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Full text of "Giornale storico della letteratura italiana"

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AT  THE 


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UNIVERSITY  OF 
TORONTO  PRESS 


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GIORNALE  STORICO 


LETTERATURA  ITALIANA 


VOLUME    XXXVIII. 

(2o  semestre  1901). 


ili      -^ 


GIORNALE  STORICO 


DELLA 


LETTERATURA  ITALIANA 


DIRETTO  E   REDATTO 


FRANCESCO  NOVATI  E  RODOLFO  RENIER 


VOLUME    XXXVIII, 


ORINO     /y   ' 


Casa  Editrice 

ERMANNO    LOESCHEE 
1901. 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


Turino  -  Ymosyso  Bowa.  Tip.  di  8.  H.  •  de'  Kit.  Principi. 


FRATE  PACIFICO 

REX  VERSUUM 


Corone  e  panegirici  non  portan  sempre  fortuna  !  Non  l'han 
portata  nemmeno  all'uomo  che  vogliamo  studiare,  il  quale  pure 

gettò  con  animo  risoluto  la  corona  lontano  da  sé,  e  le  lodi 

chi  gli  avrebbe  detto,  povero  frate,  che  un  giorno  de' tardi  e 
malsicuri  nepoti  l'avrebbero  tolto  fuori  dalla  pace  del  sepolcro, 
e  ricoperto  di  tutte  le  lodi  di  che  l'Italia  accademica  del  sei  e 
del  settecento  era  capace?  Ma  intanto,  per  naturai  reazione,  fatti 
scrupolosamente  guardinghi,  quanti  studiano  il  periodo  nel  quale 
egli  pure  visse  e  cantò,  quando  arrivano  a  lui  sogguardano  alla 
sfuggita  e  tiran  via  :  o  cotesto  frate  che  ci  sta  a  fare  nella  storia 
nostra  ? 

Ma  tra  le  scettiche  negazioni  degli  uni  e  le  risolute  afferma- 
zioni di  chi,  beato!,  sa  invece  di  lui  quanto  bisogna  a  tesserne 
una  copiosa  biografia,  perchè  non  ci  deve  esser  posto  per  una 
disamina  sincera  e  spassionata  che  porti  all'accertamento,  o, 
quando  occorra,  alla  negazione  di  tutti  o  di  parte  i  fatti  che 
intorno  a  lui  si  asseriscono? 

I  quali  purtroppo  sono  assai  pochi  per  la  nostra  curiosità,  e 
non  tali  da  permetterci  di  ricostruire  la  vita  dell'uomo,  la  fisio- 
nomia del  poeta.  0  poco  o  molto  però,  le  antiche  leggende  e  cro- 

OiornaU  stortco,  XXXVni,  fase.  112-113.  1 


2  U.  COSMO 

nache  francescane  di  frate  Pacifico  parlano  quasi  tutte:  e  tutte 
negli  scarsi  insegnamenti  che  danno  di  lui  esattamente  concor- 
dano insieme. 

Queste  fonti  sono  note:  la  legenda  di  fra  Bonaventura,  la 
2^  Cetani,  lo  Speculum  perfectionis.  Il  loro  valore  non  è  certa- 
mente lo  stesso;  valore  però,  per  il  riguardo  nostro,  ne  hanno 
tutte  senza  dubbio,  non  fosse  altro  perchè  si  compiono  insieme. 
Su  Pacifico  per  fortuna  non  cade  questione  di  parte:  spirituale, 
a  dir  cosi,  o  conventuale,  che  sia  la  fonte  che  ci  dice  di  lui, 
essa  è  pura  sempre,  quando  egli  è  fuori  dalle  lotte  di  parte. 

Attinsero  da  queste  l'autore  della  Chronica  XXIV generalium 
e  quello  delle  Conformilates,  poco  o  nulla  aggiungendo  di  nuovo. 
Questo  poco  lo  vedremo  lungo  la  via,  che  qui  non  è  il  caso  di 
parlarne,  come  non  è  il  caso  di  parlare  della  notizia  che  ci  dà 
Tommaso  di  Toscana  nella  sua  Chronica,  e  che  non  ci  pare  del 
resto  cosi  importante  come  pensa  il  Sabatier. 

In  quanto  alle  fonti  ascolane,  ne  parleremo  a  parte  in  apposita 
appendice.  Non  sarà  male  però  se  esprimiamo  sin  d'ora  su  di 
esse  il  nostro  risoluto  giudizio:  sono  fonti  del  tutto  inattendibili, 
che  hanno  purtroppo  intorbate  le  acque,  disviato  gli  studiosi 
dalla  verità,  e  fatto  sorgere  cosi  intorno  all'umile  fraticello  quel- 
l'aria di  sospetto  e  di  diffidenza,  che  forse  del  tutto  non  svanirà 
mai  più. 

Cominciamo  dunque  dall'accertamento  d'un  fatto  sul  quale  non 
può  cader  dubbio,  perchè  scaturisce  da  tutte  le  fonti.  Ci  fu  nei 
primordi  dell'ordine  francescano  un  cantor  e  facitor  di  versi,  che 
'abbandonò  un  giorno  il  mondo,  ove  sin'allora  aveva  cantato  e 
goduto  fama  grande,  per  vestire  l'abito  e  seguire  la  vita  del 
santo  suo  fondatore. 

Quando?  È  difficile  determinarlo  con  precisione;  ne'  primordi 
dell'ordine,  certo. 

Luca  Wadding,  al  quale  ritorniamo  ora  più  spesso  che  alcun 
tempo  fa  non  paresse,  scrisse:  nel  1212(1);  ma  è  data  da  un 


(1)  Avmalei,  ad  a.  1212,  n. 


FRATE    PACIFICO  3 

^pezzo  abbandonata  per  quella  che  è  parsa  più  certa  del  1221.  Pro- 
pose quest'ultima,  pensando  ad  un  errore  materiale  d'amanuense 
nel  Wadding,  il  padre  Gian  Alfonso  da  Mendrisio,  che  —  sia  detto 
di  passata  —  discorse  di  frate  Pacifico  con  critica  per  i  tempi 
suoi  dotta  ed  accorta,  e  primo  portò  avanti  dai  manoscritti  l'au- 
torità della  2'-  Celani  e  della  Cronaca  dei  24  generali  (i). 

Il  ragionamento  del  da  Mendrisio  riesce  a  tutta  prima  persua- 
dente. La  5*  Celani  scrive  che  quando  poeta  e  santo  s'incontra- 
rono la  prima  volta,  «  beatus  Pater  venerat  illuc  [ad  (juoddam  Mu- 
«  nasterium  Pauperum  inclusarum]  ad  Alias  cum  sociis  suis  (2)  ». 

Era  venuto  insomma,  dice  il  da  Mendrisio,  ad  un  convento  di 
Clarisse,  le  quali  nel  '12  certo  non  ci  potevano  anco  essere.  Di 
qui  la  facile  correzione  da  lui  proposta:  1212 >  1221. 

Che  conventi  di  Clarisse  nel  1212  non  ne  fossero  ancora  sorti, 
non  c'è  dubbio;  ma  non  c'è  dubbio  anche  che  la  data  del  '21 
fa  a  pugni  con  la  storia  francescana.  Il  da  Mendrisio  del  resto 
fece  dire  al  da  Gelano  quel  ch'egli  s'era  ben  guardato  di  dire: 
Quoddam  munasterium  pauperum  inclusarum.  Che  determi- 
nata specificazione  c'è  in  questa  incerta  perifrasi  per  poter  sosti- 
tuire con  sicurezza  un:  Clarisse^  Confessiamo  tutt'al  più  chela 
dizione  è  ambigua:  lo  aveva  del  resto  già  avvertito  fin  dal  suo 
tempo  San  Bonaventura,  e  risolutamente  corretto  l'equivoca  frase 
in  un  semplice:  monasierio  quodam.Di  che  ordine  egli  non  sa, 
come  il  Celano  non  sapeva. 

Perchè  il  da  Celano  quando  vuol  parlare  d'un  ordine,  che  infine 
è  lo  stesso  cui  egli  appartiene,  sa  ben  egli  come  appellarlo:  ordo 
pauperum  Dominarum  (3).  Il  quale  del  resto  è  il  nome  che 
compare  ne'  più  dei  documenti  del  tempo:  elle  poi  le  Clarisse  con 


(1)  Fr.  Gian  Alfonso  da  Mendrisio,  minore  osservante,  Yiia  del  b.  Pa- 
cifico Divini  da  S.  Severino,  Lugano,  per  gli  Agnelli,  1786.  Appendice, 
pp.  194-202. 

(2)  2»  Celani,  3,  49. 

(3)  1=»  Celani,  18,  (1,  Vili)  e ordinem  dominarum  pauperum,  ih.,  116 

(li,  X);  che  se  ciò  non  basta,  nella  2»  Celani,  3,  132,  c'è  un  intero  capilplo 
intitolato:  De  pauperihus  dominahus. 


4  U.   COSMO 

anche  maggior  precisione  e  modestia  si  chiamavano  da  sé  Pau- 
peres  Sorores.  Ma  incluse  mai  e  l'aggettivo  aggiunto  dal  Gelano 
serve  bene  a  precisare  che  se  povere  le  monache  rinchiuse  in 
quel  monastero  erano  forse,  Clarisse  certo  non  erano  (1). 

Ma  se  ad  alcuno  questo  parrà  un  arzigogolar  di  nomi  impotente 
a  indur  una  salda  persuasione  nell'animo,  la  storia  francescana 
negli  anni  avanti  il  1221  è  li  per  provare  subito  Timpossibilità 
di  questa  data. 

Non  è  questo  il  luogo  di  raccontar  le  condizioni  e  gli  avve- 
nimenti dell'ordine  francescano  nel  1217;  vegga  altri  se  vuole 
nell'Ehrle  e  nel  Sabatier,  per  citare  i  due  ultimi  che  si  sono  occu- 
pati dell'argomento,  la  narrazione  particolareggiata  dei  fatti.  Ma 
fatto  certo  è  che  dopo  il  capitolo  delle  stuoie,  nella  Pentecoste 
(14  maggio)  del  1217,  ove  fu  fissato  di  mandare  fratelli  ad  evan- 
gelizzare tutte  le  terre  della  Cristianità,  frate  Francesco  in  per- 
sona si  mosse  per  l'alta  terra  di  Francia.  La  amava,  voleva 
morire  in  lei;  lo  dice  a  noi  Tommaso  da  Gelano  (2).  Ma  a  Firenze 
il  cardinale  Ugolino  non  lo  lasciò  proseguire  più  oltre:  «  Et  sic 
«sanctus  redire  compulsus,  misit  in  Franciam  perfeclissimum 
<  suum  fratrem  Pacificum,  qui  primus  ibi  ministerii  offlcium 
«  gessit,  et  illam  provinciam  proinde  gubernavit  »  (3). 

Se  dunque  del  '17  o  tutt'al  più,  ed  è  già  uno  sforzare  le  date, 
sui  primi  del  '18,  San  Francesco  poteva  mandare  fra  Pacifico,  in 
vece  sua,  a  missione  alla  quale  egli  stesso  voleva  andare,  vuol 
dire  che  cotesto  frate  aveva  già  potuto  accaparrarsi  del  santo 


(1)  Per  le  gravi  difficoltà  di  questi  nomi  (si  badi  che  raggiunto  recluse  o 
incluse  ritorna  invece  nelle  Rolle  Pontificie)  vedi  specialmente:  Ed.  Lbmpp, 
Die  Anfdnge  des  Clarissenordens^  in  Zeitschrift  fùr  Kirchengeschichte^ 
t.  XIII  (1892),  pp.  181-245;  Sabatier,  Speculum,  pp.  320-21. 

(2)  2*  Gel.,  3,  129.  Gonfr.  Bonav.,  131. 

(3)  Chronica  XXIV  generalium  ordinis  minorum,  in  Analecta  frari" 
ciscana,  HI,  10.  Gfr.  Anal.  fìrane.,  II,  9,  n.  5  e  p.  xxx,  n.  3.  ~  Gfr.  Ehrlb 
in  Zeitsch.  fùr  Kathol.  Theologie,  anno  1887,  XI,  725  e  seg.  —  Sabatier, 
Bistoire,  etc.,  p.  232  e  seg.  E  per  tutti,  Sabatier,  Speculum  perfec,  p.  122 
e  nota. 


FRATE    PACIFICO  5 

l'afifetto  e  la  fiducia,  vuol  dire  che  era  già  ormai  passato  del 
tempo  dacché  egli  era  entrato  nell'ordine. 

Quando  dunque  c'entrò?  o  quando,  che  fa  lo  stesso,  avvenne 
la  sua  conversione  dal  mondo  e  dalla  poesia? 

Tutto  c'induce  a  tenere  per  esatta  la  data  del  Wadding  o  a 
prolungarla,  volendo  concedere  molto,  d'un  anno  :  1212  o  '13(1). 

Nell'accensione  meravigliosa  del  suo  spirito,  frate  Francesco 
ardeva  di  stringere  a  sé  il  mondo  intero,  per  farlo  tutto  devoto 
del  Signore  suo.  E  abbandonò  l'Italia,  cavaliero  d'una  nuova 
crociata,  la  crociata  dell'amore.  Ma  la  tempesta  lo  buttò  sulle 
spiaggie  della  Schiavonia  e  di  là  nell'inverno  dal  '12  al  '13  egli 
ritornò  all'Italia  sua.  L'Italia  non  aveva  meno  bisogno  che  le 
terre  degli  infedeli  d'essere  tornata  a  Dio. 

Era  la  primavera  del  1213  e  la  parola  del  frate  calda  di  fede 
e  di  amore  risonò  per  le  città  e  per  le  campagne  della  Marca. 
Nella  Marca  egli  era  stato  già  altra  volta  con  Egidio;  fioriva 
anche  allora  la  primavera  ed  erano  da  quel  giorno  passati  ap- 
pena quattr'anni  (1208)  (2);  non  ne  aveva  raccolto  però  che 
amarezze  ed  insulti.  Questa  volta  non  fu  cosi.  In  quegli  anni 
d'esercizio  la  parola  di  Francesco  si  doveva  essere  addestrata 
alla  predicazione,  e  poiché  usciva  calda  dal  cuore  scendeva  anche 


(1)  Chi  seguisse  la  cronologia  della  Chronica  Gener.  Min.  potrebbe  anche 
scrivere  che  fra  Pacifico  entrò  nell'ordine  dell'll  [An.  frane..,  111,7);  data 
che  confermerebbe  la  Chronica  del  Glassberger  {Anal.  frane,  II,  7)  che 
deriva  evidentemente  dalla  prima,  quantunque  aggiunga  qualche  leggera  mo- 
dificazione più  di  forma  che  di  sostanza.  Nel  bello,  quantunque  poco  cono- 
sciuto suo  lavoro,  Appunti  critici  sulla  cronologia  della  vita  di  S.  Fran- 
cesco (Oriente  Serafico,  Rivista  Sacra  francescana^  a.  YU,  1895,  p.  104),  il 
povero  P.  Patrem  mostra  di  propendere  per  il  13,  e  quantunque  non  ne 
dica  la  ragione,  l'autorità  grande  dello  studioso  a  noi  è  di  conforto  non  poco. 
Ad  ogni  modo  la  conversione  si  spiegherebbe  sempre  verso  i  primi  tempi 
dell'ordine,  mai  in  avanti.  Ma  ci  fu  tra  il  primo  viaggio  nella  Marca  e 
quello  che  noi  crediamo  secondo  (1212?)  un'altra  escursione  in  mezzo?  0  la 
conversione  di  Pacifico  avvenne  prima  che  San  Francesco  salpasse  per  la 
Schiavonia? 

(2)  Gonf.  Patrem,  1.  e,  pp.  334-35.  —  Tre  Socii,  33-34.  Il  Van  Ortroy 
non  crede  in  questa  prima  spedizione  apostolica  del  santo  e  osserva  che  la 
1*  Gel.  (29-30)  contradice  formalmente  ad  essa  (Anal.  Boll,  XIX,  174). 
Al  nostro  racconto  il  fatto  però  importa  poco. 


6  U.  COSMO 

profonda  nei  cuori.  <  Statim  namque  quamplures  boni  et  idonei 
«clerici  viri  et  laici,  fugientes  mundum  et  diabolum  viriliter 
€  elidentes,  gratia  et  voluntate  altissimi,  vita  et  proposito  eura 
«  secuti  sunt  >  (1).  to  dice  a  noi,  ed  è  preziosa  testimonianza,  il 
da  Gelano  nella  prima  sua  vita.  E  quel  clerici  viri  et  laici  a 
noi,  per  un  cumulo  di  ragioni  che  chi  sia  un  pò*  addentro  negli 
studi  francescani  troverà  immediatamente,  vuol  dire:  uomini  dotti 
ed  ignoranti.  Se  non  forse  è  parola  che  va  presa  nel  senso  suo 
pregnante  e  mentre  accoglie  il  significalo  che  noi  le  abbiamo 
dato,  non  esce  da  quello  più  comune  e  proprio. 

Il  tempo  che  «ingrediente  ipso  aliquam  civitatem,  letabatur 
«  clerus,  pulsabantur  campane,  exultabant  viri,  congaudebant 
«  femine,  applaudebant  pueri  et  sepe  ramis  arborum  suraptis 
4:  psallentes  ei  obviam  procedebant  »  (2)  non  era  forse  anco  ve- 
nuto, ma  che  la  sua  parola  si  traesse  ormai  dietro  turbe  di  gente 
avide  di  udirla,  parmi  non  si  possa  punto  dubitare. 

Cosi  sempre  lodando  il  Signore  e  predicando  il  santo  arrivò  à 
S.  Severino.  L'indicazione  del  luogo  là  dà  primo  Bonaventura, 
ma  è  indicazione  cosi  precisa  e  cosi  rispondente  alla  verità  dei 
l'atti,  che  parmi  si  debba  senz'altro  accettare  (3).  Specie  chi  pensi 
alle  informazioni  dì  Bonaventura,  attinte  direttamente  sui  luoghi 
e  da  chi  era  in  caso  di  saperle.  E  se  ne  venne  —  come  s'è  ve- 
duto —  a  un  monastero  di  donne  fuori  dalla  città.  Doveva  esserci 
qualche  festa  a  quella  chiesa;  certo  l'uomo  che  fu  poi  fra  Paci- 
fico c*erà  venuto  a  veder  una  sua  parente  con  un  codazzo  d'amici. 
Io  penso  a  una  dì  quelle  sacre  di  campagna  in  primavera  0  in 
autunno,  a  cui  i  giovani  corrono  a  frotte:  davanti  a  tutti  uno, 
col  suono  del  suo  stromento  e  con  canti  e  con  lazzi  fa  corta  la 
via.  Nel  Marchigiano  lo  chiamano  ancora  il  poeta  0  il  buffone: 
trasformazione  forse  non  ultima  dell'antico  giullare. 

Il  santo  predicava  e  tutti  erano  ad  udirlo,  ma  fra  tutti  o  per 
il  vestito  0  per  l'atteggiamento  0  per  altra  ragione  che  fosse, 

(1)  r  Celani,  56. 

(2)  !•  Celani,  62. 

(3)  Bonaventura,  50. 


FRATE    PACIFICO  7 

l'uomo  nostro  doveva  spiccare.  Mi  torna  a  mente  la  descrizione 
di  fra  Guidotto  :  «  bella  persona,  di  sciamito  vestito  ed  à  un  bel 
«  capo  biondo,  pettinato  con  bella  corona  di  ghirlanda  in  testa 
«  et  tiene  in  mano  uno  maraviglioso  stormento,  tutto  dipinto  et 

«  lavorato  di  vivorio acconcio  et  guardato  »  (1).  Tantoché  il 

santo  in  mezzo  alla  folla,  o  a  parte  più  tardi,  si  rivolse  diret- 
tamente a  lui,  e  gli  parlò  quelle  parole  che  egli  sapeva.  Gli 
agiografi  parlano  d'una  mirabil  visione  che  ebbe  l'uomo  in  quei 
momenti  o  poco  prima.  Vide  dunque  S.  Francesco  segnato  da  due 
spade  a  mo'di  croce.  La  spada  veramente  egli  la  senti  nel  suo 
cuore  e  fu  la  parola  del  Santo  ;  il  giorno  dopo  vestiva  una  rozza 
tonaca  anch'egli,  e  cambiava  il  suo  nome  in  quello  più  umile  e 
più  espressivo  di  frate  Pacifico  (2).  Il  nome  glielo  impose  il  Santo 
stesso,  vedendolo,  come  dice  bene  Bonaventura,  «  ab  irrequietu- 
«  dine  seculi  ad  Ghristi  pacem  perfecte  conversum  ». 

Ma  ora  le  domande  s'incalzano  anche  più  rapide  nella  mente, 
e  purtroppo  come  Don  Abbondio  noi  poco  o  nulla  sappiamo  ri- 
spondere. Chi  era  costui? 

Gli  storici  ascolani  non  si  confusero  per  cosi  poco  e  trovato 
neirUghelli  un  nome  d'uomo  e  una  patria,  li  appiopparono  senza 
altri  riserbi  al  nostro  Pacifico  :  Guglielmo  da  Lisciano.  Poco  ci 
vuole  ad  appagare  la  curiosità  erudita  di  chi  per  facile  ambi- 
zione municipale  ha  già  in  testa  la  risposta  ancor  prima  di  for- 
mulare nettamente  la  domanda.  Ma  chi  cerchi  nelle  testimonianze 
del  tempo,  e  solo  in  esse,  la  verità,  deve,  per  quanto  a  malin- 
cuore, confessare  che  il  nome  dell'uomo  noi  non  sappiamo  e  non 
sapremo  forse  più  mai.  In  quanto  alla  patria,  è  già  molto  se  si 
concede  che  probabilmente  egli  fu  marchigiano.  Erat  in  Marchia 
Anconitana,  dice  il  da  Gelano  (3)  e  la  concessione  troverebbe 
facile  conferma  nel  fatto  che  Pacifico  —  per  intenderci  lo  chia- 


(1)  Monaci,  Crestomazia  italiana  dei  primi  secoli.  Città  di  Castello,  Lapi, 
1889,  p.  159. 

(2)  2*  Gelani,  3,  49.  —  Bonav.,  50-51. 

(3)  2»  Celani,  3,  49. 


8  U.  COSMO 

meremo  d'ora  in  avanti  cosi  —  era  venuto  al  monastero,  ove 
s'imbattè  nel  Santo,  per  visitarvi  una  sua  parente  e  insieme  con 
molti  amici.  Era  ella  monaca  là  dentro  o  stava  li  presso?  Non 
è  dato  di  rispondere  con  certezza  alla  domanda.  Bonaventura 
che  precisa  il  luogo  dell'incontro,  nulla  ci  dice  sull'argomento, 
anzi  quasi  quasi  darebbe  adito  a  pensare  —  e  lo  dette  agli  eru- 
diti ascolani  —  che  Pacifico  venisse  di  lontano  (1).  Lo  Speculum 
tace  e  tacciono  sventuratamente  i  ire  Soci;  cosi  che  Bartolomeo 
da  Pisa,  che  pur  tanto  seppe  e  tanto  onesto  scrupolo  portò  nelle 
sue  ricerche,  rimane  peritoso:  credo  quod  de  Provincia  fuit 
Marche  (2).  L'Arturo  solo  nel  suo  Martirologio  ne  sa  di  più: 
hic.  Picenus  crai  (3)  ;  ma  con  l'Arturo  non  siamo  saliti  sin  dove 
né  volevamo  né  dovevamo  salire. 


IL 


Dopo  la  patria,  il  mestiere,  se  nell'incertezza  de'  testi  qualche 
cosa  é  possibile  di  ricavare. 

Tommaso  da  Gelano,  è  noto,  é  un  retore  che  si  compiace  d'ogni 
falsa  eleganza  di  stile,  onde  il  concetto  esce  spesso  dai  suoi  pe- 
riodi involuto  di  nebbia.  Pur  una  cosa  colpisce  subito  chi  cerchi 
in  lui  :  lo  sprezzo  onde  parla  del  vecchio  Pacifico  prima  che  la 
parola  dolce  del  Santo  lo  togliesse  dalla  via  per  la  quale  cosi 
spensieratamente  s'era  messo  (4).  Concediamo  pur  molto  all'effetto 
stilistico  con  tanta  cura  cercato  dal  raccontatore,  ma  anche  l'uomo 
del  quale  egli  scriveva  e  l'arte  di  che  egli  campava  la  vita  do- 
vevan  essere  bassi ,  perchè  il  raccontatore  non  si  peritasse 
di  adoperare  a  rappresentarne  la  fisionomia  morale  parole  cosi 


(1)  Bonaventura,  50. 

(2)  Conformitates,  ediz.  di  Milano,  1510,  1.  i",  fruct.  oct.  e.  71  b. 

(3)  p.  283  (10  luglio). 

(4)  2*  Gelani,  3,  49. 


FRATE    PACIFICO  9 

sprezzanti.  Quale  sia  cotest'arte  il  frate  non  dice  chiaro  ma  tra 
mezzo  a  quel  frascume  si  capisce  eh' è  l'arte  de' versi. 

Pacifico  era  dunque  poeta?  E  Tommaso  da  Gelano  credeva  la 
poesia  strumento  di  dannazione?  La  poesia  per  sé  stessa  non  era 
nò  sprezzata  né  dannata  dalla  Chiesa,  e  canti  e  suoni  frate  Tom- 
maso doveva  aver  udito  fiorire  sulle  labbra  del  Santo  stesso.  Ma 
c'era  una  classe  di  persone  che  la  Chiesa  sprezzava  e  dannava, 
e  frate  Tommaso  sotto  il  cappuccio  del  Francescano  rimaneva 
sempre  un  ecclesiastico.  Quale  fosse  il  giudizio  che  gli  eccle- 
siastici davano  della  multiforme  classe  dei  giullari,  io  non  ho 
bisogno  qui  di  ripetere,  che  troppo  esso  è  noto  a  chi  si  occupa 
di  tali  studi:  appaiati  con  le  meretrici,  e  con  le  meretrici  dan- 
nati (i).  Parlando  del  nostro  uomo,  Tommaso  raccoglie  jn  una 
frase  gli  elementi  di  questo  giudizio:  prostìtuerat  se  vanitati. 
Ma  scrivendo  anch'egli  di  tal  razza  di  gente  —  e  sia  questo,  tra 
i  molti  che  si  potrebbero  fare,  il  solo  ravvicinamento  —  il  Sa- 
resberiense  malinconicamente  esclama  dell'età  sua:  cor  prosti- 
tuit  vanitati  (2).  Ecco  perchè  «  l'arte  dei  giullari  è  tutta 
«  dannata  dai  santi  »  ;  ella  infatti  «  non  dice  altro  che  menzogne 
«  e  vanitadi  e  villanie  d'altrui  »  (3).  Prostituito  dunque  al  mondo 
e  «caduto  nell'abiezion  »  della  perdizione  era  Pacifico  (4). 


(1)  Cfr.  Acta  Sanctorum,  octobris,  IX,  698  e  seg.;  Gautier,  Les  épopées, 
II,  e.  21,  185-209.  Anche  qui  in  Piemonte  del  resto  e  non  da  gente  di  chiesa, 
lo  stesso.  Cfr.  ad  es.  De  zuglaris  autem  et  zuglaresis  et  meretricihus  dictum 
est^  ecc.  Historiae  patriae  monumenta  (Torino),  v.  XVI,  22  XL,  col.  1113. 
Per  i  giullari  di  Sicilia  v.  Cesareo,  Le  origini  della  poesia  lirica  in  Italia, 
Catania,  Giannetta,  pp.  31-37.  Ed  ora  mi  piace  rimandare  anche  a  quello 
che  ne  scrive  il  Novati,  Le  Origini^  pp.  14  e  seg. 

(2)  JoANNis  Saresberiensis,  Opera  omnia,  Oxonii,  1848.  Polycraiici,  1.  1, 
e.  8«,  p.  43. 

(3)  Prediche  del  beato  fra  Giordano  da  Rivalto,  Firenze,  Magheri,  1831, 
I,  124.  E  dopo  l'esempio  del  giullare  segue  quello  della  meretrice. 

(4)  Vabiectus  di  fra  Tommaso  non  corrisponde  al  nostro  semplice  abietto. 
San  Francesco  infatti  «  miserum  cogitat  revocare,  ne  pereat  qui  abiectus 
«  erat  »,  perchè  non  perisca  chi  ormai  era  caduto  nell'abiezion  della  per- 
dizione. 


10  ti.   COSMO 

Tote  sa  vie  est  en  ordresce 
En  puterie  et  en  viltesce  (1). 

E  abietti  i  compagni  di  lui,  formanti  la  vanorum  turba  soda- 
lium  che  insieme  con  lui  eran  venuti  alla  festa  davanti  il  mo- 
nastero. Che  è  parola  non  a  caso  ripetuta  dallo  scrittore:  e 
senza  voler  sofisticare  sul  fatto  che  sodalis  è  il  nome  che  assume 
il  compagno  del  giullare  (2),  è  bene  però  avvertire  come  il  vo- 
cabolo prese  facilmente  nel  medio  evo  un  senso  spregiativo  se 
non  anche  addirittura  cattivo.  Cosi  cattivo  a  volte,  da  arrivar 
perfino  a  diventare  sinonimo  di  eretico.  Per  amor  del  cielo,  però: 
che  alcuno  nella  interpretazione  del  nostro  testo  non  si  sogni  di 
arrivar  tanto  avanti.  Troppo  avanti,  forse,  siamo  arrivati  noi 
stessi  !  A  noi  basta  fermare  che  per  quell'uomo  il  Gelano  sente 
commiserazione,  per  l'arte  sua  sprezzo. 

Eppure  sulla  testa  di  quell'uomo,  lo  deve  egli  stesso  il  frate 
con  dolore  confessare,  s'eran  posate  le  mani  di  un  re  a  cingerla 
di  corona;  eppure  re  si  chiamava  lui  stesso  quell'uomo.  Fosse 
pure  re  dei  versi  soltanto,  in  ogni  modo  re.  Il  medio  evo  fabbri- 
cava volentieri  dei  re.  Nelle  lettere  o  ne'  mestieri,  tra  le  fatiche 
del  lavoro  o  fra  i  piaceri  della  vita,  tu  trovavi  sempre  un  re  (3). 
Re  dei  canonici  o  dei  ribaldi,  de'  cappellani  o  delle  fanciulle  amo- 
rose —  prendiamo  la  parola  all'antico  francese  —  dell'armi  o 
de' balestrieri,  re  della  scuola  o  de' versi,  questo  nome  significava 
però  sempre  il  primo  dell'ordine,  ed  era  sempre  da  chi  ne  aveva 
il  diritto  attribuito  (4).  Anche  il  re  di  Torelore  in  qualche  cosa 
si  distingueva:  noi  lo  diremmo  Geccosuda,  ma  nel  medioevo:  re. 

11  nostro  era  re  dei  versi.  Era  titolo  che  egli  stesso  nella  bai- 


(1)  P.  Meyer,  Le  cheoalier  de  Dieu^  in  BuUetin  de  la  Société  des  an- 
ciens  textes^  1880,  p.  58. 

(2)  <  Cantar  quidam  iocularis  ipsa  nocte  cum  sodali  sqo  apud  hospitium 
<  dormitum  ierat  ».  In  Acta  Sanct.,  septembris,  I,  722. 

(3)  L.  Passy,  Fragments   d'histoire   littérairey  Jehan  Bretel,  in  Btblùh 
ìègue  de  V Ecole  des  Charles,  t.  V,  p.  497. 

(4)  Vedi  DucANQE,  alla  voce  Rea. 


FRATE    PACIFICO  11 

danza  dell'arte  sua  si  era  orgogliosamente  assunto?  Certo  dinanzi 
a  tanta  pompa  l'umile  nome  di  battesimo  aveva  finito  a  poco 
a  poco  per  scomparire,  e  certo  di  tali  titoli  «  quod  —  come  di- 
«  rebbe  Buoncompagno  —  per  diversitatem  nominum  sint  magis 
«  famosi  »,  la  giulleria  non  era  scarsa  (1).  Nel  nostro  caso  però 
tutto  induce  a  credere  che  a  Pacifico  abbia  concesso  così  alto 
onore  chi  più  d'ogni  altro  era  in  diritto  di  farlo:  l'imperatore 
in  persona.  Sul  nome  di  questo  si  può,  se  cosi  piace,  rimanere 
incerti:  che  una  coronazione  sia  avvenuta  non  si  può  negare, 
se  non  si  riesce  prima  a  provare  che  i  testi  francescani  non 
hanno  a  questo  punto  più  alcun  diritto  di  essere  creduti.  Co- 
ronazione di  giullare,  s'intende,  e  forse  in  gara  con  i  colleghi 
suoi,  e  come  usava  nella  terra  che  de' giullari  era  stata  patria: 
non  imposizione  sul  capo  augusto  del  poeta  della  sacra  fronda 
peneia.  Albertino  Mussato  e  Francesco  Petrarca  sono  ancora  lon- 
tani (2).  È  lontano  l'uomo  cui  per  cultura  larga  e  svariata,  per 
sentimento  squisito  dell'arte  poteva  «  Romani  post  imperii  lin- 
«  guaeque  ruinam  »  sorridere  di  rinnovare  una  forma,  onde  si 


(1)  Giullari  o  trovatori  poco  importa.  Cfr.  ad  es.:  «  Girautz  de  Borneill... 
«  fo  apellatz  maestre  des  trohadors  »  (Diez,  Leben  und  Werke  der  Trou- 
badour,  Leipzig,  1882,  p.  HO).  Jean  de  Gondé,  più  tardo  però,  si  chiama 
des  menestrex  le  conte.  (In  Gautier,  1.  e,  li,  47).  Bernart  Amour:  lo  maestre 
(Jahrbuch  f.  rem.  Liiteratur,  XI,  12).  Adenes  :  le  roi  des  menestrels  (Hist. 
littèr.  de  la  France,  XX,  675-718).  Più  notevoli  perchè  più  antiche:  Un 
cantar  di  cui  ci  parla  Galfridus  Monmuthensis  (1.  !<>,  cap.  2,  citaz.  del  Du- 

cange  alla  parola  joculator)  perchè  «  omnes  cantores in  omnibus  musicis 

«  instrumentis   excedebat.  Deus  (dominus?)  joculatorum   videbatur  ».  Sul 

giullare  che  «  dès  la  fin  du  XII  siècie se  désignait  orgueilieusement  par 

«  le  nom  (yArchipoete  »  (Du  Méril,  Poesie  pop.  du  M.  àge,  p.  8)  e  sul 
nome  A" Archipoeta  in  genere,  cfr.  l'erudita  nota  del  Novati,  Indagini  e 
postille  dantesche.,  ecc.  a  pag.  109. 

(2)  Cfr.  le  pagine  bellissime  che  ha  scritto  da  ultimo  su  questo  argomento 
F.  Notati  discorrendo  de  La  suprema  aspirazione  di  Dante  (in  Indagini  ecc., 
pp.  73-113),  col  quale  ci  è  caro  di  trovarci  per  questa  parte  pienamente  d'ac- 
cordo. Sulle  coronazioni  medioevali  è  inutile  dopo  il  Novati  consultare  la 
4.  ponderosa  compilazione  Lancettesca  »,  e  invecchiati  molto  sono  oramai  gli 
«  excursus  »  del  Rossetti,  in  Carmina  Fr.  Petrarchae,  II,  p.  365,  e  del- 
l'HoRTis,  Scritti  inediti  di  F.  Petrarca^  Trieste,  1874,  pp.  13-15. 


12  U.  COSMO 

diceva  i  padri  nostri  essersi  compiaciuti.  Perchè  non  ci  può  essere 
dubbio;  quando  Pacifico  nostro  veniva  incoronato,  Federico  II,  se 
era  nato  —  ed  è  grande  concessione  l'ammetterlo  —  vagiva  in- 
fante nella  culla.  Di  qui  l'indeterminatezza  degli  antichi  biografi 
francescani:  Federico  II  l'avrebbero  rammentato  facilmente;  ma 
risalire  più  su  chi  sapeva?  Scrissero  che  l'imperatore  l'aveva 
coronalo  e  s'accontentarono;  non  il  nome  ma  il  grado  importava. 
Solo  più  tardi  il  Pisano  volle  al  grado  aggiungere  un  nome;  ma 
sbagliò  e  lo  sbaglio  suo  accettarono  molti,  magari  in  contraddi- 
zione con  quanto  avevano  scritto.  Ne  è  esempio  luminoso  il 
Wadding,  che  pur  avendo  fatto  entrare  Pacifico,  come  entrò 
realmente,  nell'ordine,  il  milledugento  e  dodici  quando  Federico  II 
non  era  ancora  imperatore,  lo  fece  coronare  nientemeno  che 
dodici  anni  dopo,  nel  ventiquattro,....  quando  Pacifico,  vecchio,  a 
Siena  si  beava  delle  contemplazioni  delle  cose  altissime  (1). 

Se  non  il  figliolo,  il  padre  dunque.  Perchè,  scartato  per  necessità 
di  tempo  Federico  II,  non  resta  che  Enrico  VI;  chi  non  voglia 
pensare  ad  Ottone,  e  sappia  poi  conciliare  questo  nome  con  la 
storia  e  di  questo  imperatore  e  del  nostro  giullare. 

Noi  siamo  avvezzi  a  riguardare  Enrico  VI  attraverso  i  cronisti 
nostri,  specie  meridionali,  e  la  storia  delle  crudeltà  sue  efferate. 
Ma  per  quanto  la  poesia  occitanica  sia  rimasta  in  genere  a  lui 
imperatore  contraria  (2),  sta  il  fatto  della  geniale  sua  cultura, 
onde  un  contemporaneo  potè  dire  di  lui,  con  un  poco  d'adula- 
zione si,  ma  senza  ombra  di  menzogna,  che  per  effetto  di  essa 

super  omnes  coetaneos videbaiur  pollere  {3).  Quando  non 

ancora  ventenne  egli  reggeva  l'Italia  per  il  padre  Federico,  si 
raccoglieva  alla  sua  corte  e  ci  portava  le  idealità  della  propria 


(1)  Conformi tates,  ediz.  cit.,  e.  71.»'  ;  Arthur,  Martirologium,  p.  283;  Wad- 
ding, ad  a.  1324,  n.  32  e  cfr.  ad  a.  1312.  Da  costoro,  naturalmente,  l'errore 
degli  storici  moderni. 

(2)  Cfr.  ToRRAGA,  Il  notaio  Giacomo  da  Lentini^  in  N.  Antologia,  ott. 
1894,  pp.  421-22. 

(3)  GoTiPREDi  ViTERBiENSis,  Pantheon^  in  Mon.  Germaniae  Hist.  XXII^ 
269.  Vedi  del  resto  questi  giudizi  raccolti  in  Toeche,  Kaiser  Heinrich  VI 
(Jahrbùcher  der  deutschen  Gesch.),  Leipzig,  1867,  pp.  501-02. 


FRATE    PACIFICO  13 

nazione  il  fiore  della  nobiltà  francese,  tedesca  ed  italiana.  Vecchi 
cavalieri  prò'  d'arme,  poeti  gentili  d'amore  erano  gli  amici  più 
cari  del  giovane  reggente.  Presso  di  lui  Federico  di  Bitch  e 
Bligger  di  Steinach,  del  quale  era  insegna  un'arpa;  con  lui  Fe- 
derico di  Hausen,  maestro  insuperato  fra  quanti  erano  trovatori 
di  corte  nell'atteggiare  il  canto  e  colorarlo  alla  foggia  fran- 
cese. «  Tu  esali  il  nettare  delle  muse  »  diceva  l'inglese  Gof- 
ifredo  ad  Enrico  quando  lo  pregava  di  volergli  liberare  il  suo  re 
prigioniero:  e  se  non  poeta  egli  stesso,  ammiratore  delle  dee 
e  diffondente  intorno  a  sé  un'attiva  vita  spirituale  il  giovane 
Hohenstaufen  era  senza  dubbio.  Ma  che  letizia  di  suoni  e  di 
canti  quando  Gostanza  normanna  mosse  sposa  allo  svevo  potente! 
Piovve  allora  alla  sua  curia  tutto  il  balaironum  et  histrionum 
collegium,  tutta  la  jaculatorum  turba  avida  di  regali. 

I  giullari  a  Enrico  VI  furono  senza  dubbio  accetti;  basta  per 
tutti  l'esempio  di  quel  Rupertus  ioculator  tanto  avanti  nelle 
grazie  del  re  da  potere  segnare  come  testimonio  i  documenti,  e 
che  doveva  essere  in  corte  di  tutto  un  po' forse:  musico,  gioco- 
liere, cantore  (1).  Or  s'altri  non  creda  che  de' canti  e  de' suoni 
di  Ruperto  soltanto  si  sia  rallegrata  la  corte  di  Enrico  VI,  è 
proprio  qui  che  noi  dobbiamo  cercare  Pacifico  nostro.  Gli  storici 
ascolani  in  questo  bene  si  apposero.  E  chi  cerchi  la  parola  degli 
scrittori  francescani  più  addentro  che  di  solito  non  si  faccia» 
può  anche  aggiungere  qualche  altra  notizia  all'essere  suo. 

Inventar  secularium.  cantionum  lo  dice  il  Gelano.  Ho  io  bi- 
sogno di  provare  che  cotesto  inventore  che  Bonaventura  ripete, 
è  adoperato  nello  stesso  senso  che  in  fra  Salimbene  quando 
chiama  Enzo  cantionum  inventar  (2)?  Nel  senso  che  troviamo 


(1)  €  Il  mestiere  di  cantastorie  si  è  appartato  affatto  da  quello  del  gioco- 
€  liere  »  scrisse,  riferendosi  a  tempi  più  tardi  Pio  Rajna,  Il  cantare  dei 
cantari,  in  Zeitschrift  fùr  romanische  Philologie,  223-24.  Noi  però  adope- 
riamo la  parola  giullare  in  tutta  l'estensione  del  significato,  e  qui  e  altrove, 
parlando  di  Pacifico. 

(2)  Chronica,  I,  156;  e  Federico  II  lo  dice  inventar,  e  :  sciehat....  cantilenas 

etcantiones  m^eniVe  »,  1, 166.  Ancora:  Mimus dictorum  elegantium  et 

rythmorum  pulchriorum  inventar.  Th.  Wright,  Latin  Stories^  p.  127. 


14  U.   COSxMO 

m' testi  del  tempo  frequentissimo  e  risponde  infine  sotto  ogni 
rispetto  al  dicitore  in  rima  dell'antico  volgarizzatore  opportu- 
namente ricordato  da  ultimo  anche  dal  Novati  (1)? 

Ma  Pacifico  non  era  soltanto  un  inventor  cantionum,  era 
anche  prinpeps  canianliMm  lasciva:  non  solo  componeva  i  suoi 
versi,  ma  sapeva  anche  come  nessun  altro  cantarli^.suoi  o  d'altri 
che  fossero.  Era  la  gaia  scienza  del  tempo,  e  scorrendo  le  vecchie 
biografie  de'  trovatori,  questo  è  l'elogio  in  che  c'imbattiamo  ad 
ogni  pie  sospinto  :  cantei  et  troì)et(2).  Ma  quantunque  sapesse  trop 
ben  violar  e  trohar  e  cantar,  Perigon  fo  joglar  (3);  non  lo 
scordi  a  proposito  di  Pacifico  nostro  chi  a  troppo  alto  ufiScio  lo 
volesse  innalzare.  Sull'essere  del  quale,  se  ci  rimanesse  qualche 
dubbio,  ci  conforterebbe  a  perseverare  nell'interpretazione  nostra 
l'autorità  dello  Speculum,  ove  due  volte  solo,  è  vero,  si  parla  di 
lui,  ma  sempre  con  parola  cosi  precisa  da  togliere  recisamente 
ogni  nostra  incertezza.  Perchè  tutte  e  due  le  volte,  coU'intenzione 
manifesta  di  caratterizzare  la  condizione  sua,  è  adoperata  la 
stessa  forma,  ed  è  detto  di  lui  che  in  saeculo  fuit  nobilis  et  cu- 
rialis  se  non  addirittura  un  valde  curialis  doctor  cantorum{4). 
Nobilis  et  curialis  sono  gli  aggettivi  che  insieme  vanno  nelle 
scritture  del  tempo  a  proposito  di  cotesti  cantores(^);  ma  chi 
anche  non  sente  che  il  doctor  cantorum  dello  Speculum  risponde 


(1)  «  Uno  grande  dicitore  in  rima,  il  quale  pello  suo  trovare  bellissimo 

€  era  chiamato  re  dei  versi  e  di  canzone  »  (Novati,  1.  e,  p.  105  in  nota). 

(2)  Per  altri  esempi  cfr.  D'Ancona,  Musica  e  poesia  nell'antico  comune 
di  Perugia  {N.  Antologia,  1875,  v.  XXIX,  p.  61  e  altrove).  Cfr.  anche 
ToRRACA,  La  scuola  poetica  Siciliana  (N.  Antologia,  nov.  1894,  p.  466).  Nel 
pensiero  e  nella  frase  l'elogio  di  P.  Vidal  è,  in  complesso,  lo  stesso:  cantava 
miels  com  del  mon  e  fo  bon  trobaire  :  e  lo  stesso   il  Da  Buti  viene  a  dire 

di  Guglielmo  II  re  di  Sicilia,  quando  lo  chiamava:  buono  dicitore  in  rima 

excellentissimo  cantatore. 

(3)  Raynouard,  Choix  despoésies  originales  des  troubadours,  t.  V,  p.  278. 

(4)  Sabatibr,  Speculum  ecc.,  pp.  108  e  197. 

(5)  BuoNCOMPAONo,  a  noi  rimasto  inaccessibile,  in  Gautier,  Les  épopèes 
frangaises,  11,  109,  di  un  arpatore  vel  rotatore  :  virum  curialem  pariter 
et  famosum.  Cos'i  Guidone  di  un  hystrio  :  doctorem  curialem  laudabilem 
atque  nobilem.  Gautier,  li,  108  -  Benvenuto  di  Casella;  famosus  cantor.... 


FRATE    PACIFICO  15 

nella  sua  precisa  stringatezza  alla  frase  pomposa  di  che  il  da  Ge- 
lano si  serve  ad  indicare  l'ufficio  prima  della  conversione  da 
Pacifico  esercitato? 

Sul  valore  di  doctor  s' è  fatto  un  gran  discutere  in  questi 
ultimi  tempi  da  alcuni  nostri  valorosi  maestri,  ma  anche  dopo 
i  loro  insegnamenti  è  lecito  osservare,  allargando  un'  osserva- 
zione del  d'Ovidio,  che  se  «  nel  De  Vulgari  Eloquentia  i 
«  doctores  sono  poeti  »  (1),  prima  di  Dante  i  maestri  non  si  peri- 
tavano d'affibbiare  questo  titolo  anche  a  persone  di  meno  alto 
affare  che  non  siano  i  poeti  da  Dante  nominati.  Cultori  di  poesia 
in  ogni  modo  tutti  quanti,  qualunque  fosse  il  nome  che  loro  ve- 
niva dato  (2),  e  tali  sempre  da  aver  in  se  virtù  di  poterla 
insegnare  agli  altri,  se  non  direttamente,  almeno  con  l'efficacia 


curialis.  Lo  stesso  lo  Arnaldo:  curialis  vir  Guillehertus  versibus  et  prosa  cu- 
rialissimus  (Henricus  Kuntidonensis,    De  contemptu  mundi,  e.  1°,  citaz. . 
Ducange).  e  Salimbene  sempre,  onde  ci  dispensiamo  dalle  citazioni. 

(1)  Rassegna  crit.  d.  letter,  ital.,  II,  224. 

(2)  In:  Bictamina  rectorica  magistri  Guidonis;  citazioni  derivate  dai  luoghi 
riportati  in  nota  per  altro  scopo  dal  Gautier,  II,  107-109:  «  Raimundum 
«  [hystrionemj  doctorem  curialem  laudabilem  atque  notum  >.  Al:  ^.  Do- 
«  ctorem  ....  licentiare  curavimus  magnis  donis  quod  cantando  etc.  »,  Un  cu- 
rioso riscontro  si  potrebbe  trovare,  come  gentilmente  mi  faceva  osservare 
R.  Renier,  nel  v.  il  della  2*  cobla  d'una  chanson  di  Guglielmo  Montànhagol. 
Consapevole  della  propria  originalità,  il  poeta  afferma  solennemente  com'è 
dato  di  parlare  d'amore  senza  ripetere  il  canto  di  chi  l'ha  preceduto  nel- 
l'arringo. 

Mas  en  chantan  dizo  Ih  comensador 

Tant  en  amor,  que  '1  nous  ditz  torn'  a  fays. 

Pero  nou  es,  quan  dizo  li  doctor 

So  que  alhor  chantan  no  dis  om  mays. 

(V.  JuLES  Goulet,  Le  trobQ,dour  Guilhem  Montànhagol.,  Toulouse,  E.  Privai, 
1898).  Non  tutti  i  poeti  dunque  sono  doctores,  per  riprendere  la  parola  latina  ; 
doctor  è  il  poeta  nobilis  et  curialis,  il  poeta  eccellente  insomma  dell'arte 
sua.  Il  quale  infine  è  il  senso  della  parola  in  Dante.  Gfr.  anche  De  Lollis 
in  una  sua  recensione  al  lavoro  del  Goulet  (Studi  di  filologia  romanza^ 
Torino,  1899,  VIII,  167).  Chi  guardi  bene,  del  resto,  i  testi  francescani 
possono  dare  di  per  sé  soli  il  preciso  valore  di  doctor  nel  caso  nostro. 
II  Gelano  dice  che  Pacifico  era  rex  versuum  perchè  :  inventor  cantionum  e 

princeps cantantium.  Lo  Speculum  ci  fa  capire  che  rex  versuum   era 

titolo  di  onore,  ma  tace  che  Pacifico  fosse  inventor  cantionum^  perchè  il 
concetto  gli  pare  implicito  in  rex  versuum.  Dice  solo  che  egli  era  doctor 
cantorum.  Dunque  :  princeps  cantantium  =  doctor  cantorum,  e    poiché   la 


16  U.   COSMO 

dell'esempio.  Tutto  sommato  dunque  l'osservazione  del  Novati  ri- 
mane vera:  «il  significato  primitivo  di  maestro  rimase  sempre 
«  il  più  comune  »  (1). 

'  Pacifico  pertanto  non  era  un  giullare  qualunque;  ma  dei  can- 
tores  che  allietavano  la  corte  di  Enrico  VI,  per  abilità  nel  trovare 
il  motto  e  il  suono  il  primo,  se  non  addirittura  il  maestro  loro. 
Questa  sua  virtuosità  ci  spiega  perchè  frate  Francesco  —  tanti 
anni  più  tardi  —  composto  il  suo  cantico  voleva  mandare  per  lui 
e  dargli  compagni  perchè  l'andassero  cantando  per  il  mondo:  il 
cantico  composto  da  frate  Francesco  egli  doctor  canto-rum  lo 
doveva  intonare,  mentre  insieme  doveva  a' fratelli  joculatores 
domini,  come  un  giorno  aveva  insegnato  ai  giullari  profani, 
insegnar  a  cantarlo.  Questa  virtuosità  ci  dice  il  favore  onde  era 
circondato  dal  principe  e  dai  compagni  di  lui;  questa  virtuosità 
in  tale  luogo  e  in  tale  condizione  di  vita  ci  spiega  la  cerimonia 
in  onor  suo  compiuta  e  il  nome  che  gliene  era  venuto.  L'anno 
della  coronazione  è  impossibile  precisarlo;  certo  non  prima  del 
1186  né  dopo  il  '90,  quando  il  giovane  Hohenstaufen  già  re,  in- 
sieme col  padre,  d'Italia,  per  la  morte  di  questo  cosi  miseramente 
spento  nelle  acque  del  Calicandro,  assumeva  le  redini  di  tutto 
l'impero.  Allora  —  nota  bene  il  Tocche  —  il  gaio  circolo  dei  Min- 
nesanger si  sciolse:  Federico  di  Hausen  aveva  trovata  la  morte 
anch'egli  laggiù  lontano  nell'Oriente,  ove  la  poesia  e  la  fede  al 
suo  imperatore  l'avevano  spinto,  e  se  Blicher  di  Steinach,  se 
altri  poeti  comparvero  ancora  alla  corte  imperiale,  il  freddo  che 
veniva  dalle  stragi  di  Sicilia  parve  aver  agghiacciato  ogni  fervore 
di  poesia.  Ma  negli  anni  della  reggenza  d'Italia,  in  quella  spen- 
sieratezza giovanile  e  quel  culto  dell'amore  e  dell'arte,  rievocare 
anche  in  Italia  consuetudini  fiorenti  di  là  dall'Alpi  e  dal  Reno, 


frase  dello  Speculum  è  senza  dubbio  più  precisa,  esso  ci  dà  la   più  sicura 
indicazione  dell'essere  di  Pacifico  prima  della  sua  conversione  ;  indicazione 
che  per  la  nettezza  onde  è  espressa,  per    la    sicurezza   della   frase   spoglia 
affatto  d'ogni  lume  rettorico,  ha  tutti  i  requisiti  della  credibilità. 
(1)  Hendiconti  del  R.  Jst.  Lomb.,  S.  II,  v.  XXX,  f.  IV,  p.  213. 


FRATE    PACIFICO  i7 

nella  dolce  terra  di  Francia  patria  dell'amore  e  della  poesia, 
testimone  il  fiore  della  baronia  delle  tre  nazioni,"  dovè  parer  bello 
al  giovine  re  (1)  e  anche  politicamente  opportuno.  Io  non  dico 
di  puis  alla  corte  di  Enrico  celebrati;  ma  un  convegno  di  giul- 
lari donde  Pacifico,  che  di  tutti  aveva  più  chiara  la  voce  e  facile 
la  vena  e  della  corte  era  musico  stimato,  usci  vincitore  coronato, 
ci  dovette  pur  essere.  E  dalla  vittoria  il  nome:  Rex  versuum. 
Il  quale  fece  a  poco  a  poco  sparire  l'antico;  ma  della  vittoria 
rimase  insieme  ricordo.  Come  spari  quello  del  re  che  l'aveva 
coronato,  divenuto  presto  imperatore  e  presto  sparito  egli  stesso 
dalla  scena  del  mondo;  mentre  più  tardi  la  lontananza  dei  tempi 
e  la  naturale  suggestione  che  usciva  da  lui,  per  la  luce  della 
poesia  che  l'aveva  circumfuso,  suggerì  un  altro  nome:  quello  di 
Federico  II. 

Ma  furono  italiani  i  versi  onde  al  giullare  venne  l'onore  di 
tanto  titolo?  certo  a  conferirglielo  ebbe  più  efficacia  il  canto  che 
la  parola  ;  ma  che  la  parola  fosse  in  volgare  pare  molto  proba- 
bile. Poeta  dotto  Pacifico  non  era  e  il  latino  forse  appena  capi  : 
né  che  abbia  trovato  in  provenzale  parmi  si  possa  ritenere, 
chi  pensi  che  la  singolarità  del  fatto  in  quella  età  e  in  quella 
regione  più  facilmente  ne  avrebbe  lasciato  memoria.  Il  Gelano 
e  Bonaventura  lo  dicono:  invenior  secularium  cantionum.  Se- 
cularis  non  è  volgare,  ma  il  volgare  è  la  lingua  dei  secolari  in 
opposizione  alla  lingua  dotta  dei  chierici.  Il  volgare  era  capito 
alla  corte  di  Enrico  VI  e  non  dal  re  solo;  tutti  in  ogni  modo 
capivano  il  canto  a  cui  esso  si  sposava.  E  se  di  giullari  l'Italia 
allora  non  difettava  (2),  giullare  contemporaneo  di  Pacifico  dovè 
essere  quel  toscano  del  quale  ci  resta  in  un  codice  Lauren- 
ziano  la  rozzissima  cantilena  (3),  e  aggirantesi  anch'egli,  almeno 
per  qualche  tempo,  e  poetante  per  le  Marche. 


(1)  Per  la  cultura  alla  coite  di  Enrico  VI  abbiamo  seguito  Toeche,  1.  e, 
p.  504  e  seg.  Ce  rimasto  inaccessibile:  Lachmann  und  Haupt,  Minnessdngs 
Frùhling^  citato  dal  Toeche. 

(2)  Cfr.  Rajna,  Le  origini  d.  famiglie  padovane,  in  Romania,  1875,  p.  163. 

(3)  E.  Monaci,  Sull'antichissima  cantilena  del  cod.  Laur.  S.  Croce,  XV, 


Giornale  siorico,  XXX VIU,  fase.  112-113. 


18  D.  COSxMO 

Più  sfortunato  di  lui,  se  non  forse  poi  che  si  rese  a  Dio  lasciò 
deliberatamente  cadere  tutti  i  suoi  versi,  ricordo  d'un' età  di 
peccato,  Pacifico  non  ha  lasciato  una  riga  a  ricordo  dell'arte  sua. 
Non  è  certo  una  sventura  per  la  storia  della  grande  arte,  ove 
le  cantilene  dei  friullari  non  hanno  luogo;  una  perdita  dolorosa 
è  però  certo.  <c  Si  poco  conosciamo  intorno  alle  condizioni  delle 
«  lettere  volgari  in  Italia  prima  del  secolo  decimoterzo,  che  anche 
€  le  briciole  per  noi  acquistano  valore  »  (1).  Avrem.mo  cosi  più 
compiuta  la  rappresentazione  di  «  quel  che  dovette  essere  nel- 
«  l'Italia  centrale  la  poesia  volgare,  che  preluse  all'avvenimento 
«  della  poesia  elaborata  dai  trovatori  e  dagli  scolastici  »  (2).  Però 
anche  cosi,  spingendo  le  origini  della  poesia  nostra  più  su  che 
comunemente  non  si  faccia,  è  sempre  intorno  a  questa  casa  di 
Svevia  che  se  ne  ritrova  alcuna  parte.  Ma  mentre  prima  era 
difficile  a  spiegare  in  modo  naturale  come  ad  un  tratto  intorno 
a  Federico  II  sbocciasse,  per  l'influenza  grande  di  lui,  addirittura 
tutta  una  scuola  poetica,  ora  possiamo  facilmente  capire  come 
anche  qui  ci  fu  un  graduale  svolgimento,  cosi  che  partendo  da 
umili  origini  a  poco  a  poco  si  arrivi  fino  allo  splendore.  Pacifico 
purtroppo  non  è  che  un  nome;  ma  è  il  nome  che  troviamo  a 
capo  di  quella  che  è  stata  la  prima  scuola  poetica  nostra;  che 
influenza  abbia  esercitata  non  sappiamo,  ma  sappiamo  che  nella 
Marca  ove  visse  e  cantò,  nacque  puie  e  passò  alcun  tempo  il 
figliuolo  di  chi  l'aveva  coronato  re  dei  versi.  E  se  è  vero  che  in 
questa  corte,  prima  ancora  che  Federico  ci  portasse  tutto  lo 
splendore  del  suo  genio,  noi  troviamo  anche  il  nome  d'un  altro 
poeta  nostro  antichissimo,  Odo  della  Colonna  (3);  se  è  vero  che 


6,  in  Rendiconti  della  R.  Acc,  dei  Lincei  {CI.  Scienze  Morali)^  S.  V,  v.  I, 
pp.  131-43.  Ma  ora  specialmente,  Torraca,  Su  la  più  antica  poesia  toscana, 
in  Rivista  d'Italia,  a.  IV,  fase.  2,  p.  229-49.  Col  quale  naturalmente  mi  è 
grande  conforto  il  ritrovarmi  d'accordo  nelle  conchiusioni  di  questo  capitolo  II 
(cfr.  Torraca,  p.  246  sg!)  per  la  riprova  che,  senza  averla  cercata,  ne  viene 
alle  mie  asserzioni  di  ordine  generale  sulla  poesia  al  tempo  di  Federigo  il. 

(1)  Monaci,  ib.,  p.  332. 

(2)  Monaci,  ib.,  p.  341. 

(3)  Vedi  la  nostra  seconda  appendice. 


FRATE    PACIFICO  19 

d'un' antichissima  canzone  nostra,  la  quale  nelle  Marche  e  nel- 
l'Umbria dovette  essere  nota,  noi  possiamo  con  tutta  sicurezza 
fissare  l'età  come  dei  primissimi  del  dugento(l):  allora  per  la 
luce  che  l'un  fatto  spande  sull'altro,  non  del  tutto  inutile  è  stata 
la  nostra  ricerca. 


III. 


Ma  dal  giorno  —  ad  usare  un'immagine  poetica  dell'Ozanam  — 
che  l'antico  re  dei  versi  celò  la  sua  testa  coronata  sotto  il  cap- 
puccio di  S.  Francesco,  furono  per  lui  sempre  mute  le  armonie 
che  aveva  tante  volte  destate? 

La  vita  di  lui  da  quel  momento  si  confonde  con  quella  del 
Santo  e  de'  suoi  seguaci,  e  non  ha  più  per  lo  storico  della  lette- 
ratura l'interesse  di  prima.  Pacifico  del  resto  non  era  il  primo 
né  fu  poi  l'ultimo  dell'arte  sua  resosi  a  Dio. 

Io  non  farò  qui,  che  sarebbe  vano  e  facile  sfoggio,  l'elenco  dei 
trobadors  e  ^q' joglars  provenzali  che  dato  l'ultimo  melan- 
conico saluto  à  Viróbar  e  à  V cantar ,  cercarono  la  pace  nelle 
mura  d'un  convento:  era  storia  frequente,  e  diceva  la  condizione 
psicologica  di  queste  povere  anime  di  reietti  (2). 

A  sentir  Ugo  da  San  Vittore,  però,  queste  conversioni  erano 
spesso  effetto  di  un  momento  di  leggerezza  e  poco  duravano  : 
facilmente  il  giullare  veniva,  facilmente  partiva  (3).  E  forse  per 
molti  era  cosi,  per  altri  però  la  conversione  fu  principio  di  san- 
tità. Ricordiamo  per  tutti  quel  Giovanni  Bono  di  Mantova,  che 


(1)  Vedi  la  nostra  terza  appendice. 

(2)  Vedi  una  lunga  serie  di  citazioni  riportate  dalle  biografie  de'  trovatori 
in  Gautier,  II,  217-218. 

(3)  «  Joculatores  ante  conversionem  leves,  cum  ad  conversionem  veniunt 
«  saepe  usi  levitate,  leviter  recedentes  »  Hugonis  de  Sancto  Victore,  De 
bestiis  et  aliis  rebus^  in  Patrol.  lat.  Migne,  t.  177,  e.  46. 


20  U.  COSMO 

fu  sino  ai  quarantanni  giullare  e  si  rese  poi  all'ordine  degli  ere- 
miti Agostiniani  (1). 

Quattr'anni  appena  dopo  la  sua  conversione  noi  già  vedemmo 
Pacifico  nostro  avviarsi,  insieme  con  fra  Agnello  da  Pisa,  primo 
ministro  dell'ordine,  nella  terra  di  Francia.  Ma  non  ci  dovè  stare 
a  lungo:  se  la  data  della  lettera  di  frate  Gregorio,  ministro  pur 
egli  dell'ordine  in  Francia,  corrisponde  a  realtà  (2),  frate  Paci- 
fico l'anno  dopo  era  già  tornato  in  patria  :  certo  negli  ultimi 
anni  egli  fu  compagno  del  Santo. 

Luminose  immagini  d'amore  gli  avevano  scaldato  l'estro  poetico 
ne* giorni  suoi  belli:  visioni  tutte  piene  di  spiritualità,  ma  pur 
sempre  d'amore,  gli  sì  accendono  ora  nel  cervello  infiammato  da 
fatti  onde  è  spettatore.  In  una  chiesuola  abbandonala  di  San  Pietro 
di  Bovara,  nella  vai  di  Spoleto,  ove  il  Santo  ha  passato  solo  la 
notte,  egli  è  rapito  il  mattino  in  estasi,  e  vede  fra  le  infinite 
sedie  del  Paradiso  una  più  bella,  più  lucente,  più  ornata  di  ogni 
altra  :  è  la  sedia  che  era  stata  di  Lucifero  e  sarà  di  frate  Fran- 
cesco. Inconscio  preparatore  d'una  delle  più  luminose  e  più 
malinconiche  insieme  fra  le  visioni  politiche  dantesche  (3). 

Altre  visioni  ancora  rifulgono  davanti  all'anima  dell'umile  fran- 
cescano ;  ed  egli  vìve  a  poco  a  poco  di  questa  vita  oltre  umana 
e  gli  par  di  sentire  la  voce  del  Dio  che  gli  spieghi  l'ideai  con- 
tenuto e  significato  di  esse  (4). 

Gli  è  che  questi  primi  compagni  del  Santo  ebbero  realmente 
come  lui  l'illusione  di  essere  in  diretta  comunicazione  con  Dio. 
Illusione  che  è  il  sustrato  fondamentale  psicopatologìco  del  misti- 
cismo, ed  è  causa  del  meraviglioso  che  intorno  alla  vita  di  un 
santo  più  tardi  si  sviluppa. 


(1)  Boll.,  Acta  Sanct.,  octobris,  t.  IX,  701  e  seg. 

(2)  V.  pubblicata  in  appendice  dal  Sabatier,  Specuhtm  ecc.,  p.  332  •  Mg. 

(3)  Speculitm,  ed.  Sabatier,  p.  108-10.  Cfr.  2*  Gel.,  3,  63  ;  Bonav.,  1W©. 
Di  qui  la  fonte  di  Paradiso,  XXX,  133-37.  Cfr.  U.  Cosmo,  Noterelle  fran- 
cescane, 1',  in  Giom.  Dantesco,  III,  1-2. 

(4)  Speculum,  ed.  cit.,  p.  HO  in  fine;  2*  Cel.,  3,  27. 


FRATE    PACIFICO  21 

Sulla  via  delle  visioni  frate  Pacifico  si  dovè  mettere  presto: 
era  da  poco  entrato  nell'ordine  quando  nell'accensione  della  sua 
fantasia  gli  parve  di  vedere  sulla  fronte  del  Santo  un  grande 
ihau  di  svariato  colore  (1).  Ma  ben  altri  segni  che  di  un  povero 
ihau  egli  doveva  ammirare  nel  Santo  suo:  e  con  che  ingenua 
curiosità  cercava  di  vederle  quelle  stigmate  che  dovevano  fare 
così  dolorosi  gli  ultimi  giorni  del  Santo  e  per  lo  strazio  del  corpo 
e  per  la  noia  de'  compagni  e  de'  fedeli  avidi  di  vedere  l'ultimo 
sigillo  (2).  Perchè  l'ultimo  anno  di  vita  del  Santo  e'  dovè  essere 
se  non  sempre,  certo  qualche  tempo  con  lui:  il  Santo  per  la  sua 
pietà  lo  chiamava  :  pia  madre  (3). 

Ma  ne' giorni  angosciosi,  quando  nell'anima  del  maestro  fiori 
spontaneo  il  cantico  delle  creature,  Pacifico  non  doveva  essere 
in  Assisi.  Io  non  voglio  qui  —  e  non  sarebbe  del  caso  —  entrare 
nella  spinosa  questione  che  il  Della  Giovanna  ha  con  tanto  acume 
e  con  tanta  scienza  risollevato.  Ma  poiché  anche  per  lui  sonvi 
nello  Speculum  non  pochi  luoghi  degni  di  fede,  quel  che  ri- 
guarda fra  Pacifico  mi  pare  senza  discussione  uno  di  questi.  Il 
luogo  infatti  non  riguarda  la  composizione  e  il  testo  del  canto, 
ma  dice  semplicemente  che  quando  San  Francesco  l'ebbe  com- 
posto «  volebat  mittere  prò  frate  Pacifico  qui  in  seculo  vocabatur 
«  rex  versuum  et  fuit  valde  curialis  doctor  cantorum  et  volebat 
«  dare  sibi  aliquos  fratres  ut  irent  simul  cum  eo  per  mundura 
«  predicando  et  cantando  laudes  domini  ».  E  colui  «  qui  sciret 
«  predicare  melius  inter  illos,  predicaret  populo  et  post  predica» 
«  tionem  omnes  cantarent  simul  laudes  Domini  tanquam  jocula- 
«  tores  Domini  »  (4).  Se  San  Francesco  «  volebat  mittere  prò  fratre 
«  Pacifico  »,  questi  evidentemente  non  era  in  Assisi,  ma  per  santa 


(1)  2*  Gel.,  3,  49;  Bonav.,  51,  ed  ora  anche:   Miracles  de  S.  Francois 
d'Assise  par  T.  de  Gelai^o,  A.nal.  Bolland.,  XVIII,  f.  Il,  p.  115. 

(2)  Thomae  Thusci,  Gesta  imperatorum  et  pontificum^  in  Monum.  Germ. 
hht,  scrip.  XXll,  p.  492;  2^  Gel.,  3,  76. 

(3)  Thomae  Thusci,  I.  e. 

(4)  Speculum,  p.  197.  Gfr.  quel  che   dice   la  Franceschina ,  in  Monaci, 
Crestomazia^  p.  31. 


22  U.  COSMO 

obbedienza  fermato  in  qualche  altro  luogo.  Ora  la  2*  Celarti  che 
in  questo  punto,  anche  per  chi  creda  nelle  sue  parentele  con  lo 
Speculum,  è  da  esso  del  tutto  indipendente,  presenta  Pacifico  a 
Siena  nella  primavera  del  '26.  L'accordo  de' due  testi  è  prova 
della  loro  veridicità;  e  mentre  ci  consente  di  trarne  un  nuovo 
fortissimo  argomento  per  l'esattezza  di  quanto  scrive  a  questo 
punto  lo  Speculum  sull'operato  di  San  Francesco,  ci  consente 
anche  di  pensare  che  Siena  fosse  il  luogo  al  frate  assegnato  dopo 
il  suo  ritorno  dalla  Francia.  Quivi  appunto  il  Santo,  ch'era  ve- 
nuto a  curarsi  il  suo  male  d'occhi,  lo  dovè  rivedere.  Il  cantico 
delle  creature  era  stato  composto  nell'autunno  dell'anno  avanti 
e  frate  Pacifico  non  l'aveva  probabilmente  ancora  udito.  Queste 
di  Siena  dovettero  essere  del  resto  ore  di  soave  intimità  fra  i 
due  uomini  (1);  il  vecchio  joculator  dispetto  a  Dio,  il  nuovo  che 
per  amore  di  Dio  si  voleva  fare  dispetto  agli  uomini.  Ma  a  fra 
Pacifico  i  ricordi  del  passato  dovevano  riuscir  tormentosi,  come 
d'un  tempo  mìseramente  perduto  e  che  solo  le  penitenze  aspre 
potrebbero  cancellare  davanti  al  Signore.  Io  non  so  se  egli  si 
possa  identificare  col  frate  qui  fuerat  in  seculo  citarista  e 
al  quale  San  Francesco  a  Rieti  prima  di  mover  verso  Siena, 
chiese  che  gli  sonasse  sulla  chitarra  rersum  honestum.  L'in- 
certa notizia  che  del  frate  è  data  e  che  per  Pacifico  il  Gelano 
non  avrebbe  usata,  non  permette  secondo  ogni  probabilità  l'iden- 
tificazione; ma  la  risposta  del  frate  riluttante  ad  accontentare 
l'ingenua  volontà  del  Santo  parmi  dipinga  quale  dovè  in  tante 
altre  circostanze  essere  il  sentimento  di  Pacifico:  «  verecundor 
«  non  modicum,  pater,  timens  ne  levitate  hac  suspicentur  ho- 
«  mines  me  esse  tentatum  »  (2). 

Dopo  quanto  abbiamo  detto,  è  quasi  inutile  l'osservare  che  a 
noi  non  par  nemmeno  valga  la  pena  d'essere  qui,  nonché  com- 
battuta, riferita  l'asserzione  di  coloro  che  prima  e  dopo  TOzanam 


(1)  2*  Gel.,  3,  76;  Thomas  Thusci,  1.  e,  p.  492. 

(2)  2»  Gel.,  3,  p.  66. 


FRA.TE    PACIFICO  23 

vollero  che  il  Santo  «  quando  improvvisava  le  sue  cantiche,  desse 
«  il  carico  al  novello  convertito  di  recarle  a  metro  più  esatto  »  (1). 
Come  se  frate  Francesco  sentisse  il  bisogno  di  costringer  dentro 
gli  artifizi  della  pedanteria  nostra  il  sentimento  irrompente  dal 
cuore  ;  il  cuore  ingenuo  che  non  conosceva  altra  legge  fuori 
che  l'impulso  proprio. 

Ma  questo  impulso  fece  balzar  mai  dal  cuore  del  vecchio  gio- 
coliere la  strofe  laudativa  del  Signore  o  del  maestro?  Dalla  lauda 
alle  creature  per  venire  a  quelle  molte  di  Jacopone  corre  in 
mezzo  un  tratto  lungo  di  via;  ma  è  via  incerta  per  la  quale  noi, 
almeno  perora,  non  ci  sappiamo  avventurare.  Pur  sarebbe  proprio 
da  gridare  al  miracolo  se  l'ardito  che  la  tentasse,  s'imbattesse 
in  una  loda,  in  una  preghiera  qualsiasi  uscita  dalle  labbra  di 
Pacifico  nostro?  0  se  il  nome,  che  è  più  probabile,  non  trovasse, 
dicesse  almeno:  qualcuna  di  queste  laudi  deve  infine  essere 
uscita  da  lui?  Sono  domande  e  non  altro:  il  Pacifico,  che  noi 
conosciamo  in  questi  che  pur  dovettero  essere  gli  ultimi  anni 
della  vita  sua,  è  un  frate  dimentico  di  sé  nelle  ebbrezze  della 
visione  d'un  rozzo  crocefisso  (2)  e  forse  e  più  nei  ricordi  della 
visione  reale  ch'egli  aveva  avuto  delie  stigmate  impresse  da  un 
amore  bruciante  nel  corpo  sfinito  del  maestro  suo.  E  quasi  più 
altro  non  sappiamo:  nella  loro  infinita  umiltà  questi  cavalieri 
dell'ideale  par  abbiano  fatto  di  tutto  per  occultarsi  a' nostri  occhi. 

A  Siena  certo  egli  era  ancora  nell'agosto  del  '27,  quando  Papa 
Gregorio,  scrivendo  alle  monache  di  Santa  Maria,  che  s'erano 
congratulate  con  lui  della  sua  esaltazione  alla  sedia  di  Pietro,  le 
afl3dava  al  figliuolo  suo  Pacifico  nell'amor  di  quella  croce  davanti 
alla  quale  pontefice  e  frate  piegavano  umile  il  capo  tutti  e  due. 
Abbeverata  di  fiele  l'anima  grande  del  pontefice,  sereno  il  frate, 
al  quale  non  fremevano  intorno  le  torme  de'  novi  crocifissori  di 


(1)  OzANAM,  /  poeti  francescani,  trad.  del  Fanfani,  Prato,  Alberghetti, 
1854,  p.  66. 

(2)  Thomas  Thusci,  1.  e,  p.  492. 


24  D.   COSMO 

Gesù  (1).  Il  frate  alle  pie  donne  del  monastero,  ai  fratelli,  era 
oggetto  già  di  venerazione.  E  qui  in  Siena  ne'  primi  anni  dopo 
il  '30  dovè  incontrarsi  con  lui  e  chiamarsi  beato  d'averlo  cono- 
sciuto Tommaso  Toscano,  autore  di  quella  Chronica  che  ab- 
biamo in  quest'ultima  parte  messa  tante  volte  a  partito.  Di 
Tommaso  poco  disgraziatamente  sappiamo  (2);  ma  poiché  egli 
nel  '45  era  cosi  avanti  nella  stima  dell'ordine  da  poter  accompa- 
gnare frate  Bonaventura,  generale  ministro,  al  concilio  di  Lione, 
e  l'opera  sua  si  estende  fino  al  1278,  nel  qual  anno  o  nell'anno 
appresso  fu  finita  di  scrivere,  non  par  davvero  peccare  di  so- 
verchia temerità  la  supposizione  nostra,  che  appunto  in  questi 
anni  intorno  al  '30  abbia  egli,  giovane  novizio,  conosciuto  il  vec- 
chio compagno  del  Santo. 

Giorni  tristi  correvano  allora  per  l'ordine  :  quelli  che  del  Santo 
erano  stati  interpreti  e  soci  si  tenevano  quasi  tutti  stretti  al- 
l'ideale che  con  tanta  fede  egli  aveva  proseguito;  ma  di  loro 
stessi  alcuno  e  de' nuovi  moltissimi  cercavano  e  s'avviavano  a 
nuova  forma  di  vita.  Generale  dell'ordine  era  frate  Elia:  grandi 
idee  certo  gli  infiammavano  il  cervello,  e  non  gli  mancava  la 
forza  per  attuarle;  solo  che  le  idee  sue  non  erano  più  quelle  del 
Santo,  anzi  ai  compagni  fedeli  di  questo  —  torto  o  ragione  che 
avessero  ciò  non  importa  —  ne  parevano  addirittura  la  negazione. 
Prosecutori  d'un  ideale  altissimo,  e  che  solo  a  pochissimi  è  dato 
raggiungere,  questi  amanti  ostinati  di  Madonna  Povertà  difesero 
la  propria  fede  con  l'animo  di  quegli  antichi  paladini,  onde  il  Santo 
tante  volte  aveva  loro  parlato.  Ma  frate  Elia  li  disperse:  «fratres 
«  sibi  resistentes  bine  inde  dispersit  »  (3). 

S'era  la  voce  di  Pacifico  come  quella  di  tanti  altri  alzata  a 
protestare?  Vecchio  era,  ma  le  energie  ribelli  dell'uomo  antico 
non  dovevano  in  lui  essere  ancora  spente  tutte.  E  se  veramente 


(1)  Bullarium  Franciscanum,  Romae,  MDCCLIX,    t.  I.  33-34.  Cfr.  Rai- 
NALDUS,  Annales,  ad  a.  1227,  nn.  64,  65. 

(2)  Vedi  nei  Monumenta^  1.  e,  p.  482-84,  raccolto  quel  poco  che  si  sa  dì  lui. 

(3)  Analecta  franciscana,  1,  18. 


FRATE  Pacifico  25 

parlò,  egli  che  del  Santo  era  stato  compagno  e  cui  il  papa  aveva 
additato  alla  venerazione  dei  Senesi,  dovè  bene  sentire  e  far  sen- 
tire che  grande  in  Siena  era  l'efflcacia  della  sua  parola.  Certo, 
vecchio  ornai  abbandonò  la  città  donde  forse  sperava  di  raggiun- 
gere presto  il  maestro  suo:  una  lettera  di  frate  Elia,  generale 
ministro,  lo  mandava  per  santa  obbedienza  nel  Belgio  lontano  (1). 
Di  là  dall'Alpi  era  andato  un  giorno  —  erano  ormai  più  che  sedici 


(1)  Dove  finì  i  giorni  suoi  frate  Pacifico?  Nessuno  ha  risposto  mai  con 
certezza  alla  domanda.  Si  può  intanto  escludere  con  sicurezza  che  sua  tomba 
sia  Venezia,  e  l'epigrafe  «  Anno  Domini  MCGGGXXXII  »  dal  Rodulfo  ri- 
portata in  Wadding,  ad  a.  1212,  n.  XLII,  si  riferisce  sicuramente  ad  un  altro 
Pacifico  pur  dell'ordine  dei  Minori,  per  il  quale  cfr.  Bollano,  die  VI*  Junii, 
802-3.  Il  Papini  {Notizie  sicure  ecc.,  Firenze,  1822,  pp.  141-42)  sospettò  si 
potesse  identificare  il  Pacifico  nostro  con  quel  Pacifico  «  uomo  di  grande 
«  santitade  »  del  quale  è  così  poetico  il  racconto  in  Fioretti^  cap.  XLVI. 
(Vedi  lo  stesso  racconto  in  Chronica  gen.  ministri,  ecc.,  ediz,  cit.,  p.  213,  e 
in  Conformitates,  ediz.  cit.,  carta  LXXl).  Secondo  questo  racconto  Pacifico 
sarebbe  morto  nel  luogo  di  Suffiano;  ma  di  un  fratello  suo  di  nome  Umile 
pur  entrato  nell'ordine  non  si  fa  menzione  nelle  cronache  francescane  ;  le 
Conformitates  e  la  Chronica  gen.  min.  nulla  sanno  della  morte  di  Pacifico, 
mentre  è  ovvio  pensare  che  se  uomo  di  tanta  fama  fosse  morto  nella  Marca 
sua  nativa  non  così  facilmente  se  ne  sarebbe  perduto  il  ricordo.  E  chi  legga 
specialmente  le  Conformitates,  dove  de'  due  Pacifici  si  parla  e  a  poche  carte 
di  distanza  Tun  dall'altro,  sente  subito  che  l'identificazione  è  impossibile.  Per 
noi  getta  un  vero  sprazzo  di  luce  su  tanta  tenebra,  e  su  esso  abbiamo  ri- 
costituito il  nostro  racconto,  quel  che  scrive  il  Gonzaga  {De  origine  Sera- 
phicae  religionis,  par.  3,  in  provincia  S.  Andreae,  conventu  IX,  1071),  ri- 
portato anche  in  Bollandisti,  Jul.  Ili,  die  decima,  p.  173-74:  «  fuerunt 
«  etiam  in  hoc  conventu  [Lemnensi]  litterae  obedientiales  eiusdem  Pacifici, 
«  consignatae  a  fratre  Helia,  generali  ministro:  sed  Franciae  ministri  Pro- 
«  vinciales  eas  hinc  transtulerunt  Peronam  Picardorum  ».  La  notizia  ha 
tutto  l'aspetto  della  credibilità;  non  si  capisce  infatti  la  ragione  d'una  falsi- 
ficazione, che  in  questo  caso  supporrebbe  un  falsario  peritissimo  della  storia 
francescana,  tanto  è  perfetto  l'accordo  dei  fatti.  Si  conservano  ancora  queste 
lettere?  Ecco  una  domanda  alla  quale  non  sappiamo  per  ora  rispondere. 
Certo  è  che  nel  convento  di  Lemps  la  memoria  di  Pacifico  vigoreggiò 
nei  secoli:  si  diceva  il  convento  fondato  da  lui  intorno  il  1220:  una  fonte 
d'acqua  saluberrima,  e,  nella  fede  degli  abitanti,  miracolosa,  portava  il  suo 
nome  e,  quel  che  è  di  più,  extra  gorum.  si  vedeva  «  vetustissimum  monu- 
«  mentum,  cum  huiusmodi  inscriptione  :  Sub  hoc  lapide  recondita  servantur 
«  ossa  sacra  beati  Pacifici,  ordinis  Minorum,  qui  ipse  primus  fuit  Provinciae 
«  Franciae  minister  »  (Boll.,  l.  e,  p    172-73).  Il  dubbio  è  via  che  conduce 


26  U.   COSMO 

anni  —  mandato  dal  Santo  suo  e  ne  aveva  fatto  le  veci;  ci  ritor- 
nava ora  per  aver  creduto  che  la  parola  del  Santo  fosse  a  lutti 
nell'attuazione  della  vita  dovere  strettissimo.  Ambedue  le  volte, 
in  ogni  modo,  obbediente  agli  ordini  di  quella  Regola  a  cui  si  era 
per  sempre  legato.  Dove  andasse,  nell'ignoranza  geografica  del 
tempo,  non  doveva  saper  bene  nemmeno  lui.  Lenips  è  un  vil- 
laggio n^Ua  provincia  di  Liegi;  un  piccolo  convento,  dal  tempo 
e  dalla  cattiveria  degli  uomini  distrutto,  raccoglieva  allora  pochi 
fratelli  osservanti  dell'altissima  povertà.  Lo  dissero  più  tardi 
convento  eretto  da  lui  stesso  quand'era  ministro  dell'ordine  in 
Francia  (1);  se  non  lo  fondò,  certo  fu  dei  primi  ad  abitarlo. 

Quivi  il  vecchio  mori;  la  pietà  dei  fratelli  alzò  sulla  sua  tomba 
una  rozza  pietra  che  ne  perpetuasse  il  nome;  la  generosità  del 
popolo  ammirato  di  tante  virtù  non  senti  bisogno  di  canonizza- 
zioni ufficiali,  e  lui  giullare  dispetto  ai  potenti  proclamò  santo 
al  cospetto  di  Dio. 

Umberto  Cosmo. 


a  scienza  e  sta  bene:  ma  negar  fede  a  tanti  e  così  autorevoli  monumenti, 
voler  trovare  una  falsificazione  interessata  in   documenti   che   hanno   tutta 
l'aria  della  sincerità,  è  cascare  in  uno  scettfcismo  sistematico  che  impedisce 
ogni  ricostituzione  storica  per  documentata  che  sia. 
(1)  Vedi  Gonzaga,  in  Boll.,  1.  e,  p.  173. 


FRATE    PACIFICO  27 


APPENDICI. 

I. 

Le  attestazioni  ascolane. 

Di  frate  Pacifico  —  ho  scritto  nel  testo  —  non  un  verso,  non  una  parola 
ci  rimane.  Ma  e  i  pochi  versi  —  sei  in  tutto  ^  che  sulla  scorta  del  Gan- 
talamessa  e  del  Lancetti  parecchi  riportano  di  lui?  (1).  È  una  storia  curiosa, 
che  prova  quanto  possa  sull'animo  degli  scrittori  anche  onesti  il  pregiudizio 
cittadinesco,  e  vai  la  pena  che  brevemente  si  racconti. 

Io  non  so  che  cosa  scrisse  e  se  nulla  scrisse  —  che  ne  dubito  molto  — 
Lino  Diacono,  antico  cronachista  di  Ascoli,  né  che  storie  abbian  dettato  il 
Bonfini  o  Quinto  di  Quintodecimo,  compendiatore,  a  quanto  si  dice,  della 
storia  Ascolana  di  questo.  Ma  so  che  nessuno  mai  vide  o  conobbe  l'opere 
loro,  se  pure  ci  furono;  o  a  dir  meglio  dice  di  aver  veduto  di  Lino  e  di 
Quintodecimo  qualche  frammento  l'Appiani,  scrittore  secentista  d' una  vita 
di  Santo  Emidio  patrono  della  città:  e  li  cita  ad  ogni  passo  e  deriva  le  in- 
finite favole  ond'è  ricca  la  sua  storia,  l'Abate  Francesco  Antonio  Marcucci, 
unico  fortunato  mortale  che  ebbe  tra  mano  i  preziosi  e  da  tutti  invano  ago- 
gnati manoscritti.  Il  Marcucci,  che  un  sicuro  conoscitore  della  storia  del  suo 
paese,  il  prof.  Giuseppe  Fuà  a  me  dipingeva  così  :  «  uomo  senza  scrupoli, 
«  senza  metodo  critico,  passionato,  leggero,  capace  di  ogni  mistificazione  ». 
Due  storici  non  volgari  ebbe  Ascoli  nel  secento  delle  cose  sue:  l'opera  del- 
l'uno è  a  stampa  (2),  dell'altro  resta  inedita  nella  biblioteca  della  città  (3). 
Ma  né  l'Andreantonelli,  che  pure  de'  minoriti  ascolani  in  qualche  modo 
segnalatisi  parla  a  lungo,  ricorda  quello  che    più  degli   altri  sarebbe  stato 


(1)  G.  Gantalamessa  Garboni,  Memorie  intorno  i  letterati  e  gli  artisti 
della  città  di  Ascoli,  Ascoli,  1830,  p.  23-31  ;  Lancetti,  Memorie  intorno  i 
poeti  laureati,  Milano,  Manzoni,  1839,  p.  82-86. 

(2)  Sebastiani  Andreantonelli,  canonici  asculgni Historiae  Asculanae 

libri  IV,  Accessit  Historiae  Sacrae  Liber  Singularis.    Opus  posthumum. 
Patavii,  De  Gadorinis,  1673, 

(3)  Spino  Tai.ucci,  Delle  antichità  Ascolane.  Ms.  autografo  nella  biblio- 
teca civica  di  Ascoli.  Segnatura  :  Mss.  n.  2. 


do  D.  COSMO 

famoso;  né  il  Talucci  là  ove  discorre  (e.  62)  della  venuta  di  Enrico  VI 
nella  Marca  si  sogna  di  accennare  a  frati  Pacifici  di  sorta.  Or  pochi  anni 
dopo  questi  due  valentuomini,  Paolo  Antonio  Appiani,  gesuita  ascolano,  pub- 
blicò la  sua  Vita  di  S.  Emidio  (1).  Uomo  erudito  l'Appiani  fu  certo,  eru- 
ditissimo lo  chiama  anzi  il  Crescimbeni;  ma  quel  che  siano  in  genere  le 
storie  delle  vite  dei  santi  nel  secento  ognuno  infarinato  di  letteratura  sa 
bene.  E  la  Vita  di  S.  Emidio  è  di  queste.  Non  si  canzona:  gloria  grande 
di  Ascoli  è  fra  le  altre  molte  di  aver  fondata  Firenze  (2);  gloria  non  mi- 
nima forse,  certo  in  ogni  modo  non  disprezzabile,  il  possedere  la  più  antica 
accademia  d'Italia. 

L'accademia  dei  Discordi,  fra  le  infinite  onde  fu  miseramente  ricca  nel 
secento  la  patria  nostra,  sorse,  secondo  ogni  probabilità,  intorno  il  1668, 
dalla  disunione  degli  Accademici  Innestati  (3);  ma  per  l'Appiani  non  è  così. 
Egli  aveva  letto  nell'Ughelli  documenti  autentici  comprovanti  il  passaggio 
di  Enrico  VI  per  Ascoli  e  l'amichevole  protezione  della  curia  imperiale 
sopra  la  diocesi  ascolana  per  merito  di  quel  magister  Berardo  che  fu  poi 
arcivescovo  di  Messina  (4);  aveva  letto  nell'Arturo  che  frate  Pacifico  era 
Piceno.  È  poco,  ma  alla  fantasia  di  un  romanziere  è  bastevole.  Nel  1187 
Enrico  VI  arriva  in  Ascoli;  per  dove  egli  deve  passare  s'alzano  archi  trion- 
fali che  s'adornan  de'  ritratti  dei  cittadini  più  notevoli,  sonano  le  musiche 
e  fra  l'altro  al  magnifico  signore  si  offre  «  l'erudito  trattenimento  di  brieve 
€  encomiastica  orazione  e  d'altri  più  brevi  componimenti  poetici  nell'italiano 
€  idioma  ».  Proprio  come  usava  nel  secento.  Fra  i  recitanti,  inutile  il  dirlo, 
c'è  anche  fra  Pacifico;  Berardo  gli  sta  presso,  lo  porta  poi  con  sé  in  Sicilia 
e  quando  Federico  II,  ancor  non  nato,  sarà  da  tanto,  lo  coronerà  poeta. 

4  Fu  questa  la  prima  volta,  per  quanto  io  truovo,  e  se  ben  si  riflette  al 
<  tempo,  pronto  a  mutar  parere,  quando  sen  abbia  maggior  notizia,  che 
€  uscisse  a  farsi  sentire  pubblicamente  in  teatro  la  volgar  poesia,  benché 
«  rozza  e  balbuziente,  perchè  tuttavia  nell'infanzia  e  in  culla;  e  questa  pure, 
€  come  in  abbozzo  fu  la  primiera  d'origine  fra  le  accademie  d'Italia  e  forse 
€  ancor  di  Sicilia,  nel  cui  reame  si  stima  che  il  mentovato  arcivescovo  di 


(1)  Roma,  Zenobi,  1703. 

(2)  L.  e,  pp.  140-41. 

(3)  Vedi  dei  mss.  autografi  di  Gaetano  Frascarelli  nella  civica  di  Ascoli 
il  ms.  22  a  p.  72. 

(4)  UoHBLLi,  Italia  Sacra^  Venetiis,  Coleti,  1717,  I,  459  e  seg.  Riportati 
anche  in  Colocci,  Antichità  Picene,  XIII,  1-8.  I  documenti  originali  si  con- 
servano e  li  potemmo  vedere  nell'archivio  Capitolare  della  città. 


FRATE    PACIFICO  29 

«  Messina,  fornito  di  belle  lettere  e  grato  singolarmente  ad  Enrico,  a  Gostanza 
«  e  a  Federico  lor  figliuolo,  le  introducesse  (1)  ».  Meno  male  che  a  cosi 
grosse  notizie  il  gesuita  temeva  «  d'essere  accagionato  di  troppo  amore  verso 
«  la  patria  »  ! 

La  notizia,  come  volgarmente  si  dice,  dovette  far  colpo.  —  Ma  chi  era 
quel  «  famoso  Pacifico  »  prima  di  vestire  il  saio  francescano  ?  Perchè  certo 
facendosi  frate  egli  aveva  mutato  nome:  le  leggende  di  S.  Francesco  su 
questo  punto  non  lasciano  dubbio.  Ci  pensò  un  mezzo  secolo  dopo  Giovanelli 
Panelli  d'Acquaviva,  «  uno  dei  primari  medici  della  nobilissima  città  di 
«  Ascoli  »  come  dice  il  frontespizio  dell'opera  sua  (2).  Non  penò  molto  a 
trovarlo:  il  documento  che  parla  delle  numerose  largizioni  di  Enrico  VI  e 
di  Costanza  imperatrice  alla  chiesa  d' Ascoli  a  petizione  del  «  reverendus 
«  Messine  archiepiscopus  Berardo  »  mette  insieme  con  lui  anche  un  «  fideli' 
«  Guglielmus  de  Litiano  ».  Ecco  il  secondo  ascolano  diventato  poi  frate  Pa- 
cifico. Il  Panelli  svela  i  suoi  dubbi  all'abate  Francesco  Antonio  Marcucci, 
amoroso  cultore  delle  istorie  patrie,  e  questi  subito  tira  fuori  o  meglio  dice 
di  copiare  dall'autentico  manoscritto  di  un  suo  antenato,  Niccolò,  la  conferma 
sicura    che    «il  nostro    Vuillielmo  »  è  proprio  lui  «Pacifico   poeta».  Più 

ancora:  un  «frammento»  di  un  suo  «carme il  primo  fatto  e  sentito  in 

«  Italia  ». 

Poiché  il  libro  del  Panelli  è  molto  raro,  vale  la  pena  di  riportare  qui 
quanto  scrive  il  preziozo  manoscritto  di  Niccolò  Marcucci:  «  Nella  venuta 
«nel  1187  in  Ascoli  di  luglio  di  Enrico  VI  re  dei  Romani  figlio  di  Fede- 
€  rico  I  Barbarossa  imperatore  gli  furon  fatti  archi  trionfali  ornati  con  varie 
«  Imprese  et  Insegne  et  Iscrizioni  dalli  ascolani,  come  si  cava  da  un  «  an- 
«  tichissimo  manoscritto  »  di  un  mio  amico,  e  gli  fu  recitata  mxì  orazione 
«  panegirica  in  lingua  nostra  italiana  allora  nascente  e  rozza  (quale  non  si 
«  è  mai  ritrovata)  e  si  suppone  recitata  dal  nostro  arcidiachiano  Berardo  poi 
«  arcivescovo  di  Messina,  e  un  «  Carme  »  italiano  o  sia  cantico  encomiastico, 
«  recitato  dal  nostro  Vuillielmo  poi  Pacifico  poeta,  quale  nella  sua  età  avan- 
€  zata  fu  frate  e  discepolo  di  S.  Francesco.  Ed  ecco  un  frammento,  che  si 
«  ritrova  del  carme  overo  cantico  di  Pacifico,  il  primo  fatto  e  sentito  in 
«  Italia  ». 

«  In  laude  Augusto  Senor  Henrico  sexto  rege  de  Romane,  filio  de  Domene... 


(1)  Appiani,  1.  e,  162-63. 

(2)  Memorie  degli  uomini  illustri  e  chiari  in  medicina  del  Piceno,  Ascoli 
Ricci,  1798. 


30  U.  COSMO 

«  Friderico  Imperatore,  qui  sta   in  ista  civitate  de  Esculo   cum  multo  suo 
€  piacere  e  cum  multa  gloria  et  triumpho  de  civitate: 

Tu  es  ilio  valente  Imperatore 

Qui  porte  ad  Esculan  gloria  et  triumpho, 

Renove  tu,  Sefior,  illu  splennore, 

Qui  come  tanti  Sole 

Multi  Rege  in  ista  a  Nui  venenti 

Civitate prima  de  Piceno 

Ad  iste  menia  lustraru  le  dia, 

Javano  grande  Funnatore  (1),  et  Pico 

Restauratore  de  magna  Provencia,  (2) 

Non  ià  come  Serviiio  et  Fonteiu  (3)  I 

Et  crudelissimo  Strabene,  (4) 

Ma  un  altro  Julio  Cesare  Romano 

Qui  con  Ventidio  nostro  Basso 

In  transenno,  se  firmò  fra  Nui,  (5) 


(1)  Dal  Saggio  delle  cose  Ascolane  e  de*  vescovi  di  Ascoli  nel  Piceno 

Pubblicato  da  un  abate  Ascolano  [Francesco  Antonio  Marcucci],  in  Te- 
ramo, pel  Consorti  e  Felicini,  MDCCLXVl,  derivo  alcune  note  per  modo  di 
dire  storiche  al  carme  stesso.  Servono  a  spiegare  qualche  allusione  non  fa- 
cile a  capire  da  chi  ignori  la  storia  (?)  della  città  e  a  provare  le  mie  in- 
duzioni. «  Per  quanto  il  Bonfini  appresso  Quinto  ci  dice,  i  Rabbini  di  Ionia 
«  sostengono  francamente  che  i  primi  coloni  d'Italia  fossero  Giavano  e  Ce- 
«  thim  suo  figlio,  colla  numerosa  lor  comitiva....  e  che  essi  fondassero  ancora 
«  la  nostra  città  col  nome  di  Escelon,  cioè  pianura  imboschita  di  quercie  >, 

p.  CLXXIII. 

(2)  «  Scorsi  molti  anni  venne  il  re  Aiabbe  o  sia  Pico,  figlio  di  Cethim, 
€  coll'esercito  paterno  de'  Sabenghi  o  Sabini  ad  inquietare  la  repubblica  dei 
€  nostri  Miresciti  Ascolani Prese  per  tanto  la  città Ci  fermò  la  sua  sede 

<  e  dette  ad  Ascoli  e  a  tutta  la  Regione  il  titolo  di  Aiabitide  o  sia  Picena, 
€  facendo  alzare  per  arma  il  Pico  uccello  ».  Lin.  Diac.  in  Comp.  Bonf.  ap. 
Quint.  ex  Rabb.  lon.,  luvenal,  Strab.  Plin.  [sono  le  autorità  (?)  confermanti 
il  fatto!],  p.  CLxxiv. 

(3)  €  Può  leggersi  in  Appiano  Alessandrino  ecc come  [al  tempo  della 

€  guerra  sociale]  fossero  in  Ascoli  trucidati  Q.  Serviiio  proconsole,  Fonteio 

<  legato  e  tutti  quei  Romani  che  vi  erano  »,  p.  clxxx. 

(4)  «Così  [può  leggersi]  come  il  fiero  duce  romano  Cn.  Pompeo  Strabene 
€  a'  25  di  dicembre  del  661  s'impadronisce  di  Ascoli    (dopo   che   Guidacilio 

<  morir  volle  glorioso)  diroccandola  in  gran  parte  dai  fondamenti  e  facendo 

<  tagliare  a  pezzi  colle  scuri  tante  migliaia  d'infelici   nobili  cittadini  »,  ih. 

(5)  «  Cresciuto  intanto  in  Roma  il  '  nostro  P.  Ventidio  Basso  '  figlio  del 


FRATE    PACIFICO  31 

Ta  es  Henrico  o  comò  Carolo  Magno 
Pipin  et  Viginesio  Spoletano  (1) 

A  nui  poitanno  sempit honore, 

Ditanno  nui de  favore; 

Fue  viso  allor el  nostro  Truntu 

In  signo  esser  tantu  reverente 
Reto  se  volvesse  de  sue  acque 
In  transito  de  magne  et  alte  Rege. 
Omne  gloria  per  Te  se  auge,  Henrico 
In  Esculo,  di  quante  prische  fuera. 
Iste  anno  de  septe  et.  ... 

Ingresso  Titan  face in  Leone, 

Eterno  a  nui Memoria  tua 

Per  tua  presentia et  favore. 

E  con  questa  roba  il  buon  Panelli  credette  definitivamente  d'aver  assicu- 
rato ad  Ascoli  la  gloria  della  lingua. 

L'abate  Francesco  Antonio  Marcucci  continuava  intanto  la  compilazione 
del  suo  Saggio  delle  cose  ascolane  che  uscì  otto  anni  dopo  in  Teramo. 
Miracolo  davvero!  Tutta  la  sorprendente  dottrina  storica  che  il  nostro 
«  Vuillielmo  »  ostentava  nel  suo  «  carme  »  trovava  la  sua  conferma  e  spesso 
con  le  stesse  parole  e  lo  stesso  atteggiamento  di  pensiero  nel  Saggio  dell'abate 
ascolano.  Il  quale  del  «  nostro  Guglielmino  »  —  i  vezzeggiativi  non  stanno 
mai  male  specie  in  un  abate  del  settecento  —  sapeva  naturalmente  vita, 
morte  e  miracoli. 

La  recita  davanti  al  grazioso  sovrano  fu  fatta  il  22  luglio  e  Guglielmo 
aveva  29  anni;  il  carme  era  di  100  versi  precisi.  Non  molti,  ma  fruttiferi, 
che  Guglielmo  fu  dichiarato  nobile  paladino  e  poeta  di  corte;  e  ventun  anni 
dopo  (1303)  a  Palermo  Federico  lì  ancora  ragazzo  lo  proclamò  solennemente 


«  duce  P.  Ventidio  [e  da  Ascoli  insieme  con  la  madre  menato  a  Roma  in 
«  trionfo  da  Strabene]  fu  amicissimo  di  Giulio  Cesare.  Andò  con  lui  alle 
«  Gallie,  e  con  lui  ritornando  furono  unitamente  in  Ascoli  »,  p.  clxxxi. 

(1)  «  Indi  Carlo  invitando  Peppino  con  Vinigiso  ['  il  piissimo  Vinigiso 
«  detto  anche  Guinichisio  e  Winchisio  dai  notai  '  fu  '  successore  nel  ducato 
«  di  Spoleto  '  del  duca  Ildebrando,  p.  ccx]  dentro  l'Abruzzo  contro  il  nemico, 
«  sen  venne  in  Ascoli  coi  suoi  Palatini  e  con  porzion  del  suo  esercito.  Du- 
«  fante  la  sua  permanenza  fece  Carlo  dar  principio  a  tre  signorili  palazzi.... 
«  Inoltre  fece  il  pio  monarca  avanti  la  sacra  tomba  di  S.  Emidio  quella  ce- 
«  lebre  donazione:  'Ego  Karolus  etc.'»,  p.  ccxi. 


32  u.  COSMO 

suo  maestro  e  re  dei  versi  italiani  <  per  essere  egli  stato  il  primo  di  ta  I 
«professione  in  Italia».  Gli  altri  poeti  furono  tutti  «allievi  della  scuola 
«  Guglielmina  ».  Passano  altri  quattordici  anni  e  Guglielmo  «  fa  la  strepi- 
«  tosa  risoluzione  »  che  tutti  sappiamo.  Morì  «  nella  città  di  Lenze  in  Fian- 
«  dra  agli  otto  di  luglio  del  1234  in  età  di  anni  76  precisi  »  (1).  Per  dare 
però  maggior  autorità  alle  sue  asserzioni  e  provare  che  del  carme  varie 
veramente  erano  le  fonti  ne  pensò  una  di  nova.  Il  provvidenziale  Lino  fu 
pronto  a  soccorrerlo.  «  Lino  attesta  »  che  del  «  carme  o  sia  canzone  furono 
«  dispensate  molte  copie  ».  Di  qui  la  gran  varietà  di  lezione,  di  qui  le  dif- 
ferenze del  testo  di  Lino  da  quello  di  Niccolò  Marcucci  che  egli  abate 
Francesco  Antonio  aveva  dato  al  Panelli.  Lino  non  ne  riporta  però  che  «  il 
«  primo  quaternario  »  e  «  in  cotal  guisa  »  : 

Tu  sé  chillo  valente  Re  e  Sennure 

Qui  porte  ad  Esculan  gloria  et  triumpho 

Non  Febo  alluma  tanto  el  nostro  Trunto 

Quanto  Henrico  da  ve  a  nui  luce  et  splennure  (2). 

Dopo  di  ciò  io  non  ho  più  nulla  da  aggiungere.  Che  una  serie  lunga  di 
brave  persone,  le  quali  non  ebbero  agio  di  esaminare  a  fondo  la  questione, 
abbiano  abboccato  la  preda,  si  capisce  facilmente,  né  é  da  moverne  rim- 
provero ad  alcuno:  per  noi  raccontar  la  cosa  é  giudicarla (3).  Una  gloria  di 
meno  per  Ascoli  (e  me  ne  dispiace);  ma  una  spina  anche  di  meno  per  chi 
studi  le  origini  della  nostra  letteratura. 


(1)  Vedi  le  pagine  ccxxix-xxx,  ccxxxvii-viii-ix. 

(2)  L.  e,  pp.  ccxxix-xxxx. 

(3)  Che  la  cosa  stia  veramente  così  se  ne  sono  del  resto  persuasi  —  e  lo 
diciamo  non  per  nostra  ambizione  ma  per  loro  onore  —  due  egregi  eruditi 
ascolani  :  il  prof.  Giuseppe  Fuà  e  l'avv.  Cesare  Marietti.  Propendevano  prima 
ad  accettare  il  racconto  tradizionale  [cfr.  i  begli  studi:  G.  FuÀ,  Gli  studi 
in  Ascoli  Piceno  prima  del  i860,  Ascoli,  Cardi,  1898,  p.  4,  n.  6;  C.  Ma- 
BIOTTI,  Sul  colle  di  S.  Marco,  Ascoli,  Cesari,  1898,  p.  16],  ma  indotti  dalle 
nostre  ragioni  i  due  egregi  amici  passarono  sopra  ad  ogni  pregiudizio  locale 
e  si  ricredettero.  Ed  ecco  infatti,  studiando  sotto  la  guida  del  valoroso 
maestro,  due  bravi  scolari  del  Fuà  rigettare  in  un  loro  opuscoletto  ogni  tra- 
dizione del  passato.  Cfr.  A.  Albertini  e  A.  Silvestri,  Accademie  letterarie 
in  Ascoli  Piceno,  Ascoli,  Cardi,  1898,  pp.  3-4. 


FRATE    PACIFICO  33 

u. 

Per  un  nome  e  per  una  data 
nella  storia  delVantica  nostra  poesia. 

4.  La  storia  della  lirica  nostra  è  irta  ancora  di  se,  di  ma,  di  forse.  Ed  è 
«  piena  di  lacune  ».  Lo  dice  un  uomo  che  di  queste  ne  ha  colmate  pa- 
recchie (i). 

I  se,  i  ma,  i  forse  s'addensano  poi  sopra  qualche  figura  così,  che  «  per 
€  ficcar  lo  viso  a  fondo  »  conviene  confessare  che  intorno  a  lei  sono  ancora 
tenebre  fitte.  Odo  della  Colonna  è  una  di  queste. 

Quel  poco  che  ne  sappiamo  Tha  riepilogato  in  capo  alle  due  canzoni  che 
pubblica  di  lui  —  e  sono  le  sole  che  conosciamo  —  il  Monaci  (2);  l'ha  no- 
vamente  riassunto  il  Cesareo  (3). 

Ma  pur  anche  in  quelle  poche  righe  quante  incertezze,  per  non  confessare 
addirittura  ch'è  tutta  un'incertezza.  È  il  Colonna  per  famiglia  romano,  come 
vuole  il  Monaci,  o,  come  il  codice  Vaticano  attesta  e  il  De  Giovanni  (4)  e 
il  signor  Empedocle  Restivo  (5)  vogliono,  messinese? 

Certo  le  gravi  obiezioni  messe  avanti  contro  la  cittadinanza  messinese  dei 
Colonna  dal  Monaci  (6),  cadono  dinanzi  alla  risposta  del  De  Giovanni  : 
VJhoannes  de  Columna  Jurista  scovato  fuori  dal  Restivo  come  cittadino  di 
Messina  sin  dal  1129  prova  non  esser  esatta  l'ipotesi  che  i  Colonna  fossero 
quivi  venuti  con  quel  Giovanni  che  fu  nel  1255  eletto  arcivescovo  della  città. 

Dopo  tali  pubblicazioni  parve  al  Parodi  che  «  Odo  della  Colonna  fosse 
€  tolto  a  Roma  per  sempre  »  (7).  Ma  si  può  anche  torlo  a  Messina  per 
darlo  a  Colupna  forma  latina  della  greca  Stilo?  Pro  patria  l'ha  rivendicato 
il  signor  Sinipoli  Battaglia  (8),  ma  l'afietto  nobilissimo  per  il  luogo  natio 


(1)  Vedi  ToRRACA,  La  scuola  poetica  siciliana,  in  N.  Ant.,  nov.  1894,  p.  465. 

(2)  Crestomazia  ital.  dei  primi  secoli.  Città  di  Castello,  Lapi,  1889,  p.  75. 

(3)  La  poesia  italiana  sotto  gli  Svevi,  Catania,  Giannotta,  1894,  pp.  43-44. 

(4)  In  Rendiconti  della  R.  Accad.  dei  Lincei  (CI.  di  se.  m.),  S.  V,  voi.  I, 
fase.  3,  p.  190  e  seg. 

(5)  La  scuola  siciliana  e  Odo  delle  Colonne,  Messina,  tip.  Nicotra,  p.  15. 

(6)  In  Guido  delle  Colonne  giudice  di  Messina ,  nei  Rendiconti  della 
R.  Acc.  dei  Lincei  (CI.  di  Scienze  morali,  S.  V,  v.  Ili,  pp.  179-81). 

(7)  Bullettino  della  Soc.  Dantesca,  N.  S.  Il,  98.  Incerto,  ma  proclive  pur 
sempre  all'opinione  del  Monaci  resta  il  Cesareo,  Per  un  verso  del  Petrarca^ 
in  Su  le  «  Poesie  volgari  »  del  Petrarca,  Rocca  San  Casciano,  Cappelli, 
1898,  p.  203. 

(8)  Una  rivendicazione  letteraria  prò  patria.  In  Riv.  calabrese,  V,  n.  46. 

QiornaU  storico,  XXXYIII,  fase.  112-113.  8 


34  U.  COSMO 

non  è  certo  il  più  avvisato  consigliero  in  cosi  intricate  e  cosi  disputate 
quistioni. 

Dopo  tanto  battagliare  la  didascalia  del  codice  Vaticano  rimane  ancora 
Tammaestramento  più  sicuro,  e  noi,  pur  rispettando  le  ragioni  ch'hanno 
indotto  maestri  illustri  ad  altra  sentenza,  ci  fidiamo  ad  essa. 

Ma  il  «  di  Messina  »  del  codice  porta  subito  con  sé  una  non  lieve  diffi- 
coltà. 0  non  lieve  almeno  pare  a  noi,  nella  poca  nostra  conoscenza  dell'ar- 
gomento.  Perchè  se  €  di  Messina  »  Odo  è  realmente,  come  si  concilia  questo 
accertamento  con  l'identificazione  che  l'industria  erudita  del  Monaci  vorrebbe 
fare  di  lui  con  «  quello  stesso  messer  Odo  che  nel  1238  e  nel  1241  fu  se- 
€  natore  di  Roma  e  che  Bonifazio  Vili,  nella  sua  Bolla  contro  i  Colonnesi 
«  (10  maggio  1297),  dice  morto  da  oltre  quaranta  anni  e  accusa  di  avere 
«  osteggiato  la  Chiesa  insieme  cum  damnatae  memoriae  Frederico  olim  ro- 
«manorum  imperatore  »? 

La  difficoltà  non  è  per  il  Monaci,  ma  per  coloro  che  non  accettando  da 
lui  l'origine  romana  del  poeta,  accettano  poi  la  seconda  parte  così  logica- 
mente e  strettamente  con  la  prima  connessa.  Le  ragioni  e  le  notizie  del 
Monaci  son  di  quelle  però  che  paion  subito  persuasive:  il  nome  Odo  co- 
mune tra  i  Colonna  di  Roma;  nella  famiglia  non  infrequenti  gli  uomini 
di  lettere;  lui  Odo  stretto  da  vincoli  con  Federigo  imperatore.  Ma  per 
quanto  verosimili,  se  queste  notizie  non  rispondono  a  realtà,  di  Odo  non 
sappiamo  più  nulla,  nemmeno  una  data  che  ci  consenta  d'orientarci  nel  mare 
tenebroso. 

In  tanta  incertezza  una  asserzione  del  Monaci  pare  a  noi  però  ancora 
probabile:  «quando  Guido  esercitava  l'ufficio  di  notaio  e  di  giudice.  Odo 
€  aveva  forse  già  cessato  di  vivere  ». 

Ci  pare  probabile  per  argomenti  intrinseci  alla  poesia  del  nostro:  poesia 
che  ha  tutti  i  caratteri  più  spiccati  dell'antichità. 

«  11  suo  modo  di  poetare  —  soggiunge  il  maestro  illustre  —  è  quello  dei 
«contemporanei  del  notaio,  con  i  quali  nel  codice  lo  troviamo  aggruppato». 

L'attività  letteraria  del  notaio,  come  appare  dal  bello  studio  del  Torraca, 
è  da  riportare  al  secondo  quarto  del  dugento  (1);  ma  per  Odo  l'esame  delle 
sue  poesie  nulla  ci  può  suggerire  di  concreto.  Là  dove  manca  infatti  l'allu- 
sione al  fatto  storico,  i  criteri  dell'arte  e  della  linguistica  appaiono  subito 
manchevoli  a  determinare  una  data  sicura.  E  il  Monaci  stesso  che  pur  vuole 


(1)  n  notavo  Oiacomo  da  Lentini,  in  N.  Antol,  1"  ott.  1894.  Cfr.  anche 
la  recensione  di  F.  Pbllborini,  .in  questo  Giornale^  25,  113. 


FRATE    PACIFICO  35 

del  Notaro  fare  un  caposcuola,  rettamente  osservava  che  di  rimatori  del  suo 
ciclo  qualcuno  forse  è  più  anziano  di  lui  (1). 

È  Odo  di  questi  ultimi?  Se  i  noti  criteri  del  Monaci  a  determinare  l'an- 
tichità d'un  poeta  si  potessero  senz'altro  applicare,  senz'altro  anche  appari- 
rebbe l'antichità  di  Odo. 

Due  sole  canzoni  infatti,  e  in  un  solo  codice,  ci  sono  rimaste  di  lui, 
mentre  è  ovvio  supporre  che  più  larga  dovrebbe  essere  l'attività  sua  poetica  ; 
il  collegamento  delle  stanze  è  tale  da  mostrare  in  lui  il  poeta  antico.  Lo 
mostra  il  motivo  della  più  nota  delle  sue  canzoni,  dove  «  non  c'è  di  lette- 
<  rario  se  non  una  leggiera  vernice  di  linguaggio  curiale,  onde  è  appena 
«  velata  la  greggia  naturalezza  plebea  del  motivo  popolare  >  (2),  mentre  il 
motivo  stesso  né  di  Provenza  o  di  Francia  pare  venuto  (3). 

Di  fattura  letteraria  è  parsa  ad  alcuno  —  tale  anzi  da  stentar  a  crederla 
opera  della  stessa  mano  —  l'altra  canzone:  «  Ristretto  core  ed  amoroso  »  (4). 
Eppure  la  differenza  non  è  cosi  grande  come  a  prima  vista  parrebbe;  e  se 
in:  Oi  lassa  pianse  una  donna  abbandonata,  in:  Ristretto  core  si  lamenta 
un  «  leale  amadore  »  al  quale  per  il  «  reo  parlamento  »  di  «  noiosa  e  falsa 
€  giente  »  è  negato  il  «  piacere  amoroso  >  della  donna  sua. 

Vibra  anche  qui  quella  nota  calda  di  passione  che  tanto  piace  nel  la- 
mento dell'abbandonata;  e  se  questa  ricorda  i  giorni  avventurosi  quando 
egli  l'aveva  «  in  celato  »  e  le  diceva  le  parole  infocate;  l'uomo  non  si  pe- 
rita di  manifestare  quasi  direi  brutalmente  «  la  voglia  »  onde  è  preso  e  il 
dolore  del  «  disusare  »  il  «  piacere  amoroso  »  della  «  vita  »  sua  «  plagiente  >. 

E  non  tardi  più  : 

ca  per  lunga  dimoranza 
troppo  l'adastia  talento. 

«  Li  rei  parladori  »  gridin  pure  ;  ella  dia  «  confortamento  » 
a  lu  leali  amadori  (5). 

Donna  o  uomo  che  piangano,  è  febbre  insodisfatta  di  voluttà  che  li  fa 
parlare,  sol  che  l'uomo  discorre  con  più  stentata  ricerca  della  parola. 


(1)  Crestomazia^  p.  42. 

(2)  Gfr.  Monaci,  Per  lo  schema  della  canzone  «  Oi  lassa  innamorata  >  ; 
Cesareo  ,  Le  origini  della  poesia  lirica  in  Italia^  Catania,  Giannotta, 
1899,  p.  89. 

(3)  Cesareo,  Le  origini,  ecc.,  p.  59. 

(4)  Cesareo,  Le  origini^  pp.  58-63. 

(5)  Il  cod.  Vaticano  e  il  Monaci  leggono  «  E  dare  confortamento  a  li  leali 
€  amadori  »;  ma  la  necessità  della  sostituzione  del  singolare  è  evidente. 
Cfr.  anche  Cesareo,  loc.  cit.,  p.  133. 


36  u.  COSMO 

Or  sarebbe  proprio  coatro  le  ragioni  della  storia  chi  pensasse  che  Odo  è 
poeta  più  antico  di  quel  che  comunemente  si  creda  e  va  risolutamente  ag- 
gruppato con  i  primi  de'  poeti  nostri  e  fra  questi  è  già  de*  più  vecchi? 

Fra  i  documenti  portati  avanti  dagli  eruditi  ascolani  a  provare  che  il  loro 
€  Guglielmino  da  Lisciano  »  era  tutt'una  cosa  col  Pacifico  rex  versuum  da  noi 
studiato,  c'è  un  atto  —  come  già  dicemmo  —  datum  apud  Tranum  nell'a- 
prile 1195,  col  quale  Enrico  VI  imperatore,  a  contemplazione  di  Berardo 
arcidiacono  d'Ascoli  e  medico  dell'imperatore  stesso,  concede  alla  chiesa  di 
Ascoli  particolari  privilegi.  Testimone  dell'atto  insieme  con  più  altri  rag- 
guardevoli uomini  della  corte  imperiale,  compare  anche  un  Otto  de  Co- 
lupna  (1). 

Identificare  è  facile,  e  a  furia  di  identificazioni  facile  anche  è  costruire 
la  biografia  di  un  uomo.  Ma  una  data  certa  di  Odo  della  Colonna  noi  non 
abbiamo  e  nulla  vieta  di  credere  che  oltre  a  mangiare  e  bere  e  dormire  e 
vestir  panni,  egli  fin  dal  secolo  decimosecondo  comparisse  anche  testimone 
in  pubblici  atti.  E  se  nel  '95  firmava,  doveva  per  lo  meno  esser  nato  in- 
torno il  '70;  cosicché  non  molto  avanti  nel  secolo  decimoterzo  è  lecito  di 
prolungare  la  sua  vita,  supposto  pure  che  fosse  lunghissima.  E  compare  alla 
corte  di  quell'Arrigo  VI  del  quale  pure  abbiamo  detto  che  molto  si  dilettò 
in  suoni  e  canti;  che  abbia  aspettato  che  il  figliuolo  d'Arrigo  desse  il  tòno 
per  mettersi  a  cantare?  Perchè  Federigo  II  non  sarà  stato  il  primo,  ma 
prima  di  lui  o  dal  popolo  come  Odo,  o  da  poeti  dotti  d'oltr'Alpe  come  tanti 
altri,  qualcuno  avrà  pure  imparato  a  manifestar  nel  verso  i  sentimenti  e 
gli  affetti  dell'anima  sua. 

In  ogni  modo,  anche  spingendo  qualcuno  de'  nostri  poeti  più  su  con  gii 
anni  di  quello  che  comunemente  non  si  faccia,  non  ci  possiamo  allontanar 
dagli  occhi  cotesti  Svevi  potenti  e  ogni  luce  di  poesia  par  sempre  rag- 
giare intorno  a  loro. 

Noi  del  resto  come,  noi  nulla  vogliamo  affermare  :  ci  siamo  imbattuti  in 
un  nome  e  in  una  data  e  ci  è  parso  che  alla  storia  dell'antica  nostra  poesia 
^non  fossero  del  tutto  trascurabili.  Giudichino  i  maestri  illustri,  che  in  questi 
ultimi  anni  si  sono  con  tanta  dottrina  occupati  dell'argomento,  se  lo  storico 
ne  debba  far  tesoro.  Che  se  essi  sentenzino  che  nome  e  data  si  debbano  ri- 
gettare, poiché  non  abbiamo  sposata  alcuna  causa,  non  intoneremo  alcun 
<  lamento  »  per  rinunziare  e  all'uno  e  all'altra. 


(1)  UoHELLi,  Italia  sacra,  Venetiis,  Goleti,  1717,  1,  461.  Nell'archivio  ve- 
scovile di  Ascoli  noi  poi  abbiamo  personalmente  verificata  l'autenticità  del 
documento  e  della  firma. 


FRATE    PACIFICO  37 


III. 


Di  un  antichissimo  frammento  di  canzone 
conservatoci  dagli  scrittori  francescani. 

La  primavera  del  1213  vuol  essere  notata  nella  storia  delle  origini  nostre 
letterarie  non  per  la  conversione  del  Re  de'  versi  soltanto;  ma  perchè  ci 
oflFre  modo  a  fermare  l'età  d'un  antichissimo,  quantunque  trascurato,  fram- 
mento di  canzone  volgare. 

Dalla  Marca  San  Francesco  con  frate  Leone  suo  compagno  era  passato  in 
Romagna  e  andando  —  piglio  la  parola  dai  Fioretti,  che  parola  più  dolce 
e  più  espressiva  io  non  conosco  —  «  passò  a  pie'  del  Castello  di  Mon- 
«  tefeltro;  nel  quale  Castello  si  facea  allora  uno  grande  convito  e  corteo  per 
«la  cavalleria  nuova  d'uno  di  quelli  conti  di  Montefeltro;  e  vedendo  San 
«  Francesco  questa  solennitade  che  vi  si  facea  e  che  ivi  erano  raunati  molti 
«  gentili  uomini  di  diversi  paesi,  disse  a  frate  Leone:  Andiamo  quassù  a 
€  questa  festa,  perocché  collo  aiuto  di  Dio  noi  faremo  alcuno  buono  frutto 
«  spirituale.  Tra  gli  altri  gentili  uomini,  che  vi  erano  venuti  di  quella  con- 

*  trada  a  quello  corteo,  e*  v'  era  uno   grande   e  anche  ricco  gentiluomo  di 
«  Toscana,  il  quale  avea  nome  Orlando  da  Chiusi  di  Casentino  ». 

«  Giugne  San  Francesco  a  questo  castello  ed  entra  dentro  e  vassene  in  sulla 
«  piazza,  dove  era  raunata  tutta  la  moltitudine  di  questi  gentili  uomini  e  in 
«  fervore  di  spirito  montò  in  su  uno  muricciolo  e  cominciò  a  predicare,  pro- 
«  ponendo  per  tema  della  sua  predica  queste  parole  in  volgare: 

Tanto  è  il  bene  ch'i'aspetto 
Ch'ogni  pena  m'è  diletto; 

«  e  sopra  questo  tema  per  dittamento  dello  Spirito  Santo,  predicò  si  divota- 

*  mente  e  si  profondamente....  ch'ogni  gente  istava  cogli  occhi  e  con  la  mente 
«  sospesa  verso  di  lui  »  (1). 

Veramente,  secondo  i  Fioretti,  il  fatto  sarebbe  avvenuto  «  essendo  S.  Fran- 
ge cesco  in  etade  di  quarantatre  anni,  nel  mille  dugento  ventiquattro»;  gli 
è  a  dire  undici  anni  dopo  dalla  data  che  noi  abbiamo  più  sopra  fermato. 

L'abbaglio  de'  Fioretti,  dai  quali  si  sono  lasciati  ingannare  tutti  i  critici 
nostri,  è  però  evidente:  poiché  nell'occasione  del  suo  incontro  con  frate 
Francesco   il  conte  Orlando  di  Chiusi  donò  al  Santo  il   molto  solitario  e 


(1)  Fioretti.  Delle  stimmate  di  S.  Francesco,  prima  considerazione. 


38  u.  COSMO 

molto  atto  a  farci  penitenza  monte  della  Vernia  ;  essi  contando  le  stim- 
mate del  Santo,  confusero  Tanno  che  il  monte  fu  a  lui  donato  con  Tanno 
che  sul  monte  egli  fu  stigmatizzato.  Se  non  lo  sapessimo  da  altre  parti, 
basterebbe  a  luminosamente  provarlo  il  documento  del  lunedì  9  luglio 
1274,  col  quale  i  figli  del  conte  Orlando  confermavano  ai  frati  minori  il 
dono  del  padre;  dono  —  è  data  registrata  nel  documento  —  avvenuto 
rS  maggio  1213  (1). 

Ma  venendo  all'argomento  che  più  direttamente  ora  c'importa,  donde  de- 
rivava frate  Francesco  nella  primavera  del  1213  i  due  versi  che  proponeva- 
per  tema  della  sua  predica? 

Il  motivo  non  era  certo  de'  più  originali,  che  —  osserva  bene  Francesco 
Torraca  —  «  ha  riscontri  innumerevoli  nella  lirica  provenzale  e  nella  sici- 
liana »  (2). 

Da  Odo  della  Colonna  infatti  a  Pier  della  Vigna  fin  a  Bonagiunta  Urbi- 
ciani  —  per  non  salire  più  su  —  esso  ritorna  frequente  (3). 

Ma  in  Bonagiunta,  cosi  facile  a  vestirsi  delle  penne  altrui,  sì  da  far  de- 
siderare perchè  venisse  scorbacchiato  che 

fosse  vivo  Iacopo  notaro, 

in  Bonagiunta  quasi  con  le  stesse  parole: 

S'eo  languisco  e  tormento 
Tutto  in  giò  lo  mi  conto 
Aspettando  quel  ponto  ch'eo  disio. 

E  qual  fosse  «  quel  ponto  »  al  lettore  arguto  non  è  proprio  bisogno  della 
mia  spiegazione  per  capirlo. 

Che  frate  Francesco  fosse  in  caso  d'imbastir  lì  al  momento  un  paio  di 
versi,  nessuno  certo  vuol  dubitare:  che  questa  volta  però  lo  facesse  non  mi 
pare  probabile.  Frate  Francesco  prima  d'esser  santo  era  stato  cavaliere,  e 


(1)  Bullarium  Franciscanum  (ediz.  SbaraleaX  IV,  166,  n.  h, 

(2)  La  scuola  poetica  siciliana,  in  N.  Antologia^  nov.  1894,  p.  466. 

(3)  Odo  della  Colonna  [Distretto  core  ed  amoroso) 

Ond'io  Ungoisco  e  tormento 
per  fina  disianza. 

Pier  della  Vigna  (Amore  in  cui  vivo  ed  ho  fidanza) 

Vostro  amore  mi  tiene  in  tal  disire 
E  donami  speranxa  e  tà  gran  gioia 
Ch*io  non  caro  fia  doglia  o  sia  martire. 


FRATE    PACIFICO  39 

de'  cavalieri  conosceva  tutte  le  gentilezze  e  le  cortesie.  E  di  queste  sue  co- 
noscenze del  passato  egli  si  serviva  spesso  per  i  bisogni  del  presente. 

Ora  a  raggiungere  il  fine  suo  altissimo  di  convertire  gli  animi  egli  aveva 
sopratutto  bisogno  di  far  su  questi  impressione.  Di  qui  i  modi  svariati  del 
suo  presentarsi  in  pubblico  e  predicare.  Si  può  in  teoria  sprezzare  tutta  la 
scienza  e  tutta  la  gaia  arte  dell'universo;  nella  pratica  della  vita  chi  vuol 
parlare  alla  gente  deve  sottostare  alla  prima  legge  dell'arte  rettorica:  quella 
di  far  eflfetto.  Or  che  effetto  avrebbe  ottenuto  il  frate  recitando,  là  in  mezzo 
alla  folla  de'  cavalieri  curiosi  di  udirlo,  de'  versi  suoi? 

Ma  se  già  in  fama  di  santo  e  per  questo  appunto  ricercato,  butta  là  ai 
cavalieri  e  alle  dame  curiose,  de'  versi  che  parrebbero  a  tutta  prima  in  con- 
traddizione con  la  vita  e  con  gli  insegnamenti  di  lui,  per  il  contrasto  che 
sorge  inevitabile  nell'animo  fra  i  ricordi  che  i  versi  suscitano  e  quel  che 
si  aspetta  dal  Santo,  l'attenzione  del  pubblico  è  già  accaparrata,  l'effetto  è 
raggiunto. 

Questo  di  non  prendere  per  testo  del  proprio  sermone  «  alcuna  autorità 
€  di  teologia  »  ma  versi  di  una  poesia  nota,  era   uso   tutt'  altro  che  raro. 

Basti  per  tutti  l'esempio  d'Etienne  de  Langton  arcivescovo  di  Cantorbery, 
che  proprio  in  questo  torno  di  tempo  componeva  il  suo  famoso  sermone  sul 
testo  di 

Bele  Aalis  mainz  s'en  leva 

Vesti  son  cors  et  para, 

E  un  vergier  s'en  entra,  ecc. 

per  finir  di  concludere  che  la  «  bele  Aalis  » 

Qui  est  la  flos  et  li  liz 

era  la  vergine  Maria  (1). 

Il  fiore  e  il  giglio  Maria;  il  bene  aspettato  intensamente  da  Francesco 
non  è  più  il  ponto  o  il  posto  dove  gli  amanti  speran  sempre  d'arrivare  e 
che  fa  rider  le  belle  donne  che  se  lo  senton  dire,  ma  è  il  Paradiso.  Con- 
clusioni strane  tutte  e  due  di  strani  sermoni  stranamente  impostati,  ma  ap- 
punto per  questo  in  quella  età  e  in  quella  coltura  efficaci. 

1  due  versi  dunque  che  frate  Francesco  prendeva  a  testo  della  sua  predica 


(1)  V.  il  sermone  in  A.  Boucherie,  Le  dialecte  poitevin  au  XIII  siede, 
Paris,  1873,  pp.  217-21.  Gfr.  A.  Lecoy  de  la  Marche,  La  chaire  frangaise 
au  moyen  dge,  Paris,  Renouard,  1886,  pp.  91-94;  Petit  de  Julleville, 
Bistoire  de  la  langue  et  de  la  lift,  frane,  II,  240-41. 


40  U.   COSMO 

dovevano  far  parte  d*una  più  lunga  canzone  d'un  poeta  o  d'un  giullare  qua- 
lunque fosse,  nota  neiritalia  centrale.  E  poiché  dalla  sua  conversione  in 
poi  non  è  probabile  che  il  frate  d'Assisi  tendesse  l'orecchio  ai  trovatori 
d'amore,  è  ovvio  anche  pensare  che  essa  fosse  parte  d'una  di  quelle  tante 
poesie  che  dovevano  esser  rimaste  nella  sua  memoria,  documento  dell'antica 
spensieratezza.  Risaliamo  dunque  ancora  più  su,  avanti  il  "9,  che  segna  la 
data  della  conversione,  fino  ai  primissimi  del  secolo. 

Non  vogliamo  cìie  si  mettano  i  nostri  due  versi  tra  i  monumenti  della 
letteratura  nostra,  ma  sta  il  fatto  che  di  poche  poesie  nostre  possiamo  sta* 
bilire  con  tanta  certezza  l'antichità. 

E  la  poesia  ond  erano  parte,  certamente  d'amore,  doveva  essere  ardente  di 
passione  sensuale:  Francesco  infatti  non  li  avrebbe  secondo  ogni  probabilità 
ricordati  se  essi  non  avessero  suscitato  nell'uditorio  ricordi  che  egli  voleva 
combattere  provando  ad  esso  che  il  vero  bene  è  solo  nel  cielo.  Una  di  quelle 
tante  poesie  giullaresche  che  correvano  per  il  popolo,  e  non  sono  prova 
certo  di  temperanza  negli  affetti.  Ma  sono  documento  prezioso  delle  condi- 
zioni etiche  e  psicologiche  del  popolo  nostro  ;  monumento  storico  irrefraga- 
bile della  continuità  della  poesia  nostra  e  anche  —  che  è  la  questione  per 
il  momento  a  noi  rilevante  —  della  antichità  di  essa. 

Dopo  queste  modeste  osservazioni,  dopo  quanto  da  tanti  uomini  valorosi 
s'è  venuto  in  questo  ultimo  torno  di  tempo  pubblicando,  non  è  lecito  oramai 
asserire  che  la  poesia  nostra  nella  forma  sua  schiettamente  popolare  e  giul- 
laresca sull'alba  del  dugonto  cantava  ormai  sicura  di  sé  al  sole  nuovo? 


y/ 


LA  COLTURA  E  LE  RELAZIONI  LETTERARIE 

DI 

ISABELLA  D'ESTE  GONZAGA 


5.  —  Gruppo  emiliano. 

Yi  si  discorre  di:  Diomede  Guidalotti  —  Floriano  Delfo  —  Filippo  Beroaldo 
il  giovine  —  Giovanni  Sabadino  degli  Arienti  —  Girolamo  Gasio  (pittori 
Costa  e  Francia)  —  Panfilo  Sasso  —  Jacopo  Caviceo  —  Antonio  Gornaz- 
zano  —  Gualtiero  di  San  Vitale  (Ludovico  Panizza). 

Ragion  vuole  che  nel  trattare  di  questo  gruppo  si  prendan  le 
mosse  da  Bologna,  con  la  quale  città,  non  altrimenti  che  con 
Padova,  Isabella  aveva  continue  relazioni  per  lo  Studio  fiorente, 
oltreché  per  l'amicizia  e  per  la  parentela  che  la  stringevano  alla 
famiglia  dei  Bentivoglio. 

Professore  di  retorica  e  di  poesia  nella  Università  di  Bologna, 
rimatore  della  scuola  artificiosa  dell'Aquilano  e  del  Tebaldeo, 
strambottista  non  ispregevole,  fu  Diomede  Guidalotti,  cui  la  morte 
contese  la  fama,  che  forse  si  sarebbe  acquistata,  recidendo  la 
sua  giovane  esistenza  nell'agosto  del  1505  (1).  L'anno  prima  di 
passare  tra  i  più,  il  15  aprile  1504,  egli  licenziava  alla  pubbli- 
cità il  suo  Tyrocinio  delle  cose  volgari,  raccolta  di  rime  varie. 


(1)  Fantuzzi,  Scrittori  bolognesi,  IV,  330  sgg.,  che  rettifica  parecchie  as- 
serzioni del  Quadrio,  Storia  e  ragione,  II,  222-24;  cfr.  111.  290. 


42  LUZIO-RENIER  # 

tra  le  quali  son  pure  sei  ecloghe  intercalate  da  prose  alla  ma- 
niera déìV Arcadia.  Una  delle  due  gentildonne  il  cui  nome  figura 
nella  dedica  di  questo  libro  è  quella  Lucrezia,  figliuola  naturale 
del  duca  Ercole  d'Este,  che  andò  sposa  in  Bologna  ad  Annibale 
Benti voglio.  Non  è  improbabile  che  per  mezzo  suo  Isabella  im- 
parasse a  conoscere  il  Guidalotti.  Questi  infatti,  il  3  giugno  1504, 
le  inviava  il  Tyrocinio,  con  correzioni  in  più  punti,  «  che  per 
«  incuria  de  li  impressori  male  intendere  si  poteano  ».  Nella  let- 
tera d'accompagnamento,  l'autore  si  profondeva  in  elogi  smaccati 
dei  coniugi  Gonzaga,  chiamandoli  «  dui  lumi  de  Italia  congiunti 
«  insieme  a  più  splendore  l'uno  de  l'altro  »  e  Isabella  in  ispecie 
proclamando  «  fautrice  di  tuti  li  spiriti  gentili  ».  Nell'inventario 
dei  libri  d'Isabella  figura  il  Tyrocinio  e  accanto  ad  esso  una  rac- 
colta slegata,  e  senza  dubbio  manoscritta,  di  Sonetti  e  canzoni 
del  Guidalotti  (1). 

Appartenne  pure  allo  Studio  bolognese,  e  ne  fu  anzi  uno  degli 
ornamenti  Come  giurisperito  e  canonista,  un  personaggio  assai 
caro  ai  Gonzaga,  Floriano  Dolfo  (2).  Il  marchese  Francesco  lo 
elesse  a  suo  consigliere  e  gli  accordò  il  privilegio  di  unire  al  suo 
il  cognome  dei  Gonzaga  e  di  inquartare  l'arma  gonzaghesca  con 
la  propria  (3).  Spirito  arguto  e  caustico,  sempre  ricco  di  facezie 
e  di  aneddoti,  egli  usa  nella  sua  corrispondenza  col  marchese 
una  libertà  di  linguaggio  incredibile,  e  talora  si  abbandona  al- 


(1)  Vedi  invent.  I,  n*  130  e  131.  Dice  l'Achillini  nel  Viridario,  che  il  Ty- 
rocinio del  Guidalotti  <  è  sparso  in  popoli  diversi  ».  È  una  esagerazione 
retorica,  che  anzi  quella  raccolta  rimase  oscurissima,  a  segno  che  nel  1538 
potè  essere  ristampata  in  Bologna  col  nome  d'un  altro. 

(2)  Fantuzzi,  Scrittori  bolognesi.  III,  256-57.  Nei  Rotuli  dello  Studio  bo- 
lognese editi  da  U.  Dallari  appare  tra  i  legisti  col  nome  di  Florianus  de 
DulfoUo,  0  de  Dulfolis,  o  de  Dolfolis,  o  Dulphus.  Di  lì  apprendiamo  che 
lesse  a  Bologna  il  Sesto  e  le  Clementine  dal  1466  al  73  (I,  71-88).  Negli 
anni  scolastici  1473-74  e  '74-'75  fu  a  Pisa,  ove  pure  insegnò.  Dall'autunno 
del  1475  lesse  a  Bologna  le  Decretali  fino  alla  sua  morte,  seguita  nel  1506 
(1,  97-189). 

(3)  Fantuzzi,  III,  257^;  Gaet.  Giordani,  Della  venuta  e  dimora  in  Bo- 
logna di  Clemente  VII,  Bologna,  1842,  p.  77. 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   DÌSABELLA   D'ESTE        43 

l'oscenità  più  sguaiata.  Qui  non  è  il  caso  di  riportare  nessuna 
delle  molte  sudicerie  che  Floriano  si  permise  di  scrivere  al  suo 
principesco  corrispondente,  quantunque  esse  possano  dar  la  mi- 
sura della  volgarità  dell'animo  di  Francesco,  il  quale  senza  dubbio 
se  ne  compiaceva,  e  in  pari  tempo  porgano  esempio  di  quella 
strana  grossolanità  onde  nel  nostro  più  bel  Rinascimento  era 
bruttato  il  costume,  in  tante  altre  pertinenze  cosi  raffinato  (1). 


(1)  Il  4  ott.  1493,  avendogli  il  marchese  fatto  fare  da  un  cavallaro,  per 
celia,  certa  turpe  proposta,  lo  rimbeccò  il  Dolfo  dimostrandogli  ch'egli  avea 
«  meglio  studiato  el  Morgante  che  la  Rhetorica  di  Tullio  ».  Interrogato  dal 
marchese  intorno  al  caso  di  certa  strega,  che  diceva  d'aver  usato  col  diavolo, 
rispose  il  Dolfo  una  lunga  e  vivacissima  lettera,  datata  «  ex  Termis  Porete 
«  mense  et  die  incertis  1494  »,  in  cui  è  faitta  la  più  scandalosa  pittura  del 
bagno  della  Porretta  e  delle  scostumatezze  che  vi  si  praticavano.  La  lettera 
è  talmente  sozza  da  non  poter  essere  riferita  neppur  a  frammenti  f  vedasi 
Giorn.,  37,  407).  Riportiamo  invece  la  prima  parte  di  un'altra  sua  lettera, 
con  la  quale  il  14  genn.  1496  si  scusava  col  Gonzaga  di  non  potersi  recare 
a  Mantova  per  le  feste  del  carnevale  :  «  La  S.  V.  Ill.°i=»  me  invita  et  co- 
€  manda  a  venire  ne  lo  instante  carnevalle  a  godere  quelli  vostri  solazi  et 
«  feste,  al  quale  imperio  comò  buono  servo  non  posso  negare  la  obedientia 
«  quantunque  io  mal  possa  godere  li  piaceri  che  a  tale  stagione  si  usano, 
«  vogliando  cossi  la  inclementissima  dispositione  divina,  cum  la  qual  perciò 
«  havendo  poco  obligo  son  privo  de  le  cose  che  voi  altri  ne  haveti  in  copia 
«  et  vi  satiati  usque  ad  crepationem,  comò  disse  el  Tedescho  el  quale  giunto 
«  a  la  hostaria  domandò  a  l'hosto  dicendoli:  quantum  posso  bibere  prò  uno 
«  floreno  renensi?  Respose  presto  l'hosto:  domine, usque  ad  crepationem  in- 
«  elusive.  Usanza  è  al  tempo  del  carnevalle  trasvestirse  in  maschara  et  libere 
«  solazare  per  li  lochi  publici  et  privati:  io  non  posso  gustare  questo  sua- 
€  vissimo  cibo,  perchè  tale  transfiguratione  è  facta  per  non  esser  l'homo 
«  cognosciuto,  ma  la  tortura  et  debilitate  mia  de  li  piedi  si  contrapone  a 
«  tale  piacere,  che  similmente  mi  togliono  li  balli  et  feste  che  recbiedono 
«  molti  andamenti  et  fortitudine  di  pedi,  et  solo  mi  è  reservato  il  videre 
«  maschere  et  balli,  li  quali  benché  al  principio  me  diano  trastullo,  pur  al 

<  fine  non  posso  uscire  senza  peccato  de  invidia  e  biastemia,  desiderando  che 
«  tale  persone  gaiarde  et  fresche  tute  fosseno  zoppe  et  smanchate  comò  io, 
€  si  che  non  è  bono  dare  a  tale  gente  piacere,  si  comò  se  dice  che  la  più 
«  trista  et  perduta  elemosina  che  se  facia  in  questo  mondo  è  quella  che 
«  se  dà  a  l'homo  ciecho Voi  fate  giostre  in  tali   tempi   dignissime   et 

<  strenuissime,  di  che  dimostro  haverne  molto  piacere;  pur  a  dir  lo  vero 
«  essendo  li  ochi  caligati  che  da  longa  non  ponno  videre  io  ne  sto  al  dicto 

«  et  relatione  de  quelli  che  hanno  megliore  ochio In  questa  stagione  fra 

€  li  altri  delectamenti  si  costuma  il  zacagnare,  cioè  adulteri,  stupri  et  incesti, 


44  LUZIO-RENIER 

Ma  anche  in  negozi  abbastanza  seri,  Floriano  usava  col  mar- 
chese della  più  rude  schiettezza.  Fu  già  pubblicata  altrove  da 
noi  una  lettera  pressoché  beffarda  con  cui  il  Dolfo  investiva  il 
marchese  Gonzaga,  che  si  credea  vittorioso  e  tale  era  proclamato 


<  per  li  quali  si  fanno  tante  studiose  veglie  et  feste,  che  ad  altro  non  si 
«attende  se  non  a  tali  piaceri  carnali;  et  io  de  tuti  per  natura  et  etate  ne 
€  son  stufFo  et  pieno.  Venimus  ad  canos  frigescentemque  senectam.  Et  quando 
«  anchora  mi  retrovasse  apto  et  di  tal  vivanda  volonteroso,  male  me  poteria 
«  svogliarme  per  esser  forassero  a  Mantoa  et  le  poste  esser  prese  in  omni 
€  genere  da  voi  Signori  et  altri  gentilhomini,  che  non  voliti  vi  sia  de  le 
«  griffie  levato  come  il  leone  che  el  carnevalle  passato  mai  non  abandonò 
«  quello  vostro  thauro  insino  che  l'hebbe  atterrato,  et  è  rasone  perchè  simili 
«  scherzi  noi  usiamo  verso  li  forastieri  tropo  domestici  cum  le  nostre  donne. 
«  Et  a  dir  pur  il  vero  senza  sdegno  de  V.  S.,  voi  setti  in  Mantoa  mal  forniti 
«  di  donne  belle,  et  si  alcuna  si  ritrova  bella  ha  portata  la  formositate  da 
«  altro  loco,  verbi  gratia  la  111.™*  Consorte  vostra  da  Ferrara  et  la  moglie 
«  di  vostro  fratello  et  dil  Conte  Guido  Torello  da  Bologna  et  alcune  altre 
«  che  hanno  la  loro  semenza  di  fora  corno  la  vedovella  madonna  Costanza 
a  et  la  soa  divina  sorella,  che  v'ha  facto  mutare  habito  costumi  paesi  et  na- 
«  tura,  et  alcune  altre  le  quale  assai  meglio  da  voi  son  cognosciute  ».  E  qui 
tronchiamo  il  riferimento,  perchè  nel  resto  della  lettera  si  tratta  di  troppo 
sconcia  materia.  Pare  tuttavia  che  in  quel  carnevale  stesso,  forse  instante- 
mente  sollecitato  dal  marchese,  il  Dolfo  si  recasse  a  Mantova,  perchè  in  una 
sua  lunga  epistola  dell'S  luglio  1496,  in  cui  descrive  al  Gonzaga  la  rappre- 
sentazione d'un'  ecloga  drammatica  di  soggetto  politico,  seguita  in  Bologna, 
rammenta  d'aver  assistito  in  Mantova  «  nel  carnevalle  passato  »  alla  recita 
dei  Captivi  (D'Ancona,  Origini  del  teatro^,  II,  370).  Il  grave  disturbo  alle 
estremità  inferiori,  di  cui  il  canonista  bolognese  si  lagna,  forse  dipendente 
dalla  gotta,  è  anche  rammentato  in  un  epitaffio  del  Casio: 

Al  Dolpho,  che  nei  piò  mancò  natura, 
Snplì  poi  ne  la  lingaa  e  ne  l'ingegno; 
Atto  a  salvare  ed  a  minare  nn  regno. 
Magno  fa  in  stadio  et  massimo  in  lettura. 

L'allusione  del  terzo  verso  si  riferisce  all'energia  ed  abilità  del  Dolfo  nel 
trattare  negozi  politici,  doti  simboleggiate  anche  nel  rovescio  della  sua  me- 
daglia, dovuta  al  celebre  Sperandio.  Cfr.  Museum  Mazzuchellianum,  1, 149; 
Armano,  Médailleurs,  I,  68;  Heiss,  Sperandio  de  Mantoue,  p.  39.  Dell'abi- 
lità del  Dolfo  nelle  cose  politiche  dà  la  miglior  idea  una  sua  eloquente  Ora- 
zione per  la  difesa  della  patria  contro  Alessandro  VI  e  Cesare  Borgia^ 
recentemente  edita  da  Vincenzo  Giusti  per  nozze  Mirafiori-Boasso,  Bologna, 
Zanichelli,  1900. 


COLTURA  E  RELAZIONI  LETTERARIE  D  ISABELLA  D'ESTE         45 

da  molli,  dopo  la  battaglia  del  Taro  (i).  Con  singoiar  lucidezza 
di  mente,  il  giureconsulto  felsineo  non  si  faceva  veruna  illusione 
e  si  affrettava  a  disilludere  anche  il  marchese.  Al  quale  due 
anni  prima  (26  febbr.  1494)  non  s'era  peritato  a  rispondere  con 
feroce  sarcasmo,  allorché  il  Gonzaga  gli  avea  scritto,  forse  con 
mal  garbo,  di  non  intendere  il  suo  latino.  «  Per  bavere  inteso 

«  quello  che  mi  era  coperto  per  littere  de  V.  111.™»  Sig."* che 

«  non  siate  lectore  de  prose  o  versi  latini del  mio  fallo  facto 

«  accorto,  da  qui  inanti  non  ve  mandarò  né  seri  varò  cose  latine, 
«  ma  in  vulgare  grosso  o  in  gergone,  el  quale  parlare  credo 
«  V.  S.  habi  imparato  da  molti  che  ne  la  vostra  casa  ho  cogno- 
«  sciuto  de  tale  lenguagio  boni  maestri  ». 

Altro  linguaggio  teneva  il  Dolfo  con  la  marchesa  Isabella  ;  anzi 
nella  lettera  con  cui  maestro  Floriano  si  condoleva  secolei  per 
la  morte  immatura  della  sorella  Beatrice,  dicevale  (10  genn.  1497): 
«sopra  ogni  altra  donna  che  hoggi  al  mondo  spiri,  sola  seti 
«  aliena  da  ogni  costume  et  inclinamento  femineo  et,  sbandite 
«  tute  le  levitate  et  sensualitate,  di  che  ne  sono  per  natura  le 
«  donne  copiose,  vi  sete  accostata  ad  li  virtuosi  et  constanti  acti 
«  virili  »  (2).  Ma  é  pur  sempre  indizio  dell'indole  bizzarra  di 
quel  singoiar  professore  la  lettera  con  che  mandò  a  Isabella,  il 
20  maggio  1500,  i  suoi  rallegramenti  ed  auguri  pel  felice  parto 
del  suo  primogenito  Federico.  Premesso  che  Tuomo  molte  volte 
«  dil  suo  male  si  rallegra  et  del  suo  bene  si  lamenta  »,  prosegue: 
«  per  la  quale  cosa  non  mi  pare  fare  altro  più  laudabile  officio, 
«  111.""*  Mad.  Marchesana,  nel  parto  di  questo  fanciulo,  lo  quale 
«  Dio  per  stracheza  de  le  vostre  continue  et  devote  oratione  et 
«  importune  dimande  vi  ha  gratiosamente  concesso  (si  comò  disse 
«  Christo  a  donna  Rosa  per  le  frequentissime  soe  petitione  facte 
«  ogni  giorno  de  uno  medesimo  tenore,  dopo  uno  longo  tedio  fa- 
«  vellando  quello  suo  camerario  cruci flxo,  affannato   per  tante 


(1)  Francesco  Gonzaga  alla  battaglia  di  Fornovo,  pp.  25-27. 

(2)  Cfr.  le  nostre  Relazioni  d'Isabella  con  gli  Sforza,  p.  131. 


46  LUZIO-RENIER 

«cicaline  parole:  Rosa,  tu  me  secchi),  che  cum  V.  S.  congratu* 
«  landomi,  pregare  lo  eterno  Dio  che  lo  facia  savio  et  fortunato 
«  et  che  camini  per  la  strata  de  la  justitia  cum  timore  de  Dio>. 
E  qui  una  lunga  fila  di  sinistri  ricordi,  di  ammonimenti  e  di 
esempi,  da  cui  si  ricava  che  molte  volte  i  figliuoli  maschi  di- 
ventano canaglie,  ovvero  precipitano  nella  maggiore  disgrazia. 
«  Pertanto  è  grande  sapientia  de  la  madre  (si  in  donna  si  ritrova 
«spirito  sapiente,  perchè  disse  Salomone:  mulierem  fortem  quis 
«  inveniet?)  in  tale  productione  de  li  figlioli  moderatamente  fare 

<  festa,  perchè  non  ci  è  a  noi  mortali  cognito  lo  exito  de  le  cose. 
«Chi  sa  si  fieno  prudenti,  si  fortunati,  si   amati,  si  expulsi,  si 

<  rubati,  si  occisi,  si  exuli  de  li  soi  regni,  come  Medici  et  Sfor- 
«  ceschi,  li  quali  pareano  havere  in  mano  il  governo  di  la  for- 
«  tuna,  ecco  che  in  uno  punto  sono  spenti,  et  la  soa  gloria  prò- 

«  strata  al  fondo Ma  per  usare  lo  officio  del  bono  servo 

«  et  non  dil  severo  philosopho  overo  del  catolico  predicatore, 
«  111."*  et  E\^  Madonna,  perchè  cognosco  la  generatione  di 
«  questo  fructo  masculino  esser  il  magior  contentamento  et  pia- 
«  cere  che  quella  habia  mai  conseguito  infino  al  di  presente,  che 

<  sera  causa  de  augmentare  lo  amore  del  mio  terestre  dio  et 
«  rescaldare  il  tepido  core  verso  V.  S."»  et  farli  più  benevoli  li 
€  subditi  soi,  et  di  smorzare  ogni  ambitione  extranea  al  marche- 
«  sato  et  principato  mantovano,  et  di  serare  il  pugno  di  la  pro- 

<  digalitate  a  lo  excellentissimo  vostro  consorte  (benché  il  soc- 
«  corso  sia  tardo  per  esser  megio  fallito  (1),  per  haver  già  donato 
«  et  cousumpto  ogni  suo  patrimonio)  et  divenire   più   diligente 


(1)  Quello  stesso  giorno,  20  maggio  1500,  il  Dolfo  scrisse  pure  una  lettera 
al  marchese,  nella  quale,  a  proposito  del  parto  d'isabella,  usci  a  narrare 
aneddoti  piccanti  e  sboccati,  riferentisi  al  suo  soggiorno  in  Pisa  (sulla  dimora 
in  Pisa  del  Dolfo  vedasi  Fabroni  riferito  da  Fantuzzi,  Scrittori  bolognesi, 
IX,  92).  Riguarda  uno  di  questi  aneddoti  la  festa  d'un  crocifisso  miracoloso, 
che  celebravasi  ogni  anno  a  Pisa  la  terza  domenica  di  gennaio  ed  era  chia- 
mata la  festa  del  /*.....,  perchè  quel  tal  crocefisso  avea  miracolosamente  im- 
pedito ad  un  soldato  di  prendere  diletto  di  una  giovine  pisana  in  una  chiesa. 
L'altro  aneddoto  spiega  il  «  proverbio  vulgare,  per  qual  causa  quando  l'homo 
<  rompe  uno  bichiero  o   bochale,  dice  subito  a  Pisa^  et  si  non  lui,  li  cir- 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   D  ISABELLA   D  ESTE         47 

«  a  la  conservatione  dil  suo  stato  et  abstinere  la  soa  prompta 
«  voluntate  da  molti  inordinati  appetiti,  per  non  dare  tristi  do- 
«  cumenti  et  exempli   al  suo  figliolino   et   dopo   lui   futuro   si- 

«  gnore  (1) cura  V.  III.™*  Sig."»  mi  ralegro  et  festegio  et 

«  tuto  di  alegrecia  me  defundo,  quanto  et  più  che  si  di  la  mia 
«  moglie,  che  mai  per  sterilità  non  partorì  fructo  alcuno,  benché 
«  il  campo  sia  stato  bene  arato  et  cultivato  et  di  bona  semenza 
€  seminato,  fosse  nato  ».  A  questa  strana  lettera  Isabella  fece 
rispondere  ringraziando  il  10  giugno,  e  senza  addentrarsi  nelle 
parti  più  scabrose  ed  intime  di  quanto  avevate  scritto  il  dottor 
bolognese,  sinceramente  gli  confessò  :  «  anchora  che  cura  ra- 
«  sone  assai  evidente  ne  exortate  ad  moderatamente  allegrarne 
«  del  felice  parto  nostro,  nello  quale  nostro  Sig.  Dio  cura  tanta 
«  sua  gratia  ne  ha  concesso  un  figliol  maschio,  tuttavia  cogno- 


«  cumstanti  ».  Ma  non  per  questi  due  aneddoti,  che  qualche  erudito  pisano 
ben  potrebbe  illustrare,  noi  citiamo  qui  codesta  lettera,  sì  bene  perchè  Flo- 
riano vi  dà  al  marchese  avvertimenti  non  dissimili  da  quelli  contenuti  nella 
lettera  ad  Isabella  :  «  per  questo  fructo  et  dono  divino  V.  S.  da  qui  inanti 
«  sera  più  devota  et  grata  verso  Dio,  diventerà  più  diligente  et  accorta  nel 
«  governo  dil  suo  stato  et  amerà  augmentare  et  non  gittare  via  le  soe  facul- 
«  tate,  come  ha  facto  fino  a  qui,  che  ha  aquistato  il  nome  del  prodigo,  non 
«  liberale  ».  La  lettera  è  firmata  cliens  Florianiis  Dulphus  de  Gonzaga. 

(1)  È  veramente  singolare  questo  accenno  che,  scrivendo  alla  marchesa, 
fa  il  Delfo  alle  frequenti  infedeltà  del  marito.  Già  parecchi  anni  prima  ne 
aveva  direttamente  redarguito  il  marchese,  dicendogli  in  una  lettera  del 
16  die.  1495  :  «  Dio  vi  ha  dato  una  formosa,  prudente  et  nobile  compagna, 
«  figliola  del  bon  duca  Hercule  et  per  sangue  materno  de  la  gentilissima 
«  casa  d'Aragona,  coniuncta  in  matrimonio  et  nodo  coniugale  insieme  cum 
«  V.  S.,  non  come  sogliono  li  altri  mariti  et  moglie  sempre  vivere  cum  onte, 

«brontolìi,  gielosie,  cornei  et  ire tuta  discreta  et  costumata;  madre  di  la 

€  concordia,  sempre  seconda  modestamente  li  vostri  appetiti  et  non  vole  per 
«  soperchiarla  esser  vincitrice  centra  a  vostra  voglia,  et  le  cose  per  voi  facte 
«  a  lei  ingiuriose  overo  odiose  finge  di  non  vedere  né  audire  ».  Gfr.  Luzio- 
Renier,  Relazioni  d'Isab.  con  gli  Sforza,  p.  131,  n.  2.  Nella  suddetta  let- 
tera del  1500  lo  ammonisce:  «  Et  perchè  la  vita  paterna  è  spechio  al  vivere 
«del  figliolo,  son  certo  che  per  non  dare  tristo  exemplo  al  vostro  figliolino 
€  V.  S.  non  sarà  più  cossi  prompta  et  aperta  in  fare  acti  lascivi  et  reprehen- 
€  sibili  ».  Non  si  direbbe,  veramente,  che  la  predica  dovesse  venire  da  quel 
pulpito!  Gonvien  peraltro  notare  che  non  sempre  il  turpiloquio  è  indizio  si- 
curo di  reale  corruzione. 


48  LUZIO-RENIER 

«  scendo  nui  che  in  questo  usati  più  presto  l'oflacio  del  severo 
«  philosopho  che  del  civile,  perseveriamo  nel  principiato  tenore 
«  de  la  leticia  nostra,  de  la  quale  non  sentimmo  mai  la  maggiore 
«  dappoi  che  siamo  al  mondo  ». 

Un  altro  professor  bolognese  fu  Filippo  Beroaldo  il  giovine, 
nipote  del  suo  omonimo,  che  era  stato  uno  de'  più  celebri  lette- 
rati del  séc.  XV  e  usci  di  vita  nel  1505.  Filippo  Beroaldo  il  gio- 
vine insegnava  già  lettere  in  Bologna  nel  1498;  ma  ne' primi 
anni  del  sec.  XVI  spiccò  il  volo  per  Roma,  ove  godette  l'amicizia 
degli  uomini  più  insigni  del  tempo,  e  professò  nell'archiginnasio 
romano.  Divenuto  segretario  del  card.  Giovanni  de'  Medici,  fu 
da  lui,  allorché  Giovanni  giunse  ad  essere  Leone  X,  elevato  al 
grado  di  bibliotecario  della  Vaticana,  ufficio  che  tenne  dal  5  sett. 
1516  al  30  agosto  1518,  in  cui  venne  a  morte  (1).  Si  citano  ge- 
neralmente come  i  migliori  amici  suoi  il  Bibbiena,  il  Molza  e 
Pierio  Valeriano:  ad  essi  andrà  aggiunto  il  Castiglione,  che  certo 
in  Roma  lo  conobbe,  e  si  piacque  di  rammentarlo  nel  Coriegidno 
pel  suo  spirito  arguto  e  faceto  (2).  La  marchesa  di  Mantova  udì 
forse  già  vantare  da  Lucrezia  Bentivoglio  la  valentia  del  Be- 
roaldo (3)  ;  ma  in  ogni  caso  è  certo  che  quando  mori  la  cagnetta 
Aura,  il  Beroaldo  da  Roma  le  inviò  un  carme  latino,  che  figura 
nel  citato  zibaldoncino  di  versi  deploratori  tante  volte  già  richia- 
mato da  noi.  Nel  poetare  latino  era  il  Beroaldo  assai  reputato; 
e  però  la  marchesa  fu  lietissima  di  que'suoi  versi  e  ne  scrisse 
in  questi  termini,  il  16  febbr.  1512,  al  giovinetto  suo  figlio  Fc- 


(1)  Mazzuchelli,  Scrittori,  11,11,  1017-1020;  Fantuzzi,  Scritt.  bolognesi, 
II,  136  sgg.;  Giornale  storico,  IX,  451  e  la  nota  biografica  del  Gian  nella 
sua  ediz.  del  Cortegiano,  pp.  205-6;  J.  Paquier,  De  Philippi  Beroaldiju- 
nioris  vita  et  scriptis,  Lutetiae  Parisiorum,  1900. 

(2)  Cortegiano,  L.  II,  cap.  63. 

(3)  G.  Sabadino  degli  Arienti  fa  narrare  una  delle  sue  Porretane  da  Fi- 
lippo Beroaldo,  di  cui  vanta  la  grande  dottrina.  Ivi  dice  che  il  Beroaldo  fu 
precettore  di  Annibale  Bentivoglio,  marito  di  Lucrezia  d'Este.  Vedi  e.  1T7  r 
nell'ediz.  di  Verona  1540  delle  Porretane.  Che,  del  resto,  in  Bologna,  il  Be- 
roaldo fosse  maestro  a  nobilissimi  personaggi,  lo  attesta  anche  lo  scherzo 
del  Sadoleto  nel  cit.  cap.  del  Cortegiano. 


COLTURA  E   RELAZIONI   LETTERARIE   d'ISABELLA   D'ESTE         49 

derico,  che  allora  trovavasì  a  Roma  :  «  Ni  sono  stati  acceptissimi 
«  li  eruditi  et  eleganti  versi  de  mes.  Philippo  Beroaldo,  composti 
«  per  la  morte  de  la  nostra  cagnolina,  essendone  da  questi  nostri 
«  docti  commendati  summamente.  A  noi  non  potria  più  piacere 
«  la  inventione  quanto  facci,  et  non  manco  Taffectione  che  per 
«  essi  versi  et  per  il  testimonio  tuo  et  de  molti  altri  ci  ha  di- 
«  mostrato,  de  la  quale  volemo  gli  rendi  infinite  grazie  offerendoli 
«  Topera  et  auctorità  nostra  in  ogni  sua  occurrentia  »  (1). 

Ma  se  furono  solamente  occasionali  e  transitorie  le  relazioni 
da  noi  finora  accennate  nel  presente  capitolo,  ebbe  carattere  ben 
diverso  quella  col  bolognese  Giovanni  Sabadino  degli  Arienti. 
Isabella  lo  imparò  a  conoscere  e  ad  apprezzare  nella  famiglia 
paterna,  perchè  Sabadino,  cresciuto  all'ombra  della  gran  pianta 
bentivogliesca,  fu  agli  Estensi  singolarmente  devoto.  Egli  presentò 
nel  1472,  con  apposita  orazione,  i  regali  del  Reggimento  bolo- 
gnese in  occasione  delle  nozze  d'Ercole  d'Este  e  di  Leonora 
d'Aragona  (2),  si  trattenne  a  più  riprese  in  Ferrara,  fu  beneficato 
dal  duca  Ercole  e  da  Leonora  sua  moglie,  dedicò  ad  Ercole  nel 
1483  le  sue  novelle  di  sapor  boccaccesco  intitolate  Le  porre- 
tane  (3)  e  poi  la  Istoria  di  Piramo  e  Tishe  (4),  scrisse  pel  ma- 
trimonio di  Annibale  Bentivoglio  con  Lucrezia  d'Este  il  tratta- 
tela De  hymenaeo  (5),  celebrò  la  vita  di  Anna   Sforza,  prima 


(1)  Per  le  relazioni  del  Beroaldo  con  Federico  Gonzaga  vedi  Paquier,  Op. 
cit,  pp.  74-75. 

(2)  Dallari,  Della  vita  e  degli  scritti  di  Gio.  Sabadino  degli  Arienti, 
Bologna,  1888,  pp.  5  e  30.  Gfr.  Giornale,  XI,  208. 

(3)  Rispetto  alle  relazioni  di  Sabadino  con  gli  Estensi,  le  notizie  date  da 
G.  Campori,  Giov.  Sabadino  degli  Arienti  e  gli  Estensi,  Modena,  ÌSld,  sono 
completate  dal  Renier  in  questo  Giornale,  XI,  207  sgg.  e  dal  Dallari.  Per 
la  bibliografia  delle  Porretane  vedi  Dallari,  Op.  cit.,  pp.  11-16  e  24-25; 
pel  loro  valore  intrinseco  Giorn.,  XI,  212-13  e  Rossi,  Il  Quattrocento, 
pp.  132-33.  Il  cod.  di  dedica  delle  Porretane  ha  oggi  il  n»  503  nella  Pala- 
tina di  Firenze.  Gfr.  Cat.  mss.  palatini,  II,  65. 

(4)  Quest'opera,  che  per  molti  anni  si  credette  smarrita,  fu  rinvenuta  in 
un  ms.  di  Dresda.  Gfr.  Giorn.,  XI,  217. 

(5)  11  ms.  ne  è  ora  nella  Palatina  di  Parma.  Dallari,  p.  16. 

OiornaU  storico,  XXXVIII,  fase.  112-113.  * 


50  LDZIO-RENIER 

moglie  di  Alfonso  d'Este  (1)  e  dettò  un  Colloquium  per  le  se- 
conde nozze  di  Alfonso  con  la  Borgia  (2).  Per  questa  grande 
affezione  dell'Arienti  alla  casa  degli  Este  non  poteva  riuscirgli 
indifferente  il  più  bel  fiore  germogliato  nel  giardino  ferrarese. 
Nella  sua  dimora  in  Ferrara  avrà  l'Arienti  avuto  occasione  di 
deliziarsi  più  volte  del  suo  delicato  profumo,  onde  non  potea 
trascurarlo  quando  fu  trapiantato  sul  Mincio,  tanto  più  che  già  in 
addietro  il  bolognese  avea  ricorso  alla  liberalità  dei  Gonzaga  (3). 

Allorché   ebbe  stesa  nel   1490  la   sua   Gynevera  de  le  dare 

• 

donne  (4)y  pensò  d'inviarne  una  copia  ad  Isabella,  «intendendo 
«  la  V»  IH.  S.  essere  de  grandissimo  fructo  et  religione  in  quello 
«  marchionale  Stato,  come  vera  figliuola  del  mio  felicissimo  com- 
«  patre  duca  Hercule  »  (5).  Riscris^^e  egli  medesimo,  tutto  di  suo 
pugno,  quel  libro  e  il  29  giugno  1492  lo  inviò  alla  marchesa, 
vantandosi  che  quella  fosse  la  seconda  copia  «  che  se  sia  data 
«  fuori  »  (6)  e  supplicando  la  Gonzaga  di  inscriverlo  «  nel  numeix) 
«de' suoi  affectionati  servi»  e  di  raccomandarlo  al  marito,  di 
cui  aveva  già  tessuto  l'elogio  «  per  che  certo  li  sono  molto  de- 
«  dicato,  come  aparirà  a  la  posterità  del  tempo,  se  '1  fructo  del 
«  mio  exile  ingegno  bavera  alcuna  diucturnità ,  per  bavere  io 
«  delle  sue  glorie  facto  memoria,  quando  venne  qui  a  le  Nuptie 
«  Bentivoglie,  havendo  Sua  Gels.°«  reportato  el  Iriumpho  dela 
«  giostra,  et  deli  suoi  ornamenti  et  trophei  militari,  che  ancora 


(1)  Questa  Vita  fu  pubblicata  a  Ferrara  nel  1874,  di  su  un  codice  di  quella 
biblioteca  comunale.  Dallàri,  p.  21. 

(2)  Dallari,  pp.  21  e  36.  Gfr.  Giorn,,  XI,  217. 

(3)  Vedi  le  raccomandazioni  che  per  lui  inviarono  gli  Estensi  al  card.  Fran- 
cesco Gonzaga:  Campori,  p.  13;  Dallari,  p.  32. 

(4)  Stampata  da  C.  Ricci  e  A.  Bacchi  della  Lega  nella  disp.  223  della 
Scelta  di  curiosità  letterarie.  Per  la  bibliografia,  oltre  la  prefaz.  degli  edi- 
tori, vedi  Dallari,  Op.  cit,,  pp.  16-20;  per  la  cronologia,  questo  Giornale, 
XI  21.V16. 

(5)  Anche  nelle  Porretane  TArienti  chiama  il  duca  suo  «  compatre  »  perchè 
avea  tenuto  al  fonte  battesimale  uno  de'  suoi  otto  figliuoli,  Ercole,  che  con- 
tinuò la  famiglia  e  scrisse  anche  versi.  Gfr.  Giom,^  XI,  207  e  Dallari,  p.  5. 

(6)  La  lettera  fu  edita  nel  Giorru,  XI,  214  e  dal  Dallari,  Op.  cit.^  p.  34. 


COLTURA  E   RELAZIONI   LETTERARIE   D'iSABELLA   D'ESTE         51 

«  questo  bolognese  populo  ne  parla  »  (1).  Del  dono  fu  la  mar- 
chesa gratissiraa,  perchè  con  vera  effusione  rispose  all'Arienti  il 
3  luglio  '92  :  «  Havevamo  qualche  cognitione  de  le  virtù  vostre 
^  et  per  questo  ve  portavamo  dilectione;  adesso  per  l'opera  che 
«  ci  haveti  driciata,  composta  per  vui  de  mulieribus  claris  et 
«  intitulata  a  la  111.°"*  mad.  Zenevera  Bentivoglio,  ne  seti  facto 
«  per  experientia  noto  et  famigliare  ;  per  consequens  non  solum 
«  siamo  inducte  a  diligerve,  ma  ad  amarve  et  admirarve.  Essa 
«opera,  e  per  esser  cum  summa  elegantia  compilata,  et  per 
«  essere  de  utile  matheria,  e'  è  stata  ultra  modo  grata.  Legere- 
cmola  cum  attentione  et  sforzeremose  imitare  le  vestigie  de 
«  quelle  ill.°'^  matrone  »  (2). 

Quantunque  Gio.  Sabadino  fosse  notaio,  l'ufficio  ch'egli  meglio 
disimpegnò  per  tutta  la  sua  vita  fu  quello  di  relatore  e  di  descrit- 
tore (3).  Anche  della  marchesa  di  Mantova  egli  fu  informatore 
e  corrispondente  :  spediva  ragguagli,  come  fosse  un  abile  reporler^ 
disimpegnava  piccole  faccenduole.  Ciò  fece   particolarmente   in 


(1)  Alluderà  al  De  hymenaeo.  Si  noti  che  Tanno  dopo  (1493)  Sabadino 
dedicò  al  march.  Francesco  Gonzaga  una  novella  storica,  che  non  fa  parte 
delle  Porretane.  Fu  rintracciata  da  Lud.  Frati  nel  ms.  Vatic.  Urb.  1205  e 
pubblicata  nel  1892  da  0.  Guerrini  per  nozze.  Vedi  ciò  che  se  ne  dice  in 
questo  Giornale,  XIX,  226-27.  Sia  pur  rammentato  qui  che  una  delle  no- 
velle delle  Porretane  è  fatta  dire  da  Giustina,  moglie  di  Niccolò  da  Gonzaga. 
Vi  si  narra  una  avventura  di  Gianfrancesco  Gonzaga,  primo  marchese  di 
Mantova,  e  se  ne  trae  occasione  per  tessere  un  elogio  della  famiglia  Gonzaga. 
Ediz.  di  Verona,  1540,  delle  Porretane,  e.  95r  e  sgg. 

(2)  Quantunque  nella  Gynevera  il  panegirico  soffochi  i  fatti,  quel  libro 
ha  per  noi  un'  importanza  storica  non  mediocre  e  meriterebbe  di  essere  stu- 
diato più  a  fondo.  Asserì  il  Gabotto  {Lettere  di  Joviano  PontanOy  Bologna, 
1893,  p.  20,  M.  3)  che  nella  Gynevera  sono  diluite  parecchie  biografie  del 
De  claris  mulieribus  di  Jacopo  Foresti  da  Bergamo.  Ma  il  Rossi  {Il  Quat- 
trocento, p.  132)  non  è  alieno  dal  sospettare  che  invece  il  Foresti  seguisse 
le  orme  di  Sabadino.  Lo  studio  sulle  fonti  della  Gynevera  è  ancor  tutto 
da  fare. 

(3)  Vedi  le  considerazioni  che  uno  di  noi  fece  su  quest'uflScio  di  relatore 
nel  Giornale,  XII,  302-5,  ove  si  dimostra,  col  sussidio  dei  copialettere  del- 
l'Archivio di  Parma,  che  Sabadino  ebbe  incombenze  non  dissimili  dal  vescovo 
Ludovico  Gonzaga. 


52  LDZIO-RENIER 

quel  periodo  fortunoso,  nel  quale,  caduto  in  disgrazia  dei  Benti- 
voglio,  egli  vide  assottigliarsi  d'assai  i  suoi  mezzi  di  sussistenza, 
dal  1495,  in  cui  gli  venne  meno  la  provvisione  bentivogliesca,  al 
1507,  in  cui  fu  creato  gonfaloniere  del  popolo  nel  quartiere  di 
porta  Piera  (1).  Cadono  in  quel  periodo  le  malinconiche  lettere 
dirette  a  Isabella  per  chiederle  la  carità  di  sei  sacca  di  grano, 
necessarie  al  sostentamento  della  numerosa  famiglia  in  un  anno 
di  scarsissimo  raccolto  (2).  Cadono  in  quel  periodo  le  interessan- 
tissime relazioni  che  Sabadino  forniva  ad  Isabella  intorno  alla 
recentissima  scoperta  del  Laocoonte,  avvenuta  in  Roma  (3),  ed 
intorno  ad  un  contrasto  drammatizzato  fra  il  Carnevale  e  la  Qua- 
resima, rappresentato  d'innanzi  al  palazzo  dei  Bentivoglio  (4). 
Del  24  febbr.  1508  è  un'altra  sua  lettera,  nella  quale  comunica 
ad  Isabella  come  fosse  posta  sulla  facciata  del  tempio  di  S.  Pe- 
tronio la  statua  di  Giulio  II  ;  «  Questa  statua  ha  assai  sembianza 
«  de  la  S.^  del  N.  S.  et  il  statuario  che  l'ha  facta  se  chiama 
«  Michaelangnolo  fiorentino.  È  opera  tanto  magna  et  excelsa  per 
€  chi  intende,  che  se  Phidias  statuarius   vixisset  non   creditur 


(ì)  Dallari,  Op.  city  pp.  7-8.  Non  si  deve,  peraltro,  credere  che  negli 
anni  accennati  l'Arienti  fosse  sempre  nemico  ai  Bentivoglio,  anzi  abbiamo 
molti  indizi  che  per  essi  continuava  ad  adoperarsi.  Si  tenga  presente  questa 
letterina  da  lui  inviata  al  marchese  di  Mantova  nel  1503: 

lU.mo  Princeps  S.r  mio  charo.  Non  possendo  bora  venire  ad  Gonzaga  ad  trorare  la  Ex.  V., 
coBa  che  me  preme  assai,  scrivo  questa  ad  epsa  Ex.  la  quale  prego...  voglia  lare  misericordia  a 
questo  miserabile  incarcerato  de  Michele  de  la  BafFa,  aciò  possa  de  tanta  misericordia  consolare 
il  meo  m.  Zoanne  Bentivoglio,  quale  tanto  se  confida  et  spera  in  la  Ex.  Y.  a  la  coi  giatia  ecc. 


Ex  Mantua,  X  Junij  1503. 


Sermi  perpeinos 
Joannes  Sabadiniu  de  Arientit. 


(2)  Leggansi  le  sette  lettere  del  1504,  riguardanti  quella  bisogna,  che  fu- 
rono pubblicate  dal  Campori,  Op.  cit.,  pp.  610.  Vedi  Giom.,  XI,  210. 

(3)  La  lettera  del  31  genn.  1506  fu  pubblicata  in  questo  Giornale,  XI, 
209-10.  È  una  delle  prime  relazioni  che  si  abbiano  di  quella  capitale  sco- 
perta archeologica  ed  artistica.  Gfr.  A.  Venturi,  Il  gruppo  del  Laocoonte 
e  Raffaello,  in  Arch.  stor.  delVarte,  II,  98. 

(4)  Lett.  24  febbr.  1506,  edita  in  Renibr,  Gaspare  Visconti,  pp.  104-5. 


COLTURA    E   RELAZIONI   LETTERARIE   D  ISABELLA   D  ESTE         53 

«  hac  statua  nobiliorem  facere  potuisset Hoc  opus  tara  rai- 

«  randum  et  excelsum  est  ut  quidem  populus  videndo  et  con- 
«  templando  oculos  saturare  non  possit  »(1).  Il  2  aprile  di  quel- 
l'anno stesso  Sabadino  descrive  alla  Gonzaga  il  supplizio  di  un 
frate  al  quale  assistevano  da  trenta  mila  persone.  Egli  fu  bruciato 
vivo  «  perchè  havea  sacrificato  al  diavolo,  havea  cum  li   pedi 

<«  conculcata  la  croce dato  una  hostia  sacrata  ad  uno  gallo  » 

e  commesso  altre  enormità  (2).  Nel  ritrarre  la  coltura  della 
nostra  gentildonna,  abbiamo  già  dato  conto  di  altra  lettera  di 
Sabadino  del  13  luglio  1509,  in  cui  le  descriveva  il  supplizio 
d'una  strega.  Da  tuttociò  si  apprende  di  qual  natura  fossero  le 
informazioni  dell'Arienti.  Di  tutto  un  po':  pettegolezzi  e  faccende 
politiche,  feste  e  lavori  d'arte.  Lo  spirito  vivace  della  marchesa 
a  tutto  prendeva  interesse,  e  di  quelle  sollecite  informazioni,  sia 
pur  date  con  quel  modo  pesante  e  con  quella  perpetua  lardel- 
latura di  frasi  latine,  molto  si  compiaceva. 

Ben  s'intende  che  avendo  Sabadino  parecchia  pretesa  di  lette- 
rato, egli  non  mancava  di  spedire  alla  sua  eccelsa  corrispondente 
i  frutti  del  proprio  ingegno.  Vedemmo  già  come  le  inviasse  la 
Gynevera.  Il  10  giugno  1501  le  facea  tenere  «  una  epistoletta 
«  narratrice  de  uno  bel  zardino  de  l'illustre  mes.  Hannibal  Ben- 

«  tivoglio  nominato  per  lezadria  Viola In  epsa  intenderà  la 

«  verità  de  la  amenità  et  jocundità  del  zardino  ».  Si  trattava 
del  delizioso  giardino  circostante  la  villetta  della  Viola,  che  An- 
nibale Bentìvoglio  fece  costruire  da  Gaspare  Nadi  e  frescare  da 
allievi  del  Francia,  giardino  ove  è  lecito  credere  che  l'Arienti 
si  trattenesse  spesso  a  conversare  con  Annibale  e  con  la  moglie 
di  lui  Lucrezia  (3).  E  anche  opere  altrui  godeva  Sabadino  che 


(1)  Giornale^  XI,  211,  ove  in  nota  si  riassumono  le  vicende  di  quella  ce- 
lebre statua. 

(2)  Poscia  Sabadino  si  recò  a  Roma  «  ad  osculare  li  sacri  pedi  del  N.  S.  > 
e  stette  vari  mesi  del  1508  senza  scrivere  alla  marchesa:  di  che  si  scusa  in 
una  lettera  del  18  nov.  di  quell'anno,  in  cui  tocca  anche  della  peste  che 
serpeggiava  in  Bologna.  Vedi  Dallari,  Op.  cit.,  pp.  38-39. 

(3)  Vedasi   Giorn.,  XI,  217.  La  Descrizione  del  giardino  della   Viola  fu 


54  LDZIO-RENIER 

fossero  a  Isabella  dedicate,  sicché  si  affrettò  a  comunicare  alla 
signora  di  Mantova  la  elegia  in  morte  di  frate  Pietro  Gravasseti 
da  Novellara,  che  .l'amico  suo  e  della  marchesa,  il  «divino  se- 
«  cundo  mantovano  poeta  >,  avea  appunto  dedicato  alla  Gonzaga  (1). 
Neirinviarle  quel  componimento,  usciva  TArienti  in  una  esda- 
mazione  che  abbiamo  motivo  di  ritenere  sincerissima:  «  qual 
«  madonna  et  qual  signora,  in  questa  feza  de  ingrata  etalc,  se 
«  trova  de  lettere  amantissima,  se  non  la  ex.""  Marchionissa  de 
«  Mantua?!  »  (2).  Quella  madonna  e  quella  signora  celebra  ti  ssi  ma 
dovette  provare  non  poco  dolore  allorché  nel  1510  le  fu  annun- 
ciata la  morte  del  fido  corrispondente  bolognese.  Fu  appunto 
Ercole  degli  Arienti,  figliuolo  di  Sabadino,  che  le  inviò  la  trista 
novella  : 

111.™*  ecc.  Cuna  lachryme  et  suspiri  ad  scriver  la  presente  bora  mi  movo, 
perchè  il  spargere  in  carte  il  duolo  et  dispiacere  è  uno  renovar  l'affanno. 
Essendo  stato  il  clariss."  et  prestante  patre  mio  m.  Joanni  Sabadino  cosa 
molto  de  V.  Ex.  et  tanto  affectionato  de  core  quanto  dir  se  possa,  et  essendo 
di  questa  vita  mortai  passato  cum  gran  mio  danno  et  dispiacentia,  a  me  è 
parso  debito  darne  qualche  adviso  a  epsa  V.  Ex.  Pertanto  li  significo  come 
il  p^o  mio  Patre  domenica  matina  prox.  ne  moritte  per  una  infìrmità  grave 
de  ardentiss.^  febre  et  cruciato  de  aspre  doglie  per  la  persona,  che  per 
17  giorni  crudelmente  Thanno  oppresso.  Et  la  sera  fu  sepuito  honorifice  cum 
optime  laude  li  sono  state  date  da  tutto  il  populo  per  il  suo  bon  nome  che 


stampata  da  Gaetano  Giordani  per  nozze  nel  1836  e  poi  da  lui  ristampata 
heW Almanacco  bolognese  per  Vanno  1840.  Il  Dallari  (p.  21),  che  parla  di 
questa  stampa,  non  riuscì  a  rintracciarne  i  codici.  A  uno  di  noi  venne  fatto 
di  chiarire  che  il  ms.  inviato  a  Isabella  si  trova  ora  nella  Comunale  di  Tre- 
viso (Giorn.f  XI,  213,  n.  6),  mentre  quello  che  l'Arienti  scrisse  di  propria 
mano  per  Annibale  Bentivoglio  esiste  ora  nella  bibl.  Landi- Passerini  di  Pia- 
cenza (Giom.,  XII,  302,  n.  4). 

(1)  Giornale,  XI,  213,  n.  3.  Per  quel  che  riguarda  le  relazioni  deirArienti 
con  Battista  Mantovano  e  di  entrambi  con  Pietro  Gavasseti  da  Novellara,  si 
rimanda  a  ciò  che  ne  fu  detto  nel  capitolo  sul  gruppo  mantovano,  ove  si 
parlò  a  lungo  del  Carmelita.  Si  aggiunga  solo  che  TArienti  volgarizzò  la 
•toria  del  tempio  di  Loreto,  opera  originale  di  Battista.  Vedi  Dallari, 
Op,  cit.,  p.  16. 

(2)  X^lt.  13  maggio  1504  in  Ca.mpori,  Op.  cit.,  p.  5. 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   D'iSABELLA   D'ESTE         55 

ha  di  sé  lassato,  et  doglienga  universale  per  essersi  cuna  epso  perso  gran 
virtute  et  dote  che  erano  ornamento  a  la  citate,  benché  l'opre  et  monumenti 
che  ni  restano  in  scripto  farano  che  sua  virtute  non  sera  al  tutto  extincta  (1). 
Credo  questa  morte  senga  dubio  dispiacerà  forte  a  V.  111.™»  S.  per  esserli 
mancato  uno  fido  optimo  et  honorato  servo  et  che  de  soi  preconij  et  laude 
era  una  resonante  tuba  ;  ma  adviso  V.  Ex.  che  se  '1  patre  gli  è  mancato, 
el  figliolo  glie  resta,  quale  ha  ad  essere  una  imagine  paterna  se  non  de  la 
virtù  et  suflBcientia  sua,  che  invero  non  gli  è,  almeno  de  fede  et  observantia 
verso  epsa  V.  Ill.^a  S.  che  era  il  patre.  Et  perchè  pregho  quella  voglij  esser 
contenta  de  farmi  hereditare  l'amore  et  affectione  ne  portava  al  p.»o  mio 
patre.  Io  potendo  cosa  alcuna  operare  che  sia  grata  a  quella,  po'  far  con- 
cepto  de  havermi  sempre  ad  comandare  come  a  un  suo  optimo  servo  et  come 
a  m.  Jo.  Sabadino.  Cussi  a  la  p.*»  Ex.  V.  me  dono  et  recomando  sempre. 
Quae  bene  valeat.  Bononiae  die  IIII  Junii  MDX. 

Qui  incluso  sarà  uno  Epitaphio  vulgare  facto  per  mio  patre,  quale  mando 
a  V.  111.™»  S.  che  se  degni  tenirlo  per  sua  memoria,  benché  alquanti  altri 
ne  sieno  stati  facti  et  se  ne  facino  et  vulgari  et  latini. 

E.  111.  D.  V. 

servus  perpetuus 
Hercules  Sabadinus  de  Arientis  (2). 

Ercole  che  in  questa  lettera  si  profferiva  a  sostituire  il  padre 
nella  fiducia  di  Isabella,  mandò  per  qualche  tempo  realmente 
corrispondenze  non  prive  d'interesse  politico,  per  es.  quelle  del 
1511  relative  al  rimpatrio  de' Benti voglio;  né  mancò  di  inserirvi 
qualche  sonetto  od  altra  composizione  poetica,  che  era  venuto 
scombiccherando  negli  ozi  della   sua   villa   di   Gamurata  presso 


(1)  Si  vede  che  il  figliuolo  aveva  delle  opere  paterne  opinione  non  diversa 
da  quella  che  mostrò  di  averne  Sabadino  medesimo.  Si  ricorderà  come  il 
vecchio  Arienti  credesse  di  contribuire  eflBcacemente  alla  fama  del  mar- 
chese Francesco  Gonzaga  vantandone  le  prodezze  nel  De  hymenaeo.  Così 
pure  egli  si  raccomandava  il  20  genn.  1509  al  cardin.  Ippolito  d'Este,  ram- 
mentando i  servigi  resi  al  duca  Ercole,  «  del  quale  recepitti  duoni  et  honori 
«  noti  a  tucto  il  mundo,  come  parerà  a  la  posterità  del  tempo,  se  il  fructo 
€  del  mio  exile  ingegno  havarà  diuturnità  alcuna,  et  come  atestano  l'opre 
€  mie  existenti  in  fra  li  libri  del  ea?.™»  S.  vostro  patre  ».  Dallari,  p.  30. 

(2)  Lettera  già  edita  nel  Giornale,  XI,  211-12  e  dal  Dallari,  Op.  cit., 
pp.  42-43. 


56  LDZIO-RENIER 

Bologna.  A  poco  a  poco  però  le  sue  lettere  andarono  diradando: 
né  appare  che  ottenesse  mai  pienamente  il  favore  d'Isabella, 
certo  perchè  non  aveva  le  doti  che  rendevano  cosi  accetto  e  sti- 
mabile il  suo  genitore.  E  d'altra  parie  la  marchesa  aveva  a  Bo- 
logna un  altro  corrispondente,  che  pizzicava  di  letterato  più  del 
bisogno  egli  pure  e  che  specialmente  la  sovveniva  nella  sua  in- 
saziata bramosia  di  oggetti  d'arte.  Intendiamo  alludere  a  Giro- 
lamo Casio. 

Il  cav.  Girolamo  Casio  de'  Medici,  il  cui  vero  casato  era  dei 
Pandolfi  da  Casio,  castello  del  Bolognese,  fu  uno  stravagantissimo 
tipo  d'uomo. 

Visse  il  Casio  mercante  zoilero 
Et  con  Apol  ebbe  sua  mente  unita: 
A  Terra  santa  andò  ;  scrisse  la  vita 
Di  Cristo:  or  qui  è  poeta  e  cavaliero  (1). 

Queste  asserzioni,  da  lui  medesimo,  «  specialista  del  genere  fu- 
«  nerario  »  (2),  condensate  in  un  epitaffio,  son  tutte  vere,  all'in- 
fuori  di  quel  ch'ò  detto  nell'ultimo  verso,  giacché  se  riusci  ad  es- 
sere cavaliere  per  grazia  dei  Bentivoglio,  poeta,  per  grazia  dell'uno 
0  dell'altro  giogo  di  Parnaso,  non  fu  davvero.  Scrisse  bensi  una 
quantità  di  opere  in  verso,  tra  le  quali  alcune  oggi  rarissime  (3): 
ma  la  scintilla  poetica  non  ne  sprizza  mai  come  da  composizioni 
inspirate.  E  diffatti  la  marchesa  di  Mantova  profittò  dell'opera 
sua  come  gioielliere  e  come  mecenate  di  artisti  (4),  né  mostrò 
veruna  curiosità  pei  suoi  versi  (5). 


(1)  Questo  epitaffio  fu  riferito  anche  dal  Mazzoni  nella  sua  raccoltina  di 
Epigrammi  italiani,  Firenze,  1896,  p.  347. 

(2)  V.  Rossi  nel  Giornale,  XV,  199. 

(3)  Vedine  l'elenco  nel  Fantuzzi,  Scrittori  bolognesi.  III,  137-40.  Gfr.  Qua- 
drio, li,  227-8  e  Harrisse,  Excerpta  colombiniana,  Paris,  1887,  p.  196. 
Alcune  rarissime  stampe  di  lui,  ignote  al  Fantuzzi,  sono  rammentate  dal 
Malaoola,  Antonio  Urceo,  Bologna,  1878,  p.  248  n. 

(4)  Sul  mecenatismo  del  Casio  cfr.  G.  Giordani,  Della  nenuta  in  Bologna 
di  Clemente  VII,  p.  52. 

(5)  I  quali,  del  resto,  furono  messi  in  burletta  dai  contemporanei.  Si  rise 
del  Casio  il   Firenzuola  (v.  Sicardi  in   Giorn.,  XXVllI,  199-200);  lo  beffò 


COLTURA   E   RELAZIONI    LETTERARIE   D'ISABELLA  D'ESTE         57 

Conobbero  i  biografi,  sebbene  imperfettamente,  le  relazioni  del 
Casio  con  più  d'uno  dei  Gonzaga  (1)  e  segnatamente  col  card.  Er- 
cole, figliuolo  d'Isabella  (2);  ma  delle  varie  incombenze  aflìdategli 
da  Isabella  non  mostrarono  di  accorgersi.  La  sua  qualità  di  ore- 


11  Berni  senza  nominarlo  nel  Dialogo  contra  i  poeti  e  nominandolo  nella  let- 
tera premessa  al  Commento  al  capitolo  della  primiera.  Di  lui  si  burlò  pure, 
ferocemente,  l'Aretino  nella  Cortigiana,  at.  II,  se.  11,  mettendolo  in  mazzo 
con  quei  poetastri  di  cui  Leone  X  si  dilettava  perchè  lo  facevano  ridere;  e 
più  ancora  se  ne  fece  giuoco  nel  secondo  prologo  della  redazione  manoscritta 
della  Cortigiana  (vedi  Rossi,  Pasquinate,  p.  81).  Il  Casio  gli  avventava 
contro  de'  sonetti  ;  ma  ci  volevano  ben  altri  denti  per  trafìggere  la  dura  co- 
tenna dell'Aretino! 

(1)  Parla  il  Fantuzzi  (III,  135)  della  dimestichezza  che  ebbe  col  card.  Si- 
gismondo Gonzaga  e  con  Ludovico  Gonzaga;  ma  s'inganna  quando  crede  che 
quest'ultimo  sia  il  marchese  e  in  quest'errore  cade  anche  il  Lancetti,  Poeti 
laureati,  p,  394.  Si  tratta  invece  di  Ludovico  Gonzaga  del  ramo  di  Bozzolo, 
figliuolo  di  Gianfrancesco  e  di  Antonia  del  Balzo.  Nel  Libro  intitolato  Cro- 
nica, ove  si  tratta  di  epitaphii  di  Amore  e  di  Virtute,  che  è  l'opera  più 
comunemente  nota  del  Casio,  molti  Gonzaga  sono  celebrati;  il  vescovo  Lu- 
dovico, il  march.  Francesco,  Elisabetta  Gonzaga  duchessa  di  Urbino,  Laura 
BentivogliO'Gonzaga,  moglie  di  Giovanni  Gonzaga.  V'ha  una  parte  del  libro 
intitolata  La  Gonzaga,  nella  quale  l'autore  esprime  in  sonetti  il  suo  amore 
per  una  gentildonna  di  quella  famiglia  ed  inneggia  ad  altre  della  medesima 
stirpe.  E  peraltro  ignoto  sinora  come  il  Casio  cercasse  di  trar  profitto  dalla 
sua  famigliarità  coi  Gonzaga,  allorché  nell'autunno  del  1513  egli  fu  nomi 
nato  de'  Quaranta  dal  papa.  I  Bolognesi  non  volevano  riconoscere  quella  no- 
mina, perchè  egli  non  era  nobile,  sicché  il  Casio  ricorse  al  marchese  Fran- 
cesco affinchè  lo  nobilitasse.  In  una  supplichevole  lettera  del  24  ott.  1513 
rammenta  al  marchese  di  «  esser  stato  ragazzo  de  la  bo.  m.  del  R.*""  Car- 
«  dinaie  di  Mantova  »  e  si  rimette  alla  mediazione  del  pittore  Costa,  «  che 
«  sa  come  se  governano  le  cose  di  qua  ».  Non  essendosi  il  marchese  aflVettato 
a  compiacere  il  Casio,  questi  insistette  con  sue  lettere  del  30  ott.  e  del  4  nov. 
1513.  Nella  prima  di  esse  ripete  che  come  ufficiale  pubblico  avrebbe  meglio 
potuto  servire  il  marchese;  nella  seconda  promette  doni  preziosi  e  manda 
per  arra  «  il  Spirito  Santo  intagliato  in  una  pietra,  quale  ha  li  ragi  di  foco 
€  naturali  ».  Senonchè  il  marchese  gli  rimandava  alquanto  rudemente  quel 
dono  (7  novembre  1513),  «  reputando  che  'l  stia  meglio  appresso  voi,  come 
«persona  che  meglio  di  noi  conosce  la  bontà  sua,  che  noi  ce  intendemo 
€  meglio  de  cavalli  et  arme  che  de  intagli  ». 

(2)  Parecchie  opere  del  Casio  sono  dedicate  ad  Ercole  Gonzaga,  fra  le  altre 
anche  il  cit.  libro  degli  epitaffi.  Come  il  Casio  ivi  dice,  egli  conobbe  Ercole 
allorché  studiava  in  Bologna  sotto  il  Pomponazzi,  e  da  lui  ebbe  poscia  l'in- 
carico di  scrivere  dei  versi  in  morte  del  celebre  filosofo.  Questo  fatto  é  pur 


58  LDZIO-RENIER 

fice  ricco  e  intelligente  (1)  riusciva  in  special  guisa  accetta  alla 
marchesa,  che  di  orefici  avea  mestieri  cosi  di  frequente.  Il  23  ott. 
1505,  venendo  a  sapere  Isabella  che  il  valente  scultore  Gian 
Cristoforo  Romano  sarebbe  stato  accompagnato  a  Roma  dal  Casio, 
gli  scrisse:  «  Se  non  sei  partito  anchor  da  Bologna,  dirai  a  Hie- 
«  ronymo  Casio  che  '1  voglia  mandami  per  il  presente  cavallaro 
«  quello  suo  deaspi  dove  è  intagliato  Christo,  perchè  lo  volerao 
«  revedere,  e  piacendoni  lo  pagarirao  per  el  dovere  »  (2).  Ma  sic- 
come poi  seppe  che  il  Casio  rimaneva  a  Bologna,  gli  si  rivolse 
direttamente  con  la  medesima  commissione:  «vi  pregamo  che 
<c  ne  vogliati  mandare  per  il  presente  cavallaro  el  vostro  diaspis 
«dove  è  intagliato  Christo,  perchè  lo  vogliamo   revedere,  non 


rammentato  nei  versi  con  cui  il  Casio  inviava  ad  Ercole  il  Libro  intitolato 
Bellona,  che  è  un  poemetto  in  ottave  destinato  a  glorificare  Innocenzo  Cibo, 
legato  in  Bologna: 

Avendo  ne'  mie'  incalti  et  flebil  versi 
Composti  in  epitafSo  del  Peretto 
Felsineo  cattedrante  eccelso  et  magno 
Filosofo  e  teologo  divino 
Compatriota  tao,  tuo  precettore, 
Ercol  Gonzaga,  illostre  signor  mio. 
Ditto,  ma  pili  per  ver  pronosticato. 
Che  perso  quello,  perderem  te  Alcide, 
Nò  forza  avrà  di  rivocarti  a  noi 
De  '1  Sessa,  d'  el  Spagnolo,  o  d'altri  il  nome. 
Onde  Felsina  tua  sarà  scontenta. 
Et  perchè  festi  poi  di  qua  partita 
Ogn'  hor  fatte  si  son  giostr'  e  dispute 
Poste  r  bo  in  cart«,  acciò  che  quel  eh'  udire 
Non  hai  potato,  né  veder,  leggendo 
Bellona  veggi,  et  che  Minerva  ascolti 
E  i  colpi  fatti  da  Cupido  et  Marte. 
Così  l'intrata  felice  et  eccelsa 
De  '1  divin  Cibo,  Innocentio  Legato 
Leggi  felice  et  con  benegno  Fato 
Aspetta  quel  ch'io  dissi  nel  mio  canto 
Co  '1  tempo  le  due  chiavi,  il  Regno  e  '1  Manto. 

(1)  Leone  X,  nel  breve  con  che  esentò  Girolamo  da  ogni  dazio  nel  viaggio 
di  Terrasanta,  non  manca  di  tributargli  elogio  particolare  per  la  sua  intel- 
ligenza nel  distinguere  e  valutare  le  gemme.  Cfr.  Fantuzzi,  111,  133. 

(2)  Venturi,  Qian  Cristoforo  Romano,  in  Arch.  stor.  dell'arte,  I,  118. 
Il  Casio  dettò  uno  de' suoi  sgangherali  epitaffi  anche  per  Giancristoforo.  È 
riferito  neWArch.  stor.  dell'arte,  I,  158. 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   d'ISABELLA    D'ESTE         59 

«  havendo  bene  a  memoria  corno  stia.  Perchè  piacendoni  lo  rite- 
«  neremo  et  vi  remetteremo  el  pagamento,  il  quale  ne  signifl- 
«  careti  per  vero  et  ultimo  :  et  non  vi  remetteti  già  al  arbitrio 
«  nostro,  perchè  non  lo  accepteressimo;  ma  ancora  che  '1  ne 
«  piacesse,  vi  lo  restituiressimo  ».  Questa  lettera  è  deirs  nov.  1505. 
L'il  nov.,  malgrado  questa  esplicita  dichiarazione,  cosi  rispon- 
deva galantemente  il  buon  Casio: 

Ex. sa  et  Diva  Patrona  salute.  Hora  tornato  dalla  villa  ho  ritrovato  in  casa 
la  litt.*  de  di  VII!  de  V.  111.  S.  ala  quale  questa  sera  risposta:  et  domatina 
la  penerò  a  la  Ghavalcata,  aciò  che  per  il  primo  garzune  de  Bernardino  sia 
subito  portata,  et  insieme  lo  adimandato  Christo  nel  diaspro  verde.  Et  per 
obidientia  dirò  il  pretio.  V.  111.  S.  sera  contenta  aceptarlo  per  uno  picolo 
dono  dal  Casio,  che  ne  receverà  summo  piacere;  et  se  pur  non  mi  vuol  far 
degno  di  questo,  quella  ne  mandi  quel  più  e  quel  meno  de'  XV  ducati  d'oro 
che  sera  judicato  per  m.»  Zoan  frane.»  della  Grana  (1).  Ma  la  satisfacione 
mia  seria  che  V.  IH.»  S.  lo  tenese  con  memoria  del  Casio  suo  afectionatis- 
simo  et  vero  servitore,  ala  quale  de  continuo  ex  corde  se  le  racom.»  Bononiae, 
die  XI  Nov.  1505. 
E.  IH.  E.  V. 

Servìtor  Hieronimus 
Casiu^. 

Di  pietre  intagliate  la  marchesa  era  assai  ghiotta  (2),  e  il  Casio 
ne  avea  di  bellissime  (3).  Ma  quella  volta  il  Cristo  non  le  con- 
venne e  lo  rimandò  con  la  seguente  letterina  del  18  giugno  1506, 


(1)  Così  chiamavasi  comunemente  Gio.  Francesco  de'  Roberti,  saggiatore 
della  zecca  di  Mantova,  pel  quale  vedi  il  nostro  Lusso  d'Isabella,  p.  42. 

(2)  Se  ne  possono  trovare  testimonianze  copiose  nel  cit.  nostro  articolo  sul 
Lusso  d'Isabella.  In  quel  medesimo  anno  Ì505  chiedeva  al  Casio  di  ricer- 
carle «  un  qualche  intaglio  da  sigillare  ».  11  Casio  gliene  inviò  un  paio;  ma 
alla  marchesa  non  parvero  belli  abbastanza,  sicché  li  rifiutò.  Vedasi  Lusso, 
p.  40.  Altri  intagli  per  sigillare  furono  mandati  dal  Casio  alla  marchesa 
nel  1510. 

(3)  Secondo  l'uso  del  tempo,  il  Gasio  portava  sul  berretto  una  grande  me- 
daglia d'agata,  in  cui  era  intagliata  la  sua  impresa,  cioè  la  discesa  dello 
Spirito  Santo  sugli  Apostoli.  Con  la  spiegazione  di  quell'impresa  il  Casio 
fece  un  giorno  sbellicar  dalle  risa  papa  Clemente  VII,  come  attesta  il  Giovio, 
Dialogo  delle  imprese,  Milano,  1863,  p.  9. 


60  LDZIO-RENIER 

da  cui  appare  che  nel  frattempo  il  Casio  aveva  per  lei  procurato 
parecchi  altri  oggetti  :  «  Havemo  havuto  la  lettera  vostra  insieme 
«  cum  una  cassetta  driciatavi  per  Zo.  Angelo  Tobalia  (1).  La  co- 
«  rona  di  agate,  corniole  et  calzedoni ,  che  ce  haveti  mandata, 
«vi  la  remettemo,  non  perchè  ne  sia  spiaciuta,  ma  per  esser 
«  fornite  di  corone.  Seco  agropato  serra  l'intaglio  de  Cristo  in 
«  diaspis,  che  ne  mandasti  li  di  passati,  che  per  non  havere  noi 
<  sfornita  corona  alcuna  se  non  una  de  agata,  meglio  se  gli  con- 
«  vene  l'intaglio  di  agata,  il  qual  molto  più  de  questo  de  diaspis 
«  ni  piace;  ma  cum  magior  nostra  comodità  vi  mandaremo  li 
«  dinari.  El  calamaro  piombino  di  curarne  et  la  riga  lavorata  de 
«legname,  eh' haveti  comperato  a  Venetia,  li  potreti  retenere 
«  cossi  sin  che  vi  accada  venire  da  noi  ».  Ma  sembra  che  il  Casio, 
molto  ricco  e  ambizioso,  malvolentieri  indicasse  alla  marchesa  il 
prezzo  degli  oggetti  che  le  faceva  tenere.  Di  che  essa,  un  po' im- 
bronciata, si  lamentava  nel  seguente  biglietto  del  17  nov.  1506: 
«  Anchora  che  per  un'altra  nostra  ve  habiamo  scritto  che  vo- 
«  lesti  avisarni  el  pretio  de  le  cose  ne  havete  date,  che  ve  man- 
«  daressimo  li  dinari,  bora  che  l'interditlo  è  levato  a' Bolognesi, 
«  nondimeno,  visto  quanto  per  la  vostra  ne  haveti  scritto  prima* 
«  che  habiati  recevuta  la  nostra,  habiamo  facto  extimare  a  pe- 
«  riti  l'agata  intagliata  cum  Cristo  et  lo  quadro  de  le  frute  (2), 
«  quali  sono  extimati  quatuordici  ducati  in   tutto.  Mandamoveli 


(1)  Si  riferisce  certo  alla  seguente  ordinazione  data  al  Tovaglia,  che  stava 
a  Firenze:  «Quando  li  drappi  che  vi  ordinassimo  saranno  finiti,  potete  man- 
€  darli  in  mane  di  Hieronimo  Casio  in  Bologna,  che  ce  li  rimetterà  qua  in 
4  Sachetta,  dove  habiamo  la  stantia  nostra  ».  Del  12  maggio  1505. 

(2)  Il  €  quadro  de  le  frute  »  è  certamente  quel  medesimo  che  il  15  aprile 
1506  il  Casio  inviò  a  Isabella  (insieme  con  un  po'  d'olive  e  con  una  Madda- 
lena di  Lorenzo  di  Credi)  cosi  designandolo:  «  uno  quadro  pieno  de  fructi 
«  facto  per  Antonio  da  Crevalcore,  tra  nui  in  questo  exercitio  si ngula rissimo, 
«  ma  assai  più  longo  che  la  natura  ».  In  quella  lettera  egli  le  parlava  anche 
di  certa  Madonna  di  un  «  discipulo  del  Franza  »  di  cui  la  marchesa,  vedu- 
tala, non  avrebbe  esitato  a  mandargli  €  tanti  scudi  quanto  pesa  ».  Vedi  la 
lettera  edita  e  debitamente  illustrata  da  A.  Venturi,  neWArch.  stor.  del- 
l'arte, I,  278. 


COLTURA   E  RELAZIONI   LETTERARIE   D'ISABELLA   D'ESTE         61 

«  per  Francisco  correre,  cum  protexto  che  da  mo'  inanti  vui  ne 
«  habiati  ad  scrivere  el  pretio  de  le  cose  che  voremo  da  voi, 
«  come  per  l'altra  nostra  havereti  inteso.  Si  '1  Costa  pletore  ve- 
«  nirà  in  qua,  lo  vederemo  molto  voluntieri  ». 

Quest'ultimo  accenno  ci  richiama  ad  un'altra  specie  di  inca- 
richi, che  la  Gonzaga  dava  volentieri  al  Casio,  le  trattative  con 
pittori  suoi  amici.  In  sul  finire  del  1506,  come  vedemmo,  comu- 
nicava il  Casio  che  il  pittore  Lorenzo  Costa  era  disposto  a  ve- 
nire a  Mantova.  Sin  dall'anno  antecedente  la  marchesa  doveva 
aver  ricevuto  una  sua  tela,  perchè  già  il  17  agosto  1505  Giro- 
lamo le  partecipava:  «  il  r."""  Protonotario  nostro  Bentivoloiersera 
€  me  impose  facesse  intendere  a  V.  Ex.  come  l'opera  che  faceva 
«  il  Costa  era  molto  inanti  et  che  omnino  sera  finita  prima  che 
«  a  Natale  proximo,  et  per  il  juditio  mio  V.  Ex.  ne  resterà  sa- 
«  tisfactissima  »  (1).  Il  Costa  si  recò  poi  diffatti  a  Mantova  nel 
1507  e  vi  si  trattenne  alcuni  anni,  eseguendo  diversi  lavori  per 
il  marchese  e  per  Isabella,  fra  cui  specialmente  famosi  due  di- 
pinti allegorici  destinati  al  camerino  della  signora  ed  ora  visibili 
al  Louvre  (2).  Suppose  il  Venturi  che  al  trasferirsi  del  Costa  a 
Mantova  contribuisse  il  bisogno  da  lui  provato  di  «  scuotere  la 
«  supremazia  del  Francia  »,  il  fortunato  e  festeggiatissirao  fra  i 
pittori  bolognesi.  E  di  ciò  infatti  può  ravvisarsi  un  indizio  nella 
lettera  d'Isabella  a  Lucrezia  Bentivoglio  dell'll  sett.  1511,  nella 
quale  la  prega  di  dissuadere  il  Francia  dal  recarsi  a  Mantova 
per  farle  il  ritratto,  anzitutto  perchè  «  in  quest'ultima  volta  che 
«  semo  state  retratte  ni  è  venuto  tanto  in  fastidio  la  patientia 
«  de  star  ferma  et  immota,  che  più  non  vi  ritornaressìmo  »  e 
poi  perchè  «  non  sapressimo  mai  usare  tanto  temperamento  in 
«  racogliere  esso  Franza  che  non  offendessimo  il  Costa,  et  diffì- 
«  cilmente  ni  lo  conservaressimo  amico  »  (3). 


(1)  Venturi,  Lorenzo  Costa,  in  Arch.  stor.  dell'arte,  I,  251,  n.  1. 

(2)  Venturi,  Artic.  cit.,  in  Arch.  stor.  dell'arte,  I,  250-53. 

(3)  Venturi,  Artic.  cit.,  in  Arch.  stor.  dell'arte,  I,  251,  n.  4.  Ma  prima 
in  Luzio,  Federico  ostaggio,  p.  61.  Cfr.  Yriarte,  Isabelle  d'Este  et  les 
artistes  de  son  temps,  in  Gazette  des  beaux  arts.  Serie  III,  voi.  XIII,  p.  27. 


^'^  LCZIO-RENIER 

Prima  ancona  che  Francesco  Raibolini  detto  il  Francia  si  ado- 
perasse a  fare  il  ritratto  d'Isabella,  egli  aveva  da  lei  avuto  inca- 
rico d'un  quadro  pel  camerino,  e  mediatore  di  questa  e  d'altre 
commissioni  pel  Francia  fu  Girolamo  Casio,  a  lui  particolarmente 
stretto  d'amicizia,  fors'anco  per  essere  orefici  entrambi  (1).  Già 
il  2  aprile  1505  troviamo  che  la  marchesa  ingiunge  al  Casio: 
«  La  littera  continente  la  historia  che  dovea  fare  quel  frate  suso 
«  uno  quadro  per  mettere  nel  camerino  nostro,  la  qual  poi  per 

<  novo  ordine  desti,  o  dovevati  dare,  al  Pranza  pletore  lì  in  Bo- 
«  logna  per  farlo  fare  a  lui,  voressimo  che  ve  la  facesti  restituire 

<  et  mandare  qua  a  noi  perchè  voressimo  mutare  el  sentimento: 
«  il  che  facto,  ve  la  remetteressimo  incontinente,  acciò  che  poi 

<  el  Pranza  potesse  dare  principio  a  l'opera  ».  E  in  quella  me- 
desima lettera  del  Casio,  in  data  17  agosto  1505,  di  cui  rift?rimmo 
il  periodo  riguardante  il  Costa,  vien  sollecitata  Isabella  «  ad  man- 
«  dare  il  disegno  de  la  tela  ha  da  fare  il  Pranza,  al  quale  ho 
«  portato,  per  lavorare  in  quella,  azuro  oltremarino  finissimo  ». 
Mandi  ducati  25  e  il  disegno  al  Francia,  «  qual  non  aspecta 
«altro,  né  ha  voluto  pigliar  lavoro  alcuno».  Comunque  andasse 
la  cosa,  sta  di  fatto  che  per  allora  quel  quadro  non  fu  eseguito, 
e  che  ril  genn.  1511  il  Francia  chiedeva   alla  marchesa  «la 

<  misura  et  il  lume  »  per  dipingere  «  la  tella  del  camerino  de 
«  V.  S.  a'  tempi  passati  ordinata  a  me  per  el  nostro  Casio  »  (2). 


(1)  Vuoisi  che  il  Francia  rappresentasse  il  Casio  nella  figura  d*un  pastore, 
eh' è  nel  presepio  da  lui  dipinto  per  il  protonotario  Ant.  Galeazzo  Benti* 
voglio,  oggi  nella  pinacoteca  di  Brera.  Vedi  J.  A.  Calvi,  Memorie  della 
vita  e  delle  opere  di  Francesco  Raibolini  detto  il  Francia,  Bologna,  1812, 
pp.  19-20.  Il  Casio  esaltò  il  Francia  in  due  sonetti  delle  sue  Rime  saer4^ 
nel  primo  dei  quali  lo  esorta  a  tenersi  sempre  fido  alla  famiglia  Bentivoglio, 
nel  secondo  discorre  della  grande  reputazione  che  il  Francia  godeva  come 
ritrattista.  Vedi  Calvi,  Op.  ctf.,  pp.  54-55,  e  sui  ritratti  del  Francia  ed  il 
loro  valore  Vasari,  Opere,  ediz.  G.  Milanesi,  III,  545  e  Crowe-Gavalca- 
SELLE,  Qesch.  der  ital.  Malerei,  voi.  V,  P.  II,  p.  597.  In  un  orribile  epitaffio 
della  Cronica  il  Casio  encomiò  Frama  Felsineo^  orafo  e  pittore.  Vedilo 
riprodotto  dal  Fantuzzi  e  dal  Malaoola,  Urceo,  p.  269. 

(2)  Lettera  edita  dal  Luzio  nel  Federico  ostaggio^  pp.  60-61. 


COLTURA   E   RELAZIONI  LETTERARIE   d'iSABELLA   D'ESTE         63 

Nel  frattempo  il  Francia,  non  potendolo  il  Costa,  aveva  stupen- 
damente ritratto  il  giovinetto  Federico  (1),  da  cui  la  madre  aveva 
(fovuto  con  dolore  distaccarsi,  per  mandarlo  ostaggio  alla  corte 
di  Giulio  II  (2).  Quell'opera  cosi  ben  riuscita  del  Raibolini,  do- 
veva accendere  sempre  più  nell'animo  della  marchesa  il  desiderio 
d'averne  il  dipinto  pel  camerino,  ond'  è  che  il  19  die.  1510  fece 
sollecitare  il  pittore  dal  Casio,  a  cui  scrisse:  «  Piacene  che  '1 
«  Pranza  sii  remaste  satisfatto  de  li  trenta  ducati  donatili  per  il 
«  retracto  de  Federico  nostro  figliolo  et  che  '1  sii  in  opinione  de 
«fami  il  quadro  per  il  nostro  camerino  passate  le  feste.  Have- 
«  remo  piacere  che  intendiati  se  l'ha  il  tellaro  et  la  tela  o  vole 
«  che  se  la  gli  mandi  de  qui,  et  se  l'ha  la  scripta  de  la  inven- 
«  tione  che  gli  mandassimo,  et  gli  piace  o  non,  informandovi 
«  bene  de  tutto  il  bisogno,  a  ciò  che  se  possi  provvedere  che  '1 
«  non  babbi  più  a  perder  tempo  »  (3).  Rispose  il  Francia  me- 
desimo con  la  lettera  11  genn.  1511  cui  accennammo  poc' anzi. 
Isabella  replicò  includendo  la  lettera  per  lui  in  una  pel  Casio 
(6  febbr.  1511),  al  quale  diceva  su  per  giù  le  medesime  cose: 


(1)  La  sostituzione  del  Francia  al  Costa  nel  fare  il  ritratto  di  Federico, 
accennata  dal  Venturi  (Arch.  stor.  dell" arte,  I,  253),  resta  chiaramente  pro- 
vata da  questa  lettera  di  Isabella  a  Matteo  Ippoliti:  «  Scriviamo  al  Costa 
«  che  '1  faccia  un  ritracto  de  Federico  et  cil  facci  havere.  Ma  per  che  ere- 
€  demo  ch'el  non  haverà  tempo,  dovendo  venire  a  Mantova  col  S.'«  nostro, 
«  volemo,  quando  lui  non  lo  facci,  tu  babbi  cura  di  farlo  fare  al  Pranza 
«  prima  che  parteti  da  Bologna,  lassando  bon  ordine  che  '1  vi  sia  mandato 
«  con  diligenza.  Et  acciò  che  sapiamo  che  cortesia  usare  con  el  Tp.^°  Franza, 
«  parla  con  Hieronimo  da  Casio  o  altro  che  '1  te  ne  sapia  informare  et  avi- 
«  .sacilo,  perchè  intendemo  de  remunerarlo.  Mantuae,  xxiiij  Julii  MDX  ». 

(2)  II  Casio  fu  mediatore  in  tutto  questo  negozio  del  ritratto  di  Federico, 
come  può  vedersi  dai  documenti  prodotti  dal  Luzio,  Federico  ostaggio, 
pp.  59-60.  La  storia  di  quell'episodio  potrà  essere  agevolmente  completata 
col  mezzo  delle  lettere  della  marchesa  al  Casio  del  novembre  1510,  che 
esistono  nel  copialettere. 

(3)  Già  il  29  nov.  la  marchesa  avea  pregato  il  Casio  di  informarsi  se  ve- 
ramente il  Francia  fosse  disposto  a  fare  quel  quadro  e  avea  aggiunto:  «ma 
«  volemo  che  ben  vi  chiariti  se  vorrà  .sollecitamente  farlo,  però  che  quando 
€  facesse  pensere  di  stanchezarni ,  non  voressimo  lo  principiasse  et  piglia- 
€  ressimo  altra  via,  perchè  deliberiamo  fare  finire  décto  camerino  », 


64  LUZIO-RENIER 

Ex.me  Francia.  La  tela  del  quadro  che  desideramo  bavere  di  mane  vostre 
è  fornita,  e  già  Thaveressimo  mandata,  se  gli  sinistri  tempi  non  ce  lo  ha- 
vessino  vetato:  quando  li  tempi  siino  assettati  vi  la  mandarimo  cum  la  me- 
sura  et  suo  justo  lume.  Et  perchè  in  la  littera  che  scrivessimo  ad  Hieronimo 
Casio  gli  facevimo  instancia  che  '1  volessi  intendere  se  la  inventione  di  la 
pictura  vi  piaceva,  non  havendoni  di  questo  havuto  alcuno  aviso  da  voi, 
piaciavi  significami  il  parere  et  opinione  vostra  prima  vi  inviamo  essa  tela, 
perchè  semo  per  accostami  sempre  al  judicio  vostro,  et  alli  piaceri  vostri  di 
continuo  ne  o£ferimo.  Mantuae,  sexto  februarii  1511. 

Poi  non  ne  sappiamo  altro,  e  sembra  che  il  dipinto  pel  camerino 
non  sia  mai  stato  eseguito  dal  Francia.  Egli  compi  invece  felice- 
mente quel  ritratto  della  marchesa  a  cui  abbiamo  accennato,  e 
per  quanto  Isabella  si  rifiutasse  di  posare  d'innanzi  a  lui,  e  in- 
caricasse Lucrezia  Bentivoglio  di  sovvenirlo  co' suoi  ricordi,  riusci 
l'imagine  a  perfezione,  tantoché  la  Gonzaga  vi  si  trovava  «  assai 
«  più  bella  che  non  ni  ha  facto  natura  »,  e  gli  inviava,  col  solito 
mezzo  del  Casio,  trenta  ducati  (1).  Ulteriori  relazioni  col  Casio 
non  ci  sono  note;  ma  è  certo  che  la  marchesa  dovette  trovarsi 
con  lui  molte  volte  nel  1530  a  Bologna,  allorché  il  vanitoso  mer- 
cante poeta  ebbe  a  fare  il  maggiore  sfoggio  della  sua  opulenza 
per  mettersi  in  vista  presso  i  gran  signori  là  convenuti  (2). 

Fra  i  lodatori  d'Isabella  e  i  devoti  ai  Gonzaga  vuoisi  anno- 
verare anche  un  altro  verseggiatore  emiliano,  che  levò  di  sé 
molto  più  grido  del  Casio,  quantunque  la  sua  maniera  di  poetare 
sia  contaminata  da  frivolità  e  leziosaggini  d'ogni  specie,  il  mo- 
denese Panfilo  Sasso  (3).  Noi  non  vorremmo  dare  per  certa,  at- 
tingendo ad  una  torbida  sorgente  com'è  lo  Zilioli,  la  sua  dimora 
in  Mantova,  della  quale  non  ci  sono  pervenute  notizie  documen- 
tali (4);  ma  certamente  dei  Gonzaga  egli  fu  estimatore  costante. 


(1)  Luzio,  Federico  ostaggio,  p.  61,  ed  Emporium,  XI  (1900),  pp.  427-29. 

(2)  Vedi  il  cit.  voi.  del  Giordani  e  anche  Morsolin,  Trissino,  p.  165. 

(3)  Per  rinvìi  bibliografici  intorno  a  lui  vedi  G.  Rossi  in  questo  Giornale^ 
XXX,  33-35.  Si  aggiunga  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  pp.  393  e  402. 

(4)  Vedi  il  cod.  Marciano  X,  1,  a  p.  160,  ove  lo  Zilioli  scrive:  <  Ed  ebbe 
€  onorato  trattenimento  appresso  al  cardinale  Ascanio  Sforza  e  Lodovico  duca 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   D'ISABELLA   D'ESTE         65 

Ad  Elisabetta  Gonzaga  duchessa  d'Urbino  (1)  dedicò  Panfilo  il  suo 
canzoniere  (2),  ed  in  un  capitolo,  che  è  una  specie  di  visione, 
celebrò  le  virtù  singolari  di  lei,  fingendo  che  le  deità  dell'Olimpo, 
alle  quali  era  cara,  la  salvassero  da  una  grave  malattia  (3).  In 
un  poemetto  latino  e  in  parecchie  rime  italiane  esaltò  il  mar- 
chese Francesco  Gonzaga  e  il  preteso  suo  trionfo  del  Taro,  poiché 
il  Sasso  seppe  elevarsi  talora  dalle  lambiccature  delle  rime  amo- 
rose, lucidate  su  quelle  famosissime  di  Serafino  Aquilano,  a  poesie 
di  contenuto  più  grave,  in  cui  palpita  sotto  la  retorica  il  senti- 
mento della  italianità  (4).  Lodò  pure  mes.  Panfilo  il  card.  Sigi- 


«  di  Milano  suo  fratello,  la  potenza  de'  quali  restando  oppressa  dalle  armi 
«  de' Francesi,  nella  quale  occasione  fu  fatto  anch'egli  prigione,  si  ridusse 
«sotto  la  protezione  della  casa  Gonzaga,  e  trattenendosi  ora  in  Mantova, 
«  ora  in  Bologna,  ora  in  Modena  sua  patria,  consumò  lietamente  l'avanzo 
<  de'  giorni  suoi  ».  Queste  notizie  ci  sembrano  tutte  da  accogliere  con  grande 
circospezione,  tacendone  il  più  accurato  biografo  che  del  Sasso  fino  ad  oggi 
si  abbia,  G.  Tiraboschi,  nella  Bibl.  Modenese,  V,  22  sgg. 

(1)  Non  a  Isabella,  come  per  is vista  scrisse  il  D'Ancona,  Studi  sulla  let- 
teratura ital.  de"  primi  secoli,  Ancona,  1884,  p.  219. 

(2)  Opera  del  preclarissimo  poe  \  ta  Miser  Pamphilo  \  Sasso  Modenese,  j 
Sonetti  ecce  VI.  \  Capituli  XXVIIJ.  \  Egloghe  V,  Venetiis,  per  Guilielmum 
de  Fontaneto  de  Monferato,  1519  a  di  primo  febraro;  è  la  rara  edizione  da 
noi  esaminata  ed  a  cui  ci  riferiamo. 

(3)  Cfr.  il  nostro  Mantova  e  Urbino,  p.  95  n. 

(4)  Vedi  sulla  poesia  politica  del  Sasso  F.  Gabotto,  Francesismo  e  anti- 
francesismo in  due  poeti  del  Quattrocento,  nella  Rassegna  emiliana,  I, 
288  sgg.  Cfr.  anche  Pèrcopo,  Un  libretto  sconosciuto  di  Panfilo  Sasso,  in 
Studi  di  Ietterai,  italiana,  I,  194  sgg.  Che,  del  resto,  il  Sasso  accudisse 
a  cose  più  serie  che  il  convenzionale  rimare  amoroso,  lo  prova  anche  an 
fatto  alquanto  oscuro  della  sua  vita,  la  scomunica  lanciatagli  contro  per 
eresia  nel  1523.  Le  informazioni  che  noi  oggi  ne  abbiamo  rimontano  alla 
Cronaca  modenese  di  Tommasino  de'  Lancellotti  (Parma,  1862,  I,  233-35), 
alla  quale  ricorse  al  tempo  suo  anche  il  Tiraboschi,  Bibl.  Modenese,  Y,  21. 
A  quanto  si  rileva  dal  Lancellotti,  la  scomunica  non  ebbe  effetto;  ma  sui 
particolari  dello  strano  incidente  sarebbe  assai  utile  che  qualche  erudito  mo- 
denese ci  illuminasse.  Rammentiamo  che  nella  tornata  del  25  genn.  1861 
della  Deputazione  modenese  di  storia  patria  Gius.  Gampori  produsse  docu- 
menti che  dimostrano  essersi  il  Sasso  giustificato  dell'accusa  di  eresia  lan- 
ciatagli contro  dall'Inquisizione.  Cfr.  Atti  e  memorie  di  quella  Deputazione, 
Serie  I,  voi.  I,  p.  xxxvi. 

Giornale  storico,  XXXVIII ,  fase.  112-113.  5 


6d  LDZIO-RENIER 

smondo  Gonzaga,  al  quale  dedicò  i  suoi  epigrammi  latini,  e  nel 
XVIII  de' suoi  capitoli  tessè  l'elogio  d'Isabella,  di  cui  ammirava 
la  bellezza  e  la  sagacia. 

A.ltro  ammiratore  d'Isabella  fu  quello  strano  tipo  di  prete  av- 
venturiere parmigiano,  che  rispose  al  nome  di  Jacopo  Gaviceo(l). 
Avendo  dimorato  a  lungo  in  Ferrara,  egli  fìnse  colà  la  scena  del 
suo  Libro  del  peregrino,  una  pesante  e  lasciva  imitazione  del 
Filocolo  (2),  che  piacque  tanto  ai  contemporanei  da  meritare  a 
quel  romanzo,  entro  i  limiti  del  cinquecento,  una  ventina  di  edi- 
zioni, non  che  una  traduzione  francese  ed  una  castigliana  (3). 
A  Ferrara  il  Caviceo  visse  in  grande  famigliarità  con  gli  Estensi 
e  coi  personaggi  che  frequentavano  la  loro  corte  (4).  E  là  conobbe 
sicuramente  Isabella,  che  encomia  nel  proemio  del  Peregrino. 
Questo  proemio  è  messo  in  bocca  all'anima  di  Giovanni  Boccacci, 
che  fattosi  «  incola  dela  docta  città  di  Ferrara,  per  contemplare 
«  una  non  più  vista  belleza  e  forma  »,  dice  le  più  ampie  lodi 
degli  Estensi,  cominciando  da  Lucrezia  Borgia,  alla  quale  il  libro 
è  dedicato,  e  venendo  al  suocero  di  lei,  duca  Ercole,  al  marito 


(1)  La  vita  bizzarra  del  Caviceo  fu  narrata  da  Giorgio  Anselmi.  Vedasi 
quel  che  ne  dicono  I'Affò,  Mem.  dei  letterati  parmigiani^  III,  79  sgg.;  il 
LiRUTi,  Notizie  de'  letterati  del  Friuli^  1,  424  sgg.  ;  il  Ronchini,  in  Atti  e 
mem.  per  Parma  e  Modena,  IV,  209  sgg. 

(2)  Per  la  favola  e  per  la  critica  del  Peregrino  vedi  specialmente  Alber- 
TAZZi,  Romanzieri  e  romanzi  del  cinquecento  e  del  seicento,  Bologna,  1891, 
pp.  13-33  e  Rossi,  Il  Quattrocento,  p.  135.  Per  quel  che  riguarda  la  forma, 
il  Pellegrino  fu  giudicato  imitazione  del  Poli/ilo,  non  sappiamo  con  quanta 
giustezza  di  criterio.  Vedi  Gnoli,  //  sogno  di  Poli/ilo,  Firenze,  1900,  p.  41. 

(3)  La  prima  ediz.  è  di  Parma  1508.  Per  la  bibliografia  del  Peregrino 
cfr.  Passano,  Novellieri  in  prosa^,  1,  211  e  Albertazzi,  Op.  cit.,  pp.  lO'll. 
E.  Faelli,  nella  Domenica  del  Fracassa,  II,  45,  con  l'aria  di  rivelare  grandi 
novità,  non  fa  che  rimpolpettare  quanto  altri  avevano  scritto. 

(4)  Nell'ultimo  capitolo  nemica  fra  i  trapassati  Ercole  Strozzi,  segno  evi- 
dente che  l'ultima  mano  al  libro  fu  data  appunto  in  quel  1508  in  cui  esso 
vide  per  la  prima  volta  la  luce.  Rispetto  agli  amici  del  Caviceo  menzionati 
nel  Peregrino  vedi  Affò,  Op.  cit..  Ili,  92.  V'è  tra  questi  Niccolò  da  Cor- 
reggio, al  quale  è  pure  diretto  un  dialogo  latino  che  il  cod.  Vatic.  7105 
attribuisce  al  Caviceo  e  fu  di  recente  pubblicato  da  L.  Callari.  Cfr.  questo 
Giornale,  XXVIl,  172. 


COLTURA   E   RELAZIONI   LETTERARIE   D  ISABELLA   D'eSTE         67 

Alfonso,  al  cognato  Ippolito  (1),  alla  cognata  Isabella.  Di  quest'ul- 
tima lo  spirito  del  Certaldese  dice:  «Accede  alia  tua  [della 
«  Borgia]  excellentia  quello  lume  che  extinguere  non  si  può  de 
«  quella  vera  mortale  dea  Helisabella  Estense  de  Gonzaga  prin- 

<  cipessa  mantuana,  alla  quale  le  Muse  fanno  riverentia  »  (2). 
Abbiamo  anche  indizio  che  il  Gaviceo  si  valse  della  mediazione 
di  Isabella  per  venire  a  Mantova  stabilmente,  come  giudice  della 
Curia  del  Podestà,  giacché  il  3  agosto  1501  troviamo  che  la 
marchesa  scriveva  in  questi  termini  a  Manfredo  de' Manfredi: 
«  Le  lettere  che  V.  M.  ne  ha  scripto  in  favore  de  M.  Jacopo 
«Gaviceo  parmesano,  sono  state  di  tale  momento  et  efficacia, 
«  che  quando  per  lo  ili."'*'  S/  nostro  consorte  già  non  fussi  stata 

<  facta  la  ellectione  d'un  altro,  nui   non  haveriamo  mancato  di 

<  usare  omne  opera  possibile  perchè  esso  m.  Jacomo  fussi  substi- 

<  tuito  al  q.  m.  Hectore  Ravano  »  (giudice). 

Devoto  agli  Estensi  fu  pure  Antonio  Cornazzano,  il  Cornazan 
per  cui  Placentia  fulge,  come  lo  chiamò  Lelio  Manfredi  (3); 
v'ebbe  anzi  chi  addirittura  lo  considerò  come  ferrarese,  perchè 
in  Ferrara  si  stabili  con  la  famiglia  e  colà  visse  l'ultima  parte 
della  sua  vita  (4).  Uno  de'  suoi  molti  poemi  è  dedicato  a  Borso 
d'Este,  un  altro  alla  madre  d'Isabella,  Leonora  d'Aragona.  Nessun 


(1)  Ad  Ippolito  dedicò  poscia  il  Gaviceo  il  suo  Confessionale,  un  dialogo 
destinato  a  fare  araiigenda  dello  scandalo  provocato  col  Peregrino.  Vedi 
Affò,  Op.  cit..  Ili,  87-88  e  93. 

(2)  Queste  parole  non  fanno  punto  l'impressione  che  ne  riceve  il  Grego- 
Rovius,  Lucrezia^  ed.  it.,  p.  322:  «Il  Gaviceo  poteva  insino  osar  di  adulare 
«  la  festeggiata  Isabella  Gonzaga  con  questo  giudizio,  che  egli  l'esaltava  ab- 
«  bastanza,  dicendole  che  si  approssimava  alla  perfezione  di  Lucrezia  ». 
Questa  pretesa  inferiorità  di  Isabella  si  basa  tutta  su  d'una  interpretazione 
sbagliata  della  frase  «  accede  alla  tua  excellentia  ». 

(3)  Vedi  Flamini  nella  miscellanea  per  Nozze  Clan,  p.  298.  11  Flamini 
rinvia  ai  principali  scritti  che  si  hanno  sul  Gornazzano.  Si  aggiungano  Giom., 
XVII,  142;  Gastellani,  La  stampa  in  Venezia,  Venezia,  1889,  p.  22;  Rossi, 
Il  Quattrocento,  pp.  165-66  e  170. 

(4)  Gfr.  Rime  scelte  de'  poeti  ferraresi  antichi  e  moderni,  Ferrara,  Po- 
matelli,  1713,  p.  565. 


68  LUZIO-RENIER 

dubbio  che  in  gioventù  la  nostra  marchesa  dovesse  avere  più 
d'una  occasione  d'intrattenersi  col  Gornazzano;  ma  documento 
scritto  non  ne  rimane.  Abbiamo  solo  una  letterina  che  per  lei 
scrisse  Antimaco  l'ultimo  dicembre  del  1503  al  vescovo  Ludovico 
Gonzaga  :  «  R  ™«  Intendo  che  la  S.  V.  R."*  ha  presso  sé  il  Gur- 
«  gulio  et  Ulularia,  due  comedie  plautine  traducte  in  vulgare, 
«  quale  essendo  io  summamente  desiderosa  de  bavere,  prego  la 
«  S.  V.  ad  volermine  compiacere  et  mandarle  per  il  presente 
«  mio  cavallaro,  che  adoperate  che  le  habii  gli  le  rimetterò  senza 
«  alcuno  dubio.  Del  Ourgulio  intendo  di  quello  del  Coma- 
ri zano  »  (1).  L'indicazione  non  era  oziosa,  perchè  del  Curculio 
esisteva  già  da  anni  un'altra  versione,  quella  di  G.  B.  Guarino  (2). 
La  persona  a  cui  Isabella  chiedeva  il  volgarizzamento  del  Gor- 
nazzano era  a  lei  stretta  per  affinità  di  gusti,  giacché  il  vescovo 
Ludovico  Gonzaga,  zio  del  marchese  Francesco,  professava  a 
Gazzuolo  un  vero  mecenatismo  pei  letterati  e  gli  artisti,  e  si 
mostrava  in  ispecie  passionato  cultore  della  drammatica  classica 
novamente  richiamata  in  vita  (3). 

La  drammatica  ci  fti  pensare  ad  un  aitro  personaggio,  fino  ad 
oggi  malnoto,  che  vuoisi  nato  nell'Emilia,  quantunque  a  Ferrara 
abbia  certo  trascorso  parte  ragguardevole  della  sua  vita,  Gual- 
tiero di  San  Vitale.  Godesto  rimatore,  rievocato  da  studi  recentis- 
simi (4),  fu  un  gran  cultore  del  genere  bucolico,  in  cui  conquistò 
una  vera  celebrità,  come  attestano  le  lodi  dei  contemporanei, 
segnatamente  quelle  del  Tebaldeo  e  "del  Gasio.  L'opera  sua  era 
specialmente  desiderata  nelle  corti,  perchè  egli  componeva  quelle 


(1)  D'Ancona,  Originx\  II,  378. 

(2)  Giornale,  XI,  178;  Rossi,  Il  Quattrocento,  p.  380. 

(3)  Vedasi  Giornale,  XII,  302-3;  XIII,  305-7;  XIX,  190  sgg. 

(4)  Vedi  ScHERiLLO,  Arcadia  di  Jacobo  Sannazaro,  Torino,  1888, 
pp.  ccxxviii-ix  e  353  sgg.;  V.  Rossi,  nel  voi.  per  Nozze  C¥an,  p.  199,  n.  3 
(cfr.  Il  Quattrocento,  pp.  388  e  437),  e  specialmente  la  erudita  Appendice  III, 
che  Giorgio  Rossi  fece  seguire  alla  sua  tavola  del  Codice  Estense  X  *.  34, 
in  questo  Giom.,  XXXIII,  265  sgg.,  ove  su  Gualtiero  e  sugli  scritti  di  lui 
son  messe  insieme  le  informazioni  più  copiose  che  sinora  si  abbiano. 


COLTURA   E  RELAZIONI   LETTERARIE  D'ISABELLA  d'ESTE         69 

ecl(^he  rappresentative,  che  furono  cosi  accette  ai  signori  del 
nostro  Rinascimento  e  dalle  quali  in  breve  tempo  sbocciò  il 
dramma  pastorale  (1).  Di  coleste  ecloghe  appunto  venia  compo- 
nendo per  avventura  una  silloge  la  marchesa  di  Mantova,  la 
quale  da  Gonzaga,  il  16  giugno  1493,  cosi  ne  chiedeva  a  Ludo- 
vico Pio  :  <■  Desiderando  nui  fare  uno  libretto  de  Aegloge  de 
«diversi  *uctori  et  sapendo  che  vui  ve  delectati  de  rime,  c'è 

<  parso  pregarvi  che  se  ne  haveti  alcuna  de  Gualtiero  o  altro, 

<  da  quella  de  Pan  in  fora  che  nui  habiamo,  ce  ne  faciati  bavere, 

<  che  ne  fareti  cosa  gratissima  >.  Il  Pio  si  affrettava  a  compia- 
cere la  colta  signora,  inviandole  pochi  giorni  appresso  le  ecloghe 
che  si  trovava  d'avere.  Ecco  le  letterine  accompagnatorie: 

III.™*  ac  Ex.™*  D.  mea  sig.™*  In  resposta  de  quanto  m'ha  scripto  la  Ex.  V. 
de  le  Egloge  gli  dico  che  io  me  ne  trovo  alcune  de  Gualtero,  al  iudicio 
mio  assai  bone,  le  qualle,  per  non  essere  quello  ha  le  chiave  del  mio  studio 
in  la  terra,  non  le  mando  a  quella,  ma  desiderando  visitare  V.  Ex.,  fra  tri 
0  quatro  giorni  io  me  ritrovarò  a  Gonzaga  e  porterolle  a  quella,  e  pur  quando 
io  non  venissi  cussi  presto  infallanter  le  rimetterò  a  la  Ex.  Y.  per  uno  mio 
messo  .  .  . 

Carpi,  18  Junij  1493. 

Fidelis  servitor 
Ludovicus  Pius  de  Sabaudia. 

Ili."**  et  Ex.™*  D.na  D.na  mea  observandissima.  A  di  passati  la  Ex.ci»  V. 
mi  scripse  ch'io  gli  dovesse  mandare  quelle  poche  egloghe  mi  ritrovava,  et 
per  meser  Bartholomeo  latore  presente  gè  le  mando,  et  se  più  presto  non 
gli  ho  mandato,  pr^o  quella  me  perdoni  perchè  stava  de  giorni  in  giorni 
per  venire  a  Gonzaga.  Io  ancora  havrei  mandato  a  quella  certi  soneti,  se 
me  fossi  creduto  dovesseno  piacere  alla  Ex.à*  V.  De  le  dite  egloge  gè  n'è 
ana*la  quale  quando  quella  le  lezerà  me  rendo  certissimo  che  Tentenderà. 
Et  alla  Ex.à*  V.  me  racomando  et  prego  se  digni  comandarmi.  Carpi,  die 
27  Junii  1493. 

S.  Ludovicus  Pius  de  Sabb.* 
Armorum. 


(1)  Alle  obiezioni  fatte  in  proposito  dal  Carducci  rispose,  a  parer  nostro 
vittoriosamente,  V.  Rossi  in  questo  Giornale,  XXXI,  108  sgg. 


70  LUZIO-RENIER 

In  queste  lettere  non  è  specificato  quali  fossero  le  ecloghe  in- 
viate di  Gualtiero;  ma  esse  ad  ogni  modo  confermano  che  quel 
verseggiatore  fu  co'  Pio  in  molta  dimestichezza  (1).  Nel  1512, 
tra  i  rimatori  che  inviano  versi  alla  marchesa  per  deplorare  la 
morte  della  cagnetta  Aura  v'  è  anche  Gualtiero  di  San  Vitale. 
Egli  le  fece  avere  questo  tetrastico  insulso  e  lambiccato: 

Aara  è  qui  sempre,  benché  senza  fiato, 
Piccol  can  de  Isabella  e  già  gran  spasso. 
Or  a  delicie  è  suo  riposo  passo: 
Speri  chi  serve  a  un  cuor  gentile  e  grato  (2). 

Alessandro  Ldzio  -  Rodolfo  Renier. 


(1)  A  Giovanni  Pio  è  intitolata  l'ecloga  di  Gualtiero  che  si  legge  nel  ms. 
Marciano  it.  Zan.  60  (edita  dallo  Scherillo,  Op.  cit.^  pp.  353  sgg.)-  Di  Mar- 
gherita Pia,  come  il  Casio  aflferma,  si  dichiarava  Gualtiero  spasimante,  al- 
meno in  rima. 

(2)  Si  avverta  che  il  Galmeta,  nella  Yita  di  Serafino,  menziona  Gualtiero 
fra  i  poeti  che  più  frequentarono  la  corte  mantovana.  Vedi  le  Rime  di  Sera' 
fino  de"  CimineUi  dall'Aquila,  ediz.  Menghini,  Bologna,  1896,  1,10.  Cogliamo 
l'occasione  per  notare  che  la  raccolta  di  ecloghe  fatta  dalla  marchesa  dovette 
essere  accresciuta  anche  d'un  componimento  di  questo  genere  inviatole  dal 
medico  Ludovico  Panizza.  Dedicata  a  Isabella  è  un'  ecloga  di  lui,  in  terzine, 
con  tre  interlocutori,  nella  quale  «  alegoricamente,  sub  specie  di  cose  pasto- 
€  rali  »  è  adombrato  in  che  cosa  consista  «  la  felicitade  over  beatitudine 
€  umana  possibile  a  conseguir  per  natura  secondo  li  phisici  ».  Quest'ecloga 
si  conserva  manoscritta  nel  primo  fascio,  del  cod.  Marciano  it.  IX,  211  e  ce 
la  segnalò  gentilmente  Angelo  Solerti.  Segue  un  sonetto  che  è  Imploratione 
di  soccorso  da  la  Diva  Isabella. 


VARIETÀ 


"  Camminata  di  palagio  "  and  "  naturai  burella  " 

{Inferno,  XXXIV,  97-99). 


When  Virgil  and  Dante,  on  their  way  out  of  Hell,  bave  com- 
pieteci their  perilous  passage  along  the  shaggy  sides  of  Lucifer, 
Virgil  disencumbers  Dante  from  bis  neck  and  places  bina  on  a 
ledge  of  rock,  on  to  wbicb  be  bimself  tben  cautiously  cliinbs. 
Tbe  place  wbere  he  now  finds  bimself  is  described  by  Dante 
as  follows: 

«  Non  era  camminata  di  palagio, 
Là  Veravam,  ma  naturai  burella, 
Ch'avea  mal  suolo,  e  di  lume  disagio  ». 

The  commentators  and  translators  differ  as  to  the  meaning 
of  the  word  camminata  in  tbis  passage.  Some  take  it  in  tbe 
sense  of  tbe  French  cheminèe,  our  chim^ney,  and  tbink  that  by 
the  expression  *  camminata  di  palagio  '  Dante  meant  a  largo 
and  easily  practicable  aperture.  Tbe  most  emphatic  supporter 
of  tbis  view  is  Butler,  wbo  in  bis  note  on  tbe  passage  says: 
'  Although  no  commentator  seeras  to  recognise  the  meaning  (1), 
and  Du  Gange,  s.  v.  caminata,  speaks  only  of  «  a  room  with  a 
«  heartb  in  it  »,  I  can  bardly  doubt  that  Dante  is  using  tbe 
word  in  the  sense   of  tbe  French  cheminèe,  a  sense  which  it 


(1)  See,  however,  Scartazzini's,  Enciclopedia  Dantesca,  s.  v.  Camminata. 


72  P.  TOYNBEE 

must  bave  possessed,  the  French  word  being  found  as  early  as 
the  thirteenth  century.  The  meaning  usually  given,  «  a  hall  », 
is  altogether  out  of  place  here.  Every  Alpine  climber  knows 
what  a  «  Kamin  »  is  '. 

Butler's  assuraption  that  the  italian  camminata  must  bave 
had  the  sense  of  '  chimney  '  in  Dante 's  time,  because  the  cog- 
nate French  word  cheminèe  bore  that  meaning  at  this  date, 
is  hardly  a  safe  one.  Nor  is  it  easy  to  understand  why  the 
meaning  '  hall  '  is  altogether  out  of  place  here,  as  Butler  as- 
serts.  On  the  contrary,  Dante's  contrast  between  *  a  palace  hall  ' 
and  the  '  naturai  burella  '  is,  as  will  he  seen  later,  perfectly 
naturai  and  appropriate.  The  only  other  contemporary  instance 
of  the  Italian  word  camminata  which  I  bave  been  able  to  flnd 
occurs  in  the  Tesoretto  (written  in  1262  or  1263)  of  Brunetto 
Latino,  where  there  can  he  no  doubt  as  to  the  meaning.  Bru- 
netto describes  how  he  saw  the  figure  of  Justice  with  a  crown 
upon  her  head,  *  per  una  camminata  ',  that  is  to  say,  in  a  large 
chamber; 

'  E  partendomi  un  poco 

r  vidi  in  altro  loco 
La  donna  coronata 

Per  una  camminata, 
Che  menava  gran  festa, 

E  talor  gran  tempesta  ' 

(XIV,  43-48). 

This  use  of  the  word  was  quite  familiar  in  Italy,  as  is  evi- 
dent  from  Buti's  comment  on  Dante's  use  of  it;  he  says:  *I  si- 
gnori usano  di  chiamare  le  loro  sale  camminate,  massimamente 
in  Lombardia  '.  And  Torraca  points  out  a  contemporary  instance 
of  the  Latin  caminata  in  the  same  sense,  which  occurs  in  the 
Fiorentine  Consulte  for  the  year  1279,  thus  proving  that  this 
meaning  of  the  word  was  familiar  in  Florence  also  (1).  The  pas- 
sage  in  the  Consulte  runs  as  follows: 

€  Die  iovis  XXll"  februarii. 
Gongregatis  dominis  Xllcim  et  duobus  Sapientibus  prò  sextu, 
congregatis  in  pallatio  Comunis  in  caminata  Potestatis  ». 


(1)  See  F.  Torraca,  Di  un    Commento   nuotjo  alla   Divina  Commedia 
(Bologna,  1899),  p.  115. 


VARIETÀ  73 

On  the  other  band,  the  French  word  cìierninèe,  though  it 
undoubtedly  was  used  in  the  modem  sense  of  '  chimney  '  in 
the  thirteenth  century,  yet  also,  like  the  Italian  camminata, 
bore  the  meaning  of  '  hall  ',  as  appears  from  an  entry  (dated 
1291),  which  is  given  under  this  word  by  Godefroy  in  his 
Dictionnaire  de  V ancienne  langue  frangaise:  'Gis  compes  fui 
fay  en  la  chemeneie  par  devant  touz  gros  et  menuz  '  (i.  e.  This 
account  was  raade  in  the  council-chamber  in  the  presence  of 
ali,  both  great  and  small). 

The  derivation  of  camm,inata  in  this  sense  (which  is  now 
obsolete),  is  doublless  from  the  low  Latin  *  (camera)  caminata  ', 
a  room  with  a  fire-place  in  it,  a  living  roora;  the  substantive 
being  dropped,  and  the  adjective  being  used  substantively,  by 
the  farailiar  process  which  produced  such  terms  in  French  as 
*sanglier'  (for  '  porc  sanglier ')  from  *  porcus  singularis ',  *ra- 
mage  '  (for  *  chant  ramage  ')  from  '  cantus  ramaticus  ',  *  domes- 
tique  '  (for  '  serf  domestique  ')  from  '  servus  domesticus  ',  and 
the  like.  The  suggesled  alternative  derivation  of  camminata,  in 
the  sense  of  '  hall  ',  from  cammiìiare,  as  being  a  place  which 
is  spacious  enough  for  walking  up  and  down,  has  not  nmch 
io  be  said  for  it,  in  view  of  the  fact  that  both  French  cheminèe 
and  English  chimney,  which  are  obviously  of  the  same  origin, 
are  undoubtedly  derived  from  the  low  Latin  caminata,  from 
caminus,  the  Greek  Kajuivoq,  a  fire-place. 

Besides  the  fact  that,  so  far  as  I  am  aware,  no  thirteenth  or 
fourteenth  century  instance  of  the  word  camminata  in  the  sense 
of  '  chimney  '  has  as  yet  been  discovered,  there  is  the  further 
objection  to  this  interpretation,  that  the  force  of  the  antithesis 
between  camminata,  and  hurella  would  in  this  case  be  greatly 
weakened,  if  not  altogether  lost. 

This  consideration  brings  us  to  the  question  as  to  what  is 
the  meaning  of  the  expression  *  naturai  burella  '  in  line  98. 
The  term  *  burella  ',  as  has  been  pointed  out  by  Torraca  {Bull. 
Soc.  Dant.,  N.  S.,  II,  157),  is  strictly  speaking  a  proper  name, 
*  Burellae  '  being  the  ancient  designation  of  the  prisons  of  Flo- 
rence. By  an  easy  transition  the  term  came  to  be  used  generally 
for  any  prison  or  dungeon,  just  as  '  Bridewell  '  and  '  Bedlam  ' 
with  US  bave  come  to  be  used  of  any  house  of  correction,  or 
any  mad  house.  Torraca  {loc.  di.)  draws  attention  to  a  very 
interesting  example,  contemporary  with  Dante,  of  the  use  of  the 
word  '  burella  '  as   the  equivalent  of  prison.  It  occurs  in  the 


74  P.   TOYNBEE 

poem  known  as  11  Fiore,  which  is  a  sort  of  free  rendering  of 
the  Roman  de  la  Rose  m  a  series  of  Italian  sonnets,  writton 
towards  the  end  of  the  thirteenth  century  —  the  line  of  the 
Roman  : 

*  Si  convient  que  de  prison  salile  \ 

is  rendered  by  the  author  of  II  Fiore  (in  the  hundred  and 
eighty-fìflh  sonnet): 

'  e  torni  suso 
E  tragga  l'altro  fuor  della  burella  \ 

What  served  as  the  dungeons  of  the  *  Burellae  '  appear  to  have 
been  originally  the  cellars  or  vaults  of  the  ancient  Roman 
theatre  and  amphitheatre  in  Florence,  which  from  the  tirae 
of  the  Lombard  occupation  carne  to  he  known  respeclively  as 
the  lesser  and  greater  '  Perilasio  '.  Davidsohn  in  bis  Forschungen 
zur  alter en  Geschichte  von  Florenz  (pp.  15  foli.)  states  that 
these  were  at  one  period  used  as  dens  for  wild-beasts,  and  he 
derives  this  name  Perilasio  from  the  old  germanio  term  hero- 
laz,  that  is  to  say,  *  bear-cage  '. 

One  of  these  '  Burellae  '  (that  in  the  *  Perilasio  piccalo  ',  the 
ancient  theatre)  was  situated  in  the  districi  of  Florence  known 
as  the  'Gardingo  '  (1),  which  was  in  the  neighbourhood  of  the 
Palazzo  Vecchio,  on  the  site  of  the  present  Piazza  di  San  Firenze. 
It  was  bere  that  the  Uberti  afterwards  built  their  palace,  the 
destruction  of  which  by  the  populace  in  1266,  during  the 
joint  tenure  of  the  office  of  Podestà  by  Catalano  de'  Malavolti, 
and  Loderingo  degli  Andalò,  is  referred  to  by  Dante  in  the 
twenty-third  canto  of  the  Inferno  (1.  108).  The  *  Burella  '  with 
which  Dante  was  familiar  was  that  in  the  'Perilasium  major', 
the  ancient  amphitheatre  (which  stood  dose  to  the  western 
extremity  of  the  present  Piazza  di  Santa  Croce);  for,  as  Da- 
vidsohn points  out  in  bis  Geschichte  von  Florenz  (pp.  663-664), 
the  prison  in  the  '  Perilasio  piccalo  '  appears  to  have  fallen  into 
disuso  about  the  middle  of  the  thirteenth  century,  by  which 
lime  the  more  exlensive  structure  in  the  amphitheatre  had 
come   lo   he  known  as   the  *  Burella  '  par  excellence.  This  is 


(1)  See  the  pian  of  Florence  in  Dayidsobn's  Geschichte  von  Florenz. 


VARIETÀ  75 

proved  by  the  fact  that  one  of  the  streets  leading  to  it  was 
called  in  Dante's  day  '  la  via  della  Burella  ',  which  is  marked 
on  the  pian  given  by  Philalethes  at  the  end  of  bis  third  volume. 
This  is  no  doubt  the  sa  me  Street  as  the  one  spoken  of  in  a 
document  of  1256,  quoted  by  Davidsohn  (Op.  cU.,  p.  664,  n.  1), 
as  '  strata  per  quam  itur  ad  carcerem  *.  Torraca  consequently 
is  mistaken  in  bis  assumption  (1)  that  the  '  Burella  '  of  Dante's 
day  was  in  the  'Gardingo'. 

Frequent  mention  of  the  '  Burella  '  is  made  in  the  Consulte 
Fiorentine  (2)  for  the  eighteen  years  from  1280  to  1298  recently 
published  by  Alessandro  Gherardi,  from  which  it  appears  that 
the  '  Burella  '  was  not  the  property  of  the  State,  but  was  hired 
at  a  yearly  rental  by  the  Fiorentine  Government.  Thus,  under 
date  January  10,  1284,  it  is  recorded: 

*In  Consilio  generali  Gomunis  proposuit  dominus  Giliolus  de 
Machalufìs  Potestas  de  locatione  Borelle,  secundum  quod  firma- 
tum  est  per  Consilia  domini  Capitanei  '  (3). 

Again,  on  the  same  day: 

'  In  Consilio  generali  Comunis  proposuit  dominus  Potestas 
super  locatione  Borelle,  facienda  ad  terminum  unius  anni  cum 
pactis  et  condictionibus  lectis  '  (4). 

There  are  several  entries  relative  to  the  amount  of  the  rent  : 
'  pensio  Burelle  '.  Thus,  on  Aprii  6,  1290,  it  is  recorded  : 

'Dinus  fllius  lannis  consuluit  .  .  .  quod  pensio  Burelle  sit 
solum   librarum  L^*  florenorum   parvorum  '  (5). 

Again,  on  the  tenth  of  the  same  monlh: 

'  In  Consilio  generali  Comunis  proposuit  Ghighus  Paradisi,  ca- 
merarius  Comunis  Florentie  ...  de  pensione  Burelle,  solvenda 
in  quantitate  librarum  quinquaginta  '  (6). 

And  on  August  6,  1291  : 

'  In  Consilio  C  virorum  .  .  .  Ser  Arrighus  Gratie  consuluit . . . 
quod  pensio  Burelle  sit  librarum  Ixx**  florenorum  parvorum  '  (7). 


(1)  Dì  un  Commento  nuovo  alla  D.  C,  p.  115. 

(2)  Le  Consulte  della  Repubblica  Fiorentina  dalVanno  MCCLXXX  al 
MCCXCVIII,  per  la  prima  volta  pubblicate  da  A.  Gherardi,  1896-8. 

(3)  Voi.  I,  p.  145. 

(4)  Voi.  I,  p.  146. 

(5)  Voi.  I,  p.  392. 

(6)  Voi.  I,  p.  395. 

(7)  Voi.  li,  p.  48. 


76  P.   TOYNBEE 

And  on  the  ninth  of  the  same  month  : 

•  In  Consilio  generali  Gomunis  Orlanduccius  Orlandi  camera- 
rius  proposuit  infrascripta,  presentibus  Prioribus,  videlicet  .  .  . 
de  pensione  Burelle  et  duarum  domorum  et  duarum  apotheca- 
rum,  prò  uno  anno  incepto  in  kallendis  januarii  proxime  prete- 
riti, librarum  Ixx'*  florenorum  parvorum  '  (1). 

Other  entries  refer  to  the  wages  of  the  warders  (2),  who  at 
one  period  appear  to  have  been  supplied  by  contract(3).  Others 
again  relate  to  the  charges  for  repairs  -  *  reparatio  Burelle  ', 
which  mount  up  to  a  considerable  sum  (4). 

One  entry,  dated  March  3,  1290,  has  a  special  interest  as 
relating  to  certain  Aretine  prisoners,  doubtless  prisoners  of  war 
taken  at  the  battle  of  Campaldino,  where  the  Fiorentine  Guelfs, 
araong  them  Dante  *  fighting  vigorously  on  horseback  in  the 
front  rank  ',  as  Bruni  relates,  won  their  great  victory  over 
the  Aretines  and  Ghibellines  of  Tuscany  on  June  11  of  the  pre- 
vious  year.  This  entry  is  further  of  interest  as  supplying  an 
instance  of  the  use  of  the  terra  *  burella',  in  the  sense  appa- 
rently  not  of  the  State  prison,  the  *  Burella  ',  but  in  that  of 
prison  quarters  or  custody  in  general.  It  runs  as  follows: 

'In  Consilio  speciali  domini  Defensoris  et  Capitudinum  xij"™ 
maiorum  Artium  proposita  fuerunt  ea  que  beri  firmata  fuerunt 
in  Consilio  Centum  virorum. 

*  Itera,  petitio  Faccini  Peruczi  et  aliorura  debentium  recipere 
pensionem,  prò  burellis  carceratorum  Aretinorura  '  (5). 

The  *  Burella  '  is  raentioned  several  other  tiraes,  in  connexion 
with  various  administrative  details,  in  the  records  of  the  Con- 
sulte (6);  but  the  above  instances  are  sufficient  to  show  that 
the  word,  as  the  narae  of  the  city  dungeons,  must  have  been 
perfectly  farailiar  to  every  Fiorentine  of  Dante's  day.  Dante, 
therefore,  in  using  the  terra  burella  in  the  passage  under  dis- 
cussion  ran  no  risk  of  being  raisunderstood  by  bis  contempo- 
raries.   It  was  not  ti  11  the  hi  story  of  the  word  was  forgotten 


(1)  Voi.  II,  p.  95. 

(2)  See  voi.  I,  pp.  388,  406,  440;  voi.  II,  p.  311. 

(3)  See  voi.  li,  pp.  553,  555,  653. 

(4)  See  voi.  II,  pp.  206-7,  317,  366,  514,  515. 

(5)  Voi.  II,  p.  14. 

(6)  See  voi.  I,  p.  432;  voi.  II,  pp.  306,  341,  379,  457,  458. 


VARIETÀ  77 

that  sudi  interpretations  as  *  caverna  \  *  luogo  stretto  ed  oscuro  ', 
*  luogo  sotterraneo  ',  and  the  like,  carne  to  be  adopted.  The  fact 
that  the  word,  in  its  ordinary  acceptance,  was  the  name  of  a 
prison  explains  Dante's  use  of  the  epithet  '  naturai  ',  which 
would  otherwise  be  quite  raeaningless,  as  it  is,  for  instance,  in 
Butler's  rendering:  *a  naturai  cranny '. 

The  antithesis  intended  by  Dante  in  these  lines,  then,  was 
not  between  «  the  chimney  of  a  palace  »  and  «  a  naturai  cave  » 
or  «  cranny  »,  —  if  that  can  be  described  as  an  antithesis  — , 
but  between  a  palace  chamber,  spacious  and  well-lighted,  on 
the  one  band,  and  a  naturai  dungeon  in  the  rock,  wìth  rough 
uneven  floor,  and  scanty  light,  on  the  other  — 

€  Non  camminata  di  palagio, 

ma  naturai  burella, 

Gh'avea  mal  suolo  e  di  lume  disagio  ». 


Paget  Toynbee. 


Js.N  co  RA. 

DI 

GIOVANNI  MUZZARELLI 

La  "  Fabula  di  Narciso  "  e  le  "  Canzoni  e  Sestine  amorose  " 


Qualche  lettore  ricorderà  forse  che,  circa  sette  anni  or  sono, 
in  questo  Giornale  (XXI,  358-84),  feci  conoscere  un'operetta 
inedita  di  Giovanni  Muzzarelli  e  che  di  li  a  poco  Giuseppe  Prato 
trattava  utilmente  di  alcune  rime  sue,  inedite  e  mal  note  (1). 

Oo'gi,  non  per  feticismo  erudito,  ma  per  compiere  un  dovere, 
se  non  altro,  di  bibliografo  scrupoloso,  ritorno  per  poco  sul  poeta 
mantovano;  e  avverto  subito  che  le  nuove  notizie  che  sto  per 
comunicare  agli  studiosi,  se  non  sono  tali  da  giustificare  la  lode 
concessagli  con  la  prodigalità  consueta  dell'autore  del  Furioso, 
purtuttavia,  mostrandoci  più  copiosa  e  più  varia  che  non  si  sa- 
pesse bene  fino  ad  ora,  la  sua  produzione  poetica,  giovano  a 
rendere  meno  inesplicabile  quell'encomio  (2). 


(1)  Alcune  rime  di  G.  Muzzarelli,  nella  Miscellanea  Nozze  Cian-Sappa, 
Bergamo,  1894,  pp.  261-7. 

(2)  11  risultato  negativo  della  ricerca  eh'  io  feci  nelle  stanze  introduttive 
della  Fabula  e  fra  le  Canzoni  del  Muzzarelli,  viene  a  confermare  l'idea  da 
me  posta  innanzi  (Op.  cit.,  p.  359)  e  accolta  dal  Prato,  Op.  cit.,  p.  263,  n.  3, 
che  l'Ariosto,  o  per  una  svista  o  per  ragioni  d'opportunità,  abbia  rappresentato 
il  poeta  gazzolese  lodatore  della   duchessa    Eleonora  e  non  della  duchessa 


VARIETÀ  79 

Fra  le  operette  del  Muzzarelli  rammentate  dal  D'Arco  nel  vo- 
lume V  delle  Notizie  delle  Accademie  ecc.  e  di  circa  Mille  Scrit- 
tori mantovani,  manoscritte  nell'Archivio  Gonzaga,  è  una  Fa- 
bula di  Narciso,  della  quale  avevano  fatto  menzione  il  Quadrio  (1) 
e  il  Graesse  (2),  ma  che  né  a  me,  né  al  Prato  era  riuscito  di  ve- 
dere. Recentemente,  esaminando  una  miscellanea  a  stampa  della 
Biblioteca  universitaria  di  Pisa  (Mise.  360),  ebbi  la  buona  sorte  di 
rintracciarvi  la  scrittura  muzzarelliana  che  apparisce  imperfet- 
tamente a  catalogo.  E  siccome  l'opuscolo  che  la  contiene  è  assai 
raro,  né  fu  mai  illustrato  fino  ad  ora,  incomincio  col  darne  una 
descrizione  compiuta,  se  non  minuziosa. 

Stantie  nove  de  mesaer  Antonio  \  Thibaldeo:  d'un  vecchio 
quale  non  am^ando  in  gioventù  :  fu  \  constretto  amare  in  vec- 
chiezza ed  altre  Stantie  \  singularissime  in  dialogo  ed  una 
Fabu^=L  I  la  di  Narciso  de  Messer  Giovan  \  ne  Mozarello  da 
Mantoa. 

In  fine:  Stampato  nella  inclita  Città  di  Vene-  1  tia  per  Nicolo 
Zopino  e  Vincentio  co  |  pagno  Nel.  M.D.XXII.  Adi  II.  De  Sete  | 
brio.  Regnante  lo  inclito  Principe  |  Messer  Antonio  Antonio 
Grimani. 

Sotto  il  titolo,  che  è  in  carattere  gotico  e  in  inchiostro  tutto 
nero,  sta  una  rozza  silografia,  che  rappresenta  un  uomo  (Apollo?) 
in  piedi  in  atto  di  suonare  la  viola  e  di  cantare,  e  seduti  all'ingiro 
in  un  giardino  altri  suonatori  o  suonatrici  (le  Muse?),  che  l'ac- 
compagnano le  più  con  istrumenti  da  fiato.  Sul  davanti  è  una 
vasca  d'acqua;  a  terra  sono  sparsi  fiori,  nello  sfondo  si  vedono 
due  alberi  e  varia  verzura.  L'opusc.  è  in  8^  con  segnat.  A-Eiiii, 
quindi  formato  di  36  carte;  due  delle  quali,  la  Ei  e  la  Eiii,  man- 
cano nell'esemplare  da  me  avuto  sott'occhio  (3). 


Elisabetta,  alla  quale  è  dedicata  l'opera  pastorale  da  me  illustrata.  Un 
nuovo  documento  delle  relazioni  che  il  M.  ebbe  coi  Signori  di  Mantova,  ci 
forniscono  i  tre  distici  suoi  a  Federico  Gonzaga,  primogenito  del  Marchese 
Francesco,  che  si  leggono  nel  cod.  Vatic.  lat.  2836,  e.  318  r. 

(1)  Storia  e  rag.,  IV,  1749,  p.  115. 

(2)  Trèsor  ecc.,  alia  parola  Thebaldeo.  Il  D'Arco,  citato  dal  Prato  (p.  264), 
registra  anch' egli  tre  edizioni,  zoppiniane,  della  Fabula,  ma  una  del  1520, 
l'altra  del  1522  e  la  terza  del  1552.  Per  quest'ultima  è  probabile  trattarsi 
d'una  svista.  Certo  nessun  bibliografo  l'ha  mai  ricordata. 

(3)  Non  mancano  nella  copia  posseduta  dalla  Marciana  (Mise.  2405),  una 
cui  descrizione  minuta  mi  favorì  il  dr.  A.  Segarizzi,  cosicché  mi  fu  possibile 
integrare  l'esemplare  manchevole  da  me  adoperato.  Ben  più  gravemente  mu- 


80  V.   GIAN 

Le  Stantie  del  Tebaldeo,  dedicate  dallo  stampatore  «allo  illustre 
«  Signor  Orsino  »,  incom.  :  «  Usanza  è  di  ciascun  che  stato  sia  » 
(ce.  Ai  i  r  -  Aiiii  r).  Seguono  (ce.  Aiiii  v  -D'xr):  Stantie  dello  Achil- 
lino  da  Bologna  in  Dialogo  De  effecti  de  Amore.  Questione 
bellissime.  Interlocutori  Antiphilo  e  Philero  (1),  che  com.  «  Diva 
«  gentil,  nel  cui  pudico  petto  »,  e  ad  esse  tien  dietro  (ce.  Di  -  v 
Eii?5)  La  Fabula  di  Narciso  del  Mozarelo  da  Ferrara  (sic). 
Il  libretto  si  chiude  con  gli  Strambotti  novi  di  messer  Zan 
Polio  Aretino  Alias  Polastrino  (2).  Questa  edizione  del  1522  è, 


tilato  è  l'esemplare  della  Bibl.  Estense,  del  quale  G.  Frati  fece  due  volte 
menzione,  Tuna  nella  Append.  I  delle  sue  pregevoli  Lettere  di  G.  Tiraboschi 
alp.  L  Affòy  Modena,  1895,  p.  584,  l'altra  nell'accurato  Saggio  d'un  Catalogo 
dei  cod.  Estensi^  Paris,  1898,  pp.  34-5  (estr.  dalla  Revue  des  Bibliothèques, 
1897),  e  del  quale  potei  avere  i  più  precisi  e  minuti  ragguagli  mercè  la  cortesia 
del  prof.  Giorgio  Rossi.  Questo  frammento  d'opuscolo,  mancante  della  data 
finale,  non  può  essere  assegnato  all'edizione  del  1522,  perchè  mentre  esso  ha 
nel  frontespizio:  in  Facetia  duna  vechio  e  per  el  Mosarello  da  Ferrara^ 
i  due  esemplari  della  seconda  edizione  esistenti  a  Pisa  ed  a  Venezia  non 
hanno  1*  in  facetia  e  il  da  Ferrara  è  corretto  in  da  Mantoa.  La  piena 
corrispondenza  in  questi  due  punti  tra  la  copia  estense  e  il  frontespizio  che 
della  ediz.  1518  riferì  il  Graesse,  farebbe  pensare  che  quella  copia  appar^ 
tenga  alla  prima  edizione.  Il  guaio  è  che  due  esemplari  di  questa,  il  mar- 
ciano e  il  ferrarese,  non  recano  nel  titolo  l'  in  facetia  e  hanno  un  de  Mantoa. 
Il  piccolo  problema  bibliografico  non  ammette  che  due  soluzioni:  o  il  Graesse 
ha  errato  la  data  dell'anno,  e  allora  l'esemplare  modenese  appartiene  pro- 
babilmente all'ediz.  del  1520;  oppure  è  necessario  supporre  che  durante  la 
tiratura  dell'ediz.  1518  si  siano  introdotte  nel  titolo  quelle  due  varianti. 
Più  ardito  sarebbe  pensare  all'esistenza  d'una  quarta  edizione. 

(1)  Veramente,  tutt'altro  che  «  bellissime  »  ;  ma  agli  studiosi  potrà  interes- 
sare il  sapere  che,  trattando  la  questione  se  l'amore  sia  stato  prima  della 
gelosia,  Antifilo  cita  in  sostegno  dell' opmion  propria  un  sonetto  del  «  fe- 
«  condo  Calmela»;  che  Filerò,  per  contro,  invita  l'avversario  a   leggere, 

dice,  € il  magno  mio  Gaspar  Vesconte  Ne  l'opera  che  fa  di  Paulo 

«e  Daria  »:  infine  che  sono  menzionati  come  i  più  valenti  poeti  estempo- 
ranei il  Corso  e  Bernardo  Accolti. 

(2)  Questi  Strambotti,  siccome  non  figurano  nel  frontespizio,  furono  trascu- 
rati dai  bibliografi,  che  descrissero  questa  stampa.  Sono  15  e  com.  Amore  stm 
tempo  io  mi  san  stato  quieto.  Di  questo  rimatore  del  Cinquecento  fa  ricordo 
il  Quadrio,  111,  291;  VI,  173,  609,  e  due  sue  lettere  a  Pietro  Aretino  sono 
fra  le  Lettere  scritte  a  P.  Aretino,  ristampa  di  Bologna,  1873,  I,  i,  225-9. 
(Cfr.  Cortigiana,  III,  7).  Come  mi  comunica  con  la  solita  liberalità  l'amico 
prof.  V.  Rossi,  notizie  di  Zuan  Polio  si  trovano  raccolte  da  Ap.  Zeno  nel 
cod.  Marc.  It.,  X.  74.  e.  21.  Fra  esse  è  la  seguente  fede  di  morte:  *  e.  23  r. 


VARIETÀ  81 

senza  dubbio,  quella  medesima  che  fu  registrata  dal  Quadrio, 
sebbene  probabilmente  egli  non  l'abbia  veduta,  dacché  ne  rife- 
risce il  titolo  come  di  opuscolo  a  sé,  staccato  dalle  Stantie  del 
Tebaldeo.  Ma  non  fu  né  la  prima,  né  la  sola.  Già  il  Graesse 
aveva  citata  una  stampa  zoppiniana  anteriore,  del  1518,  mentre 
il  Panzer  (1),  sull'autorità  del  Catalogo  Pinelli,  aveva  notata 
una  ristampa  del  1520,  uscita  dalla  medesima  officina  veneziana. 
Rammentando  che  Mons.  Giuseppe  Antonelli,  il  defunto  biblio- 
tecario della  Comunale  di  Ferrara,  aveva  lasciata  inedita  una 
monografia  bibliografica  sullo  Zoppino  (2),  ricorsi  al  suo  degno 
successore,  il  dr.  Giuseppe  Agnelli,  il  quale,  con  l'abituale  cor- 
tesia, mi  trascriveva  di  sulle  schede  da  lui  preparate  a  comple- 
mento di  quelle  Antonelliane,  la  descrizione  di  due  edizioni,  quella 
del  1518  (posseduta  dalla  Marciana  e  dalla  Comunale  di  Ferrara) 
e  quella  del  1522  (posseduta  dalla  Marciana),  mentre  per  la  se- 
conda, dei  1520,  doveva  anch'egli  rimettersi  al  cenno  del  Catalogo 
pinelliano. 


II. 


La  Fabula  di  Narciso  tratta  un  soggetto  mitologico,  che  ebbe 
grande  fortuna  nell'antichità  classica  prima  e  dopo  Ovidio  (3), 
ma  che,  grazie  al  testo  ovidiano  (Metamorph.,  Ili,  339-510),  ram- 
pollo vivace  d'un  tronco  alessandrino,  si  dilTuse  largamente,  per 


«  Libro  de  Morti  coperto  di  cartapecora  contrassegnato  Lit.  A  a  e.  13,  della 
«  Chiesa  di  S.  M.*  di  Murello  detta  dell'Oriente  (in  Arezzo?).  Memoria  come 
«21  d'Agosto  1540  la  buona  memoria  di  Giovan  Pollio  Lappoli  Gan® 
«  Aretino  e  poeta  laureato  passò  della  presente  vita  d'infermità  di  flusso 
«  d'anni  75  e  fu  messo  in  deposito  nello  Spedale  di  S.  Marco  dove  abitava 

«  per  essere della  città  unitamente  e  clero.  Iddio  l'habbia  decorato  in 

«  cielo  si  come  era  d'infinite  virtù  decorato  in  terra  ». 

(1)  Annales  typ..  Vili,  462,  n.  1033,  dov'è  citato  il  Gatal.  Pinelli,  IV,  351. 

(2)  La  notizia  è  data  in  modo  esplicito  da  A.  Tessier,  Lo  Zoppino,  nel 
Giornale  d.  eruditi  e  curiosi,  an.  I,  voi.  Il,  1883,  n"  36,  col.  612.  11  Tessier 
(col.  604)  registra  seccamente,  fra  le  stampe  zoppiniane  delle  Stanze  nove^ 
l'edizione  del  1520  e  quella  del  1522  soltanto. 

(3)  Cfr.  F.  WiESELER,  Narkissos,  Gòttingen,  1856.  Ricco,  l'articolo  Nar- 
ftissos  nel  Roscher,  Lexikon  0.er  griechisch.  u.  róm.  Mythol.^  voi.  Ili,  1898, 
coli.  10-2L 

Giornale  storico,  XXXVHI,  fase.  112-113.  6 


82  V.  GIAN 

derivazione  più  o  meno  diretta,  nell'età  media  e  nel  Rinasci- 
mento, tema  caro  a  poeti  e  prosatori ,  cosi  d'arte  come  di 
popolo,  nonché  agli  eruditi.  Com'è  naturale,  esso  occorre  nel 
più  de'  casi  sotto  forma  di  accenno  incidentale  o  di  similitudine, 
anche  nella  letteratura  nostra,  preceduta  pure  in  questo  dalla 
francese  e  dalla  provenzale.  Nella  lirica  delle  origini  attira  la 
nostra  attenzione  un  sonetto  di  Chiaro  Davanzati  (1),  dove 
peraltro  l'imagine  tradizionale  è  stemperata  e  riesce  tanto  inop- 
portuna quanto  rapida  ed  efficace  riappare  sovra ttutto  nel  Pa- 
radiso dantesco  (2).  I  vecchi  commentatori  si  compiacquero  di 
illustrare  largamente  quel  passo,  attingendo  dalla  solita  fonte 
latina,  ben  nota  anche  all'Alighieri.  L'Ottimo,  ad  esempio,  impa- 
ziente, fino  dal  C.  XXX  dell'/n/erno,  rinarra  la  storia  di  Narciso, 
abbandonandosi  ad  una  graziosa  parafrasi  ovidiana,  di  schietto 
sapore  trecentistico;  ed  Ovidio  Maggiore  cita  esplicitamente 
maestro  Benvenuto  da  Imola,  che  non  può  tenersi  dal  dire  «  jo- 
<  cunda  »  questa  «  fabula  »,  e  ne  sa  trarre  la  morale,  dacché, 

egli  avverte,  «  iste  Narcissus  certe  est  juvenis  vanus,  vagus 

«  et  certe  omnis  terra  habet  suos  Narcissos  ».  E  appunto  que- 
st'abbondanza di  giovanetti  vaghi  e  vani  notata  dal  loquace  imo- 
lese,  dovette  senza  dubbio  giovare  alla  diffusione  del  nome  di 
Narciso,  che  divenne  persino  popolare  e  proverbiale,  sovrattutto 
in  alcune  regioni  d'Italia  (3). 
Dal  Petrarca  e  dal  Boccaccio  (4)  al  Serdini  (5),  al  Poliziano  (6), 


(1)  È  il  son.  Come  Narcissi  in  sua  spera  mirando^  che  il  Gaspary,  La 
scuola  poetica  sicil.,  p.  104,  citò  ancora  inedito  nel  cod.  Vatic.  3793  e  che 
si  legge  nelle  Antiche  rime  volg.^  IV,  249. 

(2)  III.  18.  Nell'in/!,  XXX,  128  il  ricordo  di  Narciso  occorre  in  una  pe- 
rifrasi per  designare  l'acqua,  «  lo  specchio  di  Narciso  ». 

(3)  Nel  bolognese  v'è  una  maschera  montanara.  Narciso  vecchio^  che 
nella  settimana  grassa  va  accattando  e  canta  narcisate.  Cfr.  Vlllustr.  ital., 
an.  XVII,  n.  6,  pp.  109-12  (6  febbr.  1890),  secondo  l'indicazione  fornitami 
dalla  Bihliogr.  delle  tradiz.  popolari  del  Pitré,  n°  3445. 

(4)  Vedasi,  del  Petrarca,  il  son.  //  mio  avversario,  in  cui  veder  solete, 
e  del  Boccaccio  il  madrig.  I  (Rime,  ed.  Livorno,  1802,  p.  59):  Come  su  fonte 
fu  preso  Narciso. 

(5)  Alludo  al  famoso  sirventese  0  specchio  di  Narciso,  o  Ganimede,  pel 
quale  cfr.   Giornale,  34,  331. 

(6)  Nella  Giostra  (st.  79,  v.  4)  Narciso  non  è  ormai  che  un  fiore,  il  quale 
«  al  rio  si  specchia,  come  suole  ». 


VARIETÀ  83 

al  Boiardo  (1),  a  Gaspare  Visconti  (2),  al  Pistoia  (3),  al  Tebaldeo  (4), 
continuò  frequente  e  vivo  il  ricordo  della  bellezza  e  della  va- 
nità del  mitologico  giovinetto,  il  quale,  se  ebbe  lieta  accoglienza 
anche  da  parte  del  più  antico  novelliere  nostro,  l'ignoto  compi- 
latore del  Novellino  (5),  non  ebbe  sulle  scene  quella  fortuna  che 
ebbero  altri  suoi  confratelli,  primi  fra  tutti  Orfeo  e  Cefalo. 

Erano  gli  anni  nei  quali,  alle  corti  di  Ferrara  e  di  Mantova 
più  che  altrove,  Ovidio  —  il  poeta  delle  Metamorfosi  —  trion- 
fava, e  dopo  avere  offerto  materia  e  ispirazione  ai  nostri  canta- 
storie (6),  continuava  a  fornirne  alla  poesia  narrativa  d'arte,  non 
meno  che  alla  lirica,  alla  drammatica  e  alle  arti  figurative  (7). 
L'esempio  d.Q\V Orlando  Furioso  basta  per  tutti  (8);  ma  come  do- 
cumento eloquente  di  quei  gusti  giova  rammentare  che  in  un 
sonetto  amoroso  il  Boiardo  aveva  cantato: 


(1)  Specialmente  nel  son.  Solea  spesso  e  nelle  Egl.,  I,  116,  VII,  94. 

(2)  È  il  son.  lo  non  me  tengo  Adone  ovver  Narciso,  scritto  dal  poeta 
«  contro  un  suo  denigratore  »,  che  si  legge  nel  Parnaso  italiano,  ed.  Venezia, 
Antonelli,  1846,  197. 

(3)  Nel  son.  Che  dirai  tu  delle  donne  da  Siena?,  che  è  il  17^  nell'edizione 
Renier  ;  e  nel  son.  Novel  Narciso,  in  cui  fa  la  vertute,  a  p.  209  dell'ediz. 
Cappelli-Ferrari. 

(4)  A  farlo  apposta,  la  4*  delle  cit.  Stanze  nove  del  Tebaldeo  com.  E 
corno  a  Eco  fu  crudel  Narciso.  Aggiungo  che  nel  poemetto  YAretusa  di 
B.  Martirano  abbiamo  la  fusione  dei  due  miti  di  Narciso  e  di  Aretusa,  come 
rilevò  recentemente  il  Pometti,  V Aretusa  di  B.  M.,  in  Rendiconti  dei 
Lincei,  S.  V,  voi.  IV,  1895,  ci.  Scienze  morali,  pp.  254  sgg. 

(5)  È  la  nov.  46 ,  che  ha  il  n»  144  nel  testo  Panciatichi,  ediz.  Biagi.  Gfr.  la 
XI  delle  Novelle  antiche  pubbl.  dal  Paranti  in  Appendice  al  swo  Catalogo 
dei  Novell,  italiani  in  prosa,  voi.  I,  Livorno,  1871,  pp.  xxi-xxiv.  Per  l'illu- 
strazione vedasi  D'Ancona,  Le  fonti  del  Novellino,  in  Studi  di  crii,  e  storia 
letteraria,  Bologna,  1880,  p.  318. 

(6)  Vedasi  l'elenco  delle  Storie  che  è  nello  Zibaldone  attrib.  ad  A.  Pucci, 
illustrato  da  A.  Graf,  in  questo  Giorn.,  1,  287.  Doveva  essere  fra  le  Storie 
antiche  dell'ignoto  rimatore,  che  nel  Cantare  dei  Cantari  (pubbl.  dal  Rajna, 
in  Zeitschrift  f  rom.  Phil.,  II,  1878,  pp.  426-31)  ricordava  quella  di  Ateone 
e  di  altri  personaggi  «E  ciò  ch'Ovidio  iscrisse  di  costoro». 

(7)  Basti  vedere,  nelle  Fonti  dell"  Orlando  Furioso  del  Rajna  ',  Vindice  di 
fonti  e  riscontri,  sotto  Ovidio,  Metamorfosi. 

(8)  Trattandosi  d'un  poeta  mantovano,  sarà  opportuno  ricordare  una  lettera 
del  4  dicembre  1479,  con  cui  il  card.  Francesco  Gonzaga  consigliava  a  Fran- 
cesco MafFei  di  far  eseguire  certe  pitture  in  graflSto,  una  delle  quali  doveva 
rappresentare  la  «  fabula  de  Meleagro  ».  Si  solevano  perciò  consultare  i 
letterati,  e  in  tal  caso  il  Maffei  doveva  ricorrere  al  Cosmico  (V.  Rossi, 
N.  L.  Cosmico,  in  questo  Giornale,  13,  ili). 


84  V.    GIAN 

Solea  spesso  pietà  bagnarmi  il  viso 
Odendo  raccontar  caso  infelice 
De  alcun  amante,  sì  come  se  dice 
De  Piramo,  Leandro  e  di  Narciso. 

Pertanto,  nulla  di  più  naturale  che  il  giovane  Muzzarelli,  du- 
rante il  suo  soggiorno  nella  Corte  di  Lodovico  Gonzaga,  vescovo 
di  Mantova,  a  Gazzuolo,  cioè  non  più  tardi  del  1511,  pensasse 
di  rimaneggiare  la  gradita  materia  ovidiana,  prendendo  occa- 
sione di  sfogarvi  le  sue  pene  d'amore,  come  già  aveva  fatto  nel- 
Taltra  operetta  ricalcata  sullo  stampo  degli  Asolarti  bembeschi  (1). 

La  Fabula  di  Narciso  ha  un  carattere  schiettamente  narra- 
tivo, anzi  le  pretensioni  d'un  vero  e  proprio  poemetto  mitologico 
in  ottava  rima,  con  la  sua  brava  protasi  (2)  e  con  una  calda 
invocazione  ad  Erato  bella,  amica  di  Cupido.  Vero,  che  il  suo 
stile  è  «  basso  e  reo  »  ;  ma  essa  non  vorrà  sprezzarlo,  se  non 
altro,  in  grazia  del  soggetto,  che  è  il  racconto  d'uno  straordi- 
nario, sovrannaturale  esempio  d'amore.  Lo  scrittore  si  consola  e 
prende  animo  pensando  che  tutti  gli  altri  che  al  suo  tempo  si 
dicono  e  sono  salutati  poeti,  non  sono  neppur  essi  Maroni,  e  che 
non  è  possibile  che  ognuno  sia  un  Omero.  Prega  dunque  le  Muse 
tutte  di  non  isdegnarlo,  perchè,  egli  dice,  sono  avvezze  a  trat- 
tare con  versaioli  ancor  peggiori.  «  poi  eh' ancor  a  peggior  andar 
«  seti  use  ».  Singolare  impasto  cotesto  di  modestia  falsa  e  di  grot- 
tesca presunzione!  Tanto  più  grottesca,  dacché  il  Muzzarelli, 
non  contento  di  questo  po'  po'  d' invocazioni ,  rivolge  vivi 
preghi  anche  a  «  Venere  Santa  »,  perchè  voglia  guidar  la  sua 
barca,  .e  in  compenso  delle  sue  fiamme  per  lei  e  del  racconto 
amoroso,  scelto  a  materia  di  questo  canto,  gli  conceda  la  corona 
d*alloro  : 


(1)  Con  ciò  vengo  ad  affermare  che,  pur  mancando  dati  cronologici  mi- 
nuti e  precisi,  l'operetta  dedicata  alla  Duchessa  Elisabetta  e  che  il  Muzza- 
relli disse  sua  «  giovenil  fatica  »,  è  probabilmente  anteriore  alla  Fabula. 

(2)  Come  saggio,  trascrivo  la  prima  stanza,  per  quanto  infelice  : 

Non  visto  in  altri  mai  foco  d'amore 
Forse  oltra  le  confin  dil  naturale 
Che  accefle  un  dì  se  stesso  in  tal  Airore, 
Qaal  già  non  so  se  unqnanco  altro  mortale 
Sol  perch'ei  fu  d'amor  disprextatore. 
Che  lo  distrasse  in  doloroso  male 
Intendo  di  narrar:  hor  gli  è  dento, 
0  Sacre  Muse,  aver  il  vostro  aiuto. 


VARIETÀ  85 

Tal  che  ancor  spero  mi  coronarai 

De  lo  arbor  verde  di  che  acceso  m'hai. 

Qui  egli  trova  modo  di  spendere  un'intera  stanza  per  alludere 
ad  un  poeta,  fiorentino,  che  per  virtù  di  A^enere,  era  salito  in 
grande  fama  e  nel  quale  non  so  se  si  possa  ravvisare  il  Pe- 
trarca (1).  Curiosa  la  forma  onde,  il  poeta  gazzolese,  invoca  anche 
la  benevolenza  e  l'attenzione  degli  uomini,  nell'accingersi  a  nar- 
rare la  sua  «  istoria  »  : 

Si  che  torniamo  alla  istoria  nostra, 
Attendete,  auditor,  la  parte  è  vostra. 

Ma  quegli  auditori  non  devono  trarci  in  inganno,  dacché  si 
tratta,  invece,  di  lettori,  travestiti  in  tal  foggia  forse  per  ef- 
fetto di  una  consuetudine  derivata  ai  poeti  d'arte  dai  cantastorie 
di  popolo  (2). 

La  nascita  e  la  prima  giovinezza  di  Narciso  sono  esposte  se- 
condo la  narrazione  ovidiana.  Il  figlio  di  Liriope  e  di  Gefiso 
andò  sempre  crescendo  in  bellezza.  A  ventun  anno,  desiderato 
da  tutti,  tutti  sprezzava,  inesorabile,  Driadi,  Napee,  pastori. 
Fauni,  Dei,  Dee,  Semidee.  Tra  la  schiera  delle  Ninfe,  innamo- 
rata di  lui  più  d'ogni  altra,  era  Eco,  «  Eco,  che  visse  allora 
«  in  corpo  umano  »,  ma  che  fin  d'allora  aveva  il  difetto  di  non 
poter  né  tacere,  né  «  parlar  avanti  »,  e  uno  strano  modo  di 
rispondere:  «  avea  com'ora  il  suo  risponder  strano  ». 


(1)  11  poeta,  continuando  a  rivolgere  la  parola  a  Venere,  esce  nell'ottava 
seguente  : 

Accendesti  an  di  qael  che  or  per  me  si  ama 
E  ben  poi  dir:  per  lui  latta  refulgo, 
Che  quel  bramando  che  or  da  me  si  brama 
Et  exaitando  il  nome  eh'  io  divulgo 
Fu  roco  forse  pria  con  poca  fama, 
Mormorator[i]  di  Corti,  un  hom  dil  Tulgo, 
Poscia  acquistò  cosi  ornato  idioma, 
Che  non  Firenze  par,  ne  ha  gloria  Boma. 

(2)  Se  pure  non  è  reminiscenza  delle  rappresentazioni  drammatiche  allora 
in  voga,  nelle  quali  il  Nunzio  od  altri  invitava  gli  spettatori  al  silenzio  e 
all'attenzione.  Un  esempio  almeno  il  Muzzarelli  doveva  conoscerne,  quello 
del  Poliziano,  poeta  a  lui  ben  noto,  come  sarà  fra  breve  dimostrato;  nella  cui 
Fabula  di  Orfeo^  datasi  alla  corte  mantovana,  un  pastore,  dopo  che  Mer- 
curio ha  annunziato  la  festa,  segue  dicendo  :  «State  attenti,  brigata  ecc.  ». 


86  V.  GIAN 

Questa  sventura  la  ninfa  se  l'era  meritata  per  aver  adoperato 
troppo  e  a  tempo  inopportuno  la  lingua,  immischiandosi  in  fac- 
cende assai  delicate;  era  stata  un  giusto  castigo  che  le  aveva 
inflitto  rirata  e  gelosa  Giunone  quando  s'accorse  che  essa,  ma- 
liziosamente scaltrita,  la  teneva  a  bada  con  le  sue  chiacchiere 
per  lasciar  tempo  a  Giove  di  godersi  le  amorose  avventure  con 
le  beltà  terrene,  in  quegli  anni  nei  quali  egli  discendeva  quaggiù, 
per  le  selve  «  ardendo  sempre  il  cor  di  fiamme  nove  ».  Alle 
minacce  della  Dea  segui  tosto  l'effetto,  tristissimo.  Udiamo  il 
poeta  : 

Allor  rimase  priva  della  voce. 
Che  (la  sé  stessa  non  può  far  parola, 
L'infelice  Eco,  e  se  ode  un'altra  voce. 
Risponde  sempre  al  fin  della  parola^ 
Ripetendo  il  tenor  di  quella  voce 
Raddoppia  il  suon  de  l'ultima  parola. 
Così  ad  ognun  dopo  il  parlar  risponde, 
Né  parla  prima,  ma  sempre  risponde. 

Artifici  cotesti  onde  il  Muzzarelli  avrà  creduto  di  rappresen- 
tarci in  maniera  arguta  e  insuperabilmente  efficace  non  il  par- 
lare, bensì  l'echeggiare  delia  povera  ninfa.  Ma  i  guai  di  lei 
non  erano  finiti  ;  altri  gliene  incolsero,  anch'esi:'i  conseguenza  del 
castigo  inflittole  dalla  Dea  corrucciata,  il  giorno  in  cui,  presa 
d'amore  irresistibile  per  Narciso,  vide  nell'impedimento  della 
parola  un  grave  ostacolo  ai  suoi  amorosi  disegni.  Aveva  incon- 
trato il  giovinetto  cacciatore  «  con  l'arco  in  mano  e  con  la  rete 
«  in  collo  »,  cosi  vago  e  adorno  che  quasi  l'avrebbe  scambiato 
per  Apollo;  e  d'allora  non  ebbe  più  pace.  Lo  seguiva  dovunque 
nelle  sue  peregrinazioni,  appassionata,  instancabile,  ma  sempre 
costretta  a  tener  sepolti  nel  cuore  i  suoi  desideri  ardenti. 

A  questo  punto  il  racconto  s'interrompe.  Il  poeta,  dinanzi  alla 
sorte  compassionevole  di  Eco  è  tratto  a  pensare  ai  suoi  propri 
casi,  a  sfogar  le  sue  proprie  pene: 

Ah  misera  Eco,  non  misera  sola! 
Ch'  io  stesso  il  gran  male  esperimento 
Qualor  anti  al  mio  ben  che  a  me  s'invola 
Per  narrar  le  mìe  pene  mi  appresento, 
Né  so  formar,  nonché  parlar,  parola 
Che  palesi  il  mio  male,  il  mio  tormento 
E  pur  di  me  pensar  non  m'ò  concesso. 
Perché  entro  tutto  in  lui  fuor  di  me  stesso. 


VARIETÀ  87 

Un  giorno,  trovandosi  a  caccia,  Narciso,  scostatosi  dai  suoi 
compagni,  era  rimasto  solo;  Eco  lo  seguiva,  come  sempre,  dav- 
vicino  : 

Disse  allor  il  garzon  discompagnato  : 
«  0  miei  compagni,  è  quivi  alcuno "i  »  — Alcuno^ 
Eco  risponde.  Ed  ei  meravigliato 
Mirossi  attorno  e  non  vede  veruno. 
Poi  grida:  «  Vieni»,  ed  è  da  lei  chiamato, 
Ma  chi  lo  chiami  ancor  non  vede  ninno. 
«  Che  mi  t'asconde?  »  lui;  e  «  Che  mi  t'asconde?  —  » 
«  Non  mi  sprezzar  »  —  «  Non  mi  sprezzar  »,  risponde. 

«  Quivi  si  congiongiamo  »,  esso  favella. 
Allor  più  lieta  che  mai  fusse  in  vita  : 
«  Quivi  si  congiongiamo  »,  risponde  anche  ella. 

E  accesa  di  nuove  fiamme  esce  dal  suo  nascondiglio  nella  spe- 
ranza di  essere  accolla  fra  le  braccia  del  giovane  amato;  ma 
invano,  che  questi  fugge  turbato,  sdegnoso,  imprecando  (1). 

Lasciamo  per  un  istante  la  misera  Eco  struggersi  in  lacrime 
e  con  rimagine  del  suo  Narciso  nel  cuore  consumarsi  tanto  che 
rimarrà  di  lei  solo  la  voce.  Lasciamola,  per  notare  che  le  stanze 
testé  riferite  ci  porgono  il  saggio  più  antico  ch'io  conosca  di 
eco  responsiva  nella  poesia  nostra.  Vittorio  Imbriani  che  all'eco 
responsiva  nelle  pastorali  italiane  del  Cinquecento  e  del  Secento 
consacrò  una  serie  di  appunti  o  spogli  bibliografici,  asserì  (2), 
sull'autorità  del  Dunlop,  che  in  un'ottava  deirOr/*eo  il  Poliziano 
aveva  dato  esempio  di  tale  artificio.  Ma  ciò  è  inesatto,  dacché 
solo  nelle  Stanze  occorre  un  passo  dove  l'eco  è  appena  fugge- 
volmente accennato  (3). 


(1)  Riferisco  quest'altra  ottava  come  nuovo  esempio  di  Eco  responsiva  : 

Esce  la  ninfa  e  speranza  la  mena 
Per  puor  le  braccia  al  col  desiderato; 
Ma  come  fa  da  lai  mirata  a  pena, 
Fuor  di  misara  il  gioven  fu  turbato, 
Fuggesi  altrove  e  lei  lascia  con  pena 
E  disse,  poi  che  alquanto  è  dilongato  : 
«  Prima  morrò  che  abbi  di  me  tu  copia  ». 
Ella  rispose:  «  Abbi  di  me  tu  copia  »  ! 

(2)  Nel  Giornale  napol.  di  filosofia  ecc.,  voi.  II,  1872,  p.  282. 

(3)  Nella  st.  62  del  lib.  I  i  compagni  di  Julio,  non  ritrovandolo  a  caccia, 
lo  chiamano  ad  alta  voce:   «  Le  lunghe  voci  ripercosse  abondono;  E  Julio 


88  V.    GIAN 

Del  resto  il  merito  di  tale  priorità  è  ben  piccolo,  tanto  più 
che  Targomento  stesso  aveva  suggerito  questo  artificio  e  Ovidio 
ne  aveva  dato  un  esempio  che,  a  dispetto  delle  censure  di  Mar- 
ziale, ebbe  non  poca  fortuna. 

Ma  ritorniamo  alla  ninfa  innamorata,  la  quale 

Or  ha  in  odio  la  vita  e  il  suo  martire, 
Ma  per  troppo  dolor  non  può  morire. 

Tutto  quanto  le  ricorda  il  bel  Narciso,  è  uno  strazio  pel  suo 
cuore,  tutto,  perfino  i  fiori,  la  terra  toccata  nel  passare  dal  suo 
piede  delicato,  l'aria  spirante  dal  luogo  ov'egli  soggiorna: 

Abbraccia  Taura  e  chiamala  beata, 

Che  vien  dal  loco  ove  Narciso  siede 

E  tanto  piange  e  sospira  ogni  fiata 

Qualor  alcun  de'  soi  vestigi  vede. 

Che  l'erba  è  in  dubbio  e  non  sa  somigliarse. 

Viver  per  pianti  o  per  sospir  seccarse. 

Versi  cotesti  che  ho  voluto  riferire,  perchè  danno  un'idea 
delle  gravi  disuguaglianze  che  sono  nel  poemetto  del  Muzzarelli: 
tali,  che,  nella  ottava  medesima,  ad  un  sentimento  delicato,  bene 
espresso  e  che  fa  pensare  a  un  tratto  stupendo  della  Gerusa- 
lemme Liberala  (1),  succede  una  brutta  smorfia  secentistica. 

Eco,  randagia  per  grotte  oscure  e  per  luoghi  selvaggi,  delira 
e  qu^si  impazzisce;  rimangono  di  lei  soltanto  la  voce  e  l'ossa,  e, 
consunte  anche  quest'ultime  dal  fuoco  d'amore,  prendono  a  poco 
a  poco  forma  di  sassi.   Unica  superstite,  erra  pei  boschi   e   per 


€  Julia  le  valli  rispondono  >.  E  nella  st.  seguente:  «Pur  Julio  Julia  sona 
«  il  gran  diserto  >.  Non  mi  stupirebbe  tuttavia  che  altri  esempì  mi  venis- 
sero additati  nei  lirici  del  Quattrocento  cadente,  specie  in  quelli  della  schiera 
cortigiana.  Intanto  giova  notare  che  questo  artifizio  era  penetrato  anche 
nella  poesia  latina  del  Rinascimento,  e  in  componimenti  d'ispirazione  clas- 
sico-mitologica, come  in  uno  del  Tebaldeo  (Carmina  ili.  paétar.  Italar.^ 
IV,  239)  e  in  componimenti  d'ispirazione  religioso-cristiana,  come  in  certi 
versi  del  milanese  Francesco  Panigarola  Echa  in  Christi  Natalem  (Carni. 
cit.,  VII,  66). 

(1)  Là  dove  Erminia,  rivolta  al  campo  cristiano  dove  giaceva  ferito  Tan- 
credi, esclama  sospirando: 

0  belle  agli  occhi  mioi  tende  latine  ! 
Ann  spira  da  voi  che  mi  ricrea  ecc. 


VARIETÀ  89 

le  solitudini  la  voce,  «  servando  nel  parlar  sua  prima  usanza  ». 
Ma,  prima  di  mancare  del  tutto,  la  ninfa  invoca  con  la  mente  gli 
Dei,  perchè  facciano  le  sue  vendette  infondendo  in  Narciso  un 
ardore  amoroso  pari  al  suo.  L'ode  Cupido  e  pensa  di  esaudirla, 
anche  perchè  il  giovinetto  pastore  gli  sembra  troppo  crudele. 
Spicca  il  volo  e  rapido  giunge  al  palazzo  di  Venere,  sua  madre, 
e  sul  letto  eburneo  di  essa,  mirabile  opera  di  Vulcano,  il  poeta 
ci  fa  vedere  scolpiti  tutti  gli  esseri  della  natura  e  da  ultimo  le 
imprese  di  Amore  stesso,  dominatore  degli  uomini  e  degli  Dei, 
del  mondo  universo.  A  questo  punto  la  narrazione  rimane  bru- 
scamente interrotta,  dacché  l'ultima  scena  descritta  è  il  ratto 
di  Ganimede  (1).  E  cosi  incompiuta  dovette  la  Fabula  esser  la- 
sciata dall'autore  per  cagioni  che  non  ci  è  possibile  determinare. 

In  tal  modo  egli,  dopo  aver  dato  un  notevole  svolgimento  a 
quell'episodio  di  Eco  che  era  estraneo  al  nucleo  originario  della 
leggenda  di  Narciso,  non  potè  o  non  volle  trattarne  l'episodio 
fondamentale,  quello  della  punizione  del  giovinetto,  la  quale  qui 
ed  in  Ovidio  è  rappresentata  o  accennata  quale  una  vendetta 
della  ninfa  reietta.  Manca,  in  altre  parole,  l'innamoramento  di 
Narciso  al  fonte  e  la  conseguente  metamorfosi  sua  in  fiore. 

Se  avesse  continuato  il  suo  cammino  col  poeta  di  Sulmona, 
probabilmente  il  Muzzarelli  sarebbe  proceduto  più  spedito  sino 
alla  mèta.  Cedette  invece  all'invito  irresistibile  d'un'altra  guida 
e  fini  col  deviare,  con  l'indugiarsi,  sino  a  rimanere  a  mezza  via. 
Questa  guida  fu  il  Poliziano,  il  quale  pure,  per  amore  dell'epi- 
sodio descrittivo  che  all'arte  sua  mirabile  dava  occasione  di  rie- 
vocare i  colori  e  le  forme  più  belle  dell'antichità  classica,  lasciò 
incompiute  le  Stanze,  ma  lasciò  tuttavia  un  frammento  prezioso, 
quasi  un  torso  stupendo  di  marmo  pano,  che  permetta  di  indo- 


(1)  Questa,  l'ultima  stanza  : 

Novellamente  el  cor  de  un  strai  ferito 
Diventa  abitator  de*  boschi  de  Ida 
E  di  fallaci  penne  rivestito 
Di  queir  augel  in  che  più  si  confida. 
Via  se  ne  porta  il  bel  garzon  rapito. 
E  ver  chi  ha  di  costai  custodia  fida, 
Grida  levando  a  Tarla  ambe  le  mani 
E  crudelmente  al  ciel  latrano  i  cani, 

dopo  la  quale,  cosi  nell'edizione  del  1518,  come  in  quella  del  '22,  si  legge 
la  parola  Finis. 


90  V.   GIAN 

vinare  e  ammirare  lo  bellezze  della  statua  intera.  Che  altro  torso 
sia  riuscita  la  fàbula  del  mantovano  non  occorre  ch'io  dica. 

Piuttosto  gioverà  notare  che  l'influsso  del  Poliziano  si  mani- 
festa più  aperto  in  essa  a  partire  dal  punto  in  cui  Eco  languente 
invoca  vendetta  dagli  Dei.  Da  qui  in  avanti  il  Muzzarelli  stacca 
l'occhio  dalle  Metamorfosi  e  lo  volge  alle  Stanze;  la  Nemesi  ovi- 
diana  {Rhamnusia)  che  accoglie  la  preghiera  della  Ninfa,  cede 
il  posto  all'alato  Cupido,  nel  quale  è  facile  riconoscere  il  piccolo 
dio  del  poeta  mediceo  (1). 

Cosi  nell'uno  come  nell'altro  poemetto  Cupido  vola  al  palazzo 
della  madre;  come  l'Ambrogini,  il  giovane  gazzolese  s'industriò 
di  descriverlo,  ma  invece  di  inspirarsi,  si  lasciò  incatenare.  Il 
che  fa  pensar  davvero  a  due  versi  del  Poliziano  (I,  91):  da  un 
canto, 


dall'altro, 


E  bianchi  cigni  fan  sonar  la  proda. 


Il  pappagallo  squittisce  e  favella. 


Chi  sia  il  cigno,  chi  il  pappagallo  viene  a  confessare  lo  stesso 
Muzzarelli,  che  arriva  sino  a  portar  via  di  pianta  dal  poeta  to- 
scano un  verso,  come  il  seguente:  «  E  la  materia  è  vinta  dal 


(1)  Basti  confrontare  la  seguente  ottava  del    Muzzarelli,  dove  è  descritta 
la  partenza  di  Cupido  : 

Spiega  le  penne  e  tre  volte  le  scnote 
E  cosi  irato  in  su  s'inalza  a   volo,  ' 

Or  le  chiude  ed  hor  il  ciel  percote, 
Drieto  gli  vola  innumerabil   stnolo 
Di  van   desiri  e  di  speranze  vote 
E  de  incerte  allegrezze  e  certo  duolo. 
Con  queste  et  altre  sue  veloci  squadre 
Pervenne  al  bel  palagio  de  la  Madre, 

coi  versi  seguenti  del  Poliziano  (I,  t^8  sgg.): 

Ma  fatta  Amor  la  sua  bella  vendetta 
Mossesi  lieto  pel  negro  aere  a  volo 
E  ginne  al  regno  di  sna  madre  in  fletta... 
Ov'è  de'  piccini  suo'  fratei  lo   stuolo. 


E  il  fiUace  Sperar  col  van   Desio  ecc. 
Cotal  milixia  i  suoi  figli  accompagna. 


VARIETÀ  91 

«lavoro».  Curioso  peraltro,  che  in  tal  caso  egli  avrebbe  potuto 
accusare  di  furto  anche  la  sua  guida,  a  quella  guisa  che  molti 
anni  più  tardi  Torquato  Tasso  strapperà  questo  fiore  al  giardino 
del  Poliziano  (1). 

Come  si  vede,  questa  Fabula  di  Narciso,  tentativo  fallito,  è 
un  prodotto  caratteristico  della  poesia  nostra  nell'Italia  supe- 
riore, in  quel  periodo  che  va  dalla  composizione  éoìV Orlando 
inna'inoroto  alla  terza  edizione  originale  del  Furioso  e  durante 
il  quale  sorsero  le  Stanze  e,  per  l'esempio  di  queste  e  della  rin- 
novantesi  tradizione  trecentistica,  le  rime  e  le  prose  del  Bembo. 
Tentativo  fallito,  dicevo,  per  difetto  d'ingegno  e  per  colpa  della 
materia,  troppo  esclusivamente  classica,  troppo  scarsa  d'interesse 
e  di  virtù  e  di  capacità  ispiratrice.  Solo  il  Poliziano  fece  il  mi- 
racolo, che  fu  un  mezzo  miracolo,  oltre  il  quale  non  c'era  posto 
che  per  la  vana  imitazione  formale. 

La  stessa  Favola  dì  Narciso  di  Luigi  Alamanni  (2)  e  la  Tì^as- 
formazione  di  Glauco  di  Luca  Valenziano  (3),  non  a  caso  ve- 
nute dopo  VOrlando  Furioso,  benché  per  la  più  felice  elabora- 
zione artistica  dell'ottava  rima  avanzino  di  molto  l'operetta  del 
nostro  mantovano,  nella  storia  del  genere  non  segnano  un  vero 
progresso.  Con  gli  anni,  e  sotto  l'influsso  soverchiante  del  mal 
gusto,  perdutosi  il  senso  della  misura  e  della  verità  nell'arte,  la 
storia  o  poemetto  mitologico  crescerà  gonfiandosi  a  corpulento 
poema  mitologico  e  metterà  capo  d\V Adone.  Allora  il  racconto 
di  Narciso  e  gli  altri  consimili  diventeranno  materia  prediletta 
ai  fabbricatori  di  drammi  pastorali  e  di  melodrammi  (4). 

Il  Muzzarelli,  forse  per  consiglio  del  Bembo,  che  gli  fu  protet- 


(1)  In  Ovidio  {Metam.,  II,  5)  :  <  Materiam  superabat  opus  »  ;  nel  Poliziano 
(I,  95,  4)  :  €  Ma  vinta  è  la  materia  dal  lavoro  »,  verso  tolto  di  peso  poi  dal 
Tasso  (Gerus.  liberata,  XVI,  2,  6):  «Che  vinta  è  la  materia  dal  lavoro», 
il  che  andrà  aggiunto  nella  bella  edizione  di  S.  Ferrari,  Questi  riscontri, 
manco  dirlo,  sono  già  nel  classico  commento  di  G.  Carducci.  Altre  deriva- 
zioni polizianesche  nella  Fabula  di  Narciso,  più  o  meno  evidenti,  tralascio, 
perchè  non  ne  franca  la  spesa. 

(2)  E  citata,  insieme  con  la  favola  seguente,  dal  Quadrio  e  si  può  leg- 
gere riprodotta  nel  voi.  dei  Versi  e  prose  di  L.  Alamanni,  Firenze,  Le  Monnier, 
1859,  pp.  75-90. 

(3)  Nelle  Opere  volgari  di  M.  Luca  Valentino  Derthonese,  MDXXXII, 
in  fine:  Vinegia,  Vitalli,  MDXXXII,  e.  13y.-17r. 

(4)  Rimando  airALLACCi,  Drammaturgia,  Venezia,  1755,  col.  551.  ' 


92  V.   GIAN 

tore  e  maestro,  forse  perchè  scoraggiato  dalle  difficoltà,  rinunziò 
all'impresa.  Certo  è  che  solo  dopo  la  sua  morte  (1516)  questa  Fa- 
bula vide  la  luce.  Il  suo  manoscritto,  capitato,  com'  io  credo,  per 
opera  di  qualche  amico  indiscreto,  nell'officina  dozzinale  dello  Zop- 
pino, fu  dato  alle  slampe,  e  in  cinque  anni  ebbe,  come  s'è  visto, 
l'onore  di  tre  edizioni  scorrette,  probabilmente  in  grazia  del  Te- 
baldeo,  il  cui  nome  figurava  nel  frontespizio  e  che,  anche  dopo 
le  vittorie  del  nuovo  petrarchismo  e  d'un'arte  più  severa,  conti- 
nuava a  godere  d'un  grande  favore  fra  i  lettori  men  colti.  Ma  in 
séguito,  dopo  quell'esplosione  di  pubblicità,  la  Fabula  cadde  in 
un  oblio  tanto  meritato  quanto  era  stato  immeritato  quel  primo 
onore.  Ed  io  non  l'avrei  esumata,  se  col  tempo  l'operetta  muz- 
zarelliana  non  avesse  acquistato  almeno  un  pregio,  quello  della 
rarità  e  preziosità  bibliografica  e,  più  ancora,  se  non  mi  fosse 
parsa  un  documento  non  trascurabile  nella  storia  della  fortuna  di 
«  Ovidio  maggiore  »  e  degli  influssi  esercitati  dal  Poliziano  sulla 
nostra  poesia  volgare  del  Rinascimento. 


III. 


Miglior  prova  fece  il  Muzzarelli  nella  lirica  d'amore  (e  più 
nella  forma  del  sonetto,  che  in  quella  della  canzone)  industrian- 
dosi, spinto  fors'anche  da  qualche  vero  impulso  del  cuore  e  dalla 
realtà  vissuta,  a  mettersi,  non  senza  una  certa  corretta  eleganza, 
sulle  orme  del  Petrarca  e  del  Bembo.  Ma  io  qui  non  intendo  di 
parlare  di  un  argomento  nel  quale  ben  poco  avrei  da  aggiun- 
gere o  modificare  a  quanto  ne  scrisse  il  Prato.  Mi  restringerò 
invece  ad  una  descrizione  bibliografica  e  ad  una  breve  osser- 
vazione. 

Nel  suo  saggio  sul  Muzzarelli  il  Prato  (1)  deplorava  di  avere 
cercato  indarno  l'unica  raccoltina  a  stampa  delle  rime  muzza- 
relliane,  della  quale  aveva  fatto  menzione  il  D'Arco.  E  infatti 
il  libretto,  benché  assai  più  tardo  delle  citate  edizioni  zoppiniane, 
è  più  raro  di  esse,  tanto  che  rimase  ignoto  perfino  a  quei  me- 
ravigliosi frugatori  di  cimeli  che  furono  il  Crescimbeni,  il  Quadrio, 
lo  Zeno  e  il  Tiraboschi. 

L'unico  esemplare  a  me  noto,  giaceva  appiattato  nella  Biblio- 


(1)  Op.  cit.y  p.  264. 


VARIETÀ  93 

teca  Nazionale  di  Firenze  (Palatina,  12.  2.  1.  34),  e  per  la  sua 
rarità  appunto  vale  la  pena  di  darne  notizia  agli  studiosi.  È  un 
opuscolo  in  S"  picc,  di  66  pp.  numerate,  che  nel  frontespizio  ha 
il  titolo  seguente: 

Canzoni  \  Et  Sestine  \  Amorose  \  di  M.  Giovanni  Muzza  \ 
velli  I  Nobile  \  Mantuano  \\  In  Ferrara  |  Appresso  Valente  Pa- 
nizza  I  Mantuano,  1562.  Dal  quale  titolo  si  apprende  una  notizia 
affatto  nuova  e  non  so  quanto  fondata,  quella  della  nobiltà  del 
Muzzarelli,  che,  nativo  com'era,  di  Gazzuolo,  apparteneva  al 
contado  mantovano.  In  fine  è  ripetuto  :  In  Ferrara  \  Appresso 
Vale7ite  Panìzza  \  M.D.LXIL 

Alla  raccoltina  delle  Canzoni  e  Sestine  va  innanzi  una  lettera 
dedicatoria  del  Panizza  ai  «  Magnifici  Signori  Camillo  e  Carlo 
«  Scaloni  fratelli  »,  ch'egli  continua  a  dire  suoi  «  padroni  »,  seb- 
bene sappia  e  deplori  d'aver  perduto  da  un  pezzo,  e  meritamente, 
la  loro  grazia.  Per  l'antica  amicizia  s'è  indotto  a  dedicar  loro  questo 
libretto,  «  che,  sforzato  (egli  aggiunge)  dal  priego  di  alcuni  miei 
«amici  e  dalla  affezione  che  tengo  alla  mia  patria»,  ho  voluto 
dare  in  luce.  Di  queste  poesie  «  di  m.  Giovanni  Mozzarelli  nostro 
«  mantovano  »  gli  aveva  fatto  copia  il  suo  carissimo  Salicino. 

Non  contento  di  questa  lettera,  il  Panizza  le  fa  seguire  una 
filza  di  miserabili  ottave,  pur  dedicatorie  agli  Scalona,  dalle  quali 
si  desume,  di  tra  la  farraggine  delle  lodi,  anzi  delle  adulazioni, 
rivolle  ai  due  magnifici  fratelli,  e  alla  Livia  e  Liodora  e  Quinzio, 
'rispettivamente  sorella,  madre  e  minor  fratello  loro,  il  vivo  de- 
siderio suo  di  riacquistare,  col  «  picciol  dono  »,  la  grazia  perduta. 

E  per  accrescere  pregio  a  questo  dono  lo  zelante  stampatore 
pensò  di  inserire  fra  le  rime  del  Muzzarelli  due  sonetti  del  Sa- 
licino. Seguono  le  Canzoni  e  le  Sestine  e  nell'ultima  carta  la 
Tavola  dei  Capi,  nella  quale  i  capoversi  delle  rime  non  sono 
disposti  in  ordine  rigorosamente  alfabetico  e  sono  comprese  anche 
le  poesie  del  Panizza  e  del  suo  amico  Salicino,  al  quale  siamo 
debitori  del  raro  libretto.  Nel  riprodurre ,  senz'  altro,  questa 
Tavola,  che  andrà  utilmente  aggiunta  dAYJndice  con  tanta  cura 
compilato  dal  Prato  {Op.  cit.,  pp.  276-7),  ne  riordino  i  capoversi, 
indicando  quali  di  essi  appartengano  alle  rime  dei  due  amici  e 
quale  sia  la  forma  metrica  e  il  numero  progressivo  dei  rispettivi 
componimenti  nella  stampa  originale. 


94  V.   GIAN 


TAVOLA  DEI  CAPOVERSI. 

[All'alta  impresa  a  e' bora  v'accingete.  Ottave  di   Valente  Pa- 
ni zza"]. 
Amanti,  il  vuo'  pur  dir,  che  ogn'un  m'intenda.  Canx.  XXV.  (1) 
Amor,  beato  Amore.  Canz.  IV. 
Amor,  chi  vide  mai  si  belle  chiome?  Canz.   V. 
Candidissimo  avorio  alto  e  divino.  Canz.  XIX. 
Chi  brama  di  gustar  con  gli  occhi,  Amanti.  Canx.  XIV. 
Chi  mi  darà  giamai.  Canz.  IX. 

Chi  vuol  veder  quel  che  non  può  Natura.  Canz.  XVI. 
Come  poteva  Dio.  Canz.  III. 
Entro  un  pian  di  finissimo  alabastro.  Canz.  XX. 
La  donna  che  al  camin  del  ciel  mi  scorge.  Canz.  XXIII. 
La  donna  che  '1  mio  cor  ne  gli  occhi  porta.  Canz.  XXIV. 
[Non  si  tosto  vien  for  l'amata  Aurora.  Son.  di  A.  Salicinó]. 
Occhi  chiari,  leggiadri,  occhi  beati.  Cnnz.  XIII. 
[Occhi  soavi,  che  co  '1  dolce  sguardo.  Son.  di  A.  Salicinó]. 
0  mente,  or  prendi  ardire.  Canz.  XII. 
Or,  mente  innamorata.  Canz.  XI. 
0  vaga  man  de  le  più  belle  cose.  Canz.  XXI. 
Qual  meraviglia  è  quella.  Amor  beato.  Canz.   VI. 
Quella  man  che  fa  il  ciel  stupir  sovente.  Canz.  XXII. 
Ristretti  in  piccol  loco.  Canz.  XV. 
Se  pur  debbo  seguire.  Canz.  X. 
Sì  come  Febo  alhor  che  con  più  forza.  Sest.  I. 
SI  come  nel  seren  di  pura  notte.  Sest.  II. 
Sovente  con  Amor  l'alma  si  dole.  Canz.  II, 
Terso,  celeste,  netto.  Canz.  XVIII. 
Un  bel  colle  amoroso.  Canz.   VII. 
Un  divin  glorioso.  Canz.  XVII. 
Un  pensier  che  '1  mio  cor  tutto  possedè.  CanM,  1. 
Un  vago  eccelso  piano.  Canz.   Vili. 


(1)  È  una  stanza  staccata  dalla  Canz.  (non  Madrigale)  che  figura  nell'/n- 
dice  del  Prato  (p.  277)  e  com.  5'  io  v  osassi  di  dir  quel  che  piangendo. 


VARIETÀ  9'f 

I  componimenti  raccolti  dal  Panizza  nel  disadorno  opuscolo 
sono  tutti  compresi  in  quella  scrittura  che  io  dimostrai  essere 
un'  imitazione  degli  Asolani  bembeschi,  anzi  si  può  dire  ch'egli  li 
abbia  tratti  da  essa,  tralasciandone  tre  canzoni  soltanto  (1).  In- 
torno ad  essi  non  aggiungerò  se  non  una  osservazione;  ed  è  che 
in  un  gruppo  numeroso,  anzi  nel  più  caratteristico,  di  queste 
sue  poesie  il  Muzzarelli  esagerò,  con  lo  zelo  consueto  degli  imi- 
tatori, un  tèma  comune  della  lirica  del  Petrarca  e  dei  suoi  se- 
guaci. In  quello  e  in  questi,  specialmente  nell'autore  della  Bella 
mano  (uscita  la  prima  volta  per  le  stampe  nel  1479)  e  in  Andrea 
Baiardi  (il  parmigiano  vissuto  tra  il  cadere  del  XV  e  il  principio 
del  XVI  secolo  e  celebratore  del  bel  collo  della  sua'  donna),  si 
nota  la  tendenza,  non  pure  a  descrivere  le  bellezze  della  donna 
amata,  tendenza  che  è  propria  di  tutte  le  età,  ma  a  lasciare  le 
descrizioni  vaghe  ed  astratte,  per  giungere  ad  altre  sempre  più 
minute  e  particolari  —  tormentose  cesellature  —  sia  anche  nella 
raffigurazione  d'una  realtà  soltanto  imaginata.  Il  castellano  di 
Mondaino  credette  forse  di  sollevarsi  al  disopra  dei  suoi  fratelli 
d'armi  poetiche  ritraendo  e  commentando  con  più  esagerata  mi- 
nuzia e  con  istudiata  prolissità,  le  singole  parti  della  persona  cara. 
È  vero  che  nella  chiusa  della  prima  canzone,  sentenziando  sulla 
impossibilità  di  descrivere  adeguatamente  quelle  bellezze,  aveva 
giudicato  «  esser  meglio  tacer  che  dirne  poco  »;  in  effetto  peraltro, 
posto  al  bivio  di  scegliere  tra  il  silenzio  d'oro  e  il  dir  molto, 
preferi  questo  secondo  partilo,  anzi  disse  troppo,  sebbene  cercasse 
un'occasione  e  insieme  una  giustificazione  nella  gara  impegnatasi 
fra  Epenofilo  e  Filotimio,  com'ebbi  già  ad  avvertire.  Infatti,  dopo 
alcune  poesie  contenenti  generiche  descrizioni  delle  bellezze 
della  sua  donna,  nella  Ganz.  VI  e  nella  Sest.  II  ne  esaltò  le 
chiome,  nella  Ganz.  VII,  la  fronte,  nella  Ganz.  VIII,  il  viso,  il 
naso  ed  altro  con  sempre  maggiore  indiscrezione.  Nientemeno 
che  cinque  canzoni  (Ganz.  IX-XIII)  celebrano  i  bellissimi  occhi 
di  lei,  in  modo  da  formare  cinque  sorelle;  e  poscia  viene  la  volta 
del  viso  (Ganz.  XVI),  del  collo  (Ganz.  XVII-XVIII),  del  petto 
(Ganz.  XIX  e  XX),  della  mano  (Ganz.  XXI-XXII). 

Gurioso,  infine,  a  notarsi  che  il  giovane  poeta  credette  di  ac- 


(1)  Sono   le   Ganz.  0{h)    s' io  potessi,  amanti;    Miste  con  gigli  candide 
vermiglie;  Fresche  leggiadre  rose. 


96  V.   GIAN 

crescere  la  varietà  e  l'efflcacia  e  scemare  la  monotonia  delle  sue 
prolisse,  stemperatissime  descrizioni,  con  qualche  tratto  di  sensua- 
lità concettosa  ed  artificiosa.  Male  consigliato  anche  in  questo, 
perchè  più  d'una  volta  non  fece  che  tradire  peggio  i  suoi  artifici 
da  goffo  secentista  indarno  celato  sotto  la  maschera  del  petrar- 
chista industrioso  e  paziente  (1). 

Vittorio  Gian. 


(1)  Sceglierò  due  esempi  soltanto.  Nel  congedo  della  Canz.  Vili,  dopo 
aver  descritto  le  bellezze  del  viso,  del  naso,  accennando  air  intenzione  di 
scivolare  più  giù,  pel  lubrico  sentiero,  il  poeta  così  si  rivolge  alla  sua  Can- 
zone: «  Ganzon,  se  alcun  s'ammira  del  tuo  parlar,  rispondi:  O  che  faresti,} 
«  Se  quel  che  ti  si  cela  conoscesti?  (sic)  ».  E  nella  Canz.  XIX,  descrivendo 
il  bel  petto,  dice  che  alla  guardia  di  tante  bellezze  sta  Amore,  il  quale,  ineb- 
briato  dal  piacere,  «  infra  i  bei  pomi  siede,  |  Poi  grida  con  gran  voce:  |  Voi 
«  ch'abitate  in  terra,  se  cercate  |  La  via  di  gire  al  ciel,  qui  la  imparate  »  '. 
Questo  cantava  l'alunno  del  Bembo  nell'età  di  Leone  X,  cioè  fra  l'ardente 
Serafino  e  il  Marini;  ma  né  all'uno,  né  all'altro  dei  due  poeti  egli  non 
avrebbe  avuto  da  invidiare. 


xjisr 

ROMANZO  SATIRICO 

DEL  SETTECENTO 


Nel  1760,  dalla  stamperia  di  Antonio  Zatta,  in  Venezia,  usci 
un  libretto  di  187  pagine,  in  piccolo  ottavo,  intitolato  Avven- 
ture I  di  Lillo  I  cagnuolo  bolognese,  \  storia  critica  e  galante  \ 
tradotta  dall'inglese:  un  breve  romanzo,  tanto  dilettevole  e  ar- 
guto e  originale  tra  i  romanzacci  allora  di  moda,  che  merita 
un  cenno  singolare  da  parte  di  chi  studia  quella  produzione 
letteraria  del  settecento. 

A  tergo  della  prima  pagina,  è  un  brutto  rame  raffigurante 
una  stanza  adorna  di  specchi,  dall'uscio  della  quale  entra  una 
donna  che  alza  le  braccia  e  visibilmente  grida  per  cacciare  un 
cane  ed  un  gatto  che  sur  un  tavolo  stanno  per  sollazzo  strap- 
pando e  sgualcendo  le  carte  di  alcuni  libri.  Segue  il  frontespizio; 
poi,  una  breve  prefazione  del  traduttore  ;  poi  comincia  la  nar, 
razione;  la  quale  è  divisa  in  due  lììrri,  l'uno  di  tredici,  l'altro 
di  diciotto  capi.  Do  queste  minute  indicazioni  bibliografiche- 
perchè  rarissima  ormai  e  preziosa  è  l'edizione.  Ma  nel  riassu- 
mere il  racconto,  sarò  breve. 

L'autore  ama  i  cani;  lo  confessa;  li  ammira,  come  Gasparo 
Gozzi  (1)  e  il  nostro  Raiberti  ammiravano  i   gatti;  e  ne  fa  un 


(1)  Vedi  l'artic.  della  Gazzetta  veneta,  pubblicato  nelle  Opere  di  G.  Gozzi, 
Venezia,  Molinari,  1812,  voi.  XI,  pp.  121  sgg.  Il  Gozzi  collaborò  pure  nella 

Giornale  itorico,  XXIYm,  fase.  112-113,  7 


98  G.   B.   MARCHESI 

lungo  elogio  (lib.  I,  cap.  I),  perchè  sono  buoni,  sono  fedeli, 
ubbidienti,  utili,  perchè  Turon  cari  a  Diana  e  Teseo,  ad  Ercole, 
a  Luciano,  al  re  Carlo  II,  ai  filosofi  e  alle  donne,  e  poi  perchè 
sono  migliori  di  tanti  uomini  !  Altri  narri  le  solite  avventure  di 
un  zerbino;  egli  narrerà  quelle  di  un  cane. 

Lillo  (cap.  II)  nato  a  Bologna  «  città  celebre  per  bei  cani  e 
«  salsicciotti  »,  giovanissimo  ancora,  nella  dotta  e  grassa  città, 
è  caduto  in  potere  di  una  bellissima  signora  inglese.  Le  cure  e 
le  attenzioni  che  questa  gli  usa,  non  dico;  lo  ama  certo,  come 
ogni  filantropica  dama  del  settecento,  più  de' suoi  servitori  e 
più  anche  de'  suoi  vagheggiatori  infiniti  e  stucchevoli  ;  persino 
più  del  povero  e  buon  Ilarione,  un  giovanotto  inglese  biondo  e 
bello,  che  bazzica  la  sua  casa  ed  è  sempre  da  lei  piacevolmente 
sopportato  in  ogni  ora,  «  alla  pettiniera,  al  bere  del  tè,  a  pranzo  ». 
Già,  per  piacerle  bisogna  prima  piacere  a  Lillo,  acquistarsi  le 
simpatie  di  Lillo.  Ilarione,  un  giorno,  presenta  alla  signora  una 
preziosa  collana  di  diamanti;  e  quella  ne  adorna  il  collo  del  ca- 
gnolino. «  Oh  »,  le  dice  il  vago  Adone,  «  si  giurerebbe  che  voi 
«  avete  la  facoltà  di  far  belli  i  vostri  cani  quanto  volete!  ».  Ma 
la  donna  non  si  commuove  nemmeno  a  quel  tratto  di  spirito, 
e  neppure  questa  volta  si  arrende.  Sicché  Ilarione,  stanco, 
qualche  giorno  dopo  «fortificatosi  con  un  bicchiere  di  tokai  », 
va  bruscamente  ad  annunziarle  che  parte.  La  signora  sviene, 
si  vuole  uccidere,  poi,  alla  fine,  si  acqueta,  quando  l'amante, 
per  ricordo,  le  dona  un  orologio  d'  oro.  Commossa,  per  ricordo, 
ella  pure  vuol  fargli  un  dono,  e  gli  afl3da...  indovinate,  Lillo,  il 
carissimo  Lillo,  —  ma  dopo  avergli  tolta  la  collana  di  diamanti. 
—  Perfida! 

Il  giovine  e  il  cane  lasciano  così  l'Italia,  e  si  recano  a  Londra 
(cap.  III).  La  città  intera  si  commuove  al  grande  avvenimento. 
Tutti  ne  parlano.  Adone  è  tornato.  Le  gazzette  «  per  le  quali 
«è  una  fortuna,  quando  non  c'è  guerra,  l'avere  almeno  tali 
«avvenimenti  da  riferire»,  comunicano  tutte  la  notizia:  «Il 
«signor  Ilarione,  dopo  aver  viaggiato  nei  tali  e  tali  paesi 
«d'Europa,  è  finalmente  tornato  in  patria».  Le  signore  nelle 
conversazioni,  non  discorrono  d'altro.  Ed  egli,  il  giovin  signore, 
riapre  il  suo  palazzo,  riceve,  ciarla,  si  compiace  mostrare  le 


Raccolta  del  Balestrieri,  In  morte  d'un  gatto.  Più  tardi  per  altro  scrisse  un 
capitolo  In  biasimo  del  gatto,  Opere,  XIX,  pp,  172-76. 


VARIETÀ  99 

antichità  portate  d' Italia,  «  preziosi  pezzi  di  nasi  e  dita  vec- 
«  chie  di  statue,  e  monete  e  pitture  »,  usando  un  certo  frasario 
imparaticcio  di  termini  tecnici,  che  lo  fan  parere  erudito  (1).  — 
«Parlava  di  colorito,  di  tinte,  di  gradazioni.  Il  disegno  di 
«  quella  figura  era  scorretto;  la  movenza  dell'altra  non  aveva 
«  grazia,  non  era  ben  osservato  il  costume,  i  contorni  erano 
«duri,  l'ordine  irregolare,  troppo  gagliardo  il  lume,  l'ombre 
«  troppo  forti  ».  —  Poi  fa  grande  sfoggio  di  abiti,  di  cavalli,  di 
carrozze,  e  fa  che  tutte  le  svenevoli  donnine  gli  cadano  ai 
piedi.  Finamente  satirico  e  spiritoso  è  un  dialogo  che  l'autore 
ci  riferisce  tra  due  signore  che  si  disputano  Ilarione,  gelose 
l'una  dell'altra,  e  ne  annoverano  e  ne  esaltano  le  doti  singolari. 
Tra  le  tante  amiche  del  nostro  giovane,  Lady  Ermione  è  quella 
ch'egli  più  onora  di  visite.  Quanti  lunghi  intimi  colloqui  bisbi- 
gliati sul  dorato  sofà,  soltanto  Lillo  testimone!  (cap.  IV).  Egli  le 
racconta  la  storia  del  cagnuolo,  inventando  le  spacconate  più 
meravigliose  :  a  Bologna  egli  ha  avuto  cento  amori  e  cento  duelli, 
e  in  duello  ha  ucciso  il  marito  della  padrona  del  cane!  Le  narra 
fantastiche  avventure  di  viaggio,  le  parla  deWopera  italiana, 
dell'uso  del  belletto  presso  le  donne  di  Parigi,  ormai  divenute 
tali  maestre  nel  camuffarsi,  che  anche  le  donne  di  settant'anni 


(1)  Riguardo  al  conto  in  cui  eran  tenuti  nel  settecento  gl'inglesi  che  vi- 
sitavano l'Italia,  ricordo  che  l'avventuriere  Goudar  li  scherni  in  una  sua 
Relation  historique  des  divertissements  de  Vautomne  de  Toscana  (1774). 
II  veneziano  Antonio  Piazza,  rispondendo  al  francese  con  un  acre  libello 
intitolato  Discorso  all'orecchio   di  monsieur  Louis  Goudar  (Londra  1776), 

li  difese:  « Passiamo   agl'inglesi    viaggiatori  che  «font  semblant  d'étre 

«  des  grands  connoisseurs  des  tableaux  »,  che  visitano,  come  dite,  «  depuis  le 
«  matin  jusq'au  soir  pour  apprendre  par  coeur  les  noms  des  grands  maitres 
«  qui  les  ont  peints,  afin  de  se  donner  ensuite  le  ton  d'étre  au  fait  de  cet 
«  art  ».  Voi  siete  il  primo,  né  ci  voleva  che  voi,  a  fare  una  pittura  sì  van- 
«  taggiosa  del  carattere  degl'  Inglesi  che  viaggiano.  Per  testimonianza  del 
«  mondo  tutto,  non  e'  è  alcuna  nazione  europea  che  abbia  meno  impostura 
«  di  quella.  Gl'inglesi  che  viaggiano  son  tutti  ricchi,  come   i   francesi  per 

«  lo  più  son  tutti   poveri Questi,  imponendosi   col   nome,  abusano  della 

«nostra  ospitalità;  quelli,  eruditamente  curiosi,  vogliono  vedere  tutto  ciò 
«che  abbiamo  di  più  pregevole;  e,  se  dalla  mattina  alla  sera  visitano  le 
«  gallerie,  non  lo  fanno  per  parer  intendenti  di  pittura,  ma  perchè  lo  sono; 
«  in  prova  di  che  si  può  addurre  che  hanno  lasciato  in  Italia  di  gran  zec- 
«  chini,  ma  hanno  recato  in  Inghilterra,  in  genere  di  quadri,  de'  tesori 
«  d'inestimabil  prezzo  »  (p.  15). 


100  G.   B.   MARCHESI 

ne  dimostrai!  diciotto.  E  le  dona  «  un  bossolo  di  liscio,  arrecato 
«  di  Francia  ».  Ma  Ermione,  ahimè!  più  ormai  è  ammirata  delle 
bellezze  di  Lillo  che  di  quelle  del  giovine;  e  gli  chiede  il  ca- 
gnuolo.  Cosi  Lillo  rimane  presso  la  signora,  «  trionfando,  da  tre 
«  staffieri  corteggiato  ». 

La  nuova  padrona  è  un  curiosissimo  tipo  (cap.  V).  Maritatasi 
solo  «  per  essere  maritata  »  e  per  far  la  signora,  non  amò  mai 
lo  sposo.  Anzi,  da  quel  giorno  ch'egli  le  uccise  con  un  calcio  il 
cagnolino  ch'ella  adorava,  l'ebbe  in  odio  e  non  lo  potè  più  sof- 
frire innanzi  agli  occhi.  Il  marito  le  aveva  ucciso  un  cane?  ed 
ella  ne  prese  venti.  E  inoltre,  per  dispetto,  consigliata  dalle 
amiche,  si  mise  a  civettare  coll'uno  e  coll'altro.  («  Pensa,  Lettore, 
€  che  una  donna  non  può  seguire  consiglio  peggiore  di  quello 
€  che  le  dà  un'altra  donna  »).  Finché,  in  breve,  il  povero  marito 
mori  di  crepacuore.  Ora  ella  è  sola,  libera,  nel  palazzo  pieno  di 
cani;  leggera,  frivola,  bizzarra,  «  colle  inclinazioni  da  romanzo  ». 
Lillo  diventa  presto  il  padrone  della  casa;  assiste  al  pranzo,  alle 
conversazioni,  è  circondato  da  numeroso  servidorame  peggio 
trattato  di  lui  (cap.  VI).  Le  signore  lo  coprono  di  baci,  e  talune 
persino  se  lo  fanno  condurre  a  casa  per  guarire  qualche  loro 
vergine  cuccia  ammalata. 

Ma  un  giorno,  Ermione,  passeggiando  nel  Parco,  smarrisce  tra 
la  folla  il  cagnolino  (cap.  VII).  Torna  a  casa  più  morta  che  viva, 
lo  fa  cercare,  promette  ne'  giornali  una  mancia  cospicua  a  chi 
lo  trovasse:  tutto  invano.  Lillo  è  raccolto  da  una  fanciulla  pie- 
tosa e  condotto  in  una  nuova  casa,  presso  un'altra  famiglia  della 
più  alta  aristocrazia.  L'autore  ha  cosi  occasione  di  descrivere  e 
mettere  in  satira  l'educazione  che  allora  s'impartiva  ai  fanciulli. 
€  In  cambio  di  mandarli  alle  pubbliche  scuole  »,  egli  narra, 
«  laddove,  parte  l'attenzione  de'  maestri  e  parte  la  pratica  de' 
«  loro  compagni  di  miglior  nascita,  avrebbero  potuto  racconciare 
«  que'  caratteri,  e  inspirar  loro  inclinazioni  virtuose,  furono  chia- 
«  niati  maestri  i  quali  guardaronsi  bene  dall' opporsi  agli  edu- 
«  candi,  per  non  far  dispiacere  a'  congiunti  ».  E  ci  mostra  i 
frutti  di  quella  educazione.  Ecco  la  mamma  che  presenta  ad  un 
crocchio  di  amiche  il  suo  bimbo:  «  Io  non  me  ne  intendo,  vedete, 
«  ma  il  suo  Precettore  mi  dice  continuamente  che  non  v'è  gen- 
«  tiluomo  che  per  quell'età  sia  tanto  avanzato.  È  giunto  già,  se 
«  pure  non  m' inganno,  alla  Sintassi.  A  dir  il  vero,  io  non  so 
«  cosi  appunto  che  si  voglia  dire  Sintassi,  ma  certo  sarà  qualche 
€  buon   libro   di    morale,  che  altro  il  signor  Lackson  non   gli 


VARIETÀ  101 

«  farebbe  né  leggere,  nò  imparare.  Perchè  sappiate  che  non  v'è 
«  maestro  che  abbia  un  miglior  modo  d'insegnare  di  quello  che 
«abbia  il  signor  Lackson  ».  Poi,  voltandosi  al  putto:  «  Che  cosa 
«è   Sintassi,   cuor   mio?»  —  «Che  cosa  è   Sintassi?!    mamma 

«mia?!  Oh,  Sintassi  è oh,  è  che  la  seconda  persona  del  pre- 

«  sente  termina  in  as,  e  poi  questo  serve  a  formare  le  parti 
«  dell'Orazione  ».  —  «  Bravissimo,  gioia  mia.  Vedete,  voi,  dame 
«  mie,  se  è  vero  quanto  v'  ho  detto  ?  Questa  Sintassi  è  il  miglior 
«libro  del  mondo  per  aprire  l'intelletto  a' fanciulli,  e  formare! 
«  loro  costumi  !  —  Andate,  andate,  figliuol  mio,  siate  buono,  ri- 
«  cordatevi  bene  di  quanto  vi  dice  il  signor  Lackson,  e  verrà 
«  un  di  che  sarete  famoso  nel  mondo  ».  Tutto  ciò  è  pungente  e 
sa  di  pepe,  non  è  vero?  e  ci  fa  ricordare  certe  torture  intellet- 
tuali alle  qua'  si  assoggettano  i  nostri  bimbi  anche  oggidì. 

Tornando  a  Lillo  (cap.  Vili),  egli  stringe  amicizia  con  una 
gatta,  vive  felice  per  qualche  tempo;  ma  poi,  cominciando  a 
invecchiare,  è  venduto  a  un'ostessa  (cap.  IX).  Da  questa  don- 
naccia che,  dopo  una  settimana  di  matrimonio,  tradisce  il  ma- 
rito, passa  Lillo  nelle  mani  di  una  venditrice  di  ostriche  (cap.  X). 
Segue,  umile  e  fedele,  giorno  e  notte,  la  nuova  padrona,  lungo 
le  vie  di  Londra,  e  piange  la  sua  sorte  crudele,  solo  trovando 
sollievo  a'  suoi  mali  nell'osservare  i  vari  tipi  di  uomini  che  in- 
contra. Il  caffè  del  Tempio,  dove  ogni  notte  bazzica  la  bella 
ostricaia,  offre  largo  campo  alle  sue  osservazioni,  poiché  ha  oc- 
casione di  conoscervi  studenti,  uomini  di  lettere,  avvocati,  uomini 
politici.  Ma  una  sera,  perde  di  vista  la  padrona  (cap.  XI)  e,  dopo 
molto  vagare,  capita  alla  casa  del  Bargello  (cap.  XII).  Qui  vengon 
condotti  tre  giovani  Lords,  ubbriachi  fradici,  arrestati  nella  strada 
mentre  stavano  schiamazzando  e  insultando  i  passanti.  Ma,  la 
mattina  dopo,  perchè  nobili,  sono  subito  rilasciati  in  libertà. 
«  Oh  egli  è  pur  bella  cosa  essere  Lord  !  »  —  pensa  il  nostro 
cane  —  «  Pare  che  questo  bel  titolo  dia  privilegio  di  far  qua- 
lunque pazzia  si  vuole,  senza  arrossire  ».  Il  maire  li  fa  condurre 
alle  loro  case,  «  dove,  presi  vestiti  alquanto  più  onorevoli,  an- 
«  darono  a  sedere  in  Parlamento,  per  provvedere  con  saggia 
«deliberazioni  al  bene  ed  all'utile  della  patria  ».  Finalmente 
Lillo,  cacciato  dalla  casa  del  Bargello  (cap.  XIII),  passa  ai  ser- 
vigi di  un  cieco;  seguendo  il  quale,  esce  di  Londra  e  recasi  a 
Bath,  stazione  di  bagni. 

Termina  qui  la  prima  parte  del  romanzo  che,  anche  da  quel 
poco   che   n'  ho  riferito,  ognun    può  vedere  quanto   sia  arguto 


102  G.   B.   MARCHESI 

e  satirico.  Purtroppo,  nel  riassunto,  infinite  sue  arguzie  scom- 
paiono, e  rimagine  che  vorrei  darne  riesce  scolorita:  pur  non 
dispiacerà  che  un  brevissimo  cenno  dia  anche  della  parte  seconda. 

Incomincia  con  una  Dissertazione  il  cui  argoìnenio  è  Nulla 
(cap.  I),  genialissima  sofisticheria  paradossale;  poi,  riprendendo 
la  trama  della  vita  di  Lillo,  l'autore  ne  fa  occasione  e  pretesto 
a  narrare  casi  svariati  e  a  descriver  diversi  costumi.  Morto  il 
cieco,  Lillo,  donato  dall'albergatrice  a  due  signore  di  Londra, 
torna  con  esse  nella  città  (cap.  II).  Ecco  dipinti  i  due  tipi 
curiosi  di  queste  zitelle,  e  (cap.  Ili)  i  ritratti  di  tre  corteggia- 
tori della  più  giovane,  Aglae:  un  conte  di  Torg,  nobile  fanfa- 
rone, tutto  frascherie  e  vanità;  un  vecchio,  delle  tre  mogli  del 
quale  si  narra  una  lepidissima  storia;  e  un  giovane  che  affetta 
una  solenne  gravità.  Ed  ecco  (cap.  IV)  una  conversazione  umo- 
ristica alla  quale  prendono  parte  i  tre  amanti.  AjTjiae  s'innamora 
del  primo.  Una  notte,  ardendo  d'amore,  sta  sognando  di  lui, 
quando  è  bruscamente  svegliata  dal  cane.  Oh  crudele  che  tron- 
casti i  bei  sogni  della  fantasia  !  Per  ciò,  Lillo  è  donato  da  Aglae 
ad  una  mercantessa  di  mode  (cap.  VI).  La  quale  pure  ha  una 
storia  :  ha  avuto  una  quantità  di  amanti,  è  fuggita  dalla  casa 
paterna,  è  vissuta  a  Bruxelles  con  un  ufiìziale,  poi  ha  fatto  la 
commediante,  ed  ora  è  vedova  e  mercantessa  e  per  di  più  afiìtta 
camere  e  appartamenti  ammobigliati.  Quanta  gente  in  quella 
casa  !  Ma  tra  tutti,  i  più  curiosi  tipi  sono  i  coniugi  Frippey  e  la 
loro  figliuola  (cap.  VII).  Questa  fa  all'amore  col  signor  Horse- 
man,  uno  sporlsman  perfetto;  l'ottimo  padre  tiene  una  brutta 
tresca  colla  ingenua  mercantessa,  finché  una  notte  è  scoperto 
dai  vicini  nella  più  comica  situazione  (cap.  Vili);  e  la  signora 
Frippey,  la  signora  borghese,  non  pensa  ad  altro  che  a  far  vi- 
site e  a  tener  conversazioni  in  casa,  smaniosa  di  circondarsi  di 
quella  nobiltà  alla  quale  di  nascita  ella  non  può  appartenere! 
La  descrizione  di  uno  di  questi  ritrovi,  —  i  preparativi,  il  rice- 
vimento degli  invitati,  la  lunga  attesa  di  una  contessa  che  non 
può  venire  per  un  callo  malo  tagliato,  la  conversazione  intorno 
ai  calli  —  ò  tutta  una  saporita  satira,  dal  colorito  e  dal  nerbo 
qua  e  là  veramente  pariniani. 

Una  notte  (cap.  IX),  un  signore,  che  si  è  recato  clandestina- 
mente a  trovare  una  inquilina  della  casa,  uscendo  nel  corridoio, 
scorge  Lillo,  e,  temendo  ch'egli  coll'abbaiare  non  iscopra  l'adul- 
terio, subitamente  lo  acciuffa,  se  lo  pone  sotto  il  mantello  e  se 
lo  porta  a  casa.  Il  libertino  è  milord  d'Anglecourt,  deputato  al 


VARIETÀ  103 

Parlamento.  Ed  ecco  la  satira  dell'uomo  politico;  ecco  la  sua 
casa,  ecco  le  visite  degli  elettori,  la  corruzione,  le  menzognere 
promesse  del  candidato.  —  Anche  allora,  come  adesso  — .  Un 
povero  poeta  (cap.  X)  viene  a  chiedere  soccorso  a  Milord  e  ad 
offrirgli  un  «  Piano  di  un'opera  contenente  memorie  per  ser- 
«  vire  alV Istoria  dell'illustre  e  nobile  famiglia  d'Anglecourt, 
«  nella  quale  si  dimostra  che  Giovanni,  conte  d" Anglecourt, 
«  ora  vivente,  possiede  in  som'mo  grado  tutte  le  virtù  de'  suoi 
««  antenati;  è  un  Mecenate  delle  arti,  un  Richelieu  della  poli- 
<  iica,  e  un  Malhorugh  della  guerra  ».  Milord  accetta  il  Piano 

ben  volontieri,  e  al  poeta  affamato  dona  —  prezioso  dono  — 

Lillo!  A  questo  punto  la  satira  taglia,  e  l'autore  più  non  ride, 
ma  tegrima.  Ecco  il  povero  tugurio  del  poeta,  la  moglie  e  i  fi- 
gliuoli che  hanno  fame.  Ma  il  saggio  Lillo,  conosciuto  pur  ad 
un'occhiata  l'ambiente,  fugge  subito  que'  cenci,  ed  entra  nella 
prima  casa  signorile  che  trova  lungo  la  via. 

La  nuova  padrona  (cap.  XI)  è  una  isterica,  una  malata  di 
nervi  ;  prova  mille  sofferenze,  sempre  si  duole,  e  caccia  di  casa 
prima  un  medico  e  poi  il  marito  stesso,  perchè  osano  affermare 
ch'ella  è  sana.  Una  pittura  vivissima.  Fortunatamente  Lillo 
presto  se  ne  allontana,  per  seguire  il  figliuolo  di  lei,  alla  uni- 
versità di  Gambrigia  (cap.  XII).  E  l'autore  ci  trasporta  cosi  in 
un  altro  ambiente,  e  ce  ne  addita  il  ridicolo.  Troppo  mi  dilun- 
gherei a  riassumere  tutto  o  a  ricordare  ciò  solo  che  è  degno  di 
nota;  perciò  su  tutto  sorvolo:  la  vita  e  i  costumi  dell'Università; 
le  mariuolerie  e  le  burle  degli  studenti,  gli  studenti  al  Caffè;  la 
lettura  -dei  giornali;  i  concorsi  ai  posti  del  Collegio;  i  vari  tipi 
dei  professori:  l'azzimato,  il  dolce,  il  burbero  (capp.  XIII,  XIV): 
quanti  quadretti  vivaci!  quante  argute  osservazioni! 

Conchiudendo:  Lillo  torna  a  Londra  con  una  signora  (cap.  XV). 
Colla  quale  passeggiando  un  giorno  nel  parco,  s'imbatte  niente- 
meno che  in  Ermione,  la  sua  prima  padrona  (cap.  XVI).  L'in- 
contro è  commovente.  Ermione  vuol  riprendere  il  suo  cane,  ma 
l'altra  signora  rifiuta  di  darglielo.  Le  due  donne  s'accendono 
d'ira,  s'insultano,  quasi  vengono  alle  mani  e  solo  sono  divise 
dalla  folla  accorsa  all'alterco  curioso.  Lillo  rimane  ad  Ermione  ; 
ma  le  due  donne,  prima  di  lasciarsi,  si  scambiano  i  biglietti,  mi- 
nacciando reciprocamente  vendetta.  Ecco  tutta  Londra  a  rumore 
(cap.  XVII):  nelle  case,  nelle  piazze,  nei  giornali  non  si  parla 
che  della  eroicomica  tenzone  femminile;  le  due  donne  ricorrono 
ai  più  celebri  avvocati  del  foro'  —  veggasi  qui  la  stupenda  sa- 


104  G.  B.  MARCHESI 

tira  dell'avvocato  — ;  già  si  istruisce  il  processo,  già  il  tribunale 

si  appresta  a  definire  la  lite,  quando,  improvvisamente, 

Lillo  muore.  Lutto  e  cordoglio  universale;  monumento;  epigrafe. 
E  il  romanzo  si  chiude  (cap.  XVIII)  colle  lodi  dell'eroe. 


II. 


Appena  il  libro  fu  pubblicato,  Gasparo  Gozzi,  nella  Gazzetta 
veneta  del  2  febbraio  dello  stesso  anno  1760,  ne  dava  breve- 
mente l'annunzio,  e  del  «  piacentissimo  romanzetto  »  esponeva 
in  poche  parole  la  trama.  Poi  del  romanzetto  non  si  pubblicò 
più  altra  edizione,  eh'  io  sappia  ;  ne  su  per  giornali,  né  altrove, 
nessuno  più  ne  fece  parola.  Solo  Vittorio  Malamani,  nel  1891, 
in  un  suo  libro  (1),  discorrendo  dei  costumi  veneziani  del  se- 
colo XVIII,  e  precisamente  della  moda  dei  cani,  accennò  vaga- 
mente e  fugacemente  alla  storia  di  Lillo,  chiamandola  «  finta  o 
«  supposta  traduzione  dall'inglese  »,  e  dicendola  erroneamente  pub- 
blicata nel  1759.  Eppure,  come  si  può  facilmente  scorgere  anche 
dal  breve  cenno  che  ne  ho  fatto,  il  romanzetto  è  di  singolare 
importanza  per  chi  studia  la  vita  del  settecento. 

Può  darsi  ch'esso  non  abbia  goduto  molta  voga  presso  la  co- 
mune dei  lettori  troppo  avvezza  allora  a  ben  altro  genere  di 
romanzi  e  più  disposta  a  gustare  e  capire  le  mirabolanti  narra- 
zioni del  Chiari,  che  una  lunga  e  fine  satira  del  costume  raccolta 
intorno  a  una  semplice  storia  di  un  cane;  d'altra  parte,  la  nobiltà 
corrotta  e  devota  alle  mode  di  Parigi  e  di  Londra,  e  la  nascente 
borghesia  grassa  imitante  le  mode  dei  nobili,  punte  e  sferzate  dal 
libercolo,  dovettero  cercare  con  ogni  cura  di  farlo  presto  dimenti- 
care; ma  gli  osservatori  arguti  e  quanti  allora  avevano  ingegno 
e  spirito  mordace  e  innovatore,  dovettero  compiacersi  assai  di 
quella  lettura.  Perchè,  quantunque  gli  avvenimenti  del  romanzo 
si  fingano  accaduti  a  Londra,  e  quantunque  la  satira  tocchi  lai- 
volta  alcuni  costumi  propri  solo  della  vita  inglese,  pure,  tanto  fe- 
dele e  costante  era  allora  da  parte  dello  classi  aristocratiche  l'imi- 
tazione di  quanto  di  più  stupido  e  goffo  veniva  d'oltralpi,  che,  nel 
complesso,  la  satira  molto  bene  s'acconciava  anche  alla  vita  nostra, 


(1)  //  Settecento  a   Venezia^  Torino,  Roux  e  C,  1891,  p.  83. 


VARIETÀ  105 

e  a  taluni  dovette  sembrare  scritta  apposta  per  noi.  Riguardo  a 
cicisbei,  a  zerbini,  a  cani,  a  parrucche  ed  a  lupe,  dal  Tamigi 
al  Tevere,  tutto  il  mondo  era  paese. 

È  naturale  pertanto  che,  sorpreso  dall'importanza  del  libercolo, 
mi  domandassi  chi  poteva  esserne  stato  l'autore.  Il  romanzo  non 
reca  nome  veruno.  «  Storia  critica  e  galante  —  tradotta  dalVin- 
«gisse  »,  leggesi  nel  frontespizio;  ma  neppure  il  traduttore  si  svela. 
Il  che  del  resto  accade  per  quasi  tutti  siffatti  libri  di  amena  lettura 
del  secolo  scorso.  Allora  il  romanzo  non  era  ancora  assurto  ad 
alcuna  dignità  letteraria;  apparteneva  alla  letteratura  popolare; 
e  i  cuochi  e  le  serve  e  le  dame  —  che  di  letteratura  allora  in 
generale  non  sapevan  più  delle  serve  —  al  nome  degli  scrittori 
non  badavano  tanto,  come  fa  oggi  il  popolino  rispetto  alle  can- 
zonette dei  cantastorie  ambulanti.  Eccetto  i  romanzi  del  Chiari 
che  alla  gloria  ci  teneva,  e  alcuni  di  Antonio  Piazza,  quasi  tutti 
i  romanzi  nel  settecento  pubblicavansi  anonimi,  tanto  gli  originali 
quanto  i  tradotti,  ne  fosse  pur  autore  il  Richardson  o  il  Johnson,  il 
Prevost  0  il  Rousseau.  Peggio:  si  spacciava  talvolta  per  originale 
un  romanzo  tradotto,  e  talvolta  per  vezzo  si  diceva  derivata  dal 
francese  o  dall'inglese  una  storia  raffazzonata  a  Venezia  o  a  Mi- 
lano. Anche  ne'  migliori  romanzi  e  ne'  più  vicini  a  noi  troviamo 
riflessa  la  moda  :  Le  ultime  lettere  di  Jacopo  Ortis,  non  uscirono 
esse,  le  prime  volte,  senza  nome  d'autore?  e  le  Avventure  di  Saffo 
del  Verri  e  il  Platone  in  Italia  del  Goco  non  si  fìnsero  tradu- 
zioni dal  greco?  Perciò,  anche  le  Avventure  di  Lillo  potevano 
non  essere  traduzione  dall'inglese.  Nel  qual  caso,  avrebbero  ac- 
quistato grande  valore,  quali  uno  dei  nostri  migliori  romanzi  sa- 
tirici del  settecento.  Mi  diedi  adunque  a  rintracciare  l'origine  e 
l'autore  dell'operetta;  e  della  ricerca  ecco  i  risultati. 


Il  romanzo  non  è-  originale. 

Per  seguirne  la  storia  e  le  vicende,  bisogna  risalire  ad  un 
romanzo  francese  intitolato  :  Le  chicn  de  Boulogne,  ou  Vamant 
fìdèle,  che  usci  anonimo  a  Parigi  nel  1668(1),  e  di  cui  è  autore 
un  tale  Abbate  de  Torche,  non  molto  celebre  nella  letteratura 
francese,  ma  degno  d'essere  noto   a   noi,  quale   traduttore  dei 


(1)  Ghez  Barbin,  in  12o. 


106  G.   B.   MARCHESI 

nostri  migliori  drammi  pastorali,  Il  pasior  fido ,  V  Aminta  e  la 
Filli  di  Sciro  (1). 

Alcune  notizie  della  sua  vita  e  delle  sue  opere  si  possono  leg- 
gere in  un  articolo  del  Magazin  encyclopédique  del  1798  (2). 

Che  nome  avesse,  quando  precisamente  nascesse,  e  morisse 
non  si  sa.  Nacque  a  Beziers;  fu  educato  dai  gesuiti,  e  a  16  anni 
entrò  nella  Compagnia.  D'ingegno  e  di  molta  coltura,  fu  desti- 
nato all'insegnamento;  ma  più  che  le  grammatiche  latine,  gli 
piacevano  le  scollacciate  novelle  italiane,  sulle  quali  s'impadroni 
in  breve  della  nostra  lingua;  e  più  che  i  giovanetti  scolari  gli 
piacevano  le  belle  mammine;  d'una  delle  quali  s'innamorò.  Di 
notte,  quando  tutti  dormivano,  l'ardente  gesuita,  facendo  scala 
delle  sue  lenzuola ,  scendeva  dalla  finestra  e  correva  tra  le 
braccia  della  signora.  La  cosa  bene  o  male  passò  per  qualche 
tempo,  ma  alla  fine  fu  svelata.  Una  notte,  il  direttore  del  collegio 
ritirò  dalla  finestra  le  attorcigliate  lenzuola,  e  l'abate,  quando 
all'alba  tornò  dall'inferno,  non  trovò  più  il  mezzo  di  risalire  in 
paradiso;  e  dovette  restarne  fuori.  Il  vescovo  di  Rieux,  amico  di 
casa,  desideroso  di  evitare  uno  scandalo,  s'interpose  presso  i 
Padri  per  accomodare  la  faccenda;  ma  l'abate  preferi  restare 
con  Satana.  Lasciò  Beziers,  corse  a  Parigi,  entrò  alla  Sorbona, 


(1)  Per  le  trad.  francesi  dell'Ammto,  v.  Solerti,  Opere  minori  in  versiy 
di  T.  Tasso,  Bologna,  Zanichelli,  1895.  VAmirita  fu  tradotta  21  volta  in 
francese.  La  traduzione  del  Torche  apparve  la  prima  volta  nel  1666,  Paris, 
G.  Quinet  e  CI.  Barbin,  e  fu  ristampata  ancora  a  Parigi  nel  1676,  a  La  Haye 
nel  1679  e  nel  1781,  e  a  Rouen  nel  1679.  —  Per  le  traduz.  francesi  della 
Filli  di  Sciro,  vedi  G.  Gampori,  Commentario  delibi  vita  e  delle  opere  del 
conte  Guido  Bonarelli,  Modena,  1875,  pp.  56-57;  Beauchamps,  Recherches 
sur  les  Thédtres  de  la  France,  11,  51  :  Gaujet,  Bibliolhèque  frangaise.  Vili, 
455-56.  La  traduzione  del  Torche  usci  nel  1669,  Paris,  Loyson,  e  fu  ristam* 
pata  nel  1671,  Cologne,  Marteau,  e  nel  1699,  Lyon,  De  La  Roche.  —  Per 
le  trad.  del  Pastor  fido,  v.  Bi^anc,  Bibliographie  italo-franqaise,  Milano, 
1886,  p.  1304.  Quella  del  Torche  uscì  nel  1664,  Paris,  Quinet  e  Barbin,  e 
fu  ristampata  a  Parigi  nel  1667,  1672,  1675,  a  Cologne  nel  1677,  a  La  Haye 
nel  1702  e  a  Parigi  ancora  nel  1733  e  nel  1759.  Il  T.  tradusse  dalTilaliano 
anche  una  novella:  La  fureur  de  la  jalousie,  nouv.  traduite  de  l'italien, 
Paris, ? 

(2)  Paris,  Fuchs,  an.  Ili,  voi.  VI,  pp.  183-98.  Particularités  sur  la  vie 
de  Vabbé  Torche,  poète,  romancier  et  traducteur  du  demier  siede  :  notice 
de  quelques-uns  de  ses  ouvrages,  en  particulier  de  son:  Chien  de  Bau* 
lagne. 


VARIETÀ  107 

e  cercò  dimenticare  il  primo  amore  con  cento  altri  amorazzi. 
Povero,  si  mise  a  scrivere  per  guadagnarsi  la  vita,  e  tra  il  giuoco 
e  le  donne  compose  versi  e  novelle  e  libretti  galanti  (1).  Per  la 
nomea  dei  quali,  cominciò  a  farsi  conoscere.  Era  allora  notissima 
a  Parigi  una  certa  signora  Diana  Luisa  di  Prunelé,  già  moglie 
di  un  signore  Charles  de  Saint-Simon,  morto  nel  1639  nella  bat- 
taglia di  Thionville,  e  di  nuovo  maritata  con  un  certo  inglese 
Gilles  Francois  d'Ortel,  signore  di  Ferlingbam,  nella  cui  casa 
conveniva  tutto  il  fiore  de'  parigini.  L'abate  fu  ammesso  a  quelle 
eleganti  conversazioni  e  in  breve,  colle  sue  eccellenti  qualità 
d'ingegno  e  di  spirito,  fece  di  se  innamorare  una  delle  due  belle 
figliuole  della  ricca  Ferlingbam.  Ma  questa  che,  mirando  al  sodo, 
dei  versi  e  della  miseria  del  poeta  non  voleva  sapere,  lo  mise 
bellamente  alla  porta.  E  allora  il  poeta,  punto  sul  vivo,  quasi 
a  mostrar  che  la  penna  vale  un  tesoro,  scrisse  una  mordace 
terribile  satira  e  la  gittò  in  faccia  alla  schizzinosa.  Lo  scan- 
dalo è  enorme.  I  due  figli  di  primo  letto  della  signora  giurano 
vendetta,  e  una  notte   assalgono   e  bastonano   a  morte  l'abate, 

cioè un  abate ,  un   innocente   scambiato  per  equivoco  col 

nostro  Torche.  Sicché  questi,  vedendo  che  aria  spirava,  lasciò 
in  fretta  Parigi,  si  recò  in  patria,  e  di  là  a  Montpellier,  ove 
compi  le  sue  traduzioni  dall'  italiano  e  mori  a  quarant'  anni, 
mentre  ancora  lavorava  intorno  2\V Aminta. 

La  vendetta  dell'abate  è  appunto  Le  chien  de  Boulogne,  ro- 
manzo satirico  ove,  pallidamente  nascosta  sotto  l'anagramma  di 
Mad.  Linghamfer,  è  messa  in  ridicolo  la  signora  Ferlingbam. 

Ecco:  Ermione  ed  Artasandro  si  amano;  ma  Ermione  possiede 
un  bel  cagnolino  di  Bologna,  cui  tanto  bacia  e  carezza  che  Ar- 
tasandro ne  è  geloso.  Un  giorno,  mentr'  ella,  come  si  suole  per 
vezzo,  rivolge  al  cane  mille  parole  dolci  e  mille  domande,  al- 
l'improvviso —  oh  meraviglia!  —  l'animale  apre  la  bocca  e  si 
mette  a  parlare.  Parla  e  narra  la  sua  storia.  Egli  non  è  sempre 
stalo  cane;  fu  un  bel  giovine  di  nome  Narciso.  Vivendo  alla  corte 
di  Modena,  s'innamorò  di  una  meravigliosa  fanciulla,  la  quale, 
mentre,  dopo  molte  vicende,  stava  per  esser  fatta  sua  sposa, 
improvvisamente  gli  cadde  morta  all'altare.  Pazzo  dal  dolore, 
vagando  per  un  bosco,  un  giorno  s'imbattè  in  una  fata.  Richiesto 


(1)  Le  dèmélé  de  l'esprit  et  du  coeur^  Paris,  Quinet,  1667.  —  La  toilette 
galante  de  l'amour^  Paris,  Loyson,  1670. 


108  G.   B.  MARCHESI 

d'amore,  negò,  fedele  alla  sua  morta;  e  la  fata,  novella  Circe,  lo 
tramutò  in  un  cane.  Da  quel  giorno,  è  vissuto  cosi;  passando  da 
uno  ad  un  altro  padrone,  assistendo  a  molti  casi,  a  svariate 
avventure.  E  tutto  narra  ad  Ermione. 

Solo  alla  pagina  153  del  romanzo,  comincia  la  satira  contro  la 
Ferlingham,  là  dove  il  cane  racconta  di  essere  stato  una  volta 
comperato  da  una  certa  Linghamfer,  «  nom  aussi  bizarre  que  sa 

€  personne Elle  avait  passion   pour  les  chiens,  quoique  rien 

«  n'en  eùt  pour  elle  >. 

Non  è  qui  opportuno  ch'io  esponga  e  prenda  in  esame  la 
satira.  Ma  per  mostrarne  la  vivezza  mordace,  un  aneddoto  al- 
meno voglio  riferire.  Il  cane  racconta  (1)  che  un  giorno  venne 
alla  casa  della  sua  padrona  un  contadino,  per  donarle  un  cesto 
di  pere.  Mentre  attendeva  nell'anticamera,  una  bertuccia  gli  si 
accostò  e  si  mise  a  mangiare  le  frutta;  ed  egli,  credendo  la 
scimmia  fosse  un  figliuolo  della  padrona,  si  stette  cheto  e  lasciò 
che  mangiasse.  Il  suo  dubbio  divenne  certezza  «  quand  il  vit  la 
«  Dame  »,  e,  dopo  le  debite  scuse,  avendogli  ella  detto  di  non 
aver  figli,  «  G'est  ce  Petit  »,  egli  ingenuamente  rispose,  «  qui 
«  vous  ressemble  tant  ».... 

Finita  la  lunga  narrazione  delle  avventure  sue  ed  altrui,  il 
cane  tace.  Da  quel  giorno  Ermione  non  accarezza  più  tanto  quel 
curioso  animale,  e  Artasandro  si  propone  di  ricondurlo  a  Bo- 
logna per  farlo  tornare  uomo.  Tale  il  romanzo. 

Il  quale,  come  si  vede,  derivazione  deW Asino  d'Apulejo,  è  ben 
diverso  dalle  nostre  Avventure  dì  Lillo.  Ma  con  queste  ha  tre 
punti  comuni  :  primo,  il  disegno  generale,  cioè  la  sloria  di  un 
cane  usata  a  fine  di  satira  personale  e  di  costumi;  secondo,  il 
nome  d'Ermione  che  ha  la  padrona  del  cane;  terzo,  la  patria  del 
protagonista,  Bologna.  —  Il  romanziere  francese  dovette  fare  il 
cane  di  Bologna,  perchè  a'  suoi  tempi,  e  poi  anche  nel  settecento, 
fu,  quella  città,  famosa  per  una  piccola  razza  canina,  delizia 
delle  signore:  quella  cui  anche  il  Fagiuoli  accennò,  ammonendo 
le  donne  che 

€ piuttosto  vorran  farei  vedere 

In  collo  una  canina  di  Bologna, 

Che  nelle  braccia  un  fìgliuolin  tenere  »  (2), 


(1)  Pagg.  163  8gg. 

(2)  Rime  piacevoli,  Ferrara,  1799,  p.  54. 


VARIETÀ  109 

ed  anche  fu  ricordata  dal  Passeroni  nei  versi: 

«  Quasi  ogni  dama  oggi  vuole  il  suo  cane, 
E  lo  vuol  di  Parigi  o  di  Bologna^ 
0  di  Malta,  o  di  altre  isole  lontane  »  (1). 

Peraltro,  anche  solo  questi  tre  punti  di  somiglianza,  mi  pare, 
possono  far  legittimamente  asserire  che  il  romanzo  dell'abate 
di  Torche  fu  noto  e  ispirò  qualche  idea  all'autore  inglese  di 
una  History  of  Pompey  the  little  or  the  Life  and  Adventures 
ofa  Lap-Dog,  dalla  quale,  come  vedremo,  le  Avventure  di  Lillo 
derivarono. 

Il  romanzo  inglese  usci,  pur  esso  anonimo,  ottantatre  anni  dopo 
quello  del  Torche,  nel  1751,  a  Londra  (2);  ma  presto  fu  noto 
essere  opera  di  Francesco  Coventry.  Il  quale,  per  chi  voglia 
saperlo  (3),  nacque  a  Gambridgeshire  nel  1725  o '26,  fu  educato 
a  Cambridge,  nel  collegio  della  Maddalena;  baccelliere  nel  1748, 
poi  vicario  di  Edgware;  mori  giovane  nel  '59.  Compose  un  poema, 
Penshurst;  ma  ciò  che  gli  diede  fama  fu  la  History  of  Pompey, 
che  Mary  Wortley  Montagu  lasciò  scritto  di  preferire  alle  famo- 
sissime Adventvres  of  Peregrine  Pichle  di  Tobia  Smollet  (4). 

Prova  della  fama  che  godette  la  History  si  è  ch'essa  fu  ri- 
stampata ben  cinque  volte ,  fino  al  1773,  in  inglese  (5).  Ma  già 
nel  '52  essa  aveva  traversata  la  Manica  e,  giunta  a  Parigi,  aveva 
trovato  un  traduttore  che  le  die  veste  francese.  Cosi  la  History 


(1)  Cicerone,  canto  XX,  ottava  30*. 

(2)  Cooper,  in-12o. 

(3)  Vedi  Dictionary  of  National  Biography,  Londra,  1887. 

(4)  Anche  questo  romanzo  fu  pubblicato  nel  1751.  Fu  tradotto  in  francese 
dal  Toussaint  nel  1753.  E  anch'  esso  è  una  Serissima  satira,  contro  Lady 
Vane,  donna  notissima  per  la  sua  bellezza  e  per  i  suoi  intrighi  amorosi.  Si 
nasconde  nel  romanzo  sotto  il  nome  di  Lady  Frail  ;  ma  si  dice  ch'ella  fosse 
tanto  impudente,  da  offrire  essa  stessa  allo  scrittore  notizie  e  documenti 
delle  sue  turpitudini. 

(5)  L'ili,  prof.  Gaston  Paris  che  si  compiacque,  con  somma  cortesia,  fare 
in  proposito  per  me  alcune  ricerche  alla  Nazionale  di  Parigi  (delle  quali 
ancora  qui  gli  rendo  vivissime  grazie)  mi  indicò  appunto  una  «  fìfth  edition^ 
«  London,  printed  for  I.  Dodsley  in  Pallmall,  MDGGLXXIII  ».  Ma  non  so 
se  altre  volte  ancora  il  romanzo  sia  stato  pubblicato. 


110  G.   B.   MARCHESI 

of  Pompey  diventò:  La  vie  et  les  aventures  du  petit  Pompèe, 
Histoire  critiqite  iraduite  de  Vanglais  par  M.  Toussaint  (1). 

Ma  Francois  Vincent  Toussaint,  come  tutti  i  traduttori  del 
secolo  XVIII,  era  troppo  poco  scrupoloso  e  rispettoso  della  pro- 
prietà altrui,  per  rimaner  fedele  all'  originale.  —  Curioso  tipo 
anche  quest'altro  romanziere  avventuroso,  prima  gesuita  e  poi  fi- 
losofo ateo,  nato  a  Parigi  nel  1715  e  morto  a  Berlino  nel  '72,  gaz- 
zettiere in  Francia  e  professore  di  logica  in  Germania,  prima 
nemico  di  Federico  II  che  chiamò  «  le  brigand  du  nord  »,  e  poi 
suo  entusiasta  ammiratore,  compilatore  di  un  Dictionnaire  de 
médecine  (1746)  e  autore  di  un  famoso  libro,  Les  moeurs  (1748), 
condannato  alle  fiamme,  dove  espose  arditissime  idee  e  sbozzò  una 
morale  naturale  indipendente  dalla  religione!  —  Questo  Tous- 
saint, dopo  aver  tradotto  a  suo  modo  anche  un  altro  romanzo 
inglese,  Histoire  des  Passions,  ou  aventures  du  chevalier 
Shroop  (2),  volle  naturalmente  un  poco  a  suo  modo  «  orner  >, 
com'egli  confessa,  anche  la  History  of  Pompey.  Nel  complesso  il 
romanzo  non  subì  rilevanti  modificazioni,  ma  il  traduttore  ne  tolse 
la  lettera  dedicatoria  al  Fielding,  poi  usò,  in  alcuni  particolari, 
della  massima  libertà,  qua  ampliando,  là  riassumendo  e,  altrove, 
addirittura  sopprimendo  alcuni  passi,  e  neppure  osservando  la 
stessa  divisione  delle  parti,  cosicché,  mentre  nel  testo  inglese  il 
I  libro  conta  18  capitoli  e  il  II,  15,  la  traduzione  conta  14  capi 
nel  I  e  18  nel  II  libro. 

Orbene,  appunto  da  (juesta  traduzione  francese,  e  non  dal  testo 
inglese,  derivano  le  nostre  Avventure  di  Lillo.  La  divisione  dei 
capitoli,  l'uguale  titolo  di  essi,  ed  altri  raffronti  più  minuti  ce  lo 
attestano  sicuramente.  È  noto,  del  resto,  che  quasi  tutti  i  romanzi 
inglesi  del  settecento  giunsero  a  noi,  non  direttamente,  ma  per 
il  tramite  francese. 

Peraltro,  come  si  usava,  il  traduttore  italiano  volle  far  credere 
d'aver  avuto  sott' occhio  direttamente  il  testo  del  Coventry  e 
premise  al  romanzetto  una  Prefazione,  per  dimostrare  che 
«  mala  cosa  è  il  tradurre  ».  «  Si  vuol  egli  sapere  »  egli  scrive  <  se 
<  ho  guastata  o  migliorata  la  storia  inglese  di  Lillo?  Leggasi 
«  dall'una  parte  l'originale  e  dall'altra  la  mia  traduzione:  questo 
«  è  il  solo  mezzo  per  giudicarne.  Io  non  credo  però  che  si  faccia, 


(1)  T.  2,  a  Amsterdam,  chez  Marc  Michel  Rey,  MDCGLII. 

(2)  La  Haye,  1751. 


VARIETÀ  111 

«  né  lo  consiglio  ad  alcuno  ».  —  Certo  egli  non  pensava  che,  più 
d'un  secolo  dopo,  un  pedante  avrebbe  fatto  il  raffronto. 

Posso  asserire  che  la  traduzione  segue  fedelmente  il  testo 
francese.  Solo  il  capo  VII  del  libro  I  «  contenant  une  disser- 
«  tation  curtense  sur  Vimmortalitè  de  Vdme  »,  fu  dal  traduttore 
soppresso,  cosicché  il  libro  I,  anziché  restare  di  14  capi,  fu  ri- 
dotto a  13.  L'italiano  inoltre  aggiunse  di  suo  alcune  note  a  pie 
di  pagina,  nelle  quali  dà  notizia  di  qualche  costume  inglese,  o 
fa  qualche  critica  considerazione;  e  in  fine  mutò  il  nome  di 
Pompeo  al  protagonista,  chiamandolo  Lillo,  nome  più  conforme 
all'uso  italiano.  —  Ricordate  la  Lilla  della  marchesa  Travasa?  — 

Ma  chi  fu  il  traduttore? 

Difficile  è  rispondere  alla  dimanda.  Le  traduzioni  dei  romanzi 
erano  dagli  stampatori  affidate  per  lo  più  ad  umili  scribacchiatori, 
il  nome  dei  quali,  naturalmente,  nel  libro  non  compariva  ;  e  già 
ho  detto  che  le  nostre  Avventure  dì  Lillo  non  recano  alcun  nome 
né  d'autore  né  di  traduttore. 

Volendo  peraltro  lanciare  un'ipotesi,  credo  sia  lecito  pensare 
che  la  traduzione  possa  essere  stata  compiuta  da  Gaspare  Gozzi. 

Per  vero,  se  alcuno  era  a  Venezia,  in  quel  tempo,  cui  po- 
tesse piacere  quel  romanzetto  inglese  che  dipingeva  e  metteva 
in  satira  i  costumi,  quegli  doveva  essere  il  conte  Gaspare,  l'ar- 
guto e  bonario  osservatore.  Egli  poi  che  conosceva  forse  un  poco 
la  lingua  inglese  e  certo  molto  bene  la  vita  londinese,  traverso 
lo  Spectator  dell'Addison  (1)  ed  altre  gazzette  e  romanzi  e  libri 
d'ogni  sorta  che  allora  in  gran  copia,  direttamente  o  in  veste  fran- 
cese, venivano  d'Inghilterra,  egli  potè,  con  molta  probabilità,  più 
d'ogni  altro,  invogliarsi  a  tradurre  la  piacevole  Vie  du  petit  Pom- 
pée.  S'aggiunga  che  più  volte  nella  vita,  il  povero  Conte  dovette, 
caduto  in  grandi  strettezze  finanziarie,  adattarsi  all'umile  ufficio 
di  traduttore.  Voltò  in  italiano  alcune  commedie  di  Plauto,  alcune 
del  Molière,  altre  del  Destouches,  la  Zaira  del  Voltaire  e  altro,  ma 
soprattutto  novelle  e  romanzi  :  L'Avventuriera  francese  (1750), 
le  Novelle  morali  e  il  Belisario  del  Marmontel  (1763),  Le  donne 
militari  {il64),  Gli  amori  di  Dafne  e  Cloe  di  Longo  Sofista  (1768), 
L'amico  delle  fanciulle  (1776);  tutte  traduzioni  ch'egli  faceva  in 


(1)  Vedi  P.  Treves,  ^  L' Osservatore  t^  di  G.  Gozzi  ne'  suoi  rapporti  con 
lo  «  Spectator  ì>  di  G.  Addison,  in  Ateneo  veneto,  1900,  voi.  II,  fase.  I,  p.  89. 


112  G.  B.  MARCHESI 

gran  fretta,  aiutato  dalla  moglie,  o  aiutando  lei,  quando  lo  stam- 
patore a  lei  aveva  dato  la  commissione.  Lo  pagavano  6  lire  il 
foglio!  ed  esigevano  il  lavoro  con  tanta  celerità  che  il  conte  temeva 
sempre  «  di  qualche  scandalo  »,  e  perciò  non  voleva  assolutamente 
che  anima  viva  sapesse  che  quelle  pagine  uscivano  dalla  sua 
penna  (1).  I  libri  che  mirassero  a  correggere  i  costumi,  gli  pia- 
cevano, e,  in  generale,  dei  romanzi  era  ammiratore,  perchè  in 
essi  trovava  documenti  di  storia.  «  I  costumi  di  tutti  i  secoli  e 
«  di  tutti  i  paesi  »,  lasciò  scritto,  «  sono  dipinti  in  cotali  opere 

«  e  vi  si  veggono  come  in  uno  specchio tanto  che,  se  ci  fos- 

«  sero  rimasi,  di  tempo  in  tempo,  romanzi  dal  diluvio  in  qua, 
«d'ogni  nazione  e  d'ogni  tempo,  noi  vedremmo  quali  virtù  o 
«  quali  vizi  regnarono  ne'  popoli  e  come  in  un  secolo  regnò  più 
«  l'uno  che  l'altro»  (2).  E,  s'egli  traduss-  veramente  fra  il  1758 
e  il  '59  (3)  Le  avventure  di  Lillo,  potrebbesi  penjiare  che  quella 
traduzione  preluse  alla  sua  opera  di  gazzettiere,  novellista  e  ro- 
manziere d'intendimenti  morali,  che  la  Gazzetta  veneta  pubblicò 
tra  il  '60  e  il  '61,  il  Mondo  morale  commcìb  nel  '60  e  VOsser- 
valore  nel  *61. 

Si  noti  inoltre  che  Le  avventure  di  Lillo  sono  il  solo  ro- 
manzo del  quale  il  Gozzi  abbia  dato  l'annunzio  ed  abbia  scritto 
un  cenno  nella  sua  Gazzetta  veneta  (4).  E  nella  stessa  vesle 
italiana  del  romanzetto  mi  sembra  poter  scorgere  la  mano  di 
chi  scrisse  il  Mondo  morale.  La  forma  risente  della  fretta,  ma 
la  lingua  è  buona  e  ben  diversa  da  quella  infranciosata  di  altri 
traduttori,  e  qua  e  là  conta  persino  talune  di  quelle  preziosità 
ricercate  e  leziose  delle  quali  sovente  '  il  Gozzi  si  compiaceva. 
S'aggiunga  che  la  prefazioncella  premessa  al  romanzo  è  arguta. 
Ancora  :  a  p.  11,  là  dove  l'autore  accenna  a  una  storiella  di 
di  un  cane,  la  quale  leggesi  in  un  dialogo  di  Luciano,  il  tradut- 
tore annota:  «Il  passo  di  Luciano  è  grandemente  sfigurato  dal- 
«  l'autore   inglese  »;  e  il  Gozzi    ognuno   sa    quanto  conoscesse 


(1)  Vedi  a  proposito  le  lettere  a  F.  Seghezzi  (Vicinale,  19  novembre  1740» 
22  dicembre  1741,  28  ottobre  1741),  in  Opere  di  G.  Gozzi,  Venezia,  Moli- 
nari,  1815,  voi.  XV,  pp.  316,  317,  354. 

(2)  Mondo  morale^  cap.  VII  «  Riflessioni  di  un  pellegrino  intomo  alVu- 
€  tilità  dei  romanzi  >. 

(3)  L^ Imprimatur  dei  Riformatori  di  Padova,  reca  la  data  dell'  11  gen- 
naio 1759. 

(4)  Loc.  cit. 


VARIETÀ  113 

que'  dialoghi  (1).  A  p.  54,  là  dove  l'autore,  mostrato  quel  fan- 
ciullo male  istruito  ed  educato  dai  maestri  di  casa,  lamenta  che 
in  Inghilterra  non  si  mandino  i  ragazzi  dei  nobili  alle  pubbliche 
scuole,  il  traduttore  annota:  «  Gonvien  dire  che  in  Inghilterra 
«  non  si  consumino  nelle  pubbliche  scuole  sette  anni  di  morte 
«  per  insegnare  ai  fanciulli  la  quarta  parte  di  una  lingua  che  si 
«  potrebbe  sapere  perfettamente  in  diciotto  mesi  ;  altrimenti  l'A. 
«  inglese  avrebbe  gran  torto  a  preferirle  cosi  apertamente  al- 
«  l'educazione  privata  »;  e  Gaspare  Gozzi  appunto  più  volte,  in 
vari  suoi  scritti,  biasimò  acerbamente  i  metodi  di  istruzione  e 
di  educazione  che  si  usavano  nelle  nostre  scuole,  e  soprattutto 
l'insegnamento  del  latino  (2).  A  p.  61,  pure  in  una  nota,  per 
spiegare  un'allusione  dell'autore,  il  traduttore  narra  la  novella 
dei  gatti  di  Whittington  (3);  ed  anche  questa  narrazione  vivace, 
breve  e  garbata  mi  sembra  risenta  della  maniera  del  nostro 
Gozzi.  Mi  pare  insomma  non  sia  troppo  arrischiato  a  lui  attri- 
buire la  traduzione  del  romanzo. 

Comunque,  per  le  vie  che  ho  teste  indicate  giunse  fino  a  noi 
la  storia  di  un  cane. 

Per  seguire  fino  all'ultimo  le  vicende  della  quale,  aggiungerò 
che  nel  1784,  Lillo  riprese  il  nome  di  Pompeo,  in  un  altro  ro- 
manzo francese  che  un  ignoto  autore  pubblicò  a  Parigi  col  nome 
d'«  Histoire  du  petit  Pompèe,  ou  la  vie  et  les  aventures  d'un 
«  chien  de  Dame  —  imitèe  de  Vanglois  ».  È  questo  l'ultimo  raf- 
fazzonamento della  History  del  Coventry,  nel  quale  solo  una  breve 
parte  del  romanzo  inglese  sorvive.  L'autore,  tenendo  sott'occhio 


(1)  Poiché  parliamo  di  cani,  ricordo  anche  V  Osservatore,  dialogo  IX  : 
Ulisse,  Cane  e  Montone. 

(2j  Cito  solo  un  passo  nel  quale  il  Gozzi  esprime  il  medesimo  concetto 
quasi  colle  medesime  parole:  «  Quando  comincia  ad  aprirsi  la  prima  capacità 
«  dell'intendere  negli  ingegni,  ad  ogni  fanciullo  si  mette  in  mano  la  gram- 
mi malica  latina;  e  a  suo  dispetto  egli  avrà  ad  imparare,  per  un  lungo  corso 
«  d'anni,  un  linguaggio  del  quale  non  avrà  mai  a  valersi  nella  vita  sua  ». 
Gozzi,  Opere,  Venezia,  Molinari,  1812,  111,  pp.  95  sg. 

(3)  La  novella,  notissima  del  resto  e  popolare  in  Italia  e  fuori,  potè  il 
Gozzi  conoscere  dalle  Lettere  familiari  del  Magalotti  (Firenze,  Gambiagi, 
1769,  voi.  I,  lett.  20),  o  dalle  Rime  burlesche  del  suo  contemporaneo  S.  Va- 
leriano  Vannetti  (Roveredo,  1760,  Li  gatti)  ove  è  narrata  nella  stessa  ver- 
sione dal  Gozzi  seguita  (v.  G.  B.  Marchesi  ,  Per  la  storia  della  novella 
del  sec.  XVII,  Roma,  Loescher,  pp.  186-88). 

Giornale  storico    XXXVni,  fase.  112-113.  8 


114  G.   B.   MARCHESI 

la  versione  del  Toussaint  o  magari  —  non  farebbe  meraviglia  — 
quella  italiana,  la  segui  o  la  copiò  sino  alla  fine  del  VII  capo 
del  libro  I,  là  dove  Pompeo  si  smarrisce  nel  parco  di  Londra; 
poi  abbandonò  completamente  la  trama  della  narrazione  inglese, 
forse  per  seguirne  un'altra  di  un  altro  romanzo;  fece  raccogliere 
il  cane  da  giocolieri  e  poscia  da  molte  altre  persone,  e,  nella 
seconda  Parte,  si  servi  della  storia  di  Pompeo  solo  come  tenue 
filo  per  tenere  insieme  collegate  varie  novelle,  varie  narrazioni 
di  avvenimenti  disparatissimi  eh'  egli  finse  accaduti  alla  pre- 
senza del  cane,  ma  ognuna  delle  quali  non  ha  alcun  rapporto 
coir  altra  ed  ha  una  speciale  intitolazione ,  come  Le  prèjugé 
vaincUy  Les  deux  amis^  Le  mari  sage,  La  courtisane  ver- 
tueuse,  ecc. 

Cosi  un  romanzo  che  narrava  le  avventure  di  un  cane  di  Bologna 
e  di  due  amanti  di  Modena,  scritto  in  francese  da  un  amoroso 
cultore  della  lingua  e  della  letteratura  italiana,  potè  ispirare  ad 
un  poeta  inglese  un  altro  romanzo,  e  questo  subire  in  Francia 
mutamenti  d'ogni  sorta,  poi  assumere  veste  nuova  in  Italia  per 
opera  forse  di  Gasparo  Gozzi,  e  finalmente  finire,  tronco  e  mal- 
concio, in  un  altro  romanzo  di  Parigi  (1). 


III. 


Tutto  ciò  tra  il  1668  e  il  1784:  il  periodo  eroico,  l'età  dell'oro 
nella  storia  dei  cani.  Come  altri  chiamò  il  Settecento  il  secolo  della 
cipria,  io  vorrei  chiamarlo  il  secolo  dei  cani.  Mai  come  in  quel 
tempo  essi  furono  amati,  vezzeggiati,  onorati;  e  non  senza  ra- 
gione gli  autori  de'  quali  testé  ho  fatto  cenno,  scelsero  quel  gra- 
zioso animale,  per  intesservi  attorno  una  favola  di  romanzo.  La 
storia  di  un  cane  servi  loro  come  pretesto  e  occasione  a  porre 
in  satira  tutta  la  vita  privata  e  la  sociale;  ma,  nel  romanzo, 
come  nella  società  di  cui  essi  descrivono  ì  costumi,  il  cane  stesso 
è  gran  parte,  anzi  finisce  quasi  col  diventare  il  protagonista,  il 
centro,  attorno  al  quale  si  svolge  quella  frivola  vita  di  dame  e 


(1)  Conosco  anche  wn'Histoire  d'un  Chien^  écrite  par  lui-méme  et  publiée 
par  un  homme  de  ses  amis;  ouvrage  critigue,  inorai  et  philosophique 
[par  G.  A.  B.  Sewrin],  Paris,  Veuve  Masson,  an.  X,  romanzo  pur  esso  sa- 
tirico; ma  non  ha  alcuna  relazione  colle  Avventure  di  Lillo. 


VARIETÀ  115 

di  cavalieri.  Cosi  a  Londra,  come  a  Parigi  ed  a  Venezia.  Vuol 
dire  che  il  senso  morale  si  era  ben  traviato  e  lo  zerbino  e  il 
cicisbeo  erano  una  ben  scipita  e  stupida  cosa,  se  il  vezzoso  bar- 
boncino  poteva  tanta  parte  occupare  dei  teneri  cuori  femminili. 
Alla  corte  di  Luigi  XV  dicevasi  che  le  sole  lagrime  sparse  in 
sua  vita  da  madamigella  di  Goulange  furono  per  la  sua  cagno- 
letta  Zulmé(i).  Il  cagnuolo  era  il  re  del  salotto  e,  adagiato  sul 
canapè  o  nel  grembo  della  signora,  adorno  di  preziosi  collari  e 
di  nastri,  riceveva  l'omaggio  dei  visitatori.  Ad  esso  i  servitori 
e  gli  amanti  dovevano  lo  stesso  rispetto  che  alla  padrona.  Si 
legge  nella  Storia  dì  Milano  del  Verri  (2),  che,  nel  1670,  avendo 
un  domestico  del  Viceré  duca  d'Ossuna  percosso  un  cane  della 
principessa  Trivulzio,  i  domestici  di  questa,  nientemeno,  ammaz- 
zarono il  percussore.  Per  ottenere  i  favori  della  dama,  giovava 
mostrarsi  devoti  al  suo  cane.  Ed  è  nota  la  novella.  Badi,  che 
Pietro  Verri  pubblicò  nel  Caffè  (3),  nella  quale  si  narra  di  un 
giovane  che  fu  giudicato  dalla  intera  città,  incivile  «  stolido  e 
«  brutale  »,  e  non  potò  ottenere  un  impiego  cui  aveva  diritto, 
per  aver  sinceramente  dichiarato  alla  moglie  del  Ministro, 
ch'egli  aveva  veduto  qualche  cane  più  vezzoso  di  quello  che 
la  signora  possedeva.  Quel  cagnuolo,  come  l'eroe  del  nostro  ro- 
manzo, si  chiamava  Lillì,  e  soleva  nelle  conversazioni  «  rice- 
«  vere  in  giro  le  carezze  di  tutti  gli  astanti  »  (4).  Il  Fagiuoli,  in 
un  suo  giocoso  capitolo,  ammoniva  una  signora  :  «  Il  cane  sol  tene- 
«  ramente  amate.  |  Si  può  egli  udire  mai  maggior  misfatto?  »  (5). 
Il  Passeroni  pure,  con  quel  suo  fare  bonario,  le  dame  di  quella 
vivissima  passione  scherniva  (6),  e  anche  il  Goldoni,  mi  pare, 
in  qualche  sua  commedia.  In  un  romanzo  satirico  del  veneziano 
Sceriman,  dove,  nella  descrizione  di  una  imaginaria  società  di 
scimmie,  son  dipinti  i  costumi  del  tempo,  leggesi  di  una  bella 
scimmiona  la  quale  tiene  sempre  in  braccio  il  suo  cane,  «  un 


(1)  G.  Gantù,  //  Parini  e  la  Lombardia  ecc.,  p.  386,  n.  44. 

(2)  Milano,  1825,  IV,  194. 

(3)  Tomo  lì,  1765-66. 

(4)  La  novella  potè  essere  ispirata  al  Verri  dal  noto  episodio  pariniano 
della  Vergine  Cuccia.  Vedi  Bruno  Gotronki,  Postille  pariniane,  Siracusa, 
1900,  p.  34. 

(5)  Alla  signora  Elisabetta  Girolami  d'Ambra^  in  biasmo  del  Cane  e 
lode  del  Gatto. 

(6)  Loc.  cit. 


116  G.   B.    MARCHESI 

«bel  cane»  dice  l'autore,  «simile  a  quelli  che  so^iono  dalle 
«nostre  dame  esser  nutriti  con  maggior  diligenza  de'  propri 
«  figli,  ed  amati  assai  più  dei  loro  servi  e  delle  umane  crea- 
«  ture  (1).  E  pure  in  un  altro  romanzo,  1  Zìngani,  di  Antonio 
Piazza,  è  un  tale  che  volendo  insegnare  a  una  dònna  l'arte  di 
parer  nobile  e  ricca,  tra  l'altro,  «  abbi  »,  le  suggerisce,  «  una  te- 
«  nerezza  amorosa  per  qualche  cagnolo,  e  una  freddissima  indiffe- 
«  renza  per  i  parenti  >  (2).  Il  cane,  dalla  padrona  indivisibile,  era 
portato  nelle  conversazioni,  a  teatro,  in  chiesa  (3).  Sicché  anche 
per  le  strade  era  un  andirivieni  di  cani.  Osservate  i  quadri  e 
le  incisioni  del  settecento  ritraenti  una  piazza,  una  via,  un  pub- 
blico passeggio  di  una  città,  e  vi  troverete  sempre  qualche  si- 
gnora che  si  trascina  dietro  il  fido  amico  legato  ad  un  nastro. 
Nella  confusione  sovente  si  smarrivano,  e  allora,  pianti,  sveni- 
menti, ricerche  assidue  e  pazienti,  avvisi  infiniti  su  per  i  muri 
e  pei  giornali,  promettenti  mance  vistose.  Nei  giornali  del  tempo 
se  ne  incontrano  frequentissimi  e  di  curiosi,  come  questo  ad 
esempio:  «A  chi  avesse  trovato  un  cagnolino  color  d'Isabella, 
«  con  quattro  macchie  bianche,  la  padrona  che  lo  smarrì  offre 
«  la  ricompensa  di  tre  filippi,  la  serva  un  ducato  d'argento,  e 
«  un  parente  un  cesto  di  ciambelle,  una  rosada  ed  un  piatto  di 
«  maccheroni  »  (4). 

Per  ciò  nel  settecento  fiori  una  vera  letteratura  canina.  Anche 
altri  animali  furono  allora  frequentemente  oggetto  di  prose  e  di 
versi,  ma  nessuno  quanto  il  cane.  In  generale  sono  poesie  giocose, 
dove  si  cantan  le  lodi,  o  si  piange  la  morte  di  questa  o  quella 
cuccia  ;  ma  sovente  dallo  scherzo  balza  fuori  la  satira  tagliente, 
spietata,  persin  volgare  talvolta,  contro  l'adorazione  esagerata 
e  pazza  di  quegli  animali.  Altri  già  ricordò  un  bel  numero  di 
tali  componimenti  (5):  alcuni  versi  del  Baretti;  il  sonetto  com- 
posto dal  Baruffaldi  per  Vespetta  cagnolina  morta  di  parto; 
un  capitolo  del  Vettori,  in  morte  di   una  cagnetta;  un    sonetto 


(1)  Storia  dei  regni  delle  scimmie,  Berna  (Venezia)  1764,  t.  I,.p.  225.  Ma 
la  prima  ediz.  del  romanzo  è  del  1749. 

(2)  /  Zingam,  Venezia,  1769,  cap.  X. 

(3)  Gfr.  Malamani,  Il  Settecento  a  Venezia,  Torino,  Roux,  pp.  83  sgg. 

(4)  Gradeniqo,  Commemorialiy  25  marzo  1761. 

(5)  E.  Bertana,  Il  Parini  tra  i  poeti  giocosi  del  Settecento^  in  questo 
Giornale,  Suppl.  I,  pp.  39-40,  in  nota. 


VARIETÀ  117 

dei  Galeotti,  in  morte  del  cane  Meschino;  un  sonetto  del  Borsetti 
che  comincia:  CagnoUna  gentil,  figlia  d'un  cane;  un  componi- 
mento del  Biancardi,  intorno  a  un  cane  chiamato  Birba.  Ma 
molti  altri  scritti  di  simil  genere  si  potrebbero  trovare.  Ricordo 
le  Lagrime  di  molli  illustri  'poeti  viventi  in  morte  di  Pippo, 
cane  vicentino  (i),  raccolta  di  molte  rime,  tra  le  quali  notevole 
una  canzone  di  Carlo  Gozzi  (2).  Ricordo  i  Poetici  componimenti 
in  morte  di  Condè,  cane  da  caccia  del  nobile  signor  marchese 
Giov.  Sagramoso  (3),  dei  quali  uno  è  di  Gerolamo  Pompei.  Vin- 
cenzo Antonio  Formaleoni,  nascondendosi  sotto  lo  pseudonimo 
di  Onocefalo  Ginoglosa,  dettò  un  Elogio  del  cane  Tabacchino 
morto  nel  caffè  del  ponte  dell'Angelo  il  dì  27  aprile  1792  (4).  Il 
Chiari  cantò  una  cagnoletta  di  certa  Mirtinda  (5).  Il  patrizio  ve- 
neto Soranzo  scrisse  intorno  a  una  cagnetta  persino  un  poema 
di  dodici  canti  di  ottave  (6).  E  i  cani  trovarono  in  quel  secolo 
financo  il  loro  storico,  nel  francese  Fréville  (7). 

Ma  chi  tramandò  veramente  alla  storia,  e  rese  memorando 
per  sempre  l'amore,  le  cure,  le  delizie  e  i  privilegi  di  cui  go- 
dettero i  cani  nel  settecento  fu,  com'è  noto,  il  Parini  (8). 

A  lui  naturalmente  non  isfuggi  codesto  strano  vezzo  femminile, 
e  per  colpire  quella  sentimentalità  morbosa,  umiliante  e  ripu- 
gnante, pare  quasi  si  sia  compiaciuto  di  usar  gli  strumenti  più 
fini  e  validi  del  suo  genio  satirico,  onde  raggiungere  quella  per- 
fezione d'arte,  per  cui  l'episodio  della  Vergine  cuccia  va  meri- 


(i)  Milano,  1749. 

(2)  Pag.  29. 

(3)  Verona,  Plamanzini,  1765. 

(4)  Venezia,  1792.  Questa  non  è  una  poesia  giocosa;   è  una  parodia. 

(5)  Vedi  Tommaseo,  Uab.  Chiari,  in  Tipaldo,  Biografie,  VII,  211. 

(6)  Trovasi  ms.  nel  Museo  Correr,  Raccolta  Cicogna,  cod.  3319. 

(7)  Ignoro  in  che  anno  precisamente  usci  la  Storia  in  francese,  ma  do- 
vette, con  ogni  probabilità,  uscire  negli  ultimi  anni  del  settecento.  Una  tra- 
duzione ital.  fu  pubblicata  nel  1803,  Storia  dei  cani  celebri,  frammischiata 
di  curiose  notizie  di  storia  naturale,  di  A.  F.  G.  Fréville,  trad.  dal  francese 
[di  Giov.  Torti].  L'opera  fu  scritta  per  servire  di  lettura  scolastica  ai 
fanciulli. 

(8)  Oltre  che  nel  noto  episodio  della  Tergine  Cuccia,  il  Parini  accenna  ai 
cani  delle  dame,  nel  Mattino  (vv.  439-41)  e  nel  Vespro  (vv.  51-59)  là  dove 
la  dama 

«...  Non  senza  sospetti  e  seu'/.a  baci 
a  le  vergini  ancelle  il  cane  affida, 
al  par  de'  giochi,  al  par  de'  cari  figli 
grave  sua  cura  »  ecc.  .  .  . 


118  G.   B.   MARCHESI 

tamente  famoso.  Una  moda  per  la  quale  un  bruto  si  anteponeva, 
non  solo  a  cicisbei  vanesi,  ma  a  poveri  servi  fedeli  e  onorati, 
dovette  sembrare  all'abate  il  peggior  vizio  di  (juclle  dame  cor- 
rotte, offesa  alle  leggi  umane  e  divine:  e  il  peggior  vizio  egli 
volle  bollare  col  marchio  suo  più  rovente. 

L'episodio  spicca,  brilla  nel  Meriggio,  come  una  gemma. 

In  quella  descrizione  del  banchetto,  tra  il  comico  e  pomposo 
discorso  del  vegetariano,  e  il  vano  cicaleccio  dell'ospite  forestiero 
che  parla  «  or  d'avi,  or  di  cavalli,  ora  di  Frinì  »,  le  lagrime 
e  i  sospiri  della  dama  sono  melanconica  nota  in  musica  festosa. 

Ella  pensa  all'insulto  recato  alla  cuccia,  e  piange. 

Racconta  ella?  Il  poeta  noi  dice  («Or  le  sovviene  il  giorno, 
«Ahi  fero  giorno!  »)  e,  lascia  quasi  supporre  che  la  dama  non 
parli,  come  oppressa  e  vinta  dal  doloroso  ricordo,  e  forse  per 
non  turbare  la  lieta  serenità  del  banchetto.  Ma  il  poeta  pare 
afferri  il  pensiero  che  le  passa  per  l'anima,  e  narra  lui  il  caso 
funesto,  colle  stesse  parole  che  la  dama  userebbe.  Ma  poi,  giunto 
alla  vendetta  della  vergine  cuccia,  alla  espulsione  del  servo, 
ecco,  acceso  di  sdegno,  a  un  tratto  dimentica,  interrompe  l'i- 
ronia, e  prosegue  per  conto  suo  la  narrazione,  sino  alla  fine, 
sino  alle  terribili  conseguenze  della  condanna,  e  narra  anche  ciò 
che  la  dama  non  direbbe,  ciò  che  la  frivola  dama  non  può  nep 
pure  pensare. 

—  « Il  misero  si  giacque 

Con  la  squallida  prole  e  con  la  nuda 
Consorte  a  lato,  su  la  via  spargendo 
Al  passeggiero  inutile  lamento  ».  — 

Qui  il  poeta  non  sorride  più,  non  mostra  più  il  suo  amaro  sor- 
riso ;  qui  è  serio,  terribile,  tragico.  Noi  non  sentiamo  più  il  festoso 
tintinnio  de' bicchieri,  il  susurro  dei  melliflui  conversatori,  le 
risa  spensierate;  tutto  tace,  la  scena  si  oscura;  ci  sembra  di  veder 
passare  nel  cielo  una  nuvola  e  di  vedere  il  guizzo  di  un  lampo 
nunzio  della  tempesta.  E  giunti  alla  fine  del  racconto,  ci  vien 
voglia  di  chiudere  il  libro,  e  pensare. 

Donde  il  Parini  s'inspirò  nell'imaginar  l'episodio? 

Non  avea  bisogno  d'inspirarsi  ad  alcuna  narrazione  consimile; 
bastava  eh'  ei  volgesse  attorno  lo  sguardo  e  osservasse  la  vita 
dei  servitori  e  dei  cani.  Nell'ambiente  che,  sotto  questo  aspetto, 
son  venuto  via  vìa  descrivendo,  ognun  vede   che  fatti  simili  a 


VARIETÀ  119 

quello  dell'episodio  pariniano  potevano  veramente  accadere.  Molto 
giustamente  fu  da  uno  studioso  del  Parini  (1)  raccostata  all'epi- 
sodio della  Cuccia,  una  lettera  giocosa  del  Costantini,  pubblicata 
a  Venezia  nel  1748(2),  nella  quale,  dopo  essersi  descritta  la  morte 
di  un  cane,  la  sua  sepoltura  e  i  pianti  della  padrona,  si  dice: 
«  Una  negligenza  o  un'involontaria  mancanza  di  un  servitore  o 
«  di  una  servente  verso  una  bestia  che  si  ami,  induce  percosse 
«  e  privazione  di  pane  ».  Altri  (3)  ha  ricordato,  allo  stesso  propo- 
sito, una  scena  della  fiaba  di  Carlo  Gozzi,  /  pitocchi  fortunati  (4), 
dove  il  servitore  Brighella  racconta  precisamente  d'essere  stato 
licenziato  dalla  sua  padrona  per  aver  percosso  la  cagnolina  : 
«  No  se  m'ha  volesto  far  el  mio  ben  servido;  s'  ha  dà  de  le  ca- 
«  ritatevoli  informazion  de  mi,  e  nisun  m' ha  più  volesto  al  so 
«  servizio  ».  Il  caso  è  identico  a  quello  narrato  dal  Parini  ;  ma 
mi  pare  avventato  parlare,  come  piacque  a  chi  avverti  questo 
riscontro,  parlare  addirittura  di  una  probabile  fonte  pariniana. 
Mi  sembra  che  la  fiaba  del  Gozzi,  rappresentata  il  29  novembre 
del  1764,  e  stampata  più  tardi,  molto  difficilmente  abbia  potuto 
essere  nota  al  Parini,  durante  la  composizione  del  Meriggio  cui 
die  mano  subito  dopo  il  Mattino,  nel  '63,  e  di  cui  già  era  per- 
messa la  stampa  a'  24  luglio  del  '65  (5). 

Se  mai  di  fonti  dirette  fosse  lecito  parlare,  con  più  ragione, 
mi  pare,  si  potrebbe  addurre  un  passo  delle  Avventure  di  Lillo. 
Nel  libro  I  del  nostro  romanzo,  verso  la  fine  del  cap.  VI,  l'au- 
tore, narrate  alcune  sventure  occorse  a  Lillo  nella  casa  di  Lady 
Ermione,  soggiunge:  «Oltre  a  questi  casi,  molti  ne  sofferse 
«  da'servidori,  invidiosi  del  vederlo  in  grazie  e  accarezzato,  e  mas- 
«  sime  dalla  cameriera,  che  sempre  gli  faceva  qualche  brutto 
«  scherzo;  come,  per  esempio,  di  conficcargli  i  denti  del  pettine, 
«  quando  lo  pettinava;  cosa  da  lei  fatta  un  giorno  con  tanta 
«  mala  grazia  e  forza,  che  gli  restarono  tre  denti  piantati  nella 
«  schiena  ;  tanto  che,  per  trarnegli  fuori,  ci  volle  il  cerusico. 
«  Ma   dovendosi  presumere   che   i   cani   godano  della  vendetta 


(1)  Emilio  Bertana,  Studi  par  intani.  Spezia,  1893,  pp.  45-50. 

(2)  PuPiENi  (G.  A.  Costantini),  Lett.  giocose,  Venezia,  1748,  IV,  pp.  177  sgg. 

(3)  Mercurino  Sappa,  Una  probabile  fonte  dell'episodio  della  Vergine 
Cuccia,  in  questo  Giorn.,  30,  351. 

(4)  Atto  I,  scena  8». 

(5)  Vedi,  per  queste  date,  il  voi.  del  Carducci  sul  Giorno. 


120  ,  G.   B.    MARCHESI 

«  quanto  gli  uomini,  Lillo  dovette  restare  appagatissirao,  perchè 
<  la  pettinatrice  fu  vergognosamente  cacciata  di  casa,  né  potè 
«  mai  avere  da  Milady  una  fede  d'averla  ben  servita,  che  pure 
«era  a  lei  necessaria  per  entrare  in  un'altra  casa:  e  non  è 
«  male  che  le  cameriere  imparino  a  pettinare  i  cani  un  poco 
«  più  leggermente  ».  Come  ognun  vede,  l'episodio  è  molto  simile 
a  quello  del  Giorno.  Il  Parini,  onde  mostrare  più  grave  la  cru- 
deltà della  donna  e  più  simpatica  e  pietosa  la  figura  del  servo, 
fa  che  questi  osi  toccare  la  cuccia,  non  per  invidia  o  per  dispetto, 
ma  solo  dopo  essere  stato  morso  da  lei.  I  denti  del  pettine  che 
la  cameriera  infigge  nel  dorso  di  Lillo,  diventano  presso  il  Pa- 
rini i  denti  che  la  cuccia  infigge  nel  «  piede  villano  ».  Nel  ro- 
manzo, la  cameriera  offende;  nel  Giorno,  il  servo  si  difende.  Ma 
la  conseguenza  dell'insulto  recato  ai  cani,  la  «  vendetta  »  è  la 
stessa;  è  narrata  quasi  colle  medesime  parole.  Persino  l'ultima 
ironica  considerazione  del  romanziere  —  «  e  non  è  male  che  le 
cameriere,  ecc.  »  —  risponde  alla  chiusa  del  poeta  :  «  E  tu  ver- 
«  gine  cuccia,  idol  placato  |  Da  le  vittime  umane,  isti  superba  ». 

Ma  che  veramente  il  Parini  conoscesse  le  Avi^enture  di  Lillo, 
non  oso  asserire.  Certo  è  solo  che  il  racconto  che  più  si  accosti  a 
quello  della  Vergine  Cuccia,  tra  gì' indicati  sin' ora,  e  pubblicati 
^prima  del  1764,  è  questo  del  nostro  romanzo.  Quello  dei  Pitoc- 
chi fortunati  di  Carlo  Gozzi,  che  il  Parini  non  potè  conoscere, 
con  ogni  probabilità  deriva  pur  esso  dal  romanzo  tradotto  da 
Oaspare  Gozzi. 

Ripeto:  il  Parini  non  aveva  bisogno  d'ispirarsi  ad  alcun  autore; 
la  società  che  lo  circondava  potè  off'rirgli  il  modello  della  sua 
pittura.  Il  fatto  era  nella  vita;  ed  al  vero  attinse  il  poeta.  Ma 
chi  può  dire  come  un'  immagine  sorge,  si  forma,  si  delinea  nella 
niente  dell'artista?  Lo  scrittore  è  anche  sempre  un  po'  debitore 
a  quanti  lo  precedettero.  Il  poeta  accoglie  nell'anima,  oltre  alle 
impressioni  vergini  e  fresche  che  gli  giungono  dalla  natura  e 
dalla  vita  che  lo  circonda,  anche  l'eco  di  altre  voci,  anche 
l'ombra  di  altre  imagini  che  in  luì  si  riflettono  da  altre  anime. 
Ora  è  la  trama  generale,  l'idea  fondamentale  d'un  componimento; 
ora  è  un  particolare  pensiero,  ora  è  una  semplice  frase,  ora 
è  una  sola  parola;  ma  tutto  ciò  che  arriva  alla  mente  del  poeta 
e  la  tocca,  tutto  vi  lascia  la  sua  traccia.  L'anima  dell'artista 
è  come  zolla  di  campo  fecondo  cui  da  ogni  parte  i  venti  por- 
tano germi  di  vita.  Talvolta  il  poeta  feconda  il  seme  e  lo 
trasforma   e  ne  fa  sua  creatura,  e,  creando,  non   imita;   altra 


VARIETÀ  121 

volta  riproduce  precisamente  quanto  in  lui  si  accolse,  ed  imita; 
ora  l'imitazione  è  conscia,  ora  è  inconscia.  Comunque,  ricercare 
e  studiare  le  fonti  di  un'opera  d'arte,  qualora  ciò  si  faccia  nei 
debiti  modi,  non  è  senza  ragione  ed  utilità.  La  ricerca  delle  fonti 
dev'  essere  considerata  non  solo  come  opera  di  storico  e  di  cri- 
tico che  voglia  stabilire  meriti  di  precedenza  o  di  proprietà,  ma 
anche  (e  solo  talvolta)  come  studio  di  psicologo  che  voglia  rin- 
tracciare il  multiforme  e  svariato  e  complicato  processo  d'idea- 
zione. 

Ciò  posto,  è  ammissibile  che  il  Parini  abbia  conosciuto  il 
nostro  romanzo,  e  ch'esso  gli  abbia  suggerito  qualche  idea 
per  il  suo  poema,  cui  attese  dopo  la  pubblicazione  di  quello. 
Leggendo  la  «  vendetta  »  di  Lillo,  a  me  è  occorso  naturalmente 
di  pensare  alla  vendetta  della  cuccia  pariniana;  leggendo  delle 
gesta  del  giovine  llarione,  nobile  effeminato,  amante  dei  viaggi, 
dei  cavalli  e  delle  Frinj,  e  presunto  intenditore  di  cose  d'arte, 
più  volte  mi  è  sorta  dinanzi  la  figura  del  Giovin  Signore;  ma 
più  ancora,  tutto  il  romanzo,  satira  mordace  e  vivace  della  no- 
biltà inglese,  mi  ha  fatto  ricordare  il  poemetto  immortale.  Chi  sa? 

Senza  volerlo,  dal  Chien  de  Boulogne  sono  venuto  a  toccar 
del  Parini.  Ma  se  queste  pagine,  più  che  contributo  alla  storia 
del  nostro  romanzo  del  settecento,  potranno  essere  considerate 
un  contributo  alla  storia  del  Giorno  e  anche  solo  un  commento 
a  un  episodio  di  esso,  mi  parrà  d'averle  scritte  meno  inutilmente. 

Giambattista  Marchesi. 


ANCORA  UNA  VOLTA 

IL  TASSO  E  IL  MANZONI 


Il  curioso  contributo  che  alla  storia  delle  dispute  tra  classici 
e  romantici  apportò  ultimamente  l'ili.""'»  prof.  Salvioni  (1),  mi 
porge  occasione  di  ritornare  per  una  terza  volta  su  questo  ar- 
gomento (2)  e  di  aggiungere  a  quanto  gik  ne  fu  detto  alcune 
note  complementari. 

I.  Lo  sdegno  e  il  dolore  che  la  parodia  manzoniana  del 
canto  XVI  della  Gerusalemme  destò  nell'animo  del  Grossi,  con- 
ferma  ancor  meglio  come  l'antipatia   del  Manzoni  per  il  Tasso 

—  che  alcuni  vollero  attenuare  e  persino  revocare  in  dubbio  (3), 

—  fosse  cosi  vera  e  profonda,  da  diventare  una  specie  di  acca- 
nimento. 

IL  Alla  domanda  del  prof.  Salvioni  :  «  Che  c'entra  V  Ermes 
«Visconti?»  —  a  proposito  della  frase  nella  lettera  del  Grossi: 
«  la  farsa  Manzoni  e  Visconti  >  —  mi  sembra  si  possa  trovare  una 
risposta  più  che  probabile.  Nella  lunga  aggiunta  al  frammento 
del  Porta,  intitolato  Vapparizion  del  Tass,  l'ombra  del  poeta 
risponde  all'autore,  il  quale  gli  ha  chiesto  perchè  non  porti  in 
capo  la  corona: 

Ah!  Carlo,  la  coronna  desgraziada 

No  la  ghè  pu  per  mi...  che  on  tal  Manzon, 

On  tal  Ermes  Viscont 

Me  l'han  tolta  del  eoo,  me  l'han  strasciada. 


(1)  Giornale,  37,  278  sgg. 

(2)  Giorn.,  24,  302  sgg.;  30,  108  sgg. 

(3)  Vedi  Giom.,  30,  111. 


VARIETÀ  123 

L'aggiunta  è  recata  in  molte  edizioni  come  di  fattura  del  Porta 
medesimo;  ma  del  Porta  non  può  essere,  perchè ...  è  del  Man- 
zoni e  del  Visconti!  La  notizia,  preziosa  davvero  per  il  caso 
nostro,  è  fornita  dal  prof.  Cristoforo  Fabris,  che  la  ebbe  dalle 
labbra  stesse  del  Manzoni  (1).  Restano  dunque  escluse  le  inter- 
pretazioni che  di  quel  passo  si  solevano  dare  («  allude  al  merito 
«  dei  due  letterati,  che  in  allora  primeggiavano  nell'arringo  let- 
«  terario,  ed  erano  in  via  di  acquistarsi  quel  posto  eminente  che 
«  si  assicurarono  poi  »  —  «  scherza,  con  poca  carità  cristiana, 
«  l'insoddisfatto  desiderio  del  povero  poeta,  di  ricevere  la  corona 
«  in  Campidoglio  »  (2)),  mentre  il  passo  mi  sembra  chiaramente 
accennare  alla  parodia  in  questione,  che  sarebbe  stata  pertanto 
composta  non  dal  solo  Manzoni,  come  finora  si  ritenne,  ma  da 
lui  e  dal  Visconti  insieme,  giusta  la  frase  del  Grossi. 

III.  Se  la  parodia  fu  fatta  in  collaborazione,  risulta  anche 
più  difficile  credere  ch'essa  sia  stata  «  improvvisata  >,  come  si 
vorrebbe.  E  nemmeno  si  può  pensare  che  gli  autori  avessero 
«  Yumco  scopo  d'eccitare  il  riso  »,  ciò  che  pure  concordemente 
si  è  affermato  finora.  Invero,  a  chi  la  legga  con  attenzione  e 
riportandosi  al  testo  rispettivo  del  Tasso,  essa  apparirà,  se  non 
un  lavoro  profondamente  meditato,  certo  qualcosa  di  più  che 
una  parodia  burlesca.  Gli  autori  vi  hanno  riprodotto  con  molta 
abilità  ed  esattezza  (salva  l'esagerazione  che  è  propria  del  ge- 
nere) i  difetti  più  caratteristici  e  più  normali  della  maniera 
tassiana  in  generale,  nonché  le  mende,  sia  di  forma  sia  di  con- 
cetto, che  si  riscontrano  nell'episodio  parodiato,  tanto  che  si 
direbbe  abbiano  avuto  sott'occhio  quelle  tra  le  Considerazioni 
al  Tasso  di  Galileo  Galilei,  che  riguardano  il  canto  XVI. 

Già  sul  principio  del  canto  —  dove  si  descrive  il  soggiorno  d'Ar- 
mida —  Galileo  biasima  l'architettura  singolare  di  quel  palazzo 
che,  a  differenza  d'ogni  altro,  contiene  «nel  suo  più  chiuso 
«  grembo  »  un  giardino:  «  si  veggon  bene  —  egli  osserva  (3)  — 
«  palazzi  in  mezzo  de'  giardini,  ma  non  per  l'opposito  ».  E  sic- 
come nel  giardino  dì  questo  palazzo  (che  è  anche  detto  «  tondo 


(1)  Vedi  II  Rosmini,  16  maggio  1887,  p.  660.  —  Cfr.  Giorn.,  30,  114. 

(2)  Poesie   di    C.   Porta,  rivedute,  ecc.   da   un  Milanese,  Milano,  1887, 
p.  158.  —  Ateneo  Veneto,  1898,  II,  p.  62. 

(3)  Cito  dall'edizione  del  Mestica,  Scritti  di  critica  letteraria  di   G.    G., 
Torino,  1889. 


i24  P.   BELLEZZA. 

«  edifizio  »  e  «  laberinto  »,  str.  1,  35),  vi  sono  monti,  valli,  selve 
e  spelonche,  «  se  dal  centro  si  può  raccorre  la  circonferenza, 
«  questo  palazzo  dovrebbe  girare  centinaia  di  miglia  ».  E  il  Ri- 
naldo della  parodia  : 

Dacché  mi  trovo  in  questo 

Non  so  se  labirinto  ovver  palazzo 

Rotondo  e  di  figura  irregolare 

Tutto  lo  spasso  mio 

Fu  il  contar  le  colonne;  e  son  seimila, 

Ma  Tarchitetto  non  le  ha  messe  in  fila. 

Alla  str.  27,  dove  il  Tasso  fa  che  i  due  amanti  entrino 

Sotto  un  tetto  medesmo  entro  quegli  orti, 

postilla  lo  scienziato:  «  non  si  ricordando  forse  di  aver  detto  di 
«  sopra,  che  nel  centro  del  palazzo  era  l'orto,  mette  ora  nell'orto 
«il  palazzo».  L'incongruenza  è  innegabile;  e  i  due  poeti  ar- 
gutamente la  mettono  in  rilievo,  e  ad  un  tempo  la  eliminano 
trasformando  il  «  tetto  »  che  sorge  «  in  mezzo  agli  orti  »  in  un 
«  casotto  ». 

Il  loro  Rinaldo  fa  un  gran  lamentarsi  della  solitudine  a  cui 
è  condannato,  specialmente  quando  la  maga  se  ne  va  per  i  fatti 
suoi,  al  qual  proposito  nota  il  Bonghi  ueW Avvertenza  premessa 
alla  Parodia  (1):  «  il  sentimento,  che  v'è  più  volte  ripetuto,  della 
«  seccaggine  e  della  impossibilità  del  vivere  segregati  persino  con 
«  una  innamorata,  è  stato  sempre  il  suo  (cioè  del  Manzoni)  ». 

E  ciò  sarà  vero;  ma  è  anche  vero  che  già  Galileo  aveva  qui 
pure  ripreso  aspramente  il  Tasso:  <  Pittor  gretto  e  meschino, 
€  che  maga  è  questa  tua,  che  potendo  darli  quei  trattenimenti 
«  e  spassi,  che  immaginar  si  possono  maggiori,  tiene  questo  suo 
«diletto  freddamente,  e  lo  U  romito  amante?  Alcina  trattava 
«cosi  il  suo  Ruggero?  Leggi  l'Ariosto». 

E  questo  raffronto  coll'Ariosto  è  appunto  uno  dei  motivi  più 
indovinati  della  Parodia. 

Rinaldo  cosi  parla  ad  Armida; 

È  questo  il  modo 

Di  trattare  un  guerriero  innamorato? 

Lasciarlo  sempre  solo 

A  parlar  colle  belve  e  colle  piante 


(1)  Opere  inedite  o  rare  di  A.  Af.,  voi.  1,  p.  296. 


VARIETÀ  125 

«  Se  non  quando  è  con  te  romito  amante?  » 

So  che  un  certo  Ruggiero 

Che  fu  antenato  mio,  trovossi  un  giorno 

In  questo  contingente,  in  ch'io  mi  trovo. 

Vedete  che  il  trovato  non  è  nuovo. 

Ma  quei  si  stava  a  festa 

A  caccia,  a  giostre,  a  danze  ed  a  conviti 

In  mezzo  ad  una  bella  compagnia, 

Ed  io  solo  così  convien  che  stia! 

Che  invenzioni  son  queste? 

Non  si  tratta  così  con  casa  d'Este. 

Al  che  replica  Armida: 

E  vorresti,  o  degenere  superbo, 

Metterti  con  Ruggiero? 

Non  sei  degno  di  fargli  il  cameriero. 

Il  giuoco  di  parole  nel  testo: 

Ella  del  vetro  a  sé  fa  specchio,  ed  egli 
Gli  occhi  di  lei  sereni  a  sé  fa  spegli, 

porge  buon  destro   agli   autori,  che  tirano  persino  in  ballo  un 
«  venditor  di  specchi  »,  e  fanno  dire  a  Rinaldo  : 

Scusa  se  in  geroglifico  favello, 

Amabile  fanciulla, 

Per  dirne  il  vero,  anch'io  ne  intendo  nulla. 

Il  giuoco  di  parole  si  basa  sullo  specchio  che  pende  al  fianco 
di  Rinaldo  e  che  aveva  già  urtato  Galileo:  «Mi  piacerla  pur 
«  veder  venir  in  scena  un  innamorato  con  uno  specchio  pendo- 
«  Ioni  alla  cintola,  e  andarselo  nel  camminar  battendo  per  le 
«  gambe  ». 

Il  bisticcio  che  ricorre  nella  preghiera  dell'Armida  classica  : 

Sarò  qual  più  vorrai,  scudiero  o  scudo, 

uno  dei  molti  che  fanno  del  Tasso  un  precursore  della  maniera 
secentistica,  viene  ammannito  nelle  strofette: 
Armida  : 

Scudo  0  scudiero 
Gol  petto  ignudo 
Ti  coprirò. 

Rinaldo  : 

Non  farem  nulla: 
Un  Turco  crudo, 


126  P.   BELLEZZA 

Beila  fanciulla, 
Ti  piglierà. 

E  ti  dirà: 

Signore  scudo, 

Signor  scudiere, 

Venga  al  quartiere 

Di  Mustafà. 

Similmente  la  ripetizione  allitterativa  del  Tasso:  «  quegli  occhi 
€  onde  beata  bei  »  è  parodiata  nelle  parole  attribuite  al  messag- 
gero Ubaldo  a  proposito  di  Goffredo: 

Seda  sedizioni  col  mostrarsi; 

mentre  gli  «  specchi  almi  celesti  »,  il  «  vero  indizio  e  vera  spia  » 
e  simili  nessi  che  spesseggiano  nella  Parodia,  mirano  evidente- 
mente a  contraffare  la  tendenza  tautologica  che  si  tradisce  ad 
ogni  momento  nel  poeta  della  Gerusalemme, 

Un  altro  vezzo  favorito  di  lui  sono  le  parentesi  enfatiche  ed 
ammirative,  quali  VII,  76;  XIII,  41;  XVIII,  26:  («oh  meravi- 
«glia!  »);  Vili,  81;  XIV,  67:  («chi  '1  crederia?»);  IV,  2;  VI, 
78:  («  ahi  ^stolto!  »);  III,  '21:  («  mirabil  colpo!  »);  Vili,  28:  («  o 
«  miracol  gentile!  »);  XVIII,  76:  («  mirabil  vista!  »);  XVIII,  34: 
(«  0  novi  mostri!  »);  XX,  39:  («  strano  spettacolo  ed  orrendo!  »). 
—  E  i  nostri  Autori,  nell'invettiva  di  Armida  a  Rinaldo: 

Tu  non  sei  nato 
In  casa  d'Este  : 
Nelle  foreste 
Ti  fece  il  mar. 

Allor  che  il  Caucaso 

(La  cosa  è  piana) 

CoH'onda  insana 

Si  maritò. 

Il  tratto  è  doppiamente  felice,  perchè  l'immagine  tassiana  cor- 
rispondente 

(te  Tonda  insana 
Del  mar  produsse,  e  '1  Caucaso  gelato), 

tocca  il  grottesco,  come  quella  che  ripugna  anche  alla  relativa 
verosimiglianza  richiesta  nella  poesia,  e  perchè  la  parentesi,  che 
qui  dovrebbe  davvero  esprimere  meraviglia,  si  apre  solo  per  dire 
che  il  connubio  è  cosa  naturalissima,  e  ne  rileva  cosi  maggior- 
mente la  stranezza. 


VARIETÀ  127 

Un'ultima  prova  che  la  Parodia  fu  ponzata  con  qualche  studio 
e  mirava  a  criticare  la  maniera  in  generale  del  Tasso  ancor 
più  che  l'episodio  parodiato,  ce  la  porge  il  dialogo  tra  Armida  e 
Rinaldo: 

A.  Che  fai,  beli'  idol  mio  ? 

R.  Il  solito,  0  mia  stella; 

In  questa  parte  e  in  quella 

Vado  portando  il  pie. 

E  tu  che  fai,  mio  bene? 

(Se  la  domanda  è  onesta) 

A.  (accennando  al  casotto) 

Da  quella  parte  a  questa 
Ho  già  portato  il  pie. 

Nel  poema  si  ripetono  fino  alla  sazietà  —  e  quasi  sempre  per 
comodo  della  rima  —  locuzioni  come  queste:  «quella  parte  e 
«  questa  »  (V,  35;  XIX,  48);  «  in  queste  parti  e  in  quelle  »  (XIII, 
53;  XV,  12);  «  da  questa  a  quella  parte  »  (VII,  91);  «  da  quella 
«  parte  e  da  questa  »  (VII,  104);  «  in  quelle  parti  e  in  queste  » 
(V,  90);  «  queste  parti  e  quelle  »  (VI,  2);  «  in  questa  e  in  quella  » 
(IX,  71);  «o  questa  o  quelle»  (XVIII,  13);  «da  questa  indi  da 
«quella»  (XIX,  23);  «or  queste  faci  or  quelle»  (VII,  122); 
«in  questo  lato  e  in  quello»  (IX,  55);  «or  questa  strada  or 
«quella»  (XIX,  39);  «e  quel  popolo  e  questo»  (XVIII,  59); 
«  quel  modo  o  questo  »  (IX,  41). 

Cosi  lo  Scherzo  di  Conversazione  è  da  porsi  insieme  ad  un'altra 
parodia,  molto  più  breve,  in  cui  il  Manzoni  medesimo  contraffece 
le  smancerie  del  Metastasio  «  con  finezza  di  critica  »,  come  ebbe 
a  notare  Giuseppe  Guerzoni,  che  la  illustrò  con  parecchie  cita- 
zioni da  quel  poeta  (1). 

Paolo  Bellezza. 


(1)  /  Metastasiani^  in  Roma-Reggio,  numero  speciale  del  Corriere  dei 
Comuni^  ecc.,  1880. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


GIOVANNI  MARI.  —  Ritmo  latino  e  terminologia  ritmica  me- 
dievale. Appunti  per  servire  allo  storia  della  poetica  nostra. 
Estr.  dagli  Studi  di  filologìa  romanza.  —  Torino,  E.  Loesclier, 
1899  (8°,  pp.  58). 

Lo  STESSO.  —  /  trattati  m£dievali  di  ritmica  latina.  Estr.  dalle 
Me7n.  del  R,  Istituto  lombardo.  —  Milano,  U.  Hoepli,  1899 
(8«  gr.,  pp.  124). 

Lo  STESSO.  —  La  sestina  d'Arnoldo.  La  terzino,  di  Dante.  Estr.  dai 
Rendiconti  del  R.  Istituto  lom,hardo,  —  Milano,  U.  Hoepli, 
1899  (8«,  pp.  33). 

Queste  tre  monografie,  strettamente  congiunte  fra  loro  (in  ispecie  le  prime 
due),  per  la  novità  del  soggetto,  per  la  copia  della  dottrina,  per  la  bontà 
del  metodo  fanno  onore  e  a  chi  le  ha  scritte  e  a  chi  le  ha  ispirate.  Il  dottor 
Mari  è  alunno  del  principe  de'  nostri  studiosi  della  poesia  latina  medievale , 
Francesco  Novati  ;  e  ben  se  ne  avvede  chi  prenda  a  esaminare  i  lavori  di 
cui  dobbiamo  ora  esporre,  in  breve,  la  contenenza. 

I.  Nel  primo  l'autore  studia  accuratamente  «  il  ritmo  latino  e  la  ter- 
«  minologia  ritmica  medievale  ».  Dopo  un  accenno  all'originario  significato 
della  parola  rithmus^  desunto  dalla  nota  memoria  del  Ramorino  sulla  pro- 
nuncia popolare  dei  versi  quantitativi  nei  bassi  tempi,  egli  entra  senz'altro  in 
materia:  ricorda  i  magistri  rhythmici  vel  musici,  di  cui  parla  Terenziano  (1): 


(1)  Non  sarebbe  stato  inutile  cercar  di  determinare  esattamente  il  signi- 
ficato di  questa  espressione.  Il  passo  è  nel  paragrafo  De  arsi  et  thesi: 

Latius  tractant  magistri  rhythmici  rei   musici; 
no8  viam  metri  studemus  parte  ab  aliqua  pandore. 

L'autore,  a  mio  avviso,  vuol  dire,  ch'egli  si  accinge  solo  a  dare  un  avvia- 
mento allo  studio  de  metris  idest  de  numeris^  di  cui  più  ampiamente  trat* 
tano  quelli  che  insegnano  l'arte  ritmica  e  l'arte  musicale  (ch'è  quanto  dire 
l'arte  della  parola  armonizzata  e  l'arte  dell'arnonia  per  sé  atessa).  Ma  vedi 
la  spiegazione  data  dall'antico  commentatore  (Terkntiani  Mauri,  Niliacae 
Syenes  praesidis,  De  literis,  syllabis^  pedibus  et  metris  ecc.  Nicolao  Bris- 
saeo  Montivillario  commentatore  et  emendatore^  Parigi^  Simone  Colines, 
1531,  ce.  61  6-62  a). 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  129 

tocca  del  numerus  cercato  anche  nella  prosa  ciceroniana  ;  distingue  nell'età 
che  tenne  dietro  a  quella  delle  grandi  Artes  grammaticali  due  «  correnti  », 
cioè  la  tradizione  musicale,  che  usava  ritmo  nel  senso  greco  della 
parola,  a  significare  una  frase  melodica,  e  la  tradizione  grammaticale, 
che  prendeva  quel  termine  nel  significato,  più  ristretto  e  più  recente,  di 
rima  o  consonanza;  dà  esempi  dei  bizzarri  artifizi  usati  nella  poesia  latina 
medievale  come  mezzo  di  melodia.  Alle  due  «correnti»  ora  mentovate  cor- 
rispondono due  differenti  generi  di  Artes.  «  Alcune  —  scrive  il  Mari  — 
«  essenzialmente  dotte,  trattarono  dell'esametro  o  del  distico  rimato;  per 
«  brevità  le  chiameremo  Artes  exametri  :  altre  segnano  un  passo  in  avanti 
«  verso  qualche  cosa  di  più  lontano  dalla  classicità,  e  diedero  le  leggi  del 
«  verso  veramente  ritmico;  sono  quelle  che  vediamo  intitolarsi  Artes  rithmici 
«  0  rithimici  dictaminis ,  o  più  brevemente  Artes  rithmicae  »  (pp.  12-13). 
Per  le  prime  l'A.  rimanda  all'elenco  che  ne  diede  W.  Meyer,  nei  Rendi- 
conti dell'Accademia  di  Monaco  del  1873,  aggiungendovi  la  ben  nota  di 
Matteo  di  Vendòme,  le  due  pubblicate  dal  Huemer  e  dal  Fierville  ed  un 
De  versibus  faciendìs,  inedito  alla  Marciana,  su  cui  dà  in  nota  qualche 
ragguaglio;  per  le  seconde  si  richiama  ai  Trattati  medievali  di  ritmica 
latina  da  lui  stesso  pubblicati,  dei  quali  parliamo  più  sotto. 

Molto  importante  pei  nostri  studi  è  la  particolareggiata  rassegna  che  il 
Mari,  ciò  premesso,  fa  dei  termini  che  le  Artes  exametri  e  le  Artes  rithmicae 
hanno  in  comune,  nonché  di  quelli  che  mostrano  d' avere  un  addentellato 
con  la  terminologia  volgare.  Rithmus  per  le  A.  E.  equivale  a  ciò  che  noi 
diciamo  «  rima  »,  per  le  A.  R.  corrisponde  al  «verso»  o  all'intera  frase 
ritmica  (la  rima  in  queste  ultime  è  detta  consonantia)  ;  versus  nel  medio  evo, 
«  se  generalmente  denotò  il  verso  lungo  quantitativo,  potè  significare  anche 
«un  seguito  di  versetti  a  costituire  ciò  che  noi  diremmo  la  strofa»; 
d'altra  parte,  rithmus  per  le  A.  R.  indicò  tanto  ogni  singola  divisione  della 
frase  ritmica,  quanto  l'intera  frase.  In  quest'ultimo  senso  «  fu  dalle  A.  R. 
«  più  solitamente  detto  clausida  (e  nelle  «  arti  »  volgari  copula);  nell'altro, 
«  ad  esprimere  cioè  ciascuna  divisione  in  cui  fu  rotta  l'intera  frase,  furono 
«  più  solitamente  usate  le  voci  distinctio,  membrum,  linea,  pes  »  (p.  19). 
Già  l'esametro  classico,  per  effetto  della  cesura,  relativamente  presto  venne 
riguardato  come  composto  di  due  parti  (cola).  Notevole  è  l'uso  che  Giovanni 
di  Garlandia  fa  dei  termini  iambus  e  spondeus  in  un  significato  al  tutto 
nuovo  e  convenzionale;  uso  ch'è  indizio  del  decadimento  del  senso  metrico 
e  del  graduale  rafforzarsi  di  un  senso  ritmico  popolare  e  comune.  «  Spon- 
«  daica  »  è  per  lui  da  riguardarsi,  senza  badare  alla  quantità,  la  parola 
piana;  giambica  l'ossitona.  Secondo  questo  trattatista,  essendo  a  una  frase 
spondaica  e  b  una  giambica,  saranno  simplices  i  ritmi  aa^  aaa^  aaaa....; 
bb,  bbb,  bbbb:  saran  compositi  i  ritmi  ab,  aab,  ba  ecc.  Nei  compositi  la 
parte  eterogenea,  rappresentata  da  b,  per  cui  vien  distrutta  la  simplicitas, 
è  detta  differentia  ovvero  cauda;  e  quest'ultima  denominazione  vediamo 
adoperata  nelle  varie  Artes  con  significato  un  po'  diverso.  Le  A.  E.  con 
cauda  alludono  alla  finale  (una  o  due  sillabe)  dell'esametro  o  del  penta- 
metro; le  A.  R.  del  secondo  dei  due  tipi  in  esse  distinti  dal  Mari  chiamano 
cauda  la  parte   eterogenea   del   ritmo   composto;    per   \e  A.  R.  del  primo 

Giornale  ttorico,  XXXVIII,  fase.  112-113.  9 


130  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

tipo  è  cauda  la  parte  additizia,  accidentale,  d*un   ritmo   già   per  sé  stesso 
perfetto. 

Ognun  vede  quanto  questa  terminologia  dotta  delle  Artes  sia  importante 
anche  per  lo  studio  dell'  antica  metrica  volgare.  Ma  è  un'  indagine  di  na- 
tura sommamente  delicata  quella  degli  elementi  derivati  nella  poetica  dei 
clerici  dall'arte  di  popolo!  Il  Mari  spiega  il  modo  come  b  nel  ritmo  com- 
posito ab  può  esser  divenuto  un  membro  additizio,  quasi  accidentale,  richia- 
mandosi all'uso  popolare  *di  annettere  parti  amorfe  alle  parti  vive  d'un 
€  canto  »,  cioè  all'uso  del  ritornello.  Ma  è  pura  ipotesi  e,  a  mio  avviso,  non 
necessaria.  Ben  poterono  i  trattatisti  anche  al  tutto  indipendentemente  dai 
canti  del  volgo  usar  cauda  in  codesto  significato  di  parte  accodata  a  un 
ritmo  per  sé  compiuto  (1);  d'altra  parte,  che,  dato  un  ritmo  qualsiasi,  sia 
stato  «  costante  uso  popolare  »  d'aggiungervi  una  parte  estranea,  un  refrain, 
io  non  direi.  Convien  distinguere  le  poesie  popolari  destinate  al  canto  d'un 
solo  dalle  destinate  al  canto  di  uno  framezzato  da  quello  di  molti  e  per 
lo  più  accompagnato  dalla  danza,  nelle  quali  sole  il  ritornello  appare  costan- 
temente. Le  prime,  attesa  la  consueta  geminatio  della  frase  iniziale  (2), 
offrono  musicalmente  uno  schema  «  aa -f  coda  »,  a  cui  corrisponde  uno 
schema  strofico  «  I  piede,  li  piede,  coda  (dottamente  simia)  »,  ch'è  di  gran 
lunga  il  più  diffuso  nella  canzone  presso  i  poeti  della  cosi  detta  scuola  sici- 
liana (3):  le  seconde  per  lo  più  hanno  il  medesimo  schema  musicale  ed  uno 
schema  strofico  che  nel  fatto  sostanzialmente  è  pure  il  medesimo,  benché 
i  trattatisti  1'  abbiano  significato  con  denominazioni  diverse  («  I  mutazione, 
«  II  mutazione,  volta  »)  (4),  più  il  ritornello;  e  questo  non  è  già  qualche  cosa 
che  si  aggiunga  alla  strofa  quasi  per  compimento  di  essa,  bensì  qualche 
cosa  che,  modellandosi  e  per  la  musica  e  per  la  struttura  metrica  sulla  coda 
(la  quale  perciò  appunto  chiamasi  «  volta  »,  quasi  rivolgimento  o  rappicco),  ha 
una  sua  propria  e  speciale  funzione. 


(1)  Per  esempio,  nella  forma  AAAx,  propria  della  saffica,  che,  per 
l'importanza  data  alla  cesura  e  per  «  la  diversità  accentuativa  e  sillabica  » 
dei  due  cola,  può  anche  rappresentarsi  graficamente  ab  ab  ab  x,  la  coda,  cioè 
X,  è  appiccata  a  un  ritmo  composito  per  sé  stesso  perfetto. 

(2)  Gfr.  Galino,  Musique  et  versification  franq.  au  M.  A.,  Lipsia,  1891  : 
Restori,  Musica  allegra  in  Francia  nei  secoli  XII  e  XIII,  Parma,  1893. 

(3)  Gfr.  Lisio,  Studio  su  la  forma  metrica  d.  canz.  ital.  nel  sec.  XIII, 
Imola,  1896,  pp.  4  sgg.  La  denominazione  piedi  dei  trattatisti  di  metrica  vol- 
gare, usata  a  significare  parti  della  strofa,  o  cobln,  o  copia,  o  couple  (la- 
tino copula),  ha  riscontro  —  come  bene  osserva  il  Mari  (pp.  21-3)  —  in 
Marciano  Gapella  e  negli  scrittori  di  ars  musica.  Copula  era  l'unione  di  due 
pedes.  Invece  la  strofa  della  nostra  canzone  comprende  due  piedi  e  la  coda. 

(4)  Gom'ebbi  ad  osservare  altra  volta  (Rassegna  bibliogr.  d.  leti.  ital.. 
IV  [1896],  170),  nelle  stanze  di  ballata  lo  schema  originario,  popolaris- 
simo e  avente  tutta  la  musicale  e  ritmica  semplicità  primitiva,  è  AAA 
(ovvero  ab  ab  ab)  -\-  volta  ;  ma  ben  presto  vi  si  accompagnò  lo  schema  ab  ab 
-\-  volta,  dovuto  a  quella  geminazione  della  prima  trase  musicale  che  nel 
canto  lirico  antichissimo  de'  volghi  incontriamo  anche  là  dove,  come  nelle 
poesie  profane  di  cui  ci  ha  conservato  la  notazione  il  mistero  di  S.  Agnese 
e  in  più  laudi  del  dugento,  la  rima  parrebbe  invece  suggerire  la  tripli- 
cazione. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  131 

Gonvien  tenere,  parmi,  ben  distinto  quel  che  c'insegnano  le  Arti  da  quello 
che  i  documenti  a  noi  pervenuti  dell'antica  poesia  semipopolare  negl'idiomi 
neolatini  ci  danno  modo  di  congetturare,  con  probabilità  di  coglier  nel  segno, 
intorno  all'origine  e  allo  svolgimento  delle  forme  strofiche  che  troviamo 
effettivamente  usate  in  tali  idiomi.  La  precettistica  è  cosa  artificiosa  e  su- 
bordinata al  capriccio  dei  singoli  trattatisti  ;  che  i  componimenti  poetici  di 
questo  0  quel  genere  s'abbiano  a  costruire  in  questo  o  quel  modo,  secondo 
questo  o  quell'autore  di  ars  rilhmica,  non  implica  punto  che  proprio  a  quel 
modo  siano  stati  di  fatto  costruiti  dai  poeti  di  popolo  o  al  popolo  graditi. 
Forse  questa  distinzione  non  è  dal  Mari  avuta  presente  di  continuo  ne'  suoi 
pur  SI  accurati  lavori  di  metrica.  Ciò  ch'egli  dice  intorno  all'origine  della 
rime  couée  (pp.  33-4)  a  me  sembra  giusto:  perché  ho  sempre  reputato  assai 
verosimile  l'opinione  dello  Jeanroy,  il  quale  fa  derivare  codesta  forma  strofica 
dal  verso  lungo  di  quindici  sillabe,  tripartito  da  una  duplice  cesura:  trattasi 
del  popolarissimo  tetrametro  trocaico^  e  qui  le  Artes  non  entrano  per 
nulla!  Ma  totalmente  dissento  dal  Mari  là  dov'egli  congettura  che  la  partitio, 
cioè  «  quella  proprietà  per  cui  la  frase  può  ritmicamente  suddividersi  », 
provenga  dal  gran  fondo  popolare,  e  afferma  che  dal  popolo  furono  gene- 
ralmente preferiti  «  i  versi  più  brevi,  meglio  adatti  alla  musica  e  pronti, 
«  sotto  altri  influssi  e  dietro  altre  spinte,  a  ricomporsi  di  nuovo  con  varietà 
«  e  successione  infinita  »  (p.  34;.  Come  presso  i  Romani  il  tetrametro  tro- 
caico, usato  e  dai  fanciulli  quando  si  rincorrevano  o  giocavano  alla  palla  e 
dai  soldati  quando  seguivano  schiamazzando  il  carro  del  trionfo,  cosi  presso 
le  popolazioni  neolatine  nell'età  di  mezzo  il  verso  più  o  meno  lungo  che  ne 
assunse  le  veci  fu  il  capostipite  della  versificazione  veramente  popolare. 
Al  verso  lungo  corrispondeva  tutta  una  frase  musicale;  semplicissimi  l'uno 
■e  l'altra,  ancorché,  com'è  naturale,  e  quello  avesse  già  in  origine  la  sua 
forte  cesura  e  questa  già  allora  il  ritmo  ascendente  e  la  «  risoluzione  ».  Che 
già  tra  il  popolo  si  sia  passati  ad  alcunché  di  più  complesso,  non  è  certo 
da  escludere;  ma  l'arricchirsi  della  parte  musicale  e  il  conseguente  frazio- 
narsi della  poetica  sono,  a  mio  avviso,  tutt'  altro  che  l'effetto  d'una  ten- 
denza popolare;  rivelano  anzi  l'intervento  dell'arte,  quando  non  delle  Arti 
addirittura  (1). 


(i)  11  Mari  riporta  a  p.  35  quest'esempio  di   versus  collaterales  secondo 
le  A.  E.: 

In  commune  precnm  |  domus  communia  vota 
nos  velit  ut  secum  |  samroa  pia  gratia  tota. 

Ciò  spiega,  parmi,  ottimamente,  per  che  modo  anche  negl'idiomi  volgari 
una  coppia  di  versi  A^^  A^j^  potè  trasmutarsi,  in  mani  meno  indotte,  nella 
strofa  tetrasticà  a^h^  ci^b^-  L'esempio  seguente,  a^h^c^j  a^br^c^  (tratto  dall'Ars 
di  maestro  Tibino),  in  cui  il  Mari  riguarda  e-  come  una  cauda  intrusa  nei 
versus  collaterales^  non  può  esser  foggiato  senz'  altro  sul  tipo  della  rime 
couéel  Certo,  una  forma  strofica  di  tal  genere  negl'  idiomi  volgari  ci  ri- 
chiama, quanto  alla  sua  origine,  alla  solita  coppia  monorima  di  versi  lunghi. 
Il  Mari  stesso  riferisce  con  altro  intento  una  coppia  cosi  costruita: 

Serpens  diras  |  trìstabatur  ||  quoniam  corruerat, 

sparsit  Tìras  |  quo  fedatar  ||    homo  qui  splenduerat  (p.  34). 


132  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

Su  terreno  più  solido  mettiamo  il  piede  colla  terza  parte  dello  scritto  del 
Mari  intorno  al  ritmo  latino,  la  quale  contiene  le  osservazioni  a  cui  dà  luogo 
la  terminologia  delle  Artes  messa  a  riscontro  con  quella  delle  «  poetrie  » 
volgari.  Prima  di  tutto,  qual  significato  si  détte  nel  territorio  neolatino  alla 
parola  rithmusì  II  M.  cita  in  proposito  Dante,  il  Da  Tempo,  il  Da  Barbe- 
rino, il  Trissino,  Gaspare  Visconti  ed  anche,  ma  indirettamente,  il  Sibilet  e 
il  Du  Bellay.  La  ricerca  vorrebb'essere  allargata  e  approfondita.  Anche 
l'Equicola,  Pierre  Fabri,  il  Pasquier  parlano  del  ritmo:  e  il  trattatista  d'AI- 
vito  mostra  d'identificarlo  coll'ugual  consonanza  delle  sillabe  finali  (1)  ;  il 
Fabri,  che  nel  titolo  del  suo  trattato  lo  contrappone  alla  prosa  (2),  e  pel 
quale  il  ritmo  stesso  è  <  une  congrue  consonancc  de  lettres,  sillabes  en 
€  orthographie  et  prononciation  en  fin  de  deux  lignes  ou  plusieurs  »,  in  altro 
passo  dell'Ara  de  pleine  rhetorique  prende  invece  tale  vocabolo  nel  senso 
di  «  vers  »,  «  strophe  »,  «  poesie  »  («  rithme  n'est  aulire  chose  que  langaige 
€  mesuré  par  longueur  de  syllabes  en  conveniente  termination,  proporcio- 
<  nallement  accentuò  >)  (3);  il  Pasquier,  infine,  dopo  aver  citato  Quintiliano 
e  Aulo  Gellio,  soggiunge  che  da  certe  chiuse  dette  ritmi,  che  gli  oratori 
antichi  «  s^avoient  mesnager  dans  leurs  plaidoyez  »  per  contentar  gli  orecchi 
degli  ascoltanti,  benché  esse  non  fossero  omioteleute,  derivò  il  nuovo  modo 
di  verseggiare  usato  da'  suoi  connazionali  (4). 


(1)  « Questo,  se  non  m'inganno,  diede  origine  al  volger  dire  in  ritmi, 

€  che  al  presente  con  corrotto  vocabolo  si  dice  in  rima  »  (Mario  Equicola, 
Di  natura  d'amore,  Venezia,  1607,  e.  6  a). 

(2)  «  Tant  en  prose  comme  en  rithme  »,  egli  vi  scrive  {Le  grand  et 
vray  art  de  pleine  Rhetorique,  ecc.,  par  Maistre  Piere  Fabri,  Rouen, 
Gruel,  1521,  e.  1);  frase  che  corrisponde  esattamente  all'altra  «  tant  en 
«prose  qu'en  rhime»,  usata  dall'autore  in  sèguito,  nel  dichiarare  l'in- 
tento del  suo  libro.  «  L'art  de  rithmer  est  pour  aulcun  cas  plus  plaisant 
«  que  la  prose  »,  leggesi  inoltre  in  questo  trattato. 

(3)  Gfr.  H.  Zschalig,  Die  Verslehren  von  Fabri,  Du  Pont  und  Sibilet^ 
Lipsia,  Bar  e  Hermann,  1884,  pp.  24  e  30. 

(4)  «  Ils  n'entendoient  que  la  fin  des  clauses  fut  subiecte  de  tomber  en 
«  paroles  de  mesme  terminaison,  qui  est  toutefois  ce  que  nous  appel- 

«lons  aujourd'huy  rithmes  en  nostre  langue De  ces  clauses 

€  nous  empruntasmes  nos  vers,  qui  se  soustiennent,  si  ainsi  voulez  que  je 
€  le  die,  sans  pieds  »  (E.  Pasquier,  Recherchcs  de  la  France,  Parigi,  Son- 
nius,  1617,  p.  713).  Nella  Deffence  et  illustration  de  la  langue  fran<;oyse 
di  J.  DU  Bellay,  cap.  Vili,  si  legge:  «  Tout  ce  qui  tombe  soubz  quelque 
«  mesure  et  jugement  de  l'oreille,  dit  Ciceron,  en  latin  s'appelle  numeruSy 
«  en  grec  ^u9|ió^,  non  point  seulement  au  vers,  mais  à  l'oraison;  parquoy 
«  improprement  notz  anciens  ont  astrainct  le  nom  du  genre  soubz  l'espece, 
€  appellant  rythme  ceto  consonance  de  syllabes  à  la  fin  des  vers,  qui  se 
€  devroit  plus  tost  nommer  ÓMOioréXeuTov,'  c'est  à  dire  finissant  de  mesmes» 
«  Tune  des  especes  du  rythme.  Ainsi  les  vers,  encores  qu'ilz  ne  finissent 
<  point  en  un  mesme  son,  generalement  se  peuvent  apeller  rythme,  d'autant 
«que  la  signification  do  ce  mot  /i)u9)nó<;  est  fort  ampie,  et  emporte  beàucoup 
«  a  autres  termes,  comme  Kovibv,  (iéxpov,  luéXoc;  euqpuivov,  dKoXou9ia,  rdEic;, 
«  aÙYKpion,  reigle,  mesure,  melodieuso  consonance  de  voix,  consequulion. 
«  Old  re  et  comparaison  >  (Parigi,  Crozet,  181^,  pp.  118-19),  Inesatta  è  pei 
tanto  l'affermazione  del  Mari,  che  €  rythme  ancora  in  Joachim  du  Bella} 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  133 

Seguono  alcune  osservazioni  intorno  ai  termini  dell'intero  componimento 
nella  poetica  volgare,  che  mi  paiono  molto  assennate  (1);  indi  il  Mari  passa 
alla  terminologia  della  «  stanza  ».  Nella  triplicità  di  essa,  elemento  essen- 
ziale di  regolarità  e  legittimità  secondo  Dante,  egli  ravvisa  un  sicuro  indizio 
del  carattere  non  popolare  della  canzone.  In  questo  non  saprei  consentire 
con  lui:  poiché,  a  mio  avviso,  la  canzone  non  è,  quanto  alla  struttura  metrica, 
che  una  ballata  sine  responsorio  (2);  e  già  ho  accennato  più  sopra  alle  ra- 
gioni musicali  per  cui  la  stanza  (d'indubbia  origine  popolaresca)  della 
«  ballata  »  e  della  «  canzone  »  si  cristallizzò  —  se  cosi  è  lecito  esprimersi 
—  nello  schema  costante  «  I  piede,  II  piede,  coda  »  (3).  Per  me  la  stanza 
è  proprio  queir«  immagine  compendiosa  della  canzone,  della  ballata  e  del 
«  sonetto  »  che  per  un  istante  si  è  offerta  alla  mente  del  Mari  (p.  44).  Alla 
originaria  «unità  metrica  »  del  verso  variamente  partito,  nella  poesia  popo- 
laresca medievale  si  venne  sostituendo,  per  V  intimo  svolgimento  organico 
del  verso  stesso  (4),  la  «unità  ritmica»  della  stanza,  atta  così  a  star  da 
sé  ad  quandam  odani  recipiendam  armonizata  (5),  come  a  formare  una 
aequalhim  stantiarum  coniugatio  (6).  Bene  osserva  il  Mari,  che  non  tutti 
credono  essere  oramai  le  origini  del  sonetto  «  definitivamente  stabilite  » 
(p.  42,  n.  2).  Com'è  noto,  l'opinione  più  diffusa  è  ch'esso  sia  sorto  dall'unione 
di  due  strambotti  alla  siciliana  o,  per  esser  più  esatti,  di  un'ottava  e  di 
una  sestina  a  rime  tutte  alterne.  A  me  tal  formazione  è  sempre  sembrata 
nella  sua  artificiosità  poco  naturale.  Poiché  gli  strambotti  non  sono  che 
stanze  d'otto  versi  ;  stanze  di  canzone  popolare  non  destinata  alla 
danza  (7).  A  immaginare  un'  unione  di  due  di  siffatte  stanze,  disuguali  (8), 


«  sia  nel  senso  di  consonanza  ">  (p.  39).  —  In  un  noto  codice  sanudiano  della 
Marciana  di  Venezia  (lat.  Xll.  210,  e.  4  fe;  cfr.  Gian,  in  questo  Giorn.y  31, 
7S-S0)  trovo  premessa  a  due  ottave  improvvisate  in  Roma,  sul  cader  del 
Quattrocento,  dal  famoso  Brandolini  la  didascalia  seguente:  «  Gecinerat  la- 
«  tinos  versus:  iussusque  Petro  Diedo  equiti  legato  rithmos  canere,  in 
«  hunc  modum  Lyppus  exorsus  est  ». 

(1)  Non  intenlo  bene,  peraltro,  che  cosa  il  Mari  abbia  voluto  dire- scri- 
vendo che  «  il  popolo  a  forme  non  più  popolari  conservò  i  nomi  di  so- 
«  netto,  ballata,  canzone,  ecc.  »  (p.  40).  11  popolo?  Se  codeste  forme  non 
eran  più  popolari,  spetterà  ai  poeti  d'arte  il  merito  d'aver  conservato  tali 
denominazioni  allusive  all'indole  musicale  delle  forme  stesse. 

(2)  De  vulg.  eloq.,  II,  Vili,  7.  Gfr.  Mari,  pp.  43-4. 

(3)  Del  valore  di  queste  denominazioni,  corrispondenti  alle  altre  di  muta- 
zioni  e  volta,  tratta  egregiamente  lo  stesso  Mari,  pp.  21-3  e  44-6. 

(4)  Quel  che  il  Mari  con  molta  dottrina  vien  ragionando  in  questa  mono- 
grafia intorno  ai  piedi  e  alla  coda,  prima  come  elementi  del  verso  lungo, 
poi  come  elementi  della  strofa,  vale  a  darci  un'idea  della  stretta  affinità  che 
intercede,  per  esempio,  fra  il  verso  tripartito  caudato  e  la  stanza  di  tipo 
aa  -4-  coda,  data  la  iteratio  modulationis,  per  dirla  con  Dante  {De  vulg.  eloq., 
Il,  X,  2),  cioè  la  geminatio  sopra  detta. 

(5)  De  vulg.  eloq.,  II,  X,  2. 

(6)  Ivi,  11,  Vili,  7. 

(7)  Veggasi  quanto  ebbi  a  scrivere  in  proposito  nel  citato  articolo  della 
Rassegna  bibliografica,  p.  171.  La  voce  strambotto  (giova  ripeterlo,  per  evi- 
tare ogni  equivoco)  designa  una  qualità  di  contenenza,  non  una  struttura 
metrica;  metricamente  gli  strambotti  sono  ottave. 

(8)  Perché  due  per  l'appunto?  e,  soprattutto,  perché  disuguali? 


134  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

in  un  nuovo  componimento  subito  accolto  per  tutta  Italia  con  festa  e  quasi 
subito  trasmutatosi,  nella  struttura,  secondo  il  tipo  della  stanza  di  canzone  (1), 
pare  a  me  che  dovremmo  indurci  solo  dopo  aver  cercato  invano  una  genesi 
di  tal  componimento  più  conforme  alle  leggi  naturali  dello  svolgimento  delle 
forme  metriche.  Le  corone  di  sonetti,  segnatamente  quel  lunghissimo  FiorCy 
non  ci  ammoniscono  ad  andare  a  rilento  nel  riguardare  il  sonetto  come 
qualche  cosa  di  sostanzialmente  diverso  dalla  stantia,  atta  cosi  a  stare  a  sé, 
come  a  formare  una  coniugatioì  (2)  E  perché  non  potrebbe  il  sonetto,  de- 
stinato al  canto  al  modo  istesso  della  ballata  e  della  canzone  vera  e  propria, 
essere  una  stanza  di  canzone  al  modo  istesso  dell'ottava  (3),  solo  un  po'  meno 
semplice  di  questa  perché  un  po'  meno  popolare?  L'ottava  consta  di  tre  muta- 
zioni e  la  coda,  come  la  strofa  di  ballata  del  tipo  originariamente  più  diffuso 
e  come  le  stanze  d'alcune  canzoni  di  tipo  popolare  (4);  il  sonetto,  nella 
sua  forma  originaria,  consta  di  due  piedi  (AB  AB.  AB  AB)  e  la  coda 
(GDGDCD) ,  come  la  stanza  della  canzone  sine  responsorio  (5).  L'una  e 
l'altro  son  forme,  anche  per  la  qualità  sempre  uguale  dei  versi  e  per  la 
semplice  distribuzione  delle  rime,  di  carattere  popolare,  ma  del  sonetto  non 
conosciamo  che  esempi  dovuti  a  poeti  d'arte.  Se  non  m'inganno,  con  questo 
modo  di  vedere  si  conciliano  le  due  ipotesi  che  circa  l'origine  del  sonetto 
si  son  diviso  il  campo  fino  ad  ora  nella  critica. 

La  monografia  del  Mari  si  chiude  con  un'accurata  disamina  delle  «  varie 
«specie  di  strofe  avuto  riguardo  alla  disposizione  dei  versi  ^;  importante 
soprattutto  perché  dalle  coppie  di  versi  lunghi  latini  con  rime  interne  ci 
mostra  derivate  le  varie  forme  dei  tetrastici  volgari  (6). 


(1)  La  distinzione  della  prima  parte  in  piedi  vi  comparve,  com'  è  noto, 
prestissimo. 

(2)  Dante,  De  vulg.  eloq.,  II,  Vili,  6. 

(3)  Che  le  ottave  sian  stanze,  dappoi  che  il  nome  stesso  dato  loro  dalla 
tradizione  l'assicura,  nessuno  può  dubitare.  Eppure,  anch'esse,  come  il  so- 
netto, furono  usate  alla  spicciolata  negli  strambotti.  Accanto  allo  strambotto 
isolato,  abbiamo  le  serie  di  «stanze  per  istrambotti  »;  accanto  al  sonetto  che 
sta  a  sé,  le  corone  di  sonetti. 

(4)  Cfr.  il  cit.  mio  articolo,  pp.  168,  n.  2,  e  170,  n.  8. 

(5)  La  pausa  divisoria  dopo  il  primo  tetrastico,  coincidente,  secondo  o^ni 
verosimiglianza,  col  termine  della  frase  musicale  che  il  secondo  tetrastico 
ripeteva,  nel  sonetto  doveva  esistere  gih  in  origine.  Anche  lo  strambotto  di 
otto  versi,  da  cui  molti  credono  derivate  le  quartine  del  sonetto,  <  per  la 
«  pausa  più  forte  che  le  altre  dopo  il  secondo  piede,  viene  propriamente  a 
«  dividersi  in  due  tetrastici  »  (A.  Foresti,  Nuove  osservazioni  intorno  al- 
Vorigine  e  alle  varietà  metriche  del  sonetto^  Bergamo,  1895,  estratto  dagli 
Atti  dell'Ateneo  di  Bergamo^  p.  16).  Notisi  che  la  quartina  AB  AB,  secondo 
il  modo  d'intendere  la  voce  consonantia  de'  trattatisti  medievali  di  ritmica 
latina,  può  anche  riguardarsi  composta  come  di  due  sole  consonanze  (cfr.  Mari, 
La  sestina  d'Arnaldo  ecc.,  p.  Il  «.);  sicché  la  prima  parte  della  stanza- 
sonetto  non  si  discosta  dalla  forma  più  comune  di  essa  parte  nella  stanza 
di  canzone. 

(6)  Dai  versus  cruci fixi  o  cruciati,  per  es.: 

Hoc  breve  de  doctia  |  mediocribus  atqoe  besignis 
nt  precibns  dignis  |  ego  liberer  a  dnce  noeti», 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  135 

II.  Men  lungo  discorso  richiede  l'edizione  procurata  dal  Mari  stesso  dei 
Trattati  medievali  di  ritmica  latina.  Nella  dotta  prefazione  l'autore,  dopo 
aver  rilevato  la  necessità  di  maggiormente  conoscere  quei  trattati  e  dopo 
avere  accennato  anche  ai  loro  caratteri  generali  ed  al  luogo  ove  prima- 
mente comparvero  (la  Francia),  distingue  nelle  Arti  ritmiche  due  tipi,  l'uno 
più  semplice  e  più  antico,  l'altro  «  più  dotto  »  (1),  dà  notizie  intorno  al  La- 
borintus,  attribuito  ad  Eberardo  di  Béthune,  al  trattato  di  Giovanni  di 
Garlandia  e  aWArte  di  Niccolo  Tibino.  Seguono,  integralmente  riprodotti,  i 
testi  del  Dettame  ritmico,  del  Rifacimento  di  Maestro  Sion,  delle  Redazioni 
contenute  nel  cod.  763  della  Biblioteca  dell'Arsenale  di  Parigi,  delle  Regulae 
de  rithmis  conservate  nel  cod.  759  dell'Abbazia  d'Admont,  dell'Arce  di  Gio- 
vanni di  Garlandia,  del  libro  IV  del  Laborintus,  della  breve  Arte  contenuta 
nel  cod.  lat.  96^4  della  Biblioteca  di  Monaco,  del  trattato  di  Niccolò  Tibino; 
testi  pubblicati  secondo  i  più  moderni  criteri  filologici,  con  rigore  di  metodo, 
con  apparato  critico  largo  ed  esatto.  In  fronte  a  ciascuno  di  essi  è  data  tra 
parentesi  quadre  la  bibliografia  dei  manoscritti  che  lo  conservano  e  degli 
scritti  che  ne  trattano;  a  pie  di  pagina,  oltre  alle  varianti,  sono  le  indica- 
zioni dei  componimenti  a  cui  appartengono  molti  degli  esempi  addotti  dai 
trattatisti  e  delle  opere  in  cui  si  posson  leggere  pubblicati;  in  fondo  al  vo- 
lume, un  Indice  dei  termini  e  un  indice  dei  Testi  e  frammenti  riportati  o 
citati  rendono  doppiamente  importante  per  gli  studiosi  della  metrica  e  della 
poesia  latina  dell'età  media  questa  pubblicazione  per  ogni  rispetto  lodevole. 
Nella  quale  l'autore  dimostra,  insieme  con  un'  erudizione  larga  e  copiosa, 
attitudini  non  comuni  all'opera  del  filologo  e  diligenza  esemplare. 

III.  Ci  riconduce  nel  campo  delle  deduzioni  sagaci  e  delle  ingegnose 
ipotesi,  tra  cui  vedemmo  aggirarsi  la  prima  di  queste  tre  pubblicazioni  del 
dr.  Mari,  l'ultima,  che  s'intitola  La  «  sestina  »  d'Arnaldo,  la  «  terzina  »  di 
Dante.  Giustamente  l'autore  osserva  sul  principio,  che  a  far  conoscere  bene 
la  dottrina  onde  le  forme  romxanze  scaturirono  poco  giovano  i  trattati  di 
poetica  volgare,  «  sorti  relativamente  tardi,  a  raccogliere,  a  sancire,  spesso 
«a  proseguire,  piuttosto  che  a  motivare  l'uso  de' poeti  d'arte  »;  ma, 
anche  per  questo,  non  mi  pare  eh'  egli  sia  nel  vero  quando  afferma,  non 
potersi  l'elemento  popolare  dell'antica  poesia  romanza  altrimenti  conoscere 
che  attraverso  all'elemento  erudito,  cioè  alla  dottrina  stessa,  «  depositaria  di 
«  ogni  forma  a  noi  pervenuta  ».  Io  sonò  anzi  d'avviso,  che  a  tal  conoscenza 
si  debba  giungere  studiando  con  piena  oggettività,  ch'è  quanto  dire  al  tutto 


si  capisce  come,  pel  «  solito  spezzarsi  del  verso  lungo  »  (p.  5),  si  passò  alla 
quartina  a  rime  incrociate,  ABBA.  Dai  versus  catenati,  per  es.  : 

migrai  ad  astra  deus  I  turba  spedante  suorum, 
hunc  pius  atque  reus  |  regem  sciet  esse  proborum, 

si  capisce  come  si  potè  passare  alla  quartina  a  rime  incatenate,  AB  AB. 

(1)  Appartengono  al  secondo  VArte  di  Giovanni  di  Garlandia,  il  libro  IV 
del  Laborintus,  un  breve  testo  anonimo  che  il  Mari  pubblica  di  sur  un  ms. 
di  Monaco  e  il  trattato  di  Nicolò  da  Dybyn  o  Tibinus.  Del  primo  ci  oflre 
la  tradizione  più  genuina  il  Dettame  ritmico,  conservato  in  molti  codici  e 
inserito  pure  nell'opera  grammaticale  di  Pietro  «  de  Insulella  ». 


136  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

indipendentemente  dalle  teoriche  dei  trattatisti,  lo  svolgimento  naturale  delle 
forme  metriche  neolatine,  nei  documenti,  fino  a  noi  pervenuti,  che  siano 
d'indole  popolare  o  della  poesia  di  popolo  ci  offrano  comechcssia  un  riflesso. 

Fortunatamente,  la  sestina  e  la  terzina,  di  cui  tratta  questa  memoria,  sono 
forme  interamente  auliche  e  eulte;  onde  il  Mari  può  trarre  largo  profitto, 
nell'illustrarle,  dalla  cognizione  invidiabile  ch'egli  ha  dell'antica  <  trattati* 
«  stica  ».  Dopo  un  cenno  sul  modo  come  fu  da  altri  intesa  e  spiegata  la 
struttura  della  sestina  (1)  e  dopo  aver  ricordato  i  componimenti  di  tal  ge- 
nere pubblicati  in  questi  ultimi  anni  (2),  con  ingegnosissima  indagine  egli 
cerca  di  spiegare  «  quali  usi  o  consuetudini  l'abbian  resa  possibile  ».  Defi- 
nisce a  tal  uopo  esattamente  la  sestina  stessa  (non  senza  un'accurata  analisi 
del  «commiato»  che  le  si  suole  aggiungere);  indi  ne  determina  le  carat- 
teristiche, che  sono:  1)  un  sicuro  calcolo  circa  il  numero  delle  stanze  e  dei 
versi;  2)  la  connessione  d'una  stanza  coH'altra  ottenuta  mediante  il  trasporto 
delle  intere  parole  finali;  3)  la  legge  particolarissima  seguita  in  questo 
trasporto. 

Quanto  alla  prima,  la  sestina  si  può  per  essa  ricongiungere  a  quei  compo- 
nimenti figurati,  che  col  numero,  colla  disposizione,  colla  misura  dei 
versi  tentavano  d'imitare  la  forma  esterna  di  oggetti  ben  noti  (3).  11  Mari 
congettura,  che  l'avere  Arnaldo  Daniello  posto  a  fondamento  dell'artificio 
il  numero  sei  provenga  o  dai  piedi  dell'esametro  o,  meglio,  dall'essere  il  sei 


(1)  «  Ognun  sa  —  scrive  il  Mari  —  che  la  sestina  francese,  quale  la  foggiò 
«  il  conte  di  Gramont...  ò  più  complicata  della  nostra  in  quanto  le  parole- 
«  desinenze  sono  vere  parole-rime  su  due  consonanze  (una  mascolina, 
€  l'altra  femminina),  le  quali  si  alternano  di  stanza  in  stanza  cosi  che  l'una 
«  colleghi  i  versi  1,  3,  4,  laltra  i  versi  2,  5,  6;  essa  è  in  alessandrini  > 
(p.  3  n.).  Bisognava  non  trascurar  di  osservare,  che  fin  dal  1549  un  poeta 
della  Plèiade  a  cui  spetta  un  posto  cospicuo  nella  storia  del  petrarchismo 
d'oltralpe,  Pontus  de  Tyard  (cfr.  il  mio  articolo  Du  róle  de  P.  de  T.  dans 
le  €  pétrarquisme  »  fran^ais,  in  Rev.  de  la  Renaissance.,  organe  interna- 
tional  des  Amis  de  la  Plèiade ^  I  [1901],  43  sgg.),  aveva  usato  la  sestina 
con  artificio  assai  somigliante.  Nel  suo  canzoniere  Les  erreurs  amoureuses 
sono  due  sestine  in  versi  endecasillabi,  nelle  quali  le  parole-desinenze  rimano 
in  ciascuna  stanza  fra  loro,  pur  mentre  vi  è  osservata  la  solita  legge  quanto  al 
collegamento  delle  stanze  stesse.  L'una  ha  le  rime  disposte  nella  prima  strofa 
in  quest'ordine;  ABCBCA;  l'altra  le  ha  disposte  invece  cosi:  ABBACO 
((Euvres  poétiques  de  J.  Dorat  et  P.  de  Tyard,  ediz.  Marty-Laveaux,  Pa- 
rigi,'Lemerre,  1875,  pp.  33  e  77).  Il  De  Gramont  stesso  non  ignorava  il 
tentativo   del    Tyard;   cfr.  L.  Mai.nard,  Traile  de   versification  frangaise. 


Parigi,  Lemerre,  1884,  p.  114. 
(2)  Insieme  colle  sestme  di 


Giovanni  da  Prato  e  di  Alberto  degli  Albizzi 
eran  da  ricordare  quelle  di  Antonio  Forteguerri  edite  da  P.  Bacci  nel  can- 
zoniere di  questo  quattrocentista  e,  prima,  a  parte  col  titolo  Le  canzoni 
sestine  del  libro  lAmato\rio  di  A.  F.,  Pistoia,  1890,  per  nozze  Pasquali- 
Ghini. 

(3)  Il  Mari  cita  in  prooosito,  oltre  alla  Poetica  dello  Scaligero  e  al  noto 
scritto  di  G.  Hecq  e  L.  Paris  sulla  poetica  francese  nell'età  media  e  nel 
Rinascimento,  «  Lalanne,  Bibliothègue  de  poche,  Parigi,  Dclahays,  1857». 
Correggasi,  per  maggior  esattezza,  Lalannb,  Curiosités  littéraires/m 
Bibl.  de  poche  par  une  Società  de  gens  de  lettres-  et  d'érudits,  ecc. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  137 

il  primo  multiplo  del  tre,  numerus  sacer.  Questa  seconda  ipotesi,  la  quale 
ha  tanto  più  di  verosimiglianza,  sembra  a  me  che  possa  in  qualche  modo 
venir  suffragata  dal  fatto,  non  osservato  dal  Mari,  che  nel  secolo  decimo- 
quinto un  verseggiatore  toscano,  Antonio  da  Montalcino,  adattò  quel  mede- 
simo artificio  alla  strofa  ternaria,  intitolando  non  impropriamente  terzine 
i  componimenti  in  cui  lo  usa  (1).  Anche  il  modo  com'è  costruita  la  sestina 
doppia  attribuita  a  Dante  («  Amor,  tu  vedi  ben  che  questa  donna  »)  con- 
ferma tale  ipotesi;  poiché  il  nostro  giovine  critico  sagacemente  dimostra, 
che  in  ciascuna  stanza  i  versi  vi  si  aggruppano  a  tre  a  tre  (2). 

Per  la  seconda  e  la  terza  «  caratteristica  »  della  sestina,  è  da  tener  pre- 
sente, che  «  il  trasportare  una  parola  o  una  parte  di  parola  da  una  linea 
«  0  da  una  e  1  a  u  s  u  1  a  nell'altra  fu  ornatus  graditissimo  tanto  alla  prosa 
«  quanto  alla  poesia  d'artificio  ».  Veramente,  gli  esempi  addotti  qui  dal 
Mari  si  riferiscono  a  trasporti  cosi  fatti  d'uno  in  altro  verso,  o  da  una  parte 
della  stanza  alla  parte  successiva,  non  già  dall'una  stanza  all'altra;  ma,  per 
quel  che  più  sopra  ho  accennato  intorno  alla  probabile  derivazione  di  molte 
delle  forme  strofiche  neolatine  dal  verso  lungo  variamente  partito,  consento 
con  lui  nel  dare  importanza  a  codesti  precedenti  dell'artificio  primamente 
usato  da  Arnaldo  Daniello.  Esso  artificio  consiste  in  una  retrogradatio  cru- 
ciata, che,  meglio  che  da  ogni  altra  rappresentazione  grafica,  parmi  appaia 
ben  chiara  dalla  seguente  disposizione  dei  versi  della  prima  stanza  (fondata 
sul  principio  che  la  strofa  senaria  ci  richiama  ad  un  originario  terzetto  di 
versi  lunghi  con  cesura  al  mezzo)  : 


La  seconda  stanza  ha  infatti  lo  schema  FAEBDC. 


(1)  Son  pubblicati  nel  mio  scritto  Ballate  e  terzine  di  Ant.  da  Montal- 
cino ecc.,  estr.  dal  voi.  Miscellanea  Nuziale  Rossi-Teiss,  Bergamo,  1897, 
pp.  11-12.  Eccone,  per  saggio,  la  prima: 

Quando  quella  liza'Jra  mia  madonna 

con  un  soave  portamento  altero  ♦» 

benignamente  volge  i  suo'  begli  ochi, 
io,  che  non  vidi  mai  si  lucenti  ochi, 

dicendo  «  e'  non  fu  mai  simil  madonna  » 

rimango  vinto  da  quel  viso  altero. 
E  benedico  el  mio  pensier  altero, 

che  dipinse  nel  cor  que'  duo  begli  ochi 

che  mi  fan  servo  della  mia  madonna. 
Luce  madonna  —  gli  ochi  —  el  viso  altero. 

Come  nella  sestina  le  stanze  sono  sei,  quanti   i  versi  di  ciascuna,  cosi  in 

queste  terzine  son  tre.  Il  modo  di  collegar  le  strofe  e  di  costruire  il  com- 
miato è  il  medesimo. 

(2)  Identica  disposizione  hanno  le  parole-desinenze  nelle  due  sestine 


138  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

Dopo  aver  parlato  della  sestina,  il  Mari  viene  a  dire  brevemente  della 
terzina  usata  da  Dante  nella  Commedia.  A  lui  sembra  ipotesi  molto  ragio- 
nevole, che  per  questo  poema  l'Ali^'hieri  abbia  preso  dal  popolo  «  non  solo 
«  la  lingua,  ma,  in  certo  qual  modo,  anche  il  canto  ».  Per  conto  mio,  circa 
la  popolarità  della  Commedia  credo  sia  necessario  intendersi  bene.  Che 
Dante  abbia  voluto  proprio  significare,  col  titolo  dato  alla  sua  grande  opera, 
ch'egli  intendeva  di  tessere  un  «  canto  villano»  («da  comos  cioè  villa  e 
oda  che  è  canto»),  anche  ammettendo  Tautenticità  d'una  epistola  famosa, 
non  vorrà  certo  ammettere  nessuno.  Egli  ha  scritto  nell'idioma  niaterno 
perché  tutti  dovevano  poter  intendere  un'opera  in  cui  si  proponeva  di  redimere 
il  genere  umano  dall'etico  e  politico  pervertimento;  ma  quell'idioma' ha  usato 
senza  restrizioni  od  esclusioni,  nella  sua  maravigliosa  ricchezza,  dalle  frasi 
da  trivio,  necessarie  alla  rappresentazione  del  «  basso  inferno  »,  alle  espressioni 
più  nobili  e  più  elette,  necessarie  alla  rappresentazione  del  «  ciel  della  divina 
«  pace  ».  E  quel  che  diciamo  della  lingua  è  da  intendere  anche  per  l'arte. 
Che  la  terzina  dantesca  provenga  da  ritornelli  popolari,  s'ingegnò  di  dimo- 
strare, come  ognun  sa,  lo  Schuchardt;  ma....  credat  judaeus  Apella\  Ben 
più  opportunamente  si  è  pensato  al  serventese  della  forma  A  A  Ab  BBBc 
ce  Cd  ecc.;  e,  in  verità,  se  a  qualche  forma  metrica  preesistente  dobbiam 
credere  pensasse  l'Alighieri  nell'inventare  la  terza  rima,  parmi  sia  cotesta 
specie  di  serventese.  Lasciando  stare,  infatti,  che  con  certezza  sappiamo  aver 
egli  scritto  uno  di  tali  componimenti  (e,  sembra,  proprio  dello  schema  di 
che  si  tratta),  lasciando  stare  che  una  costante  tradizione  dal  Trecento  in 
poi  ha  sempre  raccostato  fra  loro  quelle  due  forme  poetiche,  il  serventese 
offriva  a  Dante  tutti  e  due  gli  elementi  essenziali  del  metro  ch'egli  adottò 
pel  poema  sacro  :  il  triplice  ricorso  della  rima,  fin  dal  più  alto  medioevo 
ovvio  e  consueto  nell'in  nodi  a,  e  il  collegamento  delle  stanze  mediante  la 
rima,  ch'era  il  solo  ch'egli  potesse  usare  per  un'opera  di  lunga  lena,  ove 
il  rappicco  di  parola  sarebbe  stato  al  tutto  insopportabile  (1).  In  componi- 
menti di  ragguardevole  estensione  cotesto  metro  già  era  stato  usato  oltralpe, 
e  seguitava  ad  esserlo  (2);  il  Mari  stesso  ne  cita  un  esempio  per  la  ritmica 


doppie  del  trecentista  Gino  Rinuccini,  dal  Mari  non  ricordate.  Costruite  ma- 
nifestamente sul  modello  della  dantesca,  constano  esse  pure  di  cinque  stanze 
e  di  sole  cinque  parole-desinenze;  soltanto,  mentre  in  quella  il  commiato  è 
di  sei  versi,  nelle  rinucciniane  è  di  cinque,  quante  appunto  sono  tali  parole 
{Rime  di  M.  Cino  Rinuccini^  fiorentino  [pubbl.  da  S.  BongiJ,  Lucca,  Cano- 
vetti,  1858,  pp.  11  e  22). 

(1)  Il  Man  (p.  24)  sembra  ignorare,  che  del  collegamento  delle  stanze  per 
mezzo  della  ripetizione,  in  principio  di  ciascuna,  delle  ultime  parole  della 
precedente  si  hanno  esempi  non  rari,  soprattutto  nelle  Intfdi  e  nelle  decime 
rime.  Cfr.  il  più  volte  citato  mio  articolo  in  Ross,  bibliogr.^  p.  169. 

(2)  Veggasi  quanto  ebbi  a  scrivere  in  proposito  altra  volta,  negli  Studi 
di  storia  letter.  italiana  e  straniera,  Livorno,  Giusti,  1895,  pp.  152-53.  An- 
cora nel  secolo  XV  lo  usava  il  Meschinot  per  un  lungo  tratto  delle  sue 
Lunettes  des  prtnces  (ediz.  0.  de  Gourcuff,  Parigi,  Libr.  des  Bibliophiles,  1890, 
pp.  122-41). 


RASSEGNA.  BIBLIOGRAFICA  139 

latina  (1);  nella  poesia  religiosa  dugentistica  dell'Umbria  e  della  Toscana 
non  mancano  esempi  d'una  forma  strofica  strettamente  affine:  AAAb  CCCb 
DB  Db  (2).  Per  tutte  queste  ragioni,  io  son  d'avviso  che  non  sia  punto 
necessario  ricorrere,  come  fa  il  Mari  nella  chiusa  della  sua  memoria, 
alla  sestina^  per  ispiegare  pienamente  l'artificio  della  terza  rima  dantesca. 
Pel  suo  poema  in  tre  cantiche,  di  trentatré  canti  (oltre  all'esordio)  ciascuna, 
inteso  a  descrivere  la  grande  opera  della  Trinità,  Dante  aveva  bisogno 
di  un  metro  continuato,  che  si  svolgesse  per  istrofe  di  tre  versi  incatenati 
fra  loro  e  dove  ogni  rima  si  ripetesse  tre  volte.  A  tal  uopo  egli  si  mise 
per  quell'unica  via  che  poteva  condurlo  ad  ottenere  in  pari  tempo  la  tripli- 
cità del  verso,  la  triplicità  della  rima  e  la  concatenazione  delle  strofe.  Fece 
rimare  il  secondo  verso  di  ciascun  terzetto,  anziché  cogli  altri  due  rimanti 
fra  loro,  col  primo  verso  del  terzetto  successivo.  Com'è  naturale,  bisognava 
perciò  contentarsi  di  avere  la  prima  e  l'ultima  rima  di  ciascun  canto  ripe- 
tute due  sole  volte:  ma  in  tutto  il  resto  si  otteneva  uno  schema  tristico  (non 
tetrastico  come  quello  del  serventese\  concatenato,  con  triplicità  di  rima. 
In  ciò  il  ricordo  della  sestina  d'Arnaldo  come  può  avere  influito?  Fonda- 
mento dell'  artificio  di  questa  è,  già  sappiamo,  il  trasporto  di  parole  finali 
da  una  strofa  all'altra;  fondamento  dell'artificio  della  terzina  è  invece  il 
trasporto  della  rima,  caratteristico  del  serventese.  Dalla  sestina  si  capirebbe 
il  passaggio  alla  terzitia  del  Da  Montalcino,  non  già  a  quella  di  Dante.  Del 
resto,  anche  il  modo  di  collegare  i  versi  di  strofa  in  istrofa  nella  terza  rima 
non  è  già  il  cruciato,  ma  il  catenato  :  AB  A.  BCB.  CDC.  D...  ci  riporta 
ad  una  forma  AB  AB  CB  CD  CD,  fondata  sull'a  Iternazione,  non  sul- 
r  incrociamento.  Quanto  al  passo  controverso  di  Benvenuto  da  Imola: 
Arnaldus. ..  a  quo  Petrarcha  fatebatur  sponte  se  accepisse  modum  et  stilum 
cantilenae  de  quatuor  rithimis  et  non  a  Dante  ecc.,  che  \ì  sì  alluda 
alla  peculiarità  della  terza  rima  (usata  dal  Petrarca  ne'  Trionfi)  di  avere 
collegate  le  strofe  al  modo  della  sestina  arnaldesca,  ripeterei  col  Mari  solo 
nel  caso  ch'egli  riuscisse  a  provare  (ardua  impresa  davvero!),  che  la  terzina 
possa  essere  perifrasticamente  designata  come  una  speciale  forma  di  can- 
zone di  quattro  versi,  oppure  di  quattro  rime. 

Come  si  vede,  questi  scritti  del  dr.  Mari  versano  su  materia  assai  dispu- 
tabile, nella  quale  è  lecito  dissentire  da  lui  più  volte.  Ma,  importantissimi 
come  sono  e  ben  condotti,  attestano  nell'autore  qualità  non  comuni  di  critico 
e  di  erudito. 

Francesco  Flamini. 


(1)  «  0  Bandine,  flos  cantorum  »  ecc.  (p.  23). 

(2)  Cfr.  i  miei  Studi  di  storia  letter.,  ora  cit., 


pp.  154-5. 


140  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

FRANCESCO  TORRACA.  —  Le  donne  italiane  nella  poesìa  pro- 
venzale. —  La  «  treva  »  di  G.  de  La  Tor.  —  N°  39  della 
Biblioteca  crit.  della  letler.  italiana.  —  Firenze,  Sansoni,  1901 
(16«,  pp.  84). 

I  due  presenti  lavori,  opportunamente  accostati  per  una  loro  stretta  rela- 
zione, che  permette  di  ritener  l'uno  complemento  dell'altro,  recano  un 
vantaggioso  contributo  allo  studio  dei  rapporti,  che  corsero  nel  sec.  XIU 
tra  Provenza  e  Italia. 

Su  questo  argomento  pieno  d' attrattiva  l' illustre  autore  ebbe  già  ad 
esercitare  altre  volte  la  sua  critica  e  indagò  vari  aspetti  del  problema, 
adoprandosi  sia  sull'esame  di  componimenti  poetici,  sia  su  biografie  di 
trovatori  provenzali  e  italiani;  ed  ora  colla  presente  pubblicazione  egli  si 
propone  una  rapida  disamina  di  quanto  nella  poesia  de'  trovatori  si  ri- 
ferisca alle  donne  d'Italia  e  si  indugia  da  ultimo  sul  testo  della  e  treva  >, 
che  composta  fra  noi  suona  tutta  una  lode  a  parecchie  donne  italiane.  Le 
due  parti  di  questa  operetta  procedono  con  dissimile  carattere:  l'articolo 
sulla  treva,  riprodotto  dagli  Atti  e  memorie  d.  R.  Deput.  di  storia  patria 
per  le  Roma(/ne,  S.  HI,  voi.  XVIII,  pp.  97  sgg.,  ove  venne  prima  inserito 
(cfr.  questo  Giornale^  36,  459),  è  fornito  di  un  largo  sussidio  di  indicazioni 
rigorose;  mentre  invece  lo  studio  sulle  donne  italiane  nella  poesia  provenzale 
compare  nella  sua  veste  originaria  e  fiorita  di  conferenza;  manca  perciò  di 
note  e  riferimenti  precisi,  ubbidisce  nel  suo  svolgimento  a  certe  inevitabili 
necessità  di  circostanza  e  porta  nella  trattazione  dell'argomento  una  cono- 
scenza virtuosamente  dissimulata. 

Questo  carattere  d'accessibilità  si  accorda  del  resto  perfettamente  con  Io 
scopo  diretto  della  Biblioteca  critica^  la  quale  non  si  rivolge  a  soli  specia- 
listi, ma  intende  anche  di  presentare  al  pubblico  utili  lavori  di  divulgazione: 
e  Io  studio  sulle  donne  italiane,  pur  ispirandosi  a  questo  concetto,  non  ap- 
parisce tuttavia  tale,  che  in  esso  manchino  buone  proposte  e  belle  conget- 
ture. Le  quali,  insieme  alle  altre  parti  del  lavoro,  verranno  discorse  nel 
seguito  di  questa  rassegna,  che  aspira  ad  essere  quasi  un  complemento  dello 
studio,  che  discute.  Io  credetti  infatti  di  far  utile  cosa  e  di  recare  anche 
un  piccolo  vantaggio  agli  studiosi ,  riempiendo  qualche  lacuna  che  trovasi 
nel  lavoro  del  T.,  disponendo  tutte  le  donne  italiane,  ch'ebbero  relazione  coi 
trovatori,  in  un  registro  alfabetico  e  aggiungendo  non  pure  quelle  indica- 
zioni bibliografiche  e  minute  non  consentite  all'indole  del  lavoro  del  T., 
ma  anche,  qua  e  là,  alcuna  nuova  notizia.  Mi  corre  naturalmente  obbligo 
di  avvertire  che  Io  studio  del  T.  servi  di  base  alla  compilazione  dell'indice 
seguente,  il  quale  è  ad  augurarsi  possa  col  tempo  venir  accresciuto  di  nuovi 
ragguagli  desunti  o  da  libri  e  raccolte  a  me  rimaste  ignote  o  da  fondi  non 
ancor  bene  esplorati  d'archivio. 

Lo  studio  delle  donne  italiane  nella  poesia  provenzale  trae  la  sua  ragion 
d'essere  dall'esame  di  quattro  fonti  : 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


141 


I.  Il  carroccio  di  Rambaldo  di  Vaqueiras  composto  il  1202  alla  corte 
di  Bonifacio  I  marchese  di  Monferrato. 

II.  La  treua  di  G.  de  La  Tor  scritta  forse   verso  il  1216  (si  cfr.  la  se- 
conda parte  di  questa  rassegna). 

HI.  La  16,13  di  Albertet  de  Sestaron  e  la  risposta  9,21  di  Aimeric  de 
Belenoi  (1). 


(1)  Questi  due  componimenti  vennero  composti  non  molto  dopo  il  1220  e  questo  terminus  a  quo 
si  desume  dalla  str.  IV,  tv.  3-4  di  ognuno,  perchè  vi  è  nominata  la  Contessa  di  Provenza 
(1220-45).  Le  due  poesie  in  questione  non  furono  ancor  pubblicate  secondo  la  lezione  di  D,  alla 
quale  unicamente  e  strettamente  ci  atteniamo  nella  edizione,  clie  offriamo  qui  sotto.  È  superfluo 
che  io  aggiunga  che  per  maggior  brevità  le  poesie  dei  trovatori  vengono  nella  presente  rassegna 
citate  numericamente  secondo  la  tavola  del  Babtsch,  Grundriss  ziir  Geschichte  der  Procenz. 
LiUraUir,  Elberfeld,  1872. 


ALBEETET 
[D.  76^-77  a] 


AIMERIC  DE  BELENOI 
[D.   168b-c] 


I.   En  amor  trop  tant  de  mal[s]  seignorages, 
tant  Ione  desir  e  tant  malvatz  usages, 
per  qu'en  serai  de  las  domnas  salvages 
ni  no-s  cui  om  qu'eu  ci  mais  chant  de  lor; 
5    car  eu  ai  'stat  lor  hom  e  lur  messages 
et  enanzat  lor  prez  e  lor  valor, 
q'anc  no  i  trobei  mas  destrics  e  damnages: 
gaidaz  oi  mais  s'en  deu  chantar  d'amor. 
D'amor  non  chant  ni  voill  aver  amia 
bella  ni  prò  ni  ab  gran  cortesia, 
c'anc  no  i  trobei  mas  eagan  e  bauzia 
e  fals  semblant  menzongier  traidor, 
e  cant  eu  plus  la  cult  tenir  per  mia, 
adone  la  trob  plus  salvaza  e  peior: 
doncs  ben  es  fols  toz  hom  qu'en  lor  se(n)  fia 
[et]  en  n'ai  ben  ma  part  en  la  follor. 
Era  gardaz  de  lor  amor  si  greva; 
que  primeira  sab  hom  que  fo  na  Eva 
que  fes  a  Deu  rompre  covenz  e  treva, 
20    don  nos  sem  tuit  enqueras  pechador  : 
tals  las  lauza  non  sab  d'amor  que-s  leva, 
qu'anc  non  ac  ioi  ni  plazer  ni  dolor, 
per  que  fai  mal  toz  hom  qu'ab  ella[s]  treva, 
pos  e'om  non  pot  conoisser  la  meillor, 
IV.  25  Qu'el  moni  non  es  duqessa  ni  reina, 
8i*m  volia  de  s'amor  far  aizina, 
q'eu  la  preses:  ni  Comtesso  la  fina 
de  Proenza,  c'om  ten  per  la  genzor, 
ni  de  Plozasc  non  voill  que  n'Ainesina 
mi  reteigna  per  son  entendedor, 
ni'l  Contessa  Biatris  sa  cosina 
de  Vianes  ab  sa  fresca  color. 


II. 

10 


15 


III, 


30 


I.   Tant  es  d'amor  honratz  sos  seignorages, 
que  non  i  cap  negus  malvais  usages, 
e  car  n'Alberz  ea  de  dompnas  salvages 
non  taing  com  fals  romaingna  entro  lor; 
5    qu'eu  fui  e  n  son  lo  lur  fisels  messages 
et  enansi  lur  pretz  e  lor  valor 
e  non  i  trop  ni  destrics  ni  damages; 
anz  son  honraz  car  chant  per  lor  amor. 

II.    Ja  mai  n'Albertz  non  deu  chantar  d'amia, 

10    que  renegat  a  tota  cortezia, 
e  car  dompnas  apella  de  bausia 
be'l  deari'  om  pendre  com  traitor, 
e  die  vos  ben,  si  Ila  forssa  fos  mia, 
ja  no-il  agra  nuil  enemic  peior; 

15    c'om  non  es  prò  si  en  dompna  no-s  fia, 

mais  aols  hom  l'o  ten  a  gran  folor. 
III.    La  lur  amor[s]  es  bona  e  non  greva, 
car  si  failli  primieramen  na  Eva, 
la  maire  Dieu  nos  en  fes  pas  e  treva, 

20    per  que  d'aiso  nos  non  em  pecador: 

anz  vai  ben  tan  toz  hom  c'ab  ellas  treva 
que  entrels  bos  lo  ten  hom  per  meillor. 
Tals  las  lauza  non  sap  d'amor  que'S  leva, 
per  que  non  taing  que  n'aia  mais  dolor. 
IV.  25  E  car  mentau  duguessa  ni  reina 
que-1  fezesson  del  lor  amor  aizina, 
venqes  las  en  la(s)  pros  Comtessa  fina 
de  Proenza  on  a  tota  valor, 
de  Salnssa  la  bella  n'Ainesina 

30    fassa  est  cium  a  son  entendedor 
la  Contessa  Biatriz  sa  cosina, 
sii  ve  camiar  en  nuil'  autra  color. 


IV.  T.  29  Plozasc]  ms.  plazasc. 


142 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


IV.  Le  allusioni  più  o  meno  chiare  che  a  donne  d' Italia  vengon  fatte 
in  parecchie  poesie  di  trovatori  e  in  alcune  loro  biografie. 

Le  donne  italiane  che  furono  in  relazione  coi  poeti  vanno  poi  distinte  in 
due  sezioni:  le  une  sono  chiaramente  nominate  e  di  alcune  di  esse  ha  co- 
noscenza la  storia;  le  altre  o  sono  vagamente  e  indistintamente  ricordate, 
0  sono  velate  sotto  un  senhal.  Le  prime,  le  sole  veramente  meritevoli  di 
cure  attente,  sono  le  seguenti: 


1.  Adelaide  di  Castello  e  di  Massa.  Cantò  di  lei  A.  de  Sestaron  nella  16. 
13  (str.  VI):  «  sembla  fresca  rosa  en  pascer  ».  Fu  celebrata  anche  nella 
9,  21  (str.  VI)  di  A.  de  Belenoi.  Il  T.  propone  dubbiosamente  di  iden- 
tificarla con  la  moglie  di  Guglielmo  Pallodi  di  Sardegna  (p.  30). 

2.  Adelaide  di  Viadana.  Fu  figlia  di  Alberto  conte  di  Mangone  e  sorella  di 
Beatrice  (cfr.  n"  15),  insieme  alla  quale  venne  cantata  da  Guilhem  de 
la  Tor  nella  treva  (str.  II).  Sposatasi  con  Gavalcabò  signore  di  Viadana 
(De  Lollis,  Sordello,  Halle,  1896,  p.  24,  n»  1  e  questo  Giornale  36, 
16,  n.  4)  meritò  le  lodi  di  G.  de  La  Tor  in  437,  38.  Si  lagnò  di  lei  Uc 
de  Saint  Gire  nella  457,  36,  e  le  prepose  Bonella  di  Bresciana.  Rispon- 


35 


40 

VI. 


45 


VII. 
50 


55 


Vili. 


Se  Salvala  la  bella  d'Anramala, 

qui  de  bon  prez  a  fait  paiaz  e  sala, 

no  so  tengues  a  orgueil  ni  a  tala, 

non  amari»  lei  ni  sa  seror, 

se  tot  de  prez  so  en  l'anzor  escala 

e  son  Alias  de  Conrat  mon  seignor, 

pero  s'amor  ra'agra  ferit  soz  l'ala 

s'amar  degues,  mas  non  ai  ges  paor. 

Si  n'Azalais  de  Castel'  e  de  Massa 

que  tot  bon  prez  aiosta  et  amassa 

m'en  pregava,  tota  en  seria  la8sa(z), 

se  tot  sembla  fresca  rosa  en  pascor. 

Gardaz  con  es  bella,  fresca  e  grassa(z} 

anz  que  m'agues  conquis  per  amador 

e  sei  beli  hnelh  semblan  quairels  que  passa 

del  cors  al  cor  ab  una  grant  dolzor. 

Si'm  donava  s'amor  la  pros  Comtessa 

cil  del  Carret,  q'es  de  prez  seignoresja, 

non  farla  vas  lei  nnlla  esdemessa; 

gardaz  s'eu  ai  dit  orgaeill  ni  follor, 

que  gea  mos  cors  plns  en  donas  non  pessa 

enanZflas  er  a  percachar  aillor. 

ni  ges  non  voill  que  neguna  m'aguessa 

colgat  ab  se  de  sotz  son  cobertor. 

Seigne  'n  Conrat,  granz  es  vostra 

don  poia  adeg  e  creis  vostra  valor. 


V.   Si-I  Salvala  es  tant  pros  d'Au(t)ramal», 

con  n'Albertz  ditz,  non  er  mais  dins  sa  sala 
que  non  so  tenga  ad  ancta  et  a  tala, 
e  si  ia  mais  vei  leis  ni  sa  seror 
e  non  l'en  fan  tornar  en  un'escala 
non  son  fillas  d'en  Conrat  lo  seignor, 
car  qui  fera  la  Inr  amor  sotz  l'ala 
aver  en  deu  ardiment  e  paor. 
VI.    Pero  si'l  ve  la  prò  domna  de  Massa, 
sii  qe  conqer  toz  iorz  pretz  et  amiHa 
e  no'l  bat  tant  entro  que-n  sia  lassa, 
ja  no'l  sai  dieu[«]  son  lial  amador, 
ni  non  eia  Ione  temps  fresca  ni  grasn, 
ni  non  teingna  son  amie  en  pascor, 
car  es  lo  iois  que  tot  autre  ioi  passa 
d'aquest  segle  et  ab  mais  [de]  doufor. 
Per  las  antras  e  per  la  prò  Comtessa 
del  Carret,  voil  que  Kia  seignoreasa 
de  n'Albertet  una  viella  sozmessa 
d'arol  home,  car  a  dig  mal  de  lor, 
e  s'el  Ha  dompna  e  mal  noi  pessa  (?), 
d'entre  las  pros  sen  an  eetat  aillor, 
car  ges  nos  taing  qne  negana  Ì*agBe«a 
prestai  d'i  ver  son  avol  cobertor. 
Vili.   Dompnas  totas  si  fan  don  e  promessa 
de  tot  son  mal,  car  a  dig  nal  de  lor. 


35 


40 


45 


VII. 
50 


55 


VII.  y.  53  pessa]  ms.  pasta. 
VII.  V.  56  ms.  colgat  don  paia  ab  se  de  sotz  son 
cobertor. 


VII.   r.  50  Carret]  ms.  CarrtL 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  143 

dendo  ad  Uc  de  S.  Gire,  difese  Adelaide  Nicoletto  da  Torino  in  310,3- 
Secondo  lo  Schultz  (Zeitschrift  f.  rom.  Phil.  VII;  214  e  Epist.  del 
trovai.  Ramò,  di  Vaq.  traduz.  it.,  Firenze  1893,  p.  172  n.  1),  a  questa 
Adelaide  sarebbe  anche  indirizzata  la  282,  24  di  L.  Gigala.  Si  potrebbe 
opporre  che  alle  parole:  nailas  de  i?.,  che  si  leggono  in  H,  in  testa  al 
componimento  citato  {Studi  di  fil.  rom.,  V,  543),  contraddice  la  stessa 
poesia,  la  quale  parla  di  una  donna  di  Villafranca  ;  ma  forse  qui  devesi 
vedere  un  nuovo  esempio  di  quell'uso  rettorico,  per  cui  un  elogio  po- 
teva venir  formato  con  nomi  locali,  di  che  offre  magnifico  esempio  A.  de 
Peguilhan  in  10,  40  (cfr,  Zingarelli,  Intorno  a  due  trovatori  in  Italia, 
Firenze,  1899,  pp.  35  sgg.).  Nel  1234  Adelaide  si  separò  da  Gavalcabò 
ritirandosi  presso  il  fratello  e  chiamò  in  giudizio  il  marito,  accusandolo 
di  aver  tentato  di  avvelenarla  (Litta,  Fam.  Cavalcabò,  e  Torraca,  p.  55). 
Lo  Schultz  annoverò  la  nostra  Adelaide  tra  le  poetesse  provenzali  iden- 
tificandola con  una  donna  H.,  che  tenzonò  con  Rofin,  426,  1.  (Schultz, 
Die  provenz.  Dichterinnen,  Leipzig,  1888,  p.  15).  L'ardita  congettura 
vien  combattuta  vivacemente  dal  Torraca  a  pag.  30. 

3.  Adelasia  di  Saluzzo.  Fu  sorella  di  Bonifacio  I  di  Monferrato  e  sposò 
nel  1182  Manfredi  II  di  Saluzzo.  Si  vedano:  Savio,  Studi  storici  sul 
march.  Guglielmo  III  di  Monferr.,  Torino,  1885,  p.  70  e  Schultz,  Le 
epist.  cit.  p.  149.  Vien  ricordata  nella  biografia  di  R.  de  Vaqueiras 
(M.B.2  p.  32)  e  può  venir  forse  identificata  con  la  bela  seror  di  Boni- 
facio I,  lodata  da  P.  Vidal  in  364,  2. 

4.  Agnese.  Gitata  esclusivamente  nella  str.  IV,  v.  4  del  «  carroccio  ». 

5.  Agnese  d'Arco.  Gitata  in  «  treva  »  str.  III,  v.  4.  Forse  a  ragione  il  Ca- 
sini, in  questo  Giornale,  lì,  405,  inclinò  a  crederla  una  mantovana. 

6.  Agnese  di  Lenta.  Citata  soltanto  nel  «  carroccio  »,  str.  III,  v.  8. 

7.  Agnesina  di  Saluzzo.  Fu  sorella  di  Bonifacio  di  Saluzzo  (f  1212),  il  quale 
sposò  nel  1202  Maria  di  Sardegna,  cioè  Maria  la  Sarda  del  «  carroccio  » 
str.  V,  v.  1.  Nel  1213  essa  fu  promessa  sposa  ad  Amedeo  IV  di  Savoia, 
ma  il  matrimonio  poi  non  ebbe  effetto.  Schultz,  Die  provenz.  Dicht.  cit. 
p.  14;  De  Lollis,  Sordello  p.  23  n.  4;  Schultz,  Epist.  cit.  p.  149.  La 
nostra  Agnesina  venne  ricordata  nella  tenzone  fra  Donna  H.  e  Rofin 
(426,  1),  nella  437,  38  da  Sordello  (cfr.  De  Lollis,  Op.  cit.  pp.  24,  171, 
275),  da  A.  de  Sestaron  nella  16,  13  e  da  A.  de  Belenoi  nella  9,  21. 
Nella  16,  13  il  ms.  A  (n<>  159,  Studi  di  fil.  rom.,  voi.  Ili)  chiama  Agne- 
sina «  de  Polomnac  »  e  non  sarà  esatto  dire  col  De  Lollis  che  con  A 
si  accordi  D,  poiché  quest'ultimo  ms.  legge  veramente:  «de  Plazasc», 
che  andrà  corretto  in  «  de  Plozasc  »  ;  ma  ch'essa  veramente  sia  Agne- 
sina di  Saluzzo  (e  non  di  Piossasco)  si  deduce  chiaramente  dalla  risposta 
di  A.  de  Belenoi. 

8.  Aquiletta.  Fu  data  da  Bonifacio  I  di  Monferrato  in  isposa  a  Gui  de 
Montelh-Azemar.  Si  cfr.  l'epist.  in-ar  de  R.  di  Vaqueiras,  vv.  78-79 
nell'ediz.  Schultz  citata  e  anche  si  veda  Savio,  Gìorn.  ligust.  XX,  449-450. 

9.  Aquilina  (Aiglina)  di  Sarzana.  Gitata  in  «  treva  »  str.  IV,  v.  4. 
Cfr.  Casini,  Op.  cit.,  p.  304. 

10.   Anda.  Ricordata  in  «  carroccio  y>  str.  IV,  v.  3. 


144  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

11.  AuDicE.  Citata  in  «  carroccio  »  str.  iv.  2.  Anche  di  essa  nulla  fin  qui  si 
conosce.  Io  mi  permetto  di  ricordare,  senza  avanzare  alcuna  congettura, 
che  nella  1*  metà  del  sec.  XIII  visse  una  Audice  di  Trincherò  di  Carrù, 
la  quale  sposò  Filippo  di  Enrico  1  della  casa  di  Ventimiglia.  Si  cfr. 
Savio,  Giom.  ligustico^  XX;  tav.  geneal.  n©  III. 

12.  Bastarda.  Ricordata  in  «  carroccio  >  str.  V,  v.  3. 

13.  Beatrice  d'Auramala  Malaspina.  Di  questa  donna  nulla  si  conosce  di 
certo.  Fu  sorella  di  Selvaggia  (cfr.  la  pres.  rassegna,  n»  57),  come  si 
apprende  dalla  «  treva  »  str.  I.  vv.  2-3,  e  fu  figlia  di  Corrado  Malaspina. 
Cfr.  Schultz,  Epist.  cit.  p.  169  e  per  un  nuovo  accenno  si  veda  questo 
Giornale  36,  3,  n.  1. 

14.  Beatrice  d'Este.  Le  ricerche  intorno  a  questa  donna  furono  incominciate 
dal  Cavedoni  :  Delle  accoglienze  e  degli  onori  die  ebbero  %  trov.  prov. 
alla  corte  dei  Marchesi  d'Estc  nel  sec.  XIII^  in  Memorie  d.  R.  Ac- 
cademia  di  Scienze^  Lettere  ed  Arti  di  Modena,  T.  Il,  1858  p.  278,  e 
proseguite  di  recente  dallo  Zingarelli,  Op.  cit.,  pp.  27  sgg.  Io  rimando 
per  questa  Beatrice  a  ciò  che  di  essa  si  dice  nella  seconda  parte  di 
questa  rassegna,  là  dove  si  discorre  della  «  treva  ».  Rammento  qui 
soltanto  ch'essa  fu  figlia  di  Azzo  VI  e  di  una  figlia  di  Umberto  III 
di  Savoia. 

15.  Beatrice  di  Mangone.  Spetta  al  Torraca  il  merito  di  aver  dimostrato 
che  questa  Beatrice,  sorella  di  Adelaide  di  Viadana  (cfr.  n®  2),  era 
nel  1216  già  sposa  del  giovine  Paolo  di  Pietro  Traversara  e  che  nel 
9  Febbraio  1225  essa  non  era  più  tra  i  vivi  (p.  49).  Meritevolissima 
d'attenzione  è  pure  la  congettura  del  Torraca,  secondo  la  quale  il  pianto 
(10,  22)  di  A.  de  Peguilhan  sarebbe  stato  composto  appunto  in  occasione 
della  morte  di  Beatrice  di  Mangone. 

16.  Beatrice  I  di  Monferrato.  Cosi  la  chiamo  per  distinguerla  dalla  se- 
guente. È  ritenuta  generalmente  figlia  di  Bonifacio  I  e  per  essa  R.  de 
Vaqueiras  compose  il  «  carroccio  ».  Per  la  molta  bibliografia  e  per  le 
questioni  che  la  riguardano,  mi  limito  a  rimandare  allo  Schultz,  Le 
epist.  cit.,  pp.  151  sgg. 

17.  Beatrice  II  di  Monferrato,  contessa  di  Vienna.  Fu  figlia  di  Gu- 
glielmo IV  di  Monferrato  e,  forse,  di  quella  Berta,  che  vien  citata  nel 
«  carroccio  ».  Fu  sorella  di  Bonifacio  II  (1225-1253)  e  cugina  di  Agne- 
sina  di  Saluzzo.  Ciò  dimostra  chiaramente  che  qtiella  contessa  di  Vianes 
citata  da  A.  de  Sestaron  nella  16,  13:  nil  contessa  Biatris  sa  cosina 
(di  Agnesina)  de  Vianes  ab  sa  fresca  color,  va  identificata  colla  nostra 
Beatrice.  Si  sposò  nel  1220  con  Andrea  Delfino  di  Vienna:  il  contratto  di 
nozze  fu  stabilito  il  15  novembre  1219.  Cfr.  Savio,  Op.  ci^,  pp.  109-110. 
Rimasta  vedova,  pretese  essa  stessa  da  Federico  li  la  conferma  di 
diritti  perduti.  Cfr.  S.  HcUmann,  Die  Grafen  v.  Savoyen  und  das 
Reich  bis  zttm  Ende  der  staufischen  Periode,  Innsbruck,  19(X),  p.  136. 
Gli  accenni  provenzali,  che  la  riguardano,  furon  raccolti  dallo  Schultz 
in  Epist.  cit.  p.  159.  Fors'anche  essa  è  ricordata  da  Gauzeran  de  Saint 
Leidier  nella  168,  1. 

18    Beatrice  di  Savoia,  contessa  di  Provenza.  Fu  figlia  del  conte  Tom- 


RASSEGNA.  BIBLIOGRAFICA  145 

raaso  I  di  Savoia  e  sposò  il  1219-1220  Raimondo  Berengario  IV  di 
Provenza.  Alludendo  a  questo  matrimonio,  cantava  Peire  Bremon  Ricas 
Novas  (ovvero  Arnaut  Catalan,  trovatore  che  fu  in  Italia,  come  si  ap- 
prende dalla  27,  6),  nel  componimento  330,  4:  Proensa,  belh  mes^  \ 
quar  a  mes  \  en  vos  Savoya  totz  hes  \  ab  pros  domna  gaya.  Fu  anche 
lodata,  qualche  volta  insieme  a  Blacatz,  da  Elias  de  Barjols  in  132;  4, 
7,  9,  10,  11.  Arnaut  Catalan  la  loda  in  27,  4  ed  è  essa  pur  cantata  da 
Guiraut  de  Bornelh  in  242,  35.  Secondo  il  Torraca  (Gior.  Dantesco,  IV, 
24)  la  contessa  Beatrice  sarebbe  stata  anche  ricordata  da  Peire  Guilhem 
de  Tolosa  nella  tenzone  345,  1  (De  Lollis,  Sordello,  p.  172)  scambiata 
con  Sordello.  Debbo  anche  a  questo  proposito  ricordare  che  appunto  il 
Torraca  (Giorn.  Dantesco,  IV,  23  sgg.)  crede  che  la  donna  amata  in 
Provenza  da  Sordello  sia  stata,  anzi  che  Guida  di  Rodez,  Beatrice  di 
Provenza.  La  quale  fu  anche  ricordata  da  Bertran  da  Lamanon  in  76, 12. 
Una  contessa  Beatrice,  eh'  io  inclinerei  collo  Schultz  [Epist.  cit.,  p.  23) 
a  identificare  con  la  nostra  Beatrice,  è  cantata  nel  componimento  392,  26, 
il  quale  piuttosto  che  a  Rambaldo  de  Vaqueiras  pare  appartenga  a  Aira. 
de  Belenoi,  a  cui  è  attribuito  da  tre  mss.  Oltre  a  ciò  che  ha  osservato 
lo  Schultz,  mi  rafferma  in  questa  opinione  il  fatto  che  nella  seconda 
tornata  vien  ricordato  dopo  Beatrice  un  signor  Imo  (chiamato  Aimo 
nella  9,  7  di  Aimeric  de  Belenoi),  il  quale  mi  par  sia  il  fratello  di 
Beatrice,  il  conte  Aimone  di  Savoia,  che  mori  forse  sul  finire  del  terzo 
decennio  del  sec.  XIII.  Non  va  dimenticato  che  Beatrice  venne  pur  ri- 
cordata nella  16,  13  di  A.  de  Sestaron  e  nella  9,  21  di  A.  de  Belenoi, 
e  che  la  figlia  sua  Beatrice,  sposa  di  Carlo  d'Angiò,  venne  pur  cantata 
nella  poesia  provenzale  e  fu  chiamata  col  segnale  di  na  Berlengueira 
da  Guiraut  d'Espanha  in  244;  1,  2,  3,  10,  11  (cfr.  Appel,  Prov.  Inedita, 
Leipzig,  1890  p.  347  col.  1)  cfr.  il  n^  56.  La  corte  di  Savoia  si  mostrò 
pure  ospitale  coi  trovatori  e  da  essi  venne  più  volte  ricordata:  da  Elias 
de  Barjols  in  133,  11,  da  Peire  Raimon  de  Tolosa  in  355,  1  (Monaci, 
Testi  ant.  prov.,  Roma,  1888,  col.  79).  Tommaso  II  venne  citato  da  Uc 
de  Saint  Ciro  in  un  suo  noto  serventese  composto  verso  il  1240-41 
(Zingarelli,  Op.  cit.,  pp.  13-14),  e  da  un  passo  di  un  componimento  di 
L.  Gigala,  282,  22  (Monaci,  Op.  cit.,  col.  93)  si  deduce  che  questo  prin- 
cipe poetò  in  provenzale  (Schultz,  Ztf.,  VII,  218,  233). 

19.  Berlenda.  Nel  solo  «  carroccio  »   str.  IV,  v.  3. 

20.  Berlenda  di  Lunigiana.  Fu  amata  da  L.  Cigala  (1),  il  quale  la  ricorda 
in  un  componimento  inserito  dal  Rajna  in  Studi  di  fil.  rem.  V,  24  e 
ne  piange  la  morte  in  una  seconda  poesia  pubblicata  in  Appel,  Inedita, 
cit.  p.  182.  Il  Nostradamus  sostenne  (p.  133)  che  questa  Berlenda  sia 


(1)  Io  parlai  recentemente  di  L.  Cigala  in  questo  Giornale,  XXXVI,  15-18.  Dopo  la  comparsa 
del  mio  articolo,  renne  inserito  nel  Giornale  storico  e  letterario  della  Liguria,  anno  I  (1900), 
fase.  10,  pp.  353  sgg.,  uno  studio  di  A.  Fkbretto,  1  Genovesi  in  Oriente,  dal  carteggio  di  In- 
nocenzo  IV,  dal  quale  si  apprende  che  il  1°  aprile  1255  Ottaviano  Cigala,  figlio  del  nobile  Lan- 
franco, costituì  procuratori  i  suoi  zìi  Oberto  e  Nicoloso  per  prendere  possesso  di  prebende  concesse 
da  Innocenzo  IV.  Vedi  Op.  cit.,  p.  868. 

QiorwiU  storico.  XXXVIII,  fase.  112-113.  10 


146  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

stata  della  casa  Cibo  e,  ancorché  genovese  d'origine,  abbia  trascorsa 
sua  vita  in  Provenza.  Ma  ch'essa  appartenga  alla  Lunigiana  ha  provato 
il  Rajna  (Op.  cit.,  pp.  14-15),  il  quale  si  spinse  ad  ammettere  ch'essa 
sia  stata  moglie  di  Moroello  Malaspina. 

21.  Berta.  Secondo  il  Savio,  Studi  storici  sul  marchese  Guglielmo  Illdi 
Monferrato^  Torino,  1885,  p.  112,  questa  Berta,  citata  soltanto  in  «  car- 
«  roccio  »  str.  V,  v.  3,  sarebbe  Berta  di  Cravesana  moglie  di  Guglielmo  IV 
di  Monferrato,  col  quale  si  sposò  forse  il  1201.  Resta  diflBcile  tuttavia 
a  spiegarsi  come  mai  Rambaldo  abbia  incitato  contro  Beatrice  Berta, 
ch'era  sua  cognata;  e  forse  sarà  meglio  pensare  a  Berta  d'Ancisa,  so- 
rella di  quella  Domicella,  che  vien  ricordata  nello  stesso  e  carroccio  ». 
Cfr.  il  n"  30  della  presente  rassegna. 

22.  Berta  di  Soragna.  Citata  in  «  treva  »  str.  Ili,  v.  2.  Cfr.  Sandra  di 
Soragna  (no  55). 

23.  Bruna  di  Castello.  Ricordata  soltanto  in  «  treva  »  str.  V,  v.  6. 

24.  Caracosa  di  Cantacaprane.  Fu  figlia  del  marchese  Alberto  Malaspina 
(f  forse  il  1212).  È  citata  nella  «  treva  >  str.  IV,  vv.  2-3.  In  M.  E.  P. 
Chart.  II,  1294  leggesi  un  atto  che  si  riferisce  alla  successione  di  Ca- 
racosa, la  quale  fu  data  in  isposa  ad  Alberto  di  Gavi  e  per  la  dote  fu 
impegnata  la  terra  di  Cantacaprane  «  dove  appunto  nel  1218  teneva  sua 
«dimora  Caracosa».  Savio,  Op.  cit.  pp.  74-75  n°  1.  Si  cfr.  Schultz, 
Zeit.  f.  rom.  phil.,  VII,  194  n°  1  ed  Epist.  cit.  p.  165  n*  6. 

25.  Contesso.  Cioè:  «  Contessina»,  nome  proprio.  Trovasi  nominata  soltanto 
in  <  carroccio  ».  Si  veda  Crescini,  Rassegna  bihl.  d.  Ietterai,  ital.,  IV, 
p.  210.  Il  Crescini  ebbe  a  notare  che  contesso  può  essere  un  vezzeggia- 
tivo di  contessa  (Man.  prov.  p.  LXXVIIT,  n*  1)  :  io  aggiungo  che  anche 
Guillielmona  nella  tenzone  di  Taurel  e  Falconet  equivarrà  a  GuglieU 
mina.  Il  De  LoUis  notò  che  contesso  fu  anche  usato  come  nome  proprio. 
(Sord.,  p.  287). 

26.  Contesso  del  Carretto.  Citata  in  «  treva  »,  str.  VI,  v.  1.  Il  Toiraca 
(p.  21)  la  identifica  «  con  quella  figliuola  di  Enrico  II  del  Carretto 
€  ricordata  nel  1226,  come  moglie  di  Grottapaglia  ».  Forse  fu  cantata 
da  A.  de  Sestaron  in  16,  13  e  da  A.  de  Belenoi  in  9,  21. 

27.  Costanza  d'Este.  Fu  figliuola  di  Azzo  VII  e  maritata  ad  Uberto  degli 
Aldobrandeschi,  conte  di  Maremma.  Venne  cantata  da  Ralmenz  Bistors 
d'Arles.  Si  veda:  Cavedoni,  Op.  e  l.  cit.  e  Stengel,  Die  prov.  B lumen- 
lese  der  Chigiana^  Marburg,  1878,  nn.  141, 142. 

28.  CuBiTOSA  d'Este.  Vien  ricordata  nella  426,  1.  Cubitosa  d'Azze  Novello 
sposò  Isnardo  Malaspina,  al  quale  il  Cavedoni  —  come  risulta  dalle  sue 
carte  conservate  nella  Estense  —  attribuiva  un  congedo  di  Barjols  in 
132,  11:  <ìrisnarty  donan  e  meten  -creissez  de  terr  e  donransai^. 
Io  credo  utile  ricordare  che  visse  nel  sec.  XllI  un  ricco  signore,  che 
fu  poeta  provenzale  ed  ebbe  relazione  con  trovatori,  di  nome  Isnart 
d'Entrevennes,  intorno  a  cui  si  vedano  ora  le  notizie  raccolte  da  0.  Soltau 
in  Zeit.  f.  rom.  phil.,  XXIU,  201-6. 

29.  GuNizzA  DA  R0.MAN0.  Fu  sorella  di  Ezzelino  ed  Alberico  da  Romano  e 
moglie  di  Rizzardo  di  S.  Bonifacio.  Fu  rapita  (forse  nel  1226)  da  Sor- 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  147 

dello  (De  Lollis,  Op.  cit.,  p.  11).  Le  sue  relazioni  con  Sordello  sono 
tuttora  molto  incerte.  A  lei  allude  G.  d'Albusson  nella  265,  3.  Si  fece 
suo  difensore  P.  Guilhem  de  Luserna  col  componimento  344,  5  pubbli- 
cato da  P.  E.  Guarnerio,  P.  G.  di  Luserna,  Genova,  1876,  pp.  17  e  33, 
e  in  lezione  migliore  da  P.  Meyer  in  Romania,  XXVI,  p.  96.  A  Peire 
Guilhem  rispose  Uc  de  Saint  Gire  colla  457,  28  inserita  da  A.  Jeanroy 
in  Reo.  d.  lang.  rom.  a.  IV,  10,  p.  394.  Si  cfr.  anche  De  Lollis,  Op.  cit., 
p.  275.  Io  ritornerò  prossimamente  su  Sordello  in  questo  medesimo 
Giornale. 

30.  DoMiCELLA.  Figlia  di  Domitilla  (V.  n°  31). 

31.  Domitilla.  Secondo  una  bella  congettura  del  Torraca  (p.  14)  discorre 
dell'una  e  dell'altro  R.  de  Vaqueiras  al  luogo  seg.  del  «  carroccio  »  la 
mair  e  la  filha  -d'Amzisa,  str.  Ili,  vv.  5-6,  Domitilla  fu  infatti  sposa 
e  vedova  di  Alberto  marchese  d'Incisa.  Si  cfr.  Molinari,  Storia  d'Incisa^ 

^  Asti,  1810,  I,  pp.  158-9. 

32.  DoNELLA  DI  Bresciana.  Si  cfr.  pel  suo  nome  e  per  i  componimenti  che 
la  riguardano  questo  Giornale,  36,  p.  16,  n.  4  e  in  opposizione  a  ciò  si 
veda  Schultz,  Zeit.  cit.  XXXV,  p.  122.  Merita  attenzione  una  proposta 
di  A.  Restori  (Rendic.  delVistit.  Lomb.,  1892,  p.  307),  secondo  cui  essa 
sarebbe  stata  in  relazione  con  Ponzio  Amato  di  Cremona. 

33.  Donna  H.  Scambiò  con  Rofin  la  tenzone  426,  1.  Fu  forse  italiana;  cer- 
tamente la  tenzone  venne  composta  in  Italia.  Si  veda  il  n°  2  della 
pres.  rassegna. 

34.  Eloisa.  Citata  nel  «  carroccio  »  str.  IV,  v.  4. 

35.  Emilia  di  Ponzone.  Ricordata  nella  «  treva  »  str.  IV,  v.  1.  Spetta  al 
Torraca  il  merito  di  aver  scovato  la  nostra  Emilia  in  un  atto  inserito 
in  M.H.P.,  Chart.  II,  1373.  Essa  fu  moglie  di  Ponzio  di  Ponzone  e  mori 
prima  del  4  febbraio  1231  (p.  44). 

36.  Emilia  di  Ravenna.  Si  cfr.  Cavedoni,  Op.  cit.,  p.  280,  n.  14.  È  ricor- 
data nella  «  treva  »  str.  II,  v.  3,  nella  10,  3  e  nella  205,  5  di  G.  Augier. 
Cfr.  Monaci,  Op.  cit.  col.  79  e  Mùller,  Zeit.  cit.,  XXIII,  p.  69.  Fu  sposa 
di  Pietro  Traversara. 

37.  Garsenda.  Citata  nel  «carroccio»,  str.  IV,  v.  1. 

38.  Giacobina  di  Ventimiglia.  Celebrata  da  R.  d.  Vaqueiras  in  epist.  in  -ar 
vv.  74-75.  Allo  Schultz,  Epist.  cit.,  sfuggì  un  articolo  del  Savio  in 
Giorn.  ligust.,  XX  (1893)  p.  441.  Di  questo  articolo  ebbe  conoscenza 
V.  Crescini,  il  quale  esaminò  di  recente  minutamente  il  lavoro  citato 
dallo  Schultz  in  Rambaut  de  Vaqueiras  et  le  marquis  Boniface  1  de 
Monferrato  Toulouse,  1901  (Extrait  des  Annales  du  Midi,  XI-XIII). 
Giacobina  dovè  essere  figlia  di  Guido  Guerra  e  della  Contessa  Ferrarla. 
L'episodio  cavalleresco,  cui  accenna  Rambaldo,  fu  posto  dal  Savio  tra 
il  1184  e  1188.  Lo  Schultz  propose  la  data  1179-80.  Il  Crescini  non  si 
dichiara  in  modo  deciso. 

39.  S.  Giorgio  (donna  di).  Ricordata  in  «  carroccio  »  str.  V,  v.  2.  Si  veda 
Savio,  Studi  star.,  cit. 

40.  Giovanna  d'Este.  Fu  sposa  di  Azzo  VII  d'Este:  mori  nel  1233.  Si 
cfr.  Cavedoni,  mem.  cit.,  pp.  301,  305.  È  ricordata  da  A.  de  Peguilhan 


148  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

in  10,  17,  da  Peire  Guilhem  de  Luserna  in  344,  3,  da  Guilhem  de  la 
Tor  in  236,  2. 

41.  GuQLiELMiNA.  Citata  nella  tenzone  438,  1  fra  Taurel  e  Falconet.  Si  cfr.  il 
n°  25  della  nostra  rassegna. 

42.  GuGLiELMiNA  DI  Ventimiglia.  Citata  in  «  carroccio  »  str.  Ili,  vv.  9-10. 

43.  GuiQLiA.  Id.,  str.  Ili,  v.  3. 

44.  Inglese.  Id.,  str.  IV,  v.  1. 

45.  Isabella.  Su  di  essa  cfr.  Schultz,  Die  prov.  Dick.,  cit.,  p.  11.  Questa 
donna  scambiò  con  Elias  Cairel  la  tenzone  133,  7  e  dallo  stesso  poeta 
vien  citata  in  133;  3,  6,  9.  Chi  essa  sia  stata  non  è  ben  chiaro.  In  un 
accenno  contenuto  nella  tenzone  stessa  str.  V,  vv.  7-8,  e  da  alcuni  passi 
di  E.  Cairel  lo  Schultz  desunse  ch'essa  abbia  trascorsa  parte  della  sua 
vita  in  Grecia  e  la  identificò  con  Isabella  di  Guido  Marchesopulo.  Ma 
ciò  è  molto  dubbioso.  Cfr.  Torraca,  pp.  20-21. 

46.  Mabilia.  Ricordata  in  «  treva  »  str.  Ili,  v.  3. 

47.  Margherita  di  Savoia.  Fu  moglie  di  Tommaso  l  di  Savoia  e  figlia  di 
Guglielmo  I  di  Ginevra.  A  lei  forse  va  attribuito  un  accenno  del  «  car- 
«  roccio  »  str.  V,  v.  15.  Il  Torraca  si  attenne  a  fonti  non  buone  chia- 
mando Beatrice,  anzi  che  Margherita,  la  moglie  di  Tommaso  I  (p.  14). 

48.  Maria  d'Auramala.  Essa  venne  cantata  da  A.  de  Sestaron  in  16, 1.  Io 
credo  col  Torraca  che  Alberico  da  Romano  piuttosto  che  a  questa,  si 
sia  rivolto  alla  Maria  seguente  colla  sua  93,  1. 

49.  Maria  di  Mons.  Il  testo  della  457,  22  di  Uc  de  Saint  Gire  può  forse 
permettere  di  leggere:  mons\  ma  non  tutti  i  mss.  vanno  d'accordo.  Al- 
berico da  Romano  le  indirizzò  forse  la  93,  1.  Si  cfr.  T.,  p.  30. 

50.  Maria  La  Sarda.  Il  Savio,  Studi  stor.  cit.,  p.  112  ritiene  che  questa 
donna  citata  nel  «carroccio»  str.  V,  v.  1,  sia  stata  sposa  di  Bonifacio 
marchese  di  Saluzzo.  Si  cfr.  anche  Schultz,  Epist.  cit.,  p.  145. 

51.  Otta  Degli  Strasso.  Fu  sposata  celatamente  da  Sordello.  Su  questa 
parte  di  biografia  Sordelliana  ritornò  in  questo  Giornale,  34,  368  sgg. 
G.  Biscaro  con  argomenti,  eh'  io  non  potrei  del  tutto  accettare.  Si  veda 
anche  A.  F.  Carreri ,  Otta  di  Strasso,  in  N.  Archivio  Veneto,  XIII» 
211-214. 

52.  Palmiera.  Citata  in  <  carroccio  >  str.  IV,  v.  2. 

53.  Richeta.  Id.  «  carroccio  »  str.  Ili,  v.  4. 

54.  Saldina  Da  Mar.  Citata  da  Ramb.  de  Vaqueiras  in  epist.  in  'ar,  v.  16. 
Il  Crescini,  Per  gli  studi  romanzi ,  p.  33,  la  chiama  Iseldina,  ma  si 
cfr.  Schultz,  Epist.  cit.  p.  78.  Si  veda  anche  Crescini,  Ramh.  d.  Vaq. 
cit.,  p.  67. 

55.  Sandra  Di  Soragna.  Ricordata  in  «  treva»  str.  Ili,  v.  1.  Il  Casini,  Op. 
cit.,  p.  405,  propose  di  ricercare  Berta  e  Sandra  nella  famiglia  dei  Lupi, 
il  Torraca  pensa  piuttosto  a  quella  dei  Pelavicina  (p.  20). 

56.  Savoia  (Contessa  Di).  Una  <  contessa  di  Savoia  »  vien  citata  nella  16, 
2  da  A.  de  Sestaron,  poeta  che  fiorì  negli  ultimi  anni  del  sec.  XII  o 
nei  primi  del  XIII.  Si  posson  qui  presentare  parecchie  congetture,  delle 
quali  due  io  proposi  in  questo  Giornale,  36,  20,  n.  1.0  essa  è  Beatrice 
di  Savoia  ohe  andò  sposa  al  conte  di  Provenza,  o  l'altra   Beatrice  che 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  149 

si  sposò  a  Manfredi  III  di  Saluzzo  (e  in  tal  caso  il  componimento  sa- 
rebbe stato  scritto  prima  del  loro  matrimonio,  com'io  dissi  chiaramente 
in  op.  e  luogo  cit.),  ovvero  Margherita  moglie  di  Tommaso  I,  o  anche 
Beatrice  di  Macon  e  Vienna  sposata  a  Umberto  III.  Non  sarà  neppure 
impossibile  pensare  a  Margherita  di  Vienna  sposa  di  Amedeo  IV. 

57.  Selvaggia  d'Auramala  Malaspina.  Cfr.  n»  13.  Fu  sorella  di  Beatrice  e 
figlia  di  Corrado  Malaspina.  Agli  accenni  raccolti  dallo  Schultz,  Epist. 
cit.,  p.  169,  va  ora  aggiunto  quello  indicato  in  questo  Giornale,  36,  3,  n.  1. 

53.   Sofia  Di  Gàsalodi.  In  «  treva  »  str.  III,  v.  5. 

59.  Stazailla.  Fu  donna  della  Marca  amata  da  Uc  de  Saint  Gire.  Dice  in- 
fatti una  7'azos  di  questo  trovatore  (cito  dal  canz.  N^  A.  Pillet,  Archiv 
f.  das  Stud.  d.  neuer.  Spr.  u.  Literat.,  CI,  p.  376)  :  «  Hucs  de  Saint 
«  Gire  si  amaua  una  domna  de  Treuisana  que  aula  nom  domna  Sta- 
«zailla».  Fu  per  lei  composta  la  457,  18. 

60.  ToMMASiNA.  Gitata  in  «  carroccio  »,  str.  Ili,  v.  15. 

61.  TuRCLA.  Fu  amata  da  Ferrarino  da  Ferrara,  che  per  lei  compose  rime 
perdute.  Gosì  narra  infatti  la  breve  biografia  che  precede  il  florilegio  di 
Ferrarino  in  corso  di  pubblicazione  negli  Annales  du  Midi.  11  Gavedoni, 
mem.  cit.  p.  292,  n°  30,  la  ritiene  donna  di  casa  illustre  di  Ferrara  e 
cita  a  questo  proposito  un  Jacobus  Turclus,  di  cui  si  discorre  nel  Frizzi, 
Storia  di  Ferrara,  III,  31,  all'anno  1191.  Ricordo  che  negli  anni  1272-3 
si  ha  notizia  di  Aldovrandinus ,  Rodolfinus ,  Fantinus  ,  Nascimbenus, 
Marzolinus  Turcli  (Archivio  di  Stato  in  Modena,  Gat.  Estensi,  Registro 
D,  e.  52  sgg.). 

62.  Urgel  (Contessa  D').  Gfr.  Torraca,  p.  33. 

63.  Verde  Di  Gossano.  Emendazione  di  nAverz  de  Coissan  in  «  treva  » 
str.  IV,  v.  3,  proposta  dal  Grescini  in  Rassegna  bibl.,  cit.  IV,  210.* 

64.  ZiBELLiNA.  Gitata  in  «  carroccio  »,  str.  III,  v.  3. 


Tralascio  qui  di  ricordare  per  brevità  gli  accenni  provenzali  a  donne  ita- 
liane di  cui  non  si  conosce  il  nome,  sia  ch'esse  siano  state  velate  da  un 
senhal,  come  avviene  ad  es.  in  Bertolome  Zorzi,  sia  che  nessuna  indicazione 
sia  stata  fornita  dal  poeta.  Dirò  soltanto  ch'io  non  inclino  a  credere  col 
Torraca  (p.  36)  mielh  d'amor  un  senhal  usato  da  Perceval  Doria  nel  com- 
ponimento inserito  in  questo  Giornale,  36,  24,  str.  VII,  v.  1.  E  passo  ad 
esaminare  brevemente  la  seconda  parte  dell'operetta  del  T. 

Il  secondo  studio  verte  sulla  «  treva  »  di  Guilhem  de  La  Tor.  La  compo- 
sizione di  questo  componimento  solevasi  riportare  intorno  al  1225-30;  ma 
nessun  argomento  positivo  veniva  a  confermare  una  di  queste  date. 

Ora,  il  Torraca  dimostra  che  la  «  treva  »  fu  composta  parecchio  tempo 
prima,  e  mi  par  meritevole  d'approvazione  una  sua  proposta,  secondo  la 
quale  la  «  treva  »  sarebbe  stata  scritta  un  po'  prima  del  1216,  perchè  la 
Beatrice,  che  noi  segnammo  col  n»  15,  vi  è  chiamata  «  c?e  Magon  »  cioè 
col  nome  della  casa  paterna  e  non  con  quello  dello  sposo,  cui  dovè  unirsi 
poco  prima  del  1216  (p.  51,  n»  1).  Troppo  ardita  potrà  invece  parere  (cfr. 


150  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

questo  Giornale,  459,  n.  2  e  Zeit.  cit.,  XXXV,  p.  122)  la  correzione  intro- 
dotta dal  T.  nei  seguenti  versi: 

Na  Biatrìz  i  ven  d'Est  cai  fin  prez  capdella, 

del  marques  d'Est  moiller,  od  valors  renovella  (1). 

Il  T.,  osservando  che  nessuna  Beatrice  è  ricordata  da  storici  e  genealo- 
gisti come  moglie  di  un  marchese  d'  Este  negli  anni  che  ci  interessano, 
propone  di  sostituire  la  parola  moiller  con  sor  e  di  leggere: 

del  marqaeset  d'Est  sor,  on  valors  renovella. 

Il  margueset  sarebbe  Azzo  VII  e  la  sorella  sua  rimarrebbe  quella  bea 
nota  Beatrice  d'Este,  figlia  di  Azzo  VI,  che  fu  chiamata  «  beata  »  e  passò 
nella  sua  corte  non  altrimenti  che  una  visione.  Fu  detta  di  maravigliosa 
bellezza  e  dedita  nella  prima  giovinezza  ai  lussi  e  alle  pompe,  dalle  quali 
si  ritirò  a  penitenza,  spegnendosi  nei  silenzi  di  un  monastero.  Ad  essa  si 
attribuiscono  le  lodi  di  Aimeric  de  Peguilhan  e  di  Lambertino  Buvalelli  e 
ad  essa  sarebbe  indirizzato,  secondo  il  T.,  l'elogio  di   Guilhem  de  La  Tor. 

Già  lo  Zingarelli,  che  ebbe  per  ultimo  ad  occuparsi  di  questa  Beatrice, 
notò  che  resta  tuttavia  dubbioso  come  certe  lodi  del  da  Peguilhan  e  del 
Buvalelli  sian  state  rivolte,  contro  l'uso  trovadorico,  ad  una  fanciulla,  alla 
quale  inoltre  mal  sarebbe  attribuita  la  particella  iVa,  e  non  osò  prudente- 
mente dichiararsi  in  proposito  (2)  :  se  poi  noi  accetteremo,  come  data  pro- 
babile della  «  treva  »,  un  anno  di  poco  precedente  al  1216,  ne  verrà  che 
piuttosto  che  ad  Azzo  VII  si  dovrà  pensare  al  fratello  Aldobrandino  (1212-5). 
Verrebbe  perciò  la  «  treva  »  a  dirci  —  nella  sua  lezione  originale  —  che 
moglie  di  Aldobrandino  fu  una  Beatrice.  Ma  qui  la  dubbiezza  storica  è 
quanto  mai  grande,  poiché  si  conosce  bensì  una  figlia  Beatrice  di  Aldobran- 
dino, ma  nulla  si  sa  della  moglie  sua  e  per  di  più  in  una  importante  genea- 
logia di  casa  d'Este,  del  sec.  XV  (Biblioteca  estense,  a.  L.  5,  16)  (3)  vien 
detto  che  Aldobrandino  non  ebbe  moglie.  Pellegrino  Prisciano  (Libro  VII)  e 
l'altro  cronista  estense  Paolo  da  Lignago  nelle  loro  cronache  rass.,  ch'io  potei 
consultare,  non  tengono  di  ciò  parola  e  il  Muratori  (Ant.  Estensi,  I,  404  sgg.) 
preferì  non  discorrere  dell'oscura  questione.  Ricorderò  anche  che  il  Frizzi 
(Op.  cit..  Ili,  p.  80)  ebbe  a  scrivere;  «  Morì  il  marchese  Aldobrandino  li 
«  10  ottobre  1215  e  lasciò  una  figliuola  unica  nomata  Beatrice,  di  cui  la 


(1)  Accetto,  per  qaesto  secondo  verso,  la  correzione  che  ha  per  sé  Paatorità  dello  CBABAUtao, 
R«o.  d*  lang.  rom.,  S.  Ili,  t.  X,  p.  107.  Il  ms.  legge  yeramente: 

del  marqaeset  d'Est  moiller  od  yalon  re[Do]TelIa. 

(2)  ZiKOARBLLI,   Op.  cit.,  p.   46. 

(3)  È  una  genealogia  frammentaria,  di  cai  toccò  F.  Castm.  in  Atti  $  memorie  dtUa  R.  Dtpu- 
toMion*  di  storia  patria  ptr  U  prot.  Modtntti,  S.  IV.  t.  I,  p.  xix.  La  prima  parte,  conservata 
nella  biblioteca  Vittorio  Emanuele  in  Roma,  venne  pabblicata  da  I.  Gioroi,  BuUttt.  deW Istituto 
storico  italiano,  n»  2,  Roma,  1867. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  151 

«  madre  si  ignora,  ma  si  nega  che  fosse  moglie  legittima  di  lui  ».  L'oscurità, 
dalla  quale  noi  siamo  avvolti  in  queste  questioni,  venne  ultimamente  notata 
dallo  Zingarelli  {Op.  cit.,  p.  49)  :  «  Da  tutto  ciò  risulta  che  la  materia  è  an- 
«  Cora  da  studiare  e  non  dobbiamo  costringerla  nei  pochi  dati  che  i  docu- 
<  menti  sinora  conosciuti  ci  offrono  ». 

Ora,  io  produrrò  qui  un  argomento,  al  quale  non  intendo  dare  soverchio 
peso,  ma  tuttavia  preferisco  di  non  tacerlo,  convinto  che  da  più  lunga  di- 
samina la  presente  questione  non  possa  che  ricevere  maggior  luce,  lo  avevo 
di  già  abbandonata  ogni  mia  ricerca,  quando  ebbi  ad  imbattermi  in  un'opera 
di  diflBcilissima  consultazione  (1),  che  si  chiude  con  un  largo  albero  genea- 
logico, il  quale  s'apre  sì  con  un  volo  di  fantasia,  ma  certo  però,  per  l'età 
che  ci  interessa,  è  stato  condotto  su  buone  fonti,  poiché  io  ne  feci  ampi  e 
accurati  riscontri.  In  esso  viene  affermato  che  moglie  del  nostro  Aldobran- 
dino fu  appunto  una  Beatrice.  Che  ciò  sia  vero,  io  non  posso  asseverare 
nell'assoluta  mancanza  di  prove  e  dietro  la  povera  scorta  di  uno  scrittore 
del  sec.  XVII;  e  qui  mi  limito  puramente  a  notare  la  strana  coincidenza 
con  Guilhem  de  La  Tor.  Certamente  però,  se  ciò  fosse  provato,  riceverebbe 
un  forte  colpo  l'opinione  che  attribuisce  i  canti  di  A.  de  Peguilhan  e  di 
L.  Buvalelli  alla  figlia  di  Azzo  VI,  e  il  testo  della  «  treva  »  rimarrebbe  quale 
è,  e  ciò  sarebbe  un  gran  bene,  poiché  riesce  difficile  pensare  che  un  tro- 
vatore, che  fu  ospitato  dalla  casa  d'Este,  abbia  appunto  errato  in  una  indi- 
cazione genealogica  della  stessa  casa. 

Due  componimenti  provenzali  pubblica  il  T.  a  pp.  57-60  :  «  la  treva  »  e  il 
«  pianto  »  di  Aimeric  de  Peguilhan  per  Beatrice  di  Mangone  (cfr.  n®  15). 
La  lezione  di  quest'  ultimo  è  riprodotta  da  Choix,  III,  428.  Io  ho  alcune 
osservazioni  da  fare  su  questo  componimento. 

V.  10.  In  luogo  di  fos,  leggerei  fon  anche  perché  è  tale  la  lezione  di  D. 
V.  11.  Perché  il  verso  non  cresca  di  una  sillaba  è  qui  necessario  ammettere 
un  caso  di  sinalefe  non  molto  usato.  Preferirei  leggere  :  deurihom.  v.  17. 
In  luogo  di  Qu'el  si  legga:  Que'l,  o  anche:  Quel.  v.  18.  Vacuilhir.  I)  legge: 
acuoillirs,  e  veramente  manterrei  la  -s  flessionale.  Si  cfr.  gli  altri  infiniti  sgg. 
V.  25  e.  Leggerei  con  D:  ni.  Si  cfr.  i  versi  sgg.  v.  41.  In  luogo  di  ple^  si 
legga:  ples  con  D.  L'ultimo  verso  nell'edizione  del  Raynouard  dice: 

vos  companha  ab  sa  mair'  et  ab  se. 

Per  quanto  nella  poesia  provenz.  trovinsi  talvolta  esempi  di  sostituzione 
di  indicativo  pres.  al  pres.  cong.,  qui,  nel  caso  di  una  esortazione  diretta, 
vorrei  il  congiuntivo.  Erra  senza  dubbio  il  ms.  D  leggendo  in  luogo  di 
companha:  acomplaing,  ma  ci  mette  però  col  suo  a-  iniziale  sulla  retta  via. 
Si  legga  perciò: 

Tos  acompanh  ab  sa  mair'  e  ab  se. 


(1)  DoMRKico  OiMBERTi,  L'idea  di  un  principe  et  heroe  chrisiiano  in  Francisco  1  d^Este,  Mo- 
dena, 1659. 


152  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

Quattro  utilissimi  documenti  chiudono  il  volumetto,  che  sotto  umili  appa- 
renze parecchie  cose  nuove  raccoglie,  e  interessa  cosi  gli  studiosi  della  let- 
teratura provenzale  come  quelli  delle  origini  nostre. 

Giulio  Bertoni. 


G.  A.  CESAREO.  —  Su  le  <i^  Poesie  volgari  »  del  Petrarca.  Nuove 
ricerche.  —  Rocca  S.  Casciano,  Cappelli,  1898  (8^  pp.  316). 

ENRICO  SICARDI.  —  Gli  amori  estravaganti  e  molteplici  di 
F.  Petrarca  e  Vam,ore  unico  per  m^adonna  Laura  de  Sade, 
Con  un'appendice  e  un  facsimile.  —  Milano,  U.  Hoepli,  1900 
(8«,  pp.  280). 

G.  A.  CESAREO.  —  Gli  amori  del  Petrarca.  Nel  Giornale  Dan- 
tesco, an.  Vili,  Ser.  IH,  Quad.  I.  —  Firenze,  Olschki,  1900. 

Tra  la  vasta  fioritura  moderna  di  studi  dedicati  al  nome  e  alle  opere  di 
F.  Petrarca,  il  libro  del  Cesareo,  citato  in  capo  a  queste  pagine,  è  dei  più 
segnalabili  per  l'insieme  di  idee,  d'intuizioni  e  d'ipotesi  geniali  che  raccoglie. 
Del  resto,  che  il  Cesareo  sia  uno  tra  i  cultori  del  Petrarca  più  degni  e  più 
attivi  che  oggi  vanti  l'Italia,  non  importa  dirlo  ai  lettori  di  questo  periodico, 
i  quali  lo  videro  alla  prova  si  bene,  da  rendere  a  noi  men  diflBcile  il  reso- 
conto di  questo  volume,  dove  giova  leggere  riunito  quanto  finora  egli  scrisse 
sparsamente  sul  cantore  di  Laura:  tanto  più  che  non  ci  troviamo  fra  mano 
delle  semplici  ristampe,  ma,  presso  a  qualche  breve  memoria  inedita,  figu- 
rano scritti  largamente  rifusi  o  almeno  ritoccati. 

Così  s'ingannerebbe  chi,  per  avere  già  visto  anni  or  sono  su  questo  Gior- 
nale il  bel  saggio  Su  l'ordinamento  delle  poesie  volgari  di  F.  P.,  stimasse 
inutile  scorrere  le  pagine  3-128,  quasi  la  metà  del  presente  volume,  che 
Io  riproducono.  Vero  è  che  le  linee  generali  non  sono  punto  cambiate  e  che 
moltissimi  tratti  si  ristampano  tal  quali;  ma  se  ciò  può  esonerarci  dal  pro- 
nunziarne un  giudizio  complessivo,  che  dovrebbe  ripetere  elogi  già  da  gran 
tempo  tributati  a  questo  lavoro  diligente,  sodo,  acuto,  conviene  tuttavia  con- 
frontare la  redazione  primitiva  con  l'attuale  ristampa,  a  comodo  di  chi  pos- 
siede la  collezione  del  nostro  periodico. 

La  memoria,  come  si  sa,  consta  di  due  parti:  un'introduzione  spiega  i 
modi  e  le  ragioni  seguiti  dal  Petrarca  nell'ordinamento  delle  *ue  rime  e, 
appresso,  l'analisi  di  alcune  di  esse  conduce  l'autore  a  fissarne,  con  maggiore 
0  minor  approssimazione,  la  data.  Nella  prima  parte  {Giornale^  19,  229-260) 
i  criteri  del  Cesareo,  senza  essersi  fondamentalmente  cambiati,  si  determinano 
e  si  chiariscono  in  rispetto  ad  una  importante  questione,  che  riguarda  la 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  153 

genesi  e  il  tempo  di  stesura  del  codice  Vaticano  Lat.  3195,  il  ben  noto  testo 
definitivo  delle  rime  petrarchesche,  che  quind'innanzi  sarà  base  necessaria 
d'ogni  loro  ristampa.  Egli,  abbandonata  ormai  l'ipotesi  del  Pakscher  che 
Giovanni,  figlio  di  Petrarca,  sia  stato  il  copista  della  parte  non  autografa 
del  volume,  su  altre  basi  pone  la  ricerca  della  sua  datazione,  minutamente 
raffrontando  tra  loro  la  postille  cronologiche  in  lingua  latina,  che  il  poeta 
stesso  soleva  apporre  agli  sbozzi  dei  suoi  versi,  contenuti  nell'altro  ms.  Va- 
ticano Latino  3196. 

In  conclusione  il  Cesareo,  ben  congetturando  sugli  scarsi  indizi  ora  detti, 
sostiene  che  il  Petrarca  progettò  un  ordinamento  definitivo  per  le  sue  poesie 
fin  dall'  anno  dopo  la  morte  di  Laura,  estendendolo  da  allora  a  tutte  due 
le  parti  della  raccolta;  quantunque  nel  1349  sospendesse  l'opera  appena 
avviata,  per  il  sopraggiungere  d'altre  cure  e  per  viaggi  intrapresi.  Tornò 
più  tardi  a  questo  non  discaro  esercizio  di  lima  e  di  coordinazione,  verso 
il  1356,  attendendovi  poi,  ben  inteso  senz'alcuna  continuità,  per  anni  parecchi. 
Cosi  nasceva  quella  stesura  «  in  ordine  »  (ideale,  non  cronologico)  delle  rime, 
a  cui  l'autore  accenna  tante  volte  e  sempre  come  a  un  fatto  unico,  nelle 
chiose  latine  del  ms  3196:  stesura,  come  prova  il  Cesareo,  ben  diversa  dalla 
trascrizione  «  in  alia  papiro  »,  pur  di  frequente  menzionata.  Quest'ultima 
—  ei  dimostra  in  modo  che  ci  sembra  inoppugnabile  —  non  rappresenta 
già  una  metodica  trascrizione  delle  rime  in  un  dato  libro  cartaceo,  siccome 
parve  ad  altri  critici.  Riguarda  invece  il  semplice  riportare  una  rima  qual- 
siasi da  schede  o  scartafacci  primitivi  in  un  altro  pezzo  di  carta,  allo  scopo 
d'averla  sotto  mano  più  in  pulito  e  meglio  adatta  a  ricevere  successive  cor- 
rezioni. 

Maggiormente  suscettibile  di  disputa  è  l'altro  quesito,  se  la  frase  «  tran- 
ce scriptum  in  ordine  »  alluda  a  quella  copia  definitiva  delle  rime  che  noi 
tuttora  possiamo  consultare  nel  ms.  membranaceo  3195,  o  non  piuttosto  ad 
un'altra  copia  ora  ignota  «  forse  di  man  del  poeta,  sur  un  codice,  probabil- 
«  mente  cartaceo,  il  quale  doveva  servir  d'archetipo  a'  menanti,  che  ne  ri- 
«  cavavano  copie  in  pergamena;  almeno  fin  a  quando  il  poeta  non  ebbe  il 
«  suo  codice  membranaceo,  e  trascrisse  allora  da  sé,  in  ordine  memhranis, 
«  senza  far  la  fatica  di  riportar  prima  altrove  i  componimenti  »  (p.  24).  Il 
Cesareo  si  schiera  qui  risolutamente  in  favore  di  quest'ultima  ipotesi,  con 
argomenti  che  nella  prima  edizione  dello  studio  mancavano.  Certo  è,  in  so- 
stanza, che  sul  Vatic.  3195,  cioè  «  in  ordine  membranis  »,  il  poeta  trascrisse 
già  di  mano  propria  alcune  rime  nell'anno  1368,  come  attestano  sue  note, 
apposte  a  due  componimenti,  negli  sbozzi  dell'altro  manoscritto;  e  seguen- 
temente vi  copiò  il  resto,  negli  ultimi  sei  anni  di  vita:  ma  ognuno  ha  pre- 
sente che  nel  ms.  definitivo  un  buon  numero  di  versi,  non  autografi,  precede 
alle  due  partizioni  del  libro  riempite  di  mano  del  Petrarca.  Ora  ci  si  do- 
manda: Da  quanto  tempo  il  ms.  pergamenaceo  vaticano  era  in  casa  del 
poeta?  Alluse  egli  indifferentemente  a  questo  con  l'espressione  «  in  ordine  » 
e  con  l'altra  più  compiuta  «  in  ordine  membranis  »,  ovvero  conviene  distin- 
guere tra  l'una  fra.se  e  l'altra,  e  trovar  nella  più  generica  l'accenno  a  quel 
codice  archetipo,  ora  smarrito,  che  il  Cesareo  suppone? 

Tributiamo  la  debita  lode  a  chi  seppe   sì   acutamente  impostare  un  prò- 


154  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

blema  non  privo  d'importanza  per  gli  studiosi  del  poeta  di  Laura;  ma  di- 
ciamo insieme  che  una  soluzione  categorica,  in  un  senso  o  nell'altro,  rimane 
sempre  nell'incerto  terreno  delle  ipotesi  per  la  soverchia  scarsezza  di  dati, 
onde  siamo  per  ora  a  conoscenza.  Il  nostro  critico,  avvertendo  che  «  la  più 
«  parte  delle  poesie  contenute  nello  scartafaccio  (Vat.  3196)  ha  sopra  o  a 
«  lato  un  f  0  un  tr  o  un  transcript\  poche  hanno  un  tr  in  ordine;  alcune 
€  un  tr  per  me  e  una  tr  per  Io.  »,  nella  prima  edizione  del  saggio  aveva 
trovato  opportuno  rilevare  come  tutti  i  sonetti  col  tr  per  me  siano  davvero 
nel  codice  definitivo  di  mano  del  poeta,  mentre  di  mano  del  menante  è 
quello  con  la  postilla  tr  per  Io.  L'illazione  che  allor  ne  traeva  era  ovvia  : 
questi  accenni  sembravano  porre  in  diretto  rapporto  il  ms.  3196  col  3195, 
facendo  comprendere  che  le  notazioni  latine  dello  scartafaccio  riguardavano 
la  copia  «  in  ordine  membranis  »,  ovvero  l'altro  vaticano  3195.  Così  l'ipotesi 
d'un  archetipo  intermedio  non  era  necessaria.  Ora,  invece,  egli  torna  su 
queste  osservazioni  a  prima  vista  si  piane  e  si  sforza  di  provare  che  delle 
due  forme  di  postille  sopra  considerate  «  né  l'una  né  l'altra  si  riferiscono  a 
«  trascrizione  sul  codice  definitivo  ».  Nota  a  quest'uopo  che  troppo  gravi 
differenze  di  lezione  intercedono  in  certi  luoghi  tra  i  sonetti  dello  scarta- 
faccio e  la  copia  in  membrana,  per  ritener  che  il  poeta  potesse  passarli  di- 
rettamente dall'uno  all'altra;  e  considera  l'impiccio  che  avrebbe  recato 
all'autore  il  dover,  volta  per  volta,  dirigere  il  copista  nella  scelta  delle  rime 
da  mettere  «  in  ordine  »,  tra  la  congerie  incomposta  dei  primitivi  sbozzi  ori- 
ginali. Conclude  che  le  note  transcr.  per  me  e  per  Io,  ad  altro  non  possono 
alludere  se  non  «  a  trascrizione  su  qualche  foglio  intermedio,  dove  il  poeta 
«  potesse  terminare  e  correggere». 

Faremmo  torto  ai  lettori,  se  ci  indugiassimo  ad  opporre  a  questi  asserti 
probabili  un  ragionamento  probabile  del  pari.  Basterebbe  ammettere  bens'i 
l'intermedio  di  un'«  alia  papirus  »,  ma  riferir  poi  le  note  in  questione  alla 
copia  in  pulito,  che  poteva  susseguir  di  pochi  giorni  a  quella  intermedia, 
per  costruire  un'ipotesi  altrettanto  assennata.  11  vero  è  che  il  Cesareo  fu 
condotto  alla  detta  congettura  da  un'altra  ipotesi  ancora,  derivata  dalla  po- 
stilla che  il  Petrarca  aggiunse  ai  due  sonetti  composti  sul  ritratto  di  M.  Laura  : 
«  Transcripti  isti  duo  in  ordine  post  mille  annos.  1357  mercurii  bora  3  no- 
«  vembris  29,  dum  volo  bis  omnino  finem  dare,  ne  unquam  amplius  me 
«  teneant.  et  jam  Jerolamus,  ut  puto,  primum  quaternum  scribere  est  adortus 
«  pergamenum  prò  domino  Azone,  postea  prò  me  idem  facturus  ».  L'ultimo 
inciso,  per  il  C,  contiene  una  rivelazione.  Egli  ne  arguisce  che  sul  cadere 
del  1357  un  Gerolamo  menante  ebbe  incarico  di  cominciare  per  il  Petrarca 
un  codice  in  pergamena,  il  suo  membranaceo,  vale  a  dire  il  futuro  Vatic.  3195. 
Sicché  —  conchiude  —  prima  di  questa  data  l'autore  aflSdava  la  trascrizione 
«in  ordine»  ad  un  archetipo  smarrito:  dall'anno  1357  in  avanti  Girolamo 
occupò  invece  molto  pagine  di  quella  copia  definitiva  sulla  quale  pivi  tardi, 
dal  1368  in  giù,  aggiunse  composizioni  autografe  il  poeta. 

Ma  chi  ci  dice  —  obbietteremmo  —  che  l'ipotetico  manoscritto  membra- 
naceo affidato  («  ut  puto  »)  a  Girolamo  sul  cadere  del  1357  sia  tutt'uno  col 
prezioso  cimelio  vaticano?  Non  poteva  il  Petrarca , possedere  di  già  un  co- 
dice in  pergamena  di  sue  rime  e  desiderarne  anche  un  secondo,  per  motivi 
che  ci  sfuggono? 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  155 

In  conclusione,  queste  giunte,  che  formano  la  sostanza  dei  ritocchi  introdotti 
nell'esordio  del  primo  studio,  ci  sembrano  interessanti,  probabili,  ma  non 
inoppugnabili  ancora.  Del  resto  crediamo  che  s'apponga  il  Cesareo  nel  tener 
questione  di  secondario  interesse  la  conoscenza  degli  anni  precisi  nei  quali 
un  copista  attendeva  al  Vatic.  3195,  quando  resti  assodato  che  alla  scrittu- 
razione «  in  ordine  »  delle  sue  cose  volgari  l'autore  aveva  già  pensato 
nel  1349,  e  vi  attese,  con  criteri  non  mutati,  fino  alla  morte.  «  Questo  — 
€  diremo  col  nostro  critico  —  questo  giova  conoscere  per  intender  bene  il 
«  processo  ideale  del  poeta  nell'ordinamento  ». 

La  seconda  parte  del  saggio,  che  esamina  la  cronologia  delle  singole  rime, 
in  buona  parte  è  ristampata  qual  si  legge  in  questo  Giornale,  voli.  19  e  20. 
Le  principali  mutazioni  riguardano  i  componimenti  che  seguono: 

Son.  Voi  ch'ascoltate.  —  Mentre  TA.  già  ritenne  il  sonetto  iniziale  composto 
cadendo  il  1356,  quale  opportuno  esordio  alla  raccolta  definitiva,  ora  lo  stima 
scritto  «  per  aprir  degnamente  la  raccolta  ordinata  delle  rime,  quale  già  la 
«  immaginava  il  poeta  nel  1349  ».  E  le  allusioni  all'amore  per  Laura  quasi 
come  a  cosa  passata,  determinano  anche  meglio  la  data  tra  il  1348-49. 

Son.  Gloriosa  columna.  —  Fortissimi  argomenti  aggiunge  a  rincalzo  della 
opinione  contraria  alla  data  tradizionale  di  questa  rima  (estate  1330).  Con- 
gettura non  dispregevole,  quantunque  non  confortata  da  novelle  prove,  resta 
quella  che  la  fa  risalire  alla  metà  circa  del  1331. 

Canz.  Nel  dolce  tempo.  —  Tenta,  ci  sembra  con  iscarsa  fortuna,  di  mo- 
strare che  questa  canzone  fu  scritta  non  solo  nei  primi  anni  dell'innamora- 
mento, ma  «  certo  avanti  del  1330,  quando  il  poeta  amava  Laura  da  circa 
«  quattr'anni  ».  A  quest'uopo  nota  la  somiglianza  notevole,  non  appena  nel 
primo  verso,  ma  «  nella  lineazione,  nel  gusto  de'  simboli  oscuri,  in  più  di 
«  un'immagine  »  con  la  canzone  di  Cino  da  Pistoia  Nel  tempo  della  mia 
novella  etade.  Il  Petrarca  avrebbe  dunque  imitato,  non  essendo  ammissibile 
che  Gino  si  piegasse  a  far  sue  le  fantasie  di  un  principiante.  E  dacché  il 
Pistoiese,  nella  canzone,  si  dice  sessantenne,  i  suoi  versi  dovrebbero  essere 
stati  scritti  circa  nel  1327,  ove  si  ammetta  Cino  quasi  coetaneo  di  Dante, 
s'egli  rispose  al  primo  sonetto  della  Vita  nuova.  Ipotesi  parecchie,  come  si 
vede,  e  non  tutte  fondate  I  In  primo  luogo  è  tutt'altro  che  certo  il  fatto  della 
risposta  di  Cino  al  primo  sonetto  di  Dante  e  quindi  della  sua  nascita  «al 
«più  tardi  nel  1266»;  né  si  può  certificare  che  il  Petrarca,  pure  imitando, 
dovesse  comporre  la  sua  canzone  subito  dopo  quella  del  giureconsulto  poeta, 
e  non  qualche  anno  appresso. 

Canz.  Spirto  gentil.  —  Mira  a  confutare  la  nota  del  prof.  Gian  (cfr.  Giornale., 
22,  464)  a  proposito  di  questi  versi  famosi,  osservando  che  se  la  canzone  e 
insieme  V  ffortatoria  fossero  state  dirette  al  tribuno  di  Roma,  la  rima  dovrebbe 
essere  anteriore  all'epistola,  in  quanto  la  seconda  accenna  a  fatti  compiuti, 
la  prima  a  speranze  ;  mentre  d'altra  parte  VHortatoria  risulta  essere  a  chiari 
segni  la  prima  missiva  del  poeta  a  Gola  di  Rienzo.  Aggiunge  la  già  nota 
obbiezione,  gravissima  sempre,  dell'accenno  ossequioso  alla  «gran  mar- 
«  morea  colonna  »  che  è  nei  versi;  dove  nella  Hortatoria  gravi  allusioni  si 
contengono  contro  ai  Colonnesi,  notoriamente  invisi  a  Cola:  e  l'altra,  pure 
inconcussa,  delia  non  convenienza  del  verso  «  Uno  che  non  ti  vide  ancor  da 


156  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

«  presso  »  a  Cola  di  Rienzo,  da  parte  del  Petrarca.  La  congettura  del  Gian, 
che  la  canzone  sia  stata  rimaneggiata  più  tardi,  sembra  audacissima;  ed  è 
anzi  mal  verosimile  che,  pur  volendo,  l'autore  sia  riuscito  a  distruggere 
ogni  ricordo  della  primitiva  redazione.  Inoltre  non  .s'indovinerebbe  il  perchè 
di  un  simile  tentativo,  quando  rimanevano  sempre  versi  latini  ed  epistole 
violentissime,  a  testimonio  dei  sensi  da  lui  nutriti  verso  Cola. 

Eliminato  cosi  tal  nome,  nel  presente  studio  si  richiama  ogni  attenzione 
su  quello  di  Bosone  da  Gubbio,  anche  più  risolutamente  e  con  ai'gomenti 
sempre  meglio  persuasivi,  che  non  nelle  pagine  primitive. 

Canz.  Una  donna  più  bella.  —  L'A.  prende  a  combattere  non  più  il  solo 
Colagrosso,  ma  a  preferenza  l'Appel,  rincalzando  in  maniera  convincente 
l'asserto  che  la  canzone  preceda  di  poco  l'incoronazione  del  Petrarca. 

A  proposito  dell'altra  canz.  Italia  mia,  nota  che  nel  codice  definitivo  essa 
è  di  mano  del  menante  e  precede  a  quella  autografa  Ben  mi  credea,  copiata 
«  in  ordine  membranis  »  il  23  ottobre  1368.  Eccouna  ragione  decisiva  contro 
quanto  tenne  il  D'Ancona,  che  cioè  la  famosa  rima  politica  sia  stata  scritta 
a  Ferrara,  nel  1370. 

Una  lunga  nota  aggiunta  alle  osservazioni  cronologiche  sui  sonetti  contro 
Avignone  prova  con  certezza  che  l'epistola  XIX  delle  Varie,  a  Barbato  da 
Sulmona,  dal  Fracassetti  creduta  del  18  gennaio  1347,  è  invece  del  18  gen- 
naio 1352. 

Canz.  /'  vo  pensando.  —  Poiché  da  una  nota  autografa  risulta  che  la  copia 
«  in  ordine  >  della  seconda  parte  delle  rime  fu  cominciata  prima  del  28  no- 
vembre 1349,  ben  s'appose  il  Gaspary  nello  stimar  che  questa  canzone,  con 
cui  la  seconda  parte  s'inizia,  risalga  all'anno  antecedente,  1348. 

Il  secondo  saggio  del  volume  Dante  e  il  Petrarca  (pp.  131-172)  riproduce 
senza  mutazioni  considerevoli  un  articolo  del  Giornale  Dantesco,  (1,  473  sg.); 
anzi  nella  nota  posta  in  fine  a  questa  ristampa  l'autore  avverte,  che  deli- 
beratamente non  si  giovò  d'altri  lavori  sul  medesimo  tema,  usciti  nel  frat- 
tempo e  «quasi  sempre  notabili,  per  non  toglier  nulla  della  loro  freschezza». 

Per  un  verso  del  Petrarca  s'intitola  l'unico  saggio  al  tutto  inedito  di 
questo  libro  (pp.  173-209),  e  prende  realmente  prelesto  dal  noto  luogo  dei 
Trionfi^  ove  è  detto  dei  poeti  Siciliani  «  Che  fur  già  primi  e  quivi  eran  da 
€sezzo»:  prende  pretesto,  diciamo,  in  quanto  detto  giudizio  petrarchesco  è 
uil  puro  punto  di  partenza;  anzi  in  un  volume  Su  le  poesie  volgari  del  Pe- 
trarca  queste  pagine  stanno  un  po'  a  pigione.  Solo  per  altro  breve  accenno 
il  poeta  ci  figura  novamente,  cioè  per  qualche  riga  del  proemio  alle  Fami- 
liares  (ed.  Fracassetti,  1,  14):  «  Quod  genus  (la  poesia  volgare)  apud  Siculos, 
«  ut  fama  est,  non  multis  ante  saeculis  renatum,  brevi  per  omnem  Italiani 
«  ac  longius  manavit  >. 

Movendo  da  queste  attestazioni,  integrate  a  lor  volta  col  noto  passo  del 
De  vulgari  eloquentia  che  dà  categorica  ragione  del  nome  di  siciliana  im< 
posto  alla  scuola  meridionale  provenzaleggiante,  il  Cesareo  torna  in  primo 
luogo  a  colorire  un'ipotesi  a  lui  molto  cara,  sebbene  poco  accetta  al  più 
de'  critici  ch'ebbero  a  farne  parola:  un  di  questi,  il  De  LoUis,  è  anzi  più 
spesso  nominato  e  discusso,  a  proposito  della  sua  recensione  all'altro  libro 
del  Cesareo:  La  poesia  siciliana  sotto  gli  Soevi  (cfr.  questo  Giornale^  27, 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  157 

112  sg.).  Trattasi  dell'asserto  che,  all'età  di  Federico  II,  la  lirica  d'arte  in 
Sicilia  dovesse  già  essere  da  tempo  coltivata,  che  cioè  il  periodo  che  diremo 
storico  della  produzione  provenzaleggiante  deva  stimarsi  preceduto  da  un 
altro  periodo  «  di  gestazione  torbida  e  ignota  »  al  quale  sarebbero  forse  da 
ascrivere  «  i  nomi  d'alcuni  poeti,  galleggianti  in  estratti  di  codici  ora  per- 
duti, non  occorrendo  più  nei  codici  relativamente  tardivi  che  possediamo  ». 
A  tal  supposizione  il  Cesareo  si  sforza  di  mostrare  che  non  fanno  contro 
né  il  Petrarca  né  Dante,  nei  passi  ora  accennati  :  anzi  Dante  «  affermando 
«  che  il  volgar  siciliano  superò  gli  altri  per  fama  al  tempo  di  Federico  e  di 
«  Manfredi,  pare  sottintendere  un  periodo  antecedente  »  nel  quale  avrebbero 
poetato  per  propria  elezione  anche  alcuni  dei  futuri  cortigiani  di  Federico 
che  poi,  già  maturi  d'età  e  saliti  ad  alti  gradi,  seguitarono  a  compor  versi 
per  gradire  all'imperatore.  Tali  ad  esempio  Pier  della  Vigna  e  il  Notar  da 
Lentino.  Ma  certo  quest'audace  edifizio  di  ricostruzione  storica  non  avrebbe 
trovato  mai  nell'acuto  senno  critico  del  Cesareo  un  sì  tenace  sostenitore, 
senza  l'appoggio  di  un  qualche  dato  cronologico  favorevole:  e  un  dato, 
proprio  uno  solo,  egli  confida  tuttavia  di  trovarlo  nella  tormentatissima 
stanza  di  Jacopo  da  Lentino:  «  Tant'é  gran  cosa  ed  inoiosa...».  Non  ostanti 
le  obbiezioni  mossegli  già  contro  da  valenti  eruditi,  non  ostante  una  fe- 
lice spiegazione  novamente  proposta  dal  prof.  Gian,  il  Cesareo  persevera 
a  creder  certa  in  quei  versi  l'allusione  ad  un  assedio  di  Siracusa  nell'anno  1205 
e  fissa  quindi,  per  l'inizio  dell'attività  poetica  del  Lentinese,  un  termine  di 
gran  lunga  più  antico,  che  non  sia  quello  universalmente  tenuto.  E  poiché 
l'influsso  della  lirica  di  Provenza  in  questa  stessa  rima,  presunta  si  antica, 
é  innegabile,  il  Cesareo  rincalza  di  sottili  ragionamenti  la  vecchia  opinione 
che  solo  a  Bologna  —  ritrovo  di  molti  studenti  anche  Siciliani  —  possa 
avere  il  Notaro  appreso  i  modi  e  le  forme  del  trovar  Provenzale,  insieme 
con  quegli  altri  meridionali,  congetturati  suoi  coetanei  nel  dire  per  rima. 
Quivi  altresì  essi  avrebbero  imparato  l'arte  di  dirozzare  il  dialetto  nativo, 
in  un  centro  ove  Guido  Fava  ed  altri  grammatici  davano  ammaestramenti 
di  volgare  letterario,  già  nel  primo  quarto  del  secolo  XIII.  Così  sarebbero 
riusciti  a  quel  «  siciliano  illustre,  vale  a  dire  ripolito  e  temprato  sul  modello 
«  latino,  con  qualche  imprestito  provenzale  per  il  formulario  cavalleresco 
«  d'amore  »,  proprio  dell'intera  scuola.  Risorge  insomma  qui  la  teoria  di 
E.  Monaci  abilmente  ritoccata  e,  in  molti  particolari,  resa  più  verosimile: 
ma  rimangono  sempre  validissime  le  obbiezioni  a  tutto  ciò  del  De  Lollis, 
nell'articolo  citato,  come  resta  audace  e  pericoloso  il  porre  a  chiave  di  volta 
dell'intera  costruzione  quella  data  1205,  desunta  da  pochi  versi  problematici 
a  segno,  che,  in  coscienza,  non  si  può  esser  certi  di  capirli  nemmen  ora, 
dopo  che  tanti  critici  valorosi  ne  tentarono  svariate  e  contradditorie  spie- 
gazioni! 

Maggior  consenso  riscuoterà  invece  la  seconda  parte  di  quest'articolo, 
rivolta  a  mettere  in  guardia  contro  parecchie  identificazioni  storiche,  ten- 
tate negli  ultimi  anni,  massime  per  opera  di  F.  Torraca  e  di  A.  Zenatti, 
di  alcuni  antichi  rimatori  siculi  noti  a  noi  per  nome  soltanto,  con  gentil- 
uomini e  dignitari  della  corte  di  Federico  II,  dei  quali  si  ritrovarono  men- 
zioni nel  corpo  dei  documenti  sincroni  rimastici.  Tentar  quest'unica  via  in 


158  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

traccia  d'un  barlume  di  luce,  è  tal  impresa  da  meritare  l'applauso  d'ogni 
persona  discreta,  e  noi  affrettiamo  col  più  vivo  desiderio  la  pubblicazione 
d'un  libro  del  Torraca,  già  annunziatoci  da  tempo  per  sua  personale  cortesia, 
ov'egli  svolgerà  con  largo  corredo  di  riferimenti  i  preziosi  articoli  sulla 
scuola  siciliana,  che  s'ammirarono  inseriti  a  riprese  nella  Nuova  Antologia. 
Nondimeno  bisogna  riconoscere  che,  nei  singoli  casi,  gli  errori  e  le  incer- 
tezze di  siffatte  identificazioni  possono  essere  frequenti,  dato  il  curioso  ripe- 
tersi d'omonimie,  di  cui  offerse  un  cospicuo  saggio  lo  stesso  Zenatti,  a  pro- 
posito di  Arrigo  Testa.  Onde  si  mediteranno  con  vantaggio  le  considerazioni 
del  Cesareo,  specie  sui  nomi  di  Rinaldo  d'Aquino  (p.  191),  di  Giacomino 
Pugliese  (193),  di  Mazzeo  di  Ricco  (196)  e  di  Arrigo  Testa  or  nominato  (201), 
per  ammettere  agevolmente  con  lui  che  ìi  personalità  storica  dei  suddetti 
rimatori  anche  oggid'i  può  tenersi  gravemente  sospetta.  Efficaci  altresì  sono 
le  note  a  proposito  di  Re  Federigo  d'Antiochia,  cui  si  vuol  torre  il  vanto 
d'aver  poetato  accanto  al  genitore,  considerandosi  come  pure  «  esercitazioni 
«  oggettive  su  di  un  motivo  popolare  »,  senza  il  menomo  riguardo  allo  stato 
personale  dell'autore,  certe  frasi  allusive  a  stato  di  sudditanza,  contenute  in 
canzoni  da  qualche  codice  ascritte  a  «  re  Federigo  »  anziché  a  Federigo 
imperatore. 

La  conclusione  dell'articolo,  raccomandabile  agli  studiosi  non  ostante  possa 
in  esso  rincrescere  una  nota  quasi  regionalistica  un  po'  troppo  appariscente, 
è  nelle  seguenti  righe  (p.  209)  con  le  quali  finisce:  «  Poesia  siciliana,  dunque; 
«  non  soltanto  perchè  assai  rimatori  siciliani  gravemente  cantarono  e  perchè 
«  Federico  e  Manfredi,  benigni  a  quella  poesia,  avevano  il  soglio  regale  in 
«  Sicilia;  ma  anche  perchè  que'  rimatori  risultano  i  più  antichi,  i  più  nume- 
«rosi,  i  più  fecondi;  ma  anche  perchè  que'  principi  eran  re  di  Sicilia  e 
«  l'aula  regia,  poco  o  molto  che  vi  dimorassero,  era  Palermo;  ma  anche  perchè 
*  quella  poesia  è  quasi  tutta  localizzata  in  Sicilia;  ma  anche  perchè,  final- 
«  mente,  il  volgare  illustre  in  cui  si  cominciò  a  tentare  la  nuova  poesia,  fu 
«  siciliano,  e  gli  stessi  poeti  venuti  su  poi  in  altre  parti  d'Italia  non  se  ne 
«  poteron  mai  in  tutto  staccare  ». 

Più  gravi  questioni  che  non  i  precedenti  portò  seco,  come  vedremo,  il 
quarto  ed  ultimo  saggio  del  volume  (pp.  213-287)  su  Le  «.poesie  volgari* 
del  Petrarca.  Gli  asserti  in  esso  contenuti  sono  abbastanza  noti,  esposti 
come  furono  pochi  anni  addietro,  quasi  per  intero,  in  due  articoli  della  Nuova 
Antologia  e  sarà  quindi  sufficente  riassumerli ,  per  poi  render  breve  conto 
d'una  polemica  dai  medesimi  suscitata.  L'autore  vuol  provare:  l®  Che  il 
Petrarca  fu  ben  lungi  dal  raccogliere  nelle  sue  rime  <  quasi  una  somma  di 
€  testimonianze,  ornate  squisitamente,  ma  in  tutto  conformi  a  realtà  »  circa 
i  suoi  amori  famosi  per  madonna  Laura.  2©  Ciò  esser  tanto  poco  vero,  che 
anzi  nella  raccolta  attuale  si  ritrovano  componimenti  parecchi,  scaturiti  dal 
cuore  del  poeta  sotto  l'impulso  d'altre  passioni  amorose,  che  ne  travaglia- 
rono l'animo,  e  prima  e  lungo  il  tempo  del  suo  amore  per  la  bella  Avigno- 
nese,  e  dopo  la  morte  di  lei.  3**  L'assoluta  fedeltà  quadrilustre  del  Petrarca 
verso  una  sola  donna  non  solo  sarebbe  in  disaccordo  col  «  carattere  dell'uomo 
€  ardente  e  sensuale,  di  fantasia  mobile  e  calda,  dato  a'  piaceri  d'ogni  sorta  », 
ma  altres'i  con  <  la  consuetudine  della  generazione  poetica  che  l'avea  pre- 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  159 

<  ceduto  e  onde  ai  procedeva  ».  Che  abbia  poi,  in  età  matura,  voluto  celare 
la  varietà  dei  suoi  amori,  il  Cesareo  lo  spiega  in  forza  d'una  preoccupazione 
morale  ed  artistica  a  un  tempo.  Morale  in  quanto,  attempato  e  già  celebre, 
«  dovette  forse  considerare  che  un  tant'uomo  non  potea  dimostrarsi  pubbli- 
«  camente  con  tutte  le  sue  debolezze,  con  tutte  le  sue  intemperanze  dell'età 
«  verde  »  anzi,  volendo  «  ricomporre  la  raccolta  delle  sue  rime,  ei  dovette 
«  provare  uno  spavento  indicibile  all'idea  di  lasciarle  correre  per  il  mondo 
«  e  pei  secoli,  con  segni  visibili  d'assai  traviamenti  amorosi  ».  La  sua  va- 
nità d'artista  gl'impedi  in  tal  frangente  di  ricorrere  a  un  rimedio  radicale, 
eliminando  tutte  le  rime  non  composte  per  Laura:  e  così  rigettò  appena 
qualche  composizione  «  dove  un  altro  amore  si  rileva  troppo  apertamente, 
«  accolse  le  altre,  forse  qua  e  là  ricolorando  e  velando,  e  sparpagliandole  poi 
«  tra  le  rime  per  Laura,  in  guisa  che  si  potesser  tenere,  cosi  a  occhio  e  croce, 
«  tutte  composte  per  lei.  E  vi  riusci  tanto  bene,  che  noi  siamo  ancor  qui  a 
€  disputare  appunto  su  questo  »  (p.  240), 

La  preoccupazione  estetica  poi  sarebbe  rivelata  dal  titolo  stesso  di  Rerum 
vulgarium  fragmenta,  con  cui  l'autore  tramandò  la  raccolta.  «  Manifesta- 
«  mente  il  vocabolo  Fragmenta  si  riferisce  a  un  pensiero  nascosto  del  poeta; 
«a  un  suo  intendimento  di  collegar  tra  loro  quelle  rime,  spesso  aggiun- 
«  gendone,  come  fece,  ove  gli  paresse  buono,  per  modo  di  dar  loro  un'unità 
«  non  soltanto  materiale,  ma  ideale  »  (p.  241).  Cosi  le  Poesie  volgari  altro 
non  avrebbero  dovuto  riuscire  se  non  «  la  storia  d'un  uomo,  il  quale  s'affa- 
«  tica  a  conoscer  sé  stesso,  a  osservare,  a  scrutare,  a  analizzare  i  moti  più 
«  oscuri  dell'animo  suo,  volto  qua  e  là  dal  soffio  delle  passioni,  e  poi  con- 
«  sidera  attentamente  lo  spettacolo  alto  e  tremendo  della  morte,  e  ciò  tutto 
€  per  conseguire  l'umiltà  e  il  timor  di  Dio  »  (p.  244).  Questo  concetto,  forse 
vagheggiato  dopo  il  giubileo  del  1350,  non  fu  mai  compiuto  per  guisa  da 
appagare  l'autore,  che  considerò  l'opera  in  uno  stato  di  continua  formazione, 
mentre  tuttavia  lavorava  a  coronarla  con  la  terza  parte,  cioè  coi  Trionfi. 
Nel  frattempo,  non  trovò  altro  titolo  più  adatto  di  Fragmenta^  da  apporre 
a  quel  tanto  di  lavoro  che  gli  sembrò  condotto  a  sufficente  grado  di  per- 
fezione. 

L'ipotesi  del  Cesareo,  degna  in  molte  parti  d'un  critico  ch'è  a  un  tempo 
artista  geniale,  si  assomma  nelle  linee  ora  esposte;  pur  sussidiata  e  contor- 
nata da  altri  ragionamenti  accessori  che  meritano  considerazione,  massime 
a  pp.  251-61,  ove  è  propugnata  la  supposizione  che  il  poeta,  nel  ritoccare 
l'incondito  insieme  delle  sue  rime,  si  sia  anche  proposto  di  raggiungere  una 
fittizia  «  unità  di  luogo  rispondente  non  alla  realtà  storica,  ma  alla  linea- 
le zione  ideale  dell'opera  »,  a  quella   «  storia  di  un'anima,  ch'è  la  raccolta 

<  delle  poesie  volgari  ».  Quest'ultimo  punto,  per  altro,  sembra  a  noi  che  abbia 
già  avuta  anticipata  contraddizione  nel  saggio  fine  e  convincente  del  Flamini 
sul  luogo  di  nascita  di  Laura,  e  può  darsi  che  il  Cesareo  stesso  si  sia  in 
parte  almeno  ricreduto,  dopo  le  obbiezioni  saviamente  ragionate  da  Andrea 
Moschetti  in  una  recensione  al  presente  suo  libro,  la  quale  si  legge  nella 
Rassegna  bibliografica  di  Pisa  (an.  VII,  p.  82  sg.). 

Resta  l'asserto  fondamentale  del  «  romanzo  psicologico  in  versi  »,  appog- 
giato in  parte  sulla  fede  che  parecchie  delle  rime  credute  per  Laura  siano 


100  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

state  scritte  in  origine  non  per  lei,  ma  per  altri  amori.  Alla  dimostrazione 
della  tesi  egli  dedica  le  pp.  317-31  del  libro,  che  contengono,  come  il  soggetto 
domanda,  minate  analisi,  nelle  quali  converrebbe  dunque  seguirlo,  se  ciò  non 
fosse  già  stato  fatto  successivamente  da  due  studiosi  in  appositi  lavori:  da  Lo- 
renzo Mascetta,  in  un  articolo  inserito  nell'annata  XUl*  della  Rass.  Pugliese  (1) 
e,  con  intenzioni  piìi  esaurienti,  da  E.  Sicardi  nel  volumetto  che  anche  ci- 
tammo a  capo  della  nostra  recensione.  Il  pensiero  di  quest'ultimo  è  chiarito 
dalle  seguenti  righe:  «Proveremo  che,  sia  nel  canzoniere  che  altrove,  in 
«  tutte  le  opere  del  Petrarca,  non  c'è  neppure  la  più  lontana  traccia  di  un 
€  altro  suo  amore,  o  giovanile,  o  senile,  che  non  sia  per  Laura;  e  dimostre- 
€  remo  infine  che  non  abbiamo  argomento  alcuno,  anche  mediocrissimamente 
«  apprezzabile  per  accettare  come  vero,  od  anche  come  verosimile,  tutto  ciò 
€  che  da  parecchi  critici  e  per  ultimo  dal  Cesareo  —  che  tutti  li  assomma 
«  —  s'è  venuto  affermando  intorno  a'  costumi  e  alla  moralità  del  nostro  poeta. 
«  E  se  egli  ce  lo  dipinge  a  dirittura  come  un  uomo  molto  sensuale,  noi  pro- 
«  veremo  che  fu  invece  persona  singolarmente  pudica  e...  migliore  assai  di 
«  quello  che  da  molti  non  venga  oggi  rappresentato  ».  Basta  questa  citazione 
per  apprendere  da  che  lato  venga  a  peccare  l'opera  intera:  vi  si  vuole  provar 
troppo,  abbondando  in  asserti  che  rispecchiano  talora  un  convincimento 
dell'autore,  meglio  che  un  fatto  provato  alla  luce  dei  documenti. 

Un  poco,  bisogna  riconoscerlo,  il  difetto  stesso  che  si  deplora  in  certe 
parti  dell'argomentazione  del  Cesareo,  ma  solo  in  senso  opposto  1  Così,  come 
accade,  i  due  critici  trovarono  buon  giuoco  per  contraddirsi  a  vicenda:  e 
se  il  Cesareo  oppose  alle  osservazioni  del  Sicardi  una  replica  vigorosa  nel 
Giornale  Dantesco,  non  è  credibile  che  il  suo  avversario  col  successivo  si- 
lenzio abbia  inteso  d'accusare  la  propria  sconfitta.  Quando  invece,  com'è  da 
augurare,  egli  abbia  taciuto  pensando  che  ormai  gli  studiosi  del  Petrarca 
sono  sull'argomento  illuminati  abbastanza  e  possono  scegliere  con  la  debita 
cognizion  di  causa  il  loro  partito,  fece  ottima  cosa.  E  i  Petrarchisti,  a  lor 
volta,  faranno  benissimo  tenendo  anche  in  questo  caso  una  via  di  mezzo  tra 
i  due  opposti  pareri,  non  tanto  irreconciliabili  forse,  come  parve  ai  due 
contendenti. 

Nel  processo  —  per  adottare  immagini  curialesche  non  inopportune  — 
dal  Cesareo  mosso  contro  il  Petrarca,  due  punti  son  da  mettere  in  rilievo: 
in  primo  luogo  la  capacità  di  delinquere  in  fatto  d'amore,  da  parte  del 
poeta;  e  secondariamente  le  prove  di  questa  sua  versatilità  di  passioni,  rica- 
vata dalle  opere  di  lui.  I  due  punti  son  certo  coordinati  tra  loro,  ma  è  vero 
altresì  che  per  noi  importa  essenzialmente  il  secondo.  In  verità  non  crediamo 
possa  essere  intendimento  e  diritto  della  critica  l'esplorare  le  intime  latebre 
psicologiche  d'un  artista ,  se  non  in  quanto  ciò  sia  prezioso  ad  intendere 
quelle  manifestazioni  del  suo  pensiero,  che  a  lui  piacque  lasciare  all'ammi- 
razione delle  genti.  Ora,  in  questa  prima  parte  dell'analisi,  il  Cesareo  ha 
ragione  dove  cita  dei  fatti,  ma  non   è   sempre  giusto,  quando  ogni  asserto 


(1)  Ertntto  in  opasoolo  eoi  Utolo  OU  amori  del  Petrarca,  Truii.  V.  Vecchi,  1896. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  161 

piega  sistematicamente  alla  sentenza  peggiore  :  il  Sicardi  a  sua  volta  eccede 
nel  negare  o  nell'attenuare  oltre  il  possibile  certe  realtà,  ma  meglio  s'appone 
là  dove  non  vede  nel  Petrarca  uno  spirito  dedito  quasi  metodicamente  alla 
dissimulazione,  per  guisa  da  concedere  a  noi  posteri  il  diritto  di  leggergli 
di  continuo  tra  le  righe,  di  volgere  al  peggio  quanto  narra,  a  proposito 
delle  sue  passioni. 

«  Santo  il  Petrarca  ifon  fu  ;  fu  uomo,  con  molte  qualità  e  alcuni  difetti, 
«  fra  cui  quello  di  quasi  tutti  i  poeti,  da  Dante  al  Tasso  e  al  Foscolo,  l'in- 
«  clinazione  soverchia  ai  piaceri  sensuali.  Amò  più  donne,  ebbe  due  figli 
«  naturali...  ».  Queste  conclusioni  del  Cesareo,  nel  Giornale  Dantesco,  non 
peccheranno  di  novità,  ma  sono  ovvie  :  il  critico  che  le  raccolse  ha  il  merito 
d'aver  coordinato  e  messo  insieme,  massime  da  scritti  latini  del  poeta,  copia 
larga  d'asserti  che  valgono  a  provarle,  né  il  Sicardi  può  (ad  esempio)  ob- 
biettar  nulla  alla  realtà  dei  due  figli  naturali  ch'ebbe  il  Petrarca  da  una  o 
due  donne  a  noi  ignote,  come  non  gli  riesce  di  scemare  importanza  a  quel- 
l'epistola delle  Familiares  (IX,  3).  «  Importune  fores  obsidet  amica...  »,  con 
quanto  segue.  E  in  vero  dove  egli  cerca  Cpp.  139-145)  di  conciliare  queste 
testimonianze  biografiche  con  i  suoi  criteri,  non  riesce  a  convincere.  Per 
dirne  una,  la  petulanza  dell'amica,  tanto  deplorata  nel  momento  di  scrivere 
l'epistola,  punto  non  esclude  che  la  poveretta  avesse  in  altri  tempi  suscitato 
ben  altri  sentimenti,  anche  poetici,  nel  cuore  di  messér  Francesco!  E  si 
rischia  d'essere  molto  avventati  a  volerla  bollare,  col  Sicardi,  «  una  donnac- 
ce cola  delle  tante,  venuta  lì  forse  con  la  speranza  di  fare  una  buona  cena  ». 

Sicché,  per  finire  su  questo  punto,  ogni  animo  spassionato  riconoscerà  non 
sol  possibile,  ma  certo,  che  il  Petrarca  in  sua  vita  amò  altre  donne  oltre 
Laura:  e,  data  la  tempra  rafiìnatamente  sentimentale  del  poeta,  non  si  sen- 
tirà nemmeno  costretto  —  come  sembra  al  Sicardi  —  d'escludere  in  massima 
la  congettura  che  proprio  qualcuna  di  tali  donne,  bramata  forse  ed  amata 
per  non  breve  corso  di  tempo,  abbia  destato  nel  poeta,  più  che  un  semplice 
turbamento  di  sensi,  un'esaltazione  d'afietti,  la  quale  benissimo  poteva  trovar 
suo  sfogo  in  un  canto  d'amore.  Frasi  eccessive,  una  espressa  tendenza  a  colorir 
meno  simpaticamente  il  carattere  morale  del  Petrarca,  così  da  svisar  quasi 
il  significato  d'alcuni  suoi  sfoghi,  suggeriti  piuttosto  da  momentanei  scrupoli 
che  non  dal  rimorso  di  gravi  trascorsi  morali,  si  osservano  nei  due  scritti 
del  Cesareo;  e  in  ciò  è  caro  accostarsi  al  Sicardi,  che  vede  le  cose  con  più 
umana  simpatia  verso  il  grande  poeta  ;  ma  i  fatti  son  fatti,  né  ragionamento 
può  cambiarli. 

Sì  :  il  Petrarca  poetò  forse  talvolta  per  altre  donne,  oltre  che  per  Laura... 
chi,  in  sostegno  del  contrario,  sia  disposto  a  porre  la  mano  sul  fuoco,  non 
soltanto  dà  segno  d'essere  scarsamente  penetrato  nell'anima  fluttuante  del 
grande  lirico  medioevale,  ma,  che  é  più,  mostra  di  conoscere  troppo  da  lungi 
l'indole  dei  moti  e  degli  impulsi  d'una  qualsiasi  anima,  vibrante  come  che 
sia  agli  irresistibili  richiami  del  bello  e  della  musa.  E  poiché,  d'altra  parte, 
il  Cesareo  dimostrò  a  esuberanza,  con  ragioni  storiche  e  psicologiche,  che  le 
Rime  volgari  contengono  ben  altro  da  un  semplice  diario  d'amore,  l'intru- 
sione abilmente  dissimulata  tra  queste  d'alcuna  poesia  non  composta  in  ori- 
gine per  Laura  é  tal  ipotesi,  da  non  menar  seco  uno  scandalo. 

OiornaU  ttortco,  XXiVIII,  fase.  112-113.  11 


162  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

Basta  poi  non  passare  il  segno,  varcando  troppo  bruscamente  dal  campo 
del  possibile  a  quello  delle  prove  provale;  volendo  indicare,  come  fa  il 
Cesareo,  determinate  rime  della  raccolta  petrarchesca,  che  per  Laura  non 
possono  essere  state  composte. 

In  verità  il  Cesareo  stesso,  nel  volume,  accenna  pur  sempre  a  un  €  sospetto, 
€  che  messer  Francesco  cantasse  oltre  Laura  più  donne  »  (p.  235):  solo  più 
tardi,  nell'articolo  suo  caldamente  polemico,  si  spinge*  più  oltre,  in  un  campo 
ove  meno  ci  sentiamo  disposti  a  seguirìo.  Fu  lui  che  ci  ammonì  appunto 
di  guardarci  dal  concedere  alle  rime  petrarchesche  un  eccessivo  valore  au- 
tobiografico e  ci  avverti  che  molti  pensieri  noi  leggiamo  in  esse,  non  usciti 
di  getto  dal  cuore  del  poeta,  ma  frutto  di  tardi   pentimenti,  di   posteriori 

esercitazioni  estetiche Lui,  meglio  d'altri,  ci  vorrà  ancora  concedere  che 

negli  ondeggiamenti  d'una  tempra  delicatissima  d'artista  molte  peripezie  in- 
significanti, massime  amorose,  assumono  spesso  tale  entità  da  obbiettivarsi 
in  forme  e  fantasmi  poetici,  che  a  mente  fredda  condurrebbero  ad  interpre- 
tazioni  troppo  disformi  dal  vero  chi  più  tardi  volesse  rendersene  ragione. 

Come  potremo,  ciò  posto,  a  distanza  di  tanti  secoli,  argomentarci  di  tra- 
scegliere noi  di  mezzo  alle  molte  rime  del  Petrarca  quelle  poche  ch'egli 
ben  può  —  secondo  una  felice  ipotesi  —  aver  pensate  per  altre  donne,  ma 
che  poi  acconciò  di  sua  mano,  giusto  per  cancellare  in  esse  ogni  traccia 
delle  precedenti  passioni?  Come  potremo,  per  un  esempio,  asserire  recisa- 
mente che  il  sonetto  Se  col  cieco  desir non  potè  esser  composto  per 

Laura,  in  quanto  pare  alluda  a  un  convegno  d'amore  da  lei  promesso  ai 
poeta? 

La  pudica  Laura,  che  dà  appuntamenti  al  Petrarca?  —  Ma  chi  può  esclu- 
dere, di  grazia,  che  la  promessa  del  convegno  si  riducesse  a  una  innocente 
assicurazione,  colta  per  caso  o  carpita  con  astuzia,  di  ritrovarsi  insieme  ad 
un  ballo,  a  una  conversazione?  Di  certo  il  tono  dei  quattordici  versi  può 
parer  troppo  tragico  per  s'i  piccolo  evento,  come  sarebbe  la  mancata  spe- 
ranza d'ottenere  un  semplice  colloquio  con  l'amata I  ma 

Chi  pon  fVeno  agli  amanti  e  dà  lor  legge? 

Chi,  soprattutto,  riuscì  mai  a  far  pesare  tutte  le  frasi  a  un  poeta  innamorato? 
A  questa  stregua  considerando  le  cose,  si  capirà  come  il  Sicardi,  il  quale 
caso  per  caso  prende  in  esame  le  allusioni  ad  altri  amori  traveduti  dal 
Cesareo  nelle  rime,  abbia  spesso  buon  gioco,  non  tanto  nel  convincere  ap- 
pieno, quanto  neiraggravare  le  incertezze  dallo  stesso  Cesareo  non  sempre 
dissimulate.  Tale,  in  complesso,  è  la  parte  più  cospicua  e  più  interessante 
della  sua  critica,  scrìtta  in  forma  troppo  prolissa,  che  sente  di  giornale  più 
che  di  volume,  ma  che  si  legge  volentieri  per  la  molta  convinzione,  per  il 
tono  non  mai  smentito  di  accesa  e  non  ingiustificata  simpatia  verso  un 
grande  italiano.  E  piace  il  trovare  in  essa  (pp.  6-fó)  ben  dimostrata  l'ina- 
nità della  noia  congettura  del  Mestica,  che  nel  secondo  sonetto  delle  rime 
in  vita  si  descriva  il  principio  d'un  innamoramento  antecedente  a  quello 
per  Laura:  mentre  non  si  resta  persuasi  da  un'altra  argomentaziooe,  iniaes 
a  provare  che  nemraen  dopo  morta  la  bella  Avignonese  il  Petrarca  cedette 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  163 

a  una  nuova  simpatia,  confessata  in  una  rima  estravagante  a  maestro  An- 
tonio da  Ferrara. 

Non  ci  fermeremo  sulle  due  brevi  appendici  che  chiudono  il  bel  libro  del 
Cesareo,  perchè  la  prima:  Di  un  codice  petrarchesco  della  biblioteca  Chi- 
giana  è  ristampata  dai  «  Rendiconti  dell'Accademia  dei  Lincei  »  (Classe  di 
scienze  morali,  S.  V,  voi.  IV,  p.  188  sg.);  la  seconda  ha  forma  di  recensione 
favorevolissima  all'edizione  delle  Rime  del  Petrarca  curata  da  G.  Mestica 
sul  testo  originario,  e  non  è  se  non  la  prima  parte  del  saggio  che,  col  titolo 
La  nuova  critica  del  Petrarca ,  si  legge  nel  voi.  VI,  p.  258  sg.  della 
€  Nuova  Antologia  ». 

Flaminio  Pellegrini. 


AGOSTINO  ZANELLI.  —  Del  pubblico  insegnamento  in  Pistoia 
dal  XIV  al  XVI  secolo.  —  Roma,  Loescher,  1900  (S'^  gr., 
pp.  158). 

Fa  piacere  notare  come  in  questi  ultimi  anni  gli  studiosi  si  siano  dedicati 
con  nuovo  zelo  alla  storia  del  pubblico  insegnamento,  che  costituì  sempre 
tanta  parte  della  coltura  nazionale.  Alle  ricerche  degli  eruditi  del  sec.  XVIII, 
che  quasi  di  ogni  Università  ci  lasciarono  storie  generali  (1),  si  vengono 
ora  aggiungendo  numerose  monografie,  le  quali  in  un  campo  più  ristretto 
approfondiscono  le  indagini  e  recano  luce  sopra  qualche  particolare  aspetto 
sempre  interessante  della  vita  scolastica  dei  secoli  passati  (2).  Anche  per  le 


(1)  Una  sol  volta  lo  Z.  cita  la  storia  dell" Università  pisana  del  Fabroni  (Pisa,  Mugnaini,  1792) 
€  gli  opuscoli  del  Fabhrucci.  Noi  crediamo  che  qualche  notizia  sulla  provenienza  dei  singoli  maestri 
e  sai  loro  insegnamento  anteriore  e  posteriore  a  quello  impartito  in  Pistoia  si  poteva  desumere 
dalle  storie  delle  varie  Università,  come  quella  del  Papadopoli  per  Padova,  del  Gatti  per  Pavia, 
del  Vallauri  per  Torino,  dell'lsnardi  per  Genova  ecc. 

(2)  Giacché  lo  Z.  (pp.  4  e  5  ».)  si  prova  a  ricostruire  una  piccola  bibliografia  storica  delle 
scoole  italiane,  ci  sia  lecito  di  fare  qualche  aggiunta,  senza  pretesa  di  dare  uno  spoglio  completo. 
Parlano  di  Università  vere  e  proprie,  dove  si  conferivano  lauree,  i  lavori  del  Gabotto  (Giason  del 
Maino  e  gli  scandali  universitari  del  490,  Torino,  La  Letteratura,  1888),  del  Mandalari  {VeWA- 
Uneo  e  del  palazzo  deU'  Università  di  Catania,  Catania,  Galati,  1900,  e  L'Unitersità  di  Messina 
■«  la  Compagnia  di  Gesù,  ibid.),  non  che  gli  studi  pubblicati  pel  centenario  dell'Università  di 
Messina  (v.  Giorn.,  XXXVI,  476-77),  che  lo  Z.  non  fece  a  tempo  a  conoscere.  Cfr.  pure  D.  Bae- 
onzzj,  Documenti  per  la  storia  deW università  di  Siena,  Siena,  Lazzari,  1899.  Per  una  compiuta 
bibliografia  universitaria  vanno  pure  ricordati  gli  studi  del  Novati  {Gli  studenti  italiani  del  te- 
colo  XIT  e  XV,  iu  questo  Giorn.,  II,  129),  del  D'Ancona  {Lo  statuto  dello  studio  fiorentino,  in 
Varietà  sior.  e  lett.,  II,  211,  Milano,  Treves,  1885),  del  Paganini  sulla  studentesca  pisana  (in 
Rivista  critica  d.  lett.  ital.,  an.  188tf  passim),  del  Neri  {Scandali  degli  studenti,  in  Passatempi 
letterari,  Genova,  1882),  di  A.  Salza,  Una  baruffa  studentesca  a  Pisa  nel  1551,  nelV  Umbria  di 
Perugia,  1899).  Studiarono  la  storia  delle  Università  per  rispetto  alla  patria  degli  studenti  il 
Rodolico  (1  siciliani  allo  studio  di  Bologna  nel  M.  E.,  in  Arch.  stor.  sicil.,  XX,  I,  ii),  il  Pesti 


164  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

città  che  oggi  non  hanno  istituti  superiori  dove  si  conferiscano  lauree,  si  sono 
fatti  studi  e  ricerche  che  illustrano  le  scuole,  diciamo  così,  secondarie  che 
vi  fiorirono.  Questo  ha  fatto  col  presente  lavoro  lo  Z.  rispetto  a  Pistoia  ed  è 
fortuna  che  questo  studio  venisse  compiuto  da  chi,  come  lui,  si  era  già  reso 
benemerito  per  ricerche  di  questo  genere.  —  In  Toscana  Pisa,  Firenze,  Siena 
e  persino,  per  qualche  tempo,  Lucca  (1)  ebbero  nei  secoli  addietro  veri  e 
proprii  Atenei  dove  si  conseguivano  lauree  dottorali  :  non  così  invece  Pistoia, 
che  pur  vide  fiorire  tra  le  sue  mura  pubbliche  scuole  anche  di  diritto,  ove 
insegnarono  talora  maestri  insigni.  Lo  studio  dello  Z.  ha  il  merito  adunque 
di  porre  in  luce  le  vicende  e  la  vita  di  una  (ed  ab  una  disce  omnes)  delle 
tante  scuole  inferiori  che  i  comuni  italiani  mantenevano  nei  secoli  di  mezzo, 
prima  che  colla  controriforma  le  scuole  diventassero  monopolio  degli  ordini 
monastici.  —  Sebbene  la  più  antica  deliberazione  del  Comune  di  Pistoia  sul 
pubblico  insegnamento  risalga  solo  al  1332,  lo  Z.  trova  nelle  fonti  storiche 
pistoiesi  non  poche  traccie  dell'esistenza  di  maestri  e  di  scuole  anche  in 
tempi  anteriori.  Il  primo  maestro  che  in  quell'anno  fu  condotto  dal  Comune 
fu  ser  Baldi  da  Montale,  che  doveva  insegnare  ai  ragazzi  l'ars  dictandi  e 
la  logica.  L'insegnamento  del  diritto  e  dell'arte  notarile  cominciò  a  Pistoia 
due  anni  appresso,  cioè  nel  1334;  ma  fu  di  brevissima  durata,  perchè,  come 
osserva  lo  Z.,  «  nella  seconda  metà  del  trecento  l'insegnamento  s'andò  via 
€  via  restringendo   alla   grammatica  »    (2).   Noi    non  seguiremo  lo  Z.  nella 


{SUidénti  trentini  alle  ttnivers.  ital.,  in  Arch.  stor.  p.  Trento  e  Trieste,  IV,  I,  1886)  e,  se  m 
è  lecito,  il  sottoscritto  (Professori  e  studenti  piemontesi,  lombardi  e  liguri  all'università  di  Pisa, 
1470-1600,  in  Annali  delle  univ.  toscane,  voi.  XXI).  Dei  Maestri  di  Ancona  dal  1868  al  J558 
si  occupò  or  è  poco  Emesto  Spadolini,  in  Briciole  d'Archivio,  Ancona,  Marchetti,  1900  (t.  Gior- 
nale, XXXVII,  474). 

(1)  Cfr.  6.  Pabdi,  Titoli  dottorali  conferiti  nello  studio  di  Lucca,  in  Studi  storici  di  A.  Cri- 
vellncci,  ann.  Vili,  fase.  I. 

(2)  Se  qualche  maestro  come  Domenico  Aspettati  da  Bologna  e  Duccio  di  .Ser  Telli  da  Colle  Tal 
d'Elsa  insegnò  a  Pistoia  circa  la  metà  del  800  tanto  la  grammatica  e  Vars  dictandi,  quanto  l'ars 
notariae,  ciò  non  vuol  dire  che  l'ars  dictandi  o  rettorica  sMmmedesimasse  coll'arte  notarile  come 
TQole  lo  Z.  (p.  15).  L'ars  notoria»  che  si  insegnava  per  lo  più  sul  testo  di  Bolandino  Passegerio 
morto  nel  1800  (la  celebre  Summa  artis  notariae  che  ancora  nel  500  ebbe  varie  ediiioni  a  stampa, 
per  es.,  a  Venezia  nel  1549),  oppure  sullo  Speculum  Judiciale  di  Quglielmo  Durante  preferito  dai 
maestri  francesi,  era  insegnamento  giuridico  riservato  agli  alunni  più  maturi.  Pietro  Boatteri  di 
Bologna,  che  insegnò  arte  notarile  a  Pistoia  nel  1334,  fu  appunto  un  commentatore  di  Rolandino, 
ma  non  è  da  credere  che  egli  facesse  lezione  agli  stessi  allievi  tanto  di  rettorica  che  di  arte  no- 
tarile. It'ars  dictandi  o  rettorica  sMnaegnava  nel  800  per  lo  più  sui  testi  di  Ouido  Fava  (Doctrina 
ad  inveniendas  incipiendas  et  formando»  materias,  che  contiene  anche  qualche  esempio  di  lettera 
in  volgare  ristampato  recentemente  dal  Monaci,  Roma,  1900)  o  sulla  Rota  Yeneris  di  Bone«m- 
pagno,  sulla  Rosa  novello  del  citato  Pietro  Boatteri  e  consisterà  essenzialmente  in  eserdtasioni 
stilistiche  quasi  esclusivamente  epistolari.  Assai  inferiore  era  l'insegnamento  della  grammatica, 
della  quale  si  srilnppava  molto  solo  la  parte  morfologica:  nel  medio  evo  essa  si  era  insegnata  sopra 
infiniti  testi  che  altro  non  erano  se  non  rifacimenti  di  Donato,  di  Prisciano,  di  Massimo  Vittorino, 
di  Beda  ecc.,  per  lo  più  in  forma  catechetica  e  talora  anche  redatti  in  volgare  {ftr.  Kcir.,  Oram- 
matici  latini,  Lipsiae,  1887  :  Haoim,  Anecdota  kelvetica,  Bernae,  1878;  Thorot,  Notices  «l  extraits 
d»  divers  mowuscrits  latin»  pour  servir  à  l'histoir»  des  doctrines  grammaticale»  au  moif«n-óge, 
in  Notiee»  et  extraits  de  mss.  de  la  Bibl.  Nation.  d.  Paria,  t.  XXII,  p.  ii).  Verso  la  fine 'del 
•M.  XIII  la  grammatica  cominciò  qoasi  domnqne  ad  insegnarsi  sui  testi  redatti  in  Tersi  esametri 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  165 

esposizione  delle  condotte  e  degli  stipendi  dei  singoli  maestri  che  via  via  si 
succedettero  sulle  pubbliche  cattedre  di  Pistoia;  diremo  soltanto  che  alcuni 
fra  quegli  insegnanti,  ed  in  ispecial  modo  Antonio  da  S.  Gemignano,  intorno 
al  quale  dette  già  un  breve  cenno  lo  Zaccagnini  (1),  godettero  ai  loro  tempi 
fama  di  valentissimi.  Nel  1460  per  deliberazione  del  Consiglio  fu  stabilito  di 
restaurare  in  Pistoia  le  cattedre  di  diritto  civile  e  canonico  nonché  di  filosofia, 
le  quali  da  un  secolo  circa  erano  state  soppresse.  Gli  studenti  poveri  pistoiesi, 
che  prima  fruendo  di  due  lasciti  si  recavano  a  compiere  i  loro  studi  giu- 
ridici fuori  di  patria,  ebbero  allora  sussidi  per  poter  frequentare  a  Pistoia 
le  scuole  se  non  fino  alla  laurea,  che  ivi  non  si  conferiva,  almeno  fino  a 
procurarsi  una  sufiìciente  preparazione  prima  di  ascoltare  i  celebri  profes- 
sori delle  Università  dove  si  recavano.  Però  la  generosa  deliberazione  del 
Comune  non  potè  per  allora  essere  messa  in  atto  per  mancanza  di  denaro 
e  di  studenti;  per  parecchi  anni  ancora  Pistoia  ebbe  soltanto  le  scuole  di 
grammatica  e  di  calcolo  che  si  reggevano  secondo  gli  ordinamenti  del  1469. 
—  Ma  sul  finire  del  secolo  XV  nuovo  impulso  alle  pubbliche  scuole  in  Pi- 
stoia fu  dato  dalla  generosità  di  Niccolò  Forteguerri  e  dal  favore  del  Ma- 
gnifico, che  ivi  fece  allora  provvisoriamente  trasferire  lo  studio  generale  da 
Pisa,  la  quale  città  era  allora  infestata  dalla  peste.  Sulla  natura  e  sulla 
larghezza  del  beneficio  fatto  da  Niccolò  Forteguerri  alle  pubbliche  scuole  di 
Pistoia  lo  Z.  non  si  accorda  col  maggior  numero  degli  scrittori  di  cose  pi- 
stoiesi. I  più  dicono  che  il  Carteromaco  istituisse  in  Pistoia  un  liceo  e  do- 
nasse al  Comune  le  rendite  per  la  fondazione  della  casa  di  sapienza,  ossia 
di  un  collegio  gratuito  per  gli  studenti,  mentre  il  Comune,  colla  fusione  di 
cinque  ospedali  di  pellegrini  e  col  devolvere  parte  delle  rendite  di  quelli 
alla  restaurazione  delle  cattedre  di  diritto  da  tanto  tempo  soppresse,  non  faceva 
che  assecondare  il  nobile  impulso  del  Cardinale.  Lo  Z.  crede  invece  che  al 
Comune  spetti  il  vanto  di  avere  fondato  in  Pistoia  il  liceo  e  d'avere  sostenuto 
le  spese  degli  stipendi  ai  professori  e  dei  sussidi  ai  giovani  studenti  colie  ren- 


da Alessandro  di  Yillediea  e  da  Ererardo  di  Bethan.  Che  il  Dottrinale  di  Alessandro  fosse  in  uso 
nelle  scuole  italiane  ancora  sul  finire  del  400  e  sui  primi  del  500  è  provato  non  solo  dalle  vario 
edizioni  e  dai  commenti  di  Pilade  di  Brescia  (Brixise,  1500),  ma  persino  dalla  deliberazione  del 
Comune  di  Pistoia  del  19  agosto  1499  con  cui  si  faceva  obbligo  al  maestro  di  leggere  ogni  giorno 
il  Dottrinale  (p.  76).  (Cfr.  la  prefazione  del  Reichling  all'edizione  critica  del  Dottrinale,  in  ifo- 
numenta  Germaniae  Paedagogica,  t.  VII,  Berlino,  Hoffmann,  1893  ed  il  Thubot,  De  Alexandri 
de  Villadci  eiusque  fata,  Paris,  1860).  L'artificio  didattico  dell'insegnamento  grammaticale  in  verso 
dimostra,  se  ci  fosse  bisogno,  la  sua  elementarità;  l'ars  dictandi  invece  poteva  talora  anche  es- 
sere insegnata  ad  .idulti,  come,  per  esempio,  nel  trattatello  d'eloquenza  di  Ser  Matteo  de'  Libri 
da  Bologna,  edito  recentemente  a  Pistoia  (Fiori,  1900). 

(1)  Lo  Zanelli  non  fece  a  tempo  a  conoscerlo:  è  un  breve  appunto  snlV Insegnamento  di  An- 
tonio da  S.  Gemignano  in  Pistoia  ed  il  Soeomeno,  in  Bollett.  stor.  Pist.,  an.  II,  fase.  I,  p.  7. 
Ancora  più  recente  è  uno  studio  di  M.  Morici  sui  Maestri  Valdelsani  in  Pistoia  dal  sec.  XI 7 
al  X  VI  che  riguarda  più  specialmente  Antonio  da  S.  Gemignano,  uscito  nella  Miscellanea  storica 
deUa  Vnldelsa,  IX,  24.  Alla  n.  2  di  p.  9  lo  Zaccagnini  preannunzia  il  presente  studio  dello  Zanelli. 
La  condotta  di  Antonio  fatta  dagli  Anziani  pistoiesi  il  20  giugno  1401  è  pubblicata  per  intero 
dallo  Zaccagnini  (p.  11),  in  parte  dallo  Zanelli  (p.  20),  ma  tra  le  due  edizioni  corrono  tropp© 
varianti;  di  chi  la  colpa? 


166  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

dite  appunto  degli  ospedali,  mentre  al  Forteguerri  altro  merito  non  spette- 
rebbe tranne  quello  di  aver  fondato  borse  di  studio  pei  giovani  pistoiesi  che^ 
percorse  tutte  le  scuole  in  patria,  volessero  recarsi  altrove  a  proseguire  gli 
studi  per  laurearsi  (1).  —  Lo  studio  pisano  fu  trasferito  in  Pistoia  nel  1478  in 
seguito  alla  domanda  che  rivolse  al  Magnifico  il  canonico  Antonio  Marchetti. 
Benché  il  Comune,  sperando  forse  che  lo  studio  non  venisse  piiì  trasportato 
da  Pistoia,  provvedesse  di  suo  locali  e  banchi  alle  scuole,  tuttavia,  appena 
la  pestilenza  cominciò  anche  ivi  a  menare  strage,  professori  e  studenti  si 
squagliarono  e  non  ritornarono  alle  scuole  se  non  col  cessare  del  flagello. 
L'Università  pisana  rimase  a  Pistoia,  pare,  fino  al  1480,  nel  quale  anno  maestri 
ed  allievi  ritornarono  a  Pisa  tutti  (2),  tranne  Pietro  da  Ravenna  che  fu  eletto 
a  Pistoia  professore  di  diritto  civile  e  canonico.  Rimaste  in  Pistoia  quelle 
due  sole  cattedre  giuridiche,  nonché  le  scuole  inferiori  di  grammatica  e  di 
calcolo,  non  valsero  i  nuovi  ordinamenti  del  1498  a  salvarle  dal  decadimento 
che  inevitabilmente  doveva  loro  venire  per  le  continue  lotte  che  straziarono 
la  città  sui  primi  del  secolo  XVI  e  pel  dissesto  delle  finanze  del  Comune 
da  quelle  causate.  Quando  si  pensò  a  riaprire  le  scuole,  dapprima  la  tenuità 
degli  stipendi  rese  diffìcile  il  trovare  maestri,  poi,  cresciute  le  offerte  da  parte 
del  Comune,  si  trovarono  due  precettori  zelanti  e  dotti  per  opera  dei  quali 
lo  studio  pistoiese,  bene  riordinato  nel  1511  e  saviamente  amministrato,  rag- 
giunse allora  il  suo  massimo  splendore.  Ma  lo  splendore  durò  poco  :  l'incon- 
tentabilità dei  maestri  e  le  loro  gare  reciproche  coll'eterna  poca  voglia  degli 
scolari  fecero  presto  disertare  le  aule:  occorsero  allora  nuovi  ordinamenti 
per  risollevare  lo  studio  e  questi  furono  fatti  nel  1528  per  le  scuole  di  gram- 
matica, nel  1535  per  le  scuole  di  sapienza  ossia  superiori  o  giuridiche.  Ma 
le  scuole  comunali  pistoiesi  nella  seconda  metà  del  secolo  XVI  ebbero  l'ul- 
timo tracollo  quando  i  gesuiti  stabilirono  in  Pistoia  un  collegio,  contro  il 
quale  invano  lottarono  le  scuole  laiche.  Solo  nel  secolo  XVIII  colla  cacciata 
dei  gesuiti  le  scuole  ridivennero  governative  come  sono  oggi. 

Più  che  il  succedersi  dei  maestri  e  le  vicende,  diciamo  cosi,  esterne  dello 
studio  pistoiese  che  ci  siamo  ingegnati  di  riassumere,  interessano  le  notizie 
sugli  ordinamenti   interni,  sulle  materie  e  sull'ordine  d' insegnameuto,  sulle 


(1)  Il  prof.  Leopoldo  Psglicci,  pretide  del  Liceo  di  Pittoia,  nelle  sue  yotitie  tioriche  $  itati- 
Mtiekt  intorno  alia  Bibliotèca  Foriegìnrri  di  Pistoia  da  lui  presentate  alla  Mostra  didattica  di 
quella  città,  delle  quali  redo  cenno  sulla  Bibliofilia  (II,  40),  attribuisce  pure  al  Comune  il  merito 
della  fondazione  della  Biblioteca.  Lo  Zaccagnini  a  p.  7,  n.  2  del  citato  lavoro  accenna  al  lascito 
di  libri  fitto  dal  Soxomeno  al  Comune  di  Pistoia,  il  quale  lascito  costituì  il  primo  nucleo  della 
Fortegnerriana.  Certo  è  che  se  anche  il  Comune  non  fondò  la  Biblioteca,  ne  ebbe  tutte  le  cure  come 
provano  le  deliberazioni  consigliari  riferite  dallo  Zanelli  (p.  68,  n.  1). 

(2)  Lo  Z.  appoggiandosi  airindiscutibile  affermazione  documentata  del  Ciampi  (Mtmoris  di  Sei' 
piont  Carttronuuo,  Pisa,  1811,  p.  65),  nota  che  Lancillotto  e  Filippo  Decio  ebbero  la  eitUdi- 
nanza  pistoiese  in  compenso  dell'insegnamento  quivi  impartito.  Comprendiamo  come  ciò  pote«* 
•▼venire  per  Lancillotto  che  fin  dal  1478  era  lettore  a  Pisa;  Filippo  Decio  Invece  si  era  addot- 
torato ivi  1*8  novembre  del  '76  (v.  il  citato  mio  lavoro,  p.  33)  e  non  fu  condotto  come  lettore 
prima  del  1482,  nel  quale  anno,  come  si  desume  dalla  lettera  degli  Ufficiali  dello  Studio  fiorentino 
•dita  dal  Fabroni  (I,  195),  fu  chiamato  soltanto  a  sostituire  Lorenzo  Pucci  lettore  di  ius  civile. 
Come  potè  adunque  insegnare  a  Pistoia  nel  '78  ed  ottenere,  lui  giovanissimo,  simile  distinzione  ? 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  167 

condizioni  fatte  dal  Comune  agli  insegnanti.  Nel  medioevo  l'insegnamento 
era  stato  essenzialmente  monacale  o  privato:  fu  solo  col  sorgere  del  Comune 
e  col  fiorire  dei  liberi  ordinamenti  che  lo  Stato  sentì  il  bisogno  di  avocare 
a  sé  l'istruzione  e  l'educazione  della  gioventù.  Ma  il  Comune  non  assume 
d'un  tratto  l'ufficio  di  pubblico  educatore  e  prima  di  governare  e  reggere  si 
limita  ad  interessarsi  delle  scuole.  La  tenuità  dello  stipendio  che  da  prin- 
cipio il  Comune  assegna  al  maestro  e  più  ancora  il  fatto  che  questi  continua 
a  percepire  compenso  pecuniario  da  ciascun  scolare  (1)  e  fa  scuola  in  casa 
propria  dimostra  come  l' insegnamento  non  sìa  ancora  considerato  come 
una  funzione  dello  Stato.  Appresso  via  via  che  il  Comune  accresce  i  bene- 
fizi alla  scuola  ed  al  maestro  coU'assegnargli  una  casa  gratuita  (2),  col  con- 
cedergli un  ripetitore  o  più,  col  crescere  sopratutto  dello  stipendio,  aumentano 
anche  gli  obblighi  del  maestro  verso  il  Comune  e  questi  diventa,  si  può 
dire,  un  pubblico  ufficiale.  Non  solo  il  maestro  è  nominato  dal  Consiglio  del 
Comune,  ma  viene  anche  sottoposto  ad  un  Consiglio  di  sapienza  che  gli  fissa 
un  orario  stabilito,  un  turno  di  lezione,  un  programma,  un  massimo  di  va- 
canze godibili  e  non  gli  risparmia  neanche  le  ispezioni  in  scuola  da  parte 
di  due  cittadini  a  tale  ufficio  designati.  —  Per  le  materie  d'insegnamento 
profondo  è  il  distacco  in  tutte  le  scuole  del  secolo  XIV  e  XV  tra  gli  studi 
letterari  e  quelli  giuridici  e  filosofici:  i  primi,  benché  siano  rappresentati 
anche  nelle  Università  daW  Umanista  o  professore  di  lettere  che  legge  i 
classici  latini,  ristretti  come  sono  alle  esercitazioni  grammaticali  e  retoriche 
coU'esclusione  della  filologia,  che  pur  tanto  fioriva  nel  400,  costituiscono 
sempre  un  insegnamento  inferiore  meno  retribuito,  più  puerile,  il  nostro 
liceo  insomma;  i  secondi,  chiusi  nelle  Università  od  in  scuole  superiori  che 
rivaleggiano  con  quelle,  come  la  casa  di  Sapienza  in  Pistoia,  godono  mag- 
gior lustro  e  fruttano  pure  più  lauti  stipendi  ai  maestri.  —  Non  poche  altre 
osservazioni  ofi're  modo  di  fare  il  bello  studio  dello  Z.  che  illustra  non  solo 
la  storia  delle  pubbliche  scuole  in  Pistoia,  ma  anche,  per  affinità  di  vicende 
e  condizioni,  di  quelle  dell'Italia  tutta.  Potrà  spiacere  ad  altri  che  di  molti 


(1)  A  Pistoia,  nota  Io  Z.  (p.  37),  il  Comnne  stesso  nel  sec.  XIV  aveva  fissato  la  quota  di  re- 
tribnzione  da  pagarsi  al  maestro  da  parte  di  ogni  singolo  scolaro;  essa  era  di  un  fiorino  d'oro 
per  ogni  latinante  (ecco  gli  studenti  di  rettorica  od  ars  dictandi),  di  quaranta  soldi  per  ogni  stu- 
dente di  Donato  (ossia  scolari  di  grammatica  ancora  intenti  al  Dottrinale),  di  venti  per  ogni  alunno 
di  salterio  e  di  dieci  per  i  bimbi  che  studiano  la  tavola  (allievi  infimi  che  imparano  la  lettura 
e  l'abbaco).  Bene  osserva  lo  Z.  che  dovunque  gli  scolari  solevano  distinguersi  in  tre  gradi,  cor- 
rispondenti all'ingrosso  alle  nostre  scuole  elementari,  ginnasiali  e  liceali.  Ricordiamo  ad  esempio 
d'aver  letto  nel  Biorci  {Antickilà  e  prerogative  d'' Acqui  Stazielìa,  Tortona,  De-Rossi,  8.  d.  t.  II, 
p.  167,  n.  2)  che  il  Comune  fissò  la  rimunerazione  da  pagarsi  dagli  scolari  al  maestro  in  due 
fiorini  pei  latinanti,  uno  pei  donatisti,  ed  otto  soldi  per  ogni  scolaro  inferiore. 

(2)  Solo  nel  1514  (p.  96)  Pistoia  provvide  una  casa  ad  uso  esclusivo  di  scuola,  separata  dalla 
casa  del  maestro  ;  due  cittadini  furono  allora  incaricati  di  fare  frequenti  visite  ai  locali  e  di  rife- 
rire sul  conto  degli  scolari  e  dei  maestri.  La  giurisdizione  degli  Ufficiali  di  Sapienza  prima  limitata 
alle  scuole  di  diritto  fu  estesa  alle  scuole  minori  di  rettorica  e  di  grammatica  cogli  statuti  del  1498. 
Come  nelle  Università,  i  bidelli  erano  incaricati  di  riferire  sulle  assenze  dei  professori  per  fare 
loro  le  ritenute  sullo  stipendio.  Le  vacanze,  troppo  frequenti  davvero  (v.  pp.  56,  90,  110),  non 
erano  più  lunghe  di  quelle  universitarie,  coli 'aggravante  che  airUniversità  anche  allora  gli  stu- 
denti le  anticipavano  e  prolungavano. 


168  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

maestri  che  insegnarono  a  Pistoia  non  siano  date  più  ampie  notizie  non 
difficili  a  raccogliersi  nei  repertori  d'erudizione  (1)  o  nei  cataloghi  di  scrit- 
tori dei  varii  luoghi  d'onde  essi  provenivano;  il  che  certamente  avrebbe 
giovato  a  far  conoscere  il  valore  dei  maestri  e  gli  studi  speciali  ai  quali  si 
dettero.  Altri  forse  avrebbe  desiderato  qualche  notizia  anche  sugli  studenti 
e  sulla  loro  vita,  ed  i  documenti  numerosi  fatti  passare  dallo  Z.  dovettero 
certamente  offrire  ampia  messe  di  memorie,  ma  tutto  ciò  nulla  toglie  al 
valore  di  questo  studio,  encomiabile  per  ampiezza  di  ricerche,  per  opportuna 
ripartizione  e  per  la  saggia  scelta  dei  documenti.  GoU'includere  nelle  note 
molti  cenni  e  notizie  lo  Z.  ha  ottenuto  che  la  forma  del  suo  lavoro  restasse 
scorrevole*  e  spedita,  il  che  non  è  pregio  comune  quando  si  tratta  di  ricol- 
legare e  cementare  assieme  mille  date,  mille  fatti  raccolti  e  spigolati  da 
varie  fonti. 

Giuseppe  Manacorda. 


KARL  MUELLNER.  —  Redeyi  und  Brìefe  Ualienischer  Huma- 
nisten,  Ein  Beitrag  zur  Geschichte  der  Pàdagogik  des  Hu- 
raanismus.  —  Wien,  Alfred  Hòlder,  1899  (8»,  pp.  x-302). 

Questo  volume,  nitidamente  e  correttamente  stampato  a  spese  della  vien- 
nese Accademia  delle  Scienze,  è  il  frutto  d'un  viaggio  di  ricerca  che  il 
dr.  Mùllner  intraprese  in  Italia  per  raccogliere  documenti  atti  a  lumeggiare 
la  storia  della  pedagogia  pratica  nel  Rinascimento.  Lo  precedette, 
saggio  della  messe  adunata,  la  pubblicazione  di  otto  orazioni  inaugurali  di 
Guarino  veronese,  nei  volumi  XVIII  e  XIX  dei  Wiener  Studien,  pubblica- 
zione alla  quale  il  nostro  Sabbadini  aggiunse  un  acconcio  complemento  nella 
Biblioteca  delle  Scuole  italiane  (an.  VII,  n°  3,  maggio,  1897);  e  gli  terrà 
dietro,  promette  il  M.,  una  serie  di  dissertazioni  pedagogiche.  Ora  ci  si  of- 
frono trentuna  orazioni  e  quindici  lettere  latine,  del  secolo  XV  tutte,  eccet- 
tuate le  tre  ultime  lettere,  che  furono  scritte  fra  il  1559  e  il  '64  da  Ago- 
stino Valiero,  filosofo  e  pedagogista  di  buon  nome. 

Nel  breve  proemio  il  M.  rileva  il  carattere  generalo  delle  scritture  ch'egli 
mette  a  stampa  e  rende  conto  dei  criteri  seguiti  nella  riproduzione  dei  testi. 
Le  orazioni,  quando  se  ne  tolga  il  bell'elogio  funebre  del  Guarino  pronun- 
ciato da  Lodovico  Carbone,  che  citato  e  messo  a  profitto  già  dai  biografi 
dell'umanista  veronese,  vede  ora  per  la  prima  volta  la  luce  nella  sua  inte- 
grità (pp.  89  sgg.),  son  tutte  scolastiche  e  possono  distinguersi,  secondo  il  M., 
in  tre  gruppi:  orazioni  inaugurali  per  il   cominciaraento  dell'anno  accade- 


(1)  Per  i  lettori  di  legge  si  consalta  sempre  con  profitto  il  Paociroli  (D«  ctarit  Ugum  mterpri- 
Ubui)  e  talora  anche  per  i  più  noti  il  Savigny. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  169 

mico,  prolusioni  ad  un  corso  speciale  e  discorsi  d'abilitazione  (Habilitations- 
reden),  cioè  discorsi  tenuti  da  un  professore  che  saliva  per  la  prima  volta  la 
cattedra  in  uno  Studio.  11  terzo  gruppo  venne  necessariamente  a  intrecciarsi 
cogli  altri,  perché  accadeva  quasi  sempre  che  l'orazione  con  che  un  lettore 
si  presentava  a'  suoi  nuovi  colleghi  e  discepoli,  fosse  insieme  o  discorso 
inaugurale  o  prolusione;  talché  bastava  forse  la  distinzione  dei  due  primi 
gruppi  con  un  richiamo  allo  speciale  atteggiamento  che  le  orazioni  assu- 
mevano nel  caso  considerato  dal  terzo,  oppure  conveniva  fare  addirittura 
due  divisioni  correlative  ai  due  differenti  criteri  di  distinzione. 

Le  orazioni  inaugurali  racchiudono  per  lo  più  le  lodi  delle  cosiddette  arti 
liberali  in  genere;  le  prolusioni,  che  aprivano  la  via  all'interpretazione  d'uno 
scrittore,  discorrono  solitamente  questi  otto  punti:  «  intentio  auctoris,  utilitas, 
«  cuius  sit  liber,  titulus,  ordo,  divisio,  modus  doctrinae,  ad  quam  philoso- 
«  phiae  partem  reducatur  liber  ».  Gonfie  di  rettorica  vuota  sono  le  prime, 
e  gravi  d'una  monotonia  che  provocava  il  motteggio  dell' Argiropulo;  più 
sostanziose  e  più  varie  le  seconde,  dalle  quali  può  trarre  miglior  partito  chi 
voglia  conoscere  i  metodi  insegnativi  del  Rinascimento,  l' importanza  che 
allora  si  dava  alle  varie  discipline,  e  le  predilezioni  letterarie  delle  scuole. 
D'argomento  didascalico  sono  pure  le  lettere  trascritte  dal  M.;  in  alcune  sono 
esposte  le  norme  che  devono  regolare  gli  studi  e  la  vita;  altre  apparten- 
gono alla  numerosa  categoria  delle  scritture  educative  dei  principi  ;  altre 
lodano  le  scienze  ed  esortano  a  studiarle;  una  infine,  scritta  da  Giovanni 
Lamola  a  Guidantonio  Lambertini  (pp.  243  sgg.),  è  un  vero  trattatello  mo- 
rale. Naturalmente  si  le  orazioni  e  sì  le  lettere  abbondano  di  citazioni  e  di 
reminiscenze  classiche,  che  il  M.  riscontra  e  rileva  via  via  con  gran  dili- 
genza. 

L'edizione  è  condotta  con  buon  metodo  e,  ove  più  d'uno  siano  i  codici  esem- 
plati, senza  l'inutile  ingombro  delle  minute  varianti.  Quando  non  si  tratti 
di  manifesti  errori  di  scrittura  e  il  M.  accolga  nel  testo  una  sua  correzione, 
egli  adduce  appiè  di  pagina  la  lezione  dei  codici,  dei  quali  poi  segue  in 
generale  l'ortografia.  Alle  orazioni  e  alle  lettere  di  ciascun  autore  vanno 
innanzi  brevi  proemi,  dove  il  M.  si  adopera  a  determinare  il  luogo  e  il  tempo 
della  loro  composizione;  aggiunge,  se  conviene,  succinte  notizie  biografiche 
e  in  poche  parole  riassume  la  contenenza  dei  singoli  componimenti.  Anche 
qui  è  palese  la  cura  ch'egli  pose  in  questo  suo  lavoro;  sennonché  spiace  che 
gli  siano  sfuggite  parecchie  pubblicazioni  utili  a'  suoi  fini.  Vero  è  che  qual- 
cuna uscì  nel  tempo  stesso  o  poco  prima  del  suo  libro  ;  ma  per  la  trascu- 
ranza  d'altre  non  può  essere  addotta  tale  giustificazione.  Le  noterò  tutte  — 
quelle  almeno  che  durante  la  lettura  mi  tornarono  alla  memoria  —  rife- 
rendo qui  in  forma  sommaria,  accompagnato  a  postille  di  varia  natura,  l'in- 
dice del  volume. 

A.  Orazioni. 

L  Praefationes  J  oh  anni  s  Argyropuli,  dum  Florentiae  doceret 
philosophiam. 

Sono  sei  orazioni,  che  l'Argiropulo  tenne  nello  Studio  fiorentino  e  che  già 
lo  Zippel  aveva  citato,  adducendone  qualche  frammento,  nel  suo  articolo,  Per 


170  RASSEGNA.  BIBLIOGRAFICA 

la  biografìa  dell' Argiropulo,  inserito  in  questo  Giornale,  28,  92  sgg.  Codesto 
articolo  od  anche  soltanto  il  ter/o  dei  Beitrdge  del  Klette,  dove  (p.  75)  si 
prova  che  TArgiropulo  non  fu  eletto  a  professare  filosofia  a  Firenze  se  non 
nell'ottobre  del  1456,  avrebbe  fatto  accorto  il  M.  che  le  orazioni  sono  da- 
tate secondo  lo  stile  fiorentino  e  che  quindi  la  prima  orazione  è  dei  4  di 
febbraio  del  1457  (non  '56),  e  la  seconda  del  primo  di  febbraio  del  '58 
(non  "57).  —  A  confermare  le  acute  osservazioni  dello  Zippel  sul  platonismo 
dell'umanista  costantinopolitano  {art.  cit.,  pp.  102  sg.),  mi  piace  rilevare 
questo  passo  della  prima  fra  le  sue  orazioni  pubblicate  dal  M.  Aristotile, 
egli  dice,  «  tantus  in  omni  genere  doctrinae  scientiaequc  evasit,  ut  nullus 
«  usquam  in  tanta  copia  tantaque  excellentia  praestantissimorum  doctorum 
€  non  solum  eorum,  qui  antea,  verum  etiam  qui  postea  fuere,  par  ei  inve- 
€  niatur.  Plato  divinus  semper  excipiendus  est,  qui  solus  post 
«  hominis  memoriam  tantum  creditur  omnium  hominum  ingenia  superasse, 
€  ut  neminem  unquam  nec  praeteritorum  hominum  ei  fuisse  nec  futurorum 
«  similem  fore  communi  ferme  sententia  omnium  iudicetur.  Sed  de  divino 
«Platone  alio  in  tempore  plura    fortasse   dicemus»(p.  15). 

II.  Di  Gasparino  Barzizza  due  orazioni  non  finite. 

Son  quelle  che  rispettivamente  cominciano  Cum  saepe  mecum  repeterem^ 
patres  clarissimi  e  Etsi  frequens  conspectus  vester,  viri  doctissimi.  Le  re- 
gistra entrambe  il  Sabbadini  nel  suo  indice  delle  Lettere  e  orazioni  edite 
e  inedite  di  G.  B.  pubblicato  nel  voi.  Xlll  (1886)  deW Archivio  stor.  lombardo^ 
indice  che  il  M.  avrebbe  citato  più  opportunamente  della  bibliografia  data 
del  Mazzuchelli.  In  un  codice  perduto,  che  il  Sabbadini  registra  sulla  fede 
altrui,  la  prima  aveva  questa  rubrica:  Sermo  editus  per  eundem  (G.  B.)  in 
contemplatione  magistri  Baptistae  de  Yiterbio  in  suo  principio  nrtium^ 
onde  resta  spiegato  lo  strano  titolo:  in  principio  quodam  artium  oratio, 
che  le  appone  il  codice  dell'Angelica  usato  dal  M.,  e  vien  ad  essere  frustrato 
il  suo  tentativo  di  determinarne  la  data. 

III.  Philippi  Beroaldi  [senioris]  oratio  in  principio  lectionis  luvenalis. 

IV.  Andreae  Bilii  mediolanensis  oratio  de  laudibus  disciplinarum. 
Piuttosto  che  le  magre  postille  dello  Zeno  nelle  Vossiane  conveniva  citare 

in  sul  proposito  del  Bigli  quel  che  ne  dico  il  Muratori  nel  voi.  XIX  dei  Rerum 
0,  meglio  ancora,  la  pagina  che  gli  consacra  G.  Mancini  nella  sua  Vita  di 
L.  Valldy  Firenze,  1891  (pp.  31  sg.);  e  per  ciò  che  spetta  alla  data  della 
orazione  occorreva  notare  che  vi  si  nomina  (p.  69)  come  insegnante  a  Siena 
Niccolò  Siculo,  cioè  il  celebre  canonista  Niccolò  Tudisco,  che  lesse  in  quello 
Studio  al  più  fino  all'anno  accademico  1430-31  (R.  Sabbadini,  L'Università 
di  Catania  nel  sec.  XV,  Catania,  189S,  pp.  10  sg.).  Questo  per  il  terminus 
ad  qucm.  Le  notizie  del  Bigli  poi  che  si  trovano  riferite  o  accennate  dal 
Mancini  combinate  con  quelle  che  ora  si  desumono  da  alcune  lettere  dì  Sicco 
Polenton  (Segarizzi,  La  Catinia,  le  orazioni  e  le  epistole  di  S.  P.,  Ber- 
gamo, 1899,  pp.  90-2,  97-100,  140-1),  darebbero  modo,  io  credo,  posto  che 
l'orazione  fu  tenuta  a  Siena,  di  determinare  con  qualche  esattezza  anche  il 
terminus  a  quo. 

V.  Andreae  Brentii  oratio  in  disciplinai  et  bonas  artes  Romae  habita. 
In  questa  orazione,  che  dev'essere  stata  pronunciata  nell'Università  romana 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  171 

intorno  al  1480,  è  notevole  il  caldo  elogio  che  vi  si  fa  della  lingua  latina 
e  in  particolare  questo  passo  riguardante  la  sua  larga  diffusione:  «se  A  prae- 
«  ceptore  meo  Demetrio  Atheniensi  puer  audivi,  qui  legatus  in  Sauromatas 
«  Scythas  profectus,  esse  civitatem  illic  longe  nobilissimam  et  potentissimam 
<  in  qua  adhuc  ita  verba  nostralia  sonant,  ut  nihil  suavius  sit  quam  illos 
€  antiquo  more  Romano  loquentes  audire  »  (p.  73).  Qui  è  evidente  l'allusione 
alla  lingua  romanza  parlata  nei  territori  danubiani  e  merita  pure  di  essere 
rilevata  la  notizia,  nuova,  d'un'ambasceria  del  Galcondila  in  quei  paesi.  Non 
si  andrà  errati  pensando  che  l'umanista  greco  sostenesse  quell'ufficio  prima 
della  sua  venuta  in  Italia,  per  incarico  dell'imperatore  bizantino,  e  forse  chi 
potesse  ricercare  paratamente  la  storia  delle  relazioni  dell'impero  d'Oriente 
coi  re  d'Ungheria  nel  decennio  tra  il  1440  e  il  '50,  riuscirebbe  ad  una  più 
esatta  determinazione  cronologica.  Il  padovano  autore  dell'orazione  qui  pub- 
blicata dal  M.  avrà  avuto  a  maestro  il  Galcondila  nel  tempo  che  questi 
professò  nello  Studio  di  Padova,  dunque  fra  il  1463  e  il  '71. 

VI,  Ludovici  Carbonis  ì.  prae fatto  habita  in  principio  lecturae  Valerii 
Maximi^  2.  oratio  habita  in  funere  Guarini. 

L'edizione  della  seconda  è  condotta  su  due  codici  romani  e  in  nota  il  M. 
ne  cita  un  terzo,  monacense,  additato  dal  Voigt.  Conveniva  ricordare  anche 
l'Estense  679,  che  il  Sabbadini  nel  suo  libro  La  scuola  e  gli  studi  di 
G.  Guarini  veronese,  Catania,  1896,  p.  25,  n.  1,  giudica  il  migliore  di  tutti. 
Strano  che  il  M.,  che  pur  conosce  altre  pubblicazioni  guariniane  del  dotto 
storico  dell'umanesimo,  non  citi  mai  codesto  libro,  che  è  di  grande  importanza 
per  la  conoscenza  dei  metodi  didattici  del  Rinascimento. 

VII.  Oratio  domini  Andreae  magistri  Hiigonis  de  Senis  quam  recitavit 
in  principio  studii  Florentiae. 

Il  proemio  che  il  M.  premette  a  quest'orazione,  va  cassato  quasi  per  in- 
tero, perché  essa  non  è  di  Ugo  Benzi,  come  egli  mostra  di  credere,  ma  del 
figliuolo  di  Ugo,  Andrea,  come  dice  chiaramente  il  titolo  che  il  M.  stesso 
ha  fedelmente  trascritto  dal  codice  laurenziano-gaddiano.  Anche  Andrea  fu 
lettore  nello  Studio  fiorentino,  ma  non  di  medicina,  si  di  giurisprudenza,  e 
come  a  doctor  utriusque  iuris  gli  spettava  appunto  l'epiteto  di  dominus  che 
gli  vien  dato  tanto  nel  titolo  dell'orazione  quanto  nei  documenti  onde  traggo 
queste  notizie,  i  quali  furono  pubblicati  da  A.  Gherardi  cogli  Statuti  della 
Università  e  Studio  fiorentino,  Firenze,  1881,  pp.  453,  461.  Questo  libro  si 
desidererebbe  di  veder  citato  dal  M.  in  luogo  del  Prezziner.  Andrea  di  Ugo 
Benzi  è  nel  ruolo  degli  insegnanti  per  l'anno  scolastico  1451-52. 

Vili.  Andreae  luliani  Veneti  oratio  super  principio  orationum  M.  T.  Ci- 
ceronis. 

IX.  Christophori  Landini  praefatio  in   Tusculanas  Ciceronis  habita  in 
gymnasio  fiorentino. 

Anche  qui  occorre  notare  che  la  data  della  prima  condotta  del  Landino 
è  segnata  secondo  lo  stile  fiorentino;  cosi  che  questa  orazione,  se  è  veramente 
quella  con  che  l'umanista  casentinese  diede  principio  a'  suoi  corsi,  sarà  del 
1458  e  non  del  '57. 

X.  Di  Lapo  da  Castiglionchio  (il  giovane)  due  orazioni. 

I  recenti  studi  di  F.  P.  Luiso  sull'epistolario  di  Lapo  (studi  che  per  ra- 


172  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

gioni  di  tempo  il  M.  non  poteva  conoscere)  permettono  di  assegnare  al  no- 
vembre del  1436  la  prima  di  queste  orazioni  «  Bononiae  habita  in  suo  legendi 
«  initio  »  (Studi  italiani  di  filol.  classica,  VII,  1899,  pp.  238  e  244). 

XI.  Omniboni  Leonicensis  oratio  in    Valerium  Maximum. 

Cogli  altri  biografi  del  Bonisoli  doveva  essere  ricordato  il  più  recente  e  il 
più  compiuto,  cioè  il  Sabbadini,  che  pubblicò  (Lonigo  1880)  Lettere  inedite 
di  0.  da  Loniffo  con  una  breve  biografia.  Posteriore  al  libro  del  M.  è  l'ar- 
ticolo pure  del  Sabbadini  (lo  cito  di  seconda  mano)  Nuove  notizie  e  nuovi 
documenti  su  0.  de'  Bonisoli  Leoniceno,'mseT'\iOT\e\\' Antologia  Veneta^  1,1 
(Belluno,  gennaio-febbraio,  19(X)) 

XII.  Petri  Perleonis  ariminensis  oratio. 

Il  M.  crede  che  il  Perleoni  abbia  pronunciato  quest'orazione  subito  dopo 
quella  con  cui  il  Filelfo,  suo  maestro,  dava  principio  al  suo  corso  fiorentino 
8\i\V Etica.  11  che  pare  assai  verosimile;  ma  quanto  alla  data  deirorazione 
del  Perleoni,  s'avrà  a  tener  conto  dell'osservazione  che  farò  ora  sulla  data 
della  filelfiana,  la  quarta  di  quelle  pubblicate  nel  volume  che  si  esamina. 

XIII.  Di  Francesco  Filelfo  cinque  orazioni. 

Furono  tutte  recitate  nello  Studio  fiorentino;  le  tre  prime  nel  1429  poco 
dopo  l'arrivo  del  Filelfo  a  Firenze  (principio  d'aprile).  Della  seconda  offre 
ora  qualche  notizia  anche  G.  Zippel  nel  suo  bell'opuscolo  11  Filelfo  a  Fi- 
renze, Roma,  1899,  p.  13,  uscito  in  luce  quando  i  testi  del  M.  dovevano 
essere  già  stampati.  La  quarta  (in  principio  lectionis  Ethicorum)  reca  nei 
mss.  la  data  III  Kal.  Jan.,  1431;  ma  il  M.  crede  si  deva  assegnarla  invece 
al  30  dicembre  del  1432,  perchè,  egli  dice  e  si  fonda  sulla  didascalia  ben 
nota  d'una  prelezione  filelfiana  al  commento  di  Dante  (Rosmini,  I,  127),  il 
Filelfo  non  tenne  nel  1431  lezioni  pubbliche,  sibbene  un  corso  privato  in 
casa  sua,  del  quale  ci  è  rimasta  la  prelezione.  Qui  si  fa  una  grande  confu- 
sione, che  il  M.  avrebbe  potuto  evitare  se  avesse  conosciuta  la  deliberazione 
della  Signoria  fiorentina  del  24  dicembre  1431  pubblicata  dal  Gherardi, 
Statuti,  p.  245.  Come  andassero  le  cose,  è  ora  spiegato  egregiamente  dallo 
Zippel  nel  citato  opuscolo,  pp.  27  sg.  La  quarta  orazione  è  dunque  del 
penultimo  giorno  del  '31,  come  vogliono  i  codici.  Ora  si  può  leggerla  anche 
nell'appendice  allo  studio  dello  Zippel,  pp.  ni  sgg.  Della  quinta  non  ci  riesce 
di  determinare  esattamente  la  data. 

XIV.  Sicconis  Polentonis  oratio. 

È  l'orazione  con  che  il  Polenton  ringraziò  il  collegio  dei  giuristi  pado- 
vani per  l'aggregazione  del  figliuolo  di  lui.  Modesto  (17  giugno  1435).  Ora 
è  a  stampa  anche  nel  citato  libro  di  A.  Segarizzi,  pp.  72  sg.;  cfr.  pp.  134  sg. 

XV.  Di  Antonio  da  Rho  due  orazioni. 

La  prima  fu  forse  tenuta  quando  il  Raudense  diede  principio  al  suo  inse- 
gnamento a  Milano  (1431-32).  Notevole  il  ricordo  di  Gasparino  Barzizza 
«  praeceptorem  hactenus  nostrum  nuper....  mortuum  ».  Sappiamo  già  (Sab- 
badini, Studi  sul  Panormita  e  sul  Valla,  Firenze,  1891,  p.  11)  che  il  Rau- 
dense studiava  a  Padova  nel  1413-4,  quando  era  colà  il  Barzizza.  —  Impor- 
tante è  la  seconda  orazione,  dove  il  frate  lombardo  si  difende  dalle  accuse 
di  coloro  che  lo  rimproveravano  perché  leggesse ,  egli  uomo  di  religione, 
di  materie  profane,  e  disegna  sulle  traccio  di  Cicerone  il  modello  del  perfetto 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  173 

oratore.  Le  allusioni  al  Valla  sono  assai  trasparenti,  e  vigorose  sferzate  as- 
sesta il  Raudense  a'  suoi  nemici  in  generale.  Egli  cita  il  prologo  «  Imi- 
«  tationum  suarum  »  (p.  171)  e  il  M.  ne  deduce  che  l'orazione  deve  essere 
stata  composta  circa  il  1442.  La  deduzione  non  mi  pare  sicura,  tanto  più 
che  il  Raudense  attendeva  a  comporre  quell'opera  fin  dal  1433  o  '34  (Sab- 
badini,  Panormita  e  Valla^  p.  70),  né  dall'orazione  risulta  che  l'avesse  già 
compiuta  e  pubblicata.  —  Per  la  storia  dei  costumi  universitari  merita  di 
essere  rilevato  questo  luogo  della  stessa  orazione  :  «  Naturae  tamen  meae 
«  est  neminem  compellere,  neminem  adorare,  non  hostiatim  scolares 
«  i  p  s  0  s  novis  precibus,  pollicitationibus,  aucupiis  pellicere.  Ha- 
«  beant  alii  doctores  praeceptoresque  id  blandiendi  et  assentandi  genus,  ego 
«  vero  liberiate  mea  utar  »  (p.  169).  Lunga  tradizione  può  dunque  vantare 
il  vostro  mestiere,  o  moderni  cacciatori  di  «  firme  »  1 

XVL  Gregorii  Tiphernii   1.    de   astrologia    oratio;   2.  de  studiis  lite- 
rarum  oratio. 

Di  Gregorio  Tifernate  il  M.  riassume  brevemente  la  vita  ;  occorreva 
quindi  mettere  a  profitto  e  citare,  oltre  al  Gabotto,  G.  Zannoni  nella  Cul- 
tura, I,  1890,  262  sgg.  e  G.  Mancini,  Il  Contributo  dei  Cortonesi  alla 
coltura  italiana,  Firenze  1898,  pp.  18-23  e  114-121;  per  non  dire  del  forse 
troppo  recente  lavoro  di  L.  Delaruelle,  Une  vie  d'humaniste  au  XY  siede, 
nei  Mélanges  d'Archeologie  et  d\Histoire,  XIX,  1899,  pp.  5  sgg.  11  Mancini 
(p.  21)  e  il  Delaruelle  (p.  27)  citano  entrambi  la  seconda  delle  orazioni  pub- 
blicate dal  M.  indicandone  un  nuovo  codice  vicentino  ;  il  Mancini  anche  la 
prima. 

XVII.  Johannis  Tuscanellae  oratio  prò  legendi  initio  Bononiae  habita. 

Per  determinare  il  tempo  della  lettura  bolognese  del  Toscanella,  piuttosto 

che  la   Vita  di  Guarino,  dove  è  appena  un  accenno  fuggevole  a  quel  fatto, 

occorreva  citare  un  altro  scritto  pur  del  Sabbadini,  il  suo  Gio.  Toscanella, 

inserito  nel  Giorn.  ligustico,  XVII,  1891,  pp.  119  sgg. 

B.  Lettere. 

I.  Franciscus  Barbarus  Jacobo  Foscaro. 

Contiene  un  elogio  delle  lettere  e  una  difesa  degli  studi  classici  contro 
la  solita  sancta  rusticitas.  Il  codice  la  dà  senza  rubrica;  che  sia  diretta  a 
Jacopo  Foscari  è  certo;  ma  sarà  di  Francesco  Barbaro?  Mi  pare  si  possa 
dubitare.  Essa  comincia:  «Gum  superioribus  mensibus  me  ad  hanc  excelsam 
«  atque  illustrissimam  Venetiarum  urbemhonestissimis  qui- 
«dem  rationibus....  contulissem,  cum  alia  multa,  quae  huius 
«  amplissimae  rei  pubblicae  Venetae  nomini  et  maiestati  responderent  ac 
«  latissimo  hoc  imperio  dignissima  essent,  sane  adnotavi,  tum  mihi  oblatum 
«  est  nihil  quod  aeque  [non]  probarem  atque  illud  quod  et  diuturni  huius 
«  imperii  et   aeternae  pene   cuiusdam  felicitatis  fundamentum  recte  censeri 

«  possit Intellexi   namque  hosce   patricios   adulescentes   ad 

€  optimarum  artium  et  litterarum  ac  politioris  humanitatis  studia  capessenda 
«  mirifice  incensos  atque  deditos  esse  ».  Avrebbe  parlato  così  il  patrizio 
veneziano  Francesco  Barbaro? 

II.  Domitius  Calderinus  Bernardino  Messanelo  sororis  filio. 


174  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

Il  Calderini  vi  parla  de'  suoi  studi.  La  lettera  è  data  Ex  urbe  pridie 
K.  sextiles;  l'anno  sarà  il  1475,  come  vuole  il  Mùllner.  Ma  poiché  questa 
affermazione  si  fonda  sulla  data  della  nascita  del  Calderini,  era  opportuno 
citare  F.  Gabotto  e  A.  Badini-Gonfalonieri,  Vita  di  G.  Merula,  Alessandria, 
1894,  pp.  88-9  n. 

ili.  Francisci  Castilionensis  ad  Laurentium  et  lulianum  Medices  epi- 
stola consolatoria  in  obitu  Petri  Cosmae. 

IV.  Guarino  Veronese. 

Il  M.  pubblica  quattro  epistole  del  Guarino  ben  note,  ancorché,  se  ben 
ricordo,  non  mai  date  in  luce  integralmente.  Sono  i  numeri  194,  373,  345, 
514  àeW Indice  alfabetico  delle  lettere  compilato  dal  Sabbadini  (Salerno, 
1885).  Della  lettera  373  il  M.  omette  senza  avvertirlo  le  prime  parole.     - 

V.  Joannis   Lamolae   1.   epistola    ad   Paulum    Pergulensem,  2.   ep. 
Guidantonio  Lambertino. 

Note  per  la  citazione  che  ne  fece  il  Sabbadini  nel  Propugnatore,  N.  S. 
voi.  HI,  P.  II,  1890,  pp.  430,  «Se  432,  n.  2,  discorrendo  appunto  la  Cro- 
nologia della  vita  dì  G.  Lamola. 

VI.  Lapus  Casteliunculus  Roberto  Stroxzae. 

Nel  cod.  Vatic.  Ottob.  1677,  donde  il  M.  la  trasse,  questa  lettera  è  monca: 
la  dà  completa  il  Paris.  1 1388,  dove  reca  la  data  <  Ex  Bononia,  XV  Kal. 
«junias  1437»  (Luiso,  op.  cit.  negli  Studi  ital.  di  filol.  class.,  VII,  251).  Si 
corregga  dunque  il  Mùllner,  che  la  assegna  al  1435  circa. 

VII.  Omnibonus  Leonicenus  dilecto  discipulo  Federico  de  Gonzaga. 
Era  già  stata   pubblicata    dal   Sabbadini  fra  le   citate  Lettere  inedite  di 

Ognibene,  pp.  41  sgg. 

Vili.  Thomas  Occilius  Pontanus  s.  d.  Pasquali  Stephani  filio. 
La  lettera  è  data  Florentiae  V Kal.  ian.-,  non  sarà  dunque  del  1425,  come 
propone  dubitosamente  il  M.,  ma  sarà  stata  scritta  probabilmente  tra  il  1431 
e  il  '37,  seppure  sulla  ingarbugliata  cronologia  dell'umanista  umbro  si  può 
fare  qualche  assegnamento.  Al  M.  sono  sfuggiti  i  recenti  studi  sul  Pontano 
del  Sabbadini,  di  L.  Manzoni  e  di  A.  Zanelli  {Giornale,  18,  224;  32,  139; 
33,  347). 

IX.  Augustini  Valerii  epistolae  tres. 

Vittorio  Rossi. 


EUGÈNE  MUNTZ.  —  Le  Musèe  de  portraiis  de  Paul  Jote.  Con- 
tributions  pour  servir  à  Viconographie  du  Moyen  Age  et 
de  la  Re'ìiaissance.  Extr.  des  Mémoires  de  VAcadémie  des 
Inscriptions  et  Belles  Lettres.  —  Paris,  Imprfraerie  Natio- 
naie,  1900  (4%  pp.  95). 

Sono  già  trascorsi  più  che  cinque  anni  dacché  il  M.,  dopo  aver  acquistato 
una  speciale  preparazione  con  lo  studiare  e  illustrare  le  collezioni  medicee, 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  175 

dava  un  primo  saggio  su  questo  argomento  (1).  L'avevano  preceduto  e  in 
parte  accompagnato  lo  Schmarsow,  il  Frey  ed  il  Kenner,  che  sono  qui  de- 
bitamente ricordati  e  discussi;  ma  l'aveva  preceduto  anche  un  italiano,  il 
Fossati,  il  cui  ottimo  opuscolo,  rimasto  ignoto. al  critico  francese,  gli  avrebbe 
giovato  per  una  più  sicura  illustrazione  delle  vicende  toccate  al  Museo  gio- 
viano,  oltre  che  a  conoscere  meglio  quelle  del  ritratto  di  Cristoforo  Co- 
lombo (2). 

Di  questo  fervore  della  critica  non  dobbiamo  stupirci,  quando  si  pensi  che 
la  famosa  collezione  iconografica,  ricca  di  quasi  400  numeri,  che  fu  l'oggetto 
costante  delle  cure  e  degli  entusiasmi  dello  storico  comasco,  segno  d'ammi- 
razione e  d'invidia  ai  contemporanei,  è  dall'A.  giudicata  la  più  copiosa  fra 
quante  siensi  formate  dopo  la  caduta  dell'Impero  romano.  Dovremmo  anzi 
meravigliarci  che  la  critica  abbia  tardato  tanto  tempo  a  compiere  il  pro- 
prio dovere. 

Nei  primi  capitoli,  consacrati  a  ricostruire  la  storia  esterna  della  raccolta 
gioviana,  il  M.,  per  dare  un'idea  del  Museo,  ond'essa  era  il  principale  orna- 
mento, riferisce  una  pagina  latina  di  prosa  descrittiva,  dovuta  allo  stesso 
raccoglitore,  e  inoltre  cita,  dalla  silloge  epistolare  del  Bottari,  una  lettera 
che  il  Vescovo  di  Nocera  scriveva,  il  14  settembre  1548,  ad  Anton  Francesco 
Doni.  In  questa  lettera  il  Giovio,  ringraziato  con  grandi  lodi  l'amico  fioren- 
tino pel  saggio  inviatogli  delle  sue  Medaglie^  s'augurava  di  poter  un  giorno 
far  intagliare  a  quel  modo  tutte  le  «  immagini  »  del  suo  Museo,  almeno 
quelle  degli  illustri  guerrieri,  aggiungendo  (e  di  questa  aggiunta  doveva  ri- 
levare l'importanza  il  M.)  che  avrebbe  voluto  imprimerle  in  colori,  «  con 
«  qualche  colore  per  maggior  dignità  ».  Ma  giacché  aveva  accennato  alle 
relazioni  corse  fra  i  due  in  proposito  di  medaglie  e  di  ritratti,  il  M.  poteva 
recare  innanzi  qualche  altra  utile  testimonianza,  desumendola  dall'epistolario 
del  Doni,  che  non  per  nulla  fu  tra  i  più  intelligenti  visitatori  e  tra  i  più 
caldi  ammiratori  del  Museo  gioviano  (3). 

L'A.  dà  un  giudizio  meritamente  severo  delle  copie  che  a  cinque  ducati 
l'una  esegui  l'Altissimo  per  incarico  del  Duca  Cosimo  e  che  si  conservano 
negli  Uffizi,  e  uno  ancor  più  severo  delle  incisioni  in  legno  che  comparvero 
nella  edizione  di  Basilea  (1575-77).  Comunque,  questa  stampa  illustrata  degli 
Elogia  dovuta  alle  cure  del  Perna,  e  che  offriva  delle  serie  gioviane  di  ri- 
tratti una  scelta  suggerita  da  criteri  non  bene   sicuri,   né  chiari,  segnò  il 


(1)  Negli  stessi  Mémoires  del  1895;  cfr.  noiV Archivio  stor.  italiano,  S.  V,  voi.  XIX,  1897, 
pp.  237  8gg. 

(2)  Il  Museo  Gioviano  e  il  ritratto  di  Cristoforo  Colombo,  Como,  tip.  Ostinelli,  1892. 

(3)  Particolarmente  notevole  è  la  lettera  che  il  Doni  inviava  da  Como,  il  20  luglio  del  '43,  al 
conte  Agostino  Landi,  narrandogli  con  entusiasmo  la  sua  visita  al  Museo,  le  cui  meraviglie  de- 
scrive con  diligenza  e  col  solito  colorito.  La  sua  ammirazione  era  attirata  sovrattutto  da  *una 
«  infinità  di  ritratti  al  naturale»,  una  parte  dei  quali  passa  in  rassegna.  Invece  è  tutt' affatto 
burlesca,  perfino  coi  nomi  storpiati  (Fra  Castrone,  Tidia,  Giobbi,  Lembo,  Motta  ecc.),  la  descri- 
zione che  il  Doni  inviò  o  finse  d'inviare  da  Como,  il  17  agosto  di  quell'anno  «  a  m.  Jacopo 
«  Tintoretto  eccellente  pittore  »  (Vedasi  Lettere  dt  Anton  Francesco  Doni  ecc.,  Vinegia,  Mar- 
colini,  MDLII,  pp.  75-9,  80-6). 


176  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

colmo  della  fortuna  per  la  grande  collezione  iconografica,  che,  purtroppo,  do- 
veva andare  poi  in  massima  parte  miseramente  dispersa.  Ad  ovviare  il  più 
possibile  a  tanta  jattura  non  rimaneva  di  meglio  che  rintracciare  gli  originali 
adoperati  dal  Giovio.  Valendosi  delle  indicazioni  lasciate  dallo  stesso  racco- 
glitore e  delle  risultanze  di  altre  ricerche  parziali  (1),  e  mediante  opportuni 
raffronti  fra  i  ritratti  della  collezione  gioviana  e  le  copie  degli  Uffizi,  il  M. 
riesce  a  darci,  con  la  diligenza  e  con  Tautorità  che  gli  sono  ben  note,  il 
primo  tentativo  serio,  d'indole  generale,  che  si  sia  fatto  di  ricostruire  e  illu- 
strare la  galleria  dello  storico  comasco. 

Ma  egli  riconosce  meglio  di  ogni  altro  quanto  rimanga  ancora  da  fare 
prima  di  giungere  a  conclusioni  relativamente  compiute  e  del  tutto  rassicu- 
ranti, le  quali  non  potranno  essere  opera  né  di  pochi  anni,  né  d'un  solo 
studioso  (2). 

Mentre  mi  riservo  di  pubblicare  neW Archivio  storico  lombardo  alcune 
lettere  del  Giovio,  che  getteranno  qualche  luce  su  questo  argomento,  m'ac- 
contenterò di  esporre  qui  certe  osservazioni  che  m'ha  suggerite  la  lettura 
di  questo  pregevole  saggio. 

Nel  passare  in  rassegna  i  ritratti,  il  M.  segue  la  classificazione  ragionevole 
adottata  dallo  stesso  scrittore  comasco ,  aggiungendovi  solo  qualche  suddi- 
visione maggiore,  in  modo  da  dare  un  rilievo  più  evidente  alla  varietà  di 
quella  raccolta. 

Per  Girolamo  Aleandro  l'A.  si  restringe  a  dire  (p.  34)  che  la  stampa 
basileense  non  ne  reca  alcuna  imagine;  ma  poteva  ricordare  il  bel  ritratto 
che  esiste  nel  God.  Vatic.  5234,  dal  quale  fu  tratta  l'incisione  nitida  di  Ago- 
stino de'  Musi,  riprodotta  recentemente  da  un  altro  studioso  francese,  il  Pa- 
quier  (3).  Più  innanzi  (p.  35)  trova  inesplicabile  che  nel  Museo  gioviano 
mancasse  il  ritratto  di  Pietro  Aretino;  ma  in  realtà  non  mancava,  come 
attesta  esplicitamente  il  Conte  Giambattista  Giovio  in  una  lettera  al  Tira- 
boschi,  che,  pubblicata  già  dal  Gampori,  il  M.  fece  bene  a  riprodurre  in 
appendice  (pp.  93-5),  e  come  conferma  inoltre  nel  suo  Elogio  (4).  Non  po- 
tendo porre  in  dubbio  questa  asserzione,  dovremo  invece  cercar  di  spiegarci 
perchè,  possedendo  un'effigie  del  terribile  libellista,  il  Giovio  non  la  inse- 
risse negli  Elogia, 

Pare  a  me  che  la  lettera  di  lui  all'Aretino,  non  isfuggita  al  nostro  critico, 
dia  una  spiegazione  soddisfacente.  Lo  storico  di  Como  dichiarava  che  l'effigie 
dell'amico,  da  lui  posseduta  e  cavata  dalla  medaglia  donatagli,  per  opera 
d'un  pittore  inesperto,  non  era  «  a  suo  gusto  »  e  appunto  perciò  lo  pregava 


(1)  Ad  esempio,  pel  grappo  dei  SnlUni  e  principi  orientali  MccorM  ntilmente  «1  M.  1»  mono- 
grafi»  del  Kenner. 

(2)  Il  M.  dovette,  per  es.,  affidare  Tesploraiione  fra  i  ritratti  degli  UfBii  ad  altra  persona;  e 
ciò,  nonostante  lo  zelo  intelligente  di  questa,  doTeva  essere  dannoso  in  nn  laroro  scientifico  che 
richiede  anità  e  conformità  perfetta  di  criteri  e  di  metodo.  Circa  nn  ritratto  di  Andrea  Doria  in 
atteggiamento  di  Neitono,  che  sarebbe  appartenuto  al  museo  del  Oiorio  ed  ora  ò  nella  pinacoteca 
di  Roma,  vedi  RoMugna  d'arU,  I,  31. 

(3)  Nella  prima  parte  del  Jérònu  AUandré,  Paris,  IMO,  del  quale  fcoe  parola  questo  GiornaU. 

(4)  Nel  t.  Vili  degli  ShgJ  italiani,  Yeoexia,  1783,  p.  3«. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  177 

dì  procurargli  «  uno  schizzo  di  colori  »  anche  piccolo  e  a  pastello  e  su  carta, 
da  qualche  scolaro  «  terzuolo  »  del  Tiziano.  La  preghiera  non  sembra  sia 
stata  esaudita  o  fu  esaudita  male,  sicché  il  Giovio,  piuttosto  che  pubblicare 
un  Aretino  trasformato  «  in  un  peregrino  romeo  »,  come  diceva,  preferi 
ommetterlo.  In  tal  caso,  il  ritratto  veduto  dal  conte  Giambattista  fra  i  su- 
perstiti del  Museo,  lungi  dall'essere  del  Tiziano,  sarebbe  stato  lo  sgorbio 
rifiutato  dall'antico  possessore  (1). 

Siccome  il  M.  registra,  e  con  ragione,  anche  i  personaggi  i  cui  ritratti  il 
Giovio  0  non  riuscì  a  procurarsi  o  per  motivi  a  noi  ignoti  non  inseri  negli 
Elogia,  andava  aggiunto  un  altro  Pietro,  quell'Alcionio,  del  quale  egli  con 
la  sua  penna  seppe  darci  un  ritratto  gustosamente  satirico,  forse  per  compen- 
sarsi di  non  averne  trovata  l'eflagie  (cfr.  anche  qui  a  p.  28).  Similmente,  più 
innanzi  poteva  trovar  posto  il  Palmieri,  del  quale  non  ve  soltanto  una  me- 
daglia, come  avverte  l'A.  (p.  28),  ma  un  vero  ritratto  nella  celebre  tavola 
che,  sia  opera  del  Botticelli  o  del  Botticini,  dalla  cappella  Palmieri  in 
S.  Pier  Maggiore  a  Firenze  passò,  purtroppo,  nella  Galleria  Nazionale  di 
Londra  (2). 

Sul  ritratto  del  Castiglione,  che  non  figura  nella  stampa  basileense,  ma 
che  il  Giovio  possedeva,  il  M.  poteva  dire  qualche  cosa  di  più  (p.  38);  ma 
di  questo  punto  attraente  della  iconografia  del  Rinascimento,  non  è  qui  il 
luogo  di  trattare  con  la  larghezza  che  merita.  Invece  è  notevole  il  cenno 
che  egli  consacra  (p.  43)  al  Machiavelli,  sostenendo,  contro  il  parere  d'un 
giudice  autorevole,  il  Bode,  ma  con  buone  ragioni,  che  il  famoso  busto  del 
Museo  Nazionale  di  Firenze  rappresenta  veramente  il  Segretario  fiorentino, 
e  trova  un  singolare  riscontro  nella  incisione  degli  Elogia  (3).  Qualche  mag- 


(1)  Non  so  se  sia  il  caso  di  pensare  ad  altre  ragioni  personali,  ma  qneste  non  mi  sembrano 
probabili.  Vera  e  cordiale  amicizia  fra  i  due  non  vi  fu  certamente  (cfr.  questo  Giorn.,  XVII,  78), 
ma  neppure  ostilità  aperta,  ed  il  Giovio  aveva  troppo  interesse  a  non  inimicarsi  l'onnipotente 
messer  Pietro,  col  quale,  d'altra  parte,  egli  non  avrebbe  insistito  a  quel  modo  per  aver  un  ritratto 
decente  di  lui,  se  non  avesse  avuto  l'intenzione  di  servirsene.  Che  ci  avesse  messo  lo  zampino 
—  0  la  granfia  —  il  duca  Cosimo  de'  Medici  ?  Sarebbe  da  cercare. 

(2)  È  questa  tavola  il  quadro  eretico,  del  quale  scrisse  Diego  Angeli  nell'ircA.  stor.  deWArte, 
S.  II,  voi.  II,  pp.  58  sgg.,  dove  è  anche  una  buona  riproduzione  del  ritratto  del  Palmieri. 
Cfr.  G.  BowiTO,  L'eresia  di  M.  Palmieri,  in  questo  Giornale,  XXXVII,  46-7.  Nel  Museo  Nazio- 
nale di  Firenze  v'è  anche  un  busto  del  Palmieri,  eseguito  nel  1468  da  Antonio  Rossellino  e  ri- 
masto per  lungo  tempo  sulla  porta  di  casa  Palmieri,  al  Canto  alle  Rondini.  Vedasi  la  nota  di 
G.  MiLAXBsi  alla  Vita  del  Rossellino  nelle  Opere  del  Vasabi,  voi.  Ili,  p.  96,  n.  3. 

(3)  Con  ciò  non  voglio  asserire  che  la  questione  sia  sciolta,  senz'altro;  ma  sembreranno  troppo 
recise  le  parole  con  le  quali  il  Villari,  N.  Machiavelli^,  I,  321,  ti.  1,  accenna  a  questo  busto, 
che  «  porta  sempre  il  nome  del  M.,  sebbene  ora  nessuno  più  lo  creda  suo  ritratto  ».  Alla  sua 
volta  il  Muntz  doveva  tener  conto  del  busto  di  stucco  colorito,  esistente  già  nella  casa  dei  Ricci, 
tanto  più  che  il  Villari,  Op.  cit.,  1,  322,  n.,  lo  mette  innanzi  a  tutti  gli  altri  ritratti  del  M.  e 
fu  riprodotto  e  illustrato  nella  Revue  Archéologique.  E  poiché  né  il  Muntz,  né  il  Villari  ne  fanno 
menzione,  ricorderò  che  il  Catalogo  della  Oallerta  Torlonia,  entrata  a  far  parte  della  Galleria 
Nazionale  a  Palazzo  Corsini,  compilato  da  G.  A.  Gnattani  e  pubblicato  nelle  Gallerie  nagion.  ital., 
an.  II,  p.  103,  registra  come  già  esistente  tra  le  finestre  della  terza  stanza  (Torlonia)  un  «  gran 
«  quadro  con  cristalli,  ove  è  rappresentato  papa  Clemente  VII,  che  riceve  da  N.  Machiavelli  la 
«  dedica  delle  sue  opere  ».  E  soggiunge  :  «  Bellissima  copia  a  pastello  di  Rosalba  Carriera  yene- 

Oiornale  storico,  XXXVIU,  fase.  112-113.  12 


178  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

giore  notizia  meritava  il  Fontano  (p.  48),  d'un  cui  ritratto  ebbe  già  ad  occu- 
parsi, al  principio  del  secolo  scorso,  Agostino  Gervasio  (1);  del  Navagero 
(Andrea)  manca  il  ritratto  nell'edizione  di  Basilea  (p.  46),  ma  non  sarebbe 
stato  inutile  il  dire  che  se  ne  conoscono  due,  uno  dei  quali,  attribuito  da  al- 
cuni a  Raffaello  e  già  appartenuto  a  Pietro  Bembo,  sembra  sia  da  identificarsi 
con  quello  esistente  nella  Galleria  Doria,  ora  alla  Nazionale  di  Roma, 
mentre  l'altro,  della  scuola  di  Tiziano,  eseguito  nel  1526,  trovasi  nella  Gal- 
leria di  Berlino  (2).  Nella  notevole  illustrazione  del  ritratto  del  cardinale 
Alidosi  (pp.  61-3)  il  M.  conferma  il  giudizio  già  da  lui  espresso  neW Archivio 
storico  dell'Arte,  dacché  la  evidente  rassomiglianza  fra  l'incisione  degli 
Elogia  e  il  ritratto  di  Madrid  non  solo  dimostra  che  questo  raflBgura  il  fa- 
migerato cardinale  e  non  un  altro  personaggio,  ma  che  questa  tela  adornava 
un  giorno  il  Museo  del  Giovio.  Non  mi  pare  tuttavia  escluso  il  caso  che 
questi  si  sia  giovato  d'una  copia  fedele,  da  lui  fatta  eseguire  o  procurata 
dall'originale  ora  madrileno. 

Lasciando  altre  osservazioni  di  minor  conto  (3)  rileverò  ancora  il  ritratto 
di  Lorenzo  il  Magnifico  bene  riprodotto  qui  (p.  79)  di  sulla  pregevole  mi- 
niatura posseduta  dal  sig.  Valton  di  Parigi,  pregevole  anche  perchè  essa  si 
rivela  come  l'originale  della  incisione  gioviana,  o  almeno  come  somiglian- 
tissima a  questa. 

Nel  sec.  XVIIl,  un  francese,  il  Niceron,  con  imperdonabile  avventatezza. 


«  ziana,  dall'originale  di  fra  Sebastiano  del  Piombo».  Il  Vasari,  nella  Vita  di  Sebastiano  (  0^«r«, 
ed.  Milanesi,  Firenze,  Sansoni,  V,  575)  cita  dae  ritratti  di  papa  Clemente  eseguiti  dal  frate  piom- 
batore,  ma  non  sembra  che  né  l'uno,  nò  l'altro  possano  identificarsi  con  l'origiDale  copiato  da 
Rosalba,  che  qualcuno  dei  nostri  studiosi  di  storia  dell'arte  dovrebbe  far  oggetto  d'un' utile  in- 
dagine. L'amico  Venturi  pensa  che  l'opera  di  Sebastiano  sia  la  stessa  ch'egli  ride  in  Inghilterra, 
presso  il  duca  di  Crafton,  ma  questa  rappresenterebbe  invece  Ferry  Caroudelet  e  il  suo  segretario. 

(1)  In  una  comunicazione  inserita  negli  Atti  della  Società  pontan.,  voi.  Ili,  1819,  pp.  lxxxiii  sgg. 
Ma  fra  breve  gli  studiosi  potranno  vedere  una  bella  riproduzione  del  busto,  ora  genovese,  del 
Fontano,  in  testa  ai  Joannis  Joviani  Fontani  Carmina,  ed.  6.  Soldati,  Firenze,  Barbèra,  1901, 
voi.  I,  dove  anche  (pp.  lxix  sg.)  potranno  leggere  una  nota  rig^iardante  l'iconografia  pontaniana. 

(2)  Vedasi  la  nota  del  Fbizzoni  alla  sua  ristampa  della  NoUtia  d'opere  di  disegno,  Bologna, 
1884,  pp.  45-6. 

(3)  Qualcuna  soggiungo  qui  in  nota.  A  proposito  del  ritratto  di  Ezzelino  da  Bomano  (perchò 
stampare  Eccelinoì ,  il  M.  (p.  55)  si  restrìnge  a  ricordare  la  copia  che  è  agli  Uffizi.  Può  giovare 
l'aver  presente  che  Gabriele  Simeoni,  scrivendo  da  Venezia  il  18  settembre  1546,  inviava  al  Duca 
Cosimo  un  ritratto  di  Ezzelino,  eseguito  sopra  una  «  testa  di  marmo  »,  la  quale  «  fu  in  Padova 
«  ritrovata  al  tempo  di  papa  Leone  e  dal  vescovo  di  quella  città  mandata  inaino  in  Roma  alla 
«  Santità  Sua  »  {Nuova  raccolta  di  lettere  sulla  pittura  ecc.,  di  M.  Goalamdi,  voi.  I,  Bologna, 
1884,  pp.  39-41).  —  Quel  Donalus  Lectius,  che  il  M.  cita  con  le  parole  del  Giovio  (p.  60), 
perchè  procurò  a  questo  il  ritratto  del  Saladino,  ò  un  Da  Lezze,  della  nota  famiglia  veneziana, 
probabilmente  il  padre  di  quel  Dimonio  bianco,  moglie  di  Cristoforo  Moro,  nella  quale  ti  volle 
vedere  da  qualcuno  la  futura  Desdemona  (CicoaMA,  JnscriM.  cenetiane,  VII,  586,  n.  2)  —  A  p.  42, 
Ouemo  è  un  errore  di  stampa  invece  di  Quemo.  —  A  p.  40  il  M.  offre  nna  riproduzione  del  fresco 
del  Ghirlandaio,  in  S.  Maria  Novella,  raffigurante  il  Ficino,  il  Landino,  il  Poliziano  e  il  Calcon- 
dila  (cfr.  p.  48),  ma  sarebbe  stato  utile  ricordare  e,  magari,  riprodurre,  il  famoso  gruppo  del  Goz- 
zoli,  nel  Camposanto  pisano.  —  Parimenti  non  andava  dimenticata  la  lettera  del  febbr.  1545,  con 
la  quale  l'Aretino  lodava  al  Giovio  il  ritratto  di  Daniello  Barbaro  fatto  dal  Tiziano  pel  racco- 
glitore comasco. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  179 

sentenziava  che  i  ritratti  compresi  negli  Elogia  del  Giovio  «  sont  pour  la 
«  plupart  de  fantaisie  »  (1);  circa  un  secolo  dopo  un  benemerito  erudito 
veneziano,  Emanuele  Cicogna,  parlando  dei  ritratti  gioviani  degli  uomini 
illustri  in  guerra,  osservava  che.  se  tutti  erajio  come  quello  del  Doge  An- 
tonio Grimani,  apparivano  «  abbastanza  somiglianti  »  (2).  Queste  utili  inda- 
gini d'un  altro  francese,  confermando  il  giudizio  dato  dall'  autore  delle 
Inscrizioni  veneziane,  vengono  opportunamente  ad  illustrare  l'opera  del 
Giovio  quale  amatore  appassionato  e  studioso  intelligente  delle  belle  arti, 
opera  cosi  poco  apprezzata  finora,  ma  cosi  geniale  ed  efficace. 

Vittorio  Gian. 


OUIDO  SARTORIO.  —  Luigi  Carrer.  Parte  I:  La  Vita.  —  Roma, 
Società  editrice  Dante  Alighieri,  1900  (16^  pp.  156). 

Le  condizioni  politiche  ne'  primi  cinquant'anni  del  secolo  decimonono  impe- 
■dirono  anche  a  Venezia  ogni  relazione  letteraria  con  le  altre  città  italiane; 
per  la  qua!  cosa  molti  bei  nomi  a  stento  varcarono  le  lagune,  e  fuor  di 
esse  rimasero  per  lungo  tempo  dispetti  e  scuri.  Tal  sorte  toccò  a  Luigi 
Carrer,  che  fino  ad  ora  fece  parte  per  sé  stesso,  e,  tutto  che  venerato  dalla 
generazione  volgente  al  tramonto,  non  fu  studiato  mai  di  proposito  nelle  sue 
attenenze  con  la  letteratura  nazionale  e  con  le  vicende  pubbliche  e  private 
della  sua  città.  Le  ballate  romantiche,  pochi  sonetti  e  uno  o  due  degl'inni 
furono  delle  poesie  di  lui,  che  meglio  piacquero:  le  une  per  l'indefinita 
soavità  romantica  e  per  la  severa  unità  d' impressione  (3),  gli  altri  per  la 
verseggiatura,  che  dimostra  lo  studio  del  Petrarca,  de'  cinquecentisti  migliori 
•e  del  Foscolo.  Sol  di  nome  si  conoscono  in  vece  i  discorsi,  i  racconti  e  V Anello 
di  sette  gemme  (4)  ;  e  il  tempo  schiacciò  e  «  di  sua  preda  coverse  e  cinse  » 
l'operosità  da  lui  attestata  nella  compilazione  del  Gondoliere^  in  cui  si 
riflette  la  città  disdegnosa  de'  ricordi  gloriosi  e  troppo  memore  delle  ultime 
letizie  repubblicane,  negli  studi  d'erudizione,  nella  stampa  di  classici  italiani 
per  le  tipografie  di  Padova  e  di  Venezia.  Se  egli  può  dirsi,  come  alcuno 
sentenziò,  «  anello  fra  la  scuola  classica  e  la  romantica  »,  in  quanto  seppe 
con  mano  sicura  coordinare  il  nuovo  col  vecchio  e  col  già  noto,  e  se  egli 
fu  «  gentile  e  originale  poeta  »  (5;  non   pure   nella   facoltà  e  nel  modo  di 


(1)  Mèmoiret  ecc.,  t.  XXV,  p.  370,  nell'articolo  consacrato  al  Giovio. 

(2)  Inscriz.  venez.,  Ili,  330. 

(3)  Cfr.  G.  Carducci,  Giovanni  Frati,  in  Bozzétti  e  scherme,  Bologna,  Zanichelli,  1889,  p.  410. 

(4)  Anello  di  sette  gemme  o   Venezia  e   la  sua  storia,  Venezia,  co'  tipi  del  Gondoliere,  1838; 
Prose,  voli,  due,  Firenze,  Le  Monnier,  1855;  Racconti,  ivi,  1857. 

(ó)  G.  Zanella,  Della  letteratura  italiana  neWultimo  suolo.  Città  di  Castello,  S.  Lapi,  1887, 
p.  175;  E.  Nbnciomi,  Saggi  critici  di  letter.  italiana,  Firenze,  Le  Monnier,  1898,  pp.  314,  323. 


180  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

concepire  e  sentire  il  bello,  ma  e  nelle  forme  organiche  della  lirica  e  nei 
metri  ;  è  giusto  anche  affermare  che  la  sua  opera  di  studioso  e  di  erudito 
è  degna  di  esame,  sol  che  si  ponga  mente  alla  Biblioteca  classica  italiana 
di  scienze,  lettere  ed  arti  (1),  adorna  di  buone  e  succose  prefazioni,  alla 
Gerusalemme  Liberata  col  riscontro  della  Conquistata  (2),  alla  scelta  di 
Lirici  italiani  del  secolo  decimosesto  (3),  alle  Satire  di  Michelangelo  Buo- 
narroti il  giovane  (4)  e  via  seguitando.  Di  una  monografia  conscienziosa 
intorno  al  Carrer  letterato  ed  erudito  si  fa  vivo  il  desiderio  ora  sopra  tutto, 
che  il  dottor  Guido  Sartorio,  tratteggiando  in  un  garbato  volumetto  la  vita 
del  poeta  veneziano,  ci  dà  a  conoscere  la  solerV.ia  di  lui  nel  metter  mano  a 
cose  differenti;  per  modo  che  i  suoi  versi,  ond'ei  rivelò  un  tesoro  di  forme, 
di  colori,  di  musiche,  appaiono  quale  svago  alle  sue  fatiche  di  ricercatore  e 
di    editore. 

Su  la  tomba  del  Carrer  pose  ben  presto  radice  la  mala  pianta  de'  pane- 
giristi. Gli  amici  e  gli  ammiratori,  i  quali  per  primi  scrissero  di  lui,  come 
B.  VoUo,  G.  Veludo,  D.  Pallaveri,  J.  Bernardi,  G.  Venanzio,  L.  Ercoliani, 
G.  Crespan,  o  ne  dipinsero  l'animo  soavemente  buono,  o,  con  l'intento  di 
serbarne  pura  la  fama,  esaltarono  i  pregi,  tacquero  i  difetti,  e  lasciarono 
correre  notizie  mal  fondate  o  mendaci.  Omettendo  le  trattazioni  di  A.  Pi- 
netti  (5)  e  di  L.  Padoan  (6),  che  istudiarono  solamente,  l'uno  le  liriche  del 
Carrer,  l'altro  alcune  false  citazioni  del  Carrer  fra  i  traduttori  di  Fedro  ; 
V.  Malamani  (7)  e  G.  B.  Crovato  (8),  che  sono  gli  ultimi  biografi,  non  ci  die- 
dero opera  lodevole.  Il  Malamani  alle  cose,  giuste  o  no,  dette  da  altri, 
accoppiò  il  frutto  delle  sue  ricerche,  chiarendole  con  luoghi  frequenti  di  let- 
tere inedite  e  con  un  esame,  molte  volte  affrettato,  de'  versi  e  delle  prose; 
il  Crovato  assimilò  in  una  brutta  prosa  quanto  contemporanei  e  posteri  la- 
sciarono scritto,  accozzò  errori,  ripetè  alla  leggera  notizie  mal  sicure,  aggiunse 
un  saggio  di  bibliografia  incompiuto  e  in  alcune  parti  erroneo.  Il  S.  per  lo 
contrario,  oculato  e  diligente,  toglie  tutta  la  sua  narrazione  dalle  fonti  più 
genuine,  e,  tra  queste,  le  lettere  del  Carrer  custodite  in  alcune  biblioteche  e 
le  numerose  carte  del  poeta  lasciate  all'amica  sua  Adriana  Renier-Zannini. 
Solo  in  tal  modo  era  lecito  desiderare  una  vita  del  Carrer  definitiva  ed 
esatta.  • 

Una  pagina  autobiografica,  con  la  quale  s'apre  il  volumetto  (pp.  12-4),  ci 
dice  subito  qual  fosse  sin  dal  bello  aprii  degli  anni  l'indole  dell'uomo,  che 
fra  dubbi,   impazienze,  momentanee   esaltazioni   e   rancori   a   stento   celati 


(1)  Venezia,  co'  tipi  del  Gondoliere,  1839-41. 

(2)  Padova,  alla  Minerra,  1828. 

(3)  Venezia,  co'  tipi  di  Laigi  Plet,  1836. 

(4)  Venezia,  nella  tipografia  di  Alvisopoli,  1845. 

(5)  Le  Uriche  di  L.  C,  noU  storico-Uttsrarié,  Camerino,   tip.  Sarini,  1896. 

(d)  Ptr  la  cHationt  di  L,  C.fra  i  traduttori  di  Ftdro,  Piacenza,  stab.  tip.  Piacentino,  1899. 

(7)  L.  C,  nella  Nttoca  Riftista,  Torino,  tip.  A  Baglione,  1883.  an.  Ili,  toI.  V,  pp.  9-10,  21-22, 
30-32,  54-56,  66  68,  81-83,  89-90,  102-104. 

(8)  D0Ua  vita  $  dtlU  op«r$  di  L.  C.  Studio,  Lanciano,  R.  Carabba,  1899.  Vedi  questo  Oior- 
nak,  XXXIV,  254, 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  181 

dovea  trarre  la  vita  intera.  Dai  luoghi  a  pie'  del  Montello  (1),  ove  il  padre 
lo  condusse  giovinetto,  e  dagl'  insegnamenti  di  tre  buoni  preti,  ultimo  dei 
quali  Giovanni  Piva  (2),  fondatore  dell'Accademia  degì  Invulnerabili,  il 
quindicenne  fanciullo,  noto  fra  gì'  Invulnerabili  col  nome  di  Irischiopato 
(affezionato  alla  religione),  apprese  ad  amare  la  natura  e  la  poesia.  La  fama 
di  Tommaso  Sgricci  (3),  che,  nota  giustamente  il  S.  (p.  18),  non  fu  mai 
udito  dal  Garrer,  lo  animò  ad  improvvisare  molte  tragedie,  di  cui  una  sola 
sopravvive,  la  Morte  di  Agag,  impressa  nel  '18  insieme  col  suo  primo 
Saggio  di  poesie  (4).  Il  cattivo  successo  della  Sposa  di  Messina  (5)  e  i  con- 
sigli del  Pezzoli,  del  Monti  e  d'altri  ancora  lo  distolsero  ben  presto  dalle 
facili  lusinghe  della  poesia  estemporanea,  e  lo  incamminarono  per  una  via 
migliore  e  gloriosa. 

Su  l'operosità  letteraria  del  Garrer  dal  '22  al  '32,  quando,  compiti  gli 
studi  legali,  fissò  la  sua  dimora  a  Padova,  e  qual  direttore  della  tipografia 
della  Minerva,  attese  a  nuove  edizioni  di  classici  e  a  comporre  le  sue  bal- 
late migliori,  versi  e  prose  d'ogni  genere,  molti  particolari  più  o  meno  co- 
nosciuti raccoglie  il  S.  in  un  capitolo  (pp.  27-42)  chiaro  e  conciso,  la  cui 
brevità  ci  «  stringe  a  seguitare  alcuna  giunta  ».  —  Ghe  il  Garrer  abbia 
insegnato  un  anno  grammatica  nel  ginnasio  comunale  di  Gastelfranco,  alter- 
nando con  gli  studi  severi  i  sollazzi  di  una  lieta  brigata  d'amici  (p,  27),  è 
verissimo;  ma  in  questo  luogo  era  opportuno  accennare  all'Accademia  dei 
Filoglotti,  istituita  a  Gastelfranco  da  Sebastiano  Soldati  il  20  settembre 
del  '15,  con  lo  scopo  «  d'inculcare  lo  studio  del  nostro  idioma  per  farne  uso 
«e  e  nelle  letterarie  discussioni  e  nelle  memorie  scientifiche  ».  In  un'adu- 
nanza annuale  de'  soci  il  Garrer  lesse  II  Libano  e  La  Poesia  dei  Secoli  cri- 
stiani, e  nel  '23  cooperò  con  l'ode  La  Meditazione  ad  una  manatella  di 
versi,  dai  Filoglotti  dedicati  a  mons.  Jacopo  Menico,  eletto  allora  vescovo 
di  Geneda  (6).  —  Altre  notizie,  e  alcune  gustose,  né  per  ciò  al  poeta  irrive- 


(1)  Cff.  Malamaki,  Op.  cit.,  p.  9;  C.  Aonoletti,  Treviso  e  le  sue  pievi,  Treviso,  tip.  Turazza, 
1898,  pp.  656-61. 

(2)  Elogio  di  D.  Giovanni  Piva  prete  viniziano  scritto  da  Pier- Alessandro  Paravia  iadrense 
e  pubblicato  nel  solenne  ingresso  a  parroco  di  S.  M.  Gloriosa  de''  Frari  del  Rev.  sig.  D.  Luigi 
ZentiUi  da  Giuseppe  Battaggia,  In  Venezia,  pel  Picotti  tip.  editore,  1823,  pp.  4,  16-17. 

(3)  TI  S.  avrebbe  dovuto  ricordare  Top.  di  G.  Volpi,  Tommaso  Sgricci  improvvisatore  di 
tragedie,  Pistoia,  tip.  G.  Fiori,  1897,  e  su  di  esso  questo  Giornale,  XXX,  359. 

(4)  Saggio  di  poesie  di  Arminio-Luigi  Carrer  italiano  da  Venezia,  pubblicate  Vanno  XVIIl 
dell'età  sua,  Venezia,  presso  gl'editori  F.  Zanotto  e  comp.,  1819,  in-16°,  pp.  279.  Questo  volume, 
adorno  di  ritratto  e  di  una  Pistola  di  Luigi  Pezzoli  al  C,  a  guisa  di  prefazione,  dovea  essere 
seguito  da  un  secondo.  Contiene  :  La  morte  di  Agag,  tragedia.  Odi,  Sonetti,  Jdillj,  Cantici,  Inno 
a  Tersicore.  In  fine  v'ha  l'elenco  degli  associati  per  l'acquisto  dell'opera  e  l'annotaz.:  «  finito 
«  di  stampare  in  questo  giorno  15  luglio  1819  coi  tipi  di  Francesco  Andreola  ». 

(5)  Cfr.  L.  Pezzoli,  Discorso  sopra  la  rappresentazione  della  Sposa  di  Messina,  tragedia  di 
L.  A.  C,  Padova,  dalla  tip.  Crescini,  1822,  in-ie",  pp.  46,  e  su  tal  proposito  G.  Biakchini,  L.  C. 
fra  lettere  ed  amici,  Verona-Padova,  frat.  Drucker,  1900,  pp.  5-6. 

(6)  Alcune  poesie  di  argomento  sacro  deqli  Accademici  Filoglotti  di  Castelfranco  dedicate  a 
mons.  Jacopo  Monica  nell'ingresso  suo  vescovile  a  Ceneda,  Padova,  tip.  della  Minerva,  1823 
(nella  prefaz.  si  leggono  alcune  notizie  su  l'Accademia  e  a  p.  105  l'ode  del  C);  L.  Puppati, 
Degli  uomini  illustri  di  Castelfranco,  Castelfranco,  tip.  di  G.  Longo,  1860,  pp.  48-51. 


182  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

renti,  si  possono  desumere  dalle  lettere  ad  Jacopo  Vincenzo  Foscarini  in- 
torno al  matrimonio  del  Garrer  con  Brigida  Crescenzi  (1),  compiutosi  nel 
settembre  del  *26,  all'affetto  primo  dei  poeta  per  la  donna,  da  cui  più  tardi 
doveva  separarsi,  alla  sua  gioia  infinita  allor  che,  nel  giugno  del  'k:7,  «  Bigia  » 
gli  donò  una  bambina.  Elena,  un  «  pezzo  de  tosa  »,  co'  «  capelli  lunghi 
«  mezzo  dito,  un  par  d'occhi  neri  traforelli  che  bruciano,  ed  una  voce  acuta 
€  e  forte  per  guisa  da  farsi  sentire  da  tutto  il  vicinato  »  (2).  —  Al  '26,  più 
tosto  che  al  decembre  dell'anno  dopo  (p.  34),  è  da  ascrivere  il  principio  del 
poema  La  Fata  Vergine'.,  come  ci  assicura  la  lettera  del  26  luglio  '26  al 
Foscarini:  «  1  particolari  del  mio  matrimonio  domanderebbero  un  assai  lunga 
€  cicaleccio...  Ti  basti  sapere  che  sempre  più  mi  compiaccio  della  fatta 
«  scelta,  e  mi  pare  che  questa  Brigida  sia  pur  quella  donna  che  mi  conve- 
«  niva....  In  onta  alle  sposarecce  faccende,  giacché  non  ci  son  più  che  tre 
«  mesi  a  dar  un  addio  al  celibato,  ho  scritto  molti  versi  della  Fata  Vergine^ 
€  che  per  compiacere  al  tuo  gusto  e  a  quello  degl'Italiani  in  generale,  verrò 
«  componendo  in  ottave  anzi  che  in  isciolti,  come  avea  cominciato  »  (3). 
Ma  l'opera  proseguì  a  lenti  passi,  tant'è  vero  che  nel  '49  il  poeta,  da  chiuso 
morbo  combattuto  e  vinto,  terminava  il  canto  decimoterzo,  che  non  doveva 
esser  l'ultimo  della  fantasiosa  epopea  (4).  —  Brevemente  accennando  alle 
raccolte  di  versi,  che  il  Garrer  die'  fuori  avanti  il  '32,  bisognava  rendere 
più  notevoli  (p.  33)  le  poesie  edite  nel  *27  per  le  nozze  Marchettani-Gavalli  (5), 
in  cui  appaiono  per  la  prima  volta  raccolte  insieme  alcune  delle  liiiche 
migliori  e  segnatamente  La  Fvga  Amorosa.,  che  è  la  prima  ballata  roman- 
tica, composta  dal  Garrer  e  poi  ritoccata  nelle  stampe  successive.  —  Nella 
primavera  del  '30  in  compagnia  di  Benassù  Montanari  il  poeta  veneziano 
visitò  la  Romagna  (p.  39).  Fra  i  particolari  di  questo  viaggio,  a  torto  ne- 
gletti dal  S.,  non  si  doveva,  a  parer  nostro,  dimenticare  l'amicizia,  onde  il 


(1)  Ltitere  di  L.  C.  a  J.  V.  Foscarini,  nel  Museo  Civico  Correr,  Autografi,  B,  448.  Da  questa 
preziosa  raccolta  furono  estratti  gli  opuscoli:  Alcune  lettere  inedite  di  L.  C.  n  J.  V.  F.  (1826-30), 
per  nozze  Trentinaglia-Scolari,  Venezia,  tip.  Naratovich,  1865;  Lettere  d' illustri  italiani  con 
akuuf:  poesie  inedite  di  L.  C,  per  nozze  Boschetti-Tozzi,  Venezia,  tip.  Antonelli,  1866.  Un  di- 
screto materiale  di  notizie  circa  la  dimestichezza  del  Carrer  col  Foscarini  oflFrono  le  Pottie  di 
J.  7.  F.,  nel  Museo  Civico  Correr,  B.  510-11,  ove  parecchi  componimenti  lirici  alludono  ai  casi 
della  vita  e  alle  opere  del  nostro  autore.  Tutto  questo  il  S.  omette  ;  ma  per  lo  contrario  chiama 
la  moglie  del  C.  col  suo  vero  nome,  tramutato  in  Brigida  Palicalà  o  Folicalà  da  G.  Vilodo  (Delta 
vita  e  degli  scritti  di  L.  C,  discorso,  Venezia,  A.  Filippi,  1851)  e  0.  Vknakxio  {Cotnentario  d*Ua 
vita  e  delle  opere  di  L.  C,  nelle  Poesie  di  L.  C,  Firenze,  Le  Mounier,  1854  e  56,  p,  xiv),  e  cosi 
rimasto  nelle  Op.  cit.  del  Malamam  e  del  Crovato. 

(2)  LetUre  cit..  n»  24,  1*  luglio  1827. 
(8)  LetUre  cit.,  n«  28. 

(4)  Su  questo  poema  e  su  i  sei  frammenti,  editi  dal  '40  al  '63  in  occasioni  di  notxe,  ▼.  Biak- 
CBiM,  Op.  cit.,  pp.  10-11  e  n. 

(5)  Poesie  di  L.  C,  Padova,  nella  tip.  del  Seminario,  1827.  in-ie»,  pp.  48.  11  volume,  prece- 
duto da  un'epigrafe  dedicatoria  di  Giuseppe  Angelo  Trivellato  a  Marianna  Marchettani,  contiene 
dieci  sonetti.  Il  Libano,  Im  Poesia  de'  secoli  cristiani.  La  Jleditasione,  Per  valentissima  canta- 
trice.  In  morte  di  giovine  sposa.  La  Fuga  Amorosa.  Di  alcuno  di  questi  componimenti,  stampati 
da  prima  in  foglietti  volanti,  ù  trovano  preziosi  esemplari  nel  Museo  Cirico  di  Pmlovi,  eh.»  pos- 
siede forse  la  migliore  raccolta  degli  scritti  a  stampa  del  C. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  183 

poeta  si  legò  a  Carlo  Pepoli,  cospiratore  e  letterato,  fermo  nell'amore  al- 
l'Italia, il  quale  lo  presentò  alla  contessa  Teresa  Malvezzi,  donna  eulta  e 
ospitale  a  quanti  forestieri  di  grido  passavano  per  Bologna  (1).  —  Affranto 
dell'ostinato  lavorio  intellettuale,  consolò  le  sue  sofferenze  tra  gli  amici  e 
gli  ammiratori,  il  S.  ne  enumera  alcuni  (pp.  30-2),  e  i  principali  raccoglie 
nei  salotti  d'Isabella  Teotochi-Albrizzi,  di  Giustina  Renier-Michiel,  di  Marina 
Querini-Benzon,  di  Adriana  Renier-Zannini  (pp.  52-9);  ma  molte  altre  dame 
aprivano  in  quegli  anni  i  loro  palazzi  a  dotti  ed  eleganti  ritrovi  ;  uno  studio 
de'  quali,  senza  che  perciò  vogliamo  rimproverare  il  S.,  potrebbe  conferire 
moltissimo  alla  conoscenza  della  vita  veneziana  al  tempo  del  Carrer,  che  le 
consuetudini  molli  e  voluttuose  de'  suoi  giorni  ritrasse  in  due  liriche  argute 
del  tutto  ignorate:  Rococò  a  Venezia  e  A  Lattuca  poeta  epistola  confor- 
tatoria (2).  —  Il  Manzoni,  il  Torti  e  il  Grossi  encomiarono  i  versi  del  Carrer 
(pp.  41-2);  ma  a  lui,  studioso  della  storia  letteraria,  dovè  tornar  gradita 
l'amicizia  di  alcuni  dotti  fiorentini  e  nominatamente  di  Gian  Pietro  Vieus- 
seux,  come  ci  attestano  tre  lettere,  con  le  quali  ei  dichiara  all'erudito  gine- 
vrino di  accettare  la  cooperazione  neìV Antologia,  e  gli  presenta  Stefano 
Du  Prè  (3). 

Da  Padova,  ove  per  due  anni  fu  assistente  nell'Università  alla  cattedra  di 
filosofia  teoretica  e  pratica,  il  Carrer  venne  il  '32  a  Venezia  (pp.  43-69). 
Stretto  in  amicizia  con  Paolo  Lampato,  editore,  diresse  fino  al  '43  il  Gon- 
doliere, che  diede  il  nome  alla  tipografia,  e  pose  mano  a  prose  e  a  poesie, 
aàV Anello  di  sette  gemme  e  alla  Biblioteca  classica  italiana  di  scienze,  let- 
tere ed  arti,  di  cui  comparvero,  in  luogo  di  cento,  solo  ventisei  volumi  (4). 
Le  lettere  del  Carrer  a  Bartolomeo  Serio  (5),  dimenticate  dal  S.,  e  di  Adriana 
Zannini  al  Montanari  possono  gettar  luce  su  la  «  bella  e  utile  e  onorevole 


(1}  Cfr.  G.  Gamdolfi,  La  contessa  Teresa  Malvezzi  e  il  suo  salotto  (1785-1859),  Bologna,  Za- 
nichelli, 1900,  p.  153. 

(2)  Il  Gondoliere,  an.  VI,  n°  7,  17  febbraio  1838,  pp.  54-55  e  an.  Vili,  no  2,  11  gennaio 
1840,  p.  15. 

(3)  Carteggio  di  0.  P.    Vieusseux,  nella  Bibl.  Nazionale  di  Firenze,  cass.  A- 19,  n°  14-16. 

(4)  Di  ventisei  e  non  di  ventisette  volumi,  come  affermano  il  Crovato  e  il  S.,  consta  la  Biblio- 
teca classica,  la  quale  esordì  con  II  Tesoro  dt  Brunetto  Lntini  volgarizzato  da  Bono  Giamboni, 
nuovatnente  pubblicato  secondo  Vedizione  del  MDXXXIll,  Venezia,  co'  tipi  del  Gondoliere,  1839, 
voi.  due,  in-26°,  pp.  xxiv,  285,  431,  e  si  chiuse  con  le  Descrizioni  di  cose  naturali,  ivi,  1841, 
in-26*^,  pp.  XIII,  352.  Al  voi.  I  precede  il  discorso  del  C.  sul  metodo  e  su  l'indole  della  Biblioteca 
(pp.  1-27),  ristampato  poi  nelle  Prose  cit,,  voi.  I,  pp.  213-26,  e  il  prospetto  delle  classi  onde 
la  raccolta  doveva  dividersi  :  I.  Religione  ;  II.  Filosofia  speculativa  e  pratica  ;  III.  Matematiche 
pure  e  applicate;  IV.  Fisica  e  scienze  naturali;  V.  Legislazione  politica  e  commercio',  VI.  Eco- 
nomia domestica,  agricoltura  ed  arti  meccaniche;  VII.  Medicina  e  chirurgia;  Vili.  Storia,  geo- 
grafia e  viaggi;  IX.  Letteratura;  X.  Poesia;  XI.  Yaria  erudizione  e  mateohgia;  XII.  Arti 
belle.  Pur  recando  il  suo  incremento  a  ciascuna  delle  classi  accennate,  la  Biblioteca  non  segni 
nelle  sue  pubblicazioni  un  ordine  stabilito,  tant'è  vero  che  alcuni  considerarono  VArte  della  Per- 
fezion  Cristiana  del  cardinale  Sforza  Pallavicino,  Venezia,  1839,  si  come  l'inizio  della  serie, 
formando  essa  il  voi.  I  della  classe  I. 

(5)  G.  BiADEOo,  Lettere  inedite  di  L.  C,  per  nozze  Gasperini-Bianchi,  Verona,  C.  Civelli,  1879, 
prefaz.  Vedi  anche  Lettere  d'illustri  italiani  ad  Antonio  Papadopoli,  scelte  ed  annotate  da  G.  Gotti. 
Venezia,  tip.  Antonelli,  1886,  e  sa  di  esse  questo  Giornale,  Vili,  447-51. 


184  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

«  impresa  »  della  Biblioteca  e  su  le  dolorose  vicende  della  tipografia,  che 
tante  aniarezze  recarono  al  poeta.  Questi,  fra  le  angustie  domestiche  e 
gli  studi  mirabili  di  pazienza  e  di  buon  giudizio,  ottenne,  1'  8  novembre 
del  '42,  per  concorso  (1),  la  cattedra  di  lettere  italiane  e  di  geografia  nel- 
l'I. R.  Scuola  Tecnica,  allora  istituita  a  Venezia;  ma  il  cruccio  per  l'umile 
ufficio,  a  cui  necessità  lo  condannava,  e  la  malferma  salute  non  gli  permi- 
sero d'attendere  al  dover  suo  con  amore,  tanto  che  due  volte  chiese  alcuni 
mesi  di  riposo,  durante  i  quali  fecero  le  sue  veci  Pietro  Ferrato  e  Bene- 
detto VoUo.  Compiuto  il  triennio  didascalico  «  con  piena  soddisfazione  del 
€  direttore  »,  egli  stava  per  essere  confermato  nell'ufficio  ;  quando  la  morte 
di  Marc' Antonio  Corniani,  primo  conservatore  e  direttore  del  Museo  Civico, 
gli  offi*ì  il  mezzo  di  conseguire,  dopo  mille  impacci,  un  posto  più  decoroso  e 
più  adatto  alla  sua  salute.  L'anima  del  poeta,  di  cui  la  fortuna  si  burlò  sino 
alla  fine,  tornò  presto  alle  prese  con  la  dura  realtà:  il  29  marzo  del  '47  gli 
moriva  l'unica  figliuola  (2).  Anche  su  tali  avvenimenti,  accompagnati  da 
ansie,  da  timori,  da  disgusti,  il  S.  s'affretta  più  che  non  avesse  dovuto  ; 
poiché  siamo  persuasi  che  un  attento  esame  dell'epistolario  carreriano  di 
questi  anni  avrebbe  giovato  a  meglio  definire  la  natura  di  lui,  sempre  triste, 
accorato  e  presago  di  nuove  sventure. 

Il  capitolo  migliore  e  più  originale  del  volumetto  (pp.  70-101)  è  consacrato 
alle  quarantottate  veneziane  e  alla  parte  non  punto  gloriosa,  che  vi  ebbe 
il  Carrer.  Nel  momento  più  agitato  e  fecondo  della  preparazione  al  risorgi- 
mento italiano,  prestò  l'opera  sua  nel  nono  congresso  dei  dotti  (13  set- 
tembre 1847),  che  fu  una  vera  manifestazione  nazionale  (3);  compose  tre  inni 
guerreschi  (4);  dettò  per  la  Gazzetta  uno  scritto  pieno  di  ebbrezza  su  la 
cacciata  degli  Austriaci.  Ma  quando  la  superba  esplosione  popolare,  simile 
ad  improvviso  scoppio  di  vulcano,  creduto  spento  da  secoli,  percosse  e  illu- 
minò Venezia,  ogni  entusiasmo  svanì;  e,  come  ci  attestano  le  sue  lettere, 
due  satire  e  alcuni  frammenti,  che  il  S.  ci  fa  conoscere  per  la  prima  volta 
(Appendice,  pp.  HO-52),  egli  non  badò  ad  offèndere  il  gagliardo  sentimento 
de'  cittadini  più  autorevoli.  Ritornati  gli  Austriaci,  le  sue  poesie  patriotiche, 
ristampate  e  appese  a'  canti  della  città,  servirono  al  governo  per  destituirlo 
dall'ufficio;  nel  quale  più  tardi,  grazie  alle  vive  insistenze  del  podestà  e  del 
patriarca,  fu  reintegrato  (5). 

La  tisi  tubercolare,  che  da  sett'anni  logorava  il  corpo  esile  del  poeta, 
stava  per  compiere  l'opera  sua  distruttrice.  Le  lettere  da  lui  scritte  nel  *50 


(1)  Con  lui  {\irono  proposti  in  terna  Ercole  Maresiesi  e  Francesco  Bnchinger.  Queste  notitie  ri 
possono  desamere  dal  protocollo  della  Scuola  negli  anni  1842-46. 

(2)  Poesit,  Firenze,  Le  Mounier,  1856,  pp.  90-93. 

(8)  Fratto  del  congresso  fu  Pop.  VeiUMia  «  U  au«  lagutu,  Venetia,  stab.  Antonelli,  1847,  in 
cui  si  leggono  due  studi  del  C.  intorno  alla  letteratara  e  al  dialetto  veneziano,  a  Chioggia  e 
alle  isole. 

(4)  Odi  poktiche  $  aoHétti  di  L.  C,  per  cura  di  P.  Ferrato,  Firenze,  Le  Mounier,  1868, 
pp.  6-12. 

(5)  Cfr.  BuncHisi,  Op.  cit,  pp.  17-22. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  185 

al  fratello  Pietro  e  alTamico  Montanari  (1),  che  noi  avremmo  voluto  veder 
ricordate  più  di  sovente  dal  S.,  mandano  singhiozzi  di  desolante  amarezza 
e  di  pia  rassegnazione.  La  nobil  donna  Adriana  Renier-Zannini,  da  lui  amata, 
e,  com'è  opinione  d'alcuni,  celebrata  in  due  liriche,  Il  Voto  e  II  Lamento  (2), 
accolse  l'infermo,  e  con  affetto  di  sorella  gli  fu  prodiga  d'ogni  conforto.  Il 
4  decembre  dettò  il  testamento,  dichiarandone  esecutore  il  suo  coinquilino 
Vincenzo  Busetto  ;  pagina  riboccante  di  affetto  e  di  fede,  ove  sono  in  ispecie 
ricordati  la  moglie,  da  cui  era  separato  non  legalmente,  il  fratello  Pietro, 
erede  residuano,  e  il  prof.  Pietro  Canal  (3).  Venti  giorni  dopo  egli  moriva, 
pianto  e  commemorato  dai  migliori  cittadini,  che  gli  decretarono  ne'  chiostri 
di  San  Michele  di  Murano  una  tomba  marmorea  e  un'  iscrizione.  Varie  epi- 
grafi furono  proposte,  e,  notevole  fra  le  altre,  quella  di  Pier  Alessandro 
Paravia,  che  alcuni  riportarono,  come  se  fosse  incisa  nel  monumento  (4). 
In  questo  si  leggono  in  vece  le  semplici  parole  di  Giovanni  Veludo  :  A  Luigi 

GaRRER  I  POETA  E  PROSATORE  |  IL  CONSIGLIO  |  COMUNALE  |  DEL  Di'  XIV  DICEM- 
BRE  MDCCCLII  j  PER   UNANIME  VOTO  |  l'aRCA    E    QUESTA   MEMORIA.   NoH  SÌ   COn- 

facevano  soverchie  lodi  ad  un  uomo,  che,  fra  il  divampare  della  rivoluzione, 
avea  dileggiato  col   suo   non  retto  procedere  ogni  alto  sentimento  patrio,  e 


(1)  Musep  Civico  di  Padova,  Autografi,  no  172  ;  Bibliot.  Comunale  di  Verona.  Per  le  lettere  a 
P.  Carrer  vedi  C.  Cimegotto.  Da  lettere  inedite  di  L.  C,  nel  Bollettino  del  Museo  Civico  di  Pa- 
dova, II,  70-6,  e  per  l'ultima  lettera  del  poeta  al  Montanari  (8  dicembre  '50),  Bianchini,  L'ultimo 
addio  del  poeta,  nélVAlbo  nuziale  Bolognini- Sor  mani.  Verona,  G.  Franchini,  1900. 

(2)  Poesie  di  L.  C,  ediz.  cit.,  pp.  33-4,  122-24.  Intorno  ad' Adriana  Renier-Zannini,  vedi 
G.  Vklcdo,  Adriana  Renier-Zannini,  cenno  delki  sua  vita,  estr.  dall' Arc/iij;*o  Veneto,  Venezia, 
tip.  del  Commercio  di  M.  Visentini,  1876;  P.  Fbbbato,  Della  vita  e  degli  scritti  di  A.  R.  Z., 
Mantova,  tip.  Balbi  ani,  1876  ;  U.  Saileb,  Un'altra  pagina  delle  Serate  Veneziane,  nella  Strenna 
di  Primavera,  Venezia,  1884,  pp,  3-20. 

(3J  Archivio  di  Stato  di  Venezia,  I.  R.  Tribunale  Civile  in  Venezia,  an.  1850,  Sez.  E.,  n"  4544. 
Mette  conto  di  far  noto  un  breve  passo  del  testamento:  «...  Lascio  a  mia  moglie  Brigida  Cre- 
«  scenzi  austriache  lire  due  e  centesimi  cinquanta  il  giorno,  vita  di  lei  durante  da  pagarsele  dal 
«  prof.  Pietro  Canal  del  fu  Agostino,  giusta  contratto  con  lui  concluso  il  giorno  due  dicembre  di 
«  questo  stesso  anno  mille  ottocento  cinquanta,  N.  1293,  Atti  del  dott.  Luigi  Dario  Paolucci.  Oltre 
«  a  ciò  lascio  ad  essa  Brigida  Crescenzi  mia  moglie,  per  segno  di  particolare  affezione,  il  mobi- 
«  liare,  biancherie,  posata  d'argento  adoperata  già  dalla  nostra  figlia  Elena,  e  ciò  tutto  in  somma 
«  che  si  trovi  avere  ella  presentemente  nelle  sue  mani,  cose  di  cui  da  più  anni  le  ho  conceduto 
«  l'uso  ;  non  che  la  posata  d'argento  che  adopero  io  quotidianamente,  ed  un  orologio  d'oro  avente 
«  nel  quadrante  una  figura  di  donna  con  un  bambino,  e  attaccata  per  catena  una  smaniglia  pur 
«  d'oro  ».  Il  poeta  abitò  a  Venezia  da  prima  in  campo  Sant'Apollinare  e  poi  in  Frezzeria,  n"  1626, 
e  la  moglie  sua  a  San  Luca,  n°  4521.  Su  le  case,  ov'egli  dimorò,  sorse  pili  volte  fra' cittadini  il 
desiderio,  non  ancora  messo  in  effetto,  di  collocare  una  lapide.  Cfr.  F.  S.  Fapanki,  Saggio  di 
iscrizioni  per  indicare  la  casa  d'alcuni  veneziani  illustri,  Bibl.  Marciana,  it.  ci.  VII,  cod.  2400. 

(4)  Cfr.  J,  Bbbnardi,  L.  C,  nel  Cimento,  an.  II,  serie  2a,  voi.  Ili,  p.  73;  E.Livebikbo,  L.  C, 
nella  Rivista  contemporanea,  &n.  II,  voi.  II,  p.  797;  Cbovato,  Op.  cit.,  p.  97.  L'annunzio  della 
morte  del  poeta  fu  ristampato  da  G.  B.  Contabiki,  Menzioni  onorifiche  dei  defunti,  Venezia,  tipo- 
grafia Perini,  1851,  p.  38.  Circa  il  busto  marmoreo,  opera  dello  scultore  Giuseppe  Soranzo,  a  lui 
eretto  nel  Pantheon  del  Palazzo  Ducale  con  un'iscrizione  di  G.  Veludo,  vedi  Inaugurazione  del 
butto  di  L.  C,  estr.  dall'ArcAiPio  Veneto,  t.  XV,  P.  I,  Venezia,  tip.  del  Commercio  di  M.  Vi- 
sentini, 1878,  e  per  alcuni  dibattiti  sorti  dianzi.  Il  Tempo,  17  marzo  1871;  L'Osservatore  di 
Venezia,  25  marzo  1871;  F.  S.  Fapansi,  Di  alcuni  grandi  italiani  i  centenari  celebrati,  le  case 
additate  ecc.,  Bibl.  Marciana,  it.  ci.  XI,  cod.  208. 


186  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

che  il  Tommaseo,  da  prima  suo  lodatore,  chiamava  nel  decembre  del  "52: 
anima  <  squisitamente  vile  »  (1).  Del  Carrer  si  conservano  tre  ritratti:  il 
primo  a  diciott'anni,  posto  in  fronte  alla  stampa  delle  poesie  giovenili;  il 
secondo  a  trentatre,  tolto  da  un  quadro  ad  olio  di  Michele  Fanoli,  conservato 
a  Savonara  nella  villa  del  conte  Gittadella-Vigodarzere,  ove  il  poeta  è  rap- 
presentato nelle  sembianze  di  Bordello;  il  terzo  degli  ultimi  anni,  impresso 
in  un'edizione  postuma  delle  ballate  (2). 

Di  tutti  questi  particolari ,  alcuno  certamente  importante,  non  appare 
traccia  nel  libro  del  S.  ;  il  quale,  come  chiaro  sembra,  si  propose  di  mettere 
innanzi  il  resultamento  delle  sue  ricerche  conscienziose,  dicendo  poche  cose 
ed  esatte,  e  sceverando  la  sua  narrazione  da  tutto  ciò  che  potesse  impac- 
ciarne lordine.  Tolti  i  difetti,  che  noi,  con  la  solita  franchezza,  volemmo 
emendare,  il  volumetto  del  S.  è  senza  dubbio  la  migliore  e  più  veritiera 
biografia  del  Carrer.  È  però  un  male  che,  per  cagioni  indipendenti  dalla 
sua  volontà,  il  S.  non  abbia  potuto  dar  fuori  insieme  con  la  vita  del  poeta 
lo  studio  intorno  alle  opere.  Se  di  queste  egli  avesse  discorso,  di  mano  in 
mano  ch'ei  tratteggiò  le  vicende  dell'uomo  sfortunato,  il  volumetto  sarebbe 
riuscito  di  gran  lunga  più  attraente,  e  meglio  avrebbe  giovato  a  delineare 
il  carattere  morale  dell'autore.  Non  a  tutti  gli  scrittori,  che  son  di  fama 
noti,  può  convenire  uno  studio  di  tal  fatta;  ma,  a  nostro  avviso,  lo  richiede 
il  Carrer.  Semplice  e  il  più  delle  volte  elegante,  popolare  e  facile,  egli,  per 
volger  d' anni,  non  perdette  mai  «  la  caduca  virtù  del  caro  imaginar  », 
rappresentando  ed  esprimendo  sempre  sé  stesso  senza  esagerazioni.  Ciascun 
tratto  della  sua  indole  risponde  a  un  tratto  affine  negli  scritti,  sia  che, 
stretto  dal  bisogno,  tutto  si  dedichi  alle  indagini  critiche  e  alle  opere,  per 
que'  tempi,  lodevoli  di  erudizione,  sia  che,  incalzato  dai  dolori  e  dalle  spe- 
ranze, verseggi,  abbracciando  l'anima  con  una  tenerezza  calma  a  profonda. 

Giuseppe  Bianchini. 


(1)  Il  secondo  esilio,  scritli  concernènti  U  cose  d'Italia  «  d'Europa  dal  1849  in  poi,  Milano, 
F.  Sanvito,  1862,  voi.  I,  pp.  227-8.  Ma  son  pur  da  ricordare  A^uori  scritti,  Veneiit,  co'  tipi  del 
Gondoliere,  1838,  voi.  I,  pp.  101-2;  Ditionnrio  estetico,  ivi.  1840.  pp.  70-71,  465;  Stitdt erttki, 
Venezia,  A.  Andruzzi,  1843.  P.  I,  p.  317  e  P.  II.  pp  132,  330,  331.  343-44,  355-56;  Osserta- 
Mioni  sopra  le  lettere  critiche  di    G.  Barbieri,  Padova,  co'  tipi  della  Minerva,  1824.  p.  3,  n.  1. 

(2)  Vedi  Saqgio  di  poesie  già  cit.  ;  Poesie,  ediz.  Le  Monnier  già  cit.;  Ballate  edite  ed  tneditt 
di  L.  C,  Venezia,  tip.  Cecchini,  1852.  Cfr.  L.  Escoluki,  Cenni  biografici  sulla  9ita  t  sulk 
opere  di  L.  C,  Milano,  presso  l'afBcio  del  Cosmoraina  pittorico,  1851,  p.  13;  Bkskabdi,  Op.  cit., 
p.  73.  IJ.  MoNTAKABi  (  Vèrsi  e  Prose,  Verona,  tip.  Antonelli,  1854.  voi.  I.  pp.  99-111)  cori  ne' 
Tersi  In  morte  di  L.  C.  descrive  il  quadro  del  Fa/ioli  : 

Mio  Michel,  ben  fa  accorto  il  tao  pennello, 
quando  del  Pargatorio  la  salita, 
di  Mantova  co'  due  Maro  e  Sordello. 

sul  margin  della  Brenta  bai  colorita, 
e  a  Sordello  dato  bai,  vate  ed  amante, 
di  Luigi  rìmmagine  gradita. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


CARLO  CIPOLLA.  —  Monumenta  novaliciensia  vetustiora.  Rac- 
colta degli  atti  e  delle  cronache  riguardanti  l'abbazia  della 
Novalesa.  Due  volumi.  —  Roma,  a  cura  dell'Istituto  storico 
italiano,  1898-1901  (8°  gr.;  I,  pp.  xx-448;  II,  pp.  394,  coft 
14  tavole  illustrative  allegate  ai  due  tomi). 

Nuova  e  ragguardevole  benemerenza  s'è  guadagnata  l'Istituto  storico  ita- 
liano con  la  stampa  di  questi  due  magnifici  volumi,  che  ci  conservano,  rac- 
colti con  ogni  cura,  editi  con  ogni  miglior  industria  critica,  i  documenti  d'una 
celebre  abbazia  medievale,  appollaiata  sull'Alpe  che  divide  l' Italia  dalla 
Francia,  spettatrice  de'  grandi  fatti  che  seguirono  a'  piedi  di  quei  suoi  monti, 
ricettacolo  di  coltura  in  tempi  torbidi.  Fondata  nel  726  dai  Franchi,  l'abbazia 
benedettina  della  Novalesa  godette  di  larga  fama  letteraria  ed  ebbe  una 
biblioteca  preziosa  sino  al  sec.  X,  in  cui  l'incursione  saracena  le  diede  fie-. 
rissimo  colpo,  distruggendo  o  disperdendo  buona  parte  di  quella  raccolta  di 
codici.  Risorse  bensì,  poco  appresso,  e  rivisse  con  vari  destini,  di  nuovo  in 
mano  ai  monaci  di  S.  Benedetto  e,  nei  tempi  ultimi,  ai  Gisterciensi,  ma 
l'antico  splendore  non  raggiunse  più  mai. 

Pubblicare  ed  illustrare  i  documenti  storici  di  quel  venerando  monastero, 
rintracciare  con  cura  amorosa  le  reliquie  di  quella  antichissima  biblioteca, 
che  alle  porte  d'Italia  onorò  il  sapere  italico  non  meno  di  quelle  di  Monte- 
cassino  e  di  Bobbio,  è  opera  che  se  riesce  preziosa  per  le  discipline  paleo- 
grafiche e  di  storia  ecclesiastica,  non  meno  gradita  dev'essere  agli  indagatori 
della  storia  delle  lettere.  A  siffatta  laboriosa  ed  ardua  investigazione  il  Ci- 
polla si  preparò  di  lunga  mano,  con  quello  zelo  pertinace  e  quel  sapere 
profondo  che  in  lui  sono  superati  unicamente  dall'acume  dello  ingegno;  e 
dal  1894  in  poi  venne  pubblicando  una  serie  di  scritti  intorno  alla  storia  ed 
ai  codici  della  Novalesa,  che  in  gran  parte  vide  la  luce  nelle  Memorie  della 
R.  Accademia  delle  Scienze  di  Torino  (1).  Le  notizie  là   ed  altrove  disse- 


(1)  Sono  sette  monografie  di  varia  dimensione,  fregiate  di  pregevoli  facsimili,  che  possono  ve- 
dersi enumerate  nell'indice  alfabetico  generale  che  è  in  fondo  al  voi.  I,  serie  II,  delle  summen- 
zionate Memorie.  Altri  articoli  complementari  del  Cip.  sai  medesimo  soggetto  comparvero  nel 
voi.  31  degli  Atti  dell'Accademia  delle  Scienze  e  nei  fascio.  18  e  22  del  BulUttino  dilV  Istituto 
storico  italiano.  v 


188  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

minate  sono  raccolte  sotto  brevità  nella  VII  sezione  del  I  volume  dei  Mo- 
numenta^ che  s' intitola  Elenchus  codicum  manuscriptorum^  e  sono  comple- 
tate nella  sez.  X  (Anecdota  novissima)  del  voi.  II.  Codesti  codici,  quasi  tutti 
d'argomento  sacro  od  ascetico,  si  trovano  ora,  in  gran  parte  frammentari, 
nell'Archivio  di  Stato  ed  in  quello  dell'Economato  di  Torino,  nella  biblioteca 
Phillips  di  Cheltenham,  nella  collezione  Hamilton  passata  a  Berlino.  Se 
codeste  indagini  valgono  a  ricomporre  in  parte  quei  tesori  bibliografici 
dispersi  e  mutilati,  il  rimanente  del  I  volume,  col  codice  diplomatico,  coi 
necrologi,  con  gli  elenchi  degli  abati,  con  le  vite  dei  monaci  e  le  notizie  di 
S.  Eldrado  ecc.  ecc.,  offrono  il  materiale  più  sicuro  per  ricostruire  la  storia 
della  celebre  badia.  Né  solo  questo;  ma  il  ricchissimo  corredo  di  cui  si 
fregia  il  primo  volume  può  dirsi  il  migliore  sfondo  su  cui  si  profila  quella 
ingenua  e  caratteristica  scrittura  della  seconda  metà  del  sec.  XI,  che  è  il 
noto  Chronicon  Novaliciense. 

Occupa  questo  Chronicon,  con  le  illustrazioni  che  lo  precedono  e  che  lo 
accompagnano,  buona  parte  del  voi.  II  dei  Monumenta.  E  ben  naturale 
che  ad  esso  il  Gip.  consacri  la  maggiore  attenzione.  Quel  testo  era  già  stato 
prodotto  per  le  stampe  dal  Muratori,  da  G.  Gombetti,  da  L.  Bethmann;  ma 
qui  si  avvantaggia  di  novissime  cure.  11  Gip.  ha  ripreso  in  esame  il  rotolo 
originale  di  esso,  che  è  nel  R.  Archivio  di  Torino,  e  dopo  una  sottilissima 
analisi  paleografica  è  giunto  a  concludere  che  è  probabilmente  tutto  della 
medesima  mano,  che  forse  è  la  mano  dell'autore  stesso  dell'opera  (lì,  82). 
Alle  parti  mancanti  del  prezioso  rotolo  supplisce  il  Gip.  con  gli  estratti  di 
testi  non  conservati,  che  ce  ne  diedero  antichi  storici  e  critici.  E  sebbene 
il  nuovo  editore  replicatamente  affermi  di  aver  voluto  fare  soltanto  opera 
esterna  intorno  al  Chronicon,  senza  sciogliere  veruno  dei  gravi  quesiti  storici 
ch'esso  presenta,  in  realtà  dà  assai  più  di  quanto  prometta,  poiché  conclu- 
dendo la  prefazione  (vedi  II,  83  sgg.)  determina  il  valore,  il  carattere,  i  fonti 
del  Chronicon,  segnalando  le  particolarità  che  in  esso  sono  degne  di  nota. 
Malgrado  gli  errori  che  il  Chronicon  contiene,  aflferma  il  Gip.  ch'esso  è  opera 
di  gran  valore  anche  per  la  storia,  giacché  il  monaco  autore  registrò  con 
piena  schiettezza  ciò  che  vide,  udì  e  lesse.  Riferisce,  pertanto,  cose  vere 
miste  alle  false,  e  in  quella  sua  ingenua  esposizione  largamente  fiorisce  la 
leggenda.  «  Il  nostro  cronista,  scrive  il  Gip.,  aveva  anima  di  poeta.  Né 
«  sempre  si  deve  alla  sua  semplicità  e  bonarietà  se  raccoglie  con  tanta  cura 
«  le  leggende  più  strane  e  più  puerili.  Egli  ne  sentiva  la  poesia,  e  se  ne 
<i  compiaceva.  E  qualche  volta  narrava  ciò  che  aveva  sentito  dire,  anche 
«  se  sospettasse  trattarsi  soltanto  di  dicerie  popolari.  Il  suo  sentimento 
«  poetico  gli  fa  provare  tutta  la  dolcezza  che  ispira  la  contemplazione 
«della  natura,  lassù  sui  monti  imponenti,  fra  i  quali  celavasi  la  sua  ab- 
«  bazia  »  (II,  92). 

Questo  particolare  carattere  del  Chronicon  ha  richiamato  sempre  su  di 
esso  la  curiosità  degli  indagatori  di  leggende.  Il  Chronicon,  come  il  Bartoli 
bene  osservò,  «  ci  indica  uno  sviluppo,  un  atteggiamento  che  prese  il  rac- 
€  conto  storico,  assorbendo  in  sé  la  tradizione  popolare,  conservandola,  ripe- 
«  tendola,  mescolando  inconsciamente  la  verità  storica  alla  finzione  poetica, 
«  0  in  altri  termini,  dando  alla  leggenda  il  valore  storico,  e  alla  storia  il 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  189 

«  colorito  leggendario  »  (1).  A  leggende  claustrali  d'ogni  genere  sonovi  acco- 
state leggende  epiche,  alcune  relative  a  Garlomagno  ed  alla  lotta  di  lui  contro 
i  Langobardi;  altre  ad  un  Gualtiero  d'Aquitania,  che  sarebbe  finito  monaco 
alla  Novalesa  dopo  esser  stato  l'amante  d'Ildegonda  e  dopo  aver  compiuto 
eroiche  imprese  nella  fuga  insieme  con  lei  dalla  cattività  di  Attila.  Tra 
queste  leggende  le  une  sono  probabili  detriti  di  una  specie  di  ciclo  epico 
italiano  in  formazione,  destinato  ad  esprimere  simpatia  verso  i  Langobardi  (2); 
le  altre  si  consertano  all'antica  tradizione  germanica  del  Waltharius  ed  in 
bizzarro  modo  la  completano. 

Nel  L.  Il  del  Chronicon,  ove  la  storia  di  Gualtiero  (3)  è  narrata  (II,  135  sgg.), 
sono  anche  riferiti  molti  versi  del  poema  latino  intorno  a  lui,  che  secondo 
l'opinione  oggi  più  accreditata  fu  composto  nel  sec.  X  da  Eccheardo  1  di 
S.  Gallo.  Il  Gip.,  che  con  le  sue  erudite  annotazioni  tanto  contribuì  a  chia- 
rire il  Chronicoti  (4),  toccò  anche  di  questo  soggetto,  e  riscontrò  i  passi 
del  poema  riferiti  dal  cronista  con  la  edizione  del  Waltharius  data  da 
G.  V.  Scheffel  e  da  A.  Holder  (Stuttgart,  1874).  Siccome  il  II  volume  dei 
Monumenta  durò  lungo  tempo  in  corso  di  stampa,  non  gli  riuscì  di  valersi 
della  migliore  edizione  che  oggi  si  abbia,  quella  di  Ermanno  Althof.  Del- 
l'ottima opera  dell'Althof  è  sinora  comparsa  solo  la  I  Parte,  che  comprende 
il  testo,  con  una  serrata  e  perspicua  introduzione,  ove  sono  riferite  le  molte 
e  varie  opinioni  espresse  dai  germanisti  sull'origine,  sulla  composizione, 
sulla  data,  sull'autore,  sulla  fortuna  del  tormentatissimo  Waltharius  (5). 
Nel  completamento  della  leggenda  di  Gualtiero,  quale  si  trova  nel  Chronicon, 
ritiene  l'Althof  non  s'abbia  a  ravvisare  un  successivo  ampliamento  popolare 
della  tradizione,  ma  semplicemente  un  accostamento  di  essa  ad  una  leggenda 
locale  della  Novalesa,  che  si  riferiva  a  un  tutt'altro  Gualtieri  e  che  era  con- 
giunta di  parentela  alla  leggenda  carolingia  di  Guglielmo  d'Orange  (6).  Ora, 
che  la  principale  leggenda  di  Gualtiero  monaco,  quella  del  suo  furore  guer- 


(1)  storia  della  letteratura  italiana,!,  17.  Cfr.  anche  Balzani,  Le  cronache  italiane  nel  medio 
età,  Milano,  1900,  pp.  174-76. 

(2)  Vedi  questo  Giornale,  IV,  266-68. 

(3)  Vualtharius  è  la  forma  che  vi  assume  il  nome  dell'eroe. 

(4)  Interesse  filologico  ha,  tra  codeste  note,  quella  di  II,  104,  che  riferisce  una  lettera  del 
rimpianto  Flechia  al  Cip.  intorno  all'etimo  di  «  Novalesa  ».  Scartate  le  etimologie  popolari  di 
«nova  lux»  o  «nova  lex  »,  il  Flechia  scrive:  «L'aggettivo  '  novalensis  '  deriva  dal  latino 
«'novale',  terreno  incolto  (selva  o  sodaglia)  ridotto  a  coltura;  e  fu  nome  primamente  applicato 
«  alla  valle,  la  quale  nell'alto  medio  evo,  dissodata  qua  e  là  per  Io  lungo,  veniva  a  trovarsi  piena 
«  di  '  novali  ',  opera  de'  valligiani,  romani  o  romanizzati  ;  e  così  la  valle  fu  chiamata  '  vallis 
«novalensis',  che  sarebbe  quanto  dire  'la  valle  dei  novali',  e  il  nome  'novalensis'  fu  come 
«  sostantivo  ritenuto  poi  specialmente  dal  villaggio  che  è  in  capo  alla  valle  ». 

(5)  Waltharii  Poesis.  Das  Waltharilied  Ekkehards  1  von  St.  Oallen,  Erster  Teil,  Leipzig, 
Dietericb,  1899.  Vedi  la  rilevante  recensione  di  K.  Marold  nel  Literaturbl.  fur  german.  und 
roman.  Philologie,  XXI,  235. 

(6)  Althop,  Op.  cii.,  p.  21  :  «  Wir  haben  hier  offenbar  nicht  eine  volksmassige  Weiterbildung 
«  der  deutschen  Walthersage  vor  nus,  sondern  eine  gauz  willkUrliche,  ausserliche  Verkntlpfung 
«  derselben  mit  einer  Novaleser  Lokalsage  von  einem  ganz  anderen  Walther,  die  ihrerseits  wieder 
«  nahe  verwandt  ist  mit  der  karolingischen  von  Gnillanme  d'Orange  ». 


190  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

riero  che  gli  ribolle  un  bel  giorno  sotto  la  tonaca  e  lo  fa  ridiventare  d'im- 
provviso il  gran  battagliatore  d'un  tempo,  abbia  riscontro  in  un  fatto  della 
Conversio  Othgerii  militisi  che  a  sua  volta  si  ricollega  al  Moniage  Guil- 
laume, è  cosa  egregiamente  provata  dal  Rajna  (1);  ma  l'equivoco  dell'au- 
tore del  Chronicon,  per  cui  egli  avrebbe  fatto  un  personaggio  solo  di  due 
del  tutto  diversi,  equivoco  che  molti,  prima  dell'Althof,  hanno  sostenuto,  non 
mi  sembra  in  modo  alcuno  provato.  Sia  come  si  voglia,  il  completamento 
che  il  Chronicon  aggiunge  al  Waltharius,  proprio  nello  spirito  dei  nioniages 
francesi,  è  bellino  assai,  e  nello  scorgere  quel  frate  aitante,  che  si  lascia 
spogliare  dai  nemici  con  santa  rassegnazione,  ma  quando  essi  stanno  per 
strappargli  le  mutande  perde  la  pazienza  e  mena  giù  botte  da  orbi,  con  una 
vera  voluttà,  rompendo  braccia  e  fracassando  teste,  come  vien  viene,  non 
possiamo  a  meno  di  rammentarci  la  simpatica  figura  di  FanfuUa  da  Lodi, 
uno  dei  tredici  di  Barletta  divenuto  monaco  di  San  Marco,  e  poi  di  nuovo 
soldato  durante  l'assedio  di  Firenze  (2).  R. 


Biblioteca  storico-critica  della  letteratura  dantesca,  diretta  da 
G.  L.  Passerini  e  da  P.  Papa.  Disp.  11-12.  —  Bologna,  Za- 
nichelli, 1899  [ma  in  realtà  1900  e  1901]. 

VINCENZO  RUSSO.  —  Per  V autenticità  della  «  Quaestio  de 
«  aqua  et  terra  ».  —  Catania,  Giannotta,  1901  (8°,  pp.  48). 

Collezione  di  opusc.  danteschi  ined.  o  rari,  diretta  da  G.  L.  Pas- 
SERiNL  Disp.  61-63.  --  Città  di  Castello,  Lapi,  1900  è  1901. 

Alle  nostre  collezioni  dantesche   par  non  arrida  quella  fortuna,  che  sem- 
brerebbe dovuta  al  loro  valore  intrinseco.    Fu  infatti  nel  1899  che  il  conte 


(1)  La  cronaca  della  Novalesa  e  l'epopea  carolingia,  in  Romania,  XXIII,  36  sgg.  La  dimostn* 
zione  del  Rajna  può  essa  avere,  per  avventura,  qualche  valore  nel  far  ripensare  alla  cadata  opi- 
nione del  Fauriel  sull'originaria  meridionalità  dell'eroe?  II  Faurìel  esagerava  certamente  assai; 
ma  il  nodo  fu  forse  dai  germanisti  più  tagliato  che  sciolto. 

(2)  M'era  occorso  già  di  pensare  a  questo,  quando  m'avvenne  di  riscontrare  il  medesimo  acco- 
stamento nell'articolo  di  A.  G.  Barbili,  Fra  Geraldo  e  il  suo  poema.  Afferma  recisamente  il 
Barrili  (Rass.  nationale,  voi.  CXIV,  p.  664)  che  dall'avventura  di  Gualtiero  nel  Chronicon  No- 
valiciense  fu  «  ispirato  Massimo  d'Azeglio  a  collocare  tra  i  frati  di  S.  Marco,  nel  suo  Niccolo  de' 
«  Lapi,  il  bizzarro  FanfuUa  della  Disfida  di  Barletta  ».  Proprio  fu  inspirato  «  direttamente  » 
dal  Chronicon?  Lo  sa  il  Barrili  per  una  attestazione  esplicita  del  D'Azeglio  medesimo,  o  è  solo 
una  sua  congettura  mutata  in  certezza?  Comunque  sia,  quel  riscontro  è  forse  l'unica  cosa  baona 
in  quel  suo  articolo  poverissimo  e  arretratissimo  sul  Waltharius,  che  ha  per  fonte  quasi  unica 
il  Dn  Méril!  Prelude  esso  ad  una  versione  poetica  italiana  del  poema,  inserita  nel  voi.  116  della 
Rass.  nasionale,  la  quale  ha  il  merito  di  essere  la  prima  riduzione  in  lingua  nostra  di  quel  do- 
cuoiento  medievale  notevolissimo,  che  fu  tradotto  e  ritradotto  in  tedesco  tante  volte  e  anche  più 
d'una  in  francese,  e  ad  un  gentile  e  fantasioso  poeta  di  Karlsruhe,  morto  solo  nel  1886,  lo  Scheifel, 
offerse  la  materia  d'un  piacevole  romanzo  storico,  lo  Ekkehard.  Vedi  per  l'elenco  delle  traduzioni 
la  2»  edizione  del  Potthast,  Bibtiot.  hist.  medii  aeei,  I.  397  e  Althof,  Op.  cit.,  pp.  57  sgg. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  191 

Passerini,  abbandonata  la  sua  collezioncina  umbra  (cfr.  Giornale,  34,  234), 
ne  fondò  con  Pasquale  Papa  una  bolognese,  che  usciva  coi  migliori  propositi, 
sicché  noi  avemmo  replicate  volte  a  lodarla  seguendone  le  pubblicazioni 
(cfr.  Giornale,  34,  422  e  35,  412).  Ma  dopo  le  prime  dispense  quella  egregia 
raccolta  andò  rallentando,  sicché  della  prima  annata  (1899)  si  vide  la  fine 
solo  nel  1901.  E  con  l'ultima  dispensa  venne  l'avvertimento  che  d'ora  in- 
nanzi gli  opuscoli  zanichelliani  usciranno  a  liberi  intervalli  e  che  ne  sarà 
unico  direttore  il  prof.  P.  Papa.  Il  Passerini  é  ritornato  alla  sua  vecchia 
collezione  di  Città  di  Castello,  della  quale  era  uscita  ramingando  tapina,  du- 
rante il  1900,  un'unica  dispensa  doppia,  la  61-62.  Speriamo  che  ripresa 
dall'antico  direttore  quella  serie  di  opuscoli  continui  a  rendere  sempre  mi- 
gliori servigi  agli  studi. 

La  prima  annata,  protratta,  della  Biblioteca  zanichelliana  termina  come 
principiò,  presentando  traduzioni  di  scritti  inglesi  osservabili. 

11.  —  Contiene  Edwards  Armstrong,  L'ideale  politico  di  Dante  e  John 
Earle,  La  «  Vita  nova  »  di  Dante.  L'articolo  dell'Armstrong  usci  la  prima 
volta  nella  Church  quarterly  review  del  1890,  e  allora  valeva  certo  assai 
più  di  quel  che  valga  adesso.  È  specialmente  uno  studio  riassuntivo  della 
politica  di  Arrigo  VII  di  Lussemburgo,  le  cui  idee  sono  raffrontate  con  quelle 
contenute  nei  De  Monarchia.  E  mentre  da  una  parte  si  mostra  quali  diffi- 
coltà incontrasse,  nell'apprezzamento  del  pubblico  di  Germania  e  d'Italia, 
non  che  nelle  titubanze  dell'imperatore  medesimo,  l'effettuazione  dell'ideale 
di  Arrigo;  dall'altra  si  confrontano  le  idee  manifestate  da  Dante  con  quelle 
di  altri  teoristi  della  politica  a  lui  anteriori  o  contemporanei.  Questa  parte, 
dal  1890  in  poi,  trovò  trattazioni  ben  altrimenti  approfondite  e  sicure  che 
quella  dell'Armstrong:  rammentiamo  in  particolar  guisa  quelle  di  C.  Cipolla 
e  del  Grauert.  —  Più  importante  lo  scritto  dell'  Earle,  che  vide  la  luce 
nella  Quarterly  review  del  1896.  L' Earle  è  un  allegorista.  Egli  ritiene  che 
nella  V.  N.  sia  adombrato  un  concetto  non  dissimile  da  quello  capitale  che 
è  nella  Commedia,  il  conflitto  tra  la  Fede  e  la  Scienza  (1).  Per  lui  Bea- 
trice è  nella  V.  N.  la  teologia,  e  la  donna  pietosa  è  la  filosofia;  teologia 
non  nel  senso  dialettico  della  parola,  ma  come  principio  di  fede;  quindi 
l'A.  scorge  un  vero  parallelismo  tra  l'episodio  finale  della  gran  visione  del 
Purgatorio  e  la  V.  N.  Su  questa  base  il  critico  inglese  costruisce  uno 
schema  d'interpretazione  allegorica  della  V.  N.  (pp.  63-68),  il  che  non  gli 
impedisce  di  ammettere  anche  la  possibilità  d'una  Beatrice  reale  e  terrena, 
e  d'un  amore  del  poeta  per  lei.  Ma  codesta  realtà  e  codesto  amore  sono  per 
lui  estranei  al  «  motivo  e  all'origine  della  V.  N.  »,  perchè  la  V.  N.  è  an- 
zitutto «  una  storia  allegorica  del  conflitto  fra  la  Fede  e  la  Scienza,  e 

«  in  questo  conflitto  sta  il  suo  intimo  e  vero  significato  »  (p.  78).  L'A.  la 
considera  siffattamente  congiunta  al  concetto  capitale  della  Commedia  da 
asserire  in  un  luogo  :  «  11  sacro  poema,  mentre  era  ancora  in  preparazione, 


(1)  Che  veramente  questo  conflitto  vi  sia  nel  poema  non  teniamo  vero,  come  non  crediamo  fosse 
mai  neiranima  di  Dante.  L' Earle  parte  da  un  presupposto  fallace,  e  questo  mina  tutto  il  suo 
«dificio. 


192  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

€  gettò  fuori  la  V.  N.  come  un  germoglio  >  (p.  71).  —  Noi  fummo  i  primi, 
e  per  molto  tempo  gli  unici  in  Italia,  ad  accorgerci  di  questo  scritto  del- 
l'Earle  (Giorn.,  30,  522),  e  quando  toccammo  della  confutazione  che  ne  fece 
il  Moore,  non  si  trascurò  di  lamentare  l'indifferenza  dei  dantologi  nostri  a 
suo  riguardo  (Giorn.,  36,  161,  n.  1).  Con  ciò  non  vogliamo  dire  che  TBarle 
colpisca,  secondo  noi.  nel  segno,  e  che,  nell'ordine  dell'ipotesi  realistica,  non 
gli  muova  obiezioni  acute  e  calzanti  G.  Mazzoni  (1).  Ma  siccome  per  noi 
sull'interpretazione  della  V.  N.  non  fu  peranco  detta  l'ultima  parola,  questa 
nuova  ed  ingegnosa  dissertazione  vuol  esser  tenuta  nel  debito  conto. 

12.  —  Edoardo  Moore,  L'autenticità  della  «  Quaestio  de  aqua  et  terra  >. 
—  Versione  del  VII  saggio  del  II  voi.  degli  Studies  in  Dante  del  Moore. 
Chi  scrive,  ha  largamente  discorso  di  quella  dissertazione  nel  Giornale,  36, 
162-173,  né  qui  accade  ritornarvi  sopra.  E  appena  necessario  rammentare 
ai  lettori,  che  la  discussione  fu  dottamente  ripresa  da  F.  Angelitti  (2),  il 
quale  fece  notevolissime  osservazioni  sul  testo  della  Quaestio  e  concluse 
ammettendo  probabile  che  l'Alighieri  l'abbia  veramente  dettata.  Né  del 
Moore,  né  delle  obiezioni  nostre  al  Moore,  né  di  quest'ultimo  articolo  del- 
l'Angelitti  mostra  aver  cognizione  il  prof.  Russo,  che  mandò  fuori  a  Catania 
un  nuovo  opuscolo  sulla  Quaestio.  Dispiace  siffatta  quasi  incredibile  igno- 
ranza, perché  torna  tutta  a  suo  danno.  Buona  parte,  infatti,  delle  sue  argo- 
mentazioni e  de'  suoi  riscontri  era  già  stata  proposta  dal  Moore,  il  quale 
procede  nel  suo  scritto  con  ben  altro  rigore  di  logica  e  severità  di  metodo. 
Anche  pel  Russo  la  Quaestio  con  ogni  probabilità  appartiene  a  Dante  : 
l^  perché  essa  conviene  per  contenuto  al  tempo  di  cui  serba  la  data;  2o,  perchò 
la  trattazione  geologica  che  vi  é  agitata  rientra  nelle  dispute  geologiche  me- 
dievali; 3»,  perchè  si  accorda  con  le  altre  opere  dantesche;  4»,  perchè  il 
Moncetti  non  aveva  coltura  né  ingegno  atti  a  scrivere  quel  trattatello,  che 
egli  anzi  fu  inetto  a  stampare  correttamente. 

Valore  assai  discutibile  hanno  le  osservazioni  del  R.  sul  testo  in  cui  ci 
fu  tramandata  la  Quaestio,  perché  egli  non  ricorse  all'edizione  principe,  sì 
bene  a  quella  del  Fraticelli,  che  mal  la  rappresenta.  Nelle  pagine  concer- 
nenti i  riscontri  particolari  con  altre  opere  sicuramente  dantesche,  abbiamo 
già  osservato  che  il  R.  fu  prevenuto  dal  Moore.  Qui  peraltro  merita  nota 
per  la  sua  originalità  l'opinione  dal  R.  sostenuta  che  «  la  concezione  poe- 
«  tica  dell'assettamento  del  globo  terracqueo  dopo  la  caduta  di  Lucifero  con- 
«  tiene  il  nocciolo  della  Quaestio  »  (p.  18),  o  in  altri  termini  che  la  tesi 
sostenuta  nella  Quaestio  doveva  già  esser  chiara  nella  mente  del  poeta 
quando  egli  concepì  i  due  primi  regni  sopranaturali  e  la  emersione  della 
montagna  dell'espiazione.  Non  è  osservazione  di  gran  valore  pel  quesito  del- 
l'autenticità della  Quaestio;  ma  unita  alle  altre  può  aver  qualche  peso.  — 
11  R.  ha  poi  il  merito  di  aver  tentato  un  po'  di  storia  del  problema  geolo- 
gico. Questo  abbozzo  storico,  sommario  e  imperfetto,  lo  licenzia  a  conchiudere 
che  nei  primi  decenni  del  sec.  XIV  le  dispute  su  quel  punto  (dell'emersione 


(1)  Nel  BfUUtt.  Soe.  Dant$$€a,  N.  S.,  VI,  67  aff. 

(2)  BulUttino  «opra  citato,  N.  S.,  Vili,  62-71. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  193 

dei  continenti)  dovettero  spesseggiare,  «  e  quindi  era  naturale  che  si  sentisse 
«  il  bisogno  di  una  trattazione  definitiva,  esauriente  »  quale  sarebbe  la 
Quaestio,  le  cui  conclusioni  «  trionfano  nel  trecento  e  nel  quattrocento  » 
(p.  12).  E  sta  bene.  Ma  allora,  perchè  mai  codesta  tanto  importante  scrit- 
tura sarebbe  stata  dimenticata  così  presto  da  tutti?  Aggiunge  il  R.  poco  ap- 
presso: «Dopo  i  viaggi  australi  e  la  scoperta  dell'America  le  vecchie  idee 
«  geologiche  si  dovevano  modificare  ;  pure  i  filosofi  peripatetici  non  molto 
<  se  ne  allontanarono  e  col  solito  bagaglio  di  principii  della  vecchia  scola- 
«  stica  e  di  biblici  donimi  seguitarono  per  un  pezzo  ancora  a  disputare  » 
(p.  13).  11  che  contraddice  a  quanto  è  detto  prima,  e  rende  possibile  che 
con  idee  e  procedimenti  prettamente  medievali,  senza  pur  tradire  la  cogni- 
zione di  nuovi  veri  acquisiti  alla  scienza,  un  falsario  qualsiasi  (e  vogliamo 
anche  ammettere  non  sia  il  Moncetti  !)  fabbricasse  quel  trattateli o  nel  quat- 
trocento 0  nel  cinquecento. 

Alla  soluzione  del  quesito  gioverà,  a  parer  nostro,  massimamente  la  ri- 
cerca storica  che  il  R.  accennò,  dandone  qualche  saggio  poco  perspicuo  e 
traendone  conclusioni  affrettate.  E  necessario  rintracciare  e  vagliare  accura- 
tamente quelli  che  si  possono  chiamare  i  legittimi  antecedenti  della  Quaestio, 
vale  a  dire  ricostrurre  la  storia  del  concetto  della  terra  emersa  nella  cosmo- 
grafia antica  e  medievale.  Quando  questo  si  sarà  fatto,  potrassi  finalmente 
giudicare  con  sicurezza  del  posto  che  il  problema  occupava  nelle  menti  degli 
scienziati  medievali  e  di  quelli  del  rinascimento,  e  si  potranno  forse  addi- 
tare le  vere  fonti  del  De  aqua  et  terra.  —  A  questo  lavoro,  faticoso  senza 
dubbio,  ma  indispensabile  a  formarsi  idea  chiara  e  sicura  sul  tema,  si  è 
accinto  un  nostro  amato  e  stimato  cooperatore,  il  p.  G.  Boffito,  e  fra  non 
molto  si  vedranno  i  primi  frutti  delle  sue  indagini. 

Frattanto,  per  chiuder  questo  cenno  già  troppo  lungo,  diciamo  poche  pa- 
role ancora  delle  novissime  pubblicazioni  uscite  nella  collezione  dantesca 
del  Lapi,  a  cui  con  la  disp.  63  fu  ridonata  l'opera  direttiva  del  Passerini. 

61-62.  —  Giuseppe  Avalle,  Le  antiche  chiose  anonime  alVlnferno 
di  Dante  secondo  il  testo  marciano.  —  Flaminio  Pellegrini  (Giorn.,  14,  421) 
e  L.  Rocca  (Di  alcuni  commenti  della  D.  C,  pp.  85  sgg.)  hanno  chiara- 
mente mostrato  come  il  cod.  it.  179  della  classe  IX  della  Marciana  rechi 
un  testo  più  ampio  e  importante  delle  chiose  antiche  aWInferno  edite  dal 
Selmi  nel  1865,  in  confronto  ai  due  mss.  fiorentini  su  cui  il  Selmi  appunto 
si  fondò.  Senza  ulteriori  studi,  il  sig.  Avalle  stampa  qui  tutto  intero  (sembra 
con  diligenza)  il  commento  del  ms.  Marciano  alla  prima  cantica.  È  tanto 
più  un  servigio  in  quanto  che  oramai  da  tempo  l'edizione  del  Selmi  è  in 
commercio  irreperibile. 

63.  —  Maria  Zamboni,  La  critica  dantesca  a  Verona  nella  seconda 
metà  del  sec.  XVIII.  —  Prolisso,  prolisso,  prolisso.  Se  a  questo  tema  si 
dedica  un  volumetto,  e  si  riesce  a  trattarne  solo  una  parte,  per  la  storia 
della  varia  fortuna  di  Dante  ci  vorrà  un'intera  biblioteca!  Qui,  in  fin  dei 
conti,  non  si  parla  se  non  di  Bartolomeo  Perazzini  e  di  Gian  Jacopo  Dionisi, 
di  quest'ultimo  non  solo  esaminando  gli  aneddoti,  ma  discutendoli  al  lume 
della  moderna  critica.  L'opportunità  di  questa  discussione  è  per  lo  meno 
assai  problematica.  Più  rilevanti  i  giudizi  che  la  sig.  Z.  dà  sul  valore  critico 

GiortiaU  storico,  XXXVIII,  fase.  112-113.  13 


194  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

del  Dionisi  nel  cap.  IX;  né  senza  importanza  gli  estratti  dal  carteggio  del 
Dionisi  col  Perazzini.  Avendo  TA.  potuto  disporre  dei  mss.  serbati  presso 
la  famiglia  Dionisi,  ci  saremmo  atteso  che  ci  sapesse  dire  qualcosa  di  più 
nuovo  ed  interessante  intorno  al  suo  soggetto.  Anche  la  elabora/ione  della 
materia  lascia  a  desiderare,  specialmente  per  ciò  eh'  è  dell'ordine.  Dire 
senz'altro  errato  il  metodo  critico  del  Witte  nel  rifare  il  testo  della  Com- 
media (p.  18),  è  ingiusta  esagerazione.  Pel  valore  critico  del  Perazzini  nel- 
l'esegesi dantesca  potevasi  anche  richiamare  F.  Cipolla  in  questo  Giornale^ 
25,  342  sgg.  Non  si  dovrebbe  scrivere,  neppure  per  svista,  il  Carlo  Witte 
(p.  73).  R. 


G.  RIZZACASA  D' ORSOGNA.  —  La  foce  che  quattro  cerchi 
giugne  con  tre  croci  nel  I  del  Paradiso.  —  Sciacca,  tipo- 
grafia B.  Guadagna,  1901  (8^  pp.  28  ed  una  tavola). 

È  noto  a  tutti  che,  durante  l'anno,  il  sole  sorge  per  diverse  foci,  come 
dice  Dante;  ma  l'A.  dell'opuscolo,  che  ora  esamino,  gli  attribuisce  una  foce 
sola  e  dice  che  questa  è  tutta  la  sezione  o  arco  del  Coluro  equinoziale  di 
primavera,  compreso  fra  il  tropico  di  Cancro  e  quello  di  Capricorno,  i 
quali  sono  come  le  ripe  o  sponde  della  celeste  fiumana  corsa  dal  sole. 

Cosi,  secondo  lui,  la  foce  solare,  che  quattro  cerchi  giugne  con  tre  croci, 
sarebbe  il  detto  arco  di  Coluro  equinoziale,  ed  i  quattro  cerchi  sarebbero 
l'Equatore,  i  due  Tropici  ed  il  Coluro  che  li  interseca. 

Mi  limito  ad  osservare  che  il  Coluro  equinoziale  interseca  anche  i  circoli 
polari  e  gli  altri  paralleli  formando  una  moltitudine  di  croci;  che  le  tre 
croci,  prescelte  dal  Rizzacasa,  non  hanno  comune  il  punto  d'intersezione;  e 
che  quindi  queste  non  corrispondono  al  quesito  dantesco,  il  quale  richiede 
che  si  determini  dove  si  trovi  il  sole,  quando  congiunge  quattro  cerchi  con 
tre  croci. 

Gli  antichi  commentatori  della  Divina  Commedia  sono  concordi  nello  am- 
mettere che  la  foce,  donde  la  lucerna  del  mondo  con  miglior  corso  e  con 
migliore  stella  esce  congiunta,  sia  il  principio  del  segno  dell'Ariete,  dove 
s'intersecano  l'ecclitica,  l'equatore  ed  il  coluro  equinoziale  di  primavera;  e 
dicono  che  questi  tre  cerchi  formano  con  l'orizzonte  tre  croci,  senza  però 
determinarle. 

Ebbene,  io  aggiungo  che  i  piani  di  quei  tre  cerchi  s'intersecano  secondo 
un  diametro  della  sfera  celeste  e  tagliano  l'orizzonte,  cerchio  infinitamente 
grande,  generando  tre  rette  passanti  per  uno  stesso  punto,  le  quali,  combi- 
nate due  a  due,  formano  tre  croci;  e  che  quindi  il  sole,  quando  entra  nel 
segno  dell'Ariete  (equinozio  di  primavera)  e  spunta  all'orizzonte,  congiunge 
appunto  quattro  cerchi  con  tre  croci. 

Gonchiudo  col  consigliare  il  Rizzacasa  a  non  mettersi  nel  pelago  dell'astro» 
nomia  dantesca.  P.  G. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFIGO  195 

PIETRO  VIGO.  —  Le  danze  macabre  in  Italia.  Monografia.  Se- 
conda edizione  riveduta.  —  Bergamo,  Istituto  italiano  d'arti 
grafiche,  1901  {8«  gr.,  pp.  182). 

Lieta  accoglienza  ebbe  nel  i878  il  libretto  del  Vigo  sulle  Danze  macabre 
in  Italia,  sebbene  in  molte  parti  tradisse  inesperienza  giovanile.  Essendo 
esaurita  quella  prima  edizione,  fu  ottimo  consiglio  l'allestirne  una  seconda 
aumentata  e  adorna  di  otto  tavole  accuratamente  eseguite,  tre  delle  quali 
rappresentano  (nel  complesso  ed  in  certi  particolari)  il  celebre  affresco  mor- 
tuario di  elusone,  altre  due  gli  affreschi  di  Pisogne  e  della  chiesa  di  S.  Laz-^ 
zaro  presso  Como,  due  altre  ancora  il  notissimo  trionfo  della  morte  del 
Camposanto  pisano,  che  oggi  ei  vuol  attribuito  al  Traini,  finalmente  una 
(ed  è  la  più  pregevole,  perchè  riproduce  opera  non  molto  conosciuta)  la  fu- 
nerea cavalcata  della  morte,  assegnata  ad  Antonio  Crescenzio,  che  è  a 
Palermo. 

Rispetto  al  testo,  il  lavoro  ha  pur  sempre  il  pregio  di  essere  l'unica  trat- 
tazione fatta  ex  professo  della  fortuna  che  ebbero  certe  rappresentazioni 
mortuarie  nel  paese  nostro;  ma  la  mancanza  di  fusione  della  materia,  che 
si  notava  nella  prima  edizione,  appare  ancor  più  in  questa  seconda  per  le 
aggiunte  d'indicazioni  nuove  accostate  alle  vecchie.  Noi  abbiamo  confrontato 
le  due  edizioni,  ed  esponiamo  qui  le  risultanze  dei  nostro  confronto. 

In  sul  principio  il  V.  introduce  opportunamente  un  capitolo  proemiale  sul 
concetto  e  le  forme  rappresentative  della  morte,  condotto  in  gran  parte  sulla 
monografia  della  contessa  Lovatelli  intitolata  Thanatos.  Ma  se  adoperò  molto 
bene  nel  praticar  quest'aggiunta,  non  sappiamo  davvero  spiegarci  come  abbia 
voluto  lasciar  intatto  il  secondo  capitolo,  ove  si  accenna  all'origine  delle 
danze  ed  ai  loro  rappresentanti  tipici  fuori  d'Italia.  È  evidente  che  in  questo 
ordine  d'indagini  il  V.  non  si  è  preso  la  briga  di  tener  dietro  a  nessuna 
ricerca  moderna.  Basti  il  dire  che  gli  è  rimasto  ignoto  l'opuscolo  di  W.  Seel- 
mann,  Die  Totentdnze  des  Mittelalters,  Leipzig,  1893,  che  è,  dal  punto  di 
vista  storico  e  bibliografico,  il  lavoro  più  compiuto  e  pregevole  che  si  abbia 
oggi  sul  tema.  Conseguentemente  anche  egli  non  ha  avuto  sentore  delle 
osservazioni  sul  nome  vero  delle  danze  e  sull'origine  loro,  che,  togliendo  le 
mosse  dallo  studio  del  Seelmann,  fece  valere  G.  Paris  nella  Romania,  XXIY, 
129  (1).  Il  secondo  capitolo  del  libro  del  V.  sarebbe  da  rifare  di  sana  pianta. 

Venendo  nel  terzo  capitolo  a  discorrere  dei  dipinti  italiani,  il  V.  dà  nella 
seconda  edizione  notizie  più  precise  e  particolari  della  bella  figurazione  mor- 
tuaria di  elusone  e  si  estende  nel  descrivere  quelle  di  Val  Rendena  nel 
Trentino  (2).  Aggiunge  pure  la  descrizione,  che  F.  Ellon  pubblicò  nel  vo- 


ci) Oià  altrore  ci  accadde  di  arvertire  che  in  segoito  a  4nell«  importantissime  osservazioni  te- 
niamo per  fermo  che  le  danze  non  si  abbiano  più  a  chiamare  macabre,  ras  macabréé. 

(2)  Non  sappiamo  perchè  egli  continui  a  scrirere  erroneamente  (p.  35)  Penzolo  anziché  Fin- 
zolo.  E  ancor  meno  sappiamo  perchè  non  citi  sn  qu^li  affreschi  trentini  Tampio  scritto  di 
D.  LABaaioLLi,  Una  danMa  dei  morti  del  tee.  XVI  nell'alto  Trentino,  Tr»nto,  1896,  che  è  solo 


196  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

lume  II  del  fìullett.  senese  di  storia  patria^  d'una  copertina  dei  libri  di 
Biccherna  migrata  a  Berlino,  che  reca  una  curiosa  rappresentazione  mor- 
tuaria. 

Tien  conto  nel  quarto  capitolo  dell'affresco  che  si  vede  ancora  nella  cat- 
tedrale di  Atri  ;  ma  tace  affatto  dell'altro  che  è  a  S.  Maria  in  Piano  presso 
Loreto  Aprutino,  e  sembra  ignori  su  entrambi  Tillustrazione  erudita  del 
Pansa  (1).  Poco  di  nuovo  aggiunge  sul  motivo  affine  del  contrasto  dei  tre 
vivi  coi  tre  morti  (pp.  53  sgg),  né  forse  era  in  tempo  di  por  mente  al  no- 
vello esemplare  di  esso,  segnalato  di  recente  da  chi  scrive  queste  righe  nel 
chiostro  di  S.  Maria  di  Vezzolano  (2).  —  Dei  trionfi  della  morte,  che  in  Italia 
piacquero  ben  più  che  le  vere  e  proprie  danze,  parla  nel  quinto  capitolo  con 
poche  aggiunte.  Il  V.,  che  pur  fa  valere  con  giusta  critica  l'idea  dell'in- 
flusso che  su  quelle  speciali  rappresentazioni  esercitarono  i  Trionfi  del 
Petrarca,  ha  della  bibliografia  di  questo  soggetto  informazione  incompiu- 
tissima  (3).  Sul  bassorilievo  di  Napoli  (p.  68),  che  ora  è  custodito  nel  museo 
di  S.  Martino,  volevasi  richiamare  la  Napoli  nobilissima,  I,  92-93  (4),  e 
specialmente  un  articolo  di  G.  Amalfi,  A  proposito  di  danze  macabre,  nel 
Giambattista  Basile,  I,  58  sgg.,  ove  attorno  alla  notizia  del  famoso  silicio 
sono  raggruppati  componimenti  popolari  e  semipopolari  svariatissimi  in  cui 
ha  parte  la  morte,  che  potevano  giovare  al  V.  per  la  considerazione  del 
lato  letterario  del  suo  soggetto  (5). 

Del  resto,  la  considerazione  letteraria,  che  è  compresa  nel  capitolo  settimo 
e  nei  seguenti,  palesa  nel  V.  maggiore  dimestichezza  con  le  fonti  che  quella 
artistica.  Le  due  aggiunte  più  notevoli  sono  qui  le  seguenti:  tre  laudi  della 


citato  da  Astorre  Pellegrini  in  un'appendice  al  presente  volume  del  Y.,  in  coi,  con  Ottino  pen- 
siero, rìprodnce  esattamente  le  didascalie  poetiche  macabree  di  quelle  danze.  Cfr.  in  proposito 
questo  Oiornalé,  XI,  115,  m.  2. 

(1)  La  Leggenda  macabra  in  AbruMto,  nella  Rastegna  abruaMese,  II,  246  sgg.  Avremmo  desi- 
derato qualche  maggiore  schiarimento  sulla  danza  di  Montebruno  in  Sabina,  che  il  V.  accenna 
fugacemente  (p.  43,  n.).  Egli  si  riferisce  al  Monaci,  il  quale  veramente  ha  scritto  Jionttbttono 
e  non  Montebruno  nel  Giornale  di  fiìol.  romanna,  fiuc.  3,  p.  243  n.  E  pare  che  in  Sabina  ve 
ne  sia  anche  un'  altra  a  Poggio  Mirteto,  sulla  quale  pure  richiamò  1'  attenzione  il  Monaci  nei 
Rendiconti  dei  Lincei,  ci.  se.  mor.,  an.  1896,  p.  485.  La  Sabina,  a  quanto  oppiamo,  non  è  nel 
centro  dell'Africa,  sicché  fa  meraviglia  si  debba  ora  proseguire  a  contentarci  di  questi  acceani 
cosi  imperfetti. 

(2)  Vedi  Emporium,  XII,  1900,  pp.  377  sgg.  Oik  in  quell'articolo  mi  accadde  di  notare  ««era 
una  specie  di  motto  illustrativo  delle  rappresentazioni  mortuarie  quel  concetto  che  trovò  la  sua 
più  famosa  espressione  nel  Carro  della  mori»  di  A.  Alamanni  :  «  Fummo  già  come  voi  siete,  |  Voi 
«  sarete  come  noi  ».  Ma  mi  dimenticai  di  rinviare  (nò  il  Vigo  lo  fa)  ad  una  molto  interewant» 
raccolta  delle  espressioni  di  quel  concetto,  che  l'eruditiitsimo  Koehler  trovò  presso  qnasi  tatti  i 
popoli  europei.  Vedi  lo  scritto  del  Koihlbb,  Dot  Spruek  der  Toten  oh  die  Lebendtn,  ora  ristam- 
pato dal  Bolte  nelle  Kteinere  Schriften,  II.  27  sgg. 

(3)  Si  confrontino  i  rinvi!  di  questo  Giornale,  XXYII,  460,  a  coi  si  d«v«  aggiunger*  Io  scritto 
speciale  del  MOhtz,  in  La  bibUofiUa,  II,  1-2. 

(4)  Cflr.  ora  anche  Salazab,  in  Flegrea,  II,  4. 

(5)  Si  noti  per  incidenza  che  a  p.  71  il  V.  ripete  l'antico  errore  per  cui  ri  swsfaMO  al  Clovio 
le  miniature  del  Dante  urbinate  della  Vaticana.  Questa  opinione  ò  ormai  pieBUMate  sfatata. 
Cfr.  Giom.,  XXX,  495  e  l'articolo  del  periodico  L'artt  segnalato  in  questo  Gtom.,  XXXTD,  461. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 


197 


morte,  una  abruzzese,  le  altre  trentine  (pp.  97-103),  che  parrebbero  date 
come  inedite,  mentre  in  realtà,  se  non  tutte  tre,  certo  due  di  esse  erano  già 
a  stampa  (1):  le  didascalie  in  versi  italiani  d'un  raro  opuscolo  parigino,  che 
reca  la  celebre  danza  del  Holbein  (pp.  119-122).  Al  qual  proposito  al  V. 
non  sarebbe  sfuggito  un  particolare  importante  se  avesse  avuto  sott'  occhio 
qualcuna  delle  stampe  originali  francesi  della  danza  del  Holbein.  Le  quartine 
italiane  che  egli  riferisce  non  sono  altro  che  parafrasi,  più  o  meno  libere, 
delle  quartine  francesi  inscritte  sotto  le  incisioni  di  quel  capolavoro  dell'arte 
grafica  (2).  Eccone  qualche  saggio  : 


Morbide  donne,  ricche  et  ociose 
Levatevi  et  ndite  la  mia  voce; 
Dopo  alcun  giorno  et  anno  dispettose 
Verrete  a  sostener  mia  sorte  atroce. 

Percoterò  il  pastor  d'aspra  percossa, 
E  le  sue  pecorelle  fien  disperse; 
Né  sera  Morte  dal  suo  officio  mossa 
Per  mitra  o  manto  o  cose  altre  diverse. 

Mentr'io  vo  a  visitar  chi  infermo  giace 
Pensandomi  soccorrer  al  suo  male. 
La  morte  presta  intanto  mi  disface 
Perchè  son,  come  lui,  anch'io  mortale. 

L'uom  eh' è  nato  di  donna  in  questa  vita 
Poco  tempo  dimora  e  si  distrugge 
Tra  la  miseria,  eh' è  quasi  infinita, 
E  come  luce  et  ombra  viene  e  fugge. 


Levez  vous,  dames  opulentes, 
Ouyez  la  voix  des  trespasséz: 
Apres  maintz  ans  et  ioure  passéz 
Serez  troublées  et  donlentes. 

Le  Pasteur  aussi  frapperay 
Mitres  et  crosses  renversées; 
Et  lors  quand  je  l'attrapperay, 
Seront  ses  brebis  dispersées. 

Je  pori  le  saint  sacrement 
Cuidant  le  mourant  secourir. 
Qui  mortel  suis  pareiUement 
Et  comme  lui  me  fault  mourir, 

Tout  homme  de  la  femme  yssant 
Bemply  de  misere  et  d'encombre, 
Ainsi  que  fleur  tost  iinissant 
Sort  et  puis  fuyt  come  fait  l'umbre. 


^s'è  in  questo  luogo  trascurerem  di  osservare  che  rispetto  alle  numerose 
propaggini  della  Visio  Fulberti,  cioè  del  contrasto  fra  l'anima  ed  il  corpo, 
su  cui  il  V.  pur  si  trattiene  (pp.  106-110),  andava  menzionato  oggi  un  la- 
voro dottissimo  ed  acuto,  condotto  su  larghissima  esplorazione  di  testi,  quello 
di  Th.  Batiouchkof  che  si  legge  nel  voi.  XX  della  Romania. 

Da  quel  che  siamo  venuti  esponendo  appare  manifesto,  se  non  ci  ingan- 
niamo, che  nel  ventennio  crescente,  corso  tra  la  prima  e  la  seconda  edizione, 
il  V.  non  ha  tenuto  abbastanza  dietro  al  cammino  degli  studi  intorno  al 
suo  soggetto,  il  che  è  davvero  molto  deplorevole,  perchè,  se  lo  avesse  fatto, 
questo  suo  lavoro,  che  non  manca  di  pregi,  ne  avrebbe  guadagnato  non 
poco.  Sembra  poi  che  egli  vada  soggetto  a  stranissime  distrazioni.  Così  a 
p.  140  lamenta  di  non  aver  conosciuto  in  tempo  la  vignetta  (leggi  minia- 
tura) di  un  laudario  fiorentino  (quella  che  il  Bartoli  riferì  in  fotografia 
nel  I  volume  dei  Mss.  magliabechiani),  mentre  in  realtà  egli  medesimo  ne 


(1)  La  landa  abruzzese  fa  prodotta  dal  Pòrcopo  in  questo  Giornale,  Vili,  189;  una  di  quelle 
trentine  fu  edita  dall'avv.  Panizza  nelV Archivio  trentino,  II,  81.  ila  di  questa  e  d'altre  singo- 
lari ignoranze  del  V.  tocca  una  severa  recensione  del   Tridentum,  IV,  143-44. 

(2)  Pel  confronto  ci  siamo  valsi  della  riproduzione  a  facsimile,  che  l'editore  Giorgio  Hirth  di 
Monaco  diede  nel  1884  della  danza  di  Hans  Holbein  secondo  la  stampa  lionese  del  1538. 


198  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

parla  a  p.  55  del  suo  libro!  E  mettiamo  tra  le  distrazioni  anche  Ta ver  chia- 
mato nella  dedica  senatore  del  Regno  Alessandro  D'Ancona,  distrazione  che 
vogliamo  sperare  sia  buon  presagio  d'un  avvenimento,  che  i  molti  estimatori 
ed  ammiratori  del  professore  pisano  da  parecchio  tempo  deplorano  non  si 
sia  peranco  avverato.  R. 


L.  MARENGO.  —  L'oratoria  sacra  italiana  nel  medio  evo.  — 
Savona,  tip.  Ricci,  1900  (16%  pp.  227). 

L'Autore  di  questo  studio,  col  nome  di  Oratoria  sacra  italiana  del  Medio 
Evo  intende  designare  soltanto  gli  scarsi  documenti  di  predicazione  rima- 
stici dei  secoli  XIV  e  XV,  e  scritti  o  almeno  primieramente  pronunciati  in 
lingua  volgare,  se  bene  il  titolo  potesse  estendersi  a  tutte  le  forme  di  elo- 
quenza sacra  latina  o  volgare  apparsi  in  Italia  dopo  il  mille,  o  almeno  dopo 
che  le  singole  nazioni,  emergendo  dal  comunismo  intellettuale  del  basso 
Medio  Evo,  improntarono  di  un  carattere  proprio  le  varie  manifestazioni  del 
pensiero  e  dell'arte. 

Ma  cosi  inteso  il  compito  dell'  A.  sarebbe  stato  difficilissimo  e  il  lavoro 
enorme;  anche  limitata  ai  soli  secoli  XIV  e  XV  la  ricerca  e  la  coordinazione 
in  uno  studio  complessivo  di  tutto  l'enorme  materiale  parenetico  inedito  che 
è  disseminato  per  le  biblioteche  italiane  richiederebbe  una  fatica  ingente  e 
gravosa.  Questo  non  ha  inteso  fare  il  Marenco,  che  ha  ristretto  il  suo  studio 
al  materiale  già  edito,  anzi  alle  opere  dei  predicatori  più  insigni,  trascurando 
l'innumerevole  turba  dei  minori  ;  e  su  tali  opere  la  sua  critica  non  si  esercita 
sotto  il  rispetto  storico  ed  erudito,  ma  ne  vuol  cogliere  i  caratteri  e  i  li- 
neamenti generali,  e  ne  studia  le  relazioni  colla  civiltà  e  la  cultura  dei 
tempi  e  l'azione  esercitata  sui  costumi  e  sugli  uomini. 

Dei  sei  capitoli  in  cui  il  libro  è  diviso,  i  primi  tre  :  La  lingua  usata  dai 
predicatori  medioevali;  Caratteri  generali  dell'oratoria  sacra  italiana  nel 
Medio  Evo;  L'oratoria  sacra  italiana  nel  trecento^  mi  paiono  i  meno  ori- 
ginali, perchè  ripetono  cose  già  dette  da  altri,  o  svolgono  idee  da  altri 
accennate,  con  molto  garbo  però,  e  non  senza  aggiungere  qualche  fatto  od 
osservazione  nuova.  Così  a  provare  che  già  avanti  il  Mille  predicavasi  in 
Italia  e  fuori  in  volgare  reca  argomenti  desunti  dal  noto  libro  del  Lecoy  de 
la  Marche  La  Chaire  frangaise  au  Moyen  dge,  e  dallo  studio  su  fra 
Giordano  da  Pisa  pubblicato  in  questo  Giornale;  ma  combatte  poi,  e  mi 
sembra  con  buoni  argomenti,  l'opinione  sostenuta  dal  Muratori  e  dallo  Zeno 
che  sino  a  quasi  tutto  il  Quattrocento  si  costumasse  predfcare  sovente  prima 
in  latino  e  poi  in  volgare.  Dimostra  infatti  che  un  passo  della  lettera  con 
cui  fra  Roberto  Caracciolo,  celebre  predicatore  del  Quattrocento,  dedica  ad 
Alfonso  d'Aragona,   Duca  di  Calabria,  il  suo   Specchio  della  Fede  (1),  ove 


(1)  Veaesia,  1495,  prtsio  GioTtani  da  B«rfUBO. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  199 

dice  di  aver  voluto  raccogliere  i  suoi  sermoni  «  con  quello  stile  e  ordine, 
«  lo  quale  ho  costumato  nelle  declamazioni  e  ho  facto  al  populo,  cioè  e  vol- 
€  garmente  sermone  materno  e  ancora  latinamente  »,  non  deve  intendersi, 
come  interpretò  lo  Zeno,  che  il  predicatore  volesse  scrivere  i  suoi  sermoni, 
come  già  li  aveva  pronunciati,  cioè  tanto  in  latino  quanto  in  volgare,  poiché 
la  redazione  latina  dello  Specchio  di  Fede  non  esiste,  e  l'opera  di  fra  Ro- 
berto che  s'intitola  De  laudibus  sanctorum  o  de  Sanctis  dallo  Zeno  consi- 
derata come  tale,  se  concorda  nelle  linee  generali  collo  Specchio  di  Fede, 
ne  differisce  profondamente  per  la  redazione  e  la  forma,  e  deve  considerarsi 
come  un'opera  a  sé.  La  frase  del  Caracciolo  intorno  ai  propri  sermoni  tenuti 
al  popolo  volgarmente  sermone  materno  e  ancora  latinamente,  è  spiegata 
dal  Marenco  come  un  riferimento  alle  numerose  e  lunghe  citazioni  latine 
che  lo  Specchio  di  Fede  contiene  accompagnate  dalla  versione  in  italiano, 
per  cui  il  libro  può  dirsi,  in  certo  modo,  scritto  in  latino  e  in  volgare. 

In  questo  primo  capitolo  il  M.  tratta  anche  la  questione  dei  Sermoni 
maccheronici,  ossia  misti  d'italiano  e  latino  di  cui  si  trovano  esempi  nella 
nostra  letteratura  sacra  del  Quattrocento.  Si  tratta,  com'è  noto,  di  prediche, 
in  cui  le  frasi  volgari  anzi  dialettali,  e  le  latine  s' intrecciano  e  si  mesco- 
lano capricciosamente  e  grottescamente  senza  che  si  possa  trovare  alcuna 
ragione  plausibile  dei  repentini  mutamenti. 

Ne  abbondano  gli  esempi  nelle  prediche  dei  sermonatori  francesi  dei  se- 
coli XIII,  XIV  e  XV;  fra  noi  Io  Zeno  indica  come  autori  di  sermoni  mac- 
cheronici fra  Michele  da  Milano,  fra  Bernardino  da  Busti,  fra  Tomaso  An- 
tonio da  Siena  e  fra  Gabriele  Barletta.  II  M.  elimina  dall'  elenco  i  primi 
tre,  sostenendo  che  nei  loro  sermoni  latini  si  hanno  soltanto  citazioni  da 
poeti  italiani  e  brevi  didascalie  in  volgare,  e  afferma  che  in  istile  macche- 
ronico sono  propriamente  le  sole  raccolte  di  prediche  del  Barletta:  Sermones, 
(Brixiae,  1496),  Sermones  de  Sanctis  (Brixiae,  1498).  Ora  questi  sermoni,  a 
suo  giudizio,  non  rappresentano  già  la  vera  e  propria  predicazione  del  frate, 
il  quale  non  mescolava  certo  ibridamente  le  due  lingue  parlando  dal  per- 
gamo al  popolo,  ma  sono  «  gli  abbozzi,  le  brutte  copie  dei  suoi  sermoni, 
€  messe  insieme  senza  cura  e  senza  pretese,  per  proprio  uso  esclusivo  e  soc- 
€  corso  della  memoria,  qualora  gli  occorresse  nelle  sue  peregrinazioni  apo- 
«  stoliche  di  trattar  nuovamente  lo  stesso  argomento  ».  Trovati  fra  le  carte 
del  frate  dopo  la  sua  morte,  furono  pubblicati  in  tale  forma  schematica  da 
un  ammiratore  troppo  zelante:  infatti  la  prima  edizione  (Brescia,  1497-98}, 
é  postuma.  Tale  spiegazione  è  la  sola  probabile,  quando  si  pensi  essere  ormai 
cosa  dimostrata  che  nel  Quattrocento,  come  nei  secoli  anteriori,  si  predicava 
quasi  unicamente  in  volgare. 

Il  secondo  capitolo  (pp.  43-133),  in  cui  si  discorre  dei  caratteri  generali 
della  predicazione  medievale,  e  cioè  del  modo,  con  cui  si  raccoglievano  i 
sermoni,  della  propaganda  francescana  e  domenicana,  dell'  azione  politica 
esercitata  dai  predicatori,  delle  partizioni  che  usavansi  nelle  prediche,  degli 
argomenti,  delle  idee,  della  coltura  comune  ai  più  insigni  sermonatori  del 
Medio  Evo,  se  bene  condotto  con  molta  diligenza  e  con  buone  osservazioni, 
non  fa  che  ripetere  cose  già  note,  recando  però  molte  citazioni  notevoli  e 
opportune  dalle  opere  di  fra  Giordano  da  Pisa,  dì  san  Bernardino  da  Siena 


200  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

(che  mi  sembra  l'autore  meglio  studiato  dal  M.),  di  fra  Roberto  da  Lecce 
di  Gabriele  Barletta,  di  Bernardino  da  Busti,  del  Savonarola. 

Più  debole  e  superficiale  è  il  capitolo  3°  (pp.  134-148),  che  dovrebbe  occu- 
parsi particolarmente  della  predicazione  nel  Trecento,  e  in  cui,  dopo  un 
breve  cenno  generale  intorno  all'opera  di  fra  Giordano,  si  recano  alcune 
prove  della  decadenza  in  cui  V  arte  di  sermonare  era  venuta  in  Italia  nel 
secolo  XIV  (1).  Notevole  è  invece  per  più  riguardi  il  cap.  IV  intorno  al- 
l'Oratoria sacra  nel  Quattrocento,  benché  restringa  anch'esso  le  sue  os- 
servazioni agli  autori  principali  e  parecchie  ne  desuma  da  ricerche  anteriori. 
Vi  si  discorre  dell'efficacia  che  ebbe  l'opera  e  l'esempio  di  San  Bernardino 
nel  risollevare  l'oratoria  sacra  tanto  corrotta  sui  primi  del  Quattrocento  a 
causa  dei  costumi  rilassati  dei  predicatori  ;  delle  ciurmerie,  della  trivialità, 
delle  buffonerie,  del  cinismo  dilagante  nelle  prediche,  e  della  scuola  insigne 
di  predicatori  sorta  alla  voce  del  Santo  ed  educata  dal  suo  esempio.  Di- 
mostra false  le  accuse  di  ignoranza,  di  pedanteria,  di  ostilità  alla  cultura 
mosse  dagli  umanisti  ai  predicatori  del  Quattrocento,  e  aggiunge  alle  prove 
già  raccolte  dal  Villari  a  difesa  del  Savonarola,  altre  non  trascurabili.  L'an- 
tipatia degli  umanisti,  in  gran  parte  avventurieri  della  penna,  in  cui  gli 
scrupoli  erano  pochi  e  nullo  il  senso  morale,  s'intende,  quando  si  pensi  al- 
l'energia e  al  coraggio  con  cui  quei  religiosi  combattevano  l'universale  cor- 
ruzione e  riaccendevano  la  fiamma  delle  grandi  virtù  cristiane. 

Meritano  principalmente  attenzione  le  numerose  citazioni  da  Dante,  dal 
Petrarca,  da  Jacopone  da  Todi,  da  Cecco  d'Ascoli,  e  da  altri  autori  profani 
del  Due  e  del  Trecento  che  il  Marenco  ha  rintracciato  nelle  prediche  del 
secolo  XV  (pp.  205  e  sgg.),  dove  soventi  l'autorità  di  Dante  è  citata  alla 
pari  con  quella  di  S.  Agostino,  della  Bibbia  e  dei  Dottori  della  Chiesa. 

Nel  cap.  V  (pp.  216-221)  si  discorre  brevemente  della /ine  della  predica- 
zione popolare,  e  l'A.  ne  indica  le  cause  nelle  repressioni  severe  dei  Concili 
volte  a  frenare  la  soverchia  ingerenza  degli  ordini  mendicanti  nelle  opere  e 
ne'  domini  della  Chiesa,  e  principalmente  nella  reazione  disciplinare  provo- 
cata dal  Concilio  di  Trento. 

Tutto  sommato,  questa  del  Marenco,  senza  essere  opera  di  erudizione  re- 
condita, né  di  vasta  esplorazione  storica,  raccoglie  e  coordina  con  chiarezza 
ed  acume  una  messe  notevole  di  fatti  ed  osservazioni  intorno  all'opera  dei 
più  notevoli  predicatori  nostri  dei  secoli  XIII  e  XIV.  A.  G. 


FELICE  VISMARA.  —  Vinveltiva,  arma  preferita  dagli  uma- 
nisti nelle  lotte  private,  nelle  polemiche  letterarie,  politiche 
e  religiose.  —  Milano,  tip.  Allegretti,  1900  (8%  pp.  vii-217). 

Abbiamo  qui  il  primo  lavoro  generale  sull'  invettiva  umanistica.  La  ma- 
teria vi  è  distribuita  in  quattro  capitoli,  secondochò  le  contese  sono  di  ca- 


(1)  Fr«  altre  testimonianze,  g^à  conoeciute,  notevole  ò  una  desunta  dai  Documenti  <l*AiH«rtdi 
Frane,  da  Barberino  (pp.  136, 187),  altre  che  sono  tratte  dalle  novelle  del  Sacchetti  (pp.  148  tfg.)* 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  201 

ratiere  privato,  letterario,  politico,  religioso  ;  queste  quattro  categorie  non 
sono  ben  definite,  come  l'autore  stesso  riconosce,  poiché  Tuna  rientra  spesso 
nell'altra;  ma  una  distribuzione  bisognava  pur  darla.  Le  principali  polemiche 
combattute  nel  sec.  XV  son  raccontate  tutte,  talune  anche  su  documenti 
inediti;  ma  non  tutte  le  fonti  edite  sono  state  consultate  e  da  talune  delle 
consultate  non  è  stato  tratto  il  frutto  che  si  poteva  e  doveva. 

Le  parti  veramente  nuove  del  libro  sono  l'introduzione  e  la  conclusione, 
nelle  quali  si  stabilisce  la  natura,  la  teoria  e  la  storia  dell'invettiva.  Fra  i 
modelli  antichi  dell'invettiva  sono  dal  Vismara,  come  del  resto  da  altri 
avanti  di  lui,  collocate  le  Verrine  e  le  Filippiche  di  Cicerone,  ma  bisogna 
distinguere;  poiché,  sebbene  quelle  due  raccolte  di  orazioni  portassero  il  ti- 
tolo di  invectivae  sin  dal  sec.  XIll  (1),  nei  primi  tempi  dell'umanismo  non 
furono  molto  diffuse.  Rimangono  dunque  le  Catilinarie,  tanto  più  che  esse 
sono  appellate  da  Prisciano  già  col  titolo  di  invectivae,  e  soprattutto  le  due 
declamazioni  attribuite  a  Cicerone  e  Sallustio,  esse  pure  tramandateci  col 
titoto  di  invectivae  e  ricordate  dal  Petrarca  in  propria  discolpa.  Ciò  che  il 
Vismara  afferma  sta  bene  per  il  quattrocento  inoltrato,  quando,  per  esempio, 
il  Raudense  scriveva;  «  Saepenumero  Filippicas  seu  Anthonianas  et  quas 
«  in  Verrem,  in  Catilinam,  in  Salustium  aliosque  complures  non  si  ne  ve- 
«  hementia  fulminai  cynicas  ut  ita  dixerim  invectioas  in  manibus  tenui  »  (2), 
e  per  quel  tempo  saranno  da  aggiungere  le  due  orazioni  in  contraddittorio 
di  Demostene  ed  Eschine  per  la  corona.  Il  termine  poi  di  invectiva  che  si 
incontra  nel  retore  Sulpicio  Vittore  non  ha  nessun  valore  per  gli  umanisti 
del  secolo  XV,  perchè  quell'autore  vide  la  luce  la  prima  volta  a  Basilea 
nel  1521. 

In  complesso  il  lavoro  del  Vismara,  condotto  con  amore,  è  utile  agli  studi; 
e  sarebbe  piìi  utile,  se  l'autore  avesse  meglio  maturato  le  cognizioni  d'or- 
dine generale  sul  periodo  che  percorre  e  avesse  evitato  certe  piccole  inesat- 
tezze, che  occorrono  un  po'  troppo  frequenti.  È  da  lamentare  inoltre  che 
vi  manchi  un  indice  analitico  e  un  indice  delle  persone.  R.  S. 


EDMONDO  SOLML  —  Leonardo.  —  Firenze,  Barbèra,  1900  (16% 
pp.  vi-240). 

Questo  é  di  nuovo  tra  i  volumi  della  collezione  Pantheon  (di  fattura  e  di 
valore  cosi  disuguali  I)  uno  dei  più  felici. 

Dacché  si  cominciarono  a  conoscere  davvero  i  mss.  vinciani,  è  noto  che 
sono  già  apparse  parecchie  opere  di  complesso  su  Leonardo  da  Vinci.  La  più 
voluminosa  e  ricca  tra  queste,  dovuta  al  benemerito  Muntz,  fu  annunciata 


(1)  Cfr.  M.  Makitios,  Philohnisches  am  alten  BiblioViekskatalogen,  p.  17. 

(2)  Col.  Ambrosiano  M  49  sup.  f.  11". 


202  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

anche  nel  nostro  Giornale,  34,  430  (1),  E  noi  parlandone  ci  domandavamo 
se  veramente  fosse  venuto  il  tempo  di  scrivere  sul  miracoloso  e  proteiforme 
genio  toscano  un  lavoro  di  sintesi  definitivo,  e  rispondevamo  francamente  di 
no.  Ci  fa  piacere,  pertanto,  di  vedere  confermata  questa  stessa  opinione  dal 
Solmi,  che  in  testa  al  suo  volumetto  sensatamente  dichiara:  «  Costruire  una 
«  sintesi  di  questo  Grande  nell'ignoranza  di  tanta  parte  di  ciò  che  pensò  e 
«  scrisse  e  nella  scarsezza  di  monografie  coscienziose,  sarebbe  opera  vana; 
«  né  io  volli  tentarla».  Il  Solmi  intese  solamente  di  «  raccogliere  il  fior  fiore 
«di  ricerche  dure  e  pazienti»;  volle  «ricollegare  fila  innumerevoli,  alcune 
«  delle  quali  mal  tessute,  altre  sfuggite  del  tutto  agli   studiosi,  onde  poi  i 

€  successivi  possano arrivare  alla  piena  comprensione  della  vita  e  dell'opera 

€  di  Leonardo  ». 

Pochi  sicuramente  erano  oggi  in  grado  di  recare  a  quest'intento  una  pre- 
parazione più  seria  e  fondata  di  quella  del  Solmi,  de'  cui  antecedenti  lavori 
sul  Vinci,  accurati  e  intelligenti,  ci  fu  grato  il  discorrere  con  la  debita 
lode  (2).  Pochi  al  pari  di  lui  si  addentrarono  in  quella  profondissima  anima, 
tentando  di  scrutarne  i  misteri  con  un  esame  scrupoloso  dei  manoscritti  vin- 
ciani.  Ed  è  appunto  per  questo  che  il  presente  libretto  merita  d'essere  spe- 
cialmente considerato  dai  cultori  degli  studi  nostri  letterari.  Nella  critica 
artistica  è  breve,  e  si  appoggia  al  Miintz  con  predilezione  persin  soverchia; 
per  la  biografia  trae  partito  dalle  minutissime  ricerche  dell'Uzielli:  ma  il 
gran  fondamento  del  libro  è  dato  dai  mss.  stessi  del  Vinci,  nei  quali  il  S. 
spigola  dati  di  fatto  svariatissimi  e  in  molti  casi  inavvertiti,  lumeggiando 
particolarmente  le  relazioni  dell'artista  con  uomini  ragguardevoli  del  tempo 
suo,  e  gettando  sprazzi  di  luce  vivissima  sulla  psicologia  di  quel  sommo, 
non  che  sullo  sviluppo  del  suo  pensiero  scientifico  ed  artistico.  Con  molta 
ragione  e  con  piena  convinzione  scrive  il  S.  in  certo  luogo:  €  I  manoscritti 
«  di  Leonardo  sono  lo  specchio  fedele  della  sua  esistenza,  e  quando  vi  sì 
«  potran  vedere  chiaramente  le  immagini,  ora  quasi  direi  latenti,  svanirà  in 
«  gran  parte  il  mistero,  che  avvolge  la  vita  e  lo  spirito  del  Grande»  (p.  76). 
Quelle  vive,  incisive  espressioni  di  lui,  di  continuo,  opportunamente  richia- 
mate, servono  sin  d'ora  più  di  lunghi  discorsi  a  rappresentare  nell'inlimità 
sua  quella  psiche  poderosissima.  È  ben  vero  che  il  volume  così  contesto,  e 
oltracciò  pieno  zeppo  di  ragguagli  di  fatto,  non  riesce  di  lettura  molto  age- 
vole ;  ma  per  contro  chi  non  si  lasci  atterrire  dall'apparente  farragine,  né 
dalla  forma  disadorna,  né  dalla  tessitura  talvolta  alquanto  saltuaria,  ne  rac- 
coglierà vital  nutrimento.  Parecchi  particolari  sull'attività  prodigiosa  del  V. 


(1)  A  chi  voglia  avere  un  libretto  senta  pretese  e  a  boon  mercato  so  Leonardo  artista,  con 
riproduzioni  grafiche  ben  scelte  e  discretamente  eseguite,  vuoisi  suggerire  il  Leonardo  da  Vmci 
di  A.  BoRRKniBo,  Bielefeld  und  Leipzig,  1898,  che  costituisce  il  voi.  XXXIII  dell'utile  raccolta  di 
KilntlUr-Monographitn  diretta  da  H.  Knackrnss.  Il  Rosenberg  fti  specialmente  tesoro  delle  oaser. 
vazioni  del  Moller- NValde.  che  per  qu.into  abbia  messo  talora  il  piede  in  fallo,  resta  tuttavia  il 
più  dotto  indagatore  dell'opera  pittorica  di  Leonardo.  —  Un  recente  voluminoso  libro  roseo  sai 
Vinci  (VoLTKsKii.  Leonardo  da  Ttnci,  Pietroburgo,  Marx,  1900,  in  4o.  di  pp.  722  con  figure)  co- 
nosciamo solo  per  citasione  attrai. 

(2)  Vedi  Oiornah,  XXXIV,  432  sgg. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  203 

sono  qui  per  la  prima  volta  dedotti  dai  manoscritti  ;  non  pochi  dati  riguar- 
danti le  sue  peregrinazioni  sono  qui  per  la  prima  volta  additati;  non  pochi 
influssi  che  esercitarono  su  di  lui  in  particola r  guisa  alcuni  scienziati  che 
conobbe  e,  viceversa,  altri  influssi  che  a  sua  volta  egli  fece  valere  sui  con- 
temporanei, ottengono  qui  una  concisa,  ma  lucida  esposizione.  E  sempre  più 
spicca  in  questo  libro  quel  carattere  di  universalità  che  tutti  ormai  ricono- 
Bcono  all'ingegno  di  Leonardo;  e  in  quel  concerto  di  attitudini  e  di  nozioni 
cosi  svariate  la  nota  che  primeggia,  la  nota  calda,  che  esce  veramente  dal- 
l'intimo di  Leonardo,  è  quella  della  scienza  basata  sull'osservazione  di  tutto 
e  di  tutti.  Questo  è  il  vero  Leonardo. 

Noi  non  staremo  a  rilevare  nel  libro  del  S.  le  varie  pagine  in  cui  egli 
particolarmente  si  occupa  del  Vinci  scrittore.  Sono  pagine  riassuntive,  che 
non  aggiungono  osservazioni  nuove  a  quanto  altrove  ebbero  già  a  notare  egli 
medesimo  ed  altri  (1).  Ma,  lo  ripetiamo,  è,  in  generale,  la  maniera  di  con- 
siderare quella  straordinaria  figura,  che  deve  rendere  accetto  il  volume  ai 
cultori  di  storia  delle  lettere  e  del  pensiero,  molto  più  ancora  che  a  quelli  della 
storia  dell'arte.  R. 


GAETANO  CURCIO  BUFARDEGI.  —  Su  la  vita  letteraria  del 
conte  Baldassare  Castiglione.  Studio.  —  Ragusa,  tip.  Picei  Ito 
e  Antoci,  1900  (8^  pp.  177). 

Non  occorre  aver  fatto  ricerche  speciali  sul  Castiglione  per  accorgersi,  di 
primo  acchito,  che  questo  volumetto,  il  quale,  al  dire  dell'A.,  gli  costò  più 
anni  di  studio,  è,  in  fondo,  un  lavoro  sbagliato  e  mancato.  Al  disegno  in- 
certo e  deficiente  corrispose  l'esecuzione,  che  lascia  per  molte  ragioni  in- 
soddisfatto anche  il  meno  indiscreto  dei  lettori.  Il  G.  B.  ha  un  bell'intitolare 
con  apparente  modestia  «  Studi  su  la  vita  letteraria  »  del  Castiglione  questo 
suo  libro;  in  realtà  egli  tentò  di  percorrere  e  illustrare,  come  in  una  vera 
monografia,  la  vita  e  le  opere  tutte  del  cavaliere  mantovano. 

Non  è  sua  la  colpa  se,  scrivendo  nella  parte  estrema  della  Sicilia  e  in 
piccoli  centri,  non  si  trovò  in  condizioni  favorevoli  per  trattare  con  novità 
e  sicurezza  e  con  qualche  profitto  il  bel  tèma;  la  colpa  fu  di  scegliere 
questo  tèma,  sapendo  o  dovendo  sapere  di  non  potergli  far  onore.  Assai 
meglio  egli  avrebbe  adoperato,  se  avesse  ristretto  il  suo  studio  ad  un  punto 
particolare  della  produzione  letteraria  del  C,  p.  es.  alle  poesie  latine,  sulle 
quali  ha  qualche  osservazione  non  priva  di  valore.  Che  egli  spesso  lavori  e 
affermi  per  sentita  dire,  senza  i  necessari  controlli,  anzi  trascurando  certe 
pubblicazioni  recenti  che  pur  dovrebbe  conoscere,   appare  da  qualche   ine- 


(1)  Cfr.   in   special    guisa  G,  Mazzoni,  Leonardo  da   Vinci  scrittore,  Roma,  1900;  eetr.  dalla 
JT.  Antologia. 


204  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

sattezza  in  sommo  grado  traditrice  (1).  Che  sia  troppo  scarsamente  fornito 
di  notizie  bibliografiche  sicure,  si  può  desumere  facilmente,  p.  es.,  dalla  p.  57, 
dove  è  riferita  scorretta  la  data  dell'edizione  ciccarelliana  del  Cortegiano,  e 
dove  si  mostra  d'ignorare  che  la  lettera  del  G.  riguardante  l'invio  del  libro 
ms.  al  Bembo,  era  già  edita  fino  dal  Cinquecento  (2).  Che  all'A.  manchi  il 
senso  della  opportunità  e  della  misura,  si  vede  dalle  troppe  pagine  (pp.  57-69) 
ch'egli  consacra  alle  correzioni  dal  Ciccarelli,  troppe  e  inutili  dopo  il  saggio 
speciale  che  pubblicò  sull'argomento  il  Cian  e  che  l'A.  conosce  e  cita,  ma 
non  abbastanza,  e  sfrutta  più  del  bisogno.  Che  preparazione  storico-letteraria 
abbia  il  C.  B.  e  quale  cura  soglia  usare  nelle  sue  anche  più  ovvie  ricerche, 
basterebbero  a  provare  due  passi  dal  suo  libretto,  in  uno  dei  quali  (p.  120 
e  n.  1)  rinfaccia  al  Martinati  l'errore  di  assegnare  al  marzo  1507  le  conver- 
sazioni del  Cortegiano,  e  nell'altro  (p.  65,  n.),  citando  il  cap.  LXIII  del  lib.  II 
del  Cortegiano,  dove  si  parla  di  Jacomo  Sadoleto,  avverte  che  questi  non  è 
da  confondersi  con  Jacopo  Sadoletol  Valeva  proprio  la  pena  che  nell'ultima 
ediz.  Sansoni  si  dedicassero  due  note  ben  chiare  e  precise  ai  due  passi  re- 
lativi del  Cortegianol  E  poi  basti  dire  che  intorno  a  Leone  X  e  al  suo  pon- 
tificato l'A.  è  rimasto  arretrato  o  arenato  all'Audin  (p.  48)  e  che  l'onoma- 
stica della  nostra  storia  letteraria  si  accresce  di  forme  quali  Pontico  Vorumio 
(p.  16)  e  «  Leone  Giampiero  Valeriano  Bolzani  »,  che  si  chiamò  poi  (cioè  dopo 
essersi  «  reso  familiare  di  Leone  X  »,  mentre  ciò  era  avvenuto  molti  anni 
prima,  per  opera  del  Sabellico)  «  Pierio  Valeriano  »  (p.  49).  Ma  la  disatten- 
zione e  la  fretta  regnano  sovrane  in  questo  lavoro  (3),  sicché  l'A.  tira  in- 
nanzi lesto  per  la  sua  via  senza  curarsi  di  ciò  che  possa  ritardare  il  suo 
cammino.  Cosi,  parlando  del  noto  son.  Superbi  colli  mostra  di  ignorare  che 
anche  di  recente  furono  sollevati  certi  dubbi,  sian  pure  ingiustificati,  sul- 
l'autenticità sua.  Di  questa  fretta  e  di  questa  noncuranza  si  risente  anche 
la  forma,  che  lascia  molto  a  desiderare  (4).    , 


(1)  ììoìVÀvver tenga  al  lettore  il  C.  B.  asserisce  che  i  mss.  di  lettere  castiglionesche,  onde  <n 
giovò  il  Serassi,  si  conservano  nella  Btblioitca  Valenti  Ooneaga  di  Roma,  e  che  alcane  lettere 
pubblicate  dal  Martinati  si  trovano  —  come  aveva  detto  quest'ultimo  —  nell'lrcAmo  Camerale 
di  Torino! 

(2)  Veramente  TA.  cita  anche  una  lettera  pubbl.  dal  Martinati,  ma  questa,  che  si  direbbe  non 
aver  egli  letta,  è  scritta  al  Sadoleto  e  non  al  Bembo,  e  parla  dell'invio  del  Cortegiano  al  lette- 
rato modenese  e  non  al  suo  collega  veneziano.  Per  l'A.  la  bibliografia  diventa  addirittura  un'opi- 
nione. A  p.  68,  ricordando  l'edizione  delle  opere  castiglionesche  curata  dai  Volpi,  scrive  che  questi 
«  pare  (sic)  abbiano  ripubblicato  il  Cortegiano  purgato  dal  Ciccarelli,  ecc.  ». 

^3)  Valga  per  tutti  un  solo  esempio  eloquente.  11  Salvadori  aveva  scritto  :  «Il  Marliaki  ci  dice 
«  anche  che  in  questi  primi  studi  il  giovine  C.  ebbe  cari  principalmente  Cicerone,  Virgilio  e  Ti- 
«  bullo  e  che  li  studiò  amorosamente,  commentandoli  con  quelle  note  Hparse,  che  poi  raccolte  i 
«  contemporanei  ckiamavan  tehé.  La  notizia  è  importante,  e  piace  come  di  cosa  aspettata  >.  E  VA. 
(p.  29):  «  Di  questo  periodo  di  tempo...  non  ò  rimasto  del  C.  altro  che  una  quantità  di  note  e 
«  acute  oiseroaMioni  fatte  sui  classici,  le  quali  non  solo  ne  rivelano  l'ingegno,  ma  anche  la  pas- 
«  sione  e  la  serietà  con  cui  coltivava  quegli  studi.  Codeste  note,  dice  il  Salvadori,  furono  raccolte 
«  da'  contemporanei  e  chiamate  eelve-,  notizia,  che,  se  non  è  faltta,  ò  davvero  importante;  ma  io 
«  non  80  da  qnal  documento  egli  l'abbia  cavata.  »  !  E  dire  che,  a  farlo  apposta,  il  Salvadori  aveva 
citato  il  Marliani. 

(4)  Non  cerco,  s'Intende,  eleganza,  ma  correlteixa  grammaticale.  L'A.,  ad  es.,  usa  normal- 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  205 

Dopo  queste  sommarie  osservazioni,  che  potrebbero  moltiplicarsi  senza 
alcun  vantaggio,  è  pur  doveroso  notare  che  il  libretto,  benché  disordinato  e 
inorganico,  si  divide  in  due  parti  principali.  Nella  prima  di  esse  TA.  si 
sforzò  di  ritessere  la  storia  esterna  degli  scritti  lasciatici  dal  C,  determi- 
nandone, per  quanto  gli  fu  possibile,  la  cronologia;  nella  seconda  intese  di 
«  seguire  lo  scrittore  nelle  sue  concezioni  e  nella  sua  arte  estrinsecatrice  ». 
Le  pagine  nelle  quali  si  discorre  dei  carmi  latini,  contengono,  dicevo, 
qualche  tratto  non  inutile,  ma  troppo  debbono  al  commento  del  Serassi.  Il 
C.  B.  lo  giudica  (p.  114)  «  assai  frondoso  e  vano  »  ;  vero,  peraltro,  che  senza 
di  esso  non  avrebbe  forse  messe  insieme  quelle  pagine. 

Ai  lettori  del  Giornale  gioverà,  infine,  sapere  che  l'A.  «  adesso  ripudia 
«  il  giudizio  »  da  lui  dato  nel  «  lavoro  V Epigramma  italiano  intorno  al  G. 
«  come  epigrammista  »  (p.  173,  n.).  V.  Ci. 


KARL  BENRATH.  —  Julia  Gonzaga.  Ein  Lebensbild  aus  der 
Geschichte  der  Reformation  in  Italien.  —  Halle,  Niemeyer, 
1900  (8%  pp.  x-128). 

ANTONIO  A60STINL  —  Pietro  Carnesecchi  e  il  movimento 
valdesiano.  —  Firenze,  Seeber,  1899  (16%  pp.  354). 

Sanno  i  lettori  nostri  come  nel  modo,  assai  largo,  d'intendere  la  storia  let- 
teraria che  abbiamo  sempre  propugnato,  ai  fatti  ed  ai  caratteri  della  riforma 
religiosa  nel  Cinquecento  italiano  sia  stata  sempre  consacrata  speciale  atten- 
zione. Nel  discorrere  di  recenti  pubblicazioni  o  nell'ofifrire  documenti  nuovi, 
ci  trattenemmo  sulle  idee  religiose  di  Vittoria  Colonna  (Giorn.,  13,  399-400), 
di  Caterina  Varano  (Giorn.,  19,  428),  del  Vergerlo  juniore  (Giorn.,  24,  290 
e  452),  di  Renata  d'Este  {Giorn.,  25,  425),  di  M.  A.  Flaminio  (Giorn.,  31, 
433).  Accennammo  anche  al  libro  di  B.  Amante  su  Giulia  Gonzaga  {Giorn., 
28,  255),  libro  farraginoso  e  condotto  senza  metodo,  ma  che  pur  si  avvan- 
taggia, pel  materiale  nuovo  archivistico  che  reca,  sulla  passionata  e  bigotta 
requisitoria  di  Costantino  Castriota  (Filonico  Alicarnasseo)  ed  anche  sulla  al- 
quanto magra  e  troppo  circospetta  notizia  biografica  dell'Affò  (1). 


mente  il  passato  prossimo  pel  remoto  (p.  8,  n.  ecc.)  e  passa  con  tutta  dìsinvoltara  da  nn  tempo 
all'altro  (p.  109  ecc.).  Le  Poche  parole  d'introduzione  incominciano:  «Il  co.  B.  Castigl.  vive  in 
«  nn  periodo  di  tempo  transitorio  e  difficile  per  l'Italia.  Non  è  solo  una  politica  astuta,  doppia 
«  e  fedifraga  che  d^  risalto  a  quell'epoca  molto  a£fannosa  ;  è  ben  altro,  che  è  forse  derivato  dalla 
«  stessa  causa.  Ognuno  sa  come  il  culto  al  classicismo  sia  diventato  vera  idolatria  nel  Quattro- 
«  cento  ecc.  ».  Si  leggano  gli  ultimi  periodi  del  capitolo  a  pp.  114-5  e  quest'altro:  «  ...  e  s'egli 
«  sia  riuscito  qualche  volta  a  far  sentire  la  voce  dolente  del  suo  cuore,  è  dove  si  avverte  meno 
«  il  peso  dell'imitazione  »  ecc.  ecc. 

(1)  Studioso,  d'altra  parte,  rispettabilissimo,  e  punto  fanatico  e  punto  gesuita,  come  lo  chiama 
ora  replicatamente  il  Benrath.  È  cosa  assai  nota,  almeno  al  di  qua  delle  Alpi,  che  l'Affò  fu  fran- 
cescano. L'onestà  sua  di  storico  fu  tale  da  non  meritare  davvero  la  diffidenza  con  che  il  Benrath 
lo  tratta.  Cfr.  Giorn.,  XXVIII,  436-37  e  XXXII,  449. 


206  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

Il  Benrath,  ottimo  conoscitore  della  riforma  italiana,  alla  quale  arrecò  il 
tributo  di  parecchi  scritti  pregevoli  (il  maggiore  per  mole  è  il  volume  sul- 
rOchino,  ch'ebbe  due  edizioni)  tratta  di  Giulia  con  la  simpatia  d'un  prote- 
stante, ma  nello  stesso  tempo  col  buon  criterio  e  con  la  perspicuità  dell'uomo 
di  scienza.  I  documenti  di  cui  si  vale  sono  su  per  giù  quelli  che  fece  cono- 
scere l'Amante;  ma  il  B.  collazionò  i  testi  editi  dell'Amante  e  qualche  altro 
ne  aggiunse  (1).  Piatti  nuovi  della  vita  di  Giulia  non  impariamo,  sì  bene  ci 
risulta  più  chiara  la  sua  condizione  di  spirito  nel  rispetto  delle  idee  rifor- 
miste. Due  nuovi  riferimenti  di  ambasciatori,  uno  dell'archivio  di  Venezia, 
l'altro  di  quello  di  Firenze,  mostrano  come  agli  occhi  del  severo  Pio  V  Giulia 
fosse  gravemente  compromessa  (pp.  98-99);  ma  a  questo  ci  voleva  pocol 
Bastava  la  devozione  da  lei  costantemente  serbata  al  Valdes,  che  a  lei  avea 
dedicato  il  suo  Alfabeto  cristiano',  bastava  l'aver  prestato  ascolto  alle  affer- 
mazioni eterodosse  delle  lettere  che  le  indirizzava  il  Garnesecchi.  Ma  per 
quanto  il  B.  s'avvisi  di  mostrare  che  nello  spirito  la  Gonzaga  era  evidente- 
mente una  decisa  protestante  (p.  102),  a  noi  sembra  che  ciò  non  risulti  in 
modo  esplicito  dai  documenti  che  abbiamo.  La  sua  posizione  rispetto  alla 
riforma  è  senza  dubbio  molto  più  avanzata  di  quella  di  Vittoria  Colonna; 
ma  come  poco  s'avvedesse  della  piena  eterodossia  del  Garnesecchi  ben  vale 
a  dimostrarlo,  se  mal  non  ci  apponiamo,  la  maniera  come  parlava  candida- 
mente de'  suoi  rapporti  con  lui,  scrivendone  ad  Ippolito  Gapilupi  negli  ultimi 
anni  della  vita  sua  (p.  93).  Propugnatrice,  come  tanti  altri  riformisti  italiani, 
del  celebre  principio  della  giustificazione  per  la  sola  fede^  essa  probabil- 
mente non  ebbe  mai  coscienza  del  valore  singolare  di  quella  massima,  che 
è  vero  fondamento  di  dottrina  protestante,  e  non  giungeva  a  creder  neces- 
sario lo  scisma,  anzi  aveva  fede  nell'unità  della  Chiesa,  la  quale  stimava 
potesse  accogliere  un  giorno  le  nuove  dottrine.  Questa  è  l'idea  in  cui  il 
libretto  del  B.  ci  ha  confermati,  sebbene  la  sua  conclusione  sia  alquanto 
diversa. 

Né  vale  il  dire  che  la  Gonzaga  sia  appartenuta  al  gruppo  napoletano  del 
Valdes,  dal  quale  uscirono  e  il  Garnesecchi,  decisamente  protestante,  e  Ga- 
leazzo Caracciolo  calvinista,  e  l'Ochino,  che  passò  persino  oltre  i  confini 
della  riforma  evangelica.  Molto  giustamente  altri  ha  osservato  che  dal  circolo 


(1)  Àllorchò  il  B.  esce  dal  campo  de'  suoi  stadi  consneti,  è  facile  notare  certa  deflcienta  d'in- 
formazione e  di  coltura  generale.  È  inginstiBcato.  ad  es.,  lo  spregio  ch'egli  mostra  pel  Bandelle 
(p.  110).  Il  vecchio  S.  Germano  non  ò  Montecassino  (p.  12);  ma  Cassino,  o  meglio  Casino,  ch« 
è  nella  co$ta  del  monte  sulla  cui  cima  sorge  il  celebre  cenobio  benedettino.  Nei  richiami  del 
poema  latino  del  Buonavoglia,  poteva  giovare  al  B.  la  conoscenza  della  ili  astrattone  di  qnel 
poema  data  da  E.  Bostagno.  In  un  carioso  equivoco  cade  Vk.  a  p.  6.  Là  egli  scrive:  «  Ein 
«  vielgelesener  italienischer  Boman  geschichtlichen  Inhalts,  tMlcker  $ich  in  j«m*r  Ztit  abtpi$U^ 
«  vergleicht  geistreich  das  Nebeneinanderleben  der  kleinen  Staaten  der  Ilalbinsel  mit  d«m 
«  Sichstossen  und  Einanderzerschlagen  von  eisernen  and  thonernen  Topfen,  die  man  aaf  holp«- 
«  rigem  Wege  eng  aneinander  gepackt  fortschleppt  ».  Ove  gli  errori  gravi  sono  dne  :  anxitutto 
«  jene  Zeit  »,  in  cai  ò  ripoata  l'azione  dei  Prométti  Spoti,  non  ò  il  eec.  XVI,  che  vide  OioUa 
viva,  ma  il  XVII;  e  poi  nella  famoeiasima  limilltodine  del  cap.  I  del  romanzo  mMiioniano  U 
politica  non  ha  da  far  nalla.  Quivi  è  semplicemente  D.  Abbondio,  che  vien  paragonato  ad  «  un 
«  vaso  di  terracotta  costretto  a  viaggiare  in  compagnia  di  molti  vasi  di  ferro  ». 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  207 

del  Valdes  tolgono  le  mosse  «  quanti  aspetti  diversi  prese  il  moto  protestante 
«  in  Italia,  quello  di  chi  rimane  entro  il  circolo  della  dottrina  cattolica,  ma 
«  non  vi  trova  più  né  la  tranquilla  fede  né  la  posizione  di  prima  ;  quello  di 
€  chi  si  spaventa  a  mezza  strada  e  indietreggia;  quello  di  chi  si  associa  del 
<c  tutto  al  moto  protestante  e  per  esso  dà  la  vita  o  si  sottopone  alla  perpetua 
«  miseria  dell'esilio;  e  quello  di  chi  neppur  trova  posa  nella  dottrina  prote- 
«  stante  e  finisce  anatemizzato  del  pari  dalla  Roma  del  papa  e  dalla  Ginevra 
«  di  Calvino  »  (1).  Nella  prima  categoria  menzionata  rientrano,  non  Olimpia 
Morato  certamente,  ma  altre  elette  dame  italiane  inclinate  alla  riforma  reli- 
giosa, quali  Vittoria  Colonna,  Caterina  Varano,  Giulia  Gonzaga.  Se  non  che 
anche  tra  queste  v'é  una  gradazione:  più  rimessa  di  tutte  la  Colonna,  più 
ardita  la  Varano,  più  avanzata  ancora  la  Gonzaga.  Non  si  dimentichi  che  le 
lettere  del  Carnesecchi  a  lei  dirette,  che  si  trovarono  nella  confisca  delle 
carte  di  lei  a  Napoli,  dopo  la  sua  morte,  determinarono  la  rovina  e  il  sup- 
plizio del  Carnesecchi  medesimo. 

Lugubre  storia  davvero  quella  del  Carnesecchi,  che  A.  Agostini  ci  ha  ri- 
narrata, con  estensione  grande  e  col  corredo  di  moltissimi  documenti  inediti 
fiorentini  (2).  Egli  ha  saputo  farne  un  libro  di  sostanziosa  e  piacevole  lettura, 
bene  ordinato,  solidamente  pensato  (3).  Ha  ben  poco  valore  Tosservazione 
fatta  valere  contro  l'Agostini  che  il  Carnesecchi  non  è  la  persona  meglio 
scelta  per  rappresentare  il  movimento  valdesiano  in  Italia,  perché  é  figura 
poco  netta  e  spiccata  (4),  In  realtà  l'Agostini  non  scelse  il  Carnesecchi  come 
figura  tipica,  ma  si  occupò  particolarmente  di  lui  perché  su  lui  aveva  nuovi 
e  ottimi  documenti.  E  d'altro  lato,  è  appunto  quella  indeterminatezza,  che 
nelle  azioni  e  nelle  aspirazioni  del  Carnesecchi  ci  appare,  uno  dei  più  no- 
tevoli caratteri  del  valdesianismo  italiano.  La  lettura  del  libro  dell'A.  ci  fa 
guadagnare  la  convinzione  che  tanto  il  Carnesecchi  quanto  il  Flaminio  par- 
teciparono consciamente  alle  idee  protestanti;  e  tuttavia  nel  Carnesecchi 
sopravvisse  l'illusione  della  Chiesa  unica,  riformata  secondo  le  nuove  idee 
(pp.  216,  218-19).  Singolare  illusione  davvero,  sogno  di  menti  tanto  assorbite 
dal  misticismo  da  non  intendere  quale  fosse  la  precisa  condizione  del  papato 
cattolico;  ma  tuttavia  illusione  che  ai  più  tra  quelli  spiriti  impedi  la  riso- 
luzione estrema  di  passare  senz'altro  tra  i  seguita  tori  di  Lutero  o  di  Calvino. 

Fu  Giulia  Gonzaga  che  introdusse  il  Carnesecchi  nel  crocchio  del  Valdes. 
E  di  quella  creatura  bellissima  e  cosi  nobilmente  dotata  subì  dapprima  il 
fascino  fisico  ;  poi  se  ne  fece  un'  ideale  mistico,  a  cui  confidava  tutti  i  suoi 


(1)  Masi,  La  riforma  in  Italia,  in  La  vita  italiana  nel  cinquecento,  Milano,  1894,  p.  84. 

(2)  Solo  mentre  si  stava  stampando  il  libretto  del  Benrath,  questi  conobbe  il  volume  deirAgo- 
stini,  al  quale  tributa  la  debita  lode.  Vedi  p.  121,  n.  25. 

(3)  Piccole  inesattezze  nei  particolari  non  vi  mancano,  e  forse  vi  contribuì  anche  il  tipografo, 
specie  per  quel  che  riguarda  i  nomi  propri  scorrettamente  ridati.  Strana  svista  quella  per  cui 
Giulia  Gonzaga  è  fatta  nascere  da  un  Federigo  (p.  31),  mentre  è  risaputo  ch'essa  fa  figliuola  di 
Ludovico  di  Gianfrancesco  di  Bozzolo. 

(4)  L'oBservaz,  ò  di  G.  E,  Saltisi,  nelVArch.  stor.  ital.,  serie  V,  voi.  26,  pp.  333  sgg.  Qualche 
maggior  ragione  può  avere  il  Saltini  nello  scagionare  Cosimo  de'  Medici  dall'accusa  d'aver  abban- 
donato, per  non  dir  tradito,  il  suo  fedel  servitore.  Ma  anche  su  ciò  ci  sarebbe  da  dire  parecchio. 


208  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

pensieri  di  religione  fpp.  251-54).  Questa  unione  spirituale  cosi  piena  di  ab- 
bandono e  di  sublimi  pensieri,  in  mezzo  alle  tristi  vicende  che  travagliavano 
l'Italia,  incute  rispetto  e  talora  induce  alla  commozione.  Noi  la  intravvediamo 
circonfusa  d'un  velo  misterioso  nei  lunghi,  nei  terribili  interrogatori  del  pro- 
cesso ultimo  a  cui  il  Carnesecchi  fu  sottoposto  innanzi  al  tribunale  dell'In- 
quisizione. Ora,  che  Giulia  stesse  a  sentire  ciò  che  il  Carnesecchi  le  scriveva, 
e  non  si  adirasse  con  lui  e  non  rompesse  la  relazione,  come  la  Colonna  fece 
con  rOchino  fuggiasco  e  sfratato,  è  innegabile;  ma  noi  non  siamo  in  grado 
di  dire  quanta  parte  delle  convinzioni  del  Carnesecchi  essa  ammettesse.  Su 
questo  punto  il  Carnesecchi  è  inflessibile:  da  quel  fiero  martellare  dell'inter- 
rogatorio funesto,  che  doveva  lacerargli  l'anima,  dai  supplizi  della  tortura, 
che  gli  lacerarono  la  persona,  la  figura  di  Giulia  esce  sempre  illesa. 

Opere  di  soggetto  religioso  il  Carnesecchi  non  scrisse;  ma  l'anima  sua  fu 
tutt'assorta  nei  problemi  religiosi.  Può  essere  che  il  rogo  abbia  distrutto  più 
d'un  suo  scritto  letterario,  perchè  si  conosce  di  lui  un  sonetto  non  cattivo 
in  risposta  ad  uno  del  Varchi  (p.  293),  né  pare  che  dovesse  essere  l'unico. 
È  noto  inoltre  ch'egli  fu  in  relazione  con  poeti  come  il  Mauro,  G.  F.  Bini, 
il  Berni,  i  quali  lo  rammentano  spesso  ne*  loro  versi.  Di  tutto  questo  l'Ago- 
stini ha  tenuto  conto.  R. 


VINCENZO  GRIMALDI.  —  La  mente  di  G.  Galilei  desunta  prin- 
cipalmente dal  libro  «  De  motte  (;ravium  ». —  Napoli,  Detken 
e  Rocholl,  1901  (8«  gr.,  pp.  122). 

È  la  prima  monografia,  cui  porge  occasione  e  materia  l'edizione  nazionale 
delle  opere  galileiane;  e  si  propone  di  dimostrare  che  nel  suo  libro  giovanile 
De  motu  gravium,  ora  per  la  prima  volta  venuto  a  luce  integralmente,  il 
G.  avesse  già  abbozzato  le  sue  dottrine  metodologiche  e  filosofiche;  sì  che 
in  tutto  il  corso  della  sua  vita  scientifica  non  avrebbe  poi  fatto  altro  che 
svolgere  i  germi  del  pensiero  giovanile.  Di  che  veramente  non  ci  sarebbe 
da  meravigliarsi,  considerando  che  il  De  motu  fu  scritto  nel  1»590  (1),  quando 
il  G.  aveva  compiuto  tutti  i  suoi  studi  filosofici  e  matematici,  e  con  le  sue 
esperienze  famose  iniziate  quelle  scoperte,  che  diedero  sì  potente  impulso 
alla  meccanica  moderna.  Ma,  se  la  grandezza  dello  scienziato  pisano  con- 
siste in  tutto  il  novero  delle  sue  scoperte  ed  invenzioni,  nelle  acute  e  precise 
osservazioni  onde  promosse  nel  Saggiatore  il  metodo  sperimentale  e  nelle 
dimostrazioni  contenute  nel  Dialogo  de"  Massimi  Sistemi  e  in  quelli  delle 
Scienze  Nuove^  dire  che  la  mente  di  lui  è  già  tutta  formata,  quando  produce 


fi)  Non  si  uprebbe  dire  se  qnesta  data  sia  ritenuta  per  vera  dall'A.  :  «  Qaesto  scritto  ^oranile 
«  del  Q.  —,  egli  scrire,  —  si  suole  ascrivere  al  1590,  il  che  noi  accettiamo  per  una  ragione  pra» 
«  tica  (?)  di  trattazione,  non  perchè  riteniamo  con  sicuro  convincimento  che  sia  assolutamente  a 
«  questa  epoca  o  a  questo  anno  da  riferire  il  prodursi  di  questi  princìpi  scientifici  nella  mente 
«  del  O.  »  (p.  28).  Tali  incertexze  e  sconnessioni  di  forma  e  di  pensiero  non  sono  rare  nel  suo 
lavoro. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  209 

il  De  motu^  sarebbe  aflfermare  cosa  immeritevole  perfino  d'essere  discussa. 
Nel  De  Motu  si  vedono  nettamente  gli  avviamenti  del  pensiero  di  Galileo; 
e  questo  è  tutto.  Ma  l'A.  spesso  si  lascia  giovanilmente  prender  la  mano 
dalla  sua  tesi;  e  viene  ad  attribuire  all'opera  da  lui  studiata  molta  più  im- 
portanza, che  effettivamente  non  abbia  nello  sviluppo  della  mente  del  G.  e 
nella  storia  del  pensiero  filosofico  in  generale. 

A  ritrarre  le  genuine  fattezze  di  quella  mente,  qual'  è  nel  De  motu,  occor- 
reva studiare  questo  scritto  con  molta  avvedutezza,  per  non  vedervi  quel  che 
non  e'  è,  mescolandovi  concetti  e  intuizioni  appartenenti  ad  anni  ed  opere 
posteriori;  ma  questa  avvedutezza  l'A.  forse  non  l'ha  sempre  avuta,  né  pare 
che  abbia  sempre  esattamente  valutato  le  dottrine  galileiane.  Cosi,  p.  es., 
non  è  punto  provato  che  la  dottrina  della  conoscenza  esposta  nel  cap.  Vili 
sia  già  implicita  nel  De  motu;  né  so  quanti  potrebbero  menar  buona  l'af- 
fermazione, che  il  G.  inclinasse  «  ad  una  concezione  della  natura  meccanica 
«  e  quasi  materialistica  ».  L'errore  consiste  nel  non  credere  conciliabile  il 
meccanismo  con  la  finalità;  ma  il  G.  la  pensava  ben  altrimenti  del  suo 
critico,  come  dimostrano  i  testi  da  lui  stesso  citati. 

Con  tutto  ciò  il  lavoro  del  sig.  Grimaldi  è  utile  alla  storia  del  pensiero  di 
Galileo  ;  e  rivela  nel  giovane  A.  un  lodevole  entusiasmo  per  queste  ricerche 
e  una  non  comune  cultura.  G.  G. 


GIUSEPPE  GUIDETTI.  —  La  questione  linguistica  e  Vamicizia 
del  P.  Antonio  Cesari  con  Vincenzo  Monti,  Francesco  Vii- 
lardi  ed  Alessandro  Manzoni,  narrata  coli' aiuto  di  docu- 
menti inediti.  —  Reggio  Emilia,  Collezione  Letteraria,  1901 
(16«,  pp.  .XIV-2Ì6). 

Questa  quarta  fatica  cesariana  del  sig.  Guidetti  (1),  comunque  la  si  voglia 
giudicare,  supera  in  utilità  le  precedenti.  Nulla,  anche  qui,  che  serva  a  sco- 
prire qualche  lato  nuovo  della  mente  o  della  dottrina  linguistica  del  Cesari; 
ma  in  compenso  varie  notizie  e  documenti  che  giovano  senza  dubbio  a  il- 
lustrare ne' particolari  le  relazioni  del  buon  prete  veronese  col  Monti  e  col 
Villardi;  dei  quali  il  primo  non  fu  mai  tra' suoi  amici,  ed  il  secondo  da 
«amicissimo»,  ch'eragli  stato,  divenne  poi  «suo  acerrimo  nemico  »  (p.  93). 
n  titolo  è  dunque  improprio,  perché  il  libro  narra  la  storia  di  due  guerre 
letterarie  ;  e  quanto  all'amicizia  del  Cesari  col  Manzoni,  il  G.,  che  per  ora 
non  fece  altro  che  accennarla,  la  illustrerà  quando  ottenga  di  poter  stampare 
le  lettere  del  Manzoni  al  Cesari,  che  da  «  un  pio  religioso  >  si  conservano  a 
Verona.  Le  lettere  del  Manzoni  sono  sempre  documenti  cosi  importanti  che 


(1)  Due  già  furono  annunziate  in  questo  Oiorn.,  XXIX,  178,  XXXII,  254.  La  terza,  di  cui  non 
s'è  parlato,  è  una  raccolta  di  prose,  rime  e  traduzioni  varie,  inedite  o  sparse,  di  A.  Cesari,  con 
Dna  lettera  suirantore  e  i  suoi  crìtici  di  Nazareno  Novelli,  Reggio  Emilia,  1899. 

aiornaU  stortco,  XXXVIII,  fase.  112-113.  14 


210  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Ognuno  deve  desiderare  di  vederli  pubblicati  ;  e  noi  auguriamo  che  la  bella 
ventura  di  farsene  editore  tocchi  al  G.  Glielo  auguriamo  anche  perchè,  stu- 
diando quelle  lettere,  che  dovrebbero,  verisimilmente,  aver  per  soggetto  la  que- 
stione della  lingua,  e  confrontandole  cogli  altri  scritti  del  Manzoni  che  trattano 
la  stessa  materia,  egli  forse  s'accorgerà  da  sé,  molto  più  presto  che  non  riusci- 
rebbe a  noi  di  persuaderglielo,  che  Vunità  letteraria  del  Cesari  col  Mari' 
zoni  (p.  X  sgg.),  cioè  la  perfetta  concordia  nel  criterio  della  lingua  e  dell'arte 
fra'que'due,  è è un'esagerazione!  Né  più  felice  dell'idea  sembrerà  co- 
testo modo  d'esprimerla:  unità  letteraria  del  Cesari  col  Manzoni;  e  qui 
dobbiamo  aggiungere  che  di  locuzioni  o  strane  o  scorrettte  il  libro  abbonda, 
come  se  non  uscisse  dalla  penna  di  un  così  caldo  ammiratore  del  corifeo 
dei  puristi.  Se  ne  vuol  qualche  esempio?  A  p.  3  il  G.  dopo  aver  detto  che 
«  la  nostra  dolcissima  lingua  fu,  per  oltre  cinque  secoli,  il  più  bel  tratto  di 

«  fisionomia  »  del  popolo  italiano,  soggiunge  :  «  ma questo    bel    tratto  di 

«  fisionomia  fu  in  procinto  d'esser  rotto  e  tolto  alla  misera  Italia  dalla  pre- 
«  potenza  degli  stranieri  ».  Storicamente  non  è  giusto  il  dire  che  la  prepo- 
tenza straniera  ce  lo  rompesse;  ma  s'anche  fosse  giusto,  non  sarebbe  ben 
detto;  a  meno  che  quel  «  più  bel  tratto  della  fisionomia  >  che  ci  si  ruppe, 
non  fosse  stato,  poniamo,  il  naso.  A  p.  5  leggesi  che  il  Cesari  «  impaziente 
«  di  vedere  pubblicata  quella  ristampa  [del  Vocabolario],  pensò  e  fece  ogni 
«  sforzo  di  farla  da  sé  stesso  ».  Poco  più  sotto,  alla  stessa  pagina,  si  ricorda 
un  «  opuscolo,  di  cui  ne  esiste  un  esemplare  »  nella  Bibl.  Gom.  di  Verona. 
E,  per  farla  breve,  a  p.  27  s'incontra  questo  periodetto:  «  A  credere  che  il 
«  Monti  non  avesse  letto  non  che  veduta  la  risposta  del  Cesari  bisognerebbe, 
€  in  vero,  essere  un  solennissimo  ignorante,  o  per  lo  meno,  credere  ch'egli 
«fosse  un  anacoreta;  mentre  è  noto,  ch'era  all'estremo  opposto». 

Non  son  fiori  d'eleganza,  certamente;  e,  ripetiamolo,  spesseggiano  ;  il  che 
prova  che  la  sconfinata  ammirazione  per  uno  scrittore  purgatissimo,  quale 
fu  il  Cesari,  non  fece  del  G.  uno  scrittore  troppo  scrupoloso. 

Di  cotesta  ammirazione  sconfinata  pel  suo  autore  egli  dà  anche,  nel  libro 
nuovo  di  cui  discorriamo  segni  frequenti.  Secondo  lui  le  opere  «  del  grande 
«  Filippino  »,  non  sono  soltanto  monumenti  di  «  semplicità  »  e  d'  «  eleganza  », 
ma  di  «  dottrina  ampia  e  profonda  »;  e  se  il  Cesari  non  fu  un  grandissimo 
poeta,  fu  «  parimenti  dotato  d'ingegno  vigoroso,  anzi  più  svariato  e  splen- 
«  dido  di  quello  del  Monti  »  (p.  11),  fu  un  «  perfetto  ingegno  »  (p.  36);  giu- 
dizi affatto  soggettivi,  che  non  staremo  a  discutere. 

Ma  il  libro,  per  buona  sorte,  contiene  molte  cose  più  degne  di  fermar  l'at- 
tenzione degli  studiosi,  specialmente  nel  capitolo  che  riguarda  il  Monti.  E 
fra  l'altre,  «  un  fatterello,  o,  per  dir  meglio,  una  bestiale  (sic)  ciurmerla 
€  fatta  al  Cesari  nel  1814,  nella  quale  sembrerebbe  che  il  Monti  medesimo 
€  vi  (sic)  avesse  la  sua  parte  »  (p.  32).  Trattasi  della  stampa  di  due  compo- 
nimenti poetici  del  Cesari;  una  canzone  per  la  nascita  del  Re  di  Roma,  ed 
un  capitolo  per  la  liberazione  di  Pio  VII,  che  riuniti  stridevano  e  stonavano 
maledettamente.  Fu  un  brutto  tiro,  e  il  Cesari,  in  certa  sua  lettera  al  Bel- 
trami,  credeva  di  poter  dire  chi  gliel'avesse  giocato:  «  Vuol  essere  farina  del 
«  Monti  »  (p.  32).  Chi  sa  che  non  l'imbroccasse!  L'avevano  già  fatto  tante 
volte  a  lui  quel  brutto  scherzo  di  mostrarlo  co*  suoi  versi  volubile  e  volta- 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  211 

bile,  che  il  Monti  potè  trovarci  gusto  a  farlo  qualche  volta  anche  ad  altri. 

<  Ciurmeria  »  però  non  fu  ;  che  la  canzone  pel  Re  di  Roma  il  buon  Cesari 
l'aveva  scritta  davvero,  se  non  pubblicata  —  ed  è  singolare  ch'egli  s'adat- 
tasse a  cantare  la  nascita  del  figlio  di  quel  Napoleone  al   quale  era   stato 

<  sempre  cordialmente  avverso  »,  e  al  quale  non  risparmiò,  nell'ora  della 
sconfitta,  oltraggi  più  sciocchi  che  feroci  (1).  Em.  B. 


ILARIO  RINIERI.  —  Della  vita  e  delle  opere  di  Silvio  Pellico. 
Voi.  III.  Ricordanza  e  tragedie  inedite.  —  Torino,  Streglio, 
1901  (8°,  pp.  x-321). 

A  questo  terzo  e,  probabilmente,  ultimo  volume,  il  p.  R.  avrebbe  dovuto 
por  titolo  alquanto  diverso,  per  distinguerlo  cosi  dai  due  precedenti  (2),  nei 
quali,  a  modo  suo,  sostenne  le  parti  di  storico  e  di  critico  ;  mentre  qui,  oltre 
a  cinque,  non  molto  sugose,  pagine  di  prefazione,  e  qualche  verso,  ch'egli 
credette  di  dover  aggiungere  dove  i  testi  da  lui  pubblicati  erano  mutili,  e 
qualche  parola  ch'egli  credette  di  poter  con  vantaggio  sostituire  a  quelle  degli 
autografi,  su  cui  condusse  la  stampa,  di  suo  non  c'è  nulla.  Così  ho  pur  detto 
la  singolare  larghezza  con  cui  il  p.  R.  intese  e  compì  l'ofiScio  d'editore;  e  mi 
dispiace  di  dover  aggiungere  che,  s'anche  coteste  integrazioni  e  correzioni 
avessero  aggiunto  peregrine  bellezze  all'opere  del  Pellico,  noi,  in  coscienza, 
non  potremmo  approvarle;  e  non  le  approveranno  certo  quanti  abbiano 
qualche  scrupolo  di  metodo  e  qualche  scrupolo  di  modestia.  Il  nostro  editore 
invece  non  n'ebbe,  e  si  permise  «  di  cambiare  qua  e  colà  (in  quanti  luoghi 
«  egli  non  dice,  né  lasciò  modo  a  noi  di  vedere)  qualche  parola  in  un'altra 
«  sinonima^  a  fine  di  togliere  a  certe  espressioni  o  l'impressione  {sic)  sgradita 
«  a'  nostri  giorni,  o  quel  tal  sapore  rancido  di  grandezza,  che  per  amor  tra- 
<  gico  (sic)  il  Pellico  riponeva  in  certi  paroloni.  Così  »  (e  se  ciò  che  segue 

deve  servire  d'esempio,  l'esempio  è  davvero  ben  scelto! ),  «così  la  parola 

41.  moglie  ho  cambiato  in  sposa,  madre,  consorte»  (p.  ix).  Che  diamine!  Se 
moglie  gli  pareva  parola  che  oggi  faccia  «  impressione  sgradita  »,  o  di  que' 
«  paroloni  »  che  hanno  «  sapore  rancido  di  grandezza  »,  egli  violava  soltanto 
il  testo  mutandola  in  «  sposa,  consorte  »,  ma  violava  la  natura  mutandola  in 
«  madre  »;  e  speriamo  che  non  l'abbia  fatto  !  Poste  poi  le  doti  non  invidia- 
bili di  scrittore  che  il  R.  possiede  (e  ne  fanno  già  testimonianza  le  poche 
linee  di  prosa  più  su  riferite),  arrischiarsi  a  colmar  le  lacune  di  un  testo  di 


(1)  Vedi  il  sonetto  del  Cesari  intitolato  Ritorno  di  Napoleone  dalla  Russia,  in  A.  Bertoldi, 
Prose  critiche  di  storia  e  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  1900,  p.  197,  dove  il  Bertoldi  premette  qualche 
notizia  e  considerazione  sul  contegno  politico  del  Cesari  nel  periodo  repubblicano  e  nel  napoleo- 
nico; contegno  suggerito  e  dalle  circostanze,  e  un  bel  po'  anche  dalla  paura». 

(2)  Pei  due  precedenti,  cfr.   Giorn.,  XXXII,  232  e  XXXIV,  244. 


212  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

poesia  (1),  non  con  delle  umili  congetture  esposte  in  nota,  ma  con  de'  versi 
interpolati,  è  tale  audacia  che,  se  non  fosse  tanto  ingenua,  sarebbe  obbro- 
briosa. 

Meglio  avrebbe  fatto  il  p.  Rinieri  se  in  cambio  di  quelle  cure  non  neces- 
sarie, anzi  illecite,  egli  avesse  dato  a'  testi  da  lui  pubblicati  altre  cure  di 
diligente  editore  e  di  accorto  illustratore  —  ma  anche  senza  aver  gli  auto- 
grafi sotto  gli  occhi  si  può  star  certi  ch'egli  lasciò  correre  parecchi  errori 
di  trascrizione  o  di  stampa,  alcuni  dei  quali  saltano  all'occhio  di  chiunque 
legga  anche  con  mediocre  attenzione  (2). 

Per  la  illustrazione  dei  testi  da  lui  editi  il  p.  R.  non  ha  fatto  nulla;  e  le 
brevi  considerazioni  che  su  di  essi  ha  stese  nella  prefazione,  sono  quasi  del 
tutto  oziose.  P.  es.,  bastava  egli  dire  che  e  i!  Boezio  è  certamente  una  delle 
«  migliori  tragedie  di  S.  P.,  e  degna  di  onorarsene  la  letteratura  italiana 
«nella  parte  drammatica  »  (oh  mirabile  garbo  d'elocuzione!);  che  Boezio  è 
€  personaggio  compiuto  »  (voleva  dire  uomo  perfetto^  dotato  di  tutte  le  virtù 

più  alte);  che  nella  stessa  tragedia  «  le  scontentezze  del  popolo  italiano 

€  come  i  tentativi  di  ribellione  popolare  sono  descritti  in  maniera  cosi  viva, 

€  che  ti  sembra  di  vedere  e  di  sentire »;  e  che,  nonostante  tali  ed  altri  pregi, 

«  i  competenti  nell'arte  vi  scorgeranno  forse  alcuni  difetti »,  ma  che  «  sa- 

€  rebbe  errore  di  giudicare  delle  tragedie  del  P.  co'  criterii  artistici  de'  nostri 
<  giorni  »,  poiché  «  l'arte  drammatica  di  S.  P.  è  vecchia  di  un  secolo  !  »  ; 
bastava,  dico,  perdersi  in  simili  parole,  quando  potevasi,  tra  l'altre  cose,  av- 
vertìre  che  nel  Boezio  (s'anche  appartiene  <  agli  ultimi  tempi  dell'autore  », 
dbme  il  p.  R.,  non  saprei  su  qual  fondamento  congettura,  sbagliandosi  forse) 
rivivono  le  memorie  del  carbonaro  del  *21  e  del  prigioniero  dello  Spiel- 
berg (3),  e  rampollano  le  reminiscenze  letterarie  dell'antico  ammiratore  del- 
l'Alfieri? (4).  L'influenza  dell'Alfieri  è  del  resto  più  manifesta  sui  primi  espe- 
rimenti tragici  del  P.:  la  Laodamia  (1813),  nota  fin  qui  per  il  parere  che  su  di 
essa  stese  il  Foscolo  in  una  lettera  al  P.,  e  il  Turno  (1814),  di  cui  era  ignota 
l'esistenza.  Ma  nonché  rilevare  in  esse  le  tracce  di  cotesta  visibile  influenza 
alfieriana,  e  le  relazioni  che  coleste  due  tragedie,  pei  soggetti,  la  condotta, 
gli  episodi,  il  colorito,  hanno  con  la  letteratura  tragica  italiana  e  francese 
della  fine  del  secolo  XVIII  e  del  principio  del  XIX,  non  rilevò  neppure  le 
relazioni   ch'esse   hanno  con   più  famose  tragedie  posteriori  del  P.  stesso; 


(1)  Cmi  ha  fatto  per  la  Laodamia,  pp.  58-59. 

(2)  Mi  ricordo  ora  di  questi,  rilerati  nel  Botxio'.  «  sfregiati  indarno  Costumi  »  (p.  191),  doYs 
il  senso  richieAs  ebo  A  Isgga  iprtfiaU  —  «  Farli  tremar  degg'io  Tengano  »  (p.  IM),  doro  maSM 
dopo  «degg*io»  un  indispensabils  segno  d' interponiione  —  e  Mio  re,  che  sento?  La  mori*  mi 
«  risparmi?  »,  dote  «  mi  »  sta  indubbiamente  per  gli. 

(8)  y.,  per  es.,  atto  III,  se.  U  e  atto  lY.  se.  2«  e  4>. 

(4)  Per  es.,  nell'atto  III,  se.  4«,  quel  Terso  ieìVÀgamtnnon*  alBeriano:  «Chiuso  nell'elmo,  in 
«  silensio  io  piangeva  »  (atto  II,  se.  4*)  ò  ripetuto  da  Boeaio  :  «  Muto,  ehioso  neirelmo,  io  la- 
«  grimaTa  »  ;  ripetuto,  e,  diciamolo  pure,  anche  sciupato.  A  proposito  del  BoéMio,  non  sarebbe 
stato  certo  inopportuno  indagare  se  un  qualche  precedente  letterario  potò  suggerire  al  P.  l'idea 
di  cerar  da  quel  soggetto  una  tragedia,  e  quanto  potò  a  oiò  contribuire  il  Bttuio  in  carur»  deL 
co.  Bobbio  di  S.  Raffaele,  che  probabilmente  al  P.,  piemontese,  fu  noto. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  213 

perchè  certo  qualche  tratto  del  Turno  ci  richiama  tratti  deìVEufemio   da 
Messina  e  della  Francesca. 

Mediocrissimi  lavori  però  cotesta  Laodamia  e  cotesto  Turno;  ma,  per 
quanto  deboli,  non  però  così  infelici  come  la  quarta  delle  tragedie  pubblicate 
dal  p.  R.,  YAdella;  che  forse  (egli  non  lo  dice,  ed  io  arrischio  la  congettura 
per  quel  che  vale)  è  tutt'una  cosa  con  quella  tragedia,  Dante^  che  il  P.  ideò 
con  parecchie  altre,  forse  poi  non  tutte  eseguite,  di  cui  finora  conosciamo 
soltanto  i  titoli.  Dante  infatti  neìVAdella  ha  parte,  se  non  di  protagonista, 
almeno  assai  lunga;  purtroppo:  —  perchè  questo  Dante  che  quando  non  de- 
clama i  versi  della  Commedia^  parla  il  più  enfatico,  triviale  e  falso  linguaggio 
retorico;  questo  Dante  che  chiama  sé  stesso 

L'esule  iracondo 
Che,  per  itale  reggie  e  per  castella 
Senza  viltà  da  langhi  anni  vagando, 
Gl'iniqui  impreca  e  suscitare  indarno 
Spera  virtù.  Nel  cruccio  e  nel  dolore 
Invecchiato  oramai,  movo  alla  terra 
Ove  suo  nascimento  ebbe  Francesca 
Yitnpero  di  Bimini!  ecc. 

(Atto  I,  se.  3a), 

questo  Dante  che  grida  {con  voce  imperiosa): 

Olà 
Tempo  è  che  Dante  sua  parola  innalzi 

Fra  gli  ebbri  spirti  cui  furore  accieca  (breve  silenzio  di  rispetto) 
(Atto  II,  se.  6a), 

questo  povero  Dante  così  fatto  è  una  profanazione. 

La  fama  del  Pellico,  come  poeta,  non  s'avvantaggierà  certamente  dalla 
pubblicazione  di  cotesto  nuove  quattro  tragedie,  che  potranno  servire  soltanto 
per  lo  studio  di  alcune  tendenze  della  mente,  dell'animo  e  del  gusto  del  Sa- 
luzzese,  poiché  vi* si  specchiano  con  perfetta  evidenza.  Anche,  a  tale  studio, 
potrà  servire  la  Ricordanza  (1)  che  precede  nel  volume  le  tragedie,  ed  «  ha 
«  tutta  l'andatura  di  una  leggenda  [?]  o  romanza  poetica  ».  Era  più  esatto 
dire  d'una  novella  poetica,  una  di  quelle  patetiche  novelle  del  sospiroso  e 
pio  romanticismo  d'allora  —  con  un  sostrato  di  realtà  storica,  che  meriterebbe 
d'esser  messo  in  luce  (2).  Ma  se  storiche  non  fossero  le  persone  della  muta 
Adelaide,  dell'incredulo  suo  padre,  de' suoi  scapestrati  fratelli  e  degli  altri, 
che  vi  hanno  parte,  storiche  sono  le  memorie  degli  anni  fortunosi  alle  quali 


(1)  Così  il  p.  R.  chiama  cotesto  componimento  nel  frontispizio  e  nella  prefazione  ;  poi  nell'oc- 
chiétio  che  lo  precede,  lo  chiama  Ricordanze  di  Silvio  Pellico  e  v'aggiunge,  per  sottotitolo,  Ade- 
laide la  fanciulla  muta.  Bisognava  decidersi,  e  dei  tre  titoli  diversi  eliminarne  almeno  uno. 

(2)  Il  p.  R.,  dopo  aver  ravvisato  nella  Ricordanza  «l'andamento  d'una  leggenda»,  aggiunge: 
«  si  direbbe  che  il  fondo  di  questo  racconto  poetico  è  storico  :  ma  non  ho  saputo  indovinarne  il 
«  contenuto  allegorico  »  (sic).  E  storico  —  non  allegorico,  badiamo  —  pare  anche  a  me  il  fondo 
o  il  contenuto  della  novella  ;  e  chi  avesse  familiare  la  cronaca  milanese  dell'età  napoleonica,  po- 
trebbe darcene  la  chiave.  "* 


214  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

le  private  vicende  di  Don  Gabriello  e  della  sua  famiglia  si  legano,  degli  anni 
vissuti  dal  Pellico  a  Milano  mentre  ancor  sfolgorava  la  portentosa  meteora 
napoleonica.  Anni  torbidi  e  lieti,  a  cui  volgevasi  con  un  misto  sentimento 
di  stupore  e  di  desiderio  Tanima  del  poeta  invecchiato: 

Ai  tempi  del  fagace  italo  reg^o 
La  ricordanza  mia  spesso  trasvola, 
Perch'  io  li  vidi  in  gioventù,  e  brillaro 
Agli  occhi  miei  qoal  favola  stupenda. 
Da  poeta  inventata  ebbro  o  insanito, 
Ma  d'alta  fantasia 

memorie  incancellabili,  che  traducevansi  talora  a  lui  in  bei  fantasmi  poetici. 
La  miglior  cosa  di  cotesto  volume  è  senza  dubbio  cotesta  novella,  che  ha 
molti  dei  più  soavi  languori  sentimentali  della  musa  del  P.,  ed  ha  (pregio 
raro  nelle  cose  del  P.)  gruppi  di  versi,  in  cui  alla  delicatezza  del  sentimento 
si  congiunge  la  virtù  della  forma.  Em.  B. 


A.  G.  BADMGARTEN.  —  Meditaiiones  pfiilosophicae  de  nonnullis 
ad  poema  pertìneniibus.  Ristampa  dell'unica  edizione  del 
1735  a  cura  di  B.  Croce.  —  Napoli,  1900  (8«,  pp.  46). 

Ottimo  divisamento  è  stato  questo  di  ristampare  la  Dissertazione  di  laurea 
presentata  dal  Baumgarten  nel  settembre  del  1735  all'Università  di  Halle, 
e  stampata  allora  in  un  opuscolo,  divenuto  ora  rarissimo  e  già  quasi  dimen- 
ticato anche  dai  Tedeschi,  sebbene  storicamente  importantissimo.  Giacché 
in  questa  dissertazione  può  dirsi,  o,  almeno,  è  ammesso  generalmente  (1), 
che  sia  nata  la  scienza,  di  cui  è  fondatore  il  B.;  il  quale  non  apportò  in 
seguito  se  non  lievi  e  parziali  modificazioni  al  suo  primo  concepimento.  E 
in  essa  infatti  (§  116)  viene  per  la  prima  volta  adoperata  la  parola  estetica 
a  denotare  una  scienza  speciale. 

L*A.  contava  solo  21  anni,  quando  dalle  riflessioni  fatte  durante  il  suo 
doppio  insegnamento  di  Poetica  e  di  Filosofia  nell'Orfanotrofio  di  Halle  era 
tratto  a  scoprire  alcune  nuove  attinenze  fra  le  due  dottrine  che  veniva  spie- 
gando agli  scolari,  applicando  alla  poetica  i  principi  della  psicologia  wolfiana 
e  quel  metodo  geometrico,  che  sette  anni  prima  il  Wolf  aveva  adottato  nella 
trattazione  della  logica  in  un  libro  dal  B.  molto  studiato  e  citato  in  questo 


(1)  In  an  suo  recentissimo  scritto  B.  Crock  (G.  B.  Vico  primo  scopritore  tUUa  scÙHMa  «tUttca, 
Napoli,  1901  ;  estr.  dalla  FUgrea  del  5  e  20  aprile)  arriva  alla  conclasione,  che  il  primo  a  sco- 
prire veramente  l'aatonomia  della  fantasia  e  quindi  il  principio  della  Estetica  è  il  noetro  Vico,  • 
non,  come  ritengono  tutti  gli  storici  di  questa  sciensa,  il  Baumgarten;  il  quale  non  avrebbe  sco- 
perto altro  che  la  parola  Est$tica,  e  sarebbe,  per  altro,  rimasto  impigliato  nella  peUtione 
del  Leibniz.     ' 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  215 

opuscolo  (§  73).  Lo  Scaligero,  adunque,  e  il  Vossio,  da  una  parte,  e  il  Wolf, 
dallaltra,  valgono  a  spiegarci  la  genesi  dell'estetica  nella  mente  del  Baum- 
garten. 

Egli  tratta  già  in  questo  opuscolo  l'estetica  come  una  logica  della  facoltà 
conoscitiva  inferiore  (o  sensitiva),  distinguendola  dalla  logica  propriamente 
detta,  in  quanto  questa  ha  per  oggetto  la  facoltà  conoscitiva  superiore  (o 
intellettiva)  (§  115);  e  bello  o,  com'egli  dice,  poetico  è  per  lui  tutto  ciò 
che  è  sensibile,  individuale,  chiaro,  ma  non  distinto,  ossia  non  adeguata- 
mente intelligibile.  Da  questo  principio  l'A.  cerca  di  dedurre  tutti  i  precetti 
della  poetica  tradizionale.  Nella  distinzione  dell'individuale  fantastico  dal- 
l'universale astratto  era  la  chiave  di  tutta  l'estetica  posteriore.  E  in  questa 
memoria  la  distinzione  è  posta  nettamente. 

La  ristampa,  elegantissima  di  carta  e  di  tipi,  riproduce  fedelmente  l'unica 
edizione  del  1735,  da  un  esemplare  conservato  nella  R.  Biblioteca  di  Monaco 
di  Baviera,  solo  correggendone  alcuni  evidenti  errori  tipografici.  È  la  prima 
opera  tedesca  di  filosofia  che  riveda  la  luce  in  Italia  per  opera  d'un  italiano; 
e  merita  lode  il  dotto  editore  dell'esempio  dato  e  della  scelta,  come  delle 
noterelle  bibliografiche  aggiunte  qua  e  là  per  rettificare  o  compiere  le 
citazioni  del  testo,  e  della  diligenza  della  edizione.  Solo  a  p.  41,  lin.  1, 
ci  pare  che  il  sensitiuam  —  che  forse  era  nell'originale  —  andasse  cor- 
retto in  cognoscitiuam.  Gfr.  p.  41,  linn.  13-14:  facultatem  cogno- 
scitiuam  inferiorem.  A  p.  13,  lin.  22  repraesentantur  dev'essere 
una  svista  per  repraesentatur;  come  lo  è  a  p.  19,  lin.  11:  sensitua 
per  sensi  ti  uà.  G.  G. 


FRANCESCO  BENEDUCCI.  —  Scampoli  critici.  Seconda  serie.  — 
Oneglia,  tip.  Ghilini,  1900  (16%  p.  155). 

Del  più  grosso  di  cotesti  Scampoli  non  possiamo  render  conto  qui,  dove 
nessuno  che  s'occupi  di  letteratura  viene  ad  informarsi  del  tempo  che  fa  o  del 
tempo  che  farà,  ma  tutt'al  più,  unicamente,  del  tempo  che  ha  fatto.  S'intitola 
Pronostico;  è  interessante,  è  piacevole,  contiene  delle  osservazioni  acute  e 
persuasive  (che  sia  persuasivo  tutto,  non  direi)  ;  ma  la  materia  non  è  storica, 
e  quindi  lo  si  lasci  da  parte,  quantunque  sia  forse  il  meglio  del  volume. 
Degli  altri  otto,  che  pigliano  le  rimanenti  106  pagine,  e  son  dunque  brevis- 
simi (1),  ci  sbrigheremo  rapidamente,  perchè  sarebbe  inutile  che  c'indugias- 
simo a  ripeteie  cose  già  dette  in  questo  Giornale  (34,  440)  a  proposito  del- 


(1)  Tra  i  più  brevi  ricordo  qui  in  nota  quello  intitolato  Un  medico  del  seicento  che  guarisce 
un  tisico,  che  riguarderebbe  la  storia  della  medicina.  Il  medico  è  il  Redi,  e  la  /t«t  da  lui  guarita 
con  la  cara  lattea  sarebbe  stata  invece  va' emottisi. 


216  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Taltra  raccoltina  di  Scampoli  pubblicata  dal  B.  due  anni  or  sono.  Possiamo 
dir  solo  che  i  pregi  e  i  difetti  già  notati  in  quella,  appaiono  anche  in  cotesta 
nuova;  e  che  gli  uni  e  gli  altri  accennano  a  crescere,  anzi  che  a  diminuire. 
Crebbero,  infatti,  il  brio,  la  disinvolta  eleganza,  Tamenità  della  forma; 
ma  crebbero  anche  del  pari  lo  studio  della  sottigliezza,  l'insufficienza  della 
ricerca  e  della  riflessione,  il  facile  abbandono  a  non  abbastanza  meditati  ar- 
dimenti. 

D'essere  arditissimo,  certe  volte,  il  B.  lo  sa,  lo  dichiara,  e,  se  non  c'in- 
ganniamo, se  ne  compiace  un  po'  troppo.  Lo  studio  su  La  pazzia  d'Orlando 
(pp.  27-52)  ch'è  il  più  elaborato  del  volume,  ne  porge  parecchi  indizi.  In  co- 
testo studio  il  B.  sottopone  a  minuta  analisi  il  tanto  ammirato  episodio 
ariostesco  ;  e  vi  nota,  tra  l'altro,  l'errore  in  cui  il  poeta  sarebbe  caduto, 
dando  Orlando  per  pazzo  solo  (e.  XXIII,  st.  132)  il  quarto  giorno  dopo  la 
fatai  notte  passata  in  casa  del  pastore,  cioè  dopo  che  ha  già  compiuto  (st.  125, 
130-131)  tanti  atti  violenti.  Secondo  il  B.  è  evidente  che  la  pazzia  d'Orlando 
incomincia  dal  punto  in  cui  il  paladino  balza  dal  letto,  dove  il  fantasma 
d'Angelica,  che  pur  vi  era  giaciuta  col  suo  Medoro,  non  gli  concede  riposo 
e  gli  sconvolge  lo  spirito.  Sarà  ;  ma  io  credo  che  le  smanie  e  le  violenze  a 
cui  un  uomo  può  abbandonarsi  sotto  la  sferza  dell'  ira  e  della  disperazione 
non  siano  da  confondere  con  la  pazzia  vera  e  propria,  o,  per  meglio  dire, 
sieno  pazzie  transitorie,  che  possono  preludere  bensì  alla  pazzia  cronica,  ma 
non  spegnere  d'un  tratto,  per  sempre,  il  lume  della  ragione.  E  credo  ancora 
che  sia  stata  felice  intuizione  del  vero,  o  del  verisimile  (che  in  arte  è  l'es- 
senziale) quella  del  poeta,  che  fa  seguire  il  proprio  e  totale  impazzimento 
d'Orlando  a  que'  tre  giorni  che  l'infelice,  sfogato  il  primo  impeto  di  rabbia, 
passa  senza  nutrirsi,  senza  prender  sonno,  senza  piangere,  supino  sulla  nuda 
terra;  e  in  quegli  occhi  sbarrati  (E  ficca  gli  occhi  al  cielo)  d'uomo  che  l'in- 
sonnia e  il  digiuno  e  l'ossessione  d'una  idea  orribile  vanno  stremando,  par^ 
di  vedere  il  progressivo  oscurarsi  del  raggio  dell'intelligenza.  Il  modo  ch'ei 
tenne  poi  nel  descrivere  l'impazzimento  d'Orlando,  pare  che  l'Ariosto  lo  di- 
visasse fin  da  quando  scriveva  la  protasi  del  poema: 

Dirò  d'Orlando  in  nn  medesmo  tratto 
Cosa  non  detta  in  prosa  mai,  né  in  rima; 
Che  per  amor  venne  in  farore  e  matto  ; 

quasi  avesse  voluto  cosi  per  tempo  distinguere  in  due  termini,  che  non  hanno 
significazione  equivalente,  due  momenti  che  non  vanno  confusi  ;  e  distinguerli 
nell'ordine  in  cui  poi  effettivamente  si  susseguono.  E  non  par  più  naturale 
che  non  si  compia  d'un  subito  il  tramonto  dell'intelligenza  in  un  uomo  <  che 
«  s'i  savio  era  stimato  »  innanzi,  e  che  la  follia  s'insignorisca  del  suo  cer- 
vello solo  dopo  una  lotta  assai  lunga?  Ma  poniamo  che  la  scienza  psicopatica 
possa  dar  torto  all'Ariosto,  e  che  il  suo  eroe  sia  veramente  da  chiamar  pazzo 
del  tutto  prima  ch'egli  lo  dichiari  tale;  ebbene,  ne  risulterebbe  un  errore  scien- 
tifico, non  già  una  contraddizione  logica  e  una  imperdonabile  negligenza 
d'arte,  come  il  B.  sostiene.  Certo  Orlando  s'abbandona  a  strani  eccessi  tosto 
che  ha  lasciato  a  precipizio  la  casa  del  pastore:  ma  quegli  eccessi  son  ben 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  217 

diversi  da  quelli  ch'egli  commette  quando  si  riscuote  dal  letargo  di  quei  tre 
terribili  giorni  in  cui  avviene  il  lento  naufragio  della  sua  coscienza  ;  nei 
primi  si  vede  il  trasporto  di  una  passione  estrema  che  cerca  sfogo,  ne'  se^ 
condi  invece  l'abbrutimento  dell'uomo  degradato  dalla  malattia  che  ha  ucciso 
in  lui  lo  spirito.  La  vera  pazzia  d'Orlando,  per  l'Ariosto,  comincia  da  questo 
punto,  e  non  è  vero  affatto  che  il  poeta  cadesse  «  in  una  delle  sue  solite 
€  distrazioni  »  (p.  35)  facendo  impazzire  «  smemoratamente  »  il  suo  eroe  due 
volte. 

Ma  il  B.  s'è  fitto  in  testa  di  poter  dimostrare  che  il  famoso  episodio  è 
ben  lontano  da  quella  perfezione  che  i  più  ci  trovano,  e  che  sotto  più  aspetti 
l'Ariosto  vi  «  falsò  maledettamente  la  verità,  quella  verità  —  notate  bene  — 
«della  quale  è  stato  celebrato,  ad  onor  e  gloria  dell'umanesimo,  angelo 
«  custode  »  (p.  38).  Perchè?  Oh,  perchè  egli  si  è  dimenticato  di  dirci  che  il 
viso  d'Orlando,  «  ne'  momenti  di  maggior  concitazione  »,  doveva  essere  «  rosso 
«  infuocato  »,  e  che,  come  senza  dubbio  succede  agli  energumeni,  «  i  capelli 
«  d'Orlando  si  erano  scompigliati  »  (ivi).  Si  potrebbe  imaginare  mancamento 
più  grave?  E  poi,  domanda  il  B.,  era  lecito  mettere  in  bocca  ad  un  pazzo 
quei  troppo  culti  lamenti  : 

Non  son,  non  son  io  quel  che  paio  in  viso  ; 
Quel  ch'era  Orlando  è  morto,  ecc., 

se  non  volevasi  far  comparire  «  il  pazzo  più  savio,  cioè  più  acuto,  del  Te- 
«  baldeo  »?  (p.  41).  Tal  fallo  sarebbe  stato  veramente  gravissimo,  se  proprio 
l'Ariosto  avesse  inteso  di  far  parlare  cos"i  un  pazzo;  ma  badi  il  B.:  a  ragione 
o  a  torto,  l'Ariosto  si  figurava  che  Orlando  allora  non  fosse  ancora  ammat- 
tito, benché  vicino  ad  ammattire;  e  la  differenza  non  è  poca.  Né,  per  quanto 
poco  precisa  scientificamente  possa  sembrare  la  descrizione  della  pazzia  d'Or- 
lando a  chi  la  considerasse  oggi  col  sussidio  di  qualche  manualetto  psichia- 
trico, sarebbe  lecito  paragonarla  a  quella  grossolana  idea  della  pazzia  che 
può  avere  «  qualunque  donnicciuola  che  non  sia  mai  entrata  in  un  mani- 
«  comio  »  (p.  43);  e  tra  l'Ariosto  e  una  «qualunque  donnicciuola»  —  per- 
bacco! —  ci  ha  da  correre  sempre  un  certo  tratto! 

A  questo  punto  il  B.  s'allarga  a  discorrere  di  ben  più  ampia  materia; 
perchè  dalla  mancanza  di  verità  e  dosservazione  diretta,  ch'egli  ha  creduto 
di  ravvisare  in  uno  dei  canti  più  famosi  del  Furioso,  prende  occasione  ad 
«  esporre  intorno  all'arte  dei  cinquecentisti  un  giudizio  che  da  un  pezzo  gli 
«  si  è  fitto  in  capo»  (p.  44);  cioè  un  giudizio  molto  severo  e  quasi  del  tutto 
negativo.  Cotesto  suo  discorso  «  sentenziosamente  succinto  potrà  essere  un 
«  giorno  o  l'altro  rafforzato  da  lunga  dimostrazione  e  da  minute  prove  » 
(p,  52),  e  quindi,  per  discuterlo,  sarà  meglio  aspettare  quel  giorno.  Ora  pos- 
siamo dire  soltanto  che  TA.,  a  parer  nostro,  non  entrerebbe  in  un  facile 
impegno  la  volta  in  cui  si  mettesse  a  dimostrare  varie  delle  proposizioni  che 
intanto  enuncia,  tra  le  quali  è  anche  questa  :  «  la  Rinascita  ha  reso  alla 
€  poesia  lo  8tes.so  servizio  che  la  scolastica  rese  alla  scienza  »  (p.  47);  e  in- 
tanto dovrebbe  ricordarsi  di  tutto  il  male  che  s'è  già  detto  del  Rinascimento, 
per  non  ripetere  inutilmente  delle  accuse  vecchie,  e  in  gran  parte  .sfatate. 


218  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Sotto  il  titolo  di  Noterelle  manzoniane  il  B.  svolge  certe  ingegnose  sue 
osservazioni  su  tre  punti  dei  Promessi  sposiy  ne  quali  gli  parve  di  cogliere 
in  fallo  il  Manzoni;  impresa,  anche  questa,  non  facile.  Se  non  hanno  maggior 
peso,  hanno  certo  più  ampio  svolgimento,  le  osservazioni  intorno  al  3**  punto, 
cioè  alle  difficoltà  che  p.  Cristoforo  oppone  a  Renzo,  quando  costui  vorrebbe 
penetrare  nella  parte  del  lazzaretto  riservata  alle  donne,  per  cercarvi  Lucia 
(cap.  XXXV).  11  b.  richiama  la  bella  sicurezza  con  cui  p.  Cristoforo  aveva 
fatto  tacere  gli  scrupoli  di  fra  Fazio  quella  notte  che  nella  chiesa  di  Pesca- 
fenico  aveva  momentaneamente  ricoverato  Renzo  e  le  donne,  malgrado  «  la 
«  regola  »  rammentatagli  dal  sagrestano  (cap.  Vili);  e  argomenta:  come  mai 
un  tal  uomo,  cosi  sicuro  nella  propria  coscienza,  cosi  superiore  alla  pedan» 
tesca  osservanza  della  lettera,  quando  sia  salvo  lo  spirito  delle  leggi,  così 
poco  accessibile  a  meschini  scrupoli  volgari,  contrasta  ora  a  un  desiderio 
innocente,  legittimo,  quasi  santo?  «Come  spiegare  quest'improvviso  cambia- 
«  mento  del  padre  Cristoforo?  »  (p.  72).  A  me  parrebbe  che  prima  di  cercar 
di  spiegarla,  bisognerebbe  vedere  se  la  contraddizione  esista,  o  se  almeno 
sia  poi  così  grave  come  il  B.  se  la  figura.  Le  difficoltà  che  padre  Cristoforo 
oppone  a  Renzo,  siamo  giusti,  non  sono  lunghe;  cadono  subito  alla  prima 
replica  del  giovine;  anzi  cadono  allo  spontaneo  ricordo  di  quella  massima 
che  fra  Fazio  non  intese  e  che  perciò  appunto  gli  fece  tanto  effetto:  Omnia 
munda  miindis.  Infatti  p.  Cristoforo,  rispondendo  piuttosto  a'  suoi  pensieri 
€  che  alle  parole  del  giovine  »,  dice  il  Manzoni,  ripiglia:  <  Non  so  cosa  dire, 
«  tu  vai  con  buona  intenzione  »;  e,  Omnia  munda  mundis!  La  stessa  dot- 
trina, dunque,  e  lo  stesso  uomo,  lo  stesso  gran  cuore;  perchè  non  solo  non 
impedisce  a  Renzo  d'andare  in  cerca  di  Lucia  nel  vietato  recinto,  ma  gl'in- 
segna il  modo  di  penetrarvi;  e  «  se  gli  si  facesse  qualche  ostacolo,  dica 
«che  il  padre  Cristoforo  da*"  io  conosce,  e  renderà  conto  di  Iuìp.  Tutto 
l'aiuto  che  poteva  dargli,  glielo  dà,  senza  farsi  pregare;  tutta  la  responsa- 
bilità che  doveva  assumersi,  se  l'assume;  cosa  volete  di  più?  Ma  se,  per 
ipotesi,  il  padre  Cristoforo  del  Lazzaretto  non  fosse  più  quello  di  Pescarenico; 
0,  almeno  in  apparenza,  paresse  un  po'  più  esitante  questa  volta  che  non  si 
fosse  mostrato  in  altri  incontri,  creda  pure  il  B.  che  a  spiegare  il  fatto  non 
mancherebbero  buone  ragioni,  e  che  di  molte  circostanze  speciali  del  luogo, 
del  tempo,  del  dovere  bisognerebbe  tener  conto,  come  senza  dubbio  se  ne 
rese  conto  il  Manzoni;  il  quale,  in  materia  di  psicologia,  non  fu  quell'*  uomo 
«alla  buona  e  praticone»  (p.  72),  che  il  B.  lo  definisco,  e  non  ha  bisogno 
della  scusa  oraziana:  opere  in  longo  fas  est  obrepere  somnum  (ivi),  che  ge- 
nerosamente gli  si  vorrebbe  concedere.  Mi  dispiace  poi  di  dover  aggiungere 
che  il  B.  in  un  punto  non  ha  inteso  affatto  l'autore  che  censura.  A  p.  69, 
dopo  aver  riferite  e  commentate  le  parole  di  Renzo,  che  ricorda  a  p.  Cristo- 
foro le  pene  soff'crte  per  amor  di  Lucia,  e  i  rischi  incontrati  per  ritrovarla; 

riproduce  e  commenta  vivacemente  quel  «  Non  so   cosa  dire »  del  frate, 

che  più  su  anch'io  ho  richiamato;  e  lo  interpreta  come  una  secca  ris[X>sta, 
una  sgarbata  ripulsa,  un  tratto  d'inumanità;  e  carica  d'aspri  rimproveri  l'e- 
roico cappuccino,  che  non  disse  mai  a  Renzo:  —  la  regola  è  regolateseli 
disturba,  non  so  cosa  dire  —  ma  disse  invece  a  sé  stesso:  —  la  regola  è 
giusta,  però  costui  ha  più  ragione  della  regola;  ci  si  passi  dunque  su; 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  219 

non  so  cosa  dire!  Qui  non  si  tratta  d'opinione  :  rilegga  il  B.  quel  testo,  senza 
arrestarsi  alla  prima  virgola,  e  s'accorgerà  snbito  della  svista  veramente  un 
po'  grossa  in  cui  è  caduto. 

Materia  disputabile  in  ognuno  di  cotesti  Scampoli  se  ne  troverebbe  d'a- 
vanzo; ma  è  poi  sempre  materia  disputabile  con  frutto?  P.  es.  il  B.  scrive 
circa  otto  pagine  su  II  Manzoni  paragonato  a  Dante,  per  decidere  se  cotesto 
paragone,  di  cui  chi  per  critica  intende  frasi  può  compiacersi,  sia  legittimo 
o  no.  Ma  francava  la  spesa  di  scrivere  otto  pagine  per  dimostrare  prima 
quanto  la  Commedia  differisca  dai  Promessi  sposi,  e  per  concludere  poi  che 
quelle  due  opere  si  possono  tuttavia  ravvicinare,  perchè  in  esse  i  due  autori 
ci  diedero  l'unica  e  più  ampia  misura  del  loro  genio  ? 

Nella  Noterella  demonologica  che  segue  (pp.  15-26)  il  B.  ricerca  «  di  che 

«  cosa  son  fatti  i  diavoli  danteschi  »  ;  e  posto  1'  «  assioma che  tutti  quanti 

«i  diavoli debbono  essere materiati  ugualmente»  (p.  22);  posto  quindi 

per  certo  che  le  cagne  bramose  e  correnti  della  selva  dei  suicidi  (le  quali 
non  sarebber  che  diavoli)  «portano  carne  ed  ossa»  (pp.  21  e  23);  posto 
inoltre  per  certo  che  i  giganti  (i  quali  pure  sarebber  diavoli)  «  siano  stati 
«accolti  nell'inferno  tali  quali  erano  da  vivi,  in  carne  ed  ossa»  (p.  24), 
conclude  che  anche  gli  altri  diavoli,  i  cacciati  dal  del,  gente  dispetta  «  de- 
«  vono  essere  provvisti  di  una  forma  consimile  »  (p.  25),  cioè  «  sono  formati 
«  di  carne  e  d'ossa  ».  Sia  come  si  vuole,  questo  è  certo  che  il  procedimento 
logico  del  B.  non  va  dal  noto  all'ignoto,  e  che  di  troppe  premesse,  non  tutte 
dimostrate  e  dimostrabili,  egli  ebbe  bisogno  per  giungere  ad  una  conclusione 
che  intuitivamente  non  ha  grande  valore  persuasivo. 

La  Noterella  dantesca  (pp.  73-78)  tende  a  ribadire  la  interpretazione  delle 
tre  fiere  proposta  dal  Casella;  e  la.  Noterella  par iniana  (pp.  85-89)  propone 
che  si  ravvisi  nel  convitato  pitagorico  del  Mezzogiorno  un  seguace  convinto 
della  dieta  vegetariana  predicata  da  Antonio  Cocchi  nel  Vitto  pitagorico;  un 
seguace  convinto  di  essa,  non  per  altro  che  per  la  speranza  di  campare, 
vivendo  cos'i,  gli  anni  di  Matusalem.  La  nuova  interpretazione  non  mi  par 
troppo  chiara,  e  non  è  necessario  che  stia  qui  a  dire  perchè. 

Bel  soggetto  a  uno  studietto,  un  po'  più  largo  però  e  più  compiuto  di  quello 
che  il  B.  ci  diede,  sarebbe  stato  L'Algarotti  critico  (pp.  91-110).  Il  B.  aveva 
ogni  ragione  di  osservare  che  deli'Algarotti  s'è  detto  più  male  che  non  me- 
ritasse, e  che  fra  i  suoi  vari  scritti  e  pensieri  ve  n'ha  alcuni  notevolissimi 
pel  tempo  in  cui  furono  concepiti,  e  non  trascurabili  neppur  oggi;  ma  che 
bisogno  c'era  d'esagerare  il  merito  deli'Algarotti  a  danno  del  povero  Tira- 
boschi  (pp.  92-93),  e  d'affermare  con  tutta  sicurezza  che  «  dove  egli  [l'Al- 
«  garotti]  ha  posto  piede,  ha  sempre  lasciato  un'orma»?  Il  B.  espone  quindi 
le  idee  del  suo  autore  sull'opera  in  musica,  quelle  contenute  nel  Saggio 
sopra  la  rima,  ed  altre  sopra  lo  stile  di  Dante,  la  lingua  italiana  e  la  mi- 
tologia, sparse  in  alcune  lettere  del  colto  e  sagace  veneziano.  Utili,  senza 
dubbio,  i  riscontri  notati  fra  cotesto  varie  proposizioni  ed  opinioni  con  quelle 
d'alcuni  scrittori  moderni  ;  più  utile  storicamente  e  criticamente  sarebbe  però 
riuscito  il  confronto  con  quelle  di  scrittori  contemporanei  all'Algarotti,  che 
preso  a  considerare  fuor  del  suo  secolo,  rischia  d'essere  giudicato  o  troppo 
piccolo  0  troppo  grande,  secondo  gli  umori. 


220  BOLLETTINO  BIBCIOGRAFICO 

Ora,  per  concludere,  se  avessimo  autorità  sufficiente  da  dar  consigli,  vor- 
remmo pregare  il  B.,  che  indtJbbiamente  ha  ingegno  e  anche  studi,  di  non 
accontentarsi  sempre  di  Scampoli,  e  di  spendere  la  sua  attività,  da  cui  è 
lecito  attendersi  frutti  migliori,  in  qualche  lavoro  più  importante  e  più  me- 
ditato. Em.  B. 


ANNUNZI  ANALITICI. 

Orsini  Beoani.  —  Fra  Dolcino  nella  tradizione  e  nella  storia.  —  Milano, 
Cogliati,  1901  [Volumetto  onestamente  fatto,  che  ha  due  meriti:  !•  quello 
di  valutare  in  modo  adeguato  il  valore  della  Historia  Dulcini,  edita  dal  Mu- 
ratori in  R.  I.  5.,  voi.  IX,  correggendone  le  inesattezze  e  completandola  con 
gli  altri  pochi  documenti  attendibili  che  si  hanno  sull'animoso  eresiarca; 
2°  quello  di  sfatare  quasi  del  tutto  l'autorità  del  Baggiolini,  che  traviò  già 
tanti,  provando  che  il  ms.  vercellese  su  cui  egli  in  gran  parte  si  fonda  non 
è  altro  che  una  manipolazione  piena  di  corbellerie  d'un  prete  secentista 
(v.  pp.  72  «.  e  79).  Il  contorno  di  queste  due  dimostrazioni  appartiene  in 
grandissima  parte  ad  altri,  in  special  guisa  al  Tocco,  al  quale  il  B.  tolse 
(pur  citandolo  a  più  riprese)  tuttociò  che  sa  degli  Apostolici  e  della  loro 
storia  e  dottrina.  Magrissime,  incompiute  e  note  già  per  altri  recenti  lavori 
sono  le  informazioni  che  il  B.  dà  in  fine  sulla  tradizione  popolare  di  fra 
Dolcino  in  Valsesia.  Ci  fa  meraviglia  che  egli,  avendo  conosciuto  la  seconda 
delle  eccellenti  memorie  del  Segarizzi  (cfr.  Giorn.,  37,  188,  e  461),  ove  sono 
notizie  sicure  di  quella  Margherita  che  fu  a  Dolcino  fedele  compagna  in 
vita  ed  in  morte,  non  abbia  tratto  maggior  partito  dalla  prima  (rrid^n^um, 
111,  5-6),  che  è  senza  dubbio  e  resterà  la  migliore  rassegna  critica  delle  fonti 
riguardanti  la  storia  di  Dolcino.  Quella  giudiziosa  dissertazione  avrebbe 
giovato  assai  a  procurare  al  B.  una  più  compiuta  cognizione  della  lettera* 
tura  del  suo  soggetto,  ed  a  conferire  al  suo  lavoro,  s'egli  si  fosse  dato  la 
pena  d'allargare  le  ricerche,  maggior  solidità  e  sicurezza.  Prendiamolo,  tut- 
tavia, anche  così  com'è,  quale  una  contribuzione  non  ispregevole  alla  ricerca 
storica  su  fra  Dolcino.  E  siccome  questo  personaggio  ha  importanza  anche 
pei  dantisti,  cogliamo  l'occasione  per  osservare  che  non  ci  sembra  punto  nel 
vero  il  B.  quando  afferma  con  tanta  sicurezza  che  il  celebre  monito  a  DoU 
cino,  messo  in  bocca  da  Dante  a  Maometto  nell'/n/*.  XXVIIl,  sia  stato  pre- 
cisamente scritto  nel  1305  (p.  9).  Ritiene  questo  il  B.,  come  spiega  più  tardi 
(pp.  112-13),  perchè  appunto  nel  1305  Dolcino,  fulminato  da  Clemente  V, 
che  gli  band'i  contro  una  crociata,  si  ritirò  tra  i  monti  della  Valsesia,  e  l'in- 
verno tra  il  1305  ed  il  1306  trascorse  sulla  Farete  Calva.  Ma  hanno  le  pa- 
role di  Maometto  tono  profetico?  Non  parrebbe.  E  se  ciò  non  è,  se  accen- 
nano a  fatti  contemporanei  alla  presunta  epoca  della  visione,  debbon  riferirsi 
al  1300.  Dante  può  averli  scritti  anche  parecchio  dopo  il  1305;  ma  secondo 
la  sua  consuetudine  egli  anche  qui  trasporta  l'azione  nel  tempo  in  cui  ima- 
gina  d'aver  compiuto  il  mistico  peregri naggio]. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  221 

Carmelo  Cazzato. —  Una  nuova  proposta  sulla  questione  della  «.Matelda-». 
—  Città  di  Castello,  Lapi,  1900  JSebbene  estremamente  prolisso  e  dettato 
senza  eleganza,  quest'opuscolo  fa  pensare.  Della  ricca  letteratura  che  v'ha 
intorno  a  Matelda  il  C.  ha  l'informazione,  non  certo  spregevole,  che  nel 
1875  accumulò  lo  Scartazzini  in  una  digressione  del  commento  lipsiense  (II, 
595  sgg.).  Nulla  sa  di  altri  scritti  successivi  (cfr.  Giorn.,  33,  427  e  37,  190), 
né  gli  importa  di  saperne,  perchè  gli  farebbero  perder  tempo  senza  pro- 
fitto (p.  12).  A  lui  già  non  va  a  fagiolo  nessuna  delle  ipotesi  espresse  da 
altri,  perchè  ne  ha  in  serbo  una  tutta  sua,  radicalmente  diversa.  Egli  stabi- 
lisce, anzitutto,  che  Matelda  ha  un  particolare  uflBcio  nel  poema:  quello  d'im- 
mergere tutte  le  anime  destinate  al  paradiso  nei  fiumi  Lete  ed  Eunoè.  Il 
salmo  Delectasti,  che  secondo  un'arbitraria  interpretazione  del  C.  è  cantato 
da  Matelda,  non  è  altro  che  il  salmo  29^,  quello  della  risurrezione  del  Sal- 
vatore e  dei  giusti.  Essa  è  dunque  la  persona  con  che  s'iniziò  la  nuova 
legge  sanzionata  col  sangue  di  Cristo,  «  s'iniziò  virtualmente  il  purgatorio, 
«che  ella  annunziò  all'umanità,  quando  annunziò  la  risurrezione»:  Maria 
di  Magdala,  la  peccatrice,  da  cui  Gesù  cacciò  i  sette  demoni,  cioè  i  sette 
vizi  capitali,  che  nel  purgatorio  si  espiano.  Le  anime  «  trovano  in  lei  il  com- 
€  pendio  di  tutta  la  loro  storia  di  colpa  e  di  risurrezione,  come  in  Lucifero 
«  è  il  compendio  di  tutti  i  peccati,  in  Maria  Vergine  quello  di  tutte  le  virtù  » 
(p.  59j.  A  ribadire  la  sua  opinione  il  C.  adduce  dottamente  gran  copia  di 
dati  tratti  dalla  Scrittura  e  dai  Padri,  per  cui  si  vede  l'importanza  che  Mad- 
dalena ebbe  nella  tradizione  ecclesiastica,  importanza  che  rende  malagevole 
il  credere  che  l'Alighieri  abbia  potuto  compiutamente  dimenticarsi  di  lei. 
Vorrebbe  anche  trovare  una  conferma  nella  tradizion  popolare;  ma  ricorre 
alle  sacre  rappresentazioni,  che  nel  caso  attuale  poco  importano,  perchè  sono 
tutte  posteriori  alla  Commedia.  Nel  simbolo  Matelda  è  per  TA.  la  Chiesa 
purgante,  che  mena  Dante  a  Beatrice,  cioè  alla  Chiesa  trionfante.  Come  poi 
la  Maddalena  sia  diventata  Matelda,  il  C.  non  spiega:  pare  che  ritenga  Ma- 
telda una  specie  di  nomignolo  tratto  dalla  corruzione  di  Magdala  (p.  101), 
il  che  è  ameno  per  lo  meno  quanto  l'etimologia  bizzarra  proposta  da  G.  Bassi 
(vedi  Giorn.,  35,  181),  —  In  sostanza,  parecchi  fra  gli  argomenti  messi  fuori 
e  corredati  di  buona  dottrina  dal  C.  sono  degni  di  nota;  e,  a  parer  nostro, 
i  personaggi  reali  sinora  sostenuti  dalla  critica  più  o  meno  ufficiale,  sono 
cos'i  sgarbati  e  inadeguati  alla  figurazione  di  Matelda,  che  a  nuove  inter- 
pretazioni non  solo  si  può,  ma  si  deve,  far  buon  viso.  Crediamo  peraltro  che 
sia  un  ostacolo  forte  quello  del  nome,  e  siamo  poi  sicuri  che  il  C.  erra  nella 
spiegazione  del  simbolo.  Il  simbolo  di  Matelda  a  noi  non  parve  mai  dubbio  : 
è  la  Lia  del  sogno  di  Dante  (Purg.,  XXVII),  cioè  la  vita  attiva.  La  Chiesa 
purgante,  che  equivale,  se  non  erriamo,  al  ministero  sacerdotale,  è  rappre- 
sentata sulla  soglia  del  purgatorio  propriamente  detto,  dall'angelo  portiere 
cinereo.  Se  non  che  vi  sarebbe  anche  modo,  forse,  di  conciliare  la  Madda- 
lena col  simbolo  della  vita  attiva]. 

Michele  Scherillo. —  Il  nome  della  Beatrice  amata  da  Dante.  —  Mi- 
lano, 1901  [Estratto  dai  Rendiconti  dell" Istituto  lombardo.  È  noto  come  lo 
Sch.,  anni  sono,  studiando  i  rapporti  della  V.  N.  con  le  abitudini  dei  tro- 
vatori, stimasse  il  nome  di  Beatrice  un  senhal  e  come  gli   balenasse  l'idea 


222  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

che  invece  la  prima  donna  dello  schermo  fosse  Bice  Portinari  (cfr.  Giorn.^ 
15,  278  e  30,  448  sgg.).  Questa  opinione  non  ebbe  seguaci  seri;  ma  all'idea 
che  Beatrice  non  fosse  il  nome  vero  della  donna  amata  dal  poeta  sembrò 
accostarsi  il  Carducci,  allorché  investendo  coloro  che  ne  celebravano  le  feste 
centenarie  nel  1890  usci  a  dire  che  il  nome  Beatrice  «  probabilmente  de- 
«.  rivo  da  un  epiteto  delia  poesia  cavalleresca  ».  Ora  lo  Sch.  fa  nuove  consi- 
derazioni sul  soggetto  e  viene  a  conclusione  alquanto  diversa  dalle  precedenti. 
Egli  ritiene  che  Beatrice  sia  senhal  di  Bice  Portinari,  e  recando  in  mezzo 
a  riscontro  le  norme  che  Andrea  Cappellaro  indica  rispetto  al  segreto  d'a- 
more ed  alla  confidenza  che  se  ne  può  fare  solo  ad  un  secretarlo ^  così  de- 
finisce la  questione:  «  Norma  suprema  de' trovatori  il  segreto:  e  Dante,  nelle 
€  sue  rime  in  vita^  lo  mantenne  devotamente  e  con  tutti  gli  stratagemmi  che 
«  l'arte  e  la  pratica  dei  rimatori  ed  amatori  di  Provenza  gli  consigliava  o 
«  suggeriva.  Non  confidare  l'amor  suo  che  a  un  amico  soltanto  :  e  Dante  il 
«  nome  vero  della  donna  sua,  monna  Bice^  non  lo  rivelò  che  in  un  sonetto, 
«  che  doveva  rimaner  certamente  intimo,  destinato  a  quel  Guido,  che  nella 
€  Y.  N.  è  ripetutamente  dichiarato  primo  degli  amici  suoi.  Questi  era  il 
€secretario  di  Dante;  come,  viceversa.  Dante  mostra  d'esserlo  stato  di  lui, 
«  perchè  sa  che  Primavera  è  il  senhal  di  Giovanna  o  monna  Vanna  ^1. 

Luigi  Savorini.  —  La  leggenda  di  Griselda  —  Teramo,  1901  [Estr.  dalla 
Rivista  abruzzese.  Questo  Giornale  si  occupò  già  parecchi  anni  sono  di  un 
lavoro  del  dr.  Federico  von  Westenholz  intorno  a  questo  stesso  argomento 
(11,  263-5).  Al  S.  è  parso  non  senza  ragione  che  la  parte  più  importante 
del  tema,  e  precisamente  quella  che  riguarda  lo  svolgersi  della  leggenda 
nella  letteratura  italiana  antica,  fosse  ancora  quasi  intieramente  da  studiarsi 
e  si  accinse  ad  un  lavoro  di  vasta  tela,  di  cui  il  presente  opuscolo  non  è 
che  un  saggio.  Dopo  una  breve  introduzione  nella  quale  rende  conto  degli 
studii  precedenti,  il  S.  rintracciando  l'origine  prima  della  leggenda,  accenna 
ai  cronisti  del  '400  e  del  '500,  che  ammisero  in  essa  un  fondamento  storico, 
ed  ai  vecchi  critici  francesi,  che  vollero  nella  loro  letteratura  scoprire  le 
fonti  letterarie  del  racconto  boccaccesco.  Ma  la  ricerca  deve  essere  ricon- 
dotta sul  terreno  delle  tradizioni  popolari  e  novellistiche  ed  il  S.,  messa  da 
parte  (con  non  troppo  forti  argomenti,  a  parer  nostro)  l'opinione  del  Wes- 
selofski  che  include  la  leggenda  di  Griselda  nel  ciclo  così  detto  della  donna 
perseguitata^  respinta  l'ipotesi  poco  fondata  del  Landau,  il  quale  riconnette 
la  leggenda  con  una  novellina  ebraica  che  con  essa  presenta  assai  deboli 
analogie,  scartata  ancora  la  cervellotica  idea  del  Biedermann,  il  qjale  nelle 
tristi  avventure  di  Griselda  non  vede  una  creazione  spontanea  della  fantasia 
popolare,  ma  un'  invenzione  di  sacerdoti  diretta  a  fine  di  moralizzare,  ribatte 
pure  le  interpretazioni  mitiche  della  leggenda  date  dal  Michelet,  dal  Tribolati 
e  dal  De  Gubernatis,  nega  ogni  derivazione  dalla  novellistica  indiana  e  solo 
ammette  qualche  relazione  colla  leggenda  del  Lai  du  Fraisne  di  Maria  di 
Francia.  Da  qualunque  parte  sia  venuto  il  nucleo  primitivo  della  leggenda, 
all'A.  preme  di  constatare  che  tra  noi  nel  medio  evo  essa  prese  colorito  feu- 
dale e  si  accordò  perfettamente  coU'indole  ed  i  sentimenti  del  tempo  sì  da 
parere  da  essi  determinata.  Dopo  essersi  mostrato  avverso  ad  ammettere  una 
derivazione  orientale  della  leggenda,  non  sappiamo  perchè  l'A.  dedichi  il 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  223 

cap.  Ili  a  riscontri,  non  inutili  certamente,  tra  la  novella  boccaccesca  e  due 
leggende,  neerlandese  Tuna,  fatta  conoscere  or' è  poco,  e  brettone  l'altra,  tra- 
mandataci da  Cristiano  di  Troies,  per  concludere  che  esse  senza  avere  legame 
di  sorta  colla  storia  di  Griselda  <c  hanno  con  quella  delle  intime  rispondenze 
«  ideali  ».  Il  IV  cap.  è  dedicato  ad  un  rapido  esame  della  novella  boccaccesca; 
in  essa  il  S.  nota  «  la  particolare  tendenza  del  certaldese  a  giustificare  la 
«  strana  condotta  di  Gualtieri  e  quella  della  sua  consorte  »  ;  difende  il  Boccaccio 
dall'accusa  mossagli  dal  Westenholz  di  non  avere  conservato  a  Gualtieri  nel 
corso  della  novella  un  carattere  uniforme  e  chiude  con  una  rapida  rassegna 
dei  vari  giudizi  dei  critici  sul  carattere  di  Griselda  e  sulle  ragioni  della 
fortuna  della  leggenda.  L'ultimo  capitolo  contiene  un  esame  della  tradizione 
quale  è  esposta  nella  versione,  o  meglio  nel  rifacimento,  del  racconto  boccac- 
cesco datoci  dal  Petrarca.  Lo  studio  del  Savorini,  ci  duole  dirlo,  merita  forse 
più  lode  per  la  forma  elegante  per  quanto  verbosa,  che  per  la  novità  di  os- 
servazione o  di  indagine  o,  peggio  ancora,  per  l'ordine  ed  il  collegamento 
delle  parti;  attendiamo  tuttavia  per  più  sicuro  giudizio  il  lavoro  intiero. 
Qualche  svista  intanto  può  essere  indicata;  ad  es.  a  pag.  29  invece  di  età 
di  sette  anni  crediamo  si  debba  leggere  diciasette;  a  pag.  59,  n.  leggesi 
Carlo  Nigra  per  Costantino,  ecc.]. 

Marco  Vattasso.  —  Aneddoti  in  dialetto  romanesco  del  sec.  XIV  (ratti 
dal  cod.  Vatic.  7654.  —  Roma,  tip.  Vaticana,  1901  [È  la  disp.  4»  di  quella 
raccolta  di  Studi  e  testi,  edita  a  cura  della  biblioteca  e  degli  archivi  del 
Vaticano,  di  cui  già  fu  discorso  nel  Giorn.,  36,  448.  Il  Vattasso,  dopo  ac- 
curate ricerche,  è  venuto  nella  conclusione  che  il  ms.  Vatic.  7654,  membra- 
naceo di  scrittura  semigotica,  contiene  testi  quasi  tutti  inediti.  L'esservi 
trascritta  la  notissima  Passione  del  Cicerchia,  induce  l'editore  a  stabilire 
che  il  codice  è  posteriore  al  1374;  ma  ci  sembra  manifesto  che  pei  caratteri 
paleografici  (si  veda  il  buon  facsimile  che  è  in  fine)  non  si  possa  ritenerlo 
di  molto  posteriore  a  quell'anno,  certamente,  non  varchi  il  sec.  XIV.  Fra  i 
testi  ch'esso  contiene,  e  che  il  V.  con  scrupolosa  diligenza  riproduce,  due 
hanno  importanza  veramente  grande.  Sono  le  laudi  drammatiche  della  nati- 
vità e  della  decollazione  di  san  Giovanni  Battista,  in  dialetto  romanesco  me- 
scolato di  qualche  elemento  toscano.  Questi  due  componimenti  si  vengono 
ad  aggiungere  ai  parecchi  che  già  si  conoscono  d'altre  regioni  d'Italia,  e 
sono  nuova  e  preziosa  contribuzione  alla  storia  delle  origini  del  dramma 
sacro  fra  noi,  perchè  appartengono  alla  metà  circa  del  trecento.  Nella  sobria 
e  nitida  introduzione  il  V.  considera  di  quei  componimenti  il  metro,  la  lingua 
ed  il  contenuto.  Non  essendo  glottologo,  non  insiste  molto  sulle  particolarità 
idiomatiche,  ma  ne  tiene  pur  conto  nelle  sue  noterelle  e  nel  glossario  che 
chiude  l'opuscolo.  Per  quel  ch'è  del  contenuto,  stabilisce  raffronti  con  le  altre 
rappresentazioni  del  Battista  che  si  hanno  in  Italia.  La  forma  metrica  nota 
giustamente  che  è  quasi  tradizionale  nelle  antiche  laudi  drammatiche:  strofe 
liriche  di  otto  versi,  in  cui  s'intrecciano  endecasillabi  e  settenari  in  questa 
guisa:  aBaBbCcD.  La  rima  D  è  proseguita,  nel  primo  esemplare,  per  tutto 
il  componimento  sino  alla  fine,  ove  Zaccaria  intona  una  lauda  lirica  sul  me- 
desimo metro,  ma  con  altra  uscita  finale.  Con  minore  conseguenza  è  prose- 
guita la  rima  finale  nella  seconda  rappresentazione.  —  Notevoli  sono  pure 


224  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

gli  altri  componimenti  del  codice,  che  per  la  prima  volta  compaiono  nell'o- 
puscolo del  V.  Sono  una  leggenda  di  S.  Cristoforo  in  ottave  e  due  laudi 
sulla  fine  del  mondo.  Fonte  diretta  del  poemetto  su  S.  Cristoforo  suppone  il 
V.  sia  Jacopo  da  Varazze  (1).  Rispetto  alle  due  laudi  sulla  fine  del  mondo, 
recanti  entrambe  una  distinta  dei  famosi  segni^  il  V.  difetta  alquanto  d'in- 
formazione. Sarebbe  stato  utile  che  egli  si  rifacesse  per  riscontri  agli  studi 
speciali  su  quel  soggetto  leggendario  della  signora  Michaelis  e  di  G.  Nòlle  (2). 
11  Novati,  che  a  quei  due  lavori  ricorse,  promise  già  formalmente  nel  1885 
di  occuparsi  dei  testi  italiani  riguardanti  i  segni  del  giudizio,  tema  sinora 
non  trattato  da  alcuno.  Doveva  questo  studio  formare,  coi  testi  relativi,  una 
appendice  alla  monografia  del  Novati  L' Anticerherus  di  fra  Bongiovanni 
da  Cavriana,  che  vide  la  prima  volta  la  luce  nell'unico  fascic.  uscito  della 
Rivista  storica  mantovana  e  poi  fu  riprodotta  nella  Miscellanea  francescana; 
ma  in  realtà  la  promessa  rimase  finora  inadempita  (3)]. 

Henri  Hauvette.  —  Recherches  sur  le  «  De  oasibus  virorum  illustrium  ». 
—  Paris,  Alcan,  1901  [Estratto  dal  volume  miscellaneo  di  scritti  di  storia, 
di  critica  letteraria  e  di  filosofia  Entre  camarades  ,  pubblicato  da  antichi 
alunni  della  Facoltà  di  lettere  di  Parigi.  Come  fu  quasi  dimostrato  per  la 
Vita  di  Dante  (cfr.  Giorn.^  34,  423),  crede  l'H.  che  altre  opere  della  virilità 
del  Boccaccio  siano  state  da  lui  redatte  in  più  forme.  Ciò  apparirà  meglio 
allorché  0.  Hecker  farà  conoscere  i  risultati  de' suoi  studi  e  delle  sue  sco- 
perte sulle  ecloghe  e  sul  De  genealogiis  deorum.  Qui  frattanto  l'H.,  con  la 
sua  ben  nota  competenza  e  accuratezza,  esamina  vari  codici  del  De  casibus 
e  mostra  ch'essi  si  dividono  in  due  famiglie  ben  distinte,  di  cui  l'una  pre- 
senta una  redazione  più  breve  e  l'altra  un  testo  più  ampio  e  rimaneggiato. 
Entrambe  le  redazioni  sono  diffuse  nei  testi  a  penna,  entrambe  appartengono 
al  Boccaccio  medesimo.  L'H.,  sciogliendo  alcuni  dubbi  provenienti  dalla  de- 
dicatoria a  Mainardo  Cavalcanti,  stabilisce  che  la  prima  redazione  fu  stesa 
tra  il  1356  ed  il  1359,  e  pubblicata  alla  fine  del  1363,  mentre  la  seconda  è 
di  parecchio  più  tarda]. 

C.  Augusto  Riccio.  —  Gregorio  Correr.  Ricerche  sopra  la  sua  vita  e  le 
sue  opere.  —  Pistoia,  1  ito -tipografia  G.  Fiori,  1900  [Ciò  che  di  più  notevole 
e  di  men  trito  contiene  questo  opuscolo  è  l'esame  degli  Apologi  del  Correr 
(pp.  47-53),  esame  che  però  avremmo  desiderato  esso  stesso  meno  superfi- 
ciale e  inadeguato  alle  esigenze  degli  studi  odierni.  Delle  fonti  degli  Apo- 


(1)  Secondo  il  Wibsb,  Zur  ChrittophorusUgendé  ,  in  For$chung«n  tur  rom.  Phìlologtt,  edit« 
pel  Snchier,  Halle,  1900,  p.  287,  rimonta  direttamente  alla  Ltgtnda  aurea  anche  il  poemetto 
italiano  da  lai  pubblicato,  non  che  i  tosti  tedesco  e  inglese.  Traduione  letterale  del  Yeraste 
sarebbe  la  Tersione  prosaica  italiana  edita  da  Loigi  Maini  a  Modena  nel  1854. 

(2)  Esiste  pare  una  dissertazione  più  recente,  che  riguarda  nel  loro  complesso  tatte  le  idee 
salPAnticristo  e  salla  fine  del  mondo,  di  E.  WaDsni»,  edita  nella  Uittckrift  fdr  Wii$«n*cha/U. 
Thtotogit  del  1805. 

(3)  Parecchie  indicazioni  so  redaz.  italiane  dei  qaindid  segni  dà  M.  Barbi  a  p.  253  della  Rao 
colta  di  itudS  critici  dedicata  al  D'Ancona,  Firenze,  1901,  e  pubblica  da  aa  ■•.  fiorenttno  an 
poemetto  sa  qael  sogfetto. 


BOLLETTINO  BIBLIOGBAFICO  225 

logi  fantastici  doveva  esser  data  più  esatta  e  particolare  informazione;  dei 
racconti  novellistici  un'  idea  che  meglio  definisse  la  loro  importanza  per  la 
storia  delle  tradizioni  e  del  costume;  né  doveva  esser  trascurato  il  confronto 
colle  altre  raccolte  umanistiche  di  apologhi  e  di  novelle  (Ognibene,  Scala, 
Poggio,  ecc.).  Il  Riccio  ha  avuto  fra  mano  i  codici  veneti  del  suo  autore,  e 
del  Marciano  si  vale  appunto  nello  studiare  gli  Apologi;  ma  da  quelle  fonti 
egli  non  ha  saputo  trarre  profitto,  né  pare  che  altre  ricerche  abbia  tentate, 
così  che  il  suo  opuscolo  non  offre  nulla  di  nuovo  oltre  a  ciò  che  intorno  al 
Correr  e  a'  suoi  scritti  già  si  sapeva  grazie  all'Agostini  e  al  Gloetta.  Del 
giudizio,  sempre  degno  di  considerazione,  del  Voigt,  non  vi  si  tien  conto; 
non  è  citato,  né  messo  a  profitto  l'articolo  del  Reumont  intorno  al  Correr 
e  specialmente  al  suo  inno  a  Martino  V,  articolo  pubblicato  dapprima  nei 
Beitrdge  zitr  ital.  Geschichte,  IV,  297  sgg.  e  di  nuovo,  tradotto  e  ritoccato, 
nei  Saggi  di  storia  e  letteratura,  Firenze,  1880,  p.  236  sgg.  Alla  poca  o  punta 
novità  della  contenenza  non. supplisce  in  verun  modo  bontà  di  elaborazione 
del  vecchio  materiale  o  garbo  di  forma.  S'ha  qui  una  serie  inorganica  di 
appunti  ora  prolissi  ed  ora  eccessivamente  concisi,  che  rivela  non  solo  una 
grande  inesperienza  degli  studi  intorno  all'umanesimo,  ma  anche  un'  assai 
scarsa  familiarità  coi  metodi  delle  ricerche  storiche]. 

Laura  Mattioli.  —  Luigi  Pulci  e  il  Ciriffb  Calvaneo.  —  Padova,  tip. 
Sanavio  e  Pizzati,  1900  [Buona  e  concludente  questa  memoria  ;  come  primo 
lavoro  d'erudizione  e  di  critica,  felice  promessa  di  cose  maggiori.  Abituata 
ad  eccellente  scuola,  la  sig.*  M.  non  divaga,  non  si  perde  nell'infilare  frasi 
leggiadre:  la  sua  trattazione  é  sobria,  serrata,  logica.  Esamina  anzitutto  i 
rapporti  del  Ciriffb  col  Libro  del  Povero  Avveduto,  lungo  romanzo  in  prosa 
del  sec.  XV,  che  giace  ras.  nella  Laurenziana,  e  di  cui  dà  un  sommario 
riassunto  (pp.  57  sgg.).  In  questa  parte,  che  non  è  la  migliore  dell'opuscolo, 
la  M.  esprime  un'  idea  intermedia  tra  quella  del  Quadrio,  che  riteneva  non 
esser  altro  il  Griffo  se  non  un  rifacimento  del  romanzo  della  Laurenziana, 
e  quella  dell'Audin,  che  ne  sosteneva  l'assoluta  originalità.  Poscia  la  M. 
procede  all'esame  interno  del  Calvaneo  e  ne  fa  specialmente  spiccare  la  co- 
micità ed  il  realismo  della  rappresentazione,  il  brio  dello  stile,  la  spigliatezza 
del  verso.  Qualità  codeste  che  non  appartenevano  certamente  a  Luca  Pulci 
(a  cui  il  Ciriffo  si  assegna  dalle  antiche  stampe),  se  dobbiamo  argomentare 
dagli  scritti  che  sono  veramente  suoi,  il  Driadeo  e  le  Epistole,  ove  la  ver- 
seggiatura e  la  dizione  appaiono  goffe,  fiacche,  pesanti.  E  se  a  ciò  si  aggiunga 
l'osservazione  fatta  giustamente  valere  dalla  M.  delle  molte  analogie  di  con- 
cetto, di  maniera,  di  stile,  d'espressione,  di  verso,  che  intercedono  tra  il  Ci- 
riffo ed  il  Margarite,  ne  nasce  spontanea  la  conclusione  che  con  ogni  pro- 
babilità il  Calvaneo  sia  quasi  tutto  dovuto  alla  penna  di  Luigi  Pulci.  La 
M.  cosi  si  rappresenta  la  storia  del  poemetto:  Luca  Pulci,  negli  ultimi  tempi 
della  vita  sua,  mantenendo  una  promessa  già  fatta  nel  Driadeo,  mette  mano 
al  Ciriffo,  ma  ben  presto,  spaventato  dall'impresa  ardua  o  stornato  dalle 
sciagure  sopravvenute,  lo  interrompe.  Aveva  scritto  poco  più  del  primo  canto, 
quando  la  morte  lo  colse,  e  la  didascalia  iniziale  di  quel  primo  canto  diede 
a  credere  agli  editori  che  suo  fosse  tutto  il  poemetto.  Ma  in  realtà  il  fra- 
tello Luigi,  attratto  dalla  materia  cavalleresca,  ritoccò  la  piccola  parte  già 

Giornale  storico,  XXXVIII,  fa-^c.  112-113.  15 


226  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

scritta  e  compose  il  rimanente  (1).  L'opera,  quindi,  appartiene  quasi  intera 
al  festevole  e  arguto  autore  del  Margarite.  Con  questa  dimostrazione  a  noi 
sembra  che  la  sig.*  Mattioli  abbia  fatto  progredire  assai  bene  la  risoluzione 
d'un  quesito,  da  cui  furono  più  volte  occupati  gli  storici  della  nostra  poesia 
del  rinascimento.  Concludenti,  in  ispecie,  ci  sembrano  i  suoi  raffronti  stili- 
stici. E  da  questa  disamina  guadagna  anche  probabilità  nuova  l'opinione, 
ormai  consentita  dai  più  (cfr.  Giorn.,  35,  152),  che  anche  le  Stanze  per  la 
giostra  di  Lorenzo  de'  Medici  provengano  da  Luigi,  tante  sono  le  coinci- 
denze formali  che  la  M.  trova  (pp.  49-51)  tra  quelle  Stanze  e  il  Morgante"]. 

Giuseppe  Pardi.  —  Titoli  dottorali  conferiti  dallo  Studio  di  Ferrara  nei 
sec.  XY  e  XVI.  —  Lucca,  tip.  Marchi,  1901  [Agli  scritti  recenti  sulle  antiche 
università  italiane  rammentati  dal  prof.  Manacorda  in  una  recensione  del 
presente  fascicolo,  vuoisi  aggiungere  il  contributo  ora  arrecato  dal  Pardi. 
Con  pazienza  di  benedettino,  egli  ha  ricavato  dagli  atti  notarili  una  serie 
ingente  di  nomi  d'addottorati  e  di  licenziati  nello  Studio  di  Ferrara,  tenendo 
conto,  altresì,  delle  date  precise  delle  lauree,  della  patria  dei  neodottori,  delle 
università  da  essi  frequentate,  della  facoltà  in  cui  ottennero  il  titolo  dotto- 
rale, dei  promotori  della  laurea  e  dei  testimoni  più  notevoli.  La  raccolta  è 
d'importanza  non  esigua  per  quella  ricerca  storica  sul  nostro  antico  e  glo- 
rioso insegnamento  superiore,  che  è  già  così  bene  avviata,  ed  è  lodevolissimo 
il  P.  che  volle  con  tanta  abnegazione  sobbarcarsi  ad  uno  spoglio  così  faticoso 
ed  arido.  La  disposizione  strettamente  cronologica  in  tavole  sinottiche  rende 
agevole  la  ricerca.  E  fa  meraviglia,  scorrendo  questi  elenchi,  l'osservare  il 
gran  numero  di  laureati  stranieri,  segnatamente  tedeschi  e  fiamminghi,  che 
vi  figurano,  indizio  sicurissimo  della  fama  goduta  dallo  Studio  di  Ferrara. 
Inoltre,  mancandoci  quasi  interamente  i  rotuli  degli  insegnanti  in  quello 
Studio  durante  il  quattrocento,  possono  i  nomi  dei  promotori  giovare  assai 
a  stabilire  i  periodi  in  cui  maestri  celebrati  ebbero  ad  insegnarvi.  Sarebbe 
stato  solamente  desiderabile  che  il  P.  compisse  questa  sua  fatica  con  un 
doppio  indice  finale,  dei  laureati  e  dei  promotori.  È  ben  vero  ch'egli  avverte 
(p.  8  n.)  di  voler  mettere  insieme  fra  qualche  anno  un  indice  biografico  dei 
laureati  in  Ferrara,  dando  su  di  essi  quante  maggiori  notizie  gli  accadrà  di 
raccogliere.  Ma  in  attesa  di  questo  lavoro,  si  sarebbe  per  ora  rimasti  paghi 
d'un  indice  dei  nudi  nomi,  che  poteva  prestarsi  utilmente  alla  ricerca  storica 
e  letteraria].^ 

Gustavo  Caponi.  —  Di  Alessandro  Pazzi  de'  Medici  e  delle  sue  tragedie 
metriche.  —  Prato,  tip.  Giachetti,  1901  [È  noto  che  nella  poco  rimpianta 
Scelta  di  curiosità  letterarie,  disp.  224,  A.  Solerti  pubblicò  nel  1888  due 
delle  tragedie  metriche  di  Alessandro  de'  Medici,  tratte  da  un  ms.  della  Ma- 
gliabechiana.  Parlando  di  quella  fatica  giovanile  dell'amico  e  cooperatore 
nostro,  non  mancammo  di  accennarne  anche  i  difetti  (Giorn.,  11,  274).  Il 
Caponi,  che  oggi  prende  ad  occuparsene  in  uno  speciale  opuscolo,  propone 
una  sene  di  correzioni  e  di  aggiunte  ali'ediz.  bolognese.  Di  ciò  gli  si  deve 


(1)  Quest'opinione  en  g^ià  bìaìa  accennai*  da  V.  Rotei,  Il  Q%tattrocmU>,  p.  310;  ma  alla  M. 
spetta  il  merito  d'arerla  corredata  di  prore  soddisfacenti. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  227 

saper  grado,  tanto  più  ch'egli  lo  fa  senz'ombra  di  petulanza;  anzi  la  modestia 
ch'egli  v'usa  rende  accette  anche  alcune  rettificazioni  veramente  tenui.  La 
parte  più  notevole  del  presente  opuscolo  è  quella  dedicata  a  chiarire  la  ver- 
seggiatura delle  tragedie,  perchè  in  realtà  è  alla  verseggiatura  appunto  che 
si  'deve  ascrivere  l'interesse  ch'esse  hanno.  A  differenza  da  quel  che  pensa 
il  Solerti,  mostra  il  G.  che  con  ogni  probabilità  il  Pazzi  pose  a  base  della 
sua  imitazione  del  trimetro  giambico  greco-latino  l'accento  ritmico,  come 
fece  l'Alamanni  nella  Flora.  Con  questo  procedimento  egli  veniva  ad  evitare 
la  soverchia  sonorità  dell'endecasillabo  sdrucciolo  e  si  accostava  alla  maniera 
di  costruzione  dei  versi  imitanti  metri  giambici  usata  dai  recenti  cultori  di 
poesia  barbara.  Se  questa  dimostrazione  coglie  davvero  nel  segno,  gli  stu- 
diosi degli  antecedenti  della  poesia  barbara  hanno  ragione  di  tenerne  buon 
conto]. 

Igino  Benvenuto  Supino.  —  L'arte  di  Benvenuto  Cellini.  —  Firenze,  Ali- 
nari,  1901  [Quest'opuscolo,  ornato  di  finissime  riproduzioni,  sebbene  sia  ve- 
nuto fuori  nell'occasione  che  si  celebrava  il  quarto  centenario  celliniano, 
non  ha  il  carattere  apologetico  degli  studi  che  sogliono  uscire  in  simili  con- 
giunture. Tutt'  altro  !  E  un  lavoro  di  seria  indagine  artistica ,  che  riesce  a 
sminuire,  anziché  ad  accrescere  l'importanza  del  Cellini.  Ma  la  verità  deve 
andare  innanzi  a  tutto,  e  noi  che  abbiamo  sempre  propugnato,  nelle  ricerche 
letterarie,  il  metodo  che  qui  il  S.  segue  nelle  indagini  di  storia  dell'arte, 
siamo  pronti  a  far  buon  viso  alle  sue  conclusioni,  che  ci  sembrano  piena- 
mente giustificate.  Né  questo  studio  è  punto  estraneo  alla  storia  letteraria, 
perchè  esso  mira  a  far  vedere  che  nell'apprezzamento  generale  del  Cellini 
artista  ebbe  parte  grande,  superiore  ad  ogni  ragionevolezza,  il  fascino  eser- 
citato dal  Cellini  scrittore.  Cosi  dell'opera  sua  scultoria  sono  qui  mostrate 
acconciamente  le  deficienze,  che  non  sono  piccole,  perché  in  essa  (persino 
nei  lavori  più  celebrali,  come  la  Ninfa  del  Louvre  ed  il  Perseo)  prevalgono 
le  qualità  dell'orefice  su  quelle  del  grande  modellatore  plastico.  La  critica, 
in  ispecie,  che  il  S.  fa  del  Perseo  ci  sembra  indovinatissima,  come  ci  pare 
evidente  che  all'ammirazione  del  pubblico  per  quel  lavoro  abbia  massima- 
mente contribuito  la  descrizione,  nella  rozza  spontaneità  sua  potente,  delle 
ansie  e  dei  travagli  che  l'artefice  ebbe  a  sopportare  nello  eseguirla.  Impor, 
tante  è  ancor  più  lo  studio  che  il  S.  fa  del  Cellini  orefice,  di  cui  certamente 
non  nega  il  grande  valore,  ma  collocandolo  nel  suo  ambiente  artistico,  po- 
nendo mente  allo  sviluppo  dell'oreficeria  nel  secolo  XVI,  nega  ch'egli  facesse 
vera  opera  di  novatore.  Con  molti  e  interessanti  documenti  nuovi  rappresenta 
qui  il  S.  la  condizione  dell'oreficeria  toscana  in  quel  tempo,  su  cui  le  forme 
decorative  dell'arte  lombarda  e  germanica  avevano  esuberantemente  influito. 
«  L'arte,  egli  dice,  di  Benvenuto  Cellini  nell'oreficeria  dovette  rappresentare 
<  il  felice  innesto  nella  tradizionale  maniera  toscana  delle  forme  più  ricche 
«  dell'arte  lombarda,  di  quell'arte,  cioè,  che  sotto  l'influsso  della  scuola  pa- 
«  dovana  e  dell'arte  tedesca,  esagerò  il  senso  della  decorazione  plastica  ». 
Perfezionatore,  dunque,  e  finissimo  lavoratore;  non,  come  G.  Milanesi  ed  il 
Plon  sostennero,  innovatore.  E  gli  argomenti  e  i  dati  di  fatto  a  cui  il  S. 
appoggia  la  sua  dimostrazione  sono,  a  parer  nostro,  validissimi.  Innegabil- 
mente, un  po'  della  megalomania  del  Cellini,  che  è  una  delle  caratteristiche 


228  BOLLETONO  BIBLIOGRAFICO 

di  quel  suo  bizzarrissimo  spirito,  s'apprese  anche  agli  storici  dell'arte,  che 
considerandolo,  come  egli  stesso  nella  Vita  si  dipinge,  circondato  solo  da 
invidiosi  tanto  inferiori  a  lui,  continuamente  insidiato  dalle  loro  trame  e 
amareggiato  dai  torti  che  gli  facevano  i  potenti,  finirono  col  perdere  la 
giusta  coscienza  del  suo  valore,  col  considerarlo  isolato,  col  non  dare  suffi- 
ciente attenzione  a  quello  che,  nel  campo  dell'arte,  gli  fioriva  d'intorno.  La 
monografia  del  S.  rimette  le  cose  a  posto  e  non  mancherà  di  riuscire  utile 
a  quello  studio  interno  della  Vita,  a  cui  aperse  egregiamente  la  via  Tedizione 
del  BacciJ. 

Giuseppe  Pardi.  —  La  moglie  delV Ariosto.  —  Ferrara,  tip.  Zuffi,  1901 
[Estratto  dagli  Atti  della  Deputazione  ferrarese  di  storia  patria.  Di  Ales- 
sandra Benucci,  che  fu  l'amante  e  poscia  la  moglie  di  Ludovico  Ariosto,  ben 
poco  si  sapeva  sinora.  Il  prof.  Pardi  nel  suo  diligente  lavoretto  si  giova  per 
illustrarne  la  figura  dei  versi  del  poeta  e  dei  documenti  rintracciati  nell'ar- 
chivio notarile  di  Ferrara.  Egli  sa,  quindi,  dirci  che  la  Benucci,  sebbene  di 
famiglia  fiorentina,  nacque  a  Barletta.  11  primo  marito  suo,  ch'essa  amò  di 
caldissimo  affetto,  vivendo  secolui  dieci  anni  ed  avendone  cinque  figliuoli, 
era  Tito  di  Leonardo  Strozzi,  diversa  persona  da  quel  Tito  di  Giovanni 
Strozzi,  poeta  latino  e  padre  di  Ercole,  con  cui  fu  spesso  confuso.  Morto  lo 
Strozzi,  s'invaghì  della  bellissima  vedova  mesaer  Ludovico  e,  riamato  da  lei, 
ne  ottenne  dopo  molte  ripulse  i  favori.  Più  tardi,  probabilmente  durante  il 
governo  della  Garfagnana,  seguì  tra  i  due  un  matrimonio  tenuto  clandestino, 
perchè  l'Ariosto  non  volea  perdere  i  benefici  ecclesiastici  di  cui  godeva,  né 
la  Benucci  la  tutela  de'  figliuoli.  La  donna  sopravvisse  al  secondo  marito 
19  anni,  tutta  dedicandosi  alla  religione  ed  alle  opere  di  pietà.  «  Alessandra 
€  Benucci,  conclude  il  P.,  nata  al  sole  ardente  della  terra  di  Puglia,  educata 
€  forse  nella  gentile  Firenze,  vissuta  in  Ferrara  splendida  e  colta  tra  le  città 
«  italiche,  moglie  in  prime  nozze  di  uno  Strozzi  ed  in  seconde  del  più  grande 
€  poeta  del  tempo  suo,  ebbe  vicende  svariate  ed  avventurose.  Ma,  come  fu 
€  fortunatissima  per  le  doti  concessele  dalla  natura,  la  salda  compagine  delle 
«  membra  e  la  bellezza  e  la  grazia  e  l'intelligenza,  fu  sfortunatissima  per  i 

<  casi  della  vita.  Perdette  ben  presto  il  primo  marito  che  teneramente  amava, 
4  rimanendo  con  cinque  piccoli  fanciulletti  ;  ebbe  forse  più  angosce  che  gioie 

<  dalla  sua  relazione  con  l'Ariosto,  contrastando  in  lei   fieramente  la   voce 

<  dell'amore  e  quella  del  dovere  e  della  religione.  Neanche  quando  ebbe  la 
«  consolazione  di  rendere  legittimo  il  suo  affetto,  potè  andarne  orgogliosa, 
«  ma  dovette  celarlo  quasi  fosse  un  delitto  ;  vide  morire  il  secondo  marito 
€  ed  una  figlia  e  due  figli,  seppe  morto  il  fratello,  mirò  invecchiare  infeconde 

<  e  forse  ammalate  le  due  figlie  rimastele  e  non  potè  vedersi  crescere  sotto 

<  gli  occhi  i  nepotini  tanto  diletti  alle  nonne.  Le  crollò  così  attorno  tutto 
«  l'edificio  della  felicità  sognata,  producendo  un  vuoto  tremendo  nell'animo 
«della  donna.  Abbattutasi  per  lo  sconforto,  si  isterilì  con  pratiche  devote,  e 
€  nella  conversazione  di  religiose  persone,  nelle  preghiere,  nella  frequenza 
«  delle  chiese  e  dei  monasteri  cercò  l'oblio  e  la  pace  ».  In  una  nota  aggiunta 
il  P.  combatte  l'idea  della  sig.»  Diaz  che  la  famigliarità  con  la  Benucci 
agevolasse  al  poeta  quella  cognizione  del  toscano,  per  cui  giunse  a  miglio- 
rare tanto  nella  forma  il  Furioso  (vedi  Giom.,  37,  lft«).  Malgrado  le  osser- 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  229 

vazioni  in  contrario  del  P.,  a  noi  sembra  che  la  congettura  della  Diaz   sia 
grandemente  probabile]. 

Giovanni  Ganevazzi.  —  Papa  Clemente  IX  poeta.  —  Modena,  tip.  For- 
ghieri,  1900  [Se  la  produzione  lirica  e  tragica  di  Giulio  Rospigliosi,  che 
nella  seconda  metà  del  seicento  tenne  il  seggio  pontificio  col  nome  di  Cle- 
mente IX,  non  ha  grande  importanza,  più  ragguardevoli  sono  invece  i  suoi 
melodrammi,  svariati  e  fortunati.  Il  prof.  Ganevazzi,  ricercatili  con  amorosa 
cura  in  diverse  biblioteche,  li  analizza  e  li  studia  in  rapporto  con  le  loro 
fonti.  Questa  è  certamente  opera  utile  e  benemerita,  perchè  la  storia  del 
nostro  melodramma,  se  ne  togli  le  origini  e  la  maggior  fioritura  metasta- 
siana, non  fu  ancora  analiticamente  scrutata,  sicché  gli  studi  monografici 
su  tale  argomento  sono  pur  sempre  benvenuti.  Notevole  è  specialmente  ciò 
che  il  G.  osserva  sui  rapporti  dei  melodrammi  del  Rospigliosi  col  teatro 
spagnuolo  del  Galderon  e  di  Lope  de  Vega  (1).  Se,  peraltro,  questa  parte  del 
libro  merita  ogni  deferenza,  il  G.  avrebbe  potuto  senza  danno  lasciar  da 
banda  il  lungo  esordio,  d'una  quarantina  di  pagine  circa,  in  cui  sono  esposte 
le  vicende  del  melodramma  italiano  e  si  parla  dei  suntuosi  allestimenti  sce- 
nici, onde  soleva  essere  accompagnato.  Quivi  son  dette  molte  cose  ovvie  e 
risapute,  e  per  giunta  sono  dette  poco  bene,  perchè  il  G.  scrive,  anzichenò, 
maluccio  (2);  quivi  sono  affrontati,'  con  una  leggerezza  che  solo  può  essere 
spiegata  con  la  mancanza  di  preparazione,  problemi  ardui  come  quello  della 
ragion  d'essere  dell'opera  in  musica  (pp.  37-38).  In  questa  infarcitura  di 
luoghi  comuni  l'unica  cosa  che  valga  è  la  nozione  di  un  ms.  Gampori  del 
seicento,  che  tratta  della  mise  en  scène  (3)  usata  in  quel  secolo  (pp.  32-33), 
al  quale  ms.  il  G.  si  riferisce  anche  nel  seguito  più  volte.  Il  resto  poteva 
essere  soppresso,  e  cosi  pure  tutto  il  libretto  avrebbe  potuto  essere  ridotto 
di  molto,  sfrondandolo  del  chiacchierio  inutile  che  molestamente  lo  aduggia. 
È  tipica,  a  questo  proposito,  la  mèzza  pagina  che  il  G.  consuma  nel  discor- 
rere di  Pistoia,  patria  del  Rospigliosi,  e  dei  letterati  che  vi  ebbero  i  natali 
(pp.  47-48).  Se  in  seguito  il  G.  sarà  più  sobrio  e  più  corretto,  potrà  fare 
lavori  più  utili,  giacché  l'amore  alla  ricerca  erudita  non  gli  manca  davvero]. 

Ferruccio  Bernini.  —  Storia  degli  «  Animali  parlanti  -»  di  Giovan  Bat- 
tista Casti. —  Bologna,  Zanichelli,  1901  [Poche  parole;  che  intorno  a  un 
simile  lavoro  c'è  poco,  o  ci  sarebbe  troppo  da  dire.  Le  120  paginette  del 
testo  valgono  le  20  àeW appendice  bibliografica,  ch'è  un  monumento  (come 


(1)  L'A.  lo  chiama  sempre  Lopez  de  Vega  (pp.  62,  139,  188  ecc.)  ed  è  errore  frequente  e 
tradizionale  in  Italia,  che  molte  volte  ormai  ci  accadde  di  rettificare. 

(2)  Senza  por  mente  ai  periodi  talora  mal  costrutti,  basta  osservare  le  sue  incertezze  nel  lessico. 
À  p.  39  scrive  coppia  per  copia;  a  p.  43  aspelti  per  spetti;  a  p.  30  «  a  tempo  e  duopo*;  a 
p.  104  «  nel  contempo  »  ;  a  p.  186  leggiamo  «  imbastardire  le  scene  di  stravaganti  invenzioni  », 
e  vi»  dicendo.  In  italiano  non  si  può  né  *  premurare  la  cortesia»  (pp.  9  e  104),  né  essere  «  in- 
«  differente  della  poesia  »  (p.  42),  né  adoperare  il  soggiuntivo  in  questo  modo  «  è  certo  che  il 
«  800  progresso  lo  si  debba  attribuire  »  (p.  12),  sebbene  quest'uso  sia  comunissimo  nel  mezzogiorno 
anche  fra  persone  che  da  lungo  tempo  fan  professione  di  scrivere.  Cerchi  il  C.  di  liberarsi  dagli 
idiotismi  e  procuri  che  l'espressione  gli  riesca  adeguata  al  pensiero. 

(3)  Non  misse  en  scéne,  come  ripetutamente  (pp.  31  e  32)  scrive  l'antore. 


230  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

si  direbbe?)  d'ingenuità.  E  pare  impossibile  che  il  B.  non  s'accorgesse  di 
buttar  via  miseramente  tempo  e,  forse,  denari,  ingrossando  il  volumetto  con 
delle  pagine  che  recano  tanto  superflue  indicazioni  di  storie  e  storiette  let- 
terarie, di  manuali  e  manualetti  scolastici,  di  enciclopedie  e  di  dizionari 
biografici,  a  tutti  ben  noti,  mentre  trascurava,  tra  l'altro,  di  registrare  le 
lettere  del  Casti,  che  sparsamente  furono  fin  qui  pubblicate;  e  come  trascu- 
rava di  registrarle  nell'appendice,  così  trascurò  di  valersene  nella  trattazione. 
Inoltre  è  troppo  evidente  che  nemmen  tutti  i  libri  comunissimi  che  cita 
passarono  sotto  i  suoi  occhi;  perchè,  in  cambio  del  recente  Settecento  del 
Goncari,  non  registrato,  volle  notare  la  Geschichte  der  Italianischen  (sic) 
Litteratur  in  (sic)  achtzehnten  Jahrhundert,  d'un  certo  M.  London  (in  gras- 
setto nerissimo),  e  la  Geschichte  der  italianischen  (e  dalli  !)  Litteratur  von 
den  altesten  (sic,  sic)  bis  zur  Gagenvoart  (sic)  di  certi  signori  Wiere  und 
Pircopo^  COSI  conciati  nel  medesimo  grassetto!  La  trattazione  è  vuota,  super- 
ficiale, slombata  ;  degli  Animali  parlanti,  di  cui  cotesto  volumetto  vorrebbe 
essere  la  Storia,  il  B.  non  ci  diede  che  una  mediocre  esposizione  analitica 
contornata  da'  «  giudizi  critici  degli  storici  della  nostra  letteratura  »  eul  poema 
castiano,  e  da  una  vieta  rassegna  dei  «  pregi  e  difetti  »  di  esso.  Particolari 
storici  importanti  e  nuovi,  giudizi  originali,  raffronti  utili,  osservazioni  e  no- 
tizie insomma  che  illuminino  la  storia  esterna  o  l'intima  natura  dell'opera, 
è  vano  cercarne.  Chiacchiere  inconsìstenti,  e  di  molte;  roba  su  quest'andare: 
«  Quando  io  lessi  la  prima  volta  gli  Animali  parlanti  ne  ricevei  un'  im- 
€  pressione  cosi  cattiva,  che  mi  domandai  come  mai  i  governi  di  allora  aves- 
«  sero  permesso  la  stampa  di  un  poema  che  tanto  poteva  svegliare  il  pub- 

<  blico  zelo  per  i  liberi  sentimenti  espressivi.  Ma,  quando  volli  riandare  lo 
€  Stesso  poema  e  lo  rilessi  colla  massima  attenzione  e  cura,  esclamai  mutando 
«  di  giudizio:  perchè  mai  il  governo  di  Napoli  proibì  che  ne  fosse  vulgata 
€  la  stampa? Quel  poema  »  (e  questa  sarebbe  la  buona  impressione)  «  non 

<  poteva  far  né  bene  né  male;  nel  quale  è  un'anarchia  di  idee,  che  lascia 
«  il  tempo  che  trova  e  vi  assicuro  che  con  quei  versi  non  si  sarebbe  fatta 
eia  rivoluzione!  Di  cui  il  poeta  parodia  tutte  le  fasi  più  orride,  la  fiamma, 
«  per  così  dire,  della  rivoluzione  e  non  la  scintilla  rigeneratrice  e  immortale 
€  che  da  questa  fiamma  uscì  ».  Così  pensa  e  scrive  il  B.  sempre;  ma  peggio 
che  mai  forse  in  quelle  molte  pagine  preliminari  dove  sostiene  che  il  Casti 
non  fu  poi  così  corrotto  e  sudicio  come  tanti  dissero,  «  se  illustri  letterati 
€  francesi  e  italiani  ragguardevoli  per  alte  cariche  e  dignità  civili  a  Parigi 
«  seguitarono  il  feretro  di  lui  al  cimitero  del  Padre  Lachaise  »  (p.  15).  Pel 
Casti  egli  ha  una  grande  indulgenza;  secondo  lui  «ebbe  spirito,  prontezza 

<  di  parola  e  facilità  di  verso  come  nessuno  altro  mai  >  (p.  16),  «  fu  buffone 
«  di  Corte:  ma  era  di  moda  »  (p.  17);  «  mostrò  carattere  magnanimo  »  (ivi); 
€  a  intervalli  felicissimi  fu  anche  patriotla  »  (ivi)  e  se  scrisse  qualche  scon- 
cezza, lo  assolve  l'esempio  del  Parini,  che  osò  scrivere  la  «  famosa  ode  »  Per 
nozze;  e  il  B.  la  riproduce  (pp.  21-23)  per  esteso,  facendola  seguire  da  con- 
aiderazioni  giuste  e  garbate  così  :  «  Questa  è  la  famosa  ode  dì  Giuseppe  Pa- 
€  rini, che  per  giunta  era  un  prete!  In  questa  poesia  guardate  alla  contenenza: 

<  l'idea  delle  nozze  e  delle  donne  sono  (sic)  solamente  della  luna  di  miele  ed 
«  è  un  prete  che  canta  con  invidia  ed  avidità Vedete  dunque  a   che  era 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  231 

4.  ridotta  quella  società  !  Non  nego  che  sia  nella  natura  umana  godere  della 
-«  bellezza  e  credo  che  sia  un  bellissimo  spettacolo  una  sposa   giovane:  ma 

«  per  tutto  questo  non  importa  fare  della  ppesia  »  (p.  24).  E  per  tutto  questo, 
aggiungiamo  noi,  non  importa  fare  della  critica]- 

Dino  Provenzal.  —  Una  polemica  diabolica  nel  secolo  XV HI.  —  Rocca, 

5.  Casciano,  Capelli,  1901  [La  polemica  diabolica,  di  cui  il  P.  ritesse  dili- 
gentemente la  storia,  dando  notizia  de'  vari  libri  ed  opuscoli  che  la  tennero 
accesa  per  oltre  un  quinquennio,  è  quella  suscitata  dal  roveretano  Girolamo 
Tartarotti,  col  noto  suo  libro  Bel  congresso  notturno  delle  lammie  (1749), 
pieno  d'erudizione  e  d'acume,  ma  coraggioso  e  sensato  solo  a  metà.  Perchè 
il  Tartarotti,  dimostrando  assurda  la  credenza  nelle  streghe,  ed  iniqui  i  pro- 
cessi per  stregoneria,  che  in  Baviera  e  in  Tirolo,  specialmente,  erano  ancora 
frequenti,  distingueva  le  streghe  dai  maghi,  e  all'esistenza  di  questi  e  ai 
malefici  prodigi  dei  loro  incanti  prestava  fede.  Vi  fu  chi  non  volle  rasse- 
gnarsi a  lasciar  seppellire  definitivamente  da  quel  libro  l'aberrazione,  contro 
la  quale  il  Tartarotti  insorgeva  quand'essa  era  già  sbandita  dalla  coscienza 
dell'Europa  illuminata.  Contro  coloro  che  ancora  la  difendevano,  gente  oscura, 
gente  d'altri  tempi,  attardatasi  nel  secolo  XVIIl,  non  poteva  essere  lunga  e 
diflBcile  la  guerra.  Più  arduo  invece  era  il  far  contrasto  a  coloro,  che  oltre- 
passando in  coraggio  e  in  buon  senso  il  Tartarotti,  batterono  in  breccia  l'arte 
magica,  alla  quale  egli  ostinavasi  a  prestar  fede.  L'arte  magica  fu,  come 
tutti  sanno,  svelata  e  poi  distrutta  e  finalmente  annichilata  da  Scipione 
Maffei,  che  tre  volte  tornò  all'assalto  di  quella  impostura  sul  declinare  della 
sua  verde  vecchiezza  —  e  la  guerra  che,  a  proposito  della  magia,  s'accese 
tra  il  roveretano  e  l'illustre  veronese,  guerra  scoperta  o  coperta,  leale  o 
sleale,  non  poteva  essere  con  più  ricchezza  di  particolari  narrata;  poiché  il 
P.,  oltre  a  valersi  di  varie  scritture  a  stampa,  non  tutte  oggi  comuni,  trasse 
partito  anche  dal  carteggio  inedito  del  Tartarotti  col  conte  Ottolino  Ottolini 
che  conservasi  nella  Bibl.  Capitolare  di  Verona.  L'opuscolo  del  P.,  inte- 
ressante pel  soggetto  che  tratta,  è  pure  interessante  per  varie  notizie  bio- 
bibliografiche sul  Tartarotti,  le  quali  potranno  servire  a  chi  volesse  studiare 
completamente  la  figura  e  l'opera  di  cotesto  scrittore  settecentista;  ed  al 
volonteroso  che  s'addossasse  tale  impresa,  l'A.  promette  generosamente  di 
fornire  i  materiali  da  lui  raccolti  a  Trento  e  a  Rovereto.  Generosità  lette- 
raria d'altri  tempi,  che  farà  meraviglia  e  merita  lode]. 

Edoardo  Calvo.  —  Poesie  piemontesi,  edizione  centenaria  definitiva  a 
cura  di  L.  De  Mauri.  —  Torino,  Libreria  antiquaria  patristica,  1901  [Se  il 
titolo  pretensioso  dà  il  diritto  di  essere  esigenti  riguardo  al  valore  di  questa 
nuova  edizione,  un  esame  superficiale  di  essa  permette  di  affermare  che  il 
lavoro  fu  condotto  senza  alcuna  preparazione  e  con  pochissima  cura.  —  Un 
primo  errore  ha  commesso  il  De  Mauri  nel  rimodernare  l'ortografia,  che  i 
lettori  piemontesi  avrebbero  intesa  benissimo  nella  forma  originale.  E, 
volendo  rivolgersi  ad  un  pubblico  più  largo,  dovevansi  seguire  i  metodi  di 
notazione  grafica  adottati  da  quanti  oggigiorno  pubblicano  testi  dialettali 
con  intendimenti  scientifici.  —  Invece  poi  di  darci  una  biografia  del  poeta, 
frutto  di  ricerche  originali,  l'editore  si  limita  a  riprodurre  quella  dal  Brof- 
ferio  inserita  nei  Miei  tempi;  mostrando  di  non  conoscerne  la  prima  reda- 


232  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

zioiie,  migliore,  pubblicata  nel  Museo  scientifico  (1)  del  Fontana.  E  cosi  non 
è  neanche  accertata  la  data  di  morte  del  Calvo,  da  alcuni  fissata  al  29  aprile 
e  da  altri  al  9  maggio  1804!  —  Le  Follie  religiose  non  sono  comprese  in 
questa  ristampa  e  non  se  ne  adduce  il  motivo.  Il  notissimo  Artaban  bastona 
vien  dato  come  inedito,  mentre  fu  stampato  fin  dal  1853  dal  Biondelli  (2); 
la  chiave  dei  nomi,  che  questi  non  aveva  pubblicata,  lo  fu  più  tardi  dal 
barone  Manno  nei  suoi  Componimenti  satireschi  in  Piemonte  (3).  Pur  fra 
le  cose  inedite  è  posta  la  diatriba  contro  THus,  che  fu  invece  stampata  in 
foglio  volante  ancor  vivente  l'autore.  Di  altra  composizione  poetica  contro 
lo  stesso  personaggio  (intorno  al  quale  il  De  Mauri  non  ci  dice  nulla,  mentre 
poteva  copiare  la  nota  del  Melzi  (4)),  pur  stampata  nel  1801  (5)  col  titolo: 
Al  so  amis  compare  Toni,  Dà  7  bon  dì  barba  Gironi,  non  troviamo  cenno 
alcuno,  neanche  nella  bibliografia.  Così  non  compare  in  questa  edizione  il 
sonetto  inserito  nell'opuscolo:  Congratulazioni  epitalamiche  (6);  non  vi  fi- 
guran  le  terzine:  Avis  al  public,  stampate  dal  Guaita  nel  1804  e  relative 
all'eclisse  dell'I  1  febbraio  di  detto  anno,  poesia  questa  che  era  facile  pro- 
curarsi perchè  ripubblicata  dal  Brofferio;  e  non  vi  si  trova  infine  l'Impostura 
di  cui  parla  quest"  ultimo.  —  Anche  la  bibliografia  che  chiude  il  volume 
lascia  parecchio  a  desiderare.  I  formati  non  vi  sono  quasi  mai  segnati  con 
esattezza.  E  fra  le  lacune,  oltre  a  quelle  or  ricordate,  notansi  le  seguenti. 
Delle  Follie  un'edizione  di  «  Brusselle,  presso  Vimargy,  1845  ».  Delle  Favole 
le  due  edizioni  torinesi  del  1843:  una  stampata  dal  Fodratti,  l'altra  dalla 
tipografia  Zecchi  e  Bona;  nonché  una  terza  unita  all'almanacco  II  scassa 
fastidi  pel  1846,  che  forse  è  la  medesima  annessa  all'annata  1848  dello 
stesso  lunario.  Dell'  ode  Su  la  vita  d' campagna  non  si  fa  menzione  della 
stampa  vercellese  registrata  dal  Vallauri  con  la  soscrizione  «  An.  XIV, 
«  Stamperia  Zanetti -Bianco  »;  non  di  quella  di  Cuneo  del  1813,  in  cui  per 
la  prima  volta  vi  si  contrappone  l'ode  del  Prunetti  Su  la  vita  d'  sita,  non 
infine  di  una  astese  del  1815.  E  poiché  fra  i  ritratti  se  ne  cita  uno  inedito, 
si  poteva  altresì  ricordare  quello  scolpito  in  legno  dal  Bonzanigo  e  da  esso 
presentato  all'Accademia  Subalpina  di  storia  e  belle  arti  nella  seduta  del 
15  luglio  1804  (7).  Due  di  questi  ritratti  sono  riprodotti  dal  De  Mauri,  ma 
invece  di  darci  quello  inedito  posseduto  dalla  Biblioteca  del  Re,  ne  ripub- 
blica, oltre  a  quello  bellissimo  inciso  dal  Palmieri,  un  altro  (ch'egli  attri- 
buisce ad  un  certo  Capurro)  avente  col  primo  poca  rassomiglianza,  e  che 
potrebbe  essere  del  Calvi  cremonese  professore  all'università  di  Pisa.  —  Le 
note  sono  aflfatto  insufficienti,  e  talune  oziose.  —  Insomma  questo  volumetto 
non  ha,  si  può  dire,  altro  merito  che  quello  di  una  discreta  esecuzione  tipo- 


(1)  Voi.  IZ-X;  Torìao,  1847-48. 

(2)  Studi  «III  dtalitU  galto-itnlki,  p.  612. 

(3)  Curiottti't  «  ricerche  di  storia  tuhaìp.,  I,  780,  762,  Torino,  1874. 

(4)  Ditionario  d'optr*  anoHitM,  III,  41,  Milano,  1859. 

(5)  BioiiDRLU,  p.  t^55. 

(6)  Torìoo,  an.  XII.  dai  tipi  di  Felice  Baxan. 

(7)  Journal  dt  Turin,  21  luglio  1804. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  233 

grafica  e  di  presentare  per  la  prima  volta  al  pubblico  quella  gustosa,  per 
quanto  salata,  composizione  che  ha  per  titolo  Le  fie  cTarfórmà]. 

Knisella  Farsetti.  —  Befanate  del  contado  toscano.  —  Firenze,  Seeber, 
1900  [Di  queste  otto  befanate  senesi  le  sette  che  furono  semplicemente  can- 
tate celebrano  tutte  (tranne  una  d'argomento  religioso)  la  fine  della  Befana, 
la  vecchia  della  leggenda  che  si  brucia  o  si  sega  in  carnevale.  Una  sola, 
che  fu  rappresentata  nel  *98  a  Val  di  Piatta  presso  Montepulciano,  è  un  no- 
tevole documento  della  permanenza  di  questa  antica  forma  di  drammatica 
popolare,  che  alcuni  credono  morta.  Eccone  l'argomento  :  un  vecchio  conta- 
dino, disgustato  della  bruttezza  della  moglie,  stabilisce  di  segarla:  compiuta 
l'operazione  con  l'aiuto  d'un  figliuolo,  compaiono  i  carabinieri,  i  quali  prima 
di  condurre  in  prigione  i  colpevoli,  frugano  la  vecchia  e  le  trovano  addosso 
un  bizzarro  testamento  che  viene  letto  da  un  notaro  ivi  chiamato.  Un  coro 
saluta  gli  spettatori  ed  un  brindisi  del  notaro  chiude  la  rappresentazione. 
L'A.  nell'introduzione  riavvicina  le  befanate  da  lei  edite  alle  rappresenta- 
zioni medioevali.  Anche  quelle  cantate  meritavano  d'esser  studiate  e  con- 
frontate, per  es.  colla  Canzon  per  brusar  la  vegia  in  dialetto  bolognese  del 
sec.  scorso,  scritta  dalle  due  Manfredi,  le  sorelle  del  celebre  Eustachio]. 

Giovanni  Negri.  —  L'originalità  del  signor  Marchese"".  Questioncella 
Manzoniana.  —  Pavia,  1900  [Questa  nota  sobria  ed  acuta  mira  a  dimostrare, 
contro  la  comune  opinione  dei  commentatori,  che  il  Manzoni,  nell'ultimo  ca- 
pitolo dei  Pr.  S.,  non  fece  punto  un  merito  al  sig.  Marchese  di  non  aver 
avuto  tanta  umiltà  da  mettersi  alla  pari  de'  suoi  convitati  (Renzo,  Lucia  ecc.). 
Il  mettersi  a  pan  con  essi  sarebbe  stato,  secondo  gli  interpreti,  atto  sconve- 
niente. Sostiene  invece  il  N.,  e  a  parer  nostro  con  ragione,  che  qui  vi  è  un 
altro  tratto  di  fine  umorismo  nel  Manzoni,  il  quale  non  approvava,  ma  con- 
statava sorridendo  il  procedere  del  Marchese.  «  Sotto  all'ironia  piacevole, 
€  dice  il  critico,  a  me  pare  che  si  nasconda  la  disapprovazione  di  quell'abi- 
«  tudine  propria  di  certi  signori,  eziandio  buoni  e  cortesi,  di  considerare  la 
«  cosi  detta  bassa  gente,  anche  quando  la  trattan  bene,  quasi  fosse  d'altra 
«  specie  che  la  loro  ».  A  nostra  volta,  osserviamo,  che  buon  rincalzo  porge 
al  modo  d'intendere  del  N.  tutto  il  rimanente  che  il  Manzoni  ci  dice  per 
caratterizzare  quel  gentiluomo  lombardo,  che  è  davvero  una  persona  dabbene, 
di  cuore,  ma  non  immune  da  pregiudizi  né  in  alcun  senso  straordinaria.  E 
per  fare,  a  que'  tempi,  quello  che  il  Vangelo  avrebbe  consigliato,  quello  che 
Federico  Borromeo  avrebbe  fatto  al  posto  del  sig.  Marchese,  ci  sarebbe  vo- 
luto davvero  un  tipo  straordinario,  un  originale,  come  facetamente  insinua 
il  Manzoni,  un  portento  d'umiltà]. 

Augusto  Serena.  —  Pagine  letterarie.  —  Roma,  Forzani,  1900  [Degli 
otto  scritti  raccolti  e  ristampati  in  questo  elegante  volumetto  i  due  più  im- 
portanti sono  quelli  su  Le  rime  a  stampa  di  Francesco  di  Vannozzo  e  sul 
Pianto  de  la  verzene  Maria.  Nel  riprodurre  il  primo  il  S.  ha  tratto  profitto 
anche  delle  osservazioni  che  gli  furon  fatte  in  questo  Giornale.,  33,  451.  Il 
secondo  è  pur  sempre  una  delle  ricerche  meglio  approfondite  che  s'abbiano 
sul  celebre  Pianto  e  dimostra,  a  parer  nostro  definitivamente,  che  l'autore 
di  esso  fu  frate  Enselmino  da  Montebelluna.  Fra  la  prima  e  la  seconda  edi- 
zione dello  studio  venne  in  luce  il  testo  critico  del  Pianto  procurato  nella 


234  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

remota  Svezia  dal  Linder,  e  di  questo  libro  laborioso  e  prolisso,  ma  pur  tanto 
manchevole  per  quel  che  concerne  la  cognizione  della  letteratura  critica  del 
soggetto  (cfr.  Giorn.^  34,  428)  il  S.  tiene  il  debito  conto.  —  I  rimanenti  sei 
scritti  del  volume  del  S.  hanno  importanza  minore,  ma  sono  tuttavia  dettati 
con  buon  giudizio  e  con  garbo,  sicché  non  spiace  di  averli  raccolti,  tanto 
più  che  quasi  tutti  erano  sepolti  in  periodici  locali  mal  reperibili.  Tratta  l'A. 
in  uno  di  quelli  scritti  di  Collaltino  di  Collalto  rimatore^  e  da  quelle  pa- 
gine esce  ben  definita  la  fisionomia  dell'elegante  e  volubile  patrizio  per  cui 
arse  tanta  passione  nel  cuore  della  povera  Gaspara  Stampa.  Articolo  di  sem- 
plice curiosità  è  quello  che  riguarda  Un  canzoniere  del  sec.  XVII,  recante 
mss.  i  versi  del  medico  Bartolomeo  Burchelati  (versi,  a  dir  vero,  da  far  spi- 
ritare i  cani),  il  quale  a  settant'anni,  e  con  al  fianco  la  terza  moglie,  si  sentì 
il  coraggio  d'imbertonirsi  per  una  ventenne  trevigiana  e  farne  la  sua  Laura! 
Tenuissimo  è  pure  il  valore  di  certa  «  noterella  pariniana  ■»  A  proposito 
d'una  raccolta,  ove  è  esaminato  il  Giornale  poetico  diretto  da  Andrea  Rubbi 
e  vi  sono  specialmente  considerate,  nelle  loro  varianti,  le  poesie  che  in  quella 
silloge  inseri,  per  amore  di  Cecilia  Tron,  il  Parini.  /  paralipomeni  di  un 
poeta  napoleonico  sono  le  aggiunte,  rimaste  inedite,  che  Angelo  Dalmistro 
aveva  messe  assieme  per  una  ristampa  del  suo  Pi<ro  omaggio  a  Napoleone 
il  grande.  Narra  un  episodio  della  vita  di  quel  curioso  tipo  che  fu  Mario 
Pieri  l'articolo  II  Corcirese  a  Treviso;  e  di  Giuseppe  Revere  s'occupa  un 
altro  scritto,  nell'occasione  (1896-98)  che  A.  Ròndani  ebbe  a  pubblicare  le 
opere  complete  del  letterato  triestino.  —  All'infuori  di  quest'ultimo  articolo, 
che  è  occasionale,  si  può  dire  che  il  S.  abbia  particolarmente  avuto  l'intento 
di  recar  nuova  luce  sulle  vicende  letterarie  dell'antica  Marca  trivigiana,  ove 
è  nato,  e  anche  di  ciò  gli  va  data  lode]. 

Paolo  Bellezza.  —  Humour.  —  Milano,  tip.  Agnelli,  1901  [Strenna  a 
beneficio  dell'Istituto  dei  rachitici.  Dice  Gaetano  Negri  nella  breve  prefazione 
che  va  innanzi  a  questo  volume:  «una  linea  di  separazione  veramente  netta 

<  è  impossibile  tracciarla  fra  Vhì^mour  e  i  generi  letterari  affini; piuttosto 

«  che  definirlo,  noi  dobbiamo  accontentarci  di  sentirlo  ».  Quindi  plaude  al 
lavoro  del  Bellezza,  che  è,  anzitutto,  una  raccolta  di  fatti,  o,  come  scrive 
egli  medesimo,  «  un  centone  di  roba  raccattata  un  po'  dappertutto  ».  Si  vede 
che  a  dare  idea  dell'umorismo  egli  ha  voluto  seguire  una  via  eminentemente 
empirica:  esporne  una  quantità  grande  di  esempi.  E  siccome  il  B.  ha  letture 
moderne  larghissime,  ciò  gli  è  venuto  fatto  assai  bene,  e  il  suo  volume,  per 
quanto  affastellato,  si  legge,  non  solo  con  diletto,  ma  anche  con  profitto.  Il 
B.  ribadisce  l'opinione  già  da  altri  sostenuta  che  l'umorismo  è  particolar- 
mente una  tendenza  anglosassone.  La  maggior  copia  di  esempi  egli  trae 
infatti  da  scrittori  inglesi;  ma  non  trascura  i  tedeschi,  i  russi,  i  francesi. 
Notoriamente  l'Italia  ha  piccola  parte  in  questo  genere  di  produzione.  Nou 
parlando  qui  dei  contemporanei,  gli  scrittori  nostri  in  cui  il  B.  ravvisa  mag- 
glori  traccie  di  umorismo  sono  Cecco  Angiolieri,  l'Ariosto,  Gaspare  Gozzi,  il 
Manzoni,  il  Leopardi,  il  Guerrazzi,  Paolo  Bini,  il  Porta,  il  Belli,  il  Rovani, 
il  Nievo  (cfr.  spec.  pp.  214  sgg.).  Qui  parecchie  obiezioni  si  potrebbero  ac- 
campare. Poiché  il  B.  vuol  intendere  l'umorismo  in  un  senso  ristretto,  sì  da 
escluderlo  nell'antichità  classica  (pp.  205-7),  e  da  negarlo  nel  Rabelais  (p.  210), 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  235 

ed  in  Dante  (pp.  214-15)  (1),  gli  riesce  proprio  così  evidente  che  l'Angiolieri 
sia  «  uno  de'  più  poderosi  umoristi  che  conti  la  nostra  letteratura  »  (p.  63)? 
E  perchè,  in  questo  caso,  non  accennare  ad  altri  burleschi  nostri,  da  Rustico 
di  Filippo  al  Burchiello,  dairOrcagna  al  Pistoia  e  al  Berni,  che  talora  ap- 
paiono non  meno  umoristi  dell'Angiolieri?  A  noi  pare,  inoltre,  che  molti  fatti 
citi  il  B.  come  di  genere  umoristico,  che  non  rientrano  ragionevolmente  nel- 
Vhumour;  ad  es.  il  Diario  d'Adamo  ed  altri  scritti  dello  Twain  sono  biz- 
zarrie, che  di  umoristico  hanno  ben  poco.  Del  resto,  il  B.  accumula  qui  con 
cosi  poca  pretesa  questa  messe  veramente  abbondante  di  esempi,  che  sarebbe 
indiscrezione  il  pretendere  per  ora  di  più  e  di  meglio.  Determinare  con  una 
precisione  maggiore  di  quella  praticata  sinora  che  cosa  veramente  umorismo 
sia,  distinguere  le  svariate  forme  in  che  esso  compare,  sceverarvi  i  caratteri 
propri  dell'individualità  degli  scrittori  da  quelli  che  hanno  valore  etnografico, 
sono  compiti  spettanti  forse  più  allo  psicologo  che  al  letterato]. 


PUBBLICAZIONI  NUZIALI. 

Abd-el-kader  Salza.  —  Sui  frammenti  del  Rinaldo  ardito.  Indagini  pre- 
liminari. --  Melfi,  tip.  Liccione,  1901  ;  per  nozze  Gentile-Nudi  [Come  accenna 
il  sottotitolo  di  quest'opuscolo,  il  prof.  Salza  intende  esaminare  in  seguito 
di  bel  nuovo  il  ms.  reputato  autografo  del  cosidetto  Rinaldo  ardito,  raffron- 
tarlo con  la  letteratura  romanzesca  degli  epigoni  dell'Ariosto,  acciò  sia  ancor 
meglio  confutata  l'opinione  del  Cappelli,  finalmente  dare  un  giudizio  com- 
plessivo sull'opera  del  poeta,  tanto  inferiore  per  ogni  rispetto  al  Furioso. 
Per  ora,  premesse  alcune  notizie  bibliografiche  ed  alcune  utili  riflessioni  sul 
valore  delle  Librarie  del  Doni,  egli  mostra  che  l'ordinamento  dei  frammenti 
portoci  dalle  due  edizioni  che  ne  abbiamo  (Giampieri-Ajazzi,  1846  e  Polidori, 
1857)  è  del  tutto  arbitraria,  e  ne  propone  una  più  razionale.  E  poiché  il 
Doni  afierma  che  il  Rinaldo  ardito  dovea  constare  di  dodici  canti,  egli  s'in- 
dustria di  ritessere  a  larghi  tratti  la  tela  compiuta  del  poema,  di  cui  ritiene 
che  l'Ariosto  fosse  indubbiamente  autore.  Per  noi  ancora,  malgrado  gli  studi 
recenti,  l'attribuzione  è  assai  dubbia,  e  non  chiederemmo  di  meglio  che  d'es- 
sere scossi  nel  nostro  scetticismo   dalle   ulteriori  ricerche  del  bravo   Salza. 


(1)  Non  così  la  pensa  Ettore  Madbo,  che  ha  testé  pubblicato  un  nutrito  opuscolo  DeWumo- 
ritmo  nella  Din.  Commedia,  Salerno,  tip.  Nazionale,  1901.  Noi  peraltro  siamo  ben  più  portati  a 
dar  ragione  al  Bellezza  che  al  Mauro.  Questi  ritiene  che  ove  nel  comico  sia  forte  antitesi  di  pen- 
siero 0  di  sentimento,  ivi  si  debba  ravvisare  anche  umore;  quasiché  l'antitesi  non  sia  di  ogni 
comicità  elemento  essenziale.  Tutti  gli  esempi  oh'  egli  trae  àaXV Inferno  per  dimostrare  la  sna 
tesi  non  valgono  nulla  per  chiunque  non  abbia  dell'umorismo  il  concetto  (a  parer  nostro,  erroneo) 
ch'egli  ha.  Del  resto,  in  questo  opuscolo  male  e  nebulosamente  scritto,  dell'umorismo  non  si  dà 
una  definizione  che  appaghi,  sicché  non  è  neppur  facile  l'intendere  che  cosa  il  M.  voglia  dire 
con  quel  termine.  Non  sono  davvero  proposizioni  come  questa:  «l'umorismo  é  come  il  cordone 
«  ombelicale,  che  solo  può  unire  la  vita  traducibile  in  dramma  al  vero  dramma  in  potenza  ed  in 
«  atto  »  (p.  12)  le  meglio  alte  a  portar  luce  e  chiarezza  in  un  soggetto  cosi  arduo  e  complesso. 
Lasci,  lasci  al  Carlyle  quelle  frasi  apocalittiche,  di  cui  si  compiacciono  purtroppo  tanti: 


236  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

Vedi  in  proposito  anche  la  nota  aggiunta  da  V.  Rossi  alla  2»  edizione  del 
Gaspary,  Storia,  II,  ii,  301]. 

Giuseppe  Schiavo.  —  L'indugio  di  Casella.  Nota  dantesca.  —  Sondrio, 
tip.  Quadrio,  1901;  per  nozze  Simioni-Tognetlo  [Appoggiandosi  particolar- 
mente all'asserzione  di  S.  Tommaso  intorno  all'esistenza  d'un  duplice  pur- 
gatorio, ritiene  che  Dante  imaginasse  due  antipurgatorii,  l'uno  nell'emisfero 
nostro  e  l'altro  sulle  falde  della  montagna  del  purgatorio.  Per  quanto  possa 
riuscir  misterioso  l'indugio  frapposto  da  Casella  prima  d'essere  portato  alla 
montagna  dell'espiazione,  non  ci  sembra  vi  siano  indizi  suflScienti  per  venire 
all'ipotesi  che  lo  Se.  propone.  I  due  purgatorii  di  San  Tommaso  sono  cosa 
ben  diversa,  che  non  giova  punto  a  chiarire  il  quesito]. 

Fortunato  Pintor.  —  Un  antica  farsa  fiorentina.  —  Firenze,  tip.  Gali- 
leiana, 1901  ;  per  nozze  Salza-Rolando  e  Gentile-Nudi  [Quantunque  ne  avesse 
già  dato  imperfetta  notizia  il  Palermo,  questo  componimento  del  sec.  XVi 
giaceva  pressoché  ignoto  nel  ms.  Mgl.  VII,  76,  uno  di  quelli  che  il  bizzarro 
Stradino  ripose  nel  suo  armadiaccio.  La  Farsa  contro  il  tór  moglie  è  dav- 
vero un  caratteristico  frutto  della  nostra  antica  drammatica  popolare,  ed  il 
P.,  pubblicandola,  la  illustra  da  buon  conoscitore.  Egli  la  fa  rientrare  nella 
letteratura  antifemminile,  di  cui  rammenta  i  saggi  aventi  forma  drammatica, 
e  con  fine  accorgimento  ne  rileva  i  caratteri  e  ne  segnala  le  particolarità 
più  rilevanti.  In  quest'ottima  pubblicazione  il  P.  rivela  le  attitudini  critiche 
non  comuni  che  già  altra  volta  avemmo  occasione  di  encomiare  in  lui,  e  ci 
fa  sempre  più  desiderare  il  lavoro  sul  teatro  comico  fiorentino  del  Cinque- 
cento, al  quale  attende  da  anni]. 

Costantino  Arlia.  —  Bue  madrigali  di  Niccolò  Macchiavelli.  —  Firenze, 
Società  tipografica  fiorentina,  1901;  per  nozze  Signorini-Benedetti  [Composti 
entrambi  questi  componimenti  per  madonna  Barbara  Salutati,  di  cui  il  Ma- 
chiavelli fu  innamoratissimo,  si  leggono  in  un  ms.  della  Laurenziana]. 

Remigio  Sabbadini.  —  L'invettiva  di  Guarino  contro  il  Niccoli.  —  Lo- 
nigo,  tip.  Gaspari,  1901;  per  nozze  Curcio-Marcellino  [Stampa  a  fronte  le  due 
redazioni  di  quell'invettiva.  La  redazione  più  breve  stabilisce  che  è  la  più 
antica,  mentre  la  più  lunga  è  posteriore.  Il  testo  viene  ricostrutto  su  cinque 
mss.,  e  preceduto  da  una  avvertenza  dell'editore  sobria  e  piena  di  cose,  come 
sogliono  essere  tutti  gli  scritti  del  S.  «  Sia  che  esageri ,  sia  che  colga  nel 
<  giusto  (dice  egli),  l'invettiva  di  Guarino  è  di  capitale  importanza  storica 
«.per  ricostruire  la  classica  figura  del  Niccoli  e  serve  di  correttivo  alla  bio- 
«  grafia  di  Vespasiano  da  Bisticci  pregiudicatamente  benevola  ».  L'invettiva 
è  da  accostarsi  alle  altre  due  lanciate  da  contemporanei  contro  il  Niccoli, 
quella  di  Lorenzo  Benvenuti  edita  da  G.  Zippel  in  questo  Giornale,  24, 
168  sgg.,  e  quella  di  Leonardo  Bruni  fatta  conoscere  pure  dallo  Zippel  nel 
suo  libro  sul  Niccoli,  pp.  75  sg.  Cfr.  Giorn.,  17,  115]. 

Alessandro  D'Ancona.  —  Lettere  di  illustri  scrittori  francesi  ad  amid 
italiani.  —  Pisa,  tip.  Marietti,  1901;  per  nozze  Citoleux-Dejob  [Tra  le  16 
lettere  qui  edite  e  illustrate  con  scrupolo  d'esattezza  sono  segnalabili  le 
quattro  di  A.  F.  Ozanam,  e  di  queste  in  special  guisa  T ultima,  che 
tanto  bene  rappresenta  il  candore  di  quell'anima.  Non  prive  d'importanza 
neppure  quelle  del  Sismondi.  Due,  quasi  insignificanti,  della  Staél  a  Teresa 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  237 

Bandettini  attestano  (cosa  che  non  si  sapeva)  la  relazione  fra  quelle  due 
donne.  Mostruoso  il  gergo  italiano  in  cui  scrive  il  La  Mennais;  né  canzona 
quello  del  Sisraondi,  sebbene  egli  nascesse  di  famiglia  oriunda  pisana]. 

Arnaldo  Foresti.  —  \_Sonetto  nuziale  inedito  del  Parini'].  —  S.  a.,  ma 
1901  ;  per  nozze  Foresti-Riccardi  [Il  sonetto  comincia  «  Gentil  donzella,  che 
a  marito  andate  »  ed  è  tratto  dalla  Queriniana  di  Brescia]. 

Salvatore  Salomone-Marino.  —  Canzuni  siciliani  del  sec.  XVII.  — 
Palermo,  tip.  Vena,  1900;  per  nozze  Gasabona-Lo  Gascio  [Quattro  ottave  in 
vernacolo  di  Sicilia  estratte  dal  codice  Parnassu  sicilianu  dell'Universitaria 
di  Palermo.  Si  avverta  che  l'ultima  è  una  riduzione  del  sonetto  petrarchesco 
€  Levommi  il  mio  pensier  in  parte  ov'  era  »J. 

Mario  Mandalari.  —  Aneddoto  dantesco.  —  Gatania,  tip.  Calatola,  1901  ; 
ediz.  di  100  esemplari  per  nozze  Vadala  Papaie-Terranova  [Una  lettera  di 
Gaetano  Bernardi  ed  una  di  L.  Tosti,  che  si  riferiscono  all'edizione  del  co- 
dice cassinese  della  Commedia  e  accennano  ad  un  ms.  posseduto  dal  prin- 
cipe di  Santo  Pio  e  ad  un  altro  di  Gatania.  Sul  codice  di  Gatania  il  M.  offre 
in  nota  nuove  informazioni]. 

Vittorio  Gian.  —  Varietà  dugentistiche:  una  probabile  parodia  letteraria 
e  un  saggio  di  precettistica  matrimoniale.  —  Pisa,  Mariotti,  1901  ;  ediz.  di 
82  esemplari  per  nozze  Soia-Soldati  [La  maggior  parte  dell'elegante  opuscolo 
è  occupata  nel  dimostrare,  con  osservazioni  appropriate,  che  il  cosidetto 
Mare  amoroso^  edito  prima  dal  Grion  e  poi  ristampato  dal  Monaci,  non  è 
altro  che  una  «  canzonatura  poetica  »,  dovuta  ad  un  verseggiatore  che  aspi- 
rava alla  riforma  del  nuovo  stile  e  cosi  si  prendeva  giuoco  dei  «  goffi  rima- 
«  tori  bamboleggianti  nell'abuso  delle  similitudini  zoologiche  ».  L'ipotesi  me- 
rita certo  attenzione,  sebbene  possa  apparire  ardita  a  chiunque  sappia  quanto 
irragionevole  e  talora  quasi  grottesco  sia  stato  nel  medioevo,  senz'ombra  d'in- 
tenzione parodica,  l'uso  dell'allegoria  di  ogni  genere  e  specie.  —  Tratto  il 
C.  per  incidenza  a  discorrere  d'un'  antica  opera  enciclopedica  in  prosa  da  lui 
rinvenuta  recentemente,  che  si  deve  ad  un  mantovano  vissuto  tra  la  fine  del 
XIII  ed  il  principio  del  XIV  secolo,  Vivaldo  del  Belcalzer,  egli  ne  offre  qui 
un  saggio,  vale  a  dire  un  capitolo  contenente  precetti  coniugali.  Siamo  lieti 
di  poter  aggiungere  che  dell'opera  del  Belcalzer  il  G.  intende  dare  ampia 
notizia  nel  nostro  Giornale.  Egli  ne  ha  trovato  in  Inghilterra  il  prezioso 
codice  di  dedica]. 


COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 


Le  mobilier  d'Alfieri  à  Paris.  —  Alfieri  a  raconté  dans  ses  Mémoires 
quelles  circonstances  dramatiques  accompagnèrent,  le  18  aoùt  1792,  son  départ 
de  Paris  avec  la  comtesse  d'Albany.  On  sait  que  le  surlendemain  de  ce  départ, 
le  20  aoùt,  leurs  revenus  furent  séquestrés,  leur  ameublement, —  tableaux, 
livres,  etc.  —  leurs  écuries,  évaluées  par  la  comtesse  à  deux  cent  mille  franca, 
furent  confisqués  au  profit  de  l'état,  tandis  qu'eux-mémes  étaient  inscrits 
sur  la  liste  des  émigrés:  mesure  que  ne  justifiait  aucune  apparence  de  lé- 
galité,  puisqu'elle  atteignait  en  eux  un  gentilhomme  italien  et  une  dame 
allemande  veuve  d*un  prince  anglais!  On  connaìt  la  lettre  célèbre  que, 
dès  son  arrivée  à  Florence ,  Alfieri  adressa  «  au  président  de  la  populace 
«  franqaise  »,  pour  lui  réclamer  la  restitution  de  ses  biens  confisqués.  Il  est 
probable  que  Tauteur  du  Misogallo  n'attendait  aucun  résultat  pratique  de 
cette  lettre-manifeste,  plus  faite  pour  irriter  que  pour  convaincre  ses  desti 
nataires.  Mais,  après  cet  éclat  retentissant  du  poète,  le  propriétaire  dépouillé 
prit  la  parole,  et  employa  les  voies  légales  et  diplomatiques.  Un  de  ses  pre- 
miers  soins  fut  d'intéresser  à  sa  réclamation  le  ministre  résident  de  la  Ré- 
publique  près  la  cour  de  Toscane.  11  dressa  le  15  mai  1793  une  «  note  des 
4t  effets  appartenant  à  moi,  ici  soussigné,  laissez  à  Paris  à  l'hotel  de  Pons, 
«  rue  de  Provence,  l'an  1792  »;  il  fit  authentiquer  cette  pièce  signée  de  sa  main 
dans  toutes  les  formes  légales  (attestation  par  deux  témoins,  Lor.  Collini  et 
Lud.  Zannoni,  de  son  caractère  autographe;  certifìcat  de  l'authenticité  des 
trois  signatures  de  l'auteur  et  des  témoins  par  le  notaire  Pino  de' Pini)  et  il 
fit  légaliser  le  tout  par  le  ministre  frangais  Alexis  M.  J.  Fauvet  La  Flotte, 
le  méme  jour  «  15  mai  1793,  l'an^second  de  la  R.  F.  ».  Alfieri  comptaitsans 
doute  pouvoir  se  servir  dans  un  bref  délai  de  ce  document  dùment  légalisé 
et  muni  d'une  valeur  officielle.  Mais  des  circonstances  politiques  ou  privées, 
que  nous  ignorons  et  dont  ses  Mémoires  ne  disent  rien,  l'empéchèrent  de  se 
servir  de  cette  pièce.  Elle  est  restée  dix  ans  entre  ses  mains,  et  a  passe  de 
celles  de  madame  D'Albany,  qui  l'hérita  de  lui,  à  Fabre  et  à  la  Bibliothèque 
Fabre.  Cette  pièce  est  fort  intéressante,  donnant  une  description  exacte  du 
mobilier  et  de  la  maison  du  poèle,  dans  ses  détails  les  plus  intimes.  Elle 
permet  de  reconstituer  le  milieu  dans  lequel  vécut  Alfieri  pendant  la  période 
parisienne  de  son  existence,  au  temps  où  il  se  mèla  à  la  société  littéraire 
et  politique,  où  il  frequenta  et  re^ut  Beaumarchais  et  ses  amis,  les  Chénier, 


COMUNICAZIONI   ED   APPUNTI  239 

Grétry,  Cherubini,  Ippolito  Pindemonte,  M°i«  de  Beauharnais,  M°^«  du  Boc- 
cage,  M™«  de  Boufflers,  la  comtesse  de  Genlis,  et  tant  d'autres  personnages, 
dont  plusieurs  restèrent  en  relations  avec  lui,  et,  après  sa  mori,  avec  la  com- 
tesse d'Albany.  Ce  document  décrit  minutieusement  les  moindres  pièces  de 
son  appartement,  et  permet  de  le  suivre  de  sa  bibliothèque  —  qu'il  cite  en 
première  ligne  —  au  «  salon  blanc  »  de  déjeuner,  de  la  «  chambre  bianche  » 
à  la  «  chambre  de  retraite  »  et  jusqu'à  la  sellerie,  dont  le  mobiliar  était  tei 
qu'on  peut  l'attendre  du  sportman  emerite  qu'était  Alfieri.  G'est  à  ce  titre, 
et  aussi  parce  qu'il  fournit  une  notion  exacte  de  ce  que  valaient  les  biens 
injustement  séquestrés  d'Alfieri,  que  cet  inventaire  m'a  paru  mériter  d'étre 
publié. 

L'hotel  de  Pons,  où  habitaient  en  dernier  lieu  à  Paris  Alfieri  et  la  com- 
tesse d'Albany,  n'était  point  une  auberge  ;  le  nom  est  celui  de  sa  propriétaire, 
la  comtesse  douairière  de  Pons,  et  c'était  un  appartement,  ou  peut-étre  méme 
un  étage  tout  entier,  qu'y  occupaient  les  voyageurs.  Bien  que  les  meubles  le 
garnissant  y  appartinssent  à  Alfieri  ou  à  la  comtesse,  il  semble  qu  il  con- 
tenait  aussi  une  certaine  quantité  de  meubles  appartenant  à  la  propriétaire, 
ou  bien  que  ces  meubles,  achetés  par  les  locataires  à  M"^®  de  Pons,  ne  lui 
avaient  pas  été  payés  complètement,  et  qu'elle  conservait  certains  droits  sur 
eux,  «  selon  la  forme  et  les  clauses  de  son  bail  ».  Toujours  est-il  que  cette 
comtesse  douairière  de  Pons,  pour  un  motif  que  je  ne  puis  déterminer  et  à 
une  date  inconnue  (1),  eut  une  réclamation  à  formuler  contre  M""®  d'Albany 
Il  y  eut  entro  elles  une  correspondance  dont  il  ne  reste  aujourd'hui  qu'un 
Seul  fragment:  une  lettre  de  M°^e  ^q  Pons  à  la  comtesse,  qui  fut  le  dernier 
souvenir  de  ce  premier  séjour  à  Paris  (2).  On  peut  supposer  que  si  Alfieri 
la  connut,  ce  lui  fut  un  motif  puéril  et  supplémentaire  à  maudire  la  cloaca 
massima.  Getto  réclamation  un  peu  ridicule  dans  les  circonstances  tragiques 
où  elle  se  produisait,  dut  lui  paraitre,  comme  chez  les  comédiens  de  la  Na- 
ilon, la  pièce  boufìe  que  Ton  jouait  après  la  tragèdie. 

Leon  G.  Pélissier. 


L 


Note  des  effets  appartenant  à  mai  tei  soussigné 
laissez  à  Paris  à  l'hotel  de  Pons,  rue  de  Provence,  Van  1792. 

Bibliothèque  bleùe. 


Une  table  à  écrire  quarrée,  en  acajou. 
Deux  tables  creuses  à  livres  en  acajou. 
Un  grand  fauteuil  en  velour  d'Utrecht. 


(1)  Il  appert  da  texte  de  cette  lettre  qu'elle  fut  écrite  pendant  l'émigration. 

(2)  On  en  tronvera  le  texte  ci  après.  Elle  est  conservée  à  la  Bibl.  Mnnicipale  de  Montpellier, 
dans  le  fonda  Fabre-Albany. 


240  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

Tout  le  meublé,  bergères,  chaises,  fauteuils,  canapé,  draperies  et  rideaux 
en  damas  blanc  et  bleu.  Deux  lampes  de  L'Ange  et  leurs  gazes.  Deux  chai- 
ners  de  bronze  dorè,  or  moulu,  avec  pele,  pinces,  etc. 

Un  grand  tapis  d'Àubuisson  neuf  à  fond  brun,  largeur  de  la  chambre. 

Un  guéridon  en  acajou,  dessus  de  marbré  blanc. 

Quatre  grandes  bibliothèques  de  sept  étages  chacune  en  bois  d'acajou, 
remplies  de  livrea  dont  une  moitié  itahens,  le  reste  latina  et  fran^ais,  en- 
caissez  depuis  en  six  grandes  caisses,  formant  cn  tout  et  à  peu  près  le 
nombre  de  troia  mille  volumes. 


Salon  blanc  de  déjeuner. 

Un  secrétaire  à  cylindre  en  acajou  à  roulettes. 
Une  table  ronde  brisée  en  acajou  à  roulettes. 
Une  table  quarrée  brisée  en  acajou  à  roulettes. 
Une  table  ronde  à  trois  pieds  en  acajou  à  roulettes. 
Douze  chaises  d'acajou  en  maroquin  vcrd. 
Un  grand  écran  à  nuit  feuilles  en  acajou. 
Un  tapis  d'Aubuisson,  neuf,  à  fond  vert,  largeur  de  la  chambre. 
Un  piano  angiais  en  acajou  avec  pédales  et  roulettes. 
Deux  feux  de  bronze  dorè,  or  moulu,  avec  pince,  pele,  etc. 
Une  longue  table  à  écrire,  en  acajou,  converte  maroquin  noir. 
Six  banquettes  avec  des  coussins  de  satin  bleu,  quatre  draperies  de  satin 
de  méme.  Quatre  lampes  d'argend. 
Une  pendule  de  Gregson  en  acajou  sonnant  à  chaque  quart  d'heure. 


Toalette. 


Une  table  à  roulettes  en  bois  de  noyer.  Un  petit  poèle. 
Un  table  ronde  à  miroir,  sur  trois  pieds,  en  acajou. 
Plusieurs  chaises  et  fauteuils  de  palile. 


Chambre  bianche  attenante. 


Un  petit  tapis  de  Turquie  use. 

Un  petit  pupitre  en  acajou. 

Une  comode  à  trois  tiroirs,  en  acajou,  dessus  de  marbré  blanc. 

Six  chaises  d'acajou  garnies  en  cnn  et  deux  bergères. 

Une  table  ronde  à  trois  pieds  en  acajou,  à  roulettes. 

Deux  rideaux  à  bordure  dont  l'un  de  la  toalette. 

Un  grand  miroir  à  comiche  bianche  et  bleùe. 

Une  table  en  acajou  à  trois  étages,  contenant  plusieurs  cartona  d'estampes 
et  des  livres  d'estampes,  contenant  en  tout  à  peu  pròs  troia  mille  estampes, 
80it  anciennes  que  modernes. 

Un  grand  atlas  de  130  ou  140  cartes  géographiques,  neuf. 

Une  cassette  anglaise  en  bois  de  noyer  avec  des  outils. 

Une  autre  cassette  anglaise  en  acajou  pour  peindre. 

Deux  persiennes  vertes. 

Deux  rouleaux  plombéa  pour  la  gymnastique. 


COMUNICAZIONI  ED   APPUNTI  241 

Chambre  de  retraite. 


Une  chaise  à  oeil  en  acajou  avec  deux  vases  de  fayence. 

Une  table  de  nuit  en  acajou,  dessus  de  marbré,  et  deux  pots  de  porcelaine. 

Une  grande  moette  bianche  et  bleùe. 

Denx  bassinoirs  de  cuivre. 

Un  bidet  en  acajou. 

Trois  petits  rideaux  de  taffetas  bleu. 


Chambre  dómeublée,  papier  verd. 

J'ai  laissé  dans  cette  chambre  six  grandes  balles  et  une  petite,  contenant 
toutes  des  livres  en  feuille.  Ce  sont  des  livres  italiens  que  j'ai  imprimés  à 
Kehl  en  1788  et  (jue  je  n'ai  jamais  publiés.  Ni  je  pourrois  les  publier  tant 
que  je  demeurerois  en  Italie.  Je  les  mets  donc  spécialement  sous  la  sauve- 
garde  de  la  loyauté  fran^aise. 


Chambre  à  coucher. 


Un  lit  de  lampas  jaune  et  blanc  à  la  turque  avec  trois  matelats  doublés 
en  peau  rouge,  courtepointe,  etc. 

Bergères,  fauteuils,  chaises,  canapé  et  draperies,  de  méme  lampas  que 
le  lit. 

Une  comode  à  trois  tiroirs  en  acajou,  dessus  de  marbré  blanc. 

Une  table  ronde  à  trois  pieds  en  acajou  à  roulettes. 

Un  secrétaire  en  acajou,  dessus  de  marbré  blanc,  clé  en  treffle. 

Une  table  à  la  tronchin  quarrée  en  acajou  à  roulettes. 

Une  pendule  anglaise  en  acajou  gamie  en  cuivre. 

Trois  gardefeu  en  six  feuilles  de  fil  de  laiton. 

Une  grille  de  cheminée  en  or  moulu,  pinces,  garniture,  etc. 

Un  écran  à  huit  feuilles  en  acajou. 

Un  tapis  d'Aubuisson  neuf,  fond  brun,  largeur  de  la  chambre. 

Deux  lampes  de  L'Ange  avec  leurs  gazes. 

Un  guéridon  en  acajou  à  roulettes  dessus  de  marbré. 

Une  grande  table  à  thè  avec  quatre  pieds  à  roulettes  dessus  de  marbré 
avec  comiche  dorée  et  surmontée  d'un  rond,  le  tout  en  acajou. 

Sur  la  table  une  grande  urne  plaquée,  thevère  plaquée,  deux  sucriers  pla- 
qués,  30  tasses  difiFérentes  en  porcelaine  doree  avec  sucrier  et  pots  au  lait. 

Un  thermomètre  visse  à  la  fenètre.  Un  thermomètre  et  baromètre  en  acajou 
portatif  et  plusieurs  autres  baromètres. 

Une  petite  bibliothèque  en  acajou  à  piacer  dans  le  lit. 


Antichambre  en  papier  bleu. 

Six  chaises  d'acajou  en  crin  et  quatre  bergères. 

Six  fauteuils  et  un  paumier  de  oamas  jaune. 

Quatre  rideaux  en  taffetas  Jaune. 

Une  congole  en  acajou  garaie  d'or  moulu  avec  deux  tables  de  marbré  blanc. 

Une  table  ronde  à  trois  pieds,  dessus  de  marbré  et  grille  dorée. 

Un  tapis  d'Aubuisson  neuf  à  fond  brun. 

Sept  tasses,  une  tbeyère  et  sucrier,  porcelaine  bleu  et  blanc. 

GiornaU  storico,  XXXYIII,  fase.  112-113.  16 


242  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

Un  petit  secrétaire  en  acajou,  avec  tablettes  dessus  et  dessous  fermantes 
à  clé  pour  y  mettre  des  livies. 

Deux  feux  dorés  d'or  moulu  avec  peles,  pincettes. 

Deux  lampes  économiques  d'antichambre. 

Dans  toutes  les  susdites  chambres  il  y  avait  des  estampes  sous  giace, 
jusqu'au  nombre  à  peu  près  de  240  estampes  de  Strange,  de  Rome  et  autres. 
Qaatre  tableaux  en  portrait:  Dante,  deux  tétes  de  femme  et  une  d'homme. 


Effets  consignez  à  M.  More. 


Une  longue  pendule  anglaise,  caisse  en  noyer. 

Une  lampe  d'argent  à  la  Fiorentine  à  quatre  mèches. 

Quinze  couverts  d'argent,  six  cuillières  à  caflfé,  une  cuillière  à  soupe,  deux 
à  ragout,  le  tout  d'argent. 

Six  salières  plaquées;  un  huilier  plaqué;  un  écritoire  à  trois  boètes,  plaqué. 

Une  grande  urne  anglaise  pour  bouillir  l'eau,  plaquée. 

Un  bouloir  sur  trois  pieds,  plaqué,  à  esprit  de  vin  et  à  manche. 

Une  petite  urne  anglaise  bleùe  ^our  le  déjeuner. 

Quatre  flambeaux  pTaqués.  Six  rechauds  plaqués  pour  chauffer  les  piata. 

Plusieurs  assiettes  de  porcelaine  dorée. 

Quatre  douzaine  d'assiettes  de  porcelaine  bleue  et  bianche  et  plusieurs 
compotiers  et  autres  pièces  de  dessert. 

Moitió  de  tous  les  cristaux,  verres,  bouteilles  existantes. 

Deux  grands  portefeuilles,  un  rouge,  un  noir,  en  maroquin. 

Moitié  de  la  batterie  de  cuisine  existante. 

Moitié  de  la  batterie  et  des  ustensiles  d'office. 

Quinze  paires  de  draps  de  domestiques. 

Soixante  essuye  mains  de  domestiques. 

Cent  vingt  serviettes  décorées  de  Suisse,  huit  nappes  pareilles. 

Trente  deux  serviettes  à  bouquet,  deux  nappes  pareilles. 

Quatre  douzaines  de  serviettes  damassées  et  quatre  nappes  pareilles. 

Six  douzaines  serviettes  à  grain  d'orge  et  six  nappes  pareilles. 

Un  bois  de  lit  à  quatre  colonnes,  peint  en  blanc,  à  roulettes. 

Moitié  du  Unge  de  l'office  et  de  la  cuisine. 

Moitié  du  vin  existant  dans  la  cave. 

Six  aunes  mocquette  pour  tapis,  six  et  demie  de  taffetas  jaune,  six  et 
demie  de  tafietas  puce  pour  faire  une  couverture  de  lit  en  outre  plusieurs 
gros  meubles,  lits,  chaises,  bureaux  et  tables  des  domestiques. 


Effets  laissez  à  Vécurie  et  au  garde  harnois, 
consigne*  au  piqueur  Berg,  maintenant  au  dit  More. 


Huit  couvertures  de  laine  anglaise  complettes  pour  huit  chevaux. 
Un  cabriolè,  train  rouge,  caisse  jaune,  gami  en  plaqué,  tout  neuf. 
Une  diligence,  train  jaune,  caisse  bleue,  gamie  en  plaqué,  tonte  neuve. 
Un  phaéton  anglais,  tout  jaune,  doublé  en  blanc  et  plaqué. 
Un   harnois   de  cabriolè  avec  bricolle  et  collier,  renes,  le  tout  plaqué  et 
et  presque  neuf. 
Deux  tétières  pareilles  et  bridons,  le  tout  plaq^ué  avec  roses  jaune  et  bleu. 
Une  paire  de  narnois  neufs  de  carosse,  tres  riches  en  plaqué,  avec  leure 


COMUNICAZIONI  ED   APPUNTI  243 

tétières  pareilles,  mords  et  bridon  plaqués  ;  rosettes  jaunes,  rouges,  et  noires. 

Une  paire  de  harnois  anglais  de  phaéton,  tétières  et  roses  jaunes,  le  tout 
plaqué. 

Quatre  selles  anglaises  neuves  avec  leur  housse. 

Une  autre  selle  moins  neuve. 

Une  vieille  selle  avec  sa  housse. 

Deux  bridons  plaqués.  Deux  autres  non  plaqués.^ 

Quatre  brides  de  chevaux  de  selle  neuves  plaquées. 

Six  mords  anglais  plaqués  aux  six  tétières  des  harnois. 

Un  grand  manteau  bleu  et  jaune  tout  neuf  pour  le  cocher. 

Seize  filets  blancs  pour  les  chevaux. 

Deux  grandes  couvertures  de  drap  verd  pour  les  chevaux  attelés. 

Deux  autres  pareilles  de  coeti  bleu  doublé  de  iaune. 

Deux  foets  plaqués  pour  le  phaéton  et  cabriolè. 

Une  paire  de  vieux  harnois  de  phaéton  avec  tétières  et  mors  garnis  en 
cuivre. 

Une  autre  paire  de  vieux  harnois  garnis  en  cuivre. 

Trois  colliers  et  martingale  plaquées. 

Outre  plusieurs  autres  bagatelles  qui  sont  à  la  connaissance  du  dit  More 
par  Tinventaire  du  piqueur.  Et  les  deux  tiers  des  ustensiles  d'écurie. 

Tous  les  grands  rideaux  de  grosse  toile  qui  garnissent  tout  le  garde  harnois. 

Plusieurs  paires  de  souliers  neufs  et  deux  paires  de  bottes. 

Moi  soussigné,  je  certifie  que  tous  les  effets  ci  dessus  détaillez  de  ma  propre 
main  m'appartiennent  en  propre. 

15  mai  1793.  Le  Gomte  Vittorio 

Alfieri  demeurant  à 
Florence. 


IL 

Lettre  de  Madame  de  Pons  à  Madame  d'Albany. 

Madame, 

J'ai  regu  la  lettre  dont  elle  a  bien  voulu  m'honorer  le  19  de  novembre. 
C'est  avec  beaucoup  de  regret  que  je  me  vois  obligée  de  lui  représenter 
qu'elle  a  confondu  les  époques  qui  ont  rapport  à  Tacquisition  de  mes  meubles. 
Madame  me  dit  que  son  homme  d'affaires  a  pensé  étre  guillotiné  pour  m'en 
avoir  payé  le  prix.  Suivant  nos  conventions,  ils  auraient  dù  Tètre  le  jour 
qu'elle  a  pris  possession  de  ma  maison,  et  c'est  le  4  de  janvier  qui  lui  ont 
eté  remis.  Je  trouve  sur  le  compte  de  mon  homme  d'aflfaires  qu'ils  ont  été 
payé  le  11  février.  Je  ne  veux  point  reparler  du  préjudice  que  ce  retard  de 
6  semaines  m*a  cause.  Le  décret  de  confiscation  contre  les  emigrés  n'a  été 
rendu  qu'à  la  fin  de  mars  et  n'avoit  point  d'effet  rétroactif,  et  le  produit  de 
cette  vente  faite  à  l'amiable  ne  pouvoit  étre  saisi.  Ainsi  ces  dates  et  ces 
circonstances  ne  peuvent  avoir  compromis  l'homme  d'aflfaires. 

Madame  me  dit  qu'elle  ne  sait  point  ce  qu'est  devenue  la  personne  chargée 
de  ses  aflfaires  et  de  ses  papiers.  Elle  n'est  cependant  pas  à  une  aussi  grande 
distance  de  la  France  pour  n'avoir  put  en  savoir  des  nouvelles.  Si  elle 
vouloit  bien  me  fa  ire  dire  son  nom,  je  pourrois  par  mes  correspondans  dé- 
couvrir  son  domicile,  ou  faire  mettre  dans  les  journaux  que  l'on  voudroit 
conférer  avec  lui. 


244  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

Je  con9ois  très  aisément  que  madame  a  perdu  de  vue  tout  ce  qui  regarde 
ma  réclamation,  qu'elle  avait  oublié  la  forme  et  les  clauses  de  son  baii: 
mais  enfin  j'espère  qu'elle  voudra  bien  avoir  la  bonté  de  constater  la  légi- 
timité  de  ma  oemande,  et  je  croyois  la  lui  avoir  prouvée. 

Si  madame  avait  bien  voulu  lire  avec  attention  la  dernière  lettre  que  j*ai 
eu  rhonneur  de  lui  écrire,  elle  y  auroit  vu  que  je  ne  supposois  point  que 
monsieur  le  comte  de  Vernigerod  fùt  son  débiteur.  Mais  comme  je  connais 
particulièrement  sa  bienfaisance,  principalement  en  faveur  des  émigrés,  je 
lu^eois  que  d'après  la  demande  de  Maaame  quii  se  seroit  fait  un  plaisir  de 
lui  préter  ce  dont  elle  m'est  redevable. 

J'avouerai  ingénuement  à  Madame  que  je  n'ai  pas  bien  compris  ce  qu'elle 
a  voulu  me  dire  lorequ'elle  ma  assuré  crue  fetois  très-riche.  Se  le  voudrois, 
puisque  je  pourois  faire  un  bon  usage  de  mes  richesses.  Et  méme  si  elles 
étaient  véritables,  elles  n'auroient  aucun  rapport  à  ma  réclamation.  Du  moins 
je  n'y  en  vois  point. 

J'ai  rhonneur  d'étre  avec  respect  de  Madame 

la  très  humble  et  très  obéissante  servante 
la  Comtesse  douairière  de  Pons. 


La  contessa  d'Albany  e  Ugo  Foscolo.  —  L'ortografia  e  la  grammatica 
senza  scrupoli  della  famosa  Contessa  somigliano  alla  sua  non  troppo  scru- 
polosa coscienza  di  donna  e  di  gentildonna  ;  e  poiché  ormai  è  assai  noto 
come  V amica  dell'Alfieri  scrivesse  e  sentisse,  recarne  nuovi  documenti,  può 
parere  superfluo.  Noti  son  pure  i  rapporti  da  lei  avuti  col  Foscolo,  e  ne  son 
rimaste  copiosissime  testimonianze  nell'epistolario  foscoliano  e  nelle  lettere 
della  Contessa  edite  dall'Antona-Traversi  e  dal  Bianchini;  ma  in  tutto  quel 
carteggio,  diciamolo  pure,  non  c'è  sillaba  che  giustifichi  il  geloso  sospetto 
della  buona  Quirina  Mocenni,  che  il  Foscolo  sentisse  per  l'Albany  il  pù- 
zicor  d'amore;  o  la  sicurezza  dell'Antona-Traversi,  secondo  il  quale  <  il 
€  pizzicore  ha  dovuto  esserci,  ma  più  della  Contessa  per  il  Foscolo,  che  non 
€  di  Ugo  per  la  Contessa  »  (1).  Luisa  Stolberg,  nella  sua  flemma  tedesca, 
fu  capace  di  tutto,  fuorché  d'una  pazzia  ;  e  dal  pericolo  di  pensarne,  nonché  di 
commetterne,  la  salvavano  ormai,  oltre  l'altre  circostanze,  i  suoi  sessant'anni 
sonati;  né  il  poeta  delle  Grazie  meritava  che  gli  si  facesse  il  gravissimo 
torto  di  supporlo,  anche  per  mezz'  ora,  innamorato  d'una  donna  d'  «  età  > 
—  avrebbe  dovuto  dire  l'Antona-Traversi  (2)  —  più  che  «  mediocremente 
<  matura  ». 

E  nemmeno  tra  que'  due  dovette  esserci  mai  vera  amicizia.  L'ingegno,  la 
fama  e  le  avventure  d'Ugo  poterono  interessare  la  signora,  che  dilettavasi 
di  letteratura,  di  politica  e,  forse  più,  di  pettegolezzi  mondani;  e  ad  Ugo 


<1)  C.  AaTOKA-TBATiMi  6  D.  BiAKCHiMi,  MUtt  i$ttdiU  di  lMi$a  StMtrg  c<mt$$$a  d'Àlkmif 
«  Ugo  Foicolo  ecc.,  Roma,  Molino,  1887,  pp.  LTi-m. 
(2)  /ri,  p.  LTiii. 


COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI  245 

potè  piacere  d'aver  libero  e  frequente  accesso  al  salotto  della  signora,  che 
possedeva  in  grado  eminente,  se  crediamo  ai  contemporanei,  l'arte  della 
conversazione,  conosceva  tanta  gente,  aveva  tanta  esperienza  d'uomini  e  di 
cose,  portava  (non  con  grande  dignità,  a  dir  vero)  un  gran  nome,  aveva 
una  storia  e  una  leggenda,  custodiva  le  memorie  e  i  cimeli  di  un  poeta  a 
lui  caro  come  suo  vero  padre  spirituale;  ma  troppa  distanza  d'indole  e  di 
anni  c'era  tra  i  due  perchè  riuscissero  a  stringersi  di  salda  amicizia;  né  la 
saggia  Contessa  poteva  intendere  gli  umori  fantastici,  le  ardite  scapigliature 
d'Ugo;  né  questi  poteva  a  lei  perdonare  le  volgarità  e  le  grettezze  e  gli 
egoismi  fondamentali  della  sua  indole. 

La  loro  amicizia,  chiamiamola  cosi,  s'intorbidò  sulla  fine  del  '14,  quando 
Ugo  ritenne  indiscretamente  divulgata  dalla  Contessa  la  storia  dei  cinquanta 
zecchini  chiestile  a  prestito;  si  ruppe  (ma  non  tutt'a  un  tratto)  più  tardi, 
quando  la  Contessa  non  tralasciò  occasione  di  significare  ad  Ugo  eh'  essa 
disapprovava,  come  una  bestialissima  pazzia,  quel  suo  ghiribizzo  d'espatriarsi 
e  d'affrontare  povero  e  solo  i  dolori  di  un  esilio  non  necessario. 

Dopo  la  lettera  del  22  marzo  1816  (1),  piena  del  solito  suo  scetticismo  e 
di  molta  ironia,  in  cui  l'Albany  si  rallegrava  col  Foscolo  che  fosse  favola 
la  diceria  del  suo  suicidio  (al  quale  del  resto  essa  non  aveva  mai  prestato 
fede),  la  corrispondenza  epistolare  fra  i  due  fu  sospesa  per  vari  anni.  «  On 
€  avait  repandu  »  —  scriveva  la  sarcastica  signora  —  «  que  vous  vous  etiez 

«  brulé  la  cervello Le  dire  et  le  faire  sont  deux  choses  difFerentes,  et 

€  parceque  vòtre  Ortis  c'est  tue,  ce  n'est  pas  une  raison  que  vous  le  fassiez 

«  aussi Vous  aimez  trop  la  benne  chere,  et  les  agrements  de  la  vie 

«  pour  y  renoncer  ».  Ai  tetri  furori^ealle  tragiche  disperazioni  del  Foscolo 
essa  non  credeva;  l'uomo,  secondo  lei,  era  ben  diverso  dal  poeta,  e  il  sen- 
timentalismo di  questo  non  era  proprio  l'intimo  sentimento  di  quello.  Essa, 
conoscendolo  da  vicino,  permettevasi  di  giudicarlo  ben  diversamente  da  co- 
loro che  lo  conoscevano  da'  suoi  scritti;  e  perciò  se  lo  figurava  già  mezzo 
pentito  d'essersi  andato  a  cacciare,  senza  necessità,  «  dans  les  neiges  de  la 
€  Suisse  »,  mentre  poteva  «  vivre  tranquillement  a  Milan  »  ;  pentito  d'aver 
concesso  alla  sua  «  fantaisie  »  la  soddisfazione  di  atteggiarsi  a  «  victime 
«  devouée  »  della  libertà. 

Io  non  so  come  il  Foscolo  abbia  potuto  mostrar  di  perdonare  (che  glieli 
abbia  perdonati  davvero,  non  consta)  alla  Contessa  cotesti  complimenti,  tor- 
nando a  carteggiare  con  lei,  di  li  a  qualche  anno,  in  tòno  amichevole;  ma 
se  c'era  ragione  di  perdonarglieli,  la  sola  era  questa:  che  la  vecchia  signora, 
incapace  di  pensieri  eroici,  scettica,  utilitaria,  era  stata  almeno  sincera,  e 
gli  aveva  manifestato  schiettamente  il  suo  pensiero. 

Non  tutto  però;  perché,  scrivendo  ad  altri,  essa  non  s'accontentava  di 
ripetere  che  in  fin  de'  conti  l'eroico  patriottismo  del  Foscolo  era  un'ambi- 
ziosa ciarlataneria,  ma  aggiungeva  qualche  nuova  malignità,  che,  scrivendo 
a  lui,  non  avrebbe  mai  arrischiata. 

Ne  fa  testimonianza  la  seguente  lettera  inedita,  indirizzata  al  marchese 


(1)  Ivi,  p.  165. 


246  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

Vittorio  Colli-Ricci  di  Felizzano  (1),  senza  firma,  ma  autografa,  ch'io  trovai 
tra  l'altre  parecchie  indirizzate  dalla  Contessa  alla  medesima  persona  (2): 

Le  26  juillet  [1816]  (3). 

J'ai  recu,  mon  cher  Vittorio,  votre  lettre  du  14  le  23  de  ce  mois,  et  ie 
m'empresse  de  vous  en  remercier,  et  d'accuser  la  lettre  de  change  qui  m  a 
été  payée  très  exactement,  et  ce  (sic)  un  très  bon  secours.  Il  vaut  toujours 
mieux  en  avoir  sur  Paris,  on  les  negocie  mieux  que  toutes  les  autres.  Je  vous 
prie  d'en  remercier  votre  bonne  maman  de  ma  part  et  de  lui  reme ttre  le 
recu  ici  inclus. 

Kecomandez  lui  de  se  soigner  et  de  [se]  conserver  pour  les  personnes  qui 
l'aiment. 

M.'  e  M.™«  Lucchesini  (4)  sont  à  la  campagne  et  volent  beaucoup  de 
monde,  tous  ceux  qui  vont  aux  bains  de  Lucques,  et  c'est  la  fureur  cette 


(1)  Nato  ad  Alessandria,  nel  1787,  morto  a  Torino  nel  1856.  Figlioccio  di  Vittorio  Amedeo  m, 
era  paggio  di  Carlo  Emanuele  IV  qnando  sopragginnsero  i  rivolgimenti  politici  che  obbligarono  i 
Savoia  a  esalare  dal  Piemonte.  Seguì  la  via  tracciatagli  da  suo  padre,  qael  Luigi  Colli,  a  cui 
lo  zio,  Vittorio  Alfieri,  rivolse  una  lettera  di  rimprovero  da  molto  tempo  pubblicata;  e  militò 
sotto  le  bandiere  francesi.  Uscito  incolume  da  vari  combattimenti  e  battaglie,  a  cui  prese  parte 
col  suo  reggimento,  che  fu  il  23»  dei  cacciatori  a  cavallo,  a  Wagram  perdette  una  gamba,  e  fu 
giubilato.  In  seguito  fu  nominato  da  Napoleone  auditore  al  Consiglio  di  Stato,  e  poi  sottoprefetto 
di  Alessandria.  Caduto  l'impero,  prese  moglie  e  si  ritrasse  a  vita  privata,  fino  al  1837,  quando 
Carlo  Alberto  lo  nominò  presidente  d'una  commissione  incaricata  di  provvedere  alla  fondazione 
d'un  ricovero  pei  poveri.  Altri  più  importanti  affici  ebbe  appresso,  e  della  città  di  Torino  fa 
decurione  e  poi  sindaco  (1846-48).  Proclamata  la  costituzione,  ebbe  un  seggio  in  Senato,  e  nel 
luglio  del  *48  fu  spedito  a  Venezia  con  l'ufficio  di  commissario  regio  e  comandante  militare.  Nel 
triste  febbraio  del  '49  fu  incaricato  del  Ministero  aegli  esteri;  ma  per  breve  tempo;  e  con  quella 
sua  tarda  partecipazione  al  governo  chiuse  la  sua  carriera  politica.  —  Con  lui  l'Albany  carteggiò 
per  vari  anni;  ma,  tranne  quella  che  qui  pubblico,  le  lettere  di  lei  non  hanno  nulla  d'interessante. 
Contengono  le  solite  sue  massime  e  le  solite  frasi  di  complimento  ;  qualche  notisiola  indifferente  sa 
persone  oscure,  oppure  semplicemente  la  ricevuta  della  pensione  che  semestralmente  gli  eredi  del» 
l'Alfieri  le  pagavano  con  lettere  di  cambio  su  Firenze  o  su  Parigi.  Cotesta  pensione,  così  mal 
meritata,  ammontava  a  1540  lire  all'anno,  come  risulta  dalla  seguente  ricevuta  autografa: 

«  Je  reconnois  d'avoir  recu  de  madame  la  comtesse  Julie  Canalis  Cumiana  née  Alfieri  1540  livrea 
«  en  denz  semeetres  première  année  de  la  rente  viagere  que  m'a  laissé  le  conte  Vittorio  Alfleri 
«  par  son  testament  de  14  juillet  1793  ». 

«  Louise  de  Stolberg  comteae  d'Albaoy  • 
«  Florence,  le  20  deeembre  1804  ». 

Secondo  il  detto  testamento  dell'Alflerì,  eh*  è  a  stampa,  la  rendita  vitalizia,  coetitnÌt«  colle  pen- 
sioni  prima  destinate  a  tre  servitori,  avrebbe  dovuto  ewere  di  1400  lire;  e  io  non  saprei  per  qnal 
fortuna  la  contessa  tà%  poi  riuscita  a  riscootare  vita  nataral  durante  140  lire  più  di  quelle  portate 
dal  testamento. 

(2)  Ringrazio  sentitamente  il  sig.  Marchese  V.  Colli  e  la  gentilissima  signora  Marchesa  Maria 
Colli  nata  Piola-Caselli  sua  madre,  della  liberalità  con  coi  mi  concessero  di  trarre  dal  loro  archÌTÌo 
domestico  questo  ed  altri  piii  rilevanti  documenti,  di  cai  mi  varrò  nel  già  annantiato  mio  stadio 
snll'Alfieri. 

(8)  Che  la  lettera  sia  del  '16,  s'induce  con  sicurezta  dal  contesto;  e  perdo  ho  aggiunto  l'anno 
alla  data  incompleta  dell'autografo;  che  io  riproduco  con  tutte  le  sue  caratteristiche  scorrezioni, 
non  mettendoci  di  mio  che  qualche  segno  d'interpunzione,  poiché  la  Contessa  di  punti  e  di  vir- 
gole era  avara  quanto  si  dice  che  Ida  stata  avara  de'  suoi  quattrini. 

(4)  Certo  il  noto  marchese  Girolamo  Lnccheeini  e  sua  moglie;  pei  quali  rimando  a  ciò  che  no 
dice  lo  SroBSA,  Dodici  antddoti  storici,  Modena,  Namias,  1805,  p.  84. 


COMUNICAZIONI   ED   APPUNTI  247 

année;  les  anglois  sur  tout  vont  y  passer  l'été.  Mj  Foscolo  est,  je  crois, 
encore  a  Zurick,  il  y  etoit  au  mois  d'Avril.  Il  a  la  permission  d'aller  a 
Milan  ou  on  ne  lui  a  jamai  dit  de  partir;  mais  il  a  cru  se  faire  remarquer 
en  s'eloignant.  Il  m'a  écrit  quelques  fois,  et  je  lui  ai  toujour  dit  qu'en  ne 
s'occupant  que  de  litterature,  personne  ne  penserait  a  lui,  mais  il  alme 
qu'on  pense  a  lui.  11  a  beaucoup  d'esprit  en  petites  manneges,  je  doute  qu'il 
ait  assez  de  capital  pour  passer  a  la  posterité,  quoiqu'il  veuille  etre  le  pendant 
de  votre  Onde,  qui  a  son  age  avoit  deja  etabli  sa  reputation. 

Il  ne  sufRt  pas  de  vouloir  etre  un  grand'homme;  il  faut  en  avoir  les 
moyens,  et  la  nature  n'est  jamais  prodigue  en  cela. 

Nous  avons  a  Livourne  Marie  Louise,  qui  ne  volt  personne.  Elle  viendra 
ici  le  15  d'Aoust.  Je  compie  passer  mon  eté  tranquillement  a  Florence. 
M.™«  de  Stael  m'a  fait  Teloge  de  Turin,  elle  m'a  ecrit  de  cette  ville.  Je 
vois  que  vos  concitoyens  l'ont  fété  et  caressé.  lei  on  est  moins  gallant,  on 
est  plus  envieux  des  reputations  etrangeres. 

Portez  vous  bien,  mon  cher  Vittorio,  et  comptez  toujours  sur  mon  tendre 
interet.  Milles  compliments  a  M.*"  Pampara  (1)  et  a  la  G.[omtesse]  Masino. 
Disposez  de  mois  en  tout  ce  que  je  pourrais  vous  etre  utile. 

M.  Fabro  vous  presente  ses  hommages. 

La  lettera  spropositatissima  non  richiede  commento  (2).  Noto  soltanto 
l'espressione  equivoca  usata  dalla  Contessa  parlando  del  Foscolo:  «  il  a  la 
«  permission  d'aller  à  Milan  »,  che  poteva  far  sorgere  il  sospetto  di  tratta- 
tive ch'egli  avesse  intavolate,  e  di  un  formale  permesso  ch'egli  avesse  otte- 
nuto dalla  polizia  austriaca  di  rientrare  negli  Stati  di  S.  M.  I.;  e  noto  l'aperta 
sfiducia  ch'essa  mostra  nell'ingegno  del  Gorcirese,  che  non  sarebbe  mai  riu- 
scito, per  quanto  facesse  la  scimmia  dell'Alfieri,  a  passare  per  un  grande 
scrittore  e  un  grand'uomo.  Non  so  se  al  Foscolo,  dato  che  coleste  parole 
gli  fossero  state  riferite,  ed  egli  si  fosse  abbassato  a  lagnarsene,  essa  avrebbe 
avuto  faccia  di  rispondere,  com'altra  volta:  «  Je  n'ai  pas  besoin  de  vous  dire 
<  que  j'ai  toujours  parie  de  vous  comme  je  devais  et  sentais  »  (3);  ma  ca- 
pace di  rispondergli  cosi  certo  essa  sarebbe  stata;  e,  ingannandolo,  gli 
avrebbe  detto  la  verità. 

Emilio  Bertana. 


Un  riscontro  al  «  serio  accidente  »  per  cui  indossò  la  tonaca  padre 
Cristoforo.  —  In  realtà  non  proprio  al  serio  accidente,  sì  bene  all'antefatto 
semicomico  di  esso  oflfre  un  curioso  parallelo  il  documentino  che  sto  per 
comunicare.  Mi  si  conceda,  prima,  di  prepararvi  il  lettore  con  qualche  breve 
considerazione. 


(1)  Paraparato. 

(2)  Pei  rapporti  del  Foscolo  col  governo  aostriaco  di  Lombardia  e  sulle  circostanze  che  deter- 
minarono  la  eoa  foga  in  Isvizzera,  rimando  a  ciò  che  ne  scrisse  il  Chiarini,  nella  Prefazione 
ilV Appendice  alle  Opere  di  U.  F.,  Firenze,  Le  Monnìer,  1890. 

(8)  LetUre  inediU  cit.,  p.  134. 


248  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

Sebbene  in  molti  casi  sia  vera  l'asserzione  del  Brunetière  che  di  quanti 
influssi  si  esercitano  nella  storia  delle  lettere  il  più  notevole  è  quello  delle 
opere  sulle  opere,  a  me  parve  sempre  che  nel  caso  del  Manzoni  quest"  in- 
flusso sia  meno  forte  che  in  altri  artisti  della  penna  e  che  il  Manzoni  più 
di  altri  sia  ricorso,  anziché  ai  libri  altrui,  al  gran  tesoro  dell'osservazion 
sua  personale  e  ai  frutti  delle  sue  meditazioni  su  fatti  reali  registrati  nella 
storia  (1).  È  questa  la  ragione  per  cui  m'accadde  di  considerare  sempre  con 
special  simpatia  ricerche  del  genere  di  quelle  del  Bindoni  e  d'altri,  le  quali 
s'industriavano  di  porre  in  chiaro  ciò  che  il  Manzoni  attinse  dalla  realtà 
esteriore,  mentre  non  potei  dissimulare  certo  scetticismo  rispetto  alle  inda- 
gini dirette  a  scoprire  fonti  letterarie  dell'opera  massima  manzoniana. 

Dato  ciò,  come  si  comportano  di  fronte  alla  realtà  storica  la  figura  di 
padre  Cristoforo  ed  i  fatti  della  vita  di  lui? 

Lasciamo  da  banda  le  sottigliezze  con  cui  da  qualcuno  si  vollero  ravvi- 
sare anche  nelle  azioni  di  Lodovico-Cristoforo  certi  riflessi  soggettivi,  appar- 
tenenti alla  psiche  del  Manzoni  medesimo  (2).  Codesti,  a  parer  mio,  sono 
sogni,  e  per  giunta  sogni  non  belli  (3).  Sta  però  il  fatto  che  un  frate  Cri- 
stoforo cappuccino  esistette  nel  sec.  XVII  :  Cristoforo  Picenardi  da  Cremona, 
che  volontariamente,  per  ispirilo  di  cristiana  carità,  andò  ad  assistere  gli 
appestati  nel  lazzaretto  di  Milano  durante  il  contagio  del  1630  e  della  peste 
fu  vittima  (4),  Che  codesto  padre  Cristoforo  della  storia  abbia  influito  sul 
padre  Cristoforo  del  romanzo,  non  v'  ha  dubbio.  Ma  inoltre  il  Sailer,  in  un 
suo  scritto  pieno  d'acume  e  di  buona  critica,  cercò  di  far  accettare  il  paral- 
lelo con  un  cappuccino  storico  assai  ragguardevole,  fra  Giambattista  da  Mo- 
dena, già  uomo  di  sangue  e  di  corrucci,  che  al  secolo  fu  il  duca  Alfonso  III 
di  Modena,  ed  a  38  anni,  lasciato  al  suo  primogenito  il  potere,  si  ritirò 


(1)  Abbiamo  in  proposito  ana  esplicita  confessione  del  Manzoni,  che  quantunqae  assai  conosciate 
non  è  male  riferire.  Il  3  novembre  1821  egli  scriTeva  al  Faariel  :  «  Poar  tous  indiqaer  briòremeat 

«  mon  idée  principale  sur  les  romana  historiqaes je  vons  dirai,  quo  je  les  con^ois  comma  une 

«  représentation  d'an  état  donne  de  la  société  par  le  moyen  de  faits  et  de  caractèreo  «i  sembìa- 
«  iUt  à  la  réalité,  qn'on  puisse  les  croire  une  hùioir«  véritahìt  qWon  vitndrait  dt  éUcoutrir  ». 
Mamxomi,  Spùtolario,  edix.  Sforza,  I,  214.  Cfir,  Db  Qdbkuatib,  Jl  ManMoni  e  il  Fauritl,  Boma, 
1880,  p.  169. 

(2)  De  GoBnuTATifl,  AUts.  ManMoni,  Firenze,  1879,  pp.  251-52.  Debolmente  Io  combatte  lo 
Stampa,  Mantoni,  II,  133. 

(3)  In  qoeiti  oHimi  anni  si  ò  esagerata  assid  la  teadensa  a  dare  importansa  soggettira  ai  iktti 
ed  ai  sentimenti  che  il  Maatoai  narra  e  rappresenta  da  masstro.  In  effetto,  pochi  scrittori  furono 
al  pari  di  lui  obbiettivi,  nel  romance  almeno.  L'oggettività  del  sentimento  della  paura,  da  loi 
con  tanta  finezza  e  varietà  rappresentato,  fìi  dimostrata  assai  bene  dal  Bertana  (cfr.  qaesto 
Giom.,  XXXVI,  256-57).  Nelle  conversioni,  eoA  diverse,  di  Lodovico,  figlio  di  mercante,  e  del- 
l'Innominato, gran  oignore,  non  sono  in  modo  alcuno  dimostrabili  le  rispondenze  alla  conver- 
sione del  Mantoni  medesimo,  che  si  effettnò  in  condizioni  tatto  diverse  ed  ebbe  una  motivaxioa* 
radicalmente  differente,  anzi  in  certe  parti  fin  opposta.  Buono  ò  lo  stadio  sa  qaei  trapassi  psi- 
cologici fatto  da  un  filosofo,  O.  Vioam,  nello  scritto  Smor  OmrirMi»,  Plimomtmto  t /tu  Ori- 
tto/oro,  Firenze,  1895. 

(4)  Cfr.,  oltre  il  noto  libretto  dello  Stoppa»!,  spedalmenU  Cajjtù.  La  Lombardia  n»l$m.  HflU 
ia  StorU  minori,  Torino,  18«5,  II,  849.  n.  18,  e  anche  RtmimtemiM,  I,  159. 


COMDNIGAZIONl  ED  APPUNTI  249 

nel  1629  in  un  convento,  tocco  singolarmente  dalla  morte  prematura  e  santa 
della  moglie  sua  Isabella  di  Savoia  (1).  S'attenne  il  Sailer,  nell'esporre  e 
narrare  le  vicende  del  duca  cappuccino  e  nel  rilevare  i  riscontri  del  carat- 
tere suo  con  quello  di  padre  Cristoforo,  segnatamente  alle  Antichità  Estensi 
del  Muratori  e  un  poco  anche  alle  apologie  che  di  lui  dettarono  alcuni  suoi 
fratelli  nell'ordine.  Invece  su  base  documentale  ricostrusse  testé  quella  storia 
Niccolò  Rodolico  (2),  e  certo  nel  suo  racconto  le  cose  appaiono  alquanto 
diverse  da  quelle  esposte  dal  Sailer.  Non  sì,  peraltro,  che  ci  s' induca  a  dar 
ragione  al  Rodolico  quando  in  una  speciale  appendice  (3)  egli  combatte  la 
identificazione  del  Sailer.  Intendiamoci:  non  che  il  Manzoni,  pel  suo  Lodo- 
vico-Cristoforo, abbia  in  modo  alcuno  esemplato  il  duca  cappuccino.  Troppe 
e  troppo  palesi  sono  le  diversità  (4).  Ma  se  il  Manzoni  conobbe  la  storia  di 
Alfonso  (e  chi  sappia  quanto  accurata  sia  stata  sempre  la  sua  preparazione 
storica  non  dubiterà  che  l'abbia  conosciuta),  è  probabilissimo,  anzi  quasi 
certo,  che  da  essa  tolse  più  d'  una  ispirazione  per  delineare,  in  conformità 
allo  spirito  del  tempo,  la  figura  di  Lodovico-Cristoforo  (5). 

Lodovico,  del  resto,  non  si  converte  per  la  soavità  della  moglie  tenera- 
mente amata  e  morta  anzitempo;  ma  è  tratto  alla  religione  da  un  serio 
accidente  che  gli  accade  per  le  vie  della  sua  città.  Mentre  se  ne  andava, 
seguito  da  due  bravi  e  dal  maestro  di  casa  (Cristoforo),  pe"  fatti  suoi,  s'im- 
battè in  «  un  signor  tale,  arrogante  e  soverchiatore  di  professione  »,  che 
sprezzantemente  s'avanzava  seguito  da  quattro  bravi.  Entrambi  camminavano 
rasente  al  muro,  e  siccome  nessun  de'  due  volle  cedere  il  passo,  ne  nacque 
una  rissa,  in  cui  quel  signor  tale  ammazzò  il  buon  Cristoforo,  e  Lodovico 
fece  a  lui  un  occhiello  nel  ventre,  per  cui  ben  presto  raggiunse  Cristoforo 
nell'altro  mondo  (6). 

0  come  mai!,  ci  chiediamo  noi,  conseguenze  sì  gravi  d'un  caso  sì  tenue, 
anzi  futile?  Due  metton  mano  alle  spade  e  si  sbudellano  sol  perchè  non 
s'intendono  su  chi  debba  cedere  il  passo  per  via?! 

Eppure  il  Manzoni  anche  in  questo  minimo  particolare  non  inventa.  Una 
domenica  del  maggio  1614  rideva  sulle  vie  di  Bologna,  allorché  vi  s'incon- 


(1)  7/  padre  Cristoforo  nel  romanzo  e  nella  storia,  nel  voi.  D'Ovidio  e  Saileb,  Discussioni 
manzoniane.  Città  di  Castello,  1886,  pp,  147  sgg. 

(2)  L'abdicazione  di  Alfon$o  111  d'Este,  Bologna,  Zanichelli,  1901. 

(3)  Op.  cit.,  pp.  87  8gg. 

(4)  Una,  fra  le  altre,  trascurata  aflFatto  dal  Rodolico,  è  massima  :  lo  stato  sociale  del  tutto  di- 
verso dei  due  personaggi.  Lodovico  è  figlio  di  mercante.  Se  il  Manzoni  voleva  attenersi  ad  Al- 
fonso III,  ne  avrebbe  per  lo  meno  fatto  nn  gentiluomo,  nel  qual  caso  la  sua  conversione  sarebbe 
riuscita  anche  più  straordinaria  ed  edificante.  Il  Sailer  ha  detto  bene  che  il  fatto  storico  del 
daca  cappuccino  appare  ben  più  inverosimile  della  storia  fantastica  di  Lodovico  divenuto  frate 
Cristoforo. 

(5)  Si  noti  pure  che  il  Manzoni,  in  ogni  caso,  per  conoscere  le  vicende  del  duca  cappuccino, 
disponeva  del  materiale  medesimo  a  cui  è  ricorso  il  Sailer.  1  documenti  noti  al  Rodolico,  che  ne 
modificano  alquanto  il  valore  psicologico,  egli  non  poteva  conoscere;  quindi  l'accostamento  del 
Sailer  non  perde  valore  per  la  scoperta  di  particolari  certamente  ignoti  all'autore  dei  Promessi 
Sposi. 

(6)  Occorrerà  appena  rinviare  alla  narrazione  del  capit.  lY  del  notissimo  libro. 


250  COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

trarono  a  caso  il  marchese  Cesare  Pepoli  ed  il  senatore  Aurelio  Armi.  L'uno 
come  senatore,  l'altro  come  patrizio,  pretendevano  d'esser  lasciati  passare. 
Anche  lì  si  venne  alle  mani  e  l'Armi  ci  perde  la  vita  (1).  Spagnolerie!,  si 
penserà.  L'etichetta  e  la  burbanza  spagnuola,  che  portano  i  loro  frutti  anche 
in  Italia.  Niente  afTatto.  Abbiamo  indizio  che  anche  prima  della  preponde- 
ranza spagnuola  casi  simili  accadevano  fra  noi.  In  una  di  quelle  molte  let- 
tere in  cui  Isabella  Gonzaga  informava  il  marito  assente,  con  uno  scrupolo 
veramente  esemplare,  di  quanto  accadeva  in  Mantova,  troviamo  notificato, 
in  data  17  die.  1507:  «Questa  matina  essendosi  incontrati  a  caso  suso  uno 
«  cantone  m.  Francisco  Suardo  et  Zoan  Ludovico  da  Gonzaga,  per  non  ce- 
<  dersi  l'un  l'altro  la  via  sono  stati  fermi  più  de  una  bora  contendendo  de 
€  precedentia,  l'uno  per  esser  Gavaler,  l'altro  de  la  casa  de  Gonzaga.  Final- 

€  mente  per  Consilio (di  accorsi)  se  voltorono  l'uno  al  contrario  de  l'altro, 

«  ritornando  per  la  via  dove  erano  venuti,  cum  spectaculo  numeroso  de  gente  >. 
Questa  è  farsa;  ma  il  motivo  di  questa  farsa,  che  ci  fa  ancora  ridere  raflB- 
gurandocelo  nella  mente,  è,  come  si  vede,  il  medesimo  per  cui  degenerarono 
in  tragedia  i  casi  del  Pepoli  e  di  Lodovico. 

Rodolfo  Renier. 


NOTICINA  DANTESCA.  Il  «CAPPELLO»  E  LA  PREGHIERA  DI  MANFREDI  MO- 
RENTE. —  Nell'ultimo  fascic.  del  Bullettino  d.  Società  dantesca  (N.  S.,  Vili, 
169  sgg.)  mi  sforzai  di  difendere  la  tradizionale  interpretazione  del  cappello 
dantesco  {Farad.,  XXV,  9)  contro  le  forti  obbiezioni  dell'amico  Novati,  il 
quale  aveva  proposto  di  sostituire  alla  corona  poetica  il  berretto  dottorale. 
L'egr.  prof.  A.  Fiammazzo  opportunamente  richiama  ora  l'attenzione  mia 
sopra  un  passo  della  sua  Notizia  dal  cod.  Grumelli  ecc.  (//  commento  dan- 
tesco  di  Alberico  da  Rosciate  ecc.,  Bergamo,  1895,  p.  17)  aggiungendo  che 
il  cod.  Bodlejano  (Canonici  ital.,  449;  di  poco  diflferisce  dal  Grumelliano  e 
dal  Laurenz.,  pi.  XXVI,  sin.  2.  Il  Da  Rosciate,  nel  proemio  del  Lana  al 
Canto  I  del  Paradiso,  e  propriamente  al  passo  da  me  ricordato  nella  citata 
recensione,  prosegue  cos'i  :  Poetae  ponehant  sciencins  in  parnaso  et  eorum 
deum  Appolinem  a  quo  sumebant  coronacionem  sicut  modo  fit  a  doctoribus 
[Grum.;  in  bononia  vel  padua  vel  in  aliis  locis  ad  hoc  deditis\  Et  sicut 
moderni  in  signum  corone  [Bodl.;  coronationis]  recipiunt  birettum  ita 
Appolo  dabat  eis  unam  coronam  de  lauro  in  signum  coni>entus.  E  neppure 
a  questa  chiosa  si  può  negare  un  certo  valore. 

Più  oltre  (p.  174),  accennando  all'ipotesi  del  Novati  circa  l'esistenza  d'un 
ritmo  latino  commemorante  la  morte  di  Manfredi  pentito,  notavo  che  a  di- 
minuire la  singolarità  del  caso  pel  quale  le  cinque  parole    Deus,  propitius 


(1)  So  docamenti  narra  qnMlo  fatto  il  Rodolioo,  Op.  cit,  pp.  15 


COMUNICAZIONI  ED   APPUNTI  251 

esto  mihi  peccatori  occorrono  quasi  identiche  nella  Imago  di  Jacopo  da 
Acqui  e  in  un  componimento  goliardico,  sta  il  fatto  che  esse  riappaiono  in 
una  Vita  di  S.  Francesco  d'Assisi,  in  modo  da  assumere  il  carattere  di 
«  una  formula  comune  d'invocazione  religiosa,  di  una  specie  di  giaculatoria  ». 
A  dare  una  conferma  insperata  a  questa  mia  osservazione  il  prof.  F.  C.  Pel- 
legrini mi  scrive  cortesemente  avvertendomi  che  le  suddette  parole  sono 
prese  alla  lettera  da  un  testo  evangelico.  Infatti  nella  nota  parabola  del 
fariseo  e  del  pubblicano,  contenuta  in  S.  Luca  (XVIII,  13),  si  legge  :  «  Et 
€  publicanus  a  longe  stans,  nolebat  nec  oculos  ad  coelum  levare,  sed  per- 
«  cutiebat  pectus  suum,  dicens  :  JDeus^  propitius  esto  mihi  peccatori  ».  L'im- 
portanza di  questo  riscontro  è  accresciuta  dal  vedere  che  nel  Vangelo  le 
parole  in  questione  sono  date  da  Gesù  come  la  preghiera  tipica,  la  pre- 
ghiera efficace  per  eccellenza  innanzi  a  Dio,  contrapposta  a  quella  vanitosa 
del  fariseo.  Giova  inoltre  rammentare  che  la  frase  «propitius  esto»  è 
usata  dalla  Chiesa,  per  es.,  nelle  litanie  dei  Santi,  preghiera  di  penitenza, 
che  Dante  fa  pur  cantare  dalle  anime  penitenti  della  seconda  cornice  (Pur^ 
gatorio,  XIII). 

Vittorio  Gian. 


ORON^C^ 


PERIODICI. 


Atti  della  R.  Accademia  delle  scienze  di  Torino  ^XXXVl,  8):  P.  Gam- 
bèra,  Cronografia  del  mistico  viaggio  di  Dante,  conferma  con  nuovi  dati 
la  primavera  del  1300  come  il  tempo  in  che  D.  pone  la  sua  visione,  anzi 
crede  che  nessuna  seria  obiezione  scientifica  renda  impossibile  l'ammettere 
che  il  viaggio  cominci  la  sera  del  7  aprile  1300  (1).  Posto  questo  principio, 
determina  il  tempo  del  cammino  dantesco  sui  dati  offerti  dal  poeta.  Il  viaggio 
per  l'inferno  dura  45  ore;  passano  120  ore  dal  momento  in  cui  il  poeta 
giunge  al  centro  terrestre  fino  a  quello  in  cui  spicca  il  volo  dal  monte  del 
purgatorio;  24  ore  dura  il  viaggio  celeste  sino  al  nono  cielo;  11  ore  trascor- 
rono nel  nono  cielo  e  nell'empireo.  Quindi  «  il  viaggio  dantesco  durò  (tempo 
€  di  Firenze)  dalle  ore  8  di  sera  del  7  aprile  alle  ore  4  del  mattino  (alba) 
«  del  16  aprile  1300;  cioè  quasi  otto  giorni  e  mezzo,  e  precisamente  200  ore  ». 

Archivio  storico  italiano  (XXVII,  221):  V.  D.  Valla,  Paolo  Tranci  autore 
di  un  ms.  anonimo,  con  alcune  magre  informazioni  sull'annalista  pisano. 

Archivio  storico  lombardo  (XXVIII,  29):  A.  Zanelli,  Predicatori  a  Brescia 
nel  quattrocento,  i  più  notevoli  fra  i  predicatori  di  cui  qui  si  parla  sono 
Bernardino  da  Siena,  Alberto  da  Sarteano,  Giovanni  da  Capistrano,  Roberto 
Caracciolo,  Bernardino  da  Feltre;  A.  Luzio,  Isabella  d'Este  e  la  corte  sfor- 
zesca, discorso  in  cui  sono  utilizzati  anche  vari  documenti  finora  ineaiti; 
(XXVIII,  30);  V.  Vitale,  Bernabò  Visconti  nella  novella  e  nella  cronaca 
contemporanea,  lavoretto  interessante,  i  novellieri  di  cui  si  occupa  sono  il 
Sacchetti,  Ser  (Giovanni  Fiorentino  ed  il  Sercambi;  Maria  a  Marca,  Lettere 
inedite  di  U.  Foscolo  in  Svizzera,  una  pronipote  del  governatore  Clemente 
a  Marca  pubblica  qui  cinque  lettere  del  Foscolo  dirette  nel  1815  al  bisavo 
di  lei.  —  Nella  rubrica  appunti  e  notizie,  a  p.  421,  il  Novati  comunica  Poe- 
metti volgari  ignoti  sulla  calata  di  Carlo   Vili  in  Italia. 

Atti  del  R.  Istituto  veneto  (LX,  2):  F.  Cipolla,  Catone,  osservazioni  al 
recente  opuscolo  nuziale  di  G.  B.  Zoppi,  Sul  datone  dantesco.  Verona,  Ì900; 


(1)  Poco  H  F.  Cantelli,  in  nn  articolo  intitolato  Ixi  eonotcertMO  iti  tempi  ntl  viaggio  dantueo 
(Tol.  29  degli  Atti  dell' Àeeadtmia  Ponianiana)  fece  on  calcolo  non  direno  da  quello  del  Oan- 
bèra,  par  sapponendo  la  risione  arrenata  nella  primarera  del  ISOl .  Il  lavoro  del  Cantelli  riscosM, 
naturalmente,  la  piena  approratione  del  prof.  Angelitti.  Vedi  BulUttino  Soc.  DanUsca,  N.  S. , 
Vili,  204-5. 


CRONACA  253 

(LX,  3),  B.  Brugi,  La  Facoltà  giuridica  di  Padova  e  le  onoranze  a  Baldo 
in  Perugia;  (LX,  4),  A.  Favaro,  Intorno  ai  cannocchiali  costruiti  ed  usati 
da  Galileo  Galilei;  N.  Tamassia,  Nuovi  studi  sulla  «  defensa  »,  menzio- 
nata notoriamente  nel  contrasto  di  Cielo  d'Alcamo,  al  cui  chiarimento  la 
nota  giuridica  del  T.  contribuisce;  (LX,  5),  V.  Grescini,  Yarietà  filologiche^ 

3uesto  scritto,  su  cui  ritorneremo,  tratta  nella  prima  parte  della  testimonianza 
el  secolo  VII  circa  il  volgare  italiano  fatta  conoscere  dal  Novati  e  nella 
seconda  della  Teseide  boccaccesca,  a  proposito  dell'articolo  di  P.  Savj -Lopez 
pubbl.  nel  voi.  36  del  Giornale  nostro. 

Rendiconti  della  R.  Accademia  dei  Lincei  (Serie  V,  X,  1-2):  F.  Tocco, 
Nuovi  documenti  sui  dissidi  francescani^  comunica  alcuni  documenti  sulle 
controversie  dei  fraticelli  e  dei  loro  adepti,  che  il  p.  BoflBto  rinvenne  nel- 
l'archivio vaticano;  G.  F.  Gamurrini,  Di  alcuni  versi  volgari  attribuiti  a 
S.  Francesco,  rinvenuti  in  un  ms.  della  Nazionale  di  Napoli  e  assegnati  al 
santo  d'Assisi  senza  nessuna  buona  ragione  critica;  (X,  3-4),  0.  Tommasini, 
Wolfgang  Goethe  e  Niccolò  Machiavelli^  nota  rilevante  sulla  cognizione 
che  il  Goethe  ebbe  delle  opere  di  Machiavelli  e  dimostrazione  del  fatto  cu- 
rioso e  finora  inavvertito  che  in  Tommaso  Machiavelli,  introdotto  nelVEgmoitt 
come  segretario  della  duchessa  Margherita  di  Parma,  sono  adombrate  le  teorie 
politiche  del  grande  segretario  fiorentino;  V.  Grescini,  Di  un  «  conseill  » 
male  attribuito  a  Raimbaut  de  Vaqueiras. 

Memorie  della  R.  Accademia  di  Modena  (Serie  III,  voi.  II):  F.  Borsari, 
A  proposito  di  una  lettera  di  Ugo  Foscolo  delli  iO  ottobre  1812,  pubblica 
ed  illustra  una  lettera  inedita  del  Foscolo  a  Luigia  Conti  nioglie  di  Michele 
Araldi. 

Bullettino  senese  di  storia  patria  (VIII,  1)  :  E.  Casanova,  La  donna  se- 
nese del  quattrocento  nella  vita  privata,  buon  contributo  alla  storia  del 
costume,  il  cui  maggior  pregio  sta  nei  copiosi  documenti  che  riferisce. 

Rivista  abruzzese  (XVI,  5):  M.  Romano,  /  «  Tumulorum  libri  »  di 
G.  Pantano  e  la  poesia  sepolcrale;  L.  Galante,  Alcuni  contrasti  delle  sta- 
gioni e  dei  mesi,  rilevante. 

//  bene  (25  dicembre  1900):  P.  Bellezza,  /  sette  dubbi  d'un  Manzoniano, 
con  la  sua  grande  ed  intima  conoscenza  dei  Promessi  Sposi  il  B.  espone 
alcune  contraddizioni  e  incongruenze  (almeno  apparenti]  da  lui  osservate 
nel  romanzo.  Fu  risposto  da  vari  nei  num.  13-20  del  medesimo  periodico 
milanese.  Alcune  risposte  sono  ingegnose;  ma  le  più  si  riducono  a  chiac- 
chiere vane,  (gualche  corrispondente,  a  sua  volta,  propose  altri  dubbi  più  o 
meno  legittimi. 

Studt  di  filologia  romanza  (n®  23):  G.  Bertoni,  Rime  provenzali  inedite, 
dal  ms.  Campori  scoperto  dal  B.  (cfr.  Giorn.,  34,  118)  sono  qui    riprodotti 

5 li  unica  sinora  inediti  appartenenti  a  poeti  originari  di  Provenza;  F.  Guerri, 
ntorno  a  un  verso  di  Lanfranco  Cigala,  nel  serventese  contro  Bonifacio  1 1 
di  Monferrato. 

Rassegna  critica  della  letteratura  italiana  (V,  9-12)  :  G.  Zaccagnini, 
L'autore  delle  dichiarazioni  alla  «  Secchia  rapita  »,  contro  la  dimostra- 
zione del  Gerboni,  ribadisce  la  credenza  tradizionale  che  quelle  dichiarazioni 
siano  opera  del  Tassoni  medesimo;  M.  Porena,  Per  l'interpretazione  del 
sonetto  petrarchesco  €  Anima  bella  if,  si  accosta  nell' interpretare  l'ultima 
terzina  all'opinione  del  Sicardi;  E.  Mele,  Di  alcuni  versi  di  poeti  italiani 
nel  Don  Quijote,  ai  versi  italiani  già  rilevati  nel  nostro  Giornale,  34,  457, 


254  CRONACA 

ne  aggiunge  qui  altri,  dell'Ariosto,  del  Poliziano,  di  Serafino  Aquilano  ; 
F.  Beandone,  A  proposito  di  Lapo  Gianni,  con  più  temerità  che  arditezza 
si  crede  licenziato  ad  identificare  col  rimatore  Lapo  Gianni  un  Lapus 
Johannis  mercante  fiorentino,  che  dimorò  nel  regno  di  Napoli  tra  il  1315 
ed  il  1321  e  fu  tra  i  famigliari  di  re  Roberto;  A.  Borzelli,  Ancora  deU 
Vautore  del  «  Pianto  d^ Italia  »,  combatte  l'attribuzione  al  Marino  e  sostiene 
che  quel  poemetto  è  opera  del  Testi. 

Bollettino  della  Società  geografica  italiana  (Serie  IV»  li,  1):  P.  Peragallo, 
Viaggio  di  Geronimo  da  Santo  Stefano  e  di  Geronimo  Adorno  in  India 
nel  Ì494'96. 

Archeografo  triestino  (N.  S.,  XXllI,  2):  G.  Vidossich,  Studi  sul  dialetto 
triestino;  A.  Gentille,  Una  lettera  inedita  di  C.  Goldoni,  biglietto  poco 
significante  del  Goldoni  a  Vettore  Gradenigo  (22  febbraio  1780),  conservato 
nella  biblioteca  civica  di  Trieste.  Nell'accurata  illustrazione  sono  chiariti  i 
rapporti  del  Goldoni  col  Gradenigo  suo  benefattore.  È  qui  pure  pubblicata 
una  qiiitanza  della  madre  del  Goldoni,  con  che  viene  raffermato  il  nome  della 
famiglia  di  lei,  non  che  quello  di  battesimo. 

Archivio  storico  siciliano  (XXV,  3-4):  Millunzi  e  Salomone-Marino,  Un 
processo  di  stregoneria  nel  1623  in  Sicilia  ;  M.  Natale,  Due  codici  inediti 
di  Antonio  Beccadelli,  breve  cenno  di  due  mss.  della  Barberiniana  conte- 
nenti discorsi,  lettere  e  poesie  del  Panormita. 

Atti  e  memorie  della  R.  Deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie 
di  Romagna  (Serie  III,  XIX,  1-3):  F.  Bosdari,  Giovanni  da  Legnano  co- 
nonista  e  uomo  politico  del  1300;  A.  Battistella,  Processi  d'eresia  nel  col- 
legio di  Spagna  (1553-1554),  episodio  della  storia  della  riforma  in  Bologna, 

Bollettino  storico-bibliografico  subalpino  (V,  5);  S.  Corderò  di  Pamparato, 
Di  alcune  rappresentazioni  sacre  negli  antichi  stati  sabaudi. 

Rivista  storica  calabrese  (IX,  6-7):  A.  Andrich,  La  leggenda  longobarda 
di  Autari  a  Reggio. 

Rendiconti  del  R.  Istituto  lombardo  (XXX IV,  6):  M.  Scherillo,  Dante 
uomo^di  corte,  sunto  d'una  più  ampia  memoria;  (XXXIV,  7),  F.  Fossati, 
Aggiunta  alla  bibliografia  voltiana;  A.  Ratti,  Un  manoscritto  voltiano 
ali  Ambrosiana;  G.  Grasso,  Sul  significato  geografico  del  nome  €  cantra  > 
in  Italia;  (XXXIV,  10),  M.  Scherillo,  //  nome  della  Beatrice  amata  da 
Dante^  vedi  gli  annunzi  analitici  di  questo  fascicolo. 

Rivista  musicale  italiana  (VIII,  2):  tra  i  vari  articoli  rilevanti  sul  maestro 
Verdi,  segnaliamo  quello  di  G.  Bocca  su  Verdi  e  la  caricatura  ed  il  Saggio 
di  bibliografia  verdiana  di  L.  Torri.  UArch.  storico  lomb.  (XX Vili,  30) 
dà  nello  spoglio  un  ricchissimo  elenco  degli  scritti  venuti  in  luce  per  la 
morte  del  sommo  musicista. 

Gazzetta  musicale  (1901,  n*  4^:  P.  Molmenti,  Le  origini  della  commedia 
in  Venezia;  (n"  10),  P.  Molmenti,  Antichi  trattenimenti  musicali  a  Venezia. 

Rasseana  pugliese  (XVIII,  2-3):  A.  Vismara  Mazzuchelli,  Come  si  venne 
formando  V antifemminismo  nella  letteratura  italiana,  ahimò! 

Archivio  storico  per  le  provincie  napoletane  (XXVI,  1):  G.  Bresciano, 
Inventari  inediti  del  tee.  XV  contenenti  libri  a  stampa  e  manoscritti,  tolti 
dai  protocolli  dell'archivio  notarile  di  Napoli. 


CRONACA  255 

Atti  delVAccad.  d'archeologia^  lettere  e  belle  arti  di  Napoli  (voi.  XXI): 
P.  Sa vj -Lopez,  La  novella  provenzale  del  pappagallo,  non  solo  dà  il  testo 
critico,  corredandolo  di  note  filologiche,  dell'importante  e  curiosa  novella  in 
versi  di  Arnaut  de  Garcassez,  ma  ne  illustra  il  contenuto  leggendario  e  ga- 
lante con  raffronti,  in  cui  ha  parte  puranco  la  poesia  antica  italiana. 

Fanfulla  della  domenica  (XXIII,  16):  G.  Segrè,  Un  eroina  del  Boccaccio 
e  V Elena  Shakespeariana,  ricerca  i  rapporti  della  commedia  di  Sh.  AlVs 
well  what  ends  well  con  la  sua  fonte  italiana,  che  è  la  storia  di  Giletta 
di  Narbona  nel  Decam.  Ili,  9;  (XXIII ,  22),  Garletta,  Intorno  a  una  com- 
media di  Goldoni,  osservazioni  degne  di  nota  su  La  famiglia  dell'anti- 
quario ;  V.  A.  Arullani,  Un  ode  del  Testi  e  un  ottava  ariostea,  la  notissima 
ode  «  Ruscelletto  orgoglioso  »  sarebbe  inspirata  alla  similitudine  del  Furioso, 
st.  110  del  canto  37;  (XXIII,  23),  L.  Grilli,  Nota  leopardiana,  propone 
che  il  passo  lacrimoso  e  duro  della  Canzone  aW Italia  s'intenda,  non  già 
il  trapasso  della  morte,  ma  la  stretta  delle  Termopili,  alla  quale  interpreta- 
zione muove  ragionevoli  obiezioni  F.  Sesler  nella  cronaca  del  n»  24,  a  cui 
il  Grilli  risponde  nella  cronaca  del  no25;  (XXIII,  25),  V.  Gian,  La  religio- 
sità di  Dante,  che  il  G.  sostiene  contro  alcune  obiezioni  del  sen.  Negri. 

Flegrea  (II,  1):  B.  Groce,  Giambatt.  Vico  primo  scopritore  della  scienza 
estetica,  rilevantissimo  scritto,  che  tende  a  mettere  in  chiaro  un  aspetto 
finora  trascurato  di  quella  profonda  concezione  speculativa  che  è  la  filosofia 
vichiana;  (lì,  2),  M.  Porena,  Il  sentimento  della  natura  e  il  «  Saul -p 
delVAlfieri. 

Natura  ed  arte  (1901,  n»  11):  G.  Marangoni,  La  poesia  dialettale  pie- 
montese. 

Le  Grazie  {\90i,  n«  10-14):  P.  E.  Pavolini,  Per  il  Leopardi  filologo; 
G.  Stroppolatini,  /  versi  negli  «  Asolani  »  del  Bembo. 

Archivio  per  lo  studio  delle  tradizioni  popolari  (XX,  1):  G.  Pitrè,  Di 
una  sacra  rappresentazione  in  Monreale  nel  1793,  parla  della  dimostranza 
del  trionfo  della  Croce  secondo  la  descrizione  che  ne  fece  Gastone  della 
Torre  Rezzonico. 

Il  Saggiatore  (I,  1):  F.  Sesler,  Cose  acerbe,  nota  dantesca,  che  nel  Pa- 
radiso, XXX,  79,  cose  acerbe  valga,  non  difficili,  ma  immature,  potrà  es- 
sere; ma  che,  come  il  S.  sostiene  pure,  le  membra  acerbe  del  Purga- 
torio,  XXVI,  55,  significhino  immuni  da  corruzione  fisica  non  ci  sorride 
davvero.  L'interpretazione  comune  è  di  gran  lunga  la  migliore. 

Rivista  delle  biblioteche  (XII,  2-4):  L.  Colini  Baldeschi,  Ghibellinismo  ed 
eresie  marchigiane  nella  prima  metà  del  sec.  XIV,  pubblicazione  ed  illu- 
strazione di  alcuni  non  ispregevoli  documenti  ;  D.  Orano,  Lettere  di  Pier 
Candido  Decembrio,  frate  Simone  da  Camerino  e  Lodrisio  Crivelli  a  Fran- 
cesco Sforza,  tre  lettere,  di  cui  nel  titolo  sono  indicati  gli  autori ,  che  l'O. 
pubblica  e  chiarisce  con  esuberanza  d'erudizione;  G.  Baccini,  Lettere  inedite 
di  F.  D.  Guerrazzi  a  Pietro  Cironi,  dalla  autografoteca  della  bibl.  Nazio- 
nale di  Firenze. 

Le  Marche  (I,  3):  A.  Vernarecci,  Una  lettera  di  Fénelon,  in  corrispon- 
denza col  cardin.  Domenico  Passionei;  E.  Spadolini,  Di  Cinzio  Benincasa, 
notizie  di  questo  cavaliere  e  poeta  anconitano  del  cinquecento;  P.  Provasi, 
Un  amico  di  Bernardino  Baldi,  si  occupa  di  Marcantonio  Vergili  Batti- 
ferri e  pubblica  una  lettera  a  lui  diretta  dal  Baldi;  (1,  4),  G.  Zaccagnini, 


21^6  CRONACA 

Uno  scritto  inedito  di  Bernardino  Baldi,  riguarda  la  città  di  Urbino;  (1,5), 

E.  Spadolini,  Il  biografo  di  Ciriaco  Pizzecolli,  notizie  di  Francesco  Scala- 
monti;  S.  Kulczycki,  Cinque  lettere  inedite  di  L.  A.  Muratori  sulla  dimi- 
nuzione delle  feste^  le  lettere  sono  conservate  nella  biblioteca  comunale  di 
Velletri. 

Bullettino  bibliogra/tco  sardo  (I,  4):  F.  Manis,  Giuseppe  Verdi  e  Vinno 
di  Goffredo  Mameli. 

Bullettino  storico  pistoiese  (III,  2):  A.  Chiti,  Un  mazzetto  di  lettere  del 
cardinale  Niccolò  Forteguerri^  serbato  nel  carteggio  mediceo  innanzi  al 
principato  dellarchivio  fiorentino. 

Atene  e  Roma  (IV,  27):  G.  Vidossich,  Elementi  mitici  in  un  canto  popò- 
lare,  che  è  la  filastrocca  infantile  «  Sole  sole  vieni,  |  L'ha  detto  il  cavaliere  >, 
di  cui  è  riferito  Tinizio  nel  Cunto  de  li  cunti  ed  a  cui  forse  allude  il  Boc- 
caccio nella  nov.  Vili,  3  del  Decameron. 

Napoli  nobilissima  (X,  5):  Don  Fastidio,  Ricordi  di  Mario  Pagano  a 
Brienza,  la  casa  ove  egli  nacque. 

Giornale  storico  e  letterario  della  Liauria  (II,  3-4):  L.  Piccioni,  Per 
gli  antecedenti  del  romanticismo,  rileva  le  idee  contrarie  all'uso  della  mi- 
tologia di  Tommaso  Garzoni  e  di  Girolamo  Tagliazucchi  ;  (II,  5-6),  G.  Ma- 
nacorda, Dalla  corrispondenza  tra  Leone  Allacci  ed  Angelico  Aprosio^  ne 
parleremo  in  seguito  alquanto  estesamente. 

L'Ateneo  veneto  (XXIV,  1,  2):  C.  Levi,  Goldoni  nel  teatro,  passa  in  ras- 
segna tutte  le  azioni  drammatiche  di  cui  è  protagonista  il  Golaoni;  N.  Bu- 
setto,  Alcune  satire  inedite,  loro  relazione  con  la  storia  della  vita  padovana 
nel  sec.  XVII,  in  continuazione,  parla  specialmente  delle  satire  di  Carlo 
Dottori  e  di  Alessandro  Zacco,  pubblicandone  alcune;  (XXIV,  I,  3),  R.  Ga« 
vagnin,  La  pittura  nel  carme  «  Le  grazie  »  di  U.  Foscolo. 

Bullettino  della  Società  Dantesca  italiana  (N.  S.,  VIII,  7-{V):  G.  Vandelli, 
in  un  laborioso  articolo,  spezza  più  d'una  lancia  a  favore  deirautenticità 
dell'epistola  a  Cangrande. 

Nuovo  archivio  veneto  (N.  S.,  I,  1):  G.  Marangoni,  Lazzaro  Bonamico 
e  lo  Studio  padovano  nella  prima  metà  del  cinquecento,  interessante  me^ 
moria  in  continuazione,  che  dà  notizie  di  molti  professori  dell'università  di 
Padova,  giovandosi  anche  di  documenti  nuovi  ;  G.  Gogò,  Tre  lettere  inedUe 
di  Ippolito  Nievo,  dirette  nel  1859  e  '60  alla  nobildonna  Luisa  Sassi  de'  La- 
vizzari. 

Il  nuovo  risorgimento  (X,  12):  G.  B.  Gerini,  Una  discussione  sugli  stwU 
della  donna  in  Italia,  nella  prima  metà  del  sec.  XVIII. 

Rivista  di  storia,  arte,  archeologia  della  provincia  di  Alessandria  (X,  1^ 

F.  Picco,  Un  avventuriere  mon ferrino  del  sec.  XVIII,  in  una  prosa  spi- 
gliata e  piacevole,  giovandosi  di  documenti  ignoti  o  malnoti,  narra  le  strane 
vicende  del  domenicano  padre  G.  B.  Boelti,  bizzarro  e  caratteristico  tipo, 
che  fu  in  Oriente  prima  missionario  cattolico  e  poi  profeta  di  una  nuova 
religione. 

Giornale  Dantesco  (IX,  1-2):  A.  Torre,  Su  le  tre  prime  edizioni  del 
commento  alla  Div.  Commedia  del  p,  Pompeo  Venturi;  0.  Bacci,  Postilla 


CRONACA  257 

dantesca,  sulla  corda  àeWInf,  XVI,  106;  A.  Butti,  Carlo  Porta  e  Dante; 
(IX,  3),  U.  Cosmo,  Noterelle  francescane ,  riguardano  il  Commertium  pau- 
pertatis,  il  paradiso  terrestre,  i  rapporti  di  Dante  con  S.  Bonaventura  e  il 
quesito  se  Dante  veramente  fosse  terziario  francescano. 

La  lettura  (1, 6):  G.  Paladini,  Un  giornalista  all'Accademia  della  Crusca. 

La  rassegna  nazionale  (voi.  118)  :  T.  Roberti,  Una  lettera  inedita  di 
G.  Prati,  esistente  nella  Libi,  civica  di  Bassano  e  diretta  il  12  marzo  1865 
a  Luigia  Codemo;  R.  Gandolfi,  Un  equivoco  a  proposito  dell'inno  di  Gof- 
fredo Mameli  «  Fratelli  d'Italia  »,  riguarda  il  musicista  che  diede  a  quel- 
l'inno la  melodia;  P.  Molmenti,  Gli  antichi  usi  nuziali  del  Veneto;  G.  Arias, 
I  ca)npioni  nudi  ed  unti,  combatte  l'opinione  del  Davidsohn  (cfr.  Gior- 
nale, 36,  266),  che  Dante,  col  noto  paragone  dell'/w/!,  XVI,  si  riferisca  al 
duello  giudiziario  medievale,  e  ragionevolmente  suppone  che  la  similitudine 
dantesca  riguardi  invece  gli  «  spettacoli  di  lotta,  i  quali,  a  somiglianza  degli 
«  antichi,  come  fra  gli  altri  autorevolmente  ci  attesta  Benvenuto  da  Imola, 
<  avevano  luogo  nell'età  medievale  ». 

Nuova  Antologia  (n»  708):  J.  Withe  Mario,  Carlo  Cattaneo. 

Rivista  d'Italia  (IV,  4):  G.  Gentile,  Vincenzo  Gioberti  nel  primo  cente- 
nario della  sua  nascita  (i);  (IV,  5),  B.  Zumbini,  Gli  idilli  del  Leopardi; 
G.  Mestica,  Alle  falde  del  Vesuvio,  ad  illustrazione  della  Ginestra.  Il  resto 
del  fascicolo  contiene  scritti  di  assai  diverso  valore  riguardanti  Giosuè  Car- 
ducci, editi  nell'occasione  che  si  compieva  il  quarantesimo  anno  del  suo 
insegnamento.  Vi  sono  anche  molti  ritratti  del  poeta  ed  altre  curiosità.  Ri- 
chiamiamo specialmente  l'attenzione  sul  Saggio  di  bibliografia  carducciana 
di  Filippo  Salveraglio,  che  chiude  il  fascicolo. 

Rassegna  d'arte  (I,  6):  P.  Errerà,  L'accademia  di  Leonardo  da  Yrnc», 
combatte  la  tradizione  di  quell'accademia,  senza  avvertire  che  tale  leggenda 
era  già  stata  sfatata  dall'Uzielli;  C.  Ricci,  Il  ritratto  di  Alessandro  Faruf- 


(1)  È  questo  certamente  uno  dei  più  succosi  e  concludenti  articoli  usciti  nell'occasione  del 
centenario  giobertiano,  celebratosi  nell'apr.  del  1901.  Forte  de'suoi  studi  speciali  già  elaborati  in 
nn  volume  (v.  Giornale,  XXXIII,  458),  il  G.  qui  ricerca  la  genesi  del  pensiero  del  Gioberti  e  la 
trova  nel  rosminianismo,  «  il  più  grande  avvenimento  ideale  della  prima  metà  del  sec.  XIX  in  Italia  », 
che  fu  irradiato  dal  criticismo  del  Kant.  «  Di  questo  rosminianismo  il  grande  filosofo  è  esso,  il 
«Rosmini,  l'artista  è  il  Manzoni,  il  Gioberti  il  politico;  ma  tutti  tre  sono  rami  del  medesimo 
«  tronco  ».  Del  resto,  il  centenario  giobertiano  fu  molto  più  fecondo  di  discorsi  e  di  discorse,  di 
quello  cbe  di  solide  pubblicazioni  atte  a  far  progredire  gli  studi.  Merita  solo  nota  il  fatto  che  in 
questa  congiuntura  vennero  in  luce  parecchie  lettere  inedite  del  Gioberti,  che  s' aggiungeranno 
utilmente  a  quelle  fatte  conoscere  dal  Massari  e  dal  Berti.  Il  più  copioso  manipolo  di  nuove  let- 
tere del  filosofo  torinese  è  quello  messo  in  luce  da  G.  Carle  nel  voi.  36  degli  Atti  della  R.  Ac- 
cademia delle  scienze  di  Torino.  Altre  lettere,  prima  inedite,  si  leggono  nella  Gaezetta  del  popolo 
detta  domenica  del  28  aprile  1901,  nel  voi.  VI  del  Bollett.  stor.  bibliogr.  tubalpino,  nel  voi.  XI 
del  periodico  II  nuovo  risorgimento,  nel  giornale  politico  torinese  La  stampa  del  4  luglio  1901. 
Siano  qui  pure  avvertiti:  A.  Franzoni,  7.  Gioberti  nella  storia  della  pedagogia,  in  Rivista 
filosofica,  voi.  IV,  fase.  2  ;  la  commemorazione  di  C.  Gioda,  nella  A^.  Antologia  del  lo  aprile  1901  ; 
G.  Natali,  V.  Gioberti  e  la  sapienza  civile,  nell'Ateneo  veneto,  XXIV,  I,  pp.  322  sgg.,  e  special- 
mente F.  Momigliano,  //  pensiero  civile  di  7.  Gioberti,  nel  periodico  La  vita  internazionale  del 
5  e  20  maggio  1901. 

Giorncle  storico,  XXXVIII,  fase.  112-113.  17 


258  CRONACA 

fino,  ora  a  Bologna.  Il  Faruffino  è  il  compagno  di  Ercole  Gantelmo,  il  cui 
pietoso  caso  è  rammentato  nel  Furioso^  XXa.VI,  6  e  7. 

Giornale  degli  economisti  (die.  1900):  A.  Morena,  La  missione  sociale 
del  Veltro  dantesco^  saggio  di  un  più  ampio  lavoro  sulla  morale  economica 
di  Dante. 

Piccolo  archivio  storico  dell'antico  marchesato  di  Saluzzo  (I,  1-2): 
D.  Ghiattone,  /  due  codici  mss.  della  «  Francesca  da  Rimini  >  di  Silvio 
Pellico  esistenti  in  casa  Gavazza  a  Saluzzo  ed  i  loro  annotatori  (1); 
G.  Moschetti,  Un  affresco  del  principio  del  sec.  XV  e  una  lauda  sacra^ 
la  lauda  comincia  «  Bon  Jesù  i  me  lamento  »  e  trovasi  inserita  nel  noto 
laudario  saluzzese,  di  cui  oggi  si  promette  la  prossima  stampa,  mentre  la 
prima  parte  figura  tuttora  in  un  rrammento  di  fresco  del  sec.  XV  che  an- 
cora si  conserva  in  Saluzzo;  V.  Marsengo-Bastia,  Tre  lettere  di  monsignor 
Fr.  A.  Della  Chiesa  alVAprosio,  tratte  dalla  raccolta  di  lettere  dirette  al- 
l'Aprosio  che  si  conserva  nella  biblioteca  universitaria  di  Genova;  Giuseppe 
Flechia,  Manipoletto  di  etimologie  saluzzesi. 

Annuario  degli  studenti  trentini  (an.  VII):  A.  Pranzelòres,  Niccolò  d'Arco^ 
studio  biografico  con  alcune  note  sulla  scuola  lirica  latina  del  Trentino  nei 
sec.  XV  e  XVI.  Di  questa  notevole  monografia  ci  sarà  grato  occuparci  in 
seguito. 

Coltura  e  lavoro  (marzo  1901):  A.  Serena,  L'innesto  vaccino,  indaga  la 
fortuna  che  ebbe  nella  poesia  italiana,  lirica  e  didascalia,  la  vaccinazione. 

Atti  della  R.  Accademia  Lucchese  (voi.  31):  M.  Pelaez,  Otium  Pisau- 
rense,  studia  un  ms.  del  sec.  XlV,  già  appartenuto  al  Perticari,  che  oggi 
si  trova  neirOliveriana  di  Pesaro.  Il  ms.  contiene  83  laudi  adespote,  ma  che 
quasi  tutte  appartengono  a  Jacopone  perchè  figurano  nella  edizione  Jacopo- 
nica  di  Roma  1558  (Medio).  Qui  è  data  la  tavola  del  codice,  e  ne  sono  ri- 
ferite cinque  laudi,  da  cui  si  vede  che  la  patina  dialettale  umbra  non  ne 
è  scomparsa,  come  accade  in  altri  testi  a  penna  ed  a  stampa. 

Bollettino  della  Società  Pavese  di  storia  patria  (1,  1):  V.  Rossi,  Un  gram- 
matico cremonese  a  Pavia  nella  prima  età  del  rinascimento,  illustra  con 
documenti  la  figura  di  Giovanni  Travesio  da  Gremona,  che  rappresentò  per 
molti  anni  il  vecchio  indirizzo  medievale  nello  Studio  di  Pavia,  ove  insegnò 
dal  1374  in  poi,  avendovi  tra  i  discepoli  Antonio  Loschi  e  Gasparino  Bar- 
zizza.  Di  lui  ci  è  giunto  ms.  un  commento  di  Boezio  e  si  conosce  per  rela- 
zione altrui  un  commento  di  Prospero  d'Aauitania.  Le  copiose  notizie  qui 
raccolte  dal  R.  giovano  anche  alla  storia  deirinsegnamento  grammaticale  e 
rettorico  nel  primo  periodo  della  rinascita. 


Bulletin  italien  (1,  1)  (2):  H.  Hauvette,  Une  confession  de  Boccace  <  Il 


(1)  N«l  fftseioolo  sono  para  pubblicate  tre  lettore  del  Pellico  e  di  altre  lettere  di  lai,  iparta- 
mente  edite,  è  daU  Tindiettione  negli  appunti  bibliografici  finali. 

(i)  Parecchie  nnirersità  del  mextogiorno  della  Francia,  facendo  centro  a  Bordeaux,  pabbUeno 
da  Tari  anni  una  nerie  di  intereasanti  Tolnmi  miscellanei  col  titolo  di  Annalt$  dt  la  FaeutU  àm 
Uttru  d*  Jiordtaux.  Nella  ina  qoarta  Miie,  qowta  pubblicazione  si  tiene  a  raddividefe  la  tra 
bollettini,  che  hanno  ralore  di  periodici,  la  R«9H4  (Ut  4tud4t  anei4nn«t,  il  Bulktim  kitpanifMt 


CRONACA  259 

4t  Corbaccio  »,  in  questo  diligente  e  penetrante  lavoro  T  H.  esamina  Tim- 
portanza  del  Corbxccio  dal  punto  di  vista  biografico  e  da  quello  psicologico; 
G.  Bouvy,  «  Zaire  »  en  Italie,  resoconto  bibliografico  delle  quindici  tradu- 
zioni diverse  che  ebbe  nel  paese  nostro  la  celebre  tragedia  del  Voltaire; 
A.  Morel-Fatio,  «  0  cacciati  dal  del,  gente  dispetta  »  {Inf.,  IX,  91),  vor- 
rebbe dare  a  dispetta  il  senso,  non  di  spregevole,  ma  di  arrogante,  conforme 
all'uso  dell'antico  francese  despit;  (1,  2),  E.  Muntz,  L" iconographie  de  la 
Laure  de  Pétrarque,  risultanze  del  tutto  negative  (1);  E.  Picot,  Les  Italiens 
en  Franca  au  XVI  siede,  in  continuazione,  questa  parte  s'occupa  dei  prin- 
cipi e  gran  signori  italiani  che  dimorarono  in  Francia  (2);  E.  Landry,  Con- 
tribution  à  l'étude  critique  des  «  Fioretti  »  de  S.  Franqois  d'Assise,  un 
nuovo  capitolo  che  si  trova  aggiunto  ai  Fioretti  nel  ms.  651  (sec.  XV)  di 
Assisi. 

Revue  des  bibliothèques  (XI,  1-3):  G.  Huet ,  Une  lettre  relative  aux 
collections  de  la  reine  Christine  de  Suède,  diretta  dall'Aia  al  Mazarino  nel 
1653;  E.  Picot,  Des  Frangais  qui  ont  ècrit  en  italien  au  XYl  siede,  qui 
si  parla  di  Francois  de  Vernassal,  di  Francois  de  Belleforest,  di  Jean  de 
Boyssières,  di  Claude  du  Verdier,  di  Odet  de  la  Noue,  di  Michel  de  Mon- 
taigne, di  G.  Tessier,  di  Jacques  Bourgoing. 

Revue  de  Vuniversité  de  Bruxelles  (VI,  3):  A.  Vermeylen,  La  méthode 
sdentifique  de  Vhistoire  littéraire,  discute  le  teorie  del  Renard,  di  cui  fu 
parlato  anche  nel  nostro  Giornale,  37,  435. 

Gazette  des  heaux-arts  (disp.  526):  P.  De  Nolhac,  Encore  un  portrait 
de  Pétrarque,  miniatura  d'un  codice  appartenuto  al  Petrarca  del  suo  Liber 
rerum  memorandarum,  che  è  nella  Nazionale  di  Parigi. 

The  quarterly  review  (n°  386)  :  Ancient  and  modem  criticism.,  studia 
r evoluzione  della  critica  ,  appoggiandosi  ad  alcune  moderne  opere  speciali. 

The  american  historical  review  (VI,  3):  Gh.  Gross,  The  politicai  influence 
of  the  University  of  Paris  in  the  middle  ages. 

Neues  Archiv  der  Gesellschaft  fur  altere  deutsche  Geschichtskunde 
(XXVI,  3):  W.  Eberhard,  Ueber  das  Handschriftenverhdltnis  des  «  Liber 
€  de  obsidione  Anconae  »  von  Boncompagnus. 

Archiv  fùr  das  Studium  der  neueren  Sprachen  und  Litteraturen  (GVI, 
1-2):  J.  Bolte,  Bigorne  und  Chicheface,  studio  comparato  sui  mostri  man- 
giauomini e  divorafanciulli,  di  cui  si  occupa  anche,  tra  i  carnascialeschi,  il 
nostro  Canto  di  Biurro;  (CI VI,  3-4),  R.  Tobler,  Die  Prosafassung  der  Le- 
gende vom  heiligen  Julian. 


ed  il  BuUetin  italien.  Quest'ultimo,  cominciato  col  1901,  si  propone  di  occuparsi  esclusivamente 
della  nostra  storia  letteraria,  e  l'Italia  deve  veramente  rallegrarsi  dell'interesse  sempre  crescente 
che  prende  alle  cose  sue  la  nobile  nazione  sorella. 

(1)  Questo  è  un  frammento  del  volume  che  il  Mttntz  prepara,  in  collaborazione  col  principe 
d'Essling,  sul  Petrarca,  con  l'intento  di  studiare  particolarmente  l'influsso  del  sommo  lirico  sulle 
arti  del  disegno  e  gli  altri  rapporti  molteplici  ch'egli  e  le  opere  sue  hanno  con  l'arte.  Bellissimo 
tema  davvero! 

(2)  È  il  primo  libro  d'una  Histoire  de  ìa  littérature  italienne  en  France  au  X7I  siècìe,  che 
il  Picot  prepara  e  che  pochi  al  pari  di  lui  sono  in  grado  di  far  bene. 

Oiornale  storico,  XXXVIII,  fase.  112-113.  17* 


260  CRONACA 

Revista  critica  de  historia  y  literatura  (VI,  4-5)  :  E.  Mele,  Poesie  di 
Luis  de  Oóngora,  i  due  Argensolas  e  altri,  tratte  dal  canzoniere  del  duca 
de  Estrada,  -f  il  più  importante  dei  mss.  neolatini  che  si  conservano  nella 
«  Nazionale  di  Napoli  »,  già  illustrato  dal  Teza,  dal  Miola  e  dal  Savj -Lopez. 

Neue  Jahrbùcher  fùr  das  klassische  Altertum  (IV,  4):  J.  Kaufroann, 
Die  Vorgeschichte  der  Zauber-  und  Hexenprozesse  im  Mittelalter.  Sia 
qui  notato  di  passata  che  intorno  al  Ti  m  por  tante  opera  del  Hansen  sui  pro- 
cessi di  streghe  nel  medioevo  (cfr.  Giornale^  37,  476)  v'  ha  una  nota  di 
E.  Jordan  nella  Revue  des  questions  historiques,  del  !•  aprile  1901,  a 
pp.  602  sgg. 

The  modem  language  quarterly  (IH,  2):  H.  J.  Ghaytor,  On  the  dispo- 
sition  of  the  rimes  in  the  sestina. 

Oesterr.  Ungarische  Revue  (XXVII,  3)  :  J.  Mucha,  Oesterreich  in  der 
Gòttlichen  Komòdie. 

Revue  des  langues  romanes  (XLIV,  3-4):  M.  Grammont,  Onomatopées 
et  mots  expressifs,  curioso  studio  sull'armonia  imitativa,  che  per  quanto  non 
tratti  punto  della  lingua  e  letteratura  nostra,  potrà  essere  consultato  con 
profitto;  G.  Bertoni,  Restitution  d'une  chanson  de  Peire  d'Auvernhe  ou  de 
Raimhaut  de  Vaqueiras^  ricompone  il  testo  della  canz.  Be  rn  es  plazen 
(Or.,  328,  10),  che  secondo  lo  Zenker  appartiene  all' Al  verniate  e  secondo  il 
ma.  Campori  al  Vaqueiras.  Gfr.  Giornale^  34,  125. 

Sitzungsberichte  der  Akademie  der  Wisstnschaften  in  Wien  (ci.  stor. 
fil.,  voi.  143):  E.  Maddalena,  Uno  scenario  inedito,  dal  titolo  Un  pazzo  gua- 
risce l'altro,  qui  tratto  in  luce  da  un  codice  della  Palatina  di  Vienna.  Il 
M.  stabilisce  che  questo  scenario  è  ricavato  dalla  commedia  omonima  di 
Girolamo  Gigli,  pubblicata  nel  1704.  La  riduzione  a  scenario  fu  forse  pra- 
ticata per  una  rappresentazione  privata  seguita  in  Vienna  nel  1723.  Il  M. 
illustra  bene  la  commedia  e  il  scenario.  Si  noti  che  in  ambedue  figura  in 
modo  assai  ridicolo  Don  Chisciotte. 

AShandlungen  der  K.  Gesellschaft  der  Wissenschaften  xu  Góttingen 
(N.  F.,  IV,  5)  :  W.  Meyer,  Der  Gelegenheitsdichter  Venantius  Fortunatus. 
Notevole  monografia,  che  chiarisce  nel  loro  contenuto  storico  i  versi  di  uno 
dei  più  illustri  verseggiatori  dell'alto  medioevo. 

Philologus  (suppl.  Vili,  3):  M.  Goldstaub,  Der  Physiolopus  und  seine 
Weiterbildung  besonders  in  der  leteinischen  und  in  der  byzantinischen 
Litteratur,  nuovo  e  ragguardevolissimo  studio  sulle  tradizioni  bestiario  me- 
dievali, dovuto  ad  uno  dei  migliori  conoscitori  della  materia.  Vedi  Gior- 
naie,  21,  155-56. 


•  Preziosissimi  a  tutti  gli  indagatori  della  novellistica  comparata  e  d'ogni 
altro  ramo  della  demopsicologia  riusciranno  i  3  volumi  di  Kleincre  Schriften 
di  Reinhold  Kòhler,  che  con  ogni  maggior  diligenza  curò  Giovanni  Bolte 
(Weimar-Berlin,  Felber,  1898-1900).  Non  è  certo  ignota  ad  alcuno  la  dot- 
trina veramente  sbalorditiva  che  il  KShler  possedeva  in  quest'ordine  di  studi. 
Tra  i  comparatisti  di  tradizioni  popolari  egli  fu,  nel  sec.  XIX,  il  massimo, 
ed  è  per  ciò  che  alla  sua  gentilezza,  inesauribile  al  pari  della  sua  erudizione, 
ricorrevano  da   ogni   parte  del   mondo  tutti  coloro  che  all'ardua  indagine 


CRONACA  261 

davano  opera.  In  questi  tre  volumi,  ai  quali  è  da  aggiungerne  un  quarto, 
pubblicato  dal  Bolle  medesimo,  sotto  altro  titolo,  fin  dal  1894,  è  raccolto 
da  innumerevoli  libri  e  periodici  quello  che  il  Kòhler  è  venuto  mettendo  in 
luce.  Nel  primo  volume,  Zur  Mdrchenforschung^  concernente  le  vere  e 
proprie  novelline  popolari,  tutto  può  riuscire  interessante;  ma  i  sei  articoli, 
che  direttamente  prendono  le  mosse  da  racconti  popolari  italiani  sono  quelli 
che  hanno  i  numeri  19-24.  Il  secondo  volume,  Zur  erzdhlenden  Dichlung 
des  Mittelalters^  entra  maggiormente  nei  rapporti  della  letteratura  storica, 
riguardando  leggende  e  poemi.  Qui  sono  numerosissime  le  illustrazioni  di 
leggende  e  di  novelle  italiane  ed  i  cultori  di  ogni  letteratura  europea  hanno 
da  impararvi.  Si  noti  che  a  pp.  602  sgg.  sono  riprodotte  nell'originale  te- 
desco le  illustrazioni  alle  novelle  del  Sercambi,  che  il  Giornale  nostro  pub- 
blicò in  versione  italiana.  Il  terzo  volume,  Zur  neueren  Litteraturgeschichte, 
Yolkskunde  und  Wortfbrschung,  è  una  miscellanea  d' importanza  vera- 
mente eccezionale,  che  illustra  poesie  liriche  popolari,  proverbi,  adagi,  su- 
perstizioni d'ogni  genere.  —  La  cura  con  cui  tutto  questo  ingente  materiale 
è  raccolto,  ordinato,  munito  di  indici,  merita  lode  non  misurata.  Siccome  il 
Bolte  si  giovò  di  note  mss.  del  Kòhler,  oltreché  delle  stampe,  egli  potè 
inserire  in  queste  riproduzioni  non  poche  aggiunte  dovute  ancora  al  grande 
tblklorista.  V  è  anche  qualche  scritto  compiutamente  inedito. 

*  Nel  1890  Francesco  Sabatini  iniziò  una  raccolta  di  tradizioni  e  costu- 
manze popolari  intitolata  II  volgo  di  Roma^  della  quale  uscirono  due  fa- 
scicoli. Sospesa  la  raccolta  per  un  decennio,  oggi  è  ripresa,  pur  sempre  sotto 
la  direzione  del  Sabatini,  da  Bernardo  Lux,  e  speriamo  che  possa  continuare 
senza  ulteriori  interruzioni,  giacché  ha  uno  scopo  molto  utile,  «  di  racco- 
«  gliere  quelle  memorie  che  manifestano  la  vita  della  plebe  di  Roma,  nei 
€  suoi  costumi  e  nelle  sue  tradizioni,  che  di  giorno  in  giorno  perdono  il 
«  proprio  carattere  e,  fondendosi  con  usanze  nuove,  cosi  trasformate  scom- 
«  paiono  ».  Le  canzoni  popolari  romanesche,  qui  comunicate  da  Luigi  Za- 
nazzo  e  illustrate  dal  Sabatini,  sono  assai  ragguardevoli,  perché  contengono 
parecchi  di  quei  canti  epico-lirici,  di  cui  per  molto  tempo  si  ritenne  che 
in  Italia  avesse  quasi  il  privilegio  il  Piemonte,  mentre  ricerche  più  appro- 
fondite vengono  mostrando  che  in  realtà  si  trovano  diffusi  in  diverse  regioni 
italiane.  Trovansi  pure  tra  queste  canzoni  due  vere  e  proprie  pastorelle.  — 
Nella  terza  dispensa  comincia  anche  la  stampa  d'un  poema  eroicomico,  La 
libbertà  romana  acquistata  e  defèsa^  scritto  in  vernacolo  romanesco  da  Be- 
nedetto Micheli,  musicista  fiorito  verso  la  metà  del  sec.  XVIIl.  In  questa 
prima  stampa  del  poema  viene  riprodotto  un  codice  della  biblioteca  gran- 
ducale di  Weimar,  confrontato  col  ms.  Boncompagni  di  Roma.  —  Chiudono 
l'opuscolo  alcune  note  storiche  interessanti  di  F.  Sabatini  sulla  maschera 
romana  di  Rugantino.  Per  i  presunti  rapporti  di  Rugantino  col  mìles  glo- 
riosus  si  poteva  rinviare  all'opuscolo  di  Gr.  Senigaglia.  Gfr.  Giorn.^  35,  158. 

*  Il  benemerito  dantista  inglese  Paget  Toynbee,  che  ci  onora  della  sua 
cooperazione,  ha  pubblicato  un  elegantissimo  libretto  dal  titolo  Dante  Ali- 
ghieri (Londra,  Methuen,  1900).  Esplicitamente  dice  il  T.  sin  da  principio 
quel  che  il  suo  libro  vuol  essere:  «  This  little  hook  lays  no  claim  to  origi- 
«  nality,  and  makes   no   pretence    to    learning  or  research.  It  is  addressed 


262  CRONACA 

€  rather  to  the  so-called  general  reader  than  to  the  serious  Dante  student. 
«  The  narrative  is  taken  largely  from  the  pages  of  Villani,  Boccaccio,  and 
«  from  other  similar  sources  ».  Un  libro,  insomma,  di  pura  divulgazione, 
attinto,  peraltro,  alle  fonti  prime,  redatto  con  la  lucidità  e  la  sobrietà  che 
sono  ben  noto  nel  suo  autore,  e  con  quella  critica  tendente  alla  conserva- 
zione che  pare  connaturata  ai  dantisti  inglesi.  Premessa  una  breve  introdu- 
zione sulle  condizioni  politiche  del  tempo  di  Dante,  il  T.  occupa  la  maggior 
parte  del  libretto  nell'esporne  la  vita.  Consacra  alcuni  capitoli  alle  caratte- 
ristiche esteriori  ed  interne  dell'Alighieri  (sui  ritratti  dà  tutte  le  notizie 
essenziali),  per  poi  sbrigarsi  delle  opere  in  poco  più  d'una  ventina  di  pagine. 
Questo  sembra  sproporzionato  al  resto;  ma  probabilmente  l'A.  ha  voluto  far 
cosi  per  suoi  fini  che  ci  sfuggono.  Dodici  nitide  riproduzioni  fotografiche 
abbelliscono  il  grazioso  volume.  Il  quale  sembra  abbia  avuto  nei  paesi  di 
lingua  inglese  invidiabil  fortuna,  perchè  già  se  ne  annuncia  una  seconda 
edizione  corretta  ed  aumentata,  nella  quale  sarà  anche  data  un'appendice 
bibliografica. 

*  Ci  è  grato  l'annunciare  che  l'editore  Winter  di  Heidelberg  pubblicherà 
una  nuova  collezione  di  libri  elementari  di  filologia  romanza  sotto  la  dire- 
zione di  Guglielmo  Meyer-Lùbke.  Saranno  tre  serie,  una  di  grammatiche, 
l'altra  di  storie  letterarie,  la  terza  di  lessici.  La  compilazione  di  ogni  libro 
si  affiderà  ad  un  valente  specialista.  Si  annuncia  già  che  la  parte  gramma- 
ticale dell'antica  lingua  italiana  sarà  trattata  da  B.  Wiese  e  la  storia  pri- 
mitiva della  letteratura  nostra  da  C.  Vossler.  E  pure  una  bella  promessa 
quella  d'un  lessico  maneggevole  dell'antica  lingua  d'oc,  che  sinora  manca 
del  tutto,  per  cura  del  valoroso  provenzalista  E.  Levy.  Questi  frattanto  avrà 
forse  ultimato  il  suo  grande  Supplement  -  Wórterbuch  al  Lexique  del  Ray- 
nouard,  che  ormai  da  nove  anni  è  in  corso  di  pubblicazione. 

*  11  prof.  Francesco  Saverio  Kraus  ebbe  il  felice  pensiero  di  ristampare 
raccolti  gli  articoli  di  varia  erudizione  che  egli  vien  pubblicando  in  riviste 
ed  in  giornali  di  Germania.  Di  questa  raccolta,  che  egli  intitola  Essays, 
sono  uscite  due  serie.  La  prima  (Berlin,  Paetel,  1896)  contiene  solo  due 
scritti  che  debbono  essere  qui  rammentati,  uno  su  Antonio  Rosmini  e  l'altro 
su  Francesco  Petrarca  in  seinem  Briefwechsel  (cfr.  Giom.,  27,  192),  di 
cui  usc'i  recentemente  una  versione  italiana  nella  disp.  37-38  della  Bibli<h 
teca  critica  del  Torraca.  Ben  più  ricca  di  cose  italiane  è  la  seconda  serie, 
che  da  poco  ha  veduto  la  luce  (Berlin,  Paetel,  1901).  V'ha  qui  uno  scritto 
Ueber  Francesca  da  RiminVs  Worte  bei  Dante^  Inferno,  V,  Ì2i-i23,  che 
non  manca  di  curiosità.  Dopo  aver  enumerati  e  classificati  gli  schiarimenti 
che  chiosatori  antichi  e  moderni  danno  della  celebre  terzina  {Nessun  mag' 
gior  dolore  ecc.),  egli  ribadisce  l'opinione  che  il  tuo  dottore  sia  Virgilio,  e 
ricerca  la  fonte  dell'adagio  racchiuso  nel  terzetto,  adagio  largamente  diffuso 
in  seguito  presso  scrittori  diversi.  Alla  letteratura  dantesca  si  riferisce  anche 
l'articolo  Rosmini" s  Dantestudien^  e  vi  ha  qualche  relazione,  per  quel  che 
dice  del  1300,  il  lungo  e  dotto  studio  sull'Anno  santo,  in  cui  sono  raccolte 
moltissime  informazioni  sui  giubilei.  Caratterizzano  bellamente  due  scrittori 
nostri  eminenti  i  due  saggi  su  Alessandro  Manzoni  e  su  Gino  Capponi. 
Il  Kraus  possiede  in  grado  sommo   l'arte   dello   scrivere  in  modo  vivace  e 


CRONACA  263 

piacevole,  sicché  questi  scritti  ,  che  pur  rivelano  largo  fondo  di  cognizioni 
non  superficiali,  si  fanno  leggere  con  diletto  pari  al  profitto  (1). 

*  Quanti  hanno  avuto,  anche  incidentalmente,  ad  occuparsi  di  ricerche 
glottologiche  romanze  sanno  il  vantaggio  immenso  che  reca  all'indagine  eti- 
mologica il  Lateinisch-romanisches  Wórterbuch  di  Gustavo  Kòrting.  Di 
quel  libro  comodissimo  usci  in  luce  la  prima  edizione  a  Paderborn  nel  1892. 
Ora  il  medesimo  editore  Schòningh  di  Paderborn  ne  pubblica  una  seconda, 
siffattamente  aumentata  che  gli  articoli  da  8954  son  portati  a  10469.  L'autore 
tenne  dietro  ai  progressi  delie  discipline  filologiche  romanze,  e  si  professa 
particolarmente  grato  al  nostro  diletto  prof.  Salvioni,  le  cui  dotte  Postille 
alla  prima  edizione  confessa  essergli  riuscite  singolarmente  giovevoli. 

*  Quel  benemeritissimo  della  storia  della  Mirandola,  e  in  singoiar  guisa 
della  famiglia  Pico,  che  è  Felice  Ceretti,  ha  iniziato  un  dizionario  alfabetico 
di  Biografìe  Mirandolesi.  11  primo  volume  di  quest'opera  importante  com- 
prende le  lettere  A-I,  e  costituisce  il  XIII  volume  della  collezione  di  Me- 
morie storiche  edita  dalla  Commissione  di  storia  patria  della  Mirandola. 
L'opera  è  dovuta  a  lunghe  e  pazienti  ricerche,  e  completando  la  Biblioteca 
modenese  del  Tiraboschi,  che  per  quel  che  spetta  agli  scrittori  mirandolani 
è  assai  deficiente,  meriterà  senza  dubbio  d'essere  ascritta  tra  le  più  notevoli 
raccolte  di  notizie  biografiche  regionali.  In  questo  dizionario  sono  registrati, 
non  solamente  gli  scrittori  e  gli  artisti,  ma  anche  gli  uomini  di  guerra  o 
per  qualsiasi  altro  titolo  celebrati,  sino  a  tutto  il  sec.  XIX. 

*  Sebbene  non  sia  di  speciale  competenza  nostra,  ci  piace  di  segnalare 
una  relazione  del  prof.  Gustavo  Rolin  intorno  a  due  suoi  viaggi  compiuti 
negli  Abruzzi  allo  scopo  di  esplorarne  i  dialetti.  La  relazione  è  pubblicata 
nei  volumi  della  Gesellschaft  zur  Fòrderung  deutscher  Wissenschaft,  Kunst 
und  Literatur  in  Bóhmen,  Prag,  1901.  La  partizione  dei  dialetti  abruzzesi 
a  seconda  dei  loro  caratteri  fonetici  vi  è  accuratissima,  e  se  ne  rallegreranno 
certo  i  dialettologi,  i  quali  sanno  quanto  grande  sia  l'miportanza  linguistica 
di  quelle  parlate  vernacole. 

*  Mario  Sepet  è  generalmente  noto  quale  uno  dei  più  dotti  investigatori 
del  dramma  sacro  medievale.  Fu  buon  pensiero,  pertanto,  quello  di  racco- 
gliere in  un  volume  le  sue  ricerche  sparse  su  questo  soggetto:  Origines 
catholiques  da  Thédtre  moderne,  Paris,  Lethielleux,  1901.  Qui  si  parla  a 
lungo  del  dramma  liturgico,  dei  misteri  e  della  loro  formazione,  della  com- 
media e  della  farsa  nell'età  media,  della  commedia  e  della  tragedia  nel 
rinascimento.  Rarissime  volte  il  Sepet  esce  in  queste  sue  indagini  dal  campo 
francese;  ma  per  le  mille  attinenze  del  tema  anche  gli  studiosi  dell'antica 
drammatica  italiana  dovranno  procurarsi  notizia  di  questo  volume. 


(1)  Per  rapporti  indiretti,  ma  palesi,  con  le  cose  nostre  va  qui  anche  rammentato  l'articolo  del 
Kr.  su  Frau  v.  Stiiél  uni  ihre  neueste  Biographie.  Al  qual  proposito  citeremo  un  recente  e  succoso 
lavoretto  di  M.  Fbìedwaoneb,  Frau  von  StaèVs  Anteil  an  der  romantischen  Bewegung  in  Frank' 
reich,  Hannover  e  Berlino,  1901,  estratto  dalle  Verhandlungen  des  IX  allgemeinen  Deuischen 
Neuphiìologentages  in  Leipzig. 


264  CRONACA 

*  Ci  proponiamo  di  render  conto  prossimamente  ai  lettori  dell'opera  biblio- 
grafica insigne  di  Th.  W.  Koch,  Catalogne  of  the  Dante  Collection  pre- 
sentet  hy  Willard  Fiske,  Ithaca  (New  York),  1898-1900.  Quando  ne  ap- 
parve il  primo  volume,  contenente  la  bibliografia  delle  edtz.  di  Dante,  noi  lo 
annunciammo,  promettendo  di  occuparcene  a  opera  finita  (Giorn.,  32,  476). 
Ora  con  altri  due  grossi  volumi,  che  recano  T  elenco  alfabetico  di  tutti  gli 
scritti  riguardanti  l'Alighieri,  la  grande  opera,  che  onora  veramente  gli  studi 
americani,  è  chiusa.  Resta  a  noi  il  compito  piacevole  di  esaminarla  e  di  ri- 
ferirne. 

*  Nella  Miscellanea  linguistica  in  onore  di  Graziadio  Ascoli^  Torino, 
Loescher,  1901,  ben  pochi  sono  i  lavori  che  hanno  interesse  letterario.  Oltre 
lo  scritto  di  E.  Gorra  sulla  tanto  tormentata  Alba  bilingue  del  codice  Va- 
ticano Regina  1462,  segnaliamo:  G.  Ulrich,  Il  favolello  del  geloso^  di 
47  ottave,  tratto  dal  cod.  perugino  160,  che  appartiene  al  gruppo  novellistico 
studiato  dal  Rua,  Novelle  del  Mambriano,  pp.  72  sgg.,  ed  ha  riscontro  in 
un  notissimo  episodio  delia  leggenda  di  Tristano;  P.  Rajna,  La  lingua  cor- 
tigiana, indagine  sul  valore  di  questa  denominazione  nel  nostro  Cinquecento; 
V.  Crescini ,  Dell'antico  frammento  epico  bellunese,  comunicazione  d'una 
nuova  copia  dei  pochi  versi  noti  della  cantilena  bellunese  (fine  sec.  XII) 
illustrata  dal  Salvioni.  Cfr.  Giornale,  24,  331. 

*  Si  annuncia  essersi  costituita  in  Roma  una  Società  filologica  romana, 
la  quale  ha  il  lodevole  intento  di  pubblicare  testi  importanti.  Essa  ha  già 
messo  mano  ad  una  riproduzione  diplomatica  del  celebre  cod.  3793  della 
Vaticana.  Si  propone  di  stampare  in  seguito  un  poema  inedito  di  Bonvesin 
da  Riva  e  di  dare  finalmente  in  luce'  i  Documenti  d'Amore  con  il  commento 
del  codice  Barberiniano  (1).  Utili  imprese  certamente  saranno  queste.  Dal 
Giornale  nostro  s'augura  alla  novella  Società,  che  imaginiamo  sia  bene  di- 
retta, lena  perseverante  e  mezzi  materiali  copiosi,  due  cose  che,  in  imprese 
simili,  vengono  meno,  purtroppo,  assai  di  frequente  nel  paese  nostro. 

*  Sul  Cornazzano  vien  preparando  uno  studio  critico  complessivo,  che  sarà 
molto  utile,  il  prof.  Michele  Grassi,  il  quale  porrà  a  base  della  sua  monografia 
estese  ricerche  praticate  negli  archivi  e  nelle  biblioteche  dell'Italia  superiore. 

*  L'editore  Picard  di  Parigi  intende  iniziare  una  Bibliothèque  espagnole, 
che  consterà  di  volumi  in  12°  destinati  a  contenere  studi  originali  sulla  storia 
e  sulla  letteratura  di  Spagna,  dettati  in  francese  o  in  castigliano.  La  più 
parte  dei  volumi  annunciati  ha  interesse,  in  genere,  per  le  ricerche  sulle 
letterature  comparate  e  tornerà  graditis-sima  anche  ai  cultori  di  certi  periodi 
delle  lettere  italiane.  Notiamo  fra  i  primi  il  volume  del  Mérimée  su  Gòn- 
gora  et  le  gongorisme  espagnol  e  quello  del  Farinelli  su  Calderon  et  le 
calderonisme.  Il  Morel-Fatio  darà  un  Prècis  d'une  histoire  de  l'ancienne 
littèrature  catalane^  la  quale  ha  tanti  rapporti  con  la  letteratura  nostra,  e 


(I)  L'editore  dei  Documtnti  sarà  il  giorane  dr.  Francesco  Egidi,  dei  cai  fortnnati  »todI  sol 
Barberino  è  data  notizia  nella  cronaca  del  FanfuUa  della  dominien,  7  loglio  1901.  Le  tniniatare 
del  codice  barberiniano  saranno  illostraie,  con  l'ainto  di  nn  secondo  testo  dall'Egidi  coperto,  in 
OD  articolo  del  periodico  L'arte, 


CRONACA  265 

tratterà  pure  di  Antonio  de  Gueoara,  son  oeuvre  et  son  infiuence.  E.  Pi- 
iieyro  promette  una  Histoire  du  romantisme  en  Espagne  e  G.  Reynier 
studierà  La  vie  universitaire  en  Espagne  au  seizième  et  au  dix-septième 
siècles. 


*  Tesi  di  laurea  e  programmi:  G.  Hagemann,  Geschichte  des  Theater- 
zettels  (laurea;  Heidelberg:  questa  ricerca  interessante  intorno  alla  tecnica 
teatrale  si  riferisce,  nella  parte  sinora  pubblicata,  al  dramma  del  medioevo); 
Richard  Pichel,  Die  Heimat  des  Puppenspiels  (discorso  inaugurale;  Halle); 
G.  A.  Galzigna,  Fino  a  che  punto  i  commediografi  del  rinascimento  ab- 
biano imitato  Plauto  e  Terenzio  (progr.  ginn.;  Gapodistria:  seconda  parte 
di  questo  studio,  che  già  altrove  annunciammo);  Joachim  Zimmermann,  Das 
Verkassungsproject  des  Grossherzogs  Peter  Leopold  von  Toscana  (laurea  ; 
Heidelberg);  S.  P.  Haak,  Paulus  Merula  (laurea;  Leida);  A.  Jaulmes,  Essai 
sur  le  satanisme  et  la  superstition  au  moyen  dge  (laurea;  Parigi);  T.  Lee 
Nefii  La  satire  des  femmes  dans  la  poesie  lyrique  frangaise  du  moyen 
dge  (laurea;  Parigi);  Emil  Keller,  Die  Reimpredigt  des  Pietro  da  Barse- 
gapè  (progr.  scuola  cantonale;  Frauenfeld:  testo  critico  con  grammatica  e 
glossario)  (1). 


*  Nuove  pubblicazioni  : 

Emile  Gebhart.  —  Conteurs  florentins  du  Moyen  dge.  —  Paris,  Ha- 
chette,  1901  [Il  primo  capitolo  si  occupa  dei  primitivi,  del  Novellino,  di 
Francesco  da  Barberino;  tre  capitolisi  riferiscono  al  Boccaccio  considerato 
come  novelliere;  il  capitolo  finale  concerne  Franco  Sacchetti.  Volume  es- 
senzialmente divulgativo]. 

Gustavo  Caponi.  —  Studio  critico  su  Vincenzo  da  Filicaia  e  le  sue 
opere.  —  Prato,  Giachetti,  1901. 

Ulisse  Fresco.  —  Le  commedie  di  Pietro  Aretino.  —  Camerino,  tipo- 
grafia Savini,  1901. 

Livorno  nell'ottocento.  —  Livorno,  tip.  Belforte,  1900  [In  questa  serie  di 
letture  tenute  nel  Circolo  filologico  livornese  G.  Galletti  parlò  dei  letterati 
di  quella  città,  A.  Mangini  degli  avvocati  e  giornalisti,  G.  Menasci  degli 
artisti,  A.  Taddei  dei  musicisti,  G.  Targioni-Tozzetti  del  teatro  di  prosa.  La 
parte  della  conferenza  dell'avv.  Mangini  riferentesi  al  Guerrazzi  giornalista 
parve  a  Gustavo  Uzielli  ingiuriosa  per  la  memoria  di  suo  padre,  e  ne  venne 
un  opuscolo  da  lui  pubblicato  Sansone  Uzielli  e  F.  D.  Guerrazzi^  Firenze, 


(1)  Di  questa  importante  pubblicazione  discorrerà  in  seguito  un  cooperatore  nostro  competen- 
tissimo.  Frattanto  ci  fa  piacere  rilevare  una  nota  ragguardevole  che  ad  essa  consacra  F.  Nevati 
nuWArch.  ttor.  lombardo,  XXVIII,  417-19. 


266  CRONACA 

tip.  Ricci,  1901,  che  è  istruttivo  specialmente  per  l'interpretazione  del  rac- 
conto del  Guerrazzi  /  nuovi  Tartufi]. 

B.  G.  Lo  Casto.  —  Ricostruzione  della  <  valle  inferna  ».  —  Catania, 
Giannotta,  1901  [Nuovo  lavoro  sulla  topografia  infernale,  che  si  dirige  par- 
ticolarmente contro  le  costruzioni  del  Vellutello  e  dell'Agnelli,  e  si  studia 
di  stabilire  il  maggior  rispetto  alle  leggi  fisiche  ed  il  maggior  rigore  ma- 
tematico nella  maniera  come  il  poeta  imaginò  il  suo  inferno.  L'esposizione 
lucida  e  serrata,  opportunamente  soccorsa  da  quattro  tavole  litografiche,  me- 
rita certo  lode;  ma  dubitiamo  che  riesca  a  convincere  i  dantisti.  Vedine 
l'esame  critico  in  una  notevole  recensione  di  M.  Porena  inserita  nella  Ras- 
segna critica  della  lett.  ital.,  V,  244-255]. 

Le  rime  di  Terino  da  Castelfiorentino  rimatore  del  sec.  XIII,  per  cura 
di  Armando  Ferrari.  —  Castelfiorentino,  1901  [Prima  dispensa  della  nuova 
Raccolta  di  studi  e  testi  valdelsiani.  Riproduce  senza  modificazione  alcuna 
lo  scritto  che  già  segnalammo  nella  annata  Vili  (1900)  della  Miscellanea 
storica  della  Valdelsa']. 

Ignazio  Citello.  —  Studi  critici.  —  Palermo,  Reber,  1900  [Tra  questi 
studi  segnaliamo  i  seguenti:  La  donna  nelle  canzoni  pietrose;  Il  Peregrino 
di  J.  Caviceo;  S.  Francesco  d'Assisi']. 

Vittorio  Corbuccl  —  Una  poetessa  umbra:  Francesca  Turino  Bufw 
lini.  —  Città  di  Castello,  Lapi,  1901  [Vissuta  nel  sec.  XVI  e  nel  XVII]. 

Gaspare  Oliverl  —  L'imitazione  classica  e  le  innovazioni  metriche  di 
Gabriello  Ckiabrera.  Nota  critica.  —  Girgenti,  tip.  Montes,  1900. 

William  Heywood.  —  The  «  Ensamples  of  fra  Filippo  ».  A  study  of 
medieval  Siena.  —  Siena,  E.  Torrini,  1901  [Suntuoso  volume,  sul  quale  ci 
proponiamo  di  ritornare]. 

Francesco  D'Ovidio.  —  Studi  sulla  Divina  Commedia.  —  Milano-Pa- 
lermo, Sandron,  1901  [Silloge  assai  ragguardevole  di  scritti  danteschi,  di  cui 
ci  occuperemo  prossimamente]. 

S.  LÈGLiSE.  —  Machiavel  compare.  —  Paris,  Picard,  1901  [Nuovo  studio 
sulle  teorie  politiche  del  Machiavelli,  messe  a  riscontro  con  quelle  di  altri 
scrittori  noti]. 

Luigi  Furnari.  —  La  questione  della  lingua  da  Dante  al  Manzoni, 
Saggio  storico-critico.  —  Reggio  di  Calabria,  1901. 

G.  Stia  VELLI.  —  Garibaldi  nella  letteratura  italiana.  —  Roma,  Vo- 
ghera, 1901. 

Oioyanni  Federzoni.  —  La  poesia  degli  occhi  da  Guido  Guinizelli  a 
Dante.  —  Bologna,  Zanichelli,  1901. 


CRONACA  267 

Giuseppe  Toraldo.  —  Torquati  Tassi  Hierosolyma  liberata  e  versibus 
italicis  in  latinos  conversa.  —  Romae,  1900  [Pubblicazione  postuma,  su 
cui  vedi  Bollettino  di  filologia  classica,  VII,  276]. 

Pietro  Verrua.  —  Studio  sul  poema  «  Lo  innamoramento  di  Landlotto 
<  e  di  Ginevra  »  di  Nicolò  degli  Agostini.  —  Firenze,  tip.  Ducei,  1901. 

Carlo  Bertani.  —  Pietro  Aretino  e  le  sue  opere  secondo  nuove  inda- 
gini. —  Sondrio,  tip.  Quadrio,  1901. 

Attilio  Angeloro  Milano.  —  Le  tragedie  di  Giambattista  Cinthia  Gi- 
raldi.  —  Cagliari,  tip.  commerciale,  1901. 

Ugo  Levi.  —  /  monumenti  più  antichi  del  dialetto  di  Chioggia.  —  Ve- 
nezia, Visentini,  1901. 

Carl  Somborn.  —  Das  venezianische  Volkslied:  die  Villotta.  —  Hei- 
delberg, Winter,  1901. 

Ubaldo  Pasqui.  —  Sulla  casa  ove  nacque  Francesco  Petrarca.  —  Arezzo, 
tip.  Belletti,  1900. 

A.  Ratti.  —  Le  ultime  vicende  della  biblioteca  e  dell'archivio  di  S.  Co- 
lombano di  Bobbio.  —  Milano,  Hoepli,  1901. 

Frances  Fenton  Sauborn.  —  About  Dante  and  his  beloved  Florence. 

—  San  Francisco,  Whitaker,  1901. 

Adolfo  Gaspary.  —  Storia  della  letteratura  italiana,  tradotta  da  Vittorio 
Rossi.  Seconda  edizione  rivista  ed  accresciuta  dal  traduttore.  Voi.  II,  Parte  li. 

—  Torino,  Loescher,  1901  [Così  resta  completato,  anche  nella  2»  edizione 
notevolmente  accresciuta,  il  voi.  II,  che  tratta  del  rinascimento.  Rispetto 
alla  nuova  importanza  che  acquista  Topera  in  questa  edizione  ed  alla  qua- 
lità delle  aggiunte  praticatevi,  si  rimanda  a  quanto  fu  scritto  della  P.  I 
in  questo  Giorn.,  36,  474-75]. 

Enrico  Broll.  —  Girolamo  Tartarotti  e  la  critica  storica,  con  documenti 
inediti.  —  Trento,  1901. 

Emilia  Ranza.  —  Notizie  su  la  vita  e  le  opere  di  Lorenzo  Mascheroni. 

—  Piacenza,  tip.  Bosi,  1901. 

Vittorio  Fabiani.  —  Gente  di  chiesa  nella  commedia  del  sec.  XVL  — 
Empoli,  tip.  Traversari,  1901. 

Carlo  Cattaneo.  —  Scritti  politici  ed  epistolario,  pubbl.  da  G.  Rosa  e 
J.  White  Mario.  Tre  volumi.  —  Firenze,  Barbèra,  1901. 

Giambattista  Pellizzaro.  —  La  commedia  del  secolo  XVI  e  la  novel- 
listica anteriore  e  contemporanea  in  Italia.  -—  Vicenza,  tip.  Raschi,  1901. 


268  CRONACA 

Raccolta  di  studi  critici  dedicata  ad  Alessandro  D'Ancona  festeggiandosi 
il  XL  anniversario  del  suo  insegnamento.  —  Firenze,  Barbèra,  1901  [Dei 
53  scritti  eruditi  che  figurano  in  questa  voluminosa  e  suntuosa  miscellanea 
i  più  riguardano  la  storia  delle  lettere  italiane.  Ci  sarà,  quindi,  grato  Toc- 
cuparcene  in  seguito  partitamente]. 


f  Nel  novero  degli  italianisti  più  benemeriti  di  Francia  è  da  riporre 
F.  T.  Perrens,  che  si  spense  a  Parigi  il  4  febbraio  1901.  Vanno  per  le 
mani  di  ogni  erudito  i  nove  volumi  della  sua  Histoire  de  Florence,  editi 
dal  1877  al  1891.  Malgrado  i  suoi  difetti,  è  pur  sempre  quella  storia  un  in- 
signe documento  di  laboriosità  destinato  ad  arrecare  eccellenti  servigi.  Ben 
più  a  lungo  noi  ne  parleremmo  se  non  uscisse  dal  campo  speciale  degli  studi 
nostri.  Il  Perrens  fu  essenzialmente  un  cultore  di  storia  civile  e  politica; 
ma  gli  argomenti  da  lui  trattati  lo  condussero  necessariamente  ad  occuparsi 
molte  volte  anche  di  storia  letteraria.  Egli  scrisse  pure,  nel  1866,  una 
Histoire  de  la  littérature  italienne,  che  è  ben  poco  nota  fra  noi.  Il  suo 
primo  libro  riguarda  Jerome  Savonarole,  sa  vie,  ses  prédications,  se$  ècrits^ 
ed  ebbe  valore  nel  tempo  in  che  apparve  (1853),  perchè  era  allora  il  libro 
più  compiuto  che  s'avesse  intorno  al  celebre  monaco  riformatore  (vedi  Vii- 
lari,  Savonarola  ^  I,  xxvi-xxviii).  L'ultima  opera  sua,  di  pura  divulgazione, 
vide  la  luce  nel  1893  e  s'intitola  La  civilisation  fiorentine  du  XI II  au 
XVI  siede. 

f  All'Aquila  usciva  di  vita  il  2  luglio  1901,  nell'età  di  anni  70,  il  canonico 
prof.  Enrico  Casti,  bibliotecario  della  sua  città  natale.  A  questa  egli  rese 
servigi  eminenti  con  l'amorosa  cura  da  lui  dedicata  alla  biblioteca  e  con  i 
suoi  scritti  numerosi  d'erudizione  abruzzese.  Si  occupò  anche  moltissimo  del- 
l'insegnamento e  fu  autore  di  lodati  scritti  letterari  in  italiano  ed  in  latino, 
nonché  di  articoli  diversi  pedagogici. 


Luigi  Morissnoo,  Geretite  responsabile. 


Torino  —  Tip.  Voicbiibo  Bona. 


ui 


NUOVE  RIME 


DI 


BORDELLO  DI  GOITO 


Sommario:  Introdazione.  —  Parte  I.  1)  Ove  convenga  ricercare  la  prima 
notizia  di  Sordello.  2)  La  dimora  di  Bordello  presso  Raim.  Berengario  IV 
di  Provenza.  3)  Se  Sordello  siasi  recato  in  Portogallo.  —  Parte  II.  Testi 
inediti  di  Sordello  e  di  altri  trovatori  che  si  riferiscono  a  Sordello.  — 
Parte  III.  Note  critiche  ai  testi.  —  Appendice:  Se  Sordello  abbia  scritto 
in  volgare  italiano. 

L'esiguo  patrimonio  poetico  di  Sordello  s'avvantaggerà  per 
questa  memoria  di  due  nuovi  componimenti  e  fors'  anche  del- 
l'attribuzione  di  un  terzo  testo  dialettale,  che  parve  a  me  di 
singolare  importanza  e  degno  d'essere  esaminato  a  parte  in  un 
capitoletto  speciale  (1).  Io  volli  ancora  raccogliere  alcuni  nuovi 
accenni  riguardanti  il  nostro  trovatore  rinvenuti  in  rime  pro- 


(1)  Io  composi  su  di  esso  una  breve  appendice,  colla  quale  si  chiuderà 
il  presente  lavoro.  L'attribuzione  di  questo  testo  a  Sordello  mi  parve  potersi 
sostenere  con  buone  ragioni;  ma  ciò  non  ostante,  io  stesso  non  vorrei  dar 
troppo  peso  alla  mia  opinione,  che  è  pur  sempre  una  semplice  congettura. 
E  appunto  per  non  correr  rischio  di  essere  accusato  di  troppa  arditezza  ho 
ristrette  le  mie  note  in  un  breve  capitolo,  fuori  dai  limiti  della  presente 
trattazione,  considerando  a  sé  quel  testo,  che,  sia  o  no  di  Sordello,  ha  pur 
sempre  un  indiscutibile  valore. 

Giornale  ttorico,  IIXVIII,  fase.  114.  18 


270  G.   BERTONI 

venzali  testé  date  da  me  alla  luce  (1)  e  mi  esercitai  intorno  ad 
essi  collo  scopo  di  accrescere  le  notizie  biografiche  di  Bordello, 
valutandoli  secondo  i  criteri  della  critica  storica.  La  quale 
seppe  iniziare  già  da  parecchio  tempo  intorno  al  nostro  trova- 
tore un'opera  quanto  altra  mai  benefica,  distinguendo  severa- 
mente il  Bordello  della  leggenda  da  quello  della  storia. 

Fiori  per  avventura  la  fama  del  primo  in  quella  stessa  Marca 
trevigiana,  ch'egli  abitò  e  percorso  e  seppe  far  tutta  risonare  a'  quei 
giorni  del  suo  nome.  In  essa  egli  aveva  compito  gran  parte  delle 
sue  gesta  giovanili;  vi  aveva  conosciuto  poeti  provenzali  scesi  in 
quella  contrada  a  cercarvi  cortesia  e  valore;  vi  aveva  composto 
egli  medesimo  leggiadre  ed  elette  rime,  vi  aveva  forse  risvegliato 
mille  desiose  attenzioni  in  virtù  dei  suoi  rapporti  con  Gunizza  e 
vi  aveva  goduto  la  protezion  liberale  del  più  potente  e  temuto 
signore,  Ezzelino  da  Romano.  Di  poi  la  sua  fuga  dovè  lasciare 
nella  Marca  tutto  uno  strascico  di  incerti  e  vaghi  romori,  e  quando 
egli  ritornò  in  Italia  pareva  allora  divenuta  la  Marca  tutta  piena 
di  belle  fantasie,  ed  era  contrada  fiorita  di  poeti  e  canora  di 
rinae.  Ond'essa,  che  dava  ospizio  liberale  ai  trovatori  d'oltr'Alpe, 
dovè  altamente  gloriarsi  di  Bordello  e  incominciare  tutto  un 
sottile  lavorio  leggendario,  che  s'accrebbe  man  mano  di  trame  e 
trovò  nel  poema  di  B.  Aliprandi  la  sua  piena  esplicazione. 

Ben  altro  fu  il  Bordello  della  storia  :  fu  detto  falso  amatore  e 
ingannatore  e  rapitore  di  donne;  godette  dei  favori  delle  corti 
e  dei  principi;  prese  parte  alla  spedizione  di  Carlo  d'Anjou  in 
Italia  ;  addimostrò  uno  spirito  vario  e  multiforme  ;  apparve  tuttavia 
più  meschino,  ma  non  meno  interessante.  Di  questo  Bordello  ha 
ormai  la  critica  tutto  il  possesso  e  pur  di  recente  Cesare  de  Lollis(2) 
ne  rintracciò  da  par  suo  la  vita;  ma  essa,  fondata  sovr'  esiguo 
numero  di  prove  sicure,  lascia   pur   troppo   di   sovente   libero 


(1)  In  Studi  di  filoloffia  romanza ,  diretti  da   E.  Monaci  e  C.  de  Lollis, 
fase.  23,  pp.  1-64. 

(2)  G.  DE  Lollis,   Vita  e  opere  di  Sordello  di  Goito^  voi.  XI   della  Bo- 
manische  Bibliotheky  Halle,  1896. 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO   DI   GOITO  271 

campo  alle  congetture  e  mostra  qua  e  là  ampie  lacune;  si  che 
gli  studiosi  si  rallegreranno  certo  che  or  si  possano  aggiungere 
alle  reliquie  poetiche  del  nostro  trovatore  qualche  nuova  notizia 
e  alcune  altre  sue  rime. 


PARTE   PRIMA 


I. 

OVE  CONVENGA  RICERCARE 
LA  PRIMA  NOTIZIA   DI  SORDELLO. 

Una  serie  di  dieci  cobbole,  di  cui  otto  conserva  il  ms.  H  (1) 
(cod.  Vatic.  3207)  e  due  il  ms.  P  (2)  (cod.  Laurenz.  Pluteo  XLI, 
e.  42),  die'  motivo  al  de  Lollis  di  concludere  che  Sordello  verso 
il  1220  abbia  preso  parte  a  una  rissa  avvenuta  tra  un  gruppo 
di  poeti  provenzali  in  una  bettola  di  Firenze;  ma  qui  egli  trovò 
un  gran  disfavore  da  parte  della  critica  competente.  Il  Torraca 
dapprima  gli  si  oppose  risolutamente  e  col  Torraca  ebbe  ad  in- 
contrarsi lo  Schultz  in  una  sua  recensione  nella  Gròber's  Zeii- 
schrìft  f.  roman.  PhiloL,  voi.  XXI,  p.  237  (3).  Senza  entrar  oltre 


(1)  Studi  di  filol.  rom.,  V,  pp.  523-4  (nni  194-9,  200  e  237). 

(2)  Archiv  del  Herrig,  L,  p.  263.  Le  dieci  cobbole  furono  pubblicate  dal 
Torraca,  Sul  «  Pro  Sordello  »  di  C.  de  Lollis  (  Giornale  Dantesco^  pp.  5-6 
dell'estratto). 

(3)  Molte  discussioni  e  critiche  sollevò  il  libro  del  de  Lollis,  Ricorderò 
le  osservazioni  al  testo  di  A.  Mussafia,  SitzungsberichXe  der  kais.  Akad. 
d.  Wissensch.  (Phil.-histor.  Glasse)  GXXXIV,  1896,  e  di  E.  Levy,  Zeitschr. 
cit.  (1898).  Per  la  bibliografia  degli  ultimi  articoli  sopra  Sordello  mi  limito 
a  rimandare  all'app.  di  una  conf.  del  Gresclni,  Sordello,  Drucker,  1897 
(estr.  daU'AZ&a,  im.  9,  10)  e  al  D'Ancona,  Lectura  Dantis  (Canto  VII  del 
Purg.),  Firenze,  1901,  p.  12,  n.  3. 


272  G.  BERTONI 

nella  discussione,  noi  osserveremo  che  il  ravvicinamento  di  quelle 
cobbole,  per  quanto  molto  ingegnoso,  è  pur  sempre  tratto  di 
congettura;  poiché,  se  non  ci  inganniamo,  non  si  hanno  prove 
sufficienti  per  stabilirne  esattamente  i  rapporti.  Pare  in  altre 
parole  a  noi  che  l'ipotesi  ne  sia  pur  sempre  permessa,  purché 
non  le  si  assegni  maggior  importanza  di  quello  ch'essa,  come 
tale,  possa  avere. 

Ne  risulterebbe  adunque  che  il  primo  accenno  storicamente 
sicuro  intorno  al  nostro  trovatore  sarebbe  contenuto  in  quel 
passo  di  Rolandino  in  cui  si  parla  della  presenza  di  Sordello  alla 
corte  di  Rizzardo  di  S.  Bonifacio  (1);  cosicché  la  prima  età  di 
Sordello  sfuggirebbe  ancora  alle  indagini  critiche.  Ma  a  diradare 
un  po'  le  tenebre  pare  a  noi  possa  servire  assai  bene  un  nuovo 
testo  che  più  sotto  inseriamo  (2).  Esso  consiste  in  una  tenzone 
scambiata  da  Sordello  con  Joanet  d'Albusson  (3). 


(1)  M.  G.  H.  Script.  XIX,  40.  Verona  doveva  accogliere  nel  sec.  XIII  un 
bel  numero  di  poeti  provenzali,  che  alla  corte  dei  S.  Bonifacio  trovavano 
lieto  ricetto.  Nel  1212,  per  la  morte  del  conte  Lodovico,  A.  de  Peguilhan 
componeva  quel  noto  suo  pianto  (Galvani,  Osservazioni  alla  poesia  dei 
trovai.^  p.  56)  in  cui  echeggia  il  ricordo 

Del  guai  Corate  Verones,  qu'era  flora 
De  gran  beatat  e  de  totz  bea  colora. 

Uc  de  Saint  Gire  fu  certamente  a  Verona  (si  cfr.  la  sua  danseta  pubblicata 
dal  Gasini,  /  trovatori  nella  Marca  trivigiana^  in  Propugnatore^  XVIII» 
p.  160)  e  al  giullare  Messonget,  che  chiedevagli  un  serventese,  rispondeva: 

Per  qa'  iea  vaelh  qa'  eo  Verones 
Al  Corate  tenbas  ta  via 

(WrpTHOiFT,  SirvnU*  Joglartse^  Marbnrg,  1891,  p.  35). 

Un  conte  di  Verona  è  pur  citato  da  Falquet  de  Roman  (ed.  Zbnrer,  Halle, 
1896,  p.  56  e  nota  al  testo).  Inoltre  Verona  appare  ancora  nelle  poesie  dei 
trovatori  in  un  senso  metaforico,  in  riguardo  alla  sua  significazione  di  vero 
(si  cfr.  infatti  N.  Zinqarklli,  Bue  trov.  in  Italia,  Firenze,  1899,  pp.  25-26): 
uso  questo  di  metafora  assai  comune  (cfr.  Tobler,  Vermischte  Beitrdge 
zur  franzósischen  Gramatik,  Leipzig,  1886,  S.  II,  p.  194). 

(2)  È  il  nostro  testo  n»  I. 

(3)  Il  cod.  legge  soltanto  Joanet.  Non  esito  a  riconoscervi  il  d'Albusson 
perchè  si  sa  che  con  questo  trovatore  fu  Sordello  in  relazione  e  perchè  sap- 


NUOVE  RIME  DI  SORDELLO  DI  GOITO  273 

Fu  questi  un  trovatore  che  percorse  la  Marca  trevigiana  nel 
primo  quarto  del  sec.  XIII  e  non  trascurò  altra  volta  occasione 
di  manifestare  certa  sua  ira  all'indirizzo  di  Bordello. 

Cantava  Joanet  d'Albusson: 

St.  II.     Pos  joglars  non  es,  com  prezes, 
Sordel,  antan  draps  del  Marques? 

Ora  io  non  esito  ad  identificare  questo  «  Marques  »  col  Mar- 
chese d'Este.  Anzitutto  devesi  osservare  che  fu  uso  dei  trovatori 
di  tacere  bene  spesso  il  nome  dei  loro  più  nobili  protettori  e  di 
indicarli  col  solo  titolo,  che  a  loro  s'apparteneva,  quasi  ad  in- 
dicare ch'essi  ad  ognuno  dovessero  esser  noti. 

Bonifacio  I  di  Monferrato  fu  infatti  costantemente  chiamato 
«  il  Marchese  »  per  eccellenza  (1)  e  similmente  venne  designato 
il  Marchese  Azzo  VII  d'Este  da  quei  poeti  che  s'imbattevano  ad 
essere  accolti  nel  Veneto.  Ricorderò,  a  conferma  di  ciò,  due  versi 
di  un  serventese  di  Uc  de  S.  Gire  a  Messonget: 

Tan  que  si  no  fos  n'Albricx 

E-1  Marques  que  es  tos  dicx...  (2) 

nei  quali  concordemente  tutti  scorgono  sotto  la  parola  «Marques» 


piamo  da  Peire  Bremon  Ricas  Novas  che  Joanet  d'Albusson  si  piaceva  di 
rinfacciare  a  Sordello  la  sua  ignobile  condizione,  il  che  avviene  appunto  nel 
nostro  componimento. 

(1)  Lo  ScHULTZ,  Le  epist.  del  trovai.  Rambaldo  di  Vaqueiras  a  Boni- 
facio I  di  Monferrato,  traduzione  italiana,  Firenze,  1898,  p.  148,  fa  prece- 
dere all'indice  dei  componimenti  provenzali  indirizzati  a  Bonifacio  le  seguenti 
parole:  «  E  da  avvertire  che  tutti  i  poeti  citati  qui  appresso  non  chiamano 
«  mai  il  marchese  per  nome  e  spesso  non  aggiungono  neanche  de  Monferrat  ». 

(2)  Il  Gavedoni,  Delle  accoglienze  ecc.,  in  Memorie  della  R.  Accad.  di 
Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Modena,  t.  II,  1851,  che  ebbe  il  merito  di  ac- 
corgersi per  primo  che  la  parola  marques  non  poteva  considerarsi  come 
apposizione  di  Albric  (del  resto  la  stessa  grammatica  vi  si  oppone),  forzò  il 
ms.  leggendo:  e-l  Marques  d'Est  o"  s  dicx.  Questo  verso  presenta  sempre 
una  certa  difficoltà  in  causa  della  parola  dicx,  intorno  a  cui  si  veda,  oltre 
il  Raynouard,  il  Levy,  Suppl.-Wòrt.,  II,  235.  Il  Torraca,  Giorn.  Dant., 
VI,  p.  531,  n.  1,  propone  di  intendere:  «  e  il  marchese  eh'  è  detto  (dichs) 
«  giovinetto  (tos)  ». 


274  G.   BERTONI 

Azzo  VII  d'Este,  che  succedette  al  fratello  Aldobrandino  nel  1215 
e  fu  chiamato  da'  trovatori  per  eccellenza  «  Marchese  »  per  la 
sua  nota  liberalità.  E  d'altronde  in  quei  luoghi  a  chi  mai  po- 
tevasi  attribuire  un  tale  titolo? 

Anche  Guilhem  Raimon  tenzonando  con  Airaeric  de  Peguilhaii 
diceva  : 

—  Aimeric,  que'us  par  d'aquest  Marque8?(l). 

E  che  qui  si  debba  scorgere  il  marchése  Azzo  VII  d'  Este  io 
mi  studiai  altra  volta  di  dimostrare  (2).  E  anche  è  probabile  che 
Palquet  de  Roman  colla  denominazione  cel  (V  Est  (3)  abbia  al- 
luso ad  Azzo  VII. 

I  tempi  in  cui  maggiormente  fiori  di  poeti  provenzali  la  corte 
estense  furono  per  vero  quelli  di  Azzo  VII,  il  quale  sotto  il 
titolo  di  Marques  d'Est  venne  eziandio  cantato  da  Gavaire,  da 
Uc  de  Saint  Gire,  da  Guilhem  de  La  Tor  e  da  Ramon  Guilhem 
nei  componimenti  che  incominciano  rispettivamente:  Cavalier, 
pois;  Messonget,  un  sirventes;  De  Saint  Martin  me  clam;  e 
Amics  Ferrairi.  E  per  di  più  si  pensi  che  appunto  allora  nella 
corte  estense  sonavano  le  lodi  dei  trovatori  per  Beatrice,  Gio- 
vanna e  Gostanza  d'Este  (4). 

Ma  non  soltanto  dai  poeti  di  Provenza  il  Marchese  Azzo  VII 
venne  chiamato  per  eccellenza  Marchese:  chi  scorra  le  cro- 
nache del  tempo  s'avvedrà  che  alcuna  volta  sotto  la  denomi- 
nazione di  marchio  estensis  o  anche  unicamente  di  marchio 
devesi  riconoscere  il  nostro  Azzo  VII  d'Este  (5). 


(1)  G.  Appel,  Provenxalische  Chrestomathie,  Leipzig,  1895,  p.  127. 

(2)  In  questo  Giornale^  36,  45 1>,  n.  2. 

(3)  Zenrbr,  Op.  cit.,  pp.  56  e  86.  Al  Torraca  pare  che  l'allusione  8Ì  ri- 
ferisca ad  Azzo  VI,  ma  ciò  non  infirma  le  nostre  conclusioni,  perchè  a  noi 
preme  soltanto  di  dimostrare  che  il  Marchese  d'Este  (fosse  egli  Azzo  VI  o 
Aldobrandino  o  Azzo  VII)  veniva  chiamato  dai  trovatori  per  eccellenza 
Marchese. 

(4)  Mi  limito  a  rimandare  a  una  mia  recensione  comparsa  nel  precedente 
fase,  di  questo  Giornale,  38,  144- U7. 

(5)  Mi   basti   qui   citare   due   esempi:    Tuno  degli   Annales   S.  Justinat 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO  DI   GOITO  275 

È  chiaro  adunque  che  Joanet  d'Albusson  coi  versi: 

Pos  joglars  non  es,  com  prezes, 
Sordel,  antan  draps  del  Marques? 

allude  a  donativi  che  Sordello  ricevette  antan  da  un  Marchese 
d'Este  e  forse  da  Azzo  VII.  Ricordando  che  era  uso  allora,  come 
è  noto,  che  allorquando  un  trovatore  si  recasse  presso  una  corte, 
il  signoro  si  dimostrasse  con  lui  liberale  (e  di  questa  liberalità 
infinite  volte  si  tocca  nelle  poesie  dei  provenzali),  si  può  conclu- 
dere che  Sordello  soggiornò  alla  corte  dei  Marchesi  d'Este.  Resta 
ora  a  limitarsi  il  tempo,  in  cui  ciò  potè  avvenire:  prima  o  dopo 
il  ratto  di  Cunizza? 

Incomincio  coli' osservare  che  i  rapporti  fra  la  casa  d'Este  e 
i  Conti  di  S.  Bonifacio  si  mantennero  in  quei  tempi  ordinaria- 
mente amichevoli.  Un  atto  del  1217  ci  dimostra  Ferrara  e  Ve- 
rona concordi  (1);  nel  1222,  riaccesasi  la  lotta  tra  Salinguerra 
e  il  Marchese  d'Este,  questi  ebbe  l'aiuto  del  Conte  di  Verona; 
nel  1224  il  Conte  tentò  di  impadronirsi  di  possessi  di  Salinguerra 
per  consegnarli  al  Marchese  Azzo  d'Este  e  ancora  nel  1230 
quando  Rizzardo  di  S.  Bonifacio  fu  imprigionato  dalla  fazione 
dei  Montecchi,  i  Padovani  per  liberarlo  si  collegarono  col  Mar- 
chese Azzo,  il  quale  prestò  il  suo  aiuto. 

In  causa  di  questa  amicizia  costante,  non  avrebbe  certo  potuto 
Sordello  trovare  ospitalità  alla  corte  dei  Marchesi  d'Este  dopo 
ch'egli  aveva  rapito  Cunizza  a  Rizzardo  di  S.  Bonifacio  ed  era 
divenuto  fautore  di  Ezzelino  da  Romano.  Né  va  dimenticato  che 
quel  ratto  fa  parte  di  un  ordine  di  cose  di  grande  importanza, 
poiché  appunto  in  quei  tempi  scoppiarono  aperti  i  dissapori  che 
cagionarono  gravi  danni  a  Rizzardo  di  S.  Bonifacio. 


{M.  G.  H.  Script.,  XIX ,  182,  50);  l'altro  del  Chronicon  Estense  {R.  L  S.  t., 
XV,  308  C). 

(1)  Archivio  di  Stato  in  Modena.  Cat.  Est.  Reg.  B.  f.  13.  È  nota  la  ami 
cizia  di  Azzo  VI  e  Lodovico  di  S.  Bonifazio.  Morirono  essi  nel  1212  e  Aimeric. 
de  Peguilhan  ne  pianse  la  morte. 


276  G.  BERTONI 

Resta  cosi  provato,  a  parer  nostro,  che  Bordello  prima  di 
recarsi  presso  i  S.  Bonifacio  si  fermò  alla  Corte  dei  Marchesi 
d*Este,  ottenendo  da  uno  di  essi  (forse  da  Azzo  VII)  regali,  che 
gli  furono  poi  rinfacciati  da  Joanet  d'Albusson.  Il  quale,  in  virtù 
di  questa  nostra  ricerca,  potrà  anche  aggiungersi  al  numero  di 
quei  poeti  che  visitarono  la  Corte  estense. 

Nel  nuovo  componimento,  che  più  oltre  pubblichiamo,  il  d'Al- 
busson si  compiace  con  certa  evidente  malizia  di  attribuire  la 
taccia  di  giullare  a  Sordello,  e  questi  se  ne  schermisce  per  ve- 
rità da  maestro  e  ritorce  con  sottile  arguzia  gli  argomenti 
dell'avversario,  il  quale  non  dovè  certo  dopo  questo  dibattito 
mettere  in  tacere  le  sue  petulanti  accuse,  poiché  Peire  Bremon 
Ricas  Novas  in  un  suo  serventese,  composto  parecchi  anni  dopo, 
ricorda  che  Sordello  non  è  cavaliere  e  afferma  d'averne  avuto 
notizia  per  l'appunto  dal  d'Albusson: 

so'm  dis  a  una  part  Joanet  d'Albusson. 

[Gr.  330,  6]. 

Questa  e  altra  volta  Sordello  si  difese: 

Ben  a  gran  tort  car  m'apella  joglar,  (1) 
Cab  autre  vai  (2)  et  autre  ven  ab  me,  ecc. 

[Gr.  437,  20]. 


(1)  Non  è  maraviglia  che  Sordello  si  opponga  con  forza  alla  nomea  di 
giullare.  Molte  testimonianze  potrebbero  con  facilità  essere  raccolte,  dalle 
quali  apparirel)be  manifesto  il  disprezzo,  di  cui  era  fatta  segno  la  vita  del 
giullare.  Sulla  condizione  giullaresca  ne'  suoi  rapporti  colla  vita  trovadorica 
si  veda  A.  Stimminq,  Die  provenzalische  Lìtteratur,  in  Gròber's  Grundriss 
der  rom.  Phil.,  Strassburg,  1897,  voi.  II,  pp.  15  sgg. 

(2)  Accetto,  in  luogo  di  vauc,  la  correzione  del  Mussafia,  vai,  che  trovasi 
già  nel  Diez  a  p.  26  dell'op.  cit.  a  p.  292  di  questo  studio. 


NUOVE   RIME   DI   BORDELLO  DI   GOITO  277 


IL 


LA  DIMORA  DI  SORDELLO 
PRESSO  RAIMONDO  BERENGARIO  DI  PROVENZA. 


Senza  sperimentarci  nella  difficile  impresa  di  stabilire,  dietro 
un  numero  forse  un  po'  troppo  vago  e  indeterminato  di  accenni 
e  di  prove,  l'anno  preciso,  in  cui  Bordello  si  recò  in  Provenza  (1), 
noi  possiam  ora  affermare  fuor  d'ogni  dubbio  (e  ciò  erasi  prima 
d'ora  soltanto  sospettato  (2))  che  il  nostro  trovatore  si  fermò  alla 
Corte  di  Raimondo  Berengario  IV  Conte  di  Provenza. 

Questa  notizia  risulta  ormai  certa  dalla  considerazione  di  un 
serventese  di  fresco  fatto  conoscere  di  Pei  re  de  Castelnou  (3). 

Il  componimento  venne  evidentemente  composto  dopo  la  bat- 
taglia di  Benevento,  poiché  in  esso  leggiamo  (str.  II)  che  il  re 
Carlo  (4)  ha  sconfitto  in  battaglia  re  Manfredi  : 

et  a  vencut  en  camp  lo  rei  Manfre 
e  il  poeta,  grande  partigiano  dell'angioino,  continua  (str.  VI): 


(1)  Il  Diez,  che  seppe  valersi  in  modo  esemplare  dei  componimenti  di  Sor- 
delio  in  Leben  und  Werke^,  ediz.  1882,  pp,  376  sgg.,  osservò  che  la  fuga 
del  trovatore  dovè  accadere  prima  del  1229.  Mentre  il  Diez  si  avvicinò 
assai  al  vero,  il  Fauriel  propose  una  data  insostenibile  scrivendo  che  Sor- 
delio  dovè  recarsi  in  Provenza  dopo  il  1245.  Lo  Schultz  accettò  la  data  del 
Diez,  e  ad  essa  si  attenne  anche  il  de  Lollis. 

(2)  Gli  argomenti,  che  inducevano  in  questo  sospetto,  si  ricavavano  da 
alcune  poesie  stesse  di  Sordello  e  da  un  atto  del  lo  luglio  1241,  che  ci 
mostra  Sordello  teste  in  un  trattato  fra  Jacopo  d'Aragona,  R.  Berengario  e 
Raimondo  di  Tolosa  a  proposito  di  Sancia  moglie  di  quest'ultimo. 

(3)  In  Studi  di  filol.  rom.  cit.,  fase.  23,  p.  44. 

(4)  Le  relazioni  tra  Sordello  e  Carlo  d'Angiò  diedero  occasione  a  G.  Merkel 
di  comporre  un  suo  notevolissimo  lavoro  :  Sordello  e  la  sua  dimora  presso 
Carlo  I  d'Angiò,  Torino,  1890. 


278  G.   BERTONI 

Lo  Rei  Carles  sera  segnors,  so  ere, 

del  plus  del  mon,  c'aissi's  tan[h]  es  cove. 

La  strofe  III  di   questo  serventese  ci  dà  la  notizia  certa  che 

Bordello  fu  ospitato  alla  Corte  del  Conte  di  Provenza  Raimondo 

Berengario  : 

per  quel  pros  Coms  Berengiers  o  fes  be, 
can  mosegne  'n  Sordel  retenc  ab  se. 

Le  ragioni  colle  quali  il  Torraca  (1)  sostenne  che  il  nostro  tro- 
vatore abbia  cantato  durante  il  suo  soggiorno  in  Provenza 
Beatrice  di  Savoja,  moglie  di  Raimondo,  mi  paiono  veramente 
fondate;  ma  siccome  nel  presente  articolo  io  mi  propongo  di 
aggiungere  soltanto  alcuna  nuova  notiziola  alla  biografia  sordel- 
liana  e  non  di  provarmi  in  questioni  già  discusse,  cosi  io  passo 
oltre  e  osservo  piuttosto  che  alle  relazioni  di  Bordello  col  Conte 
Berengario  si  riferisco  un  secondo  serventese  di  Blacasset  che  più 
oltre  pubblichiamo  (2). 

Esso  allude  ai  rapporti  molto  tesi  e  alle  lotte  e  alle  inimicizie 
dei  due  Conti  di  Tolosa  e  di  Provenza.  Pareva  quest'ultimo  in- 
clinare alla  pace  e  Blacasset  (3),  che  in  cuor  suo  se  ne  sdegnava, 
esprimeva  a  Sordello  il  suo  desiderio  di  battaglia:  «Di  guerra 
«  sono  desideroso  e  non  amo  tregua  né  pace  e  quando  io  vedo 
«cavalli  armati,  Sordello,  sono  ricco  e  gioioso;  per  eh* io  non 
€  vorrei  che  il  Conte  andasse  chiedendo  pace ,  signor  Sor- 
«  dello ...»  (4). 


(1)  F.  Torraca,  Sol  «  Pro  Sordello  >  di  Cesare  de  Lollis  (estratto  dal 
Giorn.  Dantesco),  Firenze,  1899,  pp.  84  sgg. 

(2)  Inserito  diplomaticamente  in  Studi  di  filol.  rom.  cit.,  p.  29.  lo  mi  oc- 
cupai brevemente  di  questo  componimento,  studiandomi  di  trovarne  appros- 
simativamente la  data,  in  questo  stesso  Giornale,  36,  17,  n.  2.  Ora,  come 
si  vedrà  più  oltre,  io  credo,  dopo  più  maturo  esame,  che  la  data  da  me 
proposta  debba  farsi  risalire  di  qualche  anno. 

(3)  Su  Blacasset  si  veda  il  lavoro  del  Klbin,  Der  Troubadour  Blacasset, 
Wiesbaden,  1887. 

(4)  Si  veda  il  nostro  testo  n»  III,  str.  1  : 

De  gaern  «ai  dexirot 
e  DO  i  am  trega  ni  pati, 
«  can  Tei  caraU  annaU. 


NUOVE   RIME  DI   SORDELLO   DI   GOITO  279 

A  Blacasset  piacevano  invece  i  bei  colpi  e  il  suono  della  pugna  : 

Str.  111.    Ben  volgra  vezer  blezos 
eissir  de  cocha  trauchatz 
et  elms  ferrencs  desbarratz 
e  c'auzis  hom  los  ressos 
dels  colps  que  chascus  farla. 

Ma  al  di  sopra  della  guerra  dei  due  Conti  poneva  egli  l'amore 
della  sua  donna  : 

pois  ren  dels  Comtes  no-m  chal, 

ni  lur  guerra  vernazal 

no  voli,  sol  que  ab  vos  sia. 

Ascoltò  Bordello  la  voce  di  Blacasset  e  rivolse  egli  pure  al 
Conte  di  Provenza  un  appello  alla  prossima  lotta?  Può  credersi 
ch'egli  abbia  risposto  al  serventese  di  Blacasset,  ma  il  suo  com- 
ponimento certo  non  c'è  stato  conservato. 

Quando  Blacasset  componeva  il  suo  serventese  le  ire  dei  con- 
tendenti parevano  acquetarsi  e  comporsi  in  pacifiche  trattative  : 

[Str.  I,  vv.  5-6:]  per  q'eu  del  Gomte  volria 
qe  non  anes  pauz  qeren 

e  inoltre  gli  accordi  di  paco  parevano  favoriti,  se  ben  intendiamo, 
da  qualcuno  che  s'indirizzava  alla  volta  della  Provenza: 

Str.  III.    qe  cel  qi  ven  per  son  mal 

tenguetz  (I.  tengues)  aunitz  tot  (1)  sa  via 

Colui,  al  quale  il  trovatore  rivolge  queste  irose  e  amare  parole, 
non  può  essere,  a  nostro  modo  di  vedere,  che  l'inviato  di  Fede- 


Sordel,  sui  ric[s]  e  ioios: 
per  q'  eu  del  Comte  volria 
que  non  anes  paas  qeren, 
en  Sordel, 

(1)  Il  ms.  ha  tot{z\  che  conservo  anche  nel  testo  n»  III,  v.  30.  0  si  dovrà 
leggere:  tosti 


280  G.  BERTONI 

• 

rico  II  che  proponevasi  di  far  tacere  con  trattative  le  discordie 
dei  due  Conti  (1).  Ciò  ci  richiama  alla  primavera  del  1233,  nel 
quale  anno  sarà  stato  composto  il  nostro  serventese  (2). 

I  rapporti  che  corsero  tra  Sordello  e  il  Conte  di  Provenza 
furono,  pare,  molto  buoni:  il  trovatore  cantava  forse  le  grazie 
di  Beatrice,  riceveva  doni  da  Raimondo  Berengario  e  aveva 
sull'animo  del  Conte  un  certo  potere,  se  Blacasset  si  rivolgeva 
a  lui  per  istigare  il  Conte  a  prender  decisamente  Tarmi  contro 
la  contea  di  Tolosa.  Può  dirsi  anzi  che  la  condizion  sua,  favo- 
rita dalle  grazie  della  Corte,  dovesse  risvegliargli  intorno  le  ire 
di  Peire  Bremon  Ricas  Novas,  che  gli  affilò  contro  i  suoi  noti 
serventesi  (3).  Possiamo  ora  aggiungere  che  il  componimento  : 
Ab  marrimens  angoissos  et  ab  plor,  scritto  nel  1245  per  la 
morte  di  Raimondo  Berengario  e  tolto  di  recente  al  patrimonio 
poetico  di  Aimeric  de  Peguilhan  (4),  fu  composto,  se  è  giusta 
l'attribuzione  del  cod.  Campori,  dal  Ricas  Novas,  al  quale  cro- 
nologicamente può  appartenere. 


(1)  In  quegli  anni,  chi  sosteneva  con  ardore  in  Provenza  le  parti  dell'Im- 
peratore  era  un  trovatore  italiano,  Percivalle  Doria,  che  appunto  allora  era 
podestà  di  Avignone.  Si  vedano  i  miei  Trovatori  minori  di  Genova,  in 
questo  Giornale,  36,  7. 

(2)  La  tregua  fu  infatti  conclusa  nel  marzo- maggio  1233.  Cfr.  Barthèlemy, 
Invent.  chronol.  et  analit.  des  chartes  de  la  maison  de  Baux,  Marseille, 
1882,  246,  249. 

(3)  Su  di  essi  si  veda  :  Schultz,  Ueber  den  Liederstreit  zwischen  Sordel 
und  Peire  Bremon,  in  Archiv  f.  das  Stud.  d.  neueren  Sprachen  u.  Li- 
terat,  XCIII,  123-140  e  de  Lollis,  Op.  cit.,  p.  46,  n.  4.  Si  veda  ora  la  tra- 
duzione poetica  del  serv.  sopra  cit.  330,  6  fatta  dal  de  Lollis,  in  Raccolta 
di  studi  critici  dedicata  ad  «  Alessandro  d* Ancona  >  festeggiandosi  il  XL 
anniversario  del  suo  insegnamento,  Firenze,  1901,  p.  411. 

(4)  Riuscì  facile  a  N.  Zingarelli  dimostrare  (Intorno  a  due  trovatori 
in  Italia,  1899,  pp.  39  sgg.)  che  di  questo  componimento  non  fu  autore  il 
De  Peguilhan. 


NUOVE   RIME   DI    SORDELLO   DI   GOITO  281 

III. 

SE  SORDELLO  SIASI  RECATO  IN  PORTOGALLO. 


La  possibilità  d'un  viaggio  di  Sordello  in  Portogallo  e  d'una 
sua  residenza  colà  parve  risultare  al  de  LoUis  (1)  da  una  breve 
tenzone  di  due  poeti  portoghesi:  Joham  Soarez  Goelho  e  Pi- 
candon  giullare.  I  versi  che  ci  interessano  suonano  cosi  (2)  : 

Vedes,  Picandon,  som  maravilhado 
Eu  d'en  Sordel  a  quem  ougo  entengSes 
Muitas  e  bSas  e  mui  bOos  s5es, 
Como  fui  em  seu  preito  tam  errado, 
Pois  nom  sabedes  jograria  fazer, 
Por  qué  vus  fez  per  córte  guarecer! 
Cu  vos  ou  el  dad'ende  bom  recado. 

Da  questo  breve  componimento  risulta  chiaro  che  Sordello 
dovè  essere  in  istretti  rapporti  coi  due  trovatori  portoghesi;  e 
per  di  più  nel  tempo  dello  scambio  di  questa  tenzone  egli  non 
potè  essere  molto  lontano  dai  due  poeti,  se  uno  di  essi  dice  : 

Cu  vos  ou  el  dad'  onde  bom  recado, 
[o  voi  0  egli  datene  buon  conto.] 

Ma  ove  sarà  avvenuto  l'incontro  dei  tre  trovatori?  Dapprima 
il  de  Lollis  pensò  (3)  ad  una  delle  corti  di  Spagna,  ove  Sordello 
fu,  come  è  noto,  ospitato;  poscia  riflettendo  che  ad  un  gen- 
tiluomo, qual  fu  il  Coelho,  non  dovevansi  attribuire  per  avven- 


(1)  Op.  cit,  pp.  28-29. 

(2)  Leggonsi  in  edizione  diplomatica  nel  famoso  cod.  portoghese  della  Va- 
ticana, pubblicato  dal  Monaci,  Halle,  1875,  n"  1021. 

(3)  In  Nuova  Antologia,  1°  febbraio  1895,  p.  424. 


282  '    G.  BERTONI 

tura  peregrinazioni  in  corti  d'altra  regione,  egli  fu  indotto  a 
credere  in  una  escursione  di  Sordello  in  Portogallo;  infine,  dopo 
che  fu  asserito  che  Joào  Soares  Goelho  fu  di  buon  grado 
accetto  nelle  corti  spagnuole  (1),  il  de  Lollis  rinunciò  alla  ipotesi 
del  viaggio  del  nostro  trovatore  (2).  Ma  ora,  se  il  ragionamento 
che  segue  apparirà  giusto,  si  vedrà  come  il  de  Lollis  avesse 
colpito  nel  segno  attribuendo  a  Sordello  una  peregrinazione  nel 
Portogallo. 

Io  pubblicai  di  recente  (3)  una  corrottissima  poesia  di  Jaufre 
Reforzat(4),  nella  quale  leggesi  la  seguente  strofe: 

III.   Sordel  ten  hom  per  cavalier  leial, 
car  leialmen  saup  la  dona  enantir 
q'el  fes  (5)  de  nueg(z)  de  son  alberc  fugir, 
per  qe-n  meiret  (6)  antre  nos  son  hostal: 
e  ugan  fei  un  viatge  mou[t]  lieu 
per  cavalier,  per  ioglar,  per  romieu; 
anet  al  Saint  (7)  e-1  Santz  ac  espaven 
car  non  lai  vene  plus  escaridamen  (8). 


(1)  Ciò  afferma  infatti  la  signora  G.  Michaelis- Vasconcellos,  in  Gròber's, 
Grundriss,  II,  199,  n.  5. 

(2)  In  questo  Giornale  (Sordello  de  Godio  milite)^  30,  167. 

(3)  Studi  di  filol.  rom.  cit.,  fase.  23,  p.  36. 

(4)  A  questo  Reforzat  si  allude  nella  poesia  330,  18  (str.  IV)  secondo  la 
lezione  ancora  inedita  di  D  (che  ho  sott'occhio)  e  non  secondo  A.  È  proba- 
bile che  Reforzat  de  Tres  vada  identificato  in  Grundriss  del  Bartsch  con 
Ref.  de  Forcalquier.  Il  nome  di  Jaufre  si  ricava  da  una  tenzone  di  Blacatz 
«  G.  de  S.t  Gregori  {Zeitschr.  f.  rom.  Phil,  XXIII,  p.  238).  Si  vpdapo  in- 
torno a  Reforzat  alcune  notizie  raccolte  da  0.  Soltau,  in  Zeitschrift  fùr 
rom.  Phil.,  XXIV,  p.  48. 

(5)  Ms.  qer  fos. 

(6)  Ms.  qem  meire. 

(7)  Ms.  als  saintz. 

(8)  Prima  di  procedere  oltre,  io  debbo  dar  conto  della  ricostruzione  critica 
di  questa  strofe:  la  correzione  nel  v.  3  di  qer  fos  in  q'  el  fes  mi  parve  su- 
bito evidente,  come  mi  parve  evidente  scorgere  in  questo  verso  un'allu- 
sione certa  al  ratto  di  Cunizza;  e  a  questo  proposito  lo  Chabaneau,  cui  sotto- 
posi la  questione,  mi  scriveva  in  data  1°  novembre  1900:  «  Correction  trèa 
<  plausible,  confirmée  par  le  vers  suivant,  puisque  sa  fuite  en  Provence  fut 


NUOVE   RIME   DI   BORDELLO   DI   GOITO  283 

Cosi  corretta  e  ridotta  a  lezion  migliore,  questa  strofe  ci  dà 
la  notizia  di  un  viaggio  compito  da  Bordello  alla  volta  di  un 
Santo,  di  cui  si  tace  il  nome;  ma  per  buona  ventura  il  romieu 
del  verso  6  può  metterci  sulla  buona  via.  Codesto  santo  doveva 
ben  essere  noto  in  Provenza  se  bastava  nominarlo  con  un  ap- 
pellativo assoluto  perchè  altri  intendesse:  ad  esso  traevano  genti 
nel  medio  evo  e  perciò  è  lecito  pensare  ad  un  santuario  in  cui 
venisse  venerato;  infine,  a  chi  non  s'affaccia  il  sospetto  che  qui 
s'alluda  a  S.  Giacomo  di  Gompostella?  (1). 

Frequenti  erano  codesti  pellegrinaggi  nel  Medio  evo  e  bene 
spesso  essi  dovevano  servire,  a  chi  sapeva  giovarsene,  a  un  se- 
condo fine:  o  per  nascondere  una  fuga,  un  esilio,  o  per  altro 
ancora.  Cosi  forse  avvenne  del  pellegrinaggio  a  S.  Giacomo  di 
Guido  Cavalcanti,  su  cui  mi  è  necessario  per  ragioni  di  analogia 
di  soffermarmi  un  poco.  Tralasciando  la  questione  che  riguarda 
la  data  di  tale  viaggio  (2),  è  certo  (dietro  la  fede  di  Dino  Com- 
pagni e  d'un  sonetto  di  N.  IMuscia,  cod.  Ghig.  L.  Vili.  305  (3), 
Propugn,  XI,  1,  224)  che  Guido,  il  quale,  come  si  sa,  non  era  un 
modello  di  ortodossia,  ebbe  una  volta  l'idea  di  incamminarsi  a 
S.  Giacomo  di  Gallizia.  Ma  sotto  questo  proponimento  ben  altro 
che  una  ragion  religiosa  vuol  scorgervi  la  critica  :  il  pellegri- 
naggio non  fu  che  un  pretesto  per  allontanarsi  da  Firenze  (4), 


«  la  conséquence  de  ses  aventures  d' amour  en  Italie  ».  Il  mutamento  della 
forma  errata  meire  (v,  4)  la  meiret  (==niigravit)  mi  vien  suggerito,  oltre 
che  dallo  Ghabaneau ,  dal  Levy,  il  quale  mi  rinvia  a  Gròber's  Zeitschrift 
cit.,  XV,  540.  La  correzione  di  saintz  in  saint  (v.  6)  mi  par  infine  richiesta 
dal  secondo  emistichio,  da  cui  risulta  essere  uno  solo  (e  non  parecchi)  il 
santo,  di  cui  si  parla.  11  mutamento  di  mou  in  mout  (v.  5),  manco  dirne, 
è  manifesto. 

(1)  Oltre  che  nel  Tesoro  di  P.  de  Gorbiac,  !'«  apostol  de  Compostela  »  vien 
ricordato  da  alcuni  trovatori:  Peire  Vidal,  Guiraut  Riquier  e  Paulet  de 
Marseilha.  Gito  il  Tesoro  nel  testo  di  R.,  edito  da  G.  Sachs,  Brandebourg,  1859. 

(2)  P.  Ercole  lo  porrebbe  tra  il  1292  e  il  1296,  in  Guido  Cavalcanti  e 
le  sue  rime,  Livorno,  Vigo,  1885. 

(3)  Gfr.  Bartoli,  Storia  della  Ietterai,  italiana,  VI,  p.  166;  Arnonb,  Le 
rime  di  G.  Cavalcanti,  Firenze,  1881,  p.  87,  e  Ercole,  Op.  cit.,  p.  79. 

(4)  Ercole,  Op.  cit.,  p.  44. 


284  G.  BERTONI 

in  cui  pei  Grandi,  dopo  gli  ordinamenti  di  giustizia,  non  dove- 
vano spirare  buone  aure;  e  ch'esso  non  fosse  altro  che  un 
pretesto  appare  anche  dal  fatto  che  il  poeta,  una  volta  lontano, 
non  si  curò  più  di  S.  Giacomo  e  del  suo  santuario,  si  fermò  a 
Tolosa  e  cercò  svaghi  più  graditi.  È  strana  la  frase  adoperata 
dal  Muscia  laddove  egli  allude  ai  segreti  propositi  ch«  movevano 
Guido  a  condursi  a  S.  Giacomo: 

S.  Iacopo  sdegnò  quando  Tudio. 

A  questo  verso  fa  riscontro  un  altro  verso  della  nostra  strofe 
in  cui  sì  nasconde,  sotto  altra  forma,  un  simigliante  pensiero  :       / 

anet  al  Saint  e'I  Santz  ac  espaven. 

Aveva  forse  anche  Bordello  alcune  mire  segrete  e  celava  egli 
sotto  il  suo  pellegrinaggio  motivi  e  scopi  che  fossero  ben  altro 
che  religiosi? 

Io  sono  portato  a  creder  di  si  e  mi  spingerei  ad  ammettere 
che  col  viaggio  in  Gallizia  egli  abbia  voluto  mascherare  la  sua 
fuga  dall'Italia.  Molto  incerte  sono  tuttora  le  sue  relazioni  con 
Gunizza,  né  ancor  si  può  asserire  che  per  esse  Bordello  abbia 
dovuto  intraprendere  cotesta  sua  fuga,  che  par  venga  ricordata 
da  Peire  Bremon  in  330,  6;  ma  tuttavia  la  causa  del  suo  fuggire 
pare  sia  stata  veramente  tale  da  non  fare  onore  al  poeta.  Ora, 
stando  cosi  le  cose,  non  era  forse  conveniente  a  Bordello  porre 
come  meta  alla  sua  peregrinazione  forzata  un  viaggio  a  S.  Gia- 
como di  Gallizia  ?  È  questa  una  mera  ipotesi  e  come  tale  essa 
vien  posta  innanzi   non  senza  alquanta  dubbiezza  ed  esitazione. 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO   DI   GOITO  285 


PARTE  SECONDA 


TESTI    IInTEIDITI  (1). 

I. 

SORDELLO  E  JOANET  [D'ALBUSSON] 

(La  temo  d'  en  Sordel  e  d' en  Johan) 

[aS  p.  539]. 


L  —  Digatz  mi  s'es  vers  zo  c'om  brui, 

Sordel,  q'en  don  prenetz  Faltrai: 

—  Joan,  lo  joi  c'amors  m'adui 
de  l'autrui  moiller  non  refui. 

5  —  Sordel,  paubertatz  vos  condui, 
zo  diz  om,  en  joglaria. 

—  Joan,  d'aire  ioglars  non  sui, 
mas  de  ben  dir  de  m'amia. 

IL  —  Pos  ioglars  non  es,  com  prezes, 

10        Sordel,  antan  draps  del  Marqes? 

—  Joan,  eu  non  To  prezi  ges 
mas  per  creisser  ioglar  d  arnes. 

—  Sordel,  tal  ioglar  en  cregues 
q'  eu  sai  qe'us  sec  noig  e  dia. 

15  —  Joan,  per  amor  sui  cortes 
e  donei  en  combatria. 

IIL  —  Sordel,  re  no  vos  (2)  vei  donar, 

mas  e-us  vei  qerer  e  preiar. 

—  Joan,  molt  enoios  ioglar 


(1)  Seguo  scrapolosamente  la  grafia  del  codice. 

(2)  Ms.  nous.  Si  cfr.  la  nota  al  testo. 

Giornale  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  19 


G.   BERTONI 

20        ai  (1)  en  vos,  no'I  vos  pueae  oelar. 

—  Sordel,  vostre  mendigar 
blaflBi*oin  (2)  font  en  Lumbardia. 

—  Joan,  no  vos  auz  encolpar 
d  enian  ni  de  fellonia. 

IV.    25  —  Sordel  (3),  vos  respondetz  molt  gen, 
a  lei  de  ioglar  aprenen. 

—  Joan,  eu  respon  avinen 
s'es  qui  m'enten  d' avinen. 

—  Sordel,  moiller  trobatz  truep  len 
30        e  ges  no  sai  per  qe  sia. 

—  Joan,  q'  aicil,  en  cui  m' enten, 
m'am  e  no  i  vueil  compagnia. 


II. 

EN    SORDEL 
[aS  p.  380]. 


I.  Er  encontra-l  temps  de  mai 

cant  fueir  e  fior  vei  parer 
per  atendre  mon  dever 
al  mieils  del  mon  chantarai, 
5      pros  donna,  car  no'm  pois  laissar, 
pois  vos  torn  vezer,  de  chantar, 
mas  qar  no-us  vei  ma  vidam  .sembla  mortz 
e  chanz  dolora  e  plazers  desconortz. 

II.  Si  tot  promis  qe  ia  mai 

10         no  vos  venria  vezer, 

donna,  eu  no  m'en  pois  tener 


(1)  Mi.  hai. 

(2)  Mi.  bkumon.  Si  cfr.  la  noU  ài  testo. 
(8)  Mi.  SortUs. 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO   DI   GOITO  287 

car  fin'amors  m' i  atrai 
[e  beutatz]  qi-m  n'  a  fag  forzar  ; 
pero  Assas  m'es  a  passar, 
15  car  ieu  voil  mais  esser  periurs  estortz, 
qe  murir  finz  o  vivr'  ab  turmenz  mortz  (1). 

III.  Valenz  domna,  e  qe  farai 

poi  vos  (2)  non  pos  mai  aver? 
si  nom  degnatz  retener, 
20  mal  nasqei  e  peigz  morrai; 

mas  qan  penz  qe  regnatz  ses  par 
de  beutatz  e  de  fin  pretz  car 
a  totz  bos  aibs,  don  es  abrics  e  portz, 
on  peigz  en  trac  mos  maltragz,  m'esconortz. 

lY.  25  Domna,  '1  mais  qe  piegz  me  fai 

es  car  non  ai  dreg  lezer 
qe-us  vis  sovent  ni  poder 
de  servir  vostre  cors  gai  : 
mas  qi  fa  gent  zo  qe  pot  far 
30      deu  ben  del  plus  [(3)  merce  trobar: 
merce  trob  ieu  e]  merces  fassa  fortz 
mos  frevols  fagz  pos  del  poder  m'esfortz. 

V.  Adregz  cors  plazenz,  tan  ai 

e  vos  servir  mon  voler, 
35  q'  eu  fug  zo  qe  pogr'  aver 

per  zo  qe  ia  non  aurai, 
qar  enver  vos  voil  mescabar 
anz  q'  a  nuU'autra  (4)  [mon  cor  dar], 
qar  tals  mescabs  m'es  gazanz  e  deportz 
40  e  iois  d'aillors  destrics  e  desconortz. 


(1)  Questi  aitimi  tre  versi  (14-16)  nel  ms.  leggonsi  così:  <  p«ro  assas  mes  apassar  car  iea  uoìl 
«  mais  esser  per  iufe  estortz  qa  mnrir  finz  e  mur  ab  turmenz  mortz  ».  Della  lezione  da  noi  ri- 
costruita nel  testo  si  dà  conto  più  oltre,  sotto  la  nota. 

(2)  Ms.  de  vos. 

(3)  Si  cfr.  la  nota  al  testo. 

(4)  Ms.  nuUa  autra.  Si  cfr.  la  nota  al  testo.  Aggiungo,  per  compiere  il  verso,  le  parole  [mon 
cor  dar],  che  daranno,  s'io  non  erro,  se  non  la  lettera,  almeno  il  senso  deiremistichio  tralasciato 
per  inavvertenza  dal  copista. 


288  G.  BERTONI 

VI,  Douc'  enemia,  en  vos  amar 

80i  tan  ferm  lassatz  ses  cor  var, 
qe  desfennar  no  m'en  pot  dreigz  ni  tortz, 
ni  ioÌ8  d*autra  [ni]  de  vos  desconortz. 


III. 

BLACASSE"?  (1) 
[Studi  citati,   p.   29] 

1.  (2)  De  guerra  sui  (3)  deziros 

e  no  i  am  trega  ni  patz, 
e  can  vei  cavals  armatz, 
Sordel,  sui  ric[s]  e  ioios: 
5        per  q*eu  del  Comte  volria 
qe  non  anes  pauz  qeren, 
en  Sordel,  car  ai  talen 
c'auzis  en  luec  comunal 
cridar  :  «  Toloza  reial  !  » 
10        tan  irò  qe  nostr'  o  (4)  lur  sia. 

II.  Pero  fort  sui  voluntos 

q* iels  (5)  pogues  vezer  rengatz (6) 
e  d*  aitals  bruis  aiostatz 
q'  elms  e  lanzas  e  lansos  (7) 
15        brizesson;  e  a*ieu  temia 
en  aitai  envazimen 
intrar,  ges  cel  qi  ab  sen 


(1)  Pubblico  intero  questo  nuovo  componimento  che  si  riferisce  a  Sordello  e  può  MTTire  a  di- 
lucidare in  maggiore  o  minor  grado  la  biografia  del  nostro  troratore.  Esso  fta  già  inaatito  diplo- 
maticamente  da  me  nel  fascicolo  23**  degli  Stìtdi  di  JUol.  romaiua  già  citati,  e  discasso  in  alcuni 
pnnti  controrersi  dal  de  LoUis  nella  stessa  rivista,  tàae.  24,  p.  1. 

(2)  In  teeta  al  componimento  lefftii  nel  ms.  Àqt$t  iir9mt$$  fu  tn  BlaeatittK  é»l  Comi*  d* 
ProtìMa. 

(8)  Ms.  fui. 

(4)  Ms.  nottron. 

(5)  Ms.  f^  dtì*. 

(6)  V«i.  rtgaU. 

{1)  Ms.  lauto».  Cfr.  db  Lollis,  Studi  dt.,  fase.  24,  p.  11. 


NUOVE   RIME   DI   BORDELLO   DI   GOITO  239 

creis  son  pretz  emperial 
no'm  valgues,  qe  sobreval, 
20        s'ieu  per  raon  grat  noi  valia. 

III.  Ben  volgra  vezer  blezos 
eissir  de  cocha  trauchatz 

et  elms  ferrencs  (1)  desbarra tz,  (2) 

e  c'auzìs  hom  los  ressos 
25        dels  colps,  qe  chascus  faria, 

e  qe  brizan  e  fragnen 

vissem  (3)  tal  envazimen 

far  al  Gomte  Proenzal, 

qe  cel  qi  ven  per  son  mal 
30        tengues  aunitz  tot  sa  via  (4). 

IV.  E  se-I  Goms  es  coratjos 
afortitz  ni  aturatz, 

ni-1  platz  valors,  er  onratz, 

e  e'  el  i  fai  messions 
35        temen,  tem  qe  aunitz  sia: 

mas  qe  donan  e  meten, 

rauban,  tolen  e  prénen 

fassa  temer  son  segnai, 

tre  qe  venza  ab  mescla  tal, 
40        co-I  Goms  de  Monfort  fazia. 

V.  Humils,  fizels,  amoros, 

si  tot  mi  sui  desamatz, 

gentils  domna,  ia-m  (5)  forzatz  ; 

vostres  nous  cors  enveios, 
45        quem  venz  ab  douza  paria, 

eil  plazer  sobreplazen 

m'  an  tant  amorosamen 

format  de  ferm  cor  coral 

ab  vos,  qe  plazen  iornai 
50        non  puesc  far  si  no'us  vezia. 


(1)  Ms.  ferrenz.  (2)  Ms.  deshastratz.  (3)  Ms.  uissen. 

(4)  Ms.  per  sim  («l'm?)  mal  tenguetz .  . .  iotz  ...  (5)  Ms.  iV7. 


290  O.   BFRTONI 

VI.  E  si  valors  s'uraelia, 

gentils  donna,  qi-m  defen 
vostre  nou  iove  cors  gen'i    . 
Pois  rea  dels  Gomtes  no-m  chal, 
55        ni  lur  guerra  vernazal  (1) 

no  voil,  sol  (2)  qe  ab  vos  sia. 


IV. 


EN   REFORZAT   (3) 

[Studi  cit.,  p.  36] 

(str.  II-III). 


Ricas  Novas  tene  per  home  cabal 
segon  qe-1  vi  a  Marseiir  asaillir 
et  a  granz  colpa  degolar  et  aucir 
808  enemics  qe  merces  non  lur  vai  : 
5       be  fai  semblan  qe'l  raascarat  son  sieu  : 
ai!  (4)  cun  trasnuech'  ab  ploias  et  ab  nieu! 
mais  crestians,  aias  retenemen, 
non  (5)  aucias  tan  mal  la  bona  gen! 

Sordel  ten  hom  per  cavalier  leial 
10       car  leialmen  saup  la  dona  enantir, 

q'  el  fes  (6)  de  nueg(z)  de  son  albero  fugir, 
per  qen  meiret  (7)  antro  nos  son  hostal : 
e  ugan  fei  un  viatge  mou[t]  lieu 
per  cavalier,  per  ioglar,  per  romieu: 


(1)  Ms.  utnarMal. 

(2)  Ms.  /ol. 

(3)  Pabblico  le  strofi  II-III  del  componimento  di  Befonat  edito  da  me  in  Studi  cit.,  loc.  cit., 
perchò  eae  hanno  speciale  riguardo  al  nostro  sog^tto.  Questa  poesia  ci  è  perrenata  in  lesione 
reramente  disperata.  Coll'aiato  dello  Chabanean  e  del  Lery  io  sono  gianto  a  rioostmire,  parmi 
esattamente,  queste  dae  strofi. 

(4)  Ms.  aiamirtu  miéeh. 

(5)  Ms.  aiom. 

(6)  Ms.  qtr  /o$  dt  ntugM. 

(7)  Ms.  q«m  mtirt. 


NUOVE   RIME   DI   BORDELLO  DI   GOITO  291 

15        anet  al  Saint (1)  el  Saintz  ac  espaven 
car  non  lai  vene  plus  escaridamen. 


PEIRE  DE  GHASTELNOU  (2) 

[Studi  cit.,  pp.  44-45] 

(str.  IIl-lV). 


Anc  negus  hom  per  bella  captenenza 
no  vi  nuls  mais  sufifertar  ni  sufFrir, 
qe  per  us  mais  no  vis  cent  bes  venir, 
car  be  fenis  de  leu  qi  ben  comenza; 
5        per  que-1  pros  Coms  Berengiers  o  fes  be 
can  mosegnen  Sordel  retenc  ab  se, 
e  si  noi's  fos  cortes  e  plazentier 
al  comenzar,  no-I  retengra  estiers, 
ni  no  saubr'  om  (3)  son  pretz  ni  sa  valenza. 

10        Per  aizo  deu  segner  de  gran  tenenza 

amar  los  sieus  e-ls  deu  gent  (4)  acuillir 
e  non  los  deu  dechazer  ni  fugir, 
ni'l  seu  vas  el  non  devon  far  faillenza; 
car  pot  sa  ber  chascus,  segon  q'  eu  ere, 

15        censi  n"  es  pres  de  lai  al  re  Poile, 
e'  ab  Alamanz,  a  lei  de  mercadiers, 
intret  el  camp,  per  qe  lui  e-Is  (5)  destriers 
an  retengut  li  nostre  ses  faillenza. 


(1)  Ms.  als  tainiz. 

(2)  Eipabblico  in  edizione  critica  le  2  strofi  (III-IV)  che  si  riferiscono  strettamente  al  nostro 
argomento.  Tutta  la  poesia  si  legge  in  Studi  di  filol.  rom.  citati, 

(3)  Ms,  saubr iom. 
(i)  Ms,  dwjent. 
(5)  Ms.  es. 


292  G.  BERTONI 

PARTE  TERZA 


Note  critiche  ai  testi. 

I. 

DIGATZ  MI  S'ES  VERS  ZO  C  OM  BRUÌ. 

Argomento.  Il  componimento  si  riferisce  allo  stato  di  giulleria,  in  cui 
parve  trovarsi  Bordello  negli  inizi  della  sua  carriera.  Il  nostro  trova- 
tore si  difende  dalle  reiterate  accuse  di  giullare  che  gli  vengono  mosse 
da  G.  d'Albusson  e  si  studia  di  volgere  ad  altri  fini  le  punte  d'ironia 
del  suo  mordace  competitore.  Nella  chiusa  della  nostra  tenzone 
s'asconde  qualche  amaro  e  oscuro  sarcasmo  intorno  alle  avventure 
donnesche  di  Sordello  e  forse  può  alludersi  alla  sua  relazione  con 
Gunizza:  poiché  è  certo  (cfr.  il  v.  10)  che  la  presente  poesia  venne 
composta  alcun  tempo  dopo  l'ingresso  del  nostro  poeta  alla  corte  d*Este. 

V.  3.  Joan.  Questo  trovatore  vien  chiamato  Joanet  soltanto  in  H  e  in 
Barbieri  (p.  133).  Cfr.  Ghabaneau,  Les  biographies  des  troubadours, 
Toulouse,  1885,  p.  155. 
vv.  7-8.  Ricordano  ciò  che  disse  altra  volta  Sordello  a  Peire  Bremon  che 
l'accusava  di  giulleria:  e  non  voill  guierdon  Mas  sol  d'amor 
(Gr.  437,2).  Sulla  condizione  del  giullare  si  cfr.  l'opera  del  Diez: 
Die  Poesie  der  Trobadours,  zweite  vermehrte  Auflage  von 
K.  Bartsch^  Leipzig,  1883,  pp.  85  sgg.  e  47. 

V.  11.  Prezi.  Qui  è  usata,  come  è  chiaro,  la  forma  debole  del  verbo, 
poiché  la  forma  forte  regolare  sarebbe  pris.  La  sostituzione  della 
forma  debole  alla  forte  per  questo  medesimo  verbo  trovasi  anche 
in  Traduction  provengal  du  roman  de  Merlin  edita  dallo  Gha- 
baneau, in  Rev.  des  lang.  rom.,  S.  Ili,  t.  8.  A  pp.  241-242  lo 
Ghabaneau  mette  in  evidenza  la  3»  pers.  plur.  debole  preseron 
e  la  3*  pers.  sing.  prezet.  Per  ciò  che  riguarda  i  perfetti  forti 
in  s,  troviamo  altre  volte  questa  sostituzione,  ad  es.,  in  dissii 
(Bartsch,  Chrest.,  10, 34),  e  anche  l'a.  francese  ne  fornisce  esempi. 
Nell'antico  prov.  questo  fenomeno  si  manifesta  in  più  larga  scala 
nei  perf.  in  gutturale,  begui  per  bec;  prengui^  ecc. 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO    DI   GOITO  293 

V.  17.  no  vos.  11  ms.  dà  nous.  Mi  è  necessario  correggere  per  la  misura 
del  verso. 

V.  22.  blasm  om.  Più  mi  piace  questa  correzione  di  ciò  che  dà  il 
ms.  blasmon,  tanto  più  che  nel  nostro  cod.  è  frequente  lo  scambio 
di  -m  e  -n  finali.  Per  questa  sostituzione  non  ignota  ad  altri  testi 
si  cfr.  Zeitschrift  f.  rom.  Philol.,  XII,  p.  263. 


II. 

ER  ENGONTRAL  TEMPS  Dl^  MAI. 

Argomento.  Le  foglie  e  i  fiori  di  maggio  svegliano  l'impeto  dei  canti  nel 
poeta  e  riaccendono  l'amore  per  la  sua  donna.  Lontano  da  lei,  egli 
si  sente  condotto  a  rivederla,  poiché  un  fino  amore  lo  attrae  :  lo  tor- 
menta il  pensiero  di  non  poterla  veder  sovente;  ogni  suo  volere  egli 
pone  nel  servirla  ;  né  desiderio  d'altra  donna  potrà  mai  smuoverlo  dal 
suo  amore. 

vv.  13-16.  Non  saprei  come  riempire,  se  togliessi  \heutatz\  la  lacuna  del 
V.  13.  La  lezione  del  ms.  é  evidentemente  corrotta.  Mi  consultai 
intorno  ad  essa  collo  Schultz-Gora,  il  quale  cosi  interpreterebbe: 
«  denn  treue  Liebe  zieht  mich  zu  Euch  [und  Schònheit?]  die 
«  mich  gezvsrungen  hat;  desshalb  muss  ich  nach  Satz  (??)  gehen 
«  denn  lieber  will  ich  (wenn  auch)  meineidig  gerettet  sein  als 
«  echt  (d.  h.  nicht  meineidig)  sterben  und  unter  Qualen  als  Toter 
«  leben  ».  Appartengono  pure  allo  Schultz-Gora  le  correzioni  di  qa 
in  qe  e  di  mur  in  uiur  (v.  16).  Io  leggo  però  Assas  in  luogo  di  a 
Sas^  perchè  Assas  trovo  in  Provenza  nel  dipartimento  di  Hérault, 
non  molto  lungi  da  Montpellier.  Si  cfr.  Vivien  de  Saint-Martin, 
Nouv.  Diction.  de  Gèogr.  univers.^  Paris,  1879,  voi.  I,  p.  238. 
V.  18.  Si  notino  poi  e  mai  (vedi  anche  v.  9)  in  luogo  di  pois  e  mais^ 
e  si  cfr.  Schultz,  Le  epist.  del  trovai.    Ramò,  cit.,  pp.  100-101. 

vv.  30-31.  La  dimenticanza  del  copista  si  spiega  assai  bene  colla  mia  con- 
gettura: la  parola  merce,  ripetuta  a  poca  distanza,  trasse  in  errore 
Tarn  e  gli  fece  saltar  forse  una  linea  del  cod.,  cioè  due  emistichii. 
V.  38.  Ms.  nulla  autra.  Potrei  anche  serbare  la  lezione  del  ms.  ;  leggo 
tuttavia  per  maggior  correttezza,  con  lieve  ritocco:  nuli" autra. 
Noto  qui  tre  esempi  di  sinalefe:  vv.  11  (-a  eu)  17  e  41  {a  e). 


294  G.  BERTONI 

IIL 
DE  GUERRA  SUI  DEZIROS. 

Argomento.  Il  poeta  ama  la  mischia  e  lo  strepito  deirarmi  e  dei  cavalli; 
sì  che  non  gli  aggrada  l'accordo,  che  si  va  stabilendo  fra  i  due  Conti 
di  Tolosa  e  di  Provenza.  Gli  piace  lo  spettacolo  di  file  ordinate  per 
la  battaglia,  di  elmi  di  ferro,  di  dardi  liberati  dall'arco;  il  Conte  di 
Provenza  si  dimostri  coraggioso,  qual  fu  Simone  di  Mon forte  (v.  40); 
pensi  di  togliere  e  di  rubare,  più  tosto  che  di  donare.  All'idea  della 
guerra  il  poeta  disposa  quella  dell'amore  e  finisce  il  suo  serventese 
con  un  omaggio  alla  sua  donna. 

V.  1.  sui.  Il  ms.  legge  fui.  La  correzione  mi  pare  evidente:  si  noti  poi 
che  lo  scambio  dì  s  e  f  è  frequentissimo  nel  nostro  codice. 

v.  10.  nostr''  o  lur.  Il  ms.  nostron.  Non  riuscendo  a  trarne  un  buon 
costrutto,  ho  pensato  di  sopprimere  la  -n  finale. 

v.  12.        q'  ie'ls rengatz.  La  correzione  è  del  prof.  E.  Levy. 

v.  22.  Cocha  usato  assolutamente  nel  significato  di  «  mischia  »  trovasi 
in  modo  da  non  lasciar  dubbio  in  G.  de  Berguadan  (Sludi  cìt.., 
fase.  23,  str.  IV,  v.  1). 

V.  23.  desbastratz.  Correggo  desbarratz^  ignoto  al  Lex.^  che  registra 
barra  e  barrar.  Ma  cfr.  Mistral,  desbarra,  e  anche  Godefroy, 
li,  544,  €  faire  sauter  les  barres  d'un  heaume  >.  Leggo  pure,  in 
luogo  di  ferrenz,  ferrencs  =  di  ferro.  Si  cfr.  ramens  per  ra- 
mencs  in  D,  al  v.  7  della  canzone  IV,  p.  105  ediz.  Canello  di 
A.  Daniel. 
vv.  29-30.  Pensai  dapprima  che  sotto  sun  o  sim  del  ms.  si  nascondesse  il 
nome  d'una  città;  poi  mi  decisi  alla  fine  per  la  correzione  adot- 
tata nel  testo  la  quale  ritocca  un  po'  la  lettera  del  codice.  Am- 
mettendo al  V.  30  un  esempio  di  ~tz  per  -s  (cfr.  Appel,  Provenz. 
Inedita^  Leipzig,  1890,  pref.),  tenguets  viene  ad  essere  uguale  a 
tengues.  Per  ciò  che  riguarda  totz  si  cfr.  il  presente  studio, 
p.  279,  n.  1. 

V.  34.        e  el.  Intendo:  s' el=^se  egli^  ma  serbo  la  grafia  del  ms. 

V.  55.        Il  ms.  legge:  uenarzal,  che  andrà  corretto  in  vcrnasal  o  anche: 


NUOVE   RIME   DI    SORDELLO   DI   GOITO  295 

vernassal.  Sopra  questo  aggettivo  vedasi  ciò  che  scrive  l'Appel 
in  Arch.  f.  d.  Stud.  d.  neueren  Spr.  u.  Literat.,  XGVIl,  p.  187, 
dando  conto  dell'opera  del  Kolsen,  Guiraut  v.  Bornelh,  der 
meister  der  Trobadors.  Nella  lezione  della  strofe  preced.  io  mi 
scosto  (ai  vv.  43-44)  dalle  osservazioni  del  De  Lollis,  Studi  cit.,  1.  e. 


IV. 
EN  REFORZAT. 

Argomento.  Il  presente  testo,  attraverso  alla  sua  lezione  in  molti  punti 
corrotta,  lascia  divedere  un'arguta  intenzione  di  satira.  Il  poeta  si 
rivolge  contro  Sordello  e  Peire  Bremon  Ricas  Novas  e  par  voglia 
deridere  la  loro  spavalderia.  Questo  componimento  io  credo  composto 
dopo  il  noto  scambio  di  invettive  tra  Sordello  e  Peire  Bremon.  Le 
strofi  che  hanno  per  noi  maggiore  interesse,  sono  la  seconda  e  la 
terza,  che  abbiamo  sopra  riprodotte. 

V.    5.        mascarat^  «  ist  mir  nicht  klar;  das  Wort  steht  in  Crois.  Alò.  > 
Gloss:  mascarar  [LevyJ.  È  forse  usato  in  senso  metaforico? 

V.    6.        La  correzione  di  questo  verso  è  dovuta  al  prof.  E.  Levy. 

V.  8.  Così  pure  non  in  luogo  di  aion  è  mutamento  del  Levy. 
vv.  9-16.  Delle  ricostruzioni  di  questi  versi  ho  dato  già  conto  a  p.  282,  n.  8 
nel  capitoletto  III  del  presente  studio.  Questo  testo  ci  permette  ormai 
di  porre  in  quarantena  quella  supposizione  del  Gittermann,  secondo 
la  quale  il  rapitore  di  Gunizza  non  sarebbe  stato  il  nostro  trova- 
tore, ma  piuttosto  un  altro  Sordello  (Ezzelin  von  Roman^  I.  Theil 
[Die  Grundung  der  Signorie]  Stuttgart,  1890,  Append.  1).  Per 
quanto  tale  opinione  fosse  già  stata  combattuta  con  stringenti 
argomentazioni  da  G.  Merkel  in  questo  Giornale^  17,  381  sgg., 
recentemente  parve  S.  Mitis  inclinare  ad  essa  {Storia  d'Ezze- 
lino IV  da  Romano,  Maddaloni,  1896,  p.  19).  È  tempo  ormai  che 
di  tale  ipotesi  non  si  discorra  più;  il  nostro  testo,  dovuto  ad  un 
trovatore  che  conobbe  da  vicino  Sordello  (sopra  Reforzat,  oltre 
alla  Zeitschrift  cit.  in  nota  al  capit.  IH,  si  veda  anche  Springer, 
Das  àltprov.  Klagelied,  Berlin,  1895,  p.  76),  basta  a  dimostrare 
palesemente  che  il  poeta  di  Coito,  e  non  altri,  fu  il  rapitore  di 
Gunizza,  q'  el  fes  de  nueg  de  san  albero  fugir. 


296  G.  BERTONI 

«  Non  è  ben  certa  la  data  del  ratto:  pare  che  il  delitto  accadesse 
«  nel  1226  o  in  quel  torno  ».  Così  G.  Cipolla,  Compendio  della 
storia  politica  di  Verona,  Verona,  1900,  accettando  l'opinione 
del  de  Lollis  la  quale  ottenne  anche  il  favore  di  C.  Merkel 
in  Arch.  storico  lomb.,  serie  111,  voi.  VI,  p.  212  e  di  0.  Schultz- 
Gora,  Zeitschrift  f.  roman.  Philol.  cit.,  XXI,  p.  238.  Ritornò  su 
questo  punto  della  biografìa  sordelliana  G.  Biscaro,  in  questo 
Giornale,  34,  368  sgg.;  ma  le  sue  conclusioni,  per  quanto  inge- 
gnose, non  credo  rispondano  alla  verità  storica.  Egli  considerò 
avvenuta  la  fuga  di  Cunizza  intorno  al  1222-3  perchè  negli  anni 
che  corrono  dal  1224  al  "26  non  avrebbe  avuto  Ezzelino  bisogno 
di  Sordello  per  impadronirsi  di  Cunizza;  «  egli  allora  non  aveva 
«  che  a  stendere  la  mano  per  impadronirsi  della  sorella  ».  Si  po- 
trebbe subito  rispondere  ch'egli  stese  appunto  la  mano  e  si  giovò 
d'uno  dei  suoi  fidi  :  di  Sordello.  Ma  l'argomentazione  del  Biscaro 
pare  rafforzarsi  laddove  egli  vuol  dimostrare  che  le  nozze  segrete 
di  Otta  degli  Strasso  (cfr.  ora  A.  F.  Carreri,  Otta  di  Strasso,  in 
N.  Archivio  Veneto,  XIII,  211-4)  con  Sordello  non  siano  state 
posteriori  al  1224.  Se  ciò  fosse  provato,  certamente  egli  avrebbe 
ragione  da  vendere,  perchè  il  ratto  di  Cunizza  fu  senza  dubbio 
anteriore  a  questa  seconda  avventura.  Ma  egli  si  appoggia  a  uno 
Statuto  trivigiano  la  cui  stessa  origine  «  sembra  collegarsi  col 
«  caso  di  Otta  »  (p.  277);  e  giovandosi  degli  statuti  trivigiani  a 
stampa  (Venezia,  1574)  e  dell'archivio  del  Comune,  giunge  alla 
conclusione  che  un  capitolo  speciale  riguardante  coloro  «  qui  ju- 
€  rant  mulieres  in  absconso  »  (che  ha  la  data  del  1225)  sia  stato 
aggiunto  in  causa  dell'avvenuto  matrimonio  segreto  di  Otta  con 
Sordello.  Ora  noi  potremmo  domandarci:  come  mai  il  fatto  era 
accaduto  a  Strasso  e  lo  statuto  si  faceva  a  Treviso?  La  risposta 
del  Biscaro,  <  perchè  la  cosa  aveva  fatto  rumore  e  scandalo  (p.  379)  » 
non  ci  pare  giusta,  giacché  essa  suggerisce  una  seconda  interro- 
gazione: e  perchè  nulla  trovasi  di  ciò  negli  statuti  di  Vicenza, 
Padova  e  Verona,  com'egli  stesso  fa  osservare,  forse  non  badando 
che  l'argomento  è  a  doppio  taglio  e  sconcerta  le  sue  deduzioni? 

Inoltre  pare  a  noi  che  appunto  durante  la  supremazia  di  Ezze- 
lino in  Verona  il  ratto  sia  avvenuto,  perchè  è  lecito  supporre  che 
altrimenti  Sordello  si  sarebbe  rifiutato  a  prestar  man  forte  ad  Ez- 
zelino: e  per  di  più  si  potrebbe  aggiungere  che  il  miglioramento 
d'una  legge   non  implica  la  necessità  di  un  fatto  occasionale; 


NUOVE    RIME   DI    SORDEl.LO   DI   GOITO  297 

sicché  è  tutto  congetturale  il  riferimento  dell'aggiunta  del  1225 
allo  sposalizio  di  Sordello.  Pare  adunque  che  il  de  LoUis  abbia 
colpito  giusto  in  quelle  pagine  (10  sgg.)  in  cui  tratta  con  neces- 
saria cautela  di  questo  punto  della  vita  di  Sordello  ;  tuttavia  noi 
proporremmo  una  lieve  trasposizione  giudicando  avvenuto  il 
ratto  un  po'  prima,  e  cioè  nel  1225.  In  tale  anno  infatti  il  conte 
Rizzardo  era  podestà  di  Mantova  e  secondo  le  affermazioni  di 
diverse  cronache  (Annali  Mantovani  in  M.  G.  E.  Script.  XIX,  21  ; 
Chronicon  Est.,  ap.  Muratori,  XV,  304;  Rolandino  in  M.  G.  H. 
Script.  XIX,  50  ecc.)  egli  fu  cacciato  dalla  città  di  Verona,  la 
quale  rimase  per  alcun  tempo  sotto  il  predominio  di  Ezzelino. 
Si  cfr.  G.  Cipolla,  Documenti  per  la  storia  delle  relazioni  di- 
plomatiche fra  Verona  e  Mantova  nel  secolo  XIII,  Milano, 
1901,  p.  36  [in  Bibliotheca  Historica  Italica,  Series  altera, 
voi.  I].  Io  non  posso  tenermi  dal  notare  che  quello  era  certo 
tempo  assai  opportuno  al  trovatore  per  involare  Gunizza;  il  marito 
era  assente  ;  Ezzelino  pareva  divenire  il  dominatore  di  Verona  e 
il  ratto  fu  presto  compiuto.  E  forse  perchè  Gunizza  veniva  sor- 
vegliata nella  lontananza  di  Rizzardo,  Sordello  compì  il  ratto  di 
notte,  €  de  nueg  »,  come  dice  lo  stesso  Reforzat. 


V. 

PEIRE  DE  GHASTELNOU. 

Argomento.  Il  poeta  non  indugia  più  a  cantare: 

Hoi  mais  no*m  cai  far  plus  longu'  atendenza 

d'un  sirventes  novel,  a  cui  qe  tir, 

e  farai  lo  novelament  auzir 

a  cels  qe  son  entro  mar  e  Durenza 

endreit  l'amor  d'en  Barrai,  car  ancse 

a  mantegut  lo  rie  pretz  [e]  mante . . . 
e  continua  il  suo  serventese  dimostrandosi  gran  sostenitore  delle  parti 
di  Carlo  d'Angiò  e  augurandogli  di  divenir  signore  «  del  plus  del  mon  ». 

v.    3.        Forse  meglio:   un  mal;   mantengo   tuttavia   Tobi.  plur.  del  ms. 

Cfr.  Lex.,  V,  447,  1. 
v.    9.        saubr  om.  Cosi  correggo  perchè  il  ms.  allunga,  col  suo  saubri"  om, 

il  verso  di  una  sillaba. 


298  G.  BERTONI 

V.  14.       dati  gent.  Il  ms.  legge  rfw^en^  Questo  miglioramento,  che  reputo 

giusto,  fa  gft  éa  me  proposto  negli  Studi  di  filol.  rom.  cit.  p.  45. 

V.  17.        eh.  ms.  es.  Non  vedo nUmm  aUra  correzione  migliore  di  questa. 


APPENDICE. 

SE  SORDELLO  ABBIA.  SCRITTO  IN  VOLGARE  ITALIANO. 

Il  cod.  Gampori  si  chiude  col  seguente  componimento,  che  non 
reca  nome  d'autore  (1): 

p.  615]  I.  Poi  qe  neue  niglazi  non  me  pot  far  guizardo  e  qwe  dol  |  zamen- 
trardo  en  lamor  que  ma  biaza.  ben  e  razon  qweo  |  faza  un  siruentes 
lonbardo.  qe  del  proenza  a  lesco  |  no  ma  cresco  e  fora  cosa  noua 
qom  non  troua  siruentes  lombardesco. 

II.  Qua  far  pur  cos  ufaa.  bem  qom  faza  bon  oura  la  |  mamera  par 
poura  ma  qui  ala  fìaa.  fa  cosa  deuisaa  |  deet  e  quonor  nous  coura 
per  qtien  loco  (2)  de  pianto.  |  ri  e  canto  per  tornar  en  legreza 
la  gen  meza  de  cui  |  remagna  tanto. 

III.  Quo  bona  fé  mensegna  qweo  no  pensam  diga,  zo  qamor  j  met  en 
briga,  ben  o  mais  (\ue  men  uegna.  quen  tropo  |  mal  de'  reizina 
una  gen  meidizina  per  qwe  me  uoio  |  metro  corata  lettre  de  razon. 
uil  e  fosa  a  dir  cosa  |  que  non  e  damettre. 

IV.  Quel  no  par  (\ue  ben  ama  qut  a  damor  nouela  que  croia  |  gemer 


(1)  Ne  dò  una  riproduzione  esattamente  diplomatica  perchè  il  lettore  possa 
coir  originale  sott' occhio  giudicare  dei  mutamenti,  delle  correzioni,  in  una 
parola,  del  lavoro  critico  ed  ermeneutico  da  me  praticato  su  questo  testo, 
che  malgrado  il  mio  buon  volere  resta  pur  sempre  in  alcuni  punti  di  lezione 
disperata.  Speciali  ringraziamenti  debbo  ai  ch.°>'  proff.  A.  Mussafia  e  F.  No- 
vali, che  mi  sovvennero  dei  loro  preziosi  consigli  nello  studio  di  questo 
componimento. 

(2)  A  leggere  così  mi  confortano  il  senso  e  il  metro;  il  ms.  ha  qui  alcune 
lettere  che  a  me  son  parse  illeggibili. 


NUOVE   RIME   DI   SORDELLO   DI   GOITO  299 

fela  lo  met  en  mala  fama,  fé  dira  non  da.  |  [616]  flama  e  contra 
non  fauela.  per  qweo  que  lai  oia  faliria  |  fer  non  li  fes  de  corso 
lo  socorso  queo  plus  far  li  pozia. 

V.  Pero  fol  fose  uero  quel  que  me  frao  scrito  e  dame  intre.  |  qam 
lo  pencs  (1)  el  no  deto  ma  e  no  pres  un  pero.  |  can  en  posi  bel 
diro  e  cosi  ne  respondo  quel  el  |  mondo  uozia.  quabisase.  sol 
mondase  si  comterai  setzendo. 

VI.  Aza  bem  me  meraueio  com  hom  qe  non  de  |  suaia.  pouere  quamor 
saia  for  de  dreto  conseio.  |  per  brun  ni  per  uermeio.  quam  no 
faza  plus  naia,  quel  e  tanto  ualente  e  plazente  quognum  sende.  | 
desate  (2)  sei  pò  creire  quel  li  fa  la  mente. 

VII.  Per  quel  uoler  non  mouo  damar  ben  q?^eo  ne  moia.  |  e  no  mostron 
de  forza,  la  doia.  quen  mi  trono  ami  |  la  cele  prouo  al  me  cor 
que  macora.  que  sei  sofre  sia  fermo,  que  denferme.  lo  faramor 
si  letzre  qun  plus  guegre  non  e  dega  fermo. 

Vili.  El  me  cor  sen  acorzia  e  diz  qi^el  dolce  uiso.  la  si  pres  cogso  (sic) 
que  senpres  sen  recorda,  ni  no  fé  desacorda.  per  pianto  ni  per 
riso,  de  fer  li  fin  |  e  preo.  que  segura.  sen  ten  quel  a  gran  doia. 
del.  I  e  noia,  qweo  sem  e  sofre  duro. 

IX.  Prodom  sia  seguro  qweo  no  curo  uilana  gente  |  cj'oia  ben  quenoia. 
me  faza  dar  e  scuto. 

Questa  domanda  dobbiam  formularci  prima  di  passare  all'esame 
del  presente  testo  quasi  tutto  guasto  e  corrotto:  «esisteva  esso 
«  nel  ms.  originale  di  Bernart  Amoros,  ovvero  fu  aggiunto  poste- 
le riormente  nella  nostra  copia  del  sec.  XVI?» 

Io  già  notai  altra  volta  (3)  che  insieme  al  codice  2918  della 
Riccardiana  va  unita  una  tavola  del  florilegio  di  Bernart  Amoros  ; 
sicché  per  rispondere  al  nostro  quesito  converrà  che  noi  ci  ri- 
volgiamo a  tale  tavola,  che  fu  pubblicata  anni  sono  nella  sua 


(1)  Ovvero:  penes  (?) 

(2)  Ms.  veramente  :  desarete  (?) 

(3)  In  questo  Giornale,  34,  119. 


300  G.   BERTONI 

integrità  dal  Bartsch  (i).  Orbene,  dalla  tavola  in  questione  non 
appare  che  il  nostro  testo  figurasse  nella  preziosa  raccolta  per- 
duta; ma  ciò  non  basta  per  concludere  ch'esso  vi  mancasse 
perchè  la  tavola  reca  soltanto  il  nome  degli  autori,  mentre  il 
noslro  componimento  è  purtroppo  nel  cod.  Gampori  anonimo.  Può 
sorgere  tuttavia  con  fondamento  il  sospetto  eh'  esso  possa  essere 
di  data  non  antica  e  non  presentare  quell'interesse  che  noi  ad 
esso  attribuiamo.  Ma  v'  ha  per  avventura  una  forte  ragione  che 
attesta  l'antichità  del  componimento  e  ci  conduce  a  classificarlo 
fra  le  scritture  dialettali  lombarde  della  seconda  metà  del  se- 
colo XIII  0  di  quel  torno.  La  ragione  è  di  natura  linguistica  e 
risiede  nel  trattamento  fonetico  dei  nessi:  pi,  bly  ecc.  iniziali. 

Ora,  ricordando  che  il  testo  appartiene  manifestamente  all'I- 
talia superiore  (lo  stesso  autore  nella  str.  I  confessa  di  voler 
scrivere  in  lombay^dó),  devesi  notare  subito  che  la  risoluzione 
di  questi  nessi  si  compi  assai  presto;  «nelle  scritture  di  Bon- 
«  vesin  da  Riva  rimangono  in  gran  parte  degli  esemplari  intatti. 
«  Solo  ci  e  gì  vanno  soggetti  di  regola  ma  non  costantemente 
«  alla  alterazione  in  e  e  /7  (2)  ». 

Nel  nostro  testo  non  solo  ricaviamo  le  voci:  pianto  (str.  II, 
V.  18),  flama  (str.  IV,  v.  38),  plus  (str.  IV,  v.  44),  ma  ancora 
abbiamo:  glaza  al  v.  1  della  str.  I  (il  ms.  dà  erroneamente 
glazi)y  che  più  serve  alla  dimostrazione  del  nostro  assunto.  Né 
varrebbe  eludere  il  valore  di  questo  argomento  col  citare  molti 
esempi  illusori  di  tal  fenomeno  o  coU'attribuire  simile  peculia- 
rità al  copista  francese,  perchè  subito  a  nostra  portata  abbiamo 
una  seconda  ragione:  nel  nostro  testo  notasi  il  dileguo  di  d  in- 
tervocalico {usua  (ms.  ufaa),  str.  II,  v.  12;  flaa,  str.  Il,  v.  15), 
carattere  di  antichità  spiegato  dall'Ascoli  col  prevalere  della 
poesia   d'oltr'Alpe  (3).  E  infine  ci  soccorre  pure  un  argomento 


(1)  Jahrb.  f.  rom.  u.  engl.  Phil.,  XI,  pp.  13-17. 

(2)  G.  Salvioni,  Fonetica   del  dialetto  moderno  della  città  di   Milano, 
Torino,  1884,  p.  184. 

(3)  Archivio  glottologico  ital.,  I,  pp.  311-2. 


NUOVE   RIME  DI   BORDELLO   DI   GOITO  301 

d'ordine  letterario:  il  nostro  poeta  contrappone  il  suo  componi- 
mento ai  serventesi  provenzali  (str.  I).  Ora,  in  quale  età  potevasi 
ciò  fare,  se  non  nel  sec.  XIII? 

Dimostrato  che  il  testo  appartiene  ad  età  antica,  sarebbe 
necessario  limitar  la  regione,  alla  quale  può  appartenere,  poiché 
lombardo,  come  ognun  sa,  ebbe  nel  Medio  evo  una  troppo  estesa 
significazione.  Ma  qui  ci  imbattiamo  in  uno  scoglio,  che  il  testo 
sotto  la  forma  sua  dotta  non  presenta  neppure  una  caratteristica, 
per  la  quale  sia  resa  possibile  una  sicura  limitazione  geografica. 

Esso  può  tanto  appartenere  alla  Lombardia  che  al  Veneto  e 
il  ch.™°  prof.  G.  Salvioni,  alla  cui  autorità  sottoposi  la  presente 
questione,  mi  scriveva  in  proposito:  «data  la  patina  dotta  che 
«  lo  ricopre,  esso  tanto  potrebbe  attribuirsi  all'una  che  all'altra 
«  regione  ». 

Sottoposto  infatti  ad  un  esame  linguistico,  il  testo  nulla  ci 
svela:  le  particolarità  grafiche  sono  in  generale  provenzaleg- 
gianti:  la  gutturale  sorda  è  sempre  rappresentata  da  g  o  gt« 
(cfr.  qe  l,  ì\  que  I,  3;  qu' eo  I,  5,  ecc.);  trovasi  un  ricordo  er- 
rato della  s  flessionale,  che  più  sotto  mettiamo  in  evidenza  ; 
abbiamo,  cosa  comunissima,  lo  scambio  di  n  e  m  (si  cfr.  lonbardo, 
I,  6  e  lombardesco,  I,  11)  dinanzi  a  consonante  labiale. 

La  formula  -al  si  riduce  in  o  se  pure  dobbiam  leggere  col 
ms.  fosa  alla  str.  Ili,  v.  31  e  non  sosa,  come  mi  par  più  pro- 
babile. 

Al  sufl3sso  -ARIA  spetta  mainerà  (ms.  w.am,era)  della  str.  II, 
v.  14.  Aggiungiamo  che  le  toniche  o  ed  ^  si  conservano  intatte  : 
nova,  I,  9;  trova,  I,  10;  bon'  o.,  II,  13;  bona,  III,  23,  ecc.  Si  av- 
verta quasi  sempre  il  dileguo  di  e,  i,  o,  all'uscita,  quando  però 
la  vocale  finale  non  sia  preceduta  da  più  d'una  consonante  o  non 
sia  mantenuta  dalla  rima.  Vien  fognata  l'atona  postonica  interna, 
come  ad  es.  in  ovra  11,2;  lettre  III,  8;  ecc.  Ricordiamo  infine, 
cosa  che  già  notammo,  la  conservazione  dei  nessi  iniziali  pi, 
bl  ecc.  e  la  eliminazione  di  d  intervocalico.  Fenomeno  ben  noto 
è  pure  la  interpunzione  di  r  dopo  dentale:  cfr.  alla  str.  I, 
V.  3  dolzam^entr'  ardo. 

Giornale  storico.  XXX VITI,  fase.  114.  20 


G.   BERTONI 

Ma  l'indagine  linguistica,  come  abbiamo  osservato,  non  può 
purtroppo  servire  in  questo  caso  a  indicarci  entro  limiti  ristretti 
la  regione,  cui  devesi  il  nostro  testo;  sicché  più  converrà  che 
noi  ora  tentiamo  di  presentare  al  lettore  un'edizione  di  esso 
ricostruita  a  grande  stento  con  alcuni  mutamenti  e  con  molte 
correzioni  più  o  meno  evidenti;  ma  di  ciascun  emendamento 
vien  dato  rigorosamente  conto  nelle  note  a  pie  di  pagina. 


[GHANgON], 

Poi  qe  neve  ni  glaza  (1) 
non  me  pot  far  guizzardo  (2) 
e  qua  dolzamentr' ardo 
en  r  amor  que  m' abraza  (3), 
5    ben  è  razon  qu'  eo  faza 
un  sirventes  lonbardo, 
qe  del  proenzalesco  (4) 

no  m'  acresco; 
e  fora  cosa  nova, 
10  e'  om  no  trova 

sirventes  lombardesco. 


(1)  Il  ms.  glati.  Basterebbe  la  rima  a  dimostrare  Tevidente  errore  di  lettara.  La  base  latina  ò 
*OLACiA  (KOrtiko,  L.  r,    W.,  3677):  e  «  ghiaccia»  ò  comanissimo  negli  scrittori  antichi. 

(2)  Ms.  f)UÌMardo.  Erroneamente  si  penserebbe  a  guiderdone.  Il  ch.mo  prof.  Novali  mi  o«* 
serva:  *  guittardo:  cfr.  antico  francese  guiscart,  guichard,  dalPa.  t.  tPUhard;  vispo,  acnto, 
«  ingegnoso;  e  cfr.  Dies,  E.  W.,  608;  Kobtiko,  L.  r.  W.,  777,  no  8903.  Di  qui  il  nome  tiscarda 
«  (tordo)  e  il  oixcor  =  vispo,  cbe  dura  ancora  ne' dialetti  lombardi?  Cf^.  Chbbubuci,  Voeabol.  mi^ 
«  lan.'itatiano,  i.  IV,  p.  521,  s.  v.  Viscor,  visquer.  E  Roberto  il  Normanno  fìi  d<)tto  appnnto  il 
«  '  Guiscardo  ';  cfr.  Godipeot,  Dictionn.,  t.  IV,  388  ». 

(3)  Il  ms.  abùua;  parmi  vocabolo  errato.  Si  legga:  abroMO  da  abratar  eorrìspondente  al  toscano 
abbraciar»,  venez.  abrogare  (cfr.  Toblbb,  Il  Paitfiìo  in  ant.  Venetiano,  in  Àrch.  gtott,  X,  252). 
genov.  abraxar  (Flbchu,  Arch.  glott..  Vili,  318).  Leggesi  anche  abra*are  nella  Raccolta  d^esempi 
in  antico  Venei  edita  da  L.  Donati  (cfr.  Salvioxi  in  questo  Giomatt,  XV,  266)  e  in  Fra  Paol. 
abraxado. 

(4)  Il  ras.  proenMa  a  Umco.  In  quelito  verso  in  luogo  di  qe  si  pnò  anche  legferv,  corno  mi  gag* 
gerisce  il  prof.  Novati  :  q'  e'  ■=  che  io. 


NUOVE    RIME   DI    SORDELLO   DI   GOITO  303 

IL  Qu'  a  far  pur  cos'  usaa  (1), 

ben  (2i  q' om  faza  bon' ovra, 
la  mainerà  (3;  par  povra; 
15    ma  qui  a  la  fiaa 
fa  cosa  devisaa 

dret'  è  (4)  qu'  onor  nou(s)  covra  (5), 
per  qu'en  loco  de  pianto 
ri  e  canto 
20    per  tornar  en  legreza 
la  grameza  (6) 
de  cui  remagn'  a  tanto  (7). 

HI.  Qe  bona  fé  m'  ensegna 

qu'  eo  no  pensa  ni  (H)  diga 
25    zo  q'  amor  met  en  briga, 

ben  o  mal(s)  (9)  que  m'en  vegna, 
qu'  en  tropo  mal  de  regna  (10) 
una  gen[te]  mendiga;(ll) 
per  qu'  e'  me  voia  (12)  metre 
30  con  ta'  lettre  (13) 

de  razon  vii  e  sosa  (14) 


(1)  Leggo  usaa  =  usata,  comune,  tenendo  conto  dello  scambio  già  ricordato  di  s  e  /  frequente 
nel  nostro  cod.,  che  dà:  ufaa. 

(2)  Ms.  bem. 

(3)  Ms.  maniera.  La  correzione,  che  mi  par  sicura,  è  dovuta  al  prof.  A.  Mussafla. 

(4)  Ms.  deet  e.  Non  son  pago  del  mio  miglioramento. 

(5)  Intendo:  «  è  diritto  che  onor  nuovo  ricuperi  ».  «  Non  darei  grande  importanza  al  -s  di  notts. 
■*  E  una  velleità  di  provenzaleggiante  »  [Muss.]. 

(6)  È  una  mia  congettura;  non  intendo  il  ms.  gen.  mezn. 

(7)  Io  lessi  dapprima  atanto.  Il  Mnssafia:  «  atanto  =  fr.  ateint  non  finisce  di  persuadermi. 
«  Propenderei  per  a  tanto,  la  nota  locuzione  avverbiale  con  valore  temporale  :  La  gramezza  della 
«  quale  ora  mi  rimango  (mi  astengo).  Suppergiù  il  tacque  a  tanto  di  Dante». 

(8)  Il  ms.  pensam.  m  e  ni  si  scambiano  di  frequente  nel  nostro  ms. 

(9)  Altra  velleità  di  provenzaleggiante. 

(10)  Il  ms.  de  reizina,  che  è  certo  errato.  Si  cfr.  infatti  la  rima.  De  sarà  uguale  a  'nde  =  isdr? 

(11)  Il  ms.  una  gen  meidizina.  A  proposito  di  queste  mie  ardite  congetture,  il  Mussafia  mi 
scriveva:  «Se  le  emendazioni,  da  lei  proposte,  colgano  nel  segno,  non  saprei  dire.  Il  signirtcato 
«  par  che  sia:  io  non  devo  pensare  né  dire  nulla  contro  amore,  così  fanno  i  malvagi;  io  invece 
«  debbo  oppormi  ad  essi  ».  Il  Nevati:  gent  enemiga  :  e  forse  è  da  preferirsi. 

(12)  Ms.  voio. 

(13)  Il  ms.  comta  lettre.  Cantra  mi  propone  il  Mussafia;  con  ta'  il  Nevati. 

(14)  Il  ms.  fosa.  Leggo,  fondandomi  sul  noto  scambio  di  s  e  /,  sosa  e  intendo  sozza.  Ora  mi 
viene  il  dubbio  che  sotto  fosa  si  nasconda  una  base  falsu  con  l  vocalizzato  e  col  dittongo  chiuso. 


304  G.   BERTONI 

a  dir  cosa 
que  non  è  [qui]  da  mettre  (1) 

IV.  Qu'el  no  par  que  ben  ama 

35    qui  a  d'amor  novela 
que  croia  gent  et  fela  (2) 
lo  met'en  mala  fama 
se  d'ira  no  'nd' affama 
e  contra  non  favela 
40    per  qu'  eo  que  l' ai  oìa  (3) 
faliria 
s'  e'  (4)  non  li  fes  de  corso 

lo  socorso 
q'  eo  plus  far  li  pozia. 

V.        45    Però  sol  (5)  fose  vero 

quel  que  m'è  stao  (6)  scrito 
e  da  me    .    .    .    intero 
qu' anc  lo  penser  n*ò  dito; 
ma  e'  no  pres  un  pero 
can  en  posi  bel  dito, 
50    e  cosi  ve  respondo 

qu*  eo  el  mondo 
voria  qu'  abisase 

sormontase, 
si  canteria  iocondo  (7). 

VI.        55    Asa'  (8)  ben  raeraveio 


(1)  Il  ms.  ò  difettoso  di  una  sillaba:  mettrt.  Una  correzione:  omtUré,  mi  rien  snggarita  dai 
Mnasafla;  Taltra,  che  accetto,  dal  Novati. 

(2)  U  ms.  non  dà  senso  :  que  croia  gtmer  /ila.  La  correzione  ò  ana  apleodida  oongettan  del 
Mossafia.  Si  intenda  dunque:  «  non  è  buon  amatore  chi  udendo  sparlar  di  sé  in  riirnardo  ad  amore. 
«  non  si  sdegna  »,  ecc. 

(8)  Intendo:  attdita. 

(4)  Il  ms.  ha  str.  Credo  che  la  mia  sostitaxione  (orrero  anche  t'  *o)  possa  ooflÌM«  m1  Mgao. 

(5)  Ms.  fot. 

(6)  Ms.  frao. 

(7)  Il  testo  è  in  quarta  strofe  corrottiaimo.  Il  prof.  Norati  mi  soggerieoe  qvMta  riooetratioDe, 
che  mi  par  notevole. 

(8)  A<a*  =  «  assai»?  [Not.].  Vs.  Amo. 


NUOVE   RIME   DI   BORDELLO   DI   GOITO  305 

com  hom  que  non  desvaia  (1) 
pò  crere  qe  amor  saia  (2) 
for  de  dreto  conseio 
per  brun  ni  per  vermeio: 
60    e'  anc  no  faza  plus  uaia 
q\i  e\  è  tanto  valente 

e  plazente 
qu'  ognun  san  de'  descreire  (3) 

s' el  pò  creire 
65    q*  el  li  fala  niente  (4). 

VII.  Per  q'el  voler  non  movo 

d'amar,  ben  q' eo  me  mora,  (5) 

e  no  mostro  'nde  fora 

la  doia  q'  en  mi  trovo  ; 
70    a  mi  la  cai'  e  provo 

al  me  cor  qe  m'  acora 

qe  s'el  sofre  sia  fermo, 
qe  d'enfermo 

lo  far'  amor  si  'legro  (6), 
75  qu'  un  più  vegro  (7) 

non  è  de  ca  a  Fermo. 

Vili.  El  me  cor  s'en  acorda  (8), 


(1)  0  devesi  forse  leggere:  desraia?  «Preferisco  v:  desvaiar  sarebbe  o  dimgare  o  disvariare, 
«  cfr.  l'it.  svaliare  ».  [Mnss.]. 

(2)  Il  ms.  non  dà  senso  di  sorta  :  pouere  qe  a,  s.  La  correzione  è  del  Mussafta. 

(3)  Anche  qni  il  ms.  è  disperato  :  sende  desarete  (aie).  Il  miglioramento  appartiene  al  Mussafia. 

(4)  niente.  Il  ms.  mente,  col  solito  scambio  di  m  e  ni. 

(5)  Il  ms.  legge  moia.  La  correzione  mora  è   suggerita  dalla  rima.  La  desinenza  oia  sarà  do- 
vuta forse  al  doia  del  verso  69. 

(6)  Ugro  è  mia  congettura.  Il  ms.  dà:  letzre  {?). 

(7)  Il  ms.  legge:  qiin  plus  guegre  (sic)  —  non  e  de  ga  fermo,  in  coi  manca  anche  una  sillaba. 
La  ricostruzione  di  qnesti  due  ultimi  versi  è  del  Novati.  Il  quale  veramente  leggerebbe  : 

la  doia  qu'  en  mi  crovo  : 
anzi  la  celo  e  provo 
al  me  cor  que  m'  acora, 
que  s'  el  sofre  stia  fermo, 

que  d'enfermo 
lo  farà  amor  si  legro 

qu'  un  più  vegro 
non  è  de  ca  a  Fermo. 
Per  la  voce  vegro  si  veda  il  vocab.  del  Boerio. 

(8)  Ma.  acorzia.  La  rima  mi  suggerisce  la  correzione. 


306  G.  BERTONI 

e  diz  qa'el  dolce  viso 

l'a  si  pres  e  conquiso  (i), 
SO    que  senpre  s'en  recorda, 

ni  no  se  (2)  desacorda 

per  pianto  ni  per  riso 

d'esser  (3)  li  fin  a  pyro  (4), 
que  seguro  (5) 
85    se  ten  qu'el  a  gran  dola, 
dol  (6)  e  noia 

qu'  eo  sempre  (7)  sofr'  e  duro. 

IX.  Prod'om  sia  securo 

q'eo  no  curo 
90    vilana  gent  e  croia 
ben  qe  noia 
me  faza  dasecuro  (8). 

Sarà  possibile  arguire  dall'esame  del  componimento  l'autore 
di  esso?  Anzitutto  devesi  osservare  che  egli  dovè  esser  esperto 
nella  poesia  di  Provenza  per  comporre  un  serventese  amoroso, 
che  s'avvicina  nella  sua  forma  metrica  a  schemi  di  poesie  pro- 
venzali (9).  Un  paradigma   assolutamente   simile  nella  lirica  di 


(1)  Ma.  cogio.  Credo  veramente  di  cogliere  nel  segno  leggeodo:  «  conquiso  ». 

(2)  Ms.  fé. 

(3)  Ms.  de  f«r. 

(4)  Ms.  preo.  Cfr.  la  rima. 

(3)  Ms.  segura.  La  correzione  è  evidente. 
(0)  Ms.  del. 

(7)  Ms.  $em  e.  Propongo  dubbiosamente:  sempre. 

(8)  «  La  sua  proposta  non  mi  persuade  appieno.  Il  ms.  legge:  dar  e  $euto.  «scaro»  coorJiaato 
«  a  noia  non  cadrebbe  male,  ma  mi  faccia  dar  noia  e  ecuro  non  mi  piace  »  [Musi.]. 

(9)  Potrà  forse  qualcuno  pensare  a  quel  Cosseden  «  vielhs  lombartz  »  citato 
da  Peire  d'Auvergne  nella  sua  rassegna  di  trovatori  (cfr.  ora  R.  Zenkbr, 
Die  Lxeder  Peire' s  v.  A.,  Erlangen,  1900,  p.  116).  Ma  tralasciando  anche 
di  notare  che  la  ragione  cronologica  potrebbe  opporsi  a  crederlo  autore  di 
tale  componimento,  è  certo  che  egli  dovè  scrivere  non  in  dialetto,  ma  in  pro- 
venzale; provenzale  «bastartz»  si,  e  forse  contemperato  di  alcuni  elementi 
dialettali,  ma  pur  sempre  provenzale,  se  meritò  d'esser  citato  fra  i  trovatori 
di  Provenza  da  Peire  d'Auvergne.  Si  osservi  invece  che  il  nostro  testo  è 
tutto  dialettale  e  soltanto  qua  e  là  trovasi  qualche  ricordo  di  voci  proven- 


NUOVE   RIME   DI    SORDELLO    DI   GOITO  307 

Provenza  certo,  a  quanto  io  so,  non  abbiamo;  ma  tutti  s'accor- 
geranno facilmente  della  analogia  metrica  che  il  nostro  testo 
presenta  colla  poesia  n"  5  del  «  maestro  dei  trovatori  »,  di  G.  de 
Bornelh,  intorno  a  cui  si  veda  :  Maus,  P.  Cardenars  Strophenbau 
in  seinem  verhàllniss  zu  dem  anderer  Trobadors,  Marburg, 
1884  (in  Ausg.  u.  Abh.  aus  d.  Gebiete  der  rom.  PhiloL,  V), 
p.  113,  n"  141.  Aggiungiamo  che  nel  testo  non  mancano  proven- 
zalismi {razo,  V.  5;  nous,  v.  17;  raals,  v.  26)  e  notiamo  che  il 
poeta  par  quasi  ci  dica  nella  prima  strofe,  se  noi  bene  ne  inten- 
diamo tutto  il  significato,  di  voler  comporre  un  serventese  lom- 
bardo, cosa  tutta  nuova,  come  per  rifarsi  dalla  noia  che  ispirano 
i  serventesi  provenzali:  «ben  è  razo  qu'eo  faza  —  un  sirventes 
«  lonbardo  —  qe  del  provenzalesco  —  no  m'acresco  »  (1).  Che 
l'autore  del  testo  qui  sopra  riferito  sia  veramente  stato  trovatore, 
par  inoltre  desumersi  dal  fatto  che  il  suo  componimento  ci  fu 
conservato  in  una  silloge  di  poeti  provenzali  che  venne  fatta 
copiare  e  fu  corretta  da  Piero  Simon  del  Nero,  un  cinquecen- 
tista assai  dotto  e  buon  conoscitore  della  materia;  sicché  par 
vada  allontanato  un  sospetto,  che  potrebbe  affacciarsi,  che  autore 
del  nostro  serventese  sia  stato  Girardo  Pateg  da  Cremona,  il 
quale  ebbe  si  una  certa  conoscenza  della  poesia  di  Provenza  (2), 
ma  non  scrisse  mai  in  provenzale.  Dobbiamo  invece,  con  proba- 
bilità non  infondata,  ricercarne  l'autore  in  un  trovatoy^e  italiano, 
il  qual  sia  nato  o  nella  Lombardia  o  nel  Veneto  o  anche  in  una 
località  posta  tra  la  regione  Veneta  e  Lombarda. 
Insieme  al  nome  di  Sordello  ci   si    presenta  ora    alla    mente 


zali.  Ho  invocata  la  ragion  cronologica,  e  infatti  si  pensi  che  Gosseden  fiori 
verso  la  metà  del  sec.  XII  e  forse  anche  un  po'  prima,  s'  era  già  vecchio 
quando  P.  d'Auvergne  componeva  la  sua  rassegna. 

(1)  Da  questa  frase  è  lecito  ancora  argomentare,  a  parer  mio,  che  il 
nostro  poeta  componesse  anche  serventesi  provenzali.  Egli  viene  insomma 
a  dirci:  «io  saprei  scrivere  serventesi  in  linguaggio  di  Provenza;  ma  di 
«essi  non  m'acresco;  ora  voglio  scriverne  uno  in  lombardo». 

(2)  NovATi,  Le  noie  del  Pateg,  in  Rendic.  del  R.  Istituto  Lombardo  di 
Scienze  e  Lettere,  S.  Il,  voi.  XXIX,  pp.  279  e  538. 


308  G.  BERTONI 

quella  nota  testimonianza  di  Dante  in  cui  Bordello  è  detto  aver 
poetato  in  volgare  italiano.  La  testimonianza  di  Dante  è  la  se- 
guente: (De  vulg,  eloq.y  I,  cap.  XV,  ediz.  Rajna,  Firenze,  Succ. 
Le  Monnier,  1896,  pp.  81-82): 

«  Dicimus  ergo  quod  forte  non  male  opinantur  qui  Bononienses 
<c  asserunt  pulcriori  locutione  loquentes,  cura  ab  Ymolensibus, 
«  Ferrariensibus  et  Mutinensibus  circunstantibus  aliquid  proprio 
«  vulgari  adsciscunt;  sicut  Tacere  quoslibet  a  finitimis  suis  coni- 
«  cimus,  ut  Sordellus  de  Mantua  sua  ostendit,  Gremone,  Brixie, 
«  alque  Verone  confini:  qui,  tantus  eloquenliae  vir  oxistens,  non 
«  solum  in  poetando,  sed  quomodocumque  loquendo  patriura 
«  vulgare  deseruit  », 

Mentre  il  de  Lollis  fini  per  considerare  guasto  il  passo  di 
Dante,  il  D'Ovidio,  Studi  critici,  Napoli,  1878,  p.  400,  n.  1,  ar- 
gomentò che  Bordello  abbia  poetato  e  favellato  in  una  specie  di 
dialetto  mantovano  commisto  di  elementi  desunti  dai  dialetti 
delle  città  vicine  (1).  E  veramente  la  traduzione  letterale  del 
passo  (2)  par  dar  ragione  al  D'Ovidio,  il  quale  poneva  tuttavia 
innanzi  con  molte  cautele  la  sua  proposta  pel  fatto  che  di  Sor- 
delio,  poeta  volgare,  nessun  ricordo  si  aveva.  «  Senonchè  — 
«  chiedevasi  il  D'Ovidio  —  v'  è  documento,  o  potrebbe  almeno 
«  credersi  a  priori  che  Bordello  scrivesse  in  un  linguaggio  lom- 
«  bardesco  di  tal  natura?». 

Il  nostro  testo  viene,  se  non  ci  inganniamo,  a  rispondere  affer- 
mativamente a  questa  domanda   e  a  risolvere  Tarruffata  que- 


(1)  È  inutile  ch'io  mi  soffermi  qui  a  ripetere  tutte  le  questioni  svolte 
intorno  al  passo  di  Dante  ora  citato.  —  Mi  limito  a  rimandare  il  lettore  al 
lavoro  del  D'Ovidio  già  ricordato,  inserito  prima  T\e\V Archimo  glottologico^ 
li,  poscia  nei  Saggi  citati,  e  alle  pp.  111-115  del  libro  del  de  Lollis.  L'opi- 
nione del  D'Ovidio  venne  riassunta  dal  Mebkel  in  questo  Giornale^  f7,  381 
e  quella  del  de  Lollis  venna  discussa  da  P.  E.  Guarnerio,  Giom.^  28,  395. 

(2)  Scrivo  a  questo  proposito  il  de  Lollis  (p.  Ili):  «  Il  passo,  così  com'è 
€  (e  grammaticalmente  si  regge),  non  può  significare  se  non  che  vi  fu  un 
«  Bordello  di  Mantova  autore  di  poesie  scritte  in  un  mantovano  contemperato 
€  di  veronese,  bresciano  e  cremonese  ». 


NDOVE   RIME   DI   BORDELLO   DI   GOITO  309 

stione;  tanto  più  che,  a  parer  nostro,  quando  Dante  parla  di 
immistioni  di  elementi  dialettali  contermini  non  deve  esser  preso 
troppo  alla  lettera.  Nel  caso  presente  io  credo  che  Dante  abbia 
voluto  alludere  un  po'  all'ingrosso  a  una  verità,  che  fu  poi 
chiaramente  dimostrata  dagli  studi  linguistici  è  di  cui  egli  a 
que'  tempi  non  poteva  comprendere  il  valore:  che  cioè  nell'an- 
tica letteratura  dell'alta  Italia  gli  elementi  dell' un  dialetto  tro- 
vavansi  anche  alcuna  volta  in  un  altro  dialetto;  diversi  strati 
idiomatici  potevano  collocarsi  l'uno  accanto  all'altro,  e  all'arte 
del  poeta  o  al  suo  capriccio  spettava  di  scegliere  questa  o  quella 
forma  con  una  elezione  di  vocabolo  che  spesso  era  suggerita 
dal  predominio  della  poesia  provenzale  e  francese.  Ciò  che  av- 
veniva in  piccola  scala  presso  altri  poeti,  potè  avvenire  in  mag- 
gior grado  per  Bordello;  ma  le  condizioni  del  nostro  testo  non 
ci  permettono  pur  troppo  di  approfondire  questo  punto  della 
nostra  trattazione. 

Giulio  Bertonl 


IMPRESE  E  DIVISE 

D'ARME  E  D'AMORE  NELL'  "  ORLANDO  FURIOSO  „ 

con  notizia  di  alcani  trattati  del  500  sui  colori. 


Chi,  con  colori  accompagnati  ad  arte, 
Letizia  o  doglia  alla  sua  donna  mostra. 
Chi  nel  cimier,  chi  nel  dipinto  scudo 
Disegna  Amor,  se  Tha  benigno  o  crudo. 

Cosi  Lodovico  Ariosto  {Orlando,  XVII,  72)  accenna  poeticamente 
all'uso  dei  giostranti,  di  servirsi  di  un  simbolico  linguaggio  per 
esprimere  i  loro  sentimenti  amorosi.  Siamo  nel  secolo  che  di  in- 
numerevoli frivolezze  si  giovò,  in  tutte  le  abitudini  della  vita: 
la  società  gaia,  spensierata,  curava  con  artificio  la  foggia  del 
vestire,  il  vivere  galante  aumentava  la  ricercatezza.  E  cosi  ge- 
nerale diveniva  l'uso  di  certi  ritrovati  della  moda,  specialmente 
di  quella  francese,  che  di  essi  si  faceva  anche  nelle  scritture 
una  trattazione  apposita.  Imprese,  diviso,  livree,  e  simboli  dei 
colori  0  delle  gemme  attrassero  l'attenzione  di  non  pochi  lette- 
rati perdigiorno  e  cortigiani,  e  di  coloro  che  —  scarsi  d'ingegno 
e  bisognosi  —  sfruttavano  nelle  opere  loro  le  meno  elevate 
tendenze  della  società  contemporanea.  Si  ebbe  un'  intiera  lette- 
ratura, che  oggi  giace  polverosa  nelle  nostre  antiche  biblioteche 
—  poi  che  il  passar  dei  secoli  ha  travolte  le  mode  e  i  capricci 
d'altri  giorni  — ,  ma  che  nel  '500  e  nel  secolo  seguente,  che  scim- 
miottò ed  esagerò  i  difetti  di  quello,  era  ricercata  con  gran  de- 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       311 

siderio,  e  sovrattulto  dagli  eleganti  consultata,  per  trarne  le 
norme  e  i  suggerimenti  del  vivere  leggiadro.  Erano  opere  pro- 
dilette da  dame  e  cavalieri:  più  care  ancora  se  appagavano  la 
vanità  di  quelli,  ricordandoli  nelle  loro  pagine,  come  modelli  di 
eleganza  e  di  bel  costume.  Opere,  che  han  finita  la  loro  stagione, 
ma  tuttavia  non  possiamo  dirle  inutili  allo  studioso;  opere  fri- 
vole e  aneddotiche,  ma  pur  curiose  a  chi  ama  investigare  e 
ricostruire  la  storia  del  costume;  e  va  pur  considerato  che  esse 
teorizzano  una  parte  degli  usi  di  un  secolo,  che  è  il  più  magni- 
ficamente artistico  della  vita  italiana. 

Al  sìmbolo  dei  colori  e  dei  fiori  nel  rinascimento  italiano  (e 
quanto  ne  sorvive  ai  tempi  nostri  ancora  !)  ha  posto  attenzione, 
sotto  questo  rispetto,  un  ricercatore  amoroso  delle  multiformi 
attitudini  artistiche  del  sec.  XVI,  il  Gian  (1),  considerando  alcuni 
trattatela  del  genere,  e,  in  una  seconda  parte  del  suo  garbato 
studietto,  rintracciando  nella  nostra  poesia  alcune  voci  rivolte  ai 
fiori  e  ai  colori.  Io  oso  ritornare  sull'argomento,  per  integrar  da 
un  lato  la  prima  parte  del  lavoro  del  Gian;  e  per  considerar  poi, 
sotto  l'aspetto  puramente  cinquecentistico  del  simbolo,  alcuno 
invenzioni  di  Lodovico  Ariosto.  Il  quale  non  volle,  ne  poteva, 
trascurar  nel  suo  poema  una  costumanza  cosi  accetta  alla  società 
cortigiana  per  la  quale  concertava  la  sinfonia  magnifica  del  suo 
Orlando  ;  e  ne  approfittò  più  volte  con  accortezza  squisita.  Forse 
verrà  posto  cosi  in  luce  nuova  qualche  passo  del  mirabile  poema; 
ond'è  che  io  non  trascurerò  alcune  altre  invenzioni  poetiche  del- 
l'Ariosto, che  a  rigore  non  si  riferiscono  al  simbolo  del  colore, 
ma  a  cosa  consimile:  come  sarebbero  le  «  imprese  »  e  le  «arme  », 
delle  quali  non  tratto  qui  di  proposito,  poiché  altrove  me  ne  dovrò 
occupare. 

Ghi  scorra  questa  letteratura  frivola  vedrà  continuamente  ri- 
ferito il  nome  e  l'esempio  dell'Ariosto,  ove   si   parli   dell'uno   e 


(1)  Vittorio  Gian,  Del  significato  dei  colori  e  dei  fiori  nel  rinascimento 
italiano,  Torino,  Roux,  1894.  Estr.  dalla  Gazz.  letteraria,  1894,  n*  13-14. 


312  ABD-EL-KADER   SALZA 

dell'altro  colore;  parve  infatti  che  il  cantore  delle  furie  d'Orlando 
avesse  adoperata  la  simbolica  tavolozza  con  gusto  e  accorgimento 
finissimo.  E  cosi  doveva  essere,  poiché  il  poeta,  artista  squisito, 
era  adusato  al  vìvere  di  una  delle  più  eleganti  e  spensierate 
corti  di  quel  nostro  splendido  Cinquecento. 


I. 


La  materia,  di  che  qui  ci  occupiamo,  ha  avuto  nel  Cinquecento 
parecchi  trattatisti,  che  ne  scrissero  teoricamente.  Il  Cian  ha 
parlato  acconciamente  di  FulvioPellegrino  Morato,  di  An- 
tonio Telesio  e  di  Simone  Porzio:  tre  nomi  legati  tutti  ad 
altri  celebri  nomi  della  nostra  storia  e  letteraria  e  filosofica;  ed 
ha  anche  accennato  a  quel  che  dei  colori  dissero.  Mario  Equi- 
cola,  il  quale  nel  Libro  di  natura  d'amore  (ib25)  ne  fece  una 
trattazione  abbondante,  e  Nicolò  Franco,  lo  scapigliato  bene- 
ventano, che  per  questa  parte,  nella  sua  istoria  amorosa  intito- 
lata la  Filena  (i547),  plagiò  dal  segretario  di  Isabella  estense.  In 
un  luogo  poi  del  Cortegiano  del  Castiglione  si  manifesta  Tinten- 
zione  di  discorrere,  oltre  che  dei  blasoni  e  delle  imprese,  anche 
della  «  significazione  dei  colori  »;  ma  l'autore  se  ne  dispensa, 
perchè  di  recente,  dice,  ne  aveva  scritto  Lodovico  Gonzaga: 
l'opera  di  quest'ultimo,  a  quel  che  pare  finora,  non  ci  si  è  con- 
servata. Ma  ben  suppliscono  ad  essa  quelle  di  sopra  ricordate  ed 
altre  di  cui  avremo  a  discorrere  e  che  riconoscono  per  loro  autori 
il  Sicillo  araldo  di  re  Alfonso  d'Aragona,  Lodovico  Dolce, 
Luca  Contile  e  Giovanni  Rinaldi.  Un  altro  trattato  di  Co- 
ronalo Occolti  (1),  è  sfuggito  alle  mie  ricerche. 


(i)  Trattato  de^  colori  di  M.  Coronato  Occolti,  Parma,  1588.  Cfr.  Fon- 
tanini-Zeno,  Biblioteca  delVeloquenza  italiana.  II,  376.  Nel  Catalogue  de 
la  Bihliothèque  de  M.  L.***  (G.  Libri),  Paris,  1847,  p.  405,  trovo  segnato  : 
Trattato  de'  colori  di  M.  Coronato  Occolti  da  Canedolo,  Parma,  Seth  Viotto, 
i568,  in-8;  e  non  avendo  altra  conoscenza  di  questo  libro  (in  cui  non  so  se 
sia  da  veder  proprio  un'edizione  diversa  da  quella  segnata  nel  Fontanini: 
penserei  ad  un  errore  di  indica/ione  o  del   Fontanini  o  del   Libri),  riporlo 


IMPRESE  E  DIVISE  D  ARME  E  D'AMORE  NEL  «  FURIOSO  »       313 

11  primo  di  questi  trattati,  che  ci  si  presentano  abbastanza 
numerosi,  è  del  cosentino  Antonio  Tel  e  si  o,  zio  del  grande 
pensatore  (1).  Esso  è,  come  ha  detto  il  Gian  (p.  20),  «  di  indole 
«  puramente  filologica  ».  Sono  dodici  capitoletti,  che  trattano  suc- 
cessivamente dei  seguenti  colori:  coeruleus,  caesius,  ater^pullus, 
ferrugineus,  rufus,  ruber,  roseus,  punzceus,  fulvus,  vìridis  ;  e 
ad  essi  si  accoda  un  Epilogus.  Non  è  già  uno  studio  del  simbolo 
dei  colori,  ma  uno  scritterello  erudito,  condotto  sui  classici,  spe- 
cialmente latini,  dai  quali  desume  una  raccolta  di  sostantivi  e 
aggettivi  riferentisi  per  sinonimia  ai  vocaboli  dei  singoli  colori. 
Perciò  basti  averne  fatto  un  cenno. 

E  con  poche  parole  ci  sbrigheremo  anche  del  napolitano  Si- 
mone Porzio,  di  cui  fu  figlio  lo  storico  della  congiura  dei  ba- 
roni. Egli  compose  un  trattato  De  coloribus  (1548,  Lorenzo  Tor- 
rentino,  Firenze),  dedicato  a  Cosimo  de'  Medici,  dal  quale  il  Porzio 
dipendeva,  come  ammirato  dottore  dello  Studio  pisano  (2),  e  un 
altro  De  coloribus  oculorum  (edit.  cit.,  1550),  che  nel  1551  fu 
tradotto  da  G.  B.  Gelli,  amico  dell'autore  (3).   Il  Porzio  era  un 


le  parole  che  il  Libri  stesso  aggiungeva  alla  nota  bibliografica:  «  Dans  ce 
«  livre,  qui  est  en  prose,  mais  où  se  trouvent  aussi  quelques  pièces  de  vers, 
«  on  exprime  la  manière  de  correspondre  à  l'aide  des  couleurs  qui  expriment 
«  des  idées  et  non  pas  des  mots.  A  la  fin  il  y  a  Texplication  des  couleurs 
«  employées  dans  les  livrées  ». 

(1)  Antonii  Thylesii  Cosen-  \  tini  lìhellus  de  colo-  \  ribus.  Ubi  multa 
le-  I  guntur  praeter  \  aliorum  opi-  \  nionem.  |  Index.  —  In  fine  :  Impressum 
Venetiis  opera  Bernardini  Vitalis  \  Veneti  Mense  lunio  M.D.XXVIII  |  Gum 
privilegio.  —  È  un  opuscoletto  di  16  fogli  non  numerati. 

(2)  A  Pisa  insegnò  dal  1547  al  1554  (cfr.  Fabroni,  Eistoria  Academiae 
Pisanae,  II,  469;  sulla  sua  lettura  cfr.  Fabroni,  II,  333-335);  ma  di  lui  a 
Firenze  non  sì  era  molto  contenti,  se  nel  1548  Lelio  Torelli  scriveva:  «  Il 
«  Porzio  non  può  molto,  e  più  serve  la  sua  reputatione  e  il  nome  che  l'ef- 
«  fetto  ».  (In  Fabroni,  II,  336  n.). 

(3)  Trattato  \  de"  colori  \  de  gVocchi  \  Dello  Eccellentissimo  Filosofo  \ 
M.  Simone  Portio  \  Napoletano.  \  Allo  Illustrissimo  et  Reverendissimo  |  Car- 
dinale di  Mantova  |  Tradotto  in  volgare  per  Giovan  |  Batista  Gelli.  |j  In  Fio- 
renza. I  Appresso  Lorenzo  Torrentino.  j  M.D.LI.  Il  Gelli  tradusse  altre  cose 
del  Porzio  (vedi  Libri,  Catalogne  cit.,  p.  402  e  Haym,  Biblioteca  italiana, 
ediz.  ampliata,  Milano,  1773,  p.  402  sgg.  Sul  Porzio,  A.  Broccoli,  Per  Si- 
mone Porzio  e  G.  B.  della  Porta,  Napoli,  1885  (cfr.  Studi  di  lett.  it.,  II,  2, 
p.  318  w.). 


314  ABD-EL-KADER   SALZA 

poco  ingegnoso  aristotelico,  e  dell'ammirazione  devota  di  lui  per 
il  Filosofo  si  risentono  anche  queste  sue  operette,  nelle  quali  egli 
ha  rimaneggiato,  e  specialmente  nella  pi-ima,  ciò  che  Aristotele 
avea  detto.  Anzi  in  questo  egli  ci  ricorda  uno  sconosciuto  trat- 
tatello,  da  me  rintracciato,  di  Luca  Contile,  sopra  i  cinque  sensi, 
dove  anche  la  materia  che  si  riferisce  al  senso  visivo  è  desunta 
da  quel  che  dei  sensi  aveva  discorso  il  filosofo  greco.  Più  inte- 
ressante parrebbe,  e  forse  in  qualche  particolare  è,  il  secondo 
t ratta tcllo  del  Porzio,  che  noi  conosciamo  nella  corretta  versione 
toscana  del  Gelli.  Questa  è  dedicata  ad  un  noto  scolare  e  devoto 
del  Pomponazzi,  a  quel  card.  Ercole  Gonzaga  che  si  lasciò  più 
di  una  volta  sfuggire  il  seggio  pontificio  (1).  Il  trattato  del  Porzio 
è  molto  più  abbondante  di  parole,  che  succoso  di  idee.  Sono  in 
tutto  dieci  capitoli,  di  cui  nei  primi  quattro  si  parla  della  situa- 
zione degli  occhi  e  se  ne  fa  una  minuta  descrizione  (p.  21  sgg.), 
sulla  traccia  di  Aristotile.  La  seconda  parte  (p.  52  sgg.)  discorre 
propriamente  dei  colori  degli  occhi,  dilungandosi  prima  assai,  e 
in  modo  non  concludente,  sulle  cagioni  dei  vari  colori  di  essi. 
Al  cap.  Vili  si  viene  a  parlare  delle  deduzioni  che  si  posson 
trarre  dal  colore  degli  occhi,  intorno  al  carattere  dell'uomo:  ma 
anche  qui  poco  di  buono:  a  p.  94,  dove  Tautore  dice  che  Nerone 
doveva  riuscire  quel  che  fu,  e  pei  capelli  biondicci,  e  per  il  color 
degli  occhi,  e  per  la  sproporzione  fra  il  torso  e  le  gambe  ecc., 
parrebbe  si  tentasse  un'  enumerazione  dei  caratteri  antropologici 
di  un  delinquente.  Ma,  in  conclusione,  nulla  di  tutto  ciò  che  dal 
titolo  leggiadro  ci  aspetteremmo;  non  una  trattazione  geniale  e 
garbata,  ma  soltanto  aridità  e  ciarle  vuote  d'interesse. 

Gol  {vd.iid.io  Del  significato  de' colori  di  Fulvio  Pellegrino 
Morato  (2),  il  padre  della  gentile  Olìmpia,  che  maritata  a  un  te- 


(1)  La  dedica  è  una  lettera  del  Gelli,  di  Firenze,  1  marzo  1551.  Segue 
alla  trattazione  una  lettera  del  Porzio  al  Gelli,  nella  quale  l'autore  si  di- 
chiara soddisfatto  della  versione. 

(2)  Cfr.  le  Notizie  intorno  Pellegrino  Fulvio  Morati  scritte  dall'abate 
Girolamo  Baruffaldi  ecc.,  nella  Raccolta  ferrarese  di  opuscoli  scientìfici 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       315 

desco  fu  in  Germania  a  tempo  delle  aspre  reazioni  contro  i  prote- 
stanti, entriamo  più  risolutamente  in  materia.  Il  titolo  della  prima 
edizione,  in  altre  posteriori,  si  mutò  in  Significaio  dei  colori  e 
de' mazzolliy  poiché  alla  prima  parte  un' altra  ne  aggiunse  l'au- 
tore, in  cui  dava  una  lista  alfabetica  dei  mazzoli,  delle  erbe  cioè 
e  dei  fiori,  di  cui  interpretava  il  senso  recondito.  Il  Gian,  che  di 
questo  trattatello  ha  discorso,  ne  conobbe  tre  edizioni  (1),  tutte 
della  prima  metà  del  sec.  XVI;  ma  non  ebbe  sottocchio  la  prima 
(1535),  0  una  delle  prime.  Io  ho  trovato  una  copia  del  1535  nella 
Nazionale  di  Firenze  (2),  ma  poiché  si  dice  che  l'operetta  è  «  nuo- 


e  letterari,  t.  VIII,  Vinegia/Goleti,  1781,  pp.  129-143,  e  Gaetano  Giordani, 
Bella  venuta  e  dimora  in  Bologna  del  S.  P.  Clemente  VII  per  la  coronaz. 
di  Carlo  V,  Bologna,  1842,  Docum.  n»  LX,  p.  84  sg.  Il  Baruflfaldi  ha  una 
interessante  bibliografia  sul  trattato  dei  colori,  del  quale  conosce  cinque 
edizioni:  a)  Venezia,  G.  Ant.  Nicolini  de  Sabio,  1535;  b)  Venezia  per  Bar- 
tolomeo detto  rimperadore  e  Francesco  suo  genero,  1544;  e)  Venezia,  ap- 
presso Domenico  Nicolino,  1544;  d)  Venezia,  1545,  tutte  in-B";  e)  Ferrara, 
per  Giovanni  Maria  di  Michieli,  et  Ant.  Maria  di  Sivieri  compagni,  M.  D.  LV, 
in-4o.  11  Graesse,  nella  sua  bibliografia  {ad  nomen)  cita  tre  edizioni:  la 
solita  del  1535  (Venezia,  da  Sabio),  una  di  Bomenico  Nicolini,  Venezia, 
i564  e  un'altra  di  Fabio  et  A.  Zoppini,  a  Venezia,  1584:  quest'ultima  con 
proverbi  in  italiano  e  in  veneziano.  Il  Libri  (Catal.  de  la  Bibliothèque  cit., 
p.  405)  ha  l'edizione  Venezia,  Bomenico  Nicolino,  1564.  Infine,  un'edizione 
Vinegia,  Lucio  Spineda,  1599  trovo  indicata  soltanto  in  Catal.  des  livres 
rares  et  précieux  de  la  bibl.  de  feu  M.  le  comte  de  Mac-Garthy  Reag, 
Paris,  chez  De  Bure  frères,  1815:  n^  3674,  voi.  I,  p.  556;  e  non  saprei  se 
possa  identificarsi  con  una  delle  edizioni  fin  qui  raccolte  quella  che  è  regi- 
strata in  CiNELLi  Calvoli,  Bibliot.  volante  continuata  dal  doti.  B.  A.  San- 
cassani,  t.  III,  Venezia,  Albrizzi,  MDCGXLVI,  p.  364. 

(1)  La  1"  di  Venezia  (Francesco  de  Tomaso  di  Salò  e  compagni,  in  Frez- 
zaria,  al  segno  della  Fede);  la  2^  di  Ferrara,  1545;  la  3*  di  Brescia,  1549. 

(2)  Bel  significato  |  de  Colori  |  Operetta  di  Fulvio  Pellegrino  Mo- 
rato I  .Mantovano  nuovamente  \  Ristampata.  |  Momus  ad  Lectorem.  |  0 
lector  tali  nimium,  ne  crede  colori.  \  Aditieruditum,Mom,um.  Author.  \  Coecus 
non  iudicat  de  colore.  ||  M  D  XXXV.  |  Con  Gratta  et  Privilegio.  |  —  In  fine: 
In  Vinegia  per  Giovan  Antonio  de  Nicolini  \  da  Sabio.  M  D  XXXV.  j  del 
mese  di  Settembre.  È  la  1»  dei  Baruffaldi:  ce.  74  non  num. —  Conosco  (nella 
Comunale  di  Perugia)  un'altra  edizione  senz'anno,  ma  della  prima  metà  del  500: 
Bel  signi  \  ficato  de"  colori  \  E  de  mazzolli  \  Operetta  di  Fulvio  Pellegrino 
Morato  |  Mantovano.  -  s.  n.  di  ed.,  al  segno:  Medium  tenuere  Beati.  — 
Non  so  se  sia  la  prima  delle  edizioni  indicate  dal  Gian,  o  un'altra:  tuttavia, 
non  è  la  prima,  poiché  ci  si  trova  la  parte  dei  «  mazzoli  ».  Una  terza  edi- 


316  ABD-EL-KADER    SALZA 

«  vamente  ristampata  »  non  parrebbe  questa  la  prima  edizione. 
Risulta  tuttavia  chiaramente,  da  essa,  che  l'opera  trattava  dap- 
prima soltanto  de'  colori  ;  più  tardi  l'autore  vi  aggiunse  la  parte 
dei  fiori.  —  In  generale  questi  trattati  dal  Morato  in  poi  premet- 
tono un  sonetto,  nel  quale  si  assommano  i  significati  di  tutti  i  co- 
lori, che  si  vogliono  esaminare,  e  in  ciascuno  de'  capitoli  seguenti 
si  illustra  un  verso,  e  quindi  un  colore,  con  esempi  tratti  d'ogni 
dove,  a  seconda  della  cultura  dell'autore.  11  Morato  si  mostra 
dotto  di  cose  classiche;  per  esemplificare  ricorre  agli  antichi  (e 
qui  forse  lo  aiutò  talora  il  libretto  del  Telesio,  come  già  sospettò 
il  Gian),  mentre,  come  vedremo,  altri  autori  metton  capo  più  so- 
vente al  Petrarca  e  all'Ariosto  e  a  qualche  altro  scrittore  dei  loro 
tempi.  Che  poi  in  esso  non  si  trovi  del  grazioso,  si  che  gli  si  possa 
perdonar  la  frivolezza  dell'argomento,  è  difetto  comune  a  tutti 
quelli  che  svolsero  di  poi  lo  stesso  soggetto.  Nel  Prologo  (ediz. 
1535)  l'autore  spiega  come  nacque  in  lui  la  prima  idea  dell'ope- 
retta :  «  M'eia  caduto  dalle  mani  non  so  a  che  modo  un  sonetto, 
«  il  quale  più  per  scherzo  che  per  altro  havea  scritto,  et  non 
«  tanto  per  contradire  all'openione  del  Serafino,  quanto  per  era- 
«  dicare  la  perversa  del  volgo  »,  il  quale  non  crede  più  ad  altri, 
se  uno  gli  ha  già  sfatto  creder  qualcosa.  Si  tratta  di  una  poesia 
che  il  Morato  scrisse  per  rettificare  certe  interpretazioni  date  ai 
colori  in  un  sonetto  attribuito  a  Serafino  Aquilano  (Sì  come  U 
verde  importa  speme  e  am.ore)\  ma  che  difficilmente  quest'ul- 
timo sia  del  Serafino,  e  quali  altri  autori  possano  su  di  esso 
avanzar  i  loro  diritti,  ha  già  detto  altri,  e  specialmente  il  Gian 
(p.  26  sgg.).  Riferisco  il  sonetto  del  Morato,  benché  già   l'abbia 


zione  da  me  veduta  è  di  Venezia  (Bonibelli,  1595)  ;  ma  non  so  quale  possa  essere 
un'edizione  riferita  dallo  Zeno  {Bibliot.  d.  eloq.  ital.^  II,  376),  di  Venezia, 
(Bartolomeo,  detto  Timperador)  del  1543;  se  non  forse  quella  citata  anche 
dal  Baruflaldi.  Nel  principio  del  1600  Pedit.  Lucio  Spineda  di  Venezia,  ripub- 
blicò, con  altri  dello  stesso  soggetto,  il  trattato  del  Morato:  Significato  |  de 
t  colori,  j  E  de  mazzolli^  \  di  Fulvio  Pellegrino  |  Mantovano.  |  Di  nuovo 
con  I  somma  diligenza  corretto,  |  et  ristampato.  ||  In  Venetia,  |  Appresso 
Lucio  Spineda.  |  M  DG  llll. 


IMPRESE  E  DIVISE  D  ARME  E  D'AMORE  NEL  «  FURIOSO  »       317 

ripubblicato  il  Gian,  perchè  la  sua  lezione  ha  qualche  variante 
men  buona: 

Il  color  verde  esser  ridutto  a  niente 

Dimostra,  il  rosso  ha  poca  sicurezza, 

Il  nero  ha  '1  suo  voler  pien  di  mattezza, 

11  bianco  ha  suo  appetito  e  voglie  spente. 
11  giallo  ha  la  speranza  rinascente. 

Copre  il  taneto  in  sé  saggia  sciocchezza, 

Il  morel  morte  per  amor  disprezza; 

Chi  veste  berettin  gabba  la  gente. 
Amoroso  piacer  ha  1'  incarnato, 

Il  mischio  mostra  bizzarria  di  testa. 

Il  torchino  ha  il  pensi er  molto  elevato. 
Chi  ha  fede,  e  signoria  d'oro  si  vesta; 

L'argentino  dimostra  esser  gabbato. 

Al  verdegial  poca  speranza  resta. 

E  ammettiamo  che  questa  sia  poesia.  Il  Morato  dissente  in 
parecchie  cose  da  Serafino  (diciamo  cosi  per  intenderci),  il  quale 
dà  al  rosso  senso  di  vendetta,  al  nero  di  fermezza  e  malinconia, 
di  gelosia  al  turchino,  di  purità  al  bianco.  E  in  queste  varianti, 
se  se  ne  toglie  il  turchino,  vedremo  che  la  ragione  non  è  dalla 
parte  del  Morato.  Del  resto,  nella  trattazione,  il  Morato  si  di- 
mostra dotto  di  cose  classiche  e  agli  autori  latini  ricorre  per  le 
testimonianze  che  gli  occorrono.  Qualche  notiziola  curiosa  egli 
ci  dà,  e  ci  piace  riferire,  benché  l'abbia  già  riportato  il  [Gian, 
questo  proverbio  lombardo,  che  egli  cita  a  proposito  del  color 
berrettino,  simbolo  d'incostanza  e  slealtà  : 

Dio  mi  guardi  da  mula  che  faccia  hin  hin. 
Et  da  donna  che  sappia  latin, 
Et  da  Borea  et  da  Garbin, 
Et  da  huomo,  che  veste  beretin  (1). 

Qualche  altra  notizia  riporteremo  a  luogo  più  opportuno. 
Assai  più  pregevole  e  più  frequentemente  citato  nel  '500  è  il 
trattatela  di  Sicilie  araldo  di  re  Alfonso  d'Aragona.  Fu  com- 


(1)  Nell'edizione  Spineda,  1604,  f,  18  a. 

GiortMle  storico,  XXXYIII,  fase.  114.  21 


318  ABD-EL-KADER  SALZA 

posto  nel  sec.  XV,  in  francese;  le  slampe  diverse,  che  ne  furon 
fatte  in  Italia,  sono  una  traduzione  che  ebbe  a  fare  il  poligrafo 
Giuseppe  Orologi  (1).  Nell'edizione  del  1565  si  ha  una  dedica 
dell'Orologi  alla  signora  Isabella  da  Passano  della  Fratina,  e  il 
traduttore  dice  di  aver  «  trasportato  »  questo  trattatello  dalla 
lingua  francese  nella  nostra,  perchè  gli  parve  bene  che  fosse 
conosciuto.  Vi  si  esaminano,  al  solilo,  i  colori  principali,  comin- 
ciando dall'oro,  che  invece  il  Morato  esamina  per  terz'ultimo, 
cominciando  dal  verde:  all'oro  il  Sicillo,  come  araldo  (2),  dà  il 
posto  d'onore.  Studia  sette  colori  (oro,  argento,  rosso,  azzurro, 
nero,  verde,  porpora)  in  una  prima  parte  del  trattato,  stabilen- 
done cosi  1  valori  simbolici: 

Oro  =  giusto,  santo  —  ricchezza,  nobiltà. 

Argento  =  purità,  innocenza,  giustizia. 

i?osso  =  altezza,  nobiltà,  ardire;  nei  testi  sacri:  martirio. 

Azzurro  =  lealtà,  scienza. 

Nero  =  malinconia,  semplicità. 

Verde  =  allegrezza,  gioventù  —  bellezza  e  bontà. 

Porpora  (rosa  secca)  =  abbondanza  di  tutti  i  beni  (colore  misto  di  tutti). 


(1)  Conosciamo  due  edizioni:  Trattato  |  dei  colori  |  nelle  Arme^  \  nelle 
Livree^  et  \  nelle  divise  \  di  Sigillo  Araldo  \  del  re  Alfonso  d^ Aragona.  ||  In 
Venetia,  presso  Giorgio  de'  Cavalli.  M  D  LXV;  e  l'altra,  con  lo  stesso  titolo. 
In  Venetia^  Appresso  Lucio  Spineda,  1606.  Citiamo  or  dall'una  or  dall'altra. 
Il  FoNTANiNi  (Bibl.  d.  eloq.  ital.y  ediz.  del  1753,  II,  376),  conosce  un'ediz.: 
Venezia,  Domenico  Nicolino^  1565.  Il  Brunbt  (Manuel^  Paris,  1860)  cita 
un'  ediz.  Venezia^  Bonibelli,  1595.  Per  le  edizioni  francesi  (la  1»  del  1495) 
V.  Brunet,  ed.  cit.,  voi.  l,  col.  966  sgg.  e  Supplément  (Deschamps-Brunet), 
Paris,  1880,  I,  125. 

(2)  Oli  araldi  erano  infatti  i  sovrintendenti  agli  stemmi.  Opera  d'indole 
generale  sull'argomento  di  che  trattiamo,  e  su  quelli  affini,  è  quella  di  Marc 
DE  VuLSON  DE  LA  COLOMBIERE,  La  sctence  Iiérotque  traitant  de  la  noblesse^ 
de  Vorigine  des  armes,  de  leurs  blasone  et  symboles,  etc,  Paris,  1669,  cap.  IV. 
Presso  di  noi  ne  ha  trattato  genericamente,  e  non  profondamente.  Cesare 
Cantù,  Storia  universale,  10»  ediz.  torinese,  Torino,  Unione  tip.-editr.,  1887, 
tomo  V  (libro  XI,  cap.  VI),  pp.  423-436.  Sugli  araldi  v.  del  Golombiìdre, 
De  Voffice  des  roys  d'armes^  des  herauds  etc.y  Paris,  Lamy,  1645,  specie  a 
p.  93  sgg.,  e  Devarennbs,  Le  roy  d'armes  etc^  Paris,  Billaine,  1635  (non 
parla  dei  colori). 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  >       319 

Pei  primi  cinque,  che  sono  i  colori  delle  armi  e  degli  stemmi, 
il  Sicillo  dà  per  regola  di  non  porre  colore  su  colore  senza  me- 
tallo (oro  e  argento),  o  metallo  su  metallo;  male  starebbe,  per 
esempio,  un  leon  d'oro  in  campo  d'argento. 

La  seconda  parte  del  trattato  dell'araldo  ci  offre  anche  mag- 
gior minuzia  di  interpretazioni  simboliche,  sempre  con  esempi 
di  testi  sacri  e  classici,  come  la  prima  parte.  Notevole  è  sopra- 
tutto lo  studio  delle  combinazioni  o  accoppiamenti  dei  colori: 
colori  uniti  =  \\YVQQ.  Vogliamo  sentire  quel  che  dice  questo 
esperto  cortigiano,  maestro  di  moda?  Lo  si  può  fare,  perchè,  in 
queste  divise,  vedremo  poi  accordarsi  l'Ariosto,  nell'inventarne 
per  il  suo  mondo  di  donne  e  di  cavalieri. 

Bianco  e  incarnato  =  diVev  maggior  favore  presso  alcuno;  un  intero  di- 
scorso fatto  da  questi  due  eloquenti  colori. 

Bianco  e  azzurro  =  cortesia  e  saggezza. 

Bianco  e  berrettino  =  speranza  di  venir  a  fine  del  desiderio  ;  livrea  senza 
dubbio  ardita. 

Bianco  e  giallo  =  gioia  in  amore. 

Bianco  e  rosso  =  ardire  in  imprese  onorate. 

Bianco  e  verde  =  gìowentù  virtuosa. 

Bianco  e  taneto  =  suflScienza. 

Bianco  e  violetto  =  ìeaìtk  in  amore. 

E  vediamo  le  composizioni  del  rosso: 

Rosso  e  turchino  =  desiderio  di  sapere. 
Rosso  e  giallo  =  desiderio  di  avere. 
Rosso  e  berrettino  ■=  speranza  alta. 
Rosso  e  nero  =:  noia. 
Rosso  e  taneto  =  forze  perdute. 

A  quel  modo  che  alcuni  dei  colori  perdono  il  loro  significato 
nella  combinazione,  per  acquistarne  un  altro,  cosi  alcuni  dei  si- 
gnificati or  ora  veduti  si  ripetono  in  altre  combinazioni;  p.  es., 
col  giallo: 

Giallo  e  azzurro  ■=  giocondi  piaceri. 

Giallo  e  berrettino  =  gravi  pensieri  per  non  poter  soddisfare  il  desiderio. 


320  ABD-EL-KADER   SALZA 

Giallo  e  verde  •=  speranza  di  felicità. 
Giallo  e  violetto  —  gioia  d'amore. 
Giallo  e  nero  :=  costan/.a. 

E  se  noi  avessimo  ancor  voglia  di  stare  a  sentire,  Taraldo  ci 
strombetterebbe  altre  sue  ricette  di  colori,  e  pel  nero,  pel  verde, 
incarnato,  violetto,  ecc.  È  giusto  però  riconoscere  che  questo  è 
un  vero  codice  dell'eleganza  cavalleresca  di  quel  tempo,  che  di 
simili  frivolezze  faceva  tesoro.  Ma  a  questo  non  si  tien  pago 
il  Sicillo,  e  si  diverte  a  trovare  artificiose  rispondenze  dei  suoi 
sette  colori  principali  con  le  sette  età  dell'uomo  (e.  i2a,  ediz. 
1606),  e  con  le  quattro  <  complessioni  »  umane  (1),  e  coi  quattro 
elementi,  e  coi  sette  pianeti  allora  noti  e  colle  sette  virtù  e  coi 
sette  giorni  della  settimana  e  con  le  stagioni;  attribuisce  anche 
a  ciascun  mese  dell'anno  il  suo  colore.  Ma  curiosissimo  diventa 
poi,  quando  stabilisce  «  l'habito  morale  dell'huomo  per  i  colori  » 
(e.  24).  È  una  foggia  di  vestire  tutta  simbolica.  Lasciamo  da 
parte  i  vestiti  maschili,  e  prendiamoci  la  libertà  di  spiare,  con 
la  guida  discreta  dell'araldo,  una  gentildonna  del  '500,  che  si  veste 
secondo  la  moda  sicilliana.  Ella  doveva  avere  camicia  bianca 
(candore),  calze  violette  con  giarrettiere  bianche  o  nere  (perse- 
veranza), pianelle  nere  (semplicità),  sottana  di  damasco  bianco 
(castità),  cordone  azzurro  (lealtà),  cintura  nera  (magnanimità) 
e  borsa  d'oro  (liberalità).  Cosi  corazzata  di  virtù  più  o  meno 
manifeste,  la  donna  del  Cinquecento  si  trasformava  in  un  enigma 
di  vaghi  colori,  di  cui  la  risoluzione  era  affidata  ai  conoscitori 
di  livree  e  divise. 

Anche  nel  genere  di  trattati,  onde  parliamo,  ci  si  fa  innanzi 
il  nome  di  quel  laboriosissimo  poligrafo  che  fu  Lodovico  Dolce. 
Tutti  i  generi  di  opere  più  accette  nel  '500  egli  trattò,  né  volle 
quindi  lasciar  da  parte  questo.  Ma  dobbiamo  affermare  che  il  suo 
trattato  (2),  nonostante  una  colpa  gravissima  sebbene  non  nuova 


(1)  /2os50  =  sanguigna  ;  a«Mrro= collerica:  ar<7tn<o  =  flemmatica  ;  nero  = 
malinconica. 

(2)  Dialogo  \  di  M.  Lodovico  Dolce,  |  nel  quale  si  ragiona  |  delle  qua- 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       321 

pel  Dolce,  è  garbato  e  non  privo  d'interesse,  specialmente  per  le 
molte  citazioni  di  poeti  italiani  (Petrarca,  Ariosto,  Bembo),  fatte 
con  notizie  ed  informazioni,  che  molte  poesie,  sovrattutto  del 
Bembo,  servono  a  chiarirci  in  maniera  nuova  ed  inaspettata  : 
daremo  esempì  in  séguito.  Il  trattato  del  Dolce  si  svolge  a  dia- 
logo fra  due  personaggi,  Mario  e  Cornelio,  di  cui  il  secondo  dice 
che  parlerà  dei  colori  valendosi  di  ciò  che  ha  letto  presso  molti 
autori,  e  specialmente  di  un  «  libricciolo  di  M.  Antonio  Tilesio 
«  da  lui  latinamente  scritto  ;  il  qual  Tilesio  fu  huomo  di  belle 
«  lettere  e  di  fin  giudicio:  e  scrisse  in  questa  materia  assai  ac- 
«  conciamente  »  (1).  E  si  sia  pur  giovato  del  Telesio;  ma  ciò  che 
il  Dolce  tace  è  di  essersi  servito  un  po'  troppo  anche  del  Morato. 
Bastino  per  esempio  questi  due  passi,  di  cui  il  secondo  presenta 
errori  grossolani  nella  copia  del  poligrafo  veneziano.  Noi  abbiamo 
confrontato  i  due  trattati  e  possiamo  affermare  che  il  Dolce 
copia  quasi  tutto  il  testo  del  Morato  nella  prima  parte  del  suo 
dialogo  (fino  a  e.  37): 

Morato:  Dolce  (c.  21  6): 

Li  Persi  (se  persa  non  ho  la  me-  Leggesi    eziandio    che   i    Persiani 

moria)  sposavano  nuovamente  le  sue  sposavano  da  capo  le  moglie  alla  loro 

moglie  alla  morte  di  quelle  et  più  tosto  morte;  e   più   tosto   ponevano   cotal 

tal  gemma  (smeraldo  (2))  ponevano  gioia,  che  è  lo  smeraldo,  nel  dito  alle 

in  dito  alle  morte  che  alle  altre,  per  morte,  che  alle  vive,  volendo  dimo- 

segno  che  elle  portavano  seco   ogni  strare  che  elle  seco  portavano  ogni 

bene  et  sollazzo  del  superstite  marito,  bene,    e    consolatione    morendo,   del 

et  che  egli  havevano  perso  ogni  suo  marito  rimasto  in   vita:  e  che  essi 

diporto,  né  più  mai  con  altra  si  tra-  havevano  perduto  ogni   loro   diputo 

stularebbero.  Odo  la   Illust.  S.  Mar-  (sic:  diporto)  ;  e  che  mai  più  con  altra 

chesana  di  Mantoa  pudicissima  Isa-  donna  si    trastulerebbono.  Ho  inteso 

bella  Gonzaga  da  Este  bavere  il  più  dire  per  cosa  vera,  che  la  S.  Isabella 


litàt  diversità,  e  prò-  j  prìetà  de  i  colori.  \  Con  Privilegio,  ||  In  Venetia  Ap- 
presso I  Gio.  Battista,  Marchio  \  Sessa,  et  Fratelli.  —  In  fine:  1565. 

(1)  Carta  6  b.  Anche  a  e.  19  6  avverte  timidamente  che  parlerà  secondo 
ciò  che  ha  letto  in  alcuni. 

(2)  Simboleggiava  bellezza,  cortesia,  forza  e  gioventù. 


322  ABDEL-KADER    SALZA 

bel  smeraldo  che  hoggi  si  trovi,  et  Gonzaga  da  Este,  che  già  fu  Marche- 
quello  essere  stato  ritrovato  nella  se-  sana  di  Mantova,  hebbe  un  bellissimo 
poltura  di  TuUiola  figliuola  di  M.  smeraldo:  il  quale  si  dice  essere  stato 
Tullio  Gic.  trovato  nella  sepoltura  della  Tullia 

figliuola  di  Marco  Tullio  Cicerone. 

L'interessante  notizia  del  Morato  sulla  gennma  d'Isabella  d'Este 
fu  già  rilevata  dal  Gian,  ed  è  da  girare  agli  storici  e  agli  ar- 
cheologi. Ecco  un  altro  esempio  del  plagio,  sui  coìormischio : 

Morato:  Dolce  (c.  33): 

Misto  cioè  mescolato,  significa  cor-  Dicesi  che  '1  mischio  dimostra  biz- 

rotto.  Greci  chiamano  bizzairi  coloro,      zarria. 

che  habbiano  la  mente  di  molte  con-  Così  dico,  che  significa  corrotto.  I 

trarietà  corrotta;  in  tal  colori  sono  Greci  bizzarri  addimandano  coloro, 
molti  fiocchi  quasi  atomi  di  diverse  che  hanno  la  testa  di  molti  contrari 
specie  varii;  come  nel  collo  della  co-  corrotta.  E  in  tali  colori  sono  molti 
lomba  comprendeva  Arcesila.  sciocchi,   quasi    attoniti  di  diverse 

varie  specie:  come  nel  collo  della  co- 
lomba comprendeva  Arcesila  (!). 

Qui  il  Dolce  non  ha  compreso  il  testo  originale  ed  ha  accumu- 
lato sciocchezza  a  sciocchezza;  a  meno  che  il  revisore  trascurato 
non  gli  abbia  giocato  un  brutto  tiro. 

Nell'avviso  ai  lettori,  l'autore  dice  di  aver  ricorso  a  greci  e 
latini,  e  di  avere  esemplificato  con  versi  di  moderni,  e  latini  e 
volgari,  interpretando  anche  qualche  sonetto;  cosi  che  il  suo 
dialogo  poteva  considerarsi  «  quasi  una  selva  di  varie  lettioni  >. 
Di  fatti  il  Dolce,  se  pur  copia  dal  Morato  quel  che  riguarda 
la  trattazione  della  natura  e  del  senso  dei  colori,  trae  però  in- 
nanzi un  buon  numero  di  citazioni  da  antichi  e  moderni,  spe- 
cialmente da  poeti.  Dei  colori,  esamina  non  solo  i  principali,  ma 
anche  le  varietà,  e  tien  conto  dei  sinonimi,  nella  designazione  di 
essi.  Alcune  significazioni  allegoriche  da  lui  date  ai  colori  son 
diverse  da  quelle  più  comuni;  vedemmo  il  rosso  indicare  ven- 
detta, ma  pel  Dolce  vale  invece  poca  sicurezza;  cosi  il  nero 
significa   pazzia;  il  berrettino y  umiltà;  il  mischio,  fermezza;  il 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       323 

tuìxUinOy  elevatezza  (1)  (e  ci  dice  che  di  quest'ultimo  si  vesti  il 
Boccaccio,  quando  elevò  i  suoi  pensieri  alla  Maria  figlia  di  Ro- 
berto re  di  Napoli  :  la  «  regina  di  Napoli  »,  aggiunge  con  errore, 
e.  34  a).  —  Interessante  è  ciò  che  riguarda  i  colori  accoppiati, 
nei  quali,  avverte,  non  è  da  badare  al  significato,  ma  alla  loro 
convenevolezza.  Nell'accoppiar  più  colori,  per  esprimere  un  senso 
intimo,  fu  valentissimo  —  osserva  (e  noi  avremo  modo  di  consta- 
tarlo nella  seconda  parte  di  questo  nostro  svago)  —  l'Ariosto  «  in 
«  alcune  sopraveste  ».  La  seconda  metà  del  trattato  (la  prima 
termina  a  e.  38)  esamina,  come  in  un  elenco  alfabetico,  il  signi- 
ficato di  svariatissimi  oggetti  di  regalo:  v'è  il  simbolo  dovunque, 
anche  se  il  dono  sia  di  cose  vili,  come  una  ghianda,  o  un  melone, 
0  anche  una  talpa.  Ma  vediamo  qualche  passo  più  interessante. 
Che  cosa  indica  il  dono  d'una  lingua?  Buona  o  mala  lingua;  ed 
ecco  subito  l'esempio,  che  parte  da  quel  compito  in  siffatte  cose 
e  cavalleresco  re  Francesco  I.  «  Per  questa  cagione  Francesco 
«  re  di  Francia  mandò  in  dono  all'Aretino  una  catena  d'oro  di 
«  seicento  scudi  ;  la  quale  era  fatta  a  lingue,  volendo  per  quella 
«  dinotar  la  proprietà  de  l'Aretino,  ch'era  di  dir  male;  e  per 
«  aventura  avertirlo,  che  si  guardasse  dalla  raaledicenza,  che  per 
«  aventura  ne  potrebbe  esser  gastigato  >  (e.  55  &)  (2).  L'Aretino,  che 
ai  simboli  e  alle  astruserie  badava  poco,  non  avrà  voluto  veder 
nelle  lingue  altro  simbolo  che  il  loro  valore;  quanto  al  Dolce  poi, 
poteva  parlar  cosi  nel  1565  del  suo  ottimo  amico  l'Aretino,  perchè 


(1)  11  giallo  vale  per  lui  disperazione:  forse  per  ciò,  aggiunge,  a  Venezia 
agli  Ebrei  è  imposto  di  portare  una  berretta  gialla  (e.  41  h). 

(2)  Sulla  famosa  collana  donata  all'Aretino,  oltre  i  numerosi  accenni  che 
egli  stesso  ne  fa,  vedi  A.  F.  Doni,  Nuova  opinione  sopra  le  imprese  amo- 
rose e  militari,  Venezia,  1858,  p.  53,  e  A.  F.  Doni,  La  vita  dello  infame 
Aretino,  Città  di  Castello,  Lapi,  1901,  p,  27;  sovrattutto  A.  Luzio,  Un  pro- 
nostico satirico  di  P.  Aretino,  Bergamo,  1900,  pp.  115  sgg.,  e  C.  Arlia,  in 
Doni,  La  vita  dello  infame  Aretino  cit.,  pp.  27-31  in  nota.  Non  entro  nel 
merito  della  questione  dibattuta  fra  il  Luzio  e  l'Arlia  sul  motto  della  col- 
lana, anzi  non  discuto  neanche  l'attribuzione  incerta  al  Doni  della  Vita 
citata  or  ora.  Mi  pare  tuttavia  che  risolva  la  questione  del  motto,  contro  il 
Luzio,  Carlo  Bertam,  Pietro  Aretino  e  le  sue  opere,  Sondrio,  Quadrio, 
1901,  p.  110. 


324  ABD-EL-KADER   SALZA 

la  terribile  lingua  di  messer  Pietro  taceva  da  un  pezzo.  Pos- 
siamo trascurar  senza  danno  il  simbolo  di  una  coda  di  cavallo 
mandata  in  regalo;  vediamo  invece  l  doni  del  Bembo,  compitis- 
simo cortigiano  e  poeta,  che  i  suoi  regali  accompagnava  con 
poesie.  Cosi  una  volta  «  mandò  il  Bembo  a  donare  molte  belle 
«  candele  di  bianca  cera  a  un  monaco  con  un  distico,  che  diceva, 
«  che  ne*  suoi  studi  e  cose  tali  adoperasse  la  lucerna  con  l'olio, 
«  ma  quelle  adoperasse  nelle  sacre  cerimonie,  che  si  fanno  in 
<  chiesa,  e  innanzi  agli  altari  »  (e.  65  a).  Àncora,  dopo  la  morte 
del  duca  Guidobaldo  d'Urbino,  il  Bembo  mandò  alla  vedova  Li- 
sabetta  Gonzaga  un  sonetto  {Del  cibo,  onde  Lucrezia,  e  altre  han 
vita)  (1)  «  con  alcuni"  doni,  fra  i  quali  v'era  un  bossolo  da  ripor 
«cose  medicinali,  l'altro  un  cassettino,  ove  le  donne  sofjliono 
«  serbar  i  lisci,  e  '1  terzo  uno  specchio  di  cristallo  »  (e.  68  a).  Il 
sonetto  spiegava  il  sènso  dei  regali.  Mandare  in  regalo  un  Pe- 
trarca, nel  linguaggio  galante  d'allora,  era  fare  invito  ad  amore 
casto  e  puro:  uno  ne  mandò  a  una  sua  donna  il  Bembo,  accom- 
pagnandolo col  madrigale 

Quanto  alma  è  più  gentile  (e.  71  b)  (2). 

E  poiché  siamo  col  Bembo,  ecco  la  ragione  del  suo  sonetto: 

Io  ardo,  dissi,  e  la  risposta  invano  (3). 

Un  giorno,  trovandosi  il  poeta  in  una  riunione,  dove  si  faceva 
il  giuoco  dei  segreti  (uomini  e  donne  messi  in  circolo,  e  l'uno 
parla  all'altra  nell'orecchio)  (4),  il  Bembo  disse  alla  donna  che 
aveva  vicina:  «  io  ardo  »;  ed  essa  argutamente  gli  di^de  la  mano 
sua,  che  era  fredda,  a  dimostrargli  che  non   sentiva  nulla  per 


(1)  Sonetto  XIX,  delia  edizione  di  I^ergamo  1745,  delle  Poesie  dei  iicinlx). 
•    (2)  Canzone  IX,  delia  cit.  ediz.  del  Bemlx). 

(3)  Sonetto  XXII  della  cit.  ediz.  del  Bembo. 

(4)  Se  ne  ha  menzione  nei  libri  di  trattenimenti  del  '500:  non  ho  modo  di 
rifar  la  citazione,  smarrita  tra  i  miei  appunti,  da  Scipione  Baroaoli,  /  trat» 
lenimenti  dove  da  vaghe  donne  e  da  giovani  Uuomini  rappresentati  sono 
hùnesti,  et  dilettevoli  giuochi,  narrate  novelle  e  cantate  alcune  amorose 
canzonette,  Venezia,  1587. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aM0R3  NEL  «  FURIOSO  »       325 

lui  (1).  —  Il  Dolce  poi  ci  spiega  che  cosa  significhi  mandare  in 
regalo  un  Dante  (e.  73),  un  Virgilio,  un  Furioso,  gli  Asolarti, 
un  Catullo,  Tibullo  e  Properzio.  Persino  si  può  mandare  in  dono 
—  e  cosi  chiudiamo  —  un  Galmeta:  colui  al  quale  lo  si  manda, 
è  un  goffo,  come  goffo  era  tenuto  il  Galmeta  ad  Urbino,  ci  dice  il 
Dolce,  quando  ci  si  trovava  col  Bembo  e  col  Castiglione  (e.  80  &). 
Non  ricordato,  ma  degno  di  esser  qui  citato,  è  quel  che  dei 
colori  dice  un  colto  letterato  e  garbato  cortigiano  del  '500,  Luca 
Contile.  Egli  nel  ^mo  Ragionamento  delle  imprese  {Psividi,  Bar- 
toli,  1574)  ha  un  apposito  capitolo  Delle  divise  e  dei  colori 
(ce.  18-21).  Parla  brevemente  di  questa  materia,  che  non  è  l'ar- 
gomento principale  del  suo  libro;  ed  ecco  i  simboli  dei  colori, 
come  egli  li  pone:  oro,  sapienza  delle  cose  divine;  argento,  sa- 
pienza delle  cose  naturali;  bianco,  vittoria,  candidezza  d'animo, 
eloquenza  (2);  nero,  stabilità  e  fermezza;  rosso,  vendetta,  e 
anche  amore  (3);  azzurro,  amore;  giallo,  contentezza;  rosso, 
ancora,  eccessiva  benevolenza,  letizia;  verde,  speranza;  tanè, 
travaglio;  bertino,  ingratitudine,  viltà  (4).  Fa  raffronto  di  no- 
biltà fra  il  bianco  e  il  nero,  e  li  reputa  uguali  (e.  20),  nomi- 


(1)  E  sentiamo  descritto  il  giuoco  nella  narrazione  elegiacamente  melodiosa 
di  Aminta  {Aminta,  1,  2"): 

et  una  volta 
Che  in  cerchio  sedevam  ninfe  e  pastori, 
E  facevamo  alcuni  nostri  giaochi, 
Che  ciascun  ne  l'orecchio  del  vicino 
Mormorando  diceva  un  suo  secreto: 
Silvia,  le  dissi,  io  per  te  ardo,  e  certo 
Morrò,  se  non  m'aiti.  A  quel  parlare 
Chinò  ella  il  bel  volto,  e  fuor  le  venne 
Un  improvviso  insolito  rossore 
Che  diede  segno  dì  vergogna  e  d'ira; 
Né  ebbi  altra  risposta  che  un  silenzio. 
Un  Bilenzio  turbato,  e  pien  di  dure 
Minacce. 

Ecco  come  questo  Aminta  un  po'  cortigiano  ha  riscontro  nel  Bembo,  e  nel- 
l'episodio ariostesco  d'Alcina. 

(2)  Op.  cit,  e.  19  b.  • 

(3)  Op.  cit,  e.  20  h. 

(4)  Op.  cit.,  e.  21  a. 


326  ABD-EL-KADER  SALZA. 

nando  cose  deiruno  e  dell'altro  colore  e  ugualmente  belle:  per 
es.  :  «  Diremo  ancora  fra  le  bellezze  delle  donne  la  principale 
«  essere  l'occhio  nero  con  le  ciglia  nere,  con  ciò  sia  che  dalla 
«  vista  di  due  begli  occhi  neri  esca  serenità  e  splendore  di  tanta 
«  forza  che  grandemente  commuove  i  cuori  de  i  riguardanti  » 
(e.  20 a):  ah  se  l'avessero  letto  le  bionde  dagli  occhi  azzurri! 

Delle  divise  il  Contile  dice  che  risultano  dall'unione  di  più  colori 
per  pitture  o  abiti,  a  dilettar  la  vista  (e.  18);  doveva  aggiungere 
che  vi  si  deve  trovare  un  concetto  recondito  :  il  Marchese  del  Vasto, 
il  capitano  di  Carlo  V,  aveva  livrea  di  bianco  e  nero,  a  indicar 
fedeltà  e  fermezza  (e.  20&);  e  noi  sappiamo,  da  una  narrazione 
contemporanea  (1),  che  suo  figlio,  il  giovine  Marchese  di  Pescara, 
quando  andò  a  Londra  al  séguito  di  Filippo  II,'  per  le  nozze  del 
re  dì  Spagna  con  Maria  Tudor  l'aveva  nera  con  passamani  d'oro; 
rossa  livrea  aveva  il  geniale  Vespasiano  Gonzaga,  a  denotare 
amore  pel  suo  principe.  Del  resto,  il  Contile  esorta,  chi  vuol  far 
divise,  a  conoscer  bene  i  colori  e  i  loro  simboli,  e  a  leggere  ciò 
che  con  molta  «  leggiadria  »  ne  disse  Simon  Porzio,  <  gentilissimo 
«  filosofo  »  napolitano  (e.  21  a).  Anche  esso  poi  si  diletta  a  distri- 
buire, come  il  Sicillo,  i  colori  per  i  vari  giorni:  argento  (infanzia, 
integrità)  per  il  lunedi;  rosso  (audacia,  virilità,  carità)  pel  mar- 
tedi;  azzurrino  (bellezza  d'animo,  umiltà,  castità)  per  il  giovedì; 
oro  per  la  domenica;  nero  (vecchiaia)  pel  venerdì  e  sabato.  Oh 
che  bei  perditempo  erano  questi  nostri  trattatisti  del  sec.  XVI! 
E  forse  lo  siamo  anche  noi,  che  ci  dilettiamo  a  percorrere  le  loro 
scritture,  e  a  sorriderci  sopra. 

IL 

Ma  io  debbo  pur  ricordare  che  dell'Ariosto  e  delle  sue  inven- 
zioni simboliche  ho  da  occuparmi.  Ci   servirà   di  introduzione 


(iy  Uistoria  delle  cose  |  occorse  nel  Regno  j  d' Inghilterra^  \  in  materia 
del  Duca  di  Notomberlan  \  dopo  la  morte  di  Odoardo  VI  ||  Impresa.  ||  Nel- 
l'Academia  Venetiana,  j  M.  D.  LVllI.  e.  63  b. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'ARME  E  D'aMORE  NEI.  «  FURIOSO  »       327 

quel  che  dei  colori  ci  dice  un  altro  di  questi  trattati,  col  quale 
faremo  punto,  per  non  addentrarci  nel  mare  magno  del  Sei- 
cento (1).  Con  quest'ultimo  trattato  siamo  quasi  alla  fine  del  '500 
anzi  alle  porte  del  sec.  XVII,  e  possiamo  intravedere  ciò  che  di 
questa  materia  si  dirà  in  quel  secolo.  Il  Mostruosissimo  mostro 
(titolo  che  ha  il  contrassegno  di  fabbrica)  di  Giovanni  de' Ri- 
naldi (2)  è,  si  può  dire,  il  riassunto  dei  trattati  precedenti,  ed 
ha  agli  occhi  nostri  il  merito  di  esemplificare  ciò  che  dice  del 
simbolo  dei  colori  con  passi  di  autori  moderni,  citando  frequen- 
temente l'Ariosto:  non  pochi  dei  brani  ariosteschi,  che  noi  cite- 
remo più  oltre,  sono  già  ricordati  nel  libretto  del  Rinaldi.  Il  quale 
si  lusingava  che  l'opera  sua  sarebbe  tornata  gradita  a'  lettori, 
offrendo  loro  il  mezzo  di  «  far  chiaro  alle  loro  care  et  amate 
«  donne  le  allegrezze,  le  mestitie,  i  sospiri,  et  le  insopportabili 
«  passioni,  che  per  il  seguirle,  et  amarle  patiscono  »  (e.  2  &).  Pre- 
cede la  trattazione  un  «  sonetto  dei  colori  »,  del  genere  di  quello 
del  Morato;  eccolo  tal  quale  ce  l'offre  il  Rinaldi: 


(1)  Il  libro  dei  colori^  segreti  del  secolo  XY  pubblicati  da  0.  Guerrini  e 
G.  Ricci,  Bologna,  1887  {Scelta  di  curiosità  letterarie^  disp.  GGXXII)  nulla 
ha  che  vedere  col  simbolismo  dei  colori,  perchè  è  invece  un  repertorio  di 
ricette  per  formare  le  varie  miscele  dei  colori,  ad  uso  dell'arte.  Fuor  di  pro- 
posito adunque  gli  editori  ricordarono  nella  prefazione  (p.  xvii)  il  Dialogo 
dei  colori  del  Dolce,  che  è  tutt'  altra  cosa.  E  con  molta  probabilità  (cosi 
dico  perchè  non  ho  veduto  il  libro)  si  occupa  dei  colori  applicati  all'arte 
anche  il  Disegno  del  Doni,  nel  quale  si  tratta  della  scoltura  et  pittura, 
de  colori  ecc.  In  Venetia,  Gabriel  Giolito  de  Ferrari,  1549. 

(2)  Il  I  Mostruosissimo  \  Mostro  \  di  Giovanni  de'  Rinaldi  |  Diviso  in  due 
trattati.  \  Nel  primo  de'  quali  \  Si  ragiona  del  significato  de'  colori.  \  Nel 
secondo  si  tratta  dell'  herbe,  et  fiori.  \  Di  nuovo  ristampato,  et  con  somma  | 
diligenza  corretto.  |1  In  Venetia,  M  DG  II  |  Appresso  Lucio  Spineda.  Non  è  la 
prima  edizione,  che  noi  non  abbiam  potuto  vedere;  ma  che  forse  è  quella 
indicata  dal  Libri  {Catalogne  cit.,  pp.  405  sgg.)  col  titolo  stesso  dell'edizione 
Spineda:  Ferrara,  G.  Vasalini,  1588,  in-8°.  Altre  edizioni  ricorda  I'Haym 
{Biblioteca  italiana,  ed.  cit.,  p.  377):  Venezia,  Spineda,  16ii;  e  Venezia, 
Imberti,  1626.  Sarà  poi  da  ritenere  erronea  l'indicazione  del  Catalogne 
Mac-Garthy  Reag  cit.  (n»  3673,  voi.  I,  p.  556)  di  una  edizione  Ferrara, 
Alf.  Caraffa,  1588,  in-S®,  o  forse  è  la  stessa  ediz.  che  ci  dà  il  Libri? 


328  ABD-EL-KADER   SALZ.V 

Fa  di  spene,  e  letitia  il  verde  mostra, 

Di  spene  il  verdegial  già  quasi  morta, 

Di  mano  il  rosso  a  ria  vendetta  sorta, 

Gioir  soave  Vincarnato  mostra. 
L'alto  pensier  altrui  il  turchin  dimostra, 

E  di  dominio  il  giallo  inditio  porta, 

Si  fa  d'alma  sincera  il  bianco  scorta, 

Col  duol  d'un  cuore  il  ner  di  pari  giostra. 
D'animo  invitto  è  il  leonato  essempio. 

Salda  voglia  il  morello  apre  in  amore. 

Inganno  il  beretin^  fin  falso,  et  empio. 
Mente  instabile  il  mischio  nota,  honore 

L'oro,  e  ricchezze  manifesta;  e  scempio 

Di  gelosia  Vargento,  e  di  dolore. 

Decisamente  i  colori  non  inspirarono  dei  bei  versi  !  —  La  prima 
parte  di  quest'opera  del  Rinaldi  si  svolge  illustrando  verso  per 
verso  il  sonetto,  con  loquacità  già  secentistica,  con  molti  esempi 
classici,  come  già  avevano  fatto  i  precedenti  trattatisti,  ma  anche 
con  abbondanti  riscontri  di  poeti  volgari,  specialmente  del  Pe- 
trarca, dell'Ariosto  e  del  Tasso;  e  non  mancano  certamente  delie 
osservazioni  curiose  e  anche  stravaganti.  Per  citarne  una,  par- 
lando dell'oro  e  dicendo  che  esso  vale  signoria  e  dominio,  il  Ri- 
naldi conclude  con  tutta  sicurezza:  «  Di  qui  nasce,  che  i  biondi, 
«  aurati,  et  crespi  crini  meglio  allacciano  et  astringono  i  cuori 
«  degli  amanti  ad  Amore,  che  non  fanno  gli  altri  »  (e.  28  &).  È 
certo!  E  prosegue  a  dare  esempì  della  magia,  diremo  così,  ero- 
tica dei  capelli  biondi.  La  seconda  parte  del  suo  trattato  è  un 
dizionario  alfabetico  di  tutto  ciò  che  può  essere  mandato  in  re- 
galo, con  le  più  bizzarre  e  strane  interpretazioni  simboliche.  Ma 
non  vai  la  pena  di  citare  esempì,  perchè  nulla  avrebbero  d'in- 
teressante. 

Poco  di  buono  ci  presenta  adunque  questa  produzione  del  se- 
colo  XVI  anche  se  vi  comprendiamo  il  Rinaldi:  è  un  angolo  del 
ricchissimo  giardino,  dove  son  venute  su,  coltivate  da  inesperti, 
alcune  pianticelle  triste  ed  alcune  anche  parassite.  Poco  di  buono 
se  ne  può  cavare,  se  non  la  persuasione,  ove  ne  fosse  bisogno. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  D'AMORE  NEL  «  FURIOSO  »       329 

che  di  mille  cose  futili  si  occupava  seriamente  il  Cinquecento. 
Questa  da  noi  veduta  era  produzione  di  moda,  e  che  fosse  ac- 
colta con  molto  favore  dimostrano  le  numerose  edizioni,  che  di 
alcuni  di  questi  trattatelli  furon  fatte,  ad  onta  dei  loro  difetti. 
Qual  dama  del  secolo  avrà  voluto  fare  a  meno  di  questi  libriccini 
galeotti,  che  di  tanti  segreti  davano  la  spiegazione  e  parlavano 
il  linguaggio  della  galanteria?  Si  sa  che  tra  le  molte  cose  che 
alle  signore  piacciono,  ci  sono  anche  delle  frivolezze. 

Ed  ecco  perchè  l'Ariosto  (1),  che  del  tempo  suo  raccolse  le 
voci,  e  dei  costumi  di  esso  tracciò  sicuro  disegno  nelle  ottave 
del  suo  Furioso,  curò  con  cura  minuziosa  anche  il  simbolismo 
dei  colori.  E  ad  altro  anche  badò:  un  genere,  stimato  allora  let- 
terario e  poetico,  quello  delle  imprese,  figurazioni  ideografiche 
con  motto  di  senso  recondito,  da  servir  per  cavalieri  e  dame 
nelle  varie  circostanze  della  lor  vita,  ebbe  le  diligenze  del  poeta 
di  Orlando.  Noi,  pur  non  trattando  qui  delle  imprese,  vogliamo 
però,  nella  rassegna  che  faremo  del  Furioso,  rilevare  anche 
quest'altro  simbolismo  profuso  in  misura  non  scarsa  nel  grande 
poema  ;  Tabbiam  detto:  forse  ne  verrà  della  luce  ad  interpretare 
e  gustare  alcun  passo  del  poeta  di  Reggio. 


(1)  Delle  invenzioni  simboliche  usate  dall'Ariosto  parlarono  anche  alcuni 
trattatisti  e  critici:  Tommaso  Porgacghi,  in  più  luoghi,  nelle  sue  Annota- 
zioni al  Furioso  e  Udeno  Nisiely,  Progimnasmi  poetici.  111,  p,  189  sg.  Ac- 
cenna all'uso,  che  nel  Furioso  si  fa,  di  livree  e  imprese,  Girolamo  Ruscelli, 
nel  Discorso  sulle  imprese  unito  al  Ragionamento  di  Mons.  Paolo  Giovio 
Vescovo  di  Nocera  con  M.  Lodovico  Domenichi  sopra  i  motti  et  i  disegni 
d'arm,e  et  d'amore  che  com,m,unemente  chiamano  im,prese,  Milano,  Antonii, 
M  D  LIX,  e.  66  sg.  ;  e  nell'  Orlando  Furioso  \  di  m.  Lodovico  Ariosto  | 
tutto  ricorretto,  et  di  \  nuove  figure  \  adornato.  \  Con  le  annotationi,  gli 
Avvertimenti,  et  le  Dichiarationi  di  Girolamo  Ruscelli  ecc.,  In  Venetia,  j 
Appresso  Vincenzo  Valgrisi ,  M  D  LXVI,  a  p.  56  soltanto  (come  dichiara 
espressamente)  loda  ancora  l'Ariosto  a  proposito  della  divisa  di  Ariodante 
{Orlando,  C.  VI);  nei  Discorsi  di  M.  Gio.  Andrea  Palazzi  sopra  l'im- 
prese ecc.,  Bologna,  Benacci,  1575,  p.  25  sg.,  si  trova  ricordato  che  tra  gli 
eroi  romanzeschi  Gano  aveva  per  insegna  la  figura  del  falcone,  Astolfo  il 
pardo,  il  Danese  lo  scaglione,  Rinaldo  il  leone  sbarrato,  Orlando  V  «  alto 
Babele  >,  Marfisa  una  fenice,  e  Ruggero  l'aquila  bianca. 


330  ABD-EL-KADER  SALZA 

Quel  mastro  gentile  di  tutte  lo  cortesie  cavalleresche,  che  fu 
il  Castiglione,  ha,  nel  suo  lamoso  trattato,  riconosciuto  e  conica- 
era  to  l'uso  delle  imprese  e  delle  divise  a  senso  riposto,  per  il 
cortigiano  da  lui  foggiato.  <  E  se  poi  si  ritroverà  (il  cortegiano) 
«  armeggiare  nei  speitaculi  publici,  giostrando,  torneando,  o  gio- 
«  cando  a  canne,  o  facendo  qualsivoglia  altro  esercizio  della  per- 
4t  sona;  ricordandosi  il  loco  ove  si  trova,  ed  in  presenzia  di  cui, 
€  procurerà  esser  nell'arme  non  meno  attilato  e  leggiadro  che 
«  sicuro,  e  pascer  gli  occhi  dei  spettatori  di  tutte  le  cose  che 
«  gli  parrà  che  possano  aggiungergli  grazia;  e  porrà  cura  d'aver 
«  cavallo  con  vaghi  guarnimenti,  abiti  ben  intesi,  motti  appro- 
di priati,  ed  invenzioni  ingeniose,  che  a  sé  tirino  gli  occhi  de'cir- 
«  costanti,  come  calamita  il  ferro  ».  E  veniamo  all'Ariosto. 

Prima  di  passare  in  rassegna  le  vaghe  invenzioni  dei  cavalieri 
e  delle  giovani  guerriere  e  imbelli  del  Furioso,  fermiamoci  breve 
tratto  alle  Rime  del  poeta.  Ecco  un  grazioso  sonetto,  in  cui  si 
dà  l'interpretazione  dei  gigli  e  degli  amaranti,  onde  una  <  ver- 
<  gine  illustre»  portava  adorno  il  manto: 

Non  senza  causa  il  giglio  e  l'araaranto, 
L'uno  di  fede,  e  l'altro  fior  d'amore, 
Del  bel  leggiadro  lor  vago  colore, 
Vergine  illustre,  v'orna  il  vostro  manto. 

Candido  e  puro  l'un  mostra  altrettanto 
In  voi  candore,  e  purità  di  core; 
A  l'animo  sublime  l'altro  fiore 
Di  costanza  real  dà  il  pregio,  e  il  vanto  (1). 

(Son.  IV). 


(1)  Cito  dall'edizione:  Opere  di  Lodovico  Ariosto  ecc.,  tomo  quarto,  in 
Venezia,  M  DGC  LUI,  nella  stamperia  Remondini.  Ma  seguo  quest'ediz.  solo 
per  le  Rime.  —  Giulia  Gonzaga  ebbe  anche  per  impresa  l'amaranto  col  motto 
Non  moritura^  a  indicare  la  sua  castità,  cui  non  avrebbe  rinunziato  per 
altre  nozze  (I.  Affò,  Vito  di  Giulia  Gonzaga^  p.  29).  —  Biancovestita  de- 
scrive la  sua  donna  il  Bembo  nella  bella  canzone  XXI  (edizione  citata 
delle  Rime): 

yÌDC«a  U  neve  il  restir  paro,  e  bianco 
Dal  collo  a'  piedi  :  •  '1  bel  lembo  d'intorno 
Area  rirtù  di  far  l'aria  serena. 

(ttr.  4«). 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aR>JE  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       331 

Con  le  dame  del  Cinquecento  restiamo  in  un*  altra  poesia  del- 
l'Ariosto, precisamente  nella  canzone  prima.  Tutti  ricordano 
questa  leggiadra  poesia,  dove  il  nostro  poeta  descrive  com'egli, 
cosi  lontano  dall'innaraorarsi,  rimase  preso  della  vaghezza  della 
donna  che  fu  il  suo  buon  angelo  domestico,  Alessandra  Benucci, 
la  vedova  di  Tito  Strozzi.  Già  da  un  pezzo  egli  conosceva  la 
bella  donna,  ma  sempre  ne  aveva  escluso  dal  suo  cuore  il  pen- 
siero, forse  già  in  sospetto  d'innamorarsene.  Il  giorno  di  san  Gio- 
vanni Battista  del  1513,  trovandosi  egli  a  Firenze,  Amore  fece 
le  proprie  vendette.  A  Firenze,  per  le  feste  del  Patrono,  era 
accorsa  gran  gente,  e  c'erano  molte  cose  belle  da  osservare;  ma 
di  ciò  che  vide  poco  sì  curò  il  poeta,  a  paragone  della  sua  donna: 
la  quale  già  vi  si  era  recata,  come  oriunda  della  città,  per  invito 
della  sua  famiglia.  E  come,  a  tutta  sua  beatitudine,  ricordò  poi 
il  poeta  l'acconciatura  di  lei!  Mirabilmente  accomodati  erano  i 
biondi  capelli  e  ombreggiavano  soavemente  il  collo  e  le  guancie 
divine.  E  pieno  di  mistero  era  il  ricamo  dell'abito  ch'ella  in- 
dossava: 

Non  fu  senza  sue  lodi  il  puro,  e  schietto 

Serico  abito  nero. 

Che  come  il  sol  luce  minor  confonde, 

Fece  ivi  ogn'altro  rimaner  negletto. 

Deh,  se  lece,  il  pensiero 

Vostro  spiar,  de  l'implicate  fronde 

De  le  due  viti,  d'onde 

11  leggiadro  vestir  tutto  era  ombroso, 

Ditemi  il  senso  ascoso. 

Si  ben  con  l'ago  dotta  man  le  finse, 

Che  le  porpore,  e  Toro  il  nero  vinse. 
Senza  misterio  non  fu  già  trapunto 

Il  drappo  nero,  come 

Non  senza  ancor  fu  quel  gemmato  alloro 

Tra  la  serena  fronte,  e  il  calle  assunto, 

Che  de  le  ricche  chiome 

In  parte  ugual  va  dividendo  l'oro  (1). 


(1)  Opere  cit.,  IV,  p.  155. 


332  ABD-EI.-KADER  SALZA 

Le  viti  hanno  senso  amoroso:  l'Alessandra  vestiva  forse  il  lutto 
del  marito  morto,  quindi  abito  nero;  e  v'eran  su  trapunte  le  viti 
intrecciate,  in  sapiente  ricamo,  a  indicar  i  vincoli  matrimoniali 
forse,  che  per  lei  resistevano  al  di  là  della  morte.  Ma  la  do- 
manda un  po'  indiscreta  dell'Ariosto  fa  vedere  in  lui  il  grato 
sospetto  che  la  donna  a  lui  pensasse  intrecciando  leviti  sull'abito; 
allora,  non  più  il  marito  morto,  ma  l'Alessandra  e  il  poeta.  E 
vogliasi  notare  la  novità  della  poesia;  v'è  qui  del  reale  non  poco: 
il  luogo  e  le  persone  hanno  una  loro  vita,  e  le  circostanze  son 
tutte  proprie  del  tempo.  Quest'Alessandra  cosi  curante  del  sim- 
bolico ornamento  de' suoi  abiti  è  certo  una  donna  del  Cinque- 
cento, e  questo  poeta,  che  di  quell'ornamento  si  studia  di  inter- 
pretare il  senso  recondito,  è  certo  un  innamorato  di  quel  secolo. 
Le  gentildonne  d'allora  parlavano  cosi  ai  loro  innamorati  e 
corteggiatori  ;  e  vai  la  pena  di  ricordare  quel  che  di  un'  altra 
gentildonna,  la  bellissima  Ippolita  Fioramonda  marchesana  di 
Scaldasele  (1),  pavese,  ci  narra  il  Giovio,  in  quel  suo  garbato 
dialogo  delle  Imprese  (2).  Di  lei  s'era  innamorato  un  cavaliere 
francese,  ed  essa,  con  civettuola  eleganza,  portava  spesso  un 
abito  di  raso  celeste,  e  sopra  sparsevi,  in  ricamo,  farfalle  d'oro. 


(1)  Sarà  curioso  rilevare  che  questa  dama  è  certamente  quella  Ippolita 
marchesa  di  Scaldasele,  della  quale  il  Bandelle  dice  che  «  usava  ogni  giorno 
«  bere  un  gran  bicchiere  di  pesto  di  cappone,  per  mantener  morbide  e  belle 
€  le  carni  ».  Questo  pesto,  per  chi  se  ne  interessasse,  era  «  brodo  di  cappone 
«  consumato,  con  le  polpe  ben  peste  e  distemperate  con  zucchero  fino  e  cin- 
«  namomo  polverizzato  mescolato  insieme  »  (Bandello,  iVb»«/fe,nov.  XXXIV, 
voi.  I,  p.  370,  Torino,  Pomba,  1853).  Su  Ippolita,  che  era  figlia  d'Ettore  Fio- 
ramonti,  vedi  Litta,  Famiglie^  voi.  IX:  Famiglia  Malaspina,  tav.  XX.  Questa 
gentildonna  tenne  a  Pavia  un'accademia,  per  la  quale  cfr.  Vittorio  Osimo, 
Costanzo  Laudi  gentiluomo  e  letterato  piacentino  del  sec  XV/(in  Ateneo 
veneto,  anno  XXIII  (1900)  voi.  II,  p.  246).  —  Quanto  poi  all'uso  delle  imprese 
sulle  vesti  muliebri,  si  ricordi  che  nella  seconda  metà  del  '500,  0.  B.  Strozzi 
fece  dei  versi  (e  non  sono  i  soli  del  genere)  per  quelle  trapuntate  e  rica- 
mate sulla  veste  che  a  Bianca  Cappello  donò  Caterina  Strozzi  nei  Frescobaldi. 
(Cfr.  A.  S.  Barbi,  Un  accademico  mecenate  e  potta:  G,  B.  Strozzi  il  giovane, 
Firenze,  Sansoni,  1900,  p.  74). 

(2)  Dialogo  delle  imprese,  Milano,  Antonii,  1559,  e.  5  6,  donde  la  tolse  il 
Le  Moyne,  De  l'art  des  devises,  Paris,  Cramoisy,  1666,  p.  81  sg. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       333 

Il  cavaliere  le  chiese  il  senso  delKorna mento  simbolico,  e  la  donna 
gli  fece  capire  che  era  un  avvertimento  ai  giovani  perchè  non 
le  si  avvicinassero  troppo,  che  farebbero  la  fine  delle  farfalle  al 
fuoco  :  superba  gentildonna,  e  consapevole  della  potente  sua  bel- 
lezza. Tuttavia  il  cavaliere  continuò  a  corteggiarla  e  quando  alla 
battaglia  di  Pavia  fu  ferito  a  morte,  portato  in  città  e  precisa- 
mente nella  casa  della  Marchesana,  come  un  nuovo  Rudel,  «  lasciò 
«  lo  spirito  estremo  suo  nelle  braccia  della  sua  cara  (come  di- 
«  ceva)  signora,  et  padrona  ». 

Ma  torniamo  all'Ariosto,  ed  entriamo  nel  vario  e  mirabile 
mondo  del  suo  poema.  Procediamo  fino  alla  giostra  di  Damasco 
ed  avremo  opportunità  di  vedere  dei  bei  colpi  e  delle  belle  divise. 
Ecco  partir  dall'Egitto  il  buon  Grifone,  il  cavaliere  leale,  dalle 
armi  e  dalle  sopravvesti  e  dal  cavallo  bianco,  come  di  bianco  va 
vestita  la  fata  che  lo  ha  allevato.  Dall'Egitto  egli  traversa  la 
Siria,  perchè  ha  speranza  di  ritrovar  la  sposa,  la  «  perfida  Orri- 
«  gille  ».  L'Ariosto  ci  descrive  il  suo  dolore,  mostrandocelo  ancora 
invaghito  della  moglie  infedele: 

Pianger  de'  quel  che  già  sia  fatto  servo 
Di  duo  begli  occhi  e  d'una  bella  treccia, 
Sotto  cui  si  nasconda  un  cor  protervo 
Che  poco  puro  abbia  con  molta  feccia. 
Vorria  il  raiser  fuggire,  e  come  cervo 
Ferito,  ovunque  va,  porta  la  freccia  (1)  : 
Ha  di  sé  stesso  e  del  suo  mal  vergogna. 
Né  l'osa  dire,  e  invan  sanarsi  agogna 

(XVI,  3). 

Il  cervo,  da  cui  trae  la  similitudine  l'Ariosto,  indicò  già  fin 
dagli  antichi  l'ardore  amoroso:  è  un'allegoria  biblica.  Il  Win- 


(1)  Dal  cervo  trasse  similitudine  amorosa  il  Petrarca,  nel  son.  I  dolci  colli, 
paragonando  sé  stesso  dardeggiato  da  amore  al  cervo  trapassato  da  saetta 
avvelenata. 

OiornaU  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  22 


334  AHD-EL-KADER   SALZA 

ckelmann  (1)  cita  il  Salmista  :  Sicut  cervus  desiderai  ad  fonies 
aquarurrty  e  ricorda  che  anche  il  Correggio,  nel  suo  celebre 
quadro  degli  amplessi  di  Giove  ed  Io,  rappresentò,  simbolo  dei 
piaceri  amorosi,  il  cervo  che  si  disseta  ad  un  ruscello.  Ma,  ad 
indicare  un  amore  insanabile,  si  compose  talora  l'impresa  di  un 
cervo  accosciato  con  una  ferita  al  fianco,  e  dentro  la  freccia; 
poi  gli  si  poneva  in  bocca  un  ramoscello  di  dittamo  per  guarirsi. 
Una  impresa  di  tal  disegno  ha  il  motto  spagnuolo:  Esio  tiene 
su  remedio,  y  non  yo.  È  nella  raccolta  di  Gabriele  Symeoni,  che 
la  spiega  col  tetrastico: 

Trova  il  cervio  ferito  al  suo  gran  male 
Nel  dittamo  Greteo  fido  ricorso. 
Ma  lasso  (io  '1  so)  remedio  né  soccorso 
All'amoroso  colpo  alcun  non  vale  (2). 

Che  corrisponde  a  quel  d'Ovidio: 

Hei  mihi  quod  nullis  amor  est  medicabilis  herbis!  (3). 

Cosi  potrebbe  appunto  dire  l'infelice  Grifone.  La  fortuna,  o  meglio 
la  sfortuna,  lo  fa  incontrare  con  Orrigille,  che,  accompagnata  dal 
drudo  Martano,  è  diretta  a  Damasco,  dove  il  cavalleresco  re  No- 
randino  (il  re  saraceno  nel  quale  l'Ariosto  ha  a  modo  suo  tra- 
vestito il  protagonista  AeWOdissea  alle  prese  con  Polifemo)  (4),  a 
festeggiare  la  liberazione  sua  e  della  sposa,  ha  bandito  una  giostra 
con  ricchi  premi  a  cavalieri  di  ogni  religione.  E  la  superba  Or- 
rigille  vi  si  reca  con  Martano: 


(1)  WiNCKELMANN,  Saggio  sull'allegoria,  p.  512  (in  Opere,  Prato,  Gia- 
chetti,  1831,  t.  VII).  Del  cervo,  se  non  proprio  per  questa  significazione,  si 
occupa  Girolamo  Ruscelli  nelle  sue  Imprese  illustri  (edizione  maggiore, 
Venezia,  Francesco  Franceschi,  1584),  a  proposito  della  impresa  di  Lucrezia 
Gonzaga,  con  riferimento  opportuno  al  Petrarca. 

(2)  Symboni,  Imprese  versificate,  Lione,  1561,  p.  33. 

(3)  Stmeoni,  Imprese  heroiche  e  morali,  Lione,  1559,  p.  53. 

(4)  Gfr.  Rajna,  Le  fonti  dell'Orlando  Furioso^,  pp.  282  sg. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  >>       335 

il  cavalier  venia 
S'un  gran  destrier  con  molta  pompa  ornato: 
La  perfida  Orrigille  in  compagnia, 
In  un  vestire  azzur  d'oro  fregiato, 
I  due  valletti,  d'onde  si  servia 
A  portar  elmo  e  scudo,  avea  a  lato, 
Come  quel  che  volea  con  bella  mostra 
Comparire  in  Damasco  ad  una  giostra 

(XVI,  7). 

Qui  i  colori  dell'altezza  d'animo  {azzurro)  e  della  nobiltà  {oro) 
sono  assunti  a  inganno;  e  Orrigille  inganna  il  credulo  Grifone 
sull'essere  di  Martano,  e  insieme  uniti  procedono  fino  a  Damasco: 

Giunsero  in  piazza  e  trassonsi  in  disparte, 
Né  pel  campo  curar  far  di  sé  mostra. 
Per  veder  meglio  il  bel  popol  di  Marte 
Ch'ad  uno,  o  a  due,  o  a  tre  veniano  in  giostra; 
Chi,  con  colori  accompagnati  ad  arte. 
Letizia  o  doglia  alla  sua  donna  mostra; 
Chi  nel  cimier,  chi  nel  dipinto  scudo 
Disegna  Amor,  se  Vha  benigno  o  crudo. 

(XVII,  72). 

In  questi  ultimi  quattro  versi  si  accenna  alle  divise  e  alle  im- 
prese, usate  anche  da  questi  cavalieri  della  Siria,  perchè,  come 
ci  dice  l'Ariosto  (st.  73),  i  Soriani  in  quel  tempo  si  armavano 
alla  foggia  di  Ponente,  forse  per  la  vicinanza  dei  Francesi.  E 
ripiglia  più  oltre  : 

Io  dicea  ch'in  Soria  si  tenea  il  rito 
D'armarsi  che  i  Franceschi  aveano  allora; 
Si  che  bella  in  Damasco  era  la  piazza 
Di  gente  armata  d'elmo  e  di  corazza  (st.  80). 

Le  donne  gittan  fiori  dai  balconi,  ai  cavalieri,  che,  in  superba  e 
smagliante  cavalcata,  passano  fra  il  suono  degli  oricalchi. 

Si  sa  come  Grifone  vien  tradito  da  Martano  e  da  Orrigille,  che, 


336  ABD-EL-KADER  SALZA 

avendo  avuto  la  palma  del  torneo,  resta  poi  scornato  e  vilipeso, 
finché  non  si  scopre  l'inganno  di  quelli  ed  essi  ne  vengon  pu- 
niti. Son  premio  al  vincitore  certe  splendido  armi  trovate  presso 
Damasco:  son  proprio  quelle  di  Marfisa,  che,  sopraggiunta  con 
Astolfo  e  Sansonetto,  va  in  furia  e  se  le  toglie,  suscitando  prima 
un  tumulto  e  poi  degnandosi  di  far  valere  le  proprie  ragioni 
avanti  a  Norandino: 

Mie  sono  l'arme 

E  la  mia  insegna  testimon  ne  fia 
Che  qui  si  vede,  se  notizia  n'hai: 
E  la  mostrò  nella  corazza  impressa, 
Ch'era  in  più  parti  una  corona  fessa 

(XVUI,  128). 

E  di  diritto  le  armi  le  vengon  restituite:  le  sue  insegne,  benché 
il  suo  valore  fosse  noto  in  tutta  Asia,  non  erano  cosi  conosciute 
come  i  famosi  quartieri  bianchi  e  rossi  di  Orlando. 

Alle  insegne  infatti  e  alla  divisa  si  riconoscono  i  cavalieri. 
Astolfo,  dopo  l'uccisione  di  Orrilo,  è  riconosciuto  dai  tìgli  di  Oli- 
viero «  alle  insegne  e  più  al  ferir  gagliardo  »;  egli  era  noto  in 
Corte  col  titolo  di  «  baron  dal  pardo  »,  il  leopardo,  la  fiera  dalle 
rotelle,  indizio  delle  voglie  variabili  dello  spensierato  paladino  (1) 
(XV,  75).  Grifone  stesso  e  Aquilante  son  conosciuti  perchè  il 
primo  veste  sempre  e  tutto  di  bianco  (2),  e  il  secondo  di  nero, 
come  le  fate  che  li  educarono. 

Due  belle  donne  onestamente  ornate, 
L'una  vestita  a  bianco  e  l'altra  a  nero 

(XV,  72). 

E  quando  Mariano  vuol  usurpare  a  Grifone  l'onore  della  giostra 
di  Damasco, 


(1)  Confronta  anche  Furioso,  XXXIX,  32;  ma  8Ì  ricordi  che  il  leopardo 
d'oro  era  nello  stemma  d'Inghilterra. 

(2)  Confronta  per  Grifone  XVII,  111,  e  per  tutti  e  due  i  guerrieri,  XXXI, 
40,  ecc. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'ARME  E  D'AMORE  NEL  «  FURIOSO  »       337 

ToUe  il  destrier  più  candido  che  latte, 
Scudo  e  cimiero  ed  arme  e  sopravveste, 
E  tutte  di  Grifon  l'insegne  veste 

(XVII,  HO). 

Zerbino,  il  gentile  e  prode  principe  scozzese,  è  riconosciuto  dai 
suoi  fidi  che  recano  prigione  Odorico  traditore  suo  e  d'Isabella, 
specialmente  dalle  insegne: 

Ma  più  che  nello  scudo  il  segno  antico  . 
Vider  dipinto  di  sua  stirpe  altera 

(XXIV,  18). 

E  alle  insegne  e  alle  sopravvesti  Rodomonte  e  Mandricardo,  duel- 
lanti per  gelosia,  son  riconosciuti  dal  messaggio  inviato  loro  da 
Agra  mante  per  richiamarli  al  campo  sotto  Parigi  (XXIV,  119). 

Spesso  avvenivan  dispute  tra  cavalieri,  che  avessero  per  caso 
le  medesime  insegne  e  imprese:  ne  troviamo  un  esempio  nel  Cin- 
quecento stesso,  e  ci  è  narrato  da  Luca  Contile  (1).  Nell'Ariosto 
abbiamo  due  episodi  importanti  dipendenti  da  questa  ragione.  È 
a  memoria  il  bell'episodio  deWOrlando^  dove  Rinaldo  uccide  il 
giovine  e  troppo  ardito  Dardinello  (XVIII,  147-153):  # 

Vide  Rinaldo  il  segno  del  quartiero 
Di  che  superbo  era  il  figliuol  d'Almonte; 
E  lo  stimò  gagliardo  e  buon  guerriero 
Che  concorrer  d'insegna  ardia  col  Conte 

(XVIII,  147). 

E  aggredisce  senz'altro  Dardinello,  cui  furono  allora  fatali  le 
paterne  insegne; 

Grida:  Fanciullo,  gran  briga  ti  diede 
Chi  ti  lasciò  di  questo  scudo  erede. 
Vengo  a  te  per  provar,  se  tu  m'attendi. 
Come  ben  guardi  il  quartier  rosso  e  bianco; 
Che  s'ora  contro  me  non  lo  difendi, 


(1)  In  una  delle  sue  Lettere  dalla  Germania,  che  ora  non  posso  riscontrare. 


338  ABD-EL-KADER   SALZA 

Difender  centra  Orlando  il  potrai  manco. 
Rispose  Dardinello:  Or  chiaro  apprendi 
Che,  s'io  lo  porto,  il  so  difender  anco; 
E  guadagnar  più  onor  che  briga  posso 
Del  paterno  quartier  candido  e  rosso 

(st.  148-149). 

Troppo  audace,  che  al  primo  colpo  furioso  di  Rinaldo  egli  cade, 
fra  il  terrore  de' suoi,  e  parve  fiore  purpureo,  che,  divelto  dal 
vomere,  «  languendo  muore  >  (st.  153).  E  quando  alla  notte  Glo- 
ridano  e  Medoro  vanno  a  cercare  il  cadavere  del  figlio  di  Ai- 
monte,  la  narrazione  si  fa  anche  più  pietosa.  La  notte  è  nuvolosa 
e  l'astro  è  off'uscato;  Medoro  prega  la  dea  che  voglia  apparire 
un  istante  e  svelare  il  luogo  dove  giace  il  giovinetto  re.  E  la 
luna  appare,  quasi  commossa  alla  preghiei-a. 

Bella  come  fu  allor  ch'ella  sofferse 
E  nuda  in  braccio  a  Endimion  si  diede 

(XVlll,  185); 

e  illumina  largamente  all'intorno  il  campo  funesto,  sparso  di  ca- 
da wri  : 

Rifulse  lo  splendor  molto  più  chiaro 
Ove  d'Almonte  giacca  morto  il  figlio. 
Medoro  andò  piangendo  al  signor  caro 
Che  conobbe  il  quartier  bianco  e  vermiglio; 
E  tutto  il  viso  gli  bagnò  d'amaro 
Pianto  (st.  186). 

La  poesia  è  qui  altissima:  Medoro,  bellissimo,  compie  l'atto  pie 
toso,  di  che  gli  dei  gli  serbano  in  mercede  l'amore  di  Angelica 
E  tra  la  luce  candida,  che  la  luna  dà  alla  scena  lugubre,  son 
quasi  visibili  i  quartieri  bianchi  e  rossi  del  figlio  d'Almonte 
muove  da  Dardinello  una  larga  onda  di  poesia  sublime,  nell'Or 
landò  Furioso, 

Un  altro  duello,  per  simile  ragione,  accade  tra  Ruggero  e  Man 
dricardo,  ed  è  anche  questo  tragico,  benché  l'autore  non  v'abbia 


IMPRESE  E  DIVISE  D'ARME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       339 

diffuso  quel  senso  elegiaco,  che  è  nel  precedente  episodio.  La 
lite  tra  1  due  guerrieri  saraceni  si  attacca  in  quel  viaggio  così 
comicamente  arguto,  che  fanno  con  Marflsa  e  Rodomonte,  per 
andare  ad  aiutar  Agramante:  ed  è  con  essi  la  Discordia,  che 
suscita  tra  loro  continue  inimicizie  per  impedirne  l'andata. 

Mandricardo  ne  vien  da  un'  altra  banda 
E  mette  in  campo  un'  altra  lite  ancora, 
Poiché  vede  Rugger  che  per  insegna 
Porta  l'augel  che  sopra  gli  altri  regna. 
Nel  campo  azzur  l'aquila  bianca  avea, 
Che  de'  Trojan!  fu  l'insegna  bella  ; 
Perchè  Rugger  l'origine  traea 
Dal  fortissimo  Ettor,  portava  quella. 
Ma  questo  Mandricardo  non  sapea, 
Né  vuol  sapere,  e  grande  ingiuria  appella, 
Che  nello  scudo  un  altro  debba  porre 
L'aquila  bianca  del  famoso  Ettorre  (1) 

(XXVI,  98-99). 

Già  un'  altra  volta  avevan  litigato  per  questa  insegna  di  Rug- 
gero, che  nel  colore  azzurro  indicava  l'elevatezza  dell'animo  suo, 
e  sé  paragonava  all'aquila  dall'alto  volo;  ed  ora  ci  ritornano  per 
questa  concorrenza.  Ma  si  rappacificano  ancora;  finché  più  tardi 
riprendono  il  duello,  che  deve  riuscir  fatale  a  Mandricardo 
(canto  XXX);  si  aggiunge  allora  la  disputa  per  Durindana.  In- 
darno la  bella  Doralice,  che  s'è  sbarazzata  di  Rodomonte,  ed 
ama  riamata  Mandricardo  (né  l'amore  è  platonico),  indarno,  pre- 


Ci)  L'Ariosto  ci  ricorda  come  mai  Mandricardo  aveva  la  stessa  insegna  : 

Portava  Mandricardo  similmente 
L'augel  che  rapì  in  Ida  Ganimede. 
Come  l'ebbe  quel  dì  che  fu  vincente 
Al  Castel  periglioso,  per  mercede, 
Credo  vi  sia  con  l'altre  istorie  a  mente, 
E  come  quella  fata  gli  lo  diede 
Con  tutte  le  beli'  arme  che  Vulcano 
Avea  già  date  al  cavalier  trojano. 

(XXVI,  100). 


340  ABD-EL-KADER   SALZA 

saga  di  ciò  che  accadrà,  supplica  l'amante  di  lasciare  andar  la 
pugna  (XXX,  31  sgg.);  Mandricardo  non  sente  ragione.  A  un 
tratto,  nella  lotta,  Mandricardo  taglia  pel  mezzo  lo  scudo  di  Rug- 
gero, ov'è  l'aquila  bianca,  e  poi  gitta  via  il  proprio,  in  preda 
all'ira.  E  Ruggero  gli  dice  che  egli  non  è  degno  di  quell'insegna, 
se  la  taglia  e  la  gitta  (XXX,  60-61).  Vince  l'amante  di  Brada- 
mante,  e,  mentre  Mandricardo  muore,  tutti  si  rallegrano  col  vin- 
citore: con  lui  se  ne  va  tutta  la  gente,  e  indovinate  chi  avrebbe 
fatto  lo  stesso,  se  non  l'avesse  trattenuta  il  decoro?  Doralice 
stessa,  dice  l'autore  maligno.  Ruggero  era  bello  e  prode  ed 

Ella,  per  quel  che  già  ne  siamo  esperti, 
Sì  facile  era  a  variar  pensiero 
Che  per  non  si  veder  priva  d'amore, 
Avria  potuto  in  Rugger  porre  il  cuore. 

(XXX,  72). 

«  Io  dico  forse,  non  ch'io  ve  l'accerti  »,  avverte  però  subito  dopo 
il  poeta;  e  noi  rispettiamo  il  lutto  di  Doralice,  tanto  più  che  l'au- 
tore non  ce  ne  dice  altro  in  séguito. 

Parecchi  colori  ci  son  già  passati  dinanzi,  in  questi  episodi, 
onde  Siam  venuti  variando  la  narrazione  nostra  ;  altri  ne  passe- 
remo in  rassegna  adesso;  e  cominciamo  dai  più  nobili. 

Oro  e  argento  {i)  ha  nella  divisa  quell'Ottone  di  Villafranca, 
che  troviamo  nel  secondo  dei  Cinque  canti  staccati  dell'Ariosto. 
Egli  è  un  longobardo,  che  vien  fatto  prigioniero  da  Baldovino 
fratello  uterino  d'Orlando.  Ha  lasciata  sola  nel  castello  la  sposa 
bella  e  casta,  di  cui  s'invaghisce  Penticone  figlio  di  Desiderio. 
Per  mezzo  di  lui  i  Franchi  penetrano  in  Italia,  avendo  cono- 
scenza della  via  da  un  vecchio  cacciatore  devoto  di  Ottone  e 
che  vuol  sottrarne  la  moglie  alle  basse  insistenze  del  principe 
longobardo  : 


(1)  Pel  color  oro  e  argento  nell'Ariosto,  vedi  Ri\ai.i>i.  ce.  28  e  31. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       341 

Era  il  suo  nome  Otton  di  Villafranca, 
Di  lucid'arme,  e  ricche  vesti  adorno, 
Che  la  fida  moglier,  nomata  Bianca, 
In  ricamar  avea  speso  alcun  giorno. 
La  destra  parte  era  oro,  era  la  manca 
Argento,  ed  anco  avean  dentro,  e  d'intorno 
Quella  d'argento  e  questa  in  nodi  d'oro 
Le  note  incomincianti  i  nomi  loro. 

(st.  59). 

Divisa  d'amore  adunque,  e  questa  fedele  Bianca,  che  compone 
di  sua  mano  la  veste  al  marito,  unendovi  i  colori  dell'onore 
(oro)  (1)  e  della  candidezza  (argento)  (2),  è  certo  una  donna  del 
tempo.  Ella,  partito  il  marito,  rimane  sola  al  castello,  ad  atten- 
derne con  ansia  amorosa  il  ritorno.  E  indossa  abiti  che  si  adat- 
tino alla  malinconia  sua,  e  usa  una  foggia  «negletta».  Solo 
quando  vuol  meglio  ingannar  Penticone,  gli  si  mostra  allegra  e 
si  finge  condiscendente:  allora  soltanto 

Ritrova  i  panni  allegri^  e  il  crine,  e  '1  volto 
Quanto  più  sa,  per  più  piacer  rassetta 

(st.  83). 

Il  bianco  è  il  colore  della  lealtà,  della  fede,  oltre  che  del  can- 
dore dell'animo.  Sa  bene  Zerbino  che  cosa  costi  serbar  fede  ad 
una  megera  come  Gabrina,  eppure  gliela  mantiene  per  la  pro- 
messa fatta  a  Marfisa,  anche  a  costo  di  danneggiar  qualche  in- 
nocente. È  questo  il  dovere  del  vero  cavaliere,  né  egli  se  ne 
allontana  punto,  perchè  in  nulla  vuol  macchiare  la  sua  fama  di 
cavaliere  leale: 

Né  fune  intorto  crederò  che  stringa 
Soma  COSI,  né  cosi  legno  chiodo, 
Come  la  fé*,  ch'una  bell'alma  cinga 
Del  suo  tenace  indissolubil  nodo. 


(1)  Vedi  il  sonetto  del  Rinaldi  citato  addietro;  e  vedi  il  Sicillo. 

(2)  Confronta  le  interpretazioni,  da  noi  riferite,  del  Sicillo. 


342  A^D-EL-KADER   SALZA 

Né  dagli  antiqui  par  che  si  dipinga 
La  santa  Fé'  vestita  in  altro  modo 
Che  d'un  vel  bianco  che  la  cuopra  tutta  ; 
Ch'un  sol  punto,  un  sol  neo  la  può  far  brutta 

(XXI,  1)  (1). 

Il  bigio  0  berrettino  è  colore  di  perfidia  e  slealtà,  tutto  Top- 
posto  del  bianco.  Anima  malfida  e  ipocrita,  se  ne  veste,  nei 
Cinque  canti,  Gano,  quando,  reduce  dal  pellegrinaggio  a  Geru- 
salemme dove  è  stato  per  pretesto,  a  sollevar  nel  viaggio  gli 
Ungari  contro  Carlo  che  assedia  Praga,  torna  al  campo  francese, 
co'  suoi  compagni  : 

Umilmente  senza  oro,  e  senza  gemme, 
Ma  di  panni  vestito  grossi  e  bigi 

(e.  II.  133). 

E  qualche  altro  esempio  di  questo  colore   ci   tornerà   acconcio 
riferire  più  oltre. 

Vedemmo  che  Vazzurro,  il  nobile  colore,  il  simbolo  dell'altezza 
di  cuore  e  di  mente,  era  adoperato  da  Ruggero  (2).  Esso  è  usato 
anche  da  Carlo,  quando  guida  i  suoi  alla  battaglia  sotto  Praga: 

L'imperador  di  drappo  azzurro  adorno 
Tutto  trapunto  a  fior  di  gigli  gialli 
Reggeva  il  mezzo 

(Cinque  canti^  V,  10). 


(1)  Il  lettore  si  sarà  già  avveduto  che  io  non  mi  riferisco  quasi  mai  agli 
scrittori  anteriori  al  '500;  quantunque  in  Dante  e  nel  Petrarca  ci  sarebbe 
non  poco  da  spigolare  in  materia  di  colori.  Qui  tuttavia  voglio  richiamare 
la  narrazione  dantesca  dell'apparizione  di  Beatrice  : 

Sovra  candido  vel,  cinta  d'oliva. 
Donna  m'apparve,  sotto  verdt  manto 
Vestita  del  color  di  fiamma  riva, 

dove  i  tre  colori  sono  bensì  quelli  del  vessillo  italiano,  ma  per  Dante  sim- 
boleggiavano, secondo  me,  le  tre  virtù  teologali  :  Fede  (bianco).  Speranza 
(verde)  e  Carità  (rosso)  :  e  l'olivo  è  la  Pace,  in  che  l'uomo  si  acquieta  col- 
i'aiuto  delle  tre  virtù.  Dei  tre  colori,  usati  dal  Magnifico  in  una  impresa,  il 
Botticelli  vestì  la  sua  Pallade.  Cfr.  E.  Ridolpi  in  Arch.  sior.  d.  arte.  Vili,  p.  3. 

(2)  Cfr.  Rinaldi,  c.  15  a. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       343 

Nerazzurro  campeggiano  gli  aurei   gigli,  insegna   del   dominio 
francese. 

Il  hianco  e  il  vermìglio  son  colori  propri i  alle  donzelle  e  ne 
troviamo  largo  uso  nel  Furioso,  con  parecchie  altre  insegne  per 
le  giovani  innamorate  dell'Ariosto.  Il  veì^miglio  è  11  colore  della 
verecondia;  e  la  fanciulla  è  simile  alla  rosa  modesta  nel  nativo 
giardino.  Ruggero,  che  è  un  ardito  amatore,  quando  Astolfo  sfata 
il  secondo  castello  del  mago  Atlante,  ritrovata  la  sua  Bradamante, 
non  sa  frenar  l'impeto  del  suo  cuore: 

Ruggero  abbraccia  la  sua  donna  bella, 
Che  più  che  rosa  ne  divien  vermiglia; 
E  poi  di  su  la  bocca  i  primi  fiori 
Cogliendo  vien  de'  suoi  beati  amori. 
(XXII,  32). 

Ma  non  tutte  le  donne  del  Furioso  son  pudiche  come  la  vi- 
gorosa figlia  di  Montalbano;  e  quante,  per  quest'una,  donne  che 
non  diventan  vermiglie,  no,  per  baci  ricevuti!  (1).  Abbiam  veduto 
in  quel  figurino  simbolico  di  moda  femminile  offertoci  dal  Sicillo, 
come  alle  giovani,  e  in  genere  alle  donne,  egli  consigliasse  l'a- 
bito bianco,  simbolo  di  castità;  e  alcuni  esempi  abbiam  riferiti 
più  addietro.  L'amata  di  Ariodante,  la  bella  Ginevra  di  Scozia, 
andava 

con  veste  candida  e  fregiata 

Per  mezzo  a  liste  d'oro  e  d'ogn'intorno, 
E  con  rete  pur  d'or  tutta  adombrata 


(1)  Non  saprei  che  cosa  il  poeta  volesse  significare  con  la  sopravvesta  di 
Sansonetto  : 

...  un  cavalier che  sopravveste 

Vermiglie  avea  di  bianchi  fior  conteste 

(XXII,  62  e  64). 

Cosi  egli  veste,  quando  va  a  combatter  contro  Ruggero,  essendo  costretto  a 
difender  Pinabello:  forse  indica  la  vergogna  che  egli  ha,  di  combattere  per 
lo  sleale  maganzese. 


344  ABD-EL-KADER   SALZA 

Di  bei  fiocchi  vermigli  al  capo  intorno 
(Foggia  che  sol  fu  da  Ginevra  usata. 

Né  d'alcun'  altra) 

(V.  47). 

L'oro  è  il  segno  della  nobiltà  ;  i  fiocchi  vermigli  che  le  recingono 
la  fronte  sono  simbolo  del  pudore  virginale.  Questa  foggia  di 
Ginevra  indossa  Dalinda ,  seguendo  gì'  infami  consigli  di  Poli- 
nesso,  che  vuol  ingannare  Ariodante.  Quasi  allo  stesso  modo  veste 
Fiordilìgi, 

Che  di  sciàmito  bianco  la  gonnella 
Fregiata  intorno  avea  d'aurata  lista, 

quand'è  dogliosa  per  la  lontananza  di  Brandimarte  suo  (XXXI, 
38).  E,  come  pei  guerrieri,  cosi  anche  per  le  donne,  l'abito  che 
esse  indossano  è  testimone  del  core.  Bradamante  credendosi  ab- 
bandonata e  poi  tradita  da  Ruggero  per  Marfisa,  parte  da  casa 
e  si  fa  una  sopravvesta  adatta  allo  strazio  del  suo  cuore.  E 
proprio  lei  incontra  Fiordiligi,  che  va  in  cerca  di  un  cavaliere 
che  vendichi  il  suo  Brandimarte  contro  Rodomonte,  quando  trova 


Che  sopravvesta  avea  ricca  ed  ornata, 
A  tronchi  di  cipressi  ricamata 

(XXXI,  78). 

Questa  è  quasi  un'impresa:  più  innanzi  l'Ariosto   ci  dice,  che 
Bradamante,  desiderosa  di  non  sopravvivere  all'amor  di  Ruggero, 

tosto  una  divisa 

Si  fé' su  l'arme  che  volea  inferire 
Disperazione  e  voglia  di  morire  (1). 
Era  la  sopravveste  del  colore 
In  che  riman  la  foglia  che  s'imbianca 
Quando  dal  ramo  è  tolta,  o  che  l'umore 


(1)  Cfr.  Rinaldi,  c.  9. 


IMPRESE  E  DIVISE  D*ARME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       345 

Che  facea  vivo  l'arbore  le  manca. 
Ricamata  a  tronconi  era,  di  fuore, 
Di  cipresso  che  mai  non  si  rinfranca 
Poi  c'ha  sentito  la  dura  bipenne; 
L'abito  al  suo  dolor  molto  convenne 

(XXXll,  46-47). 

Il  cipresso,  albero  funerale,  indica,  nei  tronconi  sfrondati  e  non 
più  rigermoglianti,  il  desio  di  morire;  la  foglia  ingiallita  è  quella 
che  ha  perduto  il  suo  verde:  non  più  la  speranza  ha  fior  del 
verde.  —  Più  contenta  ell'era  Bradamante  quando  tornò  a  casa, 
liberata  dal  castello  di  Atlante.  Non  potendo  raggiunger  poi  Rug- 
gero, che  ella  credeva  a  Vallombrosa,  ove  doveva  celebrare  il 
rito  cristiano,  essendo  ella  costretta  a  fermarsi  a  Montalbano, 
pensa  di  mandargli  il  buon  destriero  Frontino,  ch'ella  aveva 
seco  fin  da  quando  Ruggero  aveva  inforcato  l'arcione  dell'Ippo- 
grifo;  e  lasciate  lancia  e  spada,  prende  invece  l'ago: 

Ogni  sua  donna  tosto,  ogni  donzella 
Pon  seco  in  opra,  e  con  sottil  lavoro 
Fa  sopra  seta  candida  e  morella 
Tesser  ricamo  di  finissim'  oro  : 
E  di  quel  cuopre  ed  orna  briglia  e  sella 
Del  buon  destrier 

(XXllI,  23)  (1). 

Il  bianco  è  la  castità  dell'amor  suo,  il  morello  indica,  ci  dice  il 
Rinaldi  nel  suo  sonetto,  «salda  voglia  in  amore»:  amor  saldo 
e  casto  adunque  vuol  Bradamante  indicare  all'amato.  Ma  il  de- 
striero capita  poi  in  mano  di  Rodomonte.  A  proposito  ancora  di 
Bradamante,  è  nota  la  leggiadra  e  ardita  novella  (argomento  che 
la  letteratura  del  Cinquecento  rimaneggiò  in  commedie  (2))  di 
Fiordispina,  figlia  di  Marsilio,  innamorata  di  Bradamante  da  lei 


(1)  Gfr.  Rinaldi,  ce.  18  6  e  24  b. 

(2)  Gfr.  Rajna,  p.  368  sg. 


346  ABD-EL -RADER   SALZA 

credula  uomo,  e  poi  di  Ricciardetto,  che,  somigliante  come  ge- 
mello a  Bradamante  sua  sorella,  può  sostituirlesi  presso  Fiordi- 
spina,  e  godere  dell'amor  suo,  passando  per  donna  agli  occhi  degli 
Spagnuoli.  Quando  Bradamante  parte  da  Fiordispina,  questa, 
addolorata,  le  vuol  fare  almeno  un  dono: 

La  genti)  donna  un  ottimo  ginetto 
In  don  da  lei  vuol  che  partendo  toglia, 
Guernito  d'oro  ed  una  sopravvesta 
Che  riccamente  ha  di  sua  man  contesta 

(XXV,  45). 

Ma  qui  il  poeta  non  si  cura  di  descriverci  la  sopravvesta. 

Un'altra  dolorosa,  ma  più  facilmente  contentabile  poi,  è  Dora- 
lice,  la  figlia  di  re  Stordilano,  quando  si  fa  il  duello  tra  Man- 
dricardo  e  Rodomonte.  All'agone  si  raccolgono  regine,  principesse 
e  dame  del  campo  di  Agramante, 

Tra  quai  di  Stordilan  sedea  la  figlia, 
Che  di  duo  drappi  avea  le  ricche  gonne: 
L'un  d'un  rosso  mal  tinto,  e  l'altro  verde, 
Ma  '1  primo  quasi  imbianca  e  il  color  perde  (1). 

(XXVII,  51). 

Il  morto  affetto  per  Rodomonte,  e  il  nuovo  amore  pieno  di  spe- 
ranza, per  Mandricardo, 

che  più  fiate  e  più  di  piatto 

Con  lei  fu  mentre  il  sol  stava  sotterra 

(st.  106), 

son  cosi  da  lei  simboleggiati:   perchè  la  civettuola   aveva  già 
amato  Rodomonte;  e  vedemmo  che  nemmeno  a  Mandricardo  era 
disposta  a  serbar  lunga  fede. 
Tra  queste  donzelle  è  ben  giusto  che  noi  ricordiamo  la   più 


(1)  Cfp.  Rinaldi,  c.  14  a. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       347 

ardita  e  simpatica  guerriera  deirAriosto,  la  sorella  di  Ruggero, 
la  bella  e  proterva  Marfisa.  Essa  ha  quasi  sempre  per  sua  im- 
presa la  fenice,  il  favoloso  uccello  dalla  vita  rinnovantesi  all'in- 
finito (1).  Cosi  ella  è  incontrata  da  Ruggero,  che  con  Ricciardetto 
e  Aldigieri  dei  Ghiaromonte  va  a  liberare  Malagigi  e  Viviano 
caduti  nelle  mani  dei  Maganzesi: 

E  giunger  quivi  (sul  sentiero)  un  cavalier  mirare, 
Gh'avea  d'oro  fregiata  l'armatura, 
E  per  insegna  in  campo  verde  il  raro 
E  bello  augel  che  più  d'un  secol  dura 

(XXV,  97). 

E  altrove  il  poeta  ci  dice  di  lei. 

Che  portava  l'augel  che  si  rinnova 
E  sempre  unico  al  mondo  si  ritrova  (2) 

(XXVI,  3). 

Quando  Marfisa  si  presenta  a  lottare  con  Bradamante,  ingiusta- 
mente gelosa  di  lei,  ha  ancora  la  Fenice: 

E  sopra  l'elmo  una  Fenice  porta 

(XXXVI,  17). 

Qui  il  poeta  ci  spiega  quel  che  poteva  significare  per  la  guer- 
riera quell'impresa: 

0  sia  per  sua  superbia  dinotando 
Se  stessa  unica  al  mondo  in  esser  forte, 
0  pur  sua  casta  intenzion  lodando 
Di  viver  sempre  mai  senza  consorte 

(XXXVl,  18). 


(1)  Non  mi  curo,  né  sarebbe  qui  il  luogo,  di  ricercare  le  fonti  di  queste 
«  imprese  >  animalesche.  Ogni  bestiario  ci  fornisce  testimonianze  ben  certe. 
Per  la  fenice  cito,  perchè  l'ho  sotto  mano,  Hermann  Varnhagen,  Die 
Quellen  der  Bestidr- Ahschnitte  im  «  Fiore  di  virtù  »  (nella  Raccolta  di 
studi  critici  dedicata  ad  Alessandro  D'Ancona,  Firenze,  Barbèra,  1901, 
p.  533  sgg.). 

(2)  Cfr.  Rinaldi,  c.  49  a. 


348  ABD-EL-KADER   SALZA 

In  questa  lotta,  che  la  gelosia  fomenta,  Bradaraante  ha  la  lancia 
fatata,  che  per  fortuna  la  difende  dai  colpi  terribili  della  biz- 
zarra e  bella  saracena.  Si  sa  che  finalmente,  nella  battaglia  che 
Mori  e  Cristiani  combattono,  Bradamante  incontra  Ruggero  suo: 

Lo  riconosce  all'aquila  d'argento 
Ch'ha  nello  scudo  azzurro  il  giovinetto. 

(XXXVI,  31). 

Il  pensare  che  altra  ne  abbia  l'amore  l'accende  d'ira,  ma  poi, 
venuta  a  lotta,  non  sa  drizzar  contro  di  lui  colpi  dannosi,  e  lo 
mette  in  guardia,  come  fa  egli  stesso:  pietoso  duello,  dove  la 
gelosia  cerca  invano  di  uccider  l'amore.  Ma  col  finir  della  bat- 
taglia cessano  le  pene  di  Bradamante,  perchè  con  una  miracolosa 
agnizione  la  prode  Marfisa  viene  a  riconoscersi  sorella  di  Rug- 
gero (XXXVI,  59  sgg.).  Per  mostrare  la  diffusione  dell'impresa 
di  Marfisa  nel  '500,  si  ricordi  che  la  Fenice  era  l'impresa  del 
celebre  editore  Giolito  (1),  e  del  card.  Madruzzi,  <  gran  Cardinal 
«  di  Trento  e  Principe  d'Imperio  »,  come  lo  dice  il  Contile  (2), 
e  gran  mecenate,  com'era  celebrato  nel  suo  secolo.  Sappiamo  che, 
col  motto  Unica  semper  avis,  l'usò  «  Madame  Alienor  d'Autriche 
«  Royne  douairière  de  Franco»  (3);  e  in  Italia  ancora  la  por- 
tarono Giorgio  Costa  conte  della  Trinità  (4),  e  madama  Bona  di 
Savoia,  che,  col  motto  Sola  facta  solum  deum  sequor,  indicava 
la  sua  religiosa  vedovanza  (5). 

Torniamo  ai  singoli  colori,  per  parlare  del  rosso  (6).  Ardore 


(1)  Lodovico  Domenichi,  Dialogo  delle  imprese^  Milano,  1569,  e.  6  a,  e 
Ruscelli,  Imprese  illustri^  p.  137  sgg. 

(2)  Ragionamento  delle  imprese  cit.,  e.  37  a. 

(3)  Claude  Paradin,  Devises  héroiques,  Lion,  M  D  LVII,  p.  89. 

(4)  Ruscelli  Girolamo,  Imprese  illustri,  p.  220  sgg. 

(5)  Symeoni,  Imprese  versificate^  Lione,  1561,  p.  14.  Circa  settanta  imprese 
con  la  feoice  in  Menestrier,  La  philosophie  des  images^  voi.  II  (Devises 
des  princes  etc),  Paris,  De  la  Gaillc,  1683,  pp.  190-208  e  354-363,  e  M.  A.  Gì- 
NANNI,  L'arte  del  blasone^  Venezia,  Zerletti,  1756,  p.  231,  e  Colombière, 
Science  héro'ique^  p.  363  sg. 

(6)  Per  alcuni  esempi  addotti  in  séguito,  vedi  Rinaldi,  e.  13. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       349 

di  carità  esso  significa  nell'episodio  di  Astolfo  e  S.  Giovanni 
Evangelista.  Questi  è  un  vecchio  venerando,  che  ha  qualcosa 
del  Catone  dantesco: 

Che  '1  manto  ha  rosso,  bianca  la  gonnella, 
Che  l'un  può  al  latte,  e  l'altra  al  minio  opporre, 
I  crini  ha  bianchi,  e  bianca  la  mascella 
Di  folta  barba  ch'ai  petto  discorre; 
Ed  è  si  venerabile  nel  viso 
Ch'un  degli  eletti  par  del  paradiso. 

(XXXIV,  54). 
S.  Giovanni,  quando  vuol  menar  Astolfo  nel  cielo  della  Luna 
per  ricuperare  il  senno  d'Orlando,  aggioga  al  carro 

Quattro  destrier  vie  più  che  fiamma  rossi 

(id.,  69). 

Distruzione  e  furore  il  rosso  indica  in  altro  luogo:  lo  scudo 
d'Atlante  è 

Tutto  coperto  di  seta  vermiglia.  * 

(IV,  17)  (1). 

E  dal  color  rosso  possiam  togliere  occasione  a  parlare  di  due 
episodi  allegorici  dell'Orlando  Furioso.  Dopo  che  Orlando  è  libe- 
rato dalla  passione  per  Angelica,  Rinaldo  resta  invaghito  ancora 
della  bella  e  volubile  principessa  asiatica.  ì^è  la  sua  condizione  è 
meno  ridicola  di  quella  già  del  cugino.  Questi  aveva  avuto  a  sua 
disposizione  Angelica  in  Asia  e  una  goffa,  per  quanto  cavalle- 
resca, timidezza  l'aveva  trattenuto,  né  mai  Angelica  l'aveva  amato  ; 
ma  Rinaldo,  amato  follemente  da  lei  per  magia,  l'aveva  disprez- 
zata e  odiata  e  l'amava  ora  che  essa  lo  aveva  in  odio.  Quando 
da  Malagigi  viene  a  sapere  di  chi  essa  è,  non  ne  impazzisce  già, 
e  forse  solo  pel  soccorso  straordinario  che  gli  dà  il  cugino  mago. 
Lo  assale  furibonda  la  gelosia: 


(1)  E  cfr.  canto  Vili,  11. 

Giornale  storico,  XXXVIII,  fase.  114. 


350  ABD-EL-KADER   SALZA 

Miirocchi  in  capo  avea  senza  palpebre; 

Non  può  serrarli  e  non  crede  che  dorma: 

Non  men  che  gli  occhi  avea  l'orecchie  crebre  ecc. 

(XLII,  47). 
Essa  lo  tormenta  a  tal  segno,  che  egli  ne  finirebbe  male; 

Ma  lo  soccorse  a  tempo  un  cavaliero 
Di  bello  armato  e  lucido  metallo. 
Che  porta  un  giogo  rotto  per  cimiero: 
Di  rosse  fiamme  ha  pien  lo  scudo  giallo; 
Così  trapunto  il  suo  vestire  altiero. 
Cosi  la  sopravvesta  del  cavallo: 
La  lancia  è  in  pugno  e  la  spada  al  suo  loco 
E  la  mazza  all'arcion  che  getta  fuoco 

(id.,  53). 

Con  queste  armi  straordinarie  il  cavaliere  abbatte  il  mostro,  da 
cui  Rinaldo  non  sapeva  liberarsi;  e  poi  che  gli  ha  fatto  bere 
l'acqua  dell'odio,  svela  il  proprio  nome  (il  lettore  l'ha  già  detto), 
che  è  lo  Sdegno,  Lo  sdegno  vince  la  gelosia,  e  quando  questa  è 
spenta,  non  è  più  luogo  all'amore,  anzi  al  sentimento  opposto. 
Il  rotto  giogo  indica  l'amore  spezzato;  i  colori  rosso  e  giallo  sono 
appunto  il  simbolo  dell'ira. 

Ad  una  più  ampia  significazione  allegorica  ci  conduce  l'episodio 
di  Alcina;  ma  noi  non  vogliamo  dirne  tutta  l'allegoria,  che  è  del 
resto  conosciuta.  Tuttavia  lo  studio  dei  colori,  in  questo  passo 
del  poema,  può  servire  ad  illustrarlo  meglio.  Quando  Ruggero  è 
in  lotta  ineguale  con  lo  «  stuol  villano  >,  che  impedisce  il  pas- 
saggio al  regno  di  Logistilla  (tutta  la  laida  e  turpe  famiglia  dei 
vizi),  si  presentano  a  lui,  cioè  lo  distolgono  dall'ardua,  ma  ono- 
rata impresa,  due  belle  giovani,  la  Beltà  e  la  Leggiadria,  come 
lo  stesso  poeta  lascia  intendere: 

Due  giovani  ch'ai  gesti  ed  al  vestire 
Non  eran  da  stimar  nate  umilmente. 
Né  da  pastor  nutrite  con  disagi, 
Ma  fra  delizie  di  real  palagi. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  d'aMORE  NEL  €  FURIOSO  »       351 

L'una  e  l'altra  sedea  s'un  liocorno 
Candido  più  che  candido  armellino, 
L'una  e  l'altra  era  bella  e  di  sì  adorno 
Abito  e  modo  tanto  pellegrino, 
Che  all'uom,  guardando  e  contemplando  intorno. 
Bisognerebbe  aver  occhio  divino 
Per  far  di  lor  giudizio:  e  tal  sar'ia 
Beltà  (s'avesse  corpo)  e  Leggiadria 

(VI,  68-69;. 

Il  liocorno,  secondo  ci  dice  il  Rinaldi  (1),  indica  amor  casto  e 
sincero,  ed  era  reputato  animale  amante  delle  vergini:  qui  s'in- 
tende che  il  simbolo  è  falsamente  assunto  dalle  due  giovani  che 
voglion  sedurre  Ruggero.  Sulla  soglia  e  sotto  il  colonnato  del 
palazzo  d'Alcina,  fra  lo  scintillio  dell'oro  e  dei  diamanti,  onde 
quello  è  tutto  folgorante,  vanno  scherzando,  incuranti  della  mu- 
liebre modestia,  che  le  abbellirebbe  di  più,  «  lascive  donzelle  »: 

Tutte  vestite  eran  di  verdi  gonne 
E  coronate  di  frondi  novelle 

(VI,  72)  (2). 

Esse  sono  il  simbolo  della  giovinezza  incauta  e  spensierata,  pro- 
clive al  piacere,  e  tutta  lieta  di  lusinghiere  speranze  :  e  v'è 
nel  loro  aspetto  promessa  di  lunghi  e  soavi  dilettamenti.  Ma  il 
piacere  è  caro:  il  palazzo  d'Alcina  è  il  palazzo  della  ricchezza 
e  dei  godimenti  che  essa  può  comperare,  e  Ruggero  deve  vincere 
Erifllla,  la  quale,  a  chi  è  chiaro  il  «  lume  del  discorso  »,  come 
dice  il  poeta,  rappresenta  l'avarizia: 


(1)  Opera  cit.,  e.  58  a.  E  vedi  il  liocorno  assunto  ad  impresa  da  Ruggero 
sulla  fine  deìV  Orlando.  Il  costume  del  liocorno  di  amare  le  vergini  gli  è 
attribuito  nei  bestiari,  benché  in  alcun  luogo  lo  si  interpreti  come  intem- 
peranza, anziché  come  gentilezza.  Cfr.  Varnhagen,  p.  535.  Nel  '500  si  ebbe 
un  Discorso  dell'alicorno  di  Andrea  Bacci,  nel  quale  si  tratta  della  na- 
tura delValicorno  e  delle  sue  virtù  eccellentissime^  Firenze,  1573.  V.  anche 
Devarennes,  Le  roy  d'armes^  p.  151  sg.  Il  liocorno  è  ai  piedi  di  Santa 
Giustina,  nel  famoso  dipinto  di  Aless.  Bonvicino  detto  il  Moretto,  nella  Gal- 
leria Imper.  di  Vienna  (v.  la  riprod.  in  Ardi.  star.  d.  arte,  V,  p.  14). 

(2)  Cfr.  Rinaldi,  ce.  6  b-1  a. 


352  ABD-EL-KADER   SALZA 

Queirera  armata  del  più  fin  metallo 
Chavean  di  più  color  gemme  distinto; 
Rubin  vermiglio,  crisolito  giallo, 
Verde  smeraldo,  con  flavo  jacinto. 

(VII,  3). 

Cavalcava  un  lupo,  simbolo,  da  Dante,  dell'avarizia: 

La  sopravvesta  di  color  di  sabbia 
Su  Tarme  avea  la  maledetta  lue, 

(id.,  4). 
a  indicare  l'aridità,  la  grettezza, 

Ed  avea  nello  scudo  e  nel  cimiero 
Una  gonfiata  e  venenosa  botta  (1). 

(id.,  5). 

Vinta  Tavarizia,  Ruggero  può  entrar  nel  palazzo  del  piacere; 
nella  sala  d'Alcina,  dopo  il  banchetto,  si  fa  un  giuoco  che  noi 
conosciamo  già,  il  giuoco  dei  segreti,  per  mezzo  del  quale  Alcina 
e  Ruggero  si  manifestano  il  loro  amore: 

Tolte  che  fur  le  mense  e  le  vivande, 
Facean,  sedendo  in  cerchio,  un  giuoco  lieto, 
Che  nell'orecchio  l'un  l'altro  dimande. 
Come  più  piace  lor,  qualche  secreto; 
Il  che  agli  amanti  fu  comodo  grande 
Di  scoprir  l'amor  lor  senza  divieto; 
E  furon  lor  conclusioni  estreme 
Di  ritrovarsi  quella  notte  insieme 

(VII,  21). 

Abbiam  veduto  alcune  imprese  e  divise  di  donzelle,  nell'Ariosto; 
veniamo  ora  a  quelle  dei  cavalieri.  Nel  quinto  dei  Cinque  canti 


(1)  Anche  la  «  botta»,  il  rospo,  simboleggia  l'avarizia,  per  quel  che  nei 
bestiari  si  registra,  che  esso  si  ciba  di  sola  terra,  e  non  si  toglie  mai  la 
fame,  per  timore  che  la  terra  gli  abbia  a  mancare.  Cfr.  Varnhaoen, 
pp.  524  sg.  Il  rospo  è  in  una  silografia  d'una  stampa  d'Orvieto  del  1583, 
presso  una  donna  che  raffigura  l'avarizia.  Cfr.  D.  Tordi  in  BoUett.  della 
R.  Deput.  di  Storia  patria  per  V  Umbria,  VII,  255. 


IMPRESE  E  DIVISE  D'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       353 

(st.  46),  nella  battaglia  che  si  combatte  tra  Orlando  e  Rinaldo, 
in  séguito  ai  raggiri  di  Gano,  Rinaldo,  che  si  vede  a  torto  per- 
seguitato da  Carlo,  ritrae  nella  sopravveste  il  suo  pensiero: 

Rinaldo,  (che)  quel  dì  molto  era  adorno 
D'un  ricco  drappo  di  color  cilestro 
Sparso  di  pecchie  d'or  d'entro  e  d'intorno, 
Che  scacciate  parean  dal  natio  loco 
Da  l'ingrato  villan  con  fumo  e  foco. 

È  un'  impresa  che  vedremo  ancora  più  oltre:  Rinaldo  vi  rappre- 
senta sé  (ape  aurea)  molestato  ingratamente  da  Carlo,  nonostante 
il  suo  puro  ed  elevato  intendimento. 

Orlando  è  noto  per  la  sua  divisa  a  quartieri  bianchi  e  rossi; 
ma  più  volte  la  depone,  quando  vuol  viaggiare  incognito.  Cosi 
allorché,  nei  Cinque  canti,  vuol  liberare  sua  cugina  Bradamante, 
che  sa  prigioniera  di  Gano  (e,  pur  conoscendo  che  costui  ha 
usato  malizia,  sa  che  Carlo  gli  ha  dato  pieni  poteri),  per  non 
farsi  riconoscer  da  nessuno  e  non  parer  contrario  a  Carlo,  as- 
sale la  squadra  di  Gano  con  armi  mutate: 

Né  Brigliador,  né  Valentino  prese. 
Perchè  troppo  ambi  conosciuti  furo, 
Ma  di  pel  bigio  un  gran  corsiero  ascese, 
Gh'avea  il  capo,  e  le  gambe,  e  '1  crine  oscuro. 
Lasciò  il  quartiere,  e  l'altro  usato  arnese 
E  tutto  si  vesti  d'un  color  puro 

(III,  82). 

E  non  si  fa  conoscere  neppure  dalla  liberata  Bradamante.  Il 
bigio  cavallo  simboleggia  il  mistero  ond'egli  si  circonda;  il  color 
puro  (candido  probabilmente)  della  veste  indica  la  sua  buona 
intenzione,  la  sua  lealtà  contrapposta  alla  malizia  di  Gano.  Nella 
battaglia  poi,  che  combatte  con  Rinaldo,  ha  questa  divisa,  che 
è  la  solita  con  impresa  diversa: 

Bianca  e  vermiglia  avea  la  sopravveste, 
Ma  di  ricamo  d'or  tutta  contesta. 


354  ABD-EL-KADER   SALZA 

Ne  l'un  quartiere,  e  l'altro  la  figura 
D'un  rilevato  scoglio  avea  ritratta. 
Che  sembra  dal  mar  cinto,  e  che  non  cura, 
Che  sempre  il  vento,  e  l'onda  lo  combatta 

(V,  48-49). 

Questa  impresa  d'Orlando  è  a  noi  nota  d'altronde,  ed  è  legata 
al  nome  gentile  di  'Vittoria  Colonna.  Anch'ella  aveva  per  impresa 
gli  scogli  che  rompono  i  flutti  onde  sono  assaliti,  col  motto  Co- 
nantia  frangere  frangunt.  Il  Symeoni  vi  compose  questo  suo 
tetrastico: 

Come  scoglio  percosso  in  mezzo  l'onde 
Che  l'onde  istesse  da  sé  sbatte  et  spezza. 
Cos'i  salda  virtiì  discaccia  et  sprezza 
Tutte  opre  et  voglie  illecite  et  immonde  (1). 

Quando  Orlando,  dopo  il  sogno,  onde  gli  è  parsa  Angelica  in  pe- 
ricolo, abbandona  Carlo,  nel  momento  che  ha  più  bisogno  di  lui, 
per  andare  al  soccorso  della  donna,  per  non  esser  conosciuto  e 
perchè  non  gliene  derivi  biasimo  dì  vigliacco,  non  prende  le 
note  insegne  sue, 

l'onorata  insegna  del  quartiero 

Distinta  di  color  bianchi  e  vermigli. 
Ma  portar  volse  un  ornamento  nero, 
E  forse  a  ciò  ch'ai  suo  dolor  simigli  : 
E  quello  avea  già  tolto  a  un  Amostante 
Ch'uccise  di  sua  man  pochi  anni  innante. 

(Vili,  85). 

Cosi  «  vestito  a  negro  »  (IX,  2),  concie  vuole  il  suo  dolore, 

Avendo  in  dosso  l'abito  arabesco, 

(IX,  5) 


(1)  Symeoni,  Imprese  versificate,  Lione,  1561,  p.  118.  Un'altra  impresa 
della  Colonna,  di  simbolo  uguale,  fu  il  ginepro  che  rigido  oppone  i  suoi  irti 
rami  alla  impetuosa  raffica.  Vedi  il  suo  Cantoniere^  son.  CXIIl: 

Qael  b«l  ginepro  cai  dMotorno  cinge. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       355 

può  correre  tutto  il  campo  saraceno,  alla  ricerca  di  Angelica, 
senza  soffrir  danno.  Ancora,  nel  passo  che  citeremo,  si  nota  la 
corrispondenza  tra  lo  stato  psichico  di  Orlando  e  la  sua  divisa. 
Dopo  la  strage  che  egli  fa,  sotto  le  false  insegne,  di  due  squadre 
d'Agramante,  uno  scudiero  moro,  richiesto  della  sopravveste  del 
misterioso  cavaliere,  risponde: 

Quella  è  tutta  nera, 

Lo  scudo  nero,  e  non  ha  alcun  cimiero. 
E  fu,  signor,  la  sua  risposta  vera. 
Perchè  lasciato  Orlando  avea  il  quartiero: 
Che  come  dentro  Tanimo  era  in  doglia 
Cosi  imbrunir  di  fuor  volse  la  spoglia. 

(XIV,  33)  (1). 

Quando  poi  impazzisce,  gitta  via  tutte  le  armi  e  fa  a  pezzi  la 
sopravveste:  tutto  è  trovato  da  Zerbino  e  dall'amorosa  Isabella, 
che  vanno  in  cerca  di  lui,  cui  debbon  tanto: 

Trovò  (Zerbino),  ma  in  pezzi,  ancor  la  sopravvesta, 
Ch'in  cento  lochi  il  miser  conte  sparse 

(XXIV,  50). 

Mandricardo,  che  approfittando  della  pazzia  d'Orlando,  s'è  presa 
Durindana,  spiega  a  Gradasso  che  la  vuole,  che  egli  l'ha  vinta 
con  sudore  a  Orlando;  e  insulta  il  paladino,  che,  secondo  lui,  s'è 
finto  pazzo  per  paura: 

E  dicea  ch'imitato  avea  il  Castore, 
Il  qual  si  strappa  i  genitali  sui. 
Vedendosi  alle  spalle  il  cacciatore. 
Che  sa  che  non  ricerca  altro  da  lui 

(XXVII,  57). 

Ci  si  lasci  ricordare  che  il  castoro  fu  assunto  come  impresa,  né 
Sìppiamo  perchè,  da  Paolo  Giovio,  che  tante   imprese    migliori 


(1)  Cfr.  anche  XIV,  38. 


356  ABD-EL-KADER   SALZA 

aveva  fatte  ad  altri,  per  se  medesimo,  col  motto  greco  ANAFKI 
(necessitas)  (1). 

Un  altro  animale,  la  fiera  più  superba,  assunse  con  bella  im- 
presa Rodomonte,  a  indicar  sé,  il  leone,  vinto  e  domato  dalla 
bellezza  di  Doralice: 

Nella  bandiera,  ch'è  tutta  vermìglia, 
Rodomonte  di  Sarza  il  leon  spiega, 
Che  la  feroce  bocca,  ad  una  briglia. 
Che  gli  pon  la  sua  donna,  aprir  non  ni^a: 
Al  leon  sé  medesimo  assomiglia, 
E  per  la  donna  che  lo  frena  e  lega. 
La  bella  Doralice  ha  figurata, 
Figlia  di  Stordilan  re  di  Granata 

(XIV,  114). 

Ma  la  bella  spagnuola  è  volubile,  e  il   fiero  Rodomonte  dovrà 
presto  mutar  l'ardente  color  vermiglio  nel  doloroso  nero  (2). 

Ed  eccoci  al  simbolo  del  lutto.  Qualche  secolo  più  tardi,  Vit- 
torio Alfieri,  dopo  aver  trattato  il  vitalizio  con  la  sorella,  assu- 
mendo per  sempre  gli  abiti  neri,  scriveva: 

Negri  panni,  che  sete  ognor  di  lutto, 
0  vero  0  finto,  appo  ad  ogn*altri  insegna, 
lo  per  sempre  vi  assumo  oggi  che  degna 
Libertà  vera  ho  compra  al  fin  del  tutto  (3). 

Ma  FAlfieri  amava  spesso  andar  contro  l'uso  generale.  —  Nel- 


(1)  Symeoni,  Imprese  versificate,  p.  126,  e  Winckelmann,  Saggio  sulVnl- 
legoria  cit.,  p.  317.  Gfr.  anche  Rinaldi,  c.  41  h.  Anche  pel  castoro  soccorre 
la  tradizione  dei  bestiari',  vedi  ancora  Varnhagen,  p.  520. 

(2)  Non  ci  tratteniamo  a  parlare  di  tutte  le  insegne  che  l'Ariosto  dà  ai 
suoi  guerrieri,  nella  rassegna  dell'esercito  saraceno  (canto  XIV),  e  in  quella 
dell'esercito  d'Inghilterra  (X,  77-89):  poco  c'importano,  perchè  i  guerrieri 
che  le  hanno  non  sono  a  noi  noti  per  episodi  speciali  del  poema:  e  poco 
quindi  ci  direbbe  il  simbolo  delle  loro  insegne. 

(3)  ViTT.  Alfieri,  Prose  e  poesie  scelte,  ed.  Giovanni  Mestica,  Milano, 
Hoepli,  1898,  p.  246  sg. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'ARME  E  d'AMORE  NEL  «  FURIOSO  >       357 

l'Ariosto  il  nero  è  invece  sempre  simbolo  di  dolore  e  di  morte. 
Di  nero  Isabella,  la  soave,  ha  ammantato  il  feretro  del  suo  Zer- 
bino ucciso  da  Mandricardo;  e  cosi  la  vede  venir  Rodomonte, 
che  per  lei  si  riconcilia,  ma  invano,  col  sesso  più  gentile: 

Vide  venir  per  mezzo  un  prato  erboso, 
Che  d'un  piccol  sentiero  era  segnato. 
Una  donzella  di  viso  amoroso 
In  compagnia  d'un  monaco  barbato; 
E  si  traeano  dietro  un  gran  destriero 
Sotto  una  soma  coperta  di  nero 

(XXVIII,  95). 

Di  nero  si  veste  Ariodante,  quando 

Con  non  usate  insegne  e  sconosciute 

(V,  77), 

va  a  difender  Ginevra  contro  il  proprio  fratello  Lurcanio.  Egli, 
quand'ebbe  deciso  di  farsi  uccidere  per  mano  di  Lurcanio,  ca- 
gionando cosi  anche  la  morte  di  Ginevra  (che  avrebbe  avuto  il 
dolore  di  veder  lui  amante  tradito  venuto  a  morte  in  sua  difesa). 

Nuove  arme  ritrovò,  nuovo  cavallo; 
E  sopravveste  nere,  e  scudo  nero 
Portò  fregiato  a  color  verdegiallo 

(VI,  13). 

Univa  cosi  il  simbolo  delle  sue  cadute  speranze  (verdegiallo)  a 
quello  del  suo  immenso  dolore. 

E  di  nero  veste  Olimpia,  l'eroina  del  dramma  di  Bireno,  quando 
Orlando  l'incontra  per  la  prima  volta  e  le  promette  di  vendicarla 
contro  il  re  Gimosco,  quello  dall'infernale  ordigno  (fucile): 

Una  donna  trovò  piena  di  lutto. 
Per  quanto  il  viso  ne  facea  segnale, 
E  i  negri  panni  che  coprian  per  tutto 
E  le  logge  e  le  camere  e  le  sale 

(IX,  21). 


358  ABD-EL-KADER   SALZA 

Ella  fa  lutto  del  padre  e  dei  fratelli,  che  le  furono  uccisi   dal 
crudele  re  di  Frisa  (1). 

Anche  quella  trista  befana  di  Gabrina  apparo  a  Marfìsa  vestita 
in  «  negra  gonna  », 

Che  stanca  e  lassa  era  di  lunga  via. 
Ma  vieppiù  afflitta  di  malinconia 

(XX,  106). 

Eppure  meglio  le  sta  quell'abito  di  dolore,  che  non  la  ricca  e 
ornata  vesta  della  donzella  «  vezzosa  »  e  «  mal  usa  »,  compagna 
di  Pinabello  di  Magonza,  e  che  la  bizzarra  Marfìsa  le  fa  indos- 
sare, rendendola  simile  ad  una  bertuccia  vestita  a  muover  riso  (2). 
Anche  nei  cavalli  il  colore  è  insegna  dei  sentimenti  del  cava- 
liero.  No  abbiam  già  veduto  uno  bigio;  un  cavallo  quasi  tutto 
nero  indica  la  tristezza  di  Guidon  Selvaggio,  lo  schiavo  dfeUe 
donne  autocrate: 

Quel  (Guidone)  venne  in  piazza  «opra  un  gran  destriero 
Che  fuor  ch'in  fronte  e  nel  pie  dietro  manco, 
Era,  più  che  mai  corbo,  oscuro  e  nero: 
Nel  pie  e  nel  capo  avea  alcun  pelo  bianco. 
Del  color  del  cavallo  il  cavaliero 
Vestito,  volea  dir  che,  come  manco 
Dell'oscuro  era  il  bianco,  era  altrettanto 
11  riso  in  lui  verso  l'oscuro  pianto 

(XIX,  79)  (3). 


(1)  E  cosi  al  e.  XIV,  st.  7,  l'Ariosto  ricorda,  parlando  delle  gesta  d'Alfonso 
d'Este,  i  «  rammarichi  »  e  le  <  angosce  » 

Oh'  in  veste  bruna  e  lacrimosa  guancia 
Le  vedovelle  fan  per  latta  Francia. 

(2)  Anche  Ermonide  d'Olanda,  una  vittima  di  Gabrina,  che  lo  fa  uccidere 
da  Zerbino, 

Per  insegna  ha  nello  scodo  nero 
Attraversata  nna  vermiglia  banda 

(XXI,  5). 

(3)  Il  «  cavalier  bruno  »  (st.  93),  il  <  cavalier  dal  nero  »  (st.  95)  sono  i 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »       359 

Indica  l'indole  di  Marfisa  il  cavallo,  che  essa  ha  avuto  in  dono 
da  Norandino,  e  sul  quale  giunge  coi  Paladini  di  Francia  a  La- 
jazzo,  dove  dominano  le  donne  e  si  trova  Guidon  Selvaggio: 

Entrò  Marfisa  s'un  destrier  leardo, 
Tutto  spareo  di  macchie  e  di  rotelle, 
Di  piccol  capo  e  d'animoso  sguardo. 
D'andar  superbo  e  di  fattezze  belle 

(XIX,  77). 

Grande  sfoggio  di  color  nero  fa  l'Ariosto  per  la  luttuosa  ten- 
zone di  Lampedusa,  intorno  a  Brandimarte  che  vi  doveva  lasciar 
la  vita: 

Pel  dì  della  battaglia  ogni  guerriero 
Studia  aver  ricco  e  nuovo  abito  indosso. 
Orlando  ricamar  fa  nel  quartiero 
L'alto  Babel  dal  fulmine  percosso, 
Un  can  d'argento  aver  vuole  Oliviero  (1) 
Che  griccia  e  che  la  lassa  abbia  sul  dosso, 
Con  un  motto  che  dica:  Finche  vegna: 
E  vuol  d'oro  la  vesta  e  di  sé  degna 

(XLI,  30). 

Il  simbolo  è  qui  facile:  Orlando  dimostra  sé  colpito  dal  castigo 
di  Dio  e  solo  per  misericordia  di  lui  risollevato;  Oliviero  indica 
fedeltà  e  candidezza  d'animo.  Brandimarte  invece  volle  esser 
vestito  di  nero,  per  lutto  del  padre;  e  le  divise  gli  ricamò  la  sua 
Fiordiligi;  ma  v'è  nell'invenzione  del  poeta  il  presentimento  della 
morte  di  lui,  tanto  che  ci  dice  che  Fiordiligi,  nel  lavorar  la  di- 
visa e  dopo,  non  potè  più  far  segno  di  riso   e  d'allegrezza  del 


nomi  che  gli  dà  l'Ariosto.  Ricompare  Guidone  a  duellare  alla  pari  con  Ri- 
naldo nel  canto  XXXI,  ed  è 

Con  scudo  e  soprawesta  tutta  nera 
Se  non  che  per  traverso  ha  un  fregio  bianco 
(8t.  8). 

(1)  Cfr.  Rinaldi,  c.  31  b  e  pel  color  d'argento  e.  31. 


360  ABD-EL-KADER  SALZA 

volto  (st.  31-32)  (1).  Oh  come  ella  dovrà  ricordare  i  baci  e  gli 
abbracci  ultimi!  Un  triste  sogno  le  fa  preveder  la  sciagura,  il  di 
prima  della  morte  dello  sposo: 

La  notte  che  precesse  questo  giorno 
Fiordiligi  sognò  che  quella  vesta 
Che  per  mandarne  Brandimarte  adomo, 
Avea  trapunta  e  di  sua  man  contesta, 
Vedea  per  mezzo  sparsa  e  d'ogn'intorno 
Di  goccie  rosse,  a  guisa  di  tempesta: 
Parea  che  di  sua  man  così  l'avesse 
Ricamata  ella  e  poi  se  ne  dolesse 

(XLIII,  155). 

E  nei  sogno  non  sapeva  spiegarsi  perchè  non  l'avesse  ricamata 
tutta  nera,  secondo  il  desiderio  di  Brandimarte: 

Di  questo  segno  fe'giudicio  rio 

(st.  156). 

I  funerali  di  Brandimarte  si  fanno  da  Orlando  presso  Agrigento. 
Non  so  se  è  stalo  osservato  che  Orlando  nel  suo  lamento: 

0  forte,  0  caro,  o  mio  fedel  compagno  ecc. 

(id.,  170) 

ricorda  da  presso  Achille  dolorante  sul  morto  Patroclo.  La  bara 
ò  portata  da  conti  e  cavalieri  : 

Purpurea  seta  la  copria,  che  d'oro 
E  di  gran  perle  avea  compassi  altieri: 
Di  non  men  bello  e  signoril  lavoro 
Avean  gemmati  e  splendidi  origlieri; 
E  giacca  quivi  il  cavalier  con  vesta 
Di  color  pare  e  d'un  lavor  contesta 

(8t.  176). 


(1)  Già  la  buona  Fiordiligi  aveva  indossato  vestiti  neri,  quando,  avendo 
saputo  che  Brandimarte  era  prigione  di  Rodomonte  in  Algeri,  ne  era  andata 
in  cerca  (XXXIX,  38). 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  d'aMORE  NEL  «  FURIOSO  »      361 

Il  corteo  è  di  uomini  vestiti  a  bruno  con  lunghi  abiti, 

E  i  cavalli  coi  paggi  ivano  il  suolo 
Radendo  col  loro  abito  di  duolo 

(st.  177)  (1). 

Seguono  e  precedono  bandiere  e  insegne  guadagnate  dall'eroe 
morto,  e  scudi  da  lui  tolti  ai  vinti  guerrieri.  La  sventurata  Fior- 
diligi  fece  alzare  il  sepolcro 

E  nel  sepolcro  fé' fare  una  cella 

E  vi  si  chiuse  e  fé'  sua  vita  in  quella 

(st.  183). 

Né  visse  più  molto. 

Ad  una  impresa  senza  nero  ricorre  Ruggero  alla  fine  del  poema, 
quando,  disperando  di  sposar  Bradamante,  va  a  guerreggiar  contro 
Leone  (2).  Prende  le  armi  già  di  Ettore,  da  lui  tolte  a  Mandri- 
cardo,  e  Frontino: 

E  cimier  muta,  scudo  e  sopravveste. 

A  questa  impresa  non  gli  piacque  torre 

L'aquila  bianca  nel  color  celeste. 

Ma  un  candido  liocorno  come  giglio 

Vuol  nello  scudo  e  '1  campo  abbia  vermiglio 

(XLIV,  77)  (3). 

Con  la  quale  impresa  voleva  certo  il  disperato  amatore  dimostrar 
la  purezza  e  l'ardore  del  suo  affetto. 

Il  poema  si  chiude  con  quella  solenne  sinfonia,  in  cui  è  cozzar 
di  spade  e  lancie  e  fragore  di  scudi  percossi.  Quasi  la  lena  del 
poeta  non  sia  stanca  per  tanta  e  si  mirabile  fioritura  di  stanze 
e  guerresche  e  amorose,  egli  ci  fa  sentire  ancora  la  poesia  sua 


(1)  Per  questi  esempì  di  color  nero  in  segno  luttuoso,  cfr.  Rinaldi,  ce.  19&-20. 

(2)  Non  saprei  che  cosa  voglia  inferire  l'impresa  del  nipote  di  Costantino, 
che  aveva  nella  veste  vermiglia  ricamata  una  pannocchia  che  pareva  di 
miglio  (XLIV,  86). 

(3)  Cfr.  anche  st.  96,  e  e.  XLVI,  26. 


362  ABD-EL-KADER   SALZA 

altissima  in  un  episodio  meraviglioso  per  verità  e  vigoria  di  de- 
scrizione; è  la  lotta  più  umana  che  noi  vediamo  neWOrlando: 
Rodomonte  e  Ruggero,  e  quegli  è 

Tutto  coperto  egli  e  '1  destrier  di  nero 
Di  gran  persona  e  di  sembiante  altero 

(XLVI,  101). 

Il  nero  egli  porta  dacché  ha  uccisa  la  sua  seconda  amata,  la 
dolorosa  Isabella;  e  non  possiamo  non  riconoscere  che  il  poeta 
ha  dato  al  furibondo  Rodomonte  dei  tratti  di  profonda  umanità, 
che  non  ce  lo  fanno  odiare.  Il  poema  delle  armi  e  degli  amori 
si  chiude  solennemente  con  fragor  d'armi,  pur  nella  festa  gio- 
conda delle  nozze. 

Ben  è  tempo  che  noi  concludiamo  questa  nostra  chiacchierata, 
che  avrà  già  annoiato  i  lettori.  —  Tanto  era  comune  l'uso  delle 
imprese  e  del  linguaggio  simbolico,  che  l'Ariosto  ne  volle  far 
qualcuna  per  sé  medesimo.  Lodovico  Dolce  ce  ne  tiene  parola 
nel  suo  trattato  dei  colori  (1).  Parlando  egli  della  biscia,  dice  che 
«  significherebbe  malignità,  alludendo  a  quel  proverbio,  che  non 
«si  dee  nudrire  il  serpe,  né  la  biscia  in  seno.  Onde  l'Ariosto 
«  essendo  nella  prima  editione  del  suo  Furioso  stato  morso  dalla 
«  invidia  de'  detrattori,  e  dipoi  col  tempo  havendo  la  verità  come 
«  tagliata  la  lingua  a  que'  maligni,  conoscendosi  il  suo  poema 
€  raro  et  excellente,  nella  seconda  editione  levò  questa  impresa  : 
«  che  fece  stampar  nella  fine  del  libro  due  biscie,  all'una  delle 
«  quali  era  stata  tagliata  la  lingua,  e  all'altra,  che  gonfiata  di 
«  veleno  la  vibrava,  si  mostrava  di  sopra  una  mano  con  una  for- 
«  bica  in  atto  di  tagliarla  anco  a  lei,  con  un  motto  che  diceva  : 
«  Dilexisti  malitiam  super  malignilatem.  Che  fu  non  meno  bella 
«  impresa  di  quell'altra,  che  pose  nella  prima  sua  editione  subito 
«  nella  prima  carta,  che  fu  un  alveo  di  api,  le  quali  dall'ingrato 


(1)  Edizione  citata,  e.  50. 


IMPRESE  E  DIVISE  d'aRME  E  D'AMORE  NEL  «  FURIOSO  »      363 

«  villano  erano  fatte  fuggire  col  fuoco,  quelle  procacciando  d'uc- 
«  cidere,  quantunque  esse  avessero  prodotto  il  mele,  ponendovi 
«  il  motto  Pro  bono  maluìn  ».  Questa  seconda  impresa,  secondo 
Gabriello  Symeoni  (1),  non  fu  fatta  dall'Ariosto,  ma  dal  Giovio, 
a  indicare  come  il  poeta  fosse  stato  mal  compensato  delle  sue 
fatiche  :  ci  par  più  probabile  che  TAutore  stesso  se  la  componesse. 
Il  card.  Ippolito  d'Este  aveva  pur  chiesto  dove  l'Ariosto  avesse 
trovato  tante  corbellerie  da  farne  un  poema!  E  il  poeta  se  ne 
vendicava  bonariamente  con  quel  suo  Pro  hono  malum,  usando 
la  stessa  figura  delle  api,  che  nei  Cinque  canti  diede  a  Rinaldo 
a  torto  perseguitato  da  Carlo  Magno. 

Purché  anche  a  noi,  si  parva  magnis...,  non  tocchi  pronun- 
ziar lo  stesso  motto,  se,  pur  desiderando  di  far  qualcosa  di  utile, 
non  fossimo  riusciti  che  a  tediare  chi  avrà  avuto  la  pazienza  di 
scorrere  queste  pagine  ! 

Abd-el-kader  Salza. 


(1)  Symeoni,  Imprese  versificate,  Lione,  1561,  p.  129.  E  a  proposito  di 
queste  imprese  assunte  dall'Ariosto,  le  notizie  del  Dolce  corrispondono  in 
parte  al  vero.  Le  richiama,  e  le  dice  poste  in  due  medaglie  coniate  per 
l'Ariosto,  il  Mazzuchelli,  Scrittori  d'Italia^  I,  P.  II,  p.  1069,  citando  il  po- 
ligrafo veneziano.  L'alveare  è  nellediz.  1516,  col  motto  nei  quattro  angoli 
sul  verso  della  seconda  carta  (cfr.  Melzi-Tosi,  Bibliografia  dei  romanzi 
di  cavalleria  in  versi  e  in  prosa  italiani  ecc.,  Milano,  Daelli,  1865,  p.  23). 
Nella  ediz.  del  1521  l'impresa  è  entro  un  fregio  nero  che  circonda  il  titolo 
sul  frontespizio:  una  mazza  e  una  scure  vincolate  da  un  serpente  col  motto 
in  rosso  Pro  bono  malum  nei  quattro  angoli  (Op.  cit.,  p.  25).  —  Nell'edi- 
zione 1532  in  alcuni  esemplari  in  luogo  del  motto  v'  è  un  intaglio  :  una 
lupa  che  allatta  un  lupicino  {Op.  cit.,  p.  36).  E  il  secondo  motto  riferito 
dal  Dolce?  Io  non  posso  riscontrare  le  citate  edizioni  deW Orlando. 


VARIETÀ 


L'ALFIERI 


)« 


L'  ACCADEMIA,,  DI  CASA  GAVARD 


I. 

È  noto  agli  studiosi  della  vita  e  delle  opere  di  Vittorio  Alfieri 
che ,  tra  i  manoscritti  della  Palatina  di  Firenze,  ce  n*  è  uno, 
quello  segnato  col  n«  CGGXII  (1),  il  quale  è  tutto  di  mano  sua, 
e  contiene  varie  rime,  di  lui  e  d'altri  parecchi,  ch'egli  stesso 
non  dubita  di  chiamar  «  pessime  »,  come  appare  dal  titolo  ap- 
postovi: «  Raccolta  I  di  pessime  poesie,  composte  parte  |  all'im- 
«provviso,  parte  con  poca  |  riflessione,  e  meno  ingegno  |  dai 
«  Poeti  dell'Accademia  |  finora  innominata  |  e  degna  di  non  |  mai 
«  nominarsi  ».  Di  codesto  manoscritto  tuttavia  pochissimi  han 
parlato.  Le  prime  notizie  n'ha  date,  e  congetture  vi  ricamò 
sopra  il  Palermo  (2);  ne  riparlò  sulle  tracce  di  lui  il  Reumont  (3); 
Io  accennò  in  una  nota  di  passaggio  il  Teza  (4),  che  quelle  con- 
getture mostra  di  avere  accolte;  e  cosi  dicasi  del  Fabris  (5).  Ne 


(1)  Ant.  segn.  E.  5.  8.  1.  B:  «Vittorio  Alfieri,  Raccolta  di  rime  sue 
4  e  di  altri^  fatte  nelle  conversazioni  di  casa  Qavard  in  Firenze  »  (L.  Gin* 
TILE,  /  codici  Palatini  ecc.,  1,  526). 

(2)  /  manoscritti  Palatini  di  Firenze  ecc.,  I,  523-4. 

(3)  Die  Qrdfin  von  Albany,  Berlin,  1860,  l,  364-5;  II,  338-40. 

(4)  Vita  Giornali  Lettere  di  V.  A.  ecc.,  Firenze,  Le  Monnier,  1861,  p.  xix. 

(5)  G.  A.  Fabris,  ^^m^i  alfieriani,  Firenze,  Paggi,  1895,  p.  60  n. 


VARIETÀ  365 

discorse  poi  un  po'  più  a  lungo  il  Renier  (1),  oppugnando  le 
conclusioni  del  Palermo  con  argomentazioni  acute,  ma  senza 
venirne  a  una  conclusione  definitiva:  probabilmente  perché,  trat- 
tando d'altra  materia,  non  ebbe  agio  di  approfondire  da  sé  la 
questione;  ed  anche  è  presumibile  che  non  istimasse  degno  di 
lungo  studio  il  contenuto,  un  po'  basso  per  verità  e  scevro  d'ogni 
valore  letterario,  del  manoscritto  medesimo. 

Ma  —  si  obbietterà  —  se  tale  è  il  contenuto  di  quelle  carte, 
a  che  prò  tornar  sopra  un  argomento,  che  potrebbe  gettar  luce 
non  bella  sul  poeta  e  sull'uomo? 

Rispondo  subito  che  è  ben  lontano  da  me  il  pensiero  di  tórre 
splendore  alla  figura  del  grande  Astigiano.  Tornando  sopra  la 
non  per  anco  risoluta  questione,  intendo  anzi  dimostrare  (come 
certamente  col  Renier  desidera  ogni  amatore  delle  patrie  lettere) 
che  quei  convegni  di  casa  Gavard  si  riferiscono  appunto  al 
tempo  della  prima  dimora  dell'Alfieri  in  Firenze  (2).  Sarà  cosi 
tolta  alla  maturità  del  Tragico  la  poco  decorosa  taccia  d'aver 
prestato,  ne'  tardi  anni  suoi,  alla  poca  decenza  di  quelle  adunanze 
il  suo  concorso  e  l'ufficio  della  sua  penna. 

Ed  anche  per  un'altra  ragione  può  dirsi  non  inutile  lo  studio 
di  quel  manoscritto  ;  perché,  cioè,  esso  illustra  un  periodo  poco 
noto  della  vita  dell'Alfieri,  e,  insieme,  rappresenta  l'ultimo  stadio 
di  quei  primi  tentativi  letterarii  pieni  di  tentennamenti  e  di  dub- 
biezze, quando  il  futuro  Tragico  ondeggiava  ancora  tra  il  desi- 
derio della  gloria  e  la  vanitosa  nullaggine  degli  anni  giovanili. 
Di  quel  primo  periodo  —  che  va  dal  gennaio  del  1775  (3)  fino 
alla  seconda  metà  dell'ottobre  1777  —  sono,  com'è  noto,  la 
Cleopatraccia  e  la  farsa  /  Poeti;  sono  le  Colascionate  e  le  rime 
amorose,  le  satire  e  le  novelle  :  e,  insomma,  tutte  le  Sconciature 


(1)  Il   Misogallo,  le   Satire   e  gli   Epigrammi^  Firenze,  Sansoni,  1884, 

pp.   LXIV-LXIX. 

(2)  Mantengo  per  ora  questa  designazione  non  del  tutto  esatta,  salvo  a 
meglio  determinarla  più  oltre. 

(3)  <c  Primo  sonetto  dopo  lasciata  la  scuola  »  :  Ho  vinto  alfin.  —  È  cer- 
tamente del  gennaio,  benché  il  Teza  se  ne  mostri  dubbioso.  11  Teza  non  ha 
posto  mente  che  il  ms.  3  delle  carte  Laurenziane  porta  la  correzione  Gen- 
naio sopra  la  parola  Febbraio  depennata;  né  potrebb'essere  altrimenti,  poiché 
la  lettera  del  P.  Paciaudi,  che  ivi  vien  subito  appresso,  reca  la  data  :  «  L'ul- 
1  timo  di  Genaio  (sic)  1775  ».  —  Si  potrebbe  risalire,  del  resto,  fino  ai  primi 
abbozzi  scenici  schiccherati  al  capezzale  della  signora^  nel  primo  fascico- 
letto  del  ms.  Laur.  medesimo. 

Giornale  storico,  XXXVUI,  fase.  114.  2à 


366  E.   PIAZZA 

tragiche  e  liriche  (1)  del  ms.  Laurenziano  n**  3;  oltre  ai  Gior- 
nali pubblicati  dal  Teza.  —  Ora,  \q  pessime  poesie  della  cosi  detta 
Accademia  di  casa  Gavard  (il  perché  di  quel  così  detta  apparirà 
più  oltre)  chiudono  quel  primo  periodo;  anzi,  col  loro  brusco 
interrompersi ,  ci  mostrano  che  un  qualche  rilevantissimo  fatto 
d'un  subito  sopravvenne  a  troncarle  per  sempre. 

iMa  è  tempo  di  esporre  ordinatamente  la  questione,  rilevando 
i  termini  fondamentali  e  precisi  della  controversia. 

Il  Palermo,  nel  voi.  I  de'  suoi  Manosctnili  Palatini  (2),  pall- 
iando dell'autografo  alfieriano,  dice: 

« Siamo  stati  assicurati  da  una  vecchia  signora  Gavard, 

«vivente  tutt'ora,  che  solea  quivi  il  conte  Alfieri  trattenersi 
«alcun' ora  della  serata.  In  qual  epoca  poi  non  ha  saputo  ricor- 
«  darsi.  Ma  nella  Palatina  è  una  copia  del  Petrarca,  stampata 
«  in  Firenze  dal  Passeri  nel  1748,  sulla  cui  guardia  l'Alfieri  ha 
«  scritto  di  propria  mano  «Carolina  Gavard  »;  e  più  sotto  questi 
«due  versi,  col  millesimo  1799:  «  Di  puro  amor  alto  maestro 
«  è  questi,  —  caro  il  serba,  e  rimembra  onde  l'avesti  ».  Sicché 
«  non  par  dubbio  che  la  famigliarità  co'  Gavard  è  degli  ultimi 
«  anni  d'Alfieri,  dal  1792  in  qua,  che  si  stabili  in  Firenze,  e  vi 
«  rimase  fino  alla  morte.  E  difatti  vedesi  bene  ch'egli,  nello  scri- 
«  vere  questi  balocchi,  era  già  in  fama  di  sommo  Tragico  ».  E 
cita  a  questo  proposito  il  sonetto  deìV Anonimo,  che  fu  ripub- 
blicato dal  Renier  (3),  e  nel  ms.  è  intestato  cosi:  Primo  sonetto 
d'un  Anonimo  \  Contro  i  pessimi  poetastri  della  nuova  \  Acca- 
demia eretta  in  casa  \  Gavard,  dal  dì  cui  num£ro  si  vuole  \ 
eccettuare  il  Torinese  Tragico  \  Poeta  (4).  —  «  Anonimo  »  — 
soirgiunge  il  Palermo  —  «  che  non  può  essere  se  non  Alfieri 
«  medesimo;  il  quale  a  carte  23  (5),  sotto  un  Sonettino  dell'abate 
«Gavard,  si  firma:  «Alfieri  segretario».  Imperocché,  come  ab- 
«  biamo  accennato,  scrivevano tutti  della  brigata,  e  Alfieri 


(1)  Vedi  NovATi,  Penelope,  in  Domenica  letter.,  1882,  n*'  29,  e  L'Alfieri 
a  Cèzannes,  in  Fanfulla  della  dom.,  1880,  n»  37;  Fabris,  Op.  cit.,  p.  46, 
e  Primi  scritti  in  prosa  di  V.  A.,  Firenze,  Sansoni,  1899. 

(2)  Firenze,  1853,  p.  523. 

(3)  Op.  cit.,  Prefaz.,  p.  lxvii. 

(4)  Cod.  Pai.  CGGXII,  a  e.  15  (numeraz.  a  penna). 

(5)  Moderna  num.  a  penna,  e.  24. 


VARIETÀ  367 

«  registrava  ogni  cosa,  ancorché  fosser  rime  peggio  che  puerili. 
«  E  noi  crediamo  facesse  ciò  per  la  gran  voglia  che  avea  d'im- 
«  possessarsi  della  lingua  parlata  in  Toscana ...  —  È  notevole 
«  poi  che  il  sonetto  surriferito,  a  incominciar  dalle  rime,  è  tes- 
«  suto  in  gran  parte  colle  stesse  parole  di  un  sonetto,  famoso 
«  in  Firenze  nella  prima  metà  del  secolo  XVIII,  contro  un  tal 
«  Padre  Ricca  ...  ». 

Or,  da  quanto  si  vede,  ci  si  presentano  qui  due  questioni:  l'una, 
del  tempo  a  cui  è  da  riferire  quella  famigliarità  dell'Alfieri  coi 
Gavard;  l'altra,  della  paternità  di  quel  primo  sonetto  d'un  Ano- 
nimo. Quanto  alla  prima,  il  Palermo  si  pensa  d'averla  risoluta, 
attribuendo  quella  relazione  e  la  Raccolta  agli  ultimi  anni  di  lui. 
Quanto  alla  seconda  poi,  senza  fondamento  veruno,  asserisce  che 
\Anonim,o  non  può  essere  altri  che  l'Alfieri,  perché  a  e.  23 
egli  si  firma  come  segretario  !  il  che  quanto  sia  persuasivo  può 
vedere  ognuno  che  ragioni  con  la  testa  propria.  —  Il  Reumont, 
il  Teza,  il  Fabris,  accolgono  a  occhi  chiusi  le  conclusioni  del 
Palermo;  ma  il  Renier,  più  guardingo,  mentre  pur  non  contesta 
recisamente  l'affermazione  di  lui,  par  che  provi  come  un'  invin- 
cibile ripugnanza,  quanto  alla  data  di  quei  convegni,  a  prestarvi 
fede;  e  acutamente  poi  scopre  il  lato  debole  della  seconda  ar- 
gomentazione, traendone  partito  per  impugnare  la  paternità  del 
sonetto  attribuita  dal  Palermo  all'Alfieri.  E  fondandosi  sulla  poca 
verisimiglianza  che  questi  s'imbragasse,  ormai  inoltrato  negli 
anni,  in  un  circolo  poco  pulito,  e,  più  ancora,  che  tollerasse 
un'  insolente  risposta  del  Niccolini,  eh'  è  uno  della  brigata,  con- 
clude: «Io  per  me  lascio  la  questione  in  sospeso,  dichiarando 
«  di  non  aver  voluto  inserire  nel  mio  testo  il  sonetto  sovra  ci- 
«  tato,  perchè  non  credo  assolutamente  esservi  sufficienti  indizi 
«  per  attribuirlo  all'Alfieri.  Il  convegno  di  casa  Gavard  e  la  parte 
«  presavi  dall'Alfieri  si  spiegherebbero  solo  se  si  potesse  dimostrare 
«  che  esso  ebbe  luogo  durante  la  prima  dimora  dell'Alfieri  in 
«  Firenze  »  (1). 

Certo,  una  nuova  indagine  che  conduca  a  risultati  definitivi  può 
iniziarsi  soltanto  col  riprendere  attentamente  in  esame  il  ms. 
Palatino  GGGXII.  Ma  intanto,  è  da  vedere  quale  fondamento  ab- 
biano gli  argomenti  del   Palermo  quanto  alla  questione  princi- 


(1)    Op.    Cit.,    pp.    I.XTIII-LXIX. 


368  E.   PIAZZA 

pale,  che  è  quella  della  data  della  Raccolta.  Cotesti  argomenti 
son  due:  primo,  quella  data,  recata  da  lui  in  campo,  del  Petrarca 
donato  a  Carolina  Gavard  nel  1799;  secondo,  la  persuasione 
che  da  una  frettolosa  lettura  il  Bibliotecario  della  Palatina  s'era 
fatta,  che  l'Alfieri  «  nello  scrivere  quei  balocchi  era  già  in  fama 
«di  sommo  Tragico».  Orbene;  non  è  difficile  dimostrare  come 
l'uno  e  l'altro  di  cotesti  argomenti  siano  piuttosto  speciosi  che 
solidi. 

Incominciamo  dal  primo. 

Dice  il  Palermo:  «...  non  par  dubbio  che  la  famigliarità  coi 
«  Gavard  è  degli  ultimi  anni  d'Alfieri,  dal  1792  in  qua,  ecc.  ». 
Ora,  che  le  relazioni  (quali  che  fossero)  con  la  Carolina,  e  in 
generale  coi  Gavard,  sussistessero  in  quegli  anni,  è  un  fatto  cho 
non  si  può  assolutamente  mettere  in  dubbio.  Se  non  bastasse 
quella  data  del  1799,  una  riprova  se  n'avrebbe  anche  da  altri 
documenti.  Tra  le  varie  persone  invitate  a'  ricevimenti  di  casa 
Gianfigliazzi  in  Firenze,  rappresentandovisi  il  Saul,  il  BnUo 
primo  e  il  Filippo,  troviamo  infatti,  in  mezzo  a  molti  altri  nomi 
più  cospicui  e  più  noti  (1),  anche  quelli  di  Giuseppe  Gavard  e 
di  Maddalena  e  Carolina  Gavard\  e  noi  sappiamo  che  quelle 
recite,  incominciate  in  casa  privata  nella  primavera  del  1793, 
si  protrassero  poi  per  tutto  l'anno  1794  e  parte  del  '95  (2).  Nel  '99 
dunque,  la  relazione  coi  Gavard  non  solo  sussisteva,  anzi  era 
vecchia  di  quattro  o  cinque  anni  almeno.  Ma  la  certezza  di 
questo  fatto  esclude  forse  la  possibilità  che  quella  relazione  risa- 
lisse a  molto  più  indietro  ancora  ?  Forse  che  un  ricordo,  donato 
da  un  uomo  sui  cinquant' anni  a  una  donna,  poniamo,  di  qua- 
ranta, con  la  quale  egli  ha  famigliarità  da  cinque  anni  all'incirca, 
esclude,  umanamente  e  psicologicamente,  che  codest'  uomo  possa 
averla  conosciuta  e  vagheggiata  ragazza,  per  esempio,  a  dicias- 
sette 0  diciotto?  0  forse  è  ciò  men  verisimile  se  un  tal  uomo  è 
l'Alfieri?  quel  cosi  tenace  amatore,  che,  dopo  l'atroce  inganno 
di  Lady  Ligonier,  al  solo  rivederla  dopo  vent'anni,  «  ancora 
«  bellissima  »  (3),  ne  riman  tutto  rimescolato,  e  la  guarda  tacito, 


(1)  Ne  ha  dato  un  elenco  in  questo  Giornale  il  Mazzatinti,  Le  carte  al- 
fieriane  di  Montpellier,  voi.  3,  52,  e  9,  71-2. 

(2)  Vedi  Vtto,  p.  281;  Annali,  «1794  Firenze»  e  <  1795  Firenze  »,  ibid., 
p.  363  (ed.  Teza);  Mazzatinti  cit.,  Giorn.,  9,  71. 

(3)  Alfieri,  Vita,  Ep.  IV,  cap.  XXI. 


VARIETÀ  369 

tremante,  e  pende  dagli  ancora  ardenti  occhi  di  lei  ?  (1).  Non 
rescinde.  Nel  '94  poteva  la  Gavard  avere  trentaquattro  q  trenta- 
cinque anni,  ed  essere  ella  ancora  bellissima,  o  tale  da  ridestar 
nel  cuore  del  poeta  le  faville  d'una  fiamma  che  risalisse  a 
molti  anni  più  in  là.  Una  obbiezione  pertanto  che  argomentasse, 
a  cagion  d'esempio,  «  dunque,  se  la  conoscenza  è  del  '99,  o  del  '95, 
«  non  può  il  manoscritto  riferirsi  se  non  agli  anni  dopo  il  1792  », 
non  ha  assolutamente,  per  noi,  alcun  solido  fondamento. 

Resta  la  seconda  argomentazione,  la  quale  certo  non  par  senza 
peso  :  che  cioè  l'Alfieri  era  allora  «  già  in  fama  di  sommo  Tra- 
«  gico  ».  Ma  anche  qui  convien  mettere  in  primo  luogo  le  cose 
al  loro  posto.  E,  anzitutto  :  risulta  proprio  dal  sonetto  deir^no- 
nimo  che  l'Alfieri  fosse  già  allora  in  fama  di  sommo  Tragico? 
—  Vediamo.  L'ultima  terzina  del  sonetto,  eccola  qui: 

Quello  però  che  al  vivo  più  mi  tocca 
È  che  Alfieri  a'  lor  versi  non  si  secca; 
0  non  è  desso,  o  è  Ercol  con  la  rocca. 

Ora,  se  non  si  voglian  torcere  queste  parole  a  dir  più  che  non 
dicano,  qui  si  ha  solo  un  rimpianto  che  l'Alfieri,  uomo  a  ogni 
modo  di  maggior  levatura  che  quegli  Accademici,  e  che  anche 
nel  '76  aveva  già  dato  segno  di  voler  diventare  qualcuno,  e  aveva 
in  tasca  il  suo  patrimonieito  di  tre  o  quattro  (2)  tragèdie,  si 
perdesse  in  que'  passatempi  poco  degni  di  lui.  —  Ma,  e  l'inte- 
stazione del  sonetto?  L'intestazione  dice  soltanto:  « dal  di 

«  cui  numero  si  vuole  eccettuare  il  Torinese  Tragico  Poeta  ». 
Ora,  lasciamo  stare  il  «  Torinese  »,  eh'  è  già  un  indizio  di  per 
sé,  un  contrassegno  personale  falso,  direi  quasi,  per  un  Alfieri 
di  dopo  il  1792(3);  ma  ecco  che  esula  intanto  quell'epiteto  di 
sommo,  il  quale  non  è  altro  che  un'aggiunta  del  Critico  preve- 


(1)  Vedi  Tappassionato  sonetto  delle  Rime: 

Ahi  vista!  eli' è  colei  che  al  cor  mi  porse 

L'esca  primiera,  ond'io  tutto  avvampava 
Or  quattro  lustri;  e  quand'io  lei  lasciava, 
fiestai  gran  tempo  di  mia  vita  in  forse. 

Fiso  la  miro;  e  tacito,  tremante 
Dai  be'  negri  occhi  ancora  ardenti  io  pendo...  ecc. 

P.  n,  Son.  XIX  (Pisa,  Capurro,  1819). 

(2)  Quattro  con  la  Cleopatra. 

(3)  Quando  da  più  anni  fieramente  si  proclamava  per  le  stampe  Vittorio 
Alfieri  da  Asti. 


370  E.   PIAZZA 

nulo.  —  Se  non  che  potrebbe  altri  obbiettare  ancora  :  —  È  però 
vero  che  dell'Alfieri  con  parole  di  alta  lode  si  parla  spiattella- 
tamente  altrove  nel  codice.  —  Verissimo;  anche  troppo  spiattel- 
latamente;  sentite: 

Meschini!  e  perchè  tanto  audaci  siete 
Di  gareggiar  con  il  più  illustre  vate 
Che  sotto  il  Tosco  ciel  brillar  vedete 
Cognito  dall'Arno  fin  all'Eufrate  (1). 

È  la  prima  quartina  d'un  «  Sonetto  del  sig.  Enrico  Gavard  ». 
Ma  chi  può  credere  che  l'intonazione  della  lode  sia  seria?  Evi- 
dentemente, qui  si  tratta  d'una  canzonatura:  tanto  più  se  si 
guardi  all'ultima  terzina,  che  si  volge  a  sceda  plateale.  Al  sonetto 
l'Alfieri  risponde  con  Vottavina: 

ler  sera  lessi  il  parto  tuo  sconcissimo  (2), 

che  termina  con  una  rima  non  bella;  la  sola,  m'affretto  a  dirlo, 
a  cui  egli  si  lasci  andare.  Ma  Enrico  con  assai  poco  rispetto 
ripicchia  : 

Dal  basso  tuo  rimar  più  franco  reso 

Spiegoti  il  mio  pensier,  che  tenni  ascoso: 
Stupisco  in  ver  che  un  Tragico  si  perda 
In  nominar  ne'  versi  suoi 

E  seguita  quindi  con  evidente  ironia: 

Dov'è  lo  spirto  tuo,  l'alto  pensiere 
Che  ti  rese  illustre  un  di?  ah  non  conosco 
Alfieri  più!  scambiò  il  sentiere 
Della  bella  gloria;  e  nel  cupo  bosco 
Dove  Mida  suol  mesto  risiedere, 
Volto  l'orme  sue,  .  .  .  (3)  ecc. 

Dai  quali  peggio  che  zoppicanti  versacci  apparisce  senz'altro, 
che  anche  qui  fu  troppo  frettoloso  il  Palermo,  affermando  che 
al  tempo  di  quelle  scritture  il  conte  Alfieri  godesse  fama  di 
tragico  sommo. 


(1)  N**  6  del  ms.  Riporto  testualmente,  senza  metteivi  di  mio  né  toglierne 
sillaba. 

(2)  E  nel  ms.  il  n®  7;  vi  accennò  il  Teza,  Op.  crt.,  p.  xix  n. 

(3)  N.  8.  €  Due  ottavine  del  sig.'  Enrico  in  risposta  al  %eg^  intitolate  dal- 
*  l'autore  Scherzo  ». 


VARIETÀ  371 

Liberato  pertanto  il  campo  da  ogni  preconcetto  intorno  alla 
tarda  età  del  manoscritto,  procediamo  ora  ad  un'esplorazione 
serena  e  obbiettiva  della  Raccolta.  Ecco  gli  elementi  di  una 
tale  indagine. 

Il  ms.  Palatino  GGGXII,  del  quale  ha  dato  recentemente  una 
diffusa  e  quasi  in  tutto  accurata  descrizione  il  Gentile  (1),  consta 
ora  di  quarantasei  carte,  delle  quali  le  ultime  venti  son  bianche. 
Lo  scritto  è  solo  sul  recto  delle  ce.  1  a  26(2);  ma  è  da  notare 
che  le  ce.  1-2  sono  di  un  foglio  ricucito  dinanzi  al  rimanente 
del  ms.,  e  che  ne  costituisce  la  origine  prima.  Alla  e.  1  è  il 
frontespizio:  «  Raccolta  di  pessime  poesie  »  ecc.;  i  componimenti 
incominciano  nella  2*,  e  seguitano  nell'ordine  e  con  le  attribu- 
zioni che  si  conoscono  dal  Gentile.  —  La  prima  cosa  che  salta  agli 
occhi  sfogliando  il  manoscritto  si  è  la  banalità  e  la  volgarità 
puerile  di  quelle  rime;  il  che  reca  anche  maggior  meraviglia, 
quando  si  vedono  assistere  a  quelle  conversazioni  delle  donne. 
Non  m.eno  ci  stupisce,  per  un  altro  rispetto,  la  famigliarità 
grande  che  mostra  di  avere  con  TAlfìeri  uno  di  quei  personaggi, 
eh*  è  Enrico  Gavard;  il  quale,  come  appare  di  tutti  il  più  brioso 
e  vivace,  e  il  men  riguardoso  e  il  più^  sudicio,  così  tratta  il  nostro 
Tragico  con  un  piglio  tanto  confidenziale,  da  farlo  subito  tenere 
per  suo  vero  compagno  di  spassi  e  di  biricchinate.  Ancora  ci  col- 
pisce, nella  fisonomia  generale  del  codice,  la  punteggiatura  man- 
chevole, incerta  —  eh'  è,  come  si  sa,  una  delle  debolezze  dell'Al- 
fleri  scrittore  esordiente,  da  lui  stesso  riconosciuta  più  tardi  (3)  —, 


(1)  L.  Gentile,  /  codd.  Pai.  della  R.  Bibl.  Nazion.  centrale  di  Firenze, 
Roma,  1888,  I,  526-9.  Di  qualche  lievissima  inesattezza  nel  trascrivere  le 
rubriche  non  mette  conto  di  parlare.  Noto  qui  solo  che  non  è  giustificata 
l'aggiunta  «  [Gavard]  »  dopo  il  nome  d'Isidoro  nel  n"  1,  come  dimostrerò.  Di 
una  lacuna  nella  descriz.  del  codice  dirò  pure  al  suo  luogo. 

(2)  11  ms.  intero  era  di  cinquanta  carte;  ma  l'ultima  venne  incollata  al 
cartone,  e  ritagliate  le  tre  precedenti.  Costituivano  poi  le  cinquanta  carte 
tre  quaderni  doppi  (di  pagg.  cioè  sedici  ciascuno)  più  le  due  carte  di  un 
foglio  ricucito  dinanzi.  —  Io  seguo  la  numerazione  più  recente  a  penna,  che 
computa  come  1  il  frontespizio;  ma  la  originaria  numerazione  a  matita  in- 
cominciava dalla  e.  2*. 

(3)  Vedi  le  note  dell' A.  medesimo  alla  Cleopatra  prima  :  «  Almeno  il  punto 
«  interrogativo  ci  fosse  stato  ».  —  «  Lo  scrittore  era  nemico  giurato  del  punto 
«  fermo  »  {Vita,  134).  —  «  Sia  maladetto,  se  mai  un  punto  fermo  ci  casca!  » 
—  «  Nascea  quest'autore  con  una  predilezione  smaniosa  per  le  virgole  »  {ibid., 
135).  —  E  cfr.  il  sonetto:  «  Ho  vinto  alfin  »  e  le  «Colascionate  ». 


372  E.  PIAZZA 

e  lo  spesseggiar  degli  errori  d'ortografia  (1);  i  qirali  però  sono, 
ingenerale,  degli  autori  medesimi,  i  cui  versi  venivan  trascritti 
dal  segretario  con  una  scrupolosità,  che  non  è  priva  di  certa 
punta  satirica:  specie  se  si  guardi  anche  alle  postille,  onde  più 
volte  sarcasticamente  li  accompagna.  —  Ma  passiamo  all'esame 
particolare  delle  rime  del  ms. 

Qui  subito  ci  si  affaccia,  degno  di  particolar  menzione,  il  com- 
ponimento n°  10;  nel  quale  vedesi  un  chiaro  richiamo  ad  avve- 
nimenti, che  parrebbero  un  po'  stantii  dopo  il  1792,  mentre  sono 
di  attualità  grande  nell'agosto  e  settembre  del  '76.  Nessuno 
ignora,  infatti,  che  in  cotest'anno,  dopo  lungo  battagliare,  e  in 
mezzo  a  chiassi  ed  a  scandali  di  cui  l'eco  non  si  smorzò  cosi 
presto,  il  Pizzi,  custode  allora  d'Arcadia,  e  il  principe  Gonzaga 
eran  riusciti  alla  perfine  a  ottener  l'incoronazione  della  Olim- 
pica Gorilla;  e  che,  nella  notte  appunto  del  trentuno  di  agosto, 
la  diva  Maria  Maddalena  Morelli-Fernandez  aveva  ricevuto  la 
laurea  poetica  in  Campidoglio.  Orbene:  al  n"  10  del  ms.  Palatino, 
sotto  l'intestazione:  Altra  ottava  (?)  del  'Nannini,  troviamo  come 
un  inno  d'esultanza  per  la  vittoria  riportata  dalla  famosa  im- 
provvisatrice sui  suoi  detrattori: 

Franse  Gorilla  e  stritolò  lo  scoglio 
Dall'Invìdia  formato  a  bella  posta 
Ma  di  questa  vedeansi  estinte  Tossa  (!) 
E  rOlimpica  sola  in  Gampidoglio. 
Questa  agi'  emuli  suoi  diede  la  scossa 
E  raffrenò  di  loro  il  fiero  orgoglio 
Onde  sarà  costei  sempre  immortale    • 
E  il  Gampidoglio  non  vedrà  l'eguale. 

Chi  non  lo  direbbe  uno  squillo  di  tromba,  nunzio  di  vittoria 
recente?  —Notiamolo,  e  tiriamo  innanzi;  che  altro  di  più  rile- 
vante ci  aspetta. 

Procedendo  oltre,  c'incontriamo  poco  più  avanti  col  burbanzoso 
personaggio  che  si  cela  sotto  la  maschera  d^oW Anonimo.  Qui  ci 
è  bisogno  d'una  breve  sosta,  per  dimostrare  tutta  l'assurdità  del- 
l'ipotesi del  Palermo;  assurdità  che  subito  ci  apparisce,  sol  che 
si  voltino  tre  o  quattro  carte  (2),  quante  son  quelle  che  conten- 


(1)  Cosi  troviamo  ripetutamente:  Appallo  e  Appollineo,  avezzi,  ndosso, 
addottar,  pretenzion,  ceco,  un  arancia,  un  ottava. 

(2)  Contengono  i  comp.  n^  29  a  34. 


VARIETÀ  373 

gono  il  gruppetto  di  componimenti  che  si  riferiscono  alla  com- 
parsa di  cotesto  nuovo  interlocutore. 

Si  presenta  V Anonimo  col  noto  «  Primo  sonetto  »  al  n°  29 
della  Raccolta;  e  l'Alfieri,  riferitane  l'intestazione  che  già  cono- 
sciamo, postilla  nel  margine,  come  ha  già  osservato  il  Renier: 
«  trovato  nel  libro  senza  che  si  sappia  come;  benché  lo  sappiano 
«  le  ragazze,  ma  non  lo  vogliano  dire  ».  Al  sonetto  segue  una 
risposta  per  le  rime  dell'abate  Niccolini  (1),  il  quale,  paragonando 
l'intruso  alla  cornacchia  della  favola,  gli  rinfaccia  lo  «  sconclu- 
«  sionato  plagio  »  del  sonetto  al  Padre  Ricca,  ed  espone  le  ra- 
gioni del  poetare  proprio  e  della  brigata  : 

11  desio  di  fuggir  l'ozio  ci  tocca. 
Non  come  voi  un  verseggiar  che  secca, 
E  che  la  penna  cangerebbe  in  rocca. 

Rimbecca  tosto,  ancor  per  le  rime,  V Anonimo,  il  quale  dovrebbe 
essere  un  pedante  e  un  cruscante  arrabbiato;  e  lo  fa  con  un 
altro  sonetto ,  eh*  e  il  secondo  suo  (2),  affermando  a  sua  giusti- 
ficazione, nulla  importare 

Che  del  sonetto  che  fu  fatto  al  Ricca 
S'imitino  le  rime, 

dal  momento  che  il  poeta 

ben  le  ficca. 
Con  metro,  legge,  peso,  e  senza  macca; 

quindi,  con  un  terzo  sonetto,  sarcastico  e  sudicio  la  parte  sua  (3), 
irridendo  ai  poeti  della  «  nuova  Accademia  »,  berteggia  prima 
Enrico  e  Isidoro,  che  si  piacciono  di  vili  argomenti;  e  il  Nan- 
nini, <  che  rade  sempre  il  suolo  »;  e  il  Niccolini,  che 

Si  sforza  a  dar  con  vanto  a  tutti  legge; 


(1)  N.  30:  Risposta  del  Niccolini  |  allo  sconclusionato  plagio  d'un  Ano- 
nimo. Gom.  : 

Non  v'  è  chi  voglia  nella  nostra  cricca, 

(2)  N.  31:  Risposta  al  sonetto  dell" insignificante  Poeta  Arabico- Toscano, 
che  chiamò  coi  nomi  di  sconclusionato  plagio  il  poeta  anonimo,  nomi  sco- 
nosciuti alla  Crusca,  e  alla  plebe.  Gom.: 

Di  Sileno  cavalclii  par  la  bricca. 

(3)  N.  32:  Jn  cui  si  congratula  il  Poeta  anonimo  con  la  nuova  Acca- 
demia de'  sublimi  componimenti,  che  vi  sono  stati  recitati.  Gom.: 

Di  novelli  Poeti  al  vario  stuolo. 


374  E.  PIAZZA 

e  vibra  da  ultimo  la  frecciala  del  Parto  contro  airAlfìeri  mede- 
simo, chiudendo  cosi  : 

E  se  a  sì  alti  temi  Testro  regge, 
Perchè  non  tesse  il  Segretario  esperto 
La  lodi  ancor  deirumiii  c.egge? 

Con  questo  termina  la  parte  sua  neW Accademia  V Anonimo;  il 
quale  è  dunque  autore  non  d'un  solo,  ma  di  tre  sonetti  della 
Raccolta;  e  come  possa  credersi  l'Alfieri  stesso,  può  veder  cia- 
scuno che  legge,  senza  eh'  io  vi  aggiunga  parola.  Chi  sia  costui, 
non  saprei  dire;  pare,  come  ho  detto,  un  cruscante,  e  un  lettore 
e  ammiratore  del  Bertoldo  e  Bertoldino,  almeno  a  quanto  si 
rileva  dai  due  successivi  componimenti;  dei  quali  il  primo  è  un 
sonetto  (1)  in  risposta  per  le  rime  al  precedente;  e  il  secondo 
accenna  alla  gerla  e  al  buratto  di  cui 

Arma  la  destra  questo  vii  pedante, 

il  quale  pretende  di  criticare  le  parole 

Che  nel  suo  Bertoldin  non  ha  trovate, 

E  che  '1  scrittor  plebeo  non  bene  intende  (2). 

Delle  quali  chiacchiere,  a  spremerne  il  sugo,  non  resta  dunque 
se  non  la  maliziosa  insinuazioncella  dell'ignoto  poeta,  che  ha 
fiutato  una  specie  di  intriguccio  amoroso  tra  il  futuro  Ercole 
della  tragedia  italiana  e  una  novella  Onfale  di  casa  Gavard. 

E  vengo  alle  tre  ultime  carte  del  manoscritto,  dove  ci  attende 
la  soluzione  definitiva  della  controversia. 


(1) -N.  33.  Non  è  detto  di  chi  sia;  ma  nell'intestazione  e  nella  chiusa 
l'autore  trae  una  piccola  vendetta  dell'anonimo  impertinente:  —  Risposta 
alle  ciance  del  terzo  sonetto  delVautore  anonimo,  o  per  meglio  dir  sema 
nome,  che  sarà  l'ultima  per  non  voler  perdere  il  tempo,  con  chi  non  è 
capace  di  correzione.  —  Com.: 

Altro  ci  raol  che  ritenere  il  raolo 
e  termina: 

Ma  non  si  soffre  che  ci  detti  legge 
Un  che  fa  sempre  condottiero  esperto 
E  degno  prence  del  cornato  gregge; 

dove  non  è  chiaro  a  quale  specie  d'armento  si  faccia  allusione. 

(2)  N.  34.  Replica  al  suddetto  aborto  del  pessimo  verseggiatore  che  non 
intende  altro  linguaggio  che  quello  della  plebe.  Sonetto.  —  Com.  : 

Di  rotta  gerU  e  groesolan  baratto 


VARIETÀ  375 

Fa  specie  come  né  al  Palermo  né  al  Gentile  né  ad  altri  sia 
caduto  in  mente  o  sia  parso  opportuno  di  rilevare  come  alla  e.  24 
termini  la  prima  parte  o  sessione  di  quelle  adunanze,  e  alla  e.  25 
incominci  la  sessione  seconda,  brevissima,  interrotta  dopo  tre  soli 
componimenti.  Al  basso  della  e.  24  sta  per  la  prima  ed  unica 
volta  la  firma:  «  Alfieri  Segretario  ».  Ma  sotto  la  firma  c'è  una 
raschiatura;  ed  un  attento  esame  di  essa  ci  ha  fatti  certi  che 
quivi  era  la  data  della  chiusura  di  cotesta  prima  parte:  chiu- 
sura resa  necessaria  dalla  partenza  del  segretario,  ch'era,  pure 
sotto  il  velo  di  quella  modesta  funzione,  l'anima  del  cenacolo. 
Infatti  la  carta  seguente  è  intestata  :  «  Seconda  apertura  dell'ac- 
«  cademia  |  col  ritorno  del  Segretario  »  (1);  e,  immediatamente 
sotto,  altra  raschiatura,  che  ancor  essa  custodisce  (benché 
meno  gelosamente)  una  data.  Interrogando  la  prima  delle  due 
date  abrase  e  quasi  scomparse,  si  resta  incerti  se  vi  si  celasse 
un  millesimo  i77^  o  1796  \  ma  nella  seconda  aguzzando  le  ciglia, 
mi  pare  assai  probabile  che  si  dovesse  leggervi:  15  8^^'  1777. 
Ora,  questa  indicazione  sarebbe  sicuramente  risolutiva;  ma  può 
accogliersi  con  assoluta  certezza? 

Fortunatamente,  l'ultima  carta  scritta  del  codice  ci  permette, 
con  un  accenno  irrefutabile,  di  rispondere  affermativamente. 
Sono  qui  ancora  due  componimenti,  il  cui  valore  è  per  più 
rispetti  di  singolare  importanza:  un  Sonetto,  fatto  in  comune  a 
un  verso  per  uno  ;  ed  un'ottava.  Il  sonetto,  che  ha  per  protago- 
nista Enrico  Gavard,  incomincia  con  un  pacato  verso  dell'Alfieri 
medesimo  : 

Alfieri:     A  spaventar  gli  uccelli  un  figurone; 

ma  i  poeti  che  gli  tengon  dietro  si  mostrano  addirittura  indignati 
contro  l'audacia  di  Enrico,  beffandolo  a  gara,  non  tanto  come 
poeta,  quanto  come  compositore  e  musicista;  a  segno,  che  la 
Bettina  lo  chiama  «  il  disonor  della  musica  »  e  più  oltre  «  maestro 
«  da  confetti  »  (!).  Or  qual'è  la  ragione  di  tante  e  si  poco  ama- 
bili apostrofi?  —  Ce  lo  dice  l'intestazione  del  sonetto,  la  quale 
è  solo  parzialmente  riferita  dal  Gentile.  Eccola  per  intero: 

Sonetto  contro  la  stravaganza  ridicola  dell'Enrico,  che 
manda  il  ritratto  a  Bologna  al  P.*  Martini. 


(1)  Di  cotesta  rubrica  non  ha  fatto  motto  il  Gentile,  Op.  cit,  che  passa 

senz'altro   dal   n»  44  «  Mentre  Dorin »  ecc.,  al  n°  45  «  Di  far  de'  versi 

«ognun  vantar  si  vuole»  (ma  leggi:  pitale). 


376  E.   PIAZZA 

Questo  nome  e  l'indicazione  di  Bologna,  e  del  ritratto  che  al 
Padre  manda  Enrico  Gavard,  ci  danno  la  risposta  cercata.  Il 
famoso  frate  francescano,  P.  Giovanni  Battista  Martini,  il  classico 
illustratore  della  musica  antica  presso  i  Greci,  fu  infatti  non  solo 
un  paziente  ordinatore  di  libri,  di  manoscritti  e  di  saggi  rari 
di  musica  d'ogni  ragione,  ma  benanco  di  ritratti  dei  principali 
musicisti,  cantanti  e  dilettanti  del  tempo  suo  e  degli  andati  (1); 
e  ritratti  gli  mandavano  in  dono  a  gara  gli  ammiratori,  i  cono- 
scenti e  i  discepoli  (2)  ;  si  che  la  ricca  collezione  anche  attual- 
mente si  conserva  nell'attual  sede  del  Liceo  Musicale  in  Bologna. 
Ora,  il  Padre  Martini,  come  si  rileva  dagli  storici  della  musica 
e  dall'epigrafe  eh' è  di  lui  in  S.  Francesco  a  Bologna,  cessò  di 
vivere  nell'anno  1784  (3).  Se  pertanto  si  pensi  che  nella  seconda 


(1)  Della  collezione  preziosa  di  libri  e  manoscritti  fan  parola  quasi  che 
tutti  i  principali  biografi  del  M.;  ma  di  quella  dei  ritratti  trovo  cenno  solo 
in  Vernon  Lee  e  nel  Fantuzzi;  il  quale,  a  due  anni  di  distanza  dalla  morte 
di  lui,  così  scriveva  {Notizie  di  scrittori  boi.,  V,  pp.  343-4):  «  A  questa 
n  rarissima  e  copiosissima  raccolta  di  codici  e  libri  di  musica  è  unita  una 
€  del  pari  copiosa  e  scelta  Pinacoteca  di  tutti  i  compositori  e  celebri  dilet- 
€  tanti  di  musica  d'ogni  nazione,  e  tutti  spediti  in  dono  dagli  autori  stessi 
«  e  regalati  dagli  amici  e  scolari  ».  —  U  Gaspari,  che  fu  diligentissimo 
bibliotecario  del  Liceo  musicale  di  Bologna  dal  1856  all' 81  e  ordinatore  di 
quella  ricca  suppellettile,  ripete  la  stessa  notizia  nella  inedita  sua  Miscel- 
lanea musicale,  voi.  Ili,  p.  102,  che  ivi  si  conserva,  e  che  potei  vedere  per 
la  squisita  cortesia  del  dr.  Gadolini,  assistente  dell'attuale  Bibliotecario 
prof.  Luigi  Torchi.  —  Colgo  quest'occasione  per  esprimere  anche  qui 'la 
mia  riconascenza  agli  egregi  sigg.  dr.  Gadolini  predetto  e  prof.  Gualtiero 
Zanetti  di  quel  R.  Liceo-Ginnasio  Galvani,  i  quali  mi  furon  larghi  di  cor- 
tese aiuto  in  questa  e  in  altre  successive  ricerche  di  cui  dirò  appresso,  che 
ebbi  a  fare  per  questo  modesto  mio  studio  colà. 

(2)  Gfr.  anche  il  n°  47:  Ottava  dell'Enrico  in  risposta: 

Oh  quanto  andaci  siete  in  crìticars 
Uno  che  nella  bella  arte  armonica 
Celebre  gii  si  rese,  e  nominare 
Odesi  ovanqae  come  la  bettouica. 
L'Invidia  è  la  ragion  che  fa  smaniare 
Chi  degno  non  ò  di  nna  tal  cronica. 
Onde  t{  ritratto  mio  $«  »»m  arcato. 
Segno  è  d*un  pregio  in  me  inasitato. 

(3)  Il  3  agosto  di  quell'anno,  se  è  esatta  la  data  che  ci  conserva  T  iscri- 
zione sopra  detta: 

« ad  superos  emigravit 

«  III.  Nonas  Augusti.  Ann.  MDCCLXXXIV  >. 
Altrove  si  trova  la  data  del  4  agosto;  ed  altri  riferiscono  la  morte,  con  evi- 
dente errore,  all'ottobre. 


VARIETÀ  377 

metà  dell'ottobre,  o  tutt'al  più  nel  novembre  del  77,  ossia  poco 
dopo  del  suo  ritorno  in  Firenze,  incomincia  l'appassionato,  assor- 
bente amore  dell'Alfieri  per  la  d'Albany(l);  e  che,  per  di  più, 
nel  febbraio  del  1781  egli  sloggia  definitivamente  da  Firenze  (2), 
e  non  vi- ripassa  fino  all' 84  se  non  in  gran  fretta  due  volte  (3); 
'non  può  restar  dubbio  per  alcuno  che  la  data  della  seconda 
apertura  dell'Accademia  col  ritorno  del  «  segretario  »  è  proprio 
quella  che  già  ci  parve  di  leggere  sotto  la  raschiatura  dell'auto- 
grafo :  lì  lo  ottobre  1777  ;  e  che  la  prima  sessione  è,  dunque,  dei 
mesi  luglio-settembre  del  1776. 

Alla  qual  conclusione  venuti,  non  senza  qualche  sollievo  del- 
l'animo nostro  per  veder  purgati  dal  sospetto  di  poco  degni 
passatempi  gli  ultimi  anni  dell' «  austero  »,  quando  già  quasi 

avea  sul  volto 
il  pallor  della  morte  e  la  speranza, 

ci  accingeremo  ora  a  ricercar  qual  fosse  quella  brigata  che  si 
raccoglieva  in  casa  Gavard;  e  a  lumeggiare,  meglio  che  fin  qui 
non  siasi  fatto,  quegli  anni  del  poeta  nei  quali  ancora  spesseg- 
giano i  futili  passatempi,  e  dove  ostacoli  d'ogni  fatta  tuttavia  lo 
trattengono  dal  calcar  risolutamente  la  via  della  gloria. 


II. 


Nell'aprile  del  1776  l'Alfieri,  fatto  persuaso  ch'ei  non  avrebbe 
mai  potuto  «  dir  bene  italiano,  finché  andava  traducendo  sé 
«  stesso  dal  francese  »,  risolvè  finalmente  di  recarsi  in  Toscana, 
per  avvezzarsi  a  «  parlare,  udire,  pensare  e  sognare  in  toscano, 
«  e  non  altrimenti  mai  più  »  (4).  Si  trattenne  sei  o  sette  settimane 
in  Pisa,  a  stendervi  in  prosa  V Antigone,  a  verseggiare  e  leggere 
a  quei  professori  dell'Università  il  Polinice,  a  tradurvi  Orazio 


(1)  Vita,  Ep.  IV,  cap.  V,  p.  189  dell'ed.  del  Teza;  Annali,  p.  371,  ihid. 

(2)  Vita,  Ep.  IV,  cap.  Vili,  p.  204. 

(3)  Una  prima  volta  di  volo  nel  giiigno  del  1783  (Vita,  p.  219),  recandosi 
a  Bologna;  e  una  seconda  per  alcuni  giorni  soltanto,  col  fine  di  visitarvi 
i  pedanti  fiorentini,  nell'agosto  dell'anno  medesimo  (ibid.,  p.  222)  ;  e  sempre 
infervorato  tutto  di  quell'amore  e  degli  studi  più  caldi  e  della  stampa  delle 
tragedie. 

(4)  Vita,  Ep.  IV,  11,  p.  173. 


378  E.   PIAZZA 

e  a  studiare  i  giambi  di  Seneca;  e  «  nel  fin  di  giugno  »  ne  sloggiò, 
e  venne  in  Firenze.  Era  quella,  per  verità,  la  terza  volta  che 
vi  poneva  il  piede  (1);  ma  la  prima  che  vi  andasse  con  qualche 
serio  proposito;  e,  benché  non  si  sentisse  ancora  in  tutto  diverso 
da  quel  di  prima,  pure  le  faville  che  gli  avevan  suscitalo  in 
cuore  le  parole  amichevoli  del  D'Acunha  e  del  Galuso  e  la  let- 
tura di  Plutarco,  gli  eran  venute  accendendo  l'animo  sempre  più. 
Nel  1776,  adunque,  si  trattenne  a  Firenze  circa  tre  mesi,  dalla 
fine  di  giugno  a  tutto  il  settembre;  durante  il  qual  tempo,  narra 
nella  Vita,  si  applicò  moltissimo  all'impossessarsi  «  della  lingua 
«  parlabile  >;  e  «  conversando  giornalmente  coi  Fiorentini  »  vi 
pervenne  bastantemente  (2).  Dava  opera  in  pari  tempo  agli  studi 
tragici:  verseggiò  per  la  seconda  volta  il  Filippo,  ideò  il  Do7i 
Garzia;  e  tutto  questo  e  le  letture  accennate  di  Pisa  son  ba- 
stanti a  spiegarci  quella  nomèa  di  Tragico  ch'egli  stesso  si  dava 
cura  di  venir  preparando  e  diffondendo,  con  la  sufflcenza  che 
gli  era  pur  cosi  famigliare  in  quel  tempo.  «  Continuava  intanto 
«  a  schiccherare  molte  rime  »  —  prosegue  a  dire  —  «  ma  tutte 
«  mi  riuscivano  infelici.  E  benché  non  avessi  in  Firenze  nessun 
<c  amico  censore  che  equivalesse  al  Tana  e  al  Paciaudi,  pure 
«  ebbi  abbastanza  senno  e  criterio  da  non  ne  dar  copia  a  chi 
«  che  si  fosse  »  (3).  Quali  sieno  coleste  rime  infelici  a  cui  l'Al- 
fieri accenna  qui,  non  si  può  determinar  con  piena  esattezza  ; 
ma  dell'estate  di  quell'anno  troviamo  nel  ms.  Laurenz.  3,  sotto 
la  data  di  Pisa,  giugno  1776,  il  lamento  o  lettera  in  isciolti  di 
FUle  calzolaia  a  Checchino  canonico (4);  di  quell'estate  stessa 


(1)  La  prima  breve  dimora  ve  l'aveva  fatta  fin  dal  '66,  con  l'esotica  com- 
pagnia d'un  aio  inglese  e  di  due  sbarbatelli  già  suoi  compagni  d'Accademia, 
olandese  l'uno  e  l'altro  fiammingo  (Vita,  pp.  58-9);  di  passata  poi  vi  s'era 
spinto  nel  maggio  del  '74,  durante  quella  pazza  corsa  da  Torino,  che  doveva 
simulare  agli  occhi  dei  conoscenti  il  solenne  distacco  suo  dalla  Prie  (ibid., 
p.  137). 

(2)  Vita,  p.  178. 

(3)  Vita,  ibid.,  p.  178. 

(4)  Comincia: 

Quella  ch'ai  tuo  partir  vedova,  e  fola 
Crndel  lasciasti,  or  prima  a  te  n'invia 
Carta  de*  sensi  noi  nunzia  verace. 
To  forte  ad  altra  in  braccio  hai  già  d'oblio 
Tao'  ginramenti  sparai;  ecc. 

Ne  die  cenno  il  Fabris«  pubblicandone  alcuni  squarci  {St.  Alf.,  p.  59).  Noto 
che  qui  il  Fabris,  aggiungendo  che'c questi  componimenti  giocosi  ...segui- 


VARIETÀ  379 

e  di  quella  dimora  in  Pisa  è  anche  l'epigramma  XV  deiredizione 
del  Renier(l);  di  quell'anno  son  pure  e  il  sonetto  sui  mariti 
ingannati  (2)  e  quello  dello  stramazzone  di  fra  Ciacco  (3);  oltre  ai 
versi,  d'argomento  per  lo  più  amoroso,  che  nel  ms.  3  occupano 
le  ce.  161  a  169;  ma  son  del  gennaio  e  del  febbraio.  Or  queste 
rime  tutte  mostrano  veramente  come  la  vena  satirica,  anzi  bef- 
farda e  amara,  eh'  è  prova,  in  generale,  d'animo  insoddisfatto,  e 
indizio  d'una  coscienza  irrequieta  e  non  paga  di  sé  né  degli 
uomini  e  dei  tempi  in  mezzo  a  cui  vive  il  poeta,  sia  uno  dei 
caratteri  precipui  della  lirica  alfierlana  di  quegli  anni  tuttavia, 
come  è  caratteristica  dell'anno  precedente.  Sono  infatti  di  pochi 
mesi  prima  le  due  novelle,  di  Elena- Penelope  (chiamiamola  cosi)  e 
di  Frate  Mascambruno  (4);  e  a  poco  più  in  là  risalgono  le  Scon- 
ciature dì  Cézannes  (5)  ;  cioè,  oltre  alle  rime  amorose  e  varie,  la 


«  teranno  a  mostrarsi ...  fino  agli  ultimi  anni  di  sua  vita,  quasi  inspirati 
a  da  un  repentino  bisogno  di  riso  buffonesco,  a  ristorare  le  fatiche  di  studi 
«  più  gravi  »,  e  citando  in  nota  il  ms.  Palat.  312,  si  accosta,  senza  tener 
conto  delle  dubbiezze  del  Renier,  alle  conclusioni  del  Palermo  e  del  Reu- 
raont  intorno  all'età  di  quel  codice. 

(1)  Op.  cit.,  p.  281.  Vedi  sopra  questo  argomento  la  nota  1  a  pag.  394. 

(2)  È  il  IV  delle  Rime,  P.  I  (Pisa,  Gapurro): 

Dov'è,  dov'è  quella  mirabil  fonte. 

(3)  È  il  XIV  delle  Rime,  e.  s.: 

D'  ozio  e  di  vino  e  di  vivande  pieno. 

Ne  riporto  le  due  terzine,  che  attestano  della  tendenza  beffarda  a  cui  si 
accenna  più  oltre: 

Tanto  r  impeto  fu,  sì  sconcio  il  peso, 
Che  all'aria  andar  le  zampe,  i  panni  in  testa, 
E  di  sua  Reverenza  il  meglio  apparse. 

Tal  vediam  nella  polve  in  lieta  festa 
Un  possente  asinon,  di  foia  acceso. 
Per  far  pompa  di  membra,  rotolarse. 

(4)  Della  prima  discorse  il  Notati,  in  Domenica  lett.,  1882,  no  29.  Alla 
seconda  accennò  il  Fabris  {Studi  alfier.  cit.,  p.  55).  Ecco  come  ne  incomincia 
lo  schema  (dal  ms.  Laur.  3,  e.  159,  numeraz.  a  inchiostro).  —  «  Frate  Ma- 
«  scambruno,  sua  descrizione;  vecchia  signora,  sua  sciocca  devozione;  ca- 
«  meriera,  sua  decrizione  (sic).  —  Il  frate  giunge  alla  casa  sapendo  esserne 
«la  padrona  uscita.  Sale  tenendo  discorsi  ipocriti,  s'avanza  fino  all^ ultima 
<  camera  e  gabinetto  ove  solca  confessare  la  signora.  Appena  ivi  entrato, 
«  con  un  piede  spinge  la  porta,  coll'altro  ginocchio  separa  le  ginocchia  della 
«  ragazza  »  ;  ecc. 

(5)  «  Agosto  1775  ».  —  Vedi  Novati,  L" Alfieri  a  Cézannes,  in  Fanfulla 
della  domenica,  an.  II,  37;  e  Fabris,  Op.  cit.,  pp.  56  sgg. 


380  E.   PIAZZA 

satira  contro  i  seccatori,  e  un'altra  contro  le  donne  che  fan  le 
schizzinose  e  mal  gliene  incoglie  (1).  Ora,  codesto  stato  dell'a- 
nimo, torbido,  limaccioso,  bisognoso  d'uno  sfogo,  e  non  privo 
d'una  certa  maligna  propensione  a  criticare  e  a  pensar  male 
di  tutto  e  di  tutti ,  più  assai  che  non  le  rime  per  sé  stesse,  ri- 
chiama vivamente  la  nostra  attenzione,  come  quello  che  traspa- 
risce da  tutta  l'opera  incomposta  e  farraginosa  dei  tre  anni,  o 
quasi,  che  corrono  dalla  cosi  detta  «  liberazione  vera  >  (2)  fino 
al  terz'ultimo  mese  del  1777.  Di  quel  triennio  ci  forniscono  bensì 
notizie  abbastanza  copiose  la  Vita  e,  per  alcuna  parte,  i  Gior- 
nali pubblicati  dal  Teza;  ma  non  cosi,  da  appagare  interamente 
la  nostra  curiosità,  specie  per  l'anno  1776,  dove  i  Giornali  ci 
mancano  affatto.  Com'è  poto,  la  Vita  non  dice  tutto;  ed  una, 
appunto,  delle  lacune  che  qua  e  là  vi  si  incontrano  è  proprio 
quella  che  si  riferisce  ai  tre  mesi  della  dimora  che  fece  l'Alfieri 
in  quell'anno  in  Firenze;  la  quale  vien  colmata  in  parte  dal 
nostro  manoscritto. 

Che  l'Alfieri  in  quegli  anni,  nei  momenti  di  buona  voglia  e  «li 
resipiscenza,  desse  opera  intermittente  agli  studi  novaraente  in- 
trapresi è  un  fatto  che  non  si  può  mettere  in  dubbio;  ma  che 
ancora  non  fosse  ben  fermo  in  essi,  e  si  lasciasse  facilmente 
fuorviare  e  trarre  a  meno  assennati  propositi,  è  cosa  nota  del 
pari,  e  suflìciente  a  spiegarci  il  suo  partecipare  ai  convegni  di 
casa  Gavard.  Ma  chi  sono  cotesti  Gavard?  e  quali  i  componenti 
e  i  fini  di  (^xxqW Accademiaì 


(1)  È  quella  accennata  dal  Novati  (loc.  cit.),  che  narra  la  fuga  di  Dafne 
inseguita  da  Apollo.  Com.: 

Daftie  reszon 
Troppo  ritros» 
Darà  fuggendo  il  tergo  al  biondo  Dio;  ecc. 

Il  Novati  la  dice  una  «  lirica  foggiata  su  quelle  del  Ghiabrera  »;  e  quanto 
alla  forma  è  vero.  Ma  evidentemente  il  frammento  ha  esso  pure  intonazione 
satirica,  come  si  rileva  anche  più  chiaramente  dallo  schema  o  abbozzo  di 
esso,  che  si  trova  a  tergo  della  e.  148  del  ms.  n®  3.  Lo  riporto,  perché  di 
poco  s'allontana  dal  tema  che  al  presente  ci  occupa  :  «  Che  d'allora  in  poi 
«  le  donne  non  possono  più  fuggire  |  che  se  voltava  la  faccia  |  salvava  il 
«  suo  onore  e  la  sua  forma  |  che  fu  per  vendetta  e  non  per  amore  |  che  Apollo 
«  la  trasformò  in  alloro  :  |  che  la  fama  vuole  che  ad  Apolline  |  puzzasse  il 
€  fiato  e  che  Dafne  fosse  |  innamorata  d'un  altro  ». 

(2)  Febbraio  1775.  Cfr.   Vita,  Ep.  Ili,  cap.  XV. 


VARIETÀ  381 

Dal  nome  francese,  e  dal  fatto  di  un  Giacinto  Gavard,  medico 
e  scrittore  di  qualche  grido  (1),  vissuto  dal  1753  al  1802  e  nato 
a  Montmélian,  si  potrebbe  supporre  che  i  Gavard  fossero  d'una 
famiglia  originaria  della  Savoia,  e  —  chi  sa?  —  in  relazione 
forse  con  gli  Alfieri  d'Asti  per  via  della  madre  del  nostro  Tragico, 
una  Maillard  di  Tournon,  di  origine  savoiarda.  Ma  coteste  conget- 
ture per  noi  poco  rilevano.  Ben  di  maggior  momento  sono  le  no 
tizie  che  intorno  ad  Enrico  Gavard  medesimo  mi  riusci  di  trovare, 
facendone  ricerca  a  Bologna  nella  Biblioteca  di  quel  Liceo  Mu- 
sicale, e  più  specialmente  nel  farraginoso  carteggio  del  P.  Mar- 
tini, che  quivi  si  conserva  (2).  E  prima  di  tutto,  diciamo  subito 
che  quegli  accenni  alle  virtù  di  «  maestro  »  e  di  «  compositore  » 
deWaudace  Enrico,  e  il  vanto  che  mena  egli  stesso  della  propria 
valentia  <  nella  bella  arte  armonica  »  sono  qualche  cosa  più  di 
un  semplice  scherzo  o  d'una  gradassata.  Nella  ricordata  Biblio- 
teca del  Liceo  sopra  detto  si  trovano  infatti  le  due  seguenti  opere 
del  Gavard  :  1°  Sei  trii  del  nobile  dilettante  sig.  Enrico  Gavard 
des  Pivetz  etc.  fiorentino.  Opera  prima',  senza  alcuna  data  di 
anno,  di  luogo  e  di  stampatore.  Si  compone  di  tre  fascicoli,  con- 
tenenti le  parti  del  primo  violino,  del  secondo  violino  e  del  vio- 
loncello. 2°  Sei  sonate  per  cembalo  del  sig.  Enrico  Gavard  des 
Pivetz  etc.  dilettante  fiorentino.  Opera  seconda.  Venezia,  presso 
Antonio  Zatta  e  figli.  Dedicata  a  Sua  Eccellenza  la  signora  con- 
tessa di  Car liste  nata  Bìron  etc.  etc.  (3).  Che  se  poi  ci  muova 


(1)  Trovo  l'indicazione  nel  Lexicon  Vallardi,  voi.  V,  p.  131,  dove  si  ci- 
tano di  lui  le  opere  seguenti  :  Traile  d'osteologie,  redige  d'après  les  legons 
de  M.  Desault;  e  Traité  de  myologie  suivant  la  méthode  de  Desault.  — 
Un  altro  Gavard,  Alessandro,  che  fu  insigne  uomo  politico  della  Svizzera  e 
capo  del  governo  ginevrino,  mori  a  Nizza  nel  1898  (Ibid.,  voi.  XI,  p.  580). 

(2)  Sono  trenta  grossi  volami  di  lettere  di  persone  d'ogni  grado  a  lui, 
non  disposte  ancora,  disgraziatamente,  per  ordine  di  data.  Anche  per  questa 
ricerca  mi  fu  d'aiuto  e  guida  pazientissima  in  quel  labirinto  il  prelodato 
dr.  Cadolini,  che  gentilmente  mi  squadernò  dinanzi  quei  volumi,  permetten- 
domi di  farne  con  la  dovuta  discrezione  qualche  rapido  estratto. 

(3)  Anche  questa  senza  la  data  dell'anno;  ma  dev'essere,  come  l'altra,  del 
1775  o  poco  prima,  come  si  dimostrerà.  —  Ecco,  nella  sua  forma  alquanto 
gallicizzante,  la  lettera  dedicatoria  : 

Eccellenza, 
L'onore  che  Vostra  Eccellenza  mi  ha  fatto  permettendomi  di  dedicarle  questa  Opera,  dà  alla 
medesima  un  merito  che  ella  intrinsecamente  non  ha.    Prego  V.ra  Ecc. za  di  gradirla  solamente 

OiornaU  storico,  XXXYUI,  fase.  114.  25 


382  E.   PIAZZA. 

curiosità  di  sapere  qual  valore  abbiano  coleste  composizioni  del 
signor  Des  Plvetz  etc,  non  abbiamo  da  far  altro  che  aprire  il 
dotto  volume  testé  pubblicato  dal  chiar."o  prof.  Luigi  Torchi, 
attuale  bibliotecario  e  professore  di  estetica  musicale  e  storia 
della  musica  nel  Liceo  bolognese ,  «  La  musica  istrumentale  in 
«  Italia  nei  secoli  XVI,  XVII  e  XVIII  >  (1),  dove  alla  p.  209  leg- 
giamo: «In  questo  genere  lezioso,  morbido,  che  non  cerca  la 
«  sua  efficacia  nella  linea  robusta  e  musicale,  ma  vive  di  etiche 
«  sentimentalità,  di  espressioni  liscie  e  languide,  possono  servire 
«  di  modello  i  sei  trii  per  due  violini  e  violoncello  di  Enrico 
«  Gavard  des  Pivetz,  fiorentino,  i  quali  debbono  risalire  a  poco 
€  dopo  la  metà  del  sec.  XVIII  >.  —  E  più  oltre,  alla  p.  268  :  «  ...  È 
«  molto  se  in  questo  nuovo  indirizzo  Topera  di  qualche  discreto 
€  maestro  italiano  si  distingue  ad  intermittenze  tra  le  forme  più 
«  degenerate,  quali  si  notano  nelle  sonate  d'organo  di  Benedetto 
«  Arese  Lucini  (1792),  nei  versetti  fugati  e  ideali  di  Gian  Dome- 
«  nico  Catenacci  (1794),  nelle  sonate  di  cembalo  di  Enrico  Gavard 

«  des  Pivetz  (1790) ». 

Da  quest'ultima  citazione  parrebbe,  a  dir  vero,  che  le  Sonate 
di  cembalo  del  Gavard  dovessero  andar  riferite  al  1790.  Se  non 
che,  questa  data  approssimativa  suggerita  dal  Torchi  ha  bisogno 
di  essere  leggermente  rettificata,  e  portata  a  una  quindicina  di 
anni  più  indietro,  come  ci  risulta  dal  carteggio  del  padre  Martini, 
dove  di  quelle  Sonate  si  fa  cenno.  Due  lettere,  infatti,  ne  riusci 
di  trovare  di  Enrico  Gavard  dirette  al  famoso  frate  :  la  prima, 
recante  il  n**  110,  nel  voi.  9**,  l'altra  nel  18%  contrassegnata  col 
n"  56.  Sono,  a  differenza  delle  altre,  in  carta  turchinetta,  ele- 
gante per  il  tempo,  a  larghe  fasce  o  strisce  trasparenti,  in  pasta. 
La  prima  ha  la  data  di  Firenze,  28  gennaio  Ì775;  è  firmata: 
«  di  Vostra  P.^  m.^  Rev.*^»  Enrico  Gavard  des  Pivetz,  segretario 
«  della  Amministrazione  generale  delle  R.  Rendite  di  S.  A.  R.  »,  ed 
intestata  al  «  Molto  Rev.^»  P.  Maestro  Sìg.  Sig.'«  e  Pi^  Col.»»».  In 
questa  lettera  (certamente  la  prima  del  Gavard  al  Maestro)  dice 


oome  UQ  Bagg:io  della  mia  buona  ToIonU,  ohe  ha  del  trasporto  alla  mnaiea,  e  ad  abbraedan 
quelle  occasioni  che  possono  mettermi  in  grado  di  dimostrarle  il  rispetto  con  coi  mi  confbnM 
immutabilmente 

di  Toatra  Eeeellenn 

d«Toti«iiBO  ed  obbligatisaiiiio 

serritore 

Bsiioo  QftTard  des  IMvvti. 

(1)  Torino,  Fratelli  Bocca,  1901. 


VARIETÀ  383 

lo  scrivente  d'essere  stato  consigliato  dal  signor  Gio.  Mario  Rutini 
a  mandare  al  Padre  per  mezzo  del  noto  editore  Lelio  della  Volpe 
un'operetta  di  sei  trii,  per  averne  il  giudizio  di  lui,  e  «  perchè 
«  l'inserisca  nella  sua  insigne  raccolta  di  musica,  ma  nel  luogo 
«  più  adombrato  e  appartato  »,  affinché  non  abbia  a  scapitarci 
al  confronto  con  le  altre  scritture,  alle  quali  si  troverà  vicina. 
Si  scusa  poi  con  grande  franchezza  della  poca  scienza  che  vi  è 
dentro,  perché  «  la  corruttela  dei  tempi  si  contenta  più  della 
«  corteccia  che  della  sostanza,  ed  è  fatta  più  per  dilettare  che 
«  per  ammirare  »  ;  ed  aggiunge:  «  Io  sono  giovane  e  sono  dilet- 
«  tante,  perciò  mi  sono  attaccato  alla  moda  anch'  io  »  (1).  Con- 
clude dicendosi  superbo  di  potersi  chiamare  un  umile  soldato  di 
quell'esercito,  del  quale  un  tal  uomo  è  il  maresciallo. 

Non  meno  curiosa  è  la  seconda  lettera,  da  Firenze,  28  marzo 
i775.  Apparisce  da  questa  che  il  P.  Martini,  accettando  il  dono, 
incoraggiasse  con  benevole  parole  il  giovane  autore,  e  modesta- 
mente si  scusasse  dei  pochi  meriti  suoi,  pregandolo  in  pari  tempo 
di  mandargli  il  suo  ritratto.  Tanto  almeno  si  può  dedurre  dalla 
risposta  che  abbiamo  sott'occhio.  Nella  quale  il  nostro  Enrico  si 
mostra  subito  anche  più  franco  e  spigliato  che  nello  scritto  pre- 
cedente, e  tratta  già  col  Padre  come  con  una  vecchia  conoscenza. 
Scusatosi  dell'  aver  tardato  a  rispondergli  perché  «  incomodato 
«  da  una  flussione  »,  e  accennato  alla  speranza  ch'egli  abbia  frat- 
tanto ricevuto  dal  signor  Lelio  della  Volpe  anche  le  Sonate  di 
Cembalo,  gli  raccomanda  che  voglia  «  essere  di  manica  larga 
«nel  farne  l'esame».  Quindi  esce  a  dire:  «Mi  sono  più  e  più 
«  volte  contemplato  l' effigie  alla  spera,  ed  ho  riconosciuto  che 
«non  merita  d'esser  tramandata  ai  posteri;  ma  poi  riflettendo 
«che  si  dipingono  anche  i  mostri,  gli  animali  ecc.,  ra' è 'venuta 
«  la  volontà  di  farmi  ritrarre  anch'io,  e  mi  prenderò  la  libertà 

«  di  rimetterle  il  mio  ritratto, non  per  effetto  di  mal  fondata 

«  vanità,  ma  per  un  estro  poetico  che  non  va  disgiunto  dalla 
«  musica,  e  per  far  piacere  a  V.  P.  M.^  Rev.^,  che  non  può 
«  figurarsi  quanto  io  stimi  e  desideri  di  presto  inchinare. 


(1)  Di  cotesto  chiedere  scusa  del  seguir  la  moda  leggera  imperante  in 
quel  tempo  non  si  meraviglierà  chi  ricordi  la  classica  severità  delle  dottrine 
del  Martini,  e  l'aneddoto  riferito  dal  P.  Mattei  intorno  al  maestro;  il  quale 
al  giovane  ma  già  grande  Jomelli  cosi  parlava:  «  Gran  disgrazia  la  vostra 
«  di  perdervi  nel  Teatro,  in  mezzo  ad  una  turba  d'ignoranti  corruttori  delia 
«  musica  »  (Riferito  dal  Fantczzi,  Op.  cit ,  V,  p.  344). 


384  E.    PIAZZA 

«  Lei  è  un  galantuomo,  lo  sono  anch'  io,  ci  conoschiamo  fsicj 

«ornai  per  lettera,  dunque  mi  comandi ecc.  Il  mio  cuore  par- 

«  tecipa  del  Lombardo  (?),  onde  non  sono  nato  per  me  solo,  e  il 
«  conte  Bianchi  gliene  può  dare  informazione,  essendo  il  mio 
«  miglior  padrone  che  abbia  in  Bologna. 

«  Degnissimo  P.  Martini,  Lei  merita  una  statua,  e  se  fossi  prin- 
«  cipe  o  scultore  glieravrei  già  fatta.  Mi  conservi  la  sua  grazia, 
«  e  mi  accordi  la  sua  armonica  e  spirituale  protezione...  »  ecc. 

Come  ognuno  può  vedere,  da  queste  lettere  del  Gavard  ci 
viene  non  solo  riconfermata  la  conclusione  a  cui  eravamo  giunti 
più  sopra  quanto  all'età  del  manoscritto  alfieriano;  ma  ne  balza 
fuori  anche  una  figura  morale  caratteristica  di  Enrico,  ch'è  in 
tutto  conforme  a  quella  che  già  avevamo  immaginata,  con  la 
spontanea  gaiezza  e  la  baldanza  espansiva  e  confidenziale  che  usa 
qui  verso  il  dotto  francescano,  come  già  verso  TAlfieri  nelle  rime 
del  nostro  zibaldone.  Ma  a  questo  punto  una  curiosità  ci  spinge 
a  domandarci:  cotesto  ritratto  del  Gavard  fu  poi  mandato  vera- 
mente? e  potè  il  Padre  Martini,  e  possiamo  noi  posteri  bearci 
nelle  sembianze  del  nobile  dilettante  musicista,  e  amministratore 
delle  R.  Rendite  di  S.  A.? 

Un  ritratto  che  porti  il  nome  di  Enrico  Gavard,  tra  i  molti  e 
cospicui  che  adornano  la  Pinacoteca  del  Liceo  bolognese,  non 
s'  è  potuto  trovare,  nonostante  le  più  accurate  ricerche.  Se  non 
che,  in  mezzo  ai  tanti  dei  quali  è  quivi  accertata  l'autenticità,  ce 
n'ò  pure  degli  altri,  alle  pareti  de' corridoi  meno  in  vista,  che 
non  recano  alcun  nome;  ma  che  devono  essere  tuttavia  doni 
fatti  al  P.  Martini  da  dilettanti  e  da  giovani  scolari  di  lui.  Or, 
tra  codesti,  uno  specialmente  par  degno  di  attirar  la  nostra  at- 
tenzione. È  un  ritratto  a  pastello,  in  più  che  mezzo  busto  a  gran- 
dezza naturale,  d'  un  giovane  dalla  faccia  aperta,  imparruccato 
e  vestito  secondo  il  costume  della  seconda  metà  del  sec.  XVIII, 
e  seduto  presso  d'un  tavolino.  La  mano  sinistra  stende  l'indice 
sur  un  foglio  coperto  di  caratteri  musicali:  segno  che  si  tratta 
d'un  compositore;  la  destra  tiene  un  libro,  sul  cui  cartone  si 
legge  a  chiare  lettere  :  «  Opera  |  del  Padre  |  Maestro  Martini  »  ; 
che  indicherebbe  ammirazione  ed  omaggio  al  musicista  e  storico 
insigne.  Infine,  da  tergo,  la  tela  su  cui  è  incollato  il  pastello 
reca  in  carboncino  la  scritta  :  «  Grescimbeni  pinxit  |  1776  ».  —  È 
questo  il  ritratto  di  Enrico  Gavard?  Sarebbe  forse  ardita,  ma 
non  improbabile  la  congettura.  Perché  avesse  maggior  fondatezza, 
converrebbe  almeno  sincerarsi  se  un  Grescimbeni  pittore  di  ri- 
tratti fosse  in  quegli  anni  in  Firenze. 


VARIETÀ  385 

Checché  sìa  di  ciò,  resta  per  noi  assodato  in  ogni  modo,  che 
la  casa  dei  nobili  Gavard  des  Pivefz  —  con  piacere  lo  notiamo 
—  è  una  casa  di  gente  per  bene;  come  già  ci  aveva  resi  pro- 
pensi a  supporlo  il  fatto  che  taluni  della  famiglia  si  trovano 
invitati  più  tardi  nella  signorile  dimora  di  colei,  che,  per  i  suoi 
famigliari,  era  sempre  la  Regina  d'Inghilterra.  Ed  Enrico  Ga- 
vard, segretario,  al  tempo  di  cui  discorriamo,  dell'amministrazione 
generale  delle  Rendite  di  Sua  Altezza  Reale,  ossia  ufficiale  della 
casa  del  Granduca  Leopoldo  (i),  è  veramente  un  dilettante  e  com- 
positore di  musica,  il  quale  serba,  a  quel  che  pare,  tutta  la  sua 
morbidezza  e  sentimentalità  per  le  pagine  strumentali  de'  suoi 
trii,  degni,  comunque,  d'esser  ricordati  come  modello  del  genere 
lezioso  del  tempo  in  cui  scrisse.  Nel  1776  egli  è,  adunque,  un 
giovane  artista  di  belle  speranze,  cosi  appunto  come  un  tragico 
di  belle  speranze  è  in  quegli  anni  il  conte  Vittorio  Alfieri.  Qual 
meraviglia  che  tra  i  due  scapestrati  genii  nascenti  si  stringesse 
una  relazione,  che  ha  quasi  il  carattere  della  più  amichevole 
intimità?  Senza  che,  le  doti  di  musicista  del  Gavard  potevano 
anch'esse  offrire  stimolo  all'Alfieri,  perché  si  legasse  d'amicizia 
con  lui.  Per  la  musica,  come  apprendiamo  da  più  luoghi  della 
Vita,  l'Alfieri  era  appassionatissimo,  e  dotato  di  disposizioni  na- 
turali esuberanti  ;  che  l'orecchio  e  la  fantasia  erano  in  lui  'ìnu- 
sichevoli  nel  somm,o  grado,  sebbene  pochi  progressi  vi  facesse 
sotto  i  maestri,  per  la  difficoltà  di  mettersi  in  testa  la  musica 
scritta.  «  Tutto  era  orecchia  in  me  »  —  die'  egli  —  «  e  memoria, 
«  e  non  altro  »  (2).  Aveva  tuttavia,  fin  dal  quattordicesimo  anno, 
appreso  a  sonare,  bene  o  male,  il  cimbalo\  e  l'esercizio  gli  aveva 
procurato  almeno  di  essersi  «  sveltita  molto  la  mano  sulla  ta- 
«  stiera  ».  Più  tardi,  a  Gézannes,  un  abate  citarista  gl'insegnava 
a  toccar  la  chitarra  (3);  e  la  chitarra  anzi  era  stata,  in  quel 
suo  viaggio  appunto  in  Toscana  del  1776,  il  suo  primo  pensiero 
dopo  la  poesia  e  i  cavalli,  e  parte  preziosa  del  piccolo  bagaglio, 
di  che,  insieme  coi  poetini  tascàbili,  s'era  caricato  (4):  né  l'aveva 


(1)  Da  Firenze  mi  giunge  notizia  che  in  quell'Arch.  di  Stato  trovasi  cenno 
di  un  Gavard  amministratore  generale  del  governo  della  Repubblica  fran- 
cese in  Toscana  nel  1799  (Arch.  di  Stato,  Gov.»  francese,  Negozi  di  Polizia, 
f.  1,  n.  55).  Non  ho  qui  modo  di  verificare  se  si  tratti  del  nostro. 

(2)  Vita,  p.  40  e  p.  167. 

(3)  Vita,  p.  167. 

(4)  Vita,  p.  173. 


386  E.   PIAZZA 

portata  certo  per  lasciarla  inoperosa.  Ora,  in  Firenze,  la  rela- 
2àone  col  nobile  Des  Pivetz  gli  porgeva  nuova  occasione  di  far 
pompa  de*  suoi  talenti  di  geniale  orecchiante;  e  a  noi  par  di 
vedere  il  fiorentino  spirito  bizzarro,  orgoglioso  dei  novello  amico, 
presentarlo,  secondo  il  suo  stile,  pomposamente  a*  suoi  di  casa, 
al  padre,  alle  sorelle,  come  gran  poeta,  sommo  tragico,  esperto 
citarista!  e  TAlfieri,  un  po'  per  vanità,  un  po'  per  desiderio  di 
svago,  frequentar  quelle  veglie,  accompagnare  al  cembalo  le 
ragazze,  improvvisar  duetti  con  Enrico,  e  partecipare  infine  agli 
allegri  convegni  poetici,  facendo  da  segretario  della  nuova  Ac- 
cademia. Della  quale  ci  resta  da  vedere  quali  fossero  gli  altri 
componenti;  e  quali  i   propositi  e  le  forme  di  quelle  adunanze. 

I  personaggi  che,  oltre  ad  Enrico  Oavard,  incontriamo  nello 
zibaldone  Palatino  sono  i  seguenti  : 

In  primo  luogo,  naturalmente,  i  varii  membri  della  famiglia.  Vi 
troviamo  anzitutto  Michele  o  Michelino  (1)  e  Carolina  (in  qualche 
parte  detta  anche  Carla),  che  sono  indubbiamente  da  porre  tra 
questi,  e  presumibilmente  un  fratello  e  una  sorella  d' Enrico. 
Della  famiglia  sono  ancora  per  certo  un  Signor  Giuseppe,  che 
crederei  il  padre,  e  una  Maddalena,  la  mamma  (2)  :  personaggi 
che  poco  parlano,  e  dei  quali  troviamo  nella  Raccolta  solo  lie- 


(1)  Sono  di  Michelino  interamente  i  componimenti  n'  38  e  41,  oltre  ad 
alcuni  versi  che  sporadicamente  introduce  qua  e  là  nelle  rime  improvvisate 
in  comune.  —  Al  n"  38  è  un  sonetto,  il  cui  argomento  è  dato  cosi:  Bidulf, 
che  dopo  aver  precipitosamente  galoppato  per  veder  la  sua  bella^  gli  con- 
viene  restar  in  casa  perchè  non  e  è  il  servitore  che  lo  pettini  ;  e  più  sotto  : 
bonetto  di  un  poeta  novizio  ma  che  promette  bene,  con  la  postilla  al  mar- 
gine: Michele  Gavard.  —  Noto  qui  che  il  nome  di  un  Giovanni  Bidulph 
trovasi  tra  quelli  degli  invitati  di  casa  Gianfigliazzi.  \  edi  Mazzatinti,  Le 
carte  alfìer.  di  Montpellier  cit.,  in  questo  Giornale,  9,  71,  n.  2. 

(2)  Ecco  la  genesi  di  quest*  induzione.  Se  Carolina  ò  nel  '94  o  nel  '96 
ancora  ragazza  (o  vedova  forse?),  come  appare  dal  chiamarla  che  fa  l'Alfieri 
nel  '99  col  cognome  Gavard,  il  vederla  invitata  alle  recite  delle  trage<lie  in- 
sieme con  Maddalena  con  un  solo  biglietto  («  Maddalena  e  Carolina  Gavard  »; 
vedi  Mazzatinti,  cit.,  in  questo  Giornale,  3,  52)  fa  supporre  che  ella  vi 
andasse  accompagnata  dalla  madre.  Farmi  assolutamente  da  escludere,  poi, 
che  Carolina  potesse  essere  la  moglie  di  Enrico.  Quanto  al  trovare  il  nome 
di  Giuseppe  Gavard  in  un  altro  biglietto,  la  cosa  si  spiega  col  fatto  che, 
per  la  ristretterza  della  sala,  gli  invitati  non  vi  potevano  essere  più  di  50 
o  56  per  volta  (Mazzatinti,  Ibid.,  3,  51,  n.  3). 


VARIETÀ  387 

vissimi  accenni.  Ancora  tra  i  nomi  di  donne,  trovo  una  Bettina 
e  una  Lisetta;  le  quali,  poiché  son  chiamate  cosi  famigliarmente 
senz'altro,  e  poiché  una  postilla  già  riferita  del  segretario  ricorda 
le  ragazze,  devon  esser  dunque  sorelle  d'Enrico  e  di  Carolina. 
In  un'altra  postilla  poi  dell'autografo,  che  troviamo  depennata 
e  sostituita  quindi  con  altra  sovrappostavi,  si  accenna  anche  a 
una  «  vecchietta  »  (1);  e,  se  è  questa  pure  persona  di  casa  (come 
parrebbe  all'appellativo  di  rispettosa  confidenza),  si  tratterebbe 
addirittura  di  una  famiglia  patriarcale;  senza  contare  che  all'ul- 
timo ci  capita  anche  un  «  abbate  Gavard  »,  con  un  sonettaccio 
di  argomento  boccaccesco,  che  non  fa  molto  onore  all'abito  ch'egli 
porta  (2).  Degli  abati,  del  resto,  ce  n'è  degli  altri.  V'è  un  abate 
Nannini,  tutto  cerimonioso  nella  insulsaggine  de'  suoi  versi 
sconci  e  sgarbati  :  proprio  quello  che  canta  il  trionfo  di  Gorilla. 
Più  serio  e  pien  di  sussiego  c'è  poi  l'abate  Nìccolini,  l'unico, 
per  verità,  che  generalmente  si  astenga  dal  linguaggio  poco  or- 
todosso della  brigata  mascolina.  Venuto  costui  in  ritardo,  deve 
pagar  lo  scotto  con  un  sonetto  d'ammissione,  dove  chiama  quella 
ragù  nata  di  poetastri  «  disonor  del  biondo  Nume  »,  «  turba  pro- 
«  fana  a  Pindo  infesta  »,  «  inutile  drappello  di  sciocchi  »,  degno 
che  al  Nannini  se  ne  dia  la  presidenza  per  acclamazione  (3).  Di 
quest'abate  Niccolini,  del  resto,  non  sappiamo  altro,  se  non  quel 
che  ne  dicono,  in  un'ottava  improvvisata  lui  assente,  i  vari  poeti 
della  famiglia  Gavard  medesima  : 

Lisetta.  Pretende  molto  e  non  conclude  niente. 

Michelino.     Saria  bello  se  non  fosse  peloso; 

e  più  oltre: 

Altro  di  buono  in  sé  non  ha  che  il  dente. 

Persino  il  signor  Giuseppe,  che  fin  qui   non  ha  fatto  udire  la 


(1)  N.  21.  Al  verso  8*  di  questo  sonetto  in  comune,  la  postilla  depennata 
annotava:  «fatto  in  tre:  Bettina,  Carolina  e  la  vecchietta». 

(2)  Di  un  canonico  Carlo  Gavard  trovo  pubblicata  {Firenze,  1801)  un'opera 
dal  titolo;  La  corrispondenza  della  verità  con  la  politica;  e,  con  la  data 
di  Firenze  1814,  una  Orazione  al  popolo  toscano  per  il  felice  ristabili- 
mento di  S.  A.  R.  Ferdinando.  —  Non  so  se  il  canonico  del  1801  e  del 
1814  e  l'abate  del  1776  siano  una  stessa  persona. 

(3)  N.  11.  Sonetto  d'admissione  del  Niccolini.  Gom.: 

Se  dall'orrida  tomba  oggi  la  testa. 


388  E.   PIAZZA. 

sua  voce,  asserisce  di  lui,  neirunico  verso  suoi  ntrodottosi  nella 
Raccolta,  che 

Fu  cacciator  grande  e  glorioso; 

ma  di  qual  sorta  di  selvaggina  non  dice,  e  non  si  sa  (1). 

Tardissimo  appena  troviamo  tra  quei  poeti,  con  due  versi  nel 
penultimo  componimento,  il  nome  di  un  Donaudi  (2).  Ma  di  gran 
lunga  più  cospicua  è  la  parte  che  vi  spetta  a  un  singolare  per- 
sonaggio, che  a  bella  posta  abbiam  lasciato  per  ultimo,  il  quale 
troviamo  indicato  col  nome  di  Isidoro,  e  qua  e  là  anche  di  Doro 
e  Dorino  (3).  Se  il  protagonista  di  quelle  riunioni  è  il  nostro 
Enrico,  non  si  può  certo  ricusare  a  Isidoro  il  grado  che  gli  spetta 
di  deuteragonista.  Il  Gentile  mostra  di  tener  costui  come  uno 
della  famiglia  Gavard  (4);  ma  nulla  è  nel  manoscritto  che  ci  con- 
senta di  affermar  ciò;  anzi,  tutto  quello  che  quivi  Io  concerne  ci 
fa  creder  Topposto.  Questione,  del  resto,  di  minimo  rilievo;  come 
di  poco  conto  sarebbero  per  noi  tutte  codeste  manifestazioni  dei 
personaggi  che  abbiam  sotto  gli  occhi,  se  non  ci  fosse  di  mezzo 
il  nome  dell'Alfieri,  e  se  non  ci  rappresentassero  come  in  un  qua- 
dretto l'ambiente  fiorentino  in  mezzo  al  quale  era  venuto  a 
cascare  il  nostro  Tragico  in  erba.  Isidoro,  adunque,  parrebbe  uno 
del  popolo,  0  del  contado:  forse  un  fattore  dei  Gavard,  o  un 
vetturale,  un  procaccio  o  altro  di  simigliante(5);  comunque,  un 


(1)  N.  23.  «Sull'abbate  Niccolini.  Ottava  >;  ma  prima  diceva:  «  Ode  ana- 
<  creontica  ».  Non  saprei  dire  se  questo  abate  Niccolini  sia  il  medesimo 
del  quale  parla  Mad.  Du  Boccage  nelle  sue  Lettres  d'Italie,  e  eh*  ella  co- 
nobbe a  Firenze  un  vent'anni  innanzi.  Vedi  Al.  D'Ancona,  Mad.  Du  Boc- 
cage in  Italia,  in  Fanfulla  d.  dom.,  an.  IV,  n*  28. 

(2)  «  Un  altro  dal  nome  non  ben  leggibile  »  lo  dice  il  Gentile;  ma  è 
Donaudi  certamente.  Di  un  conte  Donaudi  delle  Mallere,  autore  di  un 
Saggio  di  Economia  civile,  come  pure  di  un  abate  Donaudi  fa  cenno  il 
De  La  Lande  nel  voi.  I  del  suo  Voyage  en  Italie,  come  di  uomini  che  si 
segnalarono  nelle  lettere  in  Torino  dopo  il  1765.  Non  so  se  abbiano  relazione 
col  nostro;  ma  il  vedere  un  altro  piemontese  alle  conversazioni  di  casa  i 
Gavard  ci  conferma  nell'opinione  sopra  espressa  che  questi  fossero  oriundi 
degli  Stati  sardi. 

(3;  Il  Palermo  e  il  Renier  accennano  a  una  Dorina,  scambiando  proba- 
bilmente con  Dorino  ;  che  di  una  Dorina  non  v'  è  traccia.  Che  Dorino  e 
Isidoro  poi  siano  una  medesima  persona  si  vede  dal  citato  compon.  n*>  44, 
dove  nell'intestazione  è  detto  Isidoro  e  nel  1*  verso  Dorino. 

(4)  Vedi  la  nota  n»  1,  p.  371. 

(5)  Nel  componimento  n^  14,  Enrico  Gavard,  augurando  il  buon  viaggio 


VARIETÀ  389 

uomo  di  buona  pasta  e  di  facile  loquela,  il  quale  vi  è  chiamato 
per  servire  in  certo  modo  di  zimbello  alla  compagnia,  benché 
si  ribelli  a  passare  per  tale  (1).  Ma  che  gli  altri  si  volessero 
pigliar  gioco  del  buon  diavolaccio  si  vede  anche  dal  ricordato 
sonetto  dell'abate  Gavard,  dove  si  narra  d'uno  scherzo,  di  cattivo 
genere  per  verità,  fatto  a  lui  «  da  vari  viaggiatori,  curiosi  di 
«  vedere  il  bello  dei  luoghi  per  dove  passano  »,  i  quali  costrin- 
gono Isidoro  a  levarsi  i  calzoni,  e  a  mostrar  loro  ciò  che  non 
si  suole  pubblicamente  mostrare.  Anche  il  segretario,  del  resto, 
alla  seconda  apertura  àeìV Accademia,  si  sbizzarrisce  sul  conto 
d'Isidoro,  sbozzandoci  di  lui  un  breve  ritratto,  che  non  è  privo 
di  comicità: 

«Ottava  d'Isidoro,  che  ha  il  dritto  esclusivo  di  cominciar 
«  sempre.  —  Dopo  essersi  grattato  il  capo,  preso  tabacco,  e  guar- 
«  dato  attorno  con  quegli  occhi  furbetti  che  ognun  gli  conosce, 
'<(  intinta  la  penna  ben  dieci  volte,  e  tentato  insomma  di  soffocare 
«  quell'estro  divino  che  lo  suol  inspirare,  rapito  invaso  dal  Nume 
«  cosi  cominciò. 

«Qui  rimase  sospeso,  perchè  avea  scrupolo   di   far  cattivi 


a  Isidoro,  che  s'accinge  a  partire,  lo  invidia  scherzosamente,  perché  si  dà 
il  lusso  di  viaggiare,  come  fanno  gl'Inglesi;  e  conclude: 

Chi  vuol  saper  dove  Isidoro  è  andato, 
Con  le  mule  del  conte  andonne  a  Prato. 

E  nel  sonetto  dell'abate  Gavard,  leggiamo: 

Mentre  Dorin,  che  non  fu  mai  minchione. 
Messo  a  parte  il  cavalleresco  onore, 
La  paglia  tribbiando  al  suo  corridore 
Il  mestiere  facea  dello  stallone, ....  ecc. 

(1)  Così,  egli  medesimo  dice  nel  componimento  n»  12: 

Chi  è  causa  del  suo  mal  pianga  sé  stesso  : 
Ripeterlo  vogl'io  e  con  piacere; 
Perchè,  avanti  di  compor,  sovente  e  spesso 
Temo  —  dissi  —  di  far  dispiacere. 
Ma  voi,  quasi  a  pregarmi  genuflesso. 
Un'  ottava,  mi  dicesti,  vao'  vedere  :  ecc. 

e  più  oltre  : 

Sofferenza  ci  vuol  talvolta  ancora. 

Che  scopo  eir  è  di  chi  vuol  conversare  : 

Non  tutto  a  modo  suo;  e  in  qualche  ora 

Fa  d'uopo  ancor  lasciarsi  corbellare 

A  chi  di  società  il  nome  onora; 

Ma  certo  per  minchion  tion  vuo'  passare; 

Se  canzonato  io  san,  risponder  voglio;  ecc. 

Ho  ritoccato  solo  qua  e  là  la  punteggiatura. 


390  E.   PIAZZA 

«  versi  :  questo  scrupolo  ci  parve  strano.  Dopo  lunghi  stenti  par- 
«  tori  il  primo  verso 

€  Di  far  de'  versi  ognun  vantar  si  puole...  >  ecc. 
Ma  basti  anche  d'Isidoro;  che  il  lettore  n'avrà  con  noi  già  piene 
le  tasche. 

Son  questi  adunque,  oltre  dW Anonimo,  gli  interlocutori  del- 
l'Accademia. <  Poetastri  »  son  detti,  e  son  veramente;  e  nelle  lor 
pessime  rime  la  decenza  e  il  senso  comune  e  la  metrica  son  del 
pari  oltraggiati.  Quanto  ai  temi  del  poetare,  son  vari:  ora  è  una 
tenzone  a  scambio  di  banali  canzonature;  ora  una  presentazione 
di  personaggi;  qui  Isidoro  si  giustifica  dell'aver  toccato  la  su- 
scettività di  qualcuno;  più  là,  i  poeti  si  provano  a  gara  sopita 
un  soggetto  obbligato;  ecc.  In  quattro  di  quei  componimenti  ve- 
diam  trattarsi  un  argomento  in  comune:  è  un  Sonetto  suìla 
prima  donna  della  Pergola,  o  un  Capitolo  sopra  il  poetastro 
Enrico,  e  via  dicendo;  e  in  questi  soli  vediamo  introdurre  qualche 
verso  anche  le  donne.  —  E  l'Alfieri?  qual  parte  sostìen  egli  in 
questa  Accademia  ?  e  si  tratta  poi  veramente  d'un'accademia  nel 
senso  che  comunemente  si  suol  dare  a  questa  parola  ? 

Convien  dire  che,  ancora  in  quella  seconda  metà  del  sec.  XVIII, 
prima  almeno  della  grande  Rivoluzione,  in  Italia  anche  tra  gli 
adulti  si  bamboleggiava;  e  il  furore  per  le  accademie  era,  pur- 
troppo, si  connaturato  agli  Italiani  nel  sangue,  specie  della  no- 
biltà e  della  men  che  mezzanamente  cólta  borghesia,  che  bastava 
si  adunassero  quattro  gatti  a  veglia  in  una  casa  privata,  perché 
subito  si  dessero  a  miagolare  in  veste  d'accademici.  Si  aggiunga 
che  nell'anno  di  grazia  1776  in  particolar  modo  fervevano  le 
dispute  e  i  cervelli  per  la  improvvisazione  poetica,  ed  erano  in 
Firenze  vivissime  proprio  allora  che  ci  si  trovava  l'Alfieri.  Or, 
com'  era  naturale  che  per  le  infinite  colonie  e  sub-colonie  d'Ar- 
cadia sorgessero  per  ogni  dove  larve  e  parodie  d'accademie,  del 
pari  comune  doveva  esservi  il  caso  del  vedervi  spuntar  come 
funghi  le  gare  e  i  rimatori  improvvisi.  Uno  di  codesti  frutti 
spuri  ed  insipidi  è  appunto  la  /Jacco/^a  poetica  di  casa  Qavard; 
la  quale  però,  a  nostro  vedere,  rappresenta  solo  uno  scherzo,  e 
un  episodio  piuttosto  tardo  di  quei  convegni,  incominciati  già 
qualche  tempo  innanzi  (1);  e  nasce  per  puro  accidente  nel  raag- 


(1)  Il  sonetto  prò  Gorilla  del  Nannini  porta,  tra  i  quarantaquattro  com- 
ponimenti della  prima  sessione,  appena  il  n®  10;  dunque  nei  primi  di  set* 


VARIETÀ  391 

gior  fervore  di  quelle  dispute.  Mi  par  di  vedere  che  la  cosa 
dovè  andare  press'a  poco  in  questo  modo  :  un  bel  giorno,  verso  il 
finire  d'agosto,  salta  il  ticchio  a  quel  capo  ameno  di  Enrico  di 
metter  su  in  casa  sua,  per  divertir  sé  e  le  ragazze,  un  agone 
poetico  di  quella  fatta.  Perchè  no?  siamo  tutti  improvvisatori  in 
Italia.  Suo  compagno  di  tenzone  sarà  quel  bonaccione  d'Isidoro  ; 
l'Alfieri  farà  da  Segretario;  e  il  resto  verrà  da  sé.  Né  si  creda 
eh'  io  parli  a  caso.  Il  componimento  n"  12  della  Raccolta,  ricol- 
legato col  senso  del  1°  e  del  4^  ce  ne  dà,  per  quanto  almeno 
concerne  Isidoro,  la  prova  evidente.  Vengono  una  mattina  a  pi- 
gliarlo; e  te  lo  conducono  all'abitazione  di  quello  ch'egli  chiama 
enfaticamente  «  Conte  rinomato,  Del  Turineo  paese  bel  germo- 
«  glio  »  (1),  affinché  vi  dia  un  saggio  della  sua  valentia  improv- 
visatrice; ed  egli,  benché  riluttante,  alla  fine  ci  si  piega.  Quel 
saggio  (2),  presentato  poi  in  iscritto,  vien  cacciato  anch'esso  nel 


tembre  V Accademia  è  incominciata  da  pochi  di.  D'altra  parte,  la  famigliarità 
grande  tra  il  Gavard  e  l'Alfieri,  che  si  mostra  già  nei  componimenti  5-8, 
rivela  una  conoscenza  di  più  vecchia  data,  che  solo  in  Firenze  poteva  essersi 
stretta,  se  in  Firenze  il  Gavard  copriva  il  posto  che  sappiamo  presso  il  Gran- 
duca almeno  dai  primi  del  1775. 

(1)  N.  12.  In  questo,  Isidoro  riferisce  come  un  Cavalier  garbato  (nei  com- 
ponimenti n»  1  e  no  4  è  chiamato  il  Santini),  incontratolo  una  sera  presso 
il  Bottegone,  si  dolesse  con  lui  d'esserne  stato,  in  una  sua  ottava,  deriso; 
soggiungendo  : 

Vi  prego  (disse)  a  volervi  astenere. 

Quando  componete  in  poesia, 

Della  critica  lasciar  la  strada  ria  {sic). 

Sovvengavi  l'ottava  che  facesti 
Quando  andiedemo  insieme  dairAliieri  ?  — 
Ma,  gli  risposi,  allor  non  disdicesti;  ecc. 

Cfr.  anche  la  nota  1,  a  pag.  389. 

(2)  È  questo  il  componimento  che  reca  il  n»  4,  nonostante  che  dovesse 
trascriversi  come  primo.  Ce  lo  dice  una  postilla  marginale  dell'Alfieri  : 
«  Quest'ottava  dovrebbe  essere  prima  nel  quaderno,  ma  avendola  il  segre- 
«  tario  ricevuta  dopo  l'altra  (cioè  dopo  il  n^  1)  non  ha  potuto  darle  il  con- 
«  venevole  luogo;  gl'intenditori,  e  quei  che  riflettono,  intenderanno  però, 
«  confrontandole  entrambe,  che  l'altra  è  fatta  dopo,  essendo  molto  migliore  : 
«anzi  si  possono  da  questi  due  parti  notare  i  progressi  rapidissimi  dell' in- 
<  gegno  umano».  —  Questo  saggio  incomincia: 

Vorresti  qttestà  mane  improvvisassi 

e  termina: 

Giungemmo  al  fine  al  desiato  porto  : 
Io  feci  qaest'  ottava  mezzo  morto. 


392  E.   PIAZZA 

quaderno;  e  Isidoro,  scritturato  senz'altro,  nella  prima  adunanza 
serale,  con  un'altra  Ottava  (i)  «cantata  quasi  estemporanea- 
«  mente  >  (cosi  postilla  il  segretario),  inizia  la  serie  di  quei  poe- 
tici passatempi. 

Che  l'Alfieri  si  acconciasse  di  buona  voglia  a  stare  in  tal  com- 
pagnia, si  può  spiegare  in  più  modi.  Forse  non  erra  interamente 
il  Palermo,  quando  pensa  che,  in  sul  principio  almeno,  il  desiderio 
d'impossessarsi  della  lingua  parlata  in  Toscana  vi  avesse  parte: 
che  concorderebbe  con  le  parole  riferite  della  Vita  a  quell'anno. 
E  un'altra  ragione  potrebbe  cercarsene  nella  insaziabile  sua  va- 
nità. Noi  lo  vediamo  infatti,  in  mezzo  a  quel  va  e  vieni,  venerato 
come  il  Nume  delle  adunanze.  Egli  troneggia  nel  posto  d'onore, 
in  seggio  più  cospicuo  e  più  adorno,  attorniato  dalle  ragazze, 
nuovo  Apollo  in  mezzo  alle  Muse  (2);  e  a  lui  si  volge  rispetto- 
samente la  parola  enfatica  d'Isidoro,  augurante  di  veder  lui  pure 
assiso,  con  la  laurea  e  con  lo  scettro,  «  dell'alma  città  nel  Cam- 
«  pidoglio  »  (3).  Sulle  prime,  dà  anch'  egli  alla  'Raccolta  il  suo 
contributo  poetico;  e  abbiamo  veramente  di  suo  un  sonettino  e 
xxxiottavìna  tra  i  primissimi  componimenti  del  manoscritto  (4); 


(1)  È  il  primo  componimento  dello  zibaldone.  In  esso  riparla,  come  di  un 
ipocrita  e  bacchettone,  del  Santini. 

Io  ebbi  sempre  a  noia  i  bacchettoni. 

(2)  Vedi  il  comp.  n»  11:  Ottave  del  sig,  Isidoro: 

Numero  nove  ottave  a  voi  presento, 
0  grand'  eroe,  che  portate  il  vanto 
Di  starvene  con  sedia  pien  d'argento 
Dell'aurato  stuolo  di  Muse  accanto  ....  ecc. 

(3)  N.  11  : 

A  voi  si,  oh  Conte  rinomato, 

Del  Turineo  paese  bel  germoglio. 
Che  dalle  Muse  tanto  siete  amato, 
'    Preparar  si  comincia  il  vostro  soglio  ; 
E  con  lo  scettro  in  man  laureato 
Dell'alma  città  nel  Campidoglio 
Bramo  vedervi  assiso,  o  conte  Alfieri, 
Che  nudrite  nel  sen  sì  bei  pensieri. 

Altra  eco  dell'incoronazione  di  Gorilla! 

(4)  Non  riferirò  VOttavina  del  segretario  (n»  7),  della  quale  diede  già  i 
primi  versi  il  Teza  (Vita  ecc.,  p.  xix,  n.).  Riporto  invece  il  sonetto,  rad- 
drizzandone la  punteggiatura;  non  per  la  sola  ragione  eh' è  inedito:  ma 
perché  mostra  che  il  sonetto  al  P.  Ricca  era  stato  veramente,  prima  che 
à&ìV Anonimo,  imitato  dall'Alfieri  medesimo.  —  Strano  che  il  Palermo,  il 


VARIETÀ  393 

ma  la  piega  poco  bella  che  prende  poi  quel  rimeggiare  lo  induce 
bentosto  a  ritener  per  sé  la  sola  parte  di  trascrittore  fedele  e 
di  scoliaste  degli  spropositi  altrui,  col  diritto  di  commentare,  di 
punzecchiare  e  di  far  dello  spirito  dinanzi  alle  donne.  Non  si  può 
escludere  tuttavia  che,  oltre  a  quel  desiderio  di  parer  bello,  di 
piacere,  di  farsi  centro  a'  mediocri  per  figurarvi  da  più  di  loro, 
qualche  altra  ragione  vi  contribuisse  del  pari.  Fa  d'uopo  ram- 
mentarsi, a  questo  proposito,  qual  fosse  l'Alfieri  in  quel  tempo, 
e  qual  vivo  bisogno  fosse  in  lui,  nauseato  di  troppo  facili  donne 
e  sazievoli  amori,  di  avere  il  cuore  occupato  da  qualche  più 
puro  e  gentile  affetto,  eh'  egli  s' andava  cercando  intorno  an- 
siosamente, benché  a  stento  ardisse  aflidarvisi ,  timoroso  di 
nuovi  disinganni.  In  un  simile  stato  d' animo  s'  era  trovato 
poco  tempo  innanzi   a  Pisa  (1),  quando,  combattuto  tra  il  si  e 


quale  a  lui  attribuiva  uno  dei  tre  àeW Anonimo  stesso,  di  questo,  che  è  in- 
dubbiamente suo,  non  faccia  motto.  Abbia  confuso  e  scambiato  l'uno  con 
l'altro?  Comunque,  ecco  il  sonetto  dell'Alfieri:  —  N.  5.  Sonettino  del  segre- 
tario al  sig.  Enrico  sopra  una  traduzione  d^un  verso  latino  fatta  dal  pre- 
detto, con  la  solita  sua  felice  eloquenza. 

Che  tradazion  bestiai,  stupida  e  sciocca, 
Traduzion  che  non  vale  una  patacca, 
Lunga,  infedel,  poco  armoniosa  e  fiacca, 
Ardisti  a  me  mandar,  o  impura  bocca  ? 

Pegaso,  il  sai,  sotto  di  te  trabocca, 
E  le  costole  spesso  anche  s'ammacca. 
A  che  destar  la  Musa  tua,  eh'  è  stracca? 
Senza  che  tu  poeti,  ognun  ti  cocca. 

Vate  non  sei  che  col  desìo:  tal  pecca 
Hai  con  molti  comune,  in  cui  si  ficca 
Quest'appollinea  rabbia  che  ci  secca. 

Non  è  la  vena  tua  cotanto  ricca 
Che  paiano  i  tuoi  versi  oro  di  zecca: 
Tu  sei  bambino  ancori  —  To'  questa  chicca. 

(1)  Vedi  i  Giornali  pubbl.  dal  Tbza.  —  In  data  di  lunedì  2  giugno  (1777), 
Siena f  scrive:  «In  Pisa  rividi  una  ragazza  con  cui  facea  V amore.  Vanno 
«  scorso',  non  ne  sono  innamorato:  ma  la  mi  pare  d'un' indole  ottima:  e  non 

«  fui  mai  così  vicino  ad  ammogliarmi La  tranquillità  così  necessaria  al 

«  mio  mestiere  mi  parrebbe  perfetta,  avendo  una  moglie  amorosa  e  costu- 
«mata:  ma  se  non  è?  Questa  costumata  pare:  innamorata  di  me  lo  pare: 
<  ha  rifiutato  altri  partiti:  in  un  anno  d'assenza,  so  che  ha  sempre  cercato 
«  di  me,  senza  ch'io  non  le  avessi  detto  né  anche  una  volta,  ch'io  l'amassi. 
«  Quando  son  con  lei,  la  veggo  in  quel  contegnoso  e  modesto  impaccio,  in 
«  cui  si  trova  una  ragazza  che  ama  e  non  l'osa  dire,  ma  vuol  eh'  io  l' in- 
«  dovini.  Finta  finora  non  lo  è:  ma,  ma,  ma,  ma:  bisogna  pensarci  »  {Yita 
Giornali  Lettere,  p.  353). 


394  E.   PIAZZA 

il  no  del  parlare  o  del  tacere,  e  non  osando  dichiararsi,  lasciava 
discorrere  in  sua  vece  con  il  molesto  scricchiolio  la  seggiola 
sulla  quale  si  veniva  dimenando,  dinanzi  alla  amorosa  e  costu- 
mata Sandrina,  che,  in  atto  contegnoso,  aspettava  dalla  bocca 
di  lui  qualche  altra,  più  esplicita  dichiarazione,  che  non  veniva 
al  punto  mai  (1).  Egli  è  che,  prima  d'impegnarsi  un'altra  volta 
sul  serio  in  un  nuovo  amore,  che,  data  l'indole  sua  e  i  casi 
precedenti,  non  poteva  non  tramutarsi  in  passione  viva  e  violenta, 
egli  aveva  bisogno  di  pensarci  più  volte;  e  soprattutto  d'esser 
ben  certo  che  la  compagna  cercata  fosse  veramente  degna  di 
quell'ardente  foga  d'affetti  ch'ei  sentiva  di  poterle  dare  senza 
riserve.  —  Intanto,  tra  la  Sandrina  e  la  Carolina,  come 

Intra  duo  cibi  distanti  e  moventi 
D'  un  modo, 

non  dico  che  si  lasciasse  morir  di  fame;  ma  si  contentava  di 
prendersela  alla  larga,  con  un  dire  e  non  dire;  allontanando  da 
sé  il  momento  d'una  scelta  definitiva,  per  la  quale  c'era  sempre 
tempo  di  finire  a  scapicollarsi. 

Quei  famigliari  convegni,  che,  incominciati  forse  nel  luglio  e 
continuati  nell'agosto,  si  protrassero  fino  alla  fine  del  settembre 
1776,  vengono  a  trovarsi  interrotti  di  necessità  per  la  partenza 
dell'Alfieri  da  Firenze.  Il  suo  sollecito  ritorno  in  Piemonte  av- 
venne, non  già  perché  egli  si  credesse  <  intoscanito  abbastanza; 

«  ma  per  molte  altre  frivole  ragioni ».  «  I  miei  cavalli  lasciati 

«  in  Torino  —  racconta   nella  Vita  —  mi   vi  aspettavano  e  ri- 

«  chiamavano Né  mi  premeva  allora  tanto  lo  studio  e  la  gloria, 

«  che  non  mi  pungesse  anco  molto  a  riprese  la  smania  del  diver- 
«  tirmi  »  (2).  Confessione  rilevante  questa,  e  alla  quale  crediamo 
senza  fatica.  Ce  ne  dan  prova  infatti  i  sonetti  nei  quali  descrive 


(1)  Mi  par  questo  il  commento  più  naturale  all'Epigr.  XV  dell' ediz.  del 
Renier  (Dialogo  fra  una  sedia  e  chi  vi  sta  su,  p.  281),  che  rispecchia  vi- 
sibilmente io  stato  d'animo  d'un  corteggiatore  perplesso;  e  ch'esso  epigramma 
abbia  strettissima  parentela  col  passo  dei  Giornali  citato.  —  È  dunque  un 
errore  di  stampa  la  data  Pisa,  giugno  1766  riferita  dal  Renier  nella  sua 
Introduzione  (p.  lxxvi),  e  va  letto  1776.  Del  '66  in  Pisa  l'Alfieri  fu  nel 
decembre,  e  per  un  sol  giorno  (vedi  7t(éi,  p.  39).  11  nome  SandJrina  è  nel- 
l'epigramma. 

(2)  Vito,  p.  179. 


VARIETÀ  395 

«a  parte  a  parte  le  bellezze  palesi  d'un'amabil  signora »(1);  le 
lezioni  di  musica  che  a  una  bellissima  signora  «  si  smania  di 
«  dare  »,  «  con  la  speranza,  per  non  dir  la  certezza,  che  in  otto 
«  giorni  ella  potrà  aver  da  lui  idea  chiarissima  dell'accompa- 
«  gnamento  di  cembalo  »  (2);  la  vanagloria  del  saper  tante  donne 
innamorate  di  lui,  e  non  a  Torino  solo,  ma  in  Toscana,  «  dove 
«  in  mio  pensiero  »  —  scrive  —  «  già  ho  acceso  parecchie  donne 
«  dell'amor  per  me  >  (3);  e  dove  si  strugge  di  ritornare  per  <  far 
«  mostra  della  sua  amabilità  »  ;  il  gareggiare  al  passeggio  con 
alcuni  amici  oziosi  e  del  bel  mondo  per  esser  notati  dalle  si- 
gnore (4)  ;  e  il  mostrarvisi  con  aria  di  conquistatore  in  compagnia 
d'una  dama  da  cui  è  amato,  e  che  non  si  vergogna  di  dirlo  né 
a  lui  né  a  chi  lo  vuol  sapere  (5).  Come  ciò  fosse  poco,  egli  se- 
guita tuttavia,  nonostante  quel  po'  po'  di  chiasso  e  di  colascionate, 
a  far  visite  frequenti  alla  sua  «  antica  fiamma  »,  alla  «  dotta 
«  Frine  »  che  gli  prodiga  «  vezzi  e  lascive  provocanti  carezze  »; 
la  quale,  sebben  egli  non  l'abbia  stimata  mai,  e  a  quest'ora  l'ami 
pochissimo,  s'egli  s'ostinasse  ad  attaccare  (dato  che  un  innomi- 
nabile incomodo  gliel  permettesse),  l'amor  proprio  gli  dice  che 
gli  cederebbe  di  nuovo  (6).  Partito  a'  4  di  maggio  per  la  Toscana, 
fin  dal  primo  giungervi,  come  confessa  in  quei  diari,  non  ha  altro 
pensiero  che  «  di  piacere  »  ;  «  di  presentarsi  in  aspetto  favore- 
«  vole»;  di  «figurar  per  i  cavalli  »;  di  «comparir  bello;  poi 
«  ricco;  poi  uomo  di  spirito;  poi  autore  ed  uomo  d'ingegno  »  (7). 
Or  da  tutto  questo  apparisce  ben  chiaro  che  la  sua  conversione 
letteraria  non  è  punto,  fin  qui,  un  fatto  compiuto;  e  sopra  tutto, 


(1)  Vita,  p.  180;  e  cfr.  Rime,  I,  soa.  V  a  XIII. 

(2)  Giornali,  p.  346. 

(3)  Ibidem,  p.  344. 

(4)  Ibidem,  p.  349. 

(5)  Ibidem,  p.  350. 

(6;  Giornali,  pp.  345  e  351.  —  Curioso  che  il  Fabris,  il  quale  (St.  Alf., 
pp.  108-9)  interpretava  a  rovescio  il  Carducci  intorno  agli  intendimenti 
della  satira  alfieriana,  non  accorgendosi  di  sfondare  una  porta  aperta  col 
ripetere  press' a  poco  le  cose  dette  dall'illustre  critico,  da  lui  mal  letto  o 
male  inteso;  se  la  prenda  a  questo  punto  (nell'opuscolo:  I  primi  scritti  in 
prosa  di  V.  A.,  Sansoni,  1899,  p.  11)  anche  col  Teza;  il  quale,  avendo  sop- 
presso alcuni  passi  scabrosi  del  ms.  Laur.  5  nei  Giornali  e  sostituitovi  dei 
puntini,  se  ne  scusava  con  dire:  «Brutto  diritto  è  questo  metter  la  mano 
«  negli  scritti  dei  grandi  :  e  bratto  dovere,  anche  »  (  Vita  Giorn.  Lettyp-  354). 

(7)  Giornali,  pp,  353-4. 


396  E.   PIAZZA 

ch'egli  non  ha  ancora  la  visione  netta  dell' alta  missione  civile 
a  cui  si  sentirà  chiamato  più  tardi. 

Al  suo  ritorno  in  Firenze,  pertanto,  che  fu  verso  la  metà  di 
ottobre  di  quell'anno  1777,  nonostante  i  cinque  mesi  della  dimora 
in  Siena  col  Gori ,  noi  lo  vediamo  subito  far  ritorno  agli  antichi 
ritrovi.  Qual  fosse  l'accoglienza  fattagli  dagli  amici  di  Firenze 
egli  non  dice;  ma,  con  la  scorta  del  nostro  manoscritto,  non  è 
difficile  immaginarlo.  Lo.  conversazioni  di 'casa  Gavard  ricomin- 
ciano: né  si  dimentica  di  farvi  novamente  appello  al  buon  Isidoro, 
alla  cui  presenza,  il  15  di  ottobre,  si  procede  alla  seconda  aper- 
tura deìV  Accademia. 

Se  non  che  d'un  tratto,  quando  meno  ce  l'aspettiamo,  il  famoso 
zibaldone,  subito  dopo  il  terzo  componimento,  è  interrotto. 
Perché  ? 

«  Ed  ecco  »  —  scrive  l'Alfieri  a  questo  punto,  dopo  averci 
detto  che  da  Siena  s'era  recato  a  Firenze  non  ancor'  ben  certo 
se  vi  passerebbe  pur  l'inverno,  o  sen  ritornerebbe  a  Torino  — 
<  ecco  che,  appena  mi  vi  fui  collocato  cosi  alla  peggio  per  pro- 
«  varmici  un  mese,  nacque  tale  accidente,  che  mi  vi  collocò  e 
«  inchiodò  per  molti  anni  »  (1).  Era  questo  l'atteso  da  si  gran 
tempo  risorgimento  dell'anima,  il  degno  amore  che  doveva  al- 
lacciarlo finalmente;  era  il  destarsi  di  quel  misto  incognito 
indistinto,  passione  dell'intelletto  e  passione  del  cuore,  che,  di- 
vampando come  fiamma,  «  si  andò  a  poco  a  poco  ponendo  in  cima 
«  d'ogni  suo  affetto  e  pensiero  »  (2),  e  non  doveva  oramai  spe- 
gnersi più  se  non  con  la  vita.  Da  questo  momento,  il  lontano 
lume  di  gloria,  intraveduto  tra  i  densi  vapori  di  tanti  affetti 
irrequieti  e  incomposti,  si  fa  manifesto,  sempre  più  vivo  e  più 
grande.  Cedono  le  esitazioni  e  i  tentennamenti;  ogni  relazione 
col  passato  è  rotta;  e  V Accademia  anch'essa,  con  le  futili  rime 
e  il  trono  d'Apollo  e  le  Muse,  non  ha  più  potere  sull'animo  suo. 
Una  mano  ferma  ha  afferrato  il  naufrago,  che,  smarrito  nel 
pelago,  invano  ansioso  interrogava  il  cielo  torbido  e  fosco;  una 
cara  voce  gli  ha  suggerita  la  via,  ha  levato  in  alto  il  suo  cuore, 
gli  ha  parlato  di  grandezza;  e  il  miracolo  d'amore  è  compiuto. 
—  In  presenza  di  questo  fatto,  e  quali  che  siano  le  debolezze, 
i  difetti,  i  torti  che  (forse  esagerando)  si  attribuiscono  a  Luisa 
Stolberg  contessa  d'Albania,  non  può  a  lei  senza  ingiustizia  ne- 


(1)  Vita,  p.  189. 

(2)  rito,  pp.  190-1. 


VARIETÀ  397 

garsi  il  vanto  d'avere  strappato  alle  men  nobili  passioni  e  al 
basso  aere  di  quella  compagnia,  non  malvagia,  ma  scempia, 
l'anima  fremente  di  Vittorio  Alfieri;  e  di  avere,  da  tutte  le  virtù 
di  lui,  e  dai  vizi  anche,  saputo  trarre  la  quintessenza  vitale,  il 
viatico  atto  a  sostenerlo,  volgendolo  verso  una  meta  ben  chiara 
e  determinata.  Intuì  ella,  forse,  che  di  tanto  più  degno  scudo 
avrebbe  difeso  sé  medesima  e  la  propria  sua  colpa,  quanto  più 
sublime  avesse  saputo  indirizzare  il  pensiero  e  levar  la  fama  di 
lui;  e,  benché  straniera  all'Italia,  della  quale  pure  apprezzava 
la  passata  grandezza,  la  bionda  regina  dei  cuori  esercitò  intero 
il  suo  fascino  sull'animo  del  ruvido  figlio  del  Piemonte;  e  riuscì 
a  maturare,  a  integrare  in  lui  quel  piene)  rivolgimento,  che  né 
il  D'Acunha,  né  il  Galuso  ed  il  Gori  avevano  potuto.  Per  lei  ca- 
dono dagli  occhi  del  poeta  i  veli,  che  gli  offuscavan  la  vista  ; 
per  lei  gli  si  mostra  in  viva  luce  ciò  ch'ei  può  diventare,  e  ciò 
che  può  fare  per  la  patria  schiava ,  prostrata.  E  a  lei  devono 
per  non  poca  parte  gl'Italiani  (se  ben  discerno)  il  riscatto  intel- 
lettuale e  morale  del  loro  poeta:  il  primo  dopo  Dante  che, 
uscendo  dalla  caligine  del  suo  tempo,  addita  agli  Italiani  il  sole 
delle  età  future  (1). 

Ettore  Piazza. 


(1)  Non  occorre  ripetere  qui  ciò  che  tutti  ormai  sanno  :  noi  lasciamo  ai 
nostri  egregi  cooperatori  pienissima  libertà  nei  loro  apprezzamenti.  Ma  non 
possiamo  lasciar  passare  questa  chiusa  dell'articolo  del  prof.  Piazza  senza 
dire  che  rispetto  alla  contessa  d'Albany  il  nostro  giudizio  è  assai  diverso 
dal  suo,  per  non  dire  addirittura  opposto. 

La  Direzione. 


Giornale  storico,  XXXVUI,  fase.  114. 


2S 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


GIOVANNI  PASCOLI.  —  Sotto  il  velame.  Saggio  d'una  interpre- 
tazione generale  d^l  poema  sacro.  —  Messina,  Moglia,  1900 
(8°,  pp.  xv-624). 

State  contenti,  umana  gente,  al  quia.  —  E  per  me  questo  è  un  principio 
sacrosanto  anche  in  arte,  non  meno  che  in  religione.  Una  religione  che  si 
potesse  spiegare  in  ogni  sua  particolarità,  non  sarebbe  più  una  religione,  ma 
una  scienza:  e  una  scienza  sarebbe  l'arte  che  fosse  tale;  il  che  vuol  dire 
che  sarebbe  distrutta  cosi  la  fede  come  l'ispirazione,  e  l'essere  santo  e  l'es- 
sere poeta  dipenderebbero  solo  dall'aver  appreso  bene  e  bene  applicato  una 
teorica.  Ora  siccome  l'essenza  della  religione,  e  l'essenza  dell'arte  parimenti, 
sta  in  ciò  che  eccede  la  nostra  conoscenza  razionale,  il  cercare  il  propter 
quod  è  cercar  l'impossibile,  e  il  trovarlo  equivale  a  dimostrare  che  quella 
pareva  religione  o  pareva  arte,  ma  non  erano. 

Questo  io  pensava  leggendo  il  nuovo  libro  del  Pascoli,  libro  pieno  di 
dottrina,  che  non  è  superata  se  non  solo  dall'entusiasmo,  pieno  di  raffronti 
nuovi,  ingegnosi,  suggestivi,  contenente  una  miniera  di  materiali  preziosi, 
scritto  con  garbo  di  forma  e  di  pensiero,  ma...  lo  devo  dire?  La  tesi  fonda- 
mentale non  torna  e  non  persuade;  e  se  fosse  vera,  povero  Dante!  Questo 
io  pensavo  leggendo  quel  libro,  e  pensavo  che  non  costituisse  anche  un 
esempio  molto  pericoloso,  tanto  più  pericoloso  quanto  maggiore  è  l'autorità 
dello  scrittore  e  quanto  più  l'eccezionale  acume  del  suo  ingegno  sa  dare  tal- 
volta appariscenza  ai  suoi  ragionamenti;  pensavo  se  in  questo  sistema  di 
critica  non  sia  forse  da  riconoscere  la  tendenza  ad  un  nuovo  bizantinismo 
non  migliore  del  vecchio,  di  cui  io  vedo  già  molti  segni  anche  fuori  della 
critica  dantesca,  e  se  non  sia  dover  nostro  di  riflettere  un  po'  sulla  via  che 
stiamo  per  prendere. 

Poniamo  infatti  per  un  momento  che  arte  idealmente  perfetta  sia  quella, 
di  cui  si  possa  rendere  ragione  punto  per  punto  e  nell'analisi  di  ciascuna 
sua  parte  presa  separatamente  e  nella  sintesi  e  nella  corrispondenza  di  molte 
0  di  tutte  le  parti  fra  loro,  in  guisa  da  rispondere  ad  una  precisione  razionale 
e  scientifica;  dico  prima  di  tutto,  che  questo  ideale  non  si  potrà  mai  rag- 
giungere per  alcuno,  e  che  per  quanto  lo  si  voglia  perseguire,  sarà  impossi- 
bile sempre  evitare  il  soverchio,  il  manchevole,  l'indifferente,  l'impertinente, 
per  non  dire   dell'irrazionale  e  del  contraddittorio,  i  quali  sono  pure,  come 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  399 

dimostreremo  in  altro  luogo,  ingredienti  dell'arte,  che,  come  è  impossibile, 
cosi  è  spesso  anche  inutile  cercar  di  evitare.  L'arte,  anche  a  male  aggua- 
gliare, potrà  avvicinarsi  tutt'al  più  alle  scienze  morali  :  e  nelle  scienze  mo- 
rali tutti  sappiamo  quanto  sia  difficile  lo  sceverare  il  contingente  dall'assoluto 
e  trovar  quella  precisione  che  è  propria  della  matematica:  ne  viene  per  ciò 
che  il  volere  precisione  e  assolutezza  nell'arte  è  come  voler  l'impossibile,  e 
chi  l'ha  cercata  e  ha  creduto  di  trovarla,  ha  scambiato  spesso  l'arte  con  la 
tecnica  e  ha  discorso  di  questa  credendo  di  trattare  di  quella.  Se  pertanto, 
come  ho  detto,  poniamo  per  un  momento  che  questo  sia  un  ideale  deside- 
rabile, non  ne  viene  che  sia  un  ideale  raggiungibile,  come  è  appunto  il  ca- 
rattere di  ogni  perfettibilità.  E,  nel  caso  nostro,  se  Dante  se  lo  propose,  non 
vuol  dire  che  lo  abbia  raggiunto,  e  nemmeno  che  abbia  inteso  di  raggiun- 
gerlo 0  che  se  ne  sia  sentito  capace.  Io  credo  che  Dante  sia  stato  un  grande 
poeta,  anzi  credo  che  sia  stato  il  piiì  grande  poeta  dell'umanità,  lo  pongo 
senza  esitare  al  di  sopra  degli  stessi  greci;  ma  ricordandomi  bene  del  pre- 
cetto del  Decalogo  che  dice,  non  avrai  altro  Dio  avanti  di  me,  non  mi  sento 
disposto  a  trasgredirlo  nemmeno  per  Dante.  Dante  per  me  è  un  uomo,  un 
uomo  sovranamente  straordinario,  ma  un  uomo  :  egli  è  dotato  di  facoltà  più 
perfette  degli  altri  mortali,  ma  sono  facoltà  umane,  e  l'interesse  che  mi  av- 
vince a  lui  è  appunto  un  interesse  umano:  mi  è  più  caro  amarlo  che  ado- 
rarlo. Quando  tratteremo  di  teologia,  cercheremo  con  la  ragione  quali  sieno 
le  perfezioni  immaginabili  e  le  attribuiremo  a  Dio  tutte  quante,  sapendo  di 
porle  al  luogo  loro;  ma  quando  scenderemo  alla  psicologia,  dobbiamo  pure 
essere  disposti  preventivamente  a  trovare  negli  animali  e  negli  uomini  con- 
tingenze e  difetti,  possiamo  anzi  essere  sicuri  che  contingenze  e  difetti  ci 
sono,  anche  se  noi  non  li  sapessimo  vedere.  Ora  poiché  la  perfezione  è  ir- 
raggiungibile, sono  anche  inesauribili  le  condizioni  che,  di  mano  in  mano 
che  la  riflessione  si  esercita,  si  richiedono  per  raggiungerla,  e  chi  ne  vede 
una  e  chi  un'  altra,  e  chi  più  aguzza  l'occhio  più  ne  vede,  così  che  se  di 
mano  in  mano  si  volesse  ridurre  l'opera  d'arte  a  quella  perfezione  razionale 
che  non  finisce  di  farsi  sempre  più  rigorosa,  ancorché  ci  si  limiti  a  ricercare 
questa  esattezza,  non  secondo  gli  ideali  assoluti,  ma  secondo  quelli  che  si 
attribuiscono  all'epoca  e  all'ambiente  a  cui  l'opera  appartiene,  non  sempre 
il  problema  si  potrebbe  risolvere  senza  stento  e  senza  guasto.  E  allora,  se 
si  tratta  di  opere  antiche  delle  quali  non  si  conservi  una  tradizione  paleo- 
grafica che  risalga  fino  alle  loro  origini,  è  sempre  in  pronto  uno  spediente 
che  per  sua  natura  non  può  mai  sbagliare:  e  così  con  la  maggior  serietà  e 
senza  ridere  i  poemi  d'Omero  continueranno  ad  esser  rifatti  operando  tagli 
o  immaginando  lacune,  con  la  certezza  che  per  volger  d'anni  e  di  secoli 
non  mancherà  mai  ai  filologi  la  materia  a  questa  tanto  dilettevole  quanto 
facile  occupazione:  ciò  che  non  ci  garba  lo  si  condanna,  e  a  tirare  e  a  rap- 
pezzare si  riduce  al  nostro  modulo  il  panno  che  fosse  stato  tagliato  troppo 
scarso.  Ma  là  dove  il  testo  é  quello  che  è,  e  la  tradizione  sostanzialmente 
è  sicura,  e  interpolazioni  non  se  ne  possono  ammettere,  e  amputazioni  non 
se  ne  possono  praticare,  non  è  peraltro  minore  il  pericolo  che  si  minaccia 
all'arte  da  questo  genere  di  critica.  Lì  non  resta  altro  che  spiegare,  e  delle 
due  Tuna,  o  l'opera  non  si  presta  affatto  alla  nuova  interpretazione  e  la  si 


400  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

condanna:  il  giudizio  dei  nostri  maggiori  era  erroneo,  e  noi  dimostriamo 
che  avevano  torto;  —  o  vogliamo  a  priori  dimostrare  che  quel  giudizio  era 
giusto  e  che  quell'ammirazione  era  ragionevole  anche  davanti  al  lume  supe- 
riore della  scienza  nostra,  e  ciascuno  fa  a  gara  per  guardare  più  acutamente, 

Qaale  ò  colai  che  adocchia  e  s'  argomenta 
Di  vedere  eclissar  Io  sole  un  poco. 
Che  per  veder  non  vedente  diventa. 

La  sottigliezza  e  l'arguzia  allora  scoprono  le  virtù  nuovamente  richieste; 
ma  se  sottigliezza  ed  arguzia  e  straordinario  acume  di  dottrina  e  d'intelli- 
genza sono  necessari  a  scoprirle,  a  me  pare  che  questo  conchiuda,  non  meno 
di  quell'altro  metodo,  alla  demolizione  dell'opera  d'arte.  Se  per  intendere  la 
Divina  Commedia  era  necessario  aspettarne  la  rivelazione  da  Giovanni  Pa- 
scoli; se  prima  di  lui  di  tante  supposte  meraviglie  nessuno  si  era  accorto,  e 
dopo  la  rivelazione  ancora  molti,  i  più  anzi,  non  ci  credono;  mi  pare  sarebbe 
dritta  e  legittima  la  conseguenza  che  la  Divina  Commedia  è  un'  opera  sba- 
gliata, e  Dante,  che  scrive  in  volgare  e  commedia  per  parlare  agli  italiani 
e  all'umanità,  avrebbe  fatto  appena  un'  opera  analoga  a  quella  di  Licofrone, 
che  almeno  sapeva  di  non  iscrivere  che  per  gli  eruditi. 

Ma  non  solo  questa  perfezione  l'azionale  non  è  raggiungibile  da  alcun^opera 
d'arte;  ho  detto  che  non  è  né  da  cercare  né  da  desiderare,  come  cosa  che 
all'arte  é  del  tutto  estranea  e  sarebbe  la  sua  rovina  e  la  sua  morte.  Il  Pascoli 
dice  di  aver  egli  per  primo  trovata  la  chiave  del  poema  di  Dante  e  d'averla 
volta  come  si  deve  nella  toppa;  con  altre  parole  ciò  significa  ch'egli  avrebbe 
sciolto  l'enigma,  avrebbe  spiegata  la  sciarada.  Che  infatti  a  un  enigma  oscuro 
e  fumoso  si  ridurrebbe  in  parole  povere  la  Divina  Commedia,  un  enigma 
che  non  si  può  risolvere  senza  la  sapienza  d'Edipo,  dunque  una  cosa  scioc- 
cherella  abbastanza,  come  sono  tutti  gli  indovinelli.  Che  un  senso  allegorico 
la  Commedia  l'abbia,  nessuno  sognerà  mai  d'impugnare.  Dante  stesso  ce  lo 
ricorda  più  volte,  e  sta  bene,  e  tutti  l'hanno  ravvisato  e  riconosciuto  senza 
molta  fatica;  ma  un'allegoria  che  si  stendesse  attraverso  tutti  i  cento  canti 
e  che  quadrasse  col  senso  letterale  in  ogni  particolarità  per  filo  e  per  segno, 
a  me  pare  che  sarebbe  la  più  scipita  e  la  più  inutile  malinconia  che  avesse 
potuto  travagliare  un  cervello  umano,  e  sia  pure  un  cervello  medievale.  Se 
poniamo  che  lupa  sia  eguale  ad  avarizia,  e  nessun  atto  possa  fare  e  in  nes- 
suno stato  si  possa  trovare  questa  lupa  che  all'avarizia  non  corrisponda,  e 
viceversa  per  consentaneità  dell'avarizia  nulla  si  possa  dire  che  non  con- 
venga anche  alla  lupa,  così  che  ogni  volta  che  si  pronuncia  l'una  o  l'altra 
parola  deva  essere  presente  al  poeta  e  al  lettore  l'uno  e  l'altro  senso,  mi 
parrebbe  anche  naturale  il  desiderio  che  si  terminasse  questo  scherzo  scipito 
e  si  chiamassero  le  cose  col  proprio  nome.  Per  me  invece  l'allegoria,  e  spero 
che  molti  saranno  meco  d'accordo,  non  è  che  un  mezzo  di  suggestione,  e 
non  é  che  una  delle  tante  manifestazioni  di  quel  requisito  essenziale  del- 
l'arte, che  è  di  8u.scitare  nella  mente  e  nell'animo  del  lettore  il  maggior  nu- 
mero di  idee,  di  fantasmi  e  di  sentimenti  oltre  quelli  che  sono  materialmente 
significati  dal  senso  grammaticale  delle  parole.  E  suo  requisito  essenziale 
pertanto,  credo  io,  è,  non  la  precisione,  ma  an/à  una  certa  indeterminatezza  : 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  401 

essa  è  un'  associazione  di  idee  cui  il  poeta  dirige  la  nostra  mente,  e,  come 
in  ogni  associazione,  tra  le  cose  chiamate  a  confronto  non  c'è  identità  ma 
somiglianza. 

Se  il  Pascoli  mi  risponderà  che  Dante  non  è  solo  poeta  d'ispirazione,  ma 
che,  come  è  sommo  in  questa,  altrettanto  è  mirabile  per  la  riflessione,  che 
perciò  non  basta  richieder  da  lui  le  qualità  del  poeta,  perocché  egli  ha  in 
sommo  grado  anche  quelle  del  pensatore,  io  non  potrò  far  altro  che  conve- 
nire su  questo  punto  perfettamente  con  lui.  Perciò  la  tesi  della  sua  Minerva 
oscura  mi  parve  ben  posta  e,  ancorché  non  mi  accordassi  con  lui  nella  solu- 
zione, sono  stato  allora  tra  i  primi  che  cordialmente  plaudirono  alle  dotte 
e  geniali  ricerche,  ed  ora  nulla  ho  da  mutare  di  quel  mio  giudizio.  Là  si 
trattava  del  principio  generale  sul  quale  il  poeta  informa  il  suo  sistema  mo- 
rale, e  appunto  perchè  Dante  è  pensatore,  oltre  che  poeta,  pare  anche  a  me 
che  un  principio  unico  e  informatore  egli  lo  deva  aver  preso  a  fondamento, 
e  che  la  triplice  applicazione  di  esso  ai  tre  regni  non  deva  essere  stata 
casuale  e  arbitraria,  ma  deva  aver  corrisposto  nel  disegno  generale  alle  dif- 
ferenti esigenze  della  differente  materia.  Anche  qui  però,  anche  in  questo 
disegno  generale,  sono  lungi  dal  credere  si  debba  aspettarsi  un'esattezza  ma- 
tematica fino  ai  più  minuti  particolari,  senza  dire  che  tutta  quanta  la  disqui- 
sizione in  proposito  ha  per  l'arte  un  interesse  affatto  secondario.  Che  nel- 
l'Inferno e  nel  Paradiso  sieno  puniti  rispettivamente  i  peccati  capitali  e 
premiate  le  virtù  corrispondenti,  o  che  invece  il  premio  e  la  pena  sieno 
commisurati  qui  e  là  agli  atti  meritori  o  demeritori,  come  io  preferisco  di  cre- 
dere, é  questione  che,  comunque  si  risolva,  poco  toglie  o  poco  aggiunge  al 
valore  del  poema,  ed  ha  solamente  interesse  per  conoscere  il  sistema  filoso- 
fico di  Dante,  la  sua  cultura,  le  sue  fonti,  la  sua  originalità,  tutte  cose  certo 
non  indifferenti  per  il  critico,  ancorché  l'arte  c'entri  soltanto  indirettamente. 
Ma  se  io  convengo  fino  a  questo  punto,  gli  è  perchè  fino  a  questo  punto  la 
filosofia  e  la  dialettica  o  corroborano  ed  aiutano  l'opera  d'arte  o  almeno  non 
le  sono  d'impaccio:  mi  rifiuto  invece  ad  infliggere  a  forza  all'opera  del  poeta 
la  coercizione  di  alcun'  altra  pedanteria  e  a  volergliela  scoprire  a  furia  di 
sillogismi,  se  mai  al  senso  spregiudicato  del  lettore  non  la  si  volesse  ma- 
nifestare. 

Ma  le  parole  sono  parole,  e  di  bei  ragionamenti  generali  molti  hanno 
grande  dovizia.  Sarà  meglio  pertanto  esaminare  più  da  vicino  il  libro  del 
Pascoli  e  provare  il  nostro  asserto  coi  fatti.  Soltanto  prima  di  cominciare 
la  discussione  mi  permetta  il  Pascoli  che  io  riferisca  qui  un  brano  del  Gorgia 
di  Platone.  È  Socrate  che  parla,  p.  457  G  :  «  lo  credo,  o  Gorgia,  che  anche 
«  tu  abbia  fatto  esperienza  di  molti  ragionari  e  che  tu  abbia  veduto  in  essi 
«  accadere  questo,  press'a  poco,  che  non  facilmente  i  disputanti,  determinando 
«e  bene  ciò  di  cui  imprendono  a  discorrere  e  informando  e  imparando  reci- 
«  procamente,  riescono  poi  a  condurre  a  termine  la  conversazione,  ma  se 
«<  discutono  su  di  un  punto,  e  l'uno  non  ammette  che  l'altro  dica  bene  o 
«  chiaramente,  si  irritano  e  credono  che  si  parli  per  far  loro  dispetto,  osti- 
«  nandosi  nel  proprio  parere  senza  cercar  più  ciò  che  s'era  proposto  nel  ra- 
«  gionamento;  e  alcuni  anzi  alla  fine  si  separano  in  malo  modo  dopo  essersi 
«  strapazzati,  e  dicendo  e  sentendo  dire  reciprocamente  cose  tali  da   far  sì 


402  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

«  che  i  presenti  si  cruccino  seco  stessi  d'essere  andati  ad  ascoltare  sì  fatta 
«gente.  E  perchè  dico  io  questo?....  Perchè  temo  di  confutarti,  che  tu  non 
«supponga  che  io  parli  non  per  la  cosa,  desiderando  che  sia  chiarita,  ma 
«  per  te.  lo  pertanto,  se  anche  tu  sei  di  quelli  uomini  dei  quali  sono  io  pure, 
«  con  molto  piacere  ti  interpellerei,  e  se  no,  lascierei  stare.  E  io,  di  quali 
«  sono?  Di  quelli  che  con  piacere  si  lasciano  confutare,  se  dico  qualche  cosa 
«  non  vera,  e  che  con  piacere  anche  confutano  se  altri  dice  non  vero,  con  non 
«  minor  piacere  peraltro  si  lasciano  confutare  che  non  confutino.  Però  che 
«  questo  credo  sia  un  bene  maggiore,  in  quanto  è  maggior  bene  esser  libe- 
«  rati  noi  da  un  male  pessimo,  di  quello  che  liberarne  un  altro.  Niente  infatti 
«  io  credo  che  sia  cosi  gran  male  per  l'uomo  quanto  una  opinione  falsa 
«  delle  cose  di  cui  si  discorre.  Se  pertanto  anche  tu  ammetta  di  essere  tale, 
«  discorriamo.  Che  se  ti  pare  anche  che  convenga  lasciare,  lasciamo  pur 
«  stare  e  terminiamo  il  discorso  >.  —  E  ora  devo  attendere  la  risposta?  Credo 
di  poterla  interpretare  senza  attenderla.  Il  Pascoli  con  esemplare  onestà  let- 
teraria nel  suo  libro  non  si  dissimula  anche  gli  argomenti  contrari  ai  suoi 
asserti,  ma  talora  li  offre  egli  stesso  e  per  così  dire  li  dà  in  mano  ai  con- 
traddittori: egli  è  dunque  di  quelli  che  come  Socrate  e  come  me  amano  la 
verità  più  che  la  propria  opinione. 

Che  cosa  è  la  selva  per  il  Pascoli?  Egli  muove  per  rispondere  da  un  passo 
del  Convivio^  IV,  24,  ove  Dante  parla  dell'  «  adolescente  ch'entra  nella  selva 
«  erronea  di  questa  vita  ».  il  quale  «  non  saprebbe  tenere  il  buon  cammino 
«  se  dalli  suoi  maggiori  non  gli  fosse  mostrato  ».  Poco  più  oltre  dopo  aver 
pure  osservato  che  «  la  selva  del  Convivio  è  la  vita  stessa,  quella  della  Com- 
«  media  è,  non  la  vita,  ma  nella  vita  »,  ravvicina  tra  loro  le  due  selve 
quasi  dovessero  essere  un  concetto  solo.  Per  me  non  ci  trovo  questa  neces- 
sità. La  selva  del  Convivio  non  è  che  una  metafora  comunissima,  innocente 
e  senza  alcuna  malizia,  ed  io  non  vedo  affatto  perchè  questa  immagine  non 
possa  servire  anche  a  rappresentare  altre  idee  o  simili  o  diverse  da  quella 
che  rappresenta  in  questo  luogo.  È  un  fatto  notato  e  risaputo  che  una  delle 
principali  cagioni,  e  forse  la  prima  di  tutte,  di  quelle  discussioni  che  non 
trovano  mai  la  via  di  finire,  si  è  il  mutarsi  inconsciente  del  supposto  con- 
tenuto dei  vocaboli  che  si  adoperano,  così  che  la  stessa  parola,  che  pure 
intenzionalmente  dovi  ebbe  sempre  significare  la  stessa  idea,  ia  realtà  ora 
vuol  dir  di  più  ora  di  meno  ora  qualcosa  di  diverso:  e  se  ciò  avviene 
quando  la  costanza  del  significato  è  richiesta  da  logge  di  scienza  e  di  co- 
scienza, perchè  ci  meraviglieremo  che  il  contenuto  sia  diverso  quando  non 
c'è  alcuna  necessità  che  sia  identico?  La  selva  del  Convivio  è  la  vita,  quella 
della  Commedia  è  nella  vita ,  e  se  questo  si  ammette,  a  che  serve  tirare  le 
parole  di  Dante  a  dimostrare  ch'egli  si  smarrì  adolescente?  Non  dico  che 
ciò  non  sia  argomentato  con  molto  acume  là  dove  si  tocca  dei  rimproveri 
che  fa  Beatrice  al  poeta:  gli  rimprovera  infatti  d'essersi  lasciato  sedurre  e 
traviare  dalla  vanità,  peccati  d'inesperienza  e  d'adolescenza;  ma  insieme  essa 
gli  fa  anche  sentire  tutta  la  sua  piena  responsabilità;  —  aha  la  barba;  — 
e  poniamo  pure  che  questa  espressione  si  possa  prendere  per  un'  iperbole, 
come  a  dire  —  fanciuUone,  fa  giudizio,  che  no  è  giunto  il  tempo;  —  ma  per 
iperbole  non  si  possono  prendere  questi  altri  tre  versi: 


RA.SSEGNA  BIBLIOGRAFICA  403 

Nuovo  angelletto  due  o  tre  aspetta; 
Ma  dinanzi  dagli  occhi  de'  pennuti 
Bete  si  spiega  indarno  o  si  saetta. 

Dante  era  dunque  pennuto,  era  responsabile  ;  onde  il  Pascoli,  che  di  ciò  s'ac- 
corge, cerca  parare  l'obiezione  :  «  Dante,  sebbene  non  più  adolescente  e  molto 
«  meno  fanciullo,  sì  quando  entrò  nella  selva,  si,  e  più,  per  il  tempo  che  vi 
«  si  aggirò,  era  tuttavia  come  un  fanciullo  ».  E  trova  a  proposito  un  luogo 
del  Convivio,  I,  4,  dove  Dante  parla  della  puerizia,  non  d'etade  ma  d'animo, 
in  un  contesto  per  altro  che  nulla  ha  che  fare  con  la  nostra  questione. 
Ma,  si  può  rispondere  allora,  se  Dante  era  fanciullo  di  animo,  tanto  meno 
Beatrice  lo  dovea  ritener  responsabile  :  i  pennuti  equivarranno  semplice- 
mente agli  uomini  giunti  fisicamente  alla  pienezza  del  loro  svolgimento; 
ma  gli  occhi  dei  pennuti,  non  possono  corrispondere  che  all'attitudine  loro 
a  discernere  e  a  giudicare  :  Dante  avea  gli  occhi  aperti.  Dante  dunque  po- 
teva bensì  cercar  di  scusarsi  attribuendo  il  proprio  traviamento  ad  error  gio- 
vanile, ma  Beatrice  lo  disinganna,  —  tu  non  sei  più  un  fanciullo,  alza  la 
barba.  Errore  era  sì,  quello  di  Dante,  poiché  in  sostanza,  e  secondo  Platone, 
e  secondo  ragione,  nessuno  può  volere  il  male  se  non  per  errore;  ma  era 
errore  d'uomo  e  non  di  fanciullo  né  di  adolescente.  Quindi  se  l'affermazione 
del  Pascoli  che  lo  smarrimento  nella  selva  raffigura  il  difetto  di  prudenza 
torna  giusta,  si  potrebbe  rispondere,  prudenza  sì,  ma  quella  prudenza  che 
rende  l'uomo  responsabile,  quella  la  cui  trascuranza  rende  l'uomo  colpevole. 
Il  bambino  che  traversando  la  strada  va  sotto  a  una  carrozza  é  imprudente 
ma  non  é  colpevole;  il  ciclista  che  correndo  sfrenatamente  in  mezzo  alla 
gente  mi  investe  é  imprudente  ed  è  colpevole,  e  certamente  di  questo  se- 
condo genere  di  imprudenza  Dante  intende  parlare,  e  questo  é  anche  proprio 
di  qualunque  età. 

Potrà  parere  a  qualcuno  che  la  mia  critica  sia  molto  sottile,  e  che  dopo 
aver  trovato  che  dire  sulle  sottigliezze  del  Pascoli,  mi  sia  messo  in  gara 
con  lui  a  chi  sottilizza  di  più.  E  se  il  principio  posto  dal  Pascoli  non  avesse 
altre  conseguenze,  l'osservazione  sarebbe  pienamente  giustificata:  se  Dante 
si  sia  smarrito  adolescente  o  già  adulto,  se  lo  smarrimento  voglia  dire  de- 
viare dalla  prudenza  in  particolare  o  dalla  ragione  in  generale,  sono  quesiti 
che  comunque  si  risolvano  lasciano  il  tempo  che  trovano.  Ma  io  non  potevo 
impugnare  le  conseguenze,  se  non  toccavo  prima  dei  principi.  Ed  ecco  da 
questi  principi  cosa  deriva:  trovo  a  pag.  40: 

«  ma  passavam  la  selva  t  atta  via. 

Come  la  selva?  la  selva  della  servitù?  Si  : 

La  selva,  dico,  di  spiriti  spessi. 

Dante  non  si  trastulla  con  le  parole  !  Dante  sa  quel  che  dice  I  Se  la  selva 
significa  la  mancanza  di  libertà  nel  volere,  il  limbo  che  tiene  in  sé  i  non 
battezzati  é  una  selva  anch'esso.  Mirabile  linguaggio!  »  A  dire  il  vero  io  da 
ammirare  qui  non  ci  trovo  nulla.  Il  limbo  é  una  selva?  Questa  mi  torna 
aftatto  nuova,  e  mi  fa  bensì  meravigliare,  ma  non  ammirare.  Io  mi  sono  con- 
tentato sempre  di  intendere  selva  di  spiriti  (che   non  dice  già  selva  degli 


404  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

spiriti)  per  quantità  grande  di  spiriti  (tanto  più  che  dice  che  erano  spessi), 
come  una  metafora  usuale,  come  si  dice  selva  di  cifre,  selva  di  spropositi; 
con  la  debita  reverenza  io  aveva  anche  sempre  ritenuto  che  quelli  li  fossero 
due  brutti  versi,  e  sq  non  mi  arrendo  alla  interpretazione  novissima,  potrebbe 
esser  colpa  anche  dell'età  mia  che  declina  e  della  difficoltà  che  a  questa  età 
si  suol  provare,  come  notava  anche  Orazio,  a  gettar  via  coraggiosamente  ciò 
che  si  era  tenuto  per  vero  in  tempi  migliori.  Prosegue  il  Pascoli:  «  Ed  è 
«  oscura  questa  selva.  Dante  vede  infatti  un  foco, 

ch'emUperìo  di  tenebre  vincia. 

Il  foco  risplendeva  in  mezzo  alle  tenebre  senza  sperderle  e  allontanarle  ». 
Sicuramente,  ogni  foco  fa  lume  a  questo  modo,  ed  io  non  so  pensare  come 
possa  avvenire  altrimenti.  L'inferno  è  buio,  e  un  lume  non  lo  può  rischia- 
rare, se  non  come  gli  altri  lumi  che  rischiarano  i  luoghi  bui.  Ora  se  tutto 
l'inferno  per  sua  natura  e  per  necessità  è  oscuro,  e  se  un  fuoco  ne  rischiara 
una  parte,  ne  viene  di  necessità  che  questa  parte  non  si  possa  dire  oscura, 
e  se  questa  parte  è  selva,  non  la  si  possa  dire  selva  oscura.  È  chiaro  ciò? 
C'è  di  più:  poco  più  oltre  Dante  dice: 

Traemmoci  così  dall' an  de'  canti 
In  luogo  aperto,  laminoso  ed  alto, 
Sì  che  veder  si  potén  tutti  quanti. 

Colà  diritto,  sopra  il  verde  smalto 
Hi  fìir  mostrati  gli  spiriti  magni. 

Ora  il  luogo  aperto,  luminoso  ed  alto  è  inconciliabile  con  la  selva  oscura; 
e  il  verde  smalto  per  me  è  prato  e  non  bosco.  Né  si  opponga  che  il  nobile 
castello  è  parte  del  limbo,  e  che  la  selva  oscura  è  il  resto,  ma  questa  parte 
no:  il  Pascoli  ravvicina  l'oscurità  e  la  selva  alla  mancanza  dell'abito  (cos'i  lo 
chiama)  di  prudenza  che  nel  cristiano  si  infonde  coi  battesimo:  non  battez- 
zati erano  tanto  quelli  quanto  questi,  tanto  le  turbe  molte  e  grandi,  quanto 
gli  spiriti  magni,  e  se  il  simliolo  deve  rappresentare  il  loro  comune  difetto, 
deve  anche  applicarsi  a  tutti  senza  diversità,  e  infatti  il  Pascoli  l'applica  a 
tutti.  Vero  è  che  il  Pascoli  più  oltre  (p.  78)  a  conforto  della  propria  teoria 
cita  quell'altro  luogo  ove  Virgilio  dice  a  Sordello  {Purg.,  VII,  28  sgg.) 

Luogo  è  laggiù  non  tristo  da  martiri 
Ma  di  tenebre  solo  .  .  . 

e  ne  conchiude  che  dunque  nel  limbo  è  tenebra.  A  me  pare  che  ciò  non 
voglia  dir  altro  se  non  che  il  limbo  è  sotto  terra,  e  perciò  è  buio,  se  non 
si  accende  il  lume;  e  questa  mi  pavé  anche  una  infelicità  non  piccola  né 
trascurabile:  per  il  Pascoli  invece  questo  ha  un  significato  molto  più  grave: 
«  Si,  egli  dice,  un  fuoco  illumina  il  castello;  gli  spiriti  magni  sono  in  luogo 
<  luminoso;  ma  quel  fuoco  e  quel  lume  è  tenebra  ».  Voglio  che  il  lettore 
creda  che  il  ragionamento  nel  libro  é  rincalzato  da  molte  sottili  argomen- 
tazioni e  raffronti,  e  che  io  non  espongo  le  conclusioni  sue  così  nude  per 
malizia  ma  per  necessità,  perché  se  no  prima  dovrei  riferire  tutto  il  libro 
6  poi  scriverne  un  altro  grosso  il   doppio   per   confutarlo.  C'è  del  vero  in 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  405 

ciò  che  dice  il  Pascoli:  e  il  vero  mi  pare  è  questo,  che  nel  limbo  manca 
il  lume  del  sole,  perchè  mancò  la  retta  conoscenza  di  Dio,  che  v'è  però  la 
luce  della  ragione  e  della  sapienza  umana,  che  s'ingegna  di  sostituire  quel 
lume  il  meglio  che  può;  ma  questo  è  anche,  credo,  ciò  che  dal  più  al  meno 
pensano  tutti  ;  soltanto  l'adolescente  che  non  è  adolescente,  la  selva  che  non 
è  selva,  il  lume  che  non  è  lume  mi  pare  sieno  conclusioni  che  vanno  al  di 
là  del  mezzano  intendimento  degli  uomini. 

Analogo  per  molti  rispetti  al  limbo  è  l'antinferno  ove  sono  puniti  gli  scia- 
gurati che  mai  non  fur  vivi,  e  ciò  pure  a  ragione  riconosce  il  Pascoli  in- 
sistendo sul  paragone  più  che  altri  non  faccia. 

E  qui  innanzi  tutto  mi  sia  lecito  proporre  un'  àitopia  che  il  Pascoli  o 
non  vide  o  non  nota.  Qui  sono 

l'anime  triste  di  coloro 
Che  visser  senza  infamia  e  senza  lodo 

e  insieme  con  esse  gli  angeli  neutrali.  Osserva  il  Pascoli  egregiamente  (p.  68) 
«  che  gli  angeli,  appena  creati,  doverono  prorompere  in  un  atto  di  libero 
«  arbitrio  ;  che  in  libertà  di  volere  erano  creati  ».  Quelli  che  scelsero  il  bene, 
meritarono,  ed  al  bene  aderirono  poi  sempre;  e  l'opposto  avvenne  a  quelli 
che  scelsero  il  male:  da  un  unico  atto  di  libero  volere  dipese  la  loro  sal- 
vezza e  la  loro  dannazione.  Ma  gli  angeli  neutrali  nulla  scelsero,  non  usa- 
rono della  loro  libertà  di  volere,  quindi  non  meritarono,  quindi  non  furono 
salvi,  e  non  furono  neanche  dannati  assolutamente  per  il  male  che  non  han 
fatto,  ma  furono  dannati  relativamente  per  il  bene  che  non  vollero  fare.  E 
qui  il  ragionamento  non  fa  una  grinza.  Era  un  atto  solo,  una  decisione  sola, 
e  non  l'hanno  presa.  Ma  gli  uomini?  È  egli  possibile  che  vi  sieno  uomini 
che  non  fanno  mai  né  bene  né  male?  Il  vivere  nostro  può  esso  essere  indif- 
ferente affatto  per  la  morale?  È  possibile  che  tutte  le  nostre  azioni  quoti- 
diane (poiché  nessuno  vive  nell'assoluta  immobilità  del  corpo  e  dello  spirito) 
sieno  senza  colore  e  senza  sapore,  indifferenti  e  inconscienti  come  il  volgersi 
d'una  bandiera  ai  colpi  del  vento?  La  giustizia  umana  può  essere  incerta 
nel  determinare  la  colpevolezza  o  l'innocenza:  la  giustizia  assoluta  no:  essa 
tien  conto  anche  delle  frazioni  minime  e  per  noi  incalcolabili,  e  la  bilancia 
sua  deve  cadere  o  di  qua  o  di  là.  E  allora?  lo  credo  che  appunto  in  questa 
irrazionalità  consista  la  grandezza  della  concezione  dantesca.  Costoro  furono 
così  poltroni  che  la  poltroneria  è  la  loro  principale  caratteristica,  da  potersi 
dire  con  un'  iperbole  facilmente  accettabile  e  comunemente  accettata  che 
furono  al  mondo  per  niente:  rappresentano  la  poltroneria  ideale,  non  la  pol- 
troneria possibile;  sono  un  concetto,  non  una  realtà.  Vorrei  vedere  qui  i 
critici  a  sciogliermi  questa  diflBcoltà  e  a  dimostrarmi  che  la  concezione  di 
Dante  è  razionale  :  per  fortuna  il  Pascoli  non  si  propone  questo  quesito.  Ne 
propone  però  un  altro  non  meno  scabroso  e  crede  di  scioglierlo  agevolmente 
(p.  72):  «dagli  angeli  in  fuori,  quegli  sciagurati  non  erano  essi  battezzati? 
«Sì:  perchè  altrimenti  essi  passerebbero  l'Acheronte  e  starebbero  nel  vero 
«inferno».  Oh  bella!  e  dove  di  grazia?  Nel  limbo  no,  perchè  quelli  del 
limbo  hanno  mercedi^  cioè  meriti,  e  questi  no:  e  allora  di  quale  dei  sette 
peccati  furono  rei,  secondo  la  teoria  del  Pascoli?  o  intorno  a  quale  delle  tre 


406  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

disposizioni  che  il  ciel  non  vuole  fu  la  loro  colpa,  secondo  il  principio  da 
me  preferito?  Se  non  hanno  fatto  mai  nulla,  non  potranno  andare  certo  né 
tra  gli  avari,  né  tra  i  golosi  ecc.,  né  tra  i  ladri,  né  tra  i  ruffiani,  né  tra  i 
barattieri  e  via  via.  La  soluzione  del  Pascoli  adunque  non  va,  perché  é  ma- 
terialmente impossibile,  e  la  sua  disquisizione  su  questo  punto  è  perciò  acuta 
ma  non  vera.  —  Ma  perchè  poi  costoro  devono  essere  tutti  battezzati?  Oltre 
altre  ragioni  sottili  anche  per  questa,  che  l'insegna 

Che  girando  correrà  tanto  ratta 
Che  d'ogni  posa  mi  parerà  indegna 

secondo  il  Pascoli  é  la  croce.  La  croce  air  inferno?  Noa  bisogna  lasciarci 
spaventare  dalla  novità:  di  li  era  passato  anche  Cristo.  Gli  è  che  piuttosto 
a  me  pare  che  per  un  cristiano  la  vista  della  croce  non  deva  essere  consi- 
derata come  un  tormento  ma  come  un  conforto  e  specialmente  il  poterla 
seguire.  Ora  lasciamo  di  dire  che,  se  quella  fosse  stata  proprio  la  croce.  Dante 
cristiano  e  religiosissimo  non  l'avrebbe  chiamata  così  indeterminatamente 
e  profanamente  un'insegna;  domanderò  solo  perchè  correvano  costoro  dietro 
alla  croce?  Confesso  che  qui  il  ragionamento  del  Pascoli  (pp.  70-71)  non  lo 
comprendo  bene,  e  perciò  prego  il  leltore  di  non  fidarsi  ciecamente  di  ciò 
che  dico  e  di  riscontrare  se  dico  giusto.  —  La  croce  nel  pianeta  Marte  è 
«  premio  di  quelli  che  seguirono  Cristo  sino  alla  morte  con  la  loro  croce 
€  indosso;  cotesta,  pena  di  quelli  che  non  furono  né  ribelli  né  fedeli,  di  quelli 
€  che  vissero  senza  infamia  e  senza  lodo,  di  quelli  che  non  ebbero  setta  e 
«  sono  spiacenti  a  Dio  e  al  diavolo  ».  Ora  io  intendo  bene  ciò  ch'egli  dice, 
che  si  deve  seguire  Cristo  senza  posar  mai;  non  intendo  quale  rapporto  ci 
possa  essere  tra  la  croce  di  Marte  e  questa;  non  ci  vedo  né  analogia,  né 
antitesi,  e  nemmeno  simmetria  materiale.  Egli  vuole  che  costoro  che  non 
hanno  seguito  la  croce  da  vivi,  corrano  dietro  ad  essa  da  morti  :  ed  io  torno 
a  ripetere  che  non  mi  pare  una  pena  degna  d'inferno.  Caratteristica  del  dan- 
nato è  la  impossibilità  del  pentimento:  se  potesse  pentirsi  si  salverebbe: 
costoro,  se  corrono  dietro  alla  croce,  con  qual  sentimento  la  seguono?  La 
desiderano?  è  l'insegna  loro?  Allora,  mi  pare,  è  segno  che  sono  pentiti  di 
non  averla  seguita  prima,  e  questo  non  può  essere 

Per  la  contraddizion  che  noi  consente. 

Che  cosa  sarà  dunque  cotesta  insegna?  Poiché  Dante  non  me  lo  dico,  io 
mi  accontento  di  non  saperlo,  e  penso  che  se  il  poeta  non  l'ha  meglio  de- 
terminata, la  determinazione  sia  inutile  anche  per  noi.  Come  ho  detto  da 
principio,  io  non  richiedo  a  Dante  la  perfezione,  e  certi  dubbi,  oltre  che  a 
insufficienza  mia,  non  credo  bestemmiare  se  penso  che  possano  attribuirsi 
forse  anche  ad  imperfezione  del  poeta.  Infatti  dapprima  Dante  domanda  a 
Virgilio  che  gente  è  che  par  nel  duol  sì  vinta,  e  Virgilio  risponde  che  sono 
l'anime  triste  di  coloro 

Che  TiMcr  mdze  infamia  e  senza  lodo. 
Poi  parla  degli  angeli  neutrali,  poi  si  fa  spiegare  la  cagione  dei  loro   alti 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  407 

lamenti  ;  poi  guarda  e  vede  l'insegna  e  la  gente  dietro,  poi  ne  conosce  qual- 
cuno, e  questo  lo  invoglia  a  guardare  più  attentamente  e  vede  l'ombra  di 
colui 


E  continua  : 


Che  fece  per  viltade  il  gran  rifiuto. 


Incontanente  intesi  e  certo  fui 
Che  questa  era  la  setta  dei  cattivi 
A  Dio  spiacenti  ed  a'  nemici  sui. 


E  qui  nasce  il  dubbio:  questa  setta  dei  cattivi  è  tutt'uno  con  coloro  che 
vissero  senza  infamia  e  senza  lodo?  Grammaticalmente  e  razionalmente  par- 
rebbe di  no:  se  fosse,  Dante  direbbe  due  volte  la  stessa  cosa:  là  si  era  fatto 
spiegare  da  Virgilio  che  anime  erano  quelle;  qui  intende  incontanente  che 
anime  sono.  Non  sarebbe  tanto  incontanente,  a  dir  vero,  se  ora  soltanto  lo 
capisce.  E  non  si  potrebbe  neanche  intendere  la  seconda  definizione  come 
una  determinazione  della  prima,  come  se  dicesse:  —  ah,  ora  ho  capito,  quelli 
che  visser  senza  infamia  e  senza  lodo  sono  gli  infingardi;  —  no,  perchè  anzi 
la  seconda  definizione  è  anche  più  vaga  e  indeterminata,  sono  coloro  che 
spiacciono  tanto  a  Dio  quanto  ai  suoi  nemici,  il  che  non  importa  proprio  di 
necessità,  come  importava  la  prima  definizione,  che  fossero  gli  infingardi; 
per  sé  potrebbero  essere  per  esempio  anche  i  traditori.  Perciò,  a  leggere  spre- 
giudicatamente, parrebbe  che  in  coloro  che  visser  senza  infamia  e  senza 
lodo  fosse  da  riconoscere  la  definizione  che  abbraccia  tutto  il  cerchio  ;  la 
setta  dei  cattivi  parrebbe  piuttosto  una  speciale  qualità  di  questa  generale 
mercanzia,  come  per  esempio  segnalata  nel  cerchio  dei  lussuriosi  è  la  schiera 
ov'  è  Dido,  e  come  là  questa  schiera  è  costituita  di  personaggi  storici  e  leg- 
gendari, così  è  forse  anche  qui,  tant'  è  vero  che  solo  di  questa  schiera  Dante 
riconosce  qualcheduno.  Ho  esposto  il  mio  dubbio  perchè  mi  è  caduto  in  ac- 
concio, ma  può  darsi  anche  che  di  tal  distinzione  non  ne  sia  nulla,  e  che  il 
dubbio  nasca  solo  dalla  mancanza  di  precisione  delle  parole  (1). 

L'acutezza  che  dimostra  il  Pascoli  nei  due  primi  capitoli,  l'uno  intorno 
la  selva  oscura^  il  secondo  sopra  il  vestibolo  e  il  limbo,  continua  nell'esame 
del  passaggio  delV Acheronte  che  costituisce  il  capitolo  terzo.  Quelli  del 
vestibolo  (p.  85)  «  non  erano  vivi  da  vivi,  non  sono  morti  da  morti.  Perciò 
«  non  possono  passare,  sebbene  lo  desiderino  ;  perchè  Garon  li  rifiuterebbe,. 
«  come  rifiuta  Dante.  Condizione  per  passare  è  la  morte.  Or  Dante  passa. 
«  Dunque  muore  ».  E  soggiunge  molto  a  proposito:  «  Muore.  Non  strabiliamo 
«  né  sorridiamo  ».  Ed  io  non  strabilierò,  ma  aspetterò  a  udire.  Dice  il  P.  che 

lo  passo 
Che  non  lasciò  giammai  persona  viva 


(1)  Lo  stesso  dubbio  rispetto  alle  due  schiere  fu  messo  innanzi  da  Nicola  Scarano,  Oli  spirtit 
deWAntinferno,  in  Studi  di  letteratura  italiana,  voi.  I,  fase.  II  (1900),  pp.  200-8.  La  soluzione 
ch'egli  ne  dà  mi  pare  voglia  essere  troppo  precisa,  e  questo  egli  pure  riconosce.  Ad  ogni  modo 
poiché  a  due  persone  contemporaneamente  si  è  affacciata  la  stessa  difficoltà,  vuol  dire  che  è  una 
difficoltà  vera  e  non  fantastica. 


408  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

vuol  dire:  «che  nessuno  usci  mai  vivo  dalla  selva:  dunque  nemmen  Dante. 
«  E  dunque  Dante,  per  uscirne,  morì  ».  E  qui  non  bisogna  aver  fretta  a  ri- 
battere, perchè  proprio,  come  vedremo,  è  questione  non  di  cose  ma  di  parole. 
Procediamo  con  ordine. 

Degli  ignavi  dice  Dante  che  non  hanno  speranza  di  morte^  e  il  P.  ag- 
giunge che  desiderano  di  passare  l'Acheronte  (p.  88),  quindi  passare  e  mo- 
rire si  equivalgono.  E  qui  mi  pare  egli  prenda  abbaglio.  Dov'è  che  Dante 
dice  0  fa  capire  che  gli  ignavi  desiderano  di  passar  l'Acheronte?  Perchè 
Dante  dica  che  costoro  '  invidiosi  son  d'ogni  altra  sorte  '  non  si  ha  ad  inten- 
dere che  proprio  desiderino  passare  il  fiume:  invidia  non  è  sinonimo  di  de- 
siderio e  qui  meno  che  altrove.  Chi  patisce  un  gran  dolore  crede  che  quello 
sia  il  dolor  maggiore  di  tutti  ;  se  fosse  un  altro,  gli  pare  che  lo  potrebbe 
sopportare:  cosi  i  dannati. 

I  dannati  poi  invidiano  si,  ma  non  desiderano  mutar  pena: 

Che  la  dÌTins  giustizia  li  sprona 
Si  che  la  tema  si  volge  in  desio. 

Quelli  che  desiderano  passare  non  sono  dunque  gli  ignavi,  come  il  P.  sup- 
pone a  p.  84,  ma  quelli  che  devono  soddisfare  la  divina  giustizia;  per  sod- 
disfare la  divina  giustizia  gli  ignavi  anzi  devono  non  desiderare  il  passaggio, 
—  come  le  anime  dei  purganti,  che  vogliono  uscire  di  pena  solo  quando  son 
monde,  poiché  prima 

non  lascia  il  talento. 
Che  divina  giustizia  contro  voglia. 
Come  fu  al  peccar,  pone  al  tormento  ; 

come  le  anime  dei  beati  della  Luna,  che,  perchè  sono  in  cavitate^  non  desi- 
derano esser  più  superne.  —  Ma  il  Pascoli  trova  un  altro  rincalzo,  Virgilio 
dice  a  Dante: 

E  trarrotti  di  qui  per  loco  etemo 

Ove  udirai  le  disperate  strida, 
Vedrai  gli  antichi  spiriti  dolenti. 
Che  la  seconda  morte  ciascun  grida. 

Ciascuno  intende  che  qui  si  parli  dell'Inferno  in  generale;  ma  il  Pascoli  no, 
e  vuole  che  si  intenda  solo  del  cerchio  degli  ignavi:  quelli  contenti  nel  foco, 
che  nomina  dopo,  sarebbero  gli  ultimi  purganti,  questi  i  primi  dannati  ;  Vir- 
gilio accennerebbe  al  viaggio  nominando  la  prima  e  l'ultima  stazione.  Io  non 
vedo  il  perchè  di  questa  scelta,  ma  sia;  vediamo  se  torni  in  realtà:  «Gli 
«  antichi  spiriti  dolenti  —  dice  a  p.  88  —  sono  proprio  gli  angeli  né  ribelli  né 
«fedeli».  Ora  che  razza  di  morte  è  la  seconda  morte  che  essi  invocano? 
Quando  sono  essi  morti  di  una  morte  prima?  Seconda  morte  non  si  può  dire 
dunque  che  parlando  di  uomini.  —  Mi  sia  lecito  dunque  anche  di  dubitare 
che  non  sieno  ben  giustificate  le  parole  con  cui  il  P.  chiude  il  paragrafo  a 
p.  90:  «  Noi  scendiamo  nel  cupo  pensiero  Dantesco,  per  la  prima  volta  dopo 
«  sei  secoli  ». 

Ho  detto  per  altro  poco  fa  che  era  questione  di  parole.  Ad  ogni  modo, 
poiché  ciò  che  segue  non  sono  sicuro  di  capirlo  bene,  di  nuovo  invito  il  let- 


Rassegna  bibliografica  409 

tore  a  meditare  da  sé  le  pp.  90-97,  perchè  non  garantisco  dell'esattezza  del 
mio  riassunto.  La  seconda  morte,  dice  con  Agostino,  è  quella  che  tocca  al- 
l'anima: Dante  non  poteva  morire  di  questa  seconda,  dunque  per  passare 
l'Acheronte  doveva  morire  della  prima.  Ora  quale  è  questa  prima?  Quella 
del  corpo?  A  dare  alle  parole  il  significato  loro  e  a  parlare  per  farsi  inten- 
dere, dicendosi  che  Dante  muore  e  avvertendosi  bene  che  non  muore  l'anima 
di  Dante,  ciascuno  intende  che  muore  il  corpo.  Ma  non  è  cosi.  A  dire  che 
Dante  muore,  vuol  dire  che  Dante  nasce;  questo  è  il  linguaggio  mistico.  11 
P.  cita  infatti  un  luogo  di  S.  Paolo  {ad  Rom.,  6)  che  rende  cosi  (pp.  92-93): 
«  Ignorate,  o  fratelli,  che  quanti  fummo  battezzati  in  Gesù  Cristo,  fummo 
«battezzati  nella  morte  di  lui?  Siamo  stati  seppelliti,  mediante  il  battesimo, 
«  con  lui  alla  morte  (in  mortem),  aflBnchè,  come  esso  risorse  dai  morti,  per 
«  la  gloria  del  Padre,  cosi  noi  camminiamo  nella  novità  della  vita  ».  E  poi 
il  ragionamento,  se  non  mi  inganno,  procede  cosi:  Quelli  del  vestibolo  an- 
corché battezzati,  non  avendo  usato  della  prudenza  che  il  battesimo  infonde, 
è  come  non  fossero  battezzati:  analogamente  Dante  nella  selva  era  come  non 
battezzato:  il  battesimo  é  la  morte  mistica  dell'anima  (p.  94);  «nel  nostro 
«battesimo  moriamo  al  peccato.  E  il  peccato  è  la  morte;  dunque  moriamo 
«  alla  morte.  Dante  muore  alla  morte,  cioè  rinasce  alla  vita,  perchè  quella 
«  morte  mistica  è  una  natività  »  (p.  95).  «  L'Acheronte,  per  uno  corporal- 
«  mente  vivo,  è  la  morte  mistica,  ossia  la  rinascita  ;  per  uno  corporalmente 
«  morto,  è  la  morte  spirituale.  Chi  lo  passa  muore;  se  è  corporalmente  vivo, 
«  alla  morte  ;  se  è  corporalmente  morto ,  della  morte  :  alla  morte  e  della 
«  morte  seconda  »  (p.  96).  Dunque  pare  voglia  dire  che  Dante  mori  di  una 
morte  che  era  nascita  e  vita;  come  prima  l'adolescente  non  è  adolescente, 
selva  non  è  selva,  lume  non  è  lume:  sarà  forse  vero,  benché  io  noi  creda, 
tutto  ciò,  ma  a  dimostrare  tutte  queste  meraviglie,  ancor  che  fossero  vere, 
non  mi  pare  che  il  poema  di  Dante  ci  venga  a  guadagnare. 

E  prosegue  a  dire  che  questa  morte  di  Dante  è  mistica  e  non  reale  «  é 
«  la  morte  per  cui  si  resta  vivi,  anzi  per  cui  si  rivive  e  si  rinasce  »  (p.  98)  ; 
che  il  passaggio  dell'Acheronte  è  simbolo  del  battesimo,  che  il  più  lieve 
legno  che  porta  Dante  attraverso  al  fiume  è  la  croce;  che  questa  è  la  morte 
di  Dante  alla  tenebra,  che  poi  nel  cerchio  dei  lussuriosi  egli  muore  alla  con- 
cupiscenza, e  una  terza  volta  nell'ultimo  canto  muore  alla  malizia: 

Io  non  morii  e  non  rimasi  vivo; 

che,  per  essere  precisi  per  altro,  solo  la  prima  fu  vera  morte  e  le  altre  fu- 
rono sepolture. 

Ho  detto  che  il  poema  a  spiegarlo  a  questo  modo  non  ci  viene  a  guada- 
gnare; ma  effettivamente  c'è  tutto  questo  nel  poema?  Quando  per  esempio 
Dante  nomina  i  vivi 

Del  viver  eh'  è  un  correre  alla  morte, 

per  me  non  dice  né  di  più  né  di  meno  di  quello  che  pensava  Platone,  cioè 
che  la  vita  del  corpo  non  è  che  una  ben  misera  cosa  in  confronto  di  quella 
dell'anima  quando  è  sciolta  dai  lacci  corporei,  di  quello  che  prima  di  Pla- 
tone aveva  scritto  già  Euripide  nel  Poliido: 


410  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

Tiq  b*  oTbcv,  €l  TÒ  Zf\\f  |iév  èari  KarGaveiv, 
TÒ  KarGaveiv  òè  lf]v  kcìtuj  vo|u(Z€Tai: 

«  Chi  sa  che  il  vivere  non  sia  morire,  e  che  il  morire  non  si  reputi  vivere 
«  da  quei  di  sotterra?  >  —  Non  dice  di  più,  anzi  forse  dice  di  meno,  di 
quello  che  dice  il  coro  degli  iniziati  (xopò<;  fiuaT(I»v)  dell'Ade  nelle  Rane 
d'Aristofane,  dove  parlando  dei  viventi  si  dice  appunto,  v.  420,  èv  to1(;  dvu) 
v€Kpotai  =:  €  tra  i  cadaveri  che  sono  al  mondo».  Anzi,  se  ho  da  dii^e  la  ve- 
rità, mentre  i  versi  di  Euripide  e  quello  d'Aristofane  mi  pare  contengano 
uà  concetto  mistico  davvero,  in  quanto  che  sostanzialmente  la  vita  si  chia- 
risce per  morte  e  la  morte  per  vita;  mentre  un  concetto  mistico  si  può  ve* 
dorè  in  ciò  che  canta  Poliutto: 

Lasciando  la  terra 
Il  ginsto  non  muore, 
Nel  cielo  rinasce 
Di  vita  migliore; 

in  morire  alla  morte  più  ci  penso  e  meno  so  vedere  altro  che  una  frase, 
se  vuol  dire  semplicemente,  come  mi  sembra,  cancellare  da  noi  la  mortalità, 
riscattarsi  dalla  servitù  della  morte  ;  e  se  è  una  frase,  che  è  essa  di  più  che 
un  giuoco  di  parole? 

E  poi  dov'è  che  Dante  dice  che  muore  per  passar  l'Acheronte?  Se  lo  di- 
cesse, dovremmo  indagare  in  che  senso  lo  dica,  e,  occorrendo,  ricorrere  al 
misticismo.  Ma  non  lo  dice;  dice  solo: 

E  caddi  come  l'uom  che  sonno  piglia. 

Vuol  dir  morire?  No  certo:  il  sonno  sarà  fratello  della  morte,  ma  none  la 
morte.  E  anche  quando  si  risveglia,  si  risveglia  dal  sonno  e  non  risuscita 
dalla  morte.  Ma  è  morte  mistica.  Sta  bene,  ma  se  .la  morte  mistica  vuol 
dire  restar  più  vivi  di  prima,  allora  il  pigliar  sonno  non  è  immagine  che  le 
convenga;  le  converrebbe  meglio  quella  dello  svegliarsi. 

Ora  io  non  vedo  la  necessità  di  tutti  questi  arzigogoli.  La  questione  del 
passaggio  dell'Acheronte,  se  questione  è,  rimane  la  stessa.  Dante  piglia  sonno 
eu  di  una  riva  e  si  sveglia  sull'altra.  Com'è  passato?  Qualcuno  ce  l'avrà 
portato,  e  io  mi  accontento  di  questa  spiegazione.  —  Ma  da  vivo  non  poteva 
passare.  —  Adagio,  non  poteva  passare  nella  barca  di  Caronte  :  Caronte  in- 
fatti non  lo  respinge  perchè  è  vivo,  ma  perchè  pesa  troppo: 

Più  lieve  legno  convien  che  ti  porti, 

gli  dice,  e  non  già,  muori  prima,  se  vuoi  che  io  ti  porti.  Ma  poniamo  pure 
che  per  passar  di  là  gli  occorra  morire  ;  se  morendo  muore  di  una  morte 
per  la  quale  resta  vivo,  la  difficoltà  non  è  tolta.  Se  poi,  come  vuole  il 
Pascoli,  il  più  lieve  legno  che  porta  Dante  è  la  croce,  la  difficoltà  del  tras- 
porto è  sciolta  senza  bisogno  di  morire. 

E  similmente  poi  quanto  all'ultima  morte,  quella  alla  malizia  che  sarebbe 
significata  da 

Io  non  morii  e  non  rimasi  rito, 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  411 

io  non  trovo  in  questo  verso  quello  che  ci  trova  il  Pascoli:  se  dice  espres* 
samente  io  non  morii!  0  che  Dante  si  trastulla  con  le  parole?  Quelli  che 
nell'altro  secolo  hanno  indagato  se  Dante  sapesse  il  greco  sono  andati  a  sco- 
vare per  questo  verso  un  parallelo  in  Euripide,  Suppl.  968-70: 

oìjt'  èv  (p9i|Liévoiq 

gOt'  èv  ZOùaiv  Kpivo)iéva,  ♦ 

X^PK  ^é  Tiva  tOùvò'  ^xoicfo.  |no!pav. 

E  avrebbero  potuto  anche  trovarne  un  altro  molto  simile  in  Sofocle,  Ani., 
850-51.  E  hanno  avuto  torto,  poiché  la  coincidenza  è  casuale,  essendo  questo 
un  concetto  molto  umano,  un  pensiero  che  è  frequente  anche  nella  gente 
comune,  e  che  si  esprime  e  si  ripete  senza  alcuna  seconda  intenzione,  come 
lo  espresse  Euripide,  come  lo  espresse  Sofocle.  E  come  Euripide  e  Sofocle 
del  nostro  misticismo  non  sanno  che  farsene,  tanto  meno  dobbiamo  regalar- 
gliene a  Dante,  la  cui  grandezza  anzi  consiste  nell'aver  raccolto  del  pensiero 
del  tempo  suo  quello  che  poteva  diventare  universale  e  perenne  e  nell'aver 
lasciato  quello  che  era  transitorio. 

Ma  una  questione  assai  più  importante,  una  questione  che  è  veramente  una 
questione  discute  il  P.  nella  lunga  quarta  sezione  del  suo  libro  intitolata  le 
tre  fierCj  e  nella  breve  seguente,  il  corto  andare.  E  qui  il  mio  dissenso  dal 
Pascoli  è  di  tutt'altro  genere,  e  mi  offre  occasione  di  considerare  la  sua  cri- 
tica sotto  un  altro  punto  di  vista. 

Sono  perfettamente  d'accordo  con  lui  nel  ritenere  che  le  fiere  non  rappre- 
sentino la  lussuria,  la  superbia  e  l'avarizia,  come  si  crede  dai  più,  ma  le  tre 
disposizioni  che  il  ciel  non  vuole,  cioè  incontinenza,  violenza  e  malizia  o 
frode,  com'è  più  consentaneo  all'organismo  della  cantica,  che  svolge  poi  se- 
condo la  lettera  ciò  che  nel  proemio  era  stato  rappresentato  secondo  il  sim- 
bolo. E  la  interpretazione  che  in  sostanza  fu  data  già  da  Giacinto  Casella 
fino  dal  1865,  e  che  non  aveva  trovato  fino  ad  ora  molti  seguaci.  —  La  vo- 
gliamo ritenere  per  certa  senz'altro?  Mi  mette  sull'avviso  di  andare  un  po' 
cauto  l'opinione  contraria  di  un  uomo,  che  nelle  questioni  dantesche  non 
parla  a  vanvera,  dico  Francesco  D'Ovidio.  Egli  ribatte  l'opinione  del  Casella 
e  del  Pascoli  e  torna  all'antica  interpretazione,  della  quale  preferirebbe  per 
altro  quella  variante  che  ragguaglia  la  lonza,  invece  che  alla  lussuria,  al- 
l'invidia (1). 

Discorrendone  per  incidenza  non  posso  trattare  distesamente  una  tesi  tanto 
intricata,  né  per  verità  me  ne  duole,  perchè  dovrei  ripetere  anche  cose  dette 
e  ridette.  Mi  fermerò  pertanto  un  poco  sul  nodo,  lasciando  da  parte  il  resto, 
e,  tra  questo  resto,  l'interpretazione  politica.  Contro  l'interpretazione  comune, 
oltre  la  ragione  generale  detta  sopra,  ce  ne  sono  altre  particolari.  Che  la 
lonza  sia  la  lussuria,  e  che  Dante  sperasse  di  poterla  vincere  per 

L'ora  del  tempo  e  la  dolce  stagione, 


(1)  Le  tre  fiere  della  selva  dantesca,  in  FUgrea,  5  luglio  1900;  ristampato  in  Studii  sulla  Di- 
vina Commedia,  pp.  302-25. 


412  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

è  una  contraddizione  delle  più  evidenti:  anzi  appunto  la  primavera  e  il  mat- 
tino sono  per  la  lussuria  incentivi:  domandatene  ad  Aristofane. —  Che  la 
lupa  possa  equivalere  all'avarizia,  e  che  l'avarizia  sia,  secondo  questa  inter- 
pretazione, nella  selva  il  peccato  più  grave,  quando  poi  neWInfemo  è  per 
sé  sola  uno  dei  più  lievi,  come  peccato  d'incontinenza,  ecco  un'  altra  con- 
traddizione anche  più  forte.  Né  mi  svolge  da  questa  obiezione  il  notarsi  da 
Dante  che  la  lupa  é  quella  che  ha  preda  più  che  tutte  le  altre  bestie;  — 
tutt'altro  :  —  i  peccati  che  seducono  molti  non  sono  i  peggiori,  e  la  perver- 
sità mediocre  é  più  frequente  certo  che  la  perversità  raffinata. 

Ma  le  interpretazioni  del  Casella  e  del  Pascoli,  se  sono  identiche  nel  prin- 
cipio, sono  contrarie  tra  loro  nell'applicazione.  Il  Casella  vuole  che  la  lonza 
sia  la  frode,  il  leone  la  violenza,  la  lupa  l'incontinenza;  il  Pascoli  che  la 
lonza  sia  l'incontinenza,  il  leone  la  violenza,  la  lupa  la  frode:  convengono 
dunque  soltanto  nel  leone,  lo  altra  volta  avevo  preferito  l'interpretazione  del 
Pascoli;  ora,  dopo  averci  pensato  più  maturamente,  me  ne  sono  ricreduto: 
chi  cerca  il  vero  deve  essere  disposto  anche  a  riconoscere  il  proprio  errore, 
ed  io  non  mi  accontento  di  predicar  questo  agli  altri,  ma  senza  cruccio  ne 
do,  se  occorre,  l'esempio. 

Come  si  difenda  ciascuna  tesi,  veggasi  per  disteso  presso  il  rispettivo  suo 
autore,  o  presso  il  D'Ovidio:  io  qui  da  loro  non  torrò  che  gli  argomenti 
fondamentali,  e  ci  aggiungerò  di  mio  qualche  illustrazione  e  qualche  giunta. 

E  innanzi  tutto  noto  che  tra  la  interpretazione  del  Casella  e  la  vulgata 
c'è  una  variante  di  questa,  che  serve  come  di  ponte  tra  le  due;  ed  è  quella 
che,  tenendo  il  leone  per  la  superbia  e  la  lupa  per  l'avarizia,  intende 
la  lonza  per  l'invidia;  opinione  che  ha  pur  molti  e  validi  sostenitori  e, 
come  ho  accennato,  vi  accede  il  D'Ovidio  stesso.  Ebbene,  invidia,  superbia 
e  avarizia  sono  tre  colpe  capitali  che  in  certo  modo  rappresentano  le  tre 
disposizioni  che  il  ciel  non  vuole,  ciascuna  sotto  l'aspetto  più  grave,  e  in 
quell'ordine  inverso  che  è  anche  nella  interpretazione  del  Casella.  La  gra- 
dazione sarebbe  perciò  uguale  alla  nostra;  soltanto  le  fiere  rappresentereb- 
bero gli  abiti  e  non  gli  atti.  Ma  se  nell'Inferno  sono  puniti  gli  atti,  a  parità 
delle  altre  condizioni,  quella  interpretazione,  che  riduce  a  questi  anche  i 
simboli  delle  fiere,  mi  pare  la  più  consentanea.  Ad  ogni  modo  accettiamo 
dal  D'Ovidio  questa  concessione,  che  per  sé  sola,  come  vedremo  in  appresso, 
ne  conduce  vicino  al  porto.  E  ritorniamo  per  un  momento  alla  vulgata. 

Che  la  lonza  non  sia  l'incontinenza  lo  si  argomenta  con  le  stesse  ragioni 
per  le  quali  non  può  essere  simbolo  della  lussuria.  Per  la  frode  invece  bene 
si  addice  la  speranza  di  vincerla  per 

L'ora  del  tempo  e  la  dolce  stagione. 

La  luce  é  opportuna  difesa  contro  il  vizio  che  si  nasconde  nelle  insidie  delle 
tenebre  ;  e  la  primavera,  stagione  d'amore,  parla  sentimenti  contrari  all'odio, 
che  è  carattere  proprio  della  frode:  questo  fu  notato  anche  dal  Casella.  Ma 
che  sia  la  frode,  oltre  che  dalle  buone  ragioni  del  Casella,  è  ammesso  dal- 
l'esplicita testimonianza  di  Riccardo  da  S.  Vittore,  De  erud.  hominis  inte- 
rioris,  HI,  11,  che  il  P.  con  lodevolissima  e  disinteressata  lealtà  cita  a  p.  359: 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  413 

Recte  hypocritarum  fraudulentia  in  pardo  figuratur^  qui  per  totum  corpus 
maculis  quihusdam  respergitur.  Ora  se  consideriamo  che  Dante  non  solo 
pone  gli  ipocriti  tra  i  frodolenti,  ma  usa  per  loro  l'espressione  una  gente 
dipinta;  come  per  la  lonza  alla  pelle  dipinta;  e  che  come  la  lonza  cosi 
Gerione 

Lo  dosso  e  '1  petto  ed  ambedne  le  coste 
Dipinte  area  di  nodi  e  di  rotelle; 

pare  che  di  più  non  si  possa  desiderare  per  il  confronto.  Ma  c'è  di  più,  c'è 
la  corda: 

Io  aveva  una  corda  intorno  cinta, 
Con  la  quale  pensai  alcuna  volta 
Prender  la  lonza  alla  pelle  dipinta. 

Il  P.  con  gli  altri  si  fissa  sull'idea  che  la  corda  equivalga  a  continenza  ; 
ma  se  Dante  dice  di  Pietro  d'Aragona  che 

D'olmi  valor  portò  cinta  la  corda, 

segno  è  che  per  lui  la  corda  poteva  raffigurare  ogni  virtù.  Nella  selva  Dante 
con  la  corda  aveva  pensato  di  prender  la  lonza,  ma  non  la  prese,  perchè 
non  aveva  avuto  ancora  la  grazia  :  ora  che  Lucia  gliel'ha  ottenuta,  prende 
effettivamente  l'altra  immagine  di  froda,  cioè  Gerione:  lo  prende,  cioè  lo 
soggioga.  Dante  si  toglie  la  corda.  Certamente;  anche  se  con  essa  voleva 
prender  la  lonza  bisognava  bene  che  se  la  togliesse.  0  come  avrebbe  fatto? 
E  perchè  Dante  ci  conterebbe  qui  che  con  la  corda  voleva  prender  la  lonza, 
notizia  per  se  stessa  oziosa  ed  inutile,  quando  non  fosse  per  farci  capire  che 
a  quell'uso,  cui  non  potè  servire  allora,  serve  adesso?  E  se  ne  serve  toglien- 
dosela ora,  come  se  la  sarebbe  tolta  allora,  se  avesse  potuto  servirsene.  Non 
occorre  poi  arzigogolare  se  con  la  corda  allacci  Gerione  o  lo  tiri  su,  che 
sarebbero  sciocchezze:  il  vero  è  che  il  segno  vien  fatto  a  Gerione  con  la 
corda  e  non  altrimenti;  che  Gerione  obbedisce  al  segno  della  corda,  che 
Dante  gli  monta  sulle  spalle,  come  si  fa  con  una  bestia  domata,  gli  monta 
a  cavallo  come  Virgilio  e  insieme  con  Virgilio,  il  quale,  essendo  simbolo 
della  sana  ragione,  molto  a  proposito  è  rappresentato  come  soggiogatore 
della  frode.  E  questa  mi  pare  anche  la  prova  perentoria  contro  il  falso  pre- 
supposto da  cui  muove  l'interpretazione  del  Pascoli.  A  proposito  della  corda 
gettata  a  Gerione  egli  dice  a  pp.  172-73:  «  Or  Dante  col  gettito  della  corda 
«  ha  voluto  esprimere  questo  vulgato  concetto  :  che  gli  incontinenti  si  fanno 

<  facilmente  rei  di  malizia.  Mi  pare  ineccepibile.  Di  lassù   alcuno   gitta   la 

<  corda,  cioè  rinunzia  a  contenere  le  passioni  dell'animo  irascibile  e  concu- 
«  piscibile.  Mostra  non  di  essere  soltanto  incontinente  in  questa  o  quella 
«occasione;  ma  di  non  volere  essere  più  in  alcuna.  Sfrena  e  discioglie  l'ap- 
«  petito  per  sempre  ».  A  me  invece  questo  pare,  non  solo  eccepibile,  ma,  sia 
detto  senza  offesa,  assurdo  addirittura.  Intanto  non  è  vero  neanche  per  i  dan- 
nati :  i  dannati  non  esercitano  la  violenza,  la  frode,  ecc.,  ma  la  scontano,  e 
Dante  non  scende  all'Inferno  per  diventare  incontinente  con  gli  incontinenti, 
violento  coi  violenti,  frodolento  coi  frodolenti;  ma  per  imparare  dalla  con- 

niornale  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  27 


414  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

templazione  delle  loro  pene  le  contrarie  virtù.  Non  disarmarsi  pertanto  gli 
conveniva  di  mano  in  mano  che  scendeva,  ma  armarsi  e  adoperare  le  armi: 
non  è  lui  quello  che  rappresenta  il  graduale  corrompersi  dell'anima  per  il 
peccato,  ma  l'Inferno.  E  nemmeno  viceversa  col  gettito  della  corda  può  si 
gnificarsi  che,  passati  i  centri  dell'incontinenza,  la  continenza  si  possa  gittar 
via,  come  cosa  inutile.  La  virtù  che  trionfa  del  vizio  opposto  non  è  come 
un'  arma  che  si  deponga  dopo  usata  a  debellare  i  nemici,  ma  diventa  ap- 
punto allora  una  cosa  veramente  nostra  e  più  nostra  di  prima:  il  trionfo  è 
pieno,  quando  di  quella  virtù  non  ci  possiamo  più  spogliare.  Oltre  di  ciò 
siccome  poi  la  malizia  è  radicata  nell'incontinenza,  come  anche  il  P.  con- 
sente, sarebbe  di  nuovo  assurdo  che  si  buttasse  via  la  virtù  contraria,  quando 
anzi  il  pericolo  è  maggiore. 

Non  mi  fermo  a  parlare  a  lungo  della  lupa,  perchè  su  essa  è  più  facile  il 
persuadere:  gola,  avarizia,  lussuria  per  lo  meno  sono  colpe  di  incontinenza 
che  alla  lupa  convengono  perfettamente.  Siccome  poi  l'incontinenza  è  il  primo 
incentivo  di  tutti  o  almeno  dei  più  degli  altri  peccati,  come  si  è  detto  or 
ora,  e  come  appare  dai  canti  XVI,  XVII,  XVIII  del  Purgatorio,  cosi  ben 
si  dice  di  lei  e  si  parla  propriamente  quando  si  dice  che 

Molti  Bon  gli  aaimali  s  coi  8*  ammoglia. 

Ma  «  contro  alla  fina  ipotesi  del  Casella  »,  dice  il  D'Ovidio,  «  sta  un'obie- 
«  zione  formidabile,  alla  quale  egli  invano  s'adopera  di  sfuggire  con  risposte 
«  generiche  ».  La  riferirò  con  le  parole  stesse  del  Casella,  che  non  se  la 
dissimula  (1)  :  «  Ancora  si  domanderà  :  se  le  tre  fiere  della  selva  sono  i  tre 
«vizi  capitali  puniti  in  Inferno,  com'è  che  esse  [essi?]  appariscono  nei  due 
«  luoghi  con  ordine  tutto  inverso,  onde  quello  per  esempio  che  appiè  del 
«colle  pareva  a  Dante  l'ostacolo  il  più  formidabile,  cioè  la  lupa,  si  trova 
«  neW Inferno  essere  il  vizio  men  grave  dei  tre ,  tanto  che  si  gastiga  in 
«  quattro  cerchi  fuori  della  Città  di  Dite?  »  E  la  soluzione  che  dà  del  que- 
sito, ancorché  generica,  potrebbe  esser  vera.  Continua  infatti  :  «  La  risposta 
«  è  in  quello  che  già  dissi  sopra,  cioè  che  l'Inferno  e  la  Selva  sono  sostan- 
«  zialraente  identici,  ma  variano  di  forma  e  di  apparenza  pel  modo  diverso 
«  di  considerargli,  per  la  diversa  posizione  ».  E  una  risposta  generica,  dice 
il  D'Ovidio:  la  soluzione  pare  troppo  leggera  per  una  questione  cosi  grave. 
Eppure  mi  pare  che  il  D'Ovidio  dovrebbe  accontentarsene  prima  di  ogni 
altro:  egli  accetta,  abbiamo  veduto,  che  la  lonza  sia  l'invidia;  se  è  l'invidia, 
ecco  ammesso  anche  da  lui  l'ordine  inverso,  che  per  la  tesi  del  Casella  gli 
pare  ostacolo  così  grave.  L'invidia  infatti  in  nessun  modo  si  può  trovare 
tìqW Inferno  prima  dell'avarizia,  e  bisogna  sottilizzare  per  trovarla  prima 
della  superbia.  L'invidia  non  è  certo  la  frode,  ma  è  il  fondamento  della 
frode  :  «  la  frode,  egli  dice,  è  l'ultimo  peccato  infernale,  il  più  nero  e  dan- 
«  noso,  laddove  delle  tre  fiere  la  lonza  è  la  prima  a  presentarsi  e  la  meno 
«  cattiva  ».  Ma  se  a  lonza-frode  sostituiamo  lonza-invidia,  per  la  contraddi- 


(1)  Casklla,  Optré  iHtdiU  •  pothiNM,  II,  802. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  415 

zione  che  si  vuole  eliminare  mi  pare  che  si  faccia  poco  profitto.  Dunque,  o 
la  giustificazione  del  Casella  non  vale  per  la  frode,  e  allora  neanche  per 
l'invidia  deve  valere;  o  l'invidia  può  essere  la  prima  delle  fiere,  e  perciò  le 
fiere  sono  in  ordine  inverso  dei  peccati,  e  allora  o  la  spiegazione  del  Casella 
sarà  la  buona,  o  se  ne  potrà  trovare  altra  anche  migliore.  Or  bene,  a  me 
pare  che  lordine  inverso,  non  solo  si  possa  ammettere,  ma  che  anzi,  non 
che  indifferente,  sia  piuttosto  espressamente  voluto  e  ragionato  cosi.  Dante 
stava  uscendo  dalla  selva  :  egli  intendeva  avviarsi  non  a  perdizione  ma  a 
salute.  Alla  sua  salvezza  per  altro  si  oppongono  successivamente  tre  ostacoli, 
tre  disposizioni  che  il  cielo  non  vuole:  sono  tre  tentazioni.  Or  quale  di  queste 
è  la  più  grave?  Poniamo  l'uomo  medio  e  normale,  quale  è  quello  simboleg- 
giato da  Dante,  l'uomo  che  per  salvarsi  ci  mette  il  proprio  buon  volere:  se 
quest'uomo  cadrà,  sotto  qual  tentazione  cadrà?  Poniamo  Dante  traviato, 
quale  è  descritto  e  rimproverato  da  Beatrice  nel  suo  primo  incontro  nel  Pa- 
radiso terrestre:  di  quali  peccati  lo  incolpa  Beatrice?  di  frode?  di  violenza? 
No  affatto:  lo  incolpa  di  incontinenza:  egli  si  era  lasciato  sedurre  dall'amore 
dei  beni  secondi 

Immagini  di  ben  seguendo  false. 

Dall'incontinenza  egli  dunque  fu  vinto,  non  dalla  violenza  né  dalla  frode. 
Se  dunque  la  violenza  e  la  frode  sono  mali  più  gravi,  la  incontinenza  era 
il  male  più  temibile.  Dante  che  si  dà  per  vinto  dall'incontinenza  è  il  vero 
Dante  e  l'uomo  normale  :  Dante  che  si  perdesse  per  la  frode  non  sarebbe  più 
Dante,  e  non  sarebbe  più  l'uomo  normale.  I  più  di  quelli,  che  si  dannano, 
si  dannano  per  incontinenza; 

Maledetta  sie  tu,  antica  lupa, 
Che  più  che  tutte  l'altre  bestie  hai  preda, 
Per  la  tua  fame  senza  fine  cupa. 

Come  potrebbe  dirsi  questo  della  frode?  Oltre  che  l'esperienza  ci  dice  che 
della  frode  non  è  vero,  non  lo  ammette  per  vero  Dante  stesso  :  la  frode  nel 
suo  Inferno  ha  solo  i  due  cerchi  più  piccoli;  l'incontinenza  ne  ha  quattro, 
e  i  più  ampi,  per  sé  sola  esclusivamente,  e  ha  delle  colonie  anche  nei  cerchi 
della  violenza  e  della  frode,  quando  l'atto  suo  fu  composto  con  l'una  o  l'altra 
di  queste  due  male  disposizioni. 

Né  minor  convenienza  con  la  nostra  spiegazione  troveremo  nei  rapporti 
della  lupa  col  veltro.  Il  Pascoli  sostiene  che  il  veltro  deve  uccider  la  lupa, 
che  essendo  frode  é  ingiustizia,  e  il  veltro  sarebbe  l'imperatore,  d'accordo  in 
questo  col  Clan.  Dire  che  il  veltro  ucciderà  la  frode  era  un  po'  forte,  la  frode 
perciò  diventa  ingiustizia.  Ma  con  questi  compromessi  si  spiega  tutto.  Certo 
è  che  la  frode  e  la  ingiustizia  si  somigliano,  in  quanto  la  frode  é  la  specie 
peggiore  d'ingiustizia;  ma  nessuno  vorrà  negare  che  anche  la  violenza  è 
ingiustizia.  È  facile  rispondere  che  la  lupa  appunto  compendia  in  sé  anche 
le  colpe  meno  gravi.  E  allora  ne  viene  che  il  veltro  sarà  qualcosa  di  più 
dello  stesso  Redentore,  se  caccerà  dal  mondo  tutti  i  vizi.  Ma  che  cosa  il 
veltro  verrà  a  cacciare,  prima  di  tutto  dobbiamo  chiederlo  a  Dante,  se  ce  lo 
vuol  dire.  Il  veltro  è  il  dux:  quale  é  l'ufficio  del  duxì  Ufficio  suo  è  appunto 


416  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

uccider  la  lupa,  che  è  incontinenza,  cupidigia,  amore  smisurato  dei  beni  se- 
condi; e  lo  dice  Dante  stesso,  Purg.,  XVI,  88  sgg.,  dove  parla  dell'anima 
che  s'inganna  dalle  apparenze  e  corre  dietro  a  questi  beni. 

Se  guida  o  fren  non  torce  il  suo  amore. 

Ed  appunto  per  frenare  l'amore  dei  beni  secondi  furono  fatte  le  leggi,  dice, 
e  creati  i  re;  ma  ora  nessuno  osserva  le  leggi,  e  il  pastore  predica  bene 
ma  cammina  male.  E  continua  : 

Perchè  la  gente  che  sua  guida  vede 
Pure  a  quel  ben  ferire  ond'  ella  è  ghiotta 
Di  quel  si  pasce  e  più  oltre  non  chiede. 

Ben  puoi  reder  che  la  mala  condotta 
È  la  cagion  che  il  mondo  ha  fatto  reo, 
E  non  natura  che  in  toì  sia  corrotta. 

Mi  pare  che  non  si  possa  essere  più  chiari  di  così.  Il  mondo  è  sviato  dietro 
ai  beni  secondi,  e  dietro  ai  beni  secondi  corrono  i  principi  e  il  papa.  Che 
occorre  per  rimedio  a  questi  mali?  Un  principe  o  un  papa  che  non  si  cibi 
di  beni  secondi,  terra  né  peltro,  ma  dei  beni  primi,  sapienza,  amore  e  vir- 
tute,  il  veltro  dunque.  Di  qui  deve  cominciare  la  riforma;  si  deve  rimediare 
alla  natura  sviata,  non  alla  natura  corrotta  ;  e  incontinenza  è  perciò  la  lupa, 
non  frode.  E  tale  è  pure  evidentemente  la  fuja  che  sarà  uccisa  dal  cinque- 
cento dieci  e  cinque^  e,  se  non  tale,  è  ad  essa  simile  per  parecchi  rispetti 
la  femmina  halba,  di  cui  dirò  un  po'  più  oltre.  Insomma  questo  è  il  primo 
peccato  e  l'occasione  di  ogni  peccato,  e  però  questa  conviene  abbattere; 
questa  deve  essere  rimessa  nell'inferno 

lA  onde  inridia  prima  dipartilla. 

Invidia?  Si;  l'invidia  dell'angelo  tentò  l'uomo  per  mezzo  dell'incontinenza; 
e  il  peccato  originale,  se  nell'atto  fu  di  superbia,  nell'incontinenza  ebbe  per 
altro  la  sua  radice. 

Ho  riassunto  la  questione  affatto  per  sommi  capi,  cercando  di  non  perdermi 
in  mezzo  a  una  selva  (sia  detto  senza  alcun  senso  mistico)  di  argomentazioni 
che  si  incalzano  e  si  intrecciano  per  tutti  i  versi,  e  dileguano  e  riappari- 
scono, e  si  integrano  e  si  modificano,  e  si  dividono  e  si  riannodano,  quando 
meno  un  lettore  disattento  se  lo  aspetta.  Tornerò  indietro  su  un  punto  solo 
in  particolare,  non  per  esaurire  la  tesi,  non  per  confutare  argomenti  singoli, 
ma  per  combattere  anche  su  questo  capitolo  l'indirizzo  e  il  metodo  delia 
nuova  critica.  Nei  cerchi  ove  sono  punite  le  colpe  contrarie  il  P.  osserva 
che  ne  è  notata  col  suo  nome  'una  sola,  l'avarizia  e  non  la  prodigalità,  l'ac- 
cidia {accidioso  fummo)  e  non  l'ira  (pp.  160-61).  Qui  si  direbbe  che  egli 
dimentica  il  verso,  pur  citato  la  pagina  innanzi. 

L'anime  di  color  cui  vinse  Hra: 

ma  non  è  vero  che  lo  dimentichi,  e  l'ommissione  è  intenzionale.  Infatti  ci 
torna  su  un  po'  più  innanzi  (p.  261)  e  dico  che  appunto  i  lettori  ed  i  critici 
non  hanno  capito  <  fissi  all'idea  che  *  color  cui  vinse  l'ira  '  sieno  i  rei  d'ira  »; 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  417 

e  si  ingegna  di  dimostrare  che  questa  è  «  accidia  anche  dove  pare  ira  e 
€  non  è  ».  E  perchè  non  è?  Perchè  Filippo  Argenti  «  con  tutta  la  sua  furia, 
«  non  si  slancia  contro  gli  assalitori  e  gridatori  e  beffeggiatori  ».  Or  bene, 
questo  in  parole  povere  cosa  significa?  Per  me  significa  che  quando  Virgilio 
dice  a  Dante: 

figlio,  or  vedi 
L'anime  di  color  cni  Tinse  l'ira, 

gli  dice  dunque  una  cosa  non  vera!  0  che  ragionare  è  cotesto?  Nel  quinto 
cerchio  sono,  sì  o  no,  gli  iracondi?  Si,  e  il  Pascoli  stesso  lo  ammette,  con 
che  però  si  soggiunga  che  l'accidia  prevale  sull'ira.  Prevale?  Prevale,  perchè 
l'accidia  è  nominata  di  preferenza.  Ma  siccome  in  realtà  l'ira  è  nominata 
col  suo  nome  e  l'accidia  con  una  circonlocuzione,  quell'ira  li  pare  ira,  ma 
non  è  ira,  precisamente  come  la  selva  è  selva  ma  non  è  selva,  è  oscura  ma 
non  è  oscura,  ecc.  ecc.  E  tutta  questa  disquisizione  perchè?  Per  conchiudere 
che  nello  Stige  non  sono  i  peccatori  d'ira  e  tanto  meno  gli  iracondi,  ma 
solo  gli  incontinenti  d'ira,  e  che  l'ira  vera  si  traduce  in  ingiuria  e  quindi 
in  violenza.  La  preoccupazione  del  Pascoli  è  quella  di  voler  trovare  ad  ogni 
costo  per  ogni  cerchio  un  peccato  capitale,  e  siccome  l'ira  per  lui  è  nel 
cerchio  della  violenza,  di  necessità  deve  toglierle  quello  dove  Dante  espres- 
samente la  collocò.  Così  dopo  essersi  molto  accostato  al  vero  quando  distinse 
gli  incontinenti  d'ira  e  i  maliziosi  d'ira,  la  qual  distinzione  conveniva  anche 
a  tutti  gli  altri  peccati,  si  impelagò  poi  in  una  serie  di  paradossi,  che  danno 
alle  sue  conclusioni  un'  apparenza  anche  più  sfavorevole  che  non  meritino, 
prestando  il  fianco  alla  facile  censura  e  screditando  quelle  molte  cose  buone 
e  vere  che  formano  il  pregio  incontestabile  del  libro. 

Nel  lungo  capitolo  le  rovine  e  il  gran  veglio  molte  osservazioni  acute  e 
vere  ci  colpiscono.  Le  rovine  sono  tre,  una  nel  cerchio  della  frode  e  nella 
bolgia  degli  ipocriti,  una  al  discendere  nel  cerchio  dei  violenti,  e  la  prima 
nel  cerchio  dei  lussuriosi: 

Quando  giungono  innanzi  alla  mina. 

Dunque  una  per  ciascuna  delle  tre  male  disposizioni,  e  questo  parallelismo 
ci  dà  una  suflBciente  spiegazione  della  prima,  quella  dei  lussuriosi,  la  cui 
indeterminatezza  diede  molto  da  fare  agli  interpreti.  La  roccia  si  sarebbe 
.scoscesa  in  tutti  e  tre  i  luoghi  nella  morte  di  Cristo: 

Qui  ed  altrove  tal  fece  rivergo  ; 

e  se  un'  interpretazione  è  possibile,  e  vogliamo  cercare  la  più  ragionevole  e 
piana  per  amore  del  vero  e  non  per  sfoggio  di  acume,  non  vedo  per  ora 
contro  queste  conclusioni  ammesse  dal  Pascoli  cosa  ci  sia  da  ridire.  Troppo 
acuta  invece  mi  pare  la  ragione  ch'egli  vuol  dare  del  salire  e  dello  scen- 
dere che  fa  Dante  per  queste  rovine,  distinguendo  una  differente  intenzione 
e  un  differente  significato  secondo  che  scende  o  che  sale.  Siamo  alle  solite 
anche  qui  :  cioè  potrà  forse  darsi  che  questo  sia,  ma  con  tutte  queste  pastoie, 
non  capisco  più  come  un  artista  possa  muoversi,  sia  egli  pur  Dante.  Io  reputo 


418  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

che  la  allegoria  non  si  abbia  ad  estendere  a  ogni  passo,  a  ogni  verso:  dove 
la  ragione  procede  naturale  e  piana,  allegoria  non  si  ha  da  cercare.  0  non 
si  finirebbe  più.  Perchè  per  esempio  i  tre  sodomiti  fiorentini  fanno  di  sé  una 
ruota?  perchè  Brunetto  piglia  per  la  falda  il  poeta?  cosa  significa  iì  diavol 
nero  che  butta  dal  ponte  il  barattiere?  Qui  non  c'è  allegoria  alcuna,  no,  no 
e  poi  no.  Dove  la  allegoria  si  ha  da  cercare  lo  si  capisce  subito;  è  là  dove 
il  senso  letterale  non  soddisfa  pienamente,  dove  c'è  qualcosa  che  stando  alla 
sola  lettera  pare  arbitraria  o  accidentale:  in  questi  casi  è  l'allegoria  quella 
che  ristabilisce  la  pienezza  e  la  ragionevolezza  di  significato  che  la  lettera 
lascia  manchevole.  Allegoriche  dunque  sono  le  tre  fiere,  allegorico  è  il  Veglio 
dell'Ida,  che  il  Pascoli  interpreta  egregiamente;  come  allegorici,  anche  per 
l'origine  onde  derivano,  sono  i  fiumi  àeWInferno,  sui  quali  il  Pascoli  pure 
ha  delle  osservazioni  molto  suggestive  là  ove  cerca  di  dimostrare  (e  in  buona 
parte  persuade),  che  il  carattere  di  questi  fiumi  corrisponde  al  carattere  dei 
peccati  che  sono  puniti  nei  cerchi  ov'essi  appariscono,  e  che  come  il  fiume 
è  sostanzialmente  uno,  e  soltanto  diversi  sono  gli  aspetti  che  prende  di  mano 
in  mano,  così  passandosi  dal  peccato  meno  grave  al  più  grave  si  aggiungono 
i  requisiti  e  le  caratteristiche  del  secondo  senza  perdere  la  reità  del  primo, 
e  si  ha  perciò  un  accrescimento  d'intensità  senza  mutamento  di  natura. 

Non  posso  seguire  il  libro  passo  per  passo  e  mi  conviene  saltar  molte  pa- 
gine, sia  di  quelle  dove  avrei  da  ribattere,  sia  di  quelle  dove  avrei  da  ap- 
plaudire, sia  di  quelle  ancora  che  mi  lasciano  indeciso.  Dirò  che  ritorna  a 
spiegare  il  messo  del  cielo  per  Enea,  e  non  si  può  negare  che  la  difesa  di 
questa  opinione  sia  acuta,  da  lasciar  dei  dubbi  anche  nei  più  riluttanti  ad 
ammetterla.  Dirò  che  cerca  di  spiegare  come  Dante  (p.  319)  «  si  mostra  com- 
«  battuto  dalla  pietà  dove  l'incontinenza  predomina,  o  tratto  a  sdegno  dove 
«predomina  l'ingiustizia»;  la  quale  conclusione  si  può  accettare  integral- 
mente, più  che  per  i  ragionamenti  di  cui  la  conforta,  perchè  corrisponde  ad 
un  sentimento  tutto  umano  e  naturale.  Né  con  ciò  voglio  dire  che  i  ragio- 
namenti sieno  erronei,  dico  solo  che  ne  sono  discutibili  alcuni  punti,  che 
forse  non  sono  essenziali  per  la  conclusione. 

Dice  per  esempio  che  il  verso 

E  chi,  spregiando  Dio  col  cor,  favella 

(interpungo  così  col  Parodi)  significa  che  in  questi  violenti  c'è  un  elemento 
d'incontinenza  (p.  316):  «è  ingiustizia,  sì,  dice  Virgilio,  ma  è  col  core  solo, 

«  non  con  l'intelletto  » «  0  chi  non  vede  che  esso  [il  dire  col  core']  è 

€  un  ammonimento  a  non  scambiare  questo  peccato,  che  è  pur  contro  Dio, 
«col  massimo  dei  peccati,  che  è  quello  che  a  Dio  direttamente  si  oppone? 
€  col  peccato  di  Lucifero?  ».  Può  forse  darsi  :  —  e  chi  potrebbe  dimostrare 
che  non  è  vero?  —  ma  io  spiegherei  del  tutto  diversamente.  Spregiar  Dio 
con  l'intelletto,  come  si  può?  Razionalmente  parlando  Dante  stesso  lo  dice 
impossibile:  Purg.,  XII,  109-11: 

E  perchè  intender  non  si  paò  diviso. 
Né  per  so  stante,  alcuno  esaer  dal  primo. 
Da  quello  odiare  ogni  affetto  ò  deciso. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  419 

Odiare  con  l'intelletto  non  si  può  né  sé  né  Dio;  che  se  i  violenti  si  dividono 
in  tre  gironi  secondo  sono  tali  contro  Dio,  contro  sé,  contro  il  prossimo,  essi 
possono  dividersi  cosi  perchè  il  loro  peccato  è  di  bestie,  non  di  esseri  intel- 
ligenti. Dove  si  adopera  l'intelligenza  questa  triplice  partizione  non  si  ha  più. 
Violenza  si  può  dare  contro  Dio  e  non  odio,  allo  stesso  modo  che  contro  sé 
stessi.  Che  se  si  può  parlare  di  odio  contro  Dio,  se  ne  parla  solo  in  quanto 
il  peccatore  non  lo  odia  propriamente  e  direttamente  per  sé,  ma  indiretta- 
mente per  i  suoi  effetti,  come  ammettono  i  teologi.  E  spregiare  e  odiare 
qui  si  equivalgono,  come  è  del  tutto  chiaro  al  buon  senso,  e  non  farò  per- 
dere al  lettore  tempo  e  pazienza  per  dimostrarglielo.  Se  questo  é  vero,  par- 
rebbe dunque  che  spregiar  Dio  col  cuore  volesse  significare  il  solo  modo 
possibile  di  commettere  un  peccato  contro  Dio,  poiché  con  l'intelletto  com- 
metterlo non  si  può.  Né  ciò  vorrebbe  dire  che  Lucifero  non  lo  avesse  spre- 
giato col  cuore;  col  cuore  si  anche  lui,  soltanto  invece  di  esprimere  il  suo 
disprezzo  con  la  violenza,  vi  aggiunse  la  frode  e  la  peggior  specie  di  frode, 
il  tradimento,  la  ribellione  contro  il  proprio  benefattore.  Egli  non  spregiò 
Dio  parlando  propriamente  con  l'intelletto,  che  non  poteva;  ma  usò  dell'in- 
telletto nella  sua  guerra  contro  Dio,  mentre  gli  altri  usarono  solo  la  violenza 
bestiale.  La  differenza  sta  non  nella  radice  del  peccato,  ma  nella  sua  espli- 
cazione, e  questo  é  conforme  al  mio  principio,  che  dei  sette  peccati  capitali 
nell'Inferno  non  si  abbia  propriamente  a  parlare.  Ciò  posto  si  potrebbe  anche 
ritenere  che  quell'aggiunta  col  cor  valesse  piuttosto  a  dinotare  la  gravità 
del  peccato  anziché  ad  attenuarla,  come  é  anche  più  conforme  al  senso  gram- 
maticale delle  parole;  cioè  che  appunto  volesse  indicare  coloro  che  disprez- 
zano Dio  per  passione  e  quindi  per  mala  volontà,  non  coloro  che  lo  disprez- 
zano per  errore  o  cecità  di  mente,  ma  senza  malizia  e  senza  mal  animo, 
come  chi  andava  meditando  se  potesse  essere  che  Dio  non  fosse.  Costoro 
pure  non  amano  e  non  pregiano  Dio,  ma  non  lo  amano  e  non  lo  pregiano 
perché  non  ci  credono,  e  quindi  la  reità  loro  é  minore,  é  negativa  più  che 
positiva:  chi  lo  spregia  col  cuore  é  peccatore  assai  più  grave. 

Passo  oltre,  per  necessità,  sorvolando  a  parecchie  considerazioni  molto 
suggestive,  in  qual  modo  l'anima  di  Dante  vada  purgandosi  e  di  quali  vizi, 
e  quali  virtù  acquisti  lungo  il  cammino,  quali  sentimenti  si  svolgano  nel- 
l'animo del  poeta  di  mano  in  mano  che  scende  nell'Inferno,  e  come  si  muti 
la  natura  e,  diremo  cosi,  la  composizione  del  peccato:  lascierò  pure  quelle 
sulla  natura  dei  simboli,  che  é  diversa  secondo  i  diversi  cerchi  e  rappresenta 
i  diversi  elementi  costituenti  l'atto  colposo,  tanto  più  che  di  questi  simboli 
si  è  parlato  già  a  lungo  nella  Minerva  Oscura,  e  qui  non  c'è  molta  diver- 
sità da  quella  teorica. 

Solamente  proporrò  un  dubbio,  anzi  un  quesito,  che  i  dantisti  e  i  mora- 
listi potranno  studiare  e  risolvere  e  che  io  qui  non  posso  approfondire  senza 
incorrere  in  dismisura.  È  proprio  vero  che  Dante,  sia  come  individuo,  sia 
come  simbolo  dell'uomo,  purga  le  proprie  colpe  passando  attraverso  all'In 
ferno?  Posso  sbagliarmi,  ma  a  me  pare  di  no.  A  me  pare  che  la  purgazione, 
anche  per  lui,  è  riserbata  al  Purgatorio,  e  che  nell'Inferno  l'effetto  morale 
jinche  per  lui  si  limita  al  considerare,  al  meditare  e  al  conoscere.  Ciò  mi 
[)are  che  risulti  e  dal  diverso  modo  con  cui  Dante  si  atteggia  rispetto  alle 


420  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

pene  nell'uno  e  nell'altro  regno,  e  risulta  pure  dalla  diversa  natura  di  questi, 
della  quale  ho  parlato  prima.  I  fatti  puniti  nell'Inferno  sono  esempi  dai  quali 
si  può  trarre  un  ammaestramento,  dirò  cosi,  oggettivo:  le  disposizioni  psi- 
cologiche corrette  nel  Purgatorio  richiamano  meglio  l'attenzione  all'analisi 
del  soggetto: 

Ed  io  a  lai:  Lo  tao  ver  dir  m'incnora 
Buona  amiltà,  e  gran  tamor  m'appiani: 

Oltre  di  ciò  i  due  regni  hanno  per  loro  natura  una  funzione  diversa,  e  non 
si  vede  perchè  per  Dante  solo  dovrebbero  averla  identica:  oltre  di  ciò,  an- 
cora, se  Dante  si  purga  nell'Inferno  e  si  purga  nel  Purgatorio,  abbiamo  un 
doppio  peggio  che  inutile  (1),  perchè  il  secondo  mezzo  di  purgazione  sarebbe 
un'attenuazione  del  primo  e  non  ci  sarebbe  quel  procedimento  ascendente 
che  solo  potrebbe  rendere  la  ripetizione  tollerabile.  Del  resto  il  ravvedimento 
per  sua  propria  essenza  consta  di  due  parti  o  di  due  gradi,  il  conoscere 
l'errore  e  il  pentirsi:  il  conoscere  può  darsi  da  solo,  e  i  dannati  conoscono 
ma  non  si  pentono;  il  pentirsi  importa  per  altro  sempre  il  preventivo  cono- 
scere, e  tale  è  la  condizione  dei  purganti  e  di  Dante  nel  Purgatorio.  In  questo 
solo  modo  l'interesse  morale  cresce  passando  al  secondo  regno. 

Messo  t'ho  innanzi;  ornai  per  te  ti  ciba; 
Che  a  so  ritorce  tutta  la  mia  cura 
Quella  materia  ond'  io  son  fatto  scriba. 

E  vengo  al  capitolo  intitolato  Valtro  viaggio^  in  cui  si  confronta  la  strut- 
tura del  Purgatorio  con  quella  dell'Inferno.  Dice  il  P.  a  p.  387  che  la  tri- 
plice divisione  del  Purgatorio  non  combacia  con  quella  dell'Inferno.  «  E  di 
amore  che  può  errare 

per  malo  obbietto 
0  per  troppo  o  per  poco  di  vigore. 

<  Malizia,  bestialità,  incontinenza  non  corrispondono  a  questo  errore  se  non 
e  nel  numero  di  tre  ».  Se  ciò  vuol  dire  che  ciascuna  di  queste  disposizioni 
non  è  proporzionale  a  ciascun'altra  nel  numero  dei  cerchi  che  occupa,  siamo 
d'accordo,  né  occorre  spenderci  molte  parole:  nell'Inferno  i  cerchi  sono  nove, 
nel  Purgatorio  sette.  Ma  la  diversità  nasce  appunto  dalla  diversa  materia  in 
cui  si  esplica  questo  triplice  amore:  nel  Purgatorio  esso  è  solo  una  malattia 
dell'animo,  un  malo  abito  tendente  all'atto  colposo  o  lasciato  da  questo 
atto,  una  cosa  tutta  soggettiva;  nell'Inferno  esso  si  esplica  in  azioni  deter- 
minate e  concrete,  le  quali  hanno  radice  in  uno  o  più  dei  detti  abiti  o  ten- 
denze. Ora  gli  abiti  mali  si  riducono,  o  si  sogliono  ridurre,  a  sette,  cioè  i 
sette  peccati  capitali:  gli  atti  sono  molti  più;  i  Comandamenti,  per  esempio, 
sono  dieci.  L'atto  che  ha  origine  in  uno  solo  di  questi  sette  mali  abiti  può 


(1)  Avevo  già  scritto  questa  recensione  quando  lessi  quella  di  L.  Filomusi-Guelfi  nel  Giornale 
DantMCO,  an.  Vili,  pp.  507-18,  e  vidi  ch'egli  mi  aveva  già  prevenuto  in  questa  come  in  qualche 
altra  owervasione. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  421 

prendere  il  nome  del  malo  abito  stesso;  tali  sono  per  Dante  le  colpe  di 
Francesca  e  dell'Argenti;  ma  la  corrispondenza  è  casuale.  E  che  sia  affatto 
casuale  è  tanto  vero  che,  sebbene  questi  che  prendono  nome  dall'abito  sieno 
i  cerchi  più  ampi  e  dove  e'  è  più  folla  di  gente,  in  realtà  tranne  che  per  i 
lussuriosi,  dove  oltre  i  due  personaggi  ben  noti  a  Dante  ve  n'  è  una  lunga 
schiera  di  storici  o  leggendari,  troviamo  in  questa  principal  sezione  dell'In- 
ferno pochissime  persone  ben  determinate,  tra  i  golosi  Ciacco,  tra  gli  avari 
nessuno,  tra  gli  iracondi  l'Argenti,  e  nessun  altro  più.  Gli  atti,  di  cui  Dante 
volea  far  giustizia,  ben  di  rado  erano  in  realtà  cosi  semplici  ;  e  altro  è  par- 
lare d'incontinenza  in  generale,  altro  è  vedere  se  da  questa  mala  radice  non 
sieno  venuti  frutti  molto  peggiori.  Forse  quando  parliamo  di  semplice  in- 
continenza, ci  facciamo  un'illusione,  come  abbiamo  veduto  avvenire  per  gli 
infingardi;  e  l'incontinenza  semplice  in  pratica  è  rara  assai,  mentre  invece 

Molti  son  gli  animali  a  cui  s'ammoglia. 

A  guardar  bene  anche  taluni  incontinenti  di  Dante  sono  tali  solo  perchè 
piacque  a  Dante  di  trattarli  con  indulgenza.  Didone  per  esempio  e  Cleopatra 
orano  suicide.  Se  pertanto  incontinenti  semplici  Dante  ne  nomina  pochi,  gli 
è  perchè,  venendo  al  fatto  concreto,  non  ne  potea  trovar  molti.  Lussuriosi, 
avari,  iracondi  egli  ne  colloca  invece  assai  più  negli  altri  cerchi  che  in 
questi  primi.  Teoricamente  pertanto  e  genericamente,  lussuria,  gola,  ira  e 
avarizia  sono  incontinenza,  e  come  tali  sono  vizi  più  diffusi,  ma  in  realtà,  e 
anche  secondo  l'esperienza  personale  di  Dante,  più  spesso  all'atto  cooperano 
diversi  elementi,  dalla  combinazione  dei  quali  deriva  un  fatto  nuovo  e  che 
ha  nuovo  nome  e  carattere  (1). 


(1)  Il  D'Ovidio  nel  suo  importantissimo  e  in  gran  parte  nuovo  articolo  La  topografia  morale 
deWlnferno,  in  '  Studii  sulla  Divina  Commedia  '  mentre  sostanzialmente  dà  del  sistema  morale  di 
Dante  una  spiegazione  molto  simile  alla  mia,  parmi  che  si  preoccupi  ancora  soverchiamente  del 
collocare  nell'Inferno  i  sette  peccati  capitali.  Non  posso  discutere  per  incidenza  d'un  argomento 
così  grave,  e  per  ciò  mi  limito  solo  per  ora  a  parare  un'ohiezione.  Egli  dice,  e  questo  è  inne- 
gabile, che  anche  la  superbia  e  l'invidia  che  non  vengono  ad  atto  possono  essere  colpe  meritevoli 
di  dannazione:  neW Inferno  di  Dante  troviamo  la  superbia  e  l'invidia  composte  con  l'atto  nei  tre 
ultimi  cerchi;  ma  la  superbia  e  l'invidia  semplici  dove  sono?  A  me  pare  che  questa  lacuna 
sia  giustificatissima,  se  pensiamo  che  Dante  nell'in/erno  non  punisce  che  gli  atti,  e  nel  foro 
intemo  della  coscienza  non  entra  mai.  E  a  ragione:  come  può  l'occhio  mortale  discernere  se  altri 
sia  gravemente  colpevole  di  superbia  o  d'invidia,  se  non  lo  dimostra  esteriormente  ?  Anche  l'incon- 
tinenza dei  primi  cerchi  si  è  pur  manifestata  in  atti  singoli  ;  e  di  peccati  di  pensiero  o  di  desi- 
derio, se  non  mi  sfugge,  non  mi  pare  che  -a^W Inferno  dantesco  si  trovi  alcun  esempio.  Se  Dante 
avesse  voluto  tener  conto  delle  intenzioni,  l'ho  accennato  anche  altrove,  avrebbe  tolto  ogni  base 
positiva  al  suo  codice  penale.  Non  dobbiamo  pertanto  andar  a  cercare  se  il  sistema  punitivo  di 
Dante  sia  idealmente  il  più  giusto;  se  V Inferno  di  Dante  possa  essere  accettato  come  un  esempio 
dell'Inferno  secondo  la  dottrina  della  Chiesa,  ma  solo  se  risponda  a  un  sistema  razionale  e  sia 
consentaneo  a  sé  stesso  da  capo  a  fondo.  Ed  io  dico  che  consentaneo  è,  poiché  risponde  da  capo 
a  fondo  alla  propostasi  partizione  aristotelica,  e  i  nomi  dei  vizi  capitali  e'  entrano  solo  in  tanto 
in  quanto  accidentalmente  hanno  rapporto  con  essa.  Nel  Purgatorio  invece  predominando  l'ele- 
mento soggettivo  e  venendo  questi  vizi  direttamente  presi  per  norma  della  graduatoria,  troviamo 
ciò  che  nello  Infèrno  non  e'  è,  troviamo  Manfredi  che  si  salva  per  un  mero  impulso  interiore  di 
pentimento  senza  che  si  traducesse  in  alcuno  esterno  effetto,  troviamo  Oderìsi  colpevole,  a  quanto 


422  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

A  me  pare  pertanto  che  stiamo  facendo  una  fatica  improba  e  inutile.  Si 
sa;  se  le  radici  di  ogni  atto  colposo  si  riducono  a  sette,  essendo  sette  le 
male  pieghe  che  si  devono  guarire  nel  Purgatorio,  è  chiaro  che  tutte  le 
colpe  singole  dell'  Inferno  si  possono  far  risalire  ad  una  o  più  di  queste 
colpe;  ed  è  certo  che  in  ogni  atto  colposo  potremo  trovare  uno  o  più  pec- 
cati capitali,  né  è  poi  difficile  dimostrare  che  uno  deva  essere  principale  e 
gli  altri  secondari.  L'errore  sta  nel  voler  che  all'ordine  degli  abiti  deva  per 
forza  corrispondere  l'ordine  degli  atti,  le  quali  cose  essendo  eterogenee  sono 
perciò  irriducibili  ad  uniformità  senza  far  violenza  all'una  o  all'altra  o  a 
tutte  e  due.  A  che  si  riduce  il  peccato  di  Brunetto?  Intanto  a  lussuria,  e 
fin  qui  non  c'è  dubbio:  non  è  per  altro  tra  i  lussuriosi,  perchè  ci  aggiunse 
la  violenza  contro  natura.  Che  sarà  questa?  Dicono  ira.  —  Eh  via!  —  la  direi 
piuttosto  superbia:  il  ribelle  è  essenzialmente  superbo,  mi  pare.  Ma  sia  ira 
o  superbia,  è  peccato  più  grave  che  lussuria,  e  la  pena  più  grave  assorbe 
la  meno  grave.  Ma,  e  il  Guinizelli  ?  E  colpevole  allo  stesso  modo,  se  non 
che  si  è  pentito.  Dante  per  altro  lo  pone  non  tra  i  superbi  o  tra  gli  iracondi, 
ma  tra  i  lussuriosi.  Mi  si  può  rispondere  trionfalmente  che  la  superbia  o 
l'ira  l'avrà  già  scontata.  Ed  io  sommessamente  osservo  che  nel  Purgatorio, 
per  ragioni  d'arte  molto  ovvie,  il  peccatore  è  sempre  collocato  in  quella 
cornice,  che  risponde  alla  sua  principale  caratteristica  morale  quando  era  a 
questo  mondo,  e  che  perciò  tra  i  superbi  o  tra  gli  iracondi  il  poeta,  che 
aveva  scritto  che 

Amor»  e  cor  gentil  sono  una  cosa, 

ci  sarebbe  stato  molto  a  (^isagio.  Sacrificò  dunque  Dante  l'arte  alla  morale, 
o  la  morale  all'arte?  lo  penso  che,  se  abbiamo  da  ridurli  a  peccato  capitale, 
cosi  Brunetto  come  Guido  furono  essenzialmente  peccatori  di  lussuria,  e 
nient'altro,  come  parimenti  Francesca  e  Cleopatra  e  Semiramide;  ma  dove 
per  queste  Tatto  in  cui  la  lussuria  si  estrinsecò  fu,  a  giudizio  di  Dante,  sem- 
plicemente d'incontinenza  carnale,  e  perciò  andarono  a  stare  con  gli  incon- 
tinenti carnali,  per  i  due  amici  di  Dante  l'atto  in  cui  la  lussuria  si  estrinsecò 
fu  di  violenza;  quindi  Brunetto,  che  non  se  né  penti  e  non  cancellò  questo 
atto,  andò  più  giù  nell'Inferno,  Guido,  che  lo  cancellò,  andò  nel  Purgatorio, 
dove  sarebbe  andata  anche  Francesca,  se  avesse  avuto  tempo  di  pentirsi.  Io 
dubito  forte  che  l'ira  o  la  superbia  a  Brunetto  gliela  regaliamo  del  nostro, 
o  che  della  sua  colpa  esse  siano  antecedenti  così  lontani  da  non  potersi 
tenere  a  calcolo.   Se  non   è  moralista  o  teologo,  chi  commette  le  sudicerie 


pare,  più  di  superbia  interiore  che  non  di  grari  manifestaiioni  di  essa,  troviamo  Sapia  che  si  penti 
in  fin  di  vita  della  colpa  deirinvidia,  che  pare  non  si  era  tradotta,  pare,  nò  in  frode,  nò  in  altra 
azione  esteriore  malvagia.  Dove  sarebbe  andata  Sapia  se  non  si  fosse  pentita?  La  domanda  pare 
grsTe  e  pericolosa  per  tntta  la  mia  bella  teorica.  Neir/n/fmo  per  Sapia  non  c'è  poeto,  —  non 
e*  è  secondo  la  mia  interpretasione,  ma  non  o'ò  neanche  secondo  alcan'altra.  Non  credo  peraltro 
che  qnesto  deva  apporsi  a  difetto  di  nant«.  Ciò  che  ò  soprarazionale  non  si  pnò  ridurre  ai  moduli 
della  nostra  raj^one.  Ciascuno  dei  tre  regni  segue  la  sua  propria  norma.  Altrimenti  domanderemo: 
in  qual  cielo  andrà  Sapia  quando  avrà  finito  di  purgarsi  ?  E  come  ùi  Sapia  si  potrebbe  dimandare 
di  Unti  altri. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  423 

di  quei  due,  d'essere  iracondo  o  superbo  non  se  ne  accorge  certamente,  e 
nessuno  credo  se  ne  sia  mai  confessato;  d'essere  lussurioso  invece  nel  più 
pessimo  senso  della  parola,  forse  invece  nessuno  lo  ha  mai  negato.  La  su- 
perbia, e  taccio  dell'ira,  c'entra  qui  proprio  tanto  quanto  si  può  dire  che 
c'entri  in  tutti  i  peccati,  poiché  già  tutti  i  peccati  capitali  hanno  la  loro 
radice  nella  superbia,  e  tale  è  in  fondo  ogni  trasgressione  della  legge  mo- 
rale in  quanto  è  superbia  ogni  disobbedienza  all'autorità  costituita  (1),  Se 
invece  nell'Inferno  ci  limitiamo  a  riconoscere  il  disordine  in  atto  ed  ogget- 
tivamente, ci  liberiamo  da  tutte  queste  difficoltà.  E  cosi  il  Pascoli  non  avrebbe 
bisogno  di  indugiarsi  a  dimostrare  che  i  violenti  contro  il  prossimo  e  contro 
sé  stessi  sono  iracondi  e  che  iracondo  é  pure  Gapaneo,  dove  può  trovare 
anche  facile  consenso  dai  lettori,  ancorché  io  non  creda  affatto  all'equazione 
violenza  =  ira  ;  né  avrebbe  bisogno,  peggio,  di  darmi  ad  intendere,  insi- 
stendo su  ciò  che  aveva  affermato  nella  Minerva  Oscura,  che  iracondi  sono 
anche  gli  usurai  e  i  sodomiti  ;  dove  sarei  proprio  curioso  di  sapere  se  ci  sia 
stato  qualcuno  che  gliel'  ha  creduto.  Violenti  sì,  iracondi  no  :  se  io  piego  e 
torco  una  pianta  in  modo  da  impedirle  di  crescere  come  natura  vorrebbe, 
io  faccio  violenza  a  quella  pianta,  —  e  come  no?  —  ma  l'ira  non  c'entra 
punto,  lo  avrò  guastato  quella  pianta:  che  peccato!  Peccato  sì,  ma  non  d'ira. 
—  E  questa  é  la  mia  convinzione,  e  di  qui  non  mi  muovo. 

Se  io  abbia  ragione  a  impugnare  cotesti  paralleli,  lo  dica  il  lettore  dopa 
letta  quest'altra  pagina  del  Pascoli,  pp.  435-36:  «L'ira  nel  Purgatorio  è 
«mondata  nel  fumo,  nell'inferno  è  punita  sotto  il  fuoco.  Della  colpa  resta 
«  la  macchia,  come  del  fuoco  il  fumo.  Del  resto  egli  pur  dice  '  in  foco  d'ira  '. 
«  Or  neir  Inferno  e'  é  il  fuoco,  óltre  che  nel  terzo  girone,  anche  nel  primo; 
«  che  la  riviera  é  di  sangue  che  bolle.  Non  è  nel  secondo . . .  Eppure!  Oh! 
«  si  rischia,  interpretando  il  Poeta,  di  passare  a  ogni  tratto  per  dottori  sot- 
«tili;  eppure  quanta  sottigliezza  non  si  deve  invero  a  Dante!  La  selva  dei 
«  suicidi  risuona  di  guai  da  ogni  parte.  Sono  le  Arpie  che  pascono  di  quelle 


(1)  II  Pascoli  in  una  nota  a  p.  462  cita  S.  Tommaso,  Summa  2.^  2.ae,  106,  2,  dove  «  è  spie- 
«  gaio  che  il  primo  peccato  dell'uomo  non  fu  disobbedienza  secondo  ch'ella  è  speziale  peccato, 
«  ma  sttperbia  per  la  quale  l'uomo  s'indusse  a  disobbedire  ».  Non  vorrei  ch'egli  ritorcesse  l'osser- 
vazione al  caso  nostro  per  una  facile  estensione.  Il  caso  è  alquanto  diverso.  Il  peccato  di  Adamo 
è  molto  simile  al  peccato  dell'angelo:  l'uno  e  l'altro  constano  di  un  atto  solo  e  della  violazion& 
di  nn  solo  precetto  determinato.  Ora  altro  è  infrangere  una  o  un'altra  disposizione  di  legge,  altra 
è  violare  tutta  la  legge  come  fu  nel  peccato  originale  ;  e  così  altro  è  violare  la  legge  posta  dagli 
uomini,  altro  violar  quella  posta  da  Dio,  disobbedire  a  lui  nel  solo  obbligo  ch'egli  ci  ha  posto, 
disobbedirgli  nel  Paradiso  Terrestre,  per  così  dire  faccia  a  faccia  con  lui,  con  Ini  conosciuto  non 
solo  per  fede,  ma,  direi  quasi,  per  mezzo  dei  sensi,  mancar  di  fede  al  proprio  benefattore,  aspi- 
rare ad  agguagliarlo  :  et  eritis  sicut  Deus  scientes  bonum  et  malum.  Qui  non  si  può  disconoscere, 
oltre  al  disordinato  amore  dei  beni  secondi,  la  superbia  e  la  coscienza  della  superbia.  Sono  però 
i  due  peccati  dell'uomo  e  dell'angelo  dissimili  in  questo,  che  per  l'angelo  la  ribellione  fu  imme- 
diata, per  l'uomo  mediata  :  questi  cioè  non  si  ribellò  propriamente  a  Dio,  non  tradì  direttamente 
il  proprio  benefattore,  ma  si  ribellò  al  suo  precetto,  non  si  contenne  nei  limiti  impostigli.  Perciò 
mentre  il  peccato  dell'angelo  è  il  peccato  tipico  in  cui  s'informa  l'amore  del  male  (e  per  questa 
Dante  Io  pose  nel  più  profondo,  non  perchè  fojse  superbo),  di  quello  dell'  uomo  non  si  può  dir»» 
lo  stesso. 


424  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

*  foglie  e  lacerano  la  buccia  delle  piante.  Ebbene  quei  guai  sono  come  il 

<  soffiar  di  stizzi  verdi  messi  al  fuoco,  che  da  una  parte  bruciano  e  dall'altra 
«  gemono.  La  selva  sbuffa  e  stride  e  cricchia  e  cigola  tutta  come  per  un 
«incendio  invisibile.  Ecco  il  bello   di   Dante!    E  bisogna  essere  sottili  per 

<  trovarlo,  e  poi  anche  a  essere  grossi  si  riconosce!  Che  sotto  il  velame  io 
«  vedo  a  mano  a  mano  che  si  nasconde  tanto  di  bellezza  quanto  di  verità  ». 
—  Ebbene,  io  mi  metto  tra  i  grossi,  ma  non  vedo  e  non  riconosco  nulla  di 
tutto  ciò. 

Io  credo  pertanto  che  l'ordinamento  àeWInferno  e  quello  del  Purgatorio 
eieno  tra  di  loro  affatto  diversi,  e  che  ogni  ricerca  per  conciliarli  rimarrà 
sempre  empirica  e  monca  e  perciò  confusa,  se  prima  non  si  riducono,  lo 
dirò  con  una  frase  brutta  ma  efficace,  a  un  comune  denominatore,  l'amore: 

Amor  sementa  è  in  voi  d'ogni  viriate 
E  d'ogni  operazion  che  marta  pene. 

I  due  ordinamenti  pertanto  corrisponderanno  ciascuno  al  principio  fonda- 
mentale, ma  non  importa  affatto  che  si  corrispondano  tra  di  loro;  se  si  cor- 
rispondessero così  come  il  P.  vuole  e  come  con  lui  vorrebbero  molti,  la 
ripetizione  importerebbe  monotonia,  e  l'esatto  parallelismo  povertà  d'inven- 
zione. Secondo  me  dunque  il  P.  erra  per  esempio  là  dove,  per  provare  che 
frode  è  lo  stesso  che  invidia,  e  tradimento  è  lo  stesso  che  superbia,  ricorda 
due  specie  dell'amore  del  male  (pp.  447-48):     , 

È  chi  per  es<ier  suo  Ticin  soppresso 
Spera  eccellenza,  e  sol  per  qnesto  brama 
Ch'  ei  sia  di  sua  grandezza  in  basso  messo  : 

È  chi  potere,  grazia,  onore  e  fama 
Teme  di  perder  perch*  altri  sormonti, 
Onde  s'attrista  sì  che  il  contrario  ama: 

e  ragguagliato  il  primo  terzetto  alla  superbia  e  il  secondo  all'invidia  seguita 
a  ragionare  cosi:  i  traditori  sono  rei  di  quella  prima  speranza  e  di  quella 
prima  brama;  i  frodolenti  sono  rei  di  quell'altra  tema  e  tristezza  e  amore; 
dunque  (e  abbrevio  il  ragionamento)  siccome  due  cose  eguali  ad  una  terza 
sono  eguali  tra  loro,  ne  viene  che  invidia  equivale  a  frode  e  superbia  a 
tradimento.  Ma  non  è  così.  Torno  a  ripetere:  altro  sono  gli  abiti  e  altro 
sono  gli  atti.  1  citati  terzetti  costituiscono  la  norma  fondamentale  per  gli 
atti  e  per  gli  abiti  :  se  il  primo  ha  per  corrispondente  come  abito  la  superbia 
e  come  atto  il  tradimento,  e  il  secondo  come  abito  l'invidia  e  come  atto  la 
frode,  e  il  terzo,  che  si  può  aggiungere,  come  abito  Pira  e  come  atto  la 
violenza;  non  ne  viene  in  nessun  modo  che  la  superbia  sia  una  cosa  sola 
col  tradimento,  l'invidia  con  la  frode  e  l'ira  con  la  violenza.  Sono  cose  di- 
verse, ancorché  in  certi  limiti  analoghe,  e  l'analogia  può  sedurre  a  farle 
credere  identiche,  ma  non  sono.  Un  solo  principio  di  morale  può  svolgersi 
in  un  doppio  ordine  di  applicazioni;  può  farsene  una  disciplina,  e  può  far- 
sene un  codice:  V Inferno  è  il  codice  penale  di  Dante;  la  disciplina  di  Dante 
è  il  Purgatorio. 

Un  altro  esempio  d'errore  prodotto  da  questa  impuntatura  del  parallelismo 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  425 

forzato  lo  trovo  a  proposito  della  femmina  balba.  La  femmina  balba  del 
canto  XIX  del  Purgatorio,  l'antica  strega 

Che  sola  sovra  nrà  ornai  si  piagne, 

il  P.  col  Casella  vuole  che  sia  l'incontinenza.  Ma  perchè  nell'Inferno  incon- 
tinenza è  anche  l'accidia,  vuole  che  la  femmina  balba,  oltre  i  peccati  dei 
cerchi  superiori,  contro  1'  espressa  affermazione  di  Dante,  comprenda  anche 
questa  (p.  152).  E  perchè  non  anche  l'ira,  che  in  Inferno  è  pure  punita  come 
incontinenza?  Se  invece  diremo  che  essa  rappresenta  l'amore  disordinato  dei 
beni  secondi  in  quanto  si  manifesta  negli  abiti,  ci  accontenteremo  dei  tre 
vizi  di  avarizia,  gola  e  lussuria,  senza  chiamare  a  confronto  i  singoli  atti 
colposi,  che  costituiscono  la  incontinenza  nell'Inferno.  La  femmina  dunque 
ha  qualche  somiglianza  con  la  lupa,  ma  non  è  tutt'uno  con  la  lupa. 

Similmente  non  vedo  affatto  l'analogia  tra  la  pena  dell'invidia  nel  Pur- 
gatorio e  quella  della  frode  semplice  nell'Inferno,  che  il  P.  vuole  sia  invidia. 
Le  analogie  si  riducono  a  qu«sta  (p.  437),  che  la  pietra  dell'  Inferno  è  fer- 
rigna e  nel  Purgatorio  è  livida,  e  che  delle  dieci  pene  delle  bolge  ce  ne  sono 
due  che  sommate  insieme  in  qualche  modo  si  avvicinano  a  quella  che  pu- 
nisce rinvidia  nel  Purgatorio:  là  vi  sono  i  vestiti  di  cappa  e  qui  i  vestiti 
di  cilicio,  là  quelli  che  camminano  a  ritroso 

Perchè  il  veder  dinanzi  era  lor  tolto, 

e  qui  quelli  che  hanno  le  ciglia  cucite.  Mi  pare  ben  poco.  E  se  dicessimo 
invece  che  le  malebolge  hanno  analogia  con  la  cornice  dei  superbi?  Prendo 
ad  esempio  solo  ancora  gli  indovini  che  camminano  a  ritroso,  e  l'esclama- 
zione che  troviamo  nel  Purgatorio,  appunto  a  proposito  dei  superbi: 

0  superbi  Cristian  miseri  e  lassi, 
Che  della  vista  della  mente  infermi 
Fidanza  avete  nei  ritrosi  passi. 

Non  è  assai  più  calzante?  Infatti  a  me  pare  che  gli  indovini,  più  che  invi- 
diosi (invidiosi  di  che?)  si  potrebbero  dir  superbi.  Sono  puniti  infatti 

Perchè  voller  veder  troppo  davante; 

e  questo,  se  ha  da  ridursi  ad  un  vizio  capitale,  per  me  non  può  essere  che 
superbia.  Badiamo,  che  non  vorrei  essere  frainteso:  non  dico  affatto  che  le 
bolge  si  abbiano  da  ragguagliare  alla  superbia;  dico  che,  poiché  ci  si  trova 
ora  la  superbia,  ora  l'invidia,  ora  l'avarizia,  ora  la  lussuria,  non  sono  da 
ragguagliare  a  nulla.  Esse  puniscono  la  frode,  la  quale  si  ragguaglia  ad 
amore  del  male,  e  si  potrà  ridurre  ora  all'uno,  ora  all'altro  peccato,  ora  a 
più  peccati  insieme:  tutt'al  più,  se  si  vuole  che  nella  frode  l'invidia  sia  l'in- 
grediente e  per  cosi  dire  il  colorito  più  abituale,  io  non  ho  che  ridire  ;  purché 
non  si  voglia  che  sia  il  solo. 

Dopo  ciò  mi  pare  che  cada  anche  un'obiezione  che  mi  fa  il  Parodi  in  un 
ottimo  articolo  sugli  Studies  in  Dante  del  Moore  {Bull,  della  Soc.  Dantesca, 
Vili,  pp.  41  8gg.).  Mentre  egli  infatti  pare  accostarsi  molto  al  principio  da 
me  posto,  mette   innanzi   anche   alcune    riserve.  Avevo  detto  che  in  certo 


426  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

modo  gli  eresiarchi  dell'Inferno,  come  quelli  che  mancano  totalmente  d'a- 
more, corrispondono  agli  accidiosi  del  Purgatorio  che  hanno  scarsezza  di 
amore,  e  forse  la  mia  espressione  non  fu  così  precisa  come  era  l'idea.  Ora 
dice  il  Parodi,  e  dice  assai  bene:  «  confrontando  ...  gli  eresiarchi  con  gli 
«  accidiosi  del  Purgatorio,  noi  introduciamo  nella  classificazione  infernale 
«  un  elemento  solo  in  apparenza  omogeneo  ».  Dice  poi  che  il  peccato  in  essi 
predominante,  crede  egli,  sia  piuttosto  la  superbia  che  l'accidia  :  —  ed  io 
sono  perfettamente  d'accordo  tanto  nell'una  quanto  nell'altra  osservazione, 
€  le  accetto  e  le  faccio  mie.  L'omogeneità  col  Purgatorio  è  solo  apparente, 
6  non  più,  né  deve  essere  altro  che  apparente  e  generica.  Difetto  d'amore 
del  vero  bene  è  nei  detti  cerchi,  qui  e  là:  ma  nel  Purgatorio  è  nella  dispo* 
sizione  dell'animo,  nel  vizio,  amore  scarso,  quindi  è  accidia;  nell'Inferno  è 
insieme  e  principalmente  nell'atto,  quindi,  per  esser  colpa  mortale  è  disdegno 
e  negazione  di  Dio  o  dei  suoi  attributi:  chi  nega  Dio  o  lo  sminuisce,  non 
l'ama;  se  poi  chi  non  l'ama  è  superbo  anziché  accidioso,  ciò  non  impugna 
anzi  conferma  la  mia  tesi,  che  qui  il  vizio  capitale  non  ha  che  fare.  Che 
se,  ancora,  nel  Purgatorio  il  principio  psicologico  dell'amore  rispetto  ai  vizi 
capitali  comporta  un'applicazione  più  esatta  di  quello  che  non  tolleri  forse 
rispetto  all'elemento  pratico  cui  si  deve  adattare  nell'Inferno,  anche  in  questo 
sarò  facilmente  d'accordo:  l'idea  è  più  maneggevole  del  fatto,  e  tanto  per 
l'una  quanto  per  l'altro  bisogna  poi  contentarci  di  una  ragione  suflficente. 

Ma  affrettiamo  il  passo,  che  è  tempo.  Un  punto  notevolissimo  di  questa 
stessa  sezione  é  là,  dove  si  parla  delle  Beatitudini  e  dei  Doni  dello  Spirito 
Santo  esaminandone  i  rapporti  specialmente  nel  Purgatorio  e  nel  Paradiso. 
La  ricerca  é  qui  profonda  e  difficile,  e  il  P.  stesso  confessa  che  riassume 
in  breve  ciò  che  potrebbe  fornire  argomento  ad  una  trattazione  molto  più 
ampia.  Dire  al  lettore  che  anche  qui  in  parte  convengo  col  P.  e  in  parte 
no,  è  cosa  che  lo  interesserà  certo  mediocremente,  quando  ciò  non  sia  se- 
guito da  una  discussione  che  serva  a  portare  qualche  luce.  Ora  su  questo 
punto  io  confesso  che  non  mi  sono  formato  ancora  una  convinzione  sicura, 
e  se  si  sbaglia  quando  si  é  persuasi  di  dir  giusto,  figuriamoci  cosa  potrebbe 
succedere  quando  si  tirasse  un  po'  a  indovinare.  Questa  questione  pertanto 
ad  altro  tempo  rimettiamola,  e  sarà  meglio  se  ne  occupino  altri  più  compe- 
tenti di  me:  quanto  a  me  ciò  che  ho  detto  sull'ordinamento  morale  del 
Paradiso  nella  recensione  di  Mineroa  Oscura,  mi  pare  che  possa  stare  e 
non  vedo  ancora  motivo  di  mutarlo. 

Così  rinuncio  a  parlare  del  breve  capitolo  intitolato  '  la  fonte  prima  \  ac- 
contentandomi solo  di  richiamare  su  di  esso  l'attenzione  del  lettore.  Il  signi- 
ficato simbolico  di  Lia  e  di  Rachele,  che  il  P.  intende  come  il  concello 
fondaii^entale  del  poema,  non  è  stato  mai  studiato  con  tanto  amore  come 
dal  P.,  e,  fatta  riserva  del  troppo  che  anche  qui  si  può  notare,  la  interpre- 
tazione data  sostanzialmente  mi  par  vera. 

E  per  ragioni  analoghe  a  queste,  del  capitolo  ultimo  '  la  mirabile  visione" 
darò  pure  solo  un  breve  sommario.  Per  il  Pascoli  Lucia  è  la  grazia,  Vir- 
gilio lo  studio,  Malelda  l'arte,  Catone  la  virtù  o  la  giustizia  laboriosa,  Bea- 
trice beata  la  sapienza.  Lo  studio  guida  all'arte  e  alla  sapienza;  e  la  sa- 
pienza umana,  che  è  Beatrice,  guida  alla  sapienza  divina,  che  è  Maria. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  427 

Vogliamo  finirla  e  conchiudere?  Conchiuderò  come  ho  cominciato.  Il  libro 
ha  moltissimi  pregi,  molta  dottrina,  molta  originalità,  è  l'opera  di  un  uomo 
di  molto  tngegno.  Ma  all'ingegno  e  alla  dottrina  non  corrisponde  il  terzo 
requisito  essenziale  per  un'opera  di  critica,  cioè  il  metodo.  Con  tutto  ciò  se 
per  i  due  primi  pregi  esso  costituisce  un  contributo  prezioso  per  gli  studi 
danteschi,  per  ciò  che  gli  fa  difetto  può  servire  di  ammaestramento  non 
meno  utile. 

È  un  vanto  dell'età  nostra  quello  di  aver  persuaso  agli  studiosi  una  cosa, 
che  del  resto  è  elementarmente  intuitiva,  cioè  che  vai  molto  meglio  sapere 
che  immaginarsi.  E  precisamente  lo  stesso  di  quello  che  insegnava  Socrate, 
che  cioè  per  conoscere  le  cose  che  si  possono  pesare,  misurare  e  noverare, 
bisogna  pesarle,  misurarle  e  noverarle,  e  non  domandarne  la  risposta  all'o- 
racolo: così  per  la  critica  egualmente;  ciò  che  si  può  sapere  dai  fatti  e  dai 
documenti  bisogna  chiederlo  ai  fatti  ed  ai  documenti  e  non  all'oracolo 
della  propria  immaginazione.  Ma  quando  si  tenga  ben  saldo  e  sicuro  questo 
principio  senza  transazioni  e  senza  indulgenze ,  restano  però  molte  cose 
che  non  si  possono  né  pesare  né  misurare  né  noverare.  La  critica  è  per 
sé  stessa  una  instituzione  essenzialmente  razionale,  ma  l'opera  d'arte  sulla 
quale  si  esercita  non  è  razionale  che  in  parte,  e  soltanto  nella  parte  meno 
essenziale.  Converrà  dunque  che  la  critica  vada  a  fondo  fin  dove  la  ra- 
gione può  arrivare,  che  sarà  tutta  la  parte  tecnica,  e  quanto  al  resto  si 
accontenti  soltanto  di  capire  come  può  e  di  spiegare  quanto  capisce.  Par- 
rebbe che  ciò  dovesse  essere  evidente  per  tutti,  e  invece  non  è.  Succede 
infatti  spesso  che  la  mente  abituata  soltanto  ed  esclusivamente  ad  una  di- 
sciplina, si  atrofizza  per  le  altre  facoltà,  e  come  il  cieco  non  ha  idea  dei 
colori,  e  il  sordo  non  ha  idea  dei  suoni,  così  il  critico  razionalista  prima 
non  si  interessa  che  di  ciò  che  può  pesare,  noverare  e  misurare,  e  poi  nega 
che  al  di  là  di  questo  ci  sia  alcun  altro  mondo.  E  fino  a  che  egli  si  limita 
a  questo,  non  fa  male  a  nessuno  ;  —  e  cosi  io  spiego  una  frase  che  ho  sen- 
tito pronunziare  qualche  volta  in  elogio  di  questo  metodo  critico,  —  frase 
che  ha  scandalizzato  altri,  non  me,  perchè  anzi  io  la  trovo  perfettamente 
consentanea;  ed  è  che  coi  mezzi  attuali,  per  fare  il  filologo,  non  è  più  neces- 
sario di  avere  ingegno;  —  né  mi  stupirei  che  altri  aggiungesse  ancora  che 
l'ingegno  è  un  inutile  ingombro.  Infatti  se  l'ingegno  non  c'è,  l'uomo  si 
ferma  lì  e  non  si  arrischia  più  oltre;  e  quando  anche  abbia  sentito  dire  che 
le  cose  e  i  fatti  hanno  una  vita,  e  che  è  questa  ciò  che  più  importerebbe 
indagare,  allora  per  darsi  un  po'  d'aria,  o  copia  delle  frasi  retoriche  e 
stantie  come  se  quelle  fossero  la  psicologia  della  letteratura,  oppure  non  ha 
tempo  ;  che  se  avesse  tempo,  si  vedrebbe  cosa  sa  fare  :  che  peccato  !  Ma  intanto 
almeno  non  svia  nessuno.  Quando  invece  l'ingegno  e'  è  ed  è  acuto  e  potente, 
allora  non  si  ha  paura  di  mettersi  in  pelago,  e  se  l'ardire  bastasse,  l'impresa 
sarebbe  degna  di  tutte  le  lodi.  Ma  di  arrivare  a  una  meta  per  questa  via  non 
è  possibile,  perchè  una  meta  non  c'è;  talora  pare  di  intravederla,  ma  è  un 
miraggio,  un  barbaglio;  pare  di  vedere  una  selva  e  non  è  una  selva,  pare 
di  vedere  una  luce  e  non  è  che  bujo,  pare  di  vedere  un  adolescente  e  non 
è  un  adolescente,  pare  di  vedere  un  iracondo  e  non  è  un  iracondo,  e  si  po- 
trebbe continuare  fino  alla  noia  questa  litania.  Se  la  meta  ci  fosse  e  fosse 


428  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

raggiungibile,  il  Pascoli  avrebbe  certo  ali  da  toccarla  prima  di  ogni  altro, 
ma  non  per  questa  via:  per  questa  via  non  potrebbe  condurre  che  tutt'al 
più  ad  un  altro  oxymoron  generale,  più  grave  assai  di  quelli  che  è  venuto 
schierando  a  parte  a  parte,  che  la  Divina  Commedia  pare  un  meraviglioso 
poema  ma  è  la  più  scipita  lambiccatura  che  sia  uscita  dalla  malata  anima 
medievale.  Il  Pascoli  è  artista  eletto;  per  essere  eletto  critico  ha  tutta  la 
preparazione  e  la  dottrina  necessaria  :  non  capisco  perchè  per  le  opere  altrui 
voglia  applicare  metodi  e  misure  che  certamente  egli  non  usa  nelle  proprie. 
Pare  che  sia  preso  da  una  preoccupazione,  di  esser  tacciato  di  dilettante; 
si  richiama  a  quelli  *  che  hanno  la  consuetudine  degli  studi  seri  ed  esatti  ', 
si  duole  che  altri  dica  della  sua  critica:  'è  un  poeta!  un  poeta!  poeta!  '  — 
Ebbene,  questo  è  anzi  il  suo  pregio,  —  è  un  poeta;  —  purché  non  se  ne 
dimentichi  anche  quando  fa  il  critico,  e  renda  anche  a  Dante  poeta  il  suo 
diritto.  Il  Pascoli  poeta  ha  Ietto  nel  pensiero  di  Dante,  per  qualche  rispetto, 
più  addentro  che  altri  non  vide,  e  il  libro  suo  è  denso  di  osservazioni 
nuove  e  geniali;  il  Pascoli  critico  demolisce  Topera  propria  con  le  stesse 
sue  mani,  perchè  non  si  contenta  del  quia. 

Giuseppe  Fraccaroli. 


FRANCESCO  D'OVIDIO.  —  Sticdii  sulla  Divina  Commedia.  — 
Milano-Palermo,  Sandron,  1901  (8^  pp.  xvi-608). 

Non  v'  ha  certo  studioso  alcuno  di  cose  letterarie  che  non  saluti  con  vi- 
vissimo compiacimento  questo  volume.  Esso  apre  una  serie,  nella  quale  il 
D'C,  soddisfacendo  ad  un  desiderio  di  tutti  i  cultori  di  storia  letteraria,  si 
propone  di  raccogliere  i  suoi  scritti,  rimaneggiati  talora  e  completati. 

Per  chi  studia  Dante  è  una  vera  festa  la  presente  raccolta  di  studi  dan- 
teschi, disposta  con  senno  amoroso,  curata  come  meglio  non  si  potrebbe  nel 
contenuto  e  nella  forma,  preceduta  da  una  nobile  prefazione,  nella  quale, 
tra  l'altro,  è  toccato  con  affetto  ossequente  del  compianto  Bartoli,  ed  è  com- 
memorato lo  Scartazzini  con  quella  carità  cristiana,  da  lui,  prete  evangelico, 
troppo  spesso  obliata  (1).  Gli  scritti  del  volume,  di  svariatissima  dimensione 
e  importanza,  vanno  dalla  monografia  nutrita  all'articoletto  di  giornale,  dalla 
memoria  accademica  alla  scheda  e  all'appunto;  ma  tutti  sono  accarezzati  da 
una  mano  esperta,  tutti  contengono  qualche  osservazione  arguta,  qualche 
richiamo  utile,  qualche  accostamento  ingegnoso.  Come  suona   il   titolo  del 


(1)  la  an  luogo  del  libro  scriTe  il  D*0.  :  «  L'amor  di  Dante  ci  unisce  pur  quando  la  maniera 
«  deirinterpretarlo  ci  divida.  La  malignità  letteraria  ò  sempre  una  sconcesza,  ma  a  proposito  di 
«  Dante  ò  un  sacrilegio  »  (p.  289).  Siano  aperti  gli  orecchi  ad  udire  queste  giuste  parole,  sicché 
scendano  ai  cuori  oggi  che  la  ressa  de'  lavoratori  nel  campo  dantesco  ronde  cosi  fkcUo  il  pette- 
golsuo  e  00^  frequente  il  ripicco  deUa  polemica  astiosa. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  429 

libro,  tutti  si  riferiscono  alla  Commedia  (e,  aggiungo  io,  della  Commedia 
la  cantica  che  più  vi  trova  considerazione  è  la  prima),  ma  fra  essi  un  paio 
al  poema  si  collegano  solo  di  traverso,  quantunque  vi  si  colleghino,  se  ben  si 
pensa,  intimamente.  La  critica  che  vi  trionfa  è  la  critica  congetturale,  nella 
quale  il  D*0.  ha  grandissima  fede  (cfr.  p.  142).  Né  io  dirò  che  abbia  torto. 
In  certi  casi  la  congettura  è  una  necessità,  né  alcuno  ignora  eh'  essa  può 
esser  principio  di  verità  scientifica.  Quando  la  congettura  è  lanciata  da  un 
uomo  che  abbia  l'ingegno  ed  il  sapere  del  D'O.,  anche  questo  Giornale,  che 
professa  la  critica  storica  pura,  e  preferisce  la  «  indocile  inflessibilità  »  dei 
fatti  alla  «  comoda  elasticità  »  delle  idee  (1),  é  disposto  a  farle  di  cappello 
e,  se  anche  non  persuada  compiutamente,  ad  accoglierla  con  doverosa  defe- 
renza. Gli  è  per  ciò  che  nelle  pagine  che  seguiranno  mi  avverrà  di  essere, 
in  quest'ordine  tanto  soggettivo  d'indagini,  più  relatore  che  critico.  Dalla 
critica  mi  asterrò  il  più  delle  volte  di  proposito,  perché  se  dovessi  entrarvi, 
allungherei  di  tanto  questa  mia  recensione,  da  far  perdere  la  pazienza  al- 
l'autore del  libro  ed  al  pubblico;  il  che  non  vorrei  a  nessun  patto. 

Procederò,  nel  mio  riferimento,  dagli  studi  che  hanno  interesse  più  com- 
prensivo a  quelli  che  trattano  delle  fonti  e  di  episodi  o  luoghi  determinati 
del  poema,  lasciando  per  ultimo  il  più  rilevante  (a  parer  mio)  fra  tutti, 
quello  sulla  lettera  a  Cane  della  Scala. 

Le  Tre  discussioni^  di  cui  altra  volta  fu  nel  nostro  periodico  riferita  som- 
mariamente la  conclusione  (2),  mirano  al  quesito  del  tempo  in  che  fu  com- 
posta e  pubblicata  la  Commedia  e  s'intrecciano  con  varie  altre  questioni 
minóri,  specialmente  con  quella  della  condanna  di  Celestino  V,  papa  cano- 
nizzato nel  1313.  Ritiene  il  D'O.  che  il  III  canto  deW Inferno  sia  stato  in- 
dubbiamente scritto  molto  innanzi  quell'anno.  Le  due  prime  cantiche,  peraltro, 
non  furono  compiute  se  non  dopo  il  1314;  ma  quantunque  di  esse,  ed  anche 
della  terza,  il  poeta  facesse  conoscer  dei  saggi,  l'opera  intera  uscì  postuma. 
Avendo  L.  Rocca,  con  la  sua  critica  assestata  e  ragionata,  discusso  queste 
ed  altre  conclusioni  del  D'O.  nel  Bull.  Soc.  Dani.,  N.  S.,  IV,  121  sgg.,  l'A. 
qui  risponde  alle  sue  obiezioni,  ed  inoltre  s'avvantaggia  di  quel  che  il 
Novati  pose  in  chiaro  rispetto  all'opera  bucolica  dell'Alighieri  (3).  Approva 
il  D'O.  incondizionatamente  la  dimostrazione  dell'amico  nostro;  ma  fa  alcune 
ponderate  obiezioni  all'idea  di  lui  che  il  cappello  desiderato  dal  poeta  sia 
il  berretto  dottorale  e  non  piuttosto  l'alloro,  la  fronda  peneia  (4). 

Dopo  la  determinazione  della  cronologia  del  poema,  lo  scritto  che  viene 
ad  avere  importanza  più  generale  é  quello  che  s'industria  nel  fissare  La  to- 
pografia morale  dell'Inferno.  Quest'acutissimo  studio  del  D'O.  tolse  già  le 
mosse  da  uno  scritterello  del  nostro  Fraccaroli  (5)  e   comparve  dapprima 


(1)  D'Ovidio,  Saggi  critici,  Napoli,  1879,  p.  xv. 

(2)  Giornale,  XXIX.  552. 

(3)  Vedi  Giornale,  XXXV,  415. 

(4)  Sulla  interpretazione  del  cappello  ha  fatto  testò  osservazioni  analoghe  a  quelle  del  crìtico 
napoletano  anche  il  Ciak,  nel  BuUeit.  Soc.  Dantesca,  N.  S.,  Vili,  169-72.  Cfr.  questo  Gior- 
nale, XXXVIII,  250. 

(5)  Cfr.  Giorn.,  XXY,  147-48, 

Giornale  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  28 


430  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

nella  N.  Antologia  del  15  sett.  1894.  Ma  ora  nel  volume  è  totalmente  ri- 
maneggiato, con  l'aggiunta  di  molte  argomentazioni  nuove.  La  conclusione 
capitale  è  questa:  «  nel  Purgatorio  tutta  la  materia  espiabile  è  racchiusa 
«nei  sette  vizi  capitali,  nell'Inferno  tutta  la  materia  punibile  è  racchiusa 
«  nelle  tre  categorie  aristoteliche  »  (p.  299).  Pel  monte  della  purgazione  il 
poeta  si  attenne  alla  dottrina  della  Chiesa;  pel  sistema  della  daonazione 
fece  suo  prò  (prevalentemente,  se  non  escla»vaniente)  àeWEtica  di  Aristo- 
tele. Il  quesito  è  certo  bello  ed  interessante,  se  anche  non  è  veramente  es- 
senziale pel  retto  intendimento  e  per  l'apprezzamento  pieno  della  prima 
cantica;  ma  siccome  già  tre  volte  il  Fraccaroli  ritornò  sopra  di  esso  nella 
rivista  nostra  (1),  non  è  il  caso  d'insistervi  maggiormente.  Ed  è  questo  pure 
il  motivo  per  cui  non  mi  trattengo  sull'articolo  Le  tre  fiere  (2),  nel  quale 
il  D'O.,  contraddicendo  alla  fortunata  interpretazione  del  Casella  (lonza, 
frode;  leone,  violenza;  lupa,  incontinenza)  ed  a  quella  recente  del  Pascoli 
(lonza,  incontinenza;  leone,  violenza;  lupa,  frode),  risostiene,  con  una  va- 
riante rispetto  all'  allegoria  della  lonza,  la  spiegazione  degli  antichi  chiosa- 
tori. Per  lui  la  lonza  è  l'invidia,  il  leone  la  superbia,  la  lupa  l'avarizia  ossia 
la  cupidigia,  le  tre  faville  di  hanno  i  cori  accesi.  A  me,  che  non  potei 
mai  guardare  con  molta  simpatia  la  spiegazione  troppo  festeggiata  del  Ca- 
sella, e  che  rispetto  all'esegesi  ritorno  pur  sempre  volentieri  agli  antichi 
commentatori,  ossequente  in  questo  per  troppe  ragioni  alla  tradizione,  riesce 
graditissima  la  dimostrazione  del  D'O.,  alla  quale  di  gran  cuore  aderisco, 
pur  rimanendo  ancora  in  dubbio  se  la  lonza  simboleggi  veramente  l'invidia 
ovvero  la  lussuria  (3). 

Gli  indagatori  delle  fonti  a  cui  attinse  il  poeta  sovrano  non  troveranno 
solamente  discorso  in  questo  volume  replicate  volte  della  visione  d'Alberico, 
ma  nello  studio  che  s'intitola  Dante  e  San  Paolo  vedranno  scrutato  con  la 
dovuta  delicatezza  quali  mosse  e  quali  germi  del  poema  rimontino  per  av- 
ventura alla  Visio  Pauli  (4).  Dissi  con  la  dovuta  delicatezza,  e  ciò  è  titolo 


(1)  Vedi  Giorn.,  XXXIII,  364  egg.  ;  XXXYI,  109  sgg.  ed  il  fascic.  attnale,  nella  recensione  del 
libro  del  Pascoli,  Sotto  il  velame. 

(2)  Discute  a  lango  il  Fraccaroli  di  questo  soggetto  nella  menzionata  recensione  del  Pascoli. 

(3)  Nel  Bullett.  Soc.  Dani.,  N.  S.,  VII,  281  sgg.  il  Parodi  tenta  una  conciliatione  tra  la  teoria 
del  D'Oridìo  e  quella  del  Casella.  Giuseppe  Manacorda,  in  uno  studio  recentissimo  snlP allegoria 
dantesca  {Da  S.  Tommaso  a  Dante,  Bergamo,  1901,  pp.  26  sgg.),  propone  un  senso  tutto  diverao 
e  nuovo  delle  tre  fiere.  Egli  ritiene  che  esse  non  stiano  già  a  simboleg^are  peccati,  ma  deno- 
tino i  tre  detrimenta  peccali,  che  secondo  l'Angelico  Tuomo  porta  in  so  anche  cessato  Tatto  del 
peccare.  Se  non  che  questa  maniera  d'intendere  è  collegata  ad  una  nuova  ennenontica  dantesca, 
che  il  Manacorda  esplica  nel  suo  notevole  studio,  del  quale  altri  avrà  a  discorrere  di  proposito 
in  questo  Giornale. 

(4)  L'esordio  a  questo  saggio  ò  di  molto  ampliato  rispetto  a  quel  che  era  nella  prima  ediiione. 
Quivi  il  D'O.  tocca  del  formarsi  dell'idea  del  poema  nella  ment«  di  Dante,  soggetto  più  special- 
mente trattato  dal  Gorra  (cfr.  Oiorn.,  XXXV,  411)  e  che  altri  tentarono,  con  successo  disQgaale. 
Eliminata  l'ipotesi  che  nella  canz.  Donne  che  avett  sia  preannnnciato  l'inferno,  il  D'O.  è  convinto 
«  che  il  primo  vero  accenno  dell'antore  all'opera  ftitnra  sta  nella  chiusa  della  F.  K.  ».  Ma  che 
cosa  aveva  in  mente  allora?  L'A.  non  cerca  troppo  d'indagarlo  e  fa  bene,  che  codesti  sono  veri 
indovinelli,  sono  sforzi  d'ingegnosità  che  non  approdano  a  nulla  di  concreto.  Nota  solo  che  dne 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  431 

d'encomio,  poiché  in  questa  materia  tenue  ed  incerta  il  procedere  con  av- 
ventata sicurezza  è  rovinar  tutto.  Di  quelle  umili  fonti  medievali  la  gran 
fantasia  di  Dante  usò  in  modo,  che  è  arduo  riconoscerne  le  traccie,  tanto 
essa  trasformò,  tanto  v'impresse  la  sua  impronta  poderosa.  Con  uguale  cir- 
cospezione procede  il  D'O.  nello  scritto  su  Dante  e  Gregorio  VII,  ove  rav- 
visa in  certo  aneddoto  narrato  da  Ildebrando  in  una  sua  predica  pronunciata 
in  Arezzo,  di  cui  Pier  Damiano  tien  conto,  il  nocciolo  onde  si  svolse  la 
pena  dei  simoniaci.  Movendo  da  ciò,  il  D'O.  ci  dà  un  arguto  commento  al 
canto  dei  simoniaci,  e  di  là  è  tratto  a  considerare  lo  speciale  atteggiamento 
del  po^ta  verso  i  papi  ed  a  scrutare  quel  che  probabilmente  sentiva  di  Gre- 
gorio VII.  Secondo  l'A.  (e  qui  veramente  debbo  confessare  che,  a  parer  mio, 
molte  obiezioni  si  potrebbero  muovere  alla  sua  ingegnosissima  ricostruzione 
critica)  Dante  venerava  in  Gregorio  l'uomo  grande  ed  intemerato,  il  pon- 
tefice magnanimo;  ma  le  sue  idee  teocratiche  gli  erano  odiose.  «  Non  osò 
«  vilipenderlo,  non  amò  glorificarlo  ».  Tacque  di  lui,  tacque  de'  suoi  prin- 
cipali fautori,  che  nella  Commedia  Roberto  Guiscardo  è  solo  beatificato 
come  liberatore  della  Sicilia  dai  Saraceni;  Pier  Damiano  sta  in  cielo  come 
monaco  tra  monaci  e  gli  si  fanno  dire  aspre  parole  contro  i  cardinali  e  i 
prelati;  Matelda  non  è  certamente  la  contessa  Matilde  (1).  Se  anche  in 
qualche  parte  di  questo  scritto  il  D'O.  ha  trovato  il  suo  maggior  nemico 
nell'acutezza  stessa  eccezionale  del  proprio  ingegno,  sono  pur  sempre  assai 
notevoli  le  considerazioni  eh'  egli  fa  in  esso  (2)  e  nello  studio  che  ad  esso 
intimamente  si  collega,  La  proprietà  ecclesiastica  secondo  Dante  e  un  luogo 
del  De  Monarchia,  sulle  idee  dell'Alighieri  intorno  al  possesso  degli  eccle- 
siastici ed  al  potere  temporale  della  Chiesa.  Interpretando  il  passo  con  cui 
principia  il  De  Mon.^  II,  §  12  (secondo  l'ediz.  Moore)  rileva  giustamente  l'A, 
che  «  Dante  non  negava  alla  Chiesa  il  diritto  dei  beni  materiali,  ma  era 
«  fermo  nel  convincimento  che  essa  e  gli  uomini  suoi  non  dovessero  avere 


elementi  cospirarono  con  l'amore  a  rendere  la  Commedia  piena  e  complessa:  il  rimorso  del  poeta 
per  esser  caduto  nel  vizio  e  la  vendetta  per  la  sconfitta  della  sua  parte  politica  e  per  l'esilio. 
Questi  tre  elementi  essenziali,  cementati  col  giudizio  della  mente  altissima  e  con  la  passione 
dell'animo  fervente,  illuminati  dalla  dottrina  sicura  dell'uomo  colto  e  dalla  sua  singolare  sensi- 
tività e  recettività  d'osservatore  e  di  psicologo,  trattati  con  mano  maestra  dall'artista  impareg- 
giabile, costituirono  il  poema  meritamente  chiamato  divino. 

(1)  In  questa  negazione  il  D'O.  non  ha  esitanze;  ma  non  è  altrettanto  certo  (e  chi  potrebbe 
esserlo?)  nel  sostituire  un  altro  personaggio.  Solo  in  una  nota  aggiunta  (p.  378)  si  mostra  incline 
ad  identificare  Matelda  con  la  Matilde  figliuola  di  Arrigo  I  imperatore,  tratta  fuori  dal  suo  diletto 
Scherillo.  Come  fu  recentemente  dimostrato  da  A.  Mancini,  quella  tal  Matilde  va  identificata  con 
la  beata  Slatilde  di  Hackeborn,  l'antica  candidata  del  Lubin,  che  nella  sua  prima  comparsa  ebbe 
così  poca  fortuna.  Vedremo  se  ne  avrà  di  più  nella  seconda.  Cfr.  Rass.  bibl.  della  lett.  italiana, 
IX,  153  e  Bull.  Soc.  Dani.,  N.  S.,  Vili,  225  sgg. 

(2)  Voglio  non  passi  inosservato  che  dalla  prima  redazione  del  suo  articolo,  il  D'O.  tolse  quello 
che  vi  aveva  detto  di  Sigieri,  a  motivo  delle  ricerche  più  recenti,  che  ne  misero  in  luce  diversa 
la  figura.  Nella  nota  aggiunta,  che  egli  dedicò  a  questo  soggetto  (pp.  398  sgg.),  ben  a  ragione 
insistette  sulla  misteriosità  degli  invidiosi  veri  che  Dante  fa  sillogizzare  al  celebre  filosofo  aver- 
roista.  Egli  riconferma  la  supposizione  che  fossero  concetti  antiteocratici  banditi  da  Sigieri  a 
Parigi  e  causa  a  lui  di  gravi  noie. 


432  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

«  alcun  attaccamento  a  quei  beni,  anzi  amministrarli  soltanto  a  beneficio 
€  dei  poveri  »  (p.  404).  A'  tempi  suoi  «  il  potere  temporale  nel  preciso  senso 
«  moderno  non  era  nato  »  (p.  416),  ma  il  non  curare  egli,  anzi  l'ammettere, 
€  che  il  papa  possedesse  qualche  lembo  di  terra,  esercitandovi  quelle  giu- 
«  risdizioni  che  allora  s'accompagnavano  a  tali  possedimenti  »  (p.  415)  non 
implica  che  approvasse  il  potere  temporale  moderno,  anzi  il  modo  come  egli 
«  si  atteggiò  verso  tutto  quel   complesso   che   fu   il   potere  civile  de'  papi 

<  nell'età  sua,  dice  chiaramente  ch'egli  avrebbe  con  impeto  non  minore  ri- 
«  provato  il  possesso  territoriale  trasformato  in  vera  e  propria  monarchia  » 
(p.  417).  Tutto  questo  mi  sembra  sacrosantamente  vero,  e  giusto,  e  ben 
dimostrato  (1). 

Ma  tornando  alle  fonti,  è  di  massima  importanza  quello  che  osserva  il  D'O. 
sui  rapporti  tra  la  Commedia  e  VEneide.  Strano  fatto  è  invero  che  in  tanta 
sollecitudine  nel  cercare  riscontri  a  Dante,  siasi  negletto  per  l'appunto  il 
poema  di  colui  ch'egli  chiama  suo  maestro  e  suo  duce.  Non  soltanto  lo  hello 
stile  tolse  da  lui,  afferma  con  piena  ragione  il  D'O.,  e  a  provare  le  maggiori 
dipendenze,  non  solo  di  forma  ma  eziandio  di  contenuto,  s'indugia  nel  di- 
mostrare che  <  sotto  la  topografia  materiale  e  sotto  quella  morale  deir/«- 
«  femo  dantesco  ci  s' intravedono  le  linee  dell'una  e  dell'altra  topografia 
«  dell'inferno  virgiliano  »  (p.  235).  Lo  squisito  lavoretto  del  D'O.  su  questa 
delicata  materia  lascia  vivo  desiderio  ch'egli  medesimo,  come  ci  dà  una 
mezza  promessa  (p.  238),  ponga  in  evidenza  «  tutte  le  rimanenti  conformità 
«  tra  i  due  poemi  ».  In  questo  volume,  intanto,  si  parla  di  Virgilio  anche 
a  proposito  del  disdegno  di  Guido,  su  cui  tornerò  fra  poco,  e  negli  articoli 
Il  saluto  dei  poeti  del  limbo  al  reduce  Virgilio  e  Dante  e  la  magia.  È  il 
primo  di  essi  un  commento  garbato  e  fine  alla  maggior  scena  del  limbo, 
ove  mi  sembra  segnalabile  in  particolar  guisa  l'interpretazione  al  verso 
«  Fannomi  onore  e  di  ciò  fanno  bene  ».  A  nessuno  possono  riuscire  soddi- 
sfacenti le  spiegazioni  più  o  meno  stiracchiate  che  di  questo  verso  soglion 
dare  i  chiosatori,  mentre  il  D'O.  ne  suggerisce  una  razionale  quanto  sem- 
plice. Bi  ciò  vale  sotto  questo  rispetto,  cioè  il  rispetto  dell'esser  poeta,  sicché 
il  verso  dice:  «  son  poeti  anch'essi  questi  che  m'onorano,  e  in  quanto  ono- 
«  rano  in  me  la  qualità  che  ho  comune  con  essi,  devo  io  medesimo  ammet- 

<  tere  che  fanno  bene  »  (p.  521).  Lo  scritto  su  Dante  e  la  magìa  ci  trasporta 
nella  bolgia  ove  sono  cos'i  orribilmente  stravolte  le  persone  degli  indovini 
e  dei  maghi.  Dante,  anche  prima  di  sapere  chi  siano  quei  dannati,  è  com- 
mosso dalla  miseranda  vista  sino  alle  lacrime,  sicché  Virgilio  ne  lo  rimprovera 
ed  esce  nella  dura  sentenza  «  Qui  vive  la  pietà  quand'  è  ben  morta  »,  o  in 
altri  termini  «  qui  la  vera  pietà  é  di  non  averne  »  (Inf.,  XX,  19-30).  Perchè 
tanta  ira  nel  mite  Virgilio?  11  suo  monito  si  riferisce  a  tutti  i  dannati  ov- 


(1)  Ritornò  incidootalmente  sul  tema  il  Tocco,  in  an  artìcolo  di  Polemiche  danUsckt  (nella 
Rioiita  d'Italia  del  loglio  1901),  che  discute  in  {specie  la  cronologia  del  D«  Monarchia.  Con&on* 
tando  le  idee  di  Dante  con  quelle  di  Ubertino  da  Casale  rispetto  al  possesso  territoriale  della  Ciii«M, 
il  Tocco  conclude  che  «  non  il  possesso  condanna  il  poeta,  come  fkcerm  Ubertino,  ma  il  nodo  di 
«  usarlo,  il  non  fiirne  parte  ai  poreri,  il  tenerlo  per  tè  e  non  per  nitri,  come  impone  U  l«fg« 
«  di  Cristo  ».  Cfr.  Bull  Soc.  Dani.,  N.  S.,  Vili,  245. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  433 

vero  ai  soli  indovini?  A  tutti  i  dannati  no,  perchè  la  pietà  si  fa  strada  in 
Dante  altra  volta  senz'essere  rintuzzata  così  aspramente.  Dunque  sono  solo 
gli  indovini  che  meritano  quel  duro  trattamento.  E  perchè?  Ecco  Tindagine 
che  il  D'O.  si  propone  —  Dopo  essersi  indugiato  in  un'istruttiva  disamina 
sull'attitudine  dei  poeti  verso  gli  Spiriti  puniti  nell'inferno,  VA.  esprime 
l'opinione  che  due  siano  i  motivi  del  trattamento  singolarmente  crudo  inflitto 
agli  indovini.  Uno  è  un  motivo  generico,  l'abuso  che  nel  medievo  si  faceva 
delle  scienze  occulte:  l'altro  è  un  motivo  specifico  e  riposto.  La  sdegnosa 
reazione  di  Virgilio,  la  sua  stessa  inusata  loquacità  nel  parlare  degli  indo- 
vini, l'asprezza  con  che  li  tratta,  vogliono  servire  a  purificarlo  da  quella 
scoria  di  mago,  che   gli   era  stata   sovrapposta   dalla   tradizion  medievale. 

«  Nella  bolgia   dei   maghi    il   poeta  si  creò  un'occasione di  protestare 

«  contro  il  deturpamento  del  verecondo  suo  duce,  mettendo,  con  uno  de'  suoi 
«  soliti  trovati,  in  bocca  a  lui  stesso  la  protesta,  dopo  averla  in  modo  abi- 
«  lissimo  provocata  »  (p.  101).  Virgilio  medesimo,  conscio  della  triste  rino- 
manza affibbiatagli,  perde  qui  le  staffe,  come  Dante  con  Alberico  e  con 
Bocca.  Tutto  il  canto  si  direbbe  essere  «la  sua  beneficiata»  (p.  103);  tutto 
vi  è  rivolto  «  a  lumeggiare  l'ostilità  di  Virgilio  verso  quella  turba  con  cui 
«  era  stato  da  rozze  fantasie  stolidamente  imbrancato  »  (p.  108).  —  Non 
avendo  il  Gomparetti  (1)  fatto  buon  viso  alla  sottile  argomentazione  del  D'O., 
questi  difende  l'opinione  sua  in  un  secondo  articolo.  Ancora  Dante  e  la 
magìa,  nel  quale  considera  anche  un  altro  fatto,  venuto  fuori  dopo  la  prima 
stampa  dell'altro  scritto,  il  documento  scoperto  a  Roma  dal  Jorio  (2),  su  cui 
si  trattenne  particolarmente  il  bravo  Della  Giovanna  nella  Rivista  d'Italia 
del  15  maggio  1898.  Ritenne  il  Della  Giovanna,  basandosi  su  quel  docu- 
mento mostrante  l'Alighieri  in  voce  di  mago,  che  nel  G.  XX  s' avesse  a 
vedere  una  specie  di  autodifesa  del  poeta  stesso,  intorno  al  quale  ben  presto 
si  sarebbe  formata  una  specie  di  leggenda  letteraria  che  lo  tacciava  d'in- 
tinto nelle  scienze  occulte;  mentre  il  D'O.  gli  oppone  che,  se  mai,  siff^atta 
fama  dovette  formarsi  intorno  a  lui  dopo  la  pubblicazione  deìV Inferno  e 
non  prima.  Secondo  il  nostro  critico  è,  invece,  nel  descrivere  la  bolgia  suc- 
cessiva, quella  dei  barattieri,  che  Dante  pensa  a  sé;  e  nel  foggiare  quella 
grottesca  comicità,  nello  sghignazzare  sulla  pena  di  quei  ribaldi  vilissimi, 
nello  stesso  uscir  salvo  dalle  insidie  dei  diavoli,  forse  adombranti  «  le  ca- 
«  lunnie  e  le  persecuzioni  fiorentine  »,  intese  il  poeta  di  vendicarsi  del- 
l'ignominiosa accusa  di  baratteria,  con  cui  era  stato  piagato,  non  lordato,  il 
suo  animo  altero.  —  Questi  due  studi ,  in  cui  sono  pagine  veramente  elo- 
quenti, segnano  il  vertice  a  cui  può  giungere  la  critica  congetturale,  ma- 
neggiata da  penna  abilissima.  Essi  impongono  l'ammirazione,  anche  se  non 
inducano  nel  convincimento  (3). 


(1)  Nella  2a  ediz.  del  suo   Virgilio,  1,  290-91. 

(2)  Fummo  tra  i  primissimi  a  darne  informazione  nel  Oiorn.,  XXVI,  463. 

(3)  Sul  documento  vaticano  scoperto  dal  Jorio  la  critica  storica  ha  ancora  bisogno  di  eserci- 
tarsi. Sono  parecchi  i  quesiti  notevoli  che  da  esso  rampollano.  E  forse  dalla  risoluzione  di  quei 
quesiti  dipende  la  fortuna  dell'ipotesi  del  D'O. 


434  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

Se  non  alle  fonti,  almeno  alla  dottrina  del  poeta  si  riferisce  il  saggio  su 
Dante  e  la  filosofia  del  linguaggio.  Nessuno  ignora  che  il  D'O.,  oltreché 
letterato,  è  anche  glottologo  valoroso,  sicché   quando    egli  ci  dice  che  «  in 

«  Dante  si  assomma tutto  quel  che  di  più  e  di  meglio  diede  la  specu- 

«  lazione  linguistica  medievale  »  e  che  «  in  lui  si  ha  un'esposizione  felice 
«  delle  credenze  ortodosse,  e  più  tardi  il  passaggio  ardito  ad  opinioni  più 
«  libere  e  più  vere  ■»  (p.  493;,  non  si  può  che  dare  grandissimo  peso  al  suo 
giudizio.  Infatti  qui  la  sua  dimostrazione  non  può  patire  eccezioni.  Dalle 
teorie  tradizionali  sulle  origini  e  le  prime  vicende  del  linguaggio  accennate 
nel  De  vulgari  eloquentia  e  forse  adombrate  nel  far  parlare  Nembrotte  nel 
modo  che  tutti  sanno,  assorge  il  poeta  all'  importantissimo  concetto  che  fa 
esporre  ad  Adamo  nel  XXVI  del  Paradiso.  In  quel  passo  v*è  una  specie 
di  divinazione  delle  teorie  moderne,  perché  arditamente  si  caccia  di  seggio 
il  sacro  ebraico  (reputato  fino  allora  «  la  favella  vera  e  congenita  alVessere 
*i pensante -p ,  p.  492)  e  si  riconosce  la  forza  evolutiva  del. linguaggio. 

Passando  ora  agli  studi  che  hanno  lo  scopo  di  lumeggiare  determinati 
personaggi  ed  episodi  del  poema,  primo  ci  si  presenta,  per  estensione  e  im- 
portanza, quello  su  Guido  da  Montefellro.  D'onde  seppe  Dante  che  Guido, 
per  quanto  convertitosi  a  vita  i^eligiosa,  essendo  stato  l'istigatore  dell'in- 
ganno con  cui  Bonifacio  Vili  disfece  i  Golonnesi,  s'era  dannato?  Finge  il 
poeta  che  questo  fosse  un  segreto,  perchè  Guido  gli  dice  che  non  s'indur- 
rebbe certo  alla  confessione  se  sapesse  di  parlar  con  persona  destinata  a 
tornar  nel  mondo  (/w/!,  XXVII,  61-66).  Da  chi  sapeva  il  poeta  quel  segreto? 
Sostiene  il  D'O.  che  quel  segreto  era  il  frutto  della  sua  fantasia;  ed  esten- 
dendo a  teoria  il  caso  particolare,  crede  che  l'Alighieri  usasse  d'una  specie 
di  diritto  di  condanna  e  di  grazia,  quando  l'arte  e  l'opportunità  gli  sugge- 
rivano di  farlo  (cfr.  specialmente  pp.  38,  56-58,  63).  Inventò  nel  salvare 
Manfredi  e  Buoncontc;  inventò  nel  dannare  Guido  Feltresco:  e  con  queste 
invenzioni  raggiunse  effetti  singolari.  —  Malgrado  l'acutezza  grande  con 
che  questa  tesi  è  sostenuta  e  difesa  (1),  non  credo  eh'  essa  colpisca  nel 
segno.  Buone  ragioni  addusse  contro  di  essa  il  Gorra  (2);  e  per  quel  che 
riguarda  il  caso  speciale  di  Guido,  lo  stesso  Parodi,  che  pure  non  è  sfavo- 
revole al  diritto  di  grazia  escogitato  dal  D'O.,  mostra  che  il  poeta  non  ha 
inventato  (3).  Nel  caso  di  Manfredi,  il  Novati  ha  mostrato  che  la  leggenda 
aveva  detto  cosa  non  diversa  da  quella  che  Dante  riferi,  né  mi  pare  che 
il  D'O.  n'esca  bene  nel  voler  attenuar  l'importanza  di  questo  fatto  (pp.  67-68). 
Già  il  Torraca  (4)  oppose  replicate  volte  al  D'O.  l'autorità  dell'antico  cronista 
F.  Pipino,  che  mostra  conoscere  il  colloquio  di  Guido  con  papa  Bonifacio  e 


(1)  Diresti  che  TA.  abbia  quasi  una  passionale  «iTezione  alla  sua  ipotesi,  con  tanto  impegno 
egli  la  suffraga  di  sempre  nuovi  argomenti.  Oltre  una  poscritta  (pp.  07  sgg.)  all'articolo  princi- 
pale, le  consacra  un'appendice  in  fondo  al  volume  (pp.  533  sgg.). 

(2)  H  soggtttmsmo  di  Dante,  Bologna,  1809;  cfr.  quel  che  ne  dissi  in  questo  OiomaU, 
XXXIV,  424-2.5. 

(3)  BulMt.  Soc.  Dant.,  N.  S.,  VII,  24-26. 

(4)  Prima  nelle  Huote  rasségne,  pp.  332-37  ;  poi  nel  suo  fueicolo  della  LecUtra  Danti*  fio- 
rentina. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  435 

sembra  saperne  in  proposito  ben  più  di  Dante.  Risponde  il  D'O.  che  il  Pi- 
pino raccolse  la  voce  difiusasi  dopo  che  Dante  aveva  scritto  e  la  allargò, 
cercando  di  darle  colorito  storico;  e  siccome  gli  si  fa  valer  contro  la  cro- 
nologia della  cronaca,  egli  mostra  che  non  è  valida  siffatta  opposizione.  E 
voglio  anche  ammettere  che  abbia  ragione  su  questo  punto.  Ma  anche  es- 
sendo la  cronaca  posteriore  al  tempo  a  cui  si  suol  assegnare,  chi  ci  assicura 
che  il  cronista  non  abbia  raccolto  una  voce  corrente,  storica  nel  fondo, 
quella  voce  stessa  da  cui  il  poeta  trasse  cosi  magnifico  partito  da  farne  uno 
dei  più  notevoli  episodi  della  sua  prima  cantica?  L'indagine  rigorosamente 
scientifica  delle  fonti  storiche  del  poema  dantesco  può  dirsi  oggi  appena 
iniziata.  Che  ne  sappiamo  noi  di  quel  che  Dante  sapeva  della  storia  a  lui 
più  vicina?  Di  sorprese  come  quella  che  si  ebbe  per  Manfredi  chissà  quante 
il  tempo  ce  ne  prepara!  Oggi,  mentre  si  attende,  non  mi  sembra  sia  pru- 
dente ritenere  che  la  fantasia  del  poeta  varcasse  certe  frontiere.  D'accordo 
che  il  creator  di  tutto  quel  mondo  era  lui,  e  che  poteva  e  doveva  aggirar- 
visi  con  una  certa,  anzi  con  molta,  libertà.  Ma  se  il  salvare  personaggi  illustri 
che  la  coscienza  pubblica  universalmente  dannava  era  arditezza  non  co- 
mune ;  il  dannare,  senza  alcun  appiglio  nei  fatti,  chi  da  tutti  stimavasi  salvo 
poteva  sembrare,  non  solo  temerità,  ma  malevolenza  partigiana  e  peggio. 
Questo  è  il  caso  di  Guido  di  Montefeltro. 

D'  un  altro,  più  celebrato.  Guido ,  parla  pure  il  D'O.  e  non  si  perita  di 
affrontar  di  bel  nuovo  quel  suo  terribile  disdegno.  È  cosa  risaputa  eh'  egli 
fu  tra  i  primi  a  discuterne  trent'  anni  sono  (1),  né  allora  certo  imaginava 
quale  selva  di  piante  parassite  avrebbe  aduggiato  il  verso  «  Forse  cui  Guido 
«  vostro  ebbe  a  disdegno  ».  Con  arguzia  bonaria  riassume  il  D'O.  in  una 
paginetta  (pp.  161-62)  i  moltissimi  e  talora  strani  tentativi,  fatti  da  gente 
di  svariatissima  autorità  e  coltura,  per  risolvere  le  difficoltà  di  quel  verso 
divenuto  una  specie  di  sciarada  a  premio;  e  mentre  con  la  sua  sottile  dia- 
lettica viene  a  ribattere  le  opinioni  altrui,  e  mentre  con  delicatissima  ana- 
lisi psicologica  svela  le  bellezze  recondite  dell'episodio  di  Cavalcante  (2), 
con  nuovi  argomenti  conferma  la  sua  vecchia  e  nota  interpretazione,  alla 
quale  solo  aggiunge  un  complemento  che  la  rende  più  soddisfacente.  Per 
lui  sta  il  fatto  (ed  ha  certo  ragione)  che  il  disdegno  a  cui  il  poeta  allude 
non  può  essere  se  non  di  Guido  per  Virgilio  e  che  ogni  altra  maniera  d'in- 
tenderlo è  assurda.  Ciò  posto,  Guido  aveva  in  poca  simpatia  Virgilio  poeta  : 
l'Eneide,  prediletta  dell'amico  suo,  poco  gli  piaceva;  il  suo  era  dunque,  es- 
senzialmente, un  disdegno  letterario.  Nel  quale  probabilmente  aveva  parte 
anche  un  altro  elemento,  quello  che  il  D'O.  fece  valere  già  trent'anni  sono, 
l'elemento  religioso,  giacché  a   Guido  scettico  non  poteva  garbare  Virgilio 


(1)  Nel  Propugnatore  del  1870.  Otto  anni  dopo  riproduceva  quello  scritterello  nei  Saggi  critici 
(pp.  312  sgg.),  con  l'aggiunta  d'una  poscritta  destinata  a  confutare  le  obiezioni  di  alcuni  critici. 

(2)  Curioso  è  il  confronto  che  il  D'O.  fa  tra  l'episodio  di  Cavalcante  e  quello  di  Andromaca 
che  chiede  di  Ettore  ad  Enea  n&lVEneide.  L'A.  non  osa  dire  che  di  questa  somiglianza  fosse 
conscio  il  poeta  medesimo,  ma  conclude  :  «  certo  che  il  non  virgiliano  Guido  è,  fatale  ironia,  la- 
«  crimato  con  virgiliani  accenti  »  (p.  183). 


436  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

nella  sua  funzione  simbolica,  «  rappresentante  della  ragione  umana  teistica 
«  e  soggiogata  alla  fede  »  (p.  151  ;  cfr.  p.  197).  E  così  sia.  —  Che  del  resto 
il  nostro  A.  ha  occasione  di  tornare  di  bel  nuovo  sui  rapporti  tra  Guido  e 
Dante  nello  scritto  La  rimenata  di  Guido.  Il  sonetto  notevolissimo  /'  vegno 
7  giorno  a  te  'nfinite  volte  mise  a  prova  veramente  l'acume  degli  ing^ni 
italiani  dopoché  nel  1896  un  tedesco  gli  ebbe  dedicato  certo  suo  studietto  (1). 
Ritiene  il  D'O.  che  quel  sonetto  contenga  un'  ammonizione  amichevole,  ma 
severa,  del  Cavalcanti,  e  che  il  motivo  di  essa  fosse  la  famigliarità  di  Dante 
con  Forese  e  con  la  sua  comitiva.  La  grossolana  licenziosità  della  gente  con 
cui  l'amico  suo  s'era  imbrancato  spiaceva  all'aristocratico  Guido;  e  l'Ali- 
ghieri medesimo,  come  è  risaputo,  ebbe  poi  a  pentirsene  amaramente.  È  anzi 
una  proposta  singolare  del  D'O.  quella  di  vedere  una  specie  d'ammenda  della 
sboccata  trivialità  di  quei  conversari  nell'artificio  dantesco,  usato  quattro 
volte  nel  Paradiso,  di  non  rimare  il  sacro  nome  di  Cristo  se  non  con  sé 
medesimo.  Nell'articolo  «  Cristo  »  in  rima  egli  rileva  il  malo  uso  che  il 
poeta  aveva  fatto  del  nome  di  Cristo  in  uno  dei  sonetti  scambiati  da  lui  con 
Forese  («Che  gli  aparten  quanto  Gioseppo  a  Cristo»;;  il  che  lo  avrebbe 
indotto  a  farne  penitenza  con  l'artificiosa  ripetizione  della  terza  cantica.  — 
Questo,  a  dir  vero,  ben  poco  mi  persuade.  I  sonetti  scambiati  con  Bicci 
rimasero  ignoti,  né  v'  ha  ragione  di  credere  che  levassero  scandalo.  Se  anche 
scandalo  vi  fu,  esso  derivò  dai  sentimenti  espressi  con  crudezza  volgare  in 
quei  versi,  non  certo  dall'innocente  accenno  a  Cristo.  Il  dire  che  Simon 
Donati  sta  a  Forese  come  Giuseppe  a  Cristo  (in  altri  termini,  è  suo  padre 
putativo)  non  implica  alcuna  speciale  irriverenza,  non  fa  che  colorire  un 
fatto.  Malgrado  tutto,  mi  sembra  pur  sempre  più  accettabile  l'opinion  co- 
mune, che  Dante  facesse  rimare  Cristo  con  sé  medesimo  solo  a  titolo  di 
reverenza  devota.  Né  Maria,  né  le  altre  due  persone  della  Trinità  hanno  pel 
cristiano  l'altissimo  significato  del  Redentore.  Quel  ripicchiare  sul  nome 
santo  di  Cristo  nel  cielo  dei  teologi,  nel  cielo  dei  guerrieri  martiri,  nel  cielo 
dei  principi  giusti  e  finalmente  nell'empireo  parmi  abbia  una  ragione  tutta 
mistica  ed  ottenga  infatti  un  effetto  di  solennità  quale  solo  si  trova  in  certe 
volute  ripetizioni  della  Scrittura. 

Felicissima  e  forse  definitiva  argomentazione  é  quella  con  che  il  D'O. 
determina  II  vero  tradimento  del  conte  Ugolino.  Non  è  il  tradimento  d^lle 
castella,  di  cui  il  conte  soltanto  aveva  voce,  che  lo  costringe  nella  ghiaccia; 
è  l'aver  egli  ingannato  il  nipote  Nino  giudice  di  Gallura,  pel  quale  il  poeta 
nutriva  particolare  simpatia.  Nino  e  Ugolino  tradì  poscia  l'Ai-civescovo  ; 
quindi  egli  ha  maggior  punizione:  ma  entrambi  stanno  nellAntenora,  fra  i 
traditori  politici. 

Su  Sordello  ristampa  il  D'O.  un  suo  vecchio  articolo  apparso  nel  Cor- 
riere di  Napoli  del  1892.  Agli  scritti  d'erudizione  «  lo  tempo  va  dintorno 
«con  le  force»,  massime  in  questa  vessata  materia  dantesca;  e  l'A.  che  se 
n'avvide,  appose  una  poscritta  a  quel  suo  articolo  alquanto  arretrato  dopo 
il  molto  che  di  Sordello  si  scrisse  negli  ultimi  anni.  La  cosa  migliore  qui 


(1)  Cfr.  Gi«m.,  XXVII,  477. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  437 

dentro  è  l'esame  estetico  deirepisodio.  Egregiamente  l'A.  confuta  le  ragioni 
per  cui  Sordello  parve  al  Parodi  «  creazione  artistica  inferiore  ad  altre  di 
«  Dante  »  (1).  Che  il  Planh  contribuisse  a  dare  al  Sordello  dantesco  quella 
dignità  e  quella  funzione  che  il  poeta  gli  assegna  (2),  è  indubitato;  ma  non 
questo  solo.  Del  trovatore  di  Goito  egli  doveva  conoscere  fatti  che  noi  igno- 
riamo, componimenti  che  non  ci  sono  giunti.  Gli  uni  e  gli  altri  per  avven- 
tura contribuivano  a  rendergli  accetta  in  singoiar  guisa  quella  figura,  mentre 
l'esser  essa  mantovana  e  l'aver  girato  a  tondo  la  sferza  sui  principi  ignavi 
gli  offrivano  pretesto  ad  effetti  artistici  squisiti  (3). 

Innumerevoli  sono  i  particolari  punti  storici  che  il  D'O.  chiarisce,  gli 
atteggiamenti  singoli  dell'arte  e  della  psicologia  di  Dante  che  illustra,  i  passi 
controversi  che  spiega  in  questo  suo  densissimo  volume.  Trascegliamo  e 
additiamo  alcune  considerazioni  che  ci  sembrano  per  vari  motivi  più  spe- 
cialmente rilevanti: 

1.0  Delle  reticenze  nella  Commedia  discorre  con  molto  buon  senso  e 
osserva  giustamente  che  in  certi  casi  esse  non  sono  così  gravide  di  signi- 
ficati riposti  come  i  chiosatori  suppongono  (pp.  509  sgg.)  (4).  Al  qual  pro- 
posito sfata  quel  gran  mistero  che  altri  vide  nell'/n/".,  XXXII,  9  :  «  Ghè  non 
«  è  impresa  da  pigliare  a  gabbo  |  Descriver  fondo  a  tutto  l'universo,  |  Né 
*  da  lingua  che  chiami  mamma  e  babbo».  Vale  semplicemente:  «Non  è 
«  impresa  da  burla  né  da  bambino  descrivere  ecc.  ». 

2.0  Discute  con  l'Angelitti  circa  l'anno  della  Visione.  Immune  da  quella 
malattia  dello  spirito  per  cui  ad  ogni  proposta  nuova  si  fa  il  viso  dell'armi 
solo  perché  é  nuova,  il  D'O.  riconosce  la  gravità  degli  indizi  astronomici 
rilevati  dall'Angelitti  e  gli  è  grato  pel  proficuo  dibattito  da  lui  suscitato. 
Ma,  tutto  ben  ponderato,  «  le  prove  storiche  favorevoli  al  1300  eccedono  di 
«  gran  lunga,  in  numero  e  in  peso,  quelle  che  sono  o  paiono  propizie  al 
«  1301  »,  e  siccome  le  prove  storiche  in  siffatta  questione  hanno  il  massimo 
valore  (5),  sta  per  il  1300  (pp.  545  sgg.). 


(1)  Bull.  Soc.  Dant,  N.  S.,  IV,  196. 

(2)  A  g:insto  titolo  si  compiace  il  D'O.  d'esser  stato  tra  i  primi  a  vedere  questo  rapporto.  Af- 
ferma il  D'Ancona  d'aver  fatto  codesto  riscontro  dacché  illustra  dalla  cattedra  la  Commedia.  Vedi 
il  suo  commento  al  C.  VII  del  Purqat.  nella  Lectura  Dantit,  pp.  25  sgg.  È  giusto  anche  notare 
che  prima  della  fioritura  di  studi  sordelliani  richiamata  dal  libro  del  De  Lollis,  aveva  chiaramente 
discorso  delle  relazioni  del  Planh  con  la  figurazione  del  Sordello  dantesco  il  povero  Merkel. 
Cfr.   Giorn.,  XVII,  127. 

(3)  Siami  lecito  rammentare  quanto  brevemente  accennai  in  proposito  nel  Giorn.,  XXIV,  317-18. 

(4)  L'artista  sovrano,  peraltro,  sentiva  quanto  fossero,  per  dir  la  cosa  con  una  parola  ora  tanto 
abusata,  suggestive  quelle  sue  reticenze,  e  se  egli  talora  le  usò  per  questo  (giacché  a  lui  certo 
non  sfuggiva  il  fascino  dell'indeterminato)  bisogna  proprio  riconoscere  che  ha  raggiunto  lo  scopo 
pienamente. 

(5)  A  qualche  competente  sembra  che  anche  le  prove  astronomiche  non  stiano  tutte  dalla  parte 
dell' Angelitti.  Cfr.  i  lavori  del  prof.  Gambèra  e  specialmente  quello  di  cui  è  cenno  nel  nostro 
Giornale,  XXXVIII,  252.  Il  Gambèra  prepara  un  commento  astronomico  e  fisico  alla  Commedia, 
corredato  di  tavole,  opera  di  cui  noi  profani  sentiamo  il  bisogno  ogni  giorno  più.  .Speriamo  che 
egli  faccia  un  lavoro  superiore  ad  ogni  discussione,  giacché,  a  dir  vero,  sinora  le  sue  note  d'astro- 
nomia dantesca  suscitarono  troppe  contraddizioni. 


438  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

3.°  Nel  Purg.,  IV,  26  legge  «  Montasi  su  Bismantova  e  in  Cacume  », 
fornendo  nuovi  dati  su  quel  nìonte  Cacume  in  quel  di  Fresinone,  che  Dante 
certamente  vide  (pp.  563  sgg.)  (1). 

4.0  Neir/w/:,  XXVII,  Hi,  «Ti  farà  trionfar  nell'alto  seggio*  ritorna 
all'interpretazione  comune  e  ovvia  di  seggio  papale,  da  cui  Bonifacio  sarebbe 
forse  caduto  se  non  debellava  i  Colonna  (pp.  27-31). 

5.®  Con  simpatica  risolutezza  respinge  la  tanto  discussa  tecnofagia  del 
conte  Ugolino  (pp.  571-73). 

6.0  Determina  il  significato  di  leggiadro  e  leggiadria  nella  lingua  di 
Dante  (pp.  575-78). 

7.0  Pur  accettando  dal  Novali  le  buone  ragioni  per  cui  è  escluso  che 
il  vecchio  Alighieri  tenesse  in  Ravenna  un  insegnamento  uflBciale,  timida- 
mente insinua  che  possa  avervi  insegnato  privatamente  (pp.  590-91). 

Ma  la  nostra  attenzione  è  qui  richiamata  da  altro  soggetto.  V  ha  nel 
volume  uno  studio  che  si  scosta  da  tutti  gli  altri  e  che  a  me  sembra  ancor 
più  degli  altri  notevole,  quello  in  cui  il  D'O.  prende  a  studiare  L'epistola 
a  Cangrande.  Quantunque  di  quell'epistola  sia  stata  combattuta  l'autenticità 
in  addietro,  per  ragioni  esterne,  con  molto  vigore,  i  dantisti  mal  si  indu- 
cevano a  ritenerla  spuria,  tantoché  lo  stesso  Bartoli,  che  certo  di  soverchia 
fiducia  nella  tradizione  non  peccava,  era  incline  a  crederla  autentica  (2),  Il 
Kraus,  bensì,  la  combattè  (3),  ma  con  ragioni  non  decisive,  di  cui  in  parte 
sminuì  il  valore  con  alcune  giuste  considerazioni  il  Cian  (4).  Il  D'O.  per 
primo  si  prese  il  carico  di  esaminare  il  valore  interno  di  quella  celebre 
lettera,  e  l'articolo  suo  può  dirsi  un  vero  capolavoro  di  demolizione,  che 
aggiunto  agli  argomenti  esterni  dovrà  avere  gran  peso  nella  futura  estima- 
zione  di   quella   dedicatoria  allo  Scaligero,  a  cui  è  accostato  un  brano  di 


(1)  Vittoriosamente  sostenne  le  ragioni  del  povero  monte  Cacume  V.  .Rossi  contro  il  Bassermann. 
Cfr.  Bull.  Soc.  Dani.,  N.  S.,  V,  41  sgg.  e  VI,  219. 

(2)  Storia,  VI,  I,  3-9;  cfr.  V,  291  n.  Rammento,  peraltro,  quante  furono  le  sue  esitazioni 
prima  di  giungere  a  credervi.  Egli  me  ne  parlò  parecchie  volte,  e  sempre  con  gran  diffidenza, 
mentre  si  preparava  a  stendere  i  volumi  V  e  VI  della  sua  opera  maggiore. 

(3)  Kkaus,  Dante,  pp.  313-17.  Si  sa  che  il  Kraus  è  negativo  rispetto  a  tutte  le  lettere  attri- 
buite a  Dante.  Anche  recentemente,  nella  versione  italiana  del  suo  opuMiolo  F.  Petrarca  $  la  tìta 
corrispondenza  epittolare,  Firenze,  1901,  p.  5,  egli  ha  scritto  a  questo  modo:  «  Le  lettere  di  Dante, 
«  per  quanto  pur  celebrate,  non  mi  sembrano  meritevoli  di  essere  annoverate  fra  i  docamenti 
«  storici,  perchè  io  le  ritengo  tutte  apocrife  o  per  lo  meno  tanto  sospette,  da  non  potersene  rì- 
«  trarre  verun  costrutto  scientifico».  A  tale  «orgia  di  scetticismo»,  come  direbbe  il  mio  amico 
Cian,  non  mi  lascierei  andare  neppur  io  in  questo  momento,  e  Io  dichiarai  nel  Oiorn.,  XXXVI, 
163,  n.  1. 

(4)  Bull.  Soc.  Dant.,  N.  S.,  V,  146-148.  Ha  il  buon  Cian  sbalestra  quando  nel  medesimo  B%U- 
lettino,  N.  S.,  Vili,  175  afferma  che  queste  dispute  snirautenticità  «  troppo  spejwo  non  sono  che 
«  perditempi  e  vane  prove  d'ingegno  e  di  arguzia  ».  Perchè  l'edificio  non  crolli  ò  necessario  esser 
sicuri  che  le  sue  fondamenta  poggino  sul  macigno  e  non  snll'arena.  Affidarsi  a  scritture  di  cai 
non  sia  certissima  l'autenticità  è  fabbricare  sull'arena;  quindi  sono  benemeriti  coloro  che  a 
quest'ingrata  fatica  di  sceveramento  si  sobbarcano,  ed  ò  male  il  considerarli  quasi  come  scioperati 
che  hanno  tempo  da  perdere.  A  priori  sarebbe  un  miracolo  che  intorno  a  Dante  non  si  fosse 
adoperata  l'opera  dei  faHari,  in  tempi  in  cui  la  falsificazione  era  consigliata  da  tante 
non  escluso  il  dilettantismo  di  falsificare  per  falsificare. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  439 

commento  al  Paradiso.  Mostra  il  D'O.  che  l'epistola,  nel  suo  stile  gonfio, 
prolisso,  pedantesco,  nel  suo  latino  disforme  dal  latino  di  Dante,  è  una  rap- 
pezzatura di  cenci  diversi,  un  aggregato  di  brani  tolti  dalle  opere  certe  del 
poeta  e  di  brani  levati  di  peso  agli  antichi  commenti.  Rispetto  ai  sensi  che 
deve  avere  la  poesia,  il  falsario  guasta  ciò  che  è  detto  in  modo  chiaro  ed 
incisivo  nel  Convivio,  li,  1.  Le  sue  idee  intorno  al  volgare  sono  in  contrap- 
posto con  quelle  di  Dante  e  sono  invece  conformi  a  quelle  che  si  vennero 
foggiando  tra  i  commentatori  del  Trecento.  L'epistola  sarebbe,  inoltre,  in 
aperta  contraddizione  con  quanto  è  detto  nel  Convivio,  non  essere  decente 
che  un'opera  volgare  sia  commentata  in  latino.  Non  s'intende  poi  come  Dante, 
a  cui  la  cortesia  de'  principi.  Scaligeri  e  Polentani,  venne  liberalmente  in 
soccorso  nell'ultimo  periodo  della  vita  sua,  tantoché,  com'egli  dice,  era  pre- 
venuto da  essi  ne'  suoi  desideri,  interrompesse  d'un  tratto  quella  sua  lettera 
con  una  bussata  giullaresca  di  questa  specie  :  «  Haec  est  sententia  secundae 
«  partis  Prologi  in  generali  ;  in  speciali  vero  non  exponam  ad  praesens.  Urget 
«  enim  me  rei  familiaris  angustia,  ut  haec  et  alia  utilia  reipublicae  dere- 
«  linquere  oporteat.  Sed  spero  de  magnificentia  vestra,  ut  alias  habeatur 
«  procedendi  ad  utilem  expositionem  facultas  »  (§  32).  Insomma,  in  quelle 
poche  sgangherate  pagine  di  prosa  latina,  ove  sembrano  accostati  due  com- 
ponimenti diversi,  una  dedica  e  un  brano  di  commento,  il  D'O.  non  vede 
alcun  pregio  né  veruna  utilità,  «  Quest'  opuscoletto,  nel  quale  non  si  vede 
«  mai  l'unghia  del  leone,  ancorché  non  vi  spuntasse  di  frequente  l'orecchia 
«  dell'asino,  non  é  che  un  uggioso  ingombro  »  (p.  473). 

Alla  requisitoria  del  D'O.,  che  ridotta  così  sotto  brevità  e  sfrondata  delle 
molte  osservazioni  minori  perde  gran  parte  della  sua  efficacia,  rispose  dap- 
prima per  incidenza  il  Biadego  (1),  poi  ex  professo  il  Torraca,  in  un  arti- 
colo certamente  molto  degno  di  nota  (2).  Replicò  il  D'O.  al  Torraca  in  una 
poscritta  di  questo  volume  (pp.  474  sgg.).  Ultimo,  mentre  io  scrivo,  esce  in 
campo  G.  Vandelli,  che  ribadisce  con  ragioni  sue  le  argomentazioni  del 
Torraca  ed  ha  il  merito  di  riferire  per  la  prima  volta  intero  il  brano  del 
commento  di  Guido  da  Pisa  in  cui  sono  trascritti  anonimi  certi  passi  del- 
l'epistola (3). 

Nell'arduo  dibattito,  in  cui  fu  profuso  tanto  ingegno,  cosi  nell'attacco 
come  nella  difesa,  non  è  tanto  as^evole  il  decidersi.  La  valutazione  delle  ra- 


(1)  Vedi  la  lunga  nota  di  p.  26  nel  sao  discorso  Dante  e  gli  Scaligeri,  Venezia,  1899.  I  Ve- 
ronesi (ed  è  troppo  naturale),  come  ci  tengono  a  vedere  nel  veltro  Cangrande,  cosi  hanno  parti- 
colare affetto  all'epistola.  Lo  stesso  oculatissimo  C.  Cipolla  nel  suo  magistrale  Compendio  della 
storia  di  Verona,  Verona,  1899,  p.  211  scrive  che  contro  l'autenticità  dell'epistola  a  Cangrande 
«  non  vennero  giammai  addotte  prove  degne  davvero  di  considerazione  ».  È  vero  ch'egli  diceva 
questo  prima  che  uscisse  l'articolo  del  D'Ovidio. 

(2)  Ritixta  d'Italia,  III  voi.  del  1899,  pp.  601  sgg. 

(3)  Bull.  Soc.  Dant.,  N.  S.,  Vili,  137  sgg.  Dal  D'O.  e  dal  Vandelli  apprendo  che  si  schiera, 
con  temperato  giudizio,  contro  l'autenticità  anche  lo  Zikgarelli,  a  pp.  308-18  del  Dante  vallar- 
diano,  che  ora  esce  a  dispense  e  non  ebbi  peranco  occasione  di  vedere.  Conosco  bensì  ciò  che  sul 
soggetto  scrisse  lo  Zingarelli  nella  Rass.  critica.  III,  182-83,  ove  aggiunse  alcune  felici  osserva- 
zioni negative  a  quelle  fatte  valere  dal  Kraus. 


440  RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 

gioni  addotte  soggiace  in  particolar  guisa  a  quel  «  suhjectives  Empfìnden  » 
a  cui  accenna  così  opportunamente  il  Kraus  (1).  Chi  inclina  alla  diffidenza 
ed  allo  scetticismo  darà  alle  ragioni  del  D'O.  maggior  peso  di  chi,  sorretto 
da  certo  ottimismo  connaturato  al  suo  spirito,  ha  in  uggia  ogni  diffidenza, 
ovvero  per  istinto  conservativo  piega  volentieri  ad  accettare  tutto  quello  che 
è  favorito  dalla  tradizione.  Chi  è  propenso  allo  scetticismo  non  potrà  non 
vedere  l'artificiosità  e  la  debolezza  di  certe  difese;  per  es.,  della  necessità 
in  cui  si  trova  il  Biadego  d'ammettere  nel  testo  attuale  dell'epistola  rima- 
neggiamenti e  aggiunzioni  umanistiche;  per  es.,  della  disinvoltura  con  che 
il  Torraca  cangia  il  sublimem  in  ultimam  in  un  passo  veramente  barbino 
e  contradditorio  del  §  3  (2).  Allo  scettico  farà  molta  specie  quella  tal  bus- 
sata da  accattone,  che  ho  rammentata,  e  gli  parrà  poco  dignitosa,  e  si  chie- 
derà come  mai  Dante  proprio  allora,  quando  meno  si  crederebbe,  avesse 
bisogno  di  stender  la  mano  a  quel  modo.  L'uomo  fidente,  non  solo  troverà 
possibile  quell'interruzione,  per  le  urgenti  angustie  famigliari,  d'uno  scritto 
utile  al  pubblico  (3),  ma  giungerà  persino  a  riconoscervi  «  un  atteggia- 
«  mento  degnissimo  anche  di  quel  fiero  uomo  che  fu  Dante  »  (4).  Allo  scettico 
non  sembrerà  conciliabile  l'esplicita  dichiarazione  del  Convivio^  che  in  latino 
non  si  commentano  opere  volgari,  con  uno  scritto  ove  si  commenta  in  latino 
il  principio  del  Paradiso  e  si  accenna  alla  voglia  di  proseguire  in  latino 
se  Cane  allenterà  i  cordoni  della  borsa  ;  l'uomo  fidente  troverà  che  la  lettera 
non  si  poteva  scrivere  se  non  in  latino  (diamine!)  e  che  un  commento  in 
forma  di  lettera,  anche  se  scritto  in  latino  non  sconveniva  affatto  (5).  Allo 
scettico  quel  latinaccio  dell'epistola  sembra  pochissimo  dantesco;  all'uomo 
fidente  par  dantesco  anche  troppo:  è  questione  di  palato.  Le  citazioni,  dice 
l'uomo  fidente,  sono  tutte  nell'ambito  degli  studi  danteschi  (6):  ma  sono 
anche  nell'ambito  della  coltura  tradizionale  trecentista,  risponde  lo  scettico. 
Pare  all'uomo  fidente  che  nessuno  dei  commentatori  sia  penetrato  €  nello 
«  spirito  di  Dante  cosi  addentro  come  l'autor  dell'epistola  »  (7);  pare  invece 
allo  scettico  che  nessuna  cosa  sia  tanto  banale  ed  insulsa  quanto  quella  pe- 
santissima interpretazione  scolastica  dei  primi  versi  del  Paradiso  (8). 

La  difesa  dell'epistola  a  Gangrande  si  vale  del  solito  mezzo,  che  fu  im- 
piegato per  la  Quaestio  de  aqua  et  terra,  che  domani  potrebbe  esser  usato  di 


(1)  Dante,  p.  295. 

(2)  Il  Yandelli  (pp.  146-47)  salva  il  sublimem,  ma  il  passo  non  cessa  per  ciò  d'essere  ben 
carioeo. 

(8)  ToKRACA,  Op.  cit.,  pp.  608-4. 

(4)  Vabdelli,  Op.  eit.,  p.  164. 

(5)  Scorgendo  la  debolezza  di  qnest'  argomento  del  Biadego,  il  Yandelli  (p.  163)  lo  ha  raccon- 
ciato alquanto  diversamente;  ma  sono  pur  tutti  espedienti  ingegnosi  quanto  poco  persuasivi. 

(6)  È  questa  la  parte  più  solida  dell'articolo  del  Torraca.  Cfr.  anche  Yandelli,  p.  155  n. 

(7)  TORKAOA,  p.  635. 

(8)  Alle  osservazioni  del  Torraca  intorno  alla  conformità  di  ciò  che  ò  detto  nell'epistola  con  lo 
spirito  della  Commedia  rispondo  il  Kraus  :  «  Mir  srheint  dass  diee  Argument  nichts  veiterei 
«  beweist,  als  das  der  Falsarins  genau  mit  den  dnrch  eine  Art  Familientradition  bewahrtan, 
«  dnrch  Pietro  Alighieri's  Komroentar  hinlanglich  festgeleften  intentionen  dee  Dicbters  bekannt 
«  war  ».  LiUraturblatt  /ur    erm.  and  rom,  Pkil.,  XXII.  249. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA  441 

nuovo  anche  per  l'epistola  di  frate  Ilario  e  per  altre  patenti  falsificazioni.  Si 
mostra  con  raffronti  non  esservi  alcuna  ragione  inoppugnabile  per  cui  lo 
scritto  non  possa  esser  di  Dante.  E  fatto  ciò,  i  difensori  gridano  vittoria! 
Ma  questa  dimostrazione,  in  fin  dei  conti,  può  non  raggiungere  altro  scopo 
se  non  di  provare  che  il  falsario  sapeva  quel  che  si  faceva,  non  era  un  gros- 
solano fabbricatore  di  testi.  Ora,  nel  caso  delle  opere  contestate  di  Dante, 
la  prima  mossa  alla  diffidenza  provenne  dal  modo  come  ci  furono  traman- 
date. Le  ragioni  intrinseche,  che  sono,  come  s'  è  visto,  in  grandissima  parte 
soggettive,  non  fanno  che  corroborare  le  estrinseche,  che  hanno  innegabile 
valore  obbiettivo.  Malgrado  la  ingegnosa  scappatoia  a  cui  è  ricorso  il  Tor- 
raca  (1),  resta  pur  sempre  stranissimo  che  il  Boccaccio  ed  il  Lana  e  Guido 
da  Pisa  citassero  brani  dell'epistola  senza  conoscerne  l'autore;  che  ne  igno- 
rasse l'autore,  pur  sapendone  forse  il  contenuto,  Pietro  Alighieri;  che  si 
dovesse  giungere  sino  a  Filippo  Villani  per  trovare  chi  la  menzionasse  come 
opera  di  Dante.  Si  può  proprio  ritenere  sul  serio  che  grandeggiando  cosi 
presto  la  fama  del  poeta,  quella  dedicatoria  sia  stata  «  dimenticata  in  fondo 
«  a  qualche  forziere  o  cassone  nel  palazzo  degli  Scaligeri  »  (2)?  Chi  lo  stima 
probabile  sei  creda,  e  Dio  lo  benedica. 

Per  me  il  D'O.  ha  il  merito  incontrastabile  di  aver  adoperato  il  suo  acu- 
tissimo ingegno  a  risollevare  una  questione  che  con  critica  troppo  sbrigativa 
stimavasi  omai  risolta.  La  sua  argomentazione  lascierà  traccio  nell'indagine 
su  Dante,  se  anche  in  gran  parte  ha  carattere  soggettivo.  La  luce  vera  si 
attende  dalla  futura  edizione  critica  delle  epistole,  che  risolverà  (auguriam- 
celo!)  molti  di  questi  problemi.  Quando  sarà  definito  il  testo  delle  opere 
latine  di  Dante,  si  potrà  anche  far  quello  studio  analitico  sulla  sua  latinità, 
che  forse  riuscirà  strumento  sussidiario  non  inefficace  per  distinguere  le  cose 
sue  vere  dalle  più  o  meno  abili  contraffazioni. 

Rodolfo  Renier. 


(1)  Op.  cit,  pp.  624-26. 

(2)  TORKACA,  p.   636. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


THEODORE  WESLEY  KOCH.  —  Catalogne  of  the  Dante  coUeclion 
presented  by  Willard  Fishe,  —  Ithaca  (New  York),  1898- 
1900.  Due  volumi  in  4°  (I,  pp.  xxii-92-268;  II,  pp.  338). 

Più  d'una  volta  ci  è  avvenuto  di  annunciare  in  questo  Giornale  la  com- 
parsa dell'una  o  dell'altra  parte  di  questo  ricchissimo  repertorio  bibliografico. 
Ora  che  esso  è  pubblicato  nella  sua  interezza,  ci  è  grato  riparlarne  un  po' 
più  estesamente. 

Il  grande  bibliofilo  americano  W.  Fiske  è  già  da  lungo  tempo  noto  agli 
studiosi  delle  nostre  lettere  per  la  insigne  raccolta  petrarchesca  ch'egli  ha 
saputo  mettere  assieme  con  fatiche  e  spese  incredibili.  Meno  conosciuto  è  fra 
noi  il  fatto  che  egli  ha  pure  una  raccolta  ragguardevole  di  libri  islandesi. 
Un  bel  giorno  del  1893  venne  in  mente  a  questo  singolare  cacciatore  di  libri 
un'idea  spettacolosa:  raccogliere  quante  più  edizioni  e  traduzioni  gli  fosse 
possibile  delle  opere  di  Dante,  e  insieme  quanti  più  scritti  gli  fosse  dato 
rintracciare  intorno  al  sommo  nostro  poeta.  Detto  fatto,  egli  riapre  a  questo 
intento  la  corrispondenza  coi  numerosi  librai  d'antiquaria  che  gli  forniscono 
la  loro  merce,  si  mette  in  viaggio  allo  scopo  di  rintracciare  le  maggiori  ra- 
rità, percorre  più  volte  dall' un  estremo  all'altro  l'Italia,  gira  buona  parte 
d'Europa,  ed  in  capo  ad  un  quinquennio  riesce  ad  inviare  alla  biblioteca 
della  Cornell  University  di  Ithaca  una  collezione  dantesca,  che  è  oggi  la  più 
copiosa  del  mondo.  Sono  circa  7000  i  volumi  di  cui  risulta,  senza  tener  conto 
delle  riviste,  degli  opuscoli  innumerevoli,  degli  estratti,  degli  articoli  rita- 
gliati, delle  fotografie.  Questa  è  davvero  una  americanata;  ma  del  miglior 
genere  !  Nella  prefazione  che  va  innanzi  al  catalogo  narra  il  Fiske  specifi- 
catamente, con  signorile  disinvoltura,  con  semplicità  modesta,  il  modo  con  cui 
venne  a  capo  di  questa  impresa,  affermando  di  non  aver  fatto  altro  che 
soddisfare,  con  immenso  diletto,  una  sua  ardente  passione,  la  bibliomania.  E 
in  quella  medesima  serrata  prefazione,  tanto  per  non  perder  tempo,  il  Fiske 
trova  modo  di  offrirci  una  serie  di  preziosi  dati  statistici  intorno  alla  diff'u- 
sione  del  culto  di  Dante,  che  paragona  al  favore  di  cui  godono  due  altri 
massimi  poeti,  Omero  e  Shakespeare.  Istruttivi  sono  pure  gli  elementi  di 
fatto  che  egli  ci  off're  circa  le  edizioni  e  le  traduzioni  del  poema.  Risulta, 
tra  l'altro,  da  quest'indagine,  che  delle  città  italiane  quelle  che  hanno  stam- 
pato Danto  più  volte  sono  anzitutto  Firenze  e  poi  Venezia:  mentre  meno  di 
ogni  altra  lo  ha  stampato  Roma.  All'estero  è  Parigi  la  città  che  ha  il  primato 
nelle  edizioni  del  testo  italiano  dell'opera  immortale. 

Mercè  il  mecenatismo  del  Fiske  l'Universitaria  d'Ithaca  possiede  oggi    la 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  443 

collezione  di  gran  lunga  più  ricca  che  esista  delle  opere  di  Dante  e  su  Dante. 
Rispetto  agli  scritti  critici  più  o  meno  recenti  l'indagine  fu  condotta  con 
tanta  cura,  che  poche  cose  davvero  vi  si  troveranno  mancanti,  e  chi  pensi 
quale  immane  congerie  di  studi  si  sia  venuta  accumulando  intorno  al  divino 
poeta  non  potrà  che  stupirne.  Le  lacune,  naturalmente,  sono  nella  parte  più 
antica:  per  esempio  delle  prime  nove  edizioni  della  Commedia^  alcune  tra 
le  quali  assolutamente  irreperibili,  la  collezione  Fiske  non  ne  possiede  che 
quattro,  ed  è  già  una  meraviglia,  quando  si  rifletta  che  pochi  tra  i  maggiori 
depositi  europei  ne  hanno  altrettante.  Alle  biblioteche  nostre,  segnatamente 
alle  fiorentine,  resta  pur  sempre  l'inapprezzabile  e  non  conseguibile  tesoro 
dei  testi  a  penna  danteschi;  ma  per  quel  che  riguarda  la  suppellettile  a 
stampa,  vuoi  di  testi,  vuoi  di  studi  critici,  nessuna  biblioteca  europea  può 
oggi  gareggiare  con  quella  della  Cornell  University.  Il  che  torna  a  grande 
elogio  del  Fiske,  perchè  a  condurre  a  termine,  in  cosi  breve  tempo,  una 
impresa  simile,  non  bastano  i  mezzi  non  misurati,  ma  sono  anche  necessarie^ 
molta  intelligenza  e  perseveranza  non  comune.  Non  dubitiamo  che  gli  Ame- 
ricani del  nord  sapranno  convenientemente  apprezzare  il  dono  principesco 
del  loro  connazionale  e  mostreranno  di  riconoscerlo  nella  maniera  più  nobile 
e  degna,  profittando  di  quel  ricchissimo  materiale  per  arricchire  sempre  più 
la  messe  dei  loro  utili  studi  sul  massimo  vate  italiano. 

Gli  è  appunto  il  bibliografo,  che  in  un  libretto  meritamente  festeggiato 
riferì  intorno  la  fortuna  dell'Alighieri  in  America  (1),  colui  che  compilò  il 
grandioso  catalogo  della  collezione  Fiske.  E  siamo  lieti  di  poter  aggiungere, 
senza  restrizione  alcuna,  che  questo  catalogo  del  Koch  è  vero  modello  di 
diligenza,  è  opera  bibliograficamente  insigne  e  quasi  perfetta.  La  Parte  I 
comprende  l'elenco  delle  edizioni,  così  della  Commedia  come  delle  opere 
minori,  schierate  in  ordine  cronologico,  e  l'elenco  delle  traduzioni  classificate 
a  seconda  delle  lingue.  La  voluminosa  (più  di  600  pagine  in  colonne  doppie 
fittissime  !)  Parte  II  contiene  in  ordine  d'alfabeto  le  Works  on  Dante,  ed  è 
un  magnifico  specchio  della  letteratura  storica  e  critica  intorno  all'Alighieri. 
Questa  parte  del  catalogo  ha  importanza  somma  anche  per  coloro  (quanti 
sono!),  che  non  potranno  mai  usufruire  dei  tesori  accumulati  ad  Ithaca, 
perchè  è  un  prontuario  bibliografico  di  singolare  ricchezza  e  precisione.  Con 
ottimo  pensiero,  il  K.  vi  ha  tenuto  conto  anche  delle  recensioni,  non  igno- 
rando come  esse  molte  volte  siano  di  grande  utilità  per  completare  o  emen- 
dare il  libro  di  cui  si  occupano.  L'arte  del  far  recensioni  è  venuta,  in  questi 
ultimi  anni,  sempre  più  progredendo  anche  nel  paese  nostro,  anzi  forse  più 
specialmente  nel  paese  nostro,  che  ormai  nella  serietà  e  copia  della  critica 
bibliografica  non  è  inferiore  a  verun  altro.  Quindi  il  registrare  le  recensioni, 
che  talora  racchiudono  osservazioni  e  dati  di  fatto  notevolissimi,  è  conforme 
alle  esigenze  dei  moderni  studi.  Se  in  seguito,  come  è  desiderabile,  o  il  Fiske 
medesimo,  o  la  direzione  della  Cornell  University  Library  continueranno  ad 
acquistare  gli  scritti  intorno  a  Dante,  che  vedranno  man  mano  la  luce,  ed 
il  Koch  farà  seguire  periodicamente  delle  appendici   alla  Parte  II   del   suo 


(1)  Cfr.  questo  Giornale,  XXXI,  155.  Più  estese  relazioni  del  Dante  in  America  si  leggono  nella 
Ross.  bibl.  della  leti,  ital.,  V,  268  sgg.  e  nella  Rivista  d'Italia  del  15  giugno  1898. 


444  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

catalogo,  noi  avremmo  dall'America  la  migliore  e  più  compiuta  bibliografia 
alighieriana  che  si  possa  desiderare. 

Il  Koch  ha  voluto  dare  al  pubblico  anche  più  di  quanto  gli  era  forse  pos- 
sibile ed  ha  abbozzato  in  fine  un  indice  per  soggetti.  In  esso  egli  si  riferisce 
agli  articoli  registrati  nella  P.  II  della  bibliografia;  ma  il  lavoro  è  riuscito 
deficiente.  Migliore  è  un  secondo  indice  in  cui  egli  segue  i  passi  più  discussi 
della  Commedia,  riferendosi  agli  autori  che  particolarmente  ne  han  trattato. 
Sebbene  non  la  pretenda  a  completo,  questo  elenco  renderà  non  pochi  ser- 
vigi agli  indagatori  delle  molte  questioni  esegetiche  e  storiche  suscitate  dal 
poema. 

Vantaggiosissima  è  pure  l'appendice  iconografica,  con  cui  l'opera  si  chiude. 
Essa  dà  l'elenco  dei  ritratti  di  Dante,  richiamando  la  letteratura  critica  che 
ad  essi  si  riferisce;  nota  le  opere  d'arte  antiche  che  servono  ad  illustrare  la 
Commedia,  non  che  i  mss.  miniati  di  essa;  termina  col  dar  notizia  di  molte 
opere  d'arte  moderna  inspirate  da  Dante  (1).  Dopo  le  opere  del  Volkmann, 
del  Bassermann,  del  Kraus,  del  Federn  non  sono  da  sperare  grandi  novità 
in  questi  elenchi  ;  ma  l'assetto  di  cataloghi  alfabetici  in  cui  son  presentati 
conferiscono  loro  singoiar  merito  di  comodità  nella  consultazione. 

Se  non  che,  lo  ripetiamo,  la  maggiore  benemerenza  consiste  nel  catalogo 
degli  scritti  su  Dante.  Quivi  le  indicazioni  sono  date  in  modo  cos'i  ingegnoso, 
che  si  raggruppano  intorno  a  certi  personaggi  quasi  in  forma  sistematica. 
Cosi,  ad  esempio,  sotto  Alighieri  Jacopo  e  sotto  Alighieri  Pietro  si  viene 
a  raccogliere  tutta  la  letteratura  che  concerne  i  due  più  celebri  figli  di  Dante; 
e  cosi  sotto  Compagni  è  riassunta  la  letteratura  sulla  discussa  cronaca  che 
ha  tanto  valore  per  i  tempi  del  poeta,  qualunque  sia  il  segreto,  non  peranco 
svelato,  della  sua  composizione;  e  così  pure  sotto  Botticelli  trovi  ogni  cosa 
che  serva  a  chiarire  il  più  geniale  tra  gli  illustratori  grafici  antichi  del  di- 
vino poema.  11  che  non  toglie  che  gli  scritti  medesimi  poi  ricompaiano,  con 
dati  bibliografici  più  precisi,  sotto  i  nomi  dei  singoli  loro  autori.  Se  difetto 
v'è  (osiamo  dire),  così  in  chi  raccolse  i  libri,  come  in  chi  compilò  il  catal(^o, 
esso  sta  nella  soverchia  abbondanza.  A  che  ed  a  chi  gioveranno  le  innume- 
revoli poesie  a  Dante,  a  Beatrice,  ecc.  ecc.,  che  hanno  qui  l'insperato  onore 
d'essere  rammentate?  Anche  nelle  stesse  imitazioni  del  poema,  la  soverchia 
larghezza  non  giova.  Il  F.  ed  il  K.  hanno  seguito  l'esempio  non  imitabile 
del  Del  Balzo,  che  registra  un  sonetto  e  talora  riferisce  una  canzone  intera 
solo  perchè  Dante  vi  è  nominato.  Ora  noi  ci  chiediamo  :  se  sono  registrati 
tanti  componimenti  in  cui  l'Alighieri  figura  solo  per  incidenza  o  in  cui  egli 
è  fiaccamente  imitato  da  verseggiatori  di  terz'ordme,  perchè  non  figurano 
nel  catalogo  anche  i  noti  poemetti,  che  Dante  imitano,  di  V.  Monti,  e  perchè 
non  vi  trovano  luogo  le  visioni  del  Varano?  l  bibliografi  sogliono  essere 
assai  materiali  ed  empirici  cultori  di  studi,  e  sebbene  tanto  il  K.  quanto  il  F. 


(1)  In  nn  opuscolo  a  parte  il  Koch  medesimo  diede  ana  Hatid-list  of  framed  reproducUont 
0/  pictures  and  portraitt  belonging  to  the  Dante  coUection,  Ithaca,  1900.  Come  il  titolo  dice, 
qui  sono  annoverate  le  riproduzioni  speciali  che  la  collezione  Fiske  possiede  di  ritraiti  e  dipinti. 
I  ritratti  di  Dante,  che  vi  figurano,  sono  18  ;  oltracciò  si  hanno  le  fotografie  d'  una  trentina  di 
pittare  moderne  inspirate  dal  poeta  sovrano.  La  parte  più  notevole  di  qaest' opuscolo  sta  nei 
riferimenti  storici  e  critici  intorno  ai  quadri  di  Dante  Gabriele  Bosseit). 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  445 

siano  vere  eccezioni  tra  i  bibliografi  più  illuminati,  a  siflFatto  empirismo  essi 
non  riuscirono  sempre  a  sottrarsi  del  tutto.  Cosi  è  avvenuto  loro  di  racco- 
gliere e  di  registrare  (ed  è  cosa  un  po'  umoristica  davvero)  fin  le  pubblica- 
zioni della  Società  Dante  Alighieri  (li,  440),  sebbene  riconoscano  «e  This 
«society  is  a  Dante  society  only  in  name»!  Ma  a  questa  stregua,  perchè 
non  tener  conto  anche  del  catalogo  della  Società  editrice  Dante  Alighieri  di 
Roma?  perchè  non  conservare  anche  gli  annuari  del  liceo  Dante  di  Na- 
poli? —  Volendo  abbracciare  troppo,  si  perde  il  concetto  vero  di  ciò  che 
importa.  E  tuttavia,  malgrado  codesta  strabocchevole  ricchezza,  questa  rac- 
colta ha  pure  le  sue  ommissioni,  che  saranno  colmate  in  seguito  agevolmente. 
Una  io  non  riesco  a  spiegarmela.  Si  registrano  a  buon  diritto  le  edizioni  di 
Dante  da  Maiano,  di  Guido  Cavalcanti  e  di  Gino  ;  perchè  invece  si  trascura 
compiutamente  quella  critica  del  Guinizelli  data  dal  Gasini?  E  indicandosi 
gli  studi  che  si  hanno  sul  Gesari  (I,  178-79),  perchè  sono  obliate  tutte  le 
oneste  ed  utili,  sebbene  apologetiche,  pubblicazioni  del   Guidetti? 

Di  errori  di  fatto  ne  notiamo  uno,  e  il  non  averne  noi  scoperti  altri  che 
meritino  il  conto  d'esser  segnalati  torna  a  grande  elogio  del  K.  Sotto  il  nome 
dell'amatissimo  nostro  Carlo  Merkel  è  fatta  una  deplorevole  confusione.  Ap- 
pare (ed  è  buffo)  che  a  p.  127  del  voi.  XVII  del  nostro  Giorn.  il  Grescini  ha 
recensito  l'artic.  su  Sordello  di  Gotto  e  Sordello  di  Marano^  che  il  Merkel 
inserì  solo  qualche  mese  appresso,  a  pp.  381  sgg.  dello  stesso  voi.  ^VII. 
Invece  la  recensione  anzidetta  riguarda  un  altro  lavoro  del  Merkel,  Sordello 
e  la  sua  dimora  presso  Carlo  1  d'Angiò^  pubblicato  per  nozze  Gipolla, 
opuscolo  sconosciuto  al  F.,  e  che  quindi  nel  presente  catalogo  non  figura.  Di 
pubblicazioni  nuziali,  del  resto,  parecchie  gli  sfuggirono,  ed  è  cosa  troppo 
facile  ad  intendersi.  R. 


NICOLA  SCARANO.  —  La  concubina  di  Titone.  Noterella  dan- 
tesca. -  Siena,  tip.  Gati,  1901  (16^  pp.  20). 

L'A.  di  questa  nota  riconosce  che  Dante  volle  descrivere,  non  l'aurora 
lunare,  ma  bensì  l'aurora  solare  al  Purgatorio,  cioè  nel  loco  ov  eravamo, 
come  il  Poeta  dichiara.  Ma  poi  cade  in  gravi  contradizioni  col  dire  che 
Dante,  pur  accennando  ai  passi  ed  alle  ali  della  Notte,  abbia  inteso  di  indi- 
care, invece  della  notte  personificata  da  Virgilio,  la  notte  vera  ossia  il  velo 
tenebroso  girante  su  la  terra,  oppostamente  al  sole.  Infatti  questo  velo  tene- 
broso né  sale  né  discende,  rispetto  alla  terra,  e  non  ha  né  piedi  né  ali. 

I  passi,  con  che  la  notte  personificata  sale,  sono  le  ore  che  decorrono  dalla 
mezzanotte  al  sorger  del  sole.  Invece  lo  Scarano  asserisce  che  ogni  passo 
della  notte  è  di  due  ore,  ossia  che  corrisponde  a  30°  di  longitudine  terrestre. 

Lo  Scarano  sbaglia  ancora  dicendo  che  il  Rizzacasa  ed  altri  hanno  sosti- 
tuito l'orizzonte  razionale  all'orizzonte  sensibile  del  Purgatorio.  Essi,  invece, 
hanno  sostituito  all'orizzonte  del  Purgatorio  un  orizzonte  ad  esso  ortogonale, 
senza  avvertire  che  Dante  dice  chiaramente  che  l'aurora  sorgeva  al  seno 
della  valletta  del  monte  del  Purgatorio.  Del  resto  l'orizzonte  sensibile  di  un 

GiornaU  storico,  XXXVIIl,  fase.  114.  29 


446  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

luogo  non  differisce  astronomicamente  in  modo  notevole   dall'orizzonte   ra- 
zionale. 

Osservo  inoltre  che  l'alba  (prima  fase  dell'aurora)  precede  il  sorger  del 
sole  non  di  un'ora,  ma  quasi  di  due  ore;  e  che  ci  vuole  molta  buona  fede 
per  credere  che  Dante  abbia  voluto  incoronare  l'Aurora  con  le  stelle  già 
evanescenti  della  Balena  e  che  di  questa  si  possa  dire  che  sia  il  freddo  ani- 
male che  con  la  coda  percuote  la  gente. 

Il  Poeta  volle  accennare  alla  costellazione  dello  Scorpione,  la  quale  stava, 
non  intorno  alla  fronte,  ma  di  fronte  all'Aurora. 

Conchiudo  consigliando  coloro  che  vogliono  occuparsi  di  astronomia  dan- 
tesca, a  leggere  anche  le  relative  note  di  P.  Gambèra,  inserite  negli  Atti 
della  R.  Accademia  delle  Scienze  di  Torino^  voi.  XXXV  e  XXXVI. 

P.  G. 


GIOVANNI  RIZZAGASA  WQ^^(^Qi^k,  —  V aiuola  che  ci  fa  tanto 
feroci  (G.  XXII  e  XXVII  del  Paradiso).  —  Sciacca,  tip.  B.  Gua- 
dagna, 1901  (8%  pp.  43,  con  due  tavole). 

L'A.  di  questo  opuscolo  riconosce  che  Dante  dai  Gemelli  non  poteva, 
trovandosi  il  sole  in  Ariete,  abbracciare  con  un  solo  sguardo  la  terra  che 
emerge  su  l'emisfero,  che  ha  per  vertice  Gerusalemme,  ed  anche  il  varco 
folle  d'Ulisse  sopra  l'Oceano  Atlantico.  Ma  poi  trascura  la  mia  nota  Sulla 
scienza  cosmologica  di  Dante^  pubblicata  l'anno  scorso  (Atti  della  R.  Ac- 
cademia delle  Scienze  di  Torino,  voi.  XXXV).  E  però  cade  in  molti  errori, 
dei  quali  mi  limito  ad  indicare  i  più  gravi: 

i"  Dante  dice  che,  girando  coi  Gemelli  e  guardando  due  sole  volte  la 
terra,  vide  tutto  il  mondo  allora  conosciuto  ed  il  folle  varco  d'Ulisse.  Ma  il 
R.  gli  fa  guardare  la  terra  tre  volte  e  fa  durare  il  primo  sguardo  2  ore  e 
24  minuti  ! 

2*  Il  Poeta  narra  che  sal'i  nel  segno  dei  Gemelli  (dentro  da  essOy  nel 
bel  nido  di  Leda).  Invece  il  R.,  seguendo  l'Angelitti,  lo  colloca  fra  il  segno 
del  Toro  e  quello  dei  Gemelli. 

8»  Il  R.,  accennando  al  principio  della  visione  dantesca,  non  accetta  la 
data  sostenuta  dall'Angelitti  (25  mar/o  1301),  ma  sceglie  l'S  aprile  1300, 
invece  della  sera  del  giorno  precedente  (giovedì  santo). 

40  II  fittizio  viaggio  di  Dante,  dalla  selva  oscura  sino  alla  costellazione 
dei  Gemelli,  durò  quasi  otto  giorni  e  non  già  sei  giorni,  come  crede  il  Riz- 
zacasa. 

5°  Questi  crede  inoltre  che  Dante  abbia  seguito,  non  il  calendario  giu- 
liano, ma  bensì  quello  della  Chiesa,  la  quale  invece  riformò  quel  calendario 
quasi  duecento  anni  dopo. 

6®  11  R.  seguendo  i  cementatori,  dice  con  l'Angelitti  che,  secondo  Dante, 
correrebbero  90°  di  longitudine  da  Cadice  a  Gerusalemme  e  altrettanti  gradi 
da  Gerusalemme  alla  foce  del  Gange.  Invece  il  nostro  Poeta  smentì  questo 
errore  tradizionale,  come  è  chiaramente  dimostrato  nelle  mie  note  dantesche. 
Dante  seppe  da  Tolomeo  e  meglio  da  Marco  Polo,  il  quale  navigò  sino   al 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  447 

lido  orientale  dell'Asia,  che  questa  si  estende  più  di  30°  ad  oriente  dalla 
foce  del  Gange.  E  però,  dicendo  egli  che  il  continente  allora  conosciuto  si 
trova  tutto  su  l'emisfero  che  ha  per  vertice  Gerusalemme  (/n/*.,  XXXIV, 
115-124),  volle  correggere  l'antica  opinione  che  da  Gerusalemme  al  Gange 
corressero  90o  di  longitudine. 

7°  Osservo  finalmente  che  la  soluzione,  proposta  dal  R.,  del  quesito 
cosmologico  di  Dante,  richiede  che  il  primo  clima  abbia  fine  a  36°  di  lon- 
gitudine dal  meridiano  di  Cadice,  il  che  è  assurdo,  perchè  il  Poeta,  come  è 
dichiarato  nel  Convito,  intende  per  primo  climate  la  zona  torrida.  Il  R.  con- 
tradice a  tutti  i  commentatori,  affermando  che  Dante  non  si  trovava  sopra 
il  meridiano  di  Cadice,  quando  dai  Gemelli  guardò  per  la  seconda  volta 
la  terra. 

11  R.  fa  seguire  al  suo  opuscolo  un'  appendice  con  la  quale  crede  di  com- 
battere il  Moore  e  me,  perchè  non  abbiamo  approvato  il  suo  commento  sulla 
Concubina  di  Tifone. 

Egli  si  vale  contro  di  me  di  un  giudizio  dell'astronomo  Angelitti,  il  quale, 
mentre  scusa  Dante  con  la  pretesa  ignoranza  de'  suoi  tempi,  mi  rimprovera 
due  mende  e  pretende  che  io  dovessi  trattare  di  astronomia  dantesca  con  la 
precisione  che  si  può  dedurre,  non  dalla  sfera  armillare,  ma  da  calcoli  tri- 
gonometrici. 

11  R.  conchiude  che  io,  non  abbastanza  compreso  dagli  astronomi  con- 
temporanei, avrò  scritto  per  i  posteri.  E  però  rispondo  che  fra  gli  astronomi 
contemporanei  non  posso  comprendere  un  professore  di  rettorica,  non  ostante 
che  dall'Angelitti  e  da  M.  Porena  sia  stato  giudicato  degno  del  sorriso 
della  famosa  Concubina  di  Titone.  P.  G. 


VINCENZO  GRESGINI.  —  Varietà  filologiche.  I.  Di  una  presunta 
testimonianza  del  secolo  VII  circa  il  volgare  italiano.  —  II.  Ap- 
punti boccacceschi.  Estratto  dagli  Atti  del  R.  Istituto  veneto 
dì  scienze,  lettere  ed  arti.  —  Venezia,  tip.  Ferrari,  1901  (8% 
pp.  16). 

Il  C.  comincia  col  riassumere  le  conclusioni  del  Novati  intorno  a  quel 
noto  passo  della  vita  di  S.  Mommoleno  (cfr.  Rendiconti  del  R.  Istituto  Lom- 
bardo, S.  II,  voi.  XXXIII),  che  mostra  costui  erudito  «  non  tantum  in  teu- 
«  tonica,  sed  etiam  in  romana  lingua  »  :  mentre  la  redazione  più  antica  diceva 
invece  ch'egli  «  et  latina  et  teutonica  praepoUebat  facundia  ».  Privato  cosi 
il  volgare  di  questa  remota  testimonianza,  un'altra  più  interessante  per 
l'Italia  trovò  il  N.  in  un'epistola  di  S.  Columba  a  Bonifazio  IV.  Il  passo  in 
questione  è  il  seguente:  «  Sed  talia  suadenti  utpote  torpenti  aetu,  ac  dicenti 
«  potius  quam  facienti  mihi  Jonae  hebraice,  Peristerae  graece,  Columbae  la- 
«  ti  ne,  potius  tantum  vestrae  idiomate  linguae  nancto  licet  prisco  inter 
«  hebraeo  {sic)  nomine  cuius  et  pene  naufragium  subivi,  veniam,  quaeso, 
«  sicut  saepe  rogavi,  date  ».  Il  N.  emendando  tantum  in  tamen,  interpretò  : 
<  Concedete,  ve  ne  supplico,  perdono  a  me che  son  Jona  in  ebraico,  Pe- 


448  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

«  risiera  in  greco,  Colomba  in  latino,  o  piuttosto  tuttavia  nel  parlar  volgare 
«  della  lingua  vostra  ;  »....  ecc.  A  questo  modo  si  avrebbe  qui  un  accenno  ad 
un  volgar  neolatino  contrapposto  al  latino;  ed  il  N.  ne  .spiegò  la  possibilità. 
Il  G.  nega  invece  che  il  monaco  irlandese  potesse  avvertir  così  chiaramente 

quella  differenza  e  legge  :  « a  me  che  sono  .Iona  in  ebraico,  Peristera  in 

«  greco,  Golumba  in  latino,  anzi  soltanto  [Golumba]  secondo  l'uso  della  vostra 

€  lingua  » ecc.;  senza  emendare  il  testo.  Intende  così  che  Golumba  volesse 

mettere  in  rilievo  il  suo  nome  latino:  <  si  capisce  eh  egli  pensasse  al  latino 
<  solenne,  al  latino  letterario,  dal  papa  e  dalla  curia  ufScialmente  adoperato: 
«  non  ci  si  spiega  invece  ch'ei  potesse  alludere  all'umiltà  del  dialetto  ». 

Ma  secondo  noi,  in  quel  passo  vanno  sopratutlo  osservate  tre  cose.  È  pos* 
sibile  che  un  frate  medioevale  chiami  il  latino  «  idioma  testrae  linguae  », 
mentre  è  anche  la  lingua  della  sua  cultura  e  del  suo  uso  quotidiano?  E 
idioma  linguae  non  è  la  lingua  stessa:  che  nell'uso  del  M.  E.  si  riferisse 
al  dialetto,  ha  mostrato  il  N.  Infine,  la  frase  è  disposta  in  modo  che  il  latine 
e  quel  che  segue  sembran  proprio  indicare  due  termini  contrapposti.  Gitar 
dopo  quelle  lingue  illustri  l'umile  volgare  italiano  sarebbe  forse  un  pensiero 
d'adulazione  per  il  papa  ch'era  nativo  d'Abruzzo?  Non  mi  par  dubbio  che 
per  queste  ragioni  l'interpretazione  del  N.  abbia  maggiori  probabilità  di  vit- 
toria, anche  se  non  accolta  da  un  maestro  quale  G.  Paris  (Romania^  1900, 
pp.  638-9),  che  intese  «  appelé  de  pféférance  de  la  fagon  propre  à  votre 
«  langue,  c'est-à-dire  du  nom  latin  de  Columba  ».  E  forse  quello  stesso 
emendamento  del  tantum,  sebbene  nulla  vi  si  opponga,  può  esser  tralasciato 
senza  che  il  significato  complessivo  abbia  a  soffrirne.  La  traduzione  poi  che 
del  licei  dà  il  G.  è  forse  da  preferire  a  quella  del  N.,  ma  nemmen  questo 
influisce  sul  senso  del  passo  immediatamente  superiore. 

Nella  seconda  comunicazione  il  G.  prende  le  mosse  da  un  mio  articolo 
sulle  fonti  della  Teseide ,  pubblicato  in  questo  Giornale,  36,  57  sgg. 
Riguardo  al  tempo  della  composizione  che  io  credetti  attribuire  ancora  al 
periodo  napoletano,  il  G.  non  è  lontano  dal  convenire  con  me:  €  la  Teseide 
«potrebbe  dunque  essere  stata  messa  insieme  a  Napoli  tra  il  1339  e  il  1340». 
Ghe  il  Boccaccio  anche  trovandosi  a  Napoli  volesse  riducere  nella  faticata 
mente  l'immagine  di  Fiammetta  si  spiega  pensando  al  turbato  aspetto  di  lei 
che  lo  teneva  lontano;  del  resto,  si  tratta  d'una  frase  sentimentale  a  cui  non 
va  data  troppa  importanza. 

In  nuova  prova  dell'ibridismo  di  elementi  classici  e  cavallereschi  nel  poema 
il  G.  aggiunge  qualche  utile  riscontro.  Arcita  che  serve  in  corte  di  Teseo  e 
si  lamenta  nel  bosco  gli  rammenta  ancora  Jourdain  de  Blaye.  L'episodio  del 
Méraugis  in  cui  il  protagonista  combatte  con  l'amico  Gorvain  per  amor  di 
Lidoine  che  poi  li  separa,  ha  qualche  somiglianza  col  duello  della  Teseide: 
ma  pur  tenendo  conto  di  questo  riscontro,  non  credo  di  dover  rinuntitre 
all'altro  che  ci  offre  il  Roman  de  Thèbes»  del  quale  siam  sicuri  almeno  che 
il  Boccaccio  lo  conosceva.  In  ogni  modo  il  C.  conchiude  rettamente  che 
€  la  rivalità  amorosa  di  Arcita  e  Penteo,  dianzi  strettamente  congiunti  da 
«  profondo  affetto e  la  scena  del  loro  duello  non  solo  corrispondono  vaga- 
ci mente  allo  spirito  del  M.  E.,  ma  riscontrano  con  qualcuno  dei  romanzi 
«cavallereschi  di  quell'età  ».  E  questo  prova  sempre  meglio,  io  credo,  che 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  449 

il  Boccaccio  non  ebbe  una  fonte  unica.  Un'  idea  venutagli  dal  Roman  l'avrà 
seguita,  perchè  anche  racconti  cavallereschi  gli  offrivano  scene  dello  stesso 
genere.  Sono  appunto  queste  continue  reminiscenze  cavalleresche  che  ci  fan 
dubitare  dell'intenzione  classica  che  per  molti  dovrebbe  avere  ispirata  la 
Teseide.  Al  Wiese  piacque  di  rammentarmi  i  versi 

Ma  tu,  mìo  libro  a  lor  [alle  Muse]  primo  cantare 
Di  Marte  fai  gli  affanni  sostenuti, 
Nel  rolgar  lacio  mai  non  più  veduti; 

in  prova  che  il  poeta  voleva  «  thatsàchlich  ein  Kunstgedicht  im  klassischen 
€  Style  schreiben  ».  Quei  versi  li  conoscevo  anch'  io  abbastanza  per  sapere 
che  non  debbono  necessariamente  esprimere  quel  che  il  Wiese  intende,  e 
possono  riferirsi  ad  un  qualunque  poema  epico  o  cavalleresco.  Ma  se  pure 
il  Boccaccio  vi  mostrasse  un  suo  proposito  di  tornare  ai  modelli  classici,  che 
cosa  importa,  se  poi  l'opera  è  condotta  in  tutt'altro  modo? 

P.  S.  L. 


BENEDETTO  CROCE.  —  Giambattista  Vico  primo  scopritore 
deW estetica.  Estr.  dalla  Flegrea,  5  e  20  aprile  i901.  —  Napoli, 
1901  (8«,  pp.  46). 

E  noto  ormai  a  tutti  gli  studiosi  di  cose  letterarie  e  filosofiche  che  Bene- 
detto Croce,  un  ricercatore  che  pensa  e  un  pensatore  che  ricerca,  ha  rivolto 
da  parecchio  tempo  la  sua  mirabile  attività  alla  storia  e  alla  scienza  del- 
l'estetica; e  da  lui  s'attende  con  desiderio  un  libro  che  avrà  doppio  interesse, 
teoretico  e  storico,  perchè  conterrà,  di  quella  scienza,  lo  svolgimento  nel 
passato  e  i  principi  moderni. 

Di  tal  libro  lo  studio  che  qui  si  annunzia  è  l'ultimo  saggio  (1),  e  saggio 
importante,  perchè  traccia  a  larghi  tratti  il  corso  delle  idee  sulla  natura 
dell'arte  dall'antichità  greco-latina  fino  al  Vico,  che  fu,  secondo  il  Croce,  il 
primo  e  vero  scopritore  dell'essenza  dei  fatti  estetici. 

Due  concetti  —  dimostra  l'A.  —  spuntati  entrambi  nell'antichità,  ed  en- 
trambi insufficienti  e  falsi,  stanno  per  secoli  e  secoli  in  fondo  a  tutte  le  dot- 
trine estetiche  che  via  via  si  succedono  e  si  rassomigliano:  il  concetto  della 
mimesi,  che  riduce  l'arte  a  imitazione,  e  il  concetto  pedagogico  o  didattico, 
che  assegna  all'arte  un  fine  dottrinale,  precettivo.  Su  tali  basi  sorge  la  poe- 
tica del  Rinascimento;  e  se  nell'antichità  qualcuno,  come  Filostrato, accenna 
a  prescindere  dalla  mimesi;  o  se  nel  Rinascimento  qualche  altro,  come  il 
Castelvetro,  rinunzia  alla  finalità  pedagogica  dell'arte,  e  considera  questa  come 
semplice  mezzo  di  diletto,  prevalgono  lungamente  le  idee  derivate  dal  prin- 
cipio che  l'arte  è  imitazione  della  natura,  e  che  il  più  alto  segno  di  perfe- 
zione ch'essa  possa  toccare  stia  in  quella  mescolanza  d'utilità  e  di  dolcezza 


(1)  Veramente  ultimo  come  saggio  del  libro  annunziato,  ma  non  ultimo  come  saggio  dei  mol- 
teplici studi  del  Croce  intorno  al  cammino  delle  idee  estetiche;  perchè  nella  Raccolta  di  stttd* 
critici  dedicata  ad  A.  D'Ancona  (Firenze,  Barbèra,  1901,  p.  457)  il  Croce  ha  trattato  Di  alcuni 
giudizi  sul  Gravina,  considerato  come  estetico. 


450  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

prescritta  da  Orazio.  Il  seicento  incomincia  ad  uscire  da  questa  cerchia  ri- 
strettissima d'idee;  non  foss'altro,  comincia  ad  usare  parole  nuove  nel  dar 
giudizi  0  precetti  d'arte  :  ingegno,  gusto,  imaginazione,  fantasia,  senti' 
mento,  ecc.;  ma  o  i  nuovi  vocaboli  coprono  in  fondo  concetti  tradizionali,  o 
son  d'uso  fluttuante  e  di  significazione  incerta;  e  così,  mentre  il  seicento 
abbandona  le  formolo  del  Rinascimento  e  presente,  oscuramente,  la  vera  na- 
tura  dell'arte,  non  fonda  la  scienza  estetica,  come  (per  farla  breve,  e  dire  in- 
vece qualche  cosa  di  quella  parte  dell'opuscolo  che  più  direttamente  tocca 
gli  studi  nostri)  non  la  fondò  il  Baumgarten.  Egli  trovò,  è  vero,  il  vocabolo; 
ma  il  Vico,  prima  di  lui,  aveva  trovato  la  cosa. 

Questa  è  la  tesi  del  Croce.  Per  dimostrarla  egli  osserva  che  il  Vico  con- 
sidera l'arte  come  fatto  dello  spirito  umano  e  suo  primo  prodotto;  prodotto 
dell'attività  fantastica,  non  dell'attività  intellettuale  o  razionale;  che  anzi 
fantasia  e  speculazione  sono  cose  non  soltanto  distinte,  ma  opposte;  questa 
crea  le  astrazioni  (dirò  per  riassumere  nella  espressione  più  breve  il  concetto 
vichiano),  quella  le  imagini.  Tale  principio  effettivamente  ricorre  molto  spesso 
nella  Scienza  Nuova  (!■'  e  2*),  e  in  altri  scritti  del  Vico,  e  riceve  da  lui 
varie  applicazioni  e  vari  svolgimenti;  men  frequente  è  invece  l'altro  principio 
(raccolto  dal  C,  p.  39,  nella  *S.  N.,  1»)  che  tutta  ideale  dev'essere  l'ottima 
favola  poetica,  e,  aggiungerò,  non  facilmente  conciliabile  con  l'altro  che 
poesia  e  storia  nelle  età  primitive  si  confondono,  e  che  le  prime  favole  fu- 
rono narrazioni  vere. 

Innegabile  è  anche  che  il  Vico  afferma,  compiacendosene,  l'opposizione 
dei  suoi  nuovi  principii  della  poesia  con  «  quelli  da  Platone  e  dal  suo  sco- 
«  laro  Aristotile, —  da' Patrizi,  dagli  Scaligeri  e  da  Castel  vetro  imaginati  »; 
ma  tutto  ciò  non  prova  ancora  all'evidenza  ch'egli  rinunciasse  interamente 
e  risolutamente  a  que'  due  concetti  capitali  che  il  Croce  ritrovò  in  fondo  a 
tutte  le  vecchie  poetiche,  e  che  egli  considera  come  i  più  gravi  inciampi  al 
sorgere  della  scienza  estetica. 

Infatti  (mi  restringo  a  due  esempì,  perchè  mi  pare  che  bastino)  il  Vico 
non  nega,  anzi  esplicitamente  aderisce  al  principio  fondamentale  della  mi- 
mesi, quando  ripete: 

€  I  fanciulli  vagliono  potentemente  nell'  imitare;  perchè  li  osserviamo 
€  per  lo  più  trastullarsi  in  assembrare  ciò  che  son  capaci  d'apprendere  *. 

«  Questa  Degnità  dimostra,  che  il  Mondo  fanciullo  fu  di  nazioni  poetichey 
a  non  essendo  altro  la  Poesia,  che  Imitazione  ». 

«  E  questa  Degnità  daranno  il  Principio  di  ciò,  che  tutte  l'Arti  del  n«- 
€  cessario^  utile,  comodo,  e  in  buona  parte  anco  dell'umano  piacere,  si  ri- 
«  trovarono  ne' Secoli  Poetici,  innanzi  di  venir  i  Filoso/i:  perchè  l' A r/»  non 
«  sono  altro  ch'imitazioni  della  Natura,  e  Poesie  in  certo  modo  reali  »  (1). 

È  chiaro?  L'arte  segue  la  natura  come  il  maestro  fa  il  discente.  Quanto 
poi  al  fine  pedagogico  dell'arte,  non  è  nemmeno  certo  che  il  Vico  lo  ripu- 
diasse. Distingue  egli  bensì  scienza  da  poesia,  anzi  le  dichiara  inassociabili 
e  contrarie;  ma  distingue  anche  la  sapienza  propriamente  detta  (filosofica) 
dalla  sapienza  pratica  (poetica);  e  «  tre  lavori  deve  fare  la  Poesia  grande^ 


(1)  Seiéiua  Xttota,  L.  I,  Degli  SUimnti,  Dignità  HI. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  451 

cioè  deve  ritrovare  Favole  sublimi,  confacenti  q\V intendimento  popolaresco^ 
«  e  che  perturbi  all'eccesso,  per  conseguir  il  fine^  ch'ella  si  ha  proposto, 
«  (Tinsec/nar  al  volpo  a  virtuosamente  operare  »  (1). 

E  anche  questo  è  chiaro. 

Il  G.  chiudeva  il  dotto  ed  acuto  suo  studio  così  :  «  Altri  rifaccia  la  mia 
«  indagine  e  controlli  il  risultato,  e,  se  gli  sembra  erroneo,  lo  corregga.  L'ar- 
«  gomento  merita  che  vi  si  spenda  intorno  qualche  fatica  ».  Ebbene,  io  non 
credo  che  nel  lavoro  del  G.  vi  sia  molto  da  correggere;  credo  invece  ch'egli 
avrebbe  ben  fatto  (a  costo  di  scoprire  qualche  contraddizione  e  incertezza 
nel  pensiero  del  Vico,  e  di  scemargli  importanza)  di  porre  in  luce,  oltre  ai 
principi  coi  quali  il  pensatore  —  o  divinatore  —  napoletano  anticipa  i  tempi, 
anche  quegli  altri  pei  quali  rimane  attaccato  alle  opinioni  correnti  del  suo 
secolo.  Km.  B. 


ETTORE  MAURO.  —  Un  umorista  del  seicento.  Vincenzo  Braca 
salermitano,  la  vita  e  gli  scritti.  —  Salerno,  tip.  Nazionale, 
1901  (8%  pp.  xi-205). 

Del  salernitano  Vincenzo  Braca,  autore  di  farse  cavaiole,  fece  cenno  l'Al- 
lacci nella  Drammaturgia  (1666)  su  notizie  fornitegli  dal  Tutini,  il  Toppi 
nella  Biblioteca  Napoletana  (1678),  il  Tafuri  nelle  sue  Biografie  (1772);  ma 
lo  studiò  pel  primo  il  Torraca  (Studii  di  storia  letteraria  napoletana),  il 
quale  ne  pubblicò  anche  una  delle  inedite  farse  (La  scola  cavaiola)  come 
pubblicò  l'altra  della  Ricevuta  dell'Imperatore  alla  Cava,  eh'  è  unita  alle 
opere  di  lui  :  altre  notizie  ed  osservazioni  furono  aggiunte  dal  Groce  (Teatri 
di  Napoli).  Il  M.  gli  consacra  ora  un  ampio  studio  ed  esauriente.  Dopo  aver 
descritto  in  un'  introduzione  i  due  codici  contenenti  le  opere  del  Braca  con- 
servati nella  Nazionale  di  Napoli,  e  riassunto  in  un  primo  capitolo  ciò  che 
si  sa  dell'origine  delle  farse  cavaiole,  nel  cap.  Il  il  M.  raccoglie  dalle  sparse 
testimonianze  dell'autore  e  giovandosi  dei  fuochi  di  Salerno  e  di  Gava,  delle 
carte  della  scuola  salernitana  e  di  altri  documenti  e  stampe  del  tempo,  alcuni 
cenni  biografici  sul  Braca,  del  quale  finora  si  sapeva  appena  il  nome.  Il  Ta- 
furi (alle  cui  parole  forse  il  M.  dà  soverchio  peso)  lo  aveva  fatto  fiorire 
circa  il  1552 1  Risulta  invece  dai  documenti  che  nacque  a  Salerno  nel  1566, 
figlio  di  un  Gostantino  ;  sposò  un'Angela  Gorbellese,  dalla  quale  ebbe  pa- 
recchi figliuoli:  si  laureò  medico  nella  scuola  salernitana  fra  il  1593  e  il 
1596  :  sembra  che  prendesse  poi  anche  la  laurea  in  legge  a  Napoli  :  coprì 
più  volte  uflficii  pubblici  nella  sua  città  natale;  ebbe  tra  i  suoi  amici  e  cor- 
rispondenti l'avvocato  Lorenzo  de  Franchis,  il  conte  di  Gonza  Emmanuele 
Gesualdo,  e  il  medico  Pietro  de  Ruggiero  :  nei  suoi  scritti  appaiono  le  date 
di  composizione  del  1597,  1603  e  1604,  e  l'ultima  del  1625.  Poco  dopo  quel 
tempo,  egli  veniva  assassinato  e  moriva  in  casa  di  un  amico,  probabilmente 
il  De  Ruggiero,  «  molto  cattolicamente,  remettendo  sempre  a  quello  che  lo 
«  haveva  ammazzato,  et  ordinò  che  no  se  querelasse  ».  Per  quanto  la  fan- 


ti) hi,  L.  II,  Della  metafisica  poetica. 


452  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

tasia  possa  essere  tratta  a  vedere  in  questa  fine  tragica  la  vendetta  di  quei 
Gavesi,  da  lui  beffeggiati  in  modo  insistente  ed  implacabile  nelle  sue  com- 
posizioni, e  quasi  l'adempimento  di  una  profezia  scherzosa  che  ricorre  nei 
suoi  scritti,  dove  spesso  si  rappresentano  agguati  e  minacce  di  morte  fattegli 
dai  suoi  perseguitati  ;  la  verità  è,  che  delle  cagioni  dell'uccisione  del  Braca 
non  si  sa  nulla;  e  che  morire  ammazzato  era  una  fine  assai  frequente  a 
quei  tempi,  dovuta  a  cagioni  talora  assai  futili.  Ed  un  motivo  comico-fan- 
tastico, più  che  effusione  di  un  odio  reale,  dovette  essere  forse  la  sua  satira 
contro  i  Gavesi  :  con  la  quale  egli  proseguiva  e  coltivava  una  tradizione  let- 
teraria già  antica  di  almeno  un  secolo,  e  tanto  più  volentieri  in  quanto  era 
nativo  di  quella  città  di  Salerno,  perpetua  rivale  della  prossima  Cava.  Il  M. 
divide  acconciamente  tutta  la  produzione  che  ci  resta  del  Braca  in  tre 
gruppi:  produzioni  di  natura  drammatico-satirica ;  di  natura  idillico-giocosa; 
di  genere  didascalico-satirico.  Al  primo  gruppo  appartengono  le  due  farse, 
della  Maestra  e  del  Mastro,  che  mettono  in  iscena  una  goffa  scuola  di 
ragazze  e  una  non  meno  goffa  di  fanciulli:  i  Sautabanchi,  sui  ciarlatani  di 
piazza;  le  Concrusones,  disputa  di  tesi  di  dottorato,  con  l'immancabile  ac- 
cusa portata  dai  Gavesi  contro  il  Braca:  gl'intermedii  dei  cacciaturi,  del 
naufragio,  dei  forenzuti,  del  portare  Saliamo  a  la  Cava,  della  presonia 
de  Vraca,  della  liberazione  del  medesimo,  della  guerra,  dei  soldati  che 
vanno  alloggiando,  della  venuta  del  conte  di  Miranda  (viceré)  a  Salerno; 
e,  finalmente,  il  Processus  criminnlis  e  le  Allegationes  in  causa  Bracae. 
Al  secondo  gruppo  l'Arcadia  Cavota,  parodia  di  quella  del  Sannazaro,  e  le 
canzoni.  Al  terzo,  i  prognostici  e  i  capitoli,  questi  ultimi  non  privi  d'in- 
teresse per  la  conoscenza  del  carattere  e  dei  sentimenti  dell'autore.  Resta 
fuori  la  farsa  della  Ricevuta  dell'Imperatore  alla  Cava,  che,  per  le 
ragioni  addotte  dal  Torraca  e  dal  Groce,  è  da  ritenere  certamente  compo- 
sizione anteriore  alla  nascita  del  Braca,  da  costui  forse  rimaneggiata  o 
elaborata,  come  non  è  da  escludere  che  facesse  con  qualcuna  delle  altre 
farse  cavaiole  e  degli  intermedii  accolti  nella  collezione.  Di  tutte  le  pro- 
duzioni sopra  indicate  il  M.  dà  ottime  esposizioni,  esatte  e  chiare,  con 
riferimento  dei  brani  salienti:  diventa  quasi  superflua,  dopo  questo  suo 
diligente  lavoro,  la  pubblicazione  integrale  dei  manoscritti  del  Braca.  In 
un  ultimo  capitolo  esamina  «  la  lingua  dèlie  opere  del  Braca  ».  Né  lo  studio 
amoroso  che  egli  vi  ha  posto  mena  il  M.  a  gonfiare  il  merito  letterario  di 
queste  opere:  piuttosto  deve  dirsi  che,  seguendo  una  certa  tendenza  patriot- 
tico-moralistica,  ne  esageri  non  poco  il  significalo  politico  e  morale.  Presen- 
tare il  Braca  come  uno  scrittore  ribelle  e  caustico  contro  i  suoi  tempi  e  i 
mali  della  dominazione  straniera;  vedere  nella  farsa  della  Ma«5fra  la  satira 
contro  l'avvilimento  della  donna  e  della  dignità  umana,  dell'ufficio  d'inso- 
gnante e  dell'autorità  maritale;  e  nei  Sautabanchi,  quella  della  ciarlatanerìa 
scientifica,  o  nelle  Concrusones,  quella  della  scolastica  e  dell'aristotelismo, 
0  nel  Processu§,  del  vacuo  e  tronfio  dottorato  e  dei  procedimenti  giudiziarii 
e  delle  forme  curialesche  di  allora;  son,  di  certo,  esagerazioni.  Ghe  il  M.  lo 
dica  umorista,  passi  pure  :  negli  scritti  del  Braca  c'è  veramente  una  vena 
di  tristezza  e  di  pessimismo;  ma  alla  satira  propria  non  ci  pare  ch'egli  si 
elevi  mai.  Bisogna  riconoscere,  del  resto,  che  il  Braca  è,  spesso,  descrittore 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  453 

fresco  ed  arguto:  i  suoi  cavati^  i  suoi  maestri,  i  suoi  soldati,  i  suoi  dottori, 
non  mancano  di  vivacità.  Nell'umile  materia  ch'egli  elabora,  ha  il  suo  va- 
lore. E  per  questo,  e  per  l'interesse  filologico,  e  per  gli  accenni  ai  costumi 
del  tempo,  meritava  una  trattazione  speciale,  e  si  deve  lode  al  M.  di  averla 
ben  condotta  a  termine.  B.  C. 


L.  A.  MURATORI.  —  Epistolario  edito  e  curato  da  Matteo 
Gampori.  Voi.  I.  —  Modena,  Soc.  tipogr.  modenese,  1901 
(8"*  gr.,  pp.  Lxxvi-364,  con  ritratto  e  facsìmili). 

Degno  discendente  d'una  famiglia  illustrata  da  egregi  studiosi  si  addimostra 
in  vero  il  march.  Matteo  Gampori  con  l'impresa  a  cui  arditamente  ed  amo- 
rosamente si  è  accinto.  Già  nel  1892  egli  pubblicò  il  carteggio  fra  il  Mu- 
ratori ed  il  Leibniz,  e  n'  ebbe  lode  meritatissima.  Da  anni  ora  attende  a 
metter  insieme  l'epistolario  del  padre  della  nostra  storia,  ed  il  primo  volume 
di  quest'opera,  severa  ed  in  un  signorile  nell'assetto  tipografico,  possiamo 
ben  dire  che  corrisponde  pienamente  all'aspettativa  degli  studiosi. 

Nell'acconcia  prefazione  il  G.  dà  conto  delle  fatiche  da  lui  durate  per 
raccogliere  l'immenso  materiale,  tocca  di  alcune  maggiori  o  più  antiche 
sillogi  di  lettere  rauratoriane,  accenna  ai  depositi  ove  si  trova  il  maggior 
numero  delle  inedite,  dà  la  bibliografia  delle  lettere  del  Muratori  che  sinora 
erano  a  stampa  (bibliografìa  che  consta,  nientemeno!,  di  300  numeri  (1)), 
pubblica,  con  ottimo  pensiero,  una  progressiva  cronobiografia  muratoriana, 
desunta  dai  dati  delle  lettere,  che  in  questo  primo  volume  va  dalla  nascita 
del  M.  (1672)  al  1698.  Le  315  lettere,  infatti,  del  volume  stanno  racchiuse 
tra  il  1691  ed  il  1698. 

Gli  studiosi  sanno  come,  anni  sono,  dopoché  da  molte  parti  s'era  espresso 
il  desiderio  di  avere  a  stampa  le  lettere  del  Muratori,  si  accingesse  all'im- 
presa, con  memorando  coraggio,  A.  G.  Spinelli,  il  quale  nel  giro  di  un  de- 
cennio giunse  a  raccogliere  circa  3000  lettere  edite  ed  un  migliaio  di  inedite. 
Di  esse  egli  stampò  una  ben  congegnata  bibliografia;  ma  gli  furono  tarpate 
le  ali  a  far  più,  perchè  non  gli  venne  mai  permesso  di  valersi  del  prezioso 
archivio  Soli-Muratori,  gelosamente  custodito  in  Modena.  Lo  Spinelli,  a  cui 
si  deve  pur  sempre  non  poca  riconoscenza  per  la  bella  iniziativa,  cedette 
al  G.  il  materiale  da  lui  raccolto,  ed  il  G.  lo  accrebbe  ed  ottenne  finalmente 
di  poter  trar  copia  delle  moltissime  lettere  del  Muratori  esistenti  nell'ar- 
chivio Soli-Muratori  (2).  Gosl,  tra  edite  ed  inedite,  egli  si  trova  ad  avere 
circa  6000  lettere  del  grande  Vignolese  ,  le  quali  occuperanno  12  di  questi 


(1)  La  bibliografia  dello  Spinelli  {Lettere  a  stampa  di  L.  À..  Muratori,  Roma,  1888  e  1896, 
nei  fasce.  5  e  17  del  Bullettino  dell" Istituto  storico)  ne  registrava  219. 

(2)  Non  però  delle  lettere  al  Muratori,  che  in  numero  di  circa  ventimila,  pervenute  da  ogni 
parte  d'Italia  e  d'Europa,  sono  depositate  nel  suddetto  archivio  muratoriano.  Importanza  non 
piccola  avr.inno  senza  dubbio  parecchie  fra  quelle  lettere,  dovute  talora  agli  uomini  più  celebrati 
del  tempo,  e  noi  facciamo  voti  che  quando  la  presente  opera  del  C.  sarà  al  suo  termine,  gli  si 
conceda  di  trascegliere  anche  da  quel  carteggio  i  documenti  più  rilevanti,  per  farne  all'epistolario 
muratoriano  ana  degna  appendice. 


4o4  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

bei  volumi.  Le  lettere  sono  disposte  cronologicamente,  ed  è  sempre  indicato 
il  luogo  di  lor  provenienza,  e  se  sono  già  edite,  si  rinvia  alla  pubblicazione, 
registrata  nella  bibliografia,  ove  videro  primamente  la  luce. 

Sarebbe  vano  e  quasi  risibile  il  mostrare  in  questo  periodico,  diretto  ad 
un  pubblico  di  eruditi,  quanta  benemerenza  il  G.  si  acquisti  con  le  sue  fa- 
tiche, qual  valore  abbiano  per  ogni  maniera  di  studi  le  lettere  del  Muratori, 
quanto  esse  possano  contribuire  a  rendere  rigorosamente  esatta  la  cognizione 
nostra  di  quel  grandissimo  storico  e  della  sua  operosità  sbalorditoia.  I  nostri 
lettori  queste  ed  altre  cose  le  sanno  egregiamente,  né  hanno  alcun  bisogno 
d'essere  illuminati.  Diremo  piuttosto  qualche  cosa  del  carattere  di  questo 
primo  volume,  proponendoci  di  fare  altrettanto  coi  successivi,  di  mano  in 
mano  che  usciranno  in  pubblico. 

Le  315  lettere  sono  scritte  dal  Muratori  giovine,  prima  studente,  poi  dot- 
tore dell'Ambrosiana.  In  esse  egli  parla  spesso  dei  versi  che  andava  compo- 
nendo per  le  accademie  a  cui  era  ascritto;  ma  ben  presto  si  destò  in  lui 
r  interesse  per  le  cose  erudite,  per  le  anticaglie,  pei  codici.  Ventenne,  egli, 
scriveva  con  molta  disinvoltura  e  proprietà  il  latino,  anzi  lo  scriveva  meglio 
dell'italiano.  Nel  1693  troviamo  che  per  esercizio  egli  scrive  al  padre  Bac- 
chini  in  francese  ed  in  castigliano  (pp.  35-38),  con  discreta  padronanza  di 
queste  due  lingue,  ma  con  grafia  poco  sicura  (1).  Appare  da  una  di  quelle 
lettere  ch'egli  avea  pure  scritto  al  Bacchini  in  greco,  sempre  a  scopo  d'eser- 
citazione. Del  resto,  anche  nel  corso  del  volume  si  trova  qualche  lettera 
francese  diretta  a  dotti  stranieri,  sebbene  di  solito  egli  si  servisse,  carteg- 
giando con  essi,  del  latino.  La  corrispondenza  più  dotta  del  volume  è  tenuta 
con  Antonio  Magliabechi  e  con  Francesco  Arisi;  ma  quelle  lettere  sono 
già  conosciute  (2).  E  così  pure  son  note  le  più  tra  le  lettere  qui  contenute 
ad  eruditi  stranieri,  quando  si  eccettuino  le  due  dirette  a  Bernardo  Mont- 
faucon  che  si  serbano  nella  Biblioteca  Reale  di  Copenaghen,  e  riguardano 
testi  greci. 

Tra  le  lettere  inedite  meritano  nota  alcune  di  quelle  al  padre,  per  la 
bonaria  modestia  che  vi  si  scorge,  e  specialmente  sono  osservabili  le  molte 
dirette  all'amico  Gio.  Jacopo  Tori.  Gol  Tori  il  Muratori  aveva  grandissima 
famigliarità,  e  nelle  lettere  che  gli  scriveva  da  Milano  dava  le  notizie  po- 
litiche del  giorno,  si  occupava  delle  accademie  e  dei  teatri,  riferiva  talora 
pettegolezzi  e  fatterelli  della  cronaca  cittadina.  Alcune  di  queste  lettere  sono 
davvero  as-sai  gustose  e  caratteristiche,  ed  il  giovine  Muratori  vi  si  palesa 
nella  sua  festività  gioviale,  aliena  da  melanconie  ascetiche  (3).  Talora  anzi 
vi  sono  accostamenti  che  potrebbero  persin  parere  irriverenti,  come  là  dove 
paragona  l'opera  di  Bologna  con  l'esposizione  della  Sindone  di  Torino,  con- 


ci) n  ite  che  il  C.  pone  dopo  la  fraae  «  todo6  mia  may  «mados  amos  »  (p.  88)  è  di  troppo.  Il 
M.  correttainenie  dice  in  spagnnolo  «  tatti  miei  amatissimi  padroni  ». 

(2)  La  corrispondenza  del  M.  col  Magliabechi  forma  notoriumente  il  primo  grappo  delle  LttUr$ 
di  L.  A.  Muratori  $critU  a  Toscani,  edite  dal  Bonaini,  dal  Polidori,  dal  OoasU  e  da  C.  Milane^ 
(Firenxe,  1864),  che  sono  la  migliore  raccolta  di  lettere  maratoriane  sinora  conosciata.  ArTertiaao 
di  panata  che  nel  rinvio  ad  essa,  posto  a  capo  delle  singole  lettere  al  Magliabechi,  il  C.  talora 
erra  segnando  il  no  151,  anziché  il  n»  153  della  sua  bibliogralla. 

(8)  Qualche  battala  asceticA  comincia  solo  a  comparire  nel  1698.  Tedi  pp.  2M-97  e  886. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  '  455 

siderando  alla  pari  •  questi  due  spettacoli  (p.  235).  A  Milano  dapprima  il 
Muratori  si  trovava  poco  a  suo  agio;  ma  ben  presto  vi  si  assuefò  ed  ebbe 
per  quella  città  grande  ammirazione.  Deliziosa  poi  gli  sembrava  la  dimora 
nelle  isole  borromee,  ove  si  recava  coi  padroni  di  esse  a  villeggiare,  rimet- 
tendosi in  quel  soavissimo  clima  ed  in  quelle  incantevoli  bellezze  naturali 
dalle  fatiche  dell'anno  (1).  Ai  sollazzi  carnevaleschi  di  Milano  prendeva 
parte  non  esigua,  ed  è  curioso  l'interesse  ed  il  gusto  con  cui  discorre  al  suo 
Tori  di  musici  e  di  cantatrici.  A  questo  riguardo  usa  talora  una  libertà  di 
espressione,  che  a  noi  sembra  persino  bizzarra.  Eccone  un  esempio:  «  Evvi 
«  una  delle  cantatrici,  Veneziana  figlia  d'un  oste,  così  ben  provveduta  di  na- 
«  tiche  e  di  gambe  virili,  che  il  sig.""  ^larch.  Gio.  [Rangoni]  vi  farebbe 
«  sopra  mille  concetti.  Ella  compare  in  abito  pure  virile,  e  sarebbe  ancor, 
«  stim'io,  un  gran  tormento  per  li  vostr' occhi,  per  non  dir  altro»  (p.  135). 
Tuttavia  le  distrazioni  carnevalesche  e  le  altre  che  la  metropoli  offriva  non 
lo  distoglievano  dallo  studio  assiduo  nella  sua  Ambrosiana,  della  quale  dà 
una  minuta  ed  importante  descrizione  (pp.  79-80),  né  lo  trattenevano  dal 
sollecitare  continuamente  allo  studio  il  Tori  stesso,  alieno  dall'applicarvisi 
per  la  leggerezza  della  sua  indole  e  per  la  salute  malferma  (cfr.  pp.  180, 
184,  199,  202,  215,  275). 

Direttamente  alla  storia  delle  lettere  italiane  poche  notizie  di  questo  primo 
volume  si  riferiscono,  quando  se  ne  tolgano  gli  spessi  accenni  ad  opere  poe- 
tiche dello  scrittore  (2),  ed  il  ragguaglio  dell'aver  egli  medésimo  diretto 
una  commedia  all'Isola  Bella  nel  verno  del  1695  (pp.  116-17).  Di  qualche 
rilievo  sono  le  informazioni  che  vi  si  danno  del  poeta  Carlo  Maria  Maggi, 
col  quale  il  Muratori  entrò  ben  presto  in  amicizia.  Grandi  elogi  fa  il  giovane 
sacerdote  delle  opere  del  Maggi,  segnatamente  di  quelle  drammatiche  (vedi 
pp.  70,  90,  95,  296),  e  si  delizia  nella  casa  di  lui  ospitale.  Al  Maggi  sono 
anzi  dirette  alcune  lettere  del  volume,  di  cui  una  latina  non  priva  di  valore 
storico  (p.  264).  In  una  lettera  ad  Apostolo  Zeno  del  1°  ottobre  1698,  il  Mu- 
ratori gli  invia  (p.  336)  un  sonetto  scritto  dal  Maggi  in  suo  onore.  R. 


Biblioteca  critica  della  letteratura  italiana,  diretta  da  Fran- 
cesco ToRRACA.  Disp.  36-42.  —  Firenze,  Sansoni,  1901. 

Per  le  antecedenti  dispense  vedi  Giorn.,  36,  226  ed  i  rinvìi  ivi  indicati. 
36,  —  Enrico  Hauvette,  Dante  nella  poesia  francese  del  rinascimento, 
traduz.  di  Amelia  Agresta.  —  Di  questo  garbato  discorso  accennammo  già 
l'importanza  nel  Giorn.  34,  288,  allorché  ne  comparve  il  testo  francese  negli 
Annales  de  Vuniversité  de  Grenoble.  Come  allora  avvertimmo,  il  suo  par- 
ticolare merito  consiste  nel  dare  il  rilievo  dovuto  all'uso  che  di  Dante  fece 
Margherita  di  Navarra.  Le  aggiunte  dell'A.,  promesse  nel  frontispizio,  non 
sono  molte  né  rilevanti  :  in  appendice  parve  opportuno  al  Torraca  di  ripub- 


(1)  Bellissima   è   la    lettera,  già  edita,  in  cui  descrive  quelle  vere  gemme  del  Lago  Maggiore. 
Cfr.  pp.  110-114. 

(2)  È  scritta  parte  in  versi    ed    in    un    gergo  mezzo   fidenziano  una  lettera  al   Tori  del  1693. 
Vedi  p.  4p. 


456  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

blicare  un  suo  vecchio  articoletto  su  Christine  de  Pizan  edito  nella  Rassegna 
settimanale  del  1881.  Il  tema  della  fortuna  di  Dante  in  Francia  sarà  quan* 
dochessia  ripreso  dall'amico  nostro  Arturo  Farinelli,  il  quale  ci  aveva  pro- 
messo una  estesa  recensione  del  libretto  dell'Oelsner,  Dante  in  Frankreich. 
Le  sue  ricerche  gli  hanno  procurato  un  materiale  cosi  ingente,  che  con  ogni 
probabilità,  anziché  una  recensione,  ne  verrà  fuori  un  lungo  studio,  se  non 
addirittura  un  volume. 

37-38.  —  F.  S.  Kraus,  Francesco  Petrarca  e  la  sua  col-rispondenza 
epistolare^  traduz.  di  Diego  Valbusa.  —  Il  testo  tedesco  di  questo  scritto  vide 
dapprima  la  luce  nel  voi.  XXII  della  Deutsche  Rundschau  e  fu,  quindi,  ri- 
prodotto nella  prima  serie  degli  Essays  del  Kraus,  Berlin,  Pratel,  1896.  La 
primitiva  origine  giornalistica  è  tradita  dal  complesso  della  trattazione  e  da 
certe  tendenze  al  frizzo  ed  a  richiami,  non  sempre  opportuni,  alle  consue- 
tudini odierne  (v.  pp.  50,  71,  79,  84,  ecc.).  È  noto,  del  resto,  che  il  Kraus 
ha  innegabili  attitudini  allo  scrivere  spigliato  e  vivace,  sicché  gli  scritti  suoi 
hanno  in  alto  grado  il  merito  di  farsi  leggere.  Questo  non  toglie  che  il  pre- 
sente studio  sul  Petrarca  lasci  agevolniente  scorgere  una  bella  e  fondatissima 
preparazione.  Il  ricchissimo  epistolario  del  grande  trecentista  fu  dal  Kr.  espio* 
rato  in  tutti  i  sensi,  per  trarne  una  specie  di  ritratto  spirituale  dello  scrit- 
tore, da  cui  si  rilevino  il  suo  modo  di  vivere,  il  suo  carattere,  i  suoi  studi, 
i  suoi  viaggi,  il  suo  sentimento  dell'arte  ed  il  suo  pensiero  filosofico  e  mo- 
rale. Non  é  certo  la  prima  volta  che  ciò  si  fa  ;  ma  l'indagine  del  Kr.,  accu- 
rata e  penetrante,  si  aggiunge  utilmente  ad  altre  che  la  precedettero.  Il  Kr. 
conosce  assai  bene,  come  è  suo  costume,  la  letteratura  del  soggetto(l),  e  ci 
torna  gradito  l'osservare  con  quanta  e  giusta  stima  egli  parli  del  nostro 
sempre  rimpianto  Bartoli,  il  quale  fu  dei  primissimi  (troppi  lo  dimenticano 
oggi)  a  scrutare  nell'anima  del  Petrarca  ed  a  ritrarne  con  acume  di  psico- 
logo la  vera  fisionomia  morale  (2).  Sebbene  non  sembri  informato  delle  fasi 
più  recenti  delle  discussioni  intorno  a  Laura  ed  al  canzoniere,  il  concetto 
ch'egli  si  fa  della  donna  del  Petrarca  è  certo  assai  prossimo  al  vero.  Il  Kr. 
non  mette  in  dubbio  l'esistenza  di  Laura;  ma  egli  crede  che  il  poeta  non 
canti  lei,  si  bene  un  fantasma  ideale  compendiante  in  sé  tutte  le  bellezze  e  le 
virtù  della  donna  (pp.  148-49).  Questo  procedimento  d'idealizzazione  occorre 
in  fondo,  in  tutti  i  veri  amori;  ma  una  natura  come  quella  del  Petrarca, 
che  univa  alla  sensitività  somma  una  dose  così  ragguardevole  di  tendenza 
mistica,  era  atta  più  di  ogni  altra  a  ricavarne  effetti  artistici  immortali. 

39.  —  Francesco  Torraga,  Le  donne  italiane  nella  poesia  provenzale  ; 


(1)  II  libretto  del  Finti  sai  Petrarca  (efr.  Oiom.,  XXXYI,  2i3)  non  potè  forse  esser  menzionato 
per  ragione  di  tempo. 

(2)  Vedi  p.  3.  L'elogio  del  Kr.  ò  tanto  più  approxxabile  in  qaanto  cbe  egli  nnove  da  priaeipl 
del  tutto  diversi  da  quelli  che  al  Bartoli  erano  cari.  Le  ragioni  con  cui  combatte  (pp.  17  agg.) 
l'idea,  a  parer  nostro  giustisnima.  cbe  nel  Petrarca  si  debba  rarrisare  il  primo  nomo  moderno  s 
sostiene,  invece,  cbe  il  primo  uomo  moderno  è  Dante,  si  oppone  recisamente  a  quello  cbe  il  Bar- 
toli pensava  (cfr.  p.  68).  La  differenza  dipende  dallo  SUtndpunkt  dìTeiso  dei  due  autori  •  quindi 
dal  diiTerente  modo  di  considerare  il  rinascimento.  Abbiamo  già  avuto  occasione  di  osservar 
questo  in  addittro,  a  proposito  delle  idee  del  Kr.  sulla  storia  deirarte.  Cfr.  Oiomak,  XXXYII, 
418-19. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  457 

ì9m  la  «  treva  »  di  G.  de  la  Tor.  —  Richiamiamo  quello  che  ebbe  a  dirne 
G.  Bertoni  in  questo  Giornale,  38,  140  sgg. 

40.  —  Enrico  Gochin,  Boccaccio,  traduz.  di  D.  Vitaliani.  —  Lavoro  con- 
dotto con  intelligenza  e  scritto  con  brio,  di  cui  furono  indicati  i  pregi  e  i 
difetti  nel  Giorn.,  16,  407,  allorché  ne  venne  fuori  il  testo  francese.  Per  quel 
che  spetta  ai  dati  di  fatto  ed  alle  nozioni  bibliografiche ,  se  la  monografia 
era  alquanto  arretrata  nel  1890,  quando  fu  editi  la  prima  volta,  lo  è  ancor 
più  ora,  malgrado  qualche  ritocco  dell'autore.  Con  poca  fatica  avrebbe  po- 
tuto rimediarvi  la  direzione  della  Bibliotecay  che  pure  aggiunse  di  suo  qualche 
utile  noterella. 

41. —  Vittorio  Gian,  Un  medaglione  del  Rinascimento:  Cola  Bruno 
messinese  e  le  sue  relazioni  con  Pietro  Bembo., —  Eccellente  davvero  questo 
nuovo  scritto  dell'amico  e  cooperatore  nostro  instancabile  e  fido.  Il  G.  ha 
rettamente  veduto  che  queste  sue  indagini  «  conferiscono  forse  più  alla  psi- 
«  cologia  storica  e  alla  storia  della  cultura  che  non  alla  storia  letteraria  pro- 
€  priamente  detta  »  (p.  4).  Infatti  il  siciliano  Bruno  vero  letterato  non  fu  ; 
di  lui  si  conosce  appena  qualche  verso  e  qualche  lettera.  Ma  quella  specie 
di  affettuoso  sodalizio  che  il  Bruno  ebbe  col  Bembo,  da  quando  questi  lo 
conobbe  in  Messina  sino  alla  morte  seguita  nel  maggio  del  1542,  lo  rende 
un  personaggio  interessante,  del  quale  godiamo  di  possedere,  anziché  le  magre 
notizie  del  Tiraboschi  e  del  Mazzuchelli,  la  nutrita  biografia  che  seppe  tes- 
serne il  Gian.  Gola  Bruno  accompagnò  il  Bembo  nelle  sue  peregrinazioni, 
fu  il  confidente  delle  sue  pene  e  de' suoi  desideri;  gioì  degli  onori  tributa- 
tigli ;  seppe  compatire  le  sue  debolezze  con  la  bontà  inalterabile  del  proprio 
carattere  dolce  e  passivo;  gli  fu  amministratore  ed  agente  fedele;  curò  la 
stampa  degli  scritti  bembeschi;  sorvegliò  amorosamente  l'educazione  dei  figli 
dell'amico  suo,  al  quale  lo  legavano  gratitudine  ed  ammirazione  immense. 
Era  ben  degno  un  uomo  siffatto,  che  con  tanto  disinteresse  e  con  fede  cosi 
rara  accompagnò  nella  vita  l'insigne  veneziano,  d'essere  ritratto  con  la  cura 
sapiente  dedicatagli  dal  G.,  tanto  più  che  in  lui  si  notano  qualità  morali 
rare  sempre  in  un  uomo  di  lettere,  nel  cinquecento  rarissime.  Se  l'ingegno 
merita  ammirazione,  la  bontà  e  semplicità  dell'anima,  l'amicizia  vera  e  te- 
nace, la  rinuncia  alla  propria  individualità  per  ossequio  a  quella  d'un  altro, 
sono  tali  requisiti  e  tali  sacrifici  da  imporre  il  rispetto  a  chiunque  abbia 
l'abito  di  sentir  gentilmente.  Il  G.,  conoscitore  egregio  del  Bembo  e  dell'età 
sua,  ha  ritratto  codesto  carattere,  che  onora  la  nobile  Sicilia,  come  non  si 
poteva  meglio,  valendosi  non  solo  delle  stampe,  ma  anche  di  molti  documenti 
inediti,  fra  i  quali  specialmente  notevoli  le  lettere  non  peranco  pubblicate 
del  Bembo.  Alla  stampa  integrale  di  quelle  lettere  inedite  il  G.  medesimo 
attende  col  prof.  Gugnoni. 

42.  —  Francesco  Golagrosso,  Saverio  Bettinelli  e  il  teatro  gesuitico. 
Seconda  edizione.  —  Alla  prima  edizione  di  questa  memoria  fu  tributata  la 
debita  lode  nel  nostro  Giom.,  33,  158.  Delle  osservazioni  che  ivi  vennero 
mosse  e  di  altre  il  G.  tenne  conto  nella  seconda  edizione,  in  cui  aggiunse 
parecchio  di  nuovo,  sia  nel  testo,  sia  nella  lunga  prefazione.  La  prefazione 
si  trattiene  in  special  guisa  sul  teatro  gesuitico  e  su  certe  sue  consuetudini. 
Parecchie  opere  straniere  che  al  G.  furono  introvabili  o  ignote  quando  com- 


458  BOLLErriNO  BIBLIOGRAFICO 

pose  dapprima  il  lavoro,  sono  qui  poste  a  profitto.  Tuttavia,  mentre  sa  che 
sul  Bettinelli  autore  tragico  nulla  d'altro  vi  sarà  da  dire,  non  ignora  che  al 
tema  sul  teatro  gesuitico  egli  arreca  soltanto  un  discreto  e  pregevole  con- 
tributo. Le  pagine  che  al  soggetto  dedicò  il  Bertana  nel  nostro  Supplemento 
no  4  (pp.  109-116)  pare  gli  siano  passate  inavvertite.  R. 


Raccolta  di  studi  critici  dedicata  ad  Alessandro  D'Ancona 
festeggiandosi  il  XL  anniversario  del  suo  insegnamento. 
—  Firenze,  tip.  Barbèra,  1901  (4%  pp.  l-792). 

Fra  quante  miscellanee  si  pubblicarono  nella  ricorrenza  di  giubilei  catte- 
dratici, questa  è  la  più  curata  e  anche  la  più  ricca,  giacché  se  la  sorpassa 
nella  mole  quella  edita  in  Ispagna  pel  Menéndez  y  Pelayo  (cfr.  Gìom.,  34, 
474  e  35,  183),  per  la  importanza,  accuratezza  ed  omogeneità  di  scritti  non 
la  raggiungono  nò  quelle  assai  buone  che  videro  la  luce  in  Germania,  né 
quella  svedese  fatta  pel  Wahiund  e  neppure  quelle  celebri  messe  assieme 
per  onorare  Gaston  Paris.  Ma  lasciando  i  confronti,  il  D'Ancona  può  ben 
dirsi  pago  d'avere  intorno  a  fargli  festa  una  cosi  cospicua  schiera  di  studiosi, 
che  s'informano  ai  criteri  critici  ed  al  metodo  scientifico  da  lui  propugnati 
con  sì  costante  ardore  e  con  esempio  così  preclaro  dalla  cattedra  e  nei  libri. 
A  differenza  di  tanti  altri,  incerti  o  poco  fidi  o  poco  accorti,  che  si  lasciarono 
abbagliare  da  certe  lustre  e  per  debolezza  o  per  istudio  d'opportunità  sacri- 
ficarono alla  moda  e  s'abbandonarono  a  certo  giuoco  di  funambolismo  este- 
tico, il  D'Ancona  ha  il  merito  insigne  d'esser  proceduto  sempre  per  la  mede- 
sima via,  senza  muover  collo  né  piegar  sua  costa,  fermo  nei  principi  perenni 
di  quella  critica  storica  di  cui  egli  é  gloria.  Alle  onoranze  degnamente  tri- 
butate al  maggiore  storico  vivente  delle  lettere  nostre  questo  Giornale^  che 
ha  l'onore  d'informarsi  ai  suoi  medesimi  principi  e  di  proseguirne  ormai 
da  quasi  due  decenni  con  ogni  sua  possa  l'attuazione,  cordialmente  si  associa, 
né  sembra  essere  senza  significato  il  caso  per  cui  avviene  che  la  presente 
miscellanea  abbia  principio  col  nome  d'uno  dei  direttori  del  Giornale  e  col 
nome  dell'altro  direttore  si  chiuda. 

Plauso  incondizionato  meritano  coloro  che  diressero  e  allestirono  questo 
suntuoso  volume,  giacché  nulla  in  esso  difetta  di  quanto  giova  a  renderlo 
comodo,  bello  e  gradito:  l'assetto  tipografico  é  degno  della  stamperia  da  cui 
esce;  un  bel  ritratto  dell'illustre  festeggiato  lo  fregia;  in  fine  v'ha  un  indice 
analitico  disposto  per  alfabeto  delle  persone  menzionate  nei  singoli  scritti; 
in  principio  v'  ha  una  preziosa  bibliografia  delle  opere  di  A.  D'Ancona.  In 
questa  bibliografia,  disposta  in  ordine  cronologico,  compilata  con  diligenza 
somma,  sono  raccolti  sotto  724  numeri  i  libri  e  gli  articoli  tutti  (anche  quelli 
pubblicati  senza  nome)  del  grande  critico,  la  cui  attività,  come  é  noto,  ai 
estese  ad  ogni  periodo  della  nostra  storia  letteraria  e  non  mancò  di  portar 
luce  anche  alla  storia  civile,  segnatamente  a  quella  del  nostro  risorgimento 
politico.  Indice  e  bibliografia  si  devono  a  tre  giovani  e  valenti  discepoli  del 
benemerito  professore,  Luigi  Ferrari,  Guido  Manacorda  e  Fortunato  Pintor. 

I  53  scritti  della  Raccolta  si  riferiscono  in  grandissima  parte  alla  storia 
delle  lettere  italiane.  Riguardano  cose  orientali  e  solo  di  sghembo  si  ricoU 


BOLl-ETTINO   BIBLIOGRAFICO  459 

legano  alla  letteratura  nostra  la  nota  di  I.  Pizzi,  Un  riscontro  arabo  del 
€  Libro  di  Sidrac  »  e  lo  studio  di  M.  Kerbaker  su  La  leggenda  epica  di 
Rishyasringa,  che  tratta  il  motivo  del  giovinetto  segregato,  conosciuto  in 
Italia  per  i  racconti  del  Novellino  e  del  Decameron.  Trova  posto  nell'alto 
medioevo  e  riguarda  l'arduo  quesito  delle  scaturigini  merovingie  dell'epica 
nazionale  francese  la  memoria  di  G.  Gròber,  Der  Inhalt  des  Faroliedes. 
Arricchiscono  la  demopsicologia  moderna,  nella  quale  il  D'Ancona  ha  pur 
impresso  orme  cosi  profonde,  G.  Gigli  con  Una  pagina  di  Folk-lore  Salen- 
tino  e  G.  Pitrè  con  La  leggenda  di  Cola  Pesce  nella  letteratura  italiana 
e  tedesca.  Rientrano  nella  storia  politica  medievale  le  Due  lettere  di  Corso 
Donati  capitano  a  Bologna  nel  1293,  che  dall'Archivio  di  Stato  bolognese 
estrasse  P.  Papa  ;  mentre  alla  storia  del  sec.  XIX  si  riferisce  la  descrizione 
che  fa  0.  Bacci  di  Una  miscellanea  di  stampe  sul  primo  congresso  degli 
scienziati  in  Pisa,  nel  1839,  e  l'articolo  di  G.  Dajob,  Un  bel  libro  da  fare, 
che  reca  parecchi  appunti  ad  una  futura  storia  di  quei  generosi  italiani  esu- 
lati in  Francia,  onde  vennero  all'  Italia  quelle  simpatie,  che  dovevano  bene 
fruttare  nel  1859.  Unico  scritto  che  si  occupi  di  storia  filosofica  è  quello  di 
G.  Gentile,  Per  la  storia  aneddotica  della  filosofia  italiana  nel  sec.  XIX, 
che  continua  un  tema  gradito  all'autore  (cfr.  Giorn.,  37,  448)  facendo  cono- 
scere 12  importanti  lettere  di  Bertrando  Spaventa  al  fratello  Silvio.  Final- 
mente si  dilunga  dalla  storia  letteraria  propriamente  detta,  entrando  in  un 
altr' ordine,  più  generale,  di  ricerche,  l'indagine  di  F.  D'Ovidio  Dello  zeta 
in  rima,  nella  quale  con  acume  pari  alla  dottrina  egli  esamina  l'uso  di  poeti 
appartenenti  a  tempi  diversi  ed  a  diverse  regioni  nel  far  rimare  lo  z  sordo 
con  lo  z  sonoro. 

Tutti  gli  altri  scritti  dell'importante   silloge   direttamente   riguardano  la 
storia  delle  nostre  lettere  e  si  lasciano  disporre  per  cronologia  come  segue: 

MEDIO  EVO.  —  E.  Gorra,  Una  «  commedia  elegiaca  »  nella  novellistica 
occidentale.  —  Mostra  che  la  redazione  più  antica  e  compiuta  del  rac- 
conto «  che  tratta  d'un  marito,  il  quale  è  involontariamente  tradito  da 
«  un  amico  che  gli  confida  le  sue  avventure  amorose  con  donna  cui  egli 
«ignora  essere  la  moglie  di  lui»,  (Pecorone,  Straparola,  Forteguerri, 
Fortini,  Doni),  è  da  ravvisare  nel  poemetto  medievale  latino  Miles  glo- 
riosus  edito  dal  Du  Méril,  poemetto  che  con  tutta  probabilità  mette 
capo  ad  una  commedia  anteriore  perduta. 

C.  De  Lollis,  Sor  dello  di  Goito  e  Peire  Bremon.  —  Traduzione  in 
versi  del  serventese  Lo  reproviers  vai  averan,  som  par,  che  nel  Or.  è 
437,  20. 

H.  Varnhagen,  Die  Quellen  der  Bestidr-abschnitte  im  <(.  Fiore  di 
virtù  ».  —  Con  diligente  esame  comparativo  assoda  che  il  Fiore  di  virtù 
ricorse  per  le  tradizioni  animalesche  in  special  guisa  all'opera  di  Bar- 
tolomeo di  Glanvilla,  Proprietates  rerum,  non  che  al  De  animalibus 
di  Alberto  Magno. 

P.  Chistoni,  Le  fonti  classiche  e  medievali  del  Catone  dantesco,  che 
unifica  il  Censorio  e  VUticense. —  Studio  alquanto  prolisso  e  pesante, 
ma  non  inutile,  per  determinare  il  valore  della  figura  di  Catone  in  Dante. 


460  BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 

L'Alighieri  fraintendeva  quel  personaggio  storico,  non   altrimenti  che 
l'avevano  frainteso  gli  autori  a  lui  famigliari. 

l.  Del  Lungo,  /  contrasti  fiorentini  di  Ciacco.  —  Movendo  da  un 
articolo  di  R.  Orti/,  che  al  D.  L.  pare  sia  piaciuto  ben  più  che  a  noi 
(cfr.  Giorn.y  36,  444),  discorre  alquanto  della  fiorentinità,  per  lui  certa, 
dei  due  contrasti  assegnati  a  Ciacco  deirAnguillara,  e  accenna  alla  pos- 
sibilità che  quel  Ciacco  sia  identico  al  Ciacco  dantesco  (1). 

F.  Romani,  Il  martirio  di  S.  Stefano.  —  Rende  verosimile  che  per  la 
rappresentazione  di  S.  Stefano  nel  Purg.,  XV,  109-11,  il  poeta  abbia 
avuto  presente  alla  fantasia  qualche  opera  plastica  medievale. 

G.  Mazzoni,  Se  possa  il  «  Fiore  »  essere  di  Dante  Alighieri.  —  Uno 
dei  più  estesi  ed  interessanti  lavori  della  raccolta,  del  quale  ci  è  grato 
riconoscere  i  molti  pregi,  sebbene  la  sua  conclusione  ci  appaia  sempre 
terribilmente  arrischiata.  Muovo  il  M.  dalla*  persuasione  ferma  che  i 
sonetti  del  Fiore  siano  stati  composti  in  Toscana,  alla  fine  del  dugento, 
da  un  autore  che  veramente  chiamavasi  Durante.  Passati  in  rassegna  i 
possibili  Duranti  e  Danti  del  tempo,  fa  vedere  per  esclusione  che  la 
persona  su  cui  si  accumulano  maggiori  ragioni  di  probabilità  è  Dante 
Alighieri.  Agli  argomenti  esterni,  già,  del  resto,  noti,  aggiunge  qualche 
argomento  interno  per  confermare  l'attribuzione.  11  M.  vorrebbe  allogare 
quei  sonetti  verso  il  1295:  l'Alighieri,  datosi  a  vita  alquanto  licenziosa 
in  quel  tempo,  li  avrebbe  composti  «  per  isvago  suo  proprio  e  degli 
«  amici  ».  —  Qui  non  è  il  luogo  di  ritornare  a  discutere  la  grave  que- 
stione; ma  forse  ci  accadrà  di  riprenderla  in  seguito.  Diremo  solo  qui 
che,  a  senso  nostro,  ogni  conclusione  è  prematura  prima  che  siano  ulti- 
mati gli  studi  definitivi  sul  canzoniere  di  Dante. 

L.  BiADENK,  La  rima  nella  canzone  italiana  dei  secoli  XIII  e  XIV. 
—  Paziente  inventario  delle  assonanze,  delle  rime  spezzate,  equivoche, 
ricche,  sdrucciole,  tronche,  ecc.,  che  si  trovano  nelle  canzoni  partico- 
larmente del  primo  secolo. 

M.  Barbi,  D'un  codice  pisano-lucchese  di  trattati  morali.  —  Notevole 
comunicazione  intorno  al  ms.  IL  Vili.  49  della  Nazionale  di  Firenze.  Il 
B.  ne  studia  la  lingua  e  ne  illustra  il  contenuto,  estraendone  un  poe- 
metto di  477  versi,  che  corrisponde  ad  un  noto  testo  francese,  sui  quin- 
dici segni  del  giudizio  finale. 

P.  Rajna,  Una  questione  d'amore.  —  Fa  parte  d'un  lavoro  più  ampio 
su  tutte  le  questioni  d'amore  che  occorrono  nel  FilocolOy  e  discorre  del- 
l'immensa fortuna  ch'ebbe  il  seguente  motivo  ivi  trattato:  una  donna 
concede  a  tre  suoi  amatori  diversi  contrassegni  amorosi;  si  disputa  quale 
di  essi  amatori  sia  il  preferito. 

V.  Crescini,  Per  la  biogr.  di  Antonio  da  Tempo.  —  Spigola  alcune 
notizie  da  un  cod.  appartenuto  all'antico  archivio  dell'univ.  di  Padova. 

A.  Medin,  Canzone  storico-morale  di  Nicolò  de'  Scacchi^  poeta  vero- 
nese  del  sec.  XIV.  —  È  una  specie  di  lamento  dettato  per  la  morte  di 
Pietro  I  da  Lusignano,  re  di  Cipro,  seguita  il  16  genn.  1369. 


(1)  Vedaiii  on  »a  CUcco  Tarticolo  di  M.  SchtriUo  odia  .V.  Àntokfia  dfU*af<MÌo  1901. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO  461 

F.  NovATi,  Sopra  un  antica  storia  lombarda  di  S.  Antonio  di  Vienna. 
—  Mostra  che  i  testi  abruzzesi  editi  dal  Monaci  intorno  alla  leggenda 
di  S.  Antonio  sono  rifacimenti  d'una  poesia  composta  nell'Italia  setten- 
trionale verso  il  mezzo  del  sec.  XIV,  poesia  in  strofe  di  cinque  versi 
monorimi,  che  è  qui  pubblicata.  Ne  trae  argomento  a  considerazioni  sugli 
scambi  letterari  fra  le  poesie  popolareggianti  di  varie  regioni    d'Italia. 

R.  Renier,  Qualche  nota  sulla  diffusione  della  leggenda  di  S.  Alessio 
in  Italia.  —  Redazioni  in  prosa  ed  in  versi;  uso  che  della  leggenda  fa 
il  popolo.  Qui  è  dato  conto  del  poemetto  su  S.  Alessio  di  Bonvesin  da 
Riva,  contenuto  intero  ed  anonimo  in  un  ms.  della  Trivulziana,  mentre 
sinora  se  ne  conosceva  solamente  il  frammento  prodotto  dal  Bekker. 

E.  Bellorini,  Note  sulla  traduzione  delle  Eroidi  ovidiane  attribuita 
a  Carlo  Figiovanni.  —  Completando  ciò  che  scrisse  degli  altri  antichi 
traduttori  delle  Eroidi  (cfr.  Giorn.^  36,  446),  fa  vedere  che  quella  ver- 
sione del  cosidetto  Figiovanni,  di  cui  non  ci  resta  alcun  codice,  non 
è  punto  genuina.  0  s'  ha  da  fare  con  un'  opera  del  sec.  XIV,  rimaneg- 
giata più  tardi,  o  si  tratta  addirittura  d'una  falsificazione  cinquecentista. 

RINASCIMENTO.  —  F.  P.  Luise,  Commento  a  una  lettera  di  L.  Bruni  e  cro- 
nologia di  alcune  sue  opere.  —  Determina  la  cronol.  della  traduz.  bru- 
niana  dei  dialoghi  di  Platone  e  quella  della  Laudatio  florentinae  urbis. 
V.  Rossi,  Sulla  novella  del  Bianco  Alfani.  —  Con  buon  apparato  di 
documenti  indaga  gli  elementi  storici  di  quella  novella  e  ne  pone  in 
chiaro  la  composizione  ed  il  probabile  autore,  col  confronto  della  no- 
vella di  Lisetta  Levaldini  recata  da  quattro  codici  di  Firenze. 

F.  FoFFANO,  Per  una  edizione  delV  «  Orlando  Innamorato  ».  —  Fa 
la  storia  dell'edizione  scandianese  del  1495,  di  cui  non  si  conosce  verun 
esemplare,  e  che  secondo  il  F.  sarebbe  veramente  esistita  ed  avrebbe 
prima  d'ogni  altra  divulgato  il  III  libro  del  poema. 

P.  Savj-Loppez,  La  novella  di  Prasildo  e  Tisbina.  —  Innam.y  P.  L, 
G.  XII.  Riscontri  classici  e  romanzi  a  questo  racconto. 

C.  Frati,  Un  codice  autografo  di  Bernardo  Bembo.  —  Diffusa  e  ac- 
curata notizia  bibliografica,  con  facsimile,  del  ms.  E.  VI.  10  della  bibl. 
Nazionale  di  Torino,  già  segnalato  dal  Cian  in  questo  Giornale,  31,  68. 

E.  PÈRCOPO,  Una  «  disperata  »  famosa.  —  Ripubblica  qui  criticamente 
il  ternario  assai  noto  La  nuda  terra  s'ha  già  messo  il  manto,  che  si 
legge  nel  ms.  ambrosiano  autografo  delle  rime  del  Pistoia,  e  produce 
anche,  da  codici  marciani,  il  frammento  di  controdisperata  che  scrisse 
Antonio  Salvazo.  Con  buona  critica  dimostra  che  il  Cammelli  compose 
quel  ternario  fortunatissimo  nel  1497,  allorché  al  Moro  mancò  la  giovine 
consorte  Beatrice  d'Este. 

A.  Salza,  Lorenzo  Spirito  Gtcaltieri,  rimatore  e  venturiero  perugino 
del  sec.  XV.—  Illustra  con  nuovi  documenti  la  biografia  di  questo  sol- 
dato verseggiatore,  che  tradusse  Ovidio,  fece  il  libro  delle  Sorti,  e  com- 
pose versi  lirici  e  due  poemi,  conosciuti  sinora  solo  imperfettamente,  il 
Publico  e  l'Altro  Marte. 

V.  Cian,  Varietà  letterarie  del  Rinascimento.  —  I,  Maestro  Pasquino 
e  Pietro  Bembo,  mostra  la  simpatia  di  Pasquino  verso  il  Bembo  dovuta 

Giorwile  storico,  XXXVIII,  fstfc.  114.  30 


462  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

alla  stima  che  aveva  per  lui  Pietro  Aretino  e  fa  la  storia  delle  relazioni 
tra  l'Aretino  ed  il  Bembo  (1);  II,  Dante  nel  Rinasci  mento  j  ngu&rdsi  \& 
difesa  di  Dante  presa  da  alcuni  Toscani,  segnatamente  da  G.  B.  Gelli, 
contro  le  accuse  del  Bembo,  ed  un  epigramma  latino  in  elogio  dell'Ali- 
ghieri composto  dall'umanista  Michele  Marullo. 

V.  Vivaldi,  Le  reminiscenze  dantesche  nell"  «  Italia  liberata  dai 
Goti-k.—  I  riscontri  qui  ammassati  ci  sembrano  soverchi.  Alcuni  non 
sono  riscontri;  ma  coincidenze  evidentemente  fortuite. 

G.  A.  Cesareo,  Una  satira  inedita  di  Pietro  Aretino.  —  Dal  cod. 
Vatic.  Ottobon.  2812  stampa  con  note  storiche  la  Confessione  di  Maestro 
Pasquino  a  Fra  Mariano  martire  e  confessore,  e  con  parecchie  buone 
ragioni  fa  credere  probabile  ch'essa  appartenga  all'Aretino. 

D.  Gnoli,  Del  supplizio  di  Nicolò  Franco.  —  Con  documenti  dimostra 
che  il  vero  motivo  della  impiccagione  del  Franco  fu  l'aver  egli  morso 
con  satire  e  pasquinate  i  Garafa. 

A.  Solerti,  La  rappresentazione  della  «  Calandria  >  a  Lione  nel 
1548.  —  Con  la  scorta  d'un  raro  opuscolo,  determina  che  nel  1548  fu 
rappresentata  a  Lione,  quando  vi  giunse  Enrico  II  di  Francia,  la  Ca- 
landria,  da  comici  italiani,  fra  i  quali  era  Domenico  Barlacchi. 

A.  Farinelli,  Michelangelo  poeta.  —  Questo  studio  psicologico,  con- 
dotto con  critica  penetrante  sulla  recente  edizione  del  Frey,  è  forse  la 
cosa  più  importante  e  più  veracemente  nuova  di  tutto  il  volume.  La 
lirica  di  Michelangelo  non  fu  mai  caratterizzata  sinora  con  tratti  così 
robusti  e  sicuri. 

A.  Luzio,  Guerre  di  frati.  —  Nuovi  documenti  mantovani  gettano 
altra  luce  sulle  fiere  baruflFe  che  accaddero  nel  monastero  di  S.  Bene- 
detto in  Polirone  e  sulla  parte  che  ad  esse  prese  il  Folengo. 

B.  ZuMBiNi,  Vita  paesana  e  cittadina  nel  poema  del  Folengo.  —  Fa 
notare  i  molti  tratti  di  vero  realismo  rappresentativo,  che  si  ammirano 
nella  maggiore  opera  folenghiana. 

F.  Flamini,  Il  canzoniere  inedito  di  Leone  Orsini.  —  Di  mons.  Leone 
Orsini  rinfresca  il  FI.  la  memoria  per  mezzo  del  suo  canzoniere  petrar- 
cheggiante,  che  è  conservato  nella  bibl.  Nazionale  di  Parigi  con  indebita 
assegnazione  a  L.  Alamanni.  I  sonetti  che  il  FI.  ne  estrae  si  riferiscono 
a  letterati  celebri  del  tempo  suo,  quali  P.  Bembo,  B.  Varchi,  A.  Caro, 
N.  Franco,  ecc.,  ed  al  pittore  Giulio  Romano. 

E.  PicoT,  Les  poésies  italiennes  de  Pierre  Bricard.  —  Illustra  un  can- 
zoniere amoroso.  La  floridea,  stamp.  a  Parigi  nel  1601  da  un  francese  che 
studiò  a  Padova  e  colà  s'invaghì  d'una  fanciulla  della  famiglia  Cittadella. 
Se  tutti  i  versi  della  raccolta  sono  come  i  tre  sonetti  che  il  P.  riferisce, 
non  si  potrebbe  facilmente  imaginare  una  più  sacrilega  birbonata. 

P.  E.  Pavolini,  Per  Vepisodio  di  Olindo  e  Sofronia.  —  Tenuissimo 
contributo  alla  storia  della  diffusione  della  leggenda  di  santa  Teodora, 
dalla  quale  il  Tasso,  si  vuole,  avrebbe  tolto  l'idea  del  celebre  episodio. 

(1)  Uu  nota  dì  p.  29  ronde  evidente  che  G.  Saneii  prese  abbaglio  nell 'attribuire  airArettao 
Il  libello  da  lai  edito  nel  Ctoni.,  XXVI,  176  sgg.  Inclina  a  respinger  qneirattribozione  anche 
y.  Bossi  nella  2»  ediz.  del  Gaspary,  II,  ii,  804. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  463 

DECADENZA.  —  G.  Paris,  La  source  italienne  de  la  «  Courtisane  amou- 
reuse  »  de  La  Fontaine.  —  Rileva  le  analogie  e  le  dissomiglianze  tra 
la  novella  del  La  F.  e  «  La  cortigiana  innamorata  »  di  Girolamo  Brusoni. 

L  Sanesi,  Spigolature  da  lettere  inedite  di  Girolamo  Gigli.  —  Dal 
carteggio  del  Gigli  con  Francesco  Palma,  conservato  nella  bibl.  di  Lucca. 
Buona  parte  delle  lettere  concerne  la  stampa  delle  commedie  del  Gigli. 

F.  BexNEducci,  Le  lettere  del  Boccalini.  —  Esaminando  le  40  lettere 
politiche  e  stor.  che  Gregorio  Leti  assegnò  a  Trajano  Boccalini,  sostiene 
che  32  di  esse  sono  false,  6  alterate  e  due  sole  veramente  autentiche. 

B.  Croce,  Di  alcuni  giudizi  sul  Gravina  considerato  come  estetico. 
—  Trova  esagerato  il  valore  che  parecchi  critici,  specialmente  il  Reich 
(vedi  Giorn.,  16,  454),  danno  alle  idee  estetiche  del  Gravina,  nelle  quali 
non  gli  sembra  di  ravvisare  le  novità  che  essi  ci  vedono. 

L  Della  Giovanna,  Agostino  Mascardi  e  il  cardinal  Maurizio  di 
Savoia.  —  Episodio  letterario  del  sec.  XVII,  di  cui  si  traccia  la  storia 
col  sussidio  di  lettere  inedite  della  bibl.  universitaria  di  Bologna. 

L.  Piccioni,  Beghe  accademiche.  —  Studia  II  filalete,  voluminosa 
opera  in  difesa  del  Petrarca  pubblicata  nel  1738  da  Biagio  Schiavo,  e 
le  insulse  polemiche  che  la  seguirono. 

0.  Ferrini,  Storia  politica  e  galanteria  in  Arcadia.  —  Parlando  dei 
versi  di  Annibale  Mariotti,  che  «  riempie  del  suo  nome  e  della  sua  ope- 
«  rosità  la  storia  perugina  di  quasi  tutta  la  seconda  metà  del  séc.  XVIII  », 
viene  a  narrare  le  vicende  degli  Arcadi  in  Perugia  (1). 
RINNOVAMENTO.  —  E.  Bertana,  Sulla  pubblicazione  delle  prime  dieci 
tragedie  dell" Alfieri.  —  Dando  in  luce  una  lettera  inedita  deirabate 
Valperga  di  Caluso,  mostra  come  fosse  dall'Alfieri  strascicata  per  due 
anni  (1783-84)  l'edizione  senese  delle  prime  tragedie,  per  malcontento 
sorto  nell'animo  dell'autore  a  motivo  dell'accoglienza  poco  benevola  fat- 
tagli dalla  critica. 

A.  Belloni,  Intorno  a  una  tragedia  del  Goldoni.  —  Oltreché  alla 
novella  del  Lesage,  l'Enrico  re  di  Sicilia  è  inspirato  ad  un  dramma  di 
G.  A.  Cicognini.  Peccato  che  su  quei  componimenti  drammatici,  i  quali 
sono  tutti  derivati  dal  Casarse  por  vengarse  di  Francisco  de  Rojas,  il 
B.  non  abbia  conosciuto  l'utile  memoria  speciale  di  L.  Peter,  di  cui 
parlò  questo  Giornale.,  32,  447-48. 

E.  Maddalena,  Una  lettera  ined.  del  Goldoni.  —  Con  l'usata  compe- 
tenza e  con  l'aiuto  d'una  lettera  finora  ignota,  ritesse  la  storia  deìV Avaro 
fastoso,  che  fu  la  seconda  commedia  scritta  dal  Goldoni  in  francese.    R. 


(1)  In  memoria  di  Annibale  Mariotti  è  il  titolo  di  uno  speciale  volume  uscito  di  recente  (Pe- 
rugia, Guerra,  1901),  del  quale  ci  sarà  grato  discorrere  in  seguito.  In  quel  volume  si  legge  un 
altro  lavoro  del  prof.  0.  Ferrini  su  Annibale  Mariotti  nell'opera  sua. 


Per  assolata  mancanza  di  spazio  sono  rimandati  al  fascicolo  pros- 
simo gli  Annunzi  analitici  e  le  Pubblicazioni  nuziali. 

La  Direzione. 


COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 


Il  €  Paulus  »  DI  P.  P.  Verqerio.  —  Nei  Wiener  Studien^  XXII,  (1900)» 
pp.  236  sgg.  K.  Mùllner  ha  pubblicato  intero,  per  la  prima  volta,  il  Paulus 
di  Pier  Paolo  Vergerlo,  da  due  codici,  l'Ambros.  G.  12  sup.  e  il  Vatic.  6878. 
Il  protagonista  Paulus  (che  l'autore  abbia  voluto  un  po'  raffigurare  sé  stesso  ?) 
è  uno  scolaro  di  quart'anno  d'università,  che,  per  esser  ricco,  invece  di  at- 
tendere a  studiare,  si  dà  alla  bella  vita,  secondato  in  ciò  e  aiutato  dal  servo 
Erote,  un  briccone  matricolato,  il  quale  giunto  che  è  a  procacciare  al  pa- 
drone una  donnetta  discreta,  ne  fa  prima  l'assaggio  lui.  L'azione  si  svolge 
durante  le  vacanze  natalizie  (83)  ;  l'editore  non  sa  se  nello  Studio  di  Padova 
0  di  Bologna  :  certamente  di  Bologna,  poiché  si  nomina  la  porta  Ravegnana 
(in  Ravennensem  portarti  165},  che  allora  con  la  cinta  antica  giaceva  tra 
le  due  torri. 

La  commedia  non  ha  vero  intreccio;  ma  le  scene  presentano  molta  viva- 
cità e  movimento  e  ben  delineati  vi  sono  i  caratteri  ;  lo  scopo  di  essa  è 
soprattutto  morale,  mirando  a  mostrare  quantum  sii  inimica  bonis  studiis 
rerum  copia  (8).  II  modello  è  Terenzio,  di  cui  sono  specialmente  adoperate 
VAndria  e  V Eunuchus,  quantunque  il  Vergerlo  si  conservi  assai  indipen- 
dente. Un'altra  fonte  degna  di  essere  rilevata  sono  i  Priapea,  dalla  cui 
frase  «  da  raihi,  quod  tu  des  licet  assidue,  nil  taraen  inde  perit  >  (III,  1-2) 
deriva  al  Paulus  «  quodque  cum  det,  nihil  minus  habeat  >  (527-528);  e  non 
farà  meraviglia  a  chi  pensi  che  i  Priapea  erano  già  noti  nella  seconda  metà 
del  sec.  XIV,  alla  quale  appartiene  la  commedia.  E  che  quello  fosse  il  tempo, 
risulta  dal  chiamarsi  iuvenis{2)  l'autore,  non  ci  essendo  nessuna  ragione  di 
negargli  fede.  Sorgono  però  due  scrupoli  :  l'uno  della  denominazione  di  Sti- 
chus  data  al  servo,  la  quale  ritorna  nello  Stichus  di  Plauto,  una  delle  dodici 
commedie  ricomparse  alla  luce  solo  nel  1429,  ma  il  Vergerlo  l'avrà  potuta 
desumere  da  qualche  altra  fonte,  tanto  più  che  tra  i  due  personaggi  non  c*è 
nessuna  affinità.  L'altro  scrupolo  viene  dai  termini  protasis  epitasis  cata- 
strophe,  usati  a  designare  i  tre  momenti  capitali  dell'azione  :  termini  che  si 
incontrano  massimamente  nel  commento  di  Donato  a  Terenzio,  scoperto  anche 
questo  tardi,  vale  a  dire  nel  •1433;  ma  non  ivi  solo,  perchè  di  là  son  pas- 
sati nei  margini  dei  codici  terenziani  e  fino  nel  glossario  di  Papia  (circa 
1063;  Studi  ital.  di  filologia  class.,  Il,  40-41);  anzi  in  uno  di  quei  codici 
(i6.,  V,  303)  occorro  la  parola  chorus,  con  cui  il  Vergerlo  distingue  il  dia- 
logo fra  tre  o  più  persone  da   quello  fra  due,  che  egli  chiama  diverbium. 


COMUNICAZIONI   ED   APPUNTI  465 

Dunque  diamo  bando  agli  scrupoli  e  assegniamo  il  Paulus  alla  seconda 
metà  del  sec.  XIV:  e  cosi  la  scuola  padovana,  che  aveva  prodotto  col  Mus- 
sato la  prima  tragedia  latina  di  imitazione  classica  ,  produsse  col  Vergerlo 
anche  la  prima  commedia. 

Il  Paulus  è  scritto  in  versi:  ahimè  quali  versi!  Nei  primi  177  p.  es.  non 
si  riesce  con  molta  buona  volontà  a  trovarne  più  che  8  giusti.  L'editore 
spera  luce  dal  trattato  di  metrica  del  Vergerio  :  vana  speranza!  tra  poco  io 
ne  darò  notizia  e  sarà  una  delusione.  Egli  doveva  dedurre  la  sua  metrica 
comica  da  Terenzio:  senonchè  questo  autore  nel  medio  evo  si  scriveva  a 
uso  prosa;  e  quando  si  provarono  a  restituirne  i  metri,  quei  poveri  umanisti, 
non  escluso  il  Petrarca  (Studi  ital.,  V,  317-320),  composero  schemi  assurdi 
e  ridicoli. 

Il  testo  che  abbiamo  sott'occhio  è  in  generale  leggibile,  e  pur  dove  la  le- 
zione è  guasta,  se  ne  indovina  il  senso.  Propongo  alcuni  emendamenti. 

8  nascere;  dalla  lez.  nasce  dei  codici  è  meglio  trarre  nosse. 

43  unus]  usui  (?). 

154  terminato]  interminato  (da  interminarì). 

208  responde.  La  lez.  respondes  dei  codici  è  giusta  e  forma    una  pro- 
posizione interrogativa. 

225  cepa.  Dalla  lez.  sepo  dei  codici  si  trae  sebo. 

246-247  Connixit;  astruendum  est  è  detto  tra  sé;  immo  vero  ad  alta 
voce;  perciò  si  metta  punto  dopo  est. 

256  quum  primum.  La  lez.  dei  codici  quam  primum  va  conservata  e 
corrisponde  all'uso  umanistico. 

262  ne]  nec. 

264  omnia]  omnino. 

292  si  modo,  infide,  morior,  prò  quo]  si  modo  in  fide  morior,  prò  qua. 

321  Sentio]  Senior. 

332  Virum]   Utrum. 

333  asciscitl  obivit  (?). 

350  fuit.  Dalla  lez.  dei  codici  fiat  si  trae  meglio  fuerat. 

460   Vale]   Yak. 

584  insulsum\  inlusum. 

586  quidvis]  quidquid. 

673.  Le  parole  ah  quid  —perierint  pare  che  vadano  attribuite  a  Ursula. 

Remigio  Sabbadini. 


ORONA_CA. 


PERIODICI. 


Bollettino  della  Società  di  storia  patria  negli  Abruzzi  (XI li,  26);  L.  Pa- 
latini, Jacopo  Donadei  e  i  suoi  diarii^  vanno  dal  1407  al  1414,  e  sono  qui 
ripubblicati  con  illustrazioni  storiche. 

Bollettino  della  R.  Deputazione  di  storia  patria  per  V  Umbria  (Wll,  2): 
T.  Guturi,  Angelo  degli  Ubaldi  in  Firenze,  con  documenti  dell'archivio 
fiorentino  chiarisce  l'ultimo  ventennio  del  celebre  giureconsulto,  dal  1381 
alla  sua  morte  avvenuta  il  4  sett.  1400,  illustrando  le  sue  ambascerie  in 
Firenze  e  la  sua  lettura  in  quello  Studio  (tra  i  documenti  sono  lettere  di 
Goluccio  Salutati);  D.  Tordi,  La  stampa  in  Orvieto  nei  secoli  XVI  e  XVII^ 
in  continuazione,  parecchie  rappresentazioni  sacre  e  qualche  contrasto  no- 
tevole; L.  Fumi,  Una  epistola  dei  k  poverelli  di  Cristo*  al  comune  di 
Narni,  nuovo  contributo  alla  storia  dello  scisma  francescano;  (VII,  3), 
C.  Trabalza,  Due  letterati  reatini  e  il  Torti  di  Bevagna^  i  due  letterati 
sono  il  Goletti  ed  A.  M.  Ricci:  A.  Sacchetti  Sassetti,  /  maestri  di  gram- 
matica in  Rieti  sullo  scorcio  del  medio  evo;  L.  Fumi,  Cose  reatine  neU 
Varchivio  segreto  e  nella  biblioteca  del  Vaticano^  contiene  notizie  impor- 
tantissime di  Tommaso  Morroni  da  Rieti;  G.  Degli  Azzi,  Lettere  inedite  di 
A.  M.  Ricci  a  G.  B.  Vermiglioli\  G.  Bellucci,  Leggende  della  regione 
reatina.  —  Tutto  il  fascicolo  interessantissimo  concerne  Rieti  e  la  sua  storia. 

Bullettino  della  Società  dantesca  ifa/mna  (Vili,  9-10):  F.  Tocco,  Questioni 
cronologiche  intorno  al  «  De  Monarchia  »  di  Dante.  —  Nel  laborioso  arti- 
colo bibliografico  dell'Angelitti  sugli  Accenni  al  tempo  del  Moore  sono 
considerazioni  preziose  d'ordine  generale  intorno  alla  scienza  astronomica 
posseduta  da  Dante. 

Atti  della  R.  Accademia  di  Palermo  (Serie  III,  voi.  VI):  F.  Angelitti, 
Sulle  principali  apparenze  del  pianeta  Venere  durante  dodici  sue  rivolu- 
zioni sinodiche  dal  1290  al  i309  e  sugli  accenni  ad  esse  nelle  opere  di 
Dante. 

Giornale  di  scienze  naturali  ed  economiche  (voi.  XXIII)  :  F.  Angelitti, 
Discussioni  scientifico-dantesche  su  le  stelle  che  cadono  e  le  stelle  che 
salgono^  su  le  regioni  dell'aria,  su  Valtezza  del  Purgatorio^  in  polemica 
con  V.  Russo  ed  a  sostegno  di  aflfermazioni  anteriori. 

Bullettino  storico  pistoiese  (HI,  3):  G.  Zaccagnini,  Le  osservazioni  di  Nic- 
colo, Villani  alla  «  Gerusalemme  liberata  »;  G.  Volpi,  Giuseppe  Giusti  e 
Pietro  Contrucci,  con  lettere  inedite. 

Bollettino  storico  della  Svizzera  italiana  (XXIII,  7-9):  C.  Saivioni,  No- 
terelle  di  toponomastica  lombarda. 

Almanacco  manuale  della  provincia  di  Como  pel  i90i  (an.  64»):  F.  Sco- 
lari, Bibliografia  delle  pubblicazioni  edite  per  le  feste  centenarie  della 
pila  voltiana;  S.  Monti,  La  guerra  di  Pisa  (1494-1509)  contro  Firenze  e 


CRONACA  467 

quattro   sonetti   contenuti   negli   Annali  mss.  di  Fr.  Muralto  riferentisi 
ad  essa. 

Emporium  (n»  72):  L.  Torri,  //  gioco  del  ponte,  a  Pisa,  ne  rintraccia  là 
storia,  dandone  buone  illustrazioni  grafiche;  (n°  74),  G.  Ricci,  Il  beato  Si- 
monino,  illustra  questa  mostruosa  leggenda  antisemitica  trentina  del  sec.  XV, 
intorno  alla  quale  sappiamo  che  vien  facendo  felici  ricerche  il  nostro  coo- 
peratore G.  Zippel  ;  (n°  78),  P.  Molmenti,  Le  vesti  e  il  costume  degli  antichi 
Veneziani;  (n°  79),  V.  Lonati,  Un  tiranno  del  Quattrocento,  Sigismondo 
di  Pandolfo  Malatesta;  E.  Verga,  L'esposizione  cartografica  di  Milano, 
con  molte  antiche  vedute  e  piante  della  metropoli  lombarda.  Poco  modificato 
quest'articolo  riapparve  nella  Bibliofilia,  111,  142  sgg. 

La  Favilla  (1901):  G.  Degli  Azzi,  Saggio  di  un  commento  alla  Divina 
Commedia,  è  il  commento  del  cod.  L.  70  della  Comunale  di  Perugia, 

Bullettino  senese  di  storia  patria  (Vili,  2)  :  L.  Zdekauer,  Studi  sulla 
criminalità  italiana  nel  Dugento  e  Trecento,  qui  considera  particolarmente 
la  Quaestio  d'Alberto  di  Gandino,  che  ha  grande  importanza  siccome  una 
delle  prime  teorie  penali  formulate  nel  dugento;  L.  Galante,  Un  ipotesi  sul 
ritratto  dell'uomo  ammalato,  congettura  che  il  bel  ritratto  n"  3458  esistente 
nella  Tribuna  degli  Uffizi  e  assegnato  dal  Ridolfi  a  Sebastiano  del  Piombo 
rappresenti  Claudio  Tolomei. 

Giornale  storico  e  letterario  della  Liguria  (II,  7-9)  :  A.  Poggiolini,  Un 
poeta  scapigliato,  Marco  Lamberti,  diligente  scritto  su  questo  rimatore 
giocoso  fiorito  in  Toscana  tra  la  fine  del  cinquecento  ed  il  principio  del 
seicento:  A.  Ferretto,  Medici,  medichesse,  maestri  di  scuola  ed  altri  bene- 
meriti di  Rapallo  nel  sec.  XY;  F.  FofFano,  Il  catalogo  della  biblioteca  di 
Paolo  Beni,  del  1623,  esistente  ms.  nella  Marciana. 

Archivio  della  R.  Soc.  romana  di  storia  patria  (XXIV,  1-2):  P.  Tacchi - 
Venturi,  Un  ruolo  inedito  dell'archiginnasio  romano  sotto  Paolo  III,  do- 
cumento rilevante  per  la  storia  della  Sapienza,  rinvenuto  nel  R.  Archivio 
di  Stato  in  Parma. 

Archivio  storico  italiano  (XXVII,  222):  CI.  Lupi,  La  casa  pisana  e  i  suoi 
annessi  nel  medioevo,  estesa  «lemoria  in  continuazione,  condotta  su  nume- 
rosi documenti  ,ed  interessantissima  per  la  storia  del  costume  ed  anche  per 
quella  della  lingua;  G.  Uzielli,  L" orazione  della  misura  di  Cristo,  stampata 
su  fogli  volanti  ora  rarissimi,  fu  con  quella  di  S.  Giuliano  ospitaliere  ,una 
delle  più  diffuse  orazioni  dell'età  media. 

Atti  della  R.  Accademia  delle  scienze  di  Torino  (XXXVI,  14):  C.  Ci- 
polla, Nuove  notizie  sulle  relazioni  del  p.  Luigi  Tosti  col  Piemonte  ; 
(XXXVI,  15),  C.  Salsotto,  Per  l'epistolario  di  Carlo  Botta,  dà  notizie  ac- 
curate delle  lettere  edite  del  Botta,  disseminate  in  pubblicazioni  varie,  e 
anche  di  molte  inedite,  con  lo  scopo  di  giovare  a  chi  su  quei  documenti 
vorrà  un  giorno  ricostruire  la  biografia  dell'insigne  storico  (1). 

Il  Saggiatore  (I,  2):  L.  Torri,  Un  grande  dimenticato.  Luca  Marenzio, 
celebre  madrigalista  del  sec.  XVI;  (1,3),  L.  Perroni-Grande,  Per  la  storia 
della  varia  fortuna  di  Dante  nel  seicento,  esamina  due  discorsi  sulla  lingua 
siciliana  di  Giovanni  Ventimiglia,  che  si   leggono  mss.  in  un  codice  della 


(1)  Lo  stesso  dr.  Salsotto  ha  pubblicato  (Torino,  tip.  Vinciguerra,  1901)  Una  notieia  inedita 
su  Carlo  Botta.  Si  tratta  della  traduzione  che  il  Botta,  stretto  dal  bisogno,  fece  nel  1809  d'un 
trattato  francese  di  storia  naturale.  Il  ms.  di  essa  traduzione  è  conservato  nel  R.  Archivio  di 
Stato  in  Modena.  —  Alla  bibliografia  delle  lettere  stampate  fece  alcune  aggiunte  G.  Roberti  nel 
Fan/uUa  della  domenica,  XXIII,  38. 


468  CRONACA 

Vittorio  Emanuele  di  Roma;  G.  Galletti,  La  poesia  mistica  nel  sec.  XUI; 
(I,  6),  L.  Perroni -Grande,  Dante  e  V accademia  della  fucina,  rileva  le  re- 
miniscenze dantesche  nelle  poesie  di  quelli  accndemici  secentisti  di  Messina; 
A.  Mari,  Un  cinquecentista  spagnunlo  imitatore  di  Dante,  breve  appunto 
su  Diego  Guillem  de  Avila,  canonico  di  Palencia,  che  compose  un  poema 
ad  imitazione  di  Dante;  (I,  8),  G  P.  Clerici,  La  lingua  dei  Promessi 
Sposi  e  il  suo  primo  indice  analitico  metodico,  riguarda  il  paziente  Indice 
analitico  metodico  delle  correzioni  dei  P.  S.  compilato  da  Gilberto  Boraschi 
(Milano,  Briola,  1900),  strumento  molto  utile  per  chi  faccia  studi  di  lingua. 

La  lettura  (I,  7):  F.  Novali,  Un  nuovo  ^tratto  del  Petrarca,  quello  av- 
vertito dal  De  Nolha'%  su  cui  già  richiamammo  l'attenzione  dei  lettori  nostri 
nel  Giornale,  8><,  250;  G.  Salvioni,  /  dialetti  alpini  d'Italia,  articolo  dili- 
gentissimo  e  di  grande  utilità,  dovuto  ad  uno  dei  migliori  conoscitori  della 
materia. 

U Ateneo  veneto  (XXIV,  II,  1):  D.  Olivieri,  Nomi  di  popoli  e  di  santi 
nella  toponomastica  veneta;  E.  Maddalena,  Un  aato-dn-fe  a  Ragusa  nel 
i860,  si  tratta  delle  poesie  di  Arnaldo  Fusinato  pubblicamente  bruciate  nel 
collegio  gesuitico  di  Ragusa. 

Le  Marche  (I,  6):  P.  Provasi,  //  donativo  oppugnato  e  difeso^  opera 
inedita  di  Benedetto  Fabbretti  d'Urbino,  in  qiìesta  polemica  secentistica  in 
versi  merita  nota  speciale  un  Pater  noster  satirico:  (1.  7),  G.  Baccini,  Co- 
dici  inviati  a  Guidantonio  da  Montefeltro  duca  d'Urbino  il  14  agosto  Ì4i7 \ 
G.  Zaccagnini,  ^Lettere  di  eruditi  illustri  a  un  erudito  urbinate  del  se- 
colo XVIII,  in  continuazione,  l'erudito  urbinate  è  Pier  Girolamo  Vernaccia 
e  nella  sua  voluminosa  corrispondenza  lo  Z.  utilizza  in  particolar  guisa  le 
molte  lettere  che  gli  diresse  Gio.  Mario  Grescimbeni. 

Miscellanea  storica  della  Yaldelsa  (IX,  25):  N.  Tarchìani,  Un  idillio 
rusticale  e  altre  rime  di  Baccio  del  Bene,  in  continuazione,  qui  si  narra 
con  l'aiuto  di  qualche  nuovo  documento  la  biografia  di  quel  Bartolomeo  del 
bene,  delle  cui  rime  già  si  occuparono  il  Couderc  e  il  Carducci  (v.  Giorru, 
36,  263);  U.  Marchesini,  Ricordi  storici  poggibonsest,  riguardano  i  rapporti 
del  Galilei  con  l'amico  suo  Niccolò  Cini:  ÌVIanicardi  e  Massòra,  Le  dieci 
ballate  del  Decameron,  studietto  notevole  intorno  agli  amori  del  Boccaccio 
ed  alla  sua  produzione  lirica;  L.  Dini,  Suppellettili  e  masserizie  di  una  casa 
signorile  in  Colle  Valdelsa  nel  1520,  pul}blica  senza  illustrazioni  un  inven- 
tario che  si  trova  nell'Archivio  di  Stato  fiorentino. 

Bullettino  bibliografico  sardo  (I,  7-8):  Fanny  Manis,  Curiosità  leopar- 
diane, pubblica  una  lettera  di  Pier  Francesco  Leopardi  a  Felice  Le  Monnier, 
in  data  Recanati,  1  agosto  1849,  che  riguarda  gli  scritti  giovanili  di  Gia- 
como; (I,  9),  P.  Lutzu,  Eleonora  d'Arborea  nella  tradizione  popolare  sarda^ 
nella  leggenda  e  nella  storia. 

In  cammino  (an.  1901):  E.  Foà,  Lo  spirito  morale  di  A.  Ma nzoni^  spe- 
cialmente nei  Promessi  Sposi. 

Atti  dell'Ateneo  di  Bergamo  (voi.  XVI):  A.  Mazzoleni,  *  Amor  che  a 
€  nullo  amato  amar  perdona  »,  nota  dantesca  con  appendice  bibliografica 
dell" intero  episodio  di  Francesca  da  Rimini. 

Rivista  internazionale  di  scienze  sociali  (n"  104):  L.  Chiappelli,  Per  la 
storia  delle  fonti  e  della  letteratura  giuridica  nel  medio  evo;  F.  Ermini, 
Il  €  Dies  irae  »  e  Vinnologia  ascetica  nel  see.  Xllf,  in  continuazione. 

Atti  dtl  R.  Istituto  veneto  (LX,  6):  G.  Biadego,  Galeazzo  Florimonte  e 
il  Galateo  dì  mons.  Della  Casa,  su  lettere  sparsamente  pubblicate  (una 
inedita)  si  studia   il   B.  di  ricostruire  la  figura  morale  del  Florimonte,  mo- 


CRONACA  469 

strandc  ch'egli  era  tal  persona  che  a  lui  il  Della  Gasa  poteva  degnamente 
inspirarsi  nel  comporre  il  Galateo  e  che  fors'anzi  nel  suo  libro  delie  inettie 
egli  ne  trovò  il  germe;  (LX,  8),  F.  Cipolla,  Cose  dantesche,  1°,  Il  diritto 
di  punire,  contro  l'interpretazione  che  il  Sighele  dà  della  giustizia  punitiva 
usata  da  Dante;  2',  Ancora  due  parole  intorno  alle  risiwnanze  nella  Di- 
vina Commedia;  3",  L'occhio  riposato,  x^e\VInf.,  IV,  4. 

Tridentuni  (IV,  4):  G.  Pedrotti,  Contributo  alla  toponomastica  della  zona 
Marzola-Chegul;  A.  Pranzelòres,  Per  la  storia  del  rinascimento  nel  Tren- 
tino; F.  Largaiolli,  Un  gruppo  di  lettere  inedite  di  Gir.  Tartarntti  a 
G.  M.  MazziicheW ,  sei  lettere  ricavate  dagli  autografi  della  Vaticana, 
trattanti  quasi  tutte  soggetti  eruditi  e  seguite  da  un  saggio  di  bibliografia 
tartarottiana;  E.  Lorenzi,  Osserixizioni  storiche  ed  etimologiche  sui  casati 
d'Avio. 

Bollettino  del  museo  civico  di  Padova  (IV,  3-4):  A.  Benacchio,  Pio  Enea 
secondo  degli  Obizzi  letterato  e  cavaliere,  memoria  condotta  su  documenti 
inediti.  Vi  sono  indicazioni  sugli  spettacoli  scenici  del  principio  del  sec.  XVII, 
di  cui  rObizzi  fu  ideatore. 

Atti  della  1.  R.  Accademia  degli  Agiati  in  Rovereto  (Serie  III,  voi.  VII): 
C.  T.  Postinger.  Documenti  in  volgare  trentino  della  fine  del  trecento  re- 
lativi alla  cronaca,  delle  Giudicar ie. 

Rendiconti  del  R.  Istituto  lombardo  (XXXI V,  11- 12):  M.  Germenati, 
Una  lettera  geologica  e  patriottica  di  A.  Volta;  (XXXIV,  13\  F.  Nevati, 
Sulla  leggenda  di  re  Teoderico  in  Verona,  in  continuaz.  ;  (XXXIV,  14-15), 
G.  Riva.  Le  visite  del  cardin.  Durini  alle  case  del  Parini  e  del  Balestrieri; 
(XXXIV,  16),  A.  Ratti,  Bonvesin  della  Riva  appartenne  al  ter z'  ordine 
degli  umiliati  od  al  terz' ordine  di  S.  Francesco?,  dotta  esposizione  di  dubbi 
storici  ragionevoli. 

Napoli  nobilissima  (X,  9):  B.  Groce,  La  casa  di  una  poetessa.  Laura 
Terracina.  Nell'articolo  non  si  parla  solamente  della  casa  di  quella  verseg- 
giatrice  cinquecentista,  ma  anche  della  sua  famiglia,  delle  sue  relazioni  let- 
terarie, dei  casi  della  sua  vita,  delle  edizioni  e  dei  codici  delle  sue  rime,  e 
si  riproducono  suoi  ritratti. 

Rassegna  d'arte  (T,  7):  0.  Scalvanti,  Iconografia  di  San  Bernardino 
da.  Siena. 

Rivista  delle  biblioteche  e  degli  archivi  (XII,  6-7):  G.  Baccini,  Ricordi 
su  Vittorio  Alfieri,  quisquilie  di  scarsissimo  valore;  F.  Cavicchi,  Lettere 
inedite  di  G.  Tiraboschi  a  G.  G.  Trombelli,  esistenti  nella  biblioteca  uni- 
versitaria di  Bologna. 

Rassegna  bibliografica  della  letteratura  italiana  (IX,  5-7)  :  D.  Provenzal, 
Un  maggio  satirico  del  secolo  XVII,  poesia  insipida  per  lo  meno  quanto 
volgare*  scritta  (si  disse  dal  pisano  Angelo  Poggesi)  nel  1629  contro  il  ca- 
valier  francese  De  la  Croix:  (IX,  8-9),  E.  Teza,  L'Esopo  tradotto  da  N.  Tom- 
maseo; E.  Teza,  Un  centone  pindarico  nelle  opere  di  U.  Foscolo;  I.  Sanesi, 
Sul  V.  4  del  ritmA)  cassinese,  la  novità  consiste  nel  non  considerare  flagello 
come  un  verbo,  ma  come  un  sostantivo  equivalente  a  fleolum  della  bassa 
latinità,  fascio  di  candele;  D'Ancona,  Lettere  di  illustri  scrittori  francesi 
ad  amici  italiani,  ricompare  qui  la  recentissima  pubblicazione  nuziale,  di 
cui  è  detto  nel   Giornale,  38,  236. 

Rassegna  critica  della  letteratura  italiana  (VI,  i-i):  E.  Sannia,  Gli  spi- 
riti dell' antinferno;  E,  Perito,  Il  Decameron  nel  «.Filosofo»  di  P.  Are- 
tino, l'Aret.  nel  prologo  cita  una  novella  del  Decani,  come  fonte  del  primo 
intrigo  della  sua  commedia,  mentre  il  P.  mostra  che  dal  Boccaccio  è  tolto 


470  CRONACA 

anche  il  secondo  intrigo  e  ne  conclude  che  l'Aretino  è  molto  più  sovente 
imitatore  di  quello  eh  egli  faccia  credere  proclamando  cosi  altamente  la 
propria  originalità;  G.  F.  Damiani,  Intorno  ai  sonetti  del  Monti  €  Sulla 
€  morte  di  Giuda  »,  il  M.  si  è  inspirato  ai  auattro  sonetti  su  Giuda  del 
cav.  Marino,  ma  non  è  questa  la  prima  volta  cne  si  accenna  a  siffatta  ana- 
logia; (VI,  5-8),  E.  Proto,  G.  M.  Verdizzotti  e  il  «  Rinaldo  »,  l'articolo 
tende  a  dimostrare  che  se  non  è  vero  che  il  Verdizz.  abbia  ispirato  la  Ge- 
rusalemme^ è  invece  verissimo  che  il  primo  canto  del  suo  Aspromonte  fu 
imitato  nel  Rinaldo  ;  B.  Croce,  Varietà  di  storia  dell'estetica  :  I,  Un  verso 
di  Lucano  nelle  discussioni  degli  estetici  della  fine  del  sec.  XVII  e  del 
principio  del  XVIII,  è  il  v.  128  del  primo  della  Pharsalia;  II,  Un  pen- 
siero critico  nuovo,  è  la  verità  affermata  dal  conte  Fr.  Montani  che  per 
giudicare  l'opera  d'arte  bisogna  rinnovare  in  sé  la  condizione  psicologica  di 
chi  la  produsse.  Ambedue  queste  note  riguardano  la  famosa  polemica  Orsi- 
Bouhours,  su  cui  tornò  recentemente  A.  Boeri.  Cfr.  Giornale^  36,  255. 

Rassegna  bibliografica  dell'arte  italiana  (IV,  1-4):  A.  Fraschetti,  Varte 
di  Benvenuto  CeÙini,  a  proposito  del  libretto  del  Supino  di  cui  si  occupò 
anche  il  nostro  Giornale,  38,  227. 

Giornale  dantesco  (IX,  4-6):  F.  Flamini,  Il  fine  supremo  e  il  triplice 
significato  della  Commedia  di  Dante;  G.  A.  Cesareo,  La  patria  di  Guido 
delle  Colonne;  M.  Scherillo,  La  forma  architettonica  della  Vita  Nuova, 
con  arguzia  e  bontà  di  ragioni  mostra  come  sia  fantastica  la  simmetria  nella 
costruzione  della  V.  N.,  trovata  dall'americano  Kliot  Norton  e  accolta  con 
plauso  da  alcuni  dantisti  inglesi,  fra  cui  il  Moore;  (IX,  7),  L.  Filomusi- 
Guelfi,  Il  simbolo  di  Catone  nel  poema  di  Dante;  A.  Trauzzi,  Un  fram- 
mento della  Commedia  nell'Archivio  di  Stato  in  Bologna;  P.  Camberà, 
La  topografia  del  viaggio  di  Dante  nel  Paradiso;  V.  Russo,  Le  remini- 
scenze della  D.  Commedia  nelle  poesie  di  G.  B.  Marino;  (IX,  8),  F.  Tor- 
raca,  A  proposito  di  Guido  delle  Colonne;  G.  Federzoni ,  Breve  trattato 
del  Paradiso  di  Dante;  G.  Brognoligo,  Chiosa  dantesca  a  Purgatorio, 
XX,  43-45. 

Gazzetta  musicale  (1901,  n»  23):  R.  Barbiera,  G.  Verdi  e  A.  Maffei. 

La  bibliofilia  (III,  2-3):  A.  C.  Nordenskiòld,  Dei  disegni  marginali  negli 
antichi  manoscritti  della  «  Sfera  »  del  Dati  (1);  C.  Mazzi,  Sonetti  di  Felice 
Feliciano,  descrive  un  codice  di  prose  e  rime  dell'Antiquario,  che  si  trova 
presso  il  libraio  Olschki. 

Miscellanea  francescana  (Vili,  3):  M.  Faloci  Pulignani,  Vita  di  S.  Fran- 
cesco e  dei  suoi  compagni,  testo  inedito  di  volgare  umbro  del  XIV  secolo, 
conservata  in  un  ms.  di  Todi  ed  in  un  Capponiano  della  Vaticana,  rilevante 
anche  per  la  lingua;  (Vili,  4),  M.  Faloci  Pulignani,  Notizia  di  un  confes- 
sore di  S.  Francesco;  (Vili,  5),  M-  Faloci  Pulignani,  Il  €  Liber  conformi- 
€  tatum  »  del  p.  Bartolomeo  da  Pisa  ;  Idem,  La  visione  del  beato  Tom- 
masuccio,  ripubblica  questo  testo  volgare,  attenendosi  ad  un  ms.  dell'Estense 
di  Modena. 

Bollettino  della  Società  geografica  italiana  (Serie  IV,  II,  8):  G.  Crocioni. 
La  toponomastica  di   Velletri. 

Rivista  geografica  italiana  (Vili,  8):  A.  E.  Nordenskiòld,  Intorno  all'in- 
fluenza dèi  €  Viaggi  di  Marco  Polo  >  sulle  carte  dell'Asia  di  Giacomo 
Gastaldo,  questo  interessante  articolo  è  qui  tradotto  dallo  svedese,  con  ag- 
giunte di  Grius.  di  Vita. 


(1)  Cfr.  in  proposito  la  lettera  di  D.  Marzi  nella  stessa  Bibliofilia,  III,  187. 


CRONACA  471 

La  rassegna  nazionale  (voi.  119):  G.  Gnerghi,  La  Beatrice  dell'età 
nostra;  k.  Bertoldi,  Il  Tommaseo  e  il  Vieusseux,  articolo  pieno  di  curiosità 
per  i  giudizi  caustici  su  uomini  e  cose  dedotti  dal  ricchissimo  carteggio  del 
Tommaseo  ora  depositato  nella  Nazionale  di  Firenze  (1);  A.  Gervesato»  La 
satira  del  «  Giorno  »;  G-  0.  Gorazzini,  Il  luogo  ove  fu  arso  fra  Girolamo 
Savonarola;  G.  Paladini,  5.  Francesco  d'Assisi  nell'arte  e  nella  storia 
lucchese;  G.  Schnitzer,  Giudizi  del  Pastor  sul  Savonarola;  (voi.  120), 
G.  Gnerghi,  Frate  Girolamo  Savonarola  nelle  lettere  e  per  le  arti;  G.  Vi- 
sconti Venosta,  Carlo  Porta  e  i  suoi  predecessori;  A.  Schanzer,  Il  Leopardi 
in  Inghilterra;  P.  Molmenti,  Le  lettere  e  le  arti  nei  due  ultimi  secoli 
della  repubblica  veneta. 

Studi  e  documenti  di  storia  e  diritto  (XXII,  1-2):  P.  Tacchi- Venturi, 
Vittoria  Colonna,  fautrice  della  riforma  cattolica,  secondo  alcune  sue 
lettere  inedite,  le  lettere  sono  estratte  dalle  carte  farnesiane  dell'Archivio 
di  Stato  di  Napoli. 

Giornale  araldico  (XXVIII,  2):  F.  Ceretti,  Famiglia  Susi  della  Miran- 
dola, con  speciali  notizie  del  letterato  G.  B.  Susio,  intorno  al  quale  v^di 
anche  questo  Giorn.,  30,  516  e  Arch.  stor.  lomb.,  28,  409. 

Archivio  storico  siciliano  (XXVI,  1-2):  V.  Labate,  Per  la  biografìa  di 
Costantino  Lascaris,  aggiunge  ai  già  noti  nuovi  documenti  sulla  dimora  del 
Lascaris  a  Messina,  spigolati  nel  R.  Archivio  di  Stato  di  Palermo,  e  li  illustra 
convenientemente. 

Fanfulla  della  domenica  (XXIII,  27):  V.  A.  Arullani,  Dante  e  Giusto 
de'  Conti;  (XXllI,  28),  A.  Golasanti,  Due  strambotti  inediti  per  Antonio 
Vinciguerra  e  un  ritratto  di  Vettor  Carpaccio ,  dal  ms.  Marciano  ital. 
ci.  XI,  67  si  estraggono  illustrandoli  due  anonimi  epigrammi,  l'uno  dei 
quali  concerne  un  ritratto,  che  il  Carpaccio  dipinse,  del  Vinciguerra,  ed  il 
secondo  è,  in  difesa  del  Vinciguerra  stesso,  contro  quel  maledico  Strazzòla, 
che  V.  Rossi  fece  rivivere  nel  voi.  26  di  questo  Giornale  {1);  (XXIII,  29), 
Carletta,  Dove  alloggiò  l'Ariosto  a  Roma;  (XXIII,  30-31),  F.  Fabbrini, 
Uno  squarcio  di  vita  italiana  nel  sec.  XVIII,  da  un  ms.  padovano  conte- 
nente epigrammi  pettegoli  e  satire  ingiuriose:  (XXIII,  32),  A.  Leone,  Perchè 
Venetico  Caccianemici  e  Mirra  sono  in  Malebolge  e  non  in  Codio  ;  (XXIII, 
35),  Giorgio  Rossi,  Il  Malmocor,  parodia  di  melodramma  tragico  dovuta  a 
G.  M.  Buini;  (XXIII,  37),  V.  A.  Arullani,  Sulla  Lucia  manzoniana;  E.  Chec- 
chi, Antonio  Salvotti  e  i  processi  del  ventuno,  sul  quale  argomento  interes- 
sante, che  riprenderemo  in  esame,  vedansi  gli  articoli  del  D'Ancona  e  del 
Luzio  nei  nn.  38  e  40;  (XXIII,  38),  G.  Roberti,  Per  l'epistolario  di  Carlo 
Botta:  (XXIII,  39  e  40),  G.  Sliavelli,  Vita,  morte  e  miracoli  di  fra  Dolcino, 
a  proposito  del  libretto  di  0.  Begani,  su  cui  cfr.  questo  Giorn.,  38,  220. 

Rivista  politica  e  letteraria  (XV,  3):  A.  Pierantoni,  Le  leggi  contro  gli 
stregoni  in  Alberigo  Gentili;  (XVI,  1),  E.  Maddalena,  Goldoni  e  Nota,  la 


(l)  Tra  i  letterati,  il  più  fieramente  tartassato  dal  dotto  dalmata  è  il  Giusti:  «  Il  Giusti  era 
«  scrittore  accurato  ed  efficace,  ma  non  osservatore  né  pittore  del  vero.  Le  sue  sono  quasi  sempre 
«  amplificazioni  di  un  solo  e  piccolo  concetto,  talvolta  d'una  semplice  immagine,  onde  ristuccano. 
«Ma  perch'e'dice  sempre  il  medesimo  in  varii  e  bei  modi,  ai  più  piace.  Notizia  storica  de' tempi 
«nostri  v'è  da  cavare  meno  che  dalle  satire  dell'Alfieri  de' suoi:  e  pure  l'Alfieri  esagerava.  Il 
«  Giusti  non  conosceva  punto  il  cuore  umano,  nò  credo  che  avesse  cuore.  Quei  tocchi  d'eterna 
«verità  che  ammirasti  nel  Molière,  nel  Goldoni,  in  Orazio,  indarno  è  sperarli  in  lui.  Tessitore 
«di  versi;  non  altro.  Esagerando,  egli  ha  calunniato  fino  i  re  e  gli  usurai  ».  E  peggio  altrove, 
considerandolo  nella  politica  :  «  il  Giusti,  gamba  di  coniglio  e  cuore  di  gatto,  stenterello  con  le 
«  mutande  di  Dante  ». 

(•2)  Dei  due  componimenti  è  fatta  chiara  menzione  dal  Eossi  medesimo  nel  Giorn.,  XXVI,  55. 


472  CRONACA 

Buona  famiglia  del  Goldoni  imitata  nella  Pace  domestica  del  Nota  ;  (XVI,  3), 
T.  Menni,  Il  prologo  del  «  Decamerone  ». 

Natura  ed  arte  (1901,  n°  15):  L.  Corio,  L'opera  di  Carlo  Cattaneo. 

La  vita  internazionale  (1901,  n©  13):  G.  Salvi,  Di  Carlo  Cattaneo. 

Flcgrea  (111,  1):  A.  Cantalupi,  La  musica  e  V estetica  medioecale;  {\\\,2), 
R.  Ortiz.  L'ideale  muliebre  negli  epigrammi  greci  del  Poliziano. 

Nuova  Antologia  (n»  709):  V.  Gian,  La  più  antica  lirica,  inedita,  su  Cri- 
stoforo Colombo,  un  sonetto  di  Lodovico  Beccadelli,  prelato  bolognese  cin- 
quecentista; (no  711),  M.  Scherillo,  //  Ciacco  della  Div.  Commedia:  Cn"  713), 
M.  Scherillo,  Dante  uomo  di  corte;  (n«  714),  J,  White  Mario,  Lettere  ine- 
dite di  Gius.  Mazzini;  (n»  715),  A.  Bezzi,  Il  ritratto  giottesco  di  Dante  e 
G.  B.  Niccolmi,  pubblica  una  lettera,  veramente  assai  notevole,  con  la  quale 
Giov.  Bezzi  livendica  a  se  il  merito  dello  scoprimento  del  ritratto  di  Dante, 
in  una  lettera  del  30  aprile  1860  diretta  aìVAthenaeum  di  Londra. 

Rivista  d  Italia  (IV,  6):  P.  Petrocchi,  Del  numero  nel  poema  dantesco  ; 
G.  Torta,  Alcuni  sonetti  politici  inedili  di  G.  Prati;  (IV,  7),  F.  Tocco, 
Polemiche  dantesche,  Kraus  e  Grauert;  A.  Schanzer,  Influssi  italiani  nella 
letteratura  inglese;  A.  Zenatti.  Trionfo  d.  amore  ed  altre  allegorie  di  Fran- 
cesco da  Barberino,  in  continuazione:  G.  Mestica,  Il  prim,o  ritratto  di 
G.  Leopardi;  (IV,  8),  1.  Del  Lungo,  Firenze  ghibellina;  G.  P.  Clerici, 
/  Promessi  Sposi  e  i  disegni  di   Gaetano  Previati. 

Atti  della  R.  Accademia  Peloritana  di  Messina  (an.  XV);  F.  Gabotto, 
Di  Sindewala  re  degli  Eruli  nelle  storie  di  Flavio  Biondo;  L.  Perroni- 
Giaiide,  Noticina  foscoliana;   G.  Longo-Manganaro,  L'allegoria  di   Stazio 

nella  Div.   Commedia. 

\ 

Pallade  (1,  4-5):  G.  Checchia,  Il  «e  Consalvo  »  di  G.  Leopardi,  in  con- 
tinuazione. 

Alma  Juventus  (III,  28  e  29):  P.  Tedeschi  e  G.  Curto,  Intorno  al  verso 
di  Dante  «  Poscia  più  che  il  dolor  potè  il  digiuno  »,  nuova  discussione 
sulla  pretesa  tecnofagia  del  conte  Ugolino. 

Atti  della  R.  Accad.  Lucchese  (voi.  31):  A.  Mancini,  Mateldn.  S.  Me- 
tilde  e  S.  Ildegarde,  togliendo  le  mosse  da  un  recente  articolo  dello  Sche- 
rillo, che  rettifica,  ripresenta  la  candidatura  di  Matilde  di  Hackeborn,  già 
sostenuta  dal  Lubin.  Secondo  il  M.  quella  Matilde  tedesca  sarebbe  la  Matelda 
di  Dante.  Gfr.  le  obbiezioni  di  M.  Porena  in  Bullettino  Soc.  Dani.,  N.  S., 
Vili,  225  e  specialmente  quella  validissima  accampata  da  N.  Zingarelli 
nella  Rass.  critica  della  letter.  ital.^  VI,  173. 

La  provincia  di  Modena  (1901,  22-24  giugno):  A.  G.  Spinelli,  Chi  era 
Vabbé  /....  B....  V....  nelle  Memorie  del  Goldoni,  tomo  I,  cap.  18?  Si  tratta 
del  prete  che  il  Goldoni  vide  esposto  in  berlina  a  Modena,  cosa  che  lo  colpi 
tanto  da  fargli  venire  il  desiderio  di  farsi  cappuccino!  Lo  Sp.  prova  ch'e?so 
era  veramente,  come  suppose  il  Lòhner,  il  prete  poeta  Giov.  Batt.  Vicini, 
che  «  condannato  dall'Inquisizione  per  i  molti  suoi  matti  errori  e  per  le  sue 
«  nefande  sporcizie  »,  fece  poi  umile  ammenda  de'  propri  trascorsi. 

Studi  sassaresi  (I,  2):  V.  Pinzi,  Questioni  giuridiche  esplicative  della 
«  Carta  de  logu  »,  tali  questioni  sono  in  dialetto  sardo  e  gioveranno  al  fi- 
lologo. Si  riproducono  da  un  ms.  della  Inbl.  universitaria  di  Cagliari. 

Atti  e  memorie  della  R.  Accademia  di  Padova  (XVII,  2):  A.  Gnesotto, 
Notizia  di  tre  poesie  inedite  di  Giacomo  Vagnone.  Sono  poesie  latine  e  si 


CRONACA  473 

leggono  in  un  ms.  della  biblioteca  comunale  di  Mantova.  Una  di  esse  è  un 
curioso  vanto  del  verseggiatore,  pronunciato  dopo  la  sua  coronazione  in  Ve- 
nezia nel  1496.  Pubblicando  queste  poesie,  lo  Gn.  dà  parecchie  notizie  del- 
l'umanista piemontese  che  le  scrisse. 

La  Tribuna  (7  sett.  1901):  San  Gerolamo  degli  Schiavoni  nel  passato. 
Vi  si  comunica  un  documento^  assai  interessante  scoperto  dst  Domenico  Tordi 
in  un  ms.  della  Gasanatense.  È  una  sentenza  di  Pietro  Bembo,  delegato  da 
Paolo  HI  a  comporre  una  questione  sorta  nell'ospizio  di  S.  Girolamo  degli 
Illirici.  11  Bembo  definì  la  questione  e  dettò  in  italiano  nuovi  s^tuti  del- 
l'ospizio, che  furono  ratificati  con  un  editto  dal  22  maggio  1541.  Quest'editto 
porta  la  firma  di  Marc'  Antonio  Flaminio.  Ecco  pertanto  due  nomi  illustri 
di  uomini  di  lettere  mescolati  alle  vicende  dell'antico  istituto,  che  diede  testé 
e  darà  ancora  tanto  da  parlare  ai  politicanti,  e  per  cui  si  accentuano  gli  odi 
di  due  razze  irreconciliabili. 


Mémoires  de  la  Société  de  l'histoire  de  Paris  et  de  V  Ile- de- Frane  e 
(voi.  27)  :  L.  Auvray,  Giordano  Bruno  à  Paris  d'après  le  témoignage 
d\m  contemporain.  Inatteso  e  importante  contributo  alla  storia  del  grande 
filosofo  nolano.  Dei  due  soggiorni  parigini  del  Bruno,  il  primo  (1581-83)  è 
meglio  conosciuto  del  secondo  (1585-86).  Riguardano  per  l'appunto  questa 
seconda  dimora  i  ricordi  che  l'A.  scoperse  nel  giornale  di  Guillaume  Gotìn, 
monaco  nell'abbazia  di  St.  Victor,  ora  custodito  in  un  codice  della  Nazionale 
di  Parigi.  Probabilmente  per  ragioni  di  studio,  il  Bruno  si  recava  spesso  a 
quell'abbazia,  ove  ebbe  occasione  di  parlare  e  di  discutere  col  Gotin,  al  quale 
venne  in  mente  il  pensiero  non  mai  abbastanza  lodato  di  tener  conto  di 
quei  discorsi.  I  notamenti  del  Gotin,  che  l'A.  riferisce  ed  illustra  con  la  sua 
ben  conosciuta  industria  di  critico  diligente  e  dotto,  sono  davvero  preziosi 
nella  scarsa  messe  a  noi  giunta  di  relazioni  sincrone  sul  fantasioso  domeni- 
cano. Il  Bruno  parlò  col  Gotin  della  sua  patria,  della  sua  famiglia,  de'  suoi 
viaggi,  delle  sue  opere  scritte  e  da  scrivere,  di  una  quantità  di  autori  che 
disistimava,  di  una  quantità  di  persone  che  aveva  in  uggia.  Il  Gotin  dà  pure 
conto  della  disputa  che  il  Bruno  ebbe  nel  maggio  1586  al  Gòllège  de  Cam- 
brai  contro  Aristotele  e  dà  in  proposito  particolari  ignoti.  Grediamo  insomma 
che  l'A.  non  s'illuda  quando  dice  che  dopo  la  famosa  lettera  dello  Scioppio 
e  dopo  gli  atti  del  processo  del  1592,  questo  giornale  del  Gotin  è  il  più 
importante  documento  sincrono  che  ci  sia  rimasto  sul  Bruno.  S' intende 
bene  che  gli  apprezzamenti  del  monaco  vogliono  essere  accolti  con  la  debita 
circospezione. 

Revue  des  bibliothèques  (XI,  4-6)  :  E.  Picot,  Des  Frangais  qui  ont  écrit 
en  italien  au  XVI  siècle,  qui  si  parla  di  Jerome  d'Avost,  Gabriel  de  Gut- 
lerry,  Jean  Zuallart,  Ph.  E.  de  Gondi,  Pierre  Bricard.  Gosi  resta  terminato  il 
lungo  ed  erudito  lavoro  dell'illustre  bibliofilo  francese. 

Revue  bleue  (XVI,  1):  Henry  Frichet,  Les  cartes  à  jouer,  articolo  estre- 
mamente superficiale,  ma  in  cui  tuttavia  non  manca  qualche  buona  indica- 
zione storica  sulle  antiche  carte  da  giuoco;  (XVI,  3),  P.  Lalande,  La  défense 
cantre  la  peste  au  XVII  siècle. 

Bibliothèque  universelle  et  revue  suisse  (n°  68):  E.  Bovet,  Le  quinzième 
siècle  italien,  a  proposito  dell'opera  di  Ph.  Monnier;  (n®  69),  E.  Rod,  Gari- 
baldi dans  la  littérature  italienne. 

Bibliothèque  de  Vécole  des  chartes  (LXII,  3):  H.  Omont,  La  bibliothèque 
d'Angliberto  del  Balzo  due  de  Nardo  et  comte  d'Ugento  au  royaume  de 
Naples,  inventario  di  quella  libreria,  che  si  trova  in  un  ms.  della  Nazionale 
di  Parigi. 


474  CRONACA 

Reoue  d'hisloire  et  de  littérature  religieuses  (agosto  1901):  H.  Cochin, 
Le  frère  de  Péirarque  et  le  livre  dti  repos  des  religieux. 

Month  (febbr.  1901):  T.  G.  Gardner,  The  dedication  ofthe  Div.  Commedia. 

Nouvelle  revue  historique  du  droit  (giugno  1901):  G.  Touohard,  Unpu- 
bliciste  italien  au  XVI II  siècle^  Filangieri  et  la  science  de  la  Ugislation. 

Annales  de  philosophie  chrétienne  (giugno  1901):  De  la  Roussellière, 
Dante  et  le  symbolisme  chrétien. 

La  revue  de  Paris  (Vili,  9):  G.  Lanson,  Molière  et  la  farce^  importante 
anche  pei  rapporti  col  teatro  popolare  italiano. 

The  quarterly  review  (n"  387):   The  date  of  Dante' s  vision. 

Revue  des  études  grecques  (n°  57):  C.  Huìt,  Note  sur  l'état  des  études 
grecques  en  Italie  et  en  France  du  XIV  au  XVI  siede. 

Studien  zur  vergleichenden  Litteraturgeschichte  (I,  3):  P.  Tolde,  Leben 
und  Wunder  der  Heiligen  im  Mittelalter,  prosegue  il  lavoro  di  cui  è  com- 
parsa l'introduzione  nel  voi.  XIV  della  Zeitschr.  fùr  vergleich.  Litteratur- 
geschichte. 

Le  courrier  musictl  (1901,  n»  5-7):  De  la  Laurencie,  Du  goùt  musical 
au  XVIII  siede. 

Revue  d'hisloire  et  de  critique  musicale  (1901,  n"  6;:  Roliand,  Notes 
sur  les  musiciens  italiens  à  Paris  sous  Mazarin;  Cornhaneu,  Basse  danse, 
branle,  pavane  et  gaillarde  du  XVI  siede. 

Gazette  des  beaux-arts  (n®  531):  E.  Muntz,  Le  triomphe  de  la  mort  à 
Vhospice  de  Palerme,  il  celebre  affresco  del  palazzo  Sclafani,  tradizional- 
mente attribuito  al  Crescenzio,  si  vuole  dal  Janitschek  seguito  dal  Burckhardt 
che  sia  di  scuola  fiamminga.  Il  M.  lo  rivendica  alTltalia  e  sostiene  che  au- 
tore di  esso  dovette  essere  uno  dei  maestri  lombardi  stabilitisi  nell'Italia 
meridionale  verso  la  metà  del  XV  secolo.  L'affresco  ha  importanza  non 
piccola  nella  nostra  tradizione  macabrea,  e  fu  riprodotto  di  recente  anche 
dal  Vigo.  Cfr.  Giorn.,  38,  195. 

Bulletin  italien  (l,  3):  Ch.  Dejob,  Le  type  de  Vallemand  chex  les  clas- 
siques  italiens;  J.  Vianey,  Les  «  Antiquitez  de  Rome  »,  leurs  sources  latines 
et  italiennes,  con  la  consueta  diligenza  e  cognizione  mostra  quanta  parte 
delle  Antiquitez  àeì  Du  Bellay  rimonti  a  poeti  italiani  ed  a  classici  latini; 
P.  Tolde,  Qudques  sources  italiennes  du  thédtre  comique  de  Mondar  de 
la  Motte,  mostra  che  quelle  commedie  derivano  in  gran  parte  da  novelle 
del  Boccaccio;  A.  Morel -Patio,  Uespagnol  de  Manzoni,  ingegnoso  e  accurato 
studietlo  sulle  frasi  castigliane  che  il  M.  mette  'in  bocca  al  Ferrer,  nelle 
quali  sono  rilevate  parecchie  improprietà  e  gallicismi. 

Euphorion  (Vili,  1):  E,  Fasola,  Schillers  Werke  in  italienischer  Ueber- 
setzung. 

Jahresbericht  des  historischen  Vereins  fùr  Mittelfranken  (an.  47): 
Fr.  Reuter,  Drei  Wanderjahre  Platens  in  Italien,  dal  1826  al  1829,  con 
lettere  inedite  del  Platen. 

The  Athenaeum  (n»  3841):  P.  Toynbee,  Getite  dispetta,  vedi  /n/I,  IX,  91. 

Romania  (XXX,  118-19):  E.  Muret,  Un  fragment  de  Marco  Polo,  trovato 
nel  foglio  di  guardia  membranaceo  d'un  cod.  della  piccola  bibliot.  di  Vevey. 


CRONACA  475 

Revista  de  archivos,  hibliotecas  y  museos  (1901,  n^  2-3):  A.  Paz  y  Mélia, 
Codices  mas  notables  de  la  biblioteca  nacional,  descrive  tra  gli  altri  un 
magnifico  ms.  delle  rime  del  Petrarca,  copiato  e  miniato  nel  sec.  XV,  che 
appartenne  alla  biblioteca  di  Urbino. 


*  Opera  veramente  coraggiosa  ha  iniziato  il  dr.  Domenico  Orano.  Essa 
s'intitola  11  sacco  di  Roma  del  1527^  studi  e  documenti,  e  si  propone  di 
dare  una  specie  di  storia  interna  del  celebre  avvenimento.  L'opera  sarà 
divisa  in  sei  volumi,  il  primo  dei  quali,  splendidamente  stampato,  ci  sta  sotto 
gli  occhi  (Roma,  Forzani,  1901).  Esso  comprende  quei  Ricordi  di  Marcello 
Alberini,  che  l'Orano  già  pubblicò  nei  volumi  XVIII  e  XIX  (1896-97)  del- 
Y Archivio  della  Società  romana  di  storia  patria,  avendone  scoperto  l'auto- 
grafo nella  biblioteca  del  R.  Archivio  di  Stato  in  Roma.  Nella  ristampa  il 
diario  s'avvantaggia  di  nuove  cure.  L'editore  lo  ha  diligentemente  annotato 
e  lo  ha,  a  dir  così,  incorniciato  di  erudizieni  diverse,  con  esuberanza  gio- 
vanile, ma  certo  non  inutilmente.  Dell'Alberini  (n.  1511,  m.  1580)  egli  illustra 
la  famiglia  e  la  vita,  facendone  risaltare  il  tipo  di  uomo  franco,  onesto  e 
sennato.  Dei  Ricordi  indica  i  molti  codici  che  gli  venne  fatto  di  conoscere 
e  ne  mette  in  chiaro  l'importanza  qospicua,  facendo  vedere  come  non  pochi 
brani  di  quel  diario  siano  inclusi  nelle  Memorie  del  pontificato  di  Cle- 
mente VII,  che  col  nome  di  Patrizio  De  Rossi  uscirono  in  luce  nel  1837  e 
furono  riconosciute  come  una  compilazione  dal  Ranke  e  da  altri  (1).  Questo 
primo  volume  allo  storico  delle  lettere  interessa  solo  indirettamente;  ma 
non  sarà  così  del  secondo,  che  si  annuncia  in  corso  di  stampa,  poiché  ivi 
si  troverà  uno  studio,  certo  attraentissimo,  Il  sacco  di  Roma  nella  lettera- 
tura. Quello  ed  il  successivo  volume  recheranno  pure,  in  gran  copia,  nuovi 
documenti,  raccolti  in  vari  archivi  sul  sacco  del  '27.  Il  quarto  volume  darà 
di  esso  la  Bibliografia  ragionata  ed  il  quinto  ne  tesserà  la  Storia  documen- 
tata. Finalmente  nel  sesto  sarà  pubblicato  una  specie  di  album  delle  pitture, 
sculture,  incisioni,  monete  ecc.,  che  al  grande  avvenimento  si  riferiscono.  — 
Come  è  facile  vedere,  l'opera  non  potrebbe  essere  più  grandiosamente  dise- 
gnata, e  noi  auguriamo  all'Orano  il  successo  che  meritano  la  sua  laboriosità 
ed  intraprendenza. 

*  Il  prof.  Luigi  Polacco  dà  opera,  con  innegabile  vantaggio  degli  studiosi, 
a  rendere  sempre  più  comoda  e  facile  la  consultazione  della  Commedia  col 
mezzo  di  quei  prontuari,  che  son  fatti  possibili  unicamente  da  una  grande 
pazienza  ed  accuratezza.  Abbiamo  di  lui  un  eccellente  rimario  del  poema, 
che  nel  succedersi  delle  tre  edizioni  del  Dante  scartazziniano  (commento 
minore)  si  è  venuto  via  via  perfezionando.  Proseguendo  con  ugual  cura 
amorosa  in  questi  suoi  lavori,  egli  è  giunto  dai  Segnapagine  danteschi, 
editi  dall'Hoepli,  alle  Tavole  schematiche  della  Divina  Commedia,  Milano, 
Hoepli,  1901,  uscite  da  poco.  Sono  in  tutto  54  tavole,  18  per  cantica,  nelle 
quali  trovasi  disposto  sinotticamente  tuttociò  che  patisce  una  simile  disposi- 


(1)  Sostanzialmente  la  lunga  prefazione  sviluppa  ciò  che  in  compendio  già  scrisse  l'Orano  me- 
desimo nell'articolo  Marcello  Alberini  e  il  sacco  di  Roma  del  1527.  Cfr.  questo  Giornale, 
XXVI,  460. 


476  CRONACA 

zione.  Ad  esempio,  per  l'Inferno,  vi  sono  tavole  delle  colpe,  dei  custodi  e 
ministri  di  punizione,  dei  peccatori,  delle  pene,  delle  voci  dei  dannati,  della 
topocronografia,  delle  frasi  e  sentenze,  delle  similitudini,  delle  corrispon- 
denze fra  i  cerchi  ed  i  canti.  Nelle  altre  cantiche  alcune  tavole  variano: 
così  pel  Purgai,  ve  ne  sono  per  gli  esempi  di  virtù  e  di  peccato  e  per  le 
meditazioni  su  Maria  Vergine;  così  rispetto  al  Paradiso  ve  n'  ha  per  le 
varie  forme  di  visione  beatifica  e  pel  crescere  della  bellezza  di  Beatrice.  — 
Degnissime  di  nota  sono  poi  le  sei  tavole  topografiche  con  cui  il  manualetto 
si  chiude,  dovute  all'  ingegnosità  di  Giuseppe  Agnelli.  Semplificando  i  pro- 
cedimenti dall'Agnelli  medesimo  sostenuti  in  un  suo  noto  libro  del  1891, 
che  fu  esaminato  in  questo  Giornale,  19,  159  sgg.,  egli  ora  ci  dà  una  serie 
di  disegni  originali  e  nitidissimi  dei  tre  regni.  Questi  disegni  sorpassano  in 
perfezione  e  compiutezza  tutto  quello  che  sinora  si  aveva:  belli  e  opportuni 
specialmente  ci  parvero  quelli  del  paradiso,  che  rispondono  ad  un  bisogno 
vivamente  sentito  dagli  studiosi  della  terza  cantica.  Va  da  sé  che  tanto  nelle 
tavole  sinottiche  del  Polacco,  come  in  quelle  grafiche  dell'Agnelli  si  fan 
sentire  certi  concetti  esegetici  soggettivi,  che  in  ogni  ricostruzione  dantesca 
di  necessità  hanno  la  parte  loro  ;  ma  comunque  sia,  il  libro  è  utile  e  in  alto 
grado  raccomandabile  segnatamente  ai  giovani. 

*  Il  progressivo  ingigantirsi  delle  riviste  storiche,  al  quale  è  consolante 
l'assistere,  rende  sempre  più  urgente  il  bisogno  di  averne  degli  indici  ben 
fatti,  che  agevolino  la  ricerca  in  quelle  lunghissime  serie  di  volumi.  Nel 
futuro  Congresso  internazionale  di  scienze  storiche,  che  si  terrà  in  Roma 
nella  primavera  del  1902,  sappiamo  che  la  Sezione  Vili  (Storia  medievale, 
diplomatica  e  bibliografia)  ha  assunto  l'ottima  iniziativa  d'indurre  le  prin- 
cipali riviste  storiche  italiane  a  compilare  i  loro  indici  ad  imitazione  del- 
YArch.  stor.  italiano  e  deìVArchirio  stor.  lombardo.  Le  riviste  storiche 
hanno  aderito  quasi  tutte.  Frattanto  ci  è  grato  l'annunciare  che  è  finalmente 
uscito  in  tiratura  di  500  esemplari  (prezzo  L.  16!),  l'atteso  volume  degli  In- 
dici trentennali  della  Nuova  Antologia,  dal  1866  al  1895,  con  aggiunti  i 
sommari  per  gli  anni  1896-1900  (1).  Il  primo  di  questi  indici  è  alfabetico 
secondo  i  nomi  degli  autori  degli  scritti;  il  secondo  è  un  indice  delle 
materie,  condotto  sui  titoli  degli  articoli.  Compilarono  questo  lavoro  i  dot- 
tori Guido  Biagi  ed  Enrico  Rostagno,  ai  quali  dobbiamo  esser  grati,  se  anche 
non  è  questo  l'ideale  che  in  lavori  simili  si  vorrebbe  raggiunto.  L'ideale  è 
nell'indice  analitico  dei  nomi  di  persona  e  delle  materie,  quale  noi  ten- 
tammo per  i  primi  24  volumi  del  Gioì-nale  nostro  e  ritenteremo  in  seguito 
forse,  allorché  la  serie  nostra  raggiungerà  i  50  volumi.  Di  questo  genere  è 
anche  la  tahle  mèthodique  dei  primi  dieci  volumi  (1872-1881)  della  Romania. 
Ora  si  annuncia  che  l'editore  di  quel  periodico,  quando  abbia  un  numero 
adeguato  di  soscrittori,  intende  rifondere  la  tavola  dei  primi  dieci  anni  in 
un  indice  analitico  compiuto,  che  occuperà  circa  600  pagine  a  doppia  co- 
lonna, e  comprenderà  le  trenta  annate  della  Romania  dal  1872  al  1901. 
Codesto  grande  indice  sarà  messo  in  vendita  pei  sottoscrittori  al  tenue  prezzo 
di  franchi  10. 


(i)  L'indice  gaaenle  della  vecchia  Antologia,  uscì,  come  è  noto,  nel  1863  (Firenie,  Oheechl). 


CRONACA  477 

*  Chi  prenda  in  mano  (ed  è  a  sperare  che  ciò  avvenga  presto)  il  codice 
Riccardiano  2932,  contenente  VAmor  di  Virtù,  dramma  d'una  monaca  fio- 
rentina del  sec.  XVI,  suor  Beatrice  Del  Sera,  in  cui  è  spiritualizzato  il 
Filocolo  del  Boccaccio  ;  chi  prenda  in  mano  quel  codice  e  consacri  ad  esso 
lo  studio  critico  che  si  merita,  non  dimentichi  di  rivolgere  mestamente  il 
pensiero  ad  un  giovine  siciliano  di  precocissimo  e  gagliardo  ingegno,  che 
su  quel  ms.  preparava  la  sua  tesi  di  laurea  e  che  trascinato  da  una  fatale 
inclinazione  patologica,  fece  violenza  a  sé  medesimo  e  mori  suicida  il  9  mag- 
gio 1898,  egli  bello,  egli  agiato,  egli  idolatrato  dal  padre  e  dalla  sposa  gio- 
vinetta impalmata  pochi  mesi  prima.  Purtroppo,  nella  realtà  della  vita  non 
vale  neppur  l'amore  (come,  in  un  eccesso  d'ottimismo,  imaginò  uno  scrittore 
pessimista)  a  riscattare  dalla  tristissima  fatalità  lo  sciagurato  che  per  ragioni 
ataviche  o  per  proprie  condizioni  vi  è  trascinato!  Nell'opuscolo  In  memoria 
di  Giuseppe  Ferrara  nel  terzo  anniversario  della  sua  morte,  Palermo, 
1901,  il  prof.  Gian,  che  del  Ferrara  fu  maestro  nell'università  di  Messina, 
dà  conto  de'  suoi  studi  sul  ms.  delia  Riccardiana  e  stampa  un  breve  fram- 
mento della  dissertazione  ch'egli  veniva  scrivendo.  A  questo  gentile  ricordo 
aggiungono  commemorazioni  affettuose  alcuni  amici  dell'estinto. 

*  Il  giovine  prof.  G.  Mari,  le  cui  produzioni  nell'arduo  campo  della  ritmica 
medievale  furono  di  recente  esaminate  con  cura  in  questo  Giornale^  38, 
128  sgg.,  ha  pubblicato  integralmente  in  Germania  (Erlangen,  Junge,  1901) 
una  delle  arti  grammaticali  più  celebri  nell'età  di  mezzo,  quella  di  Gio- 
vanni di  Garlandia  :  Poetria  magistri  Johannis  anglici  de  arte  prosayca, 
metrica  et  rithmica.  L'edizione  è  condotta  su  due  mss.,  l'uno  di  Monaco, 
l'altro  dell'abbazia  di  Admont.  —  Un'altra  pubblicazione  del  Mari  ha  intento 
divulgativo,  ed  è  il  suo  Riassunto  e  dizionarietto  di  ritmica  italiana,  To- 
rino, Loescher,  1901.  Questo  trattatello  si  schiera  vantaggiosamente  accanto 
agli  altri  simili,  che  sono  usati  nelle  scuole  nostre,  del  Casini,  del  Guarnerio, 
del  Maruffi.  Ha  l'intento,  come  dice  l'A.  nell'avvertenza  proemiale,  «  d'of- 
«  frire  ai  giovani  una  guida,  la  quale,  nello  studio  della  ritmica  italiana,  da 
«  una  parte  non  pecchi  di  eccessivo  empirismo,  dall'altra,  senza  troppo  farne 
«  mostra,  si  basi  e  si  ordini  sopra  saldi  principi  scientifici  ».  Per  questo 
substrato  di  approfonditi  studi  scientifici,  che  è  facilmente  riconoscibile  da  chi 
abbia  qualche  pratica  nella  materia,  si  avvantaggia  indubbiamente  d'assai 
questo  nuovo  trattatello  su  quasi  tutti  gli  antecedenti.  Del  buon  gusto  squi- 
sito del  M.  in  fatto  a  poesia  può  far  testimonianza  la  scelta  dei  componi- 
menti che  gli  servono  per  l'esemplificazione.  La  forma  di  dizionario,  che  ha 
il  trattato  nella  sua  seconda  parte,  lo  rende  di  comoda  consultazione  anche 
alle  persone  colte  e  agli  uomini  stessi  di  lettere.  È  tenuto  specialmente,  ed 
a  buon  dritto,  in  altissimo  conto  l'uso  dantesco  e  petrarchesco.  Il  paziente 
spoglio  delle  dieresi  riscontrate  nelle  rime  del  Petrarca  (pp.  102-119)  può 
offrir  materia  esso  solo  ad  utili  considerazioni. 

*  La  dispensa  6*,  ultima  uscita,  del  Codice  diplomatico  dantesco  ripro- 
duce a  facsimile  ed  in  trascrizione  i  noti  documenti  dell'Archivio  fiorentino, 
che  riguardano  la  ragunata  dei  fuorusciti  bianchi  e  di  altri  ribelli  in 
S.  Godenzo,  l'anno  1302.  Essi  strinsero  allora  quel  patto  e  fecero  quel- 
l'impresa sballata,  a  cui  Dante  accenna  nel  canto  XVI 1  del  Paradiso,  non 

QiornaU  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  31 


478  CRONACA 

dissimulando  il  fiero  disgusto  con  che  egli  si  ritrasse  dalla  «  compagnia 
«  malvagia  e  scempia  ».  Tra  altre  curiosità,  qui  è  pur  riprodotta  una  iscri- 
zione, riguardante  certa  caccia  data  a  Federico  Barbarossa  dagli  Ubaldini 
nel  1184,  murata  nel  castello  della  Pila.  Su  queir  iscrizione,  che  sarebbe 
preziosa  se  fosse  autentica  perchè  buona  parte  ne  è  scritta  in  volgare,  è  qui 
riferito  il  giudizio  del  Rajna,  il  quale  pure  non  esita  a  riconoscervi  una 
manifesta  falsificazione  d'età  posteriore. 

*  Nel  volume  Per  l'infanzia  povera  edito  in  Genova  in  quest'anno  1901, 
Vittorio  Gian  illustra  Un  epinìcio  genovese  del  dugento.  Si  tratta  del 
poema  latino  di  più  di  mille  versi,  che  il  notaio  genovese  Orso  o  Ursone 
compose  per  celebrare  la  vittoria  ottenuta  nel  1242  dai  suoi  concittadini 
contro  gli  esecrati  Pisani  alleati  a  Federico  II.  E  un  vero  canto  dell'odio,  di 
cui  il  G.  esamina  il  contenuto  e  l'arte,  collocandolo  nel  posto  che  gli  spetta 
in  quella  specie  di  rinascimento  medievale  della  poesia  latina  che  precedette 
la  rinascita  vera  e  propria.  11  G.  fece  bene  a  richiamare  l'attenzione  su  quel 
componimento,  perchè  un  tempo  lo  si  credeva  perduto,  e  perchè  anche  dopo 
le  due  edizioni  che  ne  furon  fatte  verso  il  mezzo  del  secolo  testé  trascorso, 
nessuno  se  n'era  occupato  di  proposito. 

*  Si  annuncia  come  di  prossima  pubblicazione  un  libro  di  Alfredo  Pie- 
ralli  su  La  vita  e  le  opere  di  Jacopo  Nardi. 

*  Pel  sessantesimo  anniversario  del  prof.  P.  A.  Geijer  si  pubblicò  in 
Isvezia  (Upsala,  1901)  un  volume  miscellaneo  di  Uppsatser  i  romansk  filo- 
logi. Gli  studi  che  vi  sono  contenuti  riguardano  più  specialmente  la  lette- 
ratura francese,  alla  quale  i  romanisti  scandinavi  sogliono  volgere  di  pre- 
ferenza la  loro  attenzione.  Un  solo  scritto  concerne  cose  italiane,  quello  di 
Fr.  Wulff,  Petrarcas  fòrsta  redahtion  af  canz.  «  Che  dehb'io  farit. 

*  Tesi  di  laurea  e  programmi:  G.  Searles,  Bojardos  Orlando  innamorato 
und  scine  Beziehungen  zur  altfranzósischen  erzdhlenden  Dichtung  (laurea  , 
Lipsia);  H.  Huttinger,  Studia  in  Boetii  carmina  collata  (progr.  ginn., 
Regensburg);  1.  Dostal,  Ueher  Identitdt  und  Zeit  von  Personen  bei  Ye- 
nantius  Fortunatus  (progr.  ginn. ,  Wiener  Neustadt)  ;  P.  Herthum,  Die  ger- 
manischen  Lehnwórter  ìm  Altitalischen\  vor  allem  in  Dantes  Div.  Com- 
media (progr.  ginn.,  Arnstadt);  A.  Waechter,  Les  sources  du  Tartuffe  de 
Molière  (progr.  ginn,  reale,  Erfurt);  P.  Kupka,  Zur  Chronologie  und 
Genesis  des  «  Roman  de  la  rose*  (progr.  scuola  reale,  Gardelegen);  Liese, 
Der  altfranzósische  Roman  «  Athis  et  Prophilias  »  verglichen  mit  einer 
Erzdhlung  von  Boccaccio  (progr.  ginn,  reale,  Gòrlitz:  si  tratta  della  no- 
vella X,  8  del  Decameron);  Schròder,  Dante  und  die  hòhere  Schule 
(progr.  ginn.,  Kòslin);  G.  Knoth,  Ubertino  von  Casale,  ein  Beitrag  zur 
rèligidsen  Literatur  des  Franzishanerordens  (laurea,  Marburg);  G.  Marti- 
nenche.  La  comédie  espagnole  en  France  de  Hardy  à  Racine  (laurea, 
Parigi:  questo  lavoro  importante  per  ogni  studioso  di  cose  drammatiche  è 
recensito  da  G.  Lanson  nella  Revue  d'hist.  lift,  de  la  France,  Vili,  332). 

*  Pubblicazioni  recenti: 

Arturo  Magnocavallo.  —  Marin  Sanudo  il  vecchio  e  il  sìm  progetto 


CRONACA  479 

di  crociata.  —  Bergamo,  Istit.  ital.  d  arti  grafiche,  1901  [Ottimo  saggio  sulla 
vita  e  sulle  peregrinazioni  del  grande  viaggiatore,  che  fa  vivamente  deside- 
rare l'edizione  critica  del  Liber  secretorum  fidelium  Crucis  promesso  dal  M. 
Cotesta  edizione,  fornita  opportunamente  di  riproduzioni  di  carte  geografiche 
antiche,  sarebbe  di  capitale  interesse  per  gli  studiosi  delle  crociate  e  di  to- 
pografia dei  luoghi  santi]. 

Le  mistiche  nozze  di  S.  Francesco  e  Madonna  Povertà,  Allegoria  fran- 
cescana del  secolo  XIII  edita  da  Salvatore  Minocchi.  —  Firenze,  Bibl.  scient. 
religiosa,^  1901  [Versione  trecentistica  del  Commertium,  su  cui  vedi  Giorn., 
37,  394.  E  il  testo  medesimo  che  già  nel  1848  pubblicarono  il  Bindi  ed  il  Fan- 
fani;  ma  nella  nuova  ediz.  è  più  fedelmente  riprodotto  da  due  antichi  mss.]. 

Enrico  Gochin.  —  Un  amico  del  Petrarca.  Le  lettere  di  Francesco  Nelli 
al  Petrarca.  —  Firenze,  Le  Mounier,  1901  [Con  parecchi  ritocchi,  ricom- 
pare tradotta  in  italiano  la  notevole  pubblicazione  del  1892,  di  cui  fu  discorso 
in  questo  Giornale^  21,  400.  11  Gochin  ha  tenuto  molto  conto  delle  osser- 
vazioni ivi  fattegli.  E  il  primo  volumetto  d'una  Biblioteca  petrarchesca  di- 
retta da  G.  Biagi  e  G.  L.  Passerini]. 

Angelo  De  Gubernatis.  —  Su  le  orme  di  Dante.  —  Roma,  tip.  coope- 
rativa, 1901. 

Giovanni  Battista  Barberis.  —  Jacopone  da  Todi.  Carme  e  saggio  sto- 
rico-letterario. —  Todi,  tip.  Fogliatti,  1901  [Non  contiene  alcun  particolare 
nuovo  degno  di  nota]. 

Benvenuto  Gellini.  —  Vt7a,  trattati  e  rime.  —  Roma,  Società  editrice  na- 
zionale, 1901  [Edizione  commerciale,  con  molte  grossolane  riproduzioni  di 
vedute  e  di  opere  d'arte  svariatissime,  che  vorrebbero  essere  una  illustrazione 
grafica  del  Gellini.  Questo  libro  fu  immeritamente  lodato  anche  in  riviste 
speciali  di  cose  d'arte]. 

Francesco  Sarappa.  —  La  critica  di  Dante  nel  secolo  XVIIL  —  Nola, 
tip.  sociale,  1901. 

Dino  Provenzal.  —  Quando  furono  scritte  le  satire  di  Lodovico  Adi- 
mari.  —  Rocca  S.  Casciano,  Cappelli,  1901  [L'A.,  che  sulla  vita  e  sulle  opere 
dell'Adimari  vien  preparando  uno  studio,  si  vale  qui  dei  criteri  storici  interni 
per  determinare  la  cronologia  delle  sue  satire.  Egli  crede  che  siano  state 
composte  nel  decennio  1690-1700]. 

Umberto  Leoni.  —  L' uomo  politico  nelV  «  Arnaldo  da  Brescia  »  di 
G.  B.  Niccolini.  Saggio  storico  letterario.  —  Róma,  tip.  Bertero,  1901. 

Torquato  Tasso.  —  /  discorsi  dell'arte  poetica  ;  Il  padre  di  famiglia  e 
L' Aminta,  annotati  per  cura  di  Angelo  Solerti.  —  Torino,  Paravia,  1901  [In 
questa  edizione  scolastica  annotata  rileviamo  particolarmente  le  illustrazioni 
che  sono  nella  prefazione  e  nel  commento  aW Aminta.  È  lavoro  ben  fatto, 
che  riuscirà  comodo  e  profittevole  anche  agli  studiosi]. 

Bice  Agnoletti.  —  Alessandro  Braccesi.  Contributo  alla  storia  dell'uma- 
nesimo e  della  poesia  volgare.  —  Firenze,  Seeber,  1901. 

Tullio  Ortolani.  —  Il  canto  di  Farinata  e  Varie  di  Dante.  —  Feltro, 
tip.  Castaldi,  1901. 

G.  B.  Gerini.  —  Gli  scrittori  pedagogici  italiani  del  secolo  decimottavo. 
—  Torino-Roma,  Paravia,  1901. 

Giormile  storico,  XXXVIII,  fase.  114.  81  • 


480  CRONACA 

Alessandro  Luzio.  —  Antonio  Salvotti  e  i  processi  del  ventuno.  —  Roma, 
Soc.  edit.  Dante  Alighieri,  1901. 

Aurelio  Ugolini.  —  Maestro  Gregorio  d'Arezzo  e  le  sue  rime.  —  Li- 
vorno, Giusti,  1901. 

Alessandro  Tassoni.  —  Le  lettere^  tratte  da  autografi  e  da  copie  e  pub- 
blicate per  la  prima  volta  nella  loro  interezza  da  Giorgio  Rossi.  Volume  primo. 
—  Bologna,  Romagnoli-Dall'Acqua,  1901. 

Elvira  Guarnera.  —  Bernardo  Accolti.  Saggio  biografico-critico.  —  Pa. 
lermo,  tip.  Giannitrapani,  1901. 

0.  Mastrojanni.  —  G.  Fontano  e  Carlo  Vili.  —  Napoli,  Marghieri,  1901. 

Domenico  Russo.  —  La  lirica  politica  in  Italia  durante  il  primo  pe- 
riodo delle  preponderanze  straniere  (1429-1559).  —  Torino,  Marietti,  1901 
[Lavoro  superficiale  e  gremito  di  sfarfalloni]. 

Sebastiano  Nic astro.  —  Alessandro  Manzoni  storico  della  rivoluzione 
francese.  —  Pisa,  Vannucchi,  1901. 

G.  Fabris.  —  Memorie  manzoniane.  —  Milano,  Gogliati,  1901  [Raccolta 
di  articoli  prima  sparsamente  pubblicati,  che  riferiscono  aneddoti  ed  altri 
ragguagli  del  grande  lombardo,  messi  insieme  nelle  conversazioni  famigliari 
avute  con  lui]. 

Wilhelm  Greizenach.  —  Geschichte  des  neueren  Dramas.  Voi.  II.  — 
Halle  a.  S.,  Niemeyer,  1901  [Riguarda  il  Rinascimento  ed  il  periodo  della 
Riforma]. 

Riccardo  Gai.  —  Intorno  alle  satire  alla  carlona  dì  m^sser  Andrea  da 
Bergamo  (Pietro  Nelli  di  Siena).  Appunti  letterari.  —  Pistoia,  tip.  Nic- 
colai,  1901. 

M.  Gerato.  —  La  gelosia  femminile  in  quattro  tragici  moderni.  — 
Roma,  tip,  Bertero,  1901  [Le  quattro  tragedie  considerate  sono  la  Rosmutida 
dell'Alfieri,  il  Galeotto  Manfredi  del  Monti,  la  Medea  del  Niccolini,  la 
(hsmonda  da  Mendrisio  del  Pellico]. 

An.  Vicari.  —  Dell'opera  poetica  di  Tommaso  Grossi.  Appunti.  —  Ga- 
gliari,  tip.  Valdes,  1901. 

Alfred  Doren.  —  Studien  aus  der  fiorentiner  Wirtschaflsgeschichte. 
Voi.  1.  Die  fiorentiner  Wollentuchindustrie  vom  i4  his  zum  i6  Jahr- 
hundert.  —  Stuttgart,  Gotta,  1901. 

E.  L.  L.  HoRSBURGH.  —  Girolamo  Savonarola.  —  London,  Methuen,  1901 
[Sul  Savonarola  è  uscito  pure  in  quest'anno  (London,  Glark)  un  libretto  di 
G.  Mac  Hardy]. 

Giuseppe  Gagnone.  —  Pietro  Gravina  umanista  del  sec.  XVI.  —  Ca- 
tania, Giannotta,  1901. 

Clelia  Falconi.  —  La  poesia  civile  di  Giuseppe  Giitsti.  —  Firenze, 
tip.  Salani,  1901. 

Emma  Tonini.  —  L'umorismo.  Saggio  letterario.  —  Livorno,  tip.  Giusti, 
1901  [Si  avverta  pure  che  nel  voi.  Umoristi  di  A.  Lo  Forte  Randi,  Palermo, 
Reber,  1901,  v'  ha  uno  studio  su  Rabelais  e  Folengo]. 

Giuseppe  Orgera.  —  La  similitudine  nella  Gerusalemme  Liberata.  — 
Napoli,  tip.  Pesole,  1901. 

Vittorio  Fabiani.  —  Ippolito  Neri.  Studio  biografico  critico.  —  Firenze, 
Seeber,  1901. 


CRONACA  481 

Pietro  Piacenza.  —  Un  curioso  documento  della  giovinezza  di  Pietro 
Giordani.  —  Piacenza,  1901  [Il  documento  si  riferisce  alla  sua  professione 
di  benedettino]. 

Emanuele  Scano.  —  Saggio  critico  storico  sulla  poesia  dialettale  sarda. 
—  Cagliari,  tip.  Dessi,  1901. 

0.  Tescari.  —  Gli  studi  provenzali  in  Italia  nella  prima  metà  di  questo 
secolo.  —  Schio,  tip.  Marin,  1901  [Studia  particolarmente  il  Perticari  ed  il 
Galvani  come  provenzalisti]. 

Victor  Ottmann.  —  Jakoh  Casanova  von  Seingalt^  sein  Leben  und 
seme  Werke.  —  Stuttgart,  Gesellsch.  der  Bibliophilen,  1900  [In  uno  splen- 
dido volume  in  carta  a  mano  sono  qui  riassunte  le  Memorie,  è  data  una  bi- 
bliografia del  Casanova,  sono  pubblicate  alcune  sue  cose  inedite  trovate  tra 
le  carte  casanoviane  del  castello  di  Dux,  fra  cui  una  tragicommedia,  il  Po- 
lemoscopio.  Il  libro  non  è  in  commercio.  Se  ne  veda  il  resoconto  di  E.  Mad- 
dalena nella  Rivista  d'Italia  dell'agosto  1901]. 

Edward  Moore.  —  The  DXV  Prohecy  in  the  Divina  Commedia.  — 
Oxford,  1901  [In  quella  profezia  vuol  ravvisare  il  nome  di  Arrigo  VII  di 
Lussemburgo.  Che  Dio  lo  benedica!]. 


f  II  24  marzo  1901  si  spegneva  in  Roma,  dove  era  insegnante,  Barto- 
lomeo Fontana,  nato  in  Alassio  il  1»  nov.  1835.  I  suoi  primi  lavori  furono 
di  filosofia  della  storia,  ma  domiciliato  in  Roma  s'invaghì  di  quel  campo 
fertilissimo  ed  ancor  mal  dissodato  che  consiste  nelle  vicende  della  ri- 
forma religiosa  in  Italia.  Parecchie  monografie  egli  venne  pubblicando  su 
questo  soggetto,  frutto  delle  sue  indagini  nei  depositi  romani,  segnatamente 
in  quelli  del  Vaticano.  Ne  uscirono  rischiarate  la  figura  di  Vittoria  Colonna 
ed  ancor  più  quella  di  Renata  d'Este,  alla  quale  il  Fontana  consacrò  l'opera 
sua  maggiore,  in  due  volumi.  Renata  di  Francia  duchessa  di  Ferrara, 
Roma,  Forzani,  1889-1893  (cfr.  Giorn.,  25,  424).  Non  è  certo  libro  perfetto 
né  definitivo;  ma  contiene  materiale  archivistico  abbondante  e  prezioso.  Non 
solamente  coloro  che  s'interessano  alla  storia  della  riforma,  ma  anche  tutti 
i  cultori  della  nostra  storia  civile  nel  cinquecento  e  quelli  che  amano  la 
storia  del  costume  vi  troveranno  molti  particolari  degnissimi  di  nota. 


Luigi  Morisbngo,  Gerente  responsabile. 


Torino  —  Tip.  Vixcbnzo  Boka. 


INDICE  ALFABETICO 

DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO 

E  DEGLI  ANNUNZI  ANALITICI 


In  QK^V indice,  che  abbraccia  l'intera  annata  {vv.  XXX VII 
e  XXXV III),  sono  registrati  i  nomi  degli  autori  e  degli 
editori;  i  titoli  delle  opere  sono  dati  per  lo  più  in  forma  ab- 
breviata. E  nuwAiro  arabo  grande  indica  il  volume;  il 
numero  arabo  piccolo  designa  la  pagina. 


Agostini  A.,  P.  Camesecchi  e  il 
movimento  valdesiano,  38,  205. 

Alighieri  D.,  Vita  nova,  ed.  Passe- 
rini e  Canevazzi,  37,  140. 

—  V.  Arte. 

Anzoletti  L.,  Maria  Gaet.  Agnesi, 
37,  420. 

Ariosto  L.,  Orlando  Furioso,  edi- 
zione A.  Romizi,  37,  144. 

Arlìa  C,  V.  Machiavelli. 

Armstrong  E.,  L'ideale  politico  di 
Dante,  38,  191. 

Arte,  scienza  e  fede  ai  giorni  di 
Dante,  37,  898. 

Bacci  0.,  V.  Gellini. 

—  V.  D'Ancona. 

Balladoro  A.,  Novelline  veronesi, 

37,  449. 
Bartoli  F  ,  Fulvio  Testi,  37,  381. 
Barzizza  G.,  V.  Orano. 
Baumgartbn   a.   G.  ,    Meditationes 

philosophicae,  ed.  B.  Croce,  38, 214. 
Bazzi  G.,  V.  Grossi. 


Begani  0.,  Fra  Dolcino,  38,  220. 

Bellezza  P.,  Humour,  38,  234. 

Beneducci  F.,  Scampoli  critici,  se- 
conda serie,  38,  215. 

Benrath  K.,  Julia  Gonzaga,  38,  205. 

Bernini  F.,  Storia  degli  Animali 
parlanti  di  G.  B.  Casti,  38,  229. 

Biadego  G.,  Pagine  sparse  di  storia 
letteraria  veronese,  37,  177. 

Biblioteca  critica  della  letteratura 
italiana  dir.  da  F.  Torraca,  disp. 
36-42,  38,  455. 

Biblioteca  storico-critica  della  lette- 
ratura dantesca,  dir.  da  G.  L.  Pas- 
serini e  da  P.  Papa,  disp.  11-12, 
38,  190. 

Boghen-Conigliani  e.  ,  La  Divina 
Comynedia,  scene  e  figure,  2»  ediz., 
37,  165. 

Bonola  G.,  V.  Manzoni. 

Bracciolini  P.,  v.  Des  Brandes. 

Brush  M.  P.,  V.  Uopo. 

Burckhardt  J.,  Civiltà  del  Rinasci- 


INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC.     483 


mento,  2^  ediz.  riveduta  da  G.  Zip- 
pel,  37,  412. 

Calvo  E.,  Poesie  piemontesi,  ed.  L.  De 
Mauri,  38,  231. 

Gampori  M.,  V.  Muratori. 

Ganevazzi  G.,  Papa  Clemente  IX 
poeta,  38,  229. 

—  V.  Alighieri. 

Caponi  G.,  Di  A.  Pazzi  de'  Medici, 

38,  226. 
Carbone  L.,  Facezie,  ed.   A.  Salza, 

37,  405. 

Gassi  G.,  DelV  influenza  delV asce- 
tismo medievale  sulla  lirica  del 
dolce  stile,  37,  397. 

Cazzato  C,  Una  nuova  proposta  su 
Matelda,  38,  221. 

Cellini  B.,  Yita,  ed.  0.  Bacci,  37,  378. 

Cesareo  G.  A.,  Gli  amori  del  Pe- 
trarca, 38,  152. 

—  Su  le  poesie  volgari  del  Petrarca, 

38,  152. 

Chi  APPELLI  L.,  Le  dicerie  di  Matteo 
de"  Libri,  37,  134. 

Chiuppani  G.,  a.  Zeno  nelV  erudi- 
zione, 37,  169. 

CiAN  V.,  Varietà  dugentistiche,  38,237. 

Cima  A.,  Reminiscenze  dei  Pr.  Sposi 
nel  Quo  vadis,  37,  174. 

CiMEGOTTO  e,  V.  DairOngaro. 

Cipolla  Carlo,  Monumenta  novali- 
ciensia  vetustiora,  38,  187.  * 

Cipolla  Costantino,  L'azione  lette- 
raria di  Niccolò  Y  nel  Rinasci- 
mento, 37,  442. 

Civita  A.,  Ottavio  Rinuccini,  37,  167. 

Collezione  di  opuscoli  danteschi  ine- 
diti 0  rari,  dir.  da  G.  L.  Passerini, 
disp.  61-63,  38,  190. 

Concari  T.,  Il  Settecento,  37,  HO. 

CoTTAFAVi  E.,  /  seminari  di  Reggio 
Emilia,  37,  172. 

Cresgini  V.,  Varietà  filolog.,  38,  447. 

Croce  B.,  Tesi  fondamentali  d'una 
nuova  estetica,  37,  437. 

—  G.  B.  Vico  primo  scopritore  del- 
V estetica,  38,  449. 


Croce  B.,  v.  Baumgarten. 

Curcio  Bufardeci  G.,  Su  la  vita  let- 
teraria di  B.  Castiglione,  38,  203. 

D' Alencon  e.,  Legenda  brevis  Sancii 
Francisci  e  altri  scritti  francescani, 

37,  353. 

—  Sacrum  commercium  beati  Fran- 
cisci cum  domina  Paupertate,  37, 
394. 

Dall'Ongaro  Fr.,  Bue  lettere  ine- 
dite, ed.  Cimegotto,  37,  452. 

D'Ancona  A.,  Lettere  d'illustri  scrit- 
tori  francesi   ad   amici   italiani, 

38,  236. 

—  e  Bacci  0.,  Manicale  della  lette- 
ratura italiana,  voi.  IV,  2*  ediz., 
37,  429. 

De    Marinis   T.,    Trattato   del    tor 

moglie  o  no,  37,  179. 
De  Mauri  L.,  v.  Calvo. 
De  Meis  C,  Lettere  a  B.  Spaventa, 

ed.  G.  Gentile,  37,  452. 
Des   Brandes   P.,    Les  facéties   de 

Pogge,  37,  405. 
Diaz  M.,  Le  correzioni  ali"  Orlando 

Furioso,  37,  166. 
Digiacomo  G.,  La  vita  e  le  opere  di 

A.  Beccadelli,  37,  410. 
Di  Lorenzo  N.,  Sul  «  Be  partu  Vir- 

«  ginis  »  di  J.  Sannazaro,  37,  409. 
Donadoni   e.,    Bi   uno   sconosciuto 

poema  eretico  del  cinquecento,  37, 

419. 
Donati  B.,  Chiosa  dantesca,  37,  452. 
Dotti  M.,  Belle  derivazioni  nei  Pr. 

Sposi  dai  romanzi  di  W.  Scott, 

37,  447. 

D'Ovidio  F.,  Studi  sulla  Biv.  Com- 
media, 38,  428. 
Earle  J.,  La  vita  nuova  di  Bante, 

38,  191. 

Ebner  J.,  Beitrag   zu  einer  Gesch. 

derdramatischen  Einheiten,  37, 99. 
Faloci  Pulignani  M.,  Gli  storici  di 

S.  Francesco,  37,  353. 
Farsetti  K.,  Befanate  del  contado 

toscano,  38,  233. 


484     INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


Federn  K.,  Dante^  37,  398. 
FiAMMAZzo  A.,  Nel  primo  centenario 

di  L.  Mascheroni,  37,  444. 
FiLBLPO  F.,  V.  Orano. 
FoÀ  A.,  U amore  in  U.  Foscolo^  37, 

172. 
Foresti  A.,  v.  Panini. 
FoRNACiARi    R.,   Studio   SU    Dante y 

2»  ediz.,  37,  440. 
Frittelli  U.,    G.  A.   de'  Fandonia 

37,  164. 

—  L.  Pignotti  favolista,  37,  450. 
Galli  E.,  La  mobilia  dun  canonico 

del  sec.  XV,  37,  452. 

Garzia  R.,  Un  poeta  latino  del  set- 
tecento: Frane.  Carboni,  37,  443. 

Gentile  G.,  v.  De  Meis. 

—  V.  Spaventa. 

Ghetti  C,  Notizia  di  A.  Marchetti, 

37,  168. 

Greppi  G.,  La  rivoluzione  francese 
nel  carteggio  d'un  osservatore  ita- 
liano, 37,  445. 

Grimaldi  V.,  La  mente  di  Galileo, 

38,  208. 

Grossi  T.,  Due  lettere,  ed.  G.  Bazzi, 

37,  451. 

Guidetti  G.,  La  questione  lingui- 
stica e  Vamicizia  di  A.  Cesari  con 
V.  Monti  ecc.,  38,  209. 

Hauvette  H.,  Recherches  sur  le 
€  De  casibus  virorum  illustrium  », 

38,  224. 

Isopo  (the)  Laurenziano,  ed.  M.  P. 

Brush,  37,  371. 
KocH  Th.  W.,  Catalogne  ofthe  Dante 

collection  presented  by  W.  Fiske, 

38,  442. 
Kotliarevski  H.,  Il  dolore  mondiale 

alla  fine  del  secolo  scorso  e  al  prin- 
cipio del  nostro,  37,  160. 
Kraus  F.  X.,  Geschichte  der  Christ- 

lichenKunst,\oin,P.l[,2n,4lb.  j 
Leopardi  G.,  /  canti  ^  ed.  M.  Sche- 

rillo,  37,  446.  I 

Levi  G.,  Letterat.  drammat.,  37,  176.  I 
Libri  (de')  Matteo,  v.  Ghiappelli.       ! 


Machiavblu  N.,  Due  madrigali, 
ed.  C.  Arila,  38,  236. 

Manqni  a..  Codici  savonaroliani  a 
Lucca,  37,  451. 

Mandalari  M.,  Aneddoto  dantesco^ 
38,  237. 

Mangiola  B.,  Osservaz.  al  commento 
dantesco  del  Casini,  37,  163. 

Manzoni  A.,  Carteggio  con  A.  Ro- 
smini, ed.  G.  Bonola,  37,  389. 

Marchesi  G.  B.,  /  romanzi  delVor 
baie  Chiari,  37,  425. 

Marengo  L.,  L'oratoria  sacra  ita- 
liana nel  medio  evo,  38,  198. 

Mari  G.,  /  trattati  medievali  di  rit- 
mica latina,  38,  128. 

—  La  sestina  d'Arnaldo;  la  terzina 
di  Dante,  38,  128. 

—  Ritmo  latino  e  terminologia  rit' 
mica  medievale,  38,  128. 

Marinelli  O.,  Appunti  di  G.  Ma- 
rinelli per  un  glossario  delle  co- 
lonie tedesche,  37,  178. 

Mascetta-Garacci  L.,  Poesia  fem- 
minile, 37,  178. 

Mascheroni  L.,  Invito  a  Lesbia  Ci- 
donia,  ed.  A.  Mondino,  37,  170. 

—  V.  Fiammazzo. 

Massano  e..  La  vita  di  Fulvio  Testi, 

37,  381. 
Mattioli  L.,  Luigi  Pulci  e  il  Ciriffo 

Calvaneo,  38,  225. 
Mauro  E.,    Un    umorista    del  sei- 
cento,  V.  Braca,  38,  451. 
Medici   (de')   Lucrezia,   Le  laudi, 

ed.  G.  Volpi,  37,  442. 
Medin  a..  Sonetti  per  la   lega  di 

Cambrai,  37,  178. 
Minocchi  S.,  La  <  Legenda  trium 

€  sociorum  »,  37,  353. 
Mondino  A.,  v.  Mascheroni. 
MooRE  E.,  L'autenticità  della  e  Quae- 

€  stio  de  aqua  et  terra  »,  38,  192. 
Morbllini  D.,  Matteo  BandeUoy  37, 

148. 
Muellnbr   K.,  Reden   und  Briefe 

italienischer  Humanisten,  38,  168. 


INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC.    485 


Muntz  E.,  Le  musée  des  portraits 
de  Paul  Jove,  38,  174. 

Muratori  L.  A.,  Epistolario,  ediz. 
M.  Gampori,  voi.  I,  38,  453. 

Negri  G.,  L'originalità  del  sig.  Mar- 
chese *  »,  38,  233. 

Orano  D.,  Due  autografi  di  F.  Fi- 
lelfo,  37,  452. 

—  Lettera  di  Guinif.  Barzizza  a 
Bianca  M.  Sforza,  37,  179. 

Orgera  G.,  Le  satire  di  L.  Ariosto, 

37,  165. 
Ortolani  E.,  Il   teatro  di   C.   Ma- 

renco,  37,  174. 
OsTERMANN  M.,  Il  pensiero  politico 

di  G.  B.  Niccolini,  37,  448. 

—  La  poesia  dialettale  in  Friuli, 
37,  433. 

Paquier  J.,  Uhumanisme  et  la  ré- 
forme,  J.  Aléandre,  37,  155. 

Paoli  A.,  La  scuola  di  Galileo 
nella  storia   della   filoso/la,  P.  I, 

37,  158. 

Papa  P.,  L'ambasceria  bolognese  del 
130 i  a  Bonifacio  Vili,  37,  179. 

—  V.  Biblioteca. 

Pardi   G.,  La   moglie  dell'Ariosto, 

38,  228. 

—  Titoli  dottorali  conferiti  dallo 
Studio  di  Ferrara,  38,  226. 

Parini  G.,  Sonetto  nuziale,  ed.  A.  Fo- 
resti, 38,  237. 

Pariset  G.,  Ancora  le  poesie  latine 
di  F.  Berni,  37,  167. 

Pascoli  G.,  Sotto  il  velame,  38,  398. 

Passerini  G.  L.,  v.  Alighieri. 

—  V.  Biblioteca  e  Collezione. 
Pellegrini  Fl.,  Sette  sonetti  morali 

di  Fazio  degli  liberti,  37,  177. 

Pintor  F.,  Un  antica  farsa  fioren- 
tina. 38,  236. 

Porena  M..  Dante  e  Geri  del  Bello, 
37,  163. 

Provenzal  D.,  i  riformatori  della 
bella  letteratura  italiana,  37,  421. 

—  Una  polemica  diabolica  nel  se- 
colo XVIII,  38,  231. 


j  Raccolta  di  studi  critici  dedicata  ad 

I  A.  D'Ancona,  38,  458. 

j  Rago  S.,  Benedetto  Manzini  e  le  sue 

I  satire,  37,  443. 

j  Rasmussen  e.,  Giacomo   Leopardi, 

\        37,   445. 

i  Reinhard   A.  F.,  Die    Quellen  der 
j       Narbonesi,  37,  442. 
Renard  G.,  La  méthode  scientifique 

de  l'histoire  littèraire,  37,  435. 
Riccio  G.  A.,  Gregorio   Correr,  38, 

224. 
RiNiERi  L,  Della  vita  e  delle  opere 

di  S.  Pellico,  voi.  Ili,  38,  211. 
RizzACASA  d'Orsogna   G.,  L'aiuola 

che  ci  fa  tanto  feroci,  38,  446. 

—  La  concubina  di  Titone,  37,  402. 

—  La  foce  che  quattro  cerchi  giugne 
con  tre  croci,  38,  194. 

RoDOLico   N.,    Una  petizione  delle 
j       arti  dei  tintori  ecc.,  37,  452. 
j  RoMizi  A.,  V.  Ariosto. 
I  RoSxMiNi  A.,  V.  Manzoni. 
I  Rossi  M.,  Filippo  Sassetti,  37,  151. 
j  RuFFiNi    F. ,   La    libertà    religiosa, 
I       voi.  1,  37,  176. 

j  RuNGE  P.,  Lieder  und  Melodien  der 
j       Geissler,  37,  137. 
j  Russo  V.,    Per   l'autenticità   della 
«  Quaestio  de  aqua  et  terra  »,  38, 
i       190. 
Sabatier  P.,  Tractatus  de  indulgen- 
tia  S.  Mariae  de  Portiuncula,  'SI, 
353. 
Sabbadini  R.,  L'invettiva  di  Guarino 

contro  il  I^iccoli,  38,  236. 
Salomone-Marino  S.,  Canzuni  sici- 
liani del  sec.  XVll,  38,  237. 
I  Salza   A.,  Sui  frammenti   del  Ri- 
j      naldo  ardito,  38,  235. 
j  —  v.  Garbone. 

I  Sanvisenti  B.,  Sul  poema  di  Uggeri 
I       il  Danese,  37,  441. 
Sartorio  G.,   Luigi    Carrer,  P.  I  : 

La  vita,  38,  179. 
Savorini  L.,  La    leggenda  di  Gri- 
I       selda,  38,  222. 


486  INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


ScARANO  N.»  La  concubina  di  Tifone, 
38,  445. 

ScHERiLLO  M.,  Il  nome  della  Bea- 
trice amata  da  Dante,  38,  221. 

—  V.  Leopardi. 

Schiavo  G.,  L'  indugio   di    Casella, 

38,  236. 
Serena  A.,  Gli  epigoni  dei  Granel- 

leschi,  37,  446. 

—  Pagine  letterarie,  38,  233. 
SiCARDi  E.,  Gli  amori  molteplici  e 

V  amore  unico   del   Petrarca,  38, 

152. 
Solmi  E.,  Leonardo,  38,  201. 
Spaventa  B. ,   Scritti  filosofici,  ed. 

G.  Gentile,  37,  448. 
Supino  I.  B.,  L'arte   di    B.  Cellini, 

38,  227. 
Symonds  J.  a.,  Il   rinascimento  in 

Italia.  L'èra  dei  tiranni,  37,  415. 
Terlizzi  M.,  Studio  su  la  Cecilia  di 

A.  Manzoni,  37,  179. 
ToRRACA  F.,  Le  donne  italiane  nella 

poesia  provenzale,  38,  140. 


Toynbee  P.,  Benvenuto  da  Imola 
and  his  commentari/,  37,  440. 

Tri  A  U.,  Un  vescovo  molisano  del 
sec.  XVIII,  37,  171. 

Uberti  (degli)  Fazio,  v.  Pellegrini. 

Van  Ortroy  F.,  Varie  opere  di  sog- 
getto francescano,  37,  353. 

Vattasso  M.,  Aneddoti  in  dialetto 
romanesco,  38,  223. 

Vigo  P.,  Le  danze  macabre  in  Ita- 
lia, 2*  edizione,  38,  195. 

Vismara  F.,  L'invettiva  degli  umor 
nisti,  38,  200. 

Volpi  G.,  v.  Medici. 

Zacchbtti  G.,  Briciole  dantesche, 
37,  403. 

—  La  fama  di  Dante  in  Italia  nel 
sec.  XVIII,  37,  125. 

Zanelli  a..  Del  pubblico  insegna- 
mento in  Pistoia,  38,  163. 

Zippel  G.,  Un  umanista  in  villa^ 
37,  452. 

—  V.  Burckhardt. 

Zecco  I.,  Spigolando,  37,  175. 


m 


INDICE  DELLE  MATERIE  DEL  XXXVIII  VOLUME 


COSMO  U.,  Frate  Pacifico,  rex  versuum Pag.         1 

LUZIO-RENIER,  La  coltura  e  le  relazioni  letterarie  d'Isabella   d' Este   Gonzaga. 

II.  Le  relazioni  letterarie.  —  5.   Gruppo  emiliano »  41 

Vi  si  discorre  di:  Diomede  Guidalotti  —  Floriano  Dolfo  —  Filippo  Beroaldo  il 
giovine  —  Giovanni  Sabadino  degli  Arienti  —  Girolamo  Casio  (pittori 
Costa  e  Francia)  —  Panfilo  Sasso  —  Jacopo  Cavìceo  —  Antonio  Cornaz- 
zano  —  Gualtiero  di  San  Vitale  (Ludovico  Panizza). 

BYlRTOm  Q.,  Nuove  rime  di  Sordello  di  Goito »        269 

SALZA  A.,  Imprese  e  divise  d'arme  e  d'amore  neW  *  Orlando  Furioso»,  con  nO' 

tizia  di  alcuni  trattati  del  '500  sui  colori »        310 


VARIETÀ 


TO  YNBEE  P.,  «  Camminata  di  palagio  »  and  «  naturai  burella  »  {Inf.,  XXXIV,  97-99)  »  71 
CIAN  V.,  Ancora  di  Giovanni  Muzzarelli.  La  «  Fabula  di  Narciso  »  e  ie  «  Cantoni 

«  e  sestine  amorose  ■» »  78 

MABCHESI  G.  B.,  Un  rominzo  satirico  del  settecento »  97 

BELLEZZA  P.,  Ancora  una  volta  il  Tasso  e  il  Manzoni »  122 

PIAZZA  E.,  L'Alfieri  e  l'<t  Accademia  *  di  casa  Oavard »  364 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 


FLAMINI  F.  —  Giovanni  Mari,  Ritmo  latino  e  terminologia  ritmica  medievale. 
Appunti  per  servire  alla  storia  della  poetica  nostra.  —  Lo  stesso,  I  trattati  me- 
diev.di  ritmica  latina.—  Lo  stesso,  La  sestina  d'Arnaldo.  La  terzina  di  Dante        »        128 

BERTONI  G.  —  Fbancesco  Tobbaca,  Le  donne  italiane  nella  poesia  provenzale.  — 

La  «  treva  »  di  G.  de  la   Tor »        140 

PELLEGRINI  F.  —  G.  A.  Cesabeo,  Su  le  <t  Poesie  volgari  »  del  Petrarca.  Nuove 
ricerche.  —  Embico  Sicakdi,  Gli  amori  estravaganti  e  molteplici  di  F.  Petrarca  e 
l'amore  unico  per  madonna  Laura  de  Sade.  —  G.  A.  Cesareo,  Gli  amori  del 
Petrarca »         152 

MANACORDA  G.   —   Agostino   Zakelli  ,    Del  pubblico    insegnamento   in   Pistoia 

dal   XIV  al  XVI  secolo «        163 

ROSSI  V.  —  Karl  Moellkeb,  Heden  und  Briefe  italienischer  Humanisten  .        .        »        168 

CIAN  V.  —  BoofesE  MttSTZ.  Le   Muse'e  de  portraits   de   Paul  Jove.  Contributions 

pour  servir  à  l'iconograpUie  du  Moyen  Age  et  de  la  Renaissance     .        .        .        »        174 

BIANCHINI  G.—  GoiDo  Sabtobio,  Luigi  Correr.  Parte  1:  La  Vita  .        .         »        179 

FRACCAROLI  G,  —  Giovanni  Pascoli,  Sotto  il  velame.  Saggio  d'una  interpreta- 
zione generale  del  poema  sacro »        398 

EENIER  R.  —  Fbahcesco  D'Ovidio,  Studii  sulla  Divina  Commedia         ...»        428 


488  INDICE   DELLE   MATERIE 

BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

e.  CIPOLLA,  Monumenta  novaliciéntia  fetusiiora,  p.  187.  —  BibUoUca  storico- criticn  della  Ut' 
tiratura  dantesca,  dir.  da  O.  L.  Pasrebihi  e  da  P.  Papa,  disp.  11-12,  p.  190.  —  V.  RUSSO, 
Per  l'autenticità  della  *  Quaestio  de  nqua  et  terra  •,  p.  190.  —  Colletiotu  diopuse.  danteschi 
inediti  0  rari,  dir.  da  0.  L.  Passebihi,  disp.  61-63,  p.  190.  —  G.  RI2ZACASA  DX)RSOGNA, 
La  foce  che  quattro  cerchi  giugne  con  ira  croci  nel  1  del  Paradiso,  p.  194.  —  P.  VIGO, 
Le  dante  macabre  in  Italia,  p.  195.  —  L.  MARENGO,  L'oratoria  snera  italiana  nel  medio 
evo,  p.  108.  —  F.  VISMARA,  L'invettiva,  arma  preferita  dagli  umanisti,  p.  200.  —  E.  SOLMI, 
Leonardo,  p.  201.  —  G.  CURCIO  BUFARDECI,  Su  la  vita  letteraria  del  conU  Baldassare 
Castiglione,  p.  203.  —  K.  BENRATH,  Julia  Gonzaga,  p.  205.  —  A.  AGOSTINI,  Pietro 
Carnesecchi  e  il  movimento  valdesiano,  p.  205.  —  V.  GRIMALDI,  La  mente  di  G.  OaliUi 
desunta  principalmente  dal  libro  «  De  motu  gravium  »,  p.  208.  —  G.  GUIDETTI,  La  que- 
$tione  linguistica  e  l'amicitia  del  P.  Antonio  Cesari  con  Vincento  Monti,  Francesco  Villari 
ed  Alessandro  Manzoni,  p.  209.  —  I.  RINIERI,  DeUa  vita  e  delle  opere  di  Silvio  Pellico, 
Tol.  Ili,  p.  211.  —  A.  G.  BAUMGARTEN,  MeditaUones  phtlosophicae  de  nonnuUis  ad  poema 
pertinentibus,  p.  214.  —  F.  BENEDUCCI,  Scampoli  critici,  terìe  2«,  p.  215.  —  T.  WESLEY 
KOCH,  Catalogue  of  the  Dante  collection  presented  by  Willard  Fiske,  p.  442.  —  N.  SCA- 
RANO,  La  concubina  di  Titone,  p.  445.  —  G.  RIZZACASA  D'ORSOGNA,  L'aimla  che  ci 
fa  tanto  feroci,  p.  446.  —  V.  CRESCINI,  Varietà  filologiche,  p.  447.  —  B.  CROCE,  Giam- 
battista Vico  primo  scopritore  dell'estetica,  p.  449.  —  E.  MAURO,  Un  umorista  del  seicento, 
Vincenzo  Braca  salernitano,  la  vita  e  gli  scritti,  p.  451.  —  L.  A.  MURATORI,  Epistolario 
edito  e  carato  da  Matteo  Cakpori,  voi.  I,  p.  453.  —  Biblioteca  critica  della  letter.  italiana, 
diretta  da  F.  Tobraca,  disp.  36-42,  p.  455.  —  Raccolta  di  Studi  critici  dedicata  ad 
A.  D'Ancona  festeggiandosi  il  XL  anniversario  del  suo  insegnamento,  p.  458. 

ANNUNZI  ANALITICI Pag.  220 

Si  parla  di:  0.  Begani.  —  C.  Cazzato.  —  M.  Scherillo.  —  L.  Savorini.  —  M.  Yattasso.  — 
H.  Hauvette.  —  C.  A.  Riccio.  —  L.  Mattioli  —  O.  Pardi.  —  G.  Caponi.  —  I.  B,  Supino. 
--  G.  Canevazzi.  —  F.  Bernini,  —  D.  Provenzal.  —  E.  Cairo.  —  K.  Farsetti.  —  G.  Negri. 
—  A.  Serena.  —  P.  Bellezza. 

PUBBLICAZIONI  NUZIALI       .        .    ' Pag.  285 

COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 

PÉLISSIER  G.  L.,  Le  mobilier  d'Alfieri  à  Paris,  p.  238.  —  BERTANA  E.,  La  etnUssad'Al- 
bany  e  Ugo  Foscolo,  p.  244.  —  RENIER  R.,  Un  riscontro  al  «  serio  accidente  »  per  cut 
indossò  la  tonaca  padre  Cristoforo,  p.  247.  —  CIAN  V.,  Xoticina  dantesca.  Il  *eapp4Uo  • 
e  la  preghiera  di  Manfredi  morente,  p.  250.  —  SABBADINI  R.,  Il  *  Paulus  »  di  P.  P.Ver» 
gerio,  p.  464. 

CRONACA Pffy.  282,  4W 

INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA  E  DEL  BOLLETTINO  Pag.  482 


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