PQ
S£à228
Uì
H
GIUSEPPE GIUSTI
EGIDIO BELLORINI
Giuseppe Giusti
A. F. FORMIGGINI
EDITORE IN ROMA
1923
Proprietà Letteraria
/ diritti di traduzione sono riservati per tutti i paesi.
Nella filigrana di ogni foglio deve essere visibile
l'impresa editoriale.
Selci (Umbria), Società Anonima Tipografica Pliniana, 1923
^'lOjs^
G] RAN festa vi fu certamente in casa
Giusti a Monsummano il 12 maggio
1809, quando Ester Chiti, la giovane
e bella sposa del signor Domenico,
diede alla luce il primo figlio, che
— secondo 1' uso comune un tempo
e non ancora del tutto scomparso —
fu battezzato il giorno dopo col no-
me dell'avo paterno, Giuseppe. E in
questo rinnovarsi del nome era qua-
£^^'1 si un augurio. Disceso di buona ed
agiata famiglia, il vecchio Giuseppe
era meritamente salito in alto, a suo tempo,
nella scala de' pubblici uffici, divenendo persino
amico e ministro di Pietro Leopoldo, il granduca
riformatore, che avendo riformato, tra l'altro, an-
che 1' ufficio di presidente del Buon governo —
ch'era una specie di direttore generale della po-
lizia, con attribuzioni amministrative e giudizia-
8 Egidio Dellorini
rie — l'aveva conferito al suo prediletto ministro.
Né venuta poi la rivoluzione che, col turbine na-
poleonico, portò lo scompiglio in tutti gli Stati
italiani, il vecchio Giuseppe Giusti aveva visto
scemare la propria dignità, che anzi, nel 1805,
Maria Luisa di Borbone — la quale teneva allora
le redini del così detto regno d' Etruria — = dopo
averlo fatto consigliere intimo di Stato e di fi-
nanze, gli conferiva anche patenti di nobiltà, con
titolo trasmissibile a' suoi discendenti in linea
mascolina. E il signor Domenico — che non aveva
nutrito mai per sé grandi ambizioni, pago di cu-
rare l'amministrazione e l'aumento del patrimonio
domestico e di coprire qualche modesta carica
locale — rinnovando nel figlio il nome del padre
suo, augurò certamente che si rinnovasse in lui
anche l'antico lustro della famiglia e ch'egli fòsse
chiamato ad una gloriosa carriera nei pubblici
uffici.
Ignaro di questi ambiziosi disegni paterni, che
dovevano poi essere fonte di contrasti in avve-
nire, il piccolo Beppe passò lietamente i primi
anni nella casa paterna, e divenne un ragazzo vi-
vace, rumoroso e un po' turbolento, com'egli stes-
so ci narra in certi frammenti autobiografici.
Il signor Domenico era uomo di qualche col-
tura : amava la musica, faceva dei versi, -ammi-
rava Dante, e queste passioni egli trasfuse ben
presto nel figlio, insegnandogli, quand'era bam-
bino ancora, le note musicali e il canto del conte
Ugolino; ma non aveva né le cognizioni né l'at-
titudine necessarie per far da maestro a quel
Giuseppe Giusti
diavoletto. Perciò, quando Beppe ebbe poco più
di sette anni, lo affidò ad un prete, un tal Sacchi,
perchè l' istruisse. Era questi un uomo colto, ma
piuttosto stravagante e — come disse poi il suo
allievo — « di metodo tedesco perfettamente >, e
cioè abituato ad usare spesso le mani e forse an-
che il bastone come strumento di correzione ; e
il ragazzo, nei cinque anni che stette con lui,
molto s'annoiò e poco imparò. Poi, nell'ottobre
del 1821, il padre lo mandò a Firenze nel colle-
gio Zuccagni-Orlandini, che aveva fama di ottimo.
E qui le cose andarono meglio, specialmente per
merito di Andrea Francioni, maestro ammirabile,
che seppe metter in cuore al giovinetto l'amore
per lo studio. Di che l'allievo gli fu sempre ricono-
scente, tanto da dir poi clie il Francioni era stato
per lui non padre-maestro, ma maestro e padre.
Disgraziatamente, col finire di quell'anno scola-
stico, il collegio si chiuse, e il ragazzo fu inviato
a proseguire gli studi, prima, per un anno (1822-
23), nel Seminario di Pistoia, quindi, per due anni
(e cioè fino al luglio 1825), nel Collegio dei no-
bili a Lucca. Ma in nessuno di questi due istituti
Beppe fu un allievo modello; non perchè studias-
se meno degli altri, ma per la condotta. Le disco-
laggini da lui commesse furono anzi tante e tali
che, sulla fine d'aprile del 1825, venne persino
espulso temporaneamente dal collegio. Ciò non
ostante, nel luglio seguente potè dare egualmente
gii esami nello stesso collegio ; ma poi il padre
pensò ch'era meglio richiamarlo presso la fami-
glia, la quale nei frattempo era passata da Mon-
summano a Montecatini.
10 Egidio Bello ritti
Beppe tornava così in famiglia a sedici anni,
senza aver compiuto gii studi clie noi diremmo
secondari. In compenso vi tornava però circon-
dato da una certa gloriuzza nascente di poeta.
Veramente poco ci resta di que' suoi primi
saggi, diciamo pure « poetici » ; ma se ci mancano
le ottave sulla torre di Babele, scritte a dodici
anni, quand'egli smaniava ancora sotto la disci-
plina del prete Sacchi, come ci mancano le ter-
zine per la sorella Ildegarde, minore pochi anni
di lui, scritte a Lucca, insieme con altre terzine
in morte del granduca Ferdinando II, e con un
poemetto in sestine sul ratto delle Sabine, per-
duti, credo, anch'essi al pari di un certo numero
di versi in vernacolo lucchese, ci restano però
altri versi composti in quegli stessi anni, in par-
te seri — come sarebbero un sonetto sulla libertà
e un altro di soggetto amoroso — e in parte bur-
leschi ; e questi bastano per farci concludere
che, sebbene egli suscitasse ammirazione tra i
condiscepoli e i famigliari, poteva, tutt'al più,
esser lodato per una certa facilità nel buttar giù
endecasillabi di giusta misura. Se vogliamo, ciò
non è poco per un ragazzo; ma non è neppure
presagio di futura grandezza.
A Montecatini Beppe continuò a verseggiare
a tutto spiano, trattovi anche dall' uso locale delle
gare di sonetti a rime obbligate ; e in queste ten-
zoni egli riportò facilmente più d' una vittoria.
Poi, a richiesta del preposto Orlandini, fece una
canzone sul crocifisso, che venne stampata in una
raccolta e gli procurò molte lodi. Quel che va-
Giuseppe Giusti 11
lesse la canzone non sappiamo, perchè non ci è
pervenuta; ma del valore poetico del Giusti in
quel tempo è indizio una imitazione oraziana scrit-
ta in versi abbastanza disinvolti, e un'odicina, la-
sciva ma non brutta, per una giovinetta, Isabella
Fantoni, da lui ammirata ai Bagni di Montecatini
e della quale s'immaginò per qualche tempo di
essere innamorato sul serio.
Ma di queste più o meno felici esercitazioni
poetiche non poteva essere pago il signor Do-
menico, se pur qualche volta ne andava orgo-
glioso. Egli mirava sempre allo stesso scopo:
metter il figlio in grado di coprire un pubblico
ufficio; e poiché, a tale scopo, bisognava ch'egli
prendesse la laurea in leggi, incaricò il già ri-
cordato preposto Orlandini di prepararlo all'esa-
me d'ammissione all' università. Qualche mese
dopo, Beppe, bene o male, superava l'esame e,
nel novembre del 1826, cominciava a frequentare
i corsi della facoltà di leggi nella Università di
Pisa.
Che cosa fossero studenti e professori a Pisa,
in quel tempo, ha detto, con molti particolari gu-
stosi e col garbo consueto, Ferdinando Martini,
e non discorda da! suo racconto quel che pos-
siamo dedurre dalla testimonianza che ci dà il
Giusti stesso nelle Memorie di Pisa, scritte nel
1841. Tra i professori non mancavano i buoni,
rispettati dagli studenti; ma tra gli studenti pre-
valevano, o almeno avevano gran seguito, gli
12 Egidio Bello ritti
scapati, ai quali era duce un tal Salvatore Ar-
cangeli soprannominato Stravizio, che il Giusti
conobbe e, pare, anche imitò. Veramente, a legger
le lettere eh' egli in quel tempo scriveva a suo
padre, si direbbe che fosse un modello di stu-
dente, tutto occupato, il primo anno, a studiare
geoinetria e filosofia — perchè così volevano i
programmi d'allora — e a studiare diritto nei due
seguenti. A sentirlo, unico spasso era per lui
qualche serata trascorsa a teatro o in casa di
gente per bene, come quella della contessa Ma-
stiani, conosciuta dal padre e accetta a corte. Le
105 lirette che gli mandavano da casa ogni mese,
erano pochine, a dir il vero ; ma il saggio stu-
dente sapeva farle bastare ; e quando il padre
sospettoso l'accusò di buttar via i denari, egli se
l'ebbe a male e gli rispose, non senza un po' di
risentimento, dimostrandogli che aveva torto. In
realtà invece il padre aveva ragione di sospet-
tare. È bensì vero che il giovinotto studiò, se non
troppo, almeno quanto bastava per cavarsela agli
esami ; ma si intrufolò in compagnie poco buone,
spese troppo e fece dei debiti che alla fine ven-
nero a galla e dovettero esser pagati dal padre
il quale, un po' tirato nello spendere, se ne sgo-
mentò, e, nel giugno 1829, richiamò il figlio a
casa facendogli interrompere un' altra volta gli
studi.
Nel frattempo la famiglia s'era trasferita da Mon-
tecatini a Pescia, ed il giovane figliuol prodigo do-
vette quindi rassegnarsi a vegetare in questa cit-
tadina, tanto meno allegra e tanto più pettegola
Giuseppe Giusti 13
di Pisa. Se non che neppur qui mancavano i gio-
vanotti dissipati e le occasioni di non difficili
amori ; cosicché, in sostanza, Beppe mutò com-
pagni ma non genere di vita, e bagordi e amo-
razzi e debiti si rinnovarono ben presto, con quan-
to conforto del padre è facile immaginare.
Eppure, nemmeno in questo brutto periodo
della sua vita, non smise mai, né a Pisa né a
Pescia, di fare versi. La vena infatti aveva con-
tinuato a scorrere sempre abbondante, ed anzi a
poco a poco si era fatta anche più limpida e più
tersa, come appare dai pochi sonetti amorosi e
dai molti componimenti burleschi di questi anni.
I primi sono probabilmente pure esercitazioni let-
terarie, ed esprimono sentimenti poco in armonia
cogli amorazzi volgari che il Giusti coltivava al-
lora ; ma ci attestano però lo studio dei grandi
poeti antichi, e specialmente di Dante e del Pe-
trarca, e lo sforzo, non sempre vano, di addolcire
l'armonia del verso e di affinare lo strumento
della parola. I componimenti giocosi invece si
ricollegano evidentemente colla poesia burlesca
di Antonio Guadagnoli, popolarissimo allora in
Toscana e conosciuto personalmente dal Giusti,
che gli si era legato a Pisa di cordiale amicizia;
ma talvolta ci presentano anche, pur nella loro
facile superficialità, qualche tratto inspirato fe-
licemente dal vero, che par quasi preannunciare
il futuro poeta satirico. Questo è, per es., il caso
della Mamma educatrice, il più noto de' suoi com-
ponimenti giovanili.
E che tali versi gli procacciassero fin d'allora
14 Egidio Bellorini
una certa fama, ci è attestato dal fatto che a Pisa,
nelle famiglie signorili che frequentava, egli era
invitato a recitare versi, in gara con Giovanni
Rosini, professore dell' università e suo buon ami-
co, e che, a Pescia, egli, oltre a partecipare vit-
toriosamente ai soliti tornei poetici, era accolto
nelle migliori famiglie e per una di esse, i Ma-
gnani, scriveva una corona di sonetti ad illustrare
i quadri decoranti una loro villa.
li.
Le giornate di luglio del 1830 e tutti i fatti che
ne seguirono, in quello stesso anno e nel seguente,
in Francia e in Italia, vennero a sorprendere il
giovane scapato in mezzo alle sue dissipazioni,
e destando in lui più gravi pensieri e piij nobili
affetti, mutarono in parte l'indirizzo della sua
vita e quasi del tutto quello della sua arte.
Quali fossero le idee politiche del Giusti negli
anni precedenti non ci è noto. Che fosse del tutto
indifferente al sordo travaglio che agitava allora
tante generose anime d'italiani, non è credibile ;
ma forse, distratto dal poco nobile genere di vita
al quale s'era abbandonato, non era andato oltre
una vaga simpatia per le idee liberali, a cui lo
doveva inclinare il ricordo dell'avo materno. Ce-
lestino Chiti (m. 1825), che, al tempo della grande
rivoluzione, aveva, col Sismondi, sofferto perse-
cuzione e carcere per opera dei reazionari, ed era
Giuseppe Giusti 15
poi sempre rimasto fedele alle idee democratiche.
Ma i fatti del 1830-31 colpirono la sua fantasia e
commossero il suo cuore di 21 anno, esaltandolo
per le idee di libertà e di patria. Idee molto in-
certe però, almeno per allora ; e tutto doveva ri-
dursi, probabilmente, ad un generico odio, di tipo
alquanto alfieriano, pei tiranni, e ad una mal de-
terminata aspirazione per la libertà repubblica-
na; né d'altro dovevano essere piene le concioni
che, a sua confessione, andò allora declamando
pei caffè e per le osterie di Pescia, come non
d' altro eran pieni i versi che gli furono ispirati
dai fatti di quel tempo e dalle sue nuove idee e
passioni, e dei quali riparleremo a suo tempo.
Quello che pensasse frattanto il signor Dome-
nico, fedelissimo a casa Lorena ed alle vecchie
idee, di queste scalmane patriottiche e democra-
tiche del figlio, è facile immaginare. Ma si do-
vette quietare, quando i moti rivoluzionari ces-
sarono senza portare alcun mutamento nelle cose
d'Italia e vide che i vecchi sovrani restavano più
che mai saldi sui loro troni. Tornarono allora pro-
babilmente a galla le sue vecchie speranze di ri-
cavare dal figlio un dottore in leggi e quindi un
servitore del governo, e poiché il figlio dal canto
suo, stanco forse della vita oziosa e sconclusio-
nata che menava a Pescia, gli fece solenne pro-
messa di non ricadere nelle passate dissipazioni,
deliberò di mandarlo ancora a Pisa a riprender
gli studi.
Ed ecco il nostro giovinotto di nuovo all'uni-
versità, nel novembre 1832.
16 Egidio Bellorini
Egli vi tornava però alquanto mutato, e trovò
qualcosa di mutato anche a Pisa, dove pure gli
avvenimenti politici degli anni precedenti non
erano passali senza lasciar traccia. La scolaresca
era un po' meno dissipata e più studiosa; inoltre
aveva una passione nuova, la politica ; e «on era
difficile trovar studenti che coi loro baffi dessero
indizio di idee liberali. E tra questi fu anche il
Giusti che ben presto si acquistò una certa fama
tra i condiscepoli, per le sue idee e per i suoi
versi, e quindi venne anche in sospetto alla po-
lizia. Non che la polizia toscana fosse terribile
come quella di Napoli, di Modena e del Lombardo-
Veneto ; tutt'altro!; ma non poteva chiuder sem-
pre gli occhi e gli orecchi, come forse avrebbe
qualche volta desiderato, ai trascorsi troppo ru-
morosi degli studenti, perchè il governo grandu-
cale, tormentato dalle richieste e dai rimproveri
degli altri governi d'Italia, doveva pure, di tanto
in tanto, impartire ordini di vigilanza ed esortare
alle severità, E i sospetti polizieschi contro il
Giusti non furono, per lui, senza conseguenze di
una certa importanza.
Venendo a Pisa, egli nutriva speranza di com-
piere i suoi studi e di conseguire la laurea entro
il giugno del 1833; invece ecco, nel febbraio di
quest'anno, un improvviso ordine dell'autorità
accademica gli vieta di sostenere un esame che
era già stato fissato per quei giorni, ciò che porta
un rinvio della laurea da giugno a novembre. Più
tardi poi gli si fa sapere che questo non basta e
che dovrà rimandare la laurea nientedimeno che
Giuseppe Giusti 17
fino al giugno del 1834! Offeso ed irritato, anche
per gì' inevitabili rimbrotti paterni, il Giusti ri-
corre al granduca ; ma il ricorso non è preso in
considerazione ; prega il padre di parlare al so-
vrano del quale è amico, quando verrà a Monte-
catini per la solita cura ; ma anche questo passo
è vano, ed egli deve finalmente rassegnarsi a ri-
mandare la laurea di un anno.
Che era mai succeso? — Il Giusti, scrivendo
al padre, si dà l'aria di non comprendere il per-
chè del provvedimento, e protesta quando il pa-
dre gli scrive che era effetto della sua « cattiva
condotta » ; ma il fatto si è che proprio in quei
giorni egli era stato chiamato in polizia e rim-
proverato per i troppo rumorosi applausi prodi-
gati in teatro ad una cantante in fama di liberale,
che, nella serata d'onore, era venuta alla ribalta
con una ghirlanda di fiori bianchi, rossi e verdi.
Beppe s'era difeso dimostrando che quella sera
non si trovava in teatro ; ma la chiamata stessa
dimostra in qual concetto egli fosse tenuto dalla
polizia. Però evidentemente la punizione scola-
stica doveva avere avuto un altro motivo; e que-
sto fu probabilmente — come suppone il Marti-
ni — la GuigUottina a vapore, che figura in
testa alle edizioni delle sue satire, e eh' egli
aveva composto appunto in quel tempo. Il gu-
stoso scherzo satirico ebbe subito una certa dif-
fusione, e il Martini — basandosi su un certo rac-
conto dei Proverbi toscani — suppone che un
condiscepolo denunciasse il Giusti alla polizia
come autore della mordace poesiola; donde l'im-
provviso provvedimento accademico.
Profili — G. Giusti. 2
18 Egidio Bellorini
Comunque sia, il Giusti chinò il capo ai vo-
leri superiori, contentandosi di vendicarsene con
un' altra poesia, la Rassegnazione e proponimento-
di cambiar vita, e al tempo stabilito, il 28 giugno
1834, a 25 anni circa, riusciva finalmente ad ot-
tenere la laurea in leggi. Dopo di che, lasciando
per sempre la «baraonda tanto gioconda» di Pi-
sa, si recava, seguendo il volere del padre, a Fi-
renze, per farvi pratica di giurisprudenza nello
studio dell'avvocato Cesare Capoquadri, presso
il quale aveva già fatto la sua comparsa, allo
stesso scopo, anche nelle vacanze dell'anno pre-
cedente.
* *
Il Capoquadri era uno dei prìncipi del foro
toscano; ma il Giusti, a dire il vero, non fece
troppo tesoro di quanto avrebbe potuto appren-
dere nel suo studio. Lo frequentò bensì per più
anni, ma non troppo assiduamente e senza alcun
entusiasmo.
Nella mente del signor Domenico, il tirocinio
ch'egli faceva allora avrebbe dovuto servirgli per
intraprendere poi la carriera dei pubblici uffici;
ma, quando si fu al punto di prendere una deci-
sione, il figlio si ribellò, e per quanto il genitore
insistesse, e lo esortasse e lo rimproverasse, fu
irremovibile nel non volerne sapere. Qualche
amico di famiglia si mise di mezzo, e alla fine si
concluse che Beppe avrebbe dato gli esami d'av-
vocato e quindi, aiutandolo il padre finanziaria-
mente per qualche anno, si sarebbe avviato ad
esercitare la libera professione.
Giuseppe Giusti 19
Questa era già una grave delusione pel signor
Domenico; ma dovette rassegnarvisi. Se non che
il giovine dottore glie ne preparava un'altra anche
più grande. Infatti egli diede bensì, al tempo sta-
bilito — e cioè nel luglio del 1838 — gii esami
di avvocato, e li superò... ; ma poi non esercitò
mai la professione, ed anzi non volle neppure che
lo chiamassero avvocato. E il padre che, sebbene
discretamente fornito di beni di fortuna, non era
molto largo nello spendere, dovette, alla fine, chi-
nare il capo e acconciarsi a spedirgli ancora ogni
mese la solita modesta retta che il figlio dovette
ingegnarsi a far bastare per i suoi bisogni ordi-
nari. Vero è che tutto ciò non accadde senza con-
trasti, penosi sempre e talvolta anche piuttosto
aspri, tra padre e figlio, accusando il primo a torto
e a traverso, e difendendosi l'altro con parole a
volte non molto rispettose, sebbene in parte giu-
stificate dalla palese esagerazione dell'attacco;
e se non avesse fatto da intermediario, col suo
tatto materno, la buona signora Ester, vittima
anch'essa talvolta delle asprezze del marito, non
è improbabile che ne sarebbe derivata qualche
fave rottura tra i due contendenti.
Ma si può chiedere: perchè mai tanta rilut-
tanza del figlio ai desideri paterni? — Finché si
trattava di assumere un impiego governativo, si
può credere che derivasse dalle idee politiche
del giovine dottore in leggi ; ma questa difficoltà
spariva o veniva almeno attenuata di molto col
libero esercizio dell'avvocatura. La ragione vera
è quindi un'altra.
20 Egidio Bellorini
Non però l' inclinazione alla vita dissipata, co-
me — dati i precedenti — si potrebbe supporre.
I disordini della prima gioventù il Giusti li aveva
ormai lasciati in disparte : non più debiti, non più
bagordi. A Firenze, accolto — un po' per merito
della famiglia un po' per quello dei versi' — nella
migliore società, frequentando scrittori ed artisti,
egli non faceva certo vita monacale ; ma non era
più il discolo di Pescia e di Pisa. Inappuntabile
ed anzi elegante nel vestire, amava andare a tea-
tro, ai ricevimenti, ai balli — anche a quelli di
corte, dove ebbe occasione di scambiare qualche
parola col granduca — ma non si appassionò mai
troppo per questi divertimenti. Nemmeno l'amore,
che ha spesso tanta parte nella vita dei giovani,
riusciva a destare in lui vera passione. Non che
la beltà femminile lo lasciasse indifferente; anzi
— da vero figlio del signor Domenico che fu in
ogni tempo della sua lunga vita un impenitente
vagheggino — amo corteggiare signore e non
signore, e potè vantarsi che più d'una accolse
benevola i suoi omaggi ; ma furono passion-
celle o capricci, nei quali i sensi avevano molta
parte e il cuore assai poca: vero e proprio
amore non ne provò forse mai, anche se per le
donne corteggiate scrisse, come vedremo, versi
pieni di sentimenti idealmente nobili e di proteste
di passione sublime.
Esempio tipico di questo stato d'animo è la
sua relazione con Cecilia Piacentini, che cade
appunto negli anni del ritorno a Pisa e nei primi
del soggiorno a Firenze, dopo la laurea. La Pia-
Giuseppe Giusti 21
centini era una giovine e bellissima signora di
Pascià. Il Giusti l'aveva conosciuta prima del
1829, ma poi frequentandola al suo ritorno in fa-
miglia negli anni seguenti, la corteggiò e ne ot-
tenne l'amore. La passione, da parte della signora
almeno, sembra sia stata assai viva ; il giovinotto,
per parte sua, le indirizzò versi traboccanti di
melanconica sentimentalità, come la Dedicatoria
delle sue poesie (1835) e l'ode All'amica lontana
(1836), che parrebbero inspirate da un amore
idealmente sublime. Ma la vanità giovanile in-
dusse il Giusti a qualche indiscrezione cogli
amici, la signora se ne sdegnò, e nell'estate del
1836 la ruppe con lui. Ed egli ne soffrì ; anzi, a
dargli retta, la sofferenza sarebbe stata tanto
grande da produrre una vera rovina nell'animo
suo ; sarebbe stata insomma per lui una di quelle
tragedie sentimentali che lasciano tracce indele-
bili. In realtà, non tardò a consolarsi, e annodò un
idillio letterario sentimentale con Isabella Rossi,
giovine poetessa fiorentina. Ma la Rossi era
nubile, e la conclusione dell'amore doveva essere
il matrimonio. Se non che il Giusti non si sen-
tiva, nato < a portare quel giogo », come disse più
tardi; e poi: di che avrebbe mantenuta la sposa?
Avrebbe dovuto ritirarsi con lei a Pescia, nella
casa paterna ; prospettiva poco lieta anche per
la giovine poetessa. E la gran passione, di cui
faceva pompa in lettere infocate, svanì. Qualche
tempo dopo Isabella sposava il conte Gabardi,
e il Giusti le indirizzava un'ode, mediocre ma
corretta, di saluto e d'augurio.
22 Egidio Bellorini
Staccatosi dalla Rossi, riannodò la relazione
colla Piacentini; ma per poco. Nel 1841 seguiva
una nuova, clamorosa e definitiva rottura, dalla
quale il poeta disse di aver molto sofferto, pur
consolandosene presto, al solito, con nuovi amori.
In seguito, sbollite le ire, si rappaciò colla buona
signora Cecilia; ma oramai all'antico amore era
subentrata una pacata amicizia che durò anche
dopo la morte del marito di lei (1841). Del resto,
già nel dicembre del 1840, il Giusti, da amico di
casa, aveva scritto per Giovannino, figlio della
signora, che andava a Lucca in collegio, la notis-
sima lettera esortatoria, piena di saggi consigli,
che è riportata in moltissime antologie scola-
stiche.
In tutto questo — diciamolo pure — il Giusti
non fa sempre ottima figura ; ma non bisogna
poi esagerare e giudicarlo peggiore di quello che
fu. In amore, come nei rapporti col padre e come
in altre circostanze della vita, egli dimostrò d'es-
sere un uomo come tanti altri, con difetti che
sono purtroppo comuni in questa nostra povera
umanità, e che, in parte almeno, possono essere
scusati cogli esempi eh' egli ebbe in famiglia e
colla educazione che ricevette.
Ad ogni modo, tutto ciò dimostra che neppur
l'amore gli fece perdere la testa e lo sviò dal-
l' intraprendere una carriera regolare e < seria »,
come avrebbe voluto suo padre. E tutto fa cre-
dere infatti che la sua riluttanza ai voleri pa-
terni derivasse in parte dalla antipatia per gli
arzigogoli legali e in parte anche maggiore dalla
Giuseppe Giusti 23
ripugnanza per ogni occupazione che richiedesse
impiego metodico e regolare del tempo e che Io
distogiiesse perciò da quella che ormai consi-
derava come la sua vera vocazione : le lettere e
specialmente la poesia.
Già fin da quando era in collegio a Lucca, egli
dichiarava di sentirsi nato alle lettere ed alla
poesia {Lett. fam. 15 e 20). Al presente, ciò che
poteva essere in quegli anni illusione o vanteria
da ragazzo, era diventato, nel giovane verseggia-
tore, seria e salda persuasione. E per quanto egli
dichiarasse più volte, allora ed anche più tardi,
scrivendo agli amici, di non essere un letterato e
di scrivere a orecchio, il vero si è che aveva deli-
berato ormai di darsi tutto alle lettere ed alla
poesia, nella speranza che glie ne verrebbe ono-
re ; e in una lettera alla madre, del 10 dicembre
1836 {Lett. fam. 135), lo dichiara apertamente.
Ma allora il signor Domenico ebbe un'altra
idea. Poiché il figlio voleva darsi alle lettere e
si era già fatto un certo nome come poeta, per-
chè non accetterebbe una cattedra di eloquenza?
E le antiche speranze, cacciate dalla porta, rien-
travano così per la finestra. Ecco intanto che
nel 1840 corre voce che il Rosini sta per abban-
donare la cattedra di Pisa. L'occasione non era
propizia ? E il giovane poeta fu per un momento
sedotto dall' idea di esserne il successore. < Una
cattedra > aveva scritto ad un amico sin dal 1836
e confermava quasi colle stesse parole al Monta-
nelli nel 1840 {Ep. I, 169, 292), <è il posto più
indipendente e più onorifico che possa coprirsi
24 Egidio Bellorini
da un galantuomo >. Permise quindi che il padre
intavolasse delle pratiche per fargli avere il po-
sto, e, cosa più notevole ancora, fece qualche
passo egli stesso per ottenerlo, sebbene a volte
sorgessero in lui dei dubbi, perchè sentiva di non
avere, pel momento, la preparazione necessaria,
e perchè avrebbe voluto esser sicuro di non
dover rinunciare alla sua libertà di giudizio e di
parola. « Mi sento liberissimo >, scriveva al padre
{Leti. fam. 183), « e se pretendessero castrarmi
l'anima e la testa sbaglierebbero ; né intendo per
questo di voler portare la toga tricolore, ma sola-
mente di dire quel vero che mi fosse conceduto
di conoscere, e di dirlo con convenienza >. Ma,
pel momento, il Rosini non si ritirò, e l' idea fu
quindi messa in disparte.
Se rie riparlò qualche anno più tardi, quando
si trattò daccapo del collocamento a riposo del
vecchio professore ; ma nemmeno allora la cosa
ebbe seguito, e il Giusti continuò quindi a vivere
libero da ogni impiego pubblico o privato, non
avendo altra occupazione seria che la composi-
zione de' suoi versi, alla quale soleva attendere
a sbalzi, quando l'estro si risvegliava. A volte,
dopo mesi d' inerzia e d'apatia, nei quali « la
penna gli pareva di piombo e il cervello gli si
faceva di sughero > {Ep. I, 154), buttava giù a
furia, senza concedersi un minuto di riposo, versi
e versi; poi li lasciava lì a riposare, per ripi-
gliarli in seguito a suo agio e tempestarli di cor-
rezioni, esitando mille volte prima di recitarli
agli amici o di darne loro copia. <'
Giuseppe Giusti 25
E così durò, conducendo una vita relativa-
mente tranquilla e felice, fino al principio del
1843, quando alcuni avvenimenti imprevisti ven-
nero a turbarlo profondamente e a mutare anche
in parte il colorito della sua poesia.^
III.
Ecco giunto quindi il momento di prendere in
esame la sua opera letteraria nel dodicennio che
corre tra il 1831 e il 1842, per vedere donde egli
abbia preso le mosse, a qual punto sia arrivato
e quali nuovi accenti abbia fatto risonare nella
poesia del suo tempo.
Nato e vissuto fino a venticinque anni circa
in un ristretto ambiente provinciale, il Giusti ne
riportò certe abitudini e certe tendenze spirituali,
che poterono poi esser temperate in parte, ma
non distrutte, quando egli passò a Firenze, tanto
più che anche Firenze, sebbene fosse capitale
dello Stato e centro letterario ed artistico di
qualche importanza, era tuttavia una città al-
quanto provinciale anch'essa, dove si viveva
come in un'isola intellettuale tranquilla, tra le
torbide onde della vita italiana d'allora, in una
isola nella quale il fragore e l'impeto delle bur-
rasche letterarie e politiche si sentivano solo
in ritardo ed attenuati.
A quelli dell'ambiente, s'aggiungano gli effetti
della cultura, che il Giusti non ebbe né profonda
26 Egidio Bello r ini
né estesa, per colpa de' suoi studi tante volte
interrotti e trascinati avanti con poca buona vo-
lontà da parte sua, in iscuole generalmente non
troppo buone. Più tardi, è vero, cercò di rime-
diare alle deficienze della propria coltura, almeno
nel campo letterario; ma vi riuscì solo ìh parte.
Di greco, infatti, confessò egli stesso di non
saper nulla. Di latino, a scuola imparò tanto poco,
che più tardi, quando si diede di proposito alle
lettere, sentì il bisogno di rifarsi da capo. Per-
venne così a gustare i classici di Roma, e spe-
cialmente Virgilio, che già fin dalla prima gio-
ventù aveva prediletto ed anche ingenuamente
parodiato in certi suoi versi scherzosi; e fu il
< suo autore > fra i latini, come Dante fra gli ita-
liani; ma la sua arte aveva ormai trovata la pro-
pria via, e lo studio degli antichi non poteva
avere grande efficacia su di essa.
Meglio naturalmente conobbe la letteratura
italiana, e specialmente predilesse Dante, del
quale non è difficile scorger le tracce in qualche
suo com.ponimento serio in terzine della prima
gioventù, ed anche nei primi sonetti amorosi.
E poco meno di Dante ammirò fin d'allora il Pe-
trarca, che pure imitò spesso nei sonetti amo-
rosi — Come dice neir0/7^/«^ degli scherzi:
« pagando al Petrarca il noviziato, belai d'amo-
re > — ; e anche in età matura lo ebbe poi sem-
pre caro, e il Canzoniere soleva essere sua let-
tura preferita, insieme col poema dell'Ariosto,
nelle uggiose giornate autunnali. Ma di quest'ul-
timo ricordò tuttavia più spesso, in qualche suo
Giuseppe Giusti 27
componimento, le satire. Il poema del Tasso fu
per lui OjQ^getto di parafrasi scolastiche, quando
era nel Collegio di Lucca, ma non pare che fosse
tra i suoi autori preferiti. Tra i prosatori, ammi-
rò certo il Colletta, che gli servì di modello pei
Cenni intorno alla vita di Celestino Chiti, scritti
nel 1837 ; e, da ragazzo, venerò Carlo Botta. È an-
zi curioso vedere con quale entusiasmo ne loda
lo stile {Leti, fam., 7-8) contrapponendolo a quello
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la cui enfasi
lo disgustava. Poco dopo dovette però ammirare
il Foscolo poeta, come attestano alcune remini-
scenze de' suoi scritti giovanili. Conobbe certa-
mente i canti del Leopardi, che viveva a Pisa
proprio quand'egli frequentava l'Università; ma,
com'ebbe a dire molt'anni dopo, quel suo dispe-
rato pessimismo gli faceva freddo e sgomento
{Ep.,\\, 211), e non fu quindi trai suoi autori pre-
feriti, sebbene, in età matura, pensasse poi, co-
me vedremo, a fare uno studio su di lui e sul
Foscolo. Di altri nostri grandi scrittori, dal Boc-
caccio al Parini e al Monti, non risulta che avesse
da giovine conoscenza alcuna; ma è impossibile
che li ignorasse. Dell'Alfieri, sebbene poco ne
parli, i suoi scritti giovanili rivelano una buona
conoscenza; quel che pensasse del Manzoni ve-
dremo pili avanti; ma, ad ogni modo, ne conobbe
gli scritti solo relativamente tardi, quando la sua
arte era già matura.
Molto invece apprezzò, fin da giovinetto, i
poeti satirici e giocosi, e specialmente studiò,
come vedremo, il Menzini. II Casti era allora per
28 Egidio Betlorini
lui < r immortale autore degli Animali parlanti > ;
ma soprattutto ammirava, tra i più recenti, il Pa-
nanti, e più ancora — come già si accennò —
il Guadagnoli.
Delle letterature straniere conobbe special-
mente la francese, favorito in ciò da una discreta
conoscenza della lingua, appresa in collegio;
ma tra gli scrittori francesi conobbe da giovane
specialmente i classici; i moderni invece, gene-
ralmente, gli furono noti solo più tardi, ed ove
si eccettui il Béranger — del quale si dirà più
avanti — non ebbe per essi grande simpatia, e
parlò con poco rispetto della Sand e dell'Hugo.
Il che si ricollega, del resto, col suo atteggia-
mento verso il romanticismo. — In collegio, co-
me si disse, ammira il Botta e disprezza il ro-
manzo del Foscolo ; e potrebbe parere indizio di
tendenze antiromantiche, ma è forse soltanto il
riflesso di qualche giudizio de' suoi maestri. A Pi-
sa non risulta che si occupi della dibattuta qui-
stione tra classici e romantici; ma poi, nei primi
tempi del soggiorno a Firenze, vivendo tra let-
terati ed artisti che certo ne discutono, si rende
conto anch'egli dei termini della contesa, ed il
suo buon senso gli fa vedere che i classicisti
arrabbiati < hanno perduto il credito e bisogne-
rà finalmente che chiudano bottega >, e dichiara
che occorre « liberarsi dalle pastoie aristoteli-
che >. Ma, nello stesso tempo, sente una certa
avversione per il romanticismo, del quale pare
non veda che gli eccessi di origine straniera;
e deplora la < fuliggine satanica > {Ep., I, 37),
Giuseppe Giusti 29
inveisce contro i < romanzi strampalati della
scuola galvanica d'oltremente > (I, 162), contro i
< poeti macellari >, e contro quelli ch'egli chiama
<i secentisti del secolo XIX > {Leti. fam. 154).
E se, parlando di lingua, sostiene che < vai me-
glio una bestemmia contro le regole, che espri-
ma qualcosa, che un testo di lingua minchione >
(£■/?., 1, 193), si sdegna però contro quei forti in-
gegni italiani che si perdono dietro alle < ciurme-
rio dei romantici esagerati {Ep., I, 162), e dice
che, se gli stranieri ci dominano in altri campi,
bisogna almeno sapersene difendere in quello
delle idee, ed < esser nazionali > ; e, quanto a sé,
dice che gli <fia bello l'aversi fatto parte da sé
stesso >.
E queste idee raccoglie poi e ripete nella sua
ode a Girolamo Tommasi, su la Origine degli
scherzi, — che è, come disse qualcuno, la sua
< arte poetica >, — scritta nel 1841-43, quando or-
mai si era reso ben conto della strada percorsa.
Né sono in contrasto con le idee di quest'ode
quelle che esprime in due altri componimenti,
posteriori di qualche anno — A uno scrittore di
satire in gala e Avvertimento a un giovine scrit-
tore — nei quali, in sostanza, egli esorta chi si
dà alle lettere, a lasciar da parte i soggetti an-
tichi o stranieri, per ricavar materia dall'età e
dalla patria sua, a scartare ogni stravaganza di
concetto e d'espressione e a dir le cose alla buo-
na, pigliando arditamente in mano il dizionario
che gli suona in bocca.
Insomma egli non vuol essere né classico né
30 Egidio B elio r ini
romantico, sebbene, in sostanza, non la pensi
molto diversamente dai romantici temperati man-
zoniani; e possiam dire che le sue idee lettera-
rie — le quali d'altronde non si raccolgon mai
in un tutto organico — sono una specie. di na-
zionalismo letterario temperato dal buon senso,
sebbene non sempre tanto sicuramente da fargli
evitare qualche ingiustizia e qualche gretteria.
Ma forse alla parola « nazionalismo >, che può
generare equivoci, è meglio sostituire quella che
avrebbe preferito il Giusti, di « paesanità >, in-
tesa come un amore, talvolta un po' troppo esclu-
sivo e ristretto, per tutto ciò che è paesano: scrit-
tori e idee, lingua e argomenti. E < paesano >, per
lui, quando si tratta di letteratura, vale quasi sem-
pre < toscano > e raramente « italiano >.
Al nazionalismo letterario corrisponde quello
politico, inteso questo vocabolo nel senso che
egli poco s'occupò di ciò che accadeva fuori del
suo paese. Ma qui « paese > vale generalmente
e francamente < Italia >, se anche è naturale che
egli vedesse e conoscesse specialmente la To-
scana e ciò che vi accadeva.
Da ragazzo scrive il sonetto alla libertà ; ma
è roba di scuola e di maniera, e nulla più. Di
politica, per quanto sappiamo, si occupa sol-
tanto dopo i fatti del 1830-31, che destano in lui,
come vedemmo, un amor di patria vivo e sin-
cero, e ne fanno per sempre un fervente liberale.
Giuseppe Giusti 31
Da prima ha tendenze repubblicane, sebbene le
sue idee in proposito siano un po' vaghe e co-
lorate da un residuo di odio retorico contro i
tiranni; ma ben presto il buon senso gli fa ve-
dere che quello che veramente importa è liberar
l'Italia dagli stranieri, e darle nello stesso tempo
l'unità che la renderà forte e rispettata. Se a ciò
può valer meglio la monarchia, come sembra,
perchè non accettarla? E fin dal 1836, nello Sti-
vale, invoca < un uomo purché sia, fuorché pol-
trone » il quale rechi questi beni all'Italia ; a patto
che non cerchi poi di farsene tiranno.
Ma quel che importa per noi è che le idee
politiche danno un nuovo indirizzo alla sua atti-
vità letteraria, ed anzi la dominano e contribui-
scono efficacemente a renderla originale.
Scrivendo, egli, fino allora, era andato un po'
a tentoni. L'istinto lo spingeva alla poesia; ne
sentiva, fin da ragazzo, la passione, e qualche
volta lo disse chiaramente, con iattanza giova-
nile ; ma non aveva trovato la propria strada. Le
letture fatte a scuola e l'ammirazione per Dante,
per il Petrarca e per qualche altro classico, gli
dettarono sonetti, canzoni, componimenti in ter-
zine di vario argomento, sacro, elegiaco, descrit-
tivo, amoroso; tutta roba seria, compassata, con
qualche buon verso e con qualche immagine fe-
lice, e anche con segni di progresso, dirò così,
tecnico via via che gli anni passavano ; ma senza
carattere alcuno di originalità; erano cose me-
diocri e incolori, e nulla piìj. Nessuno parlerebbe
più del Giusti, se avesse continuato per quella
32 Egidio Bellorini
via, e poco ne avrebbero parlato anche i con-
temporanei.
Se non che in Toscana, accanto alla lettera-
tura seria, di scuola e per così dire ufficiale, fio-
riva un'altra letteratura popolarissima, quella sa-
tirico-giocosa, che aveva una lontana tradizione
e non pareva affatto vicina al tramonto. Orbene,
per il Giusti, Dante, il Petrarca e gli altri grandi
poeti del passato rappresentavano l'ideale del-
l'arte ; ed egli li collocava in alto nel tempio
della gloria e li venerava con riverente ammira-
zione ; ma i poeti satirico-giocosi, e specialmente
il maggiore dei viventi, Antonio Guadagnoli, era-
no uomini come lui, che vivevano la sua stessa
vita e la ritraevano beffandosene allegramente,
con una risata un po' superficiale ma schietta,
che corrispondeva perfettamente alla sua indole
allegra ed ai suoi gusti non troppo raffinati di
giovinotto provinciale un po' scapestrato, amante
delle liete brigate di capiscarichi e dei facili
amori. Ed ecco il Giusti buttar giù tutta una se-
rie di epigrammi e di poesiole ridanciane e non di
rado alquanto licenziose {La molla magnetica,
La mamma educatrice, A Nena ecc.), come quelle
del maestro.
Ma a che sarebbe arrivato il Giusti continuan-
do per questa via? Forse a superare nella spon-
tanea festività e nella perfezione formale il Gua-
dagnoli; e forse ci avrebbe anche dato egualmente,
nel 1845, VAmor pacifico, che nel suo genere è
bellissimo; ma, in sostanza, figurerebbe come
uno dei tanti nostri poeti satirico-giocosi, o anzi
Giuseppe Giusti 33
come r ultimo rappresentante di una lunga schie-
ra; ma nulla più. Avrebbe quindi avuto una certa
fama, specialmente in Toscana ; ma non sarebbe
uno degli scrittori piii notevoli della prima metà
del secolo scorso.
L'amor di patria e la passione politica lo tras-
sero fuori da questa morta gora e fecero di lui
il Giusti che tutti conosciamo, che ha un carat-
tere tutto suo, pel quale può essere ammirato od
anche criticato, ma non confuso con nessun altro.
Però anche in questo nuovo indirizzo c'era
un pericolo per la sua arte. Da principio infatti
egli ondeggiò incerto tra la poesia politica se-
ria e la scherzosa, ed eccolo scrivere nel 1832
il coro «Fratelli sorgete», d'intonazione, dirò
così, berchetiana, e nel 1836 la retorica Tirata con-
tro Luigi Filippo e la canzone classicamente atteg-
giata Sulle arti, in cui l'amor di patria e di libertà
dà r impulso, ma che artisticamente sono assai
povera cosa. Contemporaneamente però, cedendo
a quelle ch'erano le sue più spontanee simpatie
letterarie e le sue native tendenze di < caratteri-
sta >, lo vediamo, colle Parole d'un consigliere
al suo principe (1831), col Mio nuovo amico, colla
Guigliottina a vapore, colla Rassegnazione e pro-
ponimento di cambiar vita (1833), e con gli altri
suoi scherzi notissimi degli anni seguenti, met-
ter in burletta la politica, come prima aveva
messo in burletta la Mamma educatrice o come,
di quello stesso tempo, si prendeva beffe della
Casta Susanna o dell'impresario Ricotta. Era già
sulla via buona.
Profili — G. Giusti. 3
34 Egidio Bellorini
Se non che, eccolo arrestarsi poi incerto un'al-
tra volta. Gli dovette sembrare, forse, che far la
burletta su cose tanto serie fosse sconveniente.
Non era forse materia degna di satira vera e pro-
pria? E si volse a studiare i satirici dell'età pre-
cedente, dall'Ariosto al Rosa e all'Alfieri ;, ma so-
prattutto studiò il satirico maggiore di Toscana,
Benedetto Menzini, e lo studiò così a fondo da
prepararne un commento. Anzi, per tutto il 1835,
tanto si appassionò in questa impresa, che poco
scrisse di originale.
Nello stesso tempo, la maggior esperienza
della vita, acquistata prima a Pisa e poi a Fi-
renze, e forse in parte anche lo studio stesso dei
satirici precedenti, gli facevano comprendere co-
me uno stretto legame unisse tra loro le istitu-
zioni e le idee politiche che voleva combattere,
e certe istituzioni, idee e persino costumi ed abi-
tudini della società contemporanea. Ed eccolo far
dei tentativi di satira, dirò così, classicheggiante,
in terzine o in ottave, non più soltanto politica,
ma anche morale e civile, come V Apologo contro
i falsi liberali e i Costumi del giorno. Ma questi
tentativi non dovettero soddisfarlo, forse perchè
sentì che vi mancavano quel brio e quella spon-
taneità che tanto piacevano nella Giiigliottina a
vapore e negli altri componimenti dello stesso
genere.
Tornò dunque ai suoi « ghiribizzi » o « rabe-
schi >, o «scherzi » — come li chiamò più comu-
nemente, desumendo il nome dalla poesia gioco-
sa — e lasciò in disparte la satira vera e propria ;
Giuseppe Giusti 35
ma non del tutto però. Infatti, in un certo caso,
egli stesso rimase indeciso se un suo compo-
nimento dovesse considerarlo satira o scherzo
{Ep., I, 40); e noi più d'una volta, leggendo 1
suoi scherzi di questi anni e dei seguenti, no-
tiamo, in una certa maggior serietà o asprezza
d'intonazione ed anche nell'uso di certe forme
metriche, l'influenza evidente e non sempre arti-
sticamente utile della satira tradizionale. Ma, in
complesso, restò fedele al tipo dello « scherzo >
che, per l'intonazione, ci richiama alla solita poe-
sia giocosa, ma se ne distacca in quanto il sor-
riso ed anche la risata traggono dal sentimento
che li fa spuntare sul labbro dell'autore, un fa-
scino speciale, derivante da una certa finezza e
compostezza che temperano ma non distruggono
la briosa spontaneità della espressione, e che
invano si cercherebbero nella poesia giocosa di
tipo guadagnolesco, la cui gaiezza è spesso
sguaiata e quasi sempre superficiale. E il Giusti
mostrò di comprendere anch'egli la differenza
che corre tra i suoi « scherzi > e quelli della poe-
sia giocosa tradizionale, quando si vantò {Ep., I,
40) di essersi sforzato di elevare la poesia bur-
lesca e quasi di redimerla dalla pena non sua
che la condannava da tanti anni < a chiacchie-
rare inutilmente ». Ma avrebbe potuto aggiungere
che, liberandola dalle chiacchiere, ne aveva fat-
to qualcosa di artisticamente nuovo e tutto suo.
36 Egidio Bellorini
Se non che, intorno alla originalità degli
< scherzi >, furono mossi dei dubbi. — Altro che
Guadagnoli ! disse qualcuno; il vero padre della
poesia giustiana è Giovanni Giraud, che, se è
noto specialmente per le commedie, scrisse però
anche delle satire, ben conosciute a Firenze, dove
egli dimorò per circa dieci anni (1815-1824), e no-
tissime certo al Giusti che ne possedeva un intero
quaderno e le sapeva tutte a memoria. E, dopo
l'accurato studio di Tommaso Gnoli (1913), non
si può negare che vi sono metri, atteggiamenti
stilistici, immagini del Giusti, che ricordano quelli
del Giraud, e che, a leggere certe satire del poeta
romano, par di scorgervi un'aria di famiglia co-
gli scherzi del Giusti. E ciò è tanto vero che un
Desinare in tempo di quaresima del Giraud fu
stampato molte volte, in buona fede, come opera
del Giusti. Bisogna però aggiunger subito che,
se questa poesiola fosse del Giusti, diremmo che
è una delle sue cose meno ben riuscite, e che,
del resto, in tutta quella filastrocca satirica che
in essa tien dietro alla prima parte seria, ci par
di veder quasi una caricatura anticipata di certe
assai più moderate filastrocche del Giusti, le quali
poi — si noti bene — non sono quel che di me-
glio s'incontri negli scherzi.
Concludendo, dobbiamo dire che il Giusti co-
nobbe senza dubbio le satire del Giraud, ma che
ne derivò qualche cosa soltanto nei particolari.
Giuseppe Qlusti 37
Nel loro complesso, i componimenti satirici del
poeta romano, sboccati spesso, violenti quasi
sempre e atteggiati il più delle volte a libello
piuttosto che a satira, hanno ben poco a che
fare colla lieve ironia e colla festività spontanea
dei migliori scherzi del Giusti. E, s'intende, non
hanno a che fare, né punto né poco, colle idee
e colle passioni politiche dalle quali gli « scher-
zi > trassero l'inspirazione.
Ma un altro e più serio concorrente fu messo
avanti da molti per contendere al Giusti il vanto
della originalità, P. J. di Béranger. E che il Giu-
sti ne derivasse qualche concetto o qualche im-
magine è indubitato, come dimostrarono — pur
con qualche esagerazione nei particolari — il
Mounier, il Montazio, il Ghivizzani, il Coppola, il
Palmarocchl, il Surra ed altri ; ma di qui a fare
del poeta francese il maestro e quasi il padre
spirituale dell'italiano, ci corre. Certo, a leggere
i versi loro, non si può negare che l'uno ricordi
un po' l'altro, ed anzi, a leggere certi « scherzi >
del Giusti tradotti in francese dal Monnier, par
di leggere, a volte, delle chansons del Béranger.
ma credo che esageri stranamente il Palmaroc-
chi, quando sostiene che il poeta italiano apprese
dal francese: 1) a correggere i suoi versi con
lungo e paziente lavoro di lima; 2) a servirsi
della satira per la lotta politica e patriottica;
3) a fonder la satira colla lirica. Infatti, c'era
proprio bisogno che il Giusti imparasse dal poeta
francese a correggere i suoi versi mentre sono
infiniti, in tutte le letterature, gli scrittori che
38 Egidio Bellorini
correggono con infaticabile diligenza le loro ope-
re ? E quanto ad impiegar la satira a scopo po-
litico e patriottico, era forse difficile trovar mo-
delli nella nostra letteratura, da Dante in poi ?
Quanto al terzo punto, conviene soffermarcisi al-
quanto.
Che la originalità del Giusti consista nella
unione della satira colla lirica dissero molti ed
autorevoli critici, e certo volevano dire che nella
sua satira vi è qualcosa di lirico. Né potevano
riferirsi con ciò ai metri, perchè metri lirici usati
in poesie più o meno compiutamente satiriche,
si trovano, per esempio, in certe odi del Parini
— come Vlmpostiira e la Musica — e nelle satire
già citate del Giraud. Quindi vollero dire piut-
tosto che il Giusti unì e fuse nello stesso com-
ponimento tratti satirici e tratti lirici, e cioè che,
mentre fa la satira, il sorriso gli si vela spesso
per il sopravvenire di un sentimento serio. Ma
questo si potrà dire, credo, per alcuni « scherzi >
composti nell'ultimo decennio della sua vita; e
vedremo a suo tempo che l'origine della unione
o fusione si spiega benissimo, senza ricorrere al
Béranger. Quanto agli scherzi dei primi anni, dal
1831 in poi, la mescolanza o fusione non so dove
si possa vedere.
Il Giusti, dal canto suo, dichiarò in una pre-
fazione rimasta incompiuta, di aver letto e riletto
il Béranger « specialmente dopo essersi imbar-
cato da un pezzo > ; ma insieme protestò contro
il raccostamento che già allora si faceva tra lui
e il poeta francese, affermando di credere che il
Giuseppe Giusti 39
suo genere di poesia fosse nuovo « o che egli
almeno non sapeva di dove derivasse ». {Se. v.,
56); e in un abbozzo di lettera che voleva indi-
rizzare al poeta francese nel 1847, dichiara di
essere suo ammiratore e aggiunge che gli < scher-
zi > < riconoscono da lui non dirò la nascita e
la fisonomia ma dicerto una buona parte dell'al-
levatura » {Ep., Ili, 53). — Dunque non negò di
aver conosciuto, relativamente presto, le chansons,
ma negò di aver tratto dal loro esempio altro
che r< allevatura >; col quale vocabolo che di so-
lito significa « allevamento » e si usa parlando di
animali, credo volesse dire che egli si sentì in-
coraggiato a proseguire per la sua via e a far
meglio dall'esempio del poeta francese. E, se è
così, non c'è ragione di non prestargli fede. Quan-
to al carattere particolare, alla < fisonomia » tutta
propria che il Giusti attribuiva ai suoi versi, non
v'ha dubbio che consiste nella loro « paesanità >
di argomento, di sentimento, di espressione. Egli
era e voleva essere italiano, e più precisamente
toscano, come il Béranger era francese e più
precisamente parigino.
IV.
Ma l'aver mostrato per che vie il Giusti sia
pervenuto a scrivere i suoi < scherzi >, non ba-
sta. Redimere la poesia giocosa dal suo peccato
di chiacchierare vanamente fu buona cosa; ma
solo dal punto di vista patriottico e morale. Ar-
40 Egidio Bellorini
tisticamente non significa nulla; e se il Giusti
non avesse avuto altro merito, né la sua poesia
avrebbe conseguito tanta popolarità fin dal suo
tempo, né tanto meno sarebbe ammirata ancora
da noi, dopo quasi un secolo.
Se non che, fortunatamente, il Giusti era qual-
cosa di più d'un semplice verseggiatore animato
da buone intenzioni morali e politiche. Egli s'ag-
girava nelle sale sfarzose della corte grandu-
cale e dei palazzi della nobiltà fiorentina, nei
ritrovi dei letterati e degli artisti, nei teatri, nei
caffè, nelle vie, dovunque fosse gente che si
divertiva, che discorreva, che lavorava, e col-
l'occhio animato e reso sagace dall'amor di pa-
tria e da quello per l'arte, notava tipi, atteggia-
menti, discorsi, e sorrideva tra sé e sé delle
ridicolaggini e delle storture che vedeva; tal-
volta anche s' indignava scoprendo delle colpe.
Tutta questa materia si accumulava e a poco a
poco si ordinava nella sua mente ; poi, un bel
giorno, i ricordi si componevano in immagini,
delle quali la sua tendenza nativa allo scherzo
ritoccava, ingrossandoli o attenuandoli, i tratti
del vero, tanto da farne delle caricature, e queste
ritraeva poi ne' suoi < scherzi >, con schietta sem-
plicità, senza orpelli di immagini peregrine, nella
lingua viva e popolare del suo tempo; ma però
— bisogna aggiungerlo subito — con una pro-
fonda coscienza della dignità dell'arte. Il Guada-
gnoli e gli altri verseggiatori del suo genere, usa-
vano pure la stessa lingua e le stesse espressioni,
e traevano materia dalla vita della stessa socie-
Giuseppe Giusti 41
tà ; ma non erano animati da alcuna viva pas-
sione, e paghi di provocare il sorriso o dì suscitar
la risata, non cercavano altro. Facili scrittori di
versi, ne tiravano giù in gran numero, ma senza
sentire la necessità del < fren dell'arte»; abban-
donandosi a lungaggini e a sguaiataggini, per le
quali non di rado annoiano e persino, in qualche
caso, disgustano. Il Giusti invece medita a lungo,
sceglie con ogni cura il metro piii adatto, e cor-
reggendo e ricorreggendo con instancabile pa-
zienza, cerca di rendere sempre più propria e
viva la parola, sempre più serrata e densa la
espressione, e se talvolta, a forza di martellare
e di concentrare, diviene o ricercato od oscuro^
molt'altre volte raggiunge la piena efficacia.
Né ci deve traviare un noto accenno del Ta-
barrini, che parrebbe in contrasto con quanto si
è detto finora. Secondo questo scrittore, « nel Giu-
sti poeta si direbbe che la forma precorra il pen-
siero. Qualche volta infatti gli veniva fatto un
verso che per l'eleganza della frase e del ritmo
contentava il suo orecchio. Egli soleva ripeterlo
mille volte, finché a poco a poco se ne aggiun-
geva un secondo, e poi un terzo che scolpiva un
pensiero, e la strofa era fatta. Quella strofa era
il principio d' una poesia, della quale poi veniva
l'argomento ». Da queste parole si volle dedurre
che il Giusti fosse una specie di improvvisatore
che si lasciava trascinare dalla parola o dalla
rima, senza alcuna guida di pensiero, senza un
disegno prestabilito. E si trovò conferma a que-
sto giudizio in ciò che lo stesso Giusti racconta
42 Egidio Beltorini
della composizione della Chiocciola {Ep., I, 253-5).
Passeggiando per la campagna, vede una chioc-
ciola, ed esclama: viva la chiocciola! e Questa
esclamazione era un quinario sdrucciolo, metro
che mi piace oltremodo. Sai che tutto sta nel
cominciare»; e infatti da quel quinario, un verso
dopo l'altro, venne il resto. Ma — si badi bene —
il Tabarrini afferma che « si direbbe » che nel
Giusti poeta la forma precorresse il pensiero,
non che lo precorresse davvero, e aggiunge che
« qualche volta » un bel verso o una bella frase
gli suggerirono una poesia, non che ciò gli av-
venisse abitualmente. E l'esempio della Chioc-
ciola prova, se mai, che il Giusti meditava pri-
ma di scrivere. Quel verso quinario sdrucciolo
infatti è una esclamazione colla quale il poeta
dice d'aver concluso una serie di riflessioni, fatte
prima di vedere il piccolo mollusco e introdotte
poi nella composizione dello « scherzo ».
Ma esaminiamo qualcuno degli scherzi, e ci
renderemo conto più chiaramente delle qualità
della sua arte.
Sebbene abbia voluto purgare la poesia giocosa
dalle chiacchiere vane, egli, d'ordinario, non mo-
ralizza, ma racconta e ride, o anzi, più spesso
ancora, sorride, con gustosa malizia.
Il primo esempio ce lo dà quello che è assai
probabilmente il più antico degli « scherzi », Pa-
role d' un consigliere al suo principe (1831 ?). Non
Giuseppe Giusti 43
è tuttavia un esempio dei più felici — sebbene vi
appaia già la vivace quartina di ottonari, che sarà
poi uno dei metri preferiti dall'autore, — perchè
la beffa è un po' troppo grossolana ed anche la
espressione verbale imperfetta. E 1' autore stesso
se ne dovette accorgere, tanto che non pubblicò
mai questo componimento, come non pubblicò
mai r altro < scherzo > in terzine di ottonari che
gli tenne dietro (1833), // mio nuovo amico, nel
quale ci presenta, burlandosene, un tipo di spia,
che, più accuratamente studiato e ritratto, riappa-
rirà poi, dopo alcuni anni, nel Ballo. In questo
secondo tentativo lo scherzo non è mai grosso-
lano ; ma il disegno generale è confuso; si di-
rebbe una serie di strofe buttate giù senza sa-
pere dove s'andrebbe a finire; e in realtà non
paiono neppur finite. Un gran passo avanti si fa
invece nella Guigliottinaa vapore, il primo «scher-
zo > che il Giusti reputò degno di veder la luce.
In queste agili strofette di cinque ottonari chiuse
da un quinario, pare a tutta prima che il poeta
vanti per burla i miracoli della fantastica mac-
china, riferendo gli onori tributati a chi la inventò.
Si starebbe per chiedere : Che significa tutto
questo ? È proprio per burlarsi < dei premi mal
dati» — come disse poi ad un amico — che il
Giusti scrisse questi versi? Ma ecco l'ultima
strofa rivela, sempre scherzando, a chi va il col-
po: ai reazionari e ai tiranni che vorrebbero po-
ter «far la testa» alla spiccia a tutti i liberali
d' Italia.
Prevalentemente scherzoso è anche Lo Stivale
44 Egidio Bellorini
(1836), che ebbe a' suoi tempi grande popolarità,
non del tutto immeritata, nonostante i difetti del-
l'allegoria che ne costituisce il fondamento; ma
lo supera di molto il Dies trae (1845), nel quale
il poeta, riflettendo i sentimenti dei liberali che
vedevano andarsene, con un sospiro di sollievo,
un loro acerbo nemico, trae argomento di scher-
zo dalle morte di Francesco I. Il che è certamente
poco cristiano, ma molto umano. Il metro, dedotto
dallo Stabat mater e da certi componimenti del
Giraud, è dei più felici, con quei due ottonari
uniti dalla rima e seguiti da un senario sdruc-
ciolo che, colla sua cadenza più viva, interrom-
pe e rileva la tranquilla armonia dei primi due
versi. Si comincia coli' annuncio beffardo della
morte, poi viene una serie di strofe nelle quali è
messo in burletta il lutto ufficiale degli altri sovrani
e dei grandi dignitari, che mal nasconde la loro
profonda indifferenza, e si accennano insieme le
speranze, gì' intrighi e i timori dei vari prìncipi
d' Europa. Tra tutti questi accenti scherzosi, ap-
pare quasi come una nota fuori di chiave il ri-
cordo del «povero polacco» (v. 25); mentre
invece è intonata al resto la chiusa, nella quale
vien dimostrata in tono canzonatorio la vanità
delle speranze liberali italiane.
Più spigliato è II ballo (1837), colle sue snelle
quartine di versi quinari, nelle quali ci vediamo
sfilare davanti agli occhi una serie di macchiette
ridicole, schizzate alla brava e fatte muovere e
parlare con grande vivezza, così da presentare
un quadro largo ed animato della società mista
Giuseppe Giusti 45
di immigrati stranieri, di nobilucci toscani e di
figuri equivoci che popola le sale di certi cresi
esotici, piovuti a Firenze ad occupare gli storici
palazzi delle antiche famiglie cadute in rovina.
Ma dove il Giusti raggiunge la perfezione del
genere scherzoso è nel Brindisi di Girella (1838?).
■ In esso il vecchio voltacasacca ubriaco espone
la propria < cronaca particolare >, ed è tutto un
vertiginoso succedersi di nomi, di fatti, di allu-
sioni, di giustificazioni, di accuse, che incatenano
r attenzione del lettore dal principio alla fine di
quella serie di agili quinari, uniti dalle rime, ri-
levati dagli sdruccioli e conchiusi, alla fine d'ogni
strofa, da una specie di ritornello, che, come
una risata birichina, interrompe la filastrocca ed
è interrotto e conchiuso alla sua volta da un
endecasillabo che sembra un ultimo e prolungato
scroscio di risa sonore.
. Però non sempre il Giusti s' abbandona senza
riserve alla gaiezza dello scherzo. Nello stesso Gi-
rella ed anche nel Dies irae e in più altri compo-
nimenti, lo scherzo rasenta qualche volta l'ironia,
e in molti l'ironia finisce anche col prevalere, sof-
focando lo scherzo. Ma è — almeno nelle poesie
migliori — una ironia leggiera, sorridente, che
sembra mettere in burletta, senza cerimonie, i di-
fetti e i mali che prende di mira. Si direbbe quasi
che parli uno scettico il quale sorride argutamente
delle storture e delle brutture umane, rassegnato
ad esse come a dei mali incurabili. La Rasse-
gnazione e proponimento di cambiar vita (1833),
la Legge penale per gV impiegati (1835), il Prete-
46 Egidio Bellorini
rito più. che perfetto del verbo pensare (1835 o 39 ?),
V Apologia del lotto (1838), Gli Umanitari (ISiOo Al)
sono da mettere, quale più quale meno risoluta-
mente, in questa categoria ; ma i due esempi più
notevoli e più giustamente ammirati sono La
chiocciola (1840-41) e il Re Travicello (1841), nei
quali l'ironia s'attenua fin quasi a svanire in una
sorrìdente caricatura, e che hanno di comune tra
di loro, pur nelle diversità del metro — quinari
nell'uno, in istrofe di dodici versi; senari nell'al-
tro, in istrofe di otto versi — quella specie di
ritornello che anche qui, come nel Girella, chiude
le agili strofe, variando un poco dall'una all'altra,
ma sempre richiamando scherzosamente il con-
cetto fondamentale della poesia.
Ma più d'una volta, in altri componimenti, il
sorriso si spegne sul labbro del poeta, per dar
luogo all' aperta invettiva, e l' ironia scherzosa
si trasforma in amaro sarcasmo; e siamo allora
sul limite della satira vera e propria. Ma, in que-
sto caso, quasi sempre l' arte ne va di mezzo.
Non che il poeta manchi allora di sincerità; il
sentimento è proprio suo ; ma l'espressione non
è quella più adatta alla sua natura poetica. È co-
me un tenore che voglia cantare da baritono, e
mentre era un buon tenore, è un baritono me-
diocre.
Questo gli accade, per esempio, nella Incoro-
nazione (1838), dove, alla prima parte nella quale
ci si presenta quel capolavoro di caricatura che
è la sfilata dei sovrani d' Italia, segue, dal verso
56 in poi, una seconda parte in cui la santità dei
Giuseppe Giusti 47
sentimenti e dello scopo non salva la poesia dalla
retorica, dai luoghi comuni e dalle oscure con-
torsioni. Solo, qua e là, qualche buona immagine
o qualche buon verso, come nei vv. 97-100 e nel-
r ultima strofa; ma non sembra più il Giusti del-
l'esordio.
E la stessa osservazione, presso a poco, si può
ripetere per altri scherzi : A San Giovanni (1837),
Per il secondo congresso dei dotti (1839), Gli immo-
bili e i semoventi (1840-411), Per un reuma d'un
cantante (1841), // mementomo (1841), A Girola-
mo Tommasi, l'origine degli scherzi (1841-43), e
anche per il secondo de I Brindisi che è del 1838,
mentre il primo, scritto parecchi anni dopo, è una
pura e semplice poesia burlesca. Né sarà forse
inutile osservare come la maggior parte di que-
ste poesie siano scritte (come il noto epigramma
Una levata di cappello involontaria, composto fin
dal 1838, ma pubblicato solo nel 1841) in istrofe
saffiche di tre endecasillabi seguiti da un qui-
nario, e cioè in un metro che ha in sé una certa
solennità.
Né carattere molto diverso hanno, per questo
rispetto della intonazione generale, quelle due
lunghe narrazioni polimetriche e satiriche che
sono La vestizione (1839) e La scritta (1842). La
prima potè avere grande popolarità e buona fa-
ma anche presso qualche critico, in grazia del-
l' argomento e di certi particolari ben riusciti
— come il ritratto di Becero e il saluto che gli
rivolgono gli antichi compagni di Camaldoli e
di Mercato — ma, in complesso, ha un che di
48 Egidio Bellorini
slegato e d' incerto nel disegno generale della
composizione, la quale ci appare, come disse il
Carli, < artificiosa e un po' teatrale non senza
vanità letteraria > ; la seconda, che le è stretta-
mente legata per l'intonazione generale e per
l'argomento — là un usuraio arricchita che si
fa conferire le nobiltà, qui un usuraio arricchito
che pesca un genero nobile — ha anch'essa delle
parti poco felici — come la descrizione delle
pitture murali e la visione dello sposo — ; ma
piace per la viva descrizione della mista società
che assiste alla cerimonia e per la naturalezza
dei discorsi che vi si tengono.
Questo primo periodo della attività poetica
del Giusti si chiude con due componimenti parti-
colarmente notevoli, perchè, mentre si ricollegano
a tutto il passato letterario del loro autore, pre-
annunciano, per qualche rispetto, l'avvenire. Nel
primo di essi. Le memorie di Pisa (ìSil), il poeta,
vicino ormai al mezzo del cammin di sua vita,
volge il pensiero — non senza rimpianto — alla
passata e spensierata gioventù, e ne rievoca i
giorni lieti e tumultuosi, e ne difende e quasi ne
glorifica le scapataggini e le birichinate. Nel se-
condo invece. La terra dei morti {18A2), il Giusti,
mettendo in ridicolo gli sciocchi disdegni degli
stranieri che sparlano dell' Italia, augura e prean-
nuncia il trionfo di quello che è scopo di tutta la
sua attività di scrittore : il futuro e glorioso risor-
gimento della patria. E se né l'uno né l'altro
dei due componimenti è perfetto, perchè nel pri-
mo stonano alquanto l'elogio esagerato della
Giuseppe Giusti 49
scapataggine e l'invettiva, pure esagerata, con-
tro gli sgobboni, e nel secondo spiace il sover-
chio prolungarsi dello scherzoso equivoco tra i
due significati di « morte », che finisce per tra-
sformarsi in un giuoco di parole; pur tuttavia
entrambi attraggono la nostra attenzione, perchè
ci rivelano una nuova vena di poesia, che non
eravamo abituati ancora a veder scorrere nei
versi del Giusti : quella del sentimento. Ed è sen-
timento sincero, non sentimentalità di maniera
come quella che s' incontra nelle poesie amorose
di questi stessi anni ; e quindi si può alleare,
senza stonatura, anche allo scherzo, e dà, nelle
Memorie, quel « mesto riso », che il Giusti diceva
esser caratteristico della sua poesia, e che vi si
trova invece così raramente in questo primo pe-
riodo, mentre nella Terra dei morti inspira le ul-
time e belle strofe in cui l' apostrofe eloquente
alla terra d'Italia e la viva rappresentazione delle
sue bellezze si chiude col minaccioso preannun-
cio del « giorno del giudizio ».
Ma la produzione poetica del Giusti, dal 1831
al 1842, non si riduce tutta a queste poesie satiri-
co-scherzose. Contemporaneamente ad esse, egli
scrisse anche nuove poesie schiettamente burle-
sche e un buon numero di liriche serie, oltre
quelle politiche già accennate.
Le burlesche si distinguono da quelle della
prima giovinezza solo perchè ci appaiono più
Profili — G. Giusti. 4
50 Egidio Bellorini
castigate ; ma del resto non hanno alcun speciale
valore, e furono sempre lasciate inedite dall'au-
tore. Ed anche le liriche serie non hanno gene-
ralmente grande importanza, perchè sono, in buo-
na parte, poesie d'occasione (versi in morte o
per nozze di parenti o conoscenti ; in lod^ del pa-
dre Bernardo da Siena, per una raccolta; una can-
zone sacra per le feste triennali di Pescia), o
sonetti amorosi poco dissimili da quelli del pe-
riodo precedente, o frammenti di poesie lasciate
a mezzo dallo stesso autore (come il canto degli
Ismaeliti). Ma ve n'è pure alcune che lo stesso
Giusti presentò fin d' allora al giudizio del pub-
blico, e che ebbero anche una certa fama, non
ancora del tutto tramontata.
Tra esse è la canzone A Dante Alighieri {\84ì),
della quale basterà dire che fu composta dal Giu-
sti quando venne scoperto il ritratto dell'Ali-
ghieri nella cappella del Podestà a Firenze; ma
sebbene l' autore vi lavorasse a lungo e ne fa-
cesse gran conto, non è che un ingegnoso cen-
tone di versi e di frasi dantesche, che prova il
suo lungo studio della Divina commedia e il suo
grande amore per il sommo poeta; ma nulla più.
Vengono poi le odi All'amica lontana (1836)
e // sospiro dell'anima (1837-41). Intessute di bei
versi armoniosi e ripiene di melanconica e va-
ga sentimentalità, esse rappresentano una con-
cessione del Giusti alla moda letteraria del tem-
po, e credo abbiano avuto anche uno scopo pra-
tico, quello di piacere alle amiche per le quali
furono scritte. Anche l'ode All'amico nella pri-
Giuseppe Giusti 51
mavera del 1841 ha presso a poco Io stesso ca-
rattere sentimentale, ma con un' aria di maggior
sincerità. Invece La fiducia in Dio (1831) e gli
A.ffetti d'una madre (1839) sono buone poesie,
in cui c'è vero sentimento, efficacemente espresso.
Però, in sostanza, che importano queste poesie
alla fama del Giusti ? — Ben poco, perchè non
si distinguono da tante altre poesie di quel tempo.
Eppure, a sentire certe ripetute dichiarazioni del
Giusti, si comprende ch'egli ci teneva in modo
particolare, come alla più genuina espressione
del suo animo. Egli asserì infatti più volte di
sentirsi nato per la poesìa seria, inspirata da sen-
timenti gentili, e di aver scritto poesie satiriche
solo per obbedire alle dolorose necessità dei tem-
pi, essendo questo il solo mezzo ch'egli aveva
per servire la patria.
Ingenua illusione, alla quale del resto il poeta
stesso sapeva talvolta sottrarsi. Infatti, per esem-
pio, nel settembre del 1844, parlando di un tale
che aveva ammirate le sue liriche serie pubbli-
cate da poche settimane, ù'ictvs. {Leti. fam. 260):
« Forse, se vedesse le altre mie poesie, quelle
nelle quali ho abbandonato le tracce degli altri
per fare di mio, quelle che m'hanno dato un poco
di nome, non sarebbe tanto disposto a andare in
visibilio.... Nonostante, colle rime stampate a Li-
vorno, io potrò passare per verseggiatore netto,
elegante, formato alla vera scuola, colle altre....
può essere che passi per poeta >.
52 Egidio Bellorini
V.
A soli trentatre anni, il Giusti era pervenuto
ormai alla fama e le sue poesie correvano ma-
noscritte in tutta Italia, ricercate ed ammirate tal-
volta anche da quelli che ne erano colpiti. Ed
egli continuava in Firenze la sua vita tranquilla
e serena, « parte nel mondo >, come scrisse poco
dopo in un sonetto al Grossi, «e parte ritirata»,
occupandosi, quando l'estro glie lo suggeriva, di
comporre nuovi versi, soddisfatto, in complesso,
dell'opera sua e desideroso soltanto di renderla
sempre più degna della aspettazione degli amici
e degli ammiratori.
D'un tratto, nel 1843, tutto cambia. — L'anno
era cominciato male, con uno dei soliti contrasti
di famiglia. La madre si preparava a fare un viag-
getto a Roma, e avrebbe voluto condurlo con
se ; ma il padre si oppose, impensierito dalla
spesa; e tra i due corsero parole un po' risen-
tite. Poi, quando le difficoltà erano appianate, e
la partecipazione al viaggio decisa, ecco s' am-
mala un fratello del signor Domenico, Giovac-
chino, carissimo al poeta. Tosto egli, rinunciando
a partire colla madre, corre a Montecatini per
assistere lo zio ; quindi, prolungandosi e aggra-
vandosi la malattia, lo conduce a Firenze, perchè
possa giovarsi dell'opera di medici più reputati.
E qui lo assiste sempre con grande amorevo-
Giuseppe Giusti 53
lezza, finché, a nulla giovando tutte le cure, il
povero zio viene a morte il 21 maggio. I maligni
supposero che le cure indefesse ed amorose pre-
state dal giovane nipote, fossero dovute alla spe-
ranza di un' eredità; ma il nipote sapeva benissimo
che erede sarebbe stato, come fu, il signor Do-
menico, il quale non si scomodò neppure per
dare 1' ultimo saluto al fratello.
Lo spettacolo della morte, al quale assisteva
per la prima volta, commosse profondamente il
Giusti, e specialmente rimase afflitto e turbato
al vedere che il povero zio Giovacchino — sca-
polo impenitente — si spegneva senza aver at-
torno al capezzale, a confortarlo, altro parente
che lui. Ed allora egli che, da giovinetto, non si
era forse neppure curato del proposito paterno di
dargli moglie ; egli che nel 1838 non aveva voluto
sposare Isabella Rossi, e che tre anni prima aveva
nettamente respinta una proposta di matrimonio
{Ep., I, 267), ora, davanti al desolante spettacolo
di quella morte solitaria, pensò che sarebbe stato
opportuno anche per lui crearsi una famiglia. Ma
forse, in quel primo momento, non trovò la donna
che gli conveniva, oppure il corso de' suoi pen-
sieri fu mutato per i casi imprevisti che gli so-
pravvennero poco dopo ; il certo si è che, in se-
guito, non parlò più di prender moglie, e che due
anni dopo, quando il suo amico Prassi gli fece
altre proposte di matrimonio, non venne ad al-
cuna conclusione.
Intanto le fatiche e le ansie per la lunga ma-
lattia dello zio avevano nociuto alla sua salute
54 Egidio Bellorini
inacerbendo certi disturbi di fegato e d'intestino
che gli avevano qualche volta dato un po' di
noia negli anni precedenti, e ch'egli aveva curato
colle acque di Montecatini. Ma di peggio gli ac-
cadde pochi mesi dopo.
Il 30 luglio passava per via de' Banchi, da-
vanti al palazzo Garzoni, quando un gatto gli si
avventò addosso, graffiandolo e mordendogli an-
che la gamba sinistra tanto forte da stracciare
i calzoni, ma però senza rompere la pelle. Il Giu-
sti respinse la bestia e a tutta prima non fece
gran caso dell'incidente. Ma poi, saputo che il
gatto era idrofobo, fu assalito dalla paura di es-
ser preso dal terribile male, e per quanto la ra-
gione gli dicesse che, non essendo intaccata la
pelle della gamba, il sangue non poteva essere
infetto, la fantasia si accese, e glie ne venne un
gran turbamento nervoso, che aggravò anche i
mali precedenti e, per mesi e mesi, lo fece sof-
frire terribilmente, senza che giovassero né cure
mediche né distrazioni.
Tra quest' ultime vi fu anche un viaggio. Ripi-
gliando il disegno interrotto per la malattia dello
zio, ai primi di febbraio del 1844 egli partiva in-
fatti colla madre alla volta di Roma. Le impres-
sioni di viaggia che ci lasciò nelle lettere e in
certe sue memorie sono molto sommarie; ma
da esse rileviamo che lo colpirono assai la de-
solazione della campagna laziale e la grandio-
sità delle rovine di Roma antica, specialmente
quelle del Colosseo, davanti alle quali si fermò
estatico a lungo, meditando e fantasticando. Ma
Giuseppe Giusti 55
dopo pochi giorni era già in viaggio di nuovo
per Napoli, in cerca d' un clima migliore. Qui fu
accolto a festa dai Poerio e dalla società colta
e liberale che si raccoglieva attorno ad essi. E
ne'ila loro gradita compagnia, ammirando i din-
torni della città, trascorse circa un mese. Ma poi
la salute, che dapprima sembrava aver miglio-
rato, si arruffò, ed egli ripartì per Roma, dove
si fermò ancora una decina di giorni. Il 21 marzo
era nuovamente in viaggio per Firenze, tormen-
tato per via da violenti disturbi viscerali che fe-
cero correre la voce di un avvelenamento da parte
di nemici politici ; di che egli rideva.
Nel luglio, per consiglio dei medici, si recò
ir cerca di salute al mare, a Livorno, e vi restò
a lungo, in casa di F. S. Orlandini, prima ritraen-
cone giovamento, ma poi ricadendo nei soliti
disturbi. Allora, in settembre, trasmigrò a Colle
Val d' Elsa, in casa di un fratello dell' Orlandini,
che era medico; ma anche lassù, dopo un certo
periodo di benessere, nel quale si credette fuori
di guai, ricadde ammalato ; e ai 24 di novembre
scappava a Pescia donde non si mosse più fino
al maggio dell' anno seguente, e dove a poco a
poco cominciò a star meglio. Ma del tutto non
guarì mai, cosicché diceva melanconicamente di
esser condannato ad una perpetua convalescenza.
Intanto era accaduto un fatto che ebbe per
lui molta importanza. — Le sue poesie, — toltene
poche liriche serie che, pel loro argomento re-
moto da ogni allusione politica, avevano potuto
veder la luce in pubblicazioni periodiche o in
Egidio Bellorini
raccolte d'occasione — si erano fino allora diffuse
solo in copie manoscritte, nelle quali il testo ve-
niva naturalmente deformato spesso da inabili
amanuensi ; e non di rado anche poesie di altri
autori erano state messe in giro come opera sna.
Il Giusti, per salvaguardare la propria fama, ave-
va pensato quindi, fin dal 1840, di raccogliere i
suoi scherzi migliori e di farli stampare all'estero;
ma poi non aveva concluso nulla. Quand'ecco,
proprio mentre egli era più afflitto da' suoi mali,
nel 1844, esce a Lugano un volumetto nel quale,
senza fare il suo nome, si pubblicavano le sue
poesie serie e scherzose, in forma scorrettissima
e coir aggiunta di parecchie poesie apocrife. Una
prefazione piena di elogi — opera di Cesare Cor-
renti — apriva il volumetto. Appena il Giusti
seppe di questa pubblicazione, arse di sdegno, e
— dopo avere in tutta fretta preparato e fatto
stampare in Livorno, dove allora si trovava, un
opuscolo contenente sei delle sue liriche serie,
con una dedica alla marchesa d'Azeglio, nella
quale protestava in termini prudenti, per non in-
cappare in noie coli' autorità politica, contro la
edizione di Lugano — raccolse trentadue de' suoi
< scherzi >, e, coli' aiuto di alcuni amici, li fece
stampare in Corsica, a Bastia, in una edizione
che vide la luce solo nell'anno seguente. Però,
mentre nella edizione di Livorno figurava il suo
nome, in quella di Bastia esso era taciuto. Tutti
sapevano che quei versi erano suoi; ma la indul-
gente polizia toscana poteva far finta di non sa-
perlo, e ciò le bastava.
Giuseppe Giusti 57
Era uscito da poco questo nuovo volumetto,
quando, nell'agosto del 1845, accettando un invito
del suo giovine amico G. B. Giorgini, il Giusti si
recava alla Spezia per salutare due conoscenze:
Vittorina, figlia di Alessandro Manzoni, e la zia
di lei, Luisa Maumari, seconda moglie di Massi-
mo D'Azeglio (quella a cui aveva dedicato l'opu-
scolo un anno prima e che, pare, fu anche amata
da lui), le quali stavano per partire alla volta di
Milano. Il Giorgini, che era forse già innamorato
di Vittorina, la quale un anno dopo divenne sua
sposa, propose all'amico di accompagnare le due
signore fino a Genova ; e il Giusti aderì alla pro-
posta. Ma perchè, dissero allora le due signore,
non le avrebbero da Genova accompagnate fino
a Milano ? Il Giusti rimase un poco perplesso.
Da un lato, conoscendo la severità della polizia
austriaca, temeva che non gli si concedesse l'in-
gresso in Lombardia ; dall' altro, non era ben si-
curo che il Manzoni gradirebbe una sua visita,
sebbene fosse da qualche anno in cortese rela-
zione epistolare con lui. Ma il passaporto venne
rilasciato senza difficoltà, né 1' autorità lombar-
do-veneta pose alcun inciampo al suo viaggio ;
e il Manzoni, dal suo canto, scrisse assai affet-
tuosamente al Giusti, manifestandogli tutto il
piacere che avrebbe dalla sua visita. E così, ai
primi di settembre, il poeta giungeva a Milano,
e vi restava poi, ospite gradito del grande scrit-
tore lombardo, per tutto il mese, allontanandosene
soltanto per qualche breve gita sul lago di Co-
mo e in Brianza.
58 Egidio Bellorini
Quanto discorrere di lingua si fece in quel
mese ! — Tra i tanti pregi che il Manzoni ammi-
rava nella poesia del Giusti, uno ve n' era che
gli stava soprattutto a cuore, quello della lingua.
Quei versi mostravano praticamente attuata, e
in modo che non si sarebbe potuto immaginar
più efficace, la sua teoria sulla lingua, poiché a
qualche espressione non fiorentina che vi si tro-
va, il Manzoni non doveva dar troppo peso, se
pure se ne accorgeva. È quindi naturale che fos-
se ben lieto di far parlare e di interrogare 1' ami-
co toscano. E il Giusti, dal canto suo, era più
che mai lieto di vivere presso il grande scrittore
pel quale nutriva da molti anni devota reveren-
za, non solo pei meriti letterari, ma anche per-
chè diceva che i Promessi sposi erano stati a lui
farmaco efficace a trarlo fuori da una specie di
sonno intellettuale e' morale nel quale era preci-
pitato in un certo momento della sua traviata
gioventù {Ep., II, 312). Il soggiorno a Milano con-
fermò i sentimenti di venerazione per il Manzo-
ni e restrinse anche i vincoli di simpatia per
gli amici che lo circondavano ; primi fra tutti il
Grossi e il Torti.
Il distacco da essi, ai primi d'ottobre, gli riu-
scì doloroso, e ne fu malinconico per qualche
tempo. Ma poi un utile diversivo gli venne in
novembre in seguito ad un invito dell'amico
Prassi che lo volle ospite in casa sua a Pisa,
dove, insieme con tre altri amici di giovinezza
— Biscardi, Giacomelli e Montanelli — si trova-
vano uniti a desinare, e recitavano versi, dice-
Giuseppe Giusti 59
vano barzellette, ricevevano visite di amici co-
muni; spesso andavano anche presso la d'Azeglio
e Vittorina Manzoni, reduci a Pisa, e le intratte-
nevano piacevolmente. 11 Giacomelli soprattutto,
eh' era un gran burlone, le faceva ridere saporita-
mente colle sue trovate ingegnose.
Questa lieta vita — che giovò assai alla sa-
lute del Giusti e diede nuovo impulso, come ve-
dremo, alla sua attività di scrittore — durò fino
al maggio del 1846; poi egli s'allontanò da Pisa,
ma per accettare un altro invito, quello di Gino
Capponi che lo voleva ospite suo a Firenze.
Il Giusti aveva conosciuto il Capponi fin dal
1836, e gli era, a poco a poco, divenuto amico,
sempre più intimo e più caro, ricevendone spesso
ospitalità in villa a Varramista. In ricambio egli
aveva esaltato il Capponi in un sonetto (« Se
vedi un grande di nobil sembiante •») e gli aveva
dedicato La terra dei morti. Ora il Capponi lo
volle definitivamente suo ospite nel palazzo di
via San Sebastiano, e il Giusti accettò.
Questo parve a taluno poco dignitoso per il
poeta e indizio di taccagneria; ma non si conside-
rò forse che allora i costumi letterari erano un
po' diversi dai nostri, e che il mecenatismo con-
servava ancora in parte le sue forme tradizionali.
Anche il Berchet, proprio in quegli anni, viveva
presso gli Arconati, e il Colletta, pochi anni pri-
ma, aveva accettato una simile offerta dello stes-
so Capponi, senza che nessuno vi trovasse a ri-
dire. Si aggiunga che il ricco e munifico patrizio,
per indurre il Giusti ad accettare l' offerta, gli
60 Egidio Bellorini
parlò non soltanto del conforto che egli, cieco,
trarrebbe dalla compagnia di lui, ma anche di una
storia della nostra letteratura che avrebbero scrit-
to in collaborazione. Vero è che poi le fortunose
vicende degli anni seguenti impedirono 1' attua-
zione di questo disegno.
Del resto, non bisogna credere che il Giusti,
stabilitosi in casa Capponi, non se ne allontanas-
se mai. Tutt' altro ! — In quello stesso anno, per
esempio, da agosto a novembre, egli girovagò tra
Livorno, Pescia e Montecatini, e poi, da novem-
bre agli ultimi di gennaio del 1847, fu daccapo
a Pisa, presso 1' amico Prassi, del quale egli era
ospite gradito bensì, ma solo a patto di pagar la
sua parte.
VI.
Intanto, dal 1843 al 1847, mentre la vita del
Giusti, dopo un periodo piuttosto burrascoso,
s'andava a poco a poco riassettando, maturava-
no i nuovi destini d'Italia, e l'arte del poeta,
mentre da un lato si colorava, almeno in parte,
secondo il suo nuovo stato d' animo, dall' altro
traeva piii vivo impulso dalle vicende della
patria.
Dopo il 1831, r Italia, apparentemente, si era
composta in quiete ; ma il diffondersi sempre più
largo delle idee liberali, per opera di poeti, di
romanzieri, di storici, di scrittori di politica ed
anche per opera delle società segrete e della
Giuseppe Giusti 61
loro assidua propaganda, aveva portato ben pre-
sto a nuovi arresti, a nuove persecuzioni, a nuo-
ve condanne, ed anche a nuovi tentativi di som-
mosse, sempre repressi ma sempre rinnovati. E
dal 1S43 in poi i segni dalla vicina riscossa si
fecero sempre più frequenti. Basti ricordare le
ripetute agitazioni dell' Italia meridionale e delle
Romagne, e specialmente il tentativo dei fratelli
Bandiera, che diede materia ai bellissimi Ricordi
del Mazzini (1844), e i moti di Rimini (1845), che
inspirarono al D' Azeglio il famoso opuscolo.
E chi non ricorda gli entusiasmi e le discussio-
ni suscitati in quegli anni dal Primato giobertia-
no (1843), seguito, dopo poco, dai Prolegomeni,
e dalle Speranze d'Italia del Balbo (1844)?
Tutto questo non poteva certamente lasciare
indifferente il Giusti; e infatti — se nell' autunno
del 1844, a Colle Val D' Elsa, in un intervallo di
benessere, nel quale si credette liberato per sem-
pre da' suoi mali, scrisse quel capolavoro di poesia
burlesca che è U amor pacifico, nel quale si di-
vertì a disegnare 1' arguta caricatura dei pingui ed
apatici protagonisti, Taddeo e Veneranda — ben
più numerose sono le poesie d' argomento pa-
triottico, scritte in quegli anni.
Fin dal 1843, proprio nei mesi in cui era più
agitato ed impensierito dalie dolorose vicende per-
sonali, e quindi la sua attività letteraria era qua-
si del tutto interrotta, accoppiava, in un frammen-
to di ode («In lei vergini ancora») l'amor di
donna a quello di patria, accennando insieme al
< gentil raggio d' amore » che gli balenava da-
62 Egidio Bellorini
vanti allo sguardo, e all' alito di vita novella,
che spirava per le contrade d' Italia, agitando
popoli e re. È poesia tutta seria. Ma ben presto,
alleviati alquanto i suoi mali, torna a quella
scherzosa, e tra la fine del 1844 e il 1845, com-
pone Gli eroi da poltrona, I grilli e // papato
di prete Pero, nei quali mette in burla quelle che
al suo pacato buon senso sembrano utopie, del
Balbo, del Mazzini e del Gioberti, e più le esa-
gerazioni dei loro seguaci. Unità sì, libertà sì,
pensa il Giusti ; ma perchè abbandonarsi a fan-
tasticherie tanto remote dalle realtà presente e
incombente? perchè lasciarsi esaltare dai ricordi
di un passato, glorioso certamente, ma che non
può rinascere ? perchè illudersi colle speranze di
un papa veramente cristiano e italiano, mentre
regna Gregorio XVI ? E nel Papato di prete Pero,
svolgendo quest' ultimo concetto, egli trova an-
cora una volta (riprendendo il metro del Dies
irae, che gli era tanto gradito) tutto il brio e la
festività dei suoi migliori « scherzi », e prete Pe-
ro gli riuscì una figurazione felice, quanto il Roi
rf' Yvetot del Béranger, al quale alcuno lo volle
accostare. — Ma divenuto papa, un anno più tar-
di, Pio IX, anch' egli, come quasi tutti gli Italiani,
credè che il nuovo pontefice fosse proprio quello
preconizzato alla risurrezione d'Italia, e lo di-
fese in un sonetto (« II papa, il papa, il papa,
pover' uomo >) contro gl'impazienti che l'accu-
savano di poca solerzia nelle riforme ; mentre
d'altra parte tutti videro, in prete Pero, non più
uno scherzo, ma un profetico presagio.
Giuseppe Giusti 63
Però, contemporaneamente a questi « scher-
zi > politici, il Giusti conduceva a compimento
anche una delle sue più note poesie, il Gingilli-
no, il quale è satira amara senza nessuno sprazzo
di festività. Si direbbe che risenta della natura
del male che travagliava 1' autore quando lo ideò
e lo cominciò, nel giugno del 1844. La parte mi-
gliore sono le sestine colla parlata della strega,
che contengono accenni vivi, gustosi ; nel resto
c'è qualche tratto felice, ma il tono è spesso esa-
gerato come la caricatura. Fu definito come « //
giorno del Giusti » ; ma è un paragone che non reg-
ge. Certo Gingillino è una quintessenza di tutti i
difetti e i vizi di un giovane destinato alla carrie-
ra dai pubblici uffici nella Toscana del 1844, come
il «giovin signore » pariniano è una quintessenza
di tutti i difetti e delle ridicolaggini del cavalier
servente lombardo del 1760; ma nel Giorno v\ è
altra vita, altra verità. Nel Gingillino, in sostanza,
non vi sono che discorsi dell' uno o dell'altro per-
sonaggio, o dell' autore stesso ; ma nessuno fa
nulla. Il carattere di Gingillino risulta dai discor-
si altrui, non da quello eh' egli fa o dice. E se, ciò
non ostante, questo « scherzo » fu uno dei più po-
polari del Giusti e venne lodato assai da molti
critici, anche di buon gusto, forse lettori e critici
furono guidati nel loro giudizio più dal valor
morale del componimento che dal suo merito ar-
tistico, ed anche dalla considerazione che esso,
insieme col Ballo, colla Vestizione e colla Scritta,
compie il quadro della società, dirò così, ufficiale
toscana di quel tempo : là nobiltà e ricca bor-
64 Egidio Bellorini
ghesia, qui burocrazia, colle loro ridicolaggini,
coi loro vizi, colle loro vergogne.
Per l'intendimento sociale e morale si ranno-
da al Gingillino un altro < scherzo >, // giovinetto,
composto sul finire del 1848, che ebbe anch' es-
so una certa voga, perchè presentava, in carica-
tura, il tipo del giovine sentimentale, o finto
sentimentale, allora di moda, e del quale La don-
na non compresa (titolo d' un frammento dell' an-
no seguente) ci presenta la degna compagna.
Ma non sono certo questi componimenti ciò
che di meglio ha scritto il Giusti nel 1848, che fu
uno degli anni più fecondi per la sua attività di
poeta satirico.
Dopo aver cominciato con un sanguinoso e
volgaruccio epigramma per la morte del duca di
Modena, proseguì infatti con una lunga novella
in ottave, // sortilegio, nella quale, riprendendo
un argomento trattato già fin dal 1838, si volge
contro il giuoco del lotto e schizza alcuni per-
sonaggi e alcune scene con tocco felice ; quin-
di compose : La guerra, ironica ed amara beffa
contro i predicatori della pace ad ogni costo ;
La rassegnazione, al padre *** dell' ordine dello
stata quo, che mette alla berlina i reazionari,
subdoli predicatori di fratellanza, per tenere schia-
va l'Italia; il Delenda Carthago, invocazione della
indipendenza, come fondamento della libertà ita-
liana. Tre componimenti notevoli, e gli ultimi due
anche tra i suoi migliori.
E di questo tempo è anche il SanV Ambrogio. —
Per un certo rispetto, queste famose ottave si
Giuseppe Giusti 65
possono ben dire il miglior frutto della gita a
Milano dell' anno precedente, non solo perchè in-
spirate da un episodio della permanenza in quella
città, ma anche perchè ricordano, nella mossa
iniziale, qualcuna delle poesie di Carlo Porta. Il
'Manzoni soleva dire che il Giusti era il Porta to-
scano, ed è naturale che il Giusti approfittasse
del soggiorno a Milano per conoscere e gustare
il Porta meglio di quei che non avesse potuto far
prima, approfittando della compagnia degli amici
lombardi e specialmente del Grossi che era stato
amico fidatissimo al grande poeta meneghino.
L' artificio di rivolgere famigliarmente il discor-
so ad un personaggio importante, usato dal Porta
con tanta felicità nel Giovannin Botigee, dovette
allora piacer singolarmente al poeta toscano,
che si affrettò quindi ad usarlo, non solo nel
SanV Ambrogio, ma anche nella Rassegnazione e
nel Delenda Carthago. E non ebbe torto, perchè
esso contribuiva a dare al discorso quell'anda-
mento spigliato e disinvolto, che era più consono
alla natura sua di poeta.
Ma non è certo tutta qui né sopratutto qui la
bellezza del Sani' Ambrogio. — La nota patetica
che abbiamo già visto degenerare facilmente in
sentimentalismo un po' di maniera nei versi amo-
rosi del periodo precedente, e far capolino an-
che nelle Memorie di Pisa e nella Terra dei morti,
era poi riapparsa nel 1843, oltre che nel già ci-
tato frammento « In lei vergini ancora >, anche
nella sospirosa ode Ad una giovinetta, e in se-
guito si era poi affacciata con sempre maggior fre-
Profili — G. Giusti. 5
66 Egidio Bellorini
quenza nei versi del Giusti. La troviamo infatti
nel sonetto «Tacito e solo in me stesso mi vol-
go > e nel frammento < Con la fida lucerna » del
1844, e, mista con qualche tratto scherzoso, nel-
r altro sonetto al Grossi su / trentacinque anni
e più tardi ancora nel sonetto « A notte oscura
per occulta via> del 1848. La tristezza derivata
dai mali che afflissero il poeta in quegli anni, la
malinconia che gli recava il fuggire irreparabile
della giovinezza e il cadere delle illusioni che le
sono compagne, avevano via via temperato lo
spontaneo rigoglio della gaiezza d'un tempo, e
quella ch'era stata una volta quasi sempre po-
sa sentimentale divenne allora assai spesso vero
e schietto sentimento, che, alleandosi al sorriso,
gli diede quasi un' aria di pensosa rassegnazione.
Abbiamo allora veramente un < riso che non pas-
sa alla midolla », un < riso nato di melanconia >,
un « mesto riso >, « il sorriso che nasconde una
lagrima », « quello che par sorriso ed è dolore >,
che il Giusti disse più volte esser caratteristico
della sua poesia satirico-giocosa. Ed è appunto
questa fusione del sentimento collo scherzo, che
apparendoci nel SanV Ambrogio perfetta più che
in ogni altro componimento, gli dà un fascino
speciale. Qui la inspirazione fondamentale è data
dall'amor di patria, che fu il più vivo e il più
sincero di tutti i sentimenti del Giusti, ma vi ha
gran parte anche il sentimento musicale che fu
pure in lui molto vivo. L'animo portato allo
scherzo lo fa sorridere alla vista della goffa ri-
dicolaggine di quei tipi esotici di soldati < boe-
Giuseppe Giusti 67
mi e croati > ; 1' amor di patria lo spingerebbe a
odiarli come strumento di oppressione; ma la
dolce musica italiana delle trombe di guerra co-
mincia a commuoverlo ; il patetico canto che ri-
suona poi sulle labbra di quei soldati stranieri
finisce per soffocare ogni sentimento ostile ; e
nel suo animo 1' amor di patria si fonde colla
pietà umana per quegli inconsci strumenti di ti-
rannia, che sono anch'essi, alla loro volta, vitti-
me dello stesso despota che opprime il popolo
italiano. E anche quando, sul finire delia poesia,
l'umor scherzoso riprende il sopravvento, ed egli
si burla del caporale « duro e piantato lì come
un piolo >, si sente che la simpatia destata dalla
musica e dalla comunanza di dolori, non è sva-
nita in lui.
Il Sant'Ambrogio, cominciato fin dall' ottobre
1845, fu portato a compimento solo un anno più
tardi, proprio quando il Giusti abbozzava già la
sua epistola in versi sciolti, non ridotta mai a
compimento, sulla Gita da Firenze a Montecatini
(ottobre 1846) e mentre stava già per metter ma-
no alle None, a Gino Capponi (dicembre 1846),
due componimenti in cui la politica non ha parte
alcuna, ma che sono entrambi notevoli anch'essi
per varie ragioni ; ma soprattutto per la prova
che danno essi pure delle mutate condizioni spi-
rituali del poeta.
Il Giusti fino allora non aveva forse scritti al-
tri versi sciolti eccetto quelli della Dedicatoria
delle sue poesie nel 1836, che non sono gran cosa.
Ben più felice gli riuscì il nuovo saggio datone
68 Egidio Bellorini
nella Gita, quando 1' arte sua era giunta ormai
a maturità. Seguendo da lontano l' esempio di
Orazio che nella satira V del libro I descrive un
suo viaggio da Roma a Brindisi, egli traccia qui
rapidamente i tipi buffi del cocchiere, del pode-
stà e della podestessa, suoi compagni di, viaggio
in diligenza, e riferisce i discorsi scambiati con
essi; ma di tratto in tratto la narrazione è inter-
rotta da svariate considerazioni nelle quali 1' ani-
mo commosso gli inspira accenti di amor filiale,
di pietà umana, di ammirazione per i grandi poe-
ti a lui cari. — Il sentimento che nella Gita pre-
domina a tratti, domina invece incontrastato nelle
None, dove, risuscitando 1' antico metro ormai di-
susato, che lo aveva colpito leggendo la Intelli-
genza fatta allora conoscere da poco, il poeta
ritrae il doloroso contrasto dell' anima sua che,
stanca del « misero sdegno » per le brutture uma-
ne, sua principale inspirazione in passato, vagheg-
gia insieme la perfezione morale e quella del-
l' arte, senza poterle raggiungere mai. E se anche
non si vorrà convenire col Martini nel giudicare
queste None come una delle più alte liriche che
la poesia italiana vanti nel secolo XIX, bisognerà
tuttavia convenire che, nonostante qualche par-
ziale difetto di espressione e di composizione,
esse sono veramente una bella poesia, e forse
la più notevole tra le liriche serie scritte sino
allora dal Giusti.
Certo è molto superiore all' ode Al medico
Carlo Ghinozzi siili' abuso dell' etere solforico,
composta pochi mesi dopo, nel marzo 1847. Qui
Giuseppe Giusti 69
il Giusti, pur senza abbandonar del tutto il fare
ironico e scherzoso, si atteggia di tratto in tratto
a moralista serio, ricordando un poco, e non pel
metro soltanto, il Parini, de' cui versi aveva cu-
rato da poco un'edizione, della quale ora ap-
punto dobbiamo parlare.
Fino al 1846 il Giusti era noto al pubblico solo
pei versi. Una sua Cliiaccliierata ai lettori di Dan-
te, pubblicata fin dal 1838 nel « Giornale di com-
mercio >, e la prosa scherzosa SulV uso del chia-
rissimo, apparsa nel 1844 sulla < Rivista di Firen-
ze >, non avevano attirato né potevano attirare
grande attenzione. Ma sul finire del 1845 l'edi-
tore Le Mounier, spinto certo dalla fama che si
erano acquistate le satire, lo indusse a preparar-
gli una scelta di poesie del Parini, preceduta da
un discorso sulla vita e sulle opere del grande
lombardo. 11 Giusti si lasciò tentare dall' offerta,
per dimostrare, come disse poi, esser falsa la
voce da lui raccolta nel recente viaggio in Lom-
bardia, che il Parini non fosse apprezzato in To-
scana quanto si meritava {Ep., HI, 380) ; e mes-
sosi tosto all'opera, durante il primo soggiorno
a Pisa, aveva già condotto a fine il lavoro agli
ultimi d'aprile del 1846. Circa sei mesi dopo, ai
primi di novembre, il volume vedeva la luce, e,
com'era naturale, dati i due nomi di poeti che
recava in fronte, veniva rapidamente e larga-
mente diffuso. Ma, sebbene non mancassero al
70 Egidio Bellorini
Giusti gli elogi degli amici, non si può dire che
il suo discorso sul Parini trovasse grande favo-
re presso il pubblico e presso i critici, né allora né
poi. E non a torto. Infatti il Giusti — che fu gran-
de ammiratore dei Saggi del Montaigne e che due
{SulP Educazione) ne aveva tradotti da p,oco col
proposito di pubblicarli poi in un periodico di
Firenze — volle, nel suo scritto sul Parini, se-
guire l'esempio dell'autore francese, e credette
di raggiunger lo scopo abbandonandosi a diva-
gazioni, per lo più di natura morale, esposte
ora con spigliata naturalezza, ora invece con
quella affettazione di naturalezza che fu poi uno
dei difetti rimproverati alle sue prose. Ma, in
complesso, il discorso riuscì scormesso e fram-
mentario, la figurazione storica incerta e sbiadita
e la critica letteraria superficiale, inetta a porre
convenientemente in rilievo i caratteri dell' arte
pariniana e le ragioni della sua efficacia. Solo riu-
scirono felicemente alcuni tratti descrittivi e nar-
rativi, come la rappresentazione dell' alta figura
morale del Parini, disegnata nelle ultime pagine.
Il che, del resto, non dimostra altro se non che
il Giusti era artista, ma non pensatore né critico.
Tuttavia, come spesso accade agli artisti, egli,
traviato forse dalle parole benevole degli am.ici,
si illuse d'aver fatto buona prova in questa nuo-
va forma d'attività letteraria, e tosto meditò ed
anche iniziò altri lavori su Virgilio, sul Foscolo
e sul Leopardi. Ma le vicende della vita e gli
avvenimenti politici degli anni seguenti, gli vie-
tarono di condurli a compimento, cosicché ce ne
Giuseppe Giusti 71
restano, solo poche tracce nel suo epistolario e
ne' suoi manoscritti.
Né fu certo gran danno per la fama di lui. 11
Giusti, anche in questo periodo della sua vita,
resta sempre e soprattutto il poeta degli < scher-
zi >. Soltanto vediamo che in essi la inspirazione
strettamente politica prende il sopravvento — co-
me volevano i tempi — su quella morale e so-
ciale, e che una nuova vena di sentimento non
affettato, sgorgando dall'animo del poeta, non so-
lamente dà un'impronta di maggior sincerità alla
sua lirica seria, ma conferisce anche una nuova
potenza di commozione alla poesia scherzosa, e
gli inspira un capolavoro, il Sani' Ambrogio.
VII.
Quasi tutto il 1847 e i primi mesi del 1848 fu-
rono per l'Italia tempi di ansiosa aspettativa pri-
ma, e di febbrile preparazione poi ai grandi eventi
che tutti ormai, da tempo, sentivano imminenti.
< Forse siamo sul punto di veder tornare i tempi
solenni e difficili nei quali l' uomo si mostra >,
aveva scritto il Giusti al Capponi sin dal febbraio
1846, ed anch'egli, come tutti i liberali italiani,
vi s'andava spiritualmente preparando. La Tosca-
na, com'ebbe poi a dire in seguito {Ep., II, 547)
< di sbadigliante che era, pareva uno di quei po-
veri tribolati di nervi che, dopo un torbo e le-
targico sonno, si svegliano eccitati e quasi con-
72 Egidio Bellorìni
vulsi>; e non vi mancarono proteste e tumulti,
finché il governo granducale, dopo avernicchiato
alquanto, non si mise risoluto per la via delle ri-
forme, e concesse, negli ultimi mesi del 1847, la
guardia civica, la libertà di stampa e la consulta
di Stato, mentre sopprimeva la famigerata Pre-
sidenza del buon governo con gli odiati birri.
Ne venne una generale esplosione di gioia. Per
un momento, tutti, nel calore dell'entusiasmo, si
sentirono fratelli ; dimostrazioni clamorose di po-
polo, guidate spesso da sacerdoti, salutavano e
celebravano Pio IX, il granduca e le riforme ;
bandiere tricolori sventolavano dovunque, e il
Giusti, recandosi a Lucca per una dimostrazione,
tirava fuori commosso da un ripostiglio la coc-
carda dai colori italiani che già si era appuntata
sul petto nel 1831. In quei giorni egli era l'idolo
di Pescia ; una sua parola bastava a frenare gì' im-
pazienti e a impedire ogni disordine ; il vicario,
durante un'assenza temporanea, gli mandava un
sergente dei gendarmi ad avvertirlo, quasi per
affidare a lui il governo della città ; e una volta
egli, schivo del parlare in pubblico, fu tratto
persino a concionare in piazza, durante una di-
mostrazione popolare.
Non è strano perciò che, quando si trattò di
eleggere gli ufficiali della guardia civica, la voce
pubblica lo designasse al governo perchè gli
fosse conferito il gfado di maggiore. Ma ai reg-
gitori di Firenze questo parve uno scandalo. Pro-
prio il granduca avrebbe dovuto sottoscrivere il
brevetto d'ufficiale al poeta che l'aveva messo
Giuseppe Giusti 73
in canzonatura? — E il poeta che, d' altra parte,
non si sentiva nato a quel!' ufficio, esortò i con-
cittadini a non insistere, e restò pel momento
semplice gregario, contento — com'egli disse —
di far l'esercizio col fucile, perchè questo gli gio-
vava alla salute. Non solo ; ma la prima volta
che gli toccò r umile ufficio di montar la senti-
nella provò una grande commozione. < hi quella
monotonia dell'andare in su e in giù, mi volava
la testa ai begli anni d' una giovinezza sprecata
in bagattelle e mi s'empivano gli occhi di lacrime,
parte di sdegno e parte dalla gioia d'essere fi-
nalmente lì> {Ep., Ili, 52); e in quei giorni sentì
che, se quell'alito di vita fosse venuto a scuo-
terlo nella sua prima giovinezza, invece di con-
solarlo adesso negli anni maturi, sarebbe stato
capace di morir fortemente o di fortemente ope-
rare in prò del suo caro paese {ibid., 54).
Tuttavia, alcuni mesi più tardi (marzo 1848),
ritiratosi il maggiore in carica, ed essendo d'altra
parte scomparse le riluttanze del governo che
aveva ormai dovuto piegarsi a ben altre conces-
sioni, il Giusti finì per cedere alle insistenze dei
concittadini, ed accettò la carica di maggiore, seb-
bene sospettasse di essere alquanto ridicolo con
tutto quell'oro addosso e con quella sciabola che
gli batteva sulle gambe. Fece tuttavia con impegno
il suo dovere, e si occupò anche attivamente di
preparare le squadre di volontari pesciatini che
dovevano raggiungere i soldati di Carlo Alberto
sul campo di battaglia. E quand'essi partirono,
avrebbe voluto seguirli, stimando che fosse que-
74 Egidio Bellorini
sto il dovere di chi tanto aveva scritto per pre-
parare gli animi alla guerra; ma la sua salute,
sempre vacillante, proprio allora peggiorò, ed
egli sentì che le forze non lo avrebbero sorretto
e che sarebbe rimasto a mezza via, ingombro e
inciampo agli altri. Restò quindi a casa^ ma av-
vilito e malcontento, tanto da vergognarsi a ve-
stir la divisa di maggiore e da sentir rimorso
quando si coricava nel suo comodo letto, pen-
sando alla terra coperta di poca paglia sulla quale
giacevano i combattenti {Ep., Ili, 145-6); ed escla-
mava: < lo darei i miei versi e tutta la mia vita
passata, per essere nei piedi dell'ultimo volonta-
rio accorso costà >.
Fu proprio verso questo stesso tempo (aprile
1848) che, su proposta del Capponi, la Crusca
lo nominò membro residente ; e il governo gran-
ducale che pochi mesi prima avrebbe certo ne-
gato la ratifica, la concesse invece senza diffi-
coltà. Dal canto suo, il Giusti che non era stato
mai troppo tenero per l'Accademia e gli acca-
demici, né s'era trattenuto dal metterli qualche
volta in burletta, ora, in sostanza, gradì la nomina,
e prese parte abbastanza attivamente ai lavori del
vocabolario, con quella competenza che gli ve-
niva dagli studi sulla lingua a cui gli era stata
incentivo soprattutto la raccolta di proverbi to-
scani, alla quale attendeva da molti anni. E, chi
sa?, forse è di quel tempo anche la filastrocca
tra seria e faceta Dell'Accademia della Crusca,
che si trovò incompiuta, quand' egli morì, tra i
suoi manoscritti.
Giuseppe Giusti 75
Ma ben più importanti vicende si andavano
intanto maturando : il granduca aveva concesso
la costituzione, e si preparavano le elezioni dei
deputati al Consiglio legislativo.
11 Giusti era d'avviso che si dovesse nominare
gente pratica degli affari e non letterati ; ma fini
per accettare la candidatura offertagli con insi-
stenza dagli elettori di Borgo a Buggiano, dove
riuscì eletto, il 18 giugno, con 158 voti su 163
votanti ; fiducia confermatagli poi anche nelle
nuove elezioni che ebbero luogo nel novembre
successivo, sebbene questa volta egli fosse aspra-
mente combattuto dal Guerrazzi e da' suoi par-
tigiani che allora tenevano il potere.
Si disse che alla Camera egli fu un deputato
quasi muto ; ma Ferdinando Martini dimostrò che
anzi egli parlò più volte con senno e con garbo,
riuscendo anche a far accogliere dalla assemblea
qualche sua proposta. Certo però non si sentiva
nato per le lotte parlamentari, specialmente vive
in quei momenti torbidi e tumultuosi. Egli non
aveva (e lo riconosceva) la stoffa né di uomo po-
litico, né di uomo di parte : amava l' Italia, la
desiderava indipendente e libera, e perciò voleva
veder cacciati gli Austriaci e mantenute e raf-
fermate le costituzioni e le altre larghezze con-
cesse dai prìncipi; ma colla libertà voleva l'or-
dine. < Ordine e libertà quanta ce ne cape > {Ep.,
IH, 212), scriveva allora; e come un tempo ave-
va aborrito dalle società segrete {ibid., 525) ora
aborriva dai tumulti di piazza e dalle sopraffa-
zioni dei violenti, e scriveva, contro gli arruffa-
76 Egidio B e Ilo r ini
popolo, un iroso sonetto, nel quale, non a torto,
si crede che prendesse a modello il Guerrazzi.
Da giovane era stato repubblicano ; ora vedeva i
sovrani cooperare al risoigimento d'Italia, e non
si ostinava nella pregiudiziale antimonarchica ; e
se i democratici gli davano per questo, del co-
dino, ne sorrideva. Ma d'altra parte non era nep-
pure disposto a fare la guerra ai democratici
solo perchè tali; e sebbene il Guerrazzi, loro
capo in quel momento, fosse giunto al potere
combattendo aspramente il suo carissimo Gino
Capponi e rovesciandone il ministero con arti che
egli non approvava, lo appoggiò fino all'ultimo,
perchè gli parve di vedere in lui l'estrema pos-
sibilità di salvezza per la libertà^ in quei momenti
difficili ; e se perciò lo accusavano di demagogia,
ne sorrideva ancora. E chi sa quanto si sareb-
bero scandolezzati e spaventati quei buoni con-
servatori che lo avevano in uggia, se avessero
saputo che egli credeva che le idee sociali piiì
ardite produrrebbero col tempo del bene, quan-
tunque i modi seguiti dai loro apostoli gli sem-
brassero pazzi e spaventevoli, e che scriveva che,
come dalla dichiarazione dei diritti dell' uomo
uscì giustizia per tutti, così « dalle teorie sociali
passate per ultimo staccio, uscirà pane per tut-
ti > {Ep., IH, 267).
Mentr'egli sedeva nell'Assemblea, vi furono se-
dute tempestose, e in luglio e in settembre vi
furono anche moti violenti di popolo, che minac-
ciarono la dignità del consesso. Ma, mentre altri
temeva e si allontanava, egli restò al suo posto,
Giuseppe Giusti 77
e tenne contegno fermo e sereno. Però dentro di
sé fremeva, e ne ebbe la salute scossa al punto
che, in ottobre, pochi giorni prima della caduta
del ministero Capponi, avvenuta il 12 di quel
mese, dovette andarsene da Firenze, e restare per
più mesi a Pescia e a Montecatini, travagliato
da gravi disturbi di stomaco, d'intestino e di fe-
gato, aggravati anche da una forte bronchite.
Tornò a Firenze per la ripresa delle sedute
dell'Assemblea, nel gennaio del 1849, ed era a
Firenze quando il granduca partì per Siena e poi
per Santo Stefano, dove il 20 febbraio s'imbarcò
per Gaeta, abbandonando lo Stato in balìa del
Guerrazzi e de' suoi seguaci.
Degli avvenimenti di quei tristi giorni non
dobbiamo occuparci qui. Basterà ricordare che
in febbraio il Mazzini venne a Firenze, e che il
Giusti fu l'unico testimonio che assistè al lungo
colloquio che il grande patriotta ebbe col Cap-
poni. Discioltala seconda Assemblea, il 15 marzo
1849 ebbero luogo le elezioni per la terza, che
doveva poi mutarsi in Costituente ; e il Giusti,
entratovi solo per la rinuncia di chi lo precedeva
nell'elenco degli eletti a scrutinio di lista nel col-
legio di Pistoia, non volle accettar mai la no-
mina, disgustato dall'andamento della cosa pub-
blica.
Dopo che il disastro di Novara ebbe distrutte
le speranze dei patriotti, i disordini, com' è noto,
crebbero in Firenze, finché, l'il aprile, il Guer-
razzi venne sbalzato dal potere a furia di po-
polo, e il Granduca fu richiamato. E Leopoldo II
78 Egidio Bellorini
tornò, ma facendosi precedere dalle soldatesche
austriache ; e poiché non poteva esservi dubbio
sul significato di questo intervento straniero, ciò
valse ad alienargli per sempre le simpatie di
quegli stessi moderati che, come il Capponi e il
Giusti, avevano sperato eh' egli, riprendendo il
trono, ristabilirebbe l'ordine, conservando però le
istituzioni liberali concesse un anno prima.
È naturale che, in così grande tumulto di av-
venimenti pubblici e in tanto infuriare di pas-
sioni, quasi tutte le poesie del Giusti avessero
inspirazione politica.
Veramente, nel primo entusiasmo per gli av-
venimenti del 1847, ed anche poi allo scoppiar
della guerra nazionale nel 1848, egli ebbe a di-
chiarare ripetutamente che ormai era tempo d'a-
gire e non di far versi. < 11 popolo, eterno poe-
ta >, scrisse allora {Ep., 11, 55), « ci svolge davanti
la sua meravigliosa epopea, e noi miseri accoz-
zatori di strofe dobbiamo guardarlo e tacere >.
La sua poesia satirica gli pareva ormai < una
cosa passata > ; il volume dei Nuovi versi che,
raccogliendo le sue ultime poesie serie e scher-
zose aveva pubblicato a Firenze da poco, gli pa-
reva ormai qualcosa di arretrato, che avesse va-
lore storico, e valesse al più ad attestare, —
come disse più volte, — che egli aveva parlato
mentre gli altri tacevano ; e si propose quindi
di non scrivere più versi, o di scriverne solo d'ai-
Giuseppe Giusti 79
tro genere, traendo l'intonazione «dall'inno so-
lenne che sonava nel cuore di tutti » (£/?., II, 555).
Ma furono tutti propositi vani, che la sua natura
di poeta e gli avvenimenti che gli si svolgevano
attorno, dovevano cancellare in breve.
Infatti r intonazione solenne egli la prese una
sola volta, nell'ottobre del 1847, per esaltare Leo-
poldo II, in un'ode dignitosa e grave, piena di
nobili sentimenti, che può essere documento della
fede ch'egli riponeva nel popolo italiano, ma che
poeticamente non si leva sopra la mediocrità,
sebbene sia scritta con arte molto superiore a
quella delle poesie politiche serie composte al-
cuni anni prima. Ma come avrebbe egli potuto
tacere a lungo e trattenere il « pungolo severo >
che nell'ode a Leopoldo II aveva dichiarato di
voler deporre per sempre, quando vedeva, nel
1847, i fedeli seguaci delle vecchie istituzioni
crollanti — dai birri ai ministri di Stato — cor-
rere ai ripari, per tentar di sorreggere l'edificio
che minacciava rovina ? Ed ecco derivarne alcuni
de' nuovi < scherzi » più vivaci : le Istruzioni a un
emissario, la Storia contemporanea, il Consiglio
a un consigliere, la Supplica e infine // congresso
de' birri, che è l'ultimo de' suoi polimetri, e che,
preseiìtandoci tre tipi di poliziotti i quali dispu-
tano fra loro sui mezzi per conservare l'antico
predominio, ci dà una specie di scena da com-
media che, al suo primo apparire, fu molto gu-
stato dal popolo toscano.
E poco dopo, come avrebbe potuto il Giusti
trattenere gli strali della satira, quando vedeva
80 Egidio Bellorini
i più autentici codini, quelli ch'erano stati fino
al giorno prima fedelissimi alle vecchie idee, tra-
sformarsi ad un tratto in ardenti liberali, e buttarsi
nelle dimostrazioni coperti di coccarde, e declama-
re, e fare i demagoghi in piazza e nei caffè, e criti-
care perfino quelli che erano in guerra a combatte-
re ? oppure quando vedeva gazzettieri disonesti o
ciecamente partigiani insultare ed accusare i più
puri patriotti che rifuggivano dalle intemperanze
della plebe incolta e degli arruffapopolo ambizio-
si ; e i paurosi rabbrividire ad ogni stormir di fron-
da, e gì' indifferenti danneggiare colla loro inerzia
o screditare colle loro beffe quelle istituzioni li-
berali ch'erano costate tanti anni di lotte e di sof-
ferenze? Ed ecco derivarne — sul finire del 1847,
nel 1848 e in principio del 1849 — una serie ab-
bastanza lunga di componimenti, dallo < scherzo >
Alli spettri del 4 settembre, al Brindisi che co-
mincia < Ma eh, l' Italia >, aWElezione, al Depu-
tato, ai versi Contro un giornalista, ai frammenti
« Io per r Italia >, a Un fossile, ai versi intitolati
A Radeschi nei quali si celebra la fine gloriosa
di Alessandro Poerio, ai sonetti A Dante, La
maggiorità, L'arruff apopoli, L'uomo di parte, e
ai più notevoli componimenti di questo periodo,
che sono : l'ode Dello scrivere per le gazzette, lo
< scherzo > su La repubblica, e i dialoghi / di-
scorsi che corrono e // pauroso e l'indifferente.
Nell'ode Dello scrivere per te gazzette \ con-
cetti, su per giù, sono gli stessi che si trovano in
altri versi e in molte lettere giustiane di quel
tempo : l'avversione a perseguitare colla satira i
Giuseppe Giusti 81
potenti il cui trono vacilla, il disdegno per la sa-
tira personale, il ribrezzo pei demagoghi che sor-
gono a declamare quando il pericolo è passato,
la illusione che sedusse il poeta al primo scop-
piare dei moti di libertà. Ma qui la inspirazione
calda e piena ha trasformato in immagine viva il
concetto astratto e ne ha colorito l'espressione,
dandole spontaneità ed impeto. E se non manca
qualche punto debole — come tutta la settima
strofa, intessuta di luoghi comuni e chiusa con
un verso infelice, < il ben che più desia » — il
complesso è veramente bello, e trascina ed av-
vince, specialmente nelle due commosse apostrofi
alla libertà ed all' Italia. Qui, ben più che nell'ode
A Leopoldo II, il Giusti assurge a vera e nobile
poesia; qui altezza di pensiero e forza di com-
mozione trovano perfetta rispondenza nella pa-
rola rimata.
Con La repubblica invece il Giusti, ripren-
dendo per l'ultima volta il metro vivace del Dies
irae, torna ancora allo scherzo, per mettere in
burletta, con brio spontaneo e franca festività, le
illusioni degli ostinati repubblicani che, per amor
della repubblica, avrebbero messo in pericolo an-
che la vagheggiata unità italiana ; ma però il sor-
riso è interrotto, per un momento, da un tratto di
sincera commozione là dove il poeta accenna ai
ventotto anni di apostolato patriottico del repub-
blicano Pietro Giannone, al quale lo « scherzo >
è dedicato.
Ed anche / discorsi che corrono e // pauroso
e l'indifferente restano nel campo della satira
Profili — G. Giusti. 6 •
82 Egidio Bello rial
scherzosa; ma si cambia tipo. Il Giusti aveva già
da molti anni pensato di scrivere commedie, e
aveva fermato anche la propria attenzione su
qualche soggetto comico; ma senza attuare mai
alcuno de' suoi più o meno vaghi propositi {Ep.,
\, 28, 40; II, 105, 124, 200). Nel Ballo, nella Scrilta,
neXVAmor pacifico, nella Storia contemporanea
aveva poi introdotto dei dialoghi, in cui il vero
è in generale intuito e ritratto felicemente ; e in-
fine nel Congresso de' birri aveva dato una spe-
cie di scena da commedia, con quei tre tipi carat-
teristici di birri, che prendono successivamente
la parola, conservando ognuno assai bene il pro-
prio carattere. Ora finalmente, ne I discorsi che
corrono e nel Pauroso e V indifferente, affronta di-
rettamente il dialogo comico. Che proprio egli
avesse anche ideato tutta una commedia, o me-
glio due commedie, della prima delle quali do-
vessero far parte i due dialoghi tra Granchio e
Ventola e tra Vespa e Crema, e della seconda il
dialogo tra Granchio e Trippa, non credo, perchè
in queste scene non vi è accenno alcuno di azio-
ne ; né, d'altra parte, per quel che si può desu-
mere da altri suoi scritti, pare che il Giusti avesse
l'attitudine a svolgere un'azione in una serie di
scene dialogate ; ma ciò non toglie che questi
frammenti non siano, come dialoghi satirici, bel-
lissimi, benché il metro (quartine di settenari)
sembri poco adatto al dialogo, e benché non
manchino qua e là — specialmente nel Pauroso
e P indifferente — tratti in cui la caricatura dà
nel grottesco. Ma, in complesso, quanta efficacia
Giuseppe Giusti 83
di rappresentazione e quale scintillio di arguzia !
La satira salta fuori spontanea dalla figurazione
del vero, e la caricatura è quasi sempre il natu-
rale effetto del vero fedelmente ritratto e arguta-
mente sottolineato nelle didascalie.
Vili.
Il disprezzo per il granduca, reduce dall'e-
silio sotto la protezione delle soldatesche au-
striache, lo sdegno contro i demagoghi che ave-
vano affrettata colle intemperanze la rovina della
libertà, e per i girella che, voltando casacca
da un giorno all'altro, dopo aver fatto i liberali
sfegatati, s' inchinavano al padrone che tornava
sul trono, inspirano al Giusti gli ultimi e melan-
conici versi, composti sul finire del 1849 e ai
primi del 1850, come i frammenti lirici Lo schiavo
e < Se Dio mi dà vita >, i sonetti satirici Tede-
schi e granduca, « Signor mio, signor mio, sento
il dovere > e < Voi governaste fino al quarantot-
to >, all'ultimo dei quali si ricollega il sanguinoso
epigramma, certamente diretto allora contro Leo-
poldo II :
Chi fé' calare i barbari fra noi ?
Sempre gli eunuchi da Narsete in poi.
E l'amarezza dell'animo suo riversò allora an-
che nelle Memorie che, pur risolvendosi in una
requisitoria, non sempre equanime contro il Guer-
84 Es'idio Bellorini
razzi e i guerrazziani, sono però un prezioso do-
cumento storico ed anche — come si vedrà più
avanti — una notevole opera letteraria.
Ma purtroppo il Giusti, tormentato ormai, ol-
tre che dal dolore per la rovina della patria e
della libertà, anche dai sempre crescenti mali fi-
sici, dovette lasciarle incompiute e frammentarie.
Già neir inverno del 1849 era stato afflitto da
una violenta tosse catarrosa, accompagnata da
sputi sanguigni e inasprita da una bronchite.
Venuta la primavera, si era rifugiato, in una sem-
pre vana ricerca di salute, a Pescia, a Colle Val
d' Elsa, a Viareggio, a Montecatini, sinché in ot-
tobre, stanco ed affh'tto, aveva fatto ritorno a
Firenze. La tosse e gli sbocchi sanguigni non
erano cessati ; di più egli era ormai quasi del
tutto afono e ridotto in tale stato di debolezza
che si stancava per ogni minimo sforzo. Qualche
medico gli diceva che tutto era effetto di bile,
qualche altro invece parlava di ultime conse-
guenze della bronchite, ma tutti Io incoraggia-
vano a sperare nell'avvenire. Ed il poeta li ascol-
tava senza dar troppo peso né alle loro diagnosi
né ai loro conforti.
Era da poco a Firenze, quando fu colto da una
febbre miliare che lo condusse in fin di vita. La
madre accorse al suo capezzale e lo assistè amo-
revolmente ; ed egli, comprendendo la gravità
del pericolo, era ormai rassegnato al suo desti-
no ; anzi sarebbe stato lieto di deporre il fardello
della vita che, dopo tanto soffrire, gli sembrava
troppo grave. Tuttavia, nel gennaio del 1850, si
Giuseppe Giusti 85
riebbe alquanto. Ma era tanto debole ancora da
dover restare a letto giorni e giorni senza muo-
versi e da non poter nemmeno ricevere gli amici,
perchè il parlare lo stancava troppo. Cercava
perciò di svagarsi leggendo e occupandosi a
riordinare i suoi appunti danteschi, e, quando si
sentiva un po' meno male, scriveva qualche let-
tera 0 tirava giù dei versi mestamente scher-
zosi, come il sonetto al Capponi, < Verso le tre
mi son sentito male > ; e forse componeva anche
le brevi strofe della Preghiera a Dio, che fu tro-
vata poi, quand'egli fu morto, tra le sue carte.
Perchè, senza essere troppo osservante delle pra-
tiche del culto, il Giusti era però stato sempre
sinceramente religioso, anche in mezzo ai travia-
menti giovanili ; e se anche aveva canzonato i
< religionari >, che componevano inni sacri alla
manzoniana, senza aver la fede, non aveva ricu-
sato però di scrivere una canzone per le feste
triennali di Pescia nel 1841 e di celebrare la po-
tenza della fede nelle terzine al padre Bernardo
da Siena nel 1834; e se aveva satireggiato un
pontefice cattivo come Gregorio XVI, aveva però
dichiarato sempre di rispettare chi esercitava
degnamente il ministero sacerdotale. Ed ora, av-
vicinandosi la Pasqua, pensava di adempiere an-
che quell'anno i suoi doveri religiosi, non ap-
pena la salute glielo concedesse.
Proprio il giorno di Pasqua (31 marzo) gli par-
ve di stare un po' meglio, tantoché aveva pro-
messo di lasciare verso sera la camera per stare
un po' in compagnia di Gino e degli altri fami-
86 Egidio Bellorini
gliari. Ma quando, verso le quattro del pomerig-
gio, il servo gli portò il suo parco desinare, al
primo cucchiaio di zuppa ebbe uno sbocco di
sangue pili forte del solito. Restò calmo, e disse
al servo di non farne caso. Ma al secondo cuc-
chiaio lo sbocco si rinnovò con maggiore vio-
lenza, e pochi minuti dopo egli era già morto,
senza che gli si fosse potuto recare alcun soc-
corso. — 11 famoso dottor Bufalini che l'aveva in
cura, disse poi che doveva essersi formata un'ul-
cera nei grossi vasi sanguigni, e che questa,
dopo aver corroso a poco a poco la parete che
la conteneva, rompendola ad un tratto, l'aveva
soffocato.
Così, nel tramonto delle fortune d' Italia, che
poteva sembrare allora senza speranza di un'al-
ba vicina, si spegneva malinconicamente, a meno
di quarantun'anno, il poeta che co' suoi versi
tanto aveva contribuito ad aprire i cuori all'amor
di patria ed a ridestare in essi il vivo desiderio
della riscossa nazionale.
La sera dopo, un numeroso stuolo d'amici e
d'ammiratori ne accompagnava, mesto e riverente,
la salma a San Miniato, dove gli fu poi eretto un
sepolcro, pel quale Gino Capponi — che, sebben
cieco ed affranto dal dolore, ne aveva voluto se-
guire il feretro — dettò una bella epigrafe.
Liberata la patria, anche Monsumano gli eres-
se, ventinove anni dopo, un più ricco monumen-
to, sul quale, con felice pensiero, fu incisa la
calda apostrofe all'Italia, dell'ode Dello scrivere
per le gazzette :
Giuseppe Giusti 87
O veneranda Italia,
sempre al tuo santo nome
religioso brivido
il cor mi scosse...
IX.
spesse volte la fama d'un artista, nei primi
anni dopo la sua morte, declina rapidamente;
ma così non accadde di quella del Giusti. Le
condizioni della patria erano, pur troppo, sempre
simili a quelle che gli avevano ispirati gli « scher-
zi >, e quindi la sua popolarità durò vivissima,
anzi parve quasi andar crescendo, fin verso
il 1870.
Nel 1852, Gino Capponi, al quale erano restati
i manoscritti del poeta, ne raccoglieva, coll'aiuto
di Marco Tabarrini, i versi già pubblicati essendo
vivo l'autore, insieme ad altri fino allora inediti,
e li dava a stampare ai Le Monnier. II governo
toscano s'affrettò a sequestrare l'edizione e a im-
bastire un processo : ma il Le Monnier invocò la
legge sulla libertà di stampa non ancora revo-
cata, e il governo, comprendendo di aver torto e
non volendo suscitare chiassi, finì per togliere il
sequestro e per abbandonare il processo. Tosto
l'edizione andò a ruba, e trovò, al solito, chi la
contraffece in Toscana e anche fuori, dove, se
pur non vigeva dappertutto la libertà di stampa,
erano sempre fiorentissimi il contrabbando e il
commercio clandestino dei libri patriottici.
88 Egidio Bellorini
L'anno dopo il Capponi dava un'altra prova
del suo memore e devoto affetto per l'amico,
riordinando, arricchendo e pubblicando la Raccol-
ta di proverbi ^oscaw/ che il Giusti aveva comin-
ciato fin dal 1836 e alla quale aveva poi atteso
di quando in quando fino agli ultimi giorni di
vita, ampliandola ed illustrandola con certe sue
narrazioni ed osservazioni argute, proponendosi
di contribuire con questo lavoro allo studio della
lingua e all' incremento della sapienza pratica,
< di quella sapienza che non figura tra le monete
d'oro, ma serve mirabilmente per le spese minute
della vita» {Ep., II, 313). E la pubblicazione ebbe
tanto favore che in breve se ne dovettero fare
nuove edizioni.
Tre anni più tardi, sempre valendosi larga-
mente delle carte possedute dal Capponi, Aurelio
Gotti dava fuori un nuovo volume di Scritti vari
in prosa e in verso per la maggior parte inediti,
tra i quali figuravano anche, per la prima volta,
buona parte degli scritti ed appunti danteschi,
che il Giusti aveva buttato giù in tempi diversi,
e dai quali aveva sempre avuto intenzione di rica-
vare un'opera organica, che però non riuscì mai
a comporre. E sebbene, né questi né gli altri
scritti contenuti nel volume — come i Cenni intor-
no alla vita di Celestino Chili (1837), che sono certo
una delle prose più notevoli del Giusti — nulla
aggiungessero alla fama dell'autore, pure anche
il nuovo volume ebbe parecchie ristampe.
Ma ben più calorose e clamorose accoglienze
ebbero i due volumi A^W Epistolario che, sul finire
Giuseppe Giusti 89
del 1859, pubblicava Giovanni Prassi, insieme con
una Vita del Giusti. Queste lettere vedevano
la luce nei momento in cui, avviata ormai al
trionfo, dopo la recente guerra vittoriosa, l'opera
della unità politica d'Italia, sembrava più che mai
urgente affrettare anche l'opera della unità lingui-
stica, a conseguire la quale il Manzoni aveva
additata la via da tanti anni. Le lettere del Giusti,
scritte nel vivente linguaggio toscano, erano, o
almeno parevano, un esempio perfetto di quel che
dovesse essere la lingua italiana moderna, tanto
più che alla purezza dei vocaboli molte di esse
aggiungevano una strabocchevole ricchezza di
modi di dire caratteristici ed efficacissimi e una
vivacità di espressioni e una snellezza di perio-
dare grandissima. E se già vi era stato per
l'addietro chi aveva studiato i versi del Giusti
come un testo di lingua, ciò avveime ora assai
più spesso per le lettere che, diffuse tra le per-
sone colte e lette e studiate nelle scuole, diven-
nero, per molti, non solo un testo, ma un codice
della lingua nazionale, e suscitarono un nugolo
di imitatori che, specialmente se non erano to-
scani, esagerarono, com'è naturale, la tendenza
che già appariva talvolta nel modello, ad abusare
dei toscanesimi.
Donde, al solito, dopo non molti anni, la rea-
zione. 11 Carducci, che nel 1859 aveva pubblicato
una edizione delle poesie preceduta da pagine
piene di ammirazione per il poeta di Monsum-
mano, quindici anni più tardi si ribellava contro
le inconsulte idolatrie, e tratto dalla sua natura
90 Egidio Bellorini
focosa, esagerando alquanto egli pure, inveiva,
non solo contro i malaccorti imitatori della prosa
giustiana, o, com'egli diceva, contro i « cianciato-
relli che ci han fradicio e seccato e stufato in
questi ultimi anni >, ma anche contro il Giusti
stesso, che, come prosatore e specialmente come
scrittore di lettere, accusò di mancanza 'di spon-
taneità. < Oh quell'epistolario così freddo, così
artificioso, così civettuolamente smorfioso per
chi ha letto gli epistolari del Monti, del Leopardi,
del D'Azeglio! >; e dopo aver mosso rimprovero
al Giusti di far giri e rigiri di parole per « venire
a introneggiare la frase il motto l' immagine che
quel giorno gli occupava le mente >, conchiudeva
dicendo che la sua affettata ribellione a tutto ciò
che sapesse di accademico e di studiato era
< pedanteria alla rovescia, pedanteria in maniche
di camicia >. E così il Carducci veniva a confon-
dere un po' troppo maestro e discepoli, ed esten-
deva a tutto l'epistolario e quasi a tutta la prosa
del Giusti, ciò che è vero di una parte soltanto
delle lettere, e specialmente di quelle che il Giu-
sti scriveva agli amici non toscani, agli occhi dei
quali amava forse un po' troppo di sfoggiare la
sua dovizia linguistica e la disinvolta famiglia-
rità della sua parlata toscana. Invece quante
lettere, specialmente descrittive e narrative, sono
veramente ammirabili per vivacità e spontaneità !
tantoché il Biagi potè dire persino che probabil-
mente le novelle toscane del Fucini sono, in certo
senso, una derivazione delle lettere del Giusti
che descrivono scene rusticane.
Giuseppe Giusti 91
E questo avrebbe riconosciuto certamente Io
stesso Carducci, se avesse avuto occasione di ri-
parlare della prosa giustiana e specialmente se
avesse potuto tener conto delle Memorie, pubbli-
cate solo nel 1890 da Ferdinando Martini, nelle
quali il Giusti evitò quasi sempre i vezzi un po'
artificiosi delle < veneri > del parlar toscano.
Ad ogni modo, qualunque sia il giudizio che
si voglia dare della prosa giustiana, considerata
ne' suoi difetti, non v' ha dubbio che essa con-
tribuì efficacemente, insieme col romanzo del
Manzoni e con poche altre scritture della prima
metà del secolo, a diffondere il gusto di una pro-
sa semplice ma non trasandata, e ■ soprattutto
schiettamente italiana.
Ma il Carducci non si fermò alla critica del
Giusti come prosatore. I più ferventi ammiratori
avevano esaltato il Giusti come uno dei più grandi
poeti del secolo, mettendolo alla pari col Foscolo,
col Leopardi, e il Carducci, pur confermando il
suo rispetto per il Giusti « poeta a volte origi-
nale e finissimo >, si ribellò anche contro questa
esagerazione.
E d'allora in poi, mentre vediamo moltiplicarsi
le edizioni delle poesie e delle prose del Giusti,
e con esse i commenti e gli scritti intorno alla
sua vita e alla sua opera letteraria, tutti impron-
tati a schietta ammirazione, sebben spoglia or-
mai dalle antiche idolatrie — e basti ricordare.
92 Egidio B e Ilo r ini
fra i tanti, gli scritti di Guido Biagi, di Plinio
Carli e soprattutto quelli di Tommaso Parodi e
di Ferdinando Martini — ; d'altra parte vediamo
anche, di tanto in tanto, sorgere qualcuno a par-
lar del Giusti con una cert'aria di compassione-
vole commiserazione od anche di aperto disprez-
zo, come se si trattasse di un poetucolo ormai
insopportabile al nostro gusto mutato e raffinato.
Esagerazioni anche queste, delle quali è ben le-
cito sorridere.
Ma, collo scrittore, si colpì qualche volta an-
che r uomo. — Già, lui vivo o morto da poco, lo
avevano dipinto a colori poco belli alcuni suoi
avversari o nemici personali, come F. D. Guer-
razzi, come quel gazzettiere pieno d' ingegno ma
poco onesto che fu Enrico Montarlo e come an-
che Niccolò Tommaseo, il quale, sebbene amicis-
simo del Capponi ed in buoni rapporti personali
col Giusti stesso, non seppe trattenere la sua ten-
denza alla critica epigrammatica e mordace. Il
Montazio, per mettere in mala luce il Giusti, giunse
a dar corso a delle frottole, come quella ch'egli
fosse morto in seguito ad eccessi a cui si sareb-
be abbandonato durante un pranzo presso i rea-
zionari frati minori osservanti di Monte Olivete. Il
Guerrazzi disse che il Giusti fu uomo «di bello
ingegno ma di povero cuore» e che «dopo aver
scosso con braccio di Sansone l'edificio sociale
ebbe paura dei calcinacci che cascavano > ; al
che fu risposto che il Giusti non ebbe paura dei
Giuseppe Giusti 93
calcinacci ma delle rovine, come ne ebbe paura
lo stesso Guerrazzi il quale invano tentò anche
egli di correre ai ripari. Il Tommaseo poi coin-
volse nella sua critica l'artista e l'uomo. Nei
versi del Giusti, secondo lui, manca quello che
mancava all' uomo, e cioè il cuore. « II suo ge-
mito è fremito, il suo riso è ghigno, il suo zelo
disprezzo >. Quando il Giusti volle scrivere liri-
che amorose serie, finse dolori che non sentiva
e «pianse lacrime d'inchiostro». Nelle sue bat-
taglie contro il vizio e per la'patria, < il Giusti fa
del Tancredi con uno stuzzicadenti o uno spillo,
e insegna la pietà della patria colle beffe ; il Giu-
sti gamba di coniglio e cuore di gatto; Stente-
rello colle mutande di Dante ». ¥u iracondo, ava-
rissimo, < e la sola eccezione ch'egli introdusse
nella sua ingegnosa taccagneria consistè nel ve-
stiario lindo e galante >.
Molt'anni dopo, Leopoldo Barboni tornò alla
carica, e dopo aver confermato l'accusa di tac-
cagneria, mise anche in ridicolo le « paure del
Giusti e i suoi rinnegamenti di fronte alla polizia
lorenese, che, del resto, non lo pigliò mai sul se-
rio, reputandolo, com'era in fatti, un Aristofane e
un Giovenale di carta pesta >. Ed Emilio Del Cer-
ro, dal canto suo, in seguito a certe indagini su
i documenti della polizia toscana, credette di
poter concludere che il Giusti fu, non solo di
animo pacifico, ma di carattere frollo, che la sua
satira fu una mera esercitazione letteraria, e che
l'animo del cittadino non valeva, in ogni caso, la
frusta del poeta.
94 Egidio Bello r ini
Da ultimo Giacomo Surra prese ad esaminare
con molta diligenza e con grande acume ma con
spirito, oserei dire, un po' inquisitorio tutte le ope-
re e tutte le vicende della vita del Giusti, e finì
per concludere che fu un uomo poco sincero, che
ebbe affetti deboli e sentimenti poco profondi —
ove sì eccettui l'amor di patria — e che appunto
perciò, se anche fu spesso artista valente, rara-
mente fu poeta vero.
Ora, che in tutto questo male detto del Giusti
come uomo vi sia qualche fondamento di verità
è innegabile; ma quanto vi è anche d'esagerato!
Il Martini e il Carli lo dimostrarono già, ed io
non ripeterò quello ch'essi hanno detto assai bene.
Certo il Giusti non fu un uomo perfetto. Fu,
come suo padre, alquanto tirato nello spendere,
e non sempre molto riguardoso o delicato nei
rapporti colle donne che corteggiò ; come non fu
sempre rispettoso nei rapporti col padre, che,
d'altronde, non era sempre dalla parte della ra-
gione. Afflitto da disturbi di fegato e d' intestino,
e malato anche di nervi dopo la scossa avuta nel
1843, non fu sempre di umore piacevole, e si ab-
bandonava talvolta a scatti d'ira, che lo spinsero
anche, in qualche raro caso, alla satira violenta
e personale. Timido nei rapporti sociali, non ebbe
sempre il coraggio di manifestare apertamente il
proprio sentimento quando si trovava davanti a
persone che non stimava o non amava, e faceva
loro egualmente buon viso. Ma non fu neppure
quel mostro morale che dipinsero certi suoi ne-
mici ed anche certi suoi critici. Ebbe amici fé-
Giuseppe Giusti 95
deli e li amò fedelmente tutta la vita; nutrì rive-
renza profonda per qualcuno di essi, come per il
Manzoni e per il Capponi, e non vorremo fargli
carico se talvolta si mostrò un po' vano di queste
amicizie. Se l'occasione si presentò, seppe anche
essere giusto coi nemici, come quando, nel 1849,
propose ed ottenne che il Guerrazzi, che l'aveva
combattuto aspramente poco prima al momento
delle elezioni politiche, fosse nominato accade-
mico corrispondente della Crusca. Amò sempre
e caldamente la patria, e questo amore trasfuse
tutto ne' suoi versi ; e se questi non gli attira-
rono persecuzioni dalla polizia, ciò si dovette,
non alla persuasione che essi fossero un innocuo
esercizio letterario — come credettero il Barboni
e il Del Cerro — , ma al fatto che la polizia to-
scana non osava perseguitare nessuno per le sue
scritture, tantoché non molestò mai, per i loro
scritti, né il Guerrazzi, né il Niccolini.
Insomma il Giusti non fu un eroe ; anzi fu un
uomo che ebbe difetti e, se vogliamo, anche vizi;
ma ebbe pure dei meriti e delle virtù di cui gli
va tenuto conto, e di cui certamente gli tennero
conto i suoi fedeli amici, e soprattutto il Capponi
che tanto fece per averlo con sé, che ne difese
con tanto calore la memoria quando un france-
se, Gustavo Planche, ne parlò con poco rispetto
nelle Revtie des deiix inondes, e che ne curò con
tanto affetto le opere, dopo che la morte lo ebbe
strappato dal suo fianco. Inoltre e soprattutto noi
dobbiamo ricordare i suoi meriti di poeta, pei
quali soltanto la nostra attenzione si rivolge oggi
96 Egidio Bellorini
a luì, inducendoci a scrutare con una curiosità
talvolta indiscreta — come del resto siamo soliti
fare con tutti gli uomini famosi — i piij minuti
particolari della sua vita privata. E i meriti di
poeta non è lecito ormai negarli ragionevolmente
perch'egli fu poeta vero, se non grande, e perchè
la sua opera ha, com.e si è dimostrato, un carat-
tere tutto suo, originalissimo, per il quale dob-
biamo assegnarle un posto onorevole nella storia
della nostra letteratura, nel periodo che corre tra
il primo tentativo infelice di riscossa nazionale
del 1831, e la sfortunata ma gloriosa guerra del
1848-49. Ed anche dobbiamo ricordare che questi
suoi versi ebbero efficacia grandissima nel pre-
parare gli animi a questa prima e a tutte le suc-
cessive guerre combattute pel risorgimento della
patria.
Delle Mie prigioni si disse che danneggiarono
l'Austria più di una battaglia perduta. Gli « scher-
zi > del Giusti non ebbero e non potevano avere
la diffusione mondiale del libretto del Pellico ; ma,
dentro i confini d' Italia, recarono anch'essi un
danno gravissimo all'Austria e ai prìncipi indi-
geni che le tenevano bordone. Essi furono, coi
romanzi del Guerrazzi e del D'Azeglio, colle poe-
sie patriottiche del Berchet e del Rossetti, colle
tragedie del Niccolìni, vital nutrimento spirituale a
quei giovani che sulle barricate di Milano, per le
vie di Brescia, sui campi di battaglia della Lom-
bardia e del Veneto, sulle mura di Roma e nella
laguna di Venezia affrontarono il nemico, e ver-
Oiiiseppe Giusti 97
sando il loro sangue per la patria ne prepararono
il risorgimento.
E se oggi, dopo che più di settant' anni son
trascorsi dalle morte del poeta, quei versi non
sono più popolari come in quegli anni gloriosi
e remoti, né più gli artigiani se li fanno leggere
e commentare dai giovani studenti, né più gli stu-
denti stessi ne fanno la loro lettura favorita, dovre-
mo perciò meravigliarci o dire — come qualcuno
ha osato — che ciò sta bene, perchè la fama del
Giusti era usurpata? — No certamente, perchè è
destino comune a quasi tutte le opere letterarie,
anche alle più grandi e gloriose, di essere lasciate
alquanto in disparte dai posteri, non appena le
idee, le passioni, le vicende che le hanno inspi-
rate e le tendenze letterarie alle quali risposero,
si trasformano o scompaiono col passar del tem-
po, e sorgono altre opere d'arte, forse di minor
valore intrinseco, ma che rispondono alle nuove
idee, alle nuove passioni, alle nuove circostanze,
alle alle nuove tendenze letterarie. Ma delle opere
che hanno veramente pregio d'arte, qualcosa so-
pravvive sempre, e fa vibrare ogni animo creato a
sentire il bello. Per questo piacciono ancora i più
spigliati < scherzi » giustiani, dalla Guigliottina a
vapore al Brindisi di Girella, alla Chiocciola, al
Re Travicello, alla Rassegnazione, al Delenda Car-
thago, e, pur facendo sorridere, destano sempre
nell'animo un dolce sentimento di commozione le
ottave del Sant'Ambrogio.
Il resto dell'opera letteraria del Giusti può
avere ed ha forse soltanto ormai valore storico,
Propili — G. Giusti. • 7
98 Egidio Bellorini
ma questi e alcuni altri « scherzi > sono sempre
poesia viva, e si può credere che lo saranno an-
cora tra molti anni, quando tante opere che ora
sembrano vive e grandi, avranno soltanto un va-
lore storico.
=^11
NOTA BIBLIOGRAFICA
Una completa Bibliografia giiistiana aveva cominciato a
pubblicare Ugo Ceccherini nella «Rivista abruzzese » del
1893, ma non la portò a compimento.
Dopo d'allora nessuno riassunse l' impresa, cosicché gli
studiosi devono contentarsi delle indicazioni bibliografiche che
si trovano nei soliti repertori, come l'Ottocento di Guido
Mazzoni e il Manuale della leti. ital. dei professori D'Ancona
e Bacci. Un'utile rassegna di pubblicazioni giustiane uscite
in occasione del centenario della nascita fece Rosolino Gua-
stalla nel « Giornale storico della lett. ital. ■» del 1910. Qui mi
contenterò di ricordare le pubblicazioni di maggiore impor-
tanza.
I. — Opere del Giusti.
Alcune poesie furono pubblicate sparsamente, mentre vi-
veva l'autore, in fogli volanti, in raccolte onorarie, in strenne,
in riviste o giornali, dal 1826 in poi. Ma la prima edizione no-
tevole de' suoi versi è quella del volumetto anonimo intitolato
Poesie italiane tratte da una stampa a penna (Italia, ma Lu-
gano, 1844) che diede occasione al G. — com'è detto nel testo,
cap. V, — di pubblicare l'opuscolo di Versi di serio argomento
(Livorno, Antonelli e C, 1844) in testa al quale figura il suo
nome, e che contiene: La fiducia in Dio, Affetti d' una madre,
All'amica lontana, All'amico nella primavera del IS41, Sospiro
dell'anima, Ad una giovinetta. L'anno dopo usciva, senza no-
me dell'autore, ma da lui curato, il volume di Versi (Bastia,
100 Bibliografia
tip. Fabiani) che contiene i primi 32 scherzi delle consuete
edizioni di poesie del G., dalla Guigllottina a vapore al Gin-
gillino. In seguito, colla data 1847, ma in realtà al principio del
1848, usciva in Firenze, tip. Baracchi succ. G. Piatti, un volu-
metto di Nuovi versi di Giuseppe Giusti, con altre 13 poesie,
scherzi la maggior parte, composte dopo la pubblicazione della
edizione di Bastia. È inutile aggiungere che, date le condizioni
del commercio librario in quei tempi, ognuna di queste edi-
zioni diede origine a numerose altre edizioni fatte senza il
consenso dell'autore. Nel 1848 egli pensava di raccogliere in
un solo volume tutte le sue poesie; ma non potè condurre a
compimento questo disegno, che fu ripreso poi, dopo la sua
morte, da Gino Capponi e Marco Tabarrini, per cura dei quali
fu pubblicato nel 1852 (Firenze, Le Monnier) il volume di Versi
editi e inediti, edizione postuma e corretta sui manoscritti,
che servì poi di fondamento a tutte le edizioni posteriori. —
D'allora in poi le edizioni dei versi si moltiplicarono, accre-
scendosi via via di componimenti inediti o pubblicati sparsa-
mente durante la vita del G. e rimasti ignoti ai precedenti edi-
tori. Tra queste edizioni convien ricordare gli Scritti vari in
prosa e in versi per la maggior parte inediti pubblicati da
Aurelio Gotti (Firenze, 1856), il volumetto diamante delle poe-
sie curato da G. Carducci (Firenze, 1859),e le edizioni commen-
tate da O. Turchetti (Firenze, 1868), G. Fioretto (Padova, 1875),
P. Fanfani (Milano, 1876, e con postille di G. Frizzi, 1881), C.
Causa (Firenze, 1882), G. Biagi (Firenze, 18841, G. Puccianti
(Firenze, 1899), C. Romnssi (Milano, 1899), E. Ceria (Torino, 1902),
E. Bicci (Firenze, 1905), R. Guastalla (Livorno, 1910), P. Carli
(Firenze, 1912), E. Marinoni (Milano, 1918), E. Bellorini (Torino,
1921). Le edizioni più complete sono quelle curate da E. Chec-
chi (Firenze, Le Monnier), e F. Martini (Firenze, Sansoni).
Quanto alle prose, a non tener conto di qualche lettera o
articoletto, possiamo dire che il primo saggio notevole sia
stato il Discorso su G. Parini (Firenze, Le Monnier, 1846).
Morto l'autore, uscì nel 1853, (Firenze, Le Monnier), per cura
di G. Capponi, la Raccolta di proverbi toscani, alla quale
tennero dietro nel 1857 i già citati Scritti vari in prosa e in
verso per la maggior parte inediti^ \' Epistolario che, pubbli-
cato da Giovanni Frassi, in due volumi, nel 1859 (Firenze, Le
Monnier) fu poi ripubblicato in tre volumi, nel 1904, da Ferdi-
Bibliografia lOI
nando Martini, il quale rivide diligentemente il testo delle lettere
già pubblicate, molt'altre ne aggiunse e tutte illustrò con note
ed appendici. Un' altra notevole raccolta sono le Lettere Ja-
migliari inedite, pubblicate da G. Babbini — Giusti (Pescia,
1897) ; ma ben più notevoli sono le Memorie inedite (1845-49)
pubblicate da Ferdinando Martini (Milano, 1890) con introdu-
zione e appendici. Assai minore importanza hanno altre pub-
blicazioni di prose, come le Postille alla Divina Commedia
edite da G. Crocioni (Città di Castello, 1898), e le Nuove po-
stille alla Divina Commedia edite da G. Pedrotti (Girgenti,
1904). Delle lettere e di altre prose scelte si fecero numerose
edizioni per le scuole, con note. Le più notevoli sono quelle di
G. Rigutini (Firenze, 1861), P. Carli (Firenze, 1914), ed E. Ma-
r:noni (Milano, 1918).
II. — Scritti sulla vita e sulle opere del Giusti.
Sono numerosissimi. Ricorderò soltanto quelli che mi sem-
brano più notevoli, in ordine alfabetico, avvertendo che ad
essi bisognerebbe aggiungere le già citate introduzioni e ap-
pendici del Martini alle opere del G., e le introduzioni o pre-
fazioni a quasi tutte le edizioni delle poesie e delle prose del
Giusti.
1. - AzzoLiNA L., La poesia del G., nell' < Annuario del R. liceo
di Cagliari > del 1914.
2. - Barboni L., Geni e capi ameni nell'Ottocento (Firen-
ze, 1911).
3. - BiAGi G., La fama postuma del G. nel volume «Aneddoti
letterari » (Milano, 1887) ; Amori giustiani nella « Illustra-
zione italiana > dell'S agosto 1909 ; Ricordi giustiani in
Valdinievole, nella « Lettura» del luglio 1909.
4. - Capponi G., Sopra un articolo intorno a G. G., negli
< Scritti vari », Firenze. 1863.
5. - Carducci G., G. G.; Correttivo al saggio su G. G. ; Dopo
quindici anni, < Opere » II, VII, XIX.
6. - Carli P., G. C, romanziere ? nella « Miscellanea in onore
di V. Clan », Pisa, 1909 ; Intorno ad alcuni autografi di
G. G., nel « Giorn. stor. delle lett. ital. », 1909; G. G. sot-
to processo nel « Fanfulla della Domenica » del 12 otto-
bre 1913.
102 Bibliografia
7. - Coppola S., P. J. De Béranger e G. Giusti, nella < Rivi-
sta abruzzese > del 1906.
8 - Croce B., G. G., nella < Critica » del 20 marzo 1923.
9. - Del Cerro E., Misteri di polizia (Firenze, 1890).
10. - Del Lungo I., La poesia di G. G., nella < Vita italiana
del Risorgimento », 111, serie I (Firenze, 1909).
11. - Foresi M., G. G., nella e Rassegna nazionale» del 16
maggio 1909. '
12. - Prassi G., Vita di G. G., premessa aW Epistolario.
13. - Gargano G. S., G. G., nel e Marzocco » del 15 agosto 1909.
14. - Ghivizzani G., G. G. e i suoi tempi, Reggio Emilia, 1882.
15. - Gnoli T., Le satire di Giovanni Giraud, Roma, 1903.
16. - Guastalla R., La donna nella vita del G., nella «Nuova
Antologia» del 16 luglio 1909.
17. - Martini F., G. G. ; // G. studente; L'onorevole G. G. ;
Le Memorie del G. e la Toscana dal IS45 al 1S49, nel vo-
lume «Simpatie», Firenze, 1900. — Nel Centenario di G.
G. ; Il G. in Campidoglio, nel volume « Pagine raccolte »
(Firenze, 1912).
18. - Mazzoni G., L'Ottocento, Milano, Vallardi; Due noterei-
le giustiniane, nella «Illustrazione italiana» dell' 8 ago-
sto 1909.
19. - Micheli P-, Le idee critiche di G. Q., nel « Saggiatore»
del 1901 ; Il G. critico letterario, nelle « Pagine critiche»
del 1920.
20. - Monnier M., U Italie est-elle la terre des morts ? (Pa-
rigi, 1860).
21. - MoNTAZio G., Q. G. (Torino, 1862).
22. - Ottolini a., Le forme metriche del G. ; Le donne e gli
amori del G- ; Il sentimento religioso del G-, nella «Ri-
vista d'Italia», marzo, maggio e ottobre 1909.
23. - Palmarocchi R., Béranger e Giusti, nella « Rassegna na-
zionale » del dicembre 1909.
24. - Panzacchi e., C. G. nel voi. « Teste quadre » (Bolo-
gna, 1881).
25. - Parodi T., G- G., nel volume «Poesia e letteratura»,
(Bari, 1916).
26."- Scherillo M., Proemio alle Prose e poesie di G. G., scelte
da G. Marinoni (Milano, 1915).
Bibliografia 103
27. - ScHiFF GiORGiNi M., VMorina e Matilde Manzoni (Pi-
sa, 1910).
28. - Settembrini L., Lezioni di letteratura italiana, ca.ip. CU.
29. - Stampa S., A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici
(Milano, 1885).
30. - Surra G., // discorso del G. sul Parini; Impronte giustia-
ne nelle poesie di G- Carducci; Imitazioni e reminiscenze
nelle poesie del G- nel « Giorn. stor. della lett. ital. » del
1913-14 ; — Indagini sul carattere e sull'arte di G. G.,
nelle < Memorie della reale Accademia delle Scienze di
Torino », 1914.
29. - Tabarrini M., Gino Capponi, i suoi tempi, i suoi studi,
i suoi amici (Firenze, 1879;.
30. - Tommaseo N., Di G. P. Vieusseux, Firenze, 1869; Carteg-
gio con G. Capponi, passim.
31. - TOMMASONI G., Se il Manzoni stimasse il G., nel « Fan-
fulla della domenica > del 20 dicembre 1885.
32. - TORRACA F., Giusti e Béranger, nella « Illustrazione ita-
liana > dell'agosto 1909.
33,- ZuMBiNi B., Varte del G. nella <>: Illustrazione italiana >
dell'8 agosto 1909.
Mantre correggo le bozze a questo mio lavoretto, leggo, nella
Critica del 20 marzo 1923, la nota di Benedetto Croce, in cui si
esprime l'opinione che quella del Giusti sia « poesia prosa-
stica », e cioè una poesia che si chiama con tal nome solo per-
chè ha forma metrica, mentre « nella sua realtà è prosa >. Tra
i poeti prosastici — dice il Croce - il Giusti è uno dei < più
eminenti », e i suoi versi hanno pregi letterari non piccoli, ma
egli è pur sempre « poeta prosastico » e non vero poeta. E que-
sta appunto sarebbe la ragione per cui la sua fama scemò così
rapidamente da un certo tempo in qua. — Un'opinione di Be-
nedetto Croce è sempre degna, non solo di rispetto, ma di se-
rio esame; pure confesso che questa sua intorno al Giusti non
mi persuade del tutto.
Non ho qui spazio a discuter di ciò: chi desiderasse sa-
pere quel eh' io pensi, potrà vedere le obiezioni che mossi
altrove (Poesie di G. Giusti, Torino, U. T. E. T., 1921, p. XXVI)
a Giacomo Surra il quale, fin dal 1914, sostenne (sebbene per
ragioni diverse da quelle del Croce) che il Giusti è artista va-
lente, ma di rado vero poeta.
cy
PQ Bellorinl, Egidio
4692 Giuseppe Giusti
G9Z83
PLEASE DO NOT REMOVE
SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO
LIBRARY
'1 t
Y
t
A?j)A i^A -<Ji> 17,(^^
v''
h (^