaning of the expression * naturai burella ' in line 98.
The term * burella ', as has been pointed out by Torraca {Bull.
Soc. Dant., N. S., II, 157), is strictly speaking a proper name,
* Burellae ' being the ancient designation of the prisons of Flo-
rence. By an easy transition the term came to be used generally
for any prison or dungeon, just as ' Bridewell ' and ' Bedlam '
with US bave come to be used of any house of correction, or
any mad house. Torraca {loc. di.) draws attention to a very
interesting example, contemporary with Dante, of the use of the
word ' burella ' as the equivalent of prison. It occurs in the
74 P. TOYNBEE
poem known as 11 Fiore, which is a sort of free rendering of
the Roman de la Rose m a series of Italian sonnets, writton
towards the end of the thirteenth century — the line of the
Roman :
* Si convient que de prison salile \
is rendered by the author of II Fiore (in the hundred and
eighty-fìflh sonnet):
' e torni suso
E tragga l'altro fuor della burella \
What served as the dungeons of the * Burellae ' appear to have
been originally the cellars or vaults of the ancient Roman
theatre and amphitheatre in Florence, which from the tirae
of the Lombard occupation carne to he known respeclively as
the lesser and greater ' Perilasio '. Davidsohn in bis Forschungen
zur alter en Geschichte von Florenz (pp. 15 foli.) states that
these were at one period used as dens for wild-beasts, and he
derives this name Perilasio from the old germanio term hero-
laz, that is to say, * bear-cage '.
One of these ' Burellae ' (that in the * Perilasio piccalo ', the
ancient theatre) was situated in the districi of Florence known
as the 'Gardingo ' (1), which was in the neighbourhood of the
Palazzo Vecchio, on the site of the present Piazza di San Firenze.
It was bere that the Uberti afterwards built their palace, the
destruction of which by the populace in 1266, during the
joint tenure of the office of Podestà by Catalano de' Malavolti,
and Loderingo degli Andalò, is referred to by Dante in the
twenty-third canto of the Inferno (1. 108). The * Burella ' with
which Dante was familiar was that in the 'Perilasium major',
the ancient amphitheatre (which stood dose to the western
extremity of the present Piazza di Santa Croce); for, as Da-
vidsohn points out in bis Geschichte von Florenz (pp. 663-664),
the prison in the ' Perilasio piccalo ' appears to have fallen into
disuso about the middle of the thirteenth century, by which
lime the more exlensive structure in the amphitheatre had
come lo he known as the * Burella ' par excellence. This is
(1) See the pian of Florence in Dayidsobn's Geschichte von Florenz.
VARIETÀ 75
proved by the fact that one of the streets leading to it was
called in Dante's day ' la via della Burella ', which is marked
on the pian given by Philalethes at the end of bis third volume.
This is no doubt the sa me Street as the one spoken of in a
document of 1256, quoted by Davidsohn (Op. cU., p. 664, n. 1),
as ' strata per quam itur ad carcerem *. Torraca consequently
is mistaken in bis assumption (1) that the ' Burella ' of Dante's
day was in the 'Gardingo'.
Frequent mention of the ' Burella ' is made in the Consulte
Fiorentine (2) for the eighteen years from 1280 to 1298 recently
published by Alessandro Gherardi, from which it appears that
the ' Burella ' was not the property of the State, but was hired
at a yearly rental by the Fiorentine Government. Thus, under
date January 10, 1284, it is recorded:
*In Consilio generali Gomunis proposuit dominus Giliolus de
Machalufìs Potestas de locatione Borelle, secundum quod firma-
tum est per Consilia domini Capitanei ' (3).
Again, on the same day:
' In Consilio generali Comunis proposuit dominus Potestas
super locatione Borelle, facienda ad terminum unius anni cum
pactis et condictionibus lectis ' (4).
There are several entries relative to the amount of the rent :
' pensio Burelle '. Thus, on Aprii 6, 1290, it is recorded :
'Dinus fllius lannis consuluit . . . quod pensio Burelle sit
solum librarum L^* florenorum parvorum ' (5).
Again, on the tenth of the same monlh:
' In Consilio generali Comunis proposuit Ghighus Paradisi, ca-
merarius Comunis Florentie ... de pensione Burelle, solvenda
in quantitate librarum quinquaginta ' (6).
And on August 6, 1291 :
' In Consilio C virorum . . . Ser Arrighus Gratie consuluit . . .
quod pensio Burelle sit librarum Ixx** florenorum parvorum ' (7).
(1) Dì un Commento nuovo alla D. C, p. 115.
(2) Le Consulte della Repubblica Fiorentina dalVanno MCCLXXX al
MCCXCVIII, per la prima volta pubblicate da A. Gherardi, 1896-8.
(3) Voi. I, p. 145.
(4) Voi. I, p. 146.
(5) Voi. I, p. 392.
(6) Voi. I, p. 395.
(7) Voi. li, p. 48.
76 P. TOYNBEE
And on the ninth of the same month :
• In Consilio generali Gomunis Orlanduccius Orlandi camera-
rius proposuit infrascripta, presentibus Prioribus, videlicet . . .
de pensione Burelle et duarum domorum et duarum apotheca-
rum, prò uno anno incepto in kallendis januarii proxime prete-
riti, librarum Ixx'* florenorum parvorum ' (1).
Other entries refer to the wages of the warders (2), who at
one period appear to have been supplied by contract(3). Others
again relate to the charges for repairs - * reparatio Burelle ',
which mount up to a considerable sum (4).
One entry, dated March 3, 1290, has a special interest as
relating to certain Aretine prisoners, doubtless prisoners of war
taken at the battle of Campaldino, where the Fiorentine Guelfs,
araong them Dante * fighting vigorously on horseback in the
front rank ', as Bruni relates, won their great victory over
the Aretines and Ghibellines of Tuscany on June 11 of the pre-
vious year. This entry is further of interest as supplying an
instance of the use of the terra * burella', in the sense appa-
rently not of the State prison, the * Burella ', but in that of
prison quarters or custody in general. It runs as follows:
'In Consilio speciali domini Defensoris et Capitudinum xij"™
maiorum Artium proposita fuerunt ea que beri firmata fuerunt
in Consilio Centum virorum.
* Itera, petitio Faccini Peruczi et aliorura debentium recipere
pensionem, prò burellis carceratorum Aretinorura ' (5).
The * Burella ' is raentioned several other tiraes, in connexion
with various administrative details, in the records of the Con-
sulte (6); but the above instances are sufficient to show that
the word, as the narae of the city dungeons, must have been
perfectly farailiar to every Fiorentine of Dante's day. Dante,
therefore, in using the terra burella in the passage under dis-
cussion ran no risk of being raisunderstood by bis contempo-
raries. It was not ti 11 the hi story of the word was forgotten
(1) Voi. II, p. 95.
(2) See voi. I, pp. 388, 406, 440; voi. II, p. 311.
(3) See voi. li, pp. 553, 555, 653.
(4) See voi. II, pp. 206-7, 317, 366, 514, 515.
(5) Voi. II, p. 14.
(6) See voi. I, p. 432; voi. II, pp. 306, 341, 379, 457, 458.
VARIETÀ 77
that sudi interpretations as * caverna \ * luogo stretto ed oscuro ',
* luogo sotterraneo ', and the like, carne to be adopted. The fact
that the word, in its ordinary acceptance, was the name of a
prison explains Dante's use of the epithet ' naturai ', which
would otherwise be quite raeaningless, as it is, for instance, in
Butler's rendering: *a naturai cranny '.
The antithesis intended by Dante in these lines, then, was
not between « the chimney of a palace » and « a naturai cave »
or « cranny », — if that can be described as an antithesis — ,
but between a palace chamber, spacious and well-lighted, on
the one band, and a naturai dungeon in the rock, wìth rough
uneven floor, and scanty light, on the other —
€ Non camminata di palagio,
ma naturai burella,
Gh'avea mal suolo e di lume disagio ».
Paget Toynbee.
Js.N co RA.
DI
GIOVANNI MUZZARELLI
La " Fabula di Narciso " e le " Canzoni e Sestine amorose "
Qualche lettore ricorderà forse che, circa sette anni or sono,
in questo Giornale (XXI, 358-84), feci conoscere un'operetta
inedita di Giovanni Muzzarelli e che di li a poco Giuseppe Prato
trattava utilmente di alcune rime sue, inedite e mal note (1).
Oo'gi, non per feticismo erudito, ma per compiere un dovere,
se non altro, di bibliografo scrupoloso, ritorno per poco sul poeta
mantovano; e avverto subito che le nuove notizie che sto per
comunicare agli studiosi, se non sono tali da giustificare la lode
concessagli con la prodigalità consueta dell'autore del Furioso,
purtuttavia, mostrandoci più copiosa e più varia che non si sa-
pesse bene fino ad ora, la sua produzione poetica, giovano a
rendere meno inesplicabile quell'encomio (2).
(1) Alcune rime di G. Muzzarelli, nella Miscellanea Nozze Cian-Sappa,
Bergamo, 1894, pp. 261-7.
(2) 11 risultato negativo della ricerca eh' io feci nelle stanze introduttive
della Fabula e fra le Canzoni del Muzzarelli, viene a confermare l'idea da
me posta innanzi (Op. cit., p. 359) e accolta dal Prato, Op. cit., p. 263, n. 3,
che l'Ariosto, o per una svista o per ragioni d'opportunità, abbia rappresentato
il poeta gazzolese lodatore della duchessa Eleonora e non della duchessa
VARIETÀ 79
Fra le operette del Muzzarelli rammentate dal D'Arco nel vo-
lume V delle Notizie delle Accademie ecc. e di circa Mille Scrit-
tori mantovani, manoscritte nell'Archivio Gonzaga, è una Fa-
bula di Narciso, della quale avevano fatto menzione il Quadrio (1)
e il Graesse (2), ma che né a me, né al Prato era riuscito di ve-
dere. Recentemente, esaminando una miscellanea a stampa della
Biblioteca universitaria di Pisa (Mise. 360), ebbi la buona sorte di
rintracciarvi la scrittura muzzarelliana che apparisce imperfet-
tamente a catalogo. E siccome l'opuscolo che la contiene è assai
raro, né fu mai illustrato fino ad ora, incomincio col darne una
descrizione compiuta, se non minuziosa.
Stantie nove de mesaer Antonio \ Thibaldeo: d'un vecchio
quale non am^ando in gioventù : fu \ constretto amare in vec-
chiezza ed altre Stantie \ singularissime in dialogo ed una
Fabu^=L I la di Narciso de Messer Giovan \ ne Mozarello da
Mantoa.
In fine: Stampato nella inclita Città di Vene- 1 tia per Nicolo
Zopino e Vincentio co | pagno Nel. M.D.XXII. Adi II. De Sete |
brio. Regnante lo inclito Principe | Messer Antonio Antonio
Grimani.
Sotto il titolo, che è in carattere gotico e in inchiostro tutto
nero, sta una rozza silografia, che rappresenta un uomo (Apollo?)
in piedi in atto di suonare la viola e di cantare, e seduti all'ingiro
in un giardino altri suonatori o suonatrici (le Muse?), che l'ac-
compagnano le più con istrumenti da fiato. Sul davanti è una
vasca d'acqua; a terra sono sparsi fiori, nello sfondo si vedono
due alberi e varia verzura. L'opusc. è in 8^ con segnat. A-Eiiii,
quindi formato di 36 carte; due delle quali, la Ei e la Eiii, man-
cano nell'esemplare da me avuto sott'occhio (3).
Elisabetta, alla quale è dedicata l'opera pastorale da me illustrata. Un
nuovo documento delle relazioni che il M. ebbe coi Signori di Mantova, ci
forniscono i tre distici suoi a Federico Gonzaga, primogenito del Marchese
Francesco, che si leggono nel cod. Vatic. lat. 2836, e. 318 r.
(1) Storia e rag., IV, 1749, p. 115.
(2) Trèsor ecc., alia parola Thebaldeo. Il D'Arco, citato dal Prato (p. 264),
registra anch' egli tre edizioni, zoppiniane, della Fabula, ma una del 1520,
l'altra del 1522 e la terza del 1552. Per quest'ultima è probabile trattarsi
d'una svista. Certo nessun bibliografo l'ha mai ricordata.
(3) Non mancano nella copia posseduta dalla Marciana (Mise. 2405), una
cui descrizione minuta mi favorì il dr. A. Segarizzi, cosicché mi fu possibile
integrare l'esemplare manchevole da me adoperato. Ben più gravemente mu-
80 V. GIAN
Le Stantie del Tebaldeo, dedicate dallo stampatore «allo illustre
« Signor Orsino », incom. : « Usanza è di ciascun che stato sia »
(ce. Ai i r - Aiiii r). Seguono (ce. Aiiii v -D'xr): Stantie dello Achil-
lino da Bologna in Dialogo De effecti de Amore. Questione
bellissime. Interlocutori Antiphilo e Philero (1), che com. « Diva
« gentil, nel cui pudico petto », e ad esse tien dietro (ce. Di - v
Eii?5) La Fabula di Narciso del Mozarelo da Ferrara (sic).
Il libretto si chiude con gli Strambotti novi di messer Zan
Polio Aretino Alias Polastrino (2). Questa edizione del 1522 è,
tilato è l'esemplare della Bibl. Estense, del quale G. Frati fece due volte
menzione, Tuna nella Append. I delle sue pregevoli Lettere di G. Tiraboschi
alp. L Affòy Modena, 1895, p. 584, l'altra nell'accurato Saggio d'un Catalogo
dei cod. Estensi^ Paris, 1898, pp. 34-5 (estr. dalla Revue des Bibliothèques,
1897), e del quale potei avere i più precisi e minuti ragguagli mercè la cortesia
del prof. Giorgio Rossi. Questo frammento d'opuscolo, mancante della data
finale, non può essere assegnato all'edizione del 1522, perchè mentre esso ha
nel frontespizio: in Facetia duna vechio e per el Mosarello da Ferrara^
i due esemplari della seconda edizione esistenti a Pisa ed a Venezia non
hanno 1* in facetia e il da Ferrara è corretto in da Mantoa. La piena
corrispondenza in questi due punti tra la copia estense e il frontespizio che
della ediz. 1518 riferì il Graesse, farebbe pensare che quella copia appar^
tenga alla prima edizione. Il guaio è che due esemplari di questa, il mar-
ciano e il ferrarese, non recano nel titolo l' in facetia e hanno un de Mantoa.
Il piccolo problema bibliografico non ammette che due soluzioni: o il Graesse
ha errato la data dell'anno, e allora l'esemplare modenese appartiene pro-
babilmente all'ediz. del 1520; oppure è necessario supporre che durante la
tiratura dell'ediz. 1518 si siano introdotte nel titolo quelle due varianti.
Più ardito sarebbe pensare all'esistenza d'una quarta edizione.
(1) Veramente, tutt'altro che « bellissime » ; ma agli studiosi potrà interes-
sare il sapere che, trattando la questione se l'amore sia stato prima della
gelosia, Antifilo cita in sostegno dell' opmion propria un sonetto del « fe-
« condo Calmela»; che Filerò, per contro, invita l'avversario a leggere,
dice, € il magno mio Gaspar Vesconte Ne l'opera che fa di Paulo
«e Daria »: infine che sono menzionati come i più valenti poeti estempo-
ranei il Corso e Bernardo Accolti.
(2) Questi Strambotti, siccome non figurano nel frontespizio, furono trascu-
rati dai bibliografi, che descrissero questa stampa. Sono 15 e com. Amore stm
tempo io mi san stato quieto. Di questo rimatore del Cinquecento fa ricordo
il Quadrio, 111, 291; VI, 173, 609, e due sue lettere a Pietro Aretino sono
fra le Lettere scritte a P. Aretino, ristampa di Bologna, 1873, I, i, 225-9.
(Cfr. Cortigiana, III, 7). Come mi comunica con la solita liberalità l'amico
prof. V. Rossi, notizie di Zuan Polio si trovano raccolte da Ap. Zeno nel
cod. Marc. It., X. 74. e. 21. Fra esse è la seguente fede di morte: * e. 23 r.
VARIETÀ 81
senza dubbio, quella medesima che fu registrata dal Quadrio,
sebbene probabilmente egli non l'abbia veduta, dacché ne rife-
risce il titolo come di opuscolo a sé, staccato dalle Stantie del
Tebaldeo. Ma non fu né la prima, né la sola. Già il Graesse
aveva citata una stampa zoppiniana anteriore, del 1518, mentre
il Panzer (1), sull'autorità del Catalogo Pinelli, aveva notata
una ristampa del 1520, uscita dalla medesima officina veneziana.
Rammentando che Mons. Giuseppe Antonelli, il defunto biblio-
tecario della Comunale di Ferrara, aveva lasciata inedita una
monografia bibliografica sullo Zoppino (2), ricorsi al suo degno
successore, il dr. Giuseppe Agnelli, il quale, con l'abituale cor-
tesia, mi trascriveva di sulle schede da lui preparate a comple-
mento di quelle Antonelliane, la descrizione di due edizioni, quella
del 1518 (posseduta dalla Marciana e dalla Comunale di Ferrara)
e quella del 1522 (posseduta dalla Marciana), mentre per la se-
conda, dei 1520, doveva anch'egli rimettersi al cenno del Catalogo
pinelliano.
II.
La Fabula di Narciso tratta un soggetto mitologico, che ebbe
grande fortuna nell'antichità classica prima e dopo Ovidio (3),
ma che, grazie al testo ovidiano (Metamorph., Ili, 339-510), ram-
pollo vivace d'un tronco alessandrino, si dilTuse largamente, per
« Libro de Morti coperto di cartapecora contrassegnato Lit. A a e. 13, della
« Chiesa di S. M.* di Murello detta dell'Oriente (in Arezzo?). Memoria come
«21 d'Agosto 1540 la buona memoria di Giovan Pollio Lappoli Gan®
« Aretino e poeta laureato passò della presente vita d'infermità di flusso
« d'anni 75 e fu messo in deposito nello Spedale di S. Marco dove abitava
« per essere della città unitamente e clero. Iddio l'habbia decorato in
« cielo si come era d'infinite virtù decorato in terra ».
(1) Annales typ.. Vili, 462, n. 1033, dov'è citato il Gatal. Pinelli, IV, 351.
(2) La notizia è data in modo esplicito da A. Tessier, Lo Zoppino, nel
Giornale d. eruditi e curiosi, an. I, voi. Il, 1883, n" 36, col. 612. 11 Tessier
(col. 604) registra seccamente, fra le stampe zoppiniane delle Stanze nove^
l'edizione del 1520 e quella del 1522 soltanto.
(3) Cfr. F. WiESELER, Narkissos, Gòttingen, 1856. Ricco, l'articolo Nar-
ftissos nel Roscher, Lexikon 0.er griechisch. u. róm. Mythol.^ voi. Ili, 1898,
coli. 10-2L
Giornale storico, XXXVHI, fase. 112-113. 6
82 V. GIAN
derivazione più o meno diretta, nell'età media e nel Rinasci-
mento, tema caro a poeti e prosatori , cosi d'arte come di
popolo, nonché agli eruditi. Com'è naturale, esso occorre nel
più de' casi sotto forma di accenno incidentale o di similitudine,
anche nella letteratura nostra, preceduta pure in questo dalla
francese e dalla provenzale. Nella lirica delle origini attira la
nostra attenzione un sonetto di Chiaro Davanzati (1), dove
peraltro l'imagine tradizionale è stemperata e riesce tanto inop-
portuna quanto rapida ed efficace riappare sovra ttutto nel Pa-
radiso dantesco (2). I vecchi commentatori si compiacquero di
illustrare largamente quel passo, attingendo dalla solita fonte
latina, ben nota anche all'Alighieri. L'Ottimo, ad esempio, impa-
ziente, fino dal C. XXX dell'/n/erno, rinarra la storia di Narciso,
abbandonandosi ad una graziosa parafrasi ovidiana, di schietto
sapore trecentistico; ed Ovidio Maggiore cita esplicitamente
maestro Benvenuto da Imola, che non può tenersi dal dire « jo-
< cunda » questa « fabula », e ne sa trarre la morale, dacché,
egli avverte, « iste Narcissus certe est juvenis vanus, vagus
« et certe omnis terra habet suos Narcissos ». E appunto que-
st'abbondanza di giovanetti vaghi e vani notata dal loquace imo-
lese, dovette senza dubbio giovare alla diffusione del nome di
Narciso, che divenne persino popolare e proverbiale, sovrattutto
in alcune regioni d'Italia (3).
Dal Petrarca e dal Boccaccio (4) al Serdini (5), al Poliziano (6),
(1) È il son. Come Narcissi in sua spera mirando^ che il Gaspary, La
scuola poetica sicil., p. 104, citò ancora inedito nel cod. Vatic. 3793 e che
si legge nelle Antiche rime volg.^ IV, 249.
(2) III. 18. Nell'in/!, XXX, 128 il ricordo di Narciso occorre in una pe-
rifrasi per designare l'acqua, « lo specchio di Narciso ».
(3) Nel bolognese v'è una maschera montanara. Narciso vecchio^ che
nella settimana grassa va accattando e canta narcisate. Cfr. Vlllustr. ital.,
an. XVII, n. 6, pp. 109-12 (6 febbr. 1890), secondo l'indicazione fornitami
dalla Bihliogr. delle tradiz. popolari del Pitré, n° 3445.
(4) Vedasi, del Petrarca, il son. // mio avversario, in cui veder solete,
e del Boccaccio il madrig. I (Rime, ed. Livorno, 1802, p. 59): Come su fonte
fu preso Narciso.
(5) Alludo al famoso sirventese 0 specchio di Narciso, o Ganimede, pel
quale cfr. Giornale, 34, 331.
(6) Nella Giostra (st. 79, v. 4) Narciso non è ormai che un fiore, il quale
« al rio si specchia, come suole ».
VARIETÀ 83
al Boiardo (1), a Gaspare Visconti (2), al Pistoia (3), al Tebaldeo (4),
continuò frequente e vivo il ricordo della bellezza e della va-
nità del mitologico giovinetto, il quale, se ebbe lieta accoglienza
anche da parte del più antico novelliere nostro, l'ignoto compi-
latore del Novellino (5), non ebbe sulle scene quella fortuna che
ebbero altri suoi confratelli, primi fra tutti Orfeo e Cefalo.
Erano gli anni nei quali, alle corti di Ferrara e di Mantova
più che altrove, Ovidio — il poeta delle Metamorfosi — trion-
fava, e dopo avere offerto materia e ispirazione ai nostri canta-
storie (6), continuava a fornirne alla poesia narrativa d'arte, non
meno che alla lirica, alla drammatica e alle arti figurative (7).
L'esempio d.Q\V Orlando Furioso basta per tutti (8); ma come do-
cumento eloquente di quei gusti giova rammentare che in un
sonetto amoroso il Boiardo aveva cantato:
(1) Specialmente nel son. Solea spesso e nelle Egl., I, 116, VII, 94.
(2) È il son. lo non me tengo Adone ovver Narciso, scritto dal poeta
« contro un suo denigratore », che si legge nel Parnaso italiano, ed. Venezia,
Antonelli, 1846, 197.
(3) Nel son. Che dirai tu delle donne da Siena?, che è il 17^ nell'edizione
Renier ; e nel son. Novel Narciso, in cui fa la vertute, a p. 209 dell'ediz.
Cappelli-Ferrari.
(4) A farlo apposta, la 4* delle cit. Stanze nove del Tebaldeo com. E
corno a Eco fu crudel Narciso. Aggiungo che nel poemetto YAretusa di
B. Martirano abbiamo la fusione dei due miti di Narciso e di Aretusa, come
rilevò recentemente il Pometti, V Aretusa di B. M., in Rendiconti dei
Lincei, S. V, voi. IV, 1895, ci. Scienze morali, pp. 254 sgg.
(5) È la nov. 46 , che ha il n» 144 nel testo Panciatichi, ediz. Biagi. Gfr. la
XI delle Novelle antiche pubbl. dal Paranti in Appendice al swo Catalogo
dei Novell, italiani in prosa, voi. I, Livorno, 1871, pp. xxi-xxiv. Per l'illu-
strazione vedasi D'Ancona, Le fonti del Novellino, in Studi di crii, e storia
letteraria, Bologna, 1880, p. 318.
(6) Vedasi l'elenco delle Storie che è nello Zibaldone attrib. ad A. Pucci,
illustrato da A. Graf, in questo Giorn., 1, 287. Doveva essere fra le Storie
antiche dell'ignoto rimatore, che nel Cantare dei Cantari (pubbl. dal Rajna,
in Zeitschrift f rom. Phil., II, 1878, pp. 426-31) ricordava quella di Ateone
e di altri personaggi «E ciò ch'Ovidio iscrisse di costoro».
(7) Basti vedere, nelle Fonti dell" Orlando Furioso del Rajna ', Vindice di
fonti e riscontri, sotto Ovidio, Metamorfosi.
(8) Trattandosi d'un poeta mantovano, sarà opportuno ricordare una lettera
del 4 dicembre 1479, con cui il card. Francesco Gonzaga consigliava a Fran-
cesco MafFei di far eseguire certe pitture in graflSto, una delle quali doveva
rappresentare la « fabula de Meleagro ». Si solevano perciò consultare i
letterati, e in tal caso il Maffei doveva ricorrere al Cosmico (V. Rossi,
N. L. Cosmico, in questo Giornale, 13, ili).
84 V. GIAN
Solea spesso pietà bagnarmi il viso
Odendo raccontar caso infelice
De alcun amante, sì come se dice
De Piramo, Leandro e di Narciso.
Pertanto, nulla di più naturale che il giovane Muzzarelli, du-
rante il suo soggiorno nella Corte di Lodovico Gonzaga, vescovo
di Mantova, a Gazzuolo, cioè non più tardi del 1511, pensasse
di rimaneggiare la gradita materia ovidiana, prendendo occa-
sione di sfogarvi le sue pene d'amore, come già aveva fatto nel-
Taltra operetta ricalcata sullo stampo degli Asolarti bembeschi (1).
La Fabula di Narciso ha un carattere schiettamente narra-
tivo, anzi le pretensioni d'un vero e proprio poemetto mitologico
in ottava rima, con la sua brava protasi (2) e con una calda
invocazione ad Erato bella, amica di Cupido. Vero, che il suo
stile è « basso e reo » ; ma essa non vorrà sprezzarlo, se non
altro, in grazia del soggetto, che è il racconto d'uno straordi-
nario, sovrannaturale esempio d'amore. Lo scrittore si consola e
prende animo pensando che tutti gli altri che al suo tempo si
dicono e sono salutati poeti, non sono neppur essi Maroni, e che
non è possibile che ognuno sia un Omero. Prega dunque le Muse
tutte di non isdegnarlo, perchè, egli dice, sono avvezze a trat-
tare con versaioli ancor peggiori. « poi eh' ancor a peggior andar
« seti use ». Singolare impasto cotesto di modestia falsa e di grot-
tesca presunzione! Tanto più grottesca, dacché il Muzzarelli,
non contento di questo po' po' d' invocazioni , rivolge vivi
preghi anche a « Venere Santa », perchè voglia guidar la sua
barca, .e in compenso delle sue fiamme per lei e del racconto
amoroso, scelto a materia di questo canto, gli conceda la corona
d*alloro :
(1) Con ciò vengo ad affermare che, pur mancando dati cronologici mi-
nuti e precisi, l'operetta dedicata alla Duchessa Elisabetta e che il Muzza-
relli disse sua « giovenil fatica », è probabilmente anteriore alla Fabula.
(2) Come saggio, trascrivo la prima stanza, per quanto infelice :
Non visto in altri mai foco d'amore
Forse oltra le confin dil naturale
Che accefle un dì se stesso in tal Airore,
Qaal già non so se unqnanco altro mortale
Sol perch'ei fu d'amor disprextatore.
Che lo distrasse in doloroso male
Intendo di narrar: hor gli è dento,
0 Sacre Muse, aver il vostro aiuto.
VARIETÀ 85
Tal che ancor spero mi coronarai
De lo arbor verde di che acceso m'hai.
Qui egli trova modo di spendere un'intera stanza per alludere
ad un poeta, fiorentino, che per virtù di A^enere, era salito in
grande fama e nel quale non so se si possa ravvisare il Pe-
trarca (1). Curiosa la forma onde, il poeta gazzolese, invoca anche
la benevolenza e l'attenzione degli uomini, nell'accingersi a nar-
rare la sua « istoria » :
Si che torniamo alla istoria nostra,
Attendete, auditor, la parte è vostra.
Ma quegli auditori non devono trarci in inganno, dacché si
tratta, invece, di lettori, travestiti in tal foggia forse per ef-
fetto di una consuetudine derivata ai poeti d'arte dai cantastorie
di popolo (2).
La nascita e la prima giovinezza di Narciso sono esposte se-
condo la narrazione ovidiana. Il figlio di Liriope e di Gefiso
andò sempre crescendo in bellezza. A ventun anno, desiderato
da tutti, tutti sprezzava, inesorabile, Driadi, Napee, pastori.
Fauni, Dei, Dee, Semidee. Tra la schiera delle Ninfe, innamo-
rata di lui più d'ogni altra, era Eco, « Eco, che visse allora
« in corpo umano », ma che fin d'allora aveva il difetto di non
poter né tacere, né « parlar avanti », e uno strano modo di
rispondere: « avea com'ora il suo risponder strano ».
(1) 11 poeta, continuando a rivolgere la parola a Venere, esce nell'ottava
seguente :
Accendesti an di qael che or per me si ama
E ben poi dir: per lui latta refulgo,
Che quel bramando che or da me si brama
Et exaitando il nome eh' io divulgo
Fu roco forse pria con poca fama,
Mormorator[i] di Corti, un hom dil Tulgo,
Poscia acquistò cosi ornato idioma,
Che non Firenze par, ne ha gloria Boma.
(2) Se pure non è reminiscenza delle rappresentazioni drammatiche allora
in voga, nelle quali il Nunzio od altri invitava gli spettatori al silenzio e
all'attenzione. Un esempio almeno il Muzzarelli doveva conoscerne, quello
del Poliziano, poeta a lui ben noto, come sarà fra breve dimostrato; nella cui
Fabula di Orfeo^ datasi alla corte mantovana, un pastore, dopo che Mer-
curio ha annunziato la festa, segue dicendo : «State attenti, brigata ecc. ».
86 V. GIAN
Questa sventura la ninfa se l'era meritata per aver adoperato
troppo e a tempo inopportuno la lingua, immischiandosi in fac-
cende assai delicate; era stata un giusto castigo che le aveva
inflitto rirata e gelosa Giunone quando s'accorse che essa, ma-
liziosamente scaltrita, la teneva a bada con le sue chiacchiere
per lasciar tempo a Giove di godersi le amorose avventure con
le beltà terrene, in quegli anni nei quali egli discendeva quaggiù,
per le selve « ardendo sempre il cor di fiamme nove ». Alle
minacce della Dea segui tosto l'effetto, tristissimo. Udiamo il
poeta :
Allor rimase priva della voce.
Che (la sé stessa non può far parola,
L'infelice Eco, e se ode un'altra voce.
Risponde sempre al fin della parola^
Ripetendo il tenor di quella voce
Raddoppia il suon de l'ultima parola.
Così ad ognun dopo il parlar risponde,
Né parla prima, ma sempre risponde.
Artifici cotesti onde il Muzzarelli avrà creduto di rappresen-
tarci in maniera arguta e insuperabilmente efficace non il par-
lare, bensì l'echeggiare delia povera ninfa. Ma i guai di lei
non erano finiti ; altri gliene incolsero, anch'esi:'i conseguenza del
castigo inflittole dalla Dea corrucciata, il giorno in cui, presa
d'amore irresistibile per Narciso, vide nell'impedimento della
parola un grave ostacolo ai suoi amorosi disegni. Aveva incon-
trato il giovinetto cacciatore « con l'arco in mano e con la rete
« in collo », cosi vago e adorno che quasi l'avrebbe scambiato
per Apollo; e d'allora non ebbe più pace. Lo seguiva dovunque
nelle sue peregrinazioni, appassionata, instancabile, ma sempre
costretta a tener sepolti nel cuore i suoi desideri ardenti.
A questo punto il racconto s'interrompe. Il poeta, dinanzi alla
sorte compassionevole di Eco è tratto a pensare ai suoi propri
casi, a sfogar le sue proprie pene:
Ah misera Eco, non misera sola!
Ch' io stesso il gran male esperimento
Qualor anti al mio ben che a me s'invola
Per narrar le mìe pene mi appresento,
Né so formar, nonché parlar, parola
Che palesi il mio male, il mio tormento
E pur di me pensar non m'ò concesso.
Perché entro tutto in lui fuor di me stesso.
VARIETÀ 87
Un giorno, trovandosi a caccia, Narciso, scostatosi dai suoi
compagni, era rimasto solo; Eco lo seguiva, come sempre, dav-
vicino :
Disse allor il garzon discompagnato :
« 0 miei compagni, è quivi alcuno "i » — Alcuno^
Eco risponde. Ed ei meravigliato
Mirossi attorno e non vede veruno.
Poi grida: « Vieni», ed è da lei chiamato,
Ma chi lo chiami ancor non vede ninno.
« Che mi t'asconde? » lui; e « Che mi t'asconde? — »
« Non mi sprezzar » — « Non mi sprezzar », risponde.
« Quivi si congiongiamo », esso favella.
Allor più lieta che mai fusse in vita :
« Quivi si congiongiamo », risponde anche ella.
E accesa di nuove fiamme esce dal suo nascondiglio nella spe-
ranza di essere accolla fra le braccia del giovane amato; ma
invano, che questi fugge turbato, sdegnoso, imprecando (1).
Lasciamo per un istante la misera Eco struggersi in lacrime
e con rimagine del suo Narciso nel cuore consumarsi tanto che
rimarrà di lei solo la voce. Lasciamola, per notare che le stanze
testé riferite ci porgono il saggio più antico ch'io conosca di
eco responsiva nella poesia nostra. Vittorio Imbriani che all'eco
responsiva nelle pastorali italiane del Cinquecento e del Secento
consacrò una serie di appunti o spogli bibliografici, asserì (2),
sull'autorità del Dunlop, che in un'ottava deirOr/*eo il Poliziano
aveva dato esempio di tale artificio. Ma ciò è inesatto, dacché
solo nelle Stanze occorre un passo dove l'eco è appena fugge-
volmente accennato (3).
(1) Riferisco quest'altra ottava come nuovo esempio di Eco responsiva :
Esce la ninfa e speranza la mena
Per puor le braccia al col desiderato;
Ma come fa da lai mirata a pena,
Fuor di misara il gioven fu turbato,
Fuggesi altrove e lei lascia con pena
E disse, poi che alquanto è dilongato :
« Prima morrò che abbi di me tu copia ».
Ella rispose: « Abbi di me tu copia » !
(2) Nel Giornale napol. di filosofia ecc., voi. II, 1872, p. 282.
(3) Nella st. 62 del lib. I i compagni di Julio, non ritrovandolo a caccia,
lo chiamano ad alta voce: « Le lunghe voci ripercosse abondono; E Julio
88 V. GIAN
Del resto il merito di tale priorità è ben piccolo, tanto più
che Targomento stesso aveva suggerito questo artificio e Ovidio
ne aveva dato un esempio che, a dispetto delle censure di Mar-
ziale, ebbe non poca fortuna.
Ma ritorniamo alla ninfa innamorata, la quale
Or ha in odio la vita e il suo martire,
Ma per troppo dolor non può morire.
Tutto quanto le ricorda il bel Narciso, è uno strazio pel suo
cuore, tutto, perfino i fiori, la terra toccata nel passare dal suo
piede delicato, l'aria spirante dal luogo ov'egli soggiorna:
Abbraccia Taura e chiamala beata,
Che vien dal loco ove Narciso siede
E tanto piange e sospira ogni fiata
Qualor alcun de' soi vestigi vede.
Che l'erba è in dubbio e non sa somigliarse.
Viver per pianti o per sospir seccarse.
Versi cotesti che ho voluto riferire, perchè danno un'idea
delle gravi disuguaglianze che sono nel poemetto del Muzzarelli:
tali, che, nella ottava medesima, ad un sentimento delicato, bene
espresso e che fa pensare a un tratto stupendo della Gerusa-
lemme Liberala (1), succede una brutta smorfia secentistica.
Eco, randagia per grotte oscure e per luoghi selvaggi, delira
e qu^si impazzisce; rimangono di lei soltanto la voce e l'ossa, e,
consunte anche quest'ultime dal fuoco d'amore, prendono a poco
a poco forma di sassi. Unica superstite, erra pei boschi e per
€ Julia le valli rispondono >. E nella st. seguente: «Pur Julio Julia sona
« il gran diserto >. Non mi stupirebbe tuttavia che altri esempì mi venis-
sero additati nei lirici del Quattrocento cadente, specie in quelli della schiera
cortigiana. Intanto giova notare che questo artifizio era penetrato anche
nella poesia latina del Rinascimento, e in componimenti d'ispirazione clas-
sico-mitologica, come in uno del Tebaldeo (Carmina ili. paétar. Italar.^
IV, 239) e in componimenti d'ispirazione religioso-cristiana, come in certi
versi del milanese Francesco Panigarola Echa in Christi Natalem (Carni.
cit., VII, 66).
(1) Là dove Erminia, rivolta al campo cristiano dove giaceva ferito Tan-
credi, esclama sospirando:
0 belle agli occhi mioi tende latine !
Ann spira da voi che mi ricrea ecc.
VARIETÀ 89
le solitudini la voce, « servando nel parlar sua prima usanza ».
Ma, prima di mancare del tutto, la ninfa invoca con la mente gli
Dei, perchè facciano le sue vendette infondendo in Narciso un
ardore amoroso pari al suo. L'ode Cupido e pensa di esaudirla,
anche perchè il giovinetto pastore gli sembra troppo crudele.
Spicca il volo e rapido giunge al palazzo di Venere, sua madre,
e sul letto eburneo di essa, mirabile opera di Vulcano, il poeta
ci fa vedere scolpiti tutti gli esseri della natura e da ultimo le
imprese di Amore stesso, dominatore degli uomini e degli Dei,
del mondo universo. A questo punto la narrazione rimane bru-
scamente interrotta, dacché l'ultima scena descritta è il ratto
di Ganimede (1). E cosi incompiuta dovette la Fabula esser la-
sciata dall'autore per cagioni che non ci è possibile determinare.
In tal modo egli, dopo aver dato un notevole svolgimento a
quell'episodio di Eco che era estraneo al nucleo originario della
leggenda di Narciso, non potè o non volle trattarne l'episodio
fondamentale, quello della punizione del giovinetto, la quale qui
ed in Ovidio è rappresentata o accennata quale una vendetta
della ninfa reietta. Manca, in altre parole, l'innamoramento di
Narciso al fonte e la conseguente metamorfosi sua in fiore.
Se avesse continuato il suo cammino col poeta di Sulmona,
probabilmente il Muzzarelli sarebbe proceduto più spedito sino
alla mèta. Cedette invece all'invito irresistibile d'un'altra guida
e fini col deviare, con l'indugiarsi, sino a rimanere a mezza via.
Questa guida fu il Poliziano, il quale pure, per amore dell'epi-
sodio descrittivo che all'arte sua mirabile dava occasione di rie-
vocare i colori e le forme più belle dell'antichità classica, lasciò
incompiute le Stanze, ma lasciò tuttavia un frammento prezioso,
quasi un torso stupendo di marmo pano, che permetta di indo-
(1) Questa, l'ultima stanza :
Novellamente el cor de un strai ferito
Diventa abitator de* boschi de Ida
E di fallaci penne rivestito
Di queir augel in che più si confida.
Via se ne porta il bel garzon rapito.
E ver chi ha di costai custodia fida,
Grida levando a Tarla ambe le mani
E crudelmente al ciel latrano i cani,
dopo la quale, cosi nell'edizione del 1518, come in quella del '22, si legge
la parola Finis.
90 V. GIAN
vinare e ammirare lo bellezze della statua intera. Che altro torso
sia riuscita la fàbula del mantovano non occorre ch'io dica.
Piuttosto gioverà notare che l'influsso del Poliziano si mani-
festa più aperto in essa a partire dal punto in cui Eco languente
invoca vendetta dagli Dei. Da qui in avanti il Muzzarelli stacca
l'occhio dalle Metamorfosi e lo volge alle Stanze; la Nemesi ovi-
diana {Rhamnusia) che accoglie la preghiera della Ninfa, cede
il posto all'alato Cupido, nel quale è facile riconoscere il piccolo
dio del poeta mediceo (1).
Cosi nell'uno come nell'altro poemetto Cupido vola al palazzo
della madre; come l'Ambrogini, il giovane gazzolese s'industriò
di descriverlo, ma invece di inspirarsi, si lasciò incatenare. Il
che fa pensar davvero a due versi del Poliziano (I, 91): da un
canto,
dall'altro,
E bianchi cigni fan sonar la proda.
Il pappagallo squittisce e favella.
Chi sia il cigno, chi il pappagallo viene a confessare lo stesso
Muzzarelli, che arriva sino a portar via di pianta dal poeta to-
scano un verso, come il seguente: « E la materia è vinta dal
(1) Basti confrontare la seguente ottava del Muzzarelli, dove è descritta
la partenza di Cupido :
Spiega le penne e tre volte le scnote
E cosi irato in su s'inalza a volo, '
Or le chiude ed hor il ciel percote,
Drieto gli vola innumerabil stnolo
Di van desiri e di speranze vote
E de incerte allegrezze e certo duolo.
Con queste et altre sue veloci squadre
Pervenne al bel palagio de la Madre,
coi versi seguenti del Poliziano (I, t^8 sgg.):
Ma fatta Amor la sua bella vendetta
Mossesi lieto pel negro aere a volo
E ginne al regno di sna madre in fletta...
Ov'è de' piccini suo' fratei lo stuolo.
E il fiUace Sperar col van Desio ecc.
Cotal milixia i suoi figli accompagna.
VARIETÀ 91
«lavoro». Curioso peraltro, che in tal caso egli avrebbe potuto
accusare di furto anche la sua guida, a quella guisa che molti
anni più tardi Torquato Tasso strapperà questo fiore al giardino
del Poliziano (1).
Come si vede, questa Fabula di Narciso, tentativo fallito, è
un prodotto caratteristico della poesia nostra nell'Italia supe-
riore, in quel periodo che va dalla composizione éoìV Orlando
inna'inoroto alla terza edizione originale del Furioso e durante
il quale sorsero le Stanze e, per l'esempio di queste e della rin-
novantesi tradizione trecentistica, le rime e le prose del Bembo.
Tentativo fallito, dicevo, per difetto d'ingegno e per colpa della
materia, troppo esclusivamente classica, troppo scarsa d'interesse
e di virtù e di capacità ispiratrice. Solo il Poliziano fece il mi-
racolo, che fu un mezzo miracolo, oltre il quale non c'era posto
che per la vana imitazione formale.
La stessa Favola dì Narciso di Luigi Alamanni (2) e la Tì^as-
formazione di Glauco di Luca Valenziano (3), non a caso ve-
nute dopo VOrlando Furioso, benché per la più felice elabora-
zione artistica dell'ottava rima avanzino di molto l'operetta del
nostro mantovano, nella storia del genere non segnano un vero
progresso. Con gli anni, e sotto l'influsso soverchiante del mal
gusto, perdutosi il senso della misura e della verità nell'arte, la
storia o poemetto mitologico crescerà gonfiandosi a corpulento
poema mitologico e metterà capo d\V Adone. Allora il racconto
di Narciso e gli altri consimili diventeranno materia prediletta
ai fabbricatori di drammi pastorali e di melodrammi (4).
Il Muzzarelli, forse per consiglio del Bembo, che gli fu protet-
(1) In Ovidio {Metam., II, 5) : < Materiam superabat opus » ; nel Poliziano
(I, 95, 4) : € Ma vinta è la materia dal lavoro », verso tolto di peso poi dal
Tasso (Gerus. liberata, XVI, 2, 6): «Che vinta è la materia dal lavoro»,
il che andrà aggiunto nella bella edizione di S. Ferrari, Questi riscontri,
manco dirlo, sono già nel classico commento di G. Carducci. Altre deriva-
zioni polizianesche nella Fabula di Narciso, più o meno evidenti, tralascio,
perchè non ne franca la spesa.
(2) E citata, insieme con la favola seguente, dal Quadrio e si può leg-
gere riprodotta nel voi. dei Versi e prose di L. Alamanni, Firenze, Le Monnier,
1859, pp. 75-90.
(3) Nelle Opere volgari di M. Luca Valentino Derthonese, MDXXXII,
in fine: Vinegia, Vitalli, MDXXXII, e. 13y.-17r.
(4) Rimando airALLACCi, Drammaturgia, Venezia, 1755, col. 551. '
92 V. GIAN
tore e maestro, forse perchè scoraggiato dalle difficoltà, rinunziò
all'impresa. Certo è che solo dopo la sua morte (1516) questa Fa-
bula vide la luce. Il suo manoscritto, capitato, com' io credo, per
opera di qualche amico indiscreto, nell'officina dozzinale dello Zop-
pino, fu dato alle slampe, e in cinque anni ebbe, come s'è visto,
l'onore di tre edizioni scorrette, probabilmente in grazia del Te-
baldeo, il cui nome figurava nel frontespizio e che, anche dopo
le vittorie del nuovo petrarchismo e d'un'arte più severa, conti-
nuava a godere d'un grande favore fra i lettori men colti. Ma in
séguito, dopo quell'esplosione di pubblicità, la Fabula cadde in
un oblio tanto meritato quanto era stato immeritato quel primo
onore. Ed io non l'avrei esumata, se col tempo l'operetta muz-
zarelliana non avesse acquistato almeno un pregio, quello della
rarità e preziosità bibliografica e, più ancora, se non mi fosse
parsa un documento non trascurabile nella storia della fortuna di
« Ovidio maggiore » e degli influssi esercitati dal Poliziano sulla
nostra poesia volgare del Rinascimento.
III.
Miglior prova fece il Muzzarelli nella lirica d'amore (e più
nella forma del sonetto, che in quella della canzone) industrian-
dosi, spinto fors'anche da qualche vero impulso del cuore e dalla
realtà vissuta, a mettersi, non senza una certa corretta eleganza,
sulle orme del Petrarca e del Bembo. Ma io qui non intendo di
parlare di un argomento nel quale ben poco avrei da aggiun-
gere o modificare a quanto ne scrisse il Prato. Mi restringerò
invece ad una descrizione bibliografica e ad una breve osser-
vazione.
Nel suo saggio sul Muzzarelli il Prato (1) deplorava di avere
cercato indarno l'unica raccoltina a stampa delle rime muzza-
relliane, della quale aveva fatto menzione il D'Arco. E infatti
il libretto, benché assai più tardo delle citate edizioni zoppiniane,
è più raro di esse, tanto che rimase ignoto perfino a quei me-
ravigliosi frugatori di cimeli che furono il Crescimbeni, il Quadrio,
lo Zeno e il Tiraboschi.
L'unico esemplare a me noto, giaceva appiattato nella Biblio-
(1) Op. cit.y p. 264.
VARIETÀ 93
teca Nazionale di Firenze (Palatina, 12. 2. 1. 34), e per la sua
rarità appunto vale la pena di darne notizia agli studiosi. È un
opuscolo in S" picc, di 66 pp. numerate, che nel frontespizio ha
il titolo seguente:
Canzoni \ Et Sestine \ Amorose \ di M. Giovanni Muzza \
velli I Nobile \ Mantuano \\ In Ferrara | Appresso Valente Pa-
nizza I Mantuano, 1562. Dal quale titolo si apprende una notizia
affatto nuova e non so quanto fondata, quella della nobiltà del
Muzzarelli, che, nativo com'era, di Gazzuolo, apparteneva al
contado mantovano. In fine è ripetuto : In Ferrara \ Appresso
Vale7ite Panìzza \ M.D.LXIL
Alla raccoltina delle Canzoni e Sestine va innanzi una lettera
dedicatoria del Panizza ai « Magnifici Signori Camillo e Carlo
« Scaloni fratelli », ch'egli continua a dire suoi « padroni », seb-
bene sappia e deplori d'aver perduto da un pezzo, e meritamente,
la loro grazia. Per l'antica amicizia s'è indotto a dedicar loro questo
libretto, « che, sforzato (egli aggiunge) dal priego di alcuni miei
«amici e dalla affezione che tengo alla mia patria», ho voluto
dare in luce. Di queste poesie « di m. Giovanni Mozzarelli nostro
« mantovano » gli aveva fatto copia il suo carissimo Salicino.
Non contento di questa lettera, il Panizza le fa seguire una
filza di miserabili ottave, pur dedicatorie agli Scalona, dalle quali
si desume, di tra la farraggine delle lodi, anzi delle adulazioni,
rivolle ai due magnifici fratelli, e alla Livia e Liodora e Quinzio,
'rispettivamente sorella, madre e minor fratello loro, il vivo de-
siderio suo di riacquistare, col « picciol dono », la grazia perduta.
E per accrescere pregio a questo dono lo zelante stampatore
pensò di inserire fra le rime del Muzzarelli due sonetti del Sa-
licino. Seguono le Canzoni e le Sestine e nell'ultima carta la
Tavola dei Capi, nella quale i capoversi delle rime non sono
disposti in ordine rigorosamente alfabetico e sono comprese anche
le poesie del Panizza e del suo amico Salicino, al quale siamo
debitori del raro libretto. Nel riprodurre , senz' altro, questa
Tavola, che andrà utilmente aggiunta dAYJndice con tanta cura
compilato dal Prato {Op. cit., pp. 276-7), ne riordino i capoversi,
indicando quali di essi appartengano alle rime dei due amici e
quale sia la forma metrica e il numero progressivo dei rispettivi
componimenti nella stampa originale.
94 V. GIAN
TAVOLA DEI CAPOVERSI.
[All'alta impresa a e' bora v'accingete. Ottave di Valente Pa-
ni zza"].
Amanti, il vuo' pur dir, che ogn'un m'intenda. Canx. XXV. (1)
Amor, beato Amore. Canz. IV.
Amor, chi vide mai si belle chiome? Canz. V.
Candidissimo avorio alto e divino. Canz. XIX.
Chi brama di gustar con gli occhi, Amanti. Canx. XIV.
Chi mi darà giamai. Canz. IX.
Chi vuol veder quel che non può Natura. Canz. XVI.
Come poteva Dio. Canz. III.
Entro un pian di finissimo alabastro. Canz. XX.
La donna che al camin del ciel mi scorge. Canz. XXIII.
La donna che '1 mio cor ne gli occhi porta. Canz. XXIV.
[Non si tosto vien for l'amata Aurora. Son. di A. Salicinó].
Occhi chiari, leggiadri, occhi beati. Cnnz. XIII.
[Occhi soavi, che co '1 dolce sguardo. Son. di A. Salicinó].
0 mente, or prendi ardire. Canz. XII.
Or, mente innamorata. Canz. XI.
0 vaga man de le più belle cose. Canz. XXI.
Qual meraviglia è quella. Amor beato. Canz. VI.
Quella man che fa il ciel stupir sovente. Canz. XXII.
Ristretti in piccol loco. Canz. XV.
Se pur debbo seguire. Canz. X.
Sì come Febo alhor che con più forza. Sest. I.
SI come nel seren di pura notte. Sest. II.
Sovente con Amor l'alma si dole. Canz. II,
Terso, celeste, netto. Canz. XVIII.
Un bel colle amoroso. Canz. VII.
Un divin glorioso. Canz. XVII.
Un pensier che '1 mio cor tutto possedè. CanM, 1.
Un vago eccelso piano. Canz. Vili.
(1) È una stanza staccata dalla Canz. (non Madrigale) che figura nell'/n-
dice del Prato (p. 277) e com. 5' io v osassi di dir quel che piangendo.
VARIETÀ 9'f
I componimenti raccolti dal Panizza nel disadorno opuscolo
sono tutti compresi in quella scrittura che io dimostrai essere
un' imitazione degli Asolani bembeschi, anzi si può dire ch'egli li
abbia tratti da essa, tralasciandone tre canzoni soltanto (1). In-
torno ad essi non aggiungerò se non una osservazione; ed è che
in un gruppo numeroso, anzi nel più caratteristico, di queste
sue poesie il Muzzarelli esagerò, con lo zelo consueto degli imi-
tatori, un tèma comune della lirica del Petrarca e dei suoi se-
guaci. In quello e in questi, specialmente nell'autore della Bella
mano (uscita la prima volta per le stampe nel 1479) e in Andrea
Baiardi (il parmigiano vissuto tra il cadere del XV e il principio
del XVI secolo e celebratore del bel collo della sua' donna), si
nota la tendenza, non pure a descrivere le bellezze della donna
amata, tendenza che è propria di tutte le età, ma a lasciare le
descrizioni vaghe ed astratte, per giungere ad altre sempre più
minute e particolari — tormentose cesellature — sia anche nella
raffigurazione d'una realtà soltanto imaginata. Il castellano di
Mondaino credette forse di sollevarsi al disopra dei suoi fratelli
d'armi poetiche ritraendo e commentando con più esagerata mi-
nuzia e con istudiata prolissità, le singole parti della persona cara.
È vero che nella chiusa della prima canzone, sentenziando sulla
impossibilità di descrivere adeguatamente quelle bellezze, aveva
giudicato « esser meglio tacer che dirne poco »; in effetto peraltro,
posto al bivio di scegliere tra il silenzio d'oro e il dir molto,
preferi questo secondo partilo, anzi disse troppo, sebbene cercasse
un'occasione e insieme una giustificazione nella gara impegnatasi
fra Epenofilo e Filotimio, com'ebbi già ad avvertire. Infatti, dopo
alcune poesie contenenti generiche descrizioni delle bellezze
della sua donna, nella Ganz. VI e nella Sest. II ne esaltò le
chiome, nella Ganz. VII, la fronte, nella Ganz. VIII, il viso, il
naso ed altro con sempre maggiore indiscrezione. Nientemeno
che cinque canzoni (Ganz. IX-XIII) celebrano i bellissimi occhi
di lei, in modo da formare cinque sorelle; e poscia viene la volta
del viso (Ganz. XVI), del collo (Ganz. XVII-XVIII), del petto
(Ganz. XIX e XX), della mano (Ganz. XXI-XXII).
Gurioso, infine, a notarsi che il giovane poeta credette di ac-
(1) Sono le Ganz. 0{h) s' io potessi, amanti; Miste con gigli candide
vermiglie; Fresche leggiadre rose.
96 V. GIAN
crescere la varietà e l'efflcacia e scemare la monotonia delle sue
prolisse, stemperatissime descrizioni, con qualche tratto di sensua-
lità concettosa ed artificiosa. Male consigliato anche in questo,
perchè più d'una volta non fece che tradire peggio i suoi artifici
da goffo secentista indarno celato sotto la maschera del petrar-
chista industrioso e paziente (1).
Vittorio Gian.
(1) Sceglierò due esempi soltanto. Nel congedo della Canz. Vili, dopo
aver descritto le bellezze del viso, del naso, accennando air intenzione di
scivolare più giù, pel lubrico sentiero, il poeta così si rivolge alla sua Can-
zone: « Ganzon, se alcun s'ammira del tuo parlar, rispondi: O che faresti,}
« Se quel che ti si cela conoscesti? (sic) ». E nella Canz. XIX, descrivendo
il bel petto, dice che alla guardia di tante bellezze sta Amore, il quale, ineb-
briato dal piacere, « infra i bei pomi siede, | Poi grida con gran voce: | Voi
« ch'abitate in terra, se cercate | La via di gire al ciel, qui la imparate » '.
Questo cantava l'alunno del Bembo nell'età di Leone X, cioè fra l'ardente
Serafino e il Marini; ma né all'uno, né all'altro dei due poeti egli non
avrebbe avuto da invidiare.
xjisr
ROMANZO SATIRICO
DEL SETTECENTO
Nel 1760, dalla stamperia di Antonio Zatta, in Venezia, usci
un libretto di 187 pagine, in piccolo ottavo, intitolato Avven-
ture I di Lillo I cagnuolo bolognese, \ storia critica e galante \
tradotta dall'inglese: un breve romanzo, tanto dilettevole e ar-
guto e originale tra i romanzacci allora di moda, che merita
un cenno singolare da parte di chi studia quella produzione
letteraria del settecento.
A tergo della prima pagina, è un brutto rame raffigurante
una stanza adorna di specchi, dall'uscio della quale entra una
donna che alza le braccia e visibilmente grida per cacciare un
cane ed un gatto che sur un tavolo stanno per sollazzo strap-
pando e sgualcendo le carte di alcuni libri. Segue il frontespizio;
poi, una breve prefazione del traduttore ; poi comincia la nar,
razione; la quale è divisa in due lììrri, l'uno di tredici, l'altro
di diciotto capi. Do queste minute indicazioni bibliografiche-
perchè rarissima ormai e preziosa è l'edizione. Ma nel riassu-
mere il racconto, sarò breve.
L'autore ama i cani; lo confessa; li ammira, come Gasparo
Gozzi (1) e il nostro Raiberti ammiravano i gatti; e ne fa un
(1) Vedi l'artic. della Gazzetta veneta, pubblicato nelle Opere di G. Gozzi,
Venezia, Molinari, 1812, voi. XI, pp. 121 sgg. Il Gozzi collaborò pure nella
Giornale itorico, XXIYm, fase. 112-113, 7
98 G. B. MARCHESI
lungo elogio (lib. I, cap. I), perchè sono buoni, sono fedeli,
ubbidienti, utili, perchè Turon cari a Diana e Teseo, ad Ercole,
a Luciano, al re Carlo II, ai filosofi e alle donne, e poi perchè
sono migliori di tanti uomini ! Altri narri le solite avventure di
un zerbino; egli narrerà quelle di un cane.
Lillo (cap. II) nato a Bologna « città celebre per bei cani e
« salsicciotti », giovanissimo ancora, nella dotta e grassa città,
è caduto in potere di una bellissima signora inglese. Le cure e
le attenzioni che questa gli usa, non dico; lo ama certo, come
ogni filantropica dama del settecento, più de' suoi servitori e
più anche de' suoi vagheggiatori infiniti e stucchevoli ; persino
più del povero e buon Ilarione, un giovanotto inglese biondo e
bello, che bazzica la sua casa ed è sempre da lei piacevolmente
sopportato in ogni ora, « alla pettiniera, al bere del tè, a pranzo ».
Già, per piacerle bisogna prima piacere a Lillo, acquistarsi le
simpatie di Lillo. Ilarione, un giorno, presenta alla signora una
preziosa collana di diamanti; e quella ne adorna il collo del ca-
gnolino. « Oh », le dice il vago Adone, « si giurerebbe che voi
« avete la facoltà di far belli i vostri cani quanto volete! ». Ma
la donna non si commuove nemmeno a quel tratto di spirito,
e neppure questa volta si arrende. Sicché Ilarione, stanco,
qualche giorno dopo «fortificatosi con un bicchiere di tokai »,
va bruscamente ad annunziarle che parte. La signora sviene,
si vuole uccidere, poi, alla fine, si acqueta, quando l'amante,
per ricordo, le dona un orologio d' oro. Commossa, per ricordo,
ella pure vuol fargli un dono, e gli afl3da... indovinate, Lillo, il
carissimo Lillo, — ma dopo avergli tolta la collana di diamanti.
— Perfida!
Il giovine e il cane lasciano così l'Italia, e si recano a Londra
(cap. III). La città intera si commuove al grande avvenimento.
Tutti ne parlano. Adone è tornato. Le gazzette « per le quali
«è una fortuna, quando non c'è guerra, l'avere almeno tali
«avvenimenti da riferire», comunicano tutte la notizia: «Il
«signor Ilarione, dopo aver viaggiato nei tali e tali paesi
«d'Europa, è finalmente tornato in patria». Le signore nelle
conversazioni, non discorrono d'altro. Ed egli, il giovin signore,
riapre il suo palazzo, riceve, ciarla, si compiace mostrare le
Raccolta del Balestrieri, In morte d'un gatto. Più tardi per altro scrisse un
capitolo In biasimo del gatto, Opere, XIX, pp, 172-76.
VARIETÀ 99
antichità portate d' Italia, « preziosi pezzi di nasi e dita vec-
« chie di statue, e monete e pitture », usando un certo frasario
imparaticcio di termini tecnici, che lo fan parere erudito (1). —
«Parlava di colorito, di tinte, di gradazioni. Il disegno di
« quella figura era scorretto; la movenza dell'altra non aveva
« grazia, non era ben osservato il costume, i contorni erano
«duri, l'ordine irregolare, troppo gagliardo il lume, l'ombre
« troppo forti ». — Poi fa grande sfoggio di abiti, di cavalli, di
carrozze, e fa che tutte le svenevoli donnine gli cadano ai
piedi. Finamente satirico e spiritoso è un dialogo che l'autore
ci riferisce tra due signore che si disputano Ilarione, gelose
l'una dell'altra, e ne annoverano e ne esaltano le doti singolari.
Tra le tante amiche del nostro giovane, Lady Ermione è quella
ch'egli più onora di visite. Quanti lunghi intimi colloqui bisbi-
gliati sul dorato sofà, soltanto Lillo testimone! (cap. IV). Egli le
racconta la storia del cagnuolo, inventando le spacconate più
meravigliose : a Bologna egli ha avuto cento amori e cento duelli,
e in duello ha ucciso il marito della padrona del cane! Le narra
fantastiche avventure di viaggio, le parla deWopera italiana,
dell'uso del belletto presso le donne di Parigi, ormai divenute
tali maestre nel camuffarsi, che anche le donne di settant'anni
(1) Riguardo al conto in cui eran tenuti nel settecento gl'inglesi che vi-
sitavano l'Italia, ricordo che l'avventuriere Goudar li scherni in una sua
Relation historique des divertissements de Vautomne de Toscana (1774).
II veneziano Antonio Piazza, rispondendo al francese con un acre libello
intitolato Discorso all'orecchio di monsieur Louis Goudar (Londra 1776),
li difese: « Passiamo agl'inglesi viaggiatori che «font semblant d'étre
« des grands connoisseurs des tableaux », che visitano, come dite, « depuis le
« matin jusq'au soir pour apprendre par coeur les noms des grands maitres
« qui les ont peints, afin de se donner ensuite le ton d'étre au fait de cet
« art ». Voi siete il primo, né ci voleva che voi, a fare una pittura sì van-
« taggiosa del carattere degl' Inglesi che viaggiano. Per testimonianza del
« mondo tutto, non e' è alcuna nazione europea che abbia meno impostura
« di quella. Gl'inglesi che viaggiano son tutti ricchi, come i francesi per
« lo più son tutti poveri Questi, imponendosi col nome, abusano della
«nostra ospitalità; quelli, eruditamente curiosi, vogliono vedere tutto ciò
«che abbiamo di più pregevole; e, se dalla mattina alla sera visitano le
« gallerie, non lo fanno per parer intendenti di pittura, ma perchè lo sono;
« in prova di che si può addurre che hanno lasciato in Italia di gran zec-
« chini, ma hanno recato in Inghilterra, in genere di quadri, de' tesori
« d'inestimabil prezzo » (p. 15).
100 G. B. MARCHESI
ne dimostrai! diciotto. E le dona « un bossolo di liscio, arrecato
« di Francia ». Ma Ermione, ahimè! più ormai è ammirata delle
bellezze di Lillo che di quelle del giovine; e gli chiede il ca-
gnuolo. Cosi Lillo rimane presso la signora, « trionfando, da tre
« staffieri corteggiato ».
La nuova padrona è un curiosissimo tipo (cap. V). Maritatasi
solo « per essere maritata » e per far la signora, non amò mai
lo sposo. Anzi, da quel giorno ch'egli le uccise con un calcio il
cagnolino ch'ella adorava, l'ebbe in odio e non lo potè più sof-
frire innanzi agli occhi. Il marito le aveva ucciso un cane? ed
ella ne prese venti. E inoltre, per dispetto, consigliata dalle
amiche, si mise a civettare coll'uno e coll'altro. (« Pensa, Lettore,
€ che una donna non può seguire consiglio peggiore di quello
€ che le dà un'altra donna »). Finché, in breve, il povero marito
mori di crepacuore. Ora ella è sola, libera, nel palazzo pieno di
cani; leggera, frivola, bizzarra, « colle inclinazioni da romanzo ».
Lillo diventa presto il padrone della casa; assiste al pranzo, alle
conversazioni, è circondato da numeroso servidorame peggio
trattato di lui (cap. VI). Le signore lo coprono di baci, e talune
persino se lo fanno condurre a casa per guarire qualche loro
vergine cuccia ammalata.
Ma un giorno, Ermione, passeggiando nel Parco, smarrisce tra
la folla il cagnolino (cap. VII). Torna a casa più morta che viva,
lo fa cercare, promette ne' giornali una mancia cospicua a chi
lo trovasse: tutto invano. Lillo è raccolto da una fanciulla pie-
tosa e condotto in una nuova casa, presso un'altra famiglia della
più alta aristocrazia. L'autore ha cosi occasione di descrivere e
mettere in satira l'educazione che allora s'impartiva ai fanciulli.
€ In cambio di mandarli alle pubbliche scuole », egli narra,
« laddove, parte l'attenzione de' maestri e parte la pratica de'
« loro compagni di miglior nascita, avrebbero potuto racconciare
« que' caratteri, e inspirar loro inclinazioni virtuose, furono chia-
« niati maestri i quali guardaronsi bene dall' opporsi agli edu-
« candi, per non far dispiacere a' congiunti ». E ci mostra i
frutti di quella educazione. Ecco la mamma che presenta ad un
crocchio di amiche il suo bimbo: « Io non me ne intendo, vedete,
« ma il suo Precettore mi dice continuamente che non v'è gen-
« tiluomo che per quell'età sia tanto avanzato. È giunto già, se
« pure non m' inganno, alla Sintassi. A dir il vero, io non so
« cosi appunto che si voglia dire Sintassi, ma certo sarà qualche
€ buon libro di morale, che altro il signor Lackson non gli
VARIETÀ 101
« farebbe né leggere, nò imparare. Perchè sappiate che non v'è
« maestro che abbia un miglior modo d'insegnare di quello che
«abbia il signor Lackson ». Poi, voltandosi al putto: « Che cosa
«è Sintassi, cuor mio?» — «Che cosa è Sintassi?! mamma
«mia?! Oh, Sintassi è oh, è che la seconda persona del pre-
« sente termina in as, e poi questo serve a formare le parti
« dell'Orazione ». — « Bravissimo, gioia mia. Vedete, voi, dame
« mie, se è vero quanto v' ho detto ? Questa Sintassi è il miglior
«libro del mondo per aprire l'intelletto a' fanciulli, e formare!
« loro costumi ! — Andate, andate, figliuol mio, siate buono, ri-
« cordatevi bene di quanto vi dice il signor Lackson, e verrà
« un di che sarete famoso nel mondo ». Tutto ciò è pungente e
sa di pepe, non è vero? e ci fa ricordare certe torture intellet-
tuali alle qua' si assoggettano i nostri bimbi anche oggidì.
Tornando a Lillo (cap. Vili), egli stringe amicizia con una
gatta, vive felice per qualche tempo; ma poi, cominciando a
invecchiare, è venduto a un'ostessa (cap. IX). Da questa don-
naccia che, dopo una settimana di matrimonio, tradisce il ma-
rito, passa Lillo nelle mani di una venditrice di ostriche (cap. X).
Segue, umile e fedele, giorno e notte, la nuova padrona, lungo
le vie di Londra, e piange la sua sorte crudele, solo trovando
sollievo a' suoi mali nell'osservare i vari tipi di uomini che in-
contra. Il caffè del Tempio, dove ogni notte bazzica la bella
ostricaia, offre largo campo alle sue osservazioni, poiché ha oc-
casione di conoscervi studenti, uomini di lettere, avvocati, uomini
politici. Ma una sera, perde di vista la padrona (cap. XI) e, dopo
molto vagare, capita alla casa del Bargello (cap. XII). Qui vengon
condotti tre giovani Lords, ubbriachi fradici, arrestati nella strada
mentre stavano schiamazzando e insultando i passanti. Ma, la
mattina dopo, perchè nobili, sono subito rilasciati in libertà.
« Oh egli è pur bella cosa essere Lord ! » — pensa il nostro
cane — « Pare che questo bel titolo dia privilegio di far qua-
lunque pazzia si vuole, senza arrossire ». Il maire li fa condurre
alle loro case, « dove, presi vestiti alquanto più onorevoli, an-
« darono a sedere in Parlamento, per provvedere con saggia
«deliberazioni al bene ed all'utile della patria ». Finalmente
Lillo, cacciato dalla casa del Bargello (cap. XIII), passa ai ser-
vigi di un cieco; seguendo il quale, esce di Londra e recasi a
Bath, stazione di bagni.
Termina qui la prima parte del romanzo che, anche da quel
poco che n' ho riferito, ognun può vedere quanto sia arguto
102 G. B. MARCHESI
e satirico. Purtroppo, nel riassunto, infinite sue arguzie scom-
paiono, e rimagine che vorrei darne riesce scolorita: pur non
dispiacerà che un brevissimo cenno dia anche della parte seconda.
Incomincia con una Dissertazione il cui argoìnenio è Nulla
(cap. I), genialissima sofisticheria paradossale; poi, riprendendo
la trama della vita di Lillo, l'autore ne fa occasione e pretesto
a narrare casi svariati e a descriver diversi costumi. Morto il
cieco, Lillo, donato dall'albergatrice a due signore di Londra,
torna con esse nella città (cap. II). Ecco dipinti i due tipi
curiosi di queste zitelle, e (cap. Ili) i ritratti di tre corteggia-
tori della più giovane, Aglae: un conte di Torg, nobile fanfa-
rone, tutto frascherie e vanità; un vecchio, delle tre mogli del
quale si narra una lepidissima storia; e un giovane che affetta
una solenne gravità. Ed ecco (cap. IV) una conversazione umo-
ristica alla quale prendono parte i tre amanti. AjTjiae s'innamora
del primo. Una notte, ardendo d'amore, sta sognando di lui,
quando è bruscamente svegliata dal cane. Oh crudele che tron-
casti i bei sogni della fantasia ! Per ciò, Lillo è donato da Aglae
ad una mercantessa di mode (cap. VI). La quale pure ha una
storia : ha avuto una quantità di amanti, è fuggita dalla casa
paterna, è vissuta a Bruxelles con un ufiìziale, poi ha fatto la
commediante, ed ora è vedova e mercantessa e per di più afiìtta
camere e appartamenti ammobigliati. Quanta gente in quella
casa ! Ma tra tutti, i più curiosi tipi sono i coniugi Frippey e la
loro figliuola (cap. VII). Questa fa all'amore col signor Horse-
man, uno sporlsman perfetto; l'ottimo padre tiene una brutta
tresca colla ingenua mercantessa, finché una notte è scoperto
dai vicini nella più comica situazione (cap. Vili); e la signora
Frippey, la signora borghese, non pensa ad altro che a far vi-
site e a tener conversazioni in casa, smaniosa di circondarsi di
quella nobiltà alla quale di nascita ella non può appartenere!
La descrizione di uno di questi ritrovi, — i preparativi, il rice-
vimento degli invitati, la lunga attesa di una contessa che non
può venire per un callo malo tagliato, la conversazione intorno
ai calli — ò tutta una saporita satira, dal colorito e dal nerbo
qua e là veramente pariniani.
Una notte (cap. IX), un signore, che si è recato clandestina-
mente a trovare una inquilina della casa, uscendo nel corridoio,
scorge Lillo, e, temendo ch'egli coll'abbaiare non iscopra l'adul-
terio, subitamente lo acciuffa, se lo pone sotto il mantello e se
lo porta a casa. Il libertino è milord d'Anglecourt, deputato al
VARIETÀ 103
Parlamento. Ed ecco la satira dell'uomo politico; ecco la sua
casa, ecco le visite degli elettori, la corruzione, le menzognere
promesse del candidato. — Anche allora, come adesso — . Un
povero poeta (cap. X) viene a chiedere soccorso a Milord e ad
offrirgli un « Piano di un'opera contenente memorie per ser-
« vire alV Istoria dell'illustre e nobile famiglia d'Anglecourt,
« nella quale si dimostra che Giovanni, conte d" Anglecourt,
« ora vivente, possiede in som'mo grado tutte le virtù de' suoi
«« antenati; è un Mecenate delle arti, un Richelieu della poli-
< iica, e un Malhorugh della guerra ». Milord accetta il Piano
ben volontieri, e al poeta affamato dona — prezioso dono —
Lillo! A questo punto la satira taglia, e l'autore più non ride,
ma tegrima. Ecco il povero tugurio del poeta, la moglie e i fi-
gliuoli che hanno fame. Ma il saggio Lillo, conosciuto pur ad
un'occhiata l'ambiente, fugge subito que' cenci, ed entra nella
prima casa signorile che trova lungo la via.
La nuova padrona (cap. XI) è una isterica, una malata di
nervi ; prova mille sofferenze, sempre si duole, e caccia di casa
prima un medico e poi il marito stesso, perchè osano affermare
ch'ella è sana. Una pittura vivissima. Fortunatamente Lillo
presto se ne allontana, per seguire il figliuolo di lei, alla uni-
versità di Gambrigia (cap. XII). E l'autore ci trasporta cosi in
un altro ambiente, e ce ne addita il ridicolo. Troppo mi dilun-
gherei a riassumere tutto o a ricordare ciò solo che è degno di
nota; perciò su tutto sorvolo: la vita e i costumi dell'Università;
le mariuolerie e le burle degli studenti, gli studenti al Caffè; la
lettura -dei giornali; i concorsi ai posti del Collegio; i vari tipi
dei professori: l'azzimato, il dolce, il burbero (capp. XIII, XIV):
quanti quadretti vivaci! quante argute osservazioni!
Conchiudendo: Lillo torna a Londra con una signora (cap. XV).
Colla quale passeggiando un giorno nel parco, s'imbatte niente-
meno che in Ermione, la sua prima padrona (cap. XVI). L'in-
contro è commovente. Ermione vuol riprendere il suo cane, ma
l'altra signora rifiuta di darglielo. Le due donne s'accendono
d'ira, s'insultano, quasi vengono alle mani e solo sono divise
dalla folla accorsa all'alterco curioso. Lillo rimane ad Ermione ;
ma le due donne, prima di lasciarsi, si scambiano i biglietti, mi-
nacciando reciprocamente vendetta. Ecco tutta Londra a rumore
(cap. XVII): nelle case, nelle piazze, nei giornali non si parla
che della eroicomica tenzone femminile; le due donne ricorrono
ai più celebri avvocati del foro' — veggasi qui la stupenda sa-
104 G. B. MARCHESI
tira dell'avvocato — ; già si istruisce il processo, già il tribunale
si appresta a definire la lite, quando, improvvisamente,
Lillo muore. Lutto e cordoglio universale; monumento; epigrafe.
E il romanzo si chiude (cap. XVIII) colle lodi dell'eroe.
II.
Appena il libro fu pubblicato, Gasparo Gozzi, nella Gazzetta
veneta del 2 febbraio dello stesso anno 1760, ne dava breve-
mente l'annunzio, e del « piacentissimo romanzetto » esponeva
in poche parole la trama. Poi del romanzetto non si pubblicò
più altra edizione, eh' io sappia ; ne su per giornali, né altrove,
nessuno più ne fece parola. Solo Vittorio Malamani, nel 1891,
in un suo libro (1), discorrendo dei costumi veneziani del se-
colo XVIII, e precisamente della moda dei cani, accennò vaga-
mente e fugacemente alla storia di Lillo, chiamandola « finta o
« supposta traduzione dall'inglese », e dicendola erroneamente pub-
blicata nel 1759. Eppure, come si può facilmente scorgere anche
dal breve cenno che ne ho fatto, il romanzetto è di singolare
importanza per chi studia la vita del settecento.
Può darsi ch'esso non abbia goduto molta voga presso la co-
mune dei lettori troppo avvezza allora a ben altro genere di
romanzi e più disposta a gustare e capire le mirabolanti narra-
zioni del Chiari, che una lunga e fine satira del costume raccolta
intorno a una semplice storia di un cane; d'altra parte, la nobiltà
corrotta e devota alle mode di Parigi e di Londra, e la nascente
borghesia grassa imitante le mode dei nobili, punte e sferzate dal
libercolo, dovettero cercare con ogni cura di farlo presto dimenti-
care; ma gli osservatori arguti e quanti allora avevano ingegno
e spirito mordace e innovatore, dovettero compiacersi assai di
quella lettura. Perchè, quantunque gli avvenimenti del romanzo
si fingano accaduti a Londra, e quantunque la satira tocchi lai-
volta alcuni costumi propri solo della vita inglese, pure, tanto fe-
dele e costante era allora da parte dello classi aristocratiche l'imi-
tazione di quanto di più stupido e goffo veniva d'oltralpi, che, nel
complesso, la satira molto bene s'acconciava anche alla vita nostra,
(1) // Settecento a Venezia^ Torino, Roux e C, 1891, p. 83.
VARIETÀ 105
e a taluni dovette sembrare scritta apposta per noi. Riguardo a
cicisbei, a zerbini, a cani, a parrucche ed a lupe, dal Tamigi
al Tevere, tutto il mondo era paese.
È naturale pertanto che, sorpreso dall'importanza del libercolo,
mi domandassi chi poteva esserne stato l'autore. Il romanzo non
reca nome veruno. « Storia critica e galante — tradotta dalVin-
«gisse », leggesi nel frontespizio; ma neppure il traduttore si svela.
Il che del resto accade per quasi tutti siffatti libri di amena lettura
del secolo scorso. Allora il romanzo non era ancora assurto ad
alcuna dignità letteraria; apparteneva alla letteratura popolare;
e i cuochi e le serve e le dame — che di letteratura allora in
generale non sapevan più delle serve — al nome degli scrittori
non badavano tanto, come fa oggi il popolino rispetto alle can-
zonette dei cantastorie ambulanti. Eccetto i romanzi del Chiari
che alla gloria ci teneva, e alcuni di Antonio Piazza, quasi tutti
i romanzi nel settecento pubblicavansi anonimi, tanto gli originali
quanto i tradotti, ne fosse pur autore il Richardson o il Johnson, il
Prevost 0 il Rousseau. Peggio: si spacciava talvolta per originale
un romanzo tradotto, e talvolta per vezzo si diceva derivata dal
francese o dall'inglese una storia raffazzonata a Venezia o a Mi-
lano. Anche ne' migliori romanzi e ne' più vicini a noi troviamo
riflessa la moda : Le ultime lettere di Jacopo Ortis, non uscirono
esse, le prime volte, senza nome d'autore? e le Avventure di Saffo
del Verri e il Platone in Italia del Goco non si fìnsero tradu-
zioni dal greco? Perciò, anche le Avventure di Lillo potevano
non essere traduzione dall'inglese. Nel qual caso, avrebbero ac-
quistato grande valore, quali uno dei nostri migliori romanzi sa-
tirici del settecento. Mi diedi adunque a rintracciare l'origine e
l'autore dell'operetta; e della ricerca ecco i risultati.
Il romanzo non è- originale.
Per seguirne la storia e le vicende, bisogna risalire ad un
romanzo francese intitolato : Le chicn de Boulogne, ou Vamant
fìdèle, che usci anonimo a Parigi nel 1668(1), e di cui è autore
un tale Abbate de Torche, non molto celebre nella letteratura
francese, ma degno d'essere noto a noi, quale traduttore dei
(1) Ghez Barbin, in 12o.
106 G. B. MARCHESI
nostri migliori drammi pastorali, Il pasior fido , V Aminta e la
Filli di Sciro (1).
Alcune notizie della sua vita e delle sue opere si possono leg-
gere in un articolo del Magazin encyclopédique del 1798 (2).
Che nome avesse, quando precisamente nascesse, e morisse
non si sa. Nacque a Beziers; fu educato dai gesuiti, e a 16 anni
entrò nella Compagnia. D'ingegno e di molta coltura, fu desti-
nato all'insegnamento; ma più che le grammatiche latine, gli
piacevano le scollacciate novelle italiane, sulle quali s'impadroni
in breve della nostra lingua; e più che i giovanetti scolari gli
piacevano le belle mammine; d'una delle quali s'innamorò. Di
notte, quando tutti dormivano, l'ardente gesuita, facendo scala
delle sue lenzuola , scendeva dalla finestra e correva tra le
braccia della signora. La cosa bene o male passò per qualche
tempo, ma alla fine fu svelata. Una notte, il direttore del collegio
ritirò dalla finestra le attorcigliate lenzuola, e l'abate, quando
all'alba tornò dall'inferno, non trovò più il mezzo di risalire in
paradiso; e dovette restarne fuori. Il vescovo di Rieux, amico di
casa, desideroso di evitare uno scandalo, s'interpose presso i
Padri per accomodare la faccenda; ma l'abate preferi restare
con Satana. Lasciò Beziers, corse a Parigi, entrò alla Sorbona,
(1) Per le trad. francesi dell'Ammto, v. Solerti, Opere minori in versiy
di T. Tasso, Bologna, Zanichelli, 1895. VAmirita fu tradotta 21 volta in
francese. La traduzione del Torche apparve la prima volta nel 1666, Paris,
G. Quinet e CI. Barbin, e fu ristampata ancora a Parigi nel 1676, a La Haye
nel 1679 e nel 1781, e a Rouen nel 1679. — Per le traduz. francesi della
Filli di Sciro, vedi G. Gampori, Commentario delibi vita e delle opere del
conte Guido Bonarelli, Modena, 1875, pp. 56-57; Beauchamps, Recherches
sur les Thédtres de la France, 11, 51 : Gaujet, Bibliolhèque frangaise. Vili,
455-56. La traduzione del Torche usci nel 1669, Paris, Loyson, e fu ristam*
pata nel 1671, Cologne, Marteau, e nel 1699, Lyon, De La Roche. — Per
le trad. del Pastor fido, v. Bi^anc, Bibliographie italo-franqaise, Milano,
1886, p. 1304. Quella del Torche uscì nel 1664, Paris, Quinet e Barbin, e
fu ristampata a Parigi nel 1667, 1672, 1675, a Cologne nel 1677, a La Haye
nel 1702 e a Parigi ancora nel 1733 e nel 1759. Il T. tradusse dalTilaliano
anche una novella: La fureur de la jalousie, nouv. traduite de l'italien,
Paris, ?
(2) Paris, Fuchs, an. Ili, voi. VI, pp. 183-98. Particularités sur la vie
de Vabbé Torche, poète, romancier et traducteur du demier siede : notice
de quelques-uns de ses ouvrages, en particulier de son: Chien de Bau*
lagne.
VARIETÀ 107
e cercò dimenticare il primo amore con cento altri amorazzi.
Povero, si mise a scrivere per guadagnarsi la vita, e tra il giuoco
e le donne compose versi e novelle e libretti galanti (1). Per la
nomea dei quali, cominciò a farsi conoscere. Era allora notissima
a Parigi una certa signora Diana Luisa di Prunelé, già moglie
di un signore Charles de Saint-Simon, morto nel 1639 nella bat-
taglia di Thionville, e di nuovo maritata con un certo inglese
Gilles Francois d'Ortel, signore di Ferlingbam, nella cui casa
conveniva tutto il fiore de' parigini. L'abate fu ammesso a quelle
eleganti conversazioni e in breve, colle sue eccellenti qualità
d'ingegno e di spirito, fece di se innamorare una delle due belle
figliuole della ricca Ferlingbam. Ma questa che, mirando al sodo,
dei versi e della miseria del poeta non voleva sapere, lo mise
bellamente alla porta. E allora il poeta, punto sul vivo, quasi
a mostrar che la penna vale un tesoro, scrisse una mordace
terribile satira e la gittò in faccia alla schizzinosa. Lo scan-
dalo è enorme. I due figli di primo letto della signora giurano
vendetta, e una notte assalgono e bastonano a morte l'abate,
cioè un abate , un innocente scambiato per equivoco col
nostro Torche. Sicché questi, vedendo che aria spirava, lasciò
in fretta Parigi, si recò in patria, e di là a Montpellier, ove
compi le sue traduzioni dall' italiano e mori a quarant' anni,
mentre ancora lavorava intorno 2\V Aminta.
La vendetta dell'abate è appunto Le chien de Boulogne, ro-
manzo satirico ove, pallidamente nascosta sotto l'anagramma di
Mad. Linghamfer, è messa in ridicolo la signora Ferlingbam.
Ecco: Ermione ed Artasandro si amano; ma Ermione possiede
un bel cagnolino di Bologna, cui tanto bacia e carezza che Ar-
tasandro ne è geloso. Un giorno, mentr' ella, come si suole per
vezzo, rivolge al cane mille parole dolci e mille domande, al-
l'improvviso — oh meraviglia! — l'animale apre la bocca e si
mette a parlare. Parla e narra la sua storia. Egli non è sempre
stalo cane; fu un bel giovine di nome Narciso. Vivendo alla corte
di Modena, s'innamorò di una meravigliosa fanciulla, la quale,
mentre, dopo molte vicende, stava per esser fatta sua sposa,
improvvisamente gli cadde morta all'altare. Pazzo dal dolore,
vagando per un bosco, un giorno s'imbattè in una fata. Richiesto
(1) Le dèmélé de l'esprit et du coeur^ Paris, Quinet, 1667. — La toilette
galante de l'amour^ Paris, Loyson, 1670.
108 G. B. MARCHESI
d'amore, negò, fedele alla sua morta; e la fata, novella Circe, lo
tramutò in un cane. Da quel giorno, è vissuto cosi; passando da
uno ad un altro padrone, assistendo a molti casi, a svariate
avventure. E tutto narra ad Ermione.
Solo alla pagina 153 del romanzo, comincia la satira contro la
Ferlingham, là dove il cane racconta di essere stato una volta
comperato da una certa Linghamfer, « nom aussi bizarre que sa
€ personne Elle avait passion pour les chiens, quoique rien
« n'en eùt pour elle >.
Non è qui opportuno ch'io esponga e prenda in esame la
satira. Ma per mostrarne la vivezza mordace, un aneddoto al-
meno voglio riferire. Il cane racconta (1) che un giorno venne
alla casa della sua padrona un contadino, per donarle un cesto
di pere. Mentre attendeva nell'anticamera, una bertuccia gli si
accostò e si mise a mangiare le frutta; ed egli, credendo la
scimmia fosse un figliuolo della padrona, si stette cheto e lasciò
che mangiasse. Il suo dubbio divenne certezza « quand il vit la
« Dame », e, dopo le debite scuse, avendogli ella detto di non
aver figli, « G'est ce Petit », egli ingenuamente rispose, « qui
« vous ressemble tant »....
Finita la lunga narrazione delle avventure sue ed altrui, il
cane tace. Da quel giorno Ermione non accarezza più tanto quel
curioso animale, e Artasandro si propone di ricondurlo a Bo-
logna per farlo tornare uomo. Tale il romanzo.
Il quale, come si vede, derivazione deW Asino d'Apulejo, è ben
diverso dalle nostre Avventure dì Lillo. Ma con queste ha tre
punti comuni : primo, il disegno generale, cioè la sloria di un
cane usata a fine di satira personale e di costumi; secondo, il
nome d'Ermione che ha la padrona del cane; terzo, la patria del
protagonista, Bologna. — Il romanziere francese dovette fare il
cane di Bologna, perchè a' suoi tempi, e poi anche nel settecento,
fu, quella città, famosa per una piccola razza canina, delizia
delle signore: quella cui anche il Fagiuoli accennò, ammonendo
le donne che
€ piuttosto vorran farei vedere
In collo una canina di Bologna,
Che nelle braccia un fìgliuolin tenere » (2),
(1) Pagg. 163 8gg.
(2) Rime piacevoli, Ferrara, 1799, p. 54.
VARIETÀ 109
ed anche fu ricordata dal Passeroni nei versi:
« Quasi ogni dama oggi vuole il suo cane,
E lo vuol di Parigi o di Bologna^
0 di Malta, o di altre isole lontane » (1).
Peraltro, anche solo questi tre punti di somiglianza, mi pare,
possono far legittimamente asserire che il romanzo dell'abate
di Torche fu noto e ispirò qualche idea all'autore inglese di
una History of Pompey the little or the Life and Adventures
ofa Lap-Dog, dalla quale, come vedremo, le Avventure di Lillo
derivarono.
Il romanzo inglese usci, pur esso anonimo, ottantatre anni dopo
quello del Torche, nel 1751, a Londra (2); ma presto fu noto
essere opera di Francesco Coventry. Il quale, per chi voglia
saperlo (3), nacque a Gambridgeshire nel 1725 o '26, fu educato
a Cambridge, nel collegio della Maddalena; baccelliere nel 1748,
poi vicario di Edgware; mori giovane nel '59. Compose un poema,
Penshurst; ma ciò che gli diede fama fu la History of Pompey,
che Mary Wortley Montagu lasciò scritto di preferire alle famo-
sissime Adventvres of Peregrine Pichle di Tobia Smollet (4).
Prova della fama che godette la History si è ch'essa fu ri-
stampata ben cinque volte , fino al 1773, in inglese (5). Ma già
nel '52 essa aveva traversata la Manica e, giunta a Parigi, aveva
trovato un traduttore che le die veste francese. Cosi la History
(1) Cicerone, canto XX, ottava 30*.
(2) Cooper, in-12o.
(3) Vedi Dictionary of National Biography, Londra, 1887.
(4) Anche questo romanzo fu pubblicato nel 1751. Fu tradotto in francese
dal Toussaint nel 1753. E anch' esso è una Serissima satira, contro Lady
Vane, donna notissima per la sua bellezza e per i suoi intrighi amorosi. Si
nasconde nel romanzo sotto il nome di Lady Frail ; ma si dice ch'ella fosse
tanto impudente, da offrire essa stessa allo scrittore notizie e documenti
delle sue turpitudini.
(5) L'ili, prof. Gaston Paris che si compiacque, con somma cortesia, fare
in proposito per me alcune ricerche alla Nazionale di Parigi (delle quali
ancora qui gli rendo vivissime grazie) mi indicò appunto una « fìfth edition^
« London, printed for I. Dodsley in Pallmall, MDGGLXXIII ». Ma non so
se altre volte ancora il romanzo sia stato pubblicato.
110 G. B. MARCHESI
of Pompey diventò: La vie et les aventures du petit Pompèe,
Histoire critiqite iraduite de Vanglais par M. Toussaint (1).
Ma Francois Vincent Toussaint, come tutti i traduttori del
secolo XVIII, era troppo poco scrupoloso e rispettoso della pro-
prietà altrui, per rimaner fedele all' originale. — Curioso tipo
anche quest'altro romanziere avventuroso, prima gesuita e poi fi-
losofo ateo, nato a Parigi nel 1715 e morto a Berlino nel '72, gaz-
zettiere in Francia e professore di logica in Germania, prima
nemico di Federico II che chiamò « le brigand du nord », e poi
suo entusiasta ammiratore, compilatore di un Dictionnaire de
médecine (1746) e autore di un famoso libro, Les moeurs (1748),
condannato alle fiamme, dove espose arditissime idee e sbozzò una
morale naturale indipendente dalla religione! — Questo Tous-
saint, dopo aver tradotto a suo modo anche un altro romanzo
inglese, Histoire des Passions, ou aventures du chevalier
Shroop (2), volle naturalmente un poco a suo modo « orner >,
com'egli confessa, anche la History of Pompey. Nel complesso il
romanzo non subì rilevanti modificazioni, ma il traduttore ne tolse
la lettera dedicatoria al Fielding, poi usò, in alcuni particolari,
della massima libertà, qua ampliando, là riassumendo e, altrove,
addirittura sopprimendo alcuni passi, e neppure osservando la
stessa divisione delle parti, cosicché, mentre nel testo inglese il
I libro conta 18 capitoli e il II, 15, la traduzione conta 14 capi
nel I e 18 nel II libro.
Orbene, appunto da (juesta traduzione francese, e non dal testo
inglese, derivano le nostre Avventure di Lillo. La divisione dei
capitoli, l'uguale titolo di essi, ed altri raffronti più minuti ce lo
attestano sicuramente. È noto, del resto, che quasi tutti i romanzi
inglesi del settecento giunsero a noi, non direttamente, ma per
il tramite francese.
Peraltro, come si usava, il traduttore italiano volle far credere
d'aver avuto sott' occhio direttamente il testo del Coventry e
premise al romanzetto una Prefazione, per dimostrare che
« mala cosa è il tradurre ». « Si vuol egli sapere » egli scrive < se
< ho guastata o migliorata la storia inglese di Lillo? Leggasi
« dall'una parte l'originale e dall'altra la mia traduzione: questo
« è il solo mezzo per giudicarne. Io non credo però che si faccia,
(1) T. 2, a Amsterdam, chez Marc Michel Rey, MDCGLII.
(2) La Haye, 1751.
VARIETÀ 111
« né lo consiglio ad alcuno ». — Certo egli non pensava che, più
d'un secolo dopo, un pedante avrebbe fatto il raffronto.
Posso asserire che la traduzione segue fedelmente il testo
francese. Solo il capo VII del libro I « contenant une disser-
« tation curtense sur Vimmortalitè de Vdme », fu dal traduttore
soppresso, cosicché il libro I, anziché restare di 14 capi, fu ri-
dotto a 13. L'italiano inoltre aggiunse di suo alcune note a pie
di pagina, nelle quali dà notizia di qualche costume inglese, o
fa qualche critica considerazione; e in fine mutò il nome di
Pompeo al protagonista, chiamandolo Lillo, nome più conforme
all'uso italiano. — Ricordate la Lilla della marchesa Travasa? —
Ma chi fu il traduttore?
Difficile è rispondere alla dimanda. Le traduzioni dei romanzi
erano dagli stampatori affidate per lo più ad umili scribacchiatori,
il nome dei quali, naturalmente, nel libro non compariva ; e già
ho detto che le nostre Avventure dì Lillo non recano alcun nome
né d'autore né di traduttore.
Volendo peraltro lanciare un'ipotesi, credo sia lecito pensare
che la traduzione possa essere stata compiuta da Gaspare Gozzi.
Per vero, se alcuno era a Venezia, in quel tempo, cui po-
tesse piacere quel romanzetto inglese che dipingeva e metteva
in satira i costumi, quegli doveva essere il conte Gaspare, l'ar-
guto e bonario osservatore. Egli poi che conosceva forse un poco
la lingua inglese e certo molto bene la vita londinese, traverso
lo Spectator dell'Addison (1) ed altre gazzette e romanzi e libri
d'ogni sorta che allora in gran copia, direttamente o in veste fran-
cese, venivano d'Inghilterra, egli potè, con molta probabilità, più
d'ogni altro, invogliarsi a tradurre la piacevole Vie du petit Pom-
pée. S'aggiunga che più volte nella vita, il povero Conte dovette,
caduto in grandi strettezze finanziarie, adattarsi all'umile ufficio
di traduttore. Voltò in italiano alcune commedie di Plauto, alcune
del Molière, altre del Destouches, la Zaira del Voltaire e altro, ma
soprattutto novelle e romanzi : L'Avventuriera francese (1750),
le Novelle morali e il Belisario del Marmontel (1763), Le donne
militari {il64), Gli amori di Dafne e Cloe di Longo Sofista (1768),
L'amico delle fanciulle (1776); tutte traduzioni ch'egli faceva in
(1) Vedi P. Treves, ^ L' Osservatore t^ di G. Gozzi ne' suoi rapporti con
lo « Spectator ì> di G. Addison, in Ateneo veneto, 1900, voi. II, fase. I, p. 89.
112 G. B. MARCHESI
gran fretta, aiutato dalla moglie, o aiutando lei, quando lo stam-
patore a lei aveva dato la commissione. Lo pagavano 6 lire il
foglio! ed esigevano il lavoro con tanta celerità che il conte temeva
sempre « di qualche scandalo », e perciò non voleva assolutamente
che anima viva sapesse che quelle pagine uscivano dalla sua
penna (1). I libri che mirassero a correggere i costumi, gli pia-
cevano, e, in generale, dei romanzi era ammiratore, perchè in
essi trovava documenti di storia. « I costumi di tutti i secoli e
« di tutti i paesi », lasciò scritto, « sono dipinti in cotali opere
« e vi si veggono come in uno specchio tanto che, se ci fos-
« sero rimasi, di tempo in tempo, romanzi dal diluvio in qua,
«d'ogni nazione e d'ogni tempo, noi vedremmo quali virtù o
« quali vizi regnarono ne' popoli e come in un secolo regnò più
« l'uno che l'altro» (2). E, s'egli traduss- veramente fra il 1758
e il '59 (3) Le avventure di Lillo, potrebbesi penjiare che quella
traduzione preluse alla sua opera di gazzettiere, novellista e ro-
manziere d'intendimenti morali, che la Gazzetta veneta pubblicò
tra il '60 e il '61, il Mondo morale commcìb nel '60 e VOsser-
valore nel *61.
Si noti inoltre che Le avventure di Lillo sono il solo ro-
manzo del quale il Gozzi abbia dato l'annunzio ed abbia scritto
un cenno nella sua Gazzetta veneta (4). E nella stessa vesle
italiana del romanzetto mi sembra poter scorgere la mano di
chi scrisse il Mondo morale. La forma risente della fretta, ma
la lingua è buona e ben diversa da quella infranciosata di altri
traduttori, e qua e là conta persino talune di quelle preziosità
ricercate e leziose delle quali sovente ' il Gozzi si compiaceva.
S'aggiunga che la prefazioncella premessa al romanzo è arguta.
Ancora : a p. 11, là dove l'autore accenna a una storiella di
di un cane, la quale leggesi in un dialogo di Luciano, il tradut-
tore annota: «Il passo di Luciano è grandemente sfigurato dal-
« l'autore inglese »; e il Gozzi ognuno sa quanto conoscesse
(1) Vedi a proposito le lettere a F. Seghezzi (Vicinale, 19 novembre 1740»
22 dicembre 1741, 28 ottobre 1741), in Opere di G. Gozzi, Venezia, Moli-
nari, 1815, voi. XV, pp. 316, 317, 354.
(2) Mondo morale^ cap. VII « Riflessioni di un pellegrino intomo alVu-
€ tilità dei romanzi >.
(3) L^ Imprimatur dei Riformatori di Padova, reca la data dell' 11 gen-
naio 1759.
(4) Loc. cit.
VARIETÀ 113
que' dialoghi (1). A p. 54, là dove l'autore, mostrato quel fan-
ciullo male istruito ed educato dai maestri di casa, lamenta che
in Inghilterra non si mandino i ragazzi dei nobili alle pubbliche
scuole, il traduttore annota: « Gonvien dire che in Inghilterra
« non si consumino nelle pubbliche scuole sette anni di morte
« per insegnare ai fanciulli la quarta parte di una lingua che si
« potrebbe sapere perfettamente in diciotto mesi ; altrimenti l'A.
« inglese avrebbe gran torto a preferirle cosi apertamente al-
« l'educazione privata »; e Gaspare Gozzi appunto più volte, in
vari suoi scritti, biasimò acerbamente i metodi di istruzione e
di educazione che si usavano nelle nostre scuole, e soprattutto
l'insegnamento del latino (2). A p. 61, pure in una nota, per
spiegare un'allusione dell'autore, il traduttore narra la novella
dei gatti di Whittington (3); ed anche questa narrazione vivace,
breve e garbata mi sembra risenta della maniera del nostro
Gozzi. Mi pare insomma non sia troppo arrischiato a lui attri-
buire la traduzione del romanzo.
Comunque, per le vie che ho teste indicate giunse fino a noi
la storia di un cane.
Per seguire fino all'ultimo le vicende della quale, aggiungerò
che nel 1784, Lillo riprese il nome di Pompeo, in un altro ro-
manzo francese che un ignoto autore pubblicò a Parigi col nome
d'« Histoire du petit Pompèe, ou la vie et les aventures d'un
« chien de Dame — imitèe de Vanglois ». È questo l'ultimo raf-
fazzonamento della History del Coventry, nel quale solo una breve
parte del romanzo inglese sorvive. L'autore, tenendo sott'occhio
(1) Poiché parliamo di cani, ricordo anche V Osservatore, dialogo IX :
Ulisse, Cane e Montone.
(2j Cito solo un passo nel quale il Gozzi esprime il medesimo concetto
quasi colle medesime parole: « Quando comincia ad aprirsi la prima capacità
« dell'intendere negli ingegni, ad ogni fanciullo si mette in mano la gram-
mi malica latina; e a suo dispetto egli avrà ad imparare, per un lungo corso
« d'anni, un linguaggio del quale non avrà mai a valersi nella vita sua ».
Gozzi, Opere, Venezia, Molinari, 1812, 111, pp. 95 sg.
(3) La novella, notissima del resto e popolare in Italia e fuori, potè il
Gozzi conoscere dalle Lettere familiari del Magalotti (Firenze, Gambiagi,
1769, voi. I, lett. 20), o dalle Rime burlesche del suo contemporaneo S. Va-
leriano Vannetti (Roveredo, 1760, Li gatti) ove è narrata nella stessa ver-
sione dal Gozzi seguita (v. G. B. Marchesi , Per la storia della novella
del sec. XVII, Roma, Loescher, pp. 186-88).
Giornale storico XXXVni, fase. 112-113. 8
114 G. B. MARCHESI
la versione del Toussaint o magari — non farebbe meraviglia —
quella italiana, la segui o la copiò sino alla fine del VII capo
del libro I, là dove Pompeo si smarrisce nel parco di Londra;
poi abbandonò completamente la trama della narrazione inglese,
forse per seguirne un'altra di un altro romanzo; fece raccogliere
il cane da giocolieri e poscia da molte altre persone, e, nella
seconda Parte, si servi della storia di Pompeo solo come tenue
filo per tenere insieme collegate varie novelle, varie narrazioni
di avvenimenti disparatissimi eh' egli finse accaduti alla pre-
senza del cane, ma ognuna delle quali non ha alcun rapporto
coir altra ed ha una speciale intitolazione , come Le prèjugé
vaincUy Les deux amis^ Le mari sage, La courtisane ver-
tueuse, ecc.
Cosi un romanzo che narrava le avventure di un cane di Bologna
e di due amanti di Modena, scritto in francese da un amoroso
cultore della lingua e della letteratura italiana, potè ispirare ad
un poeta inglese un altro romanzo, e questo subire in Francia
mutamenti d'ogni sorta, poi assumere veste nuova in Italia per
opera forse di Gasparo Gozzi, e finalmente finire, tronco e mal-
concio, in un altro romanzo di Parigi (1).
III.
Tutto ciò tra il 1668 e il 1784: il periodo eroico, l'età dell'oro
nella storia dei cani. Come altri chiamò il Settecento il secolo della
cipria, io vorrei chiamarlo il secolo dei cani. Mai come in quel
tempo essi furono amati, vezzeggiati, onorati; e non senza ra-
gione gli autori de' quali testé ho fatto cenno, scelsero quel gra-
zioso animale, per intesservi attorno una favola di romanzo. La
storia di un cane servi loro come pretesto e occasione a porre
in satira tutta la vita privata e la sociale; ma, nel romanzo,
come nella società di cui essi descrivono ì costumi, il cane stesso
è gran parte, anzi finisce quasi col diventare il protagonista, il
centro, attorno al quale si svolge quella frivola vita di dame e
(1) Conosco anche wn'Histoire d'un Chien^ écrite par lui-méme et publiée
par un homme de ses amis; ouvrage critigue, inorai et philosophique
[par G. A. B. Sewrin], Paris, Veuve Masson, an. X, romanzo pur esso sa-
tirico; ma non ha alcuna relazione colle Avventure di Lillo.
VARIETÀ 115
di cavalieri. Cosi a Londra, come a Parigi ed a Venezia. Vuol
dire che il senso morale si era ben traviato e lo zerbino e il
cicisbeo erano una ben scipita e stupida cosa, se il vezzoso bar-
boncino poteva tanta parte occupare dei teneri cuori femminili.
Alla corte di Luigi XV dicevasi che le sole lagrime sparse in
sua vita da madamigella di Goulange furono per la sua cagno-
letta Zulmé(i). Il cagnuolo era il re del salotto e, adagiato sul
canapè o nel grembo della signora, adorno di preziosi collari e
di nastri, riceveva l'omaggio dei visitatori. Ad esso i servitori
e gli amanti dovevano lo stesso rispetto che alla padrona. Si
legge nella Storia dì Milano del Verri (2), che, nel 1670, avendo
un domestico del Viceré duca d'Ossuna percosso un cane della
principessa Trivulzio, i domestici di questa, nientemeno, ammaz-
zarono il percussore. Per ottenere i favori della dama, giovava
mostrarsi devoti al suo cane. Ed è nota la novella. Badi, che
Pietro Verri pubblicò nel Caffè (3), nella quale si narra di un
giovane che fu giudicato dalla intera città, incivile « stolido e
« brutale », e non potò ottenere un impiego cui aveva diritto,
per aver sinceramente dichiarato alla moglie del Ministro,
ch'egli aveva veduto qualche cane più vezzoso di quello che
la signora possedeva. Quel cagnuolo, come l'eroe del nostro ro-
manzo, si chiamava Lillì, e soleva nelle conversazioni « rice-
« vere in giro le carezze di tutti gli astanti » (4). Il Fagiuoli, in
un suo giocoso capitolo, ammoniva una signora : « Il cane sol tene-
« ramente amate. | Si può egli udire mai maggior misfatto? » (5).
Il Passeroni pure, con quel suo fare bonario, le dame di quella
vivissima passione scherniva (6), e anche il Goldoni, mi pare,
in qualche sua commedia. In un romanzo satirico del veneziano
Sceriman, dove, nella descrizione di una imaginaria società di
scimmie, son dipinti i costumi del tempo, leggesi di una bella
scimmiona la quale tiene sempre in braccio il suo cane, « un
(1) G. Gantù, // Parini e la Lombardia ecc., p. 386, n. 44.
(2) Milano, 1825, IV, 194.
(3) Tomo lì, 1765-66.
(4) La novella potè essere ispirata al Verri dal noto episodio pariniano
della Vergine Cuccia. Vedi Bruno Gotronki, Postille pariniane, Siracusa,
1900, p. 34.
(5) Alla signora Elisabetta Girolami d'Ambra^ in biasmo del Cane e
lode del Gatto.
(6) Loc. cit.
116 G. B. MARCHESI
«bel cane» dice l'autore, «simile a quelli che so^iono dalle
«nostre dame esser nutriti con maggior diligenza de' propri
« figli, ed amati assai più dei loro servi e delle umane crea-
« ture (1). E pure in un altro romanzo, 1 Zìngani, di Antonio
Piazza, è un tale che volendo insegnare a una dònna l'arte di
parer nobile e ricca, tra l'altro, « abbi », le suggerisce, « una te-
« nerezza amorosa per qualche cagnolo, e una freddissima indiffe-
« renza per i parenti > (2). Il cane, dalla padrona indivisibile, era
portato nelle conversazioni, a teatro, in chiesa (3). Sicché anche
per le strade era un andirivieni di cani. Osservate i quadri e
le incisioni del settecento ritraenti una piazza, una via, un pub-
blico passeggio di una città, e vi troverete sempre qualche si-
gnora che si trascina dietro il fido amico legato ad un nastro.
Nella confusione sovente si smarrivano, e allora, pianti, sveni-
menti, ricerche assidue e pazienti, avvisi infiniti su per i muri
e pei giornali, promettenti mance vistose. Nei giornali del tempo
se ne incontrano frequentissimi e di curiosi, come questo ad
esempio: «A chi avesse trovato un cagnolino color d'Isabella,
« con quattro macchie bianche, la padrona che lo smarrì offre
« la ricompensa di tre filippi, la serva un ducato d'argento, e
« un parente un cesto di ciambelle, una rosada ed un piatto di
« maccheroni » (4).
Per ciò nel settecento fiori una vera letteratura canina. Anche
altri animali furono allora frequentemente oggetto di prose e di
versi, ma nessuno quanto il cane. In generale sono poesie giocose,
dove si cantan le lodi, o si piange la morte di questa o quella
cuccia ; ma sovente dallo scherzo balza fuori la satira tagliente,
spietata, persin volgare talvolta, contro l'adorazione esagerata
e pazza di quegli animali. Altri già ricordò un bel numero di
tali componimenti (5): alcuni versi del Baretti; il sonetto com-
posto dal Baruffaldi per Vespetta cagnolina morta di parto;
un capitolo del Vettori, in morte di una cagnetta; un sonetto
(1) Storia dei regni delle scimmie, Berna (Venezia) 1764, t. I,.p. 225. Ma
la prima ediz. del romanzo è del 1749.
(2) / Zingam, Venezia, 1769, cap. X.
(3) Gfr. Malamani, Il Settecento a Venezia, Torino, Roux, pp. 83 sgg.
(4) Gradeniqo, Commemorialiy 25 marzo 1761.
(5) E. Bertana, Il Parini tra i poeti giocosi del Settecento^ in questo
Giornale, Suppl. I, pp. 39-40, in nota.
VARIETÀ 117
dei Galeotti, in morte del cane Meschino; un sonetto del Borsetti
che comincia: CagnoUna gentil, figlia d'un cane; un componi-
mento del Biancardi, intorno a un cane chiamato Birba. Ma
molti altri scritti di simil genere si potrebbero trovare. Ricordo
le Lagrime di molli illustri 'poeti viventi in morte di Pippo,
cane vicentino (i), raccolta di molte rime, tra le quali notevole
una canzone di Carlo Gozzi (2). Ricordo i Poetici componimenti
in morte di Condè, cane da caccia del nobile signor marchese
Giov. Sagramoso (3), dei quali uno è di Gerolamo Pompei. Vin-
cenzo Antonio Formaleoni, nascondendosi sotto lo pseudonimo
di Onocefalo Ginoglosa, dettò un Elogio del cane Tabacchino
morto nel caffè del ponte dell'Angelo il dì 27 aprile 1792 (4). Il
Chiari cantò una cagnoletta di certa Mirtinda (5). Il patrizio ve-
neto Soranzo scrisse intorno a una cagnetta persino un poema
di dodici canti di ottave (6). E i cani trovarono in quel secolo
financo il loro storico, nel francese Fréville (7).
Ma chi tramandò veramente alla storia, e rese memorando
per sempre l'amore, le cure, le delizie e i privilegi di cui go-
dettero i cani nel settecento fu, com'è noto, il Parini (8).
A lui naturalmente non isfuggi codesto strano vezzo femminile,
e per colpire quella sentimentalità morbosa, umiliante e ripu-
gnante, pare quasi si sia compiaciuto di usar gli strumenti più
fini e validi del suo genio satirico, onde raggiungere quella per-
fezione d'arte, per cui l'episodio della Vergine cuccia va meri-
(i) Milano, 1749.
(2) Pag. 29.
(3) Verona, Plamanzini, 1765.
(4) Venezia, 1792. Questa non è una poesia giocosa; è una parodia.
(5) Vedi Tommaseo, Uab. Chiari, in Tipaldo, Biografie, VII, 211.
(6) Trovasi ms. nel Museo Correr, Raccolta Cicogna, cod. 3319.
(7) Ignoro in che anno precisamente usci la Storia in francese, ma do-
vette, con ogni probabilità, uscire negli ultimi anni del settecento. Una tra-
duzione ital. fu pubblicata nel 1803, Storia dei cani celebri, frammischiata
di curiose notizie di storia naturale, di A. F. G. Fréville, trad. dal francese
[di Giov. Torti]. L'opera fu scritta per servire di lettura scolastica ai
fanciulli.
(8) Oltre che nel noto episodio della Tergine Cuccia, il Parini accenna ai
cani delle dame, nel Mattino (vv. 439-41) e nel Vespro (vv. 51-59) là dove
la dama
«... Non senza sospetti e seu'/.a baci
a le vergini ancelle il cane affida,
al par de' giochi, al par de' cari figli
grave sua cura » ecc. . . .
118 G. B. MARCHESI
tamente famoso. Una moda per la quale un bruto si anteponeva,
non solo a cicisbei vanesi, ma a poveri servi fedeli e onorati,
dovette sembrare all'abate il peggior vizio di (juclle dame cor-
rotte, offesa alle leggi umane e divine: e il peggior vizio egli
volle bollare col marchio suo più rovente.
L'episodio spicca, brilla nel Meriggio, come una gemma.
In quella descrizione del banchetto, tra il comico e pomposo
discorso del vegetariano, e il vano cicaleccio dell'ospite forestiero
che parla « or d'avi, or di cavalli, ora di Frinì », le lagrime
e i sospiri della dama sono melanconica nota in musica festosa.
Ella pensa all'insulto recato alla cuccia, e piange.
Racconta ella? Il poeta noi dice («Or le sovviene il giorno,
«Ahi fero giorno! ») e, lascia quasi supporre che la dama non
parli, come oppressa e vinta dal doloroso ricordo, e forse per
non turbare la lieta serenità del banchetto. Ma il poeta pare
afferri il pensiero che le passa per l'anima, e narra lui il caso
funesto, colle stesse parole che la dama userebbe. Ma poi, giunto
alla vendetta della vergine cuccia, alla espulsione del servo,
ecco, acceso di sdegno, a un tratto dimentica, interrompe l'i-
ronia, e prosegue per conto suo la narrazione, sino alla fine,
sino alle terribili conseguenze della condanna, e narra anche ciò
che la dama non direbbe, ciò che la frivola dama non può nep
pure pensare.
— « Il misero si giacque
Con la squallida prole e con la nuda
Consorte a lato, su la via spargendo
Al passeggiero inutile lamento ». —
Qui il poeta non sorride più, non mostra più il suo amaro sor-
riso ; qui è serio, terribile, tragico. Noi non sentiamo più il festoso
tintinnio de' bicchieri, il susurro dei melliflui conversatori, le
risa spensierate; tutto tace, la scena si oscura; ci sembra di veder
passare nel cielo una nuvola e di vedere il guizzo di un lampo
nunzio della tempesta. E giunti alla fine del racconto, ci vien
voglia di chiudere il libro, e pensare.
Donde il Parini s'inspirò nell'imaginar l'episodio?
Non avea bisogno d'inspirarsi ad alcuna narrazione consimile;
bastava eh' ei volgesse attorno lo sguardo e osservasse la vita
dei servitori e dei cani. Nell'ambiente che, sotto questo aspetto,
son venuto via vìa descrivendo, ognun vede che fatti simili a
VARIETÀ 119
quello dell'episodio pariniano potevano veramente accadere. Molto
giustamente fu da uno studioso del Parini (1) raccostata all'epi-
sodio della Cuccia, una lettera giocosa del Costantini, pubblicata
a Venezia nel 1748(2), nella quale, dopo essersi descritta la morte
di un cane, la sua sepoltura e i pianti della padrona, si dice:
« Una negligenza o un'involontaria mancanza di un servitore o
« di una servente verso una bestia che si ami, induce percosse
« e privazione di pane ». Altri (3) ha ricordato, allo stesso propo-
sito, una scena della fiaba di Carlo Gozzi, / pitocchi fortunati (4),
dove il servitore Brighella racconta precisamente d'essere stato
licenziato dalla sua padrona per aver percosso la cagnolina :
« No se m'ha volesto far el mio ben servido; s' ha dà de le ca-
« ritatevoli informazion de mi, e nisun m' ha più volesto al so
« servizio ». Il caso è identico a quello narrato dal Parini ; ma
mi pare avventato parlare, come piacque a chi avverti questo
riscontro, parlare addirittura di una probabile fonte pariniana.
Mi sembra che la fiaba del Gozzi, rappresentata il 29 novembre
del 1764, e stampata più tardi, molto difficilmente abbia potuto
essere nota al Parini, durante la composizione del Meriggio cui
die mano subito dopo il Mattino, nel '63, e di cui già era per-
messa la stampa a' 24 luglio del '65 (5).
Se mai di fonti dirette fosse lecito parlare, con più ragione,
mi pare, si potrebbe addurre un passo delle Avventure di Lillo.
Nel libro I del nostro romanzo, verso la fine del cap. VI, l'au-
tore, narrate alcune sventure occorse a Lillo nella casa di Lady
Ermione, soggiunge: «Oltre a questi casi, molti ne sofferse
« da'servidori, invidiosi del vederlo in grazie e accarezzato, e mas-
« sime dalla cameriera, che sempre gli faceva qualche brutto
« scherzo; come, per esempio, di conficcargli i denti del pettine,
« quando lo pettinava; cosa da lei fatta un giorno con tanta
« mala grazia e forza, che gli restarono tre denti piantati nella
« schiena ; tanto che, per trarnegli fuori, ci volle il cerusico.
« Ma dovendosi presumere che i cani godano della vendetta
(1) Emilio Bertana, Studi par intani. Spezia, 1893, pp. 45-50.
(2) PuPiENi (G. A. Costantini), Lett. giocose, Venezia, 1748, IV, pp. 177 sgg.
(3) Mercurino Sappa, Una probabile fonte dell'episodio della Vergine
Cuccia, in questo Giorn., 30, 351.
(4) Atto I, scena 8».
(5) Vedi, per queste date, il voi. del Carducci sul Giorno.
120 , G. B. MARCHESI
« quanto gli uomini, Lillo dovette restare appagatissirao, perchè
< la pettinatrice fu vergognosamente cacciata di casa, né potè
« mai avere da Milady una fede d'averla ben servita, che pure
«era a lei necessaria per entrare in un'altra casa: e non è
« male che le cameriere imparino a pettinare i cani un poco
« più leggermente ». Come ognun vede, l'episodio è molto simile
a quello del Giorno. Il Parini, onde mostrare più grave la cru-
deltà della donna e più simpatica e pietosa la figura del servo,
fa che questi osi toccare la cuccia, non per invidia o per dispetto,
ma solo dopo essere stato morso da lei. I denti del pettine che
la cameriera infigge nel dorso di Lillo, diventano presso il Pa-
rini i denti che la cuccia infigge nel « piede villano ». Nel ro-
manzo, la cameriera offende; nel Giorno, il servo si difende. Ma
la conseguenza dell'insulto recato ai cani, la « vendetta » è la
stessa; è narrata quasi colle medesime parole. Persino l'ultima
ironica considerazione del romanziere — « e non è male che le
cameriere, ecc. » — risponde alla chiusa del poeta : « E tu ver-
« gine cuccia, idol placato | Da le vittime umane, isti superba ».
Ma che veramente il Parini conoscesse le Avi^enture di Lillo,
non oso asserire. Certo è solo che il racconto che più si accosti a
quello della Vergine Cuccia, tra gì' indicati sin' ora, e pubblicati
^prima del 1764, è questo del nostro romanzo. Quello dei Pitoc-
chi fortunati di Carlo Gozzi, che il Parini non potè conoscere,
con ogni probabilità deriva pur esso dal romanzo tradotto da
Oaspare Gozzi.
Ripeto: il Parini non aveva bisogno d'ispirarsi ad alcun autore;
la società che lo circondava potè off'rirgli il modello della sua
pittura. Il fatto era nella vita; ed al vero attinse il poeta. Ma
chi può dire come un' immagine sorge, si forma, si delinea nella
niente dell'artista? Lo scrittore è anche sempre un po' debitore
a quanti lo precedettero. Il poeta accoglie nell'anima, oltre alle
impressioni vergini e fresche che gli giungono dalla natura e
dalla vita che lo circonda, anche l'eco di altre voci, anche
l'ombra di altre imagini che in luì si riflettono da altre anime.
Ora è la trama generale, l'idea fondamentale d'un componimento;
ora è un particolare pensiero, ora è una semplice frase, ora
è una sola parola; ma tutto ciò che arriva alla mente del poeta
e la tocca, tutto vi lascia la sua traccia. L'anima dell'artista
è come zolla di campo fecondo cui da ogni parte i venti por-
tano germi di vita. Talvolta il poeta feconda il seme e lo
trasforma e ne fa sua creatura, e, creando, non imita; altra
VARIETÀ 121
volta riproduce precisamente quanto in lui si accolse, ed imita;
ora l'imitazione è conscia, ora è inconscia. Comunque, ricercare
e studiare le fonti di un'opera d'arte, qualora ciò si faccia nei
debiti modi, non è senza ragione ed utilità. La ricerca delle fonti
dev' essere considerata non solo come opera di storico e di cri-
tico che voglia stabilire meriti di precedenza o di proprietà, ma
anche (e solo talvolta) come studio di psicologo che voglia rin-
tracciare il multiforme e svariato e complicato processo d'idea-
zione.
Ciò posto, è ammissibile che il Parini abbia conosciuto il
nostro romanzo, e ch'esso gli abbia suggerito qualche idea
per il suo poema, cui attese dopo la pubblicazione di quello.
Leggendo la « vendetta » di Lillo, a me è occorso naturalmente
di pensare alla vendetta della cuccia pariniana; leggendo delle
gesta del giovine llarione, nobile effeminato, amante dei viaggi,
dei cavalli e delle Frinj, e presunto intenditore di cose d'arte,
più volte mi è sorta dinanzi la figura del Giovin Signore; ma
più ancora, tutto il romanzo, satira mordace e vivace della no-
biltà inglese, mi ha fatto ricordare il poemetto immortale. Chi sa?
Senza volerlo, dal Chien de Boulogne sono venuto a toccar
del Parini. Ma se queste pagine, più che contributo alla storia
del nostro romanzo del settecento, potranno essere considerate
un contributo alla storia del Giorno e anche solo un commento
a un episodio di esso, mi parrà d'averle scritte meno inutilmente.
Giambattista Marchesi.
ANCORA UNA VOLTA
IL TASSO E IL MANZONI
Il curioso contributo che alla storia delle dispute tra classici
e romantici apportò ultimamente l'ili.""'» prof. Salvioni (1), mi
porge occasione di ritornare per una terza volta su questo ar-
gomento (2) e di aggiungere a quanto gik ne fu detto alcune
note complementari.
I. Lo sdegno e il dolore che la parodia manzoniana del
canto XVI della Gerusalemme destò nell'animo del Grossi, con-
ferma ancor meglio come l'antipatia del Manzoni per il Tasso
— che alcuni vollero attenuare e persino revocare in dubbio (3),
— fosse cosi vera e profonda, da diventare una specie di acca-
nimento.
IL Alla domanda del prof. Salvioni : « Che c'entra V Ermes
«Visconti?» — a proposito della frase nella lettera del Grossi:
« la farsa Manzoni e Visconti > — mi sembra si possa trovare una
risposta più che probabile. Nella lunga aggiunta al frammento
del Porta, intitolato Vapparizion del Tass, l'ombra del poeta
risponde all'autore, il quale gli ha chiesto perchè non porti in
capo la corona:
Ah! Carlo, la coronna desgraziada
No la ghè pu per mi... che on tal Manzon,
On tal Ermes Viscont
Me l'han tolta del eoo, me l'han strasciada.
(1) Giornale, 37, 278 sgg.
(2) Giorn., 24, 302 sgg.; 30, 108 sgg.
(3) Vedi Giom., 30, 111.
VARIETÀ 123
L'aggiunta è recata in molte edizioni come di fattura del Porta
medesimo; ma del Porta non può essere, perchè ... è del Man-
zoni e del Visconti! La notizia, preziosa davvero per il caso
nostro, è fornita dal prof. Cristoforo Fabris, che la ebbe dalle
labbra stesse del Manzoni (1). Restano dunque escluse le inter-
pretazioni che di quel passo si solevano dare (« allude al merito
« dei due letterati, che in allora primeggiavano nell'arringo let-
« terario, ed erano in via di acquistarsi quel posto eminente che
« si assicurarono poi » — « scherza, con poca carità cristiana,
« l'insoddisfatto desiderio del povero poeta, di ricevere la corona
« in Campidoglio » (2)), mentre il passo mi sembra chiaramente
accennare alla parodia in questione, che sarebbe stata pertanto
composta non dal solo Manzoni, come finora si ritenne, ma da
lui e dal Visconti insieme, giusta la frase del Grossi.
III. Se la parodia fu fatta in collaborazione, risulta anche
più difficile credere ch'essa sia stata « improvvisata >, come si
vorrebbe. E nemmeno si può pensare che gli autori avessero
« Yumco scopo d'eccitare il riso », ciò che pure concordemente
si è affermato finora. Invero, a chi la legga con attenzione e
riportandosi al testo rispettivo del Tasso, essa apparirà, se non
un lavoro profondamente meditato, certo qualcosa di più che
una parodia burlesca. Gli autori vi hanno riprodotto con molta
abilità ed esattezza (salva l'esagerazione che è propria del ge-
nere) i difetti più caratteristici e più normali della maniera
tassiana in generale, nonché le mende, sia di forma sia di con-
cetto, che si riscontrano nell'episodio parodiato, tanto che si
direbbe abbiano avuto sott'occhio quelle tra le Considerazioni
al Tasso di Galileo Galilei, che riguardano il canto XVI.
Già sul principio del canto — dove si descrive il soggiorno d'Ar-
mida — Galileo biasima l'architettura singolare di quel palazzo
che, a differenza d'ogni altro, contiene «nel suo più chiuso
« grembo » un giardino: « si veggon bene — egli osserva (3) —
« palazzi in mezzo de' giardini, ma non per l'opposito ». E sic-
come nel giardino dì questo palazzo (che è anche detto « tondo
(1) Vedi II Rosmini, 16 maggio 1887, p. 660. — Cfr. Giorn., 30, 114.
(2) Poesie di C. Porta, rivedute, ecc. da un Milanese, Milano, 1887,
p. 158. — Ateneo Veneto, 1898, II, p. 62.
(3) Cito dall'edizione del Mestica, Scritti di critica letteraria di G. G.,
Torino, 1889.
i24 P. BELLEZZA.
« edifizio » e « laberinto », str. 1, 35), vi sono monti, valli, selve
e spelonche, « se dal centro si può raccorre la circonferenza,
« questo palazzo dovrebbe girare centinaia di miglia ». E il Ri-
naldo della parodia :
Dacché mi trovo in questo
Non so se labirinto ovver palazzo
Rotondo e di figura irregolare
Tutto lo spasso mio
Fu il contar le colonne; e son seimila,
Ma Tarchitetto non le ha messe in fila.
Alla str. 27, dove il Tasso fa che i due amanti entrino
Sotto un tetto medesmo entro quegli orti,
postilla lo scienziato: « non si ricordando forse di aver detto di
« sopra, che nel centro del palazzo era l'orto, mette ora nell'orto
«il palazzo». L'incongruenza è innegabile; e i due poeti ar-
gutamente la mettono in rilievo, e ad un tempo la eliminano
trasformando il « tetto » che sorge « in mezzo agli orti » in un
« casotto ».
Il loro Rinaldo fa un gran lamentarsi della solitudine a cui
è condannato, specialmente quando la maga se ne va per i fatti
suoi, al qual proposito nota il Bonghi ueW Avvertenza premessa
alla Parodia (1): « il sentimento, che v'è più volte ripetuto, della
« seccaggine e della impossibilità del vivere segregati persino con
« una innamorata, è stato sempre il suo (cioè del Manzoni) ».
E ciò sarà vero; ma è anche vero che già Galileo aveva qui
pure ripreso aspramente il Tasso: < Pittor gretto e meschino,
€ che maga è questa tua, che potendo darli quei trattenimenti
« e spassi, che immaginar si possono maggiori, tiene questo suo
«diletto freddamente, e lo U romito amante? Alcina trattava
«cosi il suo Ruggero? Leggi l'Ariosto».
E questo raffronto coll'Ariosto è appunto uno dei motivi più
indovinati della Parodia.
Rinaldo cosi parla ad Armida;
È questo il modo
Di trattare un guerriero innamorato?
Lasciarlo sempre solo
A parlar colle belve e colle piante
(1) Opere inedite o rare di A. Af., voi. 1, p. 296.
VARIETÀ 125
« Se non quando è con te romito amante? »
So che un certo Ruggiero
Che fu antenato mio, trovossi un giorno
In questo contingente, in ch'io mi trovo.
Vedete che il trovato non è nuovo.
Ma quei si stava a festa
A caccia, a giostre, a danze ed a conviti
In mezzo ad una bella compagnia,
Ed io solo così convien che stia!
Che invenzioni son queste?
Non si tratta così con casa d'Este.
Al che replica Armida:
E vorresti, o degenere superbo,
Metterti con Ruggiero?
Non sei degno di fargli il cameriero.
Il giuoco di parole nel testo:
Ella del vetro a sé fa specchio, ed egli
Gli occhi di lei sereni a sé fa spegli,
porge buon destro agli autori, che tirano persino in ballo un
« venditor di specchi », e fanno dire a Rinaldo :
Scusa se in geroglifico favello,
Amabile fanciulla,
Per dirne il vero, anch'io ne intendo nulla.
Il giuoco di parole si basa sullo specchio che pende al fianco
di Rinaldo e che aveva già urtato Galileo: «Mi piacerla pur
« veder venir in scena un innamorato con uno specchio pendo-
« Ioni alla cintola, e andarselo nel camminar battendo per le
« gambe ».
Il bisticcio che ricorre nella preghiera dell'Armida classica :
Sarò qual più vorrai, scudiero o scudo,
uno dei molti che fanno del Tasso un precursore della maniera
secentistica, viene ammannito nelle strofette:
Armida :
Scudo 0 scudiero
Gol petto ignudo
Ti coprirò.
Rinaldo :
Non farem nulla:
Un Turco crudo,
126 P. BELLEZZA
Beila fanciulla,
Ti piglierà.
E ti dirà:
Signore scudo,
Signor scudiere,
Venga al quartiere
Di Mustafà.
Similmente la ripetizione allitterativa del Tasso: « quegli occhi
€ onde beata bei » è parodiata nelle parole attribuite al messag-
gero Ubaldo a proposito di Goffredo:
Seda sedizioni col mostrarsi;
mentre gli « specchi almi celesti », il « vero indizio e vera spia »
e simili nessi che spesseggiano nella Parodia, mirano evidente-
mente a contraffare la tendenza tautologica che si tradisce ad
ogni momento nel poeta della Gerusalemme,
Un altro vezzo favorito di lui sono le parentesi enfatiche ed
ammirative, quali VII, 76; XIII, 41; XVIII, 26: («oh meravi-
«glia! »); Vili, 81; XIV, 67: («chi '1 crederia?»); IV, 2; VI,
78: (« ahi ^stolto! »); III, '21: (« mirabil colpo! »); Vili, 28: (« o
« miracol gentile! »); XVIII, 76: (« mirabil vista! »); XVIII, 34:
(« 0 novi mostri! »); XX, 39: (« strano spettacolo ed orrendo! »).
— E i nostri Autori, nell'invettiva di Armida a Rinaldo:
Tu non sei nato
In casa d'Este :
Nelle foreste
Ti fece il mar.
Allor che il Caucaso
(La cosa è piana)
CoH'onda insana
Si maritò.
Il tratto è doppiamente felice, perchè l'immagine tassiana cor-
rispondente
(te Tonda insana
Del mar produsse, e '1 Caucaso gelato),
tocca il grottesco, come quella che ripugna anche alla relativa
verosimiglianza richiesta nella poesia, e perchè la parentesi, che
qui dovrebbe davvero esprimere meraviglia, si apre solo per dire
che il connubio è cosa naturalissima, e ne rileva cosi maggior-
mente la stranezza.
VARIETÀ 127
Un'ultima prova che la Parodia fu ponzata con qualche studio
e mirava a criticare la maniera in generale del Tasso ancor
più che l'episodio parodiato, ce la porge il dialogo tra Armida e
Rinaldo:
A. Che fai, beli' idol mio ?
R. Il solito, 0 mia stella;
In questa parte e in quella
Vado portando il pie.
E tu che fai, mio bene?
(Se la domanda è onesta)
A. (accennando al casotto)
Da quella parte a questa
Ho già portato il pie.
Nel poema si ripetono fino alla sazietà — e quasi sempre per
comodo della rima — locuzioni come queste: «quella parte e
« questa » (V, 35; XIX, 48); « in queste parti e in quelle » (XIII,
53; XV, 12); « da questa a quella parte » (VII, 91); « da quella
« parte e da questa » (VII, 104); « in quelle parti e in queste »
(V, 90); « queste parti e quelle » (VI, 2); « in questa e in quella »
(IX, 71); «o questa o quelle» (XVIII, 13); «da questa indi da
«quella» (XIX, 23); «or queste faci or quelle» (VII, 122);
«in questo lato e in quello» (IX, 55); «or questa strada or
«quella» (XIX, 39); «e quel popolo e questo» (XVIII, 59);
« quel modo o questo » (IX, 41).
Cosi lo Scherzo di Conversazione è da porsi insieme ad un'altra
parodia, molto più breve, in cui il Manzoni medesimo contraffece
le smancerie del Metastasio « con finezza di critica », come ebbe
a notare Giuseppe Guerzoni, che la illustrò con parecchie cita-
zioni da quel poeta (1).
Paolo Bellezza.
(1) / Metastasiani^ in Roma-Reggio, numero speciale del Corriere dei
Comuni^ ecc., 1880.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
GIOVANNI MARI. — Ritmo latino e terminologia ritmica me-
dievale. Appunti per servire allo storia della poetica nostra.
Estr. dagli Studi di filologìa romanza. — Torino, E. Loesclier,
1899 (8°, pp. 58).
Lo STESSO. — / trattati m£dievali di ritmica latina. Estr. dalle
Me7n. del R, Istituto lombardo. — Milano, U. Hoepli, 1899
(8« gr., pp. 124).
Lo STESSO. — La sestina d'Arnoldo. La terzino, di Dante. Estr. dai
Rendiconti del R. Istituto lom,hardo, — Milano, U. Hoepli,
1899 (8«, pp. 33).
Queste tre monografie, strettamente congiunte fra loro (in ispecie le prime
due), per la novità del soggetto, per la copia della dottrina, per la bontà
del metodo fanno onore e a chi le ha scritte e a chi le ha ispirate. Il dottor
Mari è alunno del principe de' nostri studiosi della poesia latina medievale ,
Francesco Novati ; e ben se ne avvede chi prenda a esaminare i lavori di
cui dobbiamo ora esporre, in breve, la contenenza.
I. Nel primo l'autore studia accuratamente « il ritmo latino e la ter-
« minologia ritmica medievale ». Dopo un accenno all'originario significato
della parola rithmus^ desunto dalla nota memoria del Ramorino sulla pro-
nuncia popolare dei versi quantitativi nei bassi tempi, egli entra senz'altro in
materia: ricorda i magistri rhythmici vel musici, di cui parla Terenziano (1):
(1) Non sarebbe stato inutile cercar di determinare esattamente il signi-
ficato di questa espressione. Il passo è nel paragrafo De arsi et thesi:
Latius tractant magistri rhythmici rei musici;
no8 viam metri studemus parte ab aliqua pandore.
L'autore, a mio avviso, vuol dire, ch'egli si accinge solo a dare un avvia-
mento allo studio de metris idest de numeris^ di cui più ampiamente trat*
tano quelli che insegnano l'arte ritmica e l'arte musicale (ch'è quanto dire
l'arte della parola armonizzata e l'arte dell'arnonia per sé atessa). Ma vedi
la spiegazione data dall'antico commentatore (Terkntiani Mauri, Niliacae
Syenes praesidis, De literis, syllabis^ pedibus et metris ecc. Nicolao Bris-
saeo Montivillario commentatore et emendatore^ Parigi^ Simone Colines,
1531, ce. 61 6-62 a).
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 129
tocca del numerus cercato anche nella prosa ciceroniana ; distingue nell'età
che tenne dietro a quella delle grandi Artes grammaticali due « correnti »,
cioè la tradizione musicale, che usava ritmo nel senso greco della
parola, a significare una frase melodica, e la tradizione grammaticale,
che prendeva quel termine nel significato, più ristretto e più recente, di
rima o consonanza; dà esempi dei bizzarri artifizi usati nella poesia latina
medievale come mezzo di melodia. Alle due «correnti» ora mentovate cor-
rispondono due differenti generi di Artes. « Alcune — scrive il Mari —
« essenzialmente dotte, trattarono dell'esametro o del distico rimato; per
« brevità le chiameremo Artes exametri : altre segnano un passo in avanti
« verso qualche cosa di più lontano dalla classicità, e diedero le leggi del
« verso veramente ritmico; sono quelle che vediamo intitolarsi Artes rithmici
« 0 rithimici dictaminis , o più brevemente Artes rithmicae » (pp. 12-13).
Per le prime l'A. rimanda all'elenco che ne diede W. Meyer, nei Rendi-
conti dell'Accademia di Monaco del 1873, aggiungendovi la ben nota di
Matteo di Vendòme, le due pubblicate dal Huemer e dal Fierville ed un
De versibus faciendìs, inedito alla Marciana, su cui dà in nota qualche
ragguaglio; per le seconde si richiama ai Trattati medievali di ritmica
latina da lui stesso pubblicati, dei quali parliamo più sotto.
Molto importante pei nostri studi è la particolareggiata rassegna che il
Mari, ciò premesso, fa dei termini che le Artes exametri e le Artes rithmicae
hanno in comune, nonché di quelli che mostrano d' avere un addentellato
con la terminologia volgare. Rithmus per le A. E. equivale a ciò che noi
diciamo « rima », per le A. R. corrisponde al «verso» o all'intera frase
ritmica (la rima in queste ultime è detta consonantia) ; versus nel medio evo,
« se generalmente denotò il verso lungo quantitativo, potè significare anche
«un seguito di versetti a costituire ciò che noi diremmo la strofa»;
d'altra parte, rithmus per le A. R. indicò tanto ogni singola divisione della
frase ritmica, quanto l'intera frase. In quest'ultimo senso « fu dalle A. R.
« più solitamente detto clausida (e nelle « arti » volgari copula); nell'altro,
« ad esprimere cioè ciascuna divisione in cui fu rotta l'intera frase, furono
« più solitamente usate le voci distinctio, membrum, linea, pes » (p. 19).
Già l'esametro classico, per effetto della cesura, relativamente presto venne
riguardato come composto di due parti (cola). Notevole è l'uso che Giovanni
di Garlandia fa dei termini iambus e spondeus in un significato al tutto
nuovo e convenzionale; uso ch'è indizio del decadimento del senso metrico
e del graduale rafforzarsi di un senso ritmico popolare e comune. « Spon-
« daica » è per lui da riguardarsi, senza badare alla quantità, la parola
piana; giambica l'ossitona. Secondo questo trattatista, essendo a una frase
spondaica e b una giambica, saranno simplices i ritmi aa^ aaa^ aaaa....;
bb, bbb, bbbb: saran compositi i ritmi ab, aab, ba ecc. Nei compositi la
parte eterogenea, rappresentata da b, per cui vien distrutta la simplicitas,
è detta differentia ovvero cauda; e quest'ultima denominazione vediamo
adoperata nelle varie Artes con significato un po' diverso. Le A. E. con
cauda alludono alla finale (una o due sillabe) dell'esametro o del penta-
metro; le A. R. del secondo dei due tipi in esse distinti dal Mari chiamano
cauda la parte eterogenea del ritmo composto; per \e A. R. del primo
Giornale ttorico, XXXVIII, fase. 112-113. 9
130 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
tipo è cauda la parte additizia, accidentale, d*un ritmo già per sé stesso
perfetto.
Ognun vede quanto questa terminologia dotta delle Artes sia importante
anche per lo studio dell' antica metrica volgare. Ma è un' indagine di na-
tura sommamente delicata quella degli elementi derivati nella poetica dei
clerici dall'arte di popolo! Il Mari spiega il modo come b nel ritmo com-
posito ab può esser divenuto un membro additizio, quasi accidentale, richia-
mandosi all'uso popolare *di annettere parti amorfe alle parti vive d'un
€ canto », cioè all'uso del ritornello. Ma è pura ipotesi e, a mio avviso, non
necessaria. Ben poterono i trattatisti anche al tutto indipendentemente dai
canti del volgo usar cauda in codesto significato di parte accodata a un
ritmo per sé compiuto (1); d'altra parte, che, dato un ritmo qualsiasi, sia
stato « costante uso popolare » d'aggiungervi una parte estranea, un refrain,
io non direi. Convien distinguere le poesie popolari destinate al canto d'un
solo dalle destinate al canto di uno framezzato da quello di molti e per
lo più accompagnato dalla danza, nelle quali sole il ritornello appare costan-
temente. Le prime, attesa la consueta geminatio della frase iniziale (2),
offrono musicalmente uno schema « aa -f coda », a cui corrisponde uno
schema strofico « I piede, li piede, coda (dottamente simia) », ch'è di gran
lunga il più diffuso nella canzone presso i poeti della cosi detta scuola sici-
liana (3): le seconde per lo più hanno il medesimo schema musicale ed uno
schema strofico che nel fatto sostanzialmente è pure il medesimo, benché
i trattatisti 1' abbiano significato con denominazioni diverse (« I mutazione,
« II mutazione, volta ») (4), più il ritornello; e questo non è già qualche cosa
che si aggiunga alla strofa quasi per compimento di essa, bensì qualche
cosa che, modellandosi e per la musica e per la struttura metrica sulla coda
(la quale perciò appunto chiamasi « volta », quasi rivolgimento o rappicco), ha
una sua propria e speciale funzione.
(1) Per esempio, nella forma AAAx, propria della saffica, che, per
l'importanza data alla cesura e per « la diversità accentuativa e sillabica »
dei due cola, può anche rappresentarsi graficamente ab ab ab x, la coda, cioè
X, è appiccata a un ritmo composito per sé stesso perfetto.
(2) Gfr. Galino, Musique et versification franq. au M. A., Lipsia, 1891 :
Restori, Musica allegra in Francia nei secoli XII e XIII, Parma, 1893.
(3) Gfr. Lisio, Studio su la forma metrica d. canz. ital. nel sec. XIII,
Imola, 1896, pp. 4 sgg. La denominazione piedi dei trattatisti di metrica vol-
gare, usata a significare parti della strofa, o cobln, o copia, o couple (la-
tino copula), ha riscontro — come bene osserva il Mari (pp. 21-3) — in
Marciano Gapella e negli scrittori di ars musica. Copula era l'unione di due
pedes. Invece la strofa della nostra canzone comprende due piedi e la coda.
(4) Gom'ebbi ad osservare altra volta (Rassegna bibliogr. d. leti. ital..
IV [1896], 170), nelle stanze di ballata lo schema originario, popolaris-
simo e avente tutta la musicale e ritmica semplicità primitiva, è AAA
(ovvero ab ab ab) -\- volta ; ma ben presto vi si accompagnò lo schema ab ab
-\- volta, dovuto a quella geminazione della prima trase musicale che nel
canto lirico antichissimo de' volghi incontriamo anche là dove, come nelle
poesie profane di cui ci ha conservato la notazione il mistero di S. Agnese
e in più laudi del dugento, la rima parrebbe invece suggerire la tripli-
cazione.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 131
Gonvien tenere, parmi, ben distinto quel che c'insegnano le Arti da quello
che i documenti a noi pervenuti dell'antica poesia semipopolare negl'idiomi
neolatini ci danno modo di congetturare, con probabilità di coglier nel segno,
intorno all'origine e allo svolgimento delle forme strofiche che troviamo
effettivamente usate in tali idiomi. La precettistica è cosa artificiosa e su-
bordinata al capriccio dei singoli trattatisti ; che i componimenti poetici di
questo 0 quel genere s'abbiano a costruire in questo o quel modo, secondo
questo o quell'autore di ars rilhmica, non implica punto che proprio a quel
modo siano stati di fatto costruiti dai poeti di popolo o al popolo graditi.
Forse questa distinzione non è dal Mari avuta presente di continuo ne' suoi
pur SI accurati lavori di metrica. Ciò ch'egli dice intorno all'origine della
rime couée (pp. 33-4) a me sembra giusto: perché ho sempre reputato assai
verosimile l'opinione dello Jeanroy, il quale fa derivare codesta forma strofica
dal verso lungo di quindici sillabe, tripartito da una duplice cesura: trattasi
del popolarissimo tetrametro trocaico^ e qui le Artes non entrano per
nulla! Ma totalmente dissento dal Mari là dov'egli congettura che la partitio,
cioè « quella proprietà per cui la frase può ritmicamente suddividersi »,
provenga dal gran fondo popolare, e afferma che dal popolo furono gene-
ralmente preferiti « i versi più brevi, meglio adatti alla musica e pronti,
« sotto altri influssi e dietro altre spinte, a ricomporsi di nuovo con varietà
« e successione infinita » (p. 34;. Come presso i Romani il tetrametro tro-
caico, usato e dai fanciulli quando si rincorrevano o giocavano alla palla e
dai soldati quando seguivano schiamazzando il carro del trionfo, cosi presso
le popolazioni neolatine nell'età di mezzo il verso più o meno lungo che ne
assunse le veci fu il capostipite della versificazione veramente popolare.
Al verso lungo corrispondeva tutta una frase musicale; semplicissimi l'uno
■e l'altra, ancorché, com'è naturale, e quello avesse già in origine la sua
forte cesura e questa già allora il ritmo ascendente e la « risoluzione ». Che
già tra il popolo si sia passati ad alcunché di più complesso, non è certo
da escludere; ma l'arricchirsi della parte musicale e il conseguente frazio-
narsi della poetica sono, a mio avviso, tutt' altro che l'effetto d'una ten-
denza popolare; rivelano anzi l'intervento dell'arte, quando non delle Arti
addirittura (1).
(i) 11 Mari riporta a p. 35 quest'esempio di versus collaterales secondo
le A. E.:
In commune precnm | domus communia vota
nos velit ut secum | samroa pia gratia tota.
Ciò spiega, parmi, ottimamente, per che modo anche negl'idiomi volgari
una coppia di versi A^^ A^j^ potè trasmutarsi, in mani meno indotte, nella
strofa tetrasticà a^h^ ci^b^- L'esempio seguente, a^h^c^j a^br^c^ (tratto dall'Ars
di maestro Tibino), in cui il Mari riguarda e- come una cauda intrusa nei
versus collaterales^ non può esser foggiato senz' altro sul tipo della rime
couéel Certo, una forma strofica di tal genere negl' idiomi volgari ci ri-
chiama, quanto alla sua origine, alla solita coppia monorima di versi lunghi.
Il Mari stesso riferisce con altro intento una coppia cosi costruita:
Serpens diras | trìstabatur || quoniam corruerat,
sparsit Tìras | quo fedatar || homo qui splenduerat (p. 34).
132 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Su terreno più solido mettiamo il piede colla terza parte dello scritto del
Mari intorno al ritmo latino, la quale contiene le osservazioni a cui dà luogo
la terminologia delle Artes messa a riscontro con quella delle « poetrie »
volgari. Prima di tutto, qual significato si détte nel territorio neolatino alla
parola rithmusì II M. cita in proposito Dante, il Da Tempo, il Da Barbe-
rino, il Trissino, Gaspare Visconti ed anche, ma indirettamente, il Sibilet e
il Du Bellay. La ricerca vorrebb'essere allargata e approfondita. Anche
l'Equicola, Pierre Fabri, il Pasquier parlano del ritmo: e il trattatista d'AI-
vito mostra d'identificarlo coll'ugual consonanza delle sillabe finali (1) ; il
Fabri, che nel titolo del suo trattato lo contrappone alla prosa (2), e pel
quale il ritmo stesso è < une congrue consonancc de lettres, sillabes en
€ orthographie et prononciation en fin de deux lignes ou plusieurs », in altro
passo dell'Ara de pleine rhetorique prende invece tale vocabolo nel senso
di « vers », « strophe », « poesie » (« rithme n'est aulire chose que langaige
€ mesuré par longueur de syllabes en conveniente termination, proporcio-
< nallement accentuò >) (3); il Pasquier, infine, dopo aver citato Quintiliano
e Aulo Gellio, soggiunge che da certe chiuse dette ritmi, che gli oratori
antichi « s^avoient mesnager dans leurs plaidoyez » per contentar gli orecchi
degli ascoltanti, benché esse non fossero omioteleute, derivò il nuovo modo
di verseggiare usato da' suoi connazionali (4).
(1) « Questo, se non m'inganno, diede origine al volger dire in ritmi,
€ che al presente con corrotto vocabolo si dice in rima » (Mario Equicola,
Di natura d'amore, Venezia, 1607, e. 6 a).
(2) « Tant en prose comme en rithme », egli vi scrive {Le grand et
vray art de pleine Rhetorique, ecc., par Maistre Piere Fabri, Rouen,
Gruel, 1521, e. 1); frase che corrisponde esattamente all'altra « tant en
«prose qu'en rhime», usata dall'autore in sèguito, nel dichiarare l'in-
tento del suo libro. « L'art de rithmer est pour aulcun cas plus plaisant
« que la prose », leggesi inoltre in questo trattato.
(3) Gfr. H. Zschalig, Die Verslehren von Fabri, Du Pont und Sibilet^
Lipsia, Bar e Hermann, 1884, pp. 24 e 30.
(4) « Ils n'entendoient que la fin des clauses fut subiecte de tomber en
« paroles de mesme terminaison, qui est toutefois ce que nous appel-
«lons aujourd'huy rithmes en nostre langue De ces clauses
€ nous empruntasmes nos vers, qui se soustiennent, si ainsi voulez que je
€ le die, sans pieds » (E. Pasquier, Recherchcs de la France, Parigi, Son-
nius, 1617, p. 713). Nella Deffence et illustration de la langue fran<;oyse
di J. DU Bellay, cap. Vili, si legge: « Tout ce qui tombe soubz quelque
« mesure et jugement de l'oreille, dit Ciceron, en latin s'appelle numeruSy
« en grec ^u9|ió^, non point seulement au vers, mais à l'oraison; parquoy
« improprement notz anciens ont astrainct le nom du genre soubz l'espece,
€ appellant rythme ceto consonance de syllabes à la fin des vers, qui se
€ devroit plus tost nommer ÓMOioréXeuTov,' c'est à dire finissant de mesmes»
« Tune des especes du rythme. Ainsi les vers, encores qu'ilz ne finissent
< point en un mesme son, generalement se peuvent apeller rythme, d'autant
«que la signification do ce mot /i)u9)nó<; est fort ampie, et emporte beàucoup
« a autres termes, comme Kovibv, (iéxpov, luéXoc; euqpuivov, dKoXou9ia, rdEic;,
« aÙYKpion, reigle, mesure, melodieuso consonance de voix, consequulion.
« Old re et comparaison > (Parigi, Crozet, 181^, pp. 118-19), Inesatta è pei
tanto l'affermazione del Mari, che € rythme ancora in Joachim du Bella}
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 133
Seguono alcune osservazioni intorno ai termini dell'intero componimento
nella poetica volgare, che mi paiono molto assennate (1); indi il Mari passa
alla terminologia della « stanza ». Nella triplicità di essa, elemento essen-
ziale di regolarità e legittimità secondo Dante, egli ravvisa un sicuro indizio
del carattere non popolare della canzone. In questo non saprei consentire
con lui: poiché, a mio avviso, la canzone non è, quanto alla struttura metrica,
che una ballata sine responsorio (2); e già ho accennato più sopra alle ra-
gioni musicali per cui la stanza (d'indubbia origine popolaresca) della
« ballata » e della « canzone » si cristallizzò — se cosi è lecito esprimersi
— nello schema costante « I piede, II piede, coda » (3). Per me la stanza
è proprio queir« immagine compendiosa della canzone, della ballata e del
« sonetto » che per un istante si è offerta alla mente del Mari (p. 44). Alla
originaria «unità metrica » del verso variamente partito, nella poesia popo-
laresca medievale si venne sostituendo, per V intimo svolgimento organico
del verso stesso (4), la «unità ritmica» della stanza, atta così a star da
sé ad quandam odani recipiendam armonizata (5), come a formare una
aequalhim stantiarum coniugatio (6). Bene osserva il Mari, che non tutti
credono essere oramai le origini del sonetto « definitivamente stabilite »
(p. 42, n. 2). Com'è noto, l'opinione più diffusa è ch'esso sia sorto dall'unione
di due strambotti alla siciliana o, per esser più esatti, di un'ottava e di
una sestina a rime tutte alterne. A me tal formazione è sempre sembrata
nella sua artificiosità poco naturale. Poiché gli strambotti non sono che
stanze d'otto versi ; stanze di canzone popolare non destinata alla
danza (7). A immaginare un' unione di due di siffatte stanze, disuguali (8),
« sia nel senso di consonanza "> (p. 39). — In un noto codice sanudiano della
Marciana di Venezia (lat. Xll. 210, e. 4 fe; cfr. Gian, in questo Giorn.y 31,
7S-S0) trovo premessa a due ottave improvvisate in Roma, sul cader del
Quattrocento, dal famoso Brandolini la didascalia seguente: « Gecinerat la-
« tinos versus: iussusque Petro Diedo equiti legato rithmos canere, in
« hunc modum Lyppus exorsus est ».
(1) Non intenlo bene, peraltro, che cosa il Mari abbia voluto dire- scri-
vendo che « il popolo a forme non più popolari conservò i nomi di so-
« netto, ballata, canzone, ecc. » (p. 40). 11 popolo? Se codeste forme non
eran più popolari, spetterà ai poeti d'arte il merito d'aver conservato tali
denominazioni allusive all'indole musicale delle forme stesse.
(2) De vulg. eloq., II, Vili, 7. Gfr. Mari, pp. 43-4.
(3) Del valore di queste denominazioni, corrispondenti alle altre di muta-
zioni e volta, tratta egregiamente lo stesso Mari, pp. 21-3 e 44-6.
(4) Quel che il Mari con molta dottrina vien ragionando in questa mono-
grafia intorno ai piedi e alla coda, prima come elementi del verso lungo,
poi come elementi della strofa, vale a darci un'idea della stretta affinità che
intercede, per esempio, fra il verso tripartito caudato e la stanza di tipo
aa -4- coda, data la iteratio modulationis, per dirla con Dante {De vulg. eloq.,
Il, X, 2), cioè la geminatio sopra detta.
(5) De vulg. eloq., II, X, 2.
(6) Ivi, 11, Vili, 7.
(7) Veggasi quanto ebbi a scrivere in proposito nel citato articolo della
Rassegna bibliografica, p. 171. La voce strambotto (giova ripeterlo, per evi-
tare ogni equivoco) designa una qualità di contenenza, non una struttura
metrica; metricamente gli strambotti sono ottave.
(8) Perché due per l'appunto? e, soprattutto, perché disuguali?
134 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
in un nuovo componimento subito accolto per tutta Italia con festa e quasi
subito trasmutatosi, nella struttura, secondo il tipo della stanza di canzone (1),
pare a me che dovremmo indurci solo dopo aver cercato invano una genesi
di tal componimento più conforme alle leggi naturali dello svolgimento delle
forme metriche. Le corone di sonetti, segnatamente quel lunghissimo FiorCy
non ci ammoniscono ad andare a rilento nel riguardare il sonetto come
qualche cosa di sostanzialmente diverso dalla stantia, atta cosi a stare a sé,
come a formare una coniugatioì (2) E perché non potrebbe il sonetto, de-
stinato al canto al modo istesso della ballata e della canzone vera e propria,
essere una stanza di canzone al modo istesso dell'ottava (3), solo un po' meno
semplice di questa perché un po' meno popolare? L'ottava consta di tre muta-
zioni e la coda, come la strofa di ballata del tipo originariamente più diffuso
e come le stanze d'alcune canzoni di tipo popolare (4); il sonetto, nella
sua forma originaria, consta di due piedi (AB AB. AB AB) e la coda
(GDGDCD) , come la stanza della canzone sine responsorio (5). L'una e
l'altro son forme, anche per la qualità sempre uguale dei versi e per la
semplice distribuzione delle rime, di carattere popolare, ma del sonetto non
conosciamo che esempi dovuti a poeti d'arte. Se non m'inganno, con questo
modo di vedere si conciliano le due ipotesi che circa l'origine del sonetto
si son diviso il campo fino ad ora nella critica.
La monografia del Mari si chiude con un'accurata disamina delle « varie
«specie di strofe avuto riguardo alla disposizione dei versi ^; importante
soprattutto perché dalle coppie di versi lunghi latini con rime interne ci
mostra derivate le varie forme dei tetrastici volgari (6).
(1) La distinzione della prima parte in piedi vi comparve, com' è noto,
prestissimo.
(2) Dante, De vulg. eloq., II, Vili, 6.
(3) Che le ottave sian stanze, dappoi che il nome stesso dato loro dalla
tradizione l'assicura, nessuno può dubitare. Eppure, anch'esse, come il so-
netto, furono usate alla spicciolata negli strambotti. Accanto allo strambotto
isolato, abbiamo le serie di «stanze per istrambotti »; accanto al sonetto che
sta a sé, le corone di sonetti.
(4) Cfr. il cit. mio articolo, pp. 168, n. 2, e 170, n. 8.
(5) La pausa divisoria dopo il primo tetrastico, coincidente, secondo o^ni
verosimiglianza, col termine della frase musicale che il secondo tetrastico
ripeteva, nel sonetto doveva esistere gih in origine. Anche lo strambotto di
otto versi, da cui molti credono derivate le quartine del sonetto, < per la
« pausa più forte che le altre dopo il secondo piede, viene propriamente a
« dividersi in due tetrastici » (A. Foresti, Nuove osservazioni intorno al-
Vorigine e alle varietà metriche del sonetto^ Bergamo, 1895, estratto dagli
Atti dell'Ateneo di Bergamo^ p. 16). Notisi che la quartina AB AB, secondo
il modo d'intendere la voce consonantia de' trattatisti medievali di ritmica
latina, può anche riguardarsi composta come di due sole consonanze (cfr. Mari,
La sestina d'Arnaldo ecc., p. Il «.); sicché la prima parte della stanza-
sonetto non si discosta dalla forma più comune di essa parte nella stanza
di canzone.
(6) Dai versus cruci fixi o cruciati, per es.:
Hoc breve de doctia | mediocribus atqoe besignis
nt precibns dignis | ego liberer a dnce noeti»,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 135
II. Men lungo discorso richiede l'edizione procurata dal Mari stesso dei
Trattati medievali di ritmica latina. Nella dotta prefazione l'autore, dopo
aver rilevato la necessità di maggiormente conoscere quei trattati e dopo
avere accennato anche ai loro caratteri generali ed al luogo ove prima-
mente comparvero (la Francia), distingue nelle Arti ritmiche due tipi, l'uno
più semplice e più antico, l'altro « più dotto » (1), dà notizie intorno al La-
borintus, attribuito ad Eberardo di Béthune, al trattato di Giovanni di
Garlandia e aWArte di Niccolo Tibino. Seguono, integralmente riprodotti, i
testi del Dettame ritmico, del Rifacimento di Maestro Sion, delle Redazioni
contenute nel cod. 763 della Biblioteca dell'Arsenale di Parigi, delle Regulae
de rithmis conservate nel cod. 759 dell'Abbazia d'Admont, dell'Arce di Gio-
vanni di Garlandia, del libro IV del Laborintus, della breve Arte contenuta
nel cod. lat. 96^4 della Biblioteca di Monaco, del trattato di Niccolò Tibino;
testi pubblicati secondo i più moderni criteri filologici, con rigore di metodo,
con apparato critico largo ed esatto. In fronte a ciascuno di essi è data tra
parentesi quadre la bibliografia dei manoscritti che lo conservano e degli
scritti che ne trattano; a pie di pagina, oltre alle varianti, sono le indica-
zioni dei componimenti a cui appartengono molti degli esempi addotti dai
trattatisti e delle opere in cui si posson leggere pubblicati; in fondo al vo-
lume, un Indice dei termini e un indice dei Testi e frammenti riportati o
citati rendono doppiamente importante per gli studiosi della metrica e della
poesia latina dell'età media questa pubblicazione per ogni rispetto lodevole.
Nella quale l'autore dimostra, insieme con un' erudizione larga e copiosa,
attitudini non comuni all'opera del filologo e diligenza esemplare.
III. Ci riconduce nel campo delle deduzioni sagaci e delle ingegnose
ipotesi, tra cui vedemmo aggirarsi la prima di queste tre pubblicazioni del
dr. Mari, l'ultima, che s'intitola La « sestina » d'Arnaldo, la « terzina » di
Dante. Giustamente l'autore osserva sul principio, che a far conoscere bene
la dottrina onde le forme romxanze scaturirono poco giovano i trattati di
poetica volgare, « sorti relativamente tardi, a raccogliere, a sancire, spesso
«a proseguire, piuttosto che a motivare l'uso de' poeti d'arte »; ma,
anche per questo, non mi pare eh' egli sia nel vero quando afferma, non
potersi l'elemento popolare dell'antica poesia romanza altrimenti conoscere
che attraverso all'elemento erudito, cioè alla dottrina stessa, « depositaria di
« ogni forma a noi pervenuta ». Io sonò anzi d'avviso, che a tal conoscenza
si debba giungere studiando con piena oggettività, ch'è quanto dire al tutto
si capisce come, pel « solito spezzarsi del verso lungo » (p. 5), si passò alla
quartina a rime incrociate, ABBA. Dai versus catenati, per es. :
migrai ad astra deus I turba spedante suorum,
hunc pius atque reus | regem sciet esse proborum,
si capisce come si potè passare alla quartina a rime incatenate, AB AB.
(1) Appartengono al secondo VArte di Giovanni di Garlandia, il libro IV
del Laborintus, un breve testo anonimo che il Mari pubblica di sur un ms.
di Monaco e il trattato di Nicolò da Dybyn o Tibinus. Del primo ci oflre
la tradizione più genuina il Dettame ritmico, conservato in molti codici e
inserito pure nell'opera grammaticale di Pietro « de Insulella ».
136 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
indipendentemente dalle teoriche dei trattatisti, lo svolgimento naturale delle
forme metriche neolatine, nei documenti, fino a noi pervenuti, che siano
d'indole popolare o della poesia di popolo ci offrano comechcssia un riflesso.
Fortunatamente, la sestina e la terzina, di cui tratta questa memoria, sono
forme interamente auliche e eulte; onde il Mari può trarre largo profitto,
nell'illustrarle, dalla cognizione invidiabile ch'egli ha dell'antica < trattati*
« stica ». Dopo un cenno sul modo come fu da altri intesa e spiegata la
struttura della sestina (1) e dopo aver ricordato i componimenti di tal ge-
nere pubblicati in questi ultimi anni (2), con ingegnosissima indagine egli
cerca di spiegare « quali usi o consuetudini l'abbian resa possibile ». Defi-
nisce a tal uopo esattamente la sestina stessa (non senza un'accurata analisi
del «commiato» che le si suole aggiungere); indi ne determina le carat-
teristiche, che sono: 1) un sicuro calcolo circa il numero delle stanze e dei
versi; 2) la connessione d'una stanza coH'altra ottenuta mediante il trasporto
delle intere parole finali; 3) la legge particolarissima seguita in questo
trasporto.
Quanto alla prima, la sestina si può per essa ricongiungere a quei compo-
nimenti figurati, che col numero, colla disposizione, colla misura dei
versi tentavano d'imitare la forma esterna di oggetti ben noti (3). 11 Mari
congettura, che l'avere Arnaldo Daniello posto a fondamento dell'artificio
il numero sei provenga o dai piedi dell'esametro o, meglio, dall'essere il sei
(1) « Ognun sa — scrive il Mari — che la sestina francese, quale la foggiò
« il conte di Gramont... ò più complicata della nostra in quanto le parole-
« desinenze sono vere parole-rime su due consonanze (una mascolina,
€ l'altra femminina), le quali si alternano di stanza in stanza cosi che l'una
« colleghi i versi 1, 3, 4, laltra i versi 2, 5, 6; essa è in alessandrini >
(p. 3 n.). Bisognava non trascurar di osservare, che fin dal 1549 un poeta
della Plèiade a cui spetta un posto cospicuo nella storia del petrarchismo
d'oltralpe, Pontus de Tyard (cfr. il mio articolo Du róle de P. de T. dans
le € pétrarquisme » fran^ais, in Rev. de la Renaissance., organe interna-
tional des Amis de la Plèiade ^ I [1901], 43 sgg.), aveva usato la sestina
con artificio assai somigliante. Nel suo canzoniere Les erreurs amoureuses
sono due sestine in versi endecasillabi, nelle quali le parole-desinenze rimano
in ciascuna stanza fra loro, pur mentre vi è osservata la solita legge quanto al
collegamento delle stanze stesse. L'una ha le rime disposte nella prima strofa
in quest'ordine; ABCBCA; l'altra le ha disposte invece cosi: ABBACO
((Euvres poétiques de J. Dorat et P. de Tyard, ediz. Marty-Laveaux, Pa-
rigi,'Lemerre, 1875, pp. 33 e 77). Il De Gramont stesso non ignorava il
tentativo del Tyard; cfr. L. Mai.nard, Traile de versification frangaise.
Parigi, Lemerre, 1884, p. 114.
(2) Insieme colle sestme di
Giovanni da Prato e di Alberto degli Albizzi
eran da ricordare quelle di Antonio Forteguerri edite da P. Bacci nel can-
zoniere di questo quattrocentista e, prima, a parte col titolo Le canzoni
sestine del libro lAmato\rio di A. F., Pistoia, 1890, per nozze Pasquali-
Ghini.
(3) Il Mari cita in prooosito, oltre alla Poetica dello Scaligero e al noto
scritto di G. Hecq e L. Paris sulla poetica francese nell'età media e nel
Rinascimento, « Lalanne, Bibliothègue de poche, Parigi, Dclahays, 1857».
Correggasi, per maggior esattezza, Lalannb, Curiosités littéraires/m
Bibl. de poche par une Società de gens de lettres- et d'érudits, ecc.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 137
il primo multiplo del tre, numerus sacer. Questa seconda ipotesi, la quale
ha tanto più di verosimiglianza, sembra a me che possa in qualche modo
venir suffragata dal fatto, non osservato dal Mari, che nel secolo decimo-
quinto un verseggiatore toscano, Antonio da Montalcino, adattò quel mede-
simo artificio alla strofa ternaria, intitolando non impropriamente terzine
i componimenti in cui lo usa (1). Anche il modo com'è costruita la sestina
doppia attribuita a Dante (« Amor, tu vedi ben che questa donna ») con-
ferma tale ipotesi; poiché il nostro giovine critico sagacemente dimostra,
che in ciascuna stanza i versi vi si aggruppano a tre a tre (2).
Per la seconda e la terza « caratteristica » della sestina, è da tener pre-
sente, che « il trasportare una parola o una parte di parola da una linea
« 0 da una e 1 a u s u 1 a nell'altra fu ornatus graditissimo tanto alla prosa
« quanto alla poesia d'artificio ». Veramente, gli esempi addotti qui dal
Mari si riferiscono a trasporti cosi fatti d'uno in altro verso, o da una parte
della stanza alla parte successiva, non già dall'una stanza all'altra; ma, per
quel che più sopra ho accennato intorno alla probabile derivazione di molte
delle forme strofiche neolatine dal verso lungo variamente partito, consento
con lui nel dare importanza a codesti precedenti dell'artificio primamente
usato da Arnaldo Daniello. Esso artificio consiste in una retrogradatio cru-
ciata, che, meglio che da ogni altra rappresentazione grafica, parmi appaia
ben chiara dalla seguente disposizione dei versi della prima stanza (fondata
sul principio che la strofa senaria ci richiama ad un originario terzetto di
versi lunghi con cesura al mezzo) :
La seconda stanza ha infatti lo schema FAEBDC.
(1) Son pubblicati nel mio scritto Ballate e terzine di Ant. da Montal-
cino ecc., estr. dal voi. Miscellanea Nuziale Rossi-Teiss, Bergamo, 1897,
pp. 11-12. Eccone, per saggio, la prima:
Quando quella liza'Jra mia madonna
con un soave portamento altero ♦»
benignamente volge i suo' begli ochi,
io, che non vidi mai si lucenti ochi,
dicendo « e' non fu mai simil madonna »
rimango vinto da quel viso altero.
E benedico el mio pensier altero,
che dipinse nel cor que' duo begli ochi
che mi fan servo della mia madonna.
Luce madonna — gli ochi — el viso altero.
Come nella sestina le stanze sono sei, quanti i versi di ciascuna, cosi in
queste terzine son tre. Il modo di collegar le strofe e di costruire il com-
miato è il medesimo.
(2) Identica disposizione hanno le parole-desinenze nelle due sestine
138 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Dopo aver parlato della sestina, il Mari viene a dire brevemente della
terzina usata da Dante nella Commedia. A lui sembra ipotesi molto ragio-
nevole, che per questo poema l'Ali^'hieri abbia preso dal popolo « non solo
« la lingua, ma, in certo qual modo, anche il canto ». Per conto mio, circa
la popolarità della Commedia credo sia necessario intendersi bene. Che
Dante abbia voluto proprio significare, col titolo dato alla sua grande opera,
ch'egli intendeva di tessere un « canto villano» («da comos cioè villa e
oda che è canto»), anche ammettendo Tautenticità d'una epistola famosa,
non vorrà certo ammettere nessuno. Egli ha scritto nell'idioma niaterno
perché tutti dovevano poter intendere un'opera in cui si proponeva di redimere
il genere umano dall'etico e politico pervertimento; ma quell'idioma' ha usato
senza restrizioni od esclusioni, nella sua maravigliosa ricchezza, dalle frasi
da trivio, necessarie alla rappresentazione del « basso inferno », alle espressioni
più nobili e più elette, necessarie alla rappresentazione del « ciel della divina
« pace ». E quel che diciamo della lingua è da intendere anche per l'arte.
Che la terzina dantesca provenga da ritornelli popolari, s'ingegnò di dimo-
strare, come ognun sa, lo Schuchardt; ma.... credat judaeus Apella\ Ben
più opportunamente si è pensato al serventese della forma A A Ab BBBc
ce Cd ecc.; e, in verità, se a qualche forma metrica preesistente dobbiam
credere pensasse l'Alighieri nell'inventare la terza rima, parmi sia cotesta
specie di serventese. Lasciando stare, infatti, che con certezza sappiamo aver
egli scritto uno di tali componimenti (e, sembra, proprio dello schema di
che si tratta), lasciando stare che una costante tradizione dal Trecento in
poi ha sempre raccostato fra loro quelle due forme poetiche, il serventese
offriva a Dante tutti e due gli elementi essenziali del metro ch'egli adottò
pel poema sacro : il triplice ricorso della rima, fin dal più alto medioevo
ovvio e consueto nell'in nodi a, e il collegamento delle stanze mediante la
rima, ch'era il solo ch'egli potesse usare per un'opera di lunga lena, ove
il rappicco di parola sarebbe stato al tutto insopportabile (1). In componi-
menti di ragguardevole estensione cotesto metro già era stato usato oltralpe,
e seguitava ad esserlo (2); il Mari stesso ne cita un esempio per la ritmica
doppie del trecentista Gino Rinuccini, dal Mari non ricordate. Costruite ma-
nifestamente sul modello della dantesca, constano esse pure di cinque stanze
e di sole cinque parole-desinenze; soltanto, mentre in quella il commiato è
di sei versi, nelle rinucciniane è di cinque, quante appunto sono tali parole
{Rime di M. Cino Rinuccini^ fiorentino [pubbl. da S. BongiJ, Lucca, Cano-
vetti, 1858, pp. 11 e 22).
(1) Il Man (p. 24) sembra ignorare, che del collegamento delle stanze per
mezzo della ripetizione, in principio di ciascuna, delle ultime parole della
precedente si hanno esempi non rari, soprattutto nelle Intfdi e nelle decime
rime. Cfr. il più volte citato mio articolo in Ross, bibliogr.^ p. 169.
(2) Veggasi quanto ebbi a scrivere in proposito altra volta, negli Studi
di storia letter. italiana e straniera, Livorno, Giusti, 1895, pp. 152-53. An-
cora nel secolo XV lo usava il Meschinot per un lungo tratto delle sue
Lunettes des prtnces (ediz. 0. de Gourcuff, Parigi, Libr. des Bibliophiles, 1890,
pp. 122-41).
RASSEGNA. BIBLIOGRAFICA 139
latina (1); nella poesia religiosa dugentistica dell'Umbria e della Toscana
non mancano esempi d'una forma strofica strettamente affine: AAAb CCCb
DB Db (2). Per tutte queste ragioni, io son d'avviso che non sia punto
necessario ricorrere, come fa il Mari nella chiusa della sua memoria,
alla sestina^ per ispiegare pienamente l'artificio della terza rima dantesca.
Pel suo poema in tre cantiche, di trentatré canti (oltre all'esordio) ciascuna,
inteso a descrivere la grande opera della Trinità, Dante aveva bisogno
di un metro continuato, che si svolgesse per istrofe di tre versi incatenati
fra loro e dove ogni rima si ripetesse tre volte. A tal uopo egli si mise
per quell'unica via che poteva condurlo ad ottenere in pari tempo la tripli-
cità del verso, la triplicità della rima e la concatenazione delle strofe. Fece
rimare il secondo verso di ciascun terzetto, anziché cogli altri due rimanti
fra loro, col primo verso del terzetto successivo. Com'è naturale, bisognava
perciò contentarsi di avere la prima e l'ultima rima di ciascun canto ripe-
tute due sole volte: ma in tutto il resto si otteneva uno schema tristico (non
tetrastico come quello del serventese\ concatenato, con triplicità di rima.
In ciò il ricordo della sestina d'Arnaldo come può avere influito? Fonda-
mento dell' artificio di questa è, già sappiamo, il trasporto di parole finali
da una strofa all'altra; fondamento dell'artificio della terzina è invece il
trasporto della rima, caratteristico del serventese. Dalla sestina si capirebbe
il passaggio alla terzitia del Da Montalcino, non già a quella di Dante. Del
resto, anche il modo di collegare i versi di strofa in istrofa nella terza rima
non è già il cruciato, ma il catenato : AB A. BCB. CDC. D... ci riporta
ad una forma AB AB CB CD CD, fondata sull'a Iternazione, non sul-
r incrociamento. Quanto al passo controverso di Benvenuto da Imola:
Arnaldus. .. a quo Petrarcha fatebatur sponte se accepisse modum et stilum
cantilenae de quatuor rithimis et non a Dante ecc., che \ì sì alluda
alla peculiarità della terza rima (usata dal Petrarca ne' Trionfi) di avere
collegate le strofe al modo della sestina arnaldesca, ripeterei col Mari solo
nel caso ch'egli riuscisse a provare (ardua impresa davvero!), che la terzina
possa essere perifrasticamente designata come una speciale forma di can-
zone di quattro versi, oppure di quattro rime.
Come si vede, questi scritti del dr. Mari versano su materia assai dispu-
tabile, nella quale è lecito dissentire da lui più volte. Ma, importantissimi
come sono e ben condotti, attestano nell'autore qualità non comuni di critico
e di erudito.
Francesco Flamini.
(1) « 0 Bandine, flos cantorum » ecc. (p. 23).
(2) Cfr. i miei Studi di storia letter., ora cit.,
pp. 154-5.
140 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
FRANCESCO TORRACA. — Le donne italiane nella poesìa pro-
venzale. — La « treva » di G. de La Tor. — N° 39 della
Biblioteca crit. della letler. italiana. — Firenze, Sansoni, 1901
(16«, pp. 84).
I due presenti lavori, opportunamente accostati per una loro stretta rela-
zione, che permette di ritener l'uno complemento dell'altro, recano un
vantaggioso contributo allo studio dei rapporti, che corsero nel sec. XIU
tra Provenza e Italia.
Su questo argomento pieno d' attrattiva l' illustre autore ebbe già ad
esercitare altre volte la sua critica e indagò vari aspetti del problema,
adoprandosi sia sull'esame di componimenti poetici, sia su biografie di
trovatori provenzali e italiani; ed ora colla presente pubblicazione egli si
propone una rapida disamina di quanto nella poesia de' trovatori si ri-
ferisca alle donne d'Italia e si indugia da ultimo sul testo della e treva >,
che composta fra noi suona tutta una lode a parecchie donne italiane. Le
due parti di questa operetta procedono con dissimile carattere: l'articolo
sulla treva, riprodotto dagli Atti e memorie d. R. Deput. di storia patria
per le Roma(/ne, S. HI, voi. XVIII, pp. 97 sgg., ove venne prima inserito
(cfr. questo Giornale^ 36, 459), è fornito di un largo sussidio di indicazioni
rigorose; mentre invece lo studio sulle donne italiane nella poesia provenzale
compare nella sua veste originaria e fiorita di conferenza; manca perciò di
note e riferimenti precisi, ubbidisce nel suo svolgimento a certe inevitabili
necessità di circostanza e porta nella trattazione dell'argomento una cono-
scenza virtuosamente dissimulata.
Questo carattere d'accessibilità si accorda del resto perfettamente con Io
scopo diretto della Biblioteca critica^ la quale non si rivolge a soli specia-
listi, ma intende anche di presentare al pubblico utili lavori di divulgazione:
e Io studio sulle donne italiane, pur ispirandosi a questo concetto, non ap-
parisce tuttavia tale, che in esso manchino buone proposte e belle conget-
ture. Le quali, insieme alle altre parti del lavoro, verranno discorse nel
seguito di questa rassegna, che aspira ad essere quasi un complemento dello
studio, che discute. Io credetti infatti di far utile cosa e di recare anche
un piccolo vantaggio agli studiosi , riempiendo qualche lacuna che trovasi
nel lavoro del T., disponendo tutte le donne italiane, ch'ebbero relazione coi
trovatori, in un registro alfabetico e aggiungendo non pure quelle indica-
zioni bibliografiche e minute non consentite all'indole del lavoro del T.,
ma anche, qua e là, alcuna nuova notizia. Mi corre naturalmente obbligo
di avvertire che Io studio del T. servi di base alla compilazione dell'indice
seguente, il quale è ad augurarsi possa col tempo venir accresciuto di nuovi
ragguagli desunti o da libri e raccolte a me rimaste ignote o da fondi non
ancor bene esplorati d'archivio.
Lo studio delle donne italiane nella poesia provenzale trae la sua ragion
d'essere dall'esame di quattro fonti :
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
141
I. Il carroccio di Rambaldo di Vaqueiras composto il 1202 alla corte
di Bonifacio I marchese di Monferrato.
II. La treua di G. de La Tor scritta forse verso il 1216 (si cfr. la se-
conda parte di questa rassegna).
HI. La 16,13 di Albertet de Sestaron e la risposta 9,21 di Aimeric de
Belenoi (1).
(1) Questi due componimenti vennero composti non molto dopo il 1220 e questo terminus a quo
si desume dalla str. IV, tv. 3-4 di ognuno, perchè vi è nominata la Contessa di Provenza
(1220-45). Le due poesie in questione non furono ancor pubblicate secondo la lezione di D, alla
quale unicamente e strettamente ci atteniamo nella edizione, clie offriamo qui sotto. È superfluo
che io aggiunga che per maggior brevità le poesie dei trovatori vengono nella presente rassegna
citate numericamente secondo la tavola del Babtsch, Grundriss ziir Geschichte der Procenz.
LiUraUir, Elberfeld, 1872.
ALBEETET
[D. 76^-77 a]
AIMERIC DE BELENOI
[D. 168b-c]
I. En amor trop tant de mal[s] seignorages,
tant Ione desir e tant malvatz usages,
per qu'en serai de las domnas salvages
ni no-s cui om qu'eu ci mais chant de lor;
5 car eu ai 'stat lor hom e lur messages
et enanzat lor prez e lor valor,
q'anc no i trobei mas destrics e damnages:
gaidaz oi mais s'en deu chantar d'amor.
D'amor non chant ni voill aver amia
bella ni prò ni ab gran cortesia,
c'anc no i trobei mas eagan e bauzia
e fals semblant menzongier traidor,
e cant eu plus la cult tenir per mia,
adone la trob plus salvaza e peior:
doncs ben es fols toz hom qu'en lor se(n) fia
[et] en n'ai ben ma part en la follor.
Era gardaz de lor amor si greva;
que primeira sab hom que fo na Eva
que fes a Deu rompre covenz e treva,
20 don nos sem tuit enqueras pechador :
tals las lauza non sab d'amor que-s leva,
qu'anc non ac ioi ni plazer ni dolor,
per que fai mal toz hom qu'ab ella[s] treva,
pos e'om non pot conoisser la meillor,
IV. 25 Qu'el moni non es duqessa ni reina,
8i*m volia de s'amor far aizina,
q'eu la preses: ni Comtesso la fina
de Proenza, c'om ten per la genzor,
ni de Plozasc non voill que n'Ainesina
mi reteigna per son entendedor,
ni'l Contessa Biatris sa cosina
de Vianes ab sa fresca color.
II.
10
15
III,
30
I. Tant es d'amor honratz sos seignorages,
que non i cap negus malvais usages,
e car n'Alberz ea de dompnas salvages
non taing com fals romaingna entro lor;
5 qu'eu fui e n son lo lur fisels messages
et enansi lur pretz e lor valor
e non i trop ni destrics ni damages;
anz son honraz car chant per lor amor.
II. Ja mai n'Albertz non deu chantar d'amia,
10 que renegat a tota cortezia,
e car dompnas apella de bausia
be'l deari' om pendre com traitor,
e die vos ben, si Ila forssa fos mia,
ja no-il agra nuil enemic peior;
15 c'om non es prò si en dompna no-s fia,
mais aols hom l'o ten a gran folor.
III. La lur amor[s] es bona e non greva,
car si failli primieramen na Eva,
la maire Dieu nos en fes pas e treva,
20 per que d'aiso nos non em pecador:
anz vai ben tan toz hom c'ab ellas treva
que entrels bos lo ten hom per meillor.
Tals las lauza non sap d'amor que'S leva,
per que non taing que n'aia mais dolor.
IV. 25 E car mentau duguessa ni reina
que-1 fezesson del lor amor aizina,
venqes las en la(s) pros Comtessa fina
de Proenza on a tota valor,
de Salnssa la bella n'Ainesina
30 fassa est cium a son entendedor
la Contessa Biatriz sa cosina,
sii ve camiar en nuil' autra color.
IV. T. 29 Plozasc] ms. plazasc.
142
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
IV. Le allusioni più o meno chiare che a donne d' Italia vengon fatte
in parecchie poesie di trovatori e in alcune loro biografie.
Le donne italiane che furono in relazione coi poeti vanno poi distinte in
due sezioni: le une sono chiaramente nominate e di alcune di esse ha co-
noscenza la storia; le altre o sono vagamente e indistintamente ricordate,
0 sono velate sotto un senhal. Le prime, le sole veramente meritevoli di
cure attente, sono le seguenti:
1. Adelaide di Castello e di Massa. Cantò di lei A. de Sestaron nella 16.
13 (str. VI): « sembla fresca rosa en pascer ». Fu celebrata anche nella
9, 21 (str. VI) di A. de Belenoi. Il T. propone dubbiosamente di iden-
tificarla con la moglie di Guglielmo Pallodi di Sardegna (p. 30).
2. Adelaide di Viadana. Fu figlia di Alberto conte di Mangone e sorella di
Beatrice (cfr. n" 15), insieme alla quale venne cantata da Guilhem de
la Tor nella treva (str. II). Sposatasi con Gavalcabò signore di Viadana
(De Lollis, Sordello, Halle, 1896, p. 24, n» 1 e questo Giornale 36,
16, n. 4) meritò le lodi di G. de La Tor in 437, 38. Si lagnò di lei Uc
de Saint Gire nella 457, 36, e le prepose Bonella di Bresciana. Rispon-
35
40
VI.
45
VII.
50
55
Vili.
Se Salvala la bella d'Anramala,
qui de bon prez a fait paiaz e sala,
no so tengues a orgueil ni a tala,
non amari» lei ni sa seror,
se tot de prez so en l'anzor escala
e son Alias de Conrat mon seignor,
pero s'amor ra'agra ferit soz l'ala
s'amar degues, mas non ai ges paor.
Si n'Azalais de Castel' e de Massa
que tot bon prez aiosta et amassa
m'en pregava, tota en seria la8sa(z),
se tot sembla fresca rosa en pascor.
Gardaz con es bella, fresca e grassa(z}
anz que m'agues conquis per amador
e sei beli hnelh semblan quairels que passa
del cors al cor ab una grant dolzor.
Si'm donava s'amor la pros Comtessa
cil del Carret, q'es de prez seignoresja,
non farla vas lei nnlla esdemessa;
gardaz s'eu ai dit orgaeill ni follor,
que gea mos cors plns en donas non pessa
enanZflas er a percachar aillor.
ni ges non voill que neguna m'aguessa
colgat ab se de sotz son cobertor.
Seigne 'n Conrat, granz es vostra
don poia adeg e creis vostra valor.
V. Si-I Salvala es tant pros d'Au(t)ramal»,
con n'Albertz ditz, non er mais dins sa sala
que non so tenga ad ancta et a tala,
e si ia mais vei leis ni sa seror
e non l'en fan tornar en un'escala
non son fillas d'en Conrat lo seignor,
car qui fera la Inr amor sotz l'ala
aver en deu ardiment e paor.
VI. Pero si'l ve la prò domna de Massa,
sii qe conqer toz iorz pretz et amiHa
e no'l bat tant entro que-n sia lassa,
ja no'l sai dieu[«] son lial amador,
ni non eia Ione temps fresca ni grasn,
ni non teingna son amie en pascor,
car es lo iois que tot autre ioi passa
d'aquest segle et ab mais [de] doufor.
Per las antras e per la prò Comtessa
del Carret, voil que Kia seignoreasa
de n'Albertet una viella sozmessa
d'arol home, car a dig mal de lor,
e s'el Ha dompna e mal noi pessa (?),
d'entre las pros sen an eetat aillor,
car ges nos taing qne negana Ì*agBe«a
prestai d'i ver son avol cobertor.
Vili. Dompnas totas si fan don e promessa
de tot son mal, car a dig nal de lor.
35
40
45
VII.
50
55
VII. y. 53 pessa] ms. pasta.
VII. V. 56 ms. colgat don paia ab se de sotz son
cobertor.
VII. r. 50 Carret] ms. CarrtL
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 143
dendo ad Uc de S. Gire, difese Adelaide Nicoletto da Torino in 310,3-
Secondo lo Schultz (Zeitschrift f. rom. Phil. VII; 214 e Epist. del
trovai. Ramò, di Vaq. traduz. it., Firenze 1893, p. 172 n. 1), a questa
Adelaide sarebbe anche indirizzata la 282, 24 di L. Gigala. Si potrebbe
opporre che alle parole: nailas de i?., che si leggono in H, in testa al
componimento citato {Studi di fil. rom., V, 543), contraddice la stessa
poesia, la quale parla di una donna di Villafranca ; ma forse qui devesi
vedere un nuovo esempio di quell'uso rettorico, per cui un elogio po-
teva venir formato con nomi locali, di che offre magnifico esempio A. de
Peguilhan in 10, 40 (cfr, Zingarelli, Intorno a due trovatori in Italia,
Firenze, 1899, pp. 35 sgg.). Nel 1234 Adelaide si separò da Gavalcabò
ritirandosi presso il fratello e chiamò in giudizio il marito, accusandolo
di aver tentato di avvelenarla (Litta, Fam. Cavalcabò, e Torraca, p. 55).
Lo Schultz annoverò la nostra Adelaide tra le poetesse provenzali iden-
tificandola con una donna H., che tenzonò con Rofin, 426, 1. (Schultz,
Die provenz. Dichterinnen, Leipzig, 1888, p. 15). L'ardita congettura
vien combattuta vivacemente dal Torraca a pag. 30.
3. Adelasia di Saluzzo. Fu sorella di Bonifacio I di Monferrato e sposò
nel 1182 Manfredi II di Saluzzo. Si vedano: Savio, Studi storici sul
march. Guglielmo III di Monferr., Torino, 1885, p. 70 e Schultz, Le
epist. cit. p. 149. Vien ricordata nella biografia di R. de Vaqueiras
(M.B.2 p. 32) e può venir forse identificata con la bela seror di Boni-
facio I, lodata da P. Vidal in 364, 2.
4. Agnese. Gitata esclusivamente nella str. IV, v. 4 del « carroccio ».
5. Agnese d'Arco. Gitata in « treva » str. III, v. 4. Forse a ragione il Ca-
sini, in questo Giornale, lì, 405, inclinò a crederla una mantovana.
6. Agnese di Lenta. Citata soltanto nel « carroccio », str. III, v. 8.
7. Agnesina di Saluzzo. Fu sorella di Bonifacio di Saluzzo (f 1212), il quale
sposò nel 1202 Maria di Sardegna, cioè Maria la Sarda del « carroccio »
str. V, v. 1. Nel 1213 essa fu promessa sposa ad Amedeo IV di Savoia,
ma il matrimonio poi non ebbe effetto. Schultz, Die provenz. Dicht. cit.
p. 14; De Lollis, Sordello p. 23 n. 4; Schultz, Epist. cit. p. 149. La
nostra Agnesina venne ricordata nella tenzone fra Donna H. e Rofin
(426, 1), nella 437, 38 da Sordello (cfr. De Lollis, Op. cit. pp. 24, 171,
275), da A. de Sestaron nella 16, 13 e da A. de Belenoi nella 9, 21.
Nella 16, 13 il ms. A (n<> 159, Studi di fil. rom., voi. Ili) chiama Agne-
sina « de Polomnac » e non sarà esatto dire col De Lollis che con A
si accordi D, poiché quest'ultimo ms. legge veramente: «de Plazasc»,
che andrà corretto in « de Plozasc » ; ma ch'essa veramente sia Agne-
sina di Saluzzo (e non di Piossasco) si deduce chiaramente dalla risposta
di A. de Belenoi.
8. Aquiletta. Fu data da Bonifacio I di Monferrato in isposa a Gui de
Montelh-Azemar. Si cfr. l'epist. in-ar de R. di Vaqueiras, vv. 78-79
nell'ediz. Schultz citata e anche si veda Savio, Gìorn. ligust. XX, 449-450.
9. Aquilina (Aiglina) di Sarzana. Gitata in « treva » str. IV, v. 4.
Cfr. Casini, Op. cit., p. 304.
10. Anda. Ricordata in « carroccio y> str. IV, v. 3.
144 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
11. AuDicE. Citata in « carroccio » str. iv. 2. Anche di essa nulla fin qui si
conosce. Io mi permetto di ricordare, senza avanzare alcuna congettura,
che nella 1* metà del sec. XIII visse una Audice di Trincherò di Carrù,
la quale sposò Filippo di Enrico 1 della casa di Ventimiglia. Si cfr.
Savio, Giom. ligustico^ XX; tav. geneal. n© III.
12. Bastarda. Ricordata in « carroccio > str. V, v. 3.
13. Beatrice d'Auramala Malaspina. Di questa donna nulla si conosce di
certo. Fu sorella di Selvaggia (cfr. la pres. rassegna, n» 57), come si
apprende dalla « treva » str. I. vv. 2-3, e fu figlia di Corrado Malaspina.
Cfr. Schultz, Epist. cit. p. 169 e per un nuovo accenno si veda questo
Giornale 36, 3, n. 1.
14. Beatrice d'Este. Le ricerche intorno a questa donna furono incominciate
dal Cavedoni : Delle accoglienze e degli onori die ebbero % trov. prov.
alla corte dei Marchesi d'Estc nel sec. XIII^ in Memorie d. R. Ac-
cademia di Scienze^ Lettere ed Arti di Modena, T. Il, 1858 p. 278, e
proseguite di recente dallo Zingarelli, Op. cit., pp. 27 sgg. Io rimando
per questa Beatrice a ciò che di essa si dice nella seconda parte di
questa rassegna, là dove si discorre della « treva ». Rammento qui
soltanto ch'essa fu figlia di Azzo VI e di una figlia di Umberto III
di Savoia.
15. Beatrice di Mangone. Spetta al Torraca il merito di aver dimostrato
che questa Beatrice, sorella di Adelaide di Viadana (cfr. n® 2), era
nel 1216 già sposa del giovine Paolo di Pietro Traversara e che nel
9 Febbraio 1225 essa non era più tra i vivi (p. 49). Meritevolissima
d'attenzione è pure la congettura del Torraca, secondo la quale il pianto
(10, 22) di A. de Peguilhan sarebbe stato composto appunto in occasione
della morte di Beatrice di Mangone.
16. Beatrice I di Monferrato. Cosi la chiamo per distinguerla dalla se-
guente. È ritenuta generalmente figlia di Bonifacio I e per essa R. de
Vaqueiras compose il « carroccio ». Per la molta bibliografia e per le
questioni che la riguardano, mi limito a rimandare allo Schultz, Le
epist. cit., pp. 151 sgg.
17. Beatrice II di Monferrato, contessa di Vienna. Fu figlia di Gu-
glielmo IV di Monferrato e, forse, di quella Berta, che vien citata nel
« carroccio ». Fu sorella di Bonifacio II (1225-1253) e cugina di Agne-
sina di Saluzzo. Ciò dimostra chiaramente che qtiella contessa di Vianes
citata da A. de Sestaron nella 16, 13: nil contessa Biatris sa cosina
(di Agnesina) de Vianes ab sa fresca color, va identificata colla nostra
Beatrice. Si sposò nel 1220 con Andrea Delfino di Vienna: il contratto di
nozze fu stabilito il 15 novembre 1219. Cfr. Savio, Op. ci^, pp. 109-110.
Rimasta vedova, pretese essa stessa da Federico li la conferma di
diritti perduti. Cfr. S. HcUmann, Die Grafen v. Savoyen und das
Reich bis zttm Ende der staufischen Periode, Innsbruck, 19(X), p. 136.
Gli accenni provenzali, che la riguardano, furon raccolti dallo Schultz
in Epist. cit. p. 159. Fors'anche essa è ricordata da Gauzeran de Saint
Leidier nella 168, 1.
18 Beatrice di Savoia, contessa di Provenza. Fu figlia del conte Tom-
RASSEGNA. BIBLIOGRAFICA 145
raaso I di Savoia e sposò il 1219-1220 Raimondo Berengario IV di
Provenza. Alludendo a questo matrimonio, cantava Peire Bremon Ricas
Novas (ovvero Arnaut Catalan, trovatore che fu in Italia, come si ap-
prende dalla 27, 6), nel componimento 330, 4: Proensa, belh mes^ \
quar a mes \ en vos Savoya totz hes \ ab pros domna gaya. Fu anche
lodata, qualche volta insieme a Blacatz, da Elias de Barjols in 132; 4,
7, 9, 10, 11. Arnaut Catalan la loda in 27, 4 ed è essa pur cantata da
Guiraut de Bornelh in 242, 35. Secondo il Torraca (Gior. Dantesco, IV,
24) la contessa Beatrice sarebbe stata anche ricordata da Peire Guilhem
de Tolosa nella tenzone 345, 1 (De Lollis, Sordello, p. 172) scambiata
con Sordello. Debbo anche a questo proposito ricordare che appunto il
Torraca (Giorn. Dantesco, IV, 23 sgg.) crede che la donna amata in
Provenza da Sordello sia stata, anzi che Guida di Rodez, Beatrice di
Provenza. La quale fu anche ricordata da Bertran da Lamanon in 76, 12.
Una contessa Beatrice, eh' io inclinerei collo Schultz [Epist. cit., p. 23)
a identificare con la nostra Beatrice, è cantata nel componimento 392, 26,
il quale piuttosto che a Rambaldo de Vaqueiras pare appartenga a Aira.
de Belenoi, a cui è attribuito da tre mss. Oltre a ciò che ha osservato
lo Schultz, mi rafferma in questa opinione il fatto che nella seconda
tornata vien ricordato dopo Beatrice un signor Imo (chiamato Aimo
nella 9, 7 di Aimeric de Belenoi), il quale mi par sia il fratello di
Beatrice, il conte Aimone di Savoia, che mori forse sul finire del terzo
decennio del sec. XIII. Non va dimenticato che Beatrice venne pur ri-
cordata nella 16, 13 di A. de Sestaron e nella 9, 21 di A. de Belenoi,
e che la figlia sua Beatrice, sposa di Carlo d'Angiò, venne pur cantata
nella poesia provenzale e fu chiamata col segnale di na Berlengueira
da Guiraut d'Espanha in 244; 1, 2, 3, 10, 11 (cfr. Appel, Prov. Inedita,
Leipzig, 1890 p. 347 col. 1) cfr. il n^ 56. La corte di Savoia si mostrò
pure ospitale coi trovatori e da essi venne più volte ricordata: da Elias
de Barjols in 133, 11, da Peire Raimon de Tolosa in 355, 1 (Monaci,
Testi ant. prov., Roma, 1888, col. 79). Tommaso II venne citato da Uc
de Saint Ciro in un suo noto serventese composto verso il 1240-41
(Zingarelli, Op. cit., pp. 13-14), e da un passo di un componimento di
L. Gigala, 282, 22 (Monaci, Op. cit., col. 93) si deduce che questo prin-
cipe poetò in provenzale (Schultz, Ztf., VII, 218, 233).
19. Berlenda. Nel solo « carroccio » str. IV, v. 3.
20. Berlenda di Lunigiana. Fu amata da L. Cigala (1), il quale la ricorda
in un componimento inserito dal Rajna in Studi di fil. rem. V, 24 e
ne piange la morte in una seconda poesia pubblicata in Appel, Inedita,
cit. p. 182. Il Nostradamus sostenne (p. 133) che questa Berlenda sia
(1) Io parlai recentemente di L. Cigala in questo Giornale, XXXVI, 15-18. Dopo la comparsa
del mio articolo, renne inserito nel Giornale storico e letterario della Liguria, anno I (1900),
fase. 10, pp. 353 sgg., uno studio di A. Fkbretto, 1 Genovesi in Oriente, dal carteggio di In-
nocenzo IV, dal quale si apprende che il 1° aprile 1255 Ottaviano Cigala, figlio del nobile Lan-
franco, costituì procuratori i suoi zìi Oberto e Nicoloso per prendere possesso di prebende concesse
da Innocenzo IV. Vedi Op. cit., p. 868.
QiorwiU storico. XXXVIII, fase. 112-113. 10
146 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
stata della casa Cibo e, ancorché genovese d'origine, abbia trascorsa
sua vita in Provenza. Ma ch'essa appartenga alla Lunigiana ha provato
il Rajna (Op. cit., pp. 14-15), il quale si spinse ad ammettere ch'essa
sia stata moglie di Moroello Malaspina.
21. Berta. Secondo il Savio, Studi storici sul marchese Guglielmo Illdi
Monferrato^ Torino, 1885, p. 112, questa Berta, citata soltanto in « car-
« roccio » str. V, v. 3, sarebbe Berta di Cravesana moglie di Guglielmo IV
di Monferrato, col quale si sposò forse il 1201. Resta diflBcile tuttavia
a spiegarsi come mai Rambaldo abbia incitato contro Beatrice Berta,
ch'era sua cognata; e forse sarà meglio pensare a Berta d'Ancisa, so-
rella di quella Domicella, che vien ricordata nello stesso e carroccio ».
Cfr. il n" 30 della presente rassegna.
22. Berta di Soragna. Citata in « treva » str. Ili, v. 2. Cfr. Sandra di
Soragna (no 55).
23. Bruna di Castello. Ricordata soltanto in « treva » str. V, v. 6.
24. Caracosa di Cantacaprane. Fu figlia del marchese Alberto Malaspina
(f forse il 1212). È citata nella « treva > str. IV, vv. 2-3. In M. E. P.
Chart. II, 1294 leggesi un atto che si riferisce alla successione di Ca-
racosa, la quale fu data in isposa ad Alberto di Gavi e per la dote fu
impegnata la terra di Cantacaprane « dove appunto nel 1218 teneva sua
«dimora Caracosa». Savio, Op. cit. pp. 74-75 n° 1. Si cfr. Schultz,
Zeit. f. rom. phil., VII, 194 n° 1 ed Epist. cit. p. 165 n* 6.
25. Contesso. Cioè: « Contessina», nome proprio. Trovasi nominata soltanto
in < carroccio ». Si veda Crescini, Rassegna bihl. d. Ietterai, ital., IV,
p. 210. Il Crescini ebbe a notare che contesso può essere un vezzeggia-
tivo di contessa (Man. prov. p. LXXVIIT, n* 1) : io aggiungo che anche
Guillielmona nella tenzone di Taurel e Falconet equivarrà a GuglieU
mina. Il De LoUis notò che contesso fu anche usato come nome proprio.
(Sord., p. 287).
26. Contesso del Carretto. Citata in « treva », str. VI, v. 1. Il Toiraca
(p. 21) la identifica « con quella figliuola di Enrico II del Carretto
€ ricordata nel 1226, come moglie di Grottapaglia ». Forse fu cantata
da A. de Sestaron in 16, 13 e da A. de Belenoi in 9, 21.
27. Costanza d'Este. Fu figliuola di Azzo VII e maritata ad Uberto degli
Aldobrandeschi, conte di Maremma. Venne cantata da Ralmenz Bistors
d'Arles. Si veda: Cavedoni, Op. e l. cit. e Stengel, Die prov. B lumen-
lese der Chigiana^ Marburg, 1878, nn. 141, 142.
28. CuBiTOSA d'Este. Vien ricordata nella 426, 1. Cubitosa d'Azze Novello
sposò Isnardo Malaspina, al quale il Cavedoni — come risulta dalle sue
carte conservate nella Estense — attribuiva un congedo di Barjols in
132, 11: <ìrisnarty donan e meten -creissez de terr e donransai^.
Io credo utile ricordare che visse nel sec. XllI un ricco signore, che
fu poeta provenzale ed ebbe relazione con trovatori, di nome Isnart
d'Entrevennes, intorno a cui si vedano ora le notizie raccolte da 0. Soltau
in Zeit. f. rom. phil., XXIU, 201-6.
29. GuNizzA DA R0.MAN0. Fu sorella di Ezzelino ed Alberico da Romano e
moglie di Rizzardo di S. Bonifacio. Fu rapita (forse nel 1226) da Sor-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 147
dello (De Lollis, Op. cit., p. 11). Le sue relazioni con Sordello sono
tuttora molto incerte. A lei allude G. d'Albusson nella 265, 3. Si fece
suo difensore P. Guilhem de Luserna col componimento 344, 5 pubbli-
cato da P. E. Guarnerio, P. G. di Luserna, Genova, 1876, pp. 17 e 33,
e in lezione migliore da P. Meyer in Romania, XXVI, p. 96. A Peire
Guilhem rispose Uc de Saint Gire colla 457, 28 inserita da A. Jeanroy
in Reo. d. lang. rom. a. IV, 10, p. 394. Si cfr. anche De Lollis, Op. cit.,
p. 275. Io ritornerò prossimamente su Sordello in questo medesimo
Giornale.
30. DoMiCELLA. Figlia di Domitilla (V. n° 31).
31. Domitilla. Secondo una bella congettura del Torraca (p. 14) discorre
dell'una e dell'altro R. de Vaqueiras al luogo seg. del « carroccio » la
mair e la filha -d'Amzisa, str. Ili, vv. 5-6, Domitilla fu infatti sposa
e vedova di Alberto marchese d'Incisa. Si cfr. Molinari, Storia d'Incisa^
^ Asti, 1810, I, pp. 158-9.
32. DoNELLA DI Bresciana. Si cfr. pel suo nome e per i componimenti che
la riguardano questo Giornale, 36, p. 16, n. 4 e in opposizione a ciò si
veda Schultz, Zeit. cit. XXXV, p. 122. Merita attenzione una proposta
di A. Restori (Rendic. delVistit. Lomb., 1892, p. 307), secondo cui essa
sarebbe stata in relazione con Ponzio Amato di Cremona.
33. Donna H. Scambiò con Rofin la tenzone 426, 1. Fu forse italiana; cer-
tamente la tenzone venne composta in Italia. Si veda il n° 2 della
pres. rassegna.
34. Eloisa. Citata nel « carroccio » str. IV, v. 4.
35. Emilia di Ponzone. Ricordata nella « treva » str. IV, v. 1. Spetta al
Torraca il merito di aver scovato la nostra Emilia in un atto inserito
in M.H.P., Chart. II, 1373. Essa fu moglie di Ponzio di Ponzone e mori
prima del 4 febbraio 1231 (p. 44).
36. Emilia di Ravenna. Si cfr. Cavedoni, Op. cit., p. 280, n. 14. È ricor-
data nella « treva » str. II, v. 3, nella 10, 3 e nella 205, 5 di G. Augier.
Cfr. Monaci, Op. cit. col. 79 e Mùller, Zeit. cit., XXIII, p. 69. Fu sposa
di Pietro Traversara.
37. Garsenda. Citata nel «carroccio», str. IV, v. 1.
38. Giacobina di Ventimiglia. Celebrata da R. d. Vaqueiras in epist. in -ar
vv. 74-75. Allo Schultz, Epist. cit., sfuggì un articolo del Savio in
Giorn. ligust., XX (1893) p. 441. Di questo articolo ebbe conoscenza
V. Crescini, il quale esaminò di recente minutamente il lavoro citato
dallo Schultz in Rambaut de Vaqueiras et le marquis Boniface 1 de
Monferrato Toulouse, 1901 (Extrait des Annales du Midi, XI-XIII).
Giacobina dovè essere figlia di Guido Guerra e della Contessa Ferrarla.
L'episodio cavalleresco, cui accenna Rambaldo, fu posto dal Savio tra
il 1184 e 1188. Lo Schultz propose la data 1179-80. Il Crescini non si
dichiara in modo deciso.
39. S. Giorgio (donna di). Ricordata in « carroccio » str. V, v. 2. Si veda
Savio, Studi star., cit.
40. Giovanna d'Este. Fu sposa di Azzo VII d'Este: mori nel 1233. Si
cfr. Cavedoni, mem. cit., pp. 301, 305. È ricordata da A. de Peguilhan
148 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
in 10, 17, da Peire Guilhem de Luserna in 344, 3, da Guilhem de la
Tor in 236, 2.
41. GuQLiELMiNA. Citata nella tenzone 438, 1 fra Taurel e Falconet. Si cfr. il
n° 25 della nostra rassegna.
42. GuGLiELMiNA DI Ventimiglia. Citata in « carroccio » str. Ili, vv. 9-10.
43. GuiQLiA. Id., str. Ili, v. 3.
44. Inglese. Id., str. IV, v. 1.
45. Isabella. Su di essa cfr. Schultz, Die prov. Dick., cit., p. 11. Questa
donna scambiò con Elias Cairel la tenzone 133, 7 e dallo stesso poeta
vien citata in 133; 3, 6, 9. Chi essa sia stata non è ben chiaro. In un
accenno contenuto nella tenzone stessa str. V, vv. 7-8, e da alcuni passi
di E. Cairel lo Schultz desunse ch'essa abbia trascorsa parte della sua
vita in Grecia e la identificò con Isabella di Guido Marchesopulo. Ma
ciò è molto dubbioso. Cfr. Torraca, pp. 20-21.
46. Mabilia. Ricordata in « treva » str. Ili, v. 3.
47. Margherita di Savoia. Fu moglie di Tommaso l di Savoia e figlia di
Guglielmo I di Ginevra. A lei forse va attribuito un accenno del « car-
« roccio » str. V, v. 15. Il Torraca si attenne a fonti non buone chia-
mando Beatrice, anzi che Margherita, la moglie di Tommaso I (p. 14).
48. Maria d'Auramala. Essa venne cantata da A. de Sestaron in 16, 1. Io
credo col Torraca che Alberico da Romano piuttosto che a questa, si
sia rivolto alla Maria seguente colla sua 93, 1.
49. Maria di Mons. Il testo della 457, 22 di Uc de Saint Gire può forse
permettere di leggere: mons\ ma non tutti i mss. vanno d'accordo. Al-
berico da Romano le indirizzò forse la 93, 1. Si cfr. T., p. 30.
50. Maria La Sarda. Il Savio, Studi stor. cit., p. 112 ritiene che questa
donna citata nel «carroccio» str. V, v. 1, sia stata sposa di Bonifacio
marchese di Saluzzo. Si cfr. anche Schultz, Epist. cit., p. 145.
51. Otta Degli Strasso. Fu sposata celatamente da Sordello. Su questa
parte di biografia Sordelliana ritornò in questo Giornale, 34, 368 sgg.
G. Biscaro con argomenti, eh' io non potrei del tutto accettare. Si veda
anche A. F. Carreri , Otta di Strasso, in N. Archivio Veneto, XIII»
211-214.
52. Palmiera. Citata in < carroccio > str. IV, v. 2.
53. Richeta. Id. « carroccio » str. Ili, v. 4.
54. Saldina Da Mar. Citata da Ramb. de Vaqueiras in epist. in 'ar, v. 16.
Il Crescini, Per gli studi romanzi , p. 33, la chiama Iseldina, ma si
cfr. Schultz, Epist. cit. p. 78. Si veda anche Crescini, Ramh. d. Vaq.
cit., p. 67.
55. Sandra Di Soragna. Ricordata in « treva» str. Ili, v. 1. Il Casini, Op.
cit., p. 405, propose di ricercare Berta e Sandra nella famiglia dei Lupi,
il Torraca pensa piuttosto a quella dei Pelavicina (p. 20).
56. Savoia (Contessa Di). Una < contessa di Savoia » vien citata nella 16,
2 da A. de Sestaron, poeta che fiorì negli ultimi anni del sec. XII o
nei primi del XIII. Si posson qui presentare parecchie congetture, delle
quali due io proposi in questo Giornale, 36, 20, n. 1.0 essa è Beatrice
di Savoia ohe andò sposa al conte di Provenza, o l'altra Beatrice che
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 149
si sposò a Manfredi III di Saluzzo (e in tal caso il componimento sa-
rebbe stato scritto prima del loro matrimonio, com'io dissi chiaramente
in op. e luogo cit.), ovvero Margherita moglie di Tommaso I, o anche
Beatrice di Macon e Vienna sposata a Umberto III. Non sarà neppure
impossibile pensare a Margherita di Vienna sposa di Amedeo IV.
57. Selvaggia d'Auramala Malaspina. Cfr. n» 13. Fu sorella di Beatrice e
figlia di Corrado Malaspina. Agli accenni raccolti dallo Schultz, Epist.
cit., p. 169, va ora aggiunto quello indicato in questo Giornale, 36, 3, n. 1.
53. Sofia Di Gàsalodi. In « treva » str. III, v. 5.
59. Stazailla. Fu donna della Marca amata da Uc de Saint Gire. Dice in-
fatti una 7'azos di questo trovatore (cito dal canz. N^ A. Pillet, Archiv
f. das Stud. d. neuer. Spr. u. Literat., CI, p. 376) : « Hucs de Saint
« Gire si amaua una domna de Treuisana que aula nom domna Sta-
«zailla». Fu per lei composta la 457, 18.
60. ToMMASiNA. Gitata in « carroccio », str. Ili, v. 15.
61. TuRCLA. Fu amata da Ferrarino da Ferrara, che per lei compose rime
perdute. Gosì narra infatti la breve biografia che precede il florilegio di
Ferrarino in corso di pubblicazione negli Annales du Midi. 11 Gavedoni,
mem. cit. p. 292, n° 30, la ritiene donna di casa illustre di Ferrara e
cita a questo proposito un Jacobus Turclus, di cui si discorre nel Frizzi,
Storia di Ferrara, III, 31, all'anno 1191. Ricordo che negli anni 1272-3
si ha notizia di Aldovrandinus , Rodolfinus , Fantinus , Nascimbenus,
Marzolinus Turcli (Archivio di Stato in Modena, Gat. Estensi, Registro
D, e. 52 sgg.).
62. Urgel (Contessa D'). Gfr. Torraca, p. 33.
63. Verde Di Gossano. Emendazione di nAverz de Coissan in « treva »
str. IV, v. 3, proposta dal Grescini in Rassegna bibl., cit. IV, 210.*
64. ZiBELLiNA. Gitata in « carroccio », str. III, v. 3.
Tralascio qui di ricordare per brevità gli accenni provenzali a donne ita-
liane di cui non si conosce il nome, sia ch'esse siano state velate da un
senhal, come avviene ad es. in Bertolome Zorzi, sia che nessuna indicazione
sia stata fornita dal poeta. Dirò soltanto ch'io non inclino a credere col
Torraca (p. 36) mielh d'amor un senhal usato da Perceval Doria nel com-
ponimento inserito in questo Giornale, 36, 24, str. VII, v. 1. E passo ad
esaminare brevemente la seconda parte dell'operetta del T.
Il secondo studio verte sulla « treva » di Guilhem de La Tor. La compo-
sizione di questo componimento solevasi riportare intorno al 1225-30; ma
nessun argomento positivo veniva a confermare una di queste date.
Ora, il Torraca dimostra che la « treva » fu composta parecchio tempo
prima, e mi par meritevole d'approvazione una sua proposta, secondo la
quale la « treva » sarebbe stata scritta un po' prima del 1216, perchè la
Beatrice, che noi segnammo col n» 15, vi è chiamata « c?e Magon » cioè
col nome della casa paterna e non con quello dello sposo, cui dovè unirsi
poco prima del 1216 (p. 51, n» 1). Troppo ardita potrà invece parere (cfr.
150 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
questo Giornale, 459, n. 2 e Zeit. cit., XXXV, p. 122) la correzione intro-
dotta dal T. nei seguenti versi:
Na Biatrìz i ven d'Est cai fin prez capdella,
del marques d'Est moiller, od valors renovella (1).
Il T., osservando che nessuna Beatrice è ricordata da storici e genealo-
gisti come moglie di un marchese d' Este negli anni che ci interessano,
propone di sostituire la parola moiller con sor e di leggere:
del marqaeset d'Est sor, on valors renovella.
Il margueset sarebbe Azzo VII e la sorella sua rimarrebbe quella bea
nota Beatrice d'Este, figlia di Azzo VI, che fu chiamata « beata » e passò
nella sua corte non altrimenti che una visione. Fu detta di maravigliosa
bellezza e dedita nella prima giovinezza ai lussi e alle pompe, dalle quali
si ritirò a penitenza, spegnendosi nei silenzi di un monastero. Ad essa si
attribuiscono le lodi di Aimeric de Peguilhan e di Lambertino Buvalelli e
ad essa sarebbe indirizzato, secondo il T., l'elogio di Guilhem de La Tor.
Già lo Zingarelli, che ebbe per ultimo ad occuparsi di questa Beatrice,
notò che resta tuttavia dubbioso come certe lodi del da Peguilhan e del
Buvalelli sian state rivolte, contro l'uso trovadorico, ad una fanciulla, alla
quale inoltre mal sarebbe attribuita la particella iVa, e non osò prudente-
mente dichiararsi in proposito (2) : se poi noi accetteremo, come data pro-
babile della « treva », un anno di poco precedente al 1216, ne verrà che
piuttosto che ad Azzo VII si dovrà pensare al fratello Aldobrandino (1212-5).
Verrebbe perciò la « treva » a dirci — nella sua lezione originale — che
moglie di Aldobrandino fu una Beatrice. Ma qui la dubbiezza storica è
quanto mai grande, poiché si conosce bensì una figlia Beatrice di Aldobran-
dino, ma nulla si sa della moglie sua e per di più in una importante genea-
logia di casa d'Este, del sec. XV (Biblioteca estense, a. L. 5, 16) (3) vien
detto che Aldobrandino non ebbe moglie. Pellegrino Prisciano (Libro VII) e
l'altro cronista estense Paolo da Lignago nelle loro cronache rass., ch'io potei
consultare, non tengono di ciò parola e il Muratori (Ant. Estensi, I, 404 sgg.)
preferì non discorrere dell'oscura questione. Ricorderò anche che il Frizzi
(Op. cit.. Ili, p. 80) ebbe a scrivere; « Morì il marchese Aldobrandino li
« 10 ottobre 1215 e lasciò una figliuola unica nomata Beatrice, di cui la
(1) Accetto, per qaesto secondo verso, la correzione che ha per sé Paatorità dello CBABAUtao,
R«o. d* lang. rom., S. Ili, t. X, p. 107. Il ms. legge yeramente:
del marqaeset d'Est moiller od yalon re[Do]TelIa.
(2) ZiKOARBLLI, Op. cit., p. 46.
(3) È una genealogia frammentaria, di cai toccò F. Castm. in Atti $ memorie dtUa R. Dtpu-
toMion* di storia patria ptr U prot. Modtntti, S. IV. t. I, p. xix. La prima parte, conservata
nella biblioteca Vittorio Emanuele in Roma, venne pabblicata da I. Gioroi, BuUttt. deW Istituto
storico italiano, n» 2, Roma, 1867.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 151
« madre si ignora, ma si nega che fosse moglie legittima di lui ». L'oscurità,
dalla quale noi siamo avvolti in queste questioni, venne ultimamente notata
dallo Zingarelli {Op. cit., p. 49) : « Da tutto ciò risulta che la materia è an-
« Cora da studiare e non dobbiamo costringerla nei pochi dati che i docu-
< menti sinora conosciuti ci offrono ».
Ora, io produrrò qui un argomento, al quale non intendo dare soverchio
peso, ma tuttavia preferisco di non tacerlo, convinto che da più lunga di-
samina la presente questione non possa che ricevere maggior luce, lo avevo
di già abbandonata ogni mia ricerca, quando ebbi ad imbattermi in un'opera
di diflBcilissima consultazione (1), che si chiude con un largo albero genea-
logico, il quale s'apre sì con un volo di fantasia, ma certo però, per l'età
che ci interessa, è stato condotto su buone fonti, poiché io ne feci ampi e
accurati riscontri. In esso viene affermato che moglie del nostro Aldobran-
dino fu appunto una Beatrice. Che ciò sia vero, io non posso asseverare
nell'assoluta mancanza di prove e dietro la povera scorta di uno scrittore
del sec. XVII; e qui mi limito puramente a notare la strana coincidenza
con Guilhem de La Tor. Certamente però, se ciò fosse provato, riceverebbe
un forte colpo l'opinione che attribuisce i canti di A. de Peguilhan e di
L. Buvalelli alla figlia di Azzo VI, e il testo della « treva » rimarrebbe quale
è, e ciò sarebbe un gran bene, poiché riesce difficile pensare che un tro-
vatore, che fu ospitato dalla casa d'Este, abbia appunto errato in una indi-
cazione genealogica della stessa casa.
Due componimenti provenzali pubblica il T. a pp. 57-60 : « la treva » e il
« pianto » di Aimeric de Peguilhan per Beatrice di Mangone (cfr. n® 15).
La lezione di quest' ultimo è riprodotta da Choix, III, 428. Io ho alcune
osservazioni da fare su questo componimento.
V. 10. In luogo di fos, leggerei fon anche perché è tale la lezione di D.
V. 11. Perché il verso non cresca di una sillaba è qui necessario ammettere
un caso di sinalefe non molto usato. Preferirei leggere : deurihom. v. 17.
In luogo di Qu'el si legga: Que'l, o anche: Quel. v. 18. Vacuilhir. I) legge:
acuoillirs, e veramente manterrei la -s flessionale. Si cfr. gli altri infiniti sgg.
V. 25 e. Leggerei con D: ni. Si cfr. i versi sgg. v. 41. In luogo di ple^ si
legga: ples con D. L'ultimo verso nell'edizione del Raynouard dice:
vos companha ab sa mair' et ab se.
Per quanto nella poesia provenz. trovinsi talvolta esempi di sostituzione
di indicativo pres. al pres. cong., qui, nel caso di una esortazione diretta,
vorrei il congiuntivo. Erra senza dubbio il ms. D leggendo in luogo di
companha: acomplaing, ma ci mette però col suo a- iniziale sulla retta via.
Si legga perciò:
Tos acompanh ab sa mair' e ab se.
(1) DoMRKico OiMBERTi, L'idea di un principe et heroe chrisiiano in Francisco 1 d^Este, Mo-
dena, 1659.
152 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Quattro utilissimi documenti chiudono il volumetto, che sotto umili appa-
renze parecchie cose nuove raccoglie, e interessa cosi gli studiosi della let-
teratura provenzale come quelli delle origini nostre.
Giulio Bertoni.
G. A. CESAREO. — Su le <i^ Poesie volgari » del Petrarca. Nuove
ricerche. — Rocca S. Casciano, Cappelli, 1898 (8^ pp. 316).
ENRICO SICARDI. — Gli amori estravaganti e molteplici di
F. Petrarca e Vam,ore unico per m^adonna Laura de Sade,
Con un'appendice e un facsimile. — Milano, U. Hoepli, 1900
(8«, pp. 280).
G. A. CESAREO. — Gli amori del Petrarca. Nel Giornale Dan-
tesco, an. Vili, Ser. IH, Quad. I. — Firenze, Olschki, 1900.
Tra la vasta fioritura moderna di studi dedicati al nome e alle opere di
F. Petrarca, il libro del Cesareo, citato in capo a queste pagine, è dei più
segnalabili per l'insieme di idee, d'intuizioni e d'ipotesi geniali che raccoglie.
Del resto, che il Cesareo sia uno tra i cultori del Petrarca più degni e più
attivi che oggi vanti l'Italia, non importa dirlo ai lettori di questo periodico,
i quali lo videro alla prova si bene, da rendere a noi men diflBcile il reso-
conto di questo volume, dove giova leggere riunito quanto finora egli scrisse
sparsamente sul cantore di Laura: tanto più che non ci troviamo fra mano
delle semplici ristampe, ma, presso a qualche breve memoria inedita, figu-
rano scritti largamente rifusi o almeno ritoccati.
Così s'ingannerebbe chi, per avere già visto anni or sono su questo Gior-
nale il bel saggio Su l'ordinamento delle poesie volgari di F. P., stimasse
inutile scorrere le pagine 3-128, quasi la metà del presente volume, che
Io riproducono. Vero è che le linee generali non sono punto cambiate e che
moltissimi tratti si ristampano tal quali; ma se ciò può esonerarci dal pro-
nunziarne un giudizio complessivo, che dovrebbe ripetere elogi già da gran
tempo tributati a questo lavoro diligente, sodo, acuto, conviene tuttavia con-
frontare la redazione primitiva con l'attuale ristampa, a comodo di chi pos-
siede la collezione del nostro periodico.
La memoria, come si sa, consta di due parti: un'introduzione spiega i
modi e le ragioni seguiti dal Petrarca nell'ordinamento delle *ue rime e,
appresso, l'analisi di alcune di esse conduce l'autore a fissarne, con maggiore
0 minor approssimazione, la data. Nella prima parte {Giornale^ 19, 229-260)
i criteri del Cesareo, senza essersi fondamentalmente cambiati, si determinano
e si chiariscono in rispetto ad una importante questione, che riguarda la
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 153
genesi e il tempo di stesura del codice Vaticano Lat. 3195, il ben noto testo
definitivo delle rime petrarchesche, che quind'innanzi sarà base necessaria
d'ogni loro ristampa. Egli, abbandonata ormai l'ipotesi del Pakscher che
Giovanni, figlio di Petrarca, sia stato il copista della parte non autografa
del volume, su altre basi pone la ricerca della sua datazione, minutamente
raffrontando tra loro la postille cronologiche in lingua latina, che il poeta
stesso soleva apporre agli sbozzi dei suoi versi, contenuti nell'altro ms. Va-
ticano Latino 3196.
In conclusione il Cesareo, ben congetturando sugli scarsi indizi ora detti,
sostiene che il Petrarca progettò un ordinamento definitivo per le sue poesie
fin dall' anno dopo la morte di Laura, estendendolo da allora a tutte due
le parti della raccolta; quantunque nel 1349 sospendesse l'opera appena
avviata, per il sopraggiungere d'altre cure e per viaggi intrapresi. Tornò
più tardi a questo non discaro esercizio di lima e di coordinazione, verso
il 1356, attendendovi poi, ben inteso senz'alcuna continuità, per anni parecchi.
Cosi nasceva quella stesura « in ordine » (ideale, non cronologico) delle rime,
a cui l'autore accenna tante volte e sempre come a un fatto unico, nelle
chiose latine del ms 3196: stesura, come prova il Cesareo, ben diversa dalla
trascrizione « in alia papiro », pur di frequente menzionata. Quest'ultima
— ei dimostra in modo che ci sembra inoppugnabile — non rappresenta
già una metodica trascrizione delle rime in un dato libro cartaceo, siccome
parve ad altri critici. Riguarda invece il semplice riportare una rima qual-
siasi da schede o scartafacci primitivi in un altro pezzo di carta, allo scopo
d'averla sotto mano più in pulito e meglio adatta a ricevere successive cor-
rezioni.
Maggiormente suscettibile di disputa è l'altro quesito, se la frase « tran-
ce scriptum in ordine » alluda a quella copia definitiva delle rime che noi
tuttora possiamo consultare nel ms. membranaceo 3195, o non piuttosto ad
un'altra copia ora ignota « forse di man del poeta, sur un codice, probabil-
« mente cartaceo, il quale doveva servir d'archetipo a' menanti, che ne ri-
« cavavano copie in pergamena; almeno fin a quando il poeta non ebbe il
« suo codice membranaceo, e trascrisse allora da sé, in ordine memhranis,
« senza far la fatica di riportar prima altrove i componimenti » (p. 24). Il
Cesareo si schiera qui risolutamente in favore di quest'ultima ipotesi, con
argomenti che nella prima edizione dello studio mancavano. Certo è, in so-
stanza, che sul Vatic. 3195, cioè « in ordine membranis », il poeta trascrisse
già di mano propria alcune rime nell'anno 1368, come attestano sue note,
apposte a due componimenti, negli sbozzi dell'altro manoscritto; e seguen-
temente vi copiò il resto, negli ultimi sei anni di vita: ma ognuno ha pre-
sente che nel ms. definitivo un buon numero di versi, non autografi, precede
alle due partizioni del libro riempite di mano del Petrarca. Ora ci si do-
manda: Da quanto tempo il ms. pergamenaceo vaticano era in casa del
poeta? Alluse egli indifferentemente a questo con l'espressione « in ordine »
e con l'altra più compiuta « in ordine membranis », ovvero conviene distin-
guere tra l'una fra.se e l'altra, e trovar nella più generica l'accenno a quel
codice archetipo, ora smarrito, che il Cesareo suppone?
Tributiamo la debita lode a chi seppe sì acutamente impostare un prò-
154 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
blema non privo d'importanza per gli studiosi del poeta di Laura; ma di-
ciamo insieme che una soluzione categorica, in un senso o nell'altro, rimane
sempre nell'incerto terreno delle ipotesi per la soverchia scarsezza di dati,
onde siamo per ora a conoscenza. Il nostro critico, avvertendo che « la più
« parte delle poesie contenute nello scartafaccio (Vat. 3196) ha sopra o a
« lato un f 0 un tr o un transcript\ poche hanno un tr in ordine; alcune
€ un tr per me e una tr per Io. », nella prima edizione del saggio aveva
trovato opportuno rilevare come tutti i sonetti col tr per me siano davvero
nel codice definitivo di mano del poeta, mentre di mano del menante è
quello con la postilla tr per Io. L'illazione che allor ne traeva era ovvia :
questi accenni sembravano porre in diretto rapporto il ms. 3196 col 3195,
facendo comprendere che le notazioni latine dello scartafaccio riguardavano
la copia « in ordine membranis », ovvero l'altro vaticano 3195. Così l'ipotesi
d'un archetipo intermedio non era necessaria. Ora, invece, egli torna su
queste osservazioni a prima vista si piane e si sforza di provare che delle
due forme di postille sopra considerate « né l'una né l'altra si riferiscono a
« trascrizione sul codice definitivo ». Nota a quest'uopo che troppo gravi
differenze di lezione intercedono in certi luoghi tra i sonetti dello scarta-
faccio e la copia in membrana, per ritener che il poeta potesse passarli di-
rettamente dall'uno all'altra; e considera l'impiccio che avrebbe recato
all'autore il dover, volta per volta, dirigere il copista nella scelta delle rime
da mettere « in ordine », tra la congerie incomposta dei primitivi sbozzi ori-
ginali. Conclude che le note transcr. per me e per Io, ad altro non possono
alludere se non « a trascrizione su qualche foglio intermedio, dove il poeta
« potesse terminare e correggere».
Faremmo torto ai lettori, se ci indugiassimo ad opporre a questi asserti
probabili un ragionamento probabile del pari. Basterebbe ammettere bens'i
l'intermedio di un'« alia papirus », ma riferir poi le note in questione alla
copia in pulito, che poteva susseguir di pochi giorni a quella intermedia,
per costruire un'ipotesi altrettanto assennata. 11 vero è che il Cesareo fu
condotto alla detta congettura da un'altra ipotesi ancora, derivata dalla po-
stilla che il Petrarca aggiunse ai due sonetti composti sul ritratto di M. Laura :
« Transcripti isti duo in ordine post mille annos. 1357 mercurii bora 3 no-
« vembris 29, dum volo bis omnino finem dare, ne unquam amplius me
« teneant. et jam Jerolamus, ut puto, primum quaternum scribere est adortus
« pergamenum prò domino Azone, postea prò me idem facturus ». L'ultimo
inciso, per il C, contiene una rivelazione. Egli ne arguisce che sul cadere
del 1357 un Gerolamo menante ebbe incarico di cominciare per il Petrarca
un codice in pergamena, il suo membranaceo, vale a dire il futuro Vatic. 3195.
Sicché — conchiude — prima di questa data l'autore aflSdava la trascrizione
«in ordine» ad un archetipo smarrito: dall'anno 1357 in avanti Girolamo
occupò invece molto pagine di quella copia definitiva sulla quale pivi tardi,
dal 1368 in giù, aggiunse composizioni autografe il poeta.
Ma chi ci dice — obbietteremmo — che l'ipotetico manoscritto membra-
naceo affidato (« ut puto ») a Girolamo sul cadere del 1357 sia tutt'uno col
prezioso cimelio vaticano? Non poteva il Petrarca , possedere di già un co-
dice in pergamena di sue rime e desiderarne anche un secondo, per motivi
che ci sfuggono?
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 155
In conclusione, queste giunte, che formano la sostanza dei ritocchi introdotti
nell'esordio del primo studio, ci sembrano interessanti, probabili, ma non
inoppugnabili ancora. Del resto crediamo che s'apponga il Cesareo nel tener
questione di secondario interesse la conoscenza degli anni precisi nei quali
un copista attendeva al Vatic. 3195, quando resti assodato che alla scrittu-
razione « in ordine » delle sue cose volgari l'autore aveva già pensato
nel 1349, e vi attese, con criteri non mutati, fino alla morte. « Questo —
€ diremo col nostro critico — questo giova conoscere per intender bene il
« processo ideale del poeta nell'ordinamento ».
La seconda parte del saggio, che esamina la cronologia delle singole rime,
in buona parte è ristampata qual si legge in questo Giornale, voli. 19 e 20.
Le principali mutazioni riguardano i componimenti che seguono:
Son. Voi ch'ascoltate. — Mentre TA. già ritenne il sonetto iniziale composto
cadendo il 1356, quale opportuno esordio alla raccolta definitiva, ora lo stima
scritto « per aprir degnamente la raccolta ordinata delle rime, quale già la
« immaginava il poeta nel 1349 ». E le allusioni all'amore per Laura quasi
come a cosa passata, determinano anche meglio la data tra il 1348-49.
Son. Gloriosa columna. — Fortissimi argomenti aggiunge a rincalzo della
opinione contraria alla data tradizionale di questa rima (estate 1330). Con-
gettura non dispregevole, quantunque non confortata da novelle prove, resta
quella che la fa risalire alla metà circa del 1331.
Canz. Nel dolce tempo. — Tenta, ci sembra con iscarsa fortuna, di mo-
strare che questa canzone fu scritta non solo nei primi anni dell'innamora-
mento, ma « certo avanti del 1330, quando il poeta amava Laura da circa
« quattr'anni ». A quest'uopo nota la somiglianza notevole, non appena nel
primo verso, ma « nella lineazione, nel gusto de' simboli oscuri, in più di
« un'immagine » con la canzone di Cino da Pistoia Nel tempo della mia
novella etade. Il Petrarca avrebbe dunque imitato, non essendo ammissibile
che Gino si piegasse a far sue le fantasie di un principiante. E dacché il
Pistoiese, nella canzone, si dice sessantenne, i suoi versi dovrebbero essere
stati scritti circa nel 1327, ove si ammetta Cino quasi coetaneo di Dante,
s'egli rispose al primo sonetto della Vita nuova. Ipotesi parecchie, come si
vede, e non tutte fondate I In primo luogo è tutt'altro che certo il fatto della
risposta di Cino al primo sonetto di Dante e quindi della sua nascita «al
«più tardi nel 1266»; né si può certificare che il Petrarca, pure imitando,
dovesse comporre la sua canzone subito dopo quella del giureconsulto poeta,
e non qualche anno appresso.
Canz. Spirto gentil. — Mira a confutare la nota del prof. Gian (cfr. Giornale.,
22, 464) a proposito di questi versi famosi, osservando che se la canzone e
insieme V ffortatoria fossero state dirette al tribuno di Roma, la rima dovrebbe
essere anteriore all'epistola, in quanto la seconda accenna a fatti compiuti,
la prima a speranze ; mentre d'altra parte VHortatoria risulta essere a chiari
segni la prima missiva del poeta a Gola di Rienzo. Aggiunge la già nota
obbiezione, gravissima sempre, dell'accenno ossequioso alla «gran mar-
« morea colonna » che è nei versi; dove nella Hortatoria gravi allusioni si
contengono contro ai Colonnesi, notoriamente invisi a Cola: e l'altra, pure
inconcussa, delia non convenienza del verso « Uno che non ti vide ancor da
156 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« presso » a Cola di Rienzo, da parte del Petrarca. La congettura del Gian,
che la canzone sia stata rimaneggiata più tardi, sembra audacissima; ed è
anzi mal verosimile che, pur volendo, l'autore sia riuscito a distruggere
ogni ricordo della primitiva redazione. Inoltre non .s'indovinerebbe il perchè
di un simile tentativo, quando rimanevano sempre versi latini ed epistole
violentissime, a testimonio dei sensi da lui nutriti verso Cola.
Eliminato cosi tal nome, nel presente studio si richiama ogni attenzione
su quello di Bosone da Gubbio, anche più risolutamente e con ai'gomenti
sempre meglio persuasivi, che non nelle pagine primitive.
Canz. Una donna più bella. — L'A. prende a combattere non più il solo
Colagrosso, ma a preferenza l'Appel, rincalzando in maniera convincente
l'asserto che la canzone preceda di poco l'incoronazione del Petrarca.
A proposito dell'altra canz. Italia mia, nota che nel codice definitivo essa
è di mano del menante e precede a quella autografa Ben mi credea, copiata
« in ordine membranis » il 23 ottobre 1368. Eccouna ragione decisiva contro
quanto tenne il D'Ancona, che cioè la famosa rima politica sia stata scritta
a Ferrara, nel 1370.
Una lunga nota aggiunta alle osservazioni cronologiche sui sonetti contro
Avignone prova con certezza che l'epistola XIX delle Varie, a Barbato da
Sulmona, dal Fracassetti creduta del 18 gennaio 1347, è invece del 18 gen-
naio 1352.
Canz. /' vo pensando. — Poiché da una nota autografa risulta che la copia
« in ordine > della seconda parte delle rime fu cominciata prima del 28 no-
vembre 1349, ben s'appose il Gaspary nello stimar che questa canzone, con
cui la seconda parte s'inizia, risalga all'anno antecedente, 1348.
Il secondo saggio del volume Dante e il Petrarca (pp. 131-172) riproduce
senza mutazioni considerevoli un articolo del Giornale Dantesco, (1, 473 sg.);
anzi nella nota posta in fine a questa ristampa l'autore avverte, che deli-
beratamente non si giovò d'altri lavori sul medesimo tema, usciti nel frat-
tempo e «quasi sempre notabili, per non toglier nulla della loro freschezza».
Per un verso del Petrarca s'intitola l'unico saggio al tutto inedito di
questo libro (pp. 173-209), e prende realmente prelesto dal noto luogo dei
Trionfi^ ove è detto dei poeti Siciliani « Che fur già primi e quivi eran da
€sezzo»: prende pretesto, diciamo, in quanto detto giudizio petrarchesco è
uil puro punto di partenza; anzi in un volume Su le poesie volgari del Pe-
trarca queste pagine stanno un po' a pigione. Solo per altro breve accenno
il poeta ci figura novamente, cioè per qualche riga del proemio alle Fami-
liares (ed. Fracassetti, 1, 14): « Quod genus (la poesia volgare) apud Siculos,
« ut fama est, non multis ante saeculis renatum, brevi per omnem Italiani
« ac longius manavit >.
Movendo da queste attestazioni, integrate a lor volta col noto passo del
De vulgari eloquentia che dà categorica ragione del nome di siciliana im<
posto alla scuola meridionale provenzaleggiante, il Cesareo torna in primo
luogo a colorire un'ipotesi a lui molto cara, sebbene poco accetta al più
de' critici ch'ebbero a farne parola: un di questi, il De LoUis, è anzi più
spesso nominato e discusso, a proposito della sua recensione all'altro libro
del Cesareo: La poesia siciliana sotto gli Soevi (cfr. questo Giornale^ 27,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 157
112 sg.). Trattasi dell'asserto che, all'età di Federico II, la lirica d'arte in
Sicilia dovesse già essere da tempo coltivata, che cioè il periodo che diremo
storico della produzione provenzaleggiante deva stimarsi preceduto da un
altro periodo « di gestazione torbida e ignota » al quale sarebbero forse da
ascrivere « i nomi d'alcuni poeti, galleggianti in estratti di codici ora per-
duti, non occorrendo più nei codici relativamente tardivi che possediamo ».
A tal supposizione il Cesareo si sforza di mostrare che non fanno contro
né il Petrarca né Dante, nei passi ora accennati : anzi Dante « affermando
« che il volgar siciliano superò gli altri per fama al tempo di Federico e di
« Manfredi, pare sottintendere un periodo antecedente » nel quale avrebbero
poetato per propria elezione anche alcuni dei futuri cortigiani di Federico
che poi, già maturi d'età e saliti ad alti gradi, seguitarono a compor versi
per gradire all'imperatore. Tali ad esempio Pier della Vigna e il Notar da
Lentino. Ma certo quest'audace edifizio di ricostruzione storica non avrebbe
trovato mai nell'acuto senno critico del Cesareo un sì tenace sostenitore,
senza l'appoggio di un qualche dato cronologico favorevole: e un dato,
proprio uno solo, egli confida tuttavia di trovarlo nella tormentatissima
stanza di Jacopo da Lentino: « Tant'é gran cosa ed inoiosa...». Non ostanti
le obbiezioni mossegli già contro da valenti eruditi, non ostante una fe-
lice spiegazione novamente proposta dal prof. Gian, il Cesareo persevera
a creder certa in quei versi l'allusione ad un assedio di Siracusa nell'anno 1205
e fissa quindi, per l'inizio dell'attività poetica del Lentinese, un termine di
gran lunga più antico, che non sia quello universalmente tenuto. E poiché
l'influsso della lirica di Provenza in questa stessa rima, presunta si antica,
é innegabile, il Cesareo rincalza di sottili ragionamenti la vecchia opinione
che solo a Bologna — ritrovo di molti studenti anche Siciliani — possa
avere il Notaro appreso i modi e le forme del trovar Provenzale, insieme
con quegli altri meridionali, congetturati suoi coetanei nel dire per rima.
Quivi altresì essi avrebbero imparato l'arte di dirozzare il dialetto nativo,
in un centro ove Guido Fava ed altri grammatici davano ammaestramenti
di volgare letterario, già nel primo quarto del secolo XIII. Così sarebbero
riusciti a quel « siciliano illustre, vale a dire ripolito e temprato sul modello
« latino, con qualche imprestito provenzale per il formulario cavalleresco
« d'amore », proprio dell'intera scuola. Risorge insomma qui la teoria di
E. Monaci abilmente ritoccata e, in molti particolari, resa più verosimile:
ma rimangono sempre validissime le obbiezioni a tutto ciò del De Lollis,
nell'articolo citato, come resta audace e pericoloso il porre a chiave di volta
dell'intera costruzione quella data 1205, desunta da pochi versi problematici
a segno, che, in coscienza, non si può esser certi di capirli nemmen ora,
dopo che tanti critici valorosi ne tentarono svariate e contradditorie spie-
gazioni!
Maggior consenso riscuoterà invece la seconda parte di quest'articolo,
rivolta a mettere in guardia contro parecchie identificazioni storiche, ten-
tate negli ultimi anni, massime per opera di F. Torraca e di A. Zenatti,
di alcuni antichi rimatori siculi noti a noi per nome soltanto, con gentil-
uomini e dignitari della corte di Federico II, dei quali si ritrovarono men-
zioni nel corpo dei documenti sincroni rimastici. Tentar quest'unica via in
158 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
traccia d'un barlume di luce, è tal impresa da meritare l'applauso d'ogni
persona discreta, e noi affrettiamo col più vivo desiderio la pubblicazione
d'un libro del Torraca, già annunziatoci da tempo per sua personale cortesia,
ov'egli svolgerà con largo corredo di riferimenti i preziosi articoli sulla
scuola siciliana, che s'ammirarono inseriti a riprese nella Nuova Antologia.
Nondimeno bisogna riconoscere che, nei singoli casi, gli errori e le incer-
tezze di siffatte identificazioni possono essere frequenti, dato il curioso ripe-
tersi d'omonimie, di cui offerse un cospicuo saggio lo stesso Zenatti, a pro-
posito di Arrigo Testa. Onde si mediteranno con vantaggio le considerazioni
del Cesareo, specie sui nomi di Rinaldo d'Aquino (p. 191), di Giacomino
Pugliese (193), di Mazzeo di Ricco (196) e di Arrigo Testa or nominato (201),
per ammettere agevolmente con lui che ìi personalità storica dei suddetti
rimatori anche oggid'i può tenersi gravemente sospetta. Efficaci altresì sono
le note a proposito di Re Federigo d'Antiochia, cui si vuol torre il vanto
d'aver poetato accanto al genitore, considerandosi come pure « esercitazioni
« oggettive su di un motivo popolare », senza il menomo riguardo allo stato
personale dell'autore, certe frasi allusive a stato di sudditanza, contenute in
canzoni da qualche codice ascritte a « re Federigo » anziché a Federigo
imperatore.
La conclusione dell'articolo, raccomandabile agli studiosi non ostante possa
in esso rincrescere una nota quasi regionalistica un po' troppo appariscente,
è nelle seguenti righe (p. 209) con le quali finisce: « Poesia siciliana, dunque;
« non soltanto perchè assai rimatori siciliani gravemente cantarono e perchè
« Federico e Manfredi, benigni a quella poesia, avevano il soglio regale in
« Sicilia; ma anche perchè que' rimatori risultano i più antichi, i più nume-
«rosi, i più fecondi; ma anche perchè que' principi eran re di Sicilia e
« l'aula regia, poco o molto che vi dimorassero, era Palermo; ma anche perchè
* quella poesia è quasi tutta localizzata in Sicilia; ma anche perchè, final-
« mente, il volgare illustre in cui si cominciò a tentare la nuova poesia, fu
« siciliano, e gli stessi poeti venuti su poi in altre parti d'Italia non se ne
« poteron mai in tutto staccare ».
Più gravi questioni che non i precedenti portò seco, come vedremo, il
quarto ed ultimo saggio del volume (pp. 213-287) su Le «.poesie volgari*
del Petrarca. Gli asserti in esso contenuti sono abbastanza noti, esposti
come furono pochi anni addietro, quasi per intero, in due articoli della Nuova
Antologia e sarà quindi sufficente riassumerli , per poi render breve conto
d'una polemica dai medesimi suscitata. L'autore vuol provare: l® Che il
Petrarca fu ben lungi dal raccogliere nelle sue rime < quasi una somma di
€ testimonianze, ornate squisitamente, ma in tutto conformi a realtà » circa
i suoi amori famosi per madonna Laura. 2© Ciò esser tanto poco vero, che
anzi nella raccolta attuale si ritrovano componimenti parecchi, scaturiti dal
cuore del poeta sotto l'impulso d'altre passioni amorose, che ne travaglia-
rono l'animo, e prima e lungo il tempo del suo amore per la bella Avigno-
nese, e dopo la morte di lei. 3** L'assoluta fedeltà quadrilustre del Petrarca
verso una sola donna non solo sarebbe in disaccordo col « carattere dell'uomo
€ ardente e sensuale, di fantasia mobile e calda, dato a' piaceri d'ogni sorta »,
ma altres'i con < la consuetudine della generazione poetica che l'avea pre-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 159
< ceduto e onde ai procedeva ». Che abbia poi, in età matura, voluto celare
la varietà dei suoi amori, il Cesareo lo spiega in forza d'una preoccupazione
morale ed artistica a un tempo. Morale in quanto, attempato e già celebre,
« dovette forse considerare che un tant'uomo non potea dimostrarsi pubbli-
« camente con tutte le sue debolezze, con tutte le sue intemperanze dell'età
« verde » anzi, volendo « ricomporre la raccolta delle sue rime, ei dovette
« provare uno spavento indicibile all'idea di lasciarle correre per il mondo
« e pei secoli, con segni visibili d'assai traviamenti amorosi ». La sua va-
nità d'artista gl'impedi in tal frangente di ricorrere a un rimedio radicale,
eliminando tutte le rime non composte per Laura: e così rigettò appena
qualche composizione « dove un altro amore si rileva troppo apertamente,
« accolse le altre, forse qua e là ricolorando e velando, e sparpagliandole poi
« tra le rime per Laura, in guisa che si potesser tenere, cosi a occhio e croce,
« tutte composte per lei. E vi riusci tanto bene, che noi siamo ancor qui a
€ disputare appunto su questo » (p. 240),
La preoccupazione estetica poi sarebbe rivelata dal titolo stesso di Rerum
vulgarium fragmenta, con cui l'autore tramandò la raccolta. « Manifesta-
« mente il vocabolo Fragmenta si riferisce a un pensiero nascosto del poeta;
«a un suo intendimento di collegar tra loro quelle rime, spesso aggiun-
« gendone, come fece, ove gli paresse buono, per modo di dar loro un'unità
« non soltanto materiale, ma ideale » (p. 241). Cosi le Poesie volgari altro
non avrebbero dovuto riuscire se non « la storia d'un uomo, il quale s'affa-
« tica a conoscer sé stesso, a osservare, a scrutare, a analizzare i moti più
« oscuri dell'animo suo, volto qua e là dal soffio delle passioni, e poi con-
« sidera attentamente lo spettacolo alto e tremendo della morte, e ciò tutto
€ per conseguire l'umiltà e il timor di Dio » (p. 244). Questo concetto, forse
vagheggiato dopo il giubileo del 1350, non fu mai compiuto per guisa da
appagare l'autore, che considerò l'opera in uno stato di continua formazione,
mentre tuttavia lavorava a coronarla con la terza parte, cioè coi Trionfi.
Nel frattempo, non trovò altro titolo più adatto di Fragmenta^ da apporre
a quel tanto di lavoro che gli sembrò condotto a sufficente grado di per-
fezione.
L'ipotesi del Cesareo, degna in molte parti d'un critico ch'è a un tempo
artista geniale, si assomma nelle linee ora esposte; pur sussidiata e contor-
nata da altri ragionamenti accessori che meritano considerazione, massime
a pp. 251-61, ove è propugnata la supposizione che il poeta, nel ritoccare
l'incondito insieme delle sue rime, si sia anche proposto di raggiungere una
fittizia « unità di luogo rispondente non alla realtà storica, ma alla linea-
le zione ideale dell'opera », a quella « storia di un'anima, ch'è la raccolta
< delle poesie volgari ». Quest'ultimo punto, per altro, sembra a noi che abbia
già avuta anticipata contraddizione nel saggio fine e convincente del Flamini
sul luogo di nascita di Laura, e può darsi che il Cesareo stesso si sia in
parte almeno ricreduto, dopo le obbiezioni saviamente ragionate da Andrea
Moschetti in una recensione al presente suo libro, la quale si legge nella
Rassegna bibliografica di Pisa (an. VII, p. 82 sg.).
Resta l'asserto fondamentale del « romanzo psicologico in versi », appog-
giato in parte sulla fede che parecchie delle rime credute per Laura siano
100 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
state scritte in origine non per lei, ma per altri amori. Alla dimostrazione
della tesi egli dedica le pp. 317-31 del libro, che contengono, come il soggetto
domanda, minate analisi, nelle quali converrebbe dunque seguirlo, se ciò non
fosse già stato fatto successivamente da due studiosi in appositi lavori: da Lo-
renzo Mascetta, in un articolo inserito nell'annata XUl* della Rass. Pugliese (1)
e, con intenzioni piìi esaurienti, da E. Sicardi nel volumetto che anche ci-
tammo a capo della nostra recensione. Il pensiero di quest'ultimo è chiarito
dalle seguenti righe: «Proveremo che, sia nel canzoniere che altrove, in
« tutte le opere del Petrarca, non c'è neppure la più lontana traccia di un
€ altro suo amore, o giovanile, o senile, che non sia per Laura; e dimostre-
€ remo infine che non abbiamo argomento alcuno, anche mediocrissimamente
« apprezzabile per accettare come vero, od anche come verosimile, tutto ciò
€ che da parecchi critici e per ultimo dal Cesareo — che tutti li assomma
« — s'è venuto affermando intorno a' costumi e alla moralità del nostro poeta.
« E se egli ce lo dipinge a dirittura come un uomo molto sensuale, noi pro-
« veremo che fu invece persona singolarmente pudica e... migliore assai di
« quello che da molti non venga oggi rappresentato ». Basta questa citazione
per apprendere da che lato venga a peccare l'opera intera: vi si vuole provar
troppo, abbondando in asserti che rispecchiano talora un convincimento
dell'autore, meglio che un fatto provato alla luce dei documenti.
Un poco, bisogna riconoscerlo, il difetto stesso che si deplora in certe
parti dell'argomentazione del Cesareo, ma solo in senso opposto 1 Così, come
accade, i due critici trovarono buon giuoco per contraddirsi a vicenda: e
se il Cesareo oppose alle osservazioni del Sicardi una replica vigorosa nel
Giornale Dantesco, non è credibile che il suo avversario col successivo si-
lenzio abbia inteso d'accusare la propria sconfitta. Quando invece, com'è da
augurare, egli abbia taciuto pensando che ormai gli studiosi del Petrarca
sono sull'argomento illuminati abbastanza e possono scegliere con la debita
cognizion di causa il loro partito, fece ottima cosa. E i Petrarchisti, a lor
volta, faranno benissimo tenendo anche in questo caso una via di mezzo tra
i due opposti pareri, non tanto irreconciliabili forse, come parve ai due
contendenti.
Nel processo — per adottare immagini curialesche non inopportune —
dal Cesareo mosso contro il Petrarca, due punti son da mettere in rilievo:
in primo luogo la capacità di delinquere in fatto d'amore, da parte del
poeta; e secondariamente le prove di questa sua versatilità di passioni, rica-
vata dalle opere di lui. I due punti son certo coordinati tra loro, ma è vero
altresì che per noi importa essenzialmente il secondo. In verità non crediamo
possa essere intendimento e diritto della critica l'esplorare le intime latebre
psicologiche d'un artista , se non in quanto ciò sia prezioso ad intendere
quelle manifestazioni del suo pensiero, che a lui piacque lasciare all'ammi-
razione delle genti. Ora, in questa prima parte dell'analisi, il Cesareo ha
ragione dove cita dei fatti, ma non è sempre giusto, quando ogni asserto
(1) Ertntto in opasoolo eoi Utolo OU amori del Petrarca, Truii. V. Vecchi, 1896.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 161
piega sistematicamente alla sentenza peggiore : il Sicardi a sua volta eccede
nel negare o nell'attenuare oltre il possibile certe realtà, ma meglio s'appone
là dove non vede nel Petrarca uno spirito dedito quasi metodicamente alla
dissimulazione, per guisa da concedere a noi posteri il diritto di leggergli
di continuo tra le righe, di volgere al peggio quanto narra, a proposito
delle sue passioni.
« Santo il Petrarca ifon fu ; fu uomo, con molte qualità e alcuni difetti,
« fra cui quello di quasi tutti i poeti, da Dante al Tasso e al Foscolo, l'in-
« clinazione soverchia ai piaceri sensuali. Amò più donne, ebbe due figli
« naturali... ». Queste conclusioni del Cesareo, nel Giornale Dantesco, non
peccheranno di novità, ma sono ovvie : il critico che le raccolse ha il merito
d'aver coordinato e messo insieme, massime da scritti latini del poeta, copia
larga d'asserti che valgono a provarle, né il Sicardi può (ad esempio) ob-
biettar nulla alla realtà dei due figli naturali ch'ebbe il Petrarca da una o
due donne a noi ignote, come non gli riesce di scemare importanza a quel-
l'epistola delle Familiares (IX, 3). « Importune fores obsidet amica... », con
quanto segue. E in vero dove egli cerca Cpp. 139-145) di conciliare queste
testimonianze biografiche con i suoi criteri, non riesce a convincere. Per
dirne una, la petulanza dell'amica, tanto deplorata nel momento di scrivere
l'epistola, punto non esclude che la poveretta avesse in altri tempi suscitato
ben altri sentimenti, anche poetici, nel cuore di messér Francesco! E si
rischia d'essere molto avventati a volerla bollare, col Sicardi, « una donnac-
ce cola delle tante, venuta lì forse con la speranza di fare una buona cena ».
Sicché, per finire su questo punto, ogni animo spassionato riconoscerà non
sol possibile, ma certo, che il Petrarca in sua vita amò altre donne oltre
Laura: e, data la tempra rafiìnatamente sentimentale del poeta, non si sen-
tirà nemmeno costretto — come sembra al Sicardi — d'escludere in massima
la congettura che proprio qualcuna di tali donne, bramata forse ed amata
per non breve corso di tempo, abbia destato nel poeta, più che un semplice
turbamento di sensi, un'esaltazione d'afietti, la quale benissimo poteva trovar
suo sfogo in un canto d'amore. Frasi eccessive, una espressa tendenza a colorir
meno simpaticamente il carattere morale del Petrarca, così da svisar quasi
il significato d'alcuni suoi sfoghi, suggeriti piuttosto da momentanei scrupoli
che non dal rimorso di gravi trascorsi morali, si osservano nei due scritti
del Cesareo; e in ciò è caro accostarsi al Sicardi, che vede le cose con più
umana simpatia verso il grande poeta ; ma i fatti son fatti, né ragionamento
può cambiarli.
Sì : il Petrarca poetò forse talvolta per altre donne, oltre che per Laura...
chi, in sostegno del contrario, sia disposto a porre la mano sul fuoco, non
soltanto dà segno d'essere scarsamente penetrato nell'anima fluttuante del
grande lirico medioevale, ma, che é più, mostra di conoscere troppo da lungi
l'indole dei moti e degli impulsi d'una qualsiasi anima, vibrante come che
sia agli irresistibili richiami del bello e della musa. E poiché, d'altra parte,
il Cesareo dimostrò a esuberanza, con ragioni storiche e psicologiche, che le
Rime volgari contengono ben altro da un semplice diario d'amore, l'intru-
sione abilmente dissimulata tra queste d'alcuna poesia non composta in ori-
gine per Laura é tal ipotesi, da non menar seco uno scandalo.
OiornaU ttortco, XXiVIII, fase. 112-113. 11
162 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Basta poi non passare il segno, varcando troppo bruscamente dal campo
del possibile a quello delle prove provale; volendo indicare, come fa il
Cesareo, determinate rime della raccolta petrarchesca, che per Laura non
possono essere state composte.
In verità il Cesareo stesso, nel volume, accenna pur sempre a un € sospetto,
€ che messer Francesco cantasse oltre Laura più donne » (p. 235): solo più
tardi, nell'articolo suo caldamente polemico, si spinge* più oltre, in un campo
ove meno ci sentiamo disposti a seguirìo. Fu lui che ci ammonì appunto
di guardarci dal concedere alle rime petrarchesche un eccessivo valore au-
tobiografico e ci avverti che molti pensieri noi leggiamo in esse, non usciti
di getto dal cuore del poeta, ma frutto di tardi pentimenti, di posteriori
esercitazioni estetiche Lui, meglio d'altri, ci vorrà ancora concedere che
negli ondeggiamenti d'una tempra delicatissima d'artista molte peripezie in-
significanti, massime amorose, assumono spesso tale entità da obbiettivarsi
in forme e fantasmi poetici, che a mente fredda condurrebbero ad interpre-
tazioni troppo disformi dal vero chi più tardi volesse rendersene ragione.
Come potremo, ciò posto, a distanza di tanti secoli, argomentarci di tra-
scegliere noi di mezzo alle molte rime del Petrarca quelle poche ch'egli
ben può — secondo una felice ipotesi — aver pensate per altre donne, ma
che poi acconciò di sua mano, giusto per cancellare in esse ogni traccia
delle precedenti passioni? Come potremo, per un esempio, asserire recisa-
mente che il sonetto Se col cieco desir non potè esser composto per
Laura, in quanto pare alluda a un convegno d'amore da lei promesso ai
poeta?
La pudica Laura, che dà appuntamenti al Petrarca? — Ma chi può esclu-
dere, di grazia, che la promessa del convegno si riducesse a una innocente
assicurazione, colta per caso o carpita con astuzia, di ritrovarsi insieme ad
un ballo, a una conversazione? Di certo il tono dei quattordici versi può
parer troppo tragico per s'i piccolo evento, come sarebbe la mancata spe-
ranza d'ottenere un semplice colloquio con l'amata I ma
Chi pon fVeno agli amanti e dà lor legge?
Chi, soprattutto, riuscì mai a far pesare tutte le frasi a un poeta innamorato?
A questa stregua considerando le cose, si capirà come il Sicardi, il quale
caso per caso prende in esame le allusioni ad altri amori traveduti dal
Cesareo nelle rime, abbia spesso buon gioco, non tanto nel convincere ap-
pieno, quanto neiraggravare le incertezze dallo stesso Cesareo non sempre
dissimulate. Tale, in complesso, è la parte più cospicua e più interessante
della sua critica, scrìtta in forma troppo prolissa, che sente di giornale più
che di volume, ma che si legge volentieri per la molta convinzione, per il
tono non mai smentito di accesa e non ingiustificata simpatia verso un
grande italiano. E piace il trovare in essa (pp. 6-fó) ben dimostrata l'ina-
nità della noia congettura del Mestica, che nel secondo sonetto delle rime
in vita si descriva il principio d'un innamoramento antecedente a quello
per Laura: mentre non si resta persuasi da un'altra argomentaziooe, iniaes
a provare che nemraen dopo morta la bella Avignonese il Petrarca cedette
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 163
a una nuova simpatia, confessata in una rima estravagante a maestro An-
tonio da Ferrara.
Non ci fermeremo sulle due brevi appendici che chiudono il bel libro del
Cesareo, perchè la prima: Di un codice petrarchesco della biblioteca Chi-
giana è ristampata dai « Rendiconti dell'Accademia dei Lincei » (Classe di
scienze morali, S. V, voi. IV, p. 188 sg.); la seconda ha forma di recensione
favorevolissima all'edizione delle Rime del Petrarca curata da G. Mestica
sul testo originario, e non è se non la prima parte del saggio che, col titolo
La nuova critica del Petrarca , si legge nel voi. VI, p. 258 sg. della
€ Nuova Antologia ».
Flaminio Pellegrini.
AGOSTINO ZANELLI. — Del pubblico insegnamento in Pistoia
dal XIV al XVI secolo. — Roma, Loescher, 1900 (S'^ gr.,
pp. 158).
Fa piacere notare come in questi ultimi anni gli studiosi si siano dedicati
con nuovo zelo alla storia del pubblico insegnamento, che costituì sempre
tanta parte della coltura nazionale. Alle ricerche degli eruditi del sec. XVIII,
che quasi di ogni Università ci lasciarono storie generali (1), si vengono
ora aggiungendo numerose monografie, le quali in un campo più ristretto
approfondiscono le indagini e recano luce sopra qualche particolare aspetto
sempre interessante della vita scolastica dei secoli passati (2). Anche per le
(1) Una sol volta lo Z. cita la storia dell" Università pisana del Fabroni (Pisa, Mugnaini, 1792)
€ gli opuscoli del Fabhrucci. Noi crediamo che qualche notizia sulla provenienza dei singoli maestri
e sai loro insegnamento anteriore e posteriore a quello impartito in Pistoia si poteva desumere
dalle storie delle varie Università, come quella del Papadopoli per Padova, del Gatti per Pavia,
del Vallauri per Torino, dell'lsnardi per Genova ecc.
(2) Giacché lo Z. (pp. 4 e 5 ».) si prova a ricostruire una piccola bibliografia storica delle
scoole italiane, ci sia lecito di fare qualche aggiunta, senza pretesa di dare uno spoglio completo.
Parlano di Università vere e proprie, dove si conferivano lauree, i lavori del Gabotto (Giason del
Maino e gli scandali universitari del 490, Torino, La Letteratura, 1888), del Mandalari {VeWA-
Uneo e del palazzo deU' Università di Catania, Catania, Galati, 1900, e L'Unitersità di Messina
■« la Compagnia di Gesù, ibid.), non che gli studi pubblicati pel centenario dell'Università di
Messina (v. Giorn., XXXVI, 476-77), che lo Z. non fece a tempo a conoscere. Cfr. pure D. Bae-
onzzj, Documenti per la storia deW università di Siena, Siena, Lazzari, 1899. Per una compiuta
bibliografia universitaria vanno pure ricordati gli studi del Novati {Gli studenti italiani del te-
colo XIT e XV, iu questo Giorn., II, 129), del D'Ancona {Lo statuto dello studio fiorentino, in
Varietà sior. e lett., II, 211, Milano, Treves, 1885), del Paganini sulla studentesca pisana (in
Rivista critica d. lett. ital., an. 188tf passim), del Neri {Scandali degli studenti, in Passatempi
letterari, Genova, 1882), di A. Salza, Una baruffa studentesca a Pisa nel 1551, nelV Umbria di
Perugia, 1899). Studiarono la storia delle Università per rispetto alla patria degli studenti il
Rodolico (1 siciliani allo studio di Bologna nel M. E., in Arch. stor. sicil., XX, I, ii), il Pesti
164 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
città che oggi non hanno istituti superiori dove si conferiscano lauree, si sono
fatti studi e ricerche che illustrano le scuole, diciamo così, secondarie che
vi fiorirono. Questo ha fatto col presente lavoro lo Z. rispetto a Pistoia ed è
fortuna che questo studio venisse compiuto da chi, come lui, si era già reso
benemerito per ricerche di questo genere. — In Toscana Pisa, Firenze, Siena
e persino, per qualche tempo, Lucca (1) ebbero nei secoli addietro veri e
proprii Atenei dove si conseguivano lauree dottorali : non così invece Pistoia,
che pur vide fiorire tra le sue mura pubbliche scuole anche di diritto, ove
insegnarono talora maestri insigni. Lo studio dello Z. ha il merito adunque
di porre in luce le vicende e la vita di una (ed ab una disce omnes) delle
tante scuole inferiori che i comuni italiani mantenevano nei secoli di mezzo,
prima che colla controriforma le scuole diventassero monopolio degli ordini
monastici. — Sebbene la più antica deliberazione del Comune di Pistoia sul
pubblico insegnamento risalga solo al 1332, lo Z. trova nelle fonti storiche
pistoiesi non poche traccie dell'esistenza di maestri e di scuole anche in
tempi anteriori. Il primo maestro che in quell'anno fu condotto dal Comune
fu ser Baldi da Montale, che doveva insegnare ai ragazzi l'ars dictandi e
la logica. L'insegnamento del diritto e dell'arte notarile cominciò a Pistoia
due anni appresso, cioè nel 1334; ma fu di brevissima durata, perchè, come
osserva lo Z., « nella seconda metà del trecento l'insegnamento s'andò via
€ via restringendo alla grammatica » (2). Noi non seguiremo lo Z. nella
{SUidénti trentini alle ttnivers. ital., in Arch. stor. p. Trento e Trieste, IV, I, 1886) e, se m
è lecito, il sottoscritto (Professori e studenti piemontesi, lombardi e liguri all'università di Pisa,
1470-1600, in Annali delle univ. toscane, voi. XXI). Dei Maestri di Ancona dal 1868 al J558
si occupò or è poco Emesto Spadolini, in Briciole d'Archivio, Ancona, Marchetti, 1900 (t. Gior-
nale, XXXVII, 474).
(1) Cfr. 6. Pabdi, Titoli dottorali conferiti nello studio di Lucca, in Studi storici di A. Cri-
vellncci, ann. Vili, fase. I.
(2) Se qualche maestro come Domenico Aspettati da Bologna e Duccio di .Ser Telli da Colle Tal
d'Elsa insegnò a Pistoia circa la metà del 800 tanto la grammatica e Vars dictandi, quanto l'ars
notariae, ciò non vuol dire che l'ars dictandi o rettorica sMmmedesimasse coll'arte notarile come
TQole lo Z. (p. 15). L'ars notoria» che si insegnava per lo più sul testo di Bolandino Passegerio
morto nel 1800 (la celebre Summa artis notariae che ancora nel 500 ebbe varie ediiioni a stampa,
per es., a Venezia nel 1549), oppure sullo Speculum Judiciale di Quglielmo Durante preferito dai
maestri francesi, era insegnamento giuridico riservato agli alunni più maturi. Pietro Boatteri di
Bologna, che insegnò arte notarile a Pistoia nel 1334, fu appunto un commentatore di Rolandino,
ma non è da credere che egli facesse lezione agli stessi allievi tanto di rettorica che di arte no-
tarile. It'ars dictandi o rettorica sMnaegnava nel 800 per lo più sui testi di Ouido Fava (Doctrina
ad inveniendas incipiendas et formando» materias, che contiene anche qualche esempio di lettera
in volgare ristampato recentemente dal Monaci, Roma, 1900) o sulla Rota Yeneris di Bone«m-
pagno, sulla Rosa novello del citato Pietro Boatteri e consisterà essenzialmente in eserdtasioni
stilistiche quasi esclusivamente epistolari. Assai inferiore era l'insegnamento della grammatica,
della quale si srilnppava molto solo la parte morfologica: nel medio evo essa si era insegnata sopra
infiniti testi che altro non erano se non rifacimenti di Donato, di Prisciano, di Massimo Vittorino,
di Beda ecc., per lo più in forma catechetica e talora anche redatti in volgare {ftr. Kcir., Oram-
matici latini, Lipsiae, 1887 : Haoim, Anecdota kelvetica, Bernae, 1878; Thorot, Notices «l extraits
d» divers mowuscrits latin» pour servir à l'histoir» des doctrines grammaticale» au moif«n-óge,
in Notiee» et extraits de mss. de la Bibl. Nation. d. Paria, t. XXII, p. ii). Verso la fine 'del
•M. XIII la grammatica cominciò qoasi domnqne ad insegnarsi sui testi redatti in Tersi esametri
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 165
esposizione delle condotte e degli stipendi dei singoli maestri che via via si
succedettero sulle pubbliche cattedre di Pistoia; diremo soltanto che alcuni
fra quegli insegnanti, ed in ispecial modo Antonio da S. Gemignano, intorno
al quale dette già un breve cenno lo Zaccagnini (1), godettero ai loro tempi
fama di valentissimi. Nel 1460 per deliberazione del Consiglio fu stabilito di
restaurare in Pistoia le cattedre di diritto civile e canonico nonché di filosofia,
le quali da un secolo circa erano state soppresse. Gli studenti poveri pistoiesi,
che prima fruendo di due lasciti si recavano a compiere i loro studi giu-
ridici fuori di patria, ebbero allora sussidi per poter frequentare a Pistoia
le scuole se non fino alla laurea, che ivi non si conferiva, almeno fino a
procurarsi una sufiìciente preparazione prima di ascoltare i celebri profes-
sori delle Università dove si recavano. Però la generosa deliberazione del
Comune non potè per allora essere messa in atto per mancanza di denaro
e di studenti; per parecchi anni ancora Pistoia ebbe soltanto le scuole di
grammatica e di calcolo che si reggevano secondo gli ordinamenti del 1469.
— Ma sul finire del secolo XV nuovo impulso alle pubbliche scuole in Pi-
stoia fu dato dalla generosità di Niccolò Forteguerri e dal favore del Ma-
gnifico, che ivi fece allora provvisoriamente trasferire lo studio generale da
Pisa, la quale città era allora infestata dalla peste. Sulla natura e sulla
larghezza del beneficio fatto da Niccolò Forteguerri alle pubbliche scuole di
Pistoia lo Z. non si accorda col maggior numero degli scrittori di cose pi-
stoiesi. I più dicono che il Carteromaco istituisse in Pistoia un liceo e do-
nasse al Comune le rendite per la fondazione della casa di sapienza, ossia
di un collegio gratuito per gli studenti, mentre il Comune, colla fusione di
cinque ospedali di pellegrini e col devolvere parte delle rendite di quelli
alla restaurazione delle cattedre di diritto da tanto tempo soppresse, non faceva
che assecondare il nobile impulso del Cardinale. Lo Z. crede invece che al
Comune spetti il vanto di avere fondato in Pistoia il liceo e d'avere sostenuto
le spese degli stipendi ai professori e dei sussidi ai giovani studenti colie ren-
da Alessandro di Yillediea e da Ererardo di Bethan. Che il Dottrinale di Alessandro fosse in uso
nelle scuole italiane ancora sul finire del 400 e sui primi del 500 è provato non solo dalle vario
edizioni e dai commenti di Pilade di Brescia (Brixise, 1500), ma persino dalla deliberazione del
Comune di Pistoia del 19 agosto 1499 con cui si faceva obbligo al maestro di leggere ogni giorno
il Dottrinale (p. 76). (Cfr. la prefazione del Reichling all'edizione critica del Dottrinale, in ifo-
numenta Germaniae Paedagogica, t. VII, Berlino, Hoffmann, 1893 ed il Thubot, De Alexandri
de Villadci eiusque fata, Paris, 1860). L'artificio didattico dell'insegnamento grammaticale in verso
dimostra, se ci fosse bisogno, la sua elementarità; l'ars dictandi invece poteva talora anche es-
sere insegnata ad .idulti, come, per esempio, nel trattatello d'eloquenza di Ser Matteo de' Libri
da Bologna, edito recentemente a Pistoia (Fiori, 1900).
(1) Lo Zanelli non fece a tempo a conoscerlo: è un breve appunto snlV Insegnamento di An-
tonio da S. Gemignano in Pistoia ed il Soeomeno, in Bollett. stor. Pist., an. II, fase. I, p. 7.
Ancora più recente è uno studio di M. Morici sui Maestri Valdelsani in Pistoia dal sec. XI 7
al X VI che riguarda più specialmente Antonio da S. Gemignano, uscito nella Miscellanea storica
deUa Vnldelsa, IX, 24. Alla n. 2 di p. 9 lo Zaccagnini preannunzia il presente studio dello Zanelli.
La condotta di Antonio fatta dagli Anziani pistoiesi il 20 giugno 1401 è pubblicata per intero
dallo Zaccagnini (p. 11), in parte dallo Zanelli (p. 20), ma tra le due edizioni corrono tropp©
varianti; di chi la colpa?
166 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
dite appunto degli ospedali, mentre al Forteguerri altro merito non spette-
rebbe tranne quello di aver fondato borse di studio pei giovani pistoiesi che^
percorse tutte le scuole in patria, volessero recarsi altrove a proseguire gli
studi per laurearsi (1). — Lo studio pisano fu trasferito in Pistoia nel 1478 in
seguito alla domanda che rivolse al Magnifico il canonico Antonio Marchetti.
Benché il Comune, sperando forse che lo studio non venisse piiì trasportato
da Pistoia, provvedesse di suo locali e banchi alle scuole, tuttavia, appena
la pestilenza cominciò anche ivi a menare strage, professori e studenti si
squagliarono e non ritornarono alle scuole se non col cessare del flagello.
L'Università pisana rimase a Pistoia, pare, fino al 1480, nel quale anno maestri
ed allievi ritornarono a Pisa tutti (2), tranne Pietro da Ravenna che fu eletto
a Pistoia professore di diritto civile e canonico. Rimaste in Pistoia quelle
due sole cattedre giuridiche, nonché le scuole inferiori di grammatica e di
calcolo, non valsero i nuovi ordinamenti del 1498 a salvarle dal decadimento
che inevitabilmente doveva loro venire per le continue lotte che straziarono
la città sui primi del secolo XVI e pel dissesto delle finanze del Comune
da quelle causate. Quando si pensò a riaprire le scuole, dapprima la tenuità
degli stipendi rese diffìcile il trovare maestri, poi, cresciute le offerte da parte
del Comune, si trovarono due precettori zelanti e dotti per opera dei quali
lo studio pistoiese, bene riordinato nel 1511 e saviamente amministrato, rag-
giunse allora il suo massimo splendore. Ma lo splendore durò poco : l'incon-
tentabilità dei maestri e le loro gare reciproche coll'eterna poca voglia degli
scolari fecero presto disertare le aule: occorsero allora nuovi ordinamenti
per risollevare lo studio e questi furono fatti nel 1528 per le scuole di gram-
matica, nel 1535 per le scuole di sapienza ossia superiori o giuridiche. Ma
le scuole comunali pistoiesi nella seconda metà del secolo XVI ebbero l'ul-
timo tracollo quando i gesuiti stabilirono in Pistoia un collegio, contro il
quale invano lottarono le scuole laiche. Solo nel secolo XVIII colla cacciata
dei gesuiti le scuole ridivennero governative come sono oggi.
Più che il succedersi dei maestri e le vicende, diciamo cosi, esterne dello
studio pistoiese che ci siamo ingegnati di riassumere, interessano le notizie
sugli ordinamenti interni, sulle materie e sull'ordine d' insegnameuto, sulle
(1) Il prof. Leopoldo Psglicci, pretide del Liceo di Pittoia, nelle sue yotitie tioriche $ itati-
Mtiekt intorno alia Bibliotèca Foriegìnrri di Pistoia da lui presentate alla Mostra didattica di
quella città, delle quali redo cenno sulla Bibliofilia (II, 40), attribuisce pure al Comune il merito
della fondazione della Biblioteca. Lo Zaccagnini a p. 7, n. 2 del citato lavoro accenna al lascito
di libri fitto dal Soxomeno al Comune di Pistoia, il quale lascito costituì il primo nucleo della
Fortegnerriana. Certo è che se anche il Comune non fondò la Biblioteca, ne ebbe tutte le cure come
provano le deliberazioni consigliari riferite dallo Zanelli (p. 68, n. 1).
(2) Lo Z. appoggiandosi airindiscutibile affermazione documentata del Ciampi (Mtmoris di Sei'
piont Carttronuuo, Pisa, 1811, p. 65), nota che Lancillotto e Filippo Decio ebbero la eitUdi-
nanza pistoiese in compenso dell'insegnamento quivi impartito. Comprendiamo come ciò pote«*
•▼venire per Lancillotto che fin dal 1478 era lettore a Pisa; Filippo Decio Invece si era addot-
torato ivi 1*8 novembre del '76 (v. il citato mio lavoro, p. 33) e non fu condotto come lettore
prima del 1482, nel quale anno, come si desume dalla lettera degli Ufficiali dello Studio fiorentino
•dita dal Fabroni (I, 195), fu chiamato soltanto a sostituire Lorenzo Pucci lettore di ius civile.
Come potè adunque insegnare a Pistoia nel '78 ed ottenere, lui giovanissimo, simile distinzione ?
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 167
condizioni fatte dal Comune agli insegnanti. Nel medioevo l'insegnamento
era stato essenzialmente monacale o privato: fu solo col sorgere del Comune
e col fiorire dei liberi ordinamenti che lo Stato sentì il bisogno di avocare
a sé l'istruzione e l'educazione della gioventù. Ma il Comune non assume
d'un tratto l'ufficio di pubblico educatore e prima di governare e reggere si
limita ad interessarsi delle scuole. La tenuità dello stipendio che da prin-
cipio il Comune assegna al maestro e più ancora il fatto che questi continua
a percepire compenso pecuniario da ciascun scolare (1) e fa scuola in casa
propria dimostra come l' insegnamento non sìa ancora considerato come
una funzione dello Stato. Appresso via via che il Comune accresce i bene-
fizi alla scuola ed al maestro coU'assegnargli una casa gratuita (2), col con-
cedergli un ripetitore o più, col crescere sopratutto dello stipendio, aumentano
anche gli obblighi del maestro verso il Comune e questi diventa, si può
dire, un pubblico ufficiale. Non solo il maestro è nominato dal Consiglio del
Comune, ma viene anche sottoposto ad un Consiglio di sapienza che gli fissa
un orario stabilito, un turno di lezione, un programma, un massimo di va-
canze godibili e non gli risparmia neanche le ispezioni in scuola da parte
di due cittadini a tale ufficio designati. — Per le materie d'insegnamento
profondo è il distacco in tutte le scuole del secolo XIV e XV tra gli studi
letterari e quelli giuridici e filosofici: i primi, benché siano rappresentati
anche nelle Università daW Umanista o professore di lettere che legge i
classici latini, ristretti come sono alle esercitazioni grammaticali e retoriche
coU'esclusione della filologia, che pur tanto fioriva nel 400, costituiscono
sempre un insegnamento inferiore meno retribuito, più puerile, il nostro
liceo insomma; i secondi, chiusi nelle Università od in scuole superiori che
rivaleggiano con quelle, come la casa di Sapienza in Pistoia, godono mag-
gior lustro e fruttano pure più lauti stipendi ai maestri. — Non poche altre
osservazioni ofi're modo di fare il bello studio dello Z. che illustra non solo
la storia delle pubbliche scuole in Pistoia, ma anche, per affinità di vicende
e condizioni, di quelle dell'Italia tutta. Potrà spiacere ad altri che di molti
(1) A Pistoia, nota Io Z. (p. 37), il Comnne stesso nel sec. XIV aveva fissato la quota di re-
tribnzione da pagarsi al maestro da parte di ogni singolo scolaro; essa era di un fiorino d'oro
per ogni latinante (ecco gli studenti di rettorica od ars dictandi), di quaranta soldi per ogni stu-
dente di Donato (ossia scolari di grammatica ancora intenti al Dottrinale), di venti per ogni alunno
di salterio e di dieci per i bimbi che studiano la tavola (allievi infimi che imparano la lettura
e l'abbaco). Bene osserva lo Z. che dovunque gli scolari solevano distinguersi in tre gradi, cor-
rispondenti all'ingrosso alle nostre scuole elementari, ginnasiali e liceali. Ricordiamo ad esempio
d'aver letto nel Biorci {Antickilà e prerogative d'' Acqui Stazielìa, Tortona, De-Rossi, 8. d. t. II,
p. 167, n. 2) che il Comune fissò la rimunerazione da pagarsi dagli scolari al maestro in due
fiorini pei latinanti, uno pei donatisti, ed otto soldi per ogni scolaro inferiore.
(2) Solo nel 1514 (p. 96) Pistoia provvide una casa ad uso esclusivo di scuola, separata dalla
casa del maestro ; due cittadini furono allora incaricati di fare frequenti visite ai locali e di rife-
rire sul conto degli scolari e dei maestri. La giurisdizione degli Ufficiali di Sapienza prima limitata
alle scuole di diritto fu estesa alle scuole minori di rettorica e di grammatica cogli statuti del 1498.
Come nelle Università, i bidelli erano incaricati di riferire sulle assenze dei professori per fare
loro le ritenute sullo stipendio. Le vacanze, troppo frequenti davvero (v. pp. 56, 90, 110), non
erano più lunghe di quelle universitarie, coli 'aggravante che airUniversità anche allora gli stu-
denti le anticipavano e prolungavano.
168 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
maestri che insegnarono a Pistoia non siano date più ampie notizie non
difficili a raccogliersi nei repertori d'erudizione (1) o nei cataloghi di scrit-
tori dei varii luoghi d'onde essi provenivano; il che certamente avrebbe
giovato a far conoscere il valore dei maestri e gli studi speciali ai quali si
dettero. Altri forse avrebbe desiderato qualche notizia anche sugli studenti
e sulla loro vita, ed i documenti numerosi fatti passare dallo Z. dovettero
certamente offrire ampia messe di memorie, ma tutto ciò nulla toglie al
valore di questo studio, encomiabile per ampiezza di ricerche, per opportuna
ripartizione e per la saggia scelta dei documenti. GoU'includere nelle note
molti cenni e notizie lo Z. ha ottenuto che la forma del suo lavoro restasse
scorrevole* e spedita, il che non è pregio comune quando si tratta di ricol-
legare e cementare assieme mille date, mille fatti raccolti e spigolati da
varie fonti.
Giuseppe Manacorda.
KARL MUELLNER. — Redeyi und Brìefe Ualienischer Huma-
nisten, Ein Beitrag zur Geschichte der Pàdagogik des Hu-
raanismus. — Wien, Alfred Hòlder, 1899 (8», pp. x-302).
Questo volume, nitidamente e correttamente stampato a spese della vien-
nese Accademia delle Scienze, è il frutto d'un viaggio di ricerca che il
dr. Mùllner intraprese in Italia per raccogliere documenti atti a lumeggiare
la storia della pedagogia pratica nel Rinascimento. Lo precedette,
saggio della messe adunata, la pubblicazione di otto orazioni inaugurali di
Guarino veronese, nei volumi XVIII e XIX dei Wiener Studien, pubblica-
zione alla quale il nostro Sabbadini aggiunse un acconcio complemento nella
Biblioteca delle Scuole italiane (an. VII, n° 3, maggio, 1897); e gli terrà
dietro, promette il M., una serie di dissertazioni pedagogiche. Ora ci si of-
frono trentuna orazioni e quindici lettere latine, del secolo XV tutte, eccet-
tuate le tre ultime lettere, che furono scritte fra il 1559 e il '64 da Ago-
stino Valiero, filosofo e pedagogista di buon nome.
Nel breve proemio il M. rileva il carattere generalo delle scritture ch'egli
mette a stampa e rende conto dei criteri seguiti nella riproduzione dei testi.
Le orazioni, quando se ne tolga il bell'elogio funebre del Guarino pronun-
ciato da Lodovico Carbone, che citato e messo a profitto già dai biografi
dell'umanista veronese, vede ora per la prima volta la luce nella sua inte-
grità (pp. 89 sgg.), son tutte scolastiche e possono distinguersi, secondo il M.,
in tre gruppi: orazioni inaugurali per il cominciaraento dell'anno accade-
(1) Per i lettori di legge si consalta sempre con profitto il Paociroli (D« ctarit Ugum mterpri-
Ubui) e talora anche per i più noti il Savigny.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 169
mico, prolusioni ad un corso speciale e discorsi d'abilitazione (Habilitations-
reden), cioè discorsi tenuti da un professore che saliva per la prima volta la
cattedra in uno Studio. 11 terzo gruppo venne necessariamente a intrecciarsi
cogli altri, perché accadeva quasi sempre che l'orazione con che un lettore
si presentava a' suoi nuovi colleghi e discepoli, fosse insieme o discorso
inaugurale o prolusione; talché bastava forse la distinzione dei due primi
gruppi con un richiamo allo speciale atteggiamento che le orazioni assu-
mevano nel caso considerato dal terzo, oppure conveniva fare addirittura
due divisioni correlative ai due differenti criteri di distinzione.
Le orazioni inaugurali racchiudono per lo più le lodi delle cosiddette arti
liberali in genere; le prolusioni, che aprivano la via all'interpretazione d'uno
scrittore, discorrono solitamente questi otto punti: « intentio auctoris, utilitas,
« cuius sit liber, titulus, ordo, divisio, modus doctrinae, ad quam philoso-
« phiae partem reducatur liber ». Gonfie di rettorica vuota sono le prime,
e gravi d'una monotonia che provocava il motteggio dell' Argiropulo; più
sostanziose e più varie le seconde, dalle quali può trarre miglior partito chi
voglia conoscere i metodi insegnativi del Rinascimento, l' importanza che
allora si dava alle varie discipline, e le predilezioni letterarie delle scuole.
D'argomento didascalico sono pure le lettere trascritte dal M.; in alcune sono
esposte le norme che devono regolare gli studi e la vita; altre apparten-
gono alla numerosa categoria delle scritture educative dei principi ; altre
lodano le scienze ed esortano a studiarle; una infine, scritta da Giovanni
Lamola a Guidantonio Lambertini (pp. 243 sgg.), è un vero trattatello mo-
rale. Naturalmente si le orazioni e sì le lettere abbondano di citazioni e di
reminiscenze classiche, che il M. riscontra e rileva via via con gran dili-
genza.
L'edizione è condotta con buon metodo e, ove più d'uno siano i codici esem-
plati, senza l'inutile ingombro delle minute varianti. Quando non si tratti
di manifesti errori di scrittura e il M. accolga nel testo una sua correzione,
egli adduce appiè di pagina la lezione dei codici, dei quali poi segue in
generale l'ortografia. Alle orazioni e alle lettere di ciascun autore vanno
innanzi brevi proemi, dove il M. si adopera a determinare il luogo e il tempo
della loro composizione; aggiunge, se conviene, succinte notizie biografiche
e in poche parole riassume la contenenza dei singoli componimenti. Anche
qui è palese la cura ch'egli pose in questo suo lavoro; sennonché spiace che
gli siano sfuggite parecchie pubblicazioni utili a' suoi fini. Vero è che qual-
cuna uscì nel tempo stesso o poco prima del suo libro ; ma per la trascu-
ranza d'altre non può essere addotta tale giustificazione. Le noterò tutte —
quelle almeno che durante la lettura mi tornarono alla memoria — rife-
rendo qui in forma sommaria, accompagnato a postille di varia natura, l'in-
dice del volume.
A. Orazioni.
L Praefationes J oh anni s Argyropuli, dum Florentiae doceret
philosophiam.
Sono sei orazioni, che l'Argiropulo tenne nello Studio fiorentino e che già
lo Zippel aveva citato, adducendone qualche frammento, nel suo articolo, Per
170 RASSEGNA. BIBLIOGRAFICA
la biografìa dell' Argiropulo, inserito in questo Giornale, 28, 92 sgg. Codesto
articolo od anche soltanto il ter/o dei Beitrdge del Klette, dove (p. 75) si
prova che TArgiropulo non fu eletto a professare filosofia a Firenze se non
nell'ottobre del 1456, avrebbe fatto accorto il M. che le orazioni sono da-
tate secondo lo stile fiorentino e che quindi la prima orazione è dei 4 di
febbraio del 1457 (non '56), e la seconda del primo di febbraio del '58
(non "57). — A confermare le acute osservazioni dello Zippel sul platonismo
dell'umanista costantinopolitano {art. cit., pp. 102 sg.), mi piace rilevare
questo passo della prima fra le sue orazioni pubblicate dal M. Aristotile,
egli dice, « tantus in omni genere doctrinae scientiaequc evasit, ut nullus
« usquam in tanta copia tantaque excellentia praestantissimorum doctorum
€ non solum eorum, qui antea, verum etiam qui postea fuere, par ei inve-
€ niatur. Plato divinus semper excipiendus est, qui solus post
« hominis memoriam tantum creditur omnium hominum ingenia superasse,
€ ut neminem unquam nec praeteritorum hominum ei fuisse nec futurorum
« similem fore communi ferme sententia omnium iudicetur. Sed de divino
«Platone alio in tempore plura fortasse dicemus»(p. 15).
II. Di Gasparino Barzizza due orazioni non finite.
Son quelle che rispettivamente cominciano Cum saepe mecum repeterem^
patres clarissimi e Etsi frequens conspectus vester, viri doctissimi. Le re-
gistra entrambe il Sabbadini nel suo indice delle Lettere e orazioni edite
e inedite di G. B. pubblicato nel voi. Xlll (1886) deW Archivio stor. lombardo^
indice che il M. avrebbe citato più opportunamente della bibliografia data
del Mazzuchelli. In un codice perduto, che il Sabbadini registra sulla fede
altrui, la prima aveva questa rubrica: Sermo editus per eundem (G. B.) in
contemplatione magistri Baptistae de Yiterbio in suo principio nrtium^
onde resta spiegato lo strano titolo: in principio quodam artium oratio,
che le appone il codice dell'Angelica usato dal M., e vien ad essere frustrato
il suo tentativo di determinarne la data.
III. Philippi Beroaldi [senioris] oratio in principio lectionis luvenalis.
IV. Andreae Bilii mediolanensis oratio de laudibus disciplinarum.
Piuttosto che le magre postille dello Zeno nelle Vossiane conveniva citare
in sul proposito del Bigli quel che ne dico il Muratori nel voi. XIX dei Rerum
0, meglio ancora, la pagina che gli consacra G. Mancini nella sua Vita di
L. Valldy Firenze, 1891 (pp. 31 sg.); e per ciò che spetta alla data della
orazione occorreva notare che vi si nomina (p. 69) come insegnante a Siena
Niccolò Siculo, cioè il celebre canonista Niccolò Tudisco, che lesse in quello
Studio al più fino all'anno accademico 1430-31 (R. Sabbadini, L'Università
di Catania nel sec. XV, Catania, 189S, pp. 10 sg.). Questo per il terminus
ad qucm. Le notizie del Bigli poi che si trovano riferite o accennate dal
Mancini combinate con quelle che ora si desumono da alcune lettere dì Sicco
Polenton (Segarizzi, La Catinia, le orazioni e le epistole di S. P., Ber-
gamo, 1899, pp. 90-2, 97-100, 140-1), darebbero modo, io credo, posto che
l'orazione fu tenuta a Siena, di determinare con qualche esattezza anche il
terminus a quo.
V. Andreae Brentii oratio in disciplinai et bonas artes Romae habita.
In questa orazione, che dev'essere stata pronunciata nell'Università romana
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 171
intorno al 1480, è notevole il caldo elogio che vi si fa della lingua latina
e in particolare questo passo riguardante la sua larga diffusione: «se A prae-
« ceptore meo Demetrio Atheniensi puer audivi, qui legatus in Sauromatas
« Scythas profectus, esse civitatem illic longe nobilissimam et potentissimam
< in qua adhuc ita verba nostralia sonant, ut nihil suavius sit quam illos
€ antiquo more Romano loquentes audire » (p. 73). Qui è evidente l'allusione
alla lingua romanza parlata nei territori danubiani e merita pure di essere
rilevata la notizia, nuova, d'un'ambasceria del Galcondila in quei paesi. Non
si andrà errati pensando che l'umanista greco sostenesse quell'ufficio prima
della sua venuta in Italia, per incarico dell'imperatore bizantino, e forse chi
potesse ricercare paratamente la storia delle relazioni dell'impero d'Oriente
coi re d'Ungheria nel decennio tra il 1440 e il '50, riuscirebbe ad una più
esatta determinazione cronologica. Il padovano autore dell'orazione qui pub-
blicata dal M. avrà avuto a maestro il Galcondila nel tempo che questi
professò nello Studio di Padova, dunque fra il 1463 e il '71.
VI, Ludovici Carbonis ì. prae fatto habita in principio lecturae Valerii
Maximi^ 2. oratio habita in funere Guarini.
L'edizione della seconda è condotta su due codici romani e in nota il M.
ne cita un terzo, monacense, additato dal Voigt. Conveniva ricordare anche
l'Estense 679, che il Sabbadini nel suo libro La scuola e gli studi di
G. Guarini veronese, Catania, 1896, p. 25, n. 1, giudica il migliore di tutti.
Strano che il M., che pur conosce altre pubblicazioni guariniane del dotto
storico dell'umanesimo, non citi mai codesto libro, che è di grande importanza
per la conoscenza dei metodi didattici del Rinascimento.
VII. Oratio domini Andreae magistri Hiigonis de Senis quam recitavit
in principio studii Florentiae.
Il proemio che il M. premette a quest'orazione, va cassato quasi per in-
tero, perché essa non è di Ugo Benzi, come egli mostra di credere, ma del
figliuolo di Ugo, Andrea, come dice chiaramente il titolo che il M. stesso
ha fedelmente trascritto dal codice laurenziano-gaddiano. Anche Andrea fu
lettore nello Studio fiorentino, ma non di medicina, si di giurisprudenza, e
come a doctor utriusque iuris gli spettava appunto l'epiteto di dominus che
gli vien dato tanto nel titolo dell'orazione quanto nei documenti onde traggo
queste notizie, i quali furono pubblicati da A. Gherardi cogli Statuti della
Università e Studio fiorentino, Firenze, 1881, pp. 453, 461. Questo libro si
desidererebbe di veder citato dal M. in luogo del Prezziner. Andrea di Ugo
Benzi è nel ruolo degli insegnanti per l'anno scolastico 1451-52.
Vili. Andreae luliani Veneti oratio super principio orationum M. T. Ci-
ceronis.
IX. Christophori Landini praefatio in Tusculanas Ciceronis habita in
gymnasio fiorentino.
Anche qui occorre notare che la data della prima condotta del Landino
è segnata secondo lo stile fiorentino; cosi che questa orazione, se è veramente
quella con che l'umanista casentinese diede principio a' suoi corsi, sarà del
1458 e non del '57.
X. Di Lapo da Castiglionchio (il giovane) due orazioni.
I recenti studi di F. P. Luiso sull'epistolario di Lapo (studi che per ra-
172 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
gioni di tempo il M. non poteva conoscere) permettono di assegnare al no-
vembre del 1436 la prima di queste orazioni « Bononiae habita in suo legendi
« initio » (Studi italiani di filol. classica, VII, 1899, pp. 238 e 244).
XI. Omniboni Leonicensis oratio in Valerium Maximum.
Cogli altri biografi del Bonisoli doveva essere ricordato il più recente e il
più compiuto, cioè il Sabbadini, che pubblicò (Lonigo 1880) Lettere inedite
di 0. da Loniffo con una breve biografia. Posteriore al libro del M. è l'ar-
ticolo pure del Sabbadini (lo cito di seconda mano) Nuove notizie e nuovi
documenti su 0. de' Bonisoli Leoniceno,'mseT'\iOT\e\\' Antologia Veneta^ 1,1
(Belluno, gennaio-febbraio, 19(X))
XII. Petri Perleonis ariminensis oratio.
Il M. crede che il Perleoni abbia pronunciato quest'orazione subito dopo
quella con cui il Filelfo, suo maestro, dava principio al suo corso fiorentino
8\i\V Etica. 11 che pare assai verosimile; ma quanto alla data deirorazione
del Perleoni, s'avrà a tener conto dell'osservazione che farò ora sulla data
della filelfiana, la quarta di quelle pubblicate nel volume che si esamina.
XIII. Di Francesco Filelfo cinque orazioni.
Furono tutte recitate nello Studio fiorentino; le tre prime nel 1429 poco
dopo l'arrivo del Filelfo a Firenze (principio d'aprile). Della seconda offre
ora qualche notizia anche G. Zippel nel suo bell'opuscolo 11 Filelfo a Fi-
renze, Roma, 1899, p. 13, uscito in luce quando i testi del M. dovevano
essere già stampati. La quarta (in principio lectionis Ethicorum) reca nei
mss. la data III Kal. Jan., 1431; ma il M. crede si deva assegnarla invece
al 30 dicembre del 1432, perchè, egli dice e si fonda sulla didascalia ben
nota d'una prelezione filelfiana al commento di Dante (Rosmini, I, 127), il
Filelfo non tenne nel 1431 lezioni pubbliche, sibbene un corso privato in
casa sua, del quale ci è rimasta la prelezione. Qui si fa una grande confu-
sione, che il M. avrebbe potuto evitare se avesse conosciuta la deliberazione
della Signoria fiorentina del 24 dicembre 1431 pubblicata dal Gherardi,
Statuti, p. 245. Come andassero le cose, è ora spiegato egregiamente dallo
Zippel nel citato opuscolo, pp. 27 sg. La quarta orazione è dunque del
penultimo giorno del '31, come vogliono i codici. Ora si può leggerla anche
nell'appendice allo studio dello Zippel, pp. ni sgg. Della quinta non ci riesce
di determinare esattamente la data.
XIV. Sicconis Polentonis oratio.
È l'orazione con che il Polenton ringraziò il collegio dei giuristi pado-
vani per l'aggregazione del figliuolo di lui. Modesto (17 giugno 1435). Ora
è a stampa anche nel citato libro di A. Segarizzi, pp. 72 sg.; cfr. pp. 134 sg.
XV. Di Antonio da Rho due orazioni.
La prima fu forse tenuta quando il Raudense diede principio al suo inse-
gnamento a Milano (1431-32). Notevole il ricordo di Gasparino Barzizza
« praeceptorem hactenus nostrum nuper.... mortuum ». Sappiamo già (Sab-
badini, Studi sul Panormita e sul Valla, Firenze, 1891, p. 11) che il Rau-
dense studiava a Padova nel 1413-4, quando era colà il Barzizza. — Impor-
tante è la seconda orazione, dove il frate lombardo si difende dalle accuse
di coloro che lo rimproveravano perché leggesse , egli uomo di religione,
di materie profane, e disegna sulle traccio di Cicerone il modello del perfetto
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 173
oratore. Le allusioni al Valla sono assai trasparenti, e vigorose sferzate as-
sesta il Raudense a' suoi nemici in generale. Egli cita il prologo « Imi-
« tationum suarum » (p. 171) e il M. ne deduce che l'orazione deve essere
stata composta circa il 1442. La deduzione non mi pare sicura, tanto più
che il Raudense attendeva a comporre quell'opera fin dal 1433 o '34 (Sab-
badini, Panormita e Valla^ p. 70), né dall'orazione risulta che l'avesse già
compiuta e pubblicata. — Per la storia dei costumi universitari merita di
essere rilevato questo luogo della stessa orazione : « Naturae tamen meae
« est neminem compellere, neminem adorare, non hostiatim scolares
« i p s 0 s novis precibus, pollicitationibus, aucupiis pellicere. Ha-
« beant alii doctores praeceptoresque id blandiendi et assentandi genus, ego
« vero liberiate mea utar » (p. 169). Lunga tradizione può dunque vantare
il vostro mestiere, o moderni cacciatori di « firme » 1
XVL Gregorii Tiphernii 1. de astrologia oratio; 2. de studiis lite-
rarum oratio.
Di Gregorio Tifernate il M. riassume brevemente la vita ; occorreva
quindi mettere a profitto e citare, oltre al Gabotto, G. Zannoni nella Cul-
tura, I, 1890, 262 sgg. e G. Mancini, Il Contributo dei Cortonesi alla
coltura italiana, Firenze 1898, pp. 18-23 e 114-121; per non dire del forse
troppo recente lavoro di L. Delaruelle, Une vie d'humaniste au XY siede,
nei Mélanges d'Archeologie et d\Histoire, XIX, 1899, pp. 5 sgg. 11 Mancini
(p. 21) e il Delaruelle (p. 27) citano entrambi la seconda delle orazioni pub-
blicate dal M. indicandone un nuovo codice vicentino ; il Mancini anche la
prima.
XVII. Johannis Tuscanellae oratio prò legendi initio Bononiae habita.
Per determinare il tempo della lettura bolognese del Toscanella, piuttosto
che la Vita di Guarino, dove è appena un accenno fuggevole a quel fatto,
occorreva citare un altro scritto pur del Sabbadini, il suo Gio. Toscanella,
inserito nel Giorn. ligustico, XVII, 1891, pp. 119 sgg.
B. Lettere.
I. Franciscus Barbarus Jacobo Foscaro.
Contiene un elogio delle lettere e una difesa degli studi classici contro
la solita sancta rusticitas. Il codice la dà senza rubrica; che sia diretta a
Jacopo Foscari è certo; ma sarà di Francesco Barbaro? Mi pare si possa
dubitare. Essa comincia: «Gum superioribus mensibus me ad hanc excelsam
« atque illustrissimam Venetiarum urbemhonestissimis qui-
«dem rationibus.... contulissem, cum alia multa, quae huius
« amplissimae rei pubblicae Venetae nomini et maiestati responderent ac
« latissimo hoc imperio dignissima essent, sane adnotavi, tum mihi oblatum
« est nihil quod aeque [non] probarem atque illud quod et diuturni huius
« imperii et aeternae pene cuiusdam felicitatis fundamentum recte censeri
« possit Intellexi namque hosce patricios adulescentes ad
€ optimarum artium et litterarum ac politioris humanitatis studia capessenda
« mirifice incensos atque deditos esse ». Avrebbe parlato così il patrizio
veneziano Francesco Barbaro?
II. Domitius Calderinus Bernardino Messanelo sororis filio.
174 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Il Calderini vi parla de' suoi studi. La lettera è data Ex urbe pridie
K. sextiles; l'anno sarà il 1475, come vuole il Mùllner. Ma poiché questa
affermazione si fonda sulla data della nascita del Calderini, era opportuno
citare F. Gabotto e A. Badini-Gonfalonieri, Vita di G. Merula, Alessandria,
1894, pp. 88-9 n.
ili. Francisci Castilionensis ad Laurentium et lulianum Medices epi-
stola consolatoria in obitu Petri Cosmae.
IV. Guarino Veronese.
Il M. pubblica quattro epistole del Guarino ben note, ancorché, se ben
ricordo, non mai date in luce integralmente. Sono i numeri 194, 373, 345,
514 àeW Indice alfabetico delle lettere compilato dal Sabbadini (Salerno,
1885). Della lettera 373 il M. omette senza avvertirlo le prime parole. -
V. Joannis Lamolae 1. epistola ad Paulum Pergulensem, 2. ep.
Guidantonio Lambertino.
Note per la citazione che ne fece il Sabbadini nel Propugnatore, N. S.
voi. HI, P. II, 1890, pp. 430, «Se 432, n. 2, discorrendo appunto la Cro-
nologia della vita dì G. Lamola.
VI. Lapus Casteliunculus Roberto Stroxzae.
Nel cod. Vatic. Ottob. 1677, donde il M. la trasse, questa lettera è monca:
la dà completa il Paris. 1 1388, dove reca la data < Ex Bononia, XV Kal.
«junias 1437» (Luiso, op. cit. negli Studi ital. di filol. class., VII, 251). Si
corregga dunque il Mùllner, che la assegna al 1435 circa.
VII. Omnibonus Leonicenus dilecto discipulo Federico de Gonzaga.
Era già stata pubblicata dal Sabbadini fra le citate Lettere inedite di
Ognibene, pp. 41 sgg.
Vili. Thomas Occilius Pontanus s. d. Pasquali Stephani filio.
La lettera è data Florentiae V Kal. ian.-, non sarà dunque del 1425, come
propone dubitosamente il M., ma sarà stata scritta probabilmente tra il 1431
e il '37, seppure sulla ingarbugliata cronologia dell'umanista umbro si può
fare qualche assegnamento. Al M. sono sfuggiti i recenti studi sul Pontano
del Sabbadini, di L. Manzoni e di A. Zanelli {Giornale, 18, 224; 32, 139;
33, 347).
IX. Augustini Valerii epistolae tres.
Vittorio Rossi.
EUGÈNE MUNTZ. — Le Musèe de portraiis de Paul Jote. Con-
tributions pour servir à Viconographie du Moyen Age et
de la Re'ìiaissance. Extr. des Mémoires de VAcadémie des
Inscriptions et Belles Lettres. — Paris, Imprfraerie Natio-
naie, 1900 (4% pp. 95).
Sono già trascorsi più che cinque anni dacché il M., dopo aver acquistato
una speciale preparazione con lo studiare e illustrare le collezioni medicee,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 175
dava un primo saggio su questo argomento (1). L'avevano preceduto e in
parte accompagnato lo Schmarsow, il Frey ed il Kenner, che sono qui de-
bitamente ricordati e discussi; ma l'aveva preceduto anche un italiano, il
Fossati, il cui ottimo opuscolo, rimasto ignoto. al critico francese, gli avrebbe
giovato per una più sicura illustrazione delle vicende toccate al Museo gio-
viano, oltre che a conoscere meglio quelle del ritratto di Cristoforo Co-
lombo (2).
Di questo fervore della critica non dobbiamo stupirci, quando si pensi che
la famosa collezione iconografica, ricca di quasi 400 numeri, che fu l'oggetto
costante delle cure e degli entusiasmi dello storico comasco, segno d'ammi-
razione e d'invidia ai contemporanei, è dall'A. giudicata la più copiosa fra
quante siensi formate dopo la caduta dell'Impero romano. Dovremmo anzi
meravigliarci che la critica abbia tardato tanto tempo a compiere il pro-
prio dovere.
Nei primi capitoli, consacrati a ricostruire la storia esterna della raccolta
gioviana, il M., per dare un'idea del Museo, ond'essa era il principale orna-
mento, riferisce una pagina latina di prosa descrittiva, dovuta allo stesso
raccoglitore, e inoltre cita, dalla silloge epistolare del Bottari, una lettera
che il Vescovo di Nocera scriveva, il 14 settembre 1548, ad Anton Francesco
Doni. In questa lettera il Giovio, ringraziato con grandi lodi l'amico fioren-
tino pel saggio inviatogli delle sue Medaglie^ s'augurava di poter un giorno
far intagliare a quel modo tutte le « immagini » del suo Museo, almeno
quelle degli illustri guerrieri, aggiungendo (e di questa aggiunta doveva ri-
levare l'importanza il M.) che avrebbe voluto imprimerle in colori, « con
« qualche colore per maggior dignità ». Ma giacché aveva accennato alle
relazioni corse fra i due in proposito di medaglie e di ritratti, il M. poteva
recare innanzi qualche altra utile testimonianza, desumendola dall'epistolario
del Doni, che non per nulla fu tra i più intelligenti visitatori e tra i più
caldi ammiratori del Museo gioviano (3).
L'A. dà un giudizio meritamente severo delle copie che a cinque ducati
l'una esegui l'Altissimo per incarico del Duca Cosimo e che si conservano
negli Uffizi, e uno ancor più severo delle incisioni in legno che comparvero
nella edizione di Basilea (1575-77). Comunque, questa stampa illustrata degli
Elogia dovuta alle cure del Perna, e che offriva delle serie gioviane di ri-
tratti una scelta suggerita da criteri non bene sicuri, né chiari, segnò il
(1) Negli stessi Mémoires del 1895; cfr. noiV Archivio stor. italiano, S. V, voi. XIX, 1897,
pp. 237 8gg.
(2) Il Museo Gioviano e il ritratto di Cristoforo Colombo, Como, tip. Ostinelli, 1892.
(3) Particolarmente notevole è la lettera che il Doni inviava da Como, il 20 luglio del '43, al
conte Agostino Landi, narrandogli con entusiasmo la sua visita al Museo, le cui meraviglie de-
scrive con diligenza e col solito colorito. La sua ammirazione era attirata sovrattutto da *una
« infinità di ritratti al naturale», una parte dei quali passa in rassegna. Invece è tutt' affatto
burlesca, perfino coi nomi storpiati (Fra Castrone, Tidia, Giobbi, Lembo, Motta ecc.), la descri-
zione che il Doni inviò o finse d'inviare da Como, il 17 agosto di quell'anno « a m. Jacopo
« Tintoretto eccellente pittore » (Vedasi Lettere dt Anton Francesco Doni ecc., Vinegia, Mar-
colini, MDLII, pp. 75-9, 80-6).
176 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
colmo della fortuna per la grande collezione iconografica, che, purtroppo, do-
veva andare poi in massima parte miseramente dispersa. Ad ovviare il più
possibile a tanta jattura non rimaneva di meglio che rintracciare gli originali
adoperati dal Giovio. Valendosi delle indicazioni lasciate dallo stesso racco-
glitore e delle risultanze di altre ricerche parziali (1), e mediante opportuni
raffronti fra i ritratti della collezione gioviana e le copie degli Uffizi, il M.
riesce a darci, con la diligenza e con Tautorità che gli sono ben note, il
primo tentativo serio, d'indole generale, che si sia fatto di ricostruire e illu-
strare la galleria dello storico comasco.
Ma egli riconosce meglio di ogni altro quanto rimanga ancora da fare
prima di giungere a conclusioni relativamente compiute e del tutto rassicu-
ranti, le quali non potranno essere opera né di pochi anni, né d'un solo
studioso (2).
Mentre mi riservo di pubblicare neW Archivio storico lombardo alcune
lettere del Giovio, che getteranno qualche luce su questo argomento, m'ac-
contenterò di esporre qui certe osservazioni che m'ha suggerite la lettura
di questo pregevole saggio.
Nel passare in rassegna i ritratti, il M. segue la classificazione ragionevole
adottata dallo stesso scrittore comasco , aggiungendovi solo qualche suddi-
visione maggiore, in modo da dare un rilievo più evidente alla varietà di
quella raccolta.
Per Girolamo Aleandro l'A. si restringe a dire (p. 34) che la stampa
basileense non ne reca alcuna imagine; ma poteva ricordare il bel ritratto
che esiste nel God. Vatic. 5234, dal quale fu tratta l'incisione nitida di Ago-
stino de' Musi, riprodotta recentemente da un altro studioso francese, il Pa-
quier (3). Più innanzi (p. 35) trova inesplicabile che nel Museo gioviano
mancasse il ritratto di Pietro Aretino; ma in realtà non mancava, come
attesta esplicitamente il Conte Giambattista Giovio in una lettera al Tira-
boschi, che, pubblicata già dal Gampori, il M. fece bene a riprodurre in
appendice (pp. 93-5), e come conferma inoltre nel suo Elogio (4). Non po-
tendo porre in dubbio questa asserzione, dovremo invece cercar di spiegarci
perchè, possedendo un'effigie del terribile libellista, il Giovio non la inse-
risse negli Elogia,
Pare a me che la lettera di lui all'Aretino, non isfuggita al nostro critico,
dia una spiegazione soddisfacente. Lo storico di Como dichiarava che l'effigie
dell'amico, da lui posseduta e cavata dalla medaglia donatagli, per opera
d'un pittore inesperto, non era « a suo gusto » e appunto perciò lo pregava
(1) Ad esempio, pel grappo dei SnlUni e principi orientali MccorM ntilmente «1 M. 1» mono-
grafi» del Kenner.
(2) Il M. dovette, per es., affidare Tesploraiione fra i ritratti degli UfBii ad altra persona; e
ciò, nonostante lo zelo intelligente di questa, doTeva essere dannoso in nn laroro scientifico che
richiede anità e conformità perfetta di criteri e di metodo. Circa nn ritratto di Andrea Doria in
atteggiamento di Neitono, che sarebbe appartenuto al museo del Oiorio ed ora ò nella pinacoteca
di Roma, vedi RoMugna d'arU, I, 31.
(3) Nella prima parte del Jérònu AUandré, Paris, IMO, del quale fcoe parola questo GiornaU.
(4) Nel t. Vili degli ShgJ italiani, Yeoexia, 1783, p. 3«.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 177
dì procurargli « uno schizzo di colori » anche piccolo e a pastello e su carta,
da qualche scolaro « terzuolo » del Tiziano. La preghiera non sembra sia
stata esaudita o fu esaudita male, sicché il Giovio, piuttosto che pubblicare
un Aretino trasformato « in un peregrino romeo », come diceva, preferi
ommetterlo. In tal caso, il ritratto veduto dal conte Giambattista fra i su-
perstiti del Museo, lungi dall'essere del Tiziano, sarebbe stato lo sgorbio
rifiutato dall'antico possessore (1).
Siccome il M. registra, e con ragione, anche i personaggi i cui ritratti il
Giovio 0 non riuscì a procurarsi o per motivi a noi ignoti non inseri negli
Elogia, andava aggiunto un altro Pietro, quell'Alcionio, del quale egli con
la sua penna seppe darci un ritratto gustosamente satirico, forse per compen-
sarsi di non averne trovata l'eflagie (cfr. anche qui a p. 28). Similmente, più
innanzi poteva trovar posto il Palmieri, del quale non ve soltanto una me-
daglia, come avverte l'A. (p. 28), ma un vero ritratto nella celebre tavola
che, sia opera del Botticelli o del Botticini, dalla cappella Palmieri in
S. Pier Maggiore a Firenze passò, purtroppo, nella Galleria Nazionale di
Londra (2).
Sul ritratto del Castiglione, che non figura nella stampa basileense, ma
che il Giovio possedeva, il M. poteva dire qualche cosa di più (p. 38); ma
di questo punto attraente della iconografia del Rinascimento, non è qui il
luogo di trattare con la larghezza che merita. Invece è notevole il cenno
che egli consacra (p. 43) al Machiavelli, sostenendo, contro il parere d'un
giudice autorevole, il Bode, ma con buone ragioni, che il famoso busto del
Museo Nazionale di Firenze rappresenta veramente il Segretario fiorentino,
e trova un singolare riscontro nella incisione degli Elogia (3). Qualche mag-
(1) Non so se sia il caso di pensare ad altre ragioni personali, ma qneste non mi sembrano
probabili. Vera e cordiale amicizia fra i due non vi fu certamente (cfr. questo Giorn., XVII, 78),
ma neppure ostilità aperta, ed il Giovio aveva troppo interesse a non inimicarsi l'onnipotente
messer Pietro, col quale, d'altra parte, egli non avrebbe insistito a quel modo per aver un ritratto
decente di lui, se non avesse avuto l'intenzione di servirsene. Che ci avesse messo lo zampino
— 0 la granfia — il duca Cosimo de' Medici ? Sarebbe da cercare.
(2) È questa tavola il quadro eretico, del quale scrisse Diego Angeli nell'ircA. stor. deWArte,
S. II, voi. II, pp. 58 sgg., dove è anche una buona riproduzione del ritratto del Palmieri.
Cfr. G. BowiTO, L'eresia di M. Palmieri, in questo Giornale, XXXVII, 46-7. Nel Museo Nazio-
nale di Firenze v'è anche un busto del Palmieri, eseguito nel 1468 da Antonio Rossellino e ri-
masto per lungo tempo sulla porta di casa Palmieri, al Canto alle Rondini. Vedasi la nota di
G. MiLAXBsi alla Vita del Rossellino nelle Opere del Vasabi, voi. Ili, p. 96, n. 3.
(3) Con ciò non voglio asserire che la questione sia sciolta, senz'altro; ma sembreranno troppo
recise le parole con le quali il Villari, N. Machiavelli^, I, 321, ti. 1, accenna a questo busto,
che « porta sempre il nome del M., sebbene ora nessuno più lo creda suo ritratto ». Alla sua
volta il Muntz doveva tener conto del busto di stucco colorito, esistente già nella casa dei Ricci,
tanto più che il Villari, Op. cit., 1, 322, n., lo mette innanzi a tutti gli altri ritratti del M. e
fu riprodotto e illustrato nella Revue Archéologique. E poiché né il Muntz, né il Villari ne fanno
menzione, ricorderò che il Catalogo della Oallerta Torlonia, entrata a far parte della Galleria
Nazionale a Palazzo Corsini, compilato da G. A. Gnattani e pubblicato nelle Gallerie nagion. ital.,
an. II, p. 103, registra come già esistente tra le finestre della terza stanza (Torlonia) un « gran
« quadro con cristalli, ove è rappresentato papa Clemente VII, che riceve da N. Machiavelli la
« dedica delle sue opere ». E soggiunge : « Bellissima copia a pastello di Rosalba Carriera yene-
Oiornale storico, XXXVIU, fase. 112-113. 12
178 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
giore notizia meritava il Fontano (p. 48), d'un cui ritratto ebbe già ad occu-
parsi, al principio del secolo scorso, Agostino Gervasio (1); del Navagero
(Andrea) manca il ritratto nell'edizione di Basilea (p. 46), ma non sarebbe
stato inutile il dire che se ne conoscono due, uno dei quali, attribuito da al-
cuni a Raffaello e già appartenuto a Pietro Bembo, sembra sia da identificarsi
con quello esistente nella Galleria Doria, ora alla Nazionale di Roma,
mentre l'altro, della scuola di Tiziano, eseguito nel 1526, trovasi nella Gal-
leria di Berlino (2). Nella notevole illustrazione del ritratto del cardinale
Alidosi (pp. 61-3) il M. conferma il giudizio già da lui espresso neW Archivio
storico dell'Arte, dacché la evidente rassomiglianza fra l'incisione degli
Elogia e il ritratto di Madrid non solo dimostra che questo raflBgura il fa-
migerato cardinale e non un altro personaggio, ma che questa tela adornava
un giorno il Museo del Giovio. Non mi pare tuttavia escluso il caso che
questi si sia giovato d'una copia fedele, da lui fatta eseguire o procurata
dall'originale ora madrileno.
Lasciando altre osservazioni di minor conto (3) rileverò ancora il ritratto
di Lorenzo il Magnifico bene riprodotto qui (p. 79) di sulla pregevole mi-
niatura posseduta dal sig. Valton di Parigi, pregevole anche perchè essa si
rivela come l'originale della incisione gioviana, o almeno come somiglian-
tissima a questa.
Nel sec. XVIIl, un francese, il Niceron, con imperdonabile avventatezza.
« ziana, dall'originale di fra Sebastiano del Piombo». Il Vasari, nella Vita di Sebastiano ( 0^«r«,
ed. Milanesi, Firenze, Sansoni, V, 575) cita dae ritratti di papa Clemente eseguiti dal frate piom-
batore, ma non sembra che né l'uno, nò l'altro possano identificarsi con l'origiDale copiato da
Rosalba, che qualcuno dei nostri studiosi di storia dell'arte dovrebbe far oggetto d'un' utile in-
dagine. L'amico Venturi pensa che l'opera di Sebastiano sia la stessa ch'egli ride in Inghilterra,
presso il duca di Crafton, ma questa rappresenterebbe invece Ferry Caroudelet e il suo segretario.
(1) In una comunicazione inserita negli Atti della Società pontan., voi. Ili, 1819, pp. lxxxiii sgg.
Ma fra breve gli studiosi potranno vedere una bella riproduzione del busto, ora genovese, del
Fontano, in testa ai Joannis Joviani Fontani Carmina, ed. 6. Soldati, Firenze, Barbèra, 1901,
voi. I, dove anche (pp. lxix sg.) potranno leggere una nota rig^iardante l'iconografia pontaniana.
(2) Vedasi la nota del Fbizzoni alla sua ristampa della NoUtia d'opere di disegno, Bologna,
1884, pp. 45-6.
(3) Qualcuna soggiungo qui in nota. A proposito del ritratto di Ezzelino da Bomano (perchò
stampare Eccelinoì , il M. (p. 55) si restrìnge a ricordare la copia che è agli Uffizi. Può giovare
l'aver presente che Gabriele Simeoni, scrivendo da Venezia il 18 settembre 1546, inviava al Duca
Cosimo un ritratto di Ezzelino, eseguito sopra una « testa di marmo », la quale « fu in Padova
« ritrovata al tempo di papa Leone e dal vescovo di quella città mandata inaino in Roma alla
« Santità Sua » {Nuova raccolta di lettere sulla pittura ecc., di M. Goalamdi, voi. I, Bologna,
1884, pp. 39-41). — Quel Donalus Lectius, che il M. cita con le parole del Giovio (p. 60),
perchè procurò a questo il ritratto del Saladino, ò un Da Lezze, della nota famiglia veneziana,
probabilmente il padre di quel Dimonio bianco, moglie di Cristoforo Moro, nella quale ti volle
vedere da qualcuno la futura Desdemona (CicoaMA, JnscriM. cenetiane, VII, 586, n. 2) — A p. 42,
Ouemo è un errore di stampa invece di Quemo. — A p. 40 il M. offre nna riproduzione del fresco
del Ghirlandaio, in S. Maria Novella, raffigurante il Ficino, il Landino, il Poliziano e il Calcon-
dila (cfr. p. 48), ma sarebbe stato utile ricordare e, magari, riprodurre, il famoso gruppo del Goz-
zoli, nel Camposanto pisano. — Parimenti non andava dimenticata la lettera del febbr. 1545, con
la quale l'Aretino lodava al Giovio il ritratto di Daniello Barbaro fatto dal Tiziano pel racco-
glitore comasco.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 179
sentenziava che i ritratti compresi negli Elogia del Giovio « sont pour la
« plupart de fantaisie » (1); circa un secolo dopo un benemerito erudito
veneziano, Emanuele Cicogna, parlando dei ritratti gioviani degli uomini
illustri in guerra, osservava che. se tutti erajio come quello del Doge An-
tonio Grimani, apparivano « abbastanza somiglianti » (2). Queste utili inda-
gini d'un altro francese, confermando il giudizio dato dall' autore delle
Inscrizioni veneziane, vengono opportunamente ad illustrare l'opera del
Giovio quale amatore appassionato e studioso intelligente delle belle arti,
opera cosi poco apprezzata finora, ma cosi geniale ed efficace.
Vittorio Gian.
OUIDO SARTORIO. — Luigi Carrer. Parte I: La Vita. — Roma,
Società editrice Dante Alighieri, 1900 (16^ pp. 156).
Le condizioni politiche ne' primi cinquant'anni del secolo decimonono impe-
■dirono anche a Venezia ogni relazione letteraria con le altre città italiane;
per la qua! cosa molti bei nomi a stento varcarono le lagune, e fuor di
esse rimasero per lungo tempo dispetti e scuri. Tal sorte toccò a Luigi
Carrer, che fino ad ora fece parte per sé stesso, e, tutto che venerato dalla
generazione volgente al tramonto, non fu studiato mai di proposito nelle sue
attenenze con la letteratura nazionale e con le vicende pubbliche e private
della sua città. Le ballate romantiche, pochi sonetti e uno o due degl'inni
furono delle poesie di lui, che meglio piacquero: le une per l'indefinita
soavità romantica e per la severa unità d' impressione (3), gli altri per la
verseggiatura, che dimostra lo studio del Petrarca, de' cinquecentisti migliori
•e del Foscolo. Sol di nome si conoscono in vece i discorsi, i racconti e V Anello
di sette gemme (4) ; e il tempo schiacciò e « di sua preda coverse e cinse »
l'operosità da lui attestata nella compilazione del Gondoliere^ in cui si
riflette la città disdegnosa de' ricordi gloriosi e troppo memore delle ultime
letizie repubblicane, negli studi d'erudizione, nella stampa di classici italiani
per le tipografie di Padova e di Venezia. Se egli può dirsi, come alcuno
sentenziò, « anello fra la scuola classica e la romantica », in quanto seppe
con mano sicura coordinare il nuovo col vecchio e col già noto, e se egli
fu « gentile e originale poeta » (5; non pure nella facoltà e nel modo di
(1) Mèmoiret ecc., t. XXV, p. 370, nell'articolo consacrato al Giovio.
(2) Inscriz. venez., Ili, 330.
(3) Cfr. G. Carducci, Giovanni Frati, in Bozzétti e scherme, Bologna, Zanichelli, 1889, p. 410.
(4) Anello di sette gemme o Venezia e la sua storia, Venezia, co' tipi del Gondoliere, 1838;
Prose, voli, due, Firenze, Le Monnier, 1855; Racconti, ivi, 1857.
(ó) G. Zanella, Della letteratura italiana neWultimo suolo. Città di Castello, S. Lapi, 1887,
p. 175; E. Nbnciomi, Saggi critici di letter. italiana, Firenze, Le Monnier, 1898, pp. 314, 323.
180 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
concepire e sentire il bello, ma e nelle forme organiche della lirica e nei
metri ; è giusto anche affermare che la sua opera di studioso e di erudito
è degna di esame, sol che si ponga mente alla Biblioteca classica italiana
di scienze, lettere ed arti (1), adorna di buone e succose prefazioni, alla
Gerusalemme Liberata col riscontro della Conquistata (2), alla scelta di
Lirici italiani del secolo decimosesto (3), alle Satire di Michelangelo Buo-
narroti il giovane (4) e via seguitando. Di una monografia conscienziosa
intorno al Carrer letterato ed erudito si fa vivo il desiderio ora sopra tutto,
che il dottor Guido Sartorio, tratteggiando in un garbato volumetto la vita
del poeta veneziano, ci dà a conoscere la solerV.ia di lui nel metter mano a
cose differenti; per modo che i suoi versi, ond'ei rivelò un tesoro di forme,
di colori, di musiche, appaiono quale svago alle sue fatiche di ricercatore e
di editore.
Su la tomba del Carrer pose ben presto radice la mala pianta de' pane-
giristi. Gli amici e gli ammiratori, i quali per primi scrissero di lui, come
B. VoUo, G. Veludo, D. Pallaveri, J. Bernardi, G. Venanzio, L. Ercoliani,
G. Crespan, o ne dipinsero l'animo soavemente buono, o, con l'intento di
serbarne pura la fama, esaltarono i pregi, tacquero i difetti, e lasciarono
correre notizie mal fondate o mendaci. Omettendo le trattazioni di A. Pi-
netti (5) e di L. Padoan (6), che istudiarono solamente, l'uno le liriche del
Carrer, l'altro alcune false citazioni del Carrer fra i traduttori di Fedro ;
V. Malamani (7) e G. B. Crovato (8), che sono gli ultimi biografi, non ci die-
dero opera lodevole. Il Malamani alle cose, giuste o no, dette da altri,
accoppiò il frutto delle sue ricerche, chiarendole con luoghi frequenti di let-
tere inedite e con un esame, molte volte affrettato, de' versi e delle prose;
il Crovato assimilò in una brutta prosa quanto contemporanei e posteri la-
sciarono scritto, accozzò errori, ripetè alla leggera notizie mal sicure, aggiunse
un saggio di bibliografia incompiuto e in alcune parti erroneo. Il S. per lo
contrario, oculato e diligente, toglie tutta la sua narrazione dalle fonti più
genuine, e, tra queste, le lettere del Carrer custodite in alcune biblioteche e
le numerose carte del poeta lasciate all'amica sua Adriana Renier-Zannini.
Solo in tal modo era lecito desiderare una vita del Carrer definitiva ed
esatta. •
Una pagina autobiografica, con la quale s'apre il volumetto (pp. 12-4), ci
dice subito qual fosse sin dal bello aprii degli anni l'indole dell'uomo, che
fra dubbi, impazienze, momentanee esaltazioni e rancori a stento celati
(1) Venezia, co' tipi del Gondoliere, 1839-41.
(2) Padova, alla Minerra, 1828.
(3) Venezia, co' tipi di Laigi Plet, 1836.
(4) Venezia, nella tipografia di Alvisopoli, 1845.
(5) Le Uriche di L. C, noU storico-Uttsrarié, Camerino, tip. Sarini, 1896.
(d) Ptr la cHationt di L, C.fra i traduttori di Ftdro, Piacenza, stab. tip. Piacentino, 1899.
(7) L. C, nella Nttoca Riftista, Torino, tip. A Baglione, 1883. an. Ili, toI. V, pp. 9-10, 21-22,
30-32, 54-56, 66 68, 81-83, 89-90, 102-104.
(8) D0Ua vita $ dtlU op«r$ di L. C. Studio, Lanciano, R. Carabba, 1899. Vedi questo Oior-
nak, XXXIV, 254,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 181
dovea trarre la vita intera. Dai luoghi a pie' del Montello (1), ove il padre
lo condusse giovinetto, e dagl' insegnamenti di tre buoni preti, ultimo dei
quali Giovanni Piva (2), fondatore dell'Accademia degì Invulnerabili, il
quindicenne fanciullo, noto fra gì' Invulnerabili col nome di Irischiopato
(affezionato alla religione), apprese ad amare la natura e la poesia. La fama
di Tommaso Sgricci (3), che, nota giustamente il S. (p. 18), non fu mai
udito dal Garrer, lo animò ad improvvisare molte tragedie, di cui una sola
sopravvive, la Morte di Agag, impressa nel '18 insieme col suo primo
Saggio di poesie (4). Il cattivo successo della Sposa di Messina (5) e i con-
sigli del Pezzoli, del Monti e d'altri ancora lo distolsero ben presto dalle
facili lusinghe della poesia estemporanea, e lo incamminarono per una via
migliore e gloriosa.
Su l'operosità letteraria del Garrer dal '22 al '32, quando, compiti gli
studi legali, fissò la sua dimora a Padova, e qual direttore della tipografia
della Minerva, attese a nuove edizioni di classici e a comporre le sue bal-
late migliori, versi e prose d'ogni genere, molti particolari più o meno co-
nosciuti raccoglie il S. in un capitolo (pp. 27-42) chiaro e conciso, la cui
brevità ci « stringe a seguitare alcuna giunta ». — Ghe il Garrer abbia
insegnato un anno grammatica nel ginnasio comunale di Gastelfranco, alter-
nando con gli studi severi i sollazzi di una lieta brigata d'amici (p, 27), è
verissimo; ma in questo luogo era opportuno accennare all'Accademia dei
Filoglotti, istituita a Gastelfranco da Sebastiano Soldati il 20 settembre
del '15, con lo scopo « d'inculcare lo studio del nostro idioma per farne uso
«e e nelle letterarie discussioni e nelle memorie scientifiche ». In un'adu-
nanza annuale de' soci il Garrer lesse II Libano e La Poesia dei Secoli cri-
stiani, e nel '23 cooperò con l'ode La Meditazione ad una manatella di
versi, dai Filoglotti dedicati a mons. Jacopo Menico, eletto allora vescovo
di Geneda (6). — Altre notizie, e alcune gustose, né per ciò al poeta irrive-
(1) Cff. Malamaki, Op. cit., p. 9; C. Aonoletti, Treviso e le sue pievi, Treviso, tip. Turazza,
1898, pp. 656-61.
(2) Elogio di D. Giovanni Piva prete viniziano scritto da Pier- Alessandro Paravia iadrense
e pubblicato nel solenne ingresso a parroco di S. M. Gloriosa de'' Frari del Rev. sig. D. Luigi
ZentiUi da Giuseppe Battaggia, In Venezia, pel Picotti tip. editore, 1823, pp. 4, 16-17.
(3) TI S. avrebbe dovuto ricordare Top. di G. Volpi, Tommaso Sgricci improvvisatore di
tragedie, Pistoia, tip. G. Fiori, 1897, e su di esso questo Giornale, XXX, 359.
(4) Saggio di poesie di Arminio-Luigi Carrer italiano da Venezia, pubblicate Vanno XVIIl
dell'età sua, Venezia, presso gl'editori F. Zanotto e comp., 1819, in-16°, pp. 279. Questo volume,
adorno di ritratto e di una Pistola di Luigi Pezzoli al C, a guisa di prefazione, dovea essere
seguito da un secondo. Contiene : La morte di Agag, tragedia. Odi, Sonetti, Jdillj, Cantici, Inno
a Tersicore. In fine v'ha l'elenco degli associati per l'acquisto dell'opera e l'annotaz.: « finito
« di stampare in questo giorno 15 luglio 1819 coi tipi di Francesco Andreola ».
(5) Cfr. L. Pezzoli, Discorso sopra la rappresentazione della Sposa di Messina, tragedia di
L. A. C, Padova, dalla tip. Crescini, 1822, in-ie", pp. 46, e su tal proposito G. Biakchini, L. C.
fra lettere ed amici, Verona-Padova, frat. Drucker, 1900, pp. 5-6.
(6) Alcune poesie di argomento sacro deqli Accademici Filoglotti di Castelfranco dedicate a
mons. Jacopo Monica nell'ingresso suo vescovile a Ceneda, Padova, tip. della Minerva, 1823
(nella prefaz. si leggono alcune notizie su l'Accademia e a p. 105 l'ode del C); L. Puppati,
Degli uomini illustri di Castelfranco, Castelfranco, tip. di G. Longo, 1860, pp. 48-51.
182 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
renti, si possono desumere dalle lettere ad Jacopo Vincenzo Foscarini in-
torno al matrimonio del Garrer con Brigida Crescenzi (1), compiutosi nel
settembre del *26, all'affetto primo dei poeta per la donna, da cui più tardi
doveva separarsi, alla sua gioia infinita allor che, nel giugno del 'k:7, « Bigia »
gli donò una bambina. Elena, un « pezzo de tosa », co' « capelli lunghi
« mezzo dito, un par d'occhi neri traforelli che bruciano, ed una voce acuta
€ e forte per guisa da farsi sentire da tutto il vicinato » (2). — Al '26, più
tosto che al decembre dell'anno dopo (p. 34), è da ascrivere il principio del
poema La Fata Vergine'., come ci assicura la lettera del 26 luglio '26 al
Foscarini: « 1 particolari del mio matrimonio domanderebbero un assai lunga
€ cicaleccio... Ti basti sapere che sempre più mi compiaccio della fatta
« scelta, e mi pare che questa Brigida sia pur quella donna che mi conve-
« niva.... In onta alle sposarecce faccende, giacché non ci son più che tre
« mesi a dar un addio al celibato, ho scritto molti versi della Fata Vergine^
€ che per compiacere al tuo gusto e a quello degl'Italiani in generale, verrò
« componendo in ottave anzi che in isciolti, come avea cominciato » (3).
Ma l'opera proseguì a lenti passi, tant'è vero che nel '49 il poeta, da chiuso
morbo combattuto e vinto, terminava il canto decimoterzo, che non doveva
esser l'ultimo della fantasiosa epopea (4). — Brevemente accennando alle
raccolte di versi, che il Garrer die' fuori avanti il '32, bisognava rendere
più notevoli (p. 33) le poesie edite nel *27 per le nozze Marchettani-Gavalli (5),
in cui appaiono per la prima volta raccolte insieme alcune delle liiiche
migliori e segnatamente La Fvga Amorosa., che è la prima ballata roman-
tica, composta dal Garrer e poi ritoccata nelle stampe successive. — Nella
primavera del '30 in compagnia di Benassù Montanari il poeta veneziano
visitò la Romagna (p. 39). Fra i particolari di questo viaggio, a torto ne-
gletti dal S., non si doveva, a parer nostro, dimenticare l'amicizia, onde il
(1) Ltitere di L. C. a J. V. Foscarini, nel Museo Civico Correr, Autografi, B, 448. Da questa
preziosa raccolta furono estratti gli opuscoli: Alcune lettere inedite di L. C. n J. V. F. (1826-30),
per nozze Trentinaglia-Scolari, Venezia, tip. Naratovich, 1865; Lettere d' illustri italiani con
akuuf: poesie inedite di L. C, per nozze Boschetti-Tozzi, Venezia, tip. Antonelli, 1866. Un di-
screto materiale di notizie circa la dimestichezza del Carrer col Foscarini oflFrono le Pottie di
J. 7. F., nel Museo Civico Correr, B. 510-11, ove parecchi componimenti lirici alludono ai casi
della vita e alle opere del nostro autore. Tutto questo il S. omette ; ma per lo contrario chiama
la moglie del C. col suo vero nome, tramutato in Brigida Palicalà o Folicalà da G. Vilodo (Delta
vita e degli scritti di L. C, discorso, Venezia, A. Filippi, 1851) e 0. Vknakxio {Cotnentario d*Ua
vita e delle opere di L. C, nelle Poesie di L. C, Firenze, Le Mounier, 1854 e 56, p, xiv), e cosi
rimasto nelle Op. cit. del Malamam e del Crovato.
(2) LetUre cit.. n» 24, 1* luglio 1827.
(8) LetUre cit., n« 28.
(4) Su questo poema e su i sei frammenti, editi dal '40 al '63 in occasioni di notxe, ▼. Biak-
CBiM, Op. cit., pp. 10-11 e n.
(5) Poesie di L. C, Padova, nella tip. del Seminario, 1827. in-ie», pp. 48. 11 volume, prece-
duto da un'epigrafe dedicatoria di Giuseppe Angelo Trivellato a Marianna Marchettani, contiene
dieci sonetti. Il Libano, Im Poesia de' secoli cristiani. La Jleditasione, Per valentissima canta-
trice. In morte di giovine sposa. La Fuga Amorosa. Di alcuno di questi componimenti, stampati
da prima in foglietti volanti, ù trovano preziosi esemplari nel Museo Cirico di Pmlovi, eh.» pos-
siede forse la migliore raccolta degli scritti a stampa del C.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 183
poeta si legò a Carlo Pepoli, cospiratore e letterato, fermo nell'amore al-
l'Italia, il quale lo presentò alla contessa Teresa Malvezzi, donna eulta e
ospitale a quanti forestieri di grido passavano per Bologna (1). — Affranto
dell'ostinato lavorio intellettuale, consolò le sue sofferenze tra gli amici e
gli ammiratori, il S. ne enumera alcuni (pp. 30-2), e i principali raccoglie
nei salotti d'Isabella Teotochi-Albrizzi, di Giustina Renier-Michiel, di Marina
Querini-Benzon, di Adriana Renier-Zannini (pp. 52-9); ma molte altre dame
aprivano in quegli anni i loro palazzi a dotti ed eleganti ritrovi ; uno studio
de' quali, senza che perciò vogliamo rimproverare il S., potrebbe conferire
moltissimo alla conoscenza della vita veneziana al tempo del Carrer, che le
consuetudini molli e voluttuose de' suoi giorni ritrasse in due liriche argute
del tutto ignorate: Rococò a Venezia e A Lattuca poeta epistola confor-
tatoria (2). — Il Manzoni, il Torti e il Grossi encomiarono i versi del Carrer
(pp. 41-2); ma a lui, studioso della storia letteraria, dovè tornar gradita
l'amicizia di alcuni dotti fiorentini e nominatamente di Gian Pietro Vieus-
seux, come ci attestano tre lettere, con le quali ei dichiara all'erudito gine-
vrino di accettare la cooperazione neìV Antologia, e gli presenta Stefano
Du Prè (3).
Da Padova, ove per due anni fu assistente nell'Università alla cattedra di
filosofia teoretica e pratica, il Carrer venne il '32 a Venezia (pp. 43-69).
Stretto in amicizia con Paolo Lampato, editore, diresse fino al '43 il Gon-
doliere, che diede il nome alla tipografia, e pose mano a prose e a poesie,
aàV Anello di sette gemme e alla Biblioteca classica italiana di scienze, let-
tere ed arti, di cui comparvero, in luogo di cento, solo ventisei volumi (4).
Le lettere del Carrer a Bartolomeo Serio (5), dimenticate dal S., e di Adriana
Zannini al Montanari possono gettar luce su la « bella e utile e onorevole
(1} Cfr. G. Gamdolfi, La contessa Teresa Malvezzi e il suo salotto (1785-1859), Bologna, Za-
nichelli, 1900, p. 153.
(2) Il Gondoliere, an. VI, n° 7, 17 febbraio 1838, pp. 54-55 e an. Vili, no 2, 11 gennaio
1840, p. 15.
(3) Carteggio di 0. P. Vieusseux, nella Bibl. Nazionale di Firenze, cass. A- 19, n° 14-16.
(4) Di ventisei e non di ventisette volumi, come affermano il Crovato e il S., consta la Biblio-
teca classica, la quale esordì con II Tesoro dt Brunetto Lntini volgarizzato da Bono Giamboni,
nuovatnente pubblicato secondo Vedizione del MDXXXIll, Venezia, co' tipi del Gondoliere, 1839,
voi. due, in-26°, pp. xxiv, 285, 431, e si chiuse con le Descrizioni di cose naturali, ivi, 1841,
in-26*^, pp. XIII, 352. Al voi. I precede il discorso del C. sul metodo e su l'indole della Biblioteca
(pp. 1-27), ristampato poi nelle Prose cit,, voi. I, pp. 213-26, e il prospetto delle classi onde
la raccolta doveva dividersi : I. Religione ; II. Filosofia speculativa e pratica ; III. Matematiche
pure e applicate; IV. Fisica e scienze naturali; V. Legislazione politica e commercio', VI. Eco-
nomia domestica, agricoltura ed arti meccaniche; VII. Medicina e chirurgia; Vili. Storia, geo-
grafia e viaggi; IX. Letteratura; X. Poesia; XI. Yaria erudizione e mateohgia; XII. Arti
belle. Pur recando il suo incremento a ciascuna delle classi accennate, la Biblioteca non segni
nelle sue pubblicazioni un ordine stabilito, tant'è vero che alcuni considerarono VArte della Per-
fezion Cristiana del cardinale Sforza Pallavicino, Venezia, 1839, si come l'inizio della serie,
formando essa il voi. I della classe I.
(5) G. BiADEOo, Lettere inedite di L. C, per nozze Gasperini-Bianchi, Verona, C. Civelli, 1879,
prefaz. Vedi anche Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli, scelte ed annotate da G. Gotti.
Venezia, tip. Antonelli, 1886, e sa di esse questo Giornale, Vili, 447-51.
184 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« impresa » della Biblioteca e su le dolorose vicende della tipografia, che
tante aniarezze recarono al poeta. Questi, fra le angustie domestiche e
gli studi mirabili di pazienza e di buon giudizio, ottenne, 1' 8 novembre
del '42, per concorso (1), la cattedra di lettere italiane e di geografia nel-
l'I. R. Scuola Tecnica, allora istituita a Venezia; ma il cruccio per l'umile
ufficio, a cui necessità lo condannava, e la malferma salute non gli permi-
sero d'attendere al dover suo con amore, tanto che due volte chiese alcuni
mesi di riposo, durante i quali fecero le sue veci Pietro Ferrato e Bene-
detto VoUo. Compiuto il triennio didascalico « con piena soddisfazione del
€ direttore », egli stava per essere confermato nell'ufficio ; quando la morte
di Marc' Antonio Corniani, primo conservatore e direttore del Museo Civico,
gli offi*ì il mezzo di conseguire, dopo mille impacci, un posto più decoroso e
più adatto alla sua salute. L'anima del poeta, di cui la fortuna si burlò sino
alla fine, tornò presto alle prese con la dura realtà: il 29 marzo del '47 gli
moriva l'unica figliuola (2). Anche su tali avvenimenti, accompagnati da
ansie, da timori, da disgusti, il S. s'affretta più che non avesse dovuto ;
poiché siamo persuasi che un attento esame dell'epistolario carreriano di
questi anni avrebbe giovato a meglio definire la natura di lui, sempre triste,
accorato e presago di nuove sventure.
Il capitolo migliore e più originale del volumetto (pp. 70-101) è consacrato
alle quarantottate veneziane e alla parte non punto gloriosa, che vi ebbe
il Carrer. Nel momento più agitato e fecondo della preparazione al risorgi-
mento italiano, prestò l'opera sua nel nono congresso dei dotti (13 set-
tembre 1847), che fu una vera manifestazione nazionale (3); compose tre inni
guerreschi (4); dettò per la Gazzetta uno scritto pieno di ebbrezza su la
cacciata degli Austriaci. Ma quando la superba esplosione popolare, simile
ad improvviso scoppio di vulcano, creduto spento da secoli, percosse e illu-
minò Venezia, ogni entusiasmo svanì; e, come ci attestano le sue lettere,
due satire e alcuni frammenti, che il S. ci fa conoscere per la prima volta
(Appendice, pp. HO-52), egli non badò ad offèndere il gagliardo sentimento
de' cittadini più autorevoli. Ritornati gli Austriaci, le sue poesie patriotiche,
ristampate e appese a' canti della città, servirono al governo per destituirlo
dall'ufficio; nel quale più tardi, grazie alle vive insistenze del podestà e del
patriarca, fu reintegrato (5).
La tisi tubercolare, che da sett'anni logorava il corpo esile del poeta,
stava per compiere l'opera sua distruttrice. Le lettere da lui scritte nel *50
(1) Con lui {\irono proposti in terna Ercole Maresiesi e Francesco Bnchinger. Queste notitie ri
possono desamere dal protocollo della Scuola negli anni 1842-46.
(2) Poesit, Firenze, Le Mounier, 1856, pp. 90-93.
(8) Fratto del congresso fu Pop. VeiUMia « U au« lagutu, Venetia, stab. Antonelli, 1847, in
cui si leggono due studi del C. intorno alla letteratara e al dialetto veneziano, a Chioggia e
alle isole.
(4) Odi poktiche $ aoHétti di L. C, per cura di P. Ferrato, Firenze, Le Mounier, 1868,
pp. 6-12.
(5) Cfr. BuncHisi, Op. cit, pp. 17-22.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 185
al fratello Pietro e alTamico Montanari (1), che noi avremmo voluto veder
ricordate più di sovente dal S., mandano singhiozzi di desolante amarezza
e di pia rassegnazione. La nobil donna Adriana Renier-Zannini, da lui amata,
e, com'è opinione d'alcuni, celebrata in due liriche, Il Voto e II Lamento (2),
accolse l'infermo, e con affetto di sorella gli fu prodiga d'ogni conforto. Il
4 decembre dettò il testamento, dichiarandone esecutore il suo coinquilino
Vincenzo Busetto ; pagina riboccante di affetto e di fede, ove sono in ispecie
ricordati la moglie, da cui era separato non legalmente, il fratello Pietro,
erede residuano, e il prof. Pietro Canal (3). Venti giorni dopo egli moriva,
pianto e commemorato dai migliori cittadini, che gli decretarono ne' chiostri
di San Michele di Murano una tomba marmorea e un' iscrizione. Varie epi-
grafi furono proposte, e, notevole fra le altre, quella di Pier Alessandro
Paravia, che alcuni riportarono, come se fosse incisa nel monumento (4).
In questo si leggono in vece le semplici parole di Giovanni Veludo : A Luigi
GaRRER I POETA E PROSATORE | IL CONSIGLIO | COMUNALE | DEL Di' XIV DICEM-
BRE MDCCCLII j PER UNANIME VOTO | l'aRCA E QUESTA MEMORIA. NoH SÌ COn-
facevano soverchie lodi ad un uomo, che, fra il divampare della rivoluzione,
avea dileggiato col suo non retto procedere ogni alto sentimento patrio, e
(1) Musep Civico di Padova, Autografi, no 172 ; Bibliot. Comunale di Verona. Per le lettere a
P. Carrer vedi C. Cimegotto. Da lettere inedite di L. C, nel Bollettino del Museo Civico di Pa-
dova, II, 70-6, e per l'ultima lettera del poeta al Montanari (8 dicembre '50), Bianchini, L'ultimo
addio del poeta, nélVAlbo nuziale Bolognini- Sor mani. Verona, G. Franchini, 1900.
(2) Poesie di L. C, ediz. cit., pp. 33-4, 122-24. Intorno ad' Adriana Renier-Zannini, vedi
G. Vklcdo, Adriana Renier-Zannini, cenno delki sua vita, estr. dall' Arc/iij;*o Veneto, Venezia,
tip. del Commercio di M. Visentini, 1876; P. Fbbbato, Della vita e degli scritti di A. R. Z.,
Mantova, tip. Balbi ani, 1876 ; U. Saileb, Un'altra pagina delle Serate Veneziane, nella Strenna
di Primavera, Venezia, 1884, pp, 3-20.
(3J Archivio di Stato di Venezia, I. R. Tribunale Civile in Venezia, an. 1850, Sez. E., n" 4544.
Mette conto di far noto un breve passo del testamento: «... Lascio a mia moglie Brigida Cre-
« scenzi austriache lire due e centesimi cinquanta il giorno, vita di lei durante da pagarsele dal
« prof. Pietro Canal del fu Agostino, giusta contratto con lui concluso il giorno due dicembre di
« questo stesso anno mille ottocento cinquanta, N. 1293, Atti del dott. Luigi Dario Paolucci. Oltre
« a ciò lascio ad essa Brigida Crescenzi mia moglie, per segno di particolare affezione, il mobi-
« liare, biancherie, posata d'argento adoperata già dalla nostra figlia Elena, e ciò tutto in somma
« che si trovi avere ella presentemente nelle sue mani, cose di cui da più anni le ho conceduto
« l'uso ; non che la posata d'argento che adopero io quotidianamente, ed un orologio d'oro avente
« nel quadrante una figura di donna con un bambino, e attaccata per catena una smaniglia pur
« d'oro ». Il poeta abitò a Venezia da prima in campo Sant'Apollinare e poi in Frezzeria, n" 1626,
e la moglie sua a San Luca, n° 4521. Su le case, ov'egli dimorò, sorse pili volte fra' cittadini il
desiderio, non ancora messo in effetto, di collocare una lapide. Cfr. F. S. Fapanki, Saggio di
iscrizioni per indicare la casa d'alcuni veneziani illustri, Bibl. Marciana, it. ci. VII, cod. 2400.
(4) Cfr. J, Bbbnardi, L. C, nel Cimento, an. II, serie 2a, voi. Ili, p. 73; E.Livebikbo, L. C,
nella Rivista contemporanea, &n. II, voi. II, p. 797; Cbovato, Op. cit., p. 97. L'annunzio della
morte del poeta fu ristampato da G. B. Contabiki, Menzioni onorifiche dei defunti, Venezia, tipo-
grafia Perini, 1851, p. 38. Circa il busto marmoreo, opera dello scultore Giuseppe Soranzo, a lui
eretto nel Pantheon del Palazzo Ducale con un'iscrizione di G. Veludo, vedi Inaugurazione del
butto di L. C, estr. dall'ArcAiPio Veneto, t. XV, P. I, Venezia, tip. del Commercio di M. Vi-
sentini, 1878, e per alcuni dibattiti sorti dianzi. Il Tempo, 17 marzo 1871; L'Osservatore di
Venezia, 25 marzo 1871; F. S. Fapansi, Di alcuni grandi italiani i centenari celebrati, le case
additate ecc., Bibl. Marciana, it. ci. XI, cod. 208.
186 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
che il Tommaseo, da prima suo lodatore, chiamava nel decembre del "52:
anima < squisitamente vile » (1). Del Carrer si conservano tre ritratti: il
primo a diciott'anni, posto in fronte alla stampa delle poesie giovenili; il
secondo a trentatre, tolto da un quadro ad olio di Michele Fanoli, conservato
a Savonara nella villa del conte Gittadella-Vigodarzere, ove il poeta è rap-
presentato nelle sembianze di Bordello; il terzo degli ultimi anni, impresso
in un'edizione postuma delle ballate (2).
Di tutti questi particolari , alcuno certamente importante, non appare
traccia nel libro del S. ; il quale, come chiaro sembra, si propose di mettere
innanzi il resultamento delle sue ricerche conscienziose, dicendo poche cose
ed esatte, e sceverando la sua narrazione da tutto ciò che potesse impac-
ciarne lordine. Tolti i difetti, che noi, con la solita franchezza, volemmo
emendare, il volumetto del S. è senza dubbio la migliore e più veritiera
biografia del Carrer. È però un male che, per cagioni indipendenti dalla
sua volontà, il S. non abbia potuto dar fuori insieme con la vita del poeta
lo studio intorno alle opere. Se di queste egli avesse discorso, di mano in
mano ch'ei tratteggiò le vicende dell'uomo sfortunato, il volumetto sarebbe
riuscito di gran lunga più attraente, e meglio avrebbe giovato a delineare
il carattere morale dell'autore. Non a tutti gli scrittori, che son di fama
noti, può convenire uno studio di tal fatta; ma, a nostro avviso, lo richiede
il Carrer. Semplice e il più delle volte elegante, popolare e facile, egli, per
volger d' anni, non perdette mai « la caduca virtù del caro imaginar »,
rappresentando ed esprimendo sempre sé stesso senza esagerazioni. Ciascun
tratto della sua indole risponde a un tratto affine negli scritti, sia che,
stretto dal bisogno, tutto si dedichi alle indagini critiche e alle opere, per
que' tempi, lodevoli di erudizione, sia che, incalzato dai dolori e dalle spe-
ranze, verseggi, abbracciando l'anima con una tenerezza calma a profonda.
Giuseppe Bianchini.
(1) Il secondo esilio, scritli concernènti U cose d'Italia « d'Europa dal 1849 in poi, Milano,
F. Sanvito, 1862, voi. I, pp. 227-8. Ma son pur da ricordare A^uori scritti, Veneiit, co' tipi del
Gondoliere, 1838, voi. I, pp. 101-2; Ditionnrio estetico, ivi. 1840. pp. 70-71, 465; Stitdt erttki,
Venezia, A. Andruzzi, 1843. P. I, p. 317 e P. II. pp 132, 330, 331. 343-44, 355-56; Osserta-
Mioni sopra le lettere critiche di G. Barbieri, Padova, co' tipi della Minerva, 1824. p. 3, n. 1.
(2) Vedi Saqgio di poesie già cit. ; Poesie, ediz. Le Monnier già cit.; Ballate edite ed tneditt
di L. C, Venezia, tip. Cecchini, 1852. Cfr. L. Escoluki, Cenni biografici sulla 9ita t sulk
opere di L. C, Milano, presso l'afBcio del Cosmoraina pittorico, 1851, p. 13; Bkskabdi, Op. cit.,
p. 73. IJ. MoNTAKABi ( Vèrsi e Prose, Verona, tip. Antonelli, 1854. voi. I. pp. 99-111) cori ne'
Tersi In morte di L. C. descrive il quadro del Fa/ioli :
Mio Michel, ben fa accorto il tao pennello,
quando del Pargatorio la salita,
di Mantova co' due Maro e Sordello.
sul margin della Brenta bai colorita,
e a Sordello dato bai, vate ed amante,
di Luigi rìmmagine gradita.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
CARLO CIPOLLA. — Monumenta novaliciensia vetustiora. Rac-
colta degli atti e delle cronache riguardanti l'abbazia della
Novalesa. Due volumi. — Roma, a cura dell'Istituto storico
italiano, 1898-1901 (8° gr.; I, pp. xx-448; II, pp. 394, coft
14 tavole illustrative allegate ai due tomi).
Nuova e ragguardevole benemerenza s'è guadagnata l'Istituto storico ita-
liano con la stampa di questi due magnifici volumi, che ci conservano, rac-
colti con ogni cura, editi con ogni miglior industria critica, i documenti d'una
celebre abbazia medievale, appollaiata sull'Alpe che divide l' Italia dalla
Francia, spettatrice de' grandi fatti che seguirono a' piedi di quei suoi monti,
ricettacolo di coltura in tempi torbidi. Fondata nel 726 dai Franchi, l'abbazia
benedettina della Novalesa godette di larga fama letteraria ed ebbe una
biblioteca preziosa sino al sec. X, in cui l'incursione saracena le diede fie-.
rissimo colpo, distruggendo o disperdendo buona parte di quella raccolta di
codici. Risorse bensì, poco appresso, e rivisse con vari destini, di nuovo in
mano ai monaci di S. Benedetto e, nei tempi ultimi, ai Gisterciensi, ma
l'antico splendore non raggiunse più mai.
Pubblicare ed illustrare i documenti storici di quel venerando monastero,
rintracciare con cura amorosa le reliquie di quella antichissima biblioteca,
che alle porte d'Italia onorò il sapere italico non meno di quelle di Monte-
cassino e di Bobbio, è opera che se riesce preziosa per le discipline paleo-
grafiche e di storia ecclesiastica, non meno gradita dev'essere agli indagatori
della storia delle lettere. A siffatta laboriosa ed ardua investigazione il Ci-
polla si preparò di lunga mano, con quello zelo pertinace e quel sapere
profondo che in lui sono superati unicamente dall'acume dello ingegno; e
dal 1894 in poi venne pubblicando una serie di scritti intorno alla storia ed
ai codici della Novalesa, che in gran parte vide la luce nelle Memorie della
R. Accademia delle Scienze di Torino (1). Le notizie là ed altrove disse-
(1) Sono sette monografie di varia dimensione, fregiate di pregevoli facsimili, che possono ve-
dersi enumerate nell'indice alfabetico generale che è in fondo al voi. I, serie II, delle summen-
zionate Memorie. Altri articoli complementari del Cip. sai medesimo soggetto comparvero nel
voi. 31 degli Atti dell'Accademia delle Scienze e nei fascio. 18 e 22 del BulUttino dilV Istituto
storico italiano. v
188 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
minate sono raccolte sotto brevità nella VII sezione del I volume dei Mo-
numenta^ che s' intitola Elenchus codicum manuscriptorum^ e sono comple-
tate nella sez. X (Anecdota novissima) del voi. II. Codesti codici, quasi tutti
d'argomento sacro od ascetico, si trovano ora, in gran parte frammentari,
nell'Archivio di Stato ed in quello dell'Economato di Torino, nella biblioteca
Phillips di Cheltenham, nella collezione Hamilton passata a Berlino. Se
codeste indagini valgono a ricomporre in parte quei tesori bibliografici
dispersi e mutilati, il rimanente del I volume, col codice diplomatico, coi
necrologi, con gli elenchi degli abati, con le vite dei monaci e le notizie di
S. Eldrado ecc. ecc., offrono il materiale più sicuro per ricostruire la storia
della celebre badia. Né solo questo; ma il ricchissimo corredo di cui si
fregia il primo volume può dirsi il migliore sfondo su cui si profila quella
ingenua e caratteristica scrittura della seconda metà del sec. XI, che è il
noto Chronicon Novaliciense.
Occupa questo Chronicon, con le illustrazioni che lo precedono e che lo
accompagnano, buona parte del voi. II dei Monumenta. E ben naturale
che ad esso il Gip. consacri la maggiore attenzione. Quel testo era già stato
prodotto per le stampe dal Muratori, da G. Gombetti, da L. Bethmann; ma
qui si avvantaggia di novissime cure. 11 Gip. ha ripreso in esame il rotolo
originale di esso, che è nel R. Archivio di Torino, e dopo una sottilissima
analisi paleografica è giunto a concludere che è probabilmente tutto della
medesima mano, che forse è la mano dell'autore stesso dell'opera (lì, 82).
Alle parti mancanti del prezioso rotolo supplisce il Gip. con gli estratti di
testi non conservati, che ce ne diedero antichi storici e critici. E sebbene
il nuovo editore replicatamente affermi di aver voluto fare soltanto opera
esterna intorno al Chronicon, senza sciogliere veruno dei gravi quesiti storici
ch'esso presenta, in realtà dà assai più di quanto prometta, poiché conclu-
dendo la prefazione (vedi II, 83 sgg.) determina il valore, il carattere, i fonti
del Chronicon, segnalando le particolarità che in esso sono degne di nota.
Malgrado gli errori che il Chronicon contiene, aflferma il Gip. ch'esso è opera
di gran valore anche per la storia, giacché il monaco autore registrò con
piena schiettezza ciò che vide, udì e lesse. Riferisce, pertanto, cose vere
miste alle false, e in quella sua ingenua esposizione largamente fiorisce la
leggenda. « Il nostro cronista, scrive il Gip., aveva anima di poeta. Né
« sempre si deve alla sua semplicità e bonarietà se raccoglie con tanta cura
« le leggende più strane e più puerili. Egli ne sentiva la poesia, e se ne
<i compiaceva. E qualche volta narrava ciò che aveva sentito dire, anche
« se sospettasse trattarsi soltanto di dicerie popolari. Il suo sentimento
« poetico gli fa provare tutta la dolcezza che ispira la contemplazione
«della natura, lassù sui monti imponenti, fra i quali celavasi la sua ab-
« bazia » (II, 92).
Questo particolare carattere del Chronicon ha richiamato sempre su di
esso la curiosità degli indagatori di leggende. Il Chronicon, come il Bartoli
bene osservò, « ci indica uno sviluppo, un atteggiamento che prese il rac-
€ conto storico, assorbendo in sé la tradizione popolare, conservandola, ripe-
« tendola, mescolando inconsciamente la verità storica alla finzione poetica,
« 0 in altri termini, dando alla leggenda il valore storico, e alla storia il
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 189
« colorito leggendario » (1). A leggende claustrali d'ogni genere sonovi acco-
state leggende epiche, alcune relative a Garlomagno ed alla lotta di lui contro
i Langobardi; altre ad un Gualtiero d'Aquitania, che sarebbe finito monaco
alla Novalesa dopo esser stato l'amante d'Ildegonda e dopo aver compiuto
eroiche imprese nella fuga insieme con lei dalla cattività di Attila. Tra
queste leggende le une sono probabili detriti di una specie di ciclo epico
italiano in formazione, destinato ad esprimere simpatia verso i Langobardi (2);
le altre si consertano all'antica tradizione germanica del Waltharius ed in
bizzarro modo la completano.
Nel L. Il del Chronicon, ove la storia di Gualtiero (3) è narrata (II, 135 sgg.),
sono anche riferiti molti versi del poema latino intorno a lui, che secondo
l'opinione oggi più accreditata fu composto nel sec. X da Eccheardo 1 di
S. Gallo. Il Gip., che con le sue erudite annotazioni tanto contribuì a chia-
rire il Chronicoti (4), toccò anche di questo soggetto, e riscontrò i passi
del poema riferiti dal cronista con la edizione del Waltharius data da
G. V. Scheffel e da A. Holder (Stuttgart, 1874). Siccome il II volume dei
Monumenta durò lungo tempo in corso di stampa, non gli riuscì di valersi
della migliore edizione che oggi si abbia, quella di Ermanno Althof. Del-
l'ottima opera dell'Althof è sinora comparsa solo la I Parte, che comprende
il testo, con una serrata e perspicua introduzione, ove sono riferite le molte
e varie opinioni espresse dai germanisti sull'origine, sulla composizione,
sulla data, sull'autore, sulla fortuna del tormentatissimo Waltharius (5).
Nel completamento della leggenda di Gualtiero, quale si trova nel Chronicon,
ritiene l'Althof non s'abbia a ravvisare un successivo ampliamento popolare
della tradizione, ma semplicemente un accostamento di essa ad una leggenda
locale della Novalesa, che si riferiva a un tutt'altro Gualtieri e che era con-
giunta di parentela alla leggenda carolingia di Guglielmo d'Orange (6). Ora,
che la principale leggenda di Gualtiero monaco, quella del suo furore guer-
(1) storia della letteratura italiana,!, 17. Cfr. anche Balzani, Le cronache italiane nel medio
età, Milano, 1900, pp. 174-76.
(2) Vedi questo Giornale, IV, 266-68.
(3) Vualtharius è la forma che vi assume il nome dell'eroe.
(4) Interesse filologico ha, tra codeste note, quella di II, 104, che riferisce una lettera del
rimpianto Flechia al Cip. intorno all'etimo di « Novalesa ». Scartate le etimologie popolari di
«nova lux» o «nova lex », il Flechia scrive: «L'aggettivo ' novalensis ' deriva dal latino
«'novale', terreno incolto (selva o sodaglia) ridotto a coltura; e fu nome primamente applicato
« alla valle, la quale nell'alto medio evo, dissodata qua e là per Io lungo, veniva a trovarsi piena
« di ' novali ', opera de' valligiani, romani o romanizzati ; e così la valle fu chiamata ' vallis
«novalensis', che sarebbe quanto dire 'la valle dei novali', e il nome 'novalensis' fu come
« sostantivo ritenuto poi specialmente dal villaggio che è in capo alla valle ».
(5) Waltharii Poesis. Das Waltharilied Ekkehards 1 von St. Oallen, Erster Teil, Leipzig,
Dietericb, 1899. Vedi la rilevante recensione di K. Marold nel Literaturbl. fur german. und
roman. Philologie, XXI, 235.
(6) Althop, Op. cii., p. 21 : « Wir haben hier offenbar nicht eine volksmassige Weiterbildung
« der deutschen Walthersage vor nus, sondern eine gauz willkUrliche, ausserliche Verkntlpfung
« derselben mit einer Novaleser Lokalsage von einem ganz anderen Walther, die ihrerseits wieder
« nahe verwandt ist mit der karolingischen von Gnillanme d'Orange ».
190 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
riero che gli ribolle un bel giorno sotto la tonaca e lo fa ridiventare d'im-
provviso il gran battagliatore d'un tempo, abbia riscontro in un fatto della
Conversio Othgerii militisi che a sua volta si ricollega al Moniage Guil-
laume, è cosa egregiamente provata dal Rajna (1); ma l'equivoco dell'au-
tore del Chronicon, per cui egli avrebbe fatto un personaggio solo di due
del tutto diversi, equivoco che molti, prima dell'Althof, hanno sostenuto, non
mi sembra in modo alcuno provato. Sia come si voglia, il completamento
che il Chronicon aggiunge al Waltharius, proprio nello spirito dei nioniages
francesi, è bellino assai, e nello scorgere quel frate aitante, che si lascia
spogliare dai nemici con santa rassegnazione, ma quando essi stanno per
strappargli le mutande perde la pazienza e mena giù botte da orbi, con una
vera voluttà, rompendo braccia e fracassando teste, come vien viene, non
possiamo a meno di rammentarci la simpatica figura di FanfuUa da Lodi,
uno dei tredici di Barletta divenuto monaco di San Marco, e poi di nuovo
soldato durante l'assedio di Firenze (2). R.
Biblioteca storico-critica della letteratura dantesca, diretta da
G. L. Passerini e da P. Papa. Disp. 11-12. — Bologna, Za-
nichelli, 1899 [ma in realtà 1900 e 1901].
VINCENZO RUSSO. — Per V autenticità della « Quaestio de
« aqua et terra ». — Catania, Giannotta, 1901 (8°, pp. 48).
Collezione di opusc. danteschi ined. o rari, diretta da G. L. Pas-
SERiNL Disp. 61-63. -- Città di Castello, Lapi, 1900 è 1901.
Alle nostre collezioni dantesche par non arrida quella fortuna, che sem-
brerebbe dovuta al loro valore intrinseco. Fu infatti nel 1899 che il conte
(1) La cronaca della Novalesa e l'epopea carolingia, in Romania, XXIII, 36 sgg. La dimostn*
zione del Rajna può essa avere, per avventura, qualche valore nel far ripensare alla cadata opi-
nione del Fauriel sull'originaria meridionalità dell'eroe? II Faurìel esagerava certamente assai;
ma il nodo fu forse dai germanisti più tagliato che sciolto.
(2) M'era occorso già di pensare a questo, quando m'avvenne di riscontrare il medesimo acco-
stamento nell'articolo di A. G. Barbili, Fra Geraldo e il suo poema. Afferma recisamente il
Barrili (Rass. nationale, voi. CXIV, p. 664) che dall'avventura di Gualtiero nel Chronicon No-
valiciense fu « ispirato Massimo d'Azeglio a collocare tra i frati di S. Marco, nel suo Niccolo de'
« Lapi, il bizzarro FanfuUa della Disfida di Barletta ». Proprio fu inspirato « direttamente »
dal Chronicon? Lo sa il Barrili per una attestazione esplicita del D'Azeglio medesimo, o è solo
una sua congettura mutata in certezza? Comunque sia, quel riscontro è forse l'unica cosa baona
in quel suo articolo poverissimo e arretratissimo sul Waltharius, che ha per fonte quasi unica
il Dn Méril! Prelude esso ad una versione poetica italiana del poema, inserita nel voi. 116 della
Rass. nasionale, la quale ha il merito di essere la prima riduzione in lingua nostra di quel do-
cuoiento medievale notevolissimo, che fu tradotto e ritradotto in tedesco tante volte e anche più
d'una in francese, e ad un gentile e fantasioso poeta di Karlsruhe, morto solo nel 1886, lo Scheifel,
offerse la materia d'un piacevole romanzo storico, lo Ekkehard. Vedi per l'elenco delle traduzioni
la 2» edizione del Potthast, Bibtiot. hist. medii aeei, I. 397 e Althof, Op. cit., pp. 57 sgg.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 191
Passerini, abbandonata la sua collezioncina umbra (cfr. Giornale, 34, 234),
ne fondò con Pasquale Papa una bolognese, che usciva coi migliori propositi,
sicché noi avemmo replicate volte a lodarla seguendone le pubblicazioni
(cfr. Giornale, 34, 422 e 35, 412). Ma dopo le prime dispense quella egregia
raccolta andò rallentando, sicché della prima annata (1899) si vide la fine
solo nel 1901. E con l'ultima dispensa venne l'avvertimento che d'ora in-
nanzi gli opuscoli zanichelliani usciranno a liberi intervalli e che ne sarà
unico direttore il prof. P. Papa. Il Passerini é ritornato alla sua vecchia
collezione di Città di Castello, della quale era uscita ramingando tapina, du-
rante il 1900, un'unica dispensa doppia, la 61-62. Speriamo che ripresa
dall'antico direttore quella serie di opuscoli continui a rendere sempre mi-
gliori servigi agli studi.
La prima annata, protratta, della Biblioteca zanichelliana termina come
principiò, presentando traduzioni di scritti inglesi osservabili.
11. — Contiene Edwards Armstrong, L'ideale politico di Dante e John
Earle, La « Vita nova » di Dante. L'articolo dell'Armstrong usci la prima
volta nella Church quarterly review del 1890, e allora valeva certo assai
più di quel che valga adesso. È specialmente uno studio riassuntivo della
politica di Arrigo VII di Lussemburgo, le cui idee sono raffrontate con quelle
contenute nei De Monarchia. E mentre da una parte si mostra quali diffi-
coltà incontrasse, nell'apprezzamento del pubblico di Germania e d'Italia,
non che nelle titubanze dell'imperatore medesimo, l'effettuazione dell'ideale
di Arrigo; dall'altra si confrontano le idee manifestate da Dante con quelle
di altri teoristi della politica a lui anteriori o contemporanei. Questa parte,
dal 1890 in poi, trovò trattazioni ben altrimenti approfondite e sicure che
quella dell'Armstrong: rammentiamo in particolar guisa quelle di C. Cipolla
e del Grauert. — Più importante lo scritto dell' Earle, che vide la luce
nella Quarterly review del 1896. L' Earle è un allegorista. Egli ritiene che
nella V. N. sia adombrato un concetto non dissimile da quello capitale che
è nella Commedia, il conflitto tra la Fede e la Scienza (1). Per lui Bea-
trice è nella V. N. la teologia, e la donna pietosa è la filosofia; teologia
non nel senso dialettico della parola, ma come principio di fede; quindi
l'A. scorge un vero parallelismo tra l'episodio finale della gran visione del
Purgatorio e la V. N. Su questa base il critico inglese costruisce uno
schema d'interpretazione allegorica della V. N. (pp. 63-68), il che non gli
impedisce di ammettere anche la possibilità d'una Beatrice reale e terrena,
e d'un amore del poeta per lei. Ma codesta realtà e codesto amore sono per
lui estranei al « motivo e all'origine della V. N. », perchè la V. N. è an-
zitutto « una storia allegorica del conflitto fra la Fede e la Scienza, e
« in questo conflitto sta il suo intimo e vero significato » (p. 78). L'A. la
considera siffattamente congiunta al concetto capitale della Commedia da
asserire in un luogo : « 11 sacro poema, mentre era ancora in preparazione,
(1) Che veramente questo conflitto vi sia nel poema non teniamo vero, come non crediamo fosse
mai neiranima di Dante. L' Earle parte da un presupposto fallace, e questo mina tutto il suo
«dificio.
192 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
€ gettò fuori la V. N. come un germoglio > (p. 71). — Noi fummo i primi,
e per molto tempo gli unici in Italia, ad accorgerci di questo scritto del-
l'Earle (Giorn., 30, 522), e quando toccammo della confutazione che ne fece
il Moore, non si trascurò di lamentare l'indifferenza dei dantologi nostri a
suo riguardo (Giorn., 36, 161, n. 1). Con ciò non vogliamo dire che TBarle
colpisca, secondo noi. nel segno, e che, nell'ordine dell'ipotesi realistica, non
gli muova obiezioni acute e calzanti G. Mazzoni (1). Ma siccome per noi
sull'interpretazione della V. N. non fu peranco detta l'ultima parola, questa
nuova ed ingegnosa dissertazione vuol esser tenuta nel debito conto.
12. — Edoardo Moore, L'autenticità della « Quaestio de aqua et terra >.
— Versione del VII saggio del II voi. degli Studies in Dante del Moore.
Chi scrive, ha largamente discorso di quella dissertazione nel Giornale, 36,
162-173, né qui accade ritornarvi sopra. E appena necessario rammentare
ai lettori, che la discussione fu dottamente ripresa da F. Angelitti (2), il
quale fece notevolissime osservazioni sul testo della Quaestio e concluse
ammettendo probabile che l'Alighieri l'abbia veramente dettata. Né del
Moore, né delle obiezioni nostre al Moore, né di quest'ultimo articolo del-
l'Angelitti mostra aver cognizione il prof. Russo, che mandò fuori a Catania
un nuovo opuscolo sulla Quaestio. Dispiace siffatta quasi incredibile igno-
ranza, perché torna tutta a suo danno. Buona parte, infatti, delle sue argo-
mentazioni e de' suoi riscontri era già stata proposta dal Moore, il quale
procede nel suo scritto con ben altro rigore di logica e severità di metodo.
Anche pel Russo la Quaestio con ogni probabilità appartiene a Dante :
l^ perché essa conviene per contenuto al tempo di cui serba la data; 2o, perchò
la trattazione geologica che vi é agitata rientra nelle dispute geologiche me-
dievali; 3», perchè si accorda con le altre opere dantesche; 4», perchè il
Moncetti non aveva coltura né ingegno atti a scrivere quel trattatello, che
egli anzi fu inetto a stampare correttamente.
Valore assai discutibile hanno le osservazioni del R. sul testo in cui ci
fu tramandata la Quaestio, perché egli non ricorse all'edizione principe, sì
bene a quella del Fraticelli, che mal la rappresenta. Nelle pagine concer-
nenti i riscontri particolari con altre opere sicuramente dantesche, abbiamo
già osservato che il R. fu prevenuto dal Moore. Qui peraltro merita nota
per la sua originalità l'opinione dal R. sostenuta che « la concezione poe-
« tica dell'assettamento del globo terracqueo dopo la caduta di Lucifero con-
« tiene il nocciolo della Quaestio » (p. 18), o in altri termini che la tesi
sostenuta nella Quaestio doveva già esser chiara nella mente del poeta
quando egli concepì i due primi regni sopranaturali e la emersione della
montagna dell'espiazione. Non è osservazione di gran valore pel quesito del-
l'autenticità della Quaestio; ma unita alle altre può aver qualche peso. —
11 R. ha poi il merito di aver tentato un po' di storia del problema geolo-
gico. Questo abbozzo storico, sommario e imperfetto, lo licenzia a conchiudere
che nei primi decenni del sec. XIV le dispute su quel punto (dell'emersione
(1) Nel BfUUtt. Soe. Dant$$€a, N. S., VI, 67 aff.
(2) BulUttino «opra citato, N. S., Vili, 62-71.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 193
dei continenti) dovettero spesseggiare, « e quindi era naturale che si sentisse
« il bisogno di una trattazione definitiva, esauriente » quale sarebbe la
Quaestio, le cui conclusioni « trionfano nel trecento e nel quattrocento »
(p. 12). E sta bene. Ma allora, perchè mai codesta tanto importante scrit-
tura sarebbe stata dimenticata così presto da tutti? Aggiunge il R. poco ap-
presso: «Dopo i viaggi australi e la scoperta dell'America le vecchie idee
« geologiche si dovevano modificare ; pure i filosofi peripatetici non molto
< se ne allontanarono e col solito bagaglio di principii della vecchia scola-
« stica e di biblici donimi seguitarono per un pezzo ancora a disputare »
(p. 13). 11 che contraddice a quanto è detto prima, e rende possibile che
con idee e procedimenti prettamente medievali, senza pur tradire la cogni-
zione di nuovi veri acquisiti alla scienza, un falsario qualsiasi (e vogliamo
anche ammettere non sia il Moncetti !) fabbricasse quel trattateli o nel quat-
trocento 0 nel cinquecento.
Alla soluzione del quesito gioverà, a parer nostro, massimamente la ri-
cerca storica che il R. accennò, dandone qualche saggio poco perspicuo e
traendone conclusioni affrettate. E necessario rintracciare e vagliare accura-
tamente quelli che si possono chiamare i legittimi antecedenti della Quaestio,
vale a dire ricostrurre la storia del concetto della terra emersa nella cosmo-
grafia antica e medievale. Quando questo si sarà fatto, potrassi finalmente
giudicare con sicurezza del posto che il problema occupava nelle menti degli
scienziati medievali e di quelli del rinascimento, e si potranno forse addi-
tare le vere fonti del De aqua et terra. — A questo lavoro, faticoso senza
dubbio, ma indispensabile a formarsi idea chiara e sicura sul tema, si è
accinto un nostro amato e stimato cooperatore, il p. G. Boffito, e fra non
molto si vedranno i primi frutti delle sue indagini.
Frattanto, per chiuder questo cenno già troppo lungo, diciamo poche pa-
role ancora delle novissime pubblicazioni uscite nella collezione dantesca
del Lapi, a cui con la disp. 63 fu ridonata l'opera direttiva del Passerini.
61-62. — Giuseppe Avalle, Le antiche chiose anonime alVlnferno
di Dante secondo il testo marciano. — Flaminio Pellegrini (Giorn., 14, 421)
e L. Rocca (Di alcuni commenti della D. C, pp. 85 sgg.) hanno chiara-
mente mostrato come il cod. it. 179 della classe IX della Marciana rechi
un testo più ampio e importante delle chiose antiche aWInferno edite dal
Selmi nel 1865, in confronto ai due mss. fiorentini su cui il Selmi appunto
si fondò. Senza ulteriori studi, il sig. Avalle stampa qui tutto intero (sembra
con diligenza) il commento del ms. Marciano alla prima cantica. È tanto
più un servigio in quanto che oramai da tempo l'edizione del Selmi è in
commercio irreperibile.
63. — Maria Zamboni, La critica dantesca a Verona nella seconda
metà del sec. XVIII. — Prolisso, prolisso, prolisso. Se a questo tema si
dedica un volumetto, e si riesce a trattarne solo una parte, per la storia
della varia fortuna di Dante ci vorrà un'intera biblioteca! Qui, in fin dei
conti, non si parla se non di Bartolomeo Perazzini e di Gian Jacopo Dionisi,
di quest'ultimo non solo esaminando gli aneddoti, ma discutendoli al lume
della moderna critica. L'opportunità di questa discussione è per lo meno
assai problematica. Più rilevanti i giudizi che la sig. Z. dà sul valore critico
GiortiaU storico, XXXVIII, fase. 112-113. 13
194 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
del Dionisi nel cap. IX; né senza importanza gli estratti dal carteggio del
Dionisi col Perazzini. Avendo TA. potuto disporre dei mss. serbati presso
la famiglia Dionisi, ci saremmo atteso che ci sapesse dire qualcosa di più
nuovo ed interessante intorno al suo soggetto. Anche la elabora/ione della
materia lascia a desiderare, specialmente per ciò eh' è dell'ordine. Dire
senz'altro errato il metodo critico del Witte nel rifare il testo della Com-
media (p. 18), è ingiusta esagerazione. Pel valore critico del Perazzini nel-
l'esegesi dantesca potevasi anche richiamare F. Cipolla in questo Giornale^
25, 342 sgg. Non si dovrebbe scrivere, neppure per svista, il Carlo Witte
(p. 73). R.
G. RIZZACASA D' ORSOGNA. — La foce che quattro cerchi
giugne con tre croci nel I del Paradiso. — Sciacca, tipo-
grafia B. Guadagna, 1901 (8^ pp. 28 ed una tavola).
È noto a tutti che, durante l'anno, il sole sorge per diverse foci, come
dice Dante; ma l'A. dell'opuscolo, che ora esamino, gli attribuisce una foce
sola e dice che questa è tutta la sezione o arco del Coluro equinoziale di
primavera, compreso fra il tropico di Cancro e quello di Capricorno, i
quali sono come le ripe o sponde della celeste fiumana corsa dal sole.
Cosi, secondo lui, la foce solare, che quattro cerchi giugne con tre croci,
sarebbe il detto arco di Coluro equinoziale, ed i quattro cerchi sarebbero
l'Equatore, i due Tropici ed il Coluro che li interseca.
Mi limito ad osservare che il Coluro equinoziale interseca anche i circoli
polari e gli altri paralleli formando una moltitudine di croci; che le tre
croci, prescelte dal Rizzacasa, non hanno comune il punto d'intersezione; e
che quindi queste non corrispondono al quesito dantesco, il quale richiede
che si determini dove si trovi il sole, quando congiunge quattro cerchi con
tre croci.
Gli antichi commentatori della Divina Commedia sono concordi nello am-
mettere che la foce, donde la lucerna del mondo con miglior corso e con
migliore stella esce congiunta, sia il principio del segno dell'Ariete, dove
s'intersecano l'ecclitica, l'equatore ed il coluro equinoziale di primavera; e
dicono che questi tre cerchi formano con l'orizzonte tre croci, senza però
determinarle.
Ebbene, io aggiungo che i piani di quei tre cerchi s'intersecano secondo
un diametro della sfera celeste e tagliano l'orizzonte, cerchio infinitamente
grande, generando tre rette passanti per uno stesso punto, le quali, combi-
nate due a due, formano tre croci; e che quindi il sole, quando entra nel
segno dell'Ariete (equinozio di primavera) e spunta all'orizzonte, congiunge
appunto quattro cerchi con tre croci.
Gonchiudo col consigliare il Rizzacasa a non mettersi nel pelago dell'astro»
nomia dantesca. P. G.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFIGO 195
PIETRO VIGO. — Le danze macabre in Italia. Monografia. Se-
conda edizione riveduta. — Bergamo, Istituto italiano d'arti
grafiche, 1901 {8« gr., pp. 182).
Lieta accoglienza ebbe nel i878 il libretto del Vigo sulle Danze macabre
in Italia, sebbene in molte parti tradisse inesperienza giovanile. Essendo
esaurita quella prima edizione, fu ottimo consiglio l'allestirne una seconda
aumentata e adorna di otto tavole accuratamente eseguite, tre delle quali
rappresentano (nel complesso ed in certi particolari) il celebre affresco mor-
tuario di elusone, altre due gli affreschi di Pisogne e della chiesa di S. Laz-^
zaro presso Como, due altre ancora il notissimo trionfo della morte del
Camposanto pisano, che oggi ei vuol attribuito al Traini, finalmente una
(ed è la più pregevole, perchè riproduce opera non molto conosciuta) la fu-
nerea cavalcata della morte, assegnata ad Antonio Crescenzio, che è a
Palermo.
Rispetto al testo, il lavoro ha pur sempre il pregio di essere l'unica trat-
tazione fatta ex professo della fortuna che ebbero certe rappresentazioni
mortuarie nel paese nostro; ma la mancanza di fusione della materia, che
si notava nella prima edizione, appare ancor più in questa seconda per le
aggiunte d'indicazioni nuove accostate alle vecchie. Noi abbiamo confrontato
le due edizioni, ed esponiamo qui le risultanze dei nostro confronto.
In sul principio il V. introduce opportunamente un capitolo proemiale sul
concetto e le forme rappresentative della morte, condotto in gran parte sulla
monografia della contessa Lovatelli intitolata Thanatos. Ma se adoperò molto
bene nel praticar quest'aggiunta, non sappiamo davvero spiegarci come abbia
voluto lasciar intatto il secondo capitolo, ove si accenna all'origine delle
danze ed ai loro rappresentanti tipici fuori d'Italia. È evidente che in questo
ordine d'indagini il V. non si è preso la briga di tener dietro a nessuna
ricerca moderna. Basti il dire che gli è rimasto ignoto l'opuscolo di W. Seel-
mann, Die Totentdnze des Mittelalters, Leipzig, 1893, che è, dal punto di
vista storico e bibliografico, il lavoro più compiuto e pregevole che si abbia
oggi sul tema. Conseguentemente anche egli non ha avuto sentore delle
osservazioni sul nome vero delle danze e sull'origine loro, che, togliendo le
mosse dallo studio del Seelmann, fece valere G. Paris nella Romania, XXIY,
129 (1). Il secondo capitolo del libro del V. sarebbe da rifare di sana pianta.
Venendo nel terzo capitolo a discorrere dei dipinti italiani, il V. dà nella
seconda edizione notizie più precise e particolari della bella figurazione mor-
tuaria di elusone e si estende nel descrivere quelle di Val Rendena nel
Trentino (2). Aggiunge pure la descrizione, che F. Ellon pubblicò nel vo-
ci) Oià altrore ci accadde di arvertire che in segoito a 4nell« importantissime osservazioni te-
niamo per fermo che le danze non si abbiano più a chiamare macabre, ras macabréé.
(2) Non sappiamo perchè egli continui a scrirere erroneamente (p. 35) Penzolo anziché Fin-
zolo. E ancor meno sappiamo perchè non citi sn qu^li affreschi trentini Tampio scritto di
D. LABaaioLLi, Una danMa dei morti del tee. XVI nell'alto Trentino, Tr»nto, 1896, che è solo
196 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
lume II del fìullett. senese di storia patria^ d'una copertina dei libri di
Biccherna migrata a Berlino, che reca una curiosa rappresentazione mor-
tuaria.
Tien conto nel quarto capitolo dell'affresco che si vede ancora nella cat-
tedrale di Atri ; ma tace affatto dell'altro che è a S. Maria in Piano presso
Loreto Aprutino, e sembra ignori su entrambi Tillustrazione erudita del
Pansa (1). Poco di nuovo aggiunge sul motivo affine del contrasto dei tre
vivi coi tre morti (pp. 53 sgg), né forse era in tempo di por mente al no-
vello esemplare di esso, segnalato di recente da chi scrive queste righe nel
chiostro di S. Maria di Vezzolano (2). — Dei trionfi della morte, che in Italia
piacquero ben più che le vere e proprie danze, parla nel quinto capitolo con
poche aggiunte. Il V., che pur fa valere con giusta critica l'idea dell'in-
flusso che su quelle speciali rappresentazioni esercitarono i Trionfi del
Petrarca, ha della bibliografia di questo soggetto informazione incompiu-
tissima (3). Sul bassorilievo di Napoli (p. 68), che ora è custodito nel museo
di S. Martino, volevasi richiamare la Napoli nobilissima, I, 92-93 (4), e
specialmente un articolo di G. Amalfi, A proposito di danze macabre, nel
Giambattista Basile, I, 58 sgg., ove attorno alla notizia del famoso silicio
sono raggruppati componimenti popolari e semipopolari svariatissimi in cui
ha parte la morte, che potevano giovare al V. per la considerazione del
lato letterario del suo soggetto (5).
Del resto, la considerazione letteraria, che è compresa nel capitolo settimo
e nei seguenti, palesa nel V. maggiore dimestichezza con le fonti che quella
artistica. Le due aggiunte più notevoli sono qui le seguenti: tre laudi della
citato da Astorre Pellegrini in un'appendice al presente volume del Y., in coi, con Ottino pen-
siero, rìprodnce esattamente le didascalie poetiche macabree di quelle danze. Cfr. in proposito
questo Oiornalé, XI, 115, m. 2.
(1) La Leggenda macabra in AbruMto, nella Rastegna abruaMese, II, 246 sgg. Avremmo desi-
derato qualche maggiore schiarimento sulla danza di Montebruno in Sabina, che il V. accenna
fugacemente (p. 43, n.). Egli si riferisce al Monaci, il quale veramente ha scritto Jionttbttono
e non Montebruno nel Giornale di fiìol. romanna, fiuc. 3, p. 243 n. E pare che in Sabina ve
ne sia anche un' altra a Poggio Mirteto, sulla quale pure richiamò 1' attenzione il Monaci nei
Rendiconti dei Lincei, ci. se. mor., an. 1896, p. 485. La Sabina, a quanto oppiamo, non è nel
centro dell'Africa, sicché fa meraviglia si debba ora proseguire a contentarci di questi acceani
cosi imperfetti.
(2) Vedi Emporium, XII, 1900, pp. 377 sgg. Oik in quell'articolo mi accadde di notare ««era
una specie di motto illustrativo delle rappresentazioni mortuarie quel concetto che trovò la sua
più famosa espressione nel Carro della mori» di A. Alamanni : « Fummo già come voi siete, | Voi
« sarete come noi ». Ma mi dimenticai di rinviare (nò il Vigo lo fa) ad una molto interewant»
raccolta delle espressioni di quel concetto, che l'eruditiitsimo Koehler trovò presso qnasi tatti i
popoli europei. Vedi lo scritto del Koihlbb, Dot Spruek der Toten oh die Lebendtn, ora ristam-
pato dal Bolte nelle Kteinere Schriften, II. 27 sgg.
(3) Si confrontino i rinvi! di questo Giornale, XXYII, 460, a coi si d«v« aggiunger* Io scritto
speciale del MOhtz, in La bibUofiUa, II, 1-2.
(4) Cflr. ora anche Salazab, in Flegrea, II, 4.
(5) Si noti per incidenza che a p. 71 il V. ripete l'antico errore per cui ri swsfaMO al Clovio
le miniature del Dante urbinate della Vaticana. Questa opinione ò ormai pieBUMate sfatata.
Cfr. Giom., XXX, 495 e l'articolo del periodico L'artt segnalato in questo Gtom., XXXTD, 461.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
197
morte, una abruzzese, le altre trentine (pp. 97-103), che parrebbero date
come inedite, mentre in realtà, se non tutte tre, certo due di esse erano già
a stampa (1): le didascalie in versi italiani d'un raro opuscolo parigino, che
reca la celebre danza del Holbein (pp. 119-122). Al qual proposito al V.
non sarebbe sfuggito un particolare importante se avesse avuto sott' occhio
qualcuna delle stampe originali francesi della danza del Holbein. Le quartine
italiane che egli riferisce non sono altro che parafrasi, più o meno libere,
delle quartine francesi inscritte sotto le incisioni di quel capolavoro dell'arte
grafica (2). Eccone qualche saggio :
Morbide donne, ricche et ociose
Levatevi et ndite la mia voce;
Dopo alcun giorno et anno dispettose
Verrete a sostener mia sorte atroce.
Percoterò il pastor d'aspra percossa,
E le sue pecorelle fien disperse;
Né sera Morte dal suo officio mossa
Per mitra o manto o cose altre diverse.
Mentr'io vo a visitar chi infermo giace
Pensandomi soccorrer al suo male.
La morte presta intanto mi disface
Perchè son, come lui, anch'io mortale.
L'uom eh' è nato di donna in questa vita
Poco tempo dimora e si distrugge
Tra la miseria, eh' è quasi infinita,
E come luce et ombra viene e fugge.
Levez vous, dames opulentes,
Ouyez la voix des trespasséz:
Apres maintz ans et ioure passéz
Serez troublées et donlentes.
Le Pasteur aussi frapperay
Mitres et crosses renversées;
Et lors quand je l'attrapperay,
Seront ses brebis dispersées.
Je pori le saint sacrement
Cuidant le mourant secourir.
Qui mortel suis pareiUement
Et comme lui me fault mourir,
Tout homme de la femme yssant
Bemply de misere et d'encombre,
Ainsi que fleur tost iinissant
Sort et puis fuyt come fait l'umbre.
^s'è in questo luogo trascurerem di osservare che rispetto alle numerose
propaggini della Visio Fulberti, cioè del contrasto fra l'anima ed il corpo,
su cui il V. pur si trattiene (pp. 106-110), andava menzionato oggi un la-
voro dottissimo ed acuto, condotto su larghissima esplorazione di testi, quello
di Th. Batiouchkof che si legge nel voi. XX della Romania.
Da quel che siamo venuti esponendo appare manifesto, se non ci ingan-
niamo, che nel ventennio crescente, corso tra la prima e la seconda edizione,
il V. non ha tenuto abbastanza dietro al cammino degli studi intorno al
suo soggetto, il che è davvero molto deplorevole, perchè, se lo avesse fatto,
questo suo lavoro, che non manca di pregi, ne avrebbe guadagnato non
poco. Sembra poi che egli vada soggetto a stranissime distrazioni. Così a
p. 140 lamenta di non aver conosciuto in tempo la vignetta (leggi minia-
tura) di un laudario fiorentino (quella che il Bartoli riferì in fotografia
nel I volume dei Mss. magliabechiani), mentre in realtà egli medesimo ne
(1) La landa abruzzese fa prodotta dal Pòrcopo in questo Giornale, Vili, 189; una di quelle
trentine fu edita dall'avv. Panizza nelV Archivio trentino, II, 81. ila di questa e d'altre singo-
lari ignoranze del V. tocca una severa recensione del Tridentum, IV, 143-44.
(2) Pel confronto ci siamo valsi della riproduzione a facsimile, che l'editore Giorgio Hirth di
Monaco diede nel 1884 della danza di Hans Holbein secondo la stampa lionese del 1538.
198 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
parla a p. 55 del suo libro! E mettiamo tra le distrazioni anche Ta ver chia-
mato nella dedica senatore del Regno Alessandro D'Ancona, distrazione che
vogliamo sperare sia buon presagio d'un avvenimento, che i molti estimatori
ed ammiratori del professore pisano da parecchio tempo deplorano non si
sia peranco avverato. R.
L. MARENGO. — L'oratoria sacra italiana nel medio evo. —
Savona, tip. Ricci, 1900 (16% pp. 227).
L'Autore di questo studio, col nome di Oratoria sacra italiana del Medio
Evo intende designare soltanto gli scarsi documenti di predicazione rima-
stici dei secoli XIV e XV, e scritti o almeno primieramente pronunciati in
lingua volgare, se bene il titolo potesse estendersi a tutte le forme di elo-
quenza sacra latina o volgare apparsi in Italia dopo il mille, o almeno dopo
che le singole nazioni, emergendo dal comunismo intellettuale del basso
Medio Evo, improntarono di un carattere proprio le varie manifestazioni del
pensiero e dell'arte.
Ma cosi inteso il compito dell' A. sarebbe stato difficilissimo e il lavoro
enorme; anche limitata ai soli secoli XIV e XV la ricerca e la coordinazione
in uno studio complessivo di tutto l'enorme materiale parenetico inedito che
è disseminato per le biblioteche italiane richiederebbe una fatica ingente e
gravosa. Questo non ha inteso fare il Marenco, che ha ristretto il suo studio
al materiale già edito, anzi alle opere dei predicatori più insigni, trascurando
l'innumerevole turba dei minori ; e su tali opere la sua critica non si esercita
sotto il rispetto storico ed erudito, ma ne vuol cogliere i caratteri e i li-
neamenti generali, e ne studia le relazioni colla civiltà e la cultura dei
tempi e l'azione esercitata sui costumi e sugli uomini.
Dei sei capitoli in cui il libro è diviso, i primi tre : La lingua usata dai
predicatori medioevali; Caratteri generali dell'oratoria sacra italiana nel
Medio Evo; L'oratoria sacra italiana nel trecento^ mi paiono i meno ori-
ginali, perchè ripetono cose già dette da altri, o svolgono idee da altri
accennate, con molto garbo però, e non senza aggiungere qualche fatto od
osservazione nuova. Così a provare che già avanti il Mille predicavasi in
Italia e fuori in volgare reca argomenti desunti dal noto libro del Lecoy de
la Marche La Chaire frangaise au Moyen dge, e dallo studio su fra
Giordano da Pisa pubblicato in questo Giornale; ma combatte poi, e mi
sembra con buoni argomenti, l'opinione sostenuta dal Muratori e dallo Zeno
che sino a quasi tutto il Quattrocento si costumasse predfcare sovente prima
in latino e poi in volgare. Dimostra infatti che un passo della lettera con
cui fra Roberto Caracciolo, celebre predicatore del Quattrocento, dedica ad
Alfonso d'Aragona, Duca di Calabria, il suo Specchio della Fede (1), ove
(1) Veaesia, 1495, prtsio GioTtani da B«rfUBO.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 199
dice di aver voluto raccogliere i suoi sermoni « con quello stile e ordine,
« lo quale ho costumato nelle declamazioni e ho facto al populo, cioè e vol-
€ garmente sermone materno e ancora latinamente », non deve intendersi,
come interpretò lo Zeno, che il predicatore volesse scrivere i suoi sermoni,
come già li aveva pronunciati, cioè tanto in latino quanto in volgare, poiché
la redazione latina dello Specchio di Fede non esiste, e l'opera di fra Ro-
berto che s'intitola De laudibus sanctorum o de Sanctis dallo Zeno consi-
derata come tale, se concorda nelle linee generali collo Specchio di Fede,
ne differisce profondamente per la redazione e la forma, e deve considerarsi
come un'opera a sé. La frase del Caracciolo intorno ai propri sermoni tenuti
al popolo volgarmente sermone materno e ancora latinamente, è spiegata
dal Marenco come un riferimento alle numerose e lunghe citazioni latine
che lo Specchio di Fede contiene accompagnate dalla versione in italiano,
per cui il libro può dirsi, in certo modo, scritto in latino e in volgare.
In questo primo capitolo il M. tratta anche la questione dei Sermoni
maccheronici, ossia misti d'italiano e latino di cui si trovano esempi nella
nostra letteratura sacra del Quattrocento. Si tratta, com'è noto, di prediche,
in cui le frasi volgari anzi dialettali, e le latine s' intrecciano e si mesco-
lano capricciosamente e grottescamente senza che si possa trovare alcuna
ragione plausibile dei repentini mutamenti.
Ne abbondano gli esempi nelle prediche dei sermonatori francesi dei se-
coli XIII, XIV e XV; fra noi Io Zeno indica come autori di sermoni mac-
cheronici fra Michele da Milano, fra Bernardino da Busti, fra Tomaso An-
tonio da Siena e fra Gabriele Barletta. II M. elimina dall' elenco i primi
tre, sostenendo che nei loro sermoni latini si hanno soltanto citazioni da
poeti italiani e brevi didascalie in volgare, e afferma che in istile macche-
ronico sono propriamente le sole raccolte di prediche del Barletta: Sermones,
(Brixiae, 1496), Sermones de Sanctis (Brixiae, 1498). Ora questi sermoni, a
suo giudizio, non rappresentano già la vera e propria predicazione del frate,
il quale non mescolava certo ibridamente le due lingue parlando dal per-
gamo al popolo, ma sono « gli abbozzi, le brutte copie dei suoi sermoni,
€ messe insieme senza cura e senza pretese, per proprio uso esclusivo e soc-
€ corso della memoria, qualora gli occorresse nelle sue peregrinazioni apo-
« stoliche di trattar nuovamente lo stesso argomento ». Trovati fra le carte
del frate dopo la sua morte, furono pubblicati in tale forma schematica da
un ammiratore troppo zelante: infatti la prima edizione (Brescia, 1497-98},
é postuma. Tale spiegazione è la sola probabile, quando si pensi essere ormai
cosa dimostrata che nel Quattrocento, come nei secoli anteriori, si predicava
quasi unicamente in volgare.
Il secondo capitolo (pp. 43-133), in cui si discorre dei caratteri generali
della predicazione medievale, e cioè del modo, con cui si raccoglievano i
sermoni, della propaganda francescana e domenicana, dell' azione politica
esercitata dai predicatori, delle partizioni che usavansi nelle prediche, degli
argomenti, delle idee, della coltura comune ai più insigni sermonatori del
Medio Evo, se bene condotto con molta diligenza e con buone osservazioni,
non fa che ripetere cose già note, recando però molte citazioni notevoli e
opportune dalle opere di fra Giordano da Pisa, dì san Bernardino da Siena
200 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
(che mi sembra l'autore meglio studiato dal M.), di fra Roberto da Lecce
di Gabriele Barletta, di Bernardino da Busti, del Savonarola.
Più debole e superficiale è il capitolo 3° (pp. 134-148), che dovrebbe occu-
parsi particolarmente della predicazione nel Trecento, e in cui, dopo un
breve cenno generale intorno all'opera di fra Giordano, si recano alcune
prove della decadenza in cui V arte di sermonare era venuta in Italia nel
secolo XIV (1). Notevole è invece per più riguardi il cap. IV intorno al-
l'Oratoria sacra nel Quattrocento, benché restringa anch'esso le sue os-
servazioni agli autori principali e parecchie ne desuma da ricerche anteriori.
Vi si discorre dell'efficacia che ebbe l'opera e l'esempio di San Bernardino
nel risollevare l'oratoria sacra tanto corrotta sui primi del Quattrocento a
causa dei costumi rilassati dei predicatori ; delle ciurmerie, della trivialità,
delle buffonerie, del cinismo dilagante nelle prediche, e della scuola insigne
di predicatori sorta alla voce del Santo ed educata dal suo esempio. Di-
mostra false le accuse di ignoranza, di pedanteria, di ostilità alla cultura
mosse dagli umanisti ai predicatori del Quattrocento, e aggiunge alle prove
già raccolte dal Villari a difesa del Savonarola, altre non trascurabili. L'an-
tipatia degli umanisti, in gran parte avventurieri della penna, in cui gli
scrupoli erano pochi e nullo il senso morale, s'intende, quando si pensi al-
l'energia e al coraggio con cui quei religiosi combattevano l'universale cor-
ruzione e riaccendevano la fiamma delle grandi virtù cristiane.
Meritano principalmente attenzione le numerose citazioni da Dante, dal
Petrarca, da Jacopone da Todi, da Cecco d'Ascoli, e da altri autori profani
del Due e del Trecento che il Marenco ha rintracciato nelle prediche del
secolo XV (pp. 205 e sgg.), dove soventi l'autorità di Dante è citata alla
pari con quella di S. Agostino, della Bibbia e dei Dottori della Chiesa.
Nel cap. V (pp. 216-221) si discorre brevemente della /ine della predica-
zione popolare, e l'A. ne indica le cause nelle repressioni severe dei Concili
volte a frenare la soverchia ingerenza degli ordini mendicanti nelle opere e
ne' domini della Chiesa, e principalmente nella reazione disciplinare provo-
cata dal Concilio di Trento.
Tutto sommato, questa del Marenco, senza essere opera di erudizione re-
condita, né di vasta esplorazione storica, raccoglie e coordina con chiarezza
ed acume una messe notevole di fatti ed osservazioni intorno all'opera dei
più notevoli predicatori nostri dei secoli XIII e XIV. A. G.
FELICE VISMARA. — Vinveltiva, arma preferita dagli uma-
nisti nelle lotte private, nelle polemiche letterarie, politiche
e religiose. — Milano, tip. Allegretti, 1900 (8% pp. vii-217).
Abbiamo qui il primo lavoro generale sull' invettiva umanistica. La ma-
teria vi è distribuita in quattro capitoli, secondochò le contese sono di ca-
(1) Fr« altre testimonianze, g^à conoeciute, notevole ò una desunta dai Documenti <l*AiH«rtdi
Frane, da Barberino (pp. 136, 187), altre che sono tratte dalle novelle del Sacchetti (pp. 148 tfg.)*
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 201
ratiere privato, letterario, politico, religioso ; queste quattro categorie non
sono ben definite, come l'autore stesso riconosce, poiché Tuna rientra spesso
nell'altra; ma una distribuzione bisognava pur darla. Le principali polemiche
combattute nel sec. XV son raccontate tutte, talune anche su documenti
inediti; ma non tutte le fonti edite sono state consultate e da talune delle
consultate non è stato tratto il frutto che si poteva e doveva.
Le parti veramente nuove del libro sono l'introduzione e la conclusione,
nelle quali si stabilisce la natura, la teoria e la storia dell'invettiva. Fra i
modelli antichi dell'invettiva sono dal Vismara, come del resto da altri
avanti di lui, collocate le Verrine e le Filippiche di Cicerone, ma bisogna
distinguere; poiché, sebbene quelle due raccolte di orazioni portassero il ti-
tolo di invectivae sin dal sec. XIll (1), nei primi tempi dell'umanismo non
furono molto diffuse. Rimangono dunque le Catilinarie, tanto più che esse
sono appellate da Prisciano già col titolo di invectivae, e soprattutto le due
declamazioni attribuite a Cicerone e Sallustio, esse pure tramandateci col
titoto di invectivae e ricordate dal Petrarca in propria discolpa. Ciò che il
Vismara afferma sta bene per il quattrocento inoltrato, quando, per esempio,
il Raudense scriveva; « Saepenumero Filippicas seu Anthonianas et quas
« in Verrem, in Catilinam, in Salustium aliosque complures non si ne ve-
« hementia fulminai cynicas ut ita dixerim invectioas in manibus tenui » (2),
e per quel tempo saranno da aggiungere le due orazioni in contraddittorio
di Demostene ed Eschine per la corona. Il termine poi di invectiva che si
incontra nel retore Sulpicio Vittore non ha nessun valore per gli umanisti
del secolo XV, perchè quell'autore vide la luce la prima volta a Basilea
nel 1521.
In complesso il lavoro del Vismara, condotto con amore, è utile agli studi;
e sarebbe piìi utile, se l'autore avesse meglio maturato le cognizioni d'or-
dine generale sul periodo che percorre e avesse evitato certe piccole inesat-
tezze, che occorrono un po' troppo frequenti. È da lamentare inoltre che
vi manchi un indice analitico e un indice delle persone. R. S.
EDMONDO SOLML — Leonardo. — Firenze, Barbèra, 1900 (16%
pp. vi-240).
Questo é di nuovo tra i volumi della collezione Pantheon (di fattura e di
valore cosi disuguali I) uno dei più felici.
Dacché si cominciarono a conoscere davvero i mss. vinciani, è noto che
sono già apparse parecchie opere di complesso su Leonardo da Vinci. La più
voluminosa e ricca tra queste, dovuta al benemerito Muntz, fu annunciata
(1) Cfr. M. Makitios, Philohnisches am alten BiblioViekskatalogen, p. 17.
(2) Col. Ambrosiano M 49 sup. f. 11".
202 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
anche nel nostro Giornale, 34, 430 (1), E noi parlandone ci domandavamo
se veramente fosse venuto il tempo di scrivere sul miracoloso e proteiforme
genio toscano un lavoro di sintesi definitivo, e rispondevamo francamente di
no. Ci fa piacere, pertanto, di vedere confermata questa stessa opinione dal
Solmi, che in testa al suo volumetto sensatamente dichiara: « Costruire una
« sintesi di questo Grande nell'ignoranza di tanta parte di ciò che pensò e
« scrisse e nella scarsezza di monografie coscienziose, sarebbe opera vana;
« né io volli tentarla». Il Solmi intese solamente di « raccogliere il fior fiore
«di ricerche dure e pazienti»; volle «ricollegare fila innumerevoli, alcune
« delle quali mal tessute, altre sfuggite del tutto agli studiosi, onde poi i
€ successivi possano arrivare alla piena comprensione della vita e dell'opera
€ di Leonardo ».
Pochi sicuramente erano oggi in grado di recare a quest'intento una pre-
parazione più seria e fondata di quella del Solmi, de' cui antecedenti lavori
sul Vinci, accurati e intelligenti, ci fu grato il discorrere con la debita
lode (2). Pochi al pari di lui si addentrarono in quella profondissima anima,
tentando di scrutarne i misteri con un esame scrupoloso dei manoscritti vin-
ciani. Ed è appunto per questo che il presente libretto merita d'essere spe-
cialmente considerato dai cultori degli studi nostri letterari. Nella critica
artistica è breve, e si appoggia al Miintz con predilezione persin soverchia;
per la biografia trae partito dalle minutissime ricerche dell'Uzielli: ma il
gran fondamento del libro è dato dai mss. stessi del Vinci, nei quali il S.
spigola dati di fatto svariatissimi e in molti casi inavvertiti, lumeggiando
particolarmente le relazioni dell'artista con uomini ragguardevoli del tempo
suo, e gettando sprazzi di luce vivissima sulla psicologia di quel sommo,
non che sullo sviluppo del suo pensiero scientifico ed artistico. Con molta
ragione e con piena convinzione scrive il S. in certo luogo: € I manoscritti
« di Leonardo sono lo specchio fedele della sua esistenza, e quando vi sì
« potran vedere chiaramente le immagini, ora quasi direi latenti, svanirà in
« gran parte il mistero, che avvolge la vita e lo spirito del Grande» (p. 76).
Quelle vive, incisive espressioni di lui, di continuo, opportunamente richia-
mate, servono sin d'ora più di lunghi discorsi a rappresentare nell'inlimità
sua quella psiche poderosissima. È ben vero che il volume così contesto, e
oltracciò pieno zeppo di ragguagli di fatto, non riesce di lettura molto age-
vole ; ma per contro chi non si lasci atterrire dall'apparente farragine, né
dalla forma disadorna, né dalla tessitura talvolta alquanto saltuaria, ne rac-
coglierà vital nutrimento. Parecchi particolari sull'attività prodigiosa del V.
(1) A chi voglia avere un libretto senta pretese e a boon mercato so Leonardo artista, con
riproduzioni grafiche ben scelte e discretamente eseguite, vuoisi suggerire il Leonardo da Vmci
di A. BoRRKniBo, Bielefeld und Leipzig, 1898, che costituisce il voi. XXXIII dell'utile raccolta di
KilntlUr-Monographitn diretta da H. Knackrnss. Il Rosenberg fti specialmente tesoro delle oaser.
vazioni del Moller- NValde. che per qu.into abbia messo talora il piede in fallo, resta tuttavia il
più dotto indagatore dell'opera pittorica di Leonardo. — Un recente voluminoso libro roseo sai
Vinci (VoLTKsKii. Leonardo da Ttnci, Pietroburgo, Marx, 1900, in 4o. di pp. 722 con figure) co-
nosciamo solo per citasione attrai.
(2) Vedi Oiornah, XXXIV, 432 sgg.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 203
sono qui per la prima volta dedotti dai manoscritti ; non pochi dati riguar-
danti le sue peregrinazioni sono qui per la prima volta additati; non pochi
influssi che esercitarono su di lui in particola r guisa alcuni scienziati che
conobbe e, viceversa, altri influssi che a sua volta egli fece valere sui con-
temporanei, ottengono qui una concisa, ma lucida esposizione. E sempre più
spicca in questo libro quel carattere di universalità che tutti ormai ricono-
Bcono all'ingegno di Leonardo; e in quel concerto di attitudini e di nozioni
cosi svariate la nota che primeggia, la nota calda, che esce veramente dal-
l'intimo di Leonardo, è quella della scienza basata sull'osservazione di tutto
e di tutti. Questo è il vero Leonardo.
Noi non staremo a rilevare nel libro del S. le varie pagine in cui egli
particolarmente si occupa del Vinci scrittore. Sono pagine riassuntive, che
non aggiungono osservazioni nuove a quanto altrove ebbero già a notare egli
medesimo ed altri (1). Ma, lo ripetiamo, è, in generale, la maniera di con-
siderare quella straordinaria figura, che deve rendere accetto il volume ai
cultori di storia delle lettere e del pensiero, molto più ancora che a quelli della
storia dell'arte. R.
GAETANO CURCIO BUFARDEGI. — Su la vita letteraria del
conte Baldassare Castiglione. Studio. — Ragusa, tip. Picei Ito
e Antoci, 1900 (8^ pp. 177).
Non occorre aver fatto ricerche speciali sul Castiglione per accorgersi, di
primo acchito, che questo volumetto, il quale, al dire dell'A., gli costò più
anni di studio, è, in fondo, un lavoro sbagliato e mancato. Al disegno in-
certo e deficiente corrispose l'esecuzione, che lascia per molte ragioni in-
soddisfatto anche il meno indiscreto dei lettori. Il G. B. ha un bell'intitolare
con apparente modestia « Studi su la vita letteraria » del Castiglione questo
suo libro; in realtà egli tentò di percorrere e illustrare, come in una vera
monografia, la vita e le opere tutte del cavaliere mantovano.
Non è sua la colpa se, scrivendo nella parte estrema della Sicilia e in
piccoli centri, non si trovò in condizioni favorevoli per trattare con novità
e sicurezza e con qualche profitto il bel tèma; la colpa fu di scegliere
questo tèma, sapendo o dovendo sapere di non potergli far onore. Assai
meglio egli avrebbe adoperato, se avesse ristretto il suo studio ad un punto
particolare della produzione letteraria del C, p. es. alle poesie latine, sulle
quali ha qualche osservazione non priva di valore. Che egli spesso lavori e
affermi per sentita dire, senza i necessari controlli, anzi trascurando certe
pubblicazioni recenti che pur dovrebbe conoscere, appare da qualche ine-
(1) Cfr. in special guisa G, Mazzoni, Leonardo da Vinci scrittore, Roma, 1900; eetr. dalla
JT. Antologia.
204 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
sattezza in sommo grado traditrice (1). Che sia troppo scarsamente fornito
di notizie bibliografiche sicure, si può desumere facilmente, p. es., dalla p. 57,
dove è riferita scorretta la data dell'edizione ciccarelliana del Cortegiano, e
dove si mostra d'ignorare che la lettera del G. riguardante l'invio del libro
ms. al Bembo, era già edita fino dal Cinquecento (2). Che all'A. manchi il
senso della opportunità e della misura, si vede dalle troppe pagine (pp. 57-69)
ch'egli consacra alle correzioni dal Ciccarelli, troppe e inutili dopo il saggio
speciale che pubblicò sull'argomento il Cian e che l'A. conosce e cita, ma
non abbastanza, e sfrutta più del bisogno. Che preparazione storico-letteraria
abbia il C. B. e quale cura soglia usare nelle sue anche più ovvie ricerche,
basterebbero a provare due passi dal suo libretto, in uno dei quali (p. 120
e n. 1) rinfaccia al Martinati l'errore di assegnare al marzo 1507 le conver-
sazioni del Cortegiano, e nell'altro (p. 65, n.), citando il cap. LXIII del lib. II
del Cortegiano, dove si parla di Jacomo Sadoleto, avverte che questi non è
da confondersi con Jacopo Sadoletol Valeva proprio la pena che nell'ultima
ediz. Sansoni si dedicassero due note ben chiare e precise ai due passi re-
lativi del Cortegianol E poi basti dire che intorno a Leone X e al suo pon-
tificato l'A. è rimasto arretrato o arenato all'Audin (p. 48) e che l'onoma-
stica della nostra storia letteraria si accresce di forme quali Pontico Vorumio
(p. 16) e « Leone Giampiero Valeriano Bolzani », che si chiamò poi (cioè dopo
essersi « reso familiare di Leone X », mentre ciò era avvenuto molti anni
prima, per opera del Sabellico) « Pierio Valeriano » (p. 49). Ma la disatten-
zione e la fretta regnano sovrane in questo lavoro (3), sicché l'A. tira in-
nanzi lesto per la sua via senza curarsi di ciò che possa ritardare il suo
cammino. Cosi, parlando del noto son. Superbi colli mostra di ignorare che
anche di recente furono sollevati certi dubbi, sian pure ingiustificati, sul-
l'autenticità sua. Di questa fretta e di questa noncuranza si risente anche
la forma, che lascia molto a desiderare (4). ,
(1) ììoìVÀvver tenga al lettore il C. B. asserisce che i mss. di lettere castiglionesche, onde <n
giovò il Serassi, si conservano nella Btblioitca Valenti Ooneaga di Roma, e che alcane lettere
pubblicate dal Martinati si trovano — come aveva detto quest'ultimo — nell'lrcAmo Camerale
di Torino!
(2) Veramente TA. cita anche una lettera pubbl. dal Martinati, ma questa, che si direbbe non
aver egli letta, è scritta al Sadoleto e non al Bembo, e parla dell'invio del Cortegiano al lette-
rato modenese e non al suo collega veneziano. Per l'A. la bibliografia diventa addirittura un'opi-
nione. A p. 68, ricordando l'edizione delle opere castiglionesche curata dai Volpi, scrive che questi
« pare (sic) abbiano ripubblicato il Cortegiano purgato dal Ciccarelli, ecc. ».
^3) Valga per tutti un solo esempio eloquente. 11 Salvadori aveva scritto : «Il Marliaki ci dice
« anche che in questi primi studi il giovine C. ebbe cari principalmente Cicerone, Virgilio e Ti-
« bullo e che li studiò amorosamente, commentandoli con quelle note Hparse, che poi raccolte i
« contemporanei ckiamavan tehé. La notizia è importante, e piace come di cosa aspettata >. E VA.
(p. 29): « Di questo periodo di tempo... non ò rimasto del C. altro che una quantità di note e
« acute oiseroaMioni fatte sui classici, le quali non solo ne rivelano l'ingegno, ma anche la pas-
« sione e la serietà con cui coltivava quegli studi. Codeste note, dice il Salvadori, furono raccolte
« da' contemporanei e chiamate eelve-, notizia, che, se non è faltta, ò davvero importante; ma io
« non 80 da qnal documento egli l'abbia cavata. » ! E dire che, a farlo apposta, il Salvadori aveva
citato il Marliani.
(4) Non cerco, s'Intende, eleganza, ma correlteixa grammaticale. L'A., ad es., usa normal-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 205
Dopo queste sommarie osservazioni, che potrebbero moltiplicarsi senza
alcun vantaggio, è pur doveroso notare che il libretto, benché disordinato e
inorganico, si divide in due parti principali. Nella prima di esse TA. si
sforzò di ritessere la storia esterna degli scritti lasciatici dal C, determi-
nandone, per quanto gli fu possibile, la cronologia; nella seconda intese di
« seguire lo scrittore nelle sue concezioni e nella sua arte estrinsecatrice ».
Le pagine nelle quali si discorre dei carmi latini, contengono, dicevo,
qualche tratto non inutile, ma troppo debbono al commento del Serassi. Il
C. B. lo giudica (p. 114) « assai frondoso e vano » ; vero, peraltro, che senza
di esso non avrebbe forse messe insieme quelle pagine.
Ai lettori del Giornale gioverà, infine, sapere che l'A. « adesso ripudia
« il giudizio » da lui dato nel « lavoro V Epigramma italiano intorno al G.
« come epigrammista » (p. 173, n.). V. Ci.
KARL BENRATH. — Julia Gonzaga. Ein Lebensbild aus der
Geschichte der Reformation in Italien. — Halle, Niemeyer,
1900 (8% pp. x-128).
ANTONIO A60STINL — Pietro Carnesecchi e il movimento
valdesiano. — Firenze, Seeber, 1899 (16% pp. 354).
Sanno i lettori nostri come nel modo, assai largo, d'intendere la storia let-
teraria che abbiamo sempre propugnato, ai fatti ed ai caratteri della riforma
religiosa nel Cinquecento italiano sia stata sempre consacrata speciale atten-
zione. Nel discorrere di recenti pubblicazioni o nell'ofifrire documenti nuovi,
ci trattenemmo sulle idee religiose di Vittoria Colonna (Giorn., 13, 399-400),
di Caterina Varano (Giorn., 19, 428), del Vergerlo juniore (Giorn., 24, 290
e 452), di Renata d'Este {Giorn., 25, 425), di M. A. Flaminio (Giorn., 31,
433). Accennammo anche al libro di B. Amante su Giulia Gonzaga {Giorn.,
28, 255), libro farraginoso e condotto senza metodo, ma che pur si avvan-
taggia, pel materiale nuovo archivistico che reca, sulla passionata e bigotta
requisitoria di Costantino Castriota (Filonico Alicarnasseo) ed anche sulla al-
quanto magra e troppo circospetta notizia biografica dell'Affò (1).
mente il passato prossimo pel remoto (p. 8, n. ecc.) e passa con tutta dìsinvoltara da nn tempo
all'altro (p. 109 ecc.). Le Poche parole d'introduzione incominciano: «Il co. B. Castigl. vive in
« nn periodo di tempo transitorio e difficile per l'Italia. Non è solo una politica astuta, doppia
« e fedifraga che d^ risalto a quell'epoca molto a£fannosa ; è ben altro, che è forse derivato dalla
« stessa causa. Ognuno sa come il culto al classicismo sia diventato vera idolatria nel Quattro-
« cento ecc. ». Si leggano gli ultimi periodi del capitolo a pp. 114-5 e quest'altro: « ... e s'egli
« sia riuscito qualche volta a far sentire la voce dolente del suo cuore, è dove si avverte meno
« il peso dell'imitazione » ecc. ecc.
(1) Studioso, d'altra parte, rispettabilissimo, e punto fanatico e punto gesuita, come lo chiama
ora replicatamente il Benrath. È cosa assai nota, almeno al di qua delle Alpi, che l'Affò fu fran-
cescano. L'onestà sua di storico fu tale da non meritare davvero la diffidenza con che il Benrath
lo tratta. Cfr. Giorn., XXVIII, 436-37 e XXXII, 449.
206 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Il Benrath, ottimo conoscitore della riforma italiana, alla quale arrecò il
tributo di parecchi scritti pregevoli (il maggiore per mole è il volume sul-
rOchino, ch'ebbe due edizioni) tratta di Giulia con la simpatia d'un prote-
stante, ma nello stesso tempo col buon criterio e con la perspicuità dell'uomo
di scienza. I documenti di cui si vale sono su per giù quelli che fece cono-
scere l'Amante; ma il B. collazionò i testi editi dell'Amante e qualche altro
ne aggiunse (1). Piatti nuovi della vita di Giulia non impariamo, sì bene ci
risulta più chiara la sua condizione di spirito nel rispetto delle idee rifor-
miste. Due nuovi riferimenti di ambasciatori, uno dell'archivio di Venezia,
l'altro di quello di Firenze, mostrano come agli occhi del severo Pio V Giulia
fosse gravemente compromessa (pp. 98-99); ma a questo ci voleva pocol
Bastava la devozione da lei costantemente serbata al Valdes, che a lei avea
dedicato il suo Alfabeto cristiano', bastava l'aver prestato ascolto alle affer-
mazioni eterodosse delle lettere che le indirizzava il Garnesecchi. Ma per
quanto il B. s'avvisi di mostrare che nello spirito la Gonzaga era evidente-
mente una decisa protestante (p. 102), a noi sembra che ciò non risulti in
modo esplicito dai documenti che abbiamo. La sua posizione rispetto alla
riforma è senza dubbio molto più avanzata di quella di Vittoria Colonna;
ma come poco s'avvedesse della piena eterodossia del Garnesecchi ben vale
a dimostrarlo, se mal non ci apponiamo, la maniera come parlava candida-
mente de' suoi rapporti con lui, scrivendone ad Ippolito Gapilupi negli ultimi
anni della vita sua (p. 93). Propugnatrice, come tanti altri riformisti italiani,
del celebre principio della giustificazione per la sola fede^ essa probabil-
mente non ebbe mai coscienza del valore singolare di quella massima, che
è vero fondamento di dottrina protestante, e non giungeva a creder neces-
sario lo scisma, anzi aveva fede nell'unità della Chiesa, la quale stimava
potesse accogliere un giorno le nuove dottrine. Questa è l'idea in cui il
libretto del B. ci ha confermati, sebbene la sua conclusione sia alquanto
diversa.
Né vale il dire che la Gonzaga sia appartenuta al gruppo napoletano del
Valdes, dal quale uscirono e il Garnesecchi, decisamente protestante, e Ga-
leazzo Caracciolo calvinista, e l'Ochino, che passò persino oltre i confini
della riforma evangelica. Molto giustamente altri ha osservato che dal circolo
(1) Àllorchò il B. esce dal campo de' suoi stadi consneti, è facile notare certa deflcienta d'in-
formazione e di coltura generale. È inginstiBcato. ad es., lo spregio ch'egli mostra pel Bandelle
(p. 110). Il vecchio S. Germano non ò Montecassino (p. 12); ma Cassino, o meglio Casino, ch«
è nella co$ta del monte sulla cui cima sorge il celebre cenobio benedettino. Nei richiami del
poema latino del Buonavoglia, poteva giovare al B. la conoscenza della ili astrattone di qnel
poema data da E. Bostagno. In un carioso equivoco cade Vk. a p. 6. Là egli scrive: « Ein
« vielgelesener italienischer Boman geschichtlichen Inhalts, tMlcker $ich in j«m*r Ztit abtpi$U^
« vergleicht geistreich das Nebeneinanderleben der kleinen Staaten der Ilalbinsel mit d«m
« Sichstossen und Einanderzerschlagen von eisernen and thonernen Topfen, die man aaf holp«-
« rigem Wege eng aneinander gepackt fortschleppt ». Ove gli errori gravi sono dne : anxitutto
« jene Zeit », in cai ò ripoata l'azione dei Prométti Spoti, non ò il eec. XVI, che vide OioUa
viva, ma il XVII; e poi nella famoeiasima limilltodine del cap. I del romanzo mMiioniano U
politica non ha da far nalla. Quivi è semplicemente D. Abbondio, che vien paragonato ad « un
« vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro ».
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 207
del Valdes tolgono le mosse « quanti aspetti diversi prese il moto protestante
« in Italia, quello di chi rimane entro il circolo della dottrina cattolica, ma
« non vi trova più né la tranquilla fede né la posizione di prima ; quello di
€ chi si spaventa a mezza strada e indietreggia; quello di chi si associa del
<c tutto al moto protestante e per esso dà la vita o si sottopone alla perpetua
« miseria dell'esilio; e quello di chi neppur trova posa nella dottrina prote-
« stante e finisce anatemizzato del pari dalla Roma del papa e dalla Ginevra
« di Calvino » (1). Nella prima categoria menzionata rientrano, non Olimpia
Morato certamente, ma altre elette dame italiane inclinate alla riforma reli-
giosa, quali Vittoria Colonna, Caterina Varano, Giulia Gonzaga. Se non che
anche tra queste v'é una gradazione: più rimessa di tutte la Colonna, più
ardita la Varano, più avanzata ancora la Gonzaga. Non si dimentichi che le
lettere del Carnesecchi a lei dirette, che si trovarono nella confisca delle
carte di lei a Napoli, dopo la sua morte, determinarono la rovina e il sup-
plizio del Carnesecchi medesimo.
Lugubre storia davvero quella del Carnesecchi, che A. Agostini ci ha ri-
narrata, con estensione grande e col corredo di moltissimi documenti inediti
fiorentini (2). Egli ha saputo farne un libro di sostanziosa e piacevole lettura,
bene ordinato, solidamente pensato (3). Ha ben poco valore Tosservazione
fatta valere contro l'Agostini che il Carnesecchi non è la persona meglio
scelta per rappresentare il movimento valdesiano in Italia, perché é figura
poco netta e spiccata (4), In realtà l'Agostini non scelse il Carnesecchi come
figura tipica, ma si occupò particolarmente di lui perché su lui aveva nuovi
e ottimi documenti. E d'altro lato, è appunto quella indeterminatezza, che
nelle azioni e nelle aspirazioni del Carnesecchi ci appare, uno dei più no-
tevoli caratteri del valdesianismo italiano. La lettura del libro dell'A. ci fa
guadagnare la convinzione che tanto il Carnesecchi quanto il Flaminio par-
teciparono consciamente alle idee protestanti; e tuttavia nel Carnesecchi
sopravvisse l'illusione della Chiesa unica, riformata secondo le nuove idee
(pp. 216, 218-19). Singolare illusione davvero, sogno di menti tanto assorbite
dal misticismo da non intendere quale fosse la precisa condizione del papato
cattolico; ma tuttavia illusione che ai più tra quelli spiriti impedi la riso-
luzione estrema di passare senz'altro tra i seguita tori di Lutero o di Calvino.
Fu Giulia Gonzaga che introdusse il Carnesecchi nel crocchio del Valdes.
E di quella creatura bellissima e cosi nobilmente dotata subì dapprima il
fascino fisico ; poi se ne fece un' ideale mistico, a cui confidava tutti i suoi
(1) Masi, La riforma in Italia, in La vita italiana nel cinquecento, Milano, 1894, p. 84.
(2) Solo mentre si stava stampando il libretto del Benrath, questi conobbe il volume deirAgo-
stini, al quale tributa la debita lode. Vedi p. 121, n. 25.
(3) Piccole inesattezze nei particolari non vi mancano, e forse vi contribuì anche il tipografo,
specie per quel che riguarda i nomi propri scorrettamente ridati. Strana svista quella per cui
Giulia Gonzaga è fatta nascere da un Federigo (p. 31), mentre è risaputo ch'essa fa figliuola di
Ludovico di Gianfrancesco di Bozzolo.
(4) L'oBservaz, ò di G. E, Saltisi, nelVArch. stor. ital., serie V, voi. 26, pp. 333 sgg. Qualche
maggior ragione può avere il Saltini nello scagionare Cosimo de' Medici dall'accusa d'aver abban-
donato, per non dir tradito, il suo fedel servitore. Ma anche su ciò ci sarebbe da dire parecchio.
208 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
pensieri di religione fpp. 251-54). Questa unione spirituale cosi piena di ab-
bandono e di sublimi pensieri, in mezzo alle tristi vicende che travagliavano
l'Italia, incute rispetto e talora induce alla commozione. Noi la intravvediamo
circonfusa d'un velo misterioso nei lunghi, nei terribili interrogatori del pro-
cesso ultimo a cui il Carnesecchi fu sottoposto innanzi al tribunale dell'In-
quisizione. Ora, che Giulia stesse a sentire ciò che il Carnesecchi le scriveva,
e non si adirasse con lui e non rompesse la relazione, come la Colonna fece
con rOchino fuggiasco e sfratato, è innegabile; ma noi non siamo in grado
di dire quanta parte delle convinzioni del Carnesecchi essa ammettesse. Su
questo punto il Carnesecchi è inflessibile: da quel fiero martellare dell'inter-
rogatorio funesto, che doveva lacerargli l'anima, dai supplizi della tortura,
che gli lacerarono la persona, la figura di Giulia esce sempre illesa.
Opere di soggetto religioso il Carnesecchi non scrisse; ma l'anima sua fu
tutt'assorta nei problemi religiosi. Può essere che il rogo abbia distrutto più
d'un suo scritto letterario, perchè si conosce di lui un sonetto non cattivo
in risposta ad uno del Varchi (p. 293), né pare che dovesse essere l'unico.
È noto inoltre ch'egli fu in relazione con poeti come il Mauro, G. F. Bini,
il Berni, i quali lo rammentano spesso ne* loro versi. Di tutto questo l'Ago-
stini ha tenuto conto. R.
VINCENZO GRIMALDI. — La mente di G. Galilei desunta prin-
cipalmente dal libro « De motte (;ravium ». — Napoli, Detken
e Rocholl, 1901 (8« gr., pp. 122).
È la prima monografia, cui porge occasione e materia l'edizione nazionale
delle opere galileiane; e si propone di dimostrare che nel suo libro giovanile
De motu gravium, ora per la prima volta venuto a luce integralmente, il
G. avesse già abbozzato le sue dottrine metodologiche e filosofiche; sì che
in tutto il corso della sua vita scientifica non avrebbe poi fatto altro che
svolgere i germi del pensiero giovanile. Di che veramente non ci sarebbe
da meravigliarsi, considerando che il De motu fu scritto nel 1»590 (1), quando
il G. aveva compiuto tutti i suoi studi filosofici e matematici, e con le sue
esperienze famose iniziate quelle scoperte, che diedero sì potente impulso
alla meccanica moderna. Ma, se la grandezza dello scienziato pisano con-
siste in tutto il novero delle sue scoperte ed invenzioni, nelle acute e precise
osservazioni onde promosse nel Saggiatore il metodo sperimentale e nelle
dimostrazioni contenute nel Dialogo de" Massimi Sistemi e in quelli delle
Scienze Nuove^ dire che la mente di lui è già tutta formata, quando produce
fi) Non si uprebbe dire se qnesta data sia ritenuta per vera dall'A. : « Qaesto scritto ^oranile
« del Q. —, egli scrire, — si suole ascrivere al 1590, il che noi accettiamo per una ragione pra»
« tica (?) di trattazione, non perchè riteniamo con sicuro convincimento che sia assolutamente a
« questa epoca o a questo anno da riferire il prodursi di questi princìpi scientifici nella mente
« del O. » (p. 28). Tali incertexze e sconnessioni di forma e di pensiero non sono rare nel suo
lavoro.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 209
il De motu^ sarebbe aflfermare cosa immeritevole perfino d'essere discussa.
Nel De Motu si vedono nettamente gli avviamenti del pensiero di Galileo;
e questo è tutto. Ma l'A. spesso si lascia giovanilmente prender la mano
dalla sua tesi; e viene ad attribuire all'opera da lui studiata molta più im-
portanza, che effettivamente non abbia nello sviluppo della mente del G. e
nella storia del pensiero filosofico in generale.
A ritrarre le genuine fattezze di quella mente, qual' è nel De motu, occor-
reva studiare questo scritto con molta avvedutezza, per non vedervi quel che
non e' è, mescolandovi concetti e intuizioni appartenenti ad anni ed opere
posteriori; ma questa avvedutezza l'A. forse non l'ha sempre avuta, né pare
che abbia sempre esattamente valutato le dottrine galileiane. Cosi, p. es.,
non è punto provato che la dottrina della conoscenza esposta nel cap. Vili
sia già implicita nel De motu; né so quanti potrebbero menar buona l'af-
fermazione, che il G. inclinasse « ad una concezione della natura meccanica
« e quasi materialistica ». L'errore consiste nel non credere conciliabile il
meccanismo con la finalità; ma il G. la pensava ben altrimenti del suo
critico, come dimostrano i testi da lui stesso citati.
Con tutto ciò il lavoro del sig. Grimaldi è utile alla storia del pensiero di
Galileo ; e rivela nel giovane A. un lodevole entusiasmo per queste ricerche
e una non comune cultura. G. G.
GIUSEPPE GUIDETTI. — La questione linguistica e Vamicizia
del P. Antonio Cesari con Vincenzo Monti, Francesco Vii-
lardi ed Alessandro Manzoni, narrata coli' aiuto di docu-
menti inediti. — Reggio Emilia, Collezione Letteraria, 1901
(16«, pp. .XIV-2Ì6).
Questa quarta fatica cesariana del sig. Guidetti (1), comunque la si voglia
giudicare, supera in utilità le precedenti. Nulla, anche qui, che serva a sco-
prire qualche lato nuovo della mente o della dottrina linguistica del Cesari;
ma in compenso varie notizie e documenti che giovano senza dubbio a il-
lustrare ne' particolari le relazioni del buon prete veronese col Monti e col
Villardi; dei quali il primo non fu mai tra' suoi amici, ed il secondo da
«amicissimo», ch'eragli stato, divenne poi «suo acerrimo nemico » (p. 93).
n titolo è dunque improprio, perché il libro narra la storia di due guerre
letterarie ; e quanto all'amicizia del Cesari col Manzoni, il G., che per ora
non fece altro che accennarla, la illustrerà quando ottenga di poter stampare
le lettere del Manzoni al Cesari, che da « un pio religioso > si conservano a
Verona. Le lettere del Manzoni sono sempre documenti cosi importanti che
(1) Due già furono annunziate in questo Oiorn., XXIX, 178, XXXII, 254. La terza, di cui non
s'è parlato, è una raccolta di prose, rime e traduzioni varie, inedite o sparse, di A. Cesari, con
Dna lettera suirantore e i suoi crìtici di Nazareno Novelli, Reggio Emilia, 1899.
aiornaU stortco, XXXVIII, fase. 112-113. 14
210 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Ognuno deve desiderare di vederli pubblicati ; e noi auguriamo che la bella
ventura di farsene editore tocchi al G. Glielo auguriamo anche perchè, stu-
diando quelle lettere, che dovrebbero, verisimilmente, aver per soggetto la que-
stione della lingua, e confrontandole cogli altri scritti del Manzoni che trattano
la stessa materia, egli forse s'accorgerà da sé, molto più presto che non riusci-
rebbe a noi di persuaderglielo, che Vunità letteraria del Cesari col Mari'
zoni (p. X sgg.), cioè la perfetta concordia nel criterio della lingua e dell'arte
fra'que'due, è è un'esagerazione! Né più felice dell'idea sembrerà co-
testo modo d'esprimerla: unità letteraria del Cesari col Manzoni; e qui
dobbiamo aggiungere che di locuzioni o strane o scorrettte il libro abbonda,
come se non uscisse dalla penna di un così caldo ammiratore del corifeo
dei puristi. Se ne vuol qualche esempio? A p. 3 il G. dopo aver detto che
« la nostra dolcissima lingua fu, per oltre cinque secoli, il più bel tratto di
« fisionomia » del popolo italiano, soggiunge : « ma questo bel tratto di
« fisionomia fu in procinto d'esser rotto e tolto alla misera Italia dalla pre-
« potenza degli stranieri ». Storicamente non è giusto il dire che la prepo-
tenza straniera ce lo rompesse; ma s'anche fosse giusto, non sarebbe ben
detto; a meno che quel « più bel tratto della fisionomia > che ci si ruppe,
non fosse stato, poniamo, il naso. A p. 5 leggesi che il Cesari « impaziente
« di vedere pubblicata quella ristampa [del Vocabolario], pensò e fece ogni
« sforzo di farla da sé stesso ». Poco più sotto, alla stessa pagina, si ricorda
un « opuscolo, di cui ne esiste un esemplare » nella Bibl. Gom. di Verona.
E, per farla breve, a p. 27 s'incontra questo periodetto: « A credere che il
« Monti non avesse letto non che veduta la risposta del Cesari bisognerebbe,
€ in vero, essere un solennissimo ignorante, o per lo meno, credere ch'egli
«fosse un anacoreta; mentre è noto, ch'era all'estremo opposto».
Non son fiori d'eleganza, certamente; e, ripetiamolo, spesseggiano ; il che
prova che la sconfinata ammirazione per uno scrittore purgatissimo, quale
fu il Cesari, non fece del G. uno scrittore troppo scrupoloso.
Di cotesta ammirazione sconfinata pel suo autore egli dà anche, nel libro
nuovo di cui discorriamo segni frequenti. Secondo lui le opere « del grande
« Filippino », non sono soltanto monumenti di « semplicità » e d' « eleganza »,
ma di « dottrina ampia e profonda »; e se il Cesari non fu un grandissimo
poeta, fu « parimenti dotato d'ingegno vigoroso, anzi più svariato e splen-
« dido di quello del Monti » (p. 11), fu un « perfetto ingegno » (p. 36); giu-
dizi affatto soggettivi, che non staremo a discutere.
Ma il libro, per buona sorte, contiene molte cose più degne di fermar l'at-
tenzione degli studiosi, specialmente nel capitolo che riguarda il Monti. E
fra l'altre, « un fatterello, o, per dir meglio, una bestiale (sic) ciurmerla
€ fatta al Cesari nel 1814, nella quale sembrerebbe che il Monti medesimo
€ vi (sic) avesse la sua parte » (p. 32). Trattasi della stampa di due compo-
nimenti poetici del Cesari; una canzone per la nascita del Re di Roma, ed
un capitolo per la liberazione di Pio VII, che riuniti stridevano e stonavano
maledettamente. Fu un brutto tiro, e il Cesari, in certa sua lettera al Bel-
trami, credeva di poter dire chi gliel'avesse giocato: « Vuol essere farina del
« Monti » (p. 32). Chi sa che non l'imbroccasse! L'avevano già fatto tante
volte a lui quel brutto scherzo di mostrarlo co* suoi versi volubile e volta-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 211
bile, che il Monti potè trovarci gusto a farlo qualche volta anche ad altri.
< Ciurmeria » però non fu ; che la canzone pel Re di Roma il buon Cesari
l'aveva scritta davvero, se non pubblicata — ed è singolare ch'egli s'adat-
tasse a cantare la nascita del figlio di quel Napoleone al quale era stato
< sempre cordialmente avverso », e al quale non risparmiò, nell'ora della
sconfitta, oltraggi più sciocchi che feroci (1). Em. B.
ILARIO RINIERI. — Della vita e delle opere di Silvio Pellico.
Voi. III. Ricordanza e tragedie inedite. — Torino, Streglio,
1901 (8°, pp. x-321).
A questo terzo e, probabilmente, ultimo volume, il p. R. avrebbe dovuto
por titolo alquanto diverso, per distinguerlo cosi dai due precedenti (2), nei
quali, a modo suo, sostenne le parti di storico e di critico ; mentre qui, oltre
a cinque, non molto sugose, pagine di prefazione, e qualche verso, ch'egli
credette di dover aggiungere dove i testi da lui pubblicati erano mutili, e
qualche parola ch'egli credette di poter con vantaggio sostituire a quelle degli
autografi, su cui condusse la stampa, di suo non c'è nulla. Così ho pur detto
la singolare larghezza con cui il p. R. intese e compì l'ofiScio d'editore; e mi
dispiace di dover aggiungere che, s'anche coteste integrazioni e correzioni
avessero aggiunto peregrine bellezze all'opere del Pellico, noi, in coscienza,
non potremmo approvarle; e non le approveranno certo quanti abbiano
qualche scrupolo di metodo e qualche scrupolo di modestia. Il nostro editore
invece non n'ebbe, e si permise « di cambiare qua e colà (in quanti luoghi
« egli non dice, né lasciò modo a noi di vedere) qualche parola in un'altra
« sinonima^ a fine di togliere a certe espressioni o l'impressione {sic) sgradita
« a' nostri giorni, o quel tal sapore rancido di grandezza, che per amor tra-
< gico (sic) il Pellico riponeva in certi paroloni. Così » (e se ciò che segue
deve servire d'esempio, l'esempio è davvero ben scelto! ), «così la parola
41. moglie ho cambiato in sposa, madre, consorte» (p. ix). Che diamine! Se
moglie gli pareva parola che oggi faccia « impressione sgradita », o di que'
« paroloni » che hanno « sapore rancido di grandezza », egli violava soltanto
il testo mutandola in « sposa, consorte », ma violava la natura mutandola in
« madre »; e speriamo che non l'abbia fatto ! Poste poi le doti non invidia-
bili di scrittore che il R. possiede (e ne fanno già testimonianza le poche
linee di prosa più su riferite), arrischiarsi a colmar le lacune di un testo di
(1) Vedi il sonetto del Cesari intitolato Ritorno di Napoleone dalla Russia, in A. Bertoldi,
Prose critiche di storia e d'arte, Firenze, Sansoni, 1900, p. 197, dove il Bertoldi premette qualche
notizia e considerazione sul contegno politico del Cesari nel periodo repubblicano e nel napoleo-
nico; contegno suggerito e dalle circostanze, e un bel po' anche dalla paura».
(2) Pei due precedenti, cfr. Giorn., XXXII, 232 e XXXIV, 244.
212 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
poesia (1), non con delle umili congetture esposte in nota, ma con de' versi
interpolati, è tale audacia che, se non fosse tanto ingenua, sarebbe obbro-
briosa.
Meglio avrebbe fatto il p. Rinieri se in cambio di quelle cure non neces-
sarie, anzi illecite, egli avesse dato a' testi da lui pubblicati altre cure di
diligente editore e di accorto illustratore — ma anche senza aver gli auto-
grafi sotto gli occhi si può star certi ch'egli lasciò correre parecchi errori
di trascrizione o di stampa, alcuni dei quali saltano all'occhio di chiunque
legga anche con mediocre attenzione (2).
Per la illustrazione dei testi da lui editi il p. R. non ha fatto nulla; e le
brevi considerazioni che su di essi ha stese nella prefazione, sono quasi del
tutto oziose. P. es., bastava egli dire che e i! Boezio è certamente una delle
« migliori tragedie di S. P., e degna di onorarsene la letteratura italiana
«nella parte drammatica » (oh mirabile garbo d'elocuzione!); che Boezio è
€ personaggio compiuto » (voleva dire uomo perfetto^ dotato di tutte le virtù
più alte); che nella stessa tragedia « le scontentezze del popolo italiano
€ come i tentativi di ribellione popolare sono descritti in maniera cosi viva,
€ che ti sembra di vedere e di sentire »; e che, nonostante tali ed altri pregi,
« i competenti nell'arte vi scorgeranno forse alcuni difetti », ma che « sa-
€ rebbe errore di giudicare delle tragedie del P. co' criterii artistici de' nostri
< giorni », poiché « l'arte drammatica di S. P. è vecchia di un secolo ! » ;
bastava, dico, perdersi in simili parole, quando potevasi, tra l'altre cose, av-
vertìre che nel Boezio (s'anche appartiene < agli ultimi tempi dell'autore »,
dbme il p. R., non saprei su qual fondamento congettura, sbagliandosi forse)
rivivono le memorie del carbonaro del *21 e del prigioniero dello Spiel-
berg (3), e rampollano le reminiscenze letterarie dell'antico ammiratore del-
l'Alfieri? (4). L'influenza dell'Alfieri è del resto più manifesta sui primi espe-
rimenti tragici del P.: la Laodamia (1813), nota fin qui per il parere che su di
essa stese il Foscolo in una lettera al P., e il Turno (1814), di cui era ignota
l'esistenza. Ma nonché rilevare in esse le tracce di cotesta visibile influenza
alfieriana, e le relazioni che coleste due tragedie, pei soggetti, la condotta,
gli episodi, il colorito, hanno con la letteratura tragica italiana e francese
della fine del secolo XVIII e del principio del XIX, non rilevò neppure le
relazioni ch'esse hanno con più famose tragedie posteriori del P. stesso;
(1) Cmi ha fatto per la Laodamia, pp. 58-59.
(2) Mi ricordo ora di questi, rilerati nel Botxio'. « sfregiati indarno Costumi » (p. 191), doYs
il senso richieAs ebo A Isgga iprtfiaU — « Farli tremar degg'io Tengano » (p. IM), doro maSM
dopo «degg*io» un indispensabils segno d' interponiione — e Mio re, che sento? La mori* mi
« risparmi? », dote « mi » sta indubbiamente per gli.
(8) y., per es., atto III, se. U e atto lY. se. 2« e 4>.
(4) Per es., nell'atto III, se. 4«, quel Terso ieìVÀgamtnnon* alBeriano: «Chiuso nell'elmo, in
« silensio io piangeva » (atto II, se. 4*) ò ripetuto da Boeaio : « Muto, ehioso neirelmo, io la-
« grimaTa » ; ripetuto, e, diciamolo pure, anche sciupato. A proposito del BoéMio, non sarebbe
stato certo inopportuno indagare se un qualche precedente letterario potò suggerire al P. l'idea
di cerar da quel soggetto una tragedia, e quanto potò a oiò contribuire il Bttuio in carur» deL
co. Bobbio di S. Raffaele, che probabilmente al P., piemontese, fu noto.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 213
perchè certo qualche tratto del Turno ci richiama tratti deìVEufemio da
Messina e della Francesca.
Mediocrissimi lavori però cotesta Laodamia e cotesto Turno; ma, per
quanto deboli, non però così infelici come la quarta delle tragedie pubblicate
dal p. R., YAdella; che forse (egli non lo dice, ed io arrischio la congettura
per quel che vale) è tutt'una cosa con quella tragedia, Dante^ che il P. ideò
con parecchie altre, forse poi non tutte eseguite, di cui finora conosciamo
soltanto i titoli. Dante infatti neìVAdella ha parte, se non di protagonista,
almeno assai lunga; purtroppo: — perchè questo Dante che quando non de-
clama i versi della Commedia^ parla il più enfatico, triviale e falso linguaggio
retorico; questo Dante che chiama sé stesso
L'esule iracondo
Che, per itale reggie e per castella
Senza viltà da langhi anni vagando,
Gl'iniqui impreca e suscitare indarno
Spera virtù. Nel cruccio e nel dolore
Invecchiato oramai, movo alla terra
Ove suo nascimento ebbe Francesca
Yitnpero di Bimini! ecc.
(Atto I, se. 3a),
questo Dante che grida {con voce imperiosa):
Olà
Tempo è che Dante sua parola innalzi
Fra gli ebbri spirti cui furore accieca (breve silenzio di rispetto)
(Atto II, se. 6a),
questo povero Dante così fatto è una profanazione.
La fama del Pellico, come poeta, non s'avvantaggierà certamente dalla
pubblicazione di cotesto nuove quattro tragedie, che potranno servire soltanto
per lo studio di alcune tendenze della mente, dell'animo e del gusto del Sa-
luzzese, poiché vi* si specchiano con perfetta evidenza. Anche, a tale studio,
potrà servire la Ricordanza (1) che precede nel volume le tragedie, ed « ha
« tutta l'andatura di una leggenda [?] o romanza poetica ». Era più esatto
dire d'una novella poetica, una di quelle patetiche novelle del sospiroso e
pio romanticismo d'allora — con un sostrato di realtà storica, che meriterebbe
d'esser messo in luce (2). Ma se storiche non fossero le persone della muta
Adelaide, dell'incredulo suo padre, de' suoi scapestrati fratelli e degli altri,
che vi hanno parte, storiche sono le memorie degli anni fortunosi alle quali
(1) Così il p. R. chiama cotesto componimento nel frontispizio e nella prefazione ; poi nell'oc-
chiétio che lo precede, lo chiama Ricordanze di Silvio Pellico e v'aggiunge, per sottotitolo, Ade-
laide la fanciulla muta. Bisognava decidersi, e dei tre titoli diversi eliminarne almeno uno.
(2) Il p. R., dopo aver ravvisato nella Ricordanza «l'andamento d'una leggenda», aggiunge:
« si direbbe che il fondo di questo racconto poetico è storico : ma non ho saputo indovinarne il
« contenuto allegorico » (sic). E storico — non allegorico, badiamo — pare anche a me il fondo
o il contenuto della novella ; e chi avesse familiare la cronaca milanese dell'età napoleonica, po-
trebbe darcene la chiave. "*
214 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
le private vicende di Don Gabriello e della sua famiglia si legano, degli anni
vissuti dal Pellico a Milano mentre ancor sfolgorava la portentosa meteora
napoleonica. Anni torbidi e lieti, a cui volgevasi con un misto sentimento
di stupore e di desiderio Tanima del poeta invecchiato:
Ai tempi del fagace italo reg^o
La ricordanza mia spesso trasvola,
Perch' io li vidi in gioventù, e brillaro
Agli occhi miei qoal favola stupenda.
Da poeta inventata ebbro o insanito,
Ma d'alta fantasia
memorie incancellabili, che traducevansi talora a lui in bei fantasmi poetici.
La miglior cosa di cotesto volume è senza dubbio cotesta novella, che ha
molti dei più soavi languori sentimentali della musa del P., ed ha (pregio
raro nelle cose del P.) gruppi di versi, in cui alla delicatezza del sentimento
si congiunge la virtù della forma. Em. B.
A. G. BADMGARTEN. — Meditaiiones pfiilosophicae de nonnullis
ad poema pertìneniibus. Ristampa dell'unica edizione del
1735 a cura di B. Croce. — Napoli, 1900 (8«, pp. 46).
Ottimo divisamento è stato questo di ristampare la Dissertazione di laurea
presentata dal Baumgarten nel settembre del 1735 all'Università di Halle,
e stampata allora in un opuscolo, divenuto ora rarissimo e già quasi dimen-
ticato anche dai Tedeschi, sebbene storicamente importantissimo. Giacché
in questa dissertazione può dirsi, o, almeno, è ammesso generalmente (1),
che sia nata la scienza, di cui è fondatore il B.; il quale non apportò in
seguito se non lievi e parziali modificazioni al suo primo concepimento. E
in essa infatti (§ 116) viene per la prima volta adoperata la parola estetica
a denotare una scienza speciale.
L*A. contava solo 21 anni, quando dalle riflessioni fatte durante il suo
doppio insegnamento di Poetica e di Filosofia nell'Orfanotrofio di Halle era
tratto a scoprire alcune nuove attinenze fra le due dottrine che veniva spie-
gando agli scolari, applicando alla poetica i principi della psicologia wolfiana
e quel metodo geometrico, che sette anni prima il Wolf aveva adottato nella
trattazione della logica in un libro dal B. molto studiato e citato in questo
(1) In an suo recentissimo scritto B. Crock (G. B. Vico primo scopritore tUUa scÙHMa «tUttca,
Napoli, 1901 ; estr. dalla FUgrea del 5 e 20 aprile) arriva alla conclasione, che il primo a sco-
prire veramente l'aatonomia della fantasia e quindi il principio della Estetica è il noetro Vico, •
non, come ritengono tutti gli storici di questa sciensa, il Baumgarten; il quale non avrebbe sco-
perto altro che la parola Est$tica, e sarebbe, per altro, rimasto impigliato nella peUtione
del Leibniz. '
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 215
opuscolo (§ 73). Lo Scaligero, adunque, e il Vossio, da una parte, e il Wolf,
dallaltra, valgono a spiegarci la genesi dell'estetica nella mente del Baum-
garten.
Egli tratta già in questo opuscolo l'estetica come una logica della facoltà
conoscitiva inferiore (o sensitiva), distinguendola dalla logica propriamente
detta, in quanto questa ha per oggetto la facoltà conoscitiva superiore (o
intellettiva) (§ 115); e bello o, com'egli dice, poetico è per lui tutto ciò
che è sensibile, individuale, chiaro, ma non distinto, ossia non adeguata-
mente intelligibile. Da questo principio l'A. cerca di dedurre tutti i precetti
della poetica tradizionale. Nella distinzione dell'individuale fantastico dal-
l'universale astratto era la chiave di tutta l'estetica posteriore. E in questa
memoria la distinzione è posta nettamente.
La ristampa, elegantissima di carta e di tipi, riproduce fedelmente l'unica
edizione del 1735, da un esemplare conservato nella R. Biblioteca di Monaco
di Baviera, solo correggendone alcuni evidenti errori tipografici. È la prima
opera tedesca di filosofia che riveda la luce in Italia per opera d'un italiano;
e merita lode il dotto editore dell'esempio dato e della scelta, come delle
noterelle bibliografiche aggiunte qua e là per rettificare o compiere le
citazioni del testo, e della diligenza della edizione. Solo a p. 41, lin. 1,
ci pare che il sensitiuam — che forse era nell'originale — andasse cor-
retto in cognoscitiuam. Gfr. p. 41, linn. 13-14: facultatem cogno-
scitiuam inferiorem. A p. 13, lin. 22 repraesentantur dev'essere
una svista per repraesentatur; come lo è a p. 19, lin. 11: sensitua
per sensi ti uà. G. G.
FRANCESCO BENEDUCCI. — Scampoli critici. Seconda serie. —
Oneglia, tip. Ghilini, 1900 (16% p. 155).
Del più grosso di cotesti Scampoli non possiamo render conto qui, dove
nessuno che s'occupi di letteratura viene ad informarsi del tempo che fa o del
tempo che farà, ma tutt'al più, unicamente, del tempo che ha fatto. S'intitola
Pronostico; è interessante, è piacevole, contiene delle osservazioni acute e
persuasive (che sia persuasivo tutto, non direi) ; ma la materia non è storica,
e quindi lo si lasci da parte, quantunque sia forse il meglio del volume.
Degli altri otto, che pigliano le rimanenti 106 pagine, e son dunque brevis-
simi (1), ci sbrigheremo rapidamente, perchè sarebbe inutile che c'indugias-
simo a ripeteie cose già dette in questo Giornale (34, 440) a proposito del-
(1) Tra i più brevi ricordo qui in nota quello intitolato Un medico del seicento che guarisce
un tisico, che riguarderebbe la storia della medicina. Il medico è il Redi, e la /t«t da lui guarita
con la cara lattea sarebbe stata invece va' emottisi.
216 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Taltra raccoltina di Scampoli pubblicata dal B. due anni or sono. Possiamo
dir solo che i pregi e i difetti già notati in quella, appaiono anche in cotesta
nuova; e che gli uni e gli altri accennano a crescere, anzi che a diminuire.
Crebbero, infatti, il brio, la disinvolta eleganza, Tamenità della forma;
ma crebbero anche del pari lo studio della sottigliezza, l'insufficienza della
ricerca e della riflessione, il facile abbandono a non abbastanza meditati ar-
dimenti.
D'essere arditissimo, certe volte, il B. lo sa, lo dichiara, e, se non c'in-
ganniamo, se ne compiace un po' troppo. Lo studio su La pazzia d'Orlando
(pp. 27-52) ch'è il più elaborato del volume, ne porge parecchi indizi. In co-
testo studio il B. sottopone a minuta analisi il tanto ammirato episodio
ariostesco ; e vi nota, tra l'altro, l'errore in cui il poeta sarebbe caduto,
dando Orlando per pazzo solo (e. XXIII, st. 132) il quarto giorno dopo la
fatai notte passata in casa del pastore, cioè dopo che ha già compiuto (st. 125,
130-131) tanti atti violenti. Secondo il B. è evidente che la pazzia d'Orlando
incomincia dal punto in cui il paladino balza dal letto, dove il fantasma
d'Angelica, che pur vi era giaciuta col suo Medoro, non gli concede riposo
e gli sconvolge lo spirito. Sarà ; ma io credo che le smanie e le violenze a
cui un uomo può abbandonarsi sotto la sferza dell' ira e della disperazione
non siano da confondere con la pazzia vera e propria, o, per meglio dire,
sieno pazzie transitorie, che possono preludere bensì alla pazzia cronica, ma
non spegnere d'un tratto, per sempre, il lume della ragione. E credo ancora
che sia stata felice intuizione del vero, o del verisimile (che in arte è l'es-
senziale) quella del poeta, che fa seguire il proprio e totale impazzimento
d'Orlando a que' tre giorni che l'infelice, sfogato il primo impeto di rabbia,
passa senza nutrirsi, senza prender sonno, senza piangere, supino sulla nuda
terra; e in quegli occhi sbarrati (E ficca gli occhi al cielo) d'uomo che l'in-
sonnia e il digiuno e l'ossessione d'una idea orribile vanno stremando, par^
di vedere il progressivo oscurarsi del raggio dell'intelligenza. Il modo ch'ei
tenne poi nel descrivere l'impazzimento d'Orlando, pare che l'Ariosto lo di-
visasse fin da quando scriveva la protasi del poema:
Dirò d'Orlando in nn medesmo tratto
Cosa non detta in prosa mai, né in rima;
Che per amor venne in farore e matto ;
quasi avesse voluto cosi per tempo distinguere in due termini, che non hanno
significazione equivalente, due momenti che non vanno confusi ; e distinguerli
nell'ordine in cui poi effettivamente si susseguono. E non par più naturale
che non si compia d'un subito il tramonto dell'intelligenza in un uomo < che
« s'i savio era stimato » innanzi, e che la follia s'insignorisca del suo cer-
vello solo dopo una lotta assai lunga? Ma poniamo che la scienza psicopatica
possa dar torto all'Ariosto, e che il suo eroe sia veramente da chiamar pazzo
del tutto prima ch'egli lo dichiari tale; ebbene, ne risulterebbe un errore scien-
tifico, non già una contraddizione logica e una imperdonabile negligenza
d'arte, come il B. sostiene. Certo Orlando s'abbandona a strani eccessi tosto
che ha lasciato a precipizio la casa del pastore: ma quegli eccessi son ben
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 217
diversi da quelli ch'egli commette quando si riscuote dal letargo di quei tre
terribili giorni in cui avviene il lento naufragio della sua coscienza ; nei
primi si vede il trasporto di una passione estrema che cerca sfogo, ne' se^
condi invece l'abbrutimento dell'uomo degradato dalla malattia che ha ucciso
in lui lo spirito. La vera pazzia d'Orlando, per l'Ariosto, comincia da questo
punto, e non è vero affatto che il poeta cadesse « in una delle sue solite
€ distrazioni » (p. 35) facendo impazzire « smemoratamente » il suo eroe due
volte.
Ma il B. s'è fitto in testa di poter dimostrare che il famoso episodio è
ben lontano da quella perfezione che i più ci trovano, e che sotto più aspetti
l'Ariosto vi « falsò maledettamente la verità, quella verità — notate bene —
«della quale è stato celebrato, ad onor e gloria dell'umanesimo, angelo
« custode » (p. 38). Perchè? Oh, perchè egli si è dimenticato di dirci che il
viso d'Orlando, « ne' momenti di maggior concitazione », doveva essere « rosso
« infuocato », e che, come senza dubbio succede agli energumeni, « i capelli
« d'Orlando si erano scompigliati » (ivi). Si potrebbe imaginare mancamento
più grave? E poi, domanda il B., era lecito mettere in bocca ad un pazzo
quei troppo culti lamenti :
Non son, non son io quel che paio in viso ;
Quel ch'era Orlando è morto, ecc.,
se non volevasi far comparire « il pazzo più savio, cioè più acuto, del Te-
« baldeo »? (p. 41). Tal fallo sarebbe stato veramente gravissimo, se proprio
l'Ariosto avesse inteso di far parlare cos"i un pazzo; ma badi il B.: a ragione
o a torto, l'Ariosto si figurava che Orlando allora non fosse ancora ammat-
tito, benché vicino ad ammattire; e la differenza non è poca. Né, per quanto
poco precisa scientificamente possa sembrare la descrizione della pazzia d'Or-
lando a chi la considerasse oggi col sussidio di qualche manualetto psichia-
trico, sarebbe lecito paragonarla a quella grossolana idea della pazzia che
può avere « qualunque donnicciuola che non sia mai entrata in un mani-
« comio » (p. 43); e tra l'Ariosto e una «qualunque donnicciuola» — per-
bacco! — ci ha da correre sempre un certo tratto!
A questo punto il B. s'allarga a discorrere di ben più ampia materia;
perchè dalla mancanza di verità e dosservazione diretta, ch'egli ha creduto
di ravvisare in uno dei canti più famosi del Furioso, prende occasione ad
« esporre intorno all'arte dei cinquecentisti un giudizio che da un pezzo gli
« si è fitto in capo» (p. 44); cioè un giudizio molto severo e quasi del tutto
negativo. Cotesto suo discorso « sentenziosamente succinto potrà essere un
« giorno o l'altro rafforzato da lunga dimostrazione e da minute prove »
(p, 52), e quindi, per discuterlo, sarà meglio aspettare quel giorno. Ora pos-
siamo dire soltanto che TA., a parer nostro, non entrerebbe in un facile
impegno la volta in cui si mettesse a dimostrare varie delle proposizioni che
intanto enuncia, tra le quali è anche questa : « la Rinascita ha reso alla
€ poesia lo 8tes.so servizio che la scolastica rese alla scienza » (p. 47); e in-
tanto dovrebbe ricordarsi di tutto il male che s'è già detto del Rinascimento,
per non ripetere inutilmente delle accuse vecchie, e in gran parte .sfatate.
218 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Sotto il titolo di Noterelle manzoniane il B. svolge certe ingegnose sue
osservazioni su tre punti dei Promessi sposiy ne quali gli parve di cogliere
in fallo il Manzoni; impresa, anche questa, non facile. Se non hanno maggior
peso, hanno certo più ampio svolgimento, le osservazioni intorno al 3** punto,
cioè alle difficoltà che p. Cristoforo oppone a Renzo, quando costui vorrebbe
penetrare nella parte del lazzaretto riservata alle donne, per cercarvi Lucia
(cap. XXXV). 11 b. richiama la bella sicurezza con cui p. Cristoforo aveva
fatto tacere gli scrupoli di fra Fazio quella notte che nella chiesa di Pesca-
fenico aveva momentaneamente ricoverato Renzo e le donne, malgrado « la
« regola » rammentatagli dal sagrestano (cap. Vili); e argomenta: come mai
un tal uomo, cosi sicuro nella propria coscienza, cosi superiore alla pedan»
tesca osservanza della lettera, quando sia salvo lo spirito delle leggi, così
poco accessibile a meschini scrupoli volgari, contrasta ora a un desiderio
innocente, legittimo, quasi santo? «Come spiegare quest'improvviso cambia-
« mento del padre Cristoforo? » (p. 72). A me parrebbe che prima di cercar
di spiegarla, bisognerebbe vedere se la contraddizione esista, o se almeno
sia poi così grave come il B. se la figura. Le difficoltà che padre Cristoforo
oppone a Renzo, siamo giusti, non sono lunghe; cadono subito alla prima
replica del giovine; anzi cadono allo spontaneo ricordo di quella massima
che fra Fazio non intese e che perciò appunto gli fece tanto effetto: Omnia
munda miindis. Infatti p. Cristoforo, rispondendo piuttosto a' suoi pensieri
€ che alle parole del giovine », dice il Manzoni, ripiglia: < Non so cosa dire,
« tu vai con buona intenzione »; e, Omnia munda mundis! La stessa dot-
trina, dunque, e lo stesso uomo, lo stesso gran cuore; perchè non solo non
impedisce a Renzo d'andare in cerca di Lucia nel vietato recinto, ma gl'in-
segna il modo di penetrarvi; e « se gli si facesse qualche ostacolo, dica
«che il padre Cristoforo da*" io conosce, e renderà conto di Iuìp. Tutto
l'aiuto che poteva dargli, glielo dà, senza farsi pregare; tutta la responsa-
bilità che doveva assumersi, se l'assume; cosa volete di più? Ma se, per
ipotesi, il padre Cristoforo del Lazzaretto non fosse più quello di Pescarenico;
0, almeno in apparenza, paresse un po' più esitante questa volta che non si
fosse mostrato in altri incontri, creda pure il B. che a spiegare il fatto non
mancherebbero buone ragioni, e che di molte circostanze speciali del luogo,
del tempo, del dovere bisognerebbe tener conto, come senza dubbio se ne
rese conto il Manzoni; il quale, in materia di psicologia, non fu quell'* uomo
«alla buona e praticone» (p. 72), che il B. lo definisco, e non ha bisogno
della scusa oraziana: opere in longo fas est obrepere somnum (ivi), che ge-
nerosamente gli si vorrebbe concedere. Mi dispiace poi di dover aggiungere
che il B. in un punto non ha inteso affatto l'autore che censura. A p. 69,
dopo aver riferite e commentate le parole di Renzo, che ricorda a p. Cristo-
foro le pene soff'crte per amor di Lucia, e i rischi incontrati per ritrovarla;
riproduce e commenta vivacemente quel « Non so cosa dire » del frate,
che più su anch'io ho richiamato; e lo interpreta come una secca ris[X>sta,
una sgarbata ripulsa, un tratto d'inumanità; e carica d'aspri rimproveri l'e-
roico cappuccino, che non disse mai a Renzo: — la regola è regolateseli
disturba, non so cosa dire — ma disse invece a sé stesso: — la regola è
giusta, però costui ha più ragione della regola; ci si passi dunque su;
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 219
non so cosa dire! Qui non si tratta d'opinione : rilegga il B. quel testo, senza
arrestarsi alla prima virgola, e s'accorgerà snbito della svista veramente un
po' grossa in cui è caduto.
Materia disputabile in ognuno di cotesti Scampoli se ne troverebbe d'a-
vanzo; ma è poi sempre materia disputabile con frutto? P. es. il B. scrive
circa otto pagine su II Manzoni paragonato a Dante, per decidere se cotesto
paragone, di cui chi per critica intende frasi può compiacersi, sia legittimo
o no. Ma francava la spesa di scrivere otto pagine per dimostrare prima
quanto la Commedia differisca dai Promessi sposi, e per concludere poi che
quelle due opere si possono tuttavia ravvicinare, perchè in esse i due autori
ci diedero l'unica e più ampia misura del loro genio ?
Nella Noterella demonologica che segue (pp. 15-26) il B. ricerca « di che
« cosa son fatti i diavoli danteschi » ; e posto 1' « assioma che tutti quanti
«i diavoli debbono essere materiati ugualmente» (p. 22); posto quindi
per certo che le cagne bramose e correnti della selva dei suicidi (le quali
non sarebber che diavoli) «portano carne ed ossa» (pp. 21 e 23); posto
inoltre per certo che i giganti (i quali pure sarebber diavoli) « siano stati
«accolti nell'inferno tali quali erano da vivi, in carne ed ossa» (p. 24),
conclude che anche gli altri diavoli, i cacciati dal del, gente dispetta « de-
« vono essere provvisti di una forma consimile » (p. 25), cioè « sono formati
« di carne e d'ossa ». Sia come si vuole, questo è certo che il procedimento
logico del B. non va dal noto all'ignoto, e che di troppe premesse, non tutte
dimostrate e dimostrabili, egli ebbe bisogno per giungere ad una conclusione
che intuitivamente non ha grande valore persuasivo.
La Noterella dantesca (pp. 73-78) tende a ribadire la interpretazione delle
tre fiere proposta dal Casella; e la. Noterella par iniana (pp. 85-89) propone
che si ravvisi nel convitato pitagorico del Mezzogiorno un seguace convinto
della dieta vegetariana predicata da Antonio Cocchi nel Vitto pitagorico; un
seguace convinto di essa, non per altro che per la speranza di campare,
vivendo cos'i, gli anni di Matusalem. La nuova interpretazione non mi par
troppo chiara, e non è necessario che stia qui a dire perchè.
Bel soggetto a uno studietto, un po' più largo però e più compiuto di quello
che il B. ci diede, sarebbe stato L'Algarotti critico (pp. 91-110). Il B. aveva
ogni ragione di osservare che deli'Algarotti s'è detto più male che non me-
ritasse, e che fra i suoi vari scritti e pensieri ve n'ha alcuni notevolissimi
pel tempo in cui furono concepiti, e non trascurabili neppur oggi; ma che
bisogno c'era d'esagerare il merito deli'Algarotti a danno del povero Tira-
boschi (pp. 92-93), e d'affermare con tutta sicurezza che « dove egli [l'Al-
« garotti] ha posto piede, ha sempre lasciato un'orma»? Il B. espone quindi
le idee del suo autore sull'opera in musica, quelle contenute nel Saggio
sopra la rima, ed altre sopra lo stile di Dante, la lingua italiana e la mi-
tologia, sparse in alcune lettere del colto e sagace veneziano. Utili, senza
dubbio, i riscontri notati fra cotesto varie proposizioni ed opinioni con quelle
d'alcuni scrittori moderni ; più utile storicamente e criticamente sarebbe però
riuscito il confronto con quelle di scrittori contemporanei all'Algarotti, che
preso a considerare fuor del suo secolo, rischia d'essere giudicato o troppo
piccolo 0 troppo grande, secondo gli umori.
220 BOLLETTINO BIBCIOGRAFICO
Ora, per concludere, se avessimo autorità sufficiente da dar consigli, vor-
remmo pregare il B., che indtJbbiamente ha ingegno e anche studi, di non
accontentarsi sempre di Scampoli, e di spendere la sua attività, da cui è
lecito attendersi frutti migliori, in qualche lavoro più importante e più me-
ditato. Em. B.
ANNUNZI ANALITICI.
Orsini Beoani. — Fra Dolcino nella tradizione e nella storia. — Milano,
Cogliati, 1901 [Volumetto onestamente fatto, che ha due meriti: !• quello
di valutare in modo adeguato il valore della Historia Dulcini, edita dal Mu-
ratori in R. I. 5., voi. IX, correggendone le inesattezze e completandola con
gli altri pochi documenti attendibili che si hanno sull'animoso eresiarca;
2° quello di sfatare quasi del tutto l'autorità del Baggiolini, che traviò già
tanti, provando che il ms. vercellese su cui egli in gran parte si fonda non
è altro che una manipolazione piena di corbellerie d'un prete secentista
(v. pp. 72 «. e 79). Il contorno di queste due dimostrazioni appartiene in
grandissima parte ad altri, in special guisa al Tocco, al quale il B. tolse
(pur citandolo a più riprese) tuttociò che sa degli Apostolici e della loro
storia e dottrina. Magrissime, incompiute e note già per altri recenti lavori
sono le informazioni che il B. dà in fine sulla tradizione popolare di fra
Dolcino in Valsesia. Ci fa meraviglia che egli, avendo conosciuto la seconda
delle eccellenti memorie del Segarizzi (cfr. Giorn., 37, 188, e 461), ove sono
notizie sicure di quella Margherita che fu a Dolcino fedele compagna in
vita ed in morte, non abbia tratto maggior partito dalla prima (rrid^n^um,
111, 5-6), che è senza dubbio e resterà la migliore rassegna critica delle fonti
riguardanti la storia di Dolcino. Quella giudiziosa dissertazione avrebbe
giovato assai a procurare al B. una più compiuta cognizione della lettera*
tura del suo soggetto, ed a conferire al suo lavoro, s'egli si fosse dato la
pena d'allargare le ricerche, maggior solidità e sicurezza. Prendiamolo, tut-
tavia, anche così com'è, quale una contribuzione non ispregevole alla ricerca
storica su fra Dolcino. E siccome questo personaggio ha importanza anche
pei dantisti, cogliamo l'occasione per osservare che non ci sembra punto nel
vero il B. quando afferma con tanta sicurezza che il celebre monito a DoU
cino, messo in bocca da Dante a Maometto nell'/n/*. XXVIIl, sia stato pre-
cisamente scritto nel 1305 (p. 9). Ritiene questo il B., come spiega più tardi
(pp. 112-13), perchè appunto nel 1305 Dolcino, fulminato da Clemente V,
che gli band'i contro una crociata, si ritirò tra i monti della Valsesia, e l'in-
verno tra il 1305 ed il 1306 trascorse sulla Farete Calva. Ma hanno le pa-
role di Maometto tono profetico? Non parrebbe. E se ciò non è, se accen-
nano a fatti contemporanei alla presunta epoca della visione, debbon riferirsi
al 1300. Dante può averli scritti anche parecchio dopo il 1305; ma secondo
la sua consuetudine egli anche qui trasporta l'azione nel tempo in cui ima-
gina d'aver compiuto il mistico peregri naggio].
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 221
Carmelo Cazzato. — Una nuova proposta sulla questione della «.Matelda-».
— Città di Castello, Lapi, 1900 JSebbene estremamente prolisso e dettato
senza eleganza, quest'opuscolo fa pensare. Della ricca letteratura che v'ha
intorno a Matelda il C. ha l'informazione, non certo spregevole, che nel
1875 accumulò lo Scartazzini in una digressione del commento lipsiense (II,
595 sgg.). Nulla sa di altri scritti successivi (cfr. Giorn., 33, 427 e 37, 190),
né gli importa di saperne, perchè gli farebbero perder tempo senza pro-
fitto (p. 12). A lui già non va a fagiolo nessuna delle ipotesi espresse da
altri, perchè ne ha in serbo una tutta sua, radicalmente diversa. Egli stabi-
lisce, anzitutto, che Matelda ha un particolare uflBcio nel poema: quello d'im-
mergere tutte le anime destinate al paradiso nei fiumi Lete ed Eunoè. Il
salmo Delectasti, che secondo un'arbitraria interpretazione del C. è cantato
da Matelda, non è altro che il salmo 29^, quello della risurrezione del Sal-
vatore e dei giusti. Essa è dunque la persona con che s'iniziò la nuova
legge sanzionata col sangue di Cristo, « s'iniziò virtualmente il purgatorio,
«che ella annunziò all'umanità, quando annunziò la risurrezione»: Maria
di Magdala, la peccatrice, da cui Gesù cacciò i sette demoni, cioè i sette
vizi capitali, che nel purgatorio si espiano. Le anime « trovano in lei il com-
€ pendio di tutta la loro storia di colpa e di risurrezione, come in Lucifero
« è il compendio di tutti i peccati, in Maria Vergine quello di tutte le virtù »
(p. 59j. A ribadire la sua opinione il C. adduce dottamente gran copia di
dati tratti dalla Scrittura e dai Padri, per cui si vede l'importanza che Mad-
dalena ebbe nella tradizione ecclesiastica, importanza che rende malagevole
il credere che l'Alighieri abbia potuto compiutamente dimenticarsi di lei.
Vorrebbe anche trovare una conferma nella tradizion popolare; ma ricorre
alle sacre rappresentazioni, che nel caso attuale poco importano, perchè sono
tutte posteriori alla Commedia. Nel simbolo Matelda è per TA. la Chiesa
purgante, che mena Dante a Beatrice, cioè alla Chiesa trionfante. Come poi
la Maddalena sia diventata Matelda, il C. non spiega: pare che ritenga Ma-
telda una specie di nomignolo tratto dalla corruzione di Magdala (p. 101),
il che è ameno per lo meno quanto l'etimologia bizzarra proposta da G. Bassi
(vedi Giorn., 35, 181), — In sostanza, parecchi fra gli argomenti messi fuori
e corredati di buona dottrina dal C. sono degni di nota; e, a parer nostro,
i personaggi reali sinora sostenuti dalla critica più o meno ufficiale, sono
cos'i sgarbati e inadeguati alla figurazione di Matelda, che a nuove inter-
pretazioni non solo si può, ma si deve, far buon viso. Crediamo peraltro che
sia un ostacolo forte quello del nome, e siamo poi sicuri che il C. erra nella
spiegazione del simbolo. Il simbolo di Matelda a noi non parve mai dubbio :
è la Lia del sogno di Dante (Purg., XXVII), cioè la vita attiva. La Chiesa
purgante, che equivale, se non erriamo, al ministero sacerdotale, è rappre-
sentata sulla soglia del purgatorio propriamente detto, dall'angelo portiere
cinereo. Se non che vi sarebbe anche modo, forse, di conciliare la Madda-
lena col simbolo della vita attiva].
Michele Scherillo. — Il nome della Beatrice amata da Dante. — Mi-
lano, 1901 [Estratto dai Rendiconti dell" Istituto lombardo. È noto come lo
Sch., anni sono, studiando i rapporti della V. N. con le abitudini dei tro-
vatori, stimasse il nome di Beatrice un senhal e come gli balenasse l'idea
222 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
che invece la prima donna dello schermo fosse Bice Portinari (cfr. Giorn.^
15, 278 e 30, 448 sgg.). Questa opinione non ebbe seguaci seri; ma all'idea
che Beatrice non fosse il nome vero della donna amata dal poeta sembrò
accostarsi il Carducci, allorché investendo coloro che ne celebravano le feste
centenarie nel 1890 usci a dire che il nome Beatrice « probabilmente de-
«. rivo da un epiteto delia poesia cavalleresca ». Ora lo Sch. fa nuove consi-
derazioni sul soggetto e viene a conclusione alquanto diversa dalle precedenti.
Egli ritiene che Beatrice sia senhal di Bice Portinari, e recando in mezzo
a riscontro le norme che Andrea Cappellaro indica rispetto al segreto d'a-
more ed alla confidenza che se ne può fare solo ad un secretarlo ^ così de-
finisce la questione: « Norma suprema de' trovatori il segreto: e Dante, nelle
€ sue rime in vita^ lo mantenne devotamente e con tutti gli stratagemmi che
« l'arte e la pratica dei rimatori ed amatori di Provenza gli consigliava o
« suggeriva. Non confidare l'amor suo che a un amico soltanto : e Dante il
« nome vero della donna sua, monna Bice^ non lo rivelò che in un sonetto,
« che doveva rimaner certamente intimo, destinato a quel Guido, che nella
€ Y. N. è ripetutamente dichiarato primo degli amici suoi. Questi era il
€secretario di Dante; come, viceversa. Dante mostra d'esserlo stato di lui,
« perchè sa che Primavera è il senhal di Giovanna o monna Vanna ^1.
Luigi Savorini. — La leggenda di Griselda — Teramo, 1901 [Estr. dalla
Rivista abruzzese. Questo Giornale si occupò già parecchi anni sono di un
lavoro del dr. Federico von Westenholz intorno a questo stesso argomento
(11, 263-5). Al S. è parso non senza ragione che la parte più importante
del tema, e precisamente quella che riguarda lo svolgersi della leggenda
nella letteratura italiana antica, fosse ancora quasi intieramente da studiarsi
e si accinse ad un lavoro di vasta tela, di cui il presente opuscolo non è
che un saggio. Dopo una breve introduzione nella quale rende conto degli
studii precedenti, il S. rintracciando l'origine prima della leggenda, accenna
ai cronisti del '400 e del '500, che ammisero in essa un fondamento storico,
ed ai vecchi critici francesi, che vollero nella loro letteratura scoprire le
fonti letterarie del racconto boccaccesco. Ma la ricerca deve essere ricon-
dotta sul terreno delle tradizioni popolari e novellistiche ed il S., messa da
parte (con non troppo forti argomenti, a parer nostro) l'opinione del Wes-
selofski che include la leggenda di Griselda nel ciclo così detto della donna
perseguitata^ respinta l'ipotesi poco fondata del Landau, il quale riconnette
la leggenda con una novellina ebraica che con essa presenta assai deboli
analogie, scartata ancora la cervellotica idea del Biedermann, il qjale nelle
tristi avventure di Griselda non vede una creazione spontanea della fantasia
popolare, ma un' invenzione di sacerdoti diretta a fine di moralizzare, ribatte
pure le interpretazioni mitiche della leggenda date dal Michelet, dal Tribolati
e dal De Gubernatis, nega ogni derivazione dalla novellistica indiana e solo
ammette qualche relazione colla leggenda del Lai du Fraisne di Maria di
Francia. Da qualunque parte sia venuto il nucleo primitivo della leggenda,
all'A. preme di constatare che tra noi nel medio evo essa prese colorito feu-
dale e si accordò perfettamente coU'indole ed i sentimenti del tempo sì da
parere da essi determinata. Dopo essersi mostrato avverso ad ammettere una
derivazione orientale della leggenda, non sappiamo perchè l'A. dedichi il
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 223
cap. Ili a riscontri, non inutili certamente, tra la novella boccaccesca e due
leggende, neerlandese Tuna, fatta conoscere or' è poco, e brettone l'altra, tra-
mandataci da Cristiano di Troies, per concludere che esse senza avere legame
di sorta colla storia di Griselda <c hanno con quella delle intime rispondenze
« ideali ». Il IV cap. è dedicato ad un rapido esame della novella boccaccesca;
in essa il S. nota « la particolare tendenza del certaldese a giustificare la
« strana condotta di Gualtieri e quella della sua consorte » ; difende il Boccaccio
dall'accusa mossagli dal Westenholz di non avere conservato a Gualtieri nel
corso della novella un carattere uniforme e chiude con una rapida rassegna
dei vari giudizi dei critici sul carattere di Griselda e sulle ragioni della
fortuna della leggenda. L'ultimo capitolo contiene un esame della tradizione
quale è esposta nella versione, o meglio nel rifacimento, del racconto boccac-
cesco datoci dal Petrarca. Lo studio del Savorini, ci duole dirlo, merita forse
più lode per la forma elegante per quanto verbosa, che per la novità di os-
servazione o di indagine o, peggio ancora, per l'ordine ed il collegamento
delle parti; attendiamo tuttavia per più sicuro giudizio il lavoro intiero.
Qualche svista intanto può essere indicata; ad es. a pag. 29 invece di età
di sette anni crediamo si debba leggere diciasette; a pag. 59, n. leggesi
Carlo Nigra per Costantino, ecc.].
Marco Vattasso. — Aneddoti in dialetto romanesco del sec. XIV (ratti
dal cod. Vatic. 7654. — Roma, tip. Vaticana, 1901 [È la disp. 4» di quella
raccolta di Studi e testi, edita a cura della biblioteca e degli archivi del
Vaticano, di cui già fu discorso nel Giorn., 36, 448. Il Vattasso, dopo ac-
curate ricerche, è venuto nella conclusione che il ms. Vatic. 7654, membra-
naceo di scrittura semigotica, contiene testi quasi tutti inediti. L'esservi
trascritta la notissima Passione del Cicerchia, induce l'editore a stabilire
che il codice è posteriore al 1374; ma ci sembra manifesto che pei caratteri
paleografici (si veda il buon facsimile che è in fine) non si possa ritenerlo
di molto posteriore a quell'anno, certamente, non varchi il sec. XIV. Fra i
testi ch'esso contiene, e che il V. con scrupolosa diligenza riproduce, due
hanno importanza veramente grande. Sono le laudi drammatiche della nati-
vità e della decollazione di san Giovanni Battista, in dialetto romanesco me-
scolato di qualche elemento toscano. Questi due componimenti si vengono
ad aggiungere ai parecchi che già si conoscono d'altre regioni d'Italia, e
sono nuova e preziosa contribuzione alla storia delle origini del dramma
sacro fra noi, perchè appartengono alla metà circa del trecento. Nella sobria
e nitida introduzione il V. considera di quei componimenti il metro, la lingua
ed il contenuto. Non essendo glottologo, non insiste molto sulle particolarità
idiomatiche, ma ne tiene pur conto nelle sue noterelle e nel glossario che
chiude l'opuscolo. Per quel ch'è del contenuto, stabilisce raffronti con le altre
rappresentazioni del Battista che si hanno in Italia. La forma metrica nota
giustamente che è quasi tradizionale nelle antiche laudi drammatiche: strofe
liriche di otto versi, in cui s'intrecciano endecasillabi e settenari in questa
guisa: aBaBbCcD. La rima D è proseguita, nel primo esemplare, per tutto
il componimento sino alla fine, ove Zaccaria intona una lauda lirica sul me-
desimo metro, ma con altra uscita finale. Con minore conseguenza è prose-
guita la rima finale nella seconda rappresentazione. — Notevoli sono pure
224 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
gli altri componimenti del codice, che per la prima volta compaiono nell'o-
puscolo del V. Sono una leggenda di S. Cristoforo in ottave e due laudi
sulla fine del mondo. Fonte diretta del poemetto su S. Cristoforo suppone il
V. sia Jacopo da Varazze (1). Rispetto alle due laudi sulla fine del mondo,
recanti entrambe una distinta dei famosi segni^ il V. difetta alquanto d'in-
formazione. Sarebbe stato utile che egli si rifacesse per riscontri agli studi
speciali su quel soggetto leggendario della signora Michaelis e di G. Nòlle (2).
11 Novati, che a quei due lavori ricorse, promise già formalmente nel 1885
di occuparsi dei testi italiani riguardanti i segni del giudizio, tema sinora
non trattato da alcuno. Doveva questo studio formare, coi testi relativi, una
appendice alla monografia del Novati L' Anticerherus di fra Bongiovanni
da Cavriana, che vide la prima volta la luce nell'unico fascic. uscito della
Rivista storica mantovana e poi fu riprodotta nella Miscellanea francescana;
ma in realtà la promessa rimase finora inadempita (3)].
Henri Hauvette. — Recherches sur le « De oasibus virorum illustrium ».
— Paris, Alcan, 1901 [Estratto dal volume miscellaneo di scritti di storia,
di critica letteraria e di filosofia Entre camarades , pubblicato da antichi
alunni della Facoltà di lettere di Parigi. Come fu quasi dimostrato per la
Vita di Dante (cfr. Giorn.^ 34, 423), crede l'H. che altre opere della virilità
del Boccaccio siano state da lui redatte in più forme. Ciò apparirà meglio
allorché 0. Hecker farà conoscere i risultati de' suoi studi e delle sue sco-
perte sulle ecloghe e sul De genealogiis deorum. Qui frattanto l'H., con la
sua ben nota competenza e accuratezza, esamina vari codici del De casibus
e mostra ch'essi si dividono in due famiglie ben distinte, di cui l'una pre-
senta una redazione più breve e l'altra un testo più ampio e rimaneggiato.
Entrambe le redazioni sono diffuse nei testi a penna, entrambe appartengono
al Boccaccio medesimo. L'H., sciogliendo alcuni dubbi provenienti dalla de-
dicatoria a Mainardo Cavalcanti, stabilisce che la prima redazione fu stesa
tra il 1356 ed il 1359, e pubblicata alla fine del 1363, mentre la seconda è
di parecchio più tarda].
C. Augusto Riccio. — Gregorio Correr. Ricerche sopra la sua vita e le
sue opere. — Pistoia, 1 ito -tipografia G. Fiori, 1900 [Ciò che di più notevole
e di men trito contiene questo opuscolo è l'esame degli Apologi del Correr
(pp. 47-53), esame che però avremmo desiderato esso stesso meno superfi-
ciale e inadeguato alle esigenze degli studi odierni. Delle fonti degli Apo-
(1) Secondo il Wibsb, Zur ChrittophorusUgendé , in For$chung«n tur rom. Phìlologtt, edit«
pel Snchier, Halle, 1900, p. 287, rimonta direttamente alla Ltgtnda aurea anche il poemetto
italiano da lai pubblicato, non che i tosti tedesco e inglese. Traduione letterale del Yeraste
sarebbe la Tersione prosaica italiana edita da Loigi Maini a Modena nel 1854.
(2) Esiste pare una dissertazione più recente, che riguarda nel loro complesso tatte le idee
salPAnticristo e salla fine del mondo, di E. WaDsni», edita nella Uittckrift fdr Wii$«n*cha/U.
Thtotogit del 1805.
(3) Parecchie indicazioni so redaz. italiane dei qaindid segni dà M. Barbi a p. 253 della Rao
colta di itudS critici dedicata al D'Ancona, Firenze, 1901, e pubblica da aa ■•. fiorenttno an
poemetto sa qael sogfetto.
BOLLETTINO BIBLIOGBAFICO 225
logi fantastici doveva esser data più esatta e particolare informazione; dei
racconti novellistici un' idea che meglio definisse la loro importanza per la
storia delle tradizioni e del costume; né doveva esser trascurato il confronto
colle altre raccolte umanistiche di apologhi e di novelle (Ognibene, Scala,
Poggio, ecc.). Il Riccio ha avuto fra mano i codici veneti del suo autore, e
del Marciano si vale appunto nello studiare gli Apologi; ma da quelle fonti
egli non ha saputo trarre profitto, né pare che altre ricerche abbia tentate,
così che il suo opuscolo non offre nulla di nuovo oltre a ciò che intorno al
Correr e a' suoi scritti già si sapeva grazie all'Agostini e al Gloetta. Del
giudizio, sempre degno di considerazione, del Voigt, non vi si tien conto;
non è citato, né messo a profitto l'articolo del Reumont intorno al Correr
e specialmente al suo inno a Martino V, articolo pubblicato dapprima nei
Beitrdge zitr ital. Geschichte, IV, 297 sgg. e di nuovo, tradotto e ritoccato,
nei Saggi di storia e letteratura, Firenze, 1880, p. 236 sgg. Alla poca o punta
novità della contenenza non. supplisce in verun modo bontà di elaborazione
del vecchio materiale o garbo di forma. S'ha qui una serie inorganica di
appunti ora prolissi ed ora eccessivamente concisi, che rivela non solo una
grande inesperienza degli studi intorno all'umanesimo, ma anche un' assai
scarsa familiarità coi metodi delle ricerche storiche].
Laura Mattioli. — Luigi Pulci e il Ciriffb Calvaneo. — Padova, tip.
Sanavio e Pizzati, 1900 [Buona e concludente questa memoria ; come primo
lavoro d'erudizione e di critica, felice promessa di cose maggiori. Abituata
ad eccellente scuola, la sig.* M. non divaga, non si perde nell'infilare frasi
leggiadre: la sua trattazione é sobria, serrata, logica. Esamina anzitutto i
rapporti del Ciriffb col Libro del Povero Avveduto, lungo romanzo in prosa
del sec. XV, che giace ras. nella Laurenziana, e di cui dà un sommario
riassunto (pp. 57 sgg.). In questa parte, che non è la migliore dell'opuscolo,
la M. esprime un' idea intermedia tra quella del Quadrio, che riteneva non
esser altro il Griffo se non un rifacimento del romanzo della Laurenziana,
e quella dell'Audin, che ne sosteneva l'assoluta originalità. Poscia la M.
procede all'esame interno del Calvaneo e ne fa specialmente spiccare la co-
micità ed il realismo della rappresentazione, il brio dello stile, la spigliatezza
del verso. Qualità codeste che non appartenevano certamente a Luca Pulci
(a cui il Ciriffo si assegna dalle antiche stampe), se dobbiamo argomentare
dagli scritti che sono veramente suoi, il Driadeo e le Epistole, ove la ver-
seggiatura e la dizione appaiono goffe, fiacche, pesanti. E se a ciò si aggiunga
l'osservazione fatta giustamente valere dalla M. delle molte analogie di con-
cetto, di maniera, di stile, d'espressione, di verso, che intercedono tra il Ci-
riffo ed il Margarite, ne nasce spontanea la conclusione che con ogni pro-
babilità il Calvaneo sia quasi tutto dovuto alla penna di Luigi Pulci. La
M. cosi si rappresenta la storia del poemetto: Luca Pulci, negli ultimi tempi
della vita sua, mantenendo una promessa già fatta nel Driadeo, mette mano
al Ciriffo, ma ben presto, spaventato dall'impresa ardua o stornato dalle
sciagure sopravvenute, lo interrompe. Aveva scritto poco più del primo canto,
quando la morte lo colse, e la didascalia iniziale di quel primo canto diede
a credere agli editori che suo fosse tutto il poemetto. Ma in realtà il fra-
tello Luigi, attratto dalla materia cavalleresca, ritoccò la piccola parte già
Giornale storico, XXXVIII, fa-^c. 112-113. 15
226 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
scritta e compose il rimanente (1). L'opera, quindi, appartiene quasi intera
al festevole e arguto autore del Margarite. Con questa dimostrazione a noi
sembra che la sig.* Mattioli abbia fatto progredire assai bene la risoluzione
d'un quesito, da cui furono più volte occupati gli storici della nostra poesia
del rinascimento. Concludenti, in ispecie, ci sembrano i suoi raffronti stili-
stici. E da questa disamina guadagna anche probabilità nuova l'opinione,
ormai consentita dai più (cfr. Giorn., 35, 152), che anche le Stanze per la
giostra di Lorenzo de' Medici provengano da Luigi, tante sono le coinci-
denze formali che la M. trova (pp. 49-51) tra quelle Stanze e il Morgante"].
Giuseppe Pardi. — Titoli dottorali conferiti dallo Studio di Ferrara nei
sec. XY e XVI. — Lucca, tip. Marchi, 1901 [Agli scritti recenti sulle antiche
università italiane rammentati dal prof. Manacorda in una recensione del
presente fascicolo, vuoisi aggiungere il contributo ora arrecato dal Pardi.
Con pazienza di benedettino, egli ha ricavato dagli atti notarili una serie
ingente di nomi d'addottorati e di licenziati nello Studio di Ferrara, tenendo
conto, altresì, delle date precise delle lauree, della patria dei neodottori, delle
università da essi frequentate, della facoltà in cui ottennero il titolo dotto-
rale, dei promotori della laurea e dei testimoni più notevoli. La raccolta è
d'importanza non esigua per quella ricerca storica sul nostro antico e glo-
rioso insegnamento superiore, che è già così bene avviata, ed è lodevolissimo
il P. che volle con tanta abnegazione sobbarcarsi ad uno spoglio così faticoso
ed arido. La disposizione strettamente cronologica in tavole sinottiche rende
agevole la ricerca. E fa meraviglia, scorrendo questi elenchi, l'osservare il
gran numero di laureati stranieri, segnatamente tedeschi e fiamminghi, che
vi figurano, indizio sicurissimo della fama goduta dallo Studio di Ferrara.
Inoltre, mancandoci quasi interamente i rotuli degli insegnanti in quello
Studio durante il quattrocento, possono i nomi dei promotori giovare assai
a stabilire i periodi in cui maestri celebrati ebbero ad insegnarvi. Sarebbe
stato solamente desiderabile che il P. compisse questa sua fatica con un
doppio indice finale, dei laureati e dei promotori. È ben vero ch'egli avverte
(p. 8 n.) di voler mettere insieme fra qualche anno un indice biografico dei
laureati in Ferrara, dando su di essi quante maggiori notizie gli accadrà di
raccogliere. Ma in attesa di questo lavoro, si sarebbe per ora rimasti paghi
d'un indice dei nudi nomi, che poteva prestarsi utilmente alla ricerca storica
e letteraria].^
Gustavo Caponi. — Di Alessandro Pazzi de' Medici e delle sue tragedie
metriche. — Prato, tip. Giachetti, 1901 [È noto che nella poco rimpianta
Scelta di curiosità letterarie, disp. 224, A. Solerti pubblicò nel 1888 due
delle tragedie metriche di Alessandro de' Medici, tratte da un ms. della Ma-
gliabechiana. Parlando di quella fatica giovanile dell'amico e cooperatore
nostro, non mancammo di accennarne anche i difetti (Giorn., 11, 274). Il
Caponi, che oggi prende ad occuparsene in uno speciale opuscolo, propone
una sene di correzioni e di aggiunte ali'ediz. bolognese. Di ciò gli si deve
(1) Quest'opinione en g^ià bìaìa accennai* da V. Rotei, Il Q%tattrocmU>, p. 310; ma alla M.
spetta il merito d'arerla corredata di prore soddisfacenti.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 227
saper grado, tanto più ch'egli lo fa senz'ombra di petulanza; anzi la modestia
ch'egli v'usa rende accette anche alcune rettificazioni veramente tenui. La
parte più notevole del presente opuscolo è quella dedicata a chiarire la ver-
seggiatura delle tragedie, perchè in realtà è alla verseggiatura appunto che
si 'deve ascrivere l'interesse ch'esse hanno. A differenza da quel che pensa
il Solerti, mostra il G. che con ogni probabilità il Pazzi pose a base della
sua imitazione del trimetro giambico greco-latino l'accento ritmico, come
fece l'Alamanni nella Flora. Con questo procedimento egli veniva ad evitare
la soverchia sonorità dell'endecasillabo sdrucciolo e si accostava alla maniera
di costruzione dei versi imitanti metri giambici usata dai recenti cultori di
poesia barbara. Se questa dimostrazione coglie davvero nel segno, gli stu-
diosi degli antecedenti della poesia barbara hanno ragione di tenerne buon
conto].
Igino Benvenuto Supino. — L'arte di Benvenuto Cellini. — Firenze, Ali-
nari, 1901 [Quest'opuscolo, ornato di finissime riproduzioni, sebbene sia ve-
nuto fuori nell'occasione che si celebrava il quarto centenario celliniano,
non ha il carattere apologetico degli studi che sogliono uscire in simili con-
giunture. Tutt' altro ! E un lavoro di seria indagine artistica , che riesce a
sminuire, anziché ad accrescere l'importanza del Cellini. Ma la verità deve
andare innanzi a tutto, e noi che abbiamo sempre propugnato, nelle ricerche
letterarie, il metodo che qui il S. segue nelle indagini di storia dell'arte,
siamo pronti a far buon viso alle sue conclusioni, che ci sembrano piena-
mente giustificate. Né questo studio è punto estraneo alla storia letteraria,
perchè esso mira a far vedere che nell'apprezzamento generale del Cellini
artista ebbe parte grande, superiore ad ogni ragionevolezza, il fascino eser-
citato dal Cellini scrittore. Cosi dell'opera sua scultoria sono qui mostrate
acconciamente le deficienze, che non sono piccole, perché in essa (persino
nei lavori più celebrali, come la Ninfa del Louvre ed il Perseo) prevalgono
le qualità dell'orefice su quelle del grande modellatore plastico. La critica,
in ispecie, che il S. fa del Perseo ci sembra indovinatissima, come ci pare
evidente che all'ammirazione del pubblico per quel lavoro abbia massima-
mente contribuito la descrizione, nella rozza spontaneità sua potente, delle
ansie e dei travagli che l'artefice ebbe a sopportare nello eseguirla. Impor,
tante è ancor più lo studio che il S. fa del Cellini orefice, di cui certamente
non nega il grande valore, ma collocandolo nel suo ambiente artistico, po-
nendo mente allo sviluppo dell'oreficeria nel secolo XVI, nega ch'egli facesse
vera opera di novatore. Con molti e interessanti documenti nuovi rappresenta
qui il S. la condizione dell'oreficeria toscana in quel tempo, su cui le forme
decorative dell'arte lombarda e germanica avevano esuberantemente influito.
« L'arte, egli dice, di Benvenuto Cellini nell'oreficeria dovette rappresentare
< il felice innesto nella tradizionale maniera toscana delle forme più ricche
« dell'arte lombarda, di quell'arte, cioè, che sotto l'influsso della scuola pa-
« dovana e dell'arte tedesca, esagerò il senso della decorazione plastica ».
Perfezionatore, dunque, e finissimo lavoratore; non, come G. Milanesi ed il
Plon sostennero, innovatore. E gli argomenti e i dati di fatto a cui il S.
appoggia la sua dimostrazione sono, a parer nostro, validissimi. Innegabil-
mente, un po' della megalomania del Cellini, che è una delle caratteristiche
228 BOLLETONO BIBLIOGRAFICO
di quel suo bizzarrissimo spirito, s'apprese anche agli storici dell'arte, che
considerandolo, come egli stesso nella Vita si dipinge, circondato solo da
invidiosi tanto inferiori a lui, continuamente insidiato dalle loro trame e
amareggiato dai torti che gli facevano i potenti, finirono col perdere la
giusta coscienza del suo valore, col considerarlo isolato, col non dare suffi-
ciente attenzione a quello che, nel campo dell'arte, gli fioriva d'intorno. La
monografia del S. rimette le cose a posto e non mancherà di riuscire utile
a quello studio interno della Vita, a cui aperse egregiamente la via Tedizione
del BacciJ.
Giuseppe Pardi. — La moglie delV Ariosto. — Ferrara, tip. Zuffi, 1901
[Estratto dagli Atti della Deputazione ferrarese di storia patria. Di Ales-
sandra Benucci, che fu l'amante e poscia la moglie di Ludovico Ariosto, ben
poco si sapeva sinora. Il prof. Pardi nel suo diligente lavoretto si giova per
illustrarne la figura dei versi del poeta e dei documenti rintracciati nell'ar-
chivio notarile di Ferrara. Egli sa, quindi, dirci che la Benucci, sebbene di
famiglia fiorentina, nacque a Barletta. 11 primo marito suo, ch'essa amò di
caldissimo affetto, vivendo secolui dieci anni ed avendone cinque figliuoli,
era Tito di Leonardo Strozzi, diversa persona da quel Tito di Giovanni
Strozzi, poeta latino e padre di Ercole, con cui fu spesso confuso. Morto lo
Strozzi, s'invaghì della bellissima vedova mesaer Ludovico e, riamato da lei,
ne ottenne dopo molte ripulse i favori. Più tardi, probabilmente durante il
governo della Garfagnana, seguì tra i due un matrimonio tenuto clandestino,
perchè l'Ariosto non volea perdere i benefici ecclesiastici di cui godeva, né
la Benucci la tutela de' figliuoli. La donna sopravvisse al secondo marito
19 anni, tutta dedicandosi alla religione ed alle opere di pietà. « Alessandra
€ Benucci, conclude il P., nata al sole ardente della terra di Puglia, educata
€ forse nella gentile Firenze, vissuta in Ferrara splendida e colta tra le città
« italiche, moglie in prime nozze di uno Strozzi ed in seconde del più grande
€ poeta del tempo suo, ebbe vicende svariate ed avventurose. Ma, come fu
€ fortunatissima per le doti concessele dalla natura, la salda compagine delle
« membra e la bellezza e la grazia e l'intelligenza, fu sfortunatissima per i
< casi della vita. Perdette ben presto il primo marito che teneramente amava,
4 rimanendo con cinque piccoli fanciulletti ; ebbe forse più angosce che gioie
< dalla sua relazione con l'Ariosto, contrastando in lei fieramente la voce
< dell'amore e quella del dovere e della religione. Neanche quando ebbe la
« consolazione di rendere legittimo il suo affetto, potè andarne orgogliosa,
« ma dovette celarlo quasi fosse un delitto ; vide morire il secondo marito
€ ed una figlia e due figli, seppe morto il fratello, mirò invecchiare infeconde
< e forse ammalate le due figlie rimastele e non potè vedersi crescere sotto
< gli occhi i nepotini tanto diletti alle nonne. Le crollò così attorno tutto
« l'edificio della felicità sognata, producendo un vuoto tremendo nell'animo
«della donna. Abbattutasi per lo sconforto, si isterilì con pratiche devote, e
€ nella conversazione di religiose persone, nelle preghiere, nella frequenza
« delle chiese e dei monasteri cercò l'oblio e la pace ». In una nota aggiunta
il P. combatte l'idea della sig.» Diaz che la famigliarità con la Benucci
agevolasse al poeta quella cognizione del toscano, per cui giunse a miglio-
rare tanto nella forma il Furioso (vedi Giom., 37, lft«). Malgrado le osser-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 229
vazioni in contrario del P., a noi sembra che la congettura della Diaz sia
grandemente probabile].
Giovanni Ganevazzi. — Papa Clemente IX poeta. — Modena, tip. For-
ghieri, 1900 [Se la produzione lirica e tragica di Giulio Rospigliosi, che
nella seconda metà del seicento tenne il seggio pontificio col nome di Cle-
mente IX, non ha grande importanza, più ragguardevoli sono invece i suoi
melodrammi, svariati e fortunati. Il prof. Ganevazzi, ricercatili con amorosa
cura in diverse biblioteche, li analizza e li studia in rapporto con le loro
fonti. Questa è certamente opera utile e benemerita, perchè la storia del
nostro melodramma, se ne togli le origini e la maggior fioritura metasta-
siana, non fu ancora analiticamente scrutata, sicché gli studi monografici
su tale argomento sono pur sempre benvenuti. Notevole è specialmente ciò
che il G. osserva sui rapporti dei melodrammi del Rospigliosi col teatro
spagnuolo del Galderon e di Lope de Vega (1). Se, peraltro, questa parte del
libro merita ogni deferenza, il G. avrebbe potuto senza danno lasciar da
banda il lungo esordio, d'una quarantina di pagine circa, in cui sono esposte
le vicende del melodramma italiano e si parla dei suntuosi allestimenti sce-
nici, onde soleva essere accompagnato. Quivi son dette molte cose ovvie e
risapute, e per giunta sono dette poco bene, perchè il G. scrive, anzichenò,
maluccio (2); quivi sono affrontati,' con una leggerezza che solo può essere
spiegata con la mancanza di preparazione, problemi ardui come quello della
ragion d'essere dell'opera in musica (pp. 37-38). In questa infarcitura di
luoghi comuni l'unica cosa che valga è la nozione di un ms. Gampori del
seicento, che tratta della mise en scène (3) usata in quel secolo (pp. 32-33),
al quale ms. il G. si riferisce anche nel seguito più volte. Il resto poteva
essere soppresso, e cosi pure tutto il libretto avrebbe potuto essere ridotto
di molto, sfrondandolo del chiacchierio inutile che molestamente lo aduggia.
È tipica, a questo proposito, la mèzza pagina che il G. consuma nel discor-
rere di Pistoia, patria del Rospigliosi, e dei letterati che vi ebbero i natali
(pp. 47-48). Se in seguito il G. sarà più sobrio e più corretto, potrà fare
lavori più utili, giacché l'amore alla ricerca erudita non gli manca davvero].
Ferruccio Bernini. — Storia degli « Animali parlanti -» di Giovan Bat-
tista Casti. — Bologna, Zanichelli, 1901 [Poche parole; che intorno a un
simile lavoro c'è poco, o ci sarebbe troppo da dire. Le 120 paginette del
testo valgono le 20 àeW appendice bibliografica, ch'è un monumento (come
(1) L'A. lo chiama sempre Lopez de Vega (pp. 62, 139, 188 ecc.) ed è errore frequente e
tradizionale in Italia, che molte volte ormai ci accadde di rettificare.
(2) Senza por mente ai periodi talora mal costrutti, basta osservare le sue incertezze nel lessico.
À p. 39 scrive coppia per copia; a p. 43 aspelti per spetti; a p. 30 « a tempo e duopo*; a
p. 104 « nel contempo » ; a p. 186 leggiamo « imbastardire le scene di stravaganti invenzioni »,
e vi» dicendo. In italiano non si può né * premurare la cortesia» (pp. 9 e 104), né essere « in-
« differente della poesia » (p. 42), né adoperare il soggiuntivo in questo modo « è certo che il
« 800 progresso lo si debba attribuire » (p. 12), sebbene quest'uso sia comunissimo nel mezzogiorno
anche fra persone che da lungo tempo fan professione di scrivere. Cerchi il C. di liberarsi dagli
idiotismi e procuri che l'espressione gli riesca adeguata al pensiero.
(3) Non misse en scéne, come ripetutamente (pp. 31 e 32) scrive l'antore.
230 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
si direbbe?) d'ingenuità. E pare impossibile che il B. non s'accorgesse di
buttar via miseramente tempo e, forse, denari, ingrossando il volumetto con
delle pagine che recano tanto superflue indicazioni di storie e storiette let-
terarie, di manuali e manualetti scolastici, di enciclopedie e di dizionari
biografici, a tutti ben noti, mentre trascurava, tra l'altro, di registrare le
lettere del Casti, che sparsamente furono fin qui pubblicate; e come trascu-
rava di registrarle nell'appendice, così trascurò di valersene nella trattazione.
Inoltre è troppo evidente che nemmen tutti i libri comunissimi che cita
passarono sotto i suoi occhi; perchè, in cambio del recente Settecento del
Goncari, non registrato, volle notare la Geschichte der Italianischen (sic)
Litteratur in (sic) achtzehnten Jahrhundert, d'un certo M. London (in gras-
setto nerissimo), e la Geschichte der italianischen (e dalli !) Litteratur von
den altesten (sic, sic) bis zur Gagenvoart (sic) di certi signori Wiere und
Pircopo^ COSI conciati nel medesimo grassetto! La trattazione è vuota, super-
ficiale, slombata ; degli Animali parlanti, di cui cotesto volumetto vorrebbe
essere la Storia, il B. non ci diede che una mediocre esposizione analitica
contornata da' « giudizi critici degli storici della nostra letteratura » eul poema
castiano, e da una vieta rassegna dei « pregi e difetti » di esso. Particolari
storici importanti e nuovi, giudizi originali, raffronti utili, osservazioni e no-
tizie insomma che illuminino la storia esterna o l'intima natura dell'opera,
è vano cercarne. Chiacchiere inconsìstenti, e di molte; roba su quest'andare:
« Quando io lessi la prima volta gli Animali parlanti ne ricevei un' im-
€ pressione cosi cattiva, che mi domandai come mai i governi di allora aves-
« sero permesso la stampa di un poema che tanto poteva svegliare il pub-
< blico zelo per i liberi sentimenti espressivi. Ma, quando volli riandare lo
€ Stesso poema e lo rilessi colla massima attenzione e cura, esclamai mutando
« di giudizio: perchè mai il governo di Napoli proibì che ne fosse vulgata
€ la stampa? Quel poema » (e questa sarebbe la buona impressione) « non
< poteva far né bene né male; nel quale è un'anarchia di idee, che lascia
« il tempo che trova e vi assicuro che con quei versi non si sarebbe fatta
eia rivoluzione! Di cui il poeta parodia tutte le fasi più orride, la fiamma,
« per così dire, della rivoluzione e non la scintilla rigeneratrice e immortale
€ che da questa fiamma uscì ». Così pensa e scrive il B. sempre; ma peggio
che mai forse in quelle molte pagine preliminari dove sostiene che il Casti
non fu poi così corrotto e sudicio come tanti dissero, « se illustri letterati
€ francesi e italiani ragguardevoli per alte cariche e dignità civili a Parigi
« seguitarono il feretro di lui al cimitero del Padre Lachaise » (p. 15). Pel
Casti egli ha una grande indulgenza; secondo lui «ebbe spirito, prontezza
< di parola e facilità di verso come nessuno altro mai > (p. 16), « fu buffone
« di Corte: ma era di moda » (p. 17); « mostrò carattere magnanimo » (ivi);
€ a intervalli felicissimi fu anche patriotla » (ivi) e se scrisse qualche scon-
cezza, lo assolve l'esempio del Parini, che osò scrivere la « famosa ode » Per
nozze; e il B. la riproduce (pp. 21-23) per esteso, facendola seguire da con-
aiderazioni giuste e garbate così : « Questa è la famosa ode dì Giuseppe Pa-
€ rini, che per giunta era un prete! In questa poesia guardate alla contenenza:
< l'idea delle nozze e delle donne sono (sic) solamente della luna di miele ed
« è un prete che canta con invidia ed avidità Vedete dunque a che era
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 231
4. ridotta quella società ! Non nego che sia nella natura umana godere della
-« bellezza e credo che sia un bellissimo spettacolo una sposa giovane: ma
« per tutto questo non importa fare della ppesia » (p. 24). E per tutto questo,
aggiungiamo noi, non importa fare della critica]-
Dino Provenzal. — Una polemica diabolica nel secolo XV HI. — Rocca,
5. Casciano, Capelli, 1901 [La polemica diabolica, di cui il P. ritesse dili-
gentemente la storia, dando notizia de' vari libri ed opuscoli che la tennero
accesa per oltre un quinquennio, è quella suscitata dal roveretano Girolamo
Tartarotti, col noto suo libro Bel congresso notturno delle lammie (1749),
pieno d'erudizione e d'acume, ma coraggioso e sensato solo a metà. Perchè
il Tartarotti, dimostrando assurda la credenza nelle streghe, ed iniqui i pro-
cessi per stregoneria, che in Baviera e in Tirolo, specialmente, erano ancora
frequenti, distingueva le streghe dai maghi, e all'esistenza di questi e ai
malefici prodigi dei loro incanti prestava fede. Vi fu chi non volle rasse-
gnarsi a lasciar seppellire definitivamente da quel libro l'aberrazione, contro
la quale il Tartarotti insorgeva quand'essa era già sbandita dalla coscienza
dell'Europa illuminata. Contro coloro che ancora la difendevano, gente oscura,
gente d'altri tempi, attardatasi nel secolo XVIIl, non poteva essere lunga e
diflBcile la guerra. Più arduo invece era il far contrasto a coloro, che oltre-
passando in coraggio e in buon senso il Tartarotti, batterono in breccia l'arte
magica, alla quale egli ostinavasi a prestar fede. L'arte magica fu, come
tutti sanno, svelata e poi distrutta e finalmente annichilata da Scipione
Maffei, che tre volte tornò all'assalto di quella impostura sul declinare della
sua verde vecchiezza — e la guerra che, a proposito della magia, s'accese
tra il roveretano e l'illustre veronese, guerra scoperta o coperta, leale o
sleale, non poteva essere con più ricchezza di particolari narrata; poiché il
P., oltre a valersi di varie scritture a stampa, non tutte oggi comuni, trasse
partito anche dal carteggio inedito del Tartarotti col conte Ottolino Ottolini
che conservasi nella Bibl. Capitolare di Verona. L'opuscolo del P., inte-
ressante pel soggetto che tratta, è pure interessante per varie notizie bio-
bibliografiche sul Tartarotti, le quali potranno servire a chi volesse studiare
completamente la figura e l'opera di cotesto scrittore settecentista; ed al
volonteroso che s'addossasse tale impresa, l'A. promette generosamente di
fornire i materiali da lui raccolti a Trento e a Rovereto. Generosità lette-
raria d'altri tempi, che farà meraviglia e merita lode].
Edoardo Calvo. — Poesie piemontesi, edizione centenaria definitiva a
cura di L. De Mauri. — Torino, Libreria antiquaria patristica, 1901 [Se il
titolo pretensioso dà il diritto di essere esigenti riguardo al valore di questa
nuova edizione, un esame superficiale di essa permette di affermare che il
lavoro fu condotto senza alcuna preparazione e con pochissima cura. — Un
primo errore ha commesso il De Mauri nel rimodernare l'ortografia, che i
lettori piemontesi avrebbero intesa benissimo nella forma originale. E,
volendo rivolgersi ad un pubblico più largo, dovevansi seguire i metodi di
notazione grafica adottati da quanti oggigiorno pubblicano testi dialettali
con intendimenti scientifici. — Invece poi di darci una biografia del poeta,
frutto di ricerche originali, l'editore si limita a riprodurre quella dal Brof-
ferio inserita nei Miei tempi; mostrando di non conoscerne la prima reda-
232 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
zioiie, migliore, pubblicata nel Museo scientifico (1) del Fontana. E cosi non
è neanche accertata la data di morte del Calvo, da alcuni fissata al 29 aprile
e da altri al 9 maggio 1804! — Le Follie religiose non sono comprese in
questa ristampa e non se ne adduce il motivo. Il notissimo Artaban bastona
vien dato come inedito, mentre fu stampato fin dal 1853 dal Biondelli (2);
la chiave dei nomi, che questi non aveva pubblicata, lo fu più tardi dal
barone Manno nei suoi Componimenti satireschi in Piemonte (3). Pur fra
le cose inedite è posta la diatriba contro THus, che fu invece stampata in
foglio volante ancor vivente l'autore. Di altra composizione poetica contro
lo stesso personaggio (intorno al quale il De Mauri non ci dice nulla, mentre
poteva copiare la nota del Melzi (4)), pur stampata nel 1801 (5) col titolo:
Al so amis compare Toni, Dà 7 bon dì barba Gironi, non troviamo cenno
alcuno, neanche nella bibliografia. Così non compare in questa edizione il
sonetto inserito nell'opuscolo: Congratulazioni epitalamiche (6); non vi fi-
guran le terzine: Avis al public, stampate dal Guaita nel 1804 e relative
all'eclisse dell'I 1 febbraio di detto anno, poesia questa che era facile pro-
curarsi perchè ripubblicata dal Brofferio; e non vi si trova infine l'Impostura
di cui parla quest" ultimo. — Anche la bibliografia che chiude il volume
lascia parecchio a desiderare. I formati non vi sono quasi mai segnati con
esattezza. E fra le lacune, oltre a quelle or ricordate, notansi le seguenti.
Delle Follie un'edizione di « Brusselle, presso Vimargy, 1845 ». Delle Favole
le due edizioni torinesi del 1843: una stampata dal Fodratti, l'altra dalla
tipografia Zecchi e Bona; nonché una terza unita all'almanacco II scassa
fastidi pel 1846, che forse è la medesima annessa all'annata 1848 dello
stesso lunario. Dell' ode Su la vita d' campagna non si fa menzione della
stampa vercellese registrata dal Vallauri con la soscrizione « An. XIV,
« Stamperia Zanetti -Bianco »; non di quella di Cuneo del 1813, in cui per
la prima volta vi si contrappone l'ode del Prunetti Su la vita d' sita, non
infine di una astese del 1815. E poiché fra i ritratti se ne cita uno inedito,
si poteva altresì ricordare quello scolpito in legno dal Bonzanigo e da esso
presentato all'Accademia Subalpina di storia e belle arti nella seduta del
15 luglio 1804 (7). Due di questi ritratti sono riprodotti dal De Mauri, ma
invece di darci quello inedito posseduto dalla Biblioteca del Re, ne ripub-
blica, oltre a quello bellissimo inciso dal Palmieri, un altro (ch'egli attri-
buisce ad un certo Capurro) avente col primo poca rassomiglianza, e che
potrebbe essere del Calvi cremonese professore all'università di Pisa. — Le
note sono aflfatto insufficienti, e talune oziose. — Insomma questo volumetto
non ha, si può dire, altro merito che quello di una discreta esecuzione tipo-
(1) Voi. IZ-X; Torìao, 1847-48.
(2) Studi «III dtalitU galto-itnlki, p. 612.
(3) Curiottti't « ricerche di storia tuhaìp., I, 780, 762, Torino, 1874.
(4) Ditionario d'optr* anoHitM, III, 41, Milano, 1859.
(5) BioiiDRLU, p. t^55.
(6) Torìoo, an. XII. dai tipi di Felice Baxan.
(7) Journal dt Turin, 21 luglio 1804.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 233
grafica e di presentare per la prima volta al pubblico quella gustosa, per
quanto salata, composizione che ha per titolo Le fie cTarfórmà].
Knisella Farsetti. — Befanate del contado toscano. — Firenze, Seeber,
1900 [Di queste otto befanate senesi le sette che furono semplicemente can-
tate celebrano tutte (tranne una d'argomento religioso) la fine della Befana,
la vecchia della leggenda che si brucia o si sega in carnevale. Una sola,
che fu rappresentata nel *98 a Val di Piatta presso Montepulciano, è un no-
tevole documento della permanenza di questa antica forma di drammatica
popolare, che alcuni credono morta. Eccone l'argomento : un vecchio conta-
dino, disgustato della bruttezza della moglie, stabilisce di segarla: compiuta
l'operazione con l'aiuto d'un figliuolo, compaiono i carabinieri, i quali prima
di condurre in prigione i colpevoli, frugano la vecchia e le trovano addosso
un bizzarro testamento che viene letto da un notaro ivi chiamato. Un coro
saluta gli spettatori ed un brindisi del notaro chiude la rappresentazione.
L'A. nell'introduzione riavvicina le befanate da lei edite alle rappresenta-
zioni medioevali. Anche quelle cantate meritavano d'esser studiate e con-
frontate, per es. colla Canzon per brusar la vegia in dialetto bolognese del
sec. scorso, scritta dalle due Manfredi, le sorelle del celebre Eustachio].
Giovanni Negri. — L'originalità del signor Marchese"". Questioncella
Manzoniana. — Pavia, 1900 [Questa nota sobria ed acuta mira a dimostrare,
contro la comune opinione dei commentatori, che il Manzoni, nell'ultimo ca-
pitolo dei Pr. S., non fece punto un merito al sig. Marchese di non aver
avuto tanta umiltà da mettersi alla pari de' suoi convitati (Renzo, Lucia ecc.).
Il mettersi a pan con essi sarebbe stato, secondo gli interpreti, atto sconve-
niente. Sostiene invece il N., e a parer nostro con ragione, che qui vi è un
altro tratto di fine umorismo nel Manzoni, il quale non approvava, ma con-
statava sorridendo il procedere del Marchese. « Sotto all'ironia piacevole,
€ dice il critico, a me pare che si nasconda la disapprovazione di quell'abi-
« tudine propria di certi signori, eziandio buoni e cortesi, di considerare la
« cosi detta bassa gente, anche quando la trattan bene, quasi fosse d'altra
« specie che la loro ». A nostra volta, osserviamo, che buon rincalzo porge
al modo d'intendere del N. tutto il rimanente che il Manzoni ci dice per
caratterizzare quel gentiluomo lombardo, che è davvero una persona dabbene,
di cuore, ma non immune da pregiudizi né in alcun senso straordinaria. E
per fare, a que' tempi, quello che il Vangelo avrebbe consigliato, quello che
Federico Borromeo avrebbe fatto al posto del sig. Marchese, ci sarebbe vo-
luto davvero un tipo straordinario, un originale, come facetamente insinua
il Manzoni, un portento d'umiltà].
Augusto Serena. — Pagine letterarie. — Roma, Forzani, 1900 [Degli
otto scritti raccolti e ristampati in questo elegante volumetto i due più im-
portanti sono quelli su Le rime a stampa di Francesco di Vannozzo e sul
Pianto de la verzene Maria. Nel riprodurre il primo il S. ha tratto profitto
anche delle osservazioni che gli furon fatte in questo Giornale., 33, 451. Il
secondo è pur sempre una delle ricerche meglio approfondite che s'abbiano
sul celebre Pianto e dimostra, a parer nostro definitivamente, che l'autore
di esso fu frate Enselmino da Montebelluna. Fra la prima e la seconda edi-
zione dello studio venne in luce il testo critico del Pianto procurato nella
234 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
remota Svezia dal Linder, e di questo libro laborioso e prolisso, ma pur tanto
manchevole per quel che concerne la cognizione della letteratura critica del
soggetto (cfr. Giorn.^ 34, 428) il S. tiene il debito conto. — I rimanenti sei
scritti del volume del S. hanno importanza minore, ma sono tuttavia dettati
con buon giudizio e con garbo, sicché non spiace di averli raccolti, tanto
più che quasi tutti erano sepolti in periodici locali mal reperibili. Tratta l'A.
in uno di quelli scritti di Collaltino di Collalto rimatore^ e da quelle pa-
gine esce ben definita la fisionomia dell'elegante e volubile patrizio per cui
arse tanta passione nel cuore della povera Gaspara Stampa. Articolo di sem-
plice curiosità è quello che riguarda Un canzoniere del sec. XVII, recante
mss. i versi del medico Bartolomeo Burchelati (versi, a dir vero, da far spi-
ritare i cani), il quale a settant'anni, e con al fianco la terza moglie, si sentì
il coraggio d'imbertonirsi per una ventenne trevigiana e farne la sua Laura!
Tenuissimo è pure il valore di certa « noterella pariniana ■» A proposito
d'una raccolta, ove è esaminato il Giornale poetico diretto da Andrea Rubbi
e vi sono specialmente considerate, nelle loro varianti, le poesie che in quella
silloge inseri, per amore di Cecilia Tron, il Parini. / paralipomeni di un
poeta napoleonico sono le aggiunte, rimaste inedite, che Angelo Dalmistro
aveva messe assieme per una ristampa del suo Pi<ro omaggio a Napoleone
il grande. Narra un episodio della vita di quel curioso tipo che fu Mario
Pieri l'articolo II Corcirese a Treviso; e di Giuseppe Revere s'occupa un
altro scritto, nell'occasione (1896-98) che A. Ròndani ebbe a pubblicare le
opere complete del letterato triestino. — All'infuori di quest'ultimo articolo,
che è occasionale, si può dire che il S. abbia particolarmente avuto l'intento
di recar nuova luce sulle vicende letterarie dell'antica Marca trivigiana, ove
è nato, e anche di ciò gli va data lode].
Paolo Bellezza. — Humour. — Milano, tip. Agnelli, 1901 [Strenna a
beneficio dell'Istituto dei rachitici. Dice Gaetano Negri nella breve prefazione
che va innanzi a questo volume: «una linea di separazione veramente netta
< è impossibile tracciarla fra Vhì^mour e i generi letterari affini; piuttosto
« che definirlo, noi dobbiamo accontentarci di sentirlo ». Quindi plaude al
lavoro del Bellezza, che è, anzitutto, una raccolta di fatti, o, come scrive
egli medesimo, « un centone di roba raccattata un po' dappertutto ». Si vede
che a dare idea dell'umorismo egli ha voluto seguire una via eminentemente
empirica: esporne una quantità grande di esempi. E siccome il B. ha letture
moderne larghissime, ciò gli è venuto fatto assai bene, e il suo volume, per
quanto affastellato, si legge, non solo con diletto, ma anche con profitto. Il
B. ribadisce l'opinione già da altri sostenuta che l'umorismo è particolar-
mente una tendenza anglosassone. La maggior copia di esempi egli trae
infatti da scrittori inglesi; ma non trascura i tedeschi, i russi, i francesi.
Notoriamente l'Italia ha piccola parte in questo genere di produzione. Nou
parlando qui dei contemporanei, gli scrittori nostri in cui il B. ravvisa mag-
glori traccie di umorismo sono Cecco Angiolieri, l'Ariosto, Gaspare Gozzi, il
Manzoni, il Leopardi, il Guerrazzi, Paolo Bini, il Porta, il Belli, il Rovani,
il Nievo (cfr. spec. pp. 214 sgg.). Qui parecchie obiezioni si potrebbero ac-
campare. Poiché il B. vuol intendere l'umorismo in un senso ristretto, sì da
escluderlo nell'antichità classica (pp. 205-7), e da negarlo nel Rabelais (p. 210),
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 235
ed in Dante (pp. 214-15) (1), gli riesce proprio così evidente che l'Angiolieri
sia « uno de' più poderosi umoristi che conti la nostra letteratura » (p. 63)?
E perchè, in questo caso, non accennare ad altri burleschi nostri, da Rustico
di Filippo al Burchiello, dairOrcagna al Pistoia e al Berni, che talora ap-
paiono non meno umoristi dell'Angiolieri? A noi pare, inoltre, che molti fatti
citi il B. come di genere umoristico, che non rientrano ragionevolmente nel-
Vhumour; ad es. il Diario d'Adamo ed altri scritti dello Twain sono biz-
zarrie, che di umoristico hanno ben poco. Del resto, il B. accumula qui con
cosi poca pretesa questa messe veramente abbondante di esempi, che sarebbe
indiscrezione il pretendere per ora di più e di meglio. Determinare con una
precisione maggiore di quella praticata sinora che cosa veramente umorismo
sia, distinguere le svariate forme in che esso compare, sceverarvi i caratteri
propri dell'individualità degli scrittori da quelli che hanno valore etnografico,
sono compiti spettanti forse più allo psicologo che al letterato].
PUBBLICAZIONI NUZIALI.
Abd-el-kader Salza. — Sui frammenti del Rinaldo ardito. Indagini pre-
liminari. -- Melfi, tip. Liccione, 1901 ; per nozze Gentile-Nudi [Come accenna
il sottotitolo di quest'opuscolo, il prof. Salza intende esaminare in seguito
di bel nuovo il ms. reputato autografo del cosidetto Rinaldo ardito, raffron-
tarlo con la letteratura romanzesca degli epigoni dell'Ariosto, acciò sia ancor
meglio confutata l'opinione del Cappelli, finalmente dare un giudizio com-
plessivo sull'opera del poeta, tanto inferiore per ogni rispetto al Furioso.
Per ora, premesse alcune notizie bibliografiche ed alcune utili riflessioni sul
valore delle Librarie del Doni, egli mostra che l'ordinamento dei frammenti
portoci dalle due edizioni che ne abbiamo (Giampieri-Ajazzi, 1846 e Polidori,
1857) è del tutto arbitraria, e ne propone una più razionale. E poiché il
Doni afierma che il Rinaldo ardito dovea constare di dodici canti, egli s'in-
dustria di ritessere a larghi tratti la tela compiuta del poema, di cui ritiene
che l'Ariosto fosse indubbiamente autore. Per noi ancora, malgrado gli studi
recenti, l'attribuzione è assai dubbia, e non chiederemmo di meglio che d'es-
sere scossi nel nostro scetticismo dalle ulteriori ricerche del bravo Salza.
(1) Non così la pensa Ettore Madbo, che ha testé pubblicato un nutrito opuscolo DeWumo-
ritmo nella Din. Commedia, Salerno, tip. Nazionale, 1901. Noi peraltro siamo ben più portati a
dar ragione al Bellezza che al Mauro. Questi ritiene che ove nel comico sia forte antitesi di pen-
siero 0 di sentimento, ivi si debba ravvisare anche umore; quasiché l'antitesi non sia di ogni
comicità elemento essenziale. Tutti gli esempi oh' egli trae àaXV Inferno per dimostrare la sna
tesi non valgono nulla per chiunque non abbia dell'umorismo il concetto (a parer nostro, erroneo)
ch'egli ha. Del resto, in questo opuscolo male e nebulosamente scritto, dell'umorismo non si dà
una definizione che appaghi, sicché non è neppur facile l'intendere che cosa il M. voglia dire
con quel termine. Non sono davvero proposizioni come questa: «l'umorismo é come il cordone
« ombelicale, che solo può unire la vita traducibile in dramma al vero dramma in potenza ed in
« atto » (p. 12) le meglio alte a portar luce e chiarezza in un soggetto cosi arduo e complesso.
Lasci, lasci al Carlyle quelle frasi apocalittiche, di cui si compiacciono purtroppo tanti:
236 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Vedi in proposito anche la nota aggiunta da V. Rossi alla 2» edizione del
Gaspary, Storia, II, ii, 301].
Giuseppe Schiavo. — L'indugio di Casella. Nota dantesca. — Sondrio,
tip. Quadrio, 1901; per nozze Simioni-Tognetlo [Appoggiandosi particolar-
mente all'asserzione di S. Tommaso intorno all'esistenza d'un duplice pur-
gatorio, ritiene che Dante imaginasse due antipurgatorii, l'uno nell'emisfero
nostro e l'altro sulle falde della montagna del purgatorio. Per quanto possa
riuscir misterioso l'indugio frapposto da Casella prima d'essere portato alla
montagna dell'espiazione, non ci sembra vi siano indizi suflScienti per venire
all'ipotesi che lo Se. propone. I due purgatorii di San Tommaso sono cosa
ben diversa, che non giova punto a chiarire il quesito].
Fortunato Pintor. — Un antica farsa fiorentina. — Firenze, tip. Gali-
leiana, 1901 ; per nozze Salza-Rolando e Gentile-Nudi [Quantunque ne avesse
già dato imperfetta notizia il Palermo, questo componimento del sec. XVi
giaceva pressoché ignoto nel ms. Mgl. VII, 76, uno di quelli che il bizzarro
Stradino ripose nel suo armadiaccio. La Farsa contro il tór moglie è dav-
vero un caratteristico frutto della nostra antica drammatica popolare, ed il
P., pubblicandola, la illustra da buon conoscitore. Egli la fa rientrare nella
letteratura antifemminile, di cui rammenta i saggi aventi forma drammatica,
e con fine accorgimento ne rileva i caratteri e ne segnala le particolarità
più rilevanti. In quest'ottima pubblicazione il P. rivela le attitudini critiche
non comuni che già altra volta avemmo occasione di encomiare in lui, e ci
fa sempre più desiderare il lavoro sul teatro comico fiorentino del Cinque-
cento, al quale attende da anni].
Costantino Arlia. — Bue madrigali di Niccolò Macchiavelli. — Firenze,
Società tipografica fiorentina, 1901; per nozze Signorini-Benedetti [Composti
entrambi questi componimenti per madonna Barbara Salutati, di cui il Ma-
chiavelli fu innamoratissimo, si leggono in un ms. della Laurenziana].
Remigio Sabbadini. — L'invettiva di Guarino contro il Niccoli. — Lo-
nigo, tip. Gaspari, 1901; per nozze Curcio-Marcellino [Stampa a fronte le due
redazioni di quell'invettiva. La redazione più breve stabilisce che è la più
antica, mentre la più lunga è posteriore. Il testo viene ricostrutto su cinque
mss., e preceduto da una avvertenza dell'editore sobria e piena di cose, come
sogliono essere tutti gli scritti del S. « Sia che esageri , sia che colga nel
< giusto (dice egli), l'invettiva di Guarino è di capitale importanza storica
«.per ricostruire la classica figura del Niccoli e serve di correttivo alla bio-
« grafia di Vespasiano da Bisticci pregiudicatamente benevola ». L'invettiva
è da accostarsi alle altre due lanciate da contemporanei contro il Niccoli,
quella di Lorenzo Benvenuti edita da G. Zippel in questo Giornale, 24,
168 sgg., e quella di Leonardo Bruni fatta conoscere pure dallo Zippel nel
suo libro sul Niccoli, pp. 75 sg. Cfr. Giorn., 17, 115].
Alessandro D'Ancona. — Lettere di illustri scrittori francesi ad amid
italiani. — Pisa, tip. Marietti, 1901; per nozze Citoleux-Dejob [Tra le 16
lettere qui edite e illustrate con scrupolo d'esattezza sono segnalabili le
quattro di A. F. Ozanam, e di queste in special guisa T ultima, che
tanto bene rappresenta il candore di quell'anima. Non prive d'importanza
neppure quelle del Sismondi. Due, quasi insignificanti, della Staél a Teresa
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 237
Bandettini attestano (cosa che non si sapeva) la relazione fra quelle due
donne. Mostruoso il gergo italiano in cui scrive il La Mennais; né canzona
quello del Sisraondi, sebbene egli nascesse di famiglia oriunda pisana].
Arnaldo Foresti. — \_Sonetto nuziale inedito del Parini']. — S. a., ma
1901 ; per nozze Foresti-Riccardi [Il sonetto comincia « Gentil donzella, che
a marito andate » ed è tratto dalla Queriniana di Brescia].
Salvatore Salomone-Marino. — Canzuni siciliani del sec. XVII. —
Palermo, tip. Vena, 1900; per nozze Gasabona-Lo Gascio [Quattro ottave in
vernacolo di Sicilia estratte dal codice Parnassu sicilianu dell'Universitaria
di Palermo. Si avverta che l'ultima è una riduzione del sonetto petrarchesco
€ Levommi il mio pensier in parte ov' era »J.
Mario Mandalari. — Aneddoto dantesco. — Gatania, tip. Calatola, 1901 ;
ediz. di 100 esemplari per nozze Vadala Papaie-Terranova [Una lettera di
Gaetano Bernardi ed una di L. Tosti, che si riferiscono all'edizione del co-
dice cassinese della Commedia e accennano ad un ms. posseduto dal prin-
cipe di Santo Pio e ad un altro di Gatania. Sul codice di Gatania il M. offre
in nota nuove informazioni].
Vittorio Gian. — Varietà dugentistiche: una probabile parodia letteraria
e un saggio di precettistica matrimoniale. — Pisa, Mariotti, 1901 ; ediz. di
82 esemplari per nozze Soia-Soldati [La maggior parte dell'elegante opuscolo
è occupata nel dimostrare, con osservazioni appropriate, che il cosidetto
Mare amoroso^ edito prima dal Grion e poi ristampato dal Monaci, non è
altro che una « canzonatura poetica », dovuta ad un verseggiatore che aspi-
rava alla riforma del nuovo stile e cosi si prendeva giuoco dei « goffi rima-
« tori bamboleggianti nell'abuso delle similitudini zoologiche ». L'ipotesi me-
rita certo attenzione, sebbene possa apparire ardita a chiunque sappia quanto
irragionevole e talora quasi grottesco sia stato nel medioevo, senz'ombra d'in-
tenzione parodica, l'uso dell'allegoria di ogni genere e specie. — Tratto il
C. per incidenza a discorrere d'un' antica opera enciclopedica in prosa da lui
rinvenuta recentemente, che si deve ad un mantovano vissuto tra la fine del
XIII ed il principio del XIV secolo, Vivaldo del Belcalzer, egli ne offre qui
un saggio, vale a dire un capitolo contenente precetti coniugali. Siamo lieti
di poter aggiungere che dell'opera del Belcalzer il G. intende dare ampia
notizia nel nostro Giornale. Egli ne ha trovato in Inghilterra il prezioso
codice di dedica].
COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Le mobilier d'Alfieri à Paris. — Alfieri a raconté dans ses Mémoires
quelles circonstances dramatiques accompagnèrent, le 18 aoùt 1792, son départ
de Paris avec la comtesse d'Albany. On sait que le surlendemain de ce départ,
le 20 aoùt, leurs revenus furent séquestrés, leur ameublement, — tableaux,
livres, etc. — leurs écuries, évaluées par la comtesse à deux cent mille franca,
furent confisqués au profit de l'état, tandis qu'eux-mémes étaient inscrits
sur la liste des émigrés: mesure que ne justifiait aucune apparence de lé-
galité, puisqu'elle atteignait en eux un gentilhomme italien et une dame
allemande veuve d*un prince anglais! On connaìt la lettre célèbre que,
dès son arrivée à Florence , Alfieri adressa « au président de la populace
« franqaise », pour lui réclamer la restitution de ses biens confisqués. Il est
probable que Tauteur du Misogallo n'attendait aucun résultat pratique de
cette lettre-manifeste, plus faite pour irriter que pour convaincre ses desti
nataires. Mais, après cet éclat retentissant du poète, le propriétaire dépouillé
prit la parole, et employa les voies légales et diplomatiques. Un de ses pre-
miers soins fut d'intéresser à sa réclamation le ministre résident de la Ré-
publique près la cour de Toscane. 11 dressa le 15 mai 1793 une « note des
4t effets appartenant à moi, ici soussigné, laissez à Paris à l'hotel de Pons,
« rue de Provence, l'an 1792 »; il fit authentiquer cette pièce signée de sa main
dans toutes les formes légales (attestation par deux témoins, Lor. Collini et
Lud. Zannoni, de son caractère autographe; certifìcat de l'authenticité des
trois signatures de l'auteur et des témoins par le notaire Pino de' Pini) et il
fit légaliser le tout par le ministre frangais Alexis M. J. Fauvet La Flotte,
le méme jour « 15 mai 1793, l'an^second de la R. F. ». Alfieri comptaitsans
doute pouvoir se servir dans un bref délai de ce document dùment légalisé
et muni d'une valeur officielle. Mais des circonstances politiques ou privées,
que nous ignorons et dont ses Mémoires ne disent rien, l'empéchèrent de se
servir de cette pièce. Elle est restée dix ans entre ses mains, et a passe de
celles de madame D'Albany, qui l'hérita de lui, à Fabre et à la Bibliothèque
Fabre. Cette pièce est fort intéressante, donnant une description exacte du
mobilier et de la maison du poèle, dans ses détails les plus intimes. Elle
permet de reconstituer le milieu dans lequel vécut Alfieri pendant la période
parisienne de son existence, au temps où il se mèla à la société littéraire
et politique, où il frequenta et re^ut Beaumarchais et ses amis, les Chénier,
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 239
Grétry, Cherubini, Ippolito Pindemonte, M°i« de Beauharnais, M°^« du Boc-
cage, M™« de Boufflers, la comtesse de Genlis, et tant d'autres personnages,
dont plusieurs restèrent en relations avec lui, et, après sa mori, avec la com-
tesse d'Albany. Ce document décrit minutieusement les moindres pièces de
son appartement, et permet de le suivre de sa bibliothèque — qu'il cite en
première ligne — au « salon blanc » de déjeuner, de la « chambre bianche »
à la « chambre de retraite » et jusqu'à la sellerie, dont le mobiliar était tei
qu'on peut l'attendre du sportman emerite qu'était Alfieri. G'est à ce titre,
et aussi parce qu'il fournit une notion exacte de ce que valaient les biens
injustement séquestrés d'Alfieri, que cet inventaire m'a paru mériter d'étre
publié.
L'hotel de Pons, où habitaient en dernier lieu à Paris Alfieri et la com-
tesse d'Albany, n'était point une auberge ; le nom est celui de sa propriétaire,
la comtesse douairière de Pons, et c'était un appartement, ou peut-étre méme
un étage tout entier, qu'y occupaient les voyageurs. Bien que les meubles le
garnissant y appartinssent à Alfieri ou à la comtesse, il semble qu il con-
tenait aussi une certaine quantité de meubles appartenant à la propriétaire,
ou bien que ces meubles, achetés par les locataires à M"^® de Pons, ne lui
avaient pas été payés complètement, et qu'elle conservait certains droits sur
eux, « selon la forme et les clauses de son bail ». Toujours est-il que cette
comtesse douairière de Pons, pour un motif que je ne puis déterminer et à
une date inconnue (1), eut une réclamation à formuler contre M""® d'Albany
Il y eut entro elles une correspondance dont il ne reste aujourd'hui qu'un
Seul fragment: une lettre de M°^e ^q Pons à la comtesse, qui fut le dernier
souvenir de ce premier séjour à Paris (2). On peut supposer que si Alfieri
la connut, ce lui fut un motif puéril et supplémentaire à maudire la cloaca
massima. Getto réclamation un peu ridicule dans les circonstances tragiques
où elle se produisait, dut lui paraitre, comme chez les comédiens de la Na-
ilon, la pièce boufìe que Ton jouait après la tragèdie.
Leon G. Pélissier.
L
Note des effets appartenant à mai tei soussigné
laissez à Paris à l'hotel de Pons, rue de Provence, Van 1792.
Bibliothèque bleùe.
Une table à écrire quarrée, en acajou.
Deux tables creuses à livres en acajou.
Un grand fauteuil en velour d'Utrecht.
(1) Il appert da texte de cette lettre qu'elle fut écrite pendant l'émigration.
(2) On en tronvera le texte ci après. Elle est conservée à la Bibl. Mnnicipale de Montpellier,
dans le fonda Fabre-Albany.
240 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Tout le meublé, bergères, chaises, fauteuils, canapé, draperies et rideaux
en damas blanc et bleu. Deux lampes de L'Ange et leurs gazes. Deux chai-
ners de bronze dorè, or moulu, avec pele, pinces, etc.
Un grand tapis d'Àubuisson neuf à fond brun, largeur de la chambre.
Un guéridon en acajou, dessus de marbré blanc.
Quatre grandes bibliothèques de sept étages chacune en bois d'acajou,
remplies de livrea dont une moitié itahens, le reste latina et fran^ais, en-
caissez depuis en six grandes caisses, formant cn tout et à peu près le
nombre de troia mille volumes.
Salon blanc de déjeuner.
Un secrétaire à cylindre en acajou à roulettes.
Une table ronde brisée en acajou à roulettes.
Une table quarrée brisée en acajou à roulettes.
Une table ronde à trois pieds en acajou à roulettes.
Douze chaises d'acajou en maroquin vcrd.
Un grand écran à nuit feuilles en acajou.
Un tapis d'Aubuisson, neuf, à fond vert, largeur de la chambre.
Un piano angiais en acajou avec pédales et roulettes.
Deux feux de bronze dorè, or moulu, avec pince, pele, etc.
Une longue table à écrire, en acajou, converte maroquin noir.
Six banquettes avec des coussins de satin bleu, quatre draperies de satin
de méme. Quatre lampes d'argend.
Une pendule de Gregson en acajou sonnant à chaque quart d'heure.
Toalette.
Une table à roulettes en bois de noyer. Un petit poèle.
Un table ronde à miroir, sur trois pieds, en acajou.
Plusieurs chaises et fauteuils de palile.
Chambre bianche attenante.
Un petit tapis de Turquie use.
Un petit pupitre en acajou.
Une comode à trois tiroirs, en acajou, dessus de marbré blanc.
Six chaises d'acajou garnies en cnn et deux bergères.
Une table ronde à trois pieds en acajou, à roulettes.
Deux rideaux à bordure dont l'un de la toalette.
Un grand miroir à comiche bianche et bleùe.
Une table en acajou à trois étages, contenant plusieurs cartona d'estampes
et des livres d'estampes, contenant en tout à peu pròs troia mille estampes,
80it anciennes que modernes.
Un grand atlas de 130 ou 140 cartes géographiques, neuf.
Une cassette anglaise en bois de noyer avec des outils.
Une autre cassette anglaise en acajou pour peindre.
Deux persiennes vertes.
Deux rouleaux plombéa pour la gymnastique.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 241
Chambre de retraite.
Une chaise à oeil en acajou avec deux vases de fayence.
Une table de nuit en acajou, dessus de marbré, et deux pots de porcelaine.
Une grande moette bianche et bleùe.
Denx bassinoirs de cuivre.
Un bidet en acajou.
Trois petits rideaux de taffetas bleu.
Chambre dómeublée, papier verd.
J'ai laissé dans cette chambre six grandes balles et une petite, contenant
toutes des livres en feuille. Ce sont des livres italiens que j'ai imprimés à
Kehl en 1788 et (jue je n'ai jamais publiés. Ni je pourrois les publier tant
que je demeurerois en Italie. Je les mets donc spécialement sous la sauve-
garde de la loyauté fran^aise.
Chambre à coucher.
Un lit de lampas jaune et blanc à la turque avec trois matelats doublés
en peau rouge, courtepointe, etc.
Bergères, fauteuils, chaises, canapé et draperies, de méme lampas que
le lit.
Une comode à trois tiroirs en acajou, dessus de marbré blanc.
Une table ronde à trois pieds en acajou à roulettes.
Un secrétaire en acajou, dessus de marbré blanc, clé en treffle.
Une table à la tronchin quarrée en acajou à roulettes.
Une pendule anglaise en acajou gamie en cuivre.
Trois gardefeu en six feuilles de fil de laiton.
Une grille de cheminée en or moulu, pinces, garniture, etc.
Un écran à huit feuilles en acajou.
Un tapis d'Aubuisson neuf, fond brun, largeur de la chambre.
Deux lampes de L'Ange avec leurs gazes.
Un guéridon en acajou à roulettes dessus de marbré.
Une grande table à thè avec quatre pieds à roulettes dessus de marbré
avec comiche dorée et surmontée d'un rond, le tout en acajou.
Sur la table une grande urne plaquée, thevère plaquée, deux sucriers pla-
qués, 30 tasses difiFérentes en porcelaine doree avec sucrier et pots au lait.
Un thermomètre visse à la fenètre. Un thermomètre et baromètre en acajou
portatif et plusieurs autres baromètres.
Une petite bibliothèque en acajou à piacer dans le lit.
Antichambre en papier bleu.
Six chaises d'acajou en crin et quatre bergères.
Six fauteuils et un paumier de oamas jaune.
Quatre rideaux en taffetas Jaune.
Une congole en acajou garaie d'or moulu avec deux tables de marbré blanc.
Une table ronde à trois pieds, dessus de marbré et grille dorée.
Un tapis d'Aubuisson neuf à fond brun.
Sept tasses, une tbeyère et sucrier, porcelaine bleu et blanc.
GiornaU storico, XXXYIII, fase. 112-113. 16
242 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Un petit secrétaire en acajou, avec tablettes dessus et dessous fermantes
à clé pour y mettre des livies.
Deux feux dorés d'or moulu avec peles, pincettes.
Deux lampes économiques d'antichambre.
Dans toutes les susdites chambres il y avait des estampes sous giace,
jusqu'au nombre à peu près de 240 estampes de Strange, de Rome et autres.
Qaatre tableaux en portrait: Dante, deux tétes de femme et une d'homme.
Effets consignez à M. More.
Une longue pendule anglaise, caisse en noyer.
Une lampe d'argent à la Fiorentine à quatre mèches.
Quinze couverts d'argent, six cuillières à caflfé, une cuillière à soupe, deux
à ragout, le tout d'argent.
Six salières plaquées; un huilier plaqué; un écritoire à trois boètes, plaqué.
Une grande urne anglaise pour bouillir l'eau, plaquée.
Un bouloir sur trois pieds, plaqué, à esprit de vin et à manche.
Une petite urne anglaise bleùe ^our le déjeuner.
Quatre flambeaux pTaqués. Six rechauds plaqués pour chauffer les piata.
Plusieurs assiettes de porcelaine dorée.
Quatre douzaine d'assiettes de porcelaine bleue et bianche et plusieurs
compotiers et autres pièces de dessert.
Moitió de tous les cristaux, verres, bouteilles existantes.
Deux grands portefeuilles, un rouge, un noir, en maroquin.
Moitié de la batterie de cuisine existante.
Moitié de la batterie et des ustensiles d'office.
Quinze paires de draps de domestiques.
Soixante essuye mains de domestiques.
Cent vingt serviettes décorées de Suisse, huit nappes pareilles.
Trente deux serviettes à bouquet, deux nappes pareilles.
Quatre douzaines de serviettes damassées et quatre nappes pareilles.
Six douzaines serviettes à grain d'orge et six nappes pareilles.
Un bois de lit à quatre colonnes, peint en blanc, à roulettes.
Moitié du Unge de l'office et de la cuisine.
Moitié du vin existant dans la cave.
Six aunes mocquette pour tapis, six et demie de taffetas jaune, six et
demie de tafietas puce pour faire une couverture de lit en outre plusieurs
gros meubles, lits, chaises, bureaux et tables des domestiques.
Effets laissez à Vécurie et au garde harnois,
consigne* au piqueur Berg, maintenant au dit More.
Huit couvertures de laine anglaise complettes pour huit chevaux.
Un cabriolè, train rouge, caisse jaune, gami en plaqué, tout neuf.
Une diligence, train jaune, caisse bleue, gamie en plaqué, tonte neuve.
Un phaéton anglais, tout jaune, doublé en blanc et plaqué.
Un harnois de cabriolè avec bricolle et collier, renes, le tout plaqué et
et presque neuf.
Deux tétières pareilles et bridons, le tout plaq^ué avec roses jaune et bleu.
Une paire de narnois neufs de carosse, tres riches en plaqué, avec leure
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 243
tétières pareilles, mords et bridon plaqués ; rosettes jaunes, rouges, et noires.
Une paire de harnois anglais de phaéton, tétières et roses jaunes, le tout
plaqué.
Quatre selles anglaises neuves avec leur housse.
Une autre selle moins neuve.
Une vieille selle avec sa housse.
Deux bridons plaqués. Deux autres non plaqués.^
Quatre brides de chevaux de selle neuves plaquées.
Six mords anglais plaqués aux six tétières des harnois.
Un grand manteau bleu et jaune tout neuf pour le cocher.
Seize filets blancs pour les chevaux.
Deux grandes couvertures de drap verd pour les chevaux attelés.
Deux autres pareilles de coeti bleu doublé de iaune.
Deux foets plaqués pour le phaéton et cabriolè.
Une paire de vieux harnois de phaéton avec tétières et mors garnis en
cuivre.
Une autre paire de vieux harnois garnis en cuivre.
Trois colliers et martingale plaquées.
Outre plusieurs autres bagatelles qui sont à la connaissance du dit More
par Tinventaire du piqueur. Et les deux tiers des ustensiles d'écurie.
Tous les grands rideaux de grosse toile qui garnissent tout le garde harnois.
Plusieurs paires de souliers neufs et deux paires de bottes.
Moi soussigné, je certifie que tous les effets ci dessus détaillez de ma propre
main m'appartiennent en propre.
15 mai 1793. Le Gomte Vittorio
Alfieri demeurant à
Florence.
IL
Lettre de Madame de Pons à Madame d'Albany.
Madame,
J'ai regu la lettre dont elle a bien voulu m'honorer le 19 de novembre.
C'est avec beaucoup de regret que je me vois obligée de lui représenter
qu'elle a confondu les époques qui ont rapport à Tacquisition de mes meubles.
Madame me dit que son homme d'affaires a pensé étre guillotiné pour m'en
avoir payé le prix. Suivant nos conventions, ils auraient dù Tètre le jour
qu'elle a pris possession de ma maison, et c'est le 4 de janvier qui lui ont
eté remis. Je trouve sur le compte de mon homme d'aflfaires qu'ils ont été
payé le 11 février. Je ne veux point reparler du préjudice que ce retard de
6 semaines m*a cause. Le décret de confiscation contre les emigrés n'a été
rendu qu'à la fin de mars et n'avoit point d'effet rétroactif, et le produit de
cette vente faite à l'amiable ne pouvoit étre saisi. Ainsi ces dates et ces
circonstances ne peuvent avoir compromis l'homme d'aflfaires.
Madame me dit qu'elle ne sait point ce qu'est devenue la personne chargée
de ses aflfaires et de ses papiers. Elle n'est cependant pas à une aussi grande
distance de la France pour n'avoir put en savoir des nouvelles. Si elle
vouloit bien me fa ire dire son nom, je pourrois par mes correspondans dé-
couvrir son domicile, ou faire mettre dans les journaux que l'on voudroit
conférer avec lui.
244 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Je con9ois très aisément que madame a perdu de vue tout ce qui regarde
ma réclamation, qu'elle avait oublié la forme et les clauses de son baii:
mais enfin j'espère qu'elle voudra bien avoir la bonté de constater la légi-
timité de ma oemande, et je croyois la lui avoir prouvée.
Si madame avait bien voulu lire avec attention la dernière lettre que j*ai
eu rhonneur de lui écrire, elle y auroit vu que je ne supposois point que
monsieur le comte de Vernigerod fùt son débiteur. Mais comme je connais
particulièrement sa bienfaisance, principalement en faveur des émigrés, je
lu^eois que d'après la demande de Maaame quii se seroit fait un plaisir de
lui préter ce dont elle m'est redevable.
J'avouerai ingénuement à Madame que je n'ai pas bien compris ce qu'elle
a voulu me dire lorequ'elle ma assuré crue fetois très-riche. Se le voudrois,
puisque je pourois faire un bon usage de mes richesses. Et méme si elles
étaient véritables, elles n'auroient aucun rapport à ma réclamation. Du moins
je n'y en vois point.
J'ai rhonneur d'étre avec respect de Madame
la très humble et très obéissante servante
la Comtesse douairière de Pons.
La contessa d'Albany e Ugo Foscolo. — L'ortografia e la grammatica
senza scrupoli della famosa Contessa somigliano alla sua non troppo scru-
polosa coscienza di donna e di gentildonna ; e poiché ormai è assai noto
come V amica dell'Alfieri scrivesse e sentisse, recarne nuovi documenti, può
parere superfluo. Noti son pure i rapporti da lei avuti col Foscolo, e ne son
rimaste copiosissime testimonianze nell'epistolario foscoliano e nelle lettere
della Contessa edite dall'Antona-Traversi e dal Bianchini; ma in tutto quel
carteggio, diciamolo pure, non c'è sillaba che giustifichi il geloso sospetto
della buona Quirina Mocenni, che il Foscolo sentisse per l'Albany il pù-
zicor d'amore; o la sicurezza dell'Antona-Traversi, secondo il quale < il
€ pizzicore ha dovuto esserci, ma più della Contessa per il Foscolo, che non
€ di Ugo per la Contessa » (1). Luisa Stolberg, nella sua flemma tedesca,
fu capace di tutto, fuorché d'una pazzia ; e dal pericolo di pensarne, nonché di
commetterne, la salvavano ormai, oltre l'altre circostanze, i suoi sessant'anni
sonati; né il poeta delle Grazie meritava che gli si facesse il gravissimo
torto di supporlo, anche per mezz' ora, innamorato d'una donna d' « età >
— avrebbe dovuto dire l'Antona-Traversi (2) — più che « mediocremente
< matura ».
E nemmeno tra que' due dovette esserci mai vera amicizia. L'ingegno, la
fama e le avventure d'Ugo poterono interessare la signora, che dilettavasi
di letteratura, di politica e, forse più, di pettegolezzi mondani; e ad Ugo
<1) C. AaTOKA-TBATiMi 6 D. BiAKCHiMi, MUtt i$ttdiU di lMi$a StMtrg c<mt$$$a d'Àlkmif
« Ugo Foicolo ecc., Roma, Molino, 1887, pp. LTi-m.
(2) /ri, p. LTiii.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 245
potè piacere d'aver libero e frequente accesso al salotto della signora, che
possedeva in grado eminente, se crediamo ai contemporanei, l'arte della
conversazione, conosceva tanta gente, aveva tanta esperienza d'uomini e di
cose, portava (non con grande dignità, a dir vero) un gran nome, aveva
una storia e una leggenda, custodiva le memorie e i cimeli di un poeta a
lui caro come suo vero padre spirituale; ma troppa distanza d'indole e di
anni c'era tra i due perchè riuscissero a stringersi di salda amicizia; né la
saggia Contessa poteva intendere gli umori fantastici, le ardite scapigliature
d'Ugo; né questi poteva a lei perdonare le volgarità e le grettezze e gli
egoismi fondamentali della sua indole.
La loro amicizia, chiamiamola cosi, s'intorbidò sulla fine del '14, quando
Ugo ritenne indiscretamente divulgata dalla Contessa la storia dei cinquanta
zecchini chiestile a prestito; si ruppe (ma non tutt'a un tratto) più tardi,
quando la Contessa non tralasciò occasione di significare ad Ugo eh' essa
disapprovava, come una bestialissima pazzia, quel suo ghiribizzo d'espatriarsi
e d'affrontare povero e solo i dolori di un esilio non necessario.
Dopo la lettera del 22 marzo 1816 (1), piena del solito suo scetticismo e
di molta ironia, in cui l'Albany si rallegrava col Foscolo che fosse favola
la diceria del suo suicidio (al quale del resto essa non aveva mai prestato
fede), la corrispondenza epistolare fra i due fu sospesa per vari anni. « On
€ avait repandu » — scriveva la sarcastica signora — « que vous vous etiez
« brulé la cervello Le dire et le faire sont deux choses difFerentes, et
€ parceque vòtre Ortis c'est tue, ce n'est pas une raison que vous le fassiez
« aussi Vous aimez trop la benne chere, et les agrements de la vie
« pour y renoncer ». Ai tetri furori^ealle tragiche disperazioni del Foscolo
essa non credeva; l'uomo, secondo lei, era ben diverso dal poeta, e il sen-
timentalismo di questo non era proprio l'intimo sentimento di quello. Essa,
conoscendolo da vicino, permettevasi di giudicarlo ben diversamente da co-
loro che lo conoscevano da' suoi scritti; e perciò se lo figurava già mezzo
pentito d'essersi andato a cacciare, senza necessità, « dans les neiges de la
€ Suisse », mentre poteva « vivre tranquillement a Milan » ; pentito d'aver
concesso alla sua « fantaisie » la soddisfazione di atteggiarsi a « victime
« devouée » della libertà.
Io non so come il Foscolo abbia potuto mostrar di perdonare (che glieli
abbia perdonati davvero, non consta) alla Contessa cotesti complimenti, tor-
nando a carteggiare con lei, di li a qualche anno, in tòno amichevole; ma
se c'era ragione di perdonarglieli, la sola era questa: che la vecchia signora,
incapace di pensieri eroici, scettica, utilitaria, era stata almeno sincera, e
gli aveva manifestato schiettamente il suo pensiero.
Non tutto però; perché, scrivendo ad altri, essa non s'accontentava di
ripetere che in fin de' conti l'eroico patriottismo del Foscolo era un'ambi-
ziosa ciarlataneria, ma aggiungeva qualche nuova malignità, che, scrivendo
a lui, non avrebbe mai arrischiata.
Ne fa testimonianza la seguente lettera inedita, indirizzata al marchese
(1) Ivi, p. 165.
246 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Vittorio Colli-Ricci di Felizzano (1), senza firma, ma autografa, ch'io trovai
tra l'altre parecchie indirizzate dalla Contessa alla medesima persona (2):
Le 26 juillet [1816] (3).
J'ai recu, mon cher Vittorio, votre lettre du 14 le 23 de ce mois, et ie
m'empresse de vous en remercier, et d'accuser la lettre de change qui m a
été payée très exactement, et ce (sic) un très bon secours. Il vaut toujours
mieux en avoir sur Paris, on les negocie mieux que toutes les autres. Je vous
prie d'en remercier votre bonne maman de ma part et de lui reme ttre le
recu ici inclus.
Kecomandez lui de se soigner et de [se] conserver pour les personnes qui
l'aiment.
M.' e M.™« Lucchesini (4) sont à la campagne et volent beaucoup de
monde, tous ceux qui vont aux bains de Lucques, et c'est la fureur cette
(1) Nato ad Alessandria, nel 1787, morto a Torino nel 1856. Figlioccio di Vittorio Amedeo m,
era paggio di Carlo Emanuele IV qnando sopragginnsero i rivolgimenti politici che obbligarono i
Savoia a esalare dal Piemonte. Seguì la via tracciatagli da suo padre, qael Luigi Colli, a cui
lo zio, Vittorio Alfieri, rivolse una lettera di rimprovero da molto tempo pubblicata; e militò
sotto le bandiere francesi. Uscito incolume da vari combattimenti e battaglie, a cui prese parte
col suo reggimento, che fu il 23» dei cacciatori a cavallo, a Wagram perdette una gamba, e fu
giubilato. In seguito fu nominato da Napoleone auditore al Consiglio di Stato, e poi sottoprefetto
di Alessandria. Caduto l'impero, prese moglie e si ritrasse a vita privata, fino al 1837, quando
Carlo Alberto lo nominò presidente d'una commissione incaricata di provvedere alla fondazione
d'un ricovero pei poveri. Altri più importanti affici ebbe appresso, e della città di Torino fa
decurione e poi sindaco (1846-48). Proclamata la costituzione, ebbe un seggio in Senato, e nel
luglio del *48 fu spedito a Venezia con l'ufficio di commissario regio e comandante militare. Nel
triste febbraio del '49 fu incaricato del Ministero aegli esteri; ma per breve tempo; e con quella
sua tarda partecipazione al governo chiuse la sua carriera politica. — Con lui l'Albany carteggiò
per vari anni; ma, tranne quella che qui pubblico, le lettere di lei non hanno nulla d'interessante.
Contengono le solite sue massime e le solite frasi di complimento ; qualche notisiola indifferente sa
persone oscure, oppure semplicemente la ricevuta della pensione che semestralmente gli eredi del»
l'Alfieri le pagavano con lettere di cambio su Firenze o su Parigi. Cotesta pensione, così mal
meritata, ammontava a 1540 lire all'anno, come risulta dalla seguente ricevuta autografa:
« Je reconnois d'avoir recu de madame la comtesse Julie Canalis Cumiana née Alfieri 1540 livrea
« en denz semeetres première année de la rente viagere que m'a laissé le conte Vittorio Alfleri
« par son testament de 14 juillet 1793 ».
« Louise de Stolberg comteae d'Albaoy •
« Florence, le 20 deeembre 1804 ».
Secondo il detto testamento dell'Alflerì, eh* è a stampa, la rendita vitalizia, coetitnÌt« colle pen-
sioni prima destinate a tre servitori, avrebbe dovuto ewere di 1400 lire; e io non saprei per qnal
fortuna la contessa tà% poi riuscita a riscootare vita nataral durante 140 lire più di quelle portate
dal testamento.
(2) Ringrazio sentitamente il sig. Marchese V. Colli e la gentilissima signora Marchesa Maria
Colli nata Piola-Caselli sua madre, della liberalità con coi mi concessero di trarre dal loro archÌTÌo
domestico questo ed altri piii rilevanti documenti, di cai mi varrò nel già annantiato mio stadio
snll'Alfieri.
(8) Che la lettera sia del '16, s'induce con sicurezta dal contesto; e perdo ho aggiunto l'anno
alla data incompleta dell'autografo; che io riproduco con tutte le sue caratteristiche scorrezioni,
non mettendoci di mio che qualche segno d'interpunzione, poiché la Contessa di punti e di vir-
gole era avara quanto si dice che Ida stata avara de' suoi quattrini.
(4) Certo il noto marchese Girolamo Lnccheeini e sua moglie; pei quali rimando a ciò che no
dice lo SroBSA, Dodici antddoti storici, Modena, Namias, 1805, p. 84.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 247
année; les anglois sur tout vont y passer l'été. Mj Foscolo est, je crois,
encore a Zurick, il y etoit au mois d'Avril. Il a la permission d'aller a
Milan ou on ne lui a jamai dit de partir; mais il a cru se faire remarquer
en s'eloignant. Il m'a écrit quelques fois, et je lui ai toujour dit qu'en ne
s'occupant que de litterature, personne ne penserait a lui, mais il alme
qu'on pense a lui. 11 a beaucoup d'esprit en petites manneges, je doute qu'il
ait assez de capital pour passer a la posterité, quoiqu'il veuille etre le pendant
de votre Onde, qui a son age avoit deja etabli sa reputation.
Il ne sufRt pas de vouloir etre un grand'homme; il faut en avoir les
moyens, et la nature n'est jamais prodigue en cela.
Nous avons a Livourne Marie Louise, qui ne volt personne. Elle viendra
ici le 15 d'Aoust. Je compie passer mon eté tranquillement a Florence.
M.™« de Stael m'a fait Teloge de Turin, elle m'a ecrit de cette ville. Je
vois que vos concitoyens l'ont fété et caressé. lei on est moins gallant, on
est plus envieux des reputations etrangeres.
Portez vous bien, mon cher Vittorio, et comptez toujours sur mon tendre
interet. Milles compliments a M.*" Pampara (1) et a la G.[omtesse] Masino.
Disposez de mois en tout ce que je pourrais vous etre utile.
M. Fabro vous presente ses hommages.
La lettera spropositatissima non richiede commento (2). Noto soltanto
l'espressione equivoca usata dalla Contessa parlando del Foscolo: « il a la
« permission d'aller à Milan », che poteva far sorgere il sospetto di tratta-
tive ch'egli avesse intavolate, e di un formale permesso ch'egli avesse otte-
nuto dalla polizia austriaca di rientrare negli Stati di S. M. I.; e noto l'aperta
sfiducia ch'essa mostra nell'ingegno del Gorcirese, che non sarebbe mai riu-
scito, per quanto facesse la scimmia dell'Alfieri, a passare per un grande
scrittore e un grand'uomo. Non so se al Foscolo, dato che coleste parole
gli fossero state riferite, ed egli si fosse abbassato a lagnarsene, essa avrebbe
avuto faccia di rispondere, com'altra volta: « Je n'ai pas besoin de vous dire
< que j'ai toujours parie de vous comme je devais et sentais » (3); ma ca-
pace di rispondergli cosi certo essa sarebbe stata; e, ingannandolo, gli
avrebbe detto la verità.
Emilio Bertana.
Un riscontro al « serio accidente » per cui indossò la tonaca padre
Cristoforo. — In realtà non proprio al serio accidente, sì bene all'antefatto
semicomico di esso oflfre un curioso parallelo il documentino che sto per
comunicare. Mi si conceda, prima, di prepararvi il lettore con qualche breve
considerazione.
(1) Paraparato.
(2) Pei rapporti del Foscolo col governo aostriaco di Lombardia e sulle circostanze che deter-
minarono la eoa foga in Isvizzera, rimando a ciò che ne scrisse il Chiarini, nella Prefazione
ilV Appendice alle Opere di U. F., Firenze, Le Monnìer, 1890.
(8) LetUre inediU cit., p. 134.
248 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Sebbene in molti casi sia vera l'asserzione del Brunetière che di quanti
influssi si esercitano nella storia delle lettere il più notevole è quello delle
opere sulle opere, a me parve sempre che nel caso del Manzoni quest" in-
flusso sia meno forte che in altri artisti della penna e che il Manzoni più
di altri sia ricorso, anziché ai libri altrui, al gran tesoro dell'osservazion
sua personale e ai frutti delle sue meditazioni su fatti reali registrati nella
storia (1). È questa la ragione per cui m'accadde di considerare sempre con
special simpatia ricerche del genere di quelle del Bindoni e d'altri, le quali
s'industriavano di porre in chiaro ciò che il Manzoni attinse dalla realtà
esteriore, mentre non potei dissimulare certo scetticismo rispetto alle inda-
gini dirette a scoprire fonti letterarie dell'opera massima manzoniana.
Dato ciò, come si comportano di fronte alla realtà storica la figura di
padre Cristoforo ed i fatti della vita di lui?
Lasciamo da banda le sottigliezze con cui da qualcuno si vollero ravvi-
sare anche nelle azioni di Lodovico-Cristoforo certi riflessi soggettivi, appar-
tenenti alla psiche del Manzoni medesimo (2). Codesti, a parer mio, sono
sogni, e per giunta sogni non belli (3). Sta però il fatto che un frate Cri-
stoforo cappuccino esistette nel sec. XVII : Cristoforo Picenardi da Cremona,
che volontariamente, per ispirilo di cristiana carità, andò ad assistere gli
appestati nel lazzaretto di Milano durante il contagio del 1630 e della peste
fu vittima (4), Che codesto padre Cristoforo della storia abbia influito sul
padre Cristoforo del romanzo, non v' ha dubbio. Ma inoltre il Sailer, in un
suo scritto pieno d'acume e di buona critica, cercò di far accettare il paral-
lelo con un cappuccino storico assai ragguardevole, fra Giambattista da Mo-
dena, già uomo di sangue e di corrucci, che al secolo fu il duca Alfonso III
di Modena, ed a 38 anni, lasciato al suo primogenito il potere, si ritirò
(1) Abbiamo in proposito ana esplicita confessione del Manzoni, che quantunqae assai conosciate
non è male riferire. Il 3 novembre 1821 egli scriTeva al Faariel : « Poar tous indiqaer briòremeat
« mon idée principale sur les romana historiqaes je vons dirai, quo je les con^ois comma une
« représentation d'an état donne de la société par le moyen de faits et de caractèreo «i sembìa-
« iUt à la réalité, qn'on puisse les croire une hùioir« véritahìt qWon vitndrait dt éUcoutrir ».
Mamxomi, Spùtolario, edix. Sforza, I, 214. Cfir, Db Qdbkuatib, Jl ManMoni e il Fauritl, Boma,
1880, p. 169.
(2) De GoBnuTATifl, AUts. ManMoni, Firenze, 1879, pp. 251-52. Debolmente Io combatte lo
Stampa, Mantoni, II, 133.
(3) In qoeiti oHimi anni si ò esagerata assid la teadensa a dare importansa soggettira ai iktti
ed ai sentimenti che il Maatoai narra e rappresenta da masstro. In effetto, pochi scrittori furono
al pari di lui obbiettivi, nel romance almeno. L'oggettività del sentimento della paura, da loi
con tanta finezza e varietà rappresentato, fìi dimostrata assai bene dal Bertana (cfr. qaesto
Giom., XXXVI, 256-57). Nelle conversioni, eoA diverse, di Lodovico, figlio di mercante, e del-
l'Innominato, gran oignore, non sono in modo alcuno dimostrabili le rispondenze alla conver-
sione del Mantoni medesimo, che si effettnò in condizioni tatto diverse ed ebbe una motivaxioa*
radicalmente differente, anzi in certe parti fin opposta. Buono ò lo stadio sa qaei trapassi psi-
cologici fatto da un filosofo, O. Vioam, nello scritto Smor OmrirMi», Plimomtmto t /tu Ori-
tto/oro, Firenze, 1895.
(4) Cfr., oltre il noto libretto dello Stoppa»!, spedalmenU Cajjtù. La Lombardia n»l$m. HflU
ia StorU minori, Torino, 18«5, II, 849. n. 18, e anche RtmimtemiM, I, 159.
COMDNIGAZIONl ED APPUNTI 249
nel 1629 in un convento, tocco singolarmente dalla morte prematura e santa
della moglie sua Isabella di Savoia (1). S'attenne il Sailer, nell'esporre e
narrare le vicende del duca cappuccino e nel rilevare i riscontri del carat-
tere suo con quello di padre Cristoforo, segnatamente alle Antichità Estensi
del Muratori e un poco anche alle apologie che di lui dettarono alcuni suoi
fratelli nell'ordine. Invece su base documentale ricostrusse testé quella storia
Niccolò Rodolico (2), e certo nel suo racconto le cose appaiono alquanto
diverse da quelle esposte dal Sailer. Non sì, peraltro, che ci s' induca a dar
ragione al Rodolico quando in una speciale appendice (3) egli combatte la
identificazione del Sailer. Intendiamoci: non che il Manzoni, pel suo Lodo-
vico-Cristoforo, abbia in modo alcuno esemplato il duca cappuccino. Troppe
e troppo palesi sono le diversità (4). Ma se il Manzoni conobbe la storia di
Alfonso (e chi sappia quanto accurata sia stata sempre la sua preparazione
storica non dubiterà che l'abbia conosciuta), è probabilissimo, anzi quasi
certo, che da essa tolse più d' una ispirazione per delineare, in conformità
allo spirito del tempo, la figura di Lodovico-Cristoforo (5).
Lodovico, del resto, non si converte per la soavità della moglie tenera-
mente amata e morta anzitempo; ma è tratto alla religione da un serio
accidente che gli accade per le vie della sua città. Mentre se ne andava,
seguito da due bravi e dal maestro di casa (Cristoforo), pe" fatti suoi, s'im-
battè in « un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione », che
sprezzantemente s'avanzava seguito da quattro bravi. Entrambi camminavano
rasente al muro, e siccome nessun de' due volle cedere il passo, ne nacque
una rissa, in cui quel signor tale ammazzò il buon Cristoforo, e Lodovico
fece a lui un occhiello nel ventre, per cui ben presto raggiunse Cristoforo
nell'altro mondo (6).
0 come mai!, ci chiediamo noi, conseguenze sì gravi d'un caso sì tenue,
anzi futile? Due metton mano alle spade e si sbudellano sol perchè non
s'intendono su chi debba cedere il passo per via?!
Eppure il Manzoni anche in questo minimo particolare non inventa. Una
domenica del maggio 1614 rideva sulle vie di Bologna, allorché vi s'incon-
(1) 7/ padre Cristoforo nel romanzo e nella storia, nel voi. D'Ovidio e Saileb, Discussioni
manzoniane. Città di Castello, 1886, pp, 147 sgg.
(2) L'abdicazione di Alfon$o 111 d'Este, Bologna, Zanichelli, 1901.
(3) Op. cit., pp. 87 8gg.
(4) Una, fra le altre, trascurata aflFatto dal Rodolico, è massima : lo stato sociale del tutto di-
verso dei due personaggi. Lodovico è figlio di mercante. Se il Manzoni voleva attenersi ad Al-
fonso III, ne avrebbe per lo meno fatto nn gentiluomo, nel qual caso la sua conversione sarebbe
riuscita anche più straordinaria ed edificante. Il Sailer ha detto bene che il fatto storico del
daca cappuccino appare ben più inverosimile della storia fantastica di Lodovico divenuto frate
Cristoforo.
(5) Si noti pure che il Manzoni, in ogni caso, per conoscere le vicende del duca cappuccino,
disponeva del materiale medesimo a cui è ricorso il Sailer. 1 documenti noti al Rodolico, che ne
modificano alquanto il valore psicologico, egli non poteva conoscere; quindi l'accostamento del
Sailer non perde valore per la scoperta di particolari certamente ignoti all'autore dei Promessi
Sposi.
(6) Occorrerà appena rinviare alla narrazione del capit. lY del notissimo libro.
250 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
trarono a caso il marchese Cesare Pepoli ed il senatore Aurelio Armi. L'uno
come senatore, l'altro come patrizio, pretendevano d'esser lasciati passare.
Anche lì si venne alle mani e l'Armi ci perde la vita (1). Spagnolerie!, si
penserà. L'etichetta e la burbanza spagnuola, che portano i loro frutti anche
in Italia. Niente afTatto. Abbiamo indizio che anche prima della preponde-
ranza spagnuola casi simili accadevano fra noi. In una di quelle molte let-
tere in cui Isabella Gonzaga informava il marito assente, con uno scrupolo
veramente esemplare, di quanto accadeva in Mantova, troviamo notificato,
in data 17 die. 1507: «Questa matina essendosi incontrati a caso suso uno
« cantone m. Francisco Suardo et Zoan Ludovico da Gonzaga, per non ce-
< dersi l'un l'altro la via sono stati fermi più de una bora contendendo de
€ precedentia, l'uno per esser Gavaler, l'altro de la casa de Gonzaga. Final-
€ mente per Consilio (di accorsi) se voltorono l'uno al contrario de l'altro,
« ritornando per la via dove erano venuti, cum spectaculo numeroso de gente >.
Questa è farsa; ma il motivo di questa farsa, che ci fa ancora ridere raflB-
gurandocelo nella mente, è, come si vede, il medesimo per cui degenerarono
in tragedia i casi del Pepoli e di Lodovico.
Rodolfo Renier.
NOTICINA DANTESCA. Il «CAPPELLO» E LA PREGHIERA DI MANFREDI MO-
RENTE. — Nell'ultimo fascic. del Bullettino d. Società dantesca (N. S., Vili,
169 sgg.) mi sforzai di difendere la tradizionale interpretazione del cappello
dantesco {Farad., XXV, 9) contro le forti obbiezioni dell'amico Novati, il
quale aveva proposto di sostituire alla corona poetica il berretto dottorale.
L'egr. prof. A. Fiammazzo opportunamente richiama ora l'attenzione mia
sopra un passo della sua Notizia dal cod. Grumelli ecc. (// commento dan-
tesco di Alberico da Rosciate ecc., Bergamo, 1895, p. 17) aggiungendo che
il cod. Bodlejano (Canonici ital., 449; di poco diflferisce dal Grumelliano e
dal Laurenz., pi. XXVI, sin. 2. Il Da Rosciate, nel proemio del Lana al
Canto I del Paradiso, e propriamente al passo da me ricordato nella citata
recensione, prosegue cos'i : Poetae ponehant sciencins in parnaso et eorum
deum Appolinem a quo sumebant coronacionem sicut modo fit a doctoribus
[Grum.; in bononia vel padua vel in aliis locis ad hoc deditis\ Et sicut
moderni in signum corone [Bodl.; coronationis] recipiunt birettum ita
Appolo dabat eis unam coronam de lauro in signum coni>entus. E neppure
a questa chiosa si può negare un certo valore.
Più oltre (p. 174), accennando all'ipotesi del Novati circa l'esistenza d'un
ritmo latino commemorante la morte di Manfredi pentito, notavo che a di-
minuire la singolarità del caso pel quale le cinque parole Deus, propitius
(1) So docamenti narra qnMlo fatto il Rodolioo, Op. cit, pp. 15
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 251
esto mihi peccatori occorrono quasi identiche nella Imago di Jacopo da
Acqui e in un componimento goliardico, sta il fatto che esse riappaiono in
una Vita di S. Francesco d'Assisi, in modo da assumere il carattere di
« una formula comune d'invocazione religiosa, di una specie di giaculatoria ».
A dare una conferma insperata a questa mia osservazione il prof. F. C. Pel-
legrini mi scrive cortesemente avvertendomi che le suddette parole sono
prese alla lettera da un testo evangelico. Infatti nella nota parabola del
fariseo e del pubblicano, contenuta in S. Luca (XVIII, 13), si legge : « Et
€ publicanus a longe stans, nolebat nec oculos ad coelum levare, sed per-
« cutiebat pectus suum, dicens : JDeus^ propitius esto mihi peccatori ». L'im-
portanza di questo riscontro è accresciuta dal vedere che nel Vangelo le
parole in questione sono date da Gesù come la preghiera tipica, la pre-
ghiera efficace per eccellenza innanzi a Dio, contrapposta a quella vanitosa
del fariseo. Giova inoltre rammentare che la frase «propitius esto» è
usata dalla Chiesa, per es., nelle litanie dei Santi, preghiera di penitenza,
che Dante fa pur cantare dalle anime penitenti della seconda cornice (Pur^
gatorio, XIII).
Vittorio Gian.
ORON^C^
PERIODICI.
Atti della R. Accademia delle scienze di Torino ^XXXVl, 8): P. Gam-
bèra, Cronografia del mistico viaggio di Dante, conferma con nuovi dati
la primavera del 1300 come il tempo in che D. pone la sua visione, anzi
crede che nessuna seria obiezione scientifica renda impossibile l'ammettere
che il viaggio cominci la sera del 7 aprile 1300 (1). Posto questo principio,
determina il tempo del cammino dantesco sui dati offerti dal poeta. Il viaggio
per l'inferno dura 45 ore; passano 120 ore dal momento in cui il poeta
giunge al centro terrestre fino a quello in cui spicca il volo dal monte del
purgatorio; 24 ore dura il viaggio celeste sino al nono cielo; 11 ore trascor-
rono nel nono cielo e nell'empireo. Quindi « il viaggio dantesco durò (tempo
€ di Firenze) dalle ore 8 di sera del 7 aprile alle ore 4 del mattino (alba)
« del 16 aprile 1300; cioè quasi otto giorni e mezzo, e precisamente 200 ore ».
Archivio storico italiano (XXVII, 221): V. D. Valla, Paolo Tranci autore
di un ms. anonimo, con alcune magre informazioni sull'annalista pisano.
Archivio storico lombardo (XXVIII, 29): A. Zanelli, Predicatori a Brescia
nel quattrocento, i più notevoli fra i predicatori di cui qui si parla sono
Bernardino da Siena, Alberto da Sarteano, Giovanni da Capistrano, Roberto
Caracciolo, Bernardino da Feltre; A. Luzio, Isabella d'Este e la corte sfor-
zesca, discorso in cui sono utilizzati anche vari documenti finora ineaiti;
(XXVIII, 30); V. Vitale, Bernabò Visconti nella novella e nella cronaca
contemporanea, lavoretto interessante, i novellieri di cui si occupa sono il
Sacchetti, Ser (Giovanni Fiorentino ed il Sercambi; Maria a Marca, Lettere
inedite di U. Foscolo in Svizzera, una pronipote del governatore Clemente
a Marca pubblica qui cinque lettere del Foscolo dirette nel 1815 al bisavo
di lei. — Nella rubrica appunti e notizie, a p. 421, il Novati comunica Poe-
metti volgari ignoti sulla calata di Carlo Vili in Italia.
Atti del R. Istituto veneto (LX, 2): F. Cipolla, Catone, osservazioni al
recente opuscolo nuziale di G. B. Zoppi, Sul datone dantesco. Verona, Ì900;
(1) Poco H F. Cantelli, in nn articolo intitolato Ixi eonotcertMO iti tempi ntl viaggio dantueo
(Tol. 29 degli Atti dell' Àeeadtmia Ponianiana) fece on calcolo non direno da quello del Oan-
bèra, par sapponendo la risione arrenata nella primarera del ISOl . Il lavoro del Cantelli riscosM,
naturalmente, la piena approratione del prof. Angelitti. Vedi BulUttino Soc. DanUsca, N. S. ,
Vili, 204-5.
CRONACA 253
(LX, 3), B. Brugi, La Facoltà giuridica di Padova e le onoranze a Baldo
in Perugia; (LX, 4), A. Favaro, Intorno ai cannocchiali costruiti ed usati
da Galileo Galilei; N. Tamassia, Nuovi studi sulla « defensa », menzio-
nata notoriamente nel contrasto di Cielo d'Alcamo, al cui chiarimento la
nota giuridica del T. contribuisce; (LX, 5), V. Grescini, Yarietà filologiche^
3uesto scritto, su cui ritorneremo, tratta nella prima parte della testimonianza
el secolo VII circa il volgare italiano fatta conoscere dal Novati e nella
seconda della Teseide boccaccesca, a proposito dell'articolo di P. Savj -Lopez
pubbl. nel voi. 36 del Giornale nostro.
Rendiconti della R. Accademia dei Lincei (Serie V, X, 1-2): F. Tocco,
Nuovi documenti sui dissidi francescani^ comunica alcuni documenti sulle
controversie dei fraticelli e dei loro adepti, che il p. BoflBto rinvenne nel-
l'archivio vaticano; G. F. Gamurrini, Di alcuni versi volgari attribuiti a
S. Francesco, rinvenuti in un ms. della Nazionale di Napoli e assegnati al
santo d'Assisi senza nessuna buona ragione critica; (X, 3-4), 0. Tommasini,
Wolfgang Goethe e Niccolò Machiavelli^ nota rilevante sulla cognizione
che il Goethe ebbe delle opere di Machiavelli e dimostrazione del fatto cu-
rioso e finora inavvertito che in Tommaso Machiavelli, introdotto nelVEgmoitt
come segretario della duchessa Margherita di Parma, sono adombrate le teorie
politiche del grande segretario fiorentino; V. Grescini, Di un « conseill »
male attribuito a Raimbaut de Vaqueiras.
Memorie della R. Accademia di Modena (Serie III, voi. II): F. Borsari,
A proposito di una lettera di Ugo Foscolo delli iO ottobre 1812, pubblica
ed illustra una lettera inedita del Foscolo a Luigia Conti nioglie di Michele
Araldi.
Bullettino senese di storia patria (VIII, 1) : E. Casanova, La donna se-
nese del quattrocento nella vita privata, buon contributo alla storia del
costume, il cui maggior pregio sta nei copiosi documenti che riferisce.
Rivista abruzzese (XVI, 5): M. Romano, / « Tumulorum libri » di
G. Pantano e la poesia sepolcrale; L. Galante, Alcuni contrasti delle sta-
gioni e dei mesi, rilevante.
// bene (25 dicembre 1900): P. Bellezza, / sette dubbi d'un Manzoniano,
con la sua grande ed intima conoscenza dei Promessi Sposi il B. espone
alcune contraddizioni e incongruenze (almeno apparenti] da lui osservate
nel romanzo. Fu risposto da vari nei num. 13-20 del medesimo periodico
milanese. Alcune risposte sono ingegnose; ma le più si riducono a chiac-
chiere vane, (gualche corrispondente, a sua volta, propose altri dubbi più o
meno legittimi.
Studt di filologia romanza (n® 23): G. Bertoni, Rime provenzali inedite,
dal ms. Campori scoperto dal B. (cfr. Giorn., 34, 118) sono qui riprodotti
5 li unica sinora inediti appartenenti a poeti originari di Provenza; F. Guerri,
ntorno a un verso di Lanfranco Cigala, nel serventese contro Bonifacio 1 1
di Monferrato.
Rassegna critica della letteratura italiana (V, 9-12) : G. Zaccagnini,
L'autore delle dichiarazioni alla « Secchia rapita », contro la dimostra-
zione del Gerboni, ribadisce la credenza tradizionale che quelle dichiarazioni
siano opera del Tassoni medesimo; M. Porena, Per l'interpretazione del
sonetto petrarchesco € Anima bella if, si accosta nell' interpretare l'ultima
terzina all'opinione del Sicardi; E. Mele, Di alcuni versi di poeti italiani
nel Don Quijote, ai versi italiani già rilevati nel nostro Giornale, 34, 457,
254 CRONACA
ne aggiunge qui altri, dell'Ariosto, del Poliziano, di Serafino Aquilano ;
F. Beandone, A proposito di Lapo Gianni, con più temerità che arditezza
si crede licenziato ad identificare col rimatore Lapo Gianni un Lapus
Johannis mercante fiorentino, che dimorò nel regno di Napoli tra il 1315
ed il 1321 e fu tra i famigliari di re Roberto; A. Borzelli, Ancora deU
Vautore del « Pianto d^ Italia », combatte l'attribuzione al Marino e sostiene
che quel poemetto è opera del Testi.
Bollettino della Società geografica italiana (Serie IV» li, 1): P. Peragallo,
Viaggio di Geronimo da Santo Stefano e di Geronimo Adorno in India
nel Ì494'96.
Archeografo triestino (N. S., XXllI, 2): G. Vidossich, Studi sul dialetto
triestino; A. Gentille, Una lettera inedita di C. Goldoni, biglietto poco
significante del Goldoni a Vettore Gradenigo (22 febbraio 1780), conservato
nella biblioteca civica di Trieste. Nell'accurata illustrazione sono chiariti i
rapporti del Goldoni col Gradenigo suo benefattore. È qui pure pubblicata
una qiiitanza della madre del Goldoni, con che viene raffermato il nome della
famiglia di lei, non che quello di battesimo.
Archivio storico siciliano (XXV, 3-4): Millunzi e Salomone-Marino, Un
processo di stregoneria nel 1623 in Sicilia ; M. Natale, Due codici inediti
di Antonio Beccadelli, breve cenno di due mss. della Barberiniana conte-
nenti discorsi, lettere e poesie del Panormita.
Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie
di Romagna (Serie III, XIX, 1-3): F. Bosdari, Giovanni da Legnano co-
nonista e uomo politico del 1300; A. Battistella, Processi d'eresia nel col-
legio di Spagna (1553-1554), episodio della storia della riforma in Bologna,
Bollettino storico-bibliografico subalpino (V, 5); S. Corderò di Pamparato,
Di alcune rappresentazioni sacre negli antichi stati sabaudi.
Rivista storica calabrese (IX, 6-7): A. Andrich, La leggenda longobarda
di Autari a Reggio.
Rendiconti del R. Istituto lombardo (XXX IV, 6): M. Scherillo, Dante
uomo^di corte, sunto d'una più ampia memoria; (XXXIV, 7), F. Fossati,
Aggiunta alla bibliografia voltiana; A. Ratti, Un manoscritto voltiano
ali Ambrosiana; G. Grasso, Sul significato geografico del nome € cantra >
in Italia; (XXXIV, 10), M. Scherillo, // nome della Beatrice amata da
Dante^ vedi gli annunzi analitici di questo fascicolo.
Rivista musicale italiana (VIII, 2): tra i vari articoli rilevanti sul maestro
Verdi, segnaliamo quello di G. Bocca su Verdi e la caricatura ed il Saggio
di bibliografia verdiana di L. Torri. UArch. storico lomb. (XX Vili, 30)
dà nello spoglio un ricchissimo elenco degli scritti venuti in luce per la
morte del sommo musicista.
Gazzetta musicale (1901, n* 4^: P. Molmenti, Le origini della commedia
in Venezia; (n" 10), P. Molmenti, Antichi trattenimenti musicali a Venezia.
Rasseana pugliese (XVIII, 2-3): A. Vismara Mazzuchelli, Come si venne
formando V antifemminismo nella letteratura italiana, ahimò!
Archivio storico per le provincie napoletane (XXVI, 1): G. Bresciano,
Inventari inediti del tee. XV contenenti libri a stampa e manoscritti, tolti
dai protocolli dell'archivio notarile di Napoli.
CRONACA 255
Atti delVAccad. d'archeologia^ lettere e belle arti di Napoli (voi. XXI):
P. Sa vj -Lopez, La novella provenzale del pappagallo, non solo dà il testo
critico, corredandolo di note filologiche, dell'importante e curiosa novella in
versi di Arnaut de Garcassez, ma ne illustra il contenuto leggendario e ga-
lante con raffronti, in cui ha parte puranco la poesia antica italiana.
Fanfulla della domenica (XXIII, 16): G. Segrè, Un eroina del Boccaccio
e V Elena Shakespeariana, ricerca i rapporti della commedia di Sh. AlVs
well what ends well con la sua fonte italiana, che è la storia di Giletta
di Narbona nel Decam. Ili, 9; (XXIII , 22), Garletta, Intorno a una com-
media di Goldoni, osservazioni degne di nota su La famiglia dell'anti-
quario ; V. A. Arullani, Un ode del Testi e un ottava ariostea, la notissima
ode « Ruscelletto orgoglioso » sarebbe inspirata alla similitudine del Furioso,
st. 110 del canto 37; (XXIII, 23), L. Grilli, Nota leopardiana, propone
che il passo lacrimoso e duro della Canzone aW Italia s'intenda, non già
il trapasso della morte, ma la stretta delle Termopili, alla quale interpreta-
zione muove ragionevoli obiezioni F. Sesler nella cronaca del n» 24, a cui
il Grilli risponde nella cronaca del no25; (XXIII, 25), V. Gian, La religio-
sità di Dante, che il G. sostiene contro alcune obiezioni del sen. Negri.
Flegrea (II, 1): B. Groce, Giambatt. Vico primo scopritore della scienza
estetica, rilevantissimo scritto, che tende a mettere in chiaro un aspetto
finora trascurato di quella profonda concezione speculativa che è la filosofia
vichiana; (lì, 2), M. Porena, Il sentimento della natura e il « Saul -p
delVAlfieri.
Natura ed arte (1901, n» 11): G. Marangoni, La poesia dialettale pie-
montese.
Le Grazie {\90i, n« 10-14): P. E. Pavolini, Per il Leopardi filologo;
G. Stroppolatini, / versi negli « Asolani » del Bembo.
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (XX, 1): G. Pitrè, Di
una sacra rappresentazione in Monreale nel 1793, parla della dimostranza
del trionfo della Croce secondo la descrizione che ne fece Gastone della
Torre Rezzonico.
Il Saggiatore (I, 1): F. Sesler, Cose acerbe, nota dantesca, che nel Pa-
radiso, XXX, 79, cose acerbe valga, non difficili, ma immature, potrà es-
sere; ma che, come il S. sostiene pure, le membra acerbe del Purga-
torio, XXVI, 55, significhino immuni da corruzione fisica non ci sorride
davvero. L'interpretazione comune è di gran lunga la migliore.
Rivista delle biblioteche (XII, 2-4): L. Colini Baldeschi, Ghibellinismo ed
eresie marchigiane nella prima metà del sec. XIV, pubblicazione ed illu-
strazione di alcuni non ispregevoli documenti ; D. Orano, Lettere di Pier
Candido Decembrio, frate Simone da Camerino e Lodrisio Crivelli a Fran-
cesco Sforza, tre lettere, di cui nel titolo sono indicati gli autori , che l'O.
pubblica e chiarisce con esuberanza d'erudizione; G. Baccini, Lettere inedite
di F. D. Guerrazzi a Pietro Cironi, dalla autografoteca della bibl. Nazio-
nale di Firenze.
Le Marche (I, 3): A. Vernarecci, Una lettera di Fénelon, in corrispon-
denza col cardin. Domenico Passionei; E. Spadolini, Di Cinzio Benincasa,
notizie di questo cavaliere e poeta anconitano del cinquecento; P. Provasi,
Un amico di Bernardino Baldi, si occupa di Marcantonio Vergili Batti-
ferri e pubblica una lettera a lui diretta dal Baldi; (1, 4), G. Zaccagnini,
21^6 CRONACA
Uno scritto inedito di Bernardino Baldi, riguarda la città di Urbino; (1,5),
E. Spadolini, Il biografo di Ciriaco Pizzecolli, notizie di Francesco Scala-
monti; S. Kulczycki, Cinque lettere inedite di L. A. Muratori sulla dimi-
nuzione delle feste^ le lettere sono conservate nella biblioteca comunale di
Velletri.
Bullettino bibliogra/tco sardo (I, 4): F. Manis, Giuseppe Verdi e Vinno
di Goffredo Mameli.
Bullettino storico pistoiese (III, 2): A. Chiti, Un mazzetto di lettere del
cardinale Niccolò Forteguerri^ serbato nel carteggio mediceo innanzi al
principato dellarchivio fiorentino.
Atene e Roma (IV, 27): G. Vidossich, Elementi mitici in un canto popò-
lare, che è la filastrocca infantile « Sole sole vieni, | L'ha detto il cavaliere >,
di cui è riferito Tinizio nel Cunto de li cunti ed a cui forse allude il Boc-
caccio nella nov. Vili, 3 del Decameron.
Napoli nobilissima (X, 5): Don Fastidio, Ricordi di Mario Pagano a
Brienza, la casa ove egli nacque.
Giornale storico e letterario della Liauria (II, 3-4): L. Piccioni, Per
gli antecedenti del romanticismo, rileva le idee contrarie all'uso della mi-
tologia di Tommaso Garzoni e di Girolamo Tagliazucchi ; (II, 5-6), G. Ma-
nacorda, Dalla corrispondenza tra Leone Allacci ed Angelico Aprosio^ ne
parleremo in seguito alquanto estesamente.
L'Ateneo veneto (XXIV, 1, 2): C. Levi, Goldoni nel teatro, passa in ras-
segna tutte le azioni drammatiche di cui è protagonista il Golaoni; N. Bu-
setto, Alcune satire inedite, loro relazione con la storia della vita padovana
nel sec. XVII, in continuazione, parla specialmente delle satire di Carlo
Dottori e di Alessandro Zacco, pubblicandone alcune; (XXIV, I, 3), R. Ga«
vagnin, La pittura nel carme « Le grazie » di U. Foscolo.
Bullettino della Società Dantesca italiana (N. S., VIII, 7-{V): G. Vandelli,
in un laborioso articolo, spezza più d'una lancia a favore deirautenticità
dell'epistola a Cangrande.
Nuovo archivio veneto (N. S., I, 1): G. Marangoni, Lazzaro Bonamico
e lo Studio padovano nella prima metà del cinquecento, interessante me^
moria in continuazione, che dà notizie di molti professori dell'università di
Padova, giovandosi anche di documenti nuovi ; G. Gogò, Tre lettere inedUe
di Ippolito Nievo, dirette nel 1859 e '60 alla nobildonna Luisa Sassi de' La-
vizzari.
Il nuovo risorgimento (X, 12): G. B. Gerini, Una discussione sugli stwU
della donna in Italia, nella prima metà del sec. XVIII.
Rivista di storia, arte, archeologia della provincia di Alessandria (X, 1^
F. Picco, Un avventuriere mon ferrino del sec. XVIII, in una prosa spi-
gliata e piacevole, giovandosi di documenti ignoti o malnoti, narra le strane
vicende del domenicano padre G. B. Boelti, bizzarro e caratteristico tipo,
che fu in Oriente prima missionario cattolico e poi profeta di una nuova
religione.
Giornale Dantesco (IX, 1-2): A. Torre, Su le tre prime edizioni del
commento alla Div. Commedia del p, Pompeo Venturi; 0. Bacci, Postilla
CRONACA 257
dantesca, sulla corda àeWInf, XVI, 106; A. Butti, Carlo Porta e Dante;
(IX, 3), U. Cosmo, Noterelle francescane , riguardano il Commertium pau-
pertatis, il paradiso terrestre, i rapporti di Dante con S. Bonaventura e il
quesito se Dante veramente fosse terziario francescano.
La lettura (1, 6): G. Paladini, Un giornalista all'Accademia della Crusca.
La rassegna nazionale (voi. 118) : T. Roberti, Una lettera inedita di
G. Prati, esistente nella Libi, civica di Bassano e diretta il 12 marzo 1865
a Luigia Codemo; R. Gandolfi, Un equivoco a proposito dell'inno di Gof-
fredo Mameli « Fratelli d'Italia », riguarda il musicista che diede a quel-
l'inno la melodia; P. Molmenti, Gli antichi usi nuziali del Veneto; G. Arias,
I ca)npioni nudi ed unti, combatte l'opinione del Davidsohn (cfr. Gior-
nale, 36, 266), che Dante, col noto paragone dell'/w/!, XVI, si riferisca al
duello giudiziario medievale, e ragionevolmente suppone che la similitudine
dantesca riguardi invece gli « spettacoli di lotta, i quali, a somiglianza degli
« antichi, come fra gli altri autorevolmente ci attesta Benvenuto da Imola,
< avevano luogo nell'età medievale ».
Nuova Antologia (n» 708): J. Withe Mario, Carlo Cattaneo.
Rivista d'Italia (IV, 4): G. Gentile, Vincenzo Gioberti nel primo cente-
nario della sua nascita (i); (IV, 5), B. Zumbini, Gli idilli del Leopardi;
G. Mestica, Alle falde del Vesuvio, ad illustrazione della Ginestra. Il resto
del fascicolo contiene scritti di assai diverso valore riguardanti Giosuè Car-
ducci, editi nell'occasione che si compieva il quarantesimo anno del suo
insegnamento. Vi sono anche molti ritratti del poeta ed altre curiosità. Ri-
chiamiamo specialmente l'attenzione sul Saggio di bibliografia carducciana
di Filippo Salveraglio, che chiude il fascicolo.
Rassegna d'arte (I, 6): P. Errerà, L'accademia di Leonardo da Yrnc»,
combatte la tradizione di quell'accademia, senza avvertire che tale leggenda
era già stata sfatata dall'Uzielli; C. Ricci, Il ritratto di Alessandro Faruf-
(1) È questo certamente uno dei più succosi e concludenti articoli usciti nell'occasione del
centenario giobertiano, celebratosi nell'apr. del 1901. Forte de'suoi studi speciali già elaborati in
nn volume (v. Giornale, XXXIII, 458), il G. qui ricerca la genesi del pensiero del Gioberti e la
trova nel rosminianismo, « il più grande avvenimento ideale della prima metà del sec. XIX in Italia »,
che fu irradiato dal criticismo del Kant. « Di questo rosminianismo il grande filosofo è esso, il
«Rosmini, l'artista è il Manzoni, il Gioberti il politico; ma tutti tre sono rami del medesimo
« tronco ». Del resto, il centenario giobertiano fu molto più fecondo di discorsi e di discorse, di
quello cbe di solide pubblicazioni atte a far progredire gli studi. Merita solo nota il fatto che in
questa congiuntura vennero in luce parecchie lettere inedite del Gioberti, che s' aggiungeranno
utilmente a quelle fatte conoscere dal Massari e dal Berti. Il più copioso manipolo di nuove let-
tere del filosofo torinese è quello messo in luce da G. Carle nel voi. 36 degli Atti della R. Ac-
cademia delle scienze di Torino. Altre lettere, prima inedite, si leggono nella Gaezetta del popolo
detta domenica del 28 aprile 1901, nel voi. VI del Bollett. stor. bibliogr. tubalpino, nel voi. XI
del periodico II nuovo risorgimento, nel giornale politico torinese La stampa del 4 luglio 1901.
Siano qui pure avvertiti: A. Franzoni, 7. Gioberti nella storia della pedagogia, in Rivista
filosofica, voi. IV, fase. 2 ; la commemorazione di C. Gioda, nella A^. Antologia del lo aprile 1901 ;
G. Natali, V. Gioberti e la sapienza civile, nell'Ateneo veneto, XXIV, I, pp. 322 sgg., e special-
mente F. Momigliano, // pensiero civile di 7. Gioberti, nel periodico La vita internazionale del
5 e 20 maggio 1901.
Giorncle storico, XXXVIII, fase. 112-113. 17
258 CRONACA
fino, ora a Bologna. Il Faruffino è il compagno di Ercole Gantelmo, il cui
pietoso caso è rammentato nel Furioso^ XXa.VI, 6 e 7.
Giornale degli economisti (die. 1900): A. Morena, La missione sociale
del Veltro dantesco^ saggio di un più ampio lavoro sulla morale economica
di Dante.
Piccolo archivio storico dell'antico marchesato di Saluzzo (I, 1-2):
D. Ghiattone, / due codici mss. della « Francesca da Rimini > di Silvio
Pellico esistenti in casa Gavazza a Saluzzo ed i loro annotatori (1);
G. Moschetti, Un affresco del principio del sec. XV e una lauda sacra^
la lauda comincia « Bon Jesù i me lamento » e trovasi inserita nel noto
laudario saluzzese, di cui oggi si promette la prossima stampa, mentre la
prima parte figura tuttora in un rrammento di fresco del sec. XV che an-
cora si conserva in Saluzzo; V. Marsengo-Bastia, Tre lettere di monsignor
Fr. A. Della Chiesa alVAprosio, tratte dalla raccolta di lettere dirette al-
l'Aprosio che si conserva nella biblioteca universitaria di Genova; Giuseppe
Flechia, Manipoletto di etimologie saluzzesi.
Annuario degli studenti trentini (an. VII): A. Pranzelòres, Niccolò d'Arco^
studio biografico con alcune note sulla scuola lirica latina del Trentino nei
sec. XV e XVI. Di questa notevole monografia ci sarà grato occuparci in
seguito.
Coltura e lavoro (marzo 1901): A. Serena, L'innesto vaccino, indaga la
fortuna che ebbe nella poesia italiana, lirica e didascalia, la vaccinazione.
Atti della R. Accademia Lucchese (voi. 31): M. Pelaez, Otium Pisau-
rense, studia un ms. del sec. XlV, già appartenuto al Perticari, che oggi
si trova neirOliveriana di Pesaro. Il ms. contiene 83 laudi adespote, ma che
quasi tutte appartengono a Jacopone perchè figurano nella edizione Jacopo-
nica di Roma 1558 (Medio). Qui è data la tavola del codice, e ne sono ri-
ferite cinque laudi, da cui si vede che la patina dialettale umbra non ne
è scomparsa, come accade in altri testi a penna ed a stampa.
Bollettino della Società Pavese di storia patria (1, 1): V. Rossi, Un gram-
matico cremonese a Pavia nella prima età del rinascimento, illustra con
documenti la figura di Giovanni Travesio da Gremona, che rappresentò per
molti anni il vecchio indirizzo medievale nello Studio di Pavia, ove insegnò
dal 1374 in poi, avendovi tra i discepoli Antonio Loschi e Gasparino Bar-
zizza. Di lui ci è giunto ms. un commento di Boezio e si conosce per rela-
zione altrui un commento di Prospero d'Aauitania. Le copiose notizie qui
raccolte dal R. giovano anche alla storia deirinsegnamento grammaticale e
rettorico nel primo periodo della rinascita.
Bulletin italien (1, 1) (2): H. Hauvette, Une confession de Boccace < Il
(1) N«l fftseioolo sono para pubblicate tre lettore del Pellico e di altre lettere di lai, iparta-
mente edite, è daU Tindiettione negli appunti bibliografici finali.
(i) Parecchie nnirersità del mextogiorno della Francia, facendo centro a Bordeaux, pabbUeno
da Tari anni una nerie di intereasanti Tolnmi miscellanei col titolo di Annalt$ dt la FaeutU àm
Uttru d* Jiordtaux. Nella ina qoarta Miie, qowta pubblicazione si tiene a raddividefe la tra
bollettini, che hanno ralore di periodici, la R«9H4 (Ut 4tud4t anei4nn«t, il Bulktim kitpanifMt
CRONACA 259
4t Corbaccio », in questo diligente e penetrante lavoro T H. esamina Tim-
portanza del Corbxccio dal punto di vista biografico e da quello psicologico;
G. Bouvy, « Zaire » en Italie, resoconto bibliografico delle quindici tradu-
zioni diverse che ebbe nel paese nostro la celebre tragedia del Voltaire;
A. Morel-Fatio, « 0 cacciati dal del, gente dispetta » {Inf., IX, 91), vor-
rebbe dare a dispetta il senso, non di spregevole, ma di arrogante, conforme
all'uso dell'antico francese despit; (1, 2), E. Muntz, L" iconographie de la
Laure de Pétrarque, risultanze del tutto negative (1); E. Picot, Les Italiens
en Franca au XVI siede, in continuazione, questa parte s'occupa dei prin-
cipi e gran signori italiani che dimorarono in Francia (2); E. Landry, Con-
tribution à l'étude critique des « Fioretti » de S. Franqois d'Assise, un
nuovo capitolo che si trova aggiunto ai Fioretti nel ms. 651 (sec. XV) di
Assisi.
Revue des bibliothèques (XI, 1-3): G. Huet , Une lettre relative aux
collections de la reine Christine de Suède, diretta dall'Aia al Mazarino nel
1653; E. Picot, Des Frangais qui ont ècrit en italien au XYl siede, qui
si parla di Francois de Vernassal, di Francois de Belleforest, di Jean de
Boyssières, di Claude du Verdier, di Odet de la Noue, di Michel de Mon-
taigne, di G. Tessier, di Jacques Bourgoing.
Revue de Vuniversité de Bruxelles (VI, 3): A. Vermeylen, La méthode
sdentifique de Vhistoire littéraire, discute le teorie del Renard, di cui fu
parlato anche nel nostro Giornale, 37, 435.
Gazette des heaux-arts (disp. 526): P. De Nolhac, Encore un portrait
de Pétrarque, miniatura d'un codice appartenuto al Petrarca del suo Liber
rerum memorandarum, che è nella Nazionale di Parigi.
The quarterly review (n° 386) : Ancient and modem criticism., studia
r evoluzione della critica , appoggiandosi ad alcune moderne opere speciali.
The american historical review (VI, 3): Gh. Gross, The politicai influence
of the University of Paris in the middle ages.
Neues Archiv der Gesellschaft fur altere deutsche Geschichtskunde
(XXVI, 3): W. Eberhard, Ueber das Handschriftenverhdltnis des « Liber
€ de obsidione Anconae » von Boncompagnus.
Archiv fùr das Studium der neueren Sprachen und Litteraturen (GVI,
1-2): J. Bolte, Bigorne und Chicheface, studio comparato sui mostri man-
giauomini e divorafanciulli, di cui si occupa anche, tra i carnascialeschi, il
nostro Canto di Biurro; (CI VI, 3-4), R. Tobler, Die Prosafassung der Le-
gende vom heiligen Julian.
ed il BuUetin italien. Quest'ultimo, cominciato col 1901, si propone di occuparsi esclusivamente
della nostra storia letteraria, e l'Italia deve veramente rallegrarsi dell'interesse sempre crescente
che prende alle cose sue la nobile nazione sorella.
(1) Questo è un frammento del volume che il Mttntz prepara, in collaborazione col principe
d'Essling, sul Petrarca, con l'intento di studiare particolarmente l'influsso del sommo lirico sulle
arti del disegno e gli altri rapporti molteplici ch'egli e le opere sue hanno con l'arte. Bellissimo
tema davvero!
(2) È il primo libro d'una Histoire de ìa littérature italienne en France au X7I siècìe, che
il Picot prepara e che pochi al pari di lui sono in grado di far bene.
Oiornale storico, XXXVIII, fase. 112-113. 17*
260 CRONACA
Revista critica de historia y literatura (VI, 4-5) : E. Mele, Poesie di
Luis de Oóngora, i due Argensolas e altri, tratte dal canzoniere del duca
de Estrada, -f il più importante dei mss. neolatini che si conservano nella
« Nazionale di Napoli », già illustrato dal Teza, dal Miola e dal Savj -Lopez.
Neue Jahrbùcher fùr das klassische Altertum (IV, 4): J. Kaufroann,
Die Vorgeschichte der Zauber- und Hexenprozesse im Mittelalter. Sia
qui notato di passata che intorno al Ti m por tante opera del Hansen sui pro-
cessi di streghe nel medioevo (cfr. Giornale^ 37, 476) v' ha una nota di
E. Jordan nella Revue des questions historiques, del !• aprile 1901, a
pp. 602 sgg.
The modem language quarterly (IH, 2): H. J. Ghaytor, On the dispo-
sition of the rimes in the sestina.
Oesterr. Ungarische Revue (XXVII, 3) : J. Mucha, Oesterreich in der
Gòttlichen Komòdie.
Revue des langues romanes (XLIV, 3-4): M. Grammont, Onomatopées
et mots expressifs, curioso studio sull'armonia imitativa, che per quanto non
tratti punto della lingua e letteratura nostra, potrà essere consultato con
profitto; G. Bertoni, Restitution d'une chanson de Peire d'Auvernhe ou de
Raimhaut de Vaqueiras^ ricompone il testo della canz. Be rn es plazen
(Or., 328, 10), che secondo lo Zenker appartiene all' Al verniate e secondo il
ma. Campori al Vaqueiras. Gfr. Giornale^ 34, 125.
Sitzungsberichte der Akademie der Wisstnschaften in Wien (ci. stor.
fil., voi. 143): E. Maddalena, Uno scenario inedito, dal titolo Un pazzo gua-
risce l'altro, qui tratto in luce da un codice della Palatina di Vienna. Il
M. stabilisce che questo scenario è ricavato dalla commedia omonima di
Girolamo Gigli, pubblicata nel 1704. La riduzione a scenario fu forse pra-
ticata per una rappresentazione privata seguita in Vienna nel 1723. Il M.
illustra bene la commedia e il scenario. Si noti che in ambedue figura in
modo assai ridicolo Don Chisciotte.
AShandlungen der K. Gesellschaft der Wissenschaften xu Góttingen
(N. F., IV, 5) : W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus.
Notevole monografia, che chiarisce nel loro contenuto storico i versi di uno
dei più illustri verseggiatori dell'alto medioevo.
Philologus (suppl. Vili, 3): M. Goldstaub, Der Physiolopus und seine
Weiterbildung besonders in der leteinischen und in der byzantinischen
Litteratur, nuovo e ragguardevolissimo studio sulle tradizioni bestiario me-
dievali, dovuto ad uno dei migliori conoscitori della materia. Vedi Gior-
naie, 21, 155-56.
• Preziosissimi a tutti gli indagatori della novellistica comparata e d'ogni
altro ramo della demopsicologia riusciranno i 3 volumi di Kleincre Schriften
di Reinhold Kòhler, che con ogni maggior diligenza curò Giovanni Bolte
(Weimar-Berlin, Felber, 1898-1900). Non è certo ignota ad alcuno la dot-
trina veramente sbalorditiva che il KShler possedeva in quest'ordine di studi.
Tra i comparatisti di tradizioni popolari egli fu, nel sec. XIX, il massimo,
ed è per ciò che alla sua gentilezza, inesauribile al pari della sua erudizione,
ricorrevano da ogni parte del mondo tutti coloro che all'ardua indagine
CRONACA 261
davano opera. In questi tre volumi, ai quali è da aggiungerne un quarto,
pubblicato dal Bolle medesimo, sotto altro titolo, fin dal 1894, è raccolto
da innumerevoli libri e periodici quello che il Kòhler è venuto mettendo in
luce. Nel primo volume, Zur Mdrchenforschung^ concernente le vere e
proprie novelline popolari, tutto può riuscire interessante; ma i sei articoli,
che direttamente prendono le mosse da racconti popolari italiani sono quelli
che hanno i numeri 19-24. Il secondo volume, Zur erzdhlenden Dichlung
des Mittelalters^ entra maggiormente nei rapporti della letteratura storica,
riguardando leggende e poemi. Qui sono numerosissime le illustrazioni di
leggende e di novelle italiane ed i cultori di ogni letteratura europea hanno
da impararvi. Si noti che a pp. 602 sgg. sono riprodotte nell'originale te-
desco le illustrazioni alle novelle del Sercambi, che il Giornale nostro pub-
blicò in versione italiana. Il terzo volume, Zur neueren Litteraturgeschichte,
Yolkskunde und Wortfbrschung, è una miscellanea d' importanza vera-
mente eccezionale, che illustra poesie liriche popolari, proverbi, adagi, su-
perstizioni d'ogni genere. — La cura con cui tutto questo ingente materiale
è raccolto, ordinato, munito di indici, merita lode non misurata. Siccome il
Bolte si giovò di note mss. del Kòhler, oltreché delle stampe, egli potè
inserire in queste riproduzioni non poche aggiunte dovute ancora al grande
tblklorista. V è anche qualche scritto compiutamente inedito.
* Nel 1890 Francesco Sabatini iniziò una raccolta di tradizioni e costu-
manze popolari intitolata II volgo di Roma^ della quale uscirono due fa-
scicoli. Sospesa la raccolta per un decennio, oggi è ripresa, pur sempre sotto
la direzione del Sabatini, da Bernardo Lux, e speriamo che possa continuare
senza ulteriori interruzioni, giacché ha uno scopo molto utile, « di racco-
« gliere quelle memorie che manifestano la vita della plebe di Roma, nei
€ suoi costumi e nelle sue tradizioni, che di giorno in giorno perdono il
« proprio carattere e, fondendosi con usanze nuove, cosi trasformate scom-
« paiono ». Le canzoni popolari romanesche, qui comunicate da Luigi Za-
nazzo e illustrate dal Sabatini, sono assai ragguardevoli, perché contengono
parecchi di quei canti epico-lirici, di cui per molto tempo si ritenne che
in Italia avesse quasi il privilegio il Piemonte, mentre ricerche più appro-
fondite vengono mostrando che in realtà si trovano diffusi in diverse regioni
italiane. Trovansi pure tra queste canzoni due vere e proprie pastorelle. —
Nella terza dispensa comincia anche la stampa d'un poema eroicomico, La
libbertà romana acquistata e defèsa^ scritto in vernacolo romanesco da Be-
nedetto Micheli, musicista fiorito verso la metà del sec. XVIIl. In questa
prima stampa del poema viene riprodotto un codice della biblioteca gran-
ducale di Weimar, confrontato col ms. Boncompagni di Roma. — Chiudono
l'opuscolo alcune note storiche interessanti di F. Sabatini sulla maschera
romana di Rugantino. Per i presunti rapporti di Rugantino col mìles glo-
riosus si poteva rinviare all'opuscolo di Gr. Senigaglia. Gfr. Giorn.^ 35, 158.
* Il benemerito dantista inglese Paget Toynbee, che ci onora della sua
cooperazione, ha pubblicato un elegantissimo libretto dal titolo Dante Ali-
ghieri (Londra, Methuen, 1900). Esplicitamente dice il T. sin da principio
quel che il suo libro vuol essere: « This little hook lays no claim to origi-
« nality, and makes no pretence to learning or research. It is addressed
262 CRONACA
€ rather to the so-called general reader than to the serious Dante student.
« The narrative is taken largely from the pages of Villani, Boccaccio, and
« from other similar sources ». Un libro, insomma, di pura divulgazione,
attinto, peraltro, alle fonti prime, redatto con la lucidità e la sobrietà che
sono ben noto nel suo autore, e con quella critica tendente alla conserva-
zione che pare connaturata ai dantisti inglesi. Premessa una breve introdu-
zione sulle condizioni politiche del tempo di Dante, il T. occupa la maggior
parte del libretto nell'esporne la vita. Consacra alcuni capitoli alle caratte-
ristiche esteriori ed interne dell'Alighieri (sui ritratti dà tutte le notizie
essenziali), per poi sbrigarsi delle opere in poco più d'una ventina di pagine.
Questo sembra sproporzionato al resto; ma probabilmente l'A. ha voluto far
cosi per suoi fini che ci sfuggono. Dodici nitide riproduzioni fotografiche
abbelliscono il grazioso volume. Il quale sembra abbia avuto nei paesi di
lingua inglese invidiabil fortuna, perchè già se ne annuncia una seconda
edizione corretta ed aumentata, nella quale sarà anche data un'appendice
bibliografica.
* Ci è grato l'annunciare che l'editore Winter di Heidelberg pubblicherà
una nuova collezione di libri elementari di filologia romanza sotto la dire-
zione di Guglielmo Meyer-Lùbke. Saranno tre serie, una di grammatiche,
l'altra di storie letterarie, la terza di lessici. La compilazione di ogni libro
si affiderà ad un valente specialista. Si annuncia già che la parte gramma-
ticale dell'antica lingua italiana sarà trattata da B. Wiese e la storia pri-
mitiva della letteratura nostra da C. Vossler. E pure una bella promessa
quella d'un lessico maneggevole dell'antica lingua d'oc, che sinora manca
del tutto, per cura del valoroso provenzalista E. Levy. Questi frattanto avrà
forse ultimato il suo grande Supplement - Wórterbuch al Lexique del Ray-
nouard, che ormai da nove anni è in corso di pubblicazione.
* 11 prof. Francesco Saverio Kraus ebbe il felice pensiero di ristampare
raccolti gli articoli di varia erudizione che egli vien pubblicando in riviste
ed in giornali di Germania. Di questa raccolta, che egli intitola Essays,
sono uscite due serie. La prima (Berlin, Paetel, 1896) contiene solo due
scritti che debbono essere qui rammentati, uno su Antonio Rosmini e l'altro
su Francesco Petrarca in seinem Briefwechsel (cfr. Giom., 27, 192), di
cui usc'i recentemente una versione italiana nella disp. 37-38 della Bibli<h
teca critica del Torraca. Ben più ricca di cose italiane è la seconda serie,
che da poco ha veduto la luce (Berlin, Paetel, 1901). V'ha qui uno scritto
Ueber Francesca da RiminVs Worte bei Dante^ Inferno, V, Ì2i-i23, che
non manca di curiosità. Dopo aver enumerati e classificati gli schiarimenti
che chiosatori antichi e moderni danno della celebre terzina {Nessun mag'
gior dolore ecc.), egli ribadisce l'opinione che il tuo dottore sia Virgilio, e
ricerca la fonte dell'adagio racchiuso nel terzetto, adagio largamente diffuso
in seguito presso scrittori diversi. Alla letteratura dantesca si riferisce anche
l'articolo Rosmini" s Dantestudien^ e vi ha qualche relazione, per quel che
dice del 1300, il lungo e dotto studio sull'Anno santo, in cui sono raccolte
moltissime informazioni sui giubilei. Caratterizzano bellamente due scrittori
nostri eminenti i due saggi su Alessandro Manzoni e su Gino Capponi.
Il Kraus possiede in grado sommo l'arte dello scrivere in modo vivace e
CRONACA 263
piacevole, sicché questi scritti , che pur rivelano largo fondo di cognizioni
non superficiali, si fanno leggere con diletto pari al profitto (1).
* Quanti hanno avuto, anche incidentalmente, ad occuparsi di ricerche
glottologiche romanze sanno il vantaggio immenso che reca all'indagine eti-
mologica il Lateinisch-romanisches Wórterbuch di Gustavo Kòrting. Di
quel libro comodissimo usci in luce la prima edizione a Paderborn nel 1892.
Ora il medesimo editore Schòningh di Paderborn ne pubblica una seconda,
siffattamente aumentata che gli articoli da 8954 son portati a 10469. L'autore
tenne dietro ai progressi delie discipline filologiche romanze, e si professa
particolarmente grato al nostro diletto prof. Salvioni, le cui dotte Postille
alla prima edizione confessa essergli riuscite singolarmente giovevoli.
* Quel benemeritissimo della storia della Mirandola, e in singoiar guisa
della famiglia Pico, che è Felice Ceretti, ha iniziato un dizionario alfabetico
di Biografìe Mirandolesi. 11 primo volume di quest'opera importante com-
prende le lettere A-I, e costituisce il XIII volume della collezione di Me-
morie storiche edita dalla Commissione di storia patria della Mirandola.
L'opera è dovuta a lunghe e pazienti ricerche, e completando la Biblioteca
modenese del Tiraboschi, che per quel che spetta agli scrittori mirandolani
è assai deficiente, meriterà senza dubbio d'essere ascritta tra le più notevoli
raccolte di notizie biografiche regionali. In questo dizionario sono registrati,
non solamente gli scrittori e gli artisti, ma anche gli uomini di guerra o
per qualsiasi altro titolo celebrati, sino a tutto il sec. XIX.
* Sebbene non sia di speciale competenza nostra, ci piace di segnalare
una relazione del prof. Gustavo Rolin intorno a due suoi viaggi compiuti
negli Abruzzi allo scopo di esplorarne i dialetti. La relazione è pubblicata
nei volumi della Gesellschaft zur Fòrderung deutscher Wissenschaft, Kunst
und Literatur in Bóhmen, Prag, 1901. La partizione dei dialetti abruzzesi
a seconda dei loro caratteri fonetici vi è accuratissima, e se ne rallegreranno
certo i dialettologi, i quali sanno quanto grande sia l'miportanza linguistica
di quelle parlate vernacole.
* Mario Sepet è generalmente noto quale uno dei più dotti investigatori
del dramma sacro medievale. Fu buon pensiero, pertanto, quello di racco-
gliere in un volume le sue ricerche sparse su questo soggetto: Origines
catholiques da Thédtre moderne, Paris, Lethielleux, 1901. Qui si parla a
lungo del dramma liturgico, dei misteri e della loro formazione, della com-
media e della farsa nell'età media, della commedia e della tragedia nel
rinascimento. Rarissime volte il Sepet esce in queste sue indagini dal campo
francese; ma per le mille attinenze del tema anche gli studiosi dell'antica
drammatica italiana dovranno procurarsi notizia di questo volume.
(1) Per rapporti indiretti, ma palesi, con le cose nostre va qui anche rammentato l'articolo del
Kr. su Frau v. Stiiél uni ihre neueste Biographie. Al qual proposito citeremo un recente e succoso
lavoretto di M. Fbìedwaoneb, Frau von StaèVs Anteil an der romantischen Bewegung in Frank'
reich, Hannover e Berlino, 1901, estratto dalle Verhandlungen des IX allgemeinen Deuischen
Neuphiìologentages in Leipzig.
264 CRONACA
* Ci proponiamo di render conto prossimamente ai lettori dell'opera biblio-
grafica insigne di Th. W. Koch, Catalogne of the Dante Collection pre-
sentet hy Willard Fiske, Ithaca (New York), 1898-1900. Quando ne ap-
parve il primo volume, contenente la bibliografia delle edtz. di Dante, noi lo
annunciammo, promettendo di occuparcene a opera finita (Giorn., 32, 476).
Ora con altri due grossi volumi, che recano T elenco alfabetico di tutti gli
scritti riguardanti l'Alighieri, la grande opera, che onora veramente gli studi
americani, è chiusa. Resta a noi il compito piacevole di esaminarla e di ri-
ferirne.
* Nella Miscellanea linguistica in onore di Graziadio Ascoli^ Torino,
Loescher, 1901, ben pochi sono i lavori che hanno interesse letterario. Oltre
lo scritto di E. Gorra sulla tanto tormentata Alba bilingue del codice Va-
ticano Regina 1462, segnaliamo: G. Ulrich, Il favolello del geloso^ di
47 ottave, tratto dal cod. perugino 160, che appartiene al gruppo novellistico
studiato dal Rua, Novelle del Mambriano, pp. 72 sgg., ed ha riscontro in
un notissimo episodio delia leggenda di Tristano; P. Rajna, La lingua cor-
tigiana, indagine sul valore di questa denominazione nel nostro Cinquecento;
V. Crescini , Dell'antico frammento epico bellunese, comunicazione d'una
nuova copia dei pochi versi noti della cantilena bellunese (fine sec. XII)
illustrata dal Salvioni. Cfr. Giornale, 24, 331.
* Si annuncia essersi costituita in Roma una Società filologica romana,
la quale ha il lodevole intento di pubblicare testi importanti. Essa ha già
messo mano ad una riproduzione diplomatica del celebre cod. 3793 della
Vaticana. Si propone di stampare in seguito un poema inedito di Bonvesin
da Riva e di dare finalmente in luce' i Documenti d'Amore con il commento
del codice Barberiniano (1). Utili imprese certamente saranno queste. Dal
Giornale nostro s'augura alla novella Società, che imaginiamo sia bene di-
retta, lena perseverante e mezzi materiali copiosi, due cose che, in imprese
simili, vengono meno, purtroppo, assai di frequente nel paese nostro.
* Sul Cornazzano vien preparando uno studio critico complessivo, che sarà
molto utile, il prof. Michele Grassi, il quale porrà a base della sua monografia
estese ricerche praticate negli archivi e nelle biblioteche dell'Italia superiore.
* L'editore Picard di Parigi intende iniziare una Bibliothèque espagnole,
che consterà di volumi in 12° destinati a contenere studi originali sulla storia
e sulla letteratura di Spagna, dettati in francese o in castigliano. La più
parte dei volumi annunciati ha interesse, in genere, per le ricerche sulle
letterature comparate e tornerà graditis-sima anche ai cultori di certi periodi
delle lettere italiane. Notiamo fra i primi il volume del Mérimée su Gòn-
gora et le gongorisme espagnol e quello del Farinelli su Calderon et le
calderonisme. Il Morel-Fatio darà un Prècis d'une histoire de l'ancienne
littèrature catalane^ la quale ha tanti rapporti con la letteratura nostra, e
(I) L'editore dei Documtnti sarà il giorane dr. Francesco Egidi, dei cai fortnnati »todI sol
Barberino è data notizia nella cronaca del FanfuUa della dominien, 7 loglio 1901. Le tniniatare
del codice barberiniano saranno illostraie, con l'ainto di nn secondo testo dall'Egidi coperto, in
OD articolo del periodico L'arte,
CRONACA 265
tratterà pure di Antonio de Gueoara, son oeuvre et son infiuence. E. Pi-
iieyro promette una Histoire du romantisme en Espagne e G. Reynier
studierà La vie universitaire en Espagne au seizième et au dix-septième
siècles.
* Tesi di laurea e programmi: G. Hagemann, Geschichte des Theater-
zettels (laurea; Heidelberg: questa ricerca interessante intorno alla tecnica
teatrale si riferisce, nella parte sinora pubblicata, al dramma del medioevo);
Richard Pichel, Die Heimat des Puppenspiels (discorso inaugurale; Halle);
G. A. Galzigna, Fino a che punto i commediografi del rinascimento ab-
biano imitato Plauto e Terenzio (progr. ginn.; Gapodistria: seconda parte
di questo studio, che già altrove annunciammo); Joachim Zimmermann, Das
Verkassungsproject des Grossherzogs Peter Leopold von Toscana (laurea ;
Heidelberg); S. P. Haak, Paulus Merula (laurea; Leida); A. Jaulmes, Essai
sur le satanisme et la superstition au moyen dge (laurea; Parigi); T. Lee
Nefii La satire des femmes dans la poesie lyrique frangaise du moyen
dge (laurea; Parigi); Emil Keller, Die Reimpredigt des Pietro da Barse-
gapè (progr. scuola cantonale; Frauenfeld: testo critico con grammatica e
glossario) (1).
* Nuove pubblicazioni :
Emile Gebhart. — Conteurs florentins du Moyen dge. — Paris, Ha-
chette, 1901 [Il primo capitolo si occupa dei primitivi, del Novellino, di
Francesco da Barberino; tre capitolisi riferiscono al Boccaccio considerato
come novelliere; il capitolo finale concerne Franco Sacchetti. Volume es-
senzialmente divulgativo].
Gustavo Caponi. — Studio critico su Vincenzo da Filicaia e le sue
opere. — Prato, Giachetti, 1901.
Ulisse Fresco. — Le commedie di Pietro Aretino. — Camerino, tipo-
grafia Savini, 1901.
Livorno nell'ottocento. — Livorno, tip. Belforte, 1900 [In questa serie di
letture tenute nel Circolo filologico livornese G. Galletti parlò dei letterati
di quella città, A. Mangini degli avvocati e giornalisti, G. Menasci degli
artisti, A. Taddei dei musicisti, G. Targioni-Tozzetti del teatro di prosa. La
parte della conferenza dell'avv. Mangini riferentesi al Guerrazzi giornalista
parve a Gustavo Uzielli ingiuriosa per la memoria di suo padre, e ne venne
un opuscolo da lui pubblicato Sansone Uzielli e F. D. Guerrazzi^ Firenze,
(1) Di questa importante pubblicazione discorrerà in seguito un cooperatore nostro competen-
tissimo. Frattanto ci fa piacere rilevare una nota ragguardevole che ad essa consacra F. Nevati
nuWArch. ttor. lombardo, XXVIII, 417-19.
266 CRONACA
tip. Ricci, 1901, che è istruttivo specialmente per l'interpretazione del rac-
conto del Guerrazzi / nuovi Tartufi].
B. G. Lo Casto. — Ricostruzione della < valle inferna ». — Catania,
Giannotta, 1901 [Nuovo lavoro sulla topografia infernale, che si dirige par-
ticolarmente contro le costruzioni del Vellutello e dell'Agnelli, e si studia
di stabilire il maggior rispetto alle leggi fisiche ed il maggior rigore ma-
tematico nella maniera come il poeta imaginò il suo inferno. L'esposizione
lucida e serrata, opportunamente soccorsa da quattro tavole litografiche, me-
rita certo lode; ma dubitiamo che riesca a convincere i dantisti. Vedine
l'esame critico in una notevole recensione di M. Porena inserita nella Ras-
segna critica della lett. ital., V, 244-255].
Le rime di Terino da Castelfiorentino rimatore del sec. XIII, per cura
di Armando Ferrari. — Castelfiorentino, 1901 [Prima dispensa della nuova
Raccolta di studi e testi valdelsiani. Riproduce senza modificazione alcuna
lo scritto che già segnalammo nella annata Vili (1900) della Miscellanea
storica della Valdelsa'].
Ignazio Citello. — Studi critici. — Palermo, Reber, 1900 [Tra questi
studi segnaliamo i seguenti: La donna nelle canzoni pietrose; Il Peregrino
di J. Caviceo; S. Francesco d'Assisi'].
Vittorio Corbuccl — Una poetessa umbra: Francesca Turino Bufw
lini. — Città di Castello, Lapi, 1901 [Vissuta nel sec. XVI e nel XVII].
Gaspare Oliverl — L'imitazione classica e le innovazioni metriche di
Gabriello Ckiabrera. Nota critica. — Girgenti, tip. Montes, 1900.
William Heywood. — The « Ensamples of fra Filippo ». A study of
medieval Siena. — Siena, E. Torrini, 1901 [Suntuoso volume, sul quale ci
proponiamo di ritornare].
Francesco D'Ovidio. — Studi sulla Divina Commedia. — Milano-Pa-
lermo, Sandron, 1901 [Silloge assai ragguardevole di scritti danteschi, di cui
ci occuperemo prossimamente].
S. LÈGLiSE. — Machiavel compare. — Paris, Picard, 1901 [Nuovo studio
sulle teorie politiche del Machiavelli, messe a riscontro con quelle di altri
scrittori noti].
Luigi Furnari. — La questione della lingua da Dante al Manzoni,
Saggio storico-critico. — Reggio di Calabria, 1901.
G. Stia VELLI. — Garibaldi nella letteratura italiana. — Roma, Vo-
ghera, 1901.
Oioyanni Federzoni. — La poesia degli occhi da Guido Guinizelli a
Dante. — Bologna, Zanichelli, 1901.
CRONACA 267
Giuseppe Toraldo. — Torquati Tassi Hierosolyma liberata e versibus
italicis in latinos conversa. — Romae, 1900 [Pubblicazione postuma, su
cui vedi Bollettino di filologia classica, VII, 276].
Pietro Verrua. — Studio sul poema « Lo innamoramento di Landlotto
< e di Ginevra » di Nicolò degli Agostini. — Firenze, tip. Ducei, 1901.
Carlo Bertani. — Pietro Aretino e le sue opere secondo nuove inda-
gini. — Sondrio, tip. Quadrio, 1901.
Attilio Angeloro Milano. — Le tragedie di Giambattista Cinthia Gi-
raldi. — Cagliari, tip. commerciale, 1901.
Ugo Levi. — / monumenti più antichi del dialetto di Chioggia. — Ve-
nezia, Visentini, 1901.
Carl Somborn. — Das venezianische Volkslied: die Villotta. — Hei-
delberg, Winter, 1901.
Ubaldo Pasqui. — Sulla casa ove nacque Francesco Petrarca. — Arezzo,
tip. Belletti, 1900.
A. Ratti. — Le ultime vicende della biblioteca e dell'archivio di S. Co-
lombano di Bobbio. — Milano, Hoepli, 1901.
Frances Fenton Sauborn. — About Dante and his beloved Florence.
— San Francisco, Whitaker, 1901.
Adolfo Gaspary. — Storia della letteratura italiana, tradotta da Vittorio
Rossi. Seconda edizione rivista ed accresciuta dal traduttore. Voi. II, Parte li.
— Torino, Loescher, 1901 [Così resta completato, anche nella 2» edizione
notevolmente accresciuta, il voi. II, che tratta del rinascimento. Rispetto
alla nuova importanza che acquista Topera in questa edizione ed alla qua-
lità delle aggiunte praticatevi, si rimanda a quanto fu scritto della P. I
in questo Giorn., 36, 474-75].
Enrico Broll. — Girolamo Tartarotti e la critica storica, con documenti
inediti. — Trento, 1901.
Emilia Ranza. — Notizie su la vita e le opere di Lorenzo Mascheroni.
— Piacenza, tip. Bosi, 1901.
Vittorio Fabiani. — Gente di chiesa nella commedia del sec. XVL —
Empoli, tip. Traversari, 1901.
Carlo Cattaneo. — Scritti politici ed epistolario, pubbl. da G. Rosa e
J. White Mario. Tre volumi. — Firenze, Barbèra, 1901.
Giambattista Pellizzaro. — La commedia del secolo XVI e la novel-
listica anteriore e contemporanea in Italia. -— Vicenza, tip. Raschi, 1901.
268 CRONACA
Raccolta di studi critici dedicata ad Alessandro D'Ancona festeggiandosi
il XL anniversario del suo insegnamento. — Firenze, Barbèra, 1901 [Dei
53 scritti eruditi che figurano in questa voluminosa e suntuosa miscellanea
i più riguardano la storia delle lettere italiane. Ci sarà, quindi, grato Toc-
cuparcene in seguito partitamente].
f Nel novero degli italianisti più benemeriti di Francia è da riporre
F. T. Perrens, che si spense a Parigi il 4 febbraio 1901. Vanno per le
mani di ogni erudito i nove volumi della sua Histoire de Florence, editi
dal 1877 al 1891. Malgrado i suoi difetti, è pur sempre quella storia un in-
signe documento di laboriosità destinato ad arrecare eccellenti servigi. Ben
più a lungo noi ne parleremmo se non uscisse dal campo speciale degli studi
nostri. Il Perrens fu essenzialmente un cultore di storia civile e politica;
ma gli argomenti da lui trattati lo condussero necessariamente ad occuparsi
molte volte anche di storia letteraria. Egli scrisse pure, nel 1866, una
Histoire de la littérature italienne, che è ben poco nota fra noi. Il suo
primo libro riguarda Jerome Savonarole, sa vie, ses prédications, se$ ècrits^
ed ebbe valore nel tempo in che apparve (1853), perchè era allora il libro
più compiuto che s'avesse intorno al celebre monaco riformatore (vedi Vii-
lari, Savonarola ^ I, xxvi-xxviii). L'ultima opera sua, di pura divulgazione,
vide la luce nel 1893 e s'intitola La civilisation fiorentine du XI II au
XVI siede.
f All'Aquila usciva di vita il 2 luglio 1901, nell'età di anni 70, il canonico
prof. Enrico Casti, bibliotecario della sua città natale. A questa egli rese
servigi eminenti con l'amorosa cura da lui dedicata alla biblioteca e con i
suoi scritti numerosi d'erudizione abruzzese. Si occupò anche moltissimo del-
l'insegnamento e fu autore di lodati scritti letterari in italiano ed in latino,
nonché di articoli diversi pedagogici.
Luigi Morissnoo, Geretite responsabile.
Torino — Tip. Voicbiibo Bona.
ui
NUOVE RIME
DI
BORDELLO DI GOITO
Sommario: Introdazione. — Parte I. 1) Ove convenga ricercare la prima
notizia di Sordello. 2) La dimora di Bordello presso Raim. Berengario IV
di Provenza. 3) Se Sordello siasi recato in Portogallo. — Parte II. Testi
inediti di Sordello e di altri trovatori che si riferiscono a Sordello. —
Parte III. Note critiche ai testi. — Appendice: Se Sordello abbia scritto
in volgare italiano.
L'esiguo patrimonio poetico di Sordello s'avvantaggerà per
questa memoria di due nuovi componimenti e fors' anche del-
l'attribuzione di un terzo testo dialettale, che parve a me di
singolare importanza e degno d'essere esaminato a parte in un
capitoletto speciale (1). Io volli ancora raccogliere alcuni nuovi
accenni riguardanti il nostro trovatore rinvenuti in rime pro-
(1) Io composi su di esso una breve appendice, colla quale si chiuderà
il presente lavoro. L'attribuzione di questo testo a Sordello mi parve potersi
sostenere con buone ragioni; ma ciò non ostante, io stesso non vorrei dar
troppo peso alla mia opinione, che è pur sempre una semplice congettura.
E appunto per non correr rischio di essere accusato di troppa arditezza ho
ristrette le mie note in un breve capitolo, fuori dai limiti della presente
trattazione, considerando a sé quel testo, che, sia o no di Sordello, ha pur
sempre un indiscutibile valore.
Giornale ttorico, IIXVIII, fase. 114. 18
270 G. BERTONI
venzali testé date da me alla luce (1) e mi esercitai intorno ad
essi collo scopo di accrescere le notizie biografiche di Bordello,
valutandoli secondo i criteri della critica storica. La quale
seppe iniziare già da parecchio tempo intorno al nostro trova-
tore un'opera quanto altra mai benefica, distinguendo severa-
mente il Bordello della leggenda da quello della storia.
Fiori per avventura la fama del primo in quella stessa Marca
trevigiana, ch'egli abitò e percorso e seppe far tutta risonare a' quei
giorni del suo nome. In essa egli aveva compito gran parte delle
sue gesta giovanili; vi aveva conosciuto poeti provenzali scesi in
quella contrada a cercarvi cortesia e valore; vi aveva composto
egli medesimo leggiadre ed elette rime, vi aveva forse risvegliato
mille desiose attenzioni in virtù dei suoi rapporti con Gunizza e
vi aveva goduto la protezion liberale del più potente e temuto
signore, Ezzelino da Romano. Di poi la sua fuga dovè lasciare
nella Marca tutto uno strascico di incerti e vaghi romori, e quando
egli ritornò in Italia pareva allora divenuta la Marca tutta piena
di belle fantasie, ed era contrada fiorita di poeti e canora di
rinae. Ond'essa, che dava ospizio liberale ai trovatori d'oltr'Alpe,
dovè altamente gloriarsi di Bordello e incominciare tutto un
sottile lavorio leggendario, che s'accrebbe man mano di trame e
trovò nel poema di B. Aliprandi la sua piena esplicazione.
Ben altro fu il Bordello della storia : fu detto falso amatore e
ingannatore e rapitore di donne; godette dei favori delle corti
e dei principi; prese parte alla spedizione di Carlo d'Anjou in
Italia ; addimostrò uno spirito vario e multiforme ; apparve tuttavia
più meschino, ma non meno interessante. Di questo Bordello ha
ormai la critica tutto il possesso e pur di recente Cesare de Lollis(2)
ne rintracciò da par suo la vita; ma essa, fondata sovr' esiguo
numero di prove sicure, lascia pur troppo di sovente libero
(1) In Studi di filoloffia romanza , diretti da E. Monaci e C. de Lollis,
fase. 23, pp. 1-64.
(2) G. DE Lollis, Vita e opere di Sordello di Goito^ voi. XI della Bo-
manische Bibliotheky Halle, 1896.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 271
campo alle congetture e mostra qua e là ampie lacune; si che
gli studiosi si rallegreranno certo che or si possano aggiungere
alle reliquie poetiche del nostro trovatore qualche nuova notizia
e alcune altre sue rime.
PARTE PRIMA
I.
OVE CONVENGA RICERCARE
LA PRIMA NOTIZIA DI SORDELLO.
Una serie di dieci cobbole, di cui otto conserva il ms. H (1)
(cod. Vatic. 3207) e due il ms. P (2) (cod. Laurenz. Pluteo XLI,
e. 42), die' motivo al de Lollis di concludere che Sordello verso
il 1220 abbia preso parte a una rissa avvenuta tra un gruppo
di poeti provenzali in una bettola di Firenze; ma qui egli trovò
un gran disfavore da parte della critica competente. Il Torraca
dapprima gli si oppose risolutamente e col Torraca ebbe ad in-
contrarsi lo Schultz in una sua recensione nella Gròber's Zeii-
schrìft f. roman. PhiloL, voi. XXI, p. 237 (3). Senza entrar oltre
(1) Studi di filol. rom., V, pp. 523-4 (nni 194-9, 200 e 237).
(2) Archiv del Herrig, L, p. 263. Le dieci cobbole furono pubblicate dal
Torraca, Sul « Pro Sordello » di C. de Lollis ( Giornale Dantesco^ pp. 5-6
dell'estratto).
(3) Molte discussioni e critiche sollevò il libro del de Lollis, Ricorderò
le osservazioni al testo di A. Mussafia, SitzungsberichXe der kais. Akad.
d. Wissensch. (Phil.-histor. Glasse) GXXXIV, 1896, e di E. Levy, Zeitschr.
cit. (1898). Per la bibliografia degli ultimi articoli sopra Sordello mi limito
a rimandare all'app. di una conf. del Gresclni, Sordello, Drucker, 1897
(estr. daU'AZ&a, im. 9, 10) e al D'Ancona, Lectura Dantis (Canto VII del
Purg.), Firenze, 1901, p. 12, n. 3.
272 G. BERTONI
nella discussione, noi osserveremo che il ravvicinamento di quelle
cobbole, per quanto molto ingegnoso, è pur sempre tratto di
congettura; poiché, se non ci inganniamo, non si hanno prove
sufficienti per stabilirne esattamente i rapporti. Pare in altre
parole a noi che l'ipotesi ne sia pur sempre permessa, purché
non le si assegni maggior importanza di quello ch'essa, come
tale, possa avere.
Ne risulterebbe adunque che il primo accenno storicamente
sicuro intorno al nostro trovatore sarebbe contenuto in quel
passo di Rolandino in cui si parla della presenza di Sordello alla
corte di Rizzardo di S. Bonifacio (1); cosicché la prima età di
Sordello sfuggirebbe ancora alle indagini critiche. Ma a diradare
un po' le tenebre pare a noi possa servire assai bene un nuovo
testo che più sotto inseriamo (2). Esso consiste in una tenzone
scambiata da Sordello con Joanet d'Albusson (3).
(1) M. G. H. Script. XIX, 40. Verona doveva accogliere nel sec. XIII un
bel numero di poeti provenzali, che alla corte dei S. Bonifacio trovavano
lieto ricetto. Nel 1212, per la morte del conte Lodovico, A. de Peguilhan
componeva quel noto suo pianto (Galvani, Osservazioni alla poesia dei
trovai.^ p. 56) in cui echeggia il ricordo
Del guai Corate Verones, qu'era flora
De gran beatat e de totz bea colora.
Uc de Saint Gire fu certamente a Verona (si cfr. la sua danseta pubblicata
dal Gasini, / trovatori nella Marca trivigiana^ in Propugnatore^ XVIII»
p. 160) e al giullare Messonget, che chiedevagli un serventese, rispondeva:
Per qa' iea vaelh qa' eo Verones
Al Corate tenbas ta via
(WrpTHOiFT, SirvnU* Joglartse^ Marbnrg, 1891, p. 35).
Un conte di Verona è pur citato da Falquet de Roman (ed. Zbnrer, Halle,
1896, p. 56 e nota al testo). Inoltre Verona appare ancora nelle poesie dei
trovatori in un senso metaforico, in riguardo alla sua significazione di vero
(si cfr. infatti N. Zinqarklli, Bue trov. in Italia, Firenze, 1899, pp. 25-26):
uso questo di metafora assai comune (cfr. Tobler, Vermischte Beitrdge
zur franzósischen Gramatik, Leipzig, 1886, S. II, p. 194).
(2) È il nostro testo n» I.
(3) Il cod. legge soltanto Joanet. Non esito a riconoscervi il d'Albusson
perchè si sa che con questo trovatore fu Sordello in relazione e perchè sap-
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 273
Fu questi un trovatore che percorse la Marca trevigiana nel
primo quarto del sec. XIII e non trascurò altra volta occasione
di manifestare certa sua ira all'indirizzo di Bordello.
Cantava Joanet d'Albusson:
St. II. Pos joglars non es, com prezes,
Sordel, antan draps del Marques?
Ora io non esito ad identificare questo « Marques » col Mar-
chese d'Este. Anzitutto devesi osservare che fu uso dei trovatori
di tacere bene spesso il nome dei loro più nobili protettori e di
indicarli col solo titolo, che a loro s'apparteneva, quasi ad in-
dicare ch'essi ad ognuno dovessero esser noti.
Bonifacio I di Monferrato fu infatti costantemente chiamato
« il Marchese » per eccellenza (1) e similmente venne designato
il Marchese Azzo VII d'Este da quei poeti che s'imbattevano ad
essere accolti nel Veneto. Ricorderò, a conferma di ciò, due versi
di un serventese di Uc de S. Gire a Messonget:
Tan que si no fos n'Albricx
E-1 Marques que es tos dicx... (2)
nei quali concordemente tutti scorgono sotto la parola «Marques»
piamo da Peire Bremon Ricas Novas che Joanet d'Albusson si piaceva di
rinfacciare a Sordello la sua ignobile condizione, il che avviene appunto nel
nostro componimento.
(1) Lo ScHULTZ, Le epist. del trovai. Rambaldo di Vaqueiras a Boni-
facio I di Monferrato, traduzione italiana, Firenze, 1898, p. 148, fa prece-
dere all'indice dei componimenti provenzali indirizzati a Bonifacio le seguenti
parole: « E da avvertire che tutti i poeti citati qui appresso non chiamano
« mai il marchese per nome e spesso non aggiungono neanche de Monferrat ».
(2) Il Gavedoni, Delle accoglienze ecc., in Memorie della R. Accad. di
Scienze, Lettere ed Arti in Modena, t. II, 1851, che ebbe il merito di ac-
corgersi per primo che la parola marques non poteva considerarsi come
apposizione di Albric (del resto la stessa grammatica vi si oppone), forzò il
ms. leggendo: e-l Marques d'Est o" s dicx. Questo verso presenta sempre
una certa difficoltà in causa della parola dicx, intorno a cui si veda, oltre
il Raynouard, il Levy, Suppl.-Wòrt., II, 235. Il Torraca, Giorn. Dant.,
VI, p. 531, n. 1, propone di intendere: « e il marchese eh' è detto (dichs)
« giovinetto (tos) ».
274 G. BERTONI
Azzo VII d'Este, che succedette al fratello Aldobrandino nel 1215
e fu chiamato da' trovatori per eccellenza « Marchese » per la
sua nota liberalità. E d'altronde in quei luoghi a chi mai po-
tevasi attribuire un tale titolo?
Anche Guilhem Raimon tenzonando con Airaeric de Peguilhaii
diceva :
— Aimeric, que'us par d'aquest Marque8?(l).
E che qui si debba scorgere il marchése Azzo VII d' Este io
mi studiai altra volta di dimostrare (2). E anche è probabile che
Palquet de Roman colla denominazione cel (V Est (3) abbia al-
luso ad Azzo VII.
I tempi in cui maggiormente fiori di poeti provenzali la corte
estense furono per vero quelli di Azzo VII, il quale sotto il
titolo di Marques d'Est venne eziandio cantato da Gavaire, da
Uc de Saint Gire, da Guilhem de La Tor e da Ramon Guilhem
nei componimenti che incominciano rispettivamente: Cavalier,
pois; Messonget, un sirventes; De Saint Martin me clam; e
Amics Ferrairi. E per di più si pensi che appunto allora nella
corte estense sonavano le lodi dei trovatori per Beatrice, Gio-
vanna e Gostanza d'Este (4).
Ma non soltanto dai poeti di Provenza il Marchese Azzo VII
venne chiamato per eccellenza Marchese: chi scorra le cro-
nache del tempo s'avvedrà che alcuna volta sotto la denomi-
nazione di marchio estensis o anche unicamente di marchio
devesi riconoscere il nostro Azzo VII d'Este (5).
(1) G. Appel, Provenxalische Chrestomathie, Leipzig, 1895, p. 127.
(2) In questo Giornale^ 36, 45 1>, n. 2.
(3) Zenrbr, Op. cit., pp. 56 e 86. Al Torraca pare che l'allusione 8Ì ri-
ferisca ad Azzo VI, ma ciò non infirma le nostre conclusioni, perchè a noi
preme soltanto di dimostrare che il Marchese d'Este (fosse egli Azzo VI o
Aldobrandino o Azzo VII) veniva chiamato dai trovatori per eccellenza
Marchese.
(4) Mi limito a rimandare a una mia recensione comparsa nel precedente
fase, di questo Giornale, 38, 144- U7.
(5) Mi basti qui citare due esempi: Tuno degli Annales S. Justinat
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 275
È chiaro adunque che Joanet d'Albusson coi versi:
Pos joglars non es, com prezes,
Sordel, antan draps del Marques?
allude a donativi che Sordello ricevette antan da un Marchese
d'Este e forse da Azzo VII. Ricordando che era uso allora, come
è noto, che allorquando un trovatore si recasse presso una corte,
il signoro si dimostrasse con lui liberale (e di questa liberalità
infinite volte si tocca nelle poesie dei provenzali), si può conclu-
dere che Sordello soggiornò alla corte dei Marchesi d'Este. Resta
ora a limitarsi il tempo, in cui ciò potè avvenire: prima o dopo
il ratto di Cunizza?
Incomincio coli' osservare che i rapporti fra la casa d'Este e
i Conti di S. Bonifacio si mantennero in quei tempi ordinaria-
mente amichevoli. Un atto del 1217 ci dimostra Ferrara e Ve-
rona concordi (1); nel 1222, riaccesasi la lotta tra Salinguerra
e il Marchese d'Este, questi ebbe l'aiuto del Conte di Verona;
nel 1224 il Conte tentò di impadronirsi di possessi di Salinguerra
per consegnarli al Marchese Azzo d'Este e ancora nel 1230
quando Rizzardo di S. Bonifacio fu imprigionato dalla fazione
dei Montecchi, i Padovani per liberarlo si collegarono col Mar-
chese Azzo, il quale prestò il suo aiuto.
In causa di questa amicizia costante, non avrebbe certo potuto
Sordello trovare ospitalità alla corte dei Marchesi d'Este dopo
ch'egli aveva rapito Cunizza a Rizzardo di S. Bonifacio ed era
divenuto fautore di Ezzelino da Romano. Né va dimenticato che
quel ratto fa parte di un ordine di cose di grande importanza,
poiché appunto in quei tempi scoppiarono aperti i dissapori che
cagionarono gravi danni a Rizzardo di S. Bonifacio.
{M. G. H. Script., XIX , 182, 50); l'altro del Chronicon Estense {R. L S. t.,
XV, 308 C).
(1) Archivio di Stato in Modena. Cat. Est. Reg. B. f. 13. È nota la ami
cizia di Azzo VI e Lodovico di S. Bonifazio. Morirono essi nel 1212 e Aimeric.
de Peguilhan ne pianse la morte.
276 G. BERTONI
Resta cosi provato, a parer nostro, che Bordello prima di
recarsi presso i S. Bonifacio si fermò alla Corte dei Marchesi
d*Este, ottenendo da uno di essi (forse da Azzo VII) regali, che
gli furono poi rinfacciati da Joanet d'Albusson. Il quale, in virtù
di questa nostra ricerca, potrà anche aggiungersi al numero di
quei poeti che visitarono la Corte estense.
Nel nuovo componimento, che più oltre pubblichiamo, il d'Al-
busson si compiace con certa evidente malizia di attribuire la
taccia di giullare a Sordello, e questi se ne schermisce per ve-
rità da maestro e ritorce con sottile arguzia gli argomenti
dell'avversario, il quale non dovè certo dopo questo dibattito
mettere in tacere le sue petulanti accuse, poiché Peire Bremon
Ricas Novas in un suo serventese, composto parecchi anni dopo,
ricorda che Sordello non è cavaliere e afferma d'averne avuto
notizia per l'appunto dal d'Albusson:
so'm dis a una part Joanet d'Albusson.
[Gr. 330, 6].
Questa e altra volta Sordello si difese:
Ben a gran tort car m'apella joglar, (1)
Cab autre vai (2) et autre ven ab me, ecc.
[Gr. 437, 20].
(1) Non è maraviglia che Sordello si opponga con forza alla nomea di
giullare. Molte testimonianze potrebbero con facilità essere raccolte, dalle
quali apparirel)be manifesto il disprezzo, di cui era fatta segno la vita del
giullare. Sulla condizione giullaresca ne' suoi rapporti colla vita trovadorica
si veda A. Stimminq, Die provenzalische Lìtteratur, in Gròber's Grundriss
der rom. Phil., Strassburg, 1897, voi. II, pp. 15 sgg.
(2) Accetto, in luogo di vauc, la correzione del Mussafia, vai, che trovasi
già nel Diez a p. 26 dell'op. cit. a p. 292 di questo studio.
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 277
IL
LA DIMORA DI SORDELLO
PRESSO RAIMONDO BERENGARIO DI PROVENZA.
Senza sperimentarci nella difficile impresa di stabilire, dietro
un numero forse un po' troppo vago e indeterminato di accenni
e di prove, l'anno preciso, in cui Bordello si recò in Provenza (1),
noi possiam ora affermare fuor d'ogni dubbio (e ciò erasi prima
d'ora soltanto sospettato (2)) che il nostro trovatore si fermò alla
Corte di Raimondo Berengario IV Conte di Provenza.
Questa notizia risulta ormai certa dalla considerazione di un
serventese di fresco fatto conoscere di Pei re de Castelnou (3).
Il componimento venne evidentemente composto dopo la bat-
taglia di Benevento, poiché in esso leggiamo (str. II) che il re
Carlo (4) ha sconfitto in battaglia re Manfredi :
et a vencut en camp lo rei Manfre
e il poeta, grande partigiano dell'angioino, continua (str. VI):
(1) Il Diez, che seppe valersi in modo esemplare dei componimenti di Sor-
delio in Leben und Werke^, ediz. 1882, pp, 376 sgg., osservò che la fuga
del trovatore dovè accadere prima del 1229. Mentre il Diez si avvicinò
assai al vero, il Fauriel propose una data insostenibile scrivendo che Sor-
delio dovè recarsi in Provenza dopo il 1245. Lo Schultz accettò la data del
Diez, e ad essa si attenne anche il de Lollis.
(2) Gli argomenti, che inducevano in questo sospetto, si ricavavano da
alcune poesie stesse di Sordello e da un atto del lo luglio 1241, che ci
mostra Sordello teste in un trattato fra Jacopo d'Aragona, R. Berengario e
Raimondo di Tolosa a proposito di Sancia moglie di quest'ultimo.
(3) In Studi di filol. rom. cit., fase. 23, p. 44.
(4) Le relazioni tra Sordello e Carlo d'Angiò diedero occasione a G. Merkel
di comporre un suo notevolissimo lavoro : Sordello e la sua dimora presso
Carlo I d'Angiò, Torino, 1890.
278 G. BERTONI
Lo Rei Carles sera segnors, so ere,
del plus del mon, c'aissi's tan[h] es cove.
La strofe III di questo serventese ci dà la notizia certa che
Bordello fu ospitato alla Corte del Conte di Provenza Raimondo
Berengario :
per quel pros Coms Berengiers o fes be,
can mosegne 'n Sordel retenc ab se.
Le ragioni colle quali il Torraca (1) sostenne che il nostro tro-
vatore abbia cantato durante il suo soggiorno in Provenza
Beatrice di Savoja, moglie di Raimondo, mi paiono veramente
fondate; ma siccome nel presente articolo io mi propongo di
aggiungere soltanto alcuna nuova notiziola alla biografia sordel-
liana e non di provarmi in questioni già discusse, cosi io passo
oltre e osservo piuttosto che alle relazioni di Bordello col Conte
Berengario si riferisco un secondo serventese di Blacasset che più
oltre pubblichiamo (2).
Esso allude ai rapporti molto tesi e alle lotte e alle inimicizie
dei due Conti di Tolosa e di Provenza. Pareva quest'ultimo in-
clinare alla pace e Blacasset (3), che in cuor suo se ne sdegnava,
esprimeva a Sordello il suo desiderio di battaglia: «Di guerra
« sono desideroso e non amo tregua né pace e quando io vedo
«cavalli armati, Sordello, sono ricco e gioioso; per eh* io non
€ vorrei che il Conte andasse chiedendo pace , signor Sor-
« dello ...» (4).
(1) F. Torraca, Sol « Pro Sordello > di Cesare de Lollis (estratto dal
Giorn. Dantesco), Firenze, 1899, pp. 84 sgg.
(2) Inserito diplomaticamente in Studi di filol. rom. cit., p. 29. lo mi oc-
cupai brevemente di questo componimento, studiandomi di trovarne appros-
simativamente la data, in questo stesso Giornale, 36, 17, n. 2. Ora, come
si vedrà più oltre, io credo, dopo più maturo esame, che la data da me
proposta debba farsi risalire di qualche anno.
(3) Su Blacasset si veda il lavoro del Klbin, Der Troubadour Blacasset,
Wiesbaden, 1887.
(4) Si veda il nostro testo n» III, str. 1 :
De gaern «ai dexirot
e DO i am trega ni pati,
« can Tei caraU annaU.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 279
A Blacasset piacevano invece i bei colpi e il suono della pugna :
Str. 111. Ben volgra vezer blezos
eissir de cocha trauchatz
et elms ferrencs desbarratz
e c'auzis hom los ressos
dels colps que chascus farla.
Ma al di sopra della guerra dei due Conti poneva egli l'amore
della sua donna :
pois ren dels Comtes no-m chal,
ni lur guerra vernazal
no voli, sol que ab vos sia.
Ascoltò Bordello la voce di Blacasset e rivolse egli pure al
Conte di Provenza un appello alla prossima lotta? Può credersi
ch'egli abbia risposto al serventese di Blacasset, ma il suo com-
ponimento certo non c'è stato conservato.
Quando Blacasset componeva il suo serventese le ire dei con-
tendenti parevano acquetarsi e comporsi in pacifiche trattative :
[Str. I, vv. 5-6:] per q'eu del Gomte volria
qe non anes pauz qeren
e inoltre gli accordi di paco parevano favoriti, se ben intendiamo,
da qualcuno che s'indirizzava alla volta della Provenza:
Str. III. qe cel qi ven per son mal
tenguetz (I. tengues) aunitz tot (1) sa via
Colui, al quale il trovatore rivolge queste irose e amare parole,
non può essere, a nostro modo di vedere, che l'inviato di Fede-
Sordel, sui ric[s] e ioios:
per q' eu del Comte volria
que non anes paas qeren,
en Sordel,
(1) Il ms. ha tot{z\ che conservo anche nel testo n» III, v. 30. 0 si dovrà
leggere: tosti
280 G. BERTONI
•
rico II che proponevasi di far tacere con trattative le discordie
dei due Conti (1). Ciò ci richiama alla primavera del 1233, nel
quale anno sarà stato composto il nostro serventese (2).
I rapporti che corsero tra Sordello e il Conte di Provenza
furono, pare, molto buoni: il trovatore cantava forse le grazie
di Beatrice, riceveva doni da Raimondo Berengario e aveva
sull'animo del Conte un certo potere, se Blacasset si rivolgeva
a lui per istigare il Conte a prender decisamente Tarmi contro
la contea di Tolosa. Può dirsi anzi che la condizion sua, favo-
rita dalle grazie della Corte, dovesse risvegliargli intorno le ire
di Peire Bremon Ricas Novas, che gli affilò contro i suoi noti
serventesi (3). Possiamo ora aggiungere che il componimento :
Ab marrimens angoissos et ab plor, scritto nel 1245 per la
morte di Raimondo Berengario e tolto di recente al patrimonio
poetico di Aimeric de Peguilhan (4), fu composto, se è giusta
l'attribuzione del cod. Campori, dal Ricas Novas, al quale cro-
nologicamente può appartenere.
(1) In quegli anni, chi sosteneva con ardore in Provenza le parti dell'Im-
peratore era un trovatore italiano, Percivalle Doria, che appunto allora era
podestà di Avignone. Si vedano i miei Trovatori minori di Genova, in
questo Giornale, 36, 7.
(2) La tregua fu infatti conclusa nel marzo- maggio 1233. Cfr. Barthèlemy,
Invent. chronol. et analit. des chartes de la maison de Baux, Marseille,
1882, 246, 249.
(3) Su di essi si veda : Schultz, Ueber den Liederstreit zwischen Sordel
und Peire Bremon, in Archiv f. das Stud. d. neueren Sprachen u. Li-
terat, XCIII, 123-140 e de Lollis, Op. cit., p. 46, n. 4. Si veda ora la tra-
duzione poetica del serv. sopra cit. 330, 6 fatta dal de Lollis, in Raccolta
di studi critici dedicata ad « Alessandro d* Ancona > festeggiandosi il XL
anniversario del suo insegnamento, Firenze, 1901, p. 411.
(4) Riuscì facile a N. Zingarelli dimostrare (Intorno a due trovatori
in Italia, 1899, pp. 39 sgg.) che di questo componimento non fu autore il
De Peguilhan.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 281
III.
SE SORDELLO SIASI RECATO IN PORTOGALLO.
La possibilità d'un viaggio di Sordello in Portogallo e d'una
sua residenza colà parve risultare al de LoUis (1) da una breve
tenzone di due poeti portoghesi: Joham Soarez Goelho e Pi-
candon giullare. I versi che ci interessano suonano cosi (2) :
Vedes, Picandon, som maravilhado
Eu d'en Sordel a quem ougo entengSes
Muitas e bSas e mui bOos s5es,
Como fui em seu preito tam errado,
Pois nom sabedes jograria fazer,
Por qué vus fez per córte guarecer!
Cu vos ou el dad'ende bom recado.
Da questo breve componimento risulta chiaro che Sordello
dovè essere in istretti rapporti coi due trovatori portoghesi; e
per di più nel tempo dello scambio di questa tenzone egli non
potè essere molto lontano dai due poeti, se uno di essi dice :
Cu vos ou el dad' onde bom recado,
[o voi 0 egli datene buon conto.]
Ma ove sarà avvenuto l'incontro dei tre trovatori? Dapprima
il de Lollis pensò (3) ad una delle corti di Spagna, ove Sordello
fu, come è noto, ospitato; poscia riflettendo che ad un gen-
tiluomo, qual fu il Coelho, non dovevansi attribuire per avven-
(1) Op. cit, pp. 28-29.
(2) Leggonsi in edizione diplomatica nel famoso cod. portoghese della Va-
ticana, pubblicato dal Monaci, Halle, 1875, n" 1021.
(3) In Nuova Antologia, 1° febbraio 1895, p. 424.
282 ' G. BERTONI
tura peregrinazioni in corti d'altra regione, egli fu indotto a
credere in una escursione di Sordello in Portogallo; infine, dopo
che fu asserito che Joào Soares Goelho fu di buon grado
accetto nelle corti spagnuole (1), il de Lollis rinunciò alla ipotesi
del viaggio del nostro trovatore (2). Ma ora, se il ragionamento
che segue apparirà giusto, si vedrà come il de Lollis avesse
colpito nel segno attribuendo a Sordello una peregrinazione nel
Portogallo.
Io pubblicai di recente (3) una corrottissima poesia di Jaufre
Reforzat(4), nella quale leggesi la seguente strofe:
III. Sordel ten hom per cavalier leial,
car leialmen saup la dona enantir
q'el fes (5) de nueg(z) de son alberc fugir,
per qe-n meiret (6) antre nos son hostal:
e ugan fei un viatge mou[t] lieu
per cavalier, per ioglar, per romieu;
anet al Saint (7) e-1 Santz ac espaven
car non lai vene plus escaridamen (8).
(1) Ciò afferma infatti la signora G. Michaelis- Vasconcellos, in Gròber's,
Grundriss, II, 199, n. 5.
(2) In questo Giornale (Sordello de Godio milite)^ 30, 167.
(3) Studi di filol. rom. cit., fase. 23, p. 36.
(4) A questo Reforzat si allude nella poesia 330, 18 (str. IV) secondo la
lezione ancora inedita di D (che ho sott'occhio) e non secondo A. È proba-
bile che Reforzat de Tres vada identificato in Grundriss del Bartsch con
Ref. de Forcalquier. Il nome di Jaufre si ricava da una tenzone di Blacatz
« G. de S.t Gregori {Zeitschr. f. rom. Phil, XXIII, p. 238). Si vpdapo in-
torno a Reforzat alcune notizie raccolte da 0. Soltau, in Zeitschrift fùr
rom. Phil., XXIV, p. 48.
(5) Ms. qer fos.
(6) Ms. qem meire.
(7) Ms. als saintz.
(8) Prima di procedere oltre, io debbo dar conto della ricostruzione critica
di questa strofe: la correzione nel v. 3 di qer fos in q' el fes mi parve su-
bito evidente, come mi parve evidente scorgere in questo verso un'allu-
sione certa al ratto di Cunizza; e a questo proposito lo Chabaneau, cui sotto-
posi la questione, mi scriveva in data 1° novembre 1900: « Correction trèa
< plausible, confirmée par le vers suivant, puisque sa fuite en Provence fut
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 283
Cosi corretta e ridotta a lezion migliore, questa strofe ci dà
la notizia di un viaggio compito da Bordello alla volta di un
Santo, di cui si tace il nome; ma per buona ventura il romieu
del verso 6 può metterci sulla buona via. Codesto santo doveva
ben essere noto in Provenza se bastava nominarlo con un ap-
pellativo assoluto perchè altri intendesse: ad esso traevano genti
nel medio evo e perciò è lecito pensare ad un santuario in cui
venisse venerato; infine, a chi non s'affaccia il sospetto che qui
s'alluda a S. Giacomo di Gompostella? (1).
Frequenti erano codesti pellegrinaggi nel Medio evo e bene
spesso essi dovevano servire, a chi sapeva giovarsene, a un se-
condo fine: o per nascondere una fuga, un esilio, o per altro
ancora. Cosi forse avvenne del pellegrinaggio a S. Giacomo di
Guido Cavalcanti, su cui mi è necessario per ragioni di analogia
di soffermarmi un poco. Tralasciando la questione che riguarda
la data di tale viaggio (2), è certo (dietro la fede di Dino Com-
pagni e d'un sonetto di N. IMuscia, cod. Ghig. L. Vili. 305 (3),
Propugn, XI, 1, 224) che Guido, il quale, come si sa, non era un
modello di ortodossia, ebbe una volta l'idea di incamminarsi a
S. Giacomo di Gallizia. Ma sotto questo proponimento ben altro
che una ragion religiosa vuol scorgervi la critica : il pellegri-
naggio non fu che un pretesto per allontanarsi da Firenze (4),
« la conséquence de ses aventures d' amour en Italie ». Il mutamento della
forma errata meire (v, 4) la meiret (==niigravit) mi vien suggerito, oltre
che dallo Ghabaneau , dal Levy, il quale mi rinvia a Gròber's Zeitschrift
cit., XV, 540. La correzione di saintz in saint (v. 6) mi par infine richiesta
dal secondo emistichio, da cui risulta essere uno solo (e non parecchi) il
santo, di cui si parla. 11 mutamento di mou in mout (v. 5), manco dirne,
è manifesto.
(1) Oltre che nel Tesoro di P. de Gorbiac, !'« apostol de Compostela » vien
ricordato da alcuni trovatori: Peire Vidal, Guiraut Riquier e Paulet de
Marseilha. Gito il Tesoro nel testo di R., edito da G. Sachs, Brandebourg, 1859.
(2) P. Ercole lo porrebbe tra il 1292 e il 1296, in Guido Cavalcanti e
le sue rime, Livorno, Vigo, 1885.
(3) Gfr. Bartoli, Storia della Ietterai, italiana, VI, p. 166; Arnonb, Le
rime di G. Cavalcanti, Firenze, 1881, p. 87, e Ercole, Op. cit., p. 79.
(4) Ercole, Op. cit., p. 44.
284 G. BERTONI
in cui pei Grandi, dopo gli ordinamenti di giustizia, non dove-
vano spirare buone aure; e ch'esso non fosse altro che un
pretesto appare anche dal fatto che il poeta, una volta lontano,
non si curò più di S. Giacomo e del suo santuario, si fermò a
Tolosa e cercò svaghi più graditi. È strana la frase adoperata
dal Muscia laddove egli allude ai segreti propositi ch« movevano
Guido a condursi a S. Giacomo:
S. Iacopo sdegnò quando Tudio.
A questo verso fa riscontro un altro verso della nostra strofe
in cui sì nasconde, sotto altra forma, un simigliante pensiero : /
anet al Saint e'I Santz ac espaven.
Aveva forse anche Bordello alcune mire segrete e celava egli
sotto il suo pellegrinaggio motivi e scopi che fossero ben altro
che religiosi?
Io sono portato a creder di si e mi spingerei ad ammettere
che col viaggio in Gallizia egli abbia voluto mascherare la sua
fuga dall'Italia. Molto incerte sono tuttora le sue relazioni con
Gunizza, né ancor si può asserire che per esse Bordello abbia
dovuto intraprendere cotesta sua fuga, che par venga ricordata
da Peire Bremon in 330, 6; ma tuttavia la causa del suo fuggire
pare sia stata veramente tale da non fare onore al poeta. Ora,
stando cosi le cose, non era forse conveniente a Bordello porre
come meta alla sua peregrinazione forzata un viaggio a S. Gia-
como di Gallizia ? È questa una mera ipotesi e come tale essa
vien posta innanzi non senza alquanta dubbiezza ed esitazione.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 285
PARTE SECONDA
TESTI IInTEIDITI (1).
I.
SORDELLO E JOANET [D'ALBUSSON]
(La temo d' en Sordel e d' en Johan)
[aS p. 539].
L — Digatz mi s'es vers zo c'om brui,
Sordel, q'en don prenetz Faltrai:
— Joan, lo joi c'amors m'adui
de l'autrui moiller non refui.
5 — Sordel, paubertatz vos condui,
zo diz om, en joglaria.
— Joan, d'aire ioglars non sui,
mas de ben dir de m'amia.
IL — Pos ioglars non es, com prezes,
10 Sordel, antan draps del Marqes?
— Joan, eu non To prezi ges
mas per creisser ioglar d arnes.
— Sordel, tal ioglar en cregues
q' eu sai qe'us sec noig e dia.
15 — Joan, per amor sui cortes
e donei en combatria.
IIL — Sordel, re no vos (2) vei donar,
mas e-us vei qerer e preiar.
— Joan, molt enoios ioglar
(1) Seguo scrapolosamente la grafia del codice.
(2) Ms. nous. Si cfr. la nota al testo.
Giornale storico, XXXVIII, fase. 114. 19
G. BERTONI
20 ai (1) en vos, no'I vos pueae oelar.
— Sordel, vostre mendigar
blaflBi*oin (2) font en Lumbardia.
— Joan, no vos auz encolpar
d enian ni de fellonia.
IV. 25 — Sordel (3), vos respondetz molt gen,
a lei de ioglar aprenen.
— Joan, eu respon avinen
s'es qui m'enten d' avinen.
— Sordel, moiller trobatz truep len
30 e ges no sai per qe sia.
— Joan, q' aicil, en cui m' enten,
m'am e no i vueil compagnia.
II.
EN SORDEL
[aS p. 380].
I. Er encontra-l temps de mai
cant fueir e fior vei parer
per atendre mon dever
al mieils del mon chantarai,
5 pros donna, car no'm pois laissar,
pois vos torn vezer, de chantar,
mas qar no-us vei ma vidam .sembla mortz
e chanz dolora e plazers desconortz.
II. Si tot promis qe ia mai
10 no vos venria vezer,
donna, eu no m'en pois tener
(1) Mi. hai.
(2) Mi. bkumon. Si cfr. la noU ài testo.
(8) Mi. SortUs.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 287
car fin'amors m' i atrai
[e beutatz] qi-m n' a fag forzar ;
pero Assas m'es a passar,
15 car ieu voil mais esser periurs estortz,
qe murir finz o vivr' ab turmenz mortz (1).
III. Valenz domna, e qe farai
poi vos (2) non pos mai aver?
si nom degnatz retener,
20 mal nasqei e peigz morrai;
mas qan penz qe regnatz ses par
de beutatz e de fin pretz car
a totz bos aibs, don es abrics e portz,
on peigz en trac mos maltragz, m'esconortz.
lY. 25 Domna, '1 mais qe piegz me fai
es car non ai dreg lezer
qe-us vis sovent ni poder
de servir vostre cors gai :
mas qi fa gent zo qe pot far
30 deu ben del plus [(3) merce trobar:
merce trob ieu e] merces fassa fortz
mos frevols fagz pos del poder m'esfortz.
V. Adregz cors plazenz, tan ai
e vos servir mon voler,
35 q' eu fug zo qe pogr' aver
per zo qe ia non aurai,
qar enver vos voil mescabar
anz q' a nuU'autra (4) [mon cor dar],
qar tals mescabs m'es gazanz e deportz
40 e iois d'aillors destrics e desconortz.
(1) Questi aitimi tre versi (14-16) nel ms. leggonsi così: < p«ro assas mes apassar car iea uoìl
« mais esser per iufe estortz qa mnrir finz e mur ab turmenz mortz ». Della lezione da noi ri-
costruita nel testo si dà conto più oltre, sotto la nota.
(2) Ms. de vos.
(3) Si cfr. la nota al testo.
(4) Ms. nuUa autra. Si cfr. la nota al testo. Aggiungo, per compiere il verso, le parole [mon
cor dar], che daranno, s'io non erro, se non la lettera, almeno il senso deiremistichio tralasciato
per inavvertenza dal copista.
288 G. BERTONI
VI, Douc' enemia, en vos amar
80i tan ferm lassatz ses cor var,
qe desfennar no m'en pot dreigz ni tortz,
ni ioÌ8 d*autra [ni] de vos desconortz.
III.
BLACASSE"? (1)
[Studi citati, p. 29]
1. (2) De guerra sui (3) deziros
e no i am trega ni patz,
e can vei cavals armatz,
Sordel, sui ric[s] e ioios:
5 per q*eu del Comte volria
qe non anes pauz qeren,
en Sordel, car ai talen
c'auzis en luec comunal
cridar : « Toloza reial ! »
10 tan irò qe nostr' o (4) lur sia.
II. Pero fort sui voluntos
q* iels (5) pogues vezer rengatz (6)
e d* aitals bruis aiostatz
q' elms e lanzas e lansos (7)
15 brizesson; e a*ieu temia
en aitai envazimen
intrar, ges cel qi ab sen
(1) Pubblico intero questo nuovo componimento che si riferisce a Sordello e può MTTire a di-
lucidare in maggiore o minor grado la biografia del nostro troratore. Esso fta già inaatito diplo-
maticamente da me nel fascicolo 23** degli Stìtdi di JUol. romaiua già citati, e discasso in alcuni
pnnti controrersi dal de LoUis nella stessa rivista, tàae. 24, p. 1.
(2) In teeta al componimento lefftii nel ms. Àqt$t iir9mt$$ fu tn BlaeatittK é»l Comi* d*
ProtìMa.
(8) Ms. fui.
(4) Ms. nottron.
(5) Ms. f^ dtì*.
(6) V«i. rtgaU.
{1) Ms. lauto». Cfr. db Lollis, Studi dt., fase. 24, p. 11.
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 239
creis son pretz emperial
no'm valgues, qe sobreval,
20 s'ieu per raon grat noi valia.
III. Ben volgra vezer blezos
eissir de cocha trauchatz
et elms ferrencs (1) desbarra tz, (2)
e c'auzìs hom los ressos
25 dels colps, qe chascus faria,
e qe brizan e fragnen
vissem (3) tal envazimen
far al Gomte Proenzal,
qe cel qi ven per son mal
30 tengues aunitz tot sa via (4).
IV. E se-I Goms es coratjos
afortitz ni aturatz,
ni-1 platz valors, er onratz,
e e' el i fai messions
35 temen, tem qe aunitz sia:
mas qe donan e meten,
rauban, tolen e prénen
fassa temer son segnai,
tre qe venza ab mescla tal,
40 co-I Goms de Monfort fazia.
V. Humils, fizels, amoros,
si tot mi sui desamatz,
gentils domna, ia-m (5) forzatz ;
vostres nous cors enveios,
45 quem venz ab douza paria,
eil plazer sobreplazen
m' an tant amorosamen
format de ferm cor coral
ab vos, qe plazen iornai
50 non puesc far si no'us vezia.
(1) Ms. ferrenz. (2) Ms. deshastratz. (3) Ms. uissen.
(4) Ms. per sim («l'm?) mal tenguetz . . . iotz ... (5) Ms. iV7.
290 O. BFRTONI
VI. E si valors s'uraelia,
gentils donna, qi-m defen
vostre nou iove cors gen'i .
Pois rea dels Gomtes no-m chal,
55 ni lur guerra vernazal (1)
no voil, sol (2) qe ab vos sia.
IV.
EN REFORZAT (3)
[Studi cit., p. 36]
(str. II-III).
Ricas Novas tene per home cabal
segon qe-1 vi a Marseiir asaillir
et a granz colpa degolar et aucir
808 enemics qe merces non lur vai :
5 be fai semblan qe'l raascarat son sieu :
ai! (4) cun trasnuech' ab ploias et ab nieu!
mais crestians, aias retenemen,
non (5) aucias tan mal la bona gen!
Sordel ten hom per cavalier leial
10 car leialmen saup la dona enantir,
q' el fes (6) de nueg(z) de son albero fugir,
per qen meiret (7) antro nos son hostal :
e ugan fei un viatge mou[t] lieu
per cavalier, per ioglar, per romieu:
(1) Ms. utnarMal.
(2) Ms. /ol.
(3) Pabblico le strofi II-III del componimento di Befonat edito da me in Studi cit., loc. cit.,
perchò eae hanno speciale riguardo al nostro sog^tto. Questa poesia ci è perrenata in lesione
reramente disperata. Coll'aiato dello Chabanean e del Lery io sono gianto a rioostmire, parmi
esattamente, queste dae strofi.
(4) Ms. aiamirtu miéeh.
(5) Ms. aiom.
(6) Ms. qtr /o$ dt ntugM.
(7) Ms. q«m mtirt.
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 291
15 anet al Saint (1) el Saintz ac espaven
car non lai vene plus escaridamen.
PEIRE DE GHASTELNOU (2)
[Studi cit., pp. 44-45]
(str. IIl-lV).
Anc negus hom per bella captenenza
no vi nuls mais sufifertar ni sufFrir,
qe per us mais no vis cent bes venir,
car be fenis de leu qi ben comenza;
5 per que-1 pros Coms Berengiers o fes be
can mosegnen Sordel retenc ab se,
e si noi's fos cortes e plazentier
al comenzar, no-I retengra estiers,
ni no saubr' om (3) son pretz ni sa valenza.
10 Per aizo deu segner de gran tenenza
amar los sieus e-ls deu gent (4) acuillir
e non los deu dechazer ni fugir,
ni'l seu vas el non devon far faillenza;
car pot sa ber chascus, segon q' eu ere,
15 censi n" es pres de lai al re Poile,
e' ab Alamanz, a lei de mercadiers,
intret el camp, per qe lui e-Is (5) destriers
an retengut li nostre ses faillenza.
(1) Ms. als tainiz.
(2) Eipabblico in edizione critica le 2 strofi (III-IV) che si riferiscono strettamente al nostro
argomento. Tutta la poesia si legge in Studi di filol. rom. citati,
(3) Ms, saubr iom.
(i) Ms, dwjent.
(5) Ms. es.
292 G. BERTONI
PARTE TERZA
Note critiche ai testi.
I.
DIGATZ MI S'ES VERS ZO C OM BRUÌ.
Argomento. Il componimento si riferisce allo stato di giulleria, in cui
parve trovarsi Bordello negli inizi della sua carriera. Il nostro trova-
tore si difende dalle reiterate accuse di giullare che gli vengono mosse
da G. d'Albusson e si studia di volgere ad altri fini le punte d'ironia
del suo mordace competitore. Nella chiusa della nostra tenzone
s'asconde qualche amaro e oscuro sarcasmo intorno alle avventure
donnesche di Sordello e forse può alludersi alla sua relazione con
Gunizza: poiché è certo (cfr. il v. 10) che la presente poesia venne
composta alcun tempo dopo l'ingresso del nostro poeta alla corte d*Este.
V. 3. Joan. Questo trovatore vien chiamato Joanet soltanto in H e in
Barbieri (p. 133). Cfr. Ghabaneau, Les biographies des troubadours,
Toulouse, 1885, p. 155.
vv. 7-8. Ricordano ciò che disse altra volta Sordello a Peire Bremon che
l'accusava di giulleria: e non voill guierdon Mas sol d'amor
(Gr. 437,2). Sulla condizione del giullare si cfr. l'opera del Diez:
Die Poesie der Trobadours, zweite vermehrte Auflage von
K. Bartsch^ Leipzig, 1883, pp. 85 sgg. e 47.
V. 11. Prezi. Qui è usata, come è chiaro, la forma debole del verbo,
poiché la forma forte regolare sarebbe pris. La sostituzione della
forma debole alla forte per questo medesimo verbo trovasi anche
in Traduction provengal du roman de Merlin edita dallo Gha-
baneau, in Rev. des lang. rom., S. Ili, t. 8. A pp. 241-242 lo
Ghabaneau mette in evidenza la 3» pers. plur. debole preseron
e la 3* pers. sing. prezet. Per ciò che riguarda i perfetti forti
in s, troviamo altre volte questa sostituzione, ad es., in dissii
(Bartsch, Chrest., 10, 34), e anche l'a. francese ne fornisce esempi.
Nell'antico prov. questo fenomeno si manifesta in più larga scala
nei perf. in gutturale, begui per bec; prengui^ ecc.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 293
V. 17. no vos. 11 ms. dà nous. Mi è necessario correggere per la misura
del verso.
V. 22. blasm om. Più mi piace questa correzione di ciò che dà il
ms. blasmon, tanto più che nel nostro cod. è frequente lo scambio
di -m e -n finali. Per questa sostituzione non ignota ad altri testi
si cfr. Zeitschrift f. rom. Philol., XII, p. 263.
II.
ER ENGONTRAL TEMPS Dl^ MAI.
Argomento. Le foglie e i fiori di maggio svegliano l'impeto dei canti nel
poeta e riaccendono l'amore per la sua donna. Lontano da lei, egli
si sente condotto a rivederla, poiché un fino amore lo attrae : lo tor-
menta il pensiero di non poterla veder sovente; ogni suo volere egli
pone nel servirla ; né desiderio d'altra donna potrà mai smuoverlo dal
suo amore.
vv. 13-16. Non saprei come riempire, se togliessi \heutatz\ la lacuna del
V. 13. La lezione del ms. é evidentemente corrotta. Mi consultai
intorno ad essa collo Schultz-Gora, il quale cosi interpreterebbe:
« denn treue Liebe zieht mich zu Euch [und Schònheit?] die
« mich gezvsrungen hat; desshalb muss ich nach Satz (??) gehen
« denn lieber will ich (wenn auch) meineidig gerettet sein als
« echt (d. h. nicht meineidig) sterben und unter Qualen als Toter
« leben ». Appartengono pure allo Schultz-Gora le correzioni di qa
in qe e di mur in uiur (v. 16). Io leggo però Assas in luogo di a
Sas^ perchè Assas trovo in Provenza nel dipartimento di Hérault,
non molto lungi da Montpellier. Si cfr. Vivien de Saint-Martin,
Nouv. Diction. de Gèogr. univers.^ Paris, 1879, voi. I, p. 238.
V. 18. Si notino poi e mai (vedi anche v. 9) in luogo di pois e mais^
e si cfr. Schultz, Le epist. del trovai. Ramò, cit., pp. 100-101.
vv. 30-31. La dimenticanza del copista si spiega assai bene colla mia con-
gettura: la parola merce, ripetuta a poca distanza, trasse in errore
Tarn e gli fece saltar forse una linea del cod., cioè due emistichii.
V. 38. Ms. nulla autra. Potrei anche serbare la lezione del ms. ; leggo
tuttavia per maggior correttezza, con lieve ritocco: nuli" autra.
Noto qui tre esempi di sinalefe: vv. 11 (-a eu) 17 e 41 {a e).
294 G. BERTONI
IIL
DE GUERRA SUI DEZIROS.
Argomento. Il poeta ama la mischia e lo strepito deirarmi e dei cavalli;
sì che non gli aggrada l'accordo, che si va stabilendo fra i due Conti
di Tolosa e di Provenza. Gli piace lo spettacolo di file ordinate per
la battaglia, di elmi di ferro, di dardi liberati dall'arco; il Conte di
Provenza si dimostri coraggioso, qual fu Simone di Mon forte (v. 40);
pensi di togliere e di rubare, più tosto che di donare. All'idea della
guerra il poeta disposa quella dell'amore e finisce il suo serventese
con un omaggio alla sua donna.
V. 1. sui. Il ms. legge fui. La correzione mi pare evidente: si noti poi
che lo scambio dì s e f è frequentissimo nel nostro codice.
v. 10. nostr'' o lur. Il ms. nostron. Non riuscendo a trarne un buon
costrutto, ho pensato di sopprimere la -n finale.
v. 12. q' ie'ls rengatz. La correzione è del prof. E. Levy.
v. 22. Cocha usato assolutamente nel significato di « mischia » trovasi
in modo da non lasciar dubbio in G. de Berguadan (Sludi cìt..,
fase. 23, str. IV, v. 1).
V. 23. desbastratz. Correggo desbarratz^ ignoto al Lex.^ che registra
barra e barrar. Ma cfr. Mistral, desbarra, e anche Godefroy,
li, 544, € faire sauter les barres d'un heaume >. Leggo pure, in
luogo di ferrenz, ferrencs = di ferro. Si cfr. ramens per ra-
mencs in D, al v. 7 della canzone IV, p. 105 ediz. Canello di
A. Daniel.
vv. 29-30. Pensai dapprima che sotto sun o sim del ms. si nascondesse il
nome d'una città; poi mi decisi alla fine per la correzione adot-
tata nel testo la quale ritocca un po' la lettera del codice. Am-
mettendo al V. 30 un esempio di ~tz per -s (cfr. Appel, Provenz.
Inedita^ Leipzig, 1890, pref.), tenguets viene ad essere uguale a
tengues. Per ciò che riguarda totz si cfr. il presente studio,
p. 279, n. 1.
V. 34. e el. Intendo: s' el=^se egli^ ma serbo la grafia del ms.
V. 55. Il ms. legge: uenarzal, che andrà corretto in vcrnasal o anche:
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 295
vernassal. Sopra questo aggettivo vedasi ciò che scrive l'Appel
in Arch. f. d. Stud. d. neueren Spr. u. Literat., XGVIl, p. 187,
dando conto dell'opera del Kolsen, Guiraut v. Bornelh, der
meister der Trobadors. Nella lezione della strofe preced. io mi
scosto (ai vv. 43-44) dalle osservazioni del De Lollis, Studi cit., 1. e.
IV.
EN REFORZAT.
Argomento. Il presente testo, attraverso alla sua lezione in molti punti
corrotta, lascia divedere un'arguta intenzione di satira. Il poeta si
rivolge contro Sordello e Peire Bremon Ricas Novas e par voglia
deridere la loro spavalderia. Questo componimento io credo composto
dopo il noto scambio di invettive tra Sordello e Peire Bremon. Le
strofi che hanno per noi maggiore interesse, sono la seconda e la
terza, che abbiamo sopra riprodotte.
V. 5. mascarat^ « ist mir nicht klar; das Wort steht in Crois. Alò. >
Gloss: mascarar [LevyJ. È forse usato in senso metaforico?
V. 6. La correzione di questo verso è dovuta al prof. E. Levy.
V. 8. Così pure non in luogo di aion è mutamento del Levy.
vv. 9-16. Delle ricostruzioni di questi versi ho dato già conto a p. 282, n. 8
nel capitoletto III del presente studio. Questo testo ci permette ormai
di porre in quarantena quella supposizione del Gittermann, secondo
la quale il rapitore di Gunizza non sarebbe stato il nostro trova-
tore, ma piuttosto un altro Sordello (Ezzelin von Roman^ I. Theil
[Die Grundung der Signorie] Stuttgart, 1890, Append. 1). Per
quanto tale opinione fosse già stata combattuta con stringenti
argomentazioni da G. Merkel in questo Giornale^ 17, 381 sgg.,
recentemente parve S. Mitis inclinare ad essa {Storia d'Ezze-
lino IV da Romano, Maddaloni, 1896, p. 19). È tempo ormai che
di tale ipotesi non si discorra più; il nostro testo, dovuto ad un
trovatore che conobbe da vicino Sordello (sopra Reforzat, oltre
alla Zeitschrift cit. in nota al capit. IH, si veda anche Springer,
Das àltprov. Klagelied, Berlin, 1895, p. 76), basta a dimostrare
palesemente che il poeta di Coito, e non altri, fu il rapitore di
Gunizza, q' el fes de nueg de san albero fugir.
296 G. BERTONI
« Non è ben certa la data del ratto: pare che il delitto accadesse
« nel 1226 o in quel torno ». Così G. Cipolla, Compendio della
storia politica di Verona, Verona, 1900, accettando l'opinione
del de Lollis la quale ottenne anche il favore di C. Merkel
in Arch. storico lomb., serie 111, voi. VI, p. 212 e di 0. Schultz-
Gora, Zeitschrift f. roman. Philol. cit., XXI, p. 238. Ritornò su
questo punto della biografìa sordelliana G. Biscaro, in questo
Giornale, 34, 368 sgg.; ma le sue conclusioni, per quanto inge-
gnose, non credo rispondano alla verità storica. Egli considerò
avvenuta la fuga di Cunizza intorno al 1222-3 perchè negli anni
che corrono dal 1224 al "26 non avrebbe avuto Ezzelino bisogno
di Sordello per impadronirsi di Cunizza; « egli allora non aveva
« che a stendere la mano per impadronirsi della sorella ». Si po-
trebbe subito rispondere ch'egli stese appunto la mano e si giovò
d'uno dei suoi fidi : di Sordello. Ma l'argomentazione del Biscaro
pare rafforzarsi laddove egli vuol dimostrare che le nozze segrete
di Otta degli Strasso (cfr. ora A. F. Carreri, Otta di Strasso, in
N. Archivio Veneto, XIII, 211-4) con Sordello non siano state
posteriori al 1224. Se ciò fosse provato, certamente egli avrebbe
ragione da vendere, perchè il ratto di Cunizza fu senza dubbio
anteriore a questa seconda avventura. Ma egli si appoggia a uno
Statuto trivigiano la cui stessa origine « sembra collegarsi col
« caso di Otta » (p. 277); e giovandosi degli statuti trivigiani a
stampa (Venezia, 1574) e dell'archivio del Comune, giunge alla
conclusione che un capitolo speciale riguardante coloro « qui ju-
€ rant mulieres in absconso » (che ha la data del 1225) sia stato
aggiunto in causa dell'avvenuto matrimonio segreto di Otta con
Sordello. Ora noi potremmo domandarci: come mai il fatto era
accaduto a Strasso e lo statuto si faceva a Treviso? La risposta
del Biscaro, < perchè la cosa aveva fatto rumore e scandalo (p. 379) »
non ci pare giusta, giacché essa suggerisce una seconda interro-
gazione: e perchè nulla trovasi di ciò negli statuti di Vicenza,
Padova e Verona, com'egli stesso fa osservare, forse non badando
che l'argomento è a doppio taglio e sconcerta le sue deduzioni?
Inoltre pare a noi che appunto durante la supremazia di Ezze-
lino in Verona il ratto sia avvenuto, perchè è lecito supporre che
altrimenti Sordello si sarebbe rifiutato a prestar man forte ad Ez-
zelino: e per di più si potrebbe aggiungere che il miglioramento
d'una legge non implica la necessità di un fatto occasionale;
NUOVE RIME DI SORDEl.LO DI GOITO 297
sicché è tutto congetturale il riferimento dell'aggiunta del 1225
allo sposalizio di Sordello. Pare adunque che il de LoUis abbia
colpito giusto in quelle pagine (10 sgg.) in cui tratta con neces-
saria cautela di questo punto della vita di Sordello ; tuttavia noi
proporremmo una lieve trasposizione giudicando avvenuto il
ratto un po' prima, e cioè nel 1225. In tale anno infatti il conte
Rizzardo era podestà di Mantova e secondo le affermazioni di
diverse cronache (Annali Mantovani in M. G. E. Script. XIX, 21 ;
Chronicon Est., ap. Muratori, XV, 304; Rolandino in M. G. H.
Script. XIX, 50 ecc.) egli fu cacciato dalla città di Verona, la
quale rimase per alcun tempo sotto il predominio di Ezzelino.
Si cfr. G. Cipolla, Documenti per la storia delle relazioni di-
plomatiche fra Verona e Mantova nel secolo XIII, Milano,
1901, p. 36 [in Bibliotheca Historica Italica, Series altera,
voi. I]. Io non posso tenermi dal notare che quello era certo
tempo assai opportuno al trovatore per involare Gunizza; il marito
era assente ; Ezzelino pareva divenire il dominatore di Verona e
il ratto fu presto compiuto. E forse perchè Gunizza veniva sor-
vegliata nella lontananza di Rizzardo, Sordello compì il ratto di
notte, € de nueg », come dice lo stesso Reforzat.
V.
PEIRE DE GHASTELNOU.
Argomento. Il poeta non indugia più a cantare:
Hoi mais no*m cai far plus longu' atendenza
d'un sirventes novel, a cui qe tir,
e farai lo novelament auzir
a cels qe son entro mar e Durenza
endreit l'amor d'en Barrai, car ancse
a mantegut lo rie pretz [e] mante . . .
e continua il suo serventese dimostrandosi gran sostenitore delle parti
di Carlo d'Angiò e augurandogli di divenir signore « del plus del mon ».
v. 3. Forse meglio: un mal; mantengo tuttavia Tobi. plur. del ms.
Cfr. Lex., V, 447, 1.
v. 9. saubr om. Cosi correggo perchè il ms. allunga, col suo saubri" om,
il verso di una sillaba.
298 G. BERTONI
V. 14. dati gent. Il ms. legge rfw^en^ Questo miglioramento, che reputo
giusto, fa gft éa me proposto negli Studi di filol. rom. cit. p. 45.
V. 17. eh. ms. es. Non vedo nUmm aUra correzione migliore di questa.
APPENDICE.
SE SORDELLO ABBIA. SCRITTO IN VOLGARE ITALIANO.
Il cod. Gampori si chiude col seguente componimento, che non
reca nome d'autore (1):
p. 615] I. Poi qe neue niglazi non me pot far guizardo e qwe dol | zamen-
trardo en lamor que ma biaza. ben e razon qweo | faza un siruentes
lonbardo. qe del proenza a lesco | no ma cresco e fora cosa noua
qom non troua siruentes lombardesco.
II. Qua far pur cos ufaa. bem qom faza bon oura la | mamera par
poura ma qui ala fìaa. fa cosa deuisaa | deet e quonor nous coura
per qtien loco (2) de pianto. | ri e canto per tornar en legreza
la gen meza de cui | remagna tanto.
III. Quo bona fé mensegna qweo no pensam diga, zo qamor j met en
briga, ben o mais (\ue men uegna. quen tropo | mal de' reizina
una gen meidizina per qwe me uoio | metro corata lettre de razon.
uil e fosa a dir cosa | que non e damettre.
IV. Quel no par (\ue ben ama qut a damor nouela que croia | gemer
(1) Ne dò una riproduzione esattamente diplomatica perchè il lettore possa
coir originale sott' occhio giudicare dei mutamenti, delle correzioni, in una
parola, del lavoro critico ed ermeneutico da me praticato su questo testo,
che malgrado il mio buon volere resta pur sempre in alcuni punti di lezione
disperata. Speciali ringraziamenti debbo ai ch.°>' proff. A. Mussafia e F. No-
vali, che mi sovvennero dei loro preziosi consigli nello studio di questo
componimento.
(2) A leggere così mi confortano il senso e il metro; il ms. ha qui alcune
lettere che a me son parse illeggibili.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 299
fela lo met en mala fama, fé dira non da. | [616] flama e contra
non fauela. per qweo que lai oia faliria | fer non li fes de corso
lo socorso queo plus far li pozia.
V. Pero fol fose uero quel que me frao scrito e dame intre. | qam
lo pencs (1) el no deto ma e no pres un pero. | can en posi bel
diro e cosi ne respondo quel el | mondo uozia. quabisase. sol
mondase si comterai setzendo.
VI. Aza bem me meraueio com hom qe non de | suaia. pouere quamor
saia for de dreto conseio. | per brun ni per uermeio. quam no
faza plus naia, quel e tanto ualente e plazente quognum sende. |
desate (2) sei pò creire quel li fa la mente.
VII. Per quel uoler non mouo damar ben q?^eo ne moia. | e no mostron
de forza, la doia. quen mi trono ami | la cele prouo al me cor
que macora. que sei sofre sia fermo, que denferme. lo faramor
si letzre qun plus guegre non e dega fermo.
Vili. El me cor sen acorzia e diz qi^el dolce uiso. la si pres cogso (sic)
que senpres sen recorda, ni no fé desacorda. per pianto ni per
riso, de fer li fin | e preo. que segura. sen ten quel a gran doia.
del. I e noia, qweo sem e sofre duro.
IX. Prodom sia seguro qweo no curo uilana gente | cj'oia ben quenoia.
me faza dar e scuto.
Questa domanda dobbiam formularci prima di passare all'esame
del presente testo quasi tutto guasto e corrotto: «esisteva esso
« nel ms. originale di Bernart Amoros, ovvero fu aggiunto poste-
le riormente nella nostra copia del sec. XVI?»
Io già notai altra volta (3) che insieme al codice 2918 della
Riccardiana va unita una tavola del florilegio di Bernart Amoros ;
sicché per rispondere al nostro quesito converrà che noi ci ri-
volgiamo a tale tavola, che fu pubblicata anni sono nella sua
(1) Ovvero: penes (?)
(2) Ms. veramente : desarete (?)
(3) In questo Giornale, 34, 119.
300 G. BERTONI
integrità dal Bartsch (i). Orbene, dalla tavola in questione non
appare che il nostro testo figurasse nella preziosa raccolta per-
duta; ma ciò non basta per concludere ch'esso vi mancasse
perchè la tavola reca soltanto il nome degli autori, mentre il
noslro componimento è purtroppo nel cod. Gampori anonimo. Può
sorgere tuttavia con fondamento il sospetto eh' esso possa essere
di data non antica e non presentare quell'interesse che noi ad
esso attribuiamo. Ma v' ha per avventura una forte ragione che
attesta l'antichità del componimento e ci conduce a classificarlo
fra le scritture dialettali lombarde della seconda metà del se-
colo XIII 0 di quel torno. La ragione è di natura linguistica e
risiede nel trattamento fonetico dei nessi: pi, bly ecc. iniziali.
Ora, ricordando che il testo appartiene manifestamente all'I-
talia superiore (lo stesso autore nella str. I confessa di voler
scrivere in lombay^dó), devesi notare subito che la risoluzione
di questi nessi si compi assai presto; «nelle scritture di Bon-
« vesin da Riva rimangono in gran parte degli esemplari intatti.
« Solo ci e gì vanno soggetti di regola ma non costantemente
« alla alterazione in e e /7 (2) ».
Nel nostro testo non solo ricaviamo le voci: pianto (str. II,
V. 18), flama (str. IV, v. 38), plus (str. IV, v. 44), ma ancora
abbiamo: glaza al v. 1 della str. I (il ms. dà erroneamente
glazi)y che più serve alla dimostrazione del nostro assunto. Né
varrebbe eludere il valore di questo argomento col citare molti
esempi illusori di tal fenomeno o coU'attribuire simile peculia-
rità al copista francese, perchè subito a nostra portata abbiamo
una seconda ragione: nel nostro testo notasi il dileguo di d in-
tervocalico {usua (ms. ufaa), str. II, v. 12; flaa, str. Il, v. 15),
carattere di antichità spiegato dall'Ascoli col prevalere della
poesia d'oltr'Alpe (3). E infine ci soccorre pure un argomento
(1) Jahrb. f. rom. u. engl. Phil., XI, pp. 13-17.
(2) G. Salvioni, Fonetica del dialetto moderno della città di Milano,
Torino, 1884, p. 184.
(3) Archivio glottologico ital., I, pp. 311-2.
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 301
d'ordine letterario: il nostro poeta contrappone il suo componi-
mento ai serventesi provenzali (str. I). Ora, in quale età potevasi
ciò fare, se non nel sec. XIII?
Dimostrato che il testo appartiene ad età antica, sarebbe
necessario limitar la regione, alla quale può appartenere, poiché
lombardo, come ognun sa, ebbe nel Medio evo una troppo estesa
significazione. Ma qui ci imbattiamo in uno scoglio, che il testo
sotto la forma sua dotta non presenta neppure una caratteristica,
per la quale sia resa possibile una sicura limitazione geografica.
Esso può tanto appartenere alla Lombardia che al Veneto e
il ch.™° prof. G. Salvioni, alla cui autorità sottoposi la presente
questione, mi scriveva in proposito: «data la patina dotta che
« lo ricopre, esso tanto potrebbe attribuirsi all'una che all'altra
« regione ».
Sottoposto infatti ad un esame linguistico, il testo nulla ci
svela: le particolarità grafiche sono in generale provenzaleg-
gianti: la gutturale sorda è sempre rappresentata da g o gt«
(cfr. qe l, ì\ que I, 3; qu' eo I, 5, ecc.); trovasi un ricordo er-
rato della s flessionale, che più sotto mettiamo in evidenza ;
abbiamo, cosa comunissima, lo scambio di n e m (si cfr. lonbardo,
I, 6 e lombardesco, I, 11) dinanzi a consonante labiale.
La formula -al si riduce in o se pure dobbiam leggere col
ms. fosa alla str. Ili, v. 31 e non sosa, come mi par più pro-
babile.
Al sufl3sso -ARIA spetta mainerà (ms. w.am,era) della str. II,
v. 14. Aggiungiamo che le toniche o ed ^ si conservano intatte :
nova, I, 9; trova, I, 10; bon' o., II, 13; bona, III, 23, ecc. Si av-
verta quasi sempre il dileguo di e, i, o, all'uscita, quando però
la vocale finale non sia preceduta da più d'una consonante o non
sia mantenuta dalla rima. Vien fognata l'atona postonica interna,
come ad es. in ovra 11,2; lettre III, 8; ecc. Ricordiamo infine,
cosa che già notammo, la conservazione dei nessi iniziali pi,
bl ecc. e la eliminazione di d intervocalico. Fenomeno ben noto
è pure la interpunzione di r dopo dentale: cfr. alla str. I,
V. 3 dolzam^entr' ardo.
Giornale storico. XXX VITI, fase. 114. 20
G. BERTONI
Ma l'indagine linguistica, come abbiamo osservato, non può
purtroppo servire in questo caso a indicarci entro limiti ristretti
la regione, cui devesi il nostro testo; sicché più converrà che
noi ora tentiamo di presentare al lettore un'edizione di esso
ricostruita a grande stento con alcuni mutamenti e con molte
correzioni più o meno evidenti; ma di ciascun emendamento
vien dato rigorosamente conto nelle note a pie di pagina.
[GHANgON],
Poi qe neve ni glaza (1)
non me pot far guizzardo (2)
e qua dolzamentr' ardo
en r amor que m' abraza (3),
5 ben è razon qu' eo faza
un sirventes lonbardo,
qe del proenzalesco (4)
no m' acresco;
e fora cosa nova,
10 e' om no trova
sirventes lombardesco.
(1) Il ms. glati. Basterebbe la rima a dimostrare Tevidente errore di lettara. La base latina ò
*OLACiA (KOrtiko, L. r, W., 3677): e « ghiaccia» ò comanissimo negli scrittori antichi.
(2) Ms. f)UÌMardo. Erroneamente si penserebbe a guiderdone. Il ch.mo prof. Novali mi o«*
serva: * guittardo: cfr. antico francese guiscart, guichard, dalPa. t. tPUhard; vispo, acnto,
« ingegnoso; e cfr. Dies, E. W., 608; Kobtiko, L. r. W., 777, no 8903. Di qui il nome tiscarda
« (tordo) e il oixcor = vispo, cbe dura ancora ne' dialetti lombardi? Cf^. Chbbubuci, Voeabol. mi^
« lan.'itatiano, i. IV, p. 521, s. v. Viscor, visquer. E Roberto il Normanno fìi d<)tto appnnto il
« ' Guiscardo '; cfr. Godipeot, Dictionn., t. IV, 388 ».
(3) Il ms. abùua; parmi vocabolo errato. Si legga: abroMO da abratar eorrìspondente al toscano
abbraciar», venez. abrogare (cfr. Toblbb, Il Paitfiìo in ant. Venetiano, in Àrch. gtott, X, 252).
genov. abraxar (Flbchu, Arch. glott.. Vili, 318). Leggesi anche abra*are nella Raccolta d^esempi
in antico Venei edita da L. Donati (cfr. Salvioxi in questo Giomatt, XV, 266) e in Fra Paol.
abraxado.
(4) Il ras. proenMa a Umco. In quelito verso in luogo di qe si pnò anche legferv, corno mi gag*
gerisce il prof. Novati : q' e' ■= che io.
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 303
IL Qu' a far pur cos' usaa (1),
ben (2i q' om faza bon' ovra,
la mainerà (3; par povra;
15 ma qui a la fiaa
fa cosa devisaa
dret' è (4) qu' onor nou(s) covra (5),
per qu'en loco de pianto
ri e canto
20 per tornar en legreza
la grameza (6)
de cui remagn' a tanto (7).
HI. Qe bona fé m' ensegna
qu' eo no pensa ni (H) diga
25 zo q' amor met en briga,
ben o mal(s) (9) que m'en vegna,
qu' en tropo mal de regna (10)
una gen[te] mendiga;(ll)
per qu' e' me voia (12) metre
30 con ta' lettre (13)
de razon vii e sosa (14)
(1) Leggo usaa = usata, comune, tenendo conto dello scambio già ricordato di s e / frequente
nel nostro cod., che dà: ufaa.
(2) Ms. bem.
(3) Ms. maniera. La correzione, che mi par sicura, è dovuta al prof. A. Mussafla.
(4) Ms. deet e. Non son pago del mio miglioramento.
(5) Intendo: « è diritto che onor nuovo ricuperi ». « Non darei grande importanza al -s di notts.
■* E una velleità di provenzaleggiante » [Muss.].
(6) È una mia congettura; non intendo il ms. gen. mezn.
(7) Io lessi dapprima atanto. Il Mnssafia: « atanto = fr. ateint non finisce di persuadermi.
« Propenderei per a tanto, la nota locuzione avverbiale con valore temporale : La gramezza della
« quale ora mi rimango (mi astengo). Suppergiù il tacque a tanto di Dante».
(8) Il ms. pensam. m e ni si scambiano di frequente nel nostro ms.
(9) Altra velleità di provenzaleggiante.
(10) Il ms. de reizina, che è certo errato. Si cfr. infatti la rima. De sarà uguale a 'nde = isdr?
(11) Il ms. una gen meidizina. A proposito di queste mie ardite congetture, il Mussafia mi
scriveva: «Se le emendazioni, da lei proposte, colgano nel segno, non saprei dire. Il signirtcato
« par che sia: io non devo pensare né dire nulla contro amore, così fanno i malvagi; io invece
« debbo oppormi ad essi ». Il Nevati: gent enemiga : e forse è da preferirsi.
(12) Ms. voio.
(13) Il ms. comta lettre. Cantra mi propone il Mussafia; con ta' il Nevati.
(14) Il ms. fosa. Leggo, fondandomi sul noto scambio di s e /, sosa e intendo sozza. Ora mi
viene il dubbio che sotto fosa si nasconda una base falsu con l vocalizzato e col dittongo chiuso.
304 G. BERTONI
a dir cosa
que non è [qui] da mettre (1)
IV. Qu'el no par que ben ama
35 qui a d'amor novela
que croia gent et fela (2)
lo met'en mala fama
se d'ira no 'nd' affama
e contra non favela
40 per qu' eo que l' ai oìa (3)
faliria
s' e' (4) non li fes de corso
lo socorso
q' eo plus far li pozia.
V. 45 Però sol (5) fose vero
quel que m'è stao (6) scrito
e da me . . . intero
qu' anc lo penser n*ò dito;
ma e' no pres un pero
can en posi bel dito,
50 e cosi ve respondo
qu* eo el mondo
voria qu' abisase
sormontase,
si canteria iocondo (7).
VI. 55 Asa' (8) ben raeraveio
(1) Il ms. ò difettoso di una sillaba: mettrt. Una correzione: omtUré, mi rien snggarita dai
Mnasafla; Taltra, che accetto, dal Novati.
(2) U ms. non dà senso : que croia gtmer /ila. La correzione ò ana apleodida oongettan del
Mossafia. Si intenda dunque: « non è buon amatore chi udendo sparlar di sé in riirnardo ad amore.
« non si sdegna », ecc.
(8) Intendo: attdita.
(4) Il ms. ha str. Credo che la mia sostitaxione (orrero anche t' *o) possa ooflÌM« m1 Mgao.
(5) Ms. fot.
(6) Ms. frao.
(7) Il testo è in quarta strofe corrottiaimo. Il prof. Norati mi soggerieoe qvMta riooetratioDe,
che mi par notevole.
(8) A<a* = « assai»? [Not.]. Vs. Amo.
NUOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 305
com hom que non desvaia (1)
pò crere qe amor saia (2)
for de dreto conseio
per brun ni per vermeio:
60 e' anc no faza plus uaia
q\i e\ è tanto valente
e plazente
qu' ognun san de' descreire (3)
s' el pò creire
65 q* el li fala niente (4).
VII. Per q'el voler non movo
d'amar, ben q' eo me mora, (5)
e no mostro 'nde fora
la doia q' en mi trovo ;
70 a mi la cai' e provo
al me cor qe m' acora
qe s'el sofre sia fermo,
qe d'enfermo
lo far' amor si 'legro (6),
75 qu' un più vegro (7)
non è de ca a Fermo.
Vili. El me cor s'en acorda (8),
(1) 0 devesi forse leggere: desraia? «Preferisco v: desvaiar sarebbe o dimgare o disvariare,
« cfr. l'it. svaliare ». [Mnss.].
(2) Il ms. non dà senso di sorta : pouere qe a, s. La correzione è del Mussafta.
(3) Anche qni il ms. è disperato : sende desarete (aie). Il miglioramento appartiene al Mussafia.
(4) niente. Il ms. mente, col solito scambio di m e ni.
(5) Il ms. legge moia. La correzione mora è suggerita dalla rima. La desinenza oia sarà do-
vuta forse al doia del verso 69.
(6) Ugro è mia congettura. Il ms. dà: letzre {?).
(7) Il ms. legge: qiin plus guegre (sic) — non e de ga fermo, in coi manca anche una sillaba.
La ricostruzione di qnesti due ultimi versi è del Novati. Il quale veramente leggerebbe :
la doia qu' en mi crovo :
anzi la celo e provo
al me cor que m' acora,
que s' el sofre stia fermo,
que d'enfermo
lo farà amor si legro
qu' un più vegro
non è de ca a Fermo.
Per la voce vegro si veda il vocab. del Boerio.
(8) Ma. acorzia. La rima mi suggerisce la correzione.
306 G. BERTONI
e diz qa'el dolce viso
l'a si pres e conquiso (i),
SO que senpre s'en recorda,
ni no se (2) desacorda
per pianto ni per riso
d'esser (3) li fin a pyro (4),
que seguro (5)
85 se ten qu'el a gran dola,
dol (6) e noia
qu' eo sempre (7) sofr' e duro.
IX. Prod'om sia securo
q'eo no curo
90 vilana gent e croia
ben qe noia
me faza dasecuro (8).
Sarà possibile arguire dall'esame del componimento l'autore
di esso? Anzitutto devesi osservare che egli dovè esser esperto
nella poesia di Provenza per comporre un serventese amoroso,
che s'avvicina nella sua forma metrica a schemi di poesie pro-
venzali (9). Un paradigma assolutamente simile nella lirica di
(1) Ma. cogio. Credo veramente di cogliere nel segno leggeodo: « conquiso ».
(2) Ms. fé.
(3) Ms. de f«r.
(4) Ms. preo. Cfr. la rima.
(3) Ms. segura. La correzione è evidente.
(0) Ms. del.
(7) Ms. $em e. Propongo dubbiosamente: sempre.
(8) « La sua proposta non mi persuade appieno. Il ms. legge: dar e $euto. «scaro» coorJiaato
« a noia non cadrebbe male, ma mi faccia dar noia e ecuro non mi piace » [Musi.].
(9) Potrà forse qualcuno pensare a quel Cosseden « vielhs lombartz » citato
da Peire d'Auvergne nella sua rassegna di trovatori (cfr. ora R. Zenkbr,
Die Lxeder Peire' s v. A., Erlangen, 1900, p. 116). Ma tralasciando anche
di notare che la ragione cronologica potrebbe opporsi a crederlo autore di
tale componimento, è certo che egli dovè scrivere non in dialetto, ma in pro-
venzale; provenzale «bastartz» si, e forse contemperato di alcuni elementi
dialettali, ma pur sempre provenzale, se meritò d'esser citato fra i trovatori
di Provenza da Peire d'Auvergne. Si osservi invece che il nostro testo è
tutto dialettale e soltanto qua e là trovasi qualche ricordo di voci proven-
NUOVE RIME DI SORDELLO DI GOITO 307
Provenza certo, a quanto io so, non abbiamo; ma tutti s'accor-
geranno facilmente della analogia metrica che il nostro testo
presenta colla poesia n" 5 del « maestro dei trovatori », di G. de
Bornelh, intorno a cui si veda : Maus, P. Cardenars Strophenbau
in seinem verhàllniss zu dem anderer Trobadors, Marburg,
1884 (in Ausg. u. Abh. aus d. Gebiete der rom. PhiloL, V),
p. 113, n" 141. Aggiungiamo che nel testo non mancano proven-
zalismi {razo, V. 5; nous, v. 17; raals, v. 26) e notiamo che il
poeta par quasi ci dica nella prima strofe, se noi bene ne inten-
diamo tutto il significato, di voler comporre un serventese lom-
bardo, cosa tutta nuova, come per rifarsi dalla noia che ispirano
i serventesi provenzali: «ben è razo qu'eo faza — un sirventes
« lonbardo — qe del provenzalesco — no m'acresco » (1). Che
l'autore del testo qui sopra riferito sia veramente stato trovatore,
par inoltre desumersi dal fatto che il suo componimento ci fu
conservato in una silloge di poeti provenzali che venne fatta
copiare e fu corretta da Piero Simon del Nero, un cinquecen-
tista assai dotto e buon conoscitore della materia; sicché par
vada allontanato un sospetto, che potrebbe affacciarsi, che autore
del nostro serventese sia stato Girardo Pateg da Cremona, il
quale ebbe si una certa conoscenza della poesia di Provenza (2),
ma non scrisse mai in provenzale. Dobbiamo invece, con proba-
bilità non infondata, ricercarne l'autore in un trovatoy^e italiano,
il qual sia nato o nella Lombardia o nel Veneto o anche in una
località posta tra la regione Veneta e Lombarda.
Insieme al nome di Sordello ci si presenta ora alla mente
zali. Ho invocata la ragion cronologica, e infatti si pensi che Gosseden fiori
verso la metà del sec. XII e forse anche un po' prima, s' era già vecchio
quando P. d'Auvergne componeva la sua rassegna.
(1) Da questa frase è lecito ancora argomentare, a parer mio, che il
nostro poeta componesse anche serventesi provenzali. Egli viene insomma
a dirci: «io saprei scrivere serventesi in linguaggio di Provenza; ma di
«essi non m'acresco; ora voglio scriverne uno in lombardo».
(2) NovATi, Le noie del Pateg, in Rendic. del R. Istituto Lombardo di
Scienze e Lettere, S. Il, voi. XXIX, pp. 279 e 538.
308 G. BERTONI
quella nota testimonianza di Dante in cui Bordello è detto aver
poetato in volgare italiano. La testimonianza di Dante è la se-
guente: (De vulg, eloq.y I, cap. XV, ediz. Rajna, Firenze, Succ.
Le Monnier, 1896, pp. 81-82):
« Dicimus ergo quod forte non male opinantur qui Bononienses
<c asserunt pulcriori locutione loquentes, cura ab Ymolensibus,
« Ferrariensibus et Mutinensibus circunstantibus aliquid proprio
« vulgari adsciscunt; sicut Tacere quoslibet a finitimis suis coni-
« cimus, ut Sordellus de Mantua sua ostendit, Gremone, Brixie,
« alque Verone confini: qui, tantus eloquenliae vir oxistens, non
« solum in poetando, sed quomodocumque loquendo patriura
« vulgare deseruit »,
Mentre il de Lollis fini per considerare guasto il passo di
Dante, il D'Ovidio, Studi critici, Napoli, 1878, p. 400, n. 1, ar-
gomentò che Bordello abbia poetato e favellato in una specie di
dialetto mantovano commisto di elementi desunti dai dialetti
delle città vicine (1). E veramente la traduzione letterale del
passo (2) par dar ragione al D'Ovidio, il quale poneva tuttavia
innanzi con molte cautele la sua proposta pel fatto che di Sor-
delio, poeta volgare, nessun ricordo si aveva. « Senonchè —
« chiedevasi il D'Ovidio — v' è documento, o potrebbe almeno
« credersi a priori che Bordello scrivesse in un linguaggio lom-
« bardesco di tal natura?».
Il nostro testo viene, se non ci inganniamo, a rispondere affer-
mativamente a questa domanda e a risolvere Tarruffata que-
(1) È inutile ch'io mi soffermi qui a ripetere tutte le questioni svolte
intorno al passo di Dante ora citato. — Mi limito a rimandare il lettore al
lavoro del D'Ovidio già ricordato, inserito prima T\e\V Archimo glottologico^
li, poscia nei Saggi citati, e alle pp. 111-115 del libro del de Lollis. L'opi-
nione del D'Ovidio venne riassunta dal Mebkel in questo Giornale^ f7, 381
e quella del de Lollis venna discussa da P. E. Guarnerio, Giom.^ 28, 395.
(2) Scrivo a questo proposito il de Lollis (p. Ili): « Il passo, così com'è
€ (e grammaticalmente si regge), non può significare se non che vi fu un
« Bordello di Mantova autore di poesie scritte in un mantovano contemperato
€ di veronese, bresciano e cremonese ».
NDOVE RIME DI BORDELLO DI GOITO 309
stione; tanto più che, a parer nostro, quando Dante parla di
immistioni di elementi dialettali contermini non deve esser preso
troppo alla lettera. Nel caso presente io credo che Dante abbia
voluto alludere un po' all'ingrosso a una verità, che fu poi
chiaramente dimostrata dagli studi linguistici è di cui egli a
que' tempi non poteva comprendere il valore: che cioè nell'an-
tica letteratura dell'alta Italia gli elementi dell' un dialetto tro-
vavansi anche alcuna volta in un altro dialetto; diversi strati
idiomatici potevano collocarsi l'uno accanto all'altro, e all'arte
del poeta o al suo capriccio spettava di scegliere questa o quella
forma con una elezione di vocabolo che spesso era suggerita
dal predominio della poesia provenzale e francese. Ciò che av-
veniva in piccola scala presso altri poeti, potè avvenire in mag-
gior grado per Bordello; ma le condizioni del nostro testo non
ci permettono pur troppo di approfondire questo punto della
nostra trattazione.
Giulio Bertonl
IMPRESE E DIVISE
D'ARME E D'AMORE NELL' " ORLANDO FURIOSO „
con notizia di alcani trattati del 500 sui colori.
Chi, con colori accompagnati ad arte,
Letizia o doglia alla sua donna mostra.
Chi nel cimier, chi nel dipinto scudo
Disegna Amor, se Tha benigno o crudo.
Cosi Lodovico Ariosto {Orlando, XVII, 72) accenna poeticamente
all'uso dei giostranti, di servirsi di un simbolico linguaggio per
esprimere i loro sentimenti amorosi. Siamo nel secolo che di in-
numerevoli frivolezze si giovò, in tutte le abitudini della vita:
la società gaia, spensierata, curava con artificio la foggia del
vestire, il vivere galante aumentava la ricercatezza. E cosi ge-
nerale diveniva l'uso di certi ritrovati della moda, specialmente
di quella francese, che di essi si faceva anche nelle scritture
una trattazione apposita. Imprese, diviso, livree, e simboli dei
colori 0 delle gemme attrassero l'attenzione di non pochi lette-
rati perdigiorno e cortigiani, e di coloro che — scarsi d'ingegno
e bisognosi — sfruttavano nelle opere loro le meno elevate
tendenze della società contemporanea. Si ebbe un' intiera lette-
ratura, che oggi giace polverosa nelle nostre antiche biblioteche
— poi che il passar dei secoli ha travolte le mode e i capricci
d'altri giorni — , ma che nel '500 e nel secolo seguente, che scim-
miottò ed esagerò i difetti di quello, era ricercata con gran de-
IMPRESE E DIVISE D'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 311
siderio, e sovrattulto dagli eleganti consultata, per trarne le
norme e i suggerimenti del vivere leggiadro. Erano opere pro-
dilette da dame e cavalieri: più care ancora se appagavano la
vanità di quelli, ricordandoli nelle loro pagine, come modelli di
eleganza e di bel costume. Opere, che han finita la loro stagione,
ma tuttavia non possiamo dirle inutili allo studioso; opere fri-
vole e aneddotiche, ma pur curiose a chi ama investigare e
ricostruire la storia del costume; e va pur considerato che esse
teorizzano una parte degli usi di un secolo, che è il più magni-
ficamente artistico della vita italiana.
Al sìmbolo dei colori e dei fiori nel rinascimento italiano (e
quanto ne sorvive ai tempi nostri ancora !) ha posto attenzione,
sotto questo rispetto, un ricercatore amoroso delle multiformi
attitudini artistiche del sec. XVI, il Gian (1), considerando alcuni
trattatela del genere, e, in una seconda parte del suo garbato
studietto, rintracciando nella nostra poesia alcune voci rivolte ai
fiori e ai colori. Io oso ritornare sull'argomento, per integrar da
un lato la prima parte del lavoro del Gian; e per considerar poi,
sotto l'aspetto puramente cinquecentistico del simbolo, alcuno
invenzioni di Lodovico Ariosto. Il quale non volle, ne poteva,
trascurar nel suo poema una costumanza cosi accetta alla società
cortigiana per la quale concertava la sinfonia magnifica del suo
Orlando ; e ne approfittò più volte con accortezza squisita. Forse
verrà posto cosi in luce nuova qualche passo del mirabile poema;
ond'è che io non trascurerò alcune altre invenzioni poetiche del-
l'Ariosto, che a rigore non si riferiscono al simbolo del colore,
ma a cosa consimile: come sarebbero le « imprese » e le «arme »,
delle quali non tratto qui di proposito, poiché altrove me ne dovrò
occupare.
Ghi scorra questa letteratura frivola vedrà continuamente ri-
ferito il nome e l'esempio dell'Ariosto, ove si parli dell'uno e
(1) Vittorio Gian, Del significato dei colori e dei fiori nel rinascimento
italiano, Torino, Roux, 1894. Estr. dalla Gazz. letteraria, 1894, n* 13-14.
312 ABD-EL-KADER SALZA
dell'altro colore; parve infatti che il cantore delle furie d'Orlando
avesse adoperata la simbolica tavolozza con gusto e accorgimento
finissimo. E cosi doveva essere, poiché il poeta, artista squisito,
era adusato al vìvere di una delle più eleganti e spensierate
corti di quel nostro splendido Cinquecento.
I.
La materia, di che qui ci occupiamo, ha avuto nel Cinquecento
parecchi trattatisti, che ne scrissero teoricamente. Il Cian ha
parlato acconciamente di FulvioPellegrino Morato, di An-
tonio Telesio e di Simone Porzio: tre nomi legati tutti ad
altri celebri nomi della nostra storia e letteraria e filosofica; ed
ha anche accennato a quel che dei colori dissero. Mario Equi-
cola, il quale nel Libro di natura d'amore (ib25) ne fece una
trattazione abbondante, e Nicolò Franco, lo scapigliato bene-
ventano, che per questa parte, nella sua istoria amorosa intito-
lata la Filena (i547), plagiò dal segretario di Isabella estense. In
un luogo poi del Cortegiano del Castiglione si manifesta Tinten-
zione di discorrere, oltre che dei blasoni e delle imprese, anche
della « significazione dei colori »; ma l'autore se ne dispensa,
perchè di recente, dice, ne aveva scritto Lodovico Gonzaga:
l'opera di quest'ultimo, a quel che pare finora, non ci si è con-
servata. Ma ben suppliscono ad essa quelle di sopra ricordate ed
altre di cui avremo a discorrere e che riconoscono per loro autori
il Sicillo araldo di re Alfonso d'Aragona, Lodovico Dolce,
Luca Contile e Giovanni Rinaldi. Un altro trattato di Co-
ronalo Occolti (1), è sfuggito alle mie ricerche.
(i) Trattato de^ colori di M. Coronato Occolti, Parma, 1588. Cfr. Fon-
tanini-Zeno, Biblioteca delVeloquenza italiana. II, 376. Nel Catalogue de
la Bihliothèque de M. L.*** (G. Libri), Paris, 1847, p. 405, trovo segnato :
Trattato de' colori di M. Coronato Occolti da Canedolo, Parma, Seth Viotto,
i568, in-8; e non avendo altra conoscenza di questo libro (in cui non so se
sia da veder proprio un'edizione diversa da quella segnata nel Fontanini:
penserei ad un errore di indica/ione o del Fontanini o del Libri), riporlo
IMPRESE E DIVISE D ARME E D'AMORE NEL « FURIOSO » 313
11 primo di questi trattati, che ci si presentano abbastanza
numerosi, è del cosentino Antonio Tel e si o, zio del grande
pensatore (1). Esso è, come ha detto il Gian (p. 20), « di indole
« puramente filologica ». Sono dodici capitoletti, che trattano suc-
cessivamente dei seguenti colori: coeruleus, caesius, ater^pullus,
ferrugineus, rufus, ruber, roseus, punzceus, fulvus, vìridis ; e
ad essi si accoda un Epilogus. Non è già uno studio del simbolo
dei colori, ma uno scritterello erudito, condotto sui classici, spe-
cialmente latini, dai quali desume una raccolta di sostantivi e
aggettivi riferentisi per sinonimia ai vocaboli dei singoli colori.
Perciò basti averne fatto un cenno.
E con poche parole ci sbrigheremo anche del napolitano Si-
mone Porzio, di cui fu figlio lo storico della congiura dei ba-
roni. Egli compose un trattato De coloribus (1548, Lorenzo Tor-
rentino, Firenze), dedicato a Cosimo de' Medici, dal quale il Porzio
dipendeva, come ammirato dottore dello Studio pisano (2), e un
altro De coloribus oculorum (edit. cit., 1550), che nel 1551 fu
tradotto da G. B. Gelli, amico dell'autore (3). Il Porzio era un
le parole che il Libri stesso aggiungeva alla nota bibliografica: « Dans ce
« livre, qui est en prose, mais où se trouvent aussi quelques pièces de vers,
« on exprime la manière de correspondre à l'aide des couleurs qui expriment
« des idées et non pas des mots. A la fin il y a Texplication des couleurs
« employées dans les livrées ».
(1) Antonii Thylesii Cosen- \ tini lìhellus de colo- \ ribus. Ubi multa
le- I guntur praeter \ aliorum opi- \ nionem. | Index. — In fine : Impressum
Venetiis opera Bernardini Vitalis \ Veneti Mense lunio M.D.XXVIII | Gum
privilegio. — È un opuscoletto di 16 fogli non numerati.
(2) A Pisa insegnò dal 1547 al 1554 (cfr. Fabroni, Eistoria Academiae
Pisanae, II, 469; sulla sua lettura cfr. Fabroni, II, 333-335); ma di lui a
Firenze non sì era molto contenti, se nel 1548 Lelio Torelli scriveva: « Il
« Porzio non può molto, e più serve la sua reputatione e il nome che l'ef-
« fetto ». (In Fabroni, II, 336 n.).
(3) Trattato \ de" colori \ de gVocchi \ Dello Eccellentissimo Filosofo \
M. Simone Portio \ Napoletano. \ Allo Illustrissimo et Reverendissimo | Car-
dinale di Mantova | Tradotto in volgare per Giovan | Batista Gelli. |j In Fio-
renza. I Appresso Lorenzo Torrentino. j M.D.LI. Il Gelli tradusse altre cose
del Porzio (vedi Libri, Catalogne cit., p. 402 e Haym, Biblioteca italiana,
ediz. ampliata, Milano, 1773, p. 402 sgg. Sul Porzio, A. Broccoli, Per Si-
mone Porzio e G. B. della Porta, Napoli, 1885 (cfr. Studi di lett. it., II, 2,
p. 318 w.).
314 ABD-EL-KADER SALZA
poco ingegnoso aristotelico, e dell'ammirazione devota di lui per
il Filosofo si risentono anche queste sue operette, nelle quali egli
ha rimaneggiato, e specialmente nella pi-ima, ciò che Aristotele
avea detto. Anzi in questo egli ci ricorda uno sconosciuto trat-
tatello, da me rintracciato, di Luca Contile, sopra i cinque sensi,
dove anche la materia che si riferisce al senso visivo è desunta
da quel che dei sensi aveva discorso il filosofo greco. Più inte-
ressante parrebbe, e forse in qualche particolare è, il secondo
t ratta tcllo del Porzio, che noi conosciamo nella corretta versione
toscana del Gelli. Questa è dedicata ad un noto scolare e devoto
del Pomponazzi, a quel card. Ercole Gonzaga che si lasciò più
di una volta sfuggire il seggio pontificio (1). Il trattato del Porzio
è molto più abbondante di parole, che succoso di idee. Sono in
tutto dieci capitoli, di cui nei primi quattro si parla della situa-
zione degli occhi e se ne fa una minuta descrizione (p. 21 sgg.),
sulla traccia di Aristotile. La seconda parte (p. 52 sgg.) discorre
propriamente dei colori degli occhi, dilungandosi prima assai, e
in modo non concludente, sulle cagioni dei vari colori di essi.
Al cap. Vili si viene a parlare delle deduzioni che si posson
trarre dal colore degli occhi, intorno al carattere dell'uomo: ma
anche qui poco di buono: a p. 94, dove Tautore dice che Nerone
doveva riuscire quel che fu, e pei capelli biondicci, e per il color
degli occhi, e per la sproporzione fra il torso e le gambe ecc.,
parrebbe si tentasse un' enumerazione dei caratteri antropologici
di un delinquente. Ma, in conclusione, nulla di tutto ciò che dal
titolo leggiadro ci aspetteremmo; non una trattazione geniale e
garbata, ma soltanto aridità e ciarle vuote d'interesse.
Gol {vd.iid.io Del significato de' colori di Fulvio Pellegrino
Morato (2), il padre della gentile Olìmpia, che maritata a un te-
(1) La dedica è una lettera del Gelli, di Firenze, 1 marzo 1551. Segue
alla trattazione una lettera del Porzio al Gelli, nella quale l'autore si di-
chiara soddisfatto della versione.
(2) Cfr. le Notizie intorno Pellegrino Fulvio Morati scritte dall'abate
Girolamo Baruffaldi ecc., nella Raccolta ferrarese di opuscoli scientìfici
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 315
desco fu in Germania a tempo delle aspre reazioni contro i prote-
stanti, entriamo più risolutamente in materia. Il titolo della prima
edizione, in altre posteriori, si mutò in Significaio dei colori e
de' mazzolliy poiché alla prima parte un' altra ne aggiunse l'au-
tore, in cui dava una lista alfabetica dei mazzoli, delle erbe cioè
e dei fiori, di cui interpretava il senso recondito. Il Gian, che di
questo trattatello ha discorso, ne conobbe tre edizioni (1), tutte
della prima metà del sec. XVI; ma non ebbe sottocchio la prima
(1535), 0 una delle prime. Io ho trovato una copia del 1535 nella
Nazionale di Firenze (2), ma poiché si dice che l'operetta è « nuo-
e letterari, t. VIII, Vinegia/Goleti, 1781, pp. 129-143, e Gaetano Giordani,
Bella venuta e dimora in Bologna del S. P. Clemente VII per la coronaz.
di Carlo V, Bologna, 1842, Docum. n» LX, p. 84 sg. Il Baruflfaldi ha una
interessante bibliografia sul trattato dei colori, del quale conosce cinque
edizioni: a) Venezia, G. Ant. Nicolini de Sabio, 1535; b) Venezia per Bar-
tolomeo detto rimperadore e Francesco suo genero, 1544; e) Venezia, ap-
presso Domenico Nicolino, 1544; d) Venezia, 1545, tutte in-B"; e) Ferrara,
per Giovanni Maria di Michieli, et Ant. Maria di Sivieri compagni, M. D. LV,
in-4o. 11 Graesse, nella sua bibliografia {ad nomen) cita tre edizioni: la
solita del 1535 (Venezia, da Sabio), una di Bomenico Nicolini, Venezia,
i564 e un'altra di Fabio et A. Zoppini, a Venezia, 1584: quest'ultima con
proverbi in italiano e in veneziano. Il Libri (Catal. de la Bibliothèque cit.,
p. 405) ha l'edizione Venezia, Bomenico Nicolino, 1564. Infine, un'edizione
Vinegia, Lucio Spineda, 1599 trovo indicata soltanto in Catal. des livres
rares et précieux de la bibl. de feu M. le comte de Mac-Garthy Reag,
Paris, chez De Bure frères, 1815: n^ 3674, voi. I, p. 556; e non saprei se
possa identificarsi con una delle edizioni fin qui raccolte quella che è regi-
strata in CiNELLi Calvoli, Bibliot. volante continuata dal doti. B. A. San-
cassani, t. III, Venezia, Albrizzi, MDCGXLVI, p. 364.
(1) La 1" di Venezia (Francesco de Tomaso di Salò e compagni, in Frez-
zaria, al segno della Fede); la 2^ di Ferrara, 1545; la 3* di Brescia, 1549.
(2) Bel significato | de Colori | Operetta di Fulvio Pellegrino Mo-
rato I .Mantovano nuovamente \ Ristampata. | Momus ad Lectorem. | 0
lector tali nimium, ne crede colori. \ Aditieruditum,Mom,um. Author. \ Coecus
non iudicat de colore. || M D XXXV. | Con Gratta et Privilegio. | — In fine:
In Vinegia per Giovan Antonio de Nicolini \ da Sabio. M D XXXV. j del
mese di Settembre. È la 1» dei Baruffaldi: ce. 74 non num. — Conosco (nella
Comunale di Perugia) un'altra edizione senz'anno, ma della prima metà del 500:
Bel signi \ ficato de" colori \ E de mazzolli \ Operetta di Fulvio Pellegrino
Morato | Mantovano. - s. n. di ed., al segno: Medium tenuere Beati. —
Non so se sia la prima delle edizioni indicate dal Gian, o un'altra: tuttavia,
non è la prima, poiché ci si trova la parte dei « mazzoli ». Una terza edi-
316 ABD-EL-KADER SALZA
« vamente ristampata » non parrebbe questa la prima edizione.
Risulta tuttavia chiaramente, da essa, che l'opera trattava dap-
prima soltanto de' colori ; più tardi l'autore vi aggiunse la parte
dei fiori. — In generale questi trattati dal Morato in poi premet-
tono un sonetto, nel quale si assommano i significati di tutti i co-
lori, che si vogliono esaminare, e in ciascuno de' capitoli seguenti
si illustra un verso, e quindi un colore, con esempi tratti d'ogni
dove, a seconda della cultura dell'autore. 11 Morato si mostra
dotto di cose classiche; per esemplificare ricorre agli antichi (e
qui forse lo aiutò talora il libretto del Telesio, come già sospettò
il Gian), mentre, come vedremo, altri autori metton capo più so-
vente al Petrarca e all'Ariosto e a qualche altro scrittore dei loro
tempi. Che poi in esso non si trovi del grazioso, si che gli si possa
perdonar la frivolezza dell'argomento, è difetto comune a tutti
quelli che svolsero di poi lo stesso soggetto. Nel Prologo (ediz.
1535) l'autore spiega come nacque in lui la prima idea dell'ope-
retta : « M'eia caduto dalle mani non so a che modo un sonetto,
« il quale più per scherzo che per altro havea scritto, et non
« tanto per contradire all'openione del Serafino, quanto per era-
« dicare la perversa del volgo », il quale non crede più ad altri,
se uno gli ha già sfatto creder qualcosa. Si tratta di una poesia
che il Morato scrisse per rettificare certe interpretazioni date ai
colori in un sonetto attribuito a Serafino Aquilano (Sì come U
verde importa speme e am.ore)\ ma che difficilmente quest'ul-
timo sia del Serafino, e quali altri autori possano su di esso
avanzar i loro diritti, ha già detto altri, e specialmente il Gian
(p. 26 sgg.). Riferisco il sonetto del Morato, benché già l'abbia
zione da me veduta è di Venezia (Bonibelli, 1595) ; ma non so quale possa essere
un'edizione riferita dallo Zeno {Bibliot. d. eloq. ital.^ II, 376), di Venezia,
(Bartolomeo, detto Timperador) del 1543; se non forse quella citata anche
dal Baruflaldi. Nel principio del 1600 Pedit. Lucio Spineda di Venezia, ripub-
blicò, con altri dello stesso soggetto, il trattato del Morato: Significato | de
t colori, j E de mazzolli^ \ di Fulvio Pellegrino | Mantovano. | Di nuovo
con I somma diligenza corretto, | et ristampato. || In Venetia, | Appresso
Lucio Spineda. | M DG llll.
IMPRESE E DIVISE D ARME E D'AMORE NEL « FURIOSO » 317
ripubblicato il Gian, perchè la sua lezione ha qualche variante
men buona:
Il color verde esser ridutto a niente
Dimostra, il rosso ha poca sicurezza,
Il nero ha '1 suo voler pien di mattezza,
11 bianco ha suo appetito e voglie spente.
11 giallo ha la speranza rinascente.
Copre il taneto in sé saggia sciocchezza,
Il morel morte per amor disprezza;
Chi veste berettin gabba la gente.
Amoroso piacer ha 1' incarnato,
Il mischio mostra bizzarria di testa.
Il torchino ha il pensi er molto elevato.
Chi ha fede, e signoria d'oro si vesta;
L'argentino dimostra esser gabbato.
Al verdegial poca speranza resta.
E ammettiamo che questa sia poesia. Il Morato dissente in
parecchie cose da Serafino (diciamo cosi per intenderci), il quale
dà al rosso senso di vendetta, al nero di fermezza e malinconia,
di gelosia al turchino, di purità al bianco. E in queste varianti,
se se ne toglie il turchino, vedremo che la ragione non è dalla
parte del Morato. Del resto, nella trattazione, il Morato si di-
mostra dotto di cose classiche e agli autori latini ricorre per le
testimonianze che gli occorrono. Qualche notiziola curiosa egli
ci dà, e ci piace riferire, benché l'abbia già riportato il [Gian,
questo proverbio lombardo, che egli cita a proposito del color
berrettino, simbolo d'incostanza e slealtà :
Dio mi guardi da mula che faccia hin hin.
Et da donna che sappia latin,
Et da Borea et da Garbin,
Et da huomo, che veste beretin (1).
Qualche altra notizia riporteremo a luogo più opportuno.
Assai più pregevole e più frequentemente citato nel '500 è il
trattatela di Sicilie araldo di re Alfonso d'Aragona. Fu com-
(1) Nell'edizione Spineda, 1604, f, 18 a.
GiortMle storico, XXXYIII, fase. 114. 21
318 ABD-EL-KADER SALZA
posto nel sec. XV, in francese; le slampe diverse, che ne furon
fatte in Italia, sono una traduzione che ebbe a fare il poligrafo
Giuseppe Orologi (1). Nell'edizione del 1565 si ha una dedica
dell'Orologi alla signora Isabella da Passano della Fratina, e il
traduttore dice di aver « trasportato » questo trattatello dalla
lingua francese nella nostra, perchè gli parve bene che fosse
conosciuto. Vi si esaminano, al solilo, i colori principali, comin-
ciando dall'oro, che invece il Morato esamina per terz'ultimo,
cominciando dal verde: all'oro il Sicillo, come araldo (2), dà il
posto d'onore. Studia sette colori (oro, argento, rosso, azzurro,
nero, verde, porpora) in una prima parte del trattato, stabilen-
done cosi 1 valori simbolici:
Oro = giusto, santo — ricchezza, nobiltà.
Argento = purità, innocenza, giustizia.
i?osso = altezza, nobiltà, ardire; nei testi sacri: martirio.
Azzurro = lealtà, scienza.
Nero = malinconia, semplicità.
Verde = allegrezza, gioventù — bellezza e bontà.
Porpora (rosa secca) = abbondanza di tutti i beni (colore misto di tutti).
(1) Conosciamo due edizioni: Trattato | dei colori | nelle Arme^ \ nelle
Livree^ et \ nelle divise \ di Sigillo Araldo \ del re Alfonso d^ Aragona. || In
Venetia, presso Giorgio de' Cavalli. M D LXV; e l'altra, con lo stesso titolo.
In Venetia^ Appresso Lucio Spineda, 1606. Citiamo or dall'una or dall'altra.
Il FoNTANiNi (Bibl. d. eloq. ital.y ediz. del 1753, II, 376), conosce un'ediz.:
Venezia, Domenico Nicolino^ 1565. Il Brunbt (Manuel^ Paris, 1860) cita
un' ediz. Venezia^ Bonibelli, 1595. Per le edizioni francesi (la 1» del 1495)
V. Brunet, ed. cit., voi. l, col. 966 sgg. e Supplément (Deschamps-Brunet),
Paris, 1880, I, 125.
(2) Oli araldi erano infatti i sovrintendenti agli stemmi. Opera d'indole
generale sull'argomento di che trattiamo, e su quelli affini, è quella di Marc
DE VuLSON DE LA COLOMBIERE, La sctence Iiérotque traitant de la noblesse^
de Vorigine des armes, de leurs blasone et symboles, etc, Paris, 1669, cap. IV.
Presso di noi ne ha trattato genericamente, e non profondamente. Cesare
Cantù, Storia universale, 10» ediz. torinese, Torino, Unione tip.-editr., 1887,
tomo V (libro XI, cap. VI), pp. 423-436. Sugli araldi v. del Golombiìdre,
De Voffice des roys d'armes^ des herauds etc.y Paris, Lamy, 1645, specie a
p. 93 sgg., e Devarennbs, Le roy d'armes etc^ Paris, Billaine, 1635 (non
parla dei colori).
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO > 319
Pei primi cinque, che sono i colori delle armi e degli stemmi,
il Sicillo dà per regola di non porre colore su colore senza me-
tallo (oro e argento), o metallo su metallo; male starebbe, per
esempio, un leon d'oro in campo d'argento.
La seconda parte del trattato dell'araldo ci offre anche mag-
gior minuzia di interpretazioni simboliche, sempre con esempi
di testi sacri e classici, come la prima parte. Notevole è sopra-
tutto lo studio delle combinazioni o accoppiamenti dei colori:
colori uniti = \\YVQQ. Vogliamo sentire quel che dice questo
esperto cortigiano, maestro di moda? Lo si può fare, perchè, in
queste divise, vedremo poi accordarsi l'Ariosto, nell'inventarne
per il suo mondo di donne e di cavalieri.
Bianco e incarnato = diVev maggior favore presso alcuno; un intero di-
scorso fatto da questi due eloquenti colori.
Bianco e azzurro = cortesia e saggezza.
Bianco e berrettino = speranza di venir a fine del desiderio ; livrea senza
dubbio ardita.
Bianco e giallo = gioia in amore.
Bianco e rosso = ardire in imprese onorate.
Bianco e verde = gìowentù virtuosa.
Bianco e taneto = suflScienza.
Bianco e violetto = ìeaìtk in amore.
E vediamo le composizioni del rosso:
Rosso e turchino = desiderio di sapere.
Rosso e giallo = desiderio di avere.
Rosso e berrettino ■= speranza alta.
Rosso e nero =: noia.
Rosso e taneto = forze perdute.
A quel modo che alcuni dei colori perdono il loro significato
nella combinazione, per acquistarne un altro, cosi alcuni dei si-
gnificati or ora veduti si ripetono in altre combinazioni; p. es.,
col giallo:
Giallo e azzurro ■= giocondi piaceri.
Giallo e berrettino = gravi pensieri per non poter soddisfare il desiderio.
320 ABD-EL-KADER SALZA
Giallo e verde •= speranza di felicità.
Giallo e violetto — gioia d'amore.
Giallo e nero := costan/.a.
E se noi avessimo ancor voglia di stare a sentire, Taraldo ci
strombetterebbe altre sue ricette di colori, e pel nero, pel verde,
incarnato, violetto, ecc. È giusto però riconoscere che questo è
un vero codice dell'eleganza cavalleresca di quel tempo, che di
simili frivolezze faceva tesoro. Ma a questo non si tien pago
il Sicillo, e si diverte a trovare artificiose rispondenze dei suoi
sette colori principali con le sette età dell'uomo (e. i2a, ediz.
1606), e con le quattro < complessioni » umane (1), e coi quattro
elementi, e coi sette pianeti allora noti e colle sette virtù e coi
sette giorni della settimana e con le stagioni; attribuisce anche
a ciascun mese dell'anno il suo colore. Ma curiosissimo diventa
poi, quando stabilisce « l'habito morale dell'huomo per i colori »
(e. 24). È una foggia di vestire tutta simbolica. Lasciamo da
parte i vestiti maschili, e prendiamoci la libertà di spiare, con
la guida discreta dell'araldo, una gentildonna del '500, che si veste
secondo la moda sicilliana. Ella doveva avere camicia bianca
(candore), calze violette con giarrettiere bianche o nere (perse-
veranza), pianelle nere (semplicità), sottana di damasco bianco
(castità), cordone azzurro (lealtà), cintura nera (magnanimità)
e borsa d'oro (liberalità). Cosi corazzata di virtù più o meno
manifeste, la donna del Cinquecento si trasformava in un enigma
di vaghi colori, di cui la risoluzione era affidata ai conoscitori
di livree e divise.
Anche nel genere di trattati, onde parliamo, ci si fa innanzi
il nome di quel laboriosissimo poligrafo che fu Lodovico Dolce.
Tutti i generi di opere più accette nel '500 egli trattò, né volle
quindi lasciar da parte questo. Ma dobbiamo affermare che il suo
trattato (2), nonostante una colpa gravissima sebbene non nuova
(1) /2os50 = sanguigna ; a«Mrro= collerica: ar<7tn<o = flemmatica ; nero =
malinconica.
(2) Dialogo \ di M. Lodovico Dolce, | nel quale si ragiona | delle qua-
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 321
pel Dolce, è garbato e non privo d'interesse, specialmente per le
molte citazioni di poeti italiani (Petrarca, Ariosto, Bembo), fatte
con notizie ed informazioni, che molte poesie, sovrattutto del
Bembo, servono a chiarirci in maniera nuova ed inaspettata :
daremo esempì in séguito. Il trattato del Dolce si svolge a dia-
logo fra due personaggi, Mario e Cornelio, di cui il secondo dice
che parlerà dei colori valendosi di ciò che ha letto presso molti
autori, e specialmente di un « libricciolo di M. Antonio Tilesio
« da lui latinamente scritto ; il qual Tilesio fu huomo di belle
« lettere e di fin giudicio: e scrisse in questa materia assai ac-
« conciamente » (1). E si sia pur giovato del Telesio; ma ciò che
il Dolce tace è di essersi servito un po' troppo anche del Morato.
Bastino per esempio questi due passi, di cui il secondo presenta
errori grossolani nella copia del poligrafo veneziano. Noi abbiamo
confrontato i due trattati e possiamo affermare che il Dolce
copia quasi tutto il testo del Morato nella prima parte del suo
dialogo (fino a e. 37):
Morato: Dolce (c. 21 6):
Li Persi (se persa non ho la me- Leggesi eziandio che i Persiani
moria) sposavano nuovamente le sue sposavano da capo le moglie alla loro
moglie alla morte di quelle et più tosto morte; e più tosto ponevano cotal
tal gemma (smeraldo (2)) ponevano gioia, che è lo smeraldo, nel dito alle
in dito alle morte che alle altre, per morte, che alle vive, volendo dimo-
segno che elle portavano seco ogni strare che elle seco portavano ogni
bene et sollazzo del superstite marito, bene, e consolatione morendo, del
et che egli havevano perso ogni suo marito rimasto in vita: e che essi
diporto, né più mai con altra si tra- havevano perduto ogni loro diputo
stularebbero. Odo la Illust. S. Mar- (sic: diporto) ; e che mai più con altra
chesana di Mantoa pudicissima Isa- donna si trastulerebbono. Ho inteso
bella Gonzaga da Este bavere il più dire per cosa vera, che la S. Isabella
litàt diversità, e prò- j prìetà de i colori. \ Con Privilegio, || In Venetia Ap-
presso I Gio. Battista, Marchio \ Sessa, et Fratelli. — In fine: 1565.
(1) Carta 6 b. Anche a e. 19 6 avverte timidamente che parlerà secondo
ciò che ha letto in alcuni.
(2) Simboleggiava bellezza, cortesia, forza e gioventù.
322 ABDEL-KADER SALZA
bel smeraldo che hoggi si trovi, et Gonzaga da Este, che già fu Marche-
quello essere stato ritrovato nella se- sana di Mantova, hebbe un bellissimo
poltura di TuUiola figliuola di M. smeraldo: il quale si dice essere stato
Tullio Gic. trovato nella sepoltura della Tullia
figliuola di Marco Tullio Cicerone.
L'interessante notizia del Morato sulla gennma d'Isabella d'Este
fu già rilevata dal Gian, ed è da girare agli storici e agli ar-
cheologi. Ecco un altro esempio del plagio, sui coìormischio :
Morato: Dolce (c. 33):
Misto cioè mescolato, significa cor- Dicesi che '1 mischio dimostra biz-
rotto. Greci chiamano bizzairi coloro, zarria.
che habbiano la mente di molte con- Così dico, che significa corrotto. I
trarietà corrotta; in tal colori sono Greci bizzarri addimandano coloro,
molti fiocchi quasi atomi di diverse che hanno la testa di molti contrari
specie varii; come nel collo della co- corrotta. E in tali colori sono molti
lomba comprendeva Arcesila. sciocchi, quasi attoniti di diverse
varie specie: come nel collo della co-
lomba comprendeva Arcesila (!).
Qui il Dolce non ha compreso il testo originale ed ha accumu-
lato sciocchezza a sciocchezza; a meno che il revisore trascurato
non gli abbia giocato un brutto tiro.
Nell'avviso ai lettori, l'autore dice di aver ricorso a greci e
latini, e di avere esemplificato con versi di moderni, e latini e
volgari, interpretando anche qualche sonetto; cosi che il suo
dialogo poteva considerarsi « quasi una selva di varie lettioni >.
Di fatti il Dolce, se pur copia dal Morato quel che riguarda
la trattazione della natura e del senso dei colori, trae però in-
nanzi un buon numero di citazioni da antichi e moderni, spe-
cialmente da poeti. Dei colori, esamina non solo i principali, ma
anche le varietà, e tien conto dei sinonimi, nella designazione di
essi. Alcune significazioni allegoriche da lui date ai colori son
diverse da quelle più comuni; vedemmo il rosso indicare ven-
detta, ma pel Dolce vale invece poca sicurezza; cosi il nero
significa pazzia; il berrettino y umiltà; il mischio, fermezza; il
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 323
tuìxUinOy elevatezza (1) (e ci dice che di quest'ultimo si vesti il
Boccaccio, quando elevò i suoi pensieri alla Maria figlia di Ro-
berto re di Napoli : la « regina di Napoli », aggiunge con errore,
e. 34 a). — Interessante è ciò che riguarda i colori accoppiati,
nei quali, avverte, non è da badare al significato, ma alla loro
convenevolezza. Nell'accoppiar più colori, per esprimere un senso
intimo, fu valentissimo — osserva (e noi avremo modo di consta-
tarlo nella seconda parte di questo nostro svago) — l'Ariosto « in
« alcune sopraveste ». La seconda metà del trattato (la prima
termina a e. 38) esamina, come in un elenco alfabetico, il signi-
ficato di svariatissimi oggetti di regalo: v'è il simbolo dovunque,
anche se il dono sia di cose vili, come una ghianda, o un melone,
0 anche una talpa. Ma vediamo qualche passo più interessante.
Che cosa indica il dono d'una lingua? Buona o mala lingua; ed
ecco subito l'esempio, che parte da quel compito in siffatte cose
e cavalleresco re Francesco I. « Per questa cagione Francesco
« re di Francia mandò in dono all'Aretino una catena d'oro di
« seicento scudi ; la quale era fatta a lingue, volendo per quella
« dinotar la proprietà de l'Aretino, ch'era di dir male; e per
« aventura avertirlo, che si guardasse dalla raaledicenza, che per
« aventura ne potrebbe esser gastigato > (e. 55 &) (2). L'Aretino, che
ai simboli e alle astruserie badava poco, non avrà voluto veder
nelle lingue altro simbolo che il loro valore; quanto al Dolce poi,
poteva parlar cosi nel 1565 del suo ottimo amico l'Aretino, perchè
(1) 11 giallo vale per lui disperazione: forse per ciò, aggiunge, a Venezia
agli Ebrei è imposto di portare una berretta gialla (e. 41 h).
(2) Sulla famosa collana donata all'Aretino, oltre i numerosi accenni che
egli stesso ne fa, vedi A. F. Doni, Nuova opinione sopra le imprese amo-
rose e militari, Venezia, 1858, p. 53, e A. F. Doni, La vita dello infame
Aretino, Città di Castello, Lapi, 1901, p, 27; sovrattutto A. Luzio, Un pro-
nostico satirico di P. Aretino, Bergamo, 1900, pp. 115 sgg., e C. Arlia, in
Doni, La vita dello infame Aretino cit., pp. 27-31 in nota. Non entro nel
merito della questione dibattuta fra il Luzio e l'Arlia sul motto della col-
lana, anzi non discuto neanche l'attribuzione incerta al Doni della Vita
citata or ora. Mi pare tuttavia che risolva la questione del motto, contro il
Luzio, Carlo Bertam, Pietro Aretino e le sue opere, Sondrio, Quadrio,
1901, p. 110.
324 ABD-EL-KADER SALZA
la terribile lingua di messer Pietro taceva da un pezzo. Pos-
siamo trascurar senza danno il simbolo di una coda di cavallo
mandata in regalo; vediamo invece l doni del Bembo, compitis-
simo cortigiano e poeta, che i suoi regali accompagnava con
poesie. Cosi una volta « mandò il Bembo a donare molte belle
« candele di bianca cera a un monaco con un distico, che diceva,
« che ne* suoi studi e cose tali adoperasse la lucerna con l'olio,
« ma quelle adoperasse nelle sacre cerimonie, che si fanno in
< chiesa, e innanzi agli altari » (e. 65 a). Àncora, dopo la morte
del duca Guidobaldo d'Urbino, il Bembo mandò alla vedova Li-
sabetta Gonzaga un sonetto {Del cibo, onde Lucrezia, e altre han
vita) (1) « con alcuni" doni, fra i quali v'era un bossolo da ripor
«cose medicinali, l'altro un cassettino, ove le donne sofjliono
« serbar i lisci, e '1 terzo uno specchio di cristallo » (e. 68 a). Il
sonetto spiegava il sènso dei regali. Mandare in regalo un Pe-
trarca, nel linguaggio galante d'allora, era fare invito ad amore
casto e puro: uno ne mandò a una sua donna il Bembo, accom-
pagnandolo col madrigale
Quanto alma è più gentile (e. 71 b) (2).
E poiché siamo col Bembo, ecco la ragione del suo sonetto:
Io ardo, dissi, e la risposta invano (3).
Un giorno, trovandosi il poeta in una riunione, dove si faceva
il giuoco dei segreti (uomini e donne messi in circolo, e l'uno
parla all'altra nell'orecchio) (4), il Bembo disse alla donna che
aveva vicina: « io ardo »; ed essa argutamente gli di^de la mano
sua, che era fredda, a dimostrargli che non sentiva nulla per
(1) Sonetto XIX, delia edizione di I^ergamo 1745, delle Poesie dei iicinlx).
• (2) Canzone IX, delia cit. ediz. del Bemlx).
(3) Sonetto XXII della cit. ediz. del Bembo.
(4) Se ne ha menzione nei libri di trattenimenti del '500: non ho modo di
rifar la citazione, smarrita tra i miei appunti, da Scipione Baroaoli, / trat»
lenimenti dove da vaghe donne e da giovani Uuomini rappresentati sono
hùnesti, et dilettevoli giuochi, narrate novelle e cantate alcune amorose
canzonette, Venezia, 1587.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aM0R3 NEL « FURIOSO » 325
lui (1). — Il Dolce poi ci spiega che cosa significhi mandare in
regalo un Dante (e. 73), un Virgilio, un Furioso, gli Asolarti,
un Catullo, Tibullo e Properzio. Persino si può mandare in dono
— e cosi chiudiamo — un Galmeta: colui al quale lo si manda,
è un goffo, come goffo era tenuto il Galmeta ad Urbino, ci dice il
Dolce, quando ci si trovava col Bembo e col Castiglione (e. 80 &).
Non ricordato, ma degno di esser qui citato, è quel che dei
colori dice un colto letterato e garbato cortigiano del '500, Luca
Contile. Egli nel ^mo Ragionamento delle imprese {Psividi, Bar-
toli, 1574) ha un apposito capitolo Delle divise e dei colori
(ce. 18-21). Parla brevemente di questa materia, che non è l'ar-
gomento principale del suo libro; ed ecco i simboli dei colori,
come egli li pone: oro, sapienza delle cose divine; argento, sa-
pienza delle cose naturali; bianco, vittoria, candidezza d'animo,
eloquenza (2); nero, stabilità e fermezza; rosso, vendetta, e
anche amore (3); azzurro, amore; giallo, contentezza; rosso,
ancora, eccessiva benevolenza, letizia; verde, speranza; tanè,
travaglio; bertino, ingratitudine, viltà (4). Fa raffronto di no-
biltà fra il bianco e il nero, e li reputa uguali (e. 20), nomi-
(1) E sentiamo descritto il giuoco nella narrazione elegiacamente melodiosa
di Aminta {Aminta, 1, 2"):
et una volta
Che in cerchio sedevam ninfe e pastori,
E facevamo alcuni nostri giaochi,
Che ciascun ne l'orecchio del vicino
Mormorando diceva un suo secreto:
Silvia, le dissi, io per te ardo, e certo
Morrò, se non m'aiti. A quel parlare
Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
Un improvviso insolito rossore
Che diede segno dì vergogna e d'ira;
Né ebbi altra risposta che un silenzio.
Un Bilenzio turbato, e pien di dure
Minacce.
Ecco come questo Aminta un po' cortigiano ha riscontro nel Bembo, e nel-
l'episodio ariostesco d'Alcina.
(2) Op. cit, e. 19 b. •
(3) Op. cit, e. 20 h.
(4) Op. cit., e. 21 a.
326 ABD-EL-KADER SALZA.
nando cose deiruno e dell'altro colore e ugualmente belle: per
es. : « Diremo ancora fra le bellezze delle donne la principale
« essere l'occhio nero con le ciglia nere, con ciò sia che dalla
« vista di due begli occhi neri esca serenità e splendore di tanta
« forza che grandemente commuove i cuori de i riguardanti »
(e. 20 a): ah se l'avessero letto le bionde dagli occhi azzurri!
Delle divise il Contile dice che risultano dall'unione di più colori
per pitture o abiti, a dilettar la vista (e. 18); doveva aggiungere
che vi si deve trovare un concetto recondito : il Marchese del Vasto,
il capitano di Carlo V, aveva livrea di bianco e nero, a indicar
fedeltà e fermezza (e. 20&); e noi sappiamo, da una narrazione
contemporanea (1), che suo figlio, il giovine Marchese di Pescara,
quando andò a Londra al séguito di Filippo II,' per le nozze del
re dì Spagna con Maria Tudor l'aveva nera con passamani d'oro;
rossa livrea aveva il geniale Vespasiano Gonzaga, a denotare
amore pel suo principe. Del resto, il Contile esorta, chi vuol far
divise, a conoscer bene i colori e i loro simboli, e a leggere ciò
che con molta « leggiadria » ne disse Simon Porzio, < gentilissimo
« filosofo » napolitano (e. 21 a). Anche esso poi si diletta a distri-
buire, come il Sicillo, i colori per i vari giorni: argento (infanzia,
integrità) per il lunedi; rosso (audacia, virilità, carità) pel mar-
tedi; azzurrino (bellezza d'animo, umiltà, castità) per il giovedì;
oro per la domenica; nero (vecchiaia) pel venerdì e sabato. Oh
che bei perditempo erano questi nostri trattatisti del sec. XVI!
E forse lo siamo anche noi, che ci dilettiamo a percorrere le loro
scritture, e a sorriderci sopra.
IL
Ma io debbo pur ricordare che dell'Ariosto e delle sue inven-
zioni simboliche ho da occuparmi. Ci servirà di introduzione
(iy Uistoria delle cose | occorse nel Regno j d' Inghilterra^ \ in materia
del Duca di Notomberlan \ dopo la morte di Odoardo VI || Impresa. || Nel-
l'Academia Venetiana, j M. D. LVllI. e. 63 b.
IMPRESE E DIVISE d'ARME E D'aMORE NEI. « FURIOSO » 327
quel che dei colori ci dice un altro di questi trattati, col quale
faremo punto, per non addentrarci nel mare magno del Sei-
cento (1). Con quest'ultimo trattato siamo quasi alla fine del '500
anzi alle porte del sec. XVII, e possiamo intravedere ciò che di
questa materia si dirà in quel secolo. Il Mostruosissimo mostro
(titolo che ha il contrassegno di fabbrica) di Giovanni de' Ri-
naldi (2) è, si può dire, il riassunto dei trattati precedenti, ed
ha agli occhi nostri il merito di esemplificare ciò che dice del
simbolo dei colori con passi di autori moderni, citando frequen-
temente l'Ariosto: non pochi dei brani ariosteschi, che noi cite-
remo più oltre, sono già ricordati nel libretto del Rinaldi. Il quale
si lusingava che l'opera sua sarebbe tornata gradita a' lettori,
offrendo loro il mezzo di « far chiaro alle loro care et amate
« donne le allegrezze, le mestitie, i sospiri, et le insopportabili
« passioni, che per il seguirle, et amarle patiscono » (e. 2 &). Pre-
cede la trattazione un « sonetto dei colori », del genere di quello
del Morato; eccolo tal quale ce l'offre il Rinaldi:
(1) Il libro dei colori^ segreti del secolo XY pubblicati da 0. Guerrini e
G. Ricci, Bologna, 1887 {Scelta di curiosità letterarie^ disp. GGXXII) nulla
ha che vedere col simbolismo dei colori, perchè è invece un repertorio di
ricette per formare le varie miscele dei colori, ad uso dell'arte. Fuor di pro-
posito adunque gli editori ricordarono nella prefazione (p. xvii) il Dialogo
dei colori del Dolce, che è tutt' altra cosa. E con molta probabilità (cosi
dico perchè non ho veduto il libro) si occupa dei colori applicati all'arte
anche il Disegno del Doni, nel quale si tratta della scoltura et pittura,
de colori ecc. In Venetia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1549.
(2) Il I Mostruosissimo \ Mostro \ di Giovanni de' Rinaldi | Diviso in due
trattati. \ Nel primo de' quali \ Si ragiona del significato de' colori. \ Nel
secondo si tratta dell' herbe, et fiori. \ Di nuovo ristampato, et con somma |
diligenza corretto. |1 In Venetia, M DG II | Appresso Lucio Spineda. Non è la
prima edizione, che noi non abbiam potuto vedere; ma che forse è quella
indicata dal Libri {Catalogne cit., pp. 405 sgg.) col titolo stesso dell'edizione
Spineda: Ferrara, G. Vasalini, 1588, in-8°. Altre edizioni ricorda I'Haym
{Biblioteca italiana, ed. cit., p. 377): Venezia, Spineda, 16ii; e Venezia,
Imberti, 1626. Sarà poi da ritenere erronea l'indicazione del Catalogne
Mac-Garthy Reag cit. (n» 3673, voi. I, p. 556) di una edizione Ferrara,
Alf. Caraffa, 1588, in-S®, o forse è la stessa ediz. che ci dà il Libri?
328 ABD-EL-KADER SALZ.V
Fa di spene, e letitia il verde mostra,
Di spene il verdegial già quasi morta,
Di mano il rosso a ria vendetta sorta,
Gioir soave Vincarnato mostra.
L'alto pensier altrui il turchin dimostra,
E di dominio il giallo inditio porta,
Si fa d'alma sincera il bianco scorta,
Col duol d'un cuore il ner di pari giostra.
D'animo invitto è il leonato essempio.
Salda voglia il morello apre in amore.
Inganno il beretin^ fin falso, et empio.
Mente instabile il mischio nota, honore
L'oro, e ricchezze manifesta; e scempio
Di gelosia Vargento, e di dolore.
Decisamente i colori non inspirarono dei bei versi ! — La prima
parte di quest'opera del Rinaldi si svolge illustrando verso per
verso il sonetto, con loquacità già secentistica, con molti esempi
classici, come già avevano fatto i precedenti trattatisti, ma anche
con abbondanti riscontri di poeti volgari, specialmente del Pe-
trarca, dell'Ariosto e del Tasso; e non mancano certamente delie
osservazioni curiose e anche stravaganti. Per citarne una, par-
lando dell'oro e dicendo che esso vale signoria e dominio, il Ri-
naldi conclude con tutta sicurezza: « Di qui nasce, che i biondi,
« aurati, et crespi crini meglio allacciano et astringono i cuori
« degli amanti ad Amore, che non fanno gli altri » (e. 28 &). È
certo! E prosegue a dare esempì della magia, diremo così, ero-
tica dei capelli biondi. La seconda parte del suo trattato è un
dizionario alfabetico di tutto ciò che può essere mandato in re-
galo, con le più bizzarre e strane interpretazioni simboliche. Ma
non vai la pena di citare esempì, perchè nulla avrebbero d'in-
teressante.
Poco di buono ci presenta adunque questa produzione del se-
colo XVI anche se vi comprendiamo il Rinaldi: è un angolo del
ricchissimo giardino, dove son venute su, coltivate da inesperti,
alcune pianticelle triste ed alcune anche parassite. Poco di buono
se ne può cavare, se non la persuasione, ove ne fosse bisogno.
IMPRESE E DIVISE D'aRME E D'AMORE NEL « FURIOSO » 329
che di mille cose futili si occupava seriamente il Cinquecento.
Questa da noi veduta era produzione di moda, e che fosse ac-
colta con molto favore dimostrano le numerose edizioni, che di
alcuni di questi trattatelli furon fatte, ad onta dei loro difetti.
Qual dama del secolo avrà voluto fare a meno di questi libriccini
galeotti, che di tanti segreti davano la spiegazione e parlavano
il linguaggio della galanteria? Si sa che tra le molte cose che
alle signore piacciono, ci sono anche delle frivolezze.
Ed ecco perchè l'Ariosto (1), che del tempo suo raccolse le
voci, e dei costumi di esso tracciò sicuro disegno nelle ottave
del suo Furioso, curò con cura minuziosa anche il simbolismo
dei colori. E ad altro anche badò: un genere, stimato allora let-
terario e poetico, quello delle imprese, figurazioni ideografiche
con motto di senso recondito, da servir per cavalieri e dame
nelle varie circostanze della lor vita, ebbe le diligenze del poeta
di Orlando. Noi, pur non trattando qui delle imprese, vogliamo
però, nella rassegna che faremo del Furioso, rilevare anche
quest'altro simbolismo profuso in misura non scarsa nel grande
poema ; Tabbiam detto: forse ne verrà della luce ad interpretare
e gustare alcun passo del poeta di Reggio.
(1) Delle invenzioni simboliche usate dall'Ariosto parlarono anche alcuni
trattatisti e critici: Tommaso Porgacghi, in più luoghi, nelle sue Annota-
zioni al Furioso e Udeno Nisiely, Progimnasmi poetici. 111, p, 189 sg. Ac-
cenna all'uso, che nel Furioso si fa, di livree e imprese, Girolamo Ruscelli,
nel Discorso sulle imprese unito al Ragionamento di Mons. Paolo Giovio
Vescovo di Nocera con M. Lodovico Domenichi sopra i motti et i disegni
d'arm,e et d'amore che com,m,unemente chiamano im,prese, Milano, Antonii,
M D LIX, e. 66 sg. ; e nell' Orlando Furioso \ di m. Lodovico Ariosto |
tutto ricorretto, et di \ nuove figure \ adornato. \ Con le annotationi, gli
Avvertimenti, et le Dichiarationi di Girolamo Ruscelli ecc., In Venetia, j
Appresso Vincenzo Valgrisi , M D LXVI, a p. 56 soltanto (come dichiara
espressamente) loda ancora l'Ariosto a proposito della divisa di Ariodante
{Orlando, C. VI); nei Discorsi di M. Gio. Andrea Palazzi sopra l'im-
prese ecc., Bologna, Benacci, 1575, p. 25 sg., si trova ricordato che tra gli
eroi romanzeschi Gano aveva per insegna la figura del falcone, Astolfo il
pardo, il Danese lo scaglione, Rinaldo il leone sbarrato, Orlando V « alto
Babele >, Marfisa una fenice, e Ruggero l'aquila bianca.
330 ABD-EL-KADER SALZA
Quel mastro gentile di tutte lo cortesie cavalleresche, che fu
il Castiglione, ha, nel suo lamoso trattato, riconosciuto e conica-
era to l'uso delle imprese e delle divise a senso riposto, per il
cortigiano da lui foggiato. < E se poi si ritroverà (il cortegiano)
« armeggiare nei speitaculi publici, giostrando, torneando, o gio-
« cando a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della per-
4t sona; ricordandosi il loco ove si trova, ed in presenzia di cui,
€ procurerà esser nell'arme non meno attilato e leggiadro che
« sicuro, e pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose che
« gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d'aver
« cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appro-
di priati, ed invenzioni ingeniose, che a sé tirino gli occhi de'cir-
« costanti, come calamita il ferro ». E veniamo all'Ariosto.
Prima di passare in rassegna le vaghe invenzioni dei cavalieri
e delle giovani guerriere e imbelli del Furioso, fermiamoci breve
tratto alle Rime del poeta. Ecco un grazioso sonetto, in cui si
dà l'interpretazione dei gigli e degli amaranti, onde una < ver-
< gine illustre» portava adorno il manto:
Non senza causa il giglio e l'araaranto,
L'uno di fede, e l'altro fior d'amore,
Del bel leggiadro lor vago colore,
Vergine illustre, v'orna il vostro manto.
Candido e puro l'un mostra altrettanto
In voi candore, e purità di core;
A l'animo sublime l'altro fiore
Di costanza real dà il pregio, e il vanto (1).
(Son. IV).
(1) Cito dall'edizione: Opere di Lodovico Ariosto ecc., tomo quarto, in
Venezia, M DGC LUI, nella stamperia Remondini. Ma seguo quest'ediz. solo
per le Rime. — Giulia Gonzaga ebbe anche per impresa l'amaranto col motto
Non moritura^ a indicare la sua castità, cui non avrebbe rinunziato per
altre nozze (I. Affò, Vito di Giulia Gonzaga^ p. 29). — Biancovestita de-
scrive la sua donna il Bembo nella bella canzone XXI (edizione citata
delle Rime):
yÌDC«a U neve il restir paro, e bianco
Dal collo a' piedi : • '1 bel lembo d'intorno
Area rirtù di far l'aria serena.
(ttr. 4«).
IMPRESE E DIVISE d'aR>JE E D'aMORE NEL « FURIOSO » 331
Con le dame del Cinquecento restiamo in un* altra poesia del-
l'Ariosto, precisamente nella canzone prima. Tutti ricordano
questa leggiadra poesia, dove il nostro poeta descrive com'egli,
cosi lontano dall'innaraorarsi, rimase preso della vaghezza della
donna che fu il suo buon angelo domestico, Alessandra Benucci,
la vedova di Tito Strozzi. Già da un pezzo egli conosceva la
bella donna, ma sempre ne aveva escluso dal suo cuore il pen-
siero, forse già in sospetto d'innamorarsene. Il giorno di san Gio-
vanni Battista del 1513, trovandosi egli a Firenze, Amore fece
le proprie vendette. A Firenze, per le feste del Patrono, era
accorsa gran gente, e c'erano molte cose belle da osservare; ma
di ciò che vide poco sì curò il poeta, a paragone della sua donna:
la quale già vi si era recata, come oriunda della città, per invito
della sua famiglia. E come, a tutta sua beatitudine, ricordò poi
il poeta l'acconciatura di lei! Mirabilmente accomodati erano i
biondi capelli e ombreggiavano soavemente il collo e le guancie
divine. E pieno di mistero era il ricamo dell'abito ch'ella in-
dossava:
Non fu senza sue lodi il puro, e schietto
Serico abito nero.
Che come il sol luce minor confonde,
Fece ivi ogn'altro rimaner negletto.
Deh, se lece, il pensiero
Vostro spiar, de l'implicate fronde
De le due viti, d'onde
11 leggiadro vestir tutto era ombroso,
Ditemi il senso ascoso.
Si ben con l'ago dotta man le finse,
Che le porpore, e Toro il nero vinse.
Senza misterio non fu già trapunto
Il drappo nero, come
Non senza ancor fu quel gemmato alloro
Tra la serena fronte, e il calle assunto,
Che de le ricche chiome
In parte ugual va dividendo l'oro (1).
(1) Opere cit., IV, p. 155.
332 ABD-EI.-KADER SALZA
Le viti hanno senso amoroso: l'Alessandra vestiva forse il lutto
del marito morto, quindi abito nero; e v'eran su trapunte le viti
intrecciate, in sapiente ricamo, a indicar i vincoli matrimoniali
forse, che per lei resistevano al di là della morte. Ma la do-
manda un po' indiscreta dell'Ariosto fa vedere in lui il grato
sospetto che la donna a lui pensasse intrecciando leviti sull'abito;
allora, non più il marito morto, ma l'Alessandra e il poeta. E
vogliasi notare la novità della poesia; v'è qui del reale non poco:
il luogo e le persone hanno una loro vita, e le circostanze son
tutte proprie del tempo. Quest'Alessandra cosi curante del sim-
bolico ornamento de' suoi abiti è certo una donna del Cinque-
cento, e questo poeta, che di quell'ornamento si studia di inter-
pretare il senso recondito, è certo un innamorato di quel secolo.
Le gentildonne d'allora parlavano cosi ai loro innamorati e
corteggiatori ; e vai la pena di ricordare quel che di un' altra
gentildonna, la bellissima Ippolita Fioramonda marchesana di
Scaldasele (1), pavese, ci narra il Giovio, in quel suo garbato
dialogo delle Imprese (2). Di lei s'era innamorato un cavaliere
francese, ed essa, con civettuola eleganza, portava spesso un
abito di raso celeste, e sopra sparsevi, in ricamo, farfalle d'oro.
(1) Sarà curioso rilevare che questa dama è certamente quella Ippolita
marchesa di Scaldasele, della quale il Bandelle dice che « usava ogni giorno
« bere un gran bicchiere di pesto di cappone, per mantener morbide e belle
€ le carni ». Questo pesto, per chi se ne interessasse, era « brodo di cappone
« consumato, con le polpe ben peste e distemperate con zucchero fino e cin-
« namomo polverizzato mescolato insieme » (Bandello, iVb»«/fe,nov. XXXIV,
voi. I, p. 370, Torino, Pomba, 1853). Su Ippolita, che era figlia d'Ettore Fio-
ramonti, vedi Litta, Famiglie^ voi. IX: Famiglia Malaspina, tav. XX. Questa
gentildonna tenne a Pavia un'accademia, per la quale cfr. Vittorio Osimo,
Costanzo Laudi gentiluomo e letterato piacentino del sec XV/(in Ateneo
veneto, anno XXIII (1900) voi. II, p. 246). — Quanto poi all'uso delle imprese
sulle vesti muliebri, si ricordi che nella seconda metà del '500, 0. B. Strozzi
fece dei versi (e non sono i soli del genere) per quelle trapuntate e rica-
mate sulla veste che a Bianca Cappello donò Caterina Strozzi nei Frescobaldi.
(Cfr. A. S. Barbi, Un accademico mecenate e potta: G, B. Strozzi il giovane,
Firenze, Sansoni, 1900, p. 74).
(2) Dialogo delle imprese, Milano, Antonii, 1559, e. 5 6, donde la tolse il
Le Moyne, De l'art des devises, Paris, Cramoisy, 1666, p. 81 sg.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 333
Il cavaliere le chiese il senso delKorna mento simbolico, e la donna
gli fece capire che era un avvertimento ai giovani perchè non
le si avvicinassero troppo, che farebbero la fine delle farfalle al
fuoco : superba gentildonna, e consapevole della potente sua bel-
lezza. Tuttavia il cavaliere continuò a corteggiarla e quando alla
battaglia di Pavia fu ferito a morte, portato in città e precisa-
mente nella casa della Marchesana, come un nuovo Rudel, « lasciò
« lo spirito estremo suo nelle braccia della sua cara (come di-
« ceva) signora, et padrona ».
Ma torniamo all'Ariosto, ed entriamo nel vario e mirabile
mondo del suo poema. Procediamo fino alla giostra di Damasco
ed avremo opportunità di vedere dei bei colpi e delle belle divise.
Ecco partir dall'Egitto il buon Grifone, il cavaliere leale, dalle
armi e dalle sopravvesti e dal cavallo bianco, come di bianco va
vestita la fata che lo ha allevato. Dall'Egitto egli traversa la
Siria, perchè ha speranza di ritrovar la sposa, la « perfida Orri-
« gille ». L'Ariosto ci descrive il suo dolore, mostrandocelo ancora
invaghito della moglie infedele:
Pianger de' quel che già sia fatto servo
Di duo begli occhi e d'una bella treccia,
Sotto cui si nasconda un cor protervo
Che poco puro abbia con molta feccia.
Vorria il raiser fuggire, e come cervo
Ferito, ovunque va, porta la freccia (1) :
Ha di sé stesso e del suo mal vergogna.
Né l'osa dire, e invan sanarsi agogna
(XVI, 3).
Il cervo, da cui trae la similitudine l'Ariosto, indicò già fin
dagli antichi l'ardore amoroso: è un'allegoria biblica. Il Win-
(1) Dal cervo trasse similitudine amorosa il Petrarca, nel son. I dolci colli,
paragonando sé stesso dardeggiato da amore al cervo trapassato da saetta
avvelenata.
OiornaU storico, XXXVIII, fase. 114. 22
334 AHD-EL-KADER SALZA
ckelmann (1) cita il Salmista : Sicut cervus desiderai ad fonies
aquarurrty e ricorda che anche il Correggio, nel suo celebre
quadro degli amplessi di Giove ed Io, rappresentò, simbolo dei
piaceri amorosi, il cervo che si disseta ad un ruscello. Ma, ad
indicare un amore insanabile, si compose talora l'impresa di un
cervo accosciato con una ferita al fianco, e dentro la freccia;
poi gli si poneva in bocca un ramoscello di dittamo per guarirsi.
Una impresa di tal disegno ha il motto spagnuolo: Esio tiene
su remedio, y non yo. È nella raccolta di Gabriele Symeoni, che
la spiega col tetrastico:
Trova il cervio ferito al suo gran male
Nel dittamo Greteo fido ricorso.
Ma lasso (io '1 so) remedio né soccorso
All'amoroso colpo alcun non vale (2).
Che corrisponde a quel d'Ovidio:
Hei mihi quod nullis amor est medicabilis herbis! (3).
Cosi potrebbe appunto dire l'infelice Grifone. La fortuna, o meglio
la sfortuna, lo fa incontrare con Orrigille, che, accompagnata dal
drudo Martano, è diretta a Damasco, dove il cavalleresco re No-
randino (il re saraceno nel quale l'Ariosto ha a modo suo tra-
vestito il protagonista AeWOdissea alle prese con Polifemo) (4), a
festeggiare la liberazione sua e della sposa, ha bandito una giostra
con ricchi premi a cavalieri di ogni religione. E la superba Or-
rigille vi si reca con Martano:
(1) WiNCKELMANN, Saggio sull'allegoria, p. 512 (in Opere, Prato, Gia-
chetti, 1831, t. VII). Del cervo, se non proprio per questa significazione, si
occupa Girolamo Ruscelli nelle sue Imprese illustri (edizione maggiore,
Venezia, Francesco Franceschi, 1584), a proposito della impresa di Lucrezia
Gonzaga, con riferimento opportuno al Petrarca.
(2) Symboni, Imprese versificate, Lione, 1561, p. 33.
(3) Stmeoni, Imprese heroiche e morali, Lione, 1559, p. 53.
(4) Gfr. Rajna, Le fonti dell'Orlando Furioso^, pp. 282 sg.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO >> 335
il cavalier venia
S'un gran destrier con molta pompa ornato:
La perfida Orrigille in compagnia,
In un vestire azzur d'oro fregiato,
I due valletti, d'onde si servia
A portar elmo e scudo, avea a lato,
Come quel che volea con bella mostra
Comparire in Damasco ad una giostra
(XVI, 7).
Qui i colori dell'altezza d'animo {azzurro) e della nobiltà {oro)
sono assunti a inganno; e Orrigille inganna il credulo Grifone
sull'essere di Martano, e insieme uniti procedono fino a Damasco:
Giunsero in piazza e trassonsi in disparte,
Né pel campo curar far di sé mostra.
Per veder meglio il bel popol di Marte
Ch'ad uno, o a due, o a tre veniano in giostra;
Chi, con colori accompagnati ad arte.
Letizia o doglia alla sua donna mostra;
Chi nel cimier, chi nel dipinto scudo
Disegna Amor, se Vha benigno o crudo.
(XVII, 72).
In questi ultimi quattro versi si accenna alle divise e alle im-
prese, usate anche da questi cavalieri della Siria, perchè, come
ci dice l'Ariosto (st. 73), i Soriani in quel tempo si armavano
alla foggia di Ponente, forse per la vicinanza dei Francesi. E
ripiglia più oltre :
Io dicea ch'in Soria si tenea il rito
D'armarsi che i Franceschi aveano allora;
Si che bella in Damasco era la piazza
Di gente armata d'elmo e di corazza (st. 80).
Le donne gittan fiori dai balconi, ai cavalieri, che, in superba e
smagliante cavalcata, passano fra il suono degli oricalchi.
Si sa come Grifone vien tradito da Martano e da Orrigille, che,
336 ABD-EL-KADER SALZA
avendo avuto la palma del torneo, resta poi scornato e vilipeso,
finché non si scopre l'inganno di quelli ed essi ne vengon pu-
niti. Son premio al vincitore certe splendido armi trovate presso
Damasco: son proprio quelle di Marfisa, che, sopraggiunta con
Astolfo e Sansonetto, va in furia e se le toglie, suscitando prima
un tumulto e poi degnandosi di far valere le proprie ragioni
avanti a Norandino:
Mie sono l'arme
E la mia insegna testimon ne fia
Che qui si vede, se notizia n'hai:
E la mostrò nella corazza impressa,
Ch'era in più parti una corona fessa
(XVUI, 128).
E di diritto le armi le vengon restituite: le sue insegne, benché
il suo valore fosse noto in tutta Asia, non erano cosi conosciute
come i famosi quartieri bianchi e rossi di Orlando.
Alle insegne infatti e alla divisa si riconoscono i cavalieri.
Astolfo, dopo l'uccisione di Orrilo, è riconosciuto dai tìgli di Oli-
viero « alle insegne e più al ferir gagliardo »; egli era noto in
Corte col titolo di « baron dal pardo », il leopardo, la fiera dalle
rotelle, indizio delle voglie variabili dello spensierato paladino (1)
(XV, 75). Grifone stesso e Aquilante son conosciuti perchè il
primo veste sempre e tutto di bianco (2), e il secondo di nero,
come le fate che li educarono.
Due belle donne onestamente ornate,
L'una vestita a bianco e l'altra a nero
(XV, 72).
E quando Mariano vuol usurpare a Grifone l'onore della giostra
di Damasco,
(1) Confronta anche Furioso, XXXIX, 32; ma 8Ì ricordi che il leopardo
d'oro era nello stemma d'Inghilterra.
(2) Confronta per Grifone XVII, 111, e per tutti e due i guerrieri, XXXI,
40, ecc.
IMPRESE E DIVISE D'ARME E D'AMORE NEL « FURIOSO » 337
ToUe il destrier più candido che latte,
Scudo e cimiero ed arme e sopravveste,
E tutte di Grifon l'insegne veste
(XVII, HO).
Zerbino, il gentile e prode principe scozzese, è riconosciuto dai
suoi fidi che recano prigione Odorico traditore suo e d'Isabella,
specialmente dalle insegne:
Ma più che nello scudo il segno antico .
Vider dipinto di sua stirpe altera
(XXIV, 18).
E alle insegne e alle sopravvesti Rodomonte e Mandricardo, duel-
lanti per gelosia, son riconosciuti dal messaggio inviato loro da
Agra mante per richiamarli al campo sotto Parigi (XXIV, 119).
Spesso avvenivan dispute tra cavalieri, che avessero per caso
le medesime insegne e imprese: ne troviamo un esempio nel Cin-
quecento stesso, e ci è narrato da Luca Contile (1). Nell'Ariosto
abbiamo due episodi importanti dipendenti da questa ragione. È
a memoria il bell'episodio deWOrlando^ dove Rinaldo uccide il
giovine e troppo ardito Dardinello (XVIII, 147-153): #
Vide Rinaldo il segno del quartiero
Di che superbo era il figliuol d'Almonte;
E lo stimò gagliardo e buon guerriero
Che concorrer d'insegna ardia col Conte
(XVIII, 147).
E aggredisce senz'altro Dardinello, cui furono allora fatali le
paterne insegne;
Grida: Fanciullo, gran briga ti diede
Chi ti lasciò di questo scudo erede.
Vengo a te per provar, se tu m'attendi.
Come ben guardi il quartier rosso e bianco;
Che s'ora contro me non lo difendi,
(1) In una delle sue Lettere dalla Germania, che ora non posso riscontrare.
338 ABD-EL-KADER SALZA
Difender centra Orlando il potrai manco.
Rispose Dardinello: Or chiaro apprendi
Che, s'io lo porto, il so difender anco;
E guadagnar più onor che briga posso
Del paterno quartier candido e rosso
(st. 148-149).
Troppo audace, che al primo colpo furioso di Rinaldo egli cade,
fra il terrore de' suoi, e parve fiore purpureo, che, divelto dal
vomere, « languendo muore > (st. 153). E quando alla notte Glo-
ridano e Medoro vanno a cercare il cadavere del figlio di Ai-
monte, la narrazione si fa anche più pietosa. La notte è nuvolosa
e l'astro è off'uscato; Medoro prega la dea che voglia apparire
un istante e svelare il luogo dove giace il giovinetto re. E la
luna appare, quasi commossa alla preghiei-a.
Bella come fu allor ch'ella sofferse
E nuda in braccio a Endimion si diede
(XVlll, 185);
e illumina largamente all'intorno il campo funesto, sparso di ca-
da wri :
Rifulse lo splendor molto più chiaro
Ove d'Almonte giacca morto il figlio.
Medoro andò piangendo al signor caro
Che conobbe il quartier bianco e vermiglio;
E tutto il viso gli bagnò d'amaro
Pianto (st. 186).
La poesia è qui altissima: Medoro, bellissimo, compie l'atto pie
toso, di che gli dei gli serbano in mercede l'amore di Angelica
E tra la luce candida, che la luna dà alla scena lugubre, son
quasi visibili i quartieri bianchi e rossi del figlio d'Almonte
muove da Dardinello una larga onda di poesia sublime, nell'Or
landò Furioso,
Un altro duello, per simile ragione, accade tra Ruggero e Man
dricardo, ed è anche questo tragico, benché l'autore non v'abbia
IMPRESE E DIVISE D'ARME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 339
diffuso quel senso elegiaco, che è nel precedente episodio. La
lite tra 1 due guerrieri saraceni si attacca in quel viaggio così
comicamente arguto, che fanno con Marflsa e Rodomonte, per
andare ad aiutar Agramante: ed è con essi la Discordia, che
suscita tra loro continue inimicizie per impedirne l'andata.
Mandricardo ne vien da un' altra banda
E mette in campo un' altra lite ancora,
Poiché vede Rugger che per insegna
Porta l'augel che sopra gli altri regna.
Nel campo azzur l'aquila bianca avea,
Che de' Trojan! fu l'insegna bella ;
Perchè Rugger l'origine traea
Dal fortissimo Ettor, portava quella.
Ma questo Mandricardo non sapea,
Né vuol sapere, e grande ingiuria appella,
Che nello scudo un altro debba porre
L'aquila bianca del famoso Ettorre (1)
(XXVI, 98-99).
Già un' altra volta avevan litigato per questa insegna di Rug-
gero, che nel colore azzurro indicava l'elevatezza dell'animo suo,
e sé paragonava all'aquila dall'alto volo; ed ora ci ritornano per
questa concorrenza. Ma si rappacificano ancora; finché più tardi
riprendono il duello, che deve riuscir fatale a Mandricardo
(canto XXX); si aggiunge allora la disputa per Durindana. In-
darno la bella Doralice, che s'è sbarazzata di Rodomonte, ed
ama riamata Mandricardo (né l'amore è platonico), indarno, pre-
Ci) L'Ariosto ci ricorda come mai Mandricardo aveva la stessa insegna :
Portava Mandricardo similmente
L'augel che rapì in Ida Ganimede.
Come l'ebbe quel dì che fu vincente
Al Castel periglioso, per mercede,
Credo vi sia con l'altre istorie a mente,
E come quella fata gli lo diede
Con tutte le beli' arme che Vulcano
Avea già date al cavalier trojano.
(XXVI, 100).
340 ABD-EL-KADER SALZA
saga di ciò che accadrà, supplica l'amante di lasciare andar la
pugna (XXX, 31 sgg.); Mandricardo non sente ragione. A un
tratto, nella lotta, Mandricardo taglia pel mezzo lo scudo di Rug-
gero, ov'è l'aquila bianca, e poi gitta via il proprio, in preda
all'ira. E Ruggero gli dice che egli non è degno di quell'insegna,
se la taglia e la gitta (XXX, 60-61). Vince l'amante di Brada-
mante, e, mentre Mandricardo muore, tutti si rallegrano col vin-
citore: con lui se ne va tutta la gente, e indovinate chi avrebbe
fatto lo stesso, se non l'avesse trattenuta il decoro? Doralice
stessa, dice l'autore maligno. Ruggero era bello e prode ed
Ella, per quel che già ne siamo esperti,
Sì facile era a variar pensiero
Che per non si veder priva d'amore,
Avria potuto in Rugger porre il cuore.
(XXX, 72).
« Io dico forse, non ch'io ve l'accerti », avverte però subito dopo
il poeta; e noi rispettiamo il lutto di Doralice, tanto più che l'au-
tore non ce ne dice altro in séguito.
Parecchi colori ci son già passati dinanzi, in questi episodi,
onde Siam venuti variando la narrazione nostra ; altri ne passe-
remo in rassegna adesso; e cominciamo dai più nobili.
Oro e argento {i) ha nella divisa quell'Ottone di Villafranca,
che troviamo nel secondo dei Cinque canti staccati dell'Ariosto.
Egli è un longobardo, che vien fatto prigioniero da Baldovino
fratello uterino d'Orlando. Ha lasciata sola nel castello la sposa
bella e casta, di cui s'invaghisce Penticone figlio di Desiderio.
Per mezzo di lui i Franchi penetrano in Italia, avendo cono-
scenza della via da un vecchio cacciatore devoto di Ottone e
che vuol sottrarne la moglie alle basse insistenze del principe
longobardo :
(1) Pel color oro e argento nell'Ariosto, vedi Ri\ai.i>i. ce. 28 e 31.
IMPRESE E DIVISE D'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 341
Era il suo nome Otton di Villafranca,
Di lucid'arme, e ricche vesti adorno,
Che la fida moglier, nomata Bianca,
In ricamar avea speso alcun giorno.
La destra parte era oro, era la manca
Argento, ed anco avean dentro, e d'intorno
Quella d'argento e questa in nodi d'oro
Le note incomincianti i nomi loro.
(st. 59).
Divisa d'amore adunque, e questa fedele Bianca, che compone
di sua mano la veste al marito, unendovi i colori dell'onore
(oro) (1) e della candidezza (argento) (2), è certo una donna del
tempo. Ella, partito il marito, rimane sola al castello, ad atten-
derne con ansia amorosa il ritorno. E indossa abiti che si adat-
tino alla malinconia sua, e usa una foggia «negletta». Solo
quando vuol meglio ingannar Penticone, gli si mostra allegra e
si finge condiscendente: allora soltanto
Ritrova i panni allegri^ e il crine, e '1 volto
Quanto più sa, per più piacer rassetta
(st. 83).
Il bianco è il colore della lealtà, della fede, oltre che del can-
dore dell'animo. Sa bene Zerbino che cosa costi serbar fede ad
una megera come Gabrina, eppure gliela mantiene per la pro-
messa fatta a Marfisa, anche a costo di danneggiar qualche in-
nocente. È questo il dovere del vero cavaliere, né egli se ne
allontana punto, perchè in nulla vuol macchiare la sua fama di
cavaliere leale:
Né fune intorto crederò che stringa
Soma COSI, né cosi legno chiodo,
Come la fé*, ch'una bell'alma cinga
Del suo tenace indissolubil nodo.
(1) Vedi il sonetto del Rinaldi citato addietro; e vedi il Sicillo.
(2) Confronta le interpretazioni, da noi riferite, del Sicillo.
342 A^D-EL-KADER SALZA
Né dagli antiqui par che si dipinga
La santa Fé' vestita in altro modo
Che d'un vel bianco che la cuopra tutta ;
Ch'un sol punto, un sol neo la può far brutta
(XXI, 1) (1).
Il bigio 0 berrettino è colore di perfidia e slealtà, tutto Top-
posto del bianco. Anima malfida e ipocrita, se ne veste, nei
Cinque canti, Gano, quando, reduce dal pellegrinaggio a Geru-
salemme dove è stato per pretesto, a sollevar nel viaggio gli
Ungari contro Carlo che assedia Praga, torna al campo francese,
co' suoi compagni :
Umilmente senza oro, e senza gemme,
Ma di panni vestito grossi e bigi
(e. II. 133).
E qualche altro esempio di questo colore ci tornerà acconcio
riferire più oltre.
Vedemmo che Vazzurro, il nobile colore, il simbolo dell'altezza
di cuore e di mente, era adoperato da Ruggero (2). Esso è usato
anche da Carlo, quando guida i suoi alla battaglia sotto Praga:
L'imperador di drappo azzurro adorno
Tutto trapunto a fior di gigli gialli
Reggeva il mezzo
(Cinque canti^ V, 10).
(1) Il lettore si sarà già avveduto che io non mi riferisco quasi mai agli
scrittori anteriori al '500; quantunque in Dante e nel Petrarca ci sarebbe
non poco da spigolare in materia di colori. Qui tuttavia voglio richiamare
la narrazione dantesca dell'apparizione di Beatrice :
Sovra candido vel, cinta d'oliva.
Donna m'apparve, sotto verdt manto
Vestita del color di fiamma riva,
dove i tre colori sono bensì quelli del vessillo italiano, ma per Dante sim-
boleggiavano, secondo me, le tre virtù teologali : Fede (bianco). Speranza
(verde) e Carità (rosso) : e l'olivo è la Pace, in che l'uomo si acquieta col-
i'aiuto delle tre virtù. Dei tre colori, usati dal Magnifico in una impresa, il
Botticelli vestì la sua Pallade. Cfr. E. Ridolpi in Arch. sior. d. arte. Vili, p. 3.
(2) Cfr. Rinaldi, c. 15 a.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 343
Nerazzurro campeggiano gli aurei gigli, insegna del dominio
francese.
Il hianco e il vermìglio son colori propri i alle donzelle e ne
troviamo largo uso nel Furioso, con parecchie altre insegne per
le giovani innamorate dell'Ariosto. Il veì^miglio è 11 colore della
verecondia; e la fanciulla è simile alla rosa modesta nel nativo
giardino. Ruggero, che è un ardito amatore, quando Astolfo sfata
il secondo castello del mago Atlante, ritrovata la sua Bradamante,
non sa frenar l'impeto del suo cuore:
Ruggero abbraccia la sua donna bella,
Che più che rosa ne divien vermiglia;
E poi di su la bocca i primi fiori
Cogliendo vien de' suoi beati amori.
(XXII, 32).
Ma non tutte le donne del Furioso son pudiche come la vi-
gorosa figlia di Montalbano; e quante, per quest'una, donne che
non diventan vermiglie, no, per baci ricevuti! (1). Abbiam veduto
in quel figurino simbolico di moda femminile offertoci dal Sicillo,
come alle giovani, e in genere alle donne, egli consigliasse l'a-
bito bianco, simbolo di castità; e alcuni esempi abbiam riferiti
più addietro. L'amata di Ariodante, la bella Ginevra di Scozia,
andava
con veste candida e fregiata
Per mezzo a liste d'oro e d'ogn'intorno,
E con rete pur d'or tutta adombrata
(1) Non saprei che cosa il poeta volesse significare con la sopravvesta di
Sansonetto :
... un cavalier che sopravveste
Vermiglie avea di bianchi fior conteste
(XXII, 62 e 64).
Cosi egli veste, quando va a combatter contro Ruggero, essendo costretto a
difender Pinabello: forse indica la vergogna che egli ha, di combattere per
lo sleale maganzese.
344 ABD-EL-KADER SALZA
Di bei fiocchi vermigli al capo intorno
(Foggia che sol fu da Ginevra usata.
Né d'alcun' altra)
(V. 47).
L'oro è il segno della nobiltà ; i fiocchi vermigli che le recingono
la fronte sono simbolo del pudore virginale. Questa foggia di
Ginevra indossa Dalinda , seguendo gì' infami consigli di Poli-
nesso, che vuol ingannare Ariodante. Quasi allo stesso modo veste
Fiordilìgi,
Che di sciàmito bianco la gonnella
Fregiata intorno avea d'aurata lista,
quand'è dogliosa per la lontananza di Brandimarte suo (XXXI,
38). E, come pei guerrieri, cosi anche per le donne, l'abito che
esse indossano è testimone del core. Bradamante credendosi ab-
bandonata e poi tradita da Ruggero per Marfisa, parte da casa
e si fa una sopravvesta adatta allo strazio del suo cuore. E
proprio lei incontra Fiordiligi, che va in cerca di un cavaliere
che vendichi il suo Brandimarte contro Rodomonte, quando trova
Che sopravvesta avea ricca ed ornata,
A tronchi di cipressi ricamata
(XXXI, 78).
Questa è quasi un'impresa: più innanzi l'Ariosto ci dice, che
Bradamante, desiderosa di non sopravvivere all'amor di Ruggero,
tosto una divisa
Si fé' su l'arme che volea inferire
Disperazione e voglia di morire (1).
Era la sopravveste del colore
In che riman la foglia che s'imbianca
Quando dal ramo è tolta, o che l'umore
(1) Cfr. Rinaldi, c. 9.
IMPRESE E DIVISE D*ARME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 345
Che facea vivo l'arbore le manca.
Ricamata a tronconi era, di fuore,
Di cipresso che mai non si rinfranca
Poi c'ha sentito la dura bipenne;
L'abito al suo dolor molto convenne
(XXXll, 46-47).
Il cipresso, albero funerale, indica, nei tronconi sfrondati e non
più rigermoglianti, il desio di morire; la foglia ingiallita è quella
che ha perduto il suo verde: non più la speranza ha fior del
verde. — Più contenta ell'era Bradamante quando tornò a casa,
liberata dal castello di Atlante. Non potendo raggiunger poi Rug-
gero, che ella credeva a Vallombrosa, ove doveva celebrare il
rito cristiano, essendo ella costretta a fermarsi a Montalbano,
pensa di mandargli il buon destriero Frontino, ch'ella aveva
seco fin da quando Ruggero aveva inforcato l'arcione dell'Ippo-
grifo; e lasciate lancia e spada, prende invece l'ago:
Ogni sua donna tosto, ogni donzella
Pon seco in opra, e con sottil lavoro
Fa sopra seta candida e morella
Tesser ricamo di finissim' oro :
E di quel cuopre ed orna briglia e sella
Del buon destrier
(XXllI, 23) (1).
Il bianco è la castità dell'amor suo, il morello indica, ci dice il
Rinaldi nel suo sonetto, «salda voglia in amore»: amor saldo
e casto adunque vuol Bradamante indicare all'amato. Ma il de-
striero capita poi in mano di Rodomonte. A proposito ancora di
Bradamante, è nota la leggiadra e ardita novella (argomento che
la letteratura del Cinquecento rimaneggiò in commedie (2)) di
Fiordispina, figlia di Marsilio, innamorata di Bradamante da lei
(1) Gfr. Rinaldi, ce. 18 6 e 24 b.
(2) Gfr. Rajna, p. 368 sg.
346 ABD-EL -RADER SALZA
credula uomo, e poi di Ricciardetto, che, somigliante come ge-
mello a Bradamante sua sorella, può sostituirlesi presso Fiordi-
spina, e godere dell'amor suo, passando per donna agli occhi degli
Spagnuoli. Quando Bradamante parte da Fiordispina, questa,
addolorata, le vuol fare almeno un dono:
La genti) donna un ottimo ginetto
In don da lei vuol che partendo toglia,
Guernito d'oro ed una sopravvesta
Che riccamente ha di sua man contesta
(XXV, 45).
Ma qui il poeta non si cura di descriverci la sopravvesta.
Un'altra dolorosa, ma più facilmente contentabile poi, è Dora-
lice, la figlia di re Stordilano, quando si fa il duello tra Man-
dricardo e Rodomonte. All'agone si raccolgono regine, principesse
e dame del campo di Agramante,
Tra quai di Stordilan sedea la figlia,
Che di duo drappi avea le ricche gonne:
L'un d'un rosso mal tinto, e l'altro verde,
Ma '1 primo quasi imbianca e il color perde (1).
(XXVII, 51).
Il morto affetto per Rodomonte, e il nuovo amore pieno di spe-
ranza, per Mandricardo,
che più fiate e più di piatto
Con lei fu mentre il sol stava sotterra
(st. 106),
son cosi da lei simboleggiati: perchè la civettuola aveva già
amato Rodomonte; e vedemmo che nemmeno a Mandricardo era
disposta a serbar lunga fede.
Tra queste donzelle è ben giusto che noi ricordiamo la più
(1) Cfp. Rinaldi, c. 14 a.
IMPRESE E DIVISE D'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 347
ardita e simpatica guerriera deirAriosto, la sorella di Ruggero,
la bella e proterva Marfisa. Essa ha quasi sempre per sua im-
presa la fenice, il favoloso uccello dalla vita rinnovantesi all'in-
finito (1). Cosi ella è incontrata da Ruggero, che con Ricciardetto
e Aldigieri dei Ghiaromonte va a liberare Malagigi e Viviano
caduti nelle mani dei Maganzesi:
E giunger quivi (sul sentiero) un cavalier mirare,
Gh'avea d'oro fregiata l'armatura,
E per insegna in campo verde il raro
E bello augel che più d'un secol dura
(XXV, 97).
E altrove il poeta ci dice di lei.
Che portava l'augel che si rinnova
E sempre unico al mondo si ritrova (2)
(XXVI, 3).
Quando Marfisa si presenta a lottare con Bradamante, ingiusta-
mente gelosa di lei, ha ancora la Fenice:
E sopra l'elmo una Fenice porta
(XXXVI, 17).
Qui il poeta ci spiega quel che poteva significare per la guer-
riera quell'impresa:
0 sia per sua superbia dinotando
Se stessa unica al mondo in esser forte,
0 pur sua casta intenzion lodando
Di viver sempre mai senza consorte
(XXXVl, 18).
(1) Non mi curo, né sarebbe qui il luogo, di ricercare le fonti di queste
« imprese > animalesche. Ogni bestiario ci fornisce testimonianze ben certe.
Per la fenice cito, perchè l'ho sotto mano, Hermann Varnhagen, Die
Quellen der Bestidr- Ahschnitte im « Fiore di virtù » (nella Raccolta di
studi critici dedicata ad Alessandro D'Ancona, Firenze, Barbèra, 1901,
p. 533 sgg.).
(2) Cfr. Rinaldi, c. 49 a.
348 ABD-EL-KADER SALZA
In questa lotta, che la gelosia fomenta, Bradaraante ha la lancia
fatata, che per fortuna la difende dai colpi terribili della biz-
zarra e bella saracena. Si sa che finalmente, nella battaglia che
Mori e Cristiani combattono, Bradamante incontra Ruggero suo:
Lo riconosce all'aquila d'argento
Ch'ha nello scudo azzurro il giovinetto.
(XXXVI, 31).
Il pensare che altra ne abbia l'amore l'accende d'ira, ma poi,
venuta a lotta, non sa drizzar contro di lui colpi dannosi, e lo
mette in guardia, come fa egli stesso: pietoso duello, dove la
gelosia cerca invano di uccider l'amore. Ma col finir della bat-
taglia cessano le pene di Bradamante, perchè con una miracolosa
agnizione la prode Marfisa viene a riconoscersi sorella di Rug-
gero (XXXVI, 59 sgg.). Per mostrare la diffusione dell'impresa
di Marfisa nel '500, si ricordi che la Fenice era l'impresa del
celebre editore Giolito (1), e del card. Madruzzi, < gran Cardinal
« di Trento e Principe d'Imperio », come lo dice il Contile (2),
e gran mecenate, com'era celebrato nel suo secolo. Sappiamo che,
col motto Unica semper avis, l'usò « Madame Alienor d'Autriche
« Royne douairière de Franco» (3); e in Italia ancora la por-
tarono Giorgio Costa conte della Trinità (4), e madama Bona di
Savoia, che, col motto Sola facta solum deum sequor, indicava
la sua religiosa vedovanza (5).
Torniamo ai singoli colori, per parlare del rosso (6). Ardore
(1) Lodovico Domenichi, Dialogo delle imprese^ Milano, 1569, e. 6 a, e
Ruscelli, Imprese illustri^ p. 137 sgg.
(2) Ragionamento delle imprese cit., e. 37 a.
(3) Claude Paradin, Devises héroiques, Lion, M D LVII, p. 89.
(4) Ruscelli Girolamo, Imprese illustri, p. 220 sgg.
(5) Symeoni, Imprese versificate^ Lione, 1561, p. 14. Circa settanta imprese
con la feoice in Menestrier, La philosophie des images^ voi. II (Devises
des princes etc), Paris, De la Gaillc, 1683, pp. 190-208 e 354-363, e M. A. Gì-
NANNI, L'arte del blasone^ Venezia, Zerletti, 1756, p. 231, e Colombière,
Science héro'ique^ p. 363 sg.
(6) Per alcuni esempi addotti in séguito, vedi Rinaldi, e. 13.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 349
di carità esso significa nell'episodio di Astolfo e S. Giovanni
Evangelista. Questi è un vecchio venerando, che ha qualcosa
del Catone dantesco:
Che '1 manto ha rosso, bianca la gonnella,
Che l'un può al latte, e l'altra al minio opporre,
I crini ha bianchi, e bianca la mascella
Di folta barba ch'ai petto discorre;
Ed è si venerabile nel viso
Ch'un degli eletti par del paradiso.
(XXXIV, 54).
S. Giovanni, quando vuol menar Astolfo nel cielo della Luna
per ricuperare il senno d'Orlando, aggioga al carro
Quattro destrier vie più che fiamma rossi
(id., 69).
Distruzione e furore il rosso indica in altro luogo: lo scudo
d'Atlante è
Tutto coperto di seta vermiglia. *
(IV, 17) (1).
E dal color rosso possiam togliere occasione a parlare di due
episodi allegorici dell'Orlando Furioso. Dopo che Orlando è libe-
rato dalla passione per Angelica, Rinaldo resta invaghito ancora
della bella e volubile principessa asiatica. ì^è la sua condizione è
meno ridicola di quella già del cugino. Questi aveva avuto a sua
disposizione Angelica in Asia e una goffa, per quanto cavalle-
resca, timidezza l'aveva trattenuto, né mai Angelica l'aveva amato ;
ma Rinaldo, amato follemente da lei per magia, l'aveva disprez-
zata e odiata e l'amava ora che essa lo aveva in odio. Quando
da Malagigi viene a sapere di chi essa è, non ne impazzisce già,
e forse solo pel soccorso straordinario che gli dà il cugino mago.
Lo assale furibonda la gelosia:
(1) E cfr. canto Vili, 11.
Giornale storico, XXXVIII, fase. 114.
350 ABD-EL-KADER SALZA
Miirocchi in capo avea senza palpebre;
Non può serrarli e non crede che dorma:
Non men che gli occhi avea l'orecchie crebre ecc.
(XLII, 47).
Essa lo tormenta a tal segno, che egli ne finirebbe male;
Ma lo soccorse a tempo un cavaliero
Di bello armato e lucido metallo.
Che porta un giogo rotto per cimiero:
Di rosse fiamme ha pien lo scudo giallo;
Così trapunto il suo vestire altiero.
Cosi la sopravvesta del cavallo:
La lancia è in pugno e la spada al suo loco
E la mazza all'arcion che getta fuoco
(id., 53).
Con queste armi straordinarie il cavaliere abbatte il mostro, da
cui Rinaldo non sapeva liberarsi; e poi che gli ha fatto bere
l'acqua dell'odio, svela il proprio nome (il lettore l'ha già detto),
che è lo Sdegno, Lo sdegno vince la gelosia, e quando questa è
spenta, non è più luogo all'amore, anzi al sentimento opposto.
Il rotto giogo indica l'amore spezzato; i colori rosso e giallo sono
appunto il simbolo dell'ira.
Ad una più ampia significazione allegorica ci conduce l'episodio
di Alcina; ma noi non vogliamo dirne tutta l'allegoria, che è del
resto conosciuta. Tuttavia lo studio dei colori, in questo passo
del poema, può servire ad illustrarlo meglio. Quando Ruggero è
in lotta ineguale con lo « stuol villano >, che impedisce il pas-
saggio al regno di Logistilla (tutta la laida e turpe famiglia dei
vizi), si presentano a lui, cioè lo distolgono dall'ardua, ma ono-
rata impresa, due belle giovani, la Beltà e la Leggiadria, come
lo stesso poeta lascia intendere:
Due giovani ch'ai gesti ed al vestire
Non eran da stimar nate umilmente.
Né da pastor nutrite con disagi,
Ma fra delizie di real palagi.
IMPRESE E DIVISE D'aRME E d'aMORE NEL € FURIOSO » 351
L'una e l'altra sedea s'un liocorno
Candido più che candido armellino,
L'una e l'altra era bella e di sì adorno
Abito e modo tanto pellegrino,
Che all'uom, guardando e contemplando intorno.
Bisognerebbe aver occhio divino
Per far di lor giudizio: e tal sar'ia
Beltà (s'avesse corpo) e Leggiadria
(VI, 68-69;.
Il liocorno, secondo ci dice il Rinaldi (1), indica amor casto e
sincero, ed era reputato animale amante delle vergini: qui s'in-
tende che il simbolo è falsamente assunto dalle due giovani che
voglion sedurre Ruggero. Sulla soglia e sotto il colonnato del
palazzo d'Alcina, fra lo scintillio dell'oro e dei diamanti, onde
quello è tutto folgorante, vanno scherzando, incuranti della mu-
liebre modestia, che le abbellirebbe di più, « lascive donzelle »:
Tutte vestite eran di verdi gonne
E coronate di frondi novelle
(VI, 72) (2).
Esse sono il simbolo della giovinezza incauta e spensierata, pro-
clive al piacere, e tutta lieta di lusinghiere speranze : e v'è
nel loro aspetto promessa di lunghi e soavi dilettamenti. Ma il
piacere è caro: il palazzo d'Alcina è il palazzo della ricchezza
e dei godimenti che essa può comperare, e Ruggero deve vincere
Erifllla, la quale, a chi è chiaro il « lume del discorso », come
dice il poeta, rappresenta l'avarizia:
(1) Opera cit., e. 58 a. E vedi il liocorno assunto ad impresa da Ruggero
sulla fine deìV Orlando. Il costume del liocorno di amare le vergini gli è
attribuito nei bestiari, benché in alcun luogo lo si interpreti come intem-
peranza, anziché come gentilezza. Cfr. Varnhagen, p. 535. Nel '500 si ebbe
un Discorso dell'alicorno di Andrea Bacci, nel quale si tratta della na-
tura delValicorno e delle sue virtù eccellentissime^ Firenze, 1573. V. anche
Devarennes, Le roy d'armes^ p. 151 sg. Il liocorno è ai piedi di Santa
Giustina, nel famoso dipinto di Aless. Bonvicino detto il Moretto, nella Gal-
leria Imper. di Vienna (v. la riprod. in Ardi. star. d. arte, V, p. 14).
(2) Cfr. Rinaldi, ce. 6 b-1 a.
352 ABD-EL-KADER SALZA
Queirera armata del più fin metallo
Chavean di più color gemme distinto;
Rubin vermiglio, crisolito giallo,
Verde smeraldo, con flavo jacinto.
(VII, 3).
Cavalcava un lupo, simbolo, da Dante, dell'avarizia:
La sopravvesta di color di sabbia
Su Tarme avea la maledetta lue,
(id., 4).
a indicare l'aridità, la grettezza,
Ed avea nello scudo e nel cimiero
Una gonfiata e venenosa botta (1).
(id., 5).
Vinta Tavarizia, Ruggero può entrar nel palazzo del piacere;
nella sala d'Alcina, dopo il banchetto, si fa un giuoco che noi
conosciamo già, il giuoco dei segreti, per mezzo del quale Alcina
e Ruggero si manifestano il loro amore:
Tolte che fur le mense e le vivande,
Facean, sedendo in cerchio, un giuoco lieto,
Che nell'orecchio l'un l'altro dimande.
Come più piace lor, qualche secreto;
Il che agli amanti fu comodo grande
Di scoprir l'amor lor senza divieto;
E furon lor conclusioni estreme
Di ritrovarsi quella notte insieme
(VII, 21).
Abbiam veduto alcune imprese e divise di donzelle, nell'Ariosto;
veniamo ora a quelle dei cavalieri. Nel quinto dei Cinque canti
(1) Anche la « botta», il rospo, simboleggia l'avarizia, per quel che nei
bestiari si registra, che esso si ciba di sola terra, e non si toglie mai la
fame, per timore che la terra gli abbia a mancare. Cfr. Varnhaoen,
pp. 524 sg. Il rospo è in una silografia d'una stampa d'Orvieto del 1583,
presso una donna che raffigura l'avarizia. Cfr. D. Tordi in BoUett. della
R. Deput. di Storia patria per V Umbria, VII, 255.
IMPRESE E DIVISE D'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 353
(st. 46), nella battaglia che si combatte tra Orlando e Rinaldo,
in séguito ai raggiri di Gano, Rinaldo, che si vede a torto per-
seguitato da Carlo, ritrae nella sopravveste il suo pensiero:
Rinaldo, (che) quel dì molto era adorno
D'un ricco drappo di color cilestro
Sparso di pecchie d'or d'entro e d'intorno,
Che scacciate parean dal natio loco
Da l'ingrato villan con fumo e foco.
È un' impresa che vedremo ancora più oltre: Rinaldo vi rappre-
senta sé (ape aurea) molestato ingratamente da Carlo, nonostante
il suo puro ed elevato intendimento.
Orlando è noto per la sua divisa a quartieri bianchi e rossi;
ma più volte la depone, quando vuol viaggiare incognito. Cosi
allorché, nei Cinque canti, vuol liberare sua cugina Bradamante,
che sa prigioniera di Gano (e, pur conoscendo che costui ha
usato malizia, sa che Carlo gli ha dato pieni poteri), per non
farsi riconoscer da nessuno e non parer contrario a Carlo, as-
sale la squadra di Gano con armi mutate:
Né Brigliador, né Valentino prese.
Perchè troppo ambi conosciuti furo,
Ma di pel bigio un gran corsiero ascese,
Gh'avea il capo, e le gambe, e '1 crine oscuro.
Lasciò il quartiere, e l'altro usato arnese
E tutto si vesti d'un color puro
(III, 82).
E non si fa conoscere neppure dalla liberata Bradamante. Il
bigio cavallo simboleggia il mistero ond'egli si circonda; il color
puro (candido probabilmente) della veste indica la sua buona
intenzione, la sua lealtà contrapposta alla malizia di Gano. Nella
battaglia poi, che combatte con Rinaldo, ha questa divisa, che
è la solita con impresa diversa:
Bianca e vermiglia avea la sopravveste,
Ma di ricamo d'or tutta contesta.
354 ABD-EL-KADER SALZA
Ne l'un quartiere, e l'altro la figura
D'un rilevato scoglio avea ritratta.
Che sembra dal mar cinto, e che non cura,
Che sempre il vento, e l'onda lo combatta
(V, 48-49).
Questa impresa d'Orlando è a noi nota d'altronde, ed è legata
al nome gentile di 'Vittoria Colonna. Anch'ella aveva per impresa
gli scogli che rompono i flutti onde sono assaliti, col motto Co-
nantia frangere frangunt. Il Symeoni vi compose questo suo
tetrastico:
Come scoglio percosso in mezzo l'onde
Che l'onde istesse da sé sbatte et spezza.
Cos'i salda virtiì discaccia et sprezza
Tutte opre et voglie illecite et immonde (1).
Quando Orlando, dopo il sogno, onde gli è parsa Angelica in pe-
ricolo, abbandona Carlo, nel momento che ha più bisogno di lui,
per andare al soccorso della donna, per non esser conosciuto e
perchè non gliene derivi biasimo dì vigliacco, non prende le
note insegne sue,
l'onorata insegna del quartiero
Distinta di color bianchi e vermigli.
Ma portar volse un ornamento nero,
E forse a ciò ch'ai suo dolor simigli :
E quello avea già tolto a un Amostante
Ch'uccise di sua man pochi anni innante.
(Vili, 85).
Cosi « vestito a negro » (IX, 2), concie vuole il suo dolore,
Avendo in dosso l'abito arabesco,
(IX, 5)
(1) Symeoni, Imprese versificate, Lione, 1561, p. 118. Un'altra impresa
della Colonna, di simbolo uguale, fu il ginepro che rigido oppone i suoi irti
rami alla impetuosa raffica. Vedi il suo Cantoniere^ son. CXIIl:
Qael b«l ginepro cai dMotorno cinge.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'aMORE NEL « FURIOSO » 355
può correre tutto il campo saraceno, alla ricerca di Angelica,
senza soffrir danno. Ancora, nel passo che citeremo, si nota la
corrispondenza tra lo stato psichico di Orlando e la sua divisa.
Dopo la strage che egli fa, sotto le false insegne, di due squadre
d'Agramante, uno scudiero moro, richiesto della sopravveste del
misterioso cavaliere, risponde:
Quella è tutta nera,
Lo scudo nero, e non ha alcun cimiero.
E fu, signor, la sua risposta vera.
Perchè lasciato Orlando avea il quartiero:
Che come dentro Tanimo era in doglia
Cosi imbrunir di fuor volse la spoglia.
(XIV, 33) (1).
Quando poi impazzisce, gitta via tutte le armi e fa a pezzi la
sopravveste: tutto è trovato da Zerbino e dall'amorosa Isabella,
che vanno in cerca di lui, cui debbon tanto:
Trovò (Zerbino), ma in pezzi, ancor la sopravvesta,
Ch'in cento lochi il miser conte sparse
(XXIV, 50).
Mandricardo, che approfittando della pazzia d'Orlando, s'è presa
Durindana, spiega a Gradasso che la vuole, che egli l'ha vinta
con sudore a Orlando; e insulta il paladino, che, secondo lui, s'è
finto pazzo per paura:
E dicea ch'imitato avea il Castore,
Il qual si strappa i genitali sui.
Vedendosi alle spalle il cacciatore.
Che sa che non ricerca altro da lui
(XXVII, 57).
Ci si lasci ricordare che il castoro fu assunto come impresa, né
Sìppiamo perchè, da Paolo Giovio, che tante imprese migliori
(1) Cfr. anche XIV, 38.
356 ABD-EL-KADER SALZA
aveva fatte ad altri, per se medesimo, col motto greco ANAFKI
(necessitas) (1).
Un altro animale, la fiera più superba, assunse con bella im-
presa Rodomonte, a indicar sé, il leone, vinto e domato dalla
bellezza di Doralice:
Nella bandiera, ch'è tutta vermìglia,
Rodomonte di Sarza il leon spiega,
Che la feroce bocca, ad una briglia.
Che gli pon la sua donna, aprir non ni^a:
Al leon sé medesimo assomiglia,
E per la donna che lo frena e lega.
La bella Doralice ha figurata,
Figlia di Stordilan re di Granata
(XIV, 114).
Ma la bella spagnuola è volubile, e il fiero Rodomonte dovrà
presto mutar l'ardente color vermiglio nel doloroso nero (2).
Ed eccoci al simbolo del lutto. Qualche secolo più tardi, Vit-
torio Alfieri, dopo aver trattato il vitalizio con la sorella, assu-
mendo per sempre gli abiti neri, scriveva:
Negri panni, che sete ognor di lutto,
0 vero 0 finto, appo ad ogn*altri insegna,
lo per sempre vi assumo oggi che degna
Libertà vera ho compra al fin del tutto (3).
Ma FAlfieri amava spesso andar contro l'uso generale. — Nel-
(1) Symeoni, Imprese versificate, p. 126, e Winckelmann, Saggio sulVnl-
legoria cit., p. 317. Gfr. anche Rinaldi, c. 41 h. Anche pel castoro soccorre
la tradizione dei bestiari', vedi ancora Varnhagen, p. 520.
(2) Non ci tratteniamo a parlare di tutte le insegne che l'Ariosto dà ai
suoi guerrieri, nella rassegna dell'esercito saraceno (canto XIV), e in quella
dell'esercito d'Inghilterra (X, 77-89): poco c'importano, perchè i guerrieri
che le hanno non sono a noi noti per episodi speciali del poema: e poco
quindi ci direbbe il simbolo delle loro insegne.
(3) ViTT. Alfieri, Prose e poesie scelte, ed. Giovanni Mestica, Milano,
Hoepli, 1898, p. 246 sg.
IMPRESE E DIVISE d'ARME E d'AMORE NEL « FURIOSO > 357
l'Ariosto il nero è invece sempre simbolo di dolore e di morte.
Di nero Isabella, la soave, ha ammantato il feretro del suo Zer-
bino ucciso da Mandricardo; e cosi la vede venir Rodomonte,
che per lei si riconcilia, ma invano, col sesso più gentile:
Vide venir per mezzo un prato erboso,
Che d'un piccol sentiero era segnato.
Una donzella di viso amoroso
In compagnia d'un monaco barbato;
E si traeano dietro un gran destriero
Sotto una soma coperta di nero
(XXVIII, 95).
Di nero si veste Ariodante, quando
Con non usate insegne e sconosciute
(V, 77),
va a difender Ginevra contro il proprio fratello Lurcanio. Egli,
quand'ebbe deciso di farsi uccidere per mano di Lurcanio, ca-
gionando cosi anche la morte di Ginevra (che avrebbe avuto il
dolore di veder lui amante tradito venuto a morte in sua difesa).
Nuove arme ritrovò, nuovo cavallo;
E sopravveste nere, e scudo nero
Portò fregiato a color verdegiallo
(VI, 13).
Univa cosi il simbolo delle sue cadute speranze (verdegiallo) a
quello del suo immenso dolore.
E di nero veste Olimpia, l'eroina del dramma di Bireno, quando
Orlando l'incontra per la prima volta e le promette di vendicarla
contro il re Gimosco, quello dall'infernale ordigno (fucile):
Una donna trovò piena di lutto.
Per quanto il viso ne facea segnale,
E i negri panni che coprian per tutto
E le logge e le camere e le sale
(IX, 21).
358 ABD-EL-KADER SALZA
Ella fa lutto del padre e dei fratelli, che le furono uccisi dal
crudele re di Frisa (1).
Anche quella trista befana di Gabrina apparo a Marfìsa vestita
in « negra gonna »,
Che stanca e lassa era di lunga via.
Ma vieppiù afflitta di malinconia
(XX, 106).
Eppure meglio le sta quell'abito di dolore, che non la ricca e
ornata vesta della donzella « vezzosa » e « mal usa », compagna
di Pinabello di Magonza, e che la bizzarra Marfìsa le fa indos-
sare, rendendola simile ad una bertuccia vestita a muover riso (2).
Anche nei cavalli il colore è insegna dei sentimenti del cava-
liero. No abbiam già veduto uno bigio; un cavallo quasi tutto
nero indica la tristezza di Guidon Selvaggio, lo schiavo dfeUe
donne autocrate:
Quel (Guidone) venne in piazza «opra un gran destriero
Che fuor ch'in fronte e nel pie dietro manco,
Era, più che mai corbo, oscuro e nero:
Nel pie e nel capo avea alcun pelo bianco.
Del color del cavallo il cavaliero
Vestito, volea dir che, come manco
Dell'oscuro era il bianco, era altrettanto
11 riso in lui verso l'oscuro pianto
(XIX, 79) (3).
(1) E cosi al e. XIV, st. 7, l'Ariosto ricorda, parlando delle gesta d'Alfonso
d'Este, i « rammarichi » e le < angosce »
Oh' in veste bruna e lacrimosa guancia
Le vedovelle fan per latta Francia.
(2) Anche Ermonide d'Olanda, una vittima di Gabrina, che lo fa uccidere
da Zerbino,
Per insegna ha nello scodo nero
Attraversata nna vermiglia banda
(XXI, 5).
(3) Il « cavalier bruno » (st. 93), il < cavalier dal nero » (st. 95) sono i
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 359
Indica l'indole di Marfisa il cavallo, che essa ha avuto in dono
da Norandino, e sul quale giunge coi Paladini di Francia a La-
jazzo, dove dominano le donne e si trova Guidon Selvaggio:
Entrò Marfisa s'un destrier leardo,
Tutto spareo di macchie e di rotelle,
Di piccol capo e d'animoso sguardo.
D'andar superbo e di fattezze belle
(XIX, 77).
Grande sfoggio di color nero fa l'Ariosto per la luttuosa ten-
zone di Lampedusa, intorno a Brandimarte che vi doveva lasciar
la vita:
Pel dì della battaglia ogni guerriero
Studia aver ricco e nuovo abito indosso.
Orlando ricamar fa nel quartiero
L'alto Babel dal fulmine percosso,
Un can d'argento aver vuole Oliviero (1)
Che griccia e che la lassa abbia sul dosso,
Con un motto che dica: Finche vegna:
E vuol d'oro la vesta e di sé degna
(XLI, 30).
Il simbolo è qui facile: Orlando dimostra sé colpito dal castigo
di Dio e solo per misericordia di lui risollevato; Oliviero indica
fedeltà e candidezza d'animo. Brandimarte invece volle esser
vestito di nero, per lutto del padre; e le divise gli ricamò la sua
Fiordiligi; ma v'è nell'invenzione del poeta il presentimento della
morte di lui, tanto che ci dice che Fiordiligi, nel lavorar la di-
visa e dopo, non potè più far segno di riso e d'allegrezza del
nomi che gli dà l'Ariosto. Ricompare Guidone a duellare alla pari con Ri-
naldo nel canto XXXI, ed è
Con scudo e soprawesta tutta nera
Se non che per traverso ha un fregio bianco
(8t. 8).
(1) Cfr. Rinaldi, c. 31 b e pel color d'argento e. 31.
360 ABD-EL-KADER SALZA
volto (st. 31-32) (1). Oh come ella dovrà ricordare i baci e gli
abbracci ultimi! Un triste sogno le fa preveder la sciagura, il di
prima della morte dello sposo:
La notte che precesse questo giorno
Fiordiligi sognò che quella vesta
Che per mandarne Brandimarte adomo,
Avea trapunta e di sua man contesta,
Vedea per mezzo sparsa e d'ogn'intorno
Di goccie rosse, a guisa di tempesta:
Parea che di sua man così l'avesse
Ricamata ella e poi se ne dolesse
(XLIII, 155).
E nei sogno non sapeva spiegarsi perchè non l'avesse ricamata
tutta nera, secondo il desiderio di Brandimarte:
Di questo segno fe'giudicio rio
(st. 156).
I funerali di Brandimarte si fanno da Orlando presso Agrigento.
Non so se è stalo osservato che Orlando nel suo lamento:
0 forte, 0 caro, o mio fedel compagno ecc.
(id., 170)
ricorda da presso Achille dolorante sul morto Patroclo. La bara
ò portata da conti e cavalieri :
Purpurea seta la copria, che d'oro
E di gran perle avea compassi altieri:
Di non men bello e signoril lavoro
Avean gemmati e splendidi origlieri;
E giacca quivi il cavalier con vesta
Di color pare e d'un lavor contesta
(8t. 176).
(1) Già la buona Fiordiligi aveva indossato vestiti neri, quando, avendo
saputo che Brandimarte era prigione di Rodomonte in Algeri, ne era andata
in cerca (XXXIX, 38).
IMPRESE E DIVISE d'aRME E d'aMORE NEL « FURIOSO » 361
Il corteo è di uomini vestiti a bruno con lunghi abiti,
E i cavalli coi paggi ivano il suolo
Radendo col loro abito di duolo
(st. 177) (1).
Seguono e precedono bandiere e insegne guadagnate dall'eroe
morto, e scudi da lui tolti ai vinti guerrieri. La sventurata Fior-
diligi fece alzare il sepolcro
E nel sepolcro fé' fare una cella
E vi si chiuse e fé' sua vita in quella
(st. 183).
Né visse più molto.
Ad una impresa senza nero ricorre Ruggero alla fine del poema,
quando, disperando di sposar Bradamante, va a guerreggiar contro
Leone (2). Prende le armi già di Ettore, da lui tolte a Mandri-
cardo, e Frontino:
E cimier muta, scudo e sopravveste.
A questa impresa non gli piacque torre
L'aquila bianca nel color celeste.
Ma un candido liocorno come giglio
Vuol nello scudo e '1 campo abbia vermiglio
(XLIV, 77) (3).
Con la quale impresa voleva certo il disperato amatore dimostrar
la purezza e l'ardore del suo affetto.
Il poema si chiude con quella solenne sinfonia, in cui è cozzar
di spade e lancie e fragore di scudi percossi. Quasi la lena del
poeta non sia stanca per tanta e si mirabile fioritura di stanze
e guerresche e amorose, egli ci fa sentire ancora la poesia sua
(1) Per questi esempì di color nero in segno luttuoso, cfr. Rinaldi, ce. 19&-20.
(2) Non saprei che cosa voglia inferire l'impresa del nipote di Costantino,
che aveva nella veste vermiglia ricamata una pannocchia che pareva di
miglio (XLIV, 86).
(3) Cfr. anche st. 96, e e. XLVI, 26.
362 ABD-EL-KADER SALZA
altissima in un episodio meraviglioso per verità e vigoria di de-
scrizione; è la lotta più umana che noi vediamo neWOrlando:
Rodomonte e Ruggero, e quegli è
Tutto coperto egli e '1 destrier di nero
Di gran persona e di sembiante altero
(XLVI, 101).
Il nero egli porta dacché ha uccisa la sua seconda amata, la
dolorosa Isabella; e non possiamo non riconoscere che il poeta
ha dato al furibondo Rodomonte dei tratti di profonda umanità,
che non ce lo fanno odiare. Il poema delle armi e degli amori
si chiude solennemente con fragor d'armi, pur nella festa gio-
conda delle nozze.
Ben è tempo che noi concludiamo questa nostra chiacchierata,
che avrà già annoiato i lettori. — Tanto era comune l'uso delle
imprese e del linguaggio simbolico, che l'Ariosto ne volle far
qualcuna per sé medesimo. Lodovico Dolce ce ne tiene parola
nel suo trattato dei colori (1). Parlando egli della biscia, dice che
« significherebbe malignità, alludendo a quel proverbio, che non
«si dee nudrire il serpe, né la biscia in seno. Onde l'Ariosto
« essendo nella prima editione del suo Furioso stato morso dalla
« invidia de' detrattori, e dipoi col tempo havendo la verità come
« tagliata la lingua a que' maligni, conoscendosi il suo poema
€ raro et excellente, nella seconda editione levò questa impresa :
« che fece stampar nella fine del libro due biscie, all'una delle
« quali era stata tagliata la lingua, e all'altra, che gonfiata di
« veleno la vibrava, si mostrava di sopra una mano con una for-
« bica in atto di tagliarla anco a lei, con un motto che diceva :
« Dilexisti malitiam super malignilatem. Che fu non meno bella
« impresa di quell'altra, che pose nella prima sua editione subito
« nella prima carta, che fu un alveo di api, le quali dall'ingrato
(1) Edizione citata, e. 50.
IMPRESE E DIVISE d'aRME E D'AMORE NEL « FURIOSO » 363
« villano erano fatte fuggire col fuoco, quelle procacciando d'uc-
« cidere, quantunque esse avessero prodotto il mele, ponendovi
« il motto Pro bono maluìn ». Questa seconda impresa, secondo
Gabriello Symeoni (1), non fu fatta dall'Ariosto, ma dal Giovio,
a indicare come il poeta fosse stato mal compensato delle sue
fatiche : ci par più probabile che TAutore stesso se la componesse.
Il card. Ippolito d'Este aveva pur chiesto dove l'Ariosto avesse
trovato tante corbellerie da farne un poema! E il poeta se ne
vendicava bonariamente con quel suo Pro hono malum, usando
la stessa figura delle api, che nei Cinque canti diede a Rinaldo
a torto perseguitato da Carlo Magno.
Purché anche a noi, si parva magnis..., non tocchi pronun-
ziar lo stesso motto, se, pur desiderando di far qualcosa di utile,
non fossimo riusciti che a tediare chi avrà avuto la pazienza di
scorrere queste pagine !
Abd-el-kader Salza.
(1) Symeoni, Imprese versificate, Lione, 1561, p. 129. E a proposito di
queste imprese assunte dall'Ariosto, le notizie del Dolce corrispondono in
parte al vero. Le richiama, e le dice poste in due medaglie coniate per
l'Ariosto, il Mazzuchelli, Scrittori d'Italia^ I, P. II, p. 1069, citando il po-
ligrafo veneziano. L'alveare è nellediz. 1516, col motto nei quattro angoli
sul verso della seconda carta (cfr. Melzi-Tosi, Bibliografia dei romanzi
di cavalleria in versi e in prosa italiani ecc., Milano, Daelli, 1865, p. 23).
Nella ediz. del 1521 l'impresa è entro un fregio nero che circonda il titolo
sul frontespizio: una mazza e una scure vincolate da un serpente col motto
in rosso Pro bono malum nei quattro angoli (Op. cit., p. 25). — Nell'edi-
zione 1532 in alcuni esemplari in luogo del motto v' è un intaglio : una
lupa che allatta un lupicino {Op. cit., p. 36). E il secondo motto riferito
dal Dolce? Io non posso riscontrare le citate edizioni deW Orlando.
VARIETÀ
L'ALFIERI
)«
L' ACCADEMIA,, DI CASA GAVARD
I.
È noto agli studiosi della vita e delle opere di Vittorio Alfieri
che , tra i manoscritti della Palatina di Firenze, ce n* è uno,
quello segnato col n« CGGXII (1), il quale è tutto di mano sua,
e contiene varie rime, di lui e d'altri parecchi, ch'egli stesso
non dubita di chiamar « pessime », come appare dal titolo ap-
postovi: « Raccolta I di pessime poesie, composte parte | all'im-
«provviso, parte con poca | riflessione, e meno ingegno | dai
« Poeti dell'Accademia | finora innominata | e degna di non | mai
« nominarsi ». Di codesto manoscritto tuttavia pochissimi han
parlato. Le prime notizie n'ha date, e congetture vi ricamò
sopra il Palermo (2); ne riparlò sulle tracce di lui il Reumont (3);
Io accennò in una nota di passaggio il Teza (4), che quelle con-
getture mostra di avere accolte; e cosi dicasi del Fabris (5). Ne
(1) Ant. segn. E. 5. 8. 1. B: «Vittorio Alfieri, Raccolta di rime sue
4 e di altri^ fatte nelle conversazioni di casa Qavard in Firenze » (L. Gin*
TILE, / codici Palatini ecc., 1, 526).
(2) / manoscritti Palatini di Firenze ecc., I, 523-4.
(3) Die Qrdfin von Albany, Berlin, 1860, l, 364-5; II, 338-40.
(4) Vita Giornali Lettere di V. A. ecc., Firenze, Le Monnier, 1861, p. xix.
(5) G. A. Fabris, ^^m^i alfieriani, Firenze, Paggi, 1895, p. 60 n.
VARIETÀ 365
discorse poi un po' più a lungo il Renier (1), oppugnando le
conclusioni del Palermo con argomentazioni acute, ma senza
venirne a una conclusione definitiva: probabilmente perché, trat-
tando d'altra materia, non ebbe agio di approfondire da sé la
questione; ed anche è presumibile che non istimasse degno di
lungo studio il contenuto, un po' basso per verità e scevro d'ogni
valore letterario, del manoscritto medesimo.
Ma — si obbietterà — se tale è il contenuto di quelle carte,
a che prò tornar sopra un argomento, che potrebbe gettar luce
non bella sul poeta e sull'uomo?
Rispondo subito che è ben lontano da me il pensiero di tórre
splendore alla figura del grande Astigiano. Tornando sopra la
non per anco risoluta questione, intendo anzi dimostrare (come
certamente col Renier desidera ogni amatore delle patrie lettere)
che quei convegni di casa Gavard si riferiscono appunto al
tempo della prima dimora dell'Alfieri in Firenze (2). Sarà cosi
tolta alla maturità del Tragico la poco decorosa taccia d'aver
prestato, ne' tardi anni suoi, alla poca decenza di quelle adunanze
il suo concorso e l'ufficio della sua penna.
Ed anche per un'altra ragione può dirsi non inutile lo studio
di quel manoscritto ; perché, cioè, esso illustra un periodo poco
noto della vita dell'Alfieri, e, insieme, rappresenta l'ultimo stadio
di quei primi tentativi letterarii pieni di tentennamenti e di dub-
biezze, quando il futuro Tragico ondeggiava ancora tra il desi-
derio della gloria e la vanitosa nullaggine degli anni giovanili.
Di quel primo periodo — che va dal gennaio del 1775 (3) fino
alla seconda metà dell'ottobre 1777 — sono, com'è noto, la
Cleopatraccia e la farsa / Poeti; sono le Colascionate e le rime
amorose, le satire e le novelle : e, insomma, tutte le Sconciature
(1) Il Misogallo, le Satire e gli Epigrammi^ Firenze, Sansoni, 1884,
pp. LXIV-LXIX.
(2) Mantengo per ora questa designazione non del tutto esatta, salvo a
meglio determinarla più oltre.
(3) <c Primo sonetto dopo lasciata la scuola » : Ho vinto alfin. — È cer-
tamente del gennaio, benché il Teza se ne mostri dubbioso. 11 Teza non ha
posto mente che il ms. 3 delle carte Laurenziane porta la correzione Gen-
naio sopra la parola Febbraio depennata; né potrebb'essere altrimenti, poiché
la lettera del P. Paciaudi, che ivi vien subito appresso, reca la data : « L'ul-
1 timo di Genaio (sic) 1775 ». — Si potrebbe risalire, del resto, fino ai primi
abbozzi scenici schiccherati al capezzale della signora^ nel primo fascico-
letto del ms. Laur. medesimo.
Giornale storico, XXXVUI, fase. 114. 2à
366 E. PIAZZA
tragiche e liriche (1) del ms. Laurenziano n** 3; oltre ai Gior-
nali pubblicati dal Teza. — Ora, \q pessime poesie della cosi detta
Accademia di casa Gavard (il perché di quel così detta apparirà
più oltre) chiudono quel primo periodo; anzi, col loro brusco
interrompersi , ci mostrano che un qualche rilevantissimo fatto
d'un subito sopravvenne a troncarle per sempre.
iMa è tempo di esporre ordinatamente la questione, rilevando
i termini fondamentali e precisi della controversia.
Il Palermo, nel voi. I de' suoi Manosctnili Palatini (2), pall-
iando dell'autografo alfieriano, dice:
« Siamo stati assicurati da una vecchia signora Gavard,
«vivente tutt'ora, che solea quivi il conte Alfieri trattenersi
«alcun' ora della serata. In qual epoca poi non ha saputo ricor-
« darsi. Ma nella Palatina è una copia del Petrarca, stampata
« in Firenze dal Passeri nel 1748, sulla cui guardia l'Alfieri ha
« scritto di propria mano «Carolina Gavard »; e più sotto questi
«due versi, col millesimo 1799: « Di puro amor alto maestro
« è questi, — caro il serba, e rimembra onde l'avesti ». Sicché
« non par dubbio che la famigliarità co' Gavard è degli ultimi
« anni d'Alfieri, dal 1792 in qua, che si stabili in Firenze, e vi
« rimase fino alla morte. E difatti vedesi bene ch'egli, nello scri-
« vere questi balocchi, era già in fama di sommo Tragico ». E
cita a questo proposito il sonetto deìV Anonimo, che fu ripub-
blicato dal Renier (3), e nel ms. è intestato cosi: Primo sonetto
d'un Anonimo \ Contro i pessimi poetastri della nuova \ Acca-
demia eretta in casa \ Gavard, dal dì cui num£ro si vuole \
eccettuare il Torinese Tragico \ Poeta (4). — « Anonimo » —
soirgiunge il Palermo — « che non può essere se non Alfieri
« medesimo; il quale a carte 23 (5), sotto un Sonettino dell'abate
«Gavard, si firma: «Alfieri segretario». Imperocché, come ab-
« biamo accennato, scrivevano tutti della brigata, e Alfieri
(1) Vedi NovATi, Penelope, in Domenica letter., 1882, n*' 29, e L'Alfieri
a Cèzannes, in Fanfulla della dom., 1880, n» 37; Fabris, Op. cit., p. 46,
e Primi scritti in prosa di V. A., Firenze, Sansoni, 1899.
(2) Firenze, 1853, p. 523.
(3) Op. cit., Prefaz., p. lxvii.
(4) Cod. Pai. CGGXII, a e. 15 (numeraz. a penna).
(5) Moderna num. a penna, e. 24.
VARIETÀ 367
« registrava ogni cosa, ancorché fosser rime peggio che puerili.
« E noi crediamo facesse ciò per la gran voglia che avea d'im-
« possessarsi della lingua parlata in Toscana ... — È notevole
« poi che il sonetto surriferito, a incominciar dalle rime, è tes-
« suto in gran parte colle stesse parole di un sonetto, famoso
« in Firenze nella prima metà del secolo XVIII, contro un tal
« Padre Ricca ... ».
Or, da quanto si vede, ci si presentano qui due questioni: l'una,
del tempo a cui è da riferire quella famigliarità dell'Alfieri coi
Gavard; l'altra, della paternità di quel primo sonetto d'un Ano-
nimo. Quanto alla prima, il Palermo si pensa d'averla risoluta,
attribuendo quella relazione e la Raccolta agli ultimi anni di lui.
Quanto alla seconda poi, senza fondamento veruno, asserisce che
\Anonim,o non può essere altri che l'Alfieri, perché a e. 23
egli si firma come segretario ! il che quanto sia persuasivo può
vedere ognuno che ragioni con la testa propria. — Il Reumont,
il Teza, il Fabris, accolgono a occhi chiusi le conclusioni del
Palermo; ma il Renier, più guardingo, mentre pur non contesta
recisamente l'affermazione di lui, par che provi come un' invin-
cibile ripugnanza, quanto alla data di quei convegni, a prestarvi
fede; e acutamente poi scopre il lato debole della seconda ar-
gomentazione, traendone partito per impugnare la paternità del
sonetto attribuita dal Palermo all'Alfieri. E fondandosi sulla poca
verisimiglianza che questi s'imbragasse, ormai inoltrato negli
anni, in un circolo poco pulito, e, più ancora, che tollerasse
un' insolente risposta del Niccolini, eh' è uno della brigata, con-
clude: «Io per me lascio la questione in sospeso, dichiarando
« di non aver voluto inserire nel mio testo il sonetto sovra ci-
« tato, perchè non credo assolutamente esservi sufficienti indizi
« per attribuirlo all'Alfieri. Il convegno di casa Gavard e la parte
« presavi dall'Alfieri si spiegherebbero solo se si potesse dimostrare
« che esso ebbe luogo durante la prima dimora dell'Alfieri in
« Firenze » (1).
Certo, una nuova indagine che conduca a risultati definitivi può
iniziarsi soltanto col riprendere attentamente in esame il ms.
Palatino GGGXII. Ma intanto, è da vedere quale fondamento ab-
biano gli argomenti del Palermo quanto alla questione princi-
(1) Op. Cit., pp. I.XTIII-LXIX.
368 E. PIAZZA
pale, che è quella della data della Raccolta. Cotesti argomenti
son due: primo, quella data, recata da lui in campo, del Petrarca
donato a Carolina Gavard nel 1799; secondo, la persuasione
che da una frettolosa lettura il Bibliotecario della Palatina s'era
fatta, che l'Alfieri « nello scrivere quei balocchi era già in fama
«di sommo Tragico». Orbene; non è difficile dimostrare come
l'uno e l'altro di cotesti argomenti siano piuttosto speciosi che
solidi.
Incominciamo dal primo.
Dice il Palermo: «... non par dubbio che la famigliarità coi
« Gavard è degli ultimi anni d'Alfieri, dal 1792 in qua, ecc. ».
Ora, che le relazioni (quali che fossero) con la Carolina, e in
generale coi Gavard, sussistessero in quegli anni, è un fatto cho
non si può assolutamente mettere in dubbio. Se non bastasse
quella data del 1799, una riprova se n'avrebbe anche da altri
documenti. Tra le varie persone invitate a' ricevimenti di casa
Gianfigliazzi in Firenze, rappresentandovisi il Saul, il BnUo
primo e il Filippo, troviamo infatti, in mezzo a molti altri nomi
più cospicui e più noti (1), anche quelli di Giuseppe Gavard e
di Maddalena e Carolina Gavard\ e noi sappiamo che quelle
recite, incominciate in casa privata nella primavera del 1793,
si protrassero poi per tutto l'anno 1794 e parte del '95 (2). Nel '99
dunque, la relazione coi Gavard non solo sussisteva, anzi era
vecchia di quattro o cinque anni almeno. Ma la certezza di
questo fatto esclude forse la possibilità che quella relazione risa-
lisse a molto più indietro ancora ? Forse che un ricordo, donato
da un uomo sui cinquant' anni a una donna, poniamo, di qua-
ranta, con la quale egli ha famigliarità da cinque anni all'incirca,
esclude, umanamente e psicologicamente, che codest' uomo possa
averla conosciuta e vagheggiata ragazza, per esempio, a dicias-
sette 0 diciotto? 0 forse è ciò men verisimile se un tal uomo è
l'Alfieri? quel cosi tenace amatore, che, dopo l'atroce inganno
di Lady Ligonier, al solo rivederla dopo vent'anni, « ancora
« bellissima » (3), ne riman tutto rimescolato, e la guarda tacito,
(1) Ne ha dato un elenco in questo Giornale il Mazzatinti, Le carte al-
fieriane di Montpellier, voi. 3, 52, e 9, 71-2.
(2) Vedi Vtto, p. 281; Annali, «1794 Firenze» e < 1795 Firenze », ibid.,
p. 363 (ed. Teza); Mazzatinti cit., Giorn., 9, 71.
(3) Alfieri, Vita, Ep. IV, cap. XXI.
VARIETÀ 369
tremante, e pende dagli ancora ardenti occhi di lei ? (1). Non
rescinde. Nel '94 poteva la Gavard avere trentaquattro q trenta-
cinque anni, ed essere ella ancora bellissima, o tale da ridestar
nel cuore del poeta le faville d'una fiamma che risalisse a
molti anni più in là. Una obbiezione pertanto che argomentasse,
a cagion d'esempio, « dunque, se la conoscenza è del '99, o del '95,
« non può il manoscritto riferirsi se non agli anni dopo il 1792 »,
non ha assolutamente, per noi, alcun solido fondamento.
Resta la seconda argomentazione, la quale certo non par senza
peso : che cioè l'Alfieri era allora « già in fama di sommo Tra-
« gico ». Ma anche qui convien mettere in primo luogo le cose
al loro posto. E, anzitutto : risulta proprio dal sonetto deir^no-
nimo che l'Alfieri fosse già allora in fama di sommo Tragico?
— Vediamo. L'ultima terzina del sonetto, eccola qui:
Quello però che al vivo più mi tocca
È che Alfieri a' lor versi non si secca;
0 non è desso, o è Ercol con la rocca.
Ora, se non si voglian torcere queste parole a dir più che non
dicano, qui si ha solo un rimpianto che l'Alfieri, uomo a ogni
modo di maggior levatura che quegli Accademici, e che anche
nel '76 aveva già dato segno di voler diventare qualcuno, e aveva
in tasca il suo patrimonieito di tre o quattro (2) tragèdie, si
perdesse in que' passatempi poco degni di lui. — Ma, e l'inte-
stazione del sonetto? L'intestazione dice soltanto: « dal di
« cui numero si vuole eccettuare il Torinese Tragico Poeta ».
Ora, lasciamo stare il « Torinese », eh' è già un indizio di per
sé, un contrassegno personale falso, direi quasi, per un Alfieri
di dopo il 1792(3); ma ecco che esula intanto quell'epiteto di
sommo, il quale non è altro che un'aggiunta del Critico preve-
(1) Vedi Tappassionato sonetto delle Rime:
Ahi vista! eli' è colei che al cor mi porse
L'esca primiera, ond'io tutto avvampava
Or quattro lustri; e quand'io lei lasciava,
fiestai gran tempo di mia vita in forse.
Fiso la miro; e tacito, tremante
Dai be' negri occhi ancora ardenti io pendo... ecc.
P. n, Son. XIX (Pisa, Capurro, 1819).
(2) Quattro con la Cleopatra.
(3) Quando da più anni fieramente si proclamava per le stampe Vittorio
Alfieri da Asti.
370 E. PIAZZA
nulo. — Se non che potrebbe altri obbiettare ancora : — È però
vero che dell'Alfieri con parole di alta lode si parla spiattella-
tamente altrove nel codice. — Verissimo; anche troppo spiattel-
latamente; sentite:
Meschini! e perchè tanto audaci siete
Di gareggiar con il più illustre vate
Che sotto il Tosco ciel brillar vedete
Cognito dall'Arno fin all'Eufrate (1).
È la prima quartina d'un « Sonetto del sig. Enrico Gavard ».
Ma chi può credere che l'intonazione della lode sia seria? Evi-
dentemente, qui si tratta d'una canzonatura: tanto più se si
guardi all'ultima terzina, che si volge a sceda plateale. Al sonetto
l'Alfieri risponde con Vottavina:
ler sera lessi il parto tuo sconcissimo (2),
che termina con una rima non bella; la sola, m'affretto a dirlo,
a cui egli si lasci andare. Ma Enrico con assai poco rispetto
ripicchia :
Dal basso tuo rimar più franco reso
Spiegoti il mio pensier, che tenni ascoso:
Stupisco in ver che un Tragico si perda
In nominar ne' versi suoi
E seguita quindi con evidente ironia:
Dov'è lo spirto tuo, l'alto pensiere
Che ti rese illustre un di? ah non conosco
Alfieri più! scambiò il sentiere
Della bella gloria; e nel cupo bosco
Dove Mida suol mesto risiedere,
Volto l'orme sue, . . . (3) ecc.
Dai quali peggio che zoppicanti versacci apparisce senz'altro,
che anche qui fu troppo frettoloso il Palermo, affermando che
al tempo di quelle scritture il conte Alfieri godesse fama di
tragico sommo.
(1) N** 6 del ms. Riporto testualmente, senza metteivi di mio né toglierne
sillaba.
(2) E nel ms. il n® 7; vi accennò il Teza, Op. crt., p. xix n.
(3) N. 8. € Due ottavine del sig.' Enrico in risposta al %eg^ intitolate dal-
* l'autore Scherzo ».
VARIETÀ 371
Liberato pertanto il campo da ogni preconcetto intorno alla
tarda età del manoscritto, procediamo ora ad un'esplorazione
serena e obbiettiva della Raccolta. Ecco gli elementi di una
tale indagine.
Il ms. Palatino GGGXII, del quale ha dato recentemente una
diffusa e quasi in tutto accurata descrizione il Gentile (1), consta
ora di quarantasei carte, delle quali le ultime venti son bianche.
Lo scritto è solo sul recto delle ce. 1 a 26(2); ma è da notare
che le ce. 1-2 sono di un foglio ricucito dinanzi al rimanente
del ms., e che ne costituisce la origine prima. Alla e. 1 è il
frontespizio: « Raccolta di pessime poesie » ecc.; i componimenti
incominciano nella 2*, e seguitano nell'ordine e con le attribu-
zioni che si conoscono dal Gentile. — La prima cosa che salta agli
occhi sfogliando il manoscritto si è la banalità e la volgarità
puerile di quelle rime; il che reca anche maggior meraviglia,
quando si vedono assistere a quelle conversazioni delle donne.
Non m.eno ci stupisce, per un altro rispetto, la famigliarità
grande che mostra di avere con TAlfìeri uno di quei personaggi,
eh* è Enrico Gavard; il quale, come appare di tutti il più brioso
e vivace, e il men riguardoso e il più^ sudicio, così tratta il nostro
Tragico con un piglio tanto confidenziale, da farlo subito tenere
per suo vero compagno di spassi e di biricchinate. Ancora ci col-
pisce, nella fisonomia generale del codice, la punteggiatura man-
chevole, incerta — eh' è, come si sa, una delle debolezze dell'Al-
fleri scrittore esordiente, da lui stesso riconosciuta più tardi (3) —,
(1) L. Gentile, / codd. Pai. della R. Bibl. Nazion. centrale di Firenze,
Roma, 1888, I, 526-9. Di qualche lievissima inesattezza nel trascrivere le
rubriche non mette conto di parlare. Noto qui solo che non è giustificata
l'aggiunta « [Gavard] » dopo il nome d'Isidoro nel n" 1, come dimostrerò. Di
una lacuna nella descriz. del codice dirò pure al suo luogo.
(2) 11 ms. intero era di cinquanta carte; ma l'ultima venne incollata al
cartone, e ritagliate le tre precedenti. Costituivano poi le cinquanta carte
tre quaderni doppi (di pagg. cioè sedici ciascuno) più le due carte di un
foglio ricucito dinanzi. — Io seguo la numerazione più recente a penna, che
computa come 1 il frontespizio; ma la originaria numerazione a matita in-
cominciava dalla e. 2*.
(3) Vedi le note dell' A. medesimo alla Cleopatra prima : « Almeno il punto
« interrogativo ci fosse stato ». — « Lo scrittore era nemico giurato del punto
« fermo » {Vita, 134). — « Sia maladetto, se mai un punto fermo ci casca! »
— « Nascea quest'autore con una predilezione smaniosa per le virgole » {ibid.,
135). — E cfr. il sonetto: « Ho vinto alfin » e le «Colascionate ».
372 E. PIAZZA
e lo spesseggiar degli errori d'ortografia (1); i qirali però sono,
ingenerale, degli autori medesimi, i cui versi venivan trascritti
dal segretario con una scrupolosità, che non è priva di certa
punta satirica: specie se si guardi anche alle postille, onde più
volte sarcasticamente li accompagna. — Ma passiamo all'esame
particolare delle rime del ms.
Qui subito ci si affaccia, degno di particolar menzione, il com-
ponimento n° 10; nel quale vedesi un chiaro richiamo ad avve-
nimenti, che parrebbero un po' stantii dopo il 1792, mentre sono
di attualità grande nell'agosto e settembre del '76. Nessuno
ignora, infatti, che in cotest'anno, dopo lungo battagliare, e in
mezzo a chiassi ed a scandali di cui l'eco non si smorzò cosi
presto, il Pizzi, custode allora d'Arcadia, e il principe Gonzaga
eran riusciti alla perfine a ottener l'incoronazione della Olim-
pica Gorilla; e che, nella notte appunto del trentuno di agosto,
la diva Maria Maddalena Morelli-Fernandez aveva ricevuto la
laurea poetica in Campidoglio. Orbene: al n" 10 del ms. Palatino,
sotto l'intestazione: Altra ottava (?) del 'Nannini, troviamo come
un inno d'esultanza per la vittoria riportata dalla famosa im-
provvisatrice sui suoi detrattori:
Franse Gorilla e stritolò lo scoglio
Dall'Invìdia formato a bella posta
Ma di questa vedeansi estinte Tossa (!)
E rOlimpica sola in Gampidoglio.
Questa agi' emuli suoi diede la scossa
E raffrenò di loro il fiero orgoglio
Onde sarà costei sempre immortale •
E il Gampidoglio non vedrà l'eguale.
Chi non lo direbbe uno squillo di tromba, nunzio di vittoria
recente? —Notiamolo, e tiriamo innanzi; che altro di più rile-
vante ci aspetta.
Procedendo oltre, c'incontriamo poco più avanti col burbanzoso
personaggio che si cela sotto la maschera d^oW Anonimo. Qui ci
è bisogno d'una breve sosta, per dimostrare tutta l'assurdità del-
l'ipotesi del Palermo; assurdità che subito ci apparisce, sol che
si voltino tre o quattro carte (2), quante son quelle che conten-
(1) Cosi troviamo ripetutamente: Appallo e Appollineo, avezzi, ndosso,
addottar, pretenzion, ceco, un arancia, un ottava.
(2) Contengono i comp. n^ 29 a 34.
VARIETÀ 373
gono il gruppetto di componimenti che si riferiscono alla com-
parsa di cotesto nuovo interlocutore.
Si presenta V Anonimo col noto « Primo sonetto » al n° 29
della Raccolta; e l'Alfieri, riferitane l'intestazione che già cono-
sciamo, postilla nel margine, come ha già osservato il Renier:
« trovato nel libro senza che si sappia come; benché lo sappiano
« le ragazze, ma non lo vogliano dire ». Al sonetto segue una
risposta per le rime dell'abate Niccolini (1), il quale, paragonando
l'intruso alla cornacchia della favola, gli rinfaccia lo « sconclu-
« sionato plagio » del sonetto al Padre Ricca, ed espone le ra-
gioni del poetare proprio e della brigata :
11 desio di fuggir l'ozio ci tocca.
Non come voi un verseggiar che secca,
E che la penna cangerebbe in rocca.
Rimbecca tosto, ancor per le rime, V Anonimo, il quale dovrebbe
essere un pedante e un cruscante arrabbiato; e lo fa con un
altro sonetto , eh* e il secondo suo (2), affermando a sua giusti-
ficazione, nulla importare
Che del sonetto che fu fatto al Ricca
S'imitino le rime,
dal momento che il poeta
ben le ficca.
Con metro, legge, peso, e senza macca;
quindi, con un terzo sonetto, sarcastico e sudicio la parte sua (3),
irridendo ai poeti della « nuova Accademia », berteggia prima
Enrico e Isidoro, che si piacciono di vili argomenti; e il Nan-
nini, < che rade sempre il suolo »; e il Niccolini, che
Si sforza a dar con vanto a tutti legge;
(1) N. 30: Risposta del Niccolini | allo sconclusionato plagio d'un Ano-
nimo. Gom. :
Non v' è chi voglia nella nostra cricca,
(2) N. 31: Risposta al sonetto dell" insignificante Poeta Arabico- Toscano,
che chiamò coi nomi di sconclusionato plagio il poeta anonimo, nomi sco-
nosciuti alla Crusca, e alla plebe. Gom.:
Di Sileno cavalclii par la bricca.
(3) N. 32: Jn cui si congratula il Poeta anonimo con la nuova Acca-
demia de' sublimi componimenti, che vi sono stati recitati. Gom.:
Di novelli Poeti al vario stuolo.
374 E. PIAZZA
e vibra da ultimo la frecciala del Parto contro airAlfìeri mede-
simo, chiudendo cosi :
E se a sì alti temi Testro regge,
Perchè non tesse il Segretario esperto
La lodi ancor deirumiii c.egge?
Con questo termina la parte sua neW Accademia V Anonimo; il
quale è dunque autore non d'un solo, ma di tre sonetti della
Raccolta; e come possa credersi l'Alfieri stesso, può veder cia-
scuno che legge, senza eh' io vi aggiunga parola. Chi sia costui,
non saprei dire; pare, come ho detto, un cruscante, e un lettore
e ammiratore del Bertoldo e Bertoldino, almeno a quanto si
rileva dai due successivi componimenti; dei quali il primo è un
sonetto (1) in risposta per le rime al precedente; e il secondo
accenna alla gerla e al buratto di cui
Arma la destra questo vii pedante,
il quale pretende di criticare le parole
Che nel suo Bertoldin non ha trovate,
E che '1 scrittor plebeo non bene intende (2).
Delle quali chiacchiere, a spremerne il sugo, non resta dunque
se non la maliziosa insinuazioncella dell'ignoto poeta, che ha
fiutato una specie di intriguccio amoroso tra il futuro Ercole
della tragedia italiana e una novella Onfale di casa Gavard.
E vengo alle tre ultime carte del manoscritto, dove ci attende
la soluzione definitiva della controversia.
(1) -N. 33. Non è detto di chi sia; ma nell'intestazione e nella chiusa
l'autore trae una piccola vendetta dell'anonimo impertinente: — Risposta
alle ciance del terzo sonetto delVautore anonimo, o per meglio dir sema
nome, che sarà l'ultima per non voler perdere il tempo, con chi non è
capace di correzione. — Com.:
Altro ci raol che ritenere il raolo
e termina:
Ma non si soffre che ci detti legge
Un che fa sempre condottiero esperto
E degno prence del cornato gregge;
dove non è chiaro a quale specie d'armento si faccia allusione.
(2) N. 34. Replica al suddetto aborto del pessimo verseggiatore che non
intende altro linguaggio che quello della plebe. Sonetto. — Com. :
Di rotta gerU e groesolan baratto
VARIETÀ 375
Fa specie come né al Palermo né al Gentile né ad altri sia
caduto in mente o sia parso opportuno di rilevare come alla e. 24
termini la prima parte o sessione di quelle adunanze, e alla e. 25
incominci la sessione seconda, brevissima, interrotta dopo tre soli
componimenti. Al basso della e. 24 sta per la prima ed unica
volta la firma: « Alfieri Segretario ». Ma sotto la firma c'è una
raschiatura; ed un attento esame di essa ci ha fatti certi che
quivi era la data della chiusura di cotesta prima parte: chiu-
sura resa necessaria dalla partenza del segretario, ch'era, pure
sotto il velo di quella modesta funzione, l'anima del cenacolo.
Infatti la carta seguente è intestata : « Seconda apertura dell'ac-
« cademia | col ritorno del Segretario » (1); e, immediatamente
sotto, altra raschiatura, che ancor essa custodisce (benché
meno gelosamente) una data. Interrogando la prima delle due
date abrase e quasi scomparse, si resta incerti se vi si celasse
un millesimo i77^ o 1796 \ ma nella seconda aguzzando le ciglia,
mi pare assai probabile che si dovesse leggervi: 15 8^^' 1777.
Ora, questa indicazione sarebbe sicuramente risolutiva; ma può
accogliersi con assoluta certezza?
Fortunatamente, l'ultima carta scritta del codice ci permette,
con un accenno irrefutabile, di rispondere affermativamente.
Sono qui ancora due componimenti, il cui valore è per più
rispetti di singolare importanza: un Sonetto, fatto in comune a
un verso per uno ; ed un'ottava. Il sonetto, che ha per protago-
nista Enrico Gavard, incomincia con un pacato verso dell'Alfieri
medesimo :
Alfieri: A spaventar gli uccelli un figurone;
ma i poeti che gli tengon dietro si mostrano addirittura indignati
contro l'audacia di Enrico, beffandolo a gara, non tanto come
poeta, quanto come compositore e musicista; a segno, che la
Bettina lo chiama « il disonor della musica » e più oltre « maestro
« da confetti » (!). Or qual'è la ragione di tante e si poco ama-
bili apostrofi? — Ce lo dice l'intestazione del sonetto, la quale
è solo parzialmente riferita dal Gentile. Eccola per intero:
Sonetto contro la stravaganza ridicola dell'Enrico, che
manda il ritratto a Bologna al P.* Martini.
(1) Di cotesta rubrica non ha fatto motto il Gentile, Op. cit, che passa
senz'altro dal n» 44 « Mentre Dorin » ecc., al n° 45 « Di far de' versi
«ognun vantar si vuole» (ma leggi: pitale).
376 E. PIAZZA
Questo nome e l'indicazione di Bologna, e del ritratto che al
Padre manda Enrico Gavard, ci danno la risposta cercata. Il
famoso frate francescano, P. Giovanni Battista Martini, il classico
illustratore della musica antica presso i Greci, fu infatti non solo
un paziente ordinatore di libri, di manoscritti e di saggi rari
di musica d'ogni ragione, ma benanco di ritratti dei principali
musicisti, cantanti e dilettanti del tempo suo e degli andati (1);
e ritratti gli mandavano in dono a gara gli ammiratori, i cono-
scenti e i discepoli (2) ; si che la ricca collezione anche attual-
mente si conserva nell'attual sede del Liceo Musicale in Bologna.
Ora, il Padre Martini, come si rileva dagli storici della musica
e dall'epigrafe eh' è di lui in S. Francesco a Bologna, cessò di
vivere nell'anno 1784 (3). Se pertanto si pensi che nella seconda
(1) Della collezione preziosa di libri e manoscritti fan parola quasi che
tutti i principali biografi del M.; ma di quella dei ritratti trovo cenno solo
in Vernon Lee e nel Fantuzzi; il quale, a due anni di distanza dalla morte
di lui, così scriveva {Notizie di scrittori boi., V, pp. 343-4): « A questa
n rarissima e copiosissima raccolta di codici e libri di musica è unita una
€ del pari copiosa e scelta Pinacoteca di tutti i compositori e celebri dilet-
€ tanti di musica d'ogni nazione, e tutti spediti in dono dagli autori stessi
« e regalati dagli amici e scolari ». — U Gaspari, che fu diligentissimo
bibliotecario del Liceo musicale di Bologna dal 1856 all' 81 e ordinatore di
quella ricca suppellettile, ripete la stessa notizia nella inedita sua Miscel-
lanea musicale, voi. Ili, p. 102, che ivi si conserva, e che potei vedere per
la squisita cortesia del dr. Gadolini, assistente dell'attuale Bibliotecario
prof. Luigi Torchi. — Colgo quest'occasione per esprimere anche qui 'la
mia riconascenza agli egregi sigg. dr. Gadolini predetto e prof. Gualtiero
Zanetti di quel R. Liceo-Ginnasio Galvani, i quali mi furon larghi di cor-
tese aiuto in questa e in altre successive ricerche di cui dirò appresso, che
ebbi a fare per questo modesto mio studio colà.
(2) Gfr. anche il n° 47: Ottava dell'Enrico in risposta:
Oh quanto andaci siete in crìticars
Uno che nella bella arte armonica
Celebre gii si rese, e nominare
Odesi ovanqae come la bettouica.
L'Invidia è la ragion che fa smaniare
Chi degno non ò di nna tal cronica.
Onde t{ ritratto mio $« »»m arcato.
Segno è d*un pregio in me inasitato.
(3) Il 3 agosto di quell'anno, se è esatta la data che ci conserva T iscri-
zione sopra detta:
« ad superos emigravit
« III. Nonas Augusti. Ann. MDCCLXXXIV >.
Altrove si trova la data del 4 agosto; ed altri riferiscono la morte, con evi-
dente errore, all'ottobre.
VARIETÀ 377
metà dell'ottobre, o tutt'al più nel novembre del 77, ossia poco
dopo del suo ritorno in Firenze, incomincia l'appassionato, assor-
bente amore dell'Alfieri per la d'Albany(l); e che, per di più,
nel febbraio del 1781 egli sloggia definitivamente da Firenze (2),
e non vi- ripassa fino all' 84 se non in gran fretta due volte (3);
'non può restar dubbio per alcuno che la data della seconda
apertura dell'Accademia col ritorno del « segretario » è proprio
quella che già ci parve di leggere sotto la raschiatura dell'auto-
grafo : lì lo ottobre 1777 ; e che la prima sessione è, dunque, dei
mesi luglio-settembre del 1776.
Alla qual conclusione venuti, non senza qualche sollievo del-
l'animo nostro per veder purgati dal sospetto di poco degni
passatempi gli ultimi anni dell' « austero », quando già quasi
avea sul volto
il pallor della morte e la speranza,
ci accingeremo ora a ricercar qual fosse quella brigata che si
raccoglieva in casa Gavard; e a lumeggiare, meglio che fin qui
non siasi fatto, quegli anni del poeta nei quali ancora spesseg-
giano i futili passatempi, e dove ostacoli d'ogni fatta tuttavia lo
trattengono dal calcar risolutamente la via della gloria.
II.
Nell'aprile del 1776 l'Alfieri, fatto persuaso ch'ei non avrebbe
mai potuto « dir bene italiano, finché andava traducendo sé
« stesso dal francese », risolvè finalmente di recarsi in Toscana,
per avvezzarsi a « parlare, udire, pensare e sognare in toscano,
« e non altrimenti mai più » (4). Si trattenne sei o sette settimane
in Pisa, a stendervi in prosa V Antigone, a verseggiare e leggere
a quei professori dell'Università il Polinice, a tradurvi Orazio
(1) Vita, Ep. IV, cap. V, p. 189 dell'ed. del Teza; Annali, p. 371, ihid.
(2) Vita, Ep. IV, cap. Vili, p. 204.
(3) Una prima volta di volo nel giiigno del 1783 (Vita, p. 219), recandosi
a Bologna; e una seconda per alcuni giorni soltanto, col fine di visitarvi
i pedanti fiorentini, nell'agosto dell'anno medesimo (ibid., p. 222) ; e sempre
infervorato tutto di quell'amore e degli studi più caldi e della stampa delle
tragedie.
(4) Vita, Ep. IV, 11, p. 173.
378 E. PIAZZA
e a studiare i giambi di Seneca; e « nel fin di giugno » ne sloggiò,
e venne in Firenze. Era quella, per verità, la terza volta che
vi poneva il piede (1); ma la prima che vi andasse con qualche
serio proposito; e, benché non si sentisse ancora in tutto diverso
da quel di prima, pure le faville che gli avevan suscitalo in
cuore le parole amichevoli del D'Acunha e del Galuso e la let-
tura di Plutarco, gli eran venute accendendo l'animo sempre più.
Nel 1776, adunque, si trattenne a Firenze circa tre mesi, dalla
fine di giugno a tutto il settembre; durante il qual tempo, narra
nella Vita, si applicò moltissimo all'impossessarsi « della lingua
« parlabile >; e « conversando giornalmente coi Fiorentini » vi
pervenne bastantemente (2). Dava opera in pari tempo agli studi
tragici: verseggiò per la seconda volta il Filippo, ideò il Do7i
Garzia; e tutto questo e le letture accennate di Pisa son ba-
stanti a spiegarci quella nomèa di Tragico ch'egli stesso si dava
cura di venir preparando e diffondendo, con la sufflcenza che
gli era pur cosi famigliare in quel tempo. « Continuava intanto
« a schiccherare molte rime » — prosegue a dire — « ma tutte
« mi riuscivano infelici. E benché non avessi in Firenze nessun
<c amico censore che equivalesse al Tana e al Paciaudi, pure
« ebbi abbastanza senno e criterio da non ne dar copia a chi
« che si fosse » (3). Quali sieno coleste rime infelici a cui l'Al-
fieri accenna qui, non si può determinar con piena esattezza ;
ma dell'estate di quell'anno troviamo nel ms. Laurenz. 3, sotto
la data di Pisa, giugno 1776, il lamento o lettera in isciolti di
FUle calzolaia a Checchino canonico (4); di quell'estate stessa
(1) La prima breve dimora ve l'aveva fatta fin dal '66, con l'esotica com-
pagnia d'un aio inglese e di due sbarbatelli già suoi compagni d'Accademia,
olandese l'uno e l'altro fiammingo (Vita, pp. 58-9); di passata poi vi s'era
spinto nel maggio del '74, durante quella pazza corsa da Torino, che doveva
simulare agli occhi dei conoscenti il solenne distacco suo dalla Prie (ibid.,
p. 137).
(2) Vita, p. 178.
(3) Vita, ibid., p. 178.
(4) Comincia:
Quella ch'ai tuo partir vedova, e fola
Crndel lasciasti, or prima a te n'invia
Carta de* sensi noi nunzia verace.
To forte ad altra in braccio hai già d'oblio
Tao' ginramenti sparai; ecc.
Ne die cenno il Fabris« pubblicandone alcuni squarci {St. Alf., p. 59). Noto
che qui il Fabris, aggiungendo che'c questi componimenti giocosi ...segui-
VARIETÀ 379
e di quella dimora in Pisa è anche l'epigramma XV deiredizione
del Renier(l); di quell'anno son pure e il sonetto sui mariti
ingannati (2) e quello dello stramazzone di fra Ciacco (3); oltre ai
versi, d'argomento per lo più amoroso, che nel ms. 3 occupano
le ce. 161 a 169; ma son del gennaio e del febbraio. Or queste
rime tutte mostrano veramente come la vena satirica, anzi bef-
farda e amara, eh' è prova, in generale, d'animo insoddisfatto, e
indizio d'una coscienza irrequieta e non paga di sé né degli
uomini e dei tempi in mezzo a cui vive il poeta, sia uno dei
caratteri precipui della lirica alfierlana di quegli anni tuttavia,
come è caratteristica dell'anno precedente. Sono infatti di pochi
mesi prima le due novelle, di Elena- Penelope (chiamiamola cosi) e
di Frate Mascambruno (4); e a poco più in là risalgono le Scon-
ciature dì Cézannes (5) ; cioè, oltre alle rime amorose e varie, la
« teranno a mostrarsi ... fino agli ultimi anni di sua vita, quasi inspirati
a da un repentino bisogno di riso buffonesco, a ristorare le fatiche di studi
« più gravi », e citando in nota il ms. Palat. 312, si accosta, senza tener
conto delle dubbiezze del Renier, alle conclusioni del Palermo e del Reu-
raont intorno all'età di quel codice.
(1) Op. cit., p. 281. Vedi sopra questo argomento la nota 1 a pag. 394.
(2) È il IV delle Rime, P. I (Pisa, Gapurro):
Dov'è, dov'è quella mirabil fonte.
(3) È il XIV delle Rime, e. s.:
D' ozio e di vino e di vivande pieno.
Ne riporto le due terzine, che attestano della tendenza beffarda a cui si
accenna più oltre:
Tanto r impeto fu, sì sconcio il peso,
Che all'aria andar le zampe, i panni in testa,
E di sua Reverenza il meglio apparse.
Tal vediam nella polve in lieta festa
Un possente asinon, di foia acceso.
Per far pompa di membra, rotolarse.
(4) Della prima discorse il Notati, in Domenica lett., 1882, no 29. Alla
seconda accennò il Fabris {Studi alfier. cit., p. 55). Ecco come ne incomincia
lo schema (dal ms. Laur. 3, e. 159, numeraz. a inchiostro). — « Frate Ma-
« scambruno, sua descrizione; vecchia signora, sua sciocca devozione; ca-
« meriera, sua decrizione (sic). — Il frate giunge alla casa sapendo esserne
«la padrona uscita. Sale tenendo discorsi ipocriti, s'avanza fino all^ ultima
< camera e gabinetto ove solca confessare la signora. Appena ivi entrato,
« con un piede spinge la porta, coll'altro ginocchio separa le ginocchia della
« ragazza » ; ecc.
(5) « Agosto 1775 ». — Vedi Novati, L" Alfieri a Cézannes, in Fanfulla
della domenica, an. II, 37; e Fabris, Op. cit., pp. 56 sgg.
380 E. PIAZZA
satira contro i seccatori, e un'altra contro le donne che fan le
schizzinose e mal gliene incoglie (1). Ora, codesto stato dell'a-
nimo, torbido, limaccioso, bisognoso d'uno sfogo, e non privo
d'una certa maligna propensione a criticare e a pensar male
di tutto e di tutti , più assai che non le rime per sé stesse, ri-
chiama vivamente la nostra attenzione, come quello che traspa-
risce da tutta l'opera incomposta e farraginosa dei tre anni, o
quasi, che corrono dalla cosi detta « liberazione vera > (2) fino
al terz'ultimo mese del 1777. Di quel triennio ci forniscono bensì
notizie abbastanza copiose la Vita e, per alcuna parte, i Gior-
nali pubblicati dal Teza; ma non cosi, da appagare interamente
la nostra curiosità, specie per l'anno 1776, dove i Giornali ci
mancano affatto. Com'è poto, la Vita non dice tutto; ed una,
appunto, delle lacune che qua e là vi si incontrano è proprio
quella che si riferisce ai tre mesi della dimora che fece l'Alfieri
in quell'anno in Firenze; la quale vien colmata in parte dal
nostro manoscritto.
Che l'Alfieri in quegli anni, nei momenti di buona voglia e «li
resipiscenza, desse opera intermittente agli studi novaraente in-
trapresi è un fatto che non si può mettere in dubbio; ma che
ancora non fosse ben fermo in essi, e si lasciasse facilmente
fuorviare e trarre a meno assennati propositi, è cosa nota del
pari, e suflìciente a spiegarci il suo partecipare ai convegni di
casa Gavard. Ma chi sono cotesti Gavard? e quali i componenti
e i fini di (^xxqW Accademiaì
(1) È quella accennata dal Novati (loc. cit.), che narra la fuga di Dafne
inseguita da Apollo. Com.:
Daftie reszon
Troppo ritros»
Darà fuggendo il tergo al biondo Dio; ecc.
Il Novati la dice una « lirica foggiata su quelle del Ghiabrera »; e quanto
alla forma è vero. Ma evidentemente il frammento ha esso pure intonazione
satirica, come si rileva anche più chiaramente dallo schema o abbozzo di
esso, che si trova a tergo della e. 148 del ms. n® 3. Lo riporto, perché di
poco s'allontana dal tema che al presente ci occupa : « Che d'allora in poi
« le donne non possono più fuggire | che se voltava la faccia | salvava il
« suo onore e la sua forma | che fu per vendetta e non per amore | che Apollo
« la trasformò in alloro : | che la fama vuole che ad Apolline | puzzasse il
€ fiato e che Dafne fosse | innamorata d'un altro ».
(2) Febbraio 1775. Cfr. Vita, Ep. Ili, cap. XV.
VARIETÀ 381
Dal nome francese, e dal fatto di un Giacinto Gavard, medico
e scrittore di qualche grido (1), vissuto dal 1753 al 1802 e nato
a Montmélian, si potrebbe supporre che i Gavard fossero d'una
famiglia originaria della Savoia, e — chi sa? — in relazione
forse con gli Alfieri d'Asti per via della madre del nostro Tragico,
una Maillard di Tournon, di origine savoiarda. Ma coteste conget-
ture per noi poco rilevano. Ben di maggior momento sono le no
tizie che intorno ad Enrico Gavard medesimo mi riusci di trovare,
facendone ricerca a Bologna nella Biblioteca di quel Liceo Mu-
sicale, e più specialmente nel farraginoso carteggio del P. Mar-
tini, che quivi si conserva (2). E prima di tutto, diciamo subito
che quegli accenni alle virtù di « maestro » e di « compositore »
deWaudace Enrico, e il vanto che mena egli stesso della propria
valentia < nella bella arte armonica » sono qualche cosa più di
un semplice scherzo o d'una gradassata. Nella ricordata Biblio-
teca del Liceo sopra detto si trovano infatti le due seguenti opere
del Gavard : 1° Sei trii del nobile dilettante sig. Enrico Gavard
des Pivetz etc. fiorentino. Opera prima', senza alcuna data di
anno, di luogo e di stampatore. Si compone di tre fascicoli, con-
tenenti le parti del primo violino, del secondo violino e del vio-
loncello. 2° Sei sonate per cembalo del sig. Enrico Gavard des
Pivetz etc. dilettante fiorentino. Opera seconda. Venezia, presso
Antonio Zatta e figli. Dedicata a Sua Eccellenza la signora con-
tessa di Car liste nata Bìron etc. etc. (3). Che se poi ci muova
(1) Trovo l'indicazione nel Lexicon Vallardi, voi. V, p. 131, dove si ci-
tano di lui le opere seguenti : Traile d'osteologie, redige d'après les legons
de M. Desault; e Traité de myologie suivant la méthode de Desault. —
Un altro Gavard, Alessandro, che fu insigne uomo politico della Svizzera e
capo del governo ginevrino, mori a Nizza nel 1898 (Ibid., voi. XI, p. 580).
(2) Sono trenta grossi volami di lettere di persone d'ogni grado a lui,
non disposte ancora, disgraziatamente, per ordine di data. Anche per questa
ricerca mi fu d'aiuto e guida pazientissima in quel labirinto il prelodato
dr. Cadolini, che gentilmente mi squadernò dinanzi quei volumi, permetten-
domi di farne con la dovuta discrezione qualche rapido estratto.
(3) Anche questa senza la data dell'anno; ma dev'essere, come l'altra, del
1775 o poco prima, come si dimostrerà. — Ecco, nella sua forma alquanto
gallicizzante, la lettera dedicatoria :
Eccellenza,
L'onore che Vostra Eccellenza mi ha fatto permettendomi di dedicarle questa Opera, dà alla
medesima un merito che ella intrinsecamente non ha. Prego V.ra Ecc. za di gradirla solamente
OiornaU storico, XXXYUI, fase. 114. 25
382 E. PIAZZA.
curiosità di sapere qual valore abbiano coleste composizioni del
signor Des Plvetz etc, non abbiamo da far altro che aprire il
dotto volume testé pubblicato dal chiar."o prof. Luigi Torchi,
attuale bibliotecario e professore di estetica musicale e storia
della musica nel Liceo bolognese , « La musica istrumentale in
« Italia nei secoli XVI, XVII e XVIII > (1), dove alla p. 209 leg-
giamo: «In questo genere lezioso, morbido, che non cerca la
« sua efficacia nella linea robusta e musicale, ma vive di etiche
« sentimentalità, di espressioni liscie e languide, possono servire
« di modello i sei trii per due violini e violoncello di Enrico
« Gavard des Pivetz, fiorentino, i quali debbono risalire a poco
€ dopo la metà del sec. XVIII >. — E più oltre, alla p. 268 : « ... È
« molto se in questo nuovo indirizzo Topera di qualche discreto
€ maestro italiano si distingue ad intermittenze tra le forme più
« degenerate, quali si notano nelle sonate d'organo di Benedetto
« Arese Lucini (1792), nei versetti fugati e ideali di Gian Dome-
« nico Catenacci (1794), nelle sonate di cembalo di Enrico Gavard
« des Pivetz (1790) ».
Da quest'ultima citazione parrebbe, a dir vero, che le Sonate
di cembalo del Gavard dovessero andar riferite al 1790. Se non
che, questa data approssimativa suggerita dal Torchi ha bisogno
di essere leggermente rettificata, e portata a una quindicina di
anni più indietro, come ci risulta dal carteggio del padre Martini,
dove di quelle Sonate si fa cenno. Due lettere, infatti, ne riusci
di trovare di Enrico Gavard dirette al famoso frate : la prima,
recante il n** 110, nel voi. 9**, l'altra nel 18% contrassegnata col
n" 56. Sono, a differenza delle altre, in carta turchinetta, ele-
gante per il tempo, a larghe fasce o strisce trasparenti, in pasta.
La prima ha la data di Firenze, 28 gennaio Ì775; è firmata:
« di Vostra P.^ m.^ Rev.*^» Enrico Gavard des Pivetz, segretario
« della Amministrazione generale delle R. Rendite di S. A. R. », ed
intestata al « Molto Rev.^» P. Maestro Sìg. Sig.'« e Pi^ Col.»»». In
questa lettera (certamente la prima del Gavard al Maestro) dice
oome UQ Bagg:io della mia buona ToIonU, ohe ha del trasporto alla mnaiea, e ad abbraedan
quelle occasioni che possono mettermi in grado di dimostrarle il rispetto con coi mi confbnM
immutabilmente
di Toatra Eeeellenn
d«Toti«iiBO ed obbligatisaiiiio
serritore
Bsiioo QftTard des IMvvti.
(1) Torino, Fratelli Bocca, 1901.
VARIETÀ 383
lo scrivente d'essere stato consigliato dal signor Gio. Mario Rutini
a mandare al Padre per mezzo del noto editore Lelio della Volpe
un'operetta di sei trii, per averne il giudizio di lui, e « perchè
« l'inserisca nella sua insigne raccolta di musica, ma nel luogo
« più adombrato e appartato », affinché non abbia a scapitarci
al confronto con le altre scritture, alle quali si troverà vicina.
Si scusa poi con grande franchezza della poca scienza che vi è
dentro, perché « la corruttela dei tempi si contenta più della
« corteccia che della sostanza, ed è fatta più per dilettare che
« per ammirare » ; ed aggiunge: « Io sono giovane e sono dilet-
« tante, perciò mi sono attaccato alla moda anch' io » (1). Con-
clude dicendosi superbo di potersi chiamare un umile soldato di
quell'esercito, del quale un tal uomo è il maresciallo.
Non meno curiosa è la seconda lettera, da Firenze, 28 marzo
i775. Apparisce da questa che il P. Martini, accettando il dono,
incoraggiasse con benevole parole il giovane autore, e modesta-
mente si scusasse dei pochi meriti suoi, pregandolo in pari tempo
di mandargli il suo ritratto. Tanto almeno si può dedurre dalla
risposta che abbiamo sott'occhio. Nella quale il nostro Enrico si
mostra subito anche più franco e spigliato che nello scritto pre-
cedente, e tratta già col Padre come con una vecchia conoscenza.
Scusatosi dell' aver tardato a rispondergli perché « incomodato
« da una flussione », e accennato alla speranza ch'egli abbia frat-
tanto ricevuto dal signor Lelio della Volpe anche le Sonate di
Cembalo, gli raccomanda che voglia « essere di manica larga
«nel farne l'esame». Quindi esce a dire: «Mi sono più e più
« volte contemplato l' effigie alla spera, ed ho riconosciuto che
«non merita d'esser tramandata ai posteri; ma poi riflettendo
«che si dipingono anche i mostri, gli animali ecc., ra' è 'venuta
« la volontà di farmi ritrarre anch'io, e mi prenderò la libertà
« di rimetterle il mio ritratto, non per effetto di mal fondata
« vanità, ma per un estro poetico che non va disgiunto dalla
« musica, e per far piacere a V. P. M.^ Rev.^, che non può
« figurarsi quanto io stimi e desideri di presto inchinare.
(1) Di cotesto chiedere scusa del seguir la moda leggera imperante in
quel tempo non si meraviglierà chi ricordi la classica severità delle dottrine
del Martini, e l'aneddoto riferito dal P. Mattei intorno al maestro; il quale
al giovane ma già grande Jomelli cosi parlava: « Gran disgrazia la vostra
« di perdervi nel Teatro, in mezzo ad una turba d'ignoranti corruttori delia
« musica » (Riferito dal Fantczzi, Op. cit , V, p. 344).
384 E. PIAZZA
« Lei è un galantuomo, lo sono anch' io, ci conoschiamo fsicj
«ornai per lettera, dunque mi comandi ecc. Il mio cuore par-
« tecipa del Lombardo (?), onde non sono nato per me solo, e il
« conte Bianchi gliene può dare informazione, essendo il mio
« miglior padrone che abbia in Bologna.
« Degnissimo P. Martini, Lei merita una statua, e se fossi prin-
« cipe o scultore glieravrei già fatta. Mi conservi la sua grazia,
« e mi accordi la sua armonica e spirituale protezione... » ecc.
Come ognuno può vedere, da queste lettere del Gavard ci
viene non solo riconfermata la conclusione a cui eravamo giunti
più sopra quanto all'età del manoscritto alfieriano; ma ne balza
fuori anche una figura morale caratteristica di Enrico, ch'è in
tutto conforme a quella che già avevamo immaginata, con la
spontanea gaiezza e la baldanza espansiva e confidenziale che usa
qui verso il dotto francescano, come già verso TAlfieri nelle rime
del nostro zibaldone. Ma a questo punto una curiosità ci spinge
a domandarci: cotesto ritratto del Gavard fu poi mandato vera-
mente? e potè il Padre Martini, e possiamo noi posteri bearci
nelle sembianze del nobile dilettante musicista, e amministratore
delle R. Rendite di S. A.?
Un ritratto che porti il nome di Enrico Gavard, tra i molti e
cospicui che adornano la Pinacoteca del Liceo bolognese, non
s' è potuto trovare, nonostante le più accurate ricerche. Se non
che, in mezzo ai tanti dei quali è quivi accertata l'autenticità, ce
n'ò pure degli altri, alle pareti de' corridoi meno in vista, che
non recano alcun nome; ma che devono essere tuttavia doni
fatti al P. Martini da dilettanti e da giovani scolari di lui. Or,
tra codesti, uno specialmente par degno di attirar la nostra at-
tenzione. È un ritratto a pastello, in più che mezzo busto a gran-
dezza naturale, d' un giovane dalla faccia aperta, imparruccato
e vestito secondo il costume della seconda metà del sec. XVIII,
e seduto presso d'un tavolino. La mano sinistra stende l'indice
sur un foglio coperto di caratteri musicali: segno che si tratta
d'un compositore; la destra tiene un libro, sul cui cartone si
legge a chiare lettere : « Opera | del Padre | Maestro Martini » ;
che indicherebbe ammirazione ed omaggio al musicista e storico
insigne. Infine, da tergo, la tela su cui è incollato il pastello
reca in carboncino la scritta : « Grescimbeni pinxit | 1776 ». — È
questo il ritratto di Enrico Gavard? Sarebbe forse ardita, ma
non improbabile la congettura. Perché avesse maggior fondatezza,
converrebbe almeno sincerarsi se un Grescimbeni pittore di ri-
tratti fosse in quegli anni in Firenze.
VARIETÀ 385
Checché sìa di ciò, resta per noi assodato in ogni modo, che
la casa dei nobili Gavard des Pivefz — con piacere lo notiamo
— è una casa di gente per bene; come già ci aveva resi pro-
pensi a supporlo il fatto che taluni della famiglia si trovano
invitati più tardi nella signorile dimora di colei, che, per i suoi
famigliari, era sempre la Regina d'Inghilterra. Ed Enrico Ga-
vard, segretario, al tempo di cui discorriamo, dell'amministrazione
generale delle Rendite di Sua Altezza Reale, ossia ufficiale della
casa del Granduca Leopoldo (i), è veramente un dilettante e com-
positore di musica, il quale serba, a quel che pare, tutta la sua
morbidezza e sentimentalità per le pagine strumentali de' suoi
trii, degni, comunque, d'esser ricordati come modello del genere
lezioso del tempo in cui scrisse. Nel 1776 egli è, adunque, un
giovane artista di belle speranze, cosi appunto come un tragico
di belle speranze è in quegli anni il conte Vittorio Alfieri. Qual
meraviglia che tra i due scapestrati genii nascenti si stringesse
una relazione, che ha quasi il carattere della più amichevole
intimità? Senza che, le doti di musicista del Gavard potevano
anch'esse offrire stimolo all'Alfieri, perché si legasse d'amicizia
con lui. Per la musica, come apprendiamo da più luoghi della
Vita, l'Alfieri era appassionatissimo, e dotato di disposizioni na-
turali esuberanti ; che l'orecchio e la fantasia erano in lui 'ìnu-
sichevoli nel somm,o grado, sebbene pochi progressi vi facesse
sotto i maestri, per la difficoltà di mettersi in testa la musica
scritta. « Tutto era orecchia in me » — die' egli — « e memoria,
« e non altro » (2). Aveva tuttavia, fin dal quattordicesimo anno,
appreso a sonare, bene o male, il cimbalo\ e l'esercizio gli aveva
procurato almeno di essersi « sveltita molto la mano sulla ta-
« stiera ». Più tardi, a Gézannes, un abate citarista gl'insegnava
a toccar la chitarra (3); e la chitarra anzi era stata, in quel
suo viaggio appunto in Toscana del 1776, il suo primo pensiero
dopo la poesia e i cavalli, e parte preziosa del piccolo bagaglio,
di che, insieme coi poetini tascàbili, s'era caricato (4): né l'aveva
(1) Da Firenze mi giunge notizia che in quell'Arch. di Stato trovasi cenno
di un Gavard amministratore generale del governo della Repubblica fran-
cese in Toscana nel 1799 (Arch. di Stato, Gov.» francese, Negozi di Polizia,
f. 1, n. 55). Non ho qui modo di verificare se si tratti del nostro.
(2) Vita, p. 40 e p. 167.
(3) Vita, p. 167.
(4) Vita, p. 173.
386 E. PIAZZA
portata certo per lasciarla inoperosa. Ora, in Firenze, la rela-
2àone col nobile Des Pivetz gli porgeva nuova occasione di far
pompa de* suoi talenti di geniale orecchiante; e a noi par di
vedere il fiorentino spirito bizzarro, orgoglioso dei novello amico,
presentarlo, secondo il suo stile, pomposamente a* suoi di casa,
al padre, alle sorelle, come gran poeta, sommo tragico, esperto
citarista! e TAlfieri, un po' per vanità, un po' per desiderio di
svago, frequentar quelle veglie, accompagnare al cembalo le
ragazze, improvvisar duetti con Enrico, e partecipare infine agli
allegri convegni poetici, facendo da segretario della nuova Ac-
cademia. Della quale ci resta da vedere quali fossero gli altri
componenti; e quali i propositi e le forme di quelle adunanze.
I personaggi che, oltre ad Enrico Oavard, incontriamo nello
zibaldone Palatino sono i seguenti :
In primo luogo, naturalmente, i varii membri della famiglia. Vi
troviamo anzitutto Michele o Michelino (1) e Carolina (in qualche
parte detta anche Carla), che sono indubbiamente da porre tra
questi, e presumibilmente un fratello e una sorella d' Enrico.
Della famiglia sono ancora per certo un Signor Giuseppe, che
crederei il padre, e una Maddalena, la mamma (2) : personaggi
che poco parlano, e dei quali troviamo nella Raccolta solo lie-
(1) Sono di Michelino interamente i componimenti n' 38 e 41, oltre ad
alcuni versi che sporadicamente introduce qua e là nelle rime improvvisate
in comune. — Al n" 38 è un sonetto, il cui argomento è dato cosi: Bidulf,
che dopo aver precipitosamente galoppato per veder la sua bella^ gli con-
viene restar in casa perchè non e è il servitore che lo pettini ; e più sotto :
bonetto di un poeta novizio ma che promette bene, con la postilla al mar-
gine: Michele Gavard. — Noto qui che il nome di un Giovanni Bidulph
trovasi tra quelli degli invitati di casa Gianfigliazzi. \ edi Mazzatinti, Le
carte alfìer. di Montpellier cit., in questo Giornale, 9, 71, n. 2.
(2) Ecco la genesi di quest* induzione. Se Carolina ò nel '94 o nel '96
ancora ragazza (o vedova forse?), come appare dal chiamarla che fa l'Alfieri
nel '99 col cognome Gavard, il vederla invitata alle recite delle trage<lie in-
sieme con Maddalena con un solo biglietto (« Maddalena e Carolina Gavard »;
vedi Mazzatinti, cit., in questo Giornale, 3, 52) fa supporre che ella vi
andasse accompagnata dalla madre. Farmi assolutamente da escludere, poi,
che Carolina potesse essere la moglie di Enrico. Quanto al trovare il nome
di Giuseppe Gavard in un altro biglietto, la cosa si spiega col fatto che,
per la ristretterza della sala, gli invitati non vi potevano essere più di 50
o 56 per volta (Mazzatinti, Ibid., 3, 51, n. 3).
VARIETÀ 387
vissimi accenni. Ancora tra i nomi di donne, trovo una Bettina
e una Lisetta; le quali, poiché son chiamate cosi famigliarmente
senz'altro, e poiché una postilla già riferita del segretario ricorda
le ragazze, devon esser dunque sorelle d'Enrico e di Carolina.
In un'altra postilla poi dell'autografo, che troviamo depennata
e sostituita quindi con altra sovrappostavi, si accenna anche a
una « vecchietta » (1); e, se è questa pure persona di casa (come
parrebbe all'appellativo di rispettosa confidenza), si tratterebbe
addirittura di una famiglia patriarcale; senza contare che all'ul-
timo ci capita anche un « abbate Gavard », con un sonettaccio
di argomento boccaccesco, che non fa molto onore all'abito ch'egli
porta (2). Degli abati, del resto, ce n'è degli altri. V'è un abate
Nannini, tutto cerimonioso nella insulsaggine de' suoi versi
sconci e sgarbati : proprio quello che canta il trionfo di Gorilla.
Più serio e pien di sussiego c'è poi l'abate Nìccolini, l'unico,
per verità, che generalmente si astenga dal linguaggio poco or-
todosso della brigata mascolina. Venuto costui in ritardo, deve
pagar lo scotto con un sonetto d'ammissione, dove chiama quella
ragù nata di poetastri « disonor del biondo Nume », « turba pro-
« fana a Pindo infesta », « inutile drappello di sciocchi », degno
che al Nannini se ne dia la presidenza per acclamazione (3). Di
quest'abate Niccolini, del resto, non sappiamo altro, se non quel
che ne dicono, in un'ottava improvvisata lui assente, i vari poeti
della famiglia Gavard medesima :
Lisetta. Pretende molto e non conclude niente.
Michelino. Saria bello se non fosse peloso;
e più oltre:
Altro di buono in sé non ha che il dente.
Persino il signor Giuseppe, che fin qui non ha fatto udire la
(1) N. 21. Al verso 8* di questo sonetto in comune, la postilla depennata
annotava: «fatto in tre: Bettina, Carolina e la vecchietta».
(2) Di un canonico Carlo Gavard trovo pubblicata {Firenze, 1801) un'opera
dal titolo; La corrispondenza della verità con la politica; e, con la data
di Firenze 1814, una Orazione al popolo toscano per il felice ristabili-
mento di S. A. R. Ferdinando. — Non so se il canonico del 1801 e del
1814 e l'abate del 1776 siano una stessa persona.
(3) N. 11. Sonetto d'admissione del Niccolini. Gom.:
Se dall'orrida tomba oggi la testa.
388 E. PIAZZA.
sua voce, asserisce di lui, neirunico verso suoi ntrodottosi nella
Raccolta, che
Fu cacciator grande e glorioso;
ma di qual sorta di selvaggina non dice, e non si sa (1).
Tardissimo appena troviamo tra quei poeti, con due versi nel
penultimo componimento, il nome di un Donaudi (2). Ma di gran
lunga più cospicua è la parte che vi spetta a un singolare per-
sonaggio, che a bella posta abbiam lasciato per ultimo, il quale
troviamo indicato col nome di Isidoro, e qua e là anche di Doro
e Dorino (3). Se il protagonista di quelle riunioni è il nostro
Enrico, non si può certo ricusare a Isidoro il grado che gli spetta
di deuteragonista. Il Gentile mostra di tener costui come uno
della famiglia Gavard (4); ma nulla è nel manoscritto che ci con-
senta di affermar ciò; anzi, tutto quello che quivi Io concerne ci
fa creder Topposto. Questione, del resto, di minimo rilievo; come
di poco conto sarebbero per noi tutte codeste manifestazioni dei
personaggi che abbiam sotto gli occhi, se non ci fosse di mezzo
il nome dell'Alfieri, e se non ci rappresentassero come in un qua-
dretto l'ambiente fiorentino in mezzo al quale era venuto a
cascare il nostro Tragico in erba. Isidoro, adunque, parrebbe uno
del popolo, 0 del contado: forse un fattore dei Gavard, o un
vetturale, un procaccio o altro di simigliante(5); comunque, un
(1) N. 23. «Sull'abbate Niccolini. Ottava >; ma prima diceva: « Ode ana-
< creontica ». Non saprei dire se questo abate Niccolini sia il medesimo
del quale parla Mad. Du Boccage nelle sue Lettres d'Italie, e eh* ella co-
nobbe a Firenze un vent'anni innanzi. Vedi Al. D'Ancona, Mad. Du Boc-
cage in Italia, in Fanfulla d. dom., an. IV, n* 28.
(2) « Un altro dal nome non ben leggibile » lo dice il Gentile; ma è
Donaudi certamente. Di un conte Donaudi delle Mallere, autore di un
Saggio di Economia civile, come pure di un abate Donaudi fa cenno il
De La Lande nel voi. I del suo Voyage en Italie, come di uomini che si
segnalarono nelle lettere in Torino dopo il 1765. Non so se abbiano relazione
col nostro; ma il vedere un altro piemontese alle conversazioni di casa i
Gavard ci conferma nell'opinione sopra espressa che questi fossero oriundi
degli Stati sardi.
(3; Il Palermo e il Renier accennano a una Dorina, scambiando proba-
bilmente con Dorino ; che di una Dorina non v' è traccia. Che Dorino e
Isidoro poi siano una medesima persona si vede dal citato compon. n*> 44,
dove nell'intestazione è detto Isidoro e nel 1* verso Dorino.
(4) Vedi la nota n» 1, p. 371.
(5) Nel componimento n^ 14, Enrico Gavard, augurando il buon viaggio
VARIETÀ 389
uomo di buona pasta e di facile loquela, il quale vi è chiamato
per servire in certo modo di zimbello alla compagnia, benché
si ribelli a passare per tale (1). Ma che gli altri si volessero
pigliar gioco del buon diavolaccio si vede anche dal ricordato
sonetto dell'abate Gavard, dove si narra d'uno scherzo, di cattivo
genere per verità, fatto a lui « da vari viaggiatori, curiosi di
« vedere il bello dei luoghi per dove passano », i quali costrin-
gono Isidoro a levarsi i calzoni, e a mostrar loro ciò che non
si suole pubblicamente mostrare. Anche il segretario, del resto,
alla seconda apertura àeìV Accademia, si sbizzarrisce sul conto
d'Isidoro, sbozzandoci di lui un breve ritratto, che non è privo
di comicità:
«Ottava d'Isidoro, che ha il dritto esclusivo di cominciar
« sempre. — Dopo essersi grattato il capo, preso tabacco, e guar-
« dato attorno con quegli occhi furbetti che ognun gli conosce,
'<( intinta la penna ben dieci volte, e tentato insomma di soffocare
« quell'estro divino che lo suol inspirare, rapito invaso dal Nume
« cosi cominciò.
«Qui rimase sospeso, perchè avea scrupolo di far cattivi
a Isidoro, che s'accinge a partire, lo invidia scherzosamente, perché si dà
il lusso di viaggiare, come fanno gl'Inglesi; e conclude:
Chi vuol saper dove Isidoro è andato,
Con le mule del conte andonne a Prato.
E nel sonetto dell'abate Gavard, leggiamo:
Mentre Dorin, che non fu mai minchione.
Messo a parte il cavalleresco onore,
La paglia tribbiando al suo corridore
Il mestiere facea dello stallone, .... ecc.
(1) Così, egli medesimo dice nel componimento n» 12:
Chi è causa del suo mal pianga sé stesso :
Ripeterlo vogl'io e con piacere;
Perchè, avanti di compor, sovente e spesso
Temo — dissi — di far dispiacere.
Ma voi, quasi a pregarmi genuflesso.
Un' ottava, mi dicesti, vao' vedere : ecc.
e più oltre :
Sofferenza ci vuol talvolta ancora.
Che scopo eir è di chi vuol conversare :
Non tutto a modo suo; e in qualche ora
Fa d'uopo ancor lasciarsi corbellare
A chi di società il nome onora;
Ma certo per minchion tion vuo' passare;
Se canzonato io san, risponder voglio; ecc.
Ho ritoccato solo qua e là la punteggiatura.
390 E. PIAZZA
« versi : questo scrupolo ci parve strano. Dopo lunghi stenti par-
« tori il primo verso
€ Di far de' versi ognun vantar si puole... > ecc.
Ma basti anche d'Isidoro; che il lettore n'avrà con noi già piene
le tasche.
Son questi adunque, oltre dW Anonimo, gli interlocutori del-
l'Accademia. < Poetastri » son detti, e son veramente; e nelle lor
pessime rime la decenza e il senso comune e la metrica son del
pari oltraggiati. Quanto ai temi del poetare, son vari: ora è una
tenzone a scambio di banali canzonature; ora una presentazione
di personaggi; qui Isidoro si giustifica dell'aver toccato la su-
scettività di qualcuno; più là, i poeti si provano a gara sopita
un soggetto obbligato; ecc. In quattro di quei componimenti ve-
diam trattarsi un argomento in comune: è un Sonetto suìla
prima donna della Pergola, o un Capitolo sopra il poetastro
Enrico, e via dicendo; e in questi soli vediamo introdurre qualche
verso anche le donne. — E l'Alfieri? qual parte sostìen egli in
questa Accademia ? e si tratta poi veramente d'un'accademia nel
senso che comunemente si suol dare a questa parola ?
Convien dire che, ancora in quella seconda metà del sec. XVIII,
prima almeno della grande Rivoluzione, in Italia anche tra gli
adulti si bamboleggiava; e il furore per le accademie era, pur-
troppo, si connaturato agli Italiani nel sangue, specie della no-
biltà e della men che mezzanamente cólta borghesia, che bastava
si adunassero quattro gatti a veglia in una casa privata, perché
subito si dessero a miagolare in veste d'accademici. Si aggiunga
che nell'anno di grazia 1776 in particolar modo fervevano le
dispute e i cervelli per la improvvisazione poetica, ed erano in
Firenze vivissime proprio allora che ci si trovava l'Alfieri. Or,
com' era naturale che per le infinite colonie e sub-colonie d'Ar-
cadia sorgessero per ogni dove larve e parodie d'accademie, del
pari comune doveva esservi il caso del vedervi spuntar come
funghi le gare e i rimatori improvvisi. Uno di codesti frutti
spuri ed insipidi è appunto la /Jacco/^a poetica di casa Qavard;
la quale però, a nostro vedere, rappresenta solo uno scherzo, e
un episodio piuttosto tardo di quei convegni, incominciati già
qualche tempo innanzi (1); e nasce per puro accidente nel raag-
(1) Il sonetto prò Gorilla del Nannini porta, tra i quarantaquattro com-
ponimenti della prima sessione, appena il n® 10; dunque nei primi di set*
VARIETÀ 391
gior fervore di quelle dispute. Mi par di vedere che la cosa
dovè andare press'a poco in questo modo : un bel giorno, verso il
finire d'agosto, salta il ticchio a quel capo ameno di Enrico di
metter su in casa sua, per divertir sé e le ragazze, un agone
poetico di quella fatta. Perchè no? siamo tutti improvvisatori in
Italia. Suo compagno di tenzone sarà quel bonaccione d'Isidoro ;
l'Alfieri farà da Segretario; e il resto verrà da sé. Né si creda
eh' io parli a caso. Il componimento n" 12 della Raccolta, ricol-
legato col senso del 1° e del 4^ ce ne dà, per quanto almeno
concerne Isidoro, la prova evidente. Vengono una mattina a pi-
gliarlo; e te lo conducono all'abitazione di quello ch'egli chiama
enfaticamente « Conte rinomato, Del Turineo paese bel germo-
« glio » (1), affinché vi dia un saggio della sua valentia improv-
visatrice; ed egli, benché riluttante, alla fine ci si piega. Quel
saggio (2), presentato poi in iscritto, vien cacciato anch'esso nel
tembre V Accademia è incominciata da pochi di. D'altra parte, la famigliarità
grande tra il Gavard e l'Alfieri, che si mostra già nei componimenti 5-8,
rivela una conoscenza di più vecchia data, che solo in Firenze poteva essersi
stretta, se in Firenze il Gavard copriva il posto che sappiamo presso il Gran-
duca almeno dai primi del 1775.
(1) N. 12. In questo, Isidoro riferisce come un Cavalier garbato (nei com-
ponimenti n» 1 e no 4 è chiamato il Santini), incontratolo una sera presso
il Bottegone, si dolesse con lui d'esserne stato, in una sua ottava, deriso;
soggiungendo :
Vi prego (disse) a volervi astenere.
Quando componete in poesia,
Della critica lasciar la strada ria {sic).
Sovvengavi l'ottava che facesti
Quando andiedemo insieme dairAliieri ? —
Ma, gli risposi, allor non disdicesti; ecc.
Cfr. anche la nota 1, a pag. 389.
(2) È questo il componimento che reca il n» 4, nonostante che dovesse
trascriversi come primo. Ce lo dice una postilla marginale dell'Alfieri :
« Quest'ottava dovrebbe essere prima nel quaderno, ma avendola il segre-
« tario ricevuta dopo l'altra (cioè dopo il n^ 1) non ha potuto darle il con-
« venevole luogo; gl'intenditori, e quei che riflettono, intenderanno però,
« confrontandole entrambe, che l'altra è fatta dopo, essendo molto migliore :
«anzi si possono da questi due parti notare i progressi rapidissimi dell' in-
< gegno umano». — Questo saggio incomincia:
Vorresti qttestà mane improvvisassi
e termina:
Giungemmo al fine al desiato porto :
Io feci qaest' ottava mezzo morto.
392 E. PIAZZA
quaderno; e Isidoro, scritturato senz'altro, nella prima adunanza
serale, con un'altra Ottava (i) «cantata quasi estemporanea-
« mente > (cosi postilla il segretario), inizia la serie di quei poe-
tici passatempi.
Che l'Alfieri si acconciasse di buona voglia a stare in tal com-
pagnia, si può spiegare in più modi. Forse non erra interamente
il Palermo, quando pensa che, in sul principio almeno, il desiderio
d'impossessarsi della lingua parlata in Toscana vi avesse parte:
che concorderebbe con le parole riferite della Vita a quell'anno.
E un'altra ragione potrebbe cercarsene nella insaziabile sua va-
nità. Noi lo vediamo infatti, in mezzo a quel va e vieni, venerato
come il Nume delle adunanze. Egli troneggia nel posto d'onore,
in seggio più cospicuo e più adorno, attorniato dalle ragazze,
nuovo Apollo in mezzo alle Muse (2); e a lui si volge rispetto-
samente la parola enfatica d'Isidoro, augurante di veder lui pure
assiso, con la laurea e con lo scettro, « dell'alma città nel Cam-
« pidoglio » (3). Sulle prime, dà anch' egli alla 'Raccolta il suo
contributo poetico; e abbiamo veramente di suo un sonettino e
xxxiottavìna tra i primissimi componimenti del manoscritto (4);
(1) È il primo componimento dello zibaldone. In esso riparla, come di un
ipocrita e bacchettone, del Santini.
Io ebbi sempre a noia i bacchettoni.
(2) Vedi il comp. n» 11: Ottave del sig, Isidoro:
Numero nove ottave a voi presento,
0 grand' eroe, che portate il vanto
Di starvene con sedia pien d'argento
Dell'aurato stuolo di Muse accanto .... ecc.
(3) N. 11 :
A voi si, oh Conte rinomato,
Del Turineo paese bel germoglio.
Che dalle Muse tanto siete amato,
' Preparar si comincia il vostro soglio ;
E con lo scettro in man laureato
Dell'alma città nel Campidoglio
Bramo vedervi assiso, o conte Alfieri,
Che nudrite nel sen sì bei pensieri.
Altra eco dell'incoronazione di Gorilla!
(4) Non riferirò VOttavina del segretario (n» 7), della quale diede già i
primi versi il Teza (Vita ecc., p. xix, n.). Riporto invece il sonetto, rad-
drizzandone la punteggiatura; non per la sola ragione eh' è inedito: ma
perché mostra che il sonetto al P. Ricca era stato veramente, prima che
à&ìV Anonimo, imitato dall'Alfieri medesimo. — Strano che il Palermo, il
VARIETÀ 393
ma la piega poco bella che prende poi quel rimeggiare lo induce
bentosto a ritener per sé la sola parte di trascrittore fedele e
di scoliaste degli spropositi altrui, col diritto di commentare, di
punzecchiare e di far dello spirito dinanzi alle donne. Non si può
escludere tuttavia che, oltre a quel desiderio di parer bello, di
piacere, di farsi centro a' mediocri per figurarvi da più di loro,
qualche altra ragione vi contribuisse del pari. Fa d'uopo ram-
mentarsi, a questo proposito, qual fosse l'Alfieri in quel tempo,
e qual vivo bisogno fosse in lui, nauseato di troppo facili donne
e sazievoli amori, di avere il cuore occupato da qualche più
puro e gentile affetto, eh' egli s' andava cercando intorno an-
siosamente, benché a stento ardisse aflidarvisi , timoroso di
nuovi disinganni. In un simile stato d' animo s' era trovato
poco tempo innanzi a Pisa (1), quando, combattuto tra il si e
quale a lui attribuiva uno dei tre àeW Anonimo stesso, di questo, che è in-
dubbiamente suo, non faccia motto. Abbia confuso e scambiato l'uno con
l'altro? Comunque, ecco il sonetto dell'Alfieri: — N. 5. Sonettino del segre-
tario al sig. Enrico sopra una traduzione d^un verso latino fatta dal pre-
detto, con la solita sua felice eloquenza.
Che tradazion bestiai, stupida e sciocca,
Traduzion che non vale una patacca,
Lunga, infedel, poco armoniosa e fiacca,
Ardisti a me mandar, o impura bocca ?
Pegaso, il sai, sotto di te trabocca,
E le costole spesso anche s'ammacca.
A che destar la Musa tua, eh' è stracca?
Senza che tu poeti, ognun ti cocca.
Vate non sei che col desìo: tal pecca
Hai con molti comune, in cui si ficca
Quest'appollinea rabbia che ci secca.
Non è la vena tua cotanto ricca
Che paiano i tuoi versi oro di zecca:
Tu sei bambino ancori — To' questa chicca.
(1) Vedi i Giornali pubbl. dal Tbza. — In data di lunedì 2 giugno (1777),
Siena f scrive: «In Pisa rividi una ragazza con cui facea V amore. Vanno
« scorso', non ne sono innamorato: ma la mi pare d'un' indole ottima: e non
« fui mai così vicino ad ammogliarmi La tranquillità così necessaria al
« mio mestiere mi parrebbe perfetta, avendo una moglie amorosa e costu-
«mata: ma se non è? Questa costumata pare: innamorata di me lo pare:
< ha rifiutato altri partiti: in un anno d'assenza, so che ha sempre cercato
« di me, senza ch'io non le avessi detto né anche una volta, ch'io l'amassi.
« Quando son con lei, la veggo in quel contegnoso e modesto impaccio, in
« cui si trova una ragazza che ama e non l'osa dire, ma vuol eh' io l' in-
« dovini. Finta finora non lo è: ma, ma, ma, ma: bisogna pensarci » {Yita
Giornali Lettere, p. 353).
394 E. PIAZZA
il no del parlare o del tacere, e non osando dichiararsi, lasciava
discorrere in sua vece con il molesto scricchiolio la seggiola
sulla quale si veniva dimenando, dinanzi alla amorosa e costu-
mata Sandrina, che, in atto contegnoso, aspettava dalla bocca
di lui qualche altra, più esplicita dichiarazione, che non veniva
al punto mai (1). Egli è che, prima d'impegnarsi un'altra volta
sul serio in un nuovo amore, che, data l'indole sua e i casi
precedenti, non poteva non tramutarsi in passione viva e violenta,
egli aveva bisogno di pensarci più volte; e soprattutto d'esser
ben certo che la compagna cercata fosse veramente degna di
quell'ardente foga d'affetti ch'ei sentiva di poterle dare senza
riserve. — Intanto, tra la Sandrina e la Carolina, come
Intra duo cibi distanti e moventi
D' un modo,
non dico che si lasciasse morir di fame; ma si contentava di
prendersela alla larga, con un dire e non dire; allontanando da
sé il momento d'una scelta definitiva, per la quale c'era sempre
tempo di finire a scapicollarsi.
Quei famigliari convegni, che, incominciati forse nel luglio e
continuati nell'agosto, si protrassero fino alla fine del settembre
1776, vengono a trovarsi interrotti di necessità per la partenza
dell'Alfieri da Firenze. Il suo sollecito ritorno in Piemonte av-
venne, non già perché egli si credesse < intoscanito abbastanza;
« ma per molte altre frivole ragioni ». « I miei cavalli lasciati
« in Torino — racconta nella Vita — mi vi aspettavano e ri-
« chiamavano Né mi premeva allora tanto lo studio e la gloria,
« che non mi pungesse anco molto a riprese la smania del diver-
« tirmi » (2). Confessione rilevante questa, e alla quale crediamo
senza fatica. Ce ne dan prova infatti i sonetti nei quali descrive
(1) Mi par questo il commento più naturale all'Epigr. XV dell' ediz. del
Renier (Dialogo fra una sedia e chi vi sta su, p. 281), che rispecchia vi-
sibilmente io stato d'animo d'un corteggiatore perplesso; e ch'esso epigramma
abbia strettissima parentela col passo dei Giornali citato. — È dunque un
errore di stampa la data Pisa, giugno 1766 riferita dal Renier nella sua
Introduzione (p. lxxvi), e va letto 1776. Del '66 in Pisa l'Alfieri fu nel
decembre, e per un sol giorno (vedi 7t(éi, p. 39). 11 nome SandJrina è nel-
l'epigramma.
(2) Vito, p. 179.
VARIETÀ 395
«a parte a parte le bellezze palesi d'un'amabil signora »(1); le
lezioni di musica che a una bellissima signora « si smania di
« dare », « con la speranza, per non dir la certezza, che in otto
« giorni ella potrà aver da lui idea chiarissima dell'accompa-
« gnamento di cembalo » (2); la vanagloria del saper tante donne
innamorate di lui, e non a Torino solo, ma in Toscana, « dove
« in mio pensiero » — scrive — « già ho acceso parecchie donne
« dell'amor per me > (3); e dove si strugge di ritornare per < far
« mostra della sua amabilità » ; il gareggiare al passeggio con
alcuni amici oziosi e del bel mondo per esser notati dalle si-
gnore (4) ; e il mostrarvisi con aria di conquistatore in compagnia
d'una dama da cui è amato, e che non si vergogna di dirlo né
a lui né a chi lo vuol sapere (5). Come ciò fosse poco, egli se-
guita tuttavia, nonostante quel po' po' di chiasso e di colascionate,
a far visite frequenti alla sua « antica fiamma », alla « dotta
« Frine » che gli prodiga « vezzi e lascive provocanti carezze »;
la quale, sebben egli non l'abbia stimata mai, e a quest'ora l'ami
pochissimo, s'egli s'ostinasse ad attaccare (dato che un innomi-
nabile incomodo gliel permettesse), l'amor proprio gli dice che
gli cederebbe di nuovo (6). Partito a' 4 di maggio per la Toscana,
fin dal primo giungervi, come confessa in quei diari, non ha altro
pensiero che « di piacere » ; « di presentarsi in aspetto favore-
« vole»; di «figurar per i cavalli »; di «comparir bello; poi
« ricco; poi uomo di spirito; poi autore ed uomo d'ingegno » (7).
Or da tutto questo apparisce ben chiaro che la sua conversione
letteraria non è punto, fin qui, un fatto compiuto; e sopra tutto,
(1) Vita, p. 180; e cfr. Rime, I, soa. V a XIII.
(2) Giornali, p. 346.
(3) Ibidem, p. 344.
(4) Ibidem, p. 349.
(5) Ibidem, p. 350.
(6; Giornali, pp. 345 e 351. — Curioso che il Fabris, il quale (St. Alf.,
pp. 108-9) interpretava a rovescio il Carducci intorno agli intendimenti
della satira alfieriana, non accorgendosi di sfondare una porta aperta col
ripetere press' a poco le cose dette dall'illustre critico, da lui mal letto o
male inteso; se la prenda a questo punto (nell'opuscolo: I primi scritti in
prosa di V. A., Sansoni, 1899, p. 11) anche col Teza; il quale, avendo sop-
presso alcuni passi scabrosi del ms. Laur. 5 nei Giornali e sostituitovi dei
puntini, se ne scusava con dire: «Brutto diritto è questo metter la mano
« negli scritti dei grandi : e bratto dovere, anche » ( Vita Giorn. Lettyp- 354).
(7) Giornali, pp, 353-4.
396 E. PIAZZA
ch'egli non ha ancora la visione netta dell' alta missione civile
a cui si sentirà chiamato più tardi.
Al suo ritorno in Firenze, pertanto, che fu verso la metà di
ottobre di quell'anno 1777, nonostante i cinque mesi della dimora
in Siena col Gori , noi lo vediamo subito far ritorno agli antichi
ritrovi. Qual fosse l'accoglienza fattagli dagli amici di Firenze
egli non dice; ma, con la scorta del nostro manoscritto, non è
difficile immaginarlo. Lo. conversazioni di 'casa Gavard ricomin-
ciano: né si dimentica di farvi novamente appello al buon Isidoro,
alla cui presenza, il 15 di ottobre, si procede alla seconda aper-
tura deìV Accademia.
Se non che d'un tratto, quando meno ce l'aspettiamo, il famoso
zibaldone, subito dopo il terzo componimento, è interrotto.
Perché ?
« Ed ecco » — scrive l'Alfieri a questo punto, dopo averci
detto che da Siena s'era recato a Firenze non ancor' ben certo
se vi passerebbe pur l'inverno, o sen ritornerebbe a Torino —
< ecco che, appena mi vi fui collocato cosi alla peggio per pro-
« varmici un mese, nacque tale accidente, che mi vi collocò e
« inchiodò per molti anni » (1). Era questo l'atteso da si gran
tempo risorgimento dell'anima, il degno amore che doveva al-
lacciarlo finalmente; era il destarsi di quel misto incognito
indistinto, passione dell'intelletto e passione del cuore, che, di-
vampando come fiamma, « si andò a poco a poco ponendo in cima
« d'ogni suo affetto e pensiero » (2), e non doveva oramai spe-
gnersi più se non con la vita. Da questo momento, il lontano
lume di gloria, intraveduto tra i densi vapori di tanti affetti
irrequieti e incomposti, si fa manifesto, sempre più vivo e più
grande. Cedono le esitazioni e i tentennamenti; ogni relazione
col passato è rotta; e V Accademia anch'essa, con le futili rime
e il trono d'Apollo e le Muse, non ha più potere sull'animo suo.
Una mano ferma ha afferrato il naufrago, che, smarrito nel
pelago, invano ansioso interrogava il cielo torbido e fosco; una
cara voce gli ha suggerita la via, ha levato in alto il suo cuore,
gli ha parlato di grandezza; e il miracolo d'amore è compiuto.
— In presenza di questo fatto, e quali che siano le debolezze,
i difetti, i torti che (forse esagerando) si attribuiscono a Luisa
Stolberg contessa d'Albania, non può a lei senza ingiustizia ne-
(1) Vita, p. 189.
(2) rito, pp. 190-1.
VARIETÀ 397
garsi il vanto d'avere strappato alle men nobili passioni e al
basso aere di quella compagnia, non malvagia, ma scempia,
l'anima fremente di Vittorio Alfieri; e di avere, da tutte le virtù
di lui, e dai vizi anche, saputo trarre la quintessenza vitale, il
viatico atto a sostenerlo, volgendolo verso una meta ben chiara
e determinata. Intuì ella, forse, che di tanto più degno scudo
avrebbe difeso sé medesima e la propria sua colpa, quanto più
sublime avesse saputo indirizzare il pensiero e levar la fama di
lui; e, benché straniera all'Italia, della quale pure apprezzava
la passata grandezza, la bionda regina dei cuori esercitò intero
il suo fascino sull'animo del ruvido figlio del Piemonte; e riuscì
a maturare, a integrare in lui quel piene) rivolgimento, che né
il D'Acunha, né il Galuso ed il Gori avevano potuto. Per lei ca-
dono dagli occhi del poeta i veli, che gli offuscavan la vista ;
per lei gli si mostra in viva luce ciò ch'ei può diventare, e ciò
che può fare per la patria schiava , prostrata. E a lei devono
per non poca parte gl'Italiani (se ben discerno) il riscatto intel-
lettuale e morale del loro poeta: il primo dopo Dante che,
uscendo dalla caligine del suo tempo, addita agli Italiani il sole
delle età future (1).
Ettore Piazza.
(1) Non occorre ripetere qui ciò che tutti ormai sanno : noi lasciamo ai
nostri egregi cooperatori pienissima libertà nei loro apprezzamenti. Ma non
possiamo lasciar passare questa chiusa dell'articolo del prof. Piazza senza
dire che rispetto alla contessa d'Albany il nostro giudizio è assai diverso
dal suo, per non dire addirittura opposto.
La Direzione.
Giornale storico, XXXVUI, fase. 114.
2S
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
GIOVANNI PASCOLI. — Sotto il velame. Saggio d'una interpre-
tazione generale d^l poema sacro. — Messina, Moglia, 1900
(8°, pp. xv-624).
State contenti, umana gente, al quia. — E per me questo è un principio
sacrosanto anche in arte, non meno che in religione. Una religione che si
potesse spiegare in ogni sua particolarità, non sarebbe più una religione, ma
una scienza: e una scienza sarebbe l'arte che fosse tale; il che vuol dire
che sarebbe distrutta cosi la fede come l'ispirazione, e l'essere santo e l'es-
sere poeta dipenderebbero solo dall'aver appreso bene e bene applicato una
teorica. Ora siccome l'essenza della religione, e l'essenza dell'arte parimenti,
sta in ciò che eccede la nostra conoscenza razionale, il cercare il propter
quod è cercar l'impossibile, e il trovarlo equivale a dimostrare che quella
pareva religione o pareva arte, ma non erano.
Questo io pensava leggendo il nuovo libro del Pascoli, libro pieno di
dottrina, che non è superata se non solo dall'entusiasmo, pieno di raffronti
nuovi, ingegnosi, suggestivi, contenente una miniera di materiali preziosi,
scritto con garbo di forma e di pensiero, ma... lo devo dire? La tesi fonda-
mentale non torna e non persuade; e se fosse vera, povero Dante! Questo
io pensavo leggendo quel libro, e pensavo che non costituisse anche un
esempio molto pericoloso, tanto più pericoloso quanto maggiore è l'autorità
dello scrittore e quanto più l'eccezionale acume del suo ingegno sa dare tal-
volta appariscenza ai suoi ragionamenti; pensavo se in questo sistema di
critica non sia forse da riconoscere la tendenza ad un nuovo bizantinismo
non migliore del vecchio, di cui io vedo già molti segni anche fuori della
critica dantesca, e se non sia dover nostro di riflettere un po' sulla via che
stiamo per prendere.
Poniamo infatti per un momento che arte idealmente perfetta sia quella,
di cui si possa rendere ragione punto per punto e nell'analisi di ciascuna
sua parte presa separatamente e nella sintesi e nella corrispondenza di molte
0 di tutte le parti fra loro, in guisa da rispondere ad una precisione razionale
e scientifica; dico prima di tutto, che questo ideale non si potrà mai rag-
giungere per alcuno, e che per quanto lo si voglia perseguire, sarà impossi-
bile sempre evitare il soverchio, il manchevole, l'indifferente, l'impertinente,
per non dire dell'irrazionale e del contraddittorio, i quali sono pure, come
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 399
dimostreremo in altro luogo, ingredienti dell'arte, che, come è impossibile,
cosi è spesso anche inutile cercar di evitare. L'arte, anche a male aggua-
gliare, potrà avvicinarsi tutt'al più alle scienze morali : e nelle scienze mo-
rali tutti sappiamo quanto sia difficile lo sceverare il contingente dall'assoluto
e trovar quella precisione che è propria della matematica: ne viene per ciò
che il volere precisione e assolutezza nell'arte è come voler l'impossibile, e
chi l'ha cercata e ha creduto di trovarla, ha scambiato spesso l'arte con la
tecnica e ha discorso di questa credendo di trattare di quella. Se pertanto,
come ho detto, poniamo per un momento che questo sia un ideale deside-
rabile, non ne viene che sia un ideale raggiungibile, come è appunto il ca-
rattere di ogni perfettibilità. E, nel caso nostro, se Dante se lo propose, non
vuol dire che lo abbia raggiunto, e nemmeno che abbia inteso di raggiun-
gerlo 0 che se ne sia sentito capace. Io credo che Dante sia stato un grande
poeta, anzi credo che sia stato il piiì grande poeta dell'umanità, lo pongo
senza esitare al di sopra degli stessi greci; ma ricordandomi bene del pre-
cetto del Decalogo che dice, non avrai altro Dio avanti di me, non mi sento
disposto a trasgredirlo nemmeno per Dante. Dante per me è un uomo, un
uomo sovranamente straordinario, ma un uomo : egli è dotato di facoltà più
perfette degli altri mortali, ma sono facoltà umane, e l'interesse che mi av-
vince a lui è appunto un interesse umano: mi è più caro amarlo che ado-
rarlo. Quando tratteremo di teologia, cercheremo con la ragione quali sieno
le perfezioni immaginabili e le attribuiremo a Dio tutte quante, sapendo di
porle al luogo loro; ma quando scenderemo alla psicologia, dobbiamo pure
essere disposti preventivamente a trovare negli animali e negli uomini con-
tingenze e difetti, possiamo anzi essere sicuri che contingenze e difetti ci
sono, anche se noi non li sapessimo vedere. Ora poiché la perfezione è ir-
raggiungibile, sono anche inesauribili le condizioni che, di mano in mano
che la riflessione si esercita, si richiedono per raggiungerla, e chi ne vede
una e chi un' altra, e chi più aguzza l'occhio più ne vede, così che se di
mano in mano si volesse ridurre l'opera d'arte a quella perfezione razionale
che non finisce di farsi sempre più rigorosa, ancorché ci si limiti a ricercare
questa esattezza, non secondo gli ideali assoluti, ma secondo quelli che si
attribuiscono all'epoca e all'ambiente a cui l'opera appartiene, non sempre
il problema si potrebbe risolvere senza stento e senza guasto. E allora, se
si tratta di opere antiche delle quali non si conservi una tradizione paleo-
grafica che risalga fino alle loro origini, è sempre in pronto uno spediente
che per sua natura non può mai sbagliare: e così con la maggior serietà e
senza ridere i poemi d'Omero continueranno ad esser rifatti operando tagli
o immaginando lacune, con la certezza che per volger d'anni e di secoli
non mancherà mai ai filologi la materia a questa tanto dilettevole quanto
facile occupazione: ciò che non ci garba lo si condanna, e a tirare e a rap-
pezzare si riduce al nostro modulo il panno che fosse stato tagliato troppo
scarso. Ma là dove il testo é quello che è, e la tradizione sostanzialmente
è sicura, e interpolazioni non se ne possono ammettere, e amputazioni non
se ne possono praticare, non è peraltro minore il pericolo che si minaccia
all'arte da questo genere di critica. Lì non resta altro che spiegare, e delle
due Tuna, o l'opera non si presta affatto alla nuova interpretazione e la si
400 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
condanna: il giudizio dei nostri maggiori era erroneo, e noi dimostriamo
che avevano torto; — o vogliamo a priori dimostrare che quel giudizio era
giusto e che quell'ammirazione era ragionevole anche davanti al lume supe-
riore della scienza nostra, e ciascuno fa a gara per guardare più acutamente,
Qaale ò colai che adocchia e s' argomenta
Di vedere eclissar Io sole un poco.
Che per veder non vedente diventa.
La sottigliezza e l'arguzia allora scoprono le virtù nuovamente richieste;
ma se sottigliezza ed arguzia e straordinario acume di dottrina e d'intelli-
genza sono necessari a scoprirle, a me pare che questo conchiuda, non meno
di quell'altro metodo, alla demolizione dell'opera d'arte. Se per intendere la
Divina Commedia era necessario aspettarne la rivelazione da Giovanni Pa-
scoli; se prima di lui di tante supposte meraviglie nessuno si era accorto, e
dopo la rivelazione ancora molti, i più anzi, non ci credono; mi pare sarebbe
dritta e legittima la conseguenza che la Divina Commedia è un' opera sba-
gliata, e Dante, che scrive in volgare e commedia per parlare agli italiani
e all'umanità, avrebbe fatto appena un' opera analoga a quella di Licofrone,
che almeno sapeva di non iscrivere che per gli eruditi.
Ma non solo questa perfezione l'azionale non è raggiungibile da alcun^opera
d'arte; ho detto che non è né da cercare né da desiderare, come cosa che
all'arte é del tutto estranea e sarebbe la sua rovina e la sua morte. Il Pascoli
dice di aver egli per primo trovata la chiave del poema di Dante e d'averla
volta come si deve nella toppa; con altre parole ciò significa ch'egli avrebbe
sciolto l'enigma, avrebbe spiegata la sciarada. Che infatti a un enigma oscuro
e fumoso si ridurrebbe in parole povere la Divina Commedia, un enigma
che non si può risolvere senza la sapienza d'Edipo, dunque una cosa scioc-
cherella abbastanza, come sono tutti gli indovinelli. Che un senso allegorico
la Commedia l'abbia, nessuno sognerà mai d'impugnare. Dante stesso ce lo
ricorda più volte, e sta bene, e tutti l'hanno ravvisato e riconosciuto senza
molta fatica; ma un'allegoria che si stendesse attraverso tutti i cento canti
e che quadrasse col senso letterale in ogni particolarità per filo e per segno,
a me pare che sarebbe la più scipita e la più inutile malinconia che avesse
potuto travagliare un cervello umano, e sia pure un cervello medievale. Se
poniamo che lupa sia eguale ad avarizia, e nessun atto possa fare e in nes-
suno stato si possa trovare questa lupa che all'avarizia non corrisponda, e
viceversa per consentaneità dell'avarizia nulla si possa dire che non con-
venga anche alla lupa, così che ogni volta che si pronuncia l'una o l'altra
parola deva essere presente al poeta e al lettore l'uno e l'altro senso, mi
parrebbe anche naturale il desiderio che si terminasse questo scherzo scipito
e si chiamassero le cose col proprio nome. Per me invece l'allegoria, e spero
che molti saranno meco d'accordo, non è che un mezzo di suggestione, e
non é che una delle tante manifestazioni di quel requisito essenziale del-
l'arte, che è di 8u.scitare nella mente e nell'animo del lettore il maggior nu-
mero di idee, di fantasmi e di sentimenti oltre quelli che sono materialmente
significati dal senso grammaticale delle parole. E suo requisito essenziale
pertanto, credo io, è, non la precisione, ma an/à una certa indeterminatezza :
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 401
essa è un' associazione di idee cui il poeta dirige la nostra mente, e, come
in ogni associazione, tra le cose chiamate a confronto non c'è identità ma
somiglianza.
Se il Pascoli mi risponderà che Dante non è solo poeta d'ispirazione, ma
che, come è sommo in questa, altrettanto è mirabile per la riflessione, che
perciò non basta richieder da lui le qualità del poeta, perocché egli ha in
sommo grado anche quelle del pensatore, io non potrò far altro che conve-
nire su questo punto perfettamente con lui. Perciò la tesi della sua Minerva
oscura mi parve ben posta e, ancorché non mi accordassi con lui nella solu-
zione, sono stato allora tra i primi che cordialmente plaudirono alle dotte
e geniali ricerche, ed ora nulla ho da mutare di quel mio giudizio. Là si
trattava del principio generale sul quale il poeta informa il suo sistema mo-
rale, e appunto perchè Dante è pensatore, oltre che poeta, pare anche a me
che un principio unico e informatore egli lo deva aver preso a fondamento,
e che la triplice applicazione di esso ai tre regni non deva essere stata
casuale e arbitraria, ma deva aver corrisposto nel disegno generale alle dif-
ferenti esigenze della differente materia. Anche qui però, anche in questo
disegno generale, sono lungi dal credere si debba aspettarsi un'esattezza ma-
tematica fino ai più minuti particolari, senza dire che tutta quanta la disqui-
sizione in proposito ha per l'arte un interesse affatto secondario. Che nel-
l'Inferno e nel Paradiso sieno puniti rispettivamente i peccati capitali e
premiate le virtù corrispondenti, o che invece il premio e la pena sieno
commisurati qui e là agli atti meritori o demeritori, come io preferisco di cre-
dere, é questione che, comunque si risolva, poco toglie o poco aggiunge al
valore del poema, ed ha solamente interesse per conoscere il sistema filoso-
fico di Dante, la sua cultura, le sue fonti, la sua originalità, tutte cose certo
non indifferenti per il critico, ancorché l'arte c'entri soltanto indirettamente.
Ma se io convengo fino a questo punto, gli è perchè fino a questo punto la
filosofia e la dialettica o corroborano ed aiutano l'opera d'arte o almeno non
le sono d'impaccio: mi rifiuto invece ad infliggere a forza all'opera del poeta
la coercizione di alcun' altra pedanteria e a volergliela scoprire a furia di
sillogismi, se mai al senso spregiudicato del lettore non la si volesse ma-
nifestare.
Ma le parole sono parole, e di bei ragionamenti generali molti hanno
grande dovizia. Sarà meglio pertanto esaminare più da vicino il libro del
Pascoli e provare il nostro asserto coi fatti. Soltanto prima di cominciare
la discussione mi permetta il Pascoli che io riferisca qui un brano del Gorgia
di Platone. È Socrate che parla, p. 457 G : « lo credo, o Gorgia, che anche
« tu abbia fatto esperienza di molti ragionari e che tu abbia veduto in essi
« accadere questo, press'a poco, che non facilmente i disputanti, determinando
«e bene ciò di cui imprendono a discorrere e informando e imparando reci-
« procamente, riescono poi a condurre a termine la conversazione, ma se
«< discutono su di un punto, e l'uno non ammette che l'altro dica bene o
« chiaramente, si irritano e credono che si parli per far loro dispetto, osti-
« nandosi nel proprio parere senza cercar più ciò che s'era proposto nel ra-
« gionamento; e alcuni anzi alla fine si separano in malo modo dopo essersi
« strapazzati, e dicendo e sentendo dire reciprocamente cose tali da far sì
402 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« che i presenti si cruccino seco stessi d'essere andati ad ascoltare sì fatta
«gente. E perchè dico io questo?.... Perchè temo di confutarti, che tu non
«supponga che io parli non per la cosa, desiderando che sia chiarita, ma
« per te. lo pertanto, se anche tu sei di quelli uomini dei quali sono io pure,
« con molto piacere ti interpellerei, e se no, lascierei stare. E io, di quali
« sono? Di quelli che con piacere si lasciano confutare, se dico qualche cosa
« non vera, e che con piacere anche confutano se altri dice non vero, con non
« minor piacere peraltro si lasciano confutare che non confutino. Però che
« questo credo sia un bene maggiore, in quanto è maggior bene esser libe-
« rati noi da un male pessimo, di quello che liberarne un altro. Niente infatti
« io credo che sia cosi gran male per l'uomo quanto una opinione falsa
« delle cose di cui si discorre. Se pertanto anche tu ammetta di essere tale,
« discorriamo. Che se ti pare anche che convenga lasciare, lasciamo pur
« stare e terminiamo il discorso >. — E ora devo attendere la risposta? Credo
di poterla interpretare senza attenderla. Il Pascoli con esemplare onestà let-
teraria nel suo libro non si dissimula anche gli argomenti contrari ai suoi
asserti, ma talora li offre egli stesso e per così dire li dà in mano ai con-
traddittori: egli è dunque di quelli che come Socrate e come me amano la
verità più che la propria opinione.
Che cosa è la selva per il Pascoli? Egli muove per rispondere da un passo
del Convivio^ IV, 24, ove Dante parla dell' « adolescente ch'entra nella selva
« erronea di questa vita ». il quale « non saprebbe tenere il buon cammino
« se dalli suoi maggiori non gli fosse mostrato ». Poco più oltre dopo aver
pure osservato che « la selva del Convivio è la vita stessa, quella della Com-
« media è, non la vita, ma nella vita », ravvicina tra loro le due selve
quasi dovessero essere un concetto solo. Per me non ci trovo questa neces-
sità. La selva del Convivio non è che una metafora comunissima, innocente
e senza alcuna malizia, ed io non vedo affatto perchè questa immagine non
possa servire anche a rappresentare altre idee o simili o diverse da quella
che rappresenta in questo luogo. È un fatto notato e risaputo che una delle
principali cagioni, e forse la prima di tutte, di quelle discussioni che non
trovano mai la via di finire, si è il mutarsi inconsciente del supposto con-
tenuto dei vocaboli che si adoperano, così che la stessa parola, che pure
intenzionalmente dovi ebbe sempre significare la stessa idea, ia realtà ora
vuol dir di più ora di meno ora qualcosa di diverso: e se ciò avviene
quando la costanza del significato è richiesta da logge di scienza e di co-
scienza, perchè ci meraviglieremo che il contenuto sia diverso quando non
c'è alcuna necessità che sia identico? La selva del Convivio è la vita, quella
della Commedia è nella vita , e se questo si ammette, a che serve tirare le
parole di Dante a dimostrare ch'egli si smarrì adolescente? Non dico che
ciò non sia argomentato con molto acume là dove si tocca dei rimproveri
che fa Beatrice al poeta: gli rimprovera infatti d'essersi lasciato sedurre e
traviare dalla vanità, peccati d'inesperienza e d'adolescenza; ma insieme essa
gli fa anche sentire tutta la sua piena responsabilità; — aha la barba; —
e poniamo pure che questa espressione si possa prendere per un' iperbole,
come a dire — fanciuUone, fa giudizio, che no è giunto il tempo; — ma per
iperbole non si possono prendere questi altri tre versi:
RA.SSEGNA BIBLIOGRAFICA 403
Nuovo angelletto due o tre aspetta;
Ma dinanzi dagli occhi de' pennuti
Bete si spiega indarno o si saetta.
Dante era dunque pennuto, era responsabile ; onde il Pascoli, che di ciò s'ac-
corge, cerca parare l'obiezione : « Dante, sebbene non più adolescente e molto
« meno fanciullo, sì quando entrò nella selva, si, e più, per il tempo che vi
« si aggirò, era tuttavia come un fanciullo ». E trova a proposito un luogo
del Convivio, I, 4, dove Dante parla della puerizia, non d'etade ma d'animo,
in un contesto per altro che nulla ha che fare con la nostra questione.
Ma, si può rispondere allora, se Dante era fanciullo di animo, tanto meno
Beatrice lo dovea ritener responsabile : i pennuti equivarranno semplice-
mente agli uomini giunti fisicamente alla pienezza del loro svolgimento;
ma gli occhi dei pennuti, non possono corrispondere che all'attitudine loro
a discernere e a giudicare : Dante avea gli occhi aperti. Dante dunque po-
teva bensì cercar di scusarsi attribuendo il proprio traviamento ad error gio-
vanile, ma Beatrice lo disinganna, — tu non sei più un fanciullo, alza la
barba. Errore era sì, quello di Dante, poiché in sostanza, e secondo Platone,
e secondo ragione, nessuno può volere il male se non per errore; ma era
errore d'uomo e non di fanciullo né di adolescente. Quindi se l'affermazione
del Pascoli che lo smarrimento nella selva raffigura il difetto di prudenza
torna giusta, si potrebbe rispondere, prudenza sì, ma quella prudenza che
rende l'uomo responsabile, quella la cui trascuranza rende l'uomo colpevole.
Il bambino che traversando la strada va sotto a una carrozza é imprudente
ma non é colpevole; il ciclista che correndo sfrenatamente in mezzo alla
gente mi investe é imprudente ed è colpevole, e certamente di questo se-
condo genere di imprudenza Dante intende parlare, e questo é anche proprio
di qualunque età.
Potrà parere a qualcuno che la mia critica sia molto sottile, e che dopo
aver trovato che dire sulle sottigliezze del Pascoli, mi sia messo in gara
con lui a chi sottilizza di più. E se il principio posto dal Pascoli non avesse
altre conseguenze, l'osservazione sarebbe pienamente giustificata: se Dante
si sia smarrito adolescente o già adulto, se lo smarrimento voglia dire de-
viare dalla prudenza in particolare o dalla ragione in generale, sono quesiti
che comunque si risolvano lasciano il tempo che trovano. Ma io non potevo
impugnare le conseguenze, se non toccavo prima dei principi. Ed ecco da
questi principi cosa deriva: trovo a pag. 40:
« ma passavam la selva t atta via.
Come la selva? la selva della servitù? Si :
La selva, dico, di spiriti spessi.
Dante non si trastulla con le parole ! Dante sa quel che dice I Se la selva
significa la mancanza di libertà nel volere, il limbo che tiene in sé i non
battezzati é una selva anch'esso. Mirabile linguaggio! » A dire il vero io da
ammirare qui non ci trovo nulla. Il limbo é una selva? Questa mi torna
aftatto nuova, e mi fa bensì meravigliare, ma non ammirare. Io mi sono con-
tentato sempre di intendere selva di spiriti (che non dice già selva degli
404 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
spiriti) per quantità grande di spiriti (tanto più che dice che erano spessi),
come una metafora usuale, come si dice selva di cifre, selva di spropositi;
con la debita reverenza io aveva anche sempre ritenuto che quelli li fossero
due brutti versi, e sq non mi arrendo alla interpretazione novissima, potrebbe
esser colpa anche dell'età mia che declina e della difficoltà che a questa età
si suol provare, come notava anche Orazio, a gettar via coraggiosamente ciò
che si era tenuto per vero in tempi migliori. Prosegue il Pascoli: « Ed è
« oscura questa selva. Dante vede infatti un foco,
ch'emUperìo di tenebre vincia.
Il foco risplendeva in mezzo alle tenebre senza sperderle e allontanarle ».
Sicuramente, ogni foco fa lume a questo modo, ed io non so pensare come
possa avvenire altrimenti. L'inferno è buio, e un lume non lo può rischia-
rare, se non come gli altri lumi che rischiarano i luoghi bui. Ora se tutto
l'inferno per sua natura e per necessità è oscuro, e se un fuoco ne rischiara
una parte, ne viene di necessità che questa parte non si possa dire oscura,
e se questa parte è selva, non la si possa dire selva oscura. È chiaro ciò?
C'è di più: poco più oltre Dante dice:
Traemmoci così dall' an de' canti
In luogo aperto, laminoso ed alto,
Sì che veder si potén tutti quanti.
Colà diritto, sopra il verde smalto
Hi fìir mostrati gli spiriti magni.
Ora il luogo aperto, luminoso ed alto è inconciliabile con la selva oscura;
e il verde smalto per me è prato e non bosco. Né si opponga che il nobile
castello è parte del limbo, e che la selva oscura è il resto, ma questa parte
no: il Pascoli ravvicina l'oscurità e la selva alla mancanza dell'abito (cos'i lo
chiama) di prudenza che nel cristiano si infonde coi battesimo: non battez-
zati erano tanto quelli quanto questi, tanto le turbe molte e grandi, quanto
gli spiriti magni, e se il simliolo deve rappresentare il loro comune difetto,
deve anche applicarsi a tutti senza diversità, e infatti il Pascoli l'applica a
tutti. Vero è che il Pascoli più oltre (p. 78) a conforto della propria teoria
cita quell'altro luogo ove Virgilio dice a Sordello {Purg., VII, 28 sgg.)
Luogo è laggiù non tristo da martiri
Ma di tenebre solo . . .
e ne conchiude che dunque nel limbo è tenebra. A me pare che ciò non
voglia dir altro se non che il limbo è sotto terra, e perciò è buio, se non
si accende il lume; e questa mi pavé anche una infelicità non piccola né
trascurabile: per il Pascoli invece questo ha un significato molto più grave:
« Si, egli dice, un fuoco illumina il castello; gli spiriti magni sono in luogo
< luminoso; ma quel fuoco e quel lume è tenebra ». Voglio che il lettore
creda che il ragionamento nel libro é rincalzato da molte sottili argomen-
tazioni e raffronti, e che io non espongo le conclusioni sue così nude per
malizia ma per necessità, perché se no prima dovrei riferire tutto il libro
6 poi scriverne un altro grosso il doppio per confutarlo. C'è del vero in
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 405
ciò che dice il Pascoli: e il vero mi pare è questo, che nel limbo manca
il lume del sole, perchè mancò la retta conoscenza di Dio, che v'è però la
luce della ragione e della sapienza umana, che s'ingegna di sostituire quel
lume il meglio che può; ma questo è anche, credo, ciò che dal più al meno
pensano tutti ; soltanto l'adolescente che non è adolescente, la selva che non
è selva, il lume che non è lume mi pare sieno conclusioni che vanno al di
là del mezzano intendimento degli uomini.
Analogo per molti rispetti al limbo è l'antinferno ove sono puniti gli scia-
gurati che mai non fur vivi, e ciò pure a ragione riconosce il Pascoli in-
sistendo sul paragone più che altri non faccia.
E qui innanzi tutto mi sia lecito proporre un' àitopia che il Pascoli o
non vide o non nota. Qui sono
l'anime triste di coloro
Che visser senza infamia e senza lodo
e insieme con esse gli angeli neutrali. Osserva il Pascoli egregiamente (p. 68)
« che gli angeli, appena creati, doverono prorompere in un atto di libero
« arbitrio ; che in libertà di volere erano creati ». Quelli che scelsero il bene,
meritarono, ed al bene aderirono poi sempre; e l'opposto avvenne a quelli
che scelsero il male: da un unico atto di libero volere dipese la loro sal-
vezza e la loro dannazione. Ma gli angeli neutrali nulla scelsero, non usa-
rono della loro libertà di volere, quindi non meritarono, quindi non furono
salvi, e non furono neanche dannati assolutamente per il male che non han
fatto, ma furono dannati relativamente per il bene che non vollero fare. E
qui il ragionamento non fa una grinza. Era un atto solo, una decisione sola,
e non l'hanno presa. Ma gli uomini? È egli possibile che vi sieno uomini
che non fanno mai né bene né male? Il vivere nostro può esso essere indif-
ferente affatto per la morale? È possibile che tutte le nostre azioni quoti-
diane (poiché nessuno vive nell'assoluta immobilità del corpo e dello spirito)
sieno senza colore e senza sapore, indifferenti e inconscienti come il volgersi
d'una bandiera ai colpi del vento? La giustizia umana può essere incerta
nel determinare la colpevolezza o l'innocenza: la giustizia assoluta no: essa
tien conto anche delle frazioni minime e per noi incalcolabili, e la bilancia
sua deve cadere o di qua o di là. E allora? lo credo che appunto in questa
irrazionalità consista la grandezza della concezione dantesca. Costoro furono
così poltroni che la poltroneria è la loro principale caratteristica, da potersi
dire con un' iperbole facilmente accettabile e comunemente accettata che
furono al mondo per niente: rappresentano la poltroneria ideale, non la pol-
troneria possibile; sono un concetto, non una realtà. Vorrei vedere qui i
critici a sciogliermi questa diflBcoltà e a dimostrarmi che la concezione di
Dante è razionale : per fortuna il Pascoli non si propone questo quesito. Ne
propone però un altro non meno scabroso e crede di scioglierlo agevolmente
(p. 72): «dagli angeli in fuori, quegli sciagurati non erano essi battezzati?
«Sì: perchè altrimenti essi passerebbero l'Acheronte e starebbero nel vero
«inferno». Oh bella! e dove di grazia? Nel limbo no, perchè quelli del
limbo hanno mercedi^ cioè meriti, e questi no: e allora di quale dei sette
peccati furono rei, secondo la teoria del Pascoli? o intorno a quale delle tre
406 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
disposizioni che il ciel non vuole fu la loro colpa, secondo il principio da
me preferito? Se non hanno fatto mai nulla, non potranno andare certo né
tra gli avari, né tra i golosi ecc., né tra i ladri, né tra i ruffiani, né tra i
barattieri e via via. La soluzione del Pascoli adunque non va, perché é ma-
terialmente impossibile, e la sua disquisizione su questo punto è perciò acuta
ma non vera. — Ma perchè poi costoro devono essere tutti battezzati? Oltre
altre ragioni sottili anche per questa, che l'insegna
Che girando correrà tanto ratta
Che d'ogni posa mi parerà indegna
secondo il Pascoli é la croce. La croce air inferno? Noa bisogna lasciarci
spaventare dalla novità: di li era passato anche Cristo. Gli è che piuttosto
a me pare che per un cristiano la vista della croce non deva essere consi-
derata come un tormento ma come un conforto e specialmente il poterla
seguire. Ora lasciamo di dire che, se quella fosse stata proprio la croce. Dante
cristiano e religiosissimo non l'avrebbe chiamata così indeterminatamente
e profanamente un'insegna; domanderò solo perchè correvano costoro dietro
alla croce? Confesso che qui il ragionamento del Pascoli (pp. 70-71) non lo
comprendo bene, e perciò prego il leltore di non fidarsi ciecamente di ciò
che dico e di riscontrare se dico giusto. — La croce nel pianeta Marte è
« premio di quelli che seguirono Cristo sino alla morte con la loro croce
€ indosso; cotesta, pena di quelli che non furono né ribelli né fedeli, di quelli
€ che vissero senza infamia e senza lodo, di quelli che non ebbero setta e
« sono spiacenti a Dio e al diavolo ». Ora io intendo bene ciò ch'egli dice,
che si deve seguire Cristo senza posar mai; non intendo quale rapporto ci
possa essere tra la croce di Marte e questa; non ci vedo né analogia, né
antitesi, e nemmeno simmetria materiale. Egli vuole che costoro che non
hanno seguito la croce da vivi, corrano dietro ad essa da morti : ed io torno
a ripetere che non mi pare una pena degna d'inferno. Caratteristica del dan-
nato è la impossibilità del pentimento: se potesse pentirsi si salverebbe:
costoro, se corrono dietro alla croce, con qual sentimento la seguono? La
desiderano? è l'insegna loro? Allora, mi pare, è segno che sono pentiti di
non averla seguita prima, e questo non può essere
Per la contraddizion che noi consente.
Che cosa sarà dunque cotesta insegna? Poiché Dante non me lo dico, io
mi accontento di non saperlo, e penso che se il poeta non l'ha meglio de-
terminata, la determinazione sia inutile anche per noi. Come ho detto da
principio, io non richiedo a Dante la perfezione, e certi dubbi, oltre che a
insufficienza mia, non credo bestemmiare se penso che possano attribuirsi
forse anche ad imperfezione del poeta. Infatti dapprima Dante domanda a
Virgilio che gente è che par nel duol sì vinta, e Virgilio risponde che sono
l'anime triste di coloro
Che TiMcr mdze infamia e senza lodo.
Poi parla degli angeli neutrali, poi si fa spiegare la cagione dei loro alti
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 407
lamenti ; poi guarda e vede l'insegna e la gente dietro, poi ne conosce qual-
cuno, e questo lo invoglia a guardare più attentamente e vede l'ombra di
colui
E continua :
Che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
Che questa era la setta dei cattivi
A Dio spiacenti ed a' nemici sui.
E qui nasce il dubbio: questa setta dei cattivi è tutt'uno con coloro che
vissero senza infamia e senza lodo? Grammaticalmente e razionalmente par-
rebbe di no: se fosse, Dante direbbe due volte la stessa cosa: là si era fatto
spiegare da Virgilio che anime erano quelle; qui intende incontanente che
anime sono. Non sarebbe tanto incontanente, a dir vero, se ora soltanto lo
capisce. E non si potrebbe neanche intendere la seconda definizione come
una determinazione della prima, come se dicesse: — ah, ora ho capito, quelli
che visser senza infamia e senza lodo sono gli infingardi; — no, perchè anzi
la seconda definizione è anche più vaga e indeterminata, sono coloro che
spiacciono tanto a Dio quanto ai suoi nemici, il che non importa proprio di
necessità, come importava la prima definizione, che fossero gli infingardi;
per sé potrebbero essere per esempio anche i traditori. Perciò, a leggere spre-
giudicatamente, parrebbe che in coloro che visser senza infamia e senza
lodo fosse da riconoscere la definizione che abbraccia tutto il cerchio ; la
setta dei cattivi parrebbe piuttosto una speciale qualità di questa generale
mercanzia, come per esempio segnalata nel cerchio dei lussuriosi è la schiera
ov' è Dido, e come là questa schiera è costituita di personaggi storici e leg-
gendari, così è forse anche qui, tant' è vero che solo di questa schiera Dante
riconosce qualcheduno. Ho esposto il mio dubbio perchè mi è caduto in ac-
concio, ma può darsi anche che di tal distinzione non ne sia nulla, e che il
dubbio nasca solo dalla mancanza di precisione delle parole (1).
L'acutezza che dimostra il Pascoli nei due primi capitoli, l'uno intorno
la selva oscura^ il secondo sopra il vestibolo e il limbo, continua nell'esame
del passaggio delV Acheronte che costituisce il capitolo terzo. Quelli del
vestibolo (p. 85) « non erano vivi da vivi, non sono morti da morti. Perciò
« non possono passare, sebbene lo desiderino ; perchè Garon li rifiuterebbe,.
« come rifiuta Dante. Condizione per passare è la morte. Or Dante passa.
« Dunque muore ». E soggiunge molto a proposito: « Muore. Non strabiliamo
« né sorridiamo ». Ed io non strabilierò, ma aspetterò a udire. Dice il P. che
lo passo
Che non lasciò giammai persona viva
(1) Lo stesso dubbio rispetto alle due schiere fu messo innanzi da Nicola Scarano, Oli spirtit
deWAntinferno, in Studi di letteratura italiana, voi. I, fase. II (1900), pp. 200-8. La soluzione
ch'egli ne dà mi pare voglia essere troppo precisa, e questo egli pure riconosce. Ad ogni modo
poiché a due persone contemporaneamente si è affacciata la stessa difficoltà, vuol dire che è una
difficoltà vera e non fantastica.
408 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
vuol dire: «che nessuno usci mai vivo dalla selva: dunque nemmen Dante.
« E dunque Dante, per uscirne, morì ». E qui non bisogna aver fretta a ri-
battere, perchè proprio, come vedremo, è questione non di cose ma di parole.
Procediamo con ordine.
Degli ignavi dice Dante che non hanno speranza di morte^ e il P. ag-
giunge che desiderano di passare l'Acheronte (p. 88), quindi passare e mo-
rire si equivalgono. E qui mi pare egli prenda abbaglio. Dov'è che Dante
dice 0 fa capire che gli ignavi desiderano di passar l'Acheronte? Perchè
Dante dica che costoro ' invidiosi son d'ogni altra sorte ' non si ha ad inten-
dere che proprio desiderino passare il fiume: invidia non è sinonimo di de-
siderio e qui meno che altrove. Chi patisce un gran dolore crede che quello
sia il dolor maggiore di tutti ; se fosse un altro, gli pare che lo potrebbe
sopportare: cosi i dannati.
I dannati poi invidiano si, ma non desiderano mutar pena:
Che la dÌTins giustizia li sprona
Si che la tema si volge in desio.
Quelli che desiderano passare non sono dunque gli ignavi, come il P. sup-
pone a p. 84, ma quelli che devono soddisfare la divina giustizia; per sod-
disfare la divina giustizia gli ignavi anzi devono non desiderare il passaggio,
— come le anime dei purganti, che vogliono uscire di pena solo quando son
monde, poiché prima
non lascia il talento.
Che divina giustizia contro voglia.
Come fu al peccar, pone al tormento ;
come le anime dei beati della Luna, che, perchè sono in cavitate^ non desi-
derano esser più superne. — Ma il Pascoli trova un altro rincalzo, Virgilio
dice a Dante:
E trarrotti di qui per loco etemo
Ove udirai le disperate strida,
Vedrai gli antichi spiriti dolenti.
Che la seconda morte ciascun grida.
Ciascuno intende che qui si parli dell'Inferno in generale; ma il Pascoli no,
e vuole che si intenda solo del cerchio degli ignavi: quelli contenti nel foco,
che nomina dopo, sarebbero gli ultimi purganti, questi i primi dannati ; Vir-
gilio accennerebbe al viaggio nominando la prima e l'ultima stazione. Io non
vedo il perchè di questa scelta, ma sia; vediamo se torni in realtà: «Gli
« antichi spiriti dolenti — dice a p. 88 — sono proprio gli angeli né ribelli né
«fedeli». Ora che razza di morte è la seconda morte che essi invocano?
Quando sono essi morti di una morte prima? Seconda morte non si può dire
dunque che parlando di uomini. — Mi sia lecito dunque anche di dubitare
che non sieno ben giustificate le parole con cui il P. chiude il paragrafo a
p. 90: « Noi scendiamo nel cupo pensiero Dantesco, per la prima volta dopo
« sei secoli ».
Ho detto per altro poco fa che era questione di parole. Ad ogni modo,
poiché ciò che segue non sono sicuro di capirlo bene, di nuovo invito il let-
Rassegna bibliografica 409
tore a meditare da sé le pp. 90-97, perchè non garantisco dell'esattezza del
mio riassunto. La seconda morte, dice con Agostino, è quella che tocca al-
l'anima: Dante non poteva morire di questa seconda, dunque per passare
l'Acheronte doveva morire della prima. Ora quale è questa prima? Quella
del corpo? A dare alle parole il significato loro e a parlare per farsi inten-
dere, dicendosi che Dante muore e avvertendosi bene che non muore l'anima
di Dante, ciascuno intende che muore il corpo. Ma non è cosi. A dire che
Dante muore, vuol dire che Dante nasce; questo è il linguaggio mistico. 11
P. cita infatti un luogo di S. Paolo {ad Rom., 6) che rende cosi (pp. 92-93):
« Ignorate, o fratelli, che quanti fummo battezzati in Gesù Cristo, fummo
«battezzati nella morte di lui? Siamo stati seppelliti, mediante il battesimo,
« con lui alla morte (in mortem), aflBnchè, come esso risorse dai morti, per
« la gloria del Padre, cosi noi camminiamo nella novità della vita ». E poi
il ragionamento, se non mi inganno, procede cosi: Quelli del vestibolo an-
corché battezzati, non avendo usato della prudenza che il battesimo infonde,
è come non fossero battezzati: analogamente Dante nella selva era come non
battezzato: il battesimo é la morte mistica dell'anima (p. 94); «nel nostro
«battesimo moriamo al peccato. E il peccato è la morte; dunque moriamo
« alla morte. Dante muore alla morte, cioè rinasce alla vita, perchè quella
« morte mistica è una natività » (p. 95). « L'Acheronte, per uno corporal-
« mente vivo, è la morte mistica, ossia la rinascita ; per uno corporalmente
« morto, è la morte spirituale. Chi lo passa muore; se è corporalmente vivo,
« alla morte ; se è corporalmente morto , della morte : alla morte e della
« morte seconda » (p. 96). Dunque pare voglia dire che Dante mori di una
morte che era nascita e vita; come prima l'adolescente non è adolescente,
selva non è selva, lume non è lume: sarà forse vero, benché io noi creda,
tutto ciò, ma a dimostrare tutte queste meraviglie, ancor che fossero vere,
non mi pare che il poema di Dante ci venga a guadagnare.
E prosegue a dire che questa morte di Dante è mistica e non reale « é
« la morte per cui si resta vivi, anzi per cui si rivive e si rinasce » (p. 98) ;
che il passaggio dell'Acheronte è simbolo del battesimo, che il più lieve
legno che porta Dante attraverso al fiume è la croce; che questa è la morte
di Dante alla tenebra, che poi nel cerchio dei lussuriosi egli muore alla con-
cupiscenza, e una terza volta nell'ultimo canto muore alla malizia:
Io non morii e non rimasi vivo;
che, per essere precisi per altro, solo la prima fu vera morte e le altre fu-
rono sepolture.
Ho detto che il poema a spiegarlo a questo modo non ci viene a guada-
gnare; ma effettivamente c'è tutto questo nel poema? Quando per esempio
Dante nomina i vivi
Del viver eh' è un correre alla morte,
per me non dice né di più né di meno di quello che pensava Platone, cioè
che la vita del corpo non è che una ben misera cosa in confronto di quella
dell'anima quando è sciolta dai lacci corporei, di quello che prima di Pla-
tone aveva scritto già Euripide nel Poliido:
410 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Tiq b* oTbcv, €l TÒ Zf\\f |iév èari KarGaveiv,
TÒ KarGaveiv òè lf]v kcìtuj vo|u(Z€Tai:
« Chi sa che il vivere non sia morire, e che il morire non si reputi vivere
« da quei di sotterra? > — Non dice di più, anzi forse dice di meno, di
quello che dice il coro degli iniziati (xopò<; fiuaT(I»v) dell'Ade nelle Rane
d'Aristofane, dove parlando dei viventi si dice appunto, v. 420, èv to1(; dvu)
v€Kpotai =: € tra i cadaveri che sono al mondo». Anzi, se ho da dii^e la ve-
rità, mentre i versi di Euripide e quello d'Aristofane mi pare contengano
uà concetto mistico davvero, in quanto che sostanzialmente la vita si chia-
risce per morte e la morte per vita; mentre un concetto mistico si può ve*
dorè in ciò che canta Poliutto:
Lasciando la terra
Il ginsto non muore,
Nel cielo rinasce
Di vita migliore;
in morire alla morte più ci penso e meno so vedere altro che una frase,
se vuol dire semplicemente, come mi sembra, cancellare da noi la mortalità,
riscattarsi dalla servitù della morte ; e se è una frase, che è essa di più che
un giuoco di parole?
E poi dov'è che Dante dice che muore per passar l'Acheronte? Se lo di-
cesse, dovremmo indagare in che senso lo dica, e, occorrendo, ricorrere al
misticismo. Ma non lo dice; dice solo:
E caddi come l'uom che sonno piglia.
Vuol dir morire? No certo: il sonno sarà fratello della morte, ma none la
morte. E anche quando si risveglia, si risveglia dal sonno e non risuscita
dalla morte. Ma è morte mistica. Sta bene, ma se .la morte mistica vuol
dire restar più vivi di prima, allora il pigliar sonno non è immagine che le
convenga; le converrebbe meglio quella dello svegliarsi.
Ora io non vedo la necessità di tutti questi arzigogoli. La questione del
passaggio dell'Acheronte, se questione è, rimane la stessa. Dante piglia sonno
eu di una riva e si sveglia sull'altra. Com'è passato? Qualcuno ce l'avrà
portato, e io mi accontento di questa spiegazione. — Ma da vivo non poteva
passare. — Adagio, non poteva passare nella barca di Caronte : Caronte in-
fatti non lo respinge perchè è vivo, ma perchè pesa troppo:
Più lieve legno convien che ti porti,
gli dice, e non già, muori prima, se vuoi che io ti porti. Ma poniamo pure
che per passar di là gli occorra morire ; se morendo muore di una morte
per la quale resta vivo, la difficoltà non è tolta. Se poi, come vuole il
Pascoli, il più lieve legno che porta Dante è la croce, la difficoltà del tras-
porto è sciolta senza bisogno di morire.
E similmente poi quanto all'ultima morte, quella alla malizia che sarebbe
significata da
Io non morii e non rimasi rito,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 411
io non trovo in questo verso quello che ci trova il Pascoli: se dice espres*
samente io non morii! 0 che Dante si trastulla con le parole? Quelli che
nell'altro secolo hanno indagato se Dante sapesse il greco sono andati a sco-
vare per questo verso un parallelo in Euripide, Suppl. 968-70:
oìjt' èv (p9i|Liévoiq
gOt' èv ZOùaiv Kpivo)iéva, ♦
X^PK ^é Tiva tOùvò' ^xoicfo. |no!pav.
E avrebbero potuto anche trovarne un altro molto simile in Sofocle, Ani.,
850-51. E hanno avuto torto, poiché la coincidenza è casuale, essendo questo
un concetto molto umano, un pensiero che è frequente anche nella gente
comune, e che si esprime e si ripete senza alcuna seconda intenzione, come
lo espresse Euripide, come lo espresse Sofocle. E come Euripide e Sofocle
del nostro misticismo non sanno che farsene, tanto meno dobbiamo regalar-
gliene a Dante, la cui grandezza anzi consiste nell'aver raccolto del pensiero
del tempo suo quello che poteva diventare universale e perenne e nell'aver
lasciato quello che era transitorio.
Ma una questione assai più importante, una questione che è veramente una
questione discute il P. nella lunga quarta sezione del suo libro intitolata le
tre fierCj e nella breve seguente, il corto andare. E qui il mio dissenso dal
Pascoli è di tutt'altro genere, e mi offre occasione di considerare la sua cri-
tica sotto un altro punto di vista.
Sono perfettamente d'accordo con lui nel ritenere che le fiere non rappre-
sentino la lussuria, la superbia e l'avarizia, come si crede dai più, ma le tre
disposizioni che il ciel non vuole, cioè incontinenza, violenza e malizia o
frode, com'è più consentaneo all'organismo della cantica, che svolge poi se-
condo la lettera ciò che nel proemio era stato rappresentato secondo il sim-
bolo. E la interpretazione che in sostanza fu data già da Giacinto Casella
fino dal 1865, e che non aveva trovato fino ad ora molti seguaci. — La vo-
gliamo ritenere per certa senz'altro? Mi mette sull'avviso di andare un po'
cauto l'opinione contraria di un uomo, che nelle questioni dantesche non
parla a vanvera, dico Francesco D'Ovidio. Egli ribatte l'opinione del Casella
e del Pascoli e torna all'antica interpretazione, della quale preferirebbe per
altro quella variante che ragguaglia la lonza, invece che alla lussuria, al-
l'invidia (1).
Discorrendone per incidenza non posso trattare distesamente una tesi tanto
intricata, né per verità me ne duole, perchè dovrei ripetere anche cose dette
e ridette. Mi fermerò pertanto un poco sul nodo, lasciando da parte il resto,
e, tra questo resto, l'interpretazione politica. Contro l'interpretazione comune,
oltre la ragione generale detta sopra, ce ne sono altre particolari. Che la
lonza sia la lussuria, e che Dante sperasse di poterla vincere per
L'ora del tempo e la dolce stagione,
(1) Le tre fiere della selva dantesca, in FUgrea, 5 luglio 1900; ristampato in Studii sulla Di-
vina Commedia, pp. 302-25.
412 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
è una contraddizione delle più evidenti: anzi appunto la primavera e il mat-
tino sono per la lussuria incentivi: domandatene ad Aristofane. — Che la
lupa possa equivalere all'avarizia, e che l'avarizia sia, secondo questa inter-
pretazione, nella selva il peccato più grave, quando poi neWInfemo è per
sé sola uno dei più lievi, come peccato d'incontinenza, ecco un' altra con-
traddizione anche più forte. Né mi svolge da questa obiezione il notarsi da
Dante che la lupa é quella che ha preda più che tutte le altre bestie; —
tutt'altro : — i peccati che seducono molti non sono i peggiori, e la perver-
sità mediocre é più frequente certo che la perversità raffinata.
Ma le interpretazioni del Casella e del Pascoli, se sono identiche nel prin-
cipio, sono contrarie tra loro nell'applicazione. Il Casella vuole che la lonza
sia la frode, il leone la violenza, la lupa l'incontinenza; il Pascoli che la
lonza sia l'incontinenza, il leone la violenza, la lupa la frode: convengono
dunque soltanto nel leone, lo altra volta avevo preferito l'interpretazione del
Pascoli; ora, dopo averci pensato più maturamente, me ne sono ricreduto:
chi cerca il vero deve essere disposto anche a riconoscere il proprio errore,
ed io non mi accontento di predicar questo agli altri, ma senza cruccio ne
do, se occorre, l'esempio.
Come si difenda ciascuna tesi, veggasi per disteso presso il rispettivo suo
autore, o presso il D'Ovidio: io qui da loro non torrò che gli argomenti
fondamentali, e ci aggiungerò di mio qualche illustrazione e qualche giunta.
E innanzi tutto noto che tra la interpretazione del Casella e la vulgata
c'è una variante di questa, che serve come di ponte tra le due; ed è quella
che, tenendo il leone per la superbia e la lupa per l'avarizia, intende
la lonza per l'invidia; opinione che ha pur molti e validi sostenitori e,
come ho accennato, vi accede il D'Ovidio stesso. Ebbene, invidia, superbia
e avarizia sono tre colpe capitali che in certo modo rappresentano le tre
disposizioni che il ciel non vuole, ciascuna sotto l'aspetto più grave, e in
quell'ordine inverso che è anche nella interpretazione del Casella. La gra-
dazione sarebbe perciò uguale alla nostra; soltanto le fiere rappresentereb-
bero gli abiti e non gli atti. Ma se nell'Inferno sono puniti gli atti, a parità
delle altre condizioni, quella interpretazione, che riduce a questi anche i
simboli delle fiere, mi pare la più consentanea. Ad ogni modo accettiamo
dal D'Ovidio questa concessione, che per sé sola, come vedremo in appresso,
ne conduce vicino al porto. E ritorniamo per un momento alla vulgata.
Che la lonza non sia l'incontinenza lo si argomenta con le stesse ragioni
per le quali non può essere simbolo della lussuria. Per la frode invece bene
si addice la speranza di vincerla per
L'ora del tempo e la dolce stagione.
La luce é opportuna difesa contro il vizio che si nasconde nelle insidie delle
tenebre ; e la primavera, stagione d'amore, parla sentimenti contrari all'odio,
che è carattere proprio della frode: questo fu notato anche dal Casella. Ma
che sia la frode, oltre che dalle buone ragioni del Casella, è ammesso dal-
l'esplicita testimonianza di Riccardo da S. Vittore, De erud. hominis inte-
rioris, HI, 11, che il P. con lodevolissima e disinteressata lealtà cita a p. 359:
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 413
Recte hypocritarum fraudulentia in pardo figuratur^ qui per totum corpus
maculis quihusdam respergitur. Ora se consideriamo che Dante non solo
pone gli ipocriti tra i frodolenti, ma usa per loro l'espressione una gente
dipinta; come per la lonza alla pelle dipinta; e che come la lonza cosi
Gerione
Lo dosso e '1 petto ed ambedne le coste
Dipinte area di nodi e di rotelle;
pare che di più non si possa desiderare per il confronto. Ma c'è di più, c'è
la corda:
Io aveva una corda intorno cinta,
Con la quale pensai alcuna volta
Prender la lonza alla pelle dipinta.
Il P. con gli altri si fissa sull'idea che la corda equivalga a continenza ;
ma se Dante dice di Pietro d'Aragona che
D'olmi valor portò cinta la corda,
segno è che per lui la corda poteva raffigurare ogni virtù. Nella selva Dante
con la corda aveva pensato di prender la lonza, ma non la prese, perchè
non aveva avuto ancora la grazia : ora che Lucia gliel'ha ottenuta, prende
effettivamente l'altra immagine di froda, cioè Gerione: lo prende, cioè lo
soggioga. Dante si toglie la corda. Certamente; anche se con essa voleva
prender la lonza bisognava bene che se la togliesse. 0 come avrebbe fatto?
E perchè Dante ci conterebbe qui che con la corda voleva prender la lonza,
notizia per se stessa oziosa ed inutile, quando non fosse per farci capire che
a quell'uso, cui non potè servire allora, serve adesso? E se ne serve toglien-
dosela ora, come se la sarebbe tolta allora, se avesse potuto servirsene. Non
occorre poi arzigogolare se con la corda allacci Gerione o lo tiri su, che
sarebbero sciocchezze: il vero è che il segno vien fatto a Gerione con la
corda e non altrimenti; che Gerione obbedisce al segno della corda, che
Dante gli monta sulle spalle, come si fa con una bestia domata, gli monta
a cavallo come Virgilio e insieme con Virgilio, il quale, essendo simbolo
della sana ragione, molto a proposito è rappresentato come soggiogatore
della frode. E questa mi pare anche la prova perentoria contro il falso pre-
supposto da cui muove l'interpretazione del Pascoli. A proposito della corda
gettata a Gerione egli dice a pp. 172-73: « Or Dante col gettito della corda
« ha voluto esprimere questo vulgato concetto : che gli incontinenti si fanno
< facilmente rei di malizia. Mi pare ineccepibile. Di lassù alcuno gitta la
< corda, cioè rinunzia a contenere le passioni dell'animo irascibile e concu-
« piscibile. Mostra non di essere soltanto incontinente in questa o quella
«occasione; ma di non volere essere più in alcuna. Sfrena e discioglie l'ap-
« petito per sempre ». A me invece questo pare, non solo eccepibile, ma, sia
detto senza offesa, assurdo addirittura. Intanto non è vero neanche per i dan-
nati : i dannati non esercitano la violenza, la frode, ecc., ma la scontano, e
Dante non scende all'Inferno per diventare incontinente con gli incontinenti,
violento coi violenti, frodolento coi frodolenti; ma per imparare dalla con-
niornale storico, XXXVIII, fase. 114. 27
414 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
templazione delle loro pene le contrarie virtù. Non disarmarsi pertanto gli
conveniva di mano in mano che scendeva, ma armarsi e adoperare le armi:
non è lui quello che rappresenta il graduale corrompersi dell'anima per il
peccato, ma l'Inferno. E nemmeno viceversa col gettito della corda può si
gnificarsi che, passati i centri dell'incontinenza, la continenza si possa gittar
via, come cosa inutile. La virtù che trionfa del vizio opposto non è come
un' arma che si deponga dopo usata a debellare i nemici, ma diventa ap-
punto allora una cosa veramente nostra e più nostra di prima: il trionfo è
pieno, quando di quella virtù non ci possiamo più spogliare. Oltre di ciò
siccome poi la malizia è radicata nell'incontinenza, come anche il P. con-
sente, sarebbe di nuovo assurdo che si buttasse via la virtù contraria, quando
anzi il pericolo è maggiore.
Non mi fermo a parlare a lungo della lupa, perchè su essa è più facile il
persuadere: gola, avarizia, lussuria per lo meno sono colpe di incontinenza
che alla lupa convengono perfettamente. Siccome poi l'incontinenza è il primo
incentivo di tutti o almeno dei più degli altri peccati, come si è detto or
ora, e come appare dai canti XVI, XVII, XVIII del Purgatorio, cosi ben
si dice di lei e si parla propriamente quando si dice che
Molti Bon gli aaimali s coi 8* ammoglia.
Ma « contro alla fina ipotesi del Casella », dice il D'Ovidio, « sta un'obie-
« zione formidabile, alla quale egli invano s'adopera di sfuggire con risposte
« generiche ». La riferirò con le parole stesse del Casella, che non se la
dissimula (1) : « Ancora si domanderà : se le tre fiere della selva sono i tre
«vizi capitali puniti in Inferno, com'è che esse [essi?] appariscono nei due
« luoghi con ordine tutto inverso, onde quello per esempio che appiè del
«colle pareva a Dante l'ostacolo il più formidabile, cioè la lupa, si trova
« neW Inferno essere il vizio men grave dei tre , tanto che si gastiga in
« quattro cerchi fuori della Città di Dite? » E la soluzione che dà del que-
sito, ancorché generica, potrebbe esser vera. Continua infatti : « La risposta
« è in quello che già dissi sopra, cioè che l'Inferno e la Selva sono sostan-
« zialraente identici, ma variano di forma e di apparenza pel modo diverso
« di considerargli, per la diversa posizione ». E una risposta generica, dice
il D'Ovidio: la soluzione pare troppo leggera per una questione cosi grave.
Eppure mi pare che il D'Ovidio dovrebbe accontentarsene prima di ogni
altro: egli accetta, abbiamo veduto, che la lonza sia l'invidia; se è l'invidia,
ecco ammesso anche da lui l'ordine inverso, che per la tesi del Casella gli
pare ostacolo così grave. L'invidia infatti in nessun modo si può trovare
tìqW Inferno prima dell'avarizia, e bisogna sottilizzare per trovarla prima
della superbia. L'invidia non è certo la frode, ma è il fondamento della
frode : « la frode, egli dice, è l'ultimo peccato infernale, il più nero e dan-
« noso, laddove delle tre fiere la lonza è la prima a presentarsi e la meno
« cattiva ». Ma se a lonza-frode sostituiamo lonza-invidia, per la contraddi-
(1) Casklla, Optré iHtdiU • pothiNM, II, 802.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 415
zione che si vuole eliminare mi pare che si faccia poco profitto. Dunque, o
la giustificazione del Casella non vale per la frode, e allora neanche per
l'invidia deve valere; o l'invidia può essere la prima delle fiere, e perciò le
fiere sono in ordine inverso dei peccati, e allora o la spiegazione del Casella
sarà la buona, o se ne potrà trovare altra anche migliore. Or bene, a me
pare che lordine inverso, non solo si possa ammettere, ma che anzi, non
che indifferente, sia piuttosto espressamente voluto e ragionato cosi. Dante
stava uscendo dalla selva : egli intendeva avviarsi non a perdizione ma a
salute. Alla sua salvezza per altro si oppongono successivamente tre ostacoli,
tre disposizioni che il cielo non vuole: sono tre tentazioni. Or quale di queste
è la più grave? Poniamo l'uomo medio e normale, quale è quello simboleg-
giato da Dante, l'uomo che per salvarsi ci mette il proprio buon volere: se
quest'uomo cadrà, sotto qual tentazione cadrà? Poniamo Dante traviato,
quale è descritto e rimproverato da Beatrice nel suo primo incontro nel Pa-
radiso terrestre: di quali peccati lo incolpa Beatrice? di frode? di violenza?
No affatto: lo incolpa di incontinenza: egli si era lasciato sedurre dall'amore
dei beni secondi
Immagini di ben seguendo false.
Dall'incontinenza egli dunque fu vinto, non dalla violenza né dalla frode.
Se dunque la violenza e la frode sono mali più gravi, la incontinenza era
il male più temibile. Dante che si dà per vinto dall'incontinenza è il vero
Dante e l'uomo normale : Dante che si perdesse per la frode non sarebbe più
Dante, e non sarebbe più l'uomo normale. I più di quelli, che si dannano,
si dannano per incontinenza;
Maledetta sie tu, antica lupa,
Che più che tutte l'altre bestie hai preda,
Per la tua fame senza fine cupa.
Come potrebbe dirsi questo della frode? Oltre che l'esperienza ci dice che
della frode non è vero, non lo ammette per vero Dante stesso : la frode nel
suo Inferno ha solo i due cerchi più piccoli; l'incontinenza ne ha quattro,
e i più ampi, per sé sola esclusivamente, e ha delle colonie anche nei cerchi
della violenza e della frode, quando l'atto suo fu composto con l'una o l'altra
di queste due male disposizioni.
Né minor convenienza con la nostra spiegazione troveremo nei rapporti
della lupa col veltro. Il Pascoli sostiene che il veltro deve uccider la lupa,
che essendo frode é ingiustizia, e il veltro sarebbe l'imperatore, d'accordo in
questo col Clan. Dire che il veltro ucciderà la frode era un po' forte, la frode
perciò diventa ingiustizia. Ma con questi compromessi si spiega tutto. Certo
è che la frode e la ingiustizia si somigliano, in quanto la frode é la specie
peggiore d'ingiustizia; ma nessuno vorrà negare che anche la violenza è
ingiustizia. È facile rispondere che la lupa appunto compendia in sé anche
le colpe meno gravi. E allora ne viene che il veltro sarà qualcosa di più
dello stesso Redentore, se caccerà dal mondo tutti i vizi. Ma che cosa il
veltro verrà a cacciare, prima di tutto dobbiamo chiederlo a Dante, se ce lo
vuol dire. Il veltro è il dux: quale é l'ufficio del duxì Ufficio suo è appunto
416 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
uccider la lupa, che è incontinenza, cupidigia, amore smisurato dei beni se-
condi; e lo dice Dante stesso, Purg., XVI, 88 sgg., dove parla dell'anima
che s'inganna dalle apparenze e corre dietro a questi beni.
Se guida o fren non torce il suo amore.
Ed appunto per frenare l'amore dei beni secondi furono fatte le leggi, dice,
e creati i re; ma ora nessuno osserva le leggi, e il pastore predica bene
ma cammina male. E continua :
Perchè la gente che sua guida vede
Pure a quel ben ferire ond' ella è ghiotta
Di quel si pasce e più oltre non chiede.
Ben puoi reder che la mala condotta
È la cagion che il mondo ha fatto reo,
E non natura che in toì sia corrotta.
Mi pare che non si possa essere più chiari di così. Il mondo è sviato dietro
ai beni secondi, e dietro ai beni secondi corrono i principi e il papa. Che
occorre per rimedio a questi mali? Un principe o un papa che non si cibi
di beni secondi, terra né peltro, ma dei beni primi, sapienza, amore e vir-
tute, il veltro dunque. Di qui deve cominciare la riforma; si deve rimediare
alla natura sviata, non alla natura corrotta ; e incontinenza è perciò la lupa,
non frode. E tale è pure evidentemente la fuja che sarà uccisa dal cinque-
cento dieci e cinque^ e, se non tale, è ad essa simile per parecchi rispetti
la femmina halba, di cui dirò un po' più oltre. Insomma questo è il primo
peccato e l'occasione di ogni peccato, e però questa conviene abbattere;
questa deve essere rimessa nell'inferno
lA onde inridia prima dipartilla.
Invidia? Si; l'invidia dell'angelo tentò l'uomo per mezzo dell'incontinenza;
e il peccato originale, se nell'atto fu di superbia, nell'incontinenza ebbe per
altro la sua radice.
Ho riassunto la questione affatto per sommi capi, cercando di non perdermi
in mezzo a una selva (sia detto senza alcun senso mistico) di argomentazioni
che si incalzano e si intrecciano per tutti i versi, e dileguano e riappari-
scono, e si integrano e si modificano, e si dividono e si riannodano, quando
meno un lettore disattento se lo aspetta. Tornerò indietro su un punto solo
in particolare, non per esaurire la tesi, non per confutare argomenti singoli,
ma per combattere anche su questo capitolo l'indirizzo e il metodo delia
nuova critica. Nei cerchi ove sono punite le colpe contrarie il P. osserva
che ne è notata col suo nome 'una sola, l'avarizia e non la prodigalità, l'ac-
cidia {accidioso fummo) e non l'ira (pp. 160-61). Qui si direbbe che egli
dimentica il verso, pur citato la pagina innanzi.
L'anime di color cui vinse Hra:
ma non è vero che lo dimentichi, e l'ommissione è intenzionale. Infatti ci
torna su un po' più innanzi (p. 261) e dico che appunto i lettori ed i critici
non hanno capito < fissi all'idea che * color cui vinse l'ira ' sieno i rei d'ira »;
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 417
e si ingegna di dimostrare che questa è « accidia anche dove pare ira e
€ non è ». E perchè non è? Perchè Filippo Argenti « con tutta la sua furia,
« non si slancia contro gli assalitori e gridatori e beffeggiatori ». Or bene,
questo in parole povere cosa significa? Per me significa che quando Virgilio
dice a Dante:
figlio, or vedi
L'anime di color cni Tinse l'ira,
gli dice dunque una cosa non vera! 0 che ragionare è cotesto? Nel quinto
cerchio sono, sì o no, gli iracondi? Si, e il Pascoli stesso lo ammette, con
che però si soggiunga che l'accidia prevale sull'ira. Prevale? Prevale, perchè
l'accidia è nominata di preferenza. Ma siccome in realtà l'ira è nominata
col suo nome e l'accidia con una circonlocuzione, quell'ira li pare ira, ma
non è ira, precisamente come la selva è selva ma non è selva, è oscura ma
non è oscura, ecc. ecc. E tutta questa disquisizione perchè? Per conchiudere
che nello Stige non sono i peccatori d'ira e tanto meno gli iracondi, ma
solo gli incontinenti d'ira, e che l'ira vera si traduce in ingiuria e quindi
in violenza. La preoccupazione del Pascoli è quella di voler trovare ad ogni
costo per ogni cerchio un peccato capitale, e siccome l'ira per lui è nel
cerchio della violenza, di necessità deve toglierle quello dove Dante espres-
samente la collocò. Così dopo essersi molto accostato al vero quando distinse
gli incontinenti d'ira e i maliziosi d'ira, la qual distinzione conveniva anche
a tutti gli altri peccati, si impelagò poi in una serie di paradossi, che danno
alle sue conclusioni un' apparenza anche più sfavorevole che non meritino,
prestando il fianco alla facile censura e screditando quelle molte cose buone
e vere che formano il pregio incontestabile del libro.
Nel lungo capitolo le rovine e il gran veglio molte osservazioni acute e
vere ci colpiscono. Le rovine sono tre, una nel cerchio della frode e nella
bolgia degli ipocriti, una al discendere nel cerchio dei violenti, e la prima
nel cerchio dei lussuriosi:
Quando giungono innanzi alla mina.
Dunque una per ciascuna delle tre male disposizioni, e questo parallelismo
ci dà una suflBciente spiegazione della prima, quella dei lussuriosi, la cui
indeterminatezza diede molto da fare agli interpreti. La roccia si sarebbe
.scoscesa in tutti e tre i luoghi nella morte di Cristo:
Qui ed altrove tal fece rivergo ;
e se un' interpretazione è possibile, e vogliamo cercare la più ragionevole e
piana per amore del vero e non per sfoggio di acume, non vedo per ora
contro queste conclusioni ammesse dal Pascoli cosa ci sia da ridire. Troppo
acuta invece mi pare la ragione ch'egli vuol dare del salire e dello scen-
dere che fa Dante per queste rovine, distinguendo una differente intenzione
e un differente significato secondo che scende o che sale. Siamo alle solite
anche qui : cioè potrà forse darsi che questo sia, ma con tutte queste pastoie,
non capisco più come un artista possa muoversi, sia egli pur Dante. Io reputo
418 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
che la allegoria non si abbia ad estendere a ogni passo, a ogni verso: dove
la ragione procede naturale e piana, allegoria non si ha da cercare. 0 non
si finirebbe più. Perchè per esempio i tre sodomiti fiorentini fanno di sé una
ruota? perchè Brunetto piglia per la falda il poeta? cosa significa iì diavol
nero che butta dal ponte il barattiere? Qui non c'è allegoria alcuna, no, no
e poi no. Dove la allegoria si ha da cercare lo si capisce subito; è là dove
il senso letterale non soddisfa pienamente, dove c'è qualcosa che stando alla
sola lettera pare arbitraria o accidentale: in questi casi è l'allegoria quella
che ristabilisce la pienezza e la ragionevolezza di significato che la lettera
lascia manchevole. Allegoriche dunque sono le tre fiere, allegorico è il Veglio
dell'Ida, che il Pascoli interpreta egregiamente; come allegorici, anche per
l'origine onde derivano, sono i fiumi àeWInferno, sui quali il Pascoli pure
ha delle osservazioni molto suggestive là ove cerca di dimostrare (e in buona
parte persuade), che il carattere di questi fiumi corrisponde al carattere dei
peccati che sono puniti nei cerchi ov'essi appariscono, e che come il fiume
è sostanzialmente uno, e soltanto diversi sono gli aspetti che prende di mano
in mano, così passandosi dal peccato meno grave al più grave si aggiungono
i requisiti e le caratteristiche del secondo senza perdere la reità del primo,
e si ha perciò un accrescimento d'intensità senza mutamento di natura.
Non posso seguire il libro passo per passo e mi conviene saltar molte pa-
gine, sia di quelle dove avrei da ribattere, sia di quelle dove avrei da ap-
plaudire, sia di quelle ancora che mi lasciano indeciso. Dirò che ritorna a
spiegare il messo del cielo per Enea, e non si può negare che la difesa di
questa opinione sia acuta, da lasciar dei dubbi anche nei più riluttanti ad
ammetterla. Dirò che cerca di spiegare come Dante (p. 319) « si mostra com-
« battuto dalla pietà dove l'incontinenza predomina, o tratto a sdegno dove
«predomina l'ingiustizia»; la quale conclusione si può accettare integral-
mente, più che per i ragionamenti di cui la conforta, perchè corrisponde ad
un sentimento tutto umano e naturale. Né con ciò voglio dire che i ragio-
namenti sieno erronei, dico solo che ne sono discutibili alcuni punti, che
forse non sono essenziali per la conclusione.
Dice per esempio che il verso
E chi, spregiando Dio col cor, favella
(interpungo così col Parodi) significa che in questi violenti c'è un elemento
d'incontinenza (p. 316): «è ingiustizia, sì, dice Virgilio, ma è col core solo,
« non con l'intelletto » « 0 chi non vede che esso [il dire col core'] è
€ un ammonimento a non scambiare questo peccato, che è pur contro Dio,
«col massimo dei peccati, che è quello che a Dio direttamente si oppone?
€ col peccato di Lucifero? ». Può forse darsi : — e chi potrebbe dimostrare
che non è vero? — ma io spiegherei del tutto diversamente. Spregiar Dio
con l'intelletto, come si può? Razionalmente parlando Dante stesso lo dice
impossibile: Purg., XII, 109-11:
E perchè intender non si paò diviso.
Né per so stante, alcuno esaer dal primo.
Da quello odiare ogni affetto ò deciso.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 419
Odiare con l'intelletto non si può né sé né Dio; che se i violenti si dividono
in tre gironi secondo sono tali contro Dio, contro sé, contro il prossimo, essi
possono dividersi cosi perchè il loro peccato è di bestie, non di esseri intel-
ligenti. Dove si adopera l'intelligenza questa triplice partizione non si ha più.
Violenza si può dare contro Dio e non odio, allo stesso modo che contro sé
stessi. Che se si può parlare di odio contro Dio, se ne parla solo in quanto
il peccatore non lo odia propriamente e direttamente per sé, ma indiretta-
mente per i suoi effetti, come ammettono i teologi. E spregiare e odiare
qui si equivalgono, come è del tutto chiaro al buon senso, e non farò per-
dere al lettore tempo e pazienza per dimostrarglielo. Se questo é vero, par-
rebbe dunque che spregiar Dio col cuore volesse significare il solo modo
possibile di commettere un peccato contro Dio, poiché con l'intelletto com-
metterlo non si può. Né ciò vorrebbe dire che Lucifero non lo avesse spre-
giato col cuore; col cuore si anche lui, soltanto invece di esprimere il suo
disprezzo con la violenza, vi aggiunse la frode e la peggior specie di frode,
il tradimento, la ribellione contro il proprio benefattore. Egli non spregiò
Dio parlando propriamente con l'intelletto, che non poteva; ma usò dell'in-
telletto nella sua guerra contro Dio, mentre gli altri usarono solo la violenza
bestiale. La differenza sta non nella radice del peccato, ma nella sua espli-
cazione, e questo é conforme al mio principio, che dei sette peccati capitali
nell'Inferno non si abbia propriamente a parlare. Ciò posto si potrebbe anche
ritenere che quell'aggiunta col cor valesse piuttosto a dinotare la gravità
del peccato anziché ad attenuarla, come é anche più conforme al senso gram-
maticale delle parole; cioè che appunto volesse indicare coloro che disprez-
zano Dio per passione e quindi per mala volontà, non coloro che lo disprez-
zano per errore o cecità di mente, ma senza malizia e senza mal animo,
come chi andava meditando se potesse essere che Dio non fosse. Costoro
pure non amano e non pregiano Dio, ma non lo amano e non lo pregiano
perché non ci credono, e quindi la reità loro é minore, é negativa più che
positiva: chi lo spregia col cuore é peccatore assai più grave.
Passo oltre, per necessità, sorvolando a parecchie considerazioni molto
suggestive, in qual modo l'anima di Dante vada purgandosi e di quali vizi,
e quali virtù acquisti lungo il cammino, quali sentimenti si svolgano nel-
l'animo del poeta di mano in mano che scende nell'Inferno, e come si muti
la natura e, diremo cosi, la composizione del peccato: lascierò pure quelle
sulla natura dei simboli, che é diversa secondo i diversi cerchi e rappresenta
i diversi elementi costituenti l'atto colposo, tanto più che di questi simboli
si è parlato già a lungo nella Minerva Oscura, e qui non c'è molta diver-
sità da quella teorica.
Solamente proporrò un dubbio, anzi un quesito, che i dantisti e i mora-
listi potranno studiare e risolvere e che io qui non posso approfondire senza
incorrere in dismisura. È proprio vero che Dante, sia come individuo, sia
come simbolo dell'uomo, purga le proprie colpe passando attraverso all'In
ferno? Posso sbagliarmi, ma a me pare di no. A me pare che la purgazione,
anche per lui, è riserbata al Purgatorio, e che nell'Inferno l'effetto morale
jinche per lui si limita al considerare, al meditare e al conoscere. Ciò mi
[)are che risulti e dal diverso modo con cui Dante si atteggia rispetto alle
420 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
pene nell'uno e nell'altro regno, e risulta pure dalla diversa natura di questi,
della quale ho parlato prima. I fatti puniti nell'Inferno sono esempi dai quali
si può trarre un ammaestramento, dirò cosi, oggettivo: le disposizioni psi-
cologiche corrette nel Purgatorio richiamano meglio l'attenzione all'analisi
del soggetto:
Ed io a lai: Lo tao ver dir m'incnora
Buona amiltà, e gran tamor m'appiani:
Oltre di ciò i due regni hanno per loro natura una funzione diversa, e non
si vede perchè per Dante solo dovrebbero averla identica: oltre di ciò, an-
cora, se Dante si purga nell'Inferno e si purga nel Purgatorio, abbiamo un
doppio peggio che inutile (1), perchè il secondo mezzo di purgazione sarebbe
un'attenuazione del primo e non ci sarebbe quel procedimento ascendente
che solo potrebbe rendere la ripetizione tollerabile. Del resto il ravvedimento
per sua propria essenza consta di due parti o di due gradi, il conoscere
l'errore e il pentirsi: il conoscere può darsi da solo, e i dannati conoscono
ma non si pentono; il pentirsi importa per altro sempre il preventivo cono-
scere, e tale è la condizione dei purganti e di Dante nel Purgatorio. In questo
solo modo l'interesse morale cresce passando al secondo regno.
Messo t'ho innanzi; ornai per te ti ciba;
Che a so ritorce tutta la mia cura
Quella materia ond' io son fatto scriba.
E vengo al capitolo intitolato Valtro viaggio^ in cui si confronta la strut-
tura del Purgatorio con quella dell'Inferno. Dice il P. a p. 387 che la tri-
plice divisione del Purgatorio non combacia con quella dell'Inferno. « E di
amore che può errare
per malo obbietto
0 per troppo o per poco di vigore.
< Malizia, bestialità, incontinenza non corrispondono a questo errore se non
e nel numero di tre ». Se ciò vuol dire che ciascuna di queste disposizioni
non è proporzionale a ciascun'altra nel numero dei cerchi che occupa, siamo
d'accordo, né occorre spenderci molte parole: nell'Inferno i cerchi sono nove,
nel Purgatorio sette. Ma la diversità nasce appunto dalla diversa materia in
cui si esplica questo triplice amore: nel Purgatorio esso è solo una malattia
dell'animo, un malo abito tendente all'atto colposo o lasciato da questo
atto, una cosa tutta soggettiva; nell'Inferno esso si esplica in azioni deter-
minate e concrete, le quali hanno radice in uno o più dei detti abiti o ten-
denze. Ora gli abiti mali si riducono, o si sogliono ridurre, a sette, cioè i
sette peccati capitali: gli atti sono molti più; i Comandamenti, per esempio,
sono dieci. L'atto che ha origine in uno solo di questi sette mali abiti può
(1) Avevo già scritto questa recensione quando lessi quella di L. Filomusi-Guelfi nel Giornale
DantMCO, an. Vili, pp. 507-18, e vidi ch'egli mi aveva già prevenuto in questa come in qualche
altra owervasione.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 421
prendere il nome del malo abito stesso; tali sono per Dante le colpe di
Francesca e dell'Argenti; ma la corrispondenza è casuale. E che sia affatto
casuale è tanto vero che, sebbene questi che prendono nome dall'abito sieno
i cerchi più ampi e dove e' è più folla di gente, in realtà tranne che per i
lussuriosi, dove oltre i due personaggi ben noti a Dante ve n' è una lunga
schiera di storici o leggendari, troviamo in questa principal sezione dell'In-
ferno pochissime persone ben determinate, tra i golosi Ciacco, tra gli avari
nessuno, tra gli iracondi l'Argenti, e nessun altro più. Gli atti, di cui Dante
volea far giustizia, ben di rado erano in realtà cosi semplici ; e altro è par-
lare d'incontinenza in generale, altro è vedere se da questa mala radice non
sieno venuti frutti molto peggiori. Forse quando parliamo di semplice in-
continenza, ci facciamo un'illusione, come abbiamo veduto avvenire per gli
infingardi; e l'incontinenza semplice in pratica è rara assai, mentre invece
Molti son gli animali a cui s'ammoglia.
A guardar bene anche taluni incontinenti di Dante sono tali solo perchè
piacque a Dante di trattarli con indulgenza. Didone per esempio e Cleopatra
orano suicide. Se pertanto incontinenti semplici Dante ne nomina pochi, gli
è perchè, venendo al fatto concreto, non ne potea trovar molti. Lussuriosi,
avari, iracondi egli ne colloca invece assai più negli altri cerchi che in
questi primi. Teoricamente pertanto e genericamente, lussuria, gola, ira e
avarizia sono incontinenza, e come tali sono vizi più diffusi, ma in realtà, e
anche secondo l'esperienza personale di Dante, più spesso all'atto cooperano
diversi elementi, dalla combinazione dei quali deriva un fatto nuovo e che
ha nuovo nome e carattere (1).
(1) Il D'Ovidio nel suo importantissimo e in gran parte nuovo articolo La topografia morale
deWlnferno, in ' Studii sulla Divina Commedia ' mentre sostanzialmente dà del sistema morale di
Dante una spiegazione molto simile alla mia, parmi che si preoccupi ancora soverchiamente del
collocare nell'Inferno i sette peccati capitali. Non posso discutere per incidenza d'un argomento
così grave, e per ciò mi limito solo per ora a parare un'ohiezione. Egli dice, e questo è inne-
gabile, che anche la superbia e l'invidia che non vengono ad atto possono essere colpe meritevoli
di dannazione: neW Inferno di Dante troviamo la superbia e l'invidia composte con l'atto nei tre
ultimi cerchi; ma la superbia e l'invidia semplici dove sono? A me pare che questa lacuna
sia giustificatissima, se pensiamo che Dante nell'in/erno non punisce che gli atti, e nel foro
intemo della coscienza non entra mai. E a ragione: come può l'occhio mortale discernere se altri
sia gravemente colpevole di superbia o d'invidia, se non lo dimostra esteriormente ? Anche l'incon-
tinenza dei primi cerchi si è pur manifestata in atti singoli ; e di peccati di pensiero o di desi-
derio, se non mi sfugge, non mi pare che -a^W Inferno dantesco si trovi alcun esempio. Se Dante
avesse voluto tener conto delle intenzioni, l'ho accennato anche altrove, avrebbe tolto ogni base
positiva al suo codice penale. Non dobbiamo pertanto andar a cercare se il sistema punitivo di
Dante sia idealmente il più giusto; se V Inferno di Dante possa essere accettato come un esempio
dell'Inferno secondo la dottrina della Chiesa, ma solo se risponda a un sistema razionale e sia
consentaneo a sé stesso da capo a fondo. Ed io dico che consentaneo è, poiché risponde da capo
a fondo alla propostasi partizione aristotelica, e i nomi dei vizi capitali e' entrano solo in tanto
in quanto accidentalmente hanno rapporto con essa. Nel Purgatorio invece predominando l'ele-
mento soggettivo e venendo questi vizi direttamente presi per norma della graduatoria, troviamo
ciò che nello Infèrno non e' è, troviamo Manfredi che si salva per un mero impulso interiore di
pentimento senza che si traducesse in alcuno esterno effetto, troviamo Oderìsi colpevole, a quanto
422 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
A me pare pertanto che stiamo facendo una fatica improba e inutile. Si
sa; se le radici di ogni atto colposo si riducono a sette, essendo sette le
male pieghe che si devono guarire nel Purgatorio, è chiaro che tutte le
colpe singole dell' Inferno si possono far risalire ad una o più di queste
colpe; ed è certo che in ogni atto colposo potremo trovare uno o più pec-
cati capitali, né è poi difficile dimostrare che uno deva essere principale e
gli altri secondari. L'errore sta nel voler che all'ordine degli abiti deva per
forza corrispondere l'ordine degli atti, le quali cose essendo eterogenee sono
perciò irriducibili ad uniformità senza far violenza all'una o all'altra o a
tutte e due. A che si riduce il peccato di Brunetto? Intanto a lussuria, e
fin qui non c'è dubbio: non è per altro tra i lussuriosi, perchè ci aggiunse
la violenza contro natura. Che sarà questa? Dicono ira. — Eh via! — la direi
piuttosto superbia: il ribelle è essenzialmente superbo, mi pare. Ma sia ira
o superbia, è peccato più grave che lussuria, e la pena più grave assorbe
la meno grave. Ma, e il Guinizelli ? E colpevole allo stesso modo, se non
che si è pentito. Dante per altro lo pone non tra i superbi o tra gli iracondi,
ma tra i lussuriosi. Mi si può rispondere trionfalmente che la superbia o
l'ira l'avrà già scontata. Ed io sommessamente osservo che nel Purgatorio,
per ragioni d'arte molto ovvie, il peccatore è sempre collocato in quella
cornice, che risponde alla sua principale caratteristica morale quando era a
questo mondo, e che perciò tra i superbi o tra gli iracondi il poeta, che
aveva scritto che
Amor» e cor gentil sono una cosa,
ci sarebbe stato molto a (^isagio. Sacrificò dunque Dante l'arte alla morale,
o la morale all'arte? lo penso che, se abbiamo da ridurli a peccato capitale,
cosi Brunetto come Guido furono essenzialmente peccatori di lussuria, e
nient'altro, come parimenti Francesca e Cleopatra e Semiramide; ma dove
per queste Tatto in cui la lussuria si estrinsecò fu, a giudizio di Dante, sem-
plicemente d'incontinenza carnale, e perciò andarono a stare con gli incon-
tinenti carnali, per i due amici di Dante l'atto in cui la lussuria si estrinsecò
fu di violenza; quindi Brunetto, che non se né penti e non cancellò questo
atto, andò più giù nell'Inferno, Guido, che lo cancellò, andò nel Purgatorio,
dove sarebbe andata anche Francesca, se avesse avuto tempo di pentirsi. Io
dubito forte che l'ira o la superbia a Brunetto gliela regaliamo del nostro,
o che della sua colpa esse siano antecedenti così lontani da non potersi
tenere a calcolo. Se non è moralista o teologo, chi commette le sudicerie
pare, più di superbia interiore che non di grari manifestaiioni di essa, troviamo Sapia che si penti
in fin di vita della colpa deirinvidia, che pare non si era tradotta, pare, nò in frode, nò in altra
azione esteriore malvagia. Dove sarebbe andata Sapia se non si fosse pentita? La domanda pare
grsTe e pericolosa per tntta la mia bella teorica. Neir/n/fmo per Sapia non c'è poeto, — non
e* è secondo la mia interpretasione, ma non o'ò neanche secondo alcan'altra. Non credo peraltro
che qnesto deva apporsi a difetto di nant«. Ciò che ò soprarazionale non si pnò ridurre ai moduli
della nostra raj^one. Ciascuno dei tre regni segue la sua propria norma. Altrimenti domanderemo:
in qual cielo andrà Sapia quando avrà finito di purgarsi ? E come ùi Sapia si potrebbe dimandare
di Unti altri.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 423
di quei due, d'essere iracondo o superbo non se ne accorge certamente, e
nessuno credo se ne sia mai confessato; d'essere lussurioso invece nel più
pessimo senso della parola, forse invece nessuno lo ha mai negato. La su-
perbia, e taccio dell'ira, c'entra qui proprio tanto quanto si può dire che
c'entri in tutti i peccati, poiché già tutti i peccati capitali hanno la loro
radice nella superbia, e tale è in fondo ogni trasgressione della legge mo-
rale in quanto è superbia ogni disobbedienza all'autorità costituita (1), Se
invece nell'Inferno ci limitiamo a riconoscere il disordine in atto ed ogget-
tivamente, ci liberiamo da tutte queste difficoltà. E cosi il Pascoli non avrebbe
bisogno di indugiarsi a dimostrare che i violenti contro il prossimo e contro
sé stessi sono iracondi e che iracondo é pure Gapaneo, dove può trovare
anche facile consenso dai lettori, ancorché io non creda affatto all'equazione
violenza = ira ; né avrebbe bisogno, peggio, di darmi ad intendere, insi-
stendo su ciò che aveva affermato nella Minerva Oscura, che iracondi sono
anche gli usurai e i sodomiti ; dove sarei proprio curioso di sapere se ci sia
stato qualcuno che gliel' ha creduto. Violenti sì, iracondi no : se io piego e
torco una pianta in modo da impedirle di crescere come natura vorrebbe,
io faccio violenza a quella pianta, — e come no? — ma l'ira non c'entra
punto, lo avrò guastato quella pianta: che peccato! Peccato sì, ma non d'ira.
— E questa é la mia convinzione, e di qui non mi muovo.
Se io abbia ragione a impugnare cotesti paralleli, lo dica il lettore dopa
letta quest'altra pagina del Pascoli, pp. 435-36: «L'ira nel Purgatorio è
«mondata nel fumo, nell'inferno è punita sotto il fuoco. Della colpa resta
« la macchia, come del fuoco il fumo. Del resto egli pur dice ' in foco d'ira '.
« Or neir Inferno e' é il fuoco, óltre che nel terzo girone, anche nel primo;
« che la riviera é di sangue che bolle. Non è nel secondo . . . Eppure! Oh!
« si rischia, interpretando il Poeta, di passare a ogni tratto per dottori sot-
«tili; eppure quanta sottigliezza non si deve invero a Dante! La selva dei
« suicidi risuona di guai da ogni parte. Sono le Arpie che pascono di quelle
(1) II Pascoli in una nota a p. 462 cita S. Tommaso, Summa 2.^ 2.ae, 106, 2, dove « è spie-
« gaio che il primo peccato dell'uomo non fu disobbedienza secondo ch'ella è speziale peccato,
« ma sttperbia per la quale l'uomo s'indusse a disobbedire ». Non vorrei ch'egli ritorcesse l'osser-
vazione al caso nostro per una facile estensione. Il caso è alquanto diverso. Il peccato di Adamo
è molto simile al peccato dell'angelo: l'uno e l'altro constano di un atto solo e della violazion&
di nn solo precetto determinato. Ora altro è infrangere una o un'altra disposizione di legge, altra
è violare tutta la legge come fu nel peccato originale ; e così altro è violare la legge posta dagli
uomini, altro violar quella posta da Dio, disobbedire a lui nel solo obbligo ch'egli ci ha posto,
disobbedirgli nel Paradiso Terrestre, per così dire faccia a faccia con lui, con Ini conosciuto non
solo per fede, ma, direi quasi, per mezzo dei sensi, mancar di fede al proprio benefattore, aspi-
rare ad agguagliarlo : et eritis sicut Deus scientes bonum et malum. Qui non si può disconoscere,
oltre al disordinato amore dei beni secondi, la superbia e la coscienza della superbia. Sono però
i due peccati dell'uomo e dell'angelo dissimili in questo, che per l'angelo la ribellione fu imme-
diata, per l'uomo mediata : questi cioè non si ribellò propriamente a Dio, non tradì direttamente
il proprio benefattore, ma si ribellò al suo precetto, non si contenne nei limiti impostigli. Perciò
mentre il peccato dell'angelo è il peccato tipico in cui s'informa l'amore del male (e per questa
Dante Io pose nel più profondo, non perchè fojse superbo), di quello dell' uomo non si può dir»»
lo stesso.
424 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
* foglie e lacerano la buccia delle piante. Ebbene quei guai sono come il
< soffiar di stizzi verdi messi al fuoco, che da una parte bruciano e dall'altra
« gemono. La selva sbuffa e stride e cricchia e cigola tutta come per un
«incendio invisibile. Ecco il bello di Dante! E bisogna essere sottili per
< trovarlo, e poi anche a essere grossi si riconosce! Che sotto il velame io
« vedo a mano a mano che si nasconde tanto di bellezza quanto di verità ».
— Ebbene, io mi metto tra i grossi, ma non vedo e non riconosco nulla di
tutto ciò.
Io credo pertanto che l'ordinamento àeWInferno e quello del Purgatorio
eieno tra di loro affatto diversi, e che ogni ricerca per conciliarli rimarrà
sempre empirica e monca e perciò confusa, se prima non si riducono, lo
dirò con una frase brutta ma efficace, a un comune denominatore, l'amore:
Amor sementa è in voi d'ogni viriate
E d'ogni operazion che marta pene.
I due ordinamenti pertanto corrisponderanno ciascuno al principio fonda-
mentale, ma non importa affatto che si corrispondano tra di loro; se si cor-
rispondessero così come il P. vuole e come con lui vorrebbero molti, la
ripetizione importerebbe monotonia, e l'esatto parallelismo povertà d'inven-
zione. Secondo me dunque il P. erra per esempio là dove, per provare che
frode è lo stesso che invidia, e tradimento è lo stesso che superbia, ricorda
due specie dell'amore del male (pp. 447-48): ,
È chi per es<ier suo Ticin soppresso
Spera eccellenza, e sol per qnesto brama
Ch' ei sia di sua grandezza in basso messo :
È chi potere, grazia, onore e fama
Teme di perder perch* altri sormonti,
Onde s'attrista sì che il contrario ama:
e ragguagliato il primo terzetto alla superbia e il secondo all'invidia seguita
a ragionare cosi: i traditori sono rei di quella prima speranza e di quella
prima brama; i frodolenti sono rei di quell'altra tema e tristezza e amore;
dunque (e abbrevio il ragionamento) siccome due cose eguali ad una terza
sono eguali tra loro, ne viene che invidia equivale a frode e superbia a
tradimento. Ma non è così. Torno a ripetere: altro sono gli abiti e altro
sono gli atti. 1 citati terzetti costituiscono la norma fondamentale per gli
atti e per gli abiti : se il primo ha per corrispondente come abito la superbia
e come atto il tradimento, e il secondo come abito l'invidia e come atto la
frode, e il terzo, che si può aggiungere, come abito Pira e come atto la
violenza; non ne viene in nessun modo che la superbia sia una cosa sola
col tradimento, l'invidia con la frode e l'ira con la violenza. Sono cose di-
verse, ancorché in certi limiti analoghe, e l'analogia può sedurre a farle
credere identiche, ma non sono. Un solo principio di morale può svolgersi
in un doppio ordine di applicazioni; può farsene una disciplina, e può far-
sene un codice: V Inferno è il codice penale di Dante; la disciplina di Dante
è il Purgatorio.
Un altro esempio d'errore prodotto da questa impuntatura del parallelismo
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 425
forzato lo trovo a proposito della femmina balba. La femmina balba del
canto XIX del Purgatorio, l'antica strega
Che sola sovra nrà ornai si piagne,
il P. col Casella vuole che sia l'incontinenza. Ma perchè nell'Inferno incon-
tinenza è anche l'accidia, vuole che la femmina balba, oltre i peccati dei
cerchi superiori, contro 1' espressa affermazione di Dante, comprenda anche
questa (p. 152). E perchè non anche l'ira, che in Inferno è pure punita come
incontinenza? Se invece diremo che essa rappresenta l'amore disordinato dei
beni secondi in quanto si manifesta negli abiti, ci accontenteremo dei tre
vizi di avarizia, gola e lussuria, senza chiamare a confronto i singoli atti
colposi, che costituiscono la incontinenza nell'Inferno. La femmina dunque
ha qualche somiglianza con la lupa, ma non è tutt'uno con la lupa.
Similmente non vedo affatto l'analogia tra la pena dell'invidia nel Pur-
gatorio e quella della frode semplice nell'Inferno, che il P. vuole sia invidia.
Le analogie si riducono a qu«sta (p. 437), che la pietra dell' Inferno è fer-
rigna e nel Purgatorio è livida, e che delle dieci pene delle bolge ce ne sono
due che sommate insieme in qualche modo si avvicinano a quella che pu-
nisce rinvidia nel Purgatorio: là vi sono i vestiti di cappa e qui i vestiti
di cilicio, là quelli che camminano a ritroso
Perchè il veder dinanzi era lor tolto,
e qui quelli che hanno le ciglia cucite. Mi pare ben poco. E se dicessimo
invece che le malebolge hanno analogia con la cornice dei superbi? Prendo
ad esempio solo ancora gli indovini che camminano a ritroso, e l'esclama-
zione che troviamo nel Purgatorio, appunto a proposito dei superbi:
0 superbi Cristian miseri e lassi,
Che della vista della mente infermi
Fidanza avete nei ritrosi passi.
Non è assai più calzante? Infatti a me pare che gli indovini, più che invi-
diosi (invidiosi di che?) si potrebbero dir superbi. Sono puniti infatti
Perchè voller veder troppo davante;
e questo, se ha da ridursi ad un vizio capitale, per me non può essere che
superbia. Badiamo, che non vorrei essere frainteso: non dico affatto che le
bolge si abbiano da ragguagliare alla superbia; dico che, poiché ci si trova
ora la superbia, ora l'invidia, ora l'avarizia, ora la lussuria, non sono da
ragguagliare a nulla. Esse puniscono la frode, la quale si ragguaglia ad
amore del male, e si potrà ridurre ora all'uno, ora all'altro peccato, ora a
più peccati insieme: tutt'al più, se si vuole che nella frode l'invidia sia l'in-
grediente e per cosi dire il colorito più abituale, io non ho che ridire ; purché
non si voglia che sia il solo.
Dopo ciò mi pare che cada anche un'obiezione che mi fa il Parodi in un
ottimo articolo sugli Studies in Dante del Moore {Bull, della Soc. Dantesca,
Vili, pp. 41 8gg.). Mentre egli infatti pare accostarsi molto al principio da
me posto, mette innanzi anche alcune riserve. Avevo detto che in certo
426 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
modo gli eresiarchi dell'Inferno, come quelli che mancano totalmente d'a-
more, corrispondono agli accidiosi del Purgatorio che hanno scarsezza di
amore, e forse la mia espressione non fu così precisa come era l'idea. Ora
dice il Parodi, e dice assai bene: « confrontando ... gli eresiarchi con gli
« accidiosi del Purgatorio, noi introduciamo nella classificazione infernale
« un elemento solo in apparenza omogeneo ». Dice poi che il peccato in essi
predominante, crede egli, sia piuttosto la superbia che l'accidia : — ed io
sono perfettamente d'accordo tanto nell'una quanto nell'altra osservazione,
€ le accetto e le faccio mie. L'omogeneità col Purgatorio è solo apparente,
6 non più, né deve essere altro che apparente e generica. Difetto d'amore
del vero bene è nei detti cerchi, qui e là: ma nel Purgatorio è nella dispo*
sizione dell'animo, nel vizio, amore scarso, quindi è accidia; nell'Inferno è
insieme e principalmente nell'atto, quindi, per esser colpa mortale è disdegno
e negazione di Dio o dei suoi attributi: chi nega Dio o lo sminuisce, non
l'ama; se poi chi non l'ama è superbo anziché accidioso, ciò non impugna
anzi conferma la mia tesi, che qui il vizio capitale non ha che fare. Che
se, ancora, nel Purgatorio il principio psicologico dell'amore rispetto ai vizi
capitali comporta un'applicazione più esatta di quello che non tolleri forse
rispetto all'elemento pratico cui si deve adattare nell'Inferno, anche in questo
sarò facilmente d'accordo: l'idea è più maneggevole del fatto, e tanto per
l'una quanto per l'altro bisogna poi contentarci di una ragione suflficente.
Ma affrettiamo il passo, che è tempo. Un punto notevolissimo di questa
stessa sezione é là, dove si parla delle Beatitudini e dei Doni dello Spirito
Santo esaminandone i rapporti specialmente nel Purgatorio e nel Paradiso.
La ricerca é qui profonda e difficile, e il P. stesso confessa che riassume
in breve ciò che potrebbe fornire argomento ad una trattazione molto più
ampia. Dire al lettore che anche qui in parte convengo col P. e in parte
no, è cosa che lo interesserà certo mediocremente, quando ciò non sia se-
guito da una discussione che serva a portare qualche luce. Ora su questo
punto io confesso che non mi sono formato ancora una convinzione sicura,
e se si sbaglia quando si é persuasi di dir giusto, figuriamoci cosa potrebbe
succedere quando si tirasse un po' a indovinare. Questa questione pertanto
ad altro tempo rimettiamola, e sarà meglio se ne occupino altri più compe-
tenti di me: quanto a me ciò che ho detto sull'ordinamento morale del
Paradiso nella recensione di Mineroa Oscura, mi pare che possa stare e
non vedo ancora motivo di mutarlo.
Così rinuncio a parlare del breve capitolo intitolato ' la fonte prima \ ac-
contentandomi solo di richiamare su di esso l'attenzione del lettore. Il signi-
ficato simbolico di Lia e di Rachele, che il P. intende come il concello
fondaii^entale del poema, non è stato mai studiato con tanto amore come
dal P., e, fatta riserva del troppo che anche qui si può notare, la interpre-
tazione data sostanzialmente mi par vera.
E per ragioni analoghe a queste, del capitolo ultimo ' la mirabile visione"
darò pure solo un breve sommario. Per il Pascoli Lucia è la grazia, Vir-
gilio lo studio, Malelda l'arte, Catone la virtù o la giustizia laboriosa, Bea-
trice beata la sapienza. Lo studio guida all'arte e alla sapienza; e la sa-
pienza umana, che è Beatrice, guida alla sapienza divina, che è Maria.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 427
Vogliamo finirla e conchiudere? Conchiuderò come ho cominciato. Il libro
ha moltissimi pregi, molta dottrina, molta originalità, è l'opera di un uomo
di molto tngegno. Ma all'ingegno e alla dottrina non corrisponde il terzo
requisito essenziale per un'opera di critica, cioè il metodo. Con tutto ciò se
per i due primi pregi esso costituisce un contributo prezioso per gli studi
danteschi, per ciò che gli fa difetto può servire di ammaestramento non
meno utile.
È un vanto dell'età nostra quello di aver persuaso agli studiosi una cosa,
che del resto è elementarmente intuitiva, cioè che vai molto meglio sapere
che immaginarsi. E precisamente lo stesso di quello che insegnava Socrate,
che cioè per conoscere le cose che si possono pesare, misurare e noverare,
bisogna pesarle, misurarle e noverarle, e non domandarne la risposta all'o-
racolo: così per la critica egualmente; ciò che si può sapere dai fatti e dai
documenti bisogna chiederlo ai fatti ed ai documenti e non all'oracolo
della propria immaginazione. Ma quando si tenga ben saldo e sicuro questo
principio senza transazioni e senza indulgenze , restano però molte cose
che non si possono né pesare né misurare né noverare. La critica è per
sé stessa una instituzione essenzialmente razionale, ma l'opera d'arte sulla
quale si esercita non è razionale che in parte, e soltanto nella parte meno
essenziale. Converrà dunque che la critica vada a fondo fin dove la ra-
gione può arrivare, che sarà tutta la parte tecnica, e quanto al resto si
accontenti soltanto di capire come può e di spiegare quanto capisce. Par-
rebbe che ciò dovesse essere evidente per tutti, e invece non è. Succede
infatti spesso che la mente abituata soltanto ed esclusivamente ad una di-
sciplina, si atrofizza per le altre facoltà, e come il cieco non ha idea dei
colori, e il sordo non ha idea dei suoni, così il critico razionalista prima
non si interessa che di ciò che può pesare, noverare e misurare, e poi nega
che al di là di questo ci sia alcun altro mondo. E fino a che egli si limita
a questo, non fa male a nessuno ; — e cosi io spiego una frase che ho sen-
tito pronunziare qualche volta in elogio di questo metodo critico, — frase
che ha scandalizzato altri, non me, perchè anzi io la trovo perfettamente
consentanea; ed è che coi mezzi attuali, per fare il filologo, non è più neces-
sario di avere ingegno; — né mi stupirei che altri aggiungesse ancora che
l'ingegno è un inutile ingombro. Infatti se l'ingegno non c'è, l'uomo si
ferma lì e non si arrischia più oltre; e quando anche abbia sentito dire che
le cose e i fatti hanno una vita, e che è questa ciò che più importerebbe
indagare, allora per darsi un po' d'aria, o copia delle frasi retoriche e
stantie come se quelle fossero la psicologia della letteratura, oppure non ha
tempo ; che se avesse tempo, si vedrebbe cosa sa fare : che peccato ! Ma intanto
almeno non svia nessuno. Quando invece l'ingegno e' è ed è acuto e potente,
allora non si ha paura di mettersi in pelago, e se l'ardire bastasse, l'impresa
sarebbe degna di tutte le lodi. Ma di arrivare a una meta per questa via non
è possibile, perchè una meta non c'è; talora pare di intravederla, ma è un
miraggio, un barbaglio; pare di vedere una selva e non è una selva, pare
di vedere una luce e non è che bujo, pare di vedere un adolescente e non
è un adolescente, pare di vedere un iracondo e non è un iracondo, e si po-
trebbe continuare fino alla noia questa litania. Se la meta ci fosse e fosse
428 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
raggiungibile, il Pascoli avrebbe certo ali da toccarla prima di ogni altro,
ma non per questa via: per questa via non potrebbe condurre che tutt'al
più ad un altro oxymoron generale, più grave assai di quelli che è venuto
schierando a parte a parte, che la Divina Commedia pare un meraviglioso
poema ma è la più scipita lambiccatura che sia uscita dalla malata anima
medievale. Il Pascoli è artista eletto; per essere eletto critico ha tutta la
preparazione e la dottrina necessaria : non capisco perchè per le opere altrui
voglia applicare metodi e misure che certamente egli non usa nelle proprie.
Pare che sia preso da una preoccupazione, di esser tacciato di dilettante;
si richiama a quelli * che hanno la consuetudine degli studi seri ed esatti ',
si duole che altri dica della sua critica: 'è un poeta! un poeta! poeta! ' —
Ebbene, questo è anzi il suo pregio, — è un poeta; — purché non se ne
dimentichi anche quando fa il critico, e renda anche a Dante poeta il suo
diritto. Il Pascoli poeta ha Ietto nel pensiero di Dante, per qualche rispetto,
più addentro che altri non vide, e il libro suo è denso di osservazioni
nuove e geniali; il Pascoli critico demolisce Topera propria con le stesse
sue mani, perchè non si contenta del quia.
Giuseppe Fraccaroli.
FRANCESCO D'OVIDIO. — Sticdii sulla Divina Commedia. —
Milano-Palermo, Sandron, 1901 (8^ pp. xvi-608).
Non v' ha certo studioso alcuno di cose letterarie che non saluti con vi-
vissimo compiacimento questo volume. Esso apre una serie, nella quale il
D'C, soddisfacendo ad un desiderio di tutti i cultori di storia letteraria, si
propone di raccogliere i suoi scritti, rimaneggiati talora e completati.
Per chi studia Dante è una vera festa la presente raccolta di studi dan-
teschi, disposta con senno amoroso, curata come meglio non si potrebbe nel
contenuto e nella forma, preceduta da una nobile prefazione, nella quale,
tra l'altro, è toccato con affetto ossequente del compianto Bartoli, ed è com-
memorato lo Scartazzini con quella carità cristiana, da lui, prete evangelico,
troppo spesso obliata (1). Gli scritti del volume, di svariatissima dimensione
e importanza, vanno dalla monografia nutrita all'articoletto di giornale, dalla
memoria accademica alla scheda e all'appunto; ma tutti sono accarezzati da
una mano esperta, tutti contengono qualche osservazione arguta, qualche
richiamo utile, qualche accostamento ingegnoso. Come suona il titolo del
(1) la an luogo del libro scriTe il D*0. : « L'amor di Dante ci unisce pur quando la maniera
« deirinterpretarlo ci divida. La malignità letteraria ò sempre una sconcesza, ma a proposito di
« Dante ò un sacrilegio » (p. 289). Siano aperti gli orecchi ad udire queste giuste parole, sicché
scendano ai cuori oggi che la ressa de' lavoratori nel campo dantesco ronde cosi fkcUo il pette-
golsuo e 00^ frequente il ripicco deUa polemica astiosa.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 429
libro, tutti si riferiscono alla Commedia (e, aggiungo io, della Commedia
la cantica che più vi trova considerazione è la prima), ma fra essi un paio
al poema si collegano solo di traverso, quantunque vi si colleghino, se ben si
pensa, intimamente. La critica che vi trionfa è la critica congetturale, nella
quale il D*0. ha grandissima fede (cfr. p. 142). Né io dirò che abbia torto.
In certi casi la congettura è una necessità, né alcuno ignora eh' essa può
esser principio di verità scientifica. Quando la congettura è lanciata da un
uomo che abbia l'ingegno ed il sapere del D'O., anche questo Giornale, che
professa la critica storica pura, e preferisce la « indocile inflessibilità » dei
fatti alla « comoda elasticità » delle idee (1), é disposto a farle di cappello
e, se anche non persuada compiutamente, ad accoglierla con doverosa defe-
renza. Gli è per ciò che nelle pagine che seguiranno mi avverrà di essere,
in quest'ordine tanto soggettivo d'indagini, più relatore che critico. Dalla
critica mi asterrò il più delle volte di proposito, perché se dovessi entrarvi,
allungherei di tanto questa mia recensione, da far perdere la pazienza al-
l'autore del libro ed al pubblico; il che non vorrei a nessun patto.
Procederò, nel mio riferimento, dagli studi che hanno interesse più com-
prensivo a quelli che trattano delle fonti e di episodi o luoghi determinati
del poema, lasciando per ultimo il più rilevante (a parer mio) fra tutti,
quello sulla lettera a Cane della Scala.
Le Tre discussioni^ di cui altra volta fu nel nostro periodico riferita som-
mariamente la conclusione (2), mirano al quesito del tempo in che fu com-
posta e pubblicata la Commedia e s'intrecciano con varie altre questioni
minóri, specialmente con quella della condanna di Celestino V, papa cano-
nizzato nel 1313. Ritiene il D'O. che il III canto deW Inferno sia stato in-
dubbiamente scritto molto innanzi quell'anno. Le due prime cantiche, peraltro,
non furono compiute se non dopo il 1314; ma quantunque di esse, ed anche
della terza, il poeta facesse conoscer dei saggi, l'opera intera uscì postuma.
Avendo L. Rocca, con la sua critica assestata e ragionata, discusso queste
ed altre conclusioni del D'O. nel Bull. Soc. Dani., N. S., IV, 121 sgg., l'A.
qui risponde alle sue obiezioni, ed inoltre s'avvantaggia di quel che il
Novati pose in chiaro rispetto all'opera bucolica dell'Alighieri (3). Approva
il D'O. incondizionatamente la dimostrazione dell'amico nostro; ma fa alcune
ponderate obiezioni all'idea di lui che il cappello desiderato dal poeta sia
il berretto dottorale e non piuttosto l'alloro, la fronda peneia (4).
Dopo la determinazione della cronologia del poema, lo scritto che viene
ad avere importanza più generale é quello che s'industria nel fissare La to-
pografia morale dell'Inferno. Quest'acutissimo studio del D'O. tolse già le
mosse da uno scritterello del nostro Fraccaroli (5) e comparve dapprima
(1) D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, 1879, p. xv.
(2) Giornale, XXIX. 552.
(3) Vedi Giornale, XXXV, 415.
(4) Sulla interpretazione del cappello ha fatto testò osservazioni analoghe a quelle del crìtico
napoletano anche il Ciak, nel BuUeit. Soc. Dantesca, N. S., Vili, 169-72. Cfr. questo Gior-
nale, XXXVIII, 250.
(5) Cfr. Giorn., XXY, 147-48,
Giornale storico, XXXVIII, fase. 114. 28
430 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
nella N. Antologia del 15 sett. 1894. Ma ora nel volume è totalmente ri-
maneggiato, con l'aggiunta di molte argomentazioni nuove. La conclusione
capitale è questa: « nel Purgatorio tutta la materia espiabile è racchiusa
«nei sette vizi capitali, nell'Inferno tutta la materia punibile è racchiusa
« nelle tre categorie aristoteliche » (p. 299). Pel monte della purgazione il
poeta si attenne alla dottrina della Chiesa; pel sistema della daonazione
fece suo prò (prevalentemente, se non escla»vaniente) àeWEtica di Aristo-
tele. Il quesito è certo bello ed interessante, se anche non è veramente es-
senziale pel retto intendimento e per l'apprezzamento pieno della prima
cantica; ma siccome già tre volte il Fraccaroli ritornò sopra di esso nella
rivista nostra (1), non è il caso d'insistervi maggiormente. Ed è questo pure
il motivo per cui non mi trattengo sull'articolo Le tre fiere (2), nel quale
il D'O., contraddicendo alla fortunata interpretazione del Casella (lonza,
frode; leone, violenza; lupa, incontinenza) ed a quella recente del Pascoli
(lonza, incontinenza; leone, violenza; lupa, frode), risostiene, con una va-
riante rispetto all' allegoria della lonza, la spiegazione degli antichi chiosa-
tori. Per lui la lonza è l'invidia, il leone la superbia, la lupa l'avarizia ossia
la cupidigia, le tre faville di hanno i cori accesi. A me, che non potei
mai guardare con molta simpatia la spiegazione troppo festeggiata del Ca-
sella, e che rispetto all'esegesi ritorno pur sempre volentieri agli antichi
commentatori, ossequente in questo per troppe ragioni alla tradizione, riesce
graditissima la dimostrazione del D'O., alla quale di gran cuore aderisco,
pur rimanendo ancora in dubbio se la lonza simboleggi veramente l'invidia
ovvero la lussuria (3).
Gli indagatori delle fonti a cui attinse il poeta sovrano non troveranno
solamente discorso in questo volume replicate volte della visione d'Alberico,
ma nello studio che s'intitola Dante e San Paolo vedranno scrutato con la
dovuta delicatezza quali mosse e quali germi del poema rimontino per av-
ventura alla Visio Pauli (4). Dissi con la dovuta delicatezza, e ciò è titolo
(1) Vedi Giorn., XXXIII, 364 egg. ; XXXYI, 109 sgg. ed il fascic. attnale, nella recensione del
libro del Pascoli, Sotto il velame.
(2) Discute a lango il Fraccaroli di questo soggetto nella menzionata recensione del Pascoli.
(3) Nel Bullett. Soc. Dani., N. S., VII, 281 sgg. il Parodi tenta una conciliatione tra la teoria
del D'Oridìo e quella del Casella. Giuseppe Manacorda, in uno studio recentissimo snlP allegoria
dantesca {Da S. Tommaso a Dante, Bergamo, 1901, pp. 26 sgg.), propone un senso tutto diverao
e nuovo delle tre fiere. Egli ritiene che esse non stiano già a simboleg^are peccati, ma deno-
tino i tre detrimenta peccali, che secondo l'Angelico Tuomo porta in so anche cessato Tatto del
peccare. Se non che questa maniera d'intendere è collegata ad una nuova ennenontica dantesca,
che il Manacorda esplica nel suo notevole studio, del quale altri avrà a discorrere di proposito
in questo Giornale.
(4) L'esordio a questo saggio ò di molto ampliato rispetto a quel che era nella prima ediiione.
Quivi il D'O. tocca del formarsi dell'idea del poema nella ment« di Dante, soggetto più special-
mente trattato dal Gorra (cfr. Oiorn., XXXV, 411) e che altri tentarono, con successo disQgaale.
Eliminata l'ipotesi che nella canz. Donne che avett sia preannnnciato l'inferno, il D'O. è convinto
« che il primo vero accenno dell'antore all'opera ftitnra sta nella chiusa della F. K. ». Ma che
cosa aveva in mente allora? L'A. non cerca troppo d'indagarlo e fa bene, che codesti sono veri
indovinelli, sono sforzi d'ingegnosità che non approdano a nulla di concreto. Nota solo che dne
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 431
d'encomio, poiché in questa materia tenue ed incerta il procedere con av-
ventata sicurezza è rovinar tutto. Di quelle umili fonti medievali la gran
fantasia di Dante usò in modo, che è arduo riconoscerne le traccie, tanto
essa trasformò, tanto v'impresse la sua impronta poderosa. Con uguale cir-
cospezione procede il D'O. nello scritto su Dante e Gregorio VII, ove rav-
visa in certo aneddoto narrato da Ildebrando in una sua predica pronunciata
in Arezzo, di cui Pier Damiano tien conto, il nocciolo onde si svolse la
pena dei simoniaci. Movendo da ciò, il D'O. ci dà un arguto commento al
canto dei simoniaci, e di là è tratto a considerare lo speciale atteggiamento
del po^ta verso i papi ed a scrutare quel che probabilmente sentiva di Gre-
gorio VII. Secondo l'A. (e qui veramente debbo confessare che, a parer mio,
molte obiezioni si potrebbero muovere alla sua ingegnosissima ricostruzione
critica) Dante venerava in Gregorio l'uomo grande ed intemerato, il pon-
tefice magnanimo; ma le sue idee teocratiche gli erano odiose. « Non osò
« vilipenderlo, non amò glorificarlo ». Tacque di lui, tacque de' suoi prin-
cipali fautori, che nella Commedia Roberto Guiscardo è solo beatificato
come liberatore della Sicilia dai Saraceni; Pier Damiano sta in cielo come
monaco tra monaci e gli si fanno dire aspre parole contro i cardinali e i
prelati; Matelda non è certamente la contessa Matilde (1). Se anche in
qualche parte di questo scritto il D'O. ha trovato il suo maggior nemico
nell'acutezza stessa eccezionale del proprio ingegno, sono pur sempre assai
notevoli le considerazioni eh' egli fa in esso (2) e nello studio che ad esso
intimamente si collega, La proprietà ecclesiastica secondo Dante e un luogo
del De Monarchia, sulle idee dell'Alighieri intorno al possesso degli eccle-
siastici ed al potere temporale della Chiesa. Interpretando il passo con cui
principia il De Mon.^ II, § 12 (secondo l'ediz. Moore) rileva giustamente l'A,
che « Dante non negava alla Chiesa il diritto dei beni materiali, ma era
« fermo nel convincimento che essa e gli uomini suoi non dovessero avere
elementi cospirarono con l'amore a rendere la Commedia piena e complessa: il rimorso del poeta
per esser caduto nel vizio e la vendetta per la sconfitta della sua parte politica e per l'esilio.
Questi tre elementi essenziali, cementati col giudizio della mente altissima e con la passione
dell'animo fervente, illuminati dalla dottrina sicura dell'uomo colto e dalla sua singolare sensi-
tività e recettività d'osservatore e di psicologo, trattati con mano maestra dall'artista impareg-
giabile, costituirono il poema meritamente chiamato divino.
(1) In questa negazione il D'O. non ha esitanze; ma non è altrettanto certo (e chi potrebbe
esserlo?) nel sostituire un altro personaggio. Solo in una nota aggiunta (p. 378) si mostra incline
ad identificare Matelda con la Matilde figliuola di Arrigo I imperatore, tratta fuori dal suo diletto
Scherillo. Come fu recentemente dimostrato da A. Mancini, quella tal Matilde va identificata con
la beata Slatilde di Hackeborn, l'antica candidata del Lubin, che nella sua prima comparsa ebbe
così poca fortuna. Vedremo se ne avrà di più nella seconda. Cfr. Rass. bibl. della lett. italiana,
IX, 153 e Bull. Soc. Dani., N. S., Vili, 225 sgg.
(2) Voglio non passi inosservato che dalla prima redazione del suo articolo, il D'O. tolse quello
che vi aveva detto di Sigieri, a motivo delle ricerche più recenti, che ne misero in luce diversa
la figura. Nella nota aggiunta, che egli dedicò a questo soggetto (pp. 398 sgg.), ben a ragione
insistette sulla misteriosità degli invidiosi veri che Dante fa sillogizzare al celebre filosofo aver-
roista. Egli riconferma la supposizione che fossero concetti antiteocratici banditi da Sigieri a
Parigi e causa a lui di gravi noie.
432 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« alcun attaccamento a quei beni, anzi amministrarli soltanto a beneficio
€ dei poveri » (p. 404). A' tempi suoi « il potere temporale nel preciso senso
« moderno non era nato » (p. 416), ma il non curare egli, anzi l'ammettere,
€ che il papa possedesse qualche lembo di terra, esercitandovi quelle giu-
« risdizioni che allora s'accompagnavano a tali possedimenti » (p. 415) non
implica che approvasse il potere temporale moderno, anzi il modo come egli
« si atteggiò verso tutto quel complesso che fu il potere civile de' papi
< nell'età sua, dice chiaramente ch'egli avrebbe con impeto non minore ri-
« provato il possesso territoriale trasformato in vera e propria monarchia »
(p. 417). Tutto questo mi sembra sacrosantamente vero, e giusto, e ben
dimostrato (1).
Ma tornando alle fonti, è di massima importanza quello che osserva il D'O.
sui rapporti tra la Commedia e VEneide. Strano fatto è invero che in tanta
sollecitudine nel cercare riscontri a Dante, siasi negletto per l'appunto il
poema di colui ch'egli chiama suo maestro e suo duce. Non soltanto lo hello
stile tolse da lui, afferma con piena ragione il D'O., e a provare le maggiori
dipendenze, non solo di forma ma eziandio di contenuto, s'indugia nel di-
mostrare che < sotto la topografia materiale e sotto quella morale deir/«-
« femo dantesco ci s' intravedono le linee dell'una e dell'altra topografia
« dell'inferno virgiliano » (p. 235). Lo squisito lavoretto del D'O. su questa
delicata materia lascia vivo desiderio ch'egli medesimo, come ci dà una
mezza promessa (p. 238), ponga in evidenza « tutte le rimanenti conformità
« tra i due poemi ». In questo volume, intanto, si parla di Virgilio anche
a proposito del disdegno di Guido, su cui tornerò fra poco, e negli articoli
Il saluto dei poeti del limbo al reduce Virgilio e Dante e la magia. È il
primo di essi un commento garbato e fine alla maggior scena del limbo,
ove mi sembra segnalabile in particolar guisa l'interpretazione al verso
« Fannomi onore e di ciò fanno bene ». A nessuno possono riuscire soddi-
sfacenti le spiegazioni più o meno stiracchiate che di questo verso soglion
dare i chiosatori, mentre il D'O. ne suggerisce una razionale quanto sem-
plice. Bi ciò vale sotto questo rispetto, cioè il rispetto dell'esser poeta, sicché
il verso dice: « son poeti anch'essi questi che m'onorano, e in quanto ono-
« rano in me la qualità che ho comune con essi, devo io medesimo ammet-
< tere che fanno bene » (p. 521). Lo scritto su Dante e la magìa ci trasporta
nella bolgia ove sono cos'i orribilmente stravolte le persone degli indovini
e dei maghi. Dante, anche prima di sapere chi siano quei dannati, è com-
mosso dalla miseranda vista sino alle lacrime, sicché Virgilio ne lo rimprovera
ed esce nella dura sentenza « Qui vive la pietà quand' è ben morta », o in
altri termini « qui la vera pietà é di non averne » (Inf., XX, 19-30). Perchè
tanta ira nel mite Virgilio? 11 suo monito si riferisce a tutti i dannati ov-
(1) Ritornò incidootalmente sul tema il Tocco, in an artìcolo di Polemiche danUsckt (nella
Rioiita d'Italia del loglio 1901), che discute in {specie la cronologia del D« Monarchia. Con&on*
tando le idee di Dante con quelle di Ubertino da Casale rispetto al possesso territoriale della Ciii«M,
il Tocco conclude che « non il possesso condanna il poeta, come fkcerm Ubertino, ma il nodo di
« usarlo, il non fiirne parte ai poreri, il tenerlo per tè e non per nitri, come impone U l«fg«
« di Cristo ». Cfr. Bull Soc. Dani., N. S., Vili, 245.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 433
vero ai soli indovini? A tutti i dannati no, perchè la pietà si fa strada in
Dante altra volta senz'essere rintuzzata così aspramente. Dunque sono solo
gli indovini che meritano quel duro trattamento. E perchè? Ecco Tindagine
che il D'O. si propone — Dopo essersi indugiato in un'istruttiva disamina
sull'attitudine dei poeti verso gli Spiriti puniti nell'inferno, VA. esprime
l'opinione che due siano i motivi del trattamento singolarmente crudo inflitto
agli indovini. Uno è un motivo generico, l'abuso che nel medievo si faceva
delle scienze occulte: l'altro è un motivo specifico e riposto. La sdegnosa
reazione di Virgilio, la sua stessa inusata loquacità nel parlare degli indo-
vini, l'asprezza con che li tratta, vogliono servire a purificarlo da quella
scoria di mago, che gli era stata sovrapposta dalla tradizion medievale.
« Nella bolgia dei maghi il poeta si creò un'occasione di protestare
« contro il deturpamento del verecondo suo duce, mettendo, con uno de' suoi
« soliti trovati, in bocca a lui stesso la protesta, dopo averla in modo abi-
« lissimo provocata » (p. 101). Virgilio medesimo, conscio della triste rino-
manza affibbiatagli, perde qui le staffe, come Dante con Alberico e con
Bocca. Tutto il canto si direbbe essere «la sua beneficiata» (p. 103); tutto
vi è rivolto « a lumeggiare l'ostilità di Virgilio verso quella turba con cui
« era stato da rozze fantasie stolidamente imbrancato » (p. 108). — Non
avendo il Gomparetti (1) fatto buon viso alla sottile argomentazione del D'O.,
questi difende l'opinione sua in un secondo articolo. Ancora Dante e la
magìa, nel quale considera anche un altro fatto, venuto fuori dopo la prima
stampa dell'altro scritto, il documento scoperto a Roma dal Jorio (2), su cui
si trattenne particolarmente il bravo Della Giovanna nella Rivista d'Italia
del 15 maggio 1898. Ritenne il Della Giovanna, basandosi su quel docu-
mento mostrante l'Alighieri in voce di mago, che nel G. XX s' avesse a
vedere una specie di autodifesa del poeta stesso, intorno al quale ben presto
si sarebbe formata una specie di leggenda letteraria che lo tacciava d'in-
tinto nelle scienze occulte; mentre il D'O. gli oppone che, se mai, siff^atta
fama dovette formarsi intorno a lui dopo la pubblicazione deìV Inferno e
non prima. Secondo il nostro critico è, invece, nel descrivere la bolgia suc-
cessiva, quella dei barattieri, che Dante pensa a sé; e nel foggiare quella
grottesca comicità, nello sghignazzare sulla pena di quei ribaldi vilissimi,
nello stesso uscir salvo dalle insidie dei diavoli, forse adombranti « le ca-
« lunnie e le persecuzioni fiorentine », intese il poeta di vendicarsi del-
l'ignominiosa accusa di baratteria, con cui era stato piagato, non lordato, il
suo animo altero. — Questi due studi , in cui sono pagine veramente elo-
quenti, segnano il vertice a cui può giungere la critica congetturale, ma-
neggiata da penna abilissima. Essi impongono l'ammirazione, anche se non
inducano nel convincimento (3).
(1) Nella 2a ediz. del suo Virgilio, 1, 290-91.
(2) Fummo tra i primissimi a darne informazione nel Oiorn., XXVI, 463.
(3) Sul documento vaticano scoperto dal Jorio la critica storica ha ancora bisogno di eserci-
tarsi. Sono parecchi i quesiti notevoli che da esso rampollano. E forse dalla risoluzione di quei
quesiti dipende la fortuna dell'ipotesi del D'O.
434 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Se non alle fonti, almeno alla dottrina del poeta si riferisce il saggio su
Dante e la filosofia del linguaggio. Nessuno ignora che il D'O., oltreché
letterato, è anche glottologo valoroso, sicché quando egli ci dice che « in
« Dante si assomma tutto quel che di più e di meglio diede la specu-
« lazione linguistica medievale » e che « in lui si ha un'esposizione felice
« delle credenze ortodosse, e più tardi il passaggio ardito ad opinioni più
« libere e più vere ■» (p. 493;, non si può che dare grandissimo peso al suo
giudizio. Infatti qui la sua dimostrazione non può patire eccezioni. Dalle
teorie tradizionali sulle origini e le prime vicende del linguaggio accennate
nel De vulgari eloquentia e forse adombrate nel far parlare Nembrotte nel
modo che tutti sanno, assorge il poeta all' importantissimo concetto che fa
esporre ad Adamo nel XXVI del Paradiso. In quel passo v*è una specie
di divinazione delle teorie moderne, perché arditamente si caccia di seggio
il sacro ebraico (reputato fino allora « la favella vera e congenita alVessere
*i pensante -p , p. 492) e si riconosce la forza evolutiva del. linguaggio.
Passando ora agli studi che hanno lo scopo di lumeggiare determinati
personaggi ed episodi del poema, primo ci si presenta, per estensione e im-
portanza, quello su Guido da Montefellro. D'onde seppe Dante che Guido,
per quanto convertitosi a vita i^eligiosa, essendo stato l'istigatore dell'in-
ganno con cui Bonifacio Vili disfece i Golonnesi, s'era dannato? Finge il
poeta che questo fosse un segreto, perchè Guido gli dice che non s'indur-
rebbe certo alla confessione se sapesse di parlar con persona destinata a
tornar nel mondo (/w/!, XXVII, 61-66). Da chi sapeva il poeta quel segreto?
Sostiene il D'O. che quel segreto era il frutto della sua fantasia; ed esten-
dendo a teoria il caso particolare, crede che l'Alighieri usasse d'una specie
di diritto di condanna e di grazia, quando l'arte e l'opportunità gli sugge-
rivano di farlo (cfr. specialmente pp. 38, 56-58, 63). Inventò nel salvare
Manfredi e Buoncontc; inventò nel dannare Guido Feltresco: e con queste
invenzioni raggiunse effetti singolari. — Malgrado l'acutezza grande con
che questa tesi è sostenuta e difesa (1), non credo eh' essa colpisca nel
segno. Buone ragioni addusse contro di essa il Gorra (2); e per quel che
riguarda il caso speciale di Guido, lo stesso Parodi, che pure non è sfavo-
revole al diritto di grazia escogitato dal D'O., mostra che il poeta non ha
inventato (3). Nel caso di Manfredi, il Novati ha mostrato che la leggenda
aveva detto cosa non diversa da quella che Dante riferi, né mi pare che
il D'O. n'esca bene nel voler attenuar l'importanza di questo fatto (pp. 67-68).
Già il Torraca (4) oppose replicate volte al D'O. l'autorità dell'antico cronista
F. Pipino, che mostra conoscere il colloquio di Guido con papa Bonifacio e
(1) Diresti che TA. abbia quasi una passionale «iTezione alla sua ipotesi, con tanto impegno
egli la suffraga di sempre nuovi argomenti. Oltre una poscritta (pp. 07 sgg.) all'articolo princi-
pale, le consacra un'appendice in fondo al volume (pp. 533 sgg.).
(2) H soggtttmsmo di Dante, Bologna, 1809; cfr. quel che ne dissi in questo OiomaU,
XXXIV, 424-2.5.
(3) BulMt. Soc. Dant., N. S., VII, 24-26.
(4) Prima nelle Huote rasségne, pp. 332-37 ; poi nel suo fueicolo della LecUtra Danti* fio-
rentina.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 435
sembra saperne in proposito ben più di Dante. Risponde il D'O. che il Pi-
pino raccolse la voce difiusasi dopo che Dante aveva scritto e la allargò,
cercando di darle colorito storico; e siccome gli si fa valer contro la cro-
nologia della cronaca, egli mostra che non è valida siffatta opposizione. E
voglio anche ammettere che abbia ragione su questo punto. Ma anche es-
sendo la cronaca posteriore al tempo a cui si suol assegnare, chi ci assicura
che il cronista non abbia raccolto una voce corrente, storica nel fondo,
quella voce stessa da cui il poeta trasse cosi magnifico partito da farne uno
dei più notevoli episodi della sua prima cantica? L'indagine rigorosamente
scientifica delle fonti storiche del poema dantesco può dirsi oggi appena
iniziata. Che ne sappiamo noi di quel che Dante sapeva della storia a lui
più vicina? Di sorprese come quella che si ebbe per Manfredi chissà quante
il tempo ce ne prepara! Oggi, mentre si attende, non mi sembra sia pru-
dente ritenere che la fantasia del poeta varcasse certe frontiere. D'accordo
che il creator di tutto quel mondo era lui, e che poteva e doveva aggirar-
visi con una certa, anzi con molta, libertà. Ma se il salvare personaggi illustri
che la coscienza pubblica universalmente dannava era arditezza non co-
mune ; il dannare, senza alcun appiglio nei fatti, chi da tutti stimavasi salvo
poteva sembrare, non solo temerità, ma malevolenza partigiana e peggio.
Questo è il caso di Guido di Montefeltro.
D' un altro, più celebrato. Guido , parla pure il D'O. e non si perita di
affrontar di bel nuovo quel suo terribile disdegno. È cosa risaputa eh' egli
fu tra i primi a discuterne trent' anni sono (1), né allora certo imaginava
quale selva di piante parassite avrebbe aduggiato il verso « Forse cui Guido
« vostro ebbe a disdegno ». Con arguzia bonaria riassume il D'O. in una
paginetta (pp. 161-62) i moltissimi e talora strani tentativi, fatti da gente
di svariatissima autorità e coltura, per risolvere le difficoltà di quel verso
divenuto una specie di sciarada a premio; e mentre con la sua sottile dia-
lettica viene a ribattere le opinioni altrui, e mentre con delicatissima ana-
lisi psicologica svela le bellezze recondite dell'episodio di Cavalcante (2),
con nuovi argomenti conferma la sua vecchia e nota interpretazione, alla
quale solo aggiunge un complemento che la rende più soddisfacente. Per
lui sta il fatto (ed ha certo ragione) che il disdegno a cui il poeta allude
non può essere se non di Guido per Virgilio e che ogni altra maniera d'in-
tenderlo è assurda. Ciò posto, Guido aveva in poca simpatia Virgilio poeta :
l'Eneide, prediletta dell'amico suo, poco gli piaceva; il suo era dunque, es-
senzialmente, un disdegno letterario. Nel quale probabilmente aveva parte
anche un altro elemento, quello che il D'O. fece valere già trent'anni sono,
l'elemento religioso, giacché a Guido scettico non poteva garbare Virgilio
(1) Nel Propugnatore del 1870. Otto anni dopo riproduceva quello scritterello nei Saggi critici
(pp. 312 sgg.), con l'aggiunta d'una poscritta destinata a confutare le obiezioni di alcuni critici.
(2) Curioso è il confronto che il D'O. fa tra l'episodio di Cavalcante e quello di Andromaca
che chiede di Ettore ad Enea n&lVEneide. L'A. non osa dire che di questa somiglianza fosse
conscio il poeta medesimo, ma conclude : « certo che il non virgiliano Guido è, fatale ironia, la-
« crimato con virgiliani accenti » (p. 183).
436 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
nella sua funzione simbolica, « rappresentante della ragione umana teistica
« e soggiogata alla fede » (p. 151 ; cfr. p. 197). E così sia. — Che del resto
il nostro A. ha occasione di tornare di bel nuovo sui rapporti tra Guido e
Dante nello scritto La rimenata di Guido. Il sonetto notevolissimo /' vegno
7 giorno a te 'nfinite volte mise a prova veramente l'acume degli ing^ni
italiani dopoché nel 1896 un tedesco gli ebbe dedicato certo suo studietto (1).
Ritiene il D'O. che quel sonetto contenga un' ammonizione amichevole, ma
severa, del Cavalcanti, e che il motivo di essa fosse la famigliarità di Dante
con Forese e con la sua comitiva. La grossolana licenziosità della gente con
cui l'amico suo s'era imbrancato spiaceva all'aristocratico Guido; e l'Ali-
ghieri medesimo, come è risaputo, ebbe poi a pentirsene amaramente. È anzi
una proposta singolare del D'O. quella di vedere una specie d'ammenda della
sboccata trivialità di quei conversari nell'artificio dantesco, usato quattro
volte nel Paradiso, di non rimare il sacro nome di Cristo se non con sé
medesimo. Nell'articolo « Cristo » in rima egli rileva il malo uso che il
poeta aveva fatto del nome di Cristo in uno dei sonetti scambiati da lui con
Forese («Che gli aparten quanto Gioseppo a Cristo»;; il che lo avrebbe
indotto a farne penitenza con l'artificiosa ripetizione della terza cantica. —
Questo, a dir vero, ben poco mi persuade. I sonetti scambiati con Bicci
rimasero ignoti, né v' ha ragione di credere che levassero scandalo. Se anche
scandalo vi fu, esso derivò dai sentimenti espressi con crudezza volgare in
quei versi, non certo dall'innocente accenno a Cristo. Il dire che Simon
Donati sta a Forese come Giuseppe a Cristo (in altri termini, è suo padre
putativo) non implica alcuna speciale irriverenza, non fa che colorire un
fatto. Malgrado tutto, mi sembra pur sempre più accettabile l'opinion co-
mune, che Dante facesse rimare Cristo con sé medesimo solo a titolo di
reverenza devota. Né Maria, né le altre due persone della Trinità hanno pel
cristiano l'altissimo significato del Redentore. Quel ripicchiare sul nome
santo di Cristo nel cielo dei teologi, nel cielo dei guerrieri martiri, nel cielo
dei principi giusti e finalmente nell'empireo parmi abbia una ragione tutta
mistica ed ottenga infatti un effetto di solennità quale solo si trova in certe
volute ripetizioni della Scrittura.
Felicissima e forse definitiva argomentazione é quella con che il D'O.
determina II vero tradimento del conte Ugolino. Non è il tradimento d^lle
castella, di cui il conte soltanto aveva voce, che lo costringe nella ghiaccia;
è l'aver egli ingannato il nipote Nino giudice di Gallura, pel quale il poeta
nutriva particolare simpatia. Nino e Ugolino tradì poscia l'Ai-civescovo ;
quindi egli ha maggior punizione: ma entrambi stanno nellAntenora, fra i
traditori politici.
Su Sordello ristampa il D'O. un suo vecchio articolo apparso nel Cor-
riere di Napoli del 1892. Agli scritti d'erudizione « lo tempo va dintorno
«con le force», massime in questa vessata materia dantesca; e l'A. che se
n'avvide, appose una poscritta a quel suo articolo alquanto arretrato dopo
il molto che di Sordello si scrisse negli ultimi anni. La cosa migliore qui
(1) Cfr. Gi«m., XXVII, 477.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 437
dentro è l'esame estetico deirepisodio. Egregiamente l'A. confuta le ragioni
per cui Sordello parve al Parodi « creazione artistica inferiore ad altre di
« Dante » (1). Che il Planh contribuisse a dare al Sordello dantesco quella
dignità e quella funzione che il poeta gli assegna (2), è indubitato; ma non
questo solo. Del trovatore di Goito egli doveva conoscere fatti che noi igno-
riamo, componimenti che non ci sono giunti. Gli uni e gli altri per avven-
tura contribuivano a rendergli accetta in singoiar guisa quella figura, mentre
l'esser essa mantovana e l'aver girato a tondo la sferza sui principi ignavi
gli offrivano pretesto ad effetti artistici squisiti (3).
Innumerevoli sono i particolari punti storici che il D'O. chiarisce, gli
atteggiamenti singoli dell'arte e della psicologia di Dante che illustra, i passi
controversi che spiega in questo suo densissimo volume. Trascegliamo e
additiamo alcune considerazioni che ci sembrano per vari motivi più spe-
cialmente rilevanti:
1.0 Delle reticenze nella Commedia discorre con molto buon senso e
osserva giustamente che in certi casi esse non sono così gravide di signi-
ficati riposti come i chiosatori suppongono (pp. 509 sgg.) (4). Al qual pro-
posito sfata quel gran mistero che altri vide nell'/n/"., XXXII, 9 : « Ghè non
« è impresa da pigliare a gabbo | Descriver fondo a tutto l'universo, | Né
* da lingua che chiami mamma e babbo». Vale semplicemente: «Non è
« impresa da burla né da bambino descrivere ecc. ».
2.0 Discute con l'Angelitti circa l'anno della Visione. Immune da quella
malattia dello spirito per cui ad ogni proposta nuova si fa il viso dell'armi
solo perché é nuova, il D'O. riconosce la gravità degli indizi astronomici
rilevati dall'Angelitti e gli è grato pel proficuo dibattito da lui suscitato.
Ma, tutto ben ponderato, « le prove storiche favorevoli al 1300 eccedono di
« gran lunga, in numero e in peso, quelle che sono o paiono propizie al
« 1301 », e siccome le prove storiche in siffatta questione hanno il massimo
valore (5), sta per il 1300 (pp. 545 sgg.).
(1) Bull. Soc. Dant, N. S., IV, 196.
(2) A g:insto titolo si compiace il D'O. d'esser stato tra i primi a vedere questo rapporto. Af-
ferma il D'Ancona d'aver fatto codesto riscontro dacché illustra dalla cattedra la Commedia. Vedi
il suo commento al C. VII del Purqat. nella Lectura Dantit, pp. 25 sgg. È giusto anche notare
che prima della fioritura di studi sordelliani richiamata dal libro del De Lollis, aveva chiaramente
discorso delle relazioni del Planh con la figurazione del Sordello dantesco il povero Merkel.
Cfr. Giorn., XVII, 127.
(3) Siami lecito rammentare quanto brevemente accennai in proposito nel Giorn., XXIV, 317-18.
(4) L'artista sovrano, peraltro, sentiva quanto fossero, per dir la cosa con una parola ora tanto
abusata, suggestive quelle sue reticenze, e se egli talora le usò per questo (giacché a lui certo
non sfuggiva il fascino dell'indeterminato) bisogna proprio riconoscere che ha raggiunto lo scopo
pienamente.
(5) A qualche competente sembra che anche le prove astronomiche non stiano tutte dalla parte
dell' Angelitti. Cfr. i lavori del prof. Gambèra e specialmente quello di cui è cenno nel nostro
Giornale, XXXVIII, 252. Il Gambèra prepara un commento astronomico e fisico alla Commedia,
corredato di tavole, opera di cui noi profani sentiamo il bisogno ogni giorno più. .Speriamo che
egli faccia un lavoro superiore ad ogni discussione, giacché, a dir vero, sinora le sue note d'astro-
nomia dantesca suscitarono troppe contraddizioni.
438 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
3.° Nel Purg., IV, 26 legge « Montasi su Bismantova e in Cacume »,
fornendo nuovi dati su quel nìonte Cacume in quel di Fresinone, che Dante
certamente vide (pp. 563 sgg.) (1).
4.0 Neir/w/:, XXVII, Hi, «Ti farà trionfar nell'alto seggio* ritorna
all'interpretazione comune e ovvia di seggio papale, da cui Bonifacio sarebbe
forse caduto se non debellava i Colonna (pp. 27-31).
5.® Con simpatica risolutezza respinge la tanto discussa tecnofagia del
conte Ugolino (pp. 571-73).
6.0 Determina il significato di leggiadro e leggiadria nella lingua di
Dante (pp. 575-78).
7.0 Pur accettando dal Novali le buone ragioni per cui è escluso che
il vecchio Alighieri tenesse in Ravenna un insegnamento uflBciale, timida-
mente insinua che possa avervi insegnato privatamente (pp. 590-91).
Ma la nostra attenzione è qui richiamata da altro soggetto. V ha nel
volume uno studio che si scosta da tutti gli altri e che a me sembra ancor
più degli altri notevole, quello in cui il D'O. prende a studiare L'epistola
a Cangrande. Quantunque di quell'epistola sia stata combattuta l'autenticità
in addietro, per ragioni esterne, con molto vigore, i dantisti mal si indu-
cevano a ritenerla spuria, tantoché lo stesso Bartoli, che certo di soverchia
fiducia nella tradizione non peccava, era incline a crederla autentica (2), Il
Kraus, bensì, la combattè (3), ma con ragioni non decisive, di cui in parte
sminuì il valore con alcune giuste considerazioni il Cian (4). Il D'O. per
primo si prese il carico di esaminare il valore interno di quella celebre
lettera, e l'articolo suo può dirsi un vero capolavoro di demolizione, che
aggiunto agli argomenti esterni dovrà avere gran peso nella futura estima-
zione di quella dedicatoria allo Scaligero, a cui è accostato un brano di
(1) Vittoriosamente sostenne le ragioni del povero monte Cacume V. .Rossi contro il Bassermann.
Cfr. Bull. Soc. Dani., N. S., V, 41 sgg. e VI, 219.
(2) Storia, VI, I, 3-9; cfr. V, 291 n. Rammento, peraltro, quante furono le sue esitazioni
prima di giungere a credervi. Egli me ne parlò parecchie volte, e sempre con gran diffidenza,
mentre si preparava a stendere i volumi V e VI della sua opera maggiore.
(3) Kkaus, Dante, pp. 313-17. Si sa che il Kraus è negativo rispetto a tutte le lettere attri-
buite a Dante. Anche recentemente, nella versione italiana del suo opuMiolo F. Petrarca $ la tìta
corrispondenza epittolare, Firenze, 1901, p. 5, egli ha scritto a questo modo: « Le lettere di Dante,
« per quanto pur celebrate, non mi sembrano meritevoli di essere annoverate fra i docamenti
« storici, perchè io le ritengo tutte apocrife o per lo meno tanto sospette, da non potersene rì-
« trarre verun costrutto scientifico». A tale «orgia di scetticismo», come direbbe il mio amico
Cian, non mi lascierei andare neppur io in questo momento, e Io dichiarai nel Oiorn., XXXVI,
163, n. 1.
(4) Bull. Soc. Dant., N. S., V, 146-148. Ha il buon Cian sbalestra quando nel medesimo B%U-
lettino, N. S., Vili, 175 afferma che queste dispute snirautenticità « troppo spejwo non sono che
« perditempi e vane prove d'ingegno e di arguzia ». Perchè l'edificio non crolli ò necessario esser
sicuri che le sue fondamenta poggino sul macigno e non snll'arena. Affidarsi a scritture di cai
non sia certissima l'autenticità è fabbricare sull'arena; quindi sono benemeriti coloro che a
quest'ingrata fatica di sceveramento si sobbarcano, ed ò male il considerarli quasi come scioperati
che hanno tempo da perdere. A priori sarebbe un miracolo che intorno a Dante non si fosse
adoperata l'opera dei faHari, in tempi in cui la falsificazione era consigliata da tante
non escluso il dilettantismo di falsificare per falsificare.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 439
commento al Paradiso. Mostra il D'O. che l'epistola, nel suo stile gonfio,
prolisso, pedantesco, nel suo latino disforme dal latino di Dante, è una rap-
pezzatura di cenci diversi, un aggregato di brani tolti dalle opere certe del
poeta e di brani levati di peso agli antichi commenti. Rispetto ai sensi che
deve avere la poesia, il falsario guasta ciò che è detto in modo chiaro ed
incisivo nel Convivio, li, 1. Le sue idee intorno al volgare sono in contrap-
posto con quelle di Dante e sono invece conformi a quelle che si vennero
foggiando tra i commentatori del Trecento. L'epistola sarebbe, inoltre, in
aperta contraddizione con quanto è detto nel Convivio, non essere decente
che un'opera volgare sia commentata in latino. Non s'intende poi come Dante,
a cui la cortesia de' principi. Scaligeri e Polentani, venne liberalmente in
soccorso nell'ultimo periodo della vita sua, tantoché, com'egli dice, era pre-
venuto da essi ne' suoi desideri, interrompesse d'un tratto quella sua lettera
con una bussata giullaresca di questa specie : « Haec est sententia secundae
« partis Prologi in generali ; in speciali vero non exponam ad praesens. Urget
« enim me rei familiaris angustia, ut haec et alia utilia reipublicae dere-
« linquere oporteat. Sed spero de magnificentia vestra, ut alias habeatur
« procedendi ad utilem expositionem facultas » (§ 32). Insomma, in quelle
poche sgangherate pagine di prosa latina, ove sembrano accostati due com-
ponimenti diversi, una dedica e un brano di commento, il D'O. non vede
alcun pregio né veruna utilità, « Quest' opuscoletto, nel quale non si vede
« mai l'unghia del leone, ancorché non vi spuntasse di frequente l'orecchia
« dell'asino, non é che un uggioso ingombro » (p. 473).
Alla requisitoria del D'O., che ridotta così sotto brevità e sfrondata delle
molte osservazioni minori perde gran parte della sua efficacia, rispose dap-
prima per incidenza il Biadego (1), poi ex professo il Torraca, in un arti-
colo certamente molto degno di nota (2). Replicò il D'O. al Torraca in una
poscritta di questo volume (pp. 474 sgg.). Ultimo, mentre io scrivo, esce in
campo G. Vandelli, che ribadisce con ragioni sue le argomentazioni del
Torraca ed ha il merito di riferire per la prima volta intero il brano del
commento di Guido da Pisa in cui sono trascritti anonimi certi passi del-
l'epistola (3).
Nell'arduo dibattito, in cui fu profuso tanto ingegno, cosi nell'attacco
come nella difesa, non è tanto as^evole il decidersi. La valutazione delle ra-
(1) Vedi la lunga nota di p. 26 nel sao discorso Dante e gli Scaligeri, Venezia, 1899. I Ve-
ronesi (ed è troppo naturale), come ci tengono a vedere nel veltro Cangrande, cosi hanno parti-
colare affetto all'epistola. Lo stesso oculatissimo C. Cipolla nel suo magistrale Compendio della
storia di Verona, Verona, 1899, p. 211 scrive che contro l'autenticità dell'epistola a Cangrande
« non vennero giammai addotte prove degne davvero di considerazione ». È vero ch'egli diceva
questo prima che uscisse l'articolo del D'Ovidio.
(2) Ritixta d'Italia, III voi. del 1899, pp. 601 sgg.
(3) Bull. Soc. Dant., N. S., Vili, 137 sgg. Dal D'O. e dal Vandelli apprendo che si schiera,
con temperato giudizio, contro l'autenticità anche lo Zikgarelli, a pp. 308-18 del Dante vallar-
diano, che ora esce a dispense e non ebbi peranco occasione di vedere. Conosco bensì ciò che sul
soggetto scrisse lo Zingarelli nella Rass. critica. III, 182-83, ove aggiunse alcune felici osserva-
zioni negative a quelle fatte valere dal Kraus.
440 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
gioni addotte soggiace in particolar guisa a quel « suhjectives Empfìnden »
a cui accenna così opportunamente il Kraus (1). Chi inclina alla diffidenza
ed allo scetticismo darà alle ragioni del D'O. maggior peso di chi, sorretto
da certo ottimismo connaturato al suo spirito, ha in uggia ogni diffidenza,
ovvero per istinto conservativo piega volentieri ad accettare tutto quello che
è favorito dalla tradizione. Chi è propenso allo scetticismo non potrà non
vedere l'artificiosità e la debolezza di certe difese; per es., della necessità
in cui si trova il Biadego d'ammettere nel testo attuale dell'epistola rima-
neggiamenti e aggiunzioni umanistiche; per es., della disinvoltura con che
il Torraca cangia il sublimem in ultimam in un passo veramente barbino
e contradditorio del § 3 (2). Allo scettico farà molta specie quella tal bus-
sata da accattone, che ho rammentata, e gli parrà poco dignitosa, e si chie-
derà come mai Dante proprio allora, quando meno si crederebbe, avesse
bisogno di stender la mano a quel modo. L'uomo fidente, non solo troverà
possibile quell'interruzione, per le urgenti angustie famigliari, d'uno scritto
utile al pubblico (3), ma giungerà persino a riconoscervi « un atteggia-
« mento degnissimo anche di quel fiero uomo che fu Dante » (4). Allo scettico
non sembrerà conciliabile l'esplicita dichiarazione del Convivio^ che in latino
non si commentano opere volgari, con uno scritto ove si commenta in latino
il principio del Paradiso e si accenna alla voglia di proseguire in latino
se Cane allenterà i cordoni della borsa ; l'uomo fidente troverà che la lettera
non si poteva scrivere se non in latino (diamine!) e che un commento in
forma di lettera, anche se scritto in latino non sconveniva affatto (5). Allo
scettico quel latinaccio dell'epistola sembra pochissimo dantesco; all'uomo
fidente par dantesco anche troppo: è questione di palato. Le citazioni, dice
l'uomo fidente, sono tutte nell'ambito degli studi danteschi (6): ma sono
anche nell'ambito della coltura tradizionale trecentista, risponde lo scettico.
Pare all'uomo fidente che nessuno dei commentatori sia penetrato € nello
« spirito di Dante cosi addentro come l'autor dell'epistola » (7); pare invece
allo scettico che nessuna cosa sia tanto banale ed insulsa quanto quella pe-
santissima interpretazione scolastica dei primi versi del Paradiso (8).
La difesa dell'epistola a Gangrande si vale del solito mezzo, che fu im-
piegato per la Quaestio de aqua et terra, che domani potrebbe esser usato di
(1) Dante, p. 295.
(2) Il Yandelli (pp. 146-47) salva il sublimem, ma il passo non cessa per ciò d'essere ben
carioeo.
(8) ToKRACA, Op. cit., pp. 608-4.
(4) Vabdelli, Op. eit., p. 164.
(5) Scorgendo la debolezza di qnest' argomento del Biadego, il Yandelli (p. 163) lo ha raccon-
ciato alquanto diversamente; ma sono pur tutti espedienti ingegnosi quanto poco persuasivi.
(6) È questa la parte più solida dell'articolo del Torraca. Cfr. anche Yandelli, p. 155 n.
(7) TORKAOA, p. 635.
(8) Alle osservazioni del Torraca intorno alla conformità di ciò che ò detto nell'epistola con lo
spirito della Commedia rispondo il Kraus : « Mir srheint dass diee Argument nichts veiterei
« beweist, als das der Falsarins genau mit den dnrch eine Art Familientradition bewahrtan,
« dnrch Pietro Alighieri's Komroentar hinlanglich festgeleften intentionen dee Dicbters bekannt
« war ». LiUraturblatt /ur erm. and rom, Pkil., XXII. 249.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 441
nuovo anche per l'epistola di frate Ilario e per altre patenti falsificazioni. Si
mostra con raffronti non esservi alcuna ragione inoppugnabile per cui lo
scritto non possa esser di Dante. E fatto ciò, i difensori gridano vittoria!
Ma questa dimostrazione, in fin dei conti, può non raggiungere altro scopo
se non di provare che il falsario sapeva quel che si faceva, non era un gros-
solano fabbricatore di testi. Ora, nel caso delle opere contestate di Dante,
la prima mossa alla diffidenza provenne dal modo come ci furono traman-
date. Le ragioni intrinseche, che sono, come s' è visto, in grandissima parte
soggettive, non fanno che corroborare le estrinseche, che hanno innegabile
valore obbiettivo. Malgrado la ingegnosa scappatoia a cui è ricorso il Tor-
raca (1), resta pur sempre stranissimo che il Boccaccio ed il Lana e Guido
da Pisa citassero brani dell'epistola senza conoscerne l'autore; che ne igno-
rasse l'autore, pur sapendone forse il contenuto, Pietro Alighieri; che si
dovesse giungere sino a Filippo Villani per trovare chi la menzionasse come
opera di Dante. Si può proprio ritenere sul serio che grandeggiando cosi
presto la fama del poeta, quella dedicatoria sia stata « dimenticata in fondo
« a qualche forziere o cassone nel palazzo degli Scaligeri » (2)? Chi lo stima
probabile sei creda, e Dio lo benedica.
Per me il D'O. ha il merito incontrastabile di aver adoperato il suo acu-
tissimo ingegno a risollevare una questione che con critica troppo sbrigativa
stimavasi omai risolta. La sua argomentazione lascierà traccio nell'indagine
su Dante, se anche in gran parte ha carattere soggettivo. La luce vera si
attende dalla futura edizione critica delle epistole, che risolverà (auguriam-
celo!) molti di questi problemi. Quando sarà definito il testo delle opere
latine di Dante, si potrà anche far quello studio analitico sulla sua latinità,
che forse riuscirà strumento sussidiario non inefficace per distinguere le cose
sue vere dalle più o meno abili contraffazioni.
Rodolfo Renier.
(1) Op. cit, pp. 624-26.
(2) TORKACA, p. 636.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
THEODORE WESLEY KOCH. — Catalogne of the Dante coUeclion
presented by Willard Fishe, — Ithaca (New York), 1898-
1900. Due volumi in 4° (I, pp. xxii-92-268; II, pp. 338).
Più d'una volta ci è avvenuto di annunciare in questo Giornale la com-
parsa dell'una o dell'altra parte di questo ricchissimo repertorio bibliografico.
Ora che esso è pubblicato nella sua interezza, ci è grato riparlarne un po'
più estesamente.
Il grande bibliofilo americano W. Fiske è già da lungo tempo noto agli
studiosi delle nostre lettere per la insigne raccolta petrarchesca ch'egli ha
saputo mettere assieme con fatiche e spese incredibili. Meno conosciuto è fra
noi il fatto che egli ha pure una raccolta ragguardevole di libri islandesi.
Un bel giorno del 1893 venne in mente a questo singolare cacciatore di libri
un'idea spettacolosa: raccogliere quante più edizioni e traduzioni gli fosse
possibile delle opere di Dante, e insieme quanti più scritti gli fosse dato
rintracciare intorno al sommo nostro poeta. Detto fatto, egli riapre a questo
intento la corrispondenza coi numerosi librai d'antiquaria che gli forniscono
la loro merce, si mette in viaggio allo scopo di rintracciare le maggiori ra-
rità, percorre più volte dall' un estremo all'altro l'Italia, gira buona parte
d'Europa, ed in capo ad un quinquennio riesce ad inviare alla biblioteca
della Cornell University di Ithaca una collezione dantesca, che è oggi la più
copiosa del mondo. Sono circa 7000 i volumi di cui risulta, senza tener conto
delle riviste, degli opuscoli innumerevoli, degli estratti, degli articoli rita-
gliati, delle fotografie. Questa è davvero una americanata; ma del miglior
genere ! Nella prefazione che va innanzi al catalogo narra il Fiske specifi-
catamente, con signorile disinvoltura, con semplicità modesta, il modo con cui
venne a capo di questa impresa, affermando di non aver fatto altro che
soddisfare, con immenso diletto, una sua ardente passione, la bibliomania. E
in quella medesima serrata prefazione, tanto per non perder tempo, il Fiske
trova modo di offrirci una serie di preziosi dati statistici intorno alla diff'u-
sione del culto di Dante, che paragona al favore di cui godono due altri
massimi poeti, Omero e Shakespeare. Istruttivi sono pure gli elementi di
fatto che egli ci off're circa le edizioni e le traduzioni del poema. Risulta,
tra l'altro, da quest'indagine, che delle città italiane quelle che hanno stam-
pato Danto più volte sono anzitutto Firenze e poi Venezia: mentre meno di
ogni altra lo ha stampato Roma. All'estero è Parigi la città che ha il primato
nelle edizioni del testo italiano dell'opera immortale.
Mercè il mecenatismo del Fiske l'Universitaria d'Ithaca possiede oggi la
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 443
collezione di gran lunga più ricca che esista delle opere di Dante e su Dante.
Rispetto agli scritti critici più o meno recenti l'indagine fu condotta con
tanta cura, che poche cose davvero vi si troveranno mancanti, e chi pensi
quale immane congerie di studi si sia venuta accumulando intorno al divino
poeta non potrà che stupirne. Le lacune, naturalmente, sono nella parte più
antica: per esempio delle prime nove edizioni della Commedia^ alcune tra
le quali assolutamente irreperibili, la collezione Fiske non ne possiede che
quattro, ed è già una meraviglia, quando si rifletta che pochi tra i maggiori
depositi europei ne hanno altrettante. Alle biblioteche nostre, segnatamente
alle fiorentine, resta pur sempre l'inapprezzabile e non conseguibile tesoro
dei testi a penna danteschi; ma per quel che riguarda la suppellettile a
stampa, vuoi di testi, vuoi di studi critici, nessuna biblioteca europea può
oggi gareggiare con quella della Cornell University. Il che torna a grande
elogio del Fiske, perchè a condurre a termine, in cosi breve tempo, una
impresa simile, non bastano i mezzi non misurati, ma sono anche necessarie^
molta intelligenza e perseveranza non comune. Non dubitiamo che gli Ame-
ricani del nord sapranno convenientemente apprezzare il dono principesco
del loro connazionale e mostreranno di riconoscerlo nella maniera più nobile
e degna, profittando di quel ricchissimo materiale per arricchire sempre più
la messe dei loro utili studi sul massimo vate italiano.
Gli è appunto il bibliografo, che in un libretto meritamente festeggiato
riferì intorno la fortuna dell'Alighieri in America (1), colui che compilò il
grandioso catalogo della collezione Fiske. E siamo lieti di poter aggiungere,
senza restrizione alcuna, che questo catalogo del Koch è vero modello di
diligenza, è opera bibliograficamente insigne e quasi perfetta. La Parte I
comprende l'elenco delle edizioni, così della Commedia come delle opere
minori, schierate in ordine cronologico, e l'elenco delle traduzioni classificate
a seconda delle lingue. La voluminosa (più di 600 pagine in colonne doppie
fittissime !) Parte II contiene in ordine d'alfabeto le Works on Dante, ed è
un magnifico specchio della letteratura storica e critica intorno all'Alighieri.
Questa parte del catalogo ha importanza somma anche per coloro (quanti
sono!), che non potranno mai usufruire dei tesori accumulati ad Ithaca,
perchè è un prontuario bibliografico di singolare ricchezza e precisione. Con
ottimo pensiero, il K. vi ha tenuto conto anche delle recensioni, non igno-
rando come esse molte volte siano di grande utilità per completare o emen-
dare il libro di cui si occupano. L'arte del far recensioni è venuta, in questi
ultimi anni, sempre più progredendo anche nel paese nostro, anzi forse più
specialmente nel paese nostro, che ormai nella serietà e copia della critica
bibliografica non è inferiore a verun altro. Quindi il registrare le recensioni,
che talora racchiudono osservazioni e dati di fatto notevolissimi, è conforme
alle esigenze dei moderni studi. Se in seguito, come è desiderabile, o il Fiske
medesimo, o la direzione della Cornell University Library continueranno ad
acquistare gli scritti intorno a Dante, che vedranno man mano la luce, ed
il Koch farà seguire periodicamente delle appendici alla Parte II del suo
(1) Cfr. questo Giornale, XXXI, 155. Più estese relazioni del Dante in America si leggono nella
Ross. bibl. della leti, ital., V, 268 sgg. e nella Rivista d'Italia del 15 giugno 1898.
444 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
catalogo, noi avremmo dall'America la migliore e più compiuta bibliografia
alighieriana che si possa desiderare.
Il Koch ha voluto dare al pubblico anche più di quanto gli era forse pos-
sibile ed ha abbozzato in fine un indice per soggetti. In esso egli si riferisce
agli articoli registrati nella P. II della bibliografia; ma il lavoro è riuscito
deficiente. Migliore è un secondo indice in cui egli segue i passi più discussi
della Commedia, riferendosi agli autori che particolarmente ne han trattato.
Sebbene non la pretenda a completo, questo elenco renderà non pochi ser-
vigi agli indagatori delle molte questioni esegetiche e storiche suscitate dal
poema.
Vantaggiosissima è pure l'appendice iconografica, con cui l'opera si chiude.
Essa dà l'elenco dei ritratti di Dante, richiamando la letteratura critica che
ad essi si riferisce; nota le opere d'arte antiche che servono ad illustrare la
Commedia, non che i mss. miniati di essa; termina col dar notizia di molte
opere d'arte moderna inspirate da Dante (1). Dopo le opere del Volkmann,
del Bassermann, del Kraus, del Federn non sono da sperare grandi novità
in questi elenchi ; ma l'assetto di cataloghi alfabetici in cui son presentati
conferiscono loro singoiar merito di comodità nella consultazione.
Se non che, lo ripetiamo, la maggiore benemerenza consiste nel catalogo
degli scritti su Dante. Quivi le indicazioni sono date in modo cos'i ingegnoso,
che si raggruppano intorno a certi personaggi quasi in forma sistematica.
Cosi, ad esempio, sotto Alighieri Jacopo e sotto Alighieri Pietro si viene
a raccogliere tutta la letteratura che concerne i due più celebri figli di Dante;
e cosi sotto Compagni è riassunta la letteratura sulla discussa cronaca che
ha tanto valore per i tempi del poeta, qualunque sia il segreto, non peranco
svelato, della sua composizione; e così pure sotto Botticelli trovi ogni cosa
che serva a chiarire il più geniale tra gli illustratori grafici antichi del di-
vino poema. 11 che non toglie che gli scritti medesimi poi ricompaiano, con
dati bibliografici più precisi, sotto i nomi dei singoli loro autori. Se difetto
v'è (osiamo dire), così in chi raccolse i libri, come in chi compilò il catal(^o,
esso sta nella soverchia abbondanza. A che ed a chi gioveranno le innume-
revoli poesie a Dante, a Beatrice, ecc. ecc., che hanno qui l'insperato onore
d'essere rammentate? Anche nelle stesse imitazioni del poema, la soverchia
larghezza non giova. Il F. ed il K. hanno seguito l'esempio non imitabile
del Del Balzo, che registra un sonetto e talora riferisce una canzone intera
solo perchè Dante vi è nominato. Ora noi ci chiediamo : se sono registrati
tanti componimenti in cui l'Alighieri figura solo per incidenza o in cui egli
è fiaccamente imitato da verseggiatori di terz'ordme, perchè non figurano
nel catalogo anche i noti poemetti, che Dante imitano, di V. Monti, e perchè
non vi trovano luogo le visioni del Varano? l bibliografi sogliono essere
assai materiali ed empirici cultori di studi, e sebbene tanto il K. quanto il F.
(1) In nn opuscolo a parte il Koch medesimo diede ana Hatid-list of framed reproducUont
0/ pictures and portraitt belonging to the Dante coUection, Ithaca, 1900. Come il titolo dice,
qui sono annoverate le riproduzioni speciali che la collezione Fiske possiede di ritraiti e dipinti.
I ritratti di Dante, che vi figurano, sono 18 ; oltracciò si hanno le fotografie d' una trentina di
pittare moderne inspirate dal poeta sovrano. La parte più notevole di qaest' opuscolo sta nei
riferimenti storici e critici intorno ai quadri di Dante Gabriele Bosseit).
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 445
siano vere eccezioni tra i bibliografi più illuminati, a siflFatto empirismo essi
non riuscirono sempre a sottrarsi del tutto. Cosi è avvenuto loro di racco-
gliere e di registrare (ed è cosa un po' umoristica davvero) fin le pubblica-
zioni della Società Dante Alighieri (li, 440), sebbene riconoscano «e This
«society is a Dante society only in name»! Ma a questa stregua, perchè
non tener conto anche del catalogo della Società editrice Dante Alighieri di
Roma? perchè non conservare anche gli annuari del liceo Dante di Na-
poli? — Volendo abbracciare troppo, si perde il concetto vero di ciò che
importa. E tuttavia, malgrado codesta strabocchevole ricchezza, questa rac-
colta ha pure le sue ommissioni, che saranno colmate in seguito agevolmente.
Una io non riesco a spiegarmela. Si registrano a buon diritto le edizioni di
Dante da Maiano, di Guido Cavalcanti e di Gino ; perchè invece si trascura
compiutamente quella critica del Guinizelli data dal Gasini? E indicandosi
gli studi che si hanno sul Gesari (I, 178-79), perchè sono obliate tutte le
oneste ed utili, sebbene apologetiche, pubblicazioni del Guidetti?
Di errori di fatto ne notiamo uno, e il non averne noi scoperti altri che
meritino il conto d'esser segnalati torna a grande elogio del K. Sotto il nome
dell'amatissimo nostro Carlo Merkel è fatta una deplorevole confusione. Ap-
pare (ed è buffo) che a p. 127 del voi. XVII del nostro Giorn. il Grescini ha
recensito l'artic. su Sordello di Gotto e Sordello di Marano^ che il Merkel
inserì solo qualche mese appresso, a pp. 381 sgg. dello stesso voi. ^VII.
Invece la recensione anzidetta riguarda un altro lavoro del Merkel, Sordello
e la sua dimora presso Carlo 1 d'Angiò^ pubblicato per nozze Gipolla,
opuscolo sconosciuto al F., e che quindi nel presente catalogo non figura. Di
pubblicazioni nuziali, del resto, parecchie gli sfuggirono, ed è cosa troppo
facile ad intendersi. R.
NICOLA SCARANO. — La concubina di Titone. Noterella dan-
tesca. - Siena, tip. Gati, 1901 (16^ pp. 20).
L'A. di questa nota riconosce che Dante volle descrivere, non l'aurora
lunare, ma bensì l'aurora solare al Purgatorio, cioè nel loco ov eravamo,
come il Poeta dichiara. Ma poi cade in gravi contradizioni col dire che
Dante, pur accennando ai passi ed alle ali della Notte, abbia inteso di indi-
care, invece della notte personificata da Virgilio, la notte vera ossia il velo
tenebroso girante su la terra, oppostamente al sole. Infatti questo velo tene-
broso né sale né discende, rispetto alla terra, e non ha né piedi né ali.
I passi, con che la notte personificata sale, sono le ore che decorrono dalla
mezzanotte al sorger del sole. Invece lo Scarano asserisce che ogni passo
della notte è di due ore, ossia che corrisponde a 30° di longitudine terrestre.
Lo Scarano sbaglia ancora dicendo che il Rizzacasa ed altri hanno sosti-
tuito l'orizzonte razionale all'orizzonte sensibile del Purgatorio. Essi, invece,
hanno sostituito all'orizzonte del Purgatorio un orizzonte ad esso ortogonale,
senza avvertire che Dante dice chiaramente che l'aurora sorgeva al seno
della valletta del monte del Purgatorio. Del resto l'orizzonte sensibile di un
GiornaU storico, XXXVIIl, fase. 114. 29
446 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
luogo non differisce astronomicamente in modo notevole dall'orizzonte ra-
zionale.
Osservo inoltre che l'alba (prima fase dell'aurora) precede il sorger del
sole non di un'ora, ma quasi di due ore; e che ci vuole molta buona fede
per credere che Dante abbia voluto incoronare l'Aurora con le stelle già
evanescenti della Balena e che di questa si possa dire che sia il freddo ani-
male che con la coda percuote la gente.
Il Poeta volle accennare alla costellazione dello Scorpione, la quale stava,
non intorno alla fronte, ma di fronte all'Aurora.
Conchiudo consigliando coloro che vogliono occuparsi di astronomia dan-
tesca, a leggere anche le relative note di P. Gambèra, inserite negli Atti
della R. Accademia delle Scienze di Torino^ voi. XXXV e XXXVI.
P. G.
GIOVANNI RIZZAGASA WQ^^(^Qi^k, — V aiuola che ci fa tanto
feroci (G. XXII e XXVII del Paradiso). — Sciacca, tip. B. Gua-
dagna, 1901 (8% pp. 43, con due tavole).
L'A. di questo opuscolo riconosce che Dante dai Gemelli non poteva,
trovandosi il sole in Ariete, abbracciare con un solo sguardo la terra che
emerge su l'emisfero, che ha per vertice Gerusalemme, ed anche il varco
folle d'Ulisse sopra l'Oceano Atlantico. Ma poi trascura la mia nota Sulla
scienza cosmologica di Dante^ pubblicata l'anno scorso (Atti della R. Ac-
cademia delle Scienze di Torino, voi. XXXV). E però cade in molti errori,
dei quali mi limito ad indicare i più gravi:
i" Dante dice che, girando coi Gemelli e guardando due sole volte la
terra, vide tutto il mondo allora conosciuto ed il folle varco d'Ulisse. Ma il
R. gli fa guardare la terra tre volte e fa durare il primo sguardo 2 ore e
24 minuti !
2* Il Poeta narra che sal'i nel segno dei Gemelli (dentro da essOy nel
bel nido di Leda). Invece il R., seguendo l'Angelitti, lo colloca fra il segno
del Toro e quello dei Gemelli.
8» Il R., accennando al principio della visione dantesca, non accetta la
data sostenuta dall'Angelitti (25 mar/o 1301), ma sceglie l'S aprile 1300,
invece della sera del giorno precedente (giovedì santo).
40 II fittizio viaggio di Dante, dalla selva oscura sino alla costellazione
dei Gemelli, durò quasi otto giorni e non già sei giorni, come crede il Riz-
zacasa.
5° Questi crede inoltre che Dante abbia seguito, non il calendario giu-
liano, ma bensì quello della Chiesa, la quale invece riformò quel calendario
quasi duecento anni dopo.
6® 11 R. seguendo i cementatori, dice con l'Angelitti che, secondo Dante,
correrebbero 90° di longitudine da Cadice a Gerusalemme e altrettanti gradi
da Gerusalemme alla foce del Gange. Invece il nostro Poeta smentì questo
errore tradizionale, come è chiaramente dimostrato nelle mie note dantesche.
Dante seppe da Tolomeo e meglio da Marco Polo, il quale navigò sino al
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 447
lido orientale dell'Asia, che questa si estende più di 30° ad oriente dalla
foce del Gange. E però, dicendo egli che il continente allora conosciuto si
trova tutto su l'emisfero che ha per vertice Gerusalemme (/n/*., XXXIV,
115-124), volle correggere l'antica opinione che da Gerusalemme al Gange
corressero 90o di longitudine.
7° Osservo finalmente che la soluzione, proposta dal R., del quesito
cosmologico di Dante, richiede che il primo clima abbia fine a 36° di lon-
gitudine dal meridiano di Cadice, il che è assurdo, perchè il Poeta, come è
dichiarato nel Convito, intende per primo climate la zona torrida. Il R. con-
tradice a tutti i commentatori, affermando che Dante non si trovava sopra
il meridiano di Cadice, quando dai Gemelli guardò per la seconda volta
la terra.
11 R. fa seguire al suo opuscolo un' appendice con la quale crede di com-
battere il Moore e me, perchè non abbiamo approvato il suo commento sulla
Concubina di Tifone.
Egli si vale contro di me di un giudizio dell'astronomo Angelitti, il quale,
mentre scusa Dante con la pretesa ignoranza de' suoi tempi, mi rimprovera
due mende e pretende che io dovessi trattare di astronomia dantesca con la
precisione che si può dedurre, non dalla sfera armillare, ma da calcoli tri-
gonometrici.
11 R. conchiude che io, non abbastanza compreso dagli astronomi con-
temporanei, avrò scritto per i posteri. E però rispondo che fra gli astronomi
contemporanei non posso comprendere un professore di rettorica, non ostante
che dall'Angelitti e da M. Porena sia stato giudicato degno del sorriso
della famosa Concubina di Titone. P. G.
VINCENZO GRESGINI. — Varietà filologiche. I. Di una presunta
testimonianza del secolo VII circa il volgare italiano. — II. Ap-
punti boccacceschi. Estratto dagli Atti del R. Istituto veneto
dì scienze, lettere ed arti. — Venezia, tip. Ferrari, 1901 (8%
pp. 16).
Il C. comincia col riassumere le conclusioni del Novati intorno a quel
noto passo della vita di S. Mommoleno (cfr. Rendiconti del R. Istituto Lom-
bardo, S. II, voi. XXXIII), che mostra costui erudito « non tantum in teu-
« tonica, sed etiam in romana lingua » : mentre la redazione più antica diceva
invece ch'egli « et latina et teutonica praepoUebat facundia ». Privato cosi
il volgare di questa remota testimonianza, un'altra più interessante per
l'Italia trovò il N. in un'epistola di S. Columba a Bonifazio IV. Il passo in
questione è il seguente: « Sed talia suadenti utpote torpenti aetu, ac dicenti
« potius quam facienti mihi Jonae hebraice, Peristerae graece, Columbae la-
« ti ne, potius tantum vestrae idiomate linguae nancto licet prisco inter
« hebraeo {sic) nomine cuius et pene naufragium subivi, veniam, quaeso,
« sicut saepe rogavi, date ». Il N. emendando tantum in tamen, interpretò :
< Concedete, ve ne supplico, perdono a me che son Jona in ebraico, Pe-
448 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
« risiera in greco, Colomba in latino, o piuttosto tuttavia nel parlar volgare
« della lingua vostra ; ».... ecc. A questo modo si avrebbe qui un accenno ad
un volgar neolatino contrapposto al latino; ed il N. ne .spiegò la possibilità.
Il G. nega invece che il monaco irlandese potesse avvertir così chiaramente
quella differenza e legge : « a me che sono .Iona in ebraico, Peristera in
« greco, Golumba in latino, anzi soltanto [Golumba] secondo l'uso della vostra
€ lingua » ecc.; senza emendare il testo. Intende così che Golumba volesse
mettere in rilievo il suo nome latino: < si capisce eh egli pensasse al latino
< solenne, al latino letterario, dal papa e dalla curia ufScialmente adoperato:
« non ci si spiega invece ch'ei potesse alludere all'umiltà del dialetto ».
Ma secondo noi, in quel passo vanno sopratutlo osservate tre cose. È pos*
sibile che un frate medioevale chiami il latino « idioma testrae linguae »,
mentre è anche la lingua della sua cultura e del suo uso quotidiano? E
idioma linguae non è la lingua stessa: che nell'uso del M. E. si riferisse
al dialetto, ha mostrato il N. Infine, la frase è disposta in modo che il latine
e quel che segue sembran proprio indicare due termini contrapposti. Gitar
dopo quelle lingue illustri l'umile volgare italiano sarebbe forse un pensiero
d'adulazione per il papa ch'era nativo d'Abruzzo? Non mi par dubbio che
per queste ragioni l'interpretazione del N. abbia maggiori probabilità di vit-
toria, anche se non accolta da un maestro quale G. Paris (Romania^ 1900,
pp. 638-9), che intese « appelé de pféférance de la fagon propre à votre
« langue, c'est-à-dire du nom latin de Columba ». E forse quello stesso
emendamento del tantum, sebbene nulla vi si opponga, può esser tralasciato
senza che il significato complessivo abbia a soffrirne. La traduzione poi che
del licei dà il G. è forse da preferire a quella del N., ma nemmen questo
influisce sul senso del passo immediatamente superiore.
Nella seconda comunicazione il G. prende le mosse da un mio articolo
sulle fonti della Teseide , pubblicato in questo Giornale, 36, 57 sgg.
Riguardo al tempo della composizione che io credetti attribuire ancora al
periodo napoletano, il G. non è lontano dal convenire con me: € la Teseide
«potrebbe dunque essere stata messa insieme a Napoli tra il 1339 e il 1340».
Ghe il Boccaccio anche trovandosi a Napoli volesse riducere nella faticata
mente l'immagine di Fiammetta si spiega pensando al turbato aspetto di lei
che lo teneva lontano; del resto, si tratta d'una frase sentimentale a cui non
va data troppa importanza.
In nuova prova dell'ibridismo di elementi classici e cavallereschi nel poema
il G. aggiunge qualche utile riscontro. Arcita che serve in corte di Teseo e
si lamenta nel bosco gli rammenta ancora Jourdain de Blaye. L'episodio del
Méraugis in cui il protagonista combatte con l'amico Gorvain per amor di
Lidoine che poi li separa, ha qualche somiglianza col duello della Teseide:
ma pur tenendo conto di questo riscontro, non credo di dover rinuntitre
all'altro che ci offre il Roman de Thèbes» del quale siam sicuri almeno che
il Boccaccio lo conosceva. In ogni modo il C. conchiude rettamente che
€ la rivalità amorosa di Arcita e Penteo, dianzi strettamente congiunti da
« profondo affetto e la scena del loro duello non solo corrispondono vaga-
ci mente allo spirito del M. E., ma riscontrano con qualcuno dei romanzi
«cavallereschi di quell'età ». E questo prova sempre meglio, io credo, che
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 449
il Boccaccio non ebbe una fonte unica. Un' idea venutagli dal Roman l'avrà
seguita, perchè anche racconti cavallereschi gli offrivano scene dello stesso
genere. Sono appunto queste continue reminiscenze cavalleresche che ci fan
dubitare dell'intenzione classica che per molti dovrebbe avere ispirata la
Teseide. Al Wiese piacque di rammentarmi i versi
Ma tu, mìo libro a lor [alle Muse] primo cantare
Di Marte fai gli affanni sostenuti,
Nel rolgar lacio mai non più veduti;
in prova che il poeta voleva « thatsàchlich ein Kunstgedicht im klassischen
€ Style schreiben ». Quei versi li conoscevo anch' io abbastanza per sapere
che non debbono necessariamente esprimere quel che il Wiese intende, e
possono riferirsi ad un qualunque poema epico o cavalleresco. Ma se pure
il Boccaccio vi mostrasse un suo proposito di tornare ai modelli classici, che
cosa importa, se poi l'opera è condotta in tutt'altro modo?
P. S. L.
BENEDETTO CROCE. — Giambattista Vico primo scopritore
deW estetica. Estr. dalla Flegrea, 5 e 20 aprile i901. — Napoli,
1901 (8«, pp. 46).
E noto ormai a tutti gli studiosi di cose letterarie e filosofiche che Bene-
detto Croce, un ricercatore che pensa e un pensatore che ricerca, ha rivolto
da parecchio tempo la sua mirabile attività alla storia e alla scienza del-
l'estetica; e da lui s'attende con desiderio un libro che avrà doppio interesse,
teoretico e storico, perchè conterrà, di quella scienza, lo svolgimento nel
passato e i principi moderni.
Di tal libro lo studio che qui si annunzia è l'ultimo saggio (1), e saggio
importante, perchè traccia a larghi tratti il corso delle idee sulla natura
dell'arte dall'antichità greco-latina fino al Vico, che fu, secondo il Croce, il
primo e vero scopritore dell'essenza dei fatti estetici.
Due concetti — dimostra l'A. — spuntati entrambi nell'antichità, ed en-
trambi insufficienti e falsi, stanno per secoli e secoli in fondo a tutte le dot-
trine estetiche che via via si succedono e si rassomigliano: il concetto della
mimesi, che riduce l'arte a imitazione, e il concetto pedagogico o didattico,
che assegna all'arte un fine dottrinale, precettivo. Su tali basi sorge la poe-
tica del Rinascimento; e se nell'antichità qualcuno, come Filostrato, accenna
a prescindere dalla mimesi; o se nel Rinascimento qualche altro, come il
Castelvetro, rinunzia alla finalità pedagogica dell'arte, e considera questa come
semplice mezzo di diletto, prevalgono lungamente le idee derivate dal prin-
cipio che l'arte è imitazione della natura, e che il più alto segno di perfe-
zione ch'essa possa toccare stia in quella mescolanza d'utilità e di dolcezza
(1) Veramente ultimo come saggio del libro annunziato, ma non ultimo come saggio dei mol-
teplici studi del Croce intorno al cammino delle idee estetiche; perchè nella Raccolta di stttd*
critici dedicata ad A. D'Ancona (Firenze, Barbèra, 1901, p. 457) il Croce ha trattato Di alcuni
giudizi sul Gravina, considerato come estetico.
450 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
prescritta da Orazio. Il seicento incomincia ad uscire da questa cerchia ri-
strettissima d'idee; non foss'altro, comincia ad usare parole nuove nel dar
giudizi 0 precetti d'arte : ingegno, gusto, imaginazione, fantasia, senti'
mento, ecc.; ma o i nuovi vocaboli coprono in fondo concetti tradizionali, o
son d'uso fluttuante e di significazione incerta; e così, mentre il seicento
abbandona le formolo del Rinascimento e presente, oscuramente, la vera na-
tura dell'arte, non fonda la scienza estetica, come (per farla breve, e dire in-
vece qualche cosa di quella parte dell'opuscolo che più direttamente tocca
gli studi nostri) non la fondò il Baumgarten. Egli trovò, è vero, il vocabolo;
ma il Vico, prima di lui, aveva trovato la cosa.
Questa è la tesi del Croce. Per dimostrarla egli osserva che il Vico con-
sidera l'arte come fatto dello spirito umano e suo primo prodotto; prodotto
dell'attività fantastica, non dell'attività intellettuale o razionale; che anzi
fantasia e speculazione sono cose non soltanto distinte, ma opposte; questa
crea le astrazioni (dirò per riassumere nella espressione più breve il concetto
vichiano), quella le imagini. Tale principio effettivamente ricorre molto spesso
nella Scienza Nuova (!■' e 2*), e in altri scritti del Vico, e riceve da lui
varie applicazioni e vari svolgimenti; men frequente è invece l'altro principio
(raccolto dal C, p. 39, nella *S. N., 1») che tutta ideale dev'essere l'ottima
favola poetica, e, aggiungerò, non facilmente conciliabile con l'altro che
poesia e storia nelle età primitive si confondono, e che le prime favole fu-
rono narrazioni vere.
Innegabile è anche che il Vico afferma, compiacendosene, l'opposizione
dei suoi nuovi principii della poesia con « quelli da Platone e dal suo sco-
« laro Aristotile, — da' Patrizi, dagli Scaligeri e da Castel vetro imaginati »;
ma tutto ciò non prova ancora all'evidenza ch'egli rinunciasse interamente
e risolutamente a que' due concetti capitali che il Croce ritrovò in fondo a
tutte le vecchie poetiche, e che egli considera come i più gravi inciampi al
sorgere della scienza estetica.
Infatti (mi restringo a due esempì, perchè mi pare che bastino) il Vico
non nega, anzi esplicitamente aderisce al principio fondamentale della mi-
mesi, quando ripete:
€ I fanciulli vagliono potentemente nell' imitare; perchè li osserviamo
€ per lo più trastullarsi in assembrare ciò che son capaci d'apprendere *.
« Questa Degnità dimostra, che il Mondo fanciullo fu di nazioni poetichey
a non essendo altro la Poesia, che Imitazione ».
« E questa Degnità daranno il Principio di ciò, che tutte l'Arti del n«-
€ cessario^ utile, comodo, e in buona parte anco dell'umano piacere, si ri-
« trovarono ne' Secoli Poetici, innanzi di venir i Filoso/i: perchè l' A r/» non
« sono altro ch'imitazioni della Natura, e Poesie in certo modo reali » (1).
È chiaro? L'arte segue la natura come il maestro fa il discente. Quanto
poi al fine pedagogico dell'arte, non è nemmeno certo che il Vico lo ripu-
diasse. Distingue egli bensì scienza da poesia, anzi le dichiara inassociabili
e contrarie; ma distingue anche la sapienza propriamente detta (filosofica)
dalla sapienza pratica (poetica); e « tre lavori deve fare la Poesia grande^
(1) Seiéiua Xttota, L. I, Degli SUimnti, Dignità HI.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 451
cioè deve ritrovare Favole sublimi, confacenti q\V intendimento popolaresco^
« e che perturbi all'eccesso, per conseguir il fine^ ch'ella si ha proposto,
« (Tinsec/nar al volpo a virtuosamente operare » (1).
E anche questo è chiaro.
Il G. chiudeva il dotto ed acuto suo studio così : « Altri rifaccia la mia
« indagine e controlli il risultato, e, se gli sembra erroneo, lo corregga. L'ar-
« gomento merita che vi si spenda intorno qualche fatica ». Ebbene, io non
credo che nel lavoro del G. vi sia molto da correggere; credo invece ch'egli
avrebbe ben fatto (a costo di scoprire qualche contraddizione e incertezza
nel pensiero del Vico, e di scemargli importanza) di porre in luce, oltre ai
principi coi quali il pensatore — o divinatore — napoletano anticipa i tempi,
anche quegli altri pei quali rimane attaccato alle opinioni correnti del suo
secolo. Km. B.
ETTORE MAURO. — Un umorista del seicento. Vincenzo Braca
salermitano, la vita e gli scritti. — Salerno, tip. Nazionale,
1901 (8% pp. xi-205).
Del salernitano Vincenzo Braca, autore di farse cavaiole, fece cenno l'Al-
lacci nella Drammaturgia (1666) su notizie fornitegli dal Tutini, il Toppi
nella Biblioteca Napoletana (1678), il Tafuri nelle sue Biografie (1772); ma
lo studiò pel primo il Torraca (Studii di storia letteraria napoletana), il
quale ne pubblicò anche una delle inedite farse (La scola cavaiola) come
pubblicò l'altra della Ricevuta dell'Imperatore alla Cava, eh' è unita alle
opere di lui : altre notizie ed osservazioni furono aggiunte dal Groce (Teatri
di Napoli). Il M. gli consacra ora un ampio studio ed esauriente. Dopo aver
descritto in un' introduzione i due codici contenenti le opere del Braca con-
servati nella Nazionale di Napoli, e riassunto in un primo capitolo ciò che
si sa dell'origine delle farse cavaiole, nel cap. Il il M. raccoglie dalle sparse
testimonianze dell'autore e giovandosi dei fuochi di Salerno e di Gava, delle
carte della scuola salernitana e di altri documenti e stampe del tempo, alcuni
cenni biografici sul Braca, del quale finora si sapeva appena il nome. Il Ta-
furi (alle cui parole forse il M. dà soverchio peso) lo aveva fatto fiorire
circa il 1552 1 Risulta invece dai documenti che nacque a Salerno nel 1566,
figlio di un Gostantino ; sposò un'Angela Gorbellese, dalla quale ebbe pa-
recchi figliuoli: si laureò medico nella scuola salernitana fra il 1593 e il
1596 : sembra che prendesse poi anche la laurea in legge a Napoli : coprì
più volte uflficii pubblici nella sua città natale; ebbe tra i suoi amici e cor-
rispondenti l'avvocato Lorenzo de Franchis, il conte di Gonza Emmanuele
Gesualdo, e il medico Pietro de Ruggiero : nei suoi scritti appaiono le date
di composizione del 1597, 1603 e 1604, e l'ultima del 1625. Poco dopo quel
tempo, egli veniva assassinato e moriva in casa di un amico, probabilmente
il De Ruggiero, « molto cattolicamente, remettendo sempre a quello che lo
« haveva ammazzato, et ordinò che no se querelasse ». Per quanto la fan-
ti) hi, L. II, Della metafisica poetica.
452 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
tasia possa essere tratta a vedere in questa fine tragica la vendetta di quei
Gavesi, da lui beffeggiati in modo insistente ed implacabile nelle sue com-
posizioni, e quasi l'adempimento di una profezia scherzosa che ricorre nei
suoi scritti, dove spesso si rappresentano agguati e minacce di morte fattegli
dai suoi perseguitati ; la verità è, che delle cagioni dell'uccisione del Braca
non si sa nulla; e che morire ammazzato era una fine assai frequente a
quei tempi, dovuta a cagioni talora assai futili. Ed un motivo comico-fan-
tastico, più che effusione di un odio reale, dovette essere forse la sua satira
contro i Gavesi : con la quale egli proseguiva e coltivava una tradizione let-
teraria già antica di almeno un secolo, e tanto più volentieri in quanto era
nativo di quella città di Salerno, perpetua rivale della prossima Cava. Il M.
divide acconciamente tutta la produzione che ci resta del Braca in tre
gruppi: produzioni di natura drammatico-satirica ; di natura idillico-giocosa;
di genere didascalico-satirico. Al primo gruppo appartengono le due farse,
della Maestra e del Mastro, che mettono in iscena una goffa scuola di
ragazze e una non meno goffa di fanciulli: i Sautabanchi, sui ciarlatani di
piazza; le Concrusones, disputa di tesi di dottorato, con l'immancabile ac-
cusa portata dai Gavesi contro il Braca: gl'intermedii dei cacciaturi, del
naufragio, dei forenzuti, del portare Saliamo a la Cava, della presonia
de Vraca, della liberazione del medesimo, della guerra, dei soldati che
vanno alloggiando, della venuta del conte di Miranda (viceré) a Salerno;
e, finalmente, il Processus criminnlis e le Allegationes in causa Bracae.
Al secondo gruppo l'Arcadia Cavota, parodia di quella del Sannazaro, e le
canzoni. Al terzo, i prognostici e i capitoli, questi ultimi non privi d'in-
teresse per la conoscenza del carattere e dei sentimenti dell'autore. Resta
fuori la farsa della Ricevuta dell'Imperatore alla Cava, che, per le
ragioni addotte dal Torraca e dal Groce, è da ritenere certamente compo-
sizione anteriore alla nascita del Braca, da costui forse rimaneggiata o
elaborata, come non è da escludere che facesse con qualcuna delle altre
farse cavaiole e degli intermedii accolti nella collezione. Di tutte le pro-
duzioni sopra indicate il M. dà ottime esposizioni, esatte e chiare, con
riferimento dei brani salienti: diventa quasi superflua, dopo questo suo
diligente lavoro, la pubblicazione integrale dei manoscritti del Braca. In
un ultimo capitolo esamina « la lingua dèlie opere del Braca ». Né lo studio
amoroso che egli vi ha posto mena il M. a gonfiare il merito letterario di
queste opere: piuttosto deve dirsi che, seguendo una certa tendenza patriot-
tico-moralistica, ne esageri non poco il significalo politico e morale. Presen-
tare il Braca come uno scrittore ribelle e caustico contro i suoi tempi e i
mali della dominazione straniera; vedere nella farsa della Ma«5fra la satira
contro l'avvilimento della donna e della dignità umana, dell'ufficio d'inso-
gnante e dell'autorità maritale; e nei Sautabanchi, quella della ciarlatanerìa
scientifica, o nelle Concrusones, quella della scolastica e dell'aristotelismo,
0 nel Processu§, del vacuo e tronfio dottorato e dei procedimenti giudiziarii
e delle forme curialesche di allora; son, di certo, esagerazioni. Ghe il M. lo
dica umorista, passi pure : negli scritti del Braca c'è veramente una vena
di tristezza e di pessimismo; ma alla satira propria non ci pare ch'egli si
elevi mai. Bisogna riconoscere, del resto, che il Braca è, spesso, descrittore
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 453
fresco ed arguto: i suoi cavati^ i suoi maestri, i suoi soldati, i suoi dottori,
non mancano di vivacità. Nell'umile materia ch'egli elabora, ha il suo va-
lore. E per questo, e per l'interesse filologico, e per gli accenni ai costumi
del tempo, meritava una trattazione speciale, e si deve lode al M. di averla
ben condotta a termine. B. C.
L. A. MURATORI. — Epistolario edito e curato da Matteo
Gampori. Voi. I. — Modena, Soc. tipogr. modenese, 1901
(8"* gr., pp. Lxxvi-364, con ritratto e facsìmili).
Degno discendente d'una famiglia illustrata da egregi studiosi si addimostra
in vero il march. Matteo Gampori con l'impresa a cui arditamente ed amo-
rosamente si è accinto. Già nel 1892 egli pubblicò il carteggio fra il Mu-
ratori ed il Leibniz, e n' ebbe lode meritatissima. Da anni ora attende a
metter insieme l'epistolario del padre della nostra storia, ed il primo volume
di quest'opera, severa ed in un signorile nell'assetto tipografico, possiamo
ben dire che corrisponde pienamente all'aspettativa degli studiosi.
Nell'acconcia prefazione il G. dà conto delle fatiche da lui durate per
raccogliere l'immenso materiale, tocca di alcune maggiori o più antiche
sillogi di lettere rauratoriane, accenna ai depositi ove si trova il maggior
numero delle inedite, dà la bibliografia delle lettere del Muratori che sinora
erano a stampa (bibliografìa che consta, nientemeno!, di 300 numeri (1)),
pubblica, con ottimo pensiero, una progressiva cronobiografia muratoriana,
desunta dai dati delle lettere, che in questo primo volume va dalla nascita
del M. (1672) al 1698. Le 315 lettere, infatti, del volume stanno racchiuse
tra il 1691 ed il 1698.
Gli studiosi sanno come, anni sono, dopoché da molte parti s'era espresso
il desiderio di avere a stampa le lettere del Muratori, si accingesse all'im-
presa, con memorando coraggio, A. G. Spinelli, il quale nel giro di un de-
cennio giunse a raccogliere circa 3000 lettere edite ed un migliaio di inedite.
Di esse egli stampò una ben congegnata bibliografia; ma gli furono tarpate
le ali a far più, perchè non gli venne mai permesso di valersi del prezioso
archivio Soli-Muratori, gelosamente custodito in Modena. Lo Spinelli, a cui
si deve pur sempre non poca riconoscenza per la bella iniziativa, cedette
al G. il materiale da lui raccolto, ed il G. lo accrebbe ed ottenne finalmente
di poter trar copia delle moltissime lettere del Muratori esistenti nell'ar-
chivio Soli-Muratori (2). Gosl, tra edite ed inedite, egli si trova ad avere
circa 6000 lettere del grande Vignolese , le quali occuperanno 12 di questi
(1) La bibliografia dello Spinelli {Lettere a stampa di L. À.. Muratori, Roma, 1888 e 1896,
nei fasce. 5 e 17 del Bullettino dell" Istituto storico) ne registrava 219.
(2) Non però delle lettere al Muratori, che in numero di circa ventimila, pervenute da ogni
parte d'Italia e d'Europa, sono depositate nel suddetto archivio muratoriano. Importanza non
piccola avr.inno senza dubbio parecchie fra quelle lettere, dovute talora agli uomini più celebrati
del tempo, e noi facciamo voti che quando la presente opera del C. sarà al suo termine, gli si
conceda di trascegliere anche da quel carteggio i documenti più rilevanti, per farne all'epistolario
muratoriano ana degna appendice.
4o4 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
bei volumi. Le lettere sono disposte cronologicamente, ed è sempre indicato
il luogo di lor provenienza, e se sono già edite, si rinvia alla pubblicazione,
registrata nella bibliografia, ove videro primamente la luce.
Sarebbe vano e quasi risibile il mostrare in questo periodico, diretto ad
un pubblico di eruditi, quanta benemerenza il G. si acquisti con le sue fa-
tiche, qual valore abbiano per ogni maniera di studi le lettere del Muratori,
quanto esse possano contribuire a rendere rigorosamente esatta la cognizione
nostra di quel grandissimo storico e della sua operosità sbalorditoia. I nostri
lettori queste ed altre cose le sanno egregiamente, né hanno alcun bisogno
d'essere illuminati. Diremo piuttosto qualche cosa del carattere di questo
primo volume, proponendoci di fare altrettanto coi successivi, di mano in
mano che usciranno in pubblico.
Le 315 lettere sono scritte dal Muratori giovine, prima studente, poi dot-
tore dell'Ambrosiana. In esse egli parla spesso dei versi che andava compo-
nendo per le accademie a cui era ascritto; ma ben presto si destò in lui
r interesse per le cose erudite, per le anticaglie, pei codici. Ventenne, egli,
scriveva con molta disinvoltura e proprietà il latino, anzi lo scriveva meglio
dell'italiano. Nel 1693 troviamo che per esercizio egli scrive al padre Bac-
chini in francese ed in castigliano (pp. 35-38), con discreta padronanza di
queste due lingue, ma con grafia poco sicura (1). Appare da una di quelle
lettere ch'egli avea pure scritto al Bacchini in greco, sempre a scopo d'eser-
citazione. Del resto, anche nel corso del volume si trova qualche lettera
francese diretta a dotti stranieri, sebbene di solito egli si servisse, carteg-
giando con essi, del latino. La corrispondenza più dotta del volume è tenuta
con Antonio Magliabechi e con Francesco Arisi; ma quelle lettere sono
già conosciute (2). E così pure son note le più tra le lettere qui contenute
ad eruditi stranieri, quando si eccettuino le due dirette a Bernardo Mont-
faucon che si serbano nella Biblioteca Reale di Copenaghen, e riguardano
testi greci.
Tra le lettere inedite meritano nota alcune di quelle al padre, per la
bonaria modestia che vi si scorge, e specialmente sono osservabili le molte
dirette all'amico Gio. Jacopo Tori. Gol Tori il Muratori aveva grandissima
famigliarità, e nelle lettere che gli scriveva da Milano dava le notizie po-
litiche del giorno, si occupava delle accademie e dei teatri, riferiva talora
pettegolezzi e fatterelli della cronaca cittadina. Alcune di queste lettere sono
davvero as-sai gustose e caratteristiche, ed il giovine Muratori vi si palesa
nella sua festività gioviale, aliena da melanconie ascetiche (3). Talora anzi
vi sono accostamenti che potrebbero persin parere irriverenti, come là dove
paragona l'opera di Bologna con l'esposizione della Sindone di Torino, con-
ci) n ite che il C. pone dopo la fraae « todo6 mia may «mados amos » (p. 88) è di troppo. Il
M. correttainenie dice in spagnnolo « tatti miei amatissimi padroni ».
(2) La corrispondenza del M. col Magliabechi forma notoriumente il primo grappo delle LttUr$
di L. A. Muratori $critU a Toscani, edite dal Bonaini, dal Polidori, dal OoasU e da C. Milane^
(Firenxe, 1864), che sono la migliore raccolta di lettere maratoriane sinora conosciata. ArTertiaao
di panata che nel rinvio ad essa, posto a capo delle singole lettere al Magliabechi, il C. talora
erra segnando il no 151, anziché il n» 153 della sua bibliogralla.
(8) Qualche battala asceticA comincia solo a comparire nel 1698. Tedi pp. 2M-97 e 886.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO ' 455
siderando alla pari • questi due spettacoli (p. 235). A Milano dapprima il
Muratori si trovava poco a suo agio; ma ben presto vi si assuefò ed ebbe
per quella città grande ammirazione. Deliziosa poi gli sembrava la dimora
nelle isole borromee, ove si recava coi padroni di esse a villeggiare, rimet-
tendosi in quel soavissimo clima ed in quelle incantevoli bellezze naturali
dalle fatiche dell'anno (1). Ai sollazzi carnevaleschi di Milano prendeva
parte non esigua, ed è curioso l'interesse ed il gusto con cui discorre al suo
Tori di musici e di cantatrici. A questo riguardo usa talora una libertà di
espressione, che a noi sembra persino bizzarra. Eccone un esempio: « Evvi
« una delle cantatrici, Veneziana figlia d'un oste, così ben provveduta di na-
« tiche e di gambe virili, che il sig."" ^larch. Gio. [Rangoni] vi farebbe
« sopra mille concetti. Ella compare in abito pure virile, e sarebbe ancor,
« stim'io, un gran tormento per li vostr' occhi, per non dir altro» (p. 135).
Tuttavia le distrazioni carnevalesche e le altre che la metropoli offriva non
lo distoglievano dallo studio assiduo nella sua Ambrosiana, della quale dà
una minuta ed importante descrizione (pp. 79-80), né lo trattenevano dal
sollecitare continuamente allo studio il Tori stesso, alieno dall'applicarvisi
per la leggerezza della sua indole e per la salute malferma (cfr. pp. 180,
184, 199, 202, 215, 275).
Direttamente alla storia delle lettere italiane poche notizie di questo primo
volume si riferiscono, quando se ne tolgano gli spessi accenni ad opere poe-
tiche dello scrittore (2), ed il ragguaglio dell'aver egli medésimo diretto
una commedia all'Isola Bella nel verno del 1695 (pp. 116-17). Di qualche
rilievo sono le informazioni che vi si danno del poeta Carlo Maria Maggi,
col quale il Muratori entrò ben presto in amicizia. Grandi elogi fa il giovane
sacerdote delle opere del Maggi, segnatamente di quelle drammatiche (vedi
pp. 70, 90, 95, 296), e si delizia nella casa di lui ospitale. Al Maggi sono
anzi dirette alcune lettere del volume, di cui una latina non priva di valore
storico (p. 264). In una lettera ad Apostolo Zeno del 1° ottobre 1698, il Mu-
ratori gli invia (p. 336) un sonetto scritto dal Maggi in suo onore. R.
Biblioteca critica della letteratura italiana, diretta da Fran-
cesco ToRRACA. Disp. 36-42. — Firenze, Sansoni, 1901.
Per le antecedenti dispense vedi Giorn., 36, 226 ed i rinvìi ivi indicati.
36, — Enrico Hauvette, Dante nella poesia francese del rinascimento,
traduz. di Amelia Agresta. — Di questo garbato discorso accennammo già
l'importanza nel Giorn. 34, 288, allorché ne comparve il testo francese negli
Annales de Vuniversité de Grenoble. Come allora avvertimmo, il suo par-
ticolare merito consiste nel dare il rilievo dovuto all'uso che di Dante fece
Margherita di Navarra. Le aggiunte dell'A., promesse nel frontispizio, non
sono molte né rilevanti : in appendice parve opportuno al Torraca di ripub-
(1) Bellissima è la lettera, già edita, in cui descrive quelle vere gemme del Lago Maggiore.
Cfr. pp. 110-114.
(2) È scritta parte in versi ed in un gergo mezzo fidenziano una lettera al Tori del 1693.
Vedi p. 4p.
456 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
blicare un suo vecchio articoletto su Christine de Pizan edito nella Rassegna
settimanale del 1881. Il tema della fortuna di Dante in Francia sarà quan*
dochessia ripreso dall'amico nostro Arturo Farinelli, il quale ci aveva pro-
messo una estesa recensione del libretto dell'Oelsner, Dante in Frankreich.
Le sue ricerche gli hanno procurato un materiale cosi ingente, che con ogni
probabilità, anziché una recensione, ne verrà fuori un lungo studio, se non
addirittura un volume.
37-38. — F. S. Kraus, Francesco Petrarca e la sua col-rispondenza
epistolare^ traduz. di Diego Valbusa. — Il testo tedesco di questo scritto vide
dapprima la luce nel voi. XXII della Deutsche Rundschau e fu, quindi, ri-
prodotto nella prima serie degli Essays del Kraus, Berlin, Pratel, 1896. La
primitiva origine giornalistica è tradita dal complesso della trattazione e da
certe tendenze al frizzo ed a richiami, non sempre opportuni, alle consue-
tudini odierne (v. pp. 50, 71, 79, 84, ecc.). È noto, del resto, che il Kraus
ha innegabili attitudini allo scrivere spigliato e vivace, sicché gli scritti suoi
hanno in alto grado il merito di farsi leggere. Questo non toglie che il pre-
sente studio sul Petrarca lasci agevolniente scorgere una bella e fondatissima
preparazione. Il ricchissimo epistolario del grande trecentista fu dal Kr. espio*
rato in tutti i sensi, per trarne una specie di ritratto spirituale dello scrit-
tore, da cui si rilevino il suo modo di vivere, il suo carattere, i suoi studi,
i suoi viaggi, il suo sentimento dell'arte ed il suo pensiero filosofico e mo-
rale. Non é certo la prima volta che ciò si fa ; ma l'indagine del Kr., accu-
rata e penetrante, si aggiunge utilmente ad altre che la precedettero. Il Kr.
conosce assai bene, come è suo costume, la letteratura del soggetto(l), e ci
torna gradito l'osservare con quanta e giusta stima egli parli del nostro
sempre rimpianto Bartoli, il quale fu dei primissimi (troppi lo dimenticano
oggi) a scrutare nell'anima del Petrarca ed a ritrarne con acume di psico-
logo la vera fisionomia morale (2). Sebbene non sembri informato delle fasi
più recenti delle discussioni intorno a Laura ed al canzoniere, il concetto
ch'egli si fa della donna del Petrarca è certo assai prossimo al vero. Il Kr.
non mette in dubbio l'esistenza di Laura; ma egli crede che il poeta non
canti lei, si bene un fantasma ideale compendiante in sé tutte le bellezze e le
virtù della donna (pp. 148-49). Questo procedimento d'idealizzazione occorre
in fondo, in tutti i veri amori; ma una natura come quella del Petrarca,
che univa alla sensitività somma una dose così ragguardevole di tendenza
mistica, era atta più di ogni altra a ricavarne effetti artistici immortali.
39. — Francesco Torraga, Le donne italiane nella poesia provenzale ;
(1) II libretto del Finti sai Petrarca (efr. Oiom., XXXYI, 2i3) non potè forse esser menzionato
per ragione di tempo.
(2) Vedi p. 3. L'elogio del Kr. ò tanto più approxxabile in qaanto cbe egli nnove da priaeipl
del tutto diversi da quelli che al Bartoli erano cari. Le ragioni con cui combatte (pp. 17 agg.)
l'idea, a parer nostro giustisnima. cbe nel Petrarca si debba rarrisare il primo nomo moderno s
sostiene, invece, cbe il primo uomo moderno è Dante, si oppone recisamente a quello cbe il Bar-
toli pensava (cfr. p. 68). La differenza dipende dallo SUtndpunkt dìTeiso dei due autori • quindi
dal diiTerente modo di considerare il rinascimento. Abbiamo già avuto occasione di osservar
questo in addittro, a proposito delle idee del Kr. sulla storia deirarte. Cfr. Oiomak, XXXYII,
418-19.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 457
ì9m la « treva » di G. de la Tor. — Richiamiamo quello che ebbe a dirne
G. Bertoni in questo Giornale, 38, 140 sgg.
40. — Enrico Gochin, Boccaccio, traduz. di D. Vitaliani. — Lavoro con-
dotto con intelligenza e scritto con brio, di cui furono indicati i pregi e i
difetti nel Giorn., 16, 407, allorché ne venne fuori il testo francese. Per quel
che spetta ai dati di fatto ed alle nozioni bibliografiche , se la monografia
era alquanto arretrata nel 1890, quando fu editi la prima volta, lo è ancor
più ora, malgrado qualche ritocco dell'autore. Con poca fatica avrebbe po-
tuto rimediarvi la direzione della Bibliotecay che pure aggiunse di suo qualche
utile noterella.
41. — Vittorio Gian, Un medaglione del Rinascimento: Cola Bruno
messinese e le sue relazioni con Pietro Bembo., — Eccellente davvero questo
nuovo scritto dell'amico e cooperatore nostro instancabile e fido. Il G. ha
rettamente veduto che queste sue indagini « conferiscono forse più alla psi-
« cologia storica e alla storia della cultura che non alla storia letteraria pro-
€ priamente detta » (p. 4). Infatti il siciliano Bruno vero letterato non fu ;
di lui si conosce appena qualche verso e qualche lettera. Ma quella specie
di affettuoso sodalizio che il Bruno ebbe col Bembo, da quando questi lo
conobbe in Messina sino alla morte seguita nel maggio del 1542, lo rende
un personaggio interessante, del quale godiamo di possedere, anziché le magre
notizie del Tiraboschi e del Mazzuchelli, la nutrita biografia che seppe tes-
serne il Gian. Gola Bruno accompagnò il Bembo nelle sue peregrinazioni,
fu il confidente delle sue pene e de' suoi desideri; gioì degli onori tributa-
tigli ; seppe compatire le sue debolezze con la bontà inalterabile del proprio
carattere dolce e passivo; gli fu amministratore ed agente fedele; curò la
stampa degli scritti bembeschi; sorvegliò amorosamente l'educazione dei figli
dell'amico suo, al quale lo legavano gratitudine ed ammirazione immense.
Era ben degno un uomo siffatto, che con tanto disinteresse e con fede cosi
rara accompagnò nella vita l'insigne veneziano, d'essere ritratto con la cura
sapiente dedicatagli dal G., tanto più che in lui si notano qualità morali
rare sempre in un uomo di lettere, nel cinquecento rarissime. Se l'ingegno
merita ammirazione, la bontà e semplicità dell'anima, l'amicizia vera e te-
nace, la rinuncia alla propria individualità per ossequio a quella d'un altro,
sono tali requisiti e tali sacrifici da imporre il rispetto a chiunque abbia
l'abito di sentir gentilmente. Il G., conoscitore egregio del Bembo e dell'età
sua, ha ritratto codesto carattere, che onora la nobile Sicilia, come non si
poteva meglio, valendosi non solo delle stampe, ma anche di molti documenti
inediti, fra i quali specialmente notevoli le lettere non peranco pubblicate
del Bembo. Alla stampa integrale di quelle lettere inedite il G. medesimo
attende col prof. Gugnoni.
42. — Francesco Golagrosso, Saverio Bettinelli e il teatro gesuitico.
Seconda edizione. — Alla prima edizione di questa memoria fu tributata la
debita lode nel nostro Giom., 33, 158. Delle osservazioni che ivi vennero
mosse e di altre il G. tenne conto nella seconda edizione, in cui aggiunse
parecchio di nuovo, sia nel testo, sia nella lunga prefazione. La prefazione
si trattiene in special guisa sul teatro gesuitico e su certe sue consuetudini.
Parecchie opere straniere che al G. furono introvabili o ignote quando com-
458 BOLLErriNO BIBLIOGRAFICO
pose dapprima il lavoro, sono qui poste a profitto. Tuttavia, mentre sa che
sul Bettinelli autore tragico nulla d'altro vi sarà da dire, non ignora che al
tema sul teatro gesuitico egli arreca soltanto un discreto e pregevole con-
tributo. Le pagine che al soggetto dedicò il Bertana nel nostro Supplemento
no 4 (pp. 109-116) pare gli siano passate inavvertite. R.
Raccolta di studi critici dedicata ad Alessandro D'Ancona
festeggiandosi il XL anniversario del suo insegnamento.
— Firenze, tip. Barbèra, 1901 (4% pp. l-792).
Fra quante miscellanee si pubblicarono nella ricorrenza di giubilei catte-
dratici, questa è la più curata e anche la più ricca, giacché se la sorpassa
nella mole quella edita in Ispagna pel Menéndez y Pelayo (cfr. Gìom., 34,
474 e 35, 183), per la importanza, accuratezza ed omogeneità di scritti non
la raggiungono nò quelle assai buone che videro la luce in Germania, né
quella svedese fatta pel Wahiund e neppure quelle celebri messe assieme
per onorare Gaston Paris. Ma lasciando i confronti, il D'Ancona può ben
dirsi pago d'avere intorno a fargli festa una cosi cospicua schiera di studiosi,
che s'informano ai criteri critici ed al metodo scientifico da lui propugnati
con sì costante ardore e con esempio così preclaro dalla cattedra e nei libri.
A differenza di tanti altri, incerti o poco fidi o poco accorti, che si lasciarono
abbagliare da certe lustre e per debolezza o per istudio d'opportunità sacri-
ficarono alla moda e s'abbandonarono a certo giuoco di funambolismo este-
tico, il D'Ancona ha il merito insigne d'esser proceduto sempre per la mede-
sima via, senza muover collo né piegar sua costa, fermo nei principi perenni
di quella critica storica di cui egli é gloria. Alle onoranze degnamente tri-
butate al maggiore storico vivente delle lettere nostre questo Giornale^ che
ha l'onore d'informarsi ai suoi medesimi principi e di proseguirne ormai
da quasi due decenni con ogni sua possa l'attuazione, cordialmente si associa,
né sembra essere senza significato il caso per cui avviene che la presente
miscellanea abbia principio col nome d'uno dei direttori del Giornale e col
nome dell'altro direttore si chiuda.
Plauso incondizionato meritano coloro che diressero e allestirono questo
suntuoso volume, giacché nulla in esso difetta di quanto giova a renderlo
comodo, bello e gradito: l'assetto tipografico é degno della stamperia da cui
esce; un bel ritratto dell'illustre festeggiato lo fregia; in fine v'ha un indice
analitico disposto per alfabeto delle persone menzionate nei singoli scritti;
in principio v' ha una preziosa bibliografia delle opere di A. D'Ancona. In
questa bibliografia, disposta in ordine cronologico, compilata con diligenza
somma, sono raccolti sotto 724 numeri i libri e gli articoli tutti (anche quelli
pubblicati senza nome) del grande critico, la cui attività, come é noto, ai
estese ad ogni periodo della nostra storia letteraria e non mancò di portar
luce anche alla storia civile, segnatamente a quella del nostro risorgimento
politico. Indice e bibliografia si devono a tre giovani e valenti discepoli del
benemerito professore, Luigi Ferrari, Guido Manacorda e Fortunato Pintor.
I 53 scritti della Raccolta si riferiscono in grandissima parte alla storia
delle lettere italiane. Riguardano cose orientali e solo di sghembo si ricoU
BOLl-ETTINO BIBLIOGRAFICO 459
legano alla letteratura nostra la nota di I. Pizzi, Un riscontro arabo del
€ Libro di Sidrac » e lo studio di M. Kerbaker su La leggenda epica di
Rishyasringa, che tratta il motivo del giovinetto segregato, conosciuto in
Italia per i racconti del Novellino e del Decameron. Trova posto nell'alto
medioevo e riguarda l'arduo quesito delle scaturigini merovingie dell'epica
nazionale francese la memoria di G. Gròber, Der Inhalt des Faroliedes.
Arricchiscono la demopsicologia moderna, nella quale il D'Ancona ha pur
impresso orme cosi profonde, G. Gigli con Una pagina di Folk-lore Salen-
tino e G. Pitrè con La leggenda di Cola Pesce nella letteratura italiana
e tedesca. Rientrano nella storia politica medievale le Due lettere di Corso
Donati capitano a Bologna nel 1293, che dall'Archivio di Stato bolognese
estrasse P. Papa ; mentre alla storia del sec. XIX si riferisce la descrizione
che fa 0. Bacci di Una miscellanea di stampe sul primo congresso degli
scienziati in Pisa, nel 1839, e l'articolo di G. Dajob, Un bel libro da fare,
che reca parecchi appunti ad una futura storia di quei generosi italiani esu-
lati in Francia, onde vennero all' Italia quelle simpatie, che dovevano bene
fruttare nel 1859. Unico scritto che si occupi di storia filosofica è quello di
G. Gentile, Per la storia aneddotica della filosofia italiana nel sec. XIX,
che continua un tema gradito all'autore (cfr. Giorn., 37, 448) facendo cono-
scere 12 importanti lettere di Bertrando Spaventa al fratello Silvio. Final-
mente si dilunga dalla storia letteraria propriamente detta, entrando in un
altr' ordine, più generale, di ricerche, l'indagine di F. D'Ovidio Dello zeta
in rima, nella quale con acume pari alla dottrina egli esamina l'uso di poeti
appartenenti a tempi diversi ed a diverse regioni nel far rimare lo z sordo
con lo z sonoro.
Tutti gli altri scritti dell'importante silloge direttamente riguardano la
storia delle nostre lettere e si lasciano disporre per cronologia come segue:
MEDIO EVO. — E. Gorra, Una « commedia elegiaca » nella novellistica
occidentale. — Mostra che la redazione più antica e compiuta del rac-
conto « che tratta d'un marito, il quale è involontariamente tradito da
« un amico che gli confida le sue avventure amorose con donna cui egli
«ignora essere la moglie di lui», (Pecorone, Straparola, Forteguerri,
Fortini, Doni), è da ravvisare nel poemetto medievale latino Miles glo-
riosus edito dal Du Méril, poemetto che con tutta probabilità mette
capo ad una commedia anteriore perduta.
C. De Lollis, Sor dello di Goito e Peire Bremon. — Traduzione in
versi del serventese Lo reproviers vai averan, som par, che nel Or. è
437, 20.
H. Varnhagen, Die Quellen der Bestidr-abschnitte im <(. Fiore di
virtù ». — Con diligente esame comparativo assoda che il Fiore di virtù
ricorse per le tradizioni animalesche in special guisa all'opera di Bar-
tolomeo di Glanvilla, Proprietates rerum, non che al De animalibus
di Alberto Magno.
P. Chistoni, Le fonti classiche e medievali del Catone dantesco, che
unifica il Censorio e VUticense. — Studio alquanto prolisso e pesante,
ma non inutile, per determinare il valore della figura di Catone in Dante.
460 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
L'Alighieri fraintendeva quel personaggio storico, non altrimenti che
l'avevano frainteso gli autori a lui famigliari.
l. Del Lungo, / contrasti fiorentini di Ciacco. — Movendo da un
articolo di R. Orti/, che al D. L. pare sia piaciuto ben più che a noi
(cfr. Giorn.y 36, 444), discorre alquanto della fiorentinità, per lui certa,
dei due contrasti assegnati a Ciacco deirAnguillara, e accenna alla pos-
sibilità che quel Ciacco sia identico al Ciacco dantesco (1).
F. Romani, Il martirio di S. Stefano. — Rende verosimile che per la
rappresentazione di S. Stefano nel Purg., XV, 109-11, il poeta abbia
avuto presente alla fantasia qualche opera plastica medievale.
G. Mazzoni, Se possa il « Fiore » essere di Dante Alighieri. — Uno
dei più estesi ed interessanti lavori della raccolta, del quale ci è grato
riconoscere i molti pregi, sebbene la sua conclusione ci appaia sempre
terribilmente arrischiata. Muovo il M. dalla* persuasione ferma che i
sonetti del Fiore siano stati composti in Toscana, alla fine del dugento,
da un autore che veramente chiamavasi Durante. Passati in rassegna i
possibili Duranti e Danti del tempo, fa vedere per esclusione che la
persona su cui si accumulano maggiori ragioni di probabilità è Dante
Alighieri. Agli argomenti esterni, già, del resto, noti, aggiunge qualche
argomento interno per confermare l'attribuzione. 11 M. vorrebbe allogare
quei sonetti verso il 1295: l'Alighieri, datosi a vita alquanto licenziosa
in quel tempo, li avrebbe composti « per isvago suo proprio e degli
« amici ». — Qui non è il luogo di ritornare a discutere la grave que-
stione; ma forse ci accadrà di riprenderla in seguito. Diremo solo qui
che, a senso nostro, ogni conclusione è prematura prima che siano ulti-
mati gli studi definitivi sul canzoniere di Dante.
L. BiADENK, La rima nella canzone italiana dei secoli XIII e XIV.
— Paziente inventario delle assonanze, delle rime spezzate, equivoche,
ricche, sdrucciole, tronche, ecc., che si trovano nelle canzoni partico-
larmente del primo secolo.
M. Barbi, D'un codice pisano-lucchese di trattati morali. — Notevole
comunicazione intorno al ms. IL Vili. 49 della Nazionale di Firenze. Il
B. ne studia la lingua e ne illustra il contenuto, estraendone un poe-
metto di 477 versi, che corrisponde ad un noto testo francese, sui quin-
dici segni del giudizio finale.
P. Rajna, Una questione d'amore. — Fa parte d'un lavoro più ampio
su tutte le questioni d'amore che occorrono nel FilocolOy e discorre del-
l'immensa fortuna ch'ebbe il seguente motivo ivi trattato: una donna
concede a tre suoi amatori diversi contrassegni amorosi; si disputa quale
di essi amatori sia il preferito.
V. Crescini, Per la biogr. di Antonio da Tempo. — Spigola alcune
notizie da un cod. appartenuto all'antico archivio dell'univ. di Padova.
A. Medin, Canzone storico-morale di Nicolò de' Scacchi^ poeta vero-
nese del sec. XIV. — È una specie di lamento dettato per la morte di
Pietro I da Lusignano, re di Cipro, seguita il 16 genn. 1369.
(1) Vedaiii on »a CUcco Tarticolo di M. SchtriUo odia .V. Àntokfia dfU*af<MÌo 1901.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 461
F. NovATi, Sopra un antica storia lombarda di S. Antonio di Vienna.
— Mostra che i testi abruzzesi editi dal Monaci intorno alla leggenda
di S. Antonio sono rifacimenti d'una poesia composta nell'Italia setten-
trionale verso il mezzo del sec. XIV, poesia in strofe di cinque versi
monorimi, che è qui pubblicata. Ne trae argomento a considerazioni sugli
scambi letterari fra le poesie popolareggianti di varie regioni d'Italia.
R. Renier, Qualche nota sulla diffusione della leggenda di S. Alessio
in Italia. — Redazioni in prosa ed in versi; uso che della leggenda fa
il popolo. Qui è dato conto del poemetto su S. Alessio di Bonvesin da
Riva, contenuto intero ed anonimo in un ms. della Trivulziana, mentre
sinora se ne conosceva solamente il frammento prodotto dal Bekker.
E. Bellorini, Note sulla traduzione delle Eroidi ovidiane attribuita
a Carlo Figiovanni. — Completando ciò che scrisse degli altri antichi
traduttori delle Eroidi (cfr. Giorn.^ 36, 446), fa vedere che quella ver-
sione del cosidetto Figiovanni, di cui non ci resta alcun codice, non
è punto genuina. 0 s' ha da fare con un' opera del sec. XIV, rimaneg-
giata più tardi, o si tratta addirittura d'una falsificazione cinquecentista.
RINASCIMENTO. — F. P. Luise, Commento a una lettera di L. Bruni e cro-
nologia di alcune sue opere. — Determina la cronol. della traduz. bru-
niana dei dialoghi di Platone e quella della Laudatio florentinae urbis.
V. Rossi, Sulla novella del Bianco Alfani. — Con buon apparato di
documenti indaga gli elementi storici di quella novella e ne pone in
chiaro la composizione ed il probabile autore, col confronto della no-
vella di Lisetta Levaldini recata da quattro codici di Firenze.
F. FoFFANO, Per una edizione delV « Orlando Innamorato ». — Fa
la storia dell'edizione scandianese del 1495, di cui non si conosce verun
esemplare, e che secondo il F. sarebbe veramente esistita ed avrebbe
prima d'ogni altra divulgato il III libro del poema.
P. Savj-Loppez, La novella di Prasildo e Tisbina. — Innam.y P. L,
G. XII. Riscontri classici e romanzi a questo racconto.
C. Frati, Un codice autografo di Bernardo Bembo. — Diffusa e ac-
curata notizia bibliografica, con facsimile, del ms. E. VI. 10 della bibl.
Nazionale di Torino, già segnalato dal Cian in questo Giornale, 31, 68.
E. PÈRCOPO, Una « disperata » famosa. — Ripubblica qui criticamente
il ternario assai noto La nuda terra s'ha già messo il manto, che si
legge nel ms. ambrosiano autografo delle rime del Pistoia, e produce
anche, da codici marciani, il frammento di controdisperata che scrisse
Antonio Salvazo. Con buona critica dimostra che il Cammelli compose
quel ternario fortunatissimo nel 1497, allorché al Moro mancò la giovine
consorte Beatrice d'Este.
A. Salza, Lorenzo Spirito Gtcaltieri, rimatore e venturiero perugino
del sec. XV.— Illustra con nuovi documenti la biografia di questo sol-
dato verseggiatore, che tradusse Ovidio, fece il libro delle Sorti, e com-
pose versi lirici e due poemi, conosciuti sinora solo imperfettamente, il
Publico e l'Altro Marte.
V. Cian, Varietà letterarie del Rinascimento. — I, Maestro Pasquino
e Pietro Bembo, mostra la simpatia di Pasquino verso il Bembo dovuta
Giorwile storico, XXXVIII, fstfc. 114. 30
462 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
alla stima che aveva per lui Pietro Aretino e fa la storia delle relazioni
tra l'Aretino ed il Bembo (1); II, Dante nel Rinasci mento j ngu&rdsi \&
difesa di Dante presa da alcuni Toscani, segnatamente da G. B. Gelli,
contro le accuse del Bembo, ed un epigramma latino in elogio dell'Ali-
ghieri composto dall'umanista Michele Marullo.
V. Vivaldi, Le reminiscenze dantesche nell" « Italia liberata dai
Goti-k.— I riscontri qui ammassati ci sembrano soverchi. Alcuni non
sono riscontri; ma coincidenze evidentemente fortuite.
G. A. Cesareo, Una satira inedita di Pietro Aretino. — Dal cod.
Vatic. Ottobon. 2812 stampa con note storiche la Confessione di Maestro
Pasquino a Fra Mariano martire e confessore, e con parecchie buone
ragioni fa credere probabile ch'essa appartenga all'Aretino.
D. Gnoli, Del supplizio di Nicolò Franco. — Con documenti dimostra
che il vero motivo della impiccagione del Franco fu l'aver egli morso
con satire e pasquinate i Garafa.
A. Solerti, La rappresentazione della « Calandria > a Lione nel
1548. — Con la scorta d'un raro opuscolo, determina che nel 1548 fu
rappresentata a Lione, quando vi giunse Enrico II di Francia, la Ca-
landria, da comici italiani, fra i quali era Domenico Barlacchi.
A. Farinelli, Michelangelo poeta. — Questo studio psicologico, con-
dotto con critica penetrante sulla recente edizione del Frey, è forse la
cosa più importante e più veracemente nuova di tutto il volume. La
lirica di Michelangelo non fu mai caratterizzata sinora con tratti così
robusti e sicuri.
A. Luzio, Guerre di frati. — Nuovi documenti mantovani gettano
altra luce sulle fiere baruflFe che accaddero nel monastero di S. Bene-
detto in Polirone e sulla parte che ad esse prese il Folengo.
B. ZuMBiNi, Vita paesana e cittadina nel poema del Folengo. — Fa
notare i molti tratti di vero realismo rappresentativo, che si ammirano
nella maggiore opera folenghiana.
F. Flamini, Il canzoniere inedito di Leone Orsini. — Di mons. Leone
Orsini rinfresca il FI. la memoria per mezzo del suo canzoniere petrar-
cheggiante, che è conservato nella bibl. Nazionale di Parigi con indebita
assegnazione a L. Alamanni. I sonetti che il FI. ne estrae si riferiscono
a letterati celebri del tempo suo, quali P. Bembo, B. Varchi, A. Caro,
N. Franco, ecc., ed al pittore Giulio Romano.
E. PicoT, Les poésies italiennes de Pierre Bricard. — Illustra un can-
zoniere amoroso. La floridea, stamp. a Parigi nel 1601 da un francese che
studiò a Padova e colà s'invaghì d'una fanciulla della famiglia Cittadella.
Se tutti i versi della raccolta sono come i tre sonetti che il P. riferisce,
non si potrebbe facilmente imaginare una più sacrilega birbonata.
P. E. Pavolini, Per Vepisodio di Olindo e Sofronia. — Tenuissimo
contributo alla storia della diffusione della leggenda di santa Teodora,
dalla quale il Tasso, si vuole, avrebbe tolto l'idea del celebre episodio.
(1) Uu nota dì p. 29 ronde evidente che G. Saneii prese abbaglio nell 'attribuire airArettao
Il libello da lai edito nel Ctoni., XXVI, 176 sgg. Inclina a respinger qneirattribozione anche
y. Bossi nella 2» ediz. del Gaspary, II, ii, 804.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 463
DECADENZA. — G. Paris, La source italienne de la « Courtisane amou-
reuse » de La Fontaine. — Rileva le analogie e le dissomiglianze tra
la novella del La F. e « La cortigiana innamorata » di Girolamo Brusoni.
L Sanesi, Spigolature da lettere inedite di Girolamo Gigli. — Dal
carteggio del Gigli con Francesco Palma, conservato nella bibl. di Lucca.
Buona parte delle lettere concerne la stampa delle commedie del Gigli.
F. BexNEducci, Le lettere del Boccalini. — Esaminando le 40 lettere
politiche e stor. che Gregorio Leti assegnò a Trajano Boccalini, sostiene
che 32 di esse sono false, 6 alterate e due sole veramente autentiche.
B. Croce, Di alcuni giudizi sul Gravina considerato come estetico.
— Trova esagerato il valore che parecchi critici, specialmente il Reich
(vedi Giorn., 16, 454), danno alle idee estetiche del Gravina, nelle quali
non gli sembra di ravvisare le novità che essi ci vedono.
L Della Giovanna, Agostino Mascardi e il cardinal Maurizio di
Savoia. — Episodio letterario del sec. XVII, di cui si traccia la storia
col sussidio di lettere inedite della bibl. universitaria di Bologna.
L. Piccioni, Beghe accademiche. — Studia II filalete, voluminosa
opera in difesa del Petrarca pubblicata nel 1738 da Biagio Schiavo, e
le insulse polemiche che la seguirono.
0. Ferrini, Storia politica e galanteria in Arcadia. — Parlando dei
versi di Annibale Mariotti, che « riempie del suo nome e della sua ope-
« rosità la storia perugina di quasi tutta la seconda metà del séc. XVIII »,
viene a narrare le vicende degli Arcadi in Perugia (1).
RINNOVAMENTO. — E. Bertana, Sulla pubblicazione delle prime dieci
tragedie dell" Alfieri. — Dando in luce una lettera inedita deirabate
Valperga di Caluso, mostra come fosse dall'Alfieri strascicata per due
anni (1783-84) l'edizione senese delle prime tragedie, per malcontento
sorto nell'animo dell'autore a motivo dell'accoglienza poco benevola fat-
tagli dalla critica.
A. Belloni, Intorno a una tragedia del Goldoni. — Oltreché alla
novella del Lesage, l'Enrico re di Sicilia è inspirato ad un dramma di
G. A. Cicognini. Peccato che su quei componimenti drammatici, i quali
sono tutti derivati dal Casarse por vengarse di Francisco de Rojas, il
B. non abbia conosciuto l'utile memoria speciale di L. Peter, di cui
parlò questo Giornale., 32, 447-48.
E. Maddalena, Una lettera ined. del Goldoni. — Con l'usata compe-
tenza e con l'aiuto d'una lettera finora ignota, ritesse la storia deìV Avaro
fastoso, che fu la seconda commedia scritta dal Goldoni in francese. R.
(1) In memoria di Annibale Mariotti è il titolo di uno speciale volume uscito di recente (Pe-
rugia, Guerra, 1901), del quale ci sarà grato discorrere in seguito. In quel volume si legge un
altro lavoro del prof. 0. Ferrini su Annibale Mariotti nell'opera sua.
Per assolata mancanza di spazio sono rimandati al fascicolo pros-
simo gli Annunzi analitici e le Pubblicazioni nuziali.
La Direzione.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Il € Paulus » DI P. P. Verqerio. — Nei Wiener Studien^ XXII, (1900)»
pp. 236 sgg. K. Mùllner ha pubblicato intero, per la prima volta, il Paulus
di Pier Paolo Vergerlo, da due codici, l'Ambros. G. 12 sup. e il Vatic. 6878.
Il protagonista Paulus (che l'autore abbia voluto un po' raffigurare sé stesso ?)
è uno scolaro di quart'anno d'università, che, per esser ricco, invece di at-
tendere a studiare, si dà alla bella vita, secondato in ciò e aiutato dal servo
Erote, un briccone matricolato, il quale giunto che è a procacciare al pa-
drone una donnetta discreta, ne fa prima l'assaggio lui. L'azione si svolge
durante le vacanze natalizie (83) ; l'editore non sa se nello Studio di Padova
0 di Bologna : certamente di Bologna, poiché si nomina la porta Ravegnana
(in Ravennensem portarti 165}, che allora con la cinta antica giaceva tra
le due torri.
La commedia non ha vero intreccio; ma le scene presentano molta viva-
cità e movimento e ben delineati vi sono i caratteri ; lo scopo di essa è
soprattutto morale, mirando a mostrare quantum sii inimica bonis studiis
rerum copia (8). II modello è Terenzio, di cui sono specialmente adoperate
VAndria e V Eunuchus, quantunque il Vergerlo si conservi assai indipen-
dente. Un'altra fonte degna di essere rilevata sono i Priapea, dalla cui
frase « da raihi, quod tu des licet assidue, nil taraen inde perit > (III, 1-2)
deriva al Paulus « quodque cum det, nihil minus habeat > (527-528); e non
farà meraviglia a chi pensi che i Priapea erano già noti nella seconda metà
del sec. XIV, alla quale appartiene la commedia. E che quello fosse il tempo,
risulta dal chiamarsi iuvenis{2) l'autore, non ci essendo nessuna ragione di
negargli fede. Sorgono però due scrupoli : l'uno della denominazione di Sti-
chus data al servo, la quale ritorna nello Stichus di Plauto, una delle dodici
commedie ricomparse alla luce solo nel 1429, ma il Vergerlo l'avrà potuta
desumere da qualche altra fonte, tanto più che tra i due personaggi non c*è
nessuna affinità. L'altro scrupolo viene dai termini protasis epitasis cata-
strophe, usati a designare i tre momenti capitali dell'azione : termini che si
incontrano massimamente nel commento di Donato a Terenzio, scoperto anche
questo tardi, vale a dire nel •1433; ma non ivi solo, perchè di là son pas-
sati nei margini dei codici terenziani e fino nel glossario di Papia (circa
1063; Studi ital. di filologia class., Il, 40-41); anzi in uno di quei codici
(i6., V, 303) occorro la parola chorus, con cui il Vergerlo distingue il dia-
logo fra tre o più persone da quello fra due, che egli chiama diverbium.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 465
Dunque diamo bando agli scrupoli e assegniamo il Paulus alla seconda
metà del sec. XIV: e cosi la scuola padovana, che aveva prodotto col Mus-
sato la prima tragedia latina di imitazione classica , produsse col Vergerlo
anche la prima commedia.
Il Paulus è scritto in versi: ahimè quali versi! Nei primi 177 p. es. non
si riesce con molta buona volontà a trovarne più che 8 giusti. L'editore
spera luce dal trattato di metrica del Vergerio : vana speranza! tra poco io
ne darò notizia e sarà una delusione. Egli doveva dedurre la sua metrica
comica da Terenzio: senonchè questo autore nel medio evo si scriveva a
uso prosa; e quando si provarono a restituirne i metri, quei poveri umanisti,
non escluso il Petrarca (Studi ital., V, 317-320), composero schemi assurdi
e ridicoli.
Il testo che abbiamo sott'occhio è in generale leggibile, e pur dove la le-
zione è guasta, se ne indovina il senso. Propongo alcuni emendamenti.
8 nascere; dalla lez. nasce dei codici è meglio trarre nosse.
43 unus] usui (?).
154 terminato] interminato (da interminarì).
208 responde. La lez. respondes dei codici è giusta e forma una pro-
posizione interrogativa.
225 cepa. Dalla lez. sepo dei codici si trae sebo.
246-247 Connixit; astruendum est è detto tra sé; immo vero ad alta
voce; perciò si metta punto dopo est.
256 quum primum. La lez. dei codici quam primum va conservata e
corrisponde all'uso umanistico.
262 ne] nec.
264 omnia] omnino.
292 si modo, infide, morior, prò quo] si modo in fide morior, prò qua.
321 Sentio] Senior.
332 Virum] Utrum.
333 asciscitl obivit (?).
350 fuit. Dalla lez. dei codici fiat si trae meglio fuerat.
460 Vale] Yak.
584 insulsum\ inlusum.
586 quidvis] quidquid.
673. Le parole ah quid —perierint pare che vadano attribuite a Ursula.
Remigio Sabbadini.
ORONA_CA.
PERIODICI.
Bollettino della Società di storia patria negli Abruzzi (XI li, 26); L. Pa-
latini, Jacopo Donadei e i suoi diarii^ vanno dal 1407 al 1414, e sono qui
ripubblicati con illustrazioni storiche.
Bollettino della R. Deputazione di storia patria per V Umbria (Wll, 2):
T. Guturi, Angelo degli Ubaldi in Firenze, con documenti dell'archivio
fiorentino chiarisce l'ultimo ventennio del celebre giureconsulto, dal 1381
alla sua morte avvenuta il 4 sett. 1400, illustrando le sue ambascerie in
Firenze e la sua lettura in quello Studio (tra i documenti sono lettere di
Goluccio Salutati); D. Tordi, La stampa in Orvieto nei secoli XVI e XVII^
in continuazione, parecchie rappresentazioni sacre e qualche contrasto no-
tevole; L. Fumi, Una epistola dei k poverelli di Cristo* al comune di
Narni, nuovo contributo alla storia dello scisma francescano; (VII, 3),
C. Trabalza, Due letterati reatini e il Torti di Bevagna^ i due letterati
sono il Goletti ed A. M. Ricci: A. Sacchetti Sassetti, / maestri di gram-
matica in Rieti sullo scorcio del medio evo; L. Fumi, Cose reatine neU
Varchivio segreto e nella biblioteca del Vaticano^ contiene notizie impor-
tantissime di Tommaso Morroni da Rieti; G. Degli Azzi, Lettere inedite di
A. M. Ricci a G. B. Vermiglioli\ G. Bellucci, Leggende della regione
reatina. — Tutto il fascicolo interessantissimo concerne Rieti e la sua storia.
Bullettino della Società dantesca ifa/mna (Vili, 9-10): F. Tocco, Questioni
cronologiche intorno al « De Monarchia » di Dante. — Nel laborioso arti-
colo bibliografico dell'Angelitti sugli Accenni al tempo del Moore sono
considerazioni preziose d'ordine generale intorno alla scienza astronomica
posseduta da Dante.
Atti della R. Accademia di Palermo (Serie III, voi. VI): F. Angelitti,
Sulle principali apparenze del pianeta Venere durante dodici sue rivolu-
zioni sinodiche dal 1290 al i309 e sugli accenni ad esse nelle opere di
Dante.
Giornale di scienze naturali ed economiche (voi. XXIII) : F. Angelitti,
Discussioni scientifico-dantesche su le stelle che cadono e le stelle che
salgono^ su le regioni dell'aria, su Valtezza del Purgatorio^ in polemica
con V. Russo ed a sostegno di aflfermazioni anteriori.
Bullettino storico pistoiese (HI, 3): G. Zaccagnini, Le osservazioni di Nic-
colo, Villani alla « Gerusalemme liberata »; G. Volpi, Giuseppe Giusti e
Pietro Contrucci, con lettere inedite.
Bollettino storico della Svizzera italiana (XXIII, 7-9): C. Saivioni, No-
terelle di toponomastica lombarda.
Almanacco manuale della provincia di Como pel i90i (an. 64»): F. Sco-
lari, Bibliografia delle pubblicazioni edite per le feste centenarie della
pila voltiana; S. Monti, La guerra di Pisa (1494-1509) contro Firenze e
CRONACA 467
quattro sonetti contenuti negli Annali mss. di Fr. Muralto riferentisi
ad essa.
Emporium (n» 72): L. Torri, // gioco del ponte, a Pisa, ne rintraccia là
storia, dandone buone illustrazioni grafiche; (n° 74), G. Ricci, Il beato Si-
monino, illustra questa mostruosa leggenda antisemitica trentina del sec. XV,
intorno alla quale sappiamo che vien facendo felici ricerche il nostro coo-
peratore G. Zippel ; (n° 78), P. Molmenti, Le vesti e il costume degli antichi
Veneziani; (n° 79), V. Lonati, Un tiranno del Quattrocento, Sigismondo
di Pandolfo Malatesta; E. Verga, L'esposizione cartografica di Milano,
con molte antiche vedute e piante della metropoli lombarda. Poco modificato
quest'articolo riapparve nella Bibliofilia, 111, 142 sgg.
La Favilla (1901): G. Degli Azzi, Saggio di un commento alla Divina
Commedia, è il commento del cod. L. 70 della Comunale di Perugia,
Bullettino senese di storia patria (Vili, 2) : L. Zdekauer, Studi sulla
criminalità italiana nel Dugento e Trecento, qui considera particolarmente
la Quaestio d'Alberto di Gandino, che ha grande importanza siccome una
delle prime teorie penali formulate nel dugento; L. Galante, Un ipotesi sul
ritratto dell'uomo ammalato, congettura che il bel ritratto n" 3458 esistente
nella Tribuna degli Uffizi e assegnato dal Ridolfi a Sebastiano del Piombo
rappresenti Claudio Tolomei.
Giornale storico e letterario della Liguria (II, 7-9) : A. Poggiolini, Un
poeta scapigliato, Marco Lamberti, diligente scritto su questo rimatore
giocoso fiorito in Toscana tra la fine del cinquecento ed il principio del
seicento: A. Ferretto, Medici, medichesse, maestri di scuola ed altri bene-
meriti di Rapallo nel sec. XY; F. FofFano, Il catalogo della biblioteca di
Paolo Beni, del 1623, esistente ms. nella Marciana.
Archivio della R. Soc. romana di storia patria (XXIV, 1-2): P. Tacchi -
Venturi, Un ruolo inedito dell'archiginnasio romano sotto Paolo III, do-
cumento rilevante per la storia della Sapienza, rinvenuto nel R. Archivio
di Stato in Parma.
Archivio storico italiano (XXVII, 222): CI. Lupi, La casa pisana e i suoi
annessi nel medioevo, estesa «lemoria in continuazione, condotta su nume-
rosi documenti ,ed interessantissima per la storia del costume ed anche per
quella della lingua; G. Uzielli, L" orazione della misura di Cristo, stampata
su fogli volanti ora rarissimi, fu con quella di S. Giuliano ospitaliere ,una
delle più diffuse orazioni dell'età media.
Atti della R. Accademia delle scienze di Torino (XXXVI, 14): C. Ci-
polla, Nuove notizie sulle relazioni del p. Luigi Tosti col Piemonte ;
(XXXVI, 15), C. Salsotto, Per l'epistolario di Carlo Botta, dà notizie ac-
curate delle lettere edite del Botta, disseminate in pubblicazioni varie, e
anche di molte inedite, con lo scopo di giovare a chi su quei documenti
vorrà un giorno ricostruire la biografia dell'insigne storico (1).
Il Saggiatore (I, 2): L. Torri, Un grande dimenticato. Luca Marenzio,
celebre madrigalista del sec. XVI; (1,3), L. Perroni-Grande, Per la storia
della varia fortuna di Dante nel seicento, esamina due discorsi sulla lingua
siciliana di Giovanni Ventimiglia, che si leggono mss. in un codice della
(1) Lo stesso dr. Salsotto ha pubblicato (Torino, tip. Vinciguerra, 1901) Una notieia inedita
su Carlo Botta. Si tratta della traduzione che il Botta, stretto dal bisogno, fece nel 1809 d'un
trattato francese di storia naturale. Il ms. di essa traduzione è conservato nel R. Archivio di
Stato in Modena. — Alla bibliografia delle lettere stampate fece alcune aggiunte G. Roberti nel
Fan/uUa della domenica, XXIII, 38.
468 CRONACA
Vittorio Emanuele di Roma; G. Galletti, La poesia mistica nel sec. XUI;
(I, 6), L. Perroni -Grande, Dante e V accademia della fucina, rileva le re-
miniscenze dantesche nelle poesie di quelli accndemici secentisti di Messina;
A. Mari, Un cinquecentista spagnunlo imitatore di Dante, breve appunto
su Diego Guillem de Avila, canonico di Palencia, che compose un poema
ad imitazione di Dante; (I, 8), G P. Clerici, La lingua dei Promessi
Sposi e il suo primo indice analitico metodico, riguarda il paziente Indice
analitico metodico delle correzioni dei P. S. compilato da Gilberto Boraschi
(Milano, Briola, 1900), strumento molto utile per chi faccia studi di lingua.
La lettura (I, 7): F. Novali, Un nuovo ^tratto del Petrarca, quello av-
vertito dal De Nolha'% su cui già richiamammo l'attenzione dei lettori nostri
nel Giornale, 8><, 250; G. Salvioni, / dialetti alpini d'Italia, articolo dili-
gentissimo e di grande utilità, dovuto ad uno dei migliori conoscitori della
materia.
U Ateneo veneto (XXIV, II, 1): D. Olivieri, Nomi di popoli e di santi
nella toponomastica veneta; E. Maddalena, Un aato-dn-fe a Ragusa nel
i860, si tratta delle poesie di Arnaldo Fusinato pubblicamente bruciate nel
collegio gesuitico di Ragusa.
Le Marche (I, 6): P. Provasi, // donativo oppugnato e difeso^ opera
inedita di Benedetto Fabbretti d'Urbino, in qiìesta polemica secentistica in
versi merita nota speciale un Pater noster satirico: (1. 7), G. Baccini, Co-
dici inviati a Guidantonio da Montefeltro duca d'Urbino il 14 agosto Ì4i7 \
G. Zaccagnini, ^Lettere di eruditi illustri a un erudito urbinate del se-
colo XVIII, in continuazione, l'erudito urbinate è Pier Girolamo Vernaccia
e nella sua voluminosa corrispondenza lo Z. utilizza in particolar guisa le
molte lettere che gli diresse Gio. Mario Grescimbeni.
Miscellanea storica della Yaldelsa (IX, 25): N. Tarchìani, Un idillio
rusticale e altre rime di Baccio del Bene, in continuazione, qui si narra
con l'aiuto di qualche nuovo documento la biografia di quel Bartolomeo del
bene, delle cui rime già si occuparono il Couderc e il Carducci (v. Giorru,
36, 263); U. Marchesini, Ricordi storici poggibonsest, riguardano i rapporti
del Galilei con l'amico suo Niccolò Cini: ÌVIanicardi e Massòra, Le dieci
ballate del Decameron, studietto notevole intorno agli amori del Boccaccio
ed alla sua produzione lirica; L. Dini, Suppellettili e masserizie di una casa
signorile in Colle Valdelsa nel 1520, pul}blica senza illustrazioni un inven-
tario che si trova nell'Archivio di Stato fiorentino.
Bullettino bibliografico sardo (I, 7-8): Fanny Manis, Curiosità leopar-
diane, pubblica una lettera di Pier Francesco Leopardi a Felice Le Monnier,
in data Recanati, 1 agosto 1849, che riguarda gli scritti giovanili di Gia-
como; (I, 9), P. Lutzu, Eleonora d'Arborea nella tradizione popolare sarda^
nella leggenda e nella storia.
In cammino (an. 1901): E. Foà, Lo spirito morale di A. Ma nzoni^ spe-
cialmente nei Promessi Sposi.
Atti dell'Ateneo di Bergamo (voi. XVI): A. Mazzoleni, * Amor che a
€ nullo amato amar perdona », nota dantesca con appendice bibliografica
dell" intero episodio di Francesca da Rimini.
Rivista internazionale di scienze sociali (n" 104): L. Chiappelli, Per la
storia delle fonti e della letteratura giuridica nel medio evo; F. Ermini,
Il € Dies irae » e Vinnologia ascetica nel see. Xllf, in continuazione.
Atti dtl R. Istituto veneto (LX, 6): G. Biadego, Galeazzo Florimonte e
il Galateo dì mons. Della Casa, su lettere sparsamente pubblicate (una
inedita) si studia il B. di ricostruire la figura morale del Florimonte, mo-
CRONACA 469
strandc ch'egli era tal persona che a lui il Della Gasa poteva degnamente
inspirarsi nel comporre il Galateo e che fors'anzi nel suo libro delie inettie
egli ne trovò il germe; (LX, 8), F. Cipolla, Cose dantesche, 1°, Il diritto
di punire, contro l'interpretazione che il Sighele dà della giustizia punitiva
usata da Dante; 2', Ancora due parole intorno alle risiwnanze nella Di-
vina Commedia; 3", L'occhio riposato, x^e\VInf., IV, 4.
Tridentuni (IV, 4): G. Pedrotti, Contributo alla toponomastica della zona
Marzola-Chegul; A. Pranzelòres, Per la storia del rinascimento nel Tren-
tino; F. Largaiolli, Un gruppo di lettere inedite di Gir. Tartarntti a
G. M. MazziicheW , sei lettere ricavate dagli autografi della Vaticana,
trattanti quasi tutte soggetti eruditi e seguite da un saggio di bibliografia
tartarottiana; E. Lorenzi, Osserixizioni storiche ed etimologiche sui casati
d'Avio.
Bollettino del museo civico di Padova (IV, 3-4): A. Benacchio, Pio Enea
secondo degli Obizzi letterato e cavaliere, memoria condotta su documenti
inediti. Vi sono indicazioni sugli spettacoli scenici del principio del sec. XVII,
di cui rObizzi fu ideatore.
Atti della 1. R. Accademia degli Agiati in Rovereto (Serie III, voi. VII):
C. T. Postinger. Documenti in volgare trentino della fine del trecento re-
lativi alla cronaca, delle Giudicar ie.
Rendiconti del R. Istituto lombardo (XXXI V, 11- 12): M. Germenati,
Una lettera geologica e patriottica di A. Volta; (XXXIV, 13\ F. Nevati,
Sulla leggenda di re Teoderico in Verona, in continuaz. ; (XXXIV, 14-15),
G. Riva. Le visite del cardin. Durini alle case del Parini e del Balestrieri;
(XXXIV, 16), A. Ratti, Bonvesin della Riva appartenne al ter z' ordine
degli umiliati od al terz' ordine di S. Francesco?, dotta esposizione di dubbi
storici ragionevoli.
Napoli nobilissima (X, 9): B. Groce, La casa di una poetessa. Laura
Terracina. Nell'articolo non si parla solamente della casa di quella verseg-
giatrice cinquecentista, ma anche della sua famiglia, delle sue relazioni let-
terarie, dei casi della sua vita, delle edizioni e dei codici delle sue rime, e
si riproducono suoi ritratti.
Rassegna d'arte (T, 7): 0. Scalvanti, Iconografia di San Bernardino
da. Siena.
Rivista delle biblioteche e degli archivi (XII, 6-7): G. Baccini, Ricordi
su Vittorio Alfieri, quisquilie di scarsissimo valore; F. Cavicchi, Lettere
inedite di G. Tiraboschi a G. G. Trombelli, esistenti nella biblioteca uni-
versitaria di Bologna.
Rassegna bibliografica della letteratura italiana (IX, 5-7) : D. Provenzal,
Un maggio satirico del secolo XVII, poesia insipida per lo meno quanto
volgare* scritta (si disse dal pisano Angelo Poggesi) nel 1629 contro il ca-
valier francese De la Croix: (IX, 8-9), E. Teza, L'Esopo tradotto da N. Tom-
maseo; E. Teza, Un centone pindarico nelle opere di U. Foscolo; I. Sanesi,
Sul V. 4 del ritmA) cassinese, la novità consiste nel non considerare flagello
come un verbo, ma come un sostantivo equivalente a fleolum della bassa
latinità, fascio di candele; D'Ancona, Lettere di illustri scrittori francesi
ad amici italiani, ricompare qui la recentissima pubblicazione nuziale, di
cui è detto nel Giornale, 38, 236.
Rassegna critica della letteratura italiana (VI, i-i): E. Sannia, Gli spi-
riti dell' antinferno; E, Perito, Il Decameron nel «.Filosofo» di P. Are-
tino, l'Aret. nel prologo cita una novella del Decani, come fonte del primo
intrigo della sua commedia, mentre il P. mostra che dal Boccaccio è tolto
470 CRONACA
anche il secondo intrigo e ne conclude che l'Aretino è molto più sovente
imitatore di quello eh egli faccia credere proclamando cosi altamente la
propria originalità; G. F. Damiani, Intorno ai sonetti del Monti € Sulla
€ morte di Giuda », il M. si è inspirato ai auattro sonetti su Giuda del
cav. Marino, ma non è questa la prima volta cne si accenna a siffatta ana-
logia; (VI, 5-8), E. Proto, G. M. Verdizzotti e il « Rinaldo », l'articolo
tende a dimostrare che se non è vero che il Verdizz. abbia ispirato la Ge-
rusalemme^ è invece verissimo che il primo canto del suo Aspromonte fu
imitato nel Rinaldo ; B. Croce, Varietà di storia dell'estetica : I, Un verso
di Lucano nelle discussioni degli estetici della fine del sec. XVII e del
principio del XVIII, è il v. 128 del primo della Pharsalia; II, Un pen-
siero critico nuovo, è la verità affermata dal conte Fr. Montani che per
giudicare l'opera d'arte bisogna rinnovare in sé la condizione psicologica di
chi la produsse. Ambedue queste note riguardano la famosa polemica Orsi-
Bouhours, su cui tornò recentemente A. Boeri. Cfr. Giornale^ 36, 255.
Rassegna bibliografica dell'arte italiana (IV, 1-4): A. Fraschetti, Varte
di Benvenuto CeÙini, a proposito del libretto del Supino di cui si occupò
anche il nostro Giornale, 38, 227.
Giornale dantesco (IX, 4-6): F. Flamini, Il fine supremo e il triplice
significato della Commedia di Dante; G. A. Cesareo, La patria di Guido
delle Colonne; M. Scherillo, La forma architettonica della Vita Nuova,
con arguzia e bontà di ragioni mostra come sia fantastica la simmetria nella
costruzione della V. N., trovata dall'americano Kliot Norton e accolta con
plauso da alcuni dantisti inglesi, fra cui il Moore; (IX, 7), L. Filomusi-
Guelfi, Il simbolo di Catone nel poema di Dante; A. Trauzzi, Un fram-
mento della Commedia nell'Archivio di Stato in Bologna; P. Camberà,
La topografia del viaggio di Dante nel Paradiso; V. Russo, Le remini-
scenze della D. Commedia nelle poesie di G. B. Marino; (IX, 8), F. Tor-
raca, A proposito di Guido delle Colonne; G. Federzoni , Breve trattato
del Paradiso di Dante; G. Brognoligo, Chiosa dantesca a Purgatorio,
XX, 43-45.
Gazzetta musicale (1901, n» 23): R. Barbiera, G. Verdi e A. Maffei.
La bibliofilia (III, 2-3): A. C. Nordenskiòld, Dei disegni marginali negli
antichi manoscritti della « Sfera » del Dati (1); C. Mazzi, Sonetti di Felice
Feliciano, descrive un codice di prose e rime dell'Antiquario, che si trova
presso il libraio Olschki.
Miscellanea francescana (Vili, 3): M. Faloci Pulignani, Vita di S. Fran-
cesco e dei suoi compagni, testo inedito di volgare umbro del XIV secolo,
conservata in un ms. di Todi ed in un Capponiano della Vaticana, rilevante
anche per la lingua; (Vili, 4), M. Faloci Pulignani, Notizia di un confes-
sore di S. Francesco; (Vili, 5), M- Faloci Pulignani, Il € Liber conformi-
€ tatum » del p. Bartolomeo da Pisa ; Idem, La visione del beato Tom-
masuccio, ripubblica questo testo volgare, attenendosi ad un ms. dell'Estense
di Modena.
Bollettino della Società geografica italiana (Serie IV, II, 8): G. Crocioni.
La toponomastica di Velletri.
Rivista geografica italiana (Vili, 8): A. E. Nordenskiòld, Intorno all'in-
fluenza dèi € Viaggi di Marco Polo > sulle carte dell'Asia di Giacomo
Gastaldo, questo interessante articolo è qui tradotto dallo svedese, con ag-
giunte di Grius. di Vita.
(1) Cfr. in proposito la lettera di D. Marzi nella stessa Bibliofilia, III, 187.
CRONACA 471
La rassegna nazionale (voi. 119): G. Gnerghi, La Beatrice dell'età
nostra; k. Bertoldi, Il Tommaseo e il Vieusseux, articolo pieno di curiosità
per i giudizi caustici su uomini e cose dedotti dal ricchissimo carteggio del
Tommaseo ora depositato nella Nazionale di Firenze (1); A. Gervesato» La
satira del « Giorno »; G- 0. Gorazzini, Il luogo ove fu arso fra Girolamo
Savonarola; G. Paladini, 5. Francesco d'Assisi nell'arte e nella storia
lucchese; G. Schnitzer, Giudizi del Pastor sul Savonarola; (voi. 120),
G. Gnerghi, Frate Girolamo Savonarola nelle lettere e per le arti; G. Vi-
sconti Venosta, Carlo Porta e i suoi predecessori; A. Schanzer, Il Leopardi
in Inghilterra; P. Molmenti, Le lettere e le arti nei due ultimi secoli
della repubblica veneta.
Studi e documenti di storia e diritto (XXII, 1-2): P. Tacchi- Venturi,
Vittoria Colonna, fautrice della riforma cattolica, secondo alcune sue
lettere inedite, le lettere sono estratte dalle carte farnesiane dell'Archivio
di Stato di Napoli.
Giornale araldico (XXVIII, 2): F. Ceretti, Famiglia Susi della Miran-
dola, con speciali notizie del letterato G. B. Susio, intorno al quale v^di
anche questo Giorn., 30, 516 e Arch. stor. lomb., 28, 409.
Archivio storico siciliano (XXVI, 1-2): V. Labate, Per la biografìa di
Costantino Lascaris, aggiunge ai già noti nuovi documenti sulla dimora del
Lascaris a Messina, spigolati nel R. Archivio di Stato di Palermo, e li illustra
convenientemente.
Fanfulla della domenica (XXIII, 27): V. A. Arullani, Dante e Giusto
de' Conti; (XXllI, 28), A. Golasanti, Due strambotti inediti per Antonio
Vinciguerra e un ritratto di Vettor Carpaccio , dal ms. Marciano ital.
ci. XI, 67 si estraggono illustrandoli due anonimi epigrammi, l'uno dei
quali concerne un ritratto, che il Carpaccio dipinse, del Vinciguerra, ed il
secondo è, in difesa del Vinciguerra stesso, contro quel maledico Strazzòla,
che V. Rossi fece rivivere nel voi. 26 di questo Giornale {1); (XXIII, 29),
Carletta, Dove alloggiò l'Ariosto a Roma; (XXIII, 30-31), F. Fabbrini,
Uno squarcio di vita italiana nel sec. XVIII, da un ms. padovano conte-
nente epigrammi pettegoli e satire ingiuriose: (XXIII, 32), A. Leone, Perchè
Venetico Caccianemici e Mirra sono in Malebolge e non in Codio ; (XXIII,
35), Giorgio Rossi, Il Malmocor, parodia di melodramma tragico dovuta a
G. M. Buini; (XXIII, 37), V. A. Arullani, Sulla Lucia manzoniana; E. Chec-
chi, Antonio Salvotti e i processi del ventuno, sul quale argomento interes-
sante, che riprenderemo in esame, vedansi gli articoli del D'Ancona e del
Luzio nei nn. 38 e 40; (XXIII, 38), G. Roberti, Per l'epistolario di Carlo
Botta: (XXIII, 39 e 40), G. Sliavelli, Vita, morte e miracoli di fra Dolcino,
a proposito del libretto di 0. Begani, su cui cfr. questo Giorn., 38, 220.
Rivista politica e letteraria (XV, 3): A. Pierantoni, Le leggi contro gli
stregoni in Alberigo Gentili; (XVI, 1), E. Maddalena, Goldoni e Nota, la
(l) Tra i letterati, il più fieramente tartassato dal dotto dalmata è il Giusti: « Il Giusti era
« scrittore accurato ed efficace, ma non osservatore né pittore del vero. Le sue sono quasi sempre
« amplificazioni di un solo e piccolo concetto, talvolta d'una semplice immagine, onde ristuccano.
«Ma perch'e'dice sempre il medesimo in varii e bei modi, ai più piace. Notizia storica de' tempi
«nostri v'è da cavare meno che dalle satire dell'Alfieri de' suoi: e pure l'Alfieri esagerava. Il
« Giusti non conosceva punto il cuore umano, nò credo che avesse cuore. Quei tocchi d'eterna
«verità che ammirasti nel Molière, nel Goldoni, in Orazio, indarno è sperarli in lui. Tessitore
«di versi; non altro. Esagerando, egli ha calunniato fino i re e gli usurai ». E peggio altrove,
considerandolo nella politica : « il Giusti, gamba di coniglio e cuore di gatto, stenterello con le
« mutande di Dante ».
(•2) Dei due componimenti è fatta chiara menzione dal Eossi medesimo nel Giorn., XXVI, 55.
472 CRONACA
Buona famiglia del Goldoni imitata nella Pace domestica del Nota ; (XVI, 3),
T. Menni, Il prologo del « Decamerone ».
Natura ed arte (1901, n° 15): L. Corio, L'opera di Carlo Cattaneo.
La vita internazionale (1901, n© 13): G. Salvi, Di Carlo Cattaneo.
Flcgrea (111, 1): A. Cantalupi, La musica e V estetica medioecale; {\\\,2),
R. Ortiz. L'ideale muliebre negli epigrammi greci del Poliziano.
Nuova Antologia (n» 709): V. Gian, La più antica lirica, inedita, su Cri-
stoforo Colombo, un sonetto di Lodovico Beccadelli, prelato bolognese cin-
quecentista; (no 711), M. Scherillo, // Ciacco della Div. Commedia: Cn" 713),
M. Scherillo, Dante uomo di corte; (n« 714), J, White Mario, Lettere ine-
dite di Gius. Mazzini; (n» 715), A. Bezzi, Il ritratto giottesco di Dante e
G. B. Niccolmi, pubblica una lettera, veramente assai notevole, con la quale
Giov. Bezzi livendica a se il merito dello scoprimento del ritratto di Dante,
in una lettera del 30 aprile 1860 diretta aìVAthenaeum di Londra.
Rivista d Italia (IV, 6): P. Petrocchi, Del numero nel poema dantesco ;
G. Torta, Alcuni sonetti politici inedili di G. Prati; (IV, 7), F. Tocco,
Polemiche dantesche, Kraus e Grauert; A. Schanzer, Influssi italiani nella
letteratura inglese; A. Zenatti. Trionfo d. amore ed altre allegorie di Fran-
cesco da Barberino, in continuazione: G. Mestica, Il prim,o ritratto di
G. Leopardi; (IV, 8), 1. Del Lungo, Firenze ghibellina; G. P. Clerici,
/ Promessi Sposi e i disegni di Gaetano Previati.
Atti della R. Accademia Peloritana di Messina (an. XV); F. Gabotto,
Di Sindewala re degli Eruli nelle storie di Flavio Biondo; L. Perroni-
Giaiide, Noticina foscoliana; G. Longo-Manganaro, L'allegoria di Stazio
nella Div. Commedia.
\
Pallade (1, 4-5): G. Checchia, Il «e Consalvo » di G. Leopardi, in con-
tinuazione.
Alma Juventus (III, 28 e 29): P. Tedeschi e G. Curto, Intorno al verso
di Dante « Poscia più che il dolor potè il digiuno », nuova discussione
sulla pretesa tecnofagia del conte Ugolino.
Atti della R. Accad. Lucchese (voi. 31): A. Mancini, Mateldn. S. Me-
tilde e S. Ildegarde, togliendo le mosse da un recente articolo dello Sche-
rillo, che rettifica, ripresenta la candidatura di Matilde di Hackeborn, già
sostenuta dal Lubin. Secondo il M. quella Matilde tedesca sarebbe la Matelda
di Dante. Gfr. le obbiezioni di M. Porena in Bullettino Soc. Dani., N. S.,
Vili, 225 e specialmente quella validissima accampata da N. Zingarelli
nella Rass. critica della letter. ital.^ VI, 173.
La provincia di Modena (1901, 22-24 giugno): A. G. Spinelli, Chi era
Vabbé /.... B.... V.... nelle Memorie del Goldoni, tomo I, cap. 18? Si tratta
del prete che il Goldoni vide esposto in berlina a Modena, cosa che lo colpi
tanto da fargli venire il desiderio di farsi cappuccino! Lo Sp. prova ch'e?so
era veramente, come suppose il Lòhner, il prete poeta Giov. Batt. Vicini,
che « condannato dall'Inquisizione per i molti suoi matti errori e per le sue
« nefande sporcizie », fece poi umile ammenda de' propri trascorsi.
Studi sassaresi (I, 2): V. Pinzi, Questioni giuridiche esplicative della
« Carta de logu », tali questioni sono in dialetto sardo e gioveranno al fi-
lologo. Si riproducono da un ms. della Inbl. universitaria di Cagliari.
Atti e memorie della R. Accademia di Padova (XVII, 2): A. Gnesotto,
Notizia di tre poesie inedite di Giacomo Vagnone. Sono poesie latine e si
CRONACA 473
leggono in un ms. della biblioteca comunale di Mantova. Una di esse è un
curioso vanto del verseggiatore, pronunciato dopo la sua coronazione in Ve-
nezia nel 1496. Pubblicando queste poesie, lo Gn. dà parecchie notizie del-
l'umanista piemontese che le scrisse.
La Tribuna (7 sett. 1901): San Gerolamo degli Schiavoni nel passato.
Vi si comunica un documento^ assai interessante scoperto dst Domenico Tordi
in un ms. della Gasanatense. È una sentenza di Pietro Bembo, delegato da
Paolo HI a comporre una questione sorta nell'ospizio di S. Girolamo degli
Illirici. 11 Bembo definì la questione e dettò in italiano nuovi s^tuti del-
l'ospizio, che furono ratificati con un editto dal 22 maggio 1541. Quest'editto
porta la firma di Marc' Antonio Flaminio. Ecco pertanto due nomi illustri
di uomini di lettere mescolati alle vicende dell'antico istituto, che diede testé
e darà ancora tanto da parlare ai politicanti, e per cui si accentuano gli odi
di due razze irreconciliabili.
Mémoires de la Société de l'histoire de Paris et de V Ile- de- Frane e
(voi. 27) : L. Auvray, Giordano Bruno à Paris d'après le témoignage
d\m contemporain. Inatteso e importante contributo alla storia del grande
filosofo nolano. Dei due soggiorni parigini del Bruno, il primo (1581-83) è
meglio conosciuto del secondo (1585-86). Riguardano per l'appunto questa
seconda dimora i ricordi che l'A. scoperse nel giornale di Guillaume Gotìn,
monaco nell'abbazia di St. Victor, ora custodito in un codice della Nazionale
di Parigi. Probabilmente per ragioni di studio, il Bruno si recava spesso a
quell'abbazia, ove ebbe occasione di parlare e di discutere col Gotin, al quale
venne in mente il pensiero non mai abbastanza lodato di tener conto di
quei discorsi. I notamenti del Gotin, che l'A. riferisce ed illustra con la sua
ben conosciuta industria di critico diligente e dotto, sono davvero preziosi
nella scarsa messe a noi giunta di relazioni sincrone sul fantasioso domeni-
cano. Il Bruno parlò col Gotin della sua patria, della sua famiglia, de' suoi
viaggi, delle sue opere scritte e da scrivere, di una quantità di autori che
disistimava, di una quantità di persone che aveva in uggia. Il Gotin dà pure
conto della disputa che il Bruno ebbe nel maggio 1586 al Gòllège de Cam-
brai contro Aristotele e dà in proposito particolari ignoti. Grediamo insomma
che l'A. non s'illuda quando dice che dopo la famosa lettera dello Scioppio
e dopo gli atti del processo del 1592, questo giornale del Gotin è il più
importante documento sincrono che ci sia rimasto sul Bruno. S' intende
bene che gli apprezzamenti del monaco vogliono essere accolti con la debita
circospezione.
Revue des bibliothèques (XI, 4-6) : E. Picot, Des Frangais qui ont écrit
en italien au XVI siècle, qui si parla di Jerome d'Avost, Gabriel de Gut-
lerry, Jean Zuallart, Ph. E. de Gondi, Pierre Bricard. Gosi resta terminato il
lungo ed erudito lavoro dell'illustre bibliofilo francese.
Revue bleue (XVI, 1): Henry Frichet, Les cartes à jouer, articolo estre-
mamente superficiale, ma in cui tuttavia non manca qualche buona indica-
zione storica sulle antiche carte da giuoco; (XVI, 3), P. Lalande, La défense
cantre la peste au XVII siècle.
Bibliothèque universelle et revue suisse (n° 68): E. Bovet, Le quinzième
siècle italien, a proposito dell'opera di Ph. Monnier; (n® 69), E. Rod, Gari-
baldi dans la littérature italienne.
Bibliothèque de Vécole des chartes (LXII, 3): H. Omont, La bibliothèque
d'Angliberto del Balzo due de Nardo et comte d'Ugento au royaume de
Naples, inventario di quella libreria, che si trova in un ms. della Nazionale
di Parigi.
474 CRONACA
Reoue d'hisloire et de littérature religieuses (agosto 1901): H. Cochin,
Le frère de Péirarque et le livre dti repos des religieux.
Month (febbr. 1901): T. G. Gardner, The dedication ofthe Div. Commedia.
Nouvelle revue historique du droit (giugno 1901): G. Touohard, Unpu-
bliciste italien au XVI II siècle^ Filangieri et la science de la Ugislation.
Annales de philosophie chrétienne (giugno 1901): De la Roussellière,
Dante et le symbolisme chrétien.
La revue de Paris (Vili, 9): G. Lanson, Molière et la farce^ importante
anche pei rapporti col teatro popolare italiano.
The quarterly review (n" 387): The date of Dante' s vision.
Revue des études grecques (n° 57): C. Huìt, Note sur l'état des études
grecques en Italie et en France du XIV au XVI siede.
Studien zur vergleichenden Litteraturgeschichte (I, 3): P. Tolde, Leben
und Wunder der Heiligen im Mittelalter, prosegue il lavoro di cui è com-
parsa l'introduzione nel voi. XIV della Zeitschr. fùr vergleich. Litteratur-
geschichte.
Le courrier musictl (1901, n» 5-7): De la Laurencie, Du goùt musical
au XVIII siede.
Revue d'hisloire et de critique musicale (1901, n" 6;: Roliand, Notes
sur les musiciens italiens à Paris sous Mazarin; Cornhaneu, Basse danse,
branle, pavane et gaillarde du XVI siede.
Gazette des beaux-arts (n® 531): E. Muntz, Le triomphe de la mort à
Vhospice de Palerme, il celebre affresco del palazzo Sclafani, tradizional-
mente attribuito al Crescenzio, si vuole dal Janitschek seguito dal Burckhardt
che sia di scuola fiamminga. Il M. lo rivendica alTltalia e sostiene che au-
tore di esso dovette essere uno dei maestri lombardi stabilitisi nell'Italia
meridionale verso la metà del XV secolo. L'affresco ha importanza non
piccola nella nostra tradizione macabrea, e fu riprodotto di recente anche
dal Vigo. Cfr. Giorn., 38, 195.
Bulletin italien (l, 3): Ch. Dejob, Le type de Vallemand chex les clas-
siques italiens; J. Vianey, Les « Antiquitez de Rome », leurs sources latines
et italiennes, con la consueta diligenza e cognizione mostra quanta parte
delle Antiquitez àeì Du Bellay rimonti a poeti italiani ed a classici latini;
P. Tolde, Qudques sources italiennes du thédtre comique de Mondar de
la Motte, mostra che quelle commedie derivano in gran parte da novelle
del Boccaccio; A. Morel -Patio, Uespagnol de Manzoni, ingegnoso e accurato
studietlo sulle frasi castigliane che il M. mette 'in bocca al Ferrer, nelle
quali sono rilevate parecchie improprietà e gallicismi.
Euphorion (Vili, 1): E, Fasola, Schillers Werke in italienischer Ueber-
setzung.
Jahresbericht des historischen Vereins fùr Mittelfranken (an. 47):
Fr. Reuter, Drei Wanderjahre Platens in Italien, dal 1826 al 1829, con
lettere inedite del Platen.
The Athenaeum (n» 3841): P. Toynbee, Getite dispetta, vedi /n/I, IX, 91.
Romania (XXX, 118-19): E. Muret, Un fragment de Marco Polo, trovato
nel foglio di guardia membranaceo d'un cod. della piccola bibliot. di Vevey.
CRONACA 475
Revista de archivos, hibliotecas y museos (1901, n^ 2-3): A. Paz y Mélia,
Codices mas notables de la biblioteca nacional, descrive tra gli altri un
magnifico ms. delle rime del Petrarca, copiato e miniato nel sec. XV, che
appartenne alla biblioteca di Urbino.
* Opera veramente coraggiosa ha iniziato il dr. Domenico Orano. Essa
s'intitola 11 sacco di Roma del 1527^ studi e documenti, e si propone di
dare una specie di storia interna del celebre avvenimento. L'opera sarà
divisa in sei volumi, il primo dei quali, splendidamente stampato, ci sta sotto
gli occhi (Roma, Forzani, 1901). Esso comprende quei Ricordi di Marcello
Alberini, che l'Orano già pubblicò nei volumi XVIII e XIX (1896-97) del-
Y Archivio della Società romana di storia patria, avendone scoperto l'auto-
grafo nella biblioteca del R. Archivio di Stato in Roma. Nella ristampa il
diario s'avvantaggia di nuove cure. L'editore lo ha diligentemente annotato
e lo ha, a dir così, incorniciato di erudizieni diverse, con esuberanza gio-
vanile, ma certo non inutilmente. Dell'Alberini (n. 1511, m. 1580) egli illustra
la famiglia e la vita, facendone risaltare il tipo di uomo franco, onesto e
sennato. Dei Ricordi indica i molti codici che gli venne fatto di conoscere
e ne mette in chiaro l'importanza qospicua, facendo vedere come non pochi
brani di quel diario siano inclusi nelle Memorie del pontificato di Cle-
mente VII, che col nome di Patrizio De Rossi uscirono in luce nel 1837 e
furono riconosciute come una compilazione dal Ranke e da altri (1). Questo
primo volume allo storico delle lettere interessa solo indirettamente; ma
non sarà così del secondo, che si annuncia in corso di stampa, poiché ivi
si troverà uno studio, certo attraentissimo, Il sacco di Roma nella lettera-
tura. Quello ed il successivo volume recheranno pure, in gran copia, nuovi
documenti, raccolti in vari archivi sul sacco del '27. Il quarto volume darà
di esso la Bibliografia ragionata ed il quinto ne tesserà la Storia documen-
tata. Finalmente nel sesto sarà pubblicato una specie di album delle pitture,
sculture, incisioni, monete ecc., che al grande avvenimento si riferiscono. —
Come è facile vedere, l'opera non potrebbe essere più grandiosamente dise-
gnata, e noi auguriamo all'Orano il successo che meritano la sua laboriosità
ed intraprendenza.
* Il prof. Luigi Polacco dà opera, con innegabile vantaggio degli studiosi,
a rendere sempre più comoda e facile la consultazione della Commedia col
mezzo di quei prontuari, che son fatti possibili unicamente da una grande
pazienza ed accuratezza. Abbiamo di lui un eccellente rimario del poema,
che nel succedersi delle tre edizioni del Dante scartazziniano (commento
minore) si è venuto via via perfezionando. Proseguendo con ugual cura
amorosa in questi suoi lavori, egli è giunto dai Segnapagine danteschi,
editi dall'Hoepli, alle Tavole schematiche della Divina Commedia, Milano,
Hoepli, 1901, uscite da poco. Sono in tutto 54 tavole, 18 per cantica, nelle
quali trovasi disposto sinotticamente tuttociò che patisce una simile disposi-
(1) Sostanzialmente la lunga prefazione sviluppa ciò che in compendio già scrisse l'Orano me-
desimo nell'articolo Marcello Alberini e il sacco di Roma del 1527. Cfr. questo Giornale,
XXVI, 460.
476 CRONACA
zione. Ad esempio, per l'Inferno, vi sono tavole delle colpe, dei custodi e
ministri di punizione, dei peccatori, delle pene, delle voci dei dannati, della
topocronografia, delle frasi e sentenze, delle similitudini, delle corrispon-
denze fra i cerchi ed i canti. Nelle altre cantiche alcune tavole variano:
così pel Purgai, ve ne sono per gli esempi di virtù e di peccato e per le
meditazioni su Maria Vergine; così rispetto al Paradiso ve n' ha per le
varie forme di visione beatifica e pel crescere della bellezza di Beatrice. —
Degnissime di nota sono poi le sei tavole topografiche con cui il manualetto
si chiude, dovute all' ingegnosità di Giuseppe Agnelli. Semplificando i pro-
cedimenti dall'Agnelli medesimo sostenuti in un suo noto libro del 1891,
che fu esaminato in questo Giornale, 19, 159 sgg., egli ora ci dà una serie
di disegni originali e nitidissimi dei tre regni. Questi disegni sorpassano in
perfezione e compiutezza tutto quello che sinora si aveva: belli e opportuni
specialmente ci parvero quelli del paradiso, che rispondono ad un bisogno
vivamente sentito dagli studiosi della terza cantica. Va da sé che tanto nelle
tavole sinottiche del Polacco, come in quelle grafiche dell'Agnelli si fan
sentire certi concetti esegetici soggettivi, che in ogni ricostruzione dantesca
di necessità hanno la parte loro ; ma comunque sia, il libro è utile e in alto
grado raccomandabile segnatamente ai giovani.
* Il progressivo ingigantirsi delle riviste storiche, al quale è consolante
l'assistere, rende sempre più urgente il bisogno di averne degli indici ben
fatti, che agevolino la ricerca in quelle lunghissime serie di volumi. Nel
futuro Congresso internazionale di scienze storiche, che si terrà in Roma
nella primavera del 1902, sappiamo che la Sezione Vili (Storia medievale,
diplomatica e bibliografia) ha assunto l'ottima iniziativa d'indurre le prin-
cipali riviste storiche italiane a compilare i loro indici ad imitazione del-
YArch. stor. italiano e deìVArchirio stor. lombardo. Le riviste storiche
hanno aderito quasi tutte. Frattanto ci è grato l'annunciare che è finalmente
uscito in tiratura di 500 esemplari (prezzo L. 16!), l'atteso volume degli In-
dici trentennali della Nuova Antologia, dal 1866 al 1895, con aggiunti i
sommari per gli anni 1896-1900 (1). Il primo di questi indici è alfabetico
secondo i nomi degli autori degli scritti; il secondo è un indice delle
materie, condotto sui titoli degli articoli. Compilarono questo lavoro i dot-
tori Guido Biagi ed Enrico Rostagno, ai quali dobbiamo esser grati, se anche
non è questo l'ideale che in lavori simili si vorrebbe raggiunto. L'ideale è
nell'indice analitico dei nomi di persona e delle materie, quale noi ten-
tammo per i primi 24 volumi del Gioì-nale nostro e ritenteremo in seguito
forse, allorché la serie nostra raggiungerà i 50 volumi. Di questo genere è
anche la tahle mèthodique dei primi dieci volumi (1872-1881) della Romania.
Ora si annuncia che l'editore di quel periodico, quando abbia un numero
adeguato di soscrittori, intende rifondere la tavola dei primi dieci anni in
un indice analitico compiuto, che occuperà circa 600 pagine a doppia co-
lonna, e comprenderà le trenta annate della Romania dal 1872 al 1901.
Codesto grande indice sarà messo in vendita pei sottoscrittori al tenue prezzo
di franchi 10.
(i) L'indice gaaenle della vecchia Antologia, uscì, come è noto, nel 1863 (Firenie, Oheechl).
CRONACA 477
* Chi prenda in mano (ed è a sperare che ciò avvenga presto) il codice
Riccardiano 2932, contenente VAmor di Virtù, dramma d'una monaca fio-
rentina del sec. XVI, suor Beatrice Del Sera, in cui è spiritualizzato il
Filocolo del Boccaccio ; chi prenda in mano quel codice e consacri ad esso
lo studio critico che si merita, non dimentichi di rivolgere mestamente il
pensiero ad un giovine siciliano di precocissimo e gagliardo ingegno, che
su quel ms. preparava la sua tesi di laurea e che trascinato da una fatale
inclinazione patologica, fece violenza a sé medesimo e mori suicida il 9 mag-
gio 1898, egli bello, egli agiato, egli idolatrato dal padre e dalla sposa gio-
vinetta impalmata pochi mesi prima. Purtroppo, nella realtà della vita non
vale neppur l'amore (come, in un eccesso d'ottimismo, imaginò uno scrittore
pessimista) a riscattare dalla tristissima fatalità lo sciagurato che per ragioni
ataviche o per proprie condizioni vi è trascinato! Nell'opuscolo In memoria
di Giuseppe Ferrara nel terzo anniversario della sua morte, Palermo,
1901, il prof. Gian, che del Ferrara fu maestro nell'università di Messina,
dà conto de' suoi studi sul ms. delia Riccardiana e stampa un breve fram-
mento della dissertazione ch'egli veniva scrivendo. A questo gentile ricordo
aggiungono commemorazioni affettuose alcuni amici dell'estinto.
* Il giovine prof. G. Mari, le cui produzioni nell'arduo campo della ritmica
medievale furono di recente esaminate con cura in questo Giornale^ 38,
128 sgg., ha pubblicato integralmente in Germania (Erlangen, Junge, 1901)
una delle arti grammaticali più celebri nell'età di mezzo, quella di Gio-
vanni di Garlandia : Poetria magistri Johannis anglici de arte prosayca,
metrica et rithmica. L'edizione è condotta su due mss., l'uno di Monaco,
l'altro dell'abbazia di Admont. — Un'altra pubblicazione del Mari ha intento
divulgativo, ed è il suo Riassunto e dizionarietto di ritmica italiana, To-
rino, Loescher, 1901. Questo trattatello si schiera vantaggiosamente accanto
agli altri simili, che sono usati nelle scuole nostre, del Casini, del Guarnerio,
del Maruffi. Ha l'intento, come dice l'A. nell'avvertenza proemiale, « d'of-
« frire ai giovani una guida, la quale, nello studio della ritmica italiana, da
« una parte non pecchi di eccessivo empirismo, dall'altra, senza troppo farne
« mostra, si basi e si ordini sopra saldi principi scientifici ». Per questo
substrato di approfonditi studi scientifici, che è facilmente riconoscibile da chi
abbia qualche pratica nella materia, si avvantaggia indubbiamente d'assai
questo nuovo trattatello su quasi tutti gli antecedenti. Del buon gusto squi-
sito del M. in fatto a poesia può far testimonianza la scelta dei componi-
menti che gli servono per l'esemplificazione. La forma di dizionario, che ha
il trattato nella sua seconda parte, lo rende di comoda consultazione anche
alle persone colte e agli uomini stessi di lettere. È tenuto specialmente, ed
a buon dritto, in altissimo conto l'uso dantesco e petrarchesco. Il paziente
spoglio delle dieresi riscontrate nelle rime del Petrarca (pp. 102-119) può
offrir materia esso solo ad utili considerazioni.
* La dispensa 6*, ultima uscita, del Codice diplomatico dantesco ripro-
duce a facsimile ed in trascrizione i noti documenti dell'Archivio fiorentino,
che riguardano la ragunata dei fuorusciti bianchi e di altri ribelli in
S. Godenzo, l'anno 1302. Essi strinsero allora quel patto e fecero quel-
l'impresa sballata, a cui Dante accenna nel canto XVI 1 del Paradiso, non
QiornaU storico, XXXVIII, fase. 114. 31
478 CRONACA
dissimulando il fiero disgusto con che egli si ritrasse dalla « compagnia
« malvagia e scempia ». Tra altre curiosità, qui è pur riprodotta una iscri-
zione, riguardante certa caccia data a Federico Barbarossa dagli Ubaldini
nel 1184, murata nel castello della Pila. Su queir iscrizione, che sarebbe
preziosa se fosse autentica perchè buona parte ne è scritta in volgare, è qui
riferito il giudizio del Rajna, il quale pure non esita a riconoscervi una
manifesta falsificazione d'età posteriore.
* Nel volume Per l'infanzia povera edito in Genova in quest'anno 1901,
Vittorio Gian illustra Un epinìcio genovese del dugento. Si tratta del
poema latino di più di mille versi, che il notaio genovese Orso o Ursone
compose per celebrare la vittoria ottenuta nel 1242 dai suoi concittadini
contro gli esecrati Pisani alleati a Federico II. E un vero canto dell'odio, di
cui il G. esamina il contenuto e l'arte, collocandolo nel posto che gli spetta
in quella specie di rinascimento medievale della poesia latina che precedette
la rinascita vera e propria. 11 G. fece bene a richiamare l'attenzione su quel
componimento, perchè un tempo lo si credeva perduto, e perchè anche dopo
le due edizioni che ne furon fatte verso il mezzo del secolo testé trascorso,
nessuno se n'era occupato di proposito.
* Si annuncia come di prossima pubblicazione un libro di Alfredo Pie-
ralli su La vita e le opere di Jacopo Nardi.
* Pel sessantesimo anniversario del prof. P. A. Geijer si pubblicò in
Isvezia (Upsala, 1901) un volume miscellaneo di Uppsatser i romansk filo-
logi. Gli studi che vi sono contenuti riguardano più specialmente la lette-
ratura francese, alla quale i romanisti scandinavi sogliono volgere di pre-
ferenza la loro attenzione. Un solo scritto concerne cose italiane, quello di
Fr. Wulff, Petrarcas fòrsta redahtion af canz. « Che dehb'io farit.
* Tesi di laurea e programmi: G. Searles, Bojardos Orlando innamorato
und scine Beziehungen zur altfranzósischen erzdhlenden Dichtung (laurea ,
Lipsia); H. Huttinger, Studia in Boetii carmina collata (progr. ginn.,
Regensburg); 1. Dostal, Ueher Identitdt und Zeit von Personen bei Ye-
nantius Fortunatus (progr. ginn. , Wiener Neustadt) ; P. Herthum, Die ger-
manischen Lehnwórter ìm Altitalischen\ vor allem in Dantes Div. Com-
media (progr. ginn., Arnstadt); A. Waechter, Les sources du Tartuffe de
Molière (progr. ginn, reale, Erfurt); P. Kupka, Zur Chronologie und
Genesis des « Roman de la rose* (progr. scuola reale, Gardelegen); Liese,
Der altfranzósische Roman « Athis et Prophilias » verglichen mit einer
Erzdhlung von Boccaccio (progr. ginn, reale, Gòrlitz: si tratta della no-
vella X, 8 del Decameron); Schròder, Dante und die hòhere Schule
(progr. ginn., Kòslin); G. Knoth, Ubertino von Casale, ein Beitrag zur
rèligidsen Literatur des Franzishanerordens (laurea, Marburg); G. Marti-
nenche. La comédie espagnole en France de Hardy à Racine (laurea,
Parigi: questo lavoro importante per ogni studioso di cose drammatiche è
recensito da G. Lanson nella Revue d'hist. lift, de la France, Vili, 332).
* Pubblicazioni recenti:
Arturo Magnocavallo. — Marin Sanudo il vecchio e il sìm progetto
CRONACA 479
di crociata. — Bergamo, Istit. ital. d arti grafiche, 1901 [Ottimo saggio sulla
vita e sulle peregrinazioni del grande viaggiatore, che fa vivamente deside-
rare l'edizione critica del Liber secretorum fidelium Crucis promesso dal M.
Cotesta edizione, fornita opportunamente di riproduzioni di carte geografiche
antiche, sarebbe di capitale interesse per gli studiosi delle crociate e di to-
pografia dei luoghi santi].
Le mistiche nozze di S. Francesco e Madonna Povertà, Allegoria fran-
cescana del secolo XIII edita da Salvatore Minocchi. — Firenze, Bibl. scient.
religiosa,^ 1901 [Versione trecentistica del Commertium, su cui vedi Giorn.,
37, 394. E il testo medesimo che già nel 1848 pubblicarono il Bindi ed il Fan-
fani; ma nella nuova ediz. è più fedelmente riprodotto da due antichi mss.].
Enrico Gochin. — Un amico del Petrarca. Le lettere di Francesco Nelli
al Petrarca. — Firenze, Le Mounier, 1901 [Con parecchi ritocchi, ricom-
pare tradotta in italiano la notevole pubblicazione del 1892, di cui fu discorso
in questo Giornale^ 21, 400. 11 Gochin ha tenuto molto conto delle osser-
vazioni ivi fattegli. E il primo volumetto d'una Biblioteca petrarchesca di-
retta da G. Biagi e G. L. Passerini].
Angelo De Gubernatis. — Su le orme di Dante. — Roma, tip. coope-
rativa, 1901.
Giovanni Battista Barberis. — Jacopone da Todi. Carme e saggio sto-
rico-letterario. — Todi, tip. Fogliatti, 1901 [Non contiene alcun particolare
nuovo degno di nota].
Benvenuto Gellini. — Vt7a, trattati e rime. — Roma, Società editrice na-
zionale, 1901 [Edizione commerciale, con molte grossolane riproduzioni di
vedute e di opere d'arte svariatissime, che vorrebbero essere una illustrazione
grafica del Gellini. Questo libro fu immeritamente lodato anche in riviste
speciali di cose d'arte].
Francesco Sarappa. — La critica di Dante nel secolo XVIIL — Nola,
tip. sociale, 1901.
Dino Provenzal. — Quando furono scritte le satire di Lodovico Adi-
mari. — Rocca S. Casciano, Cappelli, 1901 [L'A., che sulla vita e sulle opere
dell'Adimari vien preparando uno studio, si vale qui dei criteri storici interni
per determinare la cronologia delle sue satire. Egli crede che siano state
composte nel decennio 1690-1700].
Umberto Leoni. — L' uomo politico nelV « Arnaldo da Brescia » di
G. B. Niccolini. Saggio storico letterario. — Róma, tip. Bertero, 1901.
Torquato Tasso. — / discorsi dell'arte poetica ; Il padre di famiglia e
L' Aminta, annotati per cura di Angelo Solerti. — Torino, Paravia, 1901 [In
questa edizione scolastica annotata rileviamo particolarmente le illustrazioni
che sono nella prefazione e nel commento aW Aminta. È lavoro ben fatto,
che riuscirà comodo e profittevole anche agli studiosi].
Bice Agnoletti. — Alessandro Braccesi. Contributo alla storia dell'uma-
nesimo e della poesia volgare. — Firenze, Seeber, 1901.
Tullio Ortolani. — Il canto di Farinata e Varie di Dante. — Feltro,
tip. Castaldi, 1901.
G. B. Gerini. — Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimottavo.
— Torino-Roma, Paravia, 1901.
Giormile storico, XXXVIII, fase. 114. 81 •
480 CRONACA
Alessandro Luzio. — Antonio Salvotti e i processi del ventuno. — Roma,
Soc. edit. Dante Alighieri, 1901.
Aurelio Ugolini. — Maestro Gregorio d'Arezzo e le sue rime. — Li-
vorno, Giusti, 1901.
Alessandro Tassoni. — Le lettere^ tratte da autografi e da copie e pub-
blicate per la prima volta nella loro interezza da Giorgio Rossi. Volume primo.
— Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua, 1901.
Elvira Guarnera. — Bernardo Accolti. Saggio biografico-critico. — Pa.
lermo, tip. Giannitrapani, 1901.
0. Mastrojanni. — G. Fontano e Carlo Vili. — Napoli, Marghieri, 1901.
Domenico Russo. — La lirica politica in Italia durante il primo pe-
riodo delle preponderanze straniere (1429-1559). — Torino, Marietti, 1901
[Lavoro superficiale e gremito di sfarfalloni].
Sebastiano Nic astro. — Alessandro Manzoni storico della rivoluzione
francese. — Pisa, Vannucchi, 1901.
G. Fabris. — Memorie manzoniane. — Milano, Gogliati, 1901 [Raccolta
di articoli prima sparsamente pubblicati, che riferiscono aneddoti ed altri
ragguagli del grande lombardo, messi insieme nelle conversazioni famigliari
avute con lui].
Wilhelm Greizenach. — Geschichte des neueren Dramas. Voi. II. —
Halle a. S., Niemeyer, 1901 [Riguarda il Rinascimento ed il periodo della
Riforma].
Riccardo Gai. — Intorno alle satire alla carlona dì m^sser Andrea da
Bergamo (Pietro Nelli di Siena). Appunti letterari. — Pistoia, tip. Nic-
colai, 1901.
M. Gerato. — La gelosia femminile in quattro tragici moderni. —
Roma, tip, Bertero, 1901 [Le quattro tragedie considerate sono la Rosmutida
dell'Alfieri, il Galeotto Manfredi del Monti, la Medea del Niccolini, la
(hsmonda da Mendrisio del Pellico].
An. Vicari. — Dell'opera poetica di Tommaso Grossi. Appunti. — Ga-
gliari, tip. Valdes, 1901.
Alfred Doren. — Studien aus der fiorentiner Wirtschaflsgeschichte.
Voi. 1. Die fiorentiner Wollentuchindustrie vom i4 his zum i6 Jahr-
hundert. — Stuttgart, Gotta, 1901.
E. L. L. HoRSBURGH. — Girolamo Savonarola. — London, Methuen, 1901
[Sul Savonarola è uscito pure in quest'anno (London, Glark) un libretto di
G. Mac Hardy].
Giuseppe Gagnone. — Pietro Gravina umanista del sec. XVI. — Ca-
tania, Giannotta, 1901.
Clelia Falconi. — La poesia civile di Giuseppe Giitsti. — Firenze,
tip. Salani, 1901.
Emma Tonini. — L'umorismo. Saggio letterario. — Livorno, tip. Giusti,
1901 [Si avverta pure che nel voi. Umoristi di A. Lo Forte Randi, Palermo,
Reber, 1901, v' ha uno studio su Rabelais e Folengo].
Giuseppe Orgera. — La similitudine nella Gerusalemme Liberata. —
Napoli, tip. Pesole, 1901.
Vittorio Fabiani. — Ippolito Neri. Studio biografico critico. — Firenze,
Seeber, 1901.
CRONACA 481
Pietro Piacenza. — Un curioso documento della giovinezza di Pietro
Giordani. — Piacenza, 1901 [Il documento si riferisce alla sua professione
di benedettino].
Emanuele Scano. — Saggio critico storico sulla poesia dialettale sarda.
— Cagliari, tip. Dessi, 1901.
0. Tescari. — Gli studi provenzali in Italia nella prima metà di questo
secolo. — Schio, tip. Marin, 1901 [Studia particolarmente il Perticari ed il
Galvani come provenzalisti].
Victor Ottmann. — Jakoh Casanova von Seingalt^ sein Leben und
seme Werke. — Stuttgart, Gesellsch. der Bibliophilen, 1900 [In uno splen-
dido volume in carta a mano sono qui riassunte le Memorie, è data una bi-
bliografia del Casanova, sono pubblicate alcune sue cose inedite trovate tra
le carte casanoviane del castello di Dux, fra cui una tragicommedia, il Po-
lemoscopio. Il libro non è in commercio. Se ne veda il resoconto di E. Mad-
dalena nella Rivista d'Italia dell'agosto 1901].
Edward Moore. — The DXV Prohecy in the Divina Commedia. —
Oxford, 1901 [In quella profezia vuol ravvisare il nome di Arrigo VII di
Lussemburgo. Che Dio lo benedica!].
f II 24 marzo 1901 si spegneva in Roma, dove era insegnante, Barto-
lomeo Fontana, nato in Alassio il 1» nov. 1835. I suoi primi lavori furono
di filosofia della storia, ma domiciliato in Roma s'invaghì di quel campo
fertilissimo ed ancor mal dissodato che consiste nelle vicende della ri-
forma religiosa in Italia. Parecchie monografie egli venne pubblicando su
questo soggetto, frutto delle sue indagini nei depositi romani, segnatamente
in quelli del Vaticano. Ne uscirono rischiarate la figura di Vittoria Colonna
ed ancor più quella di Renata d'Este, alla quale il Fontana consacrò l'opera
sua maggiore, in due volumi. Renata di Francia duchessa di Ferrara,
Roma, Forzani, 1889-1893 (cfr. Giorn., 25, 424). Non è certo libro perfetto
né definitivo; ma contiene materiale archivistico abbondante e prezioso. Non
solamente coloro che s'interessano alla storia della riforma, ma anche tutti
i cultori della nostra storia civile nel cinquecento e quelli che amano la
storia del costume vi troveranno molti particolari degnissimi di nota.
Luigi Morisbngo, Gerente responsabile.
Torino — Tip. Vixcbnzo Boka.
INDICE ALFABETICO
DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO
E DEGLI ANNUNZI ANALITICI
In QK^V indice, che abbraccia l'intera annata {vv. XXX VII
e XXXV III), sono registrati i nomi degli autori e degli
editori; i titoli delle opere sono dati per lo più in forma ab-
breviata. E nuwAiro arabo grande indica il volume; il
numero arabo piccolo designa la pagina.
Agostini A., P. Camesecchi e il
movimento valdesiano, 38, 205.
Alighieri D., Vita nova, ed. Passe-
rini e Canevazzi, 37, 140.
— V. Arte.
Anzoletti L., Maria Gaet. Agnesi,
37, 420.
Ariosto L., Orlando Furioso, edi-
zione A. Romizi, 37, 144.
Arlìa C, V. Machiavelli.
Armstrong E., L'ideale politico di
Dante, 38, 191.
Arte, scienza e fede ai giorni di
Dante, 37, 898.
Bacci 0., V. Gellini.
— V. D'Ancona.
Balladoro A., Novelline veronesi,
37, 449.
Bartoli F , Fulvio Testi, 37, 381.
Barzizza G., V. Orano.
Baumgartbn a. G. , Meditationes
philosophicae, ed. B. Croce, 38, 214.
Bazzi G., V. Grossi.
Begani 0., Fra Dolcino, 38, 220.
Bellezza P., Humour, 38, 234.
Beneducci F., Scampoli critici, se-
conda serie, 38, 215.
Benrath K., Julia Gonzaga, 38, 205.
Bernini F., Storia degli Animali
parlanti di G. B. Casti, 38, 229.
Biadego G., Pagine sparse di storia
letteraria veronese, 37, 177.
Biblioteca critica della letteratura
italiana dir. da F. Torraca, disp.
36-42, 38, 455.
Biblioteca storico-critica della lette-
ratura dantesca, dir. da G. L. Pas-
serini e da P. Papa, disp. 11-12,
38, 190.
Boghen-Conigliani e. , La Divina
Comynedia, scene e figure, 2» ediz.,
37, 165.
Bonola G., V. Manzoni.
Bracciolini P., v. Des Brandes.
Brush M. P., V. Uopo.
Burckhardt J., Civiltà del Rinasci-
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC. 483
mento, 2^ ediz. riveduta da G. Zip-
pel, 37, 412.
Calvo E., Poesie piemontesi, ed. L. De
Mauri, 38, 231.
Gampori M., V. Muratori.
Ganevazzi G., Papa Clemente IX
poeta, 38, 229.
— V. Alighieri.
Caponi G., Di A. Pazzi de' Medici,
38, 226.
Carbone L., Facezie, ed. A. Salza,
37, 405.
Gassi G., DelV influenza delV asce-
tismo medievale sulla lirica del
dolce stile, 37, 397.
Cazzato C, Una nuova proposta su
Matelda, 38, 221.
Cellini B., Yita, ed. 0. Bacci, 37, 378.
Cesareo G. A., Gli amori del Pe-
trarca, 38, 152.
— Su le poesie volgari del Petrarca,
38, 152.
Chi APPELLI L., Le dicerie di Matteo
de" Libri, 37, 134.
Chiuppani G., a. Zeno nelV erudi-
zione, 37, 169.
CiAN V., Varietà dugentistiche, 38,237.
Cima A., Reminiscenze dei Pr. Sposi
nel Quo vadis, 37, 174.
CiMEGOTTO e, V. DairOngaro.
Cipolla Carlo, Monumenta novali-
ciensia vetustiora, 38, 187. *
Cipolla Costantino, L'azione lette-
raria di Niccolò Y nel Rinasci-
mento, 37, 442.
Civita A., Ottavio Rinuccini, 37, 167.
Collezione di opuscoli danteschi ine-
diti 0 rari, dir. da G. L. Passerini,
disp. 61-63, 38, 190.
Concari T., Il Settecento, 37, HO.
CoTTAFAVi E., / seminari di Reggio
Emilia, 37, 172.
Cresgini V., Varietà filolog., 38, 447.
Croce B., Tesi fondamentali d'una
nuova estetica, 37, 437.
— G. B. Vico primo scopritore del-
V estetica, 38, 449.
Croce B., v. Baumgarten.
Curcio Bufardeci G., Su la vita let-
teraria di B. Castiglione, 38, 203.
D' Alencon e., Legenda brevis Sancii
Francisci e altri scritti francescani,
37, 353.
— Sacrum commercium beati Fran-
cisci cum domina Paupertate, 37,
394.
Dall'Ongaro Fr., Bue lettere ine-
dite, ed. Cimegotto, 37, 452.
D'Ancona A., Lettere d'illustri scrit-
tori francesi ad amici italiani,
38, 236.
— e Bacci 0., Manicale della lette-
ratura italiana, voi. IV, 2* ediz.,
37, 429.
De Marinis T., Trattato del tor
moglie o no, 37, 179.
De Mauri L., v. Calvo.
De Meis C, Lettere a B. Spaventa,
ed. G. Gentile, 37, 452.
Des Brandes P., Les facéties de
Pogge, 37, 405.
Diaz M., Le correzioni ali" Orlando
Furioso, 37, 166.
Digiacomo G., La vita e le opere di
A. Beccadelli, 37, 410.
Di Lorenzo N., Sul « Be partu Vir-
« ginis » di J. Sannazaro, 37, 409.
Donadoni e., Bi uno sconosciuto
poema eretico del cinquecento, 37,
419.
Donati B., Chiosa dantesca, 37, 452.
Dotti M., Belle derivazioni nei Pr.
Sposi dai romanzi di W. Scott,
37, 447.
D'Ovidio F., Studi sulla Biv. Com-
media, 38, 428.
Earle J., La vita nuova di Bante,
38, 191.
Ebner J., Beitrag zu einer Gesch.
derdramatischen Einheiten, 37, 99.
Faloci Pulignani M., Gli storici di
S. Francesco, 37, 353.
Farsetti K., Befanate del contado
toscano, 38, 233.
484 INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
Federn K., Dante^ 37, 398.
FiAMMAZzo A., Nel primo centenario
di L. Mascheroni, 37, 444.
FiLBLPO F., V. Orano.
FoÀ A., U amore in U. Foscolo^ 37,
172.
Foresti A., v. Panini.
FoRNACiARi R., Studio SU Dante y
2» ediz., 37, 440.
Frittelli U., G. A. de' Fandonia
37, 164.
— L. Pignotti favolista, 37, 450.
Galli E., La mobilia dun canonico
del sec. XV, 37, 452.
Garzia R., Un poeta latino del set-
tecento: Frane. Carboni, 37, 443.
Gentile G., v. De Meis.
— V. Spaventa.
Ghetti C, Notizia di A. Marchetti,
37, 168.
Greppi G., La rivoluzione francese
nel carteggio d'un osservatore ita-
liano, 37, 445.
Grimaldi V., La mente di Galileo,
38, 208.
Grossi T., Due lettere, ed. G. Bazzi,
37, 451.
Guidetti G., La questione lingui-
stica e Vamicizia di A. Cesari con
V. Monti ecc., 38, 209.
Hauvette H., Recherches sur le
€ De casibus virorum illustrium »,
38, 224.
Isopo (the) Laurenziano, ed. M. P.
Brush, 37, 371.
KocH Th. W., Catalogne ofthe Dante
collection presented by W. Fiske,
38, 442.
Kotliarevski H., Il dolore mondiale
alla fine del secolo scorso e al prin-
cipio del nostro, 37, 160.
Kraus F. X., Geschichte der Christ-
lichenKunst,\oin,P.l[,2n,4lb. j
Leopardi G., / canti ^ ed. M. Sche-
rillo, 37, 446. I
Levi G., Letterat. drammat., 37, 176. I
Libri (de') Matteo, v. Ghiappelli. !
Machiavblu N., Due madrigali,
ed. C. Arila, 38, 236.
Manqni a.. Codici savonaroliani a
Lucca, 37, 451.
Mandalari M., Aneddoto dantesco^
38, 237.
Mangiola B., Osservaz. al commento
dantesco del Casini, 37, 163.
Manzoni A., Carteggio con A. Ro-
smini, ed. G. Bonola, 37, 389.
Marchesi G. B., / romanzi delVor
baie Chiari, 37, 425.
Marengo L., L'oratoria sacra ita-
liana nel medio evo, 38, 198.
Mari G., / trattati medievali di rit-
mica latina, 38, 128.
— La sestina d'Arnaldo; la terzina
di Dante, 38, 128.
— Ritmo latino e terminologia rit'
mica medievale, 38, 128.
Marinelli O., Appunti di G. Ma-
rinelli per un glossario delle co-
lonie tedesche, 37, 178.
Mascetta-Garacci L., Poesia fem-
minile, 37, 178.
Mascheroni L., Invito a Lesbia Ci-
donia, ed. A. Mondino, 37, 170.
— V. Fiammazzo.
Massano e.. La vita di Fulvio Testi,
37, 381.
Mattioli L., Luigi Pulci e il Ciriffo
Calvaneo, 38, 225.
Mauro E., Un umorista del sei-
cento, V. Braca, 38, 451.
Medici (de') Lucrezia, Le laudi,
ed. G. Volpi, 37, 442.
Medin a.. Sonetti per la lega di
Cambrai, 37, 178.
Minocchi S., La < Legenda trium
€ sociorum », 37, 353.
Mondino A., v. Mascheroni.
MooRE E., L'autenticità della e Quae-
€ stio de aqua et terra », 38, 192.
Morbllini D., Matteo BandeUoy 37,
148.
Muellnbr K., Reden und Briefe
italienischer Humanisten, 38, 168.
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC. 485
Muntz E., Le musée des portraits
de Paul Jove, 38, 174.
Muratori L. A., Epistolario, ediz.
M. Gampori, voi. I, 38, 453.
Negri G., L'originalità del sig. Mar-
chese * », 38, 233.
Orano D., Due autografi di F. Fi-
lelfo, 37, 452.
— Lettera di Guinif. Barzizza a
Bianca M. Sforza, 37, 179.
Orgera G., Le satire di L. Ariosto,
37, 165.
Ortolani E., Il teatro di C. Ma-
renco, 37, 174.
OsTERMANN M., Il pensiero politico
di G. B. Niccolini, 37, 448.
— La poesia dialettale in Friuli,
37, 433.
Paquier J., Uhumanisme et la ré-
forme, J. Aléandre, 37, 155.
Paoli A., La scuola di Galileo
nella storia della filoso/la, P. I,
37, 158.
Papa P., L'ambasceria bolognese del
130 i a Bonifacio Vili, 37, 179.
— V. Biblioteca.
Pardi G., La moglie dell'Ariosto,
38, 228.
— Titoli dottorali conferiti dallo
Studio di Ferrara, 38, 226.
Parini G., Sonetto nuziale, ed. A. Fo-
resti, 38, 237.
Pariset G., Ancora le poesie latine
di F. Berni, 37, 167.
Pascoli G., Sotto il velame, 38, 398.
Passerini G. L., v. Alighieri.
— V. Biblioteca e Collezione.
Pellegrini Fl., Sette sonetti morali
di Fazio degli liberti, 37, 177.
Pintor F., Un antica farsa fioren-
tina. 38, 236.
Porena M.. Dante e Geri del Bello,
37, 163.
Provenzal D., i riformatori della
bella letteratura italiana, 37, 421.
— Una polemica diabolica nel se-
colo XVIII, 38, 231.
j Raccolta di studi critici dedicata ad
I A. D'Ancona, 38, 458.
j Rago S., Benedetto Manzini e le sue
I satire, 37, 443.
j Rasmussen e., Giacomo Leopardi,
\ 37, 445.
i Reinhard A. F., Die Quellen der
j Narbonesi, 37, 442.
Renard G., La méthode scientifique
de l'histoire littèraire, 37, 435.
Riccio G. A., Gregorio Correr, 38,
224.
RiNiERi L, Della vita e delle opere
di S. Pellico, voi. Ili, 38, 211.
RizzACASA d'Orsogna G., L'aiuola
che ci fa tanto feroci, 38, 446.
— La concubina di Titone, 37, 402.
— La foce che quattro cerchi giugne
con tre croci, 38, 194.
RoDOLico N., Una petizione delle
j arti dei tintori ecc., 37, 452.
j RoMizi A., V. Ariosto.
I RoSxMiNi A., V. Manzoni.
I Rossi M., Filippo Sassetti, 37, 151.
j RuFFiNi F. , La libertà religiosa,
I voi. 1, 37, 176.
j RuNGE P., Lieder und Melodien der
j Geissler, 37, 137.
j Russo V., Per l'autenticità della
« Quaestio de aqua et terra », 38,
i 190.
Sabatier P., Tractatus de indulgen-
tia S. Mariae de Portiuncula, 'SI,
353.
Sabbadini R., L'invettiva di Guarino
contro il I^iccoli, 38, 236.
Salomone-Marino S., Canzuni sici-
liani del sec. XVll, 38, 237.
I Salza A., Sui frammenti del Ri-
j naldo ardito, 38, 235.
j — v. Garbone.
I Sanvisenti B., Sul poema di Uggeri
I il Danese, 37, 441.
Sartorio G., Luigi Carrer, P. I :
La vita, 38, 179.
Savorini L., La leggenda di Gri-
I selda, 38, 222.
486 INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
ScARANO N.» La concubina di Tifone,
38, 445.
ScHERiLLO M., Il nome della Bea-
trice amata da Dante, 38, 221.
— V. Leopardi.
Schiavo G., L' indugio di Casella,
38, 236.
Serena A., Gli epigoni dei Granel-
leschi, 37, 446.
— Pagine letterarie, 38, 233.
SiCARDi E., Gli amori molteplici e
V amore unico del Petrarca, 38,
152.
Solmi E., Leonardo, 38, 201.
Spaventa B. , Scritti filosofici, ed.
G. Gentile, 37, 448.
Supino I. B., L'arte di B. Cellini,
38, 227.
Symonds J. a., Il rinascimento in
Italia. L'èra dei tiranni, 37, 415.
Terlizzi M., Studio su la Cecilia di
A. Manzoni, 37, 179.
ToRRACA F., Le donne italiane nella
poesia provenzale, 38, 140.
Toynbee P., Benvenuto da Imola
and his commentari/, 37, 440.
Tri A U., Un vescovo molisano del
sec. XVIII, 37, 171.
Uberti (degli) Fazio, v. Pellegrini.
Van Ortroy F., Varie opere di sog-
getto francescano, 37, 353.
Vattasso M., Aneddoti in dialetto
romanesco, 38, 223.
Vigo P., Le danze macabre in Ita-
lia, 2* edizione, 38, 195.
Vismara F., L'invettiva degli umor
nisti, 38, 200.
Volpi G., v. Medici.
Zacchbtti G., Briciole dantesche,
37, 403.
— La fama di Dante in Italia nel
sec. XVIII, 37, 125.
Zanelli a.. Del pubblico insegna-
mento in Pistoia, 38, 163.
Zippel G., Un umanista in villa^
37, 452.
— V. Burckhardt.
Zecco I., Spigolando, 37, 175.
m
INDICE DELLE MATERIE DEL XXXVIII VOLUME
COSMO U., Frate Pacifico, rex versuum Pag. 1
LUZIO-RENIER, La coltura e le relazioni letterarie d'Isabella d' Este Gonzaga.
II. Le relazioni letterarie. — 5. Gruppo emiliano » 41
Vi si discorre di: Diomede Guidalotti — Floriano Dolfo — Filippo Beroaldo il
giovine — Giovanni Sabadino degli Arienti — Girolamo Casio (pittori
Costa e Francia) — Panfilo Sasso — Jacopo Cavìceo — Antonio Cornaz-
zano — Gualtiero di San Vitale (Ludovico Panizza).
BYlRTOm Q., Nuove rime di Sordello di Goito » 269
SALZA A., Imprese e divise d'arme e d'amore neW * Orlando Furioso», con nO'
tizia di alcuni trattati del '500 sui colori » 310
VARIETÀ
TO YNBEE P., « Camminata di palagio » and « naturai burella » {Inf., XXXIV, 97-99) » 71
CIAN V., Ancora di Giovanni Muzzarelli. La « Fabula di Narciso » e ie « Cantoni
« e sestine amorose ■» » 78
MABCHESI G. B., Un rominzo satirico del settecento » 97
BELLEZZA P., Ancora una volta il Tasso e il Manzoni » 122
PIAZZA E., L'Alfieri e l'<t Accademia * di casa Oavard » 364
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
FLAMINI F. — Giovanni Mari, Ritmo latino e terminologia ritmica medievale.
Appunti per servire alla storia della poetica nostra. — Lo stesso, I trattati me-
diev.di ritmica latina.— Lo stesso, La sestina d'Arnaldo. La terzina di Dante » 128
BERTONI G. — Fbancesco Tobbaca, Le donne italiane nella poesia provenzale. —
La « treva » di G. de la Tor » 140
PELLEGRINI F. — G. A. Cesabeo, Su le <t Poesie volgari » del Petrarca. Nuove
ricerche. — Embico Sicakdi, Gli amori estravaganti e molteplici di F. Petrarca e
l'amore unico per madonna Laura de Sade. — G. A. Cesareo, Gli amori del
Petrarca » 152
MANACORDA G. — Agostino Zakelli , Del pubblico insegnamento in Pistoia
dal XIV al XVI secolo « 163
ROSSI V. — Karl Moellkeb, Heden und Briefe italienischer Humanisten . . » 168
CIAN V. — BoofesE MttSTZ. Le Muse'e de portraits de Paul Jove. Contributions
pour servir à l'iconograpUie du Moyen Age et de la Renaissance . . . » 174
BIANCHINI G.— GoiDo Sabtobio, Luigi Correr. Parte 1: La Vita . . » 179
FRACCAROLI G, — Giovanni Pascoli, Sotto il velame. Saggio d'una interpreta-
zione generale del poema sacro » 398
EENIER R. — Fbahcesco D'Ovidio, Studii sulla Divina Commedia ...» 428
488 INDICE DELLE MATERIE
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
e. CIPOLLA, Monumenta novaliciéntia fetusiiora, p. 187. — BibUoUca storico- criticn della Ut'
tiratura dantesca, dir. da O. L. Pasrebihi e da P. Papa, disp. 11-12, p. 190. — V. RUSSO,
Per l'autenticità della * Quaestio de nqua et terra •, p. 190. — Colletiotu diopuse. danteschi
inediti 0 rari, dir. da 0. L. Passebihi, disp. 61-63, p. 190. — G. RI2ZACASA DX)RSOGNA,
La foce che quattro cerchi giugne con ira croci nel 1 del Paradiso, p. 194. — P. VIGO,
Le dante macabre in Italia, p. 195. — L. MARENGO, L'oratoria snera italiana nel medio
evo, p. 108. — F. VISMARA, L'invettiva, arma preferita dagli umanisti, p. 200. — E. SOLMI,
Leonardo, p. 201. — G. CURCIO BUFARDECI, Su la vita letteraria del conU Baldassare
Castiglione, p. 203. — K. BENRATH, Julia Gonzaga, p. 205. — A. AGOSTINI, Pietro
Carnesecchi e il movimento valdesiano, p. 205. — V. GRIMALDI, La mente di G. OaliUi
desunta principalmente dal libro « De motu gravium », p. 208. — G. GUIDETTI, La que-
$tione linguistica e l'amicitia del P. Antonio Cesari con Vincento Monti, Francesco Villari
ed Alessandro Manzoni, p. 209. — I. RINIERI, DeUa vita e delle opere di Silvio Pellico,
Tol. Ili, p. 211. — A. G. BAUMGARTEN, MeditaUones phtlosophicae de nonnuUis ad poema
pertinentibus, p. 214. — F. BENEDUCCI, Scampoli critici, terìe 2«, p. 215. — T. WESLEY
KOCH, Catalogue of the Dante collection presented by Willard Fiske, p. 442. — N. SCA-
RANO, La concubina di Titone, p. 445. — G. RIZZACASA D'ORSOGNA, L'aimla che ci
fa tanto feroci, p. 446. — V. CRESCINI, Varietà filologiche, p. 447. — B. CROCE, Giam-
battista Vico primo scopritore dell'estetica, p. 449. — E. MAURO, Un umorista del seicento,
Vincenzo Braca salernitano, la vita e gli scritti, p. 451. — L. A. MURATORI, Epistolario
edito e carato da Matteo Cakpori, voi. I, p. 453. — Biblioteca critica della letter. italiana,
diretta da F. Tobraca, disp. 36-42, p. 455. — Raccolta di Studi critici dedicata ad
A. D'Ancona festeggiandosi il XL anniversario del suo insegnamento, p. 458.
ANNUNZI ANALITICI Pag. 220
Si parla di: 0. Begani. — C. Cazzato. — M. Scherillo. — L. Savorini. — M. Yattasso. —
H. Hauvette. — C. A. Riccio. — L. Mattioli — O. Pardi. — G. Caponi. — I. B, Supino.
-- G. Canevazzi. — F. Bernini, — D. Provenzal. — E. Cairo. — K. Farsetti. — G. Negri.
— A. Serena. — P. Bellezza.
PUBBLICAZIONI NUZIALI . . ' Pag. 285
COMUNICAZIONI ED APPUNTI
PÉLISSIER G. L., Le mobilier d'Alfieri à Paris, p. 238. — BERTANA E., La etnUssad'Al-
bany e Ugo Foscolo, p. 244. — RENIER R., Un riscontro al « serio accidente » per cut
indossò la tonaca padre Cristoforo, p. 247. — CIAN V., Xoticina dantesca. Il *eapp4Uo •
e la preghiera di Manfredi morente, p. 250. — SABBADINI R., Il * Paulus » di P. P.Ver»
gerio, p. 464.
CRONACA Pffy. 282, 4W
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA E DEL BOLLETTINO Pag. 482
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