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Full text of "Giuseppe Giusti"

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GIUSEPPE    GIUSTI 


EGIDIO  BELLORINI 


Giuseppe  Giusti 


A.   F.    FORMIGGINI 

EDITORE  IN  ROMA 
1923 


Proprietà  Letteraria 

/  diritti   di  traduzione  sono   riservati  per  tutti  i  paesi. 

Nella  filigrana  di  ogni  foglio  deve  essere  visibile 
l'impresa  editoriale. 


Selci   (Umbria),    Società  Anonima  Tipografica  Pliniana,    1923 


^'lOjs^ 


G]  RAN  festa  vi  fu  certamente  in  casa 
Giusti  a  Monsummano  il  12  maggio 
1809,  quando  Ester  Chiti,  la  giovane 
e  bella  sposa  del  signor  Domenico, 
diede  alla  luce  il  primo  figlio,  che 
—  secondo  1'  uso  comune  un  tempo 
e  non  ancora  del  tutto  scomparso  — 
fu  battezzato  il  giorno  dopo  col  no- 
me dell'avo  paterno,  Giuseppe.  E  in 
questo  rinnovarsi  del  nome  era  qua- 
£^^'1  si  un  augurio.  Disceso  di  buona  ed 
agiata  famiglia,  il  vecchio  Giuseppe 
era  meritamente  salito  in  alto,  a  suo  tempo, 
nella  scala  de'  pubblici  uffici,  divenendo  persino 
amico  e  ministro  di  Pietro  Leopoldo,  il  granduca 
riformatore,  che  avendo  riformato,  tra  l'altro,  an- 
che 1'  ufficio  di  presidente  del  Buon  governo  — 
ch'era  una  specie  di  direttore  generale  della  po- 
lizia, con  attribuzioni  amministrative  e  giudizia- 


8  Egidio  Dellorini 


rie  —  l'aveva  conferito  al  suo  prediletto  ministro. 
Né  venuta  poi  la  rivoluzione  che,  col  turbine  na- 
poleonico, portò  lo  scompiglio  in  tutti  gli  Stati 
italiani,  il  vecchio  Giuseppe  Giusti  aveva  visto 
scemare  la  propria  dignità,  che  anzi,  nel  1805, 
Maria  Luisa  di  Borbone  —  la  quale  teneva  allora 
le  redini  del  così  detto  regno  d'  Etruria  — =  dopo 
averlo  fatto  consigliere  intimo  di  Stato  e  di  fi- 
nanze, gli  conferiva  anche  patenti  di  nobiltà,  con 
titolo  trasmissibile  a'  suoi  discendenti  in  linea 
mascolina.  E  il  signor  Domenico  —  che  non  aveva 
nutrito  mai  per  sé  grandi  ambizioni,  pago  di  cu- 
rare l'amministrazione  e  l'aumento  del  patrimonio 
domestico  e  di  coprire  qualche  modesta  carica 
locale  —  rinnovando  nel  figlio  il  nome  del  padre 
suo,  augurò  certamente  che  si  rinnovasse  in  lui 
anche  l'antico  lustro  della  famiglia  e  ch'egli  fòsse 
chiamato  ad  una  gloriosa  carriera  nei  pubblici 
uffici. 

Ignaro  di  questi  ambiziosi  disegni  paterni,  che 
dovevano  poi  essere  fonte  di  contrasti  in  avve- 
nire, il  piccolo  Beppe  passò  lietamente  i  primi 
anni  nella  casa  paterna,  e  divenne  un  ragazzo  vi- 
vace, rumoroso  e  un  po'  turbolento,  com'egli  stes- 
so ci  narra  in  certi  frammenti  autobiografici. 

Il  signor  Domenico  era  uomo  di  qualche  col- 
tura :  amava  la  musica,  faceva  dei  versi, -ammi- 
rava Dante,  e  queste  passioni  egli  trasfuse  ben 
presto  nel  figlio,  insegnandogli,  quand'era  bam- 
bino ancora,  le  note  musicali  e  il  canto  del  conte 
Ugolino;  ma  non  aveva  né  le  cognizioni  né  l'at- 
titudine  necessarie    per   far   da   maestro  a  quel 


Giuseppe  Giusti 


diavoletto.  Perciò,  quando  Beppe  ebbe  poco  più 
di  sette  anni,  lo  affidò  ad  un  prete,  un  tal  Sacchi, 
perchè  l' istruisse.  Era  questi  un  uomo  colto,  ma 
piuttosto  stravagante  e  —  come  disse  poi  il  suo 
allievo  —  «  di  metodo  tedesco  perfettamente  >,  e 
cioè  abituato  ad  usare  spesso  le  mani  e  forse  an- 
che il  bastone  come  strumento  di  correzione  ;  e 
il  ragazzo,  nei  cinque  anni  che  stette  con  lui, 
molto  s'annoiò  e  poco  imparò.  Poi,  nell'ottobre 
del  1821,  il  padre  lo  mandò  a  Firenze  nel  colle- 
gio Zuccagni-Orlandini,  che  aveva  fama  di  ottimo. 
E  qui  le  cose  andarono  meglio,  specialmente  per 
merito  di  Andrea  Francioni,  maestro  ammirabile, 
che  seppe  metter  in  cuore  al  giovinetto  l'amore 
per  lo  studio.  Di  che  l'allievo  gli  fu  sempre  ricono- 
scente, tanto  da  dir  poi  clie  il  Francioni  era  stato 
per  lui  non  padre-maestro,  ma  maestro  e  padre. 
Disgraziatamente,  col  finire  di  quell'anno  scola- 
stico, il  collegio  si  chiuse,  e  il  ragazzo  fu  inviato 
a  proseguire  gli  studi,  prima,  per  un  anno  (1822- 
23),  nel  Seminario  di  Pistoia,  quindi,  per  due  anni 
(e  cioè  fino  al  luglio  1825),  nel  Collegio  dei  no- 
bili a  Lucca.  Ma  in  nessuno  di  questi  due  istituti 
Beppe  fu  un  allievo  modello;  non  perchè  studias- 
se meno  degli  altri,  ma  per  la  condotta.  Le  disco- 
laggini  da  lui  commesse  furono  anzi  tante  e  tali 
che,  sulla  fine  d'aprile  del  1825,  venne  persino 
espulso  temporaneamente  dal  collegio.  Ciò  non 
ostante,  nel  luglio  seguente  potè  dare  egualmente 
gii  esami  nello  stesso  collegio  ;  ma  poi  il  padre 
pensò  ch'era  meglio  richiamarlo  presso  la  fami- 
glia, la  quale  nei  frattempo  era  passata  da  Mon- 
summano  a  Montecatini. 


10  Egidio  Bello  ritti 

Beppe  tornava  così  in  famiglia  a  sedici  anni, 
senza  aver  compiuto  gii  studi  clie  noi  diremmo 
secondari.  In  compenso  vi  tornava  però  circon- 
dato da  una  certa  gloriuzza  nascente  di  poeta. 

Veramente  poco  ci  resta  di  que'  suoi  primi 
saggi,  diciamo  pure  «  poetici  »  ;  ma  se  ci  mancano 
le  ottave  sulla  torre  di  Babele,  scritte  a  dodici 
anni,  quand'egli  smaniava  ancora  sotto  la  disci- 
plina del  prete  Sacchi,  come  ci  mancano  le  ter- 
zine per  la  sorella  Ildegarde,  minore  pochi  anni 
di  lui,  scritte  a  Lucca,  insieme  con  altre  terzine 
in  morte  del  granduca  Ferdinando  II,  e  con  un 
poemetto  in  sestine  sul  ratto  delle  Sabine,  per- 
duti, credo,  anch'essi  al  pari  di  un  certo  numero 
di  versi  in  vernacolo  lucchese,  ci  restano  però 
altri  versi  composti  in  quegli  stessi  anni,  in  par- 
te seri  —  come  sarebbero  un  sonetto  sulla  libertà 
e  un  altro  di  soggetto  amoroso  —  e  in  parte  bur- 
leschi ;  e  questi  bastano  per  farci  concludere 
che,  sebbene  egli  suscitasse  ammirazione  tra  i 
condiscepoli  e  i  famigliari,  poteva,  tutt'al  più, 
esser  lodato  per  una  certa  facilità  nel  buttar  giù 
endecasillabi  di  giusta  misura.  Se  vogliamo,  ciò 
non  è  poco  per  un  ragazzo;  ma  non  è  neppure 
presagio  di   futura   grandezza. 

A  Montecatini  Beppe  continuò  a  verseggiare 
a  tutto  spiano,  trattovi  anche  dall'  uso  locale  delle 
gare  di  sonetti  a  rime  obbligate  ;  e  in  queste  ten- 
zoni egli  riportò  facilmente  più  d' una  vittoria. 
Poi,  a  richiesta  del  preposto  Orlandini,  fece  una 
canzone  sul  crocifisso,  che  venne  stampata  in  una 
raccolta  e  gli   procurò   molte  lodi.  Quel  che  va- 


Giuseppe  Giusti  11 

lesse  la  canzone  non  sappiamo,  perchè  non  ci  è 
pervenuta;  ma  del  valore  poetico  del  Giusti  in 
quel  tempo  è  indizio  una  imitazione  oraziana  scrit- 
ta in  versi  abbastanza  disinvolti,  e  un'odicina,  la- 
sciva ma  non  brutta,  per  una  giovinetta,  Isabella 
Fantoni,  da  lui  ammirata  ai  Bagni  di  Montecatini 
e  della  quale  s'immaginò  per  qualche  tempo  di 
essere  innamorato  sul  serio. 

Ma  di  queste  più  o  meno  felici  esercitazioni 
poetiche  non  poteva  essere  pago  il  signor  Do- 
menico, se  pur  qualche  volta  ne  andava  orgo- 
glioso. Egli  mirava  sempre  allo  stesso  scopo: 
metter  il  figlio  in  grado  di  coprire  un  pubblico 
ufficio;  e  poiché,  a  tale  scopo,  bisognava  ch'egli 
prendesse  la  laurea  in  leggi,  incaricò  il  già  ri- 
cordato preposto  Orlandini  di  prepararlo  all'esa- 
me d'ammissione  all'  università.  Qualche  mese 
dopo,  Beppe,  bene  o  male,  superava  l'esame  e, 
nel  novembre  del  1826,  cominciava  a  frequentare 
i  corsi  della  facoltà  di  leggi  nella  Università  di 
Pisa. 


Che  cosa  fossero  studenti  e  professori  a  Pisa, 
in  quel  tempo,  ha  detto,  con  molti  particolari  gu- 
stosi e  col  garbo  consueto,  Ferdinando  Martini, 
e  non  discorda  da!  suo  racconto  quel  che  pos- 
siamo dedurre  dalla  testimonianza  che  ci  dà  il 
Giusti  stesso  nelle  Memorie  di  Pisa,  scritte  nel 
1841.  Tra  i  professori  non  mancavano  i  buoni, 
rispettati  dagli  studenti;  ma  tra  gli  studenti  pre- 
valevano,  o    almeno   avevano    gran   seguito,   gli 


12  Egidio  Bello  ritti 

scapati,  ai  quali  era  duce  un  tal  Salvatore  Ar- 
cangeli soprannominato  Stravizio,  che  il  Giusti 
conobbe  e,  pare,  anche  imitò.  Veramente,  a  legger 
le  lettere  eh'  egli  in  quel  tempo  scriveva  a  suo 
padre,  si  direbbe  che  fosse  un  modello  di  stu- 
dente, tutto  occupato,  il  primo  anno,  a  studiare 
geoinetria  e  filosofia  —  perchè  così  volevano  i 
programmi  d'allora  —  e  a  studiare  diritto  nei  due 
seguenti.  A  sentirlo,  unico  spasso  era  per  lui 
qualche  serata  trascorsa  a  teatro  o  in  casa  di 
gente  per  bene,  come  quella  della  contessa  Ma- 
stiani,  conosciuta  dal  padre  e  accetta  a  corte.  Le 
105  lirette  che  gli  mandavano  da  casa  ogni  mese, 
erano  pochine,  a  dir  il  vero  ;  ma  il  saggio  stu- 
dente sapeva  farle  bastare  ;  e  quando  il  padre 
sospettoso  l'accusò  di  buttar  via  i  denari,  egli  se 
l'ebbe  a  male  e  gli  rispose,  non  senza  un  po'  di 
risentimento,  dimostrandogli  che  aveva  torto.  In 
realtà  invece  il  padre  aveva  ragione  di  sospet- 
tare. È  bensì  vero  che  il  giovinotto  studiò,  se  non 
troppo,  almeno  quanto  bastava  per  cavarsela  agli 
esami  ;  ma  si  intrufolò  in  compagnie  poco  buone, 
spese  troppo  e  fece  dei  debiti  che  alla  fine  ven- 
nero a  galla  e  dovettero  esser  pagati  dal  padre 
il  quale,  un  po'  tirato  nello  spendere,  se  ne  sgo- 
mentò, e,  nel  giugno  1829,  richiamò  il  figlio  a 
casa  facendogli  interrompere  un'  altra  volta  gli 
studi. 

Nel  frattempo  la  famiglia  s'era  trasferita  da  Mon- 
tecatini a  Pescia,  ed  il  giovane  figliuol  prodigo  do- 
vette quindi  rassegnarsi  a  vegetare  in  questa  cit- 
tadina, tanto  meno  allegra  e  tanto  più  pettegola 


Giuseppe  Giusti  13 

di  Pisa.  Se  non  che  neppur  qui  mancavano  i  gio- 
vanotti dissipati  e  le  occasioni  di  non  difficili 
amori  ;  cosicché,  in  sostanza,  Beppe  mutò  com- 
pagni ma  non  genere  di  vita,  e  bagordi  e  amo- 
razzi e  debiti  si  rinnovarono  ben  presto,  con  quan- 
to conforto  del  padre  è  facile  immaginare. 

Eppure,  nemmeno  in  questo  brutto  periodo 
della  sua  vita,  non  smise  mai,  né  a  Pisa  né  a 
Pescia,  di  fare  versi.  La  vena  infatti  aveva  con- 
tinuato a  scorrere  sempre  abbondante,  ed  anzi  a 
poco  a  poco  si  era  fatta  anche  più  limpida  e  più 
tersa,  come  appare  dai  pochi  sonetti  amorosi  e 
dai  molti  componimenti  burleschi  di  questi  anni. 
I  primi  sono  probabilmente  pure  esercitazioni  let- 
terarie, ed  esprimono  sentimenti  poco  in  armonia 
cogli  amorazzi  volgari  che  il  Giusti  coltivava  al- 
lora ;  ma  ci  attestano  però  lo  studio  dei  grandi 
poeti  antichi,  e  specialmente  di  Dante  e  del  Pe- 
trarca, e  lo  sforzo,  non  sempre  vano,  di  addolcire 
l'armonia  del  verso  e  di  affinare  lo  strumento 
della  parola.  I  componimenti  giocosi  invece  si 
ricollegano  evidentemente  colla  poesia  burlesca 
di  Antonio  Guadagnoli,  popolarissimo  allora  in 
Toscana  e  conosciuto  personalmente  dal  Giusti, 
che  gli  si  era  legato  a  Pisa  di  cordiale  amicizia; 
ma  talvolta  ci  presentano  anche,  pur  nella  loro 
facile  superficialità,  qualche  tratto  inspirato  fe- 
licemente dal  vero,  che  par  quasi  preannunciare 
il  futuro  poeta  satirico.  Questo  è,  per  es.,  il  caso 
della  Mamma  educatrice,  il  più  noto  de'  suoi  com- 
ponimenti giovanili. 

E  che  tali  versi  gli  procacciassero  fin  d'allora 


14  Egidio  Bellorini 

una  certa  fama,  ci  è  attestato  dal  fatto  che  a  Pisa, 
nelle  famiglie  signorili  che  frequentava,  egli  era 
invitato  a  recitare  versi,  in  gara  con  Giovanni 
Rosini,  professore  dell'  università  e  suo  buon  ami- 
co, e  che,  a  Pescia,  egli,  oltre  a  partecipare  vit- 
toriosamente ai  soliti  tornei  poetici,  era  accolto 
nelle  migliori  famiglie  e  per  una  di  esse,  i  Ma- 
gnani, scriveva  una  corona  di  sonetti  ad  illustrare 
i  quadri  decoranti  una  loro  villa. 


li. 


Le  giornate  di  luglio  del  1830  e  tutti  i  fatti  che 
ne  seguirono,  in  quello  stesso  anno  e  nel  seguente, 
in  Francia  e  in  Italia,  vennero  a  sorprendere  il 
giovane  scapato  in  mezzo  alle  sue  dissipazioni, 
e  destando  in  lui  più  gravi  pensieri  e  piij  nobili 
affetti,  mutarono  in  parte  l'indirizzo  della  sua 
vita  e  quasi  del  tutto  quello  della  sua  arte. 

Quali  fossero  le  idee  politiche  del  Giusti  negli 
anni  precedenti  non  ci  è  noto.  Che  fosse  del  tutto 
indifferente  al  sordo  travaglio  che  agitava  allora 
tante  generose  anime  d'italiani,  non  è  credibile  ; 
ma  forse,  distratto  dal  poco  nobile  genere  di  vita 
al  quale  s'era  abbandonato,  non  era  andato  oltre 
una  vaga  simpatia  per  le  idee  liberali,  a  cui  lo 
doveva  inclinare  il  ricordo  dell'avo  materno.  Ce- 
lestino Chiti  (m.  1825),  che,  al  tempo  della  grande 
rivoluzione,  aveva,  col  Sismondi,  sofferto  perse- 
cuzione e  carcere  per  opera  dei  reazionari,  ed  era 


Giuseppe  Giusti  15 

poi  sempre  rimasto  fedele  alle  idee  democratiche. 
Ma  i  fatti  del  1830-31  colpirono  la  sua  fantasia  e 
commossero  il  suo  cuore  di  21  anno,  esaltandolo 
per  le  idee  di  libertà  e  di  patria.  Idee  molto  in- 
certe però,  almeno  per  allora  ;  e  tutto  doveva  ri- 
dursi, probabilmente,  ad  un  generico  odio,  di  tipo 
alquanto  alfieriano,  pei  tiranni,  e  ad  una  mal  de- 
terminata aspirazione  per  la  libertà  repubblica- 
na; né  d'altro  dovevano  essere  piene  le  concioni 
che,  a  sua  confessione,  andò  allora  declamando 
pei  caffè  e  per  le  osterie  di  Pescia,  come  non 
d'  altro  eran  pieni  i  versi  che  gli  furono  ispirati 
dai  fatti  di  quel  tempo  e  dalle  sue  nuove  idee  e 
passioni,  e  dei  quali  riparleremo  a  suo  tempo. 

Quello  che  pensasse  frattanto  il  signor  Dome- 
nico, fedelissimo  a  casa  Lorena  ed  alle  vecchie 
idee,  di  queste  scalmane  patriottiche  e  democra- 
tiche del  figlio,  è  facile  immaginare.  Ma  si  do- 
vette quietare,  quando  i  moti  rivoluzionari  ces- 
sarono senza  portare  alcun  mutamento  nelle  cose 
d'Italia  e  vide  che  i  vecchi  sovrani  restavano  più 
che  mai  saldi  sui  loro  troni.  Tornarono  allora  pro- 
babilmente a  galla  le  sue  vecchie  speranze  di  ri- 
cavare dal  figlio  un  dottore  in  leggi  e  quindi  un 
servitore  del  governo,  e  poiché  il  figlio  dal  canto 
suo,  stanco  forse  della  vita  oziosa  e  sconclusio- 
nata che  menava  a  Pescia,  gli  fece  solenne  pro- 
messa di  non  ricadere  nelle  passate  dissipazioni, 
deliberò  di  mandarlo  ancora  a  Pisa  a  riprender 
gli  studi. 

Ed  ecco  il  nostro  giovinotto  di  nuovo  all'uni- 
versità, nel  novembre  1832. 


16  Egidio  Bellorini 


Egli  vi  tornava  però  alquanto  mutato,  e  trovò 
qualcosa  di  mutato  anche  a  Pisa,  dove  pure  gli 
avvenimenti  politici  degli  anni  precedenti  non 
erano  passali  senza  lasciar  traccia.  La  scolaresca 
era  un  po'  meno  dissipata  e  più  studiosa;  inoltre 
aveva  una  passione  nuova,  la  politica  ;  e  «on  era 
difficile  trovar  studenti  che  coi  loro  baffi  dessero 
indizio  di  idee  liberali.  E  tra  questi  fu  anche  il 
Giusti  che  ben  presto  si  acquistò  una  certa  fama 
tra  i  condiscepoli,  per  le  sue  idee  e  per  i  suoi 
versi,  e  quindi  venne  anche  in  sospetto  alla  po- 
lizia. Non  che  la  polizia  toscana  fosse  terribile 
come  quella  di  Napoli,  di  Modena  e  del  Lombardo- 
Veneto  ;  tutt'altro!;  ma  non  poteva  chiuder  sem- 
pre gli  occhi  e  gli  orecchi,  come  forse  avrebbe 
qualche  volta  desiderato,  ai  trascorsi  troppo  ru- 
morosi degli  studenti,  perchè  il  governo  grandu- 
cale, tormentato  dalle  richieste  e  dai  rimproveri 
degli  altri  governi  d'Italia,  doveva  pure,  di  tanto 
in  tanto,  impartire  ordini  di  vigilanza  ed  esortare 
alle  severità,  E  i  sospetti  polizieschi  contro  il 
Giusti  non  furono,  per  lui,  senza  conseguenze  di 
una  certa  importanza. 

Venendo  a  Pisa,  egli  nutriva  speranza  di  com- 
piere i  suoi  studi  e  di  conseguire  la  laurea  entro 
il  giugno  del  1833;  invece  ecco,  nel  febbraio  di 
quest'anno,  un  improvviso  ordine  dell'autorità 
accademica  gli  vieta  di  sostenere  un  esame  che 
era  già  stato  fissato  per  quei  giorni,  ciò  che  porta 
un  rinvio  della  laurea  da  giugno  a  novembre.  Più 
tardi  poi  gli  si  fa  sapere  che  questo  non  basta  e 
che  dovrà  rimandare  la  laurea  nientedimeno  che 


Giuseppe  Giusti  17 

fino  al  giugno  del  1834!  Offeso  ed  irritato,  anche 
per  gì' inevitabili  rimbrotti  paterni,  il  Giusti  ri- 
corre al  granduca  ;  ma  il  ricorso  non  è  preso  in 
considerazione  ;  prega  il  padre  di  parlare  al  so- 
vrano del  quale  è  amico,  quando  verrà  a  Monte- 
catini per  la  solita  cura  ;  ma  anche  questo  passo 
è  vano,  ed  egli  deve  finalmente  rassegnarsi  a  ri- 
mandare la  laurea  di  un  anno. 

Che  era  mai  succeso?  —  Il  Giusti,  scrivendo 
al  padre,  si  dà  l'aria  di  non  comprendere  il  per- 
chè del  provvedimento,  e  protesta  quando  il  pa- 
dre gli  scrive  che  era  effetto  della  sua  «  cattiva 
condotta  »  ;  ma  il  fatto  si  è  che  proprio  in  quei 
giorni  egli  era  stato  chiamato  in  polizia  e  rim- 
proverato per  i  troppo  rumorosi  applausi  prodi- 
gati in  teatro  ad  una  cantante  in  fama  di  liberale, 
che,  nella  serata  d'onore,  era  venuta  alla  ribalta 
con  una  ghirlanda  di  fiori  bianchi,  rossi  e  verdi. 
Beppe  s'era  difeso  dimostrando  che  quella  sera 
non  si  trovava  in  teatro  ;  ma  la  chiamata  stessa 
dimostra  in  qual  concetto  egli  fosse  tenuto  dalla 
polizia.  Però  evidentemente  la  punizione  scola- 
stica doveva  avere  avuto  un  altro  motivo;  e  que- 
sto fu  probabilmente  —  come  suppone  il  Marti- 
ni —  la  GuigUottina  a  vapore,  che  figura  in 
testa  alle  edizioni  delle  sue  satire,  e  eh'  egli 
aveva  composto  appunto  in  quel  tempo.  Il  gu- 
stoso scherzo  satirico  ebbe  subito  una  certa  dif- 
fusione, e  il  Martini  —  basandosi  su  un  certo  rac- 
conto dei  Proverbi  toscani  —  suppone  che  un 
condiscepolo  denunciasse  il  Giusti  alla  polizia 
come  autore  della  mordace  poesiola;  donde  l'im- 
provviso provvedimento  accademico. 

Profili  —  G.  Giusti.  2 


18  Egidio  Bellorini 


Comunque  sia,  il  Giusti  chinò  il  capo  ai  vo- 
leri superiori,  contentandosi  di  vendicarsene  con 
un'  altra  poesia,  la  Rassegnazione  e  proponimento- 
di  cambiar  vita,  e  al  tempo  stabilito,  il  28  giugno 
1834,  a  25  anni  circa,  riusciva  finalmente  ad  ot- 
tenere la  laurea  in  leggi.  Dopo  di  che,  lasciando 
per  sempre  la  «baraonda  tanto  gioconda»  di  Pi- 
sa, si  recava,  seguendo  il  volere  del  padre,  a  Fi- 
renze, per  farvi  pratica  di  giurisprudenza  nello 
studio  dell'avvocato  Cesare  Capoquadri,  presso 
il  quale  aveva  già  fatto  la  sua  comparsa,  allo 
stesso  scopo,  anche  nelle  vacanze  dell'anno  pre- 
cedente. 

*  * 

Il  Capoquadri  era  uno  dei  prìncipi  del  foro 
toscano;  ma  il  Giusti,  a  dire  il  vero,  non  fece 
troppo  tesoro  di  quanto  avrebbe  potuto  appren- 
dere nel  suo  studio.  Lo  frequentò  bensì  per  più 
anni,  ma  non  troppo  assiduamente  e  senza  alcun 
entusiasmo. 

Nella  mente  del  signor  Domenico,  il  tirocinio 
ch'egli  faceva  allora  avrebbe  dovuto  servirgli  per 
intraprendere  poi  la  carriera  dei  pubblici  uffici; 
ma,  quando  si  fu  al  punto  di  prendere  una  deci- 
sione, il  figlio  si  ribellò,  e  per  quanto  il  genitore 
insistesse,  e  lo  esortasse  e  lo  rimproverasse,  fu 
irremovibile  nel  non  volerne  sapere.  Qualche 
amico  di  famiglia  si  mise  di  mezzo,  e  alla  fine  si 
concluse  che  Beppe  avrebbe  dato  gli  esami  d'av- 
vocato e  quindi,  aiutandolo  il  padre  finanziaria- 
mente per  qualche  anno,  si  sarebbe  avviato  ad 
esercitare  la  libera  professione. 


Giuseppe  Giusti  19 

Questa  era  già  una  grave  delusione  pel  signor 
Domenico;  ma  dovette  rassegnarvisi.  Se  non  che 
il  giovine  dottore  glie  ne  preparava  un'altra  anche 
più  grande.  Infatti  egli  diede  bensì,  al  tempo  sta- 
bilito —  e  cioè  nel  luglio  del  1838  —  gii  esami 
di  avvocato,  e  li  superò...  ;  ma  poi  non  esercitò 
mai  la  professione,  ed  anzi  non  volle  neppure  che 
lo  chiamassero  avvocato.  E  il  padre  che,  sebbene 
discretamente  fornito  di  beni  di  fortuna,  non  era 
molto  largo  nello  spendere,  dovette,  alla  fine,  chi- 
nare il  capo  e  acconciarsi  a  spedirgli  ancora  ogni 
mese  la  solita  modesta  retta  che  il  figlio  dovette 
ingegnarsi  a  far  bastare  per  i  suoi  bisogni  ordi- 
nari. Vero  è  che  tutto  ciò  non  accadde  senza  con- 
trasti, penosi  sempre  e  talvolta  anche  piuttosto 
aspri,  tra  padre  e  figlio,  accusando  il  primo  a  torto 
e  a  traverso,  e  difendendosi  l'altro  con  parole  a 
volte  non  molto  rispettose,  sebbene  in  parte  giu- 
stificate dalla  palese  esagerazione  dell'attacco; 
e  se  non  avesse  fatto  da  intermediario,  col  suo 
tatto  materno,  la  buona  signora  Ester,  vittima 
anch'essa  talvolta  delle  asprezze  del  marito,  non 
è  improbabile  che  ne  sarebbe  derivata  qualche 
fave  rottura  tra  i  due  contendenti. 

Ma  si  può  chiedere:  perchè  mai  tanta  rilut- 
tanza del  figlio  ai  desideri  paterni?  —  Finché  si 
trattava  di  assumere  un  impiego  governativo,  si 
può  credere  che  derivasse  dalle  idee  politiche 
del  giovine  dottore  in  leggi  ;  ma  questa  difficoltà 
spariva  o  veniva  almeno  attenuata  di  molto  col 
libero  esercizio  dell'avvocatura.  La  ragione  vera 
è  quindi  un'altra. 


20  Egidio  Bellorini 


Non  però  l' inclinazione  alla  vita  dissipata,  co- 
me —  dati  i  precedenti  —  si  potrebbe  supporre. 
I  disordini  della  prima  gioventù  il  Giusti  li  aveva 
ormai  lasciati  in  disparte  :  non  più  debiti,  non  più 
bagordi.  A  Firenze,  accolto  —  un  po'  per  merito 
della  famiglia  un  po'  per  quello  dei  versi' —  nella 
migliore  società,  frequentando  scrittori  ed  artisti, 
egli  non  faceva  certo  vita  monacale  ;  ma  non  era 
più  il  discolo  di  Pescia  e  di  Pisa.  Inappuntabile 
ed  anzi  elegante  nel  vestire,  amava  andare  a  tea- 
tro, ai  ricevimenti,  ai  balli  —  anche  a  quelli  di 
corte,  dove  ebbe  occasione  di  scambiare  qualche 
parola  col  granduca  —  ma  non  si  appassionò  mai 
troppo  per  questi  divertimenti.  Nemmeno  l'amore, 
che  ha  spesso  tanta  parte  nella  vita  dei  giovani, 
riusciva  a  destare  in  lui  vera  passione.  Non  che 
la  beltà  femminile  lo  lasciasse  indifferente;  anzi 
—  da  vero  figlio  del  signor  Domenico  che  fu  in 
ogni  tempo  della  sua  lunga  vita  un  impenitente 
vagheggino  —  amo  corteggiare  signore  e  non 
signore,  e  potè  vantarsi  che  più  d'una  accolse 
benevola  i  suoi  omaggi  ;  ma  furono  passion- 
celle  o  capricci,  nei  quali  i  sensi  avevano  molta 
parte  e  il  cuore  assai  poca:  vero  e  proprio 
amore  non  ne  provò  forse  mai,  anche  se  per  le 
donne  corteggiate  scrisse,  come  vedremo,  versi 
pieni  di  sentimenti  idealmente  nobili  e  di  proteste 
di  passione  sublime. 

Esempio  tipico  di  questo  stato  d'animo  è  la 
sua  relazione  con  Cecilia  Piacentini,  che  cade 
appunto  negli  anni  del  ritorno  a  Pisa  e  nei  primi 
del  soggiorno  a  Firenze,  dopo  la  laurea.  La  Pia- 


Giuseppe  Giusti  21 

centini  era  una  giovine  e  bellissima  signora  di 
Pascià.  Il  Giusti  l'aveva  conosciuta  prima  del 
1829,  ma  poi  frequentandola  al  suo  ritorno  in  fa- 
miglia negli  anni  seguenti,  la  corteggiò  e  ne  ot- 
tenne l'amore.  La  passione,  da  parte  della  signora 
almeno,  sembra  sia  stata  assai  viva  ;  il  giovinotto, 
per  parte  sua,  le  indirizzò  versi  traboccanti  di 
melanconica  sentimentalità,  come  la  Dedicatoria 
delle  sue  poesie  (1835)  e  l'ode  All'amica  lontana 
(1836),  che  parrebbero  inspirate  da  un  amore 
idealmente  sublime.  Ma  la  vanità  giovanile  in- 
dusse il  Giusti  a  qualche  indiscrezione  cogli 
amici,  la  signora  se  ne  sdegnò,  e  nell'estate  del 
1836  la  ruppe  con  lui.  Ed  egli  ne  soffrì  ;  anzi,  a 
dargli  retta,  la  sofferenza  sarebbe  stata  tanto 
grande  da  produrre  una  vera  rovina  nell'animo 
suo  ;  sarebbe  stata  insomma  per  lui  una  di  quelle 
tragedie  sentimentali  che  lasciano  tracce  indele- 
bili. In  realtà,  non  tardò  a  consolarsi,  e  annodò  un 
idillio  letterario  sentimentale  con  Isabella  Rossi, 
giovine  poetessa  fiorentina.  Ma  la  Rossi  era 
nubile,  e  la  conclusione  dell'amore  doveva  essere 
il  matrimonio.  Se  non  che  il  Giusti  non  si  sen- 
tiva, nato  <  a  portare  quel  giogo  »,  come  disse  più 
tardi;  e  poi:  di  che  avrebbe  mantenuta  la  sposa? 
Avrebbe  dovuto  ritirarsi  con  lei  a  Pescia,  nella 
casa  paterna  ;  prospettiva  poco  lieta  anche  per 
la  giovine  poetessa.  E  la  gran  passione,  di  cui 
faceva  pompa  in  lettere  infocate,  svanì.  Qualche 
tempo  dopo  Isabella  sposava  il  conte  Gabardi, 
e  il  Giusti  le  indirizzava  un'ode,  mediocre  ma 
corretta,  di  saluto  e  d'augurio. 


22  Egidio  Bellorini 

Staccatosi  dalla  Rossi,  riannodò  la  relazione 
colla  Piacentini;  ma  per  poco.  Nel  1841  seguiva 
una  nuova,  clamorosa  e  definitiva  rottura,  dalla 
quale  il  poeta  disse  di  aver  molto  sofferto,  pur 
consolandosene  presto,  al  solito,  con  nuovi  amori. 
In  seguito,  sbollite  le  ire,  si  rappaciò  colla  buona 
signora  Cecilia;  ma  oramai  all'antico  amore  era 
subentrata  una  pacata  amicizia  che  durò  anche 
dopo  la  morte  del  marito  di  lei  (1841).  Del  resto, 
già  nel  dicembre  del  1840,  il  Giusti,  da  amico  di 
casa,  aveva  scritto  per  Giovannino,  figlio  della 
signora,  che  andava  a  Lucca  in  collegio,  la  notis- 
sima lettera  esortatoria,  piena  di  saggi  consigli, 
che  è  riportata  in  moltissime  antologie  scola- 
stiche. 

In  tutto  questo  —  diciamolo  pure  —  il  Giusti 
non  fa  sempre  ottima  figura  ;  ma  non  bisogna 
poi  esagerare  e  giudicarlo  peggiore  di  quello  che 
fu.  In  amore,  come  nei  rapporti  col  padre  e  come 
in  altre  circostanze  della  vita,  egli  dimostrò  d'es- 
sere un  uomo  come  tanti  altri,  con  difetti  che 
sono  purtroppo  comuni  in  questa  nostra  povera 
umanità,  e  che,  in  parte  almeno,  possono  essere 
scusati  cogli  esempi  eh'  egli  ebbe  in  famiglia  e 
colla  educazione  che  ricevette. 

Ad  ogni  modo,  tutto  ciò  dimostra  che  neppur 
l'amore  gli  fece  perdere  la  testa  e  lo  sviò  dal- 
l' intraprendere  una  carriera  regolare  e  <  seria  », 
come  avrebbe  voluto  suo  padre.  E  tutto  fa  cre- 
dere infatti  che  la  sua  riluttanza  ai  voleri  pa- 
terni derivasse  in  parte  dalla  antipatia  per  gli 
arzigogoli  legali  e  in  parte  anche  maggiore  dalla 


Giuseppe  Giusti  23 

ripugnanza  per  ogni  occupazione  che  richiedesse 
impiego  metodico  e  regolare  del  tempo  e  che  Io 
distogiiesse  perciò  da  quella  che  ormai  consi- 
derava come  la  sua  vera  vocazione  :  le  lettere  e 
specialmente  la  poesia. 

Già  fin  da  quando  era  in  collegio  a  Lucca,  egli 
dichiarava  di  sentirsi  nato  alle  lettere  ed  alla 
poesia  {Lett.  fam.  15  e  20).  Al  presente,  ciò  che 
poteva  essere  in  quegli  anni  illusione  o  vanteria 
da  ragazzo,  era  diventato,  nel  giovane  verseggia- 
tore, seria  e  salda  persuasione.  E  per  quanto  egli 
dichiarasse  più  volte,  allora  ed  anche  più  tardi, 
scrivendo  agli  amici,  di  non  essere  un  letterato  e 
di  scrivere  a  orecchio,  il  vero  si  è  che  aveva  deli- 
berato ormai  di  darsi  tutto  alle  lettere  ed  alla 
poesia,  nella  speranza  che  glie  ne  verrebbe  ono- 
re ;  e  in  una  lettera  alla  madre,  del  10  dicembre 
1836  {Lett.  fam.  135),  lo  dichiara   apertamente. 

Ma  allora  il  signor  Domenico  ebbe  un'altra 
idea.  Poiché  il  figlio  voleva  darsi  alle  lettere  e 
si  era  già  fatto  un  certo  nome  come  poeta,  per- 
chè non  accetterebbe  una  cattedra  di  eloquenza? 
E  le  antiche  speranze,  cacciate  dalla  porta,  rien- 
travano così  per  la  finestra.  Ecco  intanto  che 
nel  1840  corre  voce  che  il  Rosini  sta  per  abban- 
donare la  cattedra  di  Pisa.  L'occasione  non  era 
propizia  ?  E  il  giovane  poeta  fu  per  un  momento 
sedotto  dall'  idea  di  esserne  il  successore.  <  Una 
cattedra  >  aveva  scritto  ad  un  amico  sin  dal  1836 
e  confermava  quasi  colle  stesse  parole  al  Monta- 
nelli nel  1840  {Ep.  I,  169,  292),  <è  il  posto  più 
indipendente  e  più  onorifico  che   possa  coprirsi 


24  Egidio  Bellorini 


da  un  galantuomo  >.  Permise  quindi  che  il  padre 
intavolasse  delle  pratiche  per  fargli  avere  il  po- 
sto, e,  cosa  più  notevole  ancora,  fece  qualche 
passo  egli  stesso  per  ottenerlo,  sebbene  a  volte 
sorgessero  in  lui  dei  dubbi,  perchè  sentiva  di  non 
avere,  pel  momento,  la  preparazione  necessaria, 
e  perchè  avrebbe  voluto  esser  sicuro  di  non 
dover  rinunciare  alla  sua  libertà  di  giudizio  e  di 
parola.  «  Mi  sento  liberissimo  >,  scriveva  al  padre 
{Leti.  fam.  183),  «  e  se  pretendessero  castrarmi 
l'anima  e  la  testa  sbaglierebbero  ;  né  intendo  per 
questo  di  voler  portare  la  toga  tricolore,  ma  sola- 
mente di  dire  quel  vero  che  mi  fosse  conceduto 
di  conoscere,  e  di  dirlo  con  convenienza  >.  Ma, 
pel  momento,  il  Rosini  non  si  ritirò,  e  l' idea  fu 
quindi  messa  in  disparte. 

Se  rie  riparlò  qualche  anno  più  tardi,  quando 
si  trattò  daccapo  del  collocamento  a  riposo  del 
vecchio  professore  ;  ma  nemmeno  allora  la  cosa 
ebbe  seguito,  e  il  Giusti  continuò  quindi  a  vivere 
libero  da  ogni  impiego  pubblico  o  privato,  non 
avendo  altra  occupazione  seria  che  la  composi- 
zione de'  suoi  versi,  alla  quale  soleva  attendere 
a  sbalzi,  quando  l'estro  si  risvegliava.  A  volte, 
dopo  mesi  d' inerzia  e  d'apatia,  nei  quali  «  la 
penna  gli  pareva  di  piombo  e  il  cervello  gli  si 
faceva  di  sughero  >  {Ep.  I,  154),  buttava  giù  a 
furia,  senza  concedersi  un  minuto  di  riposo,  versi 
e  versi;  poi  li  lasciava  lì  a  riposare,  per  ripi- 
gliarli in  seguito  a  suo  agio  e  tempestarli  di  cor- 
rezioni, esitando  mille  volte  prima  di  recitarli 
agli  amici  o  di  darne  loro  copia.  <' 


Giuseppe  Giusti  25 

E  così  durò,  conducendo  una  vita  relativa- 
mente tranquilla  e  felice,  fino  al  principio  del 
1843,  quando  alcuni  avvenimenti  imprevisti  ven- 
nero a  turbarlo  profondamente  e  a  mutare  anche 
in  parte  il  colorito  della  sua  poesia.^ 


III. 


Ecco  giunto  quindi  il  momento  di  prendere  in 
esame  la  sua  opera  letteraria  nel  dodicennio  che 
corre  tra  il  1831  e  il  1842,  per  vedere  donde  egli 
abbia  preso  le  mosse,  a  qual  punto  sia  arrivato 
e  quali  nuovi  accenti  abbia  fatto  risonare  nella 
poesia  del  suo  tempo. 

Nato  e  vissuto  fino  a  venticinque  anni  circa 
in  un  ristretto  ambiente  provinciale,  il  Giusti  ne 
riportò  certe  abitudini  e  certe  tendenze  spirituali, 
che  poterono  poi  esser  temperate  in  parte,  ma 
non  distrutte,  quando  egli  passò  a  Firenze,  tanto 
più  che  anche  Firenze,  sebbene  fosse  capitale 
dello  Stato  e  centro  letterario  ed  artistico  di 
qualche  importanza,  era  tuttavia  una  città  al- 
quanto provinciale  anch'essa,  dove  si  viveva 
come  in  un'isola  intellettuale  tranquilla,  tra  le 
torbide  onde  della  vita  italiana  d'allora,  in  una 
isola  nella  quale  il  fragore  e  l'impeto  delle  bur- 
rasche letterarie  e  politiche  si  sentivano  solo 
in  ritardo  ed  attenuati. 

A  quelli  dell'ambiente,  s'aggiungano  gli  effetti 
della  cultura,  che  il  Giusti  non  ebbe  né  profonda 


26  Egidio  Bello  r ini 

né  estesa,  per  colpa  de'  suoi  studi  tante  volte 
interrotti  e  trascinati  avanti  con  poca  buona  vo- 
lontà da  parte  sua,  in  iscuole  generalmente  non 
troppo  buone.  Più  tardi,  è  vero,  cercò  di  rime- 
diare alle  deficienze  della  propria  coltura,  almeno 
nel  campo  letterario;  ma  vi  riuscì  solo  ìh  parte. 

Di  greco,  infatti,  confessò  egli  stesso  di  non 
saper  nulla.  Di  latino,  a  scuola  imparò  tanto  poco, 
che  più  tardi,  quando  si  diede  di  proposito  alle 
lettere,  sentì  il  bisogno  di  rifarsi  da  capo.  Per- 
venne così  a  gustare  i  classici  di  Roma,  e  spe- 
cialmente Virgilio,  che  già  fin  dalla  prima  gio- 
ventù aveva  prediletto  ed  anche  ingenuamente 
parodiato  in  certi  suoi  versi  scherzosi;  e  fu  il 
<  suo  autore  >  fra  i  latini,  come  Dante  fra  gli  ita- 
liani; ma  la  sua  arte  aveva  ormai  trovata  la  pro- 
pria via,  e  lo  studio  degli  antichi  non  poteva 
avere  grande  efficacia  su  di  essa. 

Meglio  naturalmente  conobbe  la  letteratura 
italiana,  e  specialmente  predilesse  Dante,  del 
quale  non  è  difficile  scorger  le  tracce  in  qualche 
suo  com.ponimento  serio  in  terzine  della  prima 
gioventù,  ed  anche  nei  primi  sonetti  amorosi. 
E  poco  meno  di  Dante  ammirò  fin  d'allora  il  Pe- 
trarca, che  pure  imitò  spesso  nei  sonetti  amo- 
rosi —  Come  dice  neir0/7^/«^  degli  scherzi: 
«  pagando  al  Petrarca  il  noviziato,  belai  d'amo- 
re >  —  ;  e  anche  in  età  matura  lo  ebbe  poi  sem- 
pre caro,  e  il  Canzoniere  soleva  essere  sua  let- 
tura preferita,  insieme  col  poema  dell'Ariosto, 
nelle  uggiose  giornate  autunnali.  Ma  di  quest'ul- 
timo ricordò  tuttavia  più  spesso,  in  qualche  suo 


Giuseppe   Giusti  27 


componimento,  le  satire.  Il  poema  del  Tasso  fu 
per  lui  OjQ^getto  di  parafrasi  scolastiche,  quando 
era  nel  Collegio  di  Lucca,  ma  non  pare  che  fosse 
tra  i  suoi  autori  preferiti.  Tra  i  prosatori,  ammi- 
rò certo  il  Colletta,  che  gli  servì  di  modello  pei 
Cenni  intorno  alla  vita  di  Celestino  Chiti,  scritti 
nel  1837  ;  e,  da  ragazzo,  venerò  Carlo  Botta.  È  an- 
zi curioso  vedere  con  quale  entusiasmo  ne  loda 
lo  stile  {Leti,  fam.,  7-8)  contrapponendolo  a  quello 
delle  Ultime  lettere  di  Jacopo  Ortis,  la  cui  enfasi 
lo  disgustava.  Poco  dopo  dovette  però  ammirare 
il  Foscolo  poeta,  come  attestano  alcune  remini- 
scenze de'  suoi  scritti  giovanili.  Conobbe  certa- 
mente i  canti  del  Leopardi,  che  viveva  a  Pisa 
proprio  quand'egli  frequentava  l'Università;  ma, 
com'ebbe  a  dire  molt'anni  dopo,  quel  suo  dispe- 
rato pessimismo  gli  faceva  freddo  e  sgomento 
{Ep.,\\,  211),  e  non  fu  quindi  trai  suoi  autori  pre- 
feriti, sebbene,  in  età  matura,  pensasse  poi,  co- 
me vedremo,  a  fare  uno  studio  su  di  lui  e  sul 
Foscolo.  Di  altri  nostri  grandi  scrittori,  dal  Boc- 
caccio al  Parini  e  al  Monti,  non  risulta  che  avesse 
da  giovine  conoscenza  alcuna;  ma  è  impossibile 
che  li  ignorasse.  Dell'Alfieri,  sebbene  poco  ne 
parli,  i  suoi  scritti  giovanili  rivelano  una  buona 
conoscenza;  quel  che  pensasse  del  Manzoni  ve- 
dremo pili  avanti;  ma,  ad  ogni  modo,  ne  conobbe 
gli  scritti  solo  relativamente  tardi,  quando  la  sua 
arte  era  già  matura. 

Molto  invece  apprezzò,  fin  da  giovinetto,  i 
poeti  satirici  e  giocosi,  e  specialmente  studiò, 
come  vedremo,  il  Menzini.  II  Casti  era  allora  per 


28  Egidio  Betlorini 


lui  <  r  immortale  autore  degli  Animali  parlanti  >  ; 
ma  soprattutto  ammirava,  tra  i  più  recenti,  il  Pa- 
nanti, e  più  ancora  —  come  già  si  accennò  — 
il  Guadagnoli. 

Delle  letterature  straniere  conobbe  special- 
mente la  francese,  favorito  in  ciò  da  una  discreta 
conoscenza  della  lingua,  appresa  in  collegio; 
ma  tra  gli  scrittori  francesi  conobbe  da  giovane 
specialmente  i  classici;  i  moderni  invece,  gene- 
ralmente, gli  furono  noti  solo  più  tardi,  ed  ove 
si  eccettui  il  Béranger  —  del  quale  si  dirà  più 
avanti  —  non  ebbe  per  essi  grande  simpatia,  e 
parlò  con  poco  rispetto  della  Sand  e  dell'Hugo. 

Il  che  si  ricollega,  del  resto,  col  suo  atteggia- 
mento verso  il  romanticismo.  —  In  collegio,  co- 
me si  disse,  ammira  il  Botta  e  disprezza  il  ro- 
manzo del  Foscolo  ;  e  potrebbe  parere  indizio  di 
tendenze  antiromantiche,  ma  è  forse  soltanto  il 
riflesso  di  qualche  giudizio  de'  suoi  maestri.  A  Pi- 
sa non  risulta  che  si  occupi  della  dibattuta  qui- 
stione  tra  classici  e  romantici;  ma  poi,  nei  primi 
tempi  del  soggiorno  a  Firenze,  vivendo  tra  let- 
terati ed  artisti  che  certo  ne  discutono,  si  rende 
conto  anch'egli  dei  termini  della  contesa,  ed  il 
suo  buon  senso  gli  fa  vedere  che  i  classicisti 
arrabbiati  <  hanno  perduto  il  credito  e  bisogne- 
rà finalmente  che  chiudano  bottega  >,  e  dichiara 
che  occorre  «  liberarsi  dalle  pastoie  aristoteli- 
che >.  Ma,  nello  stesso  tempo,  sente  una  certa 
avversione  per  il  romanticismo,  del  quale  pare 
non  veda  che  gli  eccessi  di  origine  straniera; 
e    deplora   la  <  fuliggine   satanica  >  {Ep.,  I,   37), 


Giuseppe  Giusti  29 

inveisce  contro  i  <  romanzi  strampalati  della 
scuola  galvanica  d'oltremente  >  (I,  162),  contro  i 

<  poeti  macellari  >,  e  contro  quelli  ch'egli  chiama 
<i  secentisti  del  secolo  XIX  >  {Leti.  fam.  154). 
E  se,  parlando  di  lingua,  sostiene  che  <  vai  me- 
glio una  bestemmia  contro  le  regole,  che  espri- 
ma qualcosa,  che  un  testo  di  lingua  minchione  > 
(£■/?.,  1,  193),  si  sdegna  però  contro  quei  forti  in- 
gegni italiani  che  si  perdono  dietro  alle  <  ciurme- 
rio  dei  romantici  esagerati  {Ep.,  I,  162),  e  dice 
che,  se  gli  stranieri  ci  dominano  in  altri  campi, 
bisogna  almeno  sapersene  difendere  in  quello 
delle  idee,  ed  <  esser  nazionali  >  ;  e,  quanto  a  sé, 
dice  che  gli  <fia  bello  l'aversi  fatto  parte  da  sé 
stesso  >. 

E  queste  idee  raccoglie  poi  e  ripete  nella  sua 
ode  a  Girolamo  Tommasi,  su  la  Origine  degli 
scherzi,  —  che  è,   come   disse  qualcuno,  la  sua 

<  arte  poetica  >,  —  scritta  nel  1841-43,  quando  or- 
mai si  era  reso  ben  conto  della  strada  percorsa. 
Né  sono  in  contrasto  con  le  idee  di  quest'ode 
quelle  che  esprime  in  due  altri  componimenti, 
posteriori  di  qualche  anno  —  A  uno  scrittore  di 
satire  in  gala  e  Avvertimento  a  un  giovine  scrit- 
tore —  nei  quali,  in  sostanza,  egli  esorta  chi  si 
dà  alle  lettere,  a  lasciar  da  parte  i  soggetti  an- 
tichi o  stranieri,  per  ricavar  materia  dall'età  e 
dalla  patria  sua,  a  scartare  ogni  stravaganza  di 
concetto  e  d'espressione  e  a  dir  le  cose  alla  buo- 
na, pigliando  arditamente  in  mano  il  dizionario 
che  gli  suona  in  bocca. 

Insomma  egli  non  vuol  essere  né  classico  né 


30  Egidio  B elio r ini 

romantico,  sebbene,  in  sostanza,  non  la  pensi 
molto  diversamente  dai  romantici  temperati  man- 
zoniani; e  possiam  dire  che  le  sue  idee  lettera- 
rie —  le  quali  d'altronde  non  si  raccolgon  mai 
in  un  tutto  organico  —  sono  una  specie. di  na- 
zionalismo letterario  temperato  dal  buon  senso, 
sebbene  non  sempre  tanto  sicuramente  da  fargli 
evitare  qualche  ingiustizia  e  qualche  gretteria. 
Ma  forse  alla  parola  «  nazionalismo  >,  che  può 
generare  equivoci,  è  meglio  sostituire  quella  che 
avrebbe  preferito  il  Giusti,  di  «  paesanità  >,  in- 
tesa come  un  amore,  talvolta  un  po'  troppo  esclu- 
sivo e  ristretto,  per  tutto  ciò  che  è  paesano:  scrit- 
tori e  idee,  lingua  e  argomenti.  E  <  paesano  >,  per 
lui,  quando  si  tratta  di  letteratura,  vale  quasi  sem- 
pre <  toscano  >  e  raramente   «  italiano  >. 


Al  nazionalismo  letterario  corrisponde  quello 
politico,  inteso  questo  vocabolo  nel  senso  che 
egli  poco  s'occupò  di  ciò  che  accadeva  fuori  del 
suo  paese.  Ma  qui  «  paese  >  vale  generalmente 
e  francamente  <  Italia  >,  se  anche  è  naturale  che 
egli  vedesse  e  conoscesse  specialmente  la  To- 
scana e  ciò  che  vi  accadeva. 

Da  ragazzo  scrive  il  sonetto  alla  libertà  ;  ma 
è  roba  di  scuola  e  di  maniera,  e  nulla  più.  Di 
politica,  per  quanto  sappiamo,  si  occupa  sol- 
tanto dopo  i  fatti  del  1830-31,  che  destano  in  lui, 
come  vedemmo,  un  amor  di  patria  vivo  e  sin- 
cero, e  ne  fanno  per  sempre  un  fervente  liberale. 


Giuseppe  Giusti  31 

Da  prima  ha  tendenze  repubblicane,  sebbene  le 
sue  idee  in  proposito  siano  un  po'  vaghe  e  co- 
lorate da  un  residuo  di  odio  retorico  contro  i 
tiranni;  ma  ben  presto  il  buon  senso  gli  fa  ve- 
dere che  quello  che  veramente  importa  è  liberar 
l'Italia  dagli  stranieri,  e  darle  nello  stesso  tempo 
l'unità  che  la  renderà  forte  e  rispettata.  Se  a  ciò 
può  valer  meglio  la  monarchia,  come  sembra, 
perchè  non  accettarla?  E  fin  dal  1836,  nello  Sti- 
vale, invoca  <  un  uomo  purché  sia,  fuorché  pol- 
trone »  il  quale  rechi  questi  beni  all'Italia  ;  a  patto 
che  non  cerchi  poi   di  farsene  tiranno. 

Ma  quel  che  importa  per  noi  è  che  le  idee 
politiche  danno  un  nuovo  indirizzo  alla  sua  atti- 
vità letteraria,  ed  anzi  la  dominano  e  contribui- 
scono efficacemente  a  renderla  originale. 

Scrivendo,  egli,  fino  allora,  era  andato  un  po' 
a  tentoni.  L'istinto  lo  spingeva  alla  poesia;  ne 
sentiva,  fin  da  ragazzo,  la  passione,  e  qualche 
volta  lo  disse  chiaramente,  con  iattanza  giova- 
nile ;  ma  non  aveva  trovato  la  propria  strada.  Le 
letture  fatte  a  scuola  e  l'ammirazione  per  Dante, 
per  il  Petrarca  e  per  qualche  altro  classico,  gli 
dettarono  sonetti,  canzoni,  componimenti  in  ter- 
zine di  vario  argomento,  sacro,  elegiaco,  descrit- 
tivo, amoroso;  tutta  roba  seria,  compassata,  con 
qualche  buon  verso  e  con  qualche  immagine  fe- 
lice, e  anche  con  segni  di  progresso,  dirò  così, 
tecnico  via  via  che  gli  anni  passavano  ;  ma  senza 
carattere  alcuno  di  originalità;  erano  cose  me- 
diocri e  incolori,  e  nulla  piìj.  Nessuno  parlerebbe 
più   del  Giusti,  se  avesse  continuato  per  quella 


32  Egidio  Bellorini 


via,  e  poco  ne  avrebbero  parlato  anche  i  con- 
temporanei. 

Se  non  che  in  Toscana,  accanto  alla  lettera- 
tura seria,  di  scuola  e  per  così  dire  ufficiale,  fio- 
riva un'altra  letteratura  popolarissima,  quella  sa- 
tirico-giocosa, che  aveva  una  lontana  tradizione 
e  non  pareva  affatto  vicina  al  tramonto.  Orbene, 
per  il  Giusti,  Dante,  il  Petrarca  e  gli  altri  grandi 
poeti  del  passato  rappresentavano  l'ideale  del- 
l'arte ;  ed  egli  li  collocava  in  alto  nel  tempio 
della  gloria  e  li  venerava  con  riverente  ammira- 
zione ;  ma  i  poeti  satirico-giocosi,  e  specialmente 
il  maggiore  dei  viventi,  Antonio  Guadagnoli,  era- 
no uomini  come  lui,  che  vivevano  la  sua  stessa 
vita  e  la  ritraevano  beffandosene  allegramente, 
con  una  risata  un  po'  superficiale  ma  schietta, 
che  corrispondeva  perfettamente  alla  sua  indole 
allegra  ed  ai  suoi  gusti  non  troppo  raffinati  di 
giovinotto  provinciale  un  po'  scapestrato,  amante 
delle  liete  brigate  di  capiscarichi  e  dei  facili 
amori.  Ed  ecco  il  Giusti  buttar  giù  tutta  una  se- 
rie di  epigrammi  e  di  poesiole  ridanciane  e  non  di 
rado  alquanto  licenziose  {La  molla  magnetica, 
La  mamma  educatrice,  A  Nena  ecc.),  come  quelle 
del  maestro. 

Ma  a  che  sarebbe  arrivato  il  Giusti  continuan- 
do per  questa  via?  Forse  a  superare  nella  spon- 
tanea festività  e  nella  perfezione  formale  il  Gua- 
dagnoli; e  forse  ci  avrebbe  anche  dato  egualmente, 
nel  1845,  VAmor  pacifico,  che  nel  suo  genere  è 
bellissimo;  ma,  in  sostanza,  figurerebbe  come 
uno  dei  tanti  nostri  poeti  satirico-giocosi,  o  anzi 


Giuseppe  Giusti  33 

come  r  ultimo  rappresentante  di  una  lunga  schie- 
ra; ma  nulla  più.  Avrebbe  quindi  avuto  una  certa 
fama,  specialmente  in  Toscana  ;  ma  non  sarebbe 
uno  degli  scrittori  piii  notevoli  della  prima  metà 
del  secolo   scorso. 

L'amor  di  patria  e  la  passione  politica  lo  tras- 
sero fuori  da  questa  morta  gora  e  fecero  di  lui 
il  Giusti  che  tutti  conosciamo,  che  ha  un  carat- 
tere tutto  suo,  pel  quale  può  essere  ammirato  od 
anche  criticato,  ma  non  confuso  con  nessun  altro. 

Però  anche  in  questo  nuovo  indirizzo  c'era 
un  pericolo  per  la  sua  arte.  Da  principio  infatti 
egli  ondeggiò  incerto  tra  la  poesia  politica  se- 
ria e  la  scherzosa,  ed  eccolo  scrivere  nel  1832 
il  coro  «Fratelli  sorgete»,  d'intonazione,  dirò 
così,  berchetiana,  e  nel  1836  la  retorica  Tirata  con- 
tro Luigi  Filippo  e  la  canzone  classicamente  atteg- 
giata Sulle  arti,  in  cui  l'amor  di  patria  e  di  libertà 
dà  r  impulso,  ma  che  artisticamente  sono  assai 
povera  cosa.  Contemporaneamente  però,  cedendo 
a  quelle  ch'erano  le  sue  più  spontanee  simpatie 
letterarie  e  le  sue  native  tendenze  di  <  caratteri- 
sta >,  lo  vediamo,  colle  Parole  d'un  consigliere 
al  suo  principe  (1831),  col  Mio  nuovo  amico,  colla 
Guigliottina  a  vapore,  colla  Rassegnazione  e  pro- 
ponimento di  cambiar  vita  (1833),  e  con  gli  altri 
suoi  scherzi  notissimi  degli  anni  seguenti,  met- 
ter in  burletta  la  politica,  come  prima  aveva 
messo  in  burletta  la  Mamma  educatrice  o  come, 
di  quello  stesso  tempo,  si  prendeva  beffe  della 
Casta  Susanna  o  dell'impresario  Ricotta.  Era  già 
sulla  via  buona. 
Profili   —  G.  Giusti.  3 


34  Egidio  Bellorini 

Se  non  che,  eccolo  arrestarsi  poi  incerto  un'al- 
tra volta.  Gli  dovette  sembrare,  forse,  che  far  la 
burletta  su  cose  tanto  serie  fosse  sconveniente. 
Non  era  forse  materia  degna  di  satira  vera  e  pro- 
pria? E  si  volse  a  studiare  i  satirici  dell'età  pre- 
cedente, dall'Ariosto  al  Rosa  e  all'Alfieri  ;,  ma  so- 
prattutto studiò  il  satirico  maggiore  di  Toscana, 
Benedetto  Menzini,  e  lo  studiò  così  a  fondo  da 
prepararne  un  commento.  Anzi,  per  tutto  il  1835, 
tanto  si  appassionò  in  questa  impresa,  che  poco 
scrisse  di  originale. 

Nello  stesso  tempo,  la  maggior  esperienza 
della  vita,  acquistata  prima  a  Pisa  e  poi  a  Fi- 
renze, e  forse  in  parte  anche  lo  studio  stesso  dei 
satirici  precedenti,  gli  facevano  comprendere  co- 
me uno  stretto  legame  unisse  tra  loro  le  istitu- 
zioni e  le  idee  politiche  che  voleva  combattere, 
e  certe  istituzioni,  idee  e  persino  costumi  ed  abi- 
tudini della  società  contemporanea.  Ed  eccolo  far 
dei  tentativi  di  satira,  dirò  così,  classicheggiante, 
in  terzine  o  in  ottave,  non  più  soltanto  politica, 
ma  anche  morale  e  civile,  come  V Apologo  contro 
i  falsi  liberali  e  i  Costumi  del  giorno.  Ma  questi 
tentativi  non  dovettero  soddisfarlo,  forse  perchè 
sentì  che  vi  mancavano  quel  brio  e  quella  spon- 
taneità che  tanto  piacevano  nella  Giiigliottina  a 
vapore  e  negli  altri  componimenti  dello  stesso 
genere. 

Tornò  dunque  ai  suoi  «  ghiribizzi  »  o  «  rabe- 
schi >,  o  «scherzi  »  —  come  li  chiamò  più  comu- 
nemente, desumendo  il  nome  dalla  poesia  gioco- 
sa —  e  lasciò  in  disparte  la  satira  vera  e  propria  ; 


Giuseppe  Giusti  35 

ma  non  del  tutto  però.  Infatti,  in  un  certo  caso, 
egli  stesso  rimase  indeciso  se  un  suo  compo- 
nimento dovesse  considerarlo  satira  o  scherzo 
{Ep.,  I,  40);  e  noi  più  d'una  volta,  leggendo  1 
suoi  scherzi  di  questi  anni  e  dei  seguenti,  no- 
tiamo, in  una  certa  maggior  serietà  o  asprezza 
d'intonazione  ed  anche  nell'uso  di  certe  forme 
metriche,  l'influenza  evidente  e  non  sempre  arti- 
sticamente utile  della  satira  tradizionale.  Ma,  in 
complesso,  restò  fedele  al  tipo  dello  «  scherzo  > 
che,  per  l'intonazione,  ci  richiama  alla  solita  poe- 
sia giocosa,  ma  se  ne  distacca  in  quanto  il  sor- 
riso ed  anche  la  risata  traggono  dal  sentimento 
che  li  fa  spuntare  sul  labbro  dell'autore,  un  fa- 
scino speciale,  derivante  da  una  certa  finezza  e 
compostezza  che  temperano  ma  non  distruggono 
la  briosa  spontaneità  della  espressione,  e  che 
invano  si  cercherebbero  nella  poesia  giocosa  di 
tipo  guadagnolesco,  la  cui  gaiezza  è  spesso 
sguaiata  e  quasi  sempre  superficiale.  E  il  Giusti 
mostrò  di  comprendere  anch'egli  la  differenza 
che  corre  tra  i  suoi  «  scherzi  >  e  quelli  della  poe- 
sia giocosa  tradizionale,  quando  si  vantò  {Ep.,  I, 
40)  di  essersi  sforzato  di  elevare  la  poesia  bur- 
lesca e  quasi  di  redimerla  dalla  pena  non  sua 
che  la  condannava  da  tanti  anni  <  a  chiacchie- 
rare inutilmente  ».  Ma  avrebbe  potuto  aggiungere 
che,  liberandola  dalle  chiacchiere,  ne  aveva  fat- 
to qualcosa  di  artisticamente  nuovo  e  tutto  suo. 


36  Egidio  Bellorini 


Se  non  che,  intorno  alla  originalità  degli 
<  scherzi  >,  furono  mossi  dei  dubbi.  —  Altro  che 
Guadagnoli  !  disse  qualcuno;  il  vero  padre  della 
poesia  giustiana  è  Giovanni  Giraud,  che,  se  è 
noto  specialmente  per  le  commedie,  scrisse  però 
anche  delle  satire,  ben  conosciute  a  Firenze,  dove 
egli  dimorò  per  circa  dieci  anni  (1815-1824),  e  no- 
tissime certo  al  Giusti  che  ne  possedeva  un  intero 
quaderno  e  le  sapeva  tutte  a  memoria.  E,  dopo 
l'accurato  studio  di  Tommaso  Gnoli  (1913),  non 
si  può  negare  che  vi  sono  metri,  atteggiamenti 
stilistici,  immagini  del  Giusti,  che  ricordano  quelli 
del  Giraud,  e  che,  a  leggere  certe  satire  del  poeta 
romano,  par  di  scorgervi  un'aria  di  famiglia  co- 
gli scherzi  del  Giusti.  E  ciò  è  tanto  vero  che  un 
Desinare  in  tempo  di  quaresima  del  Giraud  fu 
stampato  molte  volte,  in  buona  fede,  come  opera 
del  Giusti.  Bisogna  però  aggiunger  subito  che, 
se  questa  poesiola  fosse  del  Giusti,  diremmo  che 
è  una  delle  sue  cose  meno  ben  riuscite,  e  che, 
del  resto,  in  tutta  quella  filastrocca  satirica  che 
in  essa  tien  dietro  alla  prima  parte  seria,  ci  par 
di  veder  quasi  una  caricatura  anticipata  di  certe 
assai  più  moderate  filastrocche  del  Giusti,  le  quali 
poi  —  si  noti  bene  —  non  sono  quel  che  di  me- 
glio s'incontri  negli  scherzi. 

Concludendo,  dobbiamo  dire  che  il  Giusti  co- 
nobbe senza  dubbio  le  satire  del  Giraud,  ma  che 
ne  derivò  qualche  cosa  soltanto  nei  particolari. 


Giuseppe  Qlusti  37 

Nel  loro  complesso,  i  componimenti  satirici  del 
poeta  romano,  sboccati  spesso,  violenti  quasi 
sempre  e  atteggiati  il  più  delle  volte  a  libello 
piuttosto  che  a  satira,  hanno  ben  poco  a  che 
fare  colla  lieve  ironia  e  colla  festività  spontanea 
dei  migliori  scherzi  del  Giusti.  E,  s'intende,  non 
hanno  a  che  fare,  né  punto  né  poco,  colle  idee 
e  colle  passioni  politiche  dalle  quali  gli  «  scher- 
zi >  trassero  l'inspirazione. 

Ma  un  altro  e  più  serio  concorrente  fu  messo 
avanti  da  molti  per  contendere  al  Giusti  il  vanto 
della  originalità,  P.  J.  di  Béranger.  E  che  il  Giu- 
sti ne  derivasse  qualche  concetto  o  qualche  im- 
magine è  indubitato,  come  dimostrarono  —  pur 
con  qualche  esagerazione  nei  particolari  —  il 
Mounier,  il  Montazio,  il  Ghivizzani,  il  Coppola,  il 
Palmarocchl,  il  Surra  ed  altri  ;  ma  di  qui  a  fare 
del  poeta  francese  il  maestro  e  quasi  il  padre 
spirituale  dell'italiano,  ci  corre.  Certo,  a  leggere 
i  versi  loro,  non  si  può  negare  che  l'uno  ricordi 
un  po'  l'altro,  ed  anzi,  a  leggere  certi  «  scherzi  > 
del  Giusti  tradotti  in  francese  dal  Monnier,  par 
di  leggere,  a  volte,  delle  chansons  del  Béranger. 
ma  credo  che  esageri  stranamente  il  Palmaroc- 
chi,  quando  sostiene  che  il  poeta  italiano  apprese 
dal  francese:  1)  a  correggere  i  suoi  versi  con 
lungo  e  paziente  lavoro  di  lima;  2)  a  servirsi 
della  satira  per  la  lotta  politica  e  patriottica; 
3)  a  fonder  la  satira  colla  lirica.  Infatti,  c'era 
proprio  bisogno  che  il  Giusti  imparasse  dal  poeta 
francese  a  correggere  i  suoi  versi  mentre  sono 
infiniti,  in   tutte   le   letterature,  gli  scrittori  che 


38  Egidio  Bellorini 

correggono  con  infaticabile  diligenza  le  loro  ope- 
re ?  E  quanto  ad  impiegar  la  satira  a  scopo  po- 
litico e  patriottico,  era  forse  difficile  trovar  mo- 
delli nella  nostra  letteratura,  da  Dante  in  poi  ? 
Quanto  al  terzo  punto,  conviene  soffermarcisi  al- 
quanto. 

Che  la  originalità  del  Giusti  consista  nella 
unione  della  satira  colla  lirica  dissero  molti  ed 
autorevoli  critici,  e  certo  volevano  dire  che  nella 
sua  satira  vi  è  qualcosa  di  lirico.  Né  potevano 
riferirsi  con  ciò  ai  metri,  perchè  metri  lirici  usati 
in  poesie  più  o  meno  compiutamente  satiriche, 
si  trovano,  per  esempio,  in  certe  odi  del  Parini 
—  come  Vlmpostiira  e  la  Musica  —  e  nelle  satire 
già  citate  del  Giraud.  Quindi  vollero  dire  piut- 
tosto che  il  Giusti  unì  e  fuse  nello  stesso  com- 
ponimento tratti  satirici  e  tratti  lirici,  e  cioè  che, 
mentre  fa  la  satira,  il  sorriso  gli  si  vela  spesso 
per  il  sopravvenire  di  un  sentimento  serio.  Ma 
questo  si  potrà  dire,  credo,  per  alcuni  «  scherzi  > 
composti  nell'ultimo  decennio  della  sua  vita;  e 
vedremo  a  suo  tempo  che  l'origine  della  unione 
o  fusione  si  spiega  benissimo,  senza  ricorrere  al 
Béranger.  Quanto  agli  scherzi  dei  primi  anni,  dal 
1831  in  poi,  la  mescolanza  o  fusione  non  so  dove 
si  possa  vedere. 

Il  Giusti,  dal  canto  suo,  dichiarò  in  una  pre- 
fazione rimasta  incompiuta,  di  aver  letto  e  riletto 
il  Béranger  «  specialmente  dopo  essersi  imbar- 
cato da  un  pezzo  >  ;  ma  insieme  protestò  contro 
il  raccostamento  che  già  allora  si  faceva  tra  lui 
e  il  poeta  francese,  affermando  di  credere  che  il 


Giuseppe  Giusti  39 

suo  genere  di  poesia  fosse  nuovo  «  o  che  egli 
almeno  non  sapeva  di  dove  derivasse  ».  {Se.  v., 
56);  e  in  un  abbozzo  di  lettera  che  voleva  indi- 
rizzare al  poeta  francese  nel  1847,  dichiara  di 
essere  suo  ammiratore  e  aggiunge  che  gli  <  scher- 
zi >  <  riconoscono  da  lui  non  dirò  la  nascita  e 
la  fisonomia  ma  dicerto  una  buona  parte  dell'al- 
levatura  »  {Ep.,  Ili,  53).  —  Dunque  non  negò  di 
aver  conosciuto,  relativamente  presto,  le  chansons, 
ma  negò  di  aver  tratto  dal  loro  esempio  altro 
che  r<  allevatura  >;  col  quale  vocabolo  che  di  so- 
lito significa  «  allevamento  »  e  si  usa  parlando  di 
animali,  credo  volesse  dire  che  egli  si  sentì  in- 
coraggiato a  proseguire  per  la  sua  via  e  a  far 
meglio  dall'esempio  del  poeta  francese.  E,  se  è 
così,  non  c'è  ragione  di  non  prestargli  fede.  Quan- 
to al  carattere  particolare,  alla  <  fisonomia  »  tutta 
propria  che  il  Giusti  attribuiva  ai  suoi  versi,  non 
v'ha  dubbio  che  consiste  nella  loro  «  paesanità  > 
di  argomento,  di  sentimento,  di  espressione.  Egli 
era  e  voleva  essere  italiano,  e  più  precisamente 
toscano,  come  il  Béranger  era  francese  e  più 
precisamente  parigino. 


IV. 


Ma  l'aver  mostrato  per  che  vie  il  Giusti  sia 
pervenuto  a  scrivere  i  suoi  <  scherzi  >,  non  ba- 
sta. Redimere  la  poesia  giocosa  dal  suo  peccato 
di  chiacchierare  vanamente  fu  buona  cosa;  ma 
solo  dal   punto  di  vista  patriottico  e  morale.  Ar- 


40  Egidio  Bellorini 


tisticamente  non  significa  nulla;  e  se  il  Giusti 
non  avesse  avuto  altro  merito,  né  la  sua  poesia 
avrebbe  conseguito  tanta  popolarità  fin  dal  suo 
tempo,  né  tanto  meno  sarebbe  ammirata  ancora 
da  noi,  dopo  quasi  un  secolo. 

Se  non  che,  fortunatamente,  il  Giusti  era  qual- 
cosa di  più  d'un  semplice  verseggiatore  animato 
da  buone  intenzioni  morali  e  politiche.  Egli  s'ag- 
girava nelle  sale  sfarzose  della  corte  grandu- 
cale e  dei  palazzi  della  nobiltà  fiorentina,  nei 
ritrovi  dei  letterati  e  degli  artisti,  nei  teatri,  nei 
caffè,  nelle  vie,  dovunque  fosse  gente  che  si 
divertiva,  che  discorreva,  che  lavorava,  e  col- 
l'occhio  animato  e  reso  sagace  dall'amor  di  pa- 
tria e  da  quello  per  l'arte,  notava  tipi,  atteggia- 
menti, discorsi,  e  sorrideva  tra  sé  e  sé  delle 
ridicolaggini  e  delle  storture  che  vedeva;  tal- 
volta anche  s' indignava  scoprendo  delle  colpe. 
Tutta  questa  materia  si  accumulava  e  a  poco  a 
poco  si  ordinava  nella  sua  mente  ;  poi,  un  bel 
giorno,  i  ricordi  si  componevano  in  immagini, 
delle  quali  la  sua  tendenza  nativa  allo  scherzo 
ritoccava,  ingrossandoli  o  attenuandoli,  i  tratti 
del  vero,  tanto  da  farne  delle  caricature,  e  queste 
ritraeva  poi  ne'  suoi  <  scherzi  >,  con  schietta  sem- 
plicità, senza  orpelli  di  immagini  peregrine,  nella 
lingua  viva  e  popolare  del  suo  tempo;  ma  però 
—  bisogna  aggiungerlo  subito  —  con  una  pro- 
fonda coscienza  della  dignità  dell'arte.  Il  Guada- 
gnoli  e  gli  altri  verseggiatori  del  suo  genere,  usa- 
vano pure  la  stessa  lingua  e  le  stesse  espressioni, 
e  traevano  materia  dalla  vita  della  stessa  socie- 


Giuseppe  Giusti  41 


tà  ;  ma  non  erano  animati  da  alcuna  viva  pas- 
sione, e  paghi  di  provocare  il  sorriso  o  dì  suscitar 
la  risata,  non  cercavano  altro.  Facili  scrittori  di 
versi,  ne  tiravano  giù  in  gran  numero,  ma  senza 
sentire  la  necessità  del  <  fren  dell'arte»;  abban- 
donandosi a  lungaggini  e  a  sguaiataggini,  per  le 
quali  non  di  rado  annoiano  e  persino,  in  qualche 
caso,  disgustano.  Il  Giusti  invece  medita  a  lungo, 
sceglie  con  ogni  cura  il  metro  piii  adatto,  e  cor- 
reggendo e  ricorreggendo  con  instancabile  pa- 
zienza, cerca  di  rendere  sempre  più  propria  e 
viva  la  parola,  sempre  più  serrata  e  densa  la 
espressione,  e  se  talvolta,  a  forza  di  martellare 
e  di  concentrare,  diviene  o  ricercato  od  oscuro^ 
molt'altre  volte  raggiunge  la  piena  efficacia. 

Né  ci  deve  traviare  un  noto  accenno  del  Ta- 
barrini,  che  parrebbe  in  contrasto  con  quanto  si 
è  detto  finora.  Secondo  questo  scrittore,  «  nel  Giu- 
sti poeta  si  direbbe  che  la  forma  precorra  il  pen- 
siero. Qualche  volta  infatti  gli  veniva  fatto  un 
verso  che  per  l'eleganza  della  frase  e  del  ritmo 
contentava  il  suo  orecchio.  Egli  soleva  ripeterlo 
mille  volte,  finché  a  poco  a  poco  se  ne  aggiun- 
geva un  secondo,  e  poi  un  terzo  che  scolpiva  un 
pensiero,  e  la  strofa  era  fatta.  Quella  strofa  era 
il  principio  d'  una  poesia,  della  quale  poi  veniva 
l'argomento  ».  Da  queste  parole  si  volle  dedurre 
che  il  Giusti  fosse  una  specie  di  improvvisatore 
che  si  lasciava  trascinare  dalla  parola  o  dalla 
rima,  senza  alcuna  guida  di  pensiero,  senza  un 
disegno  prestabilito.  E  si  trovò  conferma  a  que- 
sto giudizio  in  ciò  che  lo  stesso  Giusti  racconta 


42  Egidio  Beltorini 

della  composizione  della  Chiocciola  {Ep.,  I,  253-5). 
Passeggiando  per  la  campagna,  vede  una  chioc- 
ciola, ed  esclama:  viva  la  chiocciola!  e  Questa 
esclamazione  era  un  quinario  sdrucciolo,  metro 
che  mi  piace  oltremodo.  Sai  che  tutto  sta  nel 
cominciare»;  e  infatti  da  quel  quinario,  un  verso 
dopo  l'altro,  venne  il  resto.  Ma  —  si  badi  bene  — 
il  Tabarrini  afferma  che  «  si  direbbe  »  che  nel 
Giusti  poeta  la  forma  precorresse  il  pensiero, 
non  che  lo  precorresse  davvero,  e  aggiunge  che 
«  qualche  volta  »  un  bel  verso  o  una  bella  frase 
gli  suggerirono  una  poesia,  non  che  ciò  gli  av- 
venisse abitualmente.  E  l'esempio  della  Chioc- 
ciola prova,  se  mai,  che  il  Giusti  meditava  pri- 
ma di  scrivere.  Quel  verso  quinario  sdrucciolo 
infatti  è  una  esclamazione  colla  quale  il  poeta 
dice  d'aver  concluso  una  serie  di  riflessioni,  fatte 
prima  di  vedere  il  piccolo  mollusco  e  introdotte 
poi  nella  composizione  dello  «  scherzo  ». 


Ma  esaminiamo  qualcuno  degli  scherzi,  e  ci 
renderemo  conto  più  chiaramente  delle  qualità 
della  sua  arte. 

Sebbene  abbia  voluto  purgare  la  poesia  giocosa 
dalle  chiacchiere  vane,  egli,  d'ordinario,  non  mo- 
ralizza, ma  racconta  e  ride,  o  anzi,  più  spesso 
ancora,  sorride,  con  gustosa  malizia. 

Il  primo  esempio  ce  lo  dà  quello  che  è  assai 
probabilmente  il  più  antico  degli  «  scherzi  »,  Pa- 
role d'  un  consigliere  al  suo  principe  (1831  ?).  Non 


Giuseppe  Giusti  43 


è  tuttavia  un  esempio  dei  più  felici  —  sebbene  vi 
appaia  già  la  vivace  quartina  di  ottonari,  che  sarà 
poi  uno  dei  metri  preferiti  dall'autore,  —  perchè 
la  beffa  è  un  po'  troppo  grossolana  ed  anche  la 
espressione  verbale  imperfetta.  E  1'  autore  stesso 
se  ne  dovette  accorgere,  tanto  che  non  pubblicò 
mai  questo  componimento,  come  non  pubblicò 
mai  r  altro  <  scherzo  >  in  terzine  di  ottonari  che 
gli  tenne  dietro  (1833),  //  mio  nuovo  amico,  nel 
quale  ci  presenta,  burlandosene,  un  tipo  di  spia, 
che,  più  accuratamente  studiato  e  ritratto,  riappa- 
rirà poi,  dopo  alcuni  anni,  nel  Ballo.  In  questo 
secondo  tentativo  lo  scherzo  non  è  mai  grosso- 
lano ;  ma  il  disegno  generale  è  confuso;  si  di- 
rebbe una  serie  di  strofe  buttate  giù  senza  sa- 
pere dove  s'andrebbe  a  finire;  e  in  realtà  non 
paiono  neppur  finite.  Un  gran  passo  avanti  si  fa 
invece  nella  Guigliottinaa  vapore,  il  primo  «scher- 
zo >  che  il  Giusti  reputò  degno  di  veder  la  luce. 
In  queste  agili  strofette  di  cinque  ottonari  chiuse 
da  un  quinario,  pare  a  tutta  prima  che  il  poeta 
vanti  per  burla  i  miracoli  della  fantastica  mac- 
china, riferendo  gli  onori  tributati  a  chi  la  inventò. 
Si  starebbe  per  chiedere  :  Che  significa  tutto 
questo  ?  È  proprio  per  burlarsi  <  dei  premi  mal 
dati»  —  come  disse  poi  ad  un  amico  —  che  il 
Giusti  scrisse  questi  versi?  Ma  ecco  l'ultima 
strofa  rivela,  sempre  scherzando,  a  chi  va  il  col- 
po: ai  reazionari  e  ai  tiranni  che  vorrebbero  po- 
ter «far  la  testa»  alla  spiccia  a  tutti  i  liberali 
d' Italia. 

Prevalentemente  scherzoso  è  anche  Lo  Stivale 


44  Egidio  Bellorini 


(1836),  che  ebbe  a'  suoi  tempi  grande  popolarità, 
non  del  tutto  immeritata,  nonostante  i  difetti  del- 
l'allegoria  che  ne  costituisce  il  fondamento;  ma 
lo  supera  di  molto  il  Dies  trae  (1845),  nel  quale 
il  poeta,  riflettendo  i  sentimenti  dei  liberali  che 
vedevano  andarsene,  con  un  sospiro  di  sollievo, 
un  loro  acerbo  nemico,  trae  argomento  di  scher- 
zo dalle  morte  di  Francesco  I.  Il  che  è  certamente 
poco  cristiano,  ma  molto  umano.  Il  metro,  dedotto 
dallo  Stabat  mater  e  da  certi  componimenti  del 
Giraud,  è  dei  più  felici,  con  quei  due  ottonari 
uniti  dalla  rima  e  seguiti  da  un  senario  sdruc- 
ciolo che,  colla  sua  cadenza  più  viva,  interrom- 
pe e  rileva  la  tranquilla  armonia  dei  primi  due 
versi.  Si  comincia  coli'  annuncio  beffardo  della 
morte,  poi  viene  una  serie  di  strofe  nelle  quali  è 
messo  in  burletta  il  lutto  ufficiale  degli  altri  sovrani 
e  dei  grandi  dignitari,  che  mal  nasconde  la  loro 
profonda  indifferenza,  e  si  accennano  insieme  le 
speranze,  gì'  intrighi  e  i  timori  dei  vari  prìncipi 
d'  Europa.  Tra  tutti  questi  accenti  scherzosi,  ap- 
pare quasi  come  una  nota  fuori  di  chiave  il  ri- 
cordo del  «povero  polacco»  (v.  25);  mentre 
invece  è  intonata  al  resto  la  chiusa,  nella  quale 
vien  dimostrata  in  tono  canzonatorio  la  vanità 
delle  speranze  liberali  italiane. 

Più  spigliato  è  II  ballo  (1837),  colle  sue  snelle 
quartine  di  versi  quinari,  nelle  quali  ci  vediamo 
sfilare  davanti  agli  occhi  una  serie  di  macchiette 
ridicole,  schizzate  alla  brava  e  fatte  muovere  e 
parlare  con  grande  vivezza,  così  da  presentare 
un  quadro  largo  ed  animato  della  società  mista 


Giuseppe  Giusti  45 


di  immigrati  stranieri,  di  nobilucci  toscani  e  di 
figuri  equivoci  che  popola  le  sale  di  certi  cresi 
esotici,  piovuti  a  Firenze  ad  occupare  gli  storici 
palazzi  delle  antiche  famiglie  cadute  in  rovina. 
Ma  dove  il  Giusti  raggiunge  la  perfezione  del 
genere  scherzoso  è  nel  Brindisi  di  Girella  (1838?). 
■  In  esso  il  vecchio  voltacasacca  ubriaco  espone 
la  propria  <  cronaca  particolare  >,  ed  è  tutto  un 
vertiginoso  succedersi  di  nomi,  di  fatti,  di  allu- 
sioni, di  giustificazioni,  di  accuse,  che  incatenano 
r  attenzione  del  lettore  dal  principio  alla  fine  di 
quella  serie  di  agili  quinari,  uniti  dalle  rime,  ri- 
levati dagli  sdruccioli  e  conchiusi,  alla  fine  d'ogni 
strofa,  da  una  specie  di  ritornello,  che,  come 
una  risata  birichina,  interrompe  la  filastrocca  ed 
è  interrotto  e  conchiuso  alla  sua  volta  da  un 
endecasillabo  che  sembra  un  ultimo  e  prolungato 
scroscio  di  risa  sonore. 

.  Però  non  sempre  il  Giusti  s'  abbandona  senza 
riserve  alla  gaiezza  dello  scherzo.  Nello  stesso  Gi- 
rella ed  anche  nel  Dies  irae  e  in  più  altri  compo- 
nimenti, lo  scherzo  rasenta  qualche  volta  l'ironia, 
e  in  molti  l'ironia  finisce  anche  col  prevalere,  sof- 
focando lo  scherzo.  Ma  è  —  almeno  nelle  poesie 
migliori  —  una  ironia  leggiera,  sorridente,  che 
sembra  mettere  in  burletta,  senza  cerimonie,  i  di- 
fetti e  i  mali  che  prende  di  mira.  Si  direbbe  quasi 
che  parli  uno  scettico  il  quale  sorride  argutamente 
delle  storture  e  delle  brutture  umane,  rassegnato 
ad  esse  come  a  dei  mali  incurabili.  La  Rasse- 
gnazione e  proponimento  di  cambiar  vita  (1833), 
la  Legge  penale  per  gV impiegati  (1835),  il  Prete- 


46  Egidio  Bellorini 


rito  più.  che  perfetto  del  verbo  pensare  (1835  o  39  ?), 
V Apologia  del  lotto (1838),  Gli  Umanitari  (ISiOo  Al) 
sono  da  mettere,  quale  più  quale  meno  risoluta- 
mente, in  questa  categoria  ;  ma  i  due  esempi  più 
notevoli  e  più  giustamente  ammirati  sono  La 
chiocciola  (1840-41)  e  il  Re  Travicello  (1841),  nei 
quali  l'ironia  s'attenua  fin  quasi  a  svanire  in  una 
sorrìdente  caricatura,  e  che  hanno  di  comune  tra 
di  loro,  pur  nelle  diversità  del  metro  —  quinari 
nell'uno,  in  istrofe  di  dodici  versi;  senari  nell'al- 
tro, in  istrofe  di  otto  versi  —  quella  specie  di 
ritornello  che  anche  qui,  come  nel  Girella,  chiude 
le  agili  strofe,  variando  un  poco  dall'una  all'altra, 
ma  sempre  richiamando  scherzosamente  il  con- 
cetto fondamentale  della  poesia. 

Ma  più  d'una  volta,  in  altri  componimenti,  il 
sorriso  si  spegne  sul  labbro  del  poeta,  per  dar 
luogo  all'  aperta  invettiva,  e  l' ironia  scherzosa 
si  trasforma  in  amaro  sarcasmo;  e  siamo  allora 
sul  limite  della  satira  vera  e  propria.  Ma,  in  que- 
sto caso,  quasi  sempre  l' arte  ne  va  di  mezzo. 
Non  che  il  poeta  manchi  allora  di  sincerità;  il 
sentimento  è  proprio  suo  ;  ma  l'espressione  non 
è  quella  più  adatta  alla  sua  natura  poetica.  È  co- 
me un  tenore  che  voglia  cantare  da  baritono,  e 
mentre  era  un  buon  tenore,  è  un  baritono  me- 
diocre. 

Questo  gli  accade,  per  esempio,  nella  Incoro- 
nazione (1838),  dove,  alla  prima  parte  nella  quale 
ci  si  presenta  quel  capolavoro  di  caricatura  che 
è  la  sfilata  dei  sovrani  d' Italia,  segue,  dal  verso 
56  in  poi,  una  seconda  parte  in  cui  la  santità  dei 


Giuseppe  Giusti  47 


sentimenti  e  dello  scopo  non  salva  la  poesia  dalla 
retorica,  dai  luoghi  comuni  e  dalle  oscure  con- 
torsioni. Solo,  qua  e  là,  qualche  buona  immagine 
o  qualche  buon  verso,  come  nei  vv.  97-100  e  nel- 
r  ultima  strofa;  ma  non  sembra  più  il  Giusti  del- 
l'esordio. 

E  la  stessa  osservazione,  presso  a  poco,  si  può 
ripetere  per  altri  scherzi  :  A  San  Giovanni  (1837), 
Per  il  secondo  congresso  dei  dotti  (1839),  Gli  immo- 
bili e  i  semoventi  (1840-411),  Per  un  reuma  d'un 
cantante  (1841),  //  mementomo  (1841),  A  Girola- 
mo Tommasi,  l'origine  degli  scherzi  (1841-43),  e 
anche  per  il  secondo  de  I  Brindisi  che  è  del  1838, 
mentre  il  primo,  scritto  parecchi  anni  dopo,  è  una 
pura  e  semplice  poesia  burlesca.  Né  sarà  forse 
inutile  osservare  come  la  maggior  parte  di  que- 
ste poesie  siano  scritte  (come  il  noto  epigramma 
Una  levata  di  cappello  involontaria,  composto  fin 
dal  1838,  ma  pubblicato  solo  nel  1841)  in  istrofe 
saffiche  di  tre  endecasillabi  seguiti  da  un  qui- 
nario, e  cioè  in  un  metro  che  ha  in  sé  una  certa 
solennità. 

Né  carattere  molto  diverso  hanno,  per  questo 
rispetto  della  intonazione  generale,  quelle  due 
lunghe  narrazioni  polimetriche  e  satiriche  che 
sono  La  vestizione  (1839)  e  La  scritta  (1842).  La 
prima  potè  avere  grande  popolarità  e  buona  fa- 
ma anche  presso  qualche  critico,  in  grazia  del- 
l' argomento  e  di  certi  particolari  ben  riusciti 
—  come  il  ritratto  di  Becero  e  il  saluto  che  gli 
rivolgono  gli  antichi  compagni  di  Camaldoli  e 
di  Mercato  —  ma,   in   complesso,  ha   un  che   di 


48  Egidio  Bellorini 


slegato  e  d' incerto  nel  disegno  generale  della 
composizione,  la  quale  ci  appare,  come  disse  il 
Carli,  <  artificiosa  e  un  po'  teatrale  non  senza 
vanità  letteraria  >  ;  la  seconda,  che  le  è  stretta- 
mente legata  per  l'intonazione  generale  e  per 
l'argomento  —  là  un  usuraio  arricchita  che  si 
fa  conferire  le  nobiltà,  qui  un  usuraio  arricchito 
che  pesca  un  genero  nobile  —  ha  anch'essa  delle 
parti  poco  felici  —  come  la  descrizione  delle 
pitture  murali  e  la  visione  dello  sposo  — ;  ma 
piace  per  la  viva  descrizione  della  mista  società 
che  assiste  alla  cerimonia  e  per  la  naturalezza 
dei  discorsi  che  vi  si  tengono. 

Questo  primo  periodo  della  attività  poetica 
del  Giusti  si  chiude  con  due  componimenti  parti- 
colarmente notevoli,  perchè,  mentre  si  ricollegano 
a  tutto  il  passato  letterario  del  loro  autore,  pre- 
annunciano, per  qualche  rispetto,  l'avvenire.  Nel 
primo  di  essi.  Le  memorie  di  Pisa  (ìSil),  il  poeta, 
vicino  ormai  al  mezzo  del  cammin  di  sua  vita, 
volge  il  pensiero  —  non  senza  rimpianto  —  alla 
passata  e  spensierata  gioventù,  e  ne  rievoca  i 
giorni  lieti  e  tumultuosi,  e  ne  difende  e  quasi  ne 
glorifica  le  scapataggini  e  le  birichinate.  Nel  se- 
condo invece.  La  terra  dei  morti  {18A2),  il  Giusti, 
mettendo  in  ridicolo  gli  sciocchi  disdegni  degli 
stranieri  che  sparlano  dell'  Italia,  augura  e  prean- 
nuncia il  trionfo  di  quello  che  è  scopo  di  tutta  la 
sua  attività  di  scrittore  :  il  futuro  e  glorioso  risor- 
gimento della  patria.  E  se  né  l'uno  né  l'altro 
dei  due  componimenti  è  perfetto,  perchè  nel  pri- 
mo   stonano   alquanto    l'elogio    esagerato    della 


Giuseppe  Giusti  49 


scapataggine  e  l'invettiva,  pure  esagerata,  con- 
tro gli  sgobboni,  e  nel  secondo  spiace  il  sover- 
chio prolungarsi  dello  scherzoso  equivoco  tra  i 
due  significati  di  «  morte  »,  che  finisce  per  tra- 
sformarsi in  un  giuoco  di  parole;  pur  tuttavia 
entrambi  attraggono  la  nostra  attenzione,  perchè 
ci  rivelano  una  nuova  vena  di  poesia,  che  non 
eravamo  abituati  ancora  a  veder  scorrere  nei 
versi  del  Giusti  :  quella  del  sentimento.  Ed  è  sen- 
timento sincero,  non  sentimentalità  di  maniera 
come  quella  che  s' incontra  nelle  poesie  amorose 
di  questi  stessi  anni  ;  e  quindi  si  può  alleare, 
senza  stonatura,  anche  allo  scherzo,  e  dà,  nelle 
Memorie,  quel  «  mesto  riso  »,  che  il  Giusti  diceva 
esser  caratteristico  della  sua  poesia,  e  che  vi  si 
trova  invece  così  raramente  in  questo  primo  pe- 
riodo, mentre  nella  Terra  dei  morti  inspira  le  ul- 
time e  belle  strofe  in  cui  l' apostrofe  eloquente 
alla  terra  d'Italia  e  la  viva  rappresentazione  delle 
sue  bellezze  si  chiude  col  minaccioso  preannun- 
cio del  «  giorno  del  giudizio  ». 


Ma  la  produzione  poetica  del  Giusti,  dal  1831 
al  1842,  non  si  riduce  tutta  a  queste  poesie  satiri- 
co-scherzose. Contemporaneamente  ad  esse,  egli 
scrisse  anche  nuove  poesie  schiettamente  burle- 
sche e  un  buon  numero  di  liriche  serie,  oltre 
quelle  politiche  già  accennate. 

Le  burlesche  si  distinguono  da  quelle  della 
prima  giovinezza  solo  perchè  ci  appaiono  più 
Profili  —  G.  Giusti.  4 


50  Egidio  Bellorini 


castigate  ;  ma  del  resto  non  hanno  alcun  speciale 
valore,  e  furono  sempre  lasciate  inedite  dall'au- 
tore. Ed  anche  le  liriche  serie  non  hanno  gene- 
ralmente grande  importanza,  perchè  sono,  in  buo- 
na parte,  poesie  d'occasione  (versi  in  morte  o 
per  nozze  di  parenti  o  conoscenti  ;  in  lod^  del  pa- 
dre Bernardo  da  Siena,  per  una  raccolta;  una  can- 
zone sacra  per  le  feste  triennali  di  Pescia),  o 
sonetti  amorosi  poco  dissimili  da  quelli  del  pe- 
riodo precedente,  o  frammenti  di  poesie  lasciate 
a  mezzo  dallo  stesso  autore  (come  il  canto  degli 
Ismaeliti).  Ma  ve  n'è  pure  alcune  che  lo  stesso 
Giusti  presentò  fin  d'  allora  al  giudizio  del  pub- 
blico, e  che  ebbero  anche  una  certa  fama,  non 
ancora  del  tutto  tramontata. 

Tra  esse  è  la  canzone  A  Dante  Alighieri  {\84ì), 
della  quale  basterà  dire  che  fu  composta  dal  Giu- 
sti quando  venne  scoperto  il  ritratto  dell'Ali- 
ghieri nella  cappella  del  Podestà  a  Firenze;  ma 
sebbene  l' autore  vi  lavorasse  a  lungo  e  ne  fa- 
cesse gran  conto,  non  è  che  un  ingegnoso  cen- 
tone di  versi  e  di  frasi  dantesche,  che  prova  il 
suo  lungo  studio  della  Divina  commedia  e  il  suo 
grande   amore  per  il  sommo  poeta;  ma  nulla  più. 

Vengono  poi  le  odi  All'amica  lontana  (1836) 
e  //  sospiro  dell'anima  (1837-41).  Intessute  di  bei 
versi  armoniosi  e  ripiene  di  melanconica  e  va- 
ga sentimentalità,  esse  rappresentano  una  con- 
cessione del  Giusti  alla  moda  letteraria  del  tem- 
po, e  credo  abbiano  avuto  anche  uno  scopo  pra- 
tico, quello  di  piacere  alle  amiche  per  le  quali 
furono  scritte.  Anche  l'ode  All'amico  nella  pri- 


Giuseppe  Giusti  51 


mavera  del  1841  ha  presso  a  poco  Io  stesso  ca- 
rattere sentimentale,  ma  con  un'  aria  di  maggior 
sincerità.  Invece  La  fiducia  in  Dio  (1831)  e  gli 
A.ffetti  d'una  madre  (1839)  sono  buone  poesie, 
in  cui  c'è  vero  sentimento,  efficacemente  espresso. 

Però,  in  sostanza,  che  importano  queste  poesie 
alla  fama  del  Giusti  ?  —  Ben  poco,  perchè  non 
si  distinguono  da  tante  altre  poesie  di  quel  tempo. 
Eppure,  a  sentire  certe  ripetute  dichiarazioni  del 
Giusti,  si  comprende  ch'egli  ci  teneva  in  modo 
particolare,  come  alla  più  genuina  espressione 
del  suo  animo.  Egli  asserì  infatti  più  volte  di 
sentirsi  nato  per  la  poesìa  seria,  inspirata  da  sen- 
timenti gentili,  e  di  aver  scritto  poesie  satiriche 
solo  per  obbedire  alle  dolorose  necessità  dei  tem- 
pi, essendo  questo  il  solo  mezzo  ch'egli  aveva 
per  servire  la  patria. 

Ingenua  illusione,  alla  quale  del  resto  il  poeta 
stesso  sapeva  talvolta  sottrarsi.  Infatti,  per  esem- 
pio, nel  settembre  del  1844,  parlando  di  un  tale 
che  aveva  ammirate  le  sue  liriche  serie  pubbli- 
cate da  poche  settimane,  ù'ictvs.  {Leti.  fam.  260): 
«  Forse,  se  vedesse  le  altre  mie  poesie,  quelle 
nelle  quali  ho  abbandonato  le  tracce  degli  altri 
per  fare  di  mio,  quelle  che  m'hanno  dato  un  poco 
di  nome,  non  sarebbe  tanto  disposto  a  andare  in 
visibilio....  Nonostante,  colle  rime  stampate  a  Li- 
vorno, io  potrò  passare  per  verseggiatore  netto, 
elegante,  formato  alla  vera  scuola,  colle  altre.... 
può  essere  che  passi  per  poeta  >. 


52  Egidio  Bellorini 


V. 


A  soli  trentatre  anni,  il  Giusti  era  pervenuto 
ormai  alla  fama  e  le  sue  poesie  correvano  ma- 
noscritte in  tutta  Italia,  ricercate  ed  ammirate  tal- 
volta anche  da  quelli  che  ne  erano  colpiti.  Ed 
egli  continuava  in  Firenze  la  sua  vita  tranquilla 
e  serena,  «  parte  nel  mondo  >,  come  scrisse  poco 
dopo  in  un  sonetto  al  Grossi,  «e  parte  ritirata», 
occupandosi,  quando  l'estro  glie  lo  suggeriva,  di 
comporre  nuovi  versi,  soddisfatto,  in  complesso, 
dell'opera  sua  e  desideroso  soltanto  di  renderla 
sempre  più  degna  della  aspettazione  degli  amici 
e  degli  ammiratori. 

D'un  tratto,  nel  1843,  tutto  cambia.  —  L'anno 
era  cominciato  male,  con  uno  dei  soliti  contrasti 
di  famiglia.  La  madre  si  preparava  a  fare  un  viag- 
getto  a  Roma,  e  avrebbe  voluto  condurlo  con 
se  ;  ma  il  padre  si  oppose,  impensierito  dalla 
spesa;  e  tra  i  due  corsero  parole  un  po'  risen- 
tite. Poi,  quando  le  difficoltà  erano  appianate,  e 
la  partecipazione  al  viaggio  decisa,  ecco  s'  am- 
mala un  fratello  del  signor  Domenico,  Giovac- 
chino,  carissimo  al  poeta.  Tosto  egli,  rinunciando 
a  partire  colla  madre,  corre  a  Montecatini  per 
assistere  lo  zio  ;  quindi,  prolungandosi  e  aggra- 
vandosi la  malattia,  lo  conduce  a  Firenze,  perchè 
possa  giovarsi  dell'opera  di  medici  più  reputati. 
E  qui   lo    assiste  sempre  con    grande    amorevo- 


Giuseppe  Giusti  53 

lezza,  finché,  a  nulla  giovando  tutte  le  cure,  il 
povero  zio  viene  a  morte  il  21  maggio.  I  maligni 
supposero  che  le  cure  indefesse  ed  amorose  pre- 
state dal  giovane  nipote,  fossero  dovute  alla  spe- 
ranza di  un' eredità;  ma  il  nipote  sapeva  benissimo 
che  erede  sarebbe  stato,  come  fu,  il  signor  Do- 
menico, il  quale  non  si  scomodò  neppure  per 
dare    1'  ultimo  saluto  al  fratello. 

Lo  spettacolo  della  morte,  al  quale  assisteva 
per  la  prima  volta,  commosse  profondamente  il 
Giusti,  e  specialmente  rimase  afflitto  e  turbato 
al  vedere  che  il  povero  zio  Giovacchino  —  sca- 
polo impenitente  —  si  spegneva  senza  aver  at- 
torno al  capezzale,  a  confortarlo,  altro  parente 
che  lui.  Ed  allora  egli  che,  da  giovinetto,  non  si 
era  forse  neppure  curato  del  proposito  paterno  di 
dargli  moglie  ;  egli  che  nel  1838  non  aveva  voluto 
sposare  Isabella  Rossi,  e  che  tre  anni  prima  aveva 
nettamente  respinta  una  proposta  di  matrimonio 
{Ep.,  I,  267),  ora,  davanti  al  desolante  spettacolo 
di  quella  morte  solitaria,  pensò  che  sarebbe  stato 
opportuno  anche  per  lui  crearsi  una  famiglia.  Ma 
forse,  in  quel  primo  momento,  non  trovò  la  donna 
che  gli  conveniva,  oppure  il  corso  de'  suoi  pen- 
sieri fu  mutato  per  i  casi  imprevisti  che  gli  so- 
pravvennero poco  dopo  ;  il  certo  si  è  che,  in  se- 
guito, non  parlò  più  di  prender  moglie,  e  che  due 
anni  dopo,  quando  il  suo  amico  Prassi  gli  fece 
altre  proposte  di  matrimonio,  non  venne  ad  al- 
cuna conclusione. 

Intanto  le  fatiche  e  le  ansie  per  la  lunga  ma- 
lattia dello  zio  avevano  nociuto  alla   sua  salute 


54  Egidio  Bellorini 

inacerbendo  certi  disturbi  di  fegato  e  d'intestino 
che  gli  avevano  qualche  volta  dato  un  po'  di 
noia  negli  anni  precedenti,  e  ch'egli  aveva  curato 
colle  acque  di  Montecatini.  Ma  di  peggio  gli  ac- 
cadde pochi  mesi   dopo. 

Il  30  luglio  passava  per  via  de'  Banchi,  da- 
vanti al  palazzo  Garzoni,  quando  un  gatto  gli  si 
avventò  addosso,  graffiandolo  e  mordendogli  an- 
che la  gamba  sinistra  tanto  forte  da  stracciare 
i  calzoni,  ma  però  senza  rompere  la  pelle.  Il  Giu- 
sti respinse  la  bestia  e  a  tutta  prima  non  fece 
gran  caso  dell'incidente.  Ma  poi,  saputo  che  il 
gatto  era  idrofobo,  fu  assalito  dalla  paura  di  es- 
ser preso  dal  terribile  male,  e  per  quanto  la  ra- 
gione gli  dicesse  che,  non  essendo  intaccata  la 
pelle  della  gamba,  il  sangue  non  poteva  essere 
infetto,  la  fantasia  si  accese,  e  glie  ne  venne  un 
gran  turbamento  nervoso,  che  aggravò  anche  i 
mali  precedenti  e,  per  mesi  e  mesi,  lo  fece  sof- 
frire terribilmente,  senza  che  giovassero  né  cure 
mediche  né  distrazioni. 

Tra  quest'  ultime  vi  fu  anche  un  viaggio.  Ripi- 
gliando il  disegno  interrotto  per  la  malattia  dello 
zio,  ai  primi  di  febbraio  del  1844  egli  partiva  in- 
fatti colla  madre  alla  volta  di  Roma.  Le  impres- 
sioni di  viaggia  che  ci  lasciò  nelle  lettere  e  in 
certe  sue  memorie  sono  molto  sommarie;  ma 
da  esse  rileviamo  che  lo  colpirono  assai  la  de- 
solazione della  campagna  laziale  e  la  grandio- 
sità delle  rovine  di  Roma  antica,  specialmente 
quelle  del  Colosseo,  davanti  alle  quali  si  fermò 
estatico  a  lungo,  meditando  e  fantasticando.  Ma 


Giuseppe  Giusti  55 

dopo  pochi  giorni  era  già  in  viaggio  di  nuovo 
per  Napoli,  in  cerca  d'  un  clima  migliore.  Qui  fu 
accolto  a  festa  dai  Poerio  e  dalla  società  colta 
e  liberale  che  si  raccoglieva  attorno  ad  essi.  E 
ne'ila  loro  gradita  compagnia,  ammirando  i  din- 
torni della  città,  trascorse  circa  un  mese.  Ma  poi 
la  salute,  che  dapprima  sembrava  aver  miglio- 
rato, si  arruffò,  ed  egli  ripartì  per  Roma,  dove 
si  fermò  ancora  una  decina  di  giorni.  Il  21  marzo 
era  nuovamente  in  viaggio  per  Firenze,  tormen- 
tato per  via  da  violenti  disturbi  viscerali  che  fe- 
cero correre  la  voce  di  un  avvelenamento  da  parte 
di  nemici  politici  ;  di  che  egli  rideva. 

Nel  luglio,  per  consiglio  dei  medici,  si  recò 
ir  cerca  di  salute  al  mare,  a  Livorno,  e  vi  restò 
a  lungo,  in  casa  di  F.  S.  Orlandini,  prima  ritraen- 
cone  giovamento,  ma  poi  ricadendo  nei  soliti 
disturbi.  Allora,  in  settembre,  trasmigrò  a  Colle 
Val  d'  Elsa,  in  casa  di  un  fratello  dell'  Orlandini, 
che  era  medico;  ma  anche  lassù,  dopo  un  certo 
periodo  di  benessere,  nel  quale  si  credette  fuori 
di  guai,  ricadde  ammalato  ;  e  ai  24  di  novembre 
scappava  a  Pescia  donde  non  si  mosse  più  fino 
al  maggio  dell'  anno  seguente,  e  dove  a  poco  a 
poco  cominciò  a  star  meglio.  Ma  del  tutto  non 
guarì  mai,  cosicché  diceva  melanconicamente  di 
esser  condannato  ad  una  perpetua  convalescenza. 

Intanto  era  accaduto  un  fatto  che  ebbe  per 
lui  molta  importanza.  —  Le  sue  poesie,  —  toltene 
poche  liriche  serie  che,  pel  loro  argomento  re- 
moto da  ogni  allusione  politica,  avevano  potuto 
veder  la   luce    in    pubblicazioni    periodiche  o  in 


Egidio  Bellorini 


raccolte  d'occasione  —  si  erano  fino  allora  diffuse 
solo  in  copie  manoscritte,  nelle  quali  il  testo  ve- 
niva naturalmente  deformato  spesso  da  inabili 
amanuensi  ;  e  non  di  rado  anche  poesie  di  altri 
autori  erano  state  messe  in  giro  come  opera  sna. 
Il  Giusti,  per  salvaguardare  la  propria  fama,  ave- 
va pensato  quindi,  fin  dal  1840,  di  raccogliere  i 
suoi  scherzi  migliori  e  di  farli  stampare  all'estero; 
ma  poi  non  aveva  concluso  nulla.  Quand'ecco, 
proprio  mentre  egli  era  più  afflitto  da'  suoi  mali, 
nel  1844,  esce  a  Lugano  un  volumetto  nel  quale, 
senza  fare  il  suo  nome,  si  pubblicavano  le  sue 
poesie  serie  e  scherzose,  in  forma  scorrettissima 
e  coir  aggiunta  di  parecchie  poesie  apocrife.  Una 
prefazione  piena  di  elogi  —  opera  di  Cesare  Cor- 
renti —  apriva  il  volumetto.  Appena  il  Giusti 
seppe  di  questa  pubblicazione,  arse  di  sdegno,  e 
—  dopo  avere  in  tutta  fretta  preparato  e  fatto 
stampare  in  Livorno,  dove  allora  si  trovava,  un 
opuscolo  contenente  sei  delle  sue  liriche  serie, 
con  una  dedica  alla  marchesa  d'Azeglio,  nella 
quale  protestava  in  termini  prudenti,  per  non  in- 
cappare in  noie  coli' autorità  politica,  contro  la 
edizione  di  Lugano  —  raccolse  trentadue  de'  suoi 
<  scherzi  >,  e,  coli'  aiuto  di  alcuni  amici,  li  fece 
stampare  in  Corsica,  a  Bastia,  in  una  edizione 
che  vide  la  luce  solo  nell'anno  seguente.  Però, 
mentre  nella  edizione  di  Livorno  figurava  il  suo 
nome,  in  quella  di  Bastia  esso  era  taciuto.  Tutti 
sapevano  che  quei  versi  erano  suoi;  ma  la  indul- 
gente polizia  toscana  poteva  far  finta  di  non  sa- 
perlo,  e  ciò  le  bastava. 


Giuseppe  Giusti  57 


Era  uscito  da  poco  questo  nuovo  volumetto, 
quando,  nell'agosto  del  1845,  accettando  un  invito 
del  suo  giovine  amico  G.  B.  Giorgini,  il  Giusti  si 
recava  alla  Spezia  per  salutare  due  conoscenze: 
Vittorina,  figlia  di  Alessandro  Manzoni,  e  la  zia 
di  lei,  Luisa  Maumari,  seconda  moglie  di  Massi- 
mo D'Azeglio  (quella  a  cui  aveva  dedicato  l'opu- 
scolo un  anno  prima  e  che,  pare,  fu  anche  amata 
da  lui),  le  quali  stavano  per  partire  alla  volta  di 
Milano.  Il  Giorgini,  che  era  forse  già  innamorato 
di  Vittorina,  la  quale  un  anno  dopo  divenne  sua 
sposa,  propose  all'amico  di  accompagnare  le  due 
signore  fino  a  Genova  ;  e  il  Giusti  aderì  alla  pro- 
posta. Ma  perchè,  dissero  allora  le  due  signore, 
non  le  avrebbero  da  Genova  accompagnate  fino 
a  Milano  ?  Il  Giusti  rimase  un  poco  perplesso. 
Da  un  lato,  conoscendo  la  severità  della  polizia 
austriaca,  temeva  che  non  gli  si  concedesse  l'in- 
gresso in  Lombardia  ;  dall'  altro,  non  era  ben  si- 
curo che  il  Manzoni  gradirebbe  una  sua  visita, 
sebbene  fosse  da  qualche  anno  in  cortese  rela- 
zione epistolare  con  lui.  Ma  il  passaporto  venne 
rilasciato  senza  difficoltà,  né  1'  autorità  lombar- 
do-veneta pose  alcun  inciampo  al  suo  viaggio  ; 
e  il  Manzoni,  dal  suo  canto,  scrisse  assai  affet- 
tuosamente al  Giusti,  manifestandogli  tutto  il 
piacere  che  avrebbe  dalla  sua  visita.  E  così,  ai 
primi  di  settembre,  il  poeta  giungeva  a  Milano, 
e  vi  restava  poi,  ospite  gradito  del  grande  scrit- 
tore lombardo,  per  tutto  il  mese,  allontanandosene 
soltanto  per  qualche  breve  gita  sul  lago  di  Co- 
mo e  in  Brianza. 


58  Egidio   Bellorini 

Quanto  discorrere  di  lingua  si  fece  in  quel 
mese  !  —  Tra  i  tanti  pregi  che  il  Manzoni  ammi- 
rava nella  poesia  del  Giusti,  uno  ve  n'  era  che 
gli  stava  soprattutto  a  cuore,  quello  della  lingua. 
Quei  versi  mostravano  praticamente  attuata,  e 
in  modo  che  non  si  sarebbe  potuto  immaginar 
più  efficace,  la  sua  teoria  sulla  lingua,  poiché  a 
qualche  espressione  non  fiorentina  che  vi  si  tro- 
va, il  Manzoni  non  doveva  dar  troppo  peso,  se 
pure  se  ne  accorgeva.  È  quindi  naturale  che  fos- 
se ben  lieto  di  far  parlare  e  di  interrogare  1'  ami- 
co toscano.  E  il  Giusti,  dal  canto  suo,  era  più 
che  mai  lieto  di  vivere  presso  il  grande  scrittore 
pel  quale  nutriva  da  molti  anni  devota  reveren- 
za, non  solo  pei  meriti  letterari,  ma  anche  per- 
chè diceva  che  i  Promessi  sposi  erano  stati  a  lui 
farmaco  efficace  a  trarlo  fuori  da  una  specie  di 
sonno  intellettuale  e'  morale  nel  quale  era  preci- 
pitato in  un  certo  momento  della  sua  traviata 
gioventù  {Ep.,  II,  312).  Il  soggiorno  a  Milano  con- 
fermò i  sentimenti  di  venerazione  per  il  Manzo- 
ni e  restrinse  anche  i  vincoli  di  simpatia  per 
gli  amici  che  lo  circondavano  ;  primi  fra  tutti  il 
Grossi  e  il  Torti. 

Il  distacco  da  essi,  ai  primi  d'ottobre,  gli  riu- 
scì doloroso,  e  ne  fu  malinconico  per  qualche 
tempo.  Ma  poi  un  utile  diversivo  gli  venne  in 
novembre  in  seguito  ad  un  invito  dell'amico 
Prassi  che  lo  volle  ospite  in  casa  sua  a  Pisa, 
dove,  insieme  con  tre  altri  amici  di  giovinezza 
—  Biscardi,  Giacomelli  e  Montanelli  —  si  trova- 
vano uniti   a   desinare,  e  recitavano  versi,  dice- 


Giuseppe  Giusti  59 


vano  barzellette,  ricevevano  visite  di  amici  co- 
muni; spesso  andavano  anche  presso  la  d'Azeglio 
e  Vittorina  Manzoni,  reduci  a  Pisa,  e  le  intratte- 
nevano piacevolmente.  11  Giacomelli  soprattutto, 
eh'  era  un  gran  burlone,  le  faceva  ridere  saporita- 
mente colle  sue  trovate  ingegnose. 

Questa  lieta  vita  —  che  giovò  assai  alla  sa- 
lute del  Giusti  e  diede  nuovo  impulso,  come  ve- 
dremo, alla  sua  attività  di  scrittore  —  durò  fino 
al  maggio  del  1846;  poi  egli  s'allontanò  da  Pisa, 
ma  per  accettare  un  altro  invito,  quello  di  Gino 
Capponi  che  lo  voleva  ospite  suo  a   Firenze. 

Il  Giusti  aveva  conosciuto  il  Capponi  fin  dal 
1836,  e  gli  era,  a  poco  a  poco,  divenuto  amico, 
sempre  più  intimo  e  più  caro,  ricevendone  spesso 
ospitalità  in  villa  a  Varramista.  In  ricambio  egli 
aveva  esaltato  il  Capponi  in  un  sonetto  («  Se 
vedi  un  grande  di  nobil  sembiante  •»)  e  gli  aveva 
dedicato  La  terra  dei  morti.  Ora  il  Capponi  lo 
volle  definitivamente  suo  ospite  nel  palazzo  di 
via  San  Sebastiano,  e  il  Giusti  accettò. 

Questo  parve  a  taluno  poco  dignitoso  per  il 
poeta  e  indizio  di  taccagneria;  ma  non  si  conside- 
rò forse  che  allora  i  costumi  letterari  erano  un 
po'  diversi  dai  nostri,  e  che  il  mecenatismo  con- 
servava ancora  in  parte  le  sue  forme  tradizionali. 
Anche  il  Berchet,  proprio  in  quegli  anni,  viveva 
presso  gli  Arconati,  e  il  Colletta,  pochi  anni  pri- 
ma, aveva  accettato  una  simile  offerta  dello  stes- 
so Capponi,  senza  che  nessuno  vi  trovasse  a  ri- 
dire. Si  aggiunga  che  il  ricco  e  munifico  patrizio, 
per  indurre  il  Giusti  ad    accettare    l' offerta,    gli 


60  Egidio  Bellorini 


parlò  non  soltanto  del  conforto  che  egli,  cieco, 
trarrebbe  dalla  compagnia  di  lui,  ma  anche  di  una 
storia  della  nostra  letteratura  che  avrebbero  scrit- 
to in  collaborazione.  Vero  è  che  poi  le  fortunose 
vicende  degli  anni  seguenti  impedirono  1'  attua- 
zione di  questo  disegno. 

Del  resto,  non  bisogna  credere  che  il  Giusti, 
stabilitosi  in  casa  Capponi,  non  se  ne  allontanas- 
se mai.  Tutt'  altro  !  —  In  quello  stesso  anno,  per 
esempio,  da  agosto  a  novembre,  egli  girovagò  tra 
Livorno,  Pescia  e  Montecatini,  e  poi,  da  novem- 
bre agli  ultimi  di  gennaio  del  1847,  fu  daccapo 
a  Pisa,  presso  1'  amico  Prassi,  del  quale  egli  era 
ospite  gradito  bensì,  ma  solo  a  patto  di  pagar  la 
sua  parte. 


VI. 


Intanto,  dal  1843  al  1847,  mentre  la  vita  del 
Giusti,  dopo  un  periodo  piuttosto  burrascoso, 
s'andava  a  poco  a  poco  riassettando,  maturava- 
no i  nuovi  destini  d'Italia,  e  l'arte  del  poeta, 
mentre  da  un  lato  si  colorava,  almeno  in  parte, 
secondo  il  suo  nuovo  stato  d'  animo,  dall'  altro 
traeva  piii  vivo  impulso  dalle  vicende  della 
patria. 

Dopo  il  1831,  r  Italia,  apparentemente,  si  era 
composta  in  quiete  ;  ma  il  diffondersi  sempre  più 
largo  delle  idee  liberali,  per  opera  di  poeti,  di 
romanzieri,  di  storici,  di  scrittori  di  politica  ed 
anche  per   opera   delle    società   segrete  e    della 


Giuseppe  Giusti  61 


loro  assidua  propaganda,  aveva  portato  ben  pre- 
sto a  nuovi  arresti,  a  nuove  persecuzioni,  a  nuo- 
ve condanne,  ed  anche  a  nuovi  tentativi  di  som- 
mosse, sempre  repressi  ma  sempre  rinnovati.  E 
dal  1S43  in  poi  i  segni  dalla  vicina  riscossa  si 
fecero  sempre  più  frequenti.  Basti  ricordare  le 
ripetute  agitazioni  dell'  Italia  meridionale  e  delle 
Romagne,  e  specialmente  il  tentativo  dei  fratelli 
Bandiera,  che  diede  materia  ai  bellissimi  Ricordi 
del  Mazzini  (1844),  e  i  moti  di  Rimini  (1845),  che 
inspirarono  al  D' Azeglio  il  famoso  opuscolo. 
E  chi  non  ricorda  gli  entusiasmi  e  le  discussio- 
ni suscitati  in  quegli  anni  dal  Primato  giobertia- 
no  (1843),  seguito,  dopo  poco,  dai  Prolegomeni, 
e  dalle  Speranze  d'Italia  del  Balbo  (1844)? 

Tutto  questo  non  poteva  certamente  lasciare 
indifferente  il  Giusti;  e  infatti  —  se  nell' autunno 
del  1844,  a  Colle  Val  D'  Elsa,  in  un  intervallo  di 
benessere,  nel  quale  si  credette  liberato  per  sem- 
pre da'  suoi  mali,  scrisse  quel  capolavoro  di  poesia 
burlesca  che  è  U  amor  pacifico,  nel  quale  si  di- 
vertì a  disegnare  1'  arguta  caricatura  dei  pingui  ed 
apatici  protagonisti,  Taddeo  e  Veneranda  —  ben 
più  numerose  sono  le  poesie  d' argomento  pa- 
triottico, scritte  in  quegli    anni. 

Fin  dal  1843,  proprio  nei  mesi  in  cui  era  più 
agitato  ed  impensierito  dalie  dolorose  vicende  per- 
sonali, e  quindi  la  sua  attività  letteraria  era  qua- 
si del  tutto  interrotta,  accoppiava,  in  un  frammen- 
to di  ode  («In  lei  vergini  ancora»)  l'amor  di 
donna  a  quello  di  patria,  accennando  insieme  al 
<  gentil  raggio  d'  amore  »   che   gli  balenava  da- 


62  Egidio  Bellorini 


vanti  allo  sguardo,  e  all'  alito  di  vita  novella, 
che  spirava  per  le  contrade  d' Italia,  agitando 
popoli  e  re.  È  poesia  tutta  seria.  Ma  ben  presto, 
alleviati  alquanto  i  suoi  mali,  torna  a  quella 
scherzosa,  e  tra  la  fine  del  1844  e  il  1845,  com- 
pone Gli  eroi  da  poltrona,  I  grilli  e  //  papato 
di  prete  Pero,  nei  quali  mette  in  burla  quelle  che 
al  suo  pacato  buon  senso  sembrano  utopie,  del 
Balbo,  del  Mazzini  e  del  Gioberti,  e  più  le  esa- 
gerazioni dei  loro  seguaci.  Unità  sì,  libertà  sì, 
pensa  il  Giusti  ;  ma  perchè  abbandonarsi  a  fan- 
tasticherie tanto  remote  dalle  realtà  presente  e 
incombente?  perchè  lasciarsi  esaltare  dai  ricordi 
di  un  passato,  glorioso  certamente,  ma  che  non 
può  rinascere  ?  perchè  illudersi  colle  speranze  di 
un  papa  veramente  cristiano  e  italiano,  mentre 
regna  Gregorio  XVI  ?  E  nel  Papato  di  prete  Pero, 
svolgendo  quest'  ultimo  concetto,  egli  trova  an- 
cora una  volta  (riprendendo  il  metro  del  Dies 
irae,  che  gli  era  tanto  gradito)  tutto  il  brio  e  la 
festività  dei  suoi  migliori  «  scherzi  »,  e  prete  Pe- 
ro gli  riuscì  una  figurazione  felice,  quanto  il  Roi 
rf'  Yvetot  del  Béranger,  al  quale  alcuno  lo  volle 
accostare.  —  Ma  divenuto  papa,  un  anno  più  tar- 
di, Pio  IX,  anch'  egli,  come  quasi  tutti  gli  Italiani, 
credè  che  il  nuovo  pontefice  fosse  proprio  quello 
preconizzato  alla  risurrezione  d'Italia,  e  lo  di- 
fese in  un  sonetto  («  II  papa,  il  papa,  il  papa, 
pover' uomo  >)  contro  gl'impazienti  che  l'accu- 
savano di  poca  solerzia  nelle  riforme  ;  mentre 
d'altra  parte  tutti  videro,  in  prete  Pero,  non  più 
uno  scherzo,  ma  un  profetico  presagio. 


Giuseppe  Giusti  63 


Però,  contemporaneamente  a  questi  «  scher- 
zi >  politici,  il  Giusti  conduceva  a  compimento 
anche  una  delle  sue  più  note  poesie,  il  Gingilli- 
no, il  quale  è  satira  amara  senza  nessuno  sprazzo 
di  festività.  Si  direbbe  che  risenta  della  natura 
del  male  che  travagliava  1'  autore  quando  lo  ideò 
e  lo  cominciò,  nel  giugno  del  1844.  La  parte  mi- 
gliore sono  le  sestine  colla  parlata  della  strega, 
che  contengono  accenni  vivi,  gustosi  ;  nel  resto 
c'è  qualche  tratto  felice,  ma  il  tono  è  spesso  esa- 
gerato come  la  caricatura.  Fu  definito  come  « // 
giorno  del  Giusti  »  ;  ma  è  un  paragone  che  non  reg- 
ge. Certo  Gingillino  è  una  quintessenza  di  tutti  i 
difetti  e  i  vizi  di  un  giovane  destinato  alla  carrie- 
ra dai  pubblici  uffici  nella  Toscana  del  1844,  come 
il  «giovin  signore  »  pariniano  è  una  quintessenza 
di  tutti  i  difetti  e  delle  ridicolaggini  del  cavalier 
servente  lombardo  del  1760;  ma  nel  Giorno  v\  è 
altra  vita,  altra  verità.  Nel  Gingillino,  in  sostanza, 
non  vi  sono  che  discorsi  dell'  uno  o  dell'altro  per- 
sonaggio, o  dell'  autore  stesso  ;  ma  nessuno  fa 
nulla.  Il  carattere  di  Gingillino  risulta  dai  discor- 
si altrui,  non  da  quello  eh'  egli  fa  o  dice.  E  se,  ciò 
non  ostante,  questo  «  scherzo  »  fu  uno  dei  più  po- 
polari del  Giusti  e  venne  lodato  assai  da  molti 
critici,  anche  di  buon  gusto,  forse  lettori  e  critici 
furono  guidati  nel  loro  giudizio  più  dal  valor 
morale  del  componimento  che  dal  suo  merito  ar- 
tistico, ed  anche  dalla  considerazione  che  esso, 
insieme  col  Ballo,  colla  Vestizione  e  colla  Scritta, 
compie  il  quadro  della  società,  dirò  così,  ufficiale 
toscana  di  quel  tempo  :   là  nobiltà  e    ricca    bor- 


64  Egidio  Bellorini 


ghesia,  qui  burocrazia,  colle  loro  ridicolaggini, 
coi  loro  vizi,  colle  loro  vergogne. 

Per  l'intendimento  sociale  e  morale  si  ranno- 
da al  Gingillino  un  altro  <  scherzo  >,  //  giovinetto, 
composto  sul  finire  del  1848,  che  ebbe  anch'  es- 
so una  certa  voga,  perchè  presentava,  in  carica- 
tura, il  tipo  del  giovine  sentimentale,  o  finto 
sentimentale,  allora  di  moda,  e  del  quale  La  don- 
na non  compresa  (titolo  d'  un  frammento  dell'  an- 
no seguente)  ci  presenta  la  degna  compagna. 

Ma  non  sono  certo  questi  componimenti  ciò 
che  di  meglio  ha  scritto  il  Giusti  nel  1848,  che  fu 
uno  degli  anni  più  fecondi  per  la  sua  attività  di 
poeta  satirico. 

Dopo  aver  cominciato  con  un  sanguinoso  e 
volgaruccio  epigramma  per  la  morte  del  duca  di 
Modena,  proseguì  infatti  con  una  lunga  novella 
in  ottave,  //  sortilegio,  nella  quale,  riprendendo 
un  argomento  trattato  già  fin  dal  1838,  si  volge 
contro  il  giuoco  del  lotto  e  schizza  alcuni  per- 
sonaggi e  alcune  scene  con  tocco  felice  ;  quin- 
di compose  :  La  guerra,  ironica  ed  amara  beffa 
contro  i  predicatori  della  pace  ad  ogni  costo  ; 
La  rassegnazione,  al  padre  ***  dell'  ordine  dello 
stata  quo,  che  mette  alla  berlina  i  reazionari, 
subdoli  predicatori  di  fratellanza,  per  tenere  schia- 
va l'Italia;  il  Delenda  Carthago,  invocazione  della 
indipendenza,  come  fondamento  della  libertà  ita- 
liana. Tre  componimenti  notevoli,  e  gli  ultimi  due 
anche  tra  i  suoi  migliori. 

E  di  questo  tempo  è  anche  il  SanV  Ambrogio.  — 
Per  un  certo   rispetto,   queste   famose   ottave   si 


Giuseppe  Giusti  65 


possono  ben  dire  il  miglior  frutto  della  gita  a 
Milano  dell'  anno  precedente,  non  solo  perchè  in- 
spirate da  un  episodio  della  permanenza  in  quella 
città,  ma  anche  perchè  ricordano,  nella  mossa 
iniziale,  qualcuna  delle  poesie  di  Carlo  Porta.  Il 
'Manzoni  soleva  dire  che  il  Giusti  era  il  Porta  to- 
scano, ed  è  naturale  che  il  Giusti  approfittasse 
del  soggiorno  a  Milano  per  conoscere  e  gustare 
il  Porta  meglio  di  quei  che  non  avesse  potuto  far 
prima,  approfittando  della  compagnia  degli  amici 
lombardi  e  specialmente  del  Grossi  che  era  stato 
amico  fidatissimo  al  grande  poeta  meneghino. 
L'  artificio  di  rivolgere  famigliarmente  il  discor- 
so ad  un  personaggio  importante,  usato  dal  Porta 
con  tanta  felicità  nel  Giovannin  Botigee,  dovette 
allora  piacer  singolarmente  al  poeta  toscano, 
che  si  affrettò  quindi  ad  usarlo,  non  solo  nel 
SanV  Ambrogio,  ma  anche  nella  Rassegnazione  e 
nel  Delenda  Carthago.  E  non  ebbe  torto,  perchè 
esso  contribuiva  a  dare  al  discorso  quell'anda- 
mento spigliato  e  disinvolto,  che  era  più  consono 
alla  natura  sua  di  poeta. 

Ma  non  è  certo  tutta  qui  né  sopratutto  qui  la 
bellezza  del  Sani'  Ambrogio.  —  La  nota  patetica 
che  abbiamo  già  visto  degenerare  facilmente  in 
sentimentalismo  un  po'  di  maniera  nei  versi  amo- 
rosi del  periodo  precedente,  e  far  capolino  an- 
che nelle  Memorie  di  Pisa  e  nella  Terra  dei  morti, 
era  poi  riapparsa  nel  1843,  oltre  che  nel  già  ci- 
tato frammento  «  In  lei  vergini  ancora  >,  anche 
nella  sospirosa  ode  Ad  una  giovinetta,  e  in  se- 
guito si  era  poi  affacciata  con  sempre  maggior  fre- 

Profili  —  G.  Giusti.  5 


66  Egidio  Bellorini 

quenza  nei  versi  del  Giusti.  La  troviamo  infatti 
nel  sonetto  «Tacito  e  solo  in  me  stesso  mi  vol- 
go >  e  nel  frammento  <  Con  la  fida  lucerna  »  del 
1844,  e,  mista  con  qualche  tratto  scherzoso,  nel- 
r  altro  sonetto  al  Grossi  su  /  trentacinque  anni 
e  più  tardi  ancora  nel  sonetto  «  A  notte  oscura 
per  occulta  via>  del  1848.  La  tristezza  derivata 
dai  mali  che  afflissero  il  poeta  in  quegli  anni,  la 
malinconia  che  gli  recava  il  fuggire  irreparabile 
della  giovinezza  e  il  cadere  delle  illusioni  che  le 
sono  compagne,  avevano  via  via  temperato  lo 
spontaneo  rigoglio  della  gaiezza  d'un  tempo,  e 
quella  ch'era  stata  una  volta  quasi  sempre  po- 
sa sentimentale  divenne  allora  assai  spesso  vero 
e  schietto  sentimento,  che,  alleandosi  al  sorriso, 
gli  diede  quasi  un'  aria  di  pensosa  rassegnazione. 
Abbiamo  allora  veramente  un  <  riso  che  non  pas- 
sa alla  midolla  »,  un  <  riso  nato  di  melanconia  >, 
un  «  mesto  riso  >,  «  il  sorriso  che  nasconde  una 
lagrima  »,  «  quello  che  par  sorriso  ed  è  dolore  >, 
che  il  Giusti  disse  più  volte  esser  caratteristico 
della  sua  poesia  satirico-giocosa.  Ed  è  appunto 
questa  fusione  del  sentimento  collo  scherzo,  che 
apparendoci  nel  SanV  Ambrogio  perfetta  più  che 
in  ogni  altro  componimento,  gli  dà  un  fascino 
speciale.  Qui  la  inspirazione  fondamentale  è  data 
dall'amor  di  patria,  che  fu  il  più  vivo  e  il  più 
sincero  di  tutti  i  sentimenti  del  Giusti,  ma  vi  ha 
gran  parte  anche  il  sentimento  musicale  che  fu 
pure  in  lui  molto  vivo.  L'animo  portato  allo 
scherzo  lo  fa  sorridere  alla  vista  della  goffa  ri- 
dicolaggine di  quei  tipi  esotici  di  soldati   <  boe- 


Giuseppe  Giusti  67 

mi  e  croati  >  ;  1'  amor  di  patria  lo  spingerebbe  a 
odiarli  come  strumento  di  oppressione;  ma  la 
dolce  musica  italiana  delle  trombe  di  guerra  co- 
mincia a  commuoverlo  ;  il  patetico  canto  che  ri- 
suona poi  sulle  labbra  di  quei  soldati  stranieri 
finisce  per  soffocare  ogni  sentimento  ostile  ;  e 
nel  suo  animo  1'  amor  di  patria  si  fonde  colla 
pietà  umana  per  quegli  inconsci  strumenti  di  ti- 
rannia, che  sono  anch'essi,  alla  loro  volta,  vitti- 
me dello  stesso  despota  che  opprime  il  popolo 
italiano.  E  anche  quando,  sul  finire  delia  poesia, 
l'umor  scherzoso  riprende  il  sopravvento,  ed  egli 
si  burla  del  caporale  «  duro  e  piantato  lì  come 
un  piolo  >,  si  sente  che  la  simpatia  destata  dalla 
musica  e  dalla  comunanza  di  dolori,  non  è  sva- 
nita in  lui. 

Il  Sant'Ambrogio,  cominciato  fin  dall'  ottobre 
1845,  fu  portato  a  compimento  solo  un  anno  più 
tardi,  proprio  quando  il  Giusti  abbozzava  già  la 
sua  epistola  in  versi  sciolti,  non  ridotta  mai  a 
compimento,  sulla  Gita  da  Firenze  a  Montecatini 
(ottobre  1846)  e  mentre  stava  già  per  metter  ma- 
no alle  None,  a  Gino  Capponi  (dicembre  1846), 
due  componimenti  in  cui  la  politica  non  ha  parte 
alcuna,  ma  che  sono  entrambi  notevoli  anch'essi 
per  varie  ragioni  ;  ma  soprattutto  per  la  prova 
che  danno  essi  pure  delle  mutate  condizioni  spi- 
rituali del  poeta. 

Il  Giusti  fino  allora  non  aveva  forse  scritti  al- 
tri versi  sciolti  eccetto  quelli  della  Dedicatoria 
delle  sue  poesie  nel  1836,  che  non  sono  gran  cosa. 
Ben  più  felice  gli  riuscì  il  nuovo  saggio  datone 


68  Egidio  Bellorini 


nella  Gita,  quando  1'  arte  sua  era  giunta  ormai 
a  maturità.  Seguendo  da  lontano  l' esempio  di 
Orazio  che  nella  satira  V  del  libro  I  descrive  un 
suo  viaggio  da  Roma  a  Brindisi,  egli  traccia  qui 
rapidamente  i  tipi  buffi  del  cocchiere,  del  pode- 
stà e  della  podestessa,  suoi  compagni  di,  viaggio 
in  diligenza,  e  riferisce  i  discorsi  scambiati  con 
essi;  ma  di  tratto  in  tratto  la  narrazione  è  inter- 
rotta da  svariate  considerazioni  nelle  quali  1'  ani- 
mo commosso  gli  inspira  accenti  di  amor  filiale, 
di  pietà  umana,  di  ammirazione  per  i  grandi  poe- 
ti a  lui  cari.  —  Il  sentimento  che  nella  Gita  pre- 
domina a  tratti,  domina  invece  incontrastato  nelle 
None,  dove,  risuscitando  1'  antico  metro  ormai  di- 
susato, che  lo  aveva  colpito  leggendo  la  Intelli- 
genza fatta  allora  conoscere  da  poco,  il  poeta 
ritrae  il  doloroso  contrasto  dell'  anima  sua  che, 
stanca  del  «  misero  sdegno  »  per  le  brutture  uma- 
ne, sua  principale  inspirazione  in  passato,  vagheg- 
gia insieme  la  perfezione  morale  e  quella  del- 
l' arte,  senza  poterle  raggiungere  mai.  E  se  anche 
non  si  vorrà  convenire  col  Martini  nel  giudicare 
queste  None  come  una  delle  più  alte  liriche  che 
la  poesia  italiana  vanti  nel  secolo  XIX,  bisognerà 
tuttavia  convenire  che,  nonostante  qualche  par- 
ziale difetto  di  espressione  e  di  composizione, 
esse  sono  veramente  una  bella  poesia,  e  forse 
la  più  notevole  tra  le  liriche  serie  scritte  sino 
allora  dal  Giusti. 

Certo  è  molto  superiore  all'  ode  Al  medico 
Carlo  Ghinozzi  siili'  abuso  dell'  etere  solforico, 
composta  pochi  mesi  dopo,  nel  marzo  1847.  Qui 


Giuseppe  Giusti  69 

il  Giusti,  pur  senza  abbandonar  del  tutto  il  fare 
ironico  e  scherzoso,  si  atteggia  di  tratto  in  tratto 
a  moralista  serio,  ricordando  un  poco,  e  non  pel 
metro  soltanto,  il  Parini,  de'  cui  versi  aveva  cu- 
rato da  poco  un'edizione,  della  quale  ora  ap- 
punto dobbiamo  parlare. 


Fino  al  1846  il  Giusti  era  noto  al  pubblico  solo 
pei  versi.  Una  sua  Cliiaccliierata  ai  lettori  di  Dan- 
te, pubblicata  fin  dal  1838  nel  «  Giornale  di  com- 
mercio >,  e  la  prosa  scherzosa  SulV  uso  del  chia- 
rissimo, apparsa  nel  1844  sulla  <  Rivista  di  Firen- 
ze >,  non  avevano  attirato  né  potevano  attirare 
grande  attenzione.  Ma  sul  finire  del  1845  l'edi- 
tore Le  Mounier,  spinto  certo  dalla  fama  che  si 
erano  acquistate  le  satire,  lo  indusse  a  preparar- 
gli una  scelta  di  poesie  del  Parini,  preceduta  da 
un  discorso  sulla  vita  e  sulle  opere  del  grande 
lombardo.  11  Giusti  si  lasciò  tentare  dall'  offerta, 
per  dimostrare,  come  disse  poi,  esser  falsa  la 
voce  da  lui  raccolta  nel  recente  viaggio  in  Lom- 
bardia, che  il  Parini  non  fosse  apprezzato  in  To- 
scana quanto  si  meritava  {Ep.,  HI,  380)  ;  e  mes- 
sosi tosto  all'opera,  durante  il  primo  soggiorno 
a  Pisa,  aveva  già  condotto  a  fine  il  lavoro  agli 
ultimi  d'aprile  del  1846.  Circa  sei  mesi  dopo,  ai 
primi  di  novembre,  il  volume  vedeva  la  luce,  e, 
com'era  naturale,  dati  i  due  nomi  di  poeti  che 
recava  in  fronte,  veniva  rapidamente  e  larga- 
mente diffuso.  Ma,  sebbene   non   mancassero    al 


70  Egidio  Bellorini 


Giusti  gli  elogi  degli  amici,  non  si  può  dire  che 
il  suo  discorso  sul  Parini  trovasse  grande  favo- 
re presso  il  pubblico  e  presso  i  critici,  né  allora  né 
poi.  E  non  a  torto.  Infatti  il  Giusti  —  che  fu  gran- 
de ammiratore  dei  Saggi  del  Montaigne  e  che  due 
{SulP  Educazione)  ne  aveva  tradotti  da  p,oco  col 
proposito  di  pubblicarli  poi  in  un  periodico  di 
Firenze  —  volle,  nel  suo  scritto  sul  Parini,  se- 
guire l'esempio  dell'autore  francese,  e  credette 
di  raggiunger  lo  scopo  abbandonandosi  a  diva- 
gazioni, per  lo  più  di  natura  morale,  esposte 
ora  con  spigliata  naturalezza,  ora  invece  con 
quella  affettazione  di  naturalezza  che  fu  poi  uno 
dei  difetti  rimproverati  alle  sue  prose.  Ma,  in 
complesso,  il  discorso  riuscì  scormesso  e  fram- 
mentario, la  figurazione  storica  incerta  e  sbiadita 
e  la  critica  letteraria  superficiale,  inetta  a  porre 
convenientemente  in  rilievo  i  caratteri  dell'  arte 
pariniana  e  le  ragioni  della  sua  efficacia.  Solo  riu- 
scirono felicemente  alcuni  tratti  descrittivi  e  nar- 
rativi, come  la  rappresentazione  dell'  alta  figura 
morale  del  Parini,  disegnata  nelle  ultime  pagine. 
Il  che,  del  resto,  non  dimostra  altro  se  non  che 
il  Giusti  era  artista,  ma  non  pensatore  né  critico. 
Tuttavia,  come  spesso  accade  agli  artisti,  egli, 
traviato  forse  dalle  parole  benevole  degli  am.ici, 
si  illuse  d'aver  fatto  buona  prova  in  questa  nuo- 
va forma  d'attività  letteraria,  e  tosto  meditò  ed 
anche  iniziò  altri  lavori  su  Virgilio,  sul  Foscolo 
e  sul  Leopardi.  Ma  le  vicende  della  vita  e  gli 
avvenimenti  politici  degli  anni  seguenti,  gli  vie- 
tarono di  condurli  a  compimento,  cosicché  ce  ne 


Giuseppe  Giusti  71 

restano,  solo  poche  tracce  nel   suo   epistolario  e 
ne'  suoi  manoscritti. 

Né  fu  certo  gran  danno  per  la  fama  di  lui.  11 
Giusti,  anche  in  questo  periodo  della  sua  vita, 
resta  sempre  e  soprattutto  il  poeta  degli  <  scher- 
zi >.  Soltanto  vediamo  che  in  essi  la  inspirazione 
strettamente  politica  prende  il  sopravvento  —  co- 
me volevano  i  tempi  —  su  quella  morale  e  so- 
ciale, e  che  una  nuova  vena  di  sentimento  non 
affettato,  sgorgando  dall'animo  del  poeta,  non  so- 
lamente dà  un'impronta  di  maggior  sincerità  alla 
sua  lirica  seria,  ma  conferisce  anche  una  nuova 
potenza  di  commozione  alla  poesia  scherzosa,  e 
gli  inspira  un  capolavoro,  il  Sani'  Ambrogio. 


VII. 


Quasi  tutto  il  1847  e  i  primi  mesi  del  1848  fu- 
rono per  l'Italia  tempi  di  ansiosa  aspettativa  pri- 
ma, e  di  febbrile  preparazione  poi  ai  grandi  eventi 
che  tutti  ormai,   da   tempo,  sentivano  imminenti. 

<  Forse  siamo  sul  punto  di  veder  tornare  i  tempi 
solenni  e  difficili  nei  quali  l' uomo  si  mostra  >, 
aveva  scritto  il  Giusti  al  Capponi  sin  dal  febbraio 
1846,  ed  anch'egli,  come  tutti  i  liberali  italiani, 
vi  s'andava  spiritualmente  preparando.  La  Tosca- 
na, com'ebbe  poi  a  dire  in  seguito  {Ep.,   II,  547) 

<  di  sbadigliante  che  era,  pareva  uno  di  quei  po- 
veri tribolati  di  nervi  che,  dopo  un  torbo  e  le- 
targico sonno,  si  svegliano  eccitati  e  quasi  con- 


72  Egidio  Bellorìni 


vulsi>;  e  non  vi  mancarono  proteste  e  tumulti, 
finché  il  governo  granducale,  dopo  avernicchiato 
alquanto,  non  si  mise  risoluto  per  la  via  delle  ri- 
forme, e  concesse,  negli  ultimi  mesi  del  1847,  la 
guardia  civica,  la  libertà  di  stampa  e  la  consulta 
di  Stato,  mentre  sopprimeva  la  famigerata  Pre- 
sidenza del  buon  governo  con  gli  odiati   birri. 

Ne  venne  una  generale  esplosione  di  gioia.  Per 
un  momento,  tutti,  nel  calore  dell'entusiasmo,  si 
sentirono  fratelli  ;  dimostrazioni  clamorose  di  po- 
polo, guidate  spesso  da  sacerdoti,  salutavano  e 
celebravano  Pio  IX,  il  granduca  e  le  riforme  ; 
bandiere  tricolori  sventolavano  dovunque,  e  il 
Giusti,  recandosi  a  Lucca  per  una  dimostrazione, 
tirava  fuori  commosso  da  un  ripostiglio  la  coc- 
carda dai  colori  italiani  che  già  si  era  appuntata 
sul  petto  nel  1831.  In  quei  giorni  egli  era  l'idolo 
di  Pescia  ;  una  sua  parola  bastava  a  frenare  gì'  im- 
pazienti e  a  impedire  ogni  disordine  ;  il  vicario, 
durante  un'assenza  temporanea,  gli  mandava  un 
sergente  dei  gendarmi  ad  avvertirlo,  quasi  per 
affidare  a  lui  il  governo  della  città  ;  e  una  volta 
egli,  schivo  del  parlare  in  pubblico,  fu  tratto 
persino  a  concionare  in  piazza,  durante  una  di- 
mostrazione  popolare. 

Non  è  strano  perciò  che,  quando  si  trattò  di 
eleggere  gli  ufficiali  della  guardia  civica,  la  voce 
pubblica  lo  designasse  al  governo  perchè  gli 
fosse  conferito  il  gfado  di  maggiore.  Ma  ai  reg- 
gitori di  Firenze  questo  parve  uno  scandalo.  Pro- 
prio il  granduca  avrebbe  dovuto  sottoscrivere  il 
brevetto  d'ufficiale   al  poeta  che  l'aveva   messo 


Giuseppe  Giusti  73 


in  canzonatura?  —  E  il  poeta  che,  d' altra  parte, 
non  si  sentiva  nato  a  quel!'  ufficio,  esortò  i  con- 
cittadini a  non  insistere,  e  restò  pel  momento 
semplice  gregario,  contento  —  com'egli  disse  — 
di  far  l'esercizio  col  fucile,  perchè  questo  gli  gio- 
vava alla  salute.  Non  solo  ;  ma  la  prima  volta 
che  gli  toccò  r  umile  ufficio  di  montar  la  senti- 
nella provò  una  grande  commozione.  <  hi  quella 
monotonia  dell'andare  in  su  e  in  giù,  mi  volava 
la  testa  ai  begli  anni  d'  una  giovinezza  sprecata 
in  bagattelle  e  mi  s'empivano  gli  occhi  di  lacrime, 
parte  di  sdegno  e  parte  dalla  gioia  d'essere  fi- 
nalmente lì>  {Ep.,  Ili,  52);  e  in  quei  giorni  sentì 
che,  se  quell'alito  di  vita  fosse  venuto  a  scuo- 
terlo nella  sua  prima  giovinezza,  invece  di  con- 
solarlo adesso  negli  anni  maturi,  sarebbe  stato 
capace  di  morir  fortemente  o  di  fortemente  ope- 
rare in  prò  del  suo  caro  paese  {ibid.,  54). 

Tuttavia,  alcuni  mesi  più  tardi  (marzo  1848), 
ritiratosi  il  maggiore  in  carica,  ed  essendo  d'altra 
parte  scomparse  le  riluttanze  del  governo  che 
aveva  ormai  dovuto  piegarsi  a  ben  altre  conces- 
sioni, il  Giusti  finì  per  cedere  alle  insistenze  dei 
concittadini,  ed  accettò  la  carica  di  maggiore,  seb- 
bene sospettasse  di  essere  alquanto  ridicolo  con 
tutto  quell'oro  addosso  e  con  quella  sciabola  che 
gli  batteva  sulle  gambe.  Fece  tuttavia  con  impegno 
il  suo  dovere,  e  si  occupò  anche  attivamente  di 
preparare  le  squadre  di  volontari  pesciatini  che 
dovevano  raggiungere  i  soldati  di  Carlo  Alberto 
sul  campo  di  battaglia.  E  quand'essi  partirono, 
avrebbe  voluto  seguirli,  stimando  che  fosse  que- 


74  Egidio  Bellorini 

sto  il  dovere  di  chi  tanto  aveva  scritto  per  pre- 
parare gli  animi  alla  guerra;  ma  la  sua  salute, 
sempre  vacillante,  proprio  allora  peggiorò,  ed 
egli  sentì  che  le  forze  non  lo  avrebbero  sorretto 
e  che  sarebbe  rimasto  a  mezza  via,  ingombro  e 
inciampo  agli  altri.  Restò  quindi  a  casa^  ma  av- 
vilito e  malcontento,  tanto  da  vergognarsi  a  ve- 
stir la  divisa  di  maggiore  e  da  sentir  rimorso 
quando  si  coricava  nel  suo  comodo  letto,  pen- 
sando alla  terra  coperta  di  poca  paglia  sulla  quale 
giacevano  i  combattenti  {Ep.,  Ili,  145-6);  ed  escla- 
mava: <  lo  darei  i  miei  versi  e  tutta  la  mia  vita 
passata,  per  essere  nei  piedi  dell'ultimo  volonta- 
rio accorso   costà  >. 

Fu  proprio  verso  questo  stesso  tempo  (aprile 
1848)  che,  su  proposta  del  Capponi,  la  Crusca 
lo  nominò  membro  residente  ;  e  il  governo  gran- 
ducale che  pochi  mesi  prima  avrebbe  certo  ne- 
gato la  ratifica,  la  concesse  invece  senza  diffi- 
coltà. Dal  canto  suo,  il  Giusti  che  non  era  stato 
mai  troppo  tenero  per  l'Accademia  e  gli  acca- 
demici, né  s'era  trattenuto  dal  metterli  qualche 
volta  in  burletta,  ora,  in  sostanza,  gradì  la  nomina, 
e  prese  parte  abbastanza  attivamente  ai  lavori  del 
vocabolario,  con  quella  competenza  che  gli  ve- 
niva dagli  studi  sulla  lingua  a  cui  gli  era  stata 
incentivo  soprattutto  la  raccolta  di  proverbi  to- 
scani, alla  quale  attendeva  da  molti  anni.  E,  chi 
sa?,  forse  è  di  quel  tempo  anche  la  filastrocca 
tra  seria  e  faceta  Dell'Accademia  della  Crusca, 
che  si  trovò  incompiuta,  quand'  egli  morì,  tra  i 
suoi  manoscritti. 


Giuseppe  Giusti  75 


Ma  ben  più  importanti  vicende  si  andavano 
intanto  maturando  :  il  granduca  aveva  concesso 
la  costituzione,  e  si  preparavano  le  elezioni  dei 
deputati  al  Consiglio  legislativo. 

11  Giusti  era  d'avviso  che  si  dovesse  nominare 
gente  pratica  degli  affari  e  non  letterati  ;  ma  fini 
per  accettare  la  candidatura  offertagli  con  insi- 
stenza dagli  elettori  di  Borgo  a  Buggiano,  dove 
riuscì  eletto,  il  18  giugno,  con  158  voti  su  163 
votanti  ;  fiducia  confermatagli  poi  anche  nelle 
nuove  elezioni  che  ebbero  luogo  nel  novembre 
successivo,  sebbene  questa  volta  egli  fosse  aspra- 
mente combattuto  dal  Guerrazzi  e  da'  suoi  par- 
tigiani che  allora  tenevano  il  potere. 

Si  disse  che  alla  Camera  egli  fu  un  deputato 
quasi  muto  ;  ma  Ferdinando  Martini  dimostrò  che 
anzi  egli  parlò  più  volte  con  senno  e  con  garbo, 
riuscendo  anche  a  far  accogliere  dalla  assemblea 
qualche  sua  proposta.  Certo  però  non  si  sentiva 
nato  per  le  lotte  parlamentari,  specialmente  vive 
in  quei  momenti  torbidi  e  tumultuosi.  Egli  non 
aveva  (e  lo  riconosceva)  la  stoffa  né  di  uomo  po- 
litico, né  di  uomo  di  parte  :  amava  l' Italia,  la 
desiderava  indipendente  e  libera,  e  perciò  voleva 
veder  cacciati  gli  Austriaci  e  mantenute  e  raf- 
fermate le  costituzioni  e  le  altre  larghezze  con- 
cesse dai  prìncipi;  ma  colla  libertà  voleva  l'or- 
dine. <  Ordine  e  libertà  quanta  ce  ne  cape  >  {Ep., 
IH,  212),  scriveva  allora;  e  come  un  tempo  ave- 
va aborrito  dalle  società  segrete  {ibid.,  525)  ora 
aborriva  dai  tumulti  di  piazza  e  dalle  sopraffa- 
zioni dei  violenti,  e  scriveva,  contro  gli  arruffa- 


76  Egidio  B  e  Ilo  r  ini 

popolo,  un  iroso  sonetto,  nel  quale,  non  a  torto, 
si  crede  che  prendesse  a  modello  il  Guerrazzi. 
Da  giovane  era  stato  repubblicano  ;  ora  vedeva  i 
sovrani  cooperare  al  risoigimento  d'Italia,  e  non 
si  ostinava  nella  pregiudiziale  antimonarchica  ;  e 
se  i  democratici  gli  davano  per  questo,  del  co- 
dino, ne  sorrideva.  Ma  d'altra  parte  non  era  nep- 
pure disposto  a  fare  la  guerra  ai  democratici 
solo  perchè  tali;  e  sebbene  il  Guerrazzi,  loro 
capo  in  quel  momento,  fosse  giunto  al  potere 
combattendo  aspramente  il  suo  carissimo  Gino 
Capponi  e  rovesciandone  il  ministero  con  arti  che 
egli  non  approvava,  lo  appoggiò  fino  all'ultimo, 
perchè  gli  parve  di  vedere  in  lui  l'estrema  pos- 
sibilità di  salvezza  per  la  libertà^  in  quei  momenti 
difficili  ;  e  se  perciò  lo  accusavano  di  demagogia, 
ne  sorrideva  ancora.  E  chi  sa  quanto  si  sareb- 
bero scandolezzati  e  spaventati  quei  buoni  con- 
servatori che  lo  avevano  in  uggia,  se  avessero 
saputo  che  egli  credeva  che  le  idee  sociali  piiì 
ardite  produrrebbero  col  tempo  del  bene,  quan- 
tunque i  modi  seguiti  dai  loro  apostoli  gli  sem- 
brassero pazzi  e  spaventevoli,  e  che  scriveva  che, 
come  dalla  dichiarazione  dei  diritti  dell'  uomo 
uscì  giustizia  per  tutti,  così  «  dalle  teorie  sociali 
passate  per  ultimo  staccio,  uscirà  pane  per  tut- 
ti >  {Ep.,  IH,  267). 

Mentr'egli  sedeva  nell'Assemblea,  vi  furono  se- 
dute tempestose,  e  in  luglio  e  in  settembre  vi 
furono  anche  moti  violenti  di  popolo,  che  minac- 
ciarono la  dignità  del  consesso.  Ma,  mentre  altri 
temeva  e  si  allontanava,  egli  restò  al  suo  posto, 


Giuseppe  Giusti  77 

e  tenne  contegno  fermo  e  sereno.  Però  dentro  di 
sé  fremeva,  e  ne  ebbe  la  salute  scossa  al  punto 
che,  in  ottobre,  pochi  giorni  prima  della  caduta 
del  ministero  Capponi,  avvenuta  il  12  di  quel 
mese,  dovette  andarsene  da  Firenze,  e  restare  per 
più  mesi  a  Pescia  e  a  Montecatini,  travagliato 
da  gravi  disturbi  di  stomaco,  d'intestino  e  di  fe- 
gato, aggravati  anche  da  una  forte    bronchite. 

Tornò  a  Firenze  per  la  ripresa  delle  sedute 
dell'Assemblea,  nel  gennaio  del  1849,  ed  era  a 
Firenze  quando  il  granduca  partì  per  Siena  e  poi 
per  Santo  Stefano,  dove  il  20  febbraio  s'imbarcò 
per  Gaeta,  abbandonando  lo  Stato  in  balìa  del 
Guerrazzi  e  de'  suoi  seguaci. 

Degli  avvenimenti  di  quei  tristi  giorni  non 
dobbiamo  occuparci  qui.  Basterà  ricordare  che 
in  febbraio  il  Mazzini  venne  a  Firenze,  e  che  il 
Giusti  fu  l'unico  testimonio  che  assistè  al  lungo 
colloquio  che  il  grande  patriotta  ebbe  col  Cap- 
poni. Discioltala  seconda  Assemblea,  il  15  marzo 
1849  ebbero  luogo  le  elezioni  per  la  terza,  che 
doveva  poi  mutarsi  in  Costituente  ;  e  il  Giusti, 
entratovi  solo  per  la  rinuncia  di  chi  lo  precedeva 
nell'elenco  degli  eletti  a  scrutinio  di  lista  nel  col- 
legio di  Pistoia,  non  volle  accettar  mai  la  no- 
mina, disgustato  dall'andamento  della  cosa  pub- 
blica. 

Dopo  che  il  disastro  di  Novara  ebbe  distrutte 
le  speranze  dei  patriotti,  i  disordini,  com'  è  noto, 
crebbero  in  Firenze,  finché,  l'il  aprile,  il  Guer- 
razzi venne  sbalzato  dal  potere  a  furia  di  po- 
polo, e  il  Granduca  fu  richiamato.  E  Leopoldo  II 


78  Egidio  Bellorini 

tornò,  ma  facendosi  precedere  dalle  soldatesche 
austriache  ;  e  poiché  non  poteva  esservi  dubbio 
sul  significato  di  questo  intervento  straniero,  ciò 
valse  ad  alienargli  per  sempre  le  simpatie  di 
quegli  stessi  moderati  che,  come  il  Capponi  e  il 
Giusti,  avevano  sperato  eh'  egli,  riprendendo  il 
trono,  ristabilirebbe  l'ordine,  conservando  però  le 
istituzioni  liberali  concesse  un  anno  prima. 


È  naturale  che,  in  così  grande  tumulto  di  av- 
venimenti pubblici  e  in  tanto  infuriare  di  pas- 
sioni, quasi  tutte  le  poesie  del  Giusti  avessero 
inspirazione  politica. 

Veramente,  nel  primo  entusiasmo  per  gli  av- 
venimenti del  1847,  ed  anche  poi  allo  scoppiar 
della  guerra  nazionale  nel  1848,  egli  ebbe  a  di- 
chiarare ripetutamente  che  ormai  era  tempo  d'a- 
gire e  non  di  far  versi.  <  11  popolo,  eterno  poe- 
ta >,  scrisse  allora  {Ep.,  11,  55),  «  ci  svolge  davanti 
la  sua  meravigliosa  epopea,  e  noi  miseri  accoz- 
zatori  di  strofe  dobbiamo  guardarlo  e  tacere  >. 
La  sua  poesia  satirica  gli  pareva  ormai  <  una 
cosa  passata  >  ;  il  volume  dei  Nuovi  versi  che, 
raccogliendo  le  sue  ultime  poesie  serie  e  scher- 
zose aveva  pubblicato  a  Firenze  da  poco,  gli  pa- 
reva ormai  qualcosa  di  arretrato,  che  avesse  va- 
lore storico,  e  valesse  al  più  ad  attestare,  — 
come  disse  più  volte,  —  che  egli  aveva  parlato 
mentre  gli  altri  tacevano  ;  e  si  propose  quindi 
di  non  scrivere  più  versi,  o  di  scriverne  solo  d'ai- 


Giuseppe  Giusti  79 


tro  genere,  traendo  l'intonazione  «dall'inno  so- 
lenne che  sonava  nel  cuore  di  tutti  »  (£/?.,  II,  555). 
Ma  furono  tutti  propositi  vani,  che  la  sua  natura 
di  poeta  e  gli  avvenimenti  che  gli  si  svolgevano 
attorno,  dovevano  cancellare  in  breve. 

Infatti  r  intonazione  solenne  egli  la  prese  una 
sola  volta,  nell'ottobre  del  1847,  per  esaltare  Leo- 
poldo II,  in  un'ode  dignitosa  e  grave,  piena  di 
nobili  sentimenti,  che  può  essere  documento  della 
fede  ch'egli  riponeva  nel  popolo  italiano,  ma  che 
poeticamente  non  si  leva  sopra  la  mediocrità, 
sebbene  sia  scritta  con  arte  molto  superiore  a 
quella  delle  poesie  politiche  serie  composte  al- 
cuni anni  prima.  Ma  come  avrebbe  egli  potuto 
tacere  a  lungo  e  trattenere  il  «  pungolo  severo  > 
che  nell'ode  a  Leopoldo  II  aveva  dichiarato  di 
voler  deporre  per  sempre,  quando  vedeva,  nel 
1847,  i  fedeli  seguaci  delle  vecchie  istituzioni 
crollanti  —  dai  birri  ai  ministri  di  Stato  —  cor- 
rere ai  ripari,  per  tentar  di  sorreggere  l'edificio 
che  minacciava  rovina  ?  Ed  ecco  derivarne  alcuni 
de'  nuovi  <  scherzi  »  più  vivaci  :  le  Istruzioni  a  un 
emissario,  la  Storia  contemporanea,  il  Consiglio 
a  un  consigliere,  la  Supplica  e  infine  //  congresso 
de'  birri,  che  è  l'ultimo  de'  suoi  polimetri,  e  che, 
preseiìtandoci  tre  tipi  di  poliziotti  i  quali  dispu- 
tano fra  loro  sui  mezzi  per  conservare  l'antico 
predominio,  ci  dà  una  specie  di  scena  da  com- 
media che,  al  suo  primo  apparire,  fu  molto  gu- 
stato dal  popolo  toscano. 

E  poco  dopo,  come  avrebbe  potuto  il  Giusti 
trattenere  gli  strali  della  satira,   quando  vedeva 


80  Egidio  Bellorini 


i  più  autentici  codini,  quelli  ch'erano  stati  fino 
al  giorno  prima  fedelissimi  alle  vecchie  idee,  tra- 
sformarsi ad  un  tratto  in  ardenti  liberali,  e  buttarsi 
nelle  dimostrazioni  coperti  di  coccarde,  e  declama- 
re, e  fare  i  demagoghi  in  piazza  e  nei  caffè,  e  criti- 
care perfino  quelli  che  erano  in  guerra  a  combatte- 
re ?  oppure  quando  vedeva  gazzettieri  disonesti  o 
ciecamente  partigiani  insultare  ed  accusare  i  più 
puri  patriotti  che  rifuggivano  dalle  intemperanze 
della  plebe  incolta  e  degli  arruffapopolo  ambizio- 
si ;  e  i  paurosi  rabbrividire  ad  ogni  stormir  di  fron- 
da, e  gì'  indifferenti  danneggiare  colla  loro  inerzia 
o  screditare  colle  loro  beffe  quelle  istituzioni  li- 
berali ch'erano  costate  tanti  anni  di  lotte  e  di  sof- 
ferenze? Ed  ecco  derivarne  —  sul  finire  del  1847, 
nel  1848  e  in  principio  del  1849  —  una  serie  ab- 
bastanza lunga  di  componimenti,  dallo  <  scherzo  > 
Alli  spettri  del  4  settembre,  al  Brindisi  che  co- 
mincia <  Ma  eh,  l' Italia  >,  aWElezione,  al  Depu- 
tato, ai  versi  Contro  un  giornalista,  ai  frammenti 
«  Io  per  r  Italia  >,  a  Un  fossile,  ai  versi  intitolati 
A  Radeschi  nei  quali  si  celebra  la  fine  gloriosa 
di  Alessandro  Poerio,  ai  sonetti  A  Dante,  La 
maggiorità,  L'arruff apopoli,  L'uomo  di  parte,  e 
ai  più  notevoli  componimenti  di  questo  periodo, 
che  sono  :  l'ode  Dello  scrivere  per  le  gazzette,  lo 
<  scherzo  >  su  La  repubblica,  e  i  dialoghi  /  di- 
scorsi che  corrono  e  //  pauroso  e  l'indifferente. 

Nell'ode  Dello  scrivere  per  te  gazzette  \  con- 
cetti, su  per  giù,  sono  gli  stessi  che  si  trovano  in 
altri  versi  e  in  molte  lettere  giustiane  di  quel 
tempo  :  l'avversione  a  perseguitare  colla  satira  i 


Giuseppe  Giusti  81 


potenti  il  cui  trono  vacilla,  il  disdegno  per  la  sa- 
tira personale,  il  ribrezzo  pei  demagoghi  che  sor- 
gono a  declamare  quando  il  pericolo  è  passato, 
la  illusione  che  sedusse  il  poeta  al  primo  scop- 
piare dei  moti  di  libertà.  Ma  qui  la  inspirazione 
calda  e  piena  ha  trasformato  in  immagine  viva  il 
concetto  astratto  e  ne  ha  colorito  l'espressione, 
dandole  spontaneità  ed  impeto.  E  se  non  manca 
qualche  punto  debole  —  come  tutta  la  settima 
strofa,  intessuta  di  luoghi  comuni  e  chiusa  con 
un  verso  infelice,  <  il  ben  che  più  desia  »  —  il 
complesso  è  veramente  bello,  e  trascina  ed  av- 
vince, specialmente  nelle  due  commosse  apostrofi 
alla  libertà  ed  all' Italia.  Qui,  ben  più  che  nell'ode 
A  Leopoldo  II,  il  Giusti  assurge  a  vera  e  nobile 
poesia;  qui  altezza  di  pensiero  e  forza  di  com- 
mozione trovano  perfetta  rispondenza  nella  pa- 
rola rimata. 

Con  La  repubblica  invece  il  Giusti,  ripren- 
dendo per  l'ultima  volta  il  metro  vivace  del  Dies 
irae,  torna  ancora  allo  scherzo,  per  mettere  in 
burletta,  con  brio  spontaneo  e  franca  festività,  le 
illusioni  degli  ostinati  repubblicani  che,  per  amor 
della  repubblica,  avrebbero  messo  in  pericolo  an- 
che la  vagheggiata  unità  italiana  ;  ma  però  il  sor- 
riso è  interrotto,  per  un  momento,  da  un  tratto  di 
sincera  commozione  là  dove  il  poeta  accenna  ai 
ventotto  anni  di  apostolato  patriottico  del  repub- 
blicano Pietro  Giannone,  al  quale  lo  «  scherzo  > 
è  dedicato. 

Ed  anche  /  discorsi  che  corrono  e  //  pauroso 
e  l'indifferente    restano    nel    campo    della   satira 

Profili  —  G.  Giusti.  6    • 


82  Egidio  Bello  rial 


scherzosa;  ma  si  cambia  tipo.  Il  Giusti  aveva  già 
da  molti  anni  pensato  di  scrivere  commedie,  e 
aveva  fermato  anche  la  propria  attenzione  su 
qualche  soggetto  comico;  ma  senza  attuare  mai 
alcuno  de'  suoi  più  o  meno  vaghi  propositi  {Ep., 
\,  28,  40;  II,  105,  124,  200).  Nel  Ballo,  nella  Scrilta, 
neXVAmor  pacifico,  nella  Storia  contemporanea 
aveva  poi  introdotto  dei  dialoghi,  in  cui  il  vero 
è  in  generale  intuito  e  ritratto  felicemente  ;  e  in- 
fine nel  Congresso  de'  birri  aveva  dato  una  spe- 
cie di  scena  da  commedia,  con  quei  tre  tipi  carat- 
teristici di  birri,  che  prendono  successivamente 
la  parola,  conservando  ognuno  assai  bene  il  pro- 
prio carattere.  Ora  finalmente,  ne  I  discorsi  che 
corrono  e  nel  Pauroso  e  V indifferente,  affronta  di- 
rettamente il  dialogo  comico.  Che  proprio  egli 
avesse  anche  ideato  tutta  una  commedia,  o  me- 
glio due  commedie,  della  prima  delle  quali  do- 
vessero far  parte  i  due  dialoghi  tra  Granchio  e 
Ventola  e  tra  Vespa  e  Crema,  e  della  seconda  il 
dialogo  tra  Granchio  e  Trippa,  non  credo,  perchè 
in  queste  scene  non  vi  è  accenno  alcuno  di  azio- 
ne ;  né,  d'altra  parte,  per  quel  che  si  può  desu- 
mere da  altri  suoi  scritti,  pare  che  il  Giusti  avesse 
l'attitudine  a  svolgere  un'azione  in  una  serie  di 
scene  dialogate  ;  ma  ciò  non  toglie  che  questi 
frammenti  non  siano,  come  dialoghi  satirici,  bel- 
lissimi, benché  il  metro  (quartine  di  settenari) 
sembri  poco  adatto  al  dialogo,  e  benché  non 
manchino  qua  e  là  —  specialmente  nel  Pauroso 
e  P indifferente  —  tratti  in  cui  la  caricatura  dà 
nel  grottesco.  Ma,  in  complesso,  quanta  efficacia 


Giuseppe  Giusti  83 

di  rappresentazione  e  quale  scintillio  di  arguzia  ! 
La  satira  salta  fuori  spontanea  dalla  figurazione 
del  vero,  e  la  caricatura  è  quasi  sempre  il  natu- 
rale effetto  del  vero  fedelmente  ritratto  e  arguta- 
mente sottolineato  nelle  didascalie. 


Vili. 


Il  disprezzo  per  il  granduca,  reduce  dall'e- 
silio sotto  la  protezione  delle  soldatesche  au- 
striache, lo  sdegno  contro  i  demagoghi  che  ave- 
vano affrettata  colle  intemperanze  la  rovina  della 
libertà,  e  per  i  girella  che,  voltando  casacca 
da  un  giorno  all'altro,  dopo  aver  fatto  i  liberali 
sfegatati,  s' inchinavano  al  padrone  che  tornava 
sul  trono,  inspirano  al  Giusti  gli  ultimi  e  melan- 
conici versi,  composti  sul  finire  del  1849  e  ai 
primi  del  1850,  come  i  frammenti  lirici  Lo  schiavo 
e  <  Se  Dio  mi  dà  vita  >,  i  sonetti  satirici  Tede- 
schi e  granduca,  «  Signor  mio,  signor  mio,  sento 
il  dovere  >  e  <  Voi  governaste  fino  al  quarantot- 
to >,  all'ultimo  dei  quali  si  ricollega  il  sanguinoso 
epigramma,  certamente  diretto  allora  contro  Leo- 
poldo II  : 

Chi  fé'  calare  i  barbari  fra  noi  ? 
Sempre  gli  eunuchi  da  Narsete  in  poi. 

E  l'amarezza  dell'animo  suo  riversò  allora  an- 
che nelle  Memorie  che,  pur  risolvendosi  in  una 
requisitoria,  non  sempre  equanime  contro  il  Guer- 


84  Es'idio  Bellorini 


razzi  e  i  guerrazziani,  sono  però  un  prezioso  do- 
cumento storico  ed  anche  —  come  si  vedrà  più 
avanti  —  una  notevole  opera  letteraria. 

Ma  purtroppo  il  Giusti,  tormentato  ormai,  ol- 
tre che  dal  dolore  per  la  rovina  della  patria  e 
della  libertà,  anche  dai  sempre  crescenti  mali  fi- 
sici, dovette  lasciarle  incompiute  e  frammentarie. 

Già  neir  inverno  del  1849  era  stato  afflitto  da 
una  violenta  tosse  catarrosa,  accompagnata  da 
sputi  sanguigni  e  inasprita  da  una  bronchite. 
Venuta  la  primavera,  si  era  rifugiato,  in  una  sem- 
pre vana  ricerca  di  salute,  a  Pescia,  a  Colle  Val 
d'  Elsa,  a  Viareggio,  a  Montecatini,  sinché  in  ot- 
tobre, stanco  ed  affh'tto,  aveva  fatto  ritorno  a 
Firenze.  La  tosse  e  gli  sbocchi  sanguigni  non 
erano  cessati  ;  di  più  egli  era  ormai  quasi  del 
tutto  afono  e  ridotto  in  tale  stato  di  debolezza 
che  si  stancava  per  ogni  minimo  sforzo.  Qualche 
medico  gli  diceva  che  tutto  era  effetto  di  bile, 
qualche  altro  invece  parlava  di  ultime  conse- 
guenze della  bronchite,  ma  tutti  Io  incoraggia- 
vano a  sperare  nell'avvenire.  Ed  il  poeta  li  ascol- 
tava senza  dar  troppo  peso  né  alle  loro  diagnosi 
né  ai  loro  conforti. 

Era  da  poco  a  Firenze,  quando  fu  colto  da  una 
febbre  miliare  che  lo  condusse  in  fin  di  vita.  La 
madre  accorse  al  suo  capezzale  e  lo  assistè  amo- 
revolmente ;  ed  egli,  comprendendo  la  gravità 
del  pericolo,  era  ormai  rassegnato  al  suo  desti- 
no ;  anzi  sarebbe  stato  lieto  di  deporre  il  fardello 
della  vita  che,  dopo  tanto  soffrire,  gli  sembrava 
troppo  grave.  Tuttavia,   nel  gennaio    del   1850,  si 


Giuseppe  Giusti  85 

riebbe  alquanto.  Ma  era  tanto  debole  ancora  da 
dover  restare  a  letto  giorni  e  giorni  senza  muo- 
versi e  da  non  poter  nemmeno  ricevere  gli  amici, 
perchè  il  parlare  lo  stancava  troppo.  Cercava 
perciò  di  svagarsi  leggendo  e  occupandosi  a 
riordinare  i  suoi  appunti  danteschi,  e,  quando  si 
sentiva  un  po'  meno  male,  scriveva  qualche  let- 
tera 0  tirava  giù  dei  versi  mestamente  scher- 
zosi, come  il  sonetto  al  Capponi,  <  Verso  le  tre 
mi  son  sentito  male  >  ;  e  forse  componeva  anche 
le  brevi  strofe  della  Preghiera  a  Dio,  che  fu  tro- 
vata poi,  quand'egli  fu  morto,  tra  le  sue  carte. 
Perchè,  senza  essere  troppo  osservante  delle  pra- 
tiche del  culto,  il  Giusti  era  però  stato  sempre 
sinceramente  religioso,  anche  in  mezzo  ai  travia- 
menti giovanili  ;  e  se  anche  aveva  canzonato  i 
<  religionari  >,  che  componevano  inni  sacri  alla 
manzoniana,  senza  aver  la  fede,  non  aveva  ricu- 
sato però  di  scrivere  una  canzone  per  le  feste 
triennali  di  Pescia  nel  1841  e  di  celebrare  la  po- 
tenza della  fede  nelle  terzine  al  padre  Bernardo 
da  Siena  nel  1834;  e  se  aveva  satireggiato  un 
pontefice  cattivo  come  Gregorio  XVI,  aveva  però 
dichiarato  sempre  di  rispettare  chi  esercitava 
degnamente  il  ministero  sacerdotale.  Ed  ora,  av- 
vicinandosi la  Pasqua,  pensava  di  adempiere  an- 
che quell'anno  i  suoi  doveri  religiosi,  non  ap- 
pena la  salute  glielo   concedesse. 

Proprio  il  giorno  di  Pasqua  (31  marzo)  gli  par- 
ve di  stare  un  po'  meglio,  tantoché  aveva  pro- 
messo di  lasciare  verso  sera  la  camera  per  stare 
un  po'  in  compagnia  di  Gino  e  degli   altri   fami- 


86  Egidio  Bellorini 


gliari.  Ma  quando,  verso  le  quattro  del  pomerig- 
gio, il  servo  gli  portò  il  suo  parco  desinare,  al 
primo  cucchiaio  di  zuppa  ebbe  uno  sbocco  di 
sangue  pili  forte  del  solito.  Restò  calmo,  e  disse 
al  servo  di  non  farne  caso.  Ma  al  secondo  cuc- 
chiaio lo  sbocco  si  rinnovò  con  maggiore  vio- 
lenza, e  pochi  minuti  dopo  egli  era  già  morto, 
senza  che  gli  si  fosse  potuto  recare  alcun  soc- 
corso. —  11  famoso  dottor  Bufalini  che  l'aveva  in 
cura,  disse  poi  che  doveva  essersi  formata  un'ul- 
cera nei  grossi  vasi  sanguigni,  e  che  questa, 
dopo  aver  corroso  a  poco  a  poco  la  parete  che 
la  conteneva,  rompendola  ad  un  tratto,  l'aveva 
soffocato. 

Così,  nel  tramonto  delle  fortune  d' Italia,  che 
poteva  sembrare  allora  senza  speranza  di  un'al- 
ba vicina,  si  spegneva  malinconicamente,  a  meno 
di  quarantun'anno,  il  poeta  che  co'  suoi  versi 
tanto  aveva  contribuito  ad  aprire  i  cuori  all'amor 
di  patria  ed  a  ridestare  in  essi  il  vivo  desiderio 
della  riscossa  nazionale. 

La  sera  dopo,  un  numeroso  stuolo  d'amici  e 
d'ammiratori  ne  accompagnava,  mesto  e  riverente, 
la  salma  a  San  Miniato,  dove  gli  fu  poi  eretto  un 
sepolcro,  pel  quale  Gino  Capponi  —  che,  sebben 
cieco  ed  affranto  dal  dolore,  ne  aveva  voluto  se- 
guire il  feretro  —  dettò  una  bella  epigrafe. 

Liberata  la  patria,  anche  Monsumano  gli  eres- 
se, ventinove  anni  dopo,  un  più  ricco  monumen- 
to, sul  quale,  con  felice  pensiero,  fu  incisa  la 
calda  apostrofe  all'Italia,  dell'ode  Dello  scrivere 
per  le  gazzette  : 


Giuseppe  Giusti  87 


O  veneranda  Italia, 
sempre  al  tuo  santo  nome 
religioso  brivido 
il  cor  mi  scosse... 


IX. 


spesse  volte  la  fama  d'un  artista,  nei  primi 
anni  dopo  la  sua  morte,  declina  rapidamente; 
ma  così  non  accadde  di  quella  del  Giusti.  Le 
condizioni  della  patria  erano,  pur  troppo,  sempre 
simili  a  quelle  che  gli  avevano  ispirati  gli  «  scher- 
zi >,  e  quindi  la  sua  popolarità  durò  vivissima, 
anzi  parve  quasi  andar  crescendo,  fin  verso 
il  1870. 

Nel  1852,  Gino  Capponi,  al  quale  erano  restati 
i  manoscritti  del  poeta,  ne  raccoglieva,  coll'aiuto 
di  Marco  Tabarrini,  i  versi  già  pubblicati  essendo 
vivo  l'autore,  insieme  ad  altri  fino  allora  inediti, 
e  li  dava  a  stampare  ai  Le  Monnier.  II  governo 
toscano  s'affrettò  a  sequestrare  l'edizione  e  a  im- 
bastire un  processo  :  ma  il  Le  Monnier  invocò  la 
legge  sulla  libertà  di  stampa  non  ancora  revo- 
cata, e  il  governo,  comprendendo  di  aver  torto  e 
non  volendo  suscitare  chiassi,  finì  per  togliere  il 
sequestro  e  per  abbandonare  il  processo.  Tosto 
l'edizione  andò  a  ruba,  e  trovò,  al  solito,  chi  la 
contraffece  in  Toscana  e  anche  fuori,  dove,  se 
pur  non  vigeva  dappertutto  la  libertà  di  stampa, 
erano  sempre  fiorentissimi  il  contrabbando  e  il 
commercio  clandestino  dei  libri  patriottici. 


88  Egidio  Bellorini 

L'anno  dopo  il  Capponi  dava  un'altra  prova 
del  suo  memore  e  devoto  affetto  per  l'amico, 
riordinando,  arricchendo  e  pubblicando  la  Raccol- 
ta di  proverbi  ^oscaw/ che  il  Giusti  aveva  comin- 
ciato fin  dal  1836  e  alla  quale  aveva  poi  atteso 
di  quando  in  quando  fino  agli  ultimi  giorni  di 
vita,  ampliandola  ed  illustrandola  con  certe  sue 
narrazioni  ed  osservazioni  argute,  proponendosi 
di  contribuire  con  questo  lavoro  allo  studio  della 
lingua  e  all'  incremento  della  sapienza  pratica, 
<  di  quella  sapienza  che  non  figura  tra  le  monete 
d'oro,  ma  serve  mirabilmente  per  le  spese  minute 
della  vita»  {Ep.,  II,  313).  E  la  pubblicazione  ebbe 
tanto  favore  che  in  breve  se  ne  dovettero  fare 
nuove  edizioni. 

Tre  anni  più  tardi,  sempre  valendosi  larga- 
mente delle  carte  possedute  dal  Capponi,  Aurelio 
Gotti  dava  fuori  un  nuovo  volume  di  Scritti  vari 
in  prosa  e  in  verso  per  la  maggior  parte  inediti, 
tra  i  quali  figuravano  anche,  per  la  prima  volta, 
buona  parte  degli  scritti  ed  appunti  danteschi, 
che  il  Giusti  aveva  buttato  giù  in  tempi  diversi, 
e  dai  quali  aveva  sempre  avuto  intenzione  di  rica- 
vare un'opera  organica,  che  però  non  riuscì  mai 
a  comporre.  E  sebbene,  né  questi  né  gli  altri 
scritti  contenuti  nel  volume  —  come  i  Cenni  intor- 
no alla  vita  di  Celestino  Chili (1837),  che  sono  certo 
una  delle  prose  più  notevoli  del  Giusti  —  nulla 
aggiungessero  alla  fama  dell'autore,  pure  anche 
il  nuovo  volume  ebbe  parecchie  ristampe. 

Ma  ben  più  calorose  e  clamorose  accoglienze 
ebbero  i  due  volumi  A^W Epistolario  che,  sul  finire 


Giuseppe  Giusti  89 


del  1859,  pubblicava  Giovanni  Prassi,  insieme  con 
una  Vita  del  Giusti.  Queste  lettere  vedevano 
la  luce  nei  momento  in  cui,  avviata  ormai  al 
trionfo,  dopo  la  recente  guerra  vittoriosa,  l'opera 
della  unità  politica  d'Italia,  sembrava  più  che  mai 
urgente  affrettare  anche  l'opera  della  unità  lingui- 
stica, a  conseguire  la  quale  il  Manzoni  aveva 
additata  la  via  da  tanti  anni.  Le  lettere  del  Giusti, 
scritte  nel  vivente  linguaggio  toscano,  erano,  o 
almeno  parevano,  un  esempio  perfetto  di  quel  che 
dovesse  essere  la  lingua  italiana  moderna,  tanto 
più  che  alla  purezza  dei  vocaboli  molte  di  esse 
aggiungevano  una  strabocchevole  ricchezza  di 
modi  di  dire  caratteristici  ed  efficacissimi  e  una 
vivacità  di  espressioni  e  una  snellezza  di  perio- 
dare grandissima.  E  se  già  vi  era  stato  per 
l'addietro  chi  aveva  studiato  i  versi  del  Giusti 
come  un  testo  di  lingua,  ciò  avveime  ora  assai 
più  spesso  per  le  lettere  che,  diffuse  tra  le  per- 
sone colte  e  lette  e  studiate  nelle  scuole,  diven- 
nero, per  molti,  non  solo  un  testo,  ma  un  codice 
della  lingua  nazionale,  e  suscitarono  un  nugolo 
di  imitatori  che,  specialmente  se  non  erano  to- 
scani, esagerarono,  com'è  naturale,  la  tendenza 
che  già  appariva  talvolta  nel  modello,  ad  abusare 
dei   toscanesimi. 

Donde,  al  solito,  dopo  non  molti  anni,  la  rea- 
zione. 11  Carducci,  che  nel  1859  aveva  pubblicato 
una  edizione  delle  poesie  preceduta  da  pagine 
piene  di  ammirazione  per  il  poeta  di  Monsum- 
mano,  quindici  anni  più  tardi  si  ribellava  contro 
le  inconsulte  idolatrie,  e  tratto  dalla  sua  natura 


90  Egidio  Bellorini 


focosa,  esagerando  alquanto  egli  pure,  inveiva, 
non  solo  contro  i  malaccorti  imitatori  della  prosa 
giustiana,  o,  com'egli  diceva,  contro  i  «  cianciato- 
relli  che  ci  han  fradicio  e  seccato  e  stufato  in 
questi  ultimi  anni  >,  ma  anche  contro  il  Giusti 
stesso,  che,  come  prosatore  e  specialmente  come 
scrittore  di  lettere,  accusò  di  mancanza 'di  spon- 
taneità. <  Oh  quell'epistolario  così  freddo,  così 
artificioso,  così  civettuolamente  smorfioso  per 
chi  ha  letto  gli  epistolari  del  Monti,  del  Leopardi, 
del  D'Azeglio!  >;  e  dopo  aver  mosso  rimprovero 
al  Giusti  di  far  giri  e  rigiri  di  parole  per  «  venire 
a  introneggiare  la  frase  il  motto  l' immagine  che 
quel  giorno  gli  occupava  le  mente  >,  conchiudeva 
dicendo  che  la  sua  affettata  ribellione  a  tutto  ciò 
che  sapesse  di  accademico  e  di  studiato  era 
<  pedanteria  alla  rovescia,  pedanteria  in  maniche 
di  camicia  >.  E  così  il  Carducci  veniva  a  confon- 
dere un  po'  troppo  maestro  e  discepoli,  ed  esten- 
deva a  tutto  l'epistolario  e  quasi  a  tutta  la  prosa 
del  Giusti,  ciò  che  è  vero  di  una  parte  soltanto 
delle  lettere,  e  specialmente  di  quelle  che  il  Giu- 
sti scriveva  agli  amici  non  toscani,  agli  occhi  dei 
quali  amava  forse  un  po'  troppo  di  sfoggiare  la 
sua  dovizia  linguistica  e  la  disinvolta  famiglia- 
rità della  sua  parlata  toscana.  Invece  quante 
lettere,  specialmente  descrittive  e  narrative,  sono 
veramente  ammirabili  per  vivacità  e  spontaneità  ! 
tantoché  il  Biagi  potè  dire  persino  che  probabil- 
mente le  novelle  toscane  del  Fucini  sono,  in  certo 
senso,  una  derivazione  delle  lettere  del  Giusti 
che  descrivono  scene  rusticane. 


Giuseppe  Giusti  91 

E  questo  avrebbe  riconosciuto  certamente  Io 
stesso  Carducci,  se  avesse  avuto  occasione  di  ri- 
parlare della  prosa  giustiana  e  specialmente  se 
avesse  potuto  tener  conto  delle  Memorie,  pubbli- 
cate solo  nel  1890  da  Ferdinando  Martini,  nelle 
quali  il  Giusti  evitò  quasi  sempre  i  vezzi  un  po' 
artificiosi  delle  <  veneri  >  del  parlar  toscano. 

Ad  ogni  modo,  qualunque  sia  il  giudizio  che 
si  voglia  dare  della  prosa  giustiana,  considerata 
ne'  suoi  difetti,  non  v'  ha  dubbio  che  essa  con- 
tribuì efficacemente,  insieme  col  romanzo  del 
Manzoni  e  con  poche  altre  scritture  della  prima 
metà  del  secolo,  a  diffondere  il  gusto  di  una  pro- 
sa semplice  ma  non  trasandata,  e  ■  soprattutto 
schiettamente    italiana. 


Ma  il  Carducci  non  si  fermò  alla  critica  del 
Giusti  come  prosatore.  I  più  ferventi  ammiratori 
avevano  esaltato  il  Giusti  come  uno  dei  più  grandi 
poeti  del  secolo,  mettendolo  alla  pari  col  Foscolo, 
col  Leopardi,  e  il  Carducci,  pur  confermando  il 
suo  rispetto  per  il  Giusti  «  poeta  a  volte  origi- 
nale e  finissimo  >,  si  ribellò  anche  contro  questa 
esagerazione. 

E  d'allora  in  poi,  mentre  vediamo  moltiplicarsi 
le  edizioni  delle  poesie  e  delle  prose  del  Giusti, 
e  con  esse  i  commenti  e  gli  scritti  intorno  alla 
sua  vita  e  alla  sua  opera  letteraria,  tutti  impron- 
tati a  schietta  ammirazione,  sebben  spoglia  or- 
mai dalle  antiche  idolatrie  —  e   basti   ricordare. 


92  Egidio  B  e  Ilo  r  ini 


fra  i  tanti,  gli  scritti  di  Guido  Biagi,  di  Plinio 
Carli  e  soprattutto  quelli  di  Tommaso  Parodi  e 
di  Ferdinando  Martini  — ;  d'altra  parte  vediamo 
anche,  di  tanto  in  tanto,  sorgere  qualcuno  a  par- 
lar del  Giusti  con  una  cert'aria  di  compassione- 
vole commiserazione  od  anche  di  aperto  disprez- 
zo, come  se  si  trattasse  di  un  poetucolo  ormai 
insopportabile  al  nostro  gusto  mutato  e  raffinato. 
Esagerazioni  anche  queste,  delle  quali  è  ben  le- 
cito sorridere. 


Ma,  collo  scrittore,  si  colpì  qualche  volta  an- 
che r  uomo.  —  Già,  lui  vivo  o  morto  da  poco,  lo 
avevano  dipinto  a  colori  poco  belli  alcuni  suoi 
avversari  o  nemici  personali,  come  F.  D.  Guer- 
razzi, come  quel  gazzettiere  pieno  d' ingegno  ma 
poco  onesto  che  fu  Enrico  Montarlo  e  come  an- 
che Niccolò  Tommaseo,  il  quale,  sebbene  amicis- 
simo del  Capponi  ed  in  buoni  rapporti  personali 
col  Giusti  stesso,  non  seppe  trattenere  la  sua  ten- 
denza alla  critica  epigrammatica  e  mordace.  Il 
Montazio,  per  mettere  in  mala  luce  il  Giusti,  giunse 
a  dar  corso  a  delle  frottole,  come  quella  ch'egli 
fosse  morto  in  seguito  ad  eccessi  a  cui  si  sareb- 
be abbandonato  durante  un  pranzo  presso  i  rea- 
zionari frati  minori  osservanti  di  Monte  Olivete.  Il 
Guerrazzi  disse  che  il  Giusti  fu  uomo  «di  bello 
ingegno  ma  di  povero  cuore»  e  che  «dopo  aver 
scosso  con  braccio  di  Sansone  l'edificio  sociale 
ebbe  paura  dei  calcinacci  che  cascavano  >  ;  al 
che  fu  risposto  che  il  Giusti  non  ebbe  paura  dei 


Giuseppe  Giusti  93 

calcinacci  ma  delle  rovine,  come  ne  ebbe  paura 
lo  stesso  Guerrazzi  il  quale  invano  tentò  anche 
egli  di  correre  ai  ripari.  Il  Tommaseo  poi  coin- 
volse nella  sua  critica  l'artista  e  l'uomo.  Nei 
versi  del  Giusti,  secondo  lui,  manca  quello  che 
mancava  all'  uomo,  e  cioè  il  cuore.  «  II  suo  ge- 
mito è  fremito,  il  suo  riso  è  ghigno,  il  suo  zelo 
disprezzo  >.  Quando  il  Giusti  volle  scrivere  liri- 
che amorose  serie,  finse  dolori  che  non  sentiva 
e  «pianse  lacrime  d'inchiostro».  Nelle  sue  bat- 
taglie contro  il  vizio  e  per  la'patria,  <  il  Giusti  fa 
del  Tancredi  con  uno  stuzzicadenti  o  uno  spillo, 
e  insegna  la  pietà  della  patria  colle  beffe  ;  il  Giu- 
sti gamba  di  coniglio  e  cuore  di  gatto;  Stente- 
rello colle  mutande  di  Dante  ».  ¥u  iracondo,  ava- 
rissimo,  <  e  la  sola  eccezione  ch'egli  introdusse 
nella  sua  ingegnosa  taccagneria  consistè  nel  ve- 
stiario lindo  e  galante  >. 

Molt'anni  dopo,  Leopoldo  Barboni  tornò  alla 
carica,  e  dopo  aver  confermato  l'accusa  di  tac- 
cagneria, mise  anche  in  ridicolo  le  «  paure  del 
Giusti  e  i  suoi  rinnegamenti  di  fronte  alla  polizia 
lorenese,  che,  del  resto,  non  lo  pigliò  mai  sul  se- 
rio, reputandolo,  com'era  in  fatti,  un  Aristofane  e 
un  Giovenale  di  carta  pesta  >.  Ed  Emilio  Del  Cer- 
ro, dal  canto  suo,  in  seguito  a  certe  indagini  su 
i  documenti  della  polizia  toscana,  credette  di 
poter  concludere  che  il  Giusti  fu,  non  solo  di 
animo  pacifico,  ma  di  carattere  frollo,  che  la  sua 
satira  fu  una  mera  esercitazione  letteraria,  e  che 
l'animo  del  cittadino  non  valeva,  in  ogni  caso,  la 
frusta  del  poeta. 


94  Egidio  Bello r ini 

Da  ultimo  Giacomo  Surra  prese  ad  esaminare 
con  molta  diligenza  e  con  grande  acume  ma  con 
spirito,  oserei  dire,  un  po'  inquisitorio  tutte  le  ope- 
re e  tutte  le  vicende  della  vita  del  Giusti,  e  finì 
per  concludere  che  fu  un  uomo  poco  sincero,  che 
ebbe  affetti  deboli  e  sentimenti  poco  profondi  — 
ove  sì  eccettui  l'amor  di  patria  —  e  che  appunto 
perciò,  se  anche  fu  spesso  artista  valente,  rara- 
mente fu  poeta  vero. 

Ora,  che  in  tutto  questo  male  detto  del  Giusti 
come  uomo  vi  sia  qualche  fondamento  di  verità 
è  innegabile;  ma  quanto  vi  è  anche  d'esagerato! 
Il  Martini  e  il  Carli  lo  dimostrarono  già,  ed  io 
non  ripeterò  quello  ch'essi  hanno  detto  assai  bene. 

Certo  il  Giusti  non  fu  un  uomo  perfetto.  Fu, 
come  suo  padre,  alquanto  tirato  nello  spendere, 
e  non  sempre  molto  riguardoso  o  delicato  nei 
rapporti  colle  donne  che  corteggiò  ;  come  non  fu 
sempre  rispettoso  nei  rapporti  col  padre,  che, 
d'altronde,  non  era  sempre  dalla  parte  della  ra- 
gione. Afflitto  da  disturbi  di  fegato  e  d' intestino, 
e  malato  anche  di  nervi  dopo  la  scossa  avuta  nel 
1843,  non  fu  sempre  di  umore  piacevole,  e  si  ab- 
bandonava talvolta  a  scatti  d'ira,  che  lo  spinsero 
anche,  in  qualche  raro  caso,  alla  satira  violenta 
e  personale.  Timido  nei  rapporti  sociali,  non  ebbe 
sempre  il  coraggio  di  manifestare  apertamente  il 
proprio  sentimento  quando  si  trovava  davanti  a 
persone  che  non  stimava  o  non  amava,  e  faceva 
loro  egualmente  buon  viso.  Ma  non  fu  neppure 
quel  mostro  morale  che  dipinsero  certi  suoi  ne- 
mici ed  anche  certi  suoi  critici.   Ebbe   amici  fé- 


Giuseppe  Giusti  95 


deli  e  li  amò  fedelmente  tutta  la  vita;  nutrì  rive- 
renza profonda  per  qualcuno  di  essi,  come  per  il 
Manzoni  e  per  il  Capponi,  e  non  vorremo  fargli 
carico  se  talvolta  si  mostrò  un  po'  vano  di  queste 
amicizie.  Se  l'occasione  si  presentò,  seppe  anche 
essere  giusto  coi  nemici,  come  quando,  nel  1849, 
propose  ed  ottenne  che  il  Guerrazzi,  che  l'aveva 
combattuto  aspramente  poco  prima  al  momento 
delle  elezioni  politiche,  fosse  nominato  accade- 
mico corrispondente  della  Crusca.  Amò  sempre 
e  caldamente  la  patria,  e  questo  amore  trasfuse 
tutto  ne'  suoi  versi  ;  e  se  questi  non  gli  attira- 
rono persecuzioni  dalla  polizia,  ciò  si  dovette, 
non  alla  persuasione  che  essi  fossero  un  innocuo 
esercizio  letterario  —  come  credettero  il  Barboni 
e  il  Del  Cerro  — ,  ma  al  fatto  che  la  polizia  to- 
scana non  osava  perseguitare  nessuno  per  le  sue 
scritture,  tantoché  non  molestò  mai,  per  i  loro 
scritti,  né  il  Guerrazzi,  né  il  Niccolini. 

Insomma  il  Giusti  non  fu  un  eroe  ;  anzi  fu  un 
uomo  che  ebbe  difetti  e,  se  vogliamo,  anche  vizi; 
ma  ebbe  pure  dei  meriti  e  delle  virtù  di  cui  gli 
va  tenuto  conto,  e  di  cui  certamente  gli  tennero 
conto  i  suoi  fedeli  amici,  e  soprattutto  il  Capponi 
che  tanto  fece  per  averlo  con  sé,  che  ne  difese 
con  tanto  calore  la  memoria  quando  un  france- 
se, Gustavo  Planche,  ne  parlò  con  poco  rispetto 
nelle  Revtie  des  deiix  inondes,  e  che  ne  curò  con 
tanto  affetto  le  opere,  dopo  che  la  morte  lo  ebbe 
strappato  dal  suo  fianco.  Inoltre  e  soprattutto  noi 
dobbiamo  ricordare  i  suoi  meriti  di  poeta,  pei 
quali  soltanto  la  nostra  attenzione  si  rivolge  oggi 


96  Egidio  Bellorini 


a  luì,  inducendoci  a  scrutare  con  una  curiosità 
talvolta  indiscreta  —  come  del  resto  siamo  soliti 
fare  con  tutti  gli  uomini  famosi  —  i  piij  minuti 
particolari  della  sua  vita  privata.  E  i  meriti  di 
poeta  non  è  lecito  ormai  negarli  ragionevolmente 
perch'egli  fu  poeta  vero,  se  non  grande,  e  perchè 
la  sua  opera  ha,  com.e  si  è  dimostrato,  un  carat- 
tere tutto  suo,  originalissimo,  per  il  quale  dob- 
biamo assegnarle  un  posto  onorevole  nella  storia 
della  nostra  letteratura,  nel  periodo  che  corre  tra 
il  primo  tentativo  infelice  di  riscossa  nazionale 
del  1831,  e  la  sfortunata  ma  gloriosa  guerra  del 
1848-49.  Ed  anche  dobbiamo  ricordare  che  questi 
suoi  versi  ebbero  efficacia  grandissima  nel  pre- 
parare gli  animi  a  questa  prima  e  a  tutte  le  suc- 
cessive guerre  combattute  pel  risorgimento  della 
patria. 

Delle  Mie  prigioni  si  disse  che  danneggiarono 
l'Austria  più  di  una  battaglia  perduta.  Gli  «  scher- 
zi >  del  Giusti  non  ebbero  e  non  potevano  avere 
la  diffusione  mondiale  del  libretto  del  Pellico  ;  ma, 
dentro  i  confini  d' Italia,  recarono  anch'essi  un 
danno  gravissimo  all'Austria  e  ai  prìncipi  indi- 
geni che  le  tenevano  bordone.  Essi  furono,  coi 
romanzi  del  Guerrazzi  e  del  D'Azeglio,  colle  poe- 
sie patriottiche  del  Berchet  e  del  Rossetti,  colle 
tragedie  del  Niccolìni,  vital  nutrimento  spirituale  a 
quei  giovani  che  sulle  barricate  di  Milano,  per  le 
vie  di  Brescia,  sui  campi  di  battaglia  della  Lom- 
bardia e  del  Veneto,  sulle  mura  di  Roma  e  nella 
laguna  di  Venezia  affrontarono  il  nemico,  e  ver- 


Oiiiseppe  Giusti  97 

sando  il  loro  sangue  per  la  patria  ne  prepararono 
il  risorgimento. 

E  se  oggi,  dopo  che  più  di  settant'  anni  son 
trascorsi  dalle  morte  del  poeta,  quei  versi  non 
sono  più  popolari  come  in  quegli  anni  gloriosi 
e  remoti,  né  più  gli  artigiani  se  li  fanno  leggere 
e  commentare  dai  giovani  studenti,  né  più  gli  stu- 
denti stessi  ne  fanno  la  loro  lettura  favorita,  dovre- 
mo perciò  meravigliarci  o  dire  —  come  qualcuno 
ha  osato  —  che  ciò  sta  bene,  perchè  la  fama  del 
Giusti  era  usurpata?  —  No  certamente,  perchè  è 
destino  comune  a  quasi  tutte  le  opere  letterarie, 
anche  alle  più  grandi  e  gloriose,  di  essere  lasciate 
alquanto  in  disparte  dai  posteri,  non  appena  le 
idee,  le  passioni,  le  vicende  che  le  hanno  inspi- 
rate e  le  tendenze  letterarie  alle  quali  risposero, 
si  trasformano  o  scompaiono  col  passar  del  tem- 
po, e  sorgono  altre  opere  d'arte,  forse  di  minor 
valore  intrinseco,  ma  che  rispondono  alle  nuove 
idee,  alle  nuove  passioni,  alle  nuove  circostanze, 
alle  alle  nuove  tendenze  letterarie.  Ma  delle  opere 
che  hanno  veramente  pregio  d'arte,  qualcosa  so- 
pravvive sempre,  e  fa  vibrare  ogni  animo  creato  a 
sentire  il  bello.  Per  questo  piacciono  ancora  i  più 
spigliati  <  scherzi  »  giustiani,  dalla  Guigliottina  a 
vapore  al  Brindisi  di  Girella,  alla  Chiocciola,  al 
Re  Travicello,  alla  Rassegnazione,  al  Delenda  Car- 
thago,  e,  pur  facendo  sorridere,  destano  sempre 
nell'animo  un  dolce  sentimento  di  commozione  le 
ottave  del  Sant'Ambrogio. 

Il  resto  dell'opera  letteraria  del  Giusti  può 
avere  ed  ha  forse  soltanto  ormai  valore   storico, 

Propili  —  G.  Giusti.      •  7 


98  Egidio  Bellorini 


ma  questi  e  alcuni  altri  «  scherzi  >  sono  sempre 
poesia  viva,  e  si  può  credere  che  lo  saranno  an- 
cora tra  molti  anni,  quando  tante  opere  che  ora 
sembrano  vive  e  grandi,  avranno  soltanto  un  va- 
lore storico. 


=^11 


NOTA  BIBLIOGRAFICA 


Una  completa  Bibliografia  giiistiana  aveva  cominciato  a 
pubblicare  Ugo  Ceccherini  nella  «Rivista  abruzzese  »  del 
1893,  ma  non  la  portò  a  compimento. 

Dopo  d'allora  nessuno  riassunse  l' impresa,  cosicché  gli 
studiosi  devono  contentarsi  delle  indicazioni  bibliografiche  che 
si  trovano  nei  soliti  repertori,  come  l'Ottocento  di  Guido 
Mazzoni  e  il  Manuale  della  leti.  ital.  dei  professori  D'Ancona 
e  Bacci.  Un'utile  rassegna  di  pubblicazioni  giustiane  uscite 
in  occasione  del  centenario  della  nascita  fece  Rosolino  Gua- 
stalla nel  «  Giornale  storico  della  lett.  ital.  ■»  del  1910.  Qui  mi 
contenterò  di  ricordare  le  pubblicazioni  di  maggiore  impor- 
tanza. 

I.  —  Opere  del  Giusti. 

Alcune  poesie  furono  pubblicate  sparsamente,  mentre  vi- 
veva l'autore,  in  fogli  volanti,  in  raccolte  onorarie,  in  strenne, 
in  riviste  o  giornali,  dal  1826  in  poi.  Ma  la  prima  edizione  no- 
tevole de'  suoi  versi  è  quella  del  volumetto  anonimo  intitolato 
Poesie  italiane  tratte  da  una  stampa  a  penna  (Italia,  ma  Lu- 
gano, 1844)  che  diede  occasione  al  G.  — com'è  detto  nel  testo, 
cap.  V,  —  di  pubblicare  l'opuscolo  di  Versi  di  serio  argomento 
(Livorno,  Antonelli  e  C,  1844)  in  testa  al  quale  figura  il  suo 
nome,  e  che  contiene:  La  fiducia  in  Dio,  Affetti  d'  una  madre, 
All'amica  lontana,  All'amico  nella  primavera  del  IS41,  Sospiro 
dell'anima,  Ad  una  giovinetta.  L'anno  dopo  usciva,  senza  no- 
me dell'autore,  ma  da    lui  curato,  il   volume  di   Versi  (Bastia, 


100  Bibliografia 


tip.  Fabiani)  che  contiene  i  primi  32  scherzi  delle  consuete 
edizioni  di  poesie  del  G.,  dalla  Guigllottina  a  vapore  al  Gin- 
gillino. In  seguito,  colla  data  1847,  ma  in  realtà  al  principio  del 
1848,  usciva  in  Firenze,  tip.  Baracchi  succ.  G.  Piatti,  un  volu- 
metto di  Nuovi  versi  di  Giuseppe  Giusti,  con  altre  13  poesie, 
scherzi  la  maggior  parte,  composte  dopo  la  pubblicazione  della 
edizione  di  Bastia.  È  inutile  aggiungere  che,  date  le  condizioni 
del  commercio  librario  in  quei  tempi,  ognuna  di  queste  edi- 
zioni diede  origine  a  numerose  altre  edizioni  fatte  senza  il 
consenso  dell'autore.  Nel  1848  egli  pensava  di  raccogliere  in 
un  solo  volume  tutte  le  sue  poesie;  ma  non  potè  condurre  a 
compimento  questo  disegno,  che  fu  ripreso  poi,  dopo  la  sua 
morte,  da  Gino  Capponi  e  Marco  Tabarrini,  per  cura  dei  quali 
fu  pubblicato  nel  1852  (Firenze,  Le  Monnier)  il  volume  di  Versi 
editi  e  inediti,  edizione  postuma  e  corretta  sui  manoscritti, 
che  servì  poi  di  fondamento  a  tutte  le  edizioni  posteriori.  — 
D'allora  in  poi  le  edizioni  dei  versi  si  moltiplicarono,  accre- 
scendosi via  via  di  componimenti  inediti  o  pubblicati  sparsa- 
mente durante  la  vita  del  G.  e  rimasti  ignoti  ai  precedenti  edi- 
tori. Tra  queste  edizioni  convien  ricordare  gli  Scritti  vari  in 
prosa  e  in  versi  per  la  maggior  parte  inediti  pubblicati  da 
Aurelio  Gotti  (Firenze,  1856),  il  volumetto  diamante  delle  poe- 
sie curato  da  G.  Carducci  (Firenze,  1859),e  le  edizioni  commen- 
tate da  O.  Turchetti  (Firenze,  1868),  G.  Fioretto  (Padova,  1875), 
P.  Fanfani  (Milano,  1876,  e  con  postille  di  G.  Frizzi,  1881),  C. 
Causa  (Firenze,  1882),  G.  Biagi  (Firenze,  18841,  G.  Puccianti 
(Firenze,  1899),  C.  Romnssi  (Milano,  1899),  E.  Ceria  (Torino,  1902), 
E.  Bicci  (Firenze,  1905),  R.  Guastalla  (Livorno,  1910),  P.  Carli 
(Firenze,  1912),  E.  Marinoni  (Milano,  1918),  E.  Bellorini  (Torino, 
1921).  Le  edizioni  più  complete  sono  quelle  curate  da  E.  Chec- 
chi (Firenze,  Le  Monnier),  e  F.  Martini  (Firenze,  Sansoni). 

Quanto  alle  prose,  a  non  tener  conto  di  qualche  lettera  o 
articoletto,  possiamo  dire  che  il  primo  saggio  notevole  sia 
stato  il  Discorso  su  G.  Parini  (Firenze,  Le  Monnier,  1846). 
Morto  l'autore,  uscì  nel  1853,  (Firenze,  Le  Monnier),  per  cura 
di  G.  Capponi,  la  Raccolta  di  proverbi  toscani,  alla  quale 
tennero  dietro  nel  1857  i  già  citati  Scritti  vari  in  prosa  e  in 
verso  per  la  maggior  parte  inediti^  \'  Epistolario  che,  pubbli- 
cato da  Giovanni  Frassi,  in  due  volumi,  nel  1859  (Firenze,  Le 
Monnier)  fu  poi  ripubblicato  in  tre  volumi,  nel  1904,  da  Ferdi- 


Bibliografia  lOI 


nando  Martini,  il  quale  rivide  diligentemente  il  testo  delle  lettere 
già  pubblicate,  molt'altre  ne  aggiunse  e  tutte  illustrò  con  note 
ed  appendici.  Un'  altra  notevole  raccolta  sono  le  Lettere  Ja- 
migliari  inedite,  pubblicate  da  G.  Babbini  —  Giusti  (Pescia, 
1897)  ;  ma  ben  più  notevoli  sono  le  Memorie  inedite  (1845-49) 
pubblicate  da  Ferdinando  Martini  (Milano,  1890)  con  introdu- 
zione e  appendici.  Assai  minore  importanza  hanno  altre  pub- 
blicazioni di  prose,  come  le  Postille  alla  Divina  Commedia 
edite  da  G.  Crocioni  (Città  di  Castello,  1898),  e  le  Nuove  po- 
stille alla  Divina  Commedia  edite  da  G.  Pedrotti  (Girgenti, 
1904).  Delle  lettere  e  di  altre  prose  scelte  si  fecero  numerose 
edizioni  per  le  scuole,  con  note.  Le  più  notevoli  sono  quelle  di 
G.  Rigutini  (Firenze,  1861),  P.  Carli  (Firenze,  1914),  ed  E.  Ma- 
r:noni  (Milano,   1918). 

II.  —  Scritti   sulla    vita  e  sulle   opere  del  Giusti. 

Sono  numerosissimi.  Ricorderò  soltanto  quelli  che  mi  sem- 
brano più  notevoli,  in  ordine  alfabetico,  avvertendo  che  ad 
essi  bisognerebbe  aggiungere  le  già  citate  introduzioni  e  ap- 
pendici del  Martini  alle  opere  del  G.,  e  le  introduzioni  o  pre- 
fazioni a  quasi  tutte  le  edizioni  delle  poesie  e  delle  prose  del 
Giusti. 

1.  -  AzzoLiNA  L.,  La  poesia  del  G.,  nell'  <  Annuario  del  R.  liceo 

di  Cagliari  >  del  1914. 

2.  -  Barboni    L.,    Geni  e    capi  ameni   nell'Ottocento   (Firen- 

ze, 1911). 

3.  -  BiAGi  G.,  La  fama  postuma  del  G.  nel  volume  «Aneddoti 

letterari  »  (Milano,  1887)  ;  Amori  giustiani  nella  «  Illustra- 
zione italiana  >  dell'S  agosto  1909  ;  Ricordi  giustiani  in 
Valdinievole,  nella  «  Lettura»  del  luglio  1909. 

4.  -  Capponi   G.,  Sopra  un  articolo    intorno   a    G.   G.,   negli 

<  Scritti  vari  »,  Firenze.   1863. 

5.  -  Carducci  G.,  G.  G.;  Correttivo  al  saggio  su  G.  G.  ;  Dopo 

quindici  anni,  <  Opere  »  II,  VII,  XIX. 

6.  -  Carli  P.,  G.  C,  romanziere  ?  nella  «  Miscellanea  in  onore 

di  V.  Clan  »,  Pisa,  1909  ;  Intorno  ad  alcuni  autografi  di 
G.  G.,  nel  «  Giorn.  stor.  delle  lett.  ital.  »,  1909;  G.  G.  sot- 
to processo  nel  «  Fanfulla  della  Domenica  »  del  12  otto- 
bre 1913. 


102  Bibliografia 

7.  -  Coppola  S.,  P.  J.  De  Béranger  e  G.  Giusti,  nella  <  Rivi- 
sta abruzzese  >  del  1906. 
8  -  Croce  B.,  G.  G.,  nella  <  Critica  »  del  20  marzo   1923. 

9.  -  Del  Cerro  E.,  Misteri  di  polizia  (Firenze,  1890). 

10.  -  Del  Lungo  I.,  La  poesia  di  G.  G.,  nella  <  Vita  italiana 
del  Risorgimento  »,  111,  serie  I  (Firenze,  1909). 

11.  -  Foresi  M.,  G.  G.,  nella  e  Rassegna  nazionale»  del  16 
maggio  1909.  ' 

12.  -  Prassi  G.,  Vita  di  G.  G.,  premessa  aW Epistolario. 

13.  -  Gargano  G.  S.,  G.  G.,  nel  e  Marzocco  »  del  15  agosto  1909. 

14.  -  Ghivizzani  G.,  G.  G.  e  i  suoi  tempi,  Reggio  Emilia,  1882. 

15.  -  Gnoli  T.,  Le  satire  di  Giovanni  Giraud,  Roma,  1903. 

16.  -  Guastalla  R.,  La  donna  nella  vita  del  G.,  nella  «Nuova 
Antologia»  del  16  luglio   1909. 

17.  -  Martini  F.,  G.  G.  ;  //  G.  studente;  L'onorevole  G.  G.  ; 
Le  Memorie  del  G.  e  la  Toscana  dal  IS45  al  1S49,  nel  vo- 
lume «Simpatie»,  Firenze,  1900.  —  Nel  Centenario  di  G. 
G.  ;  Il  G.  in  Campidoglio,  nel  volume  «  Pagine  raccolte  » 
(Firenze,  1912). 

18.  -  Mazzoni  G.,  L'Ottocento,  Milano,  Vallardi;  Due  noterei- 
le  giustiniane,  nella  «Illustrazione  italiana»  dell' 8  ago- 
sto 1909. 

19.  -  Micheli  P-,  Le  idee  critiche  di  G.  Q.,  nel  «  Saggiatore» 
del  1901  ;  Il  G.  critico  letterario,  nelle  «  Pagine  critiche» 
del  1920. 

20.  -  Monnier  M.,  U  Italie  est-elle  la  terre  des  morts  ?  (Pa- 
rigi, 1860). 

21.  -  MoNTAZio  G.,  Q.  G.  (Torino,   1862). 

22.  -  Ottolini  a.,  Le  forme  metriche  del  G.  ;  Le  donne  e  gli 
amori  del  G- ;  Il  sentimento  religioso  del  G-,  nella  «Ri- 
vista d'Italia»,  marzo,  maggio  e  ottobre   1909. 

23.  -  Palmarocchi  R.,  Béranger  e  Giusti,  nella  «  Rassegna  na- 
zionale »  del  dicembre  1909. 

24.  -  Panzacchi  e.,  C.  G.  nel  voi.  «  Teste  quadre  »  (Bolo- 
gna, 1881). 

25.  -  Parodi  T.,  G-  G.,  nel  volume  «Poesia  e  letteratura», 
(Bari,  1916). 

26."-  Scherillo  M.,  Proemio  alle  Prose  e  poesie  di  G.  G.,  scelte 
da  G.  Marinoni  (Milano,  1915). 


Bibliografia  103 


27.  -  ScHiFF  GiORGiNi  M.,  VMorina  e  Matilde  Manzoni  (Pi- 
sa, 1910). 

28.  -  Settembrini  L.,  Lezioni  di  letteratura  italiana,  ca.ip.  CU. 

29.  -  Stampa  S.,  A.  Manzoni,  la  sua  famiglia,  i  suoi  amici 
(Milano,  1885). 

30.  -  Surra  G.,  //  discorso  del  G.  sul  Parini;  Impronte  giustia- 
ne  nelle  poesie  di  G-  Carducci;  Imitazioni  e  reminiscenze 
nelle  poesie  del  G-  nel  «  Giorn.  stor.  della  lett.  ital.  »  del 
1913-14  ;  —  Indagini  sul  carattere  e  sull'arte  di  G.  G., 
nelle  <  Memorie  della  reale  Accademia  delle  Scienze  di 
Torino  »,  1914. 

29.  -  Tabarrini  M.,  Gino  Capponi,  i  suoi  tempi,  i  suoi  studi, 
i  suoi  amici  (Firenze,  1879;. 

30.  -  Tommaseo  N.,  Di  G.  P.  Vieusseux,  Firenze,  1869;  Carteg- 
gio con  G.  Capponi,  passim. 

31.  -  TOMMASONI  G.,  Se  il  Manzoni  stimasse  il  G.,  nel  «  Fan- 
fulla  della  domenica  >  del  20  dicembre  1885. 

32.  -  TORRACA  F.,  Giusti  e  Béranger,  nella  «  Illustrazione  ita- 
liana >  dell'agosto  1909. 

33,-  ZuMBiNi  B.,  Varte  del  G.  nella  <>:  Illustrazione  italiana  > 
dell'8  agosto  1909. 

Mantre  correggo  le  bozze  a  questo  mio  lavoretto,  leggo,  nella 
Critica  del  20  marzo  1923,  la  nota  di  Benedetto  Croce,  in  cui  si 
esprime  l'opinione  che  quella  del  Giusti  sia  «  poesia  prosa- 
stica »,  e  cioè  una  poesia  che  si  chiama  con  tal  nome  solo  per- 
chè ha  forma  metrica,  mentre  «  nella  sua  realtà  è  prosa  >.  Tra 
i  poeti  prosastici  —  dice  il  Croce  -  il  Giusti  è  uno  dei  <  più 
eminenti  »,  e  i  suoi  versi  hanno  pregi  letterari  non  piccoli,  ma 
egli  è  pur  sempre  «  poeta  prosastico  »  e  non  vero  poeta.  E  que- 
sta appunto  sarebbe  la  ragione  per  cui  la  sua  fama  scemò  così 
rapidamente  da  un  certo  tempo  in  qua.  —  Un'opinione  di  Be- 
nedetto Croce  è  sempre  degna,  non  solo  di  rispetto,  ma  di  se- 
rio esame;  pure  confesso  che  questa  sua  intorno  al  Giusti  non 
mi  persuade  del  tutto. 

Non  ho  qui  spazio  a  discuter  di  ciò:  chi  desiderasse  sa- 
pere quel  eh'  io  pensi,  potrà  vedere  le  obiezioni  che  mossi 
altrove  (Poesie  di  G.  Giusti,  Torino,  U.  T.  E.  T.,  1921,  p.  XXVI) 
a  Giacomo  Surra  il  quale,  fin  dal  1914,  sostenne  (sebbene  per 
ragioni  diverse  da  quelle  del  Croce)  che  il  Giusti  è  artista  va- 
lente, ma  di  rado  vero  poeta. 


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PQ  Bellorinl,  Egidio 

4692  Giuseppe  Giusti 

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