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Full text of "Il Propugnatore ... : periodico bimestrale .."

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Sunford  Unlvereity  U( 

6105  119  004  005 


IL  PROPUGNATORE 


NUOVA   SERIE 


IL  PROPUGNATORE 

NUOVA  SERIE 
PERIODICO  BIMESTRALE 

DIRETTO 

GIOSUÈ  CARDUCCI 

COMPDJ^TO 

I.  Sia  mu  LIGI,  I.  USUI,  e.  irati,  g.  uizon, 
s.  wEpimo,  i  mm,  o.  min 

Voi.  IV.  -  Parts  I. 


BOLOGNA- 
PRESSO  ROMAGNOLI-DALL- ACQUA 

UbniHiliton  dtllt  ÌL  Cumiaim  |«'  Ttsti  di  Liogu 
.    1891 


IL  PROPUGNATORE 


NUOVA   SEHIE 


IL  PROPUGNATORE 


NUOVA  SERIE 


PEItlODICO  BIMESTRALE 


GIOSUÈ  CARDUCCI 

COHPnJkTO 

1.  uccn  liiu  ucA,  T.  ai,  e.  futi,  g.  uzzoli, 
s.  miinco,  I.  zm,  o.  zniini 

Voi.  IV.  -  Parta  I. 


BOLOGNA 
PRESSO  ROMAGNOLI-DALL'  ACQUA 

litnJHiliten  dtUi  EL  ()}adisìou  ;«'  Tuli  dì  Litgu 
.    1891 


Proprietà  Letteraria 


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Bologna  1S91.  Tipi  Fata  e  Garagn&ni 


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(Ùond'o    >\.^it;i    '«Wcl'     >:   m^tiirat^^ 


•     -   • 


SER  PIERO  BONACCfbfel 


•  •    -     _ 


S  IL  SUO 


CAMMINO  DI  DANTE 


•    •    •. 


Le  dae  Epistole  di  ser  Piero  Bonaccorsi  a  frate 
Romolo  de'  Medici,  che  ora  presento  ai  cultori  delle  cose 
dantesche,  non  costituiscono  an  vero  e  proprio  com- 
mento ,  ana  interpretazione  cioè  dei  sensi  reconditi  e 
dei  passi  oscuri  della  Commedia.  Bensì  è  facile  vedere 
che  nella  candida  esposizione  dell'orditura  del  Poema  il 
buon  notaio  ebbe  un  intento  speciale  :  ei  volle  nella  prima 
delle  due  Epistole  rappresentare  particolarmente  air  a- 
mico  la  struttura  dei  tre  regni  oltremondani;  nella  se- 
conda toccare  più  strettamente  della  cronologia  del  viaggio 
dantesco.  —  L' importanza  delle  dae  questioni,  e  il  tempo 
in  cui  furono  scritte  me  le  fecero  parer  degne  di  studio. 
La  mancanza  poi  di  notizie  sull'  autore  mi  spinse  a  ri- 
cercarne neir  Archivio  fiorentino,  onde  ho  potuto  ricavare 
la  biografia  del  Bonaccorsi  e  qualche  cenno  sulla  sua 
famiglia. 

L 

La  consorteria  Buonaccorsi  è  delle  più  estese  ed 
intricate  di  Toscana,  e  per  conseguenza  delle  meno  stu- 


•..' 


b  .  •/.  :•  •     G.  BRUSCHI 

diate  e.nJte.  H'Gamurrini  nella  sua  Historia  genealo- 
gicq'4^m 'famiglie  Toscane  et  Umbre  non  fa  che  no- 
ipinàrtfe  qua  e  là  membri  staccati,  senza  darne  uno 
.  •;;.'•.  studio  particolare.  Il  Passerini  non  ne  parla  che  alla 
sfuggita  in  una  delle  note  alla  Manetta  de"  Ricci  (1);  e  il 
Tiribillini  al  tomo  II  delle  Famiglie  Fiorentine ,  dopo  un 
breve  preambolo  sulla  difficoltà  di  trattare  di  questa  con- 
sorteria, pur  citando  in  fondo  del  suo  artìcolo  Monaldi  e 
Ammirato ,  Marchesi  e  Gamurrini ,  ripete  alla  lettera 
ciò  che  ne  ha  scritto  il  Passerini,  a  cui  bisogna  ri- 
mettersi. —  Il  Passerini  adunque  distingue  meglio  che 
nove  consorterie  di  questo  nome:  i  Buonaccorsi  Pina- 
dori,  detti  cosi  da  una  pinna  d' oro  dipinta  nel  loro  stem- 
ma ;  i  Buonaccorsi  di  Vanni ,  ascritti  all'  arte  degli  0- 
rafi  (2);  i  Buonaccorsi  Passerini,  i  più  antichi  di  tutti, 
trovandosi  fin  dal  1196  un  Bonaccorso  Passerini  nel  con- 
siglio del  Comune;  i  Bonaccorsi  di  Noferi,  derivati  da 
Simone  di^Messer  Buonaccorso  da  Passignano,  priore 
nel  1302;  i  Buonaccorsi  di  Obese,  a  cui  appartiene 
Ghese  di  Bonaccorso  priore  nel  1319;  i  Bonaccorsi  Cer- 
bini,  sorti  durante  il  principato,  e  venuti  da  Montopoli;  e 
finalmente,  per  tacere  d' altri,  i  Buonaccorsi  Corazzai ,  a 
cui  appartiene  il  nostro  ser  Piero. 

€  I  Buonaccorsi  Corazzai  (3),  detti  più  in  antico  dei 
Valdigiani  da  Brustugliole,  luogo  della  loro  origine,  por- 
tarono per  stemma  un  leone  d'oro  rampante  in  campo 
azzurro  e  tenente  una  roncola  dorata.  Cominciarono  ad 
ottenere  il  priorato  nella  persona  di  Piero  di  Bonaccorso 
corazzalo   nel   1402 ,   e  da    quell'  epoca    al  1510    lo 

(1)  Ademollo,  Alarietta  de'  Ricci,  Fir.  Chiari,  1845,  VI,  1987. 

(2)  Vedi  C.  Guasti,  LetUre  di  un  Notaro,  Firenze,   1880,  voi.  I, 
pag.  XXIV. 

(3)  Passerini,  op.  ciL,  pag.  1989. 


SER  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  7 

conseguirono  sei  ^olle.  Ser  Buonaccorso  di  Piero  fu  no- 
taro  della  Signorìa  nel  1427,  ambasciatore  a  Siena  nel 
1410,  in  Savoia  nel  1422  ;  ser  Piero,  suo  figlio,  fu  can- 
celliere  dei  Signari  nel  1441;  ser  Bonaccorso  di  Leo- 
nardo nel  1502,  1508  ;  e  ser  Giuliano  suo  figlio  nel  1506, 
1506  e  1513.  Leonardo  suo  fratello  fu  da  Leone  X 
ascrìtto  tra  i  cavalierì  dell'  ordine  di  San  Pietro  e  deco- 
rato del  titolo  e  privilegi  di  Conte  Palatino.  Mancò  questa 
casa  in  Tiberio  Gaetano  di  Bonaccorso  Maria  d' Angelo, 
morto  il  20  ottobre  1724  >. 

La  provenienza  dei  nostri  corazzai  dal  Mugello  è  mani- 
festa anche  dalla  rassegna  dei  loro  beni  nelle  Portate  al 
Catasto  (1);  che  anzi  il  nome  stesso  di  Brustugliole  nel- 
l'Alpe di  S.  Godeiizo  da  cui  anticamente  furono  chia- 
mati, apparisce  nella  descrizione  di  uno  dei  poderi  (2). 
Del  capostipite  Bonaccorso  non  trovo  memoria  ;  bensì 
Piero  di  Bonaccorso  appare  nello  squittinio  del  14  febbraio 
1381  (2)  :  egli  è  ascritto  al  gonfalone  Lion  d'  oro  del 
quartiere  S.  Giovanni.  Nel  1385,  per  rogito  di  ser  Naddo 
di  ser  Nepo  di  Montecatini  (3) ,  prende  a  fitto  una  bot- 
tega da  corazzalo  nel  corso  Àdimari ,  ora  Calzaioli ,  da 
Vieri  di  Cambio  de' Medici;  nel  1402  ascende  pel  bi- 


ci) Archivio  di  Stato.  Portate  al  Catasto  del  1427,  Drago,  S.  Gio- 
vanni  :  e  Item  uno  podere  con  ebase  da  oste  et  da  lavoratore ,  et  co- 
lombaio, con  terre  aratore,  vigniate,  prati,  pasture,  boscbi  posti  nel  po- 
polo di  S.ta  Maria  d*Àgniano,  podesterìa  di  Dicbomano,  luogbo  detto 
Àlpignano,  cioè  nella  montagna  di  S.  Ghodenzio,  di  lungi  da  Firenze 
miglia  23.  Nel  quale  si  contenghono:  due  ebase,  poste  nel  popolo  di 
s.to  Lorenzo  a  Brustugliole,  con  forno  per  metà  con  mona  Isabella,  G- 
gliuola  fu  di  Giuliano  >. 

(2)  Delizie  degli  erud.  tose,  Tom.  XVI,  pag.  ^18. 

(3)  Protocolli  di  ser  Naddo  di  ser  Nepo  da  Montecatini,  n.  11,  an. 
1384-1388,  a  e.  10  v. 


8  a.  BRUSCHI 

mestre  Gennaio-Febbraio  alla  prima  magistratura  della 
Repubblica  (1). 

Morendo ,  lasciava  la  roncola  del  corazzalo  ali*  uno 
dei  figliuoli ,  Giuliano  ;  all'  altro ,  Bonaccorso,  più  alta 
via  aveva  aperta  neir  arte  dei  giudici  e  dei  notai. 
Di  Giuliano  non  ho  trovato  notizie,  tranne  ¥  aver  egli 
lasciata  una  figliuola  Elisabetta,  la  quale  andò  mo- 
glie di  un  Banco  da  Verrazzano  (2).  Ser  Bonaccorso, 
erede  del  buon  nome  paterno,  ne  continuò  la  fortuna; 
fu  ambasciatore  a  Siena  nel  1410  e  in  Savoia  nel  1422; 
nel  1427  notaro  dei  Signori.  Nel  Catasto  dello  stesso 
anno  cosi  egli  rassegnava  la  sua  numerosa  famiglia  : 
€  Ser  Bonachorso  di  Piero  Bonachorsi  d'età  d'anni  46; 
Mona  Innocenzia  sua  donna  d'età  d'anni  27  (3);  Lio- 
nardo  suo  figliuolo  d'età  d'anni  25,  Piero  d'anni  20, 
Antonio  d'anni  12,  Ismeralda  d'anni  1 1 ,  Giuliano  di 
anni  8 ,  Oretta  d'  anni  13 ,  Marsilia  d' anni  7  » .  Fra  le 
€  bocche  B  non  è  noverata  la  Fioretta,  già  maritata,  né 
l'unica  fante,  o  più  propriamente  schiava,  la  Margherita, 
la  quale  si  descrive  fra  le  sustanzie:  <  Item,  una  schiava 
a  nome  Margherita,  chostòmì  fiorini  42,  da  Domenicho 
Atavanti  da  Chastel  Fiorentino  »  ;  e  subito  dopo  :  t  Item 
una  mula,  ch'io  tengho  ,  chostòmi  fi.  17  >. 

A  mantenere  la  numerosa  famiglia,  ser  Bonaccorso 
oltre  ai  proventi  dell'  arte  sua,  avea  sei  poderi  nell'  avita 

(1)  Priorìsta  del  Segaloni,  ms.  alla  Rìccardiana,  d.  2023,  202^,  Tom. 

n,  42. 

(2)  Portate  del  1430.  Drago,  S.  Giovanni:  e  Item  Monna  Betta 
donna  che  fu  di  Bancho  da  Verrazzano  dee  avere  fiorini  novanta  .  .  ». 
Vedi  nota  7. 

(3)  È  chiaro  dall'  età  dei  Ogli  che  monna  Innocenzia  era  seconda  mo- 
glie di  ser  Itonaccorso.  Essa  é  nominata  ancora  nelle  Portate  del  1430, 
e  comparisce  fra  i  creditori  per  la  sua  dote  di  650  fiorini;  dopo  questo 
tempo  non  ne  é  più  memoria. 


SEB  PISBO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  9 

Val  di  Sieve  (1)  ;  ma  1'  agricoltura  gli  rendeva  ben 
poco:  le  scarse  moggia  di  grano,  orzo,  fave,  mìglio  e 
panico,  le  some  di  vino,  e  il  porco  di  prammatica  che 
ciascun  podere  gli  dava,  non  bastavano  ;  onde  ser  Bonac- 
corso  doveva  ricorrere  ai  prestiti,  dividendo  i  saoi  debiti 
fra  una  moltitudine  di  amici  e  parenti  che  divenuti  cre- 
ditori riempiono  dei  loro  nomi  le  pagine  delle  portate. 
Fra  questi  nomi  si  possono  notare  il  setaiuolo  Goro 
di  Stagio  Dati ,  Marco  d'  Antonio  Palmieri  speziale  , 
un  lanaiuolo,  Piero  di  Francescho  di  ser  Gino,  e  final- 
mente Nanni  di  ser  Lapo  Mazzei.  Il  Nannino,  secondo 
de'quattro  figliuoli  rimasti  al  simpatico  notaio  da  Prato  (2), 
del  quale  il  babbo  scriveva  orgoglioso  all'  amico  Datini 
nel  1407,  ch'era  e  ito  al  setaiuolo  :»,  apparisce  genero 
di  ser  Bonaccorso  e  cognato  perciò  del  nostro  ser  Piero, 
che  ha  credito  ancora  di  100  fiorini,  come  e  resto  della 
dota  della  Fioretta  sua  donna  e  figliuola  del  detto  ser 
Bonaccorso  > .  Non  credo  che  il  vecchio  ser  Lapo,  morto 
ai  30  d' Ottobre  del  1412 ,  vedesse  nuora  nella  propria 
casa  la  Fioretta  di  ser  Bonaccorso;  ma  certo  gran  co- 
munanza di  costumi  e  di  affetti  doveva  essere  fra  i  due 
notai,  se  nel  1427  del  vincolo  coniugale  troviamo  uniti 
i  loro  figliuoli  (3). 

(1)  Uno  podere  con  chase  pel  signiore  et  lavoratore,  con  terre 
Tigniate,  prative,  boschate  et  sode,  poste  nel  popolo  di  San  Donato  al 
Ci>chio  di  Mugiello  .  .  .  El  detto  podere  lavorano  a  mezo  Giovanni  et 
Bartolo  di  Filippo  del  detto  popolo.  Hanno  di  prestanza  il.  63;  hanno 
un  paio  di  bovi  di  stima  il.  20.  El  detto  podere  rende  l'anno  a  ser 
nonachorso,  trato  i  semi,  mogia  tre  di  grano,  some  otto  di  vino,  mogio 
uno  tra  miglio  et  paniche,  mogio  uno  tra  fave,  orzo  et  pelta ,  porci  due, 
pagati  i  temporìli,  resto  opi  anno  neto,  uno  .  .  .  >.  E  cosi  presso  a 
poco  gli  altri  poderi. 

(2)  Guasti,  Lettere  di  un  notato^  I,  cxli. 

<:))  Dalla  pag.  LXVIII  del  Proemio  citato  ricavo  che  un  fratello  di 
scr  Lapo  era  corazzalo. 


10  G.  BRUSCHI 

Accasata  la  Fioretta  (1),  ser  Bonaccorso  provvide 
diversamente  alle  dae  ultime  figliuole,  la  Lauretta  e 
la  Marsilia.  t  Item  ho  a  dare  —  scriveva  nella  lista 
dei  debiti  —  al  munistero  di  San  Domenicho  di  Cha- 
faggio  di  Firenze  fl.  220  per  le  dote  della  Lauretta 
et  Marsilia  mie  figliuole,  le  quali  monachai  di  dicembre 
1425,  et  promisi  di  dare  loro  detti  fiorini  220  poi  uno 
anno  che  fusse  fatto  la  pacie  della  presente  guerra:  in 
questo  mezo  ne  dò  loro  ogni  anno  fl.  12.  —  Item  a 
Bancho  et  Mariotto  di  Sandro  di  Filippo  cholterrai,  per 
resto  d' uno  letto  tolsi  da  lloro  per  due  mie  fanciulle  che 
io  monachai,  fl.  3  ».  Dopo  circa  50  anni,  in  uno  stru- 
mento del  1474  rogato  da  ser  Piero  loro  fratello,  suora 
Lauretta  e  suora  Marsilia  sono  ancora  vive ,  e  insieme 
colle  altre  monache,  fra'  cui  casati  figurano  le  principali 
famiglie  fiorentine,  rappresentano  il  capitolo  del  mona- 
stero (2). 

Dalle  Portate  al  catasto  del  27  sappiamo  altresì 
che  i  Bonaccorsi  non  avevano  fino  allora  casa  pro- 
pria (3);  ma  nel  1428  Guglielmo  di  Piero  di  Corso 
Adimarì  ,  bisognoso  di  danaro  chiedeva  in  prestito  a 
ser  Bonaccorso  trecento  fiorini  d'oro  t  in  su  una  sua 
chasa  posta  nel  chorso  degli  Adimarì,  nel  popolo  di 
santo  Christofano  >.  Il  contratto  scadeva  ad  Ognissanti 


(1)  Portate  al  catasto:  e  Item,  debbo  dare  a  Marcho  di  Giovanni 
Dati  funaiuolo  fiorini  70,  mi  prestò  più  tempo  fa  quando  maritai  la  detta 
Fioretta  mia  figliuola.  —  Item,  a  ser  Lorenzo  di  Jacopo  Dati  fl.  30  mi 
prestò  quando  maritai  la  detta  mia  figliuola.  —  Item ,  debbo  dare  ad 
Andrea  di  Bancho  Setaiuolo  fl.  otanta,  per  resto  d*uno  chermisi  levai 
da  llui  pella  detta  Fioretta,  quando  la  maritai  ...».' 

(2)  Protocolli  di  ser  Piero  di  ser  Bonaccorso  ad  annum. 

(3)  Nel  1427  ser  Bonaccorso  rapporta:  e  In  Firenze  non  ho  chasa: 
sto  a  pigione  in  una  chasa  di  mona  Checha  ....  et  paghone  ranno 
fl.  XXVII». 


SEB  PIEBO  BONAGCOBSl  £  IL  CAMMINO  DI  DANTE  11 

del  1431  ;  ma  Guglielmo  Àdimarì  Don  potè  compiere  la 
restitQzioDe,  e  cosi  la  casetta  sull'  angolo  del  Corso  passò 
dalle  mani  degli  antichi  nobili  nei  naovì  popolani  (1). 

Ser  Bonaccorso  rogava  ancora  nel  1429  (2).  Prima 
dichiadere  gli  occhi  vedeva  la  bottega  del  corazzalo 
passata  in  altre  mani,  ma  in  compenso  al  suo  secondo- 
genito Piero  aperta  la  via  del  notariato,  che  doveva  poi 
divenir  tradizionale  della  famiglia  e  prepararle  V  adito  ai 
titoli  delia  corte  medicea. 


II. 


Nella    famiglia ,   che   ho   cercato  di   far   rivivere , 

nacque  a  di  17  Luglio  1410  il  nostro  ser  Piero  (3). 

D' ingegno  aperto  e  di  fermo  volere,  compiè  ben  presto 

il  corso  della  notarla   in    quello   studio   dì    Firenze  , 

che  a  ragione  si  vantava  di  essere  la  scuola  dei  notai, 

come  Bologna  era  dei    legisti  ;  e  a   19  anni ,  vestito 

dell'abito  nero  e  col  calamaio  alla  cintola,  compariva  in 

pubblico  a  rogare  (4).  E  di  guadagnarsi  il  vitto  rogando 

Don  mancava  il  bisogno.   Nel   Gennaio   del   1430  (stile 

fiorentino)  si  è  già  fatto  un  gran  vendere:  le    «  su^tan- 

zie  »  sono  ridotte  alla  casa  in   Corso  Àdimari   e  a  un 

podere  con  un  «  poderetto  picholo  »  nel  Mugello;  ep- 

■ 

(1)  Portale  del  1U6,  Drago,  S.  Giovanni. 
{t)  Protocolli  di  ser  Bonaccorso  di  Piero  Bonaccorsi.  Non   formano 
che  un  sol  volume  per  Tanno  1429. 

(3)  Libro  delle  Età,  Tomo  II,  e.  214. 

(4)  Protocolli  di  ser  Piero  di  ser  Bonaccorso,  B.  493.  Sono  cinque 
volumi,  assai  ben  conservati,  che  vanno  dal  9  maggio  1429  al  13  Aprile 
i  i77  :  possono  fornire  notizie  per  la  storia  della  Val  di  Sieve  in  quel 
tempo,  riferendosi  la  maggior  parte  dei  rogiti  a  persone  di  quella  località. 
n  segno  del  tabellionato  di  ser  Piero  é  una  croce  sopra  un  piede  a 
rabeschi. 


12  G.  BRUSCHI 

pure  di  debiti  da  togliere  ne  restano  ancora  più  dì  mille 
fiorini,  tanto  che  i  quattro  figliuoli  superstiti  di  ser  Bo- 
naccorso,  Lionardo  e  ser  Piero  di  età  maggiori,  e  An- 
tonio e  Giuliano  minori,  e  stanno  sospesi  a  pigliare  la 
redità ,  ma  bene  ricerchano  achordo  cho'  loro  chredi- 
tori  »  (1). 

In  queste  strettezze  penso  che  il  nostro  notaio,  al- 
lora di  21  anno,  trattone  forse  anche  dall'indole  sobria 
e  tranquilla,  rinunziasse  affatto  a  ogni  idea  di  metter  fa- 
miglia da  sé,  per  consacrarsi  invece  tutto  a  quella  dei 
suoi  fratelli.  Di  questi,  il  maggiore,  Lionardo,  che  ha  26 
anni,  ci  appare  senza  occupazione  alcuna  (la  bottega  da 
corazzaio  sottostante  alla  casa  T  hanno  a  pigione  Antonio 
e  Nuto  spronai  da  Bologna);  degli  altri  due,  Antonio 
ha  16  anni,  Giuliano  11.  E  ser  Piero  si  dà  a  lavorare 
per  essi,  li  rappresenta  innanzi  al  Comune;  fa  da  No- 
taio all'arte  dei  vinattieri,  ma  gli  11  fiorini  dì  guadagno 
ser  Amerigo  Vespucci  «  li  fa  istagire  per  fiorini  nove, 
dice  ne  debba  avere  » .  Nel  1433  lo  stato  delle  cose  non 
è  punto  cangiato,  sicché  quei  primi  anni  dalla  morte  del 
padre  dovettero  correre  tristi  e  stentati.  Nelle  portate  del 
46  trovo  una  monna  Pippa  d'anni  30,  donna  dì  Lio- 
nardo,  con  quattro  figliuoli,  l'Antonia  e  la  Ginevra  sui 
10  anni,  Bonaccorso  dì  7,  e  Antonio  appena  nato.  In 
questi  nomi  il  buon  ser  Piero,  secondo  il  caro  uso  d'al- 
lora vedeva  rifatti  il  padre ,  la  sorella  Ginevra,  e  il  fra- 
tello Antonio;  del  quale  dopo  il  1433  non  è  più  me- 
moria nelle  portate,  mentre  Giuliano,  l'ultimo  de' fra- 
telli, €  fa  casa  e  va  a  gravezza  per  sé  ».  Se  non  che 
col  crescere  delle  bocche  crescono  le  diflìcoltà  del  vivere: 
i  balzelli  e  ì  catasti  sotto  la  pesante  mano  del  vecchio 
Cosimo  piovono,  e  ser  Piero  bada  a   scongiurare  i  Si- 

(1)  Portata  del  30  gennaio  1430. 


SSR  PIERO  BONAOCOBSI  B  IL  CAMMINO  DI  DANTE  13 

gnorì  officiali,  e  grida  :  e  Non  abbiamo  alcbano  esercitio, 
et  siamo  con  assai  iocaricbi,  et  maximamente  di  faDciuUe 
graode  in  chasa  senza  alchuna  prò  visione  di  dote  >  (1). 
Intaoto  attende  indefesso  all'  arte  del  notariato  come  mo- 
strano i  suoi  protocolli  ;  serve  il  Comune  nell'  Ufficio 
d^  difetti ,   ma    di   20   fiorini    di    salario    non    gliene 
Tiene  ano  ;  dèe  avere  fiorini  sette  dal  Monte  Vecchio  : 
e  da  chattivo  assegnamento  stimansi  due  >  ;  i  soldati 
del  Piccinino    gli   portano    via    dai    due    poderi    del 
Mogello   tutti   i   buoi  ,    eppure    egli    compera    ancora 
colà   e   uno    pezzo    di   terra  di   staiora   sei    o   circa 
per  fiorini    13 ,    e  la   metà   d'  uno  mulino   per   fio- 
rini 36  Vs  >  ;  ina  l' affare  gli  va  male ,  ed  egli  lamen- 
tando di  avervi  messo  due  tanti  che  non  ne  ha   cavato 
finisce  esclamando  :   e  Et  sia  vago   di    mulini    chi  si 
vuole!  ). 

Il  frutto  di  tante  fatiche  il  buon  notaio  lo  racco- 
glieva tutto  fra  le  pareti  domestiche,  delle  quali  egli 
era  come  il  sostegno  e  l' angelo  tutelare.  Nel  bimestre 
Maggio-Giugno  del  1468  vedeva  ancora  i  Bonaccorsi 
sedere  in  palagio  nella  persona  del  suo  minor  fratello 
Giuliano  ;  di  Giuliano  che  ha  già  moglie  e  figliuoli  e 
possiede  per  non  diviso  co'  fratelli,  un  terzo  della  casa , 
della  bottega  e  de'  due  poderi  (2).  Poco  dopo  , 
verso  il  1470 ,  dei  due  figliuoli  di  Lionardo ,  il  mag- 
giore Bonaccorso,  che  come  lo  zio  e  V  avolo  è  già  no- 
taio, conduce  sposa  una  monna  Lessandra;  e  il  secondo, 
Antonio,  che  ha  aperta  botlegha  in  Calimala,  una  monna 
Cosa.  Le  due  spose  allietarono  la  casa  di  numerosi  fi- 


(1)  Portale  del  4451  e  1457. 

(i)  Nel  liso  Giuliano  é  già  morto,  lasciando  Lorenzino  suo  figlio 
d'anni  15,  Oretta  d'anni  12,  zoppa  e  rattratta,  e  Lessandra  d'anni 
9.  Lorenzino  fu  priore  nel  1505  (Selt.-0lt.)  e  nel  1520  (Mag.-Giug.). 


14  a.  BRUSCHI 

gliaoli;  fra'  cui  nomi  nondimeno  le  portate  registrano 
una  Lisabetta  di  Bonaccorso  e  un  Annibale  di  An- 
tonio, nati  sotto  il  tetto  di  Corso  Adimari  da  fanti  di 
casa,  prima  che  vi  entrassero  le  due  mogli  legittime  (i). 
Ser  Piero  lavorò,  rogò  continuamente  fino  alla  fine  : 
l'ultimo  suo  strumento  è  del  13  Aprile  1477:  il  primo 
di  Giugno  usciva  di  vita,  e  veniva  e  riposto  in  sancto 
Lorenzo  >  come  nota  il  libro  dei  becchini.  Morendo,  le- 
gava a  suora  Oretta  sua  sorella  e  a  suora  Ginevra  sua 
nipote,  monache  in  S.  Domenico  di  Cafaggio,  ogni  anno 
a  loro  vita  fiorini  4  per  limosina.  Con  più  gentile  pen- 
siero, memore  forse  degli  stenti  sofferti  per  dotar  le  fi- 
glio dei  fratelli ,  lasciava  all'  ospedale  degl'  Innocenti  di. 
Firenze  fiorini  150  ^  più  per  maritar  fanciulle  (2). 


III. 


Questa  la  vita  esterna  di  ser  Piero. 

Della  sua  vita  interna  buona  parte  ci  ha  rivelato 
egli  stosso  in  una  operetta,  cui  pose  il  titolo  di  Quch- 
dragesimale,  e  che  mi  è  avvenuto  di  trovar  manoscritta 
nolla  Biblioteca  Riccardiana  (3).  Stimava  egli  e  pruden- 
tia  (li  non  chulactare  né  ghambectare  a  pancha,  ma  di 
trii)artiro  il  tempo  in   questa   vita:   et  le  primitie  ogni 

(1)  (lampione  del  1480.  In  questo  anno  Lionardo  e  monna  Pippa 
Hono  ancora  vivi,  ma  vecchi  et  poco  sani;  ser  Bonaccorso  loro  figlio 
ha  otto  flghuoli,  fra  i  quali  Giuhano,  che  fu  cancelliere  de*  Signori  nel 
15(N(,  1508  e  i513,  e  Lionardino  che  fu  ascrìtto  da  Leone  X  tra 
i  c;tvalierì  dell'ordine  di  S.  Pietro  e  decorato  del  titolo  e  privilegi  di 
conto  palatino.  A  ipicsto  titolo  è  dovuta  probabilmente  l'aggiunta  d*una 
L  e  del  .¥  coi  gigli  nello  scudo  di  famiglia.  Vedi  Priorìsta  del  Segaloni, 
già  citato. 

(!£)  Campione  del  U80  all'Archivio  di  Stato. 

(3)  Codice  Riccardiano,  1402. 


SBR  PIREO  BONàOOOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  15 

giorno  dare  a  Dio;  le  seconde  in  alchun'  arte  giusta 
exercitarsi,  per  satisfare  al  chorpo  di  vieto  e  di  vestito; 
di  po'  pigliarsi  alcban  discreto  spasso,  ambulando  o  quie- 
scendo  »  (e.  2  ')• 

E  in  una  di  queste  quieti,  una  mattina  del  Febbraio 
1463  (stile  fior.),  per  giovare  altrui  prese  la    penna, 
e  cominciò  a  scrivere  il  suo  libro  ;  nel  quale  volle  lasciare 
come  la  somma  de'  suoi  studi ,  delle  sue  meditazioni 
e  della  sua  esperienza.  Quella  mattina   era  il  primo  di 
Quaresima,  onde  il  titolo  di   Quadragesimale.    Per   la 
forma   scelse   quella    della    visione  ,   suggeritagli   senza 
dubbio  dallo  studio  della   Commedia;  per  il  che  Po- 
peretta  va  noverata  fra   le  imitazioni  dantesche  ,  seb- 
bene per  la  scarsità,  anzi  nullità  dell'  arte  segni  forse 
r  ultimo  stadio  di  decadenza  del  genere.  Avrebbe  vo- 
lato ser  Piero  scriverla  in  versi ,  per    «  farla  più  grata 
d  pia  dilecta  >  ;  ma  non  gli  riusci   che   a  raccoglierla 
in  una  prosa  versificha,  come  la  chiama  lui,  una  stor- 
piatura cioè  di  versi  e  di  prosa ,  senza  misura  né  rima  ; 
Unto  più   dolorosa  in  quanto  che  son   sempre  i  di- 
vini endecasillabi  dell'  Alighieri  quelli    che    pagano  le 
spese.  E  ser  Piero  sa  che  la  sua  prosa  versifica  e  non 
suona  né    stropiccia    1'  orecchio    a   molti    curiosi    per 
difecto  di  lima  >,  ma  <  non  se  ne   cura  i»,  perché  egli 
dà  11  suo  vino  di'  vulghari;  e  se  questi  avranno  «  il  gusto 
sano,  il  suo  vino  darà  loro  refecto,  chosi  a  berlo  in  una 
scodella  di  legno,  chome  a  berlo  in  una  ta^a  d'  argento  > 
(e.  1  ^).  In  quanto  ai  non  vulgari ,  anche  ad  essi  egli 
ha  avuto  riguardo,  ed  ha  creduto  in  questo  «  essere 
stato  assai  discreto,   ornando   la   faccia  et  la  testa  di 
Quaresima  di  certi   gioielli   et  latin   notabili  d'  alquante 
seotentie,  autorità  et  doctrine  di  più  sacri  santi  et  savii 
doctori  ». 


16  G.  BBUSCHI 

Ad  altri  potrà  sembrare  che  discrezione  più  bene 
intesa  sarebbe  stata  io  scrivere  un  po'  meglio  il  suo  vol- 
gare: ma  in  questo  mancarono  al  nostro  ser  Piero  più 
che  il  volere  le  forze.  La  differenza  di  stile  e  di  lingua 
che  passa  fra  il  Quadragesimale  e  il  Cammino,  che  lo 
precede  di  un  trentanni,  mostra  che  qualcosa  ei  volle 
fare  per  avvicinarsi  anche  per  questa  via  ai  non  vulgari; 
ma  il  dissidio  oramai  forte  nella  seconda  metà  del  sec.  XV 
fra  la  lingua  parlata  e  la  scritta  lo  tradì:  abbandonando 
quella,  non  raggiunse  questa,  e  quando  credè  levarsi  non 
fece  che  camminar  sui  trampoli. 

Nel  Quadragesimale  ser  Piero  si  presenta  anzitutto 
dotato  di  una  forte  fede  religiosa  :  novella  prova  codesta, 
se  pur  bisognasse,  che  anche  nel  secolo  degli  uma- 
nisti, «  più  si  studia  nelle  sue  manifestazioni  d' ogni  sorta 
e  nei  più  reconditi  recessi  la  vita  fiorentina,  e  più  si  vede 
che  nel  vecchio  Comune  guelfo  durava  ancora,  in  mezzo 
a  mille  vicissitudini ,  un  vivo  sentimento  religioso  >   (1). 

La  rubrica  della  prima  giornata  (sono  in  tutte  quin- 
dici) ha  cosi:  €  Giornata  prima,  in  che  si  considera  il 
subito  corso  giudicio  etterno.  Per  non  perder  tempo  ma 
ben  distribuirlo.  Dove  Fulgentia  gratia  prefata  Apparisce 
a  questo  huomo  e  portalo  in  Parnaso  Dinanzi  a  Sophia 
et  a  ogni  scientia.  Et  fello  docto,  sospeso  et  ammirato 
Per  un  sospiro  exclamoso  a'  savi  del  mondo  » . 

Lasciando  stare  la  forma  ampollosa ,  è  facile  vedere 
che  il  pensiero  che  sta  primo  in  mente  all'  autore  è  <i  il 
subito  corso  al  giudizio  etemo», alla  cui  considerazione  egli 
solo  nella  sim  cameretta,  sazio  già  degli  spassi  del  mondo, 
tutto  trema  con  San  Girolamo  (fol.  2.  r.).  È  vero  che  ac- 
canto alla  Fede  che  gli  parla  per  le  Scritture  ed  i  Pa- 
dri, sorge  il  ricordo  degli  antichi  saggi,  i  quali  pur  molte 

(1)  A.  D*  Ancona,  Varietà  storiche,  Serie  II,  p.  189. 


SEK  PIERO  BONAOCORSI   E  IL  CAMMINO   DI  DANTE  17 

cose  dissero  e  fecero  per  vivere  rettameDle,  e  però  Fulgen- 
tia,  che  è  figura  della  grazia,  portalo  in  Parnaso.  «  Quivi  io 
vidi  gente  di  molto  valore  Ragionare  e  disputare  diverse 

chose.  Con  sermon  gravi  et  pieni  di  autoritadi  (e  5  ') 

Socrate  è'I  primo  di  tutti  chostoro,  Che  in  chose  divine 
misse  suo  studio,  né  però  intese  il  prefeclo  vero.  Platone  è 
l'altro,  che  fu  suo  discepolo,  E  pur  di  Dio  col  senso  andò 
ghustando;  Aristotile  il  terzo,  et  di  Platon  fu  dilecto  >  (e.  5  ^), 
e  via  via,  Epicuro,  Aristippo,  Biante,  Tullio,  Plinio  naturale, 
Seneca  morale,  Orfeo  musico,Virgilio,  Omero  e  gli  altri  saggi 
di  Grecia  e  Roma.  Ma  tutti  costoro  fra  i  molti  beni  che 
conobbero,  non  giunsero  a  quello  che  è  Punico  e  vero, 
e  r  ammirazione  si  chiude  con  un  compianto  :  e  0  sa- 
pienti del^  mondo,  miseri  lassi.  Che  della  vista  della  mente 
infermi.  Fidanza  aveste  ne' ritrosi  passi.  Che  vi  giovan  le 
vostre  scientie.  In  che  mai  cognoscesti  il  vero,  Che  è 
r  oggiepto  dello  intellecto  umano  ?  Meglio  per  voi  sarebbe 
stato  Saper  la  via  et  per  fede  correr  a  ddio!  »  (e.  6  *■).  Quindi, 
come  già  Virgilio  non  lasciò  troppo  a  lungo  Dante  fra 
gli  spiriti  magni  del  Limbo,  cosi  anche  Fulgenzia  non  la- 
scia ser  Piero  fra  quelli  del  Parnaso,  e  Poi  a  mme:  par- 
tiànci  omai  da  Uoro  ».  Morti  sono,  e  io  ti  vo'  tra  i  vivi,  Se 
crederai  a  mia  pedagogia  > .  A  condurti  colà  «  pietà  fu  che 
mi  punse,  Et  per  muoverte  a  ridomandarmi  Et  io  aver 
cagion  d' aluminarti  Di  molti  error  che  fanno  le  genti,  Che 
son  chagion  di  perpetui  pianti  »  (e.  6  O- 

11  motivo  della  prima  giornata  ritorna  e  si  svolge 
nelle  due  seguenti.  Con  lunghe  citazioni  dalle  scritture 
e  dai  Padri  prova  che  né  Filosofia  né  Scientia  si  salva 
senza  fede  cattolica,  e  ricordandosi  dei  visi  mesti  che 
gli  antichi  saggi  aveano  in  Parnaso,  grida  ai  presenti  il 
dantesco:  «  Or  superbite  e  via  col  viso  altero.  Figlioli 
d' Eva  !  .  .  » .  Quindi  passa  a  discorrere  delle  sette  arti 
liberali,  e  pur  riconoscendone  i  pregi,  ne  deplora  Ta- 

VoL  IV,  Parte  I.  2 


18  0.  BRUSCHI 

buso,  e  finisce  col  medesimo  pensiero  che  esse  danno 
bensì  e  la  scìentia,  che  è  cognitione  di  chose  temporali  > , 
ma  e  non  hanno  la  sapientia  che  gusta  le  eterne  >. 

Nella  quarta  e  nelle  seguenti  l' autore  pone  in  bocca 
a  Fulgentia  una  sommaria  esposizione  dei  principi  morali 
del  cristianesimo;  parla  del  bene  e  del  male,  de' vizi  e 
delle  virtù,  della  natura  umana,  della  sua  dignità  e  mi- 
seria. Le  parole  colle  quali  chiude  la  giornata  decima,  ci 
fanno  entrare  nella  cameretta  di  ser  Piero  poi  che  ne 
è  partita  Fulgentia,  e  ci  danno  un  nuovo  tocco  della  sua 
ingenua  pietà,  e  Rimaso  io  solo  nel  mio  dolgo  secreto. 
Questo  Vener  santo  per  far  ragion  con  Dio  Et  cbalchu- 
landò  il  bilancio  del  conscio  quaterne  Vidi  con  Dio  tal 
debito  facto  Che  senza  gratia  et  virtù  di  Cbristo  Mai 
per  me  solo  gli  arei  satisfacto.  Ma  dopo  il  mio  examine 
et  congnoscimento,  Genuflesso  levai  la  mente  a  Dio,  Et 
colle  man  giunte  gli  saectai  un  sospiro.  Dal  mio  chuore 
si  fervente  et  chaldo  Che  passò  i  cieli  et  ogni  choro,  Et 
in  pace  con  Dio  fermò  un  pacto,  Il  qual  io  mi  tengho 
nel  mio  secreto.  Et  la  santa  fede  di  ciò  m' è  testimonio, 
Che  tornò  amme  con  quel  sospiro  Chome  va  e  torna 
un  razo  doppio  ».  Nella  giornata  XII,  che  fu  il  di  di 
Pasqua,  caduta  quell'anno  il  1.*"  di  Aprile,  t  Si  mena  lo 
spirito  a  vedere  il  Paradiso  ;  Et  vede  lo  splendore  di 
tucto  r  universo.  Et  vede  Maria  in  una  rosa  incharnata: 
Et  qui  per  proprio  degli  angeli  si  tracta  >.  Di  Maria  fa 
le  lodi  in  tutta  la  giornata  XIII;  nella  XIV  Fulgentia 
espone  a  ser  Piero  e  la  dottrina  per  intelligentia  di  Chri- 
sto  y>  ;  nella  XV ,  dopo  avergli  mostrata  la  Trinità ,  cosi 
finisce:  «  Et  questo  voglio  per  ultimo  suggello  Sia  no- 
tato da  te  nel  ttuo  quaderno  Poi  eh'  io  t'arò  rimesso  giù 
nel  mondo.  Dove  ogni  giorno  per  ispasso  salutifero.  Per 
tempo  d'  un'  ora,  nel  tuo  secreto  Ti  conforto  a  star  con- 
templativo. Et  troverai  in  questo  guadagno  molto  .... 


SEB  PIERO  BONAOOORSI   E   IL  CAMMINO  DI  DANTE  19 

Et  perché  tu  perderesti  troppo  tempo  A  voler  far  di  mia 
doctrina  scripto,  Però  lascia  la  praticha  e  rendi  la  penna 
A  chi  la  vuol  di  te  più  grata,  Più  lepida ,  limata ,  misu- 
rata e  fiorita.  Et  tu  spechulando  nella  scriptura  sacra.  Che 
pare  a  philotopi  innecta  et  ingrata.  La  troverai  salutifera 
et  di  sapientia  pregna.  Et  decto  questo,  Fulgenzia  con  un 
razo  Mi  choperse  et  prese,  e  chome  un  vento  Giù  nel 
mondo  mi  sentii  dallei  ridocto.  Et  nel  mio  chorpo  desto 
in  mio  segreto.  Mi  lasciò  in  pace  segnato  et  benedecto. 
Et  ella  al  cielo:  Te  Demn  laudamus,  chantando  e  vo- 
lando ). 

Questo  è  in  pieno  secolo  XV  il  vivo  ascetismo  del 
nostro  notaio  fiorentino;  ascetismo  (giova  notare)  che 
non  gli  impediva  di  soddisfare  agli  obblighi  dell'  arte  sua 
e  a  quelli  più  gravi  ancora  generosamente  assunti  nel 
governo  deir  azienda  fraterna.  E  gli  uni  e  gli  altri  invero 
doveano  lasciargli  ben  poco  tempo  alla  diletta  solitaria 
meditazione,  se  Io  scriverne  il  frutto  gli  avrebbe  tolto 
troppo  alla  giornata,  e  se  questa  stessa  operetta  del  Qua- 
dragesimale dovette  egli  interrompere  nel  decimo  di  «  per 
faccende  d' importanza  in  suo  magistrato  » ,  e  non  ripi- 
gliarlo che  più  di  un  mese  dopo,  come  egli  stesso  dice 
in  una  nota  (1). 


IV. 


Il  discorso  sin  qui  intorno  alla  pietà  del  nostro  no- 
taio, avrà  anche  mostrato  in  parte  la  sua  cultura.  Sarebbe 
veramente  lavoro  difficile  del  pari  che  infruttuoso   il  ri- 

(1)  A  carte  i6  r.,  in  margine:  t  Qui  ser  Piero  essendo  assalito 
et  ocbupato  da  faccende  in  suo  magistrato,  bisognò  por  da  parte  questa 
of^eretta.  Ma  di  poi  Venerdì  santo  la  riprese  et  finilla  mercholedi  ultimo 
di  paschua  >. 


20  Q.  BRUSCHI 

cercare  le  fonti  a  cui  egli  attinse.  Svariatissimo  era  ai 
suoi  tempi  il  numero  delle  Fiorite,  de'  Tesori,  delle  Sen- 
tenze, delle  Somme  filosofiche,  morali  e  teologiche  ;  nuo- 
vissima fra  queste  la  Somma  del  santo  vescovo  Anto- 
nino, che  per  l'ampiezza  delle  cose  trattate  e  per  l'uo- 
mo dalla  cui  penna  era  uscita,  dovette  essere  più  che 
r  altre  note  a  ser  Piero.  Molto  egli  conosce  le  Scritture, 
specialmente  i  Vangeli,  le  Epistole  di  S.  Paolo  e  i  Salmi  ; 
dei  Padri  cita  di  preferenza  S.  Agostino  nel  libro  delle 
Confessioni  e  S.  Girolamo  nelle  Epistole,  spesso  anche 
S.  Gregorio  Magno  e  Lattanzio.  Tra  i  filosofi  cristiani 
conosce  e  ricorda  Boezio ,  e  Cassiodoro  (1) ,  ai  quali 
aggiunge  immancabilmente  in  coda  delle  sue  citazioni 
marginali  Ovidio ,  Plinio ,  Seneca  nei  suoi  trattati  ed 
epistole,  e  non  di  rado  anche  Tullio.  In  questi  ultimi  ser 
Piero  non  cerca  altro  che  la  sodezza  della  dottrina  ;  della 
forma  non  gli  è  rimaso  che  qualche  latinismo,  che  stona 
e  deturpa  la  purezza  del  suo  volgare.  Abbastanza  bene 
informato  si  mostra  degli  antichi  filosofi  e  delle  loro  scuole, 
di  cui  espone  i  principi  diversi  con  sufficiente  esattezza. 
Di  critica  classica  non  è  a  cercarne:  t  Parnaso  è  un 
monte  in  Grecia  dove  gli  antichi  andavano  a'  mparar  fi- 
losofia, scientia  et  sapientia  >.  Conosce  fisica  e  medicina  ; 
ma  è  ancora  la  scienza  di  Aristotele,  di  Plinio  e  degli 
Scolastici.  Gli  elementi  primi  sono  ancora  la  terra,  l' aria, 
l'acqua  e  il  fuoco;  e  l'uomo  che  di  tutti  gli  animali  è 
il  più  perfetto,  è  di  tutti  e  quattro  codesti  elementi  for- 
mato: «  di  terra,  in  charne  ed  ossa,  d'aqua,  negli  ho- 
mori,  d'aria,  nel  polmone  che  sempre  si  muove  et  è  un 
ventilabro  del  chuore,  acciò  che  per  troppo  chaldo  et 
secho  non  ardesse,  per  l'elemento  del  fuocho  che  Dio 


(1)  Non  ammetto  che  Boezio  sia  filosofo  pa^no  per  la  sola  ragione 
negativa  eh* egli  nel  De  Consolatione  non  nomini  Cristo  né  la  Vergine. 


SER  PIERO  BONAOCORSl  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  21 

fi  misse,  e  per  questo  è  di  socto  lato  et  di  sopra  acbuto, 
pigliando  forma  di  fiamma  et  di  fuocho  »  (e.  24  *).Curiosa 
è  ancora  la  descrizione  del  cervello  diviso  in  ventricoli  e 
cellule,  in  cui  sono  rinchiuse  le  virtuti.  Le  quali  non  pos- 
sono escire  a  fare  alcuna  operazione  se  non  va  ad  aprirle 
\\  tnoto,  che  e  vermis  è  nominato,  Et  ha  sua  residentia 
ael  centro  del  cerabro ...  Et  ha  sua  factione  et  suo  cholore 
Chome  un  lombricho  animai  verme  ;  et  quanto  egli  è  più 
soctile  meglio  serve  et  più  actamente ,  et  queir  buomo 
che  r  à  molto  soctile  è  d' achutissimo  ingiegnio  e  prespi- 
chace;  et  quel  che  l' à  grande  et  grosso,  è  molto  tardo  et 
dirozzo  ingiegno...  >  (fol.  27-28). 

V. 

Gli  studi  danteschi  del  nostro  ser  Piero  dovettero 
comiDciare  certo  assai  per  tempo.  Che  fino  dal  1430  egli 
desse  opera  a  procacciarsi  il  testo  della  Commedia,  appari- 
sce da  un  documento  delle  portate  al  Catasto  del  1430  ap- 
pQDto,  nel  quale  fra  la  lista  dei  creditori  trovo  :  «  Bar- 
tolomeo di miniatore,  che  sta  dal  palagio  del  Podestà, 

de  avere  fiorini  tre  per  miniature  del  Dante  che  fa  ». 
A  parer  mio  il  Dante  di  cui  si  parla  qui  è  il  codice  Ric- 
cardiano  1038,  cartaceo,  in  foglio,  del  secolo  XV  di  244 
carte,  con  titoli  e  argomenti  in  inchiostro  rosso,  con  grandi 
iniziali  fregiate  a  colori  nelle  cantiche  e  più  piccole  ad 
ogni  canto  ;  di  poco  bella  scrittura,  ma  facile  a  leggersi  e 
ben  conservato.  La  lunga  pratica  del  carattere  di  ser 
Piero,  fatta  sui  testi  autografi  del  Cammino,  del  Quadra- 
gesimale,  delle  portate  e  dei  suoi  protocolli  air  Archivio 
di  stato,  non  mi  lascia  dubbio  che  il  testo  del  codice 
in  lettera  corsiva  e  gli  argomenti  in  lettera  quadrata  siano 
di  mano  del  nostro  notaio,  mentre  le  iniziali,  troppo  fini 
e  differenti  di  forma,  debbono  appartenere  a  Bartolomeo 


22  G.  BRUSCHI 

miniatore,  a  cui  si  assegnano  i  tre  fiorini  di  credito.  — 
Le  prime  11  carte  contengono:  1"*  Detti  dove  Dante  tratta 
dei  mali  pastori  della  Chiesa,  e  codesto  ridurre  sotto 
capi  unici  detti  dantesclìi  di  identico  argomento  è  con- 
forme all'  indole  di  ser  Piero,  il  quale  anche  altrove  fa 
lo  stesso,  a  proposito  degli  Angeli,  per  esempio,  di  Dio,  ecc. 
^  tre  prologhi,  accompagnati  ciascuno  dalle  tavole  degli 
argomenti  di  ogni  canto.  Il  primo  in  fronte  all'Inferno,  che 
comincia:  Dante  poeta  sovrano  gloria  della  lingtm  latina..., 
è  quello  che  in  altri  codici  (per  es.  nel  riccard.  1036) 
viene  attribuito  al  Petrarca  e  fu  stampato  in  fronte  della 
Nidobeatina.  Il  secondo  è  tolto  dal  Buti;  il  terzo  dal- 
l' Ottimo.  E  tutta  la  prima  Cantica  ha  note  marginali , 
di  mano  pure  di  ser  Piero,  toUe  dall'  Ottimo  ;  il  poema 
si  chiude  a  carte  218,  senza  sottoscrizione  di  autore  o  di 
tempo.  —  Delle  altre  carte,  quelle  dalla  219  alla  224  hanno 
i  Capitoli,  senza  nome,  di  Iacopo  di  Dante  e  di  Bosone 
da  Gobbio,  infine  dei  quali  si  legge  :  «  Explicit  repilogatio 
atque  in  brevissimo  totius  comedie  pte  pulcerrime  Recapi- 
tulatio  per  primeu  {sic!  Pierum?)  compositoris  operis  filium 
ordinata.  Deo  gratias,  amen  ».  Il  codice  termina  con  la 
Lectera  di  ser  Piero  a  frate  Romolo,  ossia  col  Cammino. 
Un  secondo  documento  delle  cure  bibliografiche  dan- 
tesche del  Bonaccorsi  é  il  codice  Laurenziano-Gaddiano, 
n.""  131  del  pluteo  XC  superiore;  il  quale  al  Bandini 
non  sembrò  punto  spregevole  per  le  note  marginali  e  pei 
documenti  intorno  a  Dante  che  contiene.  È  un  volume 
in  foglio,  cartaceo,  di  88  carte,  di  buona  lettera  e  ben  con- 
servato: ha  nelle  carte  8-81  la  cantica  del  Paradiso,  di 
carattere  tondo,  mezzo  gotico  ;  ogni  canto  è  preceduto 
da  una  figura  astronomica  in  penna  e  assai  rozzamente 
colorata.  Sul  verso  del  foglio  81  si  legge:  «  Explicit 
tertia  pars  Comoediae  elegantissimi  et  excelsi  Poeta  Dantis 
Aldighieri  fiorentini  tractans   de    Paradiso.   Qui   scripsit 


SER  PIERO  BONàOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  23 

scribat  semper  cum  Domino  vivai,  vivai  in   coelis  sem- 
per  com  Domino  feiix.  Scriplus  fuil  de  anno  MGGGGXL  ». 
Fra  r  nitìmo  e  il  penultimo  rigo   di  questa  soscrizione 
Ti  SODO  le  traccie  di  una   raschiatura,  a  proposito  della 
quale  il  Bandini  nota:   «  hoc  loco  aderat  nomen  scri- 
ptoris ,  quod  postea   penitus   erasum   fuit  »  {Cut ,  V, 
VA).  Ma    la    qualità   del    carattere   e   dei   documenti 
che  accompagnano  la  cantica,  portò  me  a  ficcar  ben 
gli  occhi   nella   raschiatura ,  e  nei   vestigi   debolissimi 
di  alcQoe  lettere  potei  leggere  la  nota  firma  Pierus  ser 
Bonachursu  notarius  florentinus.   —  Ser   Piero  adun- 
qne  del  1440  aveva  finito  di  scrivere  la  Gantica  del  Pa- 
radiso, accompagnandola  di  figure  astronomiche  e  di  note 
marginali  italiane  e  latine,   tolte  le  prime  dal  commento 
deO' Otómo,  le  altre  forse  da  quello  di  Pietro  di  Dante. 
Sdì  fogli  che  precedono  e  seguono   quelli  del  testo , 
agginnse  secondo  il  suo   costume  altre  cose  riguardanti 
il  divino  Poeta.  E  anzi  tutto,  sul  verso  del  foglio  1,  mem- 
branaceo, scrisse  assai  minutamente  un  estratto  della  vita 
di  Dante  del  Boccaccio,  ricopiando  ciò  che  è  più  notabile 
de'  sua  chostumi,  E  tratto  forse  dall'  aneddoto  boccaccesco 
delle  donne  veronesi,  aggiunse   in   fondo  al  foglio  que- 
sti altri  due  :  «  Dicesi   valgharmente  che  essendo  Dante 
in  Ravenna  in  istudio,   et   leggendo  come  doctore  varie 
opere,  et  un   di   circha   la   chasa  dello  studio  pubbliche 
ragunandosi  molti   doctori  et  scientiati  et  sebo  lari,  et  in 
più  cerchi  disputandosi  di  varie  chose,  in  uno  fra  gli  altri 
si  ragionava  della   scientia   di   Dante.  Et  un  doctore  da 
bene  disse:  "  Voi  disputate  della  scientia  di  un  villano  „  ;  il 
perché  e'  fu  ripreso.  Et  lui  di  nuovo  disse:  "  Io  dico  che 
Dante  è  un  villano  „.  Et  lui  fu  dimandato  della  chagione. 
Et  egli  rispose  :  *'  Perché  Dante  à  decto  ogni  cosa  degna 
di  memoria  et  fama  nelle  sue  opere  poetiche,  et  non  ha 
lasciato  dir  nulla  ad  altri,  et  però  è  villano  „ .  —  Et  un 


24  G.  BRUSCHI 

altro  si  levò,  che  era  emulo  di  Dante,  et  disse:  *'  Et  che  à 
egli  però  decto  Dante?  Io  non  stimo  tutte  le  opere  di 
Dante  cento  soldi!,,.  Et  questo  fu  riportato  a  Dante  che 
era  in  un  di  quei  cerchi  di  disputanti  et  abbochossi  con 
decto  suo  emulo  [e  chiesegli  che]  cerchava  dallui.  Ve- 
dendo questo  suo  emulo  disse  a  dDante:  ''  Io  stimo  le  tue 
opere  al  presente  molto  meno  che  cento  soldi  et  mollo 
meno  che  prima  „ .  Sicché  a  proposito  dobbiamo  molto 
guardarsi  dall'  ira  che  ci  toglie  la  fama  > . 

Questi  due  aneddoti  danteschi  furono  riportati  già 
dal  Bandini  nel  Catalogo,  e  di  là  riprodotti  dal  Papanti 
nel  suo  noto  libro  sotto  titolo  di  Anonimo;  ora  giu- 
stizia vuole  che  si  riconosca  a  ser  Piero  almeno  il  me- 
rito di  averceli  tramandati;  tanto  più  che  il  secondo 
non  si  trova  riportato  da  altri  scrittori,  e  che  del  primo 
è  solo  un  accenno  nelle  Chiose  del  Falso  Boccaccio  pub- 
blicate dal  Vernon  (Fir.,  Piatti,  1846),  dove  a  pag.  717, 
leggesi  che  «  Dante  si  chiama  il  villano  perché  e'  no*  la- 
sciò a  dire  ad  altri  nulla  ». —  Il  testo  da  me  dato  è  più 
esatto  di  quello  del  Papanti,  che  copiò  il  Bandini,  e  ri- 
duce a  una  sola ,  e  questa  assai  breve ,  le  lacune  del 
foglio. 

Dal  foglio  2  r.  a  tutto  il  settimo  ser  Piero  trascrìsse 
la  terza  parto  della  sua  Epistola  a  frate  Romolo,  quella 
cioè  che  riguarda  il  Paradiso,  aggiungendovi  la  seconda 
Epistola  al  medesimo  che  tratta  della  cronologia  del  Poema. 
Dal  fol.  8  r.  all'  81  v.  segue,  come  ho  già  notato,  la  can- 
tica del  Paradiso.  In  fondo  al  fol.  81  v.  si  legge  :  «  Co- 
mincia il  libro  delta  vita  et  studi  et  costumi  di  Dante 
Alighieri  et  di  messer  Franciescho  Petrarcha,  composta 
nuovissimamente  da  messer  Lionardo  chancelliere  fio- 
rentino ».  Questo  nuovissimamente  concorda  assai  bene 
colla  data  del  codice,  1440,  dacché  si  sa  che  le  due  Vile 
furono  scritte  dal  Bruni  nel  maggio  del  1436.  Ser  Piero 


SER  PIERO  BONACCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  25 

le  ritrascriveva  anche  nel  codice  Rediano  A,  5,  dopo  l' E- 
pistola  a  frale  Romolo,  accompagnandole  con  varie  note 
marginali.   La   prima   dice:  «  Questa   opera   alla   qnale 
messer    Lionardo    dice   aver   posto   fine  ,   quando   co- 
minciò questa ,  fu  la   Puliticha   di   Aristotile ,  la  quale 
ad    istanzia    et   richiesta    del  re   d'  Inghilterra   traslatò 
di  Greco  in  Latino  ».   Più  giù,  a  proposito  del  matri- 
monio di  Dante  con  monna  Gemma  Donati,  nota:  «Tre 
fanciulle  amò  Dante ,  ciò  è  Parvolecta  da  Pistoia,  Gen- 
tucha  da  Lucha,  Felice  da  Firenze.  Parvolecta  da  Pistoia, 
come  apare  in  cap.**  3r  del  Purghatorio.  dove  qui  Bea- 
trice ne  fa   menzione.  Amò  etiandio  una  fanciullecta  da 
Lncba,  et  fanne  menzione  nel  purghatorio  cap.°  24,  ove 
dice  :  Et  mormorava  et  non  so  che   Gentucha  ,  et  in 
decto  cap.**  dice:  Femina  è  nata  et  non  porta  anchor 
benda.  Et  anchora  amò  una  fanciullecta  figliuola  di  Folcho 
Portinari  da  Firenze,  chiamata  felice,  et  mori  fanciul- 
lecta, il  perché  dell' animo  di  Dante  non  fu  mai  par- 
lila ;  però  che  e'  la  prende  per  sua  guida  nel!'  opera  della 
sua  Commedia  et  chiamala  Beatrice,  figurata  per  la  sacra 
teologia.  Di  lei  in  più  luoghi  ne  fa  menzione,  ma  spezial- 
mente  dimostra   essere   stato   preso    da  suo  amore  nel 
Purghatorio,  in  cap.  30"*  et  3V.  »  Su  questa  volata  di  ser 
Piero  a  proposilo  di  Beatrice  ritornerò  più  in  là,  quando 
il  medesimo  soggetto  si  presenterà  nell'  esame  del  Cam- 
mino. 

Alle  parole  di  messer  Lionardo:  «  Fu  Dante  paria- 
tore  rado  et  tardo,  ma  nelle  sue  risposte  molto  sottile  )>, 
riporta  in  margine  questa  nuova  lezione  del  noto  aned- 
rtoto  del  bufl"one  che  motteggiava  Dante:  «  Dante  Ali- 
ghieri  —  Tu  mi  pari  un  banchieri  —  Ai  fatto  un  quaderno 
—  Che  vai  all'inferno  —  Ma  tu  v'andrai  —  Et  non  ri- 
loraerai:  —  furono  queste  parole  già  decte  a  Dante  da 
un  buffone.  —    Tu  mi  assomigli  alla  terza   vochale  — 


26  6.  BRUSCHI 

Et  dammen  se'  che  la  precedente  —  et  men  che  la  se- 
guente —  Duplichata  vali  :  —  questa  fu  la  risposta  di 
Dante.  Nota  che  la  terza  vocbale  significa  .i.,  che  è  una 
pichola  chosa;  la  precedente  lettera  significha  .h.  che  ri- 
lieva  nulla;  la  seguente  duplicata  significa  due  .k.  che 
rilievano  .k.  k  :  la  conclusione  che  gli  fé'  Dante  si  è  che 

gli  disse  che  e'  valeva  meno  che  un »  —  E  data 

questa  spiegazione,  quasi  preso  da  scrupolo  di  aver  of- 
feso la  maestà  del  gravissimo  cancelliere ,  aggiunge  : 
€  Non  credere  lectore  che  sien  queste  parole  di  messer 
Lionardo,  ma  vulgharmente  si  dice  che  furon  vere,  et  son 
qui  chiosate  per  roborar  il  decto  di  messer  Lionardo  che 
dice  che  Dante  fu  sottil  nelle  sue  risposte.  »  La  le- 
zione di  questo  aneddoto  è  sconosciuta  al  Papanti  (1), 
e  si  discosta  dalle  tre  che  egli  riporta,  sia  nella  risposta 
di  Dante  sia  nella  proposta  del  buffone,  la  quale  ricorda 
piuttosto  il  motivo  delle  donne  veronesi  che  non  quello 
della  piccola  persona  di  Dante. 

Altre  note  marginali  hanno  dati  cronologici  suU'  ori- 
gine dei  Bianchi  e  Neri,  dei  Guelfi  e  Ghibellini,  sulla 
nascita  e  morte  di  Dante,  Petrarca  e  Boccaccio.  In  fine 
delle  due  vite  è  una  notizia  latina  della  vita  di  Giovaimi 
Boccaccio  (non  contiene  nulla  di  nuovo),  che  non  mi  pare 
tolta  né  dal  Villani  né  dal  Manetti.  Sul  foglio  membra- 
naceo che  fa  da  copertina  al  codice,  ser  Piero  scrisse  la 
canzone  del  Petrarca  alla  Madonna,  e  in  ultimo  il  noto 
sonetto  : 

Correndo  gli  anni  del  nostro  Signore 


(1)   Dante  secondo  la  tradizione  e   i  novellieri y  Livorno,  Vigo, 
1873,  pagg.  127,  165,  181. 


SEB  PIEBO  BONACOORSI  B  IL  CAMMINO  DI  DANTB  27 


VI. 


Mi  SODO  tratteonto  alquanto  nella  descrizione  di  questi 
dae  codici,  perché  da  essi  si  ha  non  poco  lame  per  l'a- 
nalisi dei  lavoro  principale  del  nostro  notaio,  le  due  Epi- 
stole a  frate  Romolo  ;  qaella  cioè  che  tratta  della  topografia 
dantesca  e  che  è  intitolata  Cammino  di  Dante ,  e  V  altra 
che  più  si  attiene  alla  cronologia  e  che  è  senza  titolo. 
Nei  codici  in  cai  ci  sono  pervenute,  nessuna  delle  lettere 
ha  data  di  tempo;  però  a  me  pare  fuor  di  dubbio  che 
siano  anteriori  al  1440,  se  nel  codice  Gaddiano  131,  già 
esaminato,  e  finito  appunto  del  1440,  si  trova  la  terza 
parte  del  Cammino,  quella  che  cioè  riguarda  il  Paradiso, 
innanzi  alla  stessa  cantica  terza  della  Commedia.  —  Una 
conferma  indiretta  di  questa  data  ricavasi  dall'indole 
della  lingua,  più  viva  e  semplice  che  nel  Quadragesi- 
male, scrìtto  del  1463;  e  dall'indirizzo  più  ascetico  che 
prese  più  tardi  1'  animo  del  Bonaccorsi,  quale  si  rivela 
del  Quadragesimale  (1). 

L'operetta  del  Bonaccorsi  sebbene  tramandata  a  noi 
il)  parecchi  codici  (io  ne  ho  veduti  cinque  in  Firenze  : 
(lue  altri  ne  cita  il  De  Batines,  Tom.  I,  pag.  485),  pure 


(1)  Dali  cronologici  dcriyanti  dalF amico  frate  Romolo,  a  cui  le 
li^uere  erano  dirette,  non  mi  é  riuscito  trovarne.  Negli  alberi  gcnca- 
lu^'ici  dei  Medici  pubblicati  dal  Litta  e  dal  Reumont  non  ne  è 
ricordo,  e  neppure  nelle  Carte  del  Convento  S.  Croce,  ora  all'Archivio 
di  Stalo.  —  Mi  é  slato,  é  vero,  assicuralo  che  nella  corrispondenza 
medicea  avanti  il  principato  ci  sono  lettere  in  cui  si  (irma  un  fra 
Romolo  ;  ma  quella  corrispondenza ,  come  ora  si  trova ,  senza  ordine 
cronologico  né  indice,  ó  tale  mare  magnum  che  a  percorrerlo  non 
liasicrebbero  due  mesi,  e  a  me  di  far  ciò  é  mancato  il  tempo. 


28  G.  BRUSCHI 

è  restala  col  suo  autore  generalmente  sconosciuta  (1). 
Dei  numerosi  scrittori  della  storia  letteraria  toscana,  due 
soli  ne  hanno  qualche  accenno,  il  Cinelli  e  il  Ferroni. 
Il  Cinelli  a  faccia  1465  della  sua  Toscana  Utterata  (2) 
cosi  ha:  t  Piero  di  ser  Buonaccorso,  di  professione  no- 
taio e  però  ser  Piero  addimandato,  poeta  che  compilò 
un  Trattato  di  certe  gentilezze  e  virtù  della  natura^  ms.^ 
ed  un'  altra  opera  intitolata  Cammino  di  Dante.  Ambedue 
conservansi  nella  libreria  Strozzi,  voi.  307,  in  4**  > .  —  Ora 
al  n.  307  della  libreria  Strozzi  corrisponde  bensì  il  codice 
magliabecchiano  clas.  VII,  n.  1104,  che  è  una  copia  au- 
tografa del  Cammino  di  Dante^  ma  non  si  trova  affatto 
il  Trattato  in  versi. 

Il  Ferroni,  stravolge  il  nome  del  nostro  notaio,  chia- 
mandolo ser  Piero   di  ser  Luna  Corso;  e  ciò  in  una 


(1)  I  cinque  codici  fìoreDtìni  sono:  1®  il  Magiìabechìano  ilOi, 
ci.  VII,  cartaceo,  autografo,  in  quarto  piccolo;  2**  i  Riccardiani,  1038, 
del  quale  ho  già  parlato,  e  il  1122  anch'esso  autografo,  in  quarto  pic- 
colo, che  ho  preso  come  testo;  3^  i  due  Laurenzianì,  il  Rediano  3, 
A.  membranaceo,  in  quarto  piccolo,  che  non  ha  la  seconda  Epistola  a 
frate  Romolo  ed  è  forse  copia;  e  il  Gaddiano  131,  pi.  90  sup. ,  auto- 
grafo, cartaceo  in  fol.,  che  contiene  la  seconda  Epistola  e  la  terza  parte 
della  prima.  —  Il  De  Batines  (Tom.  I.,  p.  485  segg.  dell*  edizione  di 
Prato,  e  a  pag.  165  delle  Giunte  e  correzioni  inedite  pubblicate  dal 
Biagi,  Fir.  1888)  ne  cita  un  sesto  presso  il  dottor  Giulìanelli,  ed  un  set- 
timo nella  Biblioteca  del  duca  Caetani  di  Sermoneta  in  Roma.  Questo 
codice  egli  dice  del  tutto  analogo  al  Rice.  1122  e  dippió  fornito  di  sei  fogli 
nei  quali  una  mano  più  recente  ha  data  una  descrizione  di  esso  codice, 
dei  due  della  Laurenziana  e  qualche  informazione  sul  suo  autore.  Codeste 
informazioni  sarebbero  state  per  me  assai  preziose  e  non  poche  fatiche 
mi  avrebbero  risparmiato;  ma  non  ostante  le  molte  ricerche  il  codice 
non  è  stato  reperibile;  e  a  me  non  resta  che  ringraziare  sinceramente 
il  Principe  Onorato  Caetani  per  la  benigna  parte  da  lui  stesso  presa  nella 
ricerca  del  manoscritto. 

(2)  Ms.  alla  Magliabechiana. 


SEB  PIEBO  BONAOOOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  29 

Lettura  air  Accademia  della  Crusca  (1)  nella  quale  combat- 
tendo r  accusa  di  plagio  che  dopo  la  scoperta  della  Vi- 
sione di  Frate  Alberico,  si  dava  a  Dante  dal  Gaetani,  dal 
Bottarì,  dal  Dionisi,  esclama:  e  Tanta  è  la  differenza  insigne, 
che  passa  tra  quel  fanciullesco  fantasma  o  vaneggiamento  e 
la  genuina  dipintura  che  fece  dell'invenzione  del  poeta, 
a  richiesta  e  lume  di  Frate  Romolo  de'  Medici,  ser  Piero 
di  ser  Luna  Corso  nella  succinta  operetta  Cammino  di 
Dante  per  lo  Inferno,  Purgatorio  e  Paradiso,  quanto  ne 
corre  dal  focoso  entusiasmo  di  viver  libero  del  severo 
Catone  e  l'umile  ed  austera  a  mi  tempo  rassegnazione 
di  no  solitario!  » 

Ma  lasciando  da  parte  le  enfasi,  non  sempre  utili  al- 
l'esattezza  storica,  dei  nostri  letterati  di  buona  memoria, 
il  Cammmo  del  Bonaccorsi  può  dirsi  con  verità  una  ge- 
nuina e  felice  dipintura  della  invenzione  del  poema  nella 
sua  parte  più  plastica  ed  artistica.  A  frate  Romolo  ser 
Piero  non  vuol  dare  e  le  moralità  et  spositioni  del  testo...., 
ma  solamente  la  lectera  secondo  che  ella  suona,  et  il  suo 
cammino....  » .  Egli  assicura  l' amico  che  di  teologi  e  filosofi 
ce  n'è  stati  parecchi  uguali  a  Dante  ed  anche  superiori 
lui,  ma  ninno  ha  preso  mai  più  leggiadra  materia  e  con 
più  ordine  Tha  trattata;  non  dubita  punto  che  inteso 
che  a\Tà  la  lettera,  si  invoglierà  a  voler  poi  vedere 
più  oltre.  Con  questa  fiducia  egli  stese  in  sei  giorni 
all'amico  tutta  l'orditura  del  poema,  abbreviandolo  e  ci- 
tandolo per  lo  più  a  mente  (2);  e  quando  l'esposizione 


(1)  AUi  della  Crusca,  I,  134,  Fir.  1819. 

(ì)  Uaa  prova  manifesta  se  ne  ha  a  fol.  12  r.  del  Cammino, 
dove  esponendo  il  contenuto  del  C.  XVII  dell' Inferno,  a  proposito  del 
rimbombo  del  Flegetonte  che  Dante  sentiva  discendendo  sulle  spallaccc 
di  Gerìooe  (i'  sentia  già  della  man  destra  il  gorgo  Far  sotto  noi  un 


30  G.   BRUSCHI 

della  lettera  si  traeva  dietro  poco  o  tanto  qualche  inter- 
pretazione, seguendo  V  Ottimo,  che  era  quello  fra'  pubblici 
et  noti  commenti  che  più  gli  andava  a  genio  e  più  avea 
trascritto  ne'  suoi  codici.  Mente  chiara  e  nel  pieno  pos- 
sesso del  poema,  non  ne  abbandona  V  ordine  meraviglioso, 
e  cerchio  per  cerchio  tocca  anzitutto  del  luogo,  indi  delle 
qualità  dei  peccati,  delle  pene  e  dei  ministri  di  queste, 
e  da  ultimo  nomina  i  principali  personaggi.  Scrivendo  poi 
senza  prevenzioni  cattedratiche,  nella  brevità  delle  pro- 
porzioni ritiene  assai  spesso  dell'efficacia  dantesca;  cosi 
per  es.  quando  descrive  la  bufera  infernale  del  II  cerchio. 
Cerbero,  il  castigo  degli  sciagurati  che  mai  non  fur  vivi, 
Gerione,  ecc. 

Degno  di  speciale  attenzione  mi  sembra  il  passo  finale 
della  seconda  cantica,  dove  cosi  parla  di  Beatrice  :  <  Et  qui 
etiandio  truova  Dante  Beatrice,  la  qual  riprende  Dante 
d'assai  defecti  commessi  per  lui  dopo  la  morte  d'essa 
Beatrice,  che  come  è  detto,  è  figurata  per  la  sacra  theo- 
logia  et  al  mondo  fu  amorosa  di  Dante  et  figliuola  dì 
Folco  Portinari  fiorentino.  Et  fra  l' altre  cose  che  Dante  è 
ripreso  da  Ilei  è  perchè  al  tempo  della  vita  d'essa  Bea- 
trice, che  morì  parvoletta  et  non  maritata,  Dante  viveva 
virtuosamente  nel  suo  amore  et  attendeva  a  studi  sacri 
et  laudabili  opere  virtuose;  et  dipoi  eh'  essa  Beatrice  mori, 
esso  Dante  variò,  perché  cominciò  attendere  a  studi  poe- 
tici et  fictioni  d' auctori  mondani  certo  tempo,  ma  di  poi 
si  ritornò  pure  al  soave  gusto  et  salutifero  di  theologi  > . 
Da  questo  passo  a  parer  mio  si  può  raccogliere  che 
cosa  pensasse  la  tradizione  volgare  dantesca  nella  prima 


orribile  stroscio)  passa  a  spiegare  T orìgine  dei  quattro  flumi  dalla 
statua  del  monte  Ida;  il  che  Dante  fa  nel  C.  XIV.  Àltrì  esempi  di 
simili  trasposizioni  si  possono  vedere  qua  e  là  leggendo  il  testo  del  Cam- 
mino, 


SER  PIEBO  BONAOCOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  31 

metà  del  sec.  XV  della  Beatrice  di  messer  Giovanni  Boc- 
caccio. Nella  nota  marginale  di  ser  Piero  alla  Vita  di  Dante 
scrìtta  dal  Brani,  che  ho  già  sopra  riportata  e  che  secondo 
me  è  posteriore  al  Cammino,  la  fanciulla  di  Dante  è  chia- 
mata Felice.  Ma  Felice  o  Beatrice  che  fosse,  appar  chiaro 
eh'  ella  è  bensi  restata  la  figlia  di  Folco  Portinari,  ma  che 
fnari  parvoletta  e  non  maritata  :  la  monna  Bice  insomiHa , 
donna  di  Simone  de'  Bardi  non  entrava  negli  ideali  danteschi 
del  secolo  XV  più  di  quello  che  entri  nel  XIX;  e  cosi 
ella  sparisce  nei  biografi  o  commentatori  di  questo  pe- 
riodo, i  quali  pur  conoscono  e  seguono  più  o  meno  il 
Boccaccio  (1). 


VII. 


Come  nel  Quadragesimale,  cosi  nel  Cammino,  ser 
Piero  volle  accompagnare  la  sua  parola  con  figure  illu- 
strative, cioè  con  quattro  maggiori  tavole  rappresentanti  i 
^^a  regni,  e  con  più  altre  minori  vignette  a  penna  e  colori 
^'sseminate  pei  margini  del  testo.  Ammessa,  come  ho  dimo- 
^^rato,  la  data  dell'operetta  anteriore  al  1440,  egli  in  ciò  non 
'^«"^  avuto  predecessori;  si  trovano,  è  vero,  anche  in  codici 
^^'i  secolo  XIV  0  figure  del  Paradiso  rappresentato  coi 
^^Uti  circoli   concentrici   del  sistema  tolemaico,  o  scene 
Particolari  dell'  una  delle   tre   cantiche  ;  ma  una  rappre- 
^^^ntazione  di  tutte  tre,  no;  e  questo  è  il  merito  che  va 
'^^'onosciulo  al  nostro  notaio  (2).  Egli  sente  bensi  tutta 
'^   dii&coltà  del  nuovo  lavoro,  ma  gli  sta  fissa  innanzi  l' i- 


(1)  V.    Vite  di  Dante  di  FiL.  Villani  ;  Leon.  Bruni  ;  Giann. 
l"^ Netti;  ed.   Galletti,  Fir.  1847  e  Adolfo  Barigli,  Storia  lett.,  V, 

(2)  Vedi  De  Batlnes,  Tom.  I,  parte  T,  nel  paragrafo  :  Illustrazioni 
"    i^ante. 


32  G.  BRUSCHI 

dea  e  non  retrocede,  e  Non  fate  ediflchatione  —  scrive  a 
fra  Romolo  —  in  questa  fighura  d' Inferno,  però  che  non  si 
può  fighurare  né  designare  in  superfìcie  di  charta  se- 
condo la  intentione  dell'  autore,  ma  sarò  da  voi  e  daro- 
velo  intendere  :  et  questa  semplice  figbnra  ho  facta  per 
darvene  un  pocho  >. 

La  prima  di  queste  figure,  che  si  trovano  in  tutti  e 
cinque  i  codici,  sempre  eguali  per  forma  e  rozzezza  — 
il  che  esclude  ogni  altra  mano  e  molto  più  quella  di  un 
miniatore  — ,  tenta  rappresentare  nella  grandezza  del  foglio 
tutti  i  tre  regni  insieme.  Con  circoli  concentrici  sono  si- 
gnificati i  nove  cieli;  nel  mezzo  è  una  specie  di  pira- 
mide che  rappresenta  il  Purgatorio  con  in  cima  il  Paradiso 
terrestre  ;  la  piramide  poggia  sopra  una  piaggia  ritonda, 
che,  è  tutta  circondata  dal  77ìare  oceano  ed  ha  V  iscrizione  : 
isola;  nel  suo  mezzo  una  macchia  nera  cioè  il:  bucho 
(T  inferno. 

La  seconda  figura  dà  lo  spaccato  dell*  inferno  o  del 
globo  della  terra,  come  dice  la  scritta.  Neil'  interno  del 
globo  le  divisioni  dell'  inferno  sono  rappresentate  mediante 
archi  di  cerchio  concentrici;  ma  questi  vogliono  raffi- 
gurare non  le  linee  dei  gironi  che  corrono  intorno  all'a- 
bisso infernale  a  forma  d' imbuto,  ma  le  volte,  le  quali  fon- 
date sulle  due  pareti  verticali  dell'  abisso  chiudono  fra  sé 
le  varie  specie  di  peccatori  ;  dall'  una  all'  altra  poi  si  passa 
per  un  ritondo  bucho  mediano,  per  un  pozzo  praticato  nello 
spessore  di  ciascuna  volta,  sino  all'  ultima  che  rappresenta 
la  ghiaccia,  in  mezzo  a  cui  giganteggia  la  spaventosa 
figura  di  Lucifero,  che  coi  piedi  passa  il  centro  del 
globo. 

La  struttura  che  dell'inferno  è  data  nella  figura 
e  ridescritta  nel  testo  del  Cammino  (<  In  questa  prima 
cantica  intende  l' auctore  monstrare   il  sito...   ecc.   >  ), 


SBB  PIEBO  BONAOCOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  33 

DOD  ha  Dalla  che  fare  con  quella  della  concavità  intorno 
a  cai  corrono  i  gironi,  quale  oggi  è  comunemente  se- 
guita e  che  ha  per  primo  investigatore,  dicesi,  Antonio 
Hanetti.  Essa  invece  richiama  alla  mente  un  famoso  mo- 
Domento,  anteriore  di  circa  un  secolo  all'opera  del  Bo- 
naccorsi ,  Y  affresco  cioè  dell'  Inferno  nella  cappella  degli 
Strozzi  di  S.  Maria  Novella,  attribuito  al  grande  Andrea 
di  Clone ,  Orcagna  ,  ma  più  probabilmente  opera  del 
fratello  Nardo  o  Lionardo,  (1).  In  questo  affresco  spic- 
catissima è  la  rappresentazione  dei  gironi  infernali  in 
altrettante  volte  concentriche  ,  le  quali  sono  ad  arte 
spezzate  perché  mostrino  il  loro  contenuto.  Un'  ana- 
loga costruzione  apparisce  ,  sebbene  meno  chiara- 
mente ,  nell'  altro  celebre  dipinto  del  Campo  Santo  di 
Pisa ,  già  creduto  anch'  esso  dell'  Orcagna  ,  ma  che  ora 
la  critica  assegna  con  più  probabilità  ai  Lorenzetti  (2). 
h  interpretazione  delle  volte,  fondate  l'una  in  sull'altra 
pare  adunque  la  prima  che  fin  dal  tempo  di  Dante  si 
de^  della  struttura  del  suo  inferno  :  la  segue  ancora 
oella  prima  metà  del  quattrocento  il  Bonaccorsi ,  fedele 
anche  in  ciò  alla  vecchia  tradizione  ;  sulla  fine  del 
quattrocento  si  manifesta  1'  altra  della  concavità,  che 
riceve  la  sua  formola  nei  ragionamenti  e  nei  disegni  di 
AntOQio  di  luccio  Manetti.  —  Del  quale  è  giusto  dire 
che  egli  ci  si  presenta  primo  investigatore  ;  ma  inesatto 
r  affermare  in  genere  di  lui,  che  primo  cominciasse  a  stu- 


(1)  Vedi  le    Vite    del    Vasari  pubblicate   da   G.  Milanesi  ,  Fir. 
Sansoni,  1878,  Tom.  I,  p.  595. 

(2)  I  Sigg.  Crowe  e  Gavalcasellb  a  pag.  440  del  Tom.  I  della 
kn  Storia  della  Pittura  in  Italia,  T  altri buiscoDO  ai  fratelli  Lorenzetti 
Sieoesi,  Goritì  nella  prima  metà  del  trecento.  —  Il  Milanesi  •  loc.  cit.  • 
'PPOgSi^to  3<1  un  documento  anonimo  del  sec.  XVI  le  congettura  di  Ber- 
oardo  DaddL 

VoL  IV,  Parte  I.  3 


34  G.  BBUSCHI 

diare  di  proposito  la  topografia  dell'  inferno  dantesco  (1). 
E  forse  nella  stessa  teoria  che  da  lai  prende  ora  il  nome, 
molto  egli  si  giovò  dell'  opera  e  del  consiglio  di  due  sonmii, 
a  cui  era  legato  per  vincoli  di  amicizia  e  di  studi,  Filippo 
Brunelleschi,  vo'  dire,  e  maestro  Paolo  dal  Pozzo  Tosca- 
nelli.  Del  primo,  vissuto  nei  più  begli  anni  della  fioritura 
artistica  toscana  (1377-1446),  il  Vasari  afferma,  che  molta 
opera  diede  allo  studio  delle  cose  di  Dante  le  quali  fu- 
rono da  lui  bene  intese  circa  i  siti  e  le  misure,  e  spesso 
nelle  comparazioni  allegandolo,  se  ne  -serviva  né  suoi  ra- 
gionamenti (2).  Maestro  Paolo  dal  Pozzo,  l'illustre  amico 
e  consigliere  di  Cristoforo  Colombo,  tenuto  come  il  primo 
astronomo  e  matematico  del  tempo  (1397-1482),  sebbene 
più  giovane,  insegnò  al  Brunelleschi  geometria,  e  nella 
lunga  familiarità  di  ben  40  anni  e  ne'  ragionamenti,  nei 
quali  Filippo  «  con  il  naturale  della  pratica  esperienza 
rendeva  si  ragione  di  tutte  le  cose  che  spesso  confon- 
deva il  suo  maestro  > ,  è  impossibile  che  ambedue  non 
aprissero  la  loro  mente  su  codesti  siti  e  misure,  spianando 
cosi  parte  dell'  aspra  e  selvaggia  via  all'  amico  e  scolaro, 
Antonio  di  Tuccio  Manetti. 


(1)  Cosi,  per  es.  dice  il  Prof.  Michelangeli  a  pag.  37  del  suo 
studio:    Sul  disegno  dell'  Inferno  Dantesco,  Boi.,  Zanichelli,  i886. 

(i)  Vasari,  Vita  di  Filippo  Brunelleschi  II,  p.  333.  ed.  Milanesi, 
Fir.  Sansoni,  1888.  —  Ad  alcuno  potrà  parere  di  scarso  valore  F  auto- 
rità del  Vasari,  il  quale  scrìsse  degli  studi  del  Brunelleschi  sopra  Dante, 
più  che  100  anni  dopo  la  morte  del  grande  àrteOce;  mentre  di  tali  studi 
nulla  si  tocca  dal  Manetti,  che  Filippo  conobbe  di  persona  e  ne  scrìsse 
la  Tita.  Ma  il  manoscritto  di  Antonio  Manetti,  pubbhcato  prìma  sotto 
Anonimo  nel  181:2,  e  poi  nuovamente  col  nome  del  suo  Autore  da  G.  Mi- 
bnesi  (Fir.,  Le  Monnier,  1887),  si  trova  oggi  mutilo  alla  Magliabe- 
chiana.  II  Vasari  (il  cui  testo  è  identico  nella  sostanza  con  queUo 
delle  duo  stampe  citate)  potè  trovarlo  integro  e  ad  esso  attingere  la 
nolìiìa  rìferìta. 


SEB  PISBO  BONAOCOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  35 

E  quanto  la  via  fosse  invero  aspra  e  selvaggia  appar 
chiaro  dalla  rìtenatezza  del  Manetti  stesso,  il  quale  nulla, 
vivente  (1423-1497),  pubblicò  de'  suoi  studi  in  argo- 
mento, ma  privatamente  li  comunicava  agli  amici;  e  più 
ancora  dalla  discordia  di  codesti  amici  che  delle  sue  opi- 
nioni si  fecero  interpreti  (1).  Perocché  a  Cristoforo  Lan- 
dino, il  quale  nel  1481,  dichiarando  il  sito,  forma  e  mi- 
sura dell'Inferno,  e  misura  di  giganti  e  di  Lucifero.... 
assicurava  averle  comprese  e  massime  per  1'  opera  del 
nostro  Antonio  di  Tuccio  Manetti  >,  sorse  a  contrastare 
nel  1506  Girolamo  Benivieni  nei  noti  dialoghi  circa  el 
sitOj  forma  et  misure  delt  Inferno  (2),  perché  nel  leg- 
gere la  notizia  di  Cristofano  s*era  riscontro  in  cosa  che 
non  cosi  bene  quadra  con  la  sua  fantasia  (del  Manetti). 
Né  passò  molto  —  1544  —  che  il  lucchese  Vellutello 
prese  a  contraddire  tutta  insieme  la  scuola  fiorentina, 
nella  quale,  diceva,  t7  cieco  aver  preso  per  sua  guida 
F  orbo  ;  rimprovero  questo  che  più  tardi  mosse  il  giovine 
Galileo  (1587)  a  difenderne  l'onore  nelle  due  Lezioni  al- 
l' Accademia  Fiorentina  (3).  Anche  ai  nostri  giorni  la 
questione  è  tutt' altra  che  esaurita,  e  la  sfinge  misteriosa 
continua  e  continuerà  ad  attrarre  i  commentatori  di 
Dante  (4). 

La  montagna  del  Purgatorio  offre  molto  minori 
difficoltà  che  la  pianta  d' Inferno,  dove  più  profonda  ed 


(i)  Vedi  Michelangeli,  lib.  ciL  pag.  35  e  seg.;  Ottavio  Gigli,  Studi 
MM  Dante^  Firenze,  Le  Monoier,  1855,  pag.  X. 

(!^)  Firenze,  per  F  di  Giunta  nel  1506. 

(3)  0.  Gigli,  lib.  ciL  pag.  V.  e  segg.  —  M.  Barbi  Della  fortuna  di 
DanU  nel  secolo  XYl.  Pisa,  Nislri,  1890,  Gap.  HI. 

(i)  Vedi  Raffaello  Fornaciari  nella  Introduzione  alle  Tavole  del 
Castani.  Fir,  Sansoni  1877,  e  A.  Bartou  ,  Storia  della  Lett.  ItaL, 
foL  VI,  parte  P,  pag.  45-6,  nota. 


36  G.  BRUSCHI 

originale  spicca  la  mente  creatrice  deli'  Alighieri.  Ser 
Piero  adunque  nella  terza  delle  sue  flgure  ha  dipinto, 
conforme  al  pensiero  dantesco,  suir  isoietta  senz'  alberi,  il 
monte  distinto  in  due  parti,  la  inferiore  o  antipurgatorio, 
che  forma  cinque  valli,  e  la  superiore  o  purgatorio  pro- 
priamente detto,  distinto  in  sette  cornici  o  balzi  concen- 
trici, che  man  mano  restringendosi  conducono  alla  spia- 
nata del  paradiso  terrestre.  Che  anzi  la  parte  inferiore, 
—  cui  egli  nel  commento  chiama  talora  anche  base  dove 
è  fondato  il  monte,  intendendo  per  monte  il  purgatorio 
propriamente  detto  — ,  è  molto  sviluppata  e  prende  ben 
la  metà  di  tutta  V  altezza  ;  il  che  non  osservarono  ge- 
neralmente i  disegnatori,  come  nota  il  Michelangeli  (1) 
rimpicciolendo  troppo  le  proporzioni  della  parte  inferiore 
non  badando  cosi  alla  circostanza,  espressa  dal  poeta, 
dell'  alto  volo  eh'  ei  fece  dormendo  nelle  braccia  di  Lucia 
dalla  valletta  de'fiori  fino  alla  Porta  del  Purgatorio  (C.  IX). 
Sulla  spiaggia  dell' isoletta  è  figurato  il  bucho  d'inferno, 
onde  uscirono  i  Poeti  a  riveder  le  stelle.  Esatta  è  la 
posizione  astronomica  che  assegna  al  Purgatorio  e  nel- 
r  altro  emisferio  di  là  opposto  a  lerusalem  a  piombo  >; 
nel  dichiarar  la  quale  fa  evidentemente  sue  espressioni 
che  si  trovano  qua  e  là  in  luoghi  disparati  dell'O^/tmo;  il 
che  prova,  come  ho  già  altrove  notato,  eh'  ei  io  cita  a 
mente  per  la  gran  pratica  che  ne  aveva.  Dell'  OtUmo 
sono  pure  le  suddivisioni  de'  negligenti  in  cinque  specie  (2). 
La  quarta  figura  rappresenta  con  circoli  concentrici 
i  nove  cieli  e  l'Empireo;  figura  assai  facile  e  comune, 
come  quella  che  riproduce  le  sfere  del  sistema  tolemaico, 
notissimo  al  Medio  Evo.  Epperò  su  di  essa  non  mi  fermo. 


(1)  Lib.  cìt.  pag.  4-5. 

(2)  Proemio  dell* Ottimo  alla   Cantica  del  Purgatorio^  ed.  Torri, 
Pisa,  1822. 


SKR  PIERO  BOKAOOOBSI  B  IL  CAMMINO  DI  DANTE  37 

Altre  figarìne  sui  margini  rappresentano  più  mi- 
DQti  particolari ,  come  i  tre  cerchietti  dei  violenti  e  le 
mMolge  dei  fratidulentiy  Gerione  che  scende  nuotando 
Del  baratro,  il  pozzo  de'  giganti,  l' aquila  del  cielo  di  Giove, 
DDa  strana  scala  in  quello  di  Saturno,  ecc. 


Vili. 


Hi  resta  da  dire  un'ultima  parola  sulla  seconda 
Lettera  di  ser  Piero  a  Frate  Romolo;  la  quale,  come 
mostra  il  suo  esordio,  fa  da  appendice  alla  prima,  e  mi- 
Dore  per  mole  non  è  tuttavia  meno  importante  dell'  altra. 

Tatti  sanno  che  nel  viaggio  dantesco  alla  questione  della 
ria  che  tenne  il  Poeta  si  congiunge  immediatamente  l' altra 
del  tempo  in  che  lo  compie.  Or  bene,  anche  intorno  a  questa 
il  Bonaccorsi  ci  ha  esposto  con  V  usata  semplicità  la  sua 
opJDioDe.  Non  è  inutile  aggiungere  che  anche  in  co- 
desta sintesi  della  cronologia  della  Commedia  egli  non 
ba  amto  predecessori  ;  epperò  il  suo  lavoro  va  riguar- 
dato come  il  primo  fatto  di  proposito  su  tal  materia. 

La  questione  della  cronologìa  non  è  meno  arruffata 
di  quella  della  topografia  :  le  dissensioni  maggiori  sono 
nella  prima  data  del  Poema,  quella  cioè  che  segna  il  prin- 
cipio dell'  azione  ;  minori  sulla  determinazione  dell'  orario 
particolare  nel  percorrere  i  tre  regni.  —  Dietro  al  Boc- 
caccio, il  Landino  e  il  Vellutello  fra  gli  antichi,  il  Bianchi, 
il  Fraticelli,  l'Andreoli,  il  Camerini  fra'  moderni  pongono 
il  principio  del  poema  nella  notte  precedente  al  Venerdì 
Santo,  tra  il  24  e  il  25  Marzo  del  1300;  la  qual  notte, 
contando  gli  anni  ab  Incamatione  secondo  1'  uso  fio- 
rentino, era  intermedia  fra  l'anno  1300  e  il  1301.  Il 
Tommaseo,  Giusto  Grion,  il  Vedovati  stanno  per  la  stessa 
natte,  ma  dell'anno  seguente  1301.   Altri  osservando 


38  G.  BBUSCHI 

che  nel  1300  la  notte  tra  il  Giovedì  e  il  Venerdì  Santo 
cadde  secondo  il  calendario  ecclesiastico  fra  il  7  e  i' 8 
Aprile,  assegnano  a  questo  tempo  il  principio  della  vi- 
sione: cosi  fa  il  GiambuUari,  seguito  dal  Lanza,  Loria, 
De-Sanctis  e  Antonelli.  Altri  finalmente,  come  il  Mi- 
nich,  fanno  intraprendere  il  viaggio  nella  notte  del  3 
al  4  Aprile  del  1300;  TArrivabene  in  quella  dal  4  al  5; 
si  discosta  considerevolmente  da  tutti  il  Giuliani,  mettendo 
la  visione  sul  principio  del  giorno  14  Marzo  1300,  ora 
in  cui  e  la  mente  pellegrina  Più  dalla  carne  e  men 
da*  pensier  presa  Alle  sue  vision  quasi  è  divina  >  (1). 

Ser  Piero  sta  per  la  notte  fra  il  24  e  il  25 
marzo,  intermedia  però  non  fra  il  1300  e  il  1301,  bensì 
fra  il  1299  e  il  1300,  computando,  s'intende,  secondo 
l'uso  fiorentino. 

Questa  data  egli  la  desume  dall'  analisi  della  nota 
terzina  del  XXI  dell'  Inferno  : 

ler,  pili  oltre  cinqu*  ore  che  quest'  otta, 
Mille  dugento  con  sessanta  sei 
Anni  compier,  che  qui  la  via  fu  rotta 

E  cosi  via  via  allegando  con  scrupolosa  esattezza 
tutti  i  passi  del  Poema  che  danno  lume  alla  cronologia 
del  viaggio,  ricava  che  il  Poeta  consumò  una  notte  e  un 
giorno  nella  selva,  una  notte  ed  un  giorno  per  correre 
l'inferno  fino  alla  ghiaccia,  una  notte  ed  un  giorno  an- 
cora nel  passare  dalla  ghiaccia  alla  tomba  di  Lucifero  e 
quindi  uscire  in  sull'alba  all'isola  del  Purgatorio;  tre 
notti   e  due  giorni  nel  percorrere  l'antipurgatorio  e  il 


(1  )  Y.   Dott.   Giovanni   Agnelli,   Sulla  cronografia  Dantesca   in 
Alighieri y  fase.  Gennaio  1890. 


SER  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  39 

Porgatorìo;  ao  sesto  di  lo  spese  mezzo  nel  Paradiso  ter- 
restre, e  r  altra  metà  nei  tre  cieli  della  Luna,  di  Mer- 
curio e  di  Venere.  Fin  qui  egli  segue  il  computo  del 
tempo,  perché  in  questo  cielo,  die' egli,  s' apunta  et  Imi' 
sce  r ombra  del  sole  nel  nadair  della  terra;  et  più  su 
non  i  nocte  né  ombra  che  tengha  i  razi  del  sole,  ma  ri- 
mane in  di  chiaro  et  in  luce  perpetua.  Qui  mancandogli 
però  i  dati,  smette  il  calcolo  :  i  commentatori  che  vogliono 
seguitare,  sono  costretti  anche  qui  come  per  le  misure 
delle  cavità  infernali  e  del  monte  del  Purgatorio,  ad  ab- 
bandonarsi ad  ipotesi  più  o  meno  fondate,  che  trovano 
nondimeno  nella  mutua  discordia  la  propria  condanna. 

G.  Bruschi 


LA  VITA  E  LE  OPERE 


DI 


6I0YANNI  ANDREA  DELL' AN6UILLARA 


I. 

Giovanni  Andrea   dell' Angoillara  nacque  nel  primo 
trentennio  (1)  del  secolo  decimosesto  a  Satri.  Tutti  i  bìo- 

(1)  n  Mazzuchelu,  Scrittori  d'Italia,  congettura  ch'egli  sia  nato 
nel  1517;  ma  non  mi  pare  che  la  sua  opinione  possa  accettarsi  intera- 
mente. Egli  dice  :  TAnguiliara  in  un  Capitolo  indirizzato  al  Madruzzo  car- 
dinal di  Trento  afferma  d*avere  28  anni,  e  si  congratula  con  esso  lui 
perché  ha  ottenuto  cosi  giovane  il  cappello  cardinalizio: 

Chi  rimira  la  carne  vostra  e  Tossa 

Più  che  in  lucido  vetro  si  comprende 

Quale  onor  fate  alla  berretta  rossa. 
E  sete  ora  soggetto  da  faccende: 

Or  che  farete  in  età  più  matura, 

Non  farete  allor  cose  stupende? 

D  Madruzzo  fu  eletto  cardinale  nel  15i5,  nel  quale  anno  si  recò  a 
Roma;  ora,  conclude  il  Mazzuchelli,  se  si  suppone  che  il  Capitolo  del- 
l' Anguillara  sia  stato  scritto  intomo  al  l&i5  quando  il  Madruzzo  era 
in  Roma,  è  lecito  dedurre  che  il  poeta,  che  allora  avea  28  anni,  sia  nato 
nel  1517.  Se  non  che  TAnguilIara  slesso  dice  nel  medesimo  Capitolo,  che 
quand'egli  scriveva,  il  cardinale  trovavasi  a  Trento  e  non  a  Roma: 

Se  ciò  non  basta,  che  vogliate  alquanto 
Con  vostri  occhi  vedermi  a  la  presenza, 
Statevene  con  questo  inGno  a  tanto 

Ch'io  venga  a  Trento  a  farvi  riverenza. 

Dunque  il  Capitolo  è  posteriore  al  15i5,  e  la  data  della  nascita  del 
poeta  dev'essere  posteriore  al  1517.  Ma  non  possiamo  fissare  alcun  anno. 


M.  PSLABZ  —  GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA        41 

grafi  di  lai  si  accordano  nel  credere  eh'  egli  sia  nato  bas- 
tavmie,  e  danno  poca  fede  a  quel  che  il  poeta  dice  della 
soa  famiglia  in  un  Capitolo  : 

Ramo  del  ceppo  son  de  TAnguillara 
C  ha  per  ins^a  Parme  de  TaDguille 
Che  in  molte  parti  de  Y  Italia  è  chiara. 

Già  producea  guerrieri  a  mille  a  mille, 
N*  ha  prodotti  a*  di  nostri  una  decina 
Ch*  arebbon  preso  gatta  con  Achille. 

Per  fama  quei  seguir  tal  disciplina, 
Per  fama  io  mi  son  volto  ad  altri  studi 
Come  il  fallito  mio  destin  m*  inclina  (1). 

io  credo  che  il  poeta  si  stimasse  discendente  da  quella 
bmiglia  Angoillara  (2)  di  nobile  stirpe,  celebre  nella 
storia  di  Roma  e  nota  più  di  tutto  per  quell'Orso  del- 
l'Angoillara  che ,  senatore,  incoronò  Francesco  Petrarca 
sol  Campidoglio,  e  per  quell'Everso  conte  dell'Anguillara, 
che  tanto  diede  da  fare  ai  pontefici  per  essere  passato, 
noico  nella  sua  famiglia,  a  parte  ghibellina. 

Documenti  che  confermino  appartenere  il  nostro 
Andrea  a  questa  discendenza  non  ne  abbiamo  :  vero  è 

(i)  Questo  Capitolo,  che  è  quello  diretto  ai  cardinale  dì  Trento,  si 
^n  manoscritto  in  un  codice  della  biblioteca  Universitaria  di  Bologna 
(vedi  Àp|>endice),  e  a  slampa  in  varie  raccolte  di  poesie  del  cinquecento. 
B  dou.  Ksìao  BoNUCCi  ne  fece  una  ristampa  insieme  con  un  poemetto 
pve  deIl*ÀnguiUara  neUe  Delizie  degli  Eruditi  Bibliofili  Italiani:  Stanze 
pr  lo  natale  di  Monsignor  lo  Duca  d'Anjou  di  M.  Gio.  Andrea  del' 
^'Anguiìlara,  In  Firenze^  presso  Giacomo  Molini,  MDCCCXÌY,  La  le- 
TòfXA  del  codice  non  è  sempre  concorde  con  quella  delle  stampe.  Indi- 
cherò sempre  se  cito  dalle  stampe  o  dal  ms.  Il  passo  sopra  riferito  ò 
tolto  dal  ms. 

(2)  D  ToxASSETTi,  Della  Campagna  Romana,  in  Arch.  d.  Soc.  Rom. 
^  Storia  Patria,  voi.  V,  fase.  IV,  pag.  639,  nota  2,  crede  che  fosse 
«  m  bastardo  deDa  nobile  famiglia  dei  conti  deH'AnguiUani.  > 


42  M.  PELAEZ 

che  recentemente  è  stato  pubblicato  il  Regesto  delle  Per- 
gamene della  Familia  Anguillara  (1),  ma  i  documenti 
contenuti  in  esso  non  arrivano  al  nostro  Andrea.  E  nem- 
meno parla  di  lui  un  codice  delia  Barberina  di  Ro- 
ma, (2)  in  cui  insieme  con  altre  è  una  brevissima  sto- 
ria della  famìglia  Anguillara.  Ma  vi  trovo  accennati  al- 
cuni personaggi  celebri  nell'armi,  de' quali  alcuni  furono 
al  servigio  della  repubblica  di  Venezia,  e  altri  al  soldo 
del  Pontefice.  Questo  confermerebbe  quel  che  dice  il 
nostro  poeta  de' suoi  antenati  guerrieri.  Il  codice  bar- 
berino  inoltre  c'informa  che  la  famiglia  Anguillara  nel 
secolo  XV  era  divisa  in  parecchi  rami  laterali  ;  non  è  quindi 
inverosimile  che  ad  alcuno  di  questi  appartenesse  il  nostro 
Andrea;  il  quale  nel  Capitolo  al  Cardinal  di  Trento  dice  : 

Ramo  del  ceppo  son  de  l'ADgaiDara  (3). 

Né  si  deve  opporre  alla  discendenza  del  poeta  da  una 
nobile  famiglia  la  miseria  in  mezzo  alla  quale  egli  passò 
tutta  la  sua  vita;  poiché  l'Anguillara  stesso  nel  medesimo 
Capitolo  ci  avverte  della  decadenza  della  sua  famiglia. 
Dopo  aver  detto  che  i  suoi  antenati  per  fama  si  volsero 
al  mestiere  dell'armi,  prosegue: 

Per  fama  io  mi  son  volto  ad  altri  studi 
Come  il  fallito  mio  destiti  m' iDcIina  (4). 

(1)  R.  Società  Romana  di  Stona  Patria,  Regesto  dtlle  Pergamene 
della  famiglia  Anguillara^  Roma,  nella  Sede  della  Società  alla  Biblioteca 
Vallicellìana,  1887,  pag.  7. 

(2)  Codice  barberiniano  LUI.  84. 

(3)  Cosi  leggo  nei  codice  bolognese.  Le  stampe  che  ho  riscontrate 
hanno:  e  De  la  Stirpe  son  io  de  TÀnguillara.  » 

(4)  Cito  anche  qui  dal  cod.  bologn.  Le  stampe  hanno  altre  dae  dif- 
ferenti lezioni:  e  Si  come  il  fato  e  '1  mio  destin  m'inclina  »  (ediz.  ciL 
del  BoNUCci)  e  e  Si  come  il  fato  e  '1  mio  poter  m' inclina  >  (Rime  pia- 
cevoli, parte  terza,  in  Venezia,  MDCXXVII). 


GIOTANNI  ANDBBA    DBLL*  ANOmLLABA  43 

Nulla  sappiamo  de'  parenti  e  de'  primi  anni  del  poeta, 
ma  egli  dovè  presto  da  Sutri  venire  a  Roma,  dove  crebbe 
e  fu  educato,  siccome  egli  stesso  ci  fa  sapere  in  una  canzone 
composta  pel  suo  ritorno  in  quella  città  dopo  tre  lustri 
d'assenza  : 

Passando  ho  scorto  il  loco  ove  io  son  nato, 
Or  dove  fui  nutrito  raflSguro 
Presso  air  antico  muro 
Ond'alza  al  cielo  il  Panteone  il  corno: 
Vi  ritrovo  gli  stessi  che  vi  furo 
Meco  nudriti,  benché  abbian  cangiato 
Sembiante  abito  e  stato.  (1) 

In  Roma  attese  probabilmente  agli  studi  di  giurispru- 
deuza,  nella  quale  fu  dottore: 

E  SODO 

Dottor  di  leggi  che  legge    .... 


E  codici  e  paragrafi  e  digesti 
Bartoli  e  Baldi  m'hanno  consumato 
E  tutti  i  sensi  conquassati  e  pesti  (2). 

Ma  dovette  anche  occuparsi  di  lettere,  e  in  ispecial  modo 
della  poesia,  nella  quale  cominciò  in  questo  tempo  a  e- 
sercitarsi.  Egli  ricorda  infatti  d'avere  scritto  in  Roma  molte 
delle  sue  rime  : 


(1)  Vedi  la  canzone  in  Appendice  ▼.  16  e  segg.  Lo  Zilioli  ne* Poeti 
i^W,  il  NAZZuaiELLi,  e  tutti  gli  altri  che  parlarono  deli'  Anguillara, 
^^'s^  ch'egli  venne  in  Roma  in  età  più  matura,  quando  per  le  ristret- 
^  io  coi  trova?asi  fu  costretto  a  cercare  un  impiego  presso  un  libraio. 

(2)  Capitolo  al  cardinal  di  Trento  in  op.  cit.  loc.  cit  Stampe  e  ms. 
'«'o  concordi. 


44  M.  PELABZ 

Queste  son  pur  quell'  onorate  sponde 
Del  Tebro  dove  lungamente  vissi, 
E  rime  in  copia  scrissi 
Conformi  all'età  mia  verde  ed  acerba  (1). 

Ad  avventare  romane  accenna  lo  Zilioli,  aatore  che 
merita  poca  fede,  nei  Poeti  Italiani:  e  Usci  Angnillara 
di  casa  sua  povero,  e  male  in  farnese,  per  procacciarsi 
con  la  virtù  il  modo  di  vivere:  et  avendo  in  Roma  di 
prima  giunta  ritrovato  commodo  trattenimento  appresso 
un  libraio  al  quale  serviva  nella  correzione  dei  libri,  guastò 
presto  con  la  temerità  e  libidine  sua  quella  poca  pro- 
sperità, che  avea  incontrata:  perciocché  innamorato  della 
moglie  del  Patrone,  e  scopertosi  T  adulterio,  fu  costretto 
partirsi  di  quella  casa,  e  perseguitato  da  colui  anco  ab- 
bandonar la  città  )  (2). 

Ma  prima  di  proseguire,  vediamo  il  ritratto  che  il 
poeta  fa  di  sé  medesimo  in  quel  capitolo  al  cardinal 
Madruzzo,  che  è  una  specie  di  autobiografia,  poi  che 
vi  espone  la  sua  triste  condizione,  le  sue  miserie,  i  suoi 
patimenti  e,  per  farsi  conoscer  meglio  dal  cardinale,  fa 
il  proprio  ritratto.  Circa  il  tempo  in  cui  fu  scritto  nulla 
possiamo  affermare  di  certo;  e  abbiamo  già  accennato 
innanzi,  in  una  nota,  per  quale  ragione  non  sia  da  ac- 
cettare la  congettura  del  M azzuchelli  ;  soltanto  sappiamo 
che  in  questo  tempo  il  poeta  trovavasi  al  servizio  di 
monsignor  Leone  Orsino,  giacche  al  principio  del  capitolo 
lo  nomina  come  persona  eh'  egli  vedeva   ogni  giorno. 


(1)  Appendice,  canz.  ciL  ?.  61  e  segg. 

(2)  L'Autografo  dell'opera  dì  Alessandro  Ziliou  trovasi,  come  é  noto, 
nella  Biblioteca  Aprosiana  di  Yentimiglia;  io  cito  dalla  copia  che  è  nella 
Marciana  di  Venezia,  CI.  X',  P,  p.  11 4. 


GIOYANNI  ANDREA  DELL*  AN6UILLABA  45 

Da  che  si  leva,  insin  che  torna  a  letto, 
Non  fa  mai  altro  Monsignor  Orsino, 
Come  se  non  ci  fosse  altro  soggetto  (1). 

Il  capitolo  coDSta  di  dae  parti  :  nella  prima,  dopo 
arer  esposte  le  sue  misere  condizioni ,  il  poeta  domanda 
al  cardinale  mi  privilegio  : 

Voi  che  dì  ccMtesia,  di  splendor  regio 

Si  come  intendo  dir  tutti  avanzate. 

Fatemi  fare  un  ampio  privilegio , 
Dove  si  veggia  come  m'accettate 

Fra  vostri  eletti,  e  privilegiati 

In  questa  nostra  sfortunata  etate. 

Nella  seconda  parte,  pensando  che  il  cardinale  voglia 
conoscere  questo  chiedente y  Giovanni  Andrea  cosi  parla, 
QQ  po'  scherzosamente,  di  sé  dopo  i  versi  che  ho  riferiti 
intorno  alla  sua  famiglia  : 

Or,  monsignor,  mettetevi  gli  occhiali 
Ch'io  vi  voglio  mostrare  un  corpo  umano 
Di  fattezze  stupende  ed  immortali. 

Io  sono  un  uom  fra  piccioli  mezzano 
E  fra  mezzani  picciolo  e  fra  grandi 
Mi  si  potrebbe  dir  eh'  io  fossi  un  nano. 

E  s'awien  ch'alcun  grande  mi  domandi 
Per  parlarmi  a  l'orecchia  cheto  cheto. 
Bisogna  ch'ei  s' impiccioli,  io  m' ingrandi. 

*  ^  ^<>si  leggo  nel  cod.  bolognese.  Le  stampe  hanno  : 

Oh  Dio!  come  gioisce,  e  come  gode 
L'antico  mio  padran  Leone  Orsino 
Quando  racconta  qualche  vostra  lode. 


46  H.  PELAEZ 

Volto  ordinario  e  dì  natura  lieto, 
Se  la  sorte  crudel  noi  fesse  tristo, 
Che  mi  persegue  in  pubblico  e  in  segreto. 

La  fronte  spaziosa  e  rocchio  negro 
E  tutto  il  capo  né  grosso  né  asciutto, 
E  grande  e  sano  e  non  picciolo  et  egro: 

Vo*  concluder  infìn  che  *1  capo  tutto, 
Ancor  che  non  si  possa  dire  eletto. 
Non  si  pub  dir  spiacevole  né  brutto. 

Ma  le  fattezze  c'han  le  spalle  e  '1  petto 
Non  sana  buon  Tiziano  a  rìtrarle, 
E  non  le  squadrerebbe  un  architetto. 

Ghé  la  pancia,  lo  stomaco  e  le  spalle 
Paiono  un  mappamondo,  ove  si  vede 
Pili  d*un  monte  d'un  piano  e  d'una  valle  (1). 

In  questo  corpo  stravagante  e  raro 
Stassi  un  animo  libero  e  sincero 
Ch'a  ciaschedun  che  lo  conosce  è  caro  (2). 


(1)  Carlo  Pinti  in  un  epigramma  latino  che  si  trova  a  car.  305 
degli  iUuslrium  Mulierum  et  illusirium  Litteris  virorum  Elogia  a  tulio 
Coesore  Capacio  conscripta,  Neopoh\  Apud  lacobum  Carlinumy  i608, 
ha  Yohito  rappresentare  deforme  anche  il  volto  dell'Anguillara  : 

Turpis  ut  hic  vultus  terret  plerosque  tuentes: 

Ànguis  ita  haud  horrens  Laocoonlis  erat. 
Àt  quantum  huie,  Musae,  debemus  solvere  vati: 

Edidit  hic  vigili  carmina  eulta  manu  ; 
Hoc  duce  Naso  sonis  varias  decantat  Etruscis 

Priscorum  in  formas  corpora  versa  Deùm. 
Hac  miro  ducit  studio  te  copia  rerum, 

Dulcibus  hic  numeris  verba  ligata  tenenL 

(t)  Vedi  il  testo  edito  dal  Bonucci  in  Delizie  etc  Le  stampe  e  il 
ms.  sono  concordi. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLABA  47 

Anche  lo  Zilioli  (1)  ci  dice  che  era  e  conosciuto  da 
tutti  per  la  gobba  grande  ch'egli  avea  sulle  spalle  >  tanto 
che  fu  chiamato  il  Gobbo  dell* Anguillara.  Questo  sopran- 
nome fece  cadere  in  errore  il  Crescimbeni,  il  quale  re- 
gistrò il  Gobbo  delt  Anguillara  come  poeta  diverso  da 
Giovanni  Andrea,  e  II  Gobbo  dell'  Anguillara  da  Sutri , 
Dottore,  e  Poeta  piacevole,  e  satirico,  fiori  ai  tempi  da 
Gregorio  XIV  circa  il  1590.  Visse  egli  in  Roma  ben  ve- 
duto dai  personaggi  della  Corte,  e  particolarmente  dal 
cardinal  Farnese:  con  tuttocìò  v'ebbe  poca  fortuna.  Ebbe 

stile  facilissimo  e  assai  gratioso  e  mordace >  (2)  Ma 

Giovanni  Andrea  fu  precisamente  di  Sutri,  dottore,  pro- 
tetto, come  vedremo,  dal  cardinal  Farnese;  quindi  è  lecito 
credere  che  i  due  poeti  menzionati  dal  Crescimbeni  siano 
una  persona  sola;  di  che  possiamo  trovare  una  conferma 
in  una  canzone  dell' Anguillara  manoscritta  nella  Biblioteca 
Barberina,  con  innanzi  questo  titolo:  Canzone  di  M.  Gio. 
Andrea  alias  del  Gobbo  da  Sutri  (3). 


Il 


Da  Roma  l' Anguillara  passò  a  Venezia;  e  lo  Zilioli 
ci  narra  anche  qui  le  peripezie  che  ebbe  durante  il  viag- 
gio e  poiché  assalito  da  malandrini  per  viaggio,  perse 
talli  quei  pochi  denari  e  quelle  robbe,  che  con  tanti  su- 
dori s'avea  acquistati,  e  quasi  la  vita  ;   onde  fatto  me- 


li) Op.  cit.  loc.  ciL 

ii)  ùmmentarii  all'  Istoria  della  Volgar  Poesia,  Venezia,  Baseggio, 
^'30,  Tol.  IV,  pag.  84.  Di  Giovanni  Andrea  dell' Anguillara  parla  nella 
btoria  della  Volgar  Poesia,  Roma,  Antonio   De  Rossi,  17il,  pag.  i60. 

(3)  Vedi  la  canzone  in  appendice.  Anche  il  Mazzuciielli,  Scrittori 

(fhdia^  crede  che  i  due  poeti  citati  dal  Crescimbeni  siano  una  persona 

sob. 


48  M.  PELAEZ 

schino,  e  vagabondo  qaa  e  là  tatto  stracciato  e  pieno  di 
pidocchi  arrivò  finalmente  in  Venezia,  dove  ricevuto  cor- 
tesemente dal  Franceschi  Libraro  Sanese  trovò  qualche 
sollevamento  alle  passate  calamità  servendo  in  quella 
stamparla.  »  Che  cosa  facesse  a  Venezia  non  sappiamo; 
ma  è  falso  ciò  che  dicono  lo  Zilioli  e  tutti  quelli  che 
attinsero  da  lui  copiandosi  Y  un  l'altro ,  che  T  Ànguil- 
lara  traducesse  le  Metamorfosi  a  richiesta  del  Franceschi 
e  per  il  prezzo  di  duecento  scudi  (1).  Giacché  la  prima 
edizione  dei  primi  libri  dell'  opera  fu  fatta  a  Parigi  e  non 
a  Venezia ,  come  avrebbe  dovuto  avvenire  se  l' inca- 
rico di  tradurre  le  Metamorfosi  fosse  stato  dato  all'An- 
guillara  dal  Franceschi.  La  prima  edizione  veneziana  poi , 
come  si  vedrà  in  seguito,  usci  pei  tipi  del  Valgrisi,  non 
del  Franceschi.  Certamente  l'Anguillara  si  trovava  a  Vene- 
zia nel  1553  ed  avea  finito  in  questo  tempo  il  primo  li- 
bro delle  Metamorfosi  (2);  compiuto  il  quale,  nel  mede- 
simo anno  si  recò  a  Parigi  e  lo  fece  stampare  con  una 
lettera  dedicatoria  a  Enrico  II,  re  di  Francia,  lettera  che 
egli  avea  già  scritta  quando  trovavasi  a  Venezia,  come 
apparisce  dalla  data  di  essa  :  Di  Venetia  il  mese  di  Marzo 
MDLIII  (3).  Nello  spazio  di  due  anni  l'Anguillara,  conti- 


(1)  D  GiMMA,  Elogi  Accademici,  Napoli,  Carlo  Troise  MDCCII  p.  336, 
dice  che  l'Anguillara  rìcevelte  seicento  scudi  dall'editore  e  una  collana 
d'oro  dal  re  di  Francia  Enrico  II. 

(2)  Delle  Metamorforsi  d'Ovidio  Libro  1  di  Gio.  Andrea  Dell'  An- 
guillara  ad  instanza  di  Alberto  di  Grafia  di  Lucha,  detto  il  Toicano, 
In  4^,  Questa  edizione  non  contiene  né  il  luogo,  né  la  data  di  stampa. 
Io  l'assegno  all'anno  1553,  ricavando  questa  data  dalla  lettera  di  dedica 
a  Enrico  II,  che  si  trova  a  principio  dell'edizione  di  tre  libri  faUa  nel 
1555  e  che  dev'essere  certamente  una  riproduzione  di  quella  stampata  a 
principio  dell'edizione  del  primo  libro. 

(3)  L'autore  inseri  pure  in  questo  primo  libro  cinquantasei  ottave 
per  celebrare  Enrico  II  e  la  sua  famiglia. 


aiOVANNI   ANDREA  DELL*  ANGUI LLARA  49 

Duando  a  stare  a  Parigi,  condusse  a  termine  altri  dae 
libri  delle  Metamorrosi  e  li  pubblicò  insieme  col  primo 
pure  a  Parigi  (1).  Segue  a  questi  tre  libri  una  lettera  di 
scusa  al  lettore  per  la  ritardata  pubblicazione:  <  Non  vi 
meravigliate,  benigni  lettori,  sMo  da  la  pubblicazione  del 
mio  primo  libro  in  qua  de  le  Metamorfosi  io  non  ho  dato 
foora  che  questi,  essendo  ciò  accaduto  si  per  haver  vo- 
luto più  tosto  far  poco,  e  con  diligenza,  che  molto  e  tra- 
scuratamente, havendo  avuto  riguardo  più  a  Thonor  che 
a  qualsivoglia  altra  cosa,  si  per  non  mi   essere  io  fer- 
mato da  allhora  in  qua  sempre  in  un   loco  per  la   mia 
avversa  fortuna  che  non  ha  mai  confortato  l' animo  mio 
con  la  disposizione  dei  tempi,  dei  luoghi,  delle  persone 
e  dei  negotìi  in  modo  ch'io  mi  sia  potuto  fermare.  >  Non 
sappiamo  dove  siasi  recato  in  questi  due  anni,  nò  quali 
avversità  lo  abbiano  molestato.  Certamente  non  viaggiò 
in  Italia,  giacché  dalla  data  di  una  sua  lettera  al  Varchi, 
scritta  da  Lione  (2),  si  ricava  che  nel  1560  si  trovava  in 
questa  città;  e  da  una  canzone  a  Caterina  de'  Medici,  che 
una  sola  volta  andò  in  Francia.  La  canzone,  che  cele- 
bra le  lodi  della  regina,  appartiene  agli  ultimi  anni  della 
vita  del  poeta,  il  quale  nel  congedo  si  scusa  con  la  ve- 


ti) De  le  Metamorfosi  di  |  Oridio  -  Libri  HI  |  Al  Re  chiarissimo 
et  I  Iotìuìss.  I  Henrico  li  di  Giovanni  Andrea  dell'  Anguillara  |  In  Parigi 

I  Per  Andrea  Wechelo  a  Y  insegna  dei  Cavallo  alato  |  MCLV.  Questa  e- 
dizìoDe  è  molto  rara;  io  ne  ho  veduto  un  esemplare  nella  Biblioteca  Ange- 
li» di  Roma,  mutilo  di  una  parte  del  prìmo  libro,  del  secondo  libro  e 
^  di  aoa  parte  del  terzo.  Neil'  ultima  carta  si  legge  un  sonetto  dell'  An- 
guillara  a  una  gentildonna.  Questa  edizione  parigina  di  tre  libri  fu  ripro- 
dotta oelk)  stesso  anno  a  Venezia  :  Delle  j  Metamorfosi  |  D' Ovidio  |  Libri 
Di  I  Al  Re  Cristianissimo  et  Invittiss.  |  Henrico  II  |    Di  Giovanni  Andrea 

!  dell'ÀDgaillara  |  In  Vinegia  |    Vincenzo  Valgrisi  1555. 
&)  Vedi  Appendice,  lettera  I. 

VoL  IV,  Parte  I  4 


50  M.  PELAEZ 

dova  di  Enrico  II  di  non  essere  più  ritornato,  alladendo 
ai  torbidi  degli  Ugonotti: 

Se  perch*  io  Don  toroassi  altri  m*  incolpa, 
GaDzon,  dr,  che  la  colpa  non  fu  mia. 
Che  la  nuova  di  Dio  nemica  setta 
Tutta  sangue  e  vendetta, 
Che  turbò  in  Francia  U  buon  stato  di  pria 
A  me  troncò  la  via, 

E  s'or  di  nuovo  a  gir  non  m'apparecchio, 
Ben  ardente  desio  mi  sprona  e  punge. 
Ma  come  infermo,  e  vecchio 
Potrei  passar  tant'Alpi  e  gir  si  lunge?  (1). 

L*Anguillara  probabilmente  dovè  essere  ammesso 
nella  corte  di  Enrico  II  e  dovè  conoscervi  alcuni  per- 
sonaggi, come  ad  esempio,  la  Dachessa  di  Yalentinois,  per 
la  quale  egli  scrisse  tre  sonetti  e  un  capitolo  in  terza 
rima  (2). 

Ma  torniamo  al  primo  libro  delle  Metamorfosi.  La 
pubblicazione  di  esso  come  saggio  pare   abbia   dato  oc- 

(1)  Canzone  di  Messer  Giovanni  Andrea  Dell' Anguillara  A  Catte- 
rina  de  Medici  Reina  di  Francia  Con  tre  sonetti  creduti  del  medesimo. 
Uno  a  Carlo  IX  Re  Cristianissimo  E  gli  altri  due  sulla  morte  del  Car- 
dinal Vitellozzo  Vitelli,  in  Anecdota  Lilleraria  ex  Mss.  codicibus  erula.  Voi. 
I,  Romae  apud  Gregorium  Settariuni  ad  insigne  Homeri  public.  auctoriL 
p.  Ì31-439.  L*autore  di  questi  Anecdota  dice  d'aver  tratto  queste  rime 
da  un  codice  appartenente  già  a  Monsignor  Felice  Contelori. 

(2)  De  le  rime  Di  diversi  nobili  Poeti  toscani  Raccolte  da  M.  Dio- 
nigi Atanagi.  In  Venezia  Appresso  Lodovico  Avanzo  i565.  Lib.  II  cor. 
ii-i3.  Vi  si  contengono  ancora  altri  due  capitoli  deirAnguillara,  d'argo- 
mento religioso.  In  uno  il  poeta  fa  la  confessione  a  Dio  e  si  pente  de'suoi 
falli;  nel  secondo  si  lamenta  di  coloro  che  non  vogliono  adorare  le  ioi- 
magini  di  Dio  e  dei  Santi,  perché  non  credono  che  un  crocifisso,  un  qua- 
dro possa  rappresentare  una  divinità.  Del  resto  i  due  capitoli  non  hanno 
alcun  pregio. 


GIOVANNI   ANDREA  DELL*  ANGUI LLAR A 


51 


casione  a  crìticbe  acerbe,  cui  i[  poeta   accenna  in  quella 
lettera  di  scusa  al  lettore  che  è  nell'  edizione  dei  primi  tre 
libri.  In  essa  si  lamenta  che  uomini  pur  valenti  sentano 
troppo  di  sé  e  disprezzino  chiunque  non  sia  al  paro  di 
loro.  E  aggiunge  che,  se  certi   invidiosi   gliene   daranno 
nuovamente  occasione,  egli  sarà  costretto  a  metter  fuori 
€  cose  che  faranno  non   solo  ridere  i  savi^  ma  i  matti 
ancora,  e  la  scimmia  farà  gli  atti  suoi,  e  il  pedante  par- 
lerà per  lettera,  e  per  volgare  a  lettere  di  spetiali,  ed  il 
mondo  allettato  dal  diletto  che  ha  dello  stil  satirico,  ba- 
vera gran  piacere,  perché  saran  cose  che  per  l'univer- 
sale daran  più  tosto  nel  dolce  che  ne  1'  amaro  ;   è  vero 
che  daran  ne  l'amaro  per  più  d'uno  e  non  saranno  (come 
si  dice  qui  in  Francia)  troppo  joUe  per  qualcuno  »  (1).  Chi 
sia  stato  l'autore  di  queste  censure  è  ignoto;  forse  TAn- 
goillara  si  riferisce  a  quelle  che  ebbe  in  Italia  da  Ludovico 
Dolce,  delle  quali  parleremo  appresso.  Sappiamo  invece, 
e  dalla  medesima  lettera,  che  in  questo  tempo  era  pro- 
letto  e  stipendiato  dal  cardinal  Farnese  (2)  (non  è  noto  per 
qoale  ufficio),  e*  che  col  favore  di  esso  sperava  compiere  al 
più  presto  la  desiderata  versione  delle  Metamorfosi,  e  Hora 
che  il  Magnanimo  e  non  mai  abbastanza  lodato  Cardinal  Far- 
nese supplisce  di  quel  che  bisogna  a  quell'otio  et  a  quella 
comodità  eh' io  desiderava,   s'altro  non   s'interpone   voi 
haverele  li  12  libri  che  restano  fra  si  breve   tempo   che 
darà  (orse  non  poca  meraviglia  al  mondo.  Tanto  più  ch'io 
mi  sforzerò  di  far  che  siano  tali  che  molti  conoscano  di 
^sersi  nei  loro  giuditij  grandemente  ingannati  »  (3).  Nello 

Oì  Vedi  edtz.  cit.  dei  primi  tre  libri  delle  Metamorfosi. 
(^)  Che  TAnguillara  sia  stato  protetto  e  più  volte  aiutato  dal  Far- 
■^  s  ricada  anche  da  un  capitolo  che  il  Nostro  gli  ha  diretto  e  del 
J^  Meremo  appresso.  Cfr.  Append.  capitolo  I  ed  appresso  dove  parlo 
^^mii   dell' Anguillara. 

^^)  ^edi  lettera  nell'ediz.  cit  dei  primi  tre  libri  deUe  Metamorfosi. 


52  M.   PELAEZ 

Stesso  aDDO  1555,  in  coi  pubblicò  i  primi  tre  libri  delle 
Metamorfosi,  l'Anguiiiara  diede  alle  stampe  le  Stanze  per 
lo  Natale  di  Monsignor  lo  dìica  d' Anjou  (1)  per  celebrare 
il  quinto  anniversario  della  nascita  del  duca.  Immagina  egli 
in  questo  suo  poemetto  che  Iride  discesa  dal  cielo  venga  ad 
annunziare  alla  Gallia  qual  premio  le  è  stato  concesso  da 
Dio,  in  merito  delle  sue  vittorie  e  della  grandezza  da  lei 
acquistata  sovra  gli  altri  popoli,  colla  nascita  di  un  tanto 
principe.  Enumera  tutte  le  virtù  di  cui  sarà  adomo,  e  le 
personifica  in  tante  donzelle  che  seguono  il  carro  di  Iride 
per  andare  ad  ornar  di  lor  medesime  il  neonato.  Que- 
st'ultima parte  è  una  semplice  enumerazione,  ed  ha  po- 
chissimo valore  poetico;  ma  la  prima  p  arte  del  poemetto, 
ove  sono  descritti  la  stagione  primaverile,  i  due  carri  e 
il  seguito  di  Iride  e  della  Gallia,  ha  una  certa  vaghezza 
che  ci  fa  pensare  ai  migliori  esempi  di  ottave  classiche. 
Non  sarà  discaro  qualche  saggio  del  poemetto:  la  prima- 
vera vi  è  descritta  cosi: 

Girando  il  mondo  il  Dio  che  lo  coloPa, 
Già  facea  col  Monton  Tottavo  cerchio, 
L'Equator  da  man  manca  Egli  e  rAurora 
Avean,  ma  non  lontan  però  soperchio; 
Spiravan  tal  virtù  Favonio  e  Flora, 
Ch'alcun  non  fean  le  nuhi  al  elei  coperchio; 
E  le  viole,  e  gli  altri  primi  fiorì 
Tutta  Paria  spargean  di  grati  odori. 


Le  provvide  api  al  ben  pubblico  amiche, 
Ch'avea  già  il  verno  assediate  e  cinte, 

(1)  Stanze  Nel  |  Natale  di  Monsignor  |  lo  duca  D' Anjou  |  Di  Gio- 
vanni Andrea  de  V  An  |  Guillara  |  In  Parigi  |  Per  Andrea  Wechello  a 
l'insegna  del  I  Cavallo  Alalo  |  MDLV.  Fu  ristampato,  come  ho  già  detto 
dal  Bonucci  in  Deliiùi  eie.  Io  cito  da  quest'ultima  edizione. 


GIOVANNI   ANDBEA   DELL*  ANOUILLARA  53 

Ch'avendo  poco  mei  le  cere  antiche, 
Eran  molto  vicine  a  restar  vinte, 
L'ambrosia  già  prendean  da  piagge  apriche, 
Di  vaghi  e  novi  fior  sparse  e  dipinte, 
Per  ristorar,  al  lor  comun  governo. 
Quel  nettar  ch'elle  avean  mangiato  il  verno  (1). 

h  carro  della  Gallia  è  accompagnato  ai  due   lati  dal 
Senno  e  dal  Valore: 

E  ambedue  con  umiltade  alteri 

Un  era  valoroso  e  l'altro  saggio  (2). 

Ma  poi  li  descrive  più  particolarmente,  e  pare  di  sen- 
tire r  Ariosto  quando  fa  il  ritratto  della .  Discordia,  della 
Gelosa  : 

È  il  Senno  uom  di  prudenza  e  di  consiglio, 
E  lo  dimostra  il  vestir  lungo  e  grave, 
La  barba  bianca  e  '1  suo  severo  ciglio, 
E  raccerto  parlar  basso  e  soave; 
Ch'ei  dice  con  tal  forza  e  con  tal  grazia, 
Ch'ognun  riman  contento  e  lo  ringrazia. 
Stalle  appresso  il  Valor,  dal  lato  manco, 
Di  più  feroce  aspetto  e  qualitate, 
Un  uom  robusto  valoroso  e  franco, 
Su  M  più  bello  de  la  virile  etate. 
D'armi,  fuor  che  la  testa,  è  tutto  bianco 
D'oro  e  di  gemme  alteramente  ornate. 
L'elmo  gli  pende  appresso,  e  in  ogni  parte 
Dipinge  il  suo  bel  corpo  il  fiero  Marte  (3). 


IP  Op  eli.  ottava  2  e  7. 

'*'  ^p.  cit  oUava  16. 

^^'  Op.  cii.  ottava  17  e  18. 


54  M.  PELAEZ 

Cadde  in  errore  il  GiDguené  (1)  quando  scrìsse  che 
l'Anguillara  era  di  ritorno  in  Italia  dae  anni  dopo  la  pub- 
blicazione de' primi  tre  libri  delle  Metamorfosi.  Abbiamo 
infatti  già  visto  che  egli  si  trovava  ancora  io  Francia  nel 
1560.  Seguitava  a  lavorare  intorno  alle  Metamorfosi  : 
nel  Giugno  di  quell'anno  trovavasi  a  Lione,  donde  scri- 
veva al  Varchi  a  Firenze:  e  Io  sono  intomo  al  decimo 
libro,  e  penso  che  io  barrò  Anita  tutta  l'opera  a  Febraio 
e  verrò  costà  al  più  tardi  a  Marzo  se  altro  impedimento 
non  nasce.  Le  ne  mando  per  Messer  Camillo  Spannocchi, 
compitissimo  gentiluomo  una  favola  del  nono  libro  per 
saggio  de  le  cose  che  io  fo  ora,  harrei  caro  d' intenderne 
il  suo  parere  e  la  prego  a  tenermi  ne  la  sua  buona  gratia 
et  a  conservar  dal  lato  suo  la  nostra  antica  amicìzia  »  (2). 
Della  sua  dimora  a  Lione  ci  fa  fede,  oltre  questa  lettera, 
quello  che  Gabriello  Simeoni  dice  nel  suo  Dialogo  Pio 
intorno  all'accoglienza  fatta  all'Anguillara  in  quella  città 
da  un  certo  Matteo  Balbani  lucchese  :  e  La  cortesìa  usata 
da  costui  al  gentilissimo  spirito  dell' Anguillara,  honoran- 
dolo  et  trattandolo  come  un  suo  proprio  fratello  in  casa 
sua,  s' ha  non  solamente  obbligato  me,  ma  quanti  uomini 
virtuosi  amatori  di  virtù  si  trovano  al  mondo,  perché  mi 
pare  che  molto  si  possa  gloriare  la  città  di  Lucca  che  di 
lei  sia  uscito  un  così  nobile,  magnanimo  et  discreto  cit- 
tadino »  (3).  Né  solamente  buona  accoglienza  dev'  essere 
stata  quella  di  Matteo  Balbani;  poiché  di  ben  altro  l'An- 
guillara gli  rende  grazie  alla  flne  delle  sue  Metamorfosi 
con  due  ottave: 

(1)  Histoìre  Uttéraire  d'Italie,  Milano,  Giusti  1821;  Pane  U,  cap. 
XK;  VI,  90. 

(2)  Vedi  append.  lettera  I. 

(3)  Dialogo  Pio  et  speculativo  Con  diverse  sentenze  latine  et  t-o/- 
gari  di  M.  Gabriel  Simeoni  fiorentino.  In  Lione,  appresso  Guglielmo  Ro- 
viglio,  1560. 


GIOVANNI  ANUBEA  DELL*  ANGUILLARA  55 

• 

Godi,  Balban,  della  tua  interna  luce 
C3ìe  scorge  Tavvenir  sf  di  lontano; 
Godi,  Matteo,  del  frutto  che  produce 
La  tua  sf  liberal  natura  e  mano. 
Questa  fatica  mia,  ch'or  mando  in  luce. 
Nasce  dal  tuo  giudizio  intero  e  sano: 
C3)e  prevedendo  e  provvedendo  il  tutto. 
Questo,  quale  ei  si  sìa,  n'  è  nato  frutto. 

Dappoiché  non  poss'  io  supplir  secondo 
Fora  il  desire,  a  tanto  benefizio, 
Bastiti  almen,  eh'  io  faccia  fede  al  mondo 
Del  tuo  cor  liberal,  del  tuo  giudizio  (1). 

Del  tempo  nel  quale  rAngoillara  fa  in  FraDcia  ab- 
biamo ancora  una  sua  lettera  ad  Annibal  Caro ,  cui  egli 
invia  m  commento  al  Decamerone  stampatosi  a  Lione. 
Dice  di  non  conoscere  l'autore,  però  lo  loda  assai  e  ag-> 
gioDge  che  il  commento  è  fatto  e  con  tanta  facundia  ed 
eieganzia  che  pare  che  il  Boccaccio  sia  venuto  a  com- 
mentare sé  stesso  >  (2).  Nel  Giugno  del  1561  l' Anguil- 

(1)  U  Metamorfosi  d'Ovidio  ridoUe  da  Giovanni  Andrea  dell' An- 
cnuARA  in  oliava  rima,  Milano,  Tipografia  de'  Classici  ilaliani,  1805; 
libro  XV,  st  231  e  235.  Per  luUe  le  citazioni  delle  Metamorfosi  mi 
lenirò  sempre  di  questa  edizione ,  che    é  la  migliore  che  abbiamo. 

(2)  Qoesla  lettera  fu  pubblicala  per  la  prima  volta  neir  Effemeridi 
letterarie  di  Roma,  tomo  VI,  p.  398  (Anno  1822).  Una  nota  che  la  precede 
^iice  che  fu  trascritla  e  di  mano  di  Lucantonio  Ridolfi  nelle  risguarde 
à'm  libro  assai  raro,  del  quale  ragiona  Tepislola  e  ha  per  titolo  Ragio- 
momento  havuto  in  Lione  da  Gaudio  de  Herberé  gentiluomo  franzese 
ft  da  Alfssandro  degli  liberti  gentiluomo  fiorentino  sopra  alcuni  luoghi 
^fi^  ùnto  novelle  del  Boccaccio.  Lione  appresso  Rovi  Ilio  nell'  anno 
/5o7. 1  Domenico  Maria  Manni  nella  sua  Storia  del  Decameron  (pag. 
•'6)  crede  che  del  ragionamento  possa  essere  autore  Luca  Antonio  Ridolfi. 
^  000  pare  che  si  possa  fare  questa  ipotesi,  perché  TAnguillara  cono- 
'^^  il  Ridolfi  (Vedi  appendice,  lelt.  I)  e  dice  di  non  conoscere  Tautore 
<^i  libro  sul  Roccaccio.  Una  copia  manoscritta  della  lettera  dell'Anguillara 
<^  cui  s' é  parlato  si  trova  nella  Riblioleca  Nazionale  di  Firenze  nella  cas- 
^  deOe  lettere  del  Varchi,  n.  113. 


56  M.  PELABZ 

lara  si  trovava  a  Venezia,  e  prima  era  stato  a  Firenze, 
come  ricaviamo  da  una  lettera  scritta  ai  Varchi  da  quella 
città  :  e  Qaando  io  partii  da  Fiorenza  lasciai  che  il  signor 
Joseppe  Bettusi  procurassi  il  mio  privilegio  (1),  né  posso 
sapere  quel  che  s'abbia  fatto  perché  non  m' ha  mai  scritto. 
Però  prego  V.  S.  se  egli  fin  a  quest'ora  non  l'ha  im- 
petrato che  '1  potrà  saper  facilmente,  che  '1  voglia  pro- 
curar per  me.  Confido  nella  sua  cortesia  che  so  quanto 
suole  essere  officiosa  per  gli  amici  che  non  mancherà  di 
aiutarmi  si  come  mi  ha  aiutato  in  cosa  di  più  importanza 
di  questo...  »  (2).  In  questo  tempo  egli  avea  già  com- 
piute le  Metamorfosi  ed  a  Venezia  occupavasi  della  stampa 
di  esse:  e  sono  stampati  già  33  fogli,  scrìve  al  Varchi, 
fino  a  la  metà  de'  l'ottavo,  et  al  principio  d' Agosto  sarà 
finito  tutto  »  (3).  Le  Metamorfosi  adunque  cominciate  a 
Venezia  furono  finite  probabilmente  a  Lione ,  come  il 
poeta  stesso  dice  (4).  Ma  V  edizione  che  usciva  ora  com- 

(1)  Giuseppe  Betussi,  che  come  si  ricava  da  questa  lettera  co- 
nobbe rAnguillara,  è  Tautore  del  Raverta.  Cfr.  Mazucchelu,  Scrittori 
d'Italia,  Non  sappiamo  nulla  di  questo  privilegio  che  1'  AnguiUara 
chiedeva. 

(2)  Vedi  append.  lettera  II. 

(3)  Vedi  append.  lettera  li. 

(4)  Vedi  append.  lettera  l.  11  sig.  Starabba  ha  pubblicato  nellMr- 
chivio  Storico  Siciliano,  voi  II,  pag.  210  un  documento  riguai*dante  Gio. 
Andrea  deirAnguillara.  e  È  una  lettera  viceregia  (trovasi  nel  Registro  del 
Prolonolaro  del  Regno  dell'Anno  V.  indiz.  1561-62,  f.  145  v.)  del  9 
Gennaio  1562,  con  la  quale  si  accorda  all'Anguillara  la  privativa  di  po- 
tere spacciare  in  Sicilia  la  sua  versione  delle  Metamorfosi  d'Ovidio 

Dal  documento  si  ricava  ch'egli  ottenne  quel  privilegio  per  la  interferenza 
di  Alfonso  Ruiz  Protonotaro  del  Regno.  Questo  Ruiz  fu  congiunto  col  ce- 
lebre matematico  Carlo  Venti  miglia,  ed  è  fama  che  da  lui  questi  avesse 
ereditato  la  collezione  archeologica  di  cui  il  Can.  Domenico  Schiavo  pub- 
blicò un  brano  d'inventario  (in  Mem,  per  serv,  alla  St,  Lett.  di  SiciL 
lì,  186).  Queste  notizie  bastano  per  farci  supporre  il  Ruiz  un  uomo  colto 
ed  amante  degli  studi  e  studiosi:  il  che  spiegherebbe  com'ei  fosse  io 
relazione  coli'Anguillara.  > 


GIOVANNI  ANDBEA  DELL*  ANOUILLARA  57 

pietà  per  la  prima  volta  non  era  più  dedicata  solamente 
a  EDrìco  II,  come  le  precedenti  di  soli  tre  libri:  anche 
prima  che  l'Anguiliara  imprendesse  la  pubblicazione  del- 
Topera  intera,  il  re  era  morto,  e  gli  erano  succeduti 
FVancesco  II,  che  tenne  il  regno  pochi  mesi,  e  Carlo  IX. 
A  qnest' ultimo  pensò  TAnguillara,  perché  non  andassero 
affatto  perdute  le  sue  fatiche,  col  pericolo  di  restar  senza 
compenso;  e  con  alcune  ottave  poste  alla  flne  del  libro 
quindicesimo  gì' invia: 

....  col  maggior,  eh*  io  posso,  affetto 
Quest'  opra  ereditaria  di  tuo  padre  : 
Per  lui  le  diei  principio,  e  1  più  n'  ho  scritto 
Sotto  il  favor  del  suo  gran  nome  invitto  (1). 

Queste  ottave  di  dedica  dovettero  essere  scritte  in 
Italia:  infatti  TAnguillara  rivolgendosi  al  re  gli  dice: 

Lontan  m'inchino  al  tuo  real  cospetto, 
Ed  al  valor  della  tua  santa  madre. 

Poi  ricorda  al  sovrano  che  pensi  a  una  ricompensa 
qualsiasi  : 

(1)  Vedi  per  questo  e  per  i  luoghi  sepenti  che  cito,  rìfcrentìsi  a 
Cario  IX,  le  ottave  230,  231,  232,  233  del  lib.  XV.  Nella  nuova  edizione 
completa  delle  Metamorfosi  e  in  tutte  ({uelle  che  vennero  dopo  non  si 
riscontrano  più  le  cinqunntasei  ottave  del  secondo  libro  dedicate  ad  Kn- 
rìco  11  e  alla  sua  famiglia,  alle  quali  accennai  in  una  delle  note  precedenti. 
Di  quelle  ottave  solamente  una  fu  lasciata: 

Né  spegnerai,  come  di  molti  eroi, 
L' Invitto  nome  di  Ilenrico  secondo 
etc. 

È  carìoso  che  TAnguillara  abbia  soppresso  queste  ottave  che  si  riferi- 
scono alla  famiglia  di  Enrico  II,  che  era  quella  stessa  di  Carlo  IX,  e  facca 
seoipre  quindi  al  caso  suo.  Certo  é  però  che  non  si  ritrovano  in  nessuna 
deUe  edizioni  posteriori. 


58  IL  PELAEZ 

E  sebben  Falto  affar  d*  un  tanto  regno 
Tien  la  tua  mente  in  altro  oggi  occupata. 
Dàlie  talvolta  un  guardo,  e  qualche  s^o 
Mostrami  in  cortesia  che  ti  sia  grata. 


III. 


La  versione  delle  Metamorfosi  è  l'opera  maggiore 
compiuta  dair  Auguillara  e  alla  qaale  egli  raccomandò 
meglio  il  suo  nome.  Senza  dubbio  delle  tante  traduzioni 
che  si  fecero  nel  cinquecento  delle  Metamorfosi  d'Ovidio 
quella  di  Giovanni  Andrea  dell' Anguillara,  sebbene  non 
sia  senza  difetti,  e  non  possa  dirsi  veramente  una  ver- 
sione, è  l'unica  che  abbia  resistito  al  tempo.  Fin  dal  se- 
colo decimoquarto  troviamo  registrate  nella  nostra  storia 
della  Letteratura  versioni  delle  Metamorfosi  (1)  in  prosa 
e  in  versi;  ma  quasi  tutte,  se  togli  in  alcune  il  pregio  della 
lingua,  hanno  poco  valore  e  giacciono  ormai  dimenticate. 
La  versione  che  fece  l'Anguillara  nel  secolo  dell'Ariosto 
levò  gran  rumore  fra'  contemporanei. 

Abbiamo  già  detto  come  il  poeta  si  lamentasse  in 
Francia  a  proposito  di  certe  ingiurie  a  lui  dirette 
quando  pubblicò  il  primo  libro  come  saggio.  Io  credo 
che  quei  lamenti  debbano  riferirsi  alle  critiche  che  gli 
mosse  in  Italia  un  altro  traduttore  delle  Metamorfosi, 
Ludovico  Dolce.  Il  quale  avea  incominciato  anch' egli  una 
versione  dell'opera  d'Ovidio  in  versi  sciolti,  ma  non  ap- 
pena seppe  che  l'Anguillara  attendea  a  ridurre  lo  stesso 
poema  in  ottava  rima,  invidioso  delia  gloria  che  avrebbe  po- 
tuto conseguire  il  poeta  sutrino,  mutò  disegno  e  tradusse  in 


(i)  Vedi  il  catalogo,  non  del  tutto  completo,  di  queste  traduzioni 
neirarticolo  del  Brambilla  inserito  nel  Politecnico  XVUI,  1863,  Le  tras- 
formazioni  di  Ovidio  e  t  traduttori  di  esse. 


OIOYANNI  ANDREA  DELL'  ANGUILLARA  59 

Ottave  le  Metamorfosi,  con  rintendìmento  di  superare  il  ri- 
vale. Ecco  come  il  Dolce  annunziava  ai  dotti  l'opera  sua:  e  E 
di  molte  opere  da  me  più  volte  promesse,  tra  pochi  mesi 
0  giorni  si  daranno  le  trasformazioni  d' Ovidio,  le  quali 
per  avventura  saranno  di  qualità  che  ad  alcuni  pedanti  o 
simie  si  leveranno  le  occasioni  (se  essi  haveranno  giu- 
dicio)  dì  affaticarsi  (il  che  sia  detto  senza  offendere  al- 
cuno) in  perder  carte  »  (1).  Il  Ruscelli  in  quelle  acerbissime 
critiche  che  fece  di  quest'  opera  del  Dolce  scriveva 
riferendosi  al  citato  passo  :  e  0  voi,  Signor  mio,  che  con 
quelle  parole,  tiraste  cosi  bravi  calci  contra  il  gentilissimo 
M.  Gio.  Andrea  dell' Anguillara,  perché  già  udivate  il  ro- 
more  che  tutti  i  dotti  e  giudiziosi  faceano  di  que)  primo 
libro,  che  in  quei  tempi  egli  qui  per  tutto  diceva  e  dava 
nome  di  voler  pubblicare,  potete  hor  esservi  chiarito 
quanto  il  mondo  habbia  creduto  al  giudicio  di  sé  stesso 
e  non  al  vostro  solo  »  (2). 

Quando  poi  il  Dolce  pubblicò  nel  1570  a  Venezia 
la  sua  versione,  vi  prepose  un  proemio  nel  quale  biasi- 
mava l'Anguillara  d' aver  fatto  un  poema  quasi  in  tutto 
diverso  da  Ovidio.  Nondimeno,  per  quanto  generalmente 
fedele,  la  versione  del  Dolce  non  ha  alcun  pregio  né  si 
legge  più.  Chi  abbia  curiosità  di  saperne  qualche  cosa , 
legga  il  discorso  del  Ruscelli  e  vedrà  come  la  giudica- 
vano i  contemporanei. 

Ma,  eccetto  queste  critiche  di  Lodovico  Dolce,  l' o- 
pera  dell'Anguillara  fu  generalmente  approvata  da' suoi 
contemporanei;  della  qual  cosa,  oltre  il  Ruscelli,  ci  fa  te- 
stimonianza il  Varchi,  il  quale  avendone  viste  alcune  stanze 
prima  che  il  poema  fosse  terminato,  disse  eh'  erano  tali 

(i)  Tre  Discorsi  di  Girolamo  Ruscelli  a  M.  Lodovico  Doke.  In  Ve- 
nezia MDLllL  pag.  87. 

(2)  Ruscelli,  op.  cit.  pag.  88. 


60  M.  PELAEZ 

che  gli  facevano  credere  che  i  Toscani  avessero  ad  avere 
Ovidio  più  bello  che  i  latini;  poi  soggiunge  :  e  Questo  so 
bene  io  di  certo  che  quelle  mi  dilettavano  più  che  i 
versi  latini  non  facevano  »  (1).  E  sappiamo  inoltre  che 
egli  avea  acconsentito  di  rivedere  la  versione  delle  Me- 
tamorfosi prima  che  fosse  data  alle  stampe.  La  qual  cosa 
avea  fatto  molto  piacere  all'Anguillara,  che  cosi  ne  scrì- 
veva all'  autore  dell'  Ercolano  ringraziandolo  :  e  Per  quello 
che  mi  ha  mostrato  messer  Lucantonio  Ridolfi  ne  la  let- 
tera di  V.  S.  ho  conosciuto  eh'  io  non  mi  sono  ingan- 
nato ne  la  confidenza  che  io  ho  sempre  avuto  ne  la  sua 
bontà  e  dottrina.  Et  ho  speranza,  poi  che  con  tanto  buono 
animo  abbraccia  l' impresa,  di  volere  rivedere  l'opra  che 
egli  sa,  che  io  non  barrò  consumato  il  tempo  invano, 
perché  la  conosco  di  si  buon  giuditio  che  non  l'ab- 
bracciarebbe  se  la  conoscesse,  per  quel  che  n'ha  potuto 
vedere,  talmente  fuor  di  squadra  che  non  fosse  atta  a  ri- 
cevere correttione  alcuna  >  (2). 

La  lode  che  i  contemporanei  tributarono  all'An- 
guillara  oggi  a  noi  pare  soverchia,  e  il  giudizio  del  Varchi, 
il  più  illustre  fra  quei  lodatori,  esagerato.  Ma  nessuno  può 
credere  ch'egli  fosse  buon  giudice  di  poeti,  quando  si  sa  che 
gli  parve  bellissima  e  degna  di  molta  lode  anche  la  ver- 
sione dì  Ludovico  Dolce.  Il  poema  di  Ovidio  si  prestava 
molto  per  l'indole  sua  ad  essere  allargato  ed  ampliato  a  pia- 
cere con  episodi  romanzeschi;  e  l'Anguillara  infatti  se- 
guendo il  testo  Ovidiano  man  mano  esplica  in  tutta  la 
loro  storia  quelle  favole  che  Ovidio  accenna  solamente. 
Cosi  è  nel  libro  quarto,  nel  quale  Alcitoe,  figlia  di  Minia , 


(\)  Ercolano,  Firenze  MDCCXXX,  nella  Stamperia  di  S.  A.  R.  per 
gli  Tarlini  e  Franchi.  Quesito  IX,  pag.  332. 

(2)  Vedi  append.  lett.  I.  Non  abbiamo  altre  notizie  dalle  quali  appaia 
che  il  Varchi  rivedesse  veramente  l'opera  dell'Anguillara. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL' ANGUI LLARA  61 

Don  volendo  prender  parte  alle  feste  che  si  celebrano  in 
onore  di  Bacco  perché: 

Bacchum 

ProgeDiem  negat  esse  lovis... .  (1). 

e  propone  alle  sue  ancelle  che  ciascuna  racconti  per  di- 
letto uDa  novella.  Alcitoe  comincia  per  prima  ed  espone 
aUe  sue  ascoltatrici  alcuni  titoli  di  novelle  perché  scel- 
gano la  più  gradita.  E  poiché  tutti  scelgono  la  favola 
di  Piramo  e  Tisbe ,  Alcitoe  incomincia  la  narrazione 
della  pietosa  istoria  de'  due  amanti.  In  Ovidio  Alcitoe 
eoomerando  il  titolo  di  alcune  novelle  accenna  con 
OD  verso  o  due  al  contenuto  di  esse  ;  V  Augnili  ara  in- 
vece le  svolge  tutte  accrescendo  cosi  il  poema  di  uno  ve 
Metamorfosi.  Talvolta  introduce  delle  favole  tolte  da  altre 
opere  d'Ovidio,  com'è  quella  che  narra  i  lamenti  d'Arianna, 
che  si  legge  fra  le  epistole  del  poeta  latino  (2).  Ma 
rAogoillara  non  riesce  sempre  felice  nelle  amplificazioni 
ed  aggiunte,  perché  egli  non  era  veramente  poeta  ed  ar- 
tista, sibbene  un  facile  e  talvolta  felice  scrittore  di  versi. 
Non  mancano  le  ottave  belle ,  le  descrizioni  leggiadre  ; 
ma  spesso  il  voler  troppo  descrivere,  il  desiderio  di  entrare 
ne' più  minuti  particolari  fa  si  ch'egli  sciupi  qualche  de- 
licato episodio  che  la  pur  facile  vena  del  poeta  sulmonese 
ba  sapoto  con  pochi  tratti  ritrarre  a  meraviglia. 

Non  dispiacerà  al  lettore  che,  per  saggio  del  modo 
di  tradurre  dell'  Anguillara ,  io  metta  qui  a  confronto 
<IQalche  brano  della  sua  versione  col  testo  latino.  Pren- 
diamo l'episodio  di  Piramo  e  Tisbe,  favola  che  pare 
sia  ravenzione  d'  Ovidio.  Ognuno  ne  conosce  1'  argo- 
li)  Lib.  IV,  Y.  2-3.  Per  questo  e  per  gli  altri  luoghi  che  citerò  mi 
seno  deU'  edizione  del  Mcrkel,  Lipsia,  Teubner  MDCCCLXXXL 
(iì  L'ÀNGUILLARA  V  inserì  nel  libro  Vili  della  sua  versione. 


62  M.  PELAEZ 

mento,  e  sa  eoo  quanta  leggiadrìa  sia  narrata  la  favola 
dal  poeta  latino.  Orbene  V  Ànguillara  colle  sue  amplifica- 
zioni poco  a  proposito  ha  tolto  la  semplicità  all'affettuosa 
novella  e  quindi  gran  parte  della  sua  bellezza  artistica. 
Ovidio  cosi  ci  dipinge  la  bellezza  dei  due  amanti: 

Pyramus  et  Thisbe,  iuvenum  pulcherrìmus  alter, 
Altera,  quas  orìens  habuit,  praelata  puellis  (1). 

E  l'Anguillara: 

Fra  pili  lodati  giovani  del  mondo 
Non  fu  allor  né  il  più  accorto,  né  il  pili  bello, 
Né  di  parlar  più  dolce  e  più  facondo, 
Né  ch'invitasse  più  gli  occhi  a  vedello. 
Il  collo  grato  angelico  e  giocondo 
Non  dava  indizio  ancor  del  primo  vello. 
Né  saprei  dir  chi  s'avesse  più  parte 
Nel  grato  viso  suo  Venere,  o  Marte. 

Marte  tanto  v'avea,  quanto  il  facea 
Virile,  e  vigoroso  ne  l'aspetto: 
Le  grazie  avea  della  Ciprigna  Dea, 
Che  danno  agli  occhi  altrui  maggior  diletto: 
Tanto  ch'ogni  mortai,  come  il  vedea 
Dicea  di  non  trovar  più  grato  obbietto. 


E  s' ei  tutti  eccedea  di  quella  etade 
I  giovani  di  grazia,  e  di  bellezza, 
Tisbe  avea  si  dolce  aere,  e  tal  beitade. 
Tal  virtù,  tal  valor,  tal  gentilezza. 
Che  le  donne  che  allora  eran  più  rade. 
Passò  d'ogni  beltà,  d'ogni  vaghezza  (2). 


0)  Lib.  IV,  V.  55^. 
(2)  Ub.  IV,  otta?a  35. 


OIOYANNI   ANDREA   DELL'  ANGUILLARA  63 

Poi  finisce  dicendo  per  tutti  e  due  la  medesima  cosa  ; 
per  Piramo: 

E  le  donne  il  voleano  tutte  quante, 
Chi  per  consorte  aver,  chi  per  andante. 

per  Tisbe: 

Ed  ogni  uoro,  d'ogni  etade,  e  d*ogni  sorte 
La  volea  per  anaante  e  per  consorte. 

Ovidio  seguita: 

Notitiam  primosque  gradus  vicinia  fecit: 
Tempore  crevit  anaor  (1). 

E  qui  TAuguillara  riesce  a  descrivere  con  una  certa  leg- 
giadria il  progresso  di  quest'amore,  che  ebbe  il  suo  prin- 
cipio neiraffetto  reciproco  di  due  amici  d'infanzia: 

Era  l'amor  cresciuto  a  poco  a  poco, 
Secondo  erano  in  lor  cresciuti  gli  anni; 
E  dove  prima  era  trastullo  e  gioco. 
Scherzi,  corrucci,  e  fanciulleschi  inganni, 
Quando  fur  giunti  a  quella  età  di  foco, 
Dove  comincian  gli  amorosi  affanni. 
Che  l'alma  nostra  ha  si  leggiadro  il  manto 
E  che  la  donna  e  l'uom  s'amano  tanto. 

Era  tanto  l'amor,  tanto  il  desire. 
Tanta  la  fiamma  onde  ciascuno  ardea. 
Che  l'uno  e  l'altro  si  vedea  morire, 
Se  pietoso  Imeneo  non  gli  giungea: 
E  tanto  era  maggior  d'ambi  il  martire. 
Quanto  il  voler  dell'  un  l'altro  scorgea  (2). 

(1)  Lib.  IV,  y.  59-60. 

C2)  Lib.  IV,  ottava  37  e  38. 


64  M.  PELAEZ 

Ovidio  coDtiDQa  acceDoando  solamente  ai  ritrovi  de'dae 
amanti  (1),  ma  l'Ànguillara  si  compiace  di  descrivere  più 
particolarmente  uno  di  questi  ritrovi,  e  ci  rappresenta  i 
due  amanti  felici  di  rivedersi,  ma  ad  un  tratto  turbati  dal 
pensiero  che  non  potranno  mai  compiere  i  loro  voti. 

In  prima  giunta  l'una  e  l'altra  vista 
Lo  splendor  che  desia,  contempla,  e  gode  ; 
Gioia  infinita  poi  l'orecchia  acquista 
Del  soave  parlar  ch'ascolta  ed  ode: 
Ma  poi  la  mente  quel  pensier  attrista, 
E  tutta  dentro  la  conturba,  e  rode. 
Che  lor  rammenta  il  ben  vietato  e  tolto; 
E  fa  che  ad  ambi  fl  pianto  irrighi  il  volto. 

La  donna  più  veloce  nel  pensiero. 
Pili  tenera  di  cor  primiera  piange, 
L'uom,  sebbene  è  più  forte  e  più  severo, 
Vedendo  pianger  lei,  l'alma  triste  ange. 
Ella,  che  '1  vorria  lieto,  apre  il  sentiero 
Al  gaudio,  e  con  bel  modo  il  dolor  frange, 
Ride,  e  rallegra  :  in  questo,  e  in  quello  avviso 
La  donna  è  prima  al  pianto  e  prima  al  riso. 

Ck)n  un  bel  modo  a  lui  ritorna  a  mente 
Qualche  beli'  atto  eh'  ei  già  fece  e  ride. 
Che  '1  fé'  in  presenza  d' infinita  gente 
E  cosi  ben  che  alcun  non  se  ne  avvide  : 
Ei  che  quel  vago  riso  vede,  e  sente. 
Che  di  dolcezza  l'alma  gli  divide. 
S'allegra  ride  e  gode,  e  le  rammenta 
Qualche  cosa  di  lei  che  la  contenta  (2). 

Qui  r  Anguillara  nella  rappresentazione  de'  varii  senti- 
menti che  agitano  il  cuore  de'  due  amanti  e  nella  forma 

(1)  Lib.  IV,  V.  71-77. 

(2)  Lib.  IV,  olUva  45-47. 


OIOTANNI  ANDREA   DELL'  ANOUILLARA  65 

Stessa  dell'  elocozione  non  credo  resti  iDferiore  all'Ariosto 
là  dove  ci  narra  gli  episodi  più  affettuosi  del  suo  poema. 
Ma  nel  resto  il  Nostro  è  assai  infelice;  e  nella  narra- 
zione della  fuga  de'  due  amanti,  troppo  minutamente  de- 
scrìtta, introduce  alcuni  particolari  che  alterano  la  sempli- 
cità e  la  bellezza  dei  versi  ovidiani;  come,  ad  esempio, 
quello  dalle  chiavi  false  che  Pìramo  e  Tisbe  si  procurano  per 
aprire  nella  notte  le  porte  delle  loro  case  (1),  e  quello  della 
bevanda  che  Tisbe  somministra  a  una  zia  perché  non  si 
svegli  nell'ora  in  cui  ella  deve  partirsi  di  casa;  giacché: 

Seco  l'innamorata  damigella 
In  una  stanza  ogni  notte  dormia; 
E  ben  le  convenia  essere  accorta, 
Per  ingannar  si  diligente  scorta. 
E  però  avea  d'un  vin  dato  la  sera 
À  quella  vecchia  accorta  e  vigilante, 
Il  qual  con  certa  polvere  che  v'era, 
Di  far  dormir  tant'ore  era  bastante  (2). 

La  tragica  fine  de' due  amanti,  cosi  bella  e  commo- 
'[^Qte  negli  esametri  ovidiani,  diventa  una  sequela  noio- 
sissima di  ottave  nell'Anguillara,  se  ne  togli  quei  punti 
io  Cui  l'autore  segue  più  da  presso  il  poeta  latino;  e  in 
cp^sii  neppure  riesce  sempre  bene.  Solamente  le  parole 
Aelte  da  Tisbe,  quando  si  trova  davanti  allo  sposo  mo- 

reuie,  non  rimangono  inferiori  al  testo  latino,  se  pure  non 

lo  superano.  Dice  Ovidio  : 

Hiscuit,  et  gelidis  in  vultibus  oscula  iìgcns 
«  Pyrarae  claraavil,  quis  te  mihi  casus  ademit? 
Pyrame,  responde:  tua  te  carissime  Thisbe 
Nominat,  exaudi,  vultusque  attolle  iacentes  I  »  (3). 

(1)  Ub.  IV,  oUava  77  e  78. 
tì)  Uh,  IV,  ottava  87  e  88. 
(3)  Lab.  IV,  V?.  UUÌU. 

VoL  IV,  Parte  I.  5 


66  M.  PELABZ 

E  rAngoillara: 

Bacia  più  volte  il  suo  pallido  volto, 
E  chiama  l'amor  suo  più  che  può  forte: 
Dolce  Piramo  mio,  chi  mi  t*ha  tolto? 
Rispondi  a  T infelice  tua  consorte: 
Chi  della  vita  tua  lo  stame  ha  sciolto? 
Qual  fato  o  qnal  cagion  ti  die  la  morte? 
Rispondi  a  chi  tu  sai  che  tanto  t*ama, 
A  la  tua  cara  'Hsbe  che  ti  chiadia  (1). 

Poco  dopo  Piramo  muore,  e  Tisbe  che  vuol  seguitarlo 
nel  destino,  s'uccide  anch'essa: 

Dixit,  et  aptato  pectus  mucrone  sub  imum 
Incubuit  ferro,  quod  adhuc  a  caede  tepebat  (2). 

Cosi  finisce  l' episodio  nel  poeta  latino,  che  ha  manife- 
stato una  grande  potenza  drammatica  nella  rappresenta- 
zione della  tragica  fine  de'  due  miseri  amanti.  Nel  poema 
italiano  invece  la  morte  di  Tisbe  è  ritardata  tanto  che 
essa  abbia  il  tempo  di  lamentarsi  per  una  diecina  d'ot- 
tave, e  di  raccontare  il  destino  suo  e  quello  di  Piramo 
a  un  pellegrino  che  capita  li  per  caso  e  che  poi  deve 
andare  a  riferir  tutto  ai  genitori  de'  due  amanti.  E  la 
morte  pietosa  di  Tisbe,  perde  con  ciò  tutto  il  colorito 
drammatico  e  il  vigore  della  passione  che  ha  nel  poeta 
latino. 

Nel  modo  stesso  che  la  storia  di  Piramo  e  di  Tisbe, 
da  noi  esaminata ,  traduce  1'  Anguillara  il  resto  delle 
Metamorfosi.  E  mi  pare  si  possa  stabilire  che  il 
poeta  sutrino  avea  una  grande  facilità  di  far  versi,  ma 
non  il  senso  squisito  dell'  arte  ,  non  un  ingegno  vera- 

(1)  Lib.  IV,  162-163. 

(2)  Uh.  IV,  ottava  132. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANOUILLARA  67 

mente  poetico.  Forse  avrebbe  potato  far  meglio,  come 
rivelano  qna  e  là,  qaasi  sprazzi  di  luce  istantanea,  talune 
ottave  veramente  belle,  ma  la  sua  prolissità,  e  la  forma 
troppo    spesso   imperfetta  rendono   la  sua  versione  in 
moltissime  parti  noiosa  a  leggersi.  Il  Trezza  in  una  re- 
censione della  versione  delle  Metamorfosi  fatta  dal  Bram- 
billa cosi   parlava   di  Giovanni   Andrea:  e  L'Anguillara 
stemperò  nelle  sue  ottave,  alle  quali  non  manca  una  certa 
agevolezza,  le  imagini  del  poeta:  è  traduttore  capriccioso 
cbe  stravena  ogni  tanto  in  variazioni  bizzarre  ;  volgarizza 
Ovidio  cosi  per  far  prova  d' ingegno,  ma  non  ha  V  istinto 
fine  dell'artista  (1).  >  E  il  Brambilla  stesso   nella  prefa- 
zione alla  sua  versione,  passando  in  rassegna  i  varii  tra- 
duttori delle  Metamorfosi,  giunto  all'Anguillara  cosi  dice: 
(  LWnguillara  possiede  la  facilità  di  far  versi,  non  di  far 
poesia;  la  facilità  dello   Sgricci,  non   quella   dell'  Ariosto. 
È  spesse  volte  negligentissimo  e  disadorno;  di  rado  ha 
la  piacevole  sprezzatura  del  Berni   e   la   naturalezza  ele- 
gante del  Poliziano  :  il  suo  stile  a   quando   a   quando  è 
poetico  e  mostra  in  lui   T  attitudine  a  scriver  bene,  ma 
per  lo  più  mancante  di  lima  e  prolisso  i»  (2). 


IV. 


Il  successo  della  traduzione  delle  Metamorfosi  allettò 
il  poeta  ad  un'  altra  opera  simile.  Infatti  nel  1564  egli 
pubblicò  come  saggio  il  primo  libro  dell'Eneide  di  Vir- 


(i)  l'Arte  nei  Miti  di  G.  Trezza.  Politecnico  1846,  voi.  XX. 
(•)  Ihtfazione  alla  versione   delle   Metamorfosi.   Milano,   Sonzogno 
*^»  pag.  25. 


68  M.  PELAEZ 

gilio,  ridotto  anch'esso  ìd  ottava  rima  (1).  Il  nuovo  poema 
è  dedicato  al  Magnanimo  Cardinal  di  Trento: 

Io  che  già  il  grande  Henrico  hebbi  secondo 
Che  fu  del  Franco  imperio  imperatore, 
Mentre  la  prima  orìgine  del  mondo 
Cantai  nel  regno  suo  col  suo  favore, 
E  con  stile  hor  pietoso,  bora  iracondo 
Fei  trasformar  Hiacinto,  e  Aiace  in  fiore. 
Fin  che  tutte  da  me  furon  cantate 
Le  forme  in  novi  corpi  trasformate: 

Chiedo  hor  secondo  al  mio  novo  argomento 
Che  ila  spero  maggior  di  rima,  e  d*arte. 
Te,  Signor  mio,  te,  Cardinal  di  Trento, 
Moderno  Augusto  a  le  moderne  carte, 
Mentre  con  più  coraggio  ardisco  e  tento 
Voler  cantar  Y  horrende  arme  di  Marte, 
E  quel  grande  huom  eh' a  Danno  il  figlio  uccise 
E  fu  figliuol  di  Venere  e  d*Anchise  (2). 

Dopo  la  dedica  il  poeta  passa  a  giudicare  l'opera 
che  sarà  per  compiere  e  colla  quale  spera  di  acquistare 
grande  gloria: 

Non  paia  al  saldo  tuo  giudicio  intero 
Questo  agli  homeri  mici  troppo  gran  peso; 
Che  se  M  favor  che  da  te  bramo,  e  chero, 
E  quel  del  ciel  non  mi  sarà  conteso, 

(1)  Della  Eneida  j  Di  Virgilio  |  Libro  primo  Ridotto  da  Giovanni  An- 
drea I  Dell*Ànguillara  in  oliava  rima  |  ÀI  Magnanimo  Cardinal  di  Trento  | 
In  Padova  |  Appresso  Grazioso  Perchacino  j    1564.  Questa  edizione  fu  ri- 
prodotta l'anno  seguente  a  Venezia  da  Domenico  Farri. 

(2)  Lib.  I,  \'2.  Per  questa  e  per  le  altre  citazioni  mi  servo  del- 
r  edizione  moderna  parmense  dei  due  libri  dell'Eneide:  //  libro  Primo  e 
il  Secondo  dell'  Eneida  di  Virgilio  Ridotti  in  Ottava  Rima  da  Gio- 
vanni Andrea  Dell*Anguillara  diligentemente  ristampati.  Parma,  Per 
Giuseppe  Paganino  MDCGCXXXI. 


OlOYANNI  ANDREA  DELL'  ANGUILLABA  69 

Portarlo  ìd  breve  tempo  al  tempio  io  spero 
(Perché  vi  resti  eternamente  appeso) 
Dove  l'eternità  s'acquista  e  gode 
Non  senza  d'ambedue  contento,  e  lode  (1). 

Neil'  nltima  carta  dell'  edizione  di  questo  primo  libro 

si  legge  QDa  nota  cariosa:  e  Tutti   quelli  che  ringratie- 

nmo  l'autore  del  dono  almeno  con  parole  o  con  lettere 

saranno  trovati  da  Enea   nei  campi  Elisi,  dove  saranno 

da  Ancbise  lodati:  gli  altri  per  avventura  si  ritroveranno 

neir inferno  non  senza  colpa  loro.  La  risposta  s'indirizzi 

aVenetia  alla  Libreria  della  Serena.  >    Da   questa  nota 

s'è  creduto  che  l'Anguillara  facesse  stampare  a  sue  spese 

il  volumetto  e  lo  mandasse  in  dono  a'  suoi  amici  ed  ai 

letterati;  e  infatti  egli  stesso  ci  dice  in  una  lettera  al  duca 

di  Parma  e  Piacenza ,  della   quale  parleremo  appresso  , 

che  mandò  il  volumetto  a  tutti  i  principi  d' Italia.  Abbiamo 

poi  altre  testimonianze  di  ciò  nelle  dediche  apposte  agli  e- 

semplari  che  ci  rimangono  di  questa  versione  dell'Eneide  (2) 

e  in  una  canzone  colla  quale  il  poeta  invia  alla  principessa 

di  Firenze  il  secondo  libro  tradotto  (3). 

(1)  Op.  cit  ottava  4. 

[ì)  L'esemplare  che  ho  veduto  io  nella  Biblioteca  Angelica  di  Roma 
coolieoe  b  dedica  seguente:  e  Al  Signor  Angelo  de* cesi  |  Gio- 
vimi Andrea  deli'Anguillara  |  dona  di  propria  mano.  »  Abbiamo  inoltre 
Qoa  lettera  coUa  quale  il  Nostro  invia  al  Duca  di  Parma  e  Piacenza  que- 
^  primo  libro  dell*  Eneide.  Di  essa  parleremo  appresso. 

(3)  Canzone  |  di  Giovanni  Andrea  |  DeirAnguillara  |  alla  Serenissima 
Principessa  di  Fiorenza  |  Con  licenza  et  privilegio  |  In  Fiorenza  |  Appresso 
i  (dODti  1 1566. 

Canzon,  di'  eh*  io  dirò  con  novi  studi 
L*alte  virtudì,  ond'ella  bave  la  palma 
De  le  doti  de  l'alma, 
E  ch'ella  intanto  in  te  vegga  e  conosca, 
E  nel  libro  eh'  io  mando^  ov  arde  Troia, 
Quanto  ogni  cosa  tosca 
Sia  per  portare  a  lei  contento  e  gioia. 


70  M.  PELAEZ 

Ma  rAnguilIara,  che  sperava  di  poter  condurre  a 
termine  l'opera  in  breve  tempo,  dne  anni  dopo  non  avea 
finito  che  il  secondo  libro  (1);  e  lo  inviava  al  Cardinal 
di  Trento,  scusandosi  di  non  aver  potuto  fare  di  più. 
e  Quando,  Magnanimo  Signor  mio,  io  promisi  a  V.  S.  il- 
lustrissima nel  principio  di  quest'opera  di  condurla  in 
breve  al  suo  segno,  non  pensai  che  V  infermità  del  corpo, 
e  rinquietudine  dell'animo  nata  da  la  mutation  di  loco  a 
loco,  e  da  mill'altre  cure,  che  per  brevità  si  tacciono,  mi 
havessero  a  perseguitar  tanto,  quanto  mi  hanno  perse- 
guitato, però  se  in  due  anni  dopo  la  promessa  non  le 
mando  altro  libro  finito,  che  questo  secondo,  non  mi 
chiami  mancator  de  la  mia  parola,  poi  che  tutto  è  nato 
da  legitimo  impedimento,  e  rendasi  sicura,  che  se  per 
r  avvenire  io  mi  potrò  ritirare  a  quella  quiete ,  eh'  io 
spero  in  breve ,  userò  tal  diligenza  nel  finir  gli  altri , 
che  supplirò  a  quanto  in  questi  due  anni  contra  mia 
volontà  ho  mancato  j)  (2).  La  quiete  a  cui  il  poeta 
pensava  era  Sutri,  la  sua  patria,  come  scrive  nel  Giugno 
del  medesimo  anno  a  Francesco  Bolognetti  a  Bologna. 
«  11  Cardinal  di  Trento  desidera  ch'io  finisca  il  Ver- 
gilio,  et  mi  ha  detto  di  volermi  assegnare  il  vitto  per 
me,  et  per  un  servitore  in  vita  mia,  che  me  lo  possa 
spendere  dove  piace  a  me,  di  modo  ch'io  sono  sforzato 
a  finirlo,  però  penso  di  ritirarmi  a  Sutri.  dove  spero  di 
finirlo  in  due  anni,  e  poi  voglio  ad  ogni  modo  abbrac- 
ciare un  poema  nuovo  e  forse  in  questo  mezzo  avremo 
comodità  di  parlarne  insieme  »    (3).  Non  sappiamo  se 

(1)  Il  Secondo  Libro  |  Della  Eneida  |  Di  Vergilio  |  RidoUo  da  Gio- 
vanni I  Andrea  DeirÀnguillara  |  In  ottava  rima  |  Al  Magnanimo  |  Cardinal 
di  I  Trento  |  In  Uoma  |  Appresso  Giulio  Bolani  degli  Accolli  |  In  Banchi, 
nella  strada  Paolina  1566. 

(2)  Lettera  dedicatoria  neir  ediz.  cit.  del  secondo  libro  dell*  Eneide. 

(3)  Questa  lettera  trovasi  a  pag.  407-9  degli  Anecdota  LiUeraria 
che  abbiamo  già  citati. 


aiOYANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLABA  71 

siasi  ritirato  a  Sutri,  come  desiderava;  ma  forse  tradusse 
qualche  altro  libro  dell'  Eneide,  se  è  vero  quel  che  Cesare 
Capaccio  scrive  ne' suoi  Elogi  e  Summa  cum  felicitate 
aliquot  etiam  Virgili  libros  Anguillara  transtulit  et  in  turpi 
corpore  nobile  ingenium  ostentavit  >  (1).  Ma  all' infuori 
di  questa  non  abbiamo  altre  testimonianze. 

I   due  libri   dell'  Eneide  non  ebbero  la  fama  delle 
Metamorfosi,  naturalmente  per  non   avere  il  poeta  com- 
piuto l'opera.  Nondimeno  Annibal  Caro  gli  tributò  molte 
lodi,  e  ringraziandolo  di  una  copia  di  essi  che  il  poeta 
gli  avea  mandato  scriveva  :  e ...  vi  ringrazio  del  dono  che 
m  avete  mandato  ;  il  quale  ho  per  tale,  che  non  mi  ba- 
sta l'animo  di  darvene  la  ricompensa  eh'  io  potrei  d'un' al- 
tra traduzione  di  fino  a  quattro  libri  del  medesimo  Vir- 
gilio, che  ancor  io  per  una  certa   prova  mi  trovo  aver 
(alto  in  versi  sciolti.  Penserò  dunque  a  ricompensarvene 
con  altro,  per  non  venire  a  paragon  con  voi  d'una  cosa 
medesima  >  (2).  Se  non  che  i  posteri,  con  tutto  il  ri- 
spetto dovuto  all'  illustre  traduttore   di    Virgilio  ,  lungi 
dair  accettare  questo  giudizio,  resero  piena  giustizia  alla 
Mia  infedele^  come  fu  chiamata  la  versione  del  Caro  e 
le  diedero  su  tutte  la  palma.  L' Anguillara  non  fece  una 
iradozione  dell'  Eneide,  come  non  ne  avea  fatto  una  delle 
Metamorfosi;  nell'uno  e  nell'altro  caso  egli  prese  la  ma- 
teria da'  poeti  latini  e   ne   compose   un   poema   italiano, 
srìeggiante  i  poemi  romanzeschi  che  in  quel  tempo  erano 
in  voga.  Con  tutto  ciò  il  poeta  verseggiando  nella  nostra 
lingua  la  materia  dell'  Eneide,  non  ampliò  e  non  aggiunse 
lanto  quanto  avea  fatto  nelle  Metamorfosi.  Questo  trova 
Is  sua  ragione  nell'indole  diversa  de' due  poemi  latini:  le 


(1)  Op.  cit  loc.  cit 

(2)  Voi.  II,  pag.  376  delle  Lettere  familiari,  Padova,  Giuseppe  Co- 

■^  CIDI3CCXXV. 


72  M.  PELAEZ 

Metamorfosi  essendo  la  Darrazione  di  favole  molteplid 
DOD  legate  veramente  da  un' unità  assolata,  poteano  fa- 
cilmente accogliere  nnovi  miti  e  non  essere  danneggiate 
nella  tessitura  generale;  T  Eneide  invece,  poema  epico  nel 
vero  senso  della  parola,  con  unità  d' argomento,  non  po- 
teva essere  allargata  con  nuove  favole  e  nuove  invenzioni 
senza  che  l'armonia  delle  parti  fosse  turbata.  Qui  TAn- 
guillara  si  contenta  solamente  di  ampliare  i  concetti  vir- 
giliani, descrizioni,  battaglie:  e  non  vi  riesce  sempre 
bene.  Facciamo  qualche  raffronto.  Il  famoso  verso: 

TaDtae  molis  erat  RomaDam  condere  gentem  (1). 

non  guadagna  punto  nell'  ottava  che  ne  ha  cavato  fuori 
il  Nostro: 

Senza  difficoltà  dod  si  può  dare 
Un  stabii  fondamento  a  Talte  imprese, 
E  però  d'uopo  fu  che  intorno  al  mare 
Scorresse  ogni  disagio,  ogni  paese: 
Che  dovendo  il  Roman  nome  fondare 
Che  in  ogni  ragion  Y  imperio  stese, 
Dovea  fondailo  com'  era  prescritto 
Un  popolo  indefesso  aspro  et  invitto  (2). 

La  minaccia  di  Nettuno  mi  sembra  invece  resa  ab- 
bastanza bene.  Virgilio: 

Quos  ego.....  Sed  motos  praestat  componere  fluctas. 
Post  mihi  non  simUi  poena  commissa  luetis  (3). 


(1)  Eneide,  lib.  I,  v.  33.  Per  il  testo  ?ii^ano  cito  sempre  F  edizione 
del  Sabbadini;  Torino  Loescher  1884. 

(2)  Op.  cit  lìb.  [. 

(3)  Edii.  cit  lib.  I,  ?.  135-136. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  73 


L'ÀDcniUara  : 


Bench'  io  contra  di  voi....  ma  si  conviene 
Pria  Tarmata  salvar  ch'ondeggia  ed  erra, 
Prima  colmar  conviene  il  mare  e  il  tempo, 
Poi  il  castigo  di  voi  Oa  sempre  a  tempo  (1). 

La  descrizione  della  casa  dei  venti,  se  non  raggiunge 
la  bellezza  delForiginale,  non  rimane  tuttavia  molto  infe- 
riore ad  esso.  Eccone  un  brano.  Virgilio  : 

Ali  indignantes  magno  cum  murmure  mentis 
Circum  claustra  fremunt,  celsa  sedet  Aeolus  arce 
Sceptra  tenens  mollitque  animos  et  temperat  iras  (2). 

^'Anguillara  traduce  ed  amplia  felicemente: 

Di  natura  essi  impazienti  e  fieri 
E  vaghi  di  goder  là  luce,  e  '1  giorno, 
Fremono  entro  a  que'  claustri,  e  i  monti  alteri 
Tremare  mormorar  fan  d' ogn' intorno  ; 
Ma  quindi  ognun  di  loro  uscir  non  speri. 
Se  *I  Re,  che  in  tribunale  alto  e  adorno 
Superbo  siede,  e  tien  Io  scettro  e  regge 
Non  dice  chi  vuol  eh*  esca  e  con  qual  legge  (3). 

^  cosi  non  mancano  nella  descrizione  della   tempe- 
f^^^y  Sorta  per  desio   di  Giunone,  alcune  belle   ottave 
^^  traducono  talvolta  e  talvolta  ampliano  il  testo.  Quando 
P''<>cella  è  al  colmo,  cosi  è  ritratta   dall'  Anguillara  : 


^^)  Exliz.  ciL  lib.  I. 

(2)  EdÌL  CiL  Ub.  I,  w.  55-57. 

(3)  EUlii.  cit  Ub.  I. 


74  M.   PELAEZ 

Fremono  i  venti  rei,  morraoran  Tonde, 
E  r  aere  in  pioggia  e  in  giel  tutto  si  sface. 
H  lampo  chiama  il  tuono  e  il  tuon  risponde, 
E  porta  spesso  in  giiì  Teterea  face. 
Tanto  che  Tuman  grido  si  confonde: 
Stride  e  comanda  ognun,  nulla  si  face 
E  gli  oltraggi  e  gli  strazi  d'ogni  sorte 
Minaccian  presta  e  inevitabil  morte  (1). 

Né  è  meno  bella  la  descrizione  della  calma. 

Lieta  Cimathoe  toglie  il  corso  a  Tonde, 
E  le  Nereidi  con  la  propria  palma 
Perché  la  classe  frìgia  non  s'affonde 
Sollevan  liete,  e'  il  mar  tornano  in  calma. 
Per  Tacque  intanto  lucide,  e  gioconde 
Se  ne  va  Dori  gloriosa,  e  alma  ; 
Va  su  '1  carro  Nettuno,  e  si  compiace 
D'aver  tanto  romor  ridutto  in  pace  (2). 

Abbiamo  accennato  ad  ana  lettera  di  Giovanni  Andrea 
dell' Anguillara  al  Duca  di  Parma  e  Piacenza  colla  qaale 
gT  invia  da  Padova  nel  1564  il  primo  libro  delT  Eneide.  II 
poeta  era  solito  mandarne  a  tutti  i  principi  d'Italia  perché 
tutti  concorressero  ad  aiutarlo;  a  ciascun  d'essi  poi  scriveva 
che  da  lui  desiderava  un  aiuto  maggiore  perché  si  vedesse 
che  egli  era  il  suo  primo  Patrono,  e  Come  sia  finito  il 
resto,  le  manderò  il  volume  intero,  scrive  al  duca;  ma  é 
necessario,  acciocché  io  il  possa  finire,  che  ella  mi  mandi 
quelTaiuto  che  si  richiede  alla  sua   grandezza  e  magna- 
nimità, et  al  mio  amore  e  bisogno.   Io  ne  mando  per 
questo  efi'etto  a  tutti  i  principi  d'Italia,  perché  tutti  con- 
corrano ad  aiutarmi:   ma   vorrei  bene   che   il  Duca  di 

(1)  Ediz.  cit.  lib.  I. 

(2)  Ediz.  cit.  lib.  I. 


OIOYANNI  ANDREA  DELL' ANGUI LLARA  75 

Panna  facesse  conoscere  al  mondo  che  egli  è  più  mio 
patron  degli  altri,  e  che  mi  ama  più  degli  altri;  si  comMo 
SODO  a  S.  Ecc.za  più  servitor  che  agli  altri  e  la  osservo 
più  degli  altri.  >  La  fine  della  lettera  è  curiosissima  :  il 
poeta  scherza  col  Duca  e  gli  promette  di  mandarlo  al- 
rinferoo  quando  sarà  arrivato  al  sesto  libro  dell'Eneide, 
se  non  corrisponderà  degnamente  a'  suoi  desideri  :  e  E 
piaccia  a  Dio  che  non  mi  bisogni  mandare  e  lei  e  gli 
altri  tutti  a  casa  del  Diavolo,  e  che  Enea  non  abbia  troppo 
da  fare  ne  l' Inferno  a  parlare  con  tante  anime  dannate, 
quante  io  son  per  mandarvene  se  non  fanno  il  debito  loro. 
Si  die  ella  si  porti  bene  meco,  se  non  vuole  andare  a 
r  inferno,  prima  che  mora  >  (1). 

Oltre  le  Metamorfosi  e  una  parte  dell'  Eneide  pare 
che  TAnguiUai^a  abbia  ridotto  pure  in  ottava  rima  V  Ars 
amndi  di  Ovidio  :  il  qual  lavoro  probabilmente  è  da  cre- 
dere posteriore  ai  primi  due  poemi,  perché  mentre  l'An- 
goillara  attendeva  a  questi  non  ne  fa  mai  cenno  in  nes- 
suna lettera  (2).  Ad  ogni  modo  la  versione  dell'  Ars  a- 
mndi  è  stata  sempre  inedita  ,  né  io  per  quante  rìcer- 
cbe  abbia  fatto,  ho  potuto  ritrovarla.  Che  Giovanni  An- 
drea l'abbia  fatta  si  rileva  dalla  prefazione  agli  Anecdota 

(1)  Questa  lettera  fu  pubblicata  la  pi-ima  volta  dal  Ronchini  nel 
primo  Tolume  delle  Lettere  d'uomini  illustri  conservate  in  Parma  nel 
fi  Archivio  di  Stato.  Parma,  Dalla  Reale  Tipografia  MDCCCLHI;  pag.  63, 
^  questa  lettera  sì  può  arguire  come  TAnguillara  avesse  intenzione  d'ag- 
giungere altre  cose  nel  sesto  libro  dell*  Eneide  e  probabilmente  vendi- 
carsi per  mezzo  della  discesa  di  Enea  air  Inferno  (lib.  VI)  di  quei  prin- 
cipi che  aveano  fatto  orecchie  di  mercante  alle  sue  sfacciale  domande. 

[ì)  Potrebbe  essere  il  poema  che  V  Anguillara  aveva  intenzione  di 
scrJTere  quando,  finita  1*  Eneide,  voleva  ritirarsi  a  Sutri.  Abbiamo  visto 
che  a  questo  egli  accenna  in  una  lettera  al  Bolognctti  :  e ....  penso  di  ri- 
^nni  a  Sutri  dove  spero  di  finirlo  (il  poema  dell*  Eneide)  in  due  anni 
^  1^  voglio  ad  ogni  modo  abbracciare  un  poema  nuovo....  »  Anecdota 
littnma  cit  pag.  410. 


76  M.  PELAEZ 

Ldtteraria  più  volte  citati.  In  questa  prefazione  si  legge: 
e  Se  tu,  lettore,  non  avessi  altra  idea  del  talento  poetico 
di  Giovanni  Andrea  dell' Anguillara,  che  la  presente  can- 
zone, tu  ne  avresti  un'assai  meschina.  Sovvengati  della 
sua  bella  versione  delle  Metamorfosi,  e  del  primo  libro 
dell'Eneide  che  t'indicai  in  questi  anegdoti  nella  prefa- 
zione a  Monsignor  Zondadarì,  e  vedrai  che  Giovanni  An- 
drea se  non  era  gran  poeta,  era  certo  leggiadro  e  felice 
versificatore.  Io  non  dubito  che  sia  egualmente  bella  an- 
che la  versione  pure  in  ottava  rima  che  egli  fece  del- 
l' Arte  di  amare  d'Ovidio,  la  quale  inedita  e  scritta  di  sua 
mano  conservasi  in  Ferrara  >  (1).  E  il  P.  Stefano  Mar- 
cheselli  nella  lettera  seconda  inserita  nella  Nuova  Rac- 
colta d'opuscoli  scientifici  e  filologici  fa  pure  menzione  di 

quest'opera  dell' Anguillara.  e  Quanto   ad  Ovidio del- 

YArte  amatoria,  non  sarà  discaro  agli  amatori  delle  no- 
stre lettere,  ch'io  faccia  loro  sapere  esistere  presso  eru- 
dita persona  qui  in  Ferrara  una  traduzione  in  ottava  ri- 
ma felicissimamente  lavorata  dal  famoso  Giovanni  Andrea 
dell'Anguillara  di  propria  mano  dell'autore  >  (2). 


V. 


Nel  Giugno  del  1561,  come  abbiamo  detto  (3),  l'An- 
guillara  era  a  Venezia,  e  vi  si  trovava  ancora  il  22  Mag- 
gio 1563,  come  si  vede  da  una  lettera  che  scrisse  al  duca 


(1)  Anecdota  Litteraria  pag.  4^. 

(2)  Nuova  Raccolta  d'  opuscoli  scientìfici  e  filologici^  Venezia 
MDCCLXXII,  presso  Simone  Occhi.  Tomo  22.  Feci  ricercare,  ma  invano, 
la  detta  versione  a  Ferrara  dall'egregio  Prof.  Severino  Ferrari,  al  quale 
rendo  qui  le  debite  grazie. 

(3)  Cfr.  appendice  lett.  II. 


GIOVANNI  ANDBEA   DELL*  ANQUILLARA  77 

Cosimo  1  (1),  della  quale  ci  occuperemo  appresso,  e  forse 
Ti  restò  fino  ai  primi  mesi  del  1564.  Nel  Maggio  di  que- 
sto anno  era  a  Padova  e  attendeva  alla  pubblicazione  del 
primo  libro  dell'  Eneide,  e  nel  Febbraio  del  1565  ritornò 
a  Venezia  dove  pubblicò  per  la  seconda  volta  il  primo 
libro  dell'  Eneide  (2)  e  una  sua  tragedia  intitola  Edg)o  (3). 
L'Àngnillara  l'avea  già  scritta  probabilmente  durante  il  suo 
soggiorno  in  Francia,  e  nell'anno  1556  l'avea  fatta  stam- 
pare (4)  e  rappresentare  in  Padova  nella  casa  di  Luigi  Cor- 
oaro,  come  si  ricava  da  un'  epistola  di  Girolamo  Negri  a 
Paolo  Ramusio  scritta  appunto  in  quell'anno  :  e  Anguil- 
larios  Descio  quis,  poeta  plebeius,  exeunte  febrnario  mense 
proximo  fabulam  daturus  est  Populo  Patavino.  Tota  ut 
audio  Etnisca  est.  Apparatus  fit  maximus  in  aedibus 
Alojsii  Comeliì.  Si  libuerit  quaternas  horas  perdere  bue 


(i)  Fu  pubblicata  la  prima  volta  dairautografo  che  trovasi  nel  car- 
teggio di  Cosimo  I,  da  Cesare  Guasti  nel  Giornale  Storico  degli  Archivi 
a  Toscana  voi  II,  pag.  2i\,  Una  copia  di  questa  lettera  si  trova  nella 
Marciana  di  Venezia  nel  Codice  XL  della  classe  X'  it.  a  pp.  23^  -  27^. 
n  Nispi-Iandi  nella  sua  Storia  dell'  Antichissima  città  di  Suti^i,  Roma, 
Desidpri-Ferretti,  1887,  in  un  breve  cenno  che  fa  della  vita  dell' Anguil- 
iara  dice  che  questa  lettera  fu  pubblicata  dal  Gamba  nelle  Memorie  dei- 
WiteiKo  Veneto,  ma  non  dà  altre  indicazioni  più  precise.  Io  non  ho  po- 
tuto trovare,  per  quante  ricerche  abbia  fatto,  questo  fascicolo  delle 
^mrif.  Se  è  vera  la  notizia  del  Nispi-Landi,  la  lettera  dell'  Ànguillara 
sarebbe  stata  pubblicata  prima  che  dal  Guasti,  dal  Gamba  che,  come  è 
00(0,  morì  nel  18ii.  Siccome  il  Gamba  fu  negli  ultimi  anni  della  sua 
Tit2  bibliotecario  della  Marciana  di  Venezia ,  cosi  credo  eh'  egli  abbia 
pubblicato  la  lettera  dell' Ànguillara  di  sulla  copia  che  si  conserva  ap- 
puDto  io  quella  biblioteca. 

{ì)  Vedi  nota  1  a  pag.  68. 

(3)  Edipo,  Tragedia,  In  Venezia  presso  il  Pam,  1565. 

(i)  Edipo  I  Tragedia  di  Gio.  Andrea  |  Dell' Ànguillara  |  allo  illustris- 
simo signore  |  il  Sign.  leronimo  Foccarì  |  in  Padova  |  Per  Lorenzo  Pa- 
squatto  I  MDLVI. 


78  M.   PELAEZ 

accedito  >  (1).  II  Tiraboschi  e  tutti  qnelli  che  in  appresso 
parlarono  di  questa  tragedia  dissero  che  nel  1565  fu 
rappresentata  per  la  seconda  volta  a  Vicenza  e  che  per  l'ocr 
casione  i  Vicentini  fecero  costruire  apposta  un  teatro,  t  E 
fu  questa  tragedia  medesima  che  venne  poi  recitata  con 
somma  pompa  nel  1565  in  Vicenza,  colla  quale  occasione 
quei  cittadini  dal  famoso  loro  architetto  Palladio  fecero  co- 
struire un  magnifico  teatro  di  legno  nel  Palazzo  della 
Ragione  >  (2).  Ma  il  Tiraboschi,  che  dice  di  aver  attinto 
questa  notizia  dal  Temanza  (Vita  di  Andrea  Palladio)  non 
è  esatto.  Infatti  odasi  quel  che  dice  veramente  il  Temanza: 
e  I  Signori  Vicentini  che  nella  magnificenza  emularono 
mai  sempre  le  più  cospicue  città  della  Lombardia  diedero 
nel  Carnevale  del  1561  nuovi  saggi  della  grandezza  del- 
l'animo loro,  colla  rappresentazione  della  tragedia  intito- 
lata Edipo.  Perciò  fecero  costruire  dal  Palladio  un  teatro 
di  legno  nella  sala  del  Palazzo  della  Ragione.  Fu  egli  cor 
tale  maestria  e  magnificenza  rizzato,  che  potevasi  forse 
paragonare  agli  antichi.  Vi  dipinse  il  Fasolo  ed  il  Zolotti 
eccellenti  pittori.  La  rappresentazione  fu  fatta  con  tanta 
pompa  e  dispendio  si  grande  che  recò  a  tutti  sorpresa  »  (3). 
Da  quel  che  dice  il  Temanza  in  vero  non  si  ricava  che 
V  Edipo  rappresentato  a  Vicenza  sia  quello  dell' Anguil- 
lara,  giacché  nelle  sue  parole  non  si  trova  nominato  l' au- 
tore del  dramma.  Quel  che  però  si  può  affermare  è  che  il 
teatro  del  quale  fu  autore  Andrea  Palladio  nel  1561  era 
già  edificato.  Non  solamente:  ma  in  questo  stesso  teatro 
l'anno  seguente  fu  rappresentata  la  Sofonisba  del  Tris- 

(1)  Epistole,  p.  120  dell'edizione  romana,  1767. 

(2)  Tiraboschi,  Sioria  della  letteratura  italiana;  Firenze,  Holini 
I^ndi  e  C.  MDCCCXII,  Tomo  VII.  Parte  III,  pag.  1280. 

(3)  Vita  di  Andrea  Palladio  Vicentino,  egregio  architetto,  scritti 
da  Tommaso  Temanza,  In  Venezia  HDCCLXH  presso  Giambattista  Pa 
squali,  p.  17. 


GIOYANNI   ANDBBA  DELL*  ANQUILLARA  79 

sioo,  siccome  avverte  nel  medesimo  luogo  il  Temanza  (1). 
L' Ed^  deir  Angoillara  d' argomento  greco ,  come  mo- 
stra il  titolo,  non  è  una  traduzione,  come  tante  se  ne  fe- 
cero nel  cinquecento  de'  drammi  greci,  ma  un  rifacimento. 
1d  esso  il  poeta  segui  principalmente  Sofocle  e  v'  intro- 
dusse alcuni  particolari  dell'  Edipo  di  Seneca  (2).  Alla 
favola  poi  del  mito  di  Edipo  fece  seguire  una  parte  delle 
lotte  fra  Eteocle  e  Polinice,  figli  del  re  di  Tebe  che  for- 
mano l'argomento  di  un  altro  dramma  greco  /  sette  a  Tebe. 
lootiledire  come  tutta  la  tragedia  non  abbia  alcun  pregio, 
guasta  specialmente  da  quest'ultima  inutile  aggiunta  a  un'a- 
zione che  ba  il  suo  pieno  sviluppo  nel  riconoscimento 
della  colpa  di  Edipo.  Quindi  non  si  può  considerare  né 

00  bnon  lavoro  originale,  né  una  mediocre  traduzione  di 
Sofocle,  e  nemmeno  una  felice  imitazione  del  poeta  greco. 

1  latini  l'avrebbero  chiamata  una  contammatio,  perché 
coDìprende  le  due  favole  di  Edipo  e  de'  Sette  a  Tebe  ; 
Dia  è  ana  infelice  contaminatio,  è  un  vero  pasticcio  co- 
oie  la  disse  il  Symonds  :  e  A  more  repulsive  tragicomedy 
thao  Ibis  pasticcio  of  Sofocles  and  Seneca,  can  scarcely 
bd  imagined  >  (3).  Poco  a  proposito  sono  le  aggiunte 
dell'Anguillara,  poco  a  proposito  quelle  prese  in  prestito 
da  Seneca  :  sopratutto  la  prima  scena  fra  1'  indovino 
Tiresia  e  la  figlia,  introdotta  dal  Nostro,  toglie  tutto 
r  interesse   del  dramma,  perché  ne  preannunzia  già  lo 


(1)  L.a  stessa  cosa  conferma  Sihestro  Castellini  nella  sua  Descrizione 
dfìk  ritta  di  Vicenza  dentro  dalle  mura;  Vicenza,  Tipogr.  Vescovile  di 
Giuseppe  Staider  1885.  Se  V  Edipo  di  cui  parla  il  Temanza  in  questo 
bw^  fosse  quello  dell'  Anguillara ,  allora  sarebbe  stato  rappresentato  a 
Vicenza  due  volte  nel  1561  e  nel  1565. 

[ì)  Vedi  il  bellissimo  esame  che  ha  fatto  di  questa  tragedia  Francesco 
Ii'Ovmio  nei  suoi  Saggi  Critici^  Napoli,  Morano  1 879,  pag.  272  e  segg. 

(3)  Renaissance  in  Italy.  Londra,  Smith,  Clder  and  C.  1881,  Parte  II, 


80  M.  PELAEZ 

scioglimento.  Né  i  contemporanei  del  poeta  la  gindi- 
carono  più  benevolmente.  Infatti  Giason  de  Nores  par- 
lando de'  viziosi  episodi  della  tragedia  dà  un  giudi- 
zio severo  di  quelli  dell'  Anguillara  colle  seguenti  pa- 
role: «  Tai  si  può  dir  che  siano  quelle  gionte  del- 
l' Anguillara  attaccate  fuor  di  proposito ,  ed  oltre  ogni 
convenevolezza,  e  necessità  della  favola  di  Edipo  di  So- 
focle. Imperocché  ovvero  egli  ha  aggregato  episodi  non 
necessari!,  ovvero  Sofocle  ha  mancato  d'introdurre  quei 
che  grandemente  si  richiedevano.  La  qual  cosa  noi  dav- 
vero non  crediamo  >  (1). 


VI. 


Per  gli  anni  dal  1561  al  1565  non   sappiamo  altro 
se  non  che  il  Nostro  nel  '62  era  a  Venezia  ed  assistè  alla  so- 
lenne entrata  del  duca   di  Ferrara  Alfonso  II  d'Este,  a 
cui  indirizzò  una  canzone  (2)  ;  nel  '63  vi  si  trovava   an- 
cora e  nel  '64  era  a  Padova,   come  ne  fanno   testimo- 

(1)  Parte  prima  della  Poetica  a  car.  18.  Id  Padova  appresso  Paolo 
Maictto  1588. 

(!2)  Canzone  |  ÀIF  Illustrissimo  |  et  Eccellentissimo  |  Signore  Duca  | 
di  Ferrara  |  DelPÀnguillara  |  In  Venezia  1562.  L' Anguillara  avea  scritto 
questa  canzone,  per  avere,  secondo  il  solito,  una  ricompensa  dal  duca, 
ma  questi  non  soddisfece  il  desiderio  del  poeta,  il  quale  se  ne  lamenta 
nella  lettera  a  Cosimo  I:  e  ....  non  mi  voglio  mai  più  impacciar  con 
principi  perchè  non  m*  ìntravenga  cogli  altri  quello  che  m*  è  intravenuto 
col  duca  di  Ferrara  che  per  havei^li  presentato  una  canzone  fatta  da 
me  a  lui  e  per  lui  nella  superba  entrata  ch*egli  fece  in  Venezia  non  mi 
vuol  più  né  veder  né  parlare,  come  se  io  Ta vessi  ingiuriato  a  lodarlo.  > 
Vedi  la  citazione  a  pag.  77  nota  1.  Questa  canzone  al  duca  di  Ferrara 
è  stata  ristampata,  or  non  è  molto,  dal  Prof.  Patrizio  Antolini  per  Nozze 
Agnclli-Albieri,  Dicembre  MDCCCLXXXIX,  Tipografia  Argentana.  Rin- 
grazio qui  il  Prof.  Antolini  che  cortesemente,  dietro  mia  richiesta,  me 
ne  inviò  una  copia. 


GIOYANNI   ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  81 

nianza  due  lettere:  la  prima  scritta  da  Venezia  al  duca 
Cosimo  I,  la  seconda  da   Padova  al  duca  di  Parma  e 
Piacenza.  Queste  lettere  sono  di  una  importanza  gran- 
dissima, perché  ci  rivelano  il  carattere  dell' Angoillara,  e 
ci  dimostrano  come  egli,  che  era  tanto  cortigiano  e  basso 
adnlatore  di  principi  quando  avea  bisogno  di  loro,  tuttavia 
li  trattasse  alcuna  volta  acerbamente.  Della  lettera  al  duca 
di  Parma  e  Piacenza  abbiamo  già  parlato  (1)  :  la  cagione 
della  lettera  a  Cosimo  fu  questa.  Il  poeta  avea  indirizzato  nel 
Dicembre  del  1562  una  canzone  a  Cosimo  de' Medici,  della 
quale  non  posso  dir  nulla  perché  non  mi  è  riuscito  di  tro- 
Tarla  (2).  Il  duca  di  Firenze  né  rispose  né  gli  mandò  alcuna 
ricompensa,  come  il  poeta  desiderava.  L'Anguillara,  pas- 
sati sei  mesi  da  quel  tempo,  nel  Maggio  del  1563,  gli 
scrisse  una  lettera  nella  quale,  lamentandosi  dapprima  di 
ooD  avere  avuto  alcuna  risposta,  entrò  di  poi  nel  sospetto 
che  il  duca  non  avesse  ricevuto  la  canzone.    <  La  qual 
cosa  mi  fece  cominciare  a  credere,  che  ella  non  l'avesse 
arata;  perché  sapendo  io  per  vere  relazioni  quanto  ella 
sia  diligente  e  cortese  nel  rispondere,  mi  pareva  impos- 
sibile, se  l'havesse  havuta,   che  non  mi  havesse  almen 
renduto  canzon  per  canzone,  come  par  che  da  un  tempo 
in  qua  si  sia  cominciato  a  usare,  e  come  da  più  d'uno, 
da  poi  ch'io  cominciai  a  canzonare  mi  è  stato  risposto  »  (3). 
Continua  l'Anguillara   dicendo   che  il  Duca  di  Fiorenza 
non  potrà  rispondergli,  come  altra   volta  fece  il  Duca  di 
Ferrarajl  quale  avendo  ricevuto  dal  Nostro  una  canzone 
in  morte  del  Duca  di  Guisa  (4)  fratello  di  lui,  fece  scri- 

(1)  Vedi  a  pag.  75  nota  1'. 

(ì)  La  trovo  citata  dal  Mazzuchelli  e  da  altri  :    Canzone  al  Duca 
di  Firenze.  Io  Padova  per  Grazioso  Perchacino  1562,  in  4°,  in  un  foglio 

solo. 

(3)  Lett.  dt.  a  Cosimo. 

(i)  Non  ho  trovato  questa  canzone,  né  Tho  vista  citato  da  alcuno. 

VoL  IV,  Parte  I.  6 


82  ^■ 

vere  al  (k^u  òf  sk»   Si^icnftxì  {ht  wm  rìgiurdaDdo 
qodb  dirétui&ccitr  i>  p>efSr:<;jt  i^  'ì:^:^  &  Ferrara,  qoesti 
Doo  aT<4   ikini  iS'jTirc'   ci   ridcttpectsanielo.  e  La  qoal 
rispcisia  UÀ  cfani$c  b  b:«roiL  e  mi   trafissa  ia  un  mede- 
smo  puDló:  i^cbè  itM  s^iy  mi  esrkis^   daUa  risposta 
del  kc  p»dr:4>e.  ma  da  qatiisM  dei  Cafdmal  di  Loreoa  (1); 
ooD  aTeodù  b  mia  caia«ooe   mTeslìild  per  diritlo  filo  la 
perHwa  di  S.  SizDcrà  ReTcreodisàBa  e  dod  pafiando 
di  lei  >  *i*'  ^  b  camoDe  di  coi  porta  qui  rAogoiDara 
si  rifeffttce  dv^Hiameoie  a  Cctsìmo.  qimMli  noo   resta  a 
credere  altro  che  Q  Daca  o-jq  rabt4a  hceTuta.  Nel  qoal 
caso  D  pcKia  io  pre:ga  che  se  b  faccia  dare  da  doD  Sil- 
Tano  Razn,  monaco  di  CamaldoS.  che  Tarea  amta  e  aYca 
mandato  a  suo  tempo  ima  splendida  ricompensa  al  poeta. 
€  Che  don  Silvano  n*babbìa  copa  ne  son  sìcoro,  perché 
non  solo  mi  rispose  di  baverta  avnta  e  me  ne  ringratiò 
con  parole,  ma  in  ricompensa  mi  mandò  on  presente  di 
bTori  in  tele  finissime.  Tanto  che  se  tntli  quelli  ai  qnafi 
bo  diretto  canzoni  mi  arassero  risposto  in  questa  maniera 
€  mi  troverei  barer  più  tele  e  più  lavori  nelle  casse  che 
versi  in  stampa  >  (3k  E  si  consideri  ancora  che  b  canione 
non  riguardava  affatto  il  Uberai  frate  Camaldolese.  A  que- 
sto punto  comìDcia  nella  lettera  una  sfuriata  contro  tutti  i 
principi  del  tempo   ai   quali  dà  il  titolo  di  asini  perché 
non  sanno  giudicare  e  rettamente   compensare  le  opere 
de' poeti.  €  Questa  è   pure   una   gran  cosa,  che  i  frati, 
che  altre  volte  solevano  ha  ver  dell'asino,  habbiano  oggi 
del  Duca  e  del  Cardinale,  et  ascoltano  i  canti  de' poeti 
con  l'orecchio  d'Augusto,  e  i  duchi  e  i  cardinali  che  altre 


(t)  Pare  che  rAnguiUan  abbia  mandato  b  suddetta  camoiie  anche 
al  Cardinale  di  Lorena. 

(2)  LelL  ciL 

(3)  LetL  ÓL 


QIOYANNI  ANDREA   DELL*  ANGUILLARA  83 

Tolte  solevano  averdeirAugasto,  abbiano  hoggi  del  frate, 
per  non  dire  dell'  asino  et  ascoltino  i  versi  de'  poeti  con 
Torecchie  di  Mida  !  0  Apollo,  to  mettesti  già  un  par  d'o- 
recchie d'asino  al  re  Mida,  per  far  conoscere  a  Sua  Mae- 
stà et  al  mondo,  che  egli  havea   avuto  un  giudizio  da 
asino  a  giudicar  che  il  canto  di  Pane  fosse  miglior  del 
tuo,  che  sei  il  maestro,  e  il  piffero  delle  muse  !  E  tu  le 
mettesti  al  re  Mida,  solo  perché  in  quel  tempo  non  si 
troTÒ  altri  che  Mida  di  quel  giudicio.   Ma  se  tu  hoggidi 
haressi  a  metter  l' orecchie   dell'  asino  a  tutti  coloro  che 
Del  giudicare  i  canti  de'  poeti  hanno  il  giudicio  del  re 
Mida,  ti  bisognerebbero  tante  orecchie  d'asino  che  faresti 
restar  senza  orecchie  tutti  gli  asini  di  Toscana  e  di  Ro- 
magna. Hor  se  la  Eccellenza  Vostra  mi  dirà  che  in  que- 
sta lettera  io  ho  dell'  asino,  scrivendo  a  chi  scrivo ,  e  fa- 
cendo tante  volte  menzion  dell'asino  senza  una  riverenza 
al  mondo,  io  non  risponderò  già  che  ha  avuto  dell'asino 
anch'ella  a  star  sei  mesi  senza  rispondermi  (che  io  voglio 
parlare  con  quei  rispetto  che  debbo)  ma  dirò  bene  au- 
dacissimamente che  il  disprezzo  che  ella  ha  usato  verso 
la  persona  mia  non  ha  avuto  del  Duca;  che  non   credo 
però  che  de'  par  miei  ne  trovi  le  migliaia  per  le  siepe 
di  Tboscana  come  delle  more  selvatiche  :  e  poi,  quando 
in  questo  io  havessi  havuto  alquanto  dell'  asino,  non  sa- 
rebbe meraviglia,  perché  io  sono  stato  tanto  in  corte,  et 
ho  praticato  tante  corti  e  con  tanti  asini,  che  è  uno  stu- 
pore, che  io  non  sia  un  asino  stesso  »  (1).  E  non  finisce 
ancora  d' insolentire ,  ma  seguita  dicendo  che  i  principi 
^no  appunto  il  rovescio  dell'asino  d'Apuleio,  che  mentre 
questo  avea  l' effìgie   d' asino  e  la  mente  d' uomo,  quelli 
hanno  r  effìgie  d'uomo  e  la  mente  dell'asino.  E  d'ora  in- 
nanzi non  vuole  più  impacciarsi  con  Principi,  perché  non 

(1)  Leu.  ciL 


84  M.  PELABZ 

accada  nuovamente  quello  che  gì' intervenne  a  Venezia 
per  l'entrata  solenne  del  Duca  di  Ferrara.  E  qui  narra 
di  un*  altra  disgrazia  toccata  ad  una  sua  canzone.  Noi  ab- 
biamo detto  che  l'Anguillara  trovavasi  nel  '62  a  Venezia 
nella  solenne  entrata  del  Duca  di  Ferrara,  al  quale  in- 
sieme con  altri  egli  fece  omaggio  d' una  canzone  (1)  :  .or- 
bene i  suoi  compagni  ebbero  un  segno  di  ricompensa  o 
come  dicevasi  <  di  riconoscimento  »  ;  il  nostro  poeta  noa 
ricevette  nulla  perché,  dicevano  i  ministri  del  Duca,   egli 
era  stato  riconosciuto  altra  volta   a  Ferrara  prima   ch& 
<  canzonasse  »  (2).  Cosicché  il  Nostro   al  colmo   dello 
sdegno  esclama  nella  lettera   a   Cosimo:    <  Pur  bavere^ 
imparato....  di  non  dir  mai  più  bene  né  de' morti  né  de' 
vivi  e  spezialmente  di  que'  vivi  che  m' bau  fatto  del  bene.  > 
La  lettera  di  cui  abbiamo   parlato  è  tutta  una  sa- 
tira a  Cosimo  e  al  duca  di  Ferrara,  satira  che  trascende 
invero  i  limiti  del  giusto  e  dell'  onesto.  L' Anguillara  stesso 
ci  dice  che  la  presente  lettera  dovea   essere  una   satira 
in  versi,  ma  eh'  egli  la  scrìsse  in  prosa ,  ricordandosi  di 
quello  che  una  volta  gli  avea  detto  in  Francia  un  Fio- 
rentino, cioè  <  che  se  le  lettere  di  cambio  si  facessero 
in  versi,  non  se  ne  pagherebbe  mai  ninna  (3)  ».  Ed  il 
Nostro  questa  volta  attendeva   senza  dubbio  la   risposta 
del  duca,  il  quale  scrisse  nel  margine  della  lettera  Su- 
mario,  il  che  volea  dire  che  i   suoi  segretarii  dovessero 
rispondere  al  poeta;  ma  la  risposta  non  fu  trovata  da  Ce- 
sare Guasti,  che  ne  fece  ricerca  fra  le  carte  di  Cosimo 
quando  pubblicò  la  lettera  dell'  Anguillara  secondo  1'  au- 
tografo fiorentino  (4).  L'  Anguillara  però   non  si   lagna 


(1)  Vedi  a  pag.  80  nota  2. 

(t)  L'Anguìiiara  dunque  fu  certamente  una  volta  a  Ferrara. 

(3)  I^tL  ciL  a  Cosimo  I. 

(4)  Vedi  nota  1  a  pag.  77. 


GIOVANNI   ANDREA  DELL'  ANGUILLARA  85 

i  del  doca;  quindi  è  a  credere  che  qualcosa  abbia  a- 
x>.  Del  resto  le  sue  promesse  di  non  impacciarsi 
i  co'  prìncipi ,  scrivendo  canzoni  per  loro ,  non  furono 
iDtenute.  Infatti  nel  1564  diresse  una  canzone  a  Mas- 
diano  II  eletto  imperatore  de' Romani  (1)  per  esor- 
lo a  muovere  guerra  ai  Turchi,  e  redimere  i  paesi 
testati  dalla  inimica  religione.  Negli  ultimi  versi  poi  gli 
oflre  servitore  e  da  lui  spera  essere  protetto: 

Ogonn  vederti  brama 

Lo  scettro  io  mao  de  V  uno  e  Y  altro  Impero  ; 
E  se  r  acquisterai,  si  come  spero , 
Io  sarò  poscia  quel  (né  sarò  solo) 
Che  farò  gire  a  volo 
L' invitto  nome  tuo  da  Y  Indo  al  Mauro  ; 
E  i  cìel  propitio  anch'  io  forse  havrò  tanto, 
Ch'ambi  omeran  di  lauro 
Te  le  molte  vittorie,  e  me  il  mio  canto. 
Canzone  al  maggior  huom,  che  viva,  e  regni 
Di'  che  si  degni  d' accettar  per  servo 
Me  che  tanto  l' osservo, 
E  fa'  il  mio  core  a  lui  vedere  aperto  ; 
Di'  poi  con  humillà  che  mi  par  giusto, 
S' io  son  di  qualche  merto, 
Ch'  a  la  mia  Musa  anch'  io  trovi  un  Augusto  (2). 

Vel  Maggio  e  nel  Giugno  del  1566  l' Anguillara  trovavasi 
I  fioma,  e  forse  prima  era  stato  a  Firenze ,  dove  stam- 
ò  nel  medesimo   anno  pei  Giunti  una    canzone    alla 


(1)  Canzone  |  di  Gio.  Andrea  |  deli' Angiiillara  |  A  Massimiano  se- 
nio I  eletto  iraperator  |  de  Romani  |  del  1564.  |  Non  v'  è  indica- 
le dei  luogo  di  stampa;  neiia  prima  carta  é  impresso  uno  stemma 
esco. 

(2)  Canz.  cit. 


86  M.  PELAEZ 

Serenissima  Principessa  di  Fiorenza  (1).  Del  tempo  delia 
saa  dimora  a  Roma  abbiamo  dae  lettere  scritte  a  Fran- 
cesco Bologoetti  a  Bologna  (2).  Dalla  prima  delle  quali 
ricaviamo  che  il  poeta  continuava  ad  attendere  alla  ver- 
sione dell'Eneide  e  che  il  Cardinal  di  Trento  gli  avea 
promesso  per  finirla  <  il  vitto  per  me,  e  per  mi  servi- 
tore in  vita  mia,  che  me  lo  possa  spendere  dove  piace 
a  me  »  (3)  ;  e  dalla  seconda  che  nel  Giugno  del  '66  era 
stato  invitato  dal  Bolognetti  a  recarsi  a  Bologna,  ma  che 
non  potè  accettare  l' invito  <  essendo  necessitato  per  sa- 
tisfation  del  suo  Patrone  di  andar  seco  a  Città  di  Ca- 
stello e  quivi  dimorar  questa  state  »  (4).  In  questo  tempo 
scrisse  pure  una  canzone  a  Pio  V  nella  quale  ci  fa 
sapere  che  trovavasi  infermo: 

GanzoD  


Digli  eh'  io  col  mio  inchiostro 

L'adoro  infermo,  e  come  io  mi  rihabbia, 

Dio  m'aprirà  le  labbia, 

E  per  la  bocca  mia  vorrò  che  s' oda 

Il  suo  honor,  la  sua  gloria  e  la  sua  loda  (5). 

Né  oltre  il  1566  abbiamo  altre  notizie  di  lui,  se  non  che 
volea  negli  ultimi  anni  della  sua  vita  ritirarsi  a  Sutri  per 
finire  il  Virgilio  (6).  Certamente  dovette  vivere  vecchio , 

(1)  Canzone  citata  a  pag.  69,  nota  3. 

(2)  Si  trovano  negli  Anecdota  Litterarìa  più  Tolte  citati,  a  pp. 
409  e  410.  Intorno  a  Francesco  Bolognetti,  Tedi  Mazzuchelu,  Scrittori 
d:  Italia. 

(3)  Lett  cit  in  Anecd,  litt. 

(4)  Lett  cit  in  Anecd.  litt, 

(5)  Canzone  |  di  Giovanni  Andrea  |  Dell' Anguillara  |  a  Papa  Pio 
Quinto  I  In  Roma  per  Antonio  Biado  stampatore  Camerale;  l'anno  1566. 

(6)  Vedi  lett  cit  in  Anecd.  litt. 


GIOVANNI  ANDREA   DELL'  ANGUILLARA  87 

com'egli  accenna  nella  canzone  a  Caterina  dei  Medici: 

Ma  come  infermo  e  vecchio 

Potrei  passar  tanfAlpe  e  gir  si  lunge? 

Forse  nel  1572  era  ancora  vivo,  come  appare  da  un  cenno 
biografico  che  si  trova  in  una  Raccolta  di  Rime  (1).  Se- 
condo alcuni  mori  a  Roma  in  un'osteria  di  Tor  di  Nona  (2), 
secondo  altri  a  Sutri  (3)  di  malattia  procacciata  dalla  sua 
vita  disordinata.  E  invero  a  Sutri  v'  è  ancora  la  tradizione 
che  morisse  nella  tenuta  chiamata  Castellaccio  presso  la 
Via  Aurelia,  e  che  nella  chiesa  di  quella  tenuta  fosse 
sepolto,  e  sulla  sua  tomba  si  leggesse  quest'epitaffio  da 
lui  stesso  dettato  : 

Io  che  mi  giaccio  qui  posto  a  riverso, 
Fui  gobbo,  fui  di  Sutri  e  fui  dottore; 
Fui  di  Nasone  amico  e  traduttore. 
Non  dico  più  per  non  guastare  il  verso  (4), 

Colla  quale  tradizione  s' accorderebbe  il  disegno  che  avea 
fatto  il  poeta  di  ritirarsi  negli  ultimi  giorni  a  Sutri,  come 
abbiamo  in  altro  luogo  accennato. 


(1)  Scelta  di  stanze  di  diversi  antùri  toscani  raccolte  da  M.  Ago- 
stino Ferentilli  et  con  aggiunta  di  stanze  non  più  messe  in  luce.  Ve- 
nezia, Giunti  1584. 

(2)  Gdima,  op.  cit.  Pan.  I,  pag.  270. 

(3)  Cosi  una  breve  notizia  biografica  preposta  ad  alcune  poesie  del 
Nostro  nella  Raccolta  di  Rime  friacevoli  di  diversi,  edizione  di  Vicenza. 
Non  ho  potuto  vedere  questa  raccolta  di  rime;  ho  tolto  la  notizia  da 
una  nota  del  M azzuchelli ,  Scrittori  d' Italia.  Il  Crescimbeni  ne' suoi 
Commentari  etc.  loc.  cit  dice  che  fiori  nel  1590. 

(i)  6.  ToMASSETTi,  Della  Campagna  Romana  in  Arch.  d.  Soc.  Rom. 
di  Storia  Patria,  voi.  V,  fase.  IV,  pag.  639,  nota  2. 


88  M.  PEIiAEZ 


VII. 


Queste  le  poche  notizie  che  insieme  cogli  accenni 
ritrovati  qua  e  là  negli  scritti  ho  potuto  raccogliere  in- 
torno a  Giovanni  Andrea  dell'  Anguillara  (1).  Ora  non  sarà 
inutile  dare  un'  occhiata  alle  poesie  minori  del  Nostro,  le 
quali,  benché  poche,  rispecchiano  il  carattere  di  luì  e  ci 
rivelano  meglio  la  sua  indole  e  l'umor  suo  sempre  al- 
legro ,  malgrado  gf  imbrogli  ne'  quali  trovavasi  spesso 
involto.  Non  parlo  di  tutte  quelle  canzoni  (2)  che 
scrisse  a  tanti  principi  per  mendicare  quattrini  e  nelle 
quali  si  mostra  cortigiano  e  adulatore  della  peggiore 
specie.  D'  altronde  esse  nulla  hanno  che  fare  colla 
poesia.  L' Anguillara  ogni  volta  che  trovavasi  ad  aver 
bisogno  di  denari,  scriveva  una  canzone  a  un  prìncipe, 
a  un  papa  o  ad  un  cardinale,  tesseva  le  loro  lodi  e  pro- 
mettendo di  magnificarli  in  altra  opera  maggiore,  chiedeva 
loro  un  soccorso.  Forse  nessuno  de'  principi  d'  allora 
fu  privo  di  una  canzone  dell'  Anguillara ,  e  le  poche  che 

(1)  Biografie  dell' Ànpillara  si  trovano  nel  Mazzucchelli ,  Scrittori 
d'Italioy  e  negli  altri  storici  della  letteratura  nostra  i  quali  però  riproducono 
sempre  quel  che  avea  detto  il  primo.  Il  Mazzucchelli  cita  una  biografia 
deir  Anguillara  scritta  da  Camillo  Zuccato  «  la  quale  unita  ad  altre  opere 
spettanti  alla  traduzione  delle  metamorfosi  d' Ovidio  dell' Anguillara  si  con- 
servava in  Padova  presso  Alberto  Zuccato  al  tempo  del  Tomasini,  che  ne 
fa  menzione  nella  Biblioth.  Patav.  a  car.  123.  »  Per  quante  ricerche 
abbia  fatto,  non  ho  potuto  trovare  questa  biografia  scritta  dallo  Zuccato. 
Più  recentemente  ha  dato  un  breve  cenno  biografico  dell'  AnguiUara,  ma 
con  molte  inesattezze,  il  Nispi-Landi  nella  Storia  dell'  antichissima  città 
di  Sutri,  che  ho  già  citato. 

(2)  A  quelle  che  ho  già  citato  qua  e  là  secondo  si  presentava  Tocca- 
sione,  aggiungo  la  seguente  :  Canzone  |  di  |  Gio.  Andrea  dell'  Anguillara 
allo  Illustre  Signor  |  Gio.  Francesco  |  Fallato  |  In  Padova  |  appresso 
Gratioso  Perchacino  |  1562. 


GIOVANNI  ANDBBA  DELL'  ANGUILLARA  89 

ci  restano  non  sono  forse  tutte  quelle  cb'  egli  scrisse. 
Parliamo  invece  dei  capitoli  berneschi  cbe  il  Nostro 
compose  intomo  a  fatti  cbe  riguardano  la  sua  vita  e 
intorno  ad  altri  varii  argomenti.  Sono  in  tutto  sette,  due 
de' quali  inediti  vedono  la  luce  per  la  prima  volta  nel- 
r  appendice  cbe  segue  a  questo  lavoro  (1). 

Del  primo  capitolo,  diretto  al  Cardinal  di  Trento  (2), 
conosciamo  la  seconda  parte,  nella   quale  il  poeta   fa  la 
soa  biografia  al  Madruccio,  e  cbe  mi  pare  si  possa  ravvici- 
nare pel  genere  alle  ottave  dove  il  Borni  scherzosamente 
Spinge  sé  stesso  (3).  Nella  prima  parte  il  poeta,  dopo 

(1)  I.  Capiiob  al  Cardinal  di  Trento,  Abbiamo  già  dato  a  pag.  41. 
Doto  1  le  indlGazioni  bibliografiche.  Qui  aggiangiamo  che  fu  stampato  an- 
che h  le  opere  di  Francesco  Bemi. 

U.  Capitolo  al  Cardinal  Farnese,  Si  trova  a  car.  68  della  Selva 
ài  mie  cou  piacevoli  di  molti  nobili  ed  elevati  ingegni.  In  Genova 
presso  Antonio  Bellone,  1570  in  12.®  Ma  non  mi  é  riuscito  di  poter  tro- 
^  questa  raccolta  di  poesie.  Si  trova  ms.  nel  cod.  2758  della  Univer- 
^tà  dì  Bologna.  Cfr.  app. 

in.  Capitolo  delle  Mosche.  Per  quello  che  io  so,  é  inedito,  e  trovasi 
■B.  nel  cod.  2758.  ▼.  app. 

IV.  Capitolo  nella  Sedia  Vacante  del  papa  futuro.  Anche  questo, 
P^  quel  ch'io  so,  é  inedito.  Trovasi  ms.  nel  cod.  2758;  cfr.  app. 

V.  Capitolo  in  lode  dell'  Anello;  VI.  Capitolo  in  lode  del  vino; 
VII  Capitolo  sul  pagar  la  Senso,  Si  trovano  stampati  in  varie  raccolte 
<li  poesie;  io  li  ho  veduti  nelle  Rime  piacevoli  del  Borgogna,  Ruscelli, 
Saxsovino,  Do.ni,  Lasca,  Remigio,  Anguillara,  Sansedonio,  e  d'altri 
^>ci  ingegni.  Parte  terza.  In  Venezia  MDCXXVII.  Vi  si  ti*ova  anche  il 
Capitolo  al  Cardinal  di  Trento, 

(2)  Vedi  pag.  il,  AI  Madruccio  V  Anguillara  dedicò  anche  alcune  ot- 
tave scriue  per  celebrare  una  fontana  che  il  Cardinale  avea  fatto  co- 
stmire  a  Trento  nel  1562. 

L'argomento  principale  é  il  paragone  fra  l'abbondanza  delle  acque 
cenate  dalla  fontana  e  la  generosità  del  Madruccio  nel  donare.  Vedi 
^if  tcritte  a  la  Fontana  del  Magnanimo  Cardinale  di  Trento  nella 
^^ta  di  rime  del  Ferentilli,  che  abbiamo  altrove  citata. 

(3)  Orlando  innamorato  rifatto  da  Francesco  Berni  ,  libro  III, 


90  M.   PELAEZ 

un  piccolo  preludio,  nel  quale  dice  come  tutti  parlino  del 
Cardinal  di  Trento,  invoca  la  Musa  in  questo  modo: 

Deh!  Muse,  ora  spogliatevi  in  camisa, 
Sbrachisi  Apollo,  e  levisi  la  giubba 
E  fate  tutti  quanti  una  divisa. 

Soccorrete  al  cervel  che  s' avviluppa, 
E  di  quel  buon  liquor  portate  alquanto 
Si  eh*  io  possa  con  voi  fare  una  zuppa. 

Deh  !  per  V  amor  di  Dio  non  state  tanto, 
Ch*  io  son  per  fare  un'  opra  assai  cattiva, 
S' una  di  voi  non  mi  si  mette  accanto  (1). 

Continua  poi  offrendo  al  Cardinale  di  essergli  servitore, 
ma  dì  una  maniera  speciale.  Odasi: 

Signor,  io  m' ho  ne  Y  animo  proposto 
Di  farvi  servitù,  ma  d*  una  sorte 
Che  non  vi  rechi  utilità  né  costo  (2). 

E  poi  gli  spiega  con  un  paragone  questo  genere  di  ser- 
vizio: egli  vuol  dare  tutto  sé  stesso  al  Cardinale,  come 
si  dà  in  voto  a  una  divinità  un'  immagine  di  cera,  la  quale 
si  appende  all'  altare  e  li  resta  fìssa  senza  che  dia  né  tolga 
utilità  al  tempio: 

Una  statua  di  cera,  un  uom  di  legno 
Fate  conto  eh'  io  sia  fatto  per  voto 
Da  mastro  che  non  ha  troppo  disegno. 

Che  qualche  eletto  spirito,  e  divoto 
Offerisce  ad  un  santo  alla  cui  chiesa 
Lo  fige  ove  si  sta  fermo  et  immoto. 


(1)  Edis.  cit  in  Delizie  etc 
Gap.  cit 


GIOYANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  91 

Non  ha  quel  tempio  utilità  né  spesa, 
Pur  guarda  il  santo  a  l' anima  di  quello, 
Che  verso  lui  di  devozione  è  accesa  (1). 

È  vero  che  la  sua  persona  non  è  per  le  forme  fisiche 
delle  più  perfette ,  ma  il  poeta ,  soggiunge ,  non  ha  più 
cara  ma  che  sé  stesso,  quindi  : 

Se  me  stesso  vi  dono,  che  vi  pare 
S*  io  vi  do  quello  che  pib  stimo  e  pregio  ?  (2) 

Ma  eccoci  alla  conclusione  :  V  Anguillara  ha  cercato  di  ral- 
legrare un  po'  il  Cardinale  perché  poi  non  gli  faccia  troppa 
impressione  la  domanda  sua: 

Voi  che  dì  cortesia  di  splendor  regio 

Si  come  intendo  dir  tutti  avanzate 

Fatemi  fare  un  ampio  privilegio 
Dove  si  veggia  come  m' accettate 

Fra  vostri  eletti  e  privilegiati 

In  questa  nostra  sfortunata  etate  (3). 

Seguono  le  lodi  del  Cardinale,  cui  augura  che  diventi 
presto  papa;  e  infine  il  poeta  fa  quei  ritratto  di  sé  stesso 
che  abbiamo  già  veduto.  Si  narra  che  il  Cardinal  di  Trento 
preso  dalla  piacevolezza  di  questo  capitolo  facesse  dare 
3l  poeta  tante  braccia  di  velluto  quanti  sono  i  terzetti 
del  capitolo  (4). 

Un  altro  curioso  capitolo  del  Nostro  è  quello  scritto 
^^dla  Sedia    Vacante   al   Papa    Futuro    (5).  A    quale 

(1)  Gap.  cit. 
(ì)  Gap.  cit. 
(3)  Gap.  ciL 

(i)  GiovANNADREA  GiGLio,  Dialogo  I,  pag.  17.  Ma  non  abbiamo  al- 
^  leslimooianze. 

(5)  Vedi  appendice.  Capitolo  II. 


92  M.  PELAEZ 

anno  sia  da  assegnare  non  sappiamo;  ma,  come  il  titolo 
stesso  ci  fa  vedere,  dovette  essere  composto  nell'  inter- 
vallo di  tempo  fra  la  morte  di  un  ponteflce  e  la  elezione 
del  nuovo  (1).  Giovanni  Andrea  deli'  Ànguillara  sempre 
al  corto  di  denari,  e  sempre  in  cerca  del  modo  di  rac- 
coglierne con  poca  fatica  e  molto  diletto,  come  dice  egli 
stesso  dirigendosi  a  questo  papa  futuro: 

Ho  padre  santo  uo  sf  fatto  cervello 
Che  senza  faticar  vorrei  godere 
Se  si  potesse  trovare  fl  modello  (2), 

avea  tradotto  una  commedia  di  Plauto,  Y Anfitrione  (3) 
col  disegno  di  farla  rappresentare  per  ricavarne  un  gua- 
dagno: 

Cosi  m'immaginai  d'esercitarmi 
In  cose  da  guadagno  e  da  sollazzo 
Et  insieme  arricchire  e  trastullarmi  (4). 

Se  non  che  la  fortuna  non  gli  arrise:  infatti  la  prima 
volta  che  l' Ànguillara  rappresentò  l' Anfitrione,  quelli  che 
erano  deputati  alla  vendita  de'  biglietti  non  solamente  gli 
rubarono  molti  ducati,  ma  fecero  entrare  anche  moltis- 
sima gente  nel  teatro  senza  che  pagasse  nulla.  E  questi 
tali  che  aveano  fatto  cosi  brutto  giuoco  al  poeta  erano 
tutti  preti: 


(1)  Nel  Capitolo  non  v'  è  il  più  piccolo  accenno  che  possa  dar  modo 
di  stabilire  la  data  di  esso. 

(2)  Gap.  cit. 

(3)  Non  abbiamo  altre  notizie  di  questa  versione. 

(4)  Gap.  cit 


GIOYANNl  ANDREA  DELL' ANGUI LLARA  93 

Vergogna  e  vitupero  della  corte: 
Che  per  coprir  la  lor  miseria  estrema 
D*  avermi  poi  dicean  fatto  star  forte, 

Ma  che  quando  V  autor  prese  quel  tema 
Da  comporci  un  poema  cosi  fatto 
La  luna  al  fermo  dovea  esser  scema  (1). 

Cosicché  Giovanni  Andrea  fa  obbligato  a  correre  di  qua 
di  là  per  le  case  di  coloro  che  aveano  assistito  alla  rap- 
presentazione e  tentare  se  gli  riasci  va  di  avere  qael  che 
gli  spettava.  Di  ano  cosi  ci  narra: 

Dn  ce  ne  fu  sf  cortese  e  dabbene 
Che  disse:  andate  dal  mastro  di  casa 
Che  farà  appunto  quanto  si  conviene. 

n  maggiordomo  al  primo  me  la  basa, 
Dopo  mi  dice  che  non  fa  niente 
E  comincia  ad  andar  meco  di  rasa. 

Al  Padron  torno  vista  la  presente. 
Il  qual  mi  fece  dir  eh*  io  ritornassi 
Perché  era  travagliato  de  la  mente. 

Ci  tomai  cento  volte,  e  persi  i  passi; 
AlQn  m*  accorsi  eh*  era  risoluto 
Non  volermi  dar  nulla  s*  io  crepassi. 

Assai  mainerebbe  del  tempo  perduto, 
Ma  pili  m' increbbe  d' aver  logorate 
Un  par  di  scarpe  eh*  avea  di  velluto  (2). 

Qael  che  segae  forma  la  seconda  parte  del  capitolo,  nella 
quale  il  poeta  dopo  aver  levato  alle  stelle  il  papa  futuro 
gli  chiede  un  soccorso.  Egli  ci  dice  che  tatti  i  suoi  di- 
segni riguardo  alle  rappresentazioni  dell'Anfitrione  furon 


(1)  Cap.  cit 
«2)  Gap.  dL 


94  H.  PELAEZ 

troncati  dalla  morte  del  papa.  Ha  non  sappiamo  perché  : 
forse  l'invettiva  contro  la  corte  pontiflcia  che  abbiamo 
riportato  potrebbe  farci  credere  che  le  rappresentazioni 
della  commedia  di  Plauto  si  facessero  sotto  gli  aospicii 
del  pontefice,  e  che  morto  questo  fosse  caduta  la  for- 
tuna del  poeta.  Quindi,  dice  Giovanni  Andrea,  la  morte 
del  papa  per  voi  è  stata  una  fortuna,  per  me  una  ro- 
vina. Dunque: 

M' aresti  a  porger  la  mano  adiutrice 
Da  poi  che  '1  vostro  giubbilo  e  1  mio  affanno 
Nascono  tutti  e  due  da  una  radice. 

Bisognerebbe  qui  s' io  non  m*  inganno, 
A  volersi  portar  da  galantuomo, 
Ck)mpensar  col  vostro  utile  il  mio  danno  (1). 

Egli  promette  di  mandarlo  ai  posteri  col  suo  canto;  ma  : 

Quello  che  s' ha  da  far  facciasi  tosto 

Per  dar  speranza  alli  miei  creditori 

Che  mi  fan  camir^r  sempre  nascosto. 
Che  come  voglio  di  casa  uscir  fuori, 

Truovo  piene  le  strade  e  d'ogni  intorno 

Di  birri,  mandatari  e  di  cursori. 
Talor  disegno  andare  a  mezzogiorno, 

E  drizzo  a  traroontina,  e  tanto  giro 

Ch'  al  luogo  desiato  fo  ritorno. 
Non  ho  talvolta  a  gir  di  sasso  un  tiro 

Che  cerco  più  d*  un  miglio  di  paese 

Per  tanti  chiassi  e  vicoli  m'aggiro  (2). 

Non  fu  questa  certamente  la  sola  volta  che  l'Anguìl- 
lara  si  trovò  pieno  di  debiti  e  senza  l' ombra  di  un  quat- 

(1)  Gap.  cit. 

(2)  Gap.  cit. 


QIOYANNI   ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  95 

trino.  In  un  altro  capitolo,  di  cai  parleremo  or  ora,  ci 
racconta  che  pe' debiti  fa  tratto  in  prigione;  onde  egli 
pensò  rivolgersi  al  Cardinal  Farnese  perché  lo  aiutasse  a 
soddisfare  i  creditori,  e,  cogliendo  l' occasione  che  trova- 
Tasi  anche  avvinto  fra  lacci  d' amore,  gli  scrìve  an  capi- 
tolo nel  qaale  scherzosamente  mette  a  confronto  i  mali 
d'amore  e  quelli  della  prigione  (1). 

S*  odir  volete,  Monsignor  Farnese, 
Un  crude!  caso  stravagante  e  bello 
Tenete  al  mio  cantar  Y  orecchie  tese. 

Io  son  prigion  d' Amor  e  del  Bargello 
E  non  so  da  qnal  peggio  io  sia  trattato 
0  dalla  sbirreria  o  dal  mastello  (2). 

E  qaesto  gli  dà  occasione  per  fare  una  lunga  enumera- 
zione dei  mali  che  gli  vengono  dall'Amore  (3)  e  dal 
Bargello  ;  ma  peggiori  sono  i  mali  d' amore ,  egli  si  la- 
menta più  della  sua  donna  che  del  carcere: 

Che  se  la  vista  sua  dolce  mi  vieta 
Peggio  mi  fa  che  se  '1  mio  guardiano 
Mi  minacciasse  di  pormi  in  segreta; 


(1)  Non  sappiamo  nulla  circa  Tanno  in  cui  fu  composto  il  Capitolo, 
e  nemmeno  in  quale  città  si  trovasse  prigione  il  Nostro.  Vedi  App.  Ca- 
pitolo I. 

(ì)  Capit  cit 

(3)  Nulla  sappiamo  intomo  agli  amorì  di  Giovanni  Andrea  dell' An- 
guillara.  Il  Crescimbeni  fra  gli  esempi  che  dà  ne' suoi  Commeniarii 
de'  poeti  da  lui  passati  in  rassegna,  riporta  un  sonetto  amoroso  del  No- 
stro, che  si  trova  pure  stampato  nell'edizione  de' primi  tre  libri  delle 
Metamorfosi,  come  abbiamo  già  accennato. 

Parecchi  altri  ne  avremmo,  se  fossero  veramente  dell' Anguillara 
queOi  che  si  trovano  nel  Codice  bolognese  2759.  Vedi  a  questo  propo- 
sito le  poche  notizie  premesse  aU' Appendice. 


E  se  si  tarba  il  bel  sembiante  amanu, 
Non  sentirei  al  cuor  maggior  tristezza 
Se  mi  tagliasse  1*  una  e  Y  altra  mano. 

E  se  talvolta  ella  mi  scrive  e  sprezza 
Peggio  non  mi  farìa  se  mi  vedessi 
Appresentare  al  collo  una  cavezza  (1). 

Ma  non  credo  che  l'Angaillara  parli  sul  serio  in  questi 
versi  dappoiché  dice  anche: 

Ho  sempre  la  mia  donna  nel  pensiero 
E  la  trovo  tanta  asina  e  indiscreta 
Che  tutto  mi  dilagno  e  mi  dispero  (2). 

Dei  due  mali,  l'Amore  e  la  prigione,  a  quello  non  pub 
mettere  riparo,  giacché: 

Questa  è  cosa  che  pende  dal  destino 
0  liberarmi  o  Tarmici  crepare  (3): 

a  questo  si,  ma  occorrono  quattrini.  Quindi  il  poeta,  il 
lettore  ha  già  indovinato,  ne  chiede  al  Farnese,  e  si  oda 
con  quale  delicata  maniera: 

A  questo  non  so  come  provvedere 
S*  io  non  ricorro  come  è  la  mia  usanza 
Al  mio  solito  babbo  al  mio  messere  (4). 

Abbiamo  già  detto  che  il  Farnese  provvedeva  ai  bisogni 
del  poeta  quando  questi  attendeva  a  compiere  la  ver- 
sione delle  Metamorfosi:  in  questo  stesso  capitolo  ora  il 


(1)  CapiL  cit. 

(2)  Capit  cit 

(3)  Capit  cit 

(4)  Capit  cit 


eiOYANNI  ANDBBA  DBLL'  ANOUILLABA  97 

nostro  ci  fa  sapere  che  il  Farnese  già  un'  altra  volta  s' a- 
doperò  per  trarlo  di  prigione: 

E  se  '1  giudice  ben  non  fu  contento 
Per  esser  voi  troppo  gran  personaggio 
A  me  bastò  vedere  il  vostro  intento  (1). 

Ha  non  l' abbia  per  cattiva  creanza  il  Cardinale ,  seguita 
''Anguiiiara: 

SMo  ho  tenuto  e  tengo  questa  via 
E  terrò  sempre  in  voi  questa  speranza. 
Anzi,  signor,  s' io  tenessi  la  via 
Con  altro  mezzo  o  con  altra  persona 
Mi  pania  farvi  una  gran  villania  (2). 

I  tre  capitoli  di  coi  abbiamo  parlato  finora  si  possono 
'^^'^cinare  a  quelli  del  Borni,  pure  in  forma  d'epistola; 
Q^^ntre  sono  da  paragonarsi  con  quelli  del  medesimo  poeta 
i"  lode  delle  pesche  e  delle  anguille  ecc.  i  capitoli  del- 
l'Anguillara  sulle  Mosche,  ['Anello,  la  Sema,  il  Vino.  Il 
pnmo  è  indirizzato  a  un  tal  Signor  Tadeo,  gli  altri  tre  sono 
diretti  a  un  tal  Signor  Trivisano,  ma  di  nessuno  sappiamo 
iu  qaal  tempo  sia  stato  scritto.  Il  capitolo  suW  Anello  è 
uu^  semplice  enumerazione  di  tutte  le  cose  che  hanno 

(1)  Capii,  cit  Un  altro  accenno  al  Cardinal  Farnese  come  suo  Sì- 
giK)re  lo  Ut)T0  nella  canzone  a  Massimiano  II,  che  ho  citata  a  pag.  85,  n.  1: 

Ti  chiama  in  questa  età  senza  paraggio 
E  sopra  ogn*  altro  amabile,  e  cortese 
U  mio  Signor  Farnese, 
Parlo  del  Duca,  il  qual  t'ammira,  e  dice 
C'hai  tutte  le  Tirtù,  tutte  le  parti. 
Che  fanno  un  huom  felice, 
E  tutte  le  scientie,  e  tutte  Tarti. 
(ì)  Capìt  ciL 

VoL  IV,  ParU  I.  7 


96  M.  PELAEZ 

la  forma  di  cerchio,  e  sulle  qaali  il   poeta  scherza  e 

quell'equivoco  osceno  che  allora  piaceva.  Nel  capiu 

sulle  Mosche  l'Ànguillara  con  molta  vivacità  e  con  mo 
spirito  parla  delle  noie  che  esse  recano: 

Mille  lingue  latine  e  mille  tosche 
Con  mille  penne  e  mille  calamari 
Non  son  bastanti  a  biasimar  le  mosche  (1). 

È  felicissimo  il  Nostro  quando  descrive  sé  stesso  eh 
d'estate,  non  sa  liberarsi  da  un  tanto  fastidio  e  coi 
di  qua  di  là  in  piazza,  all'aperto,  sempre  inutihnente  pe 
che  sempre  perseguitato  da  queste  bestiuole. 

Chi  morde  da  sto  lato,  e  chi  da  quello, 
Le  mani,  il  naso,  l'orecchio  e  la  bocca 
Ch'  oramai  m'  han  cavato  di  cervello  ; 

Chi  passa,  chi  m'accenna  e  chi  mi  tocca, 
Chi  rodendo  mi  va,  chi  mi  strapazza 
Chi  mi  giostra,  chi  m'  urta  e  chi  m' imbrocca. 

Non  mi  vai  stare  in  casa  o  andare  in  piazza 
E  tener  sempre  mai  la  rota  in  mano: 
Non  mi  giovano  l' elmo  e  la  corazza  (2). 

E  giunge  a  tale  disperazione  che  desidererebbe  divent: 
un  ragno  per  poter  distruggere  tutte  le  mosche: 

M'arrabbio,  struggo  e  mi  vien  fantasia 
Di  voler  diventar  un  giorno  un  ragno 
Per  metter  fra  le  mosche  la  moria  (3). 

Il  capitolo  sul  Vino  fu  composto  per  celebrare  il  vi 

(1)  Vedi  Àppend.  Capit  III. 

(2)  CapiL  cit. 

(3)  Capit  ciL 


GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  99 

del  signor  TrìvìsaDo  ;  il  poeta  comincia  col  dire  che  tal 
'ifoore  DOD  è  indegno  del  cantar  del  Bemi  : 

Quegli  altri  con  assai  più  chiaro  suono 
Cantato  han  de  li  cardi  e  de  le  pesche 
E  non  di  questo  vin  di  cui  ragiono. 

Come  queste  sue  fiche  e  fave  fresche 
JBan  fatto  di  Parnaso  una  taverna 
E  con  miir  altre  favole  burlesche, 

Era  pur  degno  del  cantar  del  Berna 
E  di  quegli  altri  ancor  (  né  in  ciò  m' abbaglio  ) 
Questo  vin  vostro  di  dolcezza  eterna  (1). 

Perciò  esorta  il  possessore  ad  essere  più  avaro  cogli  altri 
<^i  questo  vino,  e  a  chi  gliene  chiede  far  la  risposta  di 
Cisti  fornaro,  riferendosi  alla  nota  novella  del  Boccaccio: 

Felice  voi,  che  sue  dolcezze  rare 
Gustate  a  tutto  pasto,  e  a  tutte  Y  ore, 
E  innanzi,  e  dietro,  e  coofie  a  voi  pare. 

Di  grazia,  caro  e  bello  mio  signore. 
Fatemi  grazia,  eh'  io  possa  talvolta 
Far  con  questo  vin  vostro  almen  V  amore. 

So  che  da  voi  non  è  cortesia  tolta, 
Ma  d' una  cosa  sol  dubito  forte, 
Ch'  io  veggio  molti  fiaschi  andare  in  volta. 

Siate  un  pochette  in  ciò,  vi  prego,  avaro 
Contro  vostra  natura,  e  a  quei  fiasconi 
Fate  risposta  di  Cisti  fornaro. 

Non  siate  lai^o  a  questi  imbrìaconi. 
Che  son  senza  vergogna,  e  a  dirvi  il  vero 
Questa  non  è  bevanda  da  bucconi  (2). 

^^>  Vedi  Rime  piacevoli  ecc.  già  citate. 
<^)  Op.  cJL 


100  M.  PELAEZ 

Egli  si  sente  venir  meno  dal  piacere  pensando  a  qaesto 
vino  e  si  muore  dal  desiderio  di  berne  nn  poco: 

Ed  io  struggendo  vo  da  loco  a  loco, 
E  fra  me  dico,  piglia  tu  quel  fiasco 
E  io  un  cantone  confortati  un  poco. 

Cosi,  come  Fenice,  moro  e  nasco 
Allor  che  m' invitate  a  bere  un  tratto. 
Che  v'  accorgete  eh*  io,  morendo,  casco. 

Di  poi  avverte  questo  felice  possessore  del  buon  vino 
che  se  un  giorno  potrà  avere  quel  fiasco,  si  rifarà  del 
tempo  perduto: 

Siate  pur  avvertito  al  vostro  fatto 
Che  se  quel  fiasco  un  di  mi  viene  a  lato 
Di  tutto  '1  tempo  perso  mi  riscatto: 

Mi  sento  ad  or  ad  or  mancare  il  fiato 
E  bramo,  più  che  capra  il  sale  o  foglia, 
Di  ber  di  questo  vino  inzuccherato. 

Io  vi  avertisco,  e  poi  non  ve  ne  doglia. 
Che  s*  io  ci  metto  il  naso  come  uom  saggio 
Vi  giuro  a  fé'  di  cavarmi  la  voglia. 

Terrò  ben  modo  con  quel  vostro  paggio 
Che  '1  si  contenterà  farmi  la  scorta 
Finché  del  fiasco  averò  tolto  il  saggio. 

Ma  tosto  si  rappacifica  col  Trivisano  e  lo  prega  amiche- 
volmente che  gli  faccia  mostra  della  benevolenza  che  ha 
per  il  poeta  regalandogli  un'  ampolla  di  vino  : 

E  se  voleste  in  ciò  pur  contentarme, 
Fate  che  venghi  con  la  carafiina 
H  vostro  paggio  a  la  stanza  a  trovarme; 

Ma  lo  vorrei  per  tempo  la  mattina. 


*  • 


OIOVANNl  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA'  :-'//\,  101 

L'ultimo  capitolo  di  Giovanni  Andrea  dell' Angnìi^fai' . 
sul  pagar  la  Sensa  si  riferisce  all'antica  usanza  veneziana-' 
secondo  la  quale  per  la  festa  dell'Ascensione  si  faceva 
in  città  una  fiera  e  ciascuno  era  solito  regalare  qualcosa 
(e  questa  era  detta  la  Sensa)  al  parente  o  all'amico.  Il 
Nostro  pure  soleva  ricevere  in  questa  occasione  un  regalo 
dai  signor  Trivisano ,  ma  pare  che  nell'  anno  in  cui  fu 
scritto  il  capitolo  questi  si  sia  dimenticato  del  poeta.  Il 
quale  piacevolmente  con  quel  capitolo  gli  ricorda  l'usanza: 

Hor  fate  pur,  che  questa  settimana 
Da  voi  a  me  pagata  sia  la  seusa 
Che  basta  a  dirla  a  la  veneziana. 

Né  altro  ho  da  aggiungere  intorno  a  questi  capitoli  che 
mi  sembrano  la  parte  migliore  dell'  operosità  poetica  di 
Giovanni  Andrea.  In  ispecie  quelli  in  lode  del  Vino  e 
sulle  Mosche  di  poco  cedono,  secondo  me,  ai  più  belli  del 
Beroi,  che  diede  il  nome  a  questo  genere  di  poesia. 


Vili 


A  Giovanni  Andrea  dell' Anguillara  non  spetta  un 
posto  alto  fra  i  poeti  del  cinquecento,  sebbene  al  tempo 
suo  godesse  fama  di  valente  scrittore  ed  ottimo  poeta. 
Appartenne  all'Accademia  dello  Sdegno  (1),  e  sappiamo 
che  per  la  morte  della  Faustina  Mancina  vi  lesse  un  so- 
netto che  poi  fece  parte  della  raccolta  di  poesie  scritte 


(1)  L'Accademia  dello  Sdegno  fu  sotto  Paolo  III  fondata  dai  cele- 
bri letterati  Girolamo  Ruscelli,  Tommaso  Spiga  e  Giambattista  Paladino. 
Ebbe  )»er  protettore  il  Card.  Alessandro  Farnese.  Vedi  Quadrio,  Storia  e 
Ragione  d'ogni  Poesia^  Libro  I,  Dist.  I,  Gap.  II. 


.•    • 


•••  •    • 


102./*.\X'  '  M.  PELAEZ 

•    •       • 

.'.j^/qiaella  gentildonna  (1).  Fu  in  relazione  col  Varchi, 
'•à)ì  Caro,  col  Tolomei  (2),  e  non  è  improbabile  che  ab- 
bia conosciuto  Torquato  Tasso,  insieme  col  quale  pare  si 
sia  trovato  a  dimorare  per  alcun  tempo  in  casa  del  Da- 
nese Cataneo  (3).  Il  Tasso  stesso  parla  di  lui  nella  se- 
conda delle  sue  lettere  poetiche,  dove  ci  dice  che  V  An- 
guillara  avea  fatto  gli  argomenti  in  ottava  rima  all'Or- 
lando Furioso  pel  prezzo  di  mezzo  scudo  l'uno  (4). 

Fu  amico  pure  a  Francesco  Bolognetti  poeta  e  se- 
nator  Bolognese,  e  possediamo  due  lettere  scritte  a  lui 
dal  Nostro.  Una  delle  quali  è  importante  per  il  giudizio 
che  TAnguillara  dà  sul  Petrarca  e  suir  Ariosto  a  pro- 
posito del  Costante,  poema  epico  del  Bolognetti.  Gio- 
vanni Andrea  dopo  averlo  letto  scriveva  all'autore  che 
egli  avea  superato  in  quanto  a  la  disposizione  de  la  fa- 
vola agli  episodi,  et  a  V  imitazion  degli  antichi,  tutti  i 
moderni  che  aveano  scritto  in  ottava  rima.  €  In  quanto 

(1)  La  raccolta  ha  per  titolo:  Tempio  fabbricato  a  Giovanna  d' A- 
ragona.  11  sonetto  dell*  Ànguillara  tro\'asi  a  carL  295.  Questa  raccolta  sì 
trova  manoscritta  nel  cod.  palat  CGXXXIX.  Cfr.  Palermo,  mss.  Paiat 
Firenze  1883,  voi.  I,  A25. 

(2)  Abbiamo  una  Icltora  del  Tolomei  all'  Anguillara  che  trovasi  in 
Lettere  di  AL  Claudio  Tolomei  Libri  Sette  con  nuova  aggiunta  ristami 
paté  e  con  somma  diligenza  ricorrette.  In  Venezia,  appresso  Domenico  e 
Cornelio  de*NicoIini  1559.  La  lettera  non  ha  alcuna  data,  ma  siccome 
il  Tolomei  morì  nel  1555  cosi  credo  poterla  assegnare  al  periodo  di 
tempo  in  cui  T  Anguillara  dimorò  a  Roma  nei  primi  anni  della  sua  vita. 

(3)  Vedi  G.  Mazzoni,  Tra  Libri  e  Carte.  Roma,  Pasqualucci,  1887, 
pag.  93,  nota  2.  E  giacché  qui  ho  occasione  di  citare  un  libro  del  Prof. 
Mazzoni  non  posso  tenenni  dal  ringraziarlo  pubblicamente  di  tutte  le  in- 
dicazioni ch'ebbe  la  cortesia  di  fornirmi  per  questo  mio  lavoro,  preve- 
nendo spesso  anche  le  mie  preghiere. 

(  i)  Si  trovano  noli'  Orlando  Furioso  con  gli  argomenti  di  Giovanni 
Andrea  dell' Anguillara  e  le  allegorie  dell  Orologi.  Venezia  per  Gio- 
vanni Varisco  1563.  Fu  riprodotta  nel  1568.  Si  sa  che  anche  il  Tasso 
avea  intenzione  di  fare  gli  argomenti  al  Furioso. 


QIOVAKNI  ANDREA  DELL' ANOUILLARA  103 

aDcora  a  la  cnitnra  de  la  eiocnzioDe,  et  de  lo  stile  non 
ha  da  avere  invidia  ad  alcuno  de'  moderni,  e  per  non 
fare  scandalizzare  gli  affezionati  dell'Ariosto  questo  sol  dirò, 
che  mi  par  di  conoscere  in  lui  più  felicità  di  natura,  ma 
non  già  né  più  coltura  né  più  arte,  et  in  questo  V.  S. 
si  ha  contentare  poiché  in  quanto  alla  felicità  della  natura 
r  Ariosto,  secondo  il  mio  giudizio,  è  stato  non  men  felice 
del  Petrarca,  se  bene  il  Petrarca  è  stato  di  gran  lunga 
più  culto  e  più  osservato....  »  (1).  Ma  il  Costante  è  ca- 
duto giustamente  in  dimenticanza,  e  l'Anguillara,  met- 
tendo a  paragone  il  Bolognetti  cogli  altri  due  grandi,  si 
è  mostrato  assai  poco  conoscitore  dell'  arte ,  come  poco 
valente  artista  era  stato  nelle  sue  opere.  Tuttavia  se 
non  fu  scrittore  di  gran  pregio,  appartiene  a  quella 
schiera  di  minori  de'  quali  bisogna  pur  tener  conto  nella 
Storia  delle  lettere  italiane.  Quelli  che  precedono  i  grandi 
scrittori  ci  danno  la  storia  dello  svolgimento  e  de' pro- 
gressi dì  quegli  elementi  che  poi  perfezionati  producono 
le  grandi  opere  d' arte  ;  quelli  che  seguono  i  sommi  scrit- 
tore ci  mostrano  un  altro  aspetto  della  letteratura,  V  imita- 
zione. E  fra  questi  è  da  porre  Giovanni  Andrea  dell'An- 
goillara  per  la  sua  versione  delle  Metamorfosi  che  arieg- 
gia i  poemi  romanzeschi,  per  V  Edipo  che  attinge  da  So- 
focle e  da  Seneca,  e  per  i  pochi  capitoli  giocosi  che  ri- 
cordano il  Berni. 

Mario  Pelaez. 


(1)  Queste  due  lettere  sono  quelle  che  si  trovano  negli  Anecd.  Litt 
e  delle  quali  abbiamo  già  parlato. 


104  M.  PELAEZ 


APPENDICE 


L'appendice  che  segue  consta  dì  due  lettere,  tre  capitoli 
ed  una  canzone.  Ho  tratto  le  prime  dalia  Biblioteca  Nazionale 
di  Firenze  dalla  cassetta  delle  lettere  dirette  al  Varchi  (numeri 
tl2  e  tl3)  dove  si  conservano  autografe  (1).  I  tre  capitoli, 
due  de'  quali  ora  per  la  prima  volta  veggono  la  luce  in  gue- 
st'appendice,  si  trovano  nel  codice  2758  della  Universitaria  di 
Bologna.  «  È  un  codice  cartaceo  di  84  carte,  in  formato  di  un 
8""  ordinario,  rilegato  in  pergamena.  Appartenne  all'Abbazia  di 
S.  Salvatore,  fu  portalo  in  Francia  nelle  rapine  notissime  e  porta 
ancora  il  bollo  rosso  «  Biblioihèque  Natioìiale  R.  F.  »  Fu 
restituito  nel  1815.  A  tergo  porta  scritto:  «  Anguillara:  Rime 
Ms.  »  (2).  Nella  prima  carta  v'è  il  principio  di  una  dedica  che 
è  stata  cancellata,  e  nel  resto  della  seconda  carta  si  legge  una 
nota  di  mano  del  settecento,  che  è  forse  del  Pozzetti  bibliote- 
cario di  S.  Salvadore  (3).  Fra  le  altre  cose  la  nota  dice  :  «  Nel 
suo  genere  è  buon  ms.  e  lo  credo  originale,  nulla  ostando  al- 
cune giunte  ridicole  d' altro  carattere  che  nulla  hanno  che  fare 
con  queste  ottime  rime,  benché  talvolta  piiì  del  dovere  facete.  » 
Due  infatti  sono  le  mani  che  scrissero  questo  codice,  ambedue 
però  del  seicento  o  almeno  della  fine  del  cinquecento.  Ha  non  è 

(1)  Mi  è  caro  ricordare  qui  l'egregio  Doti.  Giorgio  Cecioni,  rapito 
or  non  é  molto  all'  affetto  degli  amici  e  agli  studi,  il  quale  cortesemente 
m'inviò  una  copia  di  queste  lettere. 

(2)  Tolgo  questa  descrizione  da  una  prima  notizia  del  codice  che 
gentilmente  mi  favori  il  Bibliotecario  della  Universitaria  di  Bologna  Prof. 
Olindo  Guerrìni.  Colgo  qui  l'occasione  per  ringraziamelo  pubblicamente. 

(3)  Cosi  congettura  il  Guerrini. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL' ANOUILLARA  105 

orìginaie,  come  ho  potuto  vedere  dal  confronto  colle  lettere  auto- 
grafe delPAnguillara.  Dico  non  autografo  per  la  parte  che  ri- 
guarda r  Anguillara,  giacché  non  credo  che  tutto  quello  che 
contiene  il  codice  appartenga  al  Nostro  (1).  Esso  comprende 
una  settantina  dì  sonetti  quasi  tutti  aaiorosi,  qualche  madri- 
gale, quaranta  ottave  intitolate  Fato  di  Coridoncy  due  can- 
zoni, ana  delle  quali  amorosa,  Taltra  per  la  vittoria  di  Lepanto; 
poi  d*  altro  carattere  quattro  capitoli  (2)  che  sono  senza  dubbio 
deD'  Anguillara,  perché  il  poeta  vi  si  fa  conoscere,  e  finalmente 
akuni  epigrammi  latini  nelPultima  carta. 

H  contenuto  dei  sonetti  non  ci  dà  indizio  del  loro  autore, 
essi  SODO  scritti  sulla  falsariga  del  Petrarca,  simili  a  tanti  altri 
che  piovvero  nel  cinquecento.  Perciò  io  penso  che  il  codice  ori- 
gìoarìameote  sia  stato  scritto  per  raccogliere  i  sonetti,  e  che 
poi  rimaste  bianche  alcune  carte  di  esso  qualcuno  vi  abbia 
aggiunto  i  quattro  capitoli  delPAnguillara;  tanto  più  che  fra  i 
sonetti,  k  canzoni,  i  madrigali  e  i  capitoli  del  Nostro  si  trova 
una  carta  bianca  che  può  essere  stata  lasciata  a  bella  posta  da 
chi  ha  copiato  i  capitoli,  sapendo  che  questi  formavano  una  cosa 
a  sé  e  che  erano  di  autore  diverso. 

La  canzone  che  segue  i  tre  capitoli  è  pubblicata  di  su  un 
codice  miscellaneo  del  secolo  XVI  (XXIX-193)  della  Biblioteca 
Barberina  di  Roma.  I  codici  di  cui  mi  son  giovato  sono  ab- 
bastanza chiari  e  non  lasciano  alcun  dubbio  sulla  loro  lezione. 
Io  li  ho  riprodotti  esattamente  riducendo  solamente  la  grafia 
e  r  interpunzione  all'uso  moderno. 

M.  P. 


(1)  Noto  intanto  che  sotto  al  sonetto  e  Se  voi  lieto  e  giocondo....  > 

«ODO  le  iniziali  D.  V.  M. ,  e  sotto  Taltro  e  Quel  che  veste  di  stelle > 

le  iniziali  M.  V.  con  questa  nota  dello  stesso  annotatore  della  prìma  carta 
del  codice:  e  Queste  due  lettere  iniziali  aggiuntevi,  sembrano  indicare 
che  é  di  autore  diverso  dall' Anguillara.  >  Avverto  ancora  che  il  codice 
conserva  tracce  di  carte  tagliate. 

(t)  Tre  SODO  quelli  pubblicati  in  quest'appendice;  il  quarto  è  il  ca- 
pitolo al  Cardinal  di  Trento. 


106  M.  PELAEZ 


Molto  magnifico  maggior  miOj 

Per  quello  che  mi  ha  mostrato  messer  Lucantonio  Ridolfi  (1) 
ne  la  lettera  di  V.  S.  ho  coDOscìuto  che  io  dod  mi  sodo  in- 
gannato ne  la  confidentia  che  io  ho  sempre  havuto  ne  la  sua  bontà 
e  dottrina.  Et  ho  speranza  poi  che  con  tanto  buono  animo  ab- 
braccia r  impresa  di  volere  rivedere  Topra  che  egli  sa,  che  io 
non  barrò  consumato  il  tempo  invano,  perché  la  conosco  di  sf 
buon  giuditio  che  non  T  abbracciarebbe  se  la  conoscesse,  per 
quel  che  n'ha  potuto  vedere,  talmente  fuor  di  squadra  che  non 
fosse  atta  a  ricevere  correttione  alcuna.  Benché  la  sua  bontà  e 
cortesia  è  tale  che,  quale  ella  Thavesse  giudicata,  non  harrebbe 
mancato  de  la  sua  solita  benignità  e  di  darie  quella  miglior 
forma  che  havesse  potuto  ricevere.  Io  sono  intomo  al  decimo 
libro,  e  penso  che  io  barrò  finita  tutta  l'opera  a  Febraio,  e 
verrò  costà  al  più  tardi  a  Marzo,  se  altro  impedimento  non 
nasce. 

Le  ne  mando  per  messer  Camillo  Spannocchi  (2)  compi- 
tissimo gentilhuomo  una  favola  del  nono  libro  per  saggio  de  le 
cose  che  io  fo  ora.  Harrei  caix)  d'intenderne  il  suo  parere;  e 
la  prego  a  tenermi  ne  la  sua  buona  grazia  et  a  conservar  dal 
lato  suo  la  nostra  antica  amicitia,  come  ho  io  fatto  e  farò 
sempre  dal  mio.  E  si  degni  raccomandarmi  a  messer  Pietro 
Paolo  Spinoso;  per  mille  volte  viva  felice.  Di  Lione  a  6  di 
Giugno  1560. 

Servitore 

Giovanni  Andrea  de  l' Anguillara. 


(1)  Autore  di  un  Ragionamento  iutomo  al  Decamerone  edito  nel  1555 
a  Lione  pei  tipi  del  Rovillio. 

(2)  Di  questo  Spannocchi  non  si  ha  alcuna  notizia. 


GIOVANNI  ANDREA  DELL*  ANGUILLARA  107 

IL 

Molto  magnifico  Signor  mio. 

Quando  io  partii  di  Fiorenza  lasciai  che  '1  Signor  loseppe 

Bettusi  procurasse  il  mio  privilegio  (1),  né  posso  saper  quel  che 

scabbia  fatto,  perché  non  m*  ha  mai  scrìtto.  Però  prego  V.  S., 

se  egli  fio  a  quest*  hora  non  T  ha  impetrato,  che  '1  potrà  sapere 

facilmente,  che  M  voglia  procurar  per  me.  Confido  ne  la  sua 

cortesia,  die  so  quanto  suole  essere  ofiiciosa  per  gli  amici,  che 

000  mancherà  di  aiutarmi  sicome  mi  ha  aiutato  in  cosa  di 

più  importanza  di  questo.  Sono  stampati  già  33  fogli  fino  a  la 

metà  de  Tettavo,  et  al  principio  d'Agosto  sarà  finito  tutto.  Non 

U  dirò  altro  perché  non  ho  tempo;  la  prego  a  raccomandarmi 

a  don  Silvano  (2)  et  a  gli  altri  amici.  Di  Venezia ,  a  li  18  di 

Giogoo  1561. 

Servitore  Giovanni  Andrea  dell' Anouillara. 

(a  tergo) 
Al  molto  magnifico  messer  Benedetto 
Varchi  maggior  mio  honorandLssimo 

A  Fiorenea. 

I. 

Al  Cardinal  Farnese  (3) 

S'odir  volete.  Monsignor  Farnese, 
Un  crudel  caso  stravagante  e  bello, 
Tenete  al  mio  cantar  r  orecchie  tese. 

(i)  Nulla  sappiamo  di  questo  privilegio  che  TAnguillara  chiedeva. 

iì)  Silvano  Razzi  autore  delie  vile  del  Varchi,  di  Pier  Soderini  etc. 

(3)  Bibl.  Univ.  ras.  2758  car.  58-61.  Ho  già  avvertilo  a  pag.  89 
^  1,  che  questo  capitolo  é  in  una  raccolta  di  rime  eh' io  non  ho  potuto 
^^are.  L' ho  ristampato  di  sul  codice  bolognese,  parendomi  una  delle 
P^he  cose  buone  scrìtte  dall'  Anguillara,  e  perché  ha  importanza  per  la 
^iHograGa. 


106  M.  PELASZ 

Io  son  prigion  d' Amor  e  del  Bargello 
E  non  so  da  qual  peggio  io  sia  trattato 
0  da  la  sbirreria,  o  dal  mastello  (1). 

Mi  tien  da  un  canto  kxnor  si  travagliato, 
Pien  di  tosco  di  rabbia  e  gelosia 
Che  non  mi  lascia  mai  ripigliar  fiato. 

Da  l'altro  mi  vien  poi  la  sbirrerìa 
Con  nuovi  indizi  ogni  di  travagliando 
A  contemplazion  di  qualche  spia. 

M' ha  dato  Amor  del  mio  cervello  bando, 
Ma  mi  fan  bene  i  birri  stare  in  Cristo, 
Tanto  van  la  mia  vita  esaminando: 

Ed  han  già  tanto  rivolto,  e  rivisto 
Che  dove  io  ero  infatti  un  uom  dabbene 
M' hanno  quasi  scoperto  per  un  tristo. 

Ho  nel  career  d'Amor  travagli  e  pene. 
In  questo  almen,  che  sia  tema  e  paura 
Non  patir  più  di  quel  che  si  conviene  (2). 

Se  mi  querelo ,  Amor  non  se  ne  cura, 
Se  mi  querelo,  se  ne  ride  e  sguazza 
Quel  che  d'assassinarmi  ha  preso  cura. 

Se  con  le  sue  quadrella  Amor  m' ammazza. 
Colui  che  vuole  aver  di  me  la  palma 
Fa  quel  che  può  per  condurmi  a  la  mazza. 

Pormi  cerca  ciascun  piti  grave  salma; 
Quel  mi  distrugge  dentro  e  questo  fuore, 
L' un  mi  tormenta  il  corpo,  e  V  altro  l' alma. 

È  mal  trovarsi  in  servitù  d'amore, 
Ma  di  tal  gente  di  pietà  rubella 
È  cosa  da  morirsi  di  dolore. 

Di  liberarmi  non  se  ne  favella  : 
Quel  mi  ritiene,  e  questo  non  mi  lascia, 
C  han  tutti  duo  gli  occhi  a  la  scarsella. 

(1)  La  lezione  del  codice  é  chiara;  ma  io  non  so  quale  interp 
zione  dare  alla  parola  mastello  in  questo  luogo. 

(2)  Anche  qui  per  quanto  chiara  la  lenone  del  codice,  il  sei 
oscuro. 


GIOVANNI    ANDREA   DELL*  ANGUILLARA  109 

Sun  mi  processa,  l'altro  non  mi  cassa, 

E  tengono  ambi,  per  darmi  la  stretta, 

Contro  a  la  vita  mia  più  cani  a  lassa. 
0  Dio  che  l'abbia  fatta  cosi  netta  40 

Che  cosi  m'abbia  saettato  e  preso 

Un  cieco,  un  putto  ignudo,  una  fraschetta! 
0  Dio  che  crudeltà,  eh'  un  e'  ha  conteso 

Con  tante  avversità  de  la  fortuna 

Da  quattro  birri  non  si  sia  difeso  I  45 

Già  tanto  mal  per  mio  mal  si  raguna, 

Gh'a  me  roedesmo  son  venuto  a  noia, 

Né  trovo  refrigerio  in  cosa  alcuna. 
Disposto  è  Amor  che  di  sua  mano  muoia. 

L'altro  avversario  per  levai^U  il  tratto  50 

Fa  quel  che  può  per  darmi  in  mano  al  boia 
A  tal  eh'  io,  che  fui  sempre  mezzo  matto. 

Hi  truovo  involto  in  tal  confusione 

Ch'  io  ho  paura  non  scappare  affatto. 
E  ho  trovato  e  trovo  al  paragone,  55 

Or  chi  lo  crederebbe  ed  è  pur  vero, 

Che  peggio  mi  fa  Amor  che  la  prigione. 
Ho  sempre  la  mia  donna  nel  pensiero 

E  la  trovo  tanto  asina  e  indiscreta 

Che  tutto  mi  dilagno  e  mi  dispero.  60 

Che  se  la  vista  sua  dolce  mi  vieta, 

Peggio  mi  fa  che  se  'I  mio  guardiano 

Mi  minacciasse  di  pormi  in  segreta  ; 
E  se  si  turba  il  bel  sembiante  umano. 

Non  sentirei  al  cuor  maggior  tristezza  65 

Se  mi  tagliasse  Y  una  e  Y  altra  mano. 
E  se  talvolta  ella  mi  schiva  e  sprezza, 

Peggio  non  mi  farla  se  mi  vedessi 

Appresentare  al  collo  una  cavezza. 
Di  questi  due  nemici  e'  ho  qui  messi  70 

Uno  ce  n'  è  che  non  si  può  schivare  ; 

Vorrei  eh' a  l'altro  almen  si  provvedessi. 


110  M.   PELAEZ 

In  quanto  a  ia  faccenda  de  F  amare, 
Questa  è  cosa  che  pende  dal  destino , 
0  liberarmi  o  farmici  crepare. 

L*  altra  inviata  V  ho  per  tal  camino 
Che  potrei  liberarmi  a  mio  piacere, 
S*  io  potessi  trovar  qualche  quatrìno. 

A  questo  non  so  come  provedere 
S*  io  non  ricorro,  com'  è  la  mia  usanza. 
Al  mio  soh'to  babbo,  al  mio  messere. 

E  non  l'abbiate  per  mala  creanza 
S*  io  ho  tenuto  e  tengo  questa  via, 
E  terrò  sempre  in  voi  questa  speranza; 

Anzi,  Signor,  s*  io  tenessi  la  via 
Con  altro  mezzo  o  con  altra  persona. 
Mi  parrla  farvi  una  gran  villania. 

Già (  1  )  un'  altra  opera  assai  buona, 

Che  v'obbligaste  in  pubblico  instrumento 
Per  potermi  cavar  di  Tor  di  Nona. 

E  se  '1  giudice  ben  non  fu  contento, 
Per  esser  voi  troppo  gran  personaggio, 
A  me  bastò  vedere  il  vostro  intento. 

Ed  ho  del  vostro  cuor  fatto  tal  saggio 
Che  s' altre  volte  ben  mi  vi  donai, 
Vi  fo'  di  me  di  nuovo  un  nuovo  omaggio. 

Se  bene  avete  per  me  fatto  assai. 
Fate  ancor  questo:  accordate  il  Bargello, 
Altramente  io  non  son  per  uscir  mai, 

E  morrommi  in  prigione  di  martello. 

IL 

Nella  Sedia  vacante  al  Papa  futuro  (2) 

Deh  padre  santo,  ascoltatemi  un  tratto, 
0  siate  oltramontano,  ovver  latino, 
Ch'  io  noi  so  dir  che  non  sete  ancor  fatto. 

(1)  Nel  cod.  dopo  la  parola  Già  troTO  puntini;  forse  faceste 
parola  che  manca. 

(2)  Bis.  ciL  car.  62-69. 


GIOVANNI   ANDREA   DELL*  ANGUILLARA  IH 

Dmilemente  a'  vostri  pie  m*  inchino 

Et  nunc  protU  et  tunc  per  raccontarvi  5 

Un  mio  sciaguratissimo  destino. 
Senza  eh*  io  voglia  altro  proemio  farvi, 

0  con  vaghi  color  di  poesia 

Dir  qualcosa  di  voi  per  adescarvi, 
Vi  dirò  la  mia  mera  fantasia,  10 

Senza  che  di  voi  parli,  come  quello 

Che  scrìve  ad  un  che  non.  sa  chi  si  sia. 
Ho,  padre  santo,  un  si  fatto  cervello. 

Che  senza  faticar  vorrei  godere. 

Se  si  potesse  trovare  il  modello.  15 

Il  sommo  bene  ho  posto  nel  piacere, 

Né  pensate  però  eh'  io  me  ne  vada 

Fuor  de  Y  uso  comune  e  del  dovere. 
Senza  stentar,  per  non  tenervi  a  bada. 

Cercato  ho  d' arricchir  pili  d' una  fiata,  20 

Né  saputo  ho  giammai  trovar  la  strada. 
E  finalmente  l'avevo  trovata. 

Se  la  morte  del  vostro  antecessore 

Non  mi  dava  una  matta  bastonata. 
L'anno  passato  mi  venne  un  umore  25 

Di  voler  metter  per  accomodarmi 

In  compromesso  la  roba  e  Y  onore. 
Cosi  m' iraaginai  d' esercitarmi 

In  cose  da  guadagno  e  da  solazzo 

Ed  insieme  arricchire  e  trastullarmi.  30 

Fu  'I  mio  tenuto  un  caprìccio  si  pazzo, 

E  penso  vi  debbe  esser  stato  detto 

De  la  spesa  ch'io  feci  in  quel  palazzo; 
Ma  come  volse  un  fato  maledetto 

Che  mi  persegue  e  non  mi  lascia  mai,  35 

Sorti  queste  disegno  un  tristo  effetto. 
La  prima  volta  eh'  io  rappresentai 

L'Anfitrion  di  Plauto  tradotto, 

0  Dio  che  bravo  granchio  eh'  io  pigliai  ! 


112  M.   PELAEZ 

Un  branco  di  quei  preti  v'  avea  sotto 
C*  hanno  il  cappuccio  or  pagonazzo  or  rosso, 
Ora  di  panno,  ora  di  cianabellotto  (1). 

Eran  tutti  c*arebbono  riscosso 
(^ni  gran  personaggio  da  pirati. 
Se  fosse  stato  maggior  d' un  colosso. 

E  fur  si  pidocchiosi  e  sciagurati, 
Che  non  sol  non  cercar  trarmi  d'impaccio. 
Ma  mi  rubaro  di  molti  ducati. 

Gli  uomini  che  introdussero  io  gli  taccio. 
Che  fero  entrar,  senza  pagarmi  tanto 
Ch'  io  potessi  comperare  un  laccio. 

Questo  è  il  granchio  chMo  presi,  o  Padre  Santo: 
Ch'  io  mi  credea  per  avermi  aitare 
Che  s*  imp^nasser  la  berretta  e  M  manto. 

Fra  questi  tre  ne  voglio  eccettuare 
Che  per  tenermi  su  fecero  a  gara 
Acciò  eh'  io  non  m' avessi  a  spaventare. 

Tutti  tre  di  progenie  illustre  e  chiara 
Ch'  altrove  canteronne  :  e  questi  furo 
Santa  Fiora,  Santo  Angelo  e  Ferrara. 

Gli  altri  chi  fosser  dirlo  non  mi  curo; 
Basta  che  meco  si  portar  di  sorte, 
Ch'  io  non  potei  mai  pili  pisciare  al  muro. 

Vergogna  e  vitupero  della  Corte, 
Che  per  coprir  la  lor  miseria  estrema 
D'avermi,  poi  dicean,  fatto  star  forte; 

Ma  che  quando  l'autor  prese  quel  tema 
Da  comporci  un  poema  cosi  fatto. 
La  luna  al  fermo  dovea  esser  scema. 

E  che  Plauto  insomma  avea  del  matto, 
E  eh'  io  era  maggior  bestia  di  lui 
S*  io  credea  far  del  suo  mestici  ritratto. 


(1)  Tela  fatta  di  pel  di  capra,  e   anticamente  di  pel  di  can 
dal  quale  tolse  il  nome. 


GIOVANNI    ANDREA    DIìILl' ANGUILLARA  113 

E  ci  ebber  per  due  bestie  tutti  dui 

I  buon  compagni,  e  tutti  gli  altri  appresso 

Ch'adular  il  parer  de'  maggior  sui.  75 

Poniamo  che  sia  ver,  eh'  io  noi  confesso, 

Io  meritava  pur  d' esser  pagato 

Da  ciaschedun  che  ci  aveva  intromesso. 
S' un  va  in  bordello,  poi  che  s' è  allacciato. 

Non  de'  dare  alla  druda  i  suoi  baiocchi  8() 

Se  ben  l'avesse  tutto  infranciosato? 
El  questi,  il  dirò  pur,  questi  capocchi 

Non  ne  fer  pur  una  minima  mostra. 

Ha  volentier  m' arian  cavati  gli  occhi. 
Infamia  e  à'sonor  de  l'età  nostra!  85 

f:  r  ho  detto,  e  ridicolo  sebbene 

Fosse  un  di  quelli  la  santità  vostra. 
Un  ce  ne  fu  si  cortese  e  dabbene 

Che  disse:  andate  dal  mastro  di  casa 

Che  farà  a  punto  quanto  si  conviene.  90 

H  maggiordomo  al  primo  me  la  basa. 

Dopo  mi  dice  che  non  fa  niente 

E  comincia  ad  andar  meco  di  rasa. 
Ài  padron  torno,  vista  la  presente, 

n  qual  mi  fece  dir  eh'  io  ritornassi  95 

Perché  era  travagliato  de  la  mente. 
Ci  tomai  cento  volte  e  persi  i  passi, 

AJfin  m'accorsi  ch'era  risoluto 

Non  volermi  dar  nulla  s' io  crepassi. 
Assai  m' increbbe  del  tempo  perduto,  100 

Ma  più  m' increbbe  d'aver  logorate 

Un  par  di  scarpe  eh'  avea  di  velluto. 
Or  qui  si  vider  tutte  le  brigate 

In  mio  biàsmo  voltar,  tutte  le  lingue 

Si  videro  in  mio  danno  congiurate.  105 

Altro  direto,  s'  avvien  eh'  io  m' impingue, 

Dicea  fra  me,  se  mai  giunge  quel  tempo 

Che  'I  suo  mortai  nemico  il  caldo  estingue. 

Voi  IV,  Parte  1  8 


114  M.   PELAEZ 

Era  troppo  per  me  venuto  a  tempo, 
Cominciava  per  me  1*  età  de  1*  oro, 
Ha  per  me  se  n'  aodò  troppo  per  tempo. 

Mi  riusciva  si  grasso  il  mio  lavoro 
Ch'ogni  giorno  di  festa  io  mi  buscava 
I  miei  cento  ducati  d'oro  in  oro. 

S'altri  di  me  burlossi,  io  mi  burlava 
D'altri  e  faceva  cosi  brava  vita, 
Che  pili  d' un  galantuomo  m' invidiava. 

C^ni  malvagia  lingua  era  ammutita, 
Perché  quelli  cento  occhi  di  civetta 
Le  davan  ogni  volta  una  mentita. 

Per  arricchirmi  io  correva  a  staffetta. 
Mi  crescea  ogn'  or  più  Y  animo  e  la  lena. 
Ma  mi  fu  dato  di  capo  d'accetta; 

E  r  insalata  avea  gustato  appena, 
Appena  era  venuto  l'antipasto 
Di  cosi  ricca  e  cosi  brava  cena. 

Ch'ogni  disino  mi  fu  rotto  e  guasto. 
Che  quel  tir6  le  calze  nel  cui  seggio 
Meritamente  voi  sete  rimasto. 

In  quanto  a  me  non  mi  potea  dir  pe^io. 
Ma  in  quanto  a  voi  non  potrà  miglio  dire, 
Per  quanto  io  ne  considero  e  ne  veggio. 

Perché  se  quel  non  veniva  a  morire. 
Voi  non  sareste  giunto  dove  sete, 
Io  non  sarei  finito  di  fallire. 

E  i)er  ciò  avete  quel  che  voi  volete, 
Per  ciò  potete  cavarvi  ogni  voglia. 
Per  ciò  mi  muoio  di  fame  e  di  sete. 

Per  ciò  vestite  cosi  ricca  spoglia. 
Io  come  un  San  Giovanni  appunto;  voi 
Crepate  d'allegrezza,  ed  io  di  doglia. 

Voi  sete  un  solo  e  parlate  per  voi. 
Ed  io  che  sono  un  Andrea  e  un  Giovanni 
Per  io  favello  sebben  siamo  doi. 


GIOVANNI   ANDREA   DELL*  ANGUI  LLARA  115 

Va  la  soa  morte  cavato  d'affanni,  145 

M' ha  la  sua  morte  colmo  nonché  pieno 

Di  mille  intrichi  e  di  mille  malanni. 
Goa  volto  allegro  giocondo  e  sereno 

C^nun  si  getta  nelle  vostre  braccia, 

V'adora  come  un  dio  né  più  né  meno;  150 

Con  volto  turbo  ognun  mi  fugge  o  caccia: 

E  per  dirvelo  a  un  tratto,  la  fortuna 

À  me  mostrato  ha  il  culo  a  voi  la  faccia. 
£  per  non  raccontarle  ad  una  ad  una. 

Si  sfortunato  io  son,  voi  si  felice  155 

Quanto  uom  si  fosse  mai  sotto  la  luna. 
M'  aresii  a  porger  la  mano  adintrìce 

Da  poi  che  *1  vostro  giubilo  e  M  mio  affanno 

Nascono  tutti  due  da  una  radice. 
Bisognerebbe  qui  s'io  non  m'inganno,  16() 

A  volersi  portar  da  galantuomo, 

Ck)mpensar  col  vostro  utile  il  mio  danno. 
Già  non  bisogna  d' insegnarvi  corno. 

Che,  a  quel  che  mi  pronostica  la  musa 

Voi  sarete  un  gran  Papa  ed  un  bravo  uomo  ;         165 
Ed  ella  non  terrà  la  bocca  chiusa 

Se  le  userete  qualche  gentilezza, 

Quel  che  da  pochi  principi  oggi  s' usa. 
E  forse  til  eh'  (^gi  la  schiva  e  sprezza 

L'averà  su  la  cima  de  la  testa  170 

Se  le  farete  voi  qualche  carezza; 
E  dove  or  dorme  fia  svegliata  e  desta, 

E  sarà  sempre  mai,  per  compiacervi, 

A  vostra  posta  apparecchiata  e  presti. 
Or  se  felice  il  Signor  vi  conservi  175 

In  questo  seggio,  non  gli  anni  di  Pietro, 

Ma  quei  che  i  corvi  vivono  e  li  cervi. 
Drizzate  un  poco  a  me  gli  occhi  e  '1  pensiero, 

r.b'io  non  facessi  qualche  bagattella 

Che  mi  levasse  d' impaccio  da  vero.  180 


116  M.  PELAEZ 

Ma  ad  onta  de  la  mia  malvagia  stella. 
Viver  vo'  in  corte,  e  quando  ogn'  altra  manchi 
Non  mi  mancherà  mai  corte  Savella. 

Mai  non  saranno  li  miei  versi  stanchi 
In  dir  di  voi,  s*  averò  tanta  grazia 
Che  la  santità  vostra  mi  rinfranchi; 

Mai  la  mia  musa  non  si  vedrà  sazia 
Di  cantar  le  vostre  opre  e  scelte  e  bnivt» 
S*  ammazzerete  questa  mia  disgrazia. 

Ogni  cosa  sarà  pesata  e  grave, 
E  saprò  far  d*  un  ago  un  pai  di  ferro 
E  d*una  paglia  parere  una  trave. 

Il  vostro  nome,  se  pria  non  m*  atterro. 
Per  aria  a  volo  il  vo'  portar  per  tutto. 
Se  negli  artigli  a  mio  modo  V  afferro. 

Di  me  sete  per  trar  qualche  costrutto; 
Vi  loderete  un  di  del  fatto  mio 
Se  questa  cosa  farà  qualche  frutto. 

Ho  speranza  in  Messer  Domenedio 
Che  scoccherete  Papa  a  V  improvista 
Appunto  tal  qual  vi  desidero  io; 

Che,  come  questa  storia  arete  vista, 
Motu  proprio  fra  i  vostri  sarò  posto, 
Sebben  non  sarò  scritto  in  su  la  lista. 

Quello  che  s'ha  da  fiir,  facciasi  tosto 
Per  dar  speranza  alli  miei  creditori 
Che  mi  fan  caminar  sempre  nascosto; 

Che  come  voglio  di  casa  uscir  fuori 
Truovo  piene  le  strade  e  d'ogni  intorno 
Di  birri,  mandatari  e  di  cursori. 

Talor  disegno  andare  a  mezzogiorno 
E  drizzo  a  tramontana,  e  tanto  giro 
Ch*  al  luogo  desiato  fo  ritorno. 

Non  ho  Uil volta  a  gir  di  sasso  un  tiro. 
Che  cei*co  più  d'  un  miglio  di  paese, 
Per  tanti  chiassi  e  vicoli  m'aggiro. 


GIOVANNI   ANDREA   DELL*  ANGUILL ARA  117 

DehI  Padre  santo  dabbene  e  cortese, 
Non  si  negano  già  le  spese  a  un  cane: 
Io  m'accordo  al  peggio  per  le  spese, 
E  vo'  gridando  :  pane,  pane,  pane!  220 

III, 
Capitolo  delle  Mosche  (1) 

Mille  lingue  latine  e  mille  tosche 

Con  mille  penne  e  mille  calamari 

Non  son  bastanti  a  biasimar  le  mosche; 
Eà  io  Signor  Tadeo  forz'  è  eh'  impari 

D'esser  oggi  poeta  a  mio  dispetto  5 

Per  dir  di  questi  animaletti  avari. 
0)n  tutto  ciò  mi  par  d' esser  costretto, 

Se  ben  non  son  poeta  né  oratore, 

A  scrivervi  oggi  di  questo  soggetto; 
Perché  infatti  mi  trovo  a  tutte  T  ore  10 

Morso  e  trafitto  da  queste  bestiole 

Che  m' han  piglialo  a  divorar  il  cuore. 
Come  si  leva  la  mattina  il  sole 

Mi  sono  addosso,  e  m'  han  coperto  tutto 

Di  rase  rosse  e  di  gigli  e  viole,  15 

Tal  che  mi  trovo  tanto  mal  condutto 

Che  mi  vergogno  quasi  d'esser  vivo. 

Tutto  segnato,  trafitto  e  distrutto. 
Dunque  mi  scuserete  s'io  vi  scrivo 

Con  un  poco  di  collera,  e  non  dite  20 

Ch'io  vi  paio  perciò  troppo  corrivo. 
Son  tanto  fastidiose  e  tanto  ardite 

Che  le  pulci,  le  piattole  e  i  pidocchi 

Son  manna,  mele,  zucchero  e  pennite  (2). 

^j'  Ms.  cit  car.  81  -84. 

'*)  Pennita  era  in  antico  una  sorta  di  pasta  fatta  di  farina  d'orzo 
'■  '''  '«chero. 


118  M.   PELAEZ 

Non  mi  giova  adoprar  lance  né  stocchi  :  25 

Per  dirvi  brevemente  il  fatto  mio, 

M*han  recamato  tutto  sino  agli  occhi. 
Tutto  il  giorno  mi  sento  un  mormorio 

Attorno  al  capo,  un  romore,  un  bordello 

Che  mi  fan  benedir  Domenedio.  30 

Chi  morde  da  sto  lato,  e  chi  da  quello, 

Le  mani,  il  naso,  l'orecchie  e  la  bocca 

Ch'  oramai  m' han  cavato  di  cervello  ; 
Chi  passa,  chi  m'accenna  e  chi  mi  tocca 

Chi  rodendo  mi  va,  e  chi  mi  strapazza  35 

Chi  mi  giostra,  chi  m'  urta  e  chi  m' imbi'occa. 
Non  mi  vai  stare  in  casa  o  andare  in  piazza 

E  tener  sempre  mai  la  rota  in  mano; 

Non  mi  giovano  ¥  elmo  e  la  corazza. 
Mi  guardo,  aiuto,  e  mi  difendo  invano  40 

Da  queste  male  bestie,  e  tutti  quanti 

Dicon  eh'  io  m' assomiglio  a  San  Giuliano. 
Riniego,  mi  farete  dir,  i  santi 

Se  non  vorrei  piuttosto  star  prigione 

Che  uccidermi  si  fatte  bestie  inanti.  45 

Volete  peggio?  quando  le  persone 

Si  mettono  alla  mensa  per  mangiare, 

Ne  vìen  questa  canaglia  in  processione  : 
Sempr'  esse  son  le  prime  a  cominciare 

E  voglion  fare  a  tutti  la  credenza  5(^ 

Con  quel  zu  zu  che  mi  fa  disperare. 
Mangiano  la  mia  parte  in  mia  presenza, 

E  non  mi  lascian  più  mangiare  in  pace; 

Pensate  s'io  vi  posso  aver  pacenza. 
Animai  maladetto  empio  e  rapace  5.^ 

Pili  d' un  mergo,  d' un  nibbio  e  di  un'  arpia 

Che  tutto  il  mondo  fastidisce  e  spiace  I 
M' arrabbio,  struggo,  e  mi  vien  fantasia 

Di  voler  diventar  un  giorno  un  ragno 

Per  metter  tra  le  mosche  la  moria.  60 


GIOVANNI    ANDREA    DELL*  ANGUI LLAR A  119 

a 

Hi  parrebbe  di  fare  un  gran  guadagno 

Se  dissipassi  queste  fere  ingorde 

Che  niangian  sempre  naai  quel  del  compagno. 
In  casa  mia  lascio  le  mura  lorde 

Per  non  guastare  ai  ragni  i  lor  lavori,  65 

Le  lor  reti,  le  trappole  e  le  corde: 
a  dà  la  mosca  poi  mille  martori, 

E  quando  non  ci  può  far  altro  male 

Si  caccia  nel  bicchiero  ai  bevitori. 
Non  è  nel  mondo  più  sporco  animale,  70 

Volete  cosa  più  vituperosa 

Che  de  le  mosche  si  fa  il  caviale? 
La  mosca  è  si  insolente  e  fastidiosa. 

Che  affanna,  martorizza  e  fa  morire 

Un  pover*  uomo  quando  si  riposa.  75 

Le  mosche  spesso  mi  fan  maladire 

E  mi  fan  rinegar  S.  Ballarano 

L'anno  di  state  quando  sto  a  dormire. 
Terzolo,  Astor,  pellegrino  e  villano 

Cacciatevi  nel  cui  le  vostre  prede  80 

Se  costei  non  potete  aver  in  mano. 
Sentirsi  rodere  una  mano  o  un  piede 

E  non  potervi  usar  arte  o  governo, 

Son  certe  cose  da  perder  la  fede. 
Sia  benedetto  e  lodato  V  inverno  85 

Stagion  valente,  stagion  gloilosa 

Che  ci  assicura  da  si  grand*  inferno! 
Scrìvete  tutti  quanti  in  versi  e  in  prosa 

In  vituperio  d*una  creatura 

Si  ribalda  crudele  e  fastidiosa.  90 

Io  credo  eh'  ebbe  fatto  la  natura 

La  coda  a  tutti  quanti  gli  animali 

Per  guardarli  da  tal  disavventura; 
Ed  io  per  liberar  da  tanti  mali 

Certe  povere  genti,  li  vorrei  95 

Metter  la  coda  dietro  ai  naticali. 
Massime  a  certi  amici  vostri  e  miei. 


120  M.   PELAEZ 

Canzone  di  M.  Gio:  Andrea  Alias 
DEL  Gobbo  da  Sutri  (1). 

Voi  che  stendeste,  imperiosi  Monti, 
Di  Roma  il  nome  a  l'ultimo  conGne 
Mentre  T  altrui  mine 

V  ornar  di  Marmi,  Bronzi,  Arme  e  Trofei 
Ch'  io  già  lasciai  propinqui  al  vostro  fine 
Chinate  a  terra  T  orgogliose  fronti 
Nudi  deserti  e  inconti. 
Nel  più  forte  vigor  degli  anni  miei. 
Ditemi  in  cortesia,  saper  vorrei 
Dove  ascosi  voi  siete;  io  pur  mi  giro 
Or  verso  il  Lazio  or  verso  il  lito  tosco 
E  non  vi  riconosco; 
E  pur  gli  amati  miei  parenti  miro, 
Gli  antichi  amici,  e  il  materno  idioma 
Mi  pare  udir  de  la  mia  Patria  Roma. 

Passando  ho  scorto  il  loco  ove  io  son  nato, 
Or  dove  fui  nutrito  raffiguro 
Presso  all'antico  muro 
Ond*alza  al  ciclo  il  Panteonc  il  conio, 
Vi  ritrovo  gli  stessi  che  vi  furo 
xMeco  nutriti,  benché  abbin  cangiato 
Sembiante,  abito  e  stato, 
E  tutti  ci  allegriam  del  mio  ritomo. 
Ma  quando  vo'  passando  altrove  il  giorno 
Dove  ammirar  solea  gli  antichi  marmi 
E  cerco  il  Quirinal,  cerco  il  Tarpeo, 
Che  Cesare  e  Pompeo 
Fer,  tal  fu  il  pregio  lor,  venire  a  l'armi, 
Non  so  trovargli,  anzi  tante  opre  nove 
Vi  scorgo  che  mi  pre  essere  altrove. 

(1)  Ms.  Barbar.  XXIX.  193  car.  338-341. 


GIOVANNI    ANDREA    DELL*  ANGUILLARA  121 

Talòr  mi  volgo  a  me  medesmo  e  dico: 

€  In  qual  parte  sod  giunto!  in  qual  contrada 

Questa  superba  strada 

Tende  dì  Dedal  opra  e  di  Vulcano?  » 

E  quanto  piii  tal  novità  m*  aggrada  35 

Quanto  men  riconosco  il  loco  antico 

Del  patrio  seno  amico 

Tanto  più  mi  rassembra  esser  lontano. 

«  Se  questo  non  è  il  sen  prisco  romano, 

Soggiungo  dopo,  in  qnal  parte  del  mondo  40 

Si  trovan  cosi  nobili  pendici 

Di  tanti  altri  edifici 

Ornate?  »  E  fra  me  stesso  mi  confoDdo 

S'io  sogno  di  goder  la  patria  mia, 

S' io  sto  né  in  ciel,  né  in  terra  o  dove  sia.  45 

Aspri  frammenti  di  teatri  e  d*  archi 

Gnor  de'  nostri  padri  invitti  e  giusti 

Di  consoli,  d'Augusti 

Lasciai  partendo  in  qne'  be'  colli  e  'd  questi 

Che  d'edere  e  de'  pruni  e  d'altri  arbusti  5U 

Appresso  a  lor  erano  ascosi  e  carchi 

Da  '  ricevuti  incarchi, 

Languidi  afflitti  addolorati  e  mesti. 

Fabrichc  or  non  mortali,  anzi  celesti 

Vi  trovo,  ed  inarcar  mi  fan  le  ciglia  55 

Le  statue,  le  colonne  e  gli  architravi 

Ch'  a  nostri  padri  ed  avi. 

Credo,  fariano  invidia  e  meraviglia. 

Né  saprei  dir  se  Cesare  o  Marcello 

Vedesse  il  patrio  sen  si  ricco  e  bello.  60 

Queste  son  pur  queir  onorate  sponde 

Del  Tebro,  dove  lungamente  vissi 

E  rime  in  copia  scrissi 

Conformi  all'età  mia  verde  ed  acerba. 

Ma  dovunque  però  gli  occhi  m' affissi  65 

Non  vi  so  ritrovar  chi  mi  nasconde 


123  M.   PELAEZ 

La  gloria  di  queste  onde; 

La  Mole  d'Adrìfano  alta  e  superba 

Pur  or  la  raffiguro,  eh'  ancor  serba 

Qualche  orma  de  T  antica  sua  sembianza, 

Benché  M  ricco  artificio  unico  e  nuovo. 

Ch'aggiunto  vi  ritrovo, 

Tanto  la  forma  sua  primiera  avanza 

Gh*  io  non  la  scorsi  per  l' altere  mura 

Che  la  fan  pili  robusta  e  più  secura. 

È  questo  il  Vaticano  è  questo  il  Tempio 
Nuovo  di  Salamon  dicato  a  Pietro 
Ch'  io  già  tre  lustri  addietro 
Lassai  nel  mio  partir  tanto  imperfetto? 
Qual  greco  inchiostro,  qual  latin,  qual  metro 
Basta  a  lodar  il  tuo  mirando  esempio? 
Ben  di  desire  io  m' empio, 
Aia  sei  troppo  alto  al  mio  basso  intelletto. 
0  raro  ingegno,  o  Dedalo  architetto. 
Ceda  r  Anfiteatro  e  '1  Panteone 
E  quanti  ne  fer  mai  Parti  ed  Argivi 
A  '  lor  bugiardi  divi, 
A  Giove  a  Palla,  a  Venere,  a  Giunone 
Che  questo  eccede  per  comun  giudizio 
D* altezza,  di  materia  e  d'artifizio. 

Ma  veggio  dove  io  sono,  e  perchè  tanto 
Mi  par  Roma  illustrata  in  ogni  parte 
Che  pili  l'antiche  carte 
Non  ponno  fare  invidia  all'età  nostra; 
Mentre  vo  '1  Vaticano  a  parte  a  parte 
Mirando  fuor  del  tempio  adomo  e  santo 
Vengo  in  stupor  di  quanto 
Obietto  agli  occhi  miei  si  porge  e  mostra. 
Già  fur  Flamini  e  fu  (1)  la  gloria  vostra 


(t)  Il  Ms.  ha  piif,  r emeDdazioDo  fv  mi  pare  naturale. 


GIOVANNI    ANDREA   DELL*  ANGUI LL ARA  123 

D'aver  fatta  la  patria  illustre  e  bella  100 

Di  Cerchi,  scene,  ADflteatri  e  Tempi. 

Ma  ceda  a  questi  tempi 

i^  prisca  età,  vinca  Tetà  novella, 

E  s'  alcun  v'  è  lontan  che  non  me  *1  creda 

Ritorni  a  Roma  e  poi  risponda  e  ceda.  105 

ne  vien  da  man  Pia,  da  petto  Pio, 
Colli  sacri  a  Quirin,  si  grande  onore 
Tanta  gloria  e  splendore. 
Ornamenti  si  rari  e  si  diversi 
Deh!  poi  ch'abonda  in  voi  tanto  favore  110 

Presso  al  Vicario  del  figliuol  d*  Iddio, 
Diteli  eh'  io  desio 

In  onor  de'  due  Pii  vei^r  miei  versi  ; 
E  eh'  al  cantar  d' Enea  già  mi  conversi 
Perchè  fu  Pio,  perch'  ei  fu  la  radice  1 1 5 

Del  gran  splendor  del  mio  nido  materno, 
E  perchè  chiaro  scerno 
Che  dal  moderno  Pio  sperar  ne  lice 
Quanto  sperar  e  desiar  si  potè. 
Vorrei  scolpirlo  in  sempiterne  note.  120 

a  da  quel  di  pietà  si  vivo  raggio 
Che  nella  santa  sua  fronte  risplende, 
Ch'  a  voi  queir  onor  rende 
Che  v'avea  tolto  il  tempo  e  'I  rio  destino 
Bramo  aiti  al  disio  eh'  el  cor  m' accende  125 

A  fargli  de'  miei  versi  eterno  omaggio. 
Voi  cadevate  io  caggio, 
Voi  risorgete,  io  vieppiù  ogn'  or  m' inclino 
Ma  s'  averò  dal  suo  Lume  (1)  divino 
Quel  velo  (2)  di  pietà  eh'  avete  voi  1 30 

C  ha  dato  nova  vita  al  nome  vostro 


^*  '   ^'el  margine  del  codice  si  legge  Rutne, 
v->  Così  il  codice;  non  sarebbe  forse  da  correggere  con  zelo? 


124        M .   PELEAZ   —   GIOVANNI   ANDREA   DELL*  ANGUILLAIA 

Spero  che  1  tosco  inchiostro 
Nel  cantar  di  due  Pii  famosi  Eroi 
M'ornerà  non  vo'dir  d'ostro  né  d'oro. 
Ma  forse  ben  d' un  sempiterno  alloro.  1 35 

Canzon,  vanne  umiiemente  a'  santi  pie 
Di  quel  ch'in  terra  il  seggio  ha  più  sublime 
E  e'  ha  tanto  illustrato  il  Tebro  e  'I  Lazio , 
E  di'  eh'  io  non  mai  sazio 

Sarò  di  dire  i  suoi  gran  merti  in  rime,  140 

E  già  sacro  al  suo  spirto  illustre  e  divo 
Uuant'opro,  quanto  intendo  (1)  e  quanto  scrivo. 


(1)  Nel  margine  del  ms.  si  legge:  qtumto  parlo. 


CURZIO  GONZAGA 


RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI 


CENNI  SULLA  SUA  VITA  E  SULLE  SUE  OPERE 


La  famiglia  Gonzaga  è,  tra  le  nobili  d'Italia,  una 
delle  più  meritamente  celebri,  non  tanto,  ad  usare  le 
parole  di  Dante,  per  il  pregio  della  borsa  e  della  spada, 
onde  s'ornò,  quanto,  e  non  è  gloria  minore,  perché  ai 
fasti,  che  la  illustrarono  e  nell'armi  e  nella  politica  e 
nella  religione,  essa  aggiunse  quelli  eziandio  delle  lettere; 
sicché,  se  da  una  parte  molti  de' nostri  poeti  cinquecen- 
tisti trovarono  larga  materia  a  sciogliere  i  loro  canti  in 
onor  d' essa ,  che  con  tanta  munificenza  dava  protezione 
e  aiuto  ai  cultori  delle  lettere ,  dall'  altra  fra  gli  stessi 
(lonzaga  vediamo  fiorire  non  indegnamente  la  poesia,  e  le 
muse  sorridere  a  cotesti  principi,  che  la  cultura  della 
mente  e  dell'animo  pregiaron  quanto  gli  esercizi  caval- 
lereschi, conciliando  felicemente  con  le  gravi  cure  di  stato 
gli  ozi  grati  e  fecondi  delle  lettere. 

Sarebbe  non  inutile  per  la  storia  della  nostra  lette- 
ratura il  tener  parola  di  tutti  que'  Gonzaga,  che  appunto 
qualche  lode  si  meritarono  nella  poesia;  avendo  natural- 
mente riguardo  a  non  prestar  cieca  fede  alle  adulatrìci 
t^gerazioni  dei  contemporanei,  i  quali  molto  spesso  nei 


126  A.  FELLONI 

loro  giadizi,  sì  lasciarono  abbagliare  dalla  potenza  e  dalla 
fama  d'ona  si  illustre  famiglia. 

Ma  non  è  concesso,  come  vorrei,  alle  mie  povere 
forze,  il  compiere  qaesto  lavoro  (1),  il  quale  offrirebbe 
occasione  a  molte  ricerche,  che  per  ora  non  mi  sono 
possibili  ;  sicché  mi  restringerò  a  parlare  d' uno  di  questi 
principi  poeti,  il  quale,  chiamato  un  giorno  famosissimo, 
e  tenuto  per  uno  de'  più  felici  ingegni  poetici  d' Italia , 
oggi  è  quasi  del  tutto  dimenticato,  e  assolutamente  ban- 
dito, come  troppi  altri,  dalle  nostre  storie  letterarie  ;  seb- 
bene egli  possa  avere  un  certo  interesse ,  specie  per  la 
storia  del  poema  eroico  in  Italia,  avendo  infatti  scritto, 
quasi  contemporaneamente  al  Tasso,  un  poema,  //  Fi- 
damante,  eh'  è  da  studiarsi,  se  non  come  lavoro  d' arte, 
almeno  come  documento  del  gusto  e  delle  idee  che  su  tal 
genere  di  poesia  si  aveano  in  quel  tempo.  Certo  agli  occhi 
nostri  non  sono  giustificate  le  lodi  di  che  i  contemporanei 
furono  larghi  a  Curzio  Gonzaga;  anzi  esse  ci  possono  parere 
esagerate  e  poco  meno  che  ingiuste.  Ma  a  dare  un  quadro 
completo  di  ciò  che  fu  la  poesia  in  un  determinato  tempo, 
è  necessario  studiarla  con  quelle  idee  e  que'criteri,  tra  i  quali 
essa  nacque  e  fiorì,  ammirando  e  studiando  bensi  special- 


(1)  Vedine  un  tentativo  in  Tiràbosciii,  St.  della  leti,  ttoi.,  Venezia^ 
1^3-25,  a  spese  di  Giuseppe  Antonelli,  T.  VII,  parte  I,  pagg.  74-104;  Betti- 
nelli, Delle  lettere  e  delle  arti  mantovane,  Mantova,  Pazzoni,  1774;  Volta, 
Compendio  cronologico' cri  lieo  della  storia  di  Mantova,  Mantova,  Agazzi, 
18:28.I/Affò  lasciò  manoscritte  alcune  brevissime  memorie  sui  Gonzaga  che 
si  distinsero  nella  Poesia.  L'autografo  si  conserva  nella  biblioteca  Maldotti  in 
Guastalla  (Busta  n.®  85)  ed  ha  per  titolo  //  Parnaso  Gonzaga ,  ovvero 
Memorie  di  quei  Sigiwri  e  Signore  della  casa  Gonzaga,  che  coltivarono 
la  volgar  Poesia.  Anche  il  conte  Carlo  D*Aiirx)  lasciò  manoscritte  delle 
notizie  sugli  Uomini  illustri  mantovani,  che  si  conservano  nell'Archivio 
storico  Gonzaga  di  Mantova;  in  esse  parla  naUirahnente  anche  dei  Gonzaga 
letterati. 


CURZIO  GONZAGA  lUMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  127 

Mte  i  grandi  scrittori,  che  la  lor  fama  intatta  tra- 
UDdarono  ai  posteri ,  senza  però  disprezzar  quelli ,  che, 
jindicati  grandi  an  tempo,  oggi  agli  occhi  nostri  son  di- 
renati pigmei. 

I. 

Poche  notizie  ci  ftirono  conservate,  sparse  qua  e  là, 
nla  vita  di  Carzio  Gonzaga  ;  io  farò  del  mio  meglio  per 
breTemente  raccoglierle  ed  ordinarle,  correggendo  qualche 
errore  e  alcune  cose  aggiungendo  ad  altri  sfuggite. 

Curzio  appartiene  a  quel  ramo  della  famiglia  Gon- 
ap,  che  fu  detto  dei  Signori  di  Mantova ,  e  eh'  ebbe 
per  capostipite  un  Corrado,  vissuto  verso  la  metà  del 
lec  XIV.  La  sua  nascita  si  vuol  porre  da  alcuni  all'  anno 
1536;  ma  di  ciò  non  vi  ha  documento  (1).  Gli  fu  padre 
Luigi  di  Giampietro ,  da  non  confondersi  con  altri  due 
Luigi— uno  dei  quali  detto  Rodomonte  —  che  vissero  pure 
B  quel  tempo  e  a  cui,  come  osserva  l'Affò,  <  se  non  in 
lotto,  in  parte  almeno  i  caratteri  stessi  convennero  >, 
ODde  facilmente  le  imprese  dell'  uno  furono  con  quelle 
degli  altri  confuse  (2).  Alla  quasi  contemporaneità  di 
fiesti  tre  Luigi  nella  famiglia  Gonzaga  accennò  anche  il 
»K»lro  Curzio  nel  e.  XXXV  del  suo  Fidamante,  dove, 
Passando  in  rassegna  i  più  illustri  personaggi  di  casa 
^^ga,  dice: 

Vedin  qui  tre  stretti  in  uo  groppo  appresso 
Quasi  tirar  ad  un  medesmo  segno, 
Gol  nome  di  Luigi  a  tutti  impresso. 

(ì)  Cfr.  Volta,  Op.  ciL  Tomo  HI,  pag.  205  ;  Luta  ,  Famiglie  no- 
a.  VoL  V,  Famiglia  Gonzaga,  tav.  XIX.  Cosi  anche  il  D'  Arco  nelle 
tate  Memorie;  egli  pem,  col  Litta,  sbaglia,  come  vedremo,  ponendo  la 
Dnoa  di  Curzio  ad  arciprete  della  cattedrale  di  Mantova  nel  1540. 

(S)  Affo  ,  Vita  di  Luigi  Gonzaga  detto  Rodomonte ,  Parma , 
rmignaoi,  MDCCLXXX ,  pag.  20. 


128  A.   BELLONl 

E  a  proposito  di  sao  padre  aggiunge  : 

Hor  del  terzo  Luigi  degno  è  e'  bora 
Trattomi  adietro  via  più  inanzi  conte, 
Saggio,  grave,  prudente  et  di  canora 
Cetra,  et  d*  altre  più  gratìe  illustri  et  conte. 
Che  d' Isabella  (1)  honor  di  quella  etate. 
Specchio  d'ogni  valor,  d*ogni  honestate, 
Tre  n'havrà  figli,  due  de'quai  nomati 
Silvio  et  Claudio  verran,  d'intera  fede. 
Di  senno  et  di  bontà,  di  gratie  ornati. 
Et  de  i  paterni  don  ciascuno  herede. 
E  '1  terzo  fìa  Costui  (2),  che  gli  honorati 
Pregi  tuoi,  gloriosi  oltre  ogni  fede 
(Tutto  che  in  burnii  Tosco  stile)  al  mio 
Creder  torrà  dal  sempiterno  oblio. 

L' Ariosto,  nel  canto  XXXVII,  st.  vm,  dell'  Orlando  fu- 
rioso, ricordò  il  nostro  Luigi,  come  ha  dimostrato  l'Affò  (3). 
assieme  all'altro  detto  Rodomonte,  coi  seguenti  versi: 

ce  ne  son  dui  [Luigi] 

Di  par  da  Marte  e  dalle  Muse  amati, 
Arabi  del  sangiio,  che  regge  la  terra 
Che  1  Menzo  fende  e  d' alti  stagni  serra. 

Da  queste  parole  si  ricava  che  il  padre  di  Curzio  era 
valente  non  meno  nell'  armi  che  nelle  lettere,  e  sappiamo 


(I)  Costei  è  Isabella  d*OuaTÌaoo  Lampognani,  seconda  nK^e  di 
liUigi,  che,  vedovo  di  Agnese  Stanga  Torelli,  la  sposò  nel  15:27,  e  n*ebbe 
tre  tì^li,  Clamlio,  Silvio  e  Curzio.  Cfr.  Affò,  loc  dt,  e  Lìtta,  loc  cit 

(i)  Cioè  rauUHV  del  Poeuia,  Cunìa 

(3)  Op.  cit  pag.  ^  e  segg. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XYI 


129 


infatti,  che  si  dilettò  di  poesia  latina  e  italiana,  riascendo 
non  ispregevole  verseggiatore  (1).  Cosi  Curzio  aveva  nel 
padre  suo  an  esempio  nobilissimo  di  quel  felice  connubio 
tra  le  doti  di  principe  e  di  letterato,  cbe  fu,  come  ho  fatto 
notare  più  sopra ,  frequentissimo  nei  principi  di  casa 
Gonzaga.  E  all'amore  e  al  culto  degli  studi  ben  poteva 
indirizzar  Luigi  il  figlio  suo,  specialmente  quando,  forse 
dopo  il  1538  (2),  si  ritirò  in  Borgoforte,  ove  nella  più  per- 
fetta tranquillità  gli  era  dato  attendere  esclusivamente 
alle  predilette  cure  letterarie. 

Curzio  era,  come  pare,  destinato  dal  padre  a  vestir 
r abito  clericale;  infatti  lo  vediamo  nominato  arciprete 
della  cattedrale  di  Mantova  con  decreto  4  dicembre 
1543  (3).  Egli  però  non  deve  aver  assunto  mai  gli  or- 
dini sacri,  se  potè  in  seguito  rinunciare  non  pur  a  tale 
dignità,  ma  eziandio  alla  veste  ecclesiastica. 

Già  verso  il  1554  doveva  aver  qualche  fama  nella 
poesia;  troviamo  infatti  un  suo  sonetto  stampato,  in 
quell'anno,  nel  Tempio  alla  Divina  S.  Donna  Giovanna 
(f  Aragona  (4);  e  pure  al  1554  apparterrebbe,  secondo 
l'Aliò,  un  sonetto  diretto  ad  Ippolita  Gonzaga,  quand'ella, 

(1)  Secondo  il  Litta,  loc.  cit.,  Luigi  fu  presso  Massimiliano  Sforza, 
diica  dì  Milano,  che  nel  1513  lo  fece  senatore;  e  il  marchese  Gianfrancesco 
di  MantoTa  Io  ebbe  a  suo  consigliere  secreto  e  tanta  fiducia  poneva  in  lui, 
che  nel  testamento  ordinò  non  si  trattasse  senza  suo  intervento  alcun 
affare  di  Stato.  Quanto  alle  poesie  di  Luigi  cfr.  Affò,  Op.  cit. 

(i)  L*Affò,  Op.  cit.,  pag.  22,  cita  una  lettera  diretta  da  Luigi,  ai 
2f>  d'Aprile  del  1538  da  Mantova,  a  Don  Ferrante  Gonzaga,  viceré  di 
Sicilia,  nella  quale  dice  che  gli  occhi  e  la  roano  non  gli  servivano  più 
bene  e  che  sentiva  i  suoi  giorni  avvicinarsi  alla  fme.  L'Affò  suppone 
quindi  che  dopo  questo  tempo  Luigi  sì  sia  ritirato  in  Borgoforte.  Mori 
pare,  nel  15i9. 

(3)  Veggasì  questo  decreto  in  Appendice. 

(i)  In  Venetia,  per  Plinio  Pietrasanta,  MDLIII;  pag.  24i.  11  so- 
netto comÌDcia  cosi  :  Già  ride  il  cielo  e  V  caia  d' ogn  intomo, 

VoL  IV,  I>anc  I  9 


130  A.  BELLONI 

congiuntasi  in  matrimonio  con  Don  Antonio  Caraffa  duca 
di  Mondragone,  passò  con  lo  sposo  da  Milano  a  Napoli  (1). 
Oltre  che  alle  muse  però  dovette  Curzio  attendere 
in  questi  suoi  giovani  anni  anco  all'  esercizio  delle  armi , 
nel  quale,  al  dire  del  D' Arco  (2),  diede  prove  di  grande 
intrepidezza  e  di  molto  valore.  Se  ciò  sia  vero,  non  so, 
ma  lo  si  può  forse  arguire  dalla  particolar  stima  ch'ebbe 
più  tardi  di  lui,  come  vedremo,  Don  Giovanni  d'Austria. 
Del  resto  nuli' altra  memoria  rinvenni  della  sua  vita  in 
questi  anni,  se  non  una  lettera  del  1556,  scritta  d' Urbino 
da  Girolamo  Muzio,  Giustinopolitano ,  a  Don  Ferrante 
Gonzaga,  viceré  di  Sicilia  (3),  nella  quale  si  parla  di  una 
question  d'  onore  tra  il  nostro  Curzio  e  un  tal  Raffaello 
Ghinizzano.  Par  che  la  faccenda  fosse  di  non  lieve  im- 
portanza, se  lo  stesso  Don  Ferrante  se  ne  occupava  e 
ne  trattava  col  Muzio.  Curzio  infatti  per  tale  affare,  se 
non  ebbe,  corse  pericolo  d'avere  la  pena  della  prigione. 
Di  che  si  trattava  ?  Dalla  citata  lettera  s' intende,  che  Curzio 
aveva  offeso  e  provocato  il  Ghinizzano  e  che  questi  avea 
risposto  mettendo  la  mano  in  sul  pugnale.  La  cosa  do- 
vette accadere  alla  corte  del  Duca  di  Mantova,  alla  tavola; 
e  appunto  il  Muzio  dice  che  Curzio  non  aveva  havuto  niun 
torto  a  far  quello  che  egli  fece ,  da  farlo  in  quel  luogo 
in  fuori,  e  aggiunge  :  due  sono  le  cose,  che  ....  si  hanno 
a  considerare,  V  una  la  offesa  fatta  al  S.**  Duca,  t altra 
la  querela,  che  è  fra  le  due  parti,  et  che,  quanto  alla 

(i)  Rime  dell'  lllustriss.  Sig.  CURTIO  Gonzaga,  già  ricorrette,  ordi- 
nate et  accresciute  da  lui,  et  hora  di  nuovo  ristampate  atn  gli  argo- 
menti  ad  ogni  compositione.  In  Venetia,  al  segno  del  Leone,  MDXCl. 
Parte  V*,  pag.  162.  Il  sonetto  comincia:  Varca  {et  oh  pur  non  sia  d'e- 
terno pianto). 

(2)  Nelle  citale  memorie  manoscritte. 

(3)  Lettere  di  Girolamo  Muzio  GiustinopolitatM,  conservate  nel- 
r  Archivio  governativo  di  Parma,  Parma,  Carmigoani,  iS64. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  131 

offesa  del  S"  Duca,  è  degno  che  il  S"  Curtio  ne  faccia  la 
penitenza....  E  la  penitenza  par  dovesse  essere  un  po' 
dura,  percb'  era  voler  del  Duca ,  che  Curzio  fosse  posto 
in  prigione,  dove,  dice  il  Muzio,  poiché  sarà  slato  quel 
tempOy  che  parrà  a  Sua  Ecc.^,  vorrà  che  vada  a  casa  di 
messer  Raphaello  Ghinizzano  a  restituirgli  V  onor  suo. 

A  tale  fatto  si  riferisce  pure  un  sonetto  del  Muzio 
al  Nostro,  ed  una  risposta  di  quest'  ultimo  per  le  rime  (1). 

Non  ostante  quest'  avventura,  che  potrebbe  farci  so- 
spettare in  Curzio  un  carattere  un  pò*  troppo  vivace,  ei 
dovè  procacciarsi  stima  ed  affetto  alla  corte  di  Mantova, 
e  ne  abbiamo  una  prova  in  ciò,  che  il  famoso  cardinal 
Ercole  Gonzaga,  che  resse  per  alquanti  anni  il  governo 
del  ducato  durante  la  minorità  dei  nipoti,  affidò  proprio 
a  lai  1'  incarico  d'  andar  qual  suo  particolare  inviato 
a  Carlo  V,  in  occasione  della  pace  di  Cateau-Cambrésis 
del  1559  (2).  Pochi  mesi  dopo  Curzio  accompagnava 
a  Roma  lo  stesso  cardinal  Ercole,  mentre  era  vacante 
la  sede  pontificia  per  la  morte  di  Paolo  IIII  ;  e  da  Roma 
scrìveva  a  Don  Ercole  II  d'Este,  Duca  di  Ferrara,  ren- 
dendogli conto  delle  grandi  accoglienze  fatte  al  cardinale  (3). 

IL 

Curzio  era  allora  nel  fior  dell'età  e  in  Roma  trovò 
la  sirena  ammaliatrice,  che  lo  adescò  e  fece  schiavo.  Di 


(1)  Rime  dell'  lUustriss.  %.  CuRTio  GONZAGA,  eie.,  parte  V,  pag. 
IW). 

(i)  Veggasi  in  Appendice  la  lettera  con  cui  il  cardinal  Ercole  ìn- 
«iava  a  Carlo  V  Curzio  Gonzaga. 

(3)  Lettere  di  Principi  le  quali  o  si  scrivotw  da  Principi  o  a  Prin- 
npi,  o  ragionan  di  Principi.  Libro  primo.  In  Venetia,  presso  Francesco 
Toldi,  MDLXXIII,  pag.  197. 


132  A.  BELLONI 

questo  primo  amore  (che  non  fu  di  breve  durala ,  se 
prestiam  fede  alle  parole  del  poeta: 

Lasso,  che  già  san  fugge  il  decim'  anno 

Che a  me  stesso  iniquo. 

Poca  terra  mortai  feci  idol  mio  (1);  ) 

il  Gonzaga  parla  a  lungo  nella  prima  parte  delle  sue  Rime, 
dalle  quali  si  ricava,  che  la  donna,  in  cui  egli  avea  riposto 
il  suo  affetto,  non  n'  era  degna,  dacché  ebbe  il  coraggio, 
come  ivi  si  dice,  d'  abbandonare  capricciosamente  il  po- 
vero innamorato,  quando  più  fervida  ardeva  in  lui  la  fiamma 
della  passione. 

Curzio  sfogò  il  corruccio  ne'  versi  ;  maledisse  V  error 
suo  ;  fermò  nel  pensiero  di  dannare  appresso  i  suoi  andati 
mal  ispesi  anni  (2);  e  volse  grazie  ferventissime  al  cielo 
che  r  avea  liberato  d' un  indegno  amore.  Ma  ben  presto 
ricadde  nella  pania ,  e  par  che  questa  volta  oggetto 
della  nova  passione  sia  stata  una  donna  d'alto  casato, 
come  si  può  arguire  anche  dal  soprannome,  col  quale 
egli  la  chiama,  di  Orsa,  che  ci  fa  supporre  in  lei  una 
gentildonna  di  casa  Orsini  (3).  A  costei,  astro  novello, 
sciolse  il  suo  canto  il  nostro  poeta  ;  ma  da  quello  in  fuori 
che  ci  dicon  le  sue  rime,  nuir  altro  della  Grand'  Orsa 
ci  è  dato  sapere.  Certo  T  amor  di  Curzio  per  lei  fu 
duraturo,  poiché  ad  essa  egli  dedicò  non  pur  la  prima 
edizione,  del  1582,  del  suo  Fidamante,  ma  quella  ancora 
del  1591. 


(i)  Rime,  etc.  Parte  1,  pag.  15. 

(2)  Si  veggano  in  Appendice  le  lettere  di  Curzio,  dalle  quali  traggo 
tutte  le  citazioni,  che  non  hanno  un'indicazione  speciale. 

(3)  Sul  frontispizio  del  Fidamante  si  vede  una  colomba  che  vola 
verso  la  costellazione  dell*  Orsa  maggiore,  e  intorno  il  motto  :  E  sole  altro 
mn  haggio,  a  proposito  del  quale  vedi  appresso. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  133 

Cosa  facesse  il  nostro  Carzio  a  Roma,  non  si  sa  con 
sicurezza;  era,  pare,  al  seguito  del  cardinale  Ercole,  il 
quale  lo  aina?a  e  stimava  per  le  rare  virtù  ch'erano 
in  lui. 

Riapertosi  nel  1562,  sotto  il  pontificato  di  Pio  lY, 
il  Concilio  di  Trento,  al  cardinal  di  Mantova  fu  data  in- 
combenza di  rappresentarvi  la  S.  Sede  in  qualità  di  primo 
legato.  Curzio  però  se  ne  rimase  in  Roma,  come  si  può 
vedere  da  due  lettere  da  lui  indirizzate  di  là  al  cardinale, 
in  data  del  Luglio  1562  (1).  In  queste  lettere  egli  parla 
della  freddezza  universale  della  Corte  di  Roma  :  ma  con- 
fessa d*  altra  parte  di  non  darsi  troppe  brighe  quanto 
al  visitarla  ;  sicché  pare  eh'  egli  si  tenesse  un  po'  in  disparte 
evitando  le  noie  che  la  sua  posizione  poteva  procurargli. 
Più  volentieri  attendeva  agli  studi  ;  e,  nelle  lettere  sovrac- 
c^nnate  al  cardinal  Ercole  troviamo  queste  parole:  <  È  piac- 
ciuto  a  Mons.''  111.'°''  Rorromeo  (non  so  da  qual  buono 
spirito  mosso)  di  chiamarmi  motu  proprio,  onoratissi.^^ 
nella  sua  Academia,  come  più  particolarmente  Y.  S. 
111.™  potrà  intendere  dal  S.'  Arrivabene  ».  Qui  si  ac- 
cenna all'Accademia  delle  Notti  Vaticane,  aperta,  in 
Yaticano,  dal  cardinal  Rorromeo,  nella  quale ,  dice  il  Tasso, 
€  il  Ca vallerò  Sperone,  e  'I  conte  Rartolomeo  da  Porzia, 
e  l'abbate  Ruggiero,  e  '1  Signor  Curzio  Gonzaga,  e  'I 
baron  Sfrondato,  e  l'Amalteo,  ed  altri  uomini  illustri  ed 
eccellenti  solevano  leggere  e  disputare  >  (2).  In  questa 
Accademia  per  lo  appunto  Curzio  recitò  una  orazione  in 
lode  della  lingua  volgare,  come  ci  attesta  Maddalena 
Campiglia,  letterata  vicentina,  ch'ebbe  grande  ammira- 


ci) Vedile  in  Appendice. 

(2)  Tasso,  /  dialoghi,  a  cura  di  Cesare  Guasti.  Firenze,  Felice  Le 
Moonier,  1858-59.  Voi.  Il,  pag.  336  (Dialogo  De  la  dignità). 


134  A.  BELLONI 

zìoDe  ed  amicizia  pel  nostro  poeta  (1),  nella  prefazione 
alla  commedia  di  Curzio  Gli  Inganni  (2).  Questo  è  pure 
ricordato  da  Uberto  Foglietta  nei  saoi  dialoghi  De  Ungtiae 
latinae  tisu  et  praestantia  (3),  ove  introduce,  come  inter- 
locutore, anche  il  Nostro,  e  dice  che  in  questa  orazione 
Curzio  €  id  suscepit  demonstrandum,  non  modo  oportere, 
sed  necesse  quoque  esse  latina  lingua  oimssa,  quae 
obsolverìt.  Italo  populari  sermone  hominum  cogitationes 
et  actiones,  quin  etiam  doctrinas  ipsas  litterarum  monu- 

mentis   hoc  tempore  mandari > .  E  in  ultimo  il 

Foglietta  dà  questo  giudizio  sulf  orazione  :  €  Elaborata . . . 
erat  inprimis  et  copiosa  ac  cum  verbis  illuminata,  tnm 

sententiis  variata >.  Sembra  però  che  Curzio  non 

si  dilettasse  molto  delle  adunanze  di  cotesta  Accademia; 
infatti,  scrivendo  al  cardinal  Ercole,  egli  dice  alludendo 
ad  esse:  €  Gli  è  bene  vero,  Ill.™°  S/  mio,  che  l'haver  da 
tornar  bora  a  scuola  e  con  tanta  incomodità,  come  pur 
convien,  eh'  io  faccia,  tal  volta  mi  dà  fastidio  grandiss.^  et 
se  sapessi  come  sbrigarmene  con  onor  mio  per  certo 
che  lo  farei > . 

(1)  A  lui  essa  dedicò  la  sua  favola  pastorale  Fiori,  pubblicata  in 
Vicenza  nel  1588;  a  scriver  la  quale  dice  d*  essere  stata  ispirata  dalla 
lettura  del  FidamantPy  a  cui  fece  poi,  nell'ed.  del  1591,  gli  argomenti 
in  ottave.  Nel  1589  pubblicò  una  ecloga  pastorale  Colisa,  in  cui  sotto  i 
nomi  di  Fiori  e  d' Edreo  sono  adombrati  la  Campiglia  stessa  e  Curzio 
Gonzaga,  il 

Regio  Pastor  gentil,  per  cui  va  il  Mincio 
Superbamente  altero  e  il  Po  vicino 
Le  corna  inclina  e  i\  liquido  cristallo 
Di  lui  umilemente  in  grembo  accoglie. 

Veggasi  lo  studio:  Maddalena  Campiglia,  poetessa  vicentina  del  sec.  XVI. 
di  B.  MORSOLIN  in  AUi  della  Accademia  Olimpica  di  Vicenza,  voi. 
XVII,  1882. 

(2)  In  Venetia,  appresso  Giovan  Antonio  Rampazetto,  1592. 

(a)  Ilamburgi,  apud  Theodor.  Christoph.  Felguier,  MDCCXXIII,  pag.  77. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI       135 

E  d' altra  parte  il  nostro  Curzio  ci  teneva  a  far  sa- 
pere di  non  essere  uomo  di  lettere  per  professione, 
ma  solo  per  passatempo.  Infatti  egli  scriveva  al  cardinal 
Ercole  a  proposito  sempre  dell'  Accademia  vaticana  :  <  Io 
lemo  che  quel  S.'  111.°***  con  tutta  quella  onoratiss.*  com- 
pagnia s'babbiano  a  trovar  grandem.^  ingannati  del  sa- 
per Olio,  stando  cb'  ogni  altra  professione,  cbe  quella  delle 
lettere  come  pur  chiaramente  si  sa,  è  stata  sempre  la 
mia,  tutto  cb'  io  babbia  qualche  volta,  se  ben  pochissime, 
doppo  ch'io  son  in  Roma,  detto  qualche  cosetta  e  più 

per  passatempo  che  per  istudio > .  E  altrove  :  €  Quanto 

poi  a  quello  che  V.  S.**  111.°**  dice  eh'  io  le  ho  promesso 
d'impartirle  alcune  impennate  dell'inchiostro  mio  con- 
sacrato alla  eternità,  le  rispondo  che  veram.^  non  mi  par 
mai  d'haver  osato  tanto,  percbé  se  pur  nel  passato  tal 
volta  mi  son  disposto  (tirato  dalle  passioni  del  crudo  et 
alato  arciero)  a  formar  qualche  doloroso  accento  in  ritmo 

Fu  sol  per  scherzo  et  per  mostrar  di  fuori 
Sol  a  mia  donna  i  mal  graditi  amorì  ...  ». 

E  più  tardi  scriveva  nella  prefazione  al  Fidamante:  a  È 
noto  a  tutti  quelli,  che  di  me  hanno  avuta  qualche  cono- 
scenza, che  da  ì  trent'  anni  adietro  della  mìa  età,  questa 
non  è  stata  professione  mia  et  che  per  molti  altri  seguenti 
appresso  mi  vi  applicai  più  per  scherzo i» ,  e  qui  se- 
guono i  due  versi  sopra  riferiti. 

Il  2  marzo  1563  moriva  in  Trento,  mentre  presiedeva 
il  concilio  ivi  raccolto,  il  cardinale  Ercole  ;  e  cosa  facesse 
in  seguito  Curzio  non  sappiamo;  che  non  ci  è  dato  se- 
guirne le  vicende  della  vita,  se  non  alcuni  anni  dopo, 
con  la  debole  scorta  delle  notizie  oiTerteci  dalle  sue  poesie. 


136  A.   BELLONI 


III. 


Il  7  ottobre  1571  avvenne,  come  si  sa,  la  battaglia 
di  Lepanto.  Il  nostro  Curzio  in  quei  giorni  era  afflitto  da 
grave  infermità,  per  il  che  non  gli  fu  possibile,  come 
ardentemente  bramava,  stringere  egli  pure  la  spada  contro 
il  Turco.  E  nelle  sue  rime  troviamo  l'eco  dolorosa  del 
rimpianto,  ond'egli  salutò  i  fortunati  a  cui  era  dato  in 
sorte 

Rintuzzar  tanf  orgoglio,  o  pur  concesso 
Sparger  per  Cristo  (o  voi  beati)  il  sangue  (1). 

Egli,  un  giorno  si  forte  e  sì  baldo,  ora  dovea  rimanersi 
inoperoso  spettatore  delle  glorie  altrui, 

Quando  feroce  il  cor,  guerriera  Y  alma 
Hebbi  su  '1  fior  de'  miei  verd'  anni,  intomo 
Volando  già  pace  tranquilla  et  alma 
Et  fean  Marte  et  Bellona  in  ciel  soggiorno. 

Hor  ch'egro  et  stanco,  vo'  di  giorno  in  giorno 
Mancando,  et  vivo  quasi  inutil  salma. 
Scendono  in  terra,  e  1  tracio  mostro  il  corno 
S' arma  ver  noi  et  Y  una  et  Y  altra  palma  (2). 

E  di  non  aver  partecipato  alla  battaglia  di  Lepanto  dice 
apertamente  egli  stesso: 

Di  quel  conflitto  si  famoso  et  chiaro 


Non  fui  già  a  parte  et  n'  ebbi  un  tal  dolore 
Che  poscia  unqua  io  non  tenni  il  viver  caro  (3). 


(1)  Rime,  eie.  pag.  207. 

(2)  Id.,  ibid. 

(3)  Id.,  pag.  ne. 


CURZIO  GONZAGA   RIMATORE  DEL   SECOLO  XVI  137 

la  qael  tempo  trovavasi  egli  a  Roma,  come  rileviamo  da 
alcuDi  versi  d'un  capitolo  consolatorio,  scritto  al  conte 
Francesco  Landrianì,  maestro  di  campo  della  Santa  Lega, 
al  qnale  era  morta  la  moglie;  ove  dice 

perchè  *1  mio  fato  obliquo 

Me  sempre  torce  dal  mio  dritto  calle. 
Et  Palma  e  *1  corpo  mi  percote  iniquo? 

Oh  pur  non  fosse!  I  passi  a  voi,  le  spalle 
Hor  hor  voltar  mi  vedrìa  Roma  a  lei, 
Né  potria  ritardarmi  o  monte  o  valle  (1). 

Accaduta  la  battaglia ,  Carzio  s' accese  d'  entusiasmo  al- 
l'annunzio  della  grande  vittoria,  e  in  tre  canzoni  tentò 
descriverla;  ma,  se  debbo  dire  il  vero,  mi  pare  che  i 
^ersi  abbiano  male  espresso  il  sentimento  del  poeta, 
dacché  non  si  sente  in  essi  queir  arder  lirico,  che  solo 
PQò  darci  grande  e  vera  poesia  (2).  E  tanto  più  salta  agli 
occhi  tal  deficenza,  per  ciò  che  il  poeta  coli' ultimo  verso 
<^6lla  sua  terza  canzone, 

E  co  '1  rio  Trace  guerra,  guerra,  guerra, 

^i  fa  tornare  alla  mente  la  splendida  canzon  del  Petrarca 

air  Italia. 

Rimessosi  un  poco  in  salute,  volle  il  nostro  Curzio 

recarsi  air  armata  dei  collegati  ;  e  di  questa  risoluzione 
^è  notizia  con  un  sonetto  al  cavalier  Guarnelli,  ove 
dice  che,  sebbene  ancora  infermo  et  stanco,  non  può 
taltavia  resistere  al  desiderio  dell'  alma  vigorosa  et  forte 
di  seguir  (f  Austria  il  Duce  invitto  et  franco,  e  che  spera 
^  poter  egli  pure  combattere  o  che  ahneno  si  possa 
«lire  di  lui 

(1)  Id.,  pag.  228. 

(i)  Id.,  pag.  209  e  segg. 


138  A.  BELLONI 

d*  Ogni  altra  voglia  schivo 

Sempre  in  questo  desir  visse  e  morto  (1). 

E  in  altro  sonetto  afferma: 

...    sol  d'Austria  ai  gran  Duce  altero 

n  cor  sacr'  io,  cui  viene  homai  che  ceda 

Et  d* Amore  et  d'Apollo  il  pregio  e  1  grido  (2). 

Inoltre  all'  abbate  Claudio  Gonzaga  sno  fratello  scriveva: 

0  me  felice,  o  sante  voglie  et  pie 
Frate,  s' anch'  io  fossi  chiamato  un  giorno 
Co  'I  mio  sangue  a  lavar  le  colpe  mie. 

0  pur,  se  tinto  et  del  nemico  adomo 
Et  d'alte  spoglie  carco  io  fessi  un  die 
Così  caro  et  bramato  a  voi  ritomo  (3) 

Né  v'  ha  ragione,  credo,  per  sospettare,  che  cotesti  sen- 
timenti del  poeta  fossero  falsi  o  esagerati,  che  essi  si 
spiegano  facilmente  pensando,  come  Curzio  avesse  dedicato 
gli  anni  suoi  primi,  secondo  ogni  probabilità ,  all'  esercìzio 
dell'  armi.  Anzi  forse  per  questo,  come  addietro  osservai, 
egli  entrò  singolarmente  nelle  grazie  di  Don  Giovanni 
d'Austria,  il  quale  volle  onorarlo  di  doni  e  gli  regalò  un 
ginnetto;  del  che  lo  stesso  Curzio  ebbe  a  meravigliarsi, 
poiché  non  avendo  preso  parte  alla  battaglia  di  Lepanto, 
non  poteva  ritenere  che  questo  fosse  quasi  il  premio  del 
servizio  prestato,  onde  si  spiegò  il  dono  cosi: 


(1)  Id.,  pag.  :22i. 

(2)  Id.,  pag.  222. 

(3)  Id.,  pag.  224. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE   DfiL  SECOLO  XVI  139 

Ma  forse  il  feste,  il  gran  deseire  in  carte 
Scorto,  eh'  hebb'  io  di  far  palese  al  mondo. 
Quanto  il  valor  vostro  infinito  saglia  (1). 

Infatti  in  altre  poesie  Carzio  avea  mostrato  intenzione 
d'esaltare  col  canto  D.  Giovanni,  e  appunto  in  un  sonetto 
dice  d' essersi  accinto  ad  opera  ove 

del  Cavaliere  invitto  udrassi 

D' Austria  famoso,  come  sol  co  '  1  nome 
Faccia,  già  vinto  il  mar,  tremar  la  terra  (2). 

E  domanda  aiuto  alla  musa  ;  perchè,  ei  dice. 

Grand'  opra  io  tento,  et  s'  a  V  arder  mi  dai 
Pari  la  forza  ergermi  al  ciel  mi  fido  (3). 

Or  qual'  è  quest'  opera,  in  cui  doveasi  udire  i7  grido  di 
Aforfe,  e  Amor  cedere  e  farsi  muto  ?  Forse  il  Fidamantéf 
Ma  in  tatti  i  trentasei  canti  di  questo  lunghissimo  poema 
soltanto  poche  ottave  del  canto  XXX  parlano  di  D.  Gio- 
vanni d' Austria  ;  né  quindi  può  credersi  che  codesta  sia 
l'opera  cui  alludeva  il  poeta.  Forse  Curzio  mutò  poi  pen- 
siero, e  credette  più  confacenti  alla  tempra  del  suo  ingegno 
'e  anenlure  dell'  Amante  fedele. 

IV. 

in  appresso  ritroviamo  di  nuovo  il  nostro  Gon- 
zaga a  Roma,  dov'era  certamente  nel  1575;  che  in- 
fatti nella  citata  prefazione  al   Fidamante  egli  attesta  di 


(1)  Id.,  pag.  2^. 
ii)  Id.,  pag.  234. 
(3)  Id.,  ibid. 


140  A.   BELLONI 

avere  cominciato  qaesto  sao  poema  >  in  quell'alma  et  bene- 
detta città  r  Agosto  deir  anno  santo  del  LXXV  > .  Colà 
si  trovava  pure  nel  Luglio  del  1577,  come  si  rileva  da 
una  lettera ,  che  gli  scrisse  Torquato  Tasso ,  racco- 
mandandogli una  sua  supplica,  diretta  ai  Cardinali  dell'  In- 
quisizione, della  quale  contemporaneamente  avea  inviato 
altra  copia,  anche  a  Scipione  Gonzaga.  Dice  in  quella 
lettera  il  Tasso:  <  Quanto  ella  ha  costì  di  grazia  e  di 
favore,  non  Io  può  impiegare  in  più  onesta  causa  che  in 
questa:  ed  io,  se  'I  signor  duca  sarà  informato  del  vero 
riconoscerò  la  vita  e  V  onore  da  vostra  Signoria  illustris- 
sima, a  la  quale  non  dirò  altro,  se  non  che  tanta  spe- 
ranza ho  di  vita  e  non  più,  quanta  n'aspetto  dal  suo 
favore  >  (1).  Questa  lettera  ci  attesta  che  una  qualche 
relazione  col  Tasso  il  nostro  Curzio  l'ebbe  (anzi  il  Serassi 
la  chiama  a  dirittura  grande  amicizia)  e  ci  è  indizio 
della  posizione  ragguardevole,  che  il  Gonzaga  teneva  in 
Roma. 

Dopo  il  lungo  soggiorno  nell'  eterna  città  Curzio 
fece  ritomo  alla  patria,  dove  si  trovava  certamente  nel 
maggio  1581,  come  si  rileva  da  una  lettera  diretta  da 
Alberto  Lavezzola  a  Diomede  Borghesi  in  Mantova,  in 
casa  dell' ill.mo  sig.  Curzio  Gonzaga,  al  quale  il  La- 
vezzola mandava  i  suoi  saluti  per  mezzo  del  Borghesi  (2). 


(1)  T.  Tasso,  Lettere,  ed.  Guasti,  Firenze,  1854-55,  voi.  I,  pag.  256. 

(2)  Vengasi  questa  lettera  in  Opere  di  Torquato  Tasso  colle  con- 
troversie sulla  Gerusalemme,  ed.  RosiNi.  Pisa,  presso  Niccolò  Capunro, 
1821-32;  voi.  XXIII,  Controversie  sulla  Ger.,  pag.  90.  Il  Gonzaga 
dunque  era  in  relazione  tanto  col  Lavezzola  quanto  col  Borghesi ,  oppo- 
sitori ambedue  del  Tasso  in  fatto  d*arte;  noto  ciò  perché  alle  Tolte  le 
amicizie  influiscono  sulle  opinioni.  De!  resto  nulla  sappiamo  di  quel 
che  pensasse  il  Gonzaga  sulla  Gerusalemme;  per  ciò  appunto  ho  cre- 
duto bene  far  rilevare  queste  sue  relazioni.  Col  Borghesi  il  Gonzaga 
si  consultò  qualche  volta  in  fatto  di  lingua,  come  si  ricava  da   due  let- 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XYI  141 

In  Mantova  era  ancora  sul  principio  del  1582,  e  lo 
si  ricava  dalla  citata  prefazione  al  Fidamante,  ove  dice 
d*aver  terminato  il  poema  in  quella  città  e  in  sul  co- 
minciar di  quell'anno.  E  a  questo  punto  s'apre  per  il 
nostro  Curzio  un  perìodo  di  vita  affatto  tranquilla  e  dedi- 
cata agli  studi. 

Il  Volta  afferma  che  il  Gonzaga  venne  più  volte  in- 
vitato a  illustri  carìche  in  vane  corti,  ma  ch'egli  persi- 
stette nel  suo  ozio  letterario  (1).  E  il  D'Arco  nelle  già 
citate  memorie  manoscritte,  dice,  non  del  tutto  esatta- 
mente, come  si  può  vedere  da  quanto  dissi  più  sopra: 
e  Al  1575  ritornato  in  patria  più  non  partì  rifiutando 
molte  onorevoli  magistrature  offertigli  da  diversi  principi 
italiani  e  stranieri  > .  Nessuno  de'  due  scrittori  però  ri- 
porta documenti,  che  confermino  codesta  asserzione,  sì 
che  io  ne  lascio  ad  essi  la  responsabilità.  Il  fatto  si  è 
che  parecchi  accenni  si  possono  mettere  insieme  per 
dimostrare  che  Curzio  s' occupava  ora  con  lena  maggiore 
dei  suoi  studi. 

Battista  Guarini  in  sua  lettera  del  22  luglio  1583  a 
Francesco  Maria  Vialardi,  narra  come  tornando  da  una 
gita  fatta  a  Milano ,  s' era  fermato  a  Guastalla,  ove  nella 
piccola,  ma  splendida  corte  del  principe  Ferrante  II,  aveva 
trovato  Curzio  Gonzaga,  Muzio  Manfredi  «  et  altri  ancora, 
ma  quello  eh'  importa  più  la  bellissima  Signora  contessa 
di  Sala  (2)  con  un  drappello  di   gentilissime   dame;   et 

Kre  dal  Borghesi  stesso  a  lui  scrìtte,  che  si  leggono  nella  II  parte  delle 
ÌAttgre  di  D.  R  In  Venetia,  appresso  Francesco  de'  Franceschi  Sanese , 
^^^,  pagg.  ^  a,  36  b. 

(1)  Op.  cit.  T.  Ili,  Uh.  XIII,  parag.  VII,  pag.  205. 
iì)  Costei  é  Barbara  Sanseverìno  San  vitale  contessa  di   Sala,  donna 
bellissima  e  colla.  Cfr.  G.  B.  Intra,    Una  pagina  della  giovinezza  del 
PnVipe  Vincenzo  Gonzaga,  in  Archivio  storico  italiano^  Serie   IV,  T. 
IVlli,  disp.  5.'  1886,  pag.  196  segg. 


142  A.  BELLONl 

quivi  il  Signor  D.  Ferrante,  che  altre  volte  haveva  udito 
a  Ferrara  una  parte  di  quella  favola  (il  Pastor  Fido), 
volle  di  nuovo  udir  la  medesima,  in  presenza  di  quella 
bellissima  compagnia.  Et  si  ne  fecero  et  si  ne  dissero 
tante  meraviglie,  e  particolarmente  il  Signor  Cnrtio,  che 
non  r  aveva  sentita  più ,  che  se  si  prestasse  loro  fede 
non  si  sarebbe  veduta  cosa  un  pezzo  fa  la  più  bella  >  (1). 

In  altra  lettera  il  Guarini,  scusandosi  col  Principe 
Vincenzo  di  non  potergli  mandare  il  Pastor  fido,  che 
quegli  desiderava  far  rappresentare  in  occasione  delle 
sue  nozze  con  Eleonora  de'  Medici ,  dice  :  t  Potrebbe 
trovare  per  avventura  qualche  nuova  comedia  non  più 
veduta  tra  i  suoi  medesimi  di  Mantova,  dove  so  che 
sono  ingegni  nobilissimi,  et  particolarmente  il  Sig/  Cartio, 
III.'"^  mio  Sig/«  >  (2). 

Ferrante  Gonzaga  era,  come  si  sa,  fautore  ed  amico 
di  scienziati  e  poeti  e  la  sua  corte  era  t  quasi  una  delle 
più  floride  Accademie,  cui  i  migliori  ingegni  gloriavansi 
di  chiedere  giudizio  su  le  opere  loro  >  (3).  Il  Guarini 
la  chiama  vaso  delle  Muse  e  di  D.  Ferrante  dice: 
«  Non  fece  mai  tanto  senno  la  poesia  quanto  all' bora, 
che  con  tutte  le  sue  più  rare  et  pellegrine  eccellenze 
per  illustrarsi,  cred'  io ,  si  ridusse  nel  nobilissimo  inge- 
gno del  Sig/  Don  Ferrando  Gonzaga ,  dov'  ella  abbon- 
dantissima d' ogni  cosa,  senza  haver  a  combattere  né  col 


(1)  Lettere  del  Signor  Cavaliere  Battista  Guarini,  nobile  ferra- 
rese. In  Vcnetìa,  MDXGV,  Appresso  Gìo.  Ballista  Gioiti  senese,  al  segno 
della  Minena,  pag.  198.  Gfr.  V.  Rossi,  Battista  Guarini  e  il  Pastor 
fido,  Torino,  Loescher,  1886;  pag.  180. 

(2)  A.  D'Ancona,  //  teatro  mantovano  nel  set,  XVI,  in  Giorn,  St. 
della  leti.  ital. ,  voi.  VII,  pag.  53. 

(3)  L  Affò,  Istoria  della  città  e  del  Ducato  di  Guastalla,  Gua- 
stalla, MDGCLXXXVII,  T.  Ul,  Ub.  X,  pag.  72. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XYI  143 

disagio,  né  con  le  tribulaziooi,  può,  s'io  dod  erro,   col 
Dobilissimo   suo  soggetto    contender    di   nobiltà  >   (1). 
Anche    tenendo   conto  della    esagerazione  ,  che    certo 
sarà  in  queste  parole ,  esse ,  con  altre  testimonianze , 
ci  attestano  che  D.  Ferrante  era  uomo  di  non  mediocre 
ingegno  e  di  fine  coltura  ;  e  la  sua   compagnia  dovea 
tornar  ben  gradita  al  nostro  Curzio.  Della  relazione  di 
famigliarità,  che  fu  tra  lor  due,  fanno  fede  alcune  lettere, 
che  pubblico  in  appendice,  nelle  quali  troviamo  accenni 
a  gite  di  Curzio  a  Guastalla  e  a  visite  di  D.  Ferrante  in 
Borgoforte,  ove  il  Nostro  soggiornava.  In  una  del  6  agosto 
'85,  Curzio  annunzia  a  D.  Ferrante  T  arrivo  in  Borgoforte 
del  Patrizio ,  il  noto  autore  della  Poetica  (2),  e  lo  invita 
\  mantenere    la    fatta   promessa    dì  recarsi   egli  pure 
colà,  quando  vi  fosse  andato  appunto  il  Patrizio ,  col  quale 
si  capisce  che  il  principe  aveva  espresso  il  desiderio  di 
trovarsi  per  goderselo.    Lo  prega  quindi  di  stabilire   il 
giorno  della  sua  visita  e  di  condur  seco  Muzio  Manfredi. 
Da an' altra  delie  sovra  citate   lettere,  scritta  il  7  set- 
tembre '85  da  un  tal  Crema,  gentiluomo  fattore  di  Claudio 
Gonzaga,  il  fratello  di  Curzio,  rileviamo  che  il  Patrizio 
si  fermò  alquanto  tempo  in  Borgoforte ,  e  che  durante 
il  suo  soggiorno  colà  rivide  il  poema  di  Curzio,  il  Fida- 
^mte,  eh'  era  stato  pubblicato,  ma  imperfettissimo,  già 
nel  1582  (3);  promettendogli   anche   di   scrìvere  delle 


(1)  Lettere  del  Signor  Cavaliere  Battista  Guarini,  etc.  In  Venetia, 
presso  Gk).  Battista  Ciotti,  sanese,  al  segno  dell'  Aurora,  MDGIII  ;  pag.  99. 

{ì)  Su  Francesco  Patrizio  v.  un  articolo  di  0.  GuERRim  nel  Propugna- 
^^^d  XII,  1879,  dbp.  1  e  II,  pag.  172-230. 

(3)  La  seconda  edizione  del  Fidamante  è  appunto  dell'  anno  1585, 
^  cu  anenne  la  revisione  del  Patrizio.  Delle  edizioni  del  poema  darò 
■^  io  una  breve  bibliograOa  alla  line  di  questo  lavoro. 


144  A.  BELLONl 

Deche  volgari  in  onore  di  quei  poema  (1),  per  il  che 
Curzio  gli  fece  dono  di  24  braccia  di  tabe  di  seta. 

In  appresso  mancano,  per  alcuni  anni,  notizie  del 
nostro  Curzio.  Nel  1591  egli  fu  a  Venezia,  come  si 
rileva  dalla  dedicatoria  di  Antonio  Amici,  preposta  ali'  edi- 
zione falla  in  queir  anno  del  Fidamante.  E  pare  che  a 
Venezia  siasi  tratlenuto  per  alquanto  tempo  ;  infatti , 
Maddalena  Campiglia,  grande  ammiratrice,  come  vedem- 
mo, del  nostro  Curzio,  nella  prefazione  citata  alla  com- 
media Gli  Inganni  dice:  «  Buona  parte  del  verno  pas- 
sato io  lo  dispensai  in  Venetia,  ove  esso  (  Curzio  )  sia 
anchora  per  stanza  quasi  tulto  il  tempo  dell'  anno  >   (2). 

Ma  inlanto  il  poela  invecchiava  e  gli  effetti  dell'  età 
cominciarono  ben  presto  a  farglisi  senlire.  In  un  soDetto 
che  deve  esser  stalo  scrino  verso  quel  tempo,  egli  si 
duole  della  podagra  che  lo  tormentava  (3),  ed  anche 
nelle  sue  lellere  parla  di  codesto  male. 

Nel  1595  il  Duca  Vincenzo  faceva  dono  comune  al 
Gonzaga  e  a  un  di  lui  pronipote  Luigi,  di  Palazzolo  nel 
Monferrato ,  con  dirillo  al  titolo  di  Marchesi.  Curzio  aveva 


(1)  Queste  deche  volgari  non  sono  che  la  Poetica  del  Patrizio  pub- 
blicata in  Ferrara,  per  Vittorio  Baldini,  stampator  ducale.  MDLXXXVI. 
11  Patrizio  prima  di  pubblicare  la  sua  opera  volle  sottoporla  ali*  esame  di 
Curzio,  e  infatti  lo  stampatore,  nelF avvertenza  a  chi  legge,  citando  i 
giudizi  venutigli  da  diverse  parti  sulla  poetica  del  Patrìzio  riporta  anche 
(]uanto  gliene  aveva  scrìtto  Curzio  Gonzaga  da  Mantova,  il  quale,  come 
si  capisce  dalle  sue  parole,  si  limitò  a  fare  alcune  correzioni  intomo  alla 
lingua,  protestando  però  di  farlo  <  con  ogni  riverenza,  che  si  conviene 
al  debito  di  un  discepolo  verso  il  maestro  >. 

(2)  Intorno  a  Ferrante  Gonzaga  v.  Tiraboschi,  St.  della  leti.  Hai., 
VII,  pagg.  86  e  segg.,  256,  1769.  Cfr.  D'Ancona,  Il  teatro  mantovano 
etc.  in  Giorn,  Si,  V,  pag.  55,  n.  2. 

(3)  Rime,  pag.  235. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE   DEL  SE(X)LO   XVI  145 

intenzione  di  recarsi  nei  suo  possesso,  ma,  scrivendo  a 
D.  Ferrante ,  accenna  a  certi  intoppi  che  gli  si  at- 
iracersavano ,  onde  pensava  di  allungar  la  sita  an- 
data a  Palazziwlo;  e  altrove  dice:  «  Mi  è  fatta  ogni 
goerra,  perchè  non  vada  a  Palazzuolo  e  credo  che  m' hab- 
biano  tolto  la  nave,  a  cui  havea  data  capara,  e  senza  ia 
quale  impossibile  è  la  mia  andata  >.  Chi  gli  facesse  la 
guerra  non  so;  certo  è  che  Curzio,  impedito  di  recarsi 
a  Palazzuolo,  pensava  d'  andare  a  stabilirsi  presso  D. 
Ferrante  in  Guastalla,  come  si  ricava  dalle  sue  lettere. 

Intanto  egli  si  disponeva  a  chiudere  la  sua  vita  con 
un'opera  che  gli  accrescesse  onore  presso  gli  uomini,  e 
grazia  presso  Dio,  e  cosi  die  principio  alla  fabbrica  in 
Borgoforte  di  «  una  bellissima  Chiesa  sotto  il  tìtolo  del- 
l' Annunziazione  della  Madre  di  Dio,  con  commode  stanze 
congiunte  per  alcuni  sacerdoti,  onde  compìacquesi  di 
quest'anno  investirne  la  Religione  de'  Servi,  che  solen- 
nemente ne  pigliò  il  possesso,  assignandole  alcune  rendite 
di  propri  beni  in  perpetuo  per  il  mantenimento  di  detti 
Padri  >  (1). 

In  questa  chiesa  egli  volle  essere  sepolto,  quando 
neir  aprile  del  1599 ,  chiuse  per  sempre  gli  occhi  alla 
luce  (2). 

Visti  cosi  brevemente  i  casi  della  vita  di  Curzio 
Gonzaga,  passiamo  a  dir  poche  cose  delle  sue  opere  e 
io  ispecial  modo  del  suo  poema  II  Fidanzante. 


(1)  Ippolito  Donesmondi,  Dell'  Istoria  ecclesiastica  di  Mantova.  Io 
Miintofa  MDCVI.  Parte  II,  lib.  IX,  pag.  352. 

(ì)  W  Volta,  Op.  cit.  pag.  205,  pone  la  morie  di  Curzio  Gonzaga 
u  io  dì  Agosto  del  151^,  e  pochi  perìodi  dopo  ai  5  di  Aprìle. 

Voi.  lY,  Parte  f  iO 


146  A.   BlìlLLOM 

V. 

Quest'  opera  venne  alla  luce  la  prima  volta ,  come 
avvertii  già  più  sopra,  in  Mantova  nel  1582,  e  il  poeta 
dice  di  averla  cominciata  in  Roma  nel  1575  ;  qnindi,  al- 
lorché usci  scorretta,  mutila  e  all'  insaputa  dell'  autore,  la 
Gerusalemme  Liberata,  il  Gonzaga  doveva  aver  già  in 
gran  parte  pensato  e  scritto  il  suo  poema;  il  quale  tut- 
tavia credo  possa  dirsi  in  alcuni  punti  una  imitazione  della 
Liberata,  ed  è,  a  mio  avviso,  degno  d' esser  studiato,  non 
già  come  opera  d' arte,  ma  perché  è  un  portato  naturale 
di  quelle  stesse  idee,  che,  nel  campo  della  crìtica,  die- 
dero orìgine  alle  lunghe  ed  accanite  controversie  sul  poe- 
ma del  Tasso.  Unico  pregio  infatti  del  Fidamante  è  quello 
d'esser  condotto  con  grande  perizia  dei  canoni  aristote- 
lici e  con  molto  artificio  nella  macchina  generale  dell'a- 
zione. Ora,  queir  età,  la  quale  andava  man  mano  per- 
dendo il  senso  estetico  del  bello  e  si  preoccupava  più  di 
piccole  questioni  pedantesche ,  che  non  dell'  arte  vera 
e  grande ,  poteva  ben  compiacersi ,  che  il  Gonzaga 
avesse  saputo  obbedire  ad  Aristotele  meglio  che  non 
r  avesse  fatto  il  Tasso,  e  per  ciò  dargli  lode  ed  esaltarlo, 
mentre  oggi  noi  lo  puniamo  con  1'  oblio  dell'  aver  osato 
emulare  1'  autor  del  Goffredo.  E  a  trarre  dalla  di- 
menticanza r  opera  sua  m'  indusse  ,  oltre  la  convin- 
zione, che  lo  studio  di  qualsiasi  periodo  letterario  va  com- 
piuto con  paziente  ricerca,  nulla  omettendo  e  trascurando 
anche  di  ciò  che  a  prima  giunta  par  inutile  e  insigni- 
ficante, il  pensiero,  che  ad  un  completo  lavoro  sugli  imi- 
tatori del  Tasso,  quale  ho  in  animo  di  mettere  insieme  (1), 

(1)  Queslo  capitolo  e  i  seguenti,  un  po' ampliati  nel  presente  lavoro, 
fonneranno  parte  iV  uno  studio  al  ({uale  da  tempo  attendo  su  L  epopea 
dopo  il  Tasso. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  147 

giovi  eh'  io  m'apra  la  via  offrendo  un  largo  esempio  di  ciò, 
che  fu  la  produzione  epica  subito  dopo  la  Gerusalemme 
Liberata.  La  qual  cosa,  benché  in  limiti  più  ristretti,  fece 
anche  il  Gingnené  (1),  che  volendo  dare  l'idea  d'un 
poema  epico  posteriore  a  quello  del  Tasso ,  scelse ,  ap- 
punto questo  ;  del  quale  io  pure,  servendomi  anzi  qualche 
volta  dell'  analisi  fattane  dal  critico  frencese,  cercherò  alla 
meglio  di  presentare  ai  lettori  il  riassunto. 

Cauto  I.  —  Nel  luogo,  ove  un  tempo  sorgeva  l' an- 
tica Troia,  una  nuova  città  era  stata  fondata  da  un  po- 
tentissimo principe  di  nome  Radamante  (2).  Questi  discen- 
dente dalla  famosa  schiatta  dei  re  d' Ilio,  aveva  assai 
peregrinato  pel  mondo  durante  la  sua  giovinezza.  Al  pari 
d'  Ulisse  egli  avea  visto  molte  città  e  molte  corti ,  e 
possedendo  fine  cortesia  e  singolare  prudenza ,  aveva 
inspirato  amore  a  molte  gentili  donne.  Giunto  final- 
mente alla  città  di  Mantova  era  rimasto  preso  dalla 
bellezza  meravigliosa  d'una  principessa,  da  cui  aveva 
avuto  poi  un  figlio  (l'eroe,  come  tosto  vedremo,  del 
poema),  ch'egli  però  credeva  fosse  morto  insieme  alla 
madre,  quando  costei,  temendosi  abbandonata  dallo  sposo, 
s'  era  gettata,  col  fanciullo  tra  le  braccia,  nelle  acque  del 
Mincio.  Radamante,  tornato  in  Asia,  e  fondata,  come  ab- 
biam  detto,  la  nuova  città  di  Troia,  aveva  sleso  larga- 
mente intorno  il  suo  dominio. 

Un  giorno  (  e  qui  comincia  1'  azione  del  poema  ) , 
recatosi  a  visitare  i  lavori  del  porto,  che  stavasi  allora 
appunto  costruendo,  vede  avanzarsi  dal   mare   verso   la 


(i)  Histoire  Uttéraire  d' Italie^  tomo  V,    pag.  470  segg.  Milano, 

Miicrcxx. 

(t)  NcUa  prima  edizione  del  Fidamante  il  nome  del  re  era  Gara- 
mante. 


148  A.  BELLONl 

spiaggia  nna  navicella,  che  aveva  i  remi,  le  vele,  le  corde 
dorate  e  pareva  essa  stessa  fatta  di  perle.  Da  questa  mi- 
rabile navicella  scendono  un  cavaliere  e  una  dama ,  la 
quale,  volgendosi  con  cortesi  maniere  al  re  e  offrendogli 
in  dono  un  ramo  incantato  d'alloro  unito  ad  uno  specchio 
magico,  gli  presenta  il  cavaliere  come  il  più  fedele  a- 
mante  che  fosse  stato  al  mondo,  e  che  potendo  con  la 
sua  virtù  conquistare  scettri  e  corone ,  di  nuli'  altro  si 
curava  che  del  suo  amore  per  una  donna  ingrata  e  in- 
sensibile. Egli  offre  il  suo  braccio  e  i  suoi  servigi  a 
Radamante,  purché  questi  gli  conceda  V  armatura  d'Achille 
della  quale  venne  in  possesso  nel  modo  che  si  narra  al 
canto  III,  e  che  è  necessaria  al  cavaliere  per  compiere 
la  difficile  impresa  di  liberare  la  sorella  della  dama  che 
l'accompagna.  Radamante  accoglie  cortesemente  i  nuovi 
e  misteriosi  ospiti  e  li  alberga  nel  suo  palazzo,  di  cui  fa 
ad  essi  ammirare  le  grandi  bellezze. 

Frattanto  è  annunziato  1'  arrivo  d' una  solenne  am- 
basciata ,  che  il  re  riceve  in  tutta  la  pompa  e  la  ma- 
gnificenza del  regale  apparato.  Questa  ambasciata  viene  da 
parte  di  Orcano,  gran  Khan  deir  India  e  della  Persia,  che 
propone  al  re  di  Troia  d' unirsi  a  lui  nella  guerra ,  che 
stava  per  muovere  contro  il  re  di  Sicilia,  venuto  a  con- 
tesa con  Faraote,  re  d'Egitto,  figlio  d' Orcano.  Questi 
promette  a  Radamante,  come  premio  dell'alleanza,  la 
Grecia,  la  Francia  e  l'Illiria. 

Durante  questa  udienza  giunge  un  altro  ambasciatore, 
che  chiede  instantemente  d'essere  ammesso  alla  pre- 
senza di  Radamante.  Egli  è  un  inviato  del  re  di  Sicilia. 
Questi  aveva  una  figlia  bellissima  di  nome  Clizia,  la  quale 
era  andata  sposa  a  Tancredi,  figlio  del  re  di  Creta.  Il 
re  d'Egitto  Faraote,  che  si  fingeva  amico  di  Tancredi, 
era  stato  invitato  alla  festa  nuziale  in  Sicilia.  Ma,  con  nero 
tradimento,  ei  fece  in  modo  che  la  nave,  la  quale  do- 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  149 

YeTa  coDdorre  gli  sposi  a  Creta,  approdasse  invece  in 
Egitto,  dove  egli,  preso  Tancredi,  l'uccise,  facendo  pri- 
gioniera la  bella  Clizia.  La  quale  (come  è  narrato  poi  in 
principio  del  canto  II)  era,  insieme  a  sei  altre  nobili  don- 
zelle, destinata  a  cader  nelle  mani  di  Orcano ,  affinchè 
s'avesse  da  avverare  un  presagio,  fatto  da  certi  maghi 
al  gran  re,  a  tenor  del  quale  questi  avrebbe  potuto  con- 
seguir r  immortalità  solo  allora  che  avesse  avuto  in  sua 
balia  sette  donzelle  di  stirpe  regale.  Il  re  di  Sicilia,  uni- 
tosi a  quello  di  Creta,  sta  per  muovere  guerra  a  Faraote, 
ma,  per  opporsi  con  speranza  di  vittoria  alla  immensa 
armata,  che  Orcano  aveva  preparato  per  difendere  il  fi- 
glio, chiede  alleanza  e  soccorso  a  Radamante.  Questi 
ascolta  il  racconto  del  messo  con  grande  orrore;  ma 
non  gli  dà  alcuna  risposta  definitiva. 

Canto  II.  —  Radamante  aduna  il  consiglio  de' suoi; 
si  discute  la  questione  delle  alleanze  e  degli  aiuti.  Vari 
SODO  da  prima  i  pareri,  ma  infine  si  decide  che  Rada- 
mante  s' unisca  al  re  di  Sicilia,  come  quegli  eh'  era  il  più 
debole  e  l' offeso.  Tuttavia  per  non  irritare  Orcano ,  si 
evita  di  dargli  un  aperto  rifiuto ,  e  i  suoi  ambasciatori 
vengono  licenziali  e  rimandati  al  loro  re  con  ricchi  do- 
nativi. Segretamente  intanto  si  avverte  il  messo  del  re  di 
Sicilia,  che  le  sue  domande  sarebbero  stato  esaudite. 

In  questo  mezzo  Ormisda,  fidato  servo  di  Rada- 
mante,  aveva  cercato,  per  incarico  del  suo  re,  di  aver 
notìzie  sui  due  ospiti  misteriosi.  Egli  ritorna  e  dice  a 
Radamante,  che  la  dama  nacque  nella  città  di  Mantova  e 
ch'ella  è  signora  di  tutta  l'Etruria;  che  il  cavaliere  poi 
brama  tener  celato  l' esser  suo ,  ma  sembra  possedere 
tutte  le  virtù. 

All'udir  rammentare  la  terra  amata  Radamante  si 
scolora  in  viso,  e  sospira;  che  dolci  ricordi  si  ridestano 
iieir  animo  suo.  Cedendo  alle  inchieste  di  Ormisda ,  egli 


150  A.  BELLONI 

narra  a  lui  la  storia  del  suo  passato.  Nacque  egli  la  sul 
Tebro,  di  Enea  Silvio  e  d*  una  ninfa  di  quel  fiume ,  che, 
impaurita  del  fallo  commesso,  fuggi  col  bambino ,  cer- 
cando altre  terre  tra  gli  stenti  della  miseria.  Giunta  nella 
città  degli  Antenorei,  vi  trovò  cortese  accoglienza,  e,  colà 
cresciuto  ,  il  fanciullo  die  manifeste  prove  della  sua 
nobiltà,  finché  uscito  d*  adolescenza  si  mise  a  peregri- 
nare per  r  Italia  e  venne  anche  in  Mantova,  ove  innamorò 
della  figlia  del  Re,  Sulpizia,  la  quale  dopo  aver  resistito 
per  cinque  anni,  non  volendo  venir  meno  ai  doveri  di 
sposa,  cedette  alla  fine ,  quando  il  suo  consorte,  giovane 
di  rei  costumi,  venne  a  morte.  Viveva  Radamante  felice 
neir  amor  di  Sulpizia,  allorché  una  maga  osò  distrugger  le 
gioie  di  lui,  togliendolo  alle  braccie  dell'amata  per  con- 
durlo in  un  suo  palazzo  incantato  e  quivi  trattenerlo 
tra  le  più  soavi  delizie.  Alcun  tempo  dopo  egli  apprese 
che  Sulpizia,  oppressa  dal  dolore  credendosi  dimenticata 
dall'amante,  aveva,  in  un  accesso  di  disperazione,  posto 
fine  ai  suoi  giorni,  gettandosi  nel  Mincio,  insieme  al  te- 
nero frutto  de' suoi  amori. 

Canto  Ili.  —  Radamante  ordina,  il  giorno  seguente, 
un  gran  sacrifizio  al  Sole,  perché  questo  Dio  sia  propizio 
ai  due  ospiti.  Durante  il  banchetto,  che  segue  la  festa, 
egli  prega  il  cavalier  straniero  di  svelargli  chi  mai  fosse  la 
bella,  ma  severa  e  insensibile  donna,  per  ottenere  l' amor 
delia  quale  egli  s' era  accinto  a  sostenere  le  più  ardue  im- 
prese. Il  guerriero  soddisfa  il  desiderio  del  re  e  comincia 
il  suo  racconto. 

Canto  IV.  —  La  bella  di  cui  è  innamorato  è  figlia 
al  re  della  grande  Esperia  ;  a  lei  quando  nacque  il  padre 
avea  imposto  il  nome  di  Ippolita.  Fin  dai  primi  suoi  anni 
ella  fu  consacrata  a  Diana;  si  nutrì  alcuna  volta  di  latte 
ferino,  e,  cresciuta,  di  null'altro  prese  vaghezza,  che  della 
caccia,  inseguendo  da  prima  gli  animali  tioùdi  e  fuggitivi 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO   XVI  151 

e  affrontando  poi  leoni,  tigri,  orsi,  de' cui  velli  piacevale 
ornarsi,  meglio  che  di  monili,  di  perle  e  d' oro.  Essendo 
il  padre  di  lei  venuto  a  guerra  coi  popoli  d' Africa ,  ed 
essendo  stato  vinto  con  grave  perdita  delle  sue  armate, 
Ippolita,  bramosa  di  riparar  tal  disastro,  varcò  il  mare, 
rìuni  intorno  a  sé  le  milizie,  le  riordinò,  e  potè  cosi  con- 
seguir molte  vittorie,  soggiogando  sette  regni  della  costa 
africana  e  trascinandone  i  re  incatenati  a  ornar  il  suo 
trionfo  ,  per  il  che  il  nome  di  Ippolita  le  venne  a 
buon  dritto  mutato  in  quello  glorioso  di  Vittoria.  E  qui 
il  cavaliere  descrìve  il  trionfo  della  bella  guerriera  e  con- 
fessa che  mai  su  lui  avea  tanto  potuto  la  bellezza  di 
Ippolita,  quanto  potè  quella  della  trionfante  Vittoria.  Ma 
la  forte  donzella  cresciuta  tra  l' armi ,  sprezzava  l' amore. 
Il  cavaliere  per  piacerle  combatté  e  vinse  un  gigante 
africano,  che  ella  aveva  fatto  prigioniero,  e  si  nelle  caccie, 
che  nei  tornei  compi  imprese,  che  destavano  in  lui  stesso 
meraviglia. 

Canto  V.  —  Il  cavaliere  continuando  il  suo  racconto 
narra,  che  la  sua  Donna  indisse  una  volta  un  torneo, 
pronta  a  sostenere  contro  chiunque,  che  un  amante  a 
nulla  più  deve  aspirare  che  ad  un  sorriso  e  ad  un  sa- 
luto della  donna  amata.  In  questa  giostra,  a  cui  sì  pre- 
sentarono tutti  i  più  celebri  guerrieri  ,  ella  riusci  com- 
pletamente, e  tra  T  ammirazione  universale,  vittoriosa. 

Posto  fine  al  suo  dire,  il  cavaliere  prende  congedo 
da  Radamante  e  lascia  alla  corte  di  lui  la  dama ,  che  lo 
accompagnava ,  a  liberar  la  cui  sorella  appunto  allora  ei 
s'accìngeva.  Berenice  (tale  è  il  nome  della  dama)  s'addolora 
f ler  la  partenza  del  suo  compagno ,  temendo  che ,  privo 
del  suo  soccorso,  non  «abbia  a  soffrir  danno  ed  insidie 
da  parte  delta  maga  Argentina ,  figlia  d' Creano ,  donna 
bellissima,  piena  di  grazie,  e  regina  in  Cipro. 


152  A.  BELLONI 

Ella  vorrebbe  da  ultimo  conoscere  a  pieno  V  orìgine 
del  Cavaliere,  e  siccome  sa  che  fino  dai  suoi  primi  anni 
egli  era  stato  sotto  la  tutela  del  dio  Proteo ,  che  solo 
ne  conosceva  i  futuri  destini,  così,  uscendo  di  notte  dalla 
Reggia  di  Radamante,  sale  sulla  sua  barca  incantata  e  va 
a  trovare  il  dio  nel  suo  antro. 

Canto  VI.  —  Proteo  appaga  cortesemente  il  desi- 
derio della  donna  e  le  narra  una  lunga  e  curiosa  istoria. 
Giove  aveva  dato  in  isposa  al  re  di  Cuba  una  figlia  d' Ino 
e  di  Etiopia  ;  tutti  gli  Dei  eran  scesi  dal  cielo  per  pren- 
der parte  alla  festa  nuziale  ,  e  tra  gli  altri  i  mag- 
giori fiumi ,  accompagnati  da  torrenti ,  ruscelli ,  rivi  e 
fonti.  Nel  bel  mezzo  della  cerimonia  Proteo,  preso  da 
divino  furore,  aveva  profetato,  che  una  donna  gen- 
tile, credendosi  tradita  dall'amante,  si  sarebbe  gettata 
nelle  acque  del  Mincio  insieme  al  tenero  figlio,  cui  l'O- 
ceano soltanto  avrebbe  potuto  salvare.  Questi  allora 
aveva  imposto  al  Mincio  di  ingiungere  alle  sue  ninfe 
che  se  ne  stessero  pronte  per  raccogliere  vivo  dal- 
l'onde il  bambinello.  Esse  infatti  un  giorno  recarono  a 
Proteo  entro  picciota  cesta  tutta  fiorita  un  fancinlletto, 
cui  il  dio  accolse  tra  le  sue  braccia  e  allevò  con  grande 
amore.  Il  bambino  crebbe  fortissimo  ;  sicché ,  mentr'  era 
ancora  in  culla,  strozzò  due  serpenti,  e  in  appresso  unico 
suo  ditetto  fu  r  inseguire  le  fiere  fuggitive  in  caccia.  Il  dio 
nutriva  di  lui  alte  speranze;  ma  un  di,  per  volere  divino,  il 
fanciullo  gli  venne  rapito.  Proteo  si  dolse  di  ciò  con  Giove, 
il  quale  gli  concesse  di  consultare  le  Parche.  Queste  gli 
predissero,  che  il  giovanetto  avrebbe  ottenuto  un  giorno 
la  donna  più  bella  e  più  fiera,  che  mai  fosse  al  mondo; 
che  dal  loro  sangue  sarebbe  uscita  una  stirpe  famosa,  la 
quale  dovea  poi  dividersi  in  due  rami,  di  cui  1'  uno  sa- 
rebbe stato  detto  d'Austria  (da  Àustrìo, primo  nome  del 
giovanetto),  l'altro  Gonzaga  (da  Gonzago,  nome  dato  al 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  153 

fanciullo  da  Proteo,  e  che,  dice  il  poeta  ,  in  lingua  osca 
vuol  dire  colto  dal  lago).  Le  parche  aggiunsero  poi  che 
questi  due  rami  si  sarebbero  ricongiunti  per  produrre, 
sotto  il  doppio  nome  d'  Austria  e  Gonzaga ,  migliaia 
d*Eroi,  che  Proteo,  terminando  il  suo  racconto  nomina 
e  fa  conoscere  a  Berenice,  meravigliato  nell' udirlo. 

Canto  VII.  —  Intanto  sopraggiunge  Teti,  che  viene 
a  visitar  Proteo.  Berenice,  pregata  dalla  Dea,  le  narra  il 
triste  caso  di  Sulpizia,  con  maggiori  particolari,  che  non 
avesse  fatto  Radamante  (canto  lì) ,  a  lango  descrivendo 
in  ispecial  modo,  la  disperazione  della  povera  abbando- 
nata. 

In  tale  maniera  si  svolge,  molto  artificiosamente,  il 
fik)  dell'intreccio,  e  si  vede  che  il  Fidamante,  o  il  Gon- 
zaga, progenitore  di  tutti  i  Gonzaga,  è  figlio  dello  stesso 
Radamante,  che  V  aveva  avuto  da  Sulpizia  e  lo  credeva 
morto. 

Canto  VIII.  —  Berenice,  dopo  la  sua  visita  a  Proteo, 
ritorna  alla  nuova  Troia,  dove  Radamante  profondamente 
preoccupato  di  quanto  gli  pare  d'intraveder  nel  futuro, 
le  chiede,  come  mai,  mentre  il  Fidamante  era  innamorato 
d' od' altra,  ella  sembrava  tuttavia  si  strettamente  le- 
gata a  lui.  Berenice  risponde  narrando  la  propria  storia. 

La  sua  famiglia,  che  discendeva  dall'  indovino  Ti- 
resia,  dominava  da  lunghi  anni  nell'Etruria;  ella  stessa, 
dopo  la  morte  di  due  suoi  fratelli,  vi  aveva  regnato ,  e 
siccome  per  l'arte  magica  ereditata  dagli  avi,  possedeva 
la  scienza  del  futuro,  la  sua  reputazione  s' era  sparsa  fino 
nei  più  lontani  paesi,  donde  molti  convenivano  a  lei  per 
conoscere  il  loro  avvenire.  Il  Fido  amante ,  avendo  per- 
duto le  traccio  della  sua  bella  guerriera,  né  sapendo  in 
qual  paese  dovesse  andare  a  cercarla,  venne  egli  pure  a 
implorare  Tarte  della  famosa  maga. 


154  A.  BELLONI 

Questa  al  vederlo  provò  quel  sentimento  soave,  che 
invano  mille  amanti  s'erano  sforzati  d'inspirare  in  lei. 
Ella  tentò  di  piacergli,  di  stornarlo  dal  suo  primo  amore, 
di  offrirgli  le  occasioni  più  seducenti  ;  ma  in  fine  vedendo 
che  tutto  era  inutile,  anziché  disperarsi ,  presa  d' ammi- 
razione per  la  fedeltà  del  giovane  guerriero,  pose  al  suo 
servigio  l'  arte  sua ,  e  costruì  quella  mirabile  navicella, 
dalla  quale  li  vedemmo  scendere  in  principio  del  poema 
e  che  li  guidò,  per  virtù  di  magia,  a  trovare  la 
bella  e  insensibile  Vittoria,  in  Italia,  vicino  alle  foci  del 
Metauro.  Essa  si  disponeva  a  lontana  e  perigliosa  spe- 
dizione; né  si  mostrò  men  fiera  e  men  cruda  verso  il 
suo  amante,  esigendo  ch'egli  non  si  presentasse  a  lei, 
se  non  quando  si  fosse  coperto  di  gloria  vincendo  tutti 
i  mostri,  liberando  il  mare  di  tutti  i  pirati ,  rompendo 
tutti  gli  incanti,  difendendo  tutte  le  dame  ingiustamente  e 
indegnamente  oppresse,  sostenendo  il  diritto  a  prezzo  di 
tutte  le  fatiche,  di  tutti  i  danni  e  riportando  le  spoglie 
di  tutti  i  più  famosi  guerrieri. 

Il  giovane  amante  non  sì  scoraggiò  e,  sostenuto  dalla 
forza  dell'  amore,  s'  accinse  a  compiere  le  imposte  cose, 
accompagnato  nelle  sue  imprese  dalla  buona  Berenice, 
la  quale  ora  appunto  si  dispone  a  narrare  al  re  di  Troia 
le  mirabili  gesta  dell'  invitto  guerriero.  E  a  tale  racconto 
sono  destinali  i  due  canti  seguenti. 

Canto  IX.  —  Il  Fidamante,  vincendo  tutti  gli  strani 
ostacoli,  che,  per  forza  di  magia ,  gli  vengono  opposti , 
distrugge  i'  incanto  detto  della  Pazienza ,  che  in  mille  e 
incredibili  forme  era  esercitato  da  due  scaltre  Sibille,  il 
cui  castello  si  sprofonda,  allorquanto  il  cavaliere,  pene- 
tratovi, spezza  due  vasi  di  vetro,  entro  i  quali  stavano 
gli  spiriti,  che  operavano  tante  orrìbili  cose  con  possanza 
infernale,  e  s' imposessa  del  magico  Specchio  e  del  ramo 
incantato  d'  alloro. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  155 

Cakto  X.  —  Compiuta  tale  mirabile  impresa,  e  li- 
berati coloro,  ch'eran  prigionieri  nell'incantato  castello, 
il  Fidamante  muove  contro  i  corsari  d'India;  dà  prove 
mirabili  del  suo  valore,  e  salva  tutti  i  prigionieri,  liberan- 
doli dall'indegna  schiavitù,  in  cui  erano  tenuti  da  quei 
feroci  pirati.  Giulia,  amante  d' Àrione,  ottenuta  la  libertà, 
vorrebbe  uccidersi;  ma,  trattenuta  dal  Fidamante,  gli  narra 
la  storia  de'  suoi  amori. 

Finito  questo  lungo  e  complicato  racconto  di  Bere- 
nice, il  nodo  dell'intreccio  è  ormai  sciolto,  ed  ora  non 
si  tratta  che  di  far  si,  che  il  Fidamante  ritorni  dalla  spe- 
dizione intrapresa  per  liberar  la  sorella  di  Berenice  ;  che 
egli  sia  messo  alla  testa  dell'  esercito,  che  deve  muovere 
contro  Orcano  ;  eh'  egli  vi  riporti  le  più  splendide  vitto- 
rie; che  v'incontri  la  sua  bella,  venuta  pur  essa  in  difesa 
del  re  di  Sicilia;  e  che  faccia  sotto  agli  occhi  di  lei  tali  cose 
da  indurla  a  concedere  il  suo  amore  a  un  cosi  prode 
guerriero  e  a  un  cosi  costante  amatore.  Tutto  ciò  si 
svolge  appunto  nei  rimanenti  canti,  i  quali,  essendo  tutti 
intessuti  d'episodi,  riassumerò  per  sommi  capi  soltanto. 

Canto  XI.  —  Dopo  la  sua  partenza  dalla  nuova 
Troia,  il  Fidamante,  fatto  lungo  cammino,  viene  a  cadere 
nei  lacci  delta  maga  Argentina ,  la  quale ,  per  distorlo 
dalle  sue  imprese ,  lo  alletta  con  mille  ailascinanti  lu- 
singhe e  cerca  trattenerlo  promettendogli  il  godimento 
dei  più  dolci  e  inebrianti  piaceri.  Ma  il  Fidamante  trova 
la  forze  di  resistere  alla  virtù  ammaliatrici  della  maga  e 
riesce  vincitore  dell'incanto. 

Trova  il  vecchio  Natan,  che  gli  narra  l'incestuosa 
origine  e  le  orrende  prove  del  feroce  Armedonte. 

Canto  XII.  —  Il  Fidamante,  proseguendo  il  cammino, 
s'imbatte  presso  una  fonte,  in  un  cavaliere,  che  si  la- 
menta per  la  crudeltà  della  sua  donna,  insensibile  all'  a- 
more.  Egli  è  Agamone,  che,  richiesto,  narra  i  suoi  adanni 


156  A.  BELLONI 

i  quali  ebbero  princìpio  dal  giorno  in  coi,  incontratosi 
in  una  giostra  con  una  bella  e  forte  guerriera  di  nome 
Vittoria,  ne  innamorò  perdutamente  senza  speranza  d'es- 
ser corrisposto.  A  tal  racconto  il  Fidamante  comprende 
d'avere  innanzi  a  sé  un  rivale  e  quindi,  sfldatolo,  com- 
batte con  lui  e  lo  vince. 

Canto  XIII.  —  Il  nostro  eroe  raggiunge  il  fine  prin- 
cipale dell'intrapresa  spedizione,  e  libera  la  sorella  di 
Berenice. 

Canto  XIV.  —  Costei  frattanto  scopre  ai  re  di  Troia 
l'intimo  pregio  del  ramo  incantato  d'alloro,  nel  quale, 
mercé  lo  specchio  magico,  è  dato  leggere  i  nomi  di  molte 
illustri  donne,  delle  quali  Berenice  tesse  l'elogio. 

Armedonte,  udita  la  fama  meravigliosa  del  Fidamante, 
viene,  mosso  dall'  invidia,  a  sfidarlo.  Egli  tien  prigioniere 
due  donzelle  e  dice  di  volerle  bruciare,  pronto  a  combat- 
tere contro  chiunque  osasse  opporglisi.  In  tal  guisa  spera 
di  venire  a  singoiar  tenzone  col  Fidamante,  non  sapendo 
eh'  egli  è  assente.  Molti  guerrieri  si  avanzano  ad  afifron- 
taro  Armedonte,  che  tutti  li  vince,  finché  una  pioggia 
provvidenziale,  provocata  per  incanto,  da  Berenice,  dà  ter- 
mine alla  pugna. 

Canto  XV.  —  Armedonte,  facendosi  scala  de' suoi 
giganti,  sale  sulle  mura  altissime  di  Troia  e  dà  l'assalto 
alla  città,  spargendo  ovunque  il  terrore  e  facendo  orri- 
bile strage  degli  abitanti.  Era  la  notte.  Radamante  de- 
statosi corre  alla  difesa  e,  raccolti  i  suoi,  respinge  gli 
assalitori  che  tutti  vengono  uccisi,  tranne  Armedonte, 
il  quale  ripara  sulle  sue  navi. 

Canto  XVI.  —  Date  le  vele  ai  venti,  il  feroce  guer- 
riero abbandona  quelle  infauste  spiagge;  ma  giunto  in 
alto  mare  vien  colto  da  nna  tempesta,  che  distrugge  le 
sue  navi  e  disperde  le  sue  genti  pei  flutti.  Egli  solo  si 
salva  e  a  nuoto  giunge  a  toccar  la  spiaggia  di  Cipro.  Qui 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  157 

è  il  regno  incaotevole  d' ArgeotìDa,  la  quale  coi  suoi  fa- 
scini ammalia  cosi  quel  feroce,  che  lo  induce,  deposte  le 
armi,  a  giacer  presso  lei  attendendo  a  lavori  donneschi. 

Canto  XVII.  —  Il  Fidamante  intanto  ritoma  a  Troia  ; 
è  posto  a  capo  delle  milizie  che  stanno  per  muovere 
contro  Orcano. 

Onesti  aveva  mandato  dei  nunzi  alla  figlia  Argentina 
per  avere  Armedonte,  del  quale  intendeva  valersi  nella 
prossima  guerra.  Argentina  per  mostrare  ai  messi,  a 
quale  abiezione  giungano  coloro,  che  sono  da  lei  fatti 
prigionieri,  prepara  una  giostra,  nella  quale  i  cavalieri 
hanno  cavalli  di  legno,  ed  ella  s' avanza  cavalcando  il  po- 
vero Armedonte,  che  si  presta  con  merevigliosa  mansue- 
tudine al  vite  ed  umiliante  giuoco.  Dopo  ciò  essa  parte 
da  Cipro  con  Armedonte  per  unirsi  all'  esercito  del  padre. 

Canto  XVIII.  —  Orcano  muove  con  le  sue  schiere 
contro  r  Europa.  lasio  gli  rimprovera  la  sua  troppa  au- 
dacia e  la  stolta  superbia.  Egli  l'uccide;  ma  ne  vede 
poi,  spaventato,  innanzi  a  sé  nella  notte  l'immagine  ter- 
ribile e  minacciosa. 

Il  Fidamante  prende  congedo  dal  re  di  Troia,  e  con 
la  flotta  si  dirige  verso  l' Egitto.  Quivi  giunto,  trova  Vit- 
toria, venuta  ella  pure  per  combattere  Orcano.  Si  fa  la 
rassegna  delle  truppe  alleate. 

Canto  XIX.  —  Nel  campo  tutti  riposano  tranquilli; 
non  però  il  Fidamante  e  Vittoria.  Questa  sente  serpeg- 
giarsi in  petto  il  foco  d'amore,  né  vorrebbe  confessare 
a  sé  stessa  d'aver  ceduto  a  quella  passione  a  cui  per 
tanto  tempo  ebbe  a  resistere.  Il  Fidamante  d' altra  parte, 
vagheggiando  nella  mente  l' imagine  di  lei ,  che  gli  parve 
men  severa  e  men  restia  all'amore,  è  agitato  da  mille 
pensieri,  e  trapassa  dalie  speranze  più  dolci  al  timore, 
che  ingannevole  presagio  di  sensi  più  miti  sia  stata  la 
fiamma,  che  repentina  balenò  negli  occhi  di  lei. 


158  A.   BELLOIfl 

Canto  XX.  —  S'impegna  battaglia  e  il  Fidamaote 
salva  Vittoria,  ch'era  in  pericolo  di  cader  nella  mischia. 

Canto  XXI.  —  Creano  per  rendersi  immortale,  sa- 
criflca,  consigliato  dai  saoi  maghi,  la  figlia  Ismine  ;  la  coi 
madre  Atossa,  una  delle  trecento  mogli  del  fiero  tiranno, 
dopo  aver  tentato  invano  di  salvarla,  offrendosi  ella  stessa 
al  sacrifizio,  s'uccide  vinta  dal  dolore. 

Giunge  intanto  notizia  della  sconfitta  toccata  alle 
genti  di  Faraote;  la  città,  oppressa  dall'assedio  e  ormai 
ridotta  all'estremo;  vorrebbe  ribellarsi,  ma  Faraote,  fin- 
gendo di  voler  offrire  se  stesso  ai  nemici  piuttosto  che 
Pelusio  dovesse  arrendersi,  riesce  a  calmare  gli  animi. 

Canto  XXII.  —  Orcano,  guidato  da  una  maga,  scende 
a  visitare  il  regno  degli  inferi. 

Canto  XXIII.  —  La  furia  Megera  si  presenta  in  so- 
gno a  Vittoria  sotto  le  parvenze  della  madre  di  lei;  la 
rimprovera  di  non  esser  più,  come  per  lo  innanzi,  in- 
sensibile all'  amor  del  Fidamante  e  le  insinua  nel  core 
il  veleno  dei  sospetti. 

Assunta  l'apparenza  d'un  messo  di  Faraote,  la  furia 
va  ad  eccitare  Argentina  e  Armedonte,  affinchè  s'affret- 
tino verso  l'Egitto. 

Intanto  si  presenta  a  Vittoria  il  cavaliere  Agamone, 
che  le  narra  le  prodezze  fatte  innanzi  a  lui  dal  Fidamante 
e  ne  esalta  la  virtù.  Ella  allora  si  pente  d'avere,  per 
eccitamento  della  furia,  fatto  onta  al  suo  fedele  ponen- 
dolo dietro  tutte  le  squadre.  Agitata  da  mille  contrari 
pensieri  lo  richiama  col  pretesto  dell'arrivo  d' Agamone. 

In  questo  mezzo  i  re  alleati  di  Sicilia  e  di  Creta,  ven- 
gono ad  incontrare  il  Fidamante  e  Vittoria,  vincitori.  Que- 
st' ultima  però  punta  d'invidia  (sempre  per  opera  della 
furia)  nel  vedere  le  accoglienze  fatte  al  guerriero  suo  com- 
pagno, delibera  di  mandarlo  a  vincere  un  incanto  a  Menfi. 

Canto  XXIV.  —  Megera  ìnstilla  il  suo  veleno  nel- 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE   DEL  SEGOLO   XVI  159 

r  animo  del  re  di  Creta  eccitaDdovi  sospetti  sul  conto  di 
Vittoria.  Si  presenta  poi  al  re  di  Sicilia,  sotto  figara  del 
Fidamante,  che  gli  annunzia  il  trionfo  dei  nemici,  dovuto 
alla  propria  lontananza.  Entra  inflne  in  petto  a  Yipercano 
e  vi  desta  sentimenti  ambiziosi  e  d' invidia ,  eh'  eccitano 
colui  a  provocare  una  sedizione,  la  quale  vien  sedata  da 
Vittoria ,  che  persuade  con  dolci  modi  i  ribelli  all'  obbe- 
dienza, e  che,  stringendo  vieppiù  l' assedio,  riesce  ad  im- 
pedire, ch'entrino  soccorsi  nella  città  di  Pelusio. 

Intanto  una  flotta  di  navi  greche,  capitanata  da  Pe- 
rìandro,  che  soleva  scorrere  il  mare,  per  impedire  che 
qualsiasi  aiuto  potesse  giungere  alla  città  assediata,  s' in- 
contra con  r  armata  d' Argentina ,  che  veniva  verso 
r Egitto.  S* impegna  una  terribile  battaglia,  nella  quale 
Annedonte  fa  strage  de' Greci. 

Canto  XXV.  —  Le  squadre  del  Fidamante  rifiutano 
di  combattere  fino  a  che  non  torni  il  loro  duce. 

Vittoria  chiama  allora  per  consiglio  Alfenore,  il  quale 
pensa  di  sedare  la  ribelliore  con  un  inganno.  Va  prima 
tra  i  suoi,  e  dicendo  loro,  che  le  schiere  del  Fidamante 
s'erano  ammutinate  perchè,  contro  il  voler  di  Vittoria, 
voleano  andar  prima  all'assalto,  eccita  in  essi  lo  spirito 
di  emulazione,  sicché  tutti  dichiarano  di  voler  per  sé 
r  onore  della  precedenza. 

Passa  quindi  tra  i  guerrieri  del  Fidamante,  dice  loro 
la  medesima  cosa  e  ottiene  lo  stesso  effetto. 

Sedato  il  tumulto ,  si  stabilisce  di  dare  V  assalto  a 
Pelusio  il  mattino  seguente. 

Appena  sorta  l' aurora^  comincia  T  oppugnazione  della 
città;  Vittoria  sale  sulle  mura  e  dà  prove  di  straordinario 
valore;  ma  mentre  tenta  di  porre  il  piede  sul  secondo 
muro,  vien  ferita  da  un  dardo;  ella  però  continua  a  com- 
battere. 

A  questo  punto  sopraggiunge  Armedonte,  il  quale. 


160  A.  BELLOffl 

abbattuti  i  più  forti  gaerrieri,  sfida  con  parole  di  scherno  il 
Fidamante  a  venirgli  innanzi. 

Canto  XXVI.  —  Episodio  di  Virginia  e  Ck)stanza, 
di  cui  parleremo  più  innanzi. 

Canto  XXVII.  —  Gli  Egizi  fanno  una  sortita,  ma 
sono  respinti  nella  città. 

Canto  XXVIII.  —  Gli  Itali  e  i  Greci  ritomaDO  nuo- 
vamente alle  loro  fortezze.  Armedonte  s'avanza;  cade 
nel  Nilo,  presume  di  far  con  lui  contrasto,  corre  pericolo 
di  affogare  e  a  stento  ripara  nella  città. 

Argentina  intanto  s'abbandona  ad  ogni  maniera  di 
lascivie  ;  s' invaghisce  d' altro  giovane  amante. 

Canto  XXIX.  —  Vittoria  comprende,  come  l'esito 
della  guerra  sia  compromesso  per  l'assenza  del  Fi- 
damante. 

Questi  frattanto,  giunto  a  Menfi,  libera  da  una  ma- 
snada di  ladroni  un  vecchio,  che  gli  narra  chi  fece  l'in- 
canto, contro  cui  deve  andare  il  Fidamante  ;  e  come  sulle 
rive  del  Nilo  vi  fosse  un  terrìbile  cocodrìllo,  che  infestava 
il  paese.  A  saziarne  la  fame  si  davano  a  lui  dei  giovanetti, 
fatti  prigionieri  nei  luoghi  vicini.  Una  fanciulla  per  sal- 
vare ramante,  destinato  ad  esser  vittima  del  mostro, 
vorrebbe  sostituirsi  a  lui  nel  sacrifizio;  egli  non  vuole. 
Tutti  e  due  allora  affrontano  insieme  la  morte,  ma  il 
Fidamante  uccide  Y  orribile  mostro  e  salva  i  due  giovani, 
che  sono  Arione  e  Giulia. 

Canto  XXX.  —  A  questo  punto  giungono  delle 
Ninfe,  che  svelano  l'incanto  al  Fidamante,  donandogli 
una  preziosa  corona.  Egli,  va  alla  meravigliosa  colonna  del 
Nilo,  ove  vede  scolpite  le  grandi  vittorie,  le  prosperità, 
i  regni,  le  monarchie,  che  avranno  i  discendenti  suoi. 

Armedonte  intanto  non  esce  più  a  combattere,  ad- 
dolorato per  i  mali  portamenti  di  Argentina. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  161 

Vittoria  richiama  a  sé  con  lettere  e  con  promesse  il 
Fidamante. 

Canto  XXXI.  —  Giunge  Tomiri  al  campo  Egizio  e 
combatte  valorosamente;  ma  Agamone  ne  sbaraglia  le 
squadre. 

Argentina  pone  indosso  al  suo  novello  Amante  le 
armi  di  Armedonte.  Questi  fugge  disperato  e  tenta  d'im- 
piccarsi, ma  Argentina  lo  salva  e  lo  consola  uccidendo 
l'altro  suo  drudo. 

Canto  XXXII.  —  Armedonte  esce  nuovamente,  ri- 
conciliatosi con  Argentina,  a  battaglia;  e  incute  tale  spa- 
vento nei  nemici,  che  i  due  re,  di  Sicilia  e  di  Creta, 
Tanno  tosto  da  Vittoria  per  indurla  a  partir  con  loro.  Ma 
intanto  giunge  avviso  che  è  tornato  il  Fidamante,  il  quale 
con  elette  prove  rincora  i  suoi  e  infligge  gravi  perdite 
ai  nemici;  sfida  Armedonte,  e  combatte  con  lui  a  cavallo 
e  a  piedi. 

Canto  XXXIII.  —  L' esito  del  duello  rimane  dubbio. 

Uno  spirito  infernale  e  mandato  da  Orcano  a  Fa- 
raote  e  ad  Argentina  per  sturbare  la  nuova  disfida  corsa 
tra  i  campioni  delle  due  parti.  Ma  il  duello  ha  luogo  pa- 
rimente; e  il  Fidamante  resta  vincitore. 

Giunge  Orcano  tratto  per  l'aria  da  demoni  e  con 
un  forte  esercito,  che  s'accampa  là  presso. 

Canto  XXXIV.  —  Vittoria  e  il  Fidamante  delibe- 
rano d'afi^rontare  le  schiere  d' Orcano.  Faraote  inteso  che 
r  esercito  del  padre  era  stato  assalito  si  perde  d'  animo 
e  fugge. 

Il  Fidamante  entra  in  Pelusio  e  lo  mette  a  ferro  e 
a  fuoco.  Faraote  è  preso  ,  lacerato  e  dato  preda  ai 
canL 

Vittoria,  anziché  mantenere  le  sue  promesse,  impone 
al  Fidamante  di  portare  a  lei  la  testa  d' Orcano. 

Voi.  IV,  Pane  1  1 1 


162  A.  belloni 

Canto  XXXV.  —  Questi  per  consiglio  d'  uno  spi- 
rito d'Averno  si  presenta  al  Fidamante  per  ottenere  coi 
suoi  meravigliosi  doni  il  corpo  del  Aglio.  L'Eroe  sdegna 
di  approfittare  dell'occasione  per  uccidere  Orcano  e  gli 
concede  il  corpo  di  Faraote,  rifiutando  i  doni. 

Va  quindi  al  castello  d' Orcano  per  espugnarlo  ;  vede 
il  tiranno  volar  per  l'aria  sopra  un  carro;  disperato, 
s' imbarca  in  una  navicella  e  s' afSda  al  mare  ;  è  colto  da 
una  tempesta;  Proteo  lo  salva  ed  egli  si  trova  ai  piedi 
del  monte  Parnaso,  sul  quale  lo  conduce  Apollo,  che  gli 
addita  i  più  famosi  principi  ed  eroi  e  gli  dà  il  cavallo 
alato  Pegaseo. 

Canto  XXXVI.  —  Questo  lo  solleva  per  l' aria  ;  gli 
mostra  la  terra,  gli  predice  la  venuta  di  Cristo  e  la  re- 
denzione del  mondo  per  lui.  11  cavaliere  può  per  un 
istante  mirare  la  luce  divina,  che  lo  abbaglia. 

11  cavallo  alato  scende  quindi  dal  cielo  e  porta  il 
Fidamante  presso  il  castello  d' Orcano;  questi  esce  a 
battaglia  ed  è  vinto.  Il  cavaliere  libera  Radamante  e  Be- 
renice eh'  eran  stati  fatti  prigioni  da  Orcano;  il  re  di  Troia 
riconosce  nel  liberatore  il  proprio  figlio.  11  Fidamante 
presenta  a  Vittoria  il  capo  d' Orcano;  ma  ella,  per  quel - 
r  istinto  guerresco  eh'  è  in  lei ,  anziché  concedergli  tosto 
il  suo  amore,  lo  sfida  a  battaglia;  solo  vincendola  egli 
potrà  possederla.  I  due  amanti  si  dispongono  a  com- 
battere ;  ma  Amore  e  Diana  s'  accordano  di  por  fine 
all'inconsulta  resistenza  di  Vittoria;  e  quindi,  mentre  i 
due  prodi  campioni  stanno  per  incrociar  le  spade,  im- 
provvisamente vien  meno  nei  loro  animi  lo  sdegno,  che 
Cinzia  e  Cupido  non  visti  son  discesi  dal  cielo  a  riunirli 
per  sempre. 

(Continua) 

A.  Bellom 


INDICE  DELLE  GA.RTE 

DI 

PIETRO   BILANOIONI 

CoatribiU  alla  bibliignii  delle  riie  Tolgirì  dei  priii  tre  seeob*. 


(CooUnuaz.  da  pag.  394,  N.  S.,  VoL  IH,  Parte  li) 

PARTE  I. 
RIIE  COR  ROIE  D'IUTORE 


F 

I.  Fabnicci  (de*)  Incontrino. 

-f^er  ecniraro  di  bene  (canz.) 
Ms.:  *Vat  3793,  e  576  [Incontrino  de  Fabrucci  di   Fi- 

IL  Falconieri  Jacopo. 

degne  danne  delia  chiara  fonte  (son.)  (1) 

Ms.:  *Univ.  Boi  1739,  e.  1406  [Jacobus  de  Falconeriis  de 
^  *  orentia). 

Ediz.:  Crescimbeni,  ed.  Yen.,  Ili,  159  [Jacopo  Falconieri]. 

m.  FaytineUi  Pietro. 

1.  Amico  alcun  non  è  eh'  altri  soccorra  (son.) 

Mss.:  *Laur.,  pi  XL,  48  [Burchiello].         *Mofick.  9  [e.  s.] 
•Nagiiab.  VII,  7,  1168,  e  114  [Anselmo  Calderone];        •VII, 


(t)  A  Francesco  Petrarca,  che  rìsp.  col  son.:  Siccome  della 
«wdre  di  Felonie. 


164  a   K  L.  FRATI 

F,  m      3,  1009,  e.  187  [anon.]       •Riccard.  1103,  e.  101  [e.  s.]        'Laur. 

fÀytinelli    ^^'  ^'^^  ^^^'  ^'  ^^36  [e.  s.] 

p.  Edizz.  :  Burchiello,  Sonetti,  (Firenze,  1 490  e),  e.  63  [B  u  r  e  h  i  e  11  o] : 

Londra,  1757,  p.  246  [Di  Antonio  Pucci].  G.  M.  Barbieri,  On- 
dine d,  poesia  rimata.  Modena,  1790,  p.  167  (il  solo  1.^  ▼.)  [Mugnooe 
Fatinelli].  Villarosa,  Raccolta  palermitana^  voL  IV,  p.  SU 

[Antonio  Pucci].  Pietro  de' Fattinelli  detto  Mdgmone,  Rime 
ora  p.  la  prima  volta  pubbl.  da  L  Del  Prete.  Bologna,  1874  (Scelta, 
n.^"  139),  p.  106  [Pietro  de'  Faytinelli]. 

2.  Ercol,  Cibele,  Vesta  e  la  Minerva  (soo.) 

Uss.:  *Laur.,  pi.  XLI,  15,  e  36  [anon.]  *Laur.  Gadd.  198, 
e  83  [Mugnone  Fantinelli].  ^Laur.  Red  184,  e.  81  [Ant 
da  Ferrara].  Barber.  XLV,  47,  e.  149  [Mugnone].  •Cod. 
Bossi  ora  Trivulz.  1058,  e.  71  [Mugnone  Fantinelli].  *  Riccard. 
1088,  e.  62  [anon.]:  *  1103,  e.  107  [e  s.]:  '  1156,  e.  2  [e.  s.] 
'Marucell.  C,  155,  e.  68  [e.  s.]  *MagUab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  iO), 
ce.  906  e  164a  [Niccolò  Tinnucci  e  Mangnone  Fantinelli]. 
*Palat  200,  e.  46a  [anon.]  *Moiickiano  1,  ce.  30  e  107  [Mugnone 
Fantinelli]. 

Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete.  Bologna,  1874,  p.   103. 

3.  Già  per  minacce  guerra  non  si  venee  (son.) 

Ms. :  *  Barber.  XLV,  47,  e.  151  [Mugnone]. 
Ediz.  :  Faytinelu,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  83. 

4.  In  puona  verità  non  nC  è  avviso  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  \21  [Mugnone  di  fai  tinelli  da 
Lucha]. 

Ediz.  :  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  99. 

5.  Io  non  sconfesso,  Morte  comunale  (son.) 

Ms.:  'Barber.  XLV,  47,  e.  175  [Mugnone]. 
Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  101. 

6.  Io  non  vo*  dir,  eh'  io  non  viva  turbato  (son.) 

Ms.:  *Chig.  L,  IV,  131,  e.  668  [Mucchio  da  Lucha  ne*  Fan- 
tinelli]. 

Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  88. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  165 

7.  V  orgoglio  e  la  superbia  poco  regna  (son.)  F,  m 


Ms.:  •Barber.  XLV,  47,  e.  152  [Mugnone]. 
Edix.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  104. 

8.  Mugghiando  va  il  Leon  per  la  foresta  (sOQ.) 

Edizz.:  Crescimbeni,  ed.  Yen.,  I,  173  [Mugnone  da  Lucca]. 
Faytimelli,  i^fifif ,  ed.  Del  Prete,  p.  94. 

9.  Non  speri  il  pigro  re  di  Carle  erede  (son.) 

Bis.:  'Barber.  XLV,  47,  e.  150  [Mugnone]. 
Ediz.  :  Fattinelu,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  75. 

10.  0  spirito  gentile^  o  vero  Dante  (son.) 

EdìB.:  Crescimbeni,  ed.  Yen., IH,  141  [Faytinelli].  A.  Cappi, 
La  Biblioteca  Clastense  illustrata  ne'  principali  suoi  codd.  ecc.  Rimini, 
1847,  p.  38  [Faytinelli].  Cino  da  Pistoia,  Rime,  ed.  Carducci, 
p.  200  [a non.]       Faytinelu,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  111. 

11.  Onde  mi  dee  venir  giuochi  e  soUaeei  (son.) 

Ms.  :  *  Barber.  ILV,  47,  e  174  [Mugnone]. 
Ediz.:  Faytlnelu,  Rime,  ed.  Dei.  Prete,  p.  91. 

12.  PercV  uom  ti  mostri  un  bel  parlare  e  rida  (son.) 

Mss.:  Riccard.  1103,  e.  138 a  [a non.]  •Barber.  XLV,  47,  e. 
176  [Mugnone]. 

Ediz.  :  Faytlnelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  105. 

13.  Poi  rotti  sete  a  scoglio  presso  a  riva  (son.) 

Ms.:  "Barber.  XLV,  47,  e.  152  [Mugnone]. 
Ediz.  :  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  85. 

14.  iS"  io  veggo  in  Lucca  bella  il  mio  ritomo  (son.) 

3is.:  Barber.  XLV,  47,  e  152  [Mugnone]. 
Ediz.  :  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  93. 

15.  Se  si  combatte,  il  mio  core  si  fida  (son.) 

Ms.:  *  Barber.  XLV,  47,  e.  151  [Mugnone]. 
Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  81. 


faytinelli 
p. 


166  a  B  L.  FRATI 

|i  ^        16.  Si  mi  castrò^  percK  io  non  sia  castrone  (son.) 

FEDERICO  n  Ms.:  *Barber.  XLV,  47,  e  150  [Mugnone]. 

Ediz.  :  Faytinelu,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  77. 

17.  Spenf  è  la  cortesia^  spenf  è  largheeea  (canz.) 

Hs. :  *Laur.  Med.  PaL  119,  e  127  6  [Mughione  da  Lunga]. 
Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  108. 

18.  Uom  può  saper  ben  fisica  e  natura  (son.) 

Ms.:  •Barbar.  XLV,  il,  e.  176  [Mugnone]. 
Edìz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  97. 

19.  Veder  mi  par  già  quel  dalla  Faggiuola  (sod.) 

Ms.:  *Barber.  XLV,  47,  e  151  [Mugnone]. 
Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  87. 

20.  Voi  gite  molto  arditi  a  far  In  mostra  (son.) 

Ms.:  *Barber.  XLV,  47,  e  172  [Mugnone]. 
Ediz.:  Faytinelli,  Rime,  ed.  Del  Prete,  p.  79. 

rV.  Federico  IL 

1.  Arca  di  miele  (firamm.) 

Ediz.:  Annales  Aretini  io  Rer,  Itai,  Scr.,  XXIV,  860  [Imperator 
Federigus  venit  Arretium  et  in  discessu  suo  protulìt 
baec  verba  contra  Arretinos]. 

2.  Della  primavera  (canz.) 

Ms.:  Vat.  3793,  e.  14  [a non.] 

Ediz.:  Valeruni,  Poeti  del  primo  secolo,  I,  58  [Federico  li 
Imperadore]. 

3.  Di  dolor  mi  awien  cantare  (canz.) 

Ms.:  Val.  3793,  e.  U  [a non.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  I,  55,  [Federico  II  Imperadore]. 

4.  Dolce  mio  drudo,  eh  vattene  (son.) 
Ms.:  'Vat  3793,  e  13  [Re  Federigo]. 


S.  GBMINIANO 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  167 

V.  Federico  di  Geri  d' Arezzo.  F,  vii 

FOLGORE 

t.  Gli  antichi  e  hei  pensier  eonvien  eV  io  ledasi  (sojl)  da 

Mss.:  •ViccnUno  G,  2,  9,  8,  e  118  [a non.]  •Boi  Uni?.  1289, 
e  60  a  [e  s.] 

Edis.:  Crescimbeni,  ed.  Yen.,  IH,  177  [Federigo  d'  Are»»o]. 
Lami,  Catal,  mss.  Riccarda,  p.  187  [e.  5.]  Petrarca,  Sonetti  inediti 
tratti  da  due  antichi  codici  esistenti  nel  Civico  Museo  Correr  di  Venezia 
[ed.  A.  Sagredo].  Venezia,  Gasparrì,  1872,  ^p.  27  [Fra  rime  del 
Petrarca]. 

2.  In  ira  al  cielo,  al  mondo  e  alla  gente  (son.) 

Mss.:  -Cod.  Parmense  1081,  e.  18  6  [S.  M.  F.  P.]  •  Vicentino 
G,  2,  9,  8,  e  18  [anon.] 

EdizL:  Lazi,  CataL  mss,  Rice,,  p.  187  [Federico  di  messer 
Geri  d'Arezzo].  Petrarca,  Rime,  Padoya,  Cornino,  1722,  p.  358 
[Petrarca]. 

3.  Solo  soletto,  ma  non  di  pensieri  (son.) 

Mss.:  'God.  del  Museo  Correr  B,  5,  7,  e.  52 ò  [Fra  rime  del 
Petrarca]:  'B,  5,  29,  e.  72  [e.  s.]  •Boi.  Uni?.  1289,  e.  75fl 
[anon.j  •fiibl.  Com.  di  Vicenza,  cod.  G,  2,  9,  8,  e.  25  [anon.] 
•Chig.  L,  IV,  131,  e,  736  [Marchionne  Torrigiani]. 

Edizz.:  Crescimbeni,  ed.  Yen.,  V,  56  [Marchionne  Torrigiani). 
Barbieri.  Origine  della  poesia  rimata,  p.  166  (i  soli  vv.  1-2)  [Fede- 
ri }:o  (i*  Arezzo].  Petrarca,  Sonetti  ined.  tratti  dadueant,  codici 
esìstenti  mI  Museo  Correr  [ed.  A.  Sagredo].  Venezia ,  Gasparrì,  1852 
[Fra  rime  del  Petrarca]. 

VL  Filippo  da  Messina. 
Ahi  sire  Iddio^  cosi  forte  fu  lo  punto  (son.) 

Cdiz.:  Fioretto  di  Croniche  degli  Imperadori,  testo  di  lingua  del 
buon  secolo  jfubbl.  a  cura  di  L.  Del  Prete.  Lucca,  Rocchi,  1858,  p. 
\^  [Filippo  da  Messina]. 

VIL  Folgore  da  S.  Gemioiano. 

1.  Alla  brigata  nobile  e  cortese  (son.) 
Ms.  :  Barber.  XLV,  47,  e  128  [Folgore]. 


168  a  R   L.  FRATI 

Fy  TU  Edizz.:  Allacci,  Poeti  anL,  p.  317  [Folgore   da  S.  Gemi- 

FOLGORE     niano],         Valewani,  Poeti,  II,  171  [e.  s.]       NANNUCCI^  Manuale. 
DA  I,  341  [e.  s.] 

3.GEiaGNAN0 

2.  Alla  domane  alV  apparir  del  giorno  (son.) 

Bis.:  Barber.  XLV,  47,  e.  161   [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  339  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].       Valbiuani,  Poeti,  II,  193  [e.  s.] 

3.  Amico  caro,  non  fiorisce  ogni  erba  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  128  [Folgore]. 
Ediz.:  Allacci,  Poeti  ant.,   p.  316  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano]. 

4.  Cortesia^  cortesia,  cortesia  clamo  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  47  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Ediz.:  ALLAca,  Poeti  ant.,  p.  314  [Folgore  da   S.   Gemi- 
niano]. 

5.  Cosi  faceste  voi  o  guerra  o  pace  (son.) 

Bis.:  Barber.  XLV,  47,  e.  171  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Pk^i  ant.,  p.  340  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].       Valeriani,  Poeti,  11,  194  [e.  s.] 

6.  ly  agosto  si  vi  do  trenta  castella  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  131  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  325  [Folgore    da    S.    Gemi- 
niano].       Valeriani,  Poeti,  li,  179  [e.  s.] 

7.  ly  aprii  vi  do  la  gentile  campagna  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  130  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  321   [Folgore   da    S.    Gemi- 
niano]. 

8.  jD'  ottobre  nel  contai  che  ha  buono  stallo  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  132  [Folgore]. 

Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  327  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano]. Valeriani,  Poeti,  U,  181  [e  s.].  Nannucci^  Manuale, 
I,  344  [e  s.]. 


Dn)ICB  DELLE  GAfiTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  169 

9.  Di  febbraio  vi  dono  bella  eaccia  (son.)  F,  vn 


Ms.:  Barber.  XLV,  il,  e.  129  [Folgore].  fouk)RE 

Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant,  p.  319  [Folgore  da    S.    Gemi-  s.gbmi6NAN0 

Diano].         Valeruni,  Poeti,  U,  173  [e.  s.].       Nannucci*,  Manuale, 

l  343  [e.  s.] 

10.  Di  giugno  dowi  una  montagnetta  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  il,  e.  130  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  anU,  p  323  [Folgore   da    S.    Gemi- 
Diano].        Valeriani,  Poeti,  II,  177  [e.  s.] 

11.  Dì  luglio  in  Siena  sulla  saliciata  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  il,  e.  131  [Folgore]. 
Edizz.:  ÀLLAca,  Poeti  anU,  p.  324  [Folgore   da    S.    Gemi- 
niaDo].       Valeriani,  Poeti,  II,  178  [e.  s.] 

12.  Di  maggio  si  vi  do  molti  cavagli  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  130  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  anU,  p.  321   [Folgore   da   S.    Gemi- 
ni ano].       Valeriani,  Poeti,  \\,  176  [e.  s.] 

13.  Di  margo  si  vi  do  una  peschiera  (son.) 

Bb.:  Barber.  XLV,  47,  e.  129  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  320  [Folgore    da    S.  Gemi- 
niano].        Valeriani,  Poeti,  li,  174  [e.  s.] 

14.  Di  settembre  vi  do  diletti  tanti  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  131  [Folgore]. 
EdizL:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  326  [Folgore    da   S.    Gemi- 
oiaoo].        Valeruni,  Poeti,  II,  180  [e.  s.] 

15.  Discrezione  incontanente  venne  (son.) 

Ms. :  Riccard.  2794,  e.  67 a  [Folgore   da   san    Gimignano]. 
Edizz.:  Cor  AZZINI,  Miscellanea  di  cose  ined.  o  rare,  p.  231  [Fol- 
gore da  S.  Gemignano].        Nannucci*,  Manuale,  1,  348  [e.  s.] 

16.  E  di  decembre  una  città  in  piano  (son.) 
Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  132  [Folgore]. 


170  a  »   L.  FEATI 

V,  vu  Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.^  p.  329  [Folgore  da    S.   demi 


FOLGORB     niano].        Yaleriani,  Poeti,  U,  183  [e  s.] 

DA 

s.GEiaGNANO    17.  E  di  novembre  petriuolo  e  7  btigno  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  il,  e  132  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant,,  p.  328  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].       Yaleriani,  Poeti,  II,  182  [e.  s.] 

18.  Ecco  ProdcMa^  che  tosto  lo  spoglia  (son.) 

Ms.:  Riccard.  2795,  e.  67  a   [Folgore  da  san  Geminiano]. 
Edizz.:  CoRAZZiNT,  Miscellanea,  p.  230  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].      NANNUca^  Manuale,  I,  346  [e  s.] 

19.  Ed  ogni  giovedì  tomeamento  (soo.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  160  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant,  p.  336   [Folgore  da    S.    Gemi- 
niano].      Yaleriani,  Poeti,  li,  190  [e  s.] 

20.  Ed  ogni  venerdì  gran  caccia  e  forte  (son.) 

Ms.  :  Barber.  XLV,  47,  e  161  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Edizz.:  Allacci.  Poeti  ant,,  p.  337  [Folgore    da    S.    Gemi- 
niano].      Yaleriani,  Poeti,  II,  191  [e.  s.] 

21.  Eo  non  ti  lodo^  Dio,  e  non  ti  adoro  (son.) 

Mss.  :  'Barber.  XLV,  47,  e.  172  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
*Cod.  Boncompagni  7,  e.  95. 

Ediz.:  A.  Borgognoni  nel  Propugnatore,  V.  S.,  I,  308  (i  soli  w,  1-8) 
[Folgore  da  S.  Geminiano]. 

22.  Fior  di  virtù  si  è  gentil  coraggio  (son.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

23.  Criugne  allegrezea  con  letizia  e  festa  (son.) 

Ms.  :  Riccard.  2795,  e.  67a  [Folgore  da  san  Geminiano]. 
Fidizz.:  CoRAZZiNi,  Miscellanea,  p.  231  [Folgore  da   S.  Gemi- 
niano].       Nannucci*,  Manuale,  I,  348  [e.  s.] 


Iin>ICB  DELLE  CABTE  DI  P.  BILaNCIONI,  P.  L"  171 

24.  Chièlfi,  per  fare  scudo  delie  reni  (son.)  ftvn 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  172  [Folgore].  fowore 

Edizz.:  Allacci,  Pùetì  ant,,  p.  341  [Folgore  da  S.  Gemi-  s. geminiano 
Diano].        Valeìuani,  Poeti,  II,  195  [e.  s.] 

25.  Il  martedì  li  do  un  nuovo  mondo  (sod.) 

Bis.:  Barber.  XLV,  47,  e  160  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.^  p.  334    [Folgore  jda   S.    Gemi- 
oiaoo].       Yaleriani,  Poe/f,  U,  188  [e.  s.] 

26.  Il  sabato  diìeiio  ed  aìlegreeea  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  161  [Folgore  da  S.    Geminiano]. 
Edizz.:  Allacci,  Poeti  ant.,  p.  338  [Folgore  da  S.   Gemi- 
niano].      Valkriani,  Poeti,  U,  192  [e  s.] 

27.  Io  dono  voi  nel  mese  di  gennaio  (sod.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e  129  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poe/»  an/.,p.  318  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Valeriani,  Poeti,  U,  172  [e  s.]      Nannucci',  Manuale,  l,  342  [e.  s.] 

28.  Io  ho  pensato  di  fare  un  gioiello  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47, g.  159  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
EdizL  :  Allacci,  Pof/tan/.,p.  332  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Valeriani,  Poeti,  II,  186  [e.  s.]      Nannucci*,  Manuale,  l,  344  [e.  s.] 

29.  Ogni  mercoredi  corredo  grande  (son.) 

Ms. :  Barber.  XLV,  47,  e.  160  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 

Edizz.:  Allacci,  Poe/ian/.,  p.  335  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 

Valeriani,  Poeti,  lì,  189  [e.  s.]       Nannucci»,  Manuale,  I,  345  [e.  s.] 

30.  Ora  si  fa  un  donsfello  cavalieri  (son.) 

Ms.:  Riccard.  2795,  e.  67a  [Folgore   da   san   Geminiano]. 
Edizz.:  GoRAZZiNi,  Miscellanea,  p.  229  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].       Nannucci',  Manuale,  I,  346  [e.  s.] 

31.  Quando  la  luna  e  la  stella  diana  (son.) 

Edizz.:  Allacci,  Pof/tan/.,p.  333  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Valeruni,  Poeti,  li,  187  [e.  s.]       Nannucci  >,  Manuale,  I,  345  [c.s.] 


172  a  "   L.  FRITI 

f ,  vm       32.  Quando  la  voglia  signoreggia  tanto  (son.) 


FORESTA (D.)         y^^  ,  ^^^^^  ^^^  ^^^  ^  ^^^  [Folgore  da  S.  Gemioiano]. 
Chig.  L,  Vili,  305  [a non.] 

Edizz.  :  Allacci,  Poeft' an/.,  p.  331  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Valewani,  Poeti,  II,  185  [e.  s.] 

33.  Sonetto  mio,  a  Niccolò  di  Misi  (sod.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  132  [Folgore]. 
Edizz.:  Allacci,  Poe/tan/.,p.  330  [Folgore  da  S.  Geminiano]. 
Valeriani,  Poeti,  II,  184  [e.  s.] 

34.  Umiltà  dolcemente  lo  riceve  (son.) 

ìfs.:  Riccard.  2795,  e  67 a  [Folgore  da  san  Gemignaoo]. 
Edizz.:  GORAZziNi,  Mitcellanea,  p.  230  [Folgore  da  S.  Gemi- 
niano].       NANNUCCI^  Manuale,  I,  346  [e.  s.] 

Vm.  Foresta  (Dalla)  Antonio. 

1.  Per  un  boschetto  sanaa  compagnia  (sod.) 

Bis.:  Riccard.   1103,  e.  97  a  [Son.  d'Antonio  de  la  Foresta 
mandato  a  lorenzo  moschi]  (1). 

2.  Tosto  ch'io  intesi  il  domandato  omaggio  (son.) 

Ms.:   *  Riccard.    1103,   e  98  6  [Sonetto    d'  Antonio    de 
la  Foresta  mandato   per  risposta  a  Lorenzo  Moschi]  (2). 

3.  Una  fanciulla  che  m' ha  il  cor  ferito  (son.) 

Mss.:  *Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  108a  [anon.]         •Magliab. 
VII,  6,  1066,  e.  13   [e.  s.]  •Chig.  L,  IV,  131,  e.  679  [e  s.] 

•Cod.  Vicentino  contenente  il  Filostrato  del  Boccaccio,  c  88  [c.  s,] 
'Riccard.  1103,  e.  98  a  [Antonio  da  la  Foresta  da  Firenze 
mandato  a  Lorenzo  Moschi]  (3). 


(1)  Lorenzo  Moscm  rispose  col  son.:  Avegna  che  7  mio  ingegno 
debol  sia  [a  e.  97  6  del  cod.  Rice.  1103]. 

(2)  Responsivo  al  son.  di  Lorenzo  Moschi  :  Data  mia  dona  gentile 
u  mesagio  [cod.  Rice.  1103,  e.  986]. 

(3)  A  e.  98  a  e  6  segue  la  risp.  del  Moscm  :  Se  mi  richorda  bene 
r  ò  già  udito. 


s. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  173 

IX.  Forestani  Simone  detto  il  Savìozzo.  ^^  ^ 

FORESTANI 

1.  Addio  ehi  sia  eh^  io  me  ne  vo  cantando  (canz.) 

Ms.:  Canonie  it  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  76  [Simonis 
de   S e n i s]. 

2.  Amor  che  le  verdi  ombre  everse  in  ghiaccio  (caDZ.) 

Mss.:  Yat  3212,  g.  45  [Simone  da  Siena]  ^Senese  G,  IV, 
16,  e  142  b  [Simone  Serdini  Forestani  da  Siena  detto 
il  Safiozzo.  Ganzon  morale  fatta  per  una  fanciulla  in- 
namorata d'un  gentil  giovinetto]. 

3.  Amor  con  tanto  sformo  ormai  m^  assale  (canz.) 

Ns.:  Canonie  iL  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  76  [Simonis 
de   S e n i s]. 

4.  Amor,  ti  porto  scolorito  il  volto  (canz.) 

Bis.:  ^Senese  C,  IV,  16,  e.  156  a  [Simone  Serdini  Forestani 
da    Siena   detto  il  Saviozzo]. 

5.  Afnor^  tu  sai  che  sempre  «'  fui  suggetto  (son.) 

Ms. :  *  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  31  a  [Maestro  Simone  Ser- 
dini  da   Siena]. 

6.  Animo  pellegrino,  in  cui  amore  (son.) 

Ms.:  •  Senese  C,  IV,  16,  e.  162  h  [Simone  ser  Dini  Fore- 
stani da   Siena  detto  il  Saviozzo]. 

7.  Beati  son  coloro^  o  vero  Iddio  (ott) 

Ms.:  MoOck.  1.  della  GoTemativa  di  Lucca.  [Saviozzo]. 

8.  Ben  è  verace  V  amor  cV  io  ti  porto  (son.) 

Ms.:  *  Senese  C,  IV,  16,  e.  161  a  [Simone  ser  Dini  Fore- 
stani da  Siena  detto  il  Saviozzo]. 

9.  Benedictus  dominus  Deus  Israel  (canz.) 

Mss.:  Laur.  Med.  Pai.  118,  e.  45[Simone  Serdini  da  Siena]. 
Bibl.  Naz.  Firenze,  palat  199,  e.  53  ò  [Maestro  Simone  Saviozzo 


174  a  »   L.  FRATI 

I,  IX       da  Siena].       Riccard.  2732,  e.  87  ò :        1126,  e.  117  a  [M."*  Simone 

FORESTANI    ^^  Siena]       VaL  3212,  e.  5i  [e.  s.]       Chig.  M,  IV,  79,  e.  98  [e  s.] 

s.  BoL  Univ.  2574,  e.  132  LSimon  da  Siena].        Canonie.  iL  50  odia 

Bodleiana  di  Oxford,  e  65  b  [a  non.]        *  Senese  Ls  VII,  15,  e  36  fr 

[Simone  Serdini  da  Siena]:       *C,  IV,  16,  e.  106  a  [Simone 

ser  Dini  Forestani.   Nella  creatione  dMnnocentio  VII]. 

10.  Cerbero  invoco  e  il  suo  crudo  latrare  (sod.) 

Mss.:  Riccard.  1091,  e  127  [Antonio  da  Bacchereto]. 
Barber.  XLV,  129,  e.  127  [a non.]  Laur.,  pL  LIIXIX  sup.,  35,  e. 
20  [e  s.]:  pL  LXXXIX  inf.,  44,  e.  171  [e  s.]  Magliab.  VII,  3, 
1009,  e.  83  [e.  s.]:  VII,  3,  1010  (ora  H,  40),  g.  200  a  [Maestro 
Antonio  di  gbuido].  Bibl.  Naz.  Firenze,  paIaL  419,  e  99  [Si- 
mone Forestani].      Riccard.  2823,  e  65  [e.  s.] 

Edizz.:  Serafino  Aquilano,  Opere,  Firenze,  Giunti,  1516,  e  108 
[Seraf.  Aquilano]  Cerbero  invoco,  il  qual  narra  come  una  fan- 
ciulla abbandonata  dal  suo  innamoralo  si  lamenta,  e  conta  le  bellezze 
di  lui,  e  poi  per  disperata  si  buttò  in  Mongibello.  Firenze ,  appresso 
Giovanni  Baleni,  1584,  in  4.®  [Simone  Forestani]. 

11.  Chiaro  discemo  e  vedo  cK  ognor  manca  (sod.) 
Ms.:  *  Boi.  Univ.  1739,  e  37  6  [Simonis  Seneusis]. 

12.  Clemente  padre^  onnipotente  Iddio  (sod.) 

Ms.:  *Bol.  Univ.  1739,  e.  37  ab  [Simonis  Seneusis]. 

13.  Colsemi  al  primo  sonno  della  morte  (cap.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XLI,  34,  e.  92  [Saviozzo].  Magliab.  VII,  3, 
1010  (ora  II,  40),  e.  120  a  [Saviozzo  overo  Simone  da  Siena]. 
Riccard.  1114,  e.  172. 

14.  Come  per  dritta  linea  V  occhio  al  sole  (cap.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  35,  e.  62  [Maestro  Simon  da  Siena]: 
pi.  XG  inf.,  37,  e.  227  [Simone  ser  Dini  da  Siena  detto 
Saviozo]:         pi.  XL,  38,   e.  3  [Pietro    Alighieri].  Laur. 

Strozz.  160.  Laur.  Med.  Pai.  118,  e.  48.  Laur.  SS.  Annunz.  109, 
e.  336  [Maestro  Simone  Saviozzo  da  Siena].  Magliab.  VII, 
107  [anon.]:  VII,  956,  e.  21  a  [Simone  Saviozo  da  Siena]: 
VII,  1009,  e  113a  [Simone  da  Siena]:      VIU,  23,  e.  Ub  [e.  s.]  : 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*"  175 

VII!,  1^78,  e  5  [Simone  di  ser  Dini  da  Siena  detto  SaviozzoJ:       F,  ix 
VII,  10,  1103,  e  lOSo.         Bibl.   Naz.   Firenze,  palai.  199,  e.  57  a    fqrestani 
[Maestro  Simone  Saviozzo]:     204,  g.  2836  [Simone  Serdini  s. 

da  Siena  detto  il  Saviozzo]:  214,  e.  29 a  [e.  s.]  Riccard. 
2823,  e  62:  162,  e  240  ò  [Magistri  Simonis  de  Sardinibus 
de  Senis]:  2732,  e  846:  2815,  e.  59.  VaL  3212,  e.  59 
[Simone  da  Siena].  Chig.  M,  IV,  78,  e.  90  [e.  s.]  BoL  Univ. 
2574,  e.  127  [e  s.].  Canonie  iL  81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis 
de  Senis].  R.  BibL  di  Stuttgart,  cod.  10  de'  filo!.,  e.  38  [Simone 
da  Siena].  ^Senese  1,  VII,  15,  e.  286  [Simone  ser  Dini  d 
Siena]:  *C,  IV,  16,  e  986  [Si  crede  di  Simone  padre  di 
Saviozzo  e  zio  d'altro  Simone].  'Bibl.  Naz.  di  Napoli,  cod. 
mi,  C  1  [Simonis  de  Senis]. 

Edizz.  :  Dantis  Aligeru,  De  vulg.  ehq.  libri  duo.  Parisiis,  Io.  Gor- 
boo,  1577,  p.  76.  Rime  e  prose  del  buon  secolo  [ed.  T.  Bini].  Lucca, 
Giosti,  1852,  p.  38. 

15.  Corpi  celesti  e  tutte  V  altre  stelle  (cap.) 

Xss.:  Laur.,  pL  XC  inf. ,  35  I,  e.  60  [Maestro  Simone  da 
Siena].  Laur.  SS.  Ànnunz.  122,  e  636  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Magliab.  VIII,  23,  e.  726  [Simone  da  Siena  chiamato 
Saviozzo]:  XXXIV,  1,  e.  132a  [Simone  Serdini  da  Siena]* 
Riccard.  2823,  e  606  [Messer  Simone]:  2815,  e.  57  6:  1154, 
e  3066  [Simone  da  Siena].  VaL  3212,  e.  626  [e.  s.]  Ca- 
nonie, it  81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis  de  Senis].  R. 
Bibl.  di  Stuttgart,  cod.  10  de*tìlol.,  e.  36  [Simone  da  Siena]. 

16.  Decoris  alma  angelico  tesoro  (sod.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

17.  Deh  non  v*  incresca  di  trovare  affanno  (son.) 

Ms.: 'Senese  C,  IV,  16,  e.  163a  [Simone  Ser  Dini  Forestani 
da  Siena  detto  il  Saviozzo]. 

18.  Diffusa  grafia  in  la  tua  santa  mente  (son.) 

Blss.  :  'Senese  I,  VII,  15,  e.  206  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
C  IV,  16  [e  s.]  Chig.  M,  IV,  79,  e.  81  [e.  s.]  Boi.  Univ.  2574, 
e  121  [e  S.J 


176  a   »   L.  FRATI 

F,  IX        19.  Diletta  a  Dio^  e  sola  albergo  e  loco  (son.) 


FORESTANI 

g.  Mss.:  Laur.  SS.  Ànnunz.  122,  e.  6i  a  [Simone   Serdini  da 

Siena].  Magliab.  XXXIV,  1,  e.  i23a  [Simone  Serdini].  Ric- 
card.  1154,  e.  1896  [Simone  da  Siena].  Chig.  M,  IV.  79,  e  S6 
[e  s.]  Boi.  Univ.  2574,  e  125  [e.  s.]  Canonie,  it  81,  e,  78 
[Simonis  de  Senis].  ^Senese  I,  VII,  15,  e.  25a  [Simone  Ser- 
dini da  Siena]:        *C,  IV,  16,  e.  946  [Saviozzo]. 

Ediz.:  Rime  e  prose  del  buon  secolo  [ed.  Bini].  Lucca,  1852,  pp. 
41  e  61. 

20.  Domine^  ne  in  furore  tuo  arguas  me  (son.) 

Mss.:  Laur.  Med.  Pai.  118,  e.  44  [Simone  da  Siena].  Laur. 
SS.  Ànnunz.  122,  e.  50 a  [Simone  Serdini  da  Siena].  Magiiab. 
VII,  1171,  e.  IlOfl  [Saviezze]:  VII,  7,  1125,  e.  286  [Simone 
da  Siena  cioè  il  Saviezze].  Bibl.  Naz.  Firenze,  palat.  199,  e  47  fr 
[Maestro  Simone  Saviozzo  da  Siena].  Riccard.  1091,  e 

1166  [Saviozzo  da  Siena  Simone  di  Nanni]:  2732,  e.  89: 
1154,  e.  193  a  [Simone  da  Siena].  Marucell.  C,  152,  e.  128  a. 
VaL  3212,  e.  57  h  [e.  s.]  Chig.  M,  IV,  79,  e.  84  [e  s.]  Boi.  U- 
niv.  2574,  e.  123  [e.  s.].  Canonie.  81,  e.  76  [Simonis  de  Senis]: 
50,  e.  54  b  [Simone  da  Siena].  Perugino  G,  85  [e.  s.]  *  Se- 
nese I,  IX,  18,  e.  486  [Simone  da  Siena.  Canzone  ove  priega 
il  Conte  Ruberto  da  Poppi  gli  perdoni  un  certo  errore  e 
promette  a  la  canzone  di  coronarla  se  M  cava  di  prigione 
e  cosi  fu]:  I,  VII,  15,  e.  24fl  [anon.]:  C,  IV,  16,  e  93ff 
[anon.]:  H,  XI,  54,  e.  23a  [Maestro  Simone  da  Siena.  Canz. 
fatta  quando  il  Conte  di  Poppi  T  aveva  in  prigione]. 

21.  Donne  leggiadre  e  pellegrini  amanti  (serv.) 

Mss.:  Cbig.  M,  IV,  79,  e.  75  [Simone  da  Siena].  Boi.  Univ. 
2574,  e.  117  [Simon  da  Siena].  Canonie,  iu  81,  e.  77  [Simonis 
de  Senis].  Estense  111,  D,  22,  e.  135  a,  Par.  II  [anon.]  *  Se- 
nese I,  VII,  15,  e.  15a  [Simone  Serdini  da  Siena]:  *C,  IV, 
16,  e.  120  fl  [e.  s.] 

22.  Esercitava  il  vero  mio  civile  (son.) 

Ms.  :  ^Riccard.  1091,  e.  HO  [Simone  di  Vanni  da  Siena). 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONT,  P.  I.*  177 

23.  Esser  non  può  che  nel  terrestre  sito  (son.)  F,  ix 

FORESTANl 

Mss.:  *  Senese  I,  VII,  15,  e.  246  [Simone  Serdini  da  Siena]:  g. 

•C,  IV,  16,  e  13i  b  [e.  s.]:  M.  IX,  18,  e.  61  a  [Simone  da 
Siena  al  signor  Karlo  de*  Malatesti].  Laur.  SS.  Annunz.  122, 
e  M8  fl  [e  5.]  Chig.  M,  IV,  79,  e  85  [e.  s.]  Boi.  Univ.  2574,  e. 
124  [Simon  da  Siena]. 

24.  Figìiuol  mio^  sie  leale  e  costumato  (son.) 

Vedi  Pucci  Antonio. 

25.  Fra  candide  viole  or  gelsi  or  rosa  (son.) 

Blss.:  I^ur.  SS.  Annunz.  122,  e.  59  a  [Simone  Serdini  da 
Siena]  •Senese  C,  IV,  16,  e.  162  a  [e.  s.]:  •  I,  IX,  18,  ,c.  64  a 
[Simone  da  Siena.  Per  una  a  Rimino  donna  d'un  gentil 
giovane]. 

26.  Fra  il  suan  dell'  ora  e  gli  arboscelli  scussa  (canz.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  226  a  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Marucell  C,  152,  e.  131  a  [Simone  da  Siena]  *Se- 
nese  C,  IV,  16,  e.  151  ò  [Simone  ser  Dini  Forestani  da  Siena]: 
*  i,  IX,  18,  e  56  a  [Simone  da  Siena.  Canzon  a  recomen- 
datione  del  Conte  Ruberto  da  Poppi  a  Firenze,  mo- 
strando come  Firenze  mi  mostra  desegnati  nel  suo  petto 
molti  di  loro  de*quali  parla  di  cinque  dimostrando  lor 
probità  e  ricordando  gratitudine   et  cetera,  1396]. 

27.  Fra  le  più  belle  loggie  e  gran  palagi  (canz.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  58a  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Marucell.  C,  152,  e.  1286  [Simone  da  Siena].  Chig. 
M,  IV,  79,  e  70  [e.  S.I  Boi.  Univ.  257  4,  e.  114  [e.  s.]  Ca- 
oonic  ìl  81,  e.  76  [Simonis  de  Senis].  ^Senese  I,  IX,  18,  e. 
50a  Simone  da  Siena]:  M,  VII,  15,  e  9  6  [e.  s.]:  *  C,  IV, 
ir»,  e.  86  a  [Del    figliuolo   di  Simone   ser  Dini    Forestani  ' 

da    Siena]. 

28.  Frusto  è  del  fragil  legno  antenna  e  sarte  (son.) 
Yedi  Alighieri  Dante. 

Voi  IV,  Parte  L  12 


178  e.   B    L.  FRATI 

I,  IX        29.  Fugga  virtù  le  corti  o  sensi  acervi  (son.) 

FORESTAN!  v  j-   *,.  u      •  n     . 

g.  Vedt  Alighien  Dante. 

30.  Gloriasi  il  celeste^  e  Vuntan  langue  (canz.) 

Mss. :  Laur.  SS.  Annunz.  i22,  e.  2216  [Simone  Serdini  da 
Siena].        *  Senese  I,  IX,  18,  e.  43 a  [Simone  da  Siena.  Can- 
zon  doTe   laudando   la   ?ita   di   mess.    Gio.  d'Azzo  degli 
,  Ubaldini  da  Firenze  piange  dolendosi  della  morte  sua]:: 
•C,  IV,  16,  e.  U9fl  [e.  s.] 

31.  CHorfosa  virtH  cui  forte  vibra  (soo.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

32.  /  non  servati  voti^  e  i  molti  errori  (sod.) 
Ms.:  *Bol.  Univ.  1739,  e.  38 a  [Simonis  Senensis]. 

33.  Il  fronte^  il  visOy  anai  dipana,  «7  sole  (caoz.) 

Blss.:  Ghig.  M,  IV,  79,  e.  68  [Simone  da  Siena].  'Senese 
I,  IX,  18,  e.  536  [e.  s.  Ganzon  a  Palla  degli  Strozzi  da  Fi- 
renze come  innamorato  d'una  giovane  si  lamenta  della 
partita  d'essa  la  quale  andò  a  marito  a  Padova]:  *l, 
VII,  15,  e.  36  [anon.]:  'G,  IV,  16,  e.  826  [Per  Palla  Strozzi. 
Del  Saviozzo  Figliolo  si  crede].  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e. 
225  a  [Simone  Serdini  da  Siena].  Manicell.  G,  155,  e.  1296 
[Simone  da  Siena]  (1). 

34.  Il  tempo  fugge  e  V  ore  son  si  brevi  (serv.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  516  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Magliab.  VII,  1171,  e.  119 a  [e.  s.]  Palai.  199,  e.  Ub 
[Maestro  Simone  Saviozzo  da  Siena].  Riccard.  1114,  e.  1796: 
1154,  e.  185a  [Simone  da  Siena].  Marucell.  G,  152,  e.  132  6 

[anon.]  Ganonic.  it.  81,  e.  78  [Simonis  de  Senis].  *  Senese 
I,  IX,  18,  e.  58  a  [Simone  da   Siena]:  *  G,  IV,  16,  e.  124  6 

[Simone  ser  Dini  Foreslani  da  Siena]. 

Ediz.  :  Rime  e  prose  del  6.  s.  [ed.  Bini].  Lucca,  Giusti,  1852,  pp. 
41  e  61. 


(1)  In  questi  due  ultimi  codici  la  canz.  comincia  :  Se  il  fronie,  il 
viso,  etc. 


INDICE  DBLLB  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  179 

35.  Ingrata  de  tuoi  fidi  patria  civi  (son.) 

Sii:  BoL  UdW.  1739,  e  36  a  [Simonis  Senensis]. 

36.  Io  invoco  e  priego  quello  eterno  Iddio  (ott.) 
Ns.:  MoQck.  1  della  Goveniativa  di  Lucca  [Saviozzo]. 

37.  Io  non  so  che  si  sia  ombra  o  disgrasia  (canz.) 

Mss.:  Chig.M,  IV,  79,  e  103  [Simone  da  Siena].       Boi.  Univ. 

^74,  e  136  [e  s.]       Canonie  it  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  78 

/Simonis  de  Senis]:  50,  e.  56  6  [Simone  da  Siena].       Senese 

l  VII,   15,  e  42  fl  [Simone  Serdini]:    C,  IV,   16,  e.  ÌU  a 

[Simone   ser   Dini  Forestani  da  Siena]. 

38.  Io  veggio  bene  ornai  che  tua  podestà  (son.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

39.  Io  vidi  Amor  deificare  in  parte  (sod.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  55  ò  [Simone  Serdini  da 
^ìeaa].  ^Senese  I,  VII,  15,  e.  13  b  [Simone  Serdini  da 
^ieoaj.  Boi.  Univ.  2574,  e.  116  [Simon  da  Siena].  Estense  IH, 
D,i2,  e  47,  Par.  Il  [Ulisse].       Chig.  M,  IV,  79,  e.  74  [e.  s.] 

Ediz.:  Crcscimbeni,  ed.  Ven.,  Ili,  209  [Simone  di  ser  Dino 
Forestani]. 

40.  L' alta  beltà  di  quel  collegio  santo  (canz.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  47,  e.  Ili  [Simon  da  Siena]:  pi. 
LXXXIX  inf.,  4i,  e.  160  [a non]:  pi.  XL,  43,  e.  115  [Giovanni 
dì   Nello  da  S.   Gemignaoo]. 

Ediz.  :  In  lode  di  bella  donna ,  Canzoni ,  etc.  [ed.  Giuseppe  Ar- 
cangeli]. Prato,  Alberghetti,  1852,  in  8.^  [Antonio  Pucci]. 

41.  Zr'  inclita  fama  e  le  magnificV  opre  (canz.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  10,  1103,  e.  Ili  a.  Riccard.  1126,  e.  112  6 
jM.*"  Simone  da  Siena].  *  MoQck.  1  [Simone  da  Siena]. 
*  Ribl  Naz.  di  Napoli,  cod.  XIII,  C,  1,  in  line   [Simonis  de  Senis]. 

42.  U  invidiosa  gente  e  '2  mal  parlare  (serv.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1008  (ora  VD,  4),  e.  30  [a non].  Chig. 
M,  IV,  3U,  e  87  [Simone  da  Siena]      Senese  C,  IV,  16,  e.  116  o 


r,  IX 

FORESTANI 

8. 


180  a   K   L.  FRATI 

f,  IX       [SimoDe  da  SienaJ.         Bibl.  Naz.   Firenze,  palat.   200,   e  30  a 

FORESTANI     [anOD.] 


s. 


43.  V  umil  aspetto^  altero  e  pellegrino  (madr.) 

Mss.:  Chig.  M,  IV,  79,  e.  81  [Simone  da  Siena]  Boi.  Uoiv. 
2574,  e.  121  [Simon  da  Siena].  'Senese  G,  IV,  16,  e  13i  a 
[Simone  Ser  Dini  Forestani  detto  il  Sa?iozzo]. 

44.  La  gloria^  la  fastidia  e  melodia  (son.) 

Ms.:  *MagIiab.  VII,  10, 1103,  e.  44  ò  [Lo  infrascripto  sonetto 
feci  io  Simone  dì  ser  Dini  da  Siena  a  laude  del  poeta 
Dante  et  messer  Giouan  Bocchacci  che  nella  sopradetta 
prosa  (1)  dice  di  lui  a   pieno]. 

45.  Le  infastidite  labbia,  in  cui  già  posi  (canz.) 

Mss.:  Laur.  Med.  Pai.  118,  e  43  [Saviozzo]:  pi.  XC  inf.,  35, 
p.  58  [Simon  da  Siena]:  pL  XLII,  32,  p.  5B  [a n o n.]  Magliab. 
VII,  107,  e  39  6  [Saviozzo]:  Vili,  23,  e.  70  a  [Simone  da 
Siena]:  Bibl.  Naz.  Firenze,  palat.  199,  e.  49  6  [Maestro  Simone 
Saviozzo  da  Siena]:  419,  e.  139  [anon.j  Riccard.  1091, 
e.  ili  [Simone  di  Vanni  dd  Siena.  Saviozzo]:  2823,  e.  58 
[Simone  da  Siena]:  2815,  e.  55  6  [e.  s.]:  1154,  e.  182  b 
[e.  s.]  Vat.  3212,  e.  62  [e.  s.]  Chig.  M,  IV,  79,  e.  89  [e.  s.] 
Boi.  Univ.  2574,  e.  126  [e.  s.]  Canonie.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford, 
e.  77  [Simonis  de  Senis]:  50,0.  59  [Simone  da  Siena).  R. 
Bibl.  di  Stuttgart,  cod.  10  de'filol. ,  e.  34  |c.  s.]  Boi.  Univ.  15«,  e, 
82  6.  Estense  111,  D,  22,  e.  94  6,  Par.  11  [Simonis  Sen.  despc- 
rata].  'Senese  1,  VII,  15,  e.  26  b  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
*  C,  IV,  16,  e.  96  b  [Si   crede   del  nipote   di   Simone]. 

46.  Le  soavi  orme  e  quella  gentil  fera  (son.) 

Mss.:  'Senese  1,  li,  18,  e.  63  a  [Simone  da  Siena.  In  for- 
ma di  donna  per  la  scientia].  Laur.  SS.  Ànnunz.  122,  e.  229 
b  [Son.  fecie  il  detto  Simone  (Serdini  da  Siena)  e  parla 
della  scientia   in   forma   di   donna]. 


(1)  Questo  son.  segue  nel  cod.  Magliab.   alla    Vita  di  Dante    del 
Boccaccio. 


FORESTANI 

S. 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  181 

47.  Levasi  al  del  dalle  terrestre  ed  ime  (son.)  F,  ix 

Mss,:  •Senese  I,  VII,  15,c.  44  fc  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
C  IV,  16,  e.  130  h  [e.  s.]  BoL  Univ.  2574,  e.  4i7  [Simon  da 
Siena].  Chig.  M,  IV,  79,  e  75  [e.  s.]  Cod.  Oltelio  nella  Comu- 
nale di  Udine,  e.  i59  [e.  s.] 

48.  Liber  credei  delC  amoroso  strale  (son.) 

Hs.:  Laur.  SS.  Annunz.  i22,  e  65  a  [Simone  Serdini  da 
Siena]. 

49.  Lor  che  Titon  si  scopre  il  chiaro  manto  (son.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

50.  Madens  sub  undis  radiantis  Phoebi  (son.) 

Sfss.:  Laur  SS.  Annunz.  i22,  e.  2276  [Maestro  Simon  Serdini 
da  Siena].  'Senese  C,  IV,  i6,  e.  91  a  [Simone  ser  Dini  Fo- 
restani]:  I,  VII,  15,  e  21  ò  [Simone  Serdini  da  Siena]- 
L  IX,  18,  e  60  6  [Simone  da  Siena.  Ad  dominum  Malate- 
stam  domini  Galeotti].  Chig.  M,  IV,  79,  e.  81.  Boi.  Univ. 
257i,  e  Hi  [Simon  da  Siena]. 

Ediz.:  Battagliai,  Comment.  sulla  corte  letter.  di  Sigismondo  Ma- 
latesta,  Rìmini,  1794,  p.  121  [Simon  Sardinis  de  Senis]. 

51.  Madre  celeste^  stella  mattutina  (canz.) 

Mss.:  Laur.  Med.  Pai.  118,  e.  46.  Bibl.  Naz.  Palat.  199,  e.  35 a 
[Maestro  Simone  Saviozzo  da  Siena].  *  Senese  C,  IV,  16, 
e.  Ii7  [Simone  Serdini.  A  laude  della  Vergine  Maria]. 

Edizz.  :  Rime  e  prose,  del  b.  s.  [ed.  Bini].  Lucca,  Giusti,  i852,  p. 
41].        Due  Canzoni  morali  inedite.  Roma,  Chiassi,  1858. 

5^  Madre  di  Cristo  gloriosa  e  pura  (capitolo). 

Laur.,  pL  XC  inf., 37, e. 222  [S i m o n e  ser  Dini  da  Siena  detto 
SaTiozzo].  Laur.  Med.  Palat.  il8,  e.  49.  Laiu*.  SS.  Annunz.  i22, 
e.  f)5ò  [Simone  Serdini]:  109,  e.  19a  [Simone  Saviozzo  da 
Siena].  Magliab.  II,  405,  e.  1206  [Saviozzo]:  I,  34  (già  VII, 
4,  153)  e  258  6  [anon.]  Bibl.  Naz.  Firenze,  palaL  i99,  e.  64  b 

(Maestro  Simone  Saviozzo  da  Siena]:        204,  e.  2816  [Si- 
mone Serdini  d.®  il  Saviozzo].      Riccard.  iii4,  e.  i77:      il33. 


182  a  K  L.  FRATI 

F,  IX       e.  75:        1007,  in  line  [Saviozzo  da  Siena].       VaL  3212,  e.  53  6 
FORESTANI    I  Simone  da  giena].       Chig.  M,  IV,  79,  e.  93  [e.  s.]        Boi.  Udìt. 
s.  2574,  e.  429  [Simon  da  Siena].       Canonie,  it.  81  nella   Bodleiaoa 

di  Oxford,  e.  77  [Simonis  de  Senis]:  180,  e.  30  [anoo.] 
Chig.  L,  VII,  266,  e.  110.  Marciano,  ci.  IX  ilal.,  182,  e.  137.  BibL 
Capitolare  di  Verona,  cod.  cdxci  ,  e.  203  [Simone  Sa?iozzo  da 
Siena].  *  Senese  I,  VII,  15,  e.  31  b  [Simone  Serdìni  da 
Siena]:  *C,  IV,  16,  e  1176  [Simone  ser  Dini  Forestani. 
Per  la   peste  del  1390]. 

Edizz.:  Spicilegium  Romanum  [ed.  Mai].  Romae,  1839,  voi.  Vili, 
pp.  XXIV-XXVII.  Rime  e  prose  [ed.  Bini].  Lacca,  Giusti,  1852,  p.  40. 
Capitolo  a  Maria  Vergine  composto  per  la  peste  del  i390  ora  per  la 
prima  volta  pubblicato  [ed.  G.  Milanesi].  Siena,  1845,  in  8.^ 

53.  Misericordia  abbi  di  tne^  Signore  (ott.) 

Ms. :  MoQck.  1  della  GovernatÌTa  di  Lucca  [Saviozzo]. 

54.  Misericordia,  Iddio^  che  piti  difendere  (son.) 
Ms. :  *Bol.  Univ.  1739,  e.  37 a  [Simonis  Senensis]. 

55.  Morte  mi  tolse  il  benedetto  lume  (son.) 

Mss. :  'Senese  1,  VII,  15,  e.  20 a  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
C  IV,  16,  e.  132fc  [e.  s.]  Boi.  Univ.   2574,   e.   121    [Simon   da 

Siena].        Chig.  M,  IV,  79,  e.  80  [e.  s.] 

56.  Mossemi  al  primo  sonno  della  notte  (son.) 

Mss.:  Val.  3212,  e.  526  [Simon  da  Siena).  'Senese  C,  IV, 
16,  e.  1596  [Simone  Serdini]. 

57.  Nel  tempo  die  ci  scalda  il  dolce  segno  (canz.) 

Mss. :  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  76  [Simone  Serdini  da  Siena]. 
ManiceU.  C,  152,  e.  129  r  [Simone  da  Siena].  Chig.  M,  IV,  79, 
e.  72  [e.  s.]  Boi.  Univ.  2574,  e.  115  [Simon  da  Siena].  Ca- 
nonie, it.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  76  [Simonis  de  Senis  ]. 
•Senese  I,  IX,  18,  e.  52a  [Simone  da  Siena]:  M,  VII,  15,  e 
12a:  *C,  IV,  16,  e.  886  [Del  Ogliolo  di  Simone  ser  Dini 
Forestani.  Per  Giovanni  Colonna]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCTONI,  P.  I.*  183 

58.  Nel  tempo  giovenil  che  Amor  e'  invita  (canz  )  p,  ix 


FORESTANI 

Mss.:  Manicell.  C,  152,  e.  130  ò  [Simone  da  Siena].        Chig.  ^^ 

M,  IV,  79,  e  69  [e.  s.]  Boi.  Univ.  ^74,  e.  113  [e.  s.]  Canonie. 
ìL  81  nella  Bodleìana  di  Oxford  [Simonis  de  Senis]  *  Senese  I, 
IX.  18,  e  55  a  [Simone  da  Siena.  Canzon  per  Johanni 
Sederini  da  Firenze  il  quale  nel  verde  tempo  di  sua 
buona  iuventù  s'inamorò  d'una  nobile  giovane  detta  Cosa 
del  detto  loco.]:  M,  VII,  15,  e.  8  a  [anon.l*.  •C,  IV,  16, 
e  8i  ò  [Simone  ser  Bini  Forestani]. 

59.  Non  fiori,  erbette,  impallidite  e  lasse  (soo.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 

60.  Non  pensi  tu  stranier  tacendo  amore  (madr.) 

Ms.:  Laur.  SS.  Annunz.  iti,  e  54  a  [Maestro  Simone  Ser- 
dini  da  Siena  a  pititione  di  Malatesta]. 

61.  Non  per  tranquillo  pelago  si  scopre  (son.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  56  a  [Simone  Serdini  da 
Siena].  *  Senese  I,  VII,  15,  e.  20  6  [e.  s.]:  M,  IX,  18,  e.  046 
[Simone  da  Siena]:  *C,  IV,  16,  e  133  a  [Simone  ser  Bini 
Forestani].  Boi.  Univ. 2574, e.  121  [Simon  da  Siena].  Chig. 
M,  IV,  79,  e.  80  [e.  s.]      Estense  III,  B,  22,  e.  48  a.  Par.  Il  [Ulix is]  (1). 

62.  Non  vide  mai  la  fiammeggiante  aurora  (son.) 

Mss.:  'Senese  C,  IV,  16,  e.  18  6[Simone  Serdini  da  Siena|: 
I,  VII,  15  [e.  s.]  Boi  Univ.  2574,  e.  120  [Simon  da  Sienaj. 
i:big.  M.  IV,  79,  e.  79  [e.  s.)  F^lense  III,  D,  22,  e.  47  6,  Par.  11 
[Ulixis]. 

63.  Novella  monarchia^  giusto  signore  (canz.) 

Mss.:  Laur,  pi.  XC  inf., 351,  e.  48  6  [Simon  da  Siena  chia- 
mato Saviozo]:  XC  inf.,  37,  e.  222  [Simone  ser  Dini  da 
Siena  chiamato  Saviozo].      Laur.  Med.  Pai.  118,  e.  44.      Laur. 


(1)  Questo  e  il  seguente  son.  seguono  nel  cod.  ad  un  son.  intestato 
(e.  46  b):  Ulixis  Job.  Gonelle,  cioè  di  Ulisse  a  Gio.  Concila,  cui 
f  (lirello  il  son. 


j 


184  e.  «  L.  FRATI 

I*   IX       SS.  Annunz.  12!2,  e.  59  6  [Simone  Serdi.ni  da  Siena].        Magiiab. 

PORESTANi    ^*'^>  ^^»  ^-  ^^^'        ^^^*-  ^^-  Firenze,  palaL  499,  e.  5i  b  [Maestro 
s.  Simone   Saviozzo   da    Siena.    Al  ducha   vecchio  conte  di 

vertù]:  204,  e.  279  [Simone  Serdini  da  Siena  detto 
il  Sa?iozzo]:  2823,  e.  56:  2815,  e.  536:  115i,  e  266a 
[Simone  da  Siena].  Val.  3212,  e.  49  [e.  s.]  Chig.  M,  IV, 
79,  e.  96  [e.  s.]  Boi.  Univ.  2574,  e.  131  [Simon  da  Siena]. 
Canon.  iL  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  78  [Simonis  de  Senis]. 
Bibl.  di  Stuttgart,  cod.  10  de' Gioì.,  e.  32  [Simone  da  Siena]. 
Senese  1,  VII,  15,  e.  34  ò  (e  s.]:  C,  IV,  16,  e  103  b  [Del 
figliuolo  di  Simone  al  Conte  di   Virtù]. 

Edizz.:  Misceli  di  cose  ined.  o  rare  [ed.  Corazzini]  Firenze, 
Baracchi,  1853,  pp.  317-20.  Dante,  Canzoniere  [ed.  Fraticelu] 
2.'  ediz.,  p.  334. 

64.  0  alta  fiamma  di  quel  sacro  manie  (canz.) 

Mss.:  VaL  3212,  e.  47  [Simon  da  Siena].  *  Senese  C,  IV, 
16,  e.  145  a  [Simone  Serdini.  Canz.  morale  fatta  per  la 
morte  del  Marchese  Niccolò  da  Este]. 

65.  0  dio  di  verità,  eternai  vita  (ott.) 

Ms.:  Magiiab.  XXXIV,  1,  e.  124  b  [Fra  rime  del  Saviozzo]. 

66.  0  divine  bellezze  ai  nostri  dime  (son.) 

Mss.:  'Senese  1,  VII,  15,  e.  lia  [Simone  Serdini  da  SienaJ: 
C,  IV,  16,  e.  130fl  [Simone  ser  Dini  Foreslani].  Chig.  M,  IV, 
70,  e.  75  [Simone  da  Siena].  Boi.  Univ.  2574,  e.  117  |  e.  s.] 
Cod.  Otielio  nella  Comunale  di  Udine,  e.  159  [Pandolfo  Malatesta]. 

67.  0  folle,  0  lieve  gioventute  ignota  (canz.) 

Mss.:  Laur.  pi.  XC  inf.,  35  I,  e.  47  [Maestro  Simon  da  Siena 
chiamato  SaviozoJ.  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e  56 a  [Simone 
Serdini  da  Siena).  Magiiab.  Vili,  23,  e.  66 a:  li,  40,  e.  121  a 
[Saviozzo].  Riccard.  1114,  e  1756:  2823,  e.  546:  2815, 
e.  52:  1154,  e.  1886  [Simone  da  Siena].  Vat.  3212,  e.  42 
[e  s.]  Canonie,  it.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  78  [Simonis 
de  Senis].        R.  Bibl.   di  Stuttgart,   cod.  10  de*  filol.,  e.  30  [e.  s.] 


INDICE  DELLB  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.'^  185 

Senese  I,  II,  i8,  e,  i5n  [e.  s.  Canzon  contra   i  giovani  presi       F,  ix 
d*  amore  carnale]:        C,  IV,  16,  e.  128  a  [anon.]  Torestani 

s. 

68.  0  infinita  podestà  divina  (canz.) 

Mas.:  Riccard.  ili 4,  e.  1736-  Val.  3214,  e.  40.  Senese  C, 
IV,  16,  e  1386  [Simone  ser  Dinì  Forestani.  Canz.  contro 
i  sette  peccati  mortali]. 

69.  0  magnanime  donne,  in  cui  beltade  (son.) 

Blss.:  Boi.  Univ.  1738,  e.  11  [Simone  da  Siena].  Canonie, 
it.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis  de  S e n i s].  Senese  I,  VIII, 
36,  e  i  [anon.]  Vat.  3212,  e.  226  [e.  s.]  Laur.,  pi.  XC,  inf., 
35  L,  e  82  [e.  s.]  ManicelL  C,  155,  e.  42  [e.  s.]  Laur.  Med. 
PaL  118,  e  51  [e  s.]  R.  BibL  di  Stuttgart,  cod.  10  de'  filol,  e.  60 
[e  s.]  Magliab.  VII,  3,  1010,  e.  224  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  Firenze, 
palaL  419,  e  101  [e  s.]  (1) 

Edizz.  :  Storia  d*  una  fanciulla  tradita  da  un  suo  amante  di  m. 
Simone  Forestani  da  Siena  [ed.  F.  Zambrini].  Bologna,  1862  (Scelta, 
n*  6),  p.  17. 

70.  0  maligne  influenae,  o  moti  etemi  (canz.) 

Mss.:  Chig.  il,  IV,  79, e.  99  [Simone  da  Siena].  Boi.  Univ. 
2574,  e  133  [e.  s.]  ^Senese  I,  VII,  15,  e.  38  a  [Simone  Serdini 
da  Siena]:      *C,  IV,  16,  e.  109  a  [Simone  ser  Dini  Forestani]. 

71.  0  poco  albergo^  u'  son  le  sacre  membra  (son.) 

Mss.  :  Riccard.  1154,  e.  313  b  [Saviozzo].  *  Senese  C,  IV,  16, 
e.  131  b  [anon.]:  I,  VII,  15,  e.   19  a  [Simone  Serdini  da 

Siena].        Boi.  Univ.  2574,  e.  120  [Simon  da  Siena].        Chig. 
M,  IV,  79  [e  s.] 

72.  0  Signor  mio,  T  sol  ti  vo'  pregare  (ott) 
Ms.:  Moilck  1  della  Governativa  di  Lucca.  [Saviozzo]. 

73.  O  specchio  di  Narciso^  o  Ganimede  (canz.) 


(1)  Mutila  in  principio:  comincia  alla  sL  XVII. 


186  a   K   L.  FRATI 

F,  IX  ìiss.:  Laiir.,  pi.  XL,  i3,  e.  5  b  [a  non.]:         pi.  XC  sup.,  56,  e. 

^^j^gif^fd    45  b  [Maestro  Simone  Savìozzo  da  Siena]:        pL  XC  inf.,  35 
8.         -I,   e.   140  [anon.)  Laur.  Med.   PaL   118,    e.    50    [Savìozzo]. 

Laur.  SS.  Annunz.  \fì,  e  57  6  [Simone  Serdini  da  Siena].  Ma- 
gliab.  VII,  1009,  e.  77  b  [anon.]:  VII,  1171,  e   113  b  [e.  s.] 

Bibl.  Naz.  di  Firenze,  palat  199,  e  60 6  [Mastro  Simone  Saviozzo  da 
Siena]:  200,  e  79  a  [anon.]:  241,  e  54  [e.  s.]  :  419,  e 
139.  Riccard.  1154,  e.  221  a  [Simone  da  Siena].  *  Cod.  del 
March.  Filippo  Raffaelli  [Saviozzo].  Boi  Univ.  2574,  e.  110  [Si- 
mone da  Siena].  Canonie.  iL  81  nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  76 
(Simonis  de  Senis].  Estense  X,  B,  10. pag.  i3[anon.]:  1II,D, 
22,  e.  102  fl.  Par.  IL'  [e.  s.]  •Senese  C,  V,  14,  e.  7 a  [e  s.]: 

•I,  VII,  15,  e.  5  a:  *  C,  IV,  16,  e.  135  a  [Simone  ser  Dini 
Forestani]. 

Edizz.:  Canzone  di  Simone  da  Siena.  S.  n.  t  (sec  XV)  in  8.,  ce 
4  n.  n.,  car.  rot  (nella  Misceli  IV,  I,  52  della  BibL  Comunale  di  Siena). 
Forestani  Simone,  Cerbero  invoco,  ecc.  Firenze,  Giovanni  Baleni,  1584, 
in  4.» 

74.  Par  che  natura  il  diUttabil  stime  (soo.) 

Mss.:  *  Senese  I,  VII,  15,  e.  14  6  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
C,  IV,  16,  e.  130  b  [Simone  ser  Dini  Forestani].  Boi.  Univ. 
2574,  e.  117  [Simon  da  Siena].       Chig.  M,  IV,  79,  e.  75  [e  s.] 

75.  Partita  s' è  la  luce  e  gita  via  (son.) 

Mss.:  Riccard.  1154,  e.  313  b  [Saviozzo].  'Moùck.  8  nelb 
Governativa  di  Lucca  [e.  s.] 

76.  Per  gran  forza  d'  amor  commosso  e  spinto  (cap.) 

Ms.:  BibL  Naz.  di  Firenze,  palaL  199,  e.  73  (i  [Maestro  Simone 
Saviozzo   da   Siena]. 

77.  Per  pace  etema,  inestimabil  gloria  (canz.) 

Bfss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  62  b  [Simone  Serdini  da 
Siena].  MagUab.  VII,  1171,  e.  112  a,  Riccard.  1026,  e.  51  a 
[anon.]:  1154,  e.  191  b  [Simone  da  Siena].  Chig.  M,  IV, 
79,  e.  95  [e.  s.]  BoL  Univ.  2574,  e.  130  [Simone  da  Siena]. 
Canonie,  il.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford.        *  Senese  I,  IX,  18,  e.  42  a 


INDICE  DBLLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  187 

[Simone  da   Siena]:        I,  VII,  15,  e.  33&[anon.]:        C,  IV,  16,        F,  ix 

e  102  fl  [Simone].  'forestanT 

Ediz.:  Rime  e  prose  [ed.  T.  Bini].  Lucca,  Giusti,  1852,  pp.  41-61.  s. 

[Simone  Forestani]. 

78.  Perché  fuggendo  il  tempo  fuggon  gli  anni  (canz.) 

Ms.:  Canonie,  il.  81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis  de 
Senis]. 

79.  Perché  V  opere  mie  mostran  già  il  fiore  (sod.) 

Blss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  54  [Simone  Serdini  da  Siena]. 
Magliab.  VII, 721,  e  120  a  [Simon  de  Senis  diclus  Saviotius]. 
Riccard.  1154,  e.  185  a  [Simone  da  Siena].  MarucelL  C,  155, 
e  63  (e  s.]  Chig.  M,  IV,  79,  e.  83  [e.  s.]  Bologn.  Uni?.  2574, 
e  122  [e  s.]  Canonie  it.  81  nella  Bodleiana  di  O\ford  [Simonis  de 
Senis].  R.  Bibl.  di  Bellino,  mss.  it.  quarL  n.*"  16,  e.  188  a  [ÌA^  Ant. 
da  Firenze].  'Senese  I,  VII,  15,  e.  22  6  [Simone  Serdini 
da   Siena]:       *C,  IX,  16,  e.  91  a  [e.  s.]. 

Edizz.:  Rime  e  prose  [ed.  T.  Bini].  Lucca,  1852,  pp.  41  e  61 
[Simone  Forestani].  Canzoni  ined.  di  Antonio  degli  Alberti 
pubbiie.  p.  e.  di  Silvio  Andreis.  Rovereto,  1865,  p.  33  [Ant.  degli 
Alberti].        Cfr.  Alberti  (Degli)  Antonio. 

80.  Pili  Acheronte^  Flegeton^  e  Stige  (sod.) 
Vedi  Aligbierì  Dante. 

81.  Poco  '{  pentire  al  re  Laomedonte  (son.) 

Mss.:  Senese  I,  VII,  15,  e.  25  a  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
C,  IV,  16,  e.  134  h  [Simone  ser  Dini  Forestani].  Boi.  Univ. 
2:»7l,  e  125  [Simon  da   Siena].        Chig.  M,  IV,  79,  e.  86  |c.  s.] 

82.  Poi  che  Fortuna  al  doloroso  petto  (canz.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  223  h  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Manicell.  C,  152,  e.  132  a  [anon.]  Vat.  3212,  e.  43  6 
Canonie.  iL  81,  e.  78  [Simonis  de  Senis].  'Senese  1,  IX,  18, 
e  47  a  [Simone  da  Siena]:  C,  IV,  16,  e.  141  a  [Simone  ser 
Dini  Forestani]. 


FORESTANI 

S. 


188  a   «   L.   FRATI 

F,  IX        83.  Preziosa  virttìj  in  cui  forte  vibra  (son.) 

Vedi  Alighieri  Dante. 

84.  Qual  possa  sempiterna  o  qual  destino  (sod.) 

Mss. :  ^Senese  I,  IX,  18,  e.  636  [Simone  da  Siena.  Per  la 
figliuola  del  Re  Karlo  di  Durazo].  Laur.  SS.  Annuoz.  122, 
e.  230  a  [e.  8.1 

85.  Quello  antico  disio^  amore  e  fede  (son.) 

Blss.  :  Senese  1,  VII,  15,  e.  20  a  [Simone  Serdinì]:  C,  IV, 
16,  e.  1326  [Simone  ser  Dini  Forestani].  Boi.  Uni?.  2574,  e. 
i21  [e.  s.]        Chig.  M,  IV,  70,  e.  80  [e.  s.] 

86.  Questa  mia  palumbella  ella  è  fenice  (son.) 
Ms.:  *Bol.  Univ.  2574,  e.  HO  [Simon  da  Siena]. 

87.  Questa  misera  vitay  aspra  e  serena  (sod.) 

Mss.:  Senese  G,  IV,  16,  e.  132  a  [Simone  ser  Dini  Forestani]: 
M,  VII,  15,  e.  19  6  [Simone  Serdini  da  Siena].  Boi.  Uni?. 
2574,  e.  120  [Simon  da  Siena].         Chig.  M,  IV,  79,  e  80  [e  s.] 

88.  Questa  nostra  speranza  e  nostra  fede  (son.) 

Mss.  :  Senese  G,  IV,  16,  e.  1336  [Simone  ser  Dini  Forestani]: 
I,  VII,  15,  e.  21  fl  [e.  s.]  Chig.  M,  IV,  79,  e.  81  [Simone  da 
Siena].        BoL  Univ.  2574,  e.  121  [e.  s.] 

89.  Reciproca  le  fiamme  al  costui  petto  (son.) 
fifs.:  *Bol.  Univ.  1739,  e.  38  a  [Simonis  Senensis]. 

90.  Rutilante  bellezza,  anima  degna  (son.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  54  6  [Simone  Serdini  da 
Siena].  "Senese  C,  IV,  16,  e.  161  6  [Simone  ser  Dini  Fore- 
stani deTiittadini   da  Siena  d.^  il  Saviozzo]. 

91.  S' io  vidi  Amor  deificare  in  parte  (son.) 
Vedi  sopra,  n.®  39. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  189 

92.  Sacro  e  leggiadro  fiume  (caDZ.)  F,  ix 

Biss. :  Chig.  M,  IV,  79,  e.  66  [Simone  da  Siena].        Caoonic.it.  g 

81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis  de  Senis].  *  Senese  I,  VII, 
15,  e  Sa  [Simone  Serdini  da  Siena]:  *C,  IV,  16,  e.  81  a 
[Simone  Ser  Bini  Forestani]. 

93w  Se  fussi  più  savio  che  non  fu  Salomone  (sod.) 

Ms.:  *  Senese  C,  IV,  16,  e.  1606  [Simone  Ser  Dini  Fore- 
stani de'  Cittadini  da  Siena  detto  il  Saviozzo]. 

94.  Se  Ganimede  piacque  agli  alti  dei  (quail) 
Bis.:  Perugino  G,  86,  e  1346  [anon.] 

95.  Se  gli  angelici  cori  ebber  mai  Iddia  (madr.) 

Mss.:  *BoL  Uni?.  2574,  e  1216  [Simon  da  Siena].  'Senese 
1,  Vn,  15,  e  21  a  [Simone  Serdini  da  Siena]. 

96.  Se  il  fronte^  il  viso^  anai  diana  e  7  sole  (canz.) 
Vedi  sopra,  n.""  33. 

91.  Se  r  usitate  rime  in  cui  piti  volte  (son.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Ànnunz.  122,  e.  59  6  [Simone  Serdini  da 
Siena].  '  Senese  I,  VII,  15,  e.  13  6  [e.  s.]  :  C,  IV,  79,  e.  74  [e.  s.J 
Boi.  Univ.  257 i,  e.  116  [Simon  da  Siena].  Chig.  M,  IV,  79,  e. 
Ti  [Simone  Serdini  da  Siena].  ^Estense  III,  B,  22  (1),  e.  34 
della  P.  Il  [Simonis  de  Senis,  se  Té  'I  vero  (2)].  Boi.  Univ. 
12>^J,  e.  77  a  [anon.]  *Cod.  della  Comunale  di  Vicenza  contenente 
il  Canzoniere  del  Petrarca,  c.  115  [Fra  rime  del  Petrarca]. 

98.  Se  in  fama  di  tal  sangue  prezioso  (sod.) 

Mss.:  'Senese  I,  IX,  18,  e.  61  6  [Simone  da  Siena.  A  lan 
ColomnaJ.        Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  2286  [e.  s.] 


(1)  Segnato  precedentemente  IX,  A,  27  :  onde  le  due  indicazioni 
nelle  carte  bilancioniane. 

(2)  Questa  dubbiosa  aggiunta  dello  scrittore  del  cod.  fu  \m  cancel- 
lata con  un  tratto  di  penna. 


190  a   "   L.   FRATI 

ff  n:        99.  Se  lacrime,  dchr^  piatiti  e  martiri  (son.) 

FORESTANI 

s.  Mss.  :  *  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  !229a  [Simone  da  Siena  |. 

•Senese  I,  IX,  i8,  e.  626  [e.  s.]         •Marc,  ci.  IX  iL,  352,  e  29  a 
[Dante]. 

Ediz.  :  G.  WiTTE  nel  Jahrh,  d.  deutschen  Danie-GeselUckaft^  voi. 
Ili,  294  [Dante]. 

100.  Se  le  colonne^  o  fra  Cariddi  e  Scilla  (son.) 

Mss.  :•  Senese  I,  VII,  15,  e.  19  a  [Simone  Serdini  da  Siena): 
C,  IV,  16,  e.  131  a  [e.  s.]  Boi.  Univ.  2574,  e.  120  [Simon  da 
Siena].        Chig.  M,  IV,  79,  e.  79  [e.  s.| 

101.  Se  le  tempie  d^  Apollo  omai  s'  ancilla  (canz.) 

Mss.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  222  b  [Simone  Serdini  da 
Siena].  Marucell.  G,  152,  e.  131  6  [a non.]  Boi.  Univ.  2574, 
e.  122  [Simon  da  Siena].  Chig.  M,  IV,  79.  e.  82  [e.  s.]  Ca- 
nonie, it  81  nella  Bodleiana  di  Oxford  [Simonis  de  Seni s].  Se- 
nese I,  IX,  18,  e.  466  [Simone  da  Siena.  A  laude  del  signor 
Malatesta  di  messer  Pandolfo  Malatesli  signor  di  Pesaro]: 
•I,  VII,  15,  e.  216  [Simone  Serdini  da  Siena]:  •  C,  IV,  16, 
e.  1076  [e.  s.  In  Laude  del  signor  Malatesta). 

102.  Se  mai  con  alto  e  prezioso  stile  (canz.) 

Mss.:  'Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  66  a  [Simone  da  Siena). 
Estense  III,  D,  22,  e.  131  6  della  P.  Il  [a non.]  *  Senese  I,  VII,  15, 
e  19  6  [Simone  Serdini  da  Siena]. 

103.  Sempre  mai  fu  dacché  la  prima  gente  (son.) 

Mss.:  Senese  C,  IV,  16,  e.  132  a  [Simone  ser  Dini  Fore- 
stani]:  I,VII,  15,  e.  19  6  [Simone  Serdini  da  Siena). 
Chig.  M,  IV,  79,  e.  80        Boi.  Univ  2474,  e.  120  [Simon   da   Siena]. 

104.  Signor  mio  caro,  i'  son  già  stanco  e  Uisso  (son.) 

Ms.:  'Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  66  a  [Simone  Serdini  da 
Siena). 


FORKSTANI 

S. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P   BILANCIONI,  P.  I.*  191 

105.  Signor  mio,  esalai  V  orcus%on  mia  (ott)  F,  ix 
Ms.:  MoììcIl  1.  Della  GovernaUva  di  Lucca  [Savio zzo]. 

106.  Signor^  ti  piaccia  d*  esaldir  mio  priego  (ott) 
Bis.:  MoOck.  1.  nella  GovernaUva  di  Lucca  [SaYiozzo]. 

107.  Signore  Iddio  che  7  mondo  volgi  e  giri. 
Vedi  Alighieri  Dante. 

108.  Signore^  io  ho  a  te  forte  gridato  (ott) 
Ms.:  MoQck.  1.  nella  GoveroatiTa  di  Lucca  [SaYiozzo]. 

109.  Soavi  passij  o  versi  pianti  in  riso  (sod.) 

Mss.:  ^Senese  I,  IX,  18,  e.  64a[Simon«  da  Siena  per  una 
a  Rimino  donna  d'un  gentil  giovane].  Laur.  SS.  Annunz. 
1±2,  e-  230  ò  [e.  8.] 

110.  Soccorrimi  per  Dio  cV  io  sono  a  porto  (cap.) 

Mss.:  Magliab,  VH,  3,  1008  (ora  VII,  4),  e.  33  [a non.]  *Bibl. 
Nai  Firenze,  palat.  200,  e.  78  a  [e.  s.]:  •419,  e.  134  fc.  s.]  (i). 
Senese  l,  IX,  18,  e.  Ili  bis  a  \cs.]  M,  Vili,  36,  e.  44  [e.  s.]  (2): 
*C,  lY,  itì,  e.  157  b  [Simone  ser  Dini  Forestani  da  Siena^ 
detto  il  Saviozzo]. 

111.  Sopra  un  bel  legno  armato  navigando  (sod.) 

Mss.:  '  Senese  L  IX,  18,  e.  62  6  [Simone  da  Siena.  Quando 
presso  il  monte  Sancto  Angiolo  in  Puglia  navicò]. 
Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  229  6  [Sonetto  fecie  il  detto  Si- 
mone (Serdini  da  Siena)  quando  era  presso  al  monte 
^anto  Angiolo  e  navicava  in  Pugla]. 

11?.  Sovente  in  me  pensando  come  Afnore  (serv.) 

Ms.  :  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  palat.  199,  e.  69  a  [Maestro  Simone 
Saviozzo  da  Siena.  In  questi  versi  si  fa  mentione  di  molti 
nobilissimi  huomìni  che  s'ànno  lasciato  vincere  allo 
amore,  et  i  casi  et  i  mali  che  perciò  sono  seguiti]. 

i\ì  Seguita  ad  una  canz.  intestata  a  Sigismondo  Malatesta. 
(i)  Mutilo  in  principio. 


192 


e.  K   L.  FBATI 


F,  X 


1 13.  Tornato  è  il  sol  che  la  mia  mente  alberga  (sod.) 
Vedi  Alighieri  Dante. 


FRANCESCO 

co. 

114.  Veggio  cangiarmi  alla  giornata  il  pelo  (sod.) 


Vedi  Piacentini  Marco. 

1 15.  Verdi  selve  aspre  e  fiere  (canz.) 

Mss.:  *Senese  I,  IX,  18,  e.  41  a  [Simone  da  Siena]:  I,  VII, 
15,  e,  1  a  [Simone  Sardini  da  Siena]:  C,  IV,  16,  e.  79  6 
[Simone  ser  Dini  Forestani  de*  cittadini  da  Siena  detto  il 
Saviozzo].  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  220  a  [Simone  Serdioi 
da  Siena].  Laur.,  pi.  XC  sup.,  56,  e.  93  [Canz.  di  Maestro 
Simone  Saviezze  per  la  donna  dello  Illustriss.  Signore 
Malatesta  da  Cesena]. 

116.  Vince  ragion  pur  vince  il  pravo  senso  (sod.) 

Ms.:  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  2286  [Maestro  Simon  Serdini 
da  Siena  fecie  al  signior  d'Imola]. 

117.  Vittorioso  Cesar,  nuovo  Augusto  (sod.) 

Mss.:  'Senese  I,  VII,  15,  e.  40 a  [Simone  Serdini  da  Siena]: 
*C,  IV,  16,  e.  Ili  h  [anon.  In  morte  del  Conte  Alberico  da 
llarbiano  quando  fu  fatto  Gran  Conestahile  il  Conte  Guido 
Antonio  da  Monte  feltro].  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  palat.  190,  e. 
6(>  b  [Maestro  Simone  Saviezze  da  Siena.  Canz.  per  lo 
conte  d*  Urbino,  quando  fu  facto  gran  conestabile  pollo 
re  Vincilao  in  Perugia]. 


X.  Francesco  Conte  di  Caserta. 


Sterile  stava  la  vostra  magione  (sod.)  (1). 

Ms.  :  *Bibl.  del  Seminario  di  Padova,  cod.  59,  e  59  [Fr.  Comes 
Casertanus). 


(1)  A  Francesco  di  Vannozzo,  che  rispose  col  son.  :  io  credo  ben 
rhe  Socrate  o  Platone, 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANaONI,  P.  I."  193 


XI.  Francesco  di  Piavano.  F,  xiv 


FRANCESCO 

V  abito  sacro  dato  noi  dal  cielo  (son.)  co. 

DI  POPPI 

Ms.:  ^Ambros.  E,  56  supra  [Magìster  Franciscus  de  Fia- 
T  a  D  o]. 

XII.  Francesco  da  Firenze. 

Delle  gravi  doglie  e  pene  (canz.) 
Ms. :  *  VaL  3793,  e  62  6   [Mastro  Francesco  di  Firenze] 

Francesco  degli  Organi. 

Vedi  Landini  Francesco. 

Xm.  Francesco  da  Orvieto. 

Io  non  descrivo  in  altra  guisa  Amore  (canz.) 

Mss.:  Kiccard.  1050,  e.  59  a  [Frane,  da  Orvieto].  Moiick. 
(y  nella  GovematiTa  di  Lucca  [e.  s.]  Barber.  XLV,  47,  e.  124 
[Frane  da  Barberino]. 

Edizz.:  Lami,  Calai,  d,  codd.  Riccardiani,  Livorno,  1756,  p.  200 
[Frane,  da  Orvieto].  Franc.  da  Barberino,  Docum,  d'amore 
[ed.  Ubaldini].  Roma,  1640,  p.  359  [Franc.   da   Barberino]. 

XIV.  Francesco  Conte  di  Poppi 

1.  0  gentil  fior^  che  in  tutto  il  mondo  spiri  (canz.) 

Ediz.  :  Testi  di  lingua  ined.  Iratli  dai  codici  della  Bihl.  Vaticana 
j ttl  (i.  Manzi |.  Boma,  De  Bomanis,  1816,  p.  94  [Lamento  del  Conte 
di    Poppi). 

2.  O  Papa  santo,  se  ben  pensi  il  quarto  (son.)  (1). 

Ms. :  BibL  Naz.  di  Firenze,  palat  E,  5,  7,  40,  e.  171  a  [Conte 
di   Poppi]. 

(  i  )  HespoDsivo  al  son.  di  Antonio  di  Matteo  di  Meglio  :  0  puro 
^  santo  padre  Eugenio  qtuwto. 

Voi.  IV,  I»arle  l  13 


194  a  8   L.  FRATI 

F,  XVI        3.  Omè^  omè^  omèj  omè  dolente  (caDZ.) 


DiVANNOZZO  ^•'  '^'cc^rd.  1091,  e.  182  [Don  Pellegrino  Castiglìonil: 
1126  [Lamento  del  Conte  di  Poppi].  Laur.  Med.  Pai.  119, 
e.  5.  Àjnbr.  G.  35,  e.  1  (1)  [Inchomincia  il  lamento  che 
ffa  el  chonte  Francesco  di  Poppi  quando  ne  fu  chac- 
ciato  da' Fiorentini].  Magliab.  VII,  1145,  e  3^^  [Lamento 
del  Conte  di   Poppi]. 

4.  Piangendo  e  ricreduto  (canz.) 

fifss.:  Magliab.  VII,  3,  1010,  e.  115  [Canzona  fatta  pel  Conte 
di  Poppi].  Laur.,  pi.  XLI,  34,  e.  76.  'Senese  II,  XI,  65  [Can- 
zona fatta  per  Francesco  da  Poppi  giàConte  di  Batlifolle 
di  Casentino  oggi  Contado  di  Firenze]. 

5.  Saggio  è  chi  intende  ben  V  altrui  fallire  (2). 

Ms.  :  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  paiat  E,  5,  7,  40,  e.  1706  [Conte  di 
Poppi]. 

XV.  Francesco  di  Tura. 

Nìuno  aspetti  il  tempOy  quando  V  ha  (balL) 

Ediz.  :  Lami,  CataL  dei  Mss.  Rkcard,,  p.  101  (Francesco  di 
Tura  da  Firenze). 

XVI.  Francesco  di  Vannozzo. 

1.  A  guisa  d' uom  che  simil  spera  gratta  (sOQ.)  (3) 

Ms.  :  *Cod.  59  della  Bibl.  del  Seminario  di  Padova,  e.  62  [Ucsp. 
F(rancisci)  V(annotii)]. 


(1)  Di  questi  codici  i  primi  quattro  recano  pure  la  rìsp.:  La  gloria 
trionfale  e  il  dolce  nome. 

(2)  Responsivo  al  son.  di  Antonio  di  Matteo  di  Meglio:  Folle  è 
chi  falla  per  l  altrui  fallire. 

(3)  Responsivo  al  son.  di  Pietro  della  Rocca  :  Se  giammai  tempo 
al  mio  piacer  s'  adatta. 


INDICE  DBLLB  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  195 

2.  Ad  un  poretto  doloroso  e  tristo  (son.)  F«  xvi 


Ns.:  •  Ceni.  59  Semin.  Pado?.,  e.  5i  [F(ranciscus)  V(annolius)].    Francesco 

'  *•     ^  '  '^     DI  VANNOZZO 

3.  Ahi  lasso  tne^  che  tutta  notte  i'  penso  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semio.  Padov.,  e.  31  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
ootius)]. 

4.  Alla  question  che  per  te  si  propone  (sod.) 

Ms.:  *Cod.59  Semin.  Padov.,  e  46  [R(espoDSÌo)  F(rancisci) 
Y(aDDotii)]. 

5.  Alle  tuo  vere  eanee  e  dure  frasche  (sod.) 

Ms.  :   Xod.  59  Semin.  Padov.,  e  15  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
ootius)]. 

6.  Amor  or  treppa^  ride^  gioca  e  godi  (son.) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  48  [F(ranciscus)  V(aDnotius)|. 

7.  Amor^  tu  mi  dovresti  aconsigliare  (son.) 

Ms.  :  *  Cod.   59  Semin.  Padov.,  e.   51    [F(raDciscus)   V(an- 
ootius)  ]. 

8.  Anima  che  da  Dio  graeia  prendesti  (son.) 

Ms.:   'Cod.    59    Semin.    Padov.,  e.  20  [F(rancisci)   V(an- 
iiuiii  )  Responsio]. 

9.  Animo  peregrin  che  antivedesti  (son.) 

Ms.  :  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  19  [F(ranciscus  Vannolius)' 
anima  ad  corpus|. 

10.  Arimino  son  io^  per  la  Romagna  (son.) 

Ms.  :  VM.  59  Semin.   Padov.,  e   69   [Cantilena    Francisci 
V(annotii)  prò  Comite  Virtutum,  VII]. 

lùliz.  :  A.  Sagredo  in  Arch,  star.  itaL,  N.  S.,  voi.  XV,  P.  11,  p.  154 

I  *■••  s.  1 

11.  Assai  si  può  sghignare  o  far  di  muso  (son.) 

Ms.  :  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  67  [Franciscus  V(annotius)]. 


196  a   B   L.  FRATI 

F,  xvi       12.  Assai  son  matti  cJhe  san  far  mattoni  (son.) 


DI  vannÒzzo  ^^' •  *  ^^^    ^^  Serain.    Padov. ,   e.   44   [Idem   F(raDciscus) 

V(annolius)]. 

13.  Bel  me  mesier^  e  fiè  quel  che  devea  (son.) 

fifs.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  14  [Franciscus  Vannotius  (a 
Marsilio  da  Carrara)]. 

Ediz.:  Ant.  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volg.  [ed.  G.  Grion]. 
Bologna,  Romagnoli,  1869,  p  2^  [Francesco  Vannocci  a  Marsi- 
lio da  Carrara]. 

14.  Bench'io  non  sia  degno  i'  vi  rispondo  (son.)  (1) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  12  [Ad  Dom(inum)  Mar- 
s(ilium)  de  Car(raria)  F(ranciscus)  V(annotius)]. 

Ediz.:  G.  Cittadella,  Storia  della  dominazione  Carrarese  in 
Padova.  Padova,  1842,  voL  I,  p.  466  [Francesco  Vannozzo]. 

15.  BencK  io  non  sia  si  della  mente  sano  (son.)  (2) 

fifs.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  12  [Responsio  F(rancisci) 
Van(notii)]. 

16.  BencV  oggi  al  mondo  mal  licito  sia  (sod.) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  21  [Idem:  F(rancisci  Van- 
notii)  Responsio]. 

17.  Car  signor  mio,  se  vuoi  ben  dominare  (son.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  33  [Idem  F(ranciscus) 
V(annotius)]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Marsilio  da  Carrara:  A  voi^  ientil 
Franzesco  di  Vannozzo. 

(2)  Respons.  al  son.  di  Niccolò  del  Bene  :  //  roman  Scipion  detto 
Africano. 


INDICB  DBLLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  197 

18.  Cavcdier  mioj  quanto  piti  fugge  il  tempo  (son.)  (I)         F,  xvi 


Ms.:  '  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  22  [Responsio  Fran(cisci)    ''RANCESCo 
Van(Dotii)]. 

19L  Chi  non  sa  volterar  a  la  buonazza  (son.) 

Ms.:   *Cod.  59  Semio.    Padov.,    e.    21    [Idem  F(ranciscus) 
Y(aDnotìus)]. 

20.  Chi  vuol  giuocar  in  corte  da  Luealbacco  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  68  [Franciscus  y(annotius)]. 

21.  Colui  che  'n  saper  legge  s' assottiglia  (sod.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  PadoT.,  e.  67  [Franciscus  y(annotius)]. 

22.  Com'  più  profonda  il  cielo  e  7  mondo  abissa  (sod.) 
Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  53  [Franciscus  V(annotius)]. 

23.  Come  eh*  io  sia  da  te^  donna,  lontano  (canz.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  57  [F(ranciscus)  y(annotius)]. 

24  Conciosiacosa  che  quel  laureato  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  51  [Franciscus  y(annotius)]. 

25.  Centra  Fortuna  non  si  puote  andare  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  10  [Franciscus  yan(notius)!]. 

26.  Corona  santa,  eh'  è  da  Dio  mostrata  (son.) 

Ms.  :  'Cod.  59  Semin.  PadoY.,  e.  68  [Cantilena  Francisci  V(an- 
ootii)  prò  Comite  Yirtulum,  11]. 

Ediz.:  A  Sagredo  in  Arch.  stor.  Hai,,  N.  S.,  voi.  XY,  P.  II,  p.  150 

[e   5.1 

27.  Correndo  del  Signor  mille  e  trecento  (canz.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  8  ò  [Franciscus  Yannotius]. 


(1)  Respons.  al  son.  di  Gaspare  di  Lanzaroto,  mandato  al  Van- 
ouzzo  da  parte  di  Niccolò  Contarìni  veneziano,  che  incom.  :  Francesco  mio, 
nm  già  V  andar  del  tempo. 


198  e.   R   L    FRATI 

F,  XYi  Ediz.:  Ant.  da  Tempo.  Tratlaio  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion]. 

FRANCESCO    Bologna,  1869,  p.  295  [Canzone  di  Francesco  Vannocci]. 

Di  VANNOZZO 

28.  Credi,  liuto  miOy  che  per  un  cento  (sod.) 

Ms. :  * Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  17  |F(raocisci  Vannolii) 
Respoosio]. 

^.  Da  me  sedar  mi  sai  cV  io  starò  fermo  (son.) 

fifs.:  God.  59  Seroin.  Padov.,  e  53  [F(ranciscus)  V(aDnotius)]. 

30.  Da  poi  che  mi  convien  di  qua  partire  (ball.) 

Ms.:  *God.  59  Semin  Padov.,  e.  53  [Fraociscus  V(annotius)]. 

31.  Da  poi  che  v'  è  piaciuto  a  me  mostrare  (son.) 

Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov., e.  57  [Replicai io  ad  idein(d.T.  )] 

32.  Degna  sei  cV  io  V  adori,  alma  gentile  (son.) 

Mss.:  *  God.  59  Semin.  Padov.,  e.  54  [F(ranciscus)  V(aDnolìus)]. 
'Estense  III,  D,  22,  e.  356,  Parie  11.'  |anon.] 

33.  Deh  peregrina  dea,  fwn  far  dimora  (son.) 

Ms.:  'God.  59  Semin.  Padov.,  e.  52  [F(ranciscus)  V(annolius)]. 

34.  Di  te  mi  giova  a^sai,  Benita  mia  (sod.) 

Ms.:'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  20  [Idem  Francischus  V(an- 
notius)J. 

35.  Dio  ti  conservi  Carità  del  mondo  (son.) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  69  [G  a  u  t  i  1  e  11  a  Francisci  V(an- 
nolii)  prò  Gomite  Yirtutum,  Y]. 

Ediz.:  A.  Sagredo  in  Arch.  star.  Hai,  N.  S.,  voi.  XV,  P.  II,  p.  153 

[e.  s.] 

36.  E  tUy  perla  gentil,  che  di  falcone  (son.) 

Ms.:  *God.  59  Semin.  Padov.,  e  49  [F(ranciscus)  V(anno- 
tius)  ad  idem]. 

Ediz.:  Quattro  sonetti  inediti  di  Francesco  Vanozzo  [ed.  D.  Barba- 
ran].  Padova,  lip.  del  Seminario,  1870,  p.  13  [Sonetto  scrilo  ad 
Antonio  della  Scala  signor  di  Verona]. 


TNDICB  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  199 

37.  E  ben  ch'io  non  sia  degno^  V  vi  rispondo  (son.)  F,  xvi 


,,  ..  o  il  Francesco 

V-^^/l   sopra,  n.      li.  DIVANNOZZO 

38.  Era  tramezzo  V  alba  ed  il  mattino  (canz.) 

Ms. :  God.  59  Semìn.  Padov.,  e.  6  [FraDciscus  Vannotius]. 

Ediz.:  Rime  di  Francesco  Yannozzo  [ed.  N.  Tommaseo].  Padova, 
tip.  del  Semloarìo,  1825,  p.  7  [Canzone  in  lode  di  Cane  della 
Scala  signore  di  Verona].  N.  Tomma seo,  Dizionario  d* estetica, 
alitano,  1860,  voi.  I,  p.  340  (le  sole  su  IV,  V  e  Vili).  [Francesco  di 
Vannozzo].  Rime  di  CiNO  da  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze , 
1862,  p.  566  [Francesco  Vannozzo.  In  lode  di  Cane  della 
Scala  signor  di  Verona]. 

39.  Et  io  son  il  Mastin  che  mi  lamento  (son.) 

Ms.:  'Cod.  59  Semin. Padov., e.  60  [F(ranciscus)  V(annolius): 
Mastinus  loquitur]. 

40.  Francesco  mio^  se  tu  non  tieni  il  freno  (son.) 

Ms.:  ' Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  48  [Franciscus  V(annotius)]. 

41.  Fratel,  tu  sai  che  nel  superno  regno  (son.)  (1) 

Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  26  [Resp(onsio)  Franc(isci) 
Van(notii)]. 

42.  Graio  e  gentil  giardino  adorno  e  fresco  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  44  [tra  rime  del  Vannozzo]. 

Edizz.  :  Saggio  di  rime  di  quattro  poeti  del  sec.  XIV  [ed.  N.  ToM- 
M.\SE0|.  Firenze,  Pezzati,  1829,  p.  17  [Di  Francesco  Vannozzo 
al  giardino  dove  é  solita  venire  la  sua  donna].  N.  Tom- 
iA2!>E0,  Dizionario  d'estetica.  Milano,  1860,  voi.  I,  p.  429  [e.  s.] 
Rime  di  CiNO  DI  PiSTOJA  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862, 
p.  572.  (Francesco  Vannozzo]. 


(i)  Responsivo  al  son.  di  Bartolomeo  da  Castel  della   Pieve: 
Li  itanca  navicella  del  mio  ingegno. 


200  a  «   L.  FRATI 

F,  xvi        43.  Gentil  Catella  mia,  che  del  mio  male  (sod.) 


FRANXESCO 

DiVANNOZzo         ^^•'  ^^'  ^^  Semin.  Padov.,  e.  52  [tra  rime  del  Vanoozzo]. 

Edizz.:  Saggio  di  rime  di  quattro  poeti  del  »ec,  XIV  [ed.  N.  Tox- 
MASEO].  Firenze,  Pezzati,  1829,  p.  23  [Sonetto  di  Francesco  Van- 
oozzo alla  sua  cagnolina].  Quattro  sonetti  ined.  di  Fkaììcesco 
Vanozzo  [ed.  D.  Barbar an].  Padova,  1870,  p.  16].  [Sonetto  in  cui 
il  poeta  si  lagna  del  suo  disgraziato  amore  con  la  fida 
cagnolina]. 

44.  Giravan  gli  occhi  miei  di  dolor  pregni  (son.) 

Bis.:  *Cod.  59  Semin.  Padov., e.  20  [Idem  F(rancìscus)  V(an- 
notius)]. 

45.  GV  incanti  di  Sibilla  e  di  Cassandra  (son.)  (1) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  25  [Resp(onsio)  Fr(ancisci) 
Van(notiì)]. 

46.  Godete  ognun^  che  Amor  m'ha  reso  graeia  (sod.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  5i  (Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 

Ediz.  :  Quattro  sonetti  inediti  di  Francesco  Vanozzo  [ed.  D.  Bar- 
baran].  Padova,  1870,  p.  15  [Sonetto  erotico]. 

47.  Gran  male  Jia  fatto  quel  che  mi  V  ha  tòlto  (son.) 
Ms.:*Cod.  59Semin.  Padov.,c.  19  [V(annotius)  Franc(iscus)]. 

48.  Gran  tempo  fa  cV  ogni  giorno  più  lenta  (son.) 
Ms.:*  Cod.  50  Semin.  Padov.,  e.  42  [Franciscus  V( annoti us)]. 

49.  Haimi  lassato  per  diletto  d' arpa  (son.) 

Ms.:  •  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  16  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Antonio  del  Gaio:  Francesco,  se  la  tuo 
Mia  calandra. 


INDICE  DBLLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  201 

50.  I  belli  accenti  di  tuo  rime  accorte  (son.)  (1)  F,  xvi 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Rado?.,  e.  66  [Resp(oDsìo)  Franc(isci)  ^^j  vannozzo 
VanD(otii)]. 

51.  H  bel  destino,  che  dal  del  f  è  dato  (sod.) 

Ms.:Cod.  59  Semin.  Pedo?.,  e.  68  [Cantilena  Franciscì  V(an- 
notii)  prò  Cornile  Virtutum,  I]. 

Edis.  :  A.  Sagredo  in  Archivio  stor.  Hai,  N.  S.,  voi.  XV,  P.  II,  p. 
U9  [e  s.]  Due  sonetti  ined,  del  1387  di  Francesco  di  Vannozzo 
r^ronese  [ed.  G.  Grion].  Padova,  Prosperìni,  1866,  p.  5  [Italia]. 

52.  Il  gioco  tristo  che  gli  uomini  sciocchi  (sod.) 

M&:  *Cod.  59Seniin.  Padov.,  e.  33  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 

53.  Il  gran  morbeeBO  e  le  delicie  prave  (sod.)  (2) 

Ms.:  '  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  27  [Responsio  Franc(isci) 
Van(notiì)]. 

54.  H  mio  poco  intelletto  si  dispone  (sod.) 
Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  45  [A.  N.  F.  P.] 

55.  Il  poco  amor  che  m*  ha  il  mio  signor  caro  (sod.) 
Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  50  [Francìscus  V(annotius)]. 

56.  Il  poder  basso  col  voler  altiero  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  25  [F(ranciscus)  V(annotius)]. 

57.  Il  tuo  f ratei,  Francesco,  a  te  mi  manda  (son.) 

Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  18  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Jacopo  Gradenigo:    Vuol  mia  fortuna  e 
mnUdftta  sorte, 

(i)  Responsivo  al  son.  di  Bartolomeo  da  Castel   della  Pieve: 
Morte  ha  tenuto  del  mio  cor  la  chiave. 


202  a   R   L.   FRATI 

F,  xvi       58.  Il  tuo  parlar  che  dolcemente  assaggia  (son.)  (1) 

D£  VANNOZZo  ^*  •  *  ^'  ^^  ^erain.  Padov.,  e.  34  [  R  e s  p{o  n  s  i  o)  F  r  a  n  o(i  s  e i ^ 

Van(notii)|. 

59.  Il  vostro  dolce  amor  eh'  è  senea  metta  (son.)  (2) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  36  lResp(onsio)  Franc(isci) 
yan(notii)]. 

60.  Il  vostro  dolce  aspetto  e  la  gran  fama  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  46 a  [Idem  F(raaciscus)  V(an- 
n  oli  US)]. 

61.  Il  vostro  senno  e  7  vostro  andar  in  corso  (son.) 
Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov., c.63  [F(ranciscus)  V(annotìus)]. 

62.  Io  credo  ben  che  Socrate  o  Platone  (sod.)  (3) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.   60  [Resp(onsio)  FraDcOsci) 
Van(notii)]. 

63.  Io  dico  te,  da  prima  dissi  voi  (son.)  (4) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  45  |Fi*anc(iscus)  Van(notius) 
ad  Nich(olaum)  Del  Bene]. 

64.  Io  me  son  encapado  in  una  trapela  (sod.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  28  [Francisciis  Vannotius]. 
Ediz.:  Ant.  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion], 
Bologna,  1869,  p.  2i  [Francesco  Vannocci]. 


(  I  )  Responsivo  al  son.  di  Niccolò  de'  Senechi  :  0  specchio  di  virtù 
da  cui  diraggia. 

(2)  Responsivo  al  son.  di  Pietro  della  Rocca:  Io  non  credea  che 
una  amistà  j)erfetta, 

(3)  A  Francesco  Conte  di  Caserta  in  rìsp.  al  son.:  Sterile  stara 
la  vostra  masone. 

(4)  A  Niccolò  Del  Bene,  che  rispose  col  son.:  Fu  gloriosa   mia 
fama  dappoi. 


INI»ICE  DELLE  CABTB  DI  P.  BILaNCIONI,  P.  L'^  203 

65.  Io  mi  eredia  questo  foco  allentare  (sod.)  F,  xvi 

Ms.:  Cod.  59  Semìn.  Padov.,  e.  46 a   [S(onettus)  F(rancisci)  divannozzo 
V(anDotn)]. 

Ediz.  :  Saggio  di  rime  di  quattro  poeti  del  sec,  HIV,  [ed.  N.  Tom- 
maseo]. Firenze,  1829,  p.  28  [Di  Francesco  Vannozzo]. 

66.  Io  mi  veggio  mancare  i  sensi  tutti  (son.) 

Bis.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  i5  [Idem  Franciscbus  V(an- 
notius)]. 

67.  Io  nacqui  d*  una  volpe  e  d' un  bel  bracco  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semìn.  Padov.,  e.  15  [Idem  Franciscbus  V(an- 
notius)]. 

Ediz.:  Antonio  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G. 
Grion].  Bologna,  1869,  p.  i9  [Francesco  Vannocci]. 

68.  lo  porgo  grazie  mille  al  bel  sermone  (son.)  (1) 

Ms. :  *Cod.  59  Semin.  Padov..  e.  46  [Replicatio  F(rancisci) 
Yan(notii)]. 

69.  Io  posso  assai  per  l  '  aere  reguardare  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  50  [Franciscus  V(annotius)]. 

70.  Io  sento  andare  intorno  tante  gatte  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov., e.  61  [Franciscus  V(annolius)]. 

71.  Io  son  Ferrara  con  gioiosa  vista  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov., e. 69  [Cantilena  Francisci  V(an- 
notii)  prò  Comite  Virtutum,  IVJ. 

Ediz.:  A.  Sa  CREDO  in  i4rcA.  stor,  itaL,  N.  S.,  voi.  XV,  P.  II,  p.  152 

[e.  s.  ] 

72.  Io  san  fratello  d'  ogni  amor  tirannico  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  c.63  [Franciscus  V(annotius)]. 


(1)  Replica  al  son.:  Alla  question  che  per  te  si  proponi. 


204  e.   R  L,  FRATI 

F,  XVI       73.  Io  son  venuto,  dolce  il  mio  signore  (son.) 

FRANCESCO 

N  VANNozzo  ^^•-  *^^*  ^^  Semin.  Padov.,  e.  17  [F(ranciscus  Vannotius): 

liutus  loquitur]. 

74.  Io  t'  ho  sempre  portato  tanto  atnore  (son.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  i8  [F(rancisci  Vaoootii) 
Responsio]. 

75.  Io  tei  voglio  pur  dir,  bel  mio  sonetto  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Pado?.,c. i8  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 

76.  Io  trovo  molti  eh'  han  capi  di  vaghe  (son.) 

Ms.:  *Ck)d.  59  Semin. Padov.,  e.  14  [Idem  Francìschus  V(an- 
notius)]. 

77.  Io  veggio  ben  che  i  cieli  ora  me  sfida  (son.) 

Ms.:  *God.  59  Semin.  Padov.,  e.  50  [Francìscus  y(an notius)]. 

78.  Io  veggio  ben  che  il  mio  qui  star  m' anoglia  (soo.) 
Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  54  [Franciscus  V(annotius)]. 

79.  Io  veggio  ben  che  tu  se'  gionto  al  passo  (son.) 

Ms.:  *Cod. 59 Semin. Padov., e.  12  [Idem  F(ranciscus  V(anno- 
lius)  ad  Nicolaum  de  Leone]. 

80.  Io  veggio  molti  in  alto  far  giudaica  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  13  [(Francìschus  Vannotius) 
ad  Nicolaum  de  Leone]. 

81.  Italia,  figlia  mia^  prendi  diletto  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  70  [Cantilena  Francisci  V(an- 
notii)  prò  Cornile  Virtutum,  Vili] 

Edizz.:  A.  Sagredo  in  Arch.  stor.  ital.,  N.  S.,  voL  XV,  P.  II,  p.  155 
[e.  s.]  Due  solvetti  imd.  del  1387  di  Francesco  di  Vannozzo 
veronese  [ed.  G.  Grion].  Padova,  Prosperini,  1866,  p.  7  [Roma]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  205 

82.  V  animo  altero  col  tuo  magno  core  (sod.)  F,  xvi 


Ms,:  •  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  48  [Fran(ciscus)  V(anDolius)  j^^vannozzo 
ad   idem]. 

83.  Z'  atto  geniti,  magnanimo  et  altero  (son.) 

Ms.:  *God.  59  SeoÙD.  Pado?.,  e.  33  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
n  oli  US)]. 

84.  La  bianca  nebbia  eh'  a  la  stanca  pende  (madr.) 

Ms.:  *Cod.  59 Semin.  Padov.,  e  52  [F(ranciscus)  V(annotius)]. 

85.  La  donna  che  vi  fa  nel  foco  stare  (sod.) 

Bis.:  *(k)d.  59  Semin.  Padov.,  e.  57  [F(ranciscus)  V(annotius)]. 

86.  La  mente  mia  che  sta  colma  d' affanno  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  66  [Franciscus  V(annotius) 
ad   bellec(tum)].  (1) 

87.  La  nostra  ingrata  e  rusticata  voglia  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  32  [Responsio   F(rancisci) 
V(annotii)]. 

88l  La  pioggia,  U  vento  e  quella  nebbia  nera  (caDZ.) 
Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  55  [F(ranciscus)  V(annotius)] 

89.  La  rima  vostra  piena  di  dispetto  (sod.)  (2) 

Ms.:  TiOd.  59  Semin.  Padov., e.  36  [Respon(sio)  Fr(ancisci) 
VaD(ootii)]. 

90.  La  santa  grazia  del  sommo  splendore  (sod.)  (3) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov., e  i2  [Franc(iscus)  Van(notius) 
ad   Ghedinum]. 


(1)  A  Jacopo  Gradenigo  soprannominato  Belletto. 

{2)  Responsivo  al  son.  di  Pietro  della  Rocca:  Taltibio  mio,  ogni 
mortai  diletto. 

(3)  Responsivo  al  son.  di  Gidino  da  Sommacampagna  :  Magnifica 
corona  di  valore. 


206  a  B  L.  FRiTi 

F,  XVI       91.  La  vostra  opinion  eh'  oggi  verdeggia  (sod.)  (1) 


FRANCESCO 

I  VANNOzzo  ^^'  *^^*  ^^  ^inin*  Padov.,  e.  32  [Resp(onsìo)  Franc(isci) 

Van(notii)]. 

92.  Leggiadro  mio  giardin^  lucido  e  bello  (soa.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semio. Padov., e.  41  (Idem  Francischus  V(an- 
Dotius)]. 

93.  Leone  isnello  con  le  ereni  sparte  (sod.) 

Mss:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  32  [Idem  Francìsciis  V(an- 
notius)].        *Cod.  Trìvulz.  32,  e.  73  [Yacobo  da  Ymolla]. 

94.  Libertà  eh'  io  ho  tanto  chiamata  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  69  [Cantilena  Francisci  V(an- 
notii)  prò  Cornile  Virtutum,  VI]. 

Ediz.:  A.  Sagredo  in  Arch,  stor.  Hai.  N.  S.,  voi.  XV,  P.  11,  p.  151 
[e  s.] 

95.  Liuto  mio,  deh  quanto  pianger  deggio  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  16  IF(ranciscus)  V(annotius)]. 

96.  Longinquo  dalla  parte  e  dalla  voglia  (son.)  (2) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  61  [F(ranciscus)  Van(notius) 
ad  Dom(inum)  Petr(um)  De  la  rocha]. 

97.  Mal  può  far  nuUa  chi  non  ha  fornello  (son.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  13  [Idem  Francischus 
V(annotius)]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Giovanni  Dondi:  Quando  il  del  con  suo 
stelle  favoreggia. 

(2)  A  Pietro  della  Rocca,  che  rispose  col  son.:  Molnl  son  fatto 
come  al  vento  foglia. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I."  207 

98.  MoUo  m'  aggrada  il  ben  che  ti  conspira  (sod.)  (1)         F,  xvi 


FRANCESCO 

Ms.:*God.  59  Semin.  Pado?.,  e.  !28.[Resp(onsio)  FraDc(isci)  ^j  vannozzo 
Van(nolii)]. 

99.  MoUo  mi  piace  il  tuo  dolce  sermone  (sod.) 

Ms.:  *  Co(L  59  Semin.  Padov.,  e.  60  [F(ranciscus)  V(anno- 
lius):  Mastinus  loquitur]. 

100.  Non  eredo  mai  da  te  ricever  pace  (son.) 

Ms.:  *  Cod.   59  Semin.   Padov.,  e.   43  [Idem   F(ranciscus) 
Viaonotias)]. 

101.  Non  è  virtù  dov*  è  la  fede  rara  (son.) 

Ms. :   *Cod.  59  Semin.   Padov.,  e   3i    [Idem    F(ranciscus) 
V(aDnotias)|. 

102.  Non  pianger  più^  Signor^  non  pianger,  padre  (son.) 
Ms.  :  '  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  42  [Fra  rime  del  Vannozzo]. 

103.  Non  può  falso  colar  tener  coperto  (ball) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  47  [F(ranciscus)  V(anno- 
lius)). 

104.  Non  si  dà  morte,  si  coni  credi,  tosto  (son.) 

Ms.  :  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  43  [Franc(iscus)  Van(notius)J. 

105.  Nulla  fu  mai  tra  noi  da  noi  diviso  (son.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  49  [F(ranciscns)  V(anno- 
lius)  ad  idem]. 

106.  NuUa  saper  nulla  vai  dir  né  fare  (son.) 

Ms:  •  Cod.  59  Semin.  Padov., e.  35  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
uolius)]. 


<  1  )  Kcsponsivo  al  son.  di  Bartolomeo  da  Castel  della  I*ieve  : 
Ih  quei  vaghi  pensier  eh'  Amor  t' inspira. 


208  a  B  II.  FRATI 

F,  XVI     107.  Nuovamente  una  donna  assai  pietosa  (son.)  (1) 


DI  VANNOZZO  ^^'''  *  ^-  ^^  Semin.  Pado?.,  e.  26  [Fran(ciscus)  Van(no- 

tius)  ad  Mag(istrum)  Johaoem]. 

108.  0  cor  di  doglia  pieno  e  di  martiri  (son.) 

Hs.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  50  [Franciscus  V(anDotius)]. 

109.  0  di  nobiltà  colonne  e  ponti  (sod.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  48  [Franciscus  V(anDO- 
tius)]. 

HO.  0  solitario^  vago,  ignoto  cucco  (son.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  19  [Idem  F(ranciscus) 
V(annotius)]. 

Ediz.  :  Saggio  di  rime  di  quattro  poeti  del  sec.  XI V  [ed.  N.  Tox- 
MASEO]  Firenze,  Pezzati,  1829,  p.  22  (ì  soli  vv.  13-U)  [Francesco 
di  Vannozzo]. 

ili.  0  teste  sciocche,  o  viste  rude  e  losche  (son.) 

Ms.:  "  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  19  [Idem  F(ranciscus) 
V(annotius)]. 

112.  Oriative,  Signor,  che  di  certano  (son.) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  3i  [Idem  F(ranciscus)  Y(aD- 
notius)]. 

113.  Farmi  che  unguanno  avrai  poco  formento  (son.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  31  [Idem  Franciscbus 
Y(annotius)]. 

114.  Pascolando  mi  vado  a  passi  lenti  (son.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  52  [Franciscus  V(aDno- 
tius)]. 


(1)  A  Giovanni  Dondi,  che  rispose  col  son.  :  La  donna  che  ti  sembra 
cordogliosa. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  209 

lt5.  Pascolando  mia  mente  il  dolce  prato  (canz.)  F,  xvi 


Ms.:  Cod.  59  Semìn.  Padov,  e.  1  [Franciscus  Vannotius].      i^j  y^nnozzo 
Edia,:  Rime  di  Francesco  Vannozzo  [ed.  N.  TommaseoI.  Padova, 
ùp.  del  Seminano,  18^5,  p.  27  [Canzone  morale  fatta  per  la 
divìsa  del  Conte  di  Virtù  Duca  di  Milano].       N.  Tombiaseo, 
DisfOfurno  d'  estetica.  Milano,  1860,  ?ol.  I,  p.  431  (framm.)  [France- 
sco di  Vannozzo]. 

U6.  Per  andar  forte  non  si  fa  buon  furto  (son.) 

Ns.  :  *  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e  ii  [Idem  Francischus  V(an- 

oolius)]. 

117.  Per  bene^  per  amore  e  per  dispetto  (ball.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Pado?,  e.  65   [Franciscus  V(anno- 

lius)J. 

118.  Per  fin  che  'l  mondo  non  permette  usatufa  (ball) 

Xs. :  *  Cod.   59  Semin.   Padov.,  e.  66  [Franciscus  V(anno- 

119.  Per  quel  balsamo  puro  che  distilla  (son.) 

Ms. :   *  Cod.  59  Semin.   Padov.,  e.  20  [Idem    F(ranciscus) 
V(aonotius)]. 

120.  Per  tue  parole  e  per  tuo  dimorare  (son.)  (1) 

Ms.  :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  47  [Replicatio  F(rancisci) 
V(aonotii  )|. 

121.  Perché  amicizia  al  mondo  si  convene  (son.)  (2) 

Ms.  :  •  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  22   [Resp(onsio)   F(ranci- 
nci)  Van(notii)]. 


<1)  A  un  certo  Verette,  responsivo  al  son.:  Francesco  mio,  di  ciò 
Him  ti  turbare. 

(2)  Responsivo  al  son.   di  Gaspare   di  Lanzaroto:  Francesco^  e 
fum  è  cosa,  e  tu  7  sai  bene. 

Voi.  IV,  l'arte  I         .  14 


210  a   K   L.  FBATI 

'^  ^      122.  Perché  tu  sei  della  ca'  del  liane  (son.) 

FRANCESCO  ^         ' 

DIVANNOZZO  Ms.:  *  Cod.  59  Semin.    Padov.,  e    17  [Idem    F(ranciscus) 

V(annotius)]. 

123.  Perdonimi  ciascun  s' io  parlo  troppo  (frott) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  37  [Franciscus  Vannotius]. 
Ediz.:  Ant.  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion]- 
Bologna,  1869,  p.  298  [Frottola  dì  Francesco  Vannocci]. 

124.  Piacer  di  corpo  e  di  mente  aUegreaaa  (son.) 

Ms. :  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,c.  46  [S(onettus)   F(rancisci) 
V(annotii)  ad  Spinolam]. 

125.  Pirrici  panni  che  tener  volete  (son.) 

Ms.:  *God.  59  Semin.  Padov.,c.  54  [Franciscus  V(anDotius)|. 

126.  Più  di  Ruberto  Giache  e  Feliparte  (son.) 

Ms. :  Cod.  59  Semin.  Padov. ,  e.  iO  [Franciscus    Vannotius 
(a  Gidino   da  Sommacampagna)]. 

127.  Poi  cK  a  V  ardita  penna  la  man  diedi  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  11  [Idem  Franciscus  (Van- 
notius) ad  Petrarchamj. 

128.  Poi  cK  io  ti  vidi^  dolce  Signor  mio  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  48  [Franciscus  Vannotius). 

Ediz.:  Quattro  sonetti  inediti  di  Francesco  Vanozzo  [ed.  D.  Bar- 
baranJ.  Padova,  tip  del  Seminario,  1870,  p.  14  [Sonetto  diretto 
a  personaggio  d*  illustre  casato  ,  forse  il  Conte  di 
Virtó]. 

129.  Poi  che  'l  mio  dir  col  tuo  si  tosto  adoi  (son.)  (1) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  45  [Resp(onsio)  Fr(ancisci  » 
Van(notii)]. 


(1)  Respons.  al  son.  di  Niccolò  Del  Bene:  Fu  gloriosa  mia  fama 
dappoi. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*^  211 

130.  QuaV  ira  etema  ti  fece  volare  (son.)  (1)  F,  xti 

Ms,:  •  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  47   [S.   Fran(cisci)  Van-  d£v^nozzo 

(notii)]. 

131.  Quancf  io  mi  volgo  atomo  e  pongo  mente  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  59  [F(raDciscus)  V(annotius)]. 

13^  (Quando  a  vederti  awien  che  gli  occhi  intoppe  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  42  [Idem  F(ranciscus)  y(an- 

ivoiias)]. 

i33^  Quando  conosci  il  vìbìo  delV  amico  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Pado?. ,c.  i3[Idem  Francischus  V(an- 

OOtJUS)]. 

/3i  Quando  ricerco  il  poggio  di  mia  mente  (son.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  15  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
ootius)  ad  Antoniom  del  Gayo]. 

135.  Quel  che  già  mi  rincrébbe  ora  mi  piace  (sod.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  67  [Franciscus  V(annotius)]* 

136.  Quel  grado  iniquo  che  del  don  mi  senti  (son.) 

Ms  :  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  33  [Idem  Franciscus  V(an- 
Botias)]. 

137.  Quel  primo  fruito  che  daU*  alto  verbo  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  36  [Responsio   F(rancisci) 
V(an  notii)]. 

138.  Qui  sono  é  pensier  miei  fermati  e  pronti  (son.) 

Ms.:  *  Cod.   59  Semin.   Padov.,  e.  51    [Franciscus   V(anno- 
tiu$)J. 


(i)  Ad  un  certo  Verette,  che  rìsp.  col  son.:  Francesco  mio,  de  zo 
non  ti  turbare. 


212  a  B  L.  FRATI 

F,  XVI     139.  Biposto  avete  al  mio  parere  U  velo  (son.)  (1) 

IANCE8C0 
DI  VANNOZZO 


FRANCESCO  j^^^.  . ^^   r^,j  g^^j^  Padov.,  c.  23  [Franciscus  Vannoiiosl 


Ediz.:  &>ii^//i  inediti  di  Ghidino  da  Somxacaiipagna  [ed.  R. 
SoMO].  Verona,  Merlo,  1858,  p.  7  (i  soli  w.  5-8)  [Francesco  & 
Vannoiio]. 

140.  S'io  non  temessi^  amico^  di  turbare  (sod.) 

Ms.:  *God.  59  Semin.  Padov.,  e.  57  [Responsio  d.    F(rancìsci 
Vannotii)]. 

141.  STio  80  ben  caleular  cotesto  detto  (sod.) 

Ms.  :  '  Cod.  59  Semin.  Padov. ,  e.  19  [1  d  e  m  F(  ra  n  e  i  se  li  u  s)  Y(a  ih 
nolias):   Responsio]. 

142.  S*  un  verme  penenoso  mi  piagasse  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  67  [Franciscus  V(annotius)]. 

143.  Sacci^  Signor j  che  la  sera  e  7  tnaitino  (son.) 
Vedi  appresso,  n.**  lii. 

144.  Sappia  Sifft.or,  che  la  sera  e  7  maiHìio  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  18  (Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notius)]. 

Ediz.:  AxT.  DA  Tempo,  Trattalo  delle  rime  riìitfari  [ed.  (i.  (.ìriun). 
Bologna.  1869.  p.  'ìi)  (Francesco  Vannocci  a  Marsilio  da 
Carrara]. 

145.  S<p  con  scritture  teco  io  non  ripeto  (soD.)  (2) 

Ms.:  'ix>d.  59  Semin.  Padov.,  e  «fó  |Resp(onsio)  Frunc(i>ci) 
Van(notii)]. 


(1)  RespiM».  al  son.  di  Gidi.no  d.%  Soiuacampag.na  :  Prima  che 
Gìoi'^  atrsse  l'  atto  cielo, 

yi)  Respons.  al  sod.  di  Jacopo  Grademco  sopraoDominalo  Belletto: 
.Vo,  il  gran  tempo  trascorso^  il  misto  peto. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCTONI,  P.  L''  213 

U6.  Se  Die  m' aide  alle  vagnele,  campar  (frolt)  F,  xvi 


FRANCESCO 

Mss.  :   Cod.   59  Semin.    Padov. ,   e.   28  6  [Fra   rime  del   V  a  n  -  £)(  vannozzo 
nozzo].        Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  108  [Vannozzo]. 

Ediz.:  Ant.  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion). 
Bologna,  1869,  p.  327  [Francesco  Vannocci]. 

147.  Se  '{  tuo  novo  sonetto  ben  intendo  (sod.)  (1) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  24  [Franciscus  Vannotius 
(a  Gidino  da  Sommacampagna)]. 

Ediz.:  Ant.  da  Tbmpo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion]. 
Kologna,  1869,  p.  23  [Francesco  Vannocci  a  Gbidino  da 
Sommacampagna]. 

148.  Se  veritade  che  al  signor  plasette  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  28  [Franciscus  V(annotius)]. 

149.  Si  come  franco  e  pronto  lion  forte  (soo.) 

Ms.:  *Cod. 59  Semin.  Pado?.,  e  44  [Idem  F(ranciscas)  V(an- 
Qotius)]. 

130.  Sia  benedetto  il  vespro  e  7  predicare  (son.) 

M5.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  16  [Franciscus   Vannotius]. 

Edìzz.  :  Saggio  di  rime  di  quattro  poeti  del  sec.  XIV  [ed.  N.  Tom- 
maseo]. Firenze,  1829,  p.  20  [Di  F.  Vannozzo  per  aver  veduta 
la  sua  donna  dormire  in  Chiesa].  N.  Tommaseo,  Diziona- 
rio d' esletica.  Milano,  1860,  voi.  !,  p.  430  [e.  s.]  Rime  di  Gino  da 
Pistoia  [ed.  Carducci].  Firenze,  1862,  p.  571  [Francesco  Van- 
nozzo]. 

151.  Signor  mio  caro,  il  gran  dolor  eh'  io  sento  (sod.) 

.Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  17  [F(ranciscu8  Vannotius): 
liutus   loquitur]. 


(T)   Kespons.   al  son.    rìnterzato  trilingue  di  Gidino  da  Somma- 
.AMPAGNA  :  Precaro  frate  mio^  t' io  ben  comprendo. 


214  a  "    II.  FRATI 

F,  XVI      ^52.  Socrate,  Plato,  il  buon  Vergilio  e  Danti  (son.)  (1) 
FRANCESCO  ^''  *  ^^*  ^^  Semin.  Padov.,  e  14   [Ad   Pelr(um)   Monia- 

Di  VANNOZZO  narium   Resp(onsio)   F(rancisci)  V(annotii)]. 

153.  Spetto  Maestro  mio,  molto  mi  giova  (sod.)  (2) 

Ms. :  Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e.  23  [Franciscus  Vannotius]. 
Ediz.  :  Sonetti  inediti  di  Gridino  da  Sommacabipagna  [  ed.  B.  Sorio). 
Verona,  Merlo,  1858,  p.  8  [Responsio  Francisci   Vannozzi]. 

154.  Spesso  adivien  che  duo  lepri  caccia  (sod.) 

Ms.:  '  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  34  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
notias)]. 

155.  Talor  io  sento  al  cor  doglie  si  fatte  (sod.) 

Ms.:  *  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  42  [Franciscus  VaD<notias)]. 

156.  Tamburlo  mio,  sareste  mai  quel  messo  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  43  [Idem  Francischus  V(an- 
n  oli  US)]. 

157.  Tanti  son  gli  sf  ir  falchi  e  gli  falconi  (sod.) 

Ms.  :  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  21  [Franciscus  V(annotius)]. 

158.  Tanto  è  profondo  il  suon  di  vostre  corde  (soo.)  (3) 
Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  10  [Franciscus   Vannolius]. 

159.  Tornato  è  l  velo.  Amor,  che  mi  dà  pena  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  53  [F(ranciscus  Vannotius)). 


(1)  Respons.  al  son.  di  Pietro  Montanaro:  Come  ciò  sia,  che  due 
diversi  amanti. 

(2)  Respons.  al  son.  di  Gidino  da  Sommacabipagna:  Nel  Testamento 
Vecchio  non  si  trova, 

(3)  Respons.  al  son.  di  Gidino  da  Sommacampagna  :  La  parie  ythel- 
lina  sempre  morde. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  215 

160.  Tu  dei  saper  che  7  ftMco  e  la  calura  (son.)  (1)  F,  xvn 


Ms.:  'Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  24  [Ad   Ghedinum   F(ranci-     pandolfo 
SC1IS)   VaD(notias)]. 

161.  Tu  sei  si  fatto  della  voce  roco  (son.)  (2) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.   27   [Responsio  Franc(iscì) 
VaD(Dotii)]. 

162.  Vento  noioso  che  fin  de  l  aurora  (son.) 

Ms.:*  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  55  [Franciscus  y(annotius)]. 

163.  Venuto  il  di  che  7  vano  amor  sotterro  (son.) 

Ms.:  "  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  43  [Idem  F(ranciscus)  V(an- 
noiius)]. 

164.  Vinegia  franca  io  son  per  lo  cui  amore  (son.) 

Ms.:  Cod.  59  Semin.  Padov.,  e.  68  [Cantilena  Francisci 
Vonnotìi)  prò  Cornile  Virtutum,  IH]. 

iùliz.:  A.  Sagredo  in  Arch,  star,  itaUy  N.  S.,  voi.  XV,  P.  II,  p.  151 

XYIL  Franchi  (De*)  Pandolfo. 

Rugge  T  ungaro^  stride^  duole  e  plora  (son.) 

Edizz.:  Cre«ìcdibeni ,  ed.  Yen.,  V,  61  [Pandolfo  Guidone 
il  »•  '  F  ra  n  e  h i].  Di  Giovanni  V.,  Della  prosa  volg,  in  Sicilia  ne'  secoli 
XIII,  XIV,  XV.  Firenxe,  1862,  p.  45  [Pandulfo  de' Franchi]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Gidino  da  Sommacampagna  :  La  possa, 
FraU,  che  ha  Sacra  Scrittura,  pobbl.  dal  SORIO  in  Sonetti  inediti  di 
TiKiDiNO  DA  SoMSiACAMPAGNA.  Verona,  A.  Merlo,  1858,  p.  9. 

(2)  Respons.  al  son.  di  Bartolomeo  da  Castel  della  Pieve:  Io 
ardo  e  piango  e  non  s'ammorza  il  foco. 


216  a  «  L,  FRATI 

y,  XIX 

FRB8C0BALDI  XVIII.  FrescobalcU  Battista. 


DINO 


Dono  figlifiol  di  Don  idest  di  prete  (son.) 
Ms.:  'MagUab.  VH,  8,  1097,  e  152  a  [Batista  Freschobaldi]. 

XIX.  Frescobaldi  Dino. 

1.  Al  vostro  dir,  che  d*  amor  mi  favella  (son.) 

filss.:  Laur.,  pi.  XG  inf.,37,  e.  91  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  93  [e.  s.]  Vat  3213,  e.  74  b  [e.  s.]  Chig.  L,  VIU, 
305,  e.  77  a  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  47  a  [e.  s.] 

Ediz.:  Yalbriani,  Poeti^  voi.  II,  p.  527  [Dino  Frescobaldi]. 

2.  Amor^  se  tu  s^  vago  di  costei  (sod.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XG  inf.,  37,  e.  90  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palaL  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parìg.  già  7767 
ora  554,  e.  91  [e.  s.]  Vat  3213,  e.  73  b  [e.  s.]  Chig.  L,  VOI, 
305,  e.  76  a  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  TrÌTulz.  1058,  e  44  6  [e  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  Il,  p.  514  [Dino   Frescobaldi]. 

3.  Deh  giovanetta^  de  begli  occhi  tuoi  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  93  [Dino  Frescobaldi]  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palai.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  9i  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  76  [e.  s.]  Gbig.  L,  Vili,  305, 
e.  99  6  [e.  s.]       God.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  46  b  [e  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  II,  p.  525  [Dino  Frescobaldi]. 

4.  Donna^  dagli  occhi  tuoi  par  che  si  mova  (sod.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf. ,37, e.  90  [Dino  Frescobaldi].  BibL 
Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.)  Parigino  già  7767 
ora  554,  e.  90  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  73  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili,  305, 
e.  76  a       Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  44.  6.  [e.  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  II,  p.  513  [Dino  Frescobaldi]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  217 

5.  Giovane^  che  cosi  leggiadramente  (son.)  F,  xix 


Mss.:  Uur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  92  [Dino  Fresco  bai  di].      Bibl.  ^'RESCOBALDI 
Naz.  di  Firenze,  paiau  204,  e.  121  e  segg.  (e.  s.]        Val.  3213,  e.  75 
[e  s.]        Chig.  L,  Vili,  305,  e.  115  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Tri- 
vtilz.  1058,  e  45  6  [e.  s.] 

6.  In  quella  parte^  ove  Itice  la  stella  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  93  [Dino  Frescobaldi]  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palaL  204,  e  121  e  segg.  [e.  s.]  Parìg.  già  7767 
ora  554,  e  93  [e.  s.J  Val.  3213,  e.  76  [e  s.]  Chig.  L,  Vili, 
:U)5,  e  115  6  [e.  S.1      Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  46  6  [e.  s.] 

7.  U  alma  mia  trista  seguitando  il  core  (son.) 

Ms.:  Vat  3214,  e.  135  (Dino  di  Lambertuccio  Fresco- 
baldi]. 

Cdìzz.:  L.  Manzoni  in  Rivista  di  filoL  romanza.  Imola,  1873,  voi. 
L  p.  86  [Dino  di    Frescobaldi]. 

&  La  foga  di  quelV  arco^  che  s'  aperse  (son.) 

Mss.:  Laur.,pL  XC  inf.,  37,  e. 93  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palai.  20i,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parìg.  già  7767 
ora  554.  e.  94  [e  s.J  Vat  3213,  e  76  [e.  s.]:  3214  [e.  s.]  Chig.  L, 
Vili,  305,  e.  115  fe  [e.  s.]  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e. 
i6.  [e.  5.) 

Cdizz.:  Francesco  da  BKnBznim,  Documenti  (T amore.  Boma,  1640, 
Tavola,  s.  v.  trare  (il  t.  12)  [Dino  Frescobaldi].  Valeriani  , 
/V/f,  ¥oL  II.  p.  52i  [Dino  Frescobaldi]. 

9.  Morte  avversaria^  poi  eh'  io  son  contento  (canz.) 
E4ìi.:  Trucchi,  I,  258  [Dino  Frescobaldi]. 

10.  Non  spero  di  trovar  giammai  pietate  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  92  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  dì  Firenze,  palai.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s].  Parìg.  già  7767 
ora  554,  e.  93  [e.  s.]  Val.  3213,  e.  75  b  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili, 
:)iJ^K  e  115  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  IO  a  [c.  s.] 

Fìlizz.:  Francesco  da  Barberino,  Documenti  d'amore.  Boma,  16i0, 
Tavola,  s.  v.  quadra  (i  vv.  5  e  6)  [Dino  Frescobaldi].  Valeriani, 
fv//,  Tol.  Il,  p.  519  [Dino  Frescobaldi]. 


218  a   K   L.   FRATI 

F,  XIX       11.  Per  gir  verso  la  spera  la  Fenice  (canz.) 


'''^WNO^'^'         Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  56  e  segg.  [Dino  Frescobaldij. 

Bibl.  Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121    e  se^.  [e.  s.]        Parig.  già 

7767  ora  554,  e.  90  [e.  s.J        Vat  3^13,  e.  72  b  [e.  s.]        Chig.  U 

Vni,  305,  e.  55  [e.  S.1        Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  79  [e  $.] 

Edìz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  Il,  p.  510  [Dino   Frescobaldi]. 

12.  Per  qualunque  cagian  nasce  la  cosa  (son.) 

Ms.:  Chig.  L,  Vili,  305,  ce.  72  e  100  [a non.] 
Ediz.:  Francesco  da   Barberino.  Docùm  d'amore  Berna,   1640, 
Tavola,  s   v.  rivolle  e  conoscenza  (i  w.  1-4)   [Dino   Frescobaldi]. 

13.  Per  tanto  pianger,  che  i  miei  occhi  fanno  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XG  inf.,  37,  e.  92  [Dino  Frescobaldi]  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palaL  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  93  [e.  s.]  VaL  3213,  e.  75  é  [e  s.]  Chig.  L,  Vili, 
305,  e  115  [e.  s.]         Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e  46  a  [e.  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  Il,  p.  518  [Dino  Frescobaldi]. 

14.  Poscia  eh'  io  veggio  T  anima  partita  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  91  [Dino  Frescobaldi]  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  92  [e.  s.]  VaL  3213,  e.  74  h  [e.  s.]  Chig.  L,  VOI, 
305,  e.  76  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  45  6  [e.  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti^  voi.  II,  p.  521  [Dino  Frescobaldi]. 

15.  Poscia  che  dir  convienmi  ciò  eh'  io  sento  (canz.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  56  e  segg.  [Dino  Frescobaldi]. 
Bibl.  Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e  s.]  Parìg.  già 
7767  ora  554,  e.  87  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  70  b  [e.  s.]  Chig.  L, 
Vili,  305,  e.  54  [e.  s.]  Vat.  3214.  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz. 
1058,  e.  78  [e.  s.] 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  Il,  p.  505  [Dino  Frescobaldi]. 

16.  Quanta  nel  mio  lamentar  sento  doglia  (canz.) 

Ms.:  •  Vat  3214,  e.  124  [Dino    di    Frescobaldi]. 
Ediz.:  L.  Manzoni  in  Rivista  di  filoL  romanza,  Imola,  1873,  voL  I, 
p.  85  [Dino  di  Frescobaldi]. 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  219 

17.  Quest'  altissima  stella  che  si  vede  (son.)  _Zl3?L_ 

FRESGOBALDI 

Mss.:  Laur.,pL  XG  inf.,  37,  e  92  [Dino  Frescobaldi].      Bibl.         dino 
Naz.  di  Firenze,  palaL  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]        Parig.  già   7767 
ora  554,  a  93  [e.  s.]        Val.  3213,  e.  75  a  [e.  s.]        Chig.  L,  Vili, 
305,  e.  115  [e.  s]         Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  45  6  [e.  s.j 

• 

18.  Quest' è  la  giovinetta^  eh'  Amor  guida  (sod.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XG  inf.,  37,  e.  91  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palat  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e  91  [e  s.]  VaL  3213,  e.  74  [e.  s.J  Chig.  L,  VIU,  305, 
e.  76  [e.  s.]       Casanat.  d,  V,  5  [Dante].       Chig.  già  1124,  e.  124. 

Edizz.:  Crescdibeni,  ed.  Ven.,  Ili,  121  [Dino  Frescobaldi]. 
Valeriani,  Poe/t,  ?ol  11,  p.  517  [e.  s.]  Rime  ined.  di  quattro  poeti 
|ed.  D.  Carbone].  Roma,  Barbèra,  1872  [Dante]. 

Cfr.  Alighieri  Dante. 

19.  Tanta  è  V  angoscia  che  nel  cor  mi  trovo  (sod.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  90  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  91  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  73  b  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili, 
305,  e  76  [e  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Trìvulz.  1058,  e.  44  [e.  s.] 

Ediz.:  Valeruni,  Poeti,  voi.  Il,  p.  515  [Dino  Frescobaldi]. 

20.  Un  sol  pensier,  che  mi  vien  nella  mente  (canz.) 

.Mss.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  56  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
.Naz.  di  Firenze,  palat.  204,  e.  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e.  86  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  70  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili,  305, 
e.  53  b  [e.  s.]        Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  78  [e.  s.J 

Ediz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  II,  p.  503  [Dino  Frescobaldi]. 

21.  Una  stella  con  si  nuova  helleaaa  (sod.) 

Mìfs.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  90  [Dino  Frescobaldi].  Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  palat  204,  e  121  e  segg.  [e.  s.]  Parig.  già  7767 
ora  554,  e  91  [e.  s.]  Vat.  3213,  e.  74  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili, 
rw».".,  e.  76  6  [e.  s.]         Cod.  Bossi  36  ora  Trivub.  1058,  e.  45  a  [c.s.] 

Kdiz.:  Valeriani,  Poeti,  voi.  Il,  p.  516  [Dino   Frescobaldi|. 


220  a  «   L.  FRATI 

Fi  xz        22.  Voi  che  piangete  nello  staio  amaro  (sod.) 


FRESGOBALOI 


Mss.:  Laur.,  pi.  XC  mr.,37,  c56  e  segg.  [Dino  FrescobaldiJ. 
Bibl.  Naz.  dì  Firenze,  palat.  204,  a  121  e  segg.  [e.  s.]  Parìg.  già  7767 
ora  554,  e.  89  [e  s.]  Vat  3213,  e.  71  é  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili 
305,  e  54  6  [e.  s.]       Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  79  [e  s.] 

Ediz.:  VALERiAin,  Poeti,  voi.  II,  p.  508  [Dino   Frescobaldi]. 


XX.  Frescobaldi  GiovaniiL 

1.  Chi  vuol  veder  una  leggiadra  donna  (son.) 
Ms.:  CasanaL  d,  V,  5,  e.  133  [Gio.  Lambertuccì  ]. 

2.  Della  mia  mente^  ove  7  desio  s*  informa  (son.) 
Ms.:  Gasanat  d,  V,  5,  e.  132  [Gio.  Lambertucci]. 

3.  Due  forosette,  ser  Ventura,  bionde  (som) 

fifss. :  Gasanat  d,  V,  5,  e,  129  [Gio.  Lambertucci].  Laur. 
pi.  XLs  e.  47  b  [Matteo  Frescobaldi]. 

4.  Io  veggio^  ser  Ventura,  la  matricola  (son.)  (1) 

Mss.:  *Laur.,  pi.  XL1I,  38,  e.  30  [Giovanni  Lambertucci]. 
'Laur.,  pL  XL,  49,  e.  56  6  [e.  s.)  Riccard.  1094,  e.  145  a  [e  s.) 
Canon.  ìtal.  111  nella  Bodleiana  dì  Oxford,  ce.  7-9  [a non.] 

5.  Mal  va  'l  mio  ingegno  infermo  sanza  grucciole  (son.)  (2) 
Mss.:  Laur.  Red.  184  (già  151),  e.  127  b  [Gio.  Frescobaldi]. 

6.  Non  fu  giammai  fanciuì  vago  di  lucciola  (son.) 

Ms.:  Ghìg.  L,  IV,  131,  e.  673  [Lambertuccio  Frescobaldi]. 


(1)  A  Ser  Ventura  Monaci. 

(2)  Respons.   al   son.  dì   Maestro  Lazaro  da   Padova:  Fresco  mi 
caro,  qui  tra  mille  lucciole. 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  221 

7.  Ottavanie,  otto  venti  han  sempre  vinto  (son.)  (1)  F,  xxi 

Mss.:-Uur.  Red.  i84,c.  134[Giovan  Frescobaldi].        *  Rie-  ''*^^^^|^'^'^^ 
c»ni.  931,  e.  506 [Giovanni  Frescobaldi  a  Ottavante  Barducci 
essendo  a  lite  con  Piero  Bandini]. 

8.  Poi  che  fortuna  v'  è  tanto  lunatica  (son.) 

Mss.:  Laur.,  pi.  XL1I,  38,  e.  30  [Giovanni  Lambertucci]. 
'Laur.,  pL  XL,  49,  ce.  30  e  56  [e.  s.]  *Riccard.  1094,  e.  145  a 
[e.  s.l 

9.  Ricordo  per  chi  passa  in  Inghilterra  (sod.) 

.Mss.:  *Laur.  Red.  184  (già  151),  e  185  6  [anon.]  MoOck.  6 
(lìiovanni  Frescobaldi]. 

Ediz.:  Peruzzi,  Scorta  del  Commercio  e  dei  Banchieri  di  Firenu. 
Firenze,  Cellini,  1868,  p.  154  [Giovanni  Frescobaldi]. 

10.  Ventura^  i'  sento  di  quella  panatica  (sod.) 
Ms.:  Casanat  d,  Y,  5,  e.  132  [Gio.  Lambertucci]. 

11.  Volendo  seguitare  il  mio  disegno  (sod.) 

Mss.:  Cod.  Venturi,  e.  126  [G."*  Frescobaldi].  'Àmbros.  G, 
Xì,  e.  29  [Giovanni  Frescobaldi]. 

Ediz.:  //  Borghini  [ed  P.  Fanpani],  voi.  1,  p.  52  [Giovanni  Fre- 
scobaldi. La  palla  al  calcio.] 

XXI.  Frescobaldi  Lambertncio. 

1.  Com'  forte  forte  era  forte  Vora  (caDZ.) 

Ms.:  'VaL  3793,  e  167  a  [Messer  Lambertucio  |. 

2.  Con  vana  erranza  fate  voi  riparo  (sod.) 
Ms.:  'Vat.  3793,  e.  168  a  [Messer  Lambertucio]. 


(1)  A  Ottavante  Barducci,  che  rispose  col.  son.:  Spentelo  spento 
mitt  infogno  ho  già  spinto,  contenuto  nel  cod.  *  Riccard.  931 ,  e.  50  b 
(Risposta  d'Oltavaote  Barducci]. 


HESCORALDI 
MATTEO 


222  C.   >    L.   FRATI 

ly  xxu         3.  Fera  scienga  al  vostro  core  è  giunta  (soil) 

Ms.:  'Val.  3703,  e.  167  h  [Messer  Lambertucio]. 

4.  Forte  mi  maraviglio  perché  serra  (son.) 
Bis.:  *VaL  3793,  e.  168  a  [Messer  Lambertucio]. 

5.  Poi  che  volgete  e  rivolgete  faccia  (son.) 
Ms.:  *Val.  3793,  e.  168  h  [Messer  Lambertucio]. 

6.  Vostro  adimando  secondo  cV  appare  (sod.) 

Ms.:  VaL  *3793,  e.  168  h  [Messer  Lambertucio  Fresco- 
baldi]. 

XXJL  Frescobaldi  Hatteo. 

1.  A  voi,  egregi  e  sapienti  viri  (son.) 

Mss.:  Vat.  3213,  e.  508  a  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi  |. 
MagUab.  II,  IV,  250,  e.  116  a  [Francesco  d'Àltobianco  degli 
Alberti]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  69. 

2.  Accorr*  uomo,  accorr'  uomo,  i'  son  rubato  (son.) 

Mss.:  MagUab.  VII,  3,  1010  (ora  11,  iO),  e.  218  b  [anon.]  Val. 
3:213,  e.  502  a  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Fdizz.:  Giorn,  arcad.  (1819),  voi.  Il,  p.  46  [Matteo  di  Dino 
Frescobaldi].  G.  Pcrticari,  Opuscoli.  Lugo,  Melandri,  1823,  p. 
481  [e.  s.]  G.  Perticari,  Opere.  Bologna,  Guidi,  1839,  voi.  II,  p. 
269  [e.  s.J  Trucchi,  11,  71  [Matteo  Frescobaldi].  Rime 
di  CiNO  DA  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862 ,  p.  2i4 
[e.  s.] 

3.  Amico^  che  domandi  e  vuo'  sapere?  (canz.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  993  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci).  Pistoia,  1866,  p.  27. 

4.  Amor,  dacché  ti  piace  pur  eh'  io  dica  (son.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  993  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Edizz.:NANNUCCi^Affl»ttfl/c,1, 337 [Matteo  Frescobaldi].     Scelia 
di  poesie  liriche  dal  primo  sec.  della  lingua  fino  al  i  700,  Firenze,  Le  Mounier, 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I  *    •  223 

1J<a9,  in  i.'       Rime  di  Gino  da  Pistoia  fed.  G.  CarducciI.  Firenze,  Bar-      p, 

béra,  1862, p. 249 [Matteo  Frescobaldi].        M. Frescobaldi, fliwie  krescobaldi 

[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  4866,  p.  25.  Matteo 

5.  Atnor  fa  ì  anno  nella  primavera  (son.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3, 1010  (ora  II,  40),  e.  217  6  [a non.]  Val. 
3213,  e.  501  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.  :  Rime  di  Matteo  Frescobaldi  ara  per  la  prima  volta  pub- 
blieaSe  [ed.  Gius.  Manuzzi].  Firenze,  1864,  p.  8.  E.  Frescobaldi,  Rime 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  49. 

6.  Cara  Firenze  mia,  se  V  alto  Iddio  (canz.) 

Mss.:  Magliab.  YU,  3,  1010  (ora  U,  40),  e.  220  a  [Chanzona 
di  matteo  di  Dino  Frescobaldi  parlando  di  Firenze). 
VaL  3213,  e.  500  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  Vern  alla  patria  di  Lirici  Hai.  dal  sec,  XIV  al  XV U,  rac- 
rolti  per  cura  di  L  F.  PoLiDORi.  Firenze,  1847,  p.  16  [Gio.  Boccac- 
cio]. Miscellanea  di  case  inedite  o  rare  [ed  F.  GorazziniJ.  Firenze, 
IK53.  Rime  di  CiNO  da  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Bar- 
bèra, 1862,  p.  258  [Matteo  Frescobaldi].  M.  Frescobaldi, 
Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  30. 

7.  Chi  vuol  veder  visibilmente  amore  (balL) 

Ms. :  Magliab.  VII,  3.  1010  (ora  II, 40),  e.  220 a  e  segg.  [Del  detto 
uatteo  (Frescobaldi)]. 

Edizz.:  Matteo  Frescobaldi,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze, 
ISi4,  p.  11.  L.  F.  Polidori  in  Giornale  arcad,  (1845),  voi  CHI, 
p.  :f81»  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi].  M. Frescobaldi, /i^tme 
[ed.  G.  Carducci].  Pbioia,  1866,  p.  83. 

8.  Com'  pili  riguardo  F  onesta  bellezza  (sod.) 

Ms. :  Cbig.  L,  IV,  131,  e.  751  [Il  medesimo  Matteo  (Fre- 
>cobald  i)]. 

EdizL :  Crescimbeni,  ed.  Ven.,  Ili,  138  [Matteo  Frescobaldi]. 
Raccolta  di  rime  ant,  tose.  Palermo,  Assenzio,  1817,  HI,  395  [e.  s.] 
Rime  di  Qno  DA  Pistoia,  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862, 
p.  2i3[  Matteo  Frescobaldi].  M.  Frescobaldi,  Atme  [ed.  G.  Car- 
dlcci].  Pistoia,  1866,  p.  il. 

9.  Con  tre  saette  Amor  nel  cor  mi  venne  (soo.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  752  [Il  medesimo  Matteo  (Fresco- 
baldi)).      'Laiir.  Red.  184(giàl51),c.  112fr[Matteo  Frescobaldi]. 
Cdiz.  :  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  40. 


MATTEO 


224  a   B   L.  FRATI 

F,  xxu       10.  Deh  cantate  con  canto  di  dolceaaa  (ball.) 

FRESCOjULDi  Ms.:  Magliab.  VII,  3,  iOlO  (ora  li,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Ballala 

del  detto  (Matteo  Frescobaldi)]. 

Edìzz.:  M.  Fhescobaldi,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori]  Firenze,  Iftil, 
|).  9.  L  F.  Polidori  in  Giornale  arcad.  (Ì815),  ?ol.  CHI,  p.  279 
[Matteo  di  Dino  Frescobaldi].  Rime  di  Gino  da  Pistoia 
[ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862,  p.  256  [e.  s.] 

11.  Deh  confortate  gli  occhi  miei  dolenti  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  lOlO  (ora  II,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Ballata 
del  detto  (Matteo  Frescobaldi)]. 

F/dizz.:  Misceli  di  cose  ined.  o  rare  [ed.  F.  Corazzim].  Firenze, 
1853.  Rime  di  Gino  da  Pistoia  [ed.  G.  Carducci).  Firenze,  Bar- 
bèra, 1862,  p.  254  [Matteo  Frescobaldi].  M.  Frescobaldi, /?imf 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  79. 

12.  Deh  non  fuggire  quello  cV  hai  più  volte  (SOD.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3, 1010  (ora  II,  40),  e.  218  a  |anon.]  VaL 
3213,  e.  301  h  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed  G.  Ma.nuzzi].  Firenze,  1864,  p.  9: 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  58. 

13.  Deh  quanto  vien  chi  vuol  seguire  Amore  (son.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  46),  e.  219  ^  |  anon.]  Vnu 
3213,  e.  502  ò  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  Trucchi,  11,  74  [Matteo  Frescobaldi].  M.  FreS4:o- 
raldi,  A/m^  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia  1866,p.  39.  Rime  di  Clno  da 
Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  1862,  p.  246. 

14.  Donna^  dove  dimora  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  IO),  e.  220  a  e  segg.  [Ballata 
del  detto  matteo  (Frescobaldi)]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballate  [ed.  L  F.  Polidori].  Firenze,  1 8  i  l,  p.l6. 
L  F.  Polidori  in  Giornale,  arcad.  (1845),  voi.  CHI,  p.  283  [Matteo 
di  Dino  Frescobaldi].  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci). 
Pistoia,  1866,  p.  86. 

15.  Donna  gentil,  nel  tuo  vago  conspetto  (canz.) 

Ms.:  Vat.  3213,  e.  505  b  [Matteo  di   Frescobaldi). 
VA'ia.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  L.  F.  Polidori).  Firenze,  1864, 
p.  11:  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  21. 


INDICE  DELLE  CAETE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.^      225 

16.  Danne  leggiadre  e  giovani  donzelle  (ball.)  F,  xxn 


Ms.:  MagUab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Ballata  frescobaldi 
di  Matteo  detto  (Frescobaldi)].  Matteo 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze,  1844, 
p.  14.  F.  L  Polidori  in  Giornale  arcad,  (1845),  voi.  CHI,  p.  281 
[Matteo  di  Dino  Frescobaldi].  Rime  di  Gino  da  Pistoia 
[ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862,  p.  248  [e.  s.]  M.  Fresco- 
baldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  85. 

17.  Due  forosette,  ser  Ventura,  bionde  (son.)  (1) 

Mss.:  Casanatd,  y,  5,c.  129[GioTanni  Lambertucci].  *Laur., 
pL  XL,  46,  a  47  6  [Matteo  Frescobaldi]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  75. 

18.  £'  ini  par  chiaro  veder  che  nel  verno  (son.) 

Ms3.:  MagUab.  VII,  3,  lOlO  (ora  II,  40),  e.  218  a  [ano n.]  VaU 
:iil3,  e.  502  ff  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.  :  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864,  p.  T: 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  48. 

19.  Fra  ponti  e  scale  e  pietre  ed  onde  (son.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  lOlO  (ora  II,  40),  e.  214  a  [anon.] 
Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  52. 

20.  Già  eh'  io  n'  ho  tolti  %  boscoli  selvaggi  (son.) 

Mss.:  'VaL  3213,  e.  505  a  [Matteo  di  Dino  Fresco- 
baldi).  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  li,  40),  e.  214  b  [Sonetto 
Tatto  per  Giachinotto  Boschoii]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi, Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  63. 

21.  Giachinotto  di  boscori  selvaggi  (son.) 
IVf/i  sopra,  n.®  2i). 

22.  Giovinetta,  tu  sai  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Ballata 
del  detto  matteo  frescobaldi]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  ^fl//tf te  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze,  1844,  p.  7. 
F.  L  PouDORi  in  Giorn.  arcad.  (1845),  ?ol.  CHI,  p.  278  [Matteo  di 


(I)  A  Ser   Ventura  Monaci,  che  risp.  col  son.:  Se  tu  se  gioioso 
me  doglia  confonde. 

Voi.  IV,  Parte  I  15 


226  e.   K  L.   FRATI 

F,  xxu      I^»no  Frescobaldi].       Rime  di  Cino  da  Pistoia  [ed.  G.  CARDUca]. 
FRESCOBALDi  '''^'"C'^ze,  Barbèra,  1862,  p.  251  [e.  s.]        M.  Fhescobaldi,  Rime  [ed.  G. 
MATTEO      Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  80. 

23.  Gli  occhi  ho  di  lagrimar  già  staìichi  e  lassi  (sod.) 

Mss.:  *Val.  3213,  e.  503  b  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Magliab.  VII,  3,  110  (ora  11,  40),  e.  214  a  [a non.] 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  56. 

24.  Il  diavol  v*  ha  condotto  a  tanto  straaio  (son.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  7i9  [Sonetto  di  Matteo  Fresco- 
baldi  a  Don  Bonifatio  da  Santa  Trinità].  *Laur.  Red.  184 
(già  151),  e.  112  b  [Matteo  Frescobaldi]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  70. 

25.  Io  fui  già  mio,  e  d*  ogni  laccio  sciolto  (son.) 

Ms.:  Vat.  3213  e.  509  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  ManuzziJ.  Firenze,  1864,  p.  6  : 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  i866,  p.  54. 

26.  Io  mi  risolvo  come  neve  al  sole  (son.) 

Mss. :  Magliab.  VII,  33  [Giovanni  Acquettini].  '  Vat.  3213, 
e.  508  b  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  BuONACCORSO  da  Montemagno.  Prose  t  Rime  con  annota- 
zioni ed  alcune  Rime  di  Nicolò  Tinucci  [ed.  G.  B.  Casotti].  Firenze, 
1718,  p.  249  [B.  da  Montemagno].  Sonetti  di  ignorato  autore 
tolti  da  un  codice  del  sec.  XIV.  Venezia,  Alvisopoli ,  1831  [In- 
certo). Rime  di  BuoNACCORSO  da  Montemagno  il  vecchio  [ed, 
M.  Dello  Busso].  Napoli,  Ferrante,  1862.  [B.  da  Montemagno]. 
M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  60. 

27,.  Io  veggo  il  tempo  della  primavera  (son.) 

Mss.:  Vat.  3213,  e.  502  b  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  11,  40),  e.  219  a  [anon.) 

Edizz.:  Giornale  arcad.  (1819),  voi.  Il,  p.  15  [Matteo  di  Dino 
Frescobaldi].  G.  Perticari,  Opuscoli,  Lugo,  Melandri,  1823, 
p.  182  [e.  s.]  G.  Perticari,  Opere.  Bologna,  1839,  voi.  Il,  p.  269 
[e  s.)  Rime  di  Gino  da  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  1862, 
p.  255.        .M.  Frescobaldi,  Rime  (ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  18<;6,  p.  50. 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  227 

28.  La  bella  stella  che  mi  regge  e  guida  (son.)  y,  xxn 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  217  6  [anon].        Val.  ^^^t^^ 
;$il3,  e  501  [Matteo  dì  Dino  Frescobaidì]. 

Edìzz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864,  p.  5; 
[ed.  G.  CARDUca].  Pistoia,  1866,  p.  45. 

29.  La  dolce  donna  che  sotto  ner*  ombra  (sod.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  751  [Il  medesimo  Matteo  (Fre- 
scobaldi)]. *Laur.  Red.  184  (già  151),  e.  113  b  [Matteo 
Frescobaldi]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  42. 

30.  La  gioia^  ove  trionfa  ogni  beltade  (son.) 

Mss.:  Vat  3213,  e.  503  6  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  li,  40),  e.  114  a  [anon.] 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  44. 

31.  Lagrime^  pianto^  lutto  e  dolor  crudo  (sod.) 

Mss.:  MagUab.  VII,  3,  lOlO  (ora  II,  40),  e.  214  a  [anon.]  Vat. 
3213,  e.  5ai  a  [Matteo  dì  Dino  Frescobaldi]. 

Edìzz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864,  p.  9: 
[ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  65. 

32.  Le  nitid*  acque,  lucide  e  tranquille  (son.) 

Mss.:  *  VaL  3213,  e.  505  b  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
.Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  215  a  [Sonetto  fatto  per 
Lorenzo  Cha?alchanti]. 

Ediz.  :  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  53. 

33.  Mille  sospir  nel  cor,  mille  volanti  (son.) 

Mss.:  *  Vat.  3213,  e.  503  ò  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 
M.iifliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  IO),  e.  214  a  [anon.] 

&1ÌZ.:  M.  FreS4:obaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  51. 

34.  Molto  m' allegro  di  Firenze,  ov'  io  (canz.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Risposta 
ilei  detto  (.Matteo  Frescobaidì)  alla  chanzone  per  le  rime]. 

VÀ'izl:  Miscellanea  di  cose  inedite  o  rare  [ed.  F.  Corazzini].  Fi- 
renze, 1853.  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866, 
p.  32. 


228  a  B   L.   FRATI 

F,  xxu       35.  Neri  del  Ricco,  poi  che  t'  è  picLciuto  (son.) 


FRESCOBALDI 

MATTEO  ^^-'   ^^^S*  '"«   '^t  ^^^>  c*  "^^^  [^'    medes.^   Matteo   (Fre- 

scobaldi)   a    Neri   di   Recco].        *  Laur.   Red.    184  (già    151). 
e.  113[Matteo  Frescobaldi]. 

Edìz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  67. 

36.  Non  mi  conforta  lo  sperar  tornare  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  iO),  e.  2^  a  e  segg.  [Ballata 
del  detto  matteo  (Frescobaldi)]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori  |.  Firenze,  1 8i  i,  p.  1 3. 
M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1 866,  p.  8i.  L.  F.  Po- 
lidori in  Giornale  arcad.  (1845),  voi.  CUI,  p.  281  [Malico  di  Dino 
Frescobaldi].  Rime  di  CiNO  da  Pistoia  [ed.  G.  CARDUca].  Fi- 
renze, Barbèra,  1862,  p.  255  [e.  s.] 

37.  0  Anffony  o  Narciso  novello  (son.) 

Mss.:   *  Val.   3213,    e.    501    b  [Matteo   di   Dino    Fresco- 
baldi].        MagUab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e  217  ò  [anon.] 
Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  73. 

38.  0  infelice  punto,  o  giorno  ed  ora  (son.) 

Ms.:   VaL   3213,  e.  508  b  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  Trucchi,  11,  75  [Matteo  Frescobaldi].  M.  Fres«  .o- 
baldi.  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  62.  Rime  di  uso 
DA  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].   Firenze,  Barbèra,  1862,  p.  257. 

39.  Per  me  più  fugge^  che  il  dimon  la  croce  (son.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  752  [Il  medesimo  Matteo  (Fresco- 
baldi)).        *Uur.Red.  184 (già  151), e.  113  [Matteo  Frescobaldi|. 
Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  (ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  5*J. 

40.  Per  riposarsi  in  su  le  calde  piume  (son.) 

Mss.:  Laur.   SS.   Annunz.  122,  e.  132  b  [anon.]  VaL  321:», 

e.  508  a  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  D.  Rossetti,  Petrarca,  Giulio  Celso  e  Boccacrio.  ìllusirn' 
iione  bibliologica.  Trieste,  1 828,  p.  387  (Petrarca |.  M.  Frescobaldi, 
Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864:  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia, 
1866,  p.  72. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  229 

41.  Piangete,  alme  gentih  piangi^  virtute  (sod.)  F,  xxii 


FRESCOBALDI 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  li,  40).  e.  214  6  [a non.]        Val.      matteo 
3il3,  e.  504  a  (Matteo  di  Dìdo  Frescobaldi  |. 

tÀlizz.:  N.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864, 
p.  7:        [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  68. 

42.  Poi  che  in  Sardigna  vi  conviene  andare  (sod.) 

.Mss.:  Cbig.  L,  lY,  131,  e.  750  [Sonetto  del  detto  Don  Bo- 
nifazio (di  Santa  Trinità)].  Laur.  Red.  184  (già  151),  e  112 
[Matteo  Frescobaldi]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  71. 

43.  Qual  per  paura  o  per  freddo  o  quartana  (son.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  750  [Il  medesimo  Matteo  (Fre- 
scobaldi) a  Neri  di  Ceccho].  *Laur.  Red.  184  (già  151), 
e.  112  b  [Matteo  Frescobaldi]. 

Ediz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  66. 

44.  Quanto  piti  fiso  miro  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  aesegg.  [Ballata 
pur  del  detto  (Matteo  Frescobaldi)]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze,  1844, 
p.    18.  L.  F.  PouDORi  in  Ginm.  arcad.  (1845),  voi.  CRI,  p.  284 

[Matteo  di  Frescobaldi). 

45.  Quelle  splendide  risa  e  qttesti  sguardi  (son.) 

Mss  :  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  215  a  [ano n.  |  Val. 
3:213,  e.  505  6  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed  G.  Manuzzi].  Firenze,  1864,  p.  5: 
[ed.  G.  CARDUca].  Pistoia,  1866,  p.  57. 

46.  Se  io  credessi  che  virtù  in  donna  (ball.) 

Ms.:  MagUab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  a  esegg.  [Ballala 
de  detto  (Matteo  Frescobaldi)]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballale  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze,  1 84  i,  p.  1 9. 
L  F.  Polidori  in  Giorn,  arcad.  (1845),  voi.  CUI,  e.  285  [Matteo  di 
Rino  Frescobaldi]. 


2» 


a  K  L.  Fiun 


F.  XX2 


miTTEO 


4T.  Senzi  riposo  unquatìco  esser  mi  trovo  (soo.) 

M>s.:  Ma^Ijb.  VII.  3.  lOlO  (ora  II,  40),  e  ili  a  [a uoo.]  Ti. 
a^tL\  e.  Àu  :  ^Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edioj  N.  ¥KEsa»MJ}uRime  [ed.  G.  Mìlntzzi].  Firenze,  1864,  p.  19: 
^ed.  G.  CAAi'Cca].  PbioU.  1S66,  p.  6i. 

4&  Serenissimo  mio  caro  signore  (son.) 

Msà.:  Ma^b.  VU.  ^  1Ù10  (ora  II,  iO),  e.  21iff  [anon.]  TU 
;^IÒL  e  505  a  ^Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

EdBL:  M.  FrescObildl  Rime  [ed.  G.  Manuzzi].  Fireme,  186i,p.il: 
^ed.  G.  ÙLRM'ca  ].  Pbtoia.  1866.  p.  55. 

49.  5^  INI  consumo,  donna,  quand*  io  senio  (ball) 

M>.:  Magiiab.  VIL  J,  1010  (ora  11,  40),  e  2^  a  e  segg.  [Balliti 
del  detto  matteo  i  Frescobaldi)]. 

Edin.:  M.  Frescobaldi,  Bailaie  [ed.  L  F.  Polidori].  Fireme  i8i4,p.  Il 
L  F.POLIDORI  in  Giorn.  anad.  M845),  voi.  CUI,  p.  280  [Matteo  ii 
Dino  Frescobaldi].  M.  Frescobaldi,  Rime  [ed.  G.  GARDroa^ 
Pisu»ìa,  !A«6,  p-  :i«. 

50.  Sdean  dolci  parer  le  fiamme  e  i  colpi  (son.) 

Mss.:  MagUab.  ViL  3,  iOlO  (ora  li,  40),  e  !215  a  [anon.]  Ti 
3il3.  e.  5i^  a  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edio.:  M.  Frescobaldi.  Rime  [ed.  G.  Manl'zzi].  Firenze,  186ì,|lì1: 
[ed.  G.  aRDi'ca].  Pistoia,  1866,  p.  64. 

51.  TanV  è  la  nobiltà,  eh*  ognor  si  vede  (ball.) 

Ms.:  Majrliaii.  VII,  3.  lOIO  ^ora  11.  40>,  z.ìHòa  %  segg.  [BaliiU 
di  Matteo  deiliMFrescobaldi)]. 

Edizz.:  M.  Frescobaldi,  Ballale  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze,184i(t  A 
LF.  Pouihwi  in  Giorn.  atxad.  (1845),  voi.  CI»,  p.  280  [Matteo  <ì 
Dino  Frescobaldi].  Rime  </#  Cixo  da  Pistoia  [ed.  G. CARDCca]i 
Firenze,  Barbèra.  I8t>i,  p.  tVl  [e.  s.].  M.  Frescobaldi,  fliW  [eit 
Carducci].  Pistoia,  18tì6,  p.  82. 

52.  Una  fera  gentil  più  cK*  altra  fera  (son.) 

Mss.  :  Bibl.  Naz,  di  Parigi,  cod.  535  (ora  558),  e.  37.      Val  3211 
e.  509  a  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:  TRUCCin,  Il  73  [Matteo  Frescobaldi].  Kmii 
Cixo  DA  Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze.  Barbèra,  1862,  p.  W5 
[e.  s.]        M.  Frescobaldl  Rime  [ed.  G.  CARDUca].  Pistoia,  4866,  p.  46. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCTONI,  P.  L*  231 

53.  Uno  splendido  lume  che  nC  avvampa  (son.)  F,  xxiii 


Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  214  a  [anon.l  Val. 
^il3.  e.  503  a  [Malteo  di  Dino  Frescobaldi]. 

Edizz.:TBGCCHi,  II,  72  [Matteo  Frescobaldi].  M.  Fresco- 
BAL.DL,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  43. 

rA,  Ventura  son,  che  a  tutto  il  mondo  impero  (SOD.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  214  ò  [a non.  So- 
netto  fatto  per  la  ventura].  Vat.  3213,  e.  504  6  [Matteo 
di     Dino  Frescobaldi]. 

Edia.:  Trucchi,  II,  76  [Matteo  Frescobaldi].  M.  Fresco- 
ni auh,  Rime  [ed.  G.  Carducci].  I^stoia,  1866,  p.  74. 

^.  Vostra  gentil  malizia  (ball.) 

Ms.:  Magliab.  VII,  3,  1010  (ora  II,  40),  e.  220  a  e  segg.  [Ballata 
^^i  detto  (Matteo  Frescobaldi)]. 

Edizz.  :  M.  Frescobaldi  ,  Ballate  [ed.  L.  F.  Polidori].  Firenze , 
18U,  p.  20.  L.  F.  Polidori  in  Giom,  arcad.  (1845),  voi.  CHI, 
p.  ^  [Matteo  di  Dino  Frescobaldi].  Rime  (/t  Gino  da 
Pistoia  [ed.  G.  Carducci].  Firenze,  Barbèra,  1862,  p.  261  [e.  s.] 
^  Frescobaldi,   Rime  [ed.   G.  Carducci].  Pistoia,  1866,  p.  88. 

XXm  Facci  Vanni. 

1.  Per  me  non  luca  mai  né  sol  né  luna  (son.) 
YA\z.\  Crescimbeni,  ed.  Ven.,  Ili,  99  [Vanni  Fncci]. 

2.  Posto  I»'  ho  in  cuor  di  dir  ciò  che  w'  avviene  (son.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e  768  [Vanni  Fucci].  BibL  Naz.  di 
Tirefize,  paiat  200,  e.  45  [e.  s.].  Laur.  SS.  Ànnunz.  122,  e.  231 
[a non.]  Laur.,  pL  XLII,  28,  e.  35  [e. s.]  liaur.  Med.  palat.  119, 
e  135  [e.  s.]  Laur.  Bed.  184,  e.  121  [e.  s.]  Marucell.  C,  155, 
e  67  [e  s.] 

FAìu,:  .Allacci,  Poeti  antichi,  p.  185  [Del  Burchiello  da 
Fiorenza].  Burchiello,  Sonetti.  landra,  1757,  p.  175  [Bur- 
chiello]. 

(Continua)  C  r  L.  Frati 


PUCCI  V. 


MISCELLANEA 


LÀ  SECONDA  AIASCERIÀ  DI  FRANCESCO  PETRARCA 


A   VENEZIA 


Tra  la  repubblica  di  Venezia  e  i  signori  di  Pado?a 
a  mezzo  il  secolo  XIV^  era  nata  tale  inimicizia  da  finire 
solamente  coir  eccidio  degli  ultimi  Carraresi.  I  sussidi  che 
Francesco  il  Vecchio  aveva  dati  nel  1356  a  Lodovico  re 
d' Ungheria,  una  controversia  avvenuta  nel  1360,  la  que- 
stione deir  isola  di  S.  Ilario  furono  fatti  che  prepararono 
la  guerra  del  72;  della  quale  fu  occasione  la  domanda 
dei  Veneziani  che  si  distruggessero  alcune  castella  fatte, 
come  essi  dicevano,  sul  loro  territorio. 

Il  Papa,  Firenze,  Pisa  favoreggianti  il  Carrarese  in- 
vano s'adoperavano  per  la  pace;  invano  furon  nominati 
degli  arbitri  per  determinare  meglio  i  confini  (1). 

(1)  Compromesso  del  1372,  penultimo  di  aprile;  ropto  in  Venezia, 
tra  Jacobo  Moro  procuratore  di  S.  Marco,  Lorenzo  Dandolo,  Jacobo  de 
Friuli,  Taddeo  Giustinian  e  Pantaleone  Barbo  da  una  parte;  fiodovìco 
Forzate  cav.,  Frugerino  di  Capodivacca,  Arsendino  de  Ai-sendi  di  Forlì 
dottore  delle  leggi,  maestro  Giov.  dair  Orologio  fisico  e  Jacopino  de  Gaf- 
farelli  dall'altra,  arbitri  per  la  circonscrizione  de* confini.  Presenti  gli  am- 
basciatori di  Ungheria,  di  Firenze,  di  Pisa.  Archivio  di  Stato  in  Ve- 
nezia, Patti  sciolti,  serie  1',  b.  12,  n."  245;  Sindacati,  I,  p.  H9,  i2\. 


MISCELLANEA  233 

La  guerra  cominciò  ìd  su  la  fine  del  1372  colle  ru- 
berìe e  cogli  incendi  dell'  esercito  veneziano  in  quel  dì 
Padova  mentre  le  genti  del  Carrarese  mandavano  a  sacco 
il  contado  di  Treviso  cavalcando  fin  sotto  la  città. 

Francesco  da  Carrara  giungeva  a  corrompere  alcuni 
nobili  veneziani  e  tentava  di  far  ammazzare  quelli  da  lui 
maggiormente  temuti  (1):  la  Repubblica  aiutava  Marsilio 
da  Carrara  a  commettere  il  fratricidio. 

Ebbe  Francesco  buoni  aiuti  dal  re  d'Ungheria,  suo 
alleato  naturale,  dai  duchi  d'Austria,  prima  suoi  nemici, 
comperati  poi  colle  città  di  Feltro  e  Belluno. 

I  Veneziani  sconfitti  al  passo  della  Piave  presso  Nar- 
vesa,  a  Fossa  Nova  vicino  alle  lagune;  il  di  primo  di  lu- 
glio 1373,  guidati  dai  nobili  Leonardo  Dandolo  e  Pietro 
Della  Fontana,  attaccarono  3000  ungheri,  2000  cavalieri 
e  gran  numero  di  fanti  del  signore  di  Padova,  ottenendo 
compiuta  vittoria. 

De'  nemici  200  rimasero  uccisi ,  più  che  300  furon 
fatti  prigioni,  fuggirono  gli  altri  per  le  paludi  di  Lova. 
Presero  i  Veneziani  le  bandiere  del  re  e  del  Carrarese; 
condussero  tra  i  prigionieri  a  Venezia  il  voivoda  di  Tran- 
silvania,  Bonifacio  Lupi  capitano  de'  Padovani ,  trenta  dei 
migliori  cavalieri  ungheri  ed  italiani  (2). 

Le  esortazioni  del  Papa  e,  più  che  ogni  altra  cosa, 
la  volontà  del  re  d'Ungheria  determinarono  il  Carrarese 
a  domandare  la  pace:  conclusa  questa  il  21  settembre 
1373,  tra  molte  imposizioni  obbliga  vasi  Francesco,  o  pure 


(1)  Cfr.  DeU*ARCH.  di  Venezia,  Consiglio  di  X,  Misti,  reg.^  6. 

«2)  Archivio  di  Stato  di  Venezia,  Poeta,  voi.  V®,  p.  6.'  —  11 
Maggior  Consiglio  deliberava  che  il  gioiiio  di  S.  Marnale,  anniversario 
dì  vittorie  contro  Zara,  contro  i  Turchi  in  Romania  e  da  ultimo  contro 
i  Padovani  e  gli  Ungheri,  fosse  giorno  solenne.  Maggior  Consiglio,  No- 
n'Ha,  f.  I36b  (143b). 


234  MISCELLANEA 

il  figlio  SUO,  a  recarsi  a  Venezia  a  firie  di  rendere  omag- 
gio alla  ducale  signoria,  domandando  perdono  dei  mali 
e  delle  offese  fatte  alla  Repubblica  (1). 

Andrea  Redusio,  il  quale  scrisse  la  sua  cronaca  pro- 
babilmente verso  il  1427,  narrando  del  viaggio  di  Fran- 
cesco Novello  a  Venezia  cosi  racconta  :  e  ...  astate  se 
gessit  Carriger,  et  assumto  filio  unico  Francisco  Novello, 
illum  associatum  Francisco  Petrarcha  poèta  unico  atque 
illustri,  Venetias  misit  ad  pedes  Ducalis  Dominii,  pacem 
omnimodam  supplicaturum,  quem  nullo  modo  praestitis- 
set,  si  sibi  fortuna  obsequens  extitisset.  Apud  quos  dum 
poèta  et  orator  eximius  pervenisset,  in  sua  oratione  de- 
fecit  more  alani.  Nam  viso  Senatu  Venetorum  obstupuit, 
non  minus  quam  Cinna  ad  Romanorum  Senatum  a  Pyrrho 
destìnatus.  Et  ob  hoc  in  alteram  diem  poètae  atque  ora- 
toris  eximii  oratio  ad  integrum  suffecta,  vi  cuius  est  pax 
ipsa  fermata.  Tantam  in  se  continuit  venustatem,  quod 
visu  et  auditu  adstantium  ab  extra  omnes  praesentes  ran- 
cores  sustulit  et  amovit,  intrinseca  tamen  utrimque  ma- 
nente perfidia  >  (2). 

Il  Giornale  dei  Letterati  d' Italia  (3),  riferendo  il 
passo  del  Redusio  di  su  un  manoscritto,  fu  il  primo  a 
render  nota  la  circostanza  che  il  Petrarca  si  smarrisse  e 
mancasse  more  alani  della  voce,  confuso  e  stupito  dalla 
maestà  del  veneto  senato. 


(1)  e  Item  quod  prefatus  Dominus  Franciscus  de  Carraria  Imperìalis 
Vicarius  suprascrìptus  venire  debeat  Venelìas,  vei  mittere  magnificum  Do- 
minum  Franciscum  filium  eius,  ad  presentìam  Ducalis  Dominij ,  ad  facien- 
dum  reverentiam  et  petendum  veniam  ab  ipso  Ducali  Domioio  de  omnibus 
iniurijs  et  ofiensis  eidem  Ducali  Dominio  quomodocunque  illalis  ».  Arch. 
DI  Stato,  Poeta  Ausiriae,  Januae^  Paduae  eie.,  f.  42. *> 

(2)  Rer.  Ital,  Script.;  L  XIX,  col.  751. 

(3)  Venezia,  i7ii;  tomo  Vm,  pag.  196. 


MISCELLANEA  235 

Segaitano  pure  il  Rednsio,  il  Muratori  ne' suoi  An- 
naU  (1),  il  Baldelli  (2)  ed  il  Fracassetti  (3).  L'abate  De 
Sade  (4)  ricorda  il  Gior.  def  Lett,  d' Italia  ed  ancora 
Andrea  Redasio;  giustamente  notando  Terrore  del  La 
Bastie  (e  d'altri)  il  quale  attribuiva  all'eloquenza  del 
Petrarca  la  pace,  allora  già  pubblicata.  Il  Verci  nella  Storia 
della  Marca  Trivigiana  (5) ,  pur  essendo  copioso  di  no- 
tizie intorno  a  questa  guerra,  si  contenta  di  tradurre  le 
parole  del  De  Sade.  Giovanni  Cittadella  (6)  aggiunge  nuove 
citazioni  a  quelle  dei  precedenti,  cioè  fa  menzione  di  una 
cronaca  Papafava,  dei  due  Catari  insieme  col  Dani,  col 
Muratori,  col  Verci.  Certo  al  fatto  particolare  dello  smar- 
rimento del  Petrarca  non  accennano  né  il  Dani,  né  An- 
drea e  Galeazzo  Catari:  egli  è  che  il  Cittadella  soleva 
raccogliere  in  una  sola  nota  la  citazione  di  fonti  rispon- 
denti a  particolari  diversi  di  uno  stesso  fatto. 


(1)  Milano,  i7U;  anno  1373,  p.  364. 

(2)  Del  Petrarca  e  delle  sue  opere,  Firenze,  Gaetano  Cambiagi,  1797; 
p.  156. 

(3)  Lettere  di  f.*  Petrarca  volgarizzate,  Firenze,  1865;  v.  ili,  p. 
il.  Trovasi  invece  nelle  Adnotationes  in  epistolas  F.  Petrarcae  (Firmi, 
1890)  a  p.  184:  e  Die  quippe  V  Kal.  Octobris  anni  MCCCLXXIII  in 
con>peclum  Patnim  Conscrìptorum  Franciscus  noster  el  Carrariensis  con- 
stilere.  OraUonem  vero  quam  mente  conceperat  quum  ille,  memoria 
extemplo  deCciente,  pronunciare  nequivisset,  coactus  postridie  Senalus 
audiit,  el  poetae  eloquentiam  laudibus  efferens  Carrarienses  in  gratiam 
suam  libenter  recepii  t. 

(4)  Mémoiret  pour  la  vie  de  F.  Petrarque,  Amsterdam,  1767;  t.  IH, 
p.  792. 

(5)  Venezia,  1789;  t.  XIV,  pp.  231-232. 

(6)  Storia  della  dominazione  Carrarese  in  Padova,  Padova,  1842; 
s,  1,  p.  337.  Cosi  nella  memoria  Petrarca  a  Padova  e  ad  Arqm ,  in 
Padora  a  F.  Petrarca,  1874;  pp.  44-46  il  Cilladelia  fa  notare  quanto 
al  poeta  dovesse  riuscir  gravoso  il  partecipare  air  umiliazione  d*  un  vinto 
e  pronunciare,  dopo  r  incoronazione  sul  Campidoglio,  parole  di  supplicante. 


236  MISCELLANEA 

Il  Romanin,  nella  Storia  documentata  di  Venezia  (1), 
osservando  che  Gian  Jacopo  Caroldo  segretario  del  con- 
siglio de' Dieci  nulla  diceva  che  il  poeta  non  avesse  po- 
tuto proseguire  1'  esposizione  del  suo  discorso  (2);  dubitò 
che  il  racconto  del  Rednsio  fosse  inverosimile,  tanto  più 
che  il  Petrarca  e  era  avvezzo  alle  ambasciate,  né  era  la 
prima  volta  che  si  presentasse  al  senato  veneziano  ». 

Per  lo  Zanotto  (3)  invece  il  silenzio  d'un  cronista 
non  basta  per  negare  il  racconto  di  altri  riputati  cronisti 
e  storici;  in  ciò  seguito  dall' Hortis  (4),  il  quale  fa  no- 
tare che  il  Caroldo,  scrivendo  nella  prima  metà  del  se- 
colo XVI,  non  meritava  molta  considerazione. 

Il  Fulin  (5)  tentò  di  risolvere  criticamente  la  que- 
stione esaminando,  con  accuratezza,  più  che  sessanta 
cronache  della  Marciana;  essendoché  «  i  Veneziani  me- 
glio di  ogni  altro  dovevano  conoscere  le  circostanze  che 
accompagnarono  la  venuta  del  Carrarese  >. 

Di  tutti  questi  cronisti,  buon  numero  non  ricordano 
né  pure  il  viaggio  del  Novello  a  Venezia,  altri  parlano 


(1)  Venezia,  Pietro  Naratovicb.  1855;  l.  HI,  p.  2i6,  n.'  2. 

(2)  e  Ali  27  gionse  a  Venetia  il  signor  Francesco  Novello  da  Carrara, 
figliolo  del  signor  di  Padoa ,  col  ({uale  venne  Y  eccellerne  poela  messcr 
Francesco  Peliurcha.  11  giorno  da  poi,  udita  messa,  fu  inlrodutlo  nella 
sala  del  Maggior  Consiglio,  fece  riverenza  allo  eccelso  duce  et  serenissima 
Signoria.  Et  dipoi  che  *1  Pelrarcha  hebbe  recitata  la  oratione  in  laude 
della  pace,  ornatissima,  il  signor  Francesco  Novello  domandò  perdono 
per  nome  del  signor  suo  padre  de  tutte  le  ingiurie  et  offese  fatte  alla 
Ducal  Signoria,  secondo  la  forma  de  la  pace,  et  alla  partita  sua  gli  fu- 
rono dati  in  dono  ducati  300  ».  Caroldo,  Cronaca  Veneta,  cod.  Mar- 
ciano, ci.  VII  ilal.,  n.*»  ex X vili';  p.  351b 

(3)  //  Palazzo  Ducale,  Venezia,  1861  ;  L  IV,  p.  187,  n.  2. 

(4)  Scrini  inedili  di  F.  Petrarca,  Trieste,  1874;  p.  119,  n.  1. 

(5)  //  Petrarca  dinanzi  alla  Signoria  di  Venezia,  Dubbi  e  ricerche, 
in  Petrarca  e  Venezia,  Venezia,  1874;  pp.  310-327. 


MISCBLLAKEA  237 

del  Carrarese  e  non  del  Petrarca:  dae  soli  fanno  ecce- 
zione, il  Caroldo  e  la  cronaca  attribuita  a  Gaspare  Zan- 
chemol  (1);  ma  non  v'è  una  parola  in  essi  del  preteso 
smarrimento:  indizio  che  o  non  conoscevano  questa  cir- 
costanza 0  pure  non  la  credevano  :  anzi  il  Fulin  sospetta 
che  gli  amanuensi  abbiano  interpolato  il  racconto  (2). 

Nessun  veneziano  accenna  ad  un  fatto  che  avrebbe 
aggiunto  grandezza  e  rispetto  al  nome  della  Repubblica; 
rimane  il  solo  Redusio,  nemico  ai  Carraresi,  plagiario  di 
Ricobaldo  Ferrarese,  dei  Cortusi  e  forse  anche  d' altri  in 
quei  luoghi  dove  apparisce  originale  (3). 

Dopo  il  Fulin,  il  Koerting  (4)  imagina  quanto  dovesse 
riuscir  penoso  al  Petrarca  comparire,  supplice,  dinanzi  a 
quella  stessa  assemblea  che  lo  aveva  già  ascoltato  ora- 


ci) Cod.  Marciano,  clas.  VH',  MCCLXXIV;  pag.  4i5b 

(2)  Si  tace  infatti  del  Petrarca  nel  cod.  creduto  autografo  del  Ca- 
roldo (Marciano,  cL  VII  it,  cod.  DCCCUI;  p.  51^),  e  cosi  in  una  co^ia 
della  Zancheruola  già  posseduta  dal  cav.  Àngeloni  Barbiani. 

Però  in  quello  che  é  ritenuto  il  miglior  esemplare  della  cronaca 
Zancheniol  (codd.  Brera;  AG,  X,  15-16,  del  sec.  XV,  membranacei  in 
foglio,  una  volta  Marciani)  a  pag.  362*  del  voi.  11  trovasi  scritto: 

e  Al  sig.  Francescho  chaualicr  più  zouene  da  Carrara  voiando  exe- 
f|uir  la  volunta  del  padre  el  qual  non  poteva  andar  a  Venexia  per  le 
occupation  hauute  é  sta  mandado  ala  presenlia  dola  ducal  Signoria  a 
far  la  debita  Heuerentia  e  domandar  perdonanza  de  ogni  inzurie  et  oflexe 
a  quello  ducal  dominio  per  ziascaduno  modo  fatto.  Et  cussi  esso  Fran- 
cesco più  zovene  andò  li  con  el  qual  andò  belissima  compagnia  de  ho- 
minj  hoooreuelli  chaualierì  e  doctorj  de  leze  e  de  altri  nobili  in  numero 
condecente  et  tra  questi  e!  poeta  unico  et  notissimo  in  el  mundo  cellebre 
de  fama  et  chome  homo  da  eser  memorado  Franzescbo  Petrarcha  etru- 
sebo  al  qual  fu  commesso  roffitio  del  parlar  per  el  signor  de  Padoa  ». 
Devo  copia  di  questo  luogo  alia  gentilezza  del  dolt.  Carlo  Magno. 

(3)  In  chroniroH  A.  Redusiis  praefatio.  Ber.  It.  Sciip.;  XIX,  p,  739. 
(i)  Petrarca  s  Leben  utid  Werke,  Leipzig,  1878;  p.  44i. 


238  MISCELLANEA 

tore  del  potente  arcivescovo  di  Milano  ;  e  quanto  avrebbe 
dovuto  commuovere  il  vecchio  poeta  il  ricordo  degli  inizi 
lusinghieri  della  sua  vita  politica,  allor  quando  il  Papa  lo 
aveva  mandato  alla  corte  del  re  di  Napoli. 

Il  prof.  Antonio  Zardo  (1),  cercata  invano  la  cronaca 
Papafava  già  ricordata  dal  Cittadella,  accetta  le  conclu- 
sioni del  Fulin,  non  essendo  naturale  che  il  Petrarca, 
pratico  per  lunga  consuetudine  di  Venezia  e  de'  suoi  go- 
vernanti, si  smarrisse  innanzi  a  costoro. 

Alle  argomentazioni  de'  critici  dà  ragione  in  parte  uno 
scrittore  il  quale,  per  ragioni  di  tempo  e  luogo,  è 
molto  più  autorevole  che  Andrea  Redusio  od  altri. 

Neil'  archivio  della  famiglia  Papafava  de'  Carraresi 
trovasi  una  cronaca  anonima  della  guerra  del  1372  di 
autore  contemporaneo,  molto  probabilmente  di  un  se- 
gretario 0  di  un  notaio  della  cancelleria  carrarese  (2). 

Indizi  che  egli  fosse  addentro  nelle  cose  politiche 
di  quel  tempo  sono  i  molti  e  precisi  particolari  della  sua 
narrazione,  molte  lettere  di  principi  e  signori  a  France- 
sco il  Vecchio  e  di  costui  a  quelli  e  a'  suoi  capitani,  tra- 
dotte in  forma  volgare  e  introdotte  nell'  opera.  Ecco  il 
racconto  quale  vi  si  legge  dell'  ambasciata  a  Venezia  e 
il  volgarizzamento  del  discorso  del  Petrarca  (3): 


(1)  //  Petrarca  e  i  Carraresi.  Milano,  1887;  pp.  165-170. 

(2)  È  il  cod.  22,  cartaceo  in  i\  del  sec.  XV",  di  carte  152  (153) 
di  una  slessa  mano  meno  le  tre  prime  :  apparteneva  alla  famiglia  Brazolo. 
L'originale  del  sec.  XIV^  già  posseduto  dal  conte  Roberto  Papafava, 
bellissimo  codice  membranaceo  in  foglio  con  miniature ,  passò  in  qualche 
biblioteca  straniera  nel  principio  di  questo  secolo  ;  né  per  molte  ricerche 
mi  fu  possibile  rintracciarlo.  Il  Cittadella  malamente  citò  e  adoperò  la 
copia. 

(3)  Cod.  Papafava  22,  pp.  U3'-U3.b 


miscellanea  239 

Como  el  Magnifico  Signore  meser  Francesco   Nouello 
DA  Carrara  andò  a  Venesia,  secondo  la  forma  che 

SE  CONTIGNIUA  IN  UN  DI  CAPITULI  SOURASCRIPTl ,  ET  LE 
PAROLE  CHE  FO  FACTE  IN  LO  SO  APRESENTARSE  A  BfESER 
LO   DUSE. 

«  Como  dise  Terentio  comedo:  Amantium  ire  re- 
dintegratio  amoris  est.  Illustri  e  Magnifici  Signori;  per 
la  gran  aarìetà  dei  humori  che  naturalmente  è  producti 
in  lo  corpo  del  bom  homo,  elio  aduien  spesse  fiade  eh'  el 
dicto  corpo  se  altera  per  alguna  sourabondantia  di  dicti 
humori:  et  cosi  per  le  desordenade  passion  che  aduien 
fra  'l  pare  e  'l  Bolo,  i  quali  per  dependentia  de  sangue  è 
una  carne,  spesso  nasce  dissension  d' animi.  Per  simele  per 
ie  uarij  appetiti  intro  le  stranij  persone,  le  quale  per  seruisij 
per  lo  passado  facti  T  un  a  l' altro  era  facti  de  un  uolere, 
spesso  se  ingenera  ranchori,  rixe  et  guerre  con  accesi 
animi.  Ma  o  lo  auegna  poi  che  infra  queste  persone,  cosi 
alterade  diuise  et  comosse  ad  ira  et  fra  le  quale  è  sta  le 
guerre  et  i  scandali,  se  faga  reconciliation  d'animi;  F au- 
torità de  Tarentìo  allegada  de  soura  ha  allora  luogo:  go 
è  che  le  ire  et  i  corruci  di  quilli  i  quali  se  ama  enno 
reìntegration  da  maore  amore  perché  l'amor  nouamente 
reìntegrado  liga  quilli  fra  i  quali  è  sta  le  contention,  con 
tanto  più  fermo  groppo  quanto  è  sta  maore  le  soe  dis- 
sensione. Et  cosi,  io  no  dubito,  fra  la  ducale  Signoria  de 
questa  benedecta  cita  de  Venesia  e  'I  Magnifico  Signor 
messer  Francesco  da  Carrara,  reconciliadi  insembre,  con 
animi  sinceri  douer  perpetualmente  durare  el  fructo  de 
la  pase  a  la  qual,  per  la  gratia  de  messer  Domenedio, 
<*lli  enno  uignudi.  Per  le  qual  cose  cosi  proposte  el  Ma- 
snilìco  Chaualiero  messer  Francesco  Nouello  da  Carrara, 
uoianJo  exequire  et  complire  la  uolontà  del  Magnifico  so 


240  MISCELLANEA 

pare  messer  Francesco  da  Carrara,  el  qual  per  altre  oc- 
cupation  che  elio  ha  habudo  no  è  possudo  uìgnir,  qui  è 
uignudo  a  la  presentia  de  la  vostra  ducale  Signoria  a 
renderle  debita  reuerentia  et  domandarle  perdonan^a  de 
tutte  rinc^urie  et  offese  che  a  la  dieta  Signoria  per  elli 
fosse  in  algun  modo  sta  facte  >. 

Et  cosi  el  dicto  messer  Francesco  rendè  la  reueren- 
tia et  domanda  la  perdonanga.  Con  lo  qual  Magnìfico  Si- 
gnor messer  Francesco  Nouello  da  Carrara  andò  a  Ve- 
nesia  una  gran  comitiua  de  nobili  chaualieri  et  doctori 
de  lege  et  de  altri  bomini  in  numero  assai  intro  i  quali 
fo  el  notissimo  poeta,  homo  de  alta  et  celebre  fama, 
degno  de  farne  sempre  memoria,  messer  Francesco  Pe- 
trarca per  nation  toschano.  Al  quale,  per  lo  predicto  Ma- 
gnifico Signore,  in  quella  parte  fo  commesso  lo  officio 
de  douer  dir  le  parole  et  cosi  fé'  in  la  forma  che  de 
soura  è  dicto;  ben  che  per  la  soa  uechiega  et  per  una 
infirmila,  la  quale  elio  hauea  habuda  et  de  la  quale  elio 
no  era  ancora  guarido,  la  uose  ie  tremò  un  poche  :  comò 
da  quilli  che  i'  era  fo  rasonado  » . 

L' orazione  fu  pronunziata  il  2  ottobre  neil'  ora  di 
terza,  dopo  la  messa  in  S.  Marco  (1):  lo  stesso  giorno 
gr  inviati  padovani,  tolta  licenza  dal  doge  e  dalla  Signo- 
ria ,  montarono  in  barca  co'  prigionieri  ed  arrivarono  la 
mattina  seguente  a  Padova,  essendo  rimasti  la  sera  ad 
Oriago. 

Tutti,  eccetto  il  Fulin  e  il  Koerting,  parlarono  della 
maestà  del  veneto  Senato ,  mentre  V  orazione  fu  proffe- 

(1)  Galeazzo  e  Andrea  Catari;  cronaca  di  Gerolamo  Savina.  11 
Caroldo  riporta  la  data  al  28  Settembre;  T anonimo  Torriano  o  Fo- 
SCARINIANO  al  29:  però  essendo  il  Caroldo  scrittore  del  XVP  sec.  e  il 
secondo  posteriore  al  1474,  è  da  preferire  la  data  dei  Catari.  Cfr.  L. 
Bailo,  Di  alcune  fonti  per  la  storia  di  Treviso  in  Arch.  Ven.;  L  XVII, 
p.  401-405. 


MISCELLANEA  241 

rita  nel  coDspetto  della  Signoria  e  nella  presenza  dei  no- 
bili del  Maggior  Consiglio  (1),  tra  i  quali  molti  erano 
giovani  intomo  a  vent'anni.  Né  l'orazione  era  fatta  per 
persuadere  alla  pace,  ma  era  piuttosto  una  semplice  pre- 
sentazione del  giovine  signore,  nella  quale  l'oratore  do- 
veva soltanto  attenuare  ruminazione  di  render  riverenza  : 
non  necessario  quindi  rinnovare  il  giorno  dopo  la  ceri- 
monia, se  mai  il  Petrarca  avesse  perduta  la  parola. 

L'autore  della  cronaca  Papafava,  raccogliendo  i  ra- 
gionamenti di  chi  era  stato  presente  al  fatto  racconta  che 
al  Petrarca  tremò  la  voce  per  vecchiezza,  per  malattia 
sofferta  e  mal  guarita  :  noi  aggiungiamo  che  l' obbligo  di 
far  scuse  non  doveva  certo  dare  forza  e  scioltezza  alla 
parola  del  vecchio  e  debole  poeta;  tanto  più  quand'egli 
fiovea  chiedere  quelle  scuse  per  suo  amico  venuto  in 
tanta  sciagura.  Cosi  la  narrazione  dell'  anonimo  cronista  è 
piti  naturale  e  probabile  che  la  leggenda  del  Redusio  e 
la  negazione  dei  crìtici. 

ViTTOiuo  Lazzarini 


(I)  iJALKAZZo  (jATAiu,  GEROLAMO  SAVINA,  Caroldo,  ci'oiiaca  alili 
iHiiU)  j  Daniele  Uaiibako. 

Voi  iV,  Pane  1  16 


L' ANNO  DELLA  NASCITA  DI  L80N  BATTISTA  ALBERTI 


Varie  sono  le  opinioni  dei  critici  intorno  all'anno  in 
cai  nacque  L.  B.  Alberti.  Alcuni  credono  o  credettero, 
che  fosse  il  1398;  altri,  fra  cui  il  Tiraboschi  (1)  e  Virgi- 
nio Cortesi  (2),  il  1414;  Lorenzo  Mehus,  in  una  sua  vita 
inedita  dell'Alberti,  conservata  nel  cod.  B.  VI.  40  della 
Marucelliana,  il  1416  (3);  il  Pozzetti  (4)  e,  dopo  di  lui, 
il  Mancini  (5)  il  1404;  e  finalmente  G.  S.  Scipioni  (6)  e 
Achille  Neri  (7)  il  1407.  È  inutile  occuparsi  qui  delle 
prime  due  date;  perché  il  1414  fu  dimostrato  assurdo 
'  dal  Mancini  stesso  con  argomenti  validissimi,  come  io  già 
accennai  in  un  altro  mio  articolo  (8);  e,  quanto  al  1398, 
è  reso  impossibile  dal  fatto  che  certamente  Leon  Battista 
nacque  da  Lorenzo  dopo  il  suo  esilio  da  Firenze  e  questo 

(1)  Storia  della  Ietterai,  italiana. 

(2)  //  governo  della  famiglia,  Studio  critico. 

(3>  Vedi  G.  S.  ScrPiONi,  Di  una  vita  inedita  di  Leon  Battista  Al- 
berti {Giorn.  star,  della  Letler.  ital.  Anno  1,  1883,  voi.  II). 

(4)  L.  Bapt,  Alberti  laudatus  ecc.  Firenze,  1789. 

(5)  Vita  di  Leon  Battista  Alberti.  Firenze,  Sansoni,  1882;  v.  ^'mn 
docum.  e  notiz.  sulla  vita  e  sugli  scritti  di  Leon  Battista  Allferti  { in 
Archiv.  stor.  ital.  Disp.  2  e  3  del  1887). 

(6)  Leon  Battista  Alberti  e  Agnolo  Pandolfini,  Lettere  al  Dottor 
Rodolfo  Renier  (in  Preludio,  Anno  VI,  n."  5  e  segg. ). 

(7)  La  nascita  di  Leon  Battista  Alberti  (in  Giornale  ligustico  di 
Archeolog.,  Storia  e  Letterat.  Anno  IX,  fase.  V). 

(8)  Le  opere  di  L.  B.  Alberti  pubblicale  da  Girolamo  Mancini  (in 
Vita  Nuova,  Anno  U,  n.**  16,  20  Aprile  1890). 


MISCELLANEA  243 

ebbe  laogo  nel  geDoaio  1401.  lantile  è  pure  fermarsi  a 
considerare  la  data  messa  innanzi  dal  Mehns,  perché  gli 
argomenti,  che  contraddicono  al  1414,  valgono,  a  più 
forte  ragione,  contro  il  1416.  Restano  dunque  da  esami- 
nare le  due  date  1404 e  1407;  e  specialmente  quest'ultima. 

Lo  Scipioni  porta  principalmente  due  ragioni  a  so- 
stegno della  sua  ipotesi.  Una  è  che,  a  30  anni,  Leon 
Battista  ripulì  una  sua  commedia,  il  Filodosso,  scritta  10 
anni  prima,  e  la  dedicò  a  Leonello  d' Este  facendola  ac- 
compagnar da  una  lettera  del  Bracciolini  (1):  ora,  sic- 
come questa  correzione  fu  fatta  nel  1436  o  '37,  è  chiaro, 
dice  lo  Scipioni,  che  nel  1406  o  nel  1407  dovè  nascere 
Leon  Battista  (2).  L'altra  ragione  è  la  seguente,  e  Nel 
De  jure,  scritto,  come  si  sa  di  certo,  a  Bologna  nel  1437, 
Leone  afferma  di  avere  da  sei  anni  lasciati  gli  studi  le- 
gali, dal  qual  tempo  segui  il  Pontefice.  Questo  vuol  dire 
che  egli  li  lasciò  nel  '31.  Ma  della  Vita  sappiamo  che 
allora  aveva  ventiquattro  anni:  dunque  egli  era  nato  nel 
1407  >  (3).  Questi  i  due  argomenti  dello  Scipioni. 

Altri  due  ne   aggiunse  Achille  Neri  (4):  o,  meglio, 

(1)  Si  noti  che  qui  il  ragionamento  dello  Scipioni  é  abbastanza  con- 
fuso. Egli  parìa  degli  studii  di  L.  B. ,  dei  maltrattamenti  che  i  suoi  pa- 
renti gF  infliggevano  e  della  sua  malattia,  durante  la  convalescenza  della 
quale  scrìsse  il  Filodosso.  «  Dopo  dieci  anni  che  era  andata  (la  com- 
media} girando  senza  nome  di  padre,  egli  la  accoglie  amorevolmente,  la 
rìpulj<ce  e  la  rìmettc  al  pubblico  sotto  il  suo  proprio  nome  e  la  tutela 
di  Lionello.  Dunque  tutto  questo  egli  fa  a  trentanni  e  nel  1436  o  37, 
pcc.  > .  Questo  dunque  non  si  sa  proprìo  come  venga  fuorì  :  tuttavia  V  età 
di  30  anni  assegnata  a  L.  B.  é  (dal  suo  punto  di  vista)  esatta,  comesi 
vedrà  Ora  poco  quando  io  parìerò  di  un  articolo  d'Achille  Nerì  il  (|uale 
(*sprìme  molto  più  chiaramente  il  concetto  stesso. 

(t)  Preludio,  Anno  VI,  pag.  49. 

(3)  Ivi. 

(i)  La  nascita  di  Leon  Battista  Alberti  (in  Giornale  ligustico  di 
Archeolog,,  Star,  e  Letter,,  Anno  II,  fase.  V). 


244  MISCELLANEA 

ano  ne  aggiunse  dì  naovo,  e  questo  anche  il  sig.  Orazio 
Bacci ,  che  pure  accetta  la  data  sostenuta  da  lui , 
chiama  tutto  induttivo  e ,  per  conseguenza  ,  di  nessun 
valore  (1);  T  altro  lo  prese  dallo  Scipioni  esprìmendolo 
con  altre  parole.  Il  30  settembre  1437  (egli  dice),  Leone 
scrive  in  Bologna  l'operetta  De  jure;  e  e  l'anno  stesso 
ai  12  ottobre  il  Poggio  pur  da  Bologna  accompagna  a 
Lionello  d'Este  il  Filodosso  ricorretto,  che  da  dieci  anni 
era  andato  vagando  anonimo,  deturpato  da  infiniti  errori, 
il  che  ci  risospinge  all' ottobre  del  1427;  se  si  considera 
quindi  che  egli  afferma  aver  composto  quella  commedia 
€  non  maiorì  annis  XX  »,  cadiamo  all'  ottobre  del 
1407  »  (2). 

Considerato  pertanto  che  la  prima  delle  ragioni  ad- 
dotte dal  Neri  non  ha  valore,  e  considerato  che  quest'ul- 
tima è,  in  fondo,  una  cosa  stessa  con  quella  prima  di 
G.  S.  Scipioni,  restano  due  gli  argomenti  in  favore  del 
1407;  e  cioè:  T,  nel  1437  Leone  ricorregge  una  com- 
media, scrìtta  10  innanzi,  quando  egli  ne  aveva  20;  2^, 
nel  De  Jure,  scrìtto  nel  1437,  dice  di  aver  lasciato  gli 
studii  legali  da  6  anni,  ossia  nel  '31,  e  la  Vita  dice  che 
quando  lasciò  gli  studii  Leon  Battista  era  in  età  di  anni  24. 


(1)  Spigolature  Alberliatie ,  in  Vita  Nuova,  anno  U,  n.®  21  (25 
maggio  1890).  —  Il  ragionamento  del  Neri  è  il  seguente.  Dopo  avere 
accennato  a  un  docum.  del  15  maggio  1408  da  cui  si  rileva  che  Lorenzo 
Alberti  sposò  in  quest'anno,  probabilmente  una  Margherita  Benini,  ag- 
giunge: questo  «  non  escluderebbe  certo  che  Leon  Battista  fosse  nato 
prima  del  1408  o  da  nodo  illegittimo,  o  da  madre  legittima  morta  forse 
a  Genova  nella  peste  del  1406;  ma  la  ipotesi  che  mi  sembra  più  plau- 
sibile è  che  egli  sia  nato  a  Genova  al  cadere  del  1407 ,  o  sui  primi 
del  1408,  da  legame  illegittimo,  sanato  poi  colle  nozze  »  (1.  ciL,  pag. 
167). 

(2)  Ivi. 


MISCELLANEA  245 

È  innegabile  che  queste  prove  tratte  dalle  opere 
stesse  dell'Alberti  fanno  ana  certa  impressione:  anzi  li 
per  li  sembrerebbe  che  ogni  disputa  dovesse  venir  tron- 
cata da  testimonianze  in  apparenza  cosi  precìse  offerte 
da  L.  Battista  medesimo  (1).  Disgraziatamente  non  è  cosi. 
Prima  di  tutto  è  da  osservare  che  la  lettera  di  Poggio 
Bracciolini  a  Leonello  d'Este,  per  presentargli  il  Filo- 
dosso,  ha  nella  data  soltanto  Bononiae  die  XV  Octobris 
secondo  l' edizione  Bonucci;  Bononie  semplicemente,  se- 
condo il  cod.  laurenziano  20,  plut.  47,  dove  questa  let- 
tera si  legge  insieme  ad  altre  moltissime  del  Bracciolini  (2)  : 
manca  l'anno.  Ora,  siccome  sappiamo  che  nel  1436  e 
nel  1437  Eugenio  IV  fu  a  Bologna  e  Poggio,  allora  Se- 
gretario apostolico,  si  trovava  con  lui,  si  è  fissato  l'anno 

(1)  Nel  Proemio  al  Filodo$$o  { v.  Opere  volg,  di  Leon  Battista  Al- 
berti edite  da  ànicio  Bonucci.  Firenze,  1843-49,  Voi.  f  ),  L.  B.  dice  che 
la  commedia  e  annos  decem  vagata  est  t  (pag.  CXXIV),  e  avanti  aveva 
detto:  e  Itaque  nostra,  ut  docui,  fabula  materiam  habeat  non  inelegan- 
tem,  ncque  quam  ab  adulescenti,  non  roaiorì  annis  XX  editam,  quispiam 
doctos  minime  ìnvidus  despiciat  t  (pag.  CXXflf).  E  la  Vita  anonima 
scrìve  che  Y  Alberti,  per  il  troppo  studio,  ammalò  gravemente,  due  volte, 
finché,  lasciati  gli  studii  legali  t  di  24  anni,  alla  fisica  ed  alle  matema- 
tiche intendeva  »  (Op.  volg.,  ediz.  Bonucci,  pag.  XCV).  Quanto  al  De 
Jure,  che  fosse  scrìtto  nel  1437  ce  lo  attesta  il  cod.  Ambrosiano  1, 193 
inf. ,  nel  quale  si  legge  alla  fine  del  De  Jure  stesso  :  «  Die  s.  Hieronymi 
bora  XVUl  completum.  fnceptum  vero  ejus  vigilia  bora  XXlll,  anno 
MCCCCXXXVIl  Bononiae»  (v.  Mancini,  Vita  di  L  B.  Alberti.  Firenze, 
Sansoni,  1882,  pag.  160). 

(2)  Essa  ba  il  numero  d' ordine  CVI,  segnato  nel  margine  del  codice. 
Termina  precisamente  cosi:  «  Vale  et  me  ama.  Bononie  ».  Non  so  se 
in  altrì  codd.  è  contenuta  e  se  porta  anche  T  anno  :  ma  non  pare,  perché 
il  Bonucci  dice  chiaramente  che  Tanno  manca  e  congettura  essere  il  1436 
0  *37,  per  la  ragione  a  cui  io  accenno;  e  lo  Scipioni  stesso,  col  dire 
che  L.  B.  rìcorresse  e  dedicò  a  Leonello  d'Este  il  Filodosso  nel  1436 
0  '37  mostra  di  non  conoscere  nessuna  data  precisa,  ma  di  averìa  an- 
ch' egli  congetturata,  probabilmente  per  hi  medesima  ragione. 


246  MISCELLANSA 

1436  0  il  1437  come  quello  in  cui  Leon  Battista  corresse 
il  Filodosso.  Ma,  come  ognun  vede,  è  una  congettura: 
probabile,  se  si  vuole,  ma  pur  sempre  una  congettura; 
poiché  il  Bracciolini  avrebbe  potuto  trovarsi  a  Bologna, 
se  non  altro  per  pochi  giorni,  anche  anteriormente,  e 
allora  avere  scritto  la  sua  lettera  a  Leonello  d*Este.  Il 
1^  argomento  adunque  perde  già  un  poco  della  sua  forza. 
Quanto  al  2°,  avviene  precisamente  lo  stesso.  Il  De 
Jure,  diretto  a  Francesco  Goppini,  cosi  incomincia  :  e  Etsi 
a  vestris  Jure  consultorum  scriptis  cum  has  ad  te  darem 
litteras  Goppine  quod  iam  pridem  illis  relictis  ad  philo- 
sophiae  studia  redissem  eram  alienus,  ofScii  tamen  esse 
duxi  ea  in  re  expectationi  tuae  satisfacere  :  in  qua  et  iuris 
quasi  formulas  quae  dissuetudine  quadam  lectitandi  ex 
nostra  pene  exciderant  memoria  repeterem  ;  et  me  tuorum 
commodorum  esse  cupidissimum  intelligeres.  Nosti  quidem 
quam  haec  legum  facultas  memorem  ac  perinde  assiduum 
studiosum  exigat.  Nobis  autem  annus  iam  ferme  sextus 
elapsus  est,  postea  quam  pontificem  sequimur:  quo  nul- 
lum  penitus  legum  commentarium  vidimus.  Ita  vexati,  ita 
acti  casibus  fuimus,  ut  neque  loco  consistere  neque  li- 
brorum  copia  perfrui  licuerit.  Quae  res  ecc.  »  {\),  Da 
queste  parole  non  si  rileva  niente  affatto,  come  scrive  lo 
Scipioni,  che  nel  De  Jure  «  Leone  afferma  di  avere  da 
sei  anni  lasciati  gli  studi  legali,  dal  qual  tempo  segui  il 
Pontefice  »;  ma  bensi  di  avere  da  sei  anni  seguito  il 
Pontefice,  dal  qual  tempo,  per  le  sue  tante  occupazioni, 
non  potè  più  occuparsi  degli  studii  legali.  Questo  non 
vuol  già  dire  che  proprio  nel  31  si  fosse  laureato  in  di- 
ritto canonico:   poteva   benissimo   aver   preso  la   laurea 

(1)  Leonis  Baptistae  Alberti  Opera  (ediz.  antica  conserrata  nella 
Nazionale  dì  Firenze,  alla  quale,  se  io  non  ho  mal  guardalo,  manai  la 
data  e  V  indicazione  del  luogo  dove  fu  stampata  ). 


MISCELLANEA  247 

prima,  aver  continuato  ad  occuparsi  dei  suoi  studii  legali, 
finché  non  ebbe  un  ufBcio  presso  il  papa,  e  solo  da 
questo  momento  essere  stato  costretto  ad  abbandonarli. 
Ed  ammesso  ciò,  il  combinar  la  notizia  della  Vita  ano- 
nima, che  Leone  lasciò  gli  studii  a  24  anni,  coli'  altra  del 
De  Iure,  non  ha  più  che  ben  poco  valore. 

Ecco  dunque  a  che  cosa  si  riducono  queste  due  rni- 
partantissime  prove.  Ammettiamo  tuttavia,  per  un  mo- 
mento, che  esse  esistan  realmente:  che  cioè  Leon  Bat- 
tista abbia  ricorretto  il  Filodosso  nel  1437  ed  abbia  scritto 
nel  De  Iure  di  aver  lasciato  gli  studii  legali  (nel  senso 
di  lasciare  il  Collegio  dei  dottori  dove  si  conferivan  le 
lauree)  nel  1431.  Allora  si  va  incontro  ad  un  certo  nu- 
mero di  difiBcoltà  che  farebbero  quasi  credere  che  l'Al- 
berti stesso,  0  per  sbadataggine  o  per  dimenticanza,  non 
fosse  stato  esatto  nelle  sue  indicazioni. 

Intanto,  quando  fu  che  Leon  Battista  cominciò  a 
studiar  legge  ?  Ce  lo  dice  egli  stesso  :  e  Mortuo  Laurentio 
Alberto  patre  meo,  cum  ipse  apud  Bononiam  iuri  pon- 
tificio operam  darem,  in  ea  disciplina  enitebar  ita  profi- 
cere,  ut  meis  essem  carior,  et  nostrae  domui  orna- 
mento >  (1),  delle  quali  parole  il  significato  più  ovvio, 
a  mio  parere  ,  sarebbe  che  già  studiava  in  Bologna 
prima  che  morisse  il  padre;  ma,  per  non  aver  troppo 
vantaggio,  io  accetto  qui  V  interpetrazione  dello  Scipionì, 
e  cioè  che  dopo  la  morte  del  padre  Leon  Battista  e  se 
ne  andò  a  studiare  dritto  canonico  a  Bologna....  portato 
via  da  Padova  da  suo  zio  Ricciardo  a  cui  il  padre  morendo 
lo  raccomandò  >  (2).  Ora,  Lorenzo  Alberti  mori  nel 
1421  :  di  ciò  fa  testimonianza  la  lapide  posta  sul  suo  se- 
polcro che  si  trova  nella  basilica  di  S.  Antonio  di  Padova 

{\)  Proem.  al  Filodassois.  Op.  volg,  edite  dal  Bonucci,  pag.  CXXIII). 
Cf)  \,  cit,  pag.  48. 


248  MISCELLANEA 

6  che  è  stata  più  volte  pubblicata  (1).  Ebbene,  domando 
io.  Se  Leon  Battista  cominciò  a  studiare  diritto  canonico  nel 
1421,  come  mai  terminò  nel  1431,  ossia  dieci  anni  dopo? 
Eppnre,  per  tali  studi!  bastavano  5  anni,  e  Per  l'esame  di 
diritto  pontificio  era  necessario  aver  studiato  leggi  civili  e 
canoniche  cinque  anni  interi,  se  lo  scolaro  altra  volta  non 
era  stato  approvato  da  chi  ne  avesse  avuta  facoltà,  o  non 
avesse  sostenuto  altro  esame  privato;  nel  qual  caso  erano 
sufficienti  tre  anni  di  studio  >  (2).  Come  può  ammettersi 
dunque  che  Leon  Battista,  il  quale  pure  cosi  fortemente 
eniiebatur  proficere,  ci  mettesse  precisamente  il  doppio?  o  si 
vorrà  dire  che  quelle  due  malattie,  di  cui  parla  la  Vita 
anonima  fecero  perdere  a  lui  5  anni  di  studio?  Ciò 
mi  pare  davvero  difficile  ad  ammettere,  tanto  più  che 
anche  la  Vita  anonima  parla  si  della  gravità  ma  non  di 
lunghezza  di  queste  malattie:  quindi  ecco  una  prima  dif- 
ficoltà, se  si  ritiene  che  Leon  Battista  affermi  di  aver  la- 
sciato gli  studii  legali  nel  1431. 

E  v'è,  ammettendo  questa  data,  un'altra  difficoltà 
non  meno  grave.  Dagli  ultimi  mesi  del  1428  sino  alla 
fine  del  1431,  l'Università  bolognese  fu  chiusa  in  causa 
delle  discordie  cittadine.  Ciò  si  rileva  indubbiamente  da 


(1)  Vedila  in:  Bernardo  Gonzati,  La  basilica  di  S.  Antonio  di 
Padova  descritta  ed  illustrata,  Padova,  Bianchi,  1854  (voi.  II,  pag.  Ut»); 
e  Luigi  Passerini,  Gli  Alberti  di  Firenze,  Genealogia,  Storia  e  Docu- 
menti, Firenze,  Cellini,  1870  (voi.  I,  pag.  130).  Questa  data,  importan- 
tissima per  le  conseguenze  ctie  se  ne  possono  trarre,  ha  avuto  la  somma 
cortesia  di  veriGcare  il  sig.  Vincenzo  Crescini,  professore  nella  UniversiLi 
di  Padova,  al  quale  sento  il  dovere  di  porgere  le  più  vive  grazie.  Da 
questo  nuovo  esame  della  lapide  resulta  essere  veramente  Lorenzo  Alberti 
morto  il  28  maggio  U!21. 

{^)  Carlo  Malagola,  Statuti  delle  Università  e  dei  Collegi  dello 
Studio  bolognese.  Bolopa,  Zanichelli,  MDCCCLXXXVII ,  pag.  XV  della 
Prefazione. 


MISCELLANEA  249 

una  Cronica  di  Bologna  la  quale,  dopo  aver  narrato  il  tu- 
malto  che  «  a  di  primo  di  Agosto  (1428)  la  notte  a  otto 
ore  si  levò  in  Bologna  >  per  opera  dei  Canetoli,  e  la 
zuffa  che  ne  segni  fra  la  parte  di  questa  e  quella  dei 
Bentivoglio  partigiani  della  Chiesa ,  e  il  governo  popolare 
instaurato  dai  Canetoli,  e  le  guerre  successive  con  papa 
Martino  V,  e  la  pace  finalmente  conclusa,  scrive  all'  anno 
1431  :  e  A  di  22  di  Ottobre  incominciossi  a  render  ra- 
gione nel  Palazzo  del  Podestà  di  Bologna.  Per  tre  anni 
passati  a  cagion  della  guerra  e  delle  tribulazioni ,  che 
abbiamo  avuto,  possiam  dire,  che  mai  non  si  sia  renduta 
ragione  in  civile.  A  di  24  si  principiò  in  Bologna  lo  Stu- 
dio di  tutte  le  facoltà.  Per  cagione  delle  guerre  circostanti 
credesi,  che  gli  Studj  di  Firenze,  di  Siena,  di  Padova,  e 
di  Pavia  si  svieranno  per  tal  modo,  che  quel  di  Bologna 
sì  rifermerà  bene.  Speriamo,  che  non  passerà  Natale,  che 
qui  avremo  più  di  500  Scolari  »  (1).  Ora,  dice  il  Man- 
cini, e  Battista  confessa  d'essersi  laureato  nelle  leggi  a 
Bologna  >;  dunque  e  è  giuocoforza  concludere  che  ri- 
cevè la  laurea  innanzi  che  le  turbolenze  cittadine  faces- 
sero serrare  lo  Studio.  Infatti  al  momento  in  cui  lo  Studio 
bolognese  venne  riaperto  ,*  Battista  era  già  impiegato  o 
stava  per  impiegarsi  nella  curia  romana,  come  attesta  la 
bolla  >  (2)  :  una  bolla  di  papa  Eugenio  IV  diretta  a  Leon 
Battista  medesimo,  che  il  Mancini  riporta  per  intero. 

Qualcuno  potrebbe  obiettare  che  dell'  essersi  l'Alberti 
laureato  in  Bologna  non  e'  è  nelle  sue  opere  un'  attesta- 
zione precisa.  Infatti,  nel  Proemio  al  Filodosso,  egli  dice  di 
aver  dato  apud  Bononiam  iuri  pontificio  operam;  e,  poco 


(1)  (ironica  di  Bologna  di  fra  nartolomeo  delia  Pugliola,  dall'anno 
noi  iioo  all'anno  i<K)i,  continuata  poi  da  altri  scrittori  sincroni  Gno  al 
liTl  (in  MuRATom,  Rer,  Ital.  Script,,  toI.  XVlll,  pag.  641). 

(i)  Suovi  docum.  e  notiz.  ecc.  pag.  194. 


250  MISCELLANEA 

più  sotto,  scrive,  a  proposito  della  stessa  commedia: 
e  Deniqne  annos  decem  vagata  est,  qnoad  e  studiis  pon- 
tificiis,  am'eo  analo  et  flamine  donatus,  excessi  >  (1).  Bologna, 
a  proposito  della  laurea  ,  non  è  rammentata  neppm*e  : 
dmiqoe,  Leon  Battista  potrebbe  essersi  addottorato  in 
qualche  altro  luogo,  tanto  più  che  gli  Statuti  delle  Uni- 
versità non  impedivano  il  passaggio  dall'una  all'altra.  Una 
seconda  obiezione  che  potrebbe  farsi  è  la  seguente.  L'Uni- 
versità bolognese  si  riapri,  come  dice  il  cronista,  il  24 
di  ottobre  ;  d' altra  parte ,  negli  Statuti  universitarii ,  non 
era  determinata  l'epoca  precisa  degli  esami  necessarii 
per  ottenere  la  laurea:  dunque,  negli  ultimi  due  mesi 
del  1431,  avrebbe  potuto  L.  Battista  addottorarsi. 

Quanto  alla  prima  delle  due  obiezioni  osservo  che, 
quantunque  nel  Proemio  2i\  Filodosso,  Leon  Battista  non  dica 
esplicitamente  di  aver  preso  la  laurea  in  Bologna,  pure  è 
naturale,  direi  quasi  necessario,  argomentarlo  dalle  sue  pa- 
role. Se  in  questo  Proemio  avesse  detto  soltanto  che  in 
Bologna  cominciò  a  studiare,  e  in  un'altra  sua  opera  si 
leggesse  la  frase  quoad  e  sttuliis  pontifidis  aureo  anulo 
et  flamine  donatus  excessi,  allora  il  concludere  che  a  Bo- 
logna si  laureò  sarebbe  un  poco  arbitrario  e  alquanto 
dubbio.  Ma  si  noti  che  ambedue  le  indicazioni  si  trovano 
nel  Proemio  stesso,  nella  medesima  pagina  o  in  due  pa- 
gine consecutive,  in  una  esposizione  continuata  che  l' Al- 
berti fa  per  spiegare  come  mai  scrisse  il  Filodosso  e 
come  mai  lo  corresse.  Quando  si  trova  che  uno  dice:  io 
cominciai  a  studiare  diritto  pontificio  a  Bologna,  fui  trat- 
tato aspramente  dai  parenti  presso  cui  mi  trovavo,  mi 
ammalai  e  in  convalescenza  scrissi  una  commedia  che 
andò  vagando  per  dieci  anni  tantoché,  nel  frattempo, 
uscii  dagli  studii  pontificii  ;  quando  uno  dice  cosi,  e  basta, 

(1)  Op.  volg,,  voi.  l,  pag.  CXXIV. 


MISCELLANEA  251 

senza  rammentare  nessun'  altra  città ,  domando  io  se  è 
giustificato  intendere  che  si  laureasse  altrove  che  a  Bo- 
logna. 

A  questo  proposito,  io  mi  rivolsi  al  sig.  Mancini  per 
sapere  da  lui  se  anche  in  altre  sue  opere,  o  soltanto  nel 
Proemio  al  Filodosso,  l'Alberti  parlasse  del  luogo  dove 
prese  la  laurea.  E  il  sig.  Mancini  mi  ha  dato  gentilmente 
questa  risposta:  «Precisamente  nel  proemio  del  Filodosso 
r  Alberti  accenna  agli  studii  legali  fatti  in  Bologna.  Non 
dice  d' essersi  laureato  colà ,  ma  troppe  circostanze  por- 
tano a  crederlo.  I  crediti  vantati  dai  cugini  per  mante- 
nercelo a  studio,  la  presenza  in  Bologna  del  questore 
Alberto  Alberti,  ed  il  lascito  testamentario  fatto  da  Bat- 
tista per  istituire  in  Bologna  due  posti  di  studio  destinati 
a  giovani  di  casa  Alberti  indicano  che  egli  si  laureò  a 
Bologna  > .  Ed  io  pure  sono  di  questo  parere  :  tanto  più, 
lo  ripeto,  che  la  prova  ricavata  dal  Proemio  al  Filodosso 
ha,  per  me,  una  grandissima  importanza. 

Resta  dunque  la  seconda  obiezione:  che,  cioè,  am- 
messo che  Leon  Battista  si  laureasse  in  Bologna,  nulla  vieta 
supporre  che  vi  si  laureasse  negli  ultimi  mesi  del  1431.  Ma 
io  pongo  qui  un  dilemma:  quando  si  chiuse  l'Università 
bolognese ,  nel  1428,  Leon  Battista  o  aveva  finito  il  corso 
degli  studii  legali  o  non  Taveva  finito  ;  se  non  l'aveva  finito, 
appena  riapertasi  l'Università,  avrebbe  dovuto  comple- 
tarlo prima  di  prendere  la  laurea  e  quindi  non  è  ammis- 
sìbile che  si  addottorasse  nel  novembre  o  nel  dicembre 
del  1431  ;  se  l' aveva  finito ,  come  mai  aspettò  tre  anni 
a  dar  l'esame  finale  invece  di  prenderlo  in  un'altra  uni- 
versità, dal  momento  che  (mi  servo  della  ragione  addotta 
dagli  avversarti)  gli  Statuti  universitarii  non  lo  proibivano? 
Insomma  riesce  dillicile  conciliare  insieme  tutti  questi 
faUi:  e  quindi,  quando  ci  si  ostini  a  ritenere  il  1431 
come  r  anno  della  laurea  di  L.  Battista  si  urta,  oltreché 


252  MISCELLANEA 

Della  prima  a  cui  ho  già  accennato,  anche  in  questa 
seconda  difficoltà. 

Procediamo  nelle  nostre  osservazioni.  Si  dice  che  le 
parole  stesse  di  Leon  Battista  mostrano  aver  egli  scritto  il 
Filodosso  nel  1427.  Ebbene,  la  Vita  anonima  racconta 
che  Leone,  applicatosi  agli  studi,  gravemente  infermò;  e 
allora  e  a  consolazione  di  sé  stesso,  né  avendo  allora  più 
che  vent'  anni,  intermesse  le  leggi,  fra  la  convalescenza  e 
la  cura  scrisse  il  Filodossio  commedia  >  (1).  Poi,  ripresi 
gli  studii  e  ostinatamente  affaticandosi  in  essi,  di  nuovo 
ammalò  gravissimamente,  finché  dovè  lasciarli  e  darsi  alla 
fisica  ecc.  (2).  Dunque,  Leon  Battista  ebbe  due  malattie , 
e  fu  nella  convalescenza  della  prima  che  scrisse  il  Filodosso; 
e  siccome  la  composizione,  di  questo  si  dice  essere  del- 
l'ottobre  1427,  cosi  fu  nel  1427  che  egli  si  ammalò  per  la 
prima  volta.  Ma  allora  si  che  riesce  incomprensibile  come 
l'Alberti,  senza  che  dovesse  neppure  interromper  gli  studii 
per  malattia,  non  li  avesse  già  terminati  nel  1427,  quando 
li  aveva  cominciati  nel  1421 .  e  bastavano  a  prender  la 
laurea  5  anni! 

Ma  c'è  qualche  cos'altro.  Il  dialogo  Della  Famiglia 
si  finge  tenuto  a  Padova,  quando  Lorenzo  Alberti  stava 
per  morire.  Ciò  è  detto  chiaramente  nel  principio  del 
lib.  1  :  «  Mentre  che  Lorenzo  Alberti  nostro  padre  era  in 
Padova ,  grave  di  queir  ultima  infermità  che  ce  lo  tolse 
di  vita,  più  di  aveva  grandemente  desiderato  vedere  Ric- 
ciardo Alberto  suo  fratello  ;  del  quale  sentendo  che  subito 
sarebbe  a  visitarlo,  ne  prese  grandissimo  conforto,  ecc.  »  (3). 
E  là  a  Padova,  in  casa  degli  Alberti  si  tiene  il  dialogo. 
Interlocutori  del  lib.  II  sono:  Lionardo,  Leon  Battista  e 


(1)  Op.  volg.y  voi.  I,  pag.  XCUL 

(2)  Ivi,  pag.  XCV. 

(3)  Op.  volg.y  voi.  II,  pag.  21. 


MISCELLANEA  253 

Carlo  Alberti.  Si  noti  che  siamo  all'anno  1421,  e,  per 
conseguenza,  se  si  ammette  la  data  del  1407  per  la  na- 
scita di  Leon  Battista,  questi  era  allora  un  ragazzo  di  14 
anni.  Potrà  far  dunque  maraviglia  il  sentire  che  Lionardo, 
a  un  certo  punto,  gli  dice:  e  Quasi,  Battista,  come  se  a 
te  non  stesse  a  mente  la  sentenzia  del  tuo  Marco  Cice- 
rone ,  il  quale  tu  suoli  tanto  lodare  ed  amare,  che  giudica, 
niuna  cosa  essere  più  flessibile  e  duttibile  quanto  la  ora- 
zione >  (1).  Ma,  poiché  Leon  Battista  aveva  un  ingegno 
straordinario  e  uno  straordinario  amore  allo  studio,  am- 
mettiamo pure  che  già  a  quell'età  fosse  familiare  di  Ci- 
cerone e  degli  altri  classici  e  degli  storici  antichi,  come  ap- 
parisce dalle  grandi  citazioni  che  egli  medesimo  fa  in  segui- 
to. Quello  però  che  è  addirittura  meraviglioso  è  il  modo 
come  questo  ragazzo  di  14  anni  discorre  dell'amore.  «  Non 
credo  >  egli  dice  e  a  noi  giovani  (sì  noti  questo  noi  gio- 
vani) sia  lecito  ostare  all'amore,  né  forse  biasimo  se- 
guirlo» (2).  E  continua  esaltando  l'amore  al  disopra  del* 
r amicizia,  e  termina  il  suo  ragionamento  cosi:  e  Ma  io 
non  voglio  seguire  più  oltre  in  questa  materia,  che  troppo 
temo  non  ti  parere,  quasi  come  se  io  difendessi  la  causa 
mia  propria.  Rendoti  certo,  Lionardo,  io  non  amo:  e 
benché  in  me  io  non  senta  questa  forza  dello  amore, 
pur  quanto  da  molti  mi  rammento  avere  udito  assai  e 
letto,  mi  pare  in  gran  parte  di  acconsentire  a  queste 
poche  ragioni  quali  addussi,  con  le  quali  forse  mi  sono 
mostro  troppo  in  questa  sentenzia  fermo,  e  troppo  in- 
dulgente verso  l'amore.  Ma  pensa  tu  quale  tu  mi  trove- 
resti, se  io  con  queste  ragioni  insieme  tenessi  in  me  quelle 
faci  con  che  amore  si  fa  adorare  e  gloriare:  non  dubi- 
tare che  io  statuirei  lo  Amore  essere  sopra,  non   dirò 

(1)  Op.  volg.,  voi.  11,  pag.  ìfì. 
ii)  Ivi,  pag.  129. 


254  MISCELLANEA 

l'amicizia,  ma  a  qualunque  gloriosa  cosa,  degno  molto  e 
divino  »  (1). 

In  verità  a  me,  leggendo  queste  parole,  torna  a 
mente  ciò  che  il  Carducci  scrisse  a  proposito  di  una 
certa  poesia  dove  è  narrato  l' innamoramento  dei  due 
bambini  Dante  Alighieri  e  Beatrice  Portinari.  Dopo  aver 
riportato  la  seguente  strofa  in  cui  parla  Dante: 

Amo  tutto:  e  rosa  e  candido 
Gelsomino  e  violetta; 
Ed  adoro  un' angioletta 
Che  mi  penso  aver  vicin, 

€  santi  scapaccioni  !  >  esclama  il  Carducci  (2).  Ed  io  provo 
una  voglia  matta  di  ripetere  la  medesima  esclamazione  a 
messer  Leon  Battista  degli  Alberti  che  si  permetteva  di 
discorrere,  a  14  anni,  in  quel  modo,  e  a  messer  Lio- 
nardo,  uomo  savio,  che  lo  stava  a  sentire  e  discuteva 
con  lui.  Mi  si  potrebbe  forse  obiettare,  che  l'azione  del 
dialogo  è  del  1421,  ma  il  dialogo,  in  realtà,  fu  scritto 
quando  già  Leon  Battista  era  adulto,  e  quindi  egli  non  si 
accorse  che  faceva  parlar  sé  stesso  come  avrebbe  parlalo 
allora,  non  come  avrebbe  parlato  a  14  anni.  Sta  bene:  ma 
non  sapeva  forse  l'Alberti  quanti  anni  aveva  nel  1421  ?  e, 
se  era  davvero  un  ragazzo,  perché  non  mise  l'azione  del 
dialogo  ad  altra  epoca?  chi  lo  costringeva  a  farlo  avve- 
nire nel  1421  quando  mori  Lorenzo?  e  chi  lo  costrin- 
geva, se  mai,  a  non  mettere  altri  interlocutori  (come  fa 
negli  altri  libri)  piuttostoché  sé  medesimo  e  suo  fratello 
Carlo  minore  a  lui? 


(1)  Op.  volg,,  voi.  II,  pag.  136. 

(2)  Critica  e  Arte  (in  Confessioni   e  Battaglie,  IV  voi.  delle  Opere 
pag.  253). 


MISCELLANEA  255 

Tutte  queste  che  sono  andato  esponendo  non  mi 
paiono  piccole  difficoltà:  e  sarebbe  in  verità  cosa  ardua 
il  conciliarle  colle  indicazioni  deir Alberti,  quando  queste 
indicazioni  fossero  precise  e  chiare.  Sennonché  io  ho  già 
accennato  non  essere  state  interpetrate  giustamente.  Quanto 
all'anno  in  cui  Leon  Battista  lasciò  gli  studii  e  che  i  so- 
stenitori del  1407  affermano  essere  il  1431,  ho  già  detto 
che  dalle  parole  del  De  Iure  non  si  rileva  menomamente, 
parlandosi  ivi  del  tempo  in  cui  egli  cominciò  a  seguire 
il  pontefice  (che  fu  appunto  il  1431,  come  si  rileva  dalla 
bolla),  non  già  di  quello  in  cui  abbandonò  gli  studii  di 
diritto  canonico.  E  quanto  air  anno  della  composizione 
del  Filodosso ,  che  dicono  essere  il  1427  perché  V  Alberti 
ricorreggendolo  nel  1437,  asserisce  di  averlo  scritto  da  10 
anni,  mi  si  permetta  affermare  che  ciò  non  è  esatto. 
Esaminiamo  brevemente,  anche  a  costo  di  ripetere  in 
parte  cose  già  dette,  il  Proemio  di  Leon  Battista  al 
Filodosso. 

Egli  dice,  dunque:  «  Mortuo  Laurentio  ecc.  »  (v. 
sopra),  venni  a  Bologna  a  studiare;  ma  e  fuere  Inter  meos  » 
alcuni  e  qui  inhumaniter  nostro  jam  jam  surgenti  et  piene 
flurescenti  nomini  vehementius  inviderent.  »  Io  sopportai 
pazientemente  questa  inumanità  e  €  hanc,  in  eo,  quo 
tum  eram  constitutus  merore  incommodorum  meorum  et 

acerbitatis  illorum consolandi    mei    gratia,    fabulam 

scripsi.  Quam  quidem  inelimatam,  et  penìtus  rudem  fa- 
mìliarìs  quidam  mei  studiosissimus  subripuit,  furtimque 
ìllam  horis  paucissimis  quam  celerrime  transcripsit.  Ex 
quo  factum  est  ut  ad  meas  mendas,  scribendi  istius  fe- 
stinatione,  multa  vitia  adiicerentur.  »  Tuttavia  egli  €  me 
invito  »  ne  fece  «  copiam  vulgo.  »  La  commedia  ebbe 
un  grandissimo  successo;  ma,  e  per  l'imperizia  di  alcuni 
e  per  la  mala  fede  di  altri,  vi  si  aggiunsero  nuovi  errori 
ed  oscenità.  Io,  a  chi  chiedeva  di  dove  era  stata   tratta, 


356  mSCELLANEA 

€  per  commentnm  »,  persuasi  «  ex  vetustissimo  illam 
esse  Codice  excerptam  »,  e  tutti  facilmente  assentirono. 
«  Nam,  et  comicum  dicendi  genus,  et  prìscnm  quid- 
piam  redolebat,  neque  difficile  credito  erat  adulescentem 
Pontificiis  scriplis  occupatum,  me  ab  omni  eloqnentiae 
laude  abborrere.  »  Cosi  «  annos  decem  vagata  est...  Cum 
autem  ad  haec  studia  philosophiae  rediissem,  baec  fabula 
elimatior,  et  honestior,  mea  emendatione,  facta,  ecc.  »  (1). 
Ora  è  chiaro:  da  questo  racconto  che  l'Alberti  fa  del 
come  nacque  la  sua  commedia  e  del  come  fu  conosciuta 
senza  nome  d'autore,  si  rileva  che  nel  1437  (se  pure, 
come  ho  notato  più  sopra,  è  veramente  questo  Tanno  della 
correzione)  la  commedia  era  divulgata  da  10  anni,  non 
già  da  10  anni  composta.  L'Alberti  dice  di  averla  scrìtta 
per  consolarsi  dell'afflizione  che  gli  cagionavano  la  sua 
malattia  e  l'acerbità  dei  parenti.  Ma  sappiamo  noi  quando 
fu  questa  malattia?  intanto,  secondo  la  vita  anonima  sa- 
rebbe non  molto  dopo  che  aveva  cominciato  gli  studii, 
quindi  nel  '23  o  '24  o  anche  prima.  Ed  è  proprio  ne- 
cessario ammettere  che  l'amico  conoscesse  subito  la  com- 
media di  L.  Battista  ?  0  non  è  anche  possibile  che  questi 
glie  la  facesse  leggere  quando  già  era  trascorso  lungo 
tempo  dalla  sua  composizione?  Leon  Battista  l'aveva  scritta 
unicamente  per  consolar  sé  medesimo,  non  già  per  farla 
conoscere  agli  altri:  tanto  è  vero  che,  quando  l'amico 
glie  r  ebbe  portata  via  e  l'ebbe  copiata  e  messa  in  giro, 
l'Alberti  dice  che  lo  fece  suo  malgrado  (me  invito).  Che 
se  alcuno  mi  accusasse  di  troppa  sottigliezza  e  dicesse  che 
dalle  parole  di  Leon  Battista  apparisce  una  certa  continuità 
di  tempo  fra  la  composizione  e  la  divulgazione  del  Filo- 
dosso,  io  risponderei  che  questo  può  esser  vero  ma  che, 
d'altra  parte,  nulla,  assolutamente  nulla,  vieta  di  ricono- 

(4)  Opere  volg,,  voi.  1. 


MISCELLANEA  257 

scere  in  qaelle  parole  ana  discontinuità,  una  interruzione. 
Non  limata  e  rude  la  commedia  poteva  essere  anche 
dopo  mollo  tempo  :  né  vi  è  niente  di  strano  ad  ammettere 
che  Leon  Battista  dopo  averla  scritta,  V  abbia  lasciata  dor- 
mire membrtmis  inttis  positis.  Ora,  questo  solo  io  dico,  e 
credo  che  ognuno  sarà  disposto  a  concedermelo  :  quando 
a  sostegno  di  una  opinione  si  cita  un  passo  di  un  autore, 
e  questo  passo  si  presta  ugualmente  bene  a  due  inter- 
petrazioni  diverse  una  delle  quali  impugna  l'opinione 
stessa,  quella  che  pareva  una  prova,  non  è  più  tale  e 
non  serve  più  al  nostro  scopo.  Insomma,  a  non  voler 
cavar  sangue  di  dove  non  e'  è,  bisogna  pur  confessare 
che  le  indicazioni  che  si  trovano  nelF opere  dell'Alberti 
sono  cosi  vaghe  da  non  offrire  nessuna  sicurezza  per 
Tanno  della  sua  nascita.  Certo,  queste  mie  ragioni  non 
sono  ragioni  positive,  ma  negative;  non  dimostrano  es- 
sere la  data  del  1407  impossibile  assolutamente,  ma  di- 
mostrano bensi  (almeno  mi  sembra)  che  le  prove  ad- 
dotte in  suo  favore  non  son  sufficienti;  anzi  che  man- 
cano prove,  e  che,  per  di  più,  vi  sono  delle  difficoltà  le 
quali  rendono  il  1407  meno  probabile  dì  altri  anni.  Se 
in  seguito  nuovi  argomenti  dimostreranno  che  l'opinione 
dello  Scipioni  è  giusta,  io  non  andrò  certamente  cavil- 
lando per  combatterla  e,  di  fronte  a  prove  di  fatto,  ri- 
conoscerò perdere  il  loro  valore  (sebbene  rimarrebber 
sempre  un  po' strane)  le  difficoltà  che  ho  notate  adesso. 
Ma  per  ora,  finché  le  cose  stanno  così,  credo  di  non  er- 
rare asserendo  che  la  data  del  1407  (1)  che  a  prima 
vista,  parrebbe  aver  per  sé  gli  argomenti   più   incontra- 


(1)  Si  noti  poi  che  anche  lo  Scipioni  e  il  Neri  non  la  (issano  cosi 
uviolutamente,  ma  dicono  che  l'Alberti  nacque  o  nel  1406  o  nel  li07  o 
persino,  come  congettura  il  Neri,  nel  U08.  Sicché  anche  nella  loro  o- 
pinione  non  vi  é  nulla  di  certo. 


258  MISCELLANEA 

Stabili,  è  invece  poco  men  che  un*  ipotesi  campata  in 
aria. 

Per  il  1404,  le  ragioni  addotte  dal  sig.  Mancini  son 
note:  non  occorre  quindi  che  io  le  ripeta  qui  e  le  esa- 
mini partitamente.  Dirò  solo  quello  che  già  dissi  nel  mio 
primo  articolo,  che  cioè  esse  ragioni  un  certo  valore 
1  hanno  ma  non  sono  davvero  decisive  per  la  data  che 
il  sig.  Mancini  sostiene,  e  manca  loro  quella  forza  di  ve- 
rità che  occorre  per  indurre  altri  ad  accettare  incondi- 
zionatamente, come  anno  della  nascita  di  Leon  Battista, 
il  1404.  Egli  potrebbe  esser  nato,  o  un  poco  dopo  o  un 
poco  prima:  per  asserirlo  manca  qualunque  indizio.  Tut- 
tavia, io  ritengo  che,  fra  le  varie  date  proposte,  essa 
abbia  per  sé  le  maggiori  probabilità  e  sia  la  più  razio- 
nale :  sebbene  al  sig.  Orazio  Bacci  sembri  solamente  «  la 
meno  assurda  »  fra  tutte  quelle  che  non  sono  il  1407. 

Che  poi  il  Gaspary,  cosi  dotto  ed  acuto,  abbia  scritto  : 
€  Das  viel  umstrittene  Geburtsjahr  weist  ùberzeugend 
als  1406  oder  1407  nach  G.  Scipione  Scipioni  »  (1),  non 
fa  meraviglia,  considerato  che  fautore  di  un'  intera  Storia 
letteraria  non  può  tornare  ad  esaminare  da  sé  tutte  le 
singole  questioni,  ma  è  costretto  a  valersi  dei  risultati 
delle  ricerche  altrui  e  valersene  con  piena  fiducia,  quando 
essi  hanno  l'aspetto  della  verità.  Ora,  tale  aspetto  di  ve- 


(1)  Geschìchte  rfer  italienischen  Literatur.  Voi.  li  (Die  italienischf 
Literatur  in  der  Renaissance zeit).  Anhang  hihliographischer  und  Kriti- 
scher  Bemerkungen,  pag.  662!.  Egli  cita  Karticolo  del  Mancini  pubblicalo 
nellMrcAiV.  stor.  ital.  (Nuovi  docum.  e  notiz.  ecc.),  facendo  notare 
che  il  Mancini  si  attiene  sempre  alla  data  del  liO-i:  al  che,  aggiunge, 
rispose  mit  Recht  lo  Scipioni  nel  Giorn.  slor.  d.  Letter.  ital.  X,  !255. 
Questo  e  Tart.  di  cui  fece  parola,  nelle  Spigolature  Albertiane^  anche  il 
sig.  Orazio  Bacci,  mostrando  di  ritenerlo  come  importante.  Ma,  in  realiii, 
in  esso  lo  Scipioni  non  fa  che  ripetere  quello  che  egli  medesimo  aveva 
scritto  nel  Preludio,  in  quelle  lettere  al  Renier  di  cui  parlo  sopra. 


MISCELLANEA  259 

rìtà  hanno  appunto  gli  argomenti  dello  Scipioni;  ma,  e- 
saniinati  più  da  vicino,  non  resistono  alla  critica.  Io,  per 
me,  al  punto  a  cui  stanno  le  cose,  credo  che  la  con- 
gettura più  probabile  (dico  congettura,  perché  nulla  o- 
serei  afTermare)  sia  questa:  che  Leon  Battista  Alberti 
nascesse  intomo  al  1404  ;  che,  per  conseguenza,  alla  morte 
del  padre  fosse  un  giovane  di  17  o  18  anni;  che  allora 
andasse  a  studio  a  Bologna ,  se  pure  non  v'  era  già  ; 
che  verso  il  1424  scrivesse  il  Filodosso;  che  questo 
venisse  divulgato  subito,  nel  caso  che  la  correzione 
della  commedia  possa  ritenersi  anteriore  di  2  o  3  anni 
al  1436  0  '37,  o,  se  questa  è  veramente  la  data  della 
correzione,  sia^  capitato  alle  mani  dell'amico  di  lui  solo 
2  0  3  anni  dopo  che  era  stato  composto;  che  Leon  Bat- 
tista si  addottorasse  a  Bologna  nel  1426  o  '27,  certo 
prima  del  '28;  e  che,  finalmente  (su  questo  non  ci  può 
esser  dubbio  perché  è  lui  stesso  che  ce  lo  dice),  dopo 
10  anni  che  andava  per  il  pubblico,  abbia  ricorretto  la 
sua  commedia  giovanile,  il  Filodosso. 

Ecco  quale  mi  sembra,  ripeto,  la  congettura  più 
probabile.  Del  resto,  non  pretendo  davvero  di  aver  ri- 
solto la  questione:  tult'altro!  Anzi,  credo  di  poter  ripe- 
tere quello  che  scrissi,  in  nota,  nel  citato  mio  articolo: 
adhuc  sub  judice  Us  est,  E  se  mi  sono  deciso  a  racco- 
l^liere  e  pubblicare  queste  mie  poche  osservazioni,  l'ho 
fallo  vedendo  quanto  favore  acquisti  l'anno  sostenuto 
dallo  Scipioni:  affinché  a  poco  a  poco  non  invalga  l'uso  di 
far  passare  per  vera  una  data  che,  fino  ad  ora,  è  asso- 
Inlamente  problematica. 

Irenko  Sanesi. 


LEONE  ALLACCI 


E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG 


I. 

Del  viaggio  di  Leone  Allacci  ad  Heidelberg  e  del  tra- 
sporto della  Biblioteca  Palatina  da  questa  città  in  Roma , 
che  egli,  non  nltima  delle  sue  benemerenze,  compi,  ab- 
biamo principale  notizia  da  una  Relazione  dell  'Allacci  stes- 
so (1),  poco  fa  ristampata  credendo  di  pubblicarla  per 
la  prima  volta  (2),  e  da  una  Monografia  del  Padre  Ago- 

(1)  L'autografo  é  a  e.  177-183'  del  Manoscritto  Vallicellìano  B.  38: 
«  Breve  Belatione  del  viaggio  che  Leone  Allacio  fece  in  Gennania  per 
condur  la  Bibiiotheca  Palatina  in  Roma  donata  dal  Serenissimo  duca  di 
Baviera  alla  Santa  Sede  Apostolica  i;  ed  una  copia  nella  stessa  Valli- 
celliana,  fra  le  Carte  Allacci,  Filza  LXXXIV,  5.  Un  compendio,  e  Bela- 
tione della  condotta  dei  libri  della  Libraria  di  Hidelberga  in  Roma,  fatta 
da  Leone  Allacio  >,  è  nel  Ms.  cit.,  e.  187'-188^  e  nelle  Carte  dette. 
Filza  CXXVI,  20,  quesf  ultimo  con  aggiunte  autogr.  inGne:  e  questo  pub- 
blico io  (Docum.  IX),  crescendogli  pregio  qualche  giudizio  su  alcuno  dei 
codici  trasportati,  che  manca  nella  Relazione  più  estesa.  La  quale,  insie- 
me con  i  primi  sei  documenti  pubblicati  dal  Theiner,  trovasi  in  copia, 
come  avvertcci  il  signor  Beltrani  (vedi  le  note  successive)  anche  nel 
cod.  Vaticano  77G2. 

Ci)  <  Relazione  $ul  trasporto  della  Biblioteca  Palatina  da  Heidel- 
berg  a  Roma  scritta  da  Leone  Allacci  ed  ora  per  la  prima  volta  pub- 
blicata da  Giovanni  Beltranl  Con  notizie  storiche  e  bibliografiche. 
(Rivista  Europea  Rivista  Internazionale:  voi.  XX Vili,  pagg.  5-31.  Ed 
anche  in  estratto  ).  Questa  Belazione  era  già  stata  pubblicata  da  Giovanni 
Cristoforo  Felice  Bahr  neir  articolo  Zur  Geschichie  der  EntfUhrung 
der  Heidflberger  Bibliothek  ( Heidelberger  Jahrbiicher  der  Literatury  Jahr. 
ìidì,  BJ   31-32,  pagg.  486  e  segg.). 

\oì,  IV,  Parte  I  17 


262  CURZIO  MAZZI 

stìDo  TheiDer  (1),  una  rarità  bibliografica  tra  noi:  alle 
quali ,  se  poco  e'  è  da  aggiongere ,  si  può  sempre ,  pur 
soltanto  ravvicinando  e  coordinando  scritti  e  documenti 
dispersi  in  Riviste,  specialmente  straniere,  far  cor- 
redo d'altre  notiziole;  e,  soprattutto,  dare  più  vera 
luce  con  altri  ricordi  dall'esecutore  di  quel  trasporto, 
dal  medesimo  Allacci,  lasciatici  nelle  lettere  scritte  men- 
tre stette,  per  questa  missione,  fuori  d'Italia,  e  che 
raccolse,  unico  esempio  nel  suo  Epistolario  (2),  in  un 
minutario,  e  questo  poco  regolare,  distratto  poi  con  im- 
provvido consiglio,  dalle  cose  sue,  riunendolo  alla  parte 
antica  dei  codici  della  Vallicelliana  (3).  E  libero  fortuna- 

(1)  Schenkung  der  Heidelberger  Bibliothek  durch  Maximilian  I 
Heriog  und  Churfursten  von  Bayern  an  Papst  Gregor  XV.  Und  ihre 
Versendung  nach  Rom,  Mit  Originalschrifien  von  AuGUSTiN  Theixer 
Priester  des  Oratoriums,  Mùnchen,  Verlag  der  Lit,  Art  Aaslalt  18U, 
pagg.  V-105,  8.**  Il  0/  Gessert  dette  di  questa  monografia  una  recen- 
sione nel  Serapeum.  Sechster  Jahrgang  (1845),  pagg.  1-11,  che  il  di- 
rettore dice  fra  altre  ragioni  di  pubblicare  «  zumeist  aber,  weil  in  dìeser 
»  Angelcgenlieit  auch  die  Stimine  eines  Mitgliedcs  der  katholisclien  Kirchc 
»  zur  Steuer  der  Wahrheit  nielli  wenig  beitragl.  Die  Leser  des  Serapcums 
»  >verd(Mi  dabcr  gewiss  auch  dein  spiitcr  mitzutheilenden ,  gegenwiirtig 
9  der  Redaction  noch  nicht  zugckommenen  Aufsatzc  ilber  die  Tbei- 
•  ner*sche  Schrift  gleiclies  Interesse  sclienken  >.  Nel  medesimo  volume 
del  Serapeum,  pagg.  113-127,  129-144,  145-159,  il  trasporto  della  Pa- 
latina, Die  Entfiihrung  der  Heidelberger  Bibliothek  nach  Rom  im  Jahre 
i623,  fu  raccontato  dal  Prof.  0.""  Giovanni  Cristiano  Felice  B.\hr  , 
Primo  Bibliotecario  in  Heidelberg,  «  mit  besonderer  Berùcksichtigung  der 
Schrifl  von  Auguslin  Theincr  »,  e  con  diversi  intendimenti  da  quelli  di 
lui  e  del  Gessert. 

(2)  Per  l'Epistolario  delP Allacci  vedi  il  mio  articolo,  Tre  Epista- 
larii  nella  Vallicelliana  di  Roma.  Notizia:  nella  Rivista  delle  Biblio- 
teche, II  (1889),  103-112. 

(3)  Forma  le  ultime  carte,  192'-244t,  del  cit.  Ms.  ValliceUiano  B. 
38,  che  ora  crebbero  lino  a  e.  262,  per  aver  io  aggiunta  un'altra  parte 
di  esso  minutario  ritrovata  fra  le  cose  dell'Allacci.  A  questo  Ms.  messo 
insieme  in  grandissima  parte  di  lettere  e  documenti  che  si  inferiscono  al 


LEONB  ALLAOCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBEBO    263 

tamente  dalle  preoccnpazioni  che  dovette  avere  il  Theioer 
Dell'  usare  parcamente  d' alcune  di  queste  lettere,  da  tutte 
deriverò,  senz'odio  e  senza  amore,  intera  la  narrazione; 
lasciando  all'  Allacci  ed  agli  altri  che  ebbero  mano  in  que- 
sta pratica ,  il  discorso,  stando  noi  a  sentire,  per  quanto 
sarà  possibile,  le  proprie  loro  parole. 

Ai  28  di  ottobre  del  1622  in  venerdì,  nel  giorno 
dei  santi  apostoli  Simone  e  Giuda,  partiva  da  Roma 
l'Allacci,  avendo  compagno  di  viaggio  un  suo  servitore; 
e  per  Firenze,  Bologna  e  Venezia  incamminavasi  ad  uscire 
d'Italia.  Portava  seco  un  Breve  a  tutti  i  fedeli  del  re- 
gnante pontefice  Gregorio  XV  (1),  altro  di  lui  a  Mas- 
similiano I  duca  di  Baviera  (2),  il  conquistatore  della 
Palatina  e  munifico  donatore  di  essa  alla  Santa  Sede,  un 
terzo  al  generale  conte  Giovanni  De  Tilly  (3),  segretario 
del  duca;  portava  lettere  del  cardinale  Ludovico  Ludo- 
trasporto  della  Palatina,  fu  data  la  collocazìoae  alla  lettera  6,  ripetendo 
il  numero  38,  e  fu  apposto  il  titolo  e  Lettere  per  la  Libraria  Palatina, 
cioè  appartenenti  al  trasporto  fatto  da  Leone  Allazio  della  Palatina;  non 
già  che  sieno  di  proprietà  della  Palatina  >.  Ha  due  numerazioni:  una,  in 
nero,  adesso  saltuaria;  altra  più  moderna,  in  rosso,  che  seguo  nelle  ci- 
tazioni. Alcune  delle  lettere  furono  registrate  da  altra  mano  che  quella 
dell*  Allacci. 

(1)  e  Datum  Romae  apud  S.  Mariam  Majorem  sub  annulo  Piscatoris 
die  XXIII  octobris  MDCXXII  pontitìcatus  nostri  anno  secundo  >.  Esiste 
nella  Vallicelliana  in  originale,  Ms.  ciL  6.  38,  e.  176,  e,  in  copia,  Carte 
dette,  Filza  CXXVI,  1:  e  fu  pubblicato  dal  Theiner,  Schenkung  ecc. 
Docum.  Ili,  pagg.  52-53. 

(^)  €  Datum  Romae  apud  S.Mariam  Majorem  die  15  octobris  MDCXXII 
pontitìcatus  nostri  anno  secundo  i.  Ne  sono  due  copie  nella  Vallicelliana; 
M$.  cit  B.  38,  e.  185,  Carte  Allacci,  Filza  CXXVI,  2:  e  fu  pubblicato 
dal  Theiner,  Schenkung  ecc.,  Docum.  L  pagg.  49-50. 

(3)  e  Datum  Romae  apud  S.  Mariam  Majorem  etc. ,  die  15  octobris 
ìftii  pontificatus  nostri  anno  secundo  ».  Due  copie  n'ha  la  Vallicelliana; 
Ms.  ciL  B.  38,  e  186;  Carte  dette,  Fib»  CXXVI,  3:  lo  pubblicò  il 
TiUvLNEH,  Schenkung  ecc.,  Docum.  II,  pagg.  51-52. 


264  CUBZIO  MAZZI 

visi,  CamarleDgo  di  Santa  Chiesa  e  SoprìDieodeote  dello 
Stato  Ecclesiastico,  al  daca  (1)  e  conte  (2)  medesimi,  al 
Nanzio  Zaccbia  in  Venezia  (3),  agli  nfiBciali  dello  stato 
ecclesiastico  e  degli  altri  stati  (4):  i  quali  docmnenti  an- 
nunziavano la  commissione  afiBdata  air  inviato  del  papa, 
confermandola  in  Ini,  e  cercavangli  favore  per  condurla  a 
bnon  termine  ;  che  certo  la  rendevano  malagevole  le  dif- 
ficoltà dì  trasportare  tanta  copia  dì  codici  e  libri,  biso- 
gnosi nel  viaggio  di  core  gelose,  le  vie  disastrose  in  in- 
verno,  mal  sicure  in  contrade  devastate  dalla  guerra,  at- 
traverso popoli  divisi  dalle  fazioni,  né  molto  amici  del 
nome  cattolico.  Oltre  quelle  scritture  recava  l'  Allacci 
doni,  non  al  duca  Massimiliano,  ma  al  suo  segretario 
conte  De  Tilly ,  e  al  segretario  del  segretario ,  Vittorio 
Gìgli  da  Imola  ;  recava  indulgenze  e  medaglie  sacre,  com- 
missioni d'acquisto  di  libri  per  la  Vaticana  e  per  gli 
amici,  lavori  inediti  suoi  ed  altrui.  Del  modo  poi  come 
il  trasporto  della  Biblioteca  doveva  eseguirsi,  prescrive- 
vano con  norme  peculiari  due  Istruzioni  date  all' Allacci: 
l'una,  da  Scipione  Cobelluzzi,  cardinale  di  S.  Susanna, 
Bibliotecario  Vaticano,  ma  compilata  dal  Custode  della 
Vaticana  Niccolò  Alemanni  (5);  l'altra,  dal  cardinal  Camar- 

(1)  In  data  15  ottobre  1622.  La  Vallicelliana  oe  possiede  due  copie  ; 
Ms.  cit.  B.  38,  e.  184;  Carte  dette,  Filza  CXXVI,  5.  Anche  questa  fu 
pubblicala  dal  Theiner,  Schenkung  ecc.,  Docum.  IV,  pagg.  53-54. 

{2)  Nella  Vallicelliana,  Carte  dette,  Filza  CXXVI,  7,  n'  è,  incompleta, 
una  copia,  che  certamente  aveva  la  stessa  data  15  ottobre  1622. 

(3)  Datata  23  ottobre  1622.  La  trascrisse  TAlhicci  nel  suo  minuta- 
rio, Ms.  cìL  B.  38,  e  253':  ed  un'  altra  copia  sta  neDe  Carte  dette,  Fjka 
CIXVI,  6. 

(4)  Con  la  stessa  data  23  ottobre  1622.  Nella  Vallicelliana  éwi  rorì> 
ginale,  Ms.  cit  6.  38,  e.  165;  ed  una  copia,  Carte  dette.  Filza  CXXVI, 
4.  La  stampò  il  Theiner,  Schenkung  ecc.,  Docum.  V,  pagg.  54-^. 

(5)  Una  copia  è  nella  Vallicelliana;  Carte  dette.  Filza  CXXVL  10;  e 
fu  pubblicata  dal  Theiner,  Schenkung^  ecc.,  Docuol  VI,  pagg.  55-57. 
La  ripubblico  anche  io,  Docum.  I. 


LSOKE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG    265 

leDgo  Ludovisi  (1).  Alla  quale  ultima,  giuntaci  in  più  ma- 
ooscrìtti,  toccò,  fin  dai  primi  anui  del  secolo  passato,  e 
io  Germania,  l' onore  della  stampa  e  d' una  versione  la- 
tina. Ambedue  concordano  neir  ordinare,  che  della  Pala- 
tina doveva  essere  trasportata  la  parte  manoscritta  tutta, 
codici  e  carte  sciolte,  insieme  con  le  memorie  di  essa 
adatte  a  far  viaggio;  delle  opere  a  stampa,  invece,  sola- 
mente quelle  giudicate  opportune;  e  nel  raccomandare 
d'incassare  bene  e  di  far  buona  guardia  per  via,  chie- 
dendo, se  occorresse,  scorte  di  soldati.  Più  lunga  però 
dell'  altra,  contiene  l' Istruzione  del  cardinale  Ludovisi  più 
copiose  e  minute  indicazioni  sul  trasporto;  ci  dice  come 
fu  dato  all'  Allacci  l' Indice  della  Palatina  e  che  si  trovava 

(1)  La  VaUicelliana  n'ha  una  copia;  Carte  dette,  Filza  GIXVI,  9; 
ed  anche  questa  fu  pubblicata  dal  Theiner,  Schenkung  ecc.,  Docum. 
VII,  pagg.  57-63. 

Altre  copie  sono  a  Vienna,  a  Milano  e  nella  Marucelliana.  Dal  Ms. 
fieonese  la  pubblicò  molto  scorrettamente,  Federico  Wolken,  Ueber  die 
dem  AllaUut  aU  BevoUmàchtigtem  des  Papstes  Gregor  XV  zur  Ueber~ 
nakme  der  B.  Palatina  im  Jahre  i6S2  ertheilte  Instruction  (nei  Neue 
Jakrbueker  fur  Philohgie  und  Paedagogik,  pubb.  da  Seebode,  Jahn  e 
Klotz:  Supp.  voi.  V,  pagg.  5-17:  Lipsia,  1837).  DelMs.  milanese,  stato 
e  di  monsignor  Agucchia,  che  ora  si  conserva  nella  Biblioteca  del  conte 
Borromeo,  segnato  lettera  M  tom.  %  nel  quale  vi  sono  raccolte  molte 
istnuioni  date  ai  Nunzi  della  S.  Sede  presso  diverse  corti  d'Europa  », 
dava  notizia  da  Milano  (1756,  marzo  20)  Angelo  Fumagalli  a  Raffaele 
Veroazza,  mandandogli  una  trascrizione  (Carte  dette,  Filza  CLVl,  41).  Dal 
Ms.  Marucelliano,  C.  29,  sec  XVII,  fog.  108-112,  la  pubblicava  Fran- 
cesco RoEDiGER  nel  Bibliofilo,  VI  (1885),  pagg.  165-168. 

Fu  tradotta  in  latino  e  cosi  pubblicata  da  Michele  Federico  Quaoe, 
Leonii  Allatii  de  Bibliotheca  Palatina  Romam  transportanda,  quam  ex 
italico  mt.  Bibliothecae  Mayerianae  eruit  et  latine  vertit  Frìd,  Quade, 
Grvphiswaldiae,  1708,  4.®  ristampata  poi  dal  Baumgarten,  Nachrichten 
fM  einer  Hallitchen  Bibliotkek,  Halle,  1748-51,  8*;  tom.  Ili,  pag.  522; 
e  dal  Gerdes,  Miscellanea  Groningana:  Amstelodami,  1726,  8^;  tom. 
IV  pag.  5^5. 

La  ripubbUco  ancor  io;  Docum.  II. 


266  CURZIO  MAZZI 

nella  Vaticana  >;  che  per  le  prime  spese  furono  conse- 
gnate a  lui  lettere  di  credito  per  mille  scudi  da  riscuo- 
tersi in  Monaco,  e  datigli  in  mano,  per  1'  andata,  ritorno 
ed  allestimento  suoi,  scudi  cinquecento  ;  avvertendolo  an- 
cora e  che  per  camino,  e  massimamente  per  paesi  so- 
spetti, sarà  sempre  meglio  Y  andare  in  abito  corto  come 
persona  negoziante  del  dominio  veneto  >  (1). 

Che  la  pietà  del  duca  Massimiliano,  stato  già  in  altri 
tempi  uno  degli  zelanti  patrocinatori  per  la  santificazione 
d' Ignazio  di  Loyola,  di  Filippo  Neri  e  di  Teresa  di  Gesù, 
lo  conducesse  a  donare  la  Palatina,  lascia  intendere  il 
Theiner  (2).  Quanto  poi  fra  le  ragioni  del  dono  avesse 
parte,  oltre  quella  pietà,  il  desiderio  di  sdebitarsi  cosi  dei 
denari  avuti  in  prestito  dalla  Santa  Sede  per  proseguire 
la  guerra  contro  T  eresia,  ricercano,  in  principio  dei  loro 
scritti,  né  con  intendimenti  del  tutto  uguali,  il  Theiner 

(1)  Vedi  Docum.  II.  0  Theiner  che  pubblica,  Schenkung  ecc.,  Do- 
cum.  VI  e  VU,  ambedue  queste  Istruzioni  nel  loro  testo  italiano,  ma  non 
g^à  per  il  primo  (ved.  not.  1  pag.  265),  com'egli  sembra  credere,  le 
riavvicina  e  confronta:  e  Diese  zweite  Instruklion  >  quella  del  cardinale 
Ludovisi  e  erganzt  nun  alle  jene  Parlikularìtaten ,  die  Alemanni,  mehr 
»  Geleherter  als  Geschàflsmann ,  auch  wolil  anzugeben  nielli  geoignet 
•  war,  und  giebt  ausser  dcn  von  diesem  entworfenen  Verliallung^regeln 
9  noch  andere  welche  sich  auf  die  Reise  des  Alaeci  und  auf  seinc  vom 

>  heiligen  Stuhie  in  dieser  Angelegenheit  erhallenen  Auftriige  beim  Her- 
j  zog  von  Bayern  beziehen.  Ilier  ist  ihm  mit  ausserordcnllicheni  Scliar- 

>  fsinn,  mit  grosser  Erfahning  und   mit  seltener  Sachkenntnìss  jcder 

>  Schritt,  den  et  zur  Ausfuhrung  seines  Geschàfles  zu  thun  batte,  genau 
9  vorgezeichnet  ».  £  riferita  nel  testo  delia  sua  Monografìa  la  Istruzione 
dell'Alamanni  o  del  Cardinale  di  S.  Susanna,  traducendola  però  in  te- 
desco, continua:  e  Man  sieht,  dass  diese  Instruklion  mit  aller  Kennlniss 
»  eines  erfahrnen,  ernsten  und  direkt  scin  Ziel  verfolgenden  Bibliolhekars 

>  abgefdssl  ist:  die  des  Kardinal  Kàmmerers  (Ludovisi)  vereinigt  mil 
»  denselben  Vorzùgen  zugleich  die  der  Umsicht  und  Feinheit  eines  grossen 
»  Staatsmannes  >.  Schenkung  ecc.,  pagg.  6-9. 

(2)  Theiner,  Schenkung  ecc.,  pagg.  12-15. 


LEONE  ALUOCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  267 

Stesso  ed  il  Bahr ,  (1)  aggìungeDdo  quest'  ultimo  a  tali 
ragioni  le  sollecitazioni  fatte  con  i  saoi  Nunzi  dalla  Corte 
di  Roma;  e  recando  insieme  col  Wilken  (2)  in  prova  di 
antichi  desideri,  di  disegni  formati  da  lunga  mano,  quel 
Catalogo  della  Palatina  già  esistente,  come  ho  detto,  in 
Roma.  Al  quale  è  data  dal  Theiner  una  più  innocente  ori- 
gine per  opera  di  Giovanni  Giorgio  Herward  von  Hoenburg 
cancelliere  del  duca  di  Baviera  Guglielmo,  che  per  ordi- 
ne dì  lui  ed  in  servigio  della  ducale  Biblioteca  di  Monaco 
lo  compilò,  verosimilmente  nell'anno  1580;  poi  fatto  cono- 
scere dal  dotto  gesuita  Giacomo  Gretser  al  Padre  Antonio 
Possevino ,  quando ,  tra  il  1578  e  T  83,  nelle  sue  missioni 
in  Svezia,  Polonia  e  Russia,  fu  più  volte  alla  corte  bavarese, 
per  trattare  affari  importanti  della  Santa  Sede  con  i  duchi 
Alberto  e  Guglielmo  di  Baviera  ;  dal  Possevino  finalmente  in 
una  sua  opera  adoperato,  come  vedremo  (3),  per  i  codici 
greci  di  materia  sacra  ed  ecclesiastica  (e  di  soli  codici 
greci  era  probabilmente  formato),  donandolo  poi  al  pon- 
tefice Gregorio  XIII  (4).  Delle  brame  della  Santa  Sede  sulla 
Palatina  è  una  traccia,  nelle  carte  che  ho  tra  mano,  in 
una  lettera  senza  sottoscrizione,  ma  certamente  del  car- 
dinale Ludovisi,  diretta  al  cardinale  Zollerò  (Itelio  Fede- 
rico Zolleren)  con  la  quale  si  ringrazia  per  V  avviso  dato 
della  presa  di  Heidelberg,  che,  sebbene  avuto  già  da  più 
parti  e  specialmente  dal  Nunzio  di  Colonia  «  che  si  tro- 
vava con  r  Elettore  di  Magonza  »,  pure  è  stato  gradito 
allo  scrivente  ed  al  papa  per  la  maggior  certezza  che  se 


(1)  Il  Bahr  nelF  articolo  cui  dette  origine  la  monografìa  del  Theiner. 
Vedi  a  pag.  S62,  noL  1. 

{ì)  Nella  Geschichte  der  Bildung^  Beraubung  und  Vernichtung  der 
nlin*  Heidelbergischen  Biìchersammlutigen,  pag.  237.   V.  a  pag.  275. 

(3)  V.  a  pag.  276. 

(i)  TiTEiNRR,  Schenkung  ecc.,  pagg.  23-24. 


268  CURZIO  MAZZI 

ne  dà  «  col  testimonio  delle  proprie  del  Serenissimo  si- 
gnor duca  di  Baviera  ».  S'  augura  prossima  la  conquista 
delle  altre  due  piazze  del  Palatinato  «  e  tanto  più  che  H 
»  Nunzio  nostro  di  Fiandra  si  è  portato  con  molta  lode 
»  nell'  impedir  o  almeno  differir  la  sospensione  dell'  armi, 
»  trovando  vìa  da  portarne  la  risolutione  più  alla  lunga 
»  per  dar  tempo  all'  armi  di  Tilli ,  et  acciò  che  non  si 
»  effettui  il  partito  al  quale  inclinano  li  Spagnoli;  io  dico 
»  che  U  Palatino  depositi  in  mano  loro  le  nominate  piazze, 
»  con  patto  di  averlile  da  restituire  fra  un  anno  o  fatta 
»  0  non  fatta  la  pace;  nel  corso  del  quale  anno  duri  la 
»  tregua  ».  Del  felice  successo  si  congratulerà  lo  scri- 
vente con  esso  duca;  «  e  lo  ringratierò  ancora  dell' in- 
»  tentione  data  ai  nostri  Nuntij  della  Libreria  Palatina  per 
»  aggiungerla  alla  Vaticana,  in  quanto  n'  avremo  bisogno  ; 

>  si  come  dalla  Serenissima  Infanta,  se  fosse  toccato  al 
»  Cordua  di  far  quell'impresa,  ce  n'era  stato  fatto  do- 

>  no.  Ond'io  supplico  ancora  Vostra  Signoria  Illustrissi- 
»  ma  di  significare  a  Sua  Altezza  quanto  Nostro  Signore 
»  gradisca  la  sua  prontezza,  e  di  pregarla  a  farne  riuscir 
»  l'effetto;  perchè  si  manderà  quanto  prima  colà  alcuna 
»  persona  intendente  a  riconoscerla  et  a  pigliar  tutto 
»  quello  che  farà  a  proposito  per  servitio  della  Vatica- 
»  na  ».  E  s' invia  copia  delle  relazioni  venute  in  cifra  di 
trattative  passate  fra  il  Nunzio  di  Colonia  e  quello  di 
Magonza  «  in  essecutione  dell'ottimo  consiglio  di  Vostra 
Signoria  Illustrissima  ».  Tale  lettera  è  datata  dalla  villeg- 
giatura «  di  Frascati,  li  7  di  ottobre  1622  »  (1),  pochi  giorni 
prima  che  la  «  persona  intendente  »,  che  poi  fu  Leone 
Allacci,  partisse  da  Roma  per  andare  a  prendere  la  Pa- 
latina. 


(1)  Ms.  cil.  B.  38,  e.  -243-244  (copia). 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  269 

Ma  il  Tiaggio  comiDciava  con  auspicii  poco  lieti:  poiché 
nel  passare  per  Firenze  (dove  più  tardi  ebbe  l'Allacci 
corrìspoDdenza  col  Magliabechi  e  col  cardinale  Leopoldo 
dei  Medici  (1)),  quattro  soli  giorni  dopo  la  partenza  di 
Roma  e  il  di  di  tatti  li  santi  a  buonissima  bora  >  cosi 
egli  scrive,  e  il  cavallo  del  mio  servitore  cadette  di  tutti 
qaatro  i  piedi  in  un  subito,  che  non  potè  esser  agiu- 
tato  e  colse  sotto  il  servitore:  dove,  per  Dio  gratia, 
(dove  di  raggione  doveva  esser  tutto  fracassato)  non 
hebbe  altro  male  so  non  che  se  li  smosse  un  piede; 
il  quale,  per  rimetterlo  a  suo  luogho  è  stato  di  bisogno 
che  s'andasse  cercando  per  queste  case  sperse  del 
stato  fiorentino  un  certo  tale  che  era  unico  a  simil 
efetto;  si  trovò  e  accomodò  la  gamba  in  tanto  che 
detto  servitore,  se  bene  non  può  fermar  il  piede  in 
terra,  non  sente  però  quello  eccessivo  spasimo  che 
sentiva  il  primo  di.  Spero  in  Dio  che  si  sanarà  presto  > . 
Più,  egli  prosegue,  oravi  sospetto  di  strade  mal  sicure* 
Da  Firenzuola  a  Bologna,  s'  era  sparso  fama  che  le 
strade  non  erano  nette  e  che  s' era  rubato  ;  e  cosi  m' è 
convenuto  passarsi  in  compagnia  >;  ma  non  fu  altro 
oltre  il  sospetto:  sicché  e  mercordi  sera,  gionto  a  Bolo- 
gna anchor  che  tardi ,  e  le  porte  fossero  serrate ,  per 
non  perder  tempo,  havuta  licenza  dai  superiori,  m'im- 
barcai nel  canale  per  Ferrara,  dove  credevo  esserci  al 
far  del  di;  ma  il  vento  cosi  impetuoso  e  la  pioggia 
tanto  crudele  hanno  impedito  che  io  anchora  a  que- 
st'  bora ,  dicissette ,  mi  trovi  in  detto  canale ,  d' onde 
scrivo  >:  mentre  sollecita  per  essere  a  Venezia  do- 
menica, se  sarà  possibile.  Il  viaggio,  conchiude,  è  stato 
fin  qui  un  po' disastroso  per  le  strade  cattive,  i  venti, 

(1)  Vedi  la  Notizia  citata  (pag.  262,  not.  2)  dell'Epistolario  del- 
l' Allacci. 


270  CURZIO  MAZZI 

le  pioggìe  coQtìDue  e  le  nevi  nei  mooti  :  ma  tatto  questo 
non  ha  impedito  il  cammino  da  continuarsi  allegramente 
senza  che  altro  lo  interrompa  più;  e  ne  darà  notizia  di 
luogo  in  luogo  secondo  si  desidera  (1). 

Dopo  questa,  le  lettere  dell'Allacci  immediatamente 
successive,  delle  quali  ci  ha  conservato  le  minute,  sono 
da  Monaco,  ai  30  novembre  :  onde  sul  passaggio  da  Fer- 
rara e  Venezia,  ove  conferì  col  Nunzio  per  averne  aiuti 
al  ritomo,  e  del  viaggio  fino  in  Baviera, conosciamo  so- 
lamente quel  poco  che  ne  dice  nella  Relazione.  Al  car- 
dinale Ludovisi  scriveva  :  e  Alli  26  di  novembre  sono  ar- 

>  rivato  a  Monacho,  dove  risiede  il  signor  duca   di  Ba- 

>  viera;  non  ho  possuto  più  presto  perché  le  vie  sono 

>  cosi  guaste  e  minate  che  quello  camino  che  altre  volte 

>  si  faceva  in  un  di  è  bisognato  si  facesse  a  pena  in  doi, 
»  col  caminarci  appresso  (per  di  più)  di  notte  :  con  la 
»  Iddio  gratia  sono  sano  e  salvo  >.  Il  primo  giorno  di 
decembre,  ammesso  all'udienza  del  duca,  gli  presentò  il 
Breve  di  Sua  Santità,  mostrandogli  anche  a  parole,  nel 
modo  che  seppe  migliore,  quanto  grato  e  benevolo  verso 
di  lui  fosse  il  paterno  animo  di  Sua  Santità  ;  porgendogli 
poi  la  lettera  di  esso  cardinale  Ludovisi,  gli  spiegò  con 
quale  affetto  e  con  quale  ammirazione  per  il  suo  valore 
fosse  scritta:  e  Sua  Altezza  «  con  gesti  e  con  parole  > 
rispose  e  «  mostrò  d'  aggradire  ogni   cosa,  dicendo  che 

>  ancora  non  cognosceva  d' haver  servito  quella  Sedia 
»  secondo   la   sua   volontà    e   debito,  e  particolarmente 

>  Nostro  Signore  Gregorio  XV,  al  quale  vorrebbe  che  se 
1»  li  offerisse  occasione  di  farli  cosa  grata  e  mostrarli  la 
»  sua  devotione,  al  quale  si  ricognosce  in  molte  maniere 

(1)  Lettera  (1622,  novembre  3)  dell*  Allacci,  dal  Canale  di  Bologna, 
senza  indirizzo;  ma  certamente  o  al  card.  Ludovisi  o  al  card,  di  S.  Su- 
sanna. Ms.  cit.  B.  38,  e.  253'  (minuta  autogr.). 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG    271 

>  obbligato,  si  come  aDcho  a  V.  S.  III."'*;  ma  li  dispia- 

>  ceva  bene,  che  questa  Bìbliotheca  non  corrispoDdesse 

>  all'  aspettatione  che  di  quella  si  tiene  in  Roma  et  al 
»  suo  desiderio  che  vorrebbe  che  fosse  molto  più,  e  che 

>  da  canto  suo  non  solo  in  questo  ma  in  ogni  altra  cosa 

>  haverebbe  cercato  di  dar  gusto  e  sodisfattione  a  Nostro 

>  Signore;  e  cosi  darebbe  gli  ordini  necessari]  ».  E  gli 
ordini  furono  che,  essendo  il  paese  deserto  e  le  strade 
perigliose,  T  Allacci  ne  tenesse  una  e  fuor  di  mano,  la 
quale  pare  più  sicura  si  come  è  più  lunga  >;  e  a  lui 
dette  patente  si  come  viaggiasse  per  servizio  deir  Altezza 
Sua  e  non  d' altri  affinché  da  tutti  avesse  aiuti  ;  e  dissegli 
ancora  e  che  bisognava  sbrigarsi  presto,  perché  T  Infanta 
»  ha  ve  va  dato  parola  al  Palatino  di  restituirli  la  sua  re- 

>  sidenza  d'Idelberga,  il  che,  quando  avvenisse,  non  si 
»  potria  più  sperare  di  levar  libri  >.  Al  qual  desiderio, 
che  la  Biblioteca  si  conduca  sollecitamente,  l'Allacci  si 
disse  prontissimo:  e  In  tanto,  per  una  certa  commodità 

>  che  era  offerta  a  Sua  Altezza  di  non  so  che  cariaggi 

>  da  Idelberga,  ha  fatto  venir  alcuni  pezzi  di  libri  manu- 

>  scrìtti  greci  e  latini  che  si  servavano  fuor  della  libraria 
»  in  una  capella  e  già  me  l'ha  fatti  vedere  e  stanno  a 
»  mia  requisitione  :  li  codici  latini  manuscritti  sono  al 
»  numero  di  cento  ed  uno,  li  greci  settanta  tre  :  alli  quali 

>  si  unirà  il  resto,  che  si  dice  che  sono  assaissimi  e  quasi 
»  incredibile  il  numero  ».  Della  spesa  per  la  condotta, 
non  può  dir  niente  per  anco;  ed  i  mille  talleri  o  scudi 
non  potrà  ritirarli  in  Heidelberg,  poiché  i  mercatanti 
dì  Monaco  ai  quali  è  diretta  la  polizza  non  hanno  corri- 
spondenti là:  ond'egli  non  li  riscuote,  temendo  di  por- 
tarti seco;  e  piuttosto  cercherà  se  potrà  farseli  pagare  per 
mezzo  d' alcuno  dell'  esercito.  Del  viaggio  avranno  cura 
in  Germania  quei  signori,  dal  confino  a  Roma  seguirà  le 
risoluzioni   che  il  cardinale   Ludovisi  gli  farà   conoscere 


272  CURZIO  MAZZI 

per  parte  del  Nunzio  di  Venezia  (1).  Questi  codici,  che 
trovò  già  trasportati  da  Heidelberg  io  Monaco  e  welche 

>  bei  der  fùrstlìchen  Bibliotheca  zu  Miinchen  nit  vorban- 

>  den   vnd  von  Heibelberg  dahin  transferìert   worden 

>  A.""  1622  » ,  come  ha  il  loro  Catalogo  (2)  compilato  al 
tempo  di  questo  trasporto,  furono  dall' Allacci  consegnati 
ad  Isaia  Leucber,  bibliotecario  del  duca  in  Monaco  ;  e  di 
questi  scrìveva,  nello  stesso  giorno  30  novembre  al  car- 
dinale di  S.  Susanna,  mentre  ripetevagli  molte  cose  dette 
già  al  Ludovisi  :  e  L' Indice  delli  libri  non  se  li  può  man- 

>  dare  j9^r  extensum;  potrà  haverne  notitia,se  ordinerà  che 

>  si  conferisca  il  numero  che  io  mando  ;  perché  nell'  Indice 

>  che  ho  lasciato  in  poter  suo  si  truoverà  ogni  cosa  di- 
»  chiarata  »;  cioè  i  titoli  e  gli  scrìtti  di  questi  codici,  sui 
quali  egli  aveva  per  i  primi  poste  le  mani,  apparireb- 
bero chiaramente  ricercandoli  in  quel  Catalogo  della  Pa« 
latina,  che  già  vedemmo  esistente  in  Vaticana,  anche  se- 
guendo i  soli  numerì  che  li  designano  nella  lettera  pre- 
sente: nella  quale  conferma  che  <  le  spese  sono  ecces- 
sive e  tanto  che  paiono  incredibili  >,  che  i  mille  talleri 
non  potrà  riscuoterli  in  Heidelberg,  né  vuol  portarli  da 
Monaco  seco  perché  €  sarebbe  come  buttarìi,  tanto  è 
perverso  il  camino  che  mi  rimane  i»;  e,  mandando  i  rin- 
graziamenti dei  fratelli  Gìgli,  avvisa  come  in  quel  giorno 
medesimo  parte  per  Heidelberg:  viaggio  difficile  e  peri- 
glioso, da  tenere  in  pensiero  il  duca  ancora,  e  che  forse 
per  questo  s' allungherà  in  più  giornate  (3).  Il  duca  stesso, 

(1)  Lettera  {\6^%  novembre  30)  dell'Allacci,  da  Monaco,  al  card. 
Ludovico  Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  253* -254'  (minuta  autogr.). 

(2)  Nel  Ms.  cit.  B.  38,  a  e.  128'-129t  e  136'-137i  due  esemplari 
originali  di  questo  Catalogo  pubblicato  dal  Theiner,  Schenkung  ecc. 
Docum.  XXIV,  pagg.  81-87.  Ripubblicato  anche  da  me,  Docum.  IH. 

(3)  Lettera  (1622,  novembre  30)  dell'Allacci,  da  Monaco,  al  card, 
di  S.  Susanna.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  245'  (minuta  autog.).  —  La  lista  dei 


LEONE  ALLAOCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERO    273 

con  sua  lettera  dei  29  Dovembre,  l'aveva  inviato  e  rac- 
comandato al  vescovo  di  Eicbstadt  ed  al  Capitolo  del 
daomo  di  Wiìrzbarg  (1),  per  i  quali  laoghi  egli  doveva 
passare;  ed  ordinava  che,  lasciandolo  viaggiare  libera- 
mente, fosserglì  somministrati  i  cavalli  al  prezzo  usuale  (2). 
e  Secondo  V  ordine  et  indirizzo  del  signor  duca  di 

>  Baviera  ho  cercato  d' arrivare  nel  campo  delti  soldati 

>  che  servono  al  signor  conte  De  Tilli,  che  altrimente 
»  saria  stato  impossibile  senza  dar  in  mano  d'inimici  o 

>  d'assassini:  il  che  è  stato  anchora  difiBcilissimo  per  la 
»  penuria  che  vi  è  d' ogni  cosa  ;  poiché  in  questo  viag- 
»  gio,  vicino  ad  Idelberga  non  c'è  pane,  non  vino,  non 

>  cavalli,  non  altra  commodità  ;  mancho  d' andare  a  piedi 

>  per  la  malagevolezza  della  strada  > .  Cosi  in  una  lettera 
al  Cardinale  Ludovisi  descrìve  il  viaggio  suo  da  Monaco 
verso  Heidelberg  l'Allacci,  che  seguita  dicendo  come,  ar- 
rivato nel  campo,  non  era  nuova  certa  dove  il  conte  fos- 


Dumerì  con  i  quali  erano  contrassegnati  i  codici  della  Palatina  di  Hei- 
delberg, che  r  Allacci  trovò  già  trasportati  in  Monaco,  manca  nella  mi- 
Dilla;  e  dovette  essere  in  una  carta  a  parte.  —  Dei  due  Gigli  cosi  scrì- 
veva in  questa  lettera  stessa:  e  II  signor  Aurelio  Gigli  ringratia  assais- 
•  Simo  Vostra  Signoria  Illustrìssima  dal  favore  che  riceve  il  signor  Vit- 
1  torìo  suo  fratello,  per  mezzo  di  Sua  Signoria  Illustrìssima,  da  Nostro 
»  Signore,  e  li  vive  aflezionatissimo  servitore  >.  Qual  fosse  tal  favore 
non  apparisce;  né  credo  si  alluda  qui  ai  doni  dall' Allacci  recati  e  pre- 
sentati più  tardi  al  segretario  del  generale  e  conte  Giovanni  De  Tilly, 
Vittorìo  Gigli;  del  quale  il  fratello  Aurelio,  mercatante  e  banchiere,  ri- 
sedeva io  Hatisbona.  Ambedue  ebbero  molto  a  trattare  con  l' Allacci,  in 
questo  negozio  del  trasporto  della  Palatina,  anche  per  la  trasmissione  dei 
denari  inviati  da  Roma. 

(i)  L'originale  di  questa  lettera,  e  datum  in  vnserer  Stalt  MQnchen  », 
del  duca  Massimiliano  é  nel  Ms.  ciL  B.  38,  e.  138'';  e  fu  pubblicata  dal 
Theiner,  Schenkung  ecc.,  pag.  18,  in  nota. 

if)  Anche  T originale  di  quest'Ordine,  dato  nello  stesso  giorno  20 
novembre  1622,  é  nel  Ms.  cit.  B.  38,  e.  122. 


274  CUBZIO  MAZZI 

se,  se  in  Vormazia,  io  FraDConia  o  altrove:  onde  pana- 
gli per  la  migliore  d' andare  in  Heidelberg  e  di  là,  con 
Inaiato  dei  suoi,  raggiungerlo:  ma  ivi,  tanto  il  governa- 
tore Enrico  di  Mettemich,  e  che  è  il  Decano  della  città 
di  Vinfen  >,  e  quanto  il  segretario  »  del  conte,  e  cava- 
lier  Vittorio  Gigli  > ,  per  la  diflBcoltà  di  trovare  esso  con- 
te, lo  consigliarono  di  fermarsi  in  Heidelberg  aspettan- 
dolo; e  intanto  gli  consegnarono  le  chiavi:  ed  in  questo 
modo  egli  pose  piede  per  la  prima  volta  nella  Palatina  (1). 
Della  quale  non  intendo  rifare  la  storia,  né  potrei  adequa- 
mente,  contentandomi  di  ricordarne  alcuni  punti  principali. 
Erano  ad  essa  venuti  in  dono  i  codici  del  vescovo  Lamberto 
Brum  (2)  ;  nel  1431 ,  quelli  deir  Elettore  Luigi  (3)  ;  nel 
1584,  altri  di  Ulrico  Fugger  (4);  l'Elettore  Federico  V 
avea  disposto  nell'ottobre  del  1621  che  le  fosse  asse- 
gnata ,  come  già  all'  archivio  di  famiglia ,  una  sede  più 
sicura  dai  pericoli  della  guerra  (5);  ed  in  vero  nel  giu- 
gno dell'  anno  successivo  erano  stati  riparati  altrove  tutti 


(1)  Leltera  (1622,  decembre  23)  dell' Allacci ,  da  Heidelberg,  al 
card.  Ludovisi.  Ms.  cil.  B.  38,  e.  247^-^  (minuta  autogr.);  Theiner,  Schen- 
kung  ecc.,  pagg.  63-64. 

(2)  Heller  J.  Zur  Geschichie  der  Heidelberger  Bihliothek  (Sera- 
peum,  VI.  Jahrg.  (1845),  pagg.  251-253. 

(3)  Catalogtis  librorum  quos  dono  dtdit  Elector  Aloysius  Palatiaae 
(ii^i)  ( Commentationes  Societatis  Theodoro-Palatinae  :  lom.  I,  pagg. 
406-420). 

(4)  HOFFMANN  F.  L.  Ueber  ein  ìnventarium  der  Bihliothek  Ulrich 
Fugger  's  vom  Jahre  i51i  (Serapeum,  IX  Jahi^.  (1848),  pagg.  289- 
300^  305-309. 

(5)  U  Rescritto  dell'Elettore  Federìgo  al  suo  Cancelliere  Giovanni 
Cristoforo  von  der  Gnìn  ed  ai  Consiglieri  di  Heidelberg,  e  datum  aus 
Grauenhagen  den  Vis  octobrisÀ^  1621  »,  e  la  risposta  del  Cancelliere  e  del 
Consiglio,  €  datum  Haidelberg  den  26  ocL  A''  1621  »,  stanno,  nel  loro 
testo  tedesco,  nel  Ms.  cit.  B.  38,  e.  66r-t  :  e  furono  pubblicati  dal  Thelnek, 
Schenkwig  ecc.,  pagg.  4^,  in  nota. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  275 

i  codici  Fnggeriani,  ed  altri  non  pochi  (1)  per  ordine  del 
Cancelliere  Griin.  Del  resto  quella  storia  fu  narrata  com- 
piutamente dal  Wilken  (2),  con  minore  larghezza  dal 
Fridrich  (3),  e  dal  Wundt  (4)  ;  ed  in  speciali  periodi  il- 
lustrata, 0  pubblicando  singoli  documenti  confermata  (oltre 
che  dal  Theiner,  dal  Gessert,  dal  Bàhr,  dal  Quade,  dal- 
l' Heller,  e  dall'  Hoffmann,  già  ricordati),  ancora  dair  Hof- 
fmann  (5),  dal  Lebrecht  (6),  dal  Mone  (7),  dal  Ruland 


(1)  Di  questi  Godici  il  Catalogo,  nell' originale  tedesco  e  in  una  co- 
pia latina  sincrona,  é  nel  Ms.  ciL  B.  38,  e.  106'- 107^,  e  fu  pubblicato 
da!  Theiner,  Schenkung  ecc.,  pagg.  77-78,  Docum.  XXII:  io  lo  ripubblico 
nel  Documento  IV. 

(2)  WiLKEN  Federigo,  Geschkhte  der  Bildung  Beraubung  und 
Vemickiung  der  alien  Heidelhergischen  Biichersammlungen,  Ein  Bey- 
trag,  zur  LtieràrgescMchte  vornehmlich  des  funfzehnten  und  sechszehn- 
ten  Jahrkunderts.  Nebst  einem  meist  beschreibenden  Verzeichniss  der  im 
Jakr  Ì8i6  vom  dem  Pabst  Piu$  VII  der  Universitàt  Heidelberg  zu- 
rwckgegeben  Handschrìften  und  einigen  Schriftproben.  —  Heidelberg, 
Aug.  Oswald,  1817.  12":  con  2  tav. 

(3)  Friedrich  A.,  Geschicht  der  nach  Rom  entfuhrten  Heidelberger 
BilAioihek,  —  Karlsruhe,  1716.  8* 

(i)  Wundt  C.  C,  Programma  de  celeberrima  quondam  Bibliotheca 
Heidelbergensi.  —  Heidelbergae,  1776.  4" 

(5)  IIOFFNANN  Federico  Lorenzo,  Ein  Verzeichniss  von  Handschri- 
fien  der  ckemaligen  Heidelberger  Bibliolhek  {Serapeum,  Jahrg.  XI,  pagg. 
161-173,  177-188,  193-202). 

(6)  Lebrecht  F.,  Zur  Geschichte  der  Heidelberger  Handschrifien 
in  Rom  fyeuer  Anzeiger  fiir  Bibliogr.  u.  Bibliothekw.,  Jahrg.  1862, 
N.  856,  pagg.  365-370).  Estratto  dall'opera,  dello  stesso  autore  Han- 
dschrifien underste  Ausgaben  des  Babylonischen  Talmud.  Abth.I:  Handsch, 
(Berlin,  Rosenthai  und  Co.,  1862,  8^)  ( Wissenschaftlicher  Blàtter  aus 
fler  VnUl  Ephraim  'schen  Lehranstalt  in  Berlin.) 

(7)  Mo.VE  F.  1.,  Zur  Geschicte  der  Heidelberger  Bibliotheken  (ZeiU 
xhrifì  fiir  die  Geschichte  des  Oberrheins,  Bd.  XIV.  lift  2.  (Karlsruhe, 
Braufi,  pagg.  I'i2-li8). 


276  CURZIO  MAZZI 

(1),  da  un  anonimo  (2) ,  e  da  altri  che  vedremo  in  se- 
guito, più  opportunamente  (3):  né  vuoisi  tacere  che  quando 
l' inviato  dei  papa  si  presentò  a  prenderne  possesso,  già  i 
dotti  italiani  avevano  conoscenza,  per  opera  d'un  erudito 
italiano,  Antonio  Possevino  (4),  dei  manoscritti  greci  di 
cose  sacre  ed  ecclesiastiche  in  essa  Palatina  conservati. 
Ma  lasciamo  di  nuovo  parlare  TÀllacci,  che,  nella  mede- 
sima lettera  sopra  ricordata  prosegue:  <  E  cosi,  entrato 

>  dentro,  rimasi  alla  prima  quasi  perso  per  la  quantità  delli 

>  libri  e  numero  loro  che  pare  infinito  »  :  ed  anche  descri- 
vendola più  ampiamente,  specie  rispetto  agli  stampati: 
<  Essa  è  grandissima,  e  vasta  di  vaso,  piena  di  scanzie 
»  e  di  libri,  se  bene  con  poco  ordine;  e  chi  la  volesse 
»  condurre  intiera,  non  basterieno  cinquecento  carri;  e  la 

>  condotta  sarebbe  superflua,  per  esser  trenta  e  quaranta 
»  volte  r  istesso  libro  stampato  neir  istesso  luogho,  tem- 
»  pò  e  forma:  che  certo  non  posso  imaginarmi  a  che 
»  efifetto  si  facesse  una  simil  raccolta.  É  vero  che  di  un 
»  auttore  ristesse  opere  sono  stampate  in  varij  luoghi 
»  et  anni  e  da  diversi  stampatori,  e  sarebbe  cosa  cnrio- 
»  sa  r  haver  in  una  libreria  insieme  unite  tutte  V  impres- 
»  sioni  d' uno  auttore  ;  ma  V  haverle  a  condurre   da  Hi- 

>  delberga  a  Roma,  non  riesce  né  la  spesa  né  la  fatica. 


(i)  R ULANO  Antonio,  Zur  Geschichte  der  cdten  nack  Rom  entfùhrten 
Biblìothek  zu  Heidelberg  (Serapeum^  Jahrg.  XVII,  pagg.  185-191.  193- 
224,  225-235). 

(2)  Zur  Geschichte  der  Heidelberger  Bibliotkeca  Palatina  (Augsburge 
Allgemeine  Zeiiung.  Beilage  zu  Nr.  30,  pagg.  <i37-i39,  Nr.  31,  pagg. 
Ì47-Ì48, 

(3)  Vedi  nelle  ultime  pagine. 

(4)  Heidelbergensis  Bibliotkecae  auctorum  graece  manoscriptorum , 
qui  ad  re^  sacras  et  ecclesiasticas  periinent,  Catalogus.  A  pagg.  92-125 
deir Appendice  al  tom.  lU  neir  opera  Apparatus  Sacri  (Veoeliis,  apud 
Societalem  Venelam,  MDCVI.  Voli.  3,  fog.) 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG    277 

E  di  questi  libri,  si  come  non  vi  era  ordine,  cosi  an- 
cbora  non  era  Indice  che  mostrasse  il  tutto  ;  ed  il  vo- 
lerli confrontare  sarebbe  faticha  di  più  e  più  mesi; 
cosi  scielgo  il  meglio,  e  quello  che  non  mi  pare  a  pro- 
posito lo  lascio:  tanto  più, che  la  metà  di  detta  libre- 
rìa contiene  in  sé  tutto  libri  d'  heretici  e  loro  seguaci , 
e  che  dianzi  molti  havevano  facoltà  di  levare  libri  a 
gusto  loro  ;  se  bene  non  credo  che  manchino  molti  de' 
manoscrìtti  >  (1).  Pur  tale  abbondanza  non  lo  smarrì, 
né  lo  trattenne  dal  dare  le  prìme  cure  ai  codici.  «  Con 
tutto  ciò  »,  egli  continua  a  scrìvere  al  Ludovisi,  e  senza 

>  perdervi  tempo,  considerando  che  nel  portar  li  libri 

>  era  più  di  bisogno  poco  peso  e  solecitudine  che  altro, 
»  mi  diedi  a  rìcognoscere  li  libri  scritti  a  mano  di  varìe 

>  lingue  ;  e  vedendo  che  le  coperte  di  tavola  erano  gros- 
»  se  e,  per  li  ferrì  aggiunti ,  di  peso  grandissimo ,  non 

>  senza  qualche  faticha,  ho  levato  quelle  coperte  che  non 

(1)  Lettera  (4622,  decembre  23)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
LodofisL  Ms.  dt  B.  38,  e.  257t-2i8'  (minuta  autogr.);  Theiner,  Schen- 
kung  ecc.,  pagg.  64  e  65.  —  E  forse  nello  stesso  giorno  23  decembre 
(U  nÙDuta  é  sema  data),  scrifendo  al  card,  di  S.  Susanna,  diceva  degli 
stampati  della  Palatina,  e  Chi  la  potesse  aver  tutta  in  Roma  come  sta, 
t  sarebbe  certo  cosa  nominatissima  e  di  gran  gloria,  per  esser  d' uno 
•  (<fc)  e  deIl*istesso  auttore  tutte  F  impressioni  in  varie  forme,  luoghi, 
»  hngue,  che  sino  adesso  insiano  state  date  in  luce,  se  bene  equa  (sic) 
>  sono  deU*istessa  impressione,  forma  et  anno,  alle  vuolte  trenta  e  qua- 
»  ranta  codici  legati  in  un'istessa  maniera,  che  manche  li  Hbrari  che 
i  vendono  Ubrì  ne  tengono  tanti  » .  Onde,  scelto  il  meglio  degU  stampati , 
000  potendo,  per  il  timore  della  imminente  restituzione  di  Heidelberg  al 
Palatino,  scegliere  egualmente  i  codici,  né  essendovi  e  Indice  che  possi 
mostrar  l'ordine  o  il  contenuto  »,  li  ha  presi  tutti  quanti,  numerando  i 
btini  in  altra  serie  dai  greci  «  poiché  non  havevano  tutti  numero  parli- 
Gobre  >  :  e  cosi  U  ha  già  incassati  tutti  di  qualsivoglia  lingua,  soltanto 
levando  le  tavole  e  i  ferri  (  e  né  a  Roma  bisognavano  tanti  legni  »  ;  aveva 
scrìtto  e  poi  cancellò),  in  61  casse.  Ms.  cit  B.  38,  e.  248^  (minuta  autog.); 
Carte  Albcci,  Filza  CLIU,  1 1  (copia). 

VoL  IV,  Parte  I  18 


278  CURZIO  MAZZI 

n  mi  parevano  di  molto  conto;  e  cosi  ordinati,  postili 

»  nelle  casse  per  questo  effetto  accomodate.  E  già  ho 

»  piene  di  libri  manuscritti  casse  sessanta  una,  che  sa- 

ì>  ranno  appresso  pezzi  tre  milla  :  e  poi  ho  cominciato  a 

»  scegliere  gli  stampati,  fra'  quali  non  mancherà  cosa  da 

>  portarsi  a  Roma  »  (1).  Se  non  che,  dopo  quel  primo 
stupore  destato  dalla  ricchezza  della  Biblioteca,  diminuì  la 
meraviglia  in  lui  avvezzo  ai  tesori  della  Vaticana  :  onde  in 
una  lettera  air  Alemanni  dà  questo  giudizio  della  Palatina 
e  dell'  ordinamento  suo  :  «  E  per  sua  sodisfattione  deve 

>  sapere  che  questa  celebratissima  bibliotheca  non  mi 
»  riesce  né  secondo  la  fama  né  secondo  il  credito  che 

>  di  lei  da  tutti  s' era  conceputo  :  e  questo  non  per  de- 
»  fetto  di  libri,  che  abondano  d'ogni  sorta  in  ogni  ma- 
»  teria,  ma  per  la  pocha  cura  di  quelli  che  (ne)  hanno 
»  tenuto  cura,  e  negligenza  manifesta  di  bibliothecarij , 
»  che  in  tanto  tempo  non  sono  stati  da  tanto  di  formar 
ì>  un  Indice  et  ordinar  questi  libri;  né  parlo  adesso  delli 
»  stampati,  dove  pare  che  la  colpa  sia  meno,  ma  de' 
K»  manuscritti  e  principalmente  greci  e  latini,  già  che  in 
»  essa  (Biblioteca)  non  se  ne  può  bavere  una  metrica 
D  notizia  d' essi  ;  né  mancho  V  huomo  puoi  bavere  questa 
»  sodisfattione  di  saper  quale  sia  il  loro  numero;  ma 
»  ogni  cosa  si  sia  maneggiata  alla  cieca.  Io  equa  dentro 
ì>  insin  bora  non  ho  possuto  trovar  Indice  che  mi  gui- 
jt  dasse  a  cosa  ferma,  se  non  delli  greci,  delti  quali  io 
»  già  ne  portavo  uno  da  Roma,  dove  minutissimamente 
i>  metteva  il  loro  numero  e  li  trattati  che  in  essi  si  con' 
»  tenevano;  quale  me  1'  ho  trovato  fìdelissimo  a  Monacho 


(1)  Lettera  (1622,  decembre  23)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  car- 
din.  Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  217^  (minuta  autogr.);  Theiner,  Schenkung 
ecc.  pag.  64. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG    279 

dove  m' è  occorso  confrontarne  alcuni  (1).  Il  pigliarne 
al  presente  nuovo  Indice,  e  voler  riveder  e  confrontare, 
saria  dì  troppo  lunga  consideratione  e  maneggio;  et 
io  ho  pressa  di  partirmi,  e  portar  meco  quello  che 
si  può  portare,  il  resto  lasciarlo.  E  cosi  ho  segnato  li 
libri  greci  manuscritti  col  loro  numero,  li  latini  con 
uno  nuovo,  accominciando  da  uno,  doi,  e  cosi  segui- 
tando insino  che  duravano;  e  questo  numero  servirà 
per  Indice:  e  cosi  segnati,  Tho  già  incassati.  A  Roma 
poi,  se  Dio  vorrà,  con  maggior  cura  si  farà  il  loro  In- 
dice e  si  ricognosceranno  ;  perché  equa  non  vi  è  tempo 
da  perdere,  intanto  che  a  me  solo  conviene  far  ogni 
cosa,  per  esseme  carestia  del  tutto.  Non  ha  dubio  che 
babbino  da  manchar  parechi ,  poiché ,  come  io  truovo 
per  ricevute,  molti  erano  dati  fuori  a  questo  et  a 
quello,  e  molti  il  bibliothecario  se  n'haveva  portati  in 
casa;  li  quali  non  si  potranno  ricuperare:  li  primi,  per- 
ché non  si  truovano  quelle  persone,  ma  son  anchora 
loro  svaniti  col  Palatino;  li  secondi,  perché  quando  fu 
presa  Hidelberga ,  li  soldati  posero  sossopra  ogni  cosa 
in  casa  del  Grutero ,  e  parte  ne  buttorno  in  strada , 
parte  stracciorno,  parte  n'  abbrusciorno.  E  per  dir 
quel  che  sento,  io  non  credo  che  delli  manuscritti 
manchi  gran  quantità  ;  che  delli  stampati  non  mi  si  dà 
noia.  Vorrei  poter  haver  V  Indice  pronto,  per  poterglielo 
mandare  ;  ma  non  posso  mandare  quel  che  non  ho.  Se 
pur  V.  S.  Ill.ma  però  delli  libri  manuscritti  greci  vuole 
più  esatta  cognitione,  potrà  legere  F  Indice  di  questa 


(1)  Quelli  dal  duca  di  Baviera  fatti  già  trasportare  da  Heidelberg  in 
Monaco,  e  qui  mostrati  airAllaecì  al  suo  primo  presentarglisi.  Vedi  a 
pa^'.  ^71.  Questo  passo  conferma  che  il  Catalogo  della  Palatina  di  Heidel- 
tier^%  esistente  in  Vaticana  e  dato  ali* Allacci  nel  suo  partire  da  Roma, 
<x>mpreiideva  soltanto  i  codici  greci.  Vedi  a  pag.  265-267. 


280  CURZIO  MAZZI 

>  Bibliotecba  stampato  dal  Possevino,  il  quale  pocho  o 

>  niente  dififerìsce  dall'  Indice  di  questa  Bibliotheca  >  (1). 
In  questo  tempo  il  conte  De  Tilly  rispose  per  lettera  alle 
sollecitazioni  deirAUacci,  che  attendesse  in  Heidelberg  a 
mettere  in  ordine  i  libri,  e  comandò  ai  suoi  ministri  di 
soccorrerlo,  come  ce  n'era  bisogno,  poiché,  egli  racconta: 

É  cosa  da  non  credere  che  in  questa  dttà  cosi  fiorita 
altre  vuolte,  bora,  per  la  guerra,  non  si  truovi  cosa  nis- 
suna:  e  prima  si  durò  faticba  di  truovar  li  maestri,  li  quali 
0  non  intendevano  o  non  volevano  intendere  il  far 
delle  casse  a  modo  che  potessero  due  dì  loro  esser 
peso  sujQQciente  a  un  mulo,  perchè  equa  caricano  in 
altra  maniera.  Procurati  li  maestri,  non  ci  erano  ta- 
vole; onde  bisogno  che  si  pigliassero  le  scantie  della 
Libreria  :  le  quali  non  bastando ,  il  sig.  Decano  (2) 
diede  delle  tavole  che  nel  castello  servivano  per  fodre 
delle  camere  del  Palatino.  Fatte  le  casse,  non  e'  è  né 
pece  né  canavazzo  ne  corde  per  complir  di  saldar  le 
casse.  Si  mandò  a  Francoforti  alcuni  cittadini  acciò  faces- 
sero la  provisione  ;  furono  presi  da  quelli  di  Fracandal 
(Frankental)  e  posti  carcerati;  le  dopo  averli  spogliati  di 
denari  che  arrecavano,  vicino  a  quindici  milla  talleri  (3), 
ed  ogni  altra  cosa,  con  gran  difQcoltà  li  lasciomo  an- 


(1)  Lettera  (16^,  decembre  23)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  probabil- 
mente all'Alamanni.  Ms.  ciL  B.  38,  e.  255''-^  (minuta  autogr.  e  senza  nome 
della  persona  cui  fu  diretta);  Theiner,    Schenkung  ecc.,  pagg.  21-22. 

Che  nella  Palatina  non  fossero  Indici  e  Cataloghi  é  negato  dal  Bahr 
nella  sua  recensione  della  monografia  del  Theiner;  e  da  altri  che  scrìs- 
sero di  quella  Bibliotaca. 

(2)  11  Decano  di  Winfen  e  Governatore  d'Heidelberg,  cioè  il  prìncipe 
Enrìco  di  Metternich. 

(3)  Questi  denarì  son  troppi  per  la  provviste  di  canavaccio,  di  pece 
e  di  corde  :  dovettero  in  gran  parte  esser  loro  proprìi  di  questi  cittadini, 
forse  mercatanti  che  andavano  a  Francofone  ancora  per  loro  traffici. 


LBONE  ALLAOCI  S  LA  PALATINA  DI  HEIBELBERO    281 

»  dare:  e  però  dì  nuovo,  già  che  quella  vìa  era  inter- 
»  celta,  si  mandò  a  Spira;  ma  ivi  non  si  trovò  tanto 
I  canavazzo  che  potesse  bastare  a  quaranta  casse:  però  di 
»  nuovo  si  mando  a  Yuorm  (Worms)  anchora  non  son  tor- 
»  nati.  Insino  il  canape  per  far  le  corde  s' è  mandato  a 
»  pigliar  di  fuori.  Siamo  ridotti  a  tale,  che  non  vi  è  se 
t  non  un  aco  grosso  che  chiamano  sacorafe  (?)  ;  né  s' è 
»  possuto  aver  più  in  tutta  questa  città ,  per  cucir  (1)  il 

>  canavazzo  sopra  le  casse  (2).  »  Nel  fare  le  quali  casse 
di  maniera  che  due  fossero  giusto  peso  per  una  soma, 
com'  è  detto  sopra ,  e  non  s'  è  possuto  >  dice  egli  in 
altra  lettera  e  in  tutto  servar  questa  misura,  parte  per 
»  il  mancamento  delle  tavole,  che  non  erano  abastanti  e 

>  bisognava  che  di  quelle  che  fossero  se  ne  servissimo 
t  come  erano,  o  grandi  o  picciole,  e  cosi  né  mancho  ba- 
t  stavano  :  onde  mi  bisognò  che  guastassi  li  dispartimenti 

>  di  detta  Bibliotheca,  fatti  di  tavola  e  che  la  separavano 

>  dalla  chiesa;  e  cosi  in  un  istesso  tempo  ho  soccorso 

>  me  e  restituito  alla  chiesa  il  suo  pristino  vaso,  che  era 
»  stato  impedito  da  costoro  per  far  questa  Bibliotheca  >  (3). 
Né  a  provvedere  le  tavole  e  le  altre  cose  necessarie, 
poteva  sperarsi  aiuto  dalla  presenza  e  autorità  del  conte 
De  TiUy;  che  anzi  venne  nuova  come,  cavalcando,  eragli 
caduto  il  cavallo:  di  che,  senza  averne  gran  danno,  sen- 
tiva forti  dolori  ai  fianchi:  onde  l'Allacci  dovette  conti- 


ci) Afeva  scrìtto  ancora:  e  e  se  si  rompe  bisognerà  che  si  cusia  con 
li  pontareDi  •;  ma  poi  cancellò. 

(2)  Lettera  (i622,  decembre  23)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit  B.  38.,  e.  247^  (minuta  autogr.);  Theiner,  Schenkung, 
pagg.  64-65. 

(3)  E  seguita:  e  se  bene  é  stato  qualcheduno  che  mostrò  di  non 
ha?erlo  a  caso:  non  me  ne  son  curato,  ho  cercato  il  fatto  mio  ».  Let- 
tera (1623,  aprìle  12)  dell'Allacci,  da  ìfonaco,  al  card.  Ludomi.  Ms.  cit. 
a  38.,  e.  260^  (minuU  autog.) 


282  CURZIO  MAZ2I 

nuare,  come  poteva,  a  mettere  in  ordine  le  casse;  «  le 

>  quali  bisogna  che  io  solo  le  ordini  col  servitore  per 

>  non  poter  truovar  persona  alla  quale  si  possi  rhuomo 

>  fidare,  et  in  particolare  a  quello  che  appartiene  alla 

>  Libraria  >  (1).  Quella  mancanza  in  Heidelberg  d'  ogni 
cosa  necessaria  a  far  le  casse  per  trasportare  la  Palatina, 
pare  anche  a  noi  incredibile,  come  air  Allacci:  il  quale 
nell'essere  in  città  nemica,  di  recente  conquistata,  e  ve- 
nuto per  spogliarla  d' uno  dei  suoi  ornamenti  più  pregia- 
ti, vedeva  giustamente  la  cagione  di  tutto  ciò,  e  l'additava 
al  cardinale  di  S.  Susanna,  augurandosi  di  trovarsi  pre- 
sto fuori  degli  inimici  del  papa  e  li  quali  arrabiano  oggi 

>  più  che  mai,  né  ponno  patire  che  questa  Libreria  s' ab- 

>  bia  da  levar  di  qui  e  condursi  fuora,  e  poi  in  potere 

>  del  Sommo  Pontefice;  e  quando  mi  vedono,  pare  che 

>  vedano  un  orso  o  un  leone;  e  sensibilmente,  quando 

>  passo,  li  sento  sospirare  e  dolere  intrinsecamente,  se 

>  bene  all'esteriore  bisogna  che  stiano  savij  >  (2).  De' 
quali  sentimenti  furono  eredi  fin  ne'  tempi  nostri  coloro 
che,  scrivendo  della  Palatina,  ne  chiamano  il  trasporto  a 
Roma  «  Entfùhrung  »,  «  Beraubung  »,  «  Vemich- 
tung  »  (3). 

(i)  Lettera  (1622,  decerobre  23)  dell*Allacci,  da  Heidelberg,  al  cani. 
LudoTisi.  Ms.  cil.  B.  38.,  e.  247^-248  r  (minuta  autogr.);  Theixer,  Schenhutig 
ecc.  pag.  65.  —  E  al  card,  di  S.  Susanna:  e  Io  mi  ritruovo  equi  in 
penuria  d'ogni  cosa,  né  vale  denaro  né  favore  a  poter  haver  cosa  che 
sia  necessaria.  In  sin  bora  ho  superato  la  metà;  credo  che  supererò  il 
resto  »  :  ripetendo  che  deve  far  tutto  da  sé  per  non  sapere  in  chi  fidar- 
si. Lettera  (s.  data;  ma  probabilmente  1622  decembre  23)  dell*  Allacci,  da 
Heidelberg,  al  card,  di  S.  Susanna.  Ms.  cit  B.  38.,  e  248^249^  (minuta 
autogr.) 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  12)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
di  S.  Susanna.  Ms.  cit  B.  38.  e.  254^  (minuta  autog.);  Theiner,  Schen^ 
kung  ecc.,  pagg.  67-68. 

(3)  V.  a  pagg.  261-62,  275-76. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  283 

Nel  riporre  i  manoscritti  nelle  casse  notava  F  Allacci  i 
latini  con  una  numerazione  a  parte  e  con  altra  i  greci,  senza 
un  esame  troppo  minuto  del  contenuto  degli  uni  e  degli 
altri,  ma  tenendo  a  riscontro  l'Indice  di  essi  portato  da 
Roma;  non  formava  un  vero  e  proprio  Catalogo,  ma  un 
semplice  Inventario;  li  «  ricognosceva  >,  com'egli  ci  ha 
detto  :  e  ci  ha  detto  ancora  che  ai  codici  toglieva  il  peso 
eccessivo  delle  coperte  quando  fossero  di  assi  con  ferra- 
menti (1).  Il  quale  <  sgravamento  delle  coperte  »,  ci 
spiega,  €  è  stato  tanto  necessario,  poiché  importava  tanto  e 
»  con  l'occupar  il  luogho  et  il  peso  (poiché,  se  si  fosse  fatto 

>  altrimenti,  saria  stato  impossibile  la  condotta),  poiché  im- 
»  portava  tanto  quanto  li  doi  terzi  delli  libri  che  mecho  con- 
»  duco.  E  per  mia  curiosità  ho  posto  da  parte  tutte  quelle 
»  coperte,  per  veder  quanto  luogho  occupavano  e  quanto 
»  pesavano,  e  trovai  che  non  bastavano  mancho  tredici  carri, 
»  e  fu  giudicato  che  pesassero  passa  duecento  centinara. 
»  Dove  però  la  coperta  non  era  di  troppo  peso,  o  haveva 
»  r  arme  del  Palatino,  o  era  fatta  d' avorio  o  con  fìgure, 

>  mi  parse  meglio  di  portarli  più  presto  con  le  coperte 
»  che  lasciarli  :  e  di  questi  saranno  stati  pochissimi  »  (2). 
Delle  opere  a  stampa  che  sappiamo  già  essere  un  numero 
grandissimo  (3),  ci  dice  essersi  governato  cosi:  «  Nella 
»  scielta  delli  libri  stampati  ho  havuto  riguardi  alli  authori 
•  più  segnalati,  alle  materie  più  curiose,  alle  stampe  più 

>  belle  e  pretiose,  e  se  fra  questi  fosse  alcuno  stampato 

>  in  carta  pecora,  che  sono  stati  parecchi;  et  in  quelli 
»  delli  heretici,  alli  più  antichi,  li  quali,  secondo  che  mi  si 
»  riferiva  dall' istessi  heretici,  l'havevano  più  e  più  volte 


(i)  V.  a  pagg.  276-78. 

ii)  Lettera  (1623,  aprile  12)  dell*  Allacci,  da  Monaco,  al  card.  Lu- 
dofisi.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  260^  (minuta  autogr.) 
<3)  V.  a  pag.  276-78. 


284  CURZIO  MAZZI 

>  malati  nelle  altre  edizioni:  e  dove  in  questi  libri  tro- 

>  vavo  sottoscritto  il  nome  dell'autore  di  propria  mano 

>  che  presentava  quel  libro  o  al  Palatino  o  ad  altra  per- 

>  sona,  perché  pareva  che  quel  libro  havesse  fede  come 
»  se  fosse  l'originale  dell' istesso  autore,  l'ho  condotto 

>  meco;  e  di  questi  ho  trovato  assai.  Li  altri  l'ho  lasciati, 

>  insieme  con  quelli  delli  catbolici,  acciò  si  abbia  da  ese- 

>  guire  quello  che  se  li  ordinerà  »  (1).  Dei  manoscritti 
invece  non  accadeva  far  scelta,  perché  s'  avevano  a  tra- 
sportare di  preferenza  e  tutti;  se  non  che  averli  tutti 
quanti  ne  possedette  la  Palatina  non  era  agevole  impresa  : 
€  S' era  pubblicato  » ,  egli  racconta,  «  che  da  questa  lì- 

>  breria  fossesì  cavata  una  gran  quantità  di  libri:  ìnsino 
»  adesso  non  si  conosce,  et  io  ho  havuto  in  poter  mio 

>  alcune  ricevute;  e,  fattone  diligenza,  mi  si  dice  che 

>  quelli  tali  sono  nove  o  dieci  anni  sono  morti,  o  che 

>  erano  forestieri  et  in  questi  disturbi  (della  guera)  se 

>  la  son  colta  e  qui  non  hanno  lasciato  nissuno  per  loro. 

>  Però  neancho  in  questo  lascerò  di  fare  il  possibile  e 

>  ricuperare  quello  che  si  può.  Né  in  questo  principio 

>  cosi  subito  si  poteva  conoscere  simil  mancanza,  perchè 
»  fra  li  libri  stampati  erano  inserti  dimoili  libri  manu- 
»  scritti,  sparsi  in  equa  et  in  là,  et  bisogna  che  Thuo- 
»  mo ,  per  rachoglier  quelli ,  vada  rivedendo  tutti.  Se 
i>  in  questa  diligenza  mi  sarà  scapato  uno,  credo  non 
»  mi  sarà  scapalo  il  secondo.  Subito  phe  bavero  finito 
»  d'accomodar  le  casse,  men  anderò  al  sig.  conte  De 
»  Tilli,  acciò  possa  haver  la  commodità  delli  carri,  che 

>  senza  tal  authorità  e  forza  è  impossibile  >.  Né  tal  ri- 
cerca dei  manoscritti  concessi  fuori  di  Biblioteca  può 
compirsi  con  agio,  perché  a  tutavia  si  va  dubitando  della 

(1)  Lettera  (Lettera  1623,  aprile  12)  dell'Allacci,  da  Monaco,  al 
card.  Ludovisi.  Ms.  ciL  B.  38.,  e.  259^    e  260''  (minuta  autogr.) 


LEONE  ALLAOCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  285 

restitutione  (di  Heidelberg);  e  chi  può,  porta  via  del  stato 
ciò  che  ha  guadagnato  >  (1):  meno  male  che,  dei  «  parechi  > 
temati  persi,  altrove  ci  ha  detto  «  se  bene  non  credo  che 
manchino  molti  de' manoscritti  »  (2). 

Le  ricevute  che  V  Allacci  scrive  d'  aver  avute  in  suo 
potere  erano,  come  chi  dicesse  oggi,  il  Registro  del  pre- 
stito; due  quintemetti  a  foggia  di  vacchetta,  ne' quali  la 
stessa  mano,  che  il  Theiner  dice  esser  quella  del  Grutero, 
registrò  dai  1589  al  1621,  né  sempre  in  ordine,  i  titoli 
dei  codici  dati  a  studiare  fuori  di  Biblioteca,  e  i  nomi  di  chi 
r  ebbe ,  senza  notar  quasi  mai  la  restituzione  ;  e  Apocha- 
rum  et  schedularum  ad  eas  pertinentium  super  libros  e 
Bibliotheca  Archipalatina  mutuo  acceptos  Catalogus  >  ; 
<  Catalogus  alter  chirographorum  et  ad  ea  pertinentium 
schedularum  super  libros  Bibliothecae  Archipalatinae  aliis 
commodatos  »  (3);  e  rimasti  poi  presso  l'Allacci,  sono  tuttora 
fra  le  carte  di  lui  nella  Yallicelliana,  d' onde  primamente 
li  pubblicò  il  Theiner  ed  ora  li  ripubblico  io  (4).  I  co- 
dici, che  appariscono  dati  a  prestito  anche  in  servigio  di 
librai  editori,  spesso  non  uscivano  di  Biblioteca  se  non 
eravi  un  fideiussore  ;  due  manoscritti  arabi  son  dati 
e  obligatis  200  libris  »  ;  ma,  d' altra  parte,  la  registrazione 
del  codice  imprestato  fatta  soveute  col  solo  numero  di 
esso,  0  col  nome  solo  dell'  autore,  o  col  solo  titolo  som- 
marissimo, appare  oggi  manchevole  assai.  Da  ciò  trae  il 
Theiner  (5)  una  conferma  della  poca  cura,  notata  già 


(1)  Lettera  (1622,  dicembre  23)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
di  S.  Susanna.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  249''  (minuta  autogr.) 

(2)  V.  a  pagg.  277,  279;  ed  anche  286. 

(3)  Ms.  cit  B.  38.,  e.  166'-17i. 

(i)  Theiner,  Sckenkung  ecc.,  Docum.  XXV,  pagg,  87-105.  E  qui 
Docum.  V. 

(5)  Sckenkung  ec.  pag.  2Ì-25. 


286  CURZIO  MAZZI 

dall' Allacci  e  da  Giuseppe  Scaligero,  ond'era  governata 
la  Palatina;  il  che  si  nega  dal  Wilken  (1)  e  dagli  altri 
contradditori. 

Ma  il  soccorso  sperato  e  invocato  del  conte  generale 
De  Tilly  era  per  giungere.  A  lui  sarebbe  andato  incon- 
tro r  Allacci ,  se  non  n*  avesse  avuto  certezza  che  fra 
tre  giorni  verrebbe:  e  sebbene  i  tre  di  poco  mancasse 
che  non  diventassero  tre  settimane,  per  i  grandi  afifari 
del  conte,  pur  questa  sua  tardanza  e  il  non  essere  andato 
a  cercarlo  recarono  questo  benefizio,  che,  invece  d'  esse- 
re dieci  0  quindici  giorni  perduti,  egli  ha  quasi  finito  di 
assettare  i  codici  della  Palatina,  e  meglio  ha  potuto  esa- 
minare ciò  che  incassava  «  e  cercar  meglio  li  ripostigli. 

>  D' onde  m' è  venuto  fatto  che  io  ho  trovato  molte  ri- 

>  cevute  (2),  e  qualche  antichità,  e,  quello  che  più  importa, 
»  alcuni  originali  di  Lutero  e  di  Melanchthone  ;  che  se  io 
»  mi  fosse  partito  di  equi,  et  andato  vagando  per  trovare 
»  il  sig.  conte,  senza  dubbio  non  Fhaveria  trovati.  Con 
»  le  ricevute,  si  spera  di  poter  recuperare  qualche 
»  cosa;  anchor  che  pochi  o  nissuno  si  truovi  di  quelli 
»  scritti  (3),  e  se  vi  è  qualcheduno ,  dice  che  non 
»  può  restituire,  che  li  soldati  hanno  posto  sottosopra 
»  ogni  cosa.  Questo  è  certo,  che  non  si  può  perdere  (sic), 
B  perchè  s' userà  ogni  diligenza.  L'antichità,  è  uno  mazzo 
]»  di  palme,  secondo  che  io  m'imagino,  scritto  antiche; 
»  ma  io  non  so  né  che  lettere  siano  le  scritte ,  né 
»  che  materia  si  contengano;  un  volume  assai  lungho 
»  scritto  in  lingua  syriaca;  un  altro  in  lingua  maronitica. 
1»  L'originale  di  Luthero  sono  alcune  sue  Lettere  (e) 

(1)  Geschicthe  ecc.  pag.  150. 

(2)  Di  coloro  che  avevano  estratti  Godici  dalla  Palatina. 

(3)  Delle  persone  registrate,  scritte,  come  coloro  ai  quali  erano  stati 
imprestati  i  codici. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  287 

>  Prediche  ;  e'  trattateli  di  Melanchthone  sodo  li  Comen- 

>  tarìj  sopra  i  Salmi  sino  al  Salmo  50  »  (1).  Delle  quali 
scoperte  l' animo  suo  di  bibliotecario  certo  esultò ,  quanto 
era  contristato  per  quelli  smarrimenti  e  non  restituzioni; 
nei  quali  non  giurerei  che  in  qualche  parte  non  entrassero 
1  desiderii  pietosi  di  salvare  in  questo  modo  alcuno  di  quei 
manoscritti  dalla  generale  loro  trasmigrazione,  veduta  con 
dolore  dai  dotti,  usati  a  valersi  della  Palatina.  Finahnente 
il  conte  De  Tilly  giunse  davvero  in  Heidelberg  ai  14 
gennaio,  la  sera;  e  l'Allacci  chiesta  udienza,  gli  fu  innanzi 
il  giorno  appresso,  a'  di  15,  dando  parte  dell'abboccamento 
avuto  col  duca,  mostrandogli  una  lettera  di  lui  ricevuta 
per  corriere  espresso:  e  «  li  presentai  j^  (egli  seguita, 
rendendo  conto  al  cardinale  Ludovisi)  «  il  Breve  di  No- 
»  stro  Signore  e  le  Lettere  di  V.  S.  lU.ma,  e  li  esposi 
•  ampiamente  la  mente  di  Sua  Santità,  e  sua  (2),  con- 

>  forme  il  tenor  di  esse:  e  m'allarghai  nel  mostrargli 

>  che  per  grande  che  sia  il  suo  valore,  noto  a  tutto  il 

>  mondo,  e  la  stima  che  della  sua  persona  tengono  e 

>  dell'obbligo  che  li  hanno  a  nome  della  religione  ca- 

>  tholica,  non  lo  stimino  niente  meno  per  la  sua  singo- 
»  lare  pietà  Christiana  e  devotione;  per  la  quale  Sua 
»  Beatitudine  l' abbracciava  sotto  la  protettione  delli  santi 
)  Apostoli  e  di  quella  santa  Fede,  e  li  dava  largamente 

>  la  sua  beneditione,  e  lo  raccomandava  alla  Maestà  Di- 
»  vina  per  benefìcio  pubblico;  e  per  alcun  piccolo  se- 
»  gnale  di  ciò,  io  li  portavo  da  presentare  alcune  cose 
»  spirituali,  che  Sua    Beatitudine  li  mandava.  E  cosi  li 

>  presentai  il  quadro  della  Madonna,  la  corona  d'agata 


(1)  Lettera  (1623,  gennaio  16)  dell* Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
LudoTisi.  Ms.  ciL  B.  38.,  e.  249^  (minuta  autogr.) 

(i)  Cioè  di  esso  cardinale  Ludovisi,  Camarlengo  di  Santa  Chiesa  e 
Soprìntendente  dello  Stato  ecclesiastico. 


288  CURZIO  MAZZI 

»  le  quattro  medaglie ,  due  d' oro  e  dui  d'  argento ,  al- 

>  quanti  agnusdei,  et  alfine  il  numero  consegnatomi  delle 
»  medaglie,  acciò  che  col  mezzo  delli  padri  religiosi  che 
»  sono  nell'esercito   le   distribuisse   fra  li   soldati  e  li 

>  esortasse  a  guadagnar  V  indulgenze  ;  e  li  diedi  nota  del- 

>  l'indulgenze  che  tenevano.  Li  soggiunsi,  che,  essendo 

>  inteso  che  esso  desiderava  certe  gratie  spirituali  da 

>  Sua  Santità,  se  si  sapesse  più  in  particolare  il  deside- 

>  rio  suo,  che  lo  consolarebbe  prontamente  per  la  pa- 

>  terna  volontà  che  li  porta.  Indi,  a  nome  di  Y.  S.  Ill.ma, 
»  mi  distesi  con  larghezza  di  parole,  al  possibile  affettuose, 

>  nel  renderli  testimonio  del  suo  desiderio  di  servirlo  »  (1)  : 
e  nel  particolare  della  Biblioteca,  espose  il  già  fatto  e 
quanto  rimaneva  da  fare  per  condurla  in  salvo  a  Monaco. 
Alle  quali  parole  ed  offerte  rispose  con  pari  effusione  il 
conte,  dicendosi  lieto  di  poter  mettere  per  la  Santa  Chiesa 
l'avere  e  la  vita, riconoscendo  dal  cielo  le  vittorie  otte- 
nute, e  che  ben  volontieri  sentirebbe  si  trovasse  nella 
Biblioteca  cosa  di  gusto  di  Sua  Santità.  Per  ì  libri  e  co- 
dici dati  in  prestito,  ordinò  si  ricercassero  minutamente; 
del  modo  migliore  per  trovar  carri  (cosa  ben  più  impor- 
tante ,  dacché  delle  opere  a  stampa  imprestate  n'  esisteva 
quasi  di  tutte  altro  esemplare  in  Palatina)  conferì  con  al- 
cuni suoi  colonnelli,  ed  egli  stesso,  andando  aRatisbona, 
vedrà  di  trovarli  per  via,  affinché  non  sia  differita  troppo 
la  partenza,  quasi  pronta,  delle  casse.  Né  tanta  buona 
disposizione  del  conte  fu  lasciata  cadere;  «  ma  essendo- 
mi mostrata  »,  egli  continua,  «  nel  castello  la  Biblioteca 
»  privata  del  Conte  (Palatino),  dove  sono  molti  Ubri  di 

>  molto  buona,  anchor  che  di  non  pretiosa,  legatura,  e 

(i)  Pare  debba  intendersi  che  scrivendo  al  card.  Ludoyisi  manda- 
vagli  copia  della  lettera  del  re  di  Spagna  all'Infanta  trattanti  questa  re- 
stituzione d'Heidelberg. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBEBO  289 

>  parechi  libri  mannscritti,  belli  et  antichi,  mi  son  sfac- 

>  ciato  a  domandargliela,  per  anirla  con  quest'altra;  e 

>  m'andai  si  maneggiando  nel  mio  parlare  e  raggioni,  che 

>  mi  concesse  che  la  pigliassi  >  :  e  chiesti  i  ritratti  dei 
vecchi  Conti  e  Contesse  palatini  che  l' adornavano,  per  ri- 
porli  nella  naova  sede  della  Biblioteca  in  Roma,  furono 
concessi  anche  questi.  Non  senza  sollecitazioni  per  parte 
del  De  Tilly  all'Allacci  di  far  presto,  perchè  e  equi  tut- 
tavia si  va  dubitando  della  restitutione  >  di  Heidelberg: 
€  et  il  sig.  conte  m' ha  detto,  che  se  questo  succedesse, 
1  sarebbe  infalibilmente  l' ultima  ruina  della  religione  in 

>  queste  parti:  et  il  suo  desiderio  sarebbe,  che  si  come 
i  questa  città  è  stata  la  principal  causa  di  tutte  T  heresie 

>  di  Germania,  cosi  anchora   dovesse  rimanere  schola 

>  delli  catholici ,  perché  da  questo  solo   dependerebbe 

>  l'estirpatione  di  tutte  T  heresie  di  queste  parti.  La  so- 
t  spensione  delle  armi  già  è  seguita,  e  levato  V  assedio  di 
»  Fracandal,  per  ordine  dell'  Infanta  :  il  quale  {Franken- 

>  tal)  non  haverebbe  havuto  difficoltà  di  pigliar  esso  conte 

>  (De  TiUy),  né  l' bavera,  quando  se  li  comanderà.  Sono 
»  poi  le  copie  delle  lettere  del  re  di  Spagna  all'Infanta 
»  sopra  questo  negotio.  Cose  che  tutte  accrescono  la 
»  sospittione.  Io,  in  ogni  modo,  lavoro  come  se  s' bavesse 
»  da  fare  d' bora  in  bora  questa  restitutione;  e  mi  sbrì- 
»  gherò  prestissimo,  se  li  carri  non  mi  tratengono  >  (1). 

(1)  Lettera  (1623,  gennaio  16)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
l^oTisi.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  249S  250"  e  250^  (minuta  autogr.).  Curioso 
é  che  TAllacci  nel  riferire  in  questa  Lettera  il  discorso  da  lui  fatto  al 
De  TiDy  usi  quasi  testualmente  le  parole  stesse  che  nella  Istruzione  del 
cardinale  Ludofisi  da?angli  norme  per  quel  discorso  medesimo.  —  Con 
qualche  ditersità  descrìve  T  Allacci  al  cardinale  di  S.  Susanna  questo 
acquisto  della  Palatina  privata  e  l'incontro  suo  col  generale  e  conte  De 
filly;  ii  quale,  espostagli  l'ambasciata  e  Teduto  il  Breve  del  papa  e  la 
Lettera  del  cardinale  Ludovisi,  e  gradi  sommamente  questo  officio  e  tanto 


290  CURZIO  MAZZI 

La  qual  restituzione  d' Heidelberg  al  Palatino,  già  dal  duca 
Massimiliano  (1)  ed  ora  dal  conte  De  Tilly  accennata  nel 
loro  primo  incontro  con  V  Allacci  come  un  pericolo 
per  il  trasporto  della  Biblioteca  con  esortazione  a  far 
presto,  dovette  essere  sentita  volentieri,  se  di  «  alcuni 
comissarij  spagnoli  »,  giunti,  come  dicevasi,  per  trattarla, 
annunziava  l'Allacci  di  là,  scrivendo  «  dalli  cittadini  sono 
stati  comodamente  rigalati  »,  tenendosi  «  per  certo  che 
questo  habbia  da  seguire  »;  sebbene  egli  non  lo  credesse, 
non  sembrandogli  per  quelle  trattative  quello  il  luogo, 
€  dove  non  vi  è  persona  che  di  ciò  possa  disponere  »: 
e  conchiudeva  «  tutto  questo  è  mio  martire,  mentre  vedo 
»  che  da  un  canto  mi  soprasta  questa  somma  difiBcoltà, 
»  dall'altra  non  mi  trovo  modo  né  maniera  di  poterla  Scan- 
io zare.  Sollecito,  grido,  importuno:  non  fo  niente,  che 
»  non  vi  è  la  commodità;  che  se  ci  fosse,  l'haverei  »  (2). 
Procacciante  senza  dubbio  era  il  messo  del  papa,  e  lo 
prova  l'acquisto  della  privata  Biblioteca  Palatina,  che  non  fa 
senza  contrasti  e  che  dovette  compiersi  con  qualche  accorgi- 
mento. Quando  l'Allacci  andò  in  castello  a  prendere  i  ritratti 
concessigli, s'accorse  d'essersi  troppo  indugiato:  «troppo 
»  m'aggirai  nelli  quadri  ;  me  li  trovai  manchi,  perché  uno 
»  il  di  innanzi  era  entrato  e   fattosene   scelta:  pure  vidi 


»  che  m'ha  detto  che  io  vedessi  se  vi  era  in  questa  città  altro  libro 
»  che  giudicasse  che  dovesse  esser  di  gusto  a  Nostro  Signore,  che  lo 
»  pigliasse;  ma  qua  (soggiunse)  non  è  scappata  né  coperta  né  libro,  ma 
»  tutti  sono  andati  per  fiamma  e  fuoco.  »  E  T  Allacci,  veduta  €  simil 
prontezza  »,  pigliò  ardire  e  chiese  i  libri,  i  manoscritti,  i  documenti  ed 
i  ritratti  che  erano  nel  castello  del  Patatino,  e  li  ottenne.  Lettera  (16i3, 
gennaio  17)  dell* Allacci,  da  Heidelberg,  al  card,  di  S.  Susanna.  Ms.  cit. 
B.  38,  e.  20  i'  (minuta  autogr.) 

(1)  Ved.  a  pagg.  271.  277  (in  nota),  285,  289:  ed  anche  a  pag.  26S. 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  12)  delFAllacci,  da  Heidelberg,  senza  in- 
dirizzo. Ms.  ciL  B.  38,  e.  254  r-^  (minuta  autogr.) 


LEONE  ALLAOCI   B  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERO  291 

»  alcune  teste  d' imperatori,  che  a  me  mi  parevano  assai 
»  buone  e  belle;  e  potria  essere  che  mi  gabassi,  perché 
»  non  me  n'  intendo  di  pittura  »  (1).  Costui  tentò  ancora 
di  fare  il  tiro  della  libreria ,  com'  eragli  riuscito  per  i 
quadri:  «  Questo  tale  domandava  anchora  le  chiavi  della 
»  libreria  ;  ma  chi  Y  aveva ,  istrutto  cosi  da  me ,  disse 

>  che  rhaveva  il  servitore  del  sig.  conte,  il  quale  al- 
»  rhora  non  era  in  Hidelberga;  e  cosi  la  scapammo, 

>  insino  che  venne  il  conte,  il  quale  mi  la  concesse  >  (2). 
Chi  fosse  quest*  «  uno  »  e  «  questo  tale  »,  non  appari- 
sce ;  ma  si  può  affermare  che  dovette  essere  un  fido  del 
cavaliere  Vittorio  Gigli;  il  quale  lasciato  in  Heidelberg 
apposta  per  questa  faccenda  della  Palatina,  non  se  ne 
dette  poi  alcuna  cura  (sicché  dovettero  prendersene  pen- 
siero il  governatore  di  Heidelberg  Enrico  di  Metternich, 
ed  il  vescovo  di  Spira  Giovanni  Cristoforo  von  Soetern), 
e  r  acquisto  della  Palatina  privata  contrariò  apertamente 
finché  potè,  mancando  all'  aspettazione  che  di  lui  si  aveva 
in  Roma,  ed  alla  fedeltà  verso  il  conte  De  Tilly,  del  quale 
egli  era  uno  dei  segretari  :  tutto  ciò  con  meraviglia  grande 
e  forse  scandalo  del  buon  Allacci,  che  avevagli  portato 
un  Breve  di  Gregorio  XV  ed  una  collana  da  parte  del 
Camarlengo  di  Santa  Chiesa,  cardinale  Ludovisi  (3).  Della 

(1)  Lettera  (1623,  gennaio  16)  dell^Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  ciL  B.  38,  e.  25(K  (minuta  autog.)  E  nella  lettera  (dei  17 
gennaio)  al  card,  di  S.  Susanna,  qui  sopra  citata,  dice  di  questa  privata 
Biblioteca:  e  Lì  libri  sono  in  mio  potere  e  già  si  fanno  le  casse;  delli 
quadri  un  di  inanzi  non  so  chi  haveva  fatto  scelta.  » 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  17)  dell' AUacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
di  S.  Susanna.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  204'  (minuta  autogr.) 

(3)  LeUera  (1623  gennaio  17)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
di  S.  Susanna  qui  sopra  citata.  Che  se  ci  dice  in  questa  T Allacci,  nes- 
suno aver  contrariato  per  la  Biblioteca  e  i  quadri  di  castello  tranne 
esso  Vittorio,  tirando  in  lungo  la  faccenda  Ono  all'arrivo  del  conte, 
anche  per  la  Biblioteca  pubblica  si  portò  cosi  di  mala  voglia  da  non  la- 


292  CURZIO  MAZZI 

Libreria  in  questo  modo  salvata  dava  poi  rAllacci  infor- 
mazioni cosi  :  «  Quanto  più  vo  mesticando  (sic)  la  Biblio- 
»  teca  privata  del  Palatino  tanto  più  trovo  libri  manu- 
»  scritti,  che,  se  non  saranno  di  tutta  sodisfatlione , 
»  perché  la  maggior  parte  è  in  lingua  germanica,  non 
»  però  saranno  ingrati;  tanto  più  che  credo  che  siano 
>  cose  che  appartengono  alla  casa  loro.  Io  piglio  ogni 
»  cosa;  anchora  le  Bulle  loro,  anchor  che  non  para  che 
»  appartengano  a  questa  Sedia.  Ho  trovato  solo  uno 
»  Breve  di  Leone  Decimo  al  Palatino  in  racomandatione 
»  del  Gaietano,  e  lo  porterò;  cosi  anchora  se  trovo  al- 


sciarsi  tro?are  quando  Topera  sua  sarebbe  stata  utile,  o,  colto  all' im- 
provviso, si  partiva  con  la  scusa  di  negozi  urgenti:  cosi  che  fu  ventura 
se  non  ci  fu  mai  propriamente  bisogno  di  lui;  che  ora,  dopo  molte  ri- 
chieste e  dopo  avuti  quei  regali,  non  ha  per  anco  scritte  le  risposte  al 
papa  e  al  cardinale  Ludovisi;  né  le  scriverà,  dicendosi  che  si  partirà  dal 
signor  conte.  Le  quali  cose  protesta  di  scrivere  l'Allacci  affinché  si  sap- 
pia e  chi  in  questo  negotio  m' ha  agiutato  e  chi  non;  et  alle  volte  quanto 
siano  vere  le  relationi  »,  meravigliandosi  come  e  il  signor  Crivelli  habbia 
fatta  quella  informatione  in  pregiudicio  di  quelli  che  veramente  s'impie- 
gorno  in  servizio  del  Nostro  Signore.  »  Benemeriti  davvero  son  stati  il 
conte  De  Tilly,  che,  nella  presa  dlleidelberg,  pose  guardie  e  sentinelle 
alla  Biblioteca,  ed  il  governatore  Enrico  di  Mellemich  dandosi  cura  di 
suggellarne  le  porte,  come  ora  attende  a  far  rìcercare  i  hbri  e  codici 
dati  in  prestito,  in  ciò  aiutato  dall'altro  segretario  del  conte,  Guglielmo 
Yberlin,  che  attende  anche  a  scrivere  tutti  gli  ordini  opportuni.  Anzi  lo 
zelo  del  Metternich  nel  provvedere  per  la  condotta  della  Palatina  fino 
alle  più  piccole  cose,  e  canavazzo,  pezze,  stuppe  per  far  le  corde  »,  oltre 
le  tavole  per  le  casse  ed  i  carri,  é  tale,  come  V  Allacci  scrive  in  altra 
lettera  al  cardinale  Ludovisi  (1623,  gennaio  16:  Ms.  ciL  B.  38,  e.  ^oO''; 
minuta  autogr.),  che  ben  merita  d'essere  (secondo  il  desiderio  dello  ste4^ 
conte  De  Tilly)  da  esso  cardinale  favorito  presso  il  papa;  poiché  nella 
conquista  del  Palatinato  ha  fatto  più  egli  solo  con  l'arme  e  la  prudenza, 
che  molti  e  molti  altri:  sicché  di  quello  stato  si  rimetteva  interamente  il 
maneggio  a  lui:  uomo  nobile  e  parente,  anzi  nipote,  dell'  arcivescovo  di 
(Treveri?),  benevolo  verso  la  Chiesa,  educato  già  nel  Collegio  Germanico 
in  Roma. 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBEBG  293 

»  tro  »  (1).  E  deve  aver  trovato,  dappoiché  pochi  giorni 
appresso  scrìveva  al  cardinale  Ludovisi  della  medesima 
Biblioteca  Palatina  privata  :  «  non  posso  dir  quanto  gusto 
»  sento  d*haverla  chiesta  e  havuta,  tanto  ci  ho  trovato  delli 
»  manuscritti,  e  di  cose  anchora  che  rilievano,  ho  trovato 
»  assai  più  di  quello  che  m' imaginavo;  e  Iddio  sia  quello 
»  che  mi  feliciti  per  V  avenire,  come  in  questo  m' ha  fatto 
»  somma  gratia  »  (2).  Dei  ritratti  esistenti  in  questa  pri- 
vata Biblioteca,  dopo  che  altri  ebbe  fatta  la  scelta  rac- 
contataci sopra,  osserva  :  «  io  non  ho  trovato  cose  a  mia 
soddisfattione  »  (3)  ;  pur  nonostante  quelle  teste  d' impe- 
ratori, che  parevangli  buone  e  belle,  lo  tentarono;  onde 
seguita  a  dirci  «  provai  staccharne  una  dalla  cornice  per 
»  avvolgerla,  e  subito  per  T  antichità  la  tela  si  rompeva 
»  in  minutissimi  peseti,  come  se  fosse  hostia;  e  cosi  mi 
»  risolsi  a  lasciarle:  pigliarò  però  alcuni  Palatini  veo^hi, 
»  e  li  primi  di  questa  casa,  li  quali  credo  che  non  fa- 
»  ranno  simìl  effetto,  e  sono  curiosi  da  vedere  per  la 


I  due  fratelli  Gigli,  Aurelio,  banchiere  in  Ratisbona,  e  Vittorio,  ai 
servigi  del  conte  De  Tilly,  dovettero  fin  dal  principio  aver  olTerta  Topera 
loro,  come  apparisce  da  una  risposta  (162!2,  decembre  24:  Carte  Allacci; 
Filza  CXXVl,  8:  copia)  del  card.  Ludovisi  ad  Aurelio  d'accettazione  e  di 
ringruziamento  per  le  proflerte  d'aiuto  da  darsi  in  Germania  all'  Allacci, 
che  a  quel  giorno  già  era  là. 

(1)  lettera  (1623,  gennaio  17)  dell' Allacci,  da  Heidelberg,  a  Sci- 
pione Gobelluzzi,  card,  di  S.  Susanna.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  ^Oi'  (minuta 
autogr.) 

(2)  liCttera  (1023,  gennaio  26)  deirAUacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  250^  (minuta  autogr.)  —  Aveva  scritto  e  e 
di  cose  anchora  che  rilievano  e  che  qualcheduno  di  questi  prìncipi  biso- 
gnerà che  le  domandi  a  Nostro  Signore.  Ho  trovato  assai t  Poi 

cancellò. 

(3)  Lettera  (1623,  gennaio  17)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
<li  S.  Siisimna  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  204''  (minuta  autogr.) 

VoL  IV,  Pane  !  19 


294  CUKZIO  MAZZI 

»  varietà  dell' habiti  »  (1).  Alcune  dì  qaeste  tele  adun- 
que furono  riposte  insieme  con  i  codici  e  i  documenti, 
nelle  casse  preparate  per  il  trasporto  a  Roma:  ed  il  do- 
lore che  n'  ebbe  il  vinto  principe,  il  quale,  perduto  già  il 
ducato,  vedeva  ora  trafugate  e  disperse  le  memorie  degli 
avi  suoi,  non  intese  l'Allacci  o  poco  generosamente  lo 
scherni,  quando  riferiva:  «  pubblicamente  si  dice  che  il 
»  Palatino  arabbia  più  per  la  perdita  di  questa  libreria 
»  che  di  tutto  il  resto  del  stato,  non  potendo  patire  che 
>  s'habbia  da  condurre  a  Roma  »  (2). 

Ma  la  buona  ventura  accompagnava  l'Allacci  in  questa 
sua  commissione  germanica.  Era  anche  allora  in  Heidelberg, 
oltre  le  due  fin  qui  ricordate,  una  Riblioteca  nella  Uni- 
versità 0  Sapienza  (3),  ricca  di  manoscritti  antichi  e  pre- 
giati ;  fra  i  quali  i  settantasei  eh'  ei  ne  scelse,  e,  per  opera 
del  conte  De  Tilly,  come  dice  il  Theiner  (4)  e  com'  è  pro- 
babile, ebbe,  ci  appariscono  anch'  oggi  nella  nota  allora 
compilata  (5) :  e  l'Allacci,  tacendo  della  cooperazione  del 
conte  in  questo  particolare  e  invece  accennando  a  trat- 
tative non  brevi,  cosi  ragguagliava  del  suo  nuovo  acqui- 
sto: <  Nella  Riblioteca  di  questa  Accademia  ho  trovato 
»  alcune  scritture  vecchie,  in  doi  tomi  in  foglio,  che  tutte 


(1)  Leltera  (1623,  gennaio  16)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card* 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  250^  (minuta  autog.) 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  26)  dell'ÀUacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38.,  e.  250^  (minuta  autog.) 

(3)  Mone  F.  L,  Zur  Geschichte  der  Heidelberger  Bibtiotheken  (cit 
a  pag.  275.) —  Zwei  Dokumente  zur  Geschichte  der  Heidelberger  Uni- 
versitatsbiblioiek  (Neuer  Anzeiger  fur  Bibliogr.  und  Bibliotekw.  Jahrg. 
1864.  N.  838,  pag.  324-328). 

(4)  Theiner,  Schenkung  ecc.,  pag.  38. 

(5)  Ms.  cit.  B.  38,  e  145^—147'  (originale);  e  Carte  Allacci,  Filza 
GXXVII,  (copia).  Pubblicata  dal  Theinek,  Schenkung  ecc.  Docum.  XXIII, 
pagg.  78-81.  E  qui  ripubblicata,  Doc.  VI. 


LEONE  ALLAOCI  E   LA  PALATINA  DI  HEIDELBERO  295 

>  appartengono  o  sono  Atti  del  Concilio  Basilense  o  Gon- 

>  stantiense  ;  che  se  bene   non  è  V  originale ,  pare  però 

>  cosa  degna  per  la  saa  antichità.  E  cosi  ancora  ho  trovo 

>  alcuni  altri  libri  manoscritti  e  sono  alquanti;  li  quali 
»  non  so  se  li  potrò  bavere  :  non  mancherò  però  di  pro- 

>  curare,  e  già  ho  cominciato  a  trattare  questo  negotio; 
»  et  in  loco  di  quelli  libri,  li  darò  altri  tanti  duplicati 
»  delli  libri  stampati  che  io  bisogna  che  lasci  qui,  li  quali 

>  però  saranno  dei  catolici  ;  che  delli  heretici,  anchor  che 

>  a  loro  non  ne  manchino,  non  mi  pare  cosa  giusta  di 
»  fargliene  copia  >  (1).  Ma  più  largamente  ancora,  in  una 
posteriore  lettera  al  cardinale  Ludovisi,  parlava  di  tal  nuovo 
acquisto,  dicendogli  :  e  Con  questi  libri  della  Libraria  Pa- 
»  latina  venghono  anchora  i  libri  manuscritti  del  Collegio 

>  della  Sapientia,  che  sono  stati  parechi  et  antiquissimi  : 
»  li  ho  acquistati  non  senza  qualche  travaglio,  perchè  bi- 
»  sognò  che  io  negotiassi  con  li  professori  di  quel  Studio 
»  e  con  r  Università  d' Idelberga,  la  quale  n'  era  patrona  ; 
»  tutti  calvinisti  pessimi,  et  atroci  inimici  del  nome  pon- 
»  tificio,  e  che  già  arrabiavano  per  quell'altra  che  se  li 

>  levava.  Me  l'hanno  dati,  ed  io  in  ricompensa  del  ser- 
»  vitio  fatto  li  ho  dati  altri  libri  stampati  della  Libraria 

>  publica,  li  quali  mi  conveniva  lasciar  in  Hidelberga,  e 
»  di  pocho  conto.  Siamo  rimasti  tutti  doi  contenti  cosi: 

>  io  con  li  manuscritti,  quelli  con  li  stampati.  Mi  dispiace 
»  che  non  habbia  possuto  liaver  nova  d' altri  libri  manu- 

>  scritti  in  quelli  paesi,  perché  mi  dice  l' animo  che  l' ha- 
»  verei  impetrati  dalli  patroni  :  il  tempo  e  la  solecitudine 
»  non  mi  concedeva  mancho  più  »  (2;.  Delle  trattative  con 
ì  professori  serba  forse  traccia  anche  la  nota  dei  libri  a 
stampa  dati  in  cambio  dei  codici  ;  la  quale  registrandoli  in 

(1)  Lettera  (1623,  gennaio  27)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
dì  S.  Su^nna.  Ms.  cil.  B.  38.,  e.  250.r-t.  (minuta  autogr.) 

(2)  Lettera  (1623,  marzo  7)  dell' Allacci,  da  Monaco,  al  card.  Lu- 
dotisi.  Ms.  ciL  B.  38,  e.  257^—258^  (minuta  autogr.) 


296  CURZIO  MAZZI 

serie  diverse,  per  sesto,  si  rifa  dagli  ìd  folio  ;  quasi  una  se- 
conda nota  d'aggiunta  per  riuscire  nell'  intento  (1):  e,  messa 
a  confronto  con  l'altra  dei  manoscritti  ottenuti,  ci  rivela  qual 
buon  affare  sapesse  conchiudere  V  Allacci  con  i  libri  «  di 
poclìo  conto  »  ceduti.  Cosi  egli  aveva  oramai  raccolto  un 
bel  numero  di  codici  e  libri:  onde  più  tardi,  compiuto 
già  il  trasporto,  potè  dire,  con  un  certo  orgoglio,  che  par- 
tito da  Roma  per  andare  a  prendere  una  biblioteca,  n'a- 
veva invece  condotte  tre  (2)  :  due  Palatine,  la  pubblica  e 
la  privata,  e  questa  della  Sapienza.  Dei  volumi  per  tal 
modo  venuti  in  sua  mano,  sembra  che  avesse  una  certa 
libera  disposizione,  sebbene  dalle  Istruzioni  ricevute  in 
Roma  non  apparisca.  Ai  12  febbraio  di  queir  anno  me- 
desimo 1623  lascia  in  deposito  presso  il  governatore 
Enrico  di  Metternich ,  senza  dircene  la  ragione ,  otto 
libri  di  canto  corale,  cioè  due  Antifonarii,  tre  libri  di 
Responsori  ,  uno  della  Passione  dì  Gesù  Cristo ,  altro 
delle  Lezioni  dei  Morti  ed  altro  di  Prefazioni  (3)  :  e  nello 

(1)  Questa  nota  é  nel  Ms.  cit  B.  38,  e.  153' — lòS**;  e  la  riferisco 
nel  Docum.  VII. 

(2)  Lettera  (16i23,  marzo   12)  dell'Allacci,  da  Monaco,  a  Niccolò 
Alamanni.  La  riferisco  più  innanzi. 

(3)  La  ricevuta  oiiginale  con   la   firma  autografa  del  Metternich,  é 
nel  cit  Ms.  B.  38.,  e.  72^ 

€  Fateor  ego  infrascriptus  me  a  reverendissimo  domino  Leone  Ailacio 
»  subseipientes  cantus  choralis  libros  quinque  in  folio  pergamene  maiori 
»  et  tres  in  simili  folio  minori  conscriptos  ac  subscriptione  propriae  manus 
»  et  sigilli  praefati  domini  Leonis  Allacij  signatos,  in  deposito  accepisse: 
)  scilicet  duo  Antiphonaria,  tres  libros  Responsoriorum  et  versiculorum, 
»  librum  unum  Passionis  Christi,  unum  Lectionum  mortuonim,  ac  unum 
»  Praefationum  ;  quos  eidem  vel  Summo  Pontifici,  quando  libuerit,  resti - 
»  tucre  sum  paratissimus.  In  fìdem  hoc  loco  recognitionis  subscripsi  ac 
9  sigillo  meo  munivi.  Actum  Heidelbergae  12  februarij  anni  1623. 
(l.  s.)  Henricus  a  Metter- 

nich prò  tempore 
locum  tenens 
Heidelbergensis.  » 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  297 

Slesso  giorno  dona  a  Gottardo  Voegelin,  libraio  e  stam- 
patore in  Heidelberg,  nn  opuscolo  chinese  a  stampa  di 
trentadue  fogli  (1). 

I  codici  cosi  raccolti  erano  dall'  Allacci  registrati,  egli 
stesso  ce  l'ha  detto,  con  nn  numero  progressivo,  sepa- 
ratamente i  greci  dai  latini;  alleggeriti  delle  pesanti  co- 
perture in  asse,  se  non  avessero  pregio  artistico  o  storico 
per  il  manoscritto;  e  riposti  per  il  trasporto  nelle  casse 
formate  in  gran  parte  con  gli  scaffali  della  Palatina  stessa 
e  con  le  tavole  che  nel  castello  di  Heidelberg  rivestivano 
le  pareti  nell'abitazione  del  vinto  Elettore.  Né  le  sole 
casse  parvero  custodia  sufficiente,  rispetto  alla  lunghezza 
del  viaggio  ed  alla  delicata  qualità  di  ciò  che  trasporta- 


(1)  La  oscura  rìceTula  scritta  tutta  di  pugno  del  Voegelin,  e  con  la 
testimoDÌanza  autografa  del  Metternich,  è  nello  stesso  Ms.  B.  38.,  e.  105': 
e  Gotthardus  ego  Voegelinus,  Glectoralis  Palatinatus  typographus  et 
bibliopola  Haidelbergensis,  hac  propria  scripturae  manus  meae,  coram 
magistratu  et  Gubernatore  metropolis  huius  nobilissimo  ?iro  domino 
Heinrìco  a  Metternich,  domino  meo  perquam  clemente,  ostensa  et 
exarata,  generoso  domino  Leoni  AUatio,  posteaquam  is  notitià  sui  me 
dìgnatus  est,  in  grati  animi  et  obsenrantìae  signum,  e  librorum  post 
captam  nuper  hanc  melropolim  mihi  superslitum  reliquiolis,  dono  de- 
disse libellum  grandioribus  characteribus  quos  tamen  interstringuunt 
minutiores,  lingua,  chartà  atque  typo  Chinensium  editum,  et  olim  a  me 
cum  aliis  sui  sirailibus  Francofurti  ad  Moenum  in  mercatu  comparatum, 
qui  contioet  folia  integra  coHigata  triginta  duo,  cum  dimidio  quod  prae- 
cedìt  folio  non  impresso.  In  doni  huius  et  dictura  librum  nec  domino 
AUatio  nec  mihi  aliunde  esse,  fidem  atque  testimonium  sincerum,  haec 
manu  mea  scrìpsi,  eademque  nomen  etiam  meum  subscripsi,  et  sigillum 
familiae  meae  haereditarium  appressi.  Actum  Haidelbergac  XII  februarii 
A.*  MDCXXIH. 

(L  s.)  (l  s.)  Gotthardus  Voegelinus 

Haic  me  donatiooi  simul  ac  manu  propria 

traditioni  me  interfuisse 
(ateor  ego  Henrìcus  a  Met- 
ternich. t 


298  ctmzio  mazzi 

vasi  :  di  che  1*  Istruzione  del  cardinale  Ludovisi  parlava 
chiaramente  (1),  ed  ebbe  esecuzione  per  quanto  fu  possi- 
bile. €  Le  casse  >  ci   dice  l'Allacci,  <  le  volevo  vestire 

>  col  canavazzo  impegolato  :  ma  non  lo  trovando,  né  es- 

>  sondo  commodità  di   farlo   di  nuovo  per  mancamento 

>  della  resina  e  della  pece  ;  e  quando  fosse  stata  la  com- 

>  modità,  la  spesa  era  intolerabile,  che  non  mi  bastavano 
»  seicento  o  sette  cento  tolleri;  col  consiglio  di  qualche 

>  praticho,  s'  è  risoluto  intomo  intomo  alle  casse  far  un 
»  strato  di  paglia  lunga,  alto  tre  o  quattro  detta  (dita),  e  poi 
»  cuscirvi  su  il  canavazzo  e  legarlo  con  fune  forti,  e  cosi 

>  sarebbon  state  assicurate  dair  acqua  :  nondimeno  s'  è 
»  usato  questo,  che  dove  le  tavole  pareva  che  non  s' u- 
»  nissero  bene,  si  poneva  la  stuppa  e  sopra  quella  la  pece. 
»  M' hanno  assicurato  che  questo  basterebbe  ;  e  da  quello 

>  che  ho  visto  insin  bora,  a  me  pare  che  basterà.  S'an- 
sa derà  rimediando  di  mano  in  mano,  secondo  il  bisogno. 

>  Le  casse  piene  sempre  stavano  in  libreria  insino  che 

>  fossero  inchiodate,  il  che  si   faceva  in  mia  presenza  e 

>  da  uno  solo,  non  volendomi  in  questo  fidar  d'altri: 
»  cosi  poi  si  calavano  giù  nella  chiesa,  si  rimettevano 
»  dentro  in  una  cancellata  di  ferro  indietro  il  choro,  et 
»  ivi  s'  accomodava  il  resto  ,  non  permettendo  che 
»  vi  entrasse  nissun  altro  se  non  il  maestro  et  un  sol- 
»  dato  che  T  agiutava  »  (2).  Cosi  tutti  i  manoscritti ,  e 
dei  libri  a  stampa  quelli  trascelti,  presero  il  lor  posto  entro 
le  casse,  e  queste  furono  apparecchiate  al  lungo  viaggio. 
Della  Palatina  rimaneva  tuttavia  la  restante  parte  degli 
stampati,  che  sappiamo  esser  grande  quantità,  pur  com- 
presi anche  questi  nella  donazione,  ma  che  l'Allacci  cre- 

(1)  Vedi  Documento  lì. 

(2)  Lettera  (1623,  aprile  12)  dell* Allacci,  da  Monaco,  al  card.  Lu- 
dovisi. Ms.  cit.  B.  38.,  e.  SGC  (minuta  autogr.) 


LEONE  ALLACCI  E  LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  299 

dette  di  non  dovere  o  di  non  potere  trasportare;  dei 
qaali  non  è  parola  alcuna  nelle  Istruzioni  note.  Frattanto 
però  altri  ordini  circa  questo  particolare  erano  spediti  da 
Roma,  e  il  loro  tenore  ci  si  fa  noto  in  una  risposta  del- 
l'Allacci  al  cardinale  Ludovisi:  «  Alli  9  del  presente 
»  (aprile)  per  via  di  Ratisbona  mi  sono  state  mandate 
»  due  di  V.  S.  Ili»»;  l'una  delli  4  di  febraro  l'altra  delli 
»  11.  Ho  letto  attentamente  tutto  quello  che  mi  s'ordi- 
»  nava,  e  fattone  reflessione,  per  potermene  poi  valere 
»  neir  occasione  (1).  Quando  ero  in  Hidelberga,  più  volte 
»  col  sig.  Governatore  consultamo  sopra  questo  negotio, 
»  di  quello  che  s'havesse  da  far  delli  libri  heretici;  e 
»  convenivamo  in  questo  d'abbruciarli;  e  già  si  sarebbe 
»  eseguito.  Ma  vedendo  la  malvaggità  de'  cittadini  et  il 
»  non  potersi  in  tutto  fidar  nelli  soldati,  la  maggior  parte 
»  delli  quali  erano  heretici,  giudicamo  meglio  per  allhora 
»  il  trattenersi:  tanto  più  che  a  me,  mentre  tenevo  anchora 
»  la  libraria  in  Hidelberga,  non  riuscivano  (sic)  li  tumulti 
»  per  ogni  cosa  che  potesse  nascere;  et  io,  per  dir  la 
»  verità,  non  volevo  che  altri  havesse  pigliato  esempio  et 
>  havesse  tentato  nelli  miei  libri  quello  che  io  tentavo 
»  nelli  altri;  il  che  sarebbe  stato  cosa  facile  perché  li 
»  libri  bisognava  che  stessero  in  chiesa  per  non  capir 
»  nella  sacrestia;  et  erano  più  pericolosi  per  la  paglia 
»  che  li  era  legata  intorno.  E  questo  fu  il  maggior  trava- 
»  glio  che  mai  m'habbia  havuto  in  queste  parti,  non  solo  in 
»  Hidelberga,  ma  anchora  nel  viaggio  quando  tornavo,  il  du- 
»  bio  che  qualcheduno  non  li  desse  fuocho:  e  cosi  più  vuolte 
»  di  notte  (2)  andava  per  visitarli.  Adesso  che  sono  assi- 


(1)  Seguiva:  e  In  alcuna  cosa  non  sono  più  a  tempo;  come  a  far 
1*  incendio  delli  libri  heretici.  »  Poi  cancellato. 

(2)  Areva  scritto:  e  di  notte  mi  levavo  dal  letto  per  visitarli.  »  Po 
cancellò. 


300  CURZIO  MAZZI 

»  carati  questi  (1),  si  può  ordinare  dì  quelli  altri  quello 

»  che  comanderà  V.  S.  Ilh%  che  V  eseguirò  ;  perchè  io 

»  non  li  ho  consegnati  in  poter  di  nissuno  acciò  n'  habbia 

»  a  disponere,  ma  sigillate  tutte  le  porte  {della  Biblio- 

»  teca)  (2)  col  mio  sigillo,  ho  consegnate  le  chiavi  d'esse 

»  al  sig.  Governatore  che  le  tengha  ad  instanza  di  Nostro 

»  Signore.  Mi  duole  non  haver  possuto  esser  istromento 

»  di  questo  incendio  in  honor  d' Iddio  ;  se  bene  mi  con- 

»  solo  che  quelli  che  ho  lasciati  li  ho  talmente  strapaz- 

»  zati,  delli  legati  parlo,  e  posti  in  confusione  li  sciolti, 

»  che  non  pare   più   libreria,  ma  mina:  ho  mandato  a 

»  male  dei  libri  sciolti  delli  heretici,  che  essi  da  tutte  le 

»  parti  del  mondo  andavano  raccogliendo  e  che  non  ha- 

»  vevano  havuto  tempo   da   farli  legare,  passa  la  valuta 

»  di  trenta  miUa  tolleri;  tanti  ne  erano  !  e  lì  ho  talmente 

»  aconci  che  sarà  impossibile   che  mai  più  se  ne  possa 

»  mettere  uno  insieme  :  et  in  questi  freddi  eccessivi,  molti 

»  delli  legati  (3)  di  di  e  di  notte  m'  hanno  tenuta  calda 

»  la  stufa.  Di  queste  carte  disperse,  n'ho  data  una  buona 

»  parte  a  molti  soldati,  per  quando  carìchano  li  loro  mo- 

»  schetti.  Delli  manuscritli,  o  sia  stalo  d' heretici  o  de'  ca- 

»  tholici,  non  è  andato  a    male  nissuno;  ma  tutti  se  ne 

»  vengono  alli  piedi  di  Nostro  Signore,  acciò  sentano  la 

»  loro  sentenza.  Et  in  questo  n'  ho  havuto  gusto  parti- 


(1)  Cioè  i  libri  incaminati  verso  Roma,  e  giunti  in  Monaco  d*onde 
egli  scrive;  compiuta  già  la  parte  prima  del  viaggio  e  la  più  pericolosa, 
perchè  attraverso  un  paese  di  nemici  e  di  non  cattolici. 

(2)  E  subito  dopo  partito  da  Heidelberg  scriveva  al  conte  De  Tilly: 
e  Le  porte  della  Libraria  V  ho  tutte  sigillate  col  mio  sigillo,  e  consegnate 
»  le  chiavi  al  sìg.  Decano,  acciò  possano  servir  a  qualsivoglia  ordine.  > 
Lettera  (1623,  febbraio  17)  dell' Allacci,  da  Neckarsuhn,  al  conte  De 
Tilly:  Ms.  cit.  B,  38.,  e.  21  It. 

(3)  Aveva  scrìtto:  e  molti  delli  legati  e  con  le  loro  coperte,  t  Poi 
cancellò. 


LEONE  ALLAOCI  E  LA  PALATINA   DI   HEIDELBERO  301 

»  colare  perchè  si  vede  T  infamia  di  questi  manigoldi:  io 

»  credo  che  in  lingua  italiana  o  in  latina  poche  Pasqui- 

»  nate  siano   fatte   contro  la  chiesa  o  contro  il  Sommo 

»  Pontefìce  che  non  siano  state  raccolte  equi  :  l' ho  poste 

»  tutte  insieme  e  se  ne   vengono  a  Roma;  cosi  anchora 

»  molti  e  molti  avisi,  e  molte  lettere,  le  quali  F  ho  trovate 

»  non  solo   nella   Bibliotheca  pubblica,  ma  nella  privata 

»  del  Palatino  (1). 


II 


Questa  dunque,  descritta  da  colui  stesso  che  loro 
la  fece,  si  fu  la  condizione  dei  rimanenti  stampati  della 
Palatina  non  trasportati  a  Roma,  che  il  Theìner  sulla  trac- 
cia d' una  lettera  dell'  Aldringer  dice  dati  in  dono  ai  frati 
Francescani  (2).  Per  gli  altri  da  trasportarsi  e  per  i  ma- 


(1)  LeUera  (1623,  aprile  i2)  dell' Allacci,  da  Mocaco,  al  card.  Lu- 
dovisi.  Bfs.  ciL  B.  38.,  e.  259.t  (minuta  aatogr.) 

(ì)  Srkenkung  ecc.  pag.  27.  Dove  descrìve  T  Allacci  intento  alla 
scelta  delle  opere  a  stampa  della  Palatina  e  deren  Masse,  nach  seiner 
»  Aussage  so  gross  war,  dass  sie  allein  Qber  500  Frachtwagen  anfuUen 
»  wurden,  hatten  sie  alle  mitgenommen  werden  mQssen  »  :  onde  preso  il 
meglio,  e  doch  weil  es  meistens  Werke  der  Reformaloren  warcn,  so  liess 
•  sie  Abcci  zQruck.  Eine  bedeutcnde  Anzahl  dieser  zuruckgelassenen  BQ- 
>  cher  verschenkte  er  auf  Aldrìngers  Gesucht  an  mehrere  Franziskaner- 
»  kfóster  der  Urogegend.  »  E  rìmanda  ai  Docum.  Vili  (  lettera  dell*  Al- 
lacci al  car.  Ludovisi:  1622,  decembre  23),  IX  (altra  dì  lui  ai  card,  di 
S.  Susanna:  1623,  gennaio  12),  dei  quali  mi  sono  già  valso,  ed  al  Xll 
che  é  una  lettera  di  Giovanni  Aldrìnger  (1623,  gennaio  28:  di  casa) 
airAllacci,  cui  scrìve  e  io  la  supplico  di  favorìre  i  Padri  di  S.  Franc&sco 
con  alcuni  librì  acciocché  vegghino  che  la  mia  intercessione  abbi  trovato 
luogo  1  (Carte  Allacci,  Filza  CXLV,  4:  copia).  I  quali  librì,  se  furon 
dati,  il  che  non  apparisce,  furon  certo  di  cattolici,  dopo  che  dì  quelli 
degli  eretici  non  aveva  voluto  dame  l'Allacci  neppure  alla  Sapienza  di 
Heidelberg  in  cambio  dei  codici  che  n'ebbe.  Vedi  a  pag.  295. 


30^2  CURZIO  MAZZI 

noscritti ,  che  farono  tutti  quanti  n'  aveva  la  Biblioteca, 
era  un  primo  passo  averli  registrati  e  riposti  nelle  casse  ; 
un  piccol  passo,  rispetto  alla  lunga  via  da  Heidelberg  a 
Roma.  Né  tra  le  varie  vie  scegliere  la  migliore  e  il  più 
adatto  modo  di  trasporto,  che  in  gran  parte  dipendeva 
dalla  via  scelta,  fu  agevol  cosa.  Dapprima  si  fu  incerti, 
se  cominciare  il  viaggio  per  acqua  o  per  terra;  poiché 
non  si  trovava  carro  e  in  sorte  alcuna  »,  e  per  acqua  non 
si  poteva  essendo  gelati  i  flumi;  ed  anche  potendo,  bi- 
sognerebbero poi  sempre  i  carri  e  si  troverebbero  più 
difficilmente,  finito  il  viaggio  per  acqua:  pur  l'Allacci 
confidando  che  a  ciò  provvedere  il  conte  De  Tilly  si  la- 
scerà guidare  da  lui  e  dagli  altri  pratici  del  paese  ;  dacché 
«  tutti  si  confrontano  con  l'opinione  del  sig.  duca  di  Baviera, 
»  che  è  condurla  per  via  d'  Herbipoli  (  Wurtzburg),  poiché 
»  si  passa  per  meno  paesi  d' inimici ,  se  bene  non  in 
»  tutto;  e  si  cercherà  d'andar  con  la  guardia  che  pa- 

»  rerà  necessario che  quando  la  Libreria  poi  si 

»  conducesse  a  Monacho,  secondo  tutti  affermano,  saria 
»  secura,  et  io  cercheria  poi  indrizzar  il  camino  a  Roma 
»  sempre  per  paesi  delli  Austriaci  *  (1).  E  il  Tilly,  ap- 
punto giunto  in  Heidelberg,  nel  primo  colloquio  con  l'Al- 
lacci ebbe  a  confessarli  che  il  trasporto  delle  casse  era 
molto  arduo,  si  per  la  difficoltà  di  trovar  carri,  si  per  le 
strade  cosi  triste,  dove  i  carri  affondavano  senza  potere 
andar  innanzi,  come  spesso  era  accaduto  nel  condurre  le 
artiglierie  :  onde,  chiamati  a  consiglio  anche  alcuni  colon- 
nelli, fu  stabilito  di  scrivere  a  Spira  e  a  Magonza  per 
aver  carri  ;  di  mandare  nelle  città,  ancorché  non  soggette, 
e  indurle  a  darli,  o   prenderli  a   forza;  di  promettere  a 

(1)  Lettera  (1622,  decembre  23)  dell*  Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38;  e.  248/  (minuta  autogr.)  Theiner,  Schen- 
kung  ecc.,  Docum.  VUI,  pag.  66. 


LEONE  ALLACCI   E   LA  PALATINA  DI  HEIDELBERG  303 

quelli  del  Wùrtemberg  che  portaDdo  le  casse  dei  libri  a 
Monaco,  ivi  poi  avrebbero  facoltà  di  caricar  sale  nel  ri- 
tonio,  sebbene  di  ciò  ne  fosse  già  parola  con  quelli  che 
trasportavano  le  artiglierie,  che  son  passa  cento  carri, 
mentre  per  la  Biblioteca  ne  bisognavano  forse  trenta.  In- 
tanto il  conte  stesso  andando  a  Ratisbona,  vedrà,  per  via, 
di  trovar  carri,  e  solleciterà  il  duca.  Mentre  T  Allacci,  che 
già  quasi  è  in  ordine,  se  niente  si  sgelerà  il  Neckar,  man- 
derà le  casse  contr'  acqua  a  Wimpfen  dove  si  deve  fare 
la  radunata  dei  carri,  là  dove,  sebbene  città  imperiale,  ri- 
siede un  presidio  del  duca  di  Baviera,  come  in  tutti  i 
paesi  circonvicini  (1).  Dei  quali  carri  era  «  tanta  carestia, 
»  che  per  parecchie  e  parecchie  miglia  d' intorno  non  se 
»  ne  può  veder  uno,  anchor  che  si  volesse  caricar  d'oro 
»  e  donarlo  al  padrone  >  ;  sebbene  non  si  manchi  «  di 
»  far  la  diligenza  per  trovarli  e  con  minacce  e  con  altri 
»  modi,  che  cosi  ha  ordinato  il  sìg.  conte  »  (2).  L'Allacci 
stesso  non  si  stava  inoperoso.  Ai  17  gennaio  egli  scriveva 
a  Filippo  Cristoforo  von  Soetern  vescovo  di  Spira  (3)  e 
allo  stesso  duca  Massimiliano  (4),  chiedendo  la  loro  coo- 


(1)  Lettera  (1623,  gennaio  16)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  250/  (minuta  autogr.). 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  17)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  card, 
di  S.  Susanna.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  201.'  (minuta  autogr.).  E  si  lamenta, 
che  già  sarebbe  fuori  di  Heidelberg  se  non  fosse  questo  impedimento 
dei  carri,  nato  dair  esser  tutti  in  servigio  del  duca  per  condurre  le  ar- 
tiglierìe in  Baviera:  e  rìpete  che,  se  i  diacci  non  l'impediranno,  spera 
di  condurre  le  casse  per  il  Neckar  a  Winfen  dove  staranno  sicure,  finché 
si  troTÌDo  i  carrì. 

(3)  Lettere  (1623,  gennaio  17)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  a  Fi- 
Uppo  Cristoforo  von  Soetern  vescovo,  di  Spira.  Ms.  ciL  B.  38,  e.  204. 
(minuta  autogr.). 

(i)  LeUera  (  1623,  gennaio  17)  deU' Allacci,  da  Heidelberg,  a  Mas- 
similiano duca  di  Baviera.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  20iJ  (minuta  autogr.). 


304  CURZIO  MAZZI 

perazione  per  aver  carri  :  e  di  nuovo,  ai  22,  per  lo  stesso 
motivo,  ancora  ai  vescovo  di  Spira  (1),  e  ai  Luogotenente 
dell'  Ordine  Teutonico  (2) ,  e  all'  «  Auditore  Generale  di 
D.  Gonsalvo  di  Cordova  per  sua  Cisarea  Maestà  »  (3); 
promettendo  al  Luogotenente  certa  la  mercede ,  sicuro  e 
senza  pericolo  il  ritorno,  «  e   quando   volessero   andare 

>  innanzi  (oltre  Wimpfen),  li  prometto  di  farli  caricar  di  sale 

>  fino  a  Monacho,  che  già  di  ciò  n'  ho  parola  da  Sua  Al- 
»  tezza  Serenissima  >:  con  l'Auditore  Generale  ripete  le 
stesse  assicurazioni,  conferma  che  i  carri  «  serviranno 
insino  a  Yinfen,  o,  al  più  lungho  insino  al  paese  dei 
Theuthonico  >,  ed  offre  la  gratitudine  del  pontefice;  e 
professando  di  non  aggiunger  altro,  temendo  di  far  torto 
alla  nazione  di  lui,  prosegue:  «  Li  haverei  mandato  alcune 
»  medaglie  benedette  che  hanno  l'indulgenze  di  S.  Isi- 
»  doro,  indulgenze  grandissime  e  a  pochi  concesse,  ed 

>  alcuni  Agnusdei;  ma  le  mie  robe  non  sono  ancor 
»  gionte:  fratanto  verranno,  e  con  li  carri   farò  parte  a 

>  V.  S.  in  maniera   che  potrà   consolare   qualche   suo 

>  amico;  e  li  manderò  le  copie  dell'indulgenze  ».  Dei 
quali  interpellati  sembra  rispondesse  il  solo  vescovo  di 
Spira,  scusandosi  che  le  devastazioni  della  guerra  toglie- 
vangli  di  mandare  pure  un  sol  cavallo,  soggiungendo:  «  ut 
»  tamen  Consilio  non  desimus,  Dominatio  Yestra  Domi- 
»  num  Decanum  Wimpinensem,  Locumtenentem  Heidel- 


(1)  Lettera  (1623,  gennaio  22)  dell' Allacci ,  da  Heidelberg,  a  Fi- 
lippo Cristoforo  von  Soetern,  vescovo  di  Spira.  Ms.  cit,  B.  38,  e.  205.. 
minuta  autogr.). 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  22)  dell'Allacci,  da  Heidelberg,  al  Luo- 
gotenente deir  Ordine  Teutonico.  Ms.  ciL  B.  38,  e  205.'  (minuta  autogr.)^ 

(3)  Lettera  (1623,  gennaio  22)  delF  Allacci,  da  Heidelberg,  al  detto 
Auditore.  Ms.  ci.  B.  38,  e.  205.',  (minuta  autogr.)  e  Carte  Allacci,  Filza 
CXXVl,  il  (copia). 


LEONE  ALLAOCI  E  LA  PALATINA   DI  HEIDELBERG  305 

»  bergensem,  sub  viriate  obedientiae  monere  poterit,  ut 
>  is  in  praefectura  sua,  praecipue  in  Sintzbeim  et  Bret- 
»  tbeim,  equos  necessarios  subministret  ;  et  si  subditi 
»  nolint,  eos  armata  manu  cogat.  Ita  hoc  modo  Sanctìs- 
»  Simo  Domino  Nostro  et  Dominationi  Vestrae  abunde 
»  satisfierì  poterit*  »  ^1);  e  di  nuovo  ai  25  gennaio  rispondeva 
parergli  e  vaide  lepidum  »  che  il  Luogotenente  d^Heidel- 
berg,  quasi  in  tutto  il  Palatinato  non  fosservi  altrove  ca- 
valli e  carri,  non  volendo  chiederli  a  quei  di  Bruxelles, 
tornasse  ingiustamente  a  domandarli  a  lui,  ai  suoi  miseri 
sudditi,  ridotti  alla  estrema  miseria  dalle  rapine;  conchiu- 
dendo come  e  inquisitione  facta  constat  paucissimos  quidem 
aliquos,  sed  tales,  inveniri,  qui  si  omnes  in  unum  solum  cur- 
mm  adigerentur,  ferundis  propriis  ossibns,  non  vehendis 
ODeribus,aptos  et  sufBcientes  fore  »  (2).  Onde  l'Allacci  dovette 
confessare  al  cardinale  Ludovisi,  che  tante  sue  lettere,  quelle 
€  insino  ai  campo  delti  Spagnoli  >,  e  gli  stessi  «  ordini  rigo- 
rosissimi »  del  Conte,  non  avevano  fatto  venire  pure  un  carro 
solo,  tutti  requisiti  com'  erano  dai  commissarìi  del  duca 
di  Baviera,  che  già  n*  avevano  raccolti  più  di  cinquecento 
per  mandare  Y  artiglierie  a  Monaco  ed  altri  ne  cercano  : 
sicché  avrà  egli  nuovo  ricorso  alla  suprema  autorità  del 
duca,  conferirà  col  vescovo  di  Spira,  o  dovrà  prendere  altri 
partiti,  riponendo  le  casse  nella  fortezza  di  Spira,  e  quindi, 
munito  d'un  passaporto  dell'  arciduca  Leopoldo  d' Austria 
che  le  dica  sue  e  comandi  ai  soldati  e  sudditi  suoi  di  di- 
fenderle, s'imbarcheranno  nel  Reno  e  si  condurranno  con- 
tr' acqua  sino  a  Breisach  e  poi  a  salvamento  pel  Tirolo: 


(1)  LeUera  (1623,  gennaio  21)  di  Filippo  Crìsloforo  von  Soetern, 
vescoTO  di  Spira,  da  Udenheino,  ali*  Allacci.  Ms.  cit  B.  38,  e.  2/  (orìg. 
e  firma   autogr.  )  Th^iner  ,  Schenkung ,  ecc. ,  Docum.  X ,  pagg.  68-69. 

(2)  Lettera  (1623,  gennaio  25)  dello  stesso  vescovo  e  dal  medesimo 
luogo  all*AllaccL  Bis.  cit.  B.  38,  e.  5'  (orig.  e  firma  autogr.) 


306  CURZIO  MAZZI 

la  quale  via,  se  riesce  più  lunga,  è  meno  dispendiosa,  per  il 
tratto  in  acqua,  e  più  sicura ,  passando  per  una  città  sola  di 
nemici,  Argentina  (Strasbourg);  mentre  V  altra  via,  la  con- 
sueta, per  Basilea  e  Monaco  attraversa  almeno  quattro  luo- 
ghi e  di  inimici  e  perfidi,  delli  quali  Thuomo  non  si  può  fidare 
niente  >  :  ma  di  tutto  terrà  parola  a  voce  col  vescovo  di  Spi- 
ra, se  potrà  trovare  un  cavallo  per  andare  a  lui  (1).  E  invero, 
dopo  aver  scrìtto  di  nuovo  ai  29  gennaio,  al  duca,  ri- 
chiedendo carri  (2)  preparava,  nel  caso  che  questi  man- 
cassero, il  nuovo  itinerario.  Già  nel  primo  giorno  di  feb- 
braio era  in  Spira  a  conferire  in  proposito  col  vescovo, 
dacché  Giovanni  Aldringer  si  era,  prima  di  partire  trattenuto 
quel  giorno  in  Heidelberg,  aspettando  l'Allacci,  cui  scrìve, 
egli,  imperiale  e  Feldmarschall  »,  alcune  notizie  sul  viag- 
gio circa  le  scorte  dei  soldati  (3):  e  le  pratiche  erano  già 


(1)  Lettera  (1623,  gennaio  26)  dell*  Allacci,  da  Heidelberg,  al  card. 
Ludovisi.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  250.t-251/  (minuta  autogr.). 

(2)  Lettera  (1623  gennaio  29)  dell*  Allacci,  da  Heidelbei^,  a  Mas- 
similiano, duca  di  Baviera.  Ms.  cit.  B.  38,  e.  210.'  (minuta  autogr.). 

(3)  Lettera  (1623,  febbraio  1)  di  Giovanni  Aldringer,  da  Heidelberg, 
a  Leone  Allacci.  Ms.  cit.  B.  38.  e.  8  (autogr.)  Thciner,  Schenkung  eco- 
Docum.  XI V,  pagg.  71-72  —  Non  potendo  più  a  lungo  aspettare  in  Hei- 
delberg ch'egli  ritorni  da  Spira,  dove  il  soggiorno  prolungato  crede  dia 
buona  speranza  per  il  viaggio,  gli  manda,  insieme  con  la  presente,  una 
lettera  pervenuta  per  mezzo  del  signor  Gigli,  e  soggiunge  :  e  Tengo  che 
»  Vostra  Signoria  sia  per  fare  il  viaggio  d'Alsazia;  ma   quando  ciò  non 

>  segua,  e  che  ella  abbia  da  servirsi  del  camino  verso  Baviera,  le  serva 
»  per  aviso  che  qui  potrà  avere  il  convolo  {la  scorta)  sin  a  >Vimpfcn,  e 

>  dì  là  potrà  essere  convoiato  con  la  gente  che  vi  è  in  presidio,  sincbó 
»  arriverà  nel  territorio  d*Ala  (Aalen),  ove  pure  troverà  il  reggimento 
»  del  sig.  colonnello  Truchers,  che  potranno  convolarlo  sin  a  Elwang 
»  (Elwangm),  e  più  oltre  occorrendo.  »  Però  converrà  che  il  Commis- 
sario Generale  «  ne  scriva  alli  signori  il  di  cui  territorio  s*ha  da  passare, 

>  ricercandoli  per  il  quartiere  et  per  il  passo,  ed  altre  cose  ancora;  e 
»  starà  poi  a  Vostra  Signoria  dare  qualche  cosa  alli  soldati.  »  La  carica 
militare  dell* Aldringer  ci  è  data  dal  Theiner,  Schenkung  ecc.  pag.  32. 


LEONE  ALLACCI  E   LA  PALATINA   DI   HEIDELBERG  307 

condotte  innanzi,  se  ai  5  dello  stesso  febbraio  Leopoldo 
arciduca  d'Anstrìa  rispondevagli ,  rassicurandolo  quanto 
alla  città  d'Argentina  (1),  e  per  il  rimanente  viaggio  at- 
traverso i  suoi  stati  spedivagli,  nello  stesso  giorno  5,  un 
ampio  passaporto  o  salvacondotto  d'esenzione  da  ogni 
gravezza,  con  ordine  che  le  casse  e  il  loro  duce  fossero 
da  ogni  suddito  rispettate  e  difese  (2). 

(Continua) 

Curzio  Mazzi 


<1)  Lettera  (1623,  rebl)i*aio  5)  di  Leopoldo  arciduca  d'Austria,  da 
Ruffach  (e  Rubeaci  >),  a  Leone  Allacci.  Ms.  ciu  B.  38,  e.  16  (orig.  e 
tìrma  autogr.)  Theiner  ,  Schenkung  ecc.  Docum.  XVII ,  pag.  li.  Crede 
miglior  Tia  quella  per  acqua  fino  ad  Argentina:  e  per  il  sicuro  prose- 
guimento per  terra,  oltre  questa  città,  scrìve  di  provvedere. 

(H)  L'orìginale  di  questo  salvacondotto,  datato  anch'esso  da  RufTach 
•Il  5  febbraio  16:23,  formi  ora  la  e.  125  del  cit  Ms.  B.  38. 


SER  PIERO  BONACCORSI 

E  IL  SUO 

CAMMINO  DI  DANTE 


(Gontinuaz.  e  Gne  da  pag.  5,  N.  S.,  Voi.  IV,  Parte  I) 

Fratri  Romulo  de  Medicis  Conventuali  in  Sancta  Cruce 

DE  FLORENTIA  PlEBUS  SER  BONACHURSIJ  SaLTJTEM. 

Somma  dilectione  della  vostra  paternità  mi  commuove  a 
scrivervi,  Reverendo  padre,  ricordandomi  della  vostra  richiesta 
e  mia  promissione  factavi  già  fa  più  di  Et  questo  fu  di  darvi 
per  iscripto  succintamente  il  cammino  che  fé*  il  nostro  elegantis- 
simo e  superlativo  poeta  fiorentino  Dante  Àldighieri  per  la  sua 
commedia,  la  quale  distinse  e  divise  in  tre  cantiche,  cioè  In- 
ferno Purgatorio  e  Paradiso.  À  che  bench'io  sia  stato  lungo, 
non  voglio  però  che  passi  senza  satisfarvi  della  mia  promessa. 

Et  se  per  questo  presente  mio  scrìpto  io  non  satisfacessi 
appieno  alFampla  materia  tractata  con  sottilissimo  ingiegnio,  mi 
fido  nel  ocdmo  intellecto  vostro  e  buona  memoria  con  che 
saprete  meglio  pigliare  e  ritenere  che  io  porgiere  o  monstrare, 
congniosciendo  bene  che  a  tanta  materia  la  mia  fantasia  è  troppo 
bassa.  Ma  chi  fa  quello  che  sa  o  può  non  è  tenuto  a  piii,  e  però  mi 
pongho  inferiore  a  qualunque  questa  opera  meglio  intende  e 
dimostra  di  me.  E  come  a  bocha  vi  dissi,  non  è  mia  intentione 
di  darvi  le  moralità  e  spositioni  del  testo ,  perchè  sarebbe 
troppo  lungo ,  e  presumptlone  la  mia  par^igonandomi  con 
lectera  in  tanta  opera,  benché  i)er  intenderia  più  tempo  ci  abbi 
speso.  Ma  sonci  stali  molti  egregii  doctori,  i  quali  sopra  di  ciò 
anno  facti  e  scrìpti  prolixi  comenti  publici  e  noti  :  da  quegli 
ne  potrete  avere  opiima  doctrina.  Io  solamente  intendo  di  darvi 
la  lettera  secondo  ch'ella  suona  e  sen^a  moralità  il  suo  schietto  cam' 
mino,  non  tochando  etiamdio  tucto,  ma  le  parti  più  principali  e 
più  notabili.  Et  questo  per  mostrarvi  l'ordine  mirabile  che  tenne 


SER  PIERO  BONACCORSl  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  309 

nel  suo  poema  il  prefato  poeta;  nel  quale  e  pel  quale  ordine  par 
ohe  sia  più  famoso  e  più  d' ingiegnio  commendato  che  per  mo- 
strare esser  perito  e  docto  in  theologia  philosofia  et  nelle  secte 
liberali,  come  in  verità  fu  ;  però  che  de'  Theologi ,  philosaphi 
e  altri  nelle  liberali  arti  ce  n'è  stati  assai  come  lui  e  più  docti, 
come  pe*  publici  e  alti  volumi  di  cantori  de  Spirito  sancto  e 
philosophi  e  altri  scientifici  chiaramente  è  manifesto.  Ma  ninno 
p;ir  che  si  truovi  aver  presa  più  alta  e  leggiadra  materia  e 
con  più  ordine  averla  tractata  di  lui.  Si  che  nelF  ordine  suo 
bello  mi  par  che  sia  da  esser  sommamente  commendato:  et 
in  ogni  altra  sua  cosa,  ma  in  questo  più  ecellentemente.  Sf  che 
in  questo  suo  ordinato  cammino  sarà  il  mio  scrivere,  il  quale 
inteso,  che  arete,  credo  sarà  causa  eflBciente  ad  invitarvi  a  ve- 
der poi  più  oltre  che  quello  che  suona  la  lectera,  socto  la  quale 
son  nascose  grandissime  moralitadi  et  profonda  scientia.  E 
questo  sia  la  commentatione  et  lo  intellecto  del  testo;  il  quale 
se  diliberrete  dipoi  leggiere  e  intendere ,  m'  offero  esser  con 
voi  parato,  se  vi  piacerà,  acciò  che  insieme  repetendo  e  dispu- 
tandone, ne  possiamo  avere  più  perfecta  cognitione  et  doctrina. 
Et  rendomi  certo  che  veduto  che  Taremo  tucto  e  insieme  ra- 
cholto,  vi  parrà  da  quello  aver  preso  non  minor  fructo  che  da 
altro  volume  quantunque  sacro  e  famoso  del  vostro  studio  di 
convento.  Et  forse  giudicarete  il  mio  esser  temerario  parlare 
a  dir  cosi  Ma  il  fine  sia  testimonio  del  vero:  e  però  comin- 
cieremo. 

(  *)  Nel  nome  della  individua  trinità  padre,  figliuolo  e  spirito 
sancto,  sotto  la  cui  reverentia  et  honore  degnamente  si  dee  pro- 
cedere ad  ogni  acto,  e  senza  il  cui  aiuto  niun  principio  diritta- 
mentis  si  fonda,  dico,  adunque  che  essendo  il  prefato  poeta  no- 
stro nel  mezo  cammino  di  sua  vita,  si  ritrovò  di  nocte  in  una 
selva  scura,  né  come  in  quella  s*era  intrato  si  ricordava,  ma 
ismarrita  la  via  andava  per  essa  errando.  E  finalmente  dopo 
molta  paura  pervenne  appiè  d*  um  colle  nel  principio  del  gior- 
no, la  cui  estremità  et  altezza  era  irradiata  dal  sole  che  già 

(')  Nel  codice  qui  s*  incomincia  a  capo  di  un  altro    foglio  e  con 
kiien  iniziale  più  grande. 

\ul  IV,  Parlo  I.  20 


310  G.  BRUSCHI 

nasceva.  Sicché  veggiendosi  uscir  della  obscura  selva  dove  la 
passata  nocte  ebbe  assai  passata  paura,  et  veggiendo  il  sole  et 
il  giorno  chiaro,  assai  si  rallegrò,  et  prese  via  per  la  piaggia 
diserta.  Et  quasi  al  cominciare  dell*  erta  gì*  apparve  incontro 
una  lonza,  animai  prompto,  che  tanto  lo  impedì  nel  suo  cam- 
mino, che  fu  per  ritornare  in  drieto  più  volte  volto.  Ma  pur  pi- 
gliando cuore  per  rispetto  del  di  chiaro,  la  trapassò  s^uitando 
air  insù  per  suo  cammino.  Et  passata  questa  lonza,  inconta- 
nente gì* apparve  un  leone  et  una  lupa;  e  di  questa  lupa  di 
nuovo  hebbe  tal  paura  venendogli  contro,  che  perde  la  speranza 
del  salire  al  poggio,  quantunque  dal  leone  si  riparasse:  e  ri- 
volto adietro  dalla  detta  lupa  era  ripinto  nella  selva.  E  mentre 
che  lui  rimirava  in  basso,  gì'  apparve  Virgilio  poeta  mantovano, 
ad  cui  esso  Dante  si  racomandò ,  e  mostrogli  la  fiera  per  cui 
s*era  rivolto  verso  la  selva,  dicendo:  Aiutami  da  Ilei  famoso  e 
saggio  etc.  Et  in  questo  Virgilio  lo  persuade  e  conforta  a  pi- 
gliare altra  via  et  a  doverlo  seguitare,  promettendogli  salutifero 
cammino  e  volergli  monstrare  lo  'nferno  e  purgatorio ,  e  nel 
fine  d*  esso  purgatorio  lasciarlo  ad  guida  d*  una  anima  degna 
che  lo  conduce^  ad  vedere  Iddio  e*  luoghi  de' beati ,  dove  Vir- 
gilio dice  non  lo  poter  condurre  lui,  perchè  in  sua  vita  fu  al 
mondo  innanzi  all'advento  di  Christo,  et  fu  ribellante  alla  suo  leg- 
gie,  E  con  queste  parole  e  più  altre  facte  insieme,  Virgilio 
prese  il  cammino,  e  Dante  ben  disposto  gli  seguitò  drieto.  E 
camminando  insieme  e  facta  già  sera.  Dante  richiese ,  Virgilio 
che  Io  examini  se  gli  par  [)0ssente  a  seguitarlo  in  tanto  cam- 
mino preso:  e  Virgilio  gli  dice  di  sì,  tacitamente  allegandogli 
che  giù  vi  sono  andati  altri,  cioè  Ene^,  etc.  E  Dante  gli  ri- 
sponde e  dice:  se  vi  andò  Enea  e  poi  vi  andò  San  Paolo  credo 
fusse  dispositione  di  dio  per  buon  fructo  che  di  ciò  dipoi  do- 
veva seguire,  cioè  a  fortitìcalione  della  fede.  Ma  io  non  eneii, 
non  pavolo  sono,  e  però  me  degnio  acciò  né  io  né  altri  il 
crede;  e,  quasi  rivolto  di  proposito,  aspectava  la  risposta  di  Vir- 
gilio, n  quale  vedendolo  offeso  da  viltà  e  quasi  ambiguo  e 
dubioso  a  seguitarlo,  cominciò  a  riconfortarlo  con  vere  i-agioni,  et 
dissegli  la  cagione  della  sua  apparitione  a  llui  in  su  la  piaggia 
a  scamparlo  dal  pericolo  suo  e  dalla  lupa.  La  quale  apparì- 


SER  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  311 

tione  procedette  di  volontà  di  dio  et  di  tre  donne  benedecte, 
cioè  Beatrice,  Lucia  e  Rachael  di  paradiso,  e  a  llor  petitione 
uscì  dal  limbo  d'  inferno  dov'  era  ettemalnìente  collocato,  e 
quindi  venne  al  soccorso  di  lui:  e  però  senza  più  dire  se  di- 
sponessi a  seguitarlo,  poiché  in  suo  aiuto  aveva  nel  cielo  le 
tre  donne  beate.  E  queste  parole  arduamente  acciesono  et  in- 
fìammorono  l'animo  dell'autore  a  seguitar  Virgilio;  e  cosi  ben 
d'accordo  entrarono  nel  cammino  alto  e  Silvestro;  e  prima  per 
l'inferno. 

In  questa» prima  cantica  intende  l'autore  monstrare  il  sito 
0  ver  luc^o  dove  è  posto  questo  inferno;  e  di  poi  la  sua 
proportione  e  forma,  et  oltre  ad  questo  le  pene  e'  tormenti 
nelle  quali  etternalmente  son  punite  l'anime  di  coloro  che  muoiono 
in  disgrada  di  dio  pe'  lor  peccati;  et  i  demoni  ministri  di  que- 
sto inferno.  E  primo  finge  l'auctore  che  questo  luogo  sia  nel 
centro  della  terra,  presupponendo  ch'ella  sia  ritonda  come  una 
mela,  secondo  che  per  astrologia  si  dimostra.  E  che  nel  mezo 
0  ver  centro  di  questo  inferno  sia  quel  puncto  ponderoso  di 
tiicto  l'universo,  a  che  tragono,  pontano,  o  voglian  dire  sono 
sospinte  tucte  le  cose  gravi  e  ponderose  del  mondo.  E  vuol 
che  sia  luogo  equalmente  e  più  di  lungi  dal  cielo  e  luogo 
dì  beati  che  esser  pos&i,  perchè  è  il  puncto  et  il  centro  di  tucta 
la  spera.  E  questo  inferno  secondo  suo  fictione  è  proportionato 
in  forma  d'una  conca,  cioè  largo  più  da  bocca  che  in  fondo. 
Et  dividelo  in  nove  cerchi],  come  dicessi  nove  volte,  fondate 
l'una  sopra  l'altra  in  questa  conca,  et  in  su  la  sponda  di  que- 
sto inferno  pone  una  porti  aperta  e  nel  suo  cardinale  pone 
scripti  questi  versi  terribili,  cioè:  Per  me  si  va  nella  città  do- 
lente, Per  me  si  va  nell'  eltemo  dolore.  Per  me  si  va  fra  la 
perduta  gente,  etc.  Et  drento  alla  decta  porta  pone  uno  fiume 
grande  che  circunda  tucto  l' inferno,  che  si  chiama  fiume  di 
Caronta.  E  qui  pone  l'anime  di  coloro  che  in  questo  mondo  vissono 
senza  fama  e  senza  loda;  e  la  pena  loro  è  che  nudi  corrono  con- 
tinuamente drìeto  a  una  insegna  o  ver  bandiera  di  fanfalucha  in- 
torno a  questo  fiume;  e  la  cagione  del  lor  currere  è  perchè  sono 
perseguitati  e  trafitti  da  innumerabile  quantità  di  vespe,  mo- 


312  G.   BRUSCHI 

sche  e  tafani  senza  alcuna  posa,  e  fannogli  solleciti,  dove  nel 
mondo  furono  sonnolenti  e  pigri.  E  delle  decte  punture  cade 
lor  appiè  sangue  e  puza ,  la  qual  per  la  lor  via  fa  una  broda 
verminosa  e  puzolente.  Et  in  questo  luogo  pone  per  ministro 
e  dimonio  Caron,  vecchio  e  antiquo  et  tucto  velluto  e  canuto , 
il  quale  con  una  barchetta  passa  per  questo  fiume  tucte  Tanime 
che  vanno  allo  inferno.  E  passato  il  fiume,  andando  verso  il 
centro,  trovorono  la  valle  d'abisso  profonda  oscura  e  nebulosa , 
nella  quale  scendendo,  Virgilio  e  Y  anctore  introrno  nel  primo 
cerchio  di  inferno  detto  limbo,  nel  quale  tracia  come  di  sotto 
se  dirà. 

In  questo  primo  cerchio  detto  limbo  pone  Fauctore  T  anime 
dì  fanciugli  innocenti  e  non  batezati;  et  oltre  a  questo  ivi  pone 
un  castello  sette  volte  cerchiato  d'alte  mura  e  circundato  d'  uno 
bello  finmicello.  Nel  quale  castello  pone  V  anime  degli  antichi 
giusti  pieni  di  virtù  e  d'ogni  politica  e  moral  vit:r,  e  benché 
non  avessin  fede  captolicha,  che  furono  innanzi  all'advento  di 
Ghristo,  nientedimeno  observorono  in  loro  et  in  ogni  altri  ragione 
e  giustitia;  e  qui  trovano  Homero,  Oratio,  Ovidio  e  Lucano.  E 
di  questo  luogo  se  partì  Virgilio  quando  andò  al  soccorso  di 
Dante  dalla  lupa  in  su  la  piaggia  per  volontà  e  comandamento 
di  dio  e  delle  tre  donne  beate.  E  più,  ci  trovorono  Aristotile, 
Cesare,  e  più  altri  nel  testo  nominati.  E  le  pene  di  questi  in- 
nocenti et  antichi  giusti  sono  soli  sospiri  senza  guai;  i  quali  so- 
spiri nascono  dalla  lor  consideratione,  pensando  che  quivi  son 
collocati  etternalmente,  né  mai  potranno  vedere  Iddio  né  l'ani- 
me beate;  e  non  per  alcuna  altra  pena  o  tormento  che  lor 
sentono.  E  in  questo  luogho  dice  Virgilio  a  Dante  che  andò  Yhesù 
Christo  e  trassene  l'anime  di  Adamo  e  di  Abel,  Noè,  di  Abraam, 
Isaac ,  lacob  e  di  molti  altri ,  e  fecegli  beati';  e  questo  fu 
mentre  che  lui  stecte  morto.  E  così,  camminando  verso  il  mezo 
di  questo  primo  cerchio,  entrorono  per  uno  ritondo  luogo  o- 
scuro  e  buio  nel  secondo  cerchio. 

Secondo  cerchio  d' inferno,  nel  quale  pone  un  giudice  il 
cui  nome  è  Minos,  dinanzi  al  quale  comparischono  tucte  l' a- 
nime  che  vanno  all'  inferno,  e  da  Ihii  sonno  examinate  e  con- 
dannate a  quella  pena  che  merita  il  lor  peccato.  E  qui   tracti 


SBR  PIERO  BONaOCORSI   E   IL  CAMMINO  DI  DANTE  313 

lei  peccato  della  luxuria  e  di  liixuriosi;  la  pena  de*  quali  è 
;he  sono  menati  e  rivoltati  di  su  di  giù.  di  qua  di  là,  da  uno 
^ento  impetuoso  e  terribile  che  si  chiama  bufferà  infernale,  per 
jna  campagna  et  aria  buia,  nella  quale  non  si  vede  Pun  l'altro; 
;  però  tucta  volta  se  percuotono  insieme  Tanime  a  una  a  una, 
I  due  a  due,  a  dieci  a  dieci  et  a  schiera  a  schiera,  secondo 
:he  son  portate  e  menate  dalla  detta  bufferà,  la  quale  è  etter- 
nale,  e  muj^hia  come  fa  il  mare  per  tempesta.  E  qui  trovarono 
anime  di  Semiramis  regina  di  Eibillonia,  di  Paris,  di  Elena, 
di  madonna  Didone  di  Cartagine,  di  Cleopatra  luxuriosa  e  di 
più  altri  :  et  infine  V  anime  di  Francescha  da  Ravenna  e  di 
Favolo  Malatesta  da  Rimine,  cognati  e  morti  d'un  tempo  per  tal 
vitio  di  luxuria,  con  che  parlorono  molte  cose.  E  per  pietà 
del  lor  caso  e  morte.  Dante  usci  quasi  del  senso:  e,  quasi  dor- 
mendo, di  questo  secondo  cerchio  insieme  con  Virgilio  disce- 
soDO  giù  nel  terzo  che  men  luogho  cìgnia. 

Terzo  cerchio,  dove  tracta  del  peccato  della  gola  ;  e  qui 
pone  uno  demonio  infernale  in  forma  quasi  di  cane,  salvo  che 
va  ritto  in  su  due  pie  d'uccello,  col  ventre  largo  et  unghiate 
le  mani  e'  piedi,  con  tre  teste  e  capi  che  ssi  raggiungono  in- 
sieme in  una  gola,  colla  barba  unta  et  atra,  e  cogli  occhi  di 
brascia.  E  costui  pone,  in  figura  di  questo  pechato  di  gola, 
colle  canne  aperte  e  vorace,  e  chiamalo  Cerbero  fiera  crudele 
e  diversa  ;  e  va  urlando  per  questo  terzo  cerchio  si  terribil- 
mente che  Tanime  che  drentro  vi  sono  punite  ne  portano  gran 
|)ena,  et  vorrebono  più  tosto  esser  sorde  per  non  esser  intro- 
nate da  esse  grida.  Et  oltre  a  questo,  esso  Cerbero  graffia,  adun- 
chi;! et  squarcia  la  pelle  a  esse  anime  quivi  collocate;  e  non 
basta  questa  Pena,  che  etiamdio  piove  loro  adosso  continua- 
mente grandine  grossa  et  acqua  tincta  e  neve.  E  tra  costoro 
trova  un  fiorentino  chiamato  Ciaccho  di  tal  vitio  maculato, 
con  chi  parla  molte  cose.  E  cosi  di  questo  cerchio  scesono  giù 
nel  quarto  che  è  più  strecto. 

Quarto  cerchio,  dove  si  punisce  il  peccato  dell'  avaritia 
e  prodigalità.  E  qui  trova  V  autore  il  gran  nimico  della 
umana  generatione,  cioè  Plutone  lupo  voracissimo  e  bestiale 
che  dopo  il  pasto  à  più  fame  che  prima ,  e  qui   è  posto  in 


314  G.  BRUSCHI 

figura  di  questo  peccato  dell*  avarìtia  e  ministro  in  questo 
quarto  cerchio.  E  qui  si  puniscono  ranime  in  tal  peccato  cor- 
ropte  et  disordinate;  e  la  noaggior  parte  pone  che  sieno  gran 
preti,  papi,  cardinali  e  veschovi  e  prelati ,  perchè  io  tal  vilio 
par  che  sieno  oggi  più  corropti  e  disordinati  che  altra  gente. 
La  pena  di  costoro  è  che  ab  eterno  anno  a  rivoltare  pesi  e 
balle  di  robba  per  forza  di  pecto  e  di  poppa,  Tuno  contro  l'al- 
tro percotendosi  insienae,  e  fatto  il  colpo  ritornano  alle  poste. 
Et  in  questa  giostra  ab  etemo  verranno  a  i  duri  cozzi  insieme, 
acciocché  si  possano  satiare  tenendo  il  petto  e  cuore  in  su  le 
dette  balle  di  robba,  se  è  possibile  satiai*$i,  che  non  è.  E  qui 
parla  Virgilio  a  Dante  molte  cose  de*  facti  della  Fortuna  del 
mondo,  che  ha  cosi  tra  branche  et  in  sua  potestà  questa  robba 
del  mondo.  Et  infine,  dirizzandosi  co*  passi  verso  il  mezo  e  centro 
di  questo  cerchio,  giunsono  sopra  una  fontana  che  bolliva  et 
traboccava  acqua  turba,  e  da  Ilei  nascie  un  fiume  che  sciende 
nel  quinto  cerchio  ;  e  seguitando  allo  ingiù  questo  fiume,  insie- 
me co  llui  entrorono  in  detto  quinto  cerchio  detto  stige  infernale. 
Quinto  cerchio  dMnferno,  il  quale  pone  V  auctore  che  sia 
una  pianura  e  palude  aquatico  grandissimo,  che  s'empie  della 
soprascripta  fontana  d'acqua  turba  e  broda  bollente.  Et  in  que- 
sto padule  pone  attuffati  quattro  peccati,  cioè:  accidia,  ira,  in- 
vidia et  superbia;  e  la  pena  dell'anime  che  qui  sono  punite  |ier 
questi  peccati  è,  che  chi  sta  sotto  l'acqua  e  broda  bullente  in 
tucto,  e  chi  in  parte,  secondo  la  sua  offesa  ;  e  chi  si  |>ercuote 
la  testa  con  un  altro,  e  chi  si  morde  e  divora  co'  denti,  e  chi 
si  tronca  a  brano  a  brano  per  rabbia  che  gli  divora  per  di- 
vina vendecta  e  giustitia.  E  camminando  per  questo  padule, 
Virgilio  e  r  auctore  viddono  due  tori-e  da  lunga  farsi  cenno 
(li  fuoco  per  l'aire  buia,  che  erano  ministri  diabolici  di  quel 
luogo  che  stavano  attenti  a  chi  entrava  in  Sligie.  Et  incontanente 
su  |)er  le  sucide  onde  di  quel  lagume  vidono  verso  lor  venire 
per  nave  un  galeotto,  e  giunto,  a  llor  disse:  «  Or  se'  giunta  anima 
fella  »,  rivoltandosi  a  Dante.  «Flegias,  flegias,  tu  gridi  a  voto!» 
gli  rispuose  Virgilio,  perchè  voluntà  di  dio  è  che  costui  vegha 
questi  luoghi,  etc;  e  però  per  passare  Stigie  qua  t'accosta  col 
tuo  legna  Et  intraio  in  nave  et  trapassato  per  questo  sucido 


SBR  PIERO  BONACCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  315 

la^me  e  luogo  buio  e  tenebroso,  trovarono  messer  Phìiippo 
.\.i^enti  fiorentino  spirito  bizzarro.  E  qui  s*adempiè  Tanimo  del- 
rauetore,  perchè  vidde  questo  noesser  Philippo  bizzarro,  preso 
lalle  fangose  gienti  che  quivi  erano  sooìroerse  et  attuffate;  et 
invihipporollo  cento  volte  di  sotto  e  di  sopra  in  quel  fango 
3  broda  come  se  fusse  un  porco,  divorandosi  lui  co*  denti  per 
bizzarrìa  etc  Et  canominando  verso  il  mezo  di  questo  padule,  tro- 
vorono  una  gran  città  chiamata  Dite,  con  molti  spinti  infer- 
nali da  cielo  piovuti  in  su  le  porte,  a  ccui  Virgilio  fece  cenno 
di  voler  parlare  di  secreto.  E  tracti  alla  porta,  Virgilio  gli  ri- 
chiese della  intrata  di  Dite:  e  despectamente  gliel  negorono, 
serrandogli  in  sul  pecto  impetuosamente  la  porta.  E  però,  ri- 
tractosi  a  Dante  che  s'era  aspectato  adrieto,  e  ragionando  in- 
sieme della  loro  diversità,  subitimente  giunse  da  dio  soccorso, 
perchè  vidono  venir  pel  padule  uno  angelo,  e  con  impeto  grande 
giunse  alla  porta  di  Dite,  e  con  una  verghetta  la  fracassò  tucta, 
e  a  llor  drento  disse:  ai!  piovuti  dal  cielo,  gente  despecta!  etc. 
E  dipoi  a  Virgilio  et  a  Dante  accennò  benignamente  che  con 
sicurtà  ornai  intrassono  in  Dite.  Et  così  entrorono  drento,  che  è 
in  ordine  al  sexto  cerchio  d*  inferno. 

Sexto  cerchio  d' inferno,  cioè  città  di  Dite,  cerchiata  di  mura 
ferrigne;  et  i  ministri  e  guardiani  della  città  sono  furie  e 
spiriti  diabolici,  cioè  Megera,  Àlecto  e  Thesiphone,  con  serpen- 
tagli  e  cerastrì  per  capelli  e  per  crini,  e  per  furia  coir  unghia 
si  fendono  i  pectL  Questa  città  è  piena  di  sepulchri  rilevati  in 
forma  d'arche  con  coperchi  alquanto  sospesi:  et  in  questi  se- 
polchrì  se  puniscono  gli  eretici  in  fiamme  di  fuoco.  E  pone 
I  auctore  che  detti  coperchi  staranno  cosi  alquanto  sospesi  in- 
tìno  al  giudicio;  ma  dipoi,  quando  Y  anime  riharanno  i  corpi, 
staranno  chiusi  et  suggellati  per  dare  all'anime  et  a' corpi  maior 
tormento,  non  avendo  il  fuoco  alcuna  uscita  e  sfogatione.  E 
tracta  Tauctore  che  di  decti  sepolchri  uscivano  grandissimi  la- 
menti, et  accostossi  a  uno  con  chi  parlò  molte  cose;  il  quale 
fu  messer  Farinata  degli  Uberti  fiorentino,  et  in  un  altro  trovò 
Anastaxio  papa  quarto,  come  nel  testo  appare.  Et  finalmente 
ritractosi  a  Virgilio  e  camminando  verso  il  centro  e  mezo  di 
questa  città,  trovorono  una   profondità  puzolente  et  ritonda,  a 


316  6.   BRUSCHI 

guardia  della  quarera  U  Minothauro,  infamia  e  vergogna  di 
Grethi.  Et  intrati  e  discesi  in  questa  profondità ,  trovoroDO  il 
septimo  cerchio,  il  quale  è  distinto  et  diviso  in  tre  gironi,  co- 
me di  sotto  se  dirà. 

Septimo  cerchio,  nel  quale  si  punisce  il  peccato  della  vio- 
lentia.  E  perchè  la  violentia  si  può  usare  in  tre  modi ,  cioè 
contro  al  proximo,  contro  a  ssè  medesimo  e  contro  a  ddio  ^  però 
divide  questo  septimo  cerchio  in  tre  gironi.  Lo  primo  è  un 
fosso  di  sangue  bullito,  dove  fondo  e  cupo,  e  dove  basso,  in- 
tomo del  quale  vanno  centauri  a  mille  a  mille  armati  d'archi 
e  di  saette,  saettando  all'anime  che  sono  nel  sangue  punite ,  le 
quali  escono  più  fuori  d'esso  sangue  che  da  Minos  non  sono 
state  giudicate;  che  chi  v'è  giudicata  tucta  sotto  e  chi  inGno  a 
gola,  e  chi  a  cintola  e  chi  a  ginocchio,  e  cosi  discurrendo, 
più  e  meno  secondo  che  violentemente  ha  offeso  il  proximo. 
E  qui  si  puniscono  l'anime  de'  tyranni,  e  di  coloro  che  ferono 
forza  e  violenza  al  proximo  privandolo  dell'  avere  e  della  per- 
sona, come  sono  ladroni  di  strade  o  tyranni  o  simili.  H  secondo 
girone  pone  che  sia  uno  bosco  di  sterpi  e  pruni  salvatichi,  ne' 
quali  sterpi  e  pruni  pone  si  puniscano  l'anime  di  coloro  che 
usarono  violenza  contro  a  ssè  medesimi  privandosi  della  pro- 
pria vita  0  biscazando  e  distruggiendo  senza  regola  il  loro 
bavere  e  substantia  :  et  esso  facto  che  s'uccidono  sé  medesimi , 
l'anime  loro  son  balestrate  e  traportate  per  giudicio  in  questo 
luogo;  e  dove  Fortuna  le  balestra,  quivi  jiascie  uno  di  questi  sterpi 
drente  al  quale  è  punita.  Et  per  questo  corrono  continuamente 
demoni  in  forme  di  cagnie  nere  drieto  all'anime  che  andassino  va- 
gando et  indugiando  la  pena,  e  quelle  dilacerano  coi  denti  cruda- 
mente. Nel  terzo  girone  pone  uno  renaio  scoperto,  sopra  del  quale 
piuovono  continuamente  con  un  piovare  lento  dilatate  falde  e 
bioccoli  di  fuoco  e  zolpho,  come  fa  la  grossa  neve  nell'  alpe  e 
montagnie  di  verno.  E  in  questo  renaio  se  puniscono  l'anime 
di  coloro  che  ferono  violentia  a  dio  in  tre  modi;  però  parie 
questo  girone  in  tre  parti.  Nella  prima  si  punisce  chi  fa  vio- 
lentia contro  a  Dio  colla  lingua ,  negandolo  e  biastemmandolo. 
Nella  seconda  chi  gli  fa  violentia  sprezzandolo  colla   lingua  e 


SBR  PIERO  BONACCORSI  E   IL  CAMMINO  DI  DANTE  317 

col  chuore.  Nella  terza  chi  gli  fa  violentia  spregiandolo  colla 
lingua,  col  chuore  e  colle  opere ,  che  sono  i  sodomiti  e  ga- 
morrici,  che  sprezano  la  natura  humana.  I  primi  vanno  con- 
ti Guarnente  attorno  attorno  per  questo  renaio,  scotendosi  e 
reparandosi  il  meglio  che  possono  colle  mani  or  quinci  or 
quindi  da  falde  e  bioccoli  che  piovono  loro  addosso  per  di- 
vina arte  e  vendetta.  I  secondi  stanno  a  sedere  e  fermi ,  e  si- 
milmente si  scuotono  colle  mani  meglio  che  possano  dalle  falde 
e  bioccoli  di  fuoco  e  zolpho,  che  paiono  cani  che  si  morsi- 
chino nel  tempo  di  state  per  pulce  o  mosche  che  gli  trafigano. 
I  terzi  stanno  arrovescio,  e  colle  braccia  tese  in  forma  di  cro- 
cifissi, ricevendo  sopra  il  lor  pecto  e  corpi  le  dette  falde  di 
fuoco  e  bioccoli  di  zolpho  senza  potersi  aiutare  o  arrostare 
colle  mani.  E  questa  rena  è  tanto  riscaldata  dal  decto  fuoco 
e  zolpho  che  vi  piove ,  che  giungendovi  su  par  che  giunga 
sopra  a  una  esca,  si  s'accende  et  infiamma  et  abbrucia  tucte 
e  tre  queste  qualità  d'anime  del  renaio  che  paiono  arrosti  lar- 
dati al  fuoco.  E  qui  finge  1'  auctore  trovar  Ser  Brunecto 
Latini  da  Firenze ,  con  chi  parlò  molte  cose,  come  appare 
nel  testo.  E  finalmente  Virgilio  e  V  auctore  arrivorono  so- 
pra un  gran  burrato  ritondo  e  ripente,  offuscato,  nebuloso  e 
acquatico,  nel  quale  apparì  loro  Gerione,  bestia  fraudolente  in- 
fernale, con  una  gram  faccia  de  uomo  giusto  e  d*  un  serpente 
tucto  r  altro  busto,  col  dosso  pieno  di  rotelle  e  di  mischiato 
colore  e  colla  coda  coperta  e  biforcuta.  La  qual  bestia  è  posta 
qui  in  figura  di  questo  peccato  di  fraudulentia  :  e  con  costei 
tenne  Virgilio  pacto  di  farsi  scendere  sé  e  Dante  in  que- 
sto burrato  nebuloso  sopra  le  sue  spallacele  piene  di  rotelle.  E 
facto  il  pacto,  gli  montò  addosso,  e  dìxe  a  Dante  che  gli  salisse 
dinanzi,  perchè  Virgilio  voleva  essere  in  mezo  tra  lui  e  la  coda 
biforcuta  di  Gerione,  la  quale  ancora  teneva  coperta  nelFacqua, 
et  acciò  che  da  quella  non  fusse  puncto.  E  Dante  tucto  isbi- 
gottito  di  salire  addosso  a  ssì  paurosa  bestia,  tucto  trepido  et 
ismorto,  a'  conforti  di  Virgilio  gli  si  gittò  addosso  ;  e  si  volle 
dire:  tiemmi  e  aiutami,  Virgilio!,  ma  la  parola  a  bocca  per 
paura  non  venne.  Ma  quel  caro  maestro  docto  e  saggio  di 
Virgilio  fu  da  ssè  accorto,  e  sovvennelo  al  suo  bisogno,  et  poi 


318  Q.  BRUSCHI 

dixe  à  Gerìone:  muoviti  ornai,  le  rote  sien  larghe  e  lo  scen- 
dere piano,  e  pensa  la  sonia  che  tu  hai.  Et  alior  Gerìone 
la  testa  rivolse  inverso  il  mezo  del  burrato  dove  prima  aveva 
la  coda,  e  notando  largo  in  giù  verso  Poetavo  cerchio,  finge 
l'auctore  già  sentire  uno  gran  rimbombo  del  fosso  del  sangue 
che  di  sopra  avea  lasciato,  che  è  il  terzo  fiume  d*  inferno  detto 
Flegietonte,  il  quale  sgorgava  giù  in  questo  burrato  e  cadeva 
nelFoctavo  cerchio  di  Malebolge.  E  questo  fiume  dice  Tauctore 
che  nasce  da  una  statua  che  è  nel  monte  Ida,  nel!'  isola  di 
Crethi,  colla  testa  d*oro  e  pecto  e  braccia  d*  argento,  il  corpo 
è  di  rame,  et  il  resto  è  di  ferro,  salvo  che  il  destro  pie  è  terra 
cotta.  La  quale  lagrima,  e  di  suo  lacrime  nasce  un  fiumi- 
cello  che  fora  la  terra  et  entra  in  questo  inferno,  e  fa  quattro 
fiumi,  cioè:  Àcheroota,  Stygie,  Flegetonte,  Gocyto.  E  questa 
statua  è  figura  per  la  innocente  e  nocente  età  del  mondo  etc 
E  finalmente  Gerione  puose  Virgilio  e  Dante  in  fondo,  cioè 
nelPoctavo  cerchio  d' inferno  decto  malebolge;  e  scaricatosi  da 
dosso  Virgilio  e  Dante,  n*andò  per  suo  fatti. 

Octavo  cerchio  d*  inferno  detto  Malebolgie.  Questo  luogo  è 
tucto  di  pietra  e  di  colore  ferrigno,  e  è  distincto  e  diviso  in 
dieci  malebolgie,  cioè  in  dieci  gironi  Tuno  drento  all'altro  e 
fondato  et  ordinato  in  circolo  ritondo  a  modo  di  fossi  facti  in- 
torno intorno  a  fortezze,  e  ristringonsi  a  uno  a  uno  e  di  mano 
in  mano  secondo  che  più  e  meno  sono  presso  al  mezo  over 
centro  di  questo  octavo  cerchio.  Nel  qual  mezo  e  centro  è  un 
pozo  profondissimo  guardalo  da  quattro  giganti,  donde  si  scende 
poi  nel  nono  et  ultimo  cerchio  d' abisso,  dove  sta  Lucifero.  E 
notite  che  per  passare  da  una  bolgia,  air  altra  sono  ordinati 
pontici^li.  E  ritornando  alla  prima  bolgia,  dice  Fautore  che 
questa  è  piena  di  demonii  cornuti  con  iscurriate  e  ferze  in 
mano,  che  corrono  drieto  all'anime  isferzandole  e  iscorregiandole 
crudamente  senza  riposo.  E  qui  si  punisce  con  questa  pena  li 
ruffiani  e  le  ruffiane,  che  corrono  e  saltano  come  cervi  e  ca- 
vrioli  al  tocco  delle  scurriate  e  isferzate,  che  tocche  le  prime 
già  le  seconde  e  tei-ze  non  aspectano.  E  tra  costoro  finge 
Tanctore  trovare  Venedico  Caccianimici  che  ingannò  la  Ghisola 
bella  a  far  la  voglia  del  marchese  etc.,  et  Gianson  greco  che 
ingannò  Isyphile,  et  altri  assai. 


SEB  PIERO  BONAOCORSI   E   IL  CAMMINO  DI  DANTE  3l9 

Bolgia  seconda,  la  quale  è  piena  di  merda  e  di  sterco  pri- 
vato, nella  quale  sono  attuffati  e  puniti  i  lusinghieri  da  spiriti 
diabolici  di  quel  luogo;  tra  i  quali  Gnge  Fautore  trovare  Alesso 
Ànteminerì  da  Lucha  si  di  merda  lordo  che  appena  lo  riconobe, 
et  madonna  Thaida  puttana  e  scapigliata  fante,  che  sì  graf- 
fiava coir  unghie  merdose,  etc. 

Bolgia  terza,  dove  son  puniti  i  simoniaci  ;  e  costoro  sonno 
propaginati  in  tombe  terragnie  a  capo  di  sotto  e  infocate  drento 
per  modo  che  gli  fanno  si  guizare  co  i  pie  e  colle  gambe  di 
fuori,  che  niuna  stramba  gli  terrebbe  ligati  per  esse  gambe. 
Fra  quali  truova  Papa  Nicola  degli  Orsini  in  questo  vitio  ma- 
cubto,  e  più  altri. 

Bolgia  quarta,  nella  quale  sono  puniti  gl'indovini;  e  per 
divina  giustitia  hanno  il  capo  e  viso  rivolto  arritroso,  cioè  il  lato 
dinanzi  dirieto,  si  che  piangendo  e  lagrimando  e  andando  nudi, 
bagnano  colle  lagrime  le  natiche  e  le  parte  pudende  dirieto.  Et 
le  femmine  portano  le  treccie  e  li  capegli  sparti  sopra  le  poppe. 
E  tra  costoro  tinge  trovare  Tire^,  che  mutò  sembiante  di  ma- 
schio in  femmina,  e  madonna  Manto,  orìgine  di  Mantova,  e 
Michele  Scotto,  e  più  altri  in  tal  vitio  maculati. 

Bolgia  quinta,  nella  qual  son  puniti  i  barattieri  di  com- 
muni e  signiorì,  attuffati  e  sommersi  in  pegola  che  per  divina 
arte  bolle.  Et  intorno  a  questa  pegola  sono  molti  demoni  in 
forma  d' ucellacci  e  di  cani  e  di  lupi,  coli'  alia  e  con  raffi, 
uncini  e  forchette  lunghe  in  mano,  arroncìgliando  raspando  e 
pungendo  qualunque  anima  escie  più  fuori  della  peghola  che 
non  debba;  i  nomi  dei  quali  sono:  Barbariccia,  Draghignazo, 
Farfarello,  Libicocho,  Graffiancane,  Malebranche,  Àlichino,  Cal- 
chabrina,  Cagniazo,  Rubicante  e  Ciriatto  e  più  altri  coH'alia  aperte 
e  sopra  i  pie  leggieri.  Et  finge  Fauctore  trovare  fra  questi  im- 
[legolati  frate  Ghomita  e  più  altrì  in  tal  baratterìa  vitiati.  E 
stanno  in  questa  peghola  come  ranocchii  in  acqua,  e  alle  volte 
col  muso  0  reni  scoperti  per  rìnfrescharsi  alquanto:  e  questo 
quando  veghono  da  i  demoni  non  poter  essere  arroncigliati  e 
ns|)ati.  E  alle  volte  vien  fallito  loro,  perch^.  volando  e  saltando 
detti  demoni  sopra  la  peghola  continuamente  arraffiano  et  ar- 
roncigliano  dette  anime   e  tralgono  suso   fuor  della  pegola:  e 


320  G.  BRUSCHI 

cosi  traete  fuori  sono  dilaDiate,  inforcate  e  strambeOate  da 
mille  uncini,  raffi  e  forchette  di  decti  demoni.  Et  in  questa 
bolgia  parmi  che  Tauctore  parli  più  legiadramente  e  con  più 
piacevoleza  che  in  altra  bolgia. 

Bolgia  sexta,  dove  son  puniti  gì*  ipocriti  et  falsi  propbeti, 
i  quali  vanno  ipocritamente  con  cappe  in  capo,  che  di  fuor 
paiono  dorate  e  drente  sono  di  grosso  piombo,  e  sotto  le  quali 
criepano  di  peso  andando  intomo  intorno  in  questa  bolgia  come 
si  va  a  precessione.  E  qui  finge  Fautore  trovare  due  frati  go- 
denti, cioè  frate  Catalano  et  frate  Loderigo  da  Bologna  e  più 
altri. 

Bolgia  septima,  dove  son  puniti  i  ladroni.  E  costor  sono 
in  questa  bolgia  piena  di  serpe ,  serpentigli ,  cerastrì  e  draghi 
di  diverse  maniere;  i  quah  s*  avolgono  a  piedi,  a  gambe,  a 
pance,  bracia  e  a  ccollo  di  queste  sciagurate  anime  ;  tra  le  quali 
trovò  Chacho  che  fu  ladrone  nel  monte  Aventino,  e  qui  è  posto 
in  figura  di  centauro,  con  tante  serpe  et  serpentelli  addosso  che 
in  marema  non  si  vide  mai  tali ,  et  addosso  gli  giacca  uno 
drago.  E  più,  ti'a  costoro  finge  trovare  un  pistoiese  con  chi 
Fautore  fé  lungo  ragionamento  proverbiandosi  insieme,  et  in- 
fine rivolto  a  Dante  con  ambedue  le  fiche ,  colle  pugna  facte 
disse  :  togli ,  addio  e  a  ttè  le  squadro.  DalF  ora  in  qua  dice 
Dante  che  le  serpe  gli  furono  amiche ,  perchè  una  gli  ssi  gittò 
al  collo  et  avviluppogliesi  alla  gola  più  volte  stringendolo  forte, 
come  dicessi  :  io  non  voglio  che  più  parli.  E  oltre  a  questo 
un  draghe  di  sei  pie  vide  correndo  verso  uno  spirito  e  dicendo: 
ov'è,  ov'è  l'acerbo?;  et  aventoglisi  dinanzi,  e  col  ceflFo  gli  prese 
et  adentogli  la  faccia ,  co'  pie  dinanzi  gli  prese  le  braccia ,  co' 
pie  di  mezo  gli  avinse  la  pancia  e  co'  pie  di  dietro  gli  prese 
le  coste ,  et  tra  le  gambe  gli  mise  la  coda  e  su  per  le  reni 
gliene  ritese  per  modo  che  cllera  non  mai  s'  abarbicò  a  muro 
in  tal  maniera;  e  stringendolo  e  succiandolo,  incontanente  di- 
ventò verde  e  di  mischiato  colore  come  esso  serpente:  et  così 
di  due  figure  si  convertirono  in  una. 

Bolgia  octava,  dove  son  puniti  i  fraudolenti  lusinghieri; 
la  pena  de'  quali  è  che  sono  fasciati  e  aviluppati  a  uno  a  uno, 
a  due  a  due  in  fiamme  di  fuoco  aguze  et  apuntate,  et  in 


SBR  PIERO  BONACCORSI  E  ÌL  CAMMINO   DI  DANTE  321 

queste  fiamme  sono  abrugiati  et  arsi.  E  in  una  di  queste  fiamme 
finge  r  autore  trovare  Ulixe  e  Diomede ,  con  chi  Virgilio  fé' 
lungo  parlare  come  nel  testo  appare.  E  più  ci  trovarono  Guido 
da  Montefeltro,  con  chi  Dante  tenne  lungo  parlare  de'facti  di 
Romagnia,  et  dixegli  come  fu  cordigliero  e  dell'  ordine  vostro, 
e  come  fu  ingannato  dal  princi|)e  de'  nuovi  farisei,  cioè  papa, 
il  quale  gli  promise  d' assolverlo  et  e'  gF  insegnassi  d'aver  Pale- 
strioa  di  Roma.  A  cui  e'  rispuose:  Larghe  promesse  coH'atten- 
der  corto  Ti  faran  trionfar  nell'alto  seggio.  E  per  questo 
consiglio  fraudulente,  che  n'era  maestro,  alla  sua  morte  non 
gli  valse  r  aiuto  di  san  Francescho,  perchè  uno  di  neri  cheru- 
bini lo  prese  dicendo  :  tu  non  credevi  eh'  io  loyco  fusse  ! . 
Perchè  a  ragione  lo  tolse  e  convinse  a  santo  Francescho,  perchè 
la  frode  è  troppo  dispecta  a  ddio:  e  cosi  dal  detto  nero  cheru- 
bino fu  menato  in  questa  bolgia. 

Bolgia  nona,  nella  quale  son  puniti  gli  scismatici  e  scandalosi; 
la  pena  dei  quali  è  che  andando  per  per  questa  bolgia  nudi 
sono  perseguitati  da  demoni  con  ispade  taglienti  e  da  lioro  sono 
tagliati  a  pezzi:  a  chi  il  capo,  a  chi  le  braccia,  a  chi  le  mani 
e  gambe,  e  cosi  discorrendo  a  chi  un  membro  et  a  chi  un 
altra  E  tra  costoro  trovarono  Malcometto  fesso  dalla  gola  in- 
fine dove  si  trulla  e  traile  gambe  pendevano  le  minugia; 
la  curata  pareva  il  tristo  sacco  che  merda  fa  di  quel  che 
si  tranguscia.  E  con  costui  trovorono  Ali  falso  profeta  di  fa- 
risei, fesso  da  un  col|)0  di  spada  dal  mento  al  ciuffetto,  e  più 
trovorono  Piero  da  Medicina  forato  nella  gola  e  tronco  il  naso 
infìn  sotto  le  ciglia  e  senza  mani  e  con  una  orecchia  solo.  E 
[K>i  trovorono  Beltrame  dal  Bornio,  che  die  al  re  Giovanni 
mali  conforti.  E  costui  andava  come  si  va  a  processione,  cogli 
altri,  col  capo  suo  proprio  in  mano  dallo  imbusto  troncho,  et 
quel  teneva  pesolo  in  mano  a  guisa  di  lanterna,  e  di  sé  stesso 
a  sé  medesmo  faceva  lucerna.  E  quando  fu  presso  a  Dante,  levò 
il  braccio  alto  con  tucta  la  testa  per  appressare  più  a  Dante 
le  parole  sue.  che  furon  tali:  Or  vedi  la  pena  molesta,  tu  che 
spirando  vai  veggendo  i  morti  :  Vedi  se  alcuna  è  grande  come 
é  questa! 


322  G.   BRUSCHI 

Bolgia  decima  et  ultima,  dove  son  puniti  i  falsatori  di  mo- 
nete et  archimiatorì  d' oro  e  di  metalli.  I  quali  son  puniti  da 
una  rabbia  di  lebra  che  hanno  addosso  ;  per  la  qua!  si  graOano 
et  streghiansi,  che  mai  si  regazo  non  streghib  cavallo  in  pre- 
senza del  signore.  Per  modo  che  si  schuoiano  e  squamansi  la 
pelle  e  coli*  unghie  traghono.  si  giù  la  scabia,  come  fa  coltello 
a  scarpite  le  scaglie  o  ad  altro  pesce  che  più  larghe  Y  abbia. 
Et  qui  fmgie  1*  autore  trovare  Y  ombra  di  Capocchio  falsificatore 
et  archimiatore ,  o  di  più  altri  simili  peccatori.  E  dice  esso 
autore  che  questa  bolgia  gira  miglia  undici,  e  camminando 
verso  il  centro  sentirono  sonare  un  alto  corno  ;  e  parve  a  Dante 
da  lungha  vedere  molte  alte  torre,  i  quali  in  verità  erano  gi- 
ganti che  stavano  a  guardia  del  pozzo  d' abisso.  Et  erano  nel 
pozo  insino  al  bellico,  e  appressandosi  a  lloro  fuggiva  1'  errore 
a  dDante  e  crescevagli  paura,  vedendo  che  erano  giganti  di  sì 
orribile  statura,  che  trenta  palmi  dice  Dante  che  erano  fuor  del 
pozo  e  altrettanto  nel  pozo  o  più  ;  e  avevano  le  teste  si  grandi 
che  parivano  la  pina  di  San  Piero  di  Roma.  E  girando  intorno 
a  questo  largo  e  profondo  pozo  trovarono  questi  giganti ,  cioè: 
Nembrot,  Fialte  incatenato  dal  collo  alle  braccia  di  grosse  ca- 
tene, Antheo  disciolto,  e  Briareo  incatenato.  E  dice  Fautore  che 
Virgilio  mosse  ad  Antheo  parole  grate  e  dolce,  e  richieselo 
che  ponesse  lui  e  Dante  al  fondo  d'esso  pozo,  dicendogli  che 
Dante  aveva  ad  andare  in  luogo  che  con  suo'  prieghi  e  pa- 
role et  appresso  a  ddio  e  nel  mondo  gli  potrebbe  far  prò  e 
dargli  fama.  E  cosi  placato,  Anteo  prese  Virgilio  e  Dante,  e 
furono  posti  in  fondo  del  triste  buco,  cioè  nel  nono  et  ultimo 
cerchio  d' inferno,  dove  punctano  tucte  Y  altre  roccie  o  vogliàn 
dire  volte. 

Nono  et  ultimo  cerchio  d' inferno,  dove  si  puniscono  i  tra- 
ditori. E  questiì  si  è  una  pianura  aquatici  e  tucL-x  ghiacciata , 
e  questa  universalmente  lucta  insieme  si  chiama  Gocylo,  che 
è  il  quarto  fiume  o  ver  Iago  d' inferno ,  j)erò  che  Acheronte 
è  il  primo,  Stigie  il  secondo,  Flegetonte  è  il  terzo,  e  questo 
Gocylo  è  il  quarto.  E  questa  pianura  di  Gocyto,  come  è  decto, 
è  tucta  ghiacciata,  e  drento  vi  sono  innumerabile  anime  di 
traditori  che  lagrim  mo  e  piangono,  e  ghiaccia  loro  le  lagrime 


SBB  PIERO  BONAOCOKSI   E   IL  CAMMINO  DI  DANTE  323 

io  SU  gii  occhi  per  freddo,  e  non  gli  possono  aprire  e 
chiudere  allor  posta.  E  chi  è  io  questo  ghiaccio  ghiacciato 
iniìno  a  mezza  gamba,  chi  in  fino  al  ginocchio,  chi  in  fino  a 
ecoscia,  chi  alla  cintola  et  chi  alla  gola,  e  chi  è  tucto  coperto, 
e  chi  molto  affonda  nel  ghiaccio  secondo  la  sua  offesa  del  tra- 
dimento, e  secondo  che  più  o  meno  s'appressa  al  centro  e 
mezo  di  questa  pianura  ghiacciata,  dove  è  conficto  e  punito 
Lucifero  auctore  e  origine  di  tutti  i  peccati.  E  la  cagione  di 
questo  ghiaccio  sono  Y  alia  di  questo  Lucifero,  le  quali  paiono 
di  nave  e  di  galee  grosse,  le  quali  dibatte  si  forte  e  spesso, 
che  dal  vento  impetuoso  di  quelle ,  e  da  freddo  che  ivi  è 
naturalmente  si  genera  questo  ghiaccio.  E  perchè  il  tradimento 
si  pub  usare  in  quattro  modi,  però  parte  questa  ghiaccia  in 
quattro  parti.  Nella  prima  si  punisce  i  traditori  che  tradirono 
lor  sangue,  e  si  chiama  Cayna,  denominata  da  Cayno  che  uc- 
cise a  tradimento  suo  fratello  Abel.  Nella  seconda  si  punisce 
chi  tradisce  la  patria  o  sua  parte,  e  questa  si  chiama  Anthe- 
nora.  denominata  da  un  troyano  eh'  ebbe  nome  Anthenore,  il 
quale  trad)  Troya  quando  fu  distrutta.  Nella  terza  si  punisce 
coloro  che  tradiscono  loro  amici  et  benefattori,  e  questa  si 
chiama  Tolomea,  denominata  da  Tolomeo  re  d'Egypto  che  a 
tradimento  fé'  tagliar  la  testa  a  Pompeio,  fidandosi  di  lui.  Nella 
quarta  et  ultima  pone  si  puniscono  coloro  che  tradiscono  i  lor 
benigni  Signiori,  e  questa  si  chiama  Giudaica  denominata  da 
Giuda  schariotto  il  quale  tradì  il  suo  e  nostro  benignio  Signiore 
Yhesu  Ghristo.  E  qui  si  truova  conte  Ugolino  e  l'arcivescovo  Ru- 
gieri  etc.  E  nel  centro  di  questa  ghiaccia,  come  è  detto,  è  punito 
Lucifero,  stando  in  detta  ghiaccia  in  sino  alle  parti  pudende  e 
vergognose.  Et  ha  questo  Lucifero  un  capo  con  tre  bocche, 
una  dinanzi  e  una  sopra  ogni  spalla;  e  con  ciascuna  bocca 
divora  un  peccatore,  cioè:  io  quella  dinanzi  Giuda  col  capo  e 
busto  drento  alla  bocca  e  colle  gambe  di  fuori  zampetta; 
una  dallato  è  Bruto,  e  nell'altra  è  Cassio,  i  quali  tradirono 
lulio  Cesare  primo  monarca  romano,  e  questi  due  son  colle 
gambe  e  coscie  drento  alle  bocche,  e  di  fuor  tucto  l'altro 
busto. 


324  G.   BRUSCHI 

E  avendo  veduto  tucto  V  inferno  e  volendone  uscire. 
Dante  e  Virgilio  bisognib  s*  appicassino  a*  velli  e  peli  delle 
coscie  di  Lucifero,  rivoltandosi  col  capo  dove  avevano  i  piedi, 
entrando  nell'altro  emisferio  di  là,  e  perchè  passorono  il  punto 
più  ponderoso  dell'  universo,  in  sul  qual  punto  siede  e  sederà 
sempre  Lucifero,  e  quindi  per  un  buco  che  faceva  un  6umicello 
e  donde  sgorgava  Cocyto,  che  foracchiava  la  terra  e  usciva 
dall'  altro  emisferio  di  sotto  a  noi.  E  drieto  a  questo  Oumicello 
per  una  buia  e  strecta  via  uscirono  Dante  e  Virgilio  nel  decto 
emisfero  di  sotto  a  rivedere  le  stelle  a  pie  d'  una  isola  circun- 
data  dal  mare  oceano,  in  su  la  qual  pone  essere  il  monte  del 
Purgatorio  opposto  a  piombo  a  Jerusalem,  come  si  dimostrerà 
nel  proximo  secondo  tractato  d' esso  Pui^atorio. 

In  questa  seconda  parte  o  ver  cantica  monstra  il  prefato 
nostro  poeta  Dante  in  che  parte  del  mondo  sia  posto  questo 
purgatorio,  e  la  forma  e  proportioni  d' esso:  e  le  pene  afflictive 
colle  quali  si  purgano  T  anime  che  drento  vi  sono.  E  finge 
che  questo  Purgatorio  sia  posto  in  su  una  ìsola  la  quale  è  nel 
mezzo  del  mare  oceano  nell'  altro  emisfero  di  là  opposto  a 
Jerusalem  a  piombo.  Verbi  gratia,  se  fussi  possibile  fare  un  foro 
nel  mezo  di  Jerusalem  che  forassi  la  terra  e  diricLimente  passassi 
pel  centro  di  decta  terra  infino  nell'  emisfero  di  sotto,  e  intrando 
per  decto  buco  si  giugnierebbe  appunto  nel  mezzo  di  questa  isola 
in  su  la  quale  è  questo  Purgatorio;  siche  ambedue  questi  luoghi, 
cioè  di  Jerusalem  e  di  Purgatorio,  per  consequens  vengono  a  avere 
una  medesima  linea  e  circulo  per  orizzonte  intorno  alla  terra.  E 
questo  basti  in  quanto  al  sito  del  luogo,  facendo  proposilo  che 
Jerusiilem  sia  nel  mezzo  della  terra  abitabile,  che  cosi  si  tiene. 

Secondariamente  quanto  alla  proportione  e  forma  del  luogo, 
cioè  di  questo  purgatorio,  prima  notate  che  questa  seconda 
cantica  si  divide  principalmente  in  tre  parti.  Nella  prima  pone 
questa  isola  circundata  dal  decto  mare  oceano  :  e  in  su  questa 
isola  pone  una  piaggia  ritonda  in  forma  d'una  basa,  e  questa  si 
chiama  Antipurgatorio ,  dove  pone  la  stanza  di  cinque  specie  e 
conditione  d'anime;  le  quale  stettono  nel  mondo  pigre  e  negligenti 
ad  andare  a  penitentia  e  confessare  i  lor  peccati  con  contritione  e 
satisfatione,  e  però  qui  hanno  a  ristorare  il  tempo  neglecto  e  per- 


SBR  PIEBO  BONAOOOSSI  E  IL  CAMMINO  PI  DANTE  325 

dato,  e  per  ogni  anno  trenta  anni  che  cosi  neglegenti  stettono  nel 
mondo,  e  questo  hanno  a  Sare  innanzi  che  elle  possano  andare  su 
al  purgatorio  a  purgarsi  conie  più  oltre  si  dirà.  E  questa  è  la  prima 
parte.  Nella  seconda  pone  uno  monte  altissimo  in  su  questa 
basa  ritonda,  e  questo  monte  è  circundato  intorno  intomo  con 
septe  gironi  a  modo  di  ballatoi  di  forteze  o  di  palagi,  o  quasi 
a  modo  del  campanile  del  duomo  di  Pisa;  e  dair  uno  girone 
air  altro  v'è  una  rupinaia  ripente  quasi  a  modo  d*  un  muro. 
Et  in  questi  septe  gironi  over  ballatoi  si  purgano  Y  anime  pe* 
septe  peccati  mortali  come  di  sotto  si  dirà.  E  questo  monte 
si  è  Purgatorio  proprio.  Nella  terza  et  ultima  parte  di  questa 
seconda  cantica  pone  in  su  Y  estremità  di  questo  monte ,  cioè 
sopra  il  septimo  girone,  il  Paradiso  delitiarum  o  vogliam  dire 
terrestre,  dove  Tauctore  descrive  essere  gran  variatione  di  fre- 
schi maj,  varii  fructi,  nitidi  e  risplendenti  fiumi,  dolci  canti- 
lene d*  ucelletti,  alberi  d' oro,  signori  coronati  e  belle  donne  e 
altre  notabili  cose  tucte  figurale  in  sancta  chiesa,  come  dì  sotto 
si  dirà:  e  questo  si  chiama  Postpurgatorio. 

E  cosi  nel  nome  de  Dio  Virgilio  e  Dante  usciti  dal  buco 
d' iofemo  entrorono  in  su  questa  isola  posta  nel  mezo  del  mare 
oceano.  Questa  isola  finge  Fauctore  che  abbi  intorno  intorno 
dove  la  batte  T  acqua,  gran  quantità  di  giunghi;  et  in  guardia 
di  questo  luogo  trovarono  Catone  uticense  romano,  il  quale 
doppo  molte  parole  co  llui  tenute  gli  conforta  a  ssalire  al  monte, 
a  llevarsi  lo  scoglio  di  peccati  che  non  lascia  iddio  esser  mani- 
festo. E  partiti  da  llui  Virgilio  e  l'auctore,  e  vagando  per 
questa  isola,  in  sul  levare  del  sole  vidono  un  galeotto  da  lungi 
venire  per  mare.  E  questo  era  uno  angelo  che  menava  dal 
porto  di  Roma  al  purgatorio  per  purgare  molte  anime  morte  in 
gratta  di  dio.  E  giunte  quivi,  tucte  si  gittarono  et  smontorono 
in  sur  isola  per  salire  al  monte  ;  e  monstraron  maraviglia  ve- 
dendo Dante  quivi  in  carne  et  in  ossa  fare  ombra  al  sole,  per- 
chè in  quel  luogo  non  fu  mai  più  uomo  vivo  da  Adamo  in 
fuori.  E  seguitando  Virgilio  e  Dante  il  lor  cammino,  et  entrati 
neir  Antipurgatorio,  cioè  nella  base  in  su  la  quale  è  fondato  il 
monte,  trovarono  la  prima  spetie  dei  negligenti  sopra  decti,  che 
nel  mondo  furono  lunghi  a  confessarsi  e  &r  penitentia  di  lor 

VoL  IV,  Parte  1  21 


326  6.   BRUSCHI 

peccati  per  non  lasciare  canti,  suoni,  balli,  armonie,  leggiadrie 
et  altre  vanità  mondane,  le  quali  in  tucto  si  convengon  lasciare 
chi  vuole  stare  in  stato  di  penitentia  et  in  gratia  di  Dio.  E  tra 
costoro  trovorono  uno  chiamato  Casella  da  Firenze,  musico  e 
cantatore  con  chi  V  auctore  tenne  assai  lungo  sermone.  E 
quinci  partiti  seguitando  a  Uor  cammino  per  questo  Purgatorio 
trovorono  la  seconda  s])etie  de'  negligenti. 

Seconda  spetie  d' anime,  le  quali  furono  negligenti  ad  an- 
dare a  penitentia  di  lor  peccati  nel  mondo  per  una  obstinacia 
et  perfidia  di  non  voler  credere  né  obsei-vare  i  precepti  e  com- 
mandamenti della  Chiesa  né  suo  decreti.  E  pur  alfine  e  nel 
punto  della  moite  si  raveghano  del  loro  errore:  io  dico  quegli 
a  chi  Dio  concede  gratia  di  ravedere,  che  non  la  concede  a 
tutti  come  sapete  che  tenghano  i  doctori;  et  a  chi  egli  la  con- 
cede per  suo  gratia,  si  pentono  con  contritione  e  raccomandansi 
a  llui  e  sono  acceptati  in  gratia  et  aperte  lor  le  braccia  della 
suo  misericordia;  e  niente  di  meno  hanno  a  star  qui  a  disagio 
in  questo  Antipurgatorio  innanzi  che  vadino  al  Purgatorio,  per 
ogni  anno  trenta  anni  che  nel  mondo  furono  e  stettono  a  ri- 
dursi a  Dio  et  a  penitentia  di  lor  peccati.  E  qui  trovarono  il 
re  Manfredi,  che  guerregiò  contro  alla  Chiesa  più  tempo,  e  più 
altri  contro  a  liei  disubidienti.  E  partiti  da  questi,  seguitando 
il  lor  cammino  per  questo  Antipurgatorio,  ti'ovorono  la  tertia  spe- 
tie de  anime  negligente. 

Tertia  spetie  d'anime,  state  negligenti  nel  mondo  ad  andar 
a  confessione  e  penilenlia  di  lor  peccali  per  non  voler  perdonare 
le  offese  e  rimettere  le  'ngiurie  a  chi  gli  ha  offesi  et  iniuriati, 
dicendo:  io  intendo  prima  far  mie  vendette  che  io  mi  confessi 
e  eh'  io  torni  a  dio  e  a  stato  di  gratia  ;  che  non  si  può  en- 
trare a  stato  di  gratia  né  tornare  a  Dio  se  non  si  perdona  ogni 
uomo  e  donna  da  chi  altri  è  stato  iniurìato,  come  sapete 
E  in  questa  negligentia  e  obstinatione  a  molti  sopravviene  la 
morte;  e  quando  sono  per  inghiottire  questo  aspro  bocchoiie 
della  mone,  alquanti  per  gratia  de  Dio  ricognioschono  la  lor 
mala  intentione  e  peiilonsene  con  contritione,  e  chieghono  por- 
donanza  a  Dio  i)erdonando  prima  a  ciascuno.  Et  esso  Dio  ha 
si  gran  braccia  che  prende  ciò  che  si  rivolta  a  llui  colla  sua 


SEB  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  PI  DANTE  327 

Toiserìcordia.  E  tra  questa  terza  spetie  fingie  Tauctore  trovare 
il  marchese  Azzo  di  Ferrara  e  roesser  Iacopo  dal  Gassaro  da 
Fano,  e  Buoncoote  da  Montefeltro,  e  madonna  Sapia  da  Siena; 
e  qui  etiandio  truova  Sordello  da  Mantova,  con  chi  parlorono 
e  tennero  lungo  sermone  e  viaggio.  E  poi  fa  Dante  una  grande 
e  bella  exclamatione  contro  a  Itiilia  e  contro  a  Firenze,  par- 
Lindo  ironicamente  e  con  molto  bello  stile  e  colorì  rhectoricL 
E  quinci  partiti,  seguitando  il  lor  cammino  per  PAntipurgatorio 
predicto,  trovorono  la  quarta  spetie  d*  anime  negligente. 

Quarta  spetie  d' anime,  negligente  a  pentirsi  nel  mondo  di 
lor  peccati  e  farne  |)enitentia  per  una  propria  negligentia  et  accidia 
di  dì  in  di  tardando  la  lor  confessione,  e  dicendo:  domani  farò, 
r altro  farò;  e  questo  domani  e  T altro  non  viene  mai,  e 
cosi  discorrendo  tanto,  che  la  morte  in  questo  stato  negligente 
gli  giugnie:  et  aitine  certi  per  gratia  di  Dio  si  raveghono  e 
|)entonsi  con  contrìtione  d*  ogni  lor  |)eccato,  e  son  da  Dio  ac- 
ceptati  in  gratia.  E  tra  costoro  finge  Tauctor  trovare  Ridolfo 
im|)enitore,  che  fu  al  mondo  uomo  molto  negligente  e  pigro, 
e  più  altri  signiori  e  gran  maestri,  perchè  questo  vitio  di  ne- 
gligentia par  che  si  truovi  più  nel  grasso,  e  nelle  riccheze  più 
si  domentica  Idio  che  nella  poveità.  E  da  costor  partiti,  segui- 
t^indo  per  T  Antipurgatorio  al  lor  cammino,  trovarono  la  quinta 
spetie  di  negligenti. 

Quinta  et  ultima  spetie  di  negligenti,  i  quali  tardarono  la 
lor  [)enitentia  nel  mondo  per  non  ritrar  le  mani  della  pecunia 
t'  roba  male  aquistata,  che  senza  rendere  V  altrui  non  si  può 
essere  in  stato  di  gratia.  E  sopravvenuti  della  morte,  allor  si 
recamo  a  considerare,  e  veghono  e  intendono  aver  mal  fatto, 
e  |>er  gratia  di  Dio  alquanti  con  contritione  si  pentono  e  ren- 
dono r  altrui  e  raccomandansi  a  esso  Idio  con  divotione;  e 
da  llui  alquanti  in  questo  stato  vegniendo,  sono  in  suo  gratia 
riceptiti,  e  alquanti  né,  secondo  eh*  a  llui  piace.  E  però  si  dèe 
sempre  esser  prompti  alla  |)enitentia,  e  non  s*  indugiare  allo 
estremo  et  alla  passione  della  morte;  perchè  lo  intellecto  con 
eh**  si  torna  a  Dio  non  si  può  abilmente  esercitare  in  quelle 
jiassioni,  e  chi  non  se  ricorda  della  suo  salute  né  di  Dio  in 
viui,  par  che  Idio  alla  morte  non  se  ricordi  dì  lui. 


328  G.   BRUSCHI 

E  dormendo  T  auctore  in  questo  luogo,  Qnge  essere  stato 
preso  lui  e  Virgilio  da  una  grande  aquila  con  penne  d*oro,  e 
levati  di  questa  basa  d'Antipurgatorio  e  portati  suso  alti  al 
monte  di  Purgatorio.  E  quivi  videro  la  porta  con  tre  gradi 
overo  scaglioni  dinanzi  di  diversi  colorì.  E  in  su  la  porta  un 
portinaio  con  due  chiavi  in  mano,  Y  una  d' oro  e  V  altra  d' a- 
riento;  e  nell'altra  mano  una  spada  lucida  e  tronca  nel  mezo, 
che  son  tucte  cose  in  figura  del  sacerdote  e  confessore  e  della 
confessione  e  peccator  penitente  che  va  alla  confessione  e  pe- 
nitentia  di  suo  peccato.  E  giunti  al  portinaio ,  fu  facto  a 
Dante  nella  testa  septe  .P.  col  puntone  della  spada,  e  fugli 
decto:  quando  sarai  drento  al  Purgatorio  lavarai  queste  piaghe; 
e  di  poi  colla  chiave  bianca  e  colla  gialla  aperse  la  porta 
e  misegli  drento,  dicendo  loro:  Non  vi  voltate  mai  adrìeto, 
però  che  di  fuori  toma  chi  dietro  si  guata  ;  che  son  tucte 
cose  figurate  e  captolice  materie;  e  cosi  entrorono  drento  al 
Purgatorio.  E  questo  è  quanto  alla  prima  parte  dell'  Antipur- 
gatorio. 

Nella  seconda  paite  di  questa  seconda  cantica,  entrati  che 
furono  nel  Purgatorio  e  riserrata  la  porta,  sentiron  cantare  si 
dolcemente  il  Tedeum,  e  non  vedevano  da  chi.  E  cammi- 
nando per  una  via  aspra  e  spiacevole  a  ssalire,  entrorono  nel 
primo  girone  di  Purgatorio,  o  voglìàn  dire  baiatolo,  il  quale 
era  largo  circa  braccia  nove,  ciò  è  dal  lato  del  monte  infino 
alla  sponda  che  guati  in  giù  verso  1'  Antipurgatorio  e  in  verso 
l'isola  e  il  mare.  E  tucta  la  faccia  del  poggio  dal  primo 
girone  al  secondo  (che  era  tanto  alta  quanto  gli  ochij  potevano 
trar  d'alia  et  in  su  guatare)  dice  l' auctore  che  era  di  candi- 
dissimo e  splendido  marmo  et  intagliato  di  più  storie  d'umiltade, 
e  con  tinto  magistero  che  non  che  Policrete,  ma  la  natura  quivi 
arebbe  perduto.  E  in  questo  primo  girone  si  purga  la  superbia; 
e  questi  superbia  si  purga  per  vedere  molti  acti  conlrarii  cioè 
di  humillà,  e  |)er  vedere  e  considerare  molte  superbie  abat- 
tute e  punite,  come  di  sono  se  dirà.  E  primo  dice  che  vi- 
dono  in  questo  marmo  c^indido  intigliata  e  figurata  la  imma- 
gine (li  Nostra  Donna,  e  dinanzi  a  Ilei  Gabriello  di  si  nobile 
scuiptura  che  si  sarebbe  giurato  che  gli  dicessi  :  Ave  Maria  — . 


SER  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  329 

E  poi  più  oltre  vidono  intagliata  una  storia  di  David  scalzo,  e 
intorno  alParca  sancta  andar  ballando  umilmente.  E  più  oltre 
la  storia  di  Traiano  imperadore  a  cavallo  e  una  vedovella  al 
freno.  E  seguitando  più  oltre,  trovarono  gran  quantità  d'anime 
con  pietre  s)  grosse  in  capo  che  le  faceva n  crepar  pel  peso  :  e 
questo  per  farle  ire  umili  e  col  capo  basso,  dove  nel  mondo 
lo  portorono  alto  e  superbo.  E  qui  ti*ovorono  Provenzano  di 
Silvani  da  Siena,  il  quale  al  mondo  fu  uomo  molto  superbo. 
E  camminando  più  oltre,  trovarono  in  terra,  cioè  nel  pavimento, 
molte  tombe  terrngnie  colle  lapide  marmoree  di  sopra,  come  si 
fa  a*  nostri  avelli;  e  in  una  di  quelle  lapide  vide  intagliato  Lu- 
cifero cader  dal  cielo  col  capo  di  sotto.  In  un'  altra  lapide  vide 
sculpito  Briareo  gigante,  il  qiial  era  saettato  e  morto  da  Marte. 
In  un'  altra  vide  intagliati  Trimbeo  e  Pallade  e  Marte  armati, 
e  molte  membra  di  giganti  sparte  et  abattute.  Et  in  un'  altra 
lapide  vidde  Nembrotto  appiè  della  suo  torre;  e  vide  Saul  et 
Aragnie,  Roboam,  e  Troya  in  cinere  ridotta;  e  molti  altri  gi- 
ganti e  superbi  tucti  morti,  e  oggi  non  è  niente;  che  son 
tucte  cose  et  acti  a  ffar  tornare  altrui  a  penitentia  et  a  umiltà. 
E  cosi  in  questo  primo  girone  si  purga  la  superbia.  E  girato 
che  ebono  tucto  questo  primo  girone,  trovorono  un  lucido  e 
splendido  angelo,  il  quale  colla  sua  alia  rase  e  cancellò  a  Dante 
uno  de'septe.P.  che  il  portinaio  di  purgatorio  gli  haveva  dipinti 
nella  testa;  e  poi  gli  aviò  su  per  un'  erta  scalea,  per  la  quale 
salirono  suso  al  secundo  girone  dove  si  purga  la  invidia. 

Secondo  girone  di  Purgatorio,  dove  si  purga  la  invidia.  E 
in  questo  giunti  Virgilio  e  Dcinte,  e  raguardando  il  luogo, 
non  vidoDO  nella  ripa  né  nella  via  alcuno  segnio  o  sculptiira  o 
Ogura,  ma  solo  la  ripa  de  pelrina.  E  camminando  solinga- 
niente  forse  per  spatio  d'  uno  miglio,  e  cheti  e  taciti,  sentiron 
passare  per  l'aria  presso  a  lloro  più  voci, e  la  prima  disse  al- 
tangente:  Vinum  non  habent  —,  e  questo  disse  più  volte  e 
passò  via.  E  prima  che  del  tutto  non  s'udisse  per  allunga!*si, 
un'altra  ne  passò,  e  disse:  Io  sono  Oreste,  io  sono  Oreste, 
più  volte  e  passò  via.  E  divegnendo  Dante  tucto  stupefacto  e 
rivoltandosi  a  Virgilio,  disse:  0  padre,  che  voci  son  queste?  — 
E  come  e'  domandò,  eclio  la  terza  dicendo  :  Amate  da  cui  male 


330  0.  BRUSCHI 

aveste  —,  che  tucti  son  d'amor  cortesi  inviti.  E  Virgilio  ris- 
puose  a  Dante  dicendo:  Questo  cignio,  cioè  girone,  sferza  la 
colpa  della  invidia ,  e  però  sono  traete  d' amore  le  corde  della 
ferza;  e  cosi  si  purga  la  invidia  per  consideratione  d'acti 
d'amore.  E  in  questo,  raguardando  innanzi,  vidono  molte  anime 
con  mantelli  addosso,  accostate  alla  piaggia  over  ripa  del  monte, 
et  avevan  gli  occhij  cigliati  come  sparvieri  selvaggi,  e  tucte 
divotamente  dicevano  :  Maria  óra  per  noi  — ,  gridando  :  Michele 
e  Pietro  e  tucti  i  santi  orate  per  noi  —,  che  per  compassione 
movevano  altrui  a  piangere.  E  queste  furono  nel  mondo  gente 
invidiose  e  più  liete  degli  altrui  danni  che  de'  lor  propri  beni 
e  venture.  Et  qui  truova  madonna  Sapia  Senese  e  più  altri, 
e  tocca  la  magagnia  degli  abitatori  della  valle  d'Arno.  E 
seguitando  per  questo  medesimo  girone  buon  pezo,  sentirono 
nuove  voci,  dicendo  una:  Ancidarammi  qualunque  mi  prende. 
E  dopo  questa  un'altra:  Io  sono  Aglauro  che  divenni  sasso; 
che  son  tucte  storie  antiche  d'amore  e  contrarie  ad  invidia. 
E  seguitando  più  oltre,  trovarono  l'angelo  benedecto,  il  quale 
cancellò  a  Dante  il  secondo  .P.  della  testa,  e  mostrò  loro  lo 
scaleo  donde  si  saliva  al  terzo  girone;  su  pel  quale  salirono  a 
esso  girone  terzo. 

Terzo  girone  di  Purgatorio,  dove  si  purga  il  terzo  peccato 
mortale  dell'  ira.  E  questo  peccato  si  purga  i)er  consideratione 
d'acti  de  patientia.  E  qui  appare  a  Dante  in  visione  uno  tem- 
pio, drentovi  più  persone,  et  in  su  l'entrare  una  donna  con  acto 
dolce  di  madre  e  dire:  Figliuol  mio,  j)orchè  hai  tu  così  facto 
verso  noi?  —  che  son  parole  che  dixe  umilmente  Nostra  Donna  a 
lesu  Ghristo  suo  figliuolo  quando  lo  tenne  smarrito  in  Yerusalera. 
E  più,  gli  apparve  in  visione  una  donna,  e  collagrirae,  dicendo: 
Se  tu  se'  sire  della  villa,  vendica  te  di  quelle  braccia  ardite  che 
abbracciorono  nostra  figlia,  o  Pbisistrato.  E  Phisistrato  benigno 
e  mite  rispuose  con  viso  temperato:  Che  faremo  noi  a  chi  mal 
ci  disira,  se  quel  che  ci  ama  è  per  noi  condennato?  —  che  è 
una  storia  di  amore.  E  più,  vide  una  gente  accesa  in  fuogo 
d' ira  e  colle  pietre  uccidere  un  giovenetto  gridando  :  Martira , 
martira;  e  lui  chinarsi  pella  morte  che  1  gravava  già  inverso 
la  terra,  e  degli  occhi  faceva  al  ciel   porta,  orando  a  Dio  in 


SBR  PIERO  BONACCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  331 

questi  ji;uerra  che  perdonassi  a*  suo'  persecutori.  E  questa  è  la 
considerntione  de  la  morte  e  martirio  di  sancto  Stcphano,  la 
quale  riduce  altrui  a  mansuetudine  et  umiltà  e  patientia.  E 
seguitando  per  questo  girone,  entrorono  per  uno  fumo  si  spesso 
et  obscuro  che  pareva  nocte  privata  d' ogni  luce.  E  in  questo 
fummo  trovarono  molte  anime  che  ssi  purgavano  del  vitio  e 
peccato  dell'Ira:  e  le  loro  exordia  e  parlari  erano  pur:  Agnus 
dei  che  Ile  peccata  tolli  — ,  e  tucti  a  una  voce  che  pareva  tra 
lloro  ogni  concordia.  E  tra  costoro  trovorono  Marco  Lombardo, 
col  quale  tennero  lungo  sermone.  E  qui  si  considera  più  altro 
storie  antiche  umili  et  apte  a  purgare  il  peccato  dell'ira;  e 
philosotìciìmente  parla  come  in  noi  nascie  l' amore.  Et  usciti  di 
(piesto  fumo,  trovorono  l'Angelo  che  c;)ncellò  e  rase  a  Dante 
coir  alia  un  altro  .P.  della  testa,  dicendo:  Beati  paciflci  qui  sunt 
me  ira  mala.  E  trovorono  lo  scaleo,  su  pel  quale  salendo  giun- 
sero in  sul  quarto  girone. 

Quarto  girone,  cioè  dove  sì  purga  el  quarto  peccato,  cioè 
r  accidia  0  ver  pigritia.  E  qui  trovorono  una  grande  quantità 
d'anime,  delle  quali  due  ne  venivano  innanzi  gridando  e  con 
pianto  dicendo:  Maria  corse  con  (recti  alla  montagna;  e  Ce- 
sare per  soggiogare  Ilerda  punse  Marsilia  e  poi  corse  in 
Ispagna.  Racto  racto  che  '1  tempo  non  si  perda  ;  —  e  così  an- 
davano purgando  accidia  e  pigritia.  E  qui  trovarono  Io  abbate 
di  san  Zeno  da  Verona.  E  poi  dormendo,  l' auclore  tracti  una 
t)olIa  visione  la  quale  egli  el)e;  et  inQne,  seguiLindo  a  llor  cam- 
mino su  per  lo  sc;ileo,  e'  giunsono  in  sul  quinto  girone. 

Quinto  girone,  dove  si  purga  l' avaritia.  E  qui  trovorono 
I^Tan  quantità  di  anime  giacere  tucte  bocconi  e  cosi  divoia- 
mente  parlando:  Adhesi  pavimento  anima  mea  —  con  sì  alti 
suspiri  che  appena  la  parola  s' intendeva.  E  tra  queste  anime 
trovorono  pa|>jì  Arlriano  dal  Fiescho  et  Ugo  Ciappetta  francioso, 
il  quale  sospirosamente  diceva,  come  fa  donna  sopra  partorire: 
0  dolce  Maria,  povera  fusti  tinto  quanto  si  può  veder  per 
'pieir  ospilio  dove  porUisti  il  tuo  |)oilito  sancto.  -  Et  più  oltre 
udì  dire:  0  buon  Fabritio,  che  virtù  con  povertà  innanzi  volesti 
che  gran  riccbeze  possedere  con  vitio.  —  E  più,  udì  parlare 
della  largbeza  che  fece  Nicolo  alle  puhelle  per  condurre  ad 


332  G.  BRUSCHI 

OQor  lor  giovenezza.  £  cosi  per  contrario  suono  andavan 
purgando  Y  avarìtia.  E  qui  trovorono  Statio,  poeta  tolosano,  fl 
quale  mostrò  e  disse  a  Dante  et  a  Virgilio  certe  novità  di  tre- 
muoto  che  fa  il  monte  di  Purgatorio  quando  una  anima  è  pur- 
gata e  va  in  Paradiso,  come  avvenne  altrui.  E  qui  parlano 
insieme  molte  altre  cose,  e  come  esso  Statio  si  converti  alla  fede 
cristiana.  Et  inflne  montarono  su  per  lo  scaleo,  e  salirono  nel 
sexto  girone,  dove  se  purga  il  peccato  della  gola. 

Sexto  girone,  dove  se  purga  il  peccato  della  gola.  E  cam- 
minando per  questo  girone,  trovorono  a  mezza  strada  uno  al- 
bero con  pomi  soavi  e  dolci  ad  odorare ,  e  dair  alta  roccia  o 
ver  ripa  cadeva  in  su  questo  arbore  un  liquore  chiaro  che  ssi 
spandeva  per  tucte  le  foglie  e  frondi;  e  quindi  usciva  una 
voce  che  dicea:  Di  questo  arete  voi  caro.  —  E  poi  disse: 
Più  pensava  Maria  che  le  nozze  fussino  orrevoli  et  intere  che 
alla  suo  bocca.  E  le  romane  antique  per  suo  bere  contente 
furon  d^acqun;  e  Daniello  dispreggiò  cibo  et  acquistò  sapere; 
e  mele  et  locbuste  furon  le  vivande  che  nutrirono  il  Baptista 
nel  diserto.  —  E  con  questi  exempli  gustando  si  purgha  il 
peccato  della  gola.  E  seguitando  più  oltre,  trovorono  una  turba 
d*  anime  tacite  e  devote ,  e  negli  occhi  era  ciascuna  obscura 
e  cava,  pallida  nella  faccia,  e  tanto  iscema,  che  dall'osso  la 
pelle  s' informava ,  e  parevan  Y  occhiaie  anelle  senza  gemme. 
E  la  cagione  di  lor  magrezza  era  Y  odore  del  decto  pomo  e 
liquore  il  qual  sentivano  et  assagiar  non  ne  potevano  per  de- 
creto di  Dio.  E  tra  queste  anime  trovorono  Forese  I>)nati  in 
questo  vitto  corrupto,  con  quale  pariorono  molte  cose,  e  co  llui 
e  con  più  altre  anime,  infln  che  trovorono  un  altro  arbore  con 
fructi,  e  socto  v'era  anime  che  nne  volevano  prendere  e  non 
potevano.  E  tra  Ile  frasche  di  questo  arbore  usciva  una  voce 
che  diceva  :  Legnio  è  più  su  che  fu  morso  da  Eva,  E  questa 
pianta  si  levò  da  esso.  E  seguitando  più  oltre,  trovorono  Pan- 
gelo  che  cancellò  a  Dante  della  lesta  el  sexto  .P.  e  dixe:  Beati 
cui  alluma  tanto  di  gratia  che  dell'amor  del  gusto  nel  fedo 
lor  troppo  disir  consuma.  E  qui  monstra  Statio  come  l'anima 
può  sostener  passione  con  belle  ragioni.  E  quinci  salirono  in 
su  r  ultimo  girone,  dove  si  purga  il  peccato  di  luxuria.' 


SER  PIERO  BONACCORSI   £   IL  CAMMINO  DI   DANTE  333 

Septimo  et  ultimo  cerchio,  dove  si  purga  il  peccato  di  lu- 
xurìa.  E  in  questo  ultimo  girone  è  una  spera  di  fuoco  che 
circunda  tucto  il  monte  e  prende  buona  parte  del  girone,  per 
modo  che  conviene  andare  discosto  e  largo  inverso  la  estre- 
mità del  girone,  cioè  donde  si  vede  la  marina,  chi  non  si 
vuole  cuocere.  E  camminando  Virgilio  e  Dante  per  questo 
girone  vidono  io  quel  fuogo  gran  quantità  d* anime,  et  an- 
davan  gridando:  Virum  non  cognosco  — ,  e  chi  gridava:  Al 
bosco  se  tenne  Diana  Et  Elice  cacciò,  Che  di  Venere  avea 
sentito  il  tosco  — .  E  passate  queste  incontanente  vidono  un'  al- 
tra schiera  d'anime  che  venivano  contro  all' altre,  e  queste  an- 
davan  gridando:  Sodoma  e  Gomorra  etc;  E  nella  vacca  intrb 
Fasiphe,  Perchè  il  torello  a  suo  luxuria  corra  — .  E  qui  trovo- 
rono  Guido  Guinizelli  et  altri.  E  infine,  passorono  questo  fuogo 
a' conforti  d'uno  angelo,  e  passati  che  fuorono,  incontanente  si 
trovorono  in  su  l' alteza  e  cacume  o  vero  extremità  di  questo 
monte,  e  quivi  trovorono  il  paradiso  delitiarum  o  vogliam  dire 
lerrestro,  dove  Virgilio  prese  licentia  da  Dante  et  abandonollo 
ritornandosi  al  suo  luogo  del  limbo.  E  qui  si  accompagnò 
Dante  con  Beatrice,  la  quale  è  figurata  per  la  sacra  theologia; 
la  quale  Beatrice  da  quinci  innanzi  sarà  scorta  e  guida  di 
Dante  a  mostrargli  il  paradiso  terrestre  e  luogo  de'  beati,  pas- 
sando per  tucte  le  spere  infino  nel  cielo  empireo.  E  cosi  entra 
nel  paradiso  terrestre,  che  è  la  terza  parte  di  questa  seconda 
cantica. 

Nella  terza  et  ultima  parte  di  questa  seconda  cantica  entra 
Tauctore  nel  paradiso  terrestre,  nel  quale  finge  trovare  un'aria 
soavissima  e  dolce  che  lo  feriva  per  la  fronte  Non  di  più  colpo 
che  soave  vento.  E  questo  luogo  dice  esser  pieno  di  fresche 
frondi  e  di  mirabii  primavera,  in  su  le  quale  erano  diverse 
maniere  d' ucellecti  mai  più  visti,  e  quivi  di  cantare  adopera- 
vano ogni  loro  arte.  E  camminando  per  questo  paradiso  ter- 
restre, dice  r auctore  che  trovò  lungo  la  riva  d' uno  rivo  d'acqua 
nitida  e  risplendente  una  bella  donna  che  con  suo  canti  si 
scaldava  ai  raggi  d' amore,  et  co  Ilei  parlò  l' auctore  mollo.  Et 
ella  gli  dixe  che  questo  luogo  di  paradiso  fu  dato  al  nostro 
primo  {Kidre  Adamo  per  arra  d' etterna  pace,  ma  per  suo  defecto 


334  G.  BRUSCHI 

ne  fu  cacciato;  e  come  tucti  i  fructi  e*  florì  che  noi  abiamo 
qua  giù  nel  mondo  vengono  et  anno  origine  di  lassù:  e  mo- 
stralo con  naturali  ragioni  che  precedono  dalla  prima  spera 
cioè  dal  primo  movimento.  Et  etiandio  dice  che  lassù  è  assai 
più  fructi  e  fiori  che  di  qua  non  si  colgono  né  vegono.  Et 
seguitando  il  cammino  con  questa  donna,  Onge  1*  auctore  trovare 
mirabili  cose ,  e  però  buon  zelo  lo  fé*  riprendere  lo  ardimento 
d*  Eva ,  che  fu  cagione  di  torci  tanto  bene.  E  quivi  truova  e 
vide  septe  gran  candellieri  d*oro  con  giente  vestita  di  candido 
biancho,  e  tucto  il  cielo  di  sopra  di  giubilo  e  gaudioso  colore 
appennellato  di  vaghi  et  colorati  tracti;  e  socto  tal  cielo  vide 
ventiquattro  signori  a  due  a  due  coronati  di  fiordaliso  cantando 
e  giubilando,  e  quattro  animali  coronati  di  fresca  fronde,  e 
pennati  e  alati  di  sei  ale  piene  d'occhi,  come  scrive  Ezechiel 
profeta.  Et  un  carro  in  su  duo  ruote  tirato  dal  collo  d*  un  gri- 
fone, con  tre  donne  alla  dextra  rota,  Tuna  vestita  dì  rosso,  la 
seconda  di  bianco,  la  terza  di  verde;  e  quattro  altre  donne 
dall'  altra  rota  del  carro,  e  due  vecchi  ;  e  poi  quattro  in  umil 
paruta,  e  drieto  a  tucti  uno  vecchio;  e  tucti  cantando.  E  più 
altre  mirabii  cose  in  figura  tucte  di  sancta  Chiesa  captolica.  E 
qui  etiandio  truova  Dante  Beatrice,  la  qual  reprende  Dante 
d'assai  defecti  commessi  i)er  lui  dopo  la  morte  d'essa  Bea- 
trice; che,  come  è  decto,  è  figurala  per  la  sacra  theologia,  et 
al  mondo  fu  amorosa  di  Dante  e  figliuola  di  Folco  Portinari 
fiorentino.  E  fra  l'altre  cose  che  Dante  è  ripreso  da  Ilei,  è  per- 
chè al  tempo  della  vita  d' essa  Beatrice,  che  mori  parvolecta  e 
non  maritiìta,  Dante  viveva  virtuosamente  nel  suo  amore  et  at- 
tendeva a  studi  sacri  e  laudabili  opere  virtuose;  et  dipoi 
eh'  Cvssa  Beatrice  mori,  esso  Dante  variò,  perchè  cominciò  a  at- 
tendere a  studi  poetici  e  lìclioni  d'auctori  mondani  certo  tempo; 
ma  dipoi  si  ritornò  pure  al  soave  gusto  e  salutifero  di  Theo- 
logi.  E  in  questo  paradiso  si  paria  d'  alte  materie  e  belle  cose 
che  saie'  lungo  pur  a  ttoccarne  parte.  Ma  in  fine  Dmte  insieme 
con  Beatrice  predetta  escono  di  questo  jìaradiso  terrestre  per 
monUire  ai  luoghi  de' beati,  che  sarà  la  terza  cantica  di  tucta 
r  opera  dall'  auctore,  decta  Paradiso.  E  quinci  usciti,  entrono 
per  prima  nel  pianeto  della  luna. 


SER  PIERO  BONACCORSl  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  335 

Id  questa  terza  et  ultima  caotica  e  parte  chiamat;i  Para- 
diso, parla  T  auctore  e  prefato  nostro  poeta  Dante  del  regno 
e  gloria  de'  beati,  e  qui  mostra  esser  sommo  theologo.  E 
puossi  partir  questa  terza  parte  in  dieci  parte;  però  che  prin- 
cipalmente entra  nel  pianeto  della  Luna,  poi  in  Mercurio,  poi 
io  Venere,  poi  nel  Sole,  poi  in  Marte,  poi  in  Giove,  poi  in  Sa- 
turno, poi  nella  octava  spera  delle  stelle,  poi  nel  primo  mo- 
vimento cioè  nona  si)era,  poi  entra  nella  gloria  di  paradiso  che 
amore  e  luce  ha  per  confine.  E  qui  descrive  le  gerarcie 
degli  angeli,  e  descrive  tucii  gli  ordini  di  paradiso  in  forma 
d*  una  candida  rosa,  e  accompagnato  con  San  Bernardo  e  con 
(livota  oratione  perviene  al  luogo  dov'  è  Nostra  Donna,  la  quale 
è  nel  centro  ovvero  giallo  di  questa  rosa;  e  come  vide  Bea- 
trice nella  suo  beatitudine  e  nella  suo  sedia;  e  con  divota  o- 
ratione  di  San  Bernardo  e  di  Nostra  Donna  vide  V  ultima  bea- 
titudine, cioè  Idio  in  sua  essentia,  e  come  la  umanità  del  nostro 
signor  lesù  Ghristo  era  coninncta  colla  divinità.  E  cosi  alta- 
mente comparte  suo  tractato  e  dà  expeditione  a  suo  alta  ma- 
teria. E  venendo  alla  particolarità,  dicho  che  dipoi  che  Dante 
ha  visto  il  paradiso  delitiarum,  che  è  posto  sopra  il  monte  di 
purgatorio  sopra  lo  ethere,  cioè  sopra  il  purissimo  aere  e  sopra 
la  spera  del  fuoco,  di  questo  paradiso  usciendo  insieme  con 
Be:)trice  entra  nel  pianeta  della  Luna. 

Pianeto  dello  luna,  che  è  la  prima  spera  sopra  la  spera 
del  fuoco.  Qui  parla  Y  auctor  Dante  soctilmente,  e  monstra  es- 
ser doctissimo  e  maxima  mente  in  astrologia  dove  dice  :  Surge 
a'  mortali  per  diverse  foci  etc.  E  qui  dichiara  la  verità  di 
se^ni  buij  et  ombra  nera  che  si  vegono  nella  luna,  che  molti 
sciocchi  dicono  che  egli  è  Gayno,  e  chi  dice  che  gli  è  raro  e 
denso.  Finge  V  auctore  vedere  in  questa  spera  molti  spiriti  et 
anime,  i  quali  in  prima  giunta  gli  apparvono  ombra  o  vogliàn 
dire  specchiali  sembianti  di  gente  che  gli  fussino  dirieto.  Ma 
non  si  veggiendo  dirieto  persona,  e  rivoltandosi  innanzi,  s'avide 
eh'  elle  erano  vere  substantie  et  anime  beate.  E  questo  gli  adi- 
venne perchè  non  era  più  uso  a  vederne,  e  maximamente  delle 
be;ite.  E  tra  costoro  trovarono  Piccarda  fiorentina  e  Gostanza 
della  casa  di  Soave,  ambedue  state  al  mondo  suore  e  monache 


336  G.   BRUSCHI 

di  Sancta  Chiara,  e  state  traete  dal  munistero  per  forza  de' pa- 
renti loro  per  maritarle  e  acquistarne  parentado ,  e  questo  fu 
contro  alla  lor  voglia  in  parte.  E  qui  si  muove  un  dubio  se 
gli  spiriti  che  sono  più  bassi  in  paradiso  vorreben  più  alto  e 
più  degnio  luogo  che  e'  s'  abino  :  e  solvesi  il  dubio  e 
dice  di  no;  perchè  tucte  l'anime  che  sono  in  paradiso  son 
piene  di  beatitudine  secondo  loro  affecto,  e  la  lor  beatitudine 
è  tenersi  drento  alla  divina  voglia.  E  qui  ancor  tracta  de  due 
veritade  manifestate  da  Beatrice  e  della  voluntà  mista  e  del- 
l'assoluta.  E  parla  de'  voti,  se  si  può  satisfare  al  voto  rocto; 
e  solve  la  questione  et  admaestra  molto  i  Cristiani  circa  i  voti 
come  adpare  diffusamente  nel  testo. 

Pianeto  secondo  di  Mercurio,  nel  quale  entrato  finge  l'au- 
tore veder  Beatrice  suo  guida  molto  lucida,  e  più  di  mille 
splendori,  cioè  anime,  venire  e  trarsi  verso  lui  dicendo:  Echo 
chi  crescierà  li  nostri  amori,  e  tucte  pareano  de  letitia.  E  una 
d'esse  anime  cominciò  parlando:  0  ben  nato,  a  cui  veder  li 
troni  del  triompho  ettemale  concede  gratia  prima  che  la  mali- 
tia  s' a  bandoni!  Del  lume  che  per  tucto  il  ciel  si  spatia,  noi 
siamo  accesi;  e  però  se  desii  da  noi  chiarirti,  a  ttuo  piacere  ti 
satia  — .  E  cosi  profertosi,  Dante  gli  domanda  chi  e'  sono,  e 
maximamente  chi  parlò  di  sopra  cosi  gratiosamente.  E  lui  gli 
rispose,  e  dixe  che  era  l'anima  di  Giustiniano  imperadore,  e 
dicegli  i  gran  facti  che  lui  fé,  e  che  ferono  i  Romani  in  con- 
quistare gran  parte  del  mondo  sotto  il  regno  e  gonfalone  del- 
l' aquila  dall' advenimento  di  Enea  in  Italia  in  fino  al  tempo  de' 
Longobardi.  E  alcune  cose  si  dicono  qui  in  laude  di  Romeo 
bisconte  e  Ramondo  Berlinghieri  da  Provenza.  E  qui  monstra 
Beiitrice  come  la  vendecta  facta  per  Tito  e  per  Vespasiano 
della  morte  di  Ghristo  fu  giusta. 

Pianeto  terzo  di  Venere,  nel  quale  s' avide  l'auctore  es- 
sere intrato  perchè  vide  Beatrice  farsi  più  bella  e  più  lucida 
che  r  usato.  E  qui  gli  parve  più  lumi  et  anime  beate  volando 
per  quel'  arie  o  vero  cielo  come  venti,  cantando  Osanna  in  ex- 
celsìs  si  divinamente  che  Dante  dice  che  mai  poi  di  riudire  non 
fu  senza  disio.  Et  udì  dire  a  uno  di  loro:  Tucti  siam  presti  al 
tuo  piacer  perchè  di  noi  ti  gioi  —,  e  con  tanta  attrezza 


SEK  PIEBO  BONACCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  337 

eran  cinti  e  fasciati,  che  parevan  animali  bruchi  di  lor  seta 
fasciati.  E  questo  che  parlò  fu  Carlo  Martello  d'  Ungharia , 
manifestando  certe  questioni  tocche,  belle  e  naturali.  E  poi  truova 
madonna  Cunizza  amorosa,  nntidicendo  alcune  cose  di  Marca 
di  Trivigi,  et  Folco  vescovo  di  Marsilia. 

Pianeto  quarto  del  sole,  nel  quale  entrati  vide  somma- 
mente rabbellire  Beatrice;  et  incontanente  lui  e  Beatrice  pre- 
decta  furono  circondati  da  una  corona  di  fulgori  et  anime 
vive  e  più  dolci  in  voce  che  in  vista  lucenti.  Et  ai  conforti 
di  Beatrice,  Dante  rivoltò  lo  intelecto  a  ddio  e  con  divotione  si 
rendè  allui  e  ringratiollo  di  sì  mirabil  cose  quante  vide.  Che 
vidde  girarsi  intorno  intorno  decta  corona  tre  volte  d*  anime 
lucenti  e  con  dolce  melodie  dicendo:  Nella  corte  del  cielo  on- 
dato rivegno,  Si  trovano  molte  gioie  care  e  belle  Tanto  che  non 
si  possono  trare  del  regno,  e,  Chi  non  si  impenna  che  lassù 
voli  Dal  muto  aspecti  quindi  le  novelle  — .  E  poi  ferme,  un'altra 
anima  dixe:  Qual  ti  negassi  il  vino  della  suo  fiala  Per  la  tua 
sete,  in  libertà  non  fora.  Se  non  come  aqua  che  al  mar  non  si 
cala.  Tu  vuoi  saper  di  qua*  piante  s'infiora  Questa  grillanda 
che  intomo  vagheggia  La  bella  donna  eh*  al  ciel  t*  avalora.  — . 
E  questo  che  cosi  parlò  fu  Santo  Tomaso  d'Aquino,  e  dixegli 
che  tra  quelle  anime  incoronate  eravi  Alberto  Magno  di  Colo- 
gnia,  Gratiano,  Pietro  Lombardo  maestro  delle  sententie.  Sala- 
mone,  San  Pavolo,  Siincto  Ambroxio,  Boetio,  Isidoro,  Riccardo, 
Si<;geri.  E  qui  etiamdio  San  Tomaso  d'Aquino  in  gloria  di 
San  Francesca)  vostro  sotto  brevità  raconta  e  fa  mentione  di 
suo  vita.  E  beato  Buonaventura  da  Bagnioreggio  dell*  ordine 
vostro  in  gloria  di  San  Domenico  parla  etiandio  di  suo  vita; 
et  vogliono  molti  expositori  di  questa  Commedia  che  Dante  pi- 
gliasse gran  fondamento  di  theologia  da  questo  vostro  beato 
Huonaventura  e  dalla  Somma  sua  in  fabricare  e  comporre 
theologicamente  questa  terza  cantica  di  paradiso,  che  in  molti 
luoghi  si  vede  lui  aver  prese  sue  sententie  Etiandio  in  questo 
pianeto  del  sole  si  trova  Illuminato,  Agostino,  Ugo  da  San  Vi- 
ctore,  Pietro  Mangiadore,  Pietro  Hispano,  Nathan  profeta,  Gri- 
sosioroo,  Anselmo.  Donato,  Rabano,  Tabate  Giovacchino  di  flo- 
rensi  cbalavrese.  E  qui  etiandio  il  decto  San  Tomaso  solve 
una  bella  questione  tocha  da  Salamone;  e  Salamone  solve  al- 


338  G    BRUSCHI 

cun' altra  cosa  dubitata.  E  queste  dubitatioDÌ  absolutioni  e  punctì 
sono  molto  belli  come  appar  nel  testo.  E  quinci  usciti,  intro- 
rono  nel  pianeta  di  Marte. 

Pianeto  quinto  di  Marte,  nel  quale  Tauctore  finge  vedere 
una  gran  croce  splendida  e  lucida  di  fulghorì,  e  dentro  gli 
parve  lam[)eggiar  Christo  con  molte  anime  beate  che  parevano  fa- 
ville di  fuoco  che  corressero  per  la  croce  di  su  di  giù,  dal- 
lato e  da  capo,  non  uscendo  del  nastro  della  croce,  con  una 
melodia  soave  e  dolce  si  che  Y  auctor  dice  che  infino  a  quivi 
non  fu  cosa  che  lo  legasse  con  sì  dolci  vinci.  E  dal  dextro 
corno  della  croce  usci  V  anima  di  messer  Cacciaguida  cavalieri 
fiorentino  e  bisavolo  di  Dante,  e  correndo  per  la  croce  s' ap- 
pressò a  Dante,  che  parve  stella  di  nocte  che  tramuti  loco.  E 
mostra  che  detto  Messer  Cacciaguida  si  rallegrassi  molto  ve- 
dendo il  suo  descendente  e  pronipote  Dante  in  quel  luogo 
venire.  E  co  llui  parla  di  molte  cose,  e  maximamente  lodando 
gli  antichi  costumi  di  Firenze  in  vituperio  del  presente  vivere. 
E  parlagli  di  quaranta  famiglie  antiche  di  Firenze  delle  quali 
molte  ne  sono  venute  meno  et  èccene  poco  ricordo.  Et  in  fine 
solve  l'animo  dell' auclore,  predicendoli  più  cose  della  sua  infor- 
tuna e  fortuna,  e  finalmente  lo  confoila  a  seguitare  questa  suo 
Comedia  et  opera.  Et  ancora  finge  di  trovare  in  questo  crocie 
l'anima  di  Giesuè,  di  Machabeo,  di  Guglielmo,  di  Romualdo, 
il  duca  Gottifredo,  Ruberto  Guiscardo,  i  quali  tucti  furono  al 
mondo  caplolici  e  pugnatori  e  combattitori  per  la  fede  cristiana, 
et  in  questa  croce  si  monslravano  sì  gaudiosi  e  si  giocondi  che 
letizia  parea  ferza  del  paleo.  E  di  qui  usciendo  introrono  nel 
pianeto  di  Giove. 

Pianeto  sexto  di  Giove,  nel  quale  intrati  vidono  nuova  luce 
e  in  essa  grandissima  quantità  di  splendori  cioè  d'anime  sancle 
che  volitando  per  quelle  aure  andavano  cantando  con  dolcie  me- 
lodie. E  facevano  di  loro  substantic  nell'  aire  o  vero  in  quel 
cielo  forme  quando  d'una  D.  quando  d'uno  I.  quando  d'uno 
L.,  poi  d' uno  L,  poi  d'  uno  G.,  poi  d'  uno  I.,  j)0i  d'imo  T.,  |)0i 
d'una  E.  E  a  queste  note,  cioè  a  ciascuna,  si  fermavano  un 
poco,  e  poi  riforma van  l'altra,  per  modo  che  compiute  tuclo 
le  lettere   vocali  e  consonanti,  e  stando  Dante  contìnuamente 


SER  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  339 

attento  compitò  et  rilevò  che  il  lor  detto  era:  Diligile  iustitiam 
qui  iudicatis  terram.  E  nel  formare  del  M.  ultima,  dice  che  vi 
j^itinse  nuove  anime  e  piiosonsi  in  mezo  di  questa  M.:  e  d*una 
M  gli  parve  un'aquila  diventata,  perchè  ferono  il  collo  et  capo 
e  becco;  e  cominciò  di  molte  voci  a  ffare  una  voce  sola  che 
usciva  del  collo  e  becco  di  questa  Àquila.  E  dichiara  un 
gran  dubbio  et  abomina  tucti  i  cristiani  i  quali  regnavano  nel- 
l'anno  milletrecento,  e  uscì  voce  di  bocca  a  questa  aquila 
che  diceva:  De' fuochi  ond'io  figura  fomrai,  Quello  onde  l'oc- 
chio in  testa  mi  scintilla  Clolni  che  luce  in  mezo  per  pupilla 
Fu  el  cantor  dello  spirito  sancto.  De' cinque  che  mi  fan  cer- 
chio |)er  ciglio,  Colui  che  più  al  becco  mi  si  accosta  è  Tro- 
iano imperadore,  il  secondo  Ezecchia,  e  poi  Costantino  impe- 
radore.  Guiglielmo  re  di  Sicilia,  Rifeo  troiano.  Et  quinci  intro- 
rono  nel  pianeta  di  Saturno. 

Pianeto  septimo  di  Saturno,  nel  quale  l'auctor  finge  vedere 
Attrice  più  bella  e  più  gaudiosa  che  l' usato,  e  cosi  di  loco 
in  loco  monbindo  su  più  bella  gli  pareva.  E  dice  che  Beatrice 
in  questo  pianeto  non  volle  ridere  né  mostrarsi  apertamente 
gloriosa!  alFauctore  come  in  verità  eli' era,  perchè  Dante  essendo 
ancor  mortile  non  arebe  potuto  sostenere  in  quella  il  suo 
riso  né  il  suo  glorioso  aspecto,  perchè  se  interamente  glie 
n'avessi  mostro,  Dante  si  sare'  morto  dall'allegrezza  trop|)0 
empio.  E  in  questo  pianeta  dice  l'auctore  che  vide  uno  scaleo 
altissimo  quasi  di  color  d' oro  in  che  razo  traluce ,  e  che  la 
sua  vLsL)  non  si  i)Oteva  riparare  da  esso;  e  per  gli  gradi  ò 
vt'ro  scaglioni  scendeva  giù  tanti  splendori  che  Dante  dice  che 
|)ensò  che  tucto  il  lume  di  paradiso  fosse  quindi  diffuso:  e 
queste  erano  tucte  anime  benedex;te  le  quali  [larevano  pole,  o 
vogliam  dire  mulacchie,  le  quale  al  tempo  di  sementa  e  nel 
cominciar  del  giorno  quando  si  muovono  per  scaldare  le  fredde 
piume,  e  qual  va  via  senza  ritomo,  quale  si  va  circundando 
intorno  al  pino  dov'  ella  ha  dormito,  et  altre  se  ne  vanno  sog- 
giornando presso;  e  così  dice  che  facevano  quelle  anime  che 
scendevan  dello  scaleo.  Et  una  di  loro  s' appressò  a  Dante 
itnto  che  Dante  le  dixe:  Io  veggio  ben  l'amor  che  tu  mi  ac- 
cenni —  E  poi  le  dixe  :  Vita  b^ta,  che  ti  stai  nascosta  Drento 


340  G.   BRUSCHI 

alla  tua  letitìa,  fammi  nota  La  cagìon  che  sì  presso  mi  Tha 
posta.  —  E  dice  perchè  si  tace  in  questa  rota  la  dolce  sim- 
phonia ,  cioè  canti  di  paradiso ,  che  giù  per  Y  altre  suona 
si  devota.  Et  ella  respondendogli  disse:  Tu  hai  T udito  mortale 
si  come  il  viso,  (  cioè  vedere  ),  onde  qui  non  si  canta  per 
quel  che  Beatrice  non  ha  riso  ;  cioè ,  perchè  Dante  non  hare* 
potuto  colla  sua  mortiilità  sostenere  la  dolce  simphonia  e  canto 
divino,  anzi  udendolo  per  troppa  ampia  letitia  e  gaudio  si  sare' 
morto.  —  Giù  per  li  gradi  della  scala  discesi:  e  questa  era 
r  anima  di  Pietro  Damiano,  il  quale  dichiara  qui  alcune  belle 
quistioni.  Et  in  questo  pianeto  truovano  Machario  e  Romualdo; 
e  quinci  entrorono  nelPoctava  spera  e  nel  segno  di  Gemini 
che  si  comprende  in  decta  spera. 

L'octava  spera  delle  stelle,  nella  quale  entrorono  nel  regno 
di  Gemini;  nel  qual  segno  Tauctore  dice  che  luì  nacque  et  indi 
riconosce  tucta  la  sua  virtù  et  ingegno.  Et  in  questa  spera  ri- 
voltandosi in  giù,  rivide  tucte  le  altre  spere  di  sotto  et  il  sito 
della  terra,  e  vide  la  lor  virtù  e  la  lor  grandezza.  E  quindi 
si  rivolta  a  vedere  il  triumpho  di  paradiso  a'  conforti  di  Bea- 
trice. E  così  entrarono  nella  nona  e  ultima  spera,  cioè  nel  primo 
movimento,  dove  racoltamente  vidono  tucte  le  cose  che  parti- 
cularmente  avevan  per  altre  spere. 

Nona  et  ultima  spera,  nella  quale  attenti  riguardando,  Bea- 
trice e  Dante  vedevano  il  cielo  molto  lam[)eggiare.  E  Beatrice 
dixe:  echo  k  schiere  Del  triumpho  di  Ghristo,  e  tucto  il  fructo 
Ricolto  del  girare  di  queste  s|)ere.  E  pareva  anche  il  viso  de 
Beatrice  ardesse  tucto  E  gli  occhi  di  letitia  sì  ripieni  Che  p;)ssar 
gli  convenne  senza  constructo.  E  poi  dice  che  vide  sopra  mi- 
gliaia di  lucerne  un  sole  che  tucte  l'accendeva  e  per  la  viva 
luce  trasp:ìreva  la  lucente  substantia ,  cioè  Nostra  Donna.  E 
Beatrice  disse:  quel  che  te  sopranza  È  virtù  da  cui  nulla  si  ri- 
para: Quivi  è  la  sapientia  e  la  |)Ossanza  Che  aprile  strade  tra 
'I  ciclo  e  la  terra.  E  più  gli  disse:  Apri  gli  occhi  e  guarda 
qual  son  io;  Tu  hai  veduto  cose  che  possente  Se'  fatto  a  so- 
stener lo  riso  mio.  E  però  dice  Dante:  Quando  io  udii  questi 
proferta  degna  Di  tanto  grato,  che  mai  non  si  stignie  Del 
libro  che  il  preterito  rassegna  (cioè  memoria),  Se  mb  sonas- 


SER  PIERO  BONAOCOESI  E  IL  CAMMINO  DI   DANTE  341 

sino  tucte  quelle  lingue  C!lhe  polilinnia  colle  suore  fero  del  lacte 
lor  dulcissimo  più  pingue.  Per  adiutarmi  al  millesimo  del  vero 
Non  si  verria,  cantando  il  dolce  riso  E  quanto  il  dolce  aspecto 
faceva  mero.  Cosi  flgurando  il  paradiso  Convien  saltare  il 
sacrato  poema.  E  poi  gli  dixe  Beatrice:  Quivi  è  la  rosa  in 
che  il  verbo  divino  Si  fece  carne,  qui  son  li  gigli  Ài  cui  odor 
si  prese  il  buon  cammino  E  quivi  dice  che  vide  moltissime 
turbe  di  splendori  e  d'anime  beate,  che  ordinatamente  facevan 
cerchio  intorno  a  Nostra  Donna  in  forma  d*  una  rosa  ;  come 
voi  dicessi  il  giallo  della  rosa  fusse  Nostra  Donna  et  le  foglie 
intorno  tucte  fussino  piene  di  queste  anime  beate.  E  da  alto 
scese  sopra  Maria  una  corona  d' angioli,  et  uno  di  lor  tucto 
gaudioso  e  legiadro  venne  dinnanzi  a  Ilei  et  dixe:  Io  sono  amore 
angelico  che  giro  L'alta  letizia  che  spira  del  ventre,  Che 
fu  albei^o  del  nostro  disio.  Et  girerommi ,  donna  del  ciel, 
mentre  Che  seguirai  tuo  Figlio  e  sarai  via  Per  la  spera  superna 
perch*egli  entri.  —  E  queste  anime  che  intorno  a  Maria  sta- 
vano, Regina  celi,  cantavan  si  dolce  che  mai  da  Dante  non  si 
partì  il  dilecto.  E  qui  truovano  san  Piero,  il  quale  a  pre- 
ghiera di  Beatrice  examina  Tauctor  Dante  nella  fede.  E  tro- 
vano san  Jacopo,  col  quale  Beatrice  e  Dante  parlano  di  certe 
questioni,  delle  quali  san  Jacopo  solve  la  prima,  et  examina 
r  auctore  della  speranza.  E  poi  trove  Adamo ,  che  gli  dice  il 
tempo  della  suo  felicità  et  infelicità  e  quanto  tempo  stette  nel 
panidiso  terrestre.  E  più  oltre  proverbiando  san  Pietro  i  sua 
succosori  adempie  T  anima  dello  auctore.  E  più  oltre  Beatrice 
distingue  a  Dante  li  nove  cori  degli  angeli,  e  di  poi  si  parla 
della  su|)erbia  e  cacciamento  de'  mali  angioli  e  della  electione 
e  gloria  de'  buoni.  E  riprendesi  coloro  che  predicano  parten- 
dosi dal  Vangelio  e  dicono  favole  e  dichiarono  certe  oscuri- 
tade  del  regno  celestiale.  E  oltre  a  questo  l' auctore  per  con- 
ducemento  di  Beatrice  vide  gli  splendori  della  divinitade  e  le 
sedie  dell'anime  beate,  tra  le  quale  vide  quella  di  Arrigo  di 
Luzimborgho  imperadore  colla  sua  corona.  E  quinci  usciron  del 
primo  movimento,  cioè  della  nona  et  ultima  s[)era,  et  entrorono 
Del  cielo  che  è  pura  luce.  Luce  intellectual   piena  d' amore,  a- 

Vol.  IV,  Parte  I.  19 


342  G.  BRUSCHI 

more  di  vero  bene  pieno  di  letitia,  letitia  che  trascende  e  passa 
ogni  dolcezza. 

Cielo  e  beato  re^o  pieno  d*  amore  e  luce ,  e  amore  e 
luce  ha  per  confino.  Nel  quale  gloriosamente  entrati,  Beatrice 
e  Dante  penetrando  velocissimamente  per  quello,  giunsono 
nel  profondo  mero  et  empireo  tempio,  dove  per  la  profondità 
alcuna  stella  perdeva  già  il  suo  parere  né  aggiungeva  a  tanto 
fondo.  E  quivi  dice  Fauctore  che  fu  circumfulto  da  viva  luce, 
il  perchè  lui  comprese  essere  sormontato  sopra  a  sua  virtute. 
E  quivi  vide  T  una  e  T  altra  militia  di  paradiso,  cioè  angelica 
e  umana.  E  vide  lume  in  forma  di  riviera,  Fulgido  di  ful- 
gore intra  duo  rive  Dipinte  di  mirabil  primavera;  e  di  tal 
fiumana  uscivano  faville  vive,  E  d^ogni  parte  si  mettevano  ne' 
fiori,  Quasi  come  rubino  che  oro  cii*cumscrive.  Poi  come  in- 
nebriato  dagli  odori  Riprofondavan  sé  nel  miro  gurge,  E  se 
una  latrava  un* altra  n'usciva  fuori.  E  beuta  che  bebé  Tau- 
ctore  di  questa  aqua  gli  parve  le  palpebre  degli  occhi  di  lunghe 
diventile  tonde,  e  però  comprese  il  vero  di  quelle  che  gli  pare- 
vano faville,  le  quali  in  verità  erano  angeli  et  anime  beate.  E 
cosi  chiaramente  e  manifestamente  dice  che  vide  ambedue  le 
corti  del  paradiso,  cioè  angelica  et  umana,  e  tucto  Y  ordine  di 
quelle;  e  vide  le  sedie  della  umana  generatione  si  piene  che 
poca  gente  più  s'aspectava.  E  qui  fu  lasciato  Dante  da  Bea- 
trice suo  guida,  e  trovò  san  Bernardo  per  lo  cui  conducemento 
rivide  Beatrice  entrata  nella  sedia  della  suo  gloria,  e  ringra- 
tiala  della  suo  compagnia  e  di  quanto  egli  ha  veduto  per  suo 
mezo.  E  qui  san  Bernardo  mostra  all'auctore  ordinatamente  i 
luoghi  (li  beati  del  vecchio  e  nuovo  testamento,  e  come  la 
voce  deir  angelo  Gabriello  laudava  Nostra  Donna.  Et  in  ultimo 
san  Bernardo  fa  una  devota  oratione  a  Nostra  Donna  che  gli 
piaccia  adoperare  si  che  esso  Dante  si  possa  levare  tanto  in  su 
cogli  occhi  che  egli  possa  vedere  V  ultima  salute,  cioè  Mio.  E 
come  di  poi  la  vide:  e  qui  parla  mirabilmente.  E  rimase  beato 
e  contento  e  compiè  tucto  il  suo  desiderio.  E  cosi  fa  fine 
come  il  buon  s^irtore  che  come  egli  ha  del  panno  cosi  fa  la 
gonna. 


SBB  PIBBO  BONAOOOBSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  343 

Rendomi  certo  che  questo  mio  scrìpto  vi  parrà  cosa  sem- 
plice, perchè  è  stata  cosa  corsiva  et  in  brieve  tempo  facta,  poiché 
da  giuovedi  ioGno  a  questo  di  di  mercholedl  presente  Tò  tra- 
seborso  e  scripto,  che  son  di  vi,  nonne  lasciando  però  le  fac- 
cende del  mio  ufficio.  E  se  riguardei'ete  il  testo  dei  prefato 
auctore,  trovarete  che  lui  monstra  in  poco  più  tempo  aver 
facta  questa  suo  comedia  e  questo  suo  cammino  d*  Inferno,  Pur- 
gatorio e  Paradiso  come  aparisce  nel  testo.  E  questo  quanto 
alla  fictiooe.  Ha  in  fabrìcarla,  scriverla  e  sollimarla  versifica- 
mente,  credo  poi  penassi  degli  anni  più  di  venti  parecchi.  E 
questo  è  manifesto,  perchè  innanzi  che  lui  fussi  confinato  di 
Firenie  Y  aveva  cominciata,  et  alla  sua  morte  che  fu  in  Ravenna 
di  poco  Favea  compiuta,  come  Dell'opera  sua  propria  si  com- 
prende et  ancora  nello  scrìpto  della  sua  vita  si  legge.  Sì  che 
concbiudendo,  piacciavi  di  leggere  questo  scrìpto  e  vedrete  Por- 
dine  suo  bello  e  leggiadro.  E  di  poi  sarò  a  voi,  e  se  delibe- 
rarete  di  metter  tempo  a  Icgere  et  intendere  T  opera  principale, 
m' offero  come  dinanzi  vi  dissi,  se  vi  piacerà,  esser  con  voi  ; 
che,  pigliando  ogni  dì  una  discreta  ora,  Io  vedremo  in  due 
mesi  circa,  non  occupando  gli  uffici  vostri  divini.  E  da  ora 
innanzi  siete  paghato  di  ciò  vi  promisi.  Nec  plura;  valete  feli- 
citer.  Vester  Pierus  ser  Bonaccursii  noi. 

Perchè  nel  fine  del  presente  tractato  io  scrissi  aver  tra- 
schorso  questo  cammino  per  tucta  la  comedia  di  Dante  in  sei 
dì,  et  in  tanti  e  simili  dissi  che  fece  Dante  secondo  la  sua  fi- 
ctione;  però  è  da  notare,  che  volendo  lui  in  ogni  processo  del 
suo  poema  andare  composto,  ordinato  e  misurato,  vegho  e 
racbolgo  che  luì  fé'  tucto  questo  cammino  in  vi  di  et  in  al- 
tretante  nocte.  E  parmi  che  lui  lo  cominci  a  dì  xxv  di  marzo 
anno  MGCC.  essendo  la  luna  in  quint;)decima.  E  questo  fu 
anno  di  giubileo,  nel  quale  lui  andò  a  Roma,  e  credo  pel  per- 
dono, benché  e'  v'andassi  imbasciadore  del  nostro  Ck)mune,  e 
fu  electo  essendo  lui  de'  nostri  signori  in  decto  anno.  E  fu 
Lsbandito  da  Firenze  essendo  lui  a  Roma  come  vollono  ì  Si- 
gniori  sua  successori  per  le  parti  che  allora  e'  erano.  Nel  qual 
giubileo  si  rimettono  i  pechati  in  genere  a'  confessi  e  contriti 


344  0.  BRUSCHI 

e  viensi  a  sLito  di  gratia.  E  comprendo  che  Dante  in  decto 
anno  venissi  a  contritione  de  sua  pechati  et  a  ffarne  penitentia 
essendo  già  venuto  al  mezo  del  cammino  di  nostra  vita  humana 
et  agli  anni;  di  Christo  nel  qual  tempo  o  circha  chi  non  si  ra- 
vede  e  correggiesi  poca  speranza  si  può  aver  di  sua  salute. 
E  chi  etiandio  si  indugia  tanto ,  ha  assai  difficoltà ,  come  si 
legge  che  adivenne  ad  Angustino  nel  ottavo  capitolo  delle  sue 
confessioni,  però  che  per  consuetudine  del  pechato  l'uomo  si 
fa  servo  di  quello  e  quasi  necessariamente  pecha.  ET  pare  che 
questo  etiandio  adivenissi  a  Dante,  secondo  Beatrice  parla  a  certe 
donne  nel  XXX"*  cap.®  del  Purgatorio  dicendo  chosi  di  Dante: 
costui  Tanto  giù  cadde  che  tucti  argomenti  Alla  salute  sua 
eran  già  corti  Fuor  che  mostrargli  le  perdute  gienti.  —  E 
parmi  che  esso  Dante  cominciassi  eiiandio  questa  sua  comedia 
et  opera  la  notte  di  Giovedì  precedente  a  Venerdì  sancto,  per 
le  parole  lui  dice  in  cap.**  XXI  de  lo  *nferno:  Ieri  più  oltre 
cinque  ore  che  questa  otta  Milleduecento  con  sessantasei  Anni 
compier  che  qui  la  via  fu  rotta.  E  quando  e*  dice  queste  pa- 
role si  ritruova  in  Malebolge  d'inferno  in  su  l'ora  della  prima, 
cioè  in  su  l'aurora  di  Sabato  sancto  et  in  su  uno  scoglio  di 
sasso  fesso  dove  è  rocta  et  intercisa  la  via,  la  quale  dimostra 
che  si  ruppe  nel  tremuoto  che  fu  Venerdì  sancto  quando  Christo 
spirò  in  su  la  crocie,  che  fu  Y  ora  della  sesta.  Et  quando  Christo 
fu  passionalo  avea  anni  trentidue  e  tre  mesi,  e  mesi  nove 
stette  nel  venire  di  Maria;  siche  XXXIII  anni  stette  nel  mondo. 
Metti  XXXIII  sopra  MGGLXVI  fa  MCGLXXXXVIIII.  E  per- 
chè l'autore  pone  essere  entrato  in  inferno  di  nocleet  in  questa 
bolgia  si  ritruova  da  mattina  in  su  l'aurora  e  Christo  mori  in  su 
l'ora  della  sesta,  sicché  dall'aurora  alla  sesta  sono  'cinque  ore, 
però  sì  può  conchiudere  che  l'auctore  die  princìpio  alla  sua 
comedia  lìnito  l'anno  MCGLXXXVIIII  in  giovedì  nocte,  co- 
minciato l'anno  MGGG.  E  venne  a  essere  a  dì  xxv  marzo, 
anno  MGGG.  La  qual  nocte  di  giovedì  sancto  esso  Dante  si  ri- 
truova nella  selva  oscura  dì  pechati.  E  Venerdì  sancto  al  levar 
del  sole  esce  dalla  selva  e  consuma  tucto  questo  di  sciiramuc- 
ciando  colla  lonza,  leone  e  lupa,  come  è  manifesto  in  primo 
cap.*^,  dicendo:  Guardai  in  alto,  e  vidi  le  sue  spalle  Vestite  già  de' 


SER  PIERO  BONACCOESI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  345 

ragi  del  pianeto...  etc.  E  più  giù:   Temp'era  del  principio  del 
mattino,  E,  'I  sole  nfiontava  in  su  con  quelle  stelle,  etc. 

Nella  seconda  nocte  Tauctore  e  Virgilio  entrano  in  inferno 
e  vanno  inlìno  alla  quinta  bolgia  de'  baraitieri  —  Gip.®  XXI  — 
E  questo  per  le  parole  del  secondo  cap.®:  Lo  j^iorno  se  n'an- 
dava e  r  aere  bruno ,  etc.  —  E  cap  "  VII.  :  Or  discen- 
diamo ornai  a  maggior  pietà.  Già  ogni  stella  cade  che  saliva 
quando  mi  mossi  etc.  —  E  cap.^  XV.:  Lassù  di  sopra  in  la 
vita  serena ,  Rispuosi  allui ,  mi  smarij  in  una  valle  Avanti 
che  l'età  mia  fussi  piena.  Pur  ier  mattina  le  volsi  le  spalle 
eie.  E.  cap.®  XX.:  Ma  vienne  ornai  che  già  tiene  il  confine 
D*  amendue  emisperij ,  et  tocha  1'  onda  Socto  Sibilla  Caino 
e  le  spine  :  E  già  ier  nocte  fu  la  luna  tonda.  E  cap.""  XXI.  : 
Ieri  cinque  ore  più  oltre  che  questa  otta  etc. 

Il  secondo  di,  ciò  è  sabato  mattino,  si  parton  di  questa 
quinta  bolgia  e  vannone  infino  al  pozo  d'inferno  guardato  da' 
quatro  giganti,  cap.°  31.  per  queste  parole  quivi  poste:  Quivi 
era  men  che  nocte  e  men  che  giorno,  Sì  che  il  viso  m'an- 
dava innanzi  poco. 

Nella  terza  nocte  che  precede  la  domenica  di  pascua  si 
parton  di  decto  luogo,  et  camminando  vidon  tucto  il  resto 
d'inferno  infioo  a  circa  un'ora  e  mezo  di  nocte,  et  in  questo 
tempo  usciron  d'inferno.  E  questo  per  le  parole  poste  in  cap.® 
34  in  due  luoghi,  cioè  è:  Ma  la  notte  resurge,  e  oramai  È  da 
partire,  che  tucto  avèn  veduto.  E  più  giù  :  Levati  su ,  disse  il 
maestro,  in  piede;  La  via  è  lunga  e'I  chammino  malvagio, E '1 
.sol  già  a  meza  terza  riede.  Non  era  camminata  di  palagio,  [Là  'v'e- 
ravamj  ma  naturai  burella  che  avea  mal  suolo  et  di  lume  disagio. 
—  Si  che  è  da  notare  Che  a  l' una  ora  e  mezo  di  nocte  escie  d'in- 
ferno, et  in  quella  medesima  ora  entrano  nella  tomba  over  bu- 
rella, che  è  nel  globo  della  terra  dove  sono  le  coste  e  gambe 
di  Lucifero,  posta  nell'altro  emisperio  della  terra  dove  comincia 
il  di  quando  nel  nostro  emisperio  comincia  la  nocte  per  diricta 
oppositione.  Siche  e'  passorno  in  una  medesima  ora,  ciò  è  da 
un'ora  e  mezo  di  nocte  a  meza  terza  di  di,  per  la  ragione  già 
decla,  perchè  passarono  il  punto  over  centro  de  l'universo  et 
di  tucta  la  machina  del  mondo  da  l' uno  emisperio  all'  altro. 


346  (3i.  BRUSCHI 

Si  che  si  può  conhiudere  a  mio  parere  e  per  quello  che  è  mostro, 
che  Dante  e  Virgilio  feciono  il  cammino  d*  inferno  in  due  dì 
e  tre  nocte,  per  questa  tomba  over  burella,  per  uscire  fuori  del 
globo  della  terra;  e  Domenica  mattina  in  su  V  alba  n'  usci- 
rono a  riveder  le  stelle,  e  ritruovandosi  in  su  Y  isola  appiè  del 
monte  del  purgatorio  posta  nel  mezo  del  mare  oceano  ne  l' altro 
emisperìo.  Il  quale  monte  è  opposto  a  lerusalem  a  piombo;  il 
quale  Jerusalem  si  ragiona  che  sia  nel  mezo  di  questa  terra 
abitabile. 

Seguitando  l'autore  il  suo  ordinato  processo,  insieme  con 
Virgilio  in  questa  seconda  cantica  di  Purgatorio  entrano  do- 
menica mattina  in  su  Talba,  e  con  questo  dì  camminano  in- 
fino alla  terza  qualità  di  negligenti  in  cap.^  VI  dove  dice  così; 
e  prima  in  cap.°  I."  Dolce  colore  d'  orientai  zaffiro  Che  s' a- 
choglieva  nel  sereno  aspecto  Dello  aere  puro  infino  al  primo 
giro ,  etc.  Et  più  giù  in  decto  cap.^  I.''  :  Poscia  non  sia  di 
qua  vostra  reddita,  lo  sol  vi  mostrerà  che  surge  omai,  etc.  — 
E  in  decto  cap.'':  L*  alba  vinceva  V  ora  mattutina,  etc.  E  in  2.^' 
cap.^":  Già  era  il  sole  a  1*  orizonte  giunto.  Lo  cui  meridian  cerchio 
choverchia  lerusalem  col  suo  più  alto  punto.  E  più  giù: 
Da  tucte  parti  saettava  il  giorno  Lo  sole ,  etc  E  in  cap.* 
3.*  Lo  sole  che  dirieto  fiammeggiava  roggio  etc.  E  più  giù 
in  decio  cap.''  3":  Vespro  è  già  colà  dov' è  sepolto  Lo  corpo 
etc.  —  Et  in  cap.®  4.^  Di  ciò  ebb'  io  esperientia  vera,  etc., 
E  in  decto  cap.®  4.®  Già  innanzi  il  poeta  mi  saliva,  e  diceva  : 
Vienne  ornai ,  vedi  che  è  locho  Meridiano  dal  sole,  etc.  Et 
in  cap.°  sexto:  Prima  che  sia  lassù  tornar  vedrai  Colui  che  già 
si  cuopre  della  costa,  Si  che  i  suoi  ragi  tu  romper  non  fai. 

Nella  quarta  nocte  si  partono  di  decta  qualità  del  6.®  cap."", 
et  eschono  dair  antipurgatorio  e  vannone  infine  al  purgatorio, 
cap.**  9.*».  E  questo  per  le  parole  poste  in  7.®  cap.®.  Ma  vedi 
già  come  dichina  il  giorno  Et  in  decto  cap.°  7.*:  Prima 
che  il  poco  sole  omai  s'anidi.  Et  in  cap.^  8.^:  Tempo  era  già 
che  Taere  s'anerava.  Et  in  decto  cap."*:  0,  diss'  io  lui,  per  entro 
i  luoghi  tristi  Venni  stamane.  Et  in  cap."^  9.^  La  concubina 
di  Titone  antico  Già  s'  imbiancava  al  balzo  d'  oriente.  E  in 
decto  cap.^:  La  nocte  de*  passi  con  che  sale  Facti  aveva  due 


SBB  PIERO  BONAOCORSI  E  IL  CAMMINO  DI  DANTE  34*} 

nel  luo{{0  dov'  eravamo,  E  '1  terzo  già  chinava  in  giù  l' ale.  — 
Et  in  decto  cap.<':  Nell'ora  che  comincia  i  tristi  lai. 

Nel  quarto  di  da  mattina  entrarono  nei  purgatorio,  cap.^ 
9*;  e  con  questo  di  vanno  imfino  al  secondo  balzo  di  purga- 
torio d^li  Iracundi,  cap."*  17.";  per  le  parole  poste  in  cap.*  9.**: 
Dallato  m'era  solo  il  mio  conforto,  E  '1  sole  era  già  alto  più 
che  due  ore.  E  in  cap."*  12.®  Vedi  che  toma del  di  T  an- 
elila sesta.  —  E  cap.®  ìòj'  :  Quanto  tra  Y  ultimar  dell'  ora 
terza  E  il  principio  del  di. .  Tanto  pareva  già  inver  la  sera  Es- 
sere al  sole  del  suo  corso  rimaso.  Vespro  là  et  qui  mezza- 
notte era.  Et  in  decto  cap.®  IS/":  Noi  andavam  per  lo  vespro 
attenti.  Et  in  cap.""  17.®  :  Lo  sole  in  pria  che  già  nel  cor- 
car era. 

Nella  quarta  nocte  si  partono  di  questo  cap.®  17®  e  vanno 
ioflno  al  19.®  E  dice:  Nell'ora  che  non  può  il  calor  diurno 
Intiepidir  più  il  freddo  della  luna. 

Nel  quinto  di  si  partono  di  questo  cap.""  19.®  da  mattina 
e  vanno  con  questo  di  iuGno  al  27.®,  dove  dice:  Poco  parea 
li  del  di  di  fora.  E  in  cap.®  19.®  :  Su  mi  levai  et  tucti  eran 
già  pieni  Dell'alto  di  i  gironi  del  sacro  monte  Et  andavàn  col 
sol  nuovo  alle  reni.  E  nel  cap.""  22.®:  E  già  le  quattro  an- 
cille  eran  del  giorno  Rimase  adrieto  e  la  quinta  era  al  temo.  — 
Et  in  cap.®  23.^'  Di  quella  vita  mi  Tolse  costui  Che  mi  va  in- 
nanzi,.... quando  tonda  Vi  si  mostra  la  suora  di  colui,  e  '1  sol 
mostrai.  E  in  cap.°  25.®  :  Ora  era...  Che  'I  sole  avea  il  cer- 
chio di  merigge.  Et  in  cap."  27  ®  :  SI  chome  quando  i  primi 
ragi  vibra.  E  in  decto  cap.®  27.**  :  Lo  sole  sen  va ,  sogiunse , 
e  vien  la  sera.  Et  in  decto  cap.®  :  Poco  parea  il  del  di  di 
fora. 

Nella  sesta  nocte  si  parton  di  questo  cap.®  27."^,  e  questa 
nocte  consumono  in  questo  cap.""  27.®  E  con  esso  vanno  fin 
dove  dice:  Le  tenebre  fuggivan  da  tucti  i  lati.  Et  in  decto 
cap.®  dice:  Nell'ora  credo  che  dell'oriente  Primo  raggiò  nel 
monte  Citerea. 

Nel  sesto  di  si  parton  di  decto  cap.""  27. ""  et  entran  nel 
cap."*  28.®  nel  paradiso  terrestre.  Et  infino  all'ora  di  mezzodì 
coosunoano   tucto  il  cammino  e  questa  spera  di  purgatorio  e 


348  0.  BRUSCHI  —  SER  PIERO  BONACCORSI  E  IL  OAliMINO  DI  DANTE 

di  paradiso  terrestre.  E  questo  è  noto  per  quel  che  dice  in 
cap.®  28:  Vago  già  di  cercar  dentro  et  d'  intorno  La  divina 
foresta  spessa  e  viva,  Che  agli  occhi  temperava  il  nuovo 
giorno.  Et  in  cap.®  33."*  :  E  più  corrusco  e  con  più  lenti 
passi  Teneva  il  sole  il  cerchio  di  merigge. 

In  questo  di  sesto,  come  mi  pare,  Fautore  entra  nel  pa- 
radiso terrestre,  il  quale  è  situato  e  posto  in  cacume,  cioè  è 
io  su  la  extremità  di  questo  monte  di  purgatorio.  E  di  decto 
paradi|0  entra  nella  sfera  della  Luna,  poi  nella  sfera  di  Mer- 
curio, poi  nella  spera  di  Venere,  dove  s' apunta  e  finisce  V  om- 
bra del  sole  nel  nadair  della  terra;  e  più  su  non  è  nocte  né 
ombra  che  tenga  i  ragi  del  sole.  Si  che  in  fln  qui,  cioè  in  fìno 
in  questa  spera  di  Venere  mi  pare  che  l'autore  cammini  col 
sesto  dì.  E  rimane  da  indi  in  poi  in  dì  chiaro  et  in  luce  per- 
petua, perchè  non  v'è  nocte  né  ombra,  anzi  v'è  luce  perpetua. 
Colla  quale  luce  lui  sale  nelle  spera  del  Sole,  poi  in  Marte,  poi 
in  Giove,  poi  in  Saturno,  poi  nella  sfera  stellata,  poi  nel  primo 
movimento,  poi  nel  cielo  cristallino  poi  nel  cielo  empireo.  E 
qui  limane  beato  e  contento,  e  vide  come  T  umanità  di  Christo 
è  inserta  et  innestata  e  congiunta  colla  et  nella  divinità ,  come, 
verbigratia,  è  inserto  et  innestato  una  vergella  di  un  fructo  o 
di  un  pomo  in  un  altro  fructo  o  pomo.  E  così  quievit  ab  opere 
suo.  E  questo  per  quanto  io  intendo  et  a  me  pare:  salvo 
sempre  il  vero  et  il  migliore  intellecto. 


CURZIO    GONZAGA 

RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI 


CENNI  SULLA  SUA  VITA  E  SULLE  SUE  OPERE 


(Continuazione  e  fine  da  pag.  125). 

VI. 

Torquato  Tasso,  pabblicando  il  sao  Rinaldo,  avver- 
tiva i  lettori  esser  questo  poema  «  parte  ad  imitazione 
degli  antichi  e  parte  a  quella  de'  moderni  composto  »  (1), 
e  diceva,  che,  discostatosi  alquanto  dalla  via  dei  moderni, 
s'era  voluto  accostare  agli  antichi,  facendo  così  opera 
che  tenesse  una  via  di  mezzo  tra  il  poema  cavalleresco 
e  il  poema  epico.  Questa  idea,  ch'egli  svolse  poi  anche 
ne'  suoi  discorsi  sul  poema  eroico ,  ed  attuò  con  maggior 
larghezza  nella  Gerusalemme  Liberata,  deve  aver  guidato 
pure  il  Gonzaga  nella  concezione  del  suo  poema.  Il  quale 
infatti,  come  il  lettore  può  aver  di  già  osservato  dal  rias- 
sunto datone ,  è  in  sostanza  un  poema  di  cavalleria ,  ma 
nella  disposizione  delle  parti,  nel  modo  ond'è  condotta 
l'azione,  ha  quegli  speciali  caratteri,  per  cui  l'autore 
poteva  credersi  in  diritto  di  chiamarlo  un  poema  eroico. 
E  a  tal  proposito  mi  giova  riferire  quanto  Antonio 
Amici  dice  nella  dedica  del  Fidamante  (ed.  1591)  a  Gia- 
como Buoncompagni,  duca  di  Sora;  avvertendo  che,  come 
è  ben  naturale,  io  dò  importanza  alle  seguenti  parole 
Don  già  per  ciò  che  suonano,  ma  per  ciò  che  vengono 

(1)  Opere  minori  in  versi  di  Torquato  Tasso,  edizione  critica  a 
cura  di  Angelo  Solerti,  Bologna,  Zanichelli,   1891;  voi.  I,  pag.  8. 


350  A.   B£LLO!CI 

a  sìgaiflcare  spogliate  dai  fiorì  dell*  adolazione  e  della  re- 
torìca.  €  . . .  Quello,  che  più  pare  ammirabile  in  questo  am- 
mirabii  Poeta,  è  che  dove  gli  altri,  dod  rìpotando  che 
latta  la  perfeltione  beroica  possa  capire  io  una  forma  di 
poema,  han  cercato  dì  consegoirìa  eoo  due,  la  prima 
dell'epico  con  le  regole  aristoteliche  et  la  seconda  del 
romanzo  con  quelle  dell'uso,  questo  Signore  in  questo 
suo  Fidamante,  con  generoso,  ma  non  men  felice  assunto, 
restringendo  insieme  queste  due  diverse  perfettionì,  l' ha, 
come  in  un  compendio  delle  bellezze  poetiche,  accozzate 
incredibilmente  in  esso,  in  cui  l'epico  riconosce  le  sue 
per  l'unità  della  favola,  ed  il  romanzo  le  sue  per  la  va- 
rietà et  vaghezza  di  tanti  et  cosi  ben  concatenati  episodi, 
co' quali  variando  l'unità  et  con  l'unità  regolando  la  va- 
rietà, viene  ad  essere  il  vincolo,  se  non  più  tosto  l'ar- 
chetipo et  l'essemplare  perfettissimo  dell'epico  e  del 
romanzo  insieme  ». 

Queste  parole  si  riferiscono,  come  si  vede,  sola- 
mente alla  struttura  esteriore  del  poema;  rispetto  alla 
quale  anche  il  Ginguené  riconosce ,  che  v'  è  «  un  grand 
appareil  de  science  poétique,  d' observation  des  règles, 
et  d'habilité  à  conduire  une  action  épique  »  (1),  cose 
tutte  alle  quali  si  attribuiva  grande  importanza  allora 
che  ,  come  ho  già  notato ,  si  cercava  specialmente  V  ar- 
tifizio, la  regolarità,  la  perfezione  estrìnseca,  e  che  a 
critica  avea  la  preminenza  sulla  poesia. 

L'argomento  del  poema  è  di  mera  invenzione;  ma, 
in  fondo,  è  quello  comune  a  tutti  i  romanzi  di  cavallerìa: 
un  cavaliere,  cioè,  che  compie  le  più  difiìcili  e  mirabili 
imprese  per  ottenere  V  amore  d' una  donna  bellissima , 
ma  severa  e  insensibile. 

Le  avventure  particolari  dell'  eroe  si  connettono  poi 
ad  un'azione  prìncipale,  che  è  la  guerra  intrapresa  dai 

(1)  Op.  ciu  pag.  479. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  351 

re  di  Sicilia,  di  Creta  e  di  Troia,  contro  il  re  d'Egitto. 
Del  resto,  quanto  alle  singole  parti,  il  poema  è,  per  dir 
cosi,  una  contaminazione  di  elementi  classici  e  caval- 
lereschi. 

Classico  è,  innanzi  tutto,  il  mirabile,  desunto  dalla 
religione  pagana,  ma  adoperato  in  maniera  un  po'  cu- 
riosa. Poiché  infatti  il  poeta,  mentre  introduce  nell'a- 
zione Giove,  Appollo,  Diana,  Cupido,  Proteo ,  Teti ,  Plu- 
tone ,  r  Oceano ,  le  Ninfe ,  ecc. ,  d'  altra  parte  si  studia 
di  mostrare  in  ogni  modo,  che  a  quelle  divinità  non  crede 
ponto;  il  che  non  può  non  eccitare  il  riso.  E  in  vero 
non  è  egli  strano  che ,  dopo  aver  fatto  una  descrizione 
tutto  pagana  dell'Inferno  e  aver  narrato  il  viaggio  che 
vi  fece,  ancor  vivo,  Orcano,  il  poeta,  accennando  alle 
discese  d'Enea,  d'Ercole  e  d'Orfeo,  esca  nelle  seguenti 
parole  ? 

De  gli  antichi  scrittor  (che'l  lume  intero 
Non  havean  anco,  in  tenebre  rivolti) 
Favole  et  sogni.  Hor,  palesato  il  vero 
Per  Cristo,  siamo  a  l' ignoranza  tolti. 
Quinci  i  veraci  successor  di  Piero 
Che  di  sua  fida  greggia  han  guardia,  volti 
Son  col  divin  dì  lui  Santo  Evangelo, 
Da  gli  occhi  a  torci  d' ignoranza  il  velo. 

Et  non  pur  ciò  eh' è  Inferno  aperto  fanno, 
Ma  quel  eh' è  Paradiso  ancora  a  noi; 
Quando  d' aprirli  et  chiuderli  questi  hanno 
Ambe  le  chiavi  a'  fidi  eletti  suoi. 
Et  tu  Gregorio  Santo,  al  divin  scanno 
Asceso,  farlo  a  tuo  talento  hor  puoi, 
Et  da  le  fauci  del  Demonio  trarci 
Et  de  la  Morte,  et  vita  etema  darci. 

Mercé  del  pretloso  Sangue  et  degno 
De  r  altissimo  Dio  fatt'  huom  verace , 
Sparso  per  noi  nel  sacrosanto  Legno 
Per  levarne  di  guerra  et  pome  io  pace. 


352  A.  BELtONI 

Et  hor  De  le  tue  man  largito  in  pegno, 
Quale  a  Palta  speranza  si  conface 
Del  suo  infinito  amore,  onde  a  te  sia 
H  dispensarlo  a  pien  dato  in  balla. 
A  te  Vicario  suo  devoto,  humlle 
Vero  di  Pietro  successor  beato, 
Che  sbandito  ogni  humano  affetto  et  vile, 
Splendi  d' ogni  eccellenza  al  mondo  ornato, 
Tal  che  nel  divin  seggio  a  te  simile, 
Da  gi*an  tempo  non  s*  è ,  né  par  mostrato, 
D' infinita  prudenza  et  di  bontate , 
Et  di  giustitia  adorno  et  di  pietate. 

Cosi  altrove,  riferendo  un'  altra  favola  della  mitologia  pa- 
gana, esclama: 

0  secolo  ignorante,  o  vano  et  stolto, 
Ch*  altari  eresse  et  odorati  scosse 
Vasi  d*  incenso  a  venerar  gli  Dei 
Falsi  et  bugiardi,  scelerati  et  rei; 

e  parla  delle  divinità  ch'hanno  parte  anche  nel  sao  poema! 
Questa  contraddizione  la  troviamo  (non  però  cosi  espli- 
cita, né  appariscente)  anche  nel  Tasso,  la  cui  Gerusa- 
lemme è  cristiana  al  di  fuori,  ma  pagana  al  di  dentro; 
la  troviamo  in  tutta  queir  età ,  nella  quale  il  sentimento 
religioso  non  era  intimamente  radicato  negli  animi,  ma 
si  manifestava  solo  esteriormente  con  l'osservanza  delle 
forme.  Il  nostro  poeta,  paganeggiante  in  fatto  d'  arte,  volle 
però,  qua  e  là  nel  poema,  allermar  la  sua  fede  di  cri- 
stiano e  di  cattolico;  di  qui  quelle  ingenue  apostrofi  (di 
cui  demmo  esempio  )  contro  il  mirabile  pagano,  che  pure 
egli  accolse,  e  con  serietà,  nel  complesso  dell'opera  sua. 
Lo  scopo  diretto  del  Fidamante  è  quello  di  cele- 
brare la  famiglia  Gonzaga,  facendola  discendere,  come 
vedemmo,  da  un  prode  cavaiiero,  che,  sebben  nato  mor- 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  353 

tale,  pur  era  cresciuto  sotto  le  cure  amorose  d' un  dio  (1). 

Il  poeta  finge  di  aver  tratto  l'istoria  del  suo  Eroe, 
da  un  manoscritto  appartenente  ad  Ippolita  Gonzaga,  la 
quale  Tavea  ricevuto  in  dono  da  persona,  che,  viag- 
giando per  l'Egitto,  aveva  trovata  scritta  sur  una  pietra, 
ÌD  idioma  barbarico,  quella  istoria  e  Tavea  tradotta  in 
latino.  Tale  artifizio  ricorda  quello,  usato  comunemente 
dai  poeti  cavallereschi,  di  finger  che  la  narrazione  derivasse 
dalla  storia  di  Turpìno  ;  ma  somiglia  molto  più  a  quanto 
dice  il  Cervantes  nel  Don  Quixote,  d'aver  tradotto  cioè 
il  racconto  da  un  manoscritto  arabo;  finzione  di  cui  si 
valse  molto  spesso  lo  Scott  ne' suoi  romanzi  stòrici,  e, 
ÌD  modo  cosi  splendido  e  originale,  il  Manzoni. 

Ma  vediamo  invece  or  noi  brevemente,  donde  in 
realtà  il  poeta  trasse  i  materiali  dell'opera  sua;  per  fare 
il  che  è  necessario  passare  in  rapido  esame  i  personaggi 
da  lui  presentati. 

L'eroe  del  poema  non  offre,  per  dir  la  verità,  al- 
cuna caratteristica  degna  di  nota;  egli  è  un  prode  cava- 
liere, che  s'accinge  alle  più  ardue  imprese  per  acquistarsi 
l'amor  di  una  donna  bellissima;  figura,  come  notai,  co- 
mune a  tutti  i  poemi  di  cavalleria,  e  che  serve,  natural- 
mente di  pernio  all'azione. 

La  perfezion  sua  stessa  lo  rende  alquanto  freddo; 
inoltre  l' ammirazione  nostra  per  il  suo  valore  è  resa  men 
viva  dall'intervento,  quasi  costante,  delle  altrui  arti  ma- 
giche nelle  imprese  eh'  ei  compie.  Buoni  sono  i  versi  del 
e.  XIX,  nei  quali  il  cavaliere  esprime  la  dolce  speranza, 
che  Vittoria  abbia  a  cedere  finalmente  all'amore: 

(1)  La  genealogia  dei  Gonzaga  é  data  nel  e.  VI;  e  a  questo  propo- 
sito giova  notare  che  su  tale  argomento  alcuni  anni  dopo  del  Nostro, 
cioè  nel  1591,  anche  il  Tasso  compose  e  dedicò  al  duca  Vincenzo  Gon- 
zaga un  poemetto,  intitolandolo  appunto  La  Genealogia  di  Casa  Gonzaga 
yOpere  minori  ecc.  voi.  1,  p.  383  e  segg.).  Il  Tasso  non  accettò  però 
la  derìvaziooe  de*  Gonzaga  inunaginata  da  Curzio. 


354  A.  BRUSCHI 

Et  quale 

È  il  mio  novo  gioir,  dolce  mio  fato? 
Ove  son  io?  qui  come  venni?  a  tale 
Qual  Dio  m*  inalza  avventuroso  stato  ? 
Erro  0  vaneggio?  o,  dispiegate  Tale, 
In  Paradiso  salgo  a  pien  beato? 
r  pur  veggio  il  mio  Nume,  e  'I  mio  bel  Sole 
Veggio,  e  intendo  1*  angeliche  parole....  ecc. 

Probabilmente  il  poeta  volle  raffigurare  nel  Fidamente  se 
stesso.  A  lui  egli  dà  la  propria  impresa:  Pur  che  ne 
godan  gV  occhi,  ardati  le  piume  (1) ,  quando  ce  lo  pre- 
senta nella  giostra  indetta  da  Vittoria  e  descritta  nel  e.  V. 
Del  resto  il  Fidamante  è  Y  eroe  necessario ,  fatale  ; 
sol  per  opera  sua  potrà  aver  fine  la  guerra,  le  cui  sorti 
piegano  in  male,  quand'egli,  per  lo  sdegno  e  T invidia, 
eccitati  nell'animo  di  Vittoria  dalla  furia  Megera,  vien 
mandato  lungi  dal  teatro  delle  battaglie  (e.  XXIII).  EgU, 
come  Astolfo  nel  Furioso,  fa  un  viaggio  fantastico  attra- 
verso le  sfere  celesti,  e  sente  dal  cavallo  alato,  che  lo 
trasporta  per  T  aria,  la  predizione  della  scoperta  del  Nuovo 
Mondo  per  opera  del  Colombo,  del  Vespucci,  e  del  Magel- 
lano (e.  XXXVI).  Quest'ultima  parte  è  certamente  imi- 
tata dal  e.  XV  della  Liberata ,  ove  un'  egual  profezia  fa 


(1)  Àllre  imprese  aveva  il  Gonzaga,  come  ci  fa  sapere  Ieromuo 
Ruscelli  nel  suo  libro  Le  imprese  illustrì ,  aggiuntovi  nuovamente  il 
quarto  libro  da  Vincenzo  Ruscelli  da  Viterbo.  In  Venetia  appresso 
Francesco  de  Franceschi  Senese,  MnLXXXUll;  pagg.  391  e  segg.;  ed 
erano,  olire  quella  già  rammentata,  le  seguenti:  //  mio  sperar;  E  sole 
altro  non  haggio  (  molto  slampalo  anche  in  fronte  al  poema  )  ;  Con  queste 
(cioè,  due  ali  offerte  da  Amore);  E  s'io  l'  uccido  più  forte  rinasce. 
Di  questi  motti  alcuni  sono  riferiti  nella  rassegna  delle  imprese,  ch'ave- 
vano i  cavalieri  andati  alla  giostra  rammentata  più  sopra  (  e.  V  ).  A  pro- 
posito delle  imprese  veggasi  lo  studio  di  E.  Pércopo  su  Marc'  An- 
tonio Epicuro,  in  Giom.  St.  Voi.  XII,  pagg.  36-46. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORI::   DEL  SECOLO   XVI 


355 


a  Carlo  ed  Ubaldo  la  donna  misteriosa,  che  li  guida  alle 
isole  Fortunate  (1). 

Ecco,  posti  a  riscontro ,  i  versi  de'  dae  poeti  : 


Sftrger  oe  U  tu  Esperii  ÌMÌiti  i«  niro 
Di  emggio  et  d*  onr  hiM  sema  pari 
Ciroo  é'ilto  et  ■aguniiN  desiro; 
Spre^r  priio  d*  Alcide  i  segni,  e  i  uri 
liliiti  et  kerreedi,  e  i  eorsi  e '1  giro 
M  M  laseosti  et  de  U  Morte  il  fero 
Aspetto,  per  troTar  mto  Enispero. 

Pistisj  a  tergo  Abita  et  Calpe,  el  seorso 
Sotto  il  dibkioso  ignoto  elina  et  straoo, 
D*Eolo  lalgrado  et  di  Rettano  il  eorso 
Steso  per  leuo  il  gr»  eenleo  piano: 
htrepido  pisuido  ìbIb  ehe'l  orarso 
laceorrà  (eircoidato  rOeoaio) 
A  i  lega  aidiei,  onde  di  lai  la  Gloria 
Cuti,  pìf  d' egli  andito,  in  verso  et  storii. 

Cuti  elli  di  Coiiabo,  poi  che  ii 
Tak  il  no  iue  glorioso  et  ekiiro, 
Che  per  t{  periglio»  et  enu  lìi 
lid  sarà  di  gettar  su  Tita  avaro; 
Qiinei  le  fortnato  isole  pria 
Troreri  tute  et  per  pia  inngo,  amaro 
Caipo  nreando,  le  spietate  et  rie 
De'  Cuihali  et  altro  aniche  et  pie. 

(/I  FIdammUe.  e.  XIITI,  li  1$,  14. 1^). 


Tempo  Tcrriiche  fan  d'Ercole  i  segni 
Favola  vile  a  i  uviganti  iidistri; 
E  i  mar  riposti,  or  senza  nome,  e  i  regni 
Ignoti  aneor,  tra  voi  saranno  illnstri. 
Eia  che  '1  pili  ardito  allor  di  tutti  i  legni 
Qouto  circonda  il  mar ,  circondi  e  listri , 
E  la  terra  misari,  immenu  mole. 
Vittorioso  ed  emolo  del  Sole. 

Un  nom  de  la  Lignria  avrii  ardimento 
A  V  incognito  eorso  esporsi  in  prima: 
Né  'I  miuccieTol  fremito  del  vento , 
Né  r  inospito  mar,  né  M  dubbio  clima. 
Ré  s'altro  di  periglio  o  di  spavento 
Pii  grave  e  formidabile  si  stima, 
Faru  che  '1  generoso  entro  a  i  divieti 
P'Abila  augusti  l'alta  mente  acqueti. 

Tu  spiegherai,  Colombo,  a  u  novo  polo 
Lontano  si  le  fortuute  uteone, 
Ch'  a  peu  seguirii  con  gli  oeehi  il  volo 
La  lama  e' ha  mille  occhi  e  mille  penne. 
Canti  ella  Alcide  e  Bacco,  e  di  te  solo 
Basti  a  i  posteri  tuoi  ch'alquanto  accenno, 
Che  quel  poco  darii  lunga  memoria 
Di  poema  dignissima  e  d'istoria. 

{OeruMalmnme  Liberata^  e.  IV,  li  SO,  SI,  32). 


Lascio  ai  lettori  il  giadizio  sul  valore  di  questa  imi- 
tazione (2).  La  quale  non  è  la  sola  che  il  nostro  poeta  abbia 

(1)  Nel  mio  lavoro  sulF  Epopea  dopo  il  Tasso  mostrerò  come  questo 
della  predizione  sia  divenuto  poi  un  elemento  necessario  dell'Epopea  se- 
centistica. 

(2)  Mi  pare  iudubitabile  la  derivazione  del  luogo  del  Fidamante  dal 
lésso;  per  iscnipolo  di  crìtica  però  noto  che  potrebbero  i  due  passi  avere 
fonte  comune  nelle  note  ottave  19,  20,  21,  22  del  e.  IV  del  Furioso, 


356  A.   BELLONI 

tentata  dalla  Germalemme ;  poiché  infatti  devo  rammen- 
tare il  contrasto  tra  Orione  e  Giulia ,  di  cai  già  ebbi  a  far 
cenno  (e.  XXIX).  e  che  fu  probabilmente  inspirato  da 
quello  famoso  tra  Olindo  e  Sofronia  ;  dico  probabilmente, 
perché  potrebbe  anche  darsi,  che  il  Gonzaga  avesse  at- 
tinto alle  fonti  stesse,  alle  quali  ricorse  il  Tasso.  Ad  ogni 
modo,  se  non  imitazione,  certo  v'  è  somiglianza  ;  nel  Nostro 
però  la  scena  è  un  po'  più  diffusa  e  quindi  meno  efQcace. 
Vittoria  è  la  solita  donna  guerriera  di  tutti  i  poemi 
cavallereschi;  imitazione  della  Camilla  vergiliana,  di  Pen- 
tesilea,  di  Cariclea,  di  Marfisa,  di  Clorinda. 

EUa  fu  posta  (e.  IV): 

da  le  fasce  inQno 

Per  le  chiare  orme  di  Diana  altere, 
Et  le  tenere  labbra  del  ferino 
Latte  diverso  hebber  sovente  a  bere; 
Et  per  aspro  solingo  erto  camino 
Avezzò  il  petto  ad  incontrar  le  Ocre, 
Et  le  mani  a  vibrar  saette  e  dardi, 
E  i  lievi  passi  a  seguir  cervi  et  pardi. 
Ma  poi  crescendo  in  tempo  et  in  valore 
Si  vide  a  l'altre  horrende  belve  opporsi, 
Et  con  pie  saldo  et  con  più  ardito  core 
Il  veien  non  temer,  non  I  ugne  o  i  morsi  ; 
Strozzar  serpenti  e  'n  suo  maggior  furore 
Leon,  tigri  atterrar,  panthere  et  orsi, 
E'n  vece  di  monili  et  perle  et  oro 
De' velli  ornarsi  et  deMìer  tedeschi  loro  (1). 

(1)  Anche  Camilla  fin  da' primi  anni  é  consacrata  a  Diana  {Aen. 
Xi,  537),  e  il  padre  di  lei  Metabo 

natam,  in  dumis  inlcrque  horrentia  lustra, 
Armentalis  equae  mammis  et  lacte  ferino 
Nutribal,  teneris  immuigens  ubera  labrìs 
Utque  pedum  primis  infans  vestigia  plantis 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  357 

Insensìbile  air  amore,  cede  però  a  poco  a  poco,  vinta 
dalla  costanza  e  dalla  virtù  del  Fidamante;  ma  la  sua 
fiera  natura,  dopo  mille  ansie  e  titubanze  e  pentimenti, 
tenta  ribellarsi  alla  forza  della  passione  anche  all'ultimo 
momento. 

Altre  donne  guerriere  sono  Virginia  e  Costanza. 
Virginia  (e.  XIX) 

Che  r  ago  e  *1  fuso  di  Minerva  sprezza 
Sol  spade  et  laocie  di  trattare  avezza, 
Et  di  passar  con  le  rosate  piante 
Nel  corso  i  venti;  et  su  le  biade  il  volo 
Mover  vedreste  e  sol  toccarne  alquanto 
Senza  pregarle  pur  con  danno  e  duolo; 
Velocissima,  et  sopra  V  onda  errante 
Le  alzerebbe  ella  di  quel  salso  suolo, 
Né  tinger  pur  gliele  vedresti  in  parte 
A  tanta  leggiadria  congiunta  ha  l'arte. 

I  quali  versi  sono  traduzione  di  quelli  di  Vergilio,  rife- 
rentisi  a  Camilla: 

....  non  illa  colo  calathisve  Minervae 
Femineas  assueta  manus;  sed  proelia  virgo 
Dura  pati,  cursuque  pedum  praevertere  ventos, 
Illa  vd  intactae  segetis  per  summa  volaret 
Gramina,  nec  teneras  cursu  laesisset  aristas: 

Institerat,  jaculo  palmas  oneravit  acuto; 
Spiculaque  ex  humero  panrae  suspendit  et  arcum, 
Pro  crinali  auro,  prò  longae  tegmine  pallae, 
Tigridis  exiniae  per  dorsum  a  vertice  pendent. 

{Aen,  XI,  570  segg.) 

Cfr.  anche  ciò  che  Silio  Italico  dice  di  Asbite  nelle  Puniche^  IV,  e  i  versi 
dei  Tasso,  che  sì  riferiscono  a  Clorinda  (Geruiolemme  Liberata,  e.  II, 
st.  39,  40). 

VoL  IV,  Parte  I.  tó 


358  A.  BELLOM 

Vel  mare  per  medium,  fluctu  suspensa  tumenti, 
Ferret  iter,  celeres  oec  tiogeret  aequore  plaotas. 

{Àen.  804  e  segg.) 

È  inalile  poi  cb'  io  rammenti  i  notissimi  versi  del  Tasso 
sa  Clorinda,  che  derivano  pur  essi  in  parte  dal  laogo 
vergiliano. 

Queste  due  donne  sono  le  eroine  di  un  episodio, 
che  è  imitazione,  e  in  qualche  parte  traduzione,  di  quello 
d'Eurialo  e  Niso  in  Vergilio,  e  che  si  svolge  nei  canti 
XXVI  e  XXVIL 

Essendo  caduto  in  battaglia  Gierone,  figlio  del  re  di 
Sicilia,  la  sorella  di  lui  Virginia,  per  calmare  il  dolore 
del  padre ,  decide  d' andare  a  cercarne  il  corpo  per 
dargli  sepoltura.  S'  avvia  per  ciò  con  Costanza ,  alla 
quale  durante  il  cammino  narra  de'  suoi  amori  con  Asdru- 
baie,  che  combatteva  nell'esercito  nemico.  Questi  (e  qui 
l'episodio  si  complica)  a  sua  volta  aveva  decìso  di  an- 
dare, con  un  suo  amico,  in  traccia  dell'amata  donna.  Le 
due  donzelle  trovano  il  corpo  di  Gierone,  ma  in  quella 
sentono  romore,  e  Virginia,  temendo  d' esser  sorpresa  si 
dà  a  fuggire.  S'imbatte  in  Asdrubale,  ch'ella  crede  sia 
Costanza  ;  mentre  d' altra  parte  egli  prende  Virginia  per 
l'amico  suo,  ch'era  andato  innanzi  a  perlustrare  i  luoghi. 
Virginia,  sentendo  poi  che  l'altro  parla  in  Cartaginese, 
trae  la  spada  e  l'  assale.  Asdrubale ,  ferito ,  nel  morire 
prega  l' ignoto  vincitore  di  dire  alla  sua  amante  Virginia, 
ch'egli  mori  combattendo.  Virginia,  udendo  il  proprio 
nome,  riconosce  l'amato  Asdrubale,  e  allora  disperata  si 
getta  sulla  propria  spada.  Intanto  sopraggiunge  Costanza, 
la  quale,  visto  l' atto  estremo  di  Virginia,  si  lascia  cader 
sull'amica  morente. 

Berenice,  che  insensibile  da  prima  all'amore,  s'in- 
vaghisce all'improvviso  e  perdutamente  dell'ignoto  guer- 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  359 

riero,  che  Tiene  a  chiederle  V  aiuto  dell'  arte  sua  di  maga, 
e,  dopo  aver  inutilmente  tentato  di  destare  in  lui  un 
sentimento  d'affetto,  senza  lamenti,  senza  lagrime,  senza 
imprecazioni ,  fa  forza  alle  proprie  brame,  s'accinge  a  mo- 
strargli la  via  che  lo  condurrà  a  ritrovare  la  donna 
de'  suoi  pensieri ,  e  si  rassegna  (  e.  Vili  ) 

L' immaculata  et  salda  oltra  misura 
Fede  ammirando  et  la  sua  gran  bootate; 

e 

pensando  a  tant'  hìstorie  andate 

Di  tante  oppresse  da  mortai  sventura, 
Da'lor  perOdi  amanti  abbandonate, 
Et  sotto  sicurtà  d' amor  tradite , 
Miir  empie  frodi  a  l' inesperte  ordite; 

questa  donna,  dico,  che  non  sente  poi  mai  più  rinascere 
in  core  i  segni  dell'antica  fiamma,  è  un  carattere  man- 
chevole, muto,  imaginato  solo  per  poter  dare  al  Fida- 
mante  una  compagna,  che  l'aiuti  e  lo  sostenga  ne' peri- 
gliosi cimenti ,  non  però  con  la  forza  onnipotente  dell'  a- 
more,  si  bene  con  la  fredda  virtù  dell'  arti  magiche. 

Migliore  invece,  quanto  a  concezione,  è  la  figura  di 
Sulpizia ,  la  cui  disperazione  è  tratteggiata ,  nelle  linee 
generali,  con  efficacia,  forse  perché  qui  il  poeta  ebbe  a 
modelli  Virgilio  e  Ovidio  negli  episodi  di  Didone  e  di 
Arianna,  ch'egli  imitò,  dipingendo  con  verità  la  povera 
abbandonata,  che  s'agita  in  preda  alle  più  crudeli  am- 
bascia e  trapassa,  con  rapidi  e  naturali  mutamenti,  dal 
furor  della  disperazione  all'  accasciamento  e  poi  alla  spe- 
ranza (e.  VII).  Non  sarebbe  improbabile  che  il  poeta 
avesse  avuto  presente  anche  1'  episodio  d' Armida  abban- 
donata da  Rinaldo,  nel  e.  XVI  della  Gerusalemme, 

Argentina,  la  maga,  che  inutilmente  tenta  d'adescare 
con  le  lusinghe  e  coi  lascivi  diletti  d'Amore  il  Fidamanle 


360  A.   BELLONl 

e  gli  appresta  un  luogo  tutto  delizie  ed  incanti  per 
distorlo  dalle  sue  imprese  e  dalla  futura  guerra,  eh* egli 
dovrà  imprendere  contro  il  padre  di  lei,  Orcano  (e.  XI), 
somiglia  senza  dubbio  airArmidà  del  Tasso.  Come  costei, 
anch'  ella  diviene  poi  schiava  d' amore ,  s' invaghisce  del 
feroce  Armedonte  e,  mettendo  la  sua  magia  ai  servigi 
della  novella  passione,  affascina  con  gì'  incanti  il  terribile 
guerriero,  lo  rende  mansueto,  lo  innebria  con  le  più  raf- 
finate voluttà,  e  s' addolora  poscia  e  si  lamenta,  temendo 
di  doverlo  abbandonare  (e.  XVII). 

Per  questa  sua  Argentina  mi  pare  che  il  poeta,  oltre 
che  dell'Armida  del  Tasso,  si  sia  valso  anche  delfAlcina 
ariostesca. 

Argentina  (e.  XI): 

Le  belle  braccia  eburnee  ignude  havea 
A  i  cari  homerì  infìno;  e'I  collo,  e'I  petto 
Fio  sotto  le  mammelle  si  scorgea 
Candido  più  che  latte,  et  sf  perfetto 
In  (^oi  parte  et  vago,  che  parea 
Ch'  ivi  Cupido  havesse  in  ver  ricetto  ; 
Lo  snello,  bianco  et  picciol  piede  ornato. 
Con  gemme  et  verdi  nastri  era  legato. 

Questa  ottava  corrisponde  evidentemente  alle  st.  14  e  15 
del  canto  VII  del  Furioso.  E  cosi  dicasi  delle  seguenti: 

L' altre  più  care  membra,  anch'  esse  ascose 
Stavansi  in  guisa,  che  parean  scoperte; 
Quasi  in  cristal  bianche  et  vermiglie  rose 
D'un  sotti!  vel  cangiante  eran  coperte; 
Sopra  il  quale  una  rete  vi  dispose 
D' argento  il  mastro  et  T  arriccbf  con  certe 
Forme  di  gioie  pellegrine,  et  d'hami 
Di  smalto  et  d' oro  et  d' altri  bei  legami. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  361 

Là  've  quaP  hor  avvien,  eh'  errante  et  vaga 
Alma  la  miri  desiosa  e  intenta, 
Passa  la  mente  innamorata  et  vaga 
(  Di  quel  eh'  appar  di  fuor  non  ben  contenta  ) 
Fra  quei  segreti,  onde  pili  amor  s' appaga, 
Occulti,  et  di  spiarne  a  pien  ritenta; 
Ma  Talte  gratie  e  i  bei  sembianti,  in  cielo 
Nati,  celar  non  pon  già  rete  o  velo. 

I  quali  due  ultimi  versi  somigliano  a  quelli  dell' Ariosto  : 

Gli  angelici  sembianti  nati  in  cielo 
Non  si  ponno  celar  sotto  alcun  velo. 

Le  stanze  su  riferite  rammentano  poi  anche  quelle  del 
Tasso,  e.  XVI,  st.  18,  19;  anzi,  come  nella  Gerusalemme 
(e  XVI,  st.  4  segg.),  anche  il  nostro  poeta  accenna  agli 
amori  di  Cleopatra  ed  Antonio. 

Son  pure  una  reminiscenza  dell'  Ariosto  e  del  Tasso 
i  versi  seguenti: 

In  tanto  ella  l' ignuda  man  stendendo 
Piena  di  gratie  et  di  bellezze  al  seno, 
Hor  scoprfa  alquanto,  di  coprir  fingendo, 
L'acerbette  mammelle  et  vaghe  a  pieno; 
Hor  qualche  perla  d' acconciar  facendo 
Sembiante,  et  bora  il  crine  almo  et  sereno. 
Leggiadria  divisando  sf  sovrana. 
Che  sembrar  la  fea  più  che  cosa  humana. 

La  donzella  mandata  da  Argentina  a  trattener  con  le 
lusinghe  e  le  tentazioni  il  Fidamante  (e.  XI),  somiglia 
ad  una  di  quelle  inviate  da  Armida  a  trattener  Carlo  ed 
Ubaldo,  nel  e.  XV  della  Gerusalemme, 


362  A.   BELLOXI 

Sorrìde  ella  et  V  alletta  et  per  pili  pegno 
Dargli,  più  lieta  et  baldanzosa  fassi; 
Et  con  dolci  occhi  et  schivi  il  mira,  et  segno 
Fa  con  la  bianca  man,  eh* a  lei  trapassi; 
E 1  riso,  il  pianto,  e  '1  pianto  assai  pili  il  riso 
Rende  vago;  et  più  bello  entrambi  il  visa 


La  reggia  d'Argentina  è  descrìtta  con  tinte  vive  e  leg- 
giadre (e.  XVI);  né  alcuna  spiccata  imitazione  vi  si  rin- 
viene, se  non  forse  qualche  reminiscenza  di  Claudiano; 
come,  per  es.,  nella  stanza  seguente: 


Et  quinci  et  quindi  i  pargoletti  amorì 
Volan  scherzando  et  d' affinar  fan  prova 
Gli  strali  et  Tarco  in  saettare  i  c6rì, 
Et  cieco  il  segno  suo  ciascun  ritrova; 
Et  fra  r  herbe  et  fra  i  mirti  et  fra  gli  allori 
Tendono  et  visco  et  reti  et  lacci  a  prova. 
Et  Speranza  et  Piacer  et  Tema  et  Duolo 
Et  le  Gratie  con  lor  vengono  a  volo. 


Da  ultimo  i  propositi  di  vendetta  che,  fremente  di  sdegno, 
fa  Argentina  contro  il  Fidamante  (e.  XVII)  sono  da  pa- 
ragonarsi con  quelli  di  Armida  nel  e.  XVI,  st.  59  e  60 
della  Liberata, 

La  figura  d' Creano,  che,  buon  regnatore  da  prima, 
si  perverte  poi,  diventando  un  crudelissimo  tiranno,  è 
ben  tratteggiata.  La  sua  discesa  all' Averne,  fatta  per 
virtù  di  magia,  è  descritta  dal  poeta  ad  imitazione,  alle 
volte  affatto  letterale,  di  quella  di  Enea.  Cosi  le  st.  47  e 
segg.  del  e.  XXII  si  possono  paragonare  ai  versi  467  e 


CURZIO   GONZAGA  RtMATORE  DEL  SECOLO  XVI  363 

segg.  del  lib.  VI  dell'  Eneide,  di  cui  sono  spesso  trada- 
zione (1). 

Sonvi  anche  delle  reminiscenze  dantesche;  cosi  da 
Dante  il  poeta  imita  la  figura  di  Caronte,  che  gli  occhi 
accesi  ha  come  Carboni  ardenti;  la  descrizione  del  Limbo 
e  del  nobile  castello,  ove  stanno 

Quei,  che  vìsser  con  retta  mente  et  pura, 
Virtute  oprando,  amici  al  dritto,  al  buono 
Obedendo  a  la  legge  di  Natura. 
Fraude,  invidia  et  superbia  in  abbandono 
Poste,  et  de'  sensi  ogn'  altra  immonda  cura, 
D'alta  Filosofia  la  lingua  e'I  petto 
Colmi,  et  pieni  in  ciascun  lor  fatto  et  detto. 

Inspirata  dalla  Commedia  è  la  condizione  dei  lussuriosi, 
che  sono  Sospinti  da  rabbiosi  venti;  quella  degli  avari, 
condannati  a  compiere  un  inutile  lavoro;  quella  degli  ira- 
condi ed  accidiosi,  che  stanno  entro  la  palude  Stigia:  gli 
iracondi,  che  mettono  Et  piedi  et  capi  et  unghie  et  denti 
in  opra  Per  lacerarsi,  e  che  per  rabbia  spesso  Vanno 
addentando  anco  il  lor  corpo  istesso;  gli  accidiosi 

che  gorgogliar  s'odon  là  sotto 
Fino  a  gli  occhi  sepolti  entro  il  pantano. 
Tal  che  scuotersi  pur,  né  pur  far  motto 
Non  pon,  ne  punto  mutar  piede  o  mano. 

Armedonte,  il  feroce  re  di  Scizia,  è  cosi  descritto  dal 
poeta  (e.  XIV): 

<i)  Vedemmo,  come  soveoli  volte  il  Gonzaga  traduca  a  dirittura  da 
VergilJo;  ora  giova  notare  che  Maddalena  Campiglia,  nella  prefazione 
alb  commedia  del  Nostro  Gli  Inganni,  accenna  ad  «  alcuni  libri  dell'Eneide 
di  Vergiiio,  da  lui  tradulti,  il  che  non  si  vede  haver  per  aventura  fatto 
più  perfettamente  veruno  da  i  tanti  altri,  che  in  fin  bora  v'babbiano 
messo  le  mani  >;  libri  cbe  non  sono  giunti  fino  a  noi. 


364  A.  BELLONI 

Orgoglioso  el  superbo  et  di  si  fiera 
Mente  et  bestiai,  che  parea  proprio  insano; 
Ma  valoroso  certo  e'n  tal  maniera, 
Che  infino  allora  il  contrastarlo  vano 
Era  stato  a  ciascun,  e*  havuto  ardire 
Havesse  in  prova  incontro  a  lui  venire. 

Spregiator  degli  uomìDi  e  degli  Dei  e  credente  sol  Della 
saa  spada,  egli  deriva  dal  Rodomonte  ariostesco.  L'as- 
salto eh'  egli  dà  a  Troia  è  imitazione  letterale  dell'  assalto 
narrato  da  Enea  nel  poema  vergiliano  :  si  confrontino  in- 
fatti le  st.  10  e  segg.  del  e.  XV  con  i  versi  267  e  segg. 
dei  lib.  II  delV  Eneide. 

Armedonte  che  sfida  il  Fidamante  lontano  (e.  XXV, 
terz' ultima  stanza)  ricorda  Argante  che  sfida  Tancredi 
assente,  nella  Gerusalemme  (e.  VI,  st.  73). 

Il  feroce  Scita  cade  poi  nei  lacci  d'Argentina,  che 
se  ne  innamora  ;  e  viene  cosi  afiascinato  da  lei,  che,  ab- 
bandonandosi tatto  ai  piaceri  d'amore,  scorda  le  armi 
pel  fuso  e  la  conocchia  (  e.  XVI  ).  Qui  non  abbiamo  che 
una  riproduzione  del  mito  d' Ercole,  che  fila  ai  piedi  del- 
l'amante  Iole. 

D'  altra  parte  l' allontanamento  di  Armedonte  dal 
teatro  della  guerra  per  opera  d'Argentina,  somiglia  a 
quello  di  Ruggiero,  nel  Furioso  e  di  Rinaldo,  nella  U- 
berata.  Il  duello  finale  tra  il  Fidamante  Armedonte  ri- 
sponde a  quello  dell'  Eneide  tra  Turno  ed  Enea ,  e  al- 
l'altro  del  Furioso  fra  Ruggiero  e  Rodomonte.  Al  par 
di  quest'ultimo  e  di  Turno,  anche  il  re  di  Scizia  muore 
bestemmiando  : 

Et  con  biechi  occhi  et  chiusi  denti,  un  riso 
Mette  sdegnoso,  et  par  che  sprezzi  il  fato, 
Et  che  passi  con  Talma  a  mover  guerra 
A  Giove  in  cielo  od  a  Pluton  sotterra. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI      365 

Degli  altri  personaggi  del  poema  credo  inutile  parlare; 
solo,  per  finire,  noterò  che  la  furia  Megera  risponde 
air  Aletto  vergiliana,  e  che  il  suo  presentarsi  in  sogno 
a  Vittoria,  sotto  le  sembianze  della  madre  di  lei  (e.  XXIII), 
è  imitato  letteralmente  dal  lib.  VII,  340  e  segg.  del- 
l' Eneide,  ove  Aletto  appare  nel  sonno  ad  Amata. 

Per  opera  della  stessa  furia,  Vipercano  provoca,  come 
vedemmo,  una  sedizione  (e.  XXIV),  la  quale  deve  esser 
stata  inspirata  da  quella  di  Arginano,  nel  e.  Vili  della 
Liberata, 

Ed  ora  non  istarò  a  spender  molte  parole  per  dare 
un  giudizio  su  questo  poema.  Esso  somiglia  ad  un  grande 
edifizio,  regolare  nelle  lìnee  generali,  fatto  con  cura  e 
abilità,  secondo  le  più  rigorose  leggi;  ma  senza  un  certo 
gusto  e  una  certa  finitezza  nelle  linee  particolari.  Preoc- 
cupato dal  disegno  generale  del  suo  lavoro,  il  poeta  di- 
menticò troppo  spesso  le  esigenze  dell'arte,  e  riusci  al- 
cune volte  povero  d' inspirazione  e  di  forma  ;  la  sua  lingua 
é  qua  e  là  oscura  e  deficiente,  quanto  a  scioltezza  e 
leggiadrìa.  Il  Fidamante  ha  importanza  più  che  altro  per- 
ché fa  sonito  contemporaneamente  a  quello  del  Tasso, 
da  persona  assai  versata  nell'arte  poetica.  Il  leggerlo 
toma  oggi  noioso,  e  con  l'averne  fatto  parola,  spero 
poter  risparmiare  ad  altri  questo  fastidio.  Sarò  pago  d' aver 
reso  almeno  tale  servigio  (1). 

(1)  Aggiungo  qui,  che,  secondo  quanto  dice  il  Bettinelli  nel  suo 
libro  Delle  lettere  e  delle  arti  mantovane  {In  Mantova,  1774)  a  pag.  86 
delle  Annotazioni,  suH' autorità  del  Cagnoni,  lo  stesso  Duca  di  Mantova 
Guglielmo  avrebbe  fatto  la  musica  al  Fidamante.  E  il  Canal  {Della  mu- 
fica  in  Mantova^  in  Memorie  del  Reale  Istituto  Veneto  di  scienze  let- 
tere ed  arti,  toL  XXI,  Venezia,  1879,  pag.  684)  aggiunge:  e  Credo  che 
abbia  voluto  dire,  che  fece  Tarla  per  cantarlo,  o  che  ne  modulò  alcune 
stanze  •.  C  facile  capire  ch'avrà  musicato  alcuno  de' cosi  delti  lamenti, 
i  quali  solevano  essere  intonati,  come  gli  strambotti,  cui  nella  forma  molto 
somigliano  (A  Zenatti,  Strambotti  di  Luigi  Pulci,  Firenze,  Lib.  Dante, 


366  A.  BELLOm 


VII. 


ÀDche  ODa  commedia  scrisse,  come  vedemmo,  Cm*- 
zio  Gonzaga,  intitolata  GU  Inganni,  Essa  è  dì  genere 
classico;  l'intreccio  si  basa  tatto  sai  travestimento  dei 
personaggi  e  sallo  scambio  dei  sessi.  È  in  cinque  atti,  e 
V  argomento  ne  è  il  seguente  :  I  due  amici  Giulio  e  Lo- 
renzo ,  quando  s' erano  ammogliati ,  avean  convenuto  tra 
loro,  che  se,  delle  lor  donne,  una  avesse  partorito  un 
maschio,  Y  altra  una  femmina,  il  padre  di  quello  avrebbe 
dato  al  padre  di  questa  duemila  fiorini,  i  quali  depositati 
in  un  banco  avrebbero  costituito  la  dote  della  fanciulla. 
Giulio  ebbe  dalla  moglie  Cencia  un  maschio  e  una  fem- 
mina, gemelli,  e  Lorenzo  un  maschio.  Giulio  allora,  per 
guadagnare  i  due  mila  fiorini,  pensò  di  far  sparire  il 
figlio,  Scipione,  mandandolo  lungi  dalla  casa.  Ma  siccome 
egli  lo  amava  grandemente,  dopo  alcun  tempo  deliberò 
di  riprenderlo  presso  di  sé,  vestendolo  da  donna  e  affi- 
dando la  fanciulla,  Lucrezietta  (alla  quale  somigliava  per- 

1887,  pagg.  40-41  ;  Melzi-Tosi,  Bibl.  dei  romanzi  ecc.  Milano,  Muggiani, 
pagg.  186,  260,  305.  Si  rammenti  le  st  dell*  Ariosto  musicate  dal  Trom- 
bonciDO  e  conservateci  nel  voi.  IV  dell*  antologia  di  Andrea  Antico  (Roma; 
1617).  Cfr.  Una  stanza  dell' A.  musicata  dal  T.,  per  cura  di  A.  Zenatti, 
Firenze,  Carnesecchi,  1889. 

Dal  Fidamante  é  falla  menzione  nel  poema  Lo  Armidoro  di  Gio- 
vanni SORANZO,  all'  III.^^  Sig.  Francesco  d'  Adda  Conte  di  Sale  eie. 
(In  Milano,  appresso  Gio.  Giacomo  Como  Libraro,  MDCKT),  ove  sono 
questi  versi: 

Curlio  splendor  della  Gonzaga  prole 
Tra  quei  gran  cigni  canti  il  Fidamante, 
Tal  che  fatto  è  pur  chiaro  al  par  del  sole 
Allor  che  è  in  cicl  seren  più  Gammeggiante. 

(e  XXV,  st.  81) 

U  poema  di  Curtio  è  pure  rammentato  da  Giulio  Strozzi  nel  e  Xll, 
st  55,  della  sua  Venetia  edificata. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  367 

fettamente  Scipione,  che  d' allora  in  poi  fu  chiamato  Lu- 
crezia) ad  una  vicina  parente. 

Questo  è  r  antefatto.  Agiscono  quindi  nella  commedia  : 
Scipione  vestito  da  donna  e  col  nome  di  Lucrezia;  e 
inoltre  una  fanciulla,  Ginevra,  vestita  da  uomo  col  nome 
di  Cesare  ;  il  qual  secondo  travestimento  era  stato  operato 
dal  padre  della  giovane,  per  timore  eh'  ella  avesse  dovuto 
patire  offesa,  quando  insieme  a  lei  egli  era  uscito  pro- 
fugo di  Siena  per  le  guerre  di  parte.  Ora ,  1'  in- 
treccio è  questo  :  Lucrezia  (  Scipione  )  ama  Cesare 
(Ginevra);  Leandro,  figlio  di  Lorenzo,  ama  la  Lu- 
crezia e  la  Lucrezietta  e  vorrebbe  possederle  tutt'  e  due; 
Polanteo,  pedagogo  di  Leandro,  innamora  della  Lucre- 
zietta. Oltre  a  ciò  Teodosio,  vecchio  mercatante,  è  inna- 
morato di  Doralice,  donna  di  mar  affare;  ma  ha  un  rivale 
molto  temibile  in  Ippolito,  giovane  scapestrato,  ed  amico  di 
Leandro.  Cosi  stando  le  cose ,  si  tratta  di  far  in  modo , 
che  Lucrezia,  Leandro  ed  Ippolito  possano  appagare  le 
loro  brame.  Ad  ottener  ciò  valgono  gli  intrighi  di  Guin- 
dolo, il  quale,  sebben  sia  servo  di  Teodosio,  asseconda 
le  mire  di  Ippolito;  quelli  di  Filippa,  fantesca  di  Lucre- 
zietta, e  di  Garbuglio,  servo  di  Leandro.  Guindolo,  in- 
gannando Teodosio,  riesce  a  tenerlo  per  alquanto  tempo 
lungi  dalla  casa  di  Doralice,  sicché  Ippolito  ha  modo  di 
penetrarvi  e  di  starvi  a  suo  bell'agio.  Filippa  dispone 
ogni  cosa  per  introdur  Cesare  (Ginevra)  in  casa  di  Lu- 
crezia (Scipione).  Garbuglio  finalmente  ha  pensato  di  sod- 
disfare il  desiderio  di  Leandro  alle  spalle  del  povero 
pedante  Polanteo.  Infatti,  facendo  balenare  a  costui  la 
speranza  di  poter  entrare  in  casa  di  Lucrezietta ,  della 
quale  è  innamorato,  ha  stabilito ,  eh'  egli ,  vestito  da  fac- 
chino, porti  un  cembalo  in  casa  di  lei.  Ma  dentro  la 
cassa  del  cembalo  si  nasconde  Leandro,  che  può  entrare 
cosi  nascostamente  presso  V  amata  ;  mentre  il  povero  pe- 


368  A.   BELLONI 

dante  viene  bastonato  dì  santa  ragione.  Ma  intanto  (  Deus 
ex  machina)  torna  Gìalio,  ch'era  andato  in  esigilo;  sor- 
prende Leandro  in  casa  della  figlia  Lucrezietta;  Ippolito, 
per  salvare  V  amico ,  scopre  V  inganno  fatto  da  Giulio  a 
danno  di  Lorenzo;  e  finalmente  con  dne  matrìmont  le 
cose  s'accomodano  e  tutti  rimangono  soddisfatti. 

I  caratteri  de' personaggi  sono  quelli  comuni  alla 
commedia  cinquecentistica.  Teodosio  è  il  vecchio  babbeo 
ingannato,  il  messer  Nicia  della  Mandragola.  Doralice  è 
la  cortigiana,  a  cui,  nelle  tresche  amorose,  dà  mano  la 
madre  stessa,  Bertolina;  è  tipo  che  si  ritrova  costante- 
mente nelle  commedie  del  sec.  XVI,  cosi  come  si 
ritrovava  nella  vita  libera  e  scostumata  di  quel  tempo. 
Figura  stereotipa  è  pur  quella  del  pedante ,  che  parla 
nel  solito  linguaggio  mezzo  italiano  e  mezzo  latino, 
e  non  cessa  dallo  sputar  sentenze  e  dal  citar  Cicerone, 
neppur  sotto  la  grandine  delle  bastonate.  Lo  scioglimento 
avviene  nella  solita  maniera  convenzionale;  uno  de' per- 
sonaggi arriva  all'  improvviso ,  e  la  matassa  è  beli'  e  di- 
panata. Il  dialogo  è  alquanto  spigliato  e  buona  la  lingua; 
ma  tuttavia  non  credo  avesse  ragione  la  Campiglia  quando 
scriveva:  «  Per  certo  tengo  io,  che  (qual  mi  disse  un 
gran  letterato)  sarà  chiamata  per  la  bellezza  sua  la  re- 
gina delle  comedie  del  nostro  secolo  )►. 


vin. 


Le  Rime  del  Gonzaga  si  dividono  (nell'edizione  ul- 
tima e  completa  del  1591  (1))  in  sei  parti.  Nella  prima 

(1)  La  prima  edizione,  in  due  tomi,  fu  falla  in  Vicenza  nella,  stam- 
peria nuova,  MDLXXXV,  in  4°,  da  Angelo  Ingeperì,  che  la  dedicò  a 
Carlo  Emanuele,  duca  di  Savoia.  Una  seconda  edizione  porta  la  data  di 
Mantova,  1588.  Si  vegga  la  Bibliografia  in  Appendice. 


CURZIO  GONZAGA   RIMATORE   DEL  SECOLO  XVI  369 

intitolata  Amor  pungente,  il  poeta  parla  di  un  amore,  che 
r aveva  legato  a  donna  indegna;  rende  grazie  al  cielo  di 
averlo  liberato  da  tale  passione,  e,  pentito,  prega  Iddio 
che  voglia  concedergli  d'  uscir  di  questa  vita  virtuo- 
samente : 

Alto  e  benigno  Dio, 
Or  che  da  gli  occhi  tolto 
W  hai  d*  ignorantia  il  velo,  ond'  er*  io  involto, 
Colmo  di  puro  affetto  et  di  desio 
A  te  consacro  il  core 
Sgombro  dMndegno  amore, 
Poi  che  Palma,  a  se  stessa  empia  e  rubella , 
Già  torna  in  signorìa,  dov'era  ancella (1). 

Qui  dunque  tutto  spira  contrizione;  ed  è  degno  di  nota, 
che  il  poeta  cominci  di  là,  dove  sarebbe  più  naturale 
che  riuscisse,  come  fece  il  Petrarca  nella  canzone  alla 
Vergine,  la  quale  riconduce  la  mente,  traviata  ne' pen- 
sieri d'amore,  alle  più  pure  e  sante  cogitazioni. 

La  seconda  parte,  ch'ha  per  titolo  Amor  Ugante^  è 
tutta  dedicata  alla  divina  Orsa.  I  proponimenti  del  poeta 
di  star  lungi  da  amore  non  durarono  molto  e  un  nuovo 
affetto  s' accese  nell'  animo  suo  ;  le  poesie  di  questa  parte 
ne  sono  le  interpreti,  nonché  quelle  della  parte  terza, 
intitolata  Amor  languente,  nella  quale  «  si  contengono 
molti  affetti  et  effetti  d' Amore  et  speranze  et  temenze  et 
passioni  et  contentezze  gentili  »;  nulla  del  resto  degno  di 
nota  speciale;  versi  buoni,  concetti  comuni,  quali  si  ri- 
trovano in  tutti  i  canzonieri  dal  Petrarca  in  poi. 

La  quarta  parte  s' intitola  Amor  trasformante  o  esta- 
tico, €  in  cui  si  contengono  le  innumerabili  virtuti  del- 
ti) Mime,  ctc  Parte  I,  pag.  18. 


370  A.  BELLONl 

rOrsa  amata,  et  fra  altro  la  sua  infiDìta  hODestà,  et  la 
incomparabil  bellezza  »  (1). 

Le  due  parti  seguenti  coDteogono  rime  di  soggetti 
diversi  e  politiche.  La  quinta  intitolata  Amor  di  carità 
é  «  in  lode  di  diversi  valorosi  et  meritissimi  Prencipi  et 
Letterati,  et  di  bellissime  et  virtuosissime  Signore».  V è 
un  sonetto  a  Pio  IV,  uno  al  cardinal  Borromeo,  chiamato 
Chaos  nella  Accademia  delle  Notti  Vaticane ,  un  altro  per 
la  nascita  di  Vincenzo  Gonzaga,  ed  uno  per  quella  di 
Ferrante,  principe  di  Molfetta  e  Guastalla.  Vi  sono  rime 
in  lode  di  Margherita  di  Mantova,  duchessa  dì  Ferrara, 
di  Ippolita  Gonzaga,  del  cardinal  Ercole,  di  Carlo  Ema- 
nuele duca  di  Savoia,  e  d'altri;  e  termina  con  sei  so- 
netti d'argomento  religioso:  alla  gloriosa  Vergine,  sulle 
stigmate  di  S.  Francesco,  sul  legno  della  Croce  e  nel  di 
della  Comunione. 

La  sesta  parte.  Amor  di  gloria,  contiene  «  cose  di 
guerra  et  particolarmente  la  rotta  di  mare  data  a  Selim, 
re  de'  Turchi,  dal  serenissimo  Don  Giovanni  d' Austria  ». 
Di  queste  rime  ebbi  già  a  parlare,  quindi  è  inutile  l'esa- 
minarle qui  nuovamente. 

Veniamo  ora  a  dare  un  qualche  esempio  di  tali 
poesie.  Comincio  dai  seguenti  versi,  che  ci  trasportano 
in  pieno  secentismo: 

D' un  ghiaccio  ardente  et  d' un  gelato  foco, 
D'  un  pianto  dolce  et  d'  un  timore  audace, 
D'  un  desir  folle  e  d'  un  sperar  fallace 
Mi  nodrisco  e  consumo,  a  poco  a  poco. 

(1)  A  pag.  130  vi  é  una  t  risposta  per  le  rime  al  Sig.  Tasso  tor- 
cendo i  suoi  argomenti  fatti  in  lode  d' una  Sig.'  Barbara,  anteponendole 
la  grand'  Orsa  » .  il  sonetto  del  Tasso  é  quello  ben  noto  :  Tolse  Barbara 
gente  il  pregio  a  Roma.  Quel  di  Curzio  comincia  :  Con  mani  avinte  , 
con  discinta  chioma. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  371 

Àinnro  amor  m*  aggira  in  pene  e  in  gioco 
Et  sciolto  et  preso  mi  consenta  e  sface, 
EM  mio  i)en,  e'I  mio  mal  gli  aggrada  et  spiace 
Et  vuol  eh*  io  canti,  or  che  m' ha  fatto  huom  roco  (1). 

Chi,  a  leggere  questi  versi,  non  rammenta  la  famosa  ot- 
tava del  Marino,  sulla  natura  d'Amore: 

Volontaria  follia,  piacevol  male 
Stanco  riposo,  utilità  nocente,  ecc.? 

Ma  vi  sono  però  anche  versi  di  leggiadra  fattura: 

Tutti  i  più  bei  colorì 
De  i  più  fini,  vermigli  e  bianchi  fiorì. 
Che  cogliesser  giamai  nel  Paradiso, 
E  le  Gratie  e  gli  Àmorì 
Locar  d*  una  belFOrsa  entro '1  bel  viso; 
Non  meraviglia  poi, 
Se  cari  odor  spirando  ella  fra  noi, 
A  par  d*ogn' altra  più  lucente  aurora. 
Et  Cielo  e  terra  al  suo  apparire  infiora  (2). 

Ed  i  seguenti: 

Come  le^iera  et  sciolta, 
A  r  apparir  del  sole, 
Lontan  da  la  sua  cara  madre,  il  corso 
Stender  la  pargoletta  damma  suole, 
In  verde  piaggia  a  vaneggiar  rivolta. 
Allentando  al  piacer  novello  il  morso. 
Cosi  la  Fera  mia,  leggiadra  et  bella. 
D'amor  sempre  rubella, 


ri)  Mime  eie.  Parte  HI,  pag.  38. 
{t)  Rime  etc.  Parte  HI,  pag.  69. 


372  A.  BELLONI 

Et  solo,  ohimè,  di  se  medesma  amante. 
Da  la  gran  Roma  le  fugaci  piante 
Per  tempo  torse  e  in  solitaria  parte 
Si  trasse,  ove  com parte 
A  pastori,  a  bifolchi,  a  greggi,  a  fere 
Tante  sue  gratie  et  sue  bellezze  altere. 
Et  io  infelice  la  sospiro  et  ploro 
Et  me  ne  struggo  et  moro  (1). 

E  come  ha  comiDciato  con  cuore  contrito,  cosi  chiude  le 
rime  amorose ,  pregando ,  pentito  de*  snoi  errori ,  che  lo 
Spirito  Santo  lo  dissolva  in  lagrime;  e  si  volge  al  Cro- 
cifisso implorandolo,  accioché  gli  mondi  il  cuore  dai  vani 
desideri,  sazio  ormai  della  vita,  alle  cui  fallaci  lusinghe 
spera  che  Dio  vorrà  in  breve  sottrarlo  (2). 

Tale  fu  r  opera  pojetica  dì  Curzio  Gonzaga,  alla  quale 
egli  era  fidente  non  potesse  nuocere  né  invido  oblio,  né 
tempo  edace,  sicché  credeva  poter  dir  di  se  stesso: 

Vivrò  quand' altri  mi  terrà  per  morto. 

A.  Belloni 


(1)  Rime  eie.  Parie  II,  pag.  57. 

(2)  Rime  eie.  Parte  VI,  pag.  -235. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORI::   DEL   SEGOLO   XVI  373 


APPENDICE  I 


DOCUMENTI  (1) 


I. 


(Archivio  Storico  Gonzaga  in  Mantova. 
Registro  Decreti  1542-1547,  foL  49). 

Her.  etc.  Quonìam  ius  patrooatus  et  persooam  presentandi 
io  Ecclesia  cntbedrali  huius  urbis  Mantuae  in  beneficio  S.^  Mi- 
chaelis  arcbipresbiteratus,  quod  est  secunda  dignitas  cuique  ani- 
roarum  inest,  quoties  vacatio  adsit,  spectat  ad  IH."*  Franciscum 
Ducem  Mantuae  nepotem  et  filiuro  nostrum  dilectissimum  sive 
ad  Nos,  dum  eius  tutelae  onus  gerimus,  elegirous  Nob.  Cur- 
tiom  Gonzagam,  filium  M.^'^  equitis  domini  Àluisii  Gonzagae 
affinis  nostri  carissimi,  quem  ad  dictum  archipresbiteratus  be- 
neficium  instituendum  nominemus  et  presentemus,  cum  vacare 
contingat  Idcirco  in  omni  eventu  in  quo  Reverendus  D.  Bapti- 
sta  de  Grossis  dictum  archipresbiteratus  beneflcium,  quod  immo 
oblinet,  resignare  voluerit  in  manibus  S.  D.  N.  Papae  sive 
R"'  domini  vicecancellarii  aut  alius  ad  hoc  potestatem  ha- 
bentis,  in  favorem  prefati  Gurtii  vel  contingerìt  eumdem  ar- 
chipresbiteratum  per  decessum  vel  alium  quemcumque  modom 
in  curia  sive  extra  vacare,  ex  nunc  prò  ut  ex  tunc  et  e  contra. 

(1)  Ringrazio  pubblicamente  i  Sigg.  Davarì,  Bertolotti,  Valdrìghi  e 

flallegarì,  che  con  la  solita  gentilezza  mi  procurarono  le  copie   dei  qui 

uniti  documenti,  nel  riprodurre  i  quali  correggo  in  qualche  punto  la 
grafia  secondo  1'  uso  moderno. 

VoL  IV,  Pane  I.  24 


374  A.  BELLO» 

Nos  tutores  et  istitutores  antedicti  elegimus  ooiDÌnamus  et  pre- 
sentamus  S."*^  D.  N.  Papae  eiusque  successori  canonice  intranti 
sive  R.""^  D.  vice  cancellarlo  vel  alteri  ad  id  poteslatem   ba- 
beoti,  dictum  Curtium  ad  dictum  archipresbiteratus  beneOcium 
instituendum ,   rogamusque  dictum   S.""""  D.  N.   Papam  ac 
R  mum  o^mum  vlcecancellorium  et  quemcumque  alium  ad  id 
potestntem  habentem,  ut  hanc  nostrani  electionem,  nominatio- 
nem  et  preseniatìonem  predicti  Curtii  admilLint  cum  dictum 
beneiicium  vacare  contigerit,  ipsuroque  Gurtiuro  omni  meliori 
modo  investiant  et  inslituant  In  quorum  tìdem  has  nostras 
sigillo  ducali  malori  munlrl  feclmus. 
DaL  Maotuae  UH  Xbris  MDXLllI. 
Her.  Card.^"*  Mantuanus. 
Marg.  Ducissa  Mantuae  (1). 

Olympus  Zampus  secretarius  visis 
prescriptis  signatis  Herc.  car.  MaoL 
et  Marg.  Ducissa  Mant  subscripsli. 
Io.  Frane  Tridepalcus. 

IL  (2) 

(R.^  Biblioteca  Estense) 
Ms.  X.  F.  18. 

Air  Imperadore. 

Sacra  Cesarea  Maestà.  Il  SIg/  Curtio  Gonzaga,  che  di  qua 
si  manda  a  V.  M.**  per  fare  con  Lei  queir  ufficio,  eh' è  debito 
della  nostra  serviiù  In  questa  santissima  pace,  sodisferà  parti- 
colarmente per  me  ancora,  et  le  dirà  quel  poco,  eh'  io  gli  ho 
commesso  da  dirle.  Supplico  a  V.  M.^  che  casi  in  questa  parie 
come  in  quel  di  più  ch'esso  l'esporrà,  a  mio  nome,  ella  si 
degni  di  dargli  et  benigna  audienza  et  quella  sincera  fede  che 
per  humanità  sua  darebbe  a  me  stesso,  che  me  ne  farà  grande 
et  deslderatlsslmo  favore. 

DI  Mantova  il  V  Maggio  CVIIL 

(1)  Cioè:  Ercole  Cardinale  di   Mantova  e  Margherita   Duchessa  di 
Mantova,  tutori  di  Francesco  minorenne. 

(:2)  Questa  lettera  si  trova  tra  altre  del  Cardinale  Ercole  Gonzaga. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI       375 


m. 


(Archivio  storico  Gonzaga  io  Mantova). 

Airill  ™<>  et  R."^  S.'*  et  Patrone  mio  oss.»<»  il  S.'  Car- 
dinale di  Mantova  Legato  al  Gonciglio  etc.  a  Trento. 

III."<>  et  R."°  Sig/«  et  Patrone  mio  oss.'"^ 

Ringratio  infinitamente  la  bontà  di  Dio,  che  con  mia  somma 
sodisfatione  e  quando  men  ci  pensava  mi  ha  pur  finalmente 
appresentata  innanzi  occasione  per  la  quale  io  potrò  qualche 
volta  sodisfare  al  luogo  debito  eh*  io  tengo  con  V.  S.  III.""* 
senza  pericolo  almeno  d'incorrere  nell'uno  de* due  estremi, 
ne' quali  ogni  volta  ch'io  pigliava  la  penna  in  mano  per  iscri- 
verle mi  porca  di  trovarmi  avviluppato,  perchè  da  l'un  canto 
io  giudicava  che  non  fosse  bene  et  forse  pericoloso  il  mettermi 
a  darle  raguaglio  di  cose  serie  et  dall'altro,  privo  in  tutto  di 
soggetto,  sempre  temea  de  non  cadere  in  qualche  ineptia,  per 
la  freddezza  universale  di  questa  C!orte,  et  molto  più  per  la  poca 
fatica,  ch'io  le  dava  nel  visitarla.  Ma  ora  eh' è  piaciuto  a 
Moos.'  111.°*°  Borromeo  (non  so  da  qual  buono  spirito  mosso)  di 
chiamarmi  motu  proprio  onoratissimamente  nella  sua  Academia, 
come  più  particolarmente  V.  S.  Ill.">*  potrà  intendere  dal  S.' 
Arrivabene,  sperarò  che  non  mi  mancarà  mai  soggetto  circa 
ciò  da  scriverle  qualche  volta  convenevolmente.  Questo  favore, 
III.'"^'  Patrone,  dall'  un  canto  sopra  modo  mi  è  stato  caro,  ma 
dall'altro  io  temo  che  quel  S/  111.°'''  con  tutta  quella  onora- 
tissima  compagnia  s'habbiano  a  trovar  grandemente  ingannati 
del  saper  mio,  stando  ch'ogni  altra  professione  che  quella 
delle  lettere,  come  pur  chiaramente  si  sa,  è  stata  sempre  la 
mia,  tutto  eh'  io  habbia  qualche  volta,  se  ben  pochissime,  dopo 
eh'  io  son  in  Roma,  letto  qualche  cosetta  e  più  per  passatempo 
che  per  istudio,  pertanto  io  non  ho  mancato  di  palesarle  al 
primo  tratto  l'igoorantia  mia,  onde  accadane  ciò  che  voglia, 
crederò  se  non  conseguirne  laude,  almeno  di  doverne  schifare 
la  colpa,  disposto  di  non  mancare  fra  questo  mezzo  a  l'esser 
più  diligente  nel  leggere  di  quello  che  fin  bora  son  stato,  et 


376  A.  BELLONI 

quanto  più  mi  sarà  possibile,  avegna  che  io  conosca  d* esser 
fatto  in  questa  pratica  assai  bene  infingardo  et  da  poco,  pare 
molte  volte  la  necessità  suol  far  parere  gli  uomini  valenti,  la 
qual  di^ratia  credo  però  fermamente  che  non  habbìa  da  in- 
contrar a  me  in  modo  alcuno.  Né  mi  restando  per  bora  che 
più  dire  a  V.  III.»*  S.^^  non  volendo  entrare  nel  caos  della 
gloria  sua  veramente  fino  dalla  bocca  de'  maligni  celebrata  et 
innalzata  in  ogni  luogo  et  in  ogni  occorrenza,  farò  fine  umilmente 
baciandole  le  mani,  raccomandandomi  nella  sua  buona  gratta. 
Di  Roma  il  primo  di  luglio  del  LXII. 

di  V.  III.»*  et  Rev.»»  Sig.'* 
affetionatiss,*»  et  oblig."*»  Ser.^*» 
Curtio  Gonzaga. 

IV. 

(Archivio  storico  Gonzaga  in  Mantova). 
(Allo  stesso  Cardinale  Ercole  Gonzaga). 

111."°  et  R."<»  S.  et  Patrone  mio  oss."*» 

La  gentil  burla  che  è  piaciuto  a  V.  III.™*  Sig.'*  di  darmi 
neir  ultima  sua  di  XIII,  se  non  mi  farà  riconoscere  per  pos- 
sessore d* alcuna  di  quelle  rare  virtù,  ch'ella  dice  essere  in  me 
(non  ve  ne  essendo  in  effetto  alcuna)  mi  darà  almeno  occa- 
sione di  grandemente  desiderarle  in  cosi  gran  bisogno,  et  di  dan- 
nare appresso  i  miei  andati  mal  ìspesi  anni,  con  farmi  procurar 
con  ogni  sforzo  neir  avvenire  di  apprenderne  almanco  da 
qualch'  una  di  loro  qualche  piccola  particella,  accìochè  io  possa 
mastrarmi  men  indegno  che  sia  possibile  dell'onorata  gratin 
fattami  da  questi  miei  111.*"^  Sig."  forse  oltre  ogni  mio  merito, 
et  del  comertio  della  virtuosissima  compagnia  loro.  Gli  è  ben 
vero,  111.°»°  S.*"  mio,  che  Y  haver  da  tornar  bora  a  scuola  e 
con  tanta  incomodità  come  purconvien  ch'io  faccia,  tal  volta  mi 
dà  fastidio  grandissimo,  et  se  sapessi  come  sbrigarmene  eoo 
onor  mio,  per  certo  che  lo  farei,  non  pertanto  io  sperare  nella 
bontà  di  Dio,  che  m'habbia  da  prestar  tanto  del  suo  favore, 
che  se  non  potrò  in  così  segnalata  occasione  acquistarmi  lode, 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SEGOLO  XVI  377 

almeno  ae  schivarò  la  colpa.  Quanto  poi  a  quello  che  V.  Sig.'^ 
IH.**  dice  eh*  io  le  ho  promesso  d*  impartirle  alcune  impen- 
nate deir inchiostro  mio  consacrato  alla  eternità,  le  rispondo 
che  veramente  non  mi  par  mai  d' haver  osato  tanto,  perchè  se 
pur  nel  passato  tal  volta  mi  son  disposto  (  tirato  dalle  passioni 
del  erodo  et  alato  Arciere)  a  formar  qualche  doloroso  accento 
in  ritmo 

Fu  sol  per  scherzo  et  per  mostrar  di  fuori 
Sol  a  mia  donna  i  mal  graditi  amori 

Ma  quando  pur  anche  temerariamente  fatto  Y  havessi,  hora  la 
gloria  di  V.  111.'°^  Sig>  mal  grado  altrui,  è  salita  a  termini 
così  sublimi,  che  non  solo  a  tal  meta  m' è  tolto  di  poter  di- 
rìciare  lo  strale  del  mio  debile  intelletto,  ma  ne  pur  anche 
d'aggiungervi  con  T acume  della  vista.  OndMo  colmo  d*  infinita 
dolcezza,  tutto  ristretto  nella  povertà  mia,  trattomi  in  disparte 
anzi  nel  più  infimo  canto  del  tempio  della  immortalità  sua, 
me  ne  rimarrò  come  chi  adora  e  tace,  et  nella  buona  grafia 
di  V.  S.  III.  raccomandandomi  riverentemente  le  bacio  le  mani. 
Di  Roma  il  XXV  di  Luglio  del  LXII. 

Di  V.  III."*  et  Rev.»*Sig.»» 

Devol.«o  et  affetionaiiss.<*  ser.'« 

Curtio  Gonzaga. 

V, 

(R.^  Archivio  di  Stato  in  Parma). 

Ill.«<>  et  Ecc."**  Sig.'  Patron  mio  oss."° 

Il  Sig.'  Patritio  è  arrivato  già  due  giorni  sono  con  mia 
grandissima  consolatione,  et  poetamo,  dal  sol  nascente  al  tra- 
montar del  die,  all^rissimamente  spesso  facendo  quella  hono- 
rata  memoria  dell'  Ecc.*  Vra. ,  che  meritano  le  sue  rare  virtù, 
et  la  devotione  delTuno  et  F altro  di  noi,  ammirando  non  poco 
il  progresso,  ch'ella  fa  del  continuo  in  questa  nobilissima  pro- 
fessione. Io  gli  ho  detto  che  l'Ecc*  Vra.  si  degnò,  pochi  di 
SODO  eh*  io  mi   trovava  costi  seco ,  di  promettermi ,  giunto 


378  A.   BELLONI 

ch'ali  fosse,  di  favorire  questa  casa  una  mattina  per  goder- 
selo; onde  esso,  et  io  vi  stiamo  con  sommo  desiderio,  rimet- 
tendosi alla  sua  volontà  del  quando;  con  supplicarla  io  però  a 
voler  farmelo  sapere  uno  o  due  giorni  prima,  per  esser  questo 
loco  molto  arido  di  ogni  cosa  per  honorare  et  far  parte  di 
quel  debito  che  si  conviene ,  con  un  pari  dell'  Ecc.^  Vra. ,  b 
quale  se  le  tornasse  di  servitio  lo  stabilimento  della  giornata 
per  domenica  prossima,  a  me  sarebbe  anche  di  più  comodità 
per  conseguire  il  mio  intento;  poi  che  il  venere  né  il  sabato 
si  potrebbe  haver  cosa  buona  per  li  caldi  che  corrono.  Cod 
qual  fine  pregandola  a  condur  seco  il  S/  Mutio  (1)  per  più 
condimento  del  tutto,  nella  buona  gratia  della  Ecc.*^  Vra.  III."* 
di  tutto  cuore  me  le  raccomando  et  bacio  le  mani. 
Di  Borgoforte  li  6  di  Agosto  del  '85. 
Di  Vra.  Ecc.*  III.»» 

Affettuos."*»  et  devoliss.o  S.'* 
Curtio  Gonzaga 
A  tergo: 

Airill.»<»  et  Ecc.»°  Sig.'  et  Patron  mio 
osse."*»  il  Sig.'  Don  Ferrante  Gonzaga. 

Guastalla. 


VI. 


(Archivio  storico  Gonzaga  in  Mantova). 

US.'  Curtio  era  stalo  a  Guastalla  a  visitare  il 

S/  D."  Ferrante,  et  ultimamente  ci  condusse  un  S.'  Francesco 
Patritio,  che  sta  in  Ferrara,  valente  lìlosofo  et  poeta ,  et  che 
in  Borgoforte  ha  revisto  il  poema  del  S.'  Curtio,  con  la  qual 
occasione  esso  don  Ferrante  s'è  invitato  a  Borgoforte,  dove 
intendo  che  ci  è  stato  una  mattina  et  venne  a  Pietolo  per  certo 
suo  affare.  Don  Patritio  ha  promesso  di  componere  certe  deche 
volgari  in  laude  del  poema  del  S.'  Curtio,  il  quale  per  ciò  gli 

(1)  Questi  é  senza  dubbio  Muzio  Manfredi,  perchè  Girolamo  Muzio, 
giustinopolitano,  era  morto  nel  1576. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  379 

ha  donato  24  braccia  di  tabe  di  seta.  Questo  è  quanto  mi  è 

rifferto  di  nuovo  dalla  villa 

Di  Mantova,  li  7  Settembre  1585. 

Di  V-  S.  Ili"*  et  R."»»^ 
Hum."<»  et  devot."<>  ser/« 
Il  Crema.  (1) 
A  tergo: 

Airill."»o  et  R."<>  S.  Patrone  mio  Coll.»*>  Mons.' 
r  Abbate  Gonzaga  a  Roma. 


VII. 


(R.<>  Archivio  di  Stato  in  Parma). 
IIL"<>  et  Ecc.**»  Sig.'  mio  et  Patrone  osser."<> 

Quand*  io  pensassi  di  potere  per  li  miei  denari  bavere  col 
favore  di  Vra  Ecc.*  III."*  costi  in  Guastalla,  com'ella  me  ne 
chiede  certa  intenlione,  una  casa  simile  o  poco  manco  di  quella 
della  Sig.'*  Francesca  o  quella  istessa  se  per  avventura  ella 
bavesse  a  lasciarla,  non  sarla  gran  cosa,  eh*  io  mi  risolvessi  di 
allungar  la  mia  andata  a  Palazzuolo  per  certi  novi  intoppi, 
che  mi  si  attraversano,  et  che  per  ciò  me  ne  venissi  a  far 
questo  verno  con  rEcc.""  Vra  et  con  la  mia  cara  Patrona  la 
Sig.'*  Principessa  sua  per  lo  sommo  desiderio  che  tengo  di 
servire  air  uno  et  air  altra  con  ogni  potere  stroppiato  mio, 
et  però  mi  son  risoluto  d*  inviarle  a  posta  il  presente  mio 
staffiere  con  supplicare  l'Ecc.*  Vra.  III."*  a  farmene  saper 
quanto  prima  la  desiata  risposta,  che  del  tutto  farò  per  restar- 
gliene con  perpetuo  obligo  et  con  tal  fine  ad  ambe  due  loro 
riverentemente  bacio  le  mani.  Che  N.  S.  Dio  doni  loro  ogni 
prasperità  et  contentezza. 

Di  Borgoforte  il  29  di  Settembre  '95. 

Di  Vra  Ecc.*  III."* 


(1)  Gio.  Francesco  Crema  era  un  gentiluomo  di  Corte,  fattore  del- 
TAb.  Claudio  Gonzaga,  fratello  di  Curtio. 


380  A.   BELLONI 

Gaso  che  gli  intoppi  non  bastassero  a  trattenere  la  mia 
andata  TEcc.^  Vra  si  degnare  di  dar  ordine  che  a  mia  ri- 
chiesta mi  vengano  i  muli  che  per  sua  iniinita  cortesia  si 
degnò  con  tanta  benignità  di  promettermi,  havendomi  la  Du- 
chessa serenissima  fatto  grazia  d'una  letica  che  più  non  po- 
trebbe esser  a  proposito  per  me  come  haverebbe  ancor  fatto 
dei  muli  se  non  fossero  tutti  empiegati  nel  servitio  del  S.'  Duca 
oo(4ro. 

Certo  S.'  di  cuore  svieceratis.» 
Gurtio  Gonzaga  Marchese  etc 
A  tergo: 

Airill."*»  et  Ecc."°  mii)  Sig.«  et  Patrono  osserv."» 
il  Sig.  Don  Ferrante  Gonzaga  Guastalla. 

Vili. 

(R."»  Archivio  di  Stato  in  Parma). 
(Allo  stesso  Ferrante  Gonzaga). 

DL"»  et  Ecc.*<>  S/  et  Patrono  mio  oss."<> 

Io  havea  pensato  di  venir  a  spendere  il  mio  in  Guastalla 
per  servire  air  Ecc.^  Vra  et  alla  mia  cara  Patrona  la  Sig/* 
Principessa ,  havendomi  Vra  Ecc.*  dato  intentiooe  ferma  di 
formi  bavere  per  gli  miei  denari  una  buona  casa  costi,  conforme 
al  bisc^no  della  infelice  necessità  mia;  ma  intendo  dal  mio 
Fattore,  ch'ella  non  mi  può  far  provedere  fuor  che  di  una, 
che  non  ha,  che  due  camere  buone  per  me  senza  sala,  od  altra 
servitù,  né  sapend'io  come  valermene  convenevolmente  più  per 
riputatione  dell' Ecc.*  Vra  che  per  mia,  parendomi  pure  non 
affatto  indegno  S.'®  di  quella,  vederb  non  potendo  altro  di  pro- 
curare con  l'Altezza  della  Sig.'*  Duchessa  di  Mantova  perche 
mi  faccia  grazia  del  Palazzo  di  Luzzara  tanto  vicino  a  Gua- 
stalla per  poter  anche  tal  volta  venir  a  servire  alle  Eccellentie 
V.re  111.'*'^  come  sommamente  desidero,  et  con  tal  fine  racco- 
mandandomi nelle  lor  buone  grazie  et  baciandole  le  roani 
prego  loro  da  N.  S.  Dio  ogni  felicità  et  contentezza. 

Dì  Borgoforte  il  14  di  Ottobre  del  '%. 

Di  Vra  Ecc.*  I1L«* 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI  381 

Questa  sera  il  Marescalco  di  Guastalla  et  un  altro  pur  di 
li  hanno  detto ,  che  V  Ecc^  Vra  mi  faceva  dar  per  allogia- 
mento  la  casa  per  contro  il  suo  Palazzo  in  Piazza,  che  dicono 
esser  bonissima  et  che  sarebbe  et  per  la  scala  et  per  le  stanze 
approposiussima  ;  se  cosi  fosse  senza  altro  mandarci  subito  a 
far  le  mie  provisioni  et  fra  quattro  o  sei  giorni  sarei  con  mio 
gran  contento  a  servire  le  Ecc.®  Vre  III.*"^  di  tutto  cuore. 

Certo  S."  aff.»o 
Gurtio  Gonzaga  Marchese  etc. 


IX. 


(R.^  Archivio  di  Stato  in  Parma). 
(  Allo  stesso  Ferrante  Gonzaga  ). 

III."®  et  Ecc.  S.'  mio  oss."®  Patrone. 

Haverei  da  scriver  gran  cose  a  V.  E.  e  si  che  ne  resta-  ^ 

rebbe  maravigliata,  ma  la  mano  stroppiata  me  lo  vieta;  ben  ^^'^V 
lo  farò  a  bocca,  piacendo  a  Dio;  in  somma  mi  è  fatta  ogni 
guerra  perchè  non  vada  a  Palazzuolo,  e  credo  che  m*  habbian 
tolto  la  nave  a  cui  già  havea  dato  caparra,  e  senza  la  quale 
impossibile  è  la  mia  andata,  nel  qual  caso  non  saprò  fuor  che 
ricorrere  sotto  la  protettione  dell' E.  V.  et  della  mia  cara 
Patrona  la  S.^  Principessa  col  venirmene  a  servirle  presenzial- 
mente io  tutti  i  modi  costi,  s' havesse  a  star  su  la  nuda  terra. 
Ho  voluto  dirgliene  queste  due  parole  perchè  compassioni  (come 
son  certo  che  farà  per  sua  infinita  benignità)  alla  mala  for- 
tuna mia.  Spero  in  Dio  però,  che  mi  aiuterà ,  et  nella  buona 
grazia  dell' Ecc<^  Vre  di  tutto  cuore  mi  raccomando  et  rive- 
rentemente bacio  loro  le  mani,  con  pregarle  da  N.  S.  Dio  ogni 
compita  contentezza  et  felicità. 

Di  Borgoforte  il  22  di  Ottobre  '95. 
Di  V.  E.  III."» 

Aff."o  et  certo  S.»®  di  cuore 
Curzio  Gonzaga,  Marchese  etc 


382  A.  BELLONI 


APPENDICE    II 


NOTA  BIBLIOGRÀFICA 


1.  —  Il  Fido  Amante^  poema  eroico  di  Cvrtio  Gon- 
saga^  figlivolo  di  Ltngi  delP  antichissima  (Msa  de*  Prencipi 
di  Mantova.  Con  PriuiUgio  della  Santità  di  N.  Signore 
et  della  Maestà  del  Re  Catolico  per  Napoli,  per  Sicilia 
et  per  Milano  et  di  tutti  gli  altri  Prencipi  (T  Italia  per 
anni  dice.  In  Mantova. 

In  fine  :  In  Mantova,  presso  Giacomo  RvflSnelIo,  MDLXXXII. 

In-4.  È  edizione  rara.  Precede  la  prefazione  dell'Autore  e  un  suo 
sonetlo  all'  Orsa  :  Vattene  a  pie  de  la  grand'  Orsa  humile  (  Rime ,  ed. 
1591,  e.  143).  Sul  frontispizio  è  una  colomba  che  Tok  Terso  la  costel- 
lazione deirOrsa,  col  molto:  E  sole  altro  non  haggio.  Di  questa  ed. 
esiste  un  esemplare,  tra  i  mss.  del  fu  marchese  Campori,  tutto  pieno  di 
note  marginali,  di  cassature  e  correzioni  autografe:  esso  seni  forse  per 
le  successive  edizioni  del  poema,  (cfr.  L.  Lodi,  Catalogo  dei  cod.  mss. 
posseduti  dal  m.  G,  Campori,  Modena,  Paolo  Toschi;  parte  11,  pag.  105). 

2.  —  Lo  stesso:  In  Venezia,  1585. 

Ed.  citala  senz' altra  indicazione  dal  D'Arco  nelle  citate  sue  memo- 
rie manoscritte  (v.  pag.  i26,  n.  1  di  questo  lavoro). 

3.  —  Il  Fidamante,  poema  eroico  delF  Ilhistriss.^^ 
SigJ  Curtio  Gonzaga  ^  ricorretto  da  Ivi  et  di  nuovo  ri- 
stampato^ aggiuntivi  gli  Argomenti  deW  Illustre  et  vir- 
tuosiss.  Signora  Maddalena  Campiglia,  et  con  le  mora- 
lità d' incerto  autore.  Con  priuilegio.  In  Venelia.  Air  inse- 
gna del  Leone,  1591. 


CURZIO   GONZAGA   RIMATORE   DEL   SEGOLO   XVI  383 

Io-4.  Precede  una  dedica  di  Àatonio  Amici  all'  illustrissimo  et  ec- 
cellentissimo Principe  il  Signor  Giacomo  Buoncompagno  Duca  di  Sera, 
Marchese  di  Vignola,  Signor  d'  ^rpino  et  d' Arce  et  Generale  de  /'  huo- 
mini  d'armi  dello  stato  di  Milano.  Da  alcune  parole  di  questa  dedica  par- 
rebbe che  fosse  stata  prossima  la  quarta  edizione  (veramente  V  Amici  dice 
terza  e  ciò  proverebbe  l'inesistenza  dell'edizione  del  1585  citata  dal 
D'  Arco  )  e  eh*  ha,  dice  1*  Amici ,  da  farsi  piacendo  Dio  con  belUssime 
figure  et  allegorie  stupende  > .  Che  questa  edizione  sia  stata  fatta  non  mi 
consta,  poiché  non  credo  sia  da  identiGcarsi  con  quella  che  segue. 

4.  —  XfO  stesso:  In  Venezia,  1641. 

In- 4.  Trovo  citata  questa  ed.  senza  altre  mdicazioni  in  uo  Catalogo 
ms.  di  libri,  ch*é  nella  Bibl.  Com.  di  Padova,  segnato  C.  R.  M.  280. 

5.  —  Bime  di  Gurtio  Gonzaqa.  In  Vicenza,  nella  stam- 
peria DuoYa,  MDLXXXV. 

In-i.  Furono  raccolte  in  due  tomi  da  Angelo  Ingegneri  e  da  lui  de- 
dicate a  Carlo  Emanuele  duca  di  Savoia.  Indicazione  data  dal  D'Argo, 
loc.  eh. 

6.  —  Le  stesse:  In  Mantova,  1588. 
Indicazione  data  del  D'Argo,  loc.  cit. 

7.  —  Rime  delV  Illtistriss.  Sig.  Gurtio  Gonzaga  ,  già 
corrette j  ordinate  et  accresciute  da  lui;  et  hora  di  nvouo 
ristampate  con  gli  argomenti  ad  ogni  compositione.  In 
Venetia,  al  segno  del  Leone,  MDXCI. 

Un  volume,  in-i2. 

8.  —  Gli  Inganni^  comedia  deW  Illustrissimo  Signor 
GuBTio  GrONZAGA,  ali*  Illustriss^^^  et  eccellentissima  Signora 
Donna  Marfisa  da  Este. 

In  Gae:  In  Venetia,  appresso  Giovan  Antonio  Rampazzetlo, 
1592. 

Un  volume,  in  8. 

9.  —  Lettere  di  Principi  le  quali  o  si  scrivono  da 
Principi  o  a  Principi  o  ragionan  di  Principi.  Libro  Pri- 
mo, In  Venetia,  presso  Francesco  Ioidi  MDLXXIIL 


384  A.    BELLOKI 

1n-4.  A  e.  197  ^-199  A  sono  due  lettere  di  Curzio  Gonzaga,  una  direiu 
ad  Creole  duca  di  Ferrara  (da  Roma,  5  settembre  1559),  1* altra  al 
Cardinale  Francesco  Gonzaga  (da  Roma,  21  decembre  1559). 

10.  —  Il  tempio  alla  Divina  Signora  Danna  Gio- 
vanna d' Aragona^  fabricaio  da  tutti  i  più  gentili  Spiriti 
et  in  tutte  le  lingue  principali  del  mondo  età  Io  Veoetia, 
per  Plinio  Pietrasanta,  M.  D.  LIIII. 

In -16.  A  pag.  244  y'ha  U  sonetto  di  Curzio  Già  ride  il  eido  e 
r  aria  d'  ogn  intortio.  Del  Tempio  si  ha  anche  un  edizione  in  Yenetia 
per  Francesco  Rocca  a  S,  Polo  all'  insegna  del  Castello^  i565.  È  una 
perfetta  riproduzione  della  prima. 

11.  —  Rime  morali  di  Pietro  ììassow  gentilhomo  Vi- 
nieiano,  ora  Don  Loretuso  monaco  cassinese.  In  Firenze, 
pei  figliuoli  di  Lodovico  Torrentino,  1564. 

In-8.  A  pag.  240  e'  è  il  Sonetto  del  (Gonzaga  Mentre  che  dotte  rime 
rivolgete,  in  risposta  ad  altro  del  Massolo  Curzio  che  con  V  ingegno  com 
havete, 

12.  —  Delle  rime  del  S.  Bernardino  Rota  etc.  In  Na- 
poli, appresso  Giuseppe  Cacchij  Dell*  Aquila,  M.  D.  LXXII. 

In  4.  A  e.  69  A  é  il  sonetto  del  Gonzaga  Con  mente  di  terreni  af" 
(etti  scarca,  cui  risponde  V  altro  del  Rota  5'  havessin  visto  voi  Dante  et 
Petrarca. 

13.  —  Rime  di  M.  Girolamo  Molino,  novamente  ve- 
nute in  luce^  con  privilegii  per  anni  XXV.  In  Venetia, 
MDLXXIII. 

1n-8.  A  e.  113^  é  il  sonetto  di  Curzio  Del  novo  Alcide  ai  fatti 
alti  et  egregi,  di  cui  risponde  T  altro  del  Molino  Si  potess'  io  not^i  prinlegi. 

14.  —  Donne  romane.  Rime  di  diversi  raccolte  et  de- 
dicate al  Signor  Giacomo  Buoncompagno  da  Mutio  Man- 
fredi. In  Bologna,  per  Alessandro  Benacci,  MDLXXV,  anno 
santo.  Con  Licenza  de*  Superiori. 


CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XYl       385 

ln-8.  A  pagg.  97-98  è  il  Sonetto  di  Curzio  ,  Mentre  V  alta  beltà 
ck*  invidia  e  Komo  {Rime,  ed.  ciL  e.  i68),  e  due  canzonette  Cacciam 
guest'  Orsa  amanti  e  Eccone  V  Orsa  amanti  \  a  pagg.  11 9- 121  sono  i  so- 
netti: Se  come  lo  mio  infido,  empio  Signore;  De  la  nov'  Orsa  già  tanto 
splendore;  Novella  Clio  tal  già  sostenne  Amore  (Rime,  ed.  cit  e  21-22). 

15.  —  Scelta  di  Rime  operata  da  Cristoforo  Zabata. 
In  Geocva,  1584. 

Id-12,  parte  1.  A  pag.  139  é  un  capitolo  di  Curzio  a  Giovan  Paolo 
Mavincola.  Indicazione  data  dal  D'Arco,  loc.  cit 

16.  —  Rime  diverse  di  illustri  poeti^  raccolte  da  Ghe- 
rnrdo  Bragomi.  In  Venetia,  per  la  Minima  Ciompagnia,  1599. 

In-i2.  A  pagg.  12,  13  e  U  sono  due  sonetti  e  due  madrigali  del 
Gonaga.  Cosi  il  D*Arco,  loc.  cit 

17.  —  Odi  diverse  di  Oraeio  volgariggate  da  alcuni 
ìkobiUssimi  ingegni  e  raccolte  da  Già.  Narducci.  Venezia 
per  il  Polo.  1605. 

In-4.  Tra  queste  odi  se  ne  troTano  alcune  anche  del  Gonzaga  (  forse 
le  due  che  vedremo  più  innanzi).  Tolgo  1*  indicazione  dal  Catalogo  ms* 
sopra  citato.  Questa  raccolta  del  Narducci  è  detta  rarissima  dairHAYM, 
ToL  I,  pag.  328,  n.  12. 

18.  —  Scelta  di  sonetti  e  di  caneoni  de^  più  eccellenti 
rimatori  d^  ogni  secolo.  In  Bologna,  1709-1711.  Per  C!ostan- 
tino  Pisarri,  sotto  le  scuole,  con  licenza  de'  Superiori. 

E  la  raccolta  del  Gobbi  in  tre  parti  in-8.  Nella  parte  seconda  a 
e.  Ì06-208  sono  i  seguenti  sonetti  del  Gonzaga,  Monti  non  più,  non 
più  campagne,  il  lume;  L'  aspro  eh'  Amor  già  diemmi  a  mollir  scoglio; 
0  se  con  tante  e  con  si  amare  note;  Sempre  quel  di  che  7  voi  mirar 
m' è  tolto  ;  E  pur  non  veggio  del  mio  sole  il  lampo  (  Rime ,  ed.  citata 
e.  98,  72,  85,  105,  106). 

19.  —  Istoria  della  volgar  poesia  di  G.  M.  Cresdm- 
beni.  Roma,  1698. 

A  pag.  210  del  tomo  1  é  il  sonetto  di  Curzio,  D'  un  ghiaccio  ar- 
dente e  d'  un  gelalo  foco  (Rime,  ed.  cit  e.  38). 


386  A.  BGLLONI  —  CURZIO  GONZAGA  RIMATORE  DEL  SECOLO  XVI 

20.  —  Lirici  misti  del  secolo  XVL  YeDezia,  coi  tipi 
dì  Pietro  Bernardi,  181& 

A  pag.  281  è  il  soDetto  del  Gonzaga,  E  pur  non  veggio  del  mio 
sole  il  lampo,  (Rime,  ed.  cit  e  106). 

21.  —  Scelta  di  poesie  liriche  dal  primo  secolo  della 
lingua  fino  al  1700.  Firenze,  Felice  Le  Monnier  e  Goaipa- 
gni,  1839. 

A  pagg.  771-772  sono  i  cinque  sonetti  del  Gonzaga  indicati  da  me 
al  numero  18. 

22.  —  Alcune  odi  di  L.  Orazio  Fiacco  volgari sznie 
nel  Cinquecento.  Bologna,  Nicola  Zanichelli,  MDGCCLXXX. 

Raccolte  da  GioTanni  Federzonì  per  nozze.  A  pag.  5  é  la  traduzioDe 
di  Curzio  Gonzaga  dell'ode  3.*  del  lib.  1:  Ben  di  ferro  ebbe  e  di  dia- 
mante il  core,  e  a  pagg.  23-25  quella  dell*  ode  9.*  del  lib.  111:  Donna 
mentre  il  cor  mio  (Rime,  ed.  cit  e.  199,  177). 


MISCELLANEA 


NUOVE  RIME  D'ALCHIMISTI 


Nel  rimettere  ìd  luce  una  lunga  canzone  sulla  pietra 
filosofale,  distesa  sulla  fine  del  secolo  XIV  da  un  Da-- 
niele  di  GiustinopoU,  professore  di  grammatica,  avvertii  la 
scarsità  di  rime  sull'  alchimia  (1).  Infatti,  mentre  ne 
è  ricca  la  letteratura  medievale  latina,  e  non  ne  sono 
scarse  le  altre,  l'Italia  fin  qui  non  poteva  addurre  che 
due  sonetti,  a  stampa  fin  dal  secolo  XY  in  appendice  ad 
una  Summa  perfectionis  Geberis,  dove  sono  attribuiti  a 
frate  Elia  e  a  Cecco  d'Ascoli ,  il  disgraziato  autore  dell'  A- 
cerba.  Ai  due  sonetti  io  diedi  compagna  la  canzone  del 
capodistriano,  ma  non  altri  componimenti;  quasi,  a  secoli  di 
distanza,  quegli  afiaticati  e  taciturni  alchimisti  riuscissero 
con  qualche  occulto  adoperamento  a  nascondere  alla  cu- 
riosità indiscreta  dei  posteri  i  loquaci  testimoni  delle  loro 
pazzie  ;  o  piuttosto  il  ferrigno  aspetto  dei  codici  d'alchimia, 


(1)  Una  canzone  capodistriana  del  secolo  XIV  sulla  pietra  filoso- 
fale, néù*  Archivio  storico  per  Trieste,  l' Istria  e  il  Trentino,  yoI.  IV 
l»p.  8i-ii7. 


388  MISCELLANEA 

irti  di  sigle,  di  lettere  greche,  di  cifre,  macchiati  e  rosi  dagli 
acidi,  logorati  da  dita  use  ai  fornelli  e  ai  mioerali,  fosse 
valso  e  valesse  a  spaventare  gli  studiosi.  E  come  le  rime 
di  materia  alchimistica  sodo  appunto  frammezzate  alle  ri- 
cette e  ai  segreti  di  quegli  strani  codici,  naturale  eh*  esse 
dovessero  vedersi  ritardato  l'onore  della  stampa,  con- 
teso loro  da  troppi  altri  e  più  degni  documenti  lette- 
rari. L'  amicizia  di  Salomone  Morpnrgo,  che  resiste 
anche  alla  durissima  prova  di  trar  copia  di  simili  versi, 
mi  dà  oggi  il  modo  di  aggiungere  ai  tre  anzi  detti  più 
altri  componimenti  volgari  di  materia  alchimistica  dei  pri- 
mi secoli.  Il  lettore  potrà  in  vero  torcere  il  viso  e  bron- 
tolare: mancano  forse  altri  e  più  degni  argomenti  di  stu- 
dio ?  mancano  testi  antichi,  e  sian  pur  rime,  più  degne  della 
stampa?  Ma  dica  pure,  né  io  addurrò  a  scusa,  troppo 
facile  e  ovvia,  l' esempio  di  altri,  che  si  perdono  in  affan- 
nose ricerche  di  anche  minore  importanza.  A  me  sem- 
brano degni  di  esame  e  di  studio  pur  questi  tentativi 
poetici  dei  poveri  precursori  delle  ricerche  che  oggi  son 
dette  chimiche,  e  se  non  per  la  forma  letteraria,  sebbene 
anche  sotto  questo  aspetto  possano  interessare  lo  studio- 
so, per  la  sostanza. 

Di  alchimia  e  di  alchimisti  italiani,  poco  o  nulla  si 
seppe  e  si  disse,  poco  si  può  dire  e  si  sa.  Che  nei  se- 
coli di  mezzo ,  anche  in  Italia  V  alchimia  abbia  avuto 
molti  seguaci ,  nessuna  maggiore ,  né  più  bella  testi- 
monianza di  quella  di  Dante,  che  nel  profondo  inferno 
costringe  eternamente  i  falsatori  alchimisti.  Ma  è  una 
prova  indiretta,  perché  i  puniti  da  lui  non  sono  i  veri 
alchimisti,  si  i  falsi,  che  spacciandosi  per  alchimisti  seri 
e  fortunati,  e  usurpandone  e  macchiandone  il  nome  e  In 
fama,  giravano  il  mondo  fingendo  di  aver  sciolto  il  pro- 
blema cui  gli  altri  continuavano  indefessi  a  tentare  ;  prova 


MISCELLANEA  389 

indiretta  ma  sicura,  perché  fingere  di  a?er  scoperto  il 
segreto  di  far  V  oro  non  si  sarebbe  potato,  se  allo  studio 
delle  leggi  della  tramutazione  metallica,  alla  ricerca  degli 
elementi,  dai  quali,  combinati  in  vario  modo,  dovevano 
esser  generati  i  diversi  minerali  —  questo  fu  il  pro- 
blema propostosi  dalla  chimica  medievale  —  non  si  fosse 
saputo  universalmente  che  lavorava  tutt'una  schiera  di 
uomini  solitari,  disposti  alle  fatiche  e  alle  battaglie  degli 
appartati  laboratori:  in  una  parola  non  si  sarebbe  potuta 
formare  e  sviluppare  codesta  escrescenza  su  un  ramo 
dell*  albero  del  sapere,  se  non  fosse  stato  il  ramo  stesso , 
e  ricco  di  umori. 

Ma  a  questa  prova  indiretta  quante  altre  se  ne  ag- 
giunsero? Il  Libri,  che  pur  tante  cose  vide  e  seppe,  nella 
sua  Histoire  des  sciences  mathem.  en  Italie  (1838),  do- 
vette contentarsi  di  rilevare  la  mancanza  di  scrittori 
italiani  d'alchimia  dei  primi  secoli:  benché  in  compenso 
di  veri  e  propri  trattati,  sarebbe  stato  contento  anche  a 
prove  indirette ,  cioè  a  misere  poesie;  che  i  componimenti 
poetici  son  certo ,  sempre ,  prova  evidente  e  piena ,  quan- 
l' altra  mai ,  della  esistenza  e  diffusione  delle  dottrine , 
dei  sentimenti ,  delle  tendenze  espresse  nel  giro  dei 
loro  versi.  Infatti  anche  il  Librì^  non  appena  ebbe  sco- 
vato un  di  tali  componimenti ,  lo  pubblicò  :  ed  è  il 
sonetto  attribuito  a  Cecco  d'Ascoli  nella  stampa  quat- 
trocentina prima  citata  ,  e  nientemeno  che  a  Dante 
nel  codice  onde  queir  erudito  lo  trasse  (1).  Ma  il  sonetto 

(1)  G.  Libri,  NoUce  des  mss.  de  quelques  bibliothèques  des  depar- 
temenU.  Troisiéme  article.  Nel  Journal  des  Savanis  (Paris,  Impr.  Royale), 
aimée  1841;  pag.  547-554.  —  A  pag.  551-2  il  Libri  parla  dei 
iDss.  di  proTenienza  Albani,  fra  i  quali  del  n.°  493:  e  un  volume  petit  in 
4*,  intiUilé  Traciatus  chimicae.  Le  ms.  sur  parchemin  est  du  XIV-XV 
siede  »;  e  ne  dà  in  nota  il  sonetto,  con  qualche  scorrezione  e  saltando 
il  Terso  8;  non  ritenendolo  però  di  Dante.  —  Dallo  stesso  codice  lo  pub- 

VoL  IV,  Parte  1  25 


390  MISCELLANEA 

restò  solo.  Aspettando  quindi  che  altri  ricerchi  i  co- 
dici  d'  alchimia   italiani,   e   veda    se    in   essi    sia  del 

blicò  poi  il  Gastets  {Sonnet  eontenant  une  reckette  (f  alchimie  attiUmé 
a  Dante  et  au  frère  HelyaSy  nella  Revue  des  languet  romanes^  m  sèrie, 
tome  lY,  p.  76-79),  rilevando  le  inesattezze  del  Ubri  e  dando  del  codice 
e  del  sonetto  qualche  maggior  notizia:  il  ms.  H.  493  Montpellier  è  ona 
raccolta  di  trattati  alchimistici  in  latino,  scrìtta  certamente  in  Italia ,  per- 
ché a  e.  19^  porta  la  data  e  1459  in  NeapoU  >.  0  son.  è  a  e  248',  io 
caratteri  più  grandi  e  regolari  del  resto  del  codice.  —  Lo  riproduco  per- 
ché ha  non  poche  diversità  dalle  due  lezioni  della  stampa  quattrocentina, 
che  ne  ho  dato  neir  articolo  sopra  citato  deir^lrcA.  Star,  per  Trieste  ecc., 
pag.  94-5: 

Motivum  vel  sonetum  Dantìs  phìbsopbi  et  poetae 
florentini. 

Solvete  li  corpi  in  aqua  a  tutti  dicho 
Voi  che  volete  fare  o  Sole  o  Luna  ; 
Delle  due  aqque  poi  pigliate  1*  una, 
qual  più  vi  piace,  e  fate  chel  ch'io  dicho. 

Datela  a  bere  a  quel  vostro  inimicho 
senza  darli  a  mangiar  chosa  neuna. 
Morto  il  vederete,  choverto  a  bruno, 
dentro  dal  corpo  del  Leone  anticho. 

Poi  gli  farete  la  sua  sepultura 
per  intervallo,  si  che  si  disfa[c]cia 
la  polpe,  Fossa  et  ogni  sua  giunctura; 

Poy,  facto  questo,  facte  che  si  faccia 
dell' aqqua  terra  che  sia  netta  et  pura. 
La  petra  hauete,  anchor  che  altro  vi  piaccia. 

Della  terra  aqqua,  dell'  aqqua  terra  fare  : 
cosi  la  pietra  si  vuol  multiplicare. 

E  seguono,  scritti  più  minutamente,  i  due  versi: 

Che  (sic)  bene  intende  e  pratica  '1  soneto 
segnor  sarà  di  quel  eh'  altr'  è  sugetto. 

Concetto  espresso  di  solito  in  Gne  alle  poesie  alchimistiche  ,  anche 
latine.  —  Cfr.  Mazzatinti,  Inventari  dei  Mss.  ital,  delle  bibL  di  Franria, 
voi.  IH,  pag.  84:  Montpellier,  n.°  47.  —  L'attribuzione  del  sonetto  a 
Dante  non  deve  meravigliare  ;  si  veda  il  cit  Arch,  star,  per  Trieste^  ecc. 
p.  86  e  99. 


MISCELUNEA  391 

booDO,  scientificamente;  se,  di  tra  le  varie  operazioni, 
fatte  a  scopo  di  tramutar  altri  minerali  in  oro,  pur  qualche 
scoperta,  qualche  lampo  di  luce  nuova  abbia  illuminato  il 
silenzioso  e  affumicato  laboratorio  dell*  alchimista  italiano 
dei  secoli  di  mezzo,  e  sia  stato  da  lui  fermato  nel  suo 
linguaggio  enigmatico  e  simbolico  tra  le  altre  ricette,  i 
versi  latini  e  le  invocazioni  a  Gesù,  io  ritengo  di  far  cosa 
non  del  tutto  inutile  comunicando  queste  nuove  poesie 
alchimistiche. 

Due  codici  riccardiani  (n.'  946  e  3674)  ci  han  conser- 
vato un  manipolo  di  rime ,  del  quale,  oltre  a  sette  com- 
ponimenti per  quel  eh'  io  mi  sappia  non  mai  fin  qui  stam- 
pati, fanno  parte  anche  i  tre  già  conosciuti  :  ciò  sono  i  due 
sonetti  attribuiti  a  Frate  Elia  e  a  Cecco  d'Ascoli,  e  la  can- 
zone di  Maestro  Daniele;  questa  in  doppia  lezione.  Il  che 
—  e  si  aggiunga  che  uno  dei  nuovi  componimenti  porta, 
come  si  vedrà ,  notevolissime  traccie  di  imitazione  della 
canzone  del  capodistriano  —  oltre  a  confermare  la 
relativa  diffusione  di  questa ,  permette  anche  di  as- 
sodare che  gli  alchimisti  italiani  ,  accanto  alle  solile 
poesie  latine  di  autori  quasi  sempre  forastierìi ,  ebbero 
pur  delle  composizioni  poetiche  volgari  a  compagne  e 
guide  nelle  loro  fatiche;  e  che  queste  anzi  preferirono 
ben  presto  alle  prime ,  attribuendole  cervelloticamente 
ad  uomini  famosi:  esse  parlavano  loro  nella  stessa  lor 
lingua ,  li  assicuravano  che  anche  altri  uomini ,  vissuti 
sotto  lo  stesso  cielo,  a  non  molta  distanza  di  tempi  e 
di  luoghi,  avevano  sudato  sullo  stesso  problema  ;  ben 
valevano  quindi,  e  meglio  d'ogni  altra  scrittura,'  a  con- 
fortarli e  a  sorreggerli ,  quando ,  spossati  dallo  studio 
degli  oscorì  e  simbolici  trattati  e  dalle  lotte  col  fuoco, 
con  le  storte,  con  gli  alambicchi,  li  prendeva  lo  sconforto: 
le   notizie  che  già  abbiamo,   ci  permettono  di  riporre 


392  MISCBLLAKEA 

sicorameDte  fra  le  poesie  di  qaesto  genere  i  testi  quasi 
poetici  degli  alchimisti  italiani  di  allora:  il  sonetto  attri- 
buito a  Cecco  d'  Ascoli  ,  quello  attribuito  a  Frate 
Elia  0  a  Dante,  e  la  canzone  di  Maestro  Daniele  di  Ca- 
podistria  (1). 

Delle  due  lezioni  di  questa  dico  altrove  (2);  qui 
metto  in  luce  i  sei  componimenti  del  codice  Riccardiano  946 
e  la  canzone  del  3674,  che  ritengo  inediti  e  scono- 
sciuti, e  del  primo  riproduco  anche  i  due  sonetti  già  noti, 
perché  non  poco  diversi  dalle  redazioni  a  stampa.  Al  testo 
porto  soltanto  quelle  poche  correzioni  che  mi  paion  più 
sicure  e  che  sono  necessarie  a  renderlo,  sebbene  non  sem- 
pre, intelligibile,  notando  a  pie  di  pagina  le  parole  o  i  passi 
quali  si  leggono  nel  codice.  Non  aggiungo  note  dichiarative, 
se  non  taluna  strettamente  necessaria;  chi  desidera  qualche 
maggior  notizia  sull'argomento  o  spiegazione  delle  allu- 


(1)  Infatti  (non  sarà  inopportuno  il  raccoglierne  qui  le  notìzie),  il  so- 
netto attribuito  a  Cecco  d'Ascoli  si  legge  oltre  che  nel  presente  codice 
Rice.  946,  e  nella  slampa  della  Summa  Geberis  del  sec.  XV,  nel  Magliab. 
3,  ci.  XVI  (v.  Arch.  star,  per  Trieste,  ecc.  p.  94,  n.  1);  quello  attribuito 
a  Frate  Elia,  in  lezione  quasi  sempre  diversa,  e  profondamente,  si  da  dover 
supporre  più  altri  codici ,  o  anche  una  tradizione  oi'ale  diffusa,  nei  Hicc 
689  e  98i,  nel  Senese  Comun.  L.  X.  29,  nella  Summa  Geberis,  in  un  cod. 
Magnani  adoperato  dal  Crescimbeni  (per  queste  cinque  redazioni,  v.  Arck. 
slor.  per  Trieste,  p.  91,  93.  6),  nell' IL  493  di  Montpellier,  e  nel  Rice. 
946;  la  canzone  di  maestro  Daniele,  nel  Marciano  lat.  CCCXXVI,  nel  Rice. 
3247,  nel  Landau  173,  nel  Senese  L.  X.  29,  nella  Summa  Geberis,  nel  Nazari 
(per  queste  sei  redazioni  e  loro  rapporti,  v.  Arch.  s(or.,per  Trieste,  p.  96-8. 
nel  Rice.  946,  e  nel  3674,  dove  pure  V  altra  lunga  canzone  attesta  con 
r  imitazione  fattane,  meglio  ancora  di  una  semplice  copia,  la  diffusione  e 
r  autorevolezza  delle  strofe  di  maestro  Daniele,  delle  quali  un'  altra  copia 
ancora,  di  mano  del  XVI  secolo,  si  legge  in  un  foglietto  di  recente 
acquistalo  dal  doli.  Francesco  Roediger,  cui  devo  la  cortese  comuni- 
cazione. 

(2)  Nell'i4rcA.  stor,  per  Trieste,  l'Istria  e  il  Trentino,  voi.  IV,  fase.  3. 


MISCELLÀNEA  393 

sioni  0  della  nomenclatura  di  questi  componimenti,  cerchi, 
se  crede,  la  canzone  di  maestro  Daniele,  e  V  avvertenza  e 
il  commento  che  vi  aggiunsi  ;  sottometto  invece  alle  strofe 
della  nuova  canzone  quei  passi  dell'  altra,  di  maestro  Da- 
niele, la  cui  somiglianza  o  identità  di  forma  e  di  sostanza 
dimostrano  imitazione  fattane  dal  nuovo  e  ignoto  rimatore. 

Il  riccardiano  946  è  un  codice  cartaceo,  di  cent. 
21  X  15,  di  82  carte,  scritte  da  due  o  tre  mani.  La  pri- 
ma, del  sec.  XY  piuttosto  avanzato,  scrisse  il  più,  ciò 
sono  molte  ricette  ed  estratti  di  opere  alchimistiche,  e  tutte 
le  poesie.  Gli  estratti  più  lunghi  sono,  a  e.  44''-48^,  del 
Geber  :  e  In  nomine  Jhesu  Christi  hic  incipit  liber  Geber 
de  eodem  >  ossia  e  de  lapide  componendo  > ,  com'  è  scritto 
in  una  ricetta  precedente.  Altro  lungo  testo,  a  e.  50-68*, 
comincia  :  e  Inc^  quidam  liber  abreviatus  aprobatus  ve- 
rissimus  tesaurus  tesaurorum,  rosarius  phyloso forum  ac 
omnium  secretorum  maoHmum  secretum  > .  L' altra  o  le 
altre  mani,  del  principio  del  sec.  XYI,  riempirono  di  ri- 
cette le  pagine  e  le  mezze  pagine  lasciate  vuote  dal  primo 
scrittore.  Ecco  i  componimenti,  nell'ordine  in  cui  si  se- 
guono, interpolatamente,  nel  codice: 

1. 

[e.  9.«>]  A.  D.  B. 

Voi  pellegrìDe'  che  andate  in  romita(^ 
cercando  la  scientia  excelente,     ^ 
la  uostra  serva  va  con  lui  in  viagio, 
monache  bianche  pare  a  chi  non  sente; 

Ma  lo  re  delP  universo  spatio 
di  sciamito  d' oro  veste  la  sua  gente , 
e  chollui  si  scontrò  e  folle  e  saggio; 

i  :  —  T.  5  fe  re;  ▼.  6  semiU;  f.  7  si  scontro  e  follo  e  faggio;  lo 
scontro  potrebbe  correggersi  anche  m  scontra. 


394  MISCELLANEA 

a 

colerico  biancho  fa  el  suo  sergente; 

Et  è  cosi  benigno  a  chi  T  acide 
che  gli  fa  lume  nella  casa  oscura 
e  di  trìsteca  fallo  ingiovinire. 

Chi  fa  questo  è  di  grande  ardire: 
Non  altro  che  colui  dal  quarto  cierchio, 
posto  in  lo  inferno  sotto  il  so  martire. 


(e.  10.»] 

Solvete  e  corpi  in  aqua,  a  tutti  dicho, 
voi  che  cercate  iare  sole  e  luna, 
delle  due  aque  poi  pigl[i]ate  Y  una , 
qual  più  vi  piace  e  fate  quel  eh'  i'  dico. 

Datela  a  bere  a  quel  vostro  inimicho, 
sen(a  mangiare,  dicho,  cosa  alcuna, 
e  morto  il  troverrete  riversso  in  pnina 
dentro  dal  corpo  del  lione  anticha 

E  IH  li  fate  la  sua  sepoltura 
si  e^  in  tal  modo,  che  tutto  si  disfaccia 
la  polpa  e  ir  ossa  e  tutta  sua  iuntura. 

deiraqua  fate  terra  pura  e  netta, 
della  terra  aqua  e  11'  aqua  terra  farete  ; 
la  pietra  averete  da  roultiplicare. 

Chi  bene  intenderà  questo  sonetto, 
sarà  signora  di  quello  a  chi  è  sugetto. 

3. 

[e.  10. b]  M.  J.  de  [tgnra  di  ho  nKHitieello]  tt. 

Chi  non  sa  solvere  e  asottigliare, 
corpo  non  tochi  né  mercurio  vivo, 
però  che  fisso  non  fa  volativo 
a  chi  non  sa  ben  di  dui  uno  fare. 


MISCELLÀNEA  395 

Fa  aduDqua  dui  insieme  abraciare 
con  aqua-viti  e  con  sai  volativo 
e  con  es-usto,  per  in  fin  che  privo 
sia  della  madre  che  Ilo  fé  figliare. 

Allora  tien  di  far^  la  morte  scura 
e  '1  sole  per  ir  orìconte  aparìre  bello 
e  per  Hi  fiumi  homato  in  sua  figura. 

Quest'è  la  pietra  magna,  guest' è  quella  {sic) 
che  da  philosophi  Talta  scrìptura 
batte  r  ancudine  col  martello. 

E  si  vilemente  quest'è  nostra  intentione, 
sene'  essa  e'  non  si  vene  a  perfectione. 

4. 

bBM. 

bid.]      Io  som  la  uera  luce  a  diricare 

del  sommo  archimia  ogni  rustich'  e  sodo 
animo,  son  colui  che  sen^a  frodo 
dell'  arte  mostro  ciò  che  si  può  fare. 

Io  som  colui  che  chi  mi  vuole  usare 
da  pouertà  lo  spìcho  e  da  suo  nodo 
co'  r  arte ,  colla  regola  e  col  modo , 
col  suo  bel  fine,  col  suo  coequare. 

Ciorpo  disfo  e  poi  rifò  un  corpo 
rimosso  da  {sua)  materia,  e  dògli  forma 
sempre  sguardando  al  velenoso  scorpo. 

Trago  da  sua  materia  e  metto  in  forma  {manca  un  verso) 
coagolando  con  fuoco  e  con  norma 

Giamai  non  ssi  disforma 
dal  tuo  intelletto,  se  ben  ài  inteso 
per  questi  verssi  quel  eh'  io  ti  paleso. 


3:  —  T.  5,  adumqua;  t.  7,  et  usto  faes  ustumj,  cosi  credo  vada 
(teso  e  corretto  il  lemhuto  del  cod. ,  y.  Canz.  di  m.  Daniele,  str.  XII. 


396  MISCBLLANBA 


(c  11.»]  Ieber. 

Quest*  è  la  pietra  magna  beoedecta 
la  qual  tractb  Ermete  e  Gratiano, 
Elit,  Rosir,  Pandolfo  e  Ortolano, 
Pictagora  con  tuta  la  soa  secta. 

Questa  non  si  concede  a  gentfleca, 
né  a  belleca,  né  [a]  essere  humano, 
di  questo  ogni  pensiero  toma  vano 
a  chi  per  sua  virtù  la  gratia  aspecta. 

Di  gratia  spedala,  da  dio  recetta 
basse  vivande,  vivere  melano, 
sua  residenza  sta'  n  pinole  tetta. 

De*  tu  che  miri  la  figura  pietà 
riman  contento,  e  bastite  sapere 
quanto  el  balestro  la  saecta  gitta, 

E  nello  amor  di  Dio  sta  felice 
e  non  voler  saper  quel  che  non  licei 

Seguono,  a  e.  lP-15*,  coDftisameDte ,  travisate  e 
maDchevolì  di  versi,  le  strofe  della  canzone  di  Maestro 
Daniele,  copiate  dallo  scrittore  come  fossero  ciascuna  un 
componimento  a  sé.  E  come  componimenti  staccati  egli 
trascrisse  le  tre  stanze  che  seguono,  e  che  potrebbero 
anche  essere  tre  strofe,  malconcie,  di  una  stessa  poesia: 

6. 
[e.  15»»],  dopo  una  ricetta  scritta  mezza  in  caratteri  segreti: 

Questa  è  la  pietra  che  si  va  cercando 
dagli  archìmisti  per  ogni  sentiero, 

5:  —  V.  3,  cartolano;  t.  8,  suo;  v.  H,  suo;  tetta y  cioè  teda, 
tetti.  U  V.  12  mostra  che  nel  testo  originale  il  componimento  accom{>a- 
gnava  qualche  flgura  simbolica,  allusiva  all'  arte;  forse  Geber  stesso  con  la 
pietra  in  mano. 


MISCELLANEA  397 

da  color  che  anno  V  animo  sincero, 
ma  non  da  que*  che  vanno  sofistando. 
A  tutti  quanti  lor  vo'  dar[e]  bando , 
però  che  sono  tutti  ingannatori, 
e  non  cognoschono  e  loro  erorì  : 
per  tutto  el  mondo  vanno  trapelando. 
Di  solfo  e  di  mercurio  (^t)  farò,  quando 
io  vorrò,  tutta  l'arte  a  punto; 
e  co'  l' arsenico,  eh'  è  '1  ter^o  congiunto, 
col  sale  armoniaco  imbeverando 
farò  di  tutti  quatro  um  congiunto, 
putrefaciendo  e  poi  lor  calcinando: 
E  fassi  un  corpo,  et  è  Elesir  perfetto; 
dicoti  el  vero,  per  Dio  benedetto! 

F. 

7. 

e  16.']      0  archimisti  ingrati,  incredula  gente 
piii  che  non  fu  Thomaso  della  fede, 
andate  sofistando  e  nesum  crede 
la  verità  monstrata  a  voi  presente. 
Ài  petto  vostro  recate  la  mente, 
che,  come  dixe  Cristo,  più  beato 
sarà  colui  che  non  ara  tocato 
col  dito  la  ferita  tanto  niente. 
Quest'è  la  pietra  eh' è  tanto  lucente, 
la  qual  trattò  la  gran  Turba  magna, 
e  dimonstrasi  a  ciascuno  intendente; 
la  bella  Rosa  tratta  certamente 
delle  scritture  di  quella  conpagna, 
la  qual  parlò  si  scuro  a  ogni  gente. 

6:  —  v.  12  imbeverato  —  v.  16,  nel  son.  attrib.  a  Frate  Ellia,  v.  7: 
9crto  lo  (rovarai,  el  ver  ne  dico. 

7:  —  YT.  10  e  12:  turba  magna,  rosa,  nomi  comuni  a  molti  trattati 
r  alchimia  latini 


398  MISCELLANEA 

El  sole  colla  luna  ioteDdi  el  mio  parlare, 
E  col  Dostro  mercurio  seguitare. 

F. 

a 

[ibid.]         Intendi  e  nota  bem  quel  eh*  io  ti  dico  : 
l'anima  non  entra  se  non  col  suo  corpo 
là  donde  eli'  è  cavata  senga  scorpo  ; 
questa  è  la  verità  o  caro  amico. 
Se  con  altro  congiugni  el  suo  nimicho, 
lavori  in  vano  e  perdi  el  tempo  tuo, 
però  che  V  altro  non  è  fratello  suo 
E  ir  opera  tua  non  varrà  un  fico. 
Ma  quando  si  congiugne  col  suo  antico 
e  tutti  dui  fanno  coniuntione 
nel  ventre  del  lione  a  te  saputo, 
allora  ti  puoi  tochare  sotto  al  bellico 
e  dire  :  i'  son  maestro  certamente 
e  nessun  altro  non  vale  un  lombrico. 
Sarà  Elesir  perfetto,  in  fede  mia, 
e  potrai  combattere  la  Saracinia. 

Poveri  alchimisti  !  Si  leggevano  imposto  in  queste  poe- 
sie, e  seguitavano  a  raccomandarsi  Tun  l'altro,  basse  vivande, 
vivere  megano  e  residenza  *n  pinole  tetta,  e  questi  precetti 
seguivano  certo  alla  lettera  ;  e  soffiavano  e  s'  affaticavano 
alla  ricerca  di  quella  pietra  magna,  benedecta,  fatta  lor 
balenare  dinanzi  agli  occhi  da  trattati  e  da  poesie  latine 
e  volgari,  che  mostravano  vicino,  raggiungibile,  li,  a  sten- 
der di  braccio,  ciò  che  invece  pareva  allontanarsi,  irri- 


8:  —  V.  1,  esortazione  al  lettore,  comune  alle  poesie  alchimistiche. 
Cosi  nel  son.  di  frate  Elia:  Soluete...  ad  iucti  dicho;,,,  fate  quel  eh'  io 
dico;  nella  canz.  di  m.^  Dan.,  str.  Ili:  Ma  nota  ben,  che;  str.  V....  Ma 
nota  ben;  str.  VUI,  e  quel  ch'io  dico  non  tener  a  vile. 


MISCELLANEA  399 

dendoU,  ognora  più;  ciò  su  cui  e  trattati  e  poesie  picchia- 
vano e  ripicchiavano  con  quell'  eflBcace  pronome  :  «  Quesf  è 
la  pietra.,,  quesf  è...  quesfè...  Eccola,  ma  lavorate,  e  senza 
voler  sapere  troppo;  fede  ci  vuole,  non  dubbi;  lavo- 
rare, e  non  sofistare  »...  seguendo  coi  consigli  velati,  con 
le  semi-allusioni,  con  un  dico  e  non  dico,  un  vedo  e  non 
vedo  che  dovevano  essere  certo  come  terribili  sproni  al 
cervello  degli  alchimisti.  Ma  quale  beatitudine  però ,  il 
giorno  in  cui  Y Elisir  perfetto,  premio  ai  loro  sforzi, 
avrebbe  luccicato  in  fondo  al  crogiuolo,  o  sarebbe  ba- 
lenato pel  vetro  verde  della  fiala!  Oh  allora  sarà  poco 
l'atto  di  maschio  compiacimento,  indicato  nella  fine 
dell'ultimo  de' componimenti  su  riportati. 

Il  quale,  con  alcun  altro  di  quelli  che  Io  precedono, 
corre  disinvolto ,  indizio  di  un  cervello  che  considerava 
r  arte,  1  suoi  scopi  e  i  suoi  mezzi,  non  tra  le  esalazioni 
degli  acidi  e  nel  calore  dei  laboratori,  ma  dal  di  fuori,  at- 
traverso la  finestretta  del  nero  e  rutilante  picol  tetto  del- 
l' alchimista.  Che  questi  versi  sieno  in  burla  dell'  arte 
non  è  da  pensare  ;  se  non  altro  vi  si  oppone  il 
luogo  ove  son  conservati,  e  l'esservelo  stati  dalla  stessa 
mano  che  nelle  pagine  precedenti  e  nelle  seguenti  ha 
trascritto  i  trattati  e  le  ricette  che  indicammo  più  sopra. 
Poi  che  lo  possiamo,  risciacquamoci  dunque  un  poco  la 
bocca  (tutto  è  relativo!)  con  codesta  scioltezza,  prima  di 
metter  la  nostra  navicella,  per  dirla  con  uno  dei  nostri 
poeti  alchimisti,  per  acque  più  oscure,  che,  senza  lucerna, 
dovremo  pur  troppo  in  più  d'un  punto  lasciar  tali. 

L'altro  codice,  il  riccardiano  3674,  è  un  cartaceo,  di 
cm.  12  V«  X  10  V2^  di  minuto  e  brutto  carattere  della 
fine  del  XV*"  o  del  principio  del  XVP  secolo. 

Le  due  prime  carte,  di  mano  più  recente,  contengono 
un  indice  di  ricette. 


4U0  MISCBLLANBA 

A  c.  4  si  legge: 

Ad  bonam  pastam  utaris  aquaque  farioa 
Dee  DOD  fermento  modo  simili  lapide  nostro 
hac  trìa  reperies  dictis  consimiles 
Nota        Sunt  in  mercurio  secreta  reliqua  mille 

e  seguita  fino  a  tatta  la  e.  5/ 


e.  5.^  In  nomine  sce  et  individue  Trinitati&  Incipiunt  versus 
cuiusdam  sapientis  phylosopy  subscriptis  quidem  versibus  cod- 
tinentur  tres  lapides  pretiosi  quo  o^  phylosophi  mirabiliter  scru- 
tati sunt  sub  arte  alchimie  nobilissima  atque  preciosissìme 

Fili,  doctrinam  sanam  tibi  porrigo  binam 
hic  amplexare  tibi  ne  dominetur  amare 
vincula  dissolve  sapientum  dieta  revolve. 
Primitus  alchimiam  disces,  discesque  per  illam... 

finisce  a  e.  7.*: 

Artis  complemeotum  sub  versibus  cape  centum 
Ghristo  crucifisso  gratias  agamus  benedicto  etc. 
Expliciuot  carmina  phylosophica. 

e.  8.^  Incipit  medicina  pauperum  occultata  arte  inquirentibus 
sic  in  principio  dicens: 

In  Itiesu  Christi  nomine 
qui  est  salus  fons  et  vite 
in  quo  fulget  ars  fulgida 
gratiarum  munere 

e  seguita  fino  a  e.  Il"":  «  Explicit  libellus  nominatus  lu- 
men secretonim  artis  editus  per  Jobem  sacerdotem  de 
Trezin,  laborantium  amatorem.  Era  incorrecta  comò  sta  > . 

e.  11>    Spiritum  volantem  capite  ecc.       adesp.,  anepigr. 
»       £st  fons  in  limis  cuius  anguis  ecc.    »  » 


MISCELLANEA  401 

c.  12.^  Est  foos  in  limis  hìc  latet  agris  in  ymis.  —  Hii  sunt 
versus  nhoruro  de  lapidibus  occiiltis  beoedictis,  qui  legit  intelli- 
gat  ».  E  una  redazione  diversa  dalla  precedente  (1). 

e.  12*^-16*,  la  canzone  che  riproduciamo. 
c.l6*-33*,  ricette  alchimistiche,  senza  rubriche.  Si  può 
notare,  in  cima  alla  e.  17^:  «  fr.  Gabriel  da  m.^  lohanni 
Antonio  Barbaro  »  e  alla  e.  22^  <  Tomasso  perosino  ». 
e.  34*-36*,  la  canzone  di  Maestro  Daniele,  adesp.  anepigr. , 
di  cui  dicemmo  sopra. 

Ricette  latine  e  volgari  occupano  tutto  il  resto  del 
libretto.  Il  quale  dovette  passare  per  le  mani  di  più  al- 
chimisti, che  aggiunsero  di  carattere  cinque  o  seicentista 
ricette  alle  e.  7**,  20*,  51**,  e  in  più  luoghi  postillarono  e 
ritoccarono  la  scrittura  originale,  per  renderla  più  leggi- 
bile. La  diligenza  di  questi,  posteriori,  e  quella  pur  del 
primo  scrittore  del  codice,  mostrata  dalla  annotazione  in 
fondo  alla  e.  IT,  e  dall'  altra  in  fine  alla  canzone  che 
pubblichiamo,  rendono  il  codicetto  anche  più  curioso  e, 
in  materia,  autorevole. 

Ed  ecco  la  canzone,  per  la  quale  valgano  le  avver- 
tenze già  premesse  ai  componimenti  che  demmo  più 
sopra.  L'invocazione  non  potrebbe  essere  più  sonante  e 
solenne  ! 

[e.  12.*»]  —  L   Succin[clte,  de  elyxire  naturale 

cantati  mai  versecti  ad  tui*ba  indocta, 

che  come  mal  peocta 

lagando  i  porti  seque  le  vie  frale.  4 


(1)  Queste  due  poesie  ialine  (Spiritum  volanUm  ;  Est  fons  in  li» 
mini  (anno  compagnia  alla  canzone  di  maestro  Daniele  e  ai  sonetti  di  Frate 
Elia  e  dì  Cecco  d' Ascoli  nelle  ultime  carte  della  stampa  più  volte  citata 
della  Summa  Geberis. 


402  MISCELLANEA 

0  somma  causa,  o  majestà  infinita 

che  tucto  abraci:  et  tucto,  in  ogne  parte, 

le  sacre  sancte  carte 

te  afferman  pure  con  fede  adempita,  8 

adverzi  el  mio  intellecto,  alto  tonante, 

che  festi  Palma  nostra  al  to  sembiante; 

déngnate  de  mostrare  T  ombra  felice 

de  r  arte  beatrice , 

che  copre  quello  che  desidera  omne  core, 

ad  ciò  remova  ad  multi  el  proprio  errore.  14 

n.  XXXV  anni  per  diversi  lochi , 

seguendo  antiqui  studii,  ho  consumato; 

et  demum  me  ha  donato 

Yesù  cortese  guelfo  che  non  san  docti.  4 

Lassate,  talpineUf,  tristi  et  dolenti  1, 


Str.  I,  V.  i,  5  e  seg.,  Ganz.  di  maestro  Daniele,  str.  I: 
El  me  dilecta  de  dir  brìevemente 


Però  ne  prego  la  summa  clemenza 

Che  me  conceda  grazia  d' aperire 

Ogni  secreto  dire ; 

e  si  vegga  V  invocazione  latina  della  strofa  XVII.  —  v.  9,  cod.,  adverst. 
—  V.  12,  non  ci  mancava  che  la  beatrice,  col  b  piccolo! 

Str.  II,  V.  1-3,  Canz.  di  m.**  Dan.,  str.  X^: 

Non  so  se  debia  dir  li  vasi  e*l  pondo, 
Quia  quaesivi  pluries  quinque  lustris 
In  novis  et  vetuslis 
Libris  per  diverse  parte  del  mondo 
Con  molte  fatiche,  spese  et  affanni, 


Per  spacio  et  ultra  de  XXV  anni.... 


MISCELLANEA  403 

solforo,  gomme,  love  [e]  ancora  Marte, 

perchè  ne  la  prischa  arte 

gli  (alti)  phylosophi  mai  non  fer  contenti;  8 

pone  da  parte  ova,  pietre  et  capilli, 

arsenico,  risagallo  in  tutto  vili, 

ribrich,  azoth,  emech  e  copperosa: 

tre  cose  insemi  poste  et  non  confuse 

fa[n]  vera  medicina  alle  mei  muse.  14 

IIL  El  corpo,  r  alma  e^  eì  spirito  divino  ; 

tre  non  commisti,  insegregabil,  ferno 
Cristo,  che  da  T  inferno 

Str.  II,  V?.  6,  9-11,  idem,  str.  IX: 


Chi  la  chiama  Gami, 

E  chi  Mercurio,  Solfor,  love  e  Marte; 

E  ciascuno  vi  metti 

Diversi  nomi,  fin  a  Risagallo, 

Ovum  capilli,  Lapis  mineralis, 

Arsinico  e  Oipimento  e  Draco 

E  Sai  armoniaco, 

Cuperosa,  Basilisco  e  Sangue, 

lidtton,  Azoth,  Zemech,  Chibrith  et  Angue. 
▼.  7-8,  iiJem,  str.  X: 

Per  questi  vani  nomi  son  dccepti 

Molti  operanti.... 
e  str.  XI: 

Dico  per  questi  nomi  son  decepti 

Molti  incliti  savii  e  circumspicti.... 
V.  13,  idem,  str.  I: 

Sole,  Luna,  Mercurio  si  te  basta 

A  far  la  bona  pasta.... 

e  str.  Ili: 

Mercurio,  oro  e  argento. 
Insieme  tutti  e  divisi  ciascuno. 
Str.  IH,  V.  1:  M.®  Dan.,  III,  4:  L'anima  e*\  corpo  e'I  spirito. 


404  MISCELLANEA 

[c  13^]       recuperò  li  humani  e  1  padre  primo,  4 

sua  possa  io  tanto  amore  se  elustraodo; 
iovisibiliter  (^0  farranno  pioza, 
lavando  l'umile  foza 

viscosa  e  putrefatta  io  dolze  afl^nuo:  8 

et  polve  in  veste  lor  possa  sia  ferma , 
de  cui  la  dolze  et  clarissima  sperma 
lepore  se  farrà  io  piccolo  tempo, 
et  im  breve  momento 
facendose  medicina  fina  et  pura, 
partorirà,  et  piia  sta  figura.  14 

IV.  Quella  fenice  asyra  d'anni  gravata 

essendo  arsa  in  tucto  et  facta  polve, 
in  se  stessa  resolve, 

putrefa,  lava,  stregue  et  fi  sua  nata:  4 

de  Maia  el  fio  [d]el  celo  de  la  luna 
con  ale  ai  p[i]edi  suole  volare  in  terra, 
et  cerata,  in  insta  guerra 

ad  chi  el  prendesse,  celsa  virtù  dona.  8 

Ma  possa  che  im  pregion^  Parrai  incluso, 
t[i]ello  ben^  caro,  salvando  al  vario  uso, 
fa  non  respire,  i)erchè,  comò  an$;[uilia, 
con  tutta  sua  s[c]entilla 
te  scappare  de  manr),  volando  in  eth<?ra, 
et  non  porrai  poi  far^  Y  optata  potrà.  1  i 

Str.  Ili,  V.  H,  lepore,  (lévori,  in  F.  Paolino  Minorità,  ediz.  Mussa- 
Oa,  X,  47  ). 

SU'.  IV,  V.  1-4:  Canz.  di  M."  Dan.,  slr.  V: 

....  in  un  sol  fornello: 

Qui  se  sublima,  solve  e  dislilla, 

Lava,  descende  e  liumila, 

Incera,  putrefa,  calcina  e  lìxa; 

Qui  se  occide  e  suscita  se  ipsa. 
V.  5:  cosi  credo  di  poter  correggere,  (piasi  T  autore  abbia  inleso  di 
alludere  alla  parte  principale  cbe  nella  composizione  dell'  Elirir ,  dove- 
vano avere  il  mercurio  (fio  de  Maia)  con  l'argento,  cui   dei    pianeti 
lispondeva  come  simbolo  la  Luna  (celo  de  la  Luna).  —  v.  14,  cod.  prela. 


MISCELLANEA  405 

V.  Cillemo  e  el  primo  theogeo  e  el  secando 
calcina  danno,  o  mese  dovi  fia  ponto, 
che  tucte  cose  è  in  proncto 

nel  tempo  odierno  al  falzo  mondo.  4 

Ma  una  cosa  hor  divi  advertire, 

che  Aghi  castangne  non  produce, 

et  questo  te  fia  luce 

adcAiò  non  dichi  possa  mi  {e)  mentire.  8 

Appollo  visitando  el  suo  dolce  avo, 

fulgente  invene  et  radiante  el  cavo 

solo,  et  acompangnato  in  altrui  zelo; 

come  fi  gito  el  gelo, 

dilata  le  sue  penne  Y  uzei  pavo , 

prepara  rengno  a  si,  qual  ape  el  (fatto)  favo.         14 

VI.  Luna,  Diana  e^  Proserpina  tre  volte 
in  se  stessa  contien  et  uno  sol  corpo; 
ad  declarar^  me  torpo 

più  apertamente  che  non  el  sapian  stolti:  4 

Qui  la  materia  et  anche  el  pondo 

vi  ò  mostrato  socto  umbra  celante, 

ma  non  che  el  docto  amante 

non  possa  spicular^  per  fin  al  fondo.  8 

Su-.  V,  V.  2:  una  postilla  marginale  di  mano  del  XVH  sec.  spiega 
'o  mese  con  o  metteit),  ove  fia'l  ponto  (punto). 
V.  5-6:  M."  Dan.,  str.  XI: 

Che  chi  semina  fava  over  faxoli 
Non  pò  ricolier  grano  né  pizoli. 
V.  9,  Saturno;  v.  ro.°  Dan.,  nota  alla  strofe  I.'  —  v.  13,  nei  cod. 
opra  la  z  d* uzel  un'altra  mano  segnò  una  e. 

Str.  VI,  vv.  1-6:  m.**  Dan.,  str.  XVI: 

Non  so  se  debia  dir  li  vasi  e  '1  pondo 


Anche  é  descritto  per  vera  figura 
Lo  vaso,  la  materia  e  la  mesura. 
v.  5:  il  Cod.  ha  Lui  la  m.  et  inche  ecc. 

Vd.  IV,  Pane  L  26 


406  MISCELLANEA 

L*  altro  thesoro  mostra  primavera 

et  negra  qualità,  quando  se  interara , 

farina  macinando,  ali*  ultimo  acto; 

questo  non  è  de  patto, 

per  versi  abbia  a  fa*  lu)rmai  compatimento: 

el  docto  vedrà  1*  aureo  talento.  14 

Vn.  Za  quando  Dio  fece  li  elementi, 

1*  un  p^  1*  altro  affinò,  e  quel  pur  lego 

in  alto,  se  bene  v^to, 

et  volitò,  et  alterabOemente.  4 

El  vaso  è  Appello,  el  vaso  è  Gy[n]thia  bella , 

dai  qual  astran  vigore  le  quinte  essentie 

[a  14.»]      cum  alte  sue  potentie, 

et  fan  contenta  1*  alma  talpinella.  8 

Slr.  VI,  ?.  9-11:  m.®  Dan.,  VI: 

La  pietra  nostra  é 

predosa 

Ancora  mostra  de  molti  colorì 
Gom'un  prato  di  fiorì, 
Ma  poi  nel  nigro  ogni  color  si  tacca; 
A  presso  al  fine  ti  mostra  di  biacca. 
V.  11  :  il  cod.  alluctimo  —  v.  13:  cosi  rìdussi  quel  che  nel  cod.  si 
legge:  per  verste  abbia  far  hormai  compatto. 

Slr.  VII,  Yv.  1,  6-8,  m.'  Dan.,  II: 

Alcuni  hanno  divisio  li  elementi, 

L' acqua  de  Y  aere  dico,  e  quel  dal  foco  ; 

Poi  li  han  congiunti  insieme  in  una  essenza 

Con  la  virtù  de  la  quinta  essenza 

▼.  5,  m.*  Dan.,  XVI: 

Non  so  se  debia  dir  li  vasi  e'I  pondo 

El  vaso  la  fìola  de  Lalona  fCynthial, 
E  h  pianeti  lo  peso  ti  dona; 
Quella  in  sua  forma,  e  quelli  in  algorìsmo. 
v.  8,  cod.  anima. 


MISCELLANEA  407 

Ma  al  tempo  hodìerno  puoi  supplire 

ad  nostra  voluntà  et  alto  ardire 

el  1api[s]  coDvertibiI  in  omne  cose, 

però  che  in  queUo  se  spose 

el  re  fulgente,  et  porrasse  vedere 

incoronai)  de  razzi  al  tuo  piacere.  14 

VIIL  Primo,  segregante  i  corpi.  Palma, 

lo  angtielico  spirìtu  gentile, 
che,  certe,  le  sutile 

sustantie  se  vanisce,  e  i  corpi  insalma;  4 

Et  per  lo  temperato  par^  de  Gacho, 
resuscitando,  &ran  bona  pasta; 
hora  questo  te  basta 
a  ddare  ad  tucti  li  altri  soprascacho.  8 

Str.  vili,  ¥.  1.  Nel  cod.  la  str.  com.  col  y.  2,  é  ha  invece  aggiunto 
iu  fine  quello  che  certamente  é  primo;  lo  rimisi  al  suo  posto. 
V.  i-2,  m.*  Dan.,  str.  HI: 

Ma  noia  ben  che  non  fussi  in  errore, 

Che  ré  una  cosa  sola  in  che  son sfitti 

Li  elementi  predetti; 

L'anima  e'I  corpo  el  spirito  e  Thumore;.... 
V.  5.  Nel  cod.,  cacho  fu  corretto  d'altra  mano,  sopra  una  parola 
inintelligìbile.  E  si  può  asserire  giusta  la  correzione:  il  padre  di  Caco  é 
Vulcano,  dò  é  il  fuoco,  principale  aiuto  degli  alchimisti  ;  m.®  Dan.,  str.  V  •. 

Poi  la  pone  nel  suo  dolce  letto 

E  qui  la  cuose  fin  che  Té  perfetta. 

Ma  nota  ben  la  meU: 

Che  nel  vulcano  sta  tutto  Y  effetto. 

E  tutta  l'arte  fanno  en  un  vasello 

Con  lento  foco 

id.,  str.  XIV: 

Guardate  molto  dal  foco  excessivo.... 
?.  6,  ra.*  Dan.,  str.  IV: 

Quando  componi,  non  t'esca  di  mente 

Che  a  far  la  pasta  che  sia  bona  e  fina.... 

id.  Str.  V  :  Qui  se  ocdde  et  suscita  se  ipsa. 
V.  8.  n  $apra»eacko  lo  dà  molte  volte  anche  il  nostro  autore  a  tutti 
gli  ahri,  io  oscurità! 


408  MISCELLANEA 

El  tempo  te  demostra  el  seme  humano, 

che  in  minor  tempo  dell'  anno  romano 

liquefò,  putrefa,  coagula  et  fixa 

in  concordia  et  no*n  rìxa, 

però  che  dui  contrari]  senza  mezo 

insembre  stare  non  puolno  sopra  uno  sezo.  14 

IX.  Quando  fia  oocta,  luce  et  corno  cera 

fluisse,  intra,  retien,  et  convertisse 
le  medicine  Gxe, 

sensa  gridare  o  fumo,  in  fede  vera;  4 

la  operation  presto  te  noto: 
prenderite  una  piccola  particella 
et  zettala  in  la  (tua)  cella, 

V.  9-10,  m."  Dan.,  slr.  VI: 

E  non  fazo  però  che  non  ramanti 
Del  tempo,  nel  qual  molti  son  decepli, 


El  minor  tempo  é  di  nove  mesi.... 

V.  14,  cod.  senso, 

Slr.  IX,  m.**  Dan. ,  str.  VII  : 

Poi,  per  decozione  più  lontana 
De?enta  tutto  quanto  in  color  d*oro.... 

Zioè  se  fuma  o  crìta, 

id.  Str.  Vili:  .  .  quel  eh*  io  dico  non  tener  a  vile. 

Piglia  una  dramma  de  la  medicina 

E  diese  dramme  de  mercurio  mondo, 

E  mettilo  nel  fondo 

Del  foco  ardente  dentro  alla  fucina: 

Poi  che'l  servo  comenza  a  fugire 

Fumando,  metti  dentro  lo  elixirc, 

E  tutto  se  converte  in  medicina, 

Dico  perfetta  e  fina. 

De  la  qual  butta  un  pexo  sopra  cento, 

E  trovanti  de  l'opra  contento. 
Et  sic  lapidem  habebitis  De  quo  semper  gaudebitis^  termina  una  poesia 
latina  citata  più  addietro  (  Spiritum  voUmtem .  v.  qui  dietro  pag.  iOl, 
n.  2),  ed  é  flne  comune  a  più  poesie  di  questa  materia. 


MISCELLÀNEA  409 

4.*']       in  Mongibello,  quando  suda  el  moto,  8 

se  voltare  el  tucto  in  medicina; 
de  qnal  prendi  una  parte  piccolina, 
e  quando  la  materia  è  fugitiva 
gettala  corno  prima, 
notando  i  pesi,  et  serra  stella  pura, 
unde  maturans  laudetur  semper  natura.  14 

Et  perchè  lo  elìxire,  per  caldo  oppiroo, 
quando  facto  serra,  haverà  sete, 
allora,  si  [n']  havrete, 

r  aureo  licor  li  iova,  posto  in  6mo.  4 

El  temperato  vulgano  ti  dà  el  fornello 
che  habia  el  bracio  exteso,  dove  la  boza 
riposi  in  la  sua  poza, 

e  quando  è  el  buso,  vira  el  focho  in  quello.  8 

Quisti  fornelli  in  tucto  non  han  pari, 
de  sopra  inclus[i]  e  longhi  corno  pharì; 
el  carbon  sentera*  su  la  gratella 
e1  bracio  sopra  quella: 
farai  ci  tuo  facto  con  pochi  dinari; 
abbasso  fia  la  bocha  per  spirare.  14 

Str.  X,  V.  5,  nel  cod.  sopra  la  ^  di  vulgano  fu  sepalo,  d*  altra  mano, 

e;  —  ?.  6,  boza,  veneto,  boccia  ;  poza,  pozza. 

Canz.  di  m.^  Dan.,  str.  XIV: 

Olio  e  carboni,  poi  del  fimo,  basta; 

E  guarda  che  la  pasta 

Mai  non  sia  priva  del  mercurio  vivo. 


Però  governa  el  draco 
Como  ha  bisogno  da  bere  e  manzare; 
I  canzone  del  capodistriano  non  sono  gli  ammaesu^mentì  e  consigli 
Tìo  alla  Torma  migliore  del  fornello,  com'è  in  queste  strofe:  la  cui 
rizione  non  deve  meravigliare  chi  pensi  alle  strane  forme  di  quelli  e 
(  storte  nei  laboratori  non  pur  degli  alchimisti,  ma  dei  chimici  d'oggi, 
codici  e  nei  libri  stampati  d'alchimia  son  molte  volte  le  figure  di 
sti  aluti  dell'arte,  degne  di  osservazione,  perché  testimoni,  sebben 
,  dei  contìnui  tentativi  di  perfezionar  gli  strumenti. 


410  MISCELLANSA 

XI.  L*  altro  segreto,  da  noo  propalare, 
ad  voi  dolci  amici  di  sophia 
dettato  ìd  cortesia, 

el  core  atempto,  stati  ad  ascoltare.  4 

Quando  la  luna  porrai  nd  vassello, 
esguarda  io  sextili  o  triuo  el  nunptio  et  love 
et  VcDus,  che  li  zove; 

cada  Saturno,  et  Marte  suo  rebello  8 

sia  in  sua  casa,  o  Tauro  in  augnoento, 
perchè  omnino  te  farrà  contempto; 
[e.  15.*]       Et  sopra  tucto  fa  non  sia  combusta, 
che  se  sera  perusta, 
Mirandum  est I,  te  pascerai  de  fumj. 
Et  falsi  crederai  gli  altri  volumi.  14 

XII.  Ma  si  del  sol  tu  cerchi  bono  effecto, 
dis^curra  col  suo  carro  el  suo  leone, 
ariete  o  scorpione, 

in  sexto  guardi  Marte  o  trino  aspetto,  4 

el  vechio  cada,  e*l  meno  sia  in  amore, 

perchè  li  cilesti  corpi  instantemente 

sopra  quatro  clemente 

potentia  mostran  de  l'alto  signore.  8 

Centra  detti  pianeti  tengnam  locho, 

in  segno  condicente  al  proprio  jocho 

stabile  et  fixo;  notarai  la  meta 

de  la  longa  dieta, 

Str.  XI,  V.  6,  el  nunptio,  cioè  Mercurio;  —  v.  7,  zove,  giovi;  — 
V.  13,  te  pascerai  de  fumj;  questo,  pur  troppo,  dovette  essere  il  ri- 
sultato della  maggior  parte  dei  tentativi  degli  alchimisti  Cinque  F 
acquista  /'  Alchimista  :  fame ,  freddo  ,  fetor ,  fatica  A  fumo  ,  era 
oramai  passato  in  proverbio,  fermato  nel!' i4rm(mta  con  soain  accenti 
del  now  fior  di  virttà,  Racolto  da  diversi  autori.  In  Modena,  s.  a.  (fine 
del  sec  XVI).  [Giornale  di  erudizione,  febbr.  '91;  rìsp.  di  M.  Meo* 
ghini  a  una  domanda  su  Le  tre  F], 


MISCELLANEA  411 

quando  'elevante  dal  justo  focho, 

lagandoi  li  freddare  ad  pocho  ad  pocho.  14 

XIIL  À[h]  quanti  sondo,  che  fama  lo  elisire 

vero  e^    approbato  in  bon  juditio, 
collo  studioso  oflStioI 

ma  spiriti  malingni  el  suol  vertire.  4 

Bileth  dig  inferno  iniquo  e  tristo 
con  suoi  conpangni  guarda  omne  thesoro, 
et  questo  è  oflStio  loro 

per  dar  gran  forze  al  futuro  anticristo.  8 

Idcirco,  i  gran  talente,  che  li  humane 
trovassen  quoquo  modo  in  cenere  vane 
0  polve,  immutan  presto,  in  quello  istante 
nel  vaso  fan  senbiante, 
che  lo  elixire  al  so  oro  non  anteceda, 
ad  ciò  Cristo  ongni  homo  s^uendo  creda.  14 

Str.  Xn,  ?.  li, lasciandolo  li;  ood.  lagandoli,  e  sopra  il  g  fu  segnato  un 
s;  si  potrebbe  leggere  anche  lagandolo.  —  Con  un  po'  di  coraggio  ho  reso 
intelligìbile,  in  scorpione,  V estrone  che  il  cod.  ha  al  ?.  3:  sì  de?e  trat- 
tare di  un  segno  del  zodiaco  (non  imprenderai  la  tua  operazione,  se  non 
quando  il  Sole  sarà  in  Leone,  in  Ariete  o  in....  ),  e  fra  i  segni  dello  zo- 
dìaco, che  terminino  in  one.  oltre  a  Leone  la  scelta  non  poteva  cadere 
aitroYc;  é  Tero  però  che  in  altri  passi  della  canzone  lo  Scorpione  è 
espresso,  con  forma  vicina  alla  latina,  scorpo,  —  El  vechio  del  y.  5  in- 
tenderei Saturno,  e  si  capisce  facilmente  (  v.  anche  str.  antecedente,  ?.  8, 
cada  Saturno)  e  nel  meno  vedrei,  il  cielo  minore,  cioè  la  Luna.  Tutta 
codesta  astrologia  alchimistica,  la  quale  all'  ignoto  autore  piacque  tanto, 
che  vi  si  distese  per  quasi  due  strofe,  è,  ristretta  in  pochissimi  versi 
da  maestro  Daniele;  str.  VII: 

E  guarda  ben  che  medicina  alcuna 

Non  poni  se  non  sopra  Sol  e  Luna, 
e  str.  IVI: 

El  vaso  la  fiola  de  Latona, 

E  li  pianeti  lo  peso  ti  dona; 

Quella  in  sua  forma,  e  quelli  in  algorismo,... 
e  si  noti  che  del  vaso  discorre  anche  il  nostro  anonimo,  in  luogo  spe- 
dale, nella  strofa  VQ. 

Sor.  un,  V.  5,  cod.  inicko;  —  v.  9,  ood.  gram;  —  v.  li,  cod.  eredo. 


412  MISCELLANEA 

XIV.  Perchè  tucte  subtìle  et  alte  essentìe 
dal  celo  de  la  luna  fine  al  centro 
non  YorreboD  celo  ÌDti*o 

Dui  sallire  ad  sue  sede  et  sue  poteotie,  4 

per  tanto  el  mastro  tengna  vita  santa 

et  habia  uno  solo  compangno  in  cui  se  fida, 

ma  contrario  al  re  Mida, 

seguendo  sacra  carta  tucta  quanta,  8 

lagam  David,  lagam  del  suo  filglo, 

i  sacri  vinchi  ancora  e  '1  vario  gilglo 

eh'  è  in  Razi  e  'n  Yparco  et  altri  auctori  ; 

dei  quaZi  recoij  el  fiore, 

et  sopra  ad  tucto  farrai  tal  calzina, 

che  non  retorni  ut  prima  in  la  focina.  14 

XV.  Humil  mei  versai,  si  v*è  domandato 
chi  v*à  composti,  fate  ìaAe  resposta: 

«  Non  è  im  potentia  nostra 

manifestare  el  nomo  suo  celato.  4 

Nostro  singnore  è  richo  et  liberale 

de  verghe  d' oro  e^  d' arzento  in  quantitade, 

dona  a  le  sconsolate 

vedovelle  et  donzelle  et  maritate,  8 

sov[i]ene  ad  misere'  et  sustien  dolenti; 

ma  socto  i  vincli  di  soi  sacramenti 

spectando  V  alto  pregio,  in  ferma  spene, 

ad  presso  al  summo  bene, 

ad  cui  fia  manifesti  tiicti  li  acti 

distanti  e  futuri  tempi  ancor  transacti  ».  14 

Al  quale  honor  et  gloria  sempre  sia 
[e.  16.^]      com  virgene  sua  mare  dolce  sempre  Maria. 

Erano  scrìpti  scorrecti  corno  stando. 

SU'.  XIV,  V.  11,  credo  si  debba  legger  cosi,  ma  nel  cod.  dice  che 
in  raziel  yparco;  Rasi  è  il  famoso  chimico  arabo. 

SU'.  XV,  V.  9,  nel  cod.  misere  et  frustier  dolente!  Tentare  licei! 


MISCELLANEA  413 

E  cosi,  lamentato  l'intervento  dei  diavoli,  che,  per 
serbar  ogni  ricchezza  possibile  all'  Anticristo  per  il  giorno 
della  gran  rivincita,  sol  più  bello,  quando  proprio  già  nel 
vaso  sta  per  formarsi  la  preziosa  medicina,  con  un  gio- 
chetto infernale,  tutto  sconvolgono,  onde  la  medicina  si 
converte  sotto  gli  occhi  sbarrati  dal  povero  alchimista  in 
cener  vane;  cercando  per  tal  modo  di  spiegare  e  scu- 
sare il  nessun  risultato  di  tanti  assidui  tentativi  e  di  mo- 
derare negli  operanti  lo  sconforto  aggiungendo  loro  nuova 
lena  e  pertinacia  quasi  rabbiosa,  per  la  coscienza  di  un  tanto 
nemico;  picchiato  anche  una  volta  sulla  necessità  che  ne 
consegue  per  l'alchimista,  di  condurre  una  vita  santa, 
solitaria,  tutt'al  più  con  un  solo  e  segreto  compagno; 
accennato  ai  libri  dell'arte,  dai  quali  ogni  operante  deve 
raccoglier  il  fiore,  non  mai  stancandosi  nell' interpretarli , 
nel  provare  e  riprovare ,  l' autore  della  canzone ,  meno 
cortese  di  maestro  Daniele,  si  congeda  senza  palesarsi, 
ripetendo  anche  una  volta,  da  buon  alchimista ,  ogni  pos- 
sibile aiuto  neir  arte  da  Gesù,  col  nome  del  quale  e  della 
Vergine  la  canzone  si  chiude. 

Non  manifesta  l'autore  il  suo  nome;  ma  ne  tradi- 
scono la  patria  non  poche  forme  speciali  del  dialetto  che 
dovette  essere  il  suo,  eh'  egli  lasciò  penetrare  nelle  strofe, 
tra  gli  abbondanti  latinismi.  Infatti,  forme  quali  pioza, 
sezo;  boza;  mezo,  poza;  doke,  calzina;  uzel;  arzento; 
za,  zove,  zelo;  buso;  fio;  dig  inferno;  fighi; ponto,  longa, 
long  hi;  homo;  mei,  al  to',  mi,  te  (dat.);  la  3*  sing.  del 
verbo  per  la  3*  plur.;  pare,  mare;  lagando ,  lagandol, 
lagam,  ecc.,  permettono  di  dirlo  veneto ,  e  ,  anche  più 
precisamente,  forse,  veneziano,  che  sa  le  varie  specie  di 
barche  solcanti  e  acque  del  suo  Adriatico ,  e  quindi 
anche  le  peocte  (str.  1,  v.  3),  speciali  di  questo  mare. 


414  MISCELLANEA 

Id  riva  al  quale  ricondotto,  non  meraviglieran  più  il 
lettore  dell'  oggi  le  molte  e  strette  affinità  e  V  identità  del 
metro  della  sua  canzone  e  di  quella  di  maestro  Danie- 
le (1).  Lasciando  l'ipotesi  che  ambedue  possano  essere 
di  quest'ultimo;  naturalissimo  che  da  Capodistria  a  Ve- 
nezia, 0,  per  Venezia,  in  qualche  luogo  vicino,  o  da  Ca- 
podistria ad  una  cittadetta  qualunque  dell'Istria  stessa 
0  del  resto  della  costa  cjie  ricinge  in  ampio  abbraccia- 
mento l'Adriatico,  si  propagasse,  inducendo  desiderio 
d' imitazione  e  offrendone  lo  schema ,  la  lingua ,  il  fra- 
sario ,  una  canzone  cosi  notevole  per  abbondanza  di 
indicazioni  minute  e  di  avvertimenti  suU'  arte  misteriosa 
e  allettatrice,  qual'è  quella  del  maestro  di  Capodistria. 

Alla  quale,  la  presente,  di  padre  ignoto,  chiede  di 
andare  d' ora  innanzi  strettamente  unita,  come  sorella. 

Oddone  Zenatti 


(1)  In  maestro  Daniele  18  strofe;  neDa  nuoia  15;  di  quattordici 
Tei^i  ciascuna  :  due  piedi  di  quattro  Tersi ,  il  terzo  settenario ,  a  rima 
baciata;  una  Tolta  di  tre  coppie  d' endecasillabi  ,  meno  il  secondo 
della  seconda  copia  settenario,  rimati  a  due  a  due:  ABbA,  CDdD, 
K  E  F  f  G  G.  La  canione  nuoTa  ha  aggiunta  ali*  ultima  strofe  una  coppia 
di  più,  H  H. 


IL  BISNONNO  DEL  PETRARCA 


Fra  le  rime  toscane^  del  dugento  di  materia  didattica 
0  religiosa,  scritte  per  il  popolo  nel  volgare  più  schietto, 
e  però  libere  cosi  dagli  artiflzii  dei  grammatici  come  da 
qnelli  delle  accademie  cavalleresche,  sono  certo  fra  le 
più  notevoli  le  laudi  di  un  codice  cortonese  e  la  serie 
alfabetica  di  proverbi,  che  di  recente,  a  cura  di  Guido 
Mazzoni  e  di  Carlo  Appel,  furono  insieme  accolte  nel 
Propugnatore  (1).  Quattro  di  quelle  laudi  (e  fra  le  più 
belle:  canti  veri,  le  chiama  il  Mazzoni,  buon  giudice  di 
versi,  e  agilissimi,  e  talvolta  anche  troppo  ricchi  di  rime) 
s'appalesano,  e  più  altre  saranno,  opera  di  Garzo,  dot- 
tore, che  senza  necessità,  ma  provvidamente  per  noi,  re- 
gistrò il  proprio  nome  nella  chiusa  di  esse  ;  e  di  Garzo 
è  pur  quella  antica  e  curiosa  serie  di  proverbi,  dove  è 
raccolta  ed  esposta  concettosamente  tanta  parte  della 
filosofia  pratica  de'  nostri  vecchi  : 

A  ciò  che  sia  piacere 

Io  bello  proferere, 
convìensi  che  sia 

con  molta  cortesia: 
se  '1  ben  fare  m' accusa , 

lo  ben  voler  mi  scusa; 
però  Garzo  dice 

r  omor  della  radice.... 

(1)  iV.  & ,  voL  U,  205  e  sgg.  ;  IH,  5  e  sgg.,  i9  e  sgg.,  238  e  sgg. 


416  MISCELLANEA 

Ma  chi  fosse  qaesto  nostro  antichissimo  poeta  non  si 
sognarono  di  cercare  o  non  seppero  dire  i  vari  illostra- 
tori  del  codice  cortonese  e  dei  proverbi;  eccettaato  il 
Mazzoni ,  che  primo  notò  doversi  questi  e  parecchie 
delle  laudi  a  uno  stesso  autore,  e  osservò  come  da  due 
documenti  pubblicati  di  recente  nel  Giornale  di  erudi- 
zione (II,  9-10)  si  rilevi  che  il  bisnonno  del  Petrarca  si 
chiamava  Garzo  ancor  esso  (1). 

e  Garzo  —  aggiungeva  il  Mazzoni  —  è  nome  po- 
chissimo comune  :  avremmo  forse  innanzi  in  questo 
bisnonno  del  grande  poeta  T  autore  delle  laudi  ?  Metto 
da  parte  l'atavismo,  che  sarebbe  argomento  da  far 
sorridere;  intendo  quello  della  poesia;  ma  Garzo  lan- 
dese  fu  dottore,  e  non  è  improbabile  che  dottore,  cioè 
notaio,  fosse  il  bisnonno  del  Petrarca,  come  furono  dot- 
tori e  notai  il  nonno  ed  il  padre:  frequente  allora  la 
tradizione  familiare  delle  professioni.  Dunque  per  la 
professione  anche  l'atavismo,  fino  a  un  certo  segno, 
pare  argomento  in  favore  della  identità  de' due  Garzi. 
Guardiamo  aMuoghi:  l'Incisa  è,  come  tutti  sanno,  nel 
9  Vaidarno  ;  non  lontana  molto  da  Cortona.  E  nulla  vieta 
»  che  si  supponga  la  dimora  di  Garzo,  bisnonno  del  Pe- 
»  Irarca,  a  Cortona,  come  notaio  o  forse  come  giudice.... 
i>  Resta  il  tempo.  Neppure  per  questa  parte  vi  è  scon- 
»  venienza  alcuna:  dal  Petrarca  convien  risalire  al  bi- 
»  snonno  per  tre  generazioni;  alla  metà  del  secolo  XIII 
}»  si  giunge  di  necessità  per  avere  il  Garzo  donde  egli  ebbe 

»  origine  ;  e  di  quel  tempo fu  il  Garzo  delle  laudi  > . 

A  parte  il  sorridere  di  chi  notasse  frequente  nelle 
vecchie  famiglie  anche  il  caso  di  tendenze  ereditarie  alla 


(  1  )  Che  ser  Garzo  sia  stalo  il  ceppo  secchio  dei  Dall'  Ancisa  fu.  dok 
resto,  ben  noto  a  tutti  i  pili  autorevoli  biografi  del  Petrarca,  risulta  dcm 
piò  documenti,  e  appare  anche  dalla  tavola  genealogica  del  Passerini. 


MISCELLANEA  417 

poesia,  e  a  parte  la  scarsa  esattezza  della  frase  <i  dottore, 
cioè  notaio  >,  codeste  osservazioni  avrebbero  dovuto, 
sembrerebbe,  parer  a  tatti  giustissime,  e  tali  da  con- 
cludere, che,  finché  non  si  adducano  prove  in  con- 
trario, autore  di  quelle  laudi  e  di  quei  proverbi  si  debba 
ritenere  il  bisnonno  del  Petrarca.  Sennonché,  strano 
segno  dell'eccesso  di  scrupoli  onde  sono  presi  di  frequente 
anche  i  migliori  critici  moderni ,  il  Mazzoni  stesso  teme 
d'aver  osato  troppo,  e  soggiunge:  e  Tutto  questo  os- 
servo, molto  dubitando,  per  mera  ipotesi  >.  Né  basta; 
che  i  critici  del  Giornale  storico  della  letteratura  italiana, 
rendendo  conto  della  pubblicazione  di  lui,  si  mostrano 
anche  più  scettici  :  e  Di  questo  curioso  Garzo  —  essi  scri- 
vono —  nulla  si  sa ,  salvo  che  era  dottore ,  come  egli 
»  medesimo  si  designa.  La  ipotesi  messa  fuori,  con  la 
»  debita  circospezione,  dal  Mazzoni,  che  possa  identificarsi 
»  con  un  Garzo,  bisnonno  del  Petrarca,  merita  solo  per 
T>  ora,  che  se  ne  prenda  atto  ^ .  E  vanno  anzi  più  oltre,  ed 
affermano  che  e  sembra  molto  dubbio,  o  a  dir  meglio 
»  uoD  pare  vi  siano  ragioni  suflQcienti  per  ritenere,  che 
»  Garzo  sia  veramente  l' autore  della  serie  alfabetica  » , 
e  ciò  perché,  mentre  <  l'autore  parla  in  prima  persona 
»  così  nel  breve  proemio  come  nella  chiusa,...  quando 
>  accenna  a  Garzo  pare  voglia  addurre  il  detto  di  un 
»  terzo,  anziché  nominare  sé  medesimo  >.  Se  cosi  sia, 
giudichi  il  lettore  ;  eh'  io ,  per  non  spender  troppe  pa- 
role e  per  rimaner  nel  dugento,  ricorderò  solo  un  passo 
del  Tesoretto,  dove  il  comunissimo  passaggio  dalla  terza 
alla  prima  persona  è  anche  più  brusco  che  ne' nostri 
Proverbi: 

Or  va  mastro  Brunetto 

per  un  sentiero  stretto 
cercando  di  vedere 

e  toccare  e  sapere 


418  MISCELLANEA 

ciò  che  gli  è  destinato; 

e  non  fu'  guari  andato, 
eh'  i'  fui  nella  diserta , 

si  eh'  io  non  trovai  certa 
né  strada  né  sentiero.... 


Ma  per  convincere  gli  incredali,  che  occorre  dunque? 
Proprio  un  documento  notarile?  Per  buona  sorte ,  nel 
caso  nostro  abbiamo  anche  di  meglio:  la  testimonianza 
di  Francesco  Petrarca  stesso.  Scrivendo  a  Giovanni 
Colonna  di  San  Vito  per  dimostrargli  che  la  vecchiezza 
non  è  un  male ,  dopo  aver  ricordato  come  serena- 
mente giungessero  a  tardissima  età  Abramo,  Isacco, 
Giacobbe,  Mosé,  Nestore,  Omero,  e  non  so  quanti  altri 
antichi  famosi,  e  or  qui  da  te  siami  permesso  —  egli 
soggiunge  — ,  0  Padre  mio  indulgentissimo ,  di  porre 
1»  un  racconto  che  al  mio  cuore  è  dolcissimo ,  e  soffri  che 
»  alla  memoria  illustre  di  tanti    gloriosissimi  vecchi  io 

>  quella  frammetta  di  un  oscuro  e  recente,  ma  onorato 

>  vegliardo,  di  cui  venerata  e  cara  emmi  la  ricordanza, 
1»  e  che,  se  a  tutt' altri  che  a  te  scrivessi,  non  oserei  in 
ì>  questo  luogo  di  rammentare.  Io  m'  ebbi  il  mio  paterno 
»  bisavolo  uomo  che  fu  santissimo  di  costumi,  e  per  lo 
»  ingegno,  sebbene  delle  lettere  incolto,  pur  cosi  chiaro, 
i>  che  non  solo  ì  vicini  sulle  domestiche  bisogne,  sui  ne- 
ì>  gozi,  sui  contratti,  sui  matrimoni  de' figli  loro,  e  gli 
»  statuali  sugli  affari  del  pubblico  governo,  come  ad 
i  Appio  Cieco  avveniva,  lo  consultavano,  ma  intorno  a 
»  materie  gravissime  e  alla  filosofia  pertinenti  a  lui  da 
)  vicino  e  da  lungi  chiedevano  parere  anche  gli  uomini 

>  letterati,  e  tutti  nelle  sue  risposte  V  acume  dell'  inge- 
i  gno  e  r  aggiustatezza  del  giudizio  meravigliavano.  Chia- 

>  mossi  Garzo,  e  cosi  santa  e  divota  menò  la  vita,  che 


MISCELLANEA  419 

ad  esser  dichiarato  venerabile  non  altro  gli  mancò  che 
un  promotor  della  causa.  Io  già  era  fuori  deir  adole- 
scenza, e  vivevano  ancora  non  pochi  che  di  lui  mi  nar- 
ravano cose  stupende,  delle  quali  mi  taccio,  come  que- 
sto pure  taciuto  avrei,  s'è'  non  fosse  che  m'era  a 
cuore  il  farti  grato  V  esempio  che  te  ne  adduco.  Or 
bene,  costui,  passata  felice  ed  innocentemente  la  vita, 
siccome  a  me  narravano  i  nostri  vecchi,  nell'anno 
centesimo  quarto  dell'  età  sua ,  e  come  Platone ,  nel 
giorno  suo  natalizio,  ma  di  Platone  per  ventitré  anni 
nell'età  più  provetto,  e  nella  camera  stessa  in  cui  era 
nato,  in  quell'ora,  che  molto  prima  aveva  agli  amici 
annunziata  come  ora  della  sua  morte,  tra  gli  amplessi 
de' nipoti  e  de' figli,  senza  punto  soffrire  nel  corpo  o 
nell'  anima,  e  di  nuli'  altro  parlando  che  delle  virtù  e 
di  Dio ,  parve  a  mezzo  discorso  quasi  addormentarsi  e 
furono  ultime  sue  parole  quelle  di  Davide  :  Nella  pace 
di  lui  m' addormenterò  riposando.  Dette  appena  le 
quali,  in  pace  veramente  si  addormentò.  Ed  ora  io  ti 
ringrazio,  o  padre  mio  amorosissimo,  che  tu  mi  por- 
gessi occasione  di  rinfrescar  la  memoria  del  mìo  bisa- 
volo, ed  inserire  il  nome  suo  in  questa  lettera,  ove 
non  so  qual  altro  più  degnamente  con  quelli  di  tanti 
egregi  vecchi  potesse  entrare  in  ischiera  »  (1). 
Chi  non  vede  in  codesto  savio ,  che  dava  cosi  arguti 
ed  apprezzati  responsi  intorno  alle  cose  domestiche  e 
civili,  l'autore  dei  Proverbi?  e  in  lui  piissimo  e  devotis- 
simo, il  laudese?  Né  meravigli  il  sentirlo  e  delle  lettere 
incolto  > .  Come  non  doveva  parer  tale  all'elegante  autore 


(1)  Cosi  traduce,  e  bene,  il  FracasseUi  dalla  lettera  III  del  libro  VI 
delle  Familiari. 


420  MISCELLANEA 

deW  Affrica  l'ingegnoso  ma  rozzo  e  semplice  bisnonno, 
che  scriveva: 

Y,  perché  greco, 
non  si  intende  meco? 

Dove  ser  Garzo  abbia  veduto  la  luce  e  sia  morto 
cosi  serenamente  il  Petrarca  non  dice.  A  Cortona  però 
non  crederei ,  si  piuttosto  all'  Incisa ,  nel  popolo  di  San 
Biagio,  in  quella  casa  stessa,  che  fu  poi  de' suoi  di- 
scendenti. Il  De  Sade  però,  ravvicinando  a  quello  che 
abbiamo  riportato  più  sopra  un  altro  passo  delle  let- 
tere petrarchesche,  dove  Messer  Francesco  chiama  antica 
in  Firenze  la  sua  famiglia,  fece  di  ser  Garzo  un  notaio 
della  città  che  dette  al  nostro  maggior  lirico  e  i  cari 
parenti  e  l'idioma  >  (1);  né  la  cosa  è  impossibile,  quando 
si  ammetta  che  il  nostro  buon  laudese,  dal  quale  il  pro- 
nipote pare  ereditasse ,  nonché  il  fine  ingegno  e  l' amor 
delle  rime,  anche  gli  impeti  di  passione  religiosa  onde 
veniva  preso  di  tanto  in  tanto,  sia  morto  prima  della 
cacciata  dei  Bianchi.  Ad  ogni  modo  se  messer  Fran- 
cesco lo  conobbe,  come  sembra,  solo  per  altrui  ser- 
mone, egli  deve  esser  venuto  al  mondo,  se  non  anterior- 
mente (2),  almeno  ad  un  tempo  col  secolo  XllI;  e  però, 


(1)  Mem,  I,  8.  —  Seguendo  malamente  il  De  Sade,  il  Bandelli 
(Del  Petr.,  187)  fa  a  dìrìttura  di  ser  Garzo  T  arbitro  «  di  tutte  le  pri- 
vate e  pubbliche  controversie  in  Firenze  )»  ! 

(2)  In  tal  caso  (cioè  se  nacque  ancor  nel  secolo  XU),  poiché,  com'è 
noto,  il  nome  d*una  stessa  persona  si  trova  spesso  riferito  con  notevol 
diversità  nelle  carte  del  dugento ,  il  nostro  ser  Garzo  potrebbe  ben 
essere  quel  Guarzo,  notaio,  che  nel  1221  a  S.  Miniato  era  pre- 
sente ad  un  giudizio  dato  dal  messo  imperiale  Everardo  di  Lutra  in  una 
causa  fra  il  Vescovo  e  il  Comune  di  Pistoia  (coram  Guarzone  notorio: 


MISCELLANEA  421 

come  fa  venerando  in  vita  per  la  dottrina  pratica  e  la 
santità  de' costumi,  cosi  rimane  anche  ner  noi  venerando 
per  la  sua  grande  antichità,  per  la  quale  va  collocato  fra 
i  primissimi  che  rimarono  nel  nostro  dolce  volgare. 
Lucca,  19  giugno  1891. 

Albino  Zenatti 


Zacharia,  Anecdotorum  medii  aevii  collectio,  p.  353  e  sgg.):  si  noti  che 
nel  più  autorevole  codice  dei  Proverbi  il  nome  dell'autore  non  é  vera- 
mente Garzo,  ma  Garzon;  la  enne  fu  espunta  più  tardi  e  leggermente. 
Che  se  il  Petrarca  nella  citata  lettera  chiama  il  suo  bisnonno  Garcius 
e  non  Garzo,  la  sua  autorità  vale  in  ciò  assai  poco,  che  egli  modificò 
anche  il  suo  proprio  oogpome. 


f'     ,* 


r 


INDICE 


del  Volume  IVA  Parte  I.* 


G.  Bruschi:  Ser  Piero  Bonaccorsi  e  il  suo  Cammino  di 

Dante Pag.     5,308 

M.  Pelaez:  La  ?ita  e  le  opere  di  Giovanni  Andrea  del- 
l'Anguillara  »  40 

A.  Belloni  :  Curzio  Gonzaga  rimatore  del  sec.  XVI.  Cenni 

sulla  sua  vita  e  sulle  sue  opere i      125,349 

i].  Mazzi:  Leone   Allacci  e  la   Palatina   di  Heidelberg. 

(Continua) »  261 


Ifliofillaiiiia, 


V.  Lazzarini:  La  seconda  ambasceria  di  Francesco  Pe- 
trarca a  Venezia Pag.  232 

L  Sanesi:  L'anno  della  nascita  di  Leon  Battista  Alberti     i  242 

0.  Zenatti:  Nuove  Rime  d'Alchimisti i  387 

A.  Zenatti:  U  bisnonno  del  Petrarca       »  415 


424  INDICE 

Blblioffralla. 

G.  e  L.  Frati:  Indice  delle  carte  di  Pietro  Bilancioni. 
Contributo  alla  bibliografia  delle  rime  volgari  dei 
primi  tre  secoli.  (Continua) Pag.         163 


IL  PROPUGNATORE 


NUOVA   SERIE 


Proprietà  Letteraria 


Bologoa  1891.  Tipi  Pava  e  Oaragimni 


IL  PROPUGNATORE 

NUOVA  SERIE 

PERIODICO  BIMESTRALE 

DIRETTO 

GIOSUÈ  CAEDUOCI 

COMPILATO 

A.  uin  Hiu  uu,  T.  asm,  e  isiti,  t.  uran, 
s.  igjMBio,  1.  mm,  o.  mm 

Voi.  IV.  -  Parte  II. 


BOLOGNA 

PRESSO  ROMAGNOLI-DALL' ACQUA 

UbnÌHdilm  deUi  R.  CnoJuiiH  pt'  Tasti  4i  Liogu 

1891 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D' AREZZO 

AL  CONTE  UGOLINO  DEI  GHERARDESGHI 


É  un  lavoro  presentato  alla  Scnola  di  Magistero  per 
le  lettere  italiane  nello  Studio  bolognese  il  24  maggio  1889. 
Fu  dato  a  stampare  come  ricordo  di  un  giovine  per  gen- 
tilezza di  costumi  e  nobiltà  di  sensi,  per  giudiziosa  dili- 
genza negli  studi,  per  temperamento  d'ingegno  ben  di- 
sposto air  arte  e  alla  dottrina ,  carissimo  a  condiscepoli , 
congiunti  e  maestri;  Luigi  Arturo  Bresciani  ravennate,  morto 
nel  primo  florire  degli  anni  il  12  novembre  del  1890. 

G.  C. 


Dopo  la  giornata  della  Meloria,  i  Genovesi,  cui  forse 
non  parve  avere  a  bastanza  vendicate  le  ingiurìe  che  i 
Pisani  avevano  ardito  recar  loro,  spingendosi  fino  nelle 
acque  del  loro  mare,  s'accordaron  con  buona  parte  di 
Toscana  a' danni  di  Pisa.  Nella  lega  entrarono  Firenze, 
Lucca,  Siena,  Pistoia,  Prato,  Volterra,  Sangimignano  e 
Colle  (1);  Firenze  e  Lucca,  imbaldanzite  forse  dalle  vit- 
torie di  Vicopisano,  d'Asciano  e  del  fosso  Arnonico,  le 
altre  per  obbedienza  a  quelle  due  assai  potenti,  tutte 
insieme  poi  per  invidia  al  comune  di  Pisa,  che,  non  ostante 
le  frequenti  calamità  guerresche,  viveva  di  fiorentissima 
vita.  In  vano  i  Pisani,  com'  ebbero  sentore  dell'  accordo, 

(i)  Giovanni  Villani,  Cranica,  VII,  98. 


6  L.  A.  BRESCIANI 

mandaroDO  due  frati  predicatori  ai  Genovesi,  chiedendo 
pace  (1)  :  premeva  troppo  a  costoro  di  fiaccare  del  tatto 
le  forze  della  superba  rivale. 

I  collegati  avevan  tentato  di  tirar  nella  taglia  anche 
Ugolino  dei  Gherardeschi ,  conte  di  Donoratico,  e  Nino 
\isconti,  Giudice  di  Gallura:  vero  è  per  altro  che  al 
Conte  Ugolino  raccomandarono  i  Pisani  ogni  speranza  di 
silute^  afQdandogli  la  Podesteria  della  città,  di  che  spesse 
Yolte  erano  già  stati  consigliati  anche  dai  prìgionierì  di 
Melorìa. 

Ugolino  dei  Gherardeschi,  potentissimo  e  ricchissimo 
signore,  il  quale  €  teneva  gran  corte  (2)  > ,  uno  dei  capi 
(li  parte  guelfa,  entrò  in  carica  a'  18  di  ottobre  del  1284, 
vale  a  dire  pochi  giorni  dopo  che  era  stata  conchiasa  la 
lega  tra  Firenze,  Lucca  e  Genova;  ed  è  strano  come 
Pisa,  che  reggevasi  allora  a  parte  ghibellina  e  che  do- 
veva ricordare  la  recente  sconfitta  d'Asciano,  s'accon- 
ciasse cosi  di  buon  grado  a  eleggersi  per  podestà  il  più 
fiero  nemico  dei  Ghibellini,  e  quello  tra' cittadini ,  che, 
studioso  soltanto  della  potenza  di  sua  casa,  meno  carita- 
tevole degli  altri  s'era  fino  a  quel  giorno  mostrato  della 
patria. 

S'ebbe  egli  vicario  di  podesteria  Guglielmo  de'Lam- 
bertini  di  Bologna. 

A'  dieci  di  novembre  i  mercatanti  fiorentini  eh*  erano 
in  Pisa  ebbero  ordine  dal  loro  comune  di  abbandonare 
quella  città  e  ritornare  in  patria;  e  poco  dopo  questa 
prima  avvisaglia,  Firenze  mandò  verso  Volterra  più  di 
seicento  cavalieri,  e  tutte  l' altre  città  della  lega  allestirono 

(1)  Liber  iurium  Reipublicae  Genuensis,  in  Historiae  patriae  mo- 
numenta edita  iussu  regis  Karoli  Alberti,  II,  60,  68,  69,  71,  73,  75. 

Sforza,  Dante  e  i  Pisani,  io  Propugnatore,  ?ol.  II,  (1869),  pag.  43. 

(2)  Giovanni  Villani,  Cron.,  VII.  cap.  cit 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D'  AREZZO        7 

forze  armate  quanto  maggiori  poterono.  In  Valdera  si 
guerreggiò  assai,  racconta  il  Villani,  e  anche  questa  volta 
que'dì  Pisa,  che  già  da  qualche  tempo  sperimentavano 
quanto  dolorose  sieno  le  perdite  in  campo,  dovevano  ab- 
bandonare ai  nemici  alcune  delle  loro  castella.  Fra  tanto 
i  vincitori  s'  accordavano  coi  Genovesi,  per  movere  in- 
sieme nella  primavera  del  seguente  anno  contro  Pisa 
stessa,  assediandola  gli  uni  da  parte  di  terra,  gli  altri  da 
quella  di  mare.  Ugolino  al  quale  erano  affidate  le  sorti 
disgraziate  della  patria  cercò  in  cuor  suo  modo  di  porre 
rimedio  alla  sventura  che  le  incombeva,  e,  reputando 
malagevole  il  riuscirvi  col  mettere  la  città  in  armi  e  V  ac- 
cettare apertamente  la  guerra,  come  colui  che  ben  co- 
nosceva quanto  le  forze  di  Pisa  fossero  stremate,  si  stu- 
diò di  riuscirvi  per  via  di  pratiche.  Pensò  che  un  mezzo 
sicuro  per  indebolire  la  lega  era  quello  di  scinderla,  onde 
a  quei  Fiorentini  e  Lucchesi,  che  gli  avevan  proposto  di 
unirsi  con  loro  contro  la  patria,  promise,  qualora  avessero 
desistito  dal  disegno  fatto  di  assediar  Pisa ,  di  cedere 
a' primi  Santa  Maria  in  Monte,  Fucecchio,  Castelfranco, 
Santa  Croce  e  Montecalvoli  ;  ai  secondi  Ripafratta  e  Via- 
reggio, e  inoltre  di  tórre  ai  Ghibellini  la  supremazia  in 
Pisa  e  darla  ai  Guelfi.  E  cosi  fu;  che  nel  febbraio  del 
seguente  1285  il  Conte  Ugolino,  cacciati  di  Pisa  i  Ghi- 
bellini, se  ne  rese  signore  coi  Guelfi,  facendosi  chiamare 
Podestà  e  Capitano  del  popolo  €  in  termine  di  dieci 
anni  (1)  >.  A  questi  patti  Pisa  fu  lasciata  per  allora  in 
pace.  Se  non  che  €  li  Lucchesi  —  cosi  r  anonimo  autore 
della  citata  storia  pisana  —  tennero  le  castella,  e  non 
lassonno  di  fare  la  guerra  >,  però  che  non  si  tosto  i 
Genovesi  si  mossero  con  sessantacinque  galee  e  un  ga- 

(i)  Historiae  pisanae  fragmenta,  in  Muratori,  Rerum  italicarum 
icriplores,  XXIV,  648-9. 


8  L.  A.  BRBSCUNI 

leone,  sotto  il  comaDdo  di  Oberto  Spinola,  al  concordato 
assedio  di  Pisa,  —  il  che  fu  a'  trenta  di  giugno  di  quello 
stesso  anno  —  che  i  Lucchesi  subito  forono  in  arme.  Il 
conte  Ugolino  trattò  novellamente  coi  Guelfi  di  Firenze, 
perché  procurassero  non  tutte  le  terre  della  taglia  ripi- 
gliassero le  ostilità  contro  Pisa,  ce  —  racconta  Giovanni 
Villani  —  dissesì  in  Firenze  che  '1  detto  conte  Ugolino , 
presentando  a  certi  caporali  cittadini  di  Firenze  vino  di 
vernaccia  in  certi  fiaschi,  che  vi  mandò  dentro  col  vino 
fiorini  d'oro,  acciocché  assentissono  al  detto  accordo, 
sanza  la  richiesta  de'  Genovesi  e  de'  Lucchesi  (1)  > . 

Giunto  che  fu  per  tanto  Oberto  Spinola  colV  armata 
a  Porto  Pisano,  mandò  a  dire  ai  Fiorentini  sollecitassero 
a  movere  sopra  Pisa,  secondo  erasi  fermato  nella  com- 
posizione della  lega;  ma  ebbe  in  risposta  alle  frequenti 
ambasciate  non  altro  che  promesse  e  buone  parole,  che 
davano  a  divedere  chiaramente  come,  lungi  dal  porre  ad 
effetto  i  patti  conchiusi  l'anno  innanzi  gli  altri  della  ta- 
glia amassero  in  vece  dimenticarsene.  Lucca  soltanto, 
come  più  sopra  dicemmo,  si  armò  ;  ma  pensò  più  presto 
ad  arricchire  sé  medesima,  che  ad  aiutare  la  lega;  da 
che,  assediati  i  castelli  di  Cuosa,  Avena  e  Ponte  a  Ser- 
chio,  e  avutili,  ritirò  le  sue  genti.  Nel  frattempo  Pisa 
aveva  ricorso  per  protezione  al  pontefice,  il  quale  mi- 
nacciò di  scomunica  chiunque  avesse  molestato  i  Pi- 
sani; e  questo  fu  saldo  pretesto  per  Firenze  di  togliersi 
al  tutto  dalla  lega,  si  che  non  solo  depose  le  armi,  ma 
ordinò  che  i  Senesi  mandassero  loro  cavalieri  a  tutela 
de'  Guelfi  di  Pisa. 

Oberto  Spinola,  dopo  venti  giorni  di  inoperoso  e 
dannoso  aspettare,  come  si  fu  finalmente  accorto  che  i 
Fiorentini  menavano  il  can  per  l' aia ,  stanco  del  tempo- 

(1)  Cron.  VII,  98. 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA   QUITTONE  d'  AREZZO        9 

reggiare  e  pnoto  dell'offesa,  non  restandogli  a  far  di 
meglio,  recò  gaasti  qaanti  potè  alle  fortificazioni  di  Porto, 
e  ne  prese  la  torre  della  Lanterna.  Ebberla  i  Genovesi 
per  la  paura  di  Gainello  Rosso,  custode,  cui  mostravano 
da  lontano  certe  pietre  di  calcina,  che  fingevano  fossero 
cadute  dalla  torre,  la  quale,  per  i  forti  colpi  eh'  eglino  le 
portavano ,  minacciasse  di  minare.  Cosi  tornatesene  le 
galee  di  Genova,  Pisa  si  trovò  a  non  aver  sofferto  altro 
danno  che  la  perdita  di  alcuni  castelli  e  della  torre,  e 
i  guasti  alle  fortificazioni  di  Porto,  le  quali  Ugolino  ben 
presto  riattò:  e  Vero  è  —  aggiunge  il  cronista  pisano  — 
che  se  li  Fiorentini  fnssono  usciti  fuora,  quando  l' armata 
de  i  Gienovesi  era  a  Porto  e  l'oste  de  i  Lucchesi  era 
ad  Avena  e  Cuoza,  sarebbe  abbandonato  o  perduto  Io 
Porto  (1)  > ,  e  il  Villani  dice  di  più  che  €  la  città  di  Pisa 
sarebbe  stata  presa,  e  disfatta  e  recata  a  borghi  com'  era 
ordinato  (2)  >.  In  Pisa  furono  poi  in  quell'anno  per 
la  promessa  e  confederazione  che  con  la  parte  guelfa  di 
Firenze  aveva  fatta  Ugolino  de' Gherardeschi ,  forte  del- 
l'appoggio e  del  consiglio  di  Nino  di  Gallura,  distrutte 
dieci  case  di  €  dieci  grandi  cittadini  (3)  > ,  tra'  quali  do- 
vevano essere  probabilmente  Messere  Andreotto  Caudera, 
stato  già  ammiraglio  de'  Pisani  a  Pianosa,  capitano  gene- 
rale dell'armata  insieme  col  conte  Ugolino  alla  Meloria, 
e  il  conte  Nierì,  se  fuggirono  di  Pisa  per  e  uno  ru- 
more >  che  il  cronista  non  dice  qual  fosse,  ma  che  si 
può  verisimilmente  argomentare  desse  poca  guarentigia 
di  sicurezza  alle  loro  persone. 

Di  fronte  alla  famiglia  de' Gherardeschi   era  grande 
e  ricca  e  potente  in  Pisa  quella  dei  Visconti ,  signora  di 

(i)  Muratori,  Rerum  il,  scr.,  XXIV,  648-9. 

(2)  Crofi.,  VII,  cap.  ciU 

(3)  Hist.  pi8,  fragm. 


lU  L.  A.  BBESCIANI 

molte  terre  in  Toscana  e  Sardegna.  A  GiovaDoi  Visconti 
giudice  di  Gallura  Ugolino  die  in  moglie  una  figliuola,  e 
da  quella  unione  nacque  Ugolino,  volgarmente  chiamato 
Nino,  al  quale  il  conte  di  Donoratico  fu  avolo  e  tutore. 
In   quale   anno   Nino    giudice    di   Gallura    nascesse  è 
ignoto  ;  si   sa  di   certo ,  per    un   diploma    pubblicato 
da  Francesco  Bonaini  (1),  che   nel   1286,  essendo  già 
morto  Giovanni ,  Nino  era  ancora  sotto  tutela  ,  onde 
minorenne.  Per  altro,  non  ostante  T  età  gìovenile,  ambiva 
al  potere,  e  per  la  forza  e  T autorità  della  famiglia  il 
salire  gli  fu  agevole  se  ad  altri  mai.  Nel   giugno  del 
mille  dugento  ottanta  cinque,  quando  accaddero  i  fatti 
che  siamo  venuti  narrando  fin  qui,  Nino  giudice  di  Gallura 
era  tornato  da  poco  di  Sardegna,  e  subito  dod  meno  a 
lui ,  continuatore  di  un'  antica  e  potente  famiglia  di  parte 
guelfa,  che  al  Conte  Ugolino  si  eran  rivolti  i  collegati  di 
Toscana,  per  averlo  nella  taglia.  In  un  luogo  della  cro- 
nica pisana,  più  volte  ricordata,  è  detto  come  a  sventare 
di  sopra  Pisa  il  pericolo  che  la  minacciava,   valessero, 
insieme  con  il  consiglio  e  T opera  di  Ugolino,  quelli  di 
Nino  Visconti  ;  ond'  è  che  questo  giovane,  €  gentile  d' ani- 
mo e  di  costumi,   ardito  e  gagliardo  (2)  ]»,  che  aveva 
spalleggiato  in  tempi  cosi  difficili  il  Podestà  di  Pisa,  non 
saprebbCvSi  dire  se  più  spinto  da  ambizione  o  da   invidia 
volle  che  il  Conte  Ugolino  se  lo  associasse  nel  comando. 
E  costui,  per  timore  i  partigiani  del  nipote,  eh'  erano  assai, 
non  avessero  a  cacciarlo  deir  ufficio,  fu  costretto  a  tor- 
selo  per  compagno.  —  e  Al  cadere  del  mille   dugento 
ottanta  cinque  presero  a  reggere  assieme  la  somma  delle 
cose,  e  raccolta  in  sé  stessi  ogni  autorità  si  chiamarono 
Capitani  del  Popolo,  Podestà,  Rettori  e  Governatori  del 

(1)  Statuti  pisani,  I,  275. 

(2)  Franc.  da  Buri,  Commento  alla  Divina  Commedia,  lof.  XIXIII. 


DiTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D*  AREZZO      11 

ComuDe.  Ridussero  a  un  codice  solo  le  sparse  leggi 
della  Repubblica  già  guarentigia  di  un  vivere  libero,  re- 
cando ogni  cosa  nella  propria  balia,  perfino  la  vita  stessa 
degli  Anziani  del  Popolo,  dichiarandosi  superiori  alle  leggi 
stesse  che  promulgavano,  col  riservarsi  di  osservarle  o 
00,  a  talento  e  ad  arbitrio  (1)  > .  Ma  non  andò  molto  che 
alla  fittizia  concordia,  troppo  necessaria  all'uno  per  sa- 
lire, air  altro  per  non  essere  soverchiato,  seguitò  tra  i  due 
governatori  il  disaccordo ,  che  V  antica  rivalità  delle  fa- 
miglie e  il  desiderio  in  ciascuno  di  rendersi  assoluto 
signore  della  Repubblica  fomentavano.  Ugolino,  preso 
forte  sospetto  dell'animo  del  nipote,  come  costui  ebbe 
bisogno  di  recarsi  in  Sardegna,  gli  mandò  dietro  Guelfo, 
il  maggiore  suo  figliuolo,  con  T  incarico  di  occupare  non 
solo  i  castelli  de' Gherardeschi,  ma  altresì  quelli  di  Pisa. 
Di  che  i  Visconti  ebbero  acerbissimo  sdegno ,  e  chia- 
mati i  Guelfi  da  Firenze,  e  venuti  questi,  sotto  la  con- 
dotta di  Messer  Mondino  Paltavolo  e  Messer  Pannocchia 
della  Sassetta,  li  fecero  entrare  nel  castello  di  Pontedèra; 
di  coi  i  due  Fiorentini ,  cacciati  che  n'  ebbero  quei  della 
terra,  si  chiamaron  padroni,  e  tennero  il  possesso  per  la 
parte  Guelfa  della  loro  città. 

In  quel  tempo  a  punto  civili  discordie  travagliavano 
la  terra  di  Buti  e  dividevanla  in  due  fazioni,  l'una  detta 
di  sopra  o  del  castello,  l' altra  di  sotto  o  del  borgo.  Della 
prima  cercò  l'amicizia  il  Giudice  di  Gallura  contro  i 
Gherardeschi  e  gli  Upezzinghi,  loro  consorti,  che  s'ap- 
poggiarono in  vece  alla  seconda,  dando  ciascuno  ogni 
opera  ad  aiutare  e  rafforzare  la  parte  sua.  Più  volte  i 
terrazzani  di  Buti  furon  chiamati  a  Pisa  da  Nino  e  Ugo- 
lino per  accordi,  e  sempre  più  gli  animi  s'accesero  gli 
uni  contro  gli  altri,  fin  che  nel  gennaio  mille  dugento 

(1)  Sforza,  Dante  e  i  Pisani^  Prapugn.  H,  i6. 


12  L.   A.  BRESCIANI 

ottaDtasette  ie  dae  fazioni  s' appare  cchiaroDO  ad  azzuffarsi. 
I  Visconti   richiesero  d'  aiuto   i   Guartigiani   di  Lucca , 
che  immantinenti  mandarono  Jacopo  Morlacchi  con  molti 
cavalieri  e  fanti;  ma  come  i  Lucchesi   giunsero  a  Boti 
prima  che  Ugolino  avesse  potuto  inviare   alcuno  in  rin- 
forzo de*  suoi,  quelli  del  castello  furono  per  modo  a  dosso 
a  quelli  del  borgo,  impreparati  e  soli,  che  li  obbligaroQO 
a  sgombrare  del  paese,  e  i  Lucchesi,  entrati  in  Buti,  ten- 
nero terra  e  castello  per  il   comune  di  Lucca  (1).   Fu 
un  ostinato  e  violento  combattere,  al  quale  presero  parte 
si  plebei  come  nobili,  anzi  questi  ultimi  in  numero  rag- 
guardevole :  tra  essi  furon  menati  prigioni  Bonaccorso  da 
Bipafratta  e  Baldino  degli  Ubaldini,  nipote  dell'  arcivescovo. 
Né  bastò;  però  che,  ad  arroventar  maggiormente  i 
ferri,  avvenne  che  Nino  Gherardeschi ,  detto  il  Brigata, 
figliuolo  di  Guelfo,  giovane,  a  quel  che  pare,  di  molta 
audacia  ma  di  non  troppa  prudenza,  trovandosi  un  giorno 
in  compagnia  dì  amici,  si  scontrò  in  Gano  degli  Scorni- 
giani,  familiarissimo  de' Visconti,  e,  venuto  a  parole  con 
lui,  l'uccise,  con  grande  ira  e  tumulto  del  giudice  di 
Gallura  e  della  sua  famiglia,  i  quali  si  diedero  a  battere 
le  vie,  gridando    €  Muoia  chi  non  vuol  pace  coi   Geno- 
vesi j ,  intendendo  del  Conte  Ugolino,  il  quale,  per  pro- 
poste di  pace  che  fossero   state  fatte   niuna  aveva  mai 
voluto  udire  che  si  dovesse  accettare.  Ma  lo  espediente 
non  riuscì  al  fine  che  Nino  di  Gallura  pensavasi,  di  in- 
durre cioè  il  popolo  a  deporre  dal  governo  della  pubblica 
cosa  Ugolino  ;  che  al  contrario,  accortisi  i  Pisani  che  tanto 
scalpore  i  Visconti   non  menavan   per  ira  di  parte  ma 
più  tosto  per  malanimo  contro  il  Gherardeschi ,  li  lascia- 
rono sbizzarrire  come  loro  piacque,  senza  che  ad  alcuno 
venisse  né  pure  in  pensiero  di  prendere  le  armi. 

(1)  Sforza,  op.  ciU,  in  Propugn.  il.  —  HisL  pis.  fragm. 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D*  AREZZO      13 

Se  DOQ  che  del  continuo  aver  briga  tra  loro  avo  e 
nipote  si  stancò  alla  fine  il  popolo,  e  volle  che  entrambi 
cedessero  V  ufQcio  a  messer  Guidoccino  de'  Bongi  di  Ber- 
gamo. Fm*ono  a  pregameli  i  consoli  del  Mare,  dei  Mer- 
canti, dell'Arte  della  Lana  e  i  Capitani  e  priori  delle 
sette  arti  ;  e  conforme  al  loro  desiderio  nel  dicembre  del 
1287  Podesteria  e  Capitaneria  furono  rassegnate  nelle 
mani  di  Gnidoccino.  Non  è  a  credere  per  altro  che, 
tornati  privati,  i  dne  rivali  deponessero  le  ire  e  se  ne 
vivessero  in  pace,  che  anzi  le  loro  famiglie  quasi  ogni 
giorno  erano  in  arme  e  s'accapigliavano.  E  se  non  era 
che  la  cupidigia  del  comandare,  come  aveva  avuto  la 
forza  di  inimicarli,  riebbe  quella  di  novamente  accostarli, 
chi  sa  quanto  tempo  avrebbe  durato  lo  scandalo  di  quella 
guerricciuola.  Avvenne  dunque  che  Guidoccino  de' Bongi, 
podestà,  avendo  fatto  prendere  Coscio  Spezzalasta  fa- 
miglio di  Ugolino,  né  volendolo  rimettere  in  libertà  per 
istanza,  il  Gherardeschi  e  il  Visconti  colsero  il  destro,  e 
di  notte  tempo  di  comune  accordo  s'impadronirono  del 
palazzo  del  Comune.  —  €  E  la  mattina,  armati  con  tutti 
cavalieri  da  Pisa,  e  guelfi  e  ghibellini,  vennero  al  Palasse 
del  Comune  di  Pisa  in  della  piassa  di  Sancto  Ambrogio, 
e  ismontonno,  e  intronno  amburo  in  Palasse  in  signoria; 
e  lo  cavallo  di  ciascuno  di  loro  si  levonno  ritti  malamente 
quando  iscieseno;  e'I  dicto  Messere  Guidoccino  fecieno 
pagare  del  suo  salare,  e  misenlo  fuora  della  signoria  e 
mandonnolo  via.  E  andò  lo  Conte  Ugolino  a  stare  al  Pa- 
lasso  del  Populo  e  Indice  di  Calura  rimase  e  stette  al 
Palasso  del  Gomuno  (1)  i^.  Questo  fu  nel  febbraio  1288. 

In  tanto  i  Pisani  stati  fatti  prigionieri  alla  Meloria 
e  che  ancora  erano  in  mano  de'  Genovesi  sollecitavano  il 
Comune  di  Pisa  che  volesse  ormai  conchiudere  la  pace 

(1)  HìmL  pis,  fragm. 


14  L.   A.  BRESCIANI 

e  riceverli  in  patria.  Che  che  si  fosse,  la  pace  tante  volte 
chiesta  non  s' era  riasciti  a  conchiuderla  mai,  onde  quattro 
di  loro,  accordatisi  intorno  a'  patti  coi  Genovesi,  ebbero 
licenza  di  recarsi  a  Pisa  a  trattare.  E  furono  Hesser  Ga- 
glielmo  di  Ricoveranza,  Messer  Puccio  Bnzzaccarini,  Gaelfo 
Pandolfini,  e  Iacopo  d*Àldobrando  notaio  (1).  Ma  o  fos- 
sero le  condizioni  troppo  gravi  per  Pisa,  o  il  ritorno  dei 
prigionieri,  eh'  eran  per  la  massima  parte  Ghibellini,  inti- 
morisse Ugolino,  il  fatto  è  che  qnesti  era  tanto  restio  ad 
accettar  la  pace,  quanto  il  giudice  di  Gallura  era  inchi- 
nevole. Il  cronista  anonimo  poi  soggiunge  che  e  ludici 
era  da  lato  de  i  pregioni  e  voleala  (la  pace)  per  confon- 
dere e  disfare  lo  Conte  Ugolino,  che  non  la  volea  elli, 
né  anco  tutti  quelli  che  savi  erano  in  Pisa,  perché  parea 
loro  impossibile  a  poterla  fare  > ,  ma  che  €  lo  Conte  Ugo- 
lino per  non  volersi  recare  rumore  e  grido  di  popolo 
addosso,  né  incontra  consentire  che  si  recasse  a  Consiglio 
Maggiore  in  duomo,  quine  si  fermò,  e  prese  che  si  fa- 
ciesse  per  quello  trattato  eh'  e'  pregioni  aveano  fatto  co 
i  Genovesi  > .  Il  giorno  13  di  maggio  in  fatti  fa  mandato 
a  Genova  a  fermar  la  pace,  messer  Ranieri  Sampante  (2). 
Ma  i  Genovesi  avevano  un  beli' aspettare  che  Pisa 
attenesse  i  patti  giurati,  però  che  Ugolino  e  Nino,  per  la 
paura  che  avevano  de'  prigionieri  indugiavano  assai  ;  anzi 
con  vituperevole  malafede  avevano  ordinato  ai  Pisani  eh'  e- 
rano  in  mare  di  perseguitare  e  guastare  le  navi  dei  Ge- 
novesi dovunque  le  avessero  incontrate.  Del  qual  contegno 
venne  a  portar  le  lagnanze  delia  Repubblica  di  Genova 
Niccolino  da  Petrazìo.  L'  arcivescovo  Ruggeri,  capo  dei 
Ghibellini  di  Pisa ,  che  nel  rimpatriare  de'  prigionieri 
vedeva  un  trionfo  della  sua  parte,  desideroso  di  rimettere 

(1)  HisL  pis,  fragm..  651. 

(2)  Hist  pis,,  frag,,  1.  e 


\ 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D*  AREZZO      15 

i  GbibelliDÌ  in  fortuna,  e  più  che  tatto  di  salire  egli  me- 
desimo al  potere,  fece  palese  ali*  ambasciatore  dei  Geno- 
vesi il  malo  animo  onde  i  reggitori  si  governavano,  e  si 
profferse  di  dare  in  mano  ai  rivali  di  Pisa  Nino  e  Ugolino, 
pur  cbe  Genova  avesse  mandato  sulla  foce  d'Amo  alcune 
navi;  in  contraccambio,  Pisa  avrebbe  accettato  la  prote- 
zione di  Genova  e  il  podestà  che  per  dieci  anni  le  fosse 
piaciuto  di  imporle,  e  consegnatele  in  oltre  le  chiavi  della 
città,  e  cedute  TElba  la  Gorgona  e  le  torri  del  Porto. 
L'ambasciatore  parti  col  ghiotto  messaggio;  e  Ruggeri, 
per  meglio  venire  a  capo  del  malvagio  disegno,  simulò 
grande  amicizia  per  Ugolino,  e  lo  riscaldò  a  compiere 
seco  il  tradimento  del  giudice  di  Gallura.  Tosto  Ugolino 
si  ritirò  nel  suo  castello  di  Settimo  a  radunar  gente,  in 
tanto  che  Ruggeri  con  Bacciomeo  di  Bonifazio,  Bonaccorso 
Guberta,  Gado  del  Pelaio,  Bonaccorso  pievano  di  San  Ca- 
sciano,  Iacopo  pievano  di  Sa  vigliano.  Guido  priore  di  Ni- 
cesia,  Nieri  di  Vanni,  Guido  Zaccio,  Baccio  da  Cagnona 
e  altri  capi  ghibellini,  raccoglieva  fanti  in  Val  di  Serchio  ; 
da  Ripafratta  mossero  poi  tutti  insieme  contro  Nino.  Il 
quale,  atteso  in  vano  che  il  conte  Ugolino  tornasse  da 
Settimo,  l'ultimo  giorno  di  giugno  usci  intimorito  dalla 
città,  e  co'  suoi  si  ritirò  a  Calci.  I  Ghibellini  volevano  che 
il  Brigata  prendesse  subito  il  governo,  ma,  sconsigliato 
da  Gaddo,  noi  fece;  allora  lo  occupò  l'arcivescovo,  e  fatto 
chiudere  le  porte  della  città,  mandò  a  Ugolino  dicendo 
che  se  gli  piacesse  tornasse  pure,  ma  senza  uomini. 
Tornato  Ugolino,  e  sdegnatosi  di  trovare  l'arcivescovo 
nel  palazzo  del  Comune,  gli  fu  fatto  intendere  che  se  non 
l'arcivescovo,  avesse  almeno  tolto  per  compagno  Aldo- 
brandino da  Santa  Fiora  suo  genero,  pur  che  fosse  stato 
un  Ghibellino.  Ma  disputarono  assai  senza  che  per  quel 
giorno  né  per  il  seguente  ci  fosse  verso  che  prendessero 
accordo  di  veruna  specie.  Fra  tanto,  mentre  Ugolino  con 


16  L.  A.  BRESCIANI 

Roggeri  e  gii  altri,  il  primo  di  taglio,  erano  a  consiglio 
nella  chiesa  di  San  Sebastiano,  il  Brigata,  che  voleva  in- 
trodurre in  città  Tieti  da  Bientina  con  mille  uomini,  ar- 
mato di  scale  e  corde  era  andato  al  ponte  della  Spina. 
Ma  non  a  pena  i  Ghibellini  se  ne  avvidero,  credendosi 
traditi,  diedero  l'allarme;  la  campana  del  Comune  suo- 
nava per  l'Arcivescovo,  quella  del  popolo  per  il  Conte, 
e  per  le  vie  si  combatté  da  nona  sino  a  vespero,  con 
tanto  maggiore  accanimento,  quanto  più  i  Ghibellini  anda- 
van  gridando  al  popolo  che  Ugolino  avealo  tradito  ce- 
dendo ai  lucchesi  tutti  i  castelli  di  Pisa.  In  fine  la 
parte  di  Ugolino  ebbe  la  peggio.  Questi  co'  suoi  si  rifugiò 
nel  palazzo  del  Popolo;  ma  gli  avversarli,  bruciatene  o 
atterratene  le  porte,  vi  irruppero,  e  presero  il  disgraziato 
conte,  che,  dopo  venti  giorni  dì  prigionia  in  quel  palazzo 
stesso,  fu  rinchiuso  a  morir  di  fame  nella  torre  dei  Gua- 
landi alle  Sette  vie. 

Ora,  a  quale  congiuntura  di  questo  breve  periodo  dì 
tempo  devesi  riferire  la  canzone  di  Guittone  d'Arezzo  a 
Ugolino  della  Gherardesca?  Che  la  canzone  fosse  scritta 
avanti  la  sconfitta  di  Meloria  è  supposizione  da  rifiutare, 
senza  né  meno  discuterla.  L'aretino  non  fa  che  lamen- 
tare la  debolezza  e  le  condizioni  compassionevoli  in  che 
era  ridotta  Pisa,  esortare  due  de'  maggiori  suoi  cittadini 
a  scuotersi,  a  difenderla  con  le  armi,  col  senno,  colla  pru- 
denza da  un  €  mortale  pericolo  »  (1).  —  Quale?  —  Non 
certo  la  grande  battaglia  navale  contro  i  Genovesi,  che 
segui  alle  intemperanti  e  imprudenti  bravate  di  Porto  Ve- 
nere, però  che  non  poteva  dirsi  debole  e  ridotta  a  mal 
partito  una  città,  la  quale,  non  ostante  l'avversa  fortuna 

(1)  Guittone  d'  Arezzo  ,  canzone   €  Magni  baroni  certo  e  r^ 
quasi  1,  Stanza  HI  versi  U  e  15  (dell' ed.  del  Valeriani,  canzone  XXIU). 


INTOBNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  d'  AREZZO      17 

che  da  oltre  un  decennio  la  perseguitava  nelle  imprese 
di  terra  e  di  mare,  trovava  ancora  tanta  forza  in  sé  di 
danaro  e  d' uomini,  tanto  ardimento  e  fiducia  ne'  cittadini, 
da  allestire  nel  1274  una  flotta  di  sessantacinque  galee  e 
undici  galeoni,  e  prendere  con  essa  V  ofifensiva  contro  la 
gagliarda  repubblica  di  Genova,  della  quale  aveva  speri- 
mentato troppe  altre  volte,  e  assai  crudamente,  la  forza 
deir  armata  e  la  valentia  de'  soldati.  Una  battaglia  —  sia 
pure  che  avesse  fine  sfortunatissimo  —  non  solo  accettata 
ma  presentata  con  tale  apparecchio,  non  poteva  non  es- 
sere nei  voti  di  tutti;  era  il  tentativo  di  una  grande  ri- 
vincita sulla  rivale  repubblica,  che  li  aveva  battuti  a  Pia- 
nosa prima,  e  dopo  non  aveva  lasciato  sfuggire  occasione 
di  molestarli  dovunque  e  in  ogni  modo;  e,  ottenuta  che 
si  fosse  piena  ed  intera,  la  gloria  di  Genova  sarebbe,  se 
non  caduta  per  sempre,  certo  per  lungo  tempo  abbassata. 
Nessuna  ragione  di  rimprovero  adunque  al  Conte  Ugolino, 
il  quale  in  quel  frangente,  lungi  dal  temporeggiare  e  dal 
rifiutarsi  di  prender  le  armi,  —  di  che  a  punto  gli  farebbe 
carico  il  buon  Guittone  ne'  suoi  versi  —  assunse  il  comando 
generale  della  guerra  insieme  col  Buzzaccarini  e  Messer 
Andreotto,  e  guidò  il  centro  dell'armata. 

Non  vedrei  né  meno  come  si  potesse  assegnare  ai 
giorni,  sventurati  certo  e  pericolosi  anch'essi,  della  di- 
scordia tra  Ugolino  e  il  nipote  e  delle  fazioni  in  fiuti , 
parendomi  assai  naturale  che  Guittone,  il  quale  reputava 
quei  due  cittadini  di  tale  grandezza  e  potenza  da  aver 
virtù,  essi  soli  e  non  altri,  di  soccorrere  ai  mali  della 
patria,  mi  pare,  dico,  che  per  prima  cosa  avrebbe  dovuto 
scongiurarli  di  riconciliarsi  per  il  bene  di  tutti.  E  ancora 
mi  sembrerebbe  assurdo  il  farne  scendere  la  data  al  1288, 
quando  cioè  Nino  e  Ugolino  si  rappattumarono  di  bel  nuo- 
vo: allora  quel  che  i  più  desideravano  (e  dica  quanto  vuole 

Voi  IV,  Parte  IL  2 


18  L.  A    BBESCIANI 

r  anonimo  cronista  che  non  erano  i  più  savi)  (1),  era  [a 
composizione  della  pace  con  Genova,  e  sarebbe  toroato 
inutile  e  paruto  per  lo  meno  assai  strano  il  predicar  la 
guerra,  come  si  fa  nei  versi  del  frate.  Tanto  meno  poi 
è  lecito  crederli  scritti  verso  la  fine  del  reggimento  e 
della  vita  di  Ugolino,  quando  ebbe  tradito  insieme  coq 
l'arcivescovo  il  suo  collega  e  nipote. 

Onde  più  verisimilmente  panni  si  possa  afifermare 
che  la  canzone  fu  scritta  e  mandata  a  Ugolino  dei  Ghe- 
rardeschi  non  più  tardi  del  1285,  e,  con  più  precisa  de- 
terminazione, verso  la  fine  del  1284. 

Non  è  a  dimenticare  che  allora  Pisa  correva  il  mag- 
giore pericolo  che  dalla  battaglia  alla  Melorìa  sino  al- 
l' imprigionamento  del  conte  Ugolino  corresse,  e  che  quel 
tempo  dovè  essere  di  vero  terrore  per  i  Pisani  e  di  do- 
lorosa sorpresa  per  quelli  di  fuori,  i  quali  vedevano  la 
repubblica  di  Pisa,  poco  addietro  cosi  fiorente  e  gloriosa, 
ridotta  ormai  all'  ultima  rovina.  —  Il  poeta  si  rivolge  al 
Conte  Ugolino  e  al  Giudice  di  Gallura,  come  ai  due  cit- 
tadini più  autorevoli  di  Pisa,  li  rimprovera  di  poco  amore 
alla  patria,  e  li  esorta  a  cercarne  il  bene  più  che  tutto 
con  la  virtù,  a  combattere  per  lei  e  a  non  farsene  ti- 
ranni. Con  versi,  se  non  forbiti  (che   anzi  sono  in  pa- 
recchie parti  assai  rozzi),  certo  molto  vigorosi  e  potenii 
per   nobile    e    caritatevole  umanità ,   congiunta    al    più 
libero  schietto  ed  elevato  sentimento  di  patriottismo ,  per 
efficacia  di  imagini,  altezza  di  pensieri,  sagacia  e  onestà 
di  ammonimenti,  ricorda  i  mali  di  Pisa,  conforta  all'  amore 
della  propria  terra,  dà  consigli  santissimi  di  virtù  civile. 
Non  è  il  guelfo  che  parla  per  ira  di  parte,  è  il  cittadino 
che  domanda  e  vuole  la  libertà  e  la  sicurezza  della  patria, 
è  il  cavaliere  di  Maria,  che,  acceso  dell'ufficio  affidatogli 
dalle  regole  dell'  ordine,  di  cercare  ovunque  la  pace  e  la 

(1)  pag.  20  di  questo  breve  studio. 


Dm)RNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  T)   AREZZO      19 

prosperità  degli  uomini,  leva  la  voce  nota  e  temuta,  che 
aveva  vent'-anni  innanzi  tonato  contro  i  Fiorentini  dopo 
Monteaperti,  che  più  tardi  suonerà  aspra  ad  Arezzo  dopo 
Campaldino,  e  chiede  che  Pisa, 

«  la  migliore 
donna  della  provincia  e  regio'  anco  » 

non  muoia  prima  per  l' ignavia  de'  suoi  cittadini  che  per 
la  malizia  degli  avversarii.  É  una  canzone  che  rammenta 
quella  del  Petrarca  ai  Signori  d' Italia. 

Dovevano  essere  passate  poche  settimane  da  quella 
terribile  sconfìtta  che  aveva  distrutte  le  forze  navali  e 
insieme  le  ultime  speranze  dì  Pisa.  «  In  Pisa  —  osserva 
il  Villani  —  (1)  ebbe  grande  dolore  e  pianto,  che  non 
v'  ebbe  nulla  casa  né  famiglia  che  non  vi  rimanessero  più 
uomini  0  morti  o  presi;  e  dall'ora  innanzi  Pisa  non  ri- 
covrò  mai  suo  stato  né  podere  » .  —  Avvilito  cosi  ogni 
orgoglio,  costernata  la  città,  timorosa  del  presente,  sfidu- 
ciata dell'avvenire,  riempite  le  famiglie  di  lutto;  in  mezzo 
a  quello  sbigottimento  la  notizia  del  comporsi  una  lega 
tra  il  resto  di  Toscana  e  Genova,  il  cui  obbietto  era  l'as- 
sedio e  la  distruzione  di  Pisa,  dovè  gettare  negli  animi 
di  tutti  una  tremenda  disperazione.  Fu  in  mezzo  a  quella 
disperazione  che  l'umile  frate,  forse  da  Pisa  stessa  ove 
di  già  si  trovava,  forse  anche  dal  ritiro  de'  frati  godenti 
in  Ronzano  presso  Bologna ,  mandò  a'  due  più  potenti 
cittadini  di  Pisa,  come  a  quelli  che  sopra  ogni  altro  ave- 
vano dovere  di  aiutarla,  il  pietoso  ammonimento  di  pren- 
dere a  cuore  la  salvezza  della  patria.  Che  la  canzone 
sia  stata  scritta  entro  il  1284  mi  pare  dunque  si  possa 
mettere  ormai  fuor  d'ogni  dubbio.  Ugolino  e  Nino  e- 
rano  allora  privati,  e  certamente  dovevano  esserlo  tut- 
t'  ora  quando  Guittone  scriveva  la  sua  canzone  ;  da  poi 
che  non  vi  è  fatto  parola  dell'  ufficio  della  Podesteria, 

(i)  Cranica,  VD,  92. 


20  L.  A.  BRESCIANI 

afSdato  a  Ugolino  (ottobre  1284),  il  quale  poneva  neces- 
sariamente que'  due  uomini  in  una  condizione  differente 
r  uno  rispetto  all'  altro  ;  né  può  supporsi  che  fossero  en- 
trambi al  potere,  in  quanto  che  Nino  fu  capitano  e  podestà 
insieme  con  l' avolo  solamente  alla  fine  del  1285,  vale  a 
dire  quando  la  lega  dei  Guelfi  di  Toscana  era  già  sciolta, 
se  non  dì  uome  certo  di  fatto,  e  Genova,  impadronitasi 
della  Torre  di  Porto  Pisano,  aveva  già  ritirato  le  sue 
navi.  Non  vi  era  dunque  più  bisogno  di  combattere,  come 
consiglia  Guittone;  Pisa  era  bensf  umiliata,  ma  uon  più 
pericolante.  Il  e  mister  magno  tanto  »  il  e  periglio  mor- 
tale »  che  immineva  allora  a  Pisa  non  altro  era  che  la 
distruzione  minacciatale  dalla  lega  tosco -genovese,  e  fu 
in  fatto  il  maggiore  pericolo  che  corresse  in  quel  tempo. 
Della  quale  lega  ad  allontanare  i  pericolosi  effetti,  biso- 
gnava che  forti  e  temuti  cittadini  avessero  preso  il  ba- 
stone del  comando.  Ora  chi  erano  questi  cittadini?  Non 
solo  a  giudizio  del  poeta,  ma  ancora,  come  ci  fa  sapere 
il  Doria  negli  e  Annales  Januenses  »  (1),  de' prigionieri 
fatti  alla  Meloria,  e  forse  anche  de' Pisani  tutti,  uno  era 
Ugolino  de'  Gherardeschi,  l' altro  doveva  necessariamente 
essere  Nino  di  Gallura,  non  meno  potente  dell'avo  e  di- 
lettissimo al  popolo. 

<  Tutto  moDdo,  signor,  vi  guarda  e  sae, 
che  1  male  e  '1  ben  l'estae 
di  vostra  terra  in  voi  »  (2). 

E  altrove: 

«  Bene  i  Pisani  san,  signor,  sentire, 
Sol  pon  per  voi  guerire  »  (3). 

E  più  volte  il  frate  godente  rammenta  a  quei  due  quanto 
bene,  grazie  all'  altezza  del  loro  nascimento,  possono  fare 
alla  patria. 

(1)  In  Pertz,  Mùnum,  germ.  hist. 

(2)  Stanza  VII,  1-3. 

(3)  Stanza  X,  1,  2. 


IliTOBNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  GUITTONE  D'  AREZZO     21 

«  E  voi,  signori  miei,  potenza  avete 
grande  molto;  è  tempo,  essa  overando, 
operi  magno  in  mister  magno  tanto 
vostro  valor  d'onor  ver  coronanto. 
Valore  in  parve  cose  approva  quanto; 
unde  quando  se  non  or  proverete? 
Àrbore  quel  che  non  frutta  in  estate, 
fruttar  quando  sperate? 
Signor  mostr'avrò  a  propio  el  paragone. 
Non  so  quando  stagione 
né  cagion  né  ragione 

valenza  e  bontà  vostra  aggia  in  mostrare, 
se  non  ora  bene  promette  e  mostra, 
la  città  madre  vostra 
in  periglio  mortai  posta  aiutando. 
Cui  spero  aiutar  deggia  o  amare 
chi  sua  città  non  ama  aitar  pugnando?»  (1) 

E  più  sotto: 

«  0  signor  mìì,  chi  che  voi  ha  potenza 
E  chi  dea  aver  piagenza 
maggiormente  che  voi  essa  sanare  ? 
Nulla  ha  poder  voi  pare, 
nulla  po'  contrastare, 
in  voi  è  sol  sanando  e  uccidendo  »  (2). 

La  patria  è  come  un  grande  corpo,  una  grande  persona 
nella  quale  ognano  vede  riuniti  amici  e  parenti,  e  a  cui 
deve  consacrare  tutti  i  suoi  afifetti.  Quale  più  caro  amico 
e  più  prezioso  che  il  proprio  paese?  S'esso  rovina,  non 
tatti  forse  rovinano  con  lui? 

€  De  Dio  iudicio  e  de  catun  sciente 
e  valor  tutto  e  bonità  richese 
amare  amico  om  quanto  sé  deggia. 
Quanto  amore  in  corpo  un  dea  donque  avere, 
nel  quale  a  un  seco  congiunto  veggia 

(1)  Stanza  IH. 
C2)  Stanza  VI,  1-6. 


22  L.  A.  BBESCIANI 

veciDO,  amico,  figlio  onne  e  parente? 

Quale  infermar  non  poe  non  esso  e'  suoi 

vegnano  *nfermi  in  loi, 

com' esser  può  non  infermi  omo  adesso 

che  infermar  sente  esso 

ch'ama  quanto  se  stesso, 

uno  0  plusor  che  sieno  ovver  migliaia? 

Esto  corpo,  0  signori,  è  il  comun  vostro; 

ove  voi,  onne  è  vostro. 

E  non  donque  amerete  amico  tanto? 

ov'  è  bontà  non  in  amore  appaia? 

Quanto  amico  om,  tanto  ben  poco  o  manto  »  (1). 

Pisa  è  in  pericolo,  quasi  resa  schiava  dalla  vittoriosa  Ge- 
nova; avvilita,  stanca,  impoverita,  addolorata  per  tanti  suoi 
figli  morti  0  prigioni,  per  l' abbandono  nel  quale  è  lasciata 
da  tutti:  per  fino  lo  straniero  è  tocco  da  compassione 
per  la  sorte  sciagurata  di  lei  : 

«  0  come  in  pianger  mai  suo  figlio  è  stanco, 
vederla  quasi  addoventata  ancella  1 
Di  bellor  tutto  e  d'onor  direndata, 
di  valor  dimembrata, 
soi  cari  figli  in  morte  e  in  pregione, 
d'onne  consolazione, 
quasi  in  disperazione, 
e  d*onni  amico  nuda  e  d'onni  aiuto; 
tornata  è  povertà  sua  gran  divizia, 
la  sua  gioia  tristizia, 
onne  bon  mal,  e  giorno  onne  appiggiora. 
Onde  mal  tanto  strani  bau  compatuto, 
0  non  compaton  figli,  e  d*  essa  han  cura?  »  (2) 

Nella  qaale  stanza  le  allusioni  alla  sconfitta  della  Melorìa 
e  alla  lega  dei  Guelfi  sono  evidentissime.  Quando  il  poeta 
scriveva  quel  verso  «  soi  cari  figli  in  morte  e  in  pregione  », 

(1)  Starna  IV. 

(i)  Slama  V,  5-17. 


INTORNO  A  UNA  CANZONE  DI  FBA  OUITTONE  D'  ABEZZO      23 

ipeDsava  certo  ai  milletrecento  Pisani  morti  in  qaella 
^attaglia  (1),  e  agli  undicimila  (2)  che  i  Genovesi  tenevano 
incora  in  catene  ;  e  con  T  altro  «  d' onni  amico  nuda  e 
r  onni  alato  »  accennava  senza  dubbio  alla  taglia  dei  Guelfi 
li  Toscana,  a  cagion  della  quale  Pisa  non  avrebbe  tro- 
irato  più  terra  che  l'avesse  in  alcun  modo  sostenuta. 

Se  non  che,  nel  pregare  il  Visconti  e  il  Gherardeschi 
a  prendere  la  tutela  della  patria,  il  poeta  ricorda  quanto 
possa  l'ambizione  personale  sull'animo  loro.  Ricorda  che 
altra  volta  per  ira  di  parte  portarono  essi  medesimi  le 
armi  contro  la  città,  e  che  negli  animi  loro  più  che  la 
carità  di  patria  trova  ascolto  la  cupidigia  del  potere,  la 
quale  degenera  spesse  volte  in  tirannia: 

€  Merzé:  non  v'assemprate 

a'  tiranni  di  lor  terra  struttori  »  (3). 

E  non  pensino  a  oprar  cose  che  accrescano  in  loro  dignità 
e  potere,  ma  solamente  quelle  che  portano  il  bene  della 
patria  : 

<  Che  nulla  di  podere  è  podestate, 
nulla  de  dignitate 
ver  che  dì  bonitate 
è  sovragrande  e  d'onor  tutto  errata. 
Chi  potè  grande  dir  rege  non  bone? 
Chi  parvo  om  magno  Bono? 
Tutti  i  rei  prvi  son,  tutti  i  bon  magni; 
chi  grandezza  d'onor  voi  coronata 
di  grandezza  di  bon  essa  accompagni  >  (4). 

(i)  Gio.  ViLL.,  Cron. 

(2)  Queste  cifre  ci  sono  rìferite  dal  Cronista  anonimo  più  volte  citato, 
a  cui  storia  é  edita  dal  Muratori  nei  Rerum  it,  scr,  XXIV. 

—  Gio.  Voi^ANi,  tra   morti  e  prigioni,  dice  che  furono  sedicimila 
lomini. 

(3)  SUnza  VII,  8,  9. 

(4)  Stanza  I,  9-17. 


24  L.  A.  BRESCIANI  — Iim)RNO  A  UNA  CANZONE  DI  FRA  OUITTOlfR  80C. 

Per  altro  il  povero  frate,  libero  e  franco  cittadiDO  e  poeta, 
senza  ambagi  mostrava,  por  riconoscendo  che  solo  dal 
senno  e  dall' autorità  di  quei  due  poteva  ancora  aprirsi  a 
Pisa  nna  via  di  salate,  quanto  poco  a  fidanza  facesse  con 
la  onestà  e  il  patriottismo  loro: 

«  Onor,  prode  e  piacer  saccio  ch'amate/ 
ma  non  onor  stimate 
donar  possa  eh'  è  bon  né  prò  eh'  è  onesto, 
diritto  e  onor  lesto»  (1). 

Ond'  essi,  consiglia  Guittone,  più  che  alla  signoria  tengano 
alla  riconoscenza  dei  loro  concittadini,  che  vedranno  non 
solo  in  loro,  ma  per  fino  ne'  loro  figli,  i  salvatori  della 
patria: 

<  E  se  di  morte  u'  son  lor  vita  date, 
tutto  certo  crediate 
che  d' etate  in  etate 
ed  essi  e'  Agli  loro  e  voi  e'  vostri 
terran  refattor  dì  essi  e  salvatori  »  (2). 

Cosi  cantava  Guittone  nella  sua  poesia  tal  volta  rude  nella 
forma,  non  mai  per  altro  priva  di  gentilezza  d'affetti,  di 
onestà  e  nobiltà  di  sentimenti,  di  vigoria  di  pensiero,  degna, 
com'  ebbe  a  dire  felicissimamente  il  Carducci,  di  precedere 
i  folgori  di  Dante  e  l' eloquenza  magnanima  del  Petrarca. 
Ma  ahimé!  che  in  cambio  della  riabilitazione,  la  quale  il 
fiero  aretino,  con  animo  non  già  pietoso  di  straniero,  ma 
amorosissimo  di  figliuolo,  avrebbe  desiderata  per  le  armi, 
il  popolo  pisano  dovè  contentarsi  di  una  ignominiosa  tre- 
gua ottenuta  per  negoziati;  e  sul  cadere  del  1285  Pisa 
era  caduta  nella  tirannia  di  Nino  Visconti  e  Ugolino  dei 

Gherardeschi. 

L.  A.  Bresciani 


(I)  Slama  VIU,  i-i. 
{i)  SUnn  X,  3-7. 


INDICE  DELLE  CA.RTE 

DI 

PIETRO   BILANOIONI 

Cntrihito  illi  bibiMgrih  delle  noie  Tolgari  dei  priii  tre  secoli. 


(Continaazione  da  pag.  163,  N.  S.,  Voi.  lY,  Parte  I) 

PARTE  I. 
RIIE  COR  ROIE  D'IUTORE 


G 

I.  Galletto  da  Pisa. 
Un  sonetto  io  voglio  fare  (son.) 

Ediz.:  F.  Redi,  Annoiaz,  al  Bacco  in  Toscana,  Firenze,  1691,  p.  101 
l  Galletto  da  Pisa]. 

n.  Gano  di  Lapo  da  Colle.  Q,  n 

GANO 

1.  Avie  Titan  suo  carri  in  su  leone  (cap.)  da  colle 

Ms.:  IfagUab.   VII,  3,  991  (ora  IV,   lU),  e.  23  h  [Ghano  da 
Cholle]. 

2.  Fa/ooU  d^  Elicona  io  vó*  lassare  (canz.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  603  [Gano  di  Lapo  da  Colle]. 
"*  Lanr.  Red.  184,  e.  122  6  [Canzona  di  Ghano  di  messer  Lapo 
da  Colle  quando  venne  a  morte]. 

3.  Io  dirò  tuttavia  sanza  dir  nulla  (canz.) 
Yedi  appresso,  n.®  9. 


26  e.  ■   L.  FRATI 

6,  n  4.  Io  san  la  Donna  che  vólgo  la  rota  (canz.) 


GANG 

DA  COLLE  Mss.:  *  MagUab.   VII,  3,  991  (ora  IV,    144),  e.   16  a  [Ghanodi 

Messer  Lapo  da  Colle].       Senese  1,  IX,  18,  e.  76  [G.  CaTal- 
canti]. 

Edizz.:  Rime  scelte  de  poeti  Ravennati  [ed.  Ginanni].  Ravenna,  Laodi, 
1 739,  p.  3[Mengbino  Mezzani].  Rime  antiche  di  autori  ravignani 
[ed.  Zambrini].  Imola,  Galeati,  1849,  p.  25  [e.  s.]  Rime  edite  ed 

inedite  di  G.  Cavalcanti  [ed.  CicaAPORCi].  Firenze,  1813,  p.  65  [Guido 
Cavalcanti]. 

5.  L  amaro  colpo  della  fredda  Morte  (sod.) 

Bis.:  *  Laur.  SS.  Annunz.  122,  e.  71a  [Sonetto  fecie  Ghaoo 
di  messer  Lapo]. 

6.  LassOy  ogni  cosa  al/in  consuma  il  tempo  (canz.) 
Bis.:  *Chig.  L,  IV,  131,  e.  636  [Gano  da  Colle]. 

7.  Qual  uom  si  veste  di  carnale  amore  (sod.)  (1) 

Mss.:  *Magliab.  VU,  3,  991  (ora  IV,  144),  e.  24  6  [Ghane  da 
Colle].  *Riccard.  1156,  e.  84  a  [Cbanzone  morale  di  Ghane 
da  Colle].  *  Trivukiano  1058  (già  cod.  Bossi  36),  e.  87  [Ser  Ghane 
di  meser  Lapo  da  Colle  parla  contro  amore]. 

8.  Quella  che  cresce  per  andar  sue  posse  (son.)  (2) 

Mss.:  *  Laur.  Red.  184  (già  151),  e.  81  b  [Risposta  di  Ghane 
a  M.'  Antonio  (da  Ferrara)].  *Laur.,  pL  XLI,  15,  e.  37  a 
[anon.] 


(1)  È  il  verso  stesso  con  cui  principia  un  son.  di  Antonio  diGlido 
cantore  in  panca. 

(2)  Respons.  al  son.  di  Antonio  da  Ferrara  :  *  La  gran  virtù  che 
tanta  già  percosse  [Sonetto  dim.''  Antonio  detto  (da  Ferrara)! 
mandò  a  Ghane  da  Cholle]  (Cod.  Laur.  Red.  184,  e.  81  a). 


INDICE  DELLE  GABTE  DI  P.  BIUNCIONI,  P.  I."  27 

9.  Udirò  tuttavia  sansa  dir  nulla  (canz.)  6,  m 


Mss.:  Barber.  XLV,  129,  e.  100  [Lapo  da  Colle].  Chig.  L, 
IV,  131,  e.  595  [Gano  di  Lapo  da  Colle].  'Senese  I,  IX,  18, 
e  89  a  [Di  Matteo  Coreggiaioda  Firenze].  *Riccard.  2803 
[Messer  Cino  da  Pistoia  sopra  i  secte  peccati  mortali]: 
MiOO,  e.  58  6  [Canzone  di  messer  Lapo  da  Colle].  *Bibl. 
Naz.  di  Firenze,  PalaL  315,  e.  91  a  [a non.]  *Laur.,  pi.  LXXXIX 
sap.,  61,c. 46  6  [Di  Gbano  di  Messer  Lapo  da  Colle].  *Laur. 
Red.  184,  e.  102  6  [Canzone  di  Ghano  da  ChoU.e  sopra  i  sette 
pecchati  mortali]. 

Ediz.:  Poesie  minori  del  secolo  XIV  [ed.  E.  Sarteschi].  Bologna, 
Romagnoli,  1867,  p.  91  [Matteo  Correggiaio]. 

10.  Vi  dirò  tuttavia  sanea  dir  nulla  (sod.) 
Vedi  il  n.*'  precedente. 


III.  Garatorì  (de')  Jacopo. 

1.  U  opinion  di  chi  pia  sa  s' accorda  (sod.)  (1) 

Ms.:  Bibl.  Capitolare  di  Verona,  cod.  ccccxlv  [Jacopo  degli 
^  coretori  da  Imola]. 

Ediz.:  G.  B.  Carlo  Giuliari  nell'i4/6o  Dantesco  Veronese.  Milano, 
Lombardi,  1865,  p.  345  [e.  s.] 

2.  NelV  ora  che  la  bella  Concubina  (sod.) 

Ediz.:  Raccolta  d'opuscoli  scientifici  e  filolog,  [ed.  CalogerX]. 
Venezia,  Occbi,  1748,  voL  XXX Vili,  Ser.  1.',  p.  405  [Canzon  de  Ja- 
oomo  da  Imola]. 

3.  0  novella  Tarpea^  in  cui  s' asconde  (sod.) 
Vedi  Antonio  da  Ferrara. 


garatorì  j. 


(1)  A  Pietro  Alighieri,  che  risp.  col  son.:  La  vostra  sete,  se  6eit 
mi  ricarda. 


28  a  B  L.  FUTI 

^'  ^  IV.  Garisendi  Gherardacdo. 

GASPARE 

1.  Dolce  cP  amore  amico,  i'  vi  rescrivo  (son.)  (1) 


DI 
LANZAROTTO 


Ms.:  CasanaL  d,  V,  5,  e.  94  [Risposta  di  M/  Gherardacci 
(Garisendi  da  Bologna  a  Gino  da  Pistoia)]. 

Ediz.:  'CiNG  DA  Pistoia,  Rime  [ed.  Faustino  Tasso].  Veneaa,i589, 
p.  lU  [Gherarduccio  Garisendi]. 

2.  Non  pud  gioir  d*  amor  chi  non  pareggia  (son.)  (2) 

Ms.:  Casanat  d,  V,  5,  e  93  [Risposta  di  M.'  Gherardacci 
(Garisendi  da  Bologna  a  Gino  da  Pistoia)]. 

Ediz.:  *GiNO  DA  Pistoia,  Rime  [ed.  Faustino  Tasso].  Venena, 
1589,  p.  108  [Gherarduccio  Garisendi]. 

3.  Poi  che  7  pianeta  vi  dà  fé  certana  (son.)  (3) 

Ms.:  Gasanat.  d,  V,  5,  e.  95  [Risposta  dì  U,^  Gherarduccl 
(Garisendi  da  Bologna  a  Gino  da  Pistoia)]. 

Edizz.:  Gino  da  Pistoia,  Rime  [ed.  Faustino  Tasso].  Venezia, 
1589,  p.  115  [Gherarduccio  Garisendi].  Gio.  Galvani,  Le- 
zioni accademiche.  Modena.,  1840,  voi.  U,  p.  124  [e.  s.] 

Y.  Gaspare  di  Lanzarotto. 

1.  Francesco,  e*  non  è  cosa,  e  tu  7  sai  bene  (son.) 

Ms.  :  *  God.  59  della  Biblioteca  del  Seminario  di  Padova,  e  22 
[Guaspar  de  Lanzaroto  ex  parte  unius  ad  F(ranciscum) 
V(annolium)].  (4) 


(1)  Respons.  al  son.  di  Gino:  Amato  Gherarduccio,  qwaid*  io  scrivo 
[Gino  da  Pistoia  a  M.'  Gherarducci  (Garisendi  da  Bolo- 
gna) per  la  detta  materia]  (cod.  Gasanat  d,  V,  5,  e.  94). 

(2)  Respons.  al  son.  di  Gino:  Caro  mio  Gherarduccio,  io  mn  ho 
inveggia  [Gino  da  Pistoia  a  messer  Gherarducci  Garisendi 
da  Bologna]  (cod.  Casanat.  d,  V,  5,  e.  93). 

(3)  Respos.  al  son.  di  Gino:  Come  li  saggi  di  Neron  crudele  [Gino 
da  Pistoia  a  M.'  Gherarducci  (Garisendi  da  Bologna)  per 
la  detta  materia]  (cod.  Casanat.  d,  V,  5,  e.  94). 

(4)  Francesco  di  Vannozzo  rispose  col  son.  :  *  Perché  amidxia  ai 
mondo  si  convene  [Resp.  F.  Van.]  (cod.  Padov.,  ibid.). 


INDICE  DELLE  CASTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  29 

2.  Francesco  mto,  non  già  V  andar  del  tempo  (sod.)  6,  vn 


Ms.:  •Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  21  [Guaspar  de   Lanzarolo  <*™o^  (^0 
ex  parte  Dom.  Nichol.  Gontareoo  Veneti  Nob.  Milit  (adFran- 
ciscum  Yannotium)]  (1). 

VI.  Gazzaja  (Della)  Tommaso. 

1.  Chi  in  questo  mondo  vuol  montare  a  stato  (son.) 

Ediz.:  *  L  De  Angbus,  Catalogo  dei  testi  a  penna  della  pubbl. 
Biblioteca  di  Siena,  Siena,  Porri,  1818,  p.  219  [Tommaso  della 
Cazzai  a]. 

2.  Poi  non  trovi  posar ^  cessa  V  affanno  (soo.)  (2) 

Ms.:  'Senese  G,  III,  23,  e.  286  a  [Risposta  fatta  al  detto 
Sonetto  per  Messer  Tommaso  di  Misser  Bartolomejo  de  la 
Gazaja  al  luogo  di  Bindo  Bonìchi  non  ostante  che  Bindo 
rispose]. 

Ediz.:  Bindo  Bonichi,  Rime.  Bologna,  Romagnoli,  1867,  p.  166 
{Scelta^  n.^  82)  [Tommaso  della  Gazzaìa]. 

vn.  Genga  (DeUa)  Leonora. 

1.  Dal  suo  infinito  amor  sospinto  Dio  (son.) 

Ediz.  :  Gio.  Andrea  Gilio,  Topica  poetica,  Venezia,  1580,  p.  75 
(^Sonetto  di  Leonora  della  Genga  da  Fabriano]. 

2.  Di  smeraldi,  di  perle  e  di  diamanti  (son.) 

Ediz.:  Gio.  Andrea  Gilk),  Topica  poetica,  Venezia,  1580,  p.  75 
[Sonetto  di  Leonora  della  Genga  da  Fabriano  a  Ortensio 
<li  Guglielmo]. 


(1)  Francesco  DI  Vannozzo  rispose  col  son.:  * Cavalier  mio,  quanto 
più  fugge  il  tempo  [Responsio  Frane.  Van  ]  (Cod.  Padov.,  e.  22). 

(2)  A.  mess.  Benuccio  Salimbeni  in  risp.  al  son.  :  A  fine  di  riposo 
sempre  affanno  [Di  messer  Benuccio  Salimbeni  a  Bindo  Bo- 
nichi] (cod.  'Senese  U,  X,  2,  e.  4  a). 


GIANNI  L. 


30  a  ■  L.  rRATi 

6,  xn  Vin.  Gherardo  da  Reggio. 

Con  stia  saetta  d' or  percosse  Amore  (son.) 

Ms.:  GasanaL  d,  V,  5,  e.  91  [Gherardo  da  Reggio  a  M.' 
Gino]. 

Ediz.  :  *CiNO  DA  Pistoia,  Rime  [ed.  Faustino  Tasso].  Veneoa,  1589, 
p.  120  [Gherardo  da  Reggio  a  Gino  da  Pistoia]. 

IX.  Ghiberti  Carnino. 

U  amor  peccao  forte  (son.) 
Ms.:  *Vat.  3793,  e.  55  b  [Gharnino  Ghiberti  di  Firenze]. 

X.  Ghini  Jacopo. 

Poi  che  soggiorni  il  mare  e  terra  lassi  (son.) 

Ediz.:  *Lami,  Catal.  dei  Mss,  Riccardiani,p.W9  [Jacopo  Ghini 
d'Arezzo  a  Maestro  Gregorio]. 


XI.  Gianflgliazzi  Gerì. 

Messer  Francesco^  chi  d' amor  sospira  (son.)  (I) 

Ediz.:  F.  Petrarca,  Rime  esiratte  da  un  stia  originale  [ed.  F. 
Ubaldini].  Uoma,  1642,  p.  XVI  [Geri  Gianfigliazzi]. 

XII.  Gianni  Lapo. 

1.  Accorri,  accorri^  io  mtwio*  {froii.) 

Edm.:  Scelta  di  rime  antiche  [ed.  L.  Fiacchi].  Firenze,  1812,  p.  22 
[Fr.  Petrarca].  Antonio  da  Tempo,  Trattato  di  rime  volg.  [ed.  G. 
Grion],  p.  364  [Lapo  Gianni  degli  Uh  erti].  Jahrbuck  fur  rm, 
und  engi   Literatur.  Leipzig,  1869,  voi  X,  p.  213. 


(1)  A.  Francesco  Petrarca,  che  rìsp.  col  son.:  Geri,  quando  ta- 
lor  meco  t'adira. 


INDICE  DILLE  CABTB  DI  P.  BILANCTONI,  P.  L*  31 

2.  Amor,  nova  ed  antica  vanitale  (canz.)  6,  xn 


Mss.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trìvulz.  1058,  e.  101  h  [Lapo  Giani]. 
Riccard.  2846  [e.  s.]:  1094,  e.    147  [e.  sj  Chig.  L,  Vili, 

305,  e  52  [e  s.]  Bibl.  Naz.  di  Parigi,  cod.  ilal.  557,  e.  23  [e.  s.] 
Marciano  63,  e.  54  [a non.]  Ribl.  Naz.  di  Firenze, Paiat  180,  e.  7 
[e  s.]        Laur.,  pL  XL,  49,  e.  59  [Lapo  Gianni]. 

Edizz.:  Sonetti  e  Canzone  di  diversi  antichi  autori  toscani.  Fi- 
renze, Giunti,  1527  [Lapo  Gianni].  Dante  Alighieri  e  Gian- 
Nozzo  Sacchetti,  Rime,  Firenze,  1857  (le  sole  st  MI)  [Dante  Ali- 
ghieri]. 

3.  Annore^  V  non  son  degno  ricordare  (son.) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.   1058,  e.  99  a  [Lapo  Gianni]. 
Ediz.:  Scelta  di  rime  antiche  [ed.  L.  Fiacchi].  Firenze,  1812,  p.  25 
[Di  Ser  Lapo  Gianni]. 

4.  Amarey  i'  priego  eh'  alquanto  sostegni  (canz.) 
Vedi  Orto  (DaU')  GioTanni. 

5.  Angelica  figura  novamente  (ball.) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trìvulz.  1058,  e.  99  6  [Lapo  Giani]. 
Ediz.:  Scelta  di  rime  ant.  [ed.  L.   Fiacchi].  Firenze,   1812,  p.  28 
[Dello  stesso  (ser  Lapo  Gianni)]. 

6.  Averò  io  mai  pace^  o  tregua^  o  guerra  (son.) 
Vedi  Antonio  da  Ferrara. 

7.  Dolce  il  pensier,  che  mi  notrica  il  core  (ball.) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  99  6  [Lapo  Giani]. 
Ediz.:  Scelta  di  rime  ani.  [ed.  L.  Fiacchi].   Firenze,   1812,  p.  32 
[Dello  slesso  (ser  Lapo  Gianni)]. 

8.  Donna^  se  7  pregio  della  mente  mia  (canz.) 

Mss.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  100  a  [Lapo  Giani]. 
*Bol<^.  Univ.  2448  [ser  Lapo  Gianni  notaro  fiorentino:  bal- 
lata] (1). 


(1)  In  questo  cod.,  come  nelle  altre  copie  del  Bartoliniano  e  nella 
slampa  del  Fiacchi,  vi  ha  della  canz.  il  solo  commiato,  che  mcom.:  E 
/II,  martoriata  mia  soffrenza. 


CIANNI  L. 


32  a  B  L.  FRATI 

6,  xm  Ediz.  :  Scelta  di  rime  antiche  [ed.  L  Fuccm].  Fireme,  1812,  p. 

GiDiNO       -40  n  [Lapo  Gianni]. 

PA 

soMMACAMP.      9.  E  tUy  martoriata  mia  soffrenea  (framm.) 

Vedi  il  n.^  precedente. 

10.  Gentil  donna  cortese  e  di  bon  aire  (ball) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e  99  a  [Lapo  Giani]. 
Ediz:  Scelia  di  rime  ani.   [ed.  L  Fiacchi].  Firenze,  1812,  p.  fi 
[Dello  stesso  (ser  Lape  Gianni)]. 

11.  Io  sono  Amor  che  per  mia  libertate  (ball.) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e  98  6  [Lapo  Giani]. 
Ediz.  :  Scelia  di  rime  ani,  [ed.  L  Fiacchi].  Firenze,   1812,  p.  37 
[Dello  stesso  (ser  Lapo  Gianni)]. 

12.  0  Mortej  della  tnta  furatrice  (canz.) 

Ms.:  Cod.  Bossi  36  ora  Trivulz.  1058,  e.  101   a  [Lapo  Giani]. 

13.  Pelle  chiabelle  di  Dio  non  ci  arvai  (sod.) 
Fedi  AngioUerì  Cecco. 

14.  Siccome  i  Magi  a  guida  deUa  stella  (canz.) 

Mss.:  *Vat.  3il4,  e  120  a  [Ser  Lapo  Giannino].  *Udìt. 
Bologn.  1289,  e  4  a  [11  detto  (ser  Lapo  Gianni)]. 

Ediz.:  L  MàNZOM  in  Riv,  di  filolog,  romanza^  I,  84  [Ser  Lapo 
Gianni]. 

XnL  Gidino  da  Sommacampagna. 

1.  La  parte  ghibellina  sempre  morde  (sod.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Pado?.,  e  10  [anon.]  (1). 

Ediz.:  GiDLXO  Dà  Sommacampagna,  Trattalo  de*  ritmi  volg,  [ed. 
GuxuRi].  Bok^na,  1870,  p.  206  (Scelta  il?  105)  [Quivi  se  pone  la 
forma  de  lo  Soneto  composito  ne  la  fine  de  li  versi]. 


(1)  A.  Francesco  di  Van-nozzo  che  risp.  col  son.:  Tanto  è  prò- 
fmdo  il  swm  di  rostrt  corde  [Resp.   Frane   Van.]  (cod.  Padof. 
ìbkL). 


INDICB  DELLE  GABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*"  33 

2.  La  possQj  frate,  che  ha  Sacra  Scrittura  (son.)  (1)         6,  xiv 

GIOTTO 

Ediz.  :  Ghidino  da  Sommacampagna,  Sonetti  inediti  [ed.  B.  Sorio]. 
Verona,  Merio,  1858,  p.  9. 

3.  Nel  Testamento  Vecchio  non  si  trova  (son.)  (2) 

Ediz.  :  *  Gridino  da  Sommacampagna.   Sonetti  inediti  [ed.  Sorio]. 
Verona,  1858,  p.  8. 

4.  Se  la  mia  mente,  frate  mio^  non  falla  (contr.) 

Edis.  :  L.  Gaiter,  //  dialetto  di  Verona  nel  secolo  di  Dante  in  Pro- 
pti^n.,  V.  S.,  VI,  P.  I,  p.  292  [Gidino  da  Sommacampagna] 
ÀNT.  da  Tempo,  Trattato  delle  rime  volgari  [ed.  G.  Grion].  Bologna, 
1869,  p.  350  [Bontempo  Concìaco  da  Belluno]. 

5.  Viva  r  eccelsa  Scala  (ball) 

Edizz.:  *S.  Mapfei,    Verona  illustrata.  Verona,  1731,  Parte  II,  p. 
H9  [Gidino  da  Sommacampagna].       Gidino  da   Sommacam- 
pagna, Trattato  de'  ritmi  volg.  [ed.  Giuliari].  Bologna,  Romagnoli,  1870, 
p.  99  [Quivi  se  pone  la  forma  della  ballata  minima]. 


XIV.  Giotto. 


Molti  son  quei  che  lodan  povertate  (canz.) 

Ms.:  Laur.,  pi.  XC  inf.,  47,  e.  37  b  [Canzon  Gioiti  pintoris 
^e  Florentia]. 

Edizz.:  G.  Fr.  ▼.  Rumohr,  Italienische  Forschungen.  Beriin,  1826, 
^ol.  11,  p.  51  [Giotto:  Canzone  sopra  la  povertate].  G.  Va- 
sari, Vite.  Firenze,  Le  Monnier,  1846,  voi  1,  p.  348  [e.  s.]  G.  Rosini, 
Storia  della  pittura.  Pisa,  Capurro,  1848,  voi.  li,  p.  30  [e.  s.] 


(1)  Respons.  al  son.   di   Francesco  di  Vannozzo:  Sperto  maestro 
mio,  molto  mi  giova. 

(2)  A  Francesco  di  Vannozzo,  che  rìsp.  col  son.  sopra  citato. 

VoL  IV,  Pane  IL  3 


34  a  B   L.  FRATI 


6,  xvu  XV.  Giovanni  di  Gino. 


GIOVANNI 
FIORENTINO 


Nel  tempo  che  Firenze  era  contenta  (cap.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  1009,  e.  74  [Ant.  di  Matleo  di  Me- 
glio]: Vn,  3, 1010  (ora  II,  40),  e.  106  a  [Capitolo  della  chon- 
segrazione  dì  Santa  Maria  del  Fiore,  feci  e  Giovanni  dì  Gino 
chalzaiuolo  addi  25  di  marzo  1436,  per  papa  Eugenio 
Quarto].  Laur.,  pi.  XLI,  34,  e.  72  b  [Di  Giovanni  di  Gino 
calzaiolo  per  la  coronatione  di  S.  Maria  del  Fiore  facta 
per  Papa  Vgenio]. 

Ediz.:  Lami,  CataL  mss.  Riccard,,  p.  216  [Capitolo  della 
consegrazione  di  S.  Maria  del  Fiore  fatto  per  Giovanni  di 
Ciao  calzaiuolo]. 


XVI.  Giovanni  da  Firenze. 
Giunti  son  gli  anni  e  tempi  ispaventevoli  (cap.) 

Ediz.:  *E.  Narducci,  Catal,  dei  Mss.  posseduti  dal  principe  D. 
Baldassarre  Boncompagni,  Roma,  1862,  p.  191  [Giovanni  da  Fi- 
renze]. 

XVIL  Giovanni  (Ser)  fiorentino. 

1.  Al  mio  primo  amator  vud  far  tornata  (ball.) 

Edizz.  :  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giom.  XXI,  No?.  2). 
Londra,  presso  Riccardo  Bancker,  1793,  voi  li,  p.  132.  Cantilene  t 
Ballate,  Strambotti  e  Madrigali  dei  sec.  XIII  e  XIV  [eé.  G.  Carducci]. 
Pisa,  Nistri,  1871,  p.  200  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

2.  Aliando  gli  occhi  i'  vidi  una  doneélla  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giom.  I,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi.  I,p.  27.  CMutilene  e  Ballate  [ed.  G.  CARDUCa].  Pisa, 
1871,  p.  176  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 


INDICE  DELLE  CABTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  35 

3.  AmaTj  tu  nC  hai  contento  quel  desio  (ball.)  ^>  ^^^ 

GIOVANNI 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XXV,  Nov.  2;.   fiorentino 
Londra,  1793,voLIl,p.273.        Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  205  [Ser  Giovanni  Fiorentino). 

4.  Apri  H  dolce  arco^  o  caro  Signor  mio  (ball) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  V,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi.  I,  p.  130.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  182  [Ser  Giovanni  Fiorentino!. 

5.  Benedetto  sia  il  giorno^  eh'  io  trovai  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  Ili,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi  I,  p.  70.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  179  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

6.  Chi  ama  di  btion  cor  non  pud  perire  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino, // Pecorone  (Giorn.  XV,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi  II,  p.  19.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
f871,  p.  193  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

7.  Chi  d' amor  sente^  ed  ha  il  cor  pellegrino  (ball.) 

Edizz.  :  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XII,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voL  I,  p.  274.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  189  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

8.  Chi  è  dalla  Fortuna  folgorato  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  XIV,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  I,  p.  303.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
1^,  1871,  p.  191    [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

9.  Chi  sente  nella  mente  il  dolce  foco  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XI,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  I,  p.  267.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CARDUca]. 
Pisa,  1871,  p.  188  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 


36  a  B   L.  FBATI 

6,  xvn       10.  Donna  che  segue  Amor^  non  mostri  cMiera  (ball) 

TRENTINO  ^^*^-  •  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  VI,  No?.  2).  Loo- 

dra,  1793,  voi.  I,  p.  146.        Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pba, 
1871,  p.  183  [Ser  GioTanni  Fiorentino]. 

11.  Donna  leggiadra  per  V  altrui  fallire  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  XXID,  No?.  ì\ 
Londra,  1793,  voi.  II,  p.  157.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducq]. 
Pisa,  1871,  p.  203  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

12.  Donne^  che  siete  cf  ogni  mal  radice  (ball.) 

Edizz.  :  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  IX,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi  I,  p.  223.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  186  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

13.  Mille  trecento  con  settanf  otto  anni  (son.) 

Ediz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (in  princ)  Londra,  1793, 
voi,  I,  p.  XXXI. 

14.  Nessun  in  me  troverà  mai  mercede  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  XVII,  Nov.  2). 
Londra,  1793  voi.  II,  p.  63.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  GARDUca]. 
Pisa,  1871,  p.  195  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

15.  Non  perda  tempo  chi  cerca  aver  fama  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  X,  Nov.  2).  Lon- 
dra, 1793,  voi.  I,  p.  240.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  187  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

16.  Non  segua  Amor  chi  non  ha  il  cor  prudente  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  VII,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  I,  p.  163.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CARDUca]. 
Pisa,  1871,  p.  184  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

17.  Non  t'  insalvatichir  poi  che  tu  sai  (ball.) 

Ediz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XXII,  Nov.  2).  lion- 
dra,  1793,  voi.  Il,  p.  141.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa, 
1871,  p.  202  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  L*  37 

18.  0  lassa  sventurata,  a  che  partito  (ball.)  6,  xvu 


Edizz.:   Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.   XIX,   Nov.  2).    noRENTiNO 
Londra,   1793,  voi.  II,  p.  100.        Cantiletie  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  197  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

19.  Ohimè,  Fortuna,  non  mi  stare  addosso  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentlno,  //  Pecorone  (Giorn.  XVI,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  II,  p.  40.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CARDUCa]. 
Pisa,  1871,  p.  194  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

2U.  Ohimè  lassa^  dolente  e  sventurata  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XXIV,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  II,  p.  168.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  204  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

31.   Quante  leggiadre  fogge  trovan  quelle  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  XVIII,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voL  II,  p.  88.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  196  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

22.  Si  mi  riscaldan  gli  ardenti  desiri  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  Il  Pecorone  (Giorn.  Vili,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voi.  I,  p.  179.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
f^isa,  1871,  p.  185  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

23.  Tradita  sono  da  un  falso  amadore  (ball.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XX,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voL  II,  p.  120.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Rsa,  1871,  p.  199  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 

24.  Troverò  io  pace  in  te,  donna,  giammai 

Che  sai  cW  V  V  amo  piti  che  me  assai  (baO.) 

Edizz.:  Giovanni  Fiorentino,  //  Pecorone  (Giorn.  XIII,  Nov.  2). 
Londra,  1793,  voL  I,  p.  284.  Cantilene  e  Ballale  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  190  [Ser  Giovanni  Fiorentino]. 


38  a  >  L.  FRATI 

},  xvm      25.  Troverò  pace  m  te,  danna,  giammai 

GIOVANNI  Che  f  amo  più  che  la  mia  vita  assai  (balL) 


\k  PRATO 


Ediiz.  :  Giovanni  Fiorentino,  B  Ptconme  (Giorn.  lY,  Nov.  3).  Loo- 
(ira,  1793,  toI.  I,  p.  116.  Cantilene  e  Ballale  [ed.  Carducq].  Pisa, 
1871,  p.  180  [Ser  Gìo?aniiì  Fiorentino]. 

26.  Un*  angioletta  m' apparve  un  mattino  (baD.) 

Ediiz.  :  Giovanni  Fiorentino,  B  Pecorone  (Giorn.  II,  Nò?.  2).  Loo- 
dra,  1793,  toI.  I,  p.  A8.  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CARDUca]. 
Pisa,  1871,  p.  178  [.Ser  Giovanni  Fiorentini]. 

XYIIL  GioYanm  di  Gherardo  da  Praia 

1.  Avea  di  Febo  già  'l  veloce  corso  (poem.). 
Ms.:  Riccard.  2254  [Giovanni  da  Prato]. 

2.  Che  giova  investigar  dò  che  pud  arte  (san.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  93  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

3.  Chiaro  sereno  dopo  pioggia  aspra  e  fera  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  92  6  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

4.  If  aer  dolce  o  edificio  altero  (soo.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  94  6  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

5.  Di  foglie  éF  auro  m*  adornò  la  fronte  (son.) 

Ms.:  Magliab.  11,  40  (già  VII,  1010),  e  81  6  [Sonetto  fatto 
per  messer  Giovanni  bocchacio]  (1). 

Edix.:  G.  BoccAcao,  Bime  {Opert,  voL  XVI).  Firenze,  Moutier, 
1834,  p.  44  [Sonetto  fato  per  messer  Giovanni  Boccacci  da 
maestro  Giovanni  Acquettini  da  Prato]. 


(1)  Segue  ad  altre  rime  di  Giovanni  da  Prato. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  39 

6.  Di  quel  gentile  sguardo  il  grande  assalto  (sod.)  6,  xvm 


Ms.:  •Laur.  Red.  184,  e.  95  a  [Sonetto  del  detto  (Messer    ^^^  prato 
GioTanni  da  Prato)]. 

Ediz.:  A.  Wesselofsky,  Il  Paradiso  d.  Alberti.  Bologna,  Roma- 
gnoU,  i867  (Scelta  n,"*  86),  voi  I,  parte  11,  p.  224  [Giovanni  da 
Prato]. 

7.  Dolce  mia  patria^  non  f  incresca  udirmi  (canz.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  94  a  [Canzone  morale  di  patria 
e  di  libertate]  (1). 

Ediz.:  A.  Wessblofsky, // Para(/i80  d.  i4l&er/t. Bologna,  1867,  voi. 
I,  parte  li,  p.  435  [e.  s.] 

8.  Dande  venne  la  immagin  di  quel  viso  (sod.) 

Ms.:  *Laar.  Red.  184,  e.  92  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

9.  Donne  gentili,  che  si  somma  idea  (canz.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  92  6  [Canzone  di  messer  Giovanni 
detto  (da  Prato)]. 

10.  Donne  gentili^  cui  pietà  move  al  core  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  9^  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

il.  E  piti  bella  diana  giuso  in  terra  (madr.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  93  b  [Ballata  overo  Madriale  del 
fletto  (Giovanni  da  Prato)]. 

12.  Fama  gentile,  leggiadra^  altera  (soo.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  93  6  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

Ediz.:  A.  Wesselofsky,  //  Paradiso  d,  Alberti,  Bologna,  1867, 
YoL  1,  parte  11,  p.  93  [Giovanni  da  Prato]. 


(1)  Segue  ad  altre  canzoni  di  Giovanni  da  Prato. 


40  a  ■   L.  FRATI 

6,  xvm      13.  Fera  che  f  odia  e  strugge  (ball.) 


GIOVANM 
DA  PRATO 


Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  94  ò  [Ballata  del  dello  (GiovaDoi 
da  Prato)]. 

14.  Oigli^  rose,  viole  in  vasel  d*  oro  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e  92  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Pr^to)]. 

Ediz:  A.  Wesselofsky,  Il  Paradiso  d,  Alberti.  Bologna,  1867,  voL 
1,  parte  II,  p.  100  [Giovanni  da  Prato]. 

15.  Io  fui  figliuol  del  gran  maestro  Dino  (son.) 

Ms.:  Maglìab.  II,  40  (già  VII,  1010), e.  81  6  [Sonetto  pel  mae- 
stro Tommaso  del  Gharbo]  (1). 

16.  Jo  fui  lo  specchio  délV  astrologia  (soD.) 

Ms.:  MagUab.  II,  40  (già  VH,  1010),  e.  81  6  [Sonetto  pel  Mae- 
stro Paolo  dell' Abaccha]. 

17.  Io  ho  veduto  già  turbato  Giove  (sod.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  1009  [Giovanni  Acquettino  da  Prato]. 
*Laur.,  pi.  XLI,  34,  e.  48  6  [So.  di  Ser  N.  Tinucci].  *BibL 
Naz.  di  Firenze,  Palat  200,  Cs  44  h  [a non.]. 

Edizz.:  Prose  e  rime  di  Buonaccorso  da  Montesiagno  con  an- 
notazioni ed  alcune  rime  di  Niccolò  Tinucci.  Firenze,  Manni,  1718,  p. 
336  [Giovanni  Acquettini  da  Prato].  Crescimbeni,  ed.  Yen., 
HI,  252  [Giovanni  Acquettini]. 

18.  Io  mi  risolvo  come  neve  al  sole  (son.) 

Mss.:  Magliab.  Vili,  33  [Giovanni  da  Prato].  'Laur  Red. 
184,  e.  94  h  [Sonetto  di   mass.   Giovanni   dello  (da  Prato)]. 

Ediz.:  Prose  e  Rime  di  Buonaccorso  da  Montemagno  con  an- 
notazioni ed  alcune  rime  di  Niccolò  Tinuccl  Firenze,  1718  [Buo- 
naccorso da  Montemagno]. 


(1)  Questo  son.  e  il  seg.  seguono  nel  cod.  Magliab.  ad  altre  rime 
di  Giovanni  da  Prato. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I*  41 

19.  Io  non  posso  passare  un'  ora  intera  (son.)  6,  xvin 

PIO  VANNI 

Hs.:  *Laur.  Red.  184,  e  94  6  [Sonetto  del  detto  (Messer    j^^  p^^^Q 
GioTanni  da  Prato)]. 

20.  Io  son  colui  che  in  isdenea  profonda  (sod.) 

Ms.:  Magliab.  U,  li,  40  (già  YH,  iOlO),  e.  8i  a  [Sonetto  fato 
per  messer  Francesco  Petrarca]  (1). 

21.  Io  son  la  nóbil  donna  di  Fiorenza  (son.) 

Bis.:  Magtiab.  U,  II,  40  (già  VII,  lOiO),  e  81  a  [Sonetto  fato 
per  Firenze]. 

23.  La  gloria  della  lingua  universale  (son.) 

Ms.:  Magliab.  II,  li,  40  (già  VII,  1010),  e.  81  a  [Sonetto  fatto 
per  Dante]. 

23.  La  gloria  di  quel  sir^  che  è  tanto  altero  (cap.) 

Ms.:  Magliab.  II,  II,  40  (già  VH,  1010),  e.  76  a  [Qui  chomincia 
un  giocho  d'amore  il  quale  fé  messer  Giovanni  da  Prato]. 

24.  Lieve  penna  nelV  aria  sttme  salda  (sod.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  92  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
GioYanni  da  Prato)]. 

25.  Marmo,  diaspro,  orientai  eaffiro  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  92  a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

Ediz.:  Prose  e  Rime  di  BuONACCORSO  da  Montemagno  con  anno- 
tazioni ed  alcune  rime  di  Niccolò  Tinucci.  Firenze,  1718  [Niccolò 
Tinacci]. 


(1)  Qaesio  e  i  due  segg.  sonetti  seguono  nel  cod.  Magliab.  ad  altre 
rime  dì  Giovanni  da  Prato. 


42  a  R  L.  FBATI 

6,  xvm      26.  Nella  dolce  stagion  che  verdi  coUi  (canz.) 


DA  PBATO  ^^*  *Laar.  Red.  184,  e  92  6  [Ganxona  di  Messer  GioTanoi 

detto  (da  Prato)]. 

27.  0  affannato  cor,  tempestata  alma  (son.) 

Ms.:  *Laar.  Red.  184,  e.  94  6  [Sonetto  del  detto  (Messer 
GioTanni  da  Prato)]. 

28.  0  Castel  sacro,  o  bello  sguardo  altero  (son.) 

Bis.:  *Laiir.  Red.  184,  e.  95 a  [Sonetto  di  messer  GioTanoi 
da  Prato]. 

29.  0  fronte  sorda  e  nissa  (T  ignoranza  (son.) 

Ms.:  Magliab.  VII  1168,  e  131  [Giovanni  da  Prato]. 
Ediz.:  Burchiello,  Sonetti,  Londra,  1757,  p.  244  [Di  Giovanni 
Acquettini  a  Filippo  Branellesco]. 

30.  0  gentil  creature,  altere  e  sante  (cap.) 

Ediz.  :  A.  Wesselofskt,  //  Paradiso  d,  Alberti,  Bologna,  1867,  fol 
I,  parte  II,  p.  424  [Orazione  a  tutte  l'anime  Sante  (per  lo 
dotto  et  venerabile  nomo  messere  Giovanni  di  Gherardo 
da  Prato)]. 

31.  0  gentil  creature  della  spera  (son.) 

Bis.:  *Laur.  Red.  184,  e.  93  b  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

Ediz.:  A.  Wesselofsky,  Il  Paradiso  d,  Alberti.  Bologna,  1867, 
voi.  I,  parte  li,  p.  85  [Giovanni  da  Prato]. 

32.  0  Musa  e  tu,  Apollo,  al  novo  canto  (poem.). 

Mss.:  Magliab.  VII,  3,  702,  e.  2ò  [Giovanni  Gherardi:  Idvo- 
catio  ad  Musas]:  VII,  8,  141,  e  1  6  [Opera  del  venera- 
bile huomo  Giovanni  Gherardi  da  Cigniano  diritta  a  mes- 
ser Biagio  Ghuaschoni  suo  k.mo,  e  distinto  per  tre  libri]. 

33.  0  Padre  onnipotente,  o  sommo  Iddio  (cap.) 

Ediz.:  A.  Wesselofsky,  //  Paradiso  d,  Alberti,  Bologna,  1867, 
voi.  I,  parte  II,  p.  391  [Orazione  a  Dio  divotìssima  (per  Io 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILÀNCIONI,  P.  l/  43 

dotto  et  venerabile  uomo   messere  Giovanni  di  Gherardo     Q,  xvni 


da  Prato)].  Giovanni 

DA  PRATO 

34.  0  vano  e  falso  micidial  Cupido  (canz.) 

Ms.:  *Riccard.  1091,  e.  150  a  [Morale  di  messer  Giovanni 
da  Prato]. 

35.  0  Vergin  Madre,  o  del  eiel  regina  (cap.) 

Ediz.:  A.  Wesselofskt,  //  Paradiso  d.  Alberti.  Bologna,  1867, 
Tol.  I,  parte  II,  p.  403  [Orazione  divota  a  nostra  donna  (per 
lo  dottoet  venerabile  uomo  messere  Giovanni  di  Gherardo 
da  Prato]. 

36.  Ohimè  cV  f  non  so  che  farmi  omai  (son.) 

Ms.:  *Laur. Red.  184,0.946  [Sonettodeldetto  (Messer  Gio- 
vanni da  Prato)]. 

37.  Or  hai  mostrato.  Amore,  ogni  tua  possa  (son.) 

Ms.:  Laur.  Red.  184,  e.  92a  [Ghominciano  Canzoni  e  So- 
netti di  Messer  Giovanni  da  Prato]. 

38.  Per  volermi  ritrar  ragion  di  fiamma  (caoz.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  93  a  [Canzona  di  messer  Giovanni 
detto  (da  Prato)]. 

39.  Perle,  eaffiri,  balastri  e  diamanti  (son.) 

Mss.:  Magliab.  VII,  1009  [Giovanni  Acquettino  da  Prato]. 
*Laur.  Red.  184,  e.  926  [Sonetto  del  detto  (Messer  Giovanni 
da  Prato)]. 

Ediz.:  Prose  e  Rime  di  BUONACCORSO  DA  Montemagno  con  anno- 
tazioni ed  alcune  rime  di  Niccolò  Tinuccl  Firenze,  Mann!,  1718,  p. 
336  [Giovanni  Acquettini]. 

40.  Pianger  dovete,  pietre,  colli  e  mai  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,  e.  93a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 


44  a  B  L.  FRATI 

6|  xvin  Ediz.  :  Prose  e  Rime  di  BuoNACConso  da  Montbmagno  con  oiuw- 

GIOVANNI     dazioni  ed  alcune  rime  di  Niccolò   Tinucci.   Firenze,  i718  [Niccolò 

DA  PRATO     Tinucci]. 

41.  Piti  e  pia  vòlte  ha  infiammato  il  sole  (son.) 

Mss.:  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palai.  205,  e  362  [Giovanni  di  Ser 
Gherardo  da  Prato].  *Laur.  Red.  184,  e.  936  [Sonetto  del 
detto  (Messer  Giovanni  da  Prato)]. 

Edizz.:  Allacci,  Poeti  antichi,  p.  362  [Di  BL  Giovanni  Ghe- 
rardo da  Prato  a  Francho  Sacchetti].  A.  Wesselofsky,  il 
Paradiso  d,  Alberti,  Bologna,  1867,  voi.  I,  parte  II,  p.  90  [Giovanni 
da  Prato  a  Franco  Sacchetti]. 

42.  S^  io  sono  in  guerra  chi  me  ri  è  cagione  (son.) 

Ms.:  ^Lnur.   Red.  184,  e.  92a   [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

43.  Solo  e  pensoso  mi  dolca  d*  amore  (son.) 

ìfs.:  *Laur.  Red.   184,  e.   326  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

44.  Tuo  spirto  gentil^  cK  hai  a  sublimare  (son.)  (1) 

Ms.:  *Laar.  Red.   184,  e.  93a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

45.  Un  disio  amoroso  spesso  il  core  (son.) 

Ms.:  *Laur.   Red.   184,  e.  92 a  [Sonetto  del  detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 

46.  Vidi  cangiare  al  sol  V  aurata  fronte  (son.) 

Ms.:  *Laur.  Red.  184,   e.  92a  [Sonetto  del   detto  (Messer 
Giovanni  da  Prato)]. 


(1)  Respons.  al  son.  di  Alberto  degli  Albizzi:  Che  fortuna  è  la 
mia?  Che  deggio  fare?  (Laur.  Red.  184,  e.  95(i)  [Sonetto  del  detto 
messer  Alberto  (degli  Albizzi)  mandò  a  messer  Giovanni 
da  Prato]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  1.*'  45 

47.  Vostro  cortese  dir^  che  mi  circunda  (son.)  6,  xx 


filOVANNI 

Ms.:  *Laur.  Red.   184,  e  93a  [Sonetto  del  detto  (Messer     j^j  nello 
Giovanni  da  Prato)]. 

XIX.  Giovanni  di  Maffeo  da  Barberino. 

1.  L' avere  é  corpi  d^uno  amor  compresi  (son.) 

Ms.:  MagUab.  II,  11,40  (già  VH,  1010),  e.  117  6  [Risposta  del 
detto  (Giovanni  di  Maffeo).  Sonetto  di  Giovanni  al  cha- 
valierej  (1). 

2.  Tu  mi  saetti  nel  dir  Medicame  (son.) 

Ms.:  Magtiab.  II,  R,  40  (già  VII,  1010),  e.  118a  [Sonetto  di 
Giovanni  di  Maffeo  Barberino  mandatoa  messer  Antonio 
buffone]  (2). 

XX.  Giovanni  di  Nello  da  S.  Gemignano. 

L*  alta  viriti  di  quel  collegio  santo  (canz.) 

Mss.:  *Laur.,  pi  XL,  43,  e  115 a  [Canzone  morale  fatta 
per  G.  di  Messer  Nello  da  S.  Gimignano]:  pi.  LXXXIX  inf., 
44,  e.  1606  [Morale]:  pi  XC  inf.,  47,  e.  Ria  [Canzona  di 
Simone  da  Ssiena  fatta  per  lui...]  (3)  Magliab.  VII,  3,  1009, 
e.  85  [anon.]:       VII,  8,  1145,  e.  47  [e.  s.]. 

Ediz.:  In  lode  di  bella  donna.  Canzone  ecc,  pubbl,  dal  prof.  Gius. 
Arcangell  Prato,  Alberghetti,  1852  [Antonio  Pucci]. 


(1)  Responsivo  al  son.  di  Antonio  di  Matteo  di  Meglio:  Gio- 
vanni^ t"  mi  partii  non  meno  offeso  (cod.  Magliab.  II,  II,  40,  ibid.)  [So- 
netto del  detto  (Antonio  buffone)  mandò  a  Giovanni  di 
Maffeo]. 

(2)  Antonio  di  Matteo  di  Meglio  rispose  col  son.  :  Non  son  gli  un- 
guenti tuoi  di  verderame  {cod,  Ujì^iiih.  II,  II,  40,  ibid.)  [Risposta  di 
messer  Antonio  al  detto  Giovanni]. 

(3)  Mancante  in  Gne. 


46  a  B  L.  FRATI 

6,  XXI 

GiRARDo  Giovanni  da  Prato 

DA 

CASTELFiOR.  y^^  Giovanni  dì  Gherardo  da  Prato. 


XXL  Girardo  da  Castelfiorentino 

1.  Amor  la  cui  viriti  per  grcufia  sento  (ball.) 

Mss.:  •Marc.,  ci.  IX  ila!.,  191,  e.  123 a  [Girando  da  Castel 
Fir.]  (1)  *Riccard.  1118,  e  157 a  [Ballata  di  Messer  Gerardo 
da  Castel  fiorentino]. 

2.  Deh  core  non  avessi  anei  mai  degno  (ball.) 

Bis.:  *Marc,  cL  IX  ital. ,  191,  e  122  6  [Girardo  di  Castel 
Fir.] 

3.  Guardate  in  che  beltà  mia  donna  regna  (ball) 

Ms.:  Marc,  ci  IX  ital.,  191,  e  124 a  [Girardo  di  Castel 
Fir.]. 

Edio.:  Trucchi,  II,  U2  [Gherarducci  da  Castel  Fioren- 
tino].      NANNUca  ',    Manuale,  I,  962  [Girardo  da  Castello]. 

4.  Lo  mio  gioioso  stato  (ball.) 

Mss.:  *Marc,  ci  IX  ital.,  213,  e.  20  b  [Girardo  da  Castel 
Firentino]:       ci.  IX  ital,  191,  e.  1236  [e.  s.]. 


(1)  e  Delle  inserte  sette  poesie  (avverte  il  Bilancioni)  solo  la  prima 
reca  in  fronte  il  nome  di  Girardo  da  CASTELnoRENTiNO  nel  cod.  Mar- 
ciano 191;  ma  come  T  altre  sei  seguitano  immediatamente  alla  prima, 
ed  è  costume  di  questo  testo  a  penna  di  adunare  più  poesie  di  uno 
stesso  autore  coli*  accennarne  il  nome  una  volta  soltanto  in  capo  alla 
prima,  cosi  é  da  tenere,  che  le  sei  poesie  senza  intestazione,  svitanti 
alla  prima  riferita  al  nome  di  Girardo  da  Castelfiorentino,  siano  pur  esse 
del  medesimo  Girardo  ». 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  47 

5.  Madonna^  lo  cardi  disir  cV  io  porto  (ball.)  6,  xxii 


CRADENIGO 

fifs.:  *Marc.,  ci.  IX  ital,   191,  e.  122ò  [Girardo  di  Castel        jac. 
Fir.]. 

Ediz.:    Nannucci,  '  Manuale^  I,  362  [Girardo  da  Castello]. 

6.  Partito  star  da  voi^  donna^  mi  sento  (ball.) 

Ms.:  'Marc.,  ci  IX  ital.,  191,  e.  123ò  [Girardo  di  Castel 
Pir.] 

7.  Però  che  vede  soa  lellezza  sóla  (ball.) 

Ms.:  *Marc.,  ci.  IX  itaL,   191,  e.   123a   [Girardo  di  Castel 
Fir.]. 

Qiimta  (di)  Tommaso 
Vedi  Tommaso  di  Giunta. 

Giustiniani  Leonardo. 

Veggansi  le  sue  Laudi  tra  le  Anonime  (Indice,  Parte  1!.*) 

XXIL  Gradenigo  Jacopo. 

1.  Io  abbuio  ho  tanta  graeia  dalVEtemo  (sod.) 

Mss.:  *Cod.  Gambalung.  D,  II,  41,  cartone  anteriore,  h  [Iacopo 
Cradenigo]. 

Ediz.  :  De  Batines,  Bihliogr.  Dantesca,  Prato,  1846,  II,  220  (i  soli 
n.  9-16)  [Iacopo  Gradenigo]. 

2.  No,  il  gran  tempo  trascorso^  il  misto  pelo  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semin.  Padov.,  e  35  [Belletus  Gradenigo  ad 
F(ranciscum)  V(annotium)]  (1). 


(1)  Francesco  di  Vannozzo  rispose  col  son.:  Se  con  scritture  teco 
wm  ripeto  (cod.  59  Semin.  Padov.,  ibid.)  [Resp(onsio)  Franc(i- 
sci)  Van(notii)]. 


48  a  ■  L^  RITI 

S,  XXV         3.  Vuol  mia  fortuna  e  maledetta  sarte  (son.) 

Ms.:  *Cod.  59  Semio.  Rado?.,  e.  66  [Belletas  Gradeoigo  ad 
F(raDciscuiii)  y(aDDotiaiii)]  (1). 

XXm  Gregorio  d'Areno. 

Vassi  la  volpe  per  la  selva  piana  (son.) 

Ms. :  ^Riccard.  1100,  e  656  [Sonetto  di  maestro  Grigorio 
detto  (d'Arezzo)]. 

XXrV.  Gregorio  Calonista  di  Hrense. 

Sento  éP  amor  la  fiamma  e  '{  gran  podere  (balL) 

Edizz.:  *Lami,  Coiai,  de'  Mu.  Riceard.,  p.  223  [Gregorio  Calo- 
nista di  Firenze].  Trucchi,  II,  147  [Messer  Gregorio  Calo- 
nista di  Firenze].  Cantilene  e  Ballale  [ed.  G.  CARDUca].  Pisa, 
1871,  p.  313  [e  s.] 

XXY.  Griffoni  Matteo. 

1.  Amor^  i'  mi  lamento  d'  està  dea  (ball.) 

Edizz.:  G.  Fantuzzi,  Notizie  degli  scrittori  bolognesi.  Bologna,  1784, 
voi.  IV,  p.  301  [Balata  Mathei  predicti  (de  Griffonibus)]. 
Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa,  1871,  p.  324  [Matteo  de' 
Griffoni]. 

2.  Chi  ha,  si  tegna^  perché  chi  possedè  (ball) 

Ediz.:  Cantilene  e  Ballale  [ed.  G.  Carducci].  Pisa,  1871,  p.  326 
[Matteo  de' Griffoni]. 


(1)  Francesco  di  Vannozzo  rispose  col  son.  :  /  belli  accenti  di  tue 
rime  accorte  (cod^  59  Semin.  PadoT.,  ibid.)  [Resp(onsio)  Franc(i- 
sci)  Vanno(tii)]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  l/  49 

3.  Chi  tempo  Aa,  e  tempo  per  viltade  aspetta  (ball.)  6,  xxr 

Ediz.:  Cantikne  e  BdlaU  [ed.  G.  Carducci].  Pisa,  1871,  p.  327    ^'^^^  "^ 
[Matteo  de'  Griffoni]. 

4.  Da  piccai  can  spesso  si  ten  einglare  (madr.) 

Edizz.:  Fantuzzi,  Notizie  d,  scriU.  boi.,  voi.  IV,  p.  299  [Mattei 
pr  e  die  ti  (de  Griffonibus)].  Cantilene  e  Ballate  [ed.  G.  Car- 
Duca].  Pisa,  1871,  p.  328  [Matteo  de'  Griffoni]. 

5.  Giurate,  danna,  per  la  fede  mia  (ball.) 

Ediz.  :  Cantilene  e  Ballate  [ed.  G.  Carducci].  Pisa,  1871,  p.  327 
[Matteo  de'  Griffoni]. 

6.  Nessun  si  fidi  troppo  (ball.) 

Edizz.:  Fantuzzi,  Notizie  d.  scritt.  boi,,  voi.  IV,  p.  301  [Balata 
Mathei  predicti  (de  Griffonibus)].  Cantilene  e  Ballate  [ed. 
Carducci].  Pisa,  1871,  p.  322  [Matteo  de'  Griffoni]. 

7.  Non  sa  che  ben  si  sia  chi  mal  non  prova  (madr.) 

Edizz.:  Fantuzzi,  Notizie  d.  scritt,  boi,  voi  IV,  p.  299  [Mathei 
de  Griffonibus].  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa,  1 871 , 
p.  3:26  [Matteo  de'  Griffoni]. 

8.  Non  sia  chi  tenga  dentro  dalV  ospicia  (ball.) 

Ediz.:  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carduc<  '  :  Pisa,  1871,  p.  323 
[Matteo  de'  Griffoni]. 

9.  Non  tema  7  spina  chi  vuol  coglier  fiore  (ball) 

Edizz.:  Fantuzzi,  Notizie  d,  scritt,  boi,  toI.  IV,  p.  299  [Mathei 
predicti  (de  Griffonibus)].  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  324  [Matteo  de'  Griffoni]. 

10.  Non  ti  fidar  in  stato,  né  riccheeea  (madr.) 

Edizz.:  Fantuzzi,  Notizie  d.  scritt.  boi,  voi.  IV,  p.  300  [Madri- 
gai  Mathei  de  Grifonibus].  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci]. 
Pisa,  1871,  p.  324  [Matteo  de'  Griffoni]. 

VoL  IV,  Pane  11  4 


50  C.  «    L.  FRATI 

fi,  xxvm     ii-  0  tUf  che  sedi  in  cima  della  rota  (balL) 


GUAZZALOTRI 


Edizz.  :  Fantuzzi,  Notizie  d.  scritt.  boi,  voi  IV,  p.  300  [Malici 
de  Griffoni  bus].  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CAROUCa].  Pba,1871, 
p.  322  [Matteo  de'  Griffoni]. 

12.  Se  pur  vi  piace^  gentil  donna  mia  (balL) 

Ediz.:  Cantilene  e  Ballate  [ed.  Carducci].  Pisa,  1871,  p.  325 
[Matteo  de'  Griffoni]. 

13.  Se  questa  dea  di  virtù  e  onestate  (ball.) 

Ediz.:  Cantilene  e  Ballate  [ed.  CARDUCa].  Pisa,  1871,  p.  325 
[Matteo  de'  Griffoni]. 


XXYL  Gualpertino  da  Goderla. 

Mettiamo  il  parentato  da  un  lato  (son.) 
Ms.:  •Barber.  XLV,  47,  e  162  [Gualpertino]. 

XXYIL  Gualterotti  Federigo. 

Chi  di  cercare  signore  si  sagia  (sod.) 
Ms.:  •VaL  3793,  e.  1676  [Federico  Gualterotti]. 

XXYIIL  Guazzalotrì  (De')  Antonio. 

Per  gran  forza  d'  amor  commosso  e  spinto  (cap.) 

Mss.:  *  Senese  I,  IX,  18,  e.  1176  [Capitolo  del  Nobile  Gio- 
vane Antonio  de  Guazalotri  di  Prato  fatto  a  prieghi  di 
me  Johanni  Bonafé  qui  in  Vinegia  anno  mccccx.  E1  quale 
feci  fare  per  mandare  a  una  donna].  Cod.  Canonie,  ital  99 
nella  Bodleiana  di  Oxford,  e.  166  [a non.] 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  51 

XXIX.  Guglielmo  (fra)  eremitano.  — ^^j^^ — 

DEL  P/ULAGIO 

Saturno  e  Marte^  stelle  infortunate  (sod.) 

Ediz.:  Crescimbeni,  ed.  Yen.,  Ili,  112  [F.  Guglielmo  dell'or- 
dine de'  Romitani]. 

XXX.  Gnidantonio  da  Hontefeltro. 

1.  I  sacri  piedi  V  una  e  T  altra  palma  (sod.) 

Ms.:  *  BibL  Naz.  di  Napoli,  cod.  Xm,  C,  1,  in  fine  [Sonectum 
eiusdem   Dom.  Comitis    (Antonii   Montifferetri  Urbini)]. 

2.  0  sommo  etemo  e  infinito  bene  (cap.) 

Ms. :  *Bibl.  Naz.  di  Napoli,  cod.  Xin,  C,  1,  io  fine  [Capitulum 
sive  Terziarium  Magnifici  Domini  Comitis  Antonii  Mon- 
tifferetri Urbini  etc.]. 

3.  Qual  cor  di  pietra  non  si  liqueface  (son.) 

Ms.:  *  Cod.  Canonie,  ital.  50  nella  Bodleiana,  e.  166  [Sonecto 
facto  dal  lUu.  conte  di  Urbino  in  die  Veneris  Sancii]. 

XXXI.  Guido  del  Palagio. 

O  tergo  sacro  del  col  tuo  valore  (canz.) 

Mss. :  'Riccard.  1156,  e.  31  [Canzone  morale  di  Guido  di 
Messer  Tommaso  del  Palagio]:  *  1717  [Canzon  di  Guido 
dei  Lupane].  *  Laur.,  pi.  XC  inf.,  47,  e.  37ò  [Canzone  di 
Guido  di  messere  Tomaso  di  Neri  di  Lippo  di  Firenze]. 

Guido  da  Siena 

Quella  virtti  che  il  terzo  cielo  infonde 
Ne*  cuor  che  nascon  sotto  la  sua  stella  (canz.) 

Vedi  UberU  (degli)  Facio. 


a, 


GUINICELLI 
G. 


52  a  «   L.  TRATI 

XXXn.  Guido  daU'  UUvera 

Un  novo  serventese  incominciare  (serv.) 

Ms.:  'Senese  I,  V,  1,  e.  127 a  [Seruentese  di  fra  Guido 
dall'Ulifera  diuiso  in  cinque  parti]. 

XXXIIL  Guidonerì  (Finfo  del  Buono)  da  Firenie 

1.  Se  long"  uso  mi  mena  (canz.) 

Ms.  :  *Vat.  3793,  e.  61  a  [Finfo  del  Buono  Guidoneri  di 
Firenie]. 

2.  Vostro  amoroso  dire  (canz.) 

ìfs.  :  *VaL  3793,  e  61  a  [Finfo  del  Baono  GuidaneroJ. 

XXXIV.  Guinicem  Guido 

ì.  Al  cor  gentil  ripara  sempre  amore  (canz.) 

Mss.:  Barber.  XLV,  47,  e.  37  [Guido  Guinicclli].  Val  3793, 
e.  31  h  [e.  s.]:  VaL  3213,  e.  172  [e.  s.]:  Parigino  55i,  e.  32 
[e.  s.].  MoQck.  2  della  Governativa  di  Lucca,  e.  63  [e.  s.]:  li  [e  s.]. 
Marc.,  cL  IX  il.,  191,  e.  71  [Gino  da  Pistoia].  Cod.  Bos^i  36, 
ora  Trivulz.  1058,  e  92  [Guido  Guinicelli].  Senese  I,  Vili,  3fi, 
e.  105  [anon.]  Magliab.  VII,  7  1208,  e.  93  a  [Guido  Guinicellil. 
Laur.  Red.  9,  e.  73  6  [e.  s.]  Laur.  Strozz.  170,  e.  60  6  [anoD.] 

Laur.,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  32  a  [Guido  Guinicelli].  Bibl.  Naz.  di 
Firenze,  Palat.  204,  e.  61  a  [e.  s.]  :  203,  e.  1  a  [e  s.]  :  il8,  e. 
1 3  fl  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili,  305,  e.  1  6  [e  s.]  Casanat  d,  V,  5. 
e.  106  a  [e.  s.] 

Ediz.  :  Francesco  da  Barberino,  Docum.  d' amore  [ed.  UbaldiniI- 
Roma,  1640,  Tavola,  s.  v.  i,  onne ,  amanza  (i  w.  15-17,  57,60) 
[Guido  Guinicelli]. 

2.  Awegna  T  m' abbia  più  voUe  per  tempo  (canz.) 

Mss.:  Barber.  XLV,  47,  e.  38  [Guido  Guinicelli]:  XLV,1», 
e.  112  [Gino  da  Pistoja].      Chig.  M,  VII,  142,  e  41  [e  s.]     Val 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  53 

3213,  e.  256  [Guido  Guinicelli].        Riccard.  1118,  e.  65  [Gino    G, 

da  Pistoia]:        H56,  e.  192  [e.  s.]        Marc.  64,  e.  62  [Dante],    guinicelli 

6. 

3.  CV  f  core  avesse  mi  potea  laudare  (sod.) 

Mss.:  VaL  3793,  e.  115  a  [anon.]:  321i,  e.  131  b  [Guido 
Guinicelli].  Riccard.  2846,  e.  HO  a  [e.  s.]  Laur.  Red.  9,  e. 
1 35  a  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palat.  41 8,  e.  74 (  [ano n.] :  204, 
e.  64  ò  [Guido  Guinicelli].  Casanat.  d,  V,  5,  e.  109  a  [e.  s.] 
Chig.  L,  Vili,  305,  e  62  fl  [e.  s.]        Bologn.  Univ.  1289,  e.  15  [e.  s.] 

4.  Chi  vedesse  a  Lucia  un  var  cappuBBo  (sod.) 

Mss.:  Riccard.  2846,  e.  109  6  [Guido  Guinicelli].  Chig.  L, 
Vni,  305,  e  626  [e.  s.]  VaL  3214,  e  131  a  [e.  s.]  Bologn. 
Uoiv.  1289,  e.  14  h  [e.  s.]  Cod.  cdxlv  della  Capitolare  dì  Verona, 
e  57  [e.  s.] 

5.  Con  gran  disio  pensando  lungamente  (canz.) 

Mss.:  Chig.  L,  IV,  131,  e.  77  [anon.]  Bibl  Naz.  di  Firenze, 
PalaL  418,  e.  42  a  [e.  s.] 

6.  Cantra  lo  meo  volere  (canz.) 

Mss.:  Cod.  Bargiacchi  ricordato  nel  MoQck.  2,  e.  88  ò  [Guido  Gui- 
sizelli].  BibL  Naz.  di  Firenze,  PaIaL  418,  e.  416  [anon.]  Laur. 
Bed.  9,  e  81  6  [Paganino  da  Serzana].  VaL  3793,  e.  9 
(Messer  Paganino  da  Serezano]. 

7.  Diavol  ti  levi,  vecchia  rabbiosa  (son.) 

Mss.:  Chig.  L,  VUI,  305,  e.  62  b  [Guido  Guinicelli]  Bo- 
logn. Univ.  2448  [e.  s.]        Ms.  Bartoliniano,  e.  28  [e.  s.] 

Ediz.:  F.  Zambrini,  Opere  volg,  a  stampa,  ediz.  3.*  Bologna,  1866, 
p.  214  [Guido  Guinicelli]. 

S.  Dolente^  lasso,  già  non  m' assecuro  (soo.) 

Mss.:  Laur.,  pL  XC  inf.,  37,  e.  346  [Guido  Guinicelli]     Chig. 
L,  VIU,  305,  e.  616  [e  s.]  :        L,  IV,  131,  e.  837  [e.  s.]        Vat. 
3214,  e.  137  a  [e.  s.]        Bologn.  Univ.  1289,  ce.  33  e  200  [e.    s.] 
Bibl.  Naz.  di  Firenze,  PalaL  204,  e.  64 a  [e.  s.]        Riccard.  2846,  e 
109  b  [e  s.]        MagUab.  VII,  7,  1208,  e.  30  a  [e.  s.] 


54  a  B  L.  FRATI 

G,  XXXIV       9.  Donna,  P  amor  mi  sforza  (canz.) 


GUINICELU 
G. 


Mss.:  Riccard.  28i6,  e.  115  a  [Guido  Guinicelli].  Val 
3793,  e.  31  b  [e.  s.]  Laur.  Red.  9,  e.  73  6  [e  s.]  Bibl.  Nai.  di 
Firenze,  PalaL  418,  e  40ò  [anon.]:  204,  e.  596  [Guido  Guini- 
celli].       Bologn.  Univ.  1289,  e.  202  [e.  s.] 

1(X  Fra  VàUre  pene  maggior  credo  sia  (son.) 

Mss.:  Riccard.  2846,  e.  Ili  b  [Guido  Guinicelli].  Laur. Red. 
9,  e  129  a  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palat.  204,  e  65  a  [e  $.] 
God.  Bartoliniano,  e.  27  [e.  s.]. 

11.  Oentil  doneella^  di  pregio  nomata  (son.) 

Mss.:  Laur.  Red.  9,  e.  141  ò  [Guido  Guinicelli].  BibL  Nai 
di  Firenze,  Palat.  204,  e.  65  6  [e  s.]  Riccard.  2846,  e  112  a  [e  s.J 
God.  Bartoliniano,  e.  27  [M.""  Rinuccino].  Chig.  L,  Vili,  3(6, 

e  67  6  [e  s.] 

12.  In  quanto  la  natura  (canz.) 

» 

Mss.  :  Bibl  Naz.  di  Firenze,  Palat  418,  e.  426  [anon.]  (1)  Gbig- 
L,  IV,  131,  e  79  [e.  s.] 

13.  Io  vd  del  ver  la  mia  donna  laudare  (son.) 
Vedi  appresso,  n.*  20. 

14.  La  bella  stella  che  il  tempo  misura  (canz.) 
Vedi  Gino  da  Pistoia. 

15.  Lamentomi  di  mia  disavventura  (son.) 

Mss.:  Laur,  pi.  XC  inf.,  37,  e.  36 6  [Guido  Guinicelli].  Laur. 

Red.  9,  e.  144fl  [e.  s.]        Chig.  L,  IV,  131,  e.  838  [e.  s.):  L,  Vili, 

305,  e.  73  [anon.]        Bologn.  Univ.  1289,  e.  175  [e.  s.]  Riccard. 
2846,  e.  112  a  [e.  s.]        God.  Bartoliniano,  e.  77  [e.  s.] 


(1)  Segue  ad  altre  rime  di  Guido  Gcinicelu. 


INDICB  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  55 

16.  Lo  fin  pregio  avaneato  (canz.)  6,  tjojv 

GUINIGELLI 

Mss.:  Vat  3214,  e.  90  a  [Guido  Guinicelli]:        3793,  e.  38  a  g. 

[aDon.]  Riccard.  2846,  e.  116  a  [Guido  Guinicelli].  Laur. 
Red.  9,  a  74  ò  [e  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palat.  418,  e.  40  a  [e.  s.] 
Chig.  L,  Vili,  305,  e.  2  ò  [e.  s.]        Ms.  Bartoliniano,  e  .  27  [e.  s.] 

17.  Lo  vostro  bel  saluto  e  gentil  guardo  (son.) 

Mss.  :  Chig.  L,  VRI,  305,  e.  61  b  [Guido  Guinicelli]:  L,  IV,  131, 
e  834  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Ralat.  204,  e.  63  6  [e.  s.] 
Laur.,  pL  XG  inf.,  37,  e.  34  a  [e.  s.]  Riccard.  2846,  e.  Ili  a  [e.  s.]: 
1118,  e.  96  [e.  s.]        Bologn.  Uni?.  1289,  e.  198  h  [e.  s.] 

18.  Madonna^  dimostrare  (canz.) 

Mss.  :  Bibl  Naz.  di  Firenze,  PalaL  418,  e.  25  ò  [anon.]  (1)  Chig. 
L,  rv,  131,  e.  65  [e.  s.]  Cod.  Boncompagni  7,  e.  76  [Monaco  da 
Siena].       Senese  C,  IV,  16,  e.  63  [e.  s.] 

19.  Madonna^  il  fino  amore  cV  eo  vi  porto  (canz.) 

Mss.:  Braidense  A  G,  XI,  5,  e.  82  [Guido  Guinicelli].  Vat 
3793,  e  31  a  [e.  s.]:  3214,  e.  88  a  [e  s.]  Laur.  Red.  9,  e.  73  a 
[e  s.]  Cod.  Galvani,  e.  22  b  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palat 
418,  e.  24  a  [e  s.]  :  203,  e.  4  ò  [e.  s.]  :  204,  iU5.  62  6  e  60  6 
[e  s.]  Casanat  d,  V,  5,  e.  107  b  [e.  s.]  Chig.  L,  Vili,  305,  e. 
1  fl  [e.  s.]  :  L,  IV,  131,  e.  832  [e.  s.]  (2).  Bologn.  Univ.  1289, 
e  200  6  [e.  s.]       Cod,  CDXLV  della  Capitolare  di  Verona,  e.  57  [e.  s.] 

Ediz.  :  Franc.  da  Barberino,  Docum.  d'  amore  [ed.  Ubaldini]. 
Roma,  1640,  Tavola,  s.  v.  eomuno  (i  w.  45-46)  [Guido  Guinicelli]. 

20.  Madonna  mia^  quél  di  cV  amor  consente  (son.) 
Ms.:  'Casanat  d,  V,  5,  e.  HO  [Guido  Guinicelli]. 

21.  0  caro  padre  meo^  di  vostra  laude  (son.) 

Ms.:  Laur.  Red.  9,  e.  125  [Messer  Guido  Guinisselli  a 
Frate  G.]. 


(1)  Segue  ad  altra  canz.  del  Guinicelli. 

(2)  Questo  cod.  e  il  seguente  contengono  soltanto  la  parte  finale 
Ut  emione. 


6UINICELU 
G. 


56  C.  ■   L.   FRATI 

G,  XXXIV     22,  Omo  eh*  è  saggio  non  corre  leggiero  (son.) 

Vedi  appresso,  n.°  26. 

23.  Pur  a  pensar  mi  par  gran  maraviglia  (son.) 

Mss. :  Laur.  Red.  9,  e.  129  a  [Guido  Guinicelli].  Laur^ 
pi.  XC  inf.,  37,  e.  35  ò  [e.  s.]  VaL  3214,  e.  148  a  [e.  s.]  Ric- 
card.  2846,  e.  Ili  a  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  PalaL  204,c.6iè 
[e.  s.]  Chig.  L,  Vni,  305,  e.  117  [e  s.]  Cod.  Bartoliniano,  e  25 
[e  s.] 

24.  Si  son  io  angoscioso  e  pien  di  doglia  (sod.) 

Biss.  :  Laur.  Red.  9,  e.  129  a  [Guido  GuÌDÌcelli].  Laur., 
pi.  XC  iof.,  37,  a  35  6  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  PalaL  204,  e. 
65  a  [e.  s.]  Cod.  Bartoliniano,  e  26  [e.  s.]  Riccard.  2846,  e.  111^ 
[e.  s.] 

25.  Tegno  di  folle  impresa  a  lo  ver  dire  (caoz.) 

Mss.:  Riccard.  2846,  e.  112  6  [Guido  Guinicelli].  Cbig.  L, 
Vili,,  305,  e.  1  fl  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palat  204,  e.  58  h 
[e  s.]       Bologa  Univ.  1289,  e.  41  [e.  s.] 

Ediz.:  Frano,  da  Barberino,  Docum.  d'amore  [ed.  Cbaldim] 
Roma,  1640,  Tavola,  s.  v.  en  (i  w.  5-6,25-26)  [Guido  Guinicelli]- 

26.  Uomo  eh' è  saggio  non  corre  leggiero  (son.) 

Mss.:  Val.  3793,  e.  157  6  [Guido  Guinicelli):  321i,c 
131  6  [e.  s.]  Laur.  Red.  9,  ce.  431  a  e  142  6  [e.  s.]  Barber. 
XLV,  47,  e.  140  [Guittone  d'Arezzo].  Cliig.  L,  Vili,  305,  e 
61  6  [Guido  Guinicelli]:  L,  IV,  131,  e.  840  [e.  s.]  Bologn. 
Univ.   1289,  e    16   [e.   s.]  Riccard.    1103,   e  69  [Dante  Ali- 

ghieri]:       2846,  e.  110  a  [Guido  Guinicelli].         Bibl.  Naz.  di 
Firenze,  Palat.  204,  e.  66  a  [e.  s.]  Casanat   d,   V,   5,   e.    109  6 

[e.  s.]        Magliab.  VII,  7,  1208,  e.  30  6  [e.  s.]        Ambros.  0,  63  su- 
pra,  e.  31  [a non.] 

27.  Veduto  ho  la  lucente  stella  diana  (sod.) 

Mss.:  Chig.  L,  Vili,  305,  e.  61  6  [Guido  Guinicelli].        Vat 
3214,  e  137  a  [e.  s.]         Riccard.  2846,  e.  HO  6  [e  s.]         Bologn. 


mOlCE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.*  57 

Univ.  1289,  e.  16  [e.  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  Palai  20i,  e.  66  6  LG  u  i  d  o  6,  xxxv 
Gu  ini  celli].  Magliai).  VII,  7  1208,  e.  30  a  [e.  s.]  Laur.,  pi.  XC  guinigi  m. 
inf.,  37,  e  34  ò  [e  s.]       Casanai.  d,  V,  5,  e.  109  a  [e.  s.] 

28.  Voglio  del  ver  la  mia  donna  laudare  (sod.) 

Mss.:  Vat  3793,  e.  126  6  [Guido  Guinicellil:  3214,  e. 
129  a  [e  s.]  Chig.  L,  Vili,  305,  e.  62  a  [e.  s.]  :  L,  IV,  131,  e. 
836  [e  s.]  Bibl.  Naz.  di  Firenze,  PalaL  204,  e.  64  a  [e.  s.]  Bologn. 
Unif.  1289,  ce.  1  a  e  1996  [e.  s.] 

XXXV.  Guinigi  Michele. 

1.  Franco  mio  dolce ^  V  abbondanti  lene  (son.)  (1) 

Edizz.:  G.  Sercambi,  Novelle  [ed.  C.  Minutoli].  Lucca,  1855  [Mi- 
chele Guinigi J.      F.  Sacchetti,  Sermoni  evangelici  [ed.  0.  Gigli].  , 
Fireme,  1857,  p.  203  [e.  s.] 

2.  Mentre  che  V  alma  è  involta  in  questi  panni  (son.)  (2) 

Edizz.:  G.  Sercambi,  Novelle  [ed.  Minutoli].  Lucca,  1855  [Mi- 
chele Guinigi].  F.  Sacchetti,  Sermoni  evanyel,  [ed.  Gigli]. 
Firenze,  1857,  p.  201  [e.  s.] 

3.  TtUti  i  morali^  ben  che  fra  le  spine  (son.)  (3) 

Edizz.:  G.  Sercambi,  Novelle  [ed.  Minutoli].  Lucca,  1855  [Mi- 
chele Guinigi].  F.  Sacchetti,  Sfrmont  et;an^e/.  [ed.  Gigli].  Fi- 
renze, 1857,  p.  205  [e.  s.] 

4.  Volge  sua  ruota  sanza  alcun  rispetto  (son.)  (4) 
Edizz.:  G.  Sercambi,  Novelle  [ed.  Minutoli].  Lucca,  1855  [Mi- 


(1)  A  Franco  Sacchetti,  in  risp.  al  son.  :  Michel  mio  caro,  s  io 
Sogguardo  bene, 

(2)  A  Franco  Sacchetti,  in  rìsp.  al  son.  :  Michele,  i"  ho  sentito 
<  grandi  affanni. 

(3)  A  Franco  Sacchetti,  in  rìsp.  al  son.:  Ben  parve  de   terren 
diletti  il  fine, 

(4)  A  Franco  Sacchetti,  in  rìsp.  al  son.  :  Sempre  ho  veduto  che 
ogni  diletto. 


58  e.   B  L    FRATI 

6,  xxxvi    chele  Guinigi].         F.  Sacchetti,   Sermoni  evangel.  [ed.  GiGU]. 
GUiTTONE     Firenze,  1857,  p.  204  [e.  s.] 

D'AREZZO 

XXXVL  Gnittone  d*  Arezzo. 

1.  A  far  meo  parto  con  te  parte  cheo  (son.) 
Ms.:  VaL  3793,  e.  123a  [Guittone  medesimo]. 

%  A  te  Montuccio^  ed  cigli  altri^  il  cui  nomo  (canz.)  (I) 
Ms.:  *VaL  3793,  e.  155Ò  [Guittone  d'Arezzo]. 

3.  Ahi  cara  donna  di  valore  al  sommo  (son.) 
Ms.:  Vat  3793,  e.  123Ò  [Guittone  medesimo]. 

4.  Alcuna  volta  io  mi  perdo  e  confondo  (son.) 

Ediz.  :  Sonetti  e  canzoni  di  diversi  antichi  autori  toscani  in  died 
libri  raccolte.  Firenze,  per  li  heredi  di  Philippo  di  Giunta,  15:27,  e.  B9 
[Guittone  d'Arezzo]. 

5.  Ben  moraggio^  s^  eo  non  ho  perdono  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,  1527,  e.  96  [Guittone 
d'Arezzo]. 

6.  Ben  si  conosce  lo  servente  e  vede  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,  1527,  e.  92  [Guittone  d'\- 
rezzo]. 

7.  Che  bon  Dio  sommo  sia  creatore  (son.)  (2) 
Ms.:  •  Laur.  Red.  9,  e.  125 a  [F.  G.] 


(1)  A  Monte  da  Firenze  che  risp.  colla  canz.:  Poi  non  son  saggC 
si  eh  *el  prescio  e  7  nomo  (vaL  3793,  e.  155  a). 

(2)  Respons.  al  son.  anon.  :  Ragion  mosse  ed  Amor  lo  Fattore. 


INDICE  DELLE  CASTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.^  59 

8.  Cickscuno  esemplo  cK  è  deW  uomo  saggio  (son.)  6,  xxxvi 

PTT1T*rnNR 

Edìz.:   Sonetti  e  Oinzone  ecc.  Firenze,   1527,  e.   94   [Guitto ne     d'^hezzo 
d' Arezzo]. 

9.  Comparomi  per  venire  ad  amore  (son.) 
Ms.:  Laur.  Red.  9,  e.  137 ò  [Guittone]. 

10.  Credo  savete  òen,  messer  (Mesto  (son.) 

Bis.:  Vat  3214,  e.  1606  [Guittone  a  Messer  Bonesio]. 
Ediz.:  ALLAca,  Poeti  antichi,  p.  392  [Guitone  d'Arezzo]. 

11.  Diporto  e  gioia  nel  meo  core  apporta  (son.) 
Ms.:  *Laur.  Red.  9,  e.  1146  [Guittone]. 

12.  Dispregio  pregio  e  non  pregio  pregiansa  (son.) 
Ms.  :  Laur.  Red.  9,  e.  128  b  [F.  G.] 

13.  Doglio  e  sospiro  di  ciò  che  m' awene  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,   1527,  e   92   [Guittone 
d'Arezzo]. 

14.  Doglioso  e  lasso  rimase  il  meo  core  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.    Firenze,  1527,  e.   95  [Guittone 
d'Arezzo]. 

15.  DoUezea  alcuna  o  di  voce  o  di  suono  (son.) 

Ediz.:    Sonetti  e  canzone   ecc.    Firenze,   1527,  e.  94   [Guittone 
d'Arezzo]. 

16.  Dolente^  tristo  e  pien  di  smarrimento  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone   ecc.   Firenze,  1527,  e.  94   [Guittone 
«l'Arezzo]. 

17.  Donna  del  cielo,  gloriosa  madre  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  89   [Guittone 
d'Arezzo]. 


60  e.   8   L,  FRATI 

6,  xxxYi     18.  Donna^  lo  reo  fallir  mi  spaventa  (sod.) 


GUITTONB  ri  !•  n  .  n.  m»>f\.m  r\rk       m       • 

D'AREZZO  Ediz.:  Sonetti  e  canzone   ecc.  Firenze,  1527,   e   96   [Gnittone 

d'Arezzo]. 

19.  Ed  in  ciascuna  vuoisi  conto  e  saggio  (sod.) 
Ms.:  'Laur.  Red.  9,  e.  137  [Guitone]. 

20.  Fera  ventura  è  quella  che  ni  awene  (sod.) 

Ediz:   Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  92   [Guittone 
d'Arezzo]. 

21.  Gentile  ed  amorosa  criatura  (sod.) 

Ediz.:    Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,   1527,  e.   93  [Guittone 
d'Arezzo]. 

22.  Già  mille  volte  quando  Amor  m*  ha  stretto  (soo.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,   1527,  e   90  [Gaittone 
d'Arezzo]. 

23.  Giudice  Gherardo,  ahimè  che  stroppo  (soD.) 
Ms.:  •Laur.  Red.  9,  e.  127  6  [F.  G.]. 

24.  Gran  piacer,  Signor  meo,  e  gran  desire  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.    Firenze,  1527,  e.  89   [Guillone 
d'Arezzo]. 

25.  Infelice  mia  stella  e  duro  fato  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzofie  ecc.    Firenze,   1527,  e.  90   [Gui Itone 
d'Arezzo]. 

26.  Io  son  diletto  di  ciascun  vivente  (caoz.) 

Ms.:  Riccard.  1091,  e.  1146  [Mino  di  Vanni  da  Siena]. 
Ediz.  :  Rime  e  prose  del  buon  secolo  della  lingua  [ed.  Bini].  Lucca, 
1852,  p.  48  [Guittone  d'Arezzo]. 


INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I."  61 

27.  La  dolorosa  mente  ched  eo  porto  (son.)  6,  xxxvi 

GOITTONE 

Ediz.:    Sonetli  e  canzone  ecc.  Firenze,   1527,0.94   [Guillone     d'arezzo 
d'Arezzo]. 

38.  La  mia  donna  che  di  tutf  altre  è  sovrana  (canz.) 

Mss.:   Vat  3793,  e.  49 a   [Guillone  medesimo].       •Laur. 
Red.  9,  e  656  [G.  d'Àresso  quìvoca]. 

29.  La  pianeta  mi  pare  oscurata  (sod.) 

£dìz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,  1527,  e  93  [Guillone 
d'Arezzo]. 

30.  Mille  salute  mando,  fior  novello  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  91    [Guillone 
d'Arezzo]. 

31.  Noi  sem  sospiri  di  pietà  formati  (ball.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,   1527,  e.  96   [Guillone 
d'Arezzo]. 

32.  Non  con  altro  dolor  T  alma  discioglie  (son.) 

Ediz.:  Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,   e.  90   [Guillone 
d'Arezzo]. 

33.  Non  desse  donna  altrui  altro  tormento  (son.) 

Ms.:  Riccard.  2846  [Guillone]. 

Ediz.:   GiUTTONE  d'Arezzo,  Rime  [ed.  ValerianiJ.  Firenze,  1828, 
ToL  I,  p.  190. 

34.  Non  fé'  V  augel  di  Giove  Ida  si  mesta  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,    1527,  e.   90   [Guillone 
d'Arezzo]. 


62  e.  B   L.   PRATI 

f,  XXXVI     35.  Non  già  me  greve  fa  (f  amor  la  salma  (sod.) 
i* AREZZO  ^^-'  ^^^  ^^^^>  ^  i^Za  [Guittone  medesimo]. 

36.  Non  mi  credeva  tanto  aver  fallato  (soo.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   i527,  e  91  [Guittone 
d'Arezzo]. 

37.  Non  oso  dir,  né  fame  dimostrama  (sod.) 

Gdiz.:    Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,    1527,  e  95  [Guittone 
d'Arezzo]. 

38.  Non  per  meo  fallo^  lasso^  mi  convene  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  93  [Guittone 
d'Arezzo]. 

39.  0  donne  mie^  merzè^  considerate  (soo.  doppio) 
Ms.:  *Bibl.  Com.  di  Piacenza,  cod.  190,  ala  [Guittone]. 

40.  0  Regina  del  deh,  o  giglio  aulente  (sod.) 

Ediz.:  *Redi,  Annotaz.   al  Bacco  in    Toscana.  Firenze,  1691,  p. 
110  (\  TV.  1-6)  [Guittone  d'Arezzo]. 

41.  Partito  sono  dal  viso  lucente  (sod.) 

Ediz.:    Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  95  [Guittone 
d'Arezzo]. 

42.  Piacemi  cavaliere  che  Dio  temendo  (son.) 

Ediz.:  *Redi,  Annotaz,  al  Bacco  in  Toscana,  Firenze,  1691,  p.  171 
(i  vv.  1-4)  [Guittone  d'Arezzo]. 

43.  Qual  uomo  si  diletta  in  troppo  dire  (son.) 

Ediz.:    Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  9i   [Guittone 
d'Arezzo]. 


INDICB  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.' 


63 


44.  5*  el  si  latnente  nulF  uom  di  ventura  (son.)  3*  "^^ 

GUITTONE 

Ediz.:   SonetH  e  canzone  ecc.   Firenze,   1527,  e.  93   [Guillone     d' Arezzo 
d'Arezzo]. 

45.  Se  di  vaij  donna  gente  (canz.) 
Ms.:  (kxL  GalYani,  e  20  [anon.]  (1). 

46.  Se  di  voi,  donna^  mi  negai  servente  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.  Firenze,   i527,  e.  95  [Guittone 
d'Arezzo]. 

47.  Se  solamente  dello  meo  peccato  (son.) 

Ediz.:   Sonetti  e  canzone  ecc.   Firenze,   i527,  e.  92   [Guittone 
d'Arezzo]. 

48.  Sempre  poria  V  uom  dire  in  està  parte  (son.) 
Ms.:  Vat  3793,  e.  i21  a  [Guittone  medesimo]. 

49.  Tempo  ven  che  salire  e  che  discendere  (son.) 

Mss.:  Barber.  XLV,  47,  e.  153  [Fra  Guittone  d'Arezzo) 
Chig.  L,  Vili,  305,  e.  84  [Enzo  re].  VaL  32U,  e.  134  [e.  s.[. 
Riccard.  2846,  e.  60  [Enzo]:        1103,  e.  127  [anon.] 

Edizz.:  Allacci,  Poeti  antichi,  p.  390  [Guitone  d'Arezzo]. 
Crescimbeni,  ed.  Yen.,  UT,  38  [Enzo  re]. 

50.  Uomo  eh'  è  saggio  non  ha  cor  leggiero  (son.) 

Ms.:  Barber.  XLV,  47,  e.  140  [Fra  Guittone  d'Arezzo]. 
Ediz.:  Allacci,  Poeti  antichi,  p.  388  [Guitone  d'Arezzo]. 


(1)  Contiene  soltanto  la  flne  di  questa  canz.  cominciando  dal  v.  : 
iJna  statua,  o  donna,  a  voi  sembiante,  fine  che  manca  nella  stampa 
Giuntina  del  1527;  una  parte  ne  fu  data  dal  Valeria  ni  nella  stampa  del 
Ì828;  e  il  NANNUca  riportando  nel  1837  la  canz.  nel  suo  Manuale, 
asciò  pur  ^  addietro  la  parte  ommessa  dal  Valeruni. 


64  e.  B  L.  FRATI  —  INDICE  DELLE  CARTE  DI  P.  BILANCIONI,  P.  I.* 

6,  xxxYi     51.  Uomo  fallito^  pien  di  van  pensieri  (son.) 


GUmONE 
D'AREZZO 


Ms.:  Barber.  XLV,  47,  c-  143  [Fra  Guitlone  d'Arezio]. 
Ediz.:  Allacci,  Poeti  antichi,  p.  389  [Guitooe  d'Arezzo]. 

52.  Voglia  di  dir  giusta  ragion  nC  apporta  (son.) 

Mss.:*VaL  3793,  e.  46a  [Guilone  darezo].  •Laur.  Red.  9, 
e.  65  [G.  d'Arezzo  quivoca]. 

Ediz.:  G.  G.  Trissino,  Opere.  Verona,  1790,  voi.  II  (Poetica,  di- 
vis.^3.'),  p.  29  (i  TV.  1-4)  [Guittone  d'Arezzo], 


(Continua) 


C  «  L.  Frati 


LA  DRAG  HA  DE  ORLANDO 


DI  FRANCESCO  TROMBA 


Prima  di  pabblìcare  per  intero  questo  poema  ho 
folate  farlo  assaggiare  ai  lettori  del  Propugnatore,  mosso 
dalla  speranza  d*  invogliare  alcuno  di  essi ,  coltissimi  ed 
eruditi,  a  favorirmi  quelle  notizie  che  mi  fanno  difetto  e 
sull'opera  e  più  sull'autore,  e  che  non  dovrebbero,  se 
è  possìbile ,  mancare  all'  edizione  compiuta  di  tal  poema. 

Del  quale  la  più  antica  notizia  bibliografica  ci  è  data 
da  Marin  Sanudo  il  giovine  nel  God.  Marc,  ci.  IX,  n."" 
CCCLXiX,  a  p.  231»>  (1)  cosi:  La  draga  di  orlando  per 
frane.*"  tromba  da  Gualdo  istoriato. 

Se  tutti  quei  che  mai  cantaro  in  rima 
daltèpo  di  homer  fina  questa  hora 
cose  alte  e  de  celica  stima 
dei  vechij  monumenti  uscisser  fora 
non  porien  la  mia  opra  tanto  in  cima 
quanto  si  conuerebbe  edi  do  plora 
ogni  mia  fantasia  ma  oro  eprego 
a  te  Joue  mio  car  che  non  fi  nego 

(1)  Il  eh.  prof.  Rajna  cortesemente  m'indicò  una  notizia  del  prof. 
Crcscini  nel  Giom.  st.  d.  iHt.  ital.^  V,  181,  sulla  nota  del  Sanudo.  Ho 
direttamente  attinto  al  codice  per  quelle  più  compiute  indicazioni  che  dal 
Crescini  non  erano  date. 

VoL  IV,  Parte  II.  5 


66  GUOOMO  YANZOLINI 

stampato  In  perosa  per  bianchine  del  liane  1525. 

la  draga  libro  secando  historiato 

attempo  dela  pace  ogni  soldato 
dormendo  marte  ripiglia  piacere 
ma  quando  aduien  che  sia  puoi  risuegliaio 
ripiglia  larme  et  cambia  ognun  pensere 
Talson  fato  Io  che  fin  qui  ho  cantato 
de  cose  amen  piacevole  et  lieiere 
a  me  conuien  cambiar  più  alto  tasto 
per  quisti  dui  che  uengono  ad  contraio 

StampcUo  Imperosa  per  cosmo  da  Verona  1527. 

Ma  poi  per  lunghissimo  tempo  se  ne  perde  la  trac- 
cia, tanto  che  nessuno  dei  bibliografi  del  secolo  scorso 
ricorda  questo  poema,  sebbene  ne  citino  e  dello  stesso 
Francesco  (1)  e  di  Girolamo  (2)  che  forse  gli  fu  fratello; 
fino  a  quando  non  fu  descritto  nei  famosi  cataloghi  di 
vendita  di  Riccardo  Heber  i  quali  fornirono  e  al  Melzi  e 
al  Brunet  e  al  Graesse  quella  descrizione  che  ricopiarono 
senza  avere  pur  visto  un  esemplare  dell'opera.  Né,  in 
Italia  tanto,  credo  che  esista  o  almeno  si  conosca  altra 
copia  che  quella  ch'io  posseggo  del  I  libro  di  questo 
poema  ;  e  del  II  libro  si  sa  soltanto  che  ve  n'  ha  una 
nella  Trivulziana;  cosi  che  l'intero  poema  potrebbe  essere 
unicamente  ripubblicato  per  il  I  libro   su   questo   mio 

(1)  Haym,  Bihl.  Ito/.  —  €  Tromba  Fr.  (de  Gualdo  di  Nocera),  Tra- 
>  bisonda  historiada  con  le  figure  a  li  suoi  Canti,  nella  quale  se  contiene 
»  nobilissinae  battaglie,  con  la  vita,  et  morte  di  Rinaldo.  —  Venezia,  Vi- 
»  dali,  1518,  in  4°,  e  Guadagnino,  1554,  in  8.*  —  E  corretta  e  alla 
»  sua  integrità  ridotta:  Venezia,  Aless.  de  Vian,  1568 ,  io  8.*  »  —  Anche 
il  Sanudo  ricorda  questo  poema  cosi:  e  Trabisunda  istoriata  de  la  vita  et 
»  morte  di  orlando  (sic)  ».  —  Dello  stesso  Fr.  Tromba  l'Haym  cita  il 
e  Rinaldo  furioso,  Venezia,  Bindoni,  1542,  in  4.®  >. 

(2)  Tirabosch•^  T.  Vili,  L.  3^,  XUI  ricorda  il  e  Danese  Uggieri  »  di 
Girolamo  Tromba  da  Nocera. 


LA   DRAGHE  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  67 

esemplare  e  per  il  II  sa  qaello  del  m."®  Trìvulzìo.  Il 
che  sì  potrebbe  far  pienamente  quando  le  mie  ricerche, 
per  ora  infruttuose,  e  gli  aiuti  degli  eruditi  abbian  dato 
maggior  luce  sul  Tromba:  quando  mi  venisse  fatto  di 
trovare  quelle  quaranta  stanze  del  e.  VI  che  mancano  a 
me,  per  essere  state  dal  mio  esemplare  strappate  le  carte 
XXVIII  e  XXIX:  e  quando  infine  il  m.»«  Trivulzio  vo- 
lesse permettere  che  il  II  libro  ch'egli  possiede  fosse 
pubblicato. 

Aspettando  tutto  ciò,  ecco  la  descrizione  del  mio 
esemplare.  Il  volume  è  in  8^  gr.  con  segnatura  A-L.  La 
1  carta  ha  nel  recto  un'incisione  in  legno  consistente  in 
un  fregio  che  rinchiude  il  titolo  e,  sotto  a  questo,  un 
quadretto;  nel  cui  primo  piano,  a  destra,  è  rappresen- 
tato un  ippogrifo  immerso  nella  vasca  d'una  fonte:  e 
sotto  r  ippogrifo  è  scritto  DRAGINAZO  e  sulla  fonte 
FONS.  MERL  (ini);  a  sinistra,  un  cavaliere  in  atto  di 
salire  in  arcioni,  e  sopra  a  lui  è  scritto  ....  VGINO;  nel 
secondo  piano  si  vede  sulla  riva  di  un  mare  o  lago  una 
donna  entro  un  circolo  magico  fra  due  diavoli,  e  sul 
capo  della  donna  è  scritto  ARGENTINA,  e  dei  diavoli 
quel  di  destra  è  FARFARELLO  quel  di  sinistra  DRAGI- 
NAZO; un  Cupido  saettante  è  sull'angolo  sinistro  supe- 
riore, e  pure  a  sinistra,  ma  nell'  angolo  inferiore,  si  legge 
E.  F. 

Il  titolo,  in  caratteri  gotici,  è  questo:  Opera  nona 
chiamata  la  Dra  »  |  gha  de  Orlando  innamorato  :  \  doue 
si  cotene  de  molte  bat  \  taglie:  mamorameti:  e  co  \  me 
Renaldo  si  concio  \  co  Plutone  in  lo  \  Inferno. 

Nel  verso  si  legge  la  seguente  dedica  in  carattere 
italico,  come  quello  di  tutto  il  poema: 

ALLA  Gnosa  <è  III  Casa  Bagliona.  El  suo  fideUs- 
^mo  subgecto  éb  humile  mancipio.  Francesco  Tromba  da 
Gualdo  de  Nucea.  Filicita  perpetua. 


68  GUOOMO  YANZOLINI 

jTokva  0  Generosa  Casa  Bagliona  corno  se  coue- 
^  niua  altri  uersi  didicare  a  tua  excelsitudine:  ma 
habiandome  el  grane  peso  della  inopia  in  ogne  sulterania 
uoragine  sepolto.  No  posso   ad  quella  rendere  Amomi: 
nò  Cynami  Arabici:  nò Sabei  incensi.  Ma  solo  odori  di- 
spiaceuoli  e  arzilate  caligine:  corno  quello  subspinto  da 
uarii  casi.  E  maco  dodo  ydioma  nò  habiado  no  che 
asceso:  ma  a  pena  uisto  el  corcume  de  Nisa:  e  niaco  qUo 
de  Cyrra.  Ma  tu  generosa  Casa:  alla  qle  più  uolte  porsi 
la  rosta  fronte  nò  desdignara  receuere  i  temerarii  papiri: 
nei  quali  fra  le  altre  antiche  e  moderne  storie  maxima- 
mente  se  cotene  tua  serinissima  Prosapia  lamore  deUa 
qle  già  multi  ani   me  pme  el  graue  remo  in  mano  p. 
solcare  lo  altissimo  mare  de  tua  Generosità:  e  la  mìa 
sopita  musa:  secòdo  sua  capacita  relustro:  ne  mai  dalUwra 
in  qua  e  restata  catare  tue  Tmortale  laude.   Ne  io  per 
altra  guida  nauigai:  e  si  comò  qlb  Nochiero  eh'  Irapoz- 
zato  da  procellusi  uenti  perde  la  tramòiana  del  nostro 
emisperio:  sotto  lo  Artico  o  uero  Antartico  polo  la  ri- 
troua  e  co  nona  arte  no  senza  grandissima  tema  e  fai- 
tiga  toma  ne  i  disiati  porti.   Tale  io  che  se  nel  1521 
persi  la  mia  lucente  stella.  Tre  ogne  una  per  se  no  manco 
fulgida  ne  retrouai  a  i  ruggii  delle  quale  spero  auante 
Dio  me  redomande  gli  imprestati  giorni,  schiffando   li 
a^p.imi  scoglii  pigliare  porto  salutifero.  Et  allhora  la  mia 
resuegliata  musa  penetrado  de  cioelo  in  cioelo  fine  a  q (lo  de 
Marte  farse  sentire  sempre  in  honore,  gloria,  e  fama  :  de 
tua  excelsitudine.  La  qle  dio  preserui  in  fiUcita  perpetua. 

Molti  han  concelebrato:  in  più  uolume 
lepre  de  Carlo  degno  Imperatore: 
ma  nullo  astringe  appieno  el  suo  ucdore: 
che  in  terra  quasi  fu  un  celeste  nume^ 


L4  DRAGHA  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROBiBA  69 

Onde  franeesco  stse  geste  resumé 
ad  cantar  li  più  excelsi  d;  li  magiare  : 
guai  già  ripien  del  pegaseo  liquore 
facti  gli  ha  con  soi  carme  più  chiar  lume 

Vedrai  qui  inserte  hystorie  famosissime 
de  gli  antiqui^  e  moderni  assai  mirabile 
guai  per  legenda  fiana  a  te  gratissime: 

Si  che  per  tuo  piacer  Lectare  affabile 
compra  questa  Opra:  gratie  meritissime 
rende  al  noua  Poeta  almo  e  notabile. 

Alla  carta  II  recto  comincia  il  poema  che  coDsta  di 
diciassette  canti  in  ottava  rima,  1738  ottave  in  tatto,  e 
si  stende  per  carte  91  numerate  con  cifre  romane  nel 
recto.  A  piedi  dei  verso  delia  carta  LXXXXI  si  legge: 

FnUto   el  primo   Ubro   de   la   Draga:  de 

Orlado  inamorato  Stampato  per  me 

Bianchino  del  Lione:  &  Fran- 

cescho  Tromba  da  Gualdo  de 

Nucera:  in  la  inclita  citta 

de  Perusia  :  adi  15 .  de 

Marzo. M.D, XXV. 

Con  Gratta  <^  Priuilegio. 

E  questa  grazia  e  questo  privilegio  risultano  dalla 
seguente  concessione,  che  è  nel  recto  dell'ultima  carta 
non  numerata  e  che  riporto  qui  tale  quale. 

De  mandato  Reuerendi  domini  Vicelegati  Perusiae 
Vmbrieque  :  Vniuersis  <&  singuUs  per  Ciuitates  et  loca  suae 
Vicelegationis  constitutis  <fe  presertuum  impressoribus  fó- 
brorum  precipitur  iè  inhibetur  ne  quemdam  librum  inti- 
tulatum  :  La  Draga  de  Orlando  Inamorato  :  sumptibus  <& 
expensis  Cosmi  de  Verona  aUas  Bianchino  habitatoris 
Perusie  db  Francisci  Tromba  de  Gualdo  Nucerie  Impres- 


70  GUOOMO  YANZOLINI 

SOS  <ft  stampatos  sub  excommunicationis  confiscatwnis  U- 
brorum  huinsmodi  in  contemptum  intUbitionis  prefate  at- 
temptatorum  necnon  centum  ducatum  auri  de  camera 
prò  qualibet  apotheca  <&  per  earum  qualibet  inctirrendorum 
<Sc  Camere  Apostolice  applicandorum  penis  infra  decen- 
nium  a  die  a  quo  Uber  huiusmodi  in  totum  stampai 
fuerit  Imprimere  seu  Imprimi  facere  audeant  vel  presu- 
mani  Necnon  aliis  prefate  iurisdictìoni  non  subieclis  ne 
libros  prefatum  per  eos  forsan  imprimendum  in  lods  A 
terris  legationis  predicte  sub  penis  antedicUs  ék  dicto  de- 
cennio durante  quoquomodo  vendere  possint  in  contra- 
rium  faciendum  non  obstantibus  quibuscumque  :  In  Quo- 
rum (èc,  Datu  Perusie  in  palatio  Apostolico  Decima  MarùL 
MDXXV. 

Questa  e  Draga  >  istoriata  ha  sedici  incisioni  ìd  le- 
gno ,  senza  contare  il  frontispizio.  La  .1^  a  e.  IP,  dopo 
le  prime  nove  ottave  d'  introduzione,  rappresenta  un 
torchio  tipografico  e  un  uomo  che  scrive  seduto  a  m 
tavolino;  nella  2%  a  e.  II^  un  guerriero  seguito  da  m 
gigante  e  due  scudieri  si  presenta  a  un  re  e  a  una  re- 
gina; nella  3^  a  e.  XiiP,  un  cavaliere  a  piedi  combatte 
con  la  spada  contro  un  gigante  mostruoso  armato  di 
clava;  nella  4^  a  e.  XVI»»,  una  donna  con  la  spada  al 
fianco  accompagnata  da  un'  ancella  par  che  si  congedi  da 
altra  donna;  nella  5%  a  e.  XXP,  tre  guerrieri  a  cavallo 
pugnano  con  la  lancia  contro  sei  leoni;  nella  6%  a  e. 
XXVII*»,  Ire  cavalieri  s' incontrano  con  quattro  cavalieri 
fuori  d' una  città  posta  sulla  riva  del  mare  ;  la  7*,  a  e. 
XXXII**,  figura  una  cavalcata  di  quattro  guerrieri  e  due 
dame  che  incontra  tre  cavalieri;  TS*,  a  e.  XXXVI^,  è 
identica  alla  6*;  nella  9%  a  e.  XLIIP,  un  cavaliere  com- 
balte quattro  giganti  che  hanno  legata  una  donna  ;  la  10*, 
a  e.  XLIX^  rappresenta  un'  isola  dove  una  donna  lacera, 
con  un  bastone  in  mano,  sta  in  piedi  presso  un  gigante 


L^  DRAGHE  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROBiBA  71 

par  lacero,  sedato  in  terra,  ferito:  lontano,  un  trofeo 
d'armi  e  un  cavallo;  la  11%  a  e.  LV",  è  identica  alla  7*; 
la  12^,  a  e.  LX%  alla  5*;  nella  13%  a  e.  LXIIII%  quattro 
cavalieri  si  scontrano  a  lancia  in  resta  con  altri  quattro, 
e  sui  quattro  di  destra  si  legge  SATANAS;  la  14*,  a  e. 
LXVP,  è  identica  alla  10*;  la  15%  a  e.  LXXir,  alla  3% 
nella  16*,  a  e.  LXXX*,  un  cavaliere  scavalca  d'un  colpo 
di  lancia  un  altro  in  presenza  del  re  e  della  regina  che 
guardano  da  un  balcone. 

Se  non  che  tutte  queste  incisioni,  come  pure  il  fron- 
tispizio ,  noa  hanno  nulla  che  vedere  con  la  narrazione 
in  cui  sono  intercalate,  e  debbono  certamente  essere  state 
fatte  per  qualche  altro  poema  e  quindi,  trovandosi  in 
tipografia,  adoperate  per  la  e  Draga  »  come  ornamento. 

Questo  poema  può  essere  importante  per  la  materia 
e  per  la  forma.  Della  prima  non  mi  occaperò  io  perché 
non  ho  tutti  quegli  studi  che  occorrono  a  riconoscere  le 
varie  fonti  da  cui  l'autore  abbia  attinto;  e  d'altra  parte 
finché  il  poema  non  fosse  interamente  pubblicato  il  let- 
tore dovrebbe,  e  non  vorrebbe,  credere  alle  mie  aflfer- 
mazioni.  Quindi  per  ora  mi  limiterò  solo  a  darne  il  sunto. 
Per  quel  che  riguarda  la  forma,  dal  1""  canto  che  pubblico 
a  me'  di  saggio  i  lettori  concluderanno ,  credo ,  quello 
eh'  io  ho  concluso  dall'  intero  primo  libro  ;  che ,  cioè , 
questo  non  è  soltanto  uno  di  quei  poemi  romanzeschi  di 
fattara  popolare  che  fiorivano  cosi  numerosi  tra  il  XV 
secolo  e  il  XVI,  ma  è  anche  scritto'  in  dialetto,  nel  dia- 
letto umbro  quale  doveva  essere  in  sul  principio  del 
cinquecento.  Forse  la  lettura  del  1°  canto  non  persua- 
derà tutti  di  ciò,  poiché  esso  è  dei  pia  corretti  e,  dirò 
cosi,  italianizzati;  ma  tra  gli  altri  canti  ve  n'ha  parecchi 
cosi  ricchi  di  forme  dialettali  da  convincere,  s'io  non 
m' inganno,  i  più  ritrosi. 


72  GIACOMO  VANZOLINI 

Ecco  intanto  il  sunto  del  I  libro. 

Canto  I  (Stanze  99). 

Garlomagno,  sconfitto  e  ucciso  Agramante,  indice  io 
Parigi  una  giostra  con  tre  ricchissimi  premi.  Gano,  per- 
ché Rinaldo  non  giostri  e  vinca,  persuade  Garlomagno  ad 
allontanarlo,  ma  Rinaldo  arriva  in  quel  momento  dinanzi 
a  Garlo,  indovina  che  Gano  prepara  tradimenti ,  lo  insulta 
e  dà  origine  ad  una  gran  battaglia,  in  cui  Garlomagno 
resta  per  caso  da  lui  ferito.  Gano  consiglia,  con  inganni, 
Garlo  a  nascondersi  e  lo  rinchiude  cosi  in  prigione  dando 
voce  che  sia  morto;  ma  la  prigione  è  da  Dio  aperta,  e 
Gano  è  imprigionato  poi  liberato.  Rinaldo  saputo  tutto 
ciò,  d' accordo  con  Orlando,  adirato  abbandona  la  Francia. 

Ganto  II  (Stanze  115). 

Viaggiando  s' incontra  di  notte  in  un  accampamento 
di  pagani,  nel  quale  combatte  con  Lupagro  di  Rosela 
venuto  in  occidente  sotto  V  insegna  di  una  giovine  regina, 
Adriana ,  che  invaghitasi  tosto  di  Rinaldo  fa  cessare  il 
duello  e  rimetterlo  al  dimani.  Ma  prima  di  giorno  il 
campo  è  assalilo  da  Furiano  re  di  Scozia  (venuto  in 
Francia  per  provarsi  con  Rinaldo  e  Orlando),  il  quale  si 
stringe  a  combattere  con  Adriana,  mentre  Rusticano  tieP 
fronte  a  Rinaldo  e  a  Lupagro. 

Ganto  III  (Stanze  70). 

Ma  Rinaldo  con  un  bel  colpo  abbatte  Rusticano,  cb^ 
gli  chiede  tregua   sino  al  mattino  successivo;  ond'egli 
accordatala,  va  al  padiglione  ove  Adriana  era  stata  tra^ — ' 
sportata  tramortita,  ed  ivi  entrambi  si  rivelano  il  reciproco:^ 


LA  DRMBJ  DB  ORLANDO  DI  FRINCESCO  TBOBiBA  73 

amore.  Id  questa  nn  messo  di  Fariaoo  viene  a  dimandar 
pace  ad  Adriana,  parche  lasci  che  il  suo  re  combatta  con 
Rinaldo:  il  quale  accetta  di  combattere  e  con  lui  e  con 
Rusticano,  a  cui  ha  già  promesso.  Ma  la  mattina  dipoi 
egli  vede  venir  Furiano  solo  e  disarmato  che  gli  chiede 
di  rimandare  il  duello,  perchè  è  chiamato  altrove.  Rinaldo 
subodora  in  ciò  un  inganno  di  Gano,  che  infatti  aveva 
scrìtto  a  Furiano  dì  correr  su  Parigi  sguernita  dei  suoi 
migliori  difensori;  e  posto  questo  in  guardia  contro  il 
traditore  gli  concede  quel  che  dimanda,  indi  ritorna  ad 
Adriana  da  cui  doloroso  si  congeda. 

Canto  IV  (Stanze  101). 

Orlando,  con  Uggeri  e  Oliviero,  trova  Rinaldo  in  un 
boschetto,  dove  sono  insultati  dal  Saracino  Rarnocco  di 
Natalia  che  abbatte  Oliviero  e  Uggeri  e,  colpito  Orlando, 
si  attacca  furiosamente  con  Rinaldo.  Dopo  molti  colpi 
Rarnocco  fugge  perché  a  Rinaldo  non  soccorra  l' aiuto  di 
Orlando,  e  fuggendo  trae  il  signor  di  Montalbano  in  una 
valle,  dove  a  piedi  combattendo  è  da  lui  vinto  e  ucciso; 
prima  di  morire  prega  l'avversario  di  bruciare  il  suo 
corpo  e  recarne  le  ceneri  a  Gandia  regina  di  Santarìa, 
eh'  egli  ama.  Rinaldo  adempie  la  volontà  del  defunto,  pone 
in  serbo  le  ceneri  e  va  in  cerca  dei  compagni  attraverso 
una  selva  detta  degU  spiriti, 

Ganto  V  (Stanze  HO). 

In  essa  trova  un  pastore  che,  datogli  da  mangiare  e 
rallegratolo  con  suoni  e  con  danze  di  agnelli ,  gli  narra  di  sé 
come  fuggisse  d' Italia,  dove  stava  assai  bene,  per  la  ve- 
nuta d'un  Gallo  che  misela  tutta  sossopra,  e  riparasse  in 
quella  selva  in  cui  vive  anche  una  vecchia  maga.  Questa 


74  GIACOMO  YANZOLINI 

TaoDO  a  trovare  entrambi  il  di  dopo,  la  quale  appena 
Tìslo  Rinaldo  se  ne  innamora  e  si  offre  a  lai.  Rinaldo 
disgustato  parte,  ma  per  improvvisa  oscurità  levata  dalla 
maga  perde  la  strada  e  cade  in  un  burrone.  Intanto  Or- 
bude  e  i  compagni  cercando  Rinaldo  s' incontrano  presso 
un  fiume  in  una  regina  con  molte  donzelle. 

Canto  VI  (Stanze  94). 

Eia  è  Panta  che  nel  suo  regno  non  vuole  alcun 
maschio  [dopo   le  quattro  prime  stanze  mancano  d«« 
torte  che  debbono  contenere  quaranta  stanze).  Combat- 
tono insieme  il  Cavalier  Villano  e  Oliviero,  finché  Orlando 
d*im  colpo  di  spada  non  ha  disarmato  il  nemico.  Questi 
allon ,  saputo  chi  sono  i  suoi  avversari ,  li  invita  al  sao 
castello  e  per  via  narra  com'  egli  abbia  nome  di  Cavalier 
Vdhiio  perché  odia  le  donne  dal  giorno  che  due  di  esse 
hanoo  bsciato  morir  di  fame  un  suo  figliolo.  Giunti  al 
castello  è  servito  un  lauto  banchetto,  in  fin  del  quale 
una  bellissima  dama. 


Canto  VII  (SUnze  102). 

La  «luale  viene  a  intimar  guerra  a  Villano  da  parte 
vii  Paula.  Il  di  dopo  infatti  segue  un  gran  duello  fra 
Pinta  e  Villano  che  rimettono  al  giorno  successivo  la 
tsittagiia  campale.  Villano  chiama  l'aiuto  d'un  vicino, 
Tildoiie:  Panta  ordina  le  sue  schiere  femminili  con  astu- 
sui;  Iji  quale  invero  riesce  cosi  bene  che  la  battaglia 
termina  con  generale  sconfitta  di  Villano.  E  allora  giunge 
.VstoUo  che  recatosi  sotto  il  castello  di  Villano,  ove  stanno 
$(vitatori  neutrali  Orlando  e  i  compagni,  minaccia  dì 
ailemrio  se  non  gli  è  tosto  ceduto. 


LA  DR^GHA  DB  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  75 

Canto  Vili  (Stanze  100). 

Ma  il  di  dopo  vi  entra  e  trova  i  suoi  amici,  dai 
quali  saputo  lo  smarrimento  di  Rinaldo  si  parte  per  ri- 
trovarlo, mentre  Orlando  va  ad  offerire  il  castello  a  Panta, 
di  una  cui  compagna,  Lisa,  s' innamora  Oliviero.  Poi  tutti 
e  tre  si  rimettono  alla  ventura.  Astolfo  intanto  ha  ritro- 
vato in  un  prato  un  cavaliere  dormiente,  che  riconosce 
essere  una  donna,  Leonida,  con  cui  si  congiunge;  ma 
proprio  in  quel  punto  un  gigante  li  afferra  entrambi  tra 
le  braccia  e  s'avvia  per  portarli  alla  sua  dimora:  se  non 
che  due  donzelle  mandate  da  Panta  a  cercar  Leonida  li 
liberano,  e  questa  ritorna  al  castello,  e  Astolfo  assalta  il 
gigante.  Questi  allora  chiede  e  sa  eh'  egli  è  cavaliere  di 
Carlomagno  e  lo  invita  ad  andare  a  visitar  sua  sorella, 
la  maga  Draga. 

Canto  IX  (Stanze  127). 

Vanno  entrambi  da  lei ,  eh'  è  bellissima  e  abita  in 
una  valle  amena  e  di  sé  innamora  Astolfo  ;  ma  Y  improvviso 
giungere  di  quattro  giganti  obliga  lei,  Astolfo  e  il  gigante 
Fraccanaso  a  difendersi.  Ucciso  uno  degli  assalitori,  inse- 
guono gli  altri  e  finiscono  in  un  castello,  della  maga 
Luparda,  il  quale  ha  le  mura  di  calamita,  onde  chi  vi 
entra  con  Tarmi  non  ne  esce.  Colà  Luparda  dal  volto 
splendido  tiene  prigioni  molti  cavalieri  e  piace  assai  ad 
Astolfo  e  a  Fraccanaso,  che  riesce  a  trovar  Luparda  ignuda 
in  letto;  ma  scopertala  la  vede  gialla  puzzolente  schifosa, 
e  cosi  la  mostra  ad  Astolfo.  Contro  cui  Luparda,  desta- 
tasi ,  inveisce  con  villanie ,  e  chiama  V  aiuto  dei  giganti  ; 
ma  Astolfo  li  vince  a  bastonate  (che  Tarmi  tra  le  mura 
di  calamita  non  servono)  e  poi  esce  dal  castello.  —  In 


76  GIACOMO  YANZOLINI 

questo  tempo  Orlando  e  i  compagni  trovano  in  no  bosco 
UD  principe  d' oriente,  Joseppe,  che  disperato  piange  da 
tre  anni  perchè  ha  promesso  alla  sua  bella  di  uccidere 
un  gigante  nomato  Pitone,  e  non  ha  potuto  ancora  riD- 
venirlo. 

Canto  X  (Stanze  104). 

A  un  tratto  sopraggiungono  cento  faoni  (sic)  che 
caccian  cento  leoni,  di  che  i  cavalli  si  spaventano  e  scap- 
pano. Olivieri  restato  a  piedi  solo,  perché  Joseppe  è  corso 
dietro  al  cavallo  di  lui,  gira  pel  bosco  tutta  la  notte  e  al 
mattino  addormentatosi  è  fatto  prigione  con  un  incante- 
simo da  Moranda,  la  bella  di  Joseppe,  la  quale  gli  narra 
la  sua  storia  :  come  Joseppe  s' innamorasse  di  lei ,  come 
le  facesse  conoscere  il  suo  amore,  e  la  venisse  a  trovare 
facendosi  sorprendere  dal  padre  di  lei. 

Canto  XI  (Stanze  100). 

Il  quale  per  sapere  chi  egli  sia  indice  una  giostra,  a 
cui  Joseppe  viene  e  combatte  terribilmente  uccidendo 
tutti  i  cavalieri  e  molti  giganti.  Uno  di  questi,  Pitone, 
lo  sfida  a  parte  pel  giorno  dipoi  ;  ma  nella  notte,  essen- 
dosi trovati  insieme  i  due  amanti  e  sorpresi  dal  padre, 
succede  una  gran  zuffa  in  cui  il  padre  con  molti  altri 
resta  ucciso,  e  Pitone  fugge.  Joseppe  promette  alla  fan- 
ciulla di  rintracciarlo  e  ucciderlo.  —  Intanto  Orlando  dal 
cavallo  impaurito  è  portato  presso  un  monte  a  cui  guardia 
stanno  due  draghi;  uno  ne  scaraventa  giù  dal  monte. 

Canto  XII  (Stanze  88). 

L' altro  avvinghia  Orlando   con  la  coda  e  Y  atterra  ,^ 
ma  Orlando  lo  strozza  mentre  quello  l'abbocca.  Muore^ 


LA  DKAGHA  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  77 

il  dragone  che  però  col  fiato  ha  tramortito  Orlando  ;  sic- 
ché quando  giunge  il  Danese  lo  crede  morto,  lo  piange, 
e  lo  seppellisce.  Se  non  che  Yegliantino,  il  cavallo  d' Or- 
lando, scava  coi  pie  la  fossa  e  tanto  fa  che  lo  desta. 
Allora  nn  vecchio,  Elia,  si  presenta  e  conduce  Orlando 
su  per  il  monte,  su  la  cui  cima,  egli  dice,  stanno  gli 
Ebrei  che  conviene  sterminare.  —  Rinaldo  intanto  è  tratto 
dal  burrone  per  V  aiuto  di  un  vecchio  che  in  compenso 
vuol  che  gli  monti  un  cavallo  indomabile;  e  lo  conduce 
attraverso  un'  ignota  regione,  dall'  aspetto  infernale,  in  un 
palazzo  dov'  è  il  cavallo. 

Canto  XIII  (Stanze  23). 

Rinaldo  lo  monta  con  gran  fatica,  e  noi  può  reggere, 
ed  è  menato  per  una  selva,  i  cui  ceppi  urtati  dal  cavallo 
scoppiano,  lamentando,  in  nuvoli  d'insetti.  Torna  al  ca- 
stello e  cenando  ascolta  certe  fanfaluche  che  il  vecchio 
gli  narra. 

Canto  XIV  (Stanze  118). 

Riposatosi,  il  di  dopo  monta  di  nuovo  il  cavallo  ed 
é  tratto  in  una  pianura  piena  di  nuvole  che  piangono  e 
si  lamentan  d'Amore.  Alla  sera,  senza  aver  potuto  do- 
mare il  cavallo,  torna  al  castello  di  cui  il  vecchio   gli 
mostra  in  parte  le  meraviglie,  finché,  dopo  cena,  è  con- 
dotto a  letto  da  due  fanciulle  di  cui  l' una  gli  offre  il  suo 
amore  e  tutte  le  ricchezze  che  sono  in  una  stanza  dove 
ella  lo  mena.  Ma  quivi  egli  fa  il  segno  della  croce,  e  la 
donzella  scompare.  Il  di  dopo  rimonta  il  cavallo  arman- 
dosi d'  un  bastone,  con  cui  glie  ne  dà  tante  che  lo  doma 
e  lo  fa  parlare.  Nel  cavallo  è  1'  anima  di  Ghinamo ,  che , 
spiegatogli  com'  è  fatto  il  mondo  e  dettogli  che  quel  luogo 


78  OIAOOMO  YANZOLINI 

è  r  iDferDO  e  il  vecchio  è  Belzebù,  gli  fa  sapere  che  egli 
Rinaldo  per  voler  del  cielo  deve  coQgiungersi  con  Me- 
ronta  la  vecchia  maga,  e  gli  promette  di  trarlo  fuori  di 
là  se  più  non  lo  bastona.  Ma  tornato  al  castello,  uno 
spirito  messaggero  di  Malagigi  ordina  a  Belzebù  di  ri- 
condurre sulla  terra  Rinaldo,  il  quale  comincia  a  basto- 
nare Belzebù  e  tutti  i  centauri  e  i  caproni  che  son  corsi 
in  aiuto  di  questo.  Finalmente  Belzebù  resta  solo  e  fa  a 
Rinaldo  grandi  lodi  del  suo  coraggio. 

Canto  XV  (Stanze  154). 

Poi  gli  dice  che,  dovendo  obedire  a  Malagigi,  lo  lascia 
libero.  Infatti  lo  spirito  messaggero  lo  solleva  e  gli  fa 
traversare  tutto  V  inferno.  Si  fermano  dinanzi  a  Minos,  a 
cui  Annibale,  Alessandro,  Scipione  espongono  le  ragioni 
per  le  quali  ciascuno  tien  sé  più  valoroso  degli  altri;  anche 
Rinaldo  vuol  dir  le  sue;  e  Minos  in  fine  dà  la  sua  sen- 
tenza, in  cui  Rinaldo  non  è  considerato,  perché  vivo. 
Tornato  in  terra  ritrova  Meronta  ringiovanita  e  bella,  con 
la  quale ,  dopo  un  sacrificio  di  pantere  ed  orsi ,  si  con- 
giunge. —  Astolfo,  che  con  Fraccanaso  è  uscito  dal  ca- 
stello di  Luparda ,  incontra  Fortuna  re  d' oriente  e  lo 
sfida;  ma  entrambi  cascano  tramortiti. 

Canto  XVI  (Stanze  132). 

Astolfo,   risentitosi  primo,  crede  l'altro  morto  e  s< 
ne  va.  Giunge  Lisa   in   cerca   d'Oliviero  e  spoglia  del- 
l' arme  Fortuna ,  che  poi  rinvenuto  deve  vestire  gli  ahi 
di  Lisa.  Con  essi  indosso   va  e  trova   un   frate   che  I 
prende  per  donna  e  vuol  forzarlo.  Fortuna  l' ammazza 


LÀ  DRAGHd  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  79 

ripreso  il  viaggio  incontra  un  cavaliere  che  dorme  con 
Tarme  sae  indosso.  É  Lisa,  con  la  quale  combatte  alla 
corsa  e  alla  lotta  e  in  fine  si  congiunge.  —  Astolfo  poi 
è  giunto  presso  il  campo  di  Gurlia  re  Mauro  che  muove 
contro  Francia.  Egli  è  zio  di  Fraccanaso,  quindi  ricono- 
sciuto il  nepote  si  offre  a  ciò  che  Astolfo  desidera  e  lo 
fa  capitano  delle  sue  genti.  Muove  Y  oste  e  giunge  a  Ce- 
rasta capitale  del  regno  tolto  a  Fraccanaso  e  a  sua  so- 
rella Draga. 

Canto  XVII  (Stanze  101). 

Roccantino  figlio  del  viceré  esce  dalla  città  a  com- 
battere, ma  Rabi  V  indiano  respinge  le  genti  di  lui  dentro 
le  mura,  ond'è  da  Roccantino  sfidato  a  duello.  S'  avviano 
ad  una  valletta  dove  vedono  una  fanciulla  e  un  cavaliero 
(Lisa  e  Fortuna),  e  di  lei  Roccantino  s'innamora;  ma 
glie  la  contende  Astolfo  che  s'  è  pur  invaghito  di  lei:  ed 
entrambi  combattono  finché  Lisa  li  prega  di  smettere  fa- 
cendo uno  scambio  di  collane  in  pegno  di  pace.  Però,  lei 
partita,  Astolfo  e  Roccantino  ricomincian  la  pugna,  men- 
tre Rabi  è  corso  dietro  a  Lisa  col  cui  cavaliere  combatte. 
Roccantino ,  lasciato  Astolfo ,  corre  pure  in  traccia  di 
Lisa,  e  giunge  in  tempo  a  liberar  Fortuna  dalle  strette 
di  Rabi  cui  getta  in  un  burrone.  Poi  tutti  e  tre  ritornano 
aila  città,  dove  Roccantino  è  sfidato  di  nuovo  a  singoiar 
tenzone  da  Astolfo. 

Questo  che  segue  è  il  1""  canto  che  ho  trascritto  senza 
alcuna  correzione. 


80  GIACOMO  YANZ0L1NI 


CANTO  PRIMO 


Se  tutti  quei  che  mai  cantaro  jn  rima 
dal  tempo  de  Homer,  fina  qsthora 
cose  alte  e  de  celica  stima 
dei  uechii  monumeutì  uscisser  fora 
DOD  porien  la  mia  opra  tauto  incima 
guato  si  coDuerebbe  e  de  ciò  plora 
ogne  mia  fantasia:  ma  oro  e  prego 
a  te  Joue  mio  car,  che  no  fi  nego 

De  por  la  mano  in  qito  mio  uolume 
che  senza  te  saria  qual  quel  ucello 
che  uol  uolar  in  ciel,  senza  hauer  piume 
à,  sempre  e  in  terra  basso  e  pouerello 
tu  serai  el  mio  fil  senzaltro  lume 
che  me  trara  del  laberinto  fello 
tempera  adonqua  la  mia  lyra  o  Joue 
puoi  che  da  te  ogne  gratia  se  moue 

0  fìgh'a  de  Penco:  cessa  gli  affanni 
infugirte  da  me:  come  da  Pollo 
ma  sotto  Ihombra  de  tua  sacri  panni 
e  de  lachryme  sparse  intomo  al  collo 
accectame  lauanzo  de  mia  anni 
chel  suono  el  canto  mio  sentir  farollo. 
chel  suono  el  canto  mio  tua  chiome  copra 
infin  al  terzo  elei,  forscie  desopra: 

Et  tu  Clyio  &  tu  Euterpe  gloriose 
Talia,  Melpomone,  Polynia  ancora. 
Vranya,  Erato  Tersicore  gioiose  : 
che  lacqua  eliconea  uersate  fuora: 
e  tu  Calyope  fra  le  famose 
ogne  orator  te  prega  chiama  e  honora: 
andate  a  Dapbene,  e  de  sua  capiglii 
ornate  le  mia  tempie  e  le  mia  ciglii  : 


LA  DKAGBA  DE  OKLJNDO   DI  FRANCESCO  TROMBA     81 

Nò~  siate  a  me  mao)  benigne  e  grate 

che  fostor  al  cantor  de  Beatrice 

come  il  Petrarcha  la  mia  testa  ornate 

se  coronarme  de  tal  fronde  e  lice 

qual  tante  carte  per  lor  son  uergate 

merce  la  uostra  a  i  quai  fostor  amice 

resurga  in  me  come  in  Tulio  oratore 

uostra  doctrina,  si  chio  habbia  honore: 
E  tu  Orfeo  col  suon  merauiglioso 

uendsti  Fiuto  nel  centro  più  basso: 

e  tu  Amphyon  mio  diuo  e  famoso 

che  col  sonar  tiraui  ogne  gran  sasso  : 

pigliate  la  mia  lyra  e  glorioso 

so  chusciro  già  dellintrato  passo: 

e  uoi  Auditori  ornati,  e  tersi, 

degnatine  ascoltar  questi  mìa  uersi: 
Legende  in  certe  Croniche  trouai 

de  cario  magno  e  de  sua  paladini 

cose  che  molto  me  merauigliai 

che  tanti  ingiegni  excelsi,  e  pelegrini 

ebano  scritto  de  lui  no  habbian  mai 

colta  la  rosa  fuora  delle  spini 

e  reducto  el  parlar  de  franza  Italico 

scritto  per  man  de  Sigimbeilo  galico 
Et  correcto  per  man  del  buon  Turpino 

che  non  haueria  scritta  la  menzogna 

elqual  Yescouo  fu  &  Paladino 

la  cui  bontà  disputar  non  bisogna: 

ben  la  conobbe  il  figlici  de  Pipino 

de  lui,  de  Namo  <&  de  qT  de  borgogna  : 

ma  Carlo  ad  lui  gli  solia  dar  tal  uanto 

chera  prudente  ualoroso  <&  santo: 
Disse  adonque  Turpin  con  sacramento 

che  preuidia  lingnorantia  futura 

de  mille  fatti  nd^ho  scripti  cento 

che  fiero  i  paladini  senza  paura 

VoL  IV,  Parte  U.  6 


82  OIAOOMO  YANZOIINI 

solo  scrìvea  quelle  de  pia  spauento: 
accio  lor  fama  fosse  pia  sicura 
à  io  che  le  sua  croniche  studiai 
scrìuero  aponto  el  uer  quel  che  trouai. 

Nel  tempo  che  rìnoua  la  stagione 
&  par  che  rida  ogne  uaga  collina: 
e  eh*  giù  dallinfemo  el  già  plutòè 
uenè  a  rapir  la  bdla  proserpina: 
facea  gra  festa  lalto  re  Garlone 
dentro  parigie  cita  peregrina: 
perche  con  dubbio  poco  tempo  auante 
hauea  sconfitto  e  morto  il  re  Àgramate: 

Per  questo  fece  una  giosta  bandire 
la  maior  che  mai  fesse  alla  sua  uita: 
e  accio  chognun  sicur  possa  la  gire 
uol  che  per  tutto  el  mondo  sia  sentita: 
e  che  sia  in  liberta  stare,  &  partire 
per  quattro  mesi  a  sua  corte  bandita 
dogni  lenguaggio  e  per  ogne  camino 
0  uoglia  adorar  christo:  o  apollino, 

Voi  anche  il  glorioso  re  Garlone 
colui  che  ingiostra  remara  uincente 
habbia  per  pregio  tre  riche  corone 
che  uaglion  più  dun  terzo  de  ponente: 
qua!  for  donate  al  sauio  Salamone 
da  la  regina  Sabba  de  oriente 
ornata  a  pietre  precipse  e  géme, 
qual  Carlo  Ihacquisto  in  hierusalème: 

Oltra  di  questo  una  tauola  doro 
sei  pie  per  ogne  uerso  senza  fallo 
dove  scnpti  seron  tutti  coloro 
che  serano  abbatutti  da  cauallo 
questa  sera  pel  secondo  restoro 
uogli  esser  re,  signor,  duca:  o  uassallo: 
el  terzo  precio  uol,  chabbi  il  uincente 
la  più  bella  donzella  de  ponente: 


.4  DR^GH^  DE  OBL4NDO  DI   FRANCESCO  TROMBA  83 

Et  qaesto  fece  lalto  imperatore  : 

per  cognoscer  el  fior  dogne  niilitia: 

acLO  chi  uol  combatter  per  amore, 

0  uol  per  fama:  o  uol  per  auarìtìa 

habbia  ragion  mostrare  il  suo  ualore: 

ma  subito  che  gan  nhebbe  notitia 

se  imagino  fra  se  questo  ribaldo 

chogni  cosa  serebbe  de  Renaldo: 
Onde  andò  a  corte  proprio  la  matina 

che  si  douea  la  giostra  publicare: 

prima  in  Parigie  cija  pelegrìna: 

e  poi  pel  mòdo  quato  se  può  andare: 

douera  tutta  la  Baronia  fina 

e  Carlo  allegro  in  mezo  a  tutti  stare 

che  nolia  agiongner  lalto  re  Cartone 

al  real  bando  unaltra  condictione: 
Cioè  se  alcun  Saracino  o  Christiano: 

sera  abbattuto  de  larcione  in  terra: 

possa  prouarse  co  la  spada  in  mano 

ma  nò~dur,  più  dunhora  quella  guerra: 

inteso  questo  el  traditor  de  Gano: 

per  jian,  co  riuerentia  Carlo  afferra 

e  co  malitia  graUosa,  e  arte: 

tiro  Limperator  sol  da  una  parte: 
E  apogiati  tuttidua  a  un  balcone 

tenendo  Gan  la  sua  testa  scoperta 

gli  dicia  serinissimo  Cartone 

accio  cha  tuttol  mondo  sia  più  aperta 

la  fama  tua  si  come  uol  ragione 

dico  che  buon  tor  uia  ogne  coperta 

che  podesse  tua  fama  maculare 

accio  tua  Malta  non  truoue  pare 
Tu  sai  che  Malagige  e  nigromante 

e  ha  tutto  linfemo  al  suo  comando 

del  qual  uiste  nhauem  già  prone  tante 

e  so  che  te  ricorda  ancora  quando 


84  GIACOMO  YANZOLINI 

te  fé  tor  la  coroaa  :  hor  nò  più  inàle 
basta,  che  per  Renaldo  e  per  Orlando 
farìa  di  terra  ciel,  &  del  inferno: 
se  tanta  forza  hauesse  al  suo  qtemo: 

Et  sai  chel  fior  de  i  caualier  del  mondo 
ueróno  a  questa  giostra  gloriosa 
come  sentendera  a  tondo  a  tondo 
che  cosi  uol  ragion  soprogne  cosa 
Renaldo  qui,  e  dun  cuor  si  furibondo 
e  duna  forza  inuer  merauigliosa 
ma  no  già  tanta  che  non  troue  pare  : 
che  cercara  quel  pr^io  guadagnare: 

Et  se  de  forza  non  sera  bastante 
che  de  meglior  de  lui  sen  troua  assai: 
el  cercara  col  suo  Ciò  nigromante 
come  sapem  cha  facto  sempre  mai 
con  qualche  ingano:  che  ne  mercatante 
e  tu  Garlon  so  che  più  daltri  el  sai 
che  no  guardando  al  tuo  reale  honore 
uorra  qui  pr^,  e  già  mei  dice  el  cuore: 

Que  se  dira  de  te  puoi  Carlo  mio 
fin  nellestreme  parte  della  terra: 
che  sei  tenuto  al  mondo  unaltro  Dio: 
per  tua  diuina  fama  che  non  era: 
perho  non  far  come  fa  el  uillan  rio: 
che  come  ha  persi  i  boni,  Inscio  serra: 
fa  assenno  mio  Garlone  a  questo  tracto: 
ne  spectar  dir  cosi  noria  hauer  facto: 

Prouedi,  dico  adesso  chai  el  tempo 
mandar  fuora  Renaldo  e  malagigie 
in  qìche  longhe  parte  si  cha  tempo 
non  torneno  alla  giostra  de  Parigie 
cridelo  a  me  che  quàtò  più  ma  tempo 
più  conosco  de  lor  le  uoglie  bigie 
massime  de  Renaldo  el  scelerato 
che  so  catiuo:  assai  prima  che  nato 


LÀ  DKAGHJ  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TBOMBA  85 

Altro  non  dico  a  tua  sacra  Corona: 

tu  sei  ben  sauio  e  sai  quel  chai  dafare 

piglia  la  parte  mo  che  te  par  bona 

debito  amor,  mei  te  fa  recordare: 

hor  si  hor  no  a  Carlo  gli  consona 

perho  non  fé  resposta  a  quel  parlare 

sapea  ben  luijchel  princepe  Renaldo 

hauia  del  buo,  ma  assai  più  del  ribaldo: 
Ma  perche  hauia  un  certo  odio  antico 

con  quella  degna  casa  de  Dardona 

tenea  ciascun  per  capital  nimico 

nel  suo  secreto:  e  perho  orechie  dona 

nelle  ragion  del  tradictor  ostico 

cosi  combatte  fra  se  e  tenzona 

come  podesse  far  con  suo  honore 

chauesse  efifecto  el  dir  del  traditore 
Et  fo  uoltato  uerso  la  gran  sala 

per  fare  a  tutti  segno  de  combiàto 

Renaldo  in  questo  montana  la  scala 

<&  era  con  Astolfo  acopagnato 

Carlo  chel  uidde  de  de  lochiolala 

al  traditor  de  Gan,  che  gli  era  allato: 

e  disse  forte  :  Lupus  est  in  fabula  : 

Astolfo  se  uolto  a  quella  parabula: 
E  disse  e  mala  nona  per  larmento 

Renaldo  prese  presto  sospitione: 

dicendo  a  Carlo  qualche  tradimento 

de  ordenare  el  conte  Ganelone: 

el  cuor  mei  dice  e  quasi  al  naso  el  sento: 

Gan  tutto  se  muto  a  quel  sermone: 

e  disse  se  non  fosse  (ìurlo  magno: 

diria  che  menti  tu  el  tuo  compagno: 
Si  sio  me  somegliasse  alla  tua  gente 

ribelli,  e  tradictor,  della  corona: 

Renaldo  uéne  in  faccia  fuoco  ardente 

come  fulgor  del  ciel  quando  più  tona: 


86  OIAOOHO  YANZOLINI 

pur  fo  contra  lusato  patiente: 
beo  che  oel  pecto  disidegno  Io  sprooa: 
ma  non  fo  cosi  Astolfo  a  quella  Oata: 
che  nella  bocca  gli  de  una  guanciata: 

Gan  se  lasso  cader  de  rieto  a  Carlo 
perche  Renaldo  hauia  fusberta  in  mano 
<&  non  finaua  mai  de  menacciarlo 
e  quando  crida,  o  imperator  Romano 
ancor  serai  pentito  de  scamparìo: 
e  tardo  so  cognoscerai  chi  e  Gano: 
ma  forscie  uole  el  ciel  che  cosi  sia 
che  sempre  credi  alla  sua  fellonia 

Cario  cridaua  meteite  giù  larme 
ribelli,  e  tradictori  del  mio  stato 
tu  non  uol  mai  Renaldo  r^uardarme 
e  tu  Astolfo  pure  al  modo  usato 
la  corte  tutta  se  leuata  in  arme 
Oriando  el  primo  se  fo  presentato 
e  uol  pur  che  Renaldo  ingenochione 
chieda  mercede  e  Carlo  gli  perdone: 

Namo  hauia  Astolfo  tirato  dacanto 
el  buon  Danese  Gan  fece  leuare 
el  uechio  Amone  al  cuor  ha  dolor  tanto 
del  suo  figlici,  che  non  podea  parlare: 
glialtrì  dicieno  hor  su  Imperator  santo 
non  uoler  la  tua  corte  desturbare: 
&  già  Renaldo  sera  ingenochiato 
denante  a  Carlo:  e  dice  hauer  fallato: 

Tutta  la  corte  se  merauigliaua 
della  grande  humilta  chauia  Renaldo: 
Orlando  dallegrezza  lachrymaua: 
cha  tanta  patientia  el  uedea  saldo: 
ma  ecco  Maccarin  che  in  sala  intraua: 
nepote  a  Gano:  e  figlici  de  Rambaldo 
con  ben  mille  ccpagni  in  una  schiera: 
e  lui  inante  a  tutti  quellaltri  era: 


4  DRAGHA  DE  ORLANDO   DI  FRANCESCO  TROMBA     87 

E  come  io  sala  fo  corse  lq  uq  traete: 
douera  el  buon  Renaldo  ingionichiato  : 
Orlando  che  sacorse  dejfuellacto 
che  Maccarin  già  el  brado  hauea  caliate  : 
sopra  Renaldo:  caualier  adacto: 
se  misse  in  mezo  :  el  colpo  hebbe  pigliato 
con  durindana:  <&  poi  meno  un  reuerso 
&  tagUo  Maccarin  tutto  atrauerso: 

Puoi  disse  al  suo  cugin  lena  barone 
Renaldo  presto  ritto  se  leuaua: 
che  intese  quel  parlar  per  descrictione 
e  in  mezo  a  maganzesi  se  cacciaua  : 
qual  fra  larmento  un  rapace  Leone 
tristo  colui  che  più  presto  trouaua 
e  muggia  come  un  toro  &  taglia  e  straccia: 
&.  doue  son  più  folti  iui  se  caccia: 

I  maganzesi  non  serano  acorti 
che  Maccarin  fosse  in  dui  pezzi  in  terra: 
<&  de  molti  altri  de  lor  che  son  morti, 
ma  tutta  uia  facien  più  crudel  guerra: 
<&  ben  cento  de  lor  cheran  più  forti, 
la  porta  del  palazzo  a  forza  serra: 
per  non  lassar  intrar  gli  altri  defore: 
che  non  fosser  de  illor,  a  quel  remore: 

El  resto  combattien  de  ogne  canto: 
cridando  mora  quei  de  chiaramente: 
Gan  de  maganza  col  mostaccio  franto: 
corse  in  mezo  dei  sua  con  lieta  fronte: 
Amen  Namo  Turpin,  <&  Dodon  santo: 
Danese  e  Vliuier,  Astolfo  <&  el  Conte 
Ottone  &  Berlengier,  <&  Ricciardetto 
han  facto  un  colonel,  serate  &  stretto: 

Et  sonse  da  lun  canto  retìrati 
&  facto  retirare  el  buon  Renaldo 
ma  prima  Astolfo  <&  lui  nhaoio  amazati 
quasi  un  buon  terzo  del  popul  ribaldo 


88  GUOOHO  YANZOLINl 

<&  se  de  dosso  fusser  suti  armati 
tutti  eran  morti,  ma  ecco  Rambaldo 
cheDtro  ìd  sala  ben  con  trenta  CSonti: 
armati  tutti  ualorosi  A  pronti: 

Carlo  era  in  mezo  pien  de  ooglia  amara 
fra  luna  parte  e  laltra  con  ardire: 
prega  menaocia  comanda  <&  repara: 
che  ciascun  se  retengha  de  fmre: 
ma  sempre  i  maganzesi  con  più  gara: 
reforzan  la  battaglia:  &  &n  morire 
<&  maxime  come  gionse  Rambaldo 
se  fo  scagliato  adosso  de  Renaldo: 

Ck)si  comera  tutto  inuelenito 
gli  meno  della  spada  su  la  testa 
che  si  più  inaté  giongia  pur  un  dito 
gli  haria  quel  colpo  sol  fecta  la  festa 
perche  noi  gionse  Rambaldo  e  fugito 
derieto  a  Carlo:  &  sotto  la  sua  uesta 
mal  buon  Renaldo  carco  de  furore: 
menando  allui  feri  Limperatore  : 

Come  Tarpino  ha  scrìpto  aponto  parlo 
gionse  fusberta  a  guisa  de  baleno: 
non  può  quel  colpo  Limperìer  scusarlo:  ^ 
chel  colse  sulla  spalla  &  poco  meno 
che  non  fo  questa  la  morte  de  Carlo: 
&  cadde  a  reuerson  soprai  terreno 
ciò  e  sopra  la  sala  del  palazzo 
doue  de  sangue  se  uedea  gran  guazzo: 

Carlo  chera  ferito  crida  forte 
nepote  mio  do  sei:  que  fai  tu  hora 
&  Gan  cridaua  hai  Namo  que  cóporle 
0  Danese,  o  Yliuier  fatte  che  mora 
qì  tradictor,  che  a  Carlo  ha  dato  morte 
gran  remor  se  sentia  dentro  e  difuora 
correno  in  sala  &  non  podieno  entrare 
&  in  sala  sempre  e  el  crudd  battagliare, 


é  DKJGHA  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  89 

Tutta  la  terra  corre  a  grao  remore 

chi  noD  sa  la  cagioD,  corre  alla  piazza 

ferito  e  in  sala  lalto  Imperatore 

&.  GaD  corria  la  terra  <&  la  sua  razza 

mai  piu_ÌD  parigie  fo  tanto  furore 

mal  buó  Orlado  <&  Dodon  dalla  mazza 

leuar  fuor  della  sala  el  re  Garlooe 

ma  non  per  questo  reman  la  quistione 
Mai  più  parigie  fo  in  tanta  fortuna: 

ne  Carlo  mai  in  tanta  estremità: 

ne  se  pò  dir  ne  odir  ragione  alcuna: 

soflSan  le  spade  con  gran  crudeltà: 

da  farre  oscuro  el  sol  non  che  la  luna 

chi  cadde  chi  se  riza  chi  giù  sta: 

desteso  morto  sepolto  nel  sangue: 

tal  braua  e  fìiggie:  e  tal  menaccia  e  lagne 
Quei  chera  in  piazza  dauan  la  battaglia 

alla  porta  real  con  archi  &  dardi 

tal,  che  dentro  e  defìiur  era  trauaglia: 

ma  pur  Renaldo  fra  glialtri  gagliardi 

semp  in  mezo  a  nimici  straccia  &  taglia  : 

chiamandoli  uili  tradictori  <&  codardi: 

perche  Orlando  caualier  ardito 

hauea  portato  uia  Carlo  ferito: 
El  buon  Astolfo  ha  ferita  la  mano 

perho  mugiava  a  guisa  de  grand*  Orso  : 

<&  in  mezo  de  nimici  uede  Gano 

ne  mìsse  tempo  che  in  un  traete  e  corso 

per  trarlo  fuor  de  quel  popul  uillano 

ma  Grifonetto  gli  dette  socorso 

chera  figlici  de  Grifon  dalta  foglia 

ql  capo  Gano  allhor,  da  mortai  doglia: 
Perche  Astolfo  e  con  lui  Ricciardetto 

lo  strassinaua  uia  come  un  castrone 

ma  con  la  spada  gionse  Grifonetto 

&  con  lor  attaco  la  quistione 


90  OIAOOMO  YAMZOLUn 

tanto  che  Io  rescosse  allhor  dispecto: 
hor  ecco  gioDto  Reoaldo  d  Àmone 
chera  ferito  attrauerso  la  schina 
onde  mostraaa  in  uiso  una  fucina: 

Gan  quando  el  uidde  comenzo  a  fogire 
&  fo  lassato  andar  giù  per  la  scala 
Renaldo  sol,  ne  fé  tanti  morire 
chera  de  morti  già  piena  la  sala 
quel  giouen  Grìfonetto  pien  dardire 
ualente  forte  &  ligier,  come  gala 
facia  si  presta  &  si  Ocra  battaglia 
che  tutti  i  paladin,  tenia  in  trauaglia 

Rambaldo  sera  uia  con  Gan  partito 
per  menar  alla  zuffa  noua  gente 
hor  Carlo  puoi  che  inumerà  fb  ito 
col  buon  Oliando  <&  co  Dodon  possente 
fo  medicato  &  non  trono  impedito 
in  uerun  luoco  losso  de  niente 
sempre  la  Imperatrice  Galerana 
gli  era  dintorno  gratiosa  <&  humana 

Cario  si  fé  portar  un  libro  inante 
donerà  tutta  la  sacra  scrittura 
sopra  del  ql  fermo  ambo  le  piante 
della  sua  mano  &  in  questo  modo  giura 
io  giuro  per  le  opre  tutte  quante 
cha  fecte  Dio  con  la  sua  mente  pura 
<&  per  el  uechio  «&  nuouo  testamento 
e  per  el  uero  e  saocto  sacramento: 

Et  cosi  afiermo  de  buon  cuore  &  dico 
ne  u<M  de  questo:  poderme  pentire 
tener  sempre  Renaldo  per  nimico 
in  uita:  <$:  se  porro  depo  d  morire 
come  ribello:  &  tradictore  ostico 
éc,  come  tradidor  hrìo  sbandire 
de  tutto  guato  el  paese  chrìstiano 
<!ÌL  ruinare  i  figli,  &  naontaUttno 


>A  DKAGHA  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  91 

Et  pegio  se  io  poro:  peggio  tractarlo 

<&  de  sforzarme  più  chio  non  porro 

ìd  questo  <&  io  laltro  mondo  descaciarlo 

se  Carlo  come  so:  de  la  sero 

<&  se  tu  OrlaHo  sei  nepote  a  Carlo 

se  comandar,  o  pr^ar  te  porro 

giura  la  morte  del  figlioi  d  Amone 

&  la  fìranza  sia  tua:  per  guidardone 
Et  cosi  uoi  che  tutti  i  paladini 

giuron  la  morte  de  questo  ribaldo 

se  non,  i  bandezaro  dei  mia  confini 

a  suon  de  tromba  Sl  per  bocca  d  Araldo 

sentendo  Galerana  quei  latini 

subbito  in  sala  gi  atrouar  Renaldo 

&  pregai  quato  può  con  uiso  humano 

che  lasse  li,  <&  torni  a  montalbano 
For  le  parole  sue  de  tanta  forza 

chebbe  Renaldo  tutto  humiIiato_ 

ma_qì  graden  dal  ciel,  che  sfroda  <&  scorza 

qualarbor  troua  <&  guasta  i  fior  nel  prato 

straccia  le  uele  in  mar,  e  poggia  <&  orza: 

ancoro  e  sarte  &  lalbor  e  fiaccato 

tale  accade  in  quel  ponto  un  tal  gridare 

che  più  non  poddea  Renaldo  parlare 
Perche  Gan  de  magaza  con  Rambaldo 

come  uè  disse  seran  uia  partiti 

e  redunar  de  lor  popui  ribaldo 

quei  che  parieno  a  lor  fusser  più  arditi 

<&  per  Parìgie  cridauan  Renaldo, 

con  glialtrì  Paladini  insieme  uniti 

hano  amazato  el  nostro  Imperatore 

&  cosi  la  cita  corse  aremoro 
Cognobbe  Gan  che  questera  el  dissegno 

che  già  gran  tempo  hauia  desiderato 

del  reame  de  franza  farse  degno 

&  pigliar  la  corona  de  lo  slato 


92  GIACOMO  YANZOLINI 

&  dice  la  Fortuna  men  fa  segno 
ecco  ciascun  Paladin  desarmato. 
Sl  la  furia  del  popul  gli  uà  adosso 
che  ciascun  morto  fla  prima  che  mosso 

La  piaza  e  tutta  piena  de  remore 
chera  a  sentire  un  caso  molto  strano 
tutti  cridavan  mora  el  traditore 
mora  Renaldo  quel  da  montalbano 
questo  senti  Orlando  senatore 
cosi  Dodon,  cheran  con  Carlo  aitano 
&  saltar  fora  fra  tanta  brigata 
che  facien  guerra  cruda  &  despietata 

Ne  fo  più  presto  de  camera  oscito 
lui,  e  Dodon,  chentrar  fra  Paladini 
sei  ciel  cadesse  non  seria  sentito 
0  quanti  maga'zesi  fler  mischini 
Galerana  a  fugir  prese  partito: 
ma  Gfanelon,  e  glialtrì  parigini 
pigliarono  el  palazo  sobitano 
cridando  mora  quel  da  montalbano 

Morano  i  paladini  ognun  crìdaua: 
chano  amazato  el  nostro  Imperatore 
Orlando  a  tutti  altamente  giuraua 
&  dicea  fratelli  mei  sete  in  erore 
Carlo  morto  non  e  cosi  affermaua: 
ma  no  e  inteso  in  tanto  alto  remore 
anzi  ognuno  el  feria  con  guerra  amara 
Si.  lui  con  durindana  se  repara 

Orlando  sempre  de  piatun  feria: 
ma  pur  la  morte  a  molti  fa  prouare 
ben  che  se  un  ne  mor  diece  giongia 
tal,  che  la  zuffa  non  può  destacare 
lira  gli  crescie  in  tanta  bizzaria^ 
che  comenzaua  et  taglio  ad  insaguinare: 
Sl  già  in  sala  e  tanta  gente  morta 
chel  sague  lor  corrìa  fuor  della  porta 


L^  DKéiGHd  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TBOHBA  93 

Renaldo  chera  un  mondo  de  furore 

intorno  al  brado  se  uolto  la  uesta 

0  quale  gambe  taglia  quel  signore 

de  giù  de  su  con  mina,  &  tempesta: 

cosa  disse  Turpin  dun  gran  terrore 

che  uidde  ad  un  troncarglie  uia  la  testa 

&  quella  testa  bottarse  in  unaltra 

che  mai  fo  uista  più  quella  nellaltra: 
Scripse  turpino  aponto  in  questo  loco 

ben  che  dapoi  ne  fo  quasi  pentito 

dubbitandose  lui  cha  tempo  &  luoco 

fosse  per  fabula,  o  menzogna  edito 

che  le  due  teste  sauamparo  a  fuoco 

tal,  chogni  Paladin  fo  sbigottito 

de  bracia  &  altre  teste  laria  e  pina 

ne  mai  più  in  sala  fo  tanta  roina. 
Tutti  eran  coi  manteglii  al  bracio  auolti 

i  magni  paladin  pien  de  fracasso 

ben  chogne  colpo  namazaro  molti 

non  podien  fra  inimici  far  el  passo 

per  poderse  partir  tanteran  folti: 

&  son  tutti  feriti,  &  ciascun  lasso: 

hor  ecco  Grifonecto  quel  aitante 

intrar  fra  lor  qual  fier  leon  latrante 
Renaldo  al  tutto  e  fuor  degne  patientia 

ne  sa  que  sia  respecto  quel  Barone 

e  cosi  ancora  glialtrì  fanno  spirìentia 

quato  uaglion  con  larme  lor  persone 

e  che  fosse  dal  ciel  tale  influentia 

0  lor  facto:  o  distino:  o  pur  cagione 

forza  fo  a  tutti  renderse  pregioni 

chi  la,  chi  qua,  i  ualorosi  baroni: 
Cosi  fuor  presi  tutti  ipaladini 

come  usanza  quàdo  el  campo  e  rocio 

Namo  se  fé  pregion  deparigini 

cosi  fé  il  bon  JDanese  in  guerra  docto 


94  OIACOMO  YAMZOLINI 

Vliuier  coi  figlioli  de  NamojBni 
&  Dodon,  for  pregioni  del  cote  Arlocto: 
chera  el  più  uecchio  conte  da  pontieri 
&  abantiquo  amico  de  Yliuieri: 

Renaldo  Astolfo  Àmone,  &  Ricciardetto 
seran  restrecti  insieme  in  un  cantone 
douera  un  secrecto  e  falso  ussetto 
che  qualche  uolta  usaua  el  re  Garlone 
quado  uolea  alla  stalla  andar  soletto 
per  uagheggiarse  qualche  bel  roncione 
li  tutta  quattro  intraro  i  baron  fini 
fin  che  fuor  presi  glialtri  paladim': 

Et  gionti  tutti  quattro  nelle  stalle 
non  panie  tempo  a  lor  de  star  ascusi 
ma  uoltar  presto  al  palazo  le  spalle 
per  uia  secreta  come  baroni  usi 
e  a  casa  d  Orlando  i  baron  salle 
che  non  fuor  uisd  mai  questanimosi 
perche  ognuno  in  piaza  e  corso  armato 
&  el  resto  de  Parìgie  abandonato: 

Lassan  costor  che  son  bene  ariuati: 
&  Alda  gli  rececta  allegramente 
&  fuor  la  sera  tutti  quattro  armati: 
&  ciascun  hebbe  el  suo  forte  corrente 
Gan  se  trauaglia  con  quei  sua  fidati 
&  ogne  cosa  prouede  &  promette 
puoi  che  partito  se  fi  de  Melone: 
&  poi  sapresento  al  re  Carlone 

Chancora  era  la  furia  e  remor  grande 
&  disse  0  sfortunato  Carlo  mano 
io  uengo  a  te  senza  che  me  domande 
a  darte  anuncio  doloroso  <&  strano 
Renaldo  Astolfo  &  ciascun  baron  gràde 
te  cercan  per  hauerte  nelle  mano 
Orlando  e  preso:  e  messo  alla  pregione 
hor  fuggie  questa  furia  o  re  Garlone: 


ut  DR4GHA  DE  ORl^l^DO  DI  FBANCESCO  TROMBA  95 

Et  io  0  Carlo  tieco  uoi  fugire 

che  altramente  morto  me  reputo 

ma  se  puf  e  chaochio  debbia  morire 

morir  con  teco  ponto  non  refuto 

tutti  i  mia  maganzesi  pien  dardire 

con  Grifonetto  morto  i  Iho  ueduto 

&  se  non  per  saluar,  te  col  tuo  stato 

io  mamazzaua  &  moria  desperato: 
Hor  su  signor  che  tempo  non  nauanza 

fuggiamo  in  luoco  saluo  &  n6~  badiamo 

credi  Carlone  al  tuo  Gan  de  maganza 

chogne  idutio  e  periculo:  hor  su  andiamo 

tu  sai  de  queste  furie  la  usanza 

non  ual  puoi  dir  cosi  far  podeamo  _ 

Carlo  sei  crese:  &  non  tardo  a  respodere: 

&  prega  Gan  che  ^  el  debba  scodere  : 
Et  cosi  Gano  el  misse  in  la  pregione 

sotto  color,  che  staesse  scoSuto 

e  le  chiane  portaua  al  suo  gallone 

puoi  disse  a  Galerana:  el  tristo  astuto 

hoyme  che  suto  morto  el  mio  Carlone 

0  ciel  crudel  che  pena  Iho  saputo 

&  parca  se  uolesse  tor  la  uita: 

ma  Galerana  cadde  tramortita 
Tuttol  palazzo  &  la  piazza  era  pina 

de  borghegian,  che  facien  gran  remore 

tutti  diciano  a  furia  &  gran  rouina 

mora  chi  ha  morto  el  nostro  Imperatore: 

Gan  de  maganza  de  cercar  non  fina 

con  molta  gente  &  con  molto  furore 

per  trouar  il  signor  de  montalbano 

dui  di,  doi  nocte  sempre  el  cerco  inuano 
Noi  possendo  trouar  fé  gir  un  bando 

che  se  ueruno  insegnar  el  sapesse 

habbia  una  soma  doro  al  suo  comando 

&  se  uerun  de  secretto  el  tenesse 


96  GUOOMO  YANZOUNI 

perda  la  aita  &  i  figlioli  sieno  in  bando: 
<&  la  sua  robba  chanchora  senteodesse 
mobile  e  stabOe  tutta  confiscata 
ne  dota  alcuna  uo  che  sia  saluata: 

El  terzo  di  ^el  bando  fo  mandato 
Alda  mando  un  senio  al  conte  Gano 
&  disse  che  Renaldo  hauia  trouato 
con  glialtri  tre  appresso  mòùlbano 
&  chera  ciascheduno  insanguinato 
testa  e  braccia  collo  pecto  <&  mano: 
che  sien  morti  tutU  lui  se  crede 
&  questo  0  uisto  sopra  la  mia  fede 

Sentendo  questo  el  tradictor  perfecto 
lasso  lardente  cura  de  cercarlo 
Si  pensa  purjle  metter  ineffecto 
se  può  de  còte  Gano  deuentar  Garlo 
hor  lassamolo  stare  in  tal  concecto 
che  la  iustitia  sapera  trouarlo 
ben  chal  gran  fallo  glie  se  scopra  puoco 
bisognara  cha  fine  habbia  pur  luoco 

Ma  in  qTto  mezo  Carlo  apresso  al  giorno 
gliaparse  una  stupenda  uisione 
gli  parca  chun  dragon  gliera  dintorno 
ne  defender  se  può  dal  fier  ongione 
pariglie  de  chiamar  Orlando  adomo: 
&  tutti  ipaladini  a  compassione 
se  mouesse  ciascun  a  dargli  aiuto 
coDtra  quel  drago  brutto  &  dessoluto: 

Et  in  questo  affanno  Carlon  se  rescosse 
&  pensa  a  quel  che  in  sóbo  hauea  ueduto 
<&  con  la  man  la  barba  se  percose 
ne  sa  ql  che  e  come  possesser  suto 
cosi  dicea,  al  manco  in  piazza  fosse 
c6~larme  indosso:  &  imperator  ueduto: 
&  puoi  moresse  al  manco  cò^honore 
moria  morendo  a  tutti  imperatore: 


Lèi  DRAGBA  DE  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROICBA  97 

Io  me  lassai  serrar  qui  dentro  a  Gano 
ben  chio  credo  che  fesse  a  bona  fine 
pur  son  tre  di,  &  più  ud  corpo  humano 
n6~puo  durar  che  n6~gi6gha  al  confino 
della  sua  uita:  hai  miser  Carlo  mano 
come  son  le  tua  opre  peregrine 
che  gioua  mai  prodezza  chabbia  facta 
chun  tristo  fio  tuttol  passato  imbrata 

Io  so  còducto  pure  a  tal  partito    __ 
che  no  me  basta  a  dire  fui  inganato 
da  me  nó~daltri,  io  me  chiamo  tradito: 
che  lingnorantia  no  scusa  el  peccato: 
ma  sia  qu£  uole  io  ho  pur  sempre  odito: 
che  dio  no^ manca:  se  no  al  desperato 
io  so  che  dio  nò  può  lassar  perire 
chi  in  lui  ha  fermo  tutto  el  suo  disire: 

Et  dicto  questo  lalto  re  Carlone 
co  tanta  deuotion  se  butto  in  terra 
prima  disteso  &  puoi  ingenochione 
co  quel  fisso  sperar  che  mai  no  erra  : 
che  per  se  stesa  sapri  la  prigione 
fin  che  le  braccia  &  gliochii  al  ciel  afferra 
qui  mostro  idio  a  lui  quat'  e  clemente 
e  che  sol  basta  un  dirizar  de  mente: 

Hor  retorniamo  a  Galerana  regia 
&  imperatrice  chera  tramortita 
depo  doi  hor  se  leuo  quella  egregia 
&  gi  tre  giorni  qual  donna  suanita: 
ne  più  de  Ecuba  el  uiuer  suo  non  pregia: 
&  tolta  shaueria  la  propria  uita 
se  nòcche  mai  no  fo  sola  lassata 
onde  era  peggio  assai  che  desperata 

Gan  de  maganza  proprio  la  matina 
che  trono  Carlo  la  pregion  aperta 
tutta  la  meglior  gente  parigina 
hauia  adunata:  &  facta  grande  offerta 

ol.  IV,  Parie  11  7 


98  GUCOMO  VANZOLINI 

nella  sala  Reale  <&  allor  se  inchina 
a  i  ql  dicia  io  so  che  ciascun  merta 
gran  benefici!,  per  hauer  pregionì 
de  latta  corte  i  tradictor  baroni: 

Cosi  hauessiam  quel  grsT  humicidiale 
e  tradictor  signor  de  motalbano 
cha  posto  man  nel  sigue  imperiale: 
Si  dato  morte  cd^sua  propria  mano: 
ma  dio  Iha  preseruato  ad  maior  male 
perho  chi  amaua  el  nostro  Carlo  mano 
ne  uengha  appore  assedio  al  suo  castello 
&  dargli  el  guasto  come  a  gran  ribelio 

Ben  credea  Gran,  che  Carlo  fosse  morto 
nella  pregion  per  miseria  de  fame: 
perho  solicitaua  comò  scorto 
redurglie  tutti  a  un  proprio  legame: 
&  por  Renaldo  &  glialtri  a  tristo  porto 
che  gli  podien  turbar  quel  bel  reame 
&  mentre  che  facia  la  oratione 
ecco  giongner  in  sala  el  re  Cartone 

Chera  venuto  della  pregion  fore 
come  signor,  so  certo  hauete  odito 
hor  ueduto  che  fo  Limperatore 
remase  ciascun  homo  sbagottito 
Sl  ognun  guarda  in  uiso  al  tradictore 
chera  venuto  smorto  e  impalidito 
paria  a  tutti  uedere  un  morto  uiuo 
&  più  de  glialtre  Gano  nhe  amiratiuo 

Et  non  sa  imaginar  quel  chabbia  a  dire 
ne  sa  come  sia  Carlo  iui  conducto: 
&  come  tradictor  persha  lardire: 
onde  a  suspecto  mosso  el  popui  tucto 
&  Carlo  imperator  comenzo  a  dire 
doue  color  che  me  uoglian  destructo 
doue  quel  tradictor  da  montalbano: 
&  tu  do  sei  tradictor  conte  Gano: 


Là  DRJGH/i  DB  ORLANDO  DI  FRANCESCO  TROMBA  99 

Che  mhai  sotto  color,  falso  e  ribaldo 

tre  di  miser  tenuto  incarcerato 

senza  mangiar  &  bere:  &  poi  di  saldo 

se  fo  uerso  quel  popul  reuoltato 

&  disse  hai  popul  mio  sia  ciascun  caldo 

chio  son  quel  Carlo  pur  de  Pipin  nato 

&  nostro  Re,  &  Imperator  tantahi 

senza  fraude  duol,  malitia,  o  ingàni: 
Io  son  quel  Carlo  che  col  proprio  pecto 

sostlni  el  gran  furor  del  re  Anelante 

&  del  re  Almonte,  ne  larme  perfecto 

ben  chio^desse  Ihonor  al  sir  dAnglante 

senza  uatarme  nel  nostro  conspecto 

sapete  quel  chio  feci  col  re  Agra  mante: 

&  tutto  quel  cho  facto:  o  popul  mìo 

la  fatigha  sia  mìa  el  resto  a  Dio: 
Sì  ho  crìsciuta  di  christo  la  fede 

col  brando  in  man,  &  con  la  obidìentia  : 

so  che  de  xpo  e  tutta  la  mercede 

io  la  fatigha  accepto  &  la  patientia 

ìnseme  colla  nostra  :  &  lui  che  uede 

el  cuor  de  tutti,  usi  la  sua  clemcntìa: 

non  già  che  non  non  punischa  limpìì  errori 

&  mala  uolunta  dì  traditori: 
Fin  che  parlaua  lalto  Carlo  mano 

mai  non  fo  visto  un  acto  de  Oatare: 

<&  facea  gesti  parlando:  &  con  mano: 

che  tutti  quanti  i  facea  lacryme: 

poi  reuoltato  alfin  al  conte  Gano 

uolendoi  forscie  tradictor  chiamare: 

ma  la  brigata  mossa  a  compassione: 

se  scagliar  tutti  addosso  a  Ganelone 
Con  tanta  furia  &  con  tanta  tempesta: 

che  non  podette  Carlo  reparare 

che  gli  pelaro  la  barba  &  la  testa 

beato  quel,  che  prima  el  può  toccare 


100  GIACOMO  YANZOUNI 

tal,  che  senza  rasoio  pel  non  gli  resta: 
ne  acqua  calda  bisongno  a  bagnare 
per  reuerentia  delliniperatore 
campo  la  uita  allbora  el  tradictore 

Et  fo  per  morto  a  Carlo  presentato 
&  lui  el  fé  serrare  impregion  fella: 
cosi  fortuna  spesso  muta  stato 
hor  per  parigie  andò  questa  nouella 
tal  Cogne  paladin,  fo  spregionato 
&  noua  a  magancesi  trista  e  fella: 
che  chi  presto  non  era  a  fugir  uia 
le  don^  gli  amazzauan  per  la  uia  : 

I  paladin  tutti  sapresentaro 
denante  a  Carlo  lieti  &  ingionichione 
<&  del  passato  caso  el  confortaro 
tal  che  resto  contento  el  re  Cartone 
ma  non  podetter  mai  trouar  riparo 
che  non  sia  bandizato  el  fi  dAmone 
&  fé  un  dicreto  Carlo  allhora  alhora 
chel  primo  che  ne  parla  uol  che  mora 

Et  mandaron  da  nuouo  limbasciata 
per  tutto  el  modo  cha  pasqua  de  magio 
lattiera  giostra  sera  comenzata 
ma  qì  che  più  despiacque  al  baronagio 
à  che  tutta  la  corte  era  turbata 
si  fo  che  Carlo  con  Metto  uisagio 
mosso  da  qualche  presuagione 
fé  el  traditor  cauar  fuor  de  pregione 

Ma  quado  venne  a  orecchie  al  fi  dÀmone 
chel  tradictore  era  deliberato 
che  se  non  fosse  per  Alda  &  Amone 
dapoi  che  se  trono  esser  armato 
haueria  messo  a  fuoco  &  destructione 
Parigie  &  Carlo  e  tutto  el  parentato 
delibero  passare  in  pagania 
cV  desfocar  con  lor  sua  bizaria 


4  DKAGHA  DE  ORLANDO   DI  FRANCESCO  TROMBA    101 

Et  questo  conferi  col  suo  cogìno 

Orlando  conte  &  senator  romano 

qi  era  desdegnato  el  paladino 

chera  tornato  in  gratia  el  conte  Gano 

inteso  chebbe  el  conte  quellatino 

disse  al  cogino  signor  de  montalbano 

el  tuo  parer  e  buono:  e  da  huom  saggio 

ma  senza  me  non  farai  quel  passaggio: 
Gran  doglia  me  sera  abandonare 

Alda  sopra  de  tutto  &  jl  mio  cugnato 

&  senza  te  in  franza  no  uo  stare 

ognaltra  cosa  metterò  da  lato 

Renaldo  uia  che  noi  uol  aspectare 

mal  conte  Orlando  in  camera  fu  intrato 

&  disse  ad  Alda  hor  su  dama  adarmarme 

<&  fin  a  octo  di  nò^  aspetarme  : 
Olio  uoglio  andar  per  sin  a  mótalbano 

sio  andero  più  in  la  tul  saperai 

se  de  me  te  domanda  Carlo  mano 

dirai  allui  che  doue  io  sia  noi  sai 

nò~  respose  Alda  al  senator  Romano 

le  lachryme  gli  piouon  sempre  mai 

cosi  dicendo  el  Conte  se  fo  armato 

in  uno  instante,  Se  a  canal  montato 
Appena  disse  ad  Alda  sta  con  dio 

&  uerso  della  porta  el  camin  prese 

caualca  Orlando  gratioso  Si  pio 

&  riscontro  Vliuier,  Sl  il  gran  danese: 

chel  bon  Renaldo  ciaschedun  sentio 

quando  disse  dandar  for  del  paese 

cosi  fuor  tutti  tre  acompagnati 

&  son  drieto  ad  Renaldo  inuiati: 
Hor  bei  signori  io  no^  mera  già  acorto 

chera  del  primo  canto  gionto  alfine 

forz'e  che  la  mia  barca  piglia  porto 

se  pur  nó^uoi  che  fra  scoglie  rouine: 


102  GIACOMO  YANZOLINI  —  LA  DHÀGH4  DE  ORLANDO  SOC 

&  se  porto  nò  eie,  almeo  stia  sorto 
perho  brigate  excelse  &  pelegrine: 
se  uè  piace  il  mio  dir  retomarite 
chio  diro  cose  mai  dalcuno  odite. 


Faeoza,  15  Settembre  1891. 


Giacomo  Vanzouki 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  lYII 


Per  bene  apprezzare  il  carattere,  i  sentimenti  e  le 
idee  d'  nn  poeta  giova  anzitutto  stabilir  con  certezza 
quali  scritture  si  debbano  indiscutibilmente  a  lui  attribuire 
e  quali  no.  É  questo  uno  dei  primi  doveri  della  critica, 
la  quale,  ove  le  faccian  difetto  i  documenti,  deve  indu- 
striarsi a  cogliere,  almen  per  via  delle  ipotesi,  il  vero, 
limitandosi  anche  talvolta  a  solo  corregger  gli  errori,  ov- 
vero a  chiarir  le  questioni,  si  che  ad  altri  riesca  poi  più 
agevole  il  risolverle.  Tornando  quindi  sopra  un  argomento, 
già  altra  volta  da  me,  in  questo  giornale,  trattato  (1),  non 
presumo,  come  allora  non  presumevo,  di  poter  dire 
r ultima  e  decisiva  parola.  M'accontenterò  di  ribattere  le 
nnove  ragioni,  che,  in  una  sua  risposta  a  quel  mio  ar- 
ticolo, accampa  il  prof.  F.  Mango  (2)  ;  nella  speranza  che 
tale  umile  lavoro  possa  almeno  avviar  altri  a  più  fortu- 
nate conclusioni. 


(1)  Testi,  Tassoni  o  Marino?  in  Propugnatore^  N.  S.,  voi.  Il,  fase 
9,  pagg.  Ì54-466.  Per  alcune  correzioni  a  questo  art  veggasi  il  voi.  II, 
fase.  11-12,  pag.  406,  n.  1,  dello  slesso  giornale. 

(2)  Di  alcune  stanze  adespote  del  sec.  XVll^  Palermo,  Tipografia 
G.  Spinnato,  Piazza  S.  Onofrio,  1890. 


104  A.   BELLORI  \ 


V 


vt 


I. 


Oggetto  di  questo  mio  scritto,  come  del  precedente 
è  la  più  nota  forse  tra  le  poesie  politiche  del  seicento 
e  certo  una  delle  più  interessanti  tra  le  moltissime  in- 
dirizzate a  Carlo  Emanuele  I  di  Savoia,  e  inspirate  ds 
una  parte  a  sentimenti  di  speranza  e  di  fede  nell' 
redentrice  di  quel  principe,  e  dall'altra  all'odio  contnMZZM) 
la  Spagna;  cioè,  quel  famoso  poemetto,  in  qnarantatrés^'é 
ottave,  che  comincia:  e  Era  la  notte  e'I  pigro  Arturaz:»-o 
avea>,  e  nel  quale,  come  dissi  altrove  (1),  il  poeta  fing^^;2e 
che  l'Italia,  presentandosi  a  lui  in  sogno  mesta  e  pian — .«. 
gente,  si  dolga  della  condizione  miserrima  a  coi  era  ri-  Jri- 
dotta  per  causa  del  dominio  spagnuolo,  e  affermi  di  nor^ci^n 
sperare  salute  e  libertà  se  non  dal  duca  di  Savoia. 

Per  non  indur  confusione  lascierò  da  parte  i  vai^^rarì 
titoli,  che  furon  dati  a  questo  carme  nel  seicento  e  dopo  (2'^^2), 
e  lo  indicherò,  come  fa  il  Mango,  col  nome  di  Stofi2^^^.aj^. 
Orbene:  chi  ne  è  l'autore?  Fulvio  Testi  o  Giambatti^^^ia 
Marino  (3)? 

Non  credo  necessario  rifar  qui  la  stona  della  questiov-.^^}^ 
che  il  Mango  ha  chiaramente  esposta  nel  suo  opuscolo  (^^ij' 


(1)  Cfr.  art  cit  pag.  455. 

(2)  I  vari  titoli  sono  :  L' Italia,  L' Italia  sconsolata ,   U  Italia    ^9n\, 
gioniera.  Il  pianto  d'Italia  (cfr.  art.  cit.  pag.  456,  e  F.   BIango,   // 
Marino  poeta  lirico:  ricerche  e  studi,  Cagliari,  1887,  pag.  105,  in    tìoe 
della  nota).  Il  Mango  (Di  alcune  stanze  ecc.  pag,  13)  suppone  che  ^a 
altro  titolo  della  poesia  sia  anche  Italia  afflitta;  ma  di  questa  ipolesi 
parlerò  più  innanzi. 

(3)  Non  insisto  qui  suir  attribuzione  al  Tassoni ,  della  quale  parla^^  ' 
abbastanza  neir  altro  scritto,  e  a  cui  appoggio  non  posso  aggiungere  altre      ^ 
prove  alle  già  recate. 

(4)  Pagg.  6-8. 


/ 


DI  UNA  POESIA  ANONIÌfA  DEL  SEC.  XVH  105 

iolo  noD  avrei  volato ,  eh'  egli  alSfermasse  con  tanta  sica- 
ezza,  che  e  finora,  se  vogliamo  soltanto  valerci  di  stampe  e 
Qanoscritti  conosciuti,  la  paternità  del  Testi  è  appena  di- 
putabile  »  (1).  Poiché  infatti  se  è  vero ,  com'  egli  nota, 
he  e  i  manoscritti....  non  indicano  il  nome  dell'  autore , 
lé  mostrano  indizi  a  discoprirlo  »  (2),  la  loro  autorità 
i  nulla  serve,  né  in  favor  del  Testi,  né  in  favor  del  Ma- 
ino. E  quanto  alle  stampe  ed  all'  autorità  de'  critici ,  o 
ìon  se  ne  tiene  conto  affatto,  e  allora  la  paternità  del 
Testi  è  disputabile  per  lo  meno  tanto,  quanto  quella  del 
Marino;  o  diamo  loro  una  qualche  importanza,  e  allora 
io,  attribuendo  le  Stanze  al  Testi,  posso,  a  sostegno  del- 
l'opinion  mia,  citare  le  autorità  del  Tiraboschi  (3),  del 
Melzi  (4),  del  Ferrerò  (5),  del  De  Castro  (6),  del 
Santi  (7),  del  Pascal  (8),  del  Cicconi  (9),  e  in  parte 
quella  del  D' Ancona  (10)  ;  nonché  l' edizione  modenese 
delle  opere  di  F.  Testi,  fatta  nel  1817,  quella  bresciana 
del  1822,  e  la  raccolta  messa  insieme  da  F.  L.  Polidori, 


(1)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  8. 

(2)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  7. 

(3)  Vita  di  Fulvio  Testi,  Modena,  1780,  pag.  153. 

(A)  Dizionario  di  opere  anonime  e  pseudonime,  Milano,   1848-59) 
ToL  II,  pag.  56.  Egli  segna  tre  stampe  del  nostro  carme. 

(5)  //  conte  F,  T.  alla  corte  di  Torino,  Milano,  Daelli,  1865,  pref. 
pag.  21. 

(6)  F.  T,  e  le  corti  italiane  nella  prima  metà  del  sec,  XVII,  Mi- 
lano, Battezzati,  1875,  pag.  22  e  segg. 

(7)  F.  7.  e  Carlo  Emanuele  di  Savoia,  in  Rivista  Europea,  voi. 
XYII,  an.  1880,  pag.  199. 

(8)  F.  T.  in  Napoli  letteraria,  an.  I,  n.  30,  settembre  1884. 

(9)  Del  sentimento  italiano  nei  poeti  del  seicento  in  Antologia  ita- 
liana, 1846  (novembre),  pag.  633. 

(10)  Studi  di  critica  e  di  storia  letteraria,  Bologna,  Zanichelli,  1880, 
l^gg.  89-90,  n.  90. 


106  A.   BELLO  NI 

nel  1847,  col  titolo  Versi  alla  patria  di  Lirici  itaìiami 
dal  sec.  XIV  al  XVIIl 

Il  Mango  ha  dalla  sua  l' autorità  poco  attendibile, 
com'egli  stesso  confessa,  del  Tracchi  (1),  un'edizione 
napoletana  delle  opere   di  G.  B.  Marino  (2) ,  che  dà  il 
poemetto  come  estratto  da  an  codice  MagUabecchiano- 
Malatestiano,  della  coi  esistenza  pare  dubiti  il  D'Ancona  (3), 
e  infine  le  affermazioni  del  Sanfilippo  (4),  del  Settem- 
brini (5) ,  del  Morsolin  (6) ,  nessuno  dei  quali  a  dir  vero 
ha  trattato  di  proposito  l' argomento,  e  ultima  quella  del 
Natoli  (7) ,  la  quale,  al  pari  delle  altre  (  lo  riconosce  il 
Mango  stesso)  non  ha  nessun  conforto  di  prove. 

Or  dunque,  stando  in  tal  guisa  le  cose,  perché  non 
sarebbe  lecito  pur  a  me  d' affermare ,  che ,  se  vogliamo 
soltanto  valerci  di  stampe  e  manoscritti  conosciuti,  la  pa- 
ternità del  Marino  è,  se  non  altro,  appena  disputabile 
ancor  essa?  Ma  poniamo  chiaramente  la  questione. 

Nel  già  citato  mio  scritto  io  credetti  di  poter  con- 
cludere, che  le  Stanze  fossero  da  attribuirsi,  secondo  le 
maggiori  probabilità,  al  Testi  ;  e  cercai  poi  di  mostrare , 
come  si  dovessero  rigettare  affatto  le  ragioni,  con  le 
quali  il  Mango,  in  un  suo  lavoro  sul  Marino  (8),  altri- 

(i)  Poesie  italiane  inedite  di  dugenlo  autori,  Prato,  Giusti,  1847, 
voi.  IV,  pag.  337  e  segg. 

(2)  Opere  del  cav.  G.  B.  Marino  con  giunta  di  nuovi  componi- 
menti inediti,  Napoli,  Bonteaux  e  Aubry,  1861. 

(3)  Op.  cit.  pagg.  89-90,  n.  88. 

(4)  Lezioni  di  leit.  ital.  Napoli,  Morano,  1887,  voi.  H,  pagg.  272-73. 

(5)  St,  lett,  ital,  Palermo,  PedoDe-Laurìel,  1861,  voi.  Il,  pag.  426, 
n.  1. 

(6)  //  Seicento,  Milano,  Vallardi,  1880,  pag.  27. 

(7)  Carlo  Emanuele  /,  Palermo,  tip.  del  Giornale  di  Sicilia,  1890, 
pag.  22.  Cito  questo  scritto  sulla  fede  del  Mango,  non  avendo  io  potuto 
leggerlo. 

(8)  il  Marino  poeta  lirico  ecc.,  pagg.  102-110. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC  XVII  107 

bniva  quelle  stanze  a  questo  poeta.  Ecco  infatti  come  io 
riassumeva  il  ragionamento  del  Mango:  e  Egli  riconosce 
che  non  si  pnò  con  certezza  affermare  il  Marino  autore 
delle  quarantatre  stanze,  onde  consta  il  carme;  siccome 
però,  secondo  lui,  esse  hanno  molta  somiglianza  con  le 
quartine  di  un  altro  componimento  L  Italia ,  indirizzato 
pur  esso  a  Carlo  Emanuele,  ch'egli  crede  si  debba  senza 
alcun  dubbio  attribuire  al  Marino,  cosi  viene  alla  con- 
clusione, che  anche  il  Pianto  d' ItaUa  (cioè  le  nostre 
Stanze)  sia,  secondo  ogni  probabilità,  da  rivendicare  a 
quest'ultimo  >  (1). 

Le  quartine  qui  rammentate  sono  quelle  notissime, 
che  cominciano:  e  Carlo,  quel  generoso  invitto  core  >. 

Come  si  vede,  il  Mango,  per  dimostrare  che  le  Stanze 
doveano  èssere  attribuite  al  Marino,  s' appoggiava  sul  fatto, 
eh'  esse  hanno  una  certa  somiglianza  con  le  Quartine  da  lui 
credute,  senza  dubbio,  di  quel  poeta  (2).  Al  qual  propo- 


(i)  Cfr.  mio  art  cit.  pag.  d57. 

(2)  //  Marino  poeta  lirico  ecc.  pag.  104.  Ecco  le  precise  parole  del 
Maogo:  e  Ma  se  non  possiamo  certamente  concedere  al  Marino  il  carme 
in  ottava  rima  (stampato  secondo  il  Tiraboschi,  per  la  prima  volta,  nei 
1617)  credo  non  gli  si  possa  negare  il  carme  in  quarta  rima  intitolato 
L' Italia  >.  E  si  dilunga  per  varie  pagine  (IOi-108)  ad  esaminare  que- 
sta poesia,  concludendo:  e  Ecco  come  va  risultando  sempre  più  il  senti- 
mento politico  del  Marino  »  (pag.  108).  Lo  stesso  errore  era  stato  com- 
messo già  dal  CiccoNi,  loc.  cit.  pag.  634,  e  ripetuto  da  Atto  Vannucci, 
Florilegio  dei  lirici  più  insigni  d' Italia,  Poligrafia  italiana,  1847;  dal 
D'Ancona,  Saggi  di  polemica  e  di  poesia  politica  del  sec.  XVII ,  in 
Archivio  Veneto,  t  III,  par.  II,  pag.  387,  e  da  Pio  Occella,  a  pag.  15 
del  Ragionamento  preposto  ali*  edizione  deUe  Poesie  spagnuole  di  Carlo 
Emanuele  il  grande,  duca  di  Savoia,  Torino,  Unione  Tipografia,  1878 
(  Nozze  Weil-Veis-Weil  ).  Negli  Studi  di  critica  cit.  pag.  89,  n.  88,  il 
D'Ancona  dice:  e  Noi  incliniamo  a  crederle  ambedue  (le  Stanze  e  le 
Quartine)  scritture  del  Testi  >. 


108  A.  BELLOM 

sito  anzi  ebbi  a  rilevare,  come  l'ipotesi  del  Mango  cod- 
contraddicesse  all'obbiezione  da  lui  stesso  messa  innanzi 
riguardo  alla  paternità  del  Testi:  esser,  cioè,  inverosimile, 
che  questi  fosse  T  autore  di  due  poesie,  il  cui  concetto  ge- 
nerale è,  su  per  giù,  il  medesimo  (1).  Quindi,  non  è  vero, 
che  io  uscissi  dall'argomento,  com'  egli  asserisce  (2),  quando 
ebbi  cura  di  porre  in  chiaro,  che  le  Quartine  sono  senza 
alcun  dubbio  del  Testi.  Poiché ,  sebben  esse  non  fossero 
r  argomento  della  ricerca,  tuttavia,  siccome  il  Mango,  cre- 
dendole del  Marino,  se  ne  giovava  per  attribuire  a  questo 
eziandio  le  Stanze,  io  ho  creduto  mio  dovere,  per  la 
verità,  di  correggere  quella  sua  errata  attestazione,  la 
quale  era,  per  dir  cosi,  la  premessa  d'un  ragionamento, 
che,  condotto  a  fil  di  logica,  portava  dirittamente  all'at- 
tribuzione delle  Stanze  al  Marino. 


II. 


Altra  ragione,  dalla  quale  il  Mango,  nel  suo  primo 
scritto  (3),  dicevasi  indotto  ad  attribuire  le  Quartme  al 
Marino,  era  il  vedere  rammentato  dal  Quadrio,  tra  le  poe- 
sie di  quel  poeta,  un  componimento  col  titolo  A'ItaUa 

(1)  Mango,  //  Marino  poeta  lirico  ecc.  pag.  106;  cfr.  mìo  art  ciL 
pagg.  458  e  460.  A  proposito  delie  somiglianze  tra  le  Stanze  e  le  Quar- 
tine, io  stesso  osservai  (  art.  cit.  pag.  46i  )  che  si  deve  andar  cauti  nel 
tenerne  conto,  dacché  certi  concetti  dovean  essere  a  quel  tempo  comooL 
n  Mango  nel  suo  opuscolo  (pag.  16)  si  vale,  come  vedremo,  di  questa 
mia  osservazione ,  ma  per  dimostrare  che  le  somiglianze  tra  i  due  com- 
ponimenti non  possono  indurre  ad  attribuirli  entrambi  al  Testi!  Era  natu- 
rale eh*  egli  cadesse  in  quest'  altra  contraddizione  ;  perché,  volendo  di- 
fendere la  paterniti^  del  Marino,  era  costretto  necessariamente  a  mutare 
indirizzo  e  a  dimostrare  insufficienti  le  prove,  di  cui  erasi  prima  giovato 
egli  stesso. 

{i)  Dì  alcune  stanze  ecc.  pag.  8. 

(3)  //  MariM  poeta  lirico  ecc.  pag.  104.  Cfr.  mio  art.  cit  pag.  459. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA   DEL  SEC   XVII  109 

afflitta,  eh'  egli  credeva  fosse  da  identificare  appunto 
col  carme  in  quarta  rima.  Ora  invece,  nel  suo  recente 
opuscolo  (1) ,  tornando  alla  citazione  del  Quadrio,  il  quale 
segna  Y  Italia  afflitta  come  contenuta  nei  Fiori  di  Pindo 
raccolti  alt  Aurora  (2),  ed  aggiungendo  pur  quella  del 
Toppi ,  che  mette  bensì  V  Italia  afflitta  tra  le  opere  del 
Marino  e  date  alle  stampe  >,  ma  come  componimento 
a  sé ,  non  già  come  parte  dei  Fiori  di  Pindo  .(3) ,  viene 
alla  conclusione,  che  la  scrittura  citata  dai  due  eruditi,  la 
quale  d' altra  parte  tra  le  opere  stampate  di  quel  poeta 
è  irreperìbile  (4),  corrisponda  alle  nostre  quarantatre 
Stanze  (5).  È  chiaro  che  il  Mango  è  caduto  in  una  con- 
traddizione, che  non  mi  so,  a  dir  la  verità,  spiegare. 

E  a  proposito  di  questa  Italia  afflitta,  citata  dal 
Toppi  e  dal  Quadrio  come  appartenente  al  Marino,  io 
ebbi  a  congetturare  (6),  che  sotto  quel  titolo  fosse  stata 
indicata  la  canzone  Italia  parla  a  Venetia,  che  si  trova 
stampata  insieme  ad  altre  poesie  attribuite,  alcune  a  torto, 
al  Marino  (7),  e  che  anche  il  D'Ancona  riferi  in  parte, 


(1)  Di  alcune  stanze  ecc.  pagg.  9  e  segg. 

(2)  Della  st,  e  rag.  d' ogni  poesia,  Milano,  Agnelli,  17di,  voi.  H, 
part  I,  lib.  I,  pag.  282. 

(3)  BUdioteca  Napolitana  Et  apparato  a  gli  htumini  illustri  in 
Lettere  di  Napoli  ecc.  Napoli,  Bulifon,  i678,  pagg.  195-96.  Si  consideri 
che  il  Toppi  é  anteriore  al  Quadrio,  il  quale  nel  riportare  1*  indicazione 
avrebbe  potuto  errare. 

(4)  Mango,  Di  alcune  stame  ecc.  pag.  10. 

(5)  Mango,  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  13. 

(6)  Art  cit  pag.  459. 

(7)  Mango,  Di  alcune  stanze  ecc.  pagg.  11-12.  Il  titolo  del  libro, 
in  cui  è  stampata  la  canzone,  è  riferito  inesattamente  dal  Mango,  ed  é 
questo:  Lettere  \  del  \  Cavalier  Marino  \  Gravi,  Argute,  Facete,  e  Pia- 
cevoli, I  (jon  diverse  Poesie  del  medesimo  |  non  piti  stampate,  \\  In  Ve- 
netia MDCXXVII,  Appresso  Francesco  Babà,  D  Mango  crede  che  deb- 
basi  attribuire  senza  alcun  dubbio  questa  canzone  al  Marino;  gli  faccio 


110  A.  BELLONI 

togliendola  da  un  opuscolo  anonimo,  ov'  è  stampata  a  sé 
col  titolo  ItaUa  a  Venetia  (1). 

Al  Mango  pare,  che  la  mia  congettura  non  sia  ve- 
rosimile, per  varie  ragioni  (2): 

I."*  Non  c'era  motivo,  egli  dice,  di  stampar  la  canzone 
nei  Fiori  di  Pindo  col  titolo  di  ItaUa  afflitta  e  poi  con 
r  altro  Italia  parla  a  Venetia  tra  le  poesie  diverse  sopra 
citate. 

Ma,  di  grazia,  quanti  titoli  diversi  non  hanno,  come 
vedemmo,  anche  le  Stanze?  E  non  furon  esse  stampate 
con  quello  L' ItaUa  all'invittissimo  e  gloriosissimo  Pren- 
cipe  Carlo  Emanuel  duca  di  Savoja,  in  un  opuscolo  ano- 
nimo, citato  dal  D'Ancona  (3),  e  con  l'altro  II  pianto 
d  Italia  tra  le  opere  del  Marino  (4),  ed  altrimenti  an- 
cora in  altre  stampe?  E  proprio  questa  stessa  nostra 
canzone  non  fu  essa  stampata  una  volta  col  titolo  Italia 
a  Venetia,  nell'  opuscolo  citato  dal  D' Ancona ,  come  in- 
nanzi abbiam  visto,  ed  un'  altra  invece  con  quello  ItcLtia 
parla  a  Venetia?  Qual  meraviglia  adunque,  ch'essa  possa 
esser  stata  intitolata  anche  ItaUa  affUtta?  E  chi  ci  assi- 
cura che  il  Toppi  non  abbia   dato  di  sua  ^  testa  ^un   tal 

però  notare,  eh'  egli  non  può  giovarsi  molto,  come  vorrebbe,  dell'  autorità 
del  D'Ancona,  perché  questi  dice  non  già  di  tener  per  fermo,  ma  solo 
di  aver  confusa  memoria  che  questa  bella  canzone  debba  esser  del  Ma- 
rino (Saggi  di  polemica  ecc.  pag.  40i,  n.  i).  Parlando  di  questa  stessa 
canzone  il  Mango  dice  (Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  12):  e  II  Tiraboschi  la 

lesse  in  un  miscellaneo  del  Cepelli >.  E  tre  righe  dopo  dice  (pag.  13): 

«  Lo  storico  della  nostra  letteratura  non  accenna  alla  canzone  indirizzata 
a  Venezia  ».  Qui  o  c'è  difetto  d'espressione,  o  manca  qualche  perìodo. 
Il  Tiraboschi  (Vita  di  F.  T.,  pag.  159  segg.)  parla  della  canzone,  ri- 
ferendone il  principio,  che  porta  il  titolo  Italia  a  Venezia. 

(1)  Saggi  di  polemica  ecc.  pagg.  399-402. 

(2)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  10-11. 

(3)  Saggi  di  polemica  ecc.  pag.  402. 

(4)  Ed.  ciu  pagg.  551-554. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.   XVII  111 

nome  a  quella  poesia?  Poiché  è  strano  che  tra  le  opere 
del  Marino  questa  Italia  afflitta  non  si  trovi,  e  ad  ogni 
modo  anche  riconoscendo  in  essa,  come  fa  il  Mango,  le 
quarantatre  Stanze,  bisogna  sempre  supporre  (e  siffatta 
ipotesi  vai,  mi  pare,  tanto  quanto  la  mia),  che  queste, 
tra  i  vari  titoli,  avessero  pur  quello  di  Italia  afflitta  (il 
quale  del  resto  non  ci  è  dato  né  dalle  stampe,  né  dai 
manoscritti  ) ,  oppure  che  un  tal  nome  sia  stato  attribuito 
ad  esse  arbitrarìamene  dal  Toppi. 

11.^  Non  è  lecito  (continua  il  Mango)  confondere  i 
tìtoli  di  varie  poesie  adespote  del  1600,  i  quali  si  somi- 
gliano, ma  divariano. 

Orbene,  questa  avvertenza,  se  vale  per  me,  deve 
valere  eziandio  per  il  Mango  ;  e  s' egli  mi  fa  un  appunto, 
perché  volli  identificare  una  poesia  intitolata  ItaUa  afflitta 
con  un'  altra  intitolata  ItaUa  a  Venetia ,  io  mi  permetto 
di  fargli  notare,  che  neppure  a  luì  sarebbe  lecito  di  iden- 
tificare r  Italia  afflitta  colle  Stanze,  che  nei  codici  e  nelle 
stampe  hanno  molti  titoli,  tranne  proprio  quello  che, 
come  abbiam  visto,  vorrebbe  dar  loro  il  Mango.  11  quale 
per  sostener  la  sua  ipotesi  fa  quindi  precisamente  quanto 
faccio  io  per  sostener  la  mia,  ammettendo  che  il  nome 
di  ItaUa  afflitta  sia  stato  dal  Toppi  assegnato  ad  una 
poesia,  che,  per  quanto  sappiamo,  non  lo  aveva  altri- 
menti. 

Alle  citazioni  poi  del  Toppi  e  del  Quadrio,  che  ser- 
vono al  Mango,  come  punto  di  partenza  per  dimostrar 
che  le  Stanze  sono  del  Marino,  io  ne  oppongo  due  altre, 
che,  a  mìo  giudizio,  non  valgon  meno  di  quelle. 

11  Crasso,  che  scriveva  nel  1666,  cioè  dodici  anni 
prima  del  Toppi,  cita  tra  le  opere  del  Testi  L'Italia  (1). 

(1)  Elogii  d' Homini  Letterati.  In  Venetia,  MDGLXVI.  Per  Combi  et 
^  Noù,  YoL  I,  pag.  387. 


112  A.  BELLONI 

Si  noti  che  questo  titolo  è  appunto  uno  di  quelli,  onde 
furono  indicate  le  Stanze,  come  già  ho  avvertito.  Di  pio, 
quale  altra  poesia  del  Testi  avrebbe  potuto  indicar  il 
Crasso  con  quel  noni  e?  Forse  le  Quartine?  Ma  queste 
non  forono  mai  stampate  separatamente,  si  che  si  potesse 
citarle ,  come  componimento  a  sé.  Dunque  non  resta  se 
non  ammettere,  che  il  Crasso  abbia  voluto  intendere  ap- 
punto le  Stanze.  E  in  questa  opinione  mi  conferma  b 
testimonianza  del  Baillet,  il  quale,  riportando  i  giudizi  del 
Crasso  sul  Testi,  nota  tra  le  opere  di  questo  un  poèm 
de  r  Italie  (1).  Ebbene,  non  ho  chiamato  io  stesso  le  Sttme 
un  poemetto?  E  potrebbe  darsi  tal  nome  alle  Quartine, 
che  sono  appena  nove  ?  Mi  si  può  obbiettare  che  il  Baillet 
attinse  al  Crassa  e  che  quindi  la  sua  testimonianza  non 
ha  un  certo  valore.  Io  però  faccio  notare  quell'aggiunta 
po&ne,  e  ad  ogni  modo  ripeto  la  stessa  obbiezione  per 
l'autorità,  invocata  dal  Mango,  del  Quadrio,  il  quale  potrebbe 
aver  benissimo  attinto  al  Toppi. 


IH. 


Fin  qui  adunque  mi  pare,  che  la  paternità  del  Testì, 
quanto  alle  Stanze,  non  sia  punto  infirmata. 

A  sostenerla  mi  valsi,  nel  precedente  mio  scritto, 
degli  argomenti  stessi,  onde  il  Mango  attribuiva  le  Stanze 
al  Marino.  Infatti,  come  già  dissi,  egli,  ammettendo  indi- 
scutibilmente, che  le  Quartine  fossero  di  questo  poeta, 
veniva  per  via  di  somiglianze  a  concludere  che  di  lui 
pure  avrebbero  potuto  essere  le  Stanze,  nonché  la  can- 
?one  a  Venezia,  si  che  terminava  dicendo:  e  ....  si  po- 


(1)  Jugemens  des   S^avatìs,  Anislerdam,  1725,  L  IV,  par.  U,  pag. 
32  e  segg. 


DI  UNA  POESIA  ANONIÌfA  DEL  SEC.  XVII  113 

Irebbe  infine  congetturare  che  l' autore  delle  ottave,  delle 
quartine  e  della  canzone  fosse  unico  >  (1). 

Orbene,  dato  questo,  la  questione  era  (sempre  nel 
caoipo  delle  ipotesi,  s' intende)  risolta  :  appartenendo  infatti 
le  Quartine  al  Testi,  a  lui  eran  da  attribuire  eziandio 
le  Stanze,  e  di  più  ancora  la  canzone  a  Venezia,  secondo 
il  modo  d' argomentar  del  Mango.  Il  quale ,  nel  suo  ul- 
timo opuscolo,  sorvola  su  tal  punto;  che  infatti  gli  sa- 
rebbe stato  necessario  dimostrar  men  vere  e  men  con- 
cludenti le  somiglianze ,  eh'  egli  stesso  avea  rilevate  tra 
le  Quartine  e  le  Stanze  e  la  canzone  (2). 

Se  non  che  io  stesso  ebbi  cura  d' avvertire  che  certe 
rispondenze  tra  le  poesie  politiche  di  quel  tempo  po- 
trebbero trovar  spiegazione  anche  nella  somiglianza  in- 
trinseca del  soggetto  (3).  Ma  se  di  tale  osservazione 
giovasi  abilmente  il  Mango  (4),  per  mostrare  che  al- 
cune somiglianze ,  già  da  lui  stesso  osservate ,  non 
possono  indurre  ad  attribuir  le  Stanze  all'  autor  delle 
Quartine,  cioè  al  Testi,  perché  non  potrei  giovarmene 
ancor  io  per  rivolgerla  contro  il  Mango  medesimo,  so- 
stenendo che  le  sole  rispondenze  di  pensiero  non  pos- 
sono persuadere  a  dare  le  Stanze  all'  autor  della  can- 
zone, cioè  al  Marino?  Poiché  a  questa  conclusione  ap- 
punto egli  giunge  dopo  aver  fatto  alcuni  raffronti  tra 
quelle  due  poesie,  e  tra  esse  e  altre  rime  dello  stesso 
poeta  (5).  Io  a  mia  volta  però  posso  far  notare  altret- 
tanti, e  forse  più,  raffronti  tra  le  Stanze,  le  Quartine  ed 
altre  poesie  del  Testi,  si  che  avrò  largo  campo  a  mo- 

(1)  //  Marino  poeta  lirico  ecc.  pag.  110. 

(2)  //  Marino  poeta  lirico  ecc.  pag.  HO. 

(3)  Art  cit.  pag.  460. 

§4)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  16. 
(5)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  15. 

roL  iV,  parte  li  8 


114  A.  BELLONI 

Strare ,  come  non  senza  ragione  io  creda  contrastata  a 
torto  a  codesto  poeta  la  paternità  del  nostro  anooimo 
carme  (1). 


IV. 


E  passo  per  i'  appunto  a  discuter  te  prove  recate 
dal  Mango  per  convalidar  la  sua  ipotesi,  e  ad  espor  quelle, 
che  a  mio  avviso  valgono  a  confermare  la  mia. 

Egli  trova  che  nelle  Stanze  e  nella  canzone  a  Ve- 
nezia eguale  è  l'intonazione,  e  fa  questi  raffronti: 

Stanze . 

Italia  mi  chiam'  io,  son  io  colei  ; 
Canzone  : 

Italia  son  che  sospettosa  parlo  (2). 


(1)  A  proposito  delle  rispondenze  rilevate  dal  D'Ancona  (Studi  di 
critica  ecc.  pagg.  90-91,  n.  89)  tra  le  Stanze  e  le  Filippiche  del  Tas- 
soni, io  non  ho  afTerroato,  ma  solo  supposto,  che  quelle  potessero  esser 
state  inspirate  da  queste.  Le  quali  poi  non  furono  stampate  nel  1616, 
come  dice  il  Mango,  ma  nel  1615.  Ancora:  io  non  ho  punto  detto,  che 
il  Tiraboschi  riferisca  esser  state  le  stanze  pubblicate  alla  macchia.  In- 
fatti io  scrissi  (art.  cit.  pag.  456):  «  Questo  componimento  fu  la  prima 
volta  pubblicato  alla  macchia,  secondo  il  Tiraboschi  nel  1617,  col  titolo 
ecc.  >.  Basta  guardare  la  punteggiatura  per  capire,  che  le  parole  alla 
macchia  non  sono  riferite  al  Tiraboschi,  la  cui  opinione  è  citata  solo  per 
quanto  riguarda  Tanno  della  pubblicazione.  Solo  lasciai  d'avvertire  che 
quella  del  Tiraboschi  è,  quanto  air  anno,  una  congettura.  Il  Mango  poi 
aggiunge:  e  II  titolo  delle  stanze  citato  dal  Tiraboschi  é  errato  nel  Bel- 
Ioni  T>.  Egli  non  s'è  accorto  però,  che  il  titolo  da  me  riportato  (art  ài 
pag.  456  )  è  seguito  da  un  richiamo  alla  nota  2,  ove  è  citato  il  D'An- 
cona, Studi  di  critica  ecc.  pag.  91,  n.  90,  in  cui  si  trova  la  descri- 
zione e  il  titolo  dell'opuscolo  contenente  le  Stame, 

(2)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  13. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL   SEC.   XVIl  115 

Sinceramente:  Tanica  analogia  ch'io  vegga  tra  questi 
due  versi  sta  in  ciò,  che  si  neir  uno  che  nell'  altro  è  in- 
trodotta a  parlare  in  prima  persona  l'Italia,  la  quale  si 
presenta  e  si  dà  a  conoscere  nominandosi.  Ebbene  :  veg- 
gasi  come  comincia  il  Lamento  \  d' Italia  \  a'  piedi  \  del 
sommo  Pontefice  (1):  t  Ecco,  beatissimo  Padre,  ai  tuoi 
santi  piedi  l'Italia  tua  tormentata  >.  Dunque  l'intona- 
zione non  è  tanto  caratteristica  da  crederla  sufiQciente  a 
stabilire  un'  identità  d'  autore.  Somiglianza  di  forma  poi 
ve  ne   ha  tanta,  quanta  tra  il  primo  verso  delle  Stanze: 

Era  la  Dotte  e  '1  pigro  Arturo  avea, 
e  quest'altro,  con  cui  comincia  una  poesia  del  Testi: 
Era  la  notte  e  la  triforme  Dea  (2). 

E  il  Mango-  prosegue  :  l' Italia  prega  il  poeta  di  parlare 
al  suo  Carlo. 
Stanze  : 

narra  ciò  eh'  io  parlo 

All'  idolo  del  mondo,  al  mio  gran  Carlo. 

Canzone: 

Tu  (s' a  me  dir  no  'I  vuoi)  dillo  al  mio  Carlo  (3). 

Noto,  che  non  in  ambedue  le  poesie  l' Italia  pr^^a  il  poeta 
di  parlare  a  Carlo ,  poiché  nella  canzone  l' Italia  si  ri- 
volge a  Venezia.  Ammetto  solo  che  ci  sia  una  certa  corri- 
spondenza nel  fatto  che  l' Italia  incarica  altri  di  narrar  le 
sue  sventure  al  Duca  di  Savoia. 

(1)  D'Ancona,  Saggi  di  polemica  ecc.  pagg.  390-391. 

(2)  Poesie    di  F.  T.,  in  Milano,  MareUi,  MDCLXXVl,  pag.  439. 

(3)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  13. 


116  A.  BELLONI 

Osserva  ancora  il  Mango  :  V  Italia  parla  con  disprezzo 
della  Spagna. 
Stanze  : 

Giace    

E  tra  il  vasto  Ocean  terra  infeconda.... 

Canzone  : 

Giace 

Cinta  dall' OceaD  terra  infeconda  (1). 

Nella  canzone  è  descritta  non  la  Spagna,  ma  la  Germania 
e  r  intonazione  è  presa,  come  notai  altrove,  dalla  quarta 
stanza  della  canzone  del  Petrarca  0  aspettata  in  del: 

Una  parte  del  mondo  è  che  si  giace 
Mai  sempre  in  ghiaccio  ed  in  gelate  nevi,  ecc. 

Quanto  al  terra  infeconda  faccio  osservare  che  anche  il 
Tassoni  nelle  Filippiche  parla  della  sterilità  della  Spagna 
e  fa  di  questa  una  descrizione  molto  simile  a  quella  eh'  è 
nelle  Stanze  (2).  Il  Mango  riconosce  codesta  somiglianza, 
ma  crede ,  con  me ,  che  si  possa  spiegarla  pensando 
che  certe  espressioni  doveano  essere  allora  comuni  (3). 
Siffatta  ragione  vale  però  anche  pel  raffronto  testé 
citato,  e  ci  dà  modo  eziandio  di  capire,  perché  in  am- 
bedue le  poesie  si  trovi  un  accenno  alla  passata  gran- 
dezza d' ItaUa ,  accenno  che  è  espresso  del  resto  in  forma 
assai  differente  nel  verso  delle  Stanze: 

(i)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  13. 

(2)  Cfr.  mio  art.  cil.  pag.  462. 

(3)  In  un  opuscolo  L' llaliano  \  a  principi  \  della  sua  \  provincia 
(  D*  Ancona,  Saggi  di  polemica  ecc.  pag.  394  )  si  legge  :  e  Sovengavi  li 
principi....  della  gente  spagnuola,  nata  aUa  servitù,  io  paese  stenle,  in- 
felice.... >. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVII  117 

Formai  di  tutti  ì  regni  un  r^no  solo, 
e  nelt'  altro  della  canzone  : 

La  provincia  già  Donna  hor  serva  in  parte  (1). 

Identico  concetto  espresse  il  Testi  in  nn  suo  ben  noto 
sonetto  al  Duca  di  Savoia: 

Quella  che  già  nel  secolo  vetusto 
Fu  del  mondo  Reina  Italia  altera, 
E  eh'  or  misera  fatta ,  e  prigioniera 
Di  barbare  catene  ha  '1  collo  onusto  (2); 

ove  è  da  notare  qnel  misera  e  prigioniera  che  trovasi 
anche  in  un  verso  delle  Stanze: 

Misera,  prigioniera,  oppressa  giaccio. 

Cosi,  di  lieve  momento  sembrami  par  V  altra  osserva- 
zione fatta  dal  Mango,  che  in  entrambe  le  poesie  è  ri- 
cordato Carlo  Emanuele  I.  Ciò  è  naturalissimo,  che  V  Italia 
era  allor  tutta  piena  del  nome  di  questo  principe,  a  cui 
volgeva  fidente  lo  sguardo  chiunque  sentisse  battersi  in 
petto  cuor  d'italiano.  Che  se  tanto  nelle  Stanze,  quanto 
nella  canzone  egli  è  chiamato  duce  alpino  (3),  faccio  no- 
tare che  anche  il  Testi  lo  indicò  con  tal  nome: 

E  '1  Duce  AJpin,  eh'  ora  cavalli  e  fanti 
Raduna  intento  a  gloriose  imprese....  (4). 

E  altrove: 


(1)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  14. 

(2)  Opere  del  Sig.  ConU  Don  Fulvio  Testi,  Venetia,  MDCXLIV, 
per  Giunti  e  Babà,  pag.  41. 

(3)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  i4. 

(4)  Opere,  ed.  eli.  pag.  53. 


118  A.  BELLONI 

Tal  palpitando  il  Ligure  vicino 

Rimase  a  i  moti  del  gran  duce  alpino  (1). 

e  nella  Supplica  ad  Alfonso: 

Lasso,  meglio  era  pur  che  de  l'alpino 
Eroe  non  havess'  io  le  lodi  intese  (2). 

Finalmente   ecco   T  ultimo   raffronto   fatto   dal  Mango 
r  Italia,  ai  dice,  grida  contro  la  pace: 
Stanze: 

A  che  tregua?  a  che  pace? 

Canzone: 

Ma  qual  fin  sarà  il  mio  se  tu  t' addormì 
In  pace (3). 

Ben  più  importante  di  questo  mi  sembra  il  raTTÌcioa- 
mento  da  me  anche  altrove  fatto  (4) ,  tra  una  delle  Sianzf 
e  due  delle  Quartine,  non  tanto  per  la  rispondenza  del 
concetto ,  quanto  per  T  identità  dell'  impeto  lìrico  e  della 
forma,  ond'esso  è  manifestato. 
Stanze  : 

A  che  tarda  egli  dunque?  il  ciel  secondo 
I  suoi  trionfi  e  le  sue  glorie  afiretta. 
Sparisce  il  verno,  Aprii  ritorna  e  'I  mondo 
Rivolto  a  lui  da  lui  gran  cose  aspetta. 
A  che  tregua?  A  che  pace?  Io  dal  profondo 
De  le  viscere  mie  chieggio  vendetta , 
E  pace  altra  non  vo'  se  non  queir  una 
Che  mi  promette  Carlo  e  la  fortuna. 

(1)  Poesie  di  F.  T.  In  Milano,  Marcili,  MDCLXXVI,  pag.  90. 

(2)  Poesie,  ed.  cil.,  pag.  409  e  seg. 

(3)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  14. 

(4)  Art  cìt  pag.  464. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVII  119 

Quartine: 

Carlo,  quel  generoso  invitto  core 
Da  cui  spera  soccorso  Italia  oppressa, 
A  che  bada?  a  che  tarda?  a  che  più  cessa? 
Nostre  perdite  son  le  tue  dimore. 

Spiega  r insegne  ornai,  le  schiere  aduna. 
Fa  che  le  tue  vittorie  i!  mondo  veggia: 
Per  te  milita  il  Giel ,  per  te  guerreggia , 
Fatta  del  tuo  voler  serva,  fortuna. 

Si  notino  le  espressioni  parallele  :  a  che  tarda  egli  dun- 
quef  a  che  tregua?  a  che  pace?,  e  dall'altra  parte:  a 
che  badai  a  che  tarda?  a  che  più  cessa?  Si  confronti: 
il  del  secondo  I  suoi  trionfi  e  le  sue  glorie  affretta;  e: 
per  te  milita  il  dei  Ancora:  il  mondo  Rivolto  a  lui  da 
hii  gran  cose  aspetta;  e:  da  cui  spera  soccorso  Italia  op- 
pressa. Infine  si  consideri  il  ricordo  fatto  da  una  parte 
e  deir  altra  della  fortnna,  e  all'  espressione  delle  Quartine  : 
A  che  bada?....  a  che  più  cessa?  si  metta  a  riscontro 
il  verso  delle  Stanze: 

Timido  bada^  neghittoso  cessa. 

Or  dunque  non  so  quanto  giustificata  sia  la  conclusione 
del  Mango  (1),  che  le  Stanze  e  la  canzone  non  sono  al 
tutto  indipendenti.  Io,  che  potrei  dir  lo  stesso  per  le 
Stanze  e  le  Quartine,  non  precipito,  e,  prima  di  con- 
cludere, amo  aggiungere  alle  già  recate  altre  prove,  con- 
futando in  ìspecial  modo  quelle,  onde  il  Mango  si  vale 
alla  sua  dimostrazione. 


(1)  Z>t  alcune  stanze  ecc.  pag.  14. 


120  A.  BELLONI 


V. 


Ma  ammettiamo  pure,  per  un  momento,  che  egli  sia 
riuscito ,  al  punto  in  cui  siamo ,  ad  indur  ne*  lettori  coi 
suoi  raffronti  la  persuasione  che  le  Stanze  appartengano 
realmente ,  come  la  canzone  a  Venezia ,  al  Marino.  Ho 
cercato  di  mostrare  più  sopra,  che  non  vi  è*  alcuna  forte 
ragione  di  credere,  che  il  Toppi  citando  di  codesto  poeta 
un  componimento  sotto  il  titolo  di  ItaUa  afflitta,  abbia 
alluso  piuttosto  air  una  che  air  altra  di  quelle  due  poesie. 
Orbene  :  sarà  egli  sufiQciente  argomento  a  risolver  la  que- 
stione e  ad  attribuire  senz'  altro  le  Stanze  al  Marino ,  il 
fatto  addotto  dal  Mango  (1),  che  in  un  verso  di  qoeste 
ultime  si  trovan  le  parole  Esperta  afflitta,  rispondenti  io 
parte  al  supposto  titolo  di  Italia  afflitta?  Se  mal  non 
m' appongo ,  questa  è  tale  rìspodenza ,  che  ha  piottosto 
r  aspetto  d' una  fortuita  combinazione,  che  non  d' an  in- 
dìzio convincente  e  indiscutibile.  Sarà  ingegnosa  la  tro- 
vata del  Mango,  ma  io  credo  che  pecchi  di  soverchia 
sottigliezza. 

E  andiamo  innanzi.  Altra  prova  recata  dal  Mango  a 
sostegno  della  sua  tesi  è  questa  :  nelle  Stanze  è  con  par- 
ticolare affetto  ricordata  la  «  Partenope  bella  »,  che  il 
Marino  altrove  {Adone,  XX,  350)  chiama  e  Partenope 
famosa  ì>  (2). 

Se  al  Mango  pare,  che  questo  ricordo  di  Napoli 
conti  per  qualche  cosa,  al  luogo  Ae\\'  Adone  io  contrap- 
porrò quest'  altro  d' una  poesia  del  Testi,  dove,  con  non 
minore  affetto,  son  ricordate  le  dolci  spiaggie  napolitane: 


(i)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  14. 
(2)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  14. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVII  121 

E  voi  piaggie  beate 
Cui  Partenope  die  nome  immortale....  (1). 

Ed  anzi  nel  luogo  delle  Stanze,  coi  allude  il  Mango ,  si 
parla  proprio  come  qui  della  fertile  e  felice  spiaggia  di 
Partenope, 

Il  Mango  poi  trova,  che  €  in  altre  poesie  del  Ma- 
rino si  riscontrano  alcuni  pensieri  delle  Stanze  >;  e  fa  i 
seguenti  raffronti  (2): 

Adone,  I,  8: 

Come  farò,  che  fulminar  tra  Tarmi 
S'odan  coi  tuoi  metalli  anco  i  miei  carmi. 

Stanze  : 

Tant*  io  non  oso,  ed  impossibil  parmi 
Che  s*  odan  le  mie  voci  in  mezzo  air  armi. 

Faccio  osservare,  che  ai  due  versi  dell'  Adone  sopra  citati 
somigliano  i  seguenti  del  Testi: 

Io  su  i  gioghi  di  Pindo  al  suon  de  Y  armi 
Accorderò  di  maggior  tromba  i  carmi  (3). 

La  notata  rispondenza  serve  quindi  anche  pel  Testi. 
Continua  il  Mango  coi  raffronti: 
Adone,  XX,  368: 

Or  qual  cosa  avrò  mai  eh'  al  vostro  merto 
Invittissimi  eroi,  ben  si  convegna? 

Sonetto,  Rime,  ed.  Venezia,  Brigonci,  par.  Ili,  pag.  84: 


(1)  Poesie  di  F.  T.  in  Milano,  Morelli,  MDCLXXVl,  pag.  337. 

(2)  Di  alcune  stanze  ecc.  pagg.  14-15. 

(3)  Poesie  liriche  del  conte  d.   F.  T.  In  Venetia,  Per  Domenico 
LoTÌsa,  s.  a.,  pag.  320. 


122  A.  BELLONI 

Del  valor  vostro  il  glorioso  grido 
Fien  mal  possenti  a  sostenere  i  carmi. 

Stanze  : 

Ed  io,  sebben  di  celebrare  indegni 

Si  magnanimo  eroe  sono  i  miei  carmi  ecc. 

Ebbene:  si  considerino  ora  attentamente  i  riscontri,  che 
verrò  facendo  io. 
Qtmrtine: 

Chi  fia,  se  tu  non  se',  che  rompa  il  laccio, 
Onde  tant*  anni  avvinta  Esperia  giace? 
Posta  ne  la  tua  spada  è  la  sua  pace, 
E  la  sua  libertà  sta  nel  tuo  braccio. 

Stanze: 

Da  cotante  sciagure  e  tant' affanni 
Misera,  prigioniera,  oppressa  giaccio. 
Né  spero  per  girar  di  mesi  ed  anni 
Scatenata  vedermi  e  fuor  d' impaccio  ; 
Se  il  duce  alpin  de*  miei  si  lunghi  affanni 
Mosso  a  pietà,  col  valoroso  braccio 
Le  catene  non  spezza  e  di  queir  empio 
Barbaro  stuolo  or  non  fa  strage  e  scempio. 

Non  ha  questa  ottava  tutto  V  aspetto  d' una  amplificazione 
della  precedente  quartina?  S'osservi  V avvinta  giace  e  il 
prigioniera....  giaccio  ;  l'espressione  col  valoroso  braccio 
e  r  altra  la  sua  libertà  sta  nel  tuo  braccio  ;  da  nna  parte 
le  catene  non  spezza,  dall'  altra  rompa  il  laccio.  E  pò* 
non  il  solo  concetto  è  identico,  ma,  data  la  diversa  si- 
tuazione ,  la  forma  generale ,  la  condotta ,  Y  intonazione 
son  simili  in  ambedue  i  luoghi.  E  altre  somiglianze  an- 
cora abbiamo: 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVH  123 

Quartine: 

Per  dirupate  vie  vassi  a  la  gloria 
E  la  strada  d' onor  di  sterpi  è  piena , 
NoD  visse  alcun  senza  fatica  e  pena , 
Che  compagna  del  rìschio  è  la  vittoria. 

Stanze: 

Malagevole  è  questa  e  impresa  dura 

Magnanima  virtù  rischi  non  cura. 

Qtmrtine: 

Non  {sdegnar  frattanto  i  prieghi  e  i  carmi 
Che  ti  porgiamo,  e  tua  bontà  n*  ascolti, 
Fin  che  di  servitù  liberi  e  sciolti 
T  alziamo  i  bronzi  e  ti  sacriamo  i  marmi. 

Stanze: 

Già  dell'  Italia  i  liberati  regni 
Inakano  al  tuo  nome  e  bronzi  e  marmi, 
E  mille  rari  e  fortunati  ingegni 
Scrivon  le  tue  vittorie  e  canlan  V  armi. 
Ed  io,  se  ben  di  celebrar  indegni 
Si  magnanimo  eroe  sono  i  miei  carmi, 
Pur  devoto  ed  umile  al  simulacro 
Del  tuo  valor  la  penna  mia  consacro. 

a  proposito  di  bronzi  e  marmi  leggansi  anche  i  se- 
enti  versi  del  Testi,  nella  supplica  ad  Alfonso: 

Dunque  chi  degli  Eroi  le  glorie  e  Y  armi 
Cantando  esalta  ed  a  T  età  futura 


124  A.  BELLONI 

Memorie  più  che  i  bronzi  e  pili  che  i  marmi 
Stabili  e  ferme  di  lasciar  procura  ecc.  (1); 

ov'è  da  considerare  anche  la  frase  le  glorie  e  tarmi 
cantando  esalta,  rispondente  all'  altra  scrivon  le  tue  vit- 
torie e  cantan  r  armi  dell'ottava  citata.  Al  secondo vers-o 
della  quale  somiglia  poi   questo  d' un'altra  poesia  pi^r 
del  Testi  : 

Mille  v'  innalzerem  metalli  e  marmi  (2). 

Stanze: 

Spero  veder  questa  si  vasta  mole 

Di  monarchia  che  fin  al  del  fa  guerra..,.. 

Quartine: 

Carlo  se  '1  tuo  valor  quest'  Idra  ancide 
Che  fa  con  tanti  capi  al  mondo  guerra. 

Stanze  : 

egli  in  un'oziosa  e  lenta  pace 

Tra  suoni  e  canti  spensierato  segga 

Quartine: 

Segga  OZIOSO  in  tra  le  piume  il  Franco. 

Infine  in  ambedue  i  carmi  si  accenna  al  fatto  che  C^^^ 
era,  nel  combatter  la  Spagna,  solo: 
Stanze: 

rotte  fuggiran 

Ma  rotte  resteran  sparse  e  tremanti 
Dal  solo  suo  valor  le  squadre  intiere, 

(i)  Poesie  di  F.  T.  In  Milano,  Marelli,  MDCLXXVI,  pag.  409  e  s^^^- 
(2)  Opere  di  F.  T.  Venezia,  MDCXLIV,  per  Giunti  e  Babà,  pa^.   -*• 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.   XVII  125 

Che  tutte  pure  in  cotal  guisa  suole 
Cacciar  le  stelle,  ancor  che  solo,  U  sole. 

più  brevemente,  senza  giacchi  di  parole,  nelle  Quartine: 

Non  hai  compagni  e  la  tua  spada  è  sola. 


VI. 


Ultimo  argomento  addotto  dal  Mango  è  il  seguente: 
Identità  di  concetto  se  non  di  forma,  si  osserva  nelle 
aaze  e  in  nn  sonetto  sicuramente  del  Marino....  >  (1). 

Stanze  : 

Forse  i  titoh'  vani,  onde  son  piene 
Le  mie  città,  l'ampie  promesse,  in  cui 
Fondano  forsennati  ogni  lor  spene 
Miei  guiderdoni  stima,  e  premi  sui? 
Premi  questi  non  son:  son  ben  catene, 
Ood*  ei  con  le  lusinghe  insidia  alti'ui. 

Sonetto: 

Principi  italiani,  e  voi  Baroni 

Que  contro  ogni  raggion  spagnoUggiate 

AJ  vostro  gran  monarcha  homai  lasciate 

Gli  pregi  suoi  cavallereschi  e  i  doni. 
Son  insidie  moresche  i  suoi  Tosoni 

Quali  vi  dona  poi  perché  restiate, 

Tante  povere  pecore  tosate, 

0  per  meglio  parlar  tanti  Castroni. 

questi  due  passi  si  accenna,  come  si  vede,  air  amore 
li  grandi  italiani  per  i  titoli ,  specie  pel  Toson  d' oro. 

(1)  Di  alcune  stanze  ecc.  pag.  15. 


126  A.  BELLONI 

Or  si  senta  cosa  dice  il  Testi  in  nn  capitolo  bernesco, 
edito  recentemente  da  me  (1),  In  lode  della  Vaccina.  Il 
poeta,  dopo  aver  detto  che  le  vaccine  di  Spagna  sodo 
d'un  sapor  prelibato,  continua: 

Spagna  gentil,  guest' è  ben  altro  honore 
Che  quel  del  Becco  d*  or ,  di  cui  si  vago 
Hoggi  si  mostra  ogni  più  gran  signore. 

Riassumendo,  mi  pare  cbe  non  siano  di  lieve  im- 
portanza i  rafifronti  da  me  sopra  riferiti,  al  paragone 
de' quali  (o  io  m'inganno)  credo  abbiano  minor  valore 
quelli  fatti  dal  Mango.  E  invero:  mentre  per  questi  ultimi 
è  da  notare  cbe  tanto  nelle  Stanze  quanto  nella  canzone 
a  Venezia  abbiamo  eguale  la  situazione,  il  cbe  non  può 
non  determinare  delle  fortuite  coincidenze  di  pensiero  e 
qualche  volta  di  forma,  dalle  quali  però  non  si  può  de- 
durre, come  legittima  conseguenza,  l'identità  dell'autore; 
per  le  rispondenze  da  me  rilevate  questa  osservazione 
non  regge  e  per  ciò  esse  sono  tanto  maggiormente  degne 
di  nota.  Infatti,  quanto  a  situazione,  nulla  di  simile  v'ha 
tra  le  Stanze  e  le  Quartine,  come  già  ebbi  ad  osser- 
vare (2).  Ambedue  i  carmi  sono,  è  vero,  indirizzati  a 
Carlo  Emanuele,  ma  nelle  ottave  l'Italia  stessa  è  intro- 
dotta (^come  nella  canzone  a  Venezia)  a  narrare  le  pro- 
prie sventure  e  le  infamie  del  dominio  spagnuolo  ;  sicché 
abbiamo,  direi  quasi,  uno  svolgimento   drammatico  del 


^1)  r»  capitolo  inedito  di  F.  T.  pubblicato  per  cura  di  Antonio 
Bulloni  in  MiscrUanea  per  laurea,  XXX  giugno  I  e  11  luglio  MDCCCXCI 
(l^hiova.  Tip.  ili'  UnÌTersìlà,  Fratelli  Gallina),  pag.  87-99,  ed  anche  eslrallo 
a  [virte.  Dì  questo  capìtolo  era  stato  pubblicato  un  brano  (dal  t.  115  al 
V.  i^l,  esclusi  i  v>.  ITI- 179)  in  Biblioteca  Italiana,  voL  XII,  pag. 303 

sej¥. 

{t)  Art.  dL  pag.  458. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVII  127 

racconto  e  il  carme  ne  acquista  maggior  movimento  e 
vivezza.  Inoltre  lungamente  vi  si  parla  della  Spagna  e  vi 
si  esamina  il  governo  fastoso  e  oppressore  ;  nelle  quartine 
invece  è  il  poeta  che  parla  e  solo  pochi  versi,  in  ultimo, 
accennano  alla  Spagna.  Questo  carme  ha  più  vigoria  nella 
sua  brevità;  è  rapido,  stringato,  nervoso,  ma  infine  esso 
non  è,  0  per  lo  meno  a  me  non  appare ,  che  un  riassunto 
dell'altro,  ovvero  questo  un'amplificazione  di  quello.  Lo 
stesso  alito  di  poesia  spira  in  ambedue;  i  pensieri  fon- 
damentali sono  i  medesimi;  ma  ciò  che  più  colpisce  è 
la  forma  particolare  di  certe  espressioni,  il  ripetersi  di 
certe  frasi,  di  certe  parole,  come  sopra,  e  spero  non 
vanamente,  ho  fatto  notare. 

E  di  più,  qualora  si  ritenga  il  Testi  autore  di  queste 
Stanze,  cosi  belle  per  caldo  patriottismo,  meglio  s'in- 
tendono alcune  frasi  della  Supplica,  eh'  egli,  cedendo  alla 
necessità  di  non  rendersi  inviso  alla  Spagna  e  al  proprio 
Signore,  indirizzò  al  figlio  di  questo,  per  esser  perdonato 
di  quanto  avea  detto  poco  rispettosamente  contro  quella  po- 
tenza. In  codesta  poesia,  Fulvio,  accennando  alla  sua  fuga, 
descrive  con  versi  aflfettuosissimi  e  che  nulla  risentono  del- 
l' arte  secentistica,  la  separazione  da'  suoi  cari,  e,  venendo 
qnìndi  a  parlar  della  causa  del  proprio  esiglio  ,  non  scon- 
fessa già  le  lodi  date  a  Carlo  Emanuele,  solo  si  ramma- 
rica che  venga  punito  anche  chi  canta  le  glorie  a  l'armi 
degli  eroi.  Comise  forse  gran  colpa  esaltando  le  imprese  di 
Carlo?  A  qual  lontano  paese  non  s*  era  diffusa  la  fama  di 
codesto  principe  ?  Ma  ei  ben  sa  la  vera  ragione  del  pro- 
prio esiglio;  ed  è  questa: 

Che  non  doveano  oscure  e  basse  rime 
Soggetto  aver  si  grande  e  si  sublime. 

Altro  che  ritirar  le  sue  lodi!  Ma  tuttavia  ei  chiede  perdono: 


128  A.  BELLOm 

Se  del  Monarca  Ibero  offesa  in  parte 
La  dignità  fu  dalla  penna  mia, 
Senaplice  è  queir  error..... 

Ora,  si  rammenti  cosa  è  detto  in  una  delie  stanze: 

Lascio  eh'  un  re ,  che  di  real  non  tiene 
Altro  che  il  nome,  effeminato  e  vile, 
À  sua  voglia  mi  regga  eca^...., 

e  si  rammenti  quanto  più  direttamente  ed  esplicitamente 
è  ferita  la  Spagna  nelle  Stanze  y  che  non  nelle  Quartme 
e  in  tutti  gli  altri  luoghi,  ove  il  Testi  parlò  di  qnella 
nazione. 


VIL 


Io  quindi  contìnuo  a  credere  molto  probabile  la  con- 
gettura del  Tiraboscbi,  che  le  severe  misure  prese  contro 
il  Testi  per  l'edizione  delle  sue  Rime  del  1617  (la 
quale,  come  si  sa,  essendo  dedicata  a  Carlo  Emanuele  e 
contenendo  espressioni,  che  sembravano  offensive  alla 
Spagna,  fu  sequestrata,  mentre  lo  stampatore  era  messo 
in  prigione  e  Fulvio  si  salvava  con  la  fuga)  possano 
esser  state  provocate  anche  dal  sospetto,  che  lo  stesso 
Testi  fosse  autore  pur  delle  Stanze  (1).  A  proposito  della 
quel  congettura  ebbe  ad  affermare  il  Mango  (2),  ch'io 
ripetei  una  sbagliata  asserzione  del  Tiraboscbi  già  cor- 
retta dal  Ferrerò.  Egli  però  s'inganna  poiché  questi 
nel  luogo  citato  (3),  non  mette  affatto  in  dubbio,  né 
poteva,  le  severe  misure  prese  contro  il  Testi,  le  quali 

(i)  Cfr.  mio  art.  cit.  pag.  459. 

(2)  Di  alcune  stanze,  pag. 

(3)  Fulvio  Testi  alla  corte  di  Torino  ecc.  pag.  21. 


DI  UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVII  129 

del  resto  ci  sono  attestate  dal  poeta  stesso  nella 
saa  Supplica  ;  né  combatte  punto  la  congettura  del 
Tiraboscbi  ,  limitandosi  a  solo  mostrar  come  questi 
cadde  in  errore  quando  ,  a  proposito  della  croce  dei 
SS.  Maurizio  e  Lazzaro  data  al  Testi,  affermò  e  che  il 
duca  Carlo  Emanuele  si  fosse  determinato  a  fregiarlo 
della  detta  decorazione  quasi  in  ricompensa  dei  disturbi 
e  castighi,  che  per  sua  cagione  avesse  dovuto  soffrire 
(sopratutto  per  le  famose  ottave  intitolate  L'Italia  a  Carlo 
Emanuele),  e  che  il  duca  Cesare  non  si  fosse  opposto 
alla  risoluzione  del  duca  di  Savoia.  Imperciocché  la  ve- 
rità si  è  che,  se  non  il  duca  Cesare,  certo  il  Cardinal 
d'Este  fu  quegli  che,  in  tale  occasione,  fece  le  parti  di 
sollecitatore  a  favore  del  Testi...  >  (1).  Dalle  quali  parole 
risulta  chiaro,  che  il  Ferrerò  volle  soltanto  dimostrar  come 
Carlo  Emanuele  abbia  dato  al  Testi  V  ambita  decorazione 
non  già  di  suo  impulso,  ma  dietro  gli  altrui  eccitamenti; 
il  che  non  vuol  dire  che  il  Testi  non  abbia  sofferto,  come 
infatti  soffri,  de'  disturbi  per  le  lodi  da  lui  rivolte  al  duca. 
Ben  è  vero,  ch'essi  furono  i  primi  e  gli  ultimi,  che  il 
nostro  poeta  s'ebbe  per  l'amore  alla  libertà;  che  gli 
anni  e  la  pratica  delle  corti  l' addestrarono  ad  esser  cauto 
e  rispettoso  anche  coli'  oppressore  e  a  tener  occulti  nel- 
l'animo, se  ancor  li  serbava,  i  sentimenti  suoi  di  patriota  (2). 
E  qui  potrebbe  alcuno  osservare,  che  se  realmente 
il  Testi  fosse  stato  l' autore  del  carme  anonimo ,  che 
suonava  si  lusinghiero  per  Carlo  Emanuele,  questi  non 
avrebbe  aspettato  gli  eccitamenti  del  cardinale  Alessandro 
d'Este  per  premiare  il  poeta  encomiatore.  Tale  osserva- 
zione però  cade  da  sé,  quando  si  pensi  che,  anche  am- 
mettendo che  il  Testi  non  avesse  scritto  le  Stanze,  aveva 

(1)  Ferrerò,  op.  cìu  pag.  21. 

(2)  De  Castro,  op.  eli.  pag.  26. 

Voi.  IV,  Parte  U  9 


130  A.  BELLONI 

pur  sempre  dedicato  a  Carlo  Emanuele  l'edizione  del 
1617,  per  la  quale  era  incorso  nelle  ire  della  Spagna. 
Particolari  benemerenze  adunque  verso  Carlo  EmaDoele 
il  Testi  ne  aveva  e,  non  ostante  ciò ,  il  duce  alpino  non 
si  mosse  a  rimunerarlo  spontaneamente,  come  appunto 
avverti  il  Ferrerò,  correggendo  il  Tiraboschi. 

Negar  pertanto  in  via  assoluta ,  che  le  Stanze  sieno 
entrate  per  qualche  cosa  nel  provocar  le  severe  misure, 
che  causarono  la  fuga  e  V  esiglio  del  Testi,  il  Mango  non 
può.  Ed  è  poi  egli  caduto  in  grave  equivoco  scrivendo: 
e  E  che  né  le  Rime  edite  nel  1617,  né  le  Stanze  ade- 
spote siano  state  la  cagione  vera  dell'arresto  dei  Testi, 
è  provato  da  un  documento  storico  fino  ai  1880  scono- 
sciuto, e  dal  Bellonì  non  citato  »  (1).  Infatti  io  non  dissi, 
né  poteva  dire,  che  il  Testi  sia  stato  arrestato  per  le 
Rime  del  1617;  ho  affermato  semplicemente,  eh' egli  si 
salvò  a  maggiori  pene  con  la  fuga.  Oltre  di  che  è  da 
osservare  che  il  Mango,  parlando  di  arresto,  pare  alluda 
a  quello,  che  è  poi  anche  l' unico  da  cui  il  Testi  sia  stato 
colpito,  avvenuto,  si  noti  bene,  nel  Gennaio  del  1646, 
quando  il  poeta  fu  improvvisamente  tratto  in  carcere,  ove 
mori  pochi  mesi  dopo.  Se  cosi  non  fosse,  non  vi  sarebbe 
stata  ragione,  che  il  Mango  citasse  uno  scritto  del  Ferrerò (2), 
che  è  appunto  il  documento  storico  al  quale  allude  nelle 
parole  sopra  riferite,  documento  in  cui  si  dimostra  la 
vera  causa  di  queir  arresto ,  e  si  ricerca  se  la  morte  del 
Testi  sia  stata  naturale  o  violenta.  Or,  se  ben  leggeva 
quant'io  avea  scritto,  avrebbe  dovuto,  credo,  accorgersi 
il  Mango ,  che  questa  sua  citazione  era  affatto  fuor  di 
proposito;  tanto   più  che,   anche   per   quanto  spetta  a 


(1)  Di  alcune  stanze  ecc.  Pag.  12. 

(2)  L'  arresto  e  la  morte  del  Conte  Fulvio  Testi,  in  Rivista  Euro- 
pea, N.  S.,  voi.  XIX,  an.  1880,  pagg.  463-480. 


DI   UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.  XVU  t31 

quell'arresto  del  1646,  nessuno  mai,  tra  le  varie  ipotesi 
emesse  per  spiegarne  la  causa,  aveva  avanzato  l'opinione, 
che  la  ragion  vera  ne  fosse  stata  l'edizione  delle  Rime 
fatta  nel  1617.  Sicché  concludendo:  il  Mango  s' industriò 
a  dimostrar  falsa  un'  asserzione ,  che  né  da  me  né  da 
altri  era  stata  mai  fatta,  e  a  tale  uopo  ricorse  all'  autorità 
del  Ferrerò,  che,  combattendo  nel  suo  scritto  le  altre 
ipotesi,  codesta,  immaginata  dal  Mango,  non  poteva,  per- 
ché inesistente,  confutare. 

Vili. 

Per  tutte  le  ragioni  sopra  esposte  io  mantengo  la 
conclusione ,  a  cui  giunsi  anche  nel  precedente  scritto , 
che  cioè  tra  i  discutibili  autori  delle  Stanze  le  maggiori 
probabilità  sieno  per  il  Testi. 

Né  con  ciò  io  voglio  fare  apparir  Fulvio,  come  l' unico 
e  il  più  patriottico  poeta  del  suo  tempo  ;  che  s' egli 
in  gioventù  cantò  della  patria  ,  si  lasciò  allettar  poi 
dalle  lusinghe  della  vita  cortigiana  e  mutò  stile  alla  sua 
musa.  Non  credo  io  però  con  il  Mango,  che  gli  si  possa 
fare  gran  colpa  della  supplica  ad  Alfonso,  in  cui  chie- 
deva perdono  delle  parole  dette  contro  la  Spagna.  Si 
pensi  infatti  eh'  anco  il  Tassoni,  per  timor  delle  vendette 
spagnuole,  fu  costretto  a  rinnegar  le  sue  Filippiche,  e 
inoltre  che,  pur  confessando  il  suo  errore,  il  Testi  non 
ritirò,  come  osservai,  le  lodi  date  al  duca  di  Savoia,  e 
mise  anzi,  a  mio  avviso,  nelle  sue  scuse  una  tal  quale 
sottile  ironia.  Cosi  pure  dissento  dal  Mango,  quando  dice 
che  il  Testi  espresse  indifferenza  per  le  guerre  tra  Ita- 
liani e  Spagnuoli  nella  canzone  ad  Ascanio  Pio  di  Sa- 
voia (1);  poiché  infatti  egli  ivi  parla  delle  guerre,  che 
avvenivano  in  Germania,  e  nei  versi  citati  dal  Mango 

* 

(1)  Poesie  di  F.  T.  In  Milano,  Marelli,  MDCLXXVI,  pag.  239  e  segg. 


132  A.  BELLONI 

ÀscaDio,  ora  dai  sommi 
Gioghi  de  Y  Alpi  io  di  quel  flutto  infido 
Miro  r  insanie,  odo  i  tumulti  e  rido , 


non  si  riferiscono  al  vasto  incendio  di  guerra,  ma  al  mar 
de  la  corte,  come  si  capisce  leggendo  tutta  la  stanza 

Se  nel  mar  de  la  corte 

Lunga  stagion  invidioso  fiato 

Di  malvagio  Aquilon  calma  negommi. 

Già  non  lasciò,  eh*  assorte 

Fosser  le  vele  a  lui  fedeli;  grato 

A*  voti  miei  il  mio  Nettun  salvommi. 

Ascanio,  ora  da  i  sommi 

Gioghi  de  l' Alpi  io  di  quel  flutto  infido 

Miro  r  insanie,  odo  i  tumulti  e  rido. 

È  da  notare,  che  questa  poesia  fu  scritta  dal  Testi  ne' 
primi  tempi  del  suo  soggiorno  nella  Garfagnana,  ovverà 
stato  mandato  come  governatore.  Egli,  avvezzo  alla  >ita 
tumultuosa  delle  corti  e  amante  delle  novità,  nonché  fa- 
cile, per  una  certa  incostanza  dell'  animo,  agli  entusiasmi, 
fu  da  prima  tutto  felice  della  nova  esistenza  semplice  e 
tranquilla ,  nella  pace  e  nel  silenzio  della  campagna.  In 
questa  e  in  altre  poesie  paragonando  le  scene  di  guerra 
con  la  vita  quieta  de'  campi,  egli  si  mostra  compreso  da 
un  dolce  senso  di  mollezza  e  d' indifferenza,  che  lo  rende 
noncurante  delle  cose  del  mondo  e  gli  inspira  le  dolci 
melodie  d'un  idillio,  facendogU  maledire  quelle  mondane 
grandezze,  che,  poco  dopo,  lo  travolgeranno  di  nuovo  nel 
loro  vortice. 

La  sua  indiflerenza  è  più  che  altro  un'ostentazione; 
e  senza  dubbio  è  esagerata,  come  esagerato  è  l'enlosia- 


DI   UNA  POESIA  ANONIMA  DEL  SEC.   XVII  '      133 

smo  per  la  solitudine  de'  monti,  e  quanto  intenso,  altret- 
tanto fugace.  Infatti  non  per  molto  tempo  ei  seppe  re- 
sìstere alle  seduzioni  delle  corti  ;  troppo  lo  pungeva  Y  am- 
Dizione,  di  cui  dovea  restar  vittima  (1). 

A.  Belloni 


(1)  Avevo  da  lungo  tempo  consegnato  alia  tipografia,  ed  era  ormai 
tutto  composto  questo  mio  scritto,  quando  mi  venne  tra  mano  un  opu- 
scolo del  dotL  Luigi  Arezio,  intitolato  Sull'  autenticità  d'  un  poemetto 
pubblicato  alla  macchia  nel  secolo  XVII  (Palermo,  Amenta,  lB9i)  nel 
quale  é  discusso  V  argomento  stesso  di  cui  é  questione  tra  me  e  Tegregìo 
prof.  Mango.  L'  Arezio  pubblicò  il  suo  lavoro  quest'  anno ,  cioè  dopo 
ch'era  già  comparso,  nel  1889,  il  primo  mio  scritto  citato,  del  quale 
però  egli  dichiara  di  non  aver  avuto  notizia  se  non  all'ultimo  momento, 
cosi  che  non  se  ne  potè  valere.  Ma  per  fortunata  combinazione  T  Arezio 
viene  nel  suo  scritto  alle  stesse  mie  conclusioni  e  si  vale  anzi  talvolta, 
senza  saperlo,  d'alcuna  delle  prove  da  me  addotte  a  conforto  della  mia, 
opinione.  Ciò  non  ostante  lo  scritto  che  qui  pubblico  essendo  esplicita- 
mente diretto  a  confutare  le  ragioni  del  Mango  (la  cui  risposta  al 
precedente  mio  articolo  V  Arezio  non  potè  conoscere) ,  e  poggiando  su 
argomenti  nuovi  ed  all' Arezio  stesso  sfuggiti,  nulla  ha  perduto,  a  mio 
credere,  del  suo  valore  e  della  sua  opportunità.  Noto  solo  come  dallo 
stadio  che  l'Arezio  fece  sui  codd.,  che  contengono  le  Stanze,  risulti  ch'essi 
Don  ci  possono  dare  criteri  sicuri  per  sciogliere  la  questione,  sicché  biso- 
gna e  ricorrere  all'esame  del  contenuto  e  dello  stile  del  poemetto  », 
cosa  che  anch'  io  feci,  seguendo  però  una  via  diversa  da  quella  che,  nel 
citalo  lavoro,  tenne  l'Arezio. 


LETTERA 

AL  PROF.  DINO  MANTOVANI 

SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  GAYALGANTI 

(iNF.  X,  V.  62-63) 


Caro  Sardello 

Dal  giorno  che  lessi  per  le  stampe  la  toa  nuova  in- 
terpretazione sul  disdegno  di  Guido  Cavalcanti ,  quei  be- 
nedetti versi  del  X  canto  dell'Inferno  mi  ballano  noa 
ridda  macabra  nel  cervello;  né  per  quanto  abbia  (atto, 
mi  rìuscf  finora  di  mandarli  con  Dìo. 

Perché  Dante  chiama  la  sua  risposta  a  messer  Ca- 
valcante de'  Cavalcanti  cosi  piena?  Vuole  egli  dire  soltanto 
che  essa  era  conveniente,  ben  diretta  al  peccatore  che 
avea  riconosciuto  dalle  parole  e  dal  modo  della  pena, 
ovvero  intende  dichiararla  eziandio ,  per  quanto  gli  era 
possibile,  completa,  chiara  e  precisa?  Io  stimo  che  l'uno 
e  l'altro  senso  si  contengano  nella  espressione  dantesca; 
giacché  se  ciò  che  è  pieno,  non  è  in  veruna  parte  defi- 
ciente, ossia  ha  tutti  i  requisiti  voluti,  il  primo  requisito 
appunto  di  una  risposta  è  quello  di  esser  chiara  e  com- 
pleta: e  son  convinto  che  il  Poeta  la  pensava  cosi. 

Come  va  allora  che  i  due  versi  62  e  63  che  la  con- 
tengono, appariscono  invece  tanto  oscuri  agli  interpreti 
da  digradarne  gli  oracoli  di  Delfo?  A  chi  od  a  che  va 
riferito  quel  cui?  È  semplicemente  relativo  a  persona  od 


A.   GIOVANELU  —  SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  GAVALGANTI      135 

1  cosa,  come  Della  ipotesi  che  stia  ad  indicare  Virgilio, 
Dante  medesimo  o  T  inferno?  0  non  indica  piuttosto  mi 
noto  a  luogo,  non  già  Terso  un  luogo  vero  e  proprio, 
^he  non  si  saprebbe  certo  quale  potesse  mai  essere,  ma 
rerso  una  persona  determinata,  come  nell'ipotesi  che 
3SSO  alluda  a  Dio  ovvero  a  Beatrice;  o  meglio  ancora, 
secondo  che  a  me  sembra,  verso  qualche  cosa  di  astratto, 
verso  un  ideale  che  Dante  intuisce,  ma  non  può  preci- 
sare, e  che  perciò  esprime  in  un  modo  affatto  vago  ed 
indeterminato?  e  Tbat  is  the  questioni  >  direbbe  lo  sven- 
turato principe  di  Danimarca. 

Anche  tu  hai  voluto  dir  la  tua,  ed  hai  propugnata 
la  tesi  con  indiscutibile  valore,  aprendo  una  nuova  via 
air  interpretazione  di  quel  passo  cosi  disputato ,  contra- 
riamente anche  a  quanto  il  D'Ovidio  ed  il  Rajna  fra  gli 
ultimi  han  sostenuto. 

Per  te  dunque  quel  cui  non  si  riferisce  a  colui, 
ossia  Virgilio,  come  si  volle  fin  qui  per  mille  futili  ra- 
gioni da  molti  chiosatori,  compreso  l' illustre  Marchetti,  e 
come  propose  non  ha  guari  con  miglior  copia  di  argo- 
menti e  per  più  plausibili  motivi  l' esimio  D' Ovidio  ;  né 
si  riferisce  a  Dio ,  come  vorrebbe  l' egregio  Rajna  :  per 
te  il  cui  va  riferito  all'  avverbio  sostantivato  qui,  doven- 
dosi  leggere  : per  questo  inferno   cui  forse  Guido 

vostro  ebbe  a  disdegno.  E  lo  sostieni  dimostrando  anzi- 
tutto come  il  senso  che  ne  viene,  trovi  il  suo  riscontro 
nel  verso  36  dello  stesso  canto,  ove  è  detto  che  Fari- 
nata mostra  di  aver  lo  inferno  in  gran  dispetto;  e  con- 
venga altresì  a  Guido  Cavalcanti,  la  cui  miscredenza,  pece 
di  famiglia,  sembra  non  potersi  più  mettere  in  dubbio: 
come  l'uso  degli  avverbi  sostantivati  sia  frequente  nella 
Divina  Commedia;  e  come  infine  il  costrutto  duro,  anzi 
durissimo,  del  qui  cui  non  ti  spaventa  perché  in  Dante 
di  simili  durezze  non  v'  ha  certo  penuria. 


136  ALFREDO  GIOVANELLI 

Ottime  ragioni  le  tue  :  non  Torrei  però  che  tu,  come 
moltissimi  altri,  a  mio  avviso,  per  tener  gli  occhi  fissi  ìd 
qaei  due  versi,  perdessi  di  vista  il  naturale  andamento 
dell'intero  poema.  E  mi  spiego. 

Tu  m'insegni  che  è  ben  da  distinguere  il  senso 
letterale  dei  vari  canti  dall'  orditura  generale  che  aTe?a 
in  mente  il  Poeta;  che  se  Dante  sapeva  quale  sarebbe 
stato  il  tema  dell'  ultimo  canto  della  terza  Cantica  fin  da 
quando  scriveva  —  In  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita,  - 
non  è  men  vero  che  il  suo  disegno  non  doveva  farsi 
manifesto  al  lettore  che  durante  lo  svolgersi  dell'azione. 
Per  la  qual  cosa,  interpretando,  come  nel  caso  nostro, 
le  espressioni  dell'  Alighieri,  non  possimo  andar  più  in  là 
di  ciò  che  egli  ci  appalesa  nei  versi  precedenti,  a  meno 
che  non  si  tratti  di  concetti  filosofici  e  morali,  pei  quali 
è  d' uopo  sollevarsi  al  di  sopra  del  senso  letterale  e 
scrutare  gli  intendimenti  del  Poeta  secondo  il  contenuto 
allegorico  di  tutto  il  poema. 

Quando  Dante ,  smarrito  nella  selva,  stava  per  ritor- 
nar più  volte  vólto,  vinto  dalla  paura  delle  tre  bestie, 
non  pensava  certo  che  gli  sarebbe  venuto  incontro  Vir- 
gilio a  salvarlo,  né  che  gli  avrebbe  proposto  un  viaggio 
pei  regni  eterni.  E  Virgilio  che,  svelatosi  a  lui,  lo  inco- 
raggia pel  suo  meglio  a  salire  i7  dilettoso  monte  e  gli  >i 
offre  per  guida:  ma  circa  la  meta  del  viaggio  non  gli 
dice  altro,  se  non  che  lo  avrebbe  accompagnato  per 
r  inferno  e  per  il  purgatorio,  e  che  se  avesse  poi  voluto 
salire  fra  le  beate  genti,  un'  altra  anima,  di  lui  più  degna. 
lo  avrebbe  condotto. 

Fidente  nel  suo  maestro  Dante  lo  segue:  però  slam 
sempre  allo  stesso  punto  ;  in  quanto  al  limile  del  viaggio 
che  egli  intraprende  per  uscir  dalla  selva,  non  dimostra 
di  conoscerne  più  di  quello  che  Virgilio  gli  aveva  prò- 


SUL  DISDEGNO  DI   GUIDO  CAVALCANTI  137 

messo.  La  qaal  cosa  convieD  fissar  bene  ìd  mente  fin 
da  ora. 

Solo  è  lecito  pensare  che  trovando  cosi  spianata  la 
via  per  le  parole  della  sua  guida,  ed   avendo  saputo  in 
seguito  che  V  anima  più  degna  era  Beatrice ,  concepisse 
no  grande  desiderio  ed  una  vaga  speranza  di  accostarsi 
più  che  gli  fosse  possibile,  con  l'aiuto  di  lei,  alla  perfe- 
zione morale,  alla  felicità  o,  se  vuoisi,  anche  al  sommo 
fieno  ;  ma  in  verità  eh'  ei  sognasse  di  arrivar  proprio  al 
cospetto  di  Dio,  eh'  io  rammenti,  mai  non  ardisce  di  dirlo. 
Non  altre  quindi  potevano  essere  le  idee  di  Dante, 
quanto  nel  X  canto  dell'Inferno  s'imbatte  in  Cavalcante 
de'  Cavalcanti  e  in  Farinata  degli  liberti  ;  dappoiché ,  ri- 
peto, smarrito  nella  selva,  ivi  soltanto  —  e  non  prima  — 
ha  sentore  del  viaggio,  e  lo  incomincia,  ignorando  per- 
fettamente quale  ne  sarebbe  stato  il  termine  preciso, 
tanto  è  vero  ch'ei  dice  a  Virgilio: 

Poeta,  i'ti  rìchieggio 
per  quello  Iddio  che  tu  non  conoscesti, 
acciocch'  io  fugga  questo  male ,  e  peggio , 

che  tu  mi  meni  là  dov'  or  dicestì , 
si  eh'  io  vegga  la  porta  di  San  Pietro , 
e  color  che  tu  fai  cotanto  mesti. 

Ond'  è  che  la  risposta  cosi  piena  che  dà  al  primo 
dei  due  dannati: 

Da  me  stesso  noe  vegno: 
colui  che  attende  là  per  qui  mi  mena, 
forse  cui  Guido  vostro  ebbe  a  disdegno; 

a  me  pare  debba  essere  intesa  non  altrimenti  che  come 
la  sintesi  di  tutto  ciò  che  il  Poeta  sapeva  fino  allora  in- 
tomo al  gran  viaggio,  e  delle  aspirazioni  vaghe  ch'erano 


138  ALFREDO  GIOVANELU 

surte  io  cuor  suo.  Cosicché  io  leggerei  :  e  Non  Yengo  per 
mia  deliberazione  ;  ma  colui  che  attende  là,  cioè  Virgilio, 
per  qui  mi  conduce  forse  a  cut  (a  ciò  che,  a  quella  meta 
che)  Guido  vostro  ebbe  a  disdegno:  e  in  altri  termini, 
facendomi  passare  per  questi  luoghi  di  pena,  mi  coDdoce 
forse  (come  spero,  come  anelo)  alla  conoscenza  del  vero 
e  del  bene  che  Guido  vostro,  dacché  segui  una  filosofia 
tanto  opposta  alla  mia,  vale  a  dire,  dacché  divenne  scet- 
tico e  miscredente,  ebbe  a  disdegno  > .  Bellissima  antitesi 
fra  il  desiderio  di  Dante  e  il  disdegno  di  Guido  per  il 
medesimo  oggetto. 

Siffatta  interpretazione,  ognun  lo  vede,  si  accosta  di 
molto  a  quella  del  Rajna,  ed  a  rigore  ne  differisce  solo  in 
quanto  alla  precisione  della  meta  :  egli  infatti  dice  a  Dio 
addirittura,  io  invece,  confortato  dal  silenzio  di  Dante,  se 
non  dall'espressione  stessa  da  lui  lasciata  per  avventura 
con  artifizio  sommo  vaga  ed  indeterminata ,  preferisco  di 
leggere  ad  id  quod ,  quasi  compendio  dei  vari  fini  a  cai 
mira  il  poema,  ossia,  alla  conoscenza  del  vero  e  del  bene, 
alla  felicità  o  alla  perfezione  che  intender  si  voglia  ;  tutte 
cose  per  altro  che  giusta  il  senso  allegorico  mettonc^po 
air  idea  stessa  di  Dio.  Per  tale  riguardo  e  tenendo  ben 
presente  «  che  V  opera  non  è  semplice,  come  avverte  lo 
stesso  Alighieri,  ma  polisensa  »;  io  son  di  parere  che 
quel  cui  (a  ciò  che)  non  vada  inteso  nel  senso  neutro, 
quale  apparisce  neir  espressione  letterale ,  ma  nel  senso 
invece  di  una  meta  puramente  allegorica ,  come  ho  av- 
vertito più  sopra. 

E  questo,  sia  detto  fra  parentesi,  io  osservo  per 
rendere  più  chiara  la  mia  interpretazione,  e  non  sicura- 
mente per  iscusar  V  Alighieri  di  aver  adoperato  nel  caso 
che  ci  occupa,  un  cui  neutrale,  che  tu  condanni  come 
contrario  alla  grammatica;  giacché,  a  parte  le  molte  cose 
che  a  lui  sarebbero  state  permesse,  la  lingua  scritta  e 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  139 

parlata  son  là  per  darti  torto ,  come   neir  esempio  se- 
guente: €  Coini  che  al  priDcipio  sceglie  la  buona  strada, 
arriva  felicemente  a  cui  aspira  >;  ossia,  a  ciò,  alla  meta, 
al  termìDe  a  cai  aspira.   Tantoché  io  sosterrei   come  la 
frase  stessa  di  Dante  e  mi  mena  forse  cui  ecc.  >  risulti, 
né  più  né  meno  del  passo  citato,  una  espressione  elittica, 
e  sufficientemente  chiara,  in  quanto  che  ai  verbi  indi- 
canti moto,  come  guidare,  pervenire,  menare,  giungere, 
arrivare  ed  altri,  vada  di  necessità  congiunta  l'idea  di 
fine,  termine,  meta,  scapo;  le  quali  parole  perciò,  anco 
taciute,  in  mancanza  di  una  designazione  più  certa  facil- 
mente si  sottintendono.  Cosi  anche  il  forse  si  trova  al 
suo  vero  posto,  come  nell'ipotesi  del  Rajna,  e  non   fa 
bisogno  di  ricorrere  ad  interpretazioni  più  o  meno  stirate 
e  contorte  per  ispiegarne  il  vero  significato,  secondo  che 
fanno  i  più,  senza  tuttavia  giustificarne  la  postura,  in  ogni 
altro  caso,  veramente  anormale. 

E  che  la  meta  del  viaggio  nell'  orditura  della  Com- 
media sia  vaga  e  molteplice  e  non  Dio,  letteralmente 
parlando,  lo  desumo  dalle  parole  medesime  che  Dante 
nel  canto  I  del  Purgatorio  mette  per  suo  conto  in  bocca 
di  Virgilio: 

libertà  va  cercando^  eh'  è  sì  cara  ; 

nonché  da  quelle  eh'  ei  profferisce  nel  V  : 

per  quella  pace 
che  dietro  a'  passi  di  s)  fatta  guida 
di  mondo  in  mondo  cercar  mi  si  face. 

Né  in  modo  diverso,  a  volerla  trovare  nel  senso  al- 
legorico, si  esprime  il  Poeta  nella  sua  lettera  a  Can 
Grande,  laddove  gli  fa  sapere  che  e  il  fine  del  tutto  e 
>  della  parte  (  Paradiso  )  si  è  di  rimuovere  coloro  che  in 


140  ALFREDO  GIOYANELLI 

))  questa  vita  vivono,  dallo  stato  di  miseria  e  iDdirizzarE 
>  allo  stato  di  felicità  > .  La  qaal  dichiarazione  viene  ri- 
petuta dal  figliuolo  stesso  dell' Alighieri,  quando  dice:  do 
»  ne  spiegherò  in  modo  generale  il  carattere  allegorico 
ì>  col  dire  che  il  disegno  principale  dell'  autore  è  di  mo- 
»  strare  sotto  colorì  figurati  le  tre  maniere  di  essere 
D  dell'  umana  razza.  Nella  prima  parte  prende  a  codsì- 
»  derare  il  vizio  che  dice  Inferno....  La  seconda  ha  per 
9  oggetto  il  passaggio  dal  vìzio  alla  virtù,  che  dice  Por- 
»  gatorio....  Neir  ultima  parte  mira  gli  uomini  perfetti,  e 
ì>  la  dice  Paradiso  per  esprimere  l'altezza  della  loro 
ìt  virtù  e  la  grandezza  della  loro  felicità,  senza  le  quali 
»  non  si  saprebbe  riconoscere  il  supremo  bene  >.   • 

Ecco  perchè  io  penso  che  quel  cui  alluda  ad  oca 
meta  generica  e  non  particolarmente  a  Dio ,  sogno  in- 
vero troppo  orgoglioso  per  un  mortale,  fosse  pur  Dante: 
e  quel  forse  invece  di  significare  e  se  ci  arriverò,  se  m 
sarà  dato  »,  voglia  esprimere  il  grande  desio,  la  vaga 
speranza,  che  egli  aveva  formata  alle  parole  di  Virgilio, 
di  dare  uno  sguardo  di  là  dalla  porta  di  san  Pietro,  tanto 
più  che  sapeva  esser  Bice  l'anima  degna  che  lo  avrebbe 
potuto  condurre  alle  beate  genti. 

Sono  lungi  perciò  dal  seguire  l' interpretazione  gen- 
tile del  forse,  diretta  a  nascondere  al  padre  la  miscre- 
denza del  figlio,  sia  perché  sarebbe  fuori  di  posto,  e  sia 
perché  se  a  Cavalcante  erano  ignoti  gli  avvenimenti  che 
eran  vicini  a  compiersi  o  si  compievano  (v.  100-105), 
non  cosi  doveva  essere  dell'  empietà  dì  Guido,  suo  figlio, 
che  avea  se  non  altro  ben  conosciuto  da  vivo ,  e  sapea 
dalla  pubblica  voce  accusato  e  di  cercar  meditando  se 
Dio  si  potesse  negare  ».  E  notisi  per  giunta  che  Dante 
stesso  parlando  a  messer  Cavalcante  e  a  Farinata  portava 
credenza  che  codesti  spiriti  conoscessero  il  presente,  il 
passato  ed  il  futuro  senza  limitazione  di  sorta  (v.  94-99), 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  141 

onde  la  sua  pietà  mi  sembrerebbe  inesplicabile,  ovvero 
una  inutile  affettazione,  se  a  sostegno  della  mia  tesi  non 
porgesse  nuovo  argomento  l' Alighieri  medesimo  con  la 
confessione  ch'ei  fa  nei  versi  113  e  114  intorno  all'er- 
rore in  cui  era. 

Ove  poi  si  sollevi  contro  a  me  l'obbiezione  che  fu 
già  opposta  al  Rajna,  non  esser  cioè  Virgilio,  ma  Bea- 
trice che  condurrà  Dante  a  Dio,  od  alla  meta  ultima  del 
viaggio,  qualunque  ella  sia,  io  rispondo  che  Dante  anche 
altrove,  favellando  coi  dannati ,  tace  dell'  anima  più  degna 
e  parla  soltanto  di  Virgilio  come  sua  guida.  E  la  ragione 
di  un  tal  procedere  io  credo  ravvisarla  in  due  cose;  nel 
grande  rispetto  per  il  suo  maestro  e  donno ,  di  cui  non 
voleva  senz' alcuna  necessità  menomare  l'alta  importanza 
agli  occhi  di  quei  trapassati,  e  nel  nessun  interesse  che 
avrebbe  potuto  destare  in  costoro  la  notizia  che  a  Virgilio 
dovea  succeder  Beatrice,  ignota  ai  più,  per  condur  lui 
alle  beate  genti.  Anzi  una  considerazione  che   non  trovo 
sia  stata  fatta  da  altri,  e  che  nel  caso  del  Rajna  e  nel  mio 
è  di  capitale  importanza  è  proprio  questa,  che  chi  ac- 
cenna a  Beatrice  nei  vart  dialoghi  coi  peccatori  dell'In- 
ferno e  del  Purgatorio,  se  la  memoria  non  mi  tradisce, 
è  sempre  Virgilio  (cfr.  Inf.  I,  112-29  e  Purg.  XVIII, 
46-48),  Dante  non  mai  (cfr.  Inf.  X,  62-63  e  Purg.  V, 
61-63). 

E  qui  mi  cade  in  acconcio  dì  trattar  brevemente  di 
quelli,  fra  i  quali  il  D'Ovidio,  che  attribuendo  o  no  al 
forse  il  significato  gentile,  da  te  vagheggiato,  riferiscono 
il  cui  a  Virgilio.  Non  istarò  a  far  l' inventario  delle  ra- 
gioni più  0  meno  plausibili ,  addotte  in  sostegno  di  que- 
sta interpretazione,  mi  limiterò  ad  esporre  i  motivi  pei 
quali  oso  pensare  che  non  sia  dessa  la  vera. 

Se  Dante  avesse  voluto  intendere  che  Guido  non  era 
seco,  poiché  disprezzava  Virgilio,  —  poco  importa  per 


142  ALFREDO  GIOVANELU 

qual  ragione  ciò  fosse,  —  converrebbe  supporre  che  egli 
avesse  fatto  cenno  al  Cavalcanti,  e  ta  par  ne  convieni, 
del  viaggio  pei  tre  regni  delle  anime  con  la  scorta  del 
mantovano  poeta  ;  ovvero  che  questi,  —  non  si  sa  come, 
né  quando,  né  perché,  —  avesse  potuto  proporlo  ad  en- 
trambi, afDnché  Guido  verosimilmente  accettasse  o  re- 
spingesse per  disdegno  V  offerta.  Ma  come  l' Alighieri 
prima  di  smarrirsi  da  solo  nella  selva  non  sapea  dell'in- 
contro con  Virgilio ,  e  molto  meno  del  viaggio  per  lo 
cammino  alto  e  Silvestro;  cosi  Virgilio  che  dichiara  (Porg. 
I,  52-54): 

Da  me  dod  venni: 
Donna  scese  dal  ciel,  per  li  cui  prìeghi 
della  mia  compagnia  costui  sovvenni; 

non  apparisce  in  veruna  ipotesi  autorizzato  a  favorir  al- 
cun altro  air  infuori  di  Dante,  imperocché  agiva  per  in- 
carico ricevuto  (Inf.  II,  50  al  126).  E  se  si  riflette  che 
chi  lo  mandava,  era  appunto  Beatrice,  T  amore  ideale  di 
Dante,  che  vegliava  in  cielo  per  lui,  non  è  facile  com- 
prendere come  e'  entri  il  disdegno  di  Guido  per  il  can- 
tore di  Enea,  a  spiegare  il  perchè  ei  non  sia  compagno 
all'Alighieri  nella  gita  al  dilettoso  monte. 

Per  qual  ragione  Beatrice  avrebbe  dovuto  interes- 
sarsi di  Guido  Cavalcanti?  Lo  aveva  ella  neppur  cono- 
sciuto da  viva?  Era  egli  forse  smarrito  con  Dante  nella 
selva?  0  non  era  invece  accaduto  proprio  in  quel  tempo 
che  i  due  vecchi  amici,  sebbene  dello  stesso  parlilo, 
avean  presa  a  percorrere  una  via  differente,  Dante  col- 
r  intento  di  pacificare  gli  animi,  Guido  con  quello  di  voler 
ad  ogni  patto  distrutta  la  fazione  dei  Neri ,  d' onde  è 
possibile  inferire  un  raffreddamento,  se  non  una  vera 
rottura,  della  loro  antica  amicizia?  Ora  il  Poeta,  cui  fin 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  143 

la  principio  per  le  rivelazioni  del  maestro  è  palese  ef- 
Tettuarsi  il  suo  viaggio  in  virtù  di  un  influsso  benefico, 
zhe  lai  solo  riguarda  e  protegge,  non  può  dare  ad  in- 
tendere in  buona  fede  a  messer  Cavalcante,  cbe  Guido 
non  segua,  perché  ha  in  odio  Virgilio. 

Arduo  poi  diventa  in  tal  caso  l'accordare  il  forse, 
dabitativo,  con  Yebbe,  passato  rimoto;  vuoi  perché  se 
Gaido  avesse  odiato  Virgilio,  ciò  non  aveva  da  essere  un 
mistero  per  V  Alighieri  ;  e  vuoi  perché  se  l' Alighieri  avesse 
voluto  riferirsi,  come  opinava  r  esimio  De  Sanclis  (1),  ai 
tempi  giovanili,  alle  prime  gare  della  scuola  e  dei  con- 
vegni letterari,  avrebbe  asserito  cosa  non  esatta,  essendo 
la  sua  amicizia  con  Guido  d*  un'  epoca  alquanto  poste- 
riore, ed  essendo  questi  di  oltre  dieci  anni  più  vecchio 
di  lui. 

Eppure  si  dee  credere  che  il  Poeta  abbia  alluso 
quasi  alla  impossibilità  di  conoscere  le  nuove  idee  del  suo 
pritno  amico,  a  causa  della  loro  separazione  politica  da 
me  accennata,  o  durante  l'esilio  del  Cavalcanti;  imperoc- 
ché oltre  all'  osservare  che  la  separazione  stessa ,  se  av- 
venne, fu  di  corta  durata,  non  possiamo  dimenticare  che 
al  tempo  in  cui  ha  realmente  principio  il  famoso  viaggio. 
Guido  era  tuttora  in  Firenze,  e  Dante  non  aveva  per 
anco  ottenuto  gli  onori  del  priorato  (2). 

Provisi  invece  a  riferir  queir  ebbe  come  nell'  inter- 
pretazione che  ho  ardito  proporre,  agli  anni  nei  quali 
Guido,  prima  ancora  dì  diventare  l' amico  di  Dante,  s' in- 
golfò nello  scetticismo  profondo  che  lo  condusse,  sulle 
orme  de' suoi,  alla   miscredenza;  e  il   passato   apparirà 


(1)  Farinata,  in  Nuovi  Saggi  critici,   Napoli,  Morano  1879,  2.* 
ediz.  pag.  28. 

(2)  Balbo,  Vita  di  Dante,  I,  capo  X,  :pag.  142:  II,  capo  VII, 
pag.  303. 


144  ALFREDO  GIOVANELLI 

adoperato  nel  suo  giusto  valore,  come  il  forse  nel  suo 
vero  posto:  ed  entrambi,  anziché  intralciarlo  renderaimo 
facile  e  piano  il  senso  del  passo  in  esame.  E  tanto  mag- 
giormente insisto  nel  mio  modo  d'intender  queir ^i6;, 
in  quanto  ei  mi  sembra  d' averne  conferma  nei  versi  che 
seguono.  Infatti  messer  Cavalcante  colpito  dall'  espres- 
sione di  Dante  al  passato  rimoto, 

Di  subito  drizzato  gridò:  Come 
dicesti  egli  ebbe?  non  viv'  egli  ancora? 
Don  fiere  gli  occhi  suoi  Io  dolce  tome? 

Quando  s' accorse  d' alcuna  dimora 
eh'  io  faceva  dinanzi  alla  risposta, 
supin  ricadde,  e  più  non  parve  fuora. 

E  Dante  in  verità  resta  talmente  meravigliato  che 
Cavalcante  non  intenda  il  giusto  significato  del  suo  ^, 
che  prega  Farinata  a  sciogliergli  il  r^odo  che  ha  invilup- 
pata sua  sentenza,  dicendo: 

È  par  che  voi  veggiate,  se  ben  odo, 
dinanzi  quel  che  'I  tempo  seco  adduce, 
e  nel  presente  tenete  altro  modo. 

E  poiché  Farinata  gli  risponde: 

Quando  {U  cose)  s' appressano,  o  son,  tutto  è  vano 
nostro  intelletto;  e  s  altri  noi  ci  apporta 
nulla  sapem  di  vostro  stato  umano] 

Dante  pentito  quasi  della  sua  colpa,  soggiunge: 

Or  direte  a  quel  caduto 


che  'I  suo  nato  è  co  vivi  ancor  congiunto 

E  s'io  fui  dianzi  alla  risposta  muto 
fate  i  saper  che  il  fei,  perch'  io  pcfisava 
già  neW  error  che  m' avete  soluto. 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  145 

In  altri  termini  :  io  dod  sognava  neppure  che  messer 
Cavalcante  ignorasse  come  sqo  figlio  viva  ancora,  perché 
sra  mia  opinione  che  a  voi  quaggiù  fosse  noto  il  pas- 
sato, il  futuro  ed  il  presente;  ed  ho  parlato  al  passato 
rimoto,  solo  riferendomi  al  giorno  dal  quale  Guido  co- 
oiinciò  a  professare  quei  principi  filosofici,  ch'io,  dive- 
Dato  poscia  suo  intimo  amico,  conobbi  purtroppo  esser 
tanto  diversi  dai  miei. 

In  fine  è  da  por  mente  che  se  il  cui  alludesse  in 
UD  modo  qualunque  a  Virgilio,  il  forse,  che  vorrebbe  es- 
sere ,  secondo  il  D' Ovidio  e  te ,  un  pietoso  riguardo  al 
vecchio  peccatore,  a  parte  quanto  già  feci  notare  in  pro- 
posito, non  attenua  per  me  V  offesa  arrecata  a  quel  savio 
gentil,  che  stava  li  presso  e  che  poteva  udire  benissimo, 
facendogli  sapere  che  Guido  Cavalcanti  V  ebbe  a  disdegno. 
Non  e'  è  che  dire  :  sentirsi  spiatellar  sul  viso ,  od  anche 
dietro  le  spalle,  complimenti  di  questo  genere,  non  è 
cosa  che  dia  piacere  ad  alcuno;  e  Dante  che  di  buona 
creanza  era  certo  maestro,  mi  farebbe  la  figura  d'un 
inesperto  nocchiero  che  per  evitar  Scilla  vada  a  urtare 
in  Cariddi;  del  che  non  so  davvero  capacitarmi. 

Ma  comunque  sia,  eccomi  di  nuovo  a  te,  mio  caro 
Sordello,  pregandoti  di  volermi  perdonare  se  mi  ti  mo- 
strerò piuttosto  Ezzelino,  che  Gunizza. 

Tu  leggi  :  Colui  che  attende  Id  mi  mena  per  questo 
inferno,  che  forse  Guido  vostro  ebbe  a  disdegno:  e  con 
bella  copia  d' argomenti  e  molta  erudizione  difendi  il  tuo 
assunto.  Anch'io  da  prima,  se  ricordi,  fui  tentato  di 
schierarmi  dalla  tua  parte;  ma  avendoci  ripensato  sopra 
e  a  lungo,  mentre  tu  ti  sei  vie  più  convinto  della  bontà 
della  tua  tesi,  io  ho  cominciato  a  dubitarne  assai. 

Prima  di  tutto  osservo  come  anche  nel  caso  tuo 
valgono  le  stesse  ragioni  addotte  per  il  forse  e  Vebbe 
nella  ipotesi  che  il  cui  si  riferisca   a  Virgilio,  giacché, 

Voi.  IV,  Parte  11  10 


146  ALFREDO  GIOVA 

Termo  rimanendo  il  sentimento  e 
non  l' oggetto  del  suo  disprezzc 
sostitDirsì  t' inferno  al  mantovatu 
che  nella  naova  lezione  che  fai, 
è  più  dove  Dante  lo  pose. 

Ta  sostieni  che  il  forse  ini 
delle  tante  darezze  del  grande  i 
questa  non  mi  so  dar  pace  dal 
versa  interpretazione,  come  abbi; 
vario  dove  si  trova.  Del  resto, 
addosso  t'accasa  di  pedante,  noi 
porre  ai  tnoi  ragionamenti  il  pre< 
s' insegna  nelle  scuole  intomo  al 
cioè  r  idea  più  saliente  va  semp 
gior  luce  possibile.  Per  la  qual 
Dante  ha  posto  il  forse  prima  di 
tendere,  né  più  né  meno,  che  1' 
la  frase  si  contiene  appunto  nell 
tavi  dal  forse;  imperocché  in 
come  il  tegame  che  rannoda  mi 
pendìa  a  meraviglia  e  l'incertezz 
meta,  e  la  vaghezza  dei  desideri 
alle  parole  di  Virgilio. 

Ma  lasciamo  andare  anche  ì 
direbbe  a  messer  Cavalcante  che 
soltanto  per  lo  inferno,  che  il  fi] 
gna?  E  il  purgatorio  e  il  paradii 
pure  del  programma  tracciato  d 
chiarì  che  alle  beate  genti  sai 
degna? 

It  per  qui  sta  senza  dubbio 
ma  non  già  come  meta  del  viagj 
^vnrìime  tremendo:  secondo  me, 
mente  un  luogo  di  passaggio;  i 


SUL  DISDEGNO  DI   GUIDO  CAVALCANTI  147 

per  esso  non  mi  offre  alcun  moVivo  plausibile  dell'  as- 
senza di  Gaido.  Il  quale,  dato  che  disdegnasse  l'inferno, 
non  poteva,  miscredente  come  era,  non  disprezzare  il 
purgatorio  e  il  paradiso:  e  questo  suo  disdegno  per  la 
vita  futura,  credo  che  avrebbe  dovuto  in  ogni  caso  es- 
sere annunciato  al  padre,  se  pur  lo  ignorava  (del  che 
dubito  forte),  in  una  forma  più  generica^  e  non  limitata 
al  solo  inferno. 

Se  fossi  stato  io,  per  usare  un  riguardo  a  quel  po- 
vero vecchio,  meglio  che  adoperare  un  forse  fuori  di 
posto,  gli  avrei  detto  magari  che  Guido  disprezzava  uno 
degli  altri  due  regni  ed  anche  tutti  e  due,  ma  non  pro- 
prio il  solo  inferno,  ove  messer  Cavalcante  gemeva  den- 
tro l'arca  infocata,  ed  ove  poteva  prevedere  che  il  suo 
caro  figliuolo,  o  presto  o  tardi,  sarebbe  andato  a  tener- 
gli compagnia. 

Né  mi  sembra  che  tu  possa  trarre  grande  profitto 
dal  raffronto  che  fai  tra  la  espressione  usata  dal  Poeta 
laddove  parla  di  Farinata  degli  Ubertì,  e  quella  che  ri- 
sulterebbe dalla  tua  interpretazione  relativamente  a  Guido 
Cavalcanti:  imperciocché  se  ben  si  comprende  il  gran 
Hspitto  del  primo  per  l' inferno ,  dove  trova  vasi  condan- 
Dato  eternamente,  non  è  cosi  del  disdegno  dell'  altro  pel 
[[uale  non  pure  l'inferno,  ma  tutto  il  resto  non  era  che 
una  fiaba  innocente.  Nel  primo  caso  adunque  è  l'odio, 
nell'altro  il  disprezzo,  sentimenti  che  differiscon  tra  loro 
quanto  dtsptfto  e  disdegno. 

Di  più  osservo  che  la  frase  —  per  qui  mi  mena,  — 
tenuto  pur  conto  della  virgola,  che  non  so  se  sia  stata 
messa  dal  Poeta  o  dai  chiosatori  che  nel  cui  lessero  Vir- 
pUOy  non  corrisponde  alla  verità  delle  cose,  giacché  Vir- 
ilio dovea  menar  Dante  ben  più  lontano ,  e  non  e'  era 
ragione  che  questi  lo  nascondesse  a  Cavalcante  ;  ed  inol- 
tre non  offre  un  senso  completo  per  lo  intrinseco  signi- 


148  ALFREDO  GIOVANELU 

ficato  del  verbo  menare.  Il  qnale,  a  somiglianza  di  con- 
durre, guidare,  come  ho  detto  più  sopra ,  implica  sem- 
pre, secondo  me,  in  via  principale  uno  scopo,  una  meta, 
un  limite,  fosse  pur  l'incontro  dell'anima  più  degna, 
{ducere  ad);  ed  in  via  puramente  secondaria  l'idea  di 
passaggio  (ducere  per),  come  quando  si  dice  menar  per 
un  sentiero,  per  un  sentiere,  per  la  strada  maestra,  per 
una  via  tortuosa,  o  come  suona  il  proverbio  e  menar  U 
can  per  V  aia  >  ad  indicare  appunto  i'  ire  e  redire  in- 
torno a  un  argomento  senza  uno  scopo  al  mondo.  Ha  a 
Virgilio  e  a  Dante  lo  scopo  non  mancava  davvero! 

Se  stiamo  al  senso  letterale  puro,  non  e'  è  che  dire, 
Virgilio  ha  da  Beatrice  l'incarico  di  far  passare  Dante 
per  r  inferno  e  per  il  purgatorio,  alDQnché  veda  color  che 
son  si  mesti;  e  Dante,  anelando  di  uscir  dalla  selfa 
oscura,  obbedisce  ciecamente  ad  una  volontà  sdperiore, 
che  lo  guiderà  fra  le  beate  genti  per  fargli  conoscere  il 
vero.  Se  poi  vogliamo  indagare  il  senso  allegorico ,  Vir- 
gilio rappresenta  la  ragione  operante  in  virtù  della  fede, 
che  mostrando  a  Dante  le  conseguenze  delle  colpe  degli 
uomini  lo  conduce  alla  filosofia  teologica,  afiQncbé  per 
questa  raggiunga  la  massima  possibile  perfezione:  e  Dante, 
pentito  degli  errori  trascorsi ,  si  alBda  alla  fede  ed  alla 
teologia  per  ottenere  con  la  libertà  dello  spirilo  dalle 
umane  miserie,  la  pace  e  la  felicità  cui  anela  :  ed  altri 
aggiungerebbe  forse  il  ritorno  al  belt  ovile,  che  era  senza 
dubbio  il  vero  ed  unico  scopo  pratico  dell'  intero  poema. 

Riepilogando  adunque,  il  mio  arzigogolo  si  ridace  a 
questo.  Il  cui  non  dovrebbe  riferirsi  a  Virgilio,  né  a  Dio, 
né  air  inferno  ;  bensi  ad  un  quid  astratto  che  sta  ad  in- 
dicare una  meta,  certa  nella  sostanza,  perché  è  la  cono- 
scenza del  vero  giusta  il  concetto  cristiano,  da  cui  emana 
la  felicità;  ma  indeterminata  nella  forma,  perché  sebbene 
fosse  l'aspirazione  di  Dante,  questi  non  poteva  palesare, 


SUL  DISDEGNO  DI   GUIDO  CAVALCANTI  149 

noQ  conosceDdoli,  i  disegni  di  quell'anima  degna,  che 
mentre  affidava  una  parte  della  propria  missione  a  Virgi- 
lio ,  se  ne  riserbava  il  compimento  fra  le  genti  beate. 
Solo  egli  sapeva  che  il  maestro  gli  sarebbe  stato  guida 
alla  felicità,  perché,  una  volta  sul  limitare  del  paradiso, 
era  certo  di  aver  raggiunto  per  suo  mezzo  un  grado  di 
perfezione  che  lo  rendeva  degno  d'intendere  il  supremo 
bene. 

Ecco  perché  egli  disse  forse  cui:  e  siffatta  vaghezza 
di  elocuzione,  lungi  dall' esser  causa  di  oscurità,  quasi 
che  il  sommo  Poeta,  tacendo  la  preposizione  a  dinnanzi 
cui,  come  ha  sempre  usato,  avesse  voluto  proporre  un 
indovinello,  dà  invece  alla  risposta  un  certo  tono  profe- 
tico che  per  niente  ripugna  allo  stile  della  Divina  Com- 
media. 

Queste  riflessioni  che  ho  la  velleità  di  credere  non 
del  tutto  inconcludenti,  tu  potrai,  se  ti  aggrada,  chiamarle 
addirittura  cavilli  :  in  ogni  caso  però  dovrai  convenire  che 
se  ne  son  dette  tante,  e  tante  se  ne  dicono  e  se  ne  di- 
ranno ancora  su  quei  due  famosi  versi,  che  accanto  al- 
l'opinione da  te  propugnata  c'è  posto  non  solo  per  la 
mia,  ma  per  quella  eziandio  di  coloro  che  riferiscono  il 
cui  a  Beatrice,  e  che  possono  raggrupparsi  in  due  classi 
distinte. 

I  primi  sostengono,  che,  essendo  stabilito  come  Virgi- 
lio debba  condur  Dante  fino  ad  incontrar  Beatrice,  la  donna 
scesa  dal  cielo,  che  nel  poema  è  il  simbolo  della  teolo- 
gia, Guido  non  accompagna  l'amico,  perché  disprezza 
quella  donna,  e  il  forse  sta  ad  attenuare  la  durezza  della 
frase,  volendo  indicare  che  non  alla  persona  di  Beatrice,  ma 
al  simbolo  da  lei  rappresentato  s' ha  da  intender  rivolto 
il  disdegno  di  Guido. 

E  gli  altri,  fra  i  quali  primo  l'esimio  prof.  Torraca, 
attribuiscono  l' assenza  di  Guido  al  disdegno  che  Beatrice 


150  ALFREDO  GIOVANKLU 

ebbe  per  lui,  e  fanno  quindi  soggetto  il  cui  e  comple- 
mento oggetto  il  Guido  vostro ,  leggendo  :  e  Colui  che 
attende  Id  per  qui  mi  mena  forse  cui  (a  colei  cbe,  a 
Beatrice  la  quale)  ebbe  a  disdegno  il  vostro  Guido  i. 

Non  commento  siffatte  interpretazioni  per  dod  ripe- 
tere cose  già  dette  e  ridette:  solo,  mentre  tu  tacciasti 
di  eresìa  la  prima  delle  due  ipotesi,  io  non  posso  a  meno 
di  osservare  in  quanto  alla  seconda,  cbe  messer  Caval- 
cante al  quale  tu  e  D'Ovidio  dedicate  un  forse  pietoso, 
non  deve  aver  certo  compreso  il  grazioso  complimento 
dell'Alighieri,  od  almeno  non  lo  raccolse  per  non  esser 
obbligato  a  rimbeccargli  tanta  villania,  come  si  meritaTa. 

Così  resta  provato  che  quel  cui  si  pnò  tirare  a  si- 
gnificare non  solo  Virgilio,  Dio,  l'inferno  e  una  meta, 
letteralmente  indeterminata,  ma  anche  Beatrice:  ed  od 
nostro  egregio  ed  erudito  collega,  il  prof.  Scipioni,  ci  av- 
verte cbe  quel  medesimo  cui  (  ed  io  l' accennava  di  corsa 
in  principio),  può  altresì  alludere  a  Dante. 

Quest'  ultima  interpretazione,  come  vedrai,  non  manca 
d' interesse  tanto  per  la  originalità  della  trovata ,  quanto 
per  la  certezza  storica  degli  argomenti  su  cui  si  fonda. 

Dopo  aver  diviso  in  due  categorie  gli  interpreti  vec- 
chi e  nuovi,  una  cioè  di  quelli  che  coordinano  il  forse 
cui  deir  ultimo  verso  al  colui  che  del  precedente,  ed  in- 
tendono in  entrambi  Virgilio,  e  l' altra  di  quelli  che  ne 
fanno  due  parti  indipendenti  e  intendono  nella  seconda 
un  personaggio  diverso  dal  cantore  di  Enea,  osserva  l'au- 
tore che  i  commentatori  procedono  troppo  per  precon- 
cetti, trascurando  non  di  rado  la  grammatica  e  la  logica. 
Comincia  quindi  col  far  notare  che  alla  duplice  domanda 
di  messer  Cavalcante  due  sono  le  risposte  di  Dante,  ^ 
poiché  il  senso  della  prima  al  t  mio  figlio  ov'  è1  •  ap- 
parisce evidentissimo,  porta  tutto  il  suo  studio  sulla  se- 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  151 

conda  al  e  perché  non  è  teco  ?  i .  Ciò  premesso,  leggasi, 
egli  dice,  come  sta  scritto  in  tutti  i  codici, 

Coli  che  attende  là  per  qui  me  mena, 
forse  cui  Guido  vostro  ebbe  a  disdegno; 

colleghisi  il  cui  col  méf  e  il  seoso  è  chiaro. 

E  cosi  entra  a  dimostrare  il  disdegno  di  Guido  per 
Dante,  desumendolo  dal  fatto  che  dair  epoca  della  Vita 
nuova  (1292-93)  Guido  non  si  trova  più  nominato  dal- 
l'Alighieri  con  Io  stesso  affetto  nelle  altre  opere  sue. 
Anzi  osserva  che,  a  parte  il  freddo  riserbo  intravveduto 
a  torto  od  a  ragione  da  alcuni  in  un  sonetto  del  Caval- 
canti medesimo  a  Dante,  questi  nell'XI  del  Purgatorio 
(v.  94-99)  parla  di  lui  con  fine  ironia,  dicendo  che  lo 
caccerà  di  nido;  che  nel  De  Vulgari  Eloquio  (1304-5) 
neanche  lo  nomina  tra  i  poeti  più  dolci  e  sottiU,  esaltando 
invece  Gino  da  Pistoia  e  sé  medesimo  che  chiama  V  a- 
mico  di  Gino  ;  e  che  finalmente  ripone  Guido  per  il  pri- 
mo, ma  con  pentimento  e  per  ragione  di  dignità  della 
patria,  essendo  minore  Pistoia,  soggetta  a  Firenze,  quando 
tratta  dei  Toscani  che  hanno  conosciuta  V  eccellenza  nel 
volgare.  Se  poi  altre  due  volte  gli  accade  di  menzionarlo 
(II,  12),  non  lo  chiama  altrimenti  che  Guido  da  Fiorenza 
0  Guido  Fiorentino;  il  che  dimostra  secondo  il  Scipioni, 
il  quale  come  te  conviene  su  quanto  aveva  già  scritto  lo 
Scartazzini  in  proposito  (Dante,  Milano, Hoepli,  1883,  v. 
I,  pagg.  33-35),  che  Guido  nell'animo  di  Dante  non  era 
più  quel  d'una  volta. 

Come  ultimo  e  decisivo  argomento  poi  si  riporta  alle 
lotte  politiche  ed  ai  fatti  di  Caien  di  Maggio  e  a  quei  che 
seguirono  in  relazione  col  priorato  dell'Alighieri,  e  con 
r  esilio  di  Guido  Cavalcanti  a  Sarzana;  e  opinando  che 
r  ebbe  si  riferisca  ad  un  momento  solo ,  determinato  e 


152  ALFREDO  GIOVANELU 

decisivo  della  vita  di  Dante,  qaale  è  il  principio  dell' al- 
legorico viaggio,  conclude  che  il  cui  grammaticalmente  e 
logicamente  non  può  alludere  che  a  Dante  medesimo. 

Io  non  nego  che  siffatto  modo  d' intendere  il  passo 
controverso  abbia  qualche  cosa  di  si  attraente,  che  a 
prima  vista  lasci  dimenticare  l'inesplicabile  spostamento 
del  forse,  messo  prima  del  cui,  ed  inviti  a  rìcoDOScerDe 
quasi  la  naturalezza  che  V  autore  stesso  vi  trova.  Però 
questa  naturalezza,  ne  chiedo  venia  all'  amico  Scipiooi,  a 
me  sembra  più  apparente,  che  reale. 

Cominciamo  dalla  grammatica.  V  avverbio  forse, 
stando  a  modiflcare  nel  caso  nostro  un  verbo ,  deve  di 
necessità  scemare  o  rendere  dubbio  il  mi  mena  o  Yeibe 
a  disdegno  ;  ma  mentre  non  giungo  a  persuadermi  come 
mai  sia  possibile  il  dubbio  in  una  espressione  al  passato 
rimoto,  cosi  netta  ed  esplicita,  anche  per  consentimento 
dello  stesso  Scipioni,  e  dalla  quale  per  giunta  il  forse  è 
tanto  lontano,  non  veggo  che  il  solo  me  mena  che  lo 
precede  immediatamente,  il  quale  ne  possa  esser  reso 
dubitativo,  non  già  per  1'  azione  del  menare  o  condurre, 
ma,  come  io  sostengo,  per  ciò  che  ha  riguardo  alla  meta. 
Né  abbastanza  esatta  mi  apparisce  la  nota  che  T  egregio 
commentatore  scrive  in  risposta  al  Rajna  ed  al  Turraca, 
e  quindi  a  me  di  rimando,  che  cioè  il  cui  in  dipendenza 
dal  mi  mena  sarebbe  designazione  di  moto  a  luogo,  reale 
0  figurato,  e  che  non  gli  sembra  vi  sieno  esempi  di  tale 
uso  in  italiano  :  imperocché ,  se  forse  non  ha  torto  nel- 
r  ipotesi  che  si  tratti  di  moto  reale  verso  una  cosa,  tranne 
come  ho  detto  altrove  nel  senso  figurato  quando  il  verbo 
al  quale  va  congiunto  il  pronome  cui,  implichi  in  modo 
evidente  sottintesa  la  parola  generica  meta,  fine,  termine, 
scopo  e  simili  ;  s' inganna,  a  mio  credere,  ove  il  cui,  po- 
sto in  luogo  di  chi,  esprima  V  idea  di  moto  in  generalo 
verso  una  persona.  E  per  vero  chissà  quante  volte  egli 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  153 

arra  adito  o  letto  frasi  come  queste:  <  Tizio  fu  menato 
cui  ambiva  di  conoscere  personalmente  ;  la  lettera  giunse 
poco  dopo,  cui  era  indirizzata,  Gaio  si  lasciò  condurre 
a  cui  sapeva  di  riuscir  bene  accetto  >  ;  e  via  discor- 
rendo :  nelle  quali  non  può  negarsi  che  il  pronome  cui 
ìu  dipendenza  dei  verbi  menare,  giungere,  condurre,  sia 
designazione  di  moto  reale  verso  una  persona. 

Laddove  poi  combatte  come  te  dal  lato  della  logica 
l'opinione  del  Rajna,  sostenendo  non  esser  vero  che 
Virgilio  meni  Dante  a  Dìo,  e  non  poter  far  ciò  altri  che 
Beatrice  (Inf.  I,  112-29  e  Purg.  XVIII,  46-48),  non  ho 
che  ripetere  quanto  già  esposi  in  difesa  dell'  opinione 
mia;  vale  a  dire  che  malgrado  la  chiarezza  dei  passi  ci- 
tati, messi  però  in  bocca  di  Virgilio,  non  ne  mancano 
altri  nei  quali  il  Poeta  rispondendo  direttamente  ad  al- 
cuno non  curasi  punto,  —  e  ne  ho  fatte  notar  le  ra- 
gioni, —  di  spiegar  per  filo  e  per  segno  come  lo  duca 
suo  lo  accompagni  fino  ad  un  certo  limite ,  d' onde  alle 
beaie  genti  lo  menerà  Beatrice;  e  senza  tener  conto  del 
passo  in  esame,  basterebbe  a  provarlo  la  terzina  se- 
guente (Purg.  V,  61-63): 

Voi  dite  :  ed  io  '1  farò  per  quella  pace 
che  dietro  a'  passi  di  sì  fatta  guida 
di  mondo  in  mondo  cercar  mi  si  face. 

Non  credo  sia  lecito  dubitare  che  per  si  fatta  guida 
Dante  intenda  Virgilio,  e  con  la  espressione  di  mondo 
in  mondo  alluda  non  già  ad  una  parte  soltanto,  ma  a 
iutto  intero  il  suo  viaggio ,  in  fondo  al  quale  si  ripromette 
la  pace.  Al  più  si  potrebbe  concedere  che  il  mi  mena  forse 
della  risposta  a  messer  Cavalcante  corrispondesse  al  cer- 
car mi  si  fece  di  codesta  terzina,  in  quanto  le  due  espres- 
sioni lascino  quasi  intravvedere  una  volontà  superiore  che 


154  ALFREDO  GIOVANELU 

regola  l' azione  di  Virgilio  come  gaida  di  Dante.  Se  dod 
che  confesso  con  tutta  franchezza  che  non  repato  ponto 
qaesta  interpretazione  preferibile  all'  altra  da  me  data, 
essendo  un  tal  modo  di  rispondere  troppo  evasivo  e  per 
giunta  troppo  soggettivo,  perché  chi  lo  ascolta,  riesca 
facilmente  ad  afferrare  il  significato  che  si  sappone  abbia 
voluto  dargli  il  Poeta. 

E  veniamo  al  disdegno  di  Guido  per  Dante.  Le  cod- 
siderazioni  accurate  e  profonde  esposte  sa  tale  soggetto 
dall'erudito  Scipioni  sono  di  una  verità  incontestabile: 
ed  anch'  io,  benché  ad  altro  fine,  ho  parlato  di  un  pos- 
sibile rafl'redda mento  dei  rapporti  amichevoli,  se  dod  di 
una  rottura  definitiva,  fra  il  Cavalcanti  e  l' Alighieri.  É  noto 
infatti  come  questi,  eletto  uno  dei  Priori  per  ridar  la 
pace  a  Firenze,  turbata  per  le  lotte  tra  i  Bianchi  e  i  Neri, 
e  specialmente  per  l' oltraggio  fatto  ai  Consoli  dai  Grandi 
la  vigilia  di  S.  Giovanni,  adunati  a  consalta  quei  che  se- 
devano al  governo  della  repubblica,  proponesse  di  ban- 
dire per  alcun  tempo  i  capi  delle  due  fazioni:  ed  appro- 
vato, come  afl'erma  Dino  Compagni,  che  era  dei  consi- 
glieri, il  partito  suddetto,  i  Neri  furon  mandati,  non  senza 
difficoltà,  a  Castel  della  Pieve,  ed  i  Bianchi,  fra  cui  Guido 
Cavalcanti,  a  Sarzana.  Dopo  questa  condanna  è  certo 
che,  anche  avessero  tutt'  ora  esistito,  i  buoni  rapporti  fra 
i  due  vecchi  amici  dovettero  cessare,  sia  per  riguardo 
alla  carica  di  Dante,  sia  pel  naturale  risentimento  del- 
l' esule  che,  malgrado  la  ragion  di  stato,  non  poteva  non 
riconoscere  in  lui  la  causa  precipua  di  sua  sventura. 

Ma  a  me  sembra  che  per  parlare  logicamente  del 
disdegno  di  Guido  nei  versi  che  stiamo  torturando,  non 
sia  permesso  riandare  fatti,  espressioni  o  documenti  po- 
steriori alla  morte  del  Cavalcanti,  o  meglio  ancora  al 
momento  decisivo  in  cui  comincia  l'allegorico  viaggio, 
tanto  più  che  il  Poeta    per  i  suoi  fini  anticipa  di  circa 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAYALGAMTI  155 

quattro  mesi  (15  Aprile  —  15  Agosto  1300)  gli  avve- 
nimenti da  coi  prende  le  mosse,  e  dichiara  a  Farinata 
che  Guido  è  tutt'  ora  co*  vivi.  Ecco  perché  io  diceva  che 
la  naturalezza  dell'  interpretazione  del  Scipioni  mi  faceva 
r  eflfetto  di  esser  più  apparente ,  che  reale  ;  e  in  verità 
essa  per  me  si  dilegua  al  semplice  confronto  delle  date 
più  competenti,  sulle  quali  non  è  più  chi  dubiti. 

Il  viaggio  si  compie  nella  settimana  santa,  ossia  nel 
plenilunio  di  Marzo  che  avveniva  nell*  Aprile  del  1300,  e 
il  priorato  bimestrale  di  Dante  ha  principio  il  15  Giugno 
dello  stesso  anno:  la  condanna  di  Guido  Cavalcanti  e 
degli  altri  a  Sarzana  e  a  Castel  della  Pieve  è  posteriore 
alla  vigilia  di  S.  Giovanni,  ossia  al  23  Giugno;  ed  il  ri- 
tomo, se  non  la  sua  morte,  che  oggi  si  fissa  al  28  Ago- 
sto, benché  il  Villani  lo  faccia  vivo  ed  in  armi  nel  Di- 
cembre che  segue,  è  in  ogni  caso  posteriore  al  priorato 
deir Alighieri  che  usci  di  carica  il  15  Agosto,  tredici 
giorni  prima  della  morte  di  Guido. 

Or  come  può  Dante  parlare  del  disdegno  di  Guido 
per  lui ,  se  all'  epoca  in  cui  finge  che  il  viaggio  si  efl'et- 
toi,  entrambi  parteggiavan  pei  Bianchi;  e  data  pure  una 
divergenza  d' idee,  una  rottura  dei  primitivi  rapporti,  non 
era  ancora  avvenuto  alcun  che  di  cosi  grave,  come  l' esilio 
di  Sarzana,  per  cui  Dante,  rinnegando  la  fiera  alterezza 
del  proprio  carattere,  potesse  credersi  verosimilmente 
odiato  e  disprezzato  da  Guido?  Né  mi  si  dica  che  molte 
altre  volte  l'Alighieri  parla  di  fatti  assai  posteriori  all'epoca 
del  viaggio;  perocché  allora  egli  predice  o  meglio  fa 
predire,  ma  non  afferma  con  espressioni  al  passato  rimoto. 

Sta  poi  il  fatto  che  il  Cavalcanti  infermatosi  per  la 
malaria,  ottenne  la  grazia  del  ritorno  in  patria  per  in- 
tercessione di  Dante  medesimo,  che  accusato  per  tale 
atto  pietoso  di  parzialità  in  favore  dei  Bianchi,  cercò 
scagionarsene  dicendo  e  che  il  ritorno  di  Guido  (a  cui 


156  ALFREDO  GIOVANELU 

tenne  subito  dietro  il  richiamo  degli  altri  confinati  a  Sv- 
zana)  avvenne  quando  egli  era  già  fuori  dell'uffizio  del 
priorato  (1)  >.  La  qual  cosa  varrebbe,  secondo  me,  a 
dimostrare  che  se  V  amicizia  fra  Guido  e  Dante  dorette 
subire  necessariamente  una  vera  interruzione  durante  il 
bimestre  in  cui  questi  fu  de* priori,  essa  rivisse  abneno 
un  istante  non  appena  V  Alighieri  si  trovò  libero  di  giovare 
all'amico,  e  Guido  pensò  per  avventura,  con  qualche 
speranza  di  riuscita,  d'interessarlo  in  suo  favore.  D'altra 
parte  non  va  dimenticato  che  questa  dell'  esilio  dei  Bian- 
chi, se  non  si  fosse  cangiata  in  tragedia  per  il  povero 
Cavalcanti,  aveva  da  essere  una  delle  tante  farse  politiche 
che  si  rappresentano  da  che  mondo  è  mondo:  imperoc- 
ché la  parzialità  dei  priori,  Dante  compreso,  a  danno  dei 
Neri ,  dei  quali  il  primo  colpito  fu  Corso  Donati ,  è  pa- 
tente ;  e  Guido  era  troppo  di  alto  ingegno  e  scaltro  per 
non  dare  il  suo  giusto  valore  alla  propria  condanna,  a 
cui  rassegnato,  come  gli  altri  di  parte  bianca,  sottomet- 
tevasi,  mentre  il  loro  vero  capo  messer  Vieri  de*  Cerchi 
restava  libero  in  Firenze.  Quindi  è  ch'io  sarei  tentato 
perfino  di  credere  che  l'amicizia  fra  Dante  e  Guido,  se 
si  ruppe  in  apparenza,  in  sostanza  non  sia  mai  venuta 
meno  al  punto  da  giustificare  il  disdegno  di  Guido  per 
Dante,  come  vorrebbe  il  nostro  collega. 

Ma  qui  non  è  il  caso  di  sbizzarrirsi  in  congettare 
che  ci  distrarrebbero  dall'  argomento ,  bensì  di  vedere 
fino  a  qual  punto  sia  ammissibile  il  disdegno  di  Goido 
per  Dante  nella  lezione  proposta  dall'egregio  filologo. 
Ed  io  ripeto  che  l' unico  motivo  di  sdegno  non  può 
ravvisarsi  all' infuori  dell'esilio  e  delle  sventure  cui  sog- 
giacque il  Cavalcanti  ;  che  tutto  ciò  che  si  trova  nel  De 
Vulgari  Eloquio  e  nel  Purgatorio  dee  necessariamente 

(1)  Leon.  AreL  p.  55. 


SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCANTI  157 

riportarsi  a  queir  infausta  circostanza,  e  però  se  vai  come 
conferma,  nulla  aggiunge  di  nuovo  come  argomento;  e 
che  per  ultimo  non  v'  è  punto  a  meravigliarsi  nel  veder 
come  Dante  in  quegli  scritti  rivolga  tutto  il  suo  affetto  a 
Gino  da  Pistoia,  per  la  semplicissima  ragione  (e  qui  ri- 
spondo anche  all'esimio  Scartazzini ) ,  che  quando  egli 
scrìveva  il  De  Vulgari  Eloquio  (1304-5) ,  Guido  era  già 
morto  da  circa  quattro  o  cinque  anni,  e  da  quattordici  o 
quindici  almeno,  allorché  egli  terminava  il  Purgatorio. 
Fra  r  amicizia  per  un  vivo  e  quella  per  un  morto  i  con- 
fronti non  reggono,  poiché  e  chi  muore  giace  e  chi  vive 
si  dà  pace  >. 

Per  la  qual  cosa  la  sconvenienza  e  la  contraddizione 
che,  posta  la  continuataci)  intima  amicizia,  il  Scipioni 
rileva  nei  versi  94-99  dell'  XI  del  Purgatorio ,  messi  a 
raffronto  con  quanto  Dante  insegnò  nel  Convito,  scritto 
Dell'esilio  circa  il  1305,  sull'amicizia  e  sulle  convenienze 
con  gli  amici,  non  mi  sembra  che  si  possan  sostenere, 
molto  più  poi  ove  si  ponga  mente  che  là  non  è  Dante, 
ma  Oderisi  da  Gubbio  che  parla.  Che  se  anche  sia  in- 
dubitato che  l'Alighieri  in  quei  versi  alluda  a  sé  stesso,  non 
é  men  vero  eh'  ei  vuole  assolutamente  nascondersi  al- 
l'ombra  di  Oderisi:  e  sarebbe  strano  infatti  ch'ei  pec- 
casse di  superbia  appunto  quando  questi,  accasciato  dal 
grave  pondo,  gli  dichiarava  : 

Ed  ancor  non  sarei  qui,  se  non  fosse 
che,  possendo  peccar,  mi  volsi  a  Dio. 

Figuriamoci  poi  se  avesse  peccato! 

E  con  questo,  caro  Sordello,  chiudo  la  mia  lunghis- 
sima epistola,  ove  ho  passato  in  rassegna  con  la  tua  in- 
terpretazione quelle  dei  Virgiliani  e  dei  non  Virgiliani,  e 
più  particolarmente  del  D' Ovidio,  del  Rajna,  del  Torraca 


158     A.  GIOVANELLI  —  SUL  DISDEGNO  DI  GUIDO  CAVALCAlfTI 

e  del  Scipioni,  e  ne  ho  proposta  anche  una  mìa,  com- 
pletando cosi  i'  infinita  varietà  dei  signiGcati  onde  apparve 
(ino  ad  ora  suscettibile  il  celebre  cui.  Che  se  mal^do 
tutte  le  ragioni  da  me  addotte,  tu  sarai  rimasto,  come 
son  certo,  ognor  più  tenace  nella  tua  opinione,  respin- 
gendo con  santo  orrore  la  mia  del  pari  che  le  altre,  dod 
di  meno  io  nutro  lusinga  che  non  manchi  fra  tanti  let- 
terati qualcuno,  a  cui  T  interpretazione  da  me  propogoata 
apparisca  meno  contorta  e  balzana  di  certi  commenti  che 
vanno  per  la  maggiore. 

Ed  in  tale  speranza,  che  forse  non  a  torto  m  af- 
fetto quasi  paterno  fa  sembrarmi  certezza,  alla  tua  buona 
ed  antica  amicizia  mi  raccomando  e  ti  saluto. 

V  Ottobre  1890. 

Avv.  Prof.  Alfredo  Giovanelu  (1) 


(1)  11  Prof.  Alfredo  Giovanelli  non  potè  vedere  stampato  il  suo  »* 
ticolo  nel  nostro  giornale:  giacché,  con  rammarìco  di  tutti  i  buoni,  morì 
son  circa  quattro  mesi,  in  Sinigaglia  sua  patria. 

(Nota  della    DmEzioNE) 


IL  CODICE  DANTESCO  GRADENIGHIANO 

APPUNTI 

ATTILIO  TAMBELLINI 


Nel  1865  (celebrandosi  il. sesto  centenario  dalla  na- 
scita di  Dante)  fra  i  dugento  e  un  Godici  Danteschi 
esposti  a  Firenze  era  anche  il  Gradenighiano  che  si  con- 
serva nella  Biblioteca  Gambalunga  di  Rimini.  Molti  e  spe- 
cialmente il  Tonini  (1)  e  lo  Scarabelli  (2)  scrissero  intorno 
a  questo  Godice;  tuttavia  non  credo  inutile  riparlarne 
oggi  un  po' diffusamente ,  in  cotesto  risveglio  degli  studi 
danteschi,  sia  per  aggiunger  nuove  notizie  alle  già  date, 
sia  per  correggerne  alcune,  sia  per  farne  conoscere  il 
commento,  mercé  un  breve  saggio  di  esso. 

Il  compilatore  del  Gatalogo  dei  Godici  danteschi 
esposti  a  Firenze  {Successori  Le  Mounier  1865)  lo  segna 
al  numero  97  cosi:  e  Biblioteca  Gambalunga  di   Rimini 

>  (membranaceo  in  fol.).  La  D.  G.  con  commento.  Ba- 
ì  tines,  404.  Sec.  XIV  fine.  Miniature   non  condotte  a 

>  termine,  che  vanno  fino  al  canto  Vili  dell'Inferno. 

(1)  Memorie  storiche  intorno  alla  Francesca  da  Rimini.  (Rimini, 
MalvolU,  1870). 

(2)  Esemplare  della  Div.  Com.  donato  da  papa  Lambertini  ecc. 
[Bologna,  Romagnoli,  1870-73).  Anche  il  prof.  Crescentino  Giannini  nel 
Bibliofilo  (N.  10,  Firenze,  1880)  e  il  doti.  Ludovico  Frati  in  Miscellanea 
Dantesca  (Firenze,  libreria  Dante,  1884),  lo  illustrarono  brevemente. 
Uoa  DOtizia  é  anche  nel  Giornale  illustrato  (Torino,  6  Maggio  1865). 


160  ATTILIO  TAMBELLIMI 

»  Matilo  e  mancante  di  altre  carte.  Un  sonetto  di  sedici 

>  versi,  scritto  sulla  coperta,  ci  fa  sapere  il  nome  del 

>  copiatore,  giacche  le  sedici  iniziali  danno  lacomo  Gra- 
donicsg,  I  dae  versi  ultimi  dicono  cosi: 


» 


<(  Se  saper  voi  lettor  cui  U  libro  scrisse 
»  Gli  capi  versi  il  nome  non  fallisse 

»  Evvi  pure  un  verso  che  ce  lo  farebbe  credere  anche 
»  miniatore: 

»  Mentre  ho  dipinto  uno  et  altro  quaderno  ». 

Chi  conosce  quel  sonetto  avrà  notato  che  la  descri- 
zione del  compilatore  non  è  esatta  in  ciò  che  riguarda 
il  nome  dello  scrittore  del  Codice;  ma  il  compilatore 
stesso  a  pie' della  pag.  112  del  Catalogo  pose  questa 
correzione:  <  A  pag.  54,  Gradonicsg,  leggi:  Gradonico; 
acrostico  formato  colle  iniziali  dei  quattordici  versi  e  la 
seconda  lettera  del  decimoquarto  verso  ».  Il  che  è  evi- 
dente; perché  le  iniziali  dei  versi  si  alternano  coi  colori 
rosso  e  nero,  tranne  le  due  prime  lettere  del  quattordi- 
cesimo fcoj  che  sono  rosse  e  compiono  il  nome  :  Gra- 
donico. Il  sonetto  è  assai  noto  e  perché  fu  pubblicato  pa- 
recchie volte  non  lo  trascrivo;  tuttavia  mi  sembra  utile 
far  notare  due  cose  ;  la  prima  si  è  che  il  verso  secondo 
non  va  letto: 

Amor^  che  non  me  parse  far  fatica 

e  nemmeno:  gran  fatica,  bensì,  ed  è  evidente,  sebbene 
la  lettera  sia  alquanto  ròsa  : 

Amor,  che  non  me  parse  mai  fatica; 


IL  CODICE  DANTESCO  GRADENlGHl^TiO  161 

a  seconda  osservazione  si  è:  che  nel  verso  terzo  non 
xedo  si  possa  accettare  la  parola  provvidenza,  come  ìd- 
erpretano  alenai,  perché  le  prime  tre  lettere  rimaste 
K)no  evidentemente  pre  e  V  ultima  è  una  r.  Ma  del  so- 
letto basti. 

Di  Iacopo  Gradonico  o  Gradonigo  o  Gradenico  o 
Sradenigo  non  parlerò,  perché  il  Degli  Agostini  (1)  ne  dà 
ina  minuta  biografia  (sebbene  non  tocchi  gran  fatto  della 
ma  podesteria  a  Perugia,  al  quel  proposito  si  può  con- 
citare il  Cicogna  (2)  che  trascrive  anche  il  Diploma  del 
Senato  perugino  a  lui  conferito)  e  ultimamente  ne  scrisse  il 
Lazzarini  (3);  farò  soltanto  notare  che  sembra  doversi  tener 
per  certo  essere  Iacopo  tutt*uno  con  Belletto  Gradenigo  ; 
)lla  qual  cosa  accenna  anche  il  Degli  Agostini  quando 
>crìve:  Da  questa  ebbe  orìgine,  circa  la  metà  del  secolo 
XJI,  Iacopo  il  Cavaliere,  denominato  sovente  Belletto  ecc. 

Il  Cavalier  Gradenigo  pertanto,  volle  offrirci  una  delle 
)iù  belle  copie  della  Divina  Commedia,  sia  pei  caratteri 
litidi  ed  esattissimi  sempre,  sia  per  le  miniature  finissime 
correttamente  disegnate  ,  alcune  anche  dorate,  sia 
ler  le  annotazioni  ben  ordinate  e  pei  sommari  premessi 
d  ogni  canto,  e  La  forma  dei  caratteri  (dice  il  Tonini) 
el  sonetto  e  del  Codice  lo  manifesta  scritto  al  cadere 
.el  secolo  XIV  >  e»  più  avanti,  cosi  cerca  di  fissarne  la 
lata  :  e  opinerei  che  il  Codice  fosse  scritto  dopo  il  1389 
Q  cui  il  Gradonigo  ebbe  il  Privilegio   Perugino  (4)   e 


(1)  G.  Degli  Agostini,  Scrittori  veneziana  Tomo  I,  pag.  278-293, 

(2)  E.  Cicogna,  Documento  inedito  ad  onore  di  Iacopo  Gradenigo 
Venezia,  Gasparì  1843). 

(3)  Lazzarini  Vittorio,  Rimatori  veneziani  del  secolo  XIV.  (Pa- 
dova, Stab.  Tip.  Teneto,  1887). 

(4)  Di  poter  unire  al  suo  lo  stemma  della  città  di  Perugia,  in  be- 
nemerenza della  buona  amministrazione  esercitata  durante  la  sua  podesteria. 

Voi  IV,  Parte  11.  il 


162  ATTILIO  TAMBELLINI 

avanti  il  1399  io  cui,  forse  per  1'  ottenato  titolo  ca?alle- 
resGO  di  cui  parla  l' Agostini,  al  grifone  ebbe  aggionto  i 
gigli  (1)  >.  L'illustre  storico  rìminese  non  è  certamente 
lontano  dal  vero;  perocché  il  Gradenigo  fu  nominato 
Podestà  di  Perugia  il  16  di  ottobre  del  1388,  entrò  Id 
carica  il  9  di  decembre  dello  stesso  anno  e  vi  rimase  fino 
al  settembre  del  1389  (2),  perché  alla  data  del  7  di  quel 
mese  trovasi  negli  annah  decemvirali  perugini  un:  orili- 
namentum  prò  adventu  domini  Angeli  de  MalwUis  de 
Senis  potestatis  e  il  diploma  del  Senato  perugino  ha  la 
data  del  24  di  Settembre  del  1389  (3).  Tuttavia ,  essendo 
noto  che  la  Storia  evangelica  (ossia  e  Gli  quattro  Evangeli 
concordati  in  uno  >)  fu  condotta  a  fine  nel  1399  come  leg- 
gesi  nel  codice  :  Expletum  Padue  de  MCCCLXXXXYUU 
die  primo  mensis  octubris  per  me  lacobum  Gradonico 
militem  venetum  e  supponendo  che  a  fare  quella  lunga 
e  non  agevole  compilazione  (44  capitoli  in  terza  rima) 
il  Gradenigo  abbia  impiegati  cinque  anni ,  troverei  op- 
portuno restringere  il  tempo  fissato  dal  Tonini  (1389, 
1399)  e  porre  T  opera  del  Codice  dantesco  dal  1390 
al  1394  e  forse  nei  due  anni  circa  (dal  6  aprile  del 
1392  ai  primi  del  1394)  durante  i  quali  fu  Pretore  a 
Padova. 

Cotesto  Codice,  che  apparteneva  al  Card.  Garampi 
(1725-1792)  come  appare  da  questa  scritta  d'un  cartel- 
lino incollato  nella  parete  interna  della  coperta  del  libro; 
«  Bibliothecae  losephi  Garampii  EpT  M.  Fai.  et  Comeù 


(1)  Op.  cit. 

(2)  Debbo  questi  particolari  (non  avendo  potuto  consultare  il  libro 
del  Cicogna)  alla  cortesia  del  sig.  dolt  Vincenzo  Ansidei,  Bibliotecario 
di  Perugia. 

(3)  Cicogna.  Documento  inedito  ecc. 


IL  OOBICE  DANTESCO  GRADENIGHIANO  163 

et  Nunt  Ap.  apud  Aulam  Caesaream.  an.  1784  >  e  f u 
da  qael  cardinale  medesimo  donato  alla  Gambalunghiana 
ove  è  segnato  in  catalogo:  D.  11-41,  ha  la  rilegatura  di 
legno  coperta  di  cuoio  impresso  d' ornati  e  delio  stemma 
dei  Gradenigo  (al  qua!  proposito  giova  notare  che  que- 
sta famiglia  reca  nel  suo  stemma  la  banda  scalinata  bianca 
in  campo  rosso  (1),  mentre  nel  Codice  è  azzurra  senza 
scalinatura,  in  campo  d'argento);  era  adorno  di  borchie 
dorate,  delle  quali  appena  è  rimasta  traccia  ed  aveva  an- 
che fermagli  che  furono  strappati.  Sulla  stessa  guardia  è 
scritto,  in  alto,  il  noto  sonetto  acrostico  e  sotto  di  esso 
il  Nardi  (già  bibliotecario  della  Gambalunghiana)  attaccò 
nn  foglietto  volante  del  secolo  XIV  da  lui  trovato  nella 
Biblioteca,  recante  questo,  che  trascrivo  senza  le  abbre- 
viazioni : 

Epitaphyum  Dantis  Alegherii  de  Florentia 
—  Theologus  Dantes  nullius  dogmatis  expers 
Quod  foveat  darò  phylosophia  sinu^ 
Gloria  musarum  vulgo  gratissimus  aucior^ 

Rie  iacet;  ai  fama  pulsai  utrumque  polum. 
Qui  loca  defunctis  gladiis  regnumque  gemellis 
Distribuii  laycis  rectorisque  modis^ 
Paschua  pyeriis  demum  resonabai  avenis  — 

3  più  sotto  è  scritto  il  seguente  proverbio: 

Ricchejssra  mal  composta  a  povertà  s*  accosta. 

Sulla  guardia  interna  del  dorso  trovasi  la  nota  delle  spese 
occorse  pel  Codice,  che  qui  riporto  per  curiosità: 


(1)  V.  GlNANNi,  Arte  del  blasone. 


164  ATTILIO  TAMBELUNl 

Le  infrascritte  spexe  sie  fatte 
per  questo  dante  fin  qui  nò^can»...  (1) 
la  scriptura. 

pma  p  quinterni  xxri  (2)  de  carta 
p  h  XX jj  el  quinterno  monta  a  xxTm  b  xu 

It  p  alum  (3)  xxnij  a  b  fiij  luna  monta  a  yiiij  b  n/ 
It  p  paragrafi  co  sue  alum  lu  a  lu 

It  p  farlo  ligar  pagati  a  cerbero  bidello  (4)  a  iiu 
It  p  la  eopta  (5)  de  cuoro.  a  x 

It  p  lo  conto  dagli  golii  ad  una  gudia  (6)  a  y  b  x 
It  a  maistro  cario  onxe  p  ona  iij  qrto  v 

_  de  argento  «  xiiu  b  i 

Sma  a  Ixxiiu  b  XY 

Le  pagine  del  Codice  sono  alte  cent.  39,  larghe  26 
a  tre  colonne  :  le  due  laterali  pel  solo  commento ,  quella 
dì  mezzo  pel  testo,  pel  commento  e  per  le  miDlature; 
non  già,  come  scrisse  il  Tonini  (7)  e  come  ripetè  lo  Sca- 
rabelli  (8),  pel  solo  testo;  le  note  insomma  fanno  cor- 
nice al  testo  del  poema  che  nelle  prime  quattro  terzine 
è  malamente  ricalcato.  Ogni  canto  doveva  essere  adorno 
di  figure  e  di  iniziali  miniate ,  ma  né  le  une  né  le  altre 


(1)  La  parola  é  quasi  cancellata;  ma  deve  leggersi:  contando. 

(2)  11  numero  é  quasi  cancellato;  ma  preferisco  leggere  XXVI  e 
non  XXI  col  Battaglini  (scheda  volante)  perché  cosi  toraa  esattamente 
la  somma. 

(3)  È  ròsa  la  pergamena;  ma  senza  dubbio  va  letto  alum  perchè 
sono  appunto  24  le  miniature  o  alluminature  ed  anche  perché  lo  lascia 
indovinare  quel  po' delle  lettere  che  ancora  vedesi. 

(4)  È  evidentissimo  lo  scrìtto. 

(5)  Coperta. 

(6)  Evidente  anche  qui  la  lettera.  Ma  che  significa?  È  forse  la  spesa 
per  qualche  lavoro  fatto  da  una  giudea? 

(7)  Op.  cit. 

(8)  Esemplare  della  Div.  Comm.  ecc.  (Bologna,  Romagnoli,  1870- 
73) 


IL  CODICE  DANTESCO  GB^DENIGHJJI^O  165 

vaDoo  oltre  l'ottavo,  sebbene  siansi  lasciati  gli  spazi  ne- 
cessari ed  anzi,  fra  una  nota  e  V  altra  in  alcani  luoghi 
delle  colonne  del  commento,  siano  altri  spazi,  ma  non  già 
(  come  fu  supposto  da  taluno  e  come  credeva  anche  l' il- 
lustre prof.  Francesco  Rocchi)  perché  manchi  il  com- 
mento, che  non  manca  mai,  né  perché  vi  dovessero  trovar 
luogo  altre  miniature,  ma  perché  le  note  seguissero  (mercé 
quegli'  opportuni  intervalli  )  regolarmente  il  testo  in  modo 
da  cadere,  il  più  esattamente  possibile,  di  fianco  al  verso 
che  deve  essere  commentato  e  che  tuttavia  assai  spesso, 
per  lo  spazio  lasciato  alla  miniatura,  trovasi  più  avanti 
della  annotazione.  Solo  non  so  spiegare,  perché  l'ultimo 
verso  del  canto  X  dell'  Inferno  e  V  argomento  del  canto  XI 
campeggmo  ciascuno  in  una  pagina  bianca,  quando  e  il 
commento  del  canto  X  finisce  regolarmente  a  metà  circa 
della  pagina  precedente  e  il  canto  XI  comincia  esatta- 
mente nell'altra  pagina. 

e  Gotal  Codice  (  scrive  lo  Scarabelli  )  è  frammenta- 
rio; ha  i  punti  a  fine  d'ogni  verso  e  gli  apici  sugli  i; 
r ortografia  è  cattiva;  il  testo  in  più  luoghi  guasto  e 
manca  di  molti  segni  abbreviativi  ;  ha  meo,  eo,  far,  sai 
segni  di  lontano  codice  da  cui  è  disceso;  ha  le  gente 
dolorose,  molte  gente,  gente  eran,  quale  colombe  che 
avviserebbero  di  penna  senese  il  codice  lontano;  ma 
ha  poi  brazza,  cazar,  zorno,  vixe,  basar,  zioé  che  lo 
accusano  deturpato  un  po' forse  dal  Lana  stesso,  un 
po'  dal  copiatore  che  è  veneto  (1)  > .  Mi  permetto  di 
are,  a  quanto  scrisse  l'illustre  dantofilo,  due  osserva- 
zioni: la  prima  si  è  che  non  mi  sembra  essere  il  testo 
in  più  luoghi  guasto;  lo  scorsi  attentamente  dal  primo 
air  ultimo  verso  e  non  lo  trovai  che  rarissime  volte  man- 
cante di  qualche  vocabolo  sfuggito  al  copiatore;  lacuna 

(i)  Op.  ciL 


166  ATTILIO  TAMBELLINI 

vera,  con  ana  variante  singolarissima,  è  nel  canto  XXXII 
AqW Inferno,  ove  alla  terzina  43  si  legge: 

Non  altrimenti  Tideo  manuca 
Le  tempie  a  Menalippo  per  disdegno 
CK  et  facea  7  teschio  et  V  altre  cose  suca;  (1) 

la  seconda  osservazione  si  è  che  il  testo  di  qnesto  Codice 
non  ha  naila  di  comune  col  Laneo  datoci  dallo  Scan- 
belli,  nò  colla  Vindelina,  e  moltissime  e  le  principali  va- 
rianti del  Grandenighiano  non  trovansi  in  quelli. 

Tanto  alla  prima  che  alla  seconda  Cantica  (noDalla 
terza  perché,  come  dirò  più  oltre,  mancante  dei  primi 
quaderni  che  furono  strappati)  è  premesso  un  capitolo, 
0  sommario,  o  epitome  che  dir  si  voglia ,  recante  di  doe 
in  due  terzine  (tranne  nel  Purgatorio  dove  talora  è 
d'una,  talora  di  due)  rispondenti  esattamente  a  ciascoQ 
canto,  la  materia  trattata  da  Dante.  Il  Capitolo  posto  avanti 
d\V  Inferno  è  seguito  da  venticinque  terzine  del  commento 
attribuito  a  Iacopo  Alighieri,  attorniate  da  fregi  e  chiose 
dallo  stemma  del  Gradenigo,  contrariamente  a  quanto 
scrisse  lo  Scarabelli  (2)  che  pone  quello  stemma  dopo  il 
verso  di  chiusa  del  Capitolo  colla  intestazione:  Dm  Men- 
gino  ecc.  :  seguono  poi  seltantaquattro  terzine  del  Somma- 
rio attribuito  al  Boccaccio  ;  V  altro  Capitolo  invece,  che  sia 
innanzi  al  Purgatorio  è  preceduto  da  altre  undici  terzine 
di  Iacopo  e  da  settantacinque  del  Boccaccio  ed  è  seguito 
dal  noto  epitafio:  lura  monarchiae  ecc.  La  lettera  dei 
due  Capitoli  non  mi  sembra  (e  ne  parlerò  più  oltre) 
della  stessa  mano  che  scrisse  tutto  il  Codice.  Ambedae 
furono  pubblicati  dal  chiarissimo  Dott.  Frati  (3)  ed  ulti- 

(1)  Al  vocabolo  suca  trovasi  la  nota  del  Lana  alla  parola  róse. 

(2)  Esemplare  ecc.  pag.  677  del  voi.  II. 

(3)  Miscellanea  Dantesca  (Firenze,  MDCCCLXXXIV,  Libreria  Dante). 


IL  CODICE  DANTESCO   GRÀDENIGHIANO  167 

Diamente  dal  Del  Balzo  (1)  ma  non  sempre,  panni,  se- 
condo la  precisa  grafia  del  Codice ,  essendosi,  credo,  il 
Doti.  Frati  servito  della  copia  fatta  trarre  o  tratta  dall'Avv. 
Bilancioni  (2).  Mi  permetto  di  recarne  qualche  esempio 
cominciando  coU'  osservare  che  il  Codice  ha  ben  di  rado  la 
iniziale  maiuscola  nei  nomi  proprii  e  manca  quasi  affatto 
di  punteggiatura,  tranne  dopo  T  emistichio  del  canto  dan- 
tesco, separato  dall'  emistichio  dell'  autore  dei  Capitoli  per 
mezzo  d'un  punto  o  d'una  brevissima  linea.  Nella  pub- 
blicazione del  Frati,  secondo  la  copia  del  Bilancioni,  cosi 
leggesi  l'ultimo  verso  della  IV  rubrica: 

Voi  Dio  che  carità  quivi  rimiri 

mentre  il  testo  ha  chiaramente:  se  miri  e  cosi  i  due 
primi  versi  della  prima  terzina,  rubrica  VI: 

Al  tornar.  Scende  al  terzo  cerchio  o  geme 
gli  peccator  golosi  sua  fetita 

leggonsi  nel  testo: 

ÀI  tornar .  scende  al  terzo  cerchio .  o .  geme 
gli  peccator  golosi  sua  ferita. 

Le  due  terzine  della  rubrica  XII  sono  trascritte: 


(1)  Poesie  di  mille  autori,  intomo  a  Dante,  (Roma,  Forzaci,  1889; 
voi  I). 

(2)  Anche  il  doti.  Corrado  Ricci  pubblica  a  pag.  389-400  della  sua 
opera:  L'ultimo  rifugio  di  Dante  Alighieri,  (Milano,  Hoepli,  189!) 
questi  Capitoli,  secondo  il  Codice  Gambalunghiano,  ma  con  le  yarianli 
d*un  Cod.  della  Bodleiana  d' Oxford,  che  però  ha  solo  T  epitome  per 
V  Inferno  e  con  qualche  lacuna. 


168  ATTILIO  TAMBRLLINI 

Era  lo  loco  ove  tiranni  strìde 
nel  sangue  oppressi  da  centauri  ameri 
e  qual  rubba  suo  prossimo  o  ucide. 

Quivi  è  Alesandro  et  Dionisio  feri 
Obbizzo  et  Ecdìno  et  Y  ombra  sola , 
Attilla,  Piro,  Sexto  et  dui  amieri 

ma  nel  Codice  abbiamo: 

Era  lo  loco  ove.  Tiramni  stride 
nel  sangue  opressi  da  centauri  anneri 
e  qual  rubba  suo  prossimo  o  ucide. 

Quivi  è  Alesandro  et  Dionisio  feri 
obbizzo  et  Ecelino  et  V  ombra  sola 
attilla  piro  sexto  et  dui  armerù 

Il  Frati  pose  in  nota:  Cosi  il  Cod.  Forse  deve  leggersi 
armeri  o  arnieri  (?).  E  fu  indoviDO  perchè  il  Codice  reca 
evidentemente  armeri  nella  seconda  terzina  ed  a  me  pare 
anche  nella  prima,  se  non  che  la  r  della  prima  sìllaba 
non  è  molto  evidente.  In  ogni  modo  :  né  anieri  né  armi 
Nelle  due  terzine  della  rubrica  XIIII  in  luogo  di 
sprezza  nel  primo  verso  era  forse  bene  lasciare  spezza, 
come  legge  il  testo,  sebbene  non  corra  troppo  il  senso 
e  nel  secondo:  blastema  e  non  blasfema;  cosi  nel  primo 
della  seconda  terzina:  Campaneo  e  non  Capaneo.  Nel 
verso  secondo  della  prima  terzina,  rub  :  XVI,  il  Bilancioni 
corresse  thesaglio  (evidentemente  errato,  ma  é  la  precisa 
grafia)  in  Teghiaio  e  nel  seguente: 

per  quel  peccato  lejujso  an  penitenza 

leggesi  lerzo  (lercio,  lurido  ecc.).  Dopo  qaesta  rubrìca 
cessa  la  numerazione. 

Alla  rubrica  XX,  nel  verso: 

Dì  nova  pena  cui  a  fatura  ecc. 


IL  OODIGK  DAiniBSOO  GRJDENlGHlANO  169 

il  codice  reca  afatura ,  evideDlìssìmo  sebbene  ricalcato  ; 
ed  è  il  verbo  affatturare,  usato  qui  dall'  autore  per  que- 
gli impostori  che  esercitarono  Farle  divinatoria;  a /amra 
QOD  dà  senso  alcuno  alla  terzina,  mentre  afatura  glielo 
restituisce  spontaneo  e  piano. 

Un'  altra  importante  correzione  deve  farsi  alla  rubrica 
XXVI,  verso  secondo,  cosi  copiato  dal  Bilancioni: 

Godi  Fiorenza.  In  foco  in  flama  sparte 

fossati  SODO  et  arde  ecc. 

mentre  il  Codice  legge  invece  :  fassati,  cioè  fasciati  dalla 
fiamma  (sono  i  consiglieri  frodolenti);  ed  anche  questa 
non  meno  importante  alla  rubrica  XXXII,  verso  secondo, 
ove  il  Bilancioni  legge: 

Se  va  in  la  glazza  el  tradimento  fello 

ed  è  evidente:  serra. 

Queste  sono  le  correzioni  più  necessarie  che  do- 
vrebbe recare  ai  Capitoli  del  Codice  Gradenighiano  chi 
volesse  ristamparli  ;  altre  varianti  di  minor  conto , 
ma  che  necessariamente  bisogna  accogliere  per  conser- 
vare la  precisa  grafia  sono  sparse  più  qua  più  là  pei  due 
capitoli,  come  ad  esempio  :  neir  Vili  sup.  infem, ,  apta 
e  non  aperta;  demtro  e  non  dentro;  nella  XII  male 
branche  invece  di  Malebranche;  inlando  per  involando, 
con  mal  per  com' mal  nella  XXIV;  et  seminar  corretto 
in  che  seminar  nella  XXVII;  dimora  in  divora,  ulma  in 
ultima  nella  XXIX  ;  ivi  trovasi  pure  nel  verso  primo  della 
seconda  terzina,  tra  et  malati  e  t  falsatori  la  parola  :  i 
peccatori  sottosegnata  coi  punti  d' espunzione ,  errore  del 
copista  che  in  tal  modo  volle  evitar  la  cancellatura.  Cosi 
troviamo  nel  capitolo  sup.  purgator.  alla  rubrica  XII 


no  ATTILIO  TAMBELLINI 

verso  quarto,  l'articolo  el  cambiato  in  un;  alla  XXX, 
verso  secondo,  il  nome  di  Beatrice  tra  senza  o  Virgilio 
/senza  beatrice  Virgilio,  dante  et  beatrice/  punteggialo  e 
ripetuto  poi  alla  fine  del  verso  senza  punteggiatura.  Nel 
capitolo  stesso  rubrica  HI,  vergna  non  vergogna;  nella 
IV  a  stala  e  non  astala;  cosi  btwn  conte  nella  Ve  nella 
VI  la  parola  al  corso  interlineata  sopra  contOrso;  ed 
altre  mende  riguardanti  V  ortografia. 

Ma  torniamo  al  nostro  codice.  In  rubrìca  al  capitolo 
premesso  alla  prima  Cantica ,  o  meglio ,  alle  terzine  di 
Iacopo  e  a  quelle  del  Boccaccio,  sta  scritto:  Drio  Men- 
gino  Mezzano  sup.  infem.;  in  rubrica  al  secondo  che 
precede  il  Purgatorio  e  viene  dopo  altre  delle  terzine 
suddette  sta  scritto:  Dm  Mengino  Mezzano  sup.  pur- 
gator.  È  una  dedica,  come  sembra  credano  alcaoi,  o 
quelle  parole  valgono  un  italianizzamentoì  Quei  Capitoli 
sono  del  Mezzano  o  del  Gradenigo?  Il  De-Batines  (1), 
il  Mortara  (2),  il  Borgognoni  (3)  e  altri  credono  autore 
di  quegli  epitomi  il  Mezzano;  il  Tonini  non  ne  fa  og- 
getto di  discussione,  sebbene  lo  Scarabelli  (4)  affermi 
che  lo  storico  riminese  non  si  sa  arrendere  air  idea 
che  quei  versi  siano  intitolati  al  Mezzano.  Non  so  donde 
r  illustre  dantofilo  abbia  attinta  questa  notizia,  perché  nella 
descrizione  che  di  quel  Codice  ci  ha  lasciata  il  Tonini 
nelle  sue  Memorie  intorno  alla  Francesca  da  Rimini, 
non  havvi  parola  che  a  quel  dubbio  si  riferisca  e  le  mie 
ricerche  per  accertar  la  cosa,  riuscirono  vane.  Lo 
Scarabelli  stesso  sorvola  alla  questione  e  scrive  che  sa- 


(1)  Bibl.  Dant.  T.  I.*  p.  HI.» 

(2)  Catalogo  dei  mss.  canon,  della  Bibl.  di  Oxford. 

(3)  Della  epistola  allo  Scaligero  trìbuita  a  Dante.   Studio  III.  (R^* 
venna.  Tip.  Naz.  1866). 

(4)  Op.  cit.  pag.  678.  Voi.  H. 


IL  CODICE  DANTESCO  GRADENIGHUNO  171 

rebbe  necessario  il  cercare  di  chi  siano  quelle  terzine, 
io  proposito  delle  quali  erra  affermando  che  per  la  prima 
?oita  furono  pubblicate  dal  Carducci  (1).  Il  Del-Baizo  (2) 
finalmente,  le  attribuisce  senz'altro  al  Gradenigo,  giu- 
dicandole lavoro  giovanile.  Ma  in  mezzo  a  tanta  diversità 
di  pareri,  sorge  il  Ricci  (3),  il  quale  cosi  tronca,  da  par 
sao,  la  questione:  e  Le  notizie  che  abbiamo  di  quel  suo 
lavoro  (del  Mezzano),  il  trovarsi  qualche  volta  usato  do- 
mino in  volgare,  le  parole  scritte  di   seguito   al  nome: 
super  infemum  e  il  ripetersi  del  nome  anche  in  testa  al 
santo  del  Purgatorio:  Dno  Mengino  Mezano  sup.  Pur- 
gaior,  ci  fanno  ritenere  che  ne  fosse  Y  autore  » . 

Dal  canto  mio  mi  permetto  di  far  notare  che 
le  frequenti  scorrezioni,  le  sovrapposizioni,  le  parole  in- 
complete che  si  incontrano  più  qua  e  più  là  pei  due  Ca- 
pitoli, mentre  accusano  la  fretta  o  la  negligenza  o  la  poca 
pratica  del  copiatore  nel  leggere  la  lettera  dell'  originale, 
[asciano  appunto  dubitare  che  quei  versi  possano  essere 
del  Gradenigo,  anche  perché  un  cenno,  sebben  fuggevole, 
ne  avrebbe  dato  nel  sonetto  o  avrebbe  almeno  compiuta 
la  dedica  col  proprio  nome.  Valgano  alcuni  esempi.  Nel 
primo  capitolo  troviamo:  Campaneo  in  luogo  di  Capa- 
neo;  Thesaglio  per  Teghiaio;  male  branche  e  non  Ma- 
lebr anche;  inlando  per  involando,  con  strana  abbrevia- 
tura. Nella  rubrica  XXV,  al  verso  secondo,  il  copiatore 
non  ha  saputo  leggere  Caco  e  ha  punteggiato  cosi  :  di.... 
e  di  quei  cinque  da  Firenza  e  in  quel  canto  XXV  Dante 


(1)  Op.  cit  pag.  679.  Voi  II. 

(2)  Poesie  di  mille  autori,  inlorno  a  Dante.  (Roma,  Forzani,  1889). 
VoL  I. 

(3)  Corrado  Ricci.  U  ultimo  rifugio  di  Dante  Alighieri.  (Milano, 
Uoepli,  1891).  (}uesto  brano  mi  fu  gentilmente  trascritto  dal  Dott.  Bacchi 
Della  Lega,  perché  non  potei  consultare  l'opera  del  Ricci. 


172  ATTILIO  TAMBBLLINI 

parla  appunto  (oltre  che  di  Vanni  Facci)  di  Caco  e  poi 
di  Cianfa  de' Donati,  d'Agnolo  Branellescbi ,  di  Bdoso 
de' Donati  o  degli  Abati,  di  Puccio  Sciancato  de' Caligai, 
di  Francesco  Guercio  de'  Cavalcanti ,  che  sono  apponlo  i 
cinque  da  Firenze.  E  codesti  errori  ed  ommissioDi  come 
si  spiegano  in  uno  che  stende  un  commento  sovra  Dante? 
Più  sotto,  alla  rubrìca  XXIX  il  copiatore  prima  scrisse: 
tj96(;ca^ort  che  sottosegnò,  come  abbiamo  detto,  coi  ponti 
d' espunzione,  poi  sostitui  t  falsatori  e  cosi  dimora  per  di- 
vora.  Nel  secondo  capitolo,  la  terzina  seconda  della  rubrìca 
III  è  posta  (perché  evidentemente  sfuggita  nel  copiare)  a 
pie  di  pagina  ;  e  abbiamo  buon  conte  per  Buonconte;  alla 
terzina  seconda  della  rubrica  VI  sovra  conf  Orso  è  inter- 
lineato :  al  corso  che  non  si  sa  che  voglia  dire  ;  nella  ter- 
zina seconda  della  rubrìca  XII  nel  verso  prìmo  aveva  scrìtto: 
et  poi  al  venerevole  ecc.  dove  punteggiò  al  e  sostitui  un; 
e  nella  rubrica  XXIV  che  vuol  dire:  che  ode  con  sen 
diti,  corretto  nella  pubblicazione  dei  Capitoli  in:  com'st^ 
ditti  per  aiutare  il  senso?  E  cotesti  errorì  e  coteste  stra- 
nezze il  Gradenigo,  che  era  anche  non  volgare  versifi- 
catore; come  poteva  commetterle  ?  Errorì  e  stranezze  che 
non  s' incontrano  mai  né  nel  testo,  né  nel  commento.  È 
bene  però  che  manifesti  qui  il  dubbio  che  quei  Capitoli 
siano  scrìtti  da  altra  mano  perocché  è  notevole  assai  la 
forma  larga ,  accurata ,  nitidissima  dei  caratterì  delle  ter- 
zine di  Iacopo,  di  quelle  attrìbuite  al  Boccaccio  e  di  tatto 
il  testo  e  il  commento  ;  quella  dei  Capitoli,  invece,  è  stretta, 
irregolare,  frettolosa  e  chi  volesse  far  rafifronti  tra  alcune 
lettere  di  quelli  e  le  medesime  del  resto  del  Codice, 
vi  troverebbe  differenze  non  lievi,  anzi  diversità;  di  che 
potrei  addurre  qualche  esempio  se  la  tema  di  andar 
troppo  per  le  lunghe  non  mi  trattenesse. 

Ma,   intorno  a  cotesti    Capitoli  non  ispenderò  al- 
tre parole   e   continuerò  a  dire  del  Codice  che ,  come 


IL  CODICE  DilMTBSCO  GKJDENIGHIJNO  173 

tatti  saDDO,  è  incompleto.  Ignoti  vandali,  oltre  all'avere 
sgorbiate    coli'  inchiostro   parecchie    delle    sue    minia- 
tore ,   ne  strapparono  interi  quaderni  ;  per  la  qual  cosa 
àeìl  Inferno  manca  dal  sesto  verso  dell' XI  al  XIV  canto; 
poi  dal  XVIII  al  XXX  ;  nel  Purgatorio  il  Codice  è  privo 
dei  canti  VI,  VII  ecc.  sino  al  verso  ventesimoprimo  del 
XV,  poi  non  ha  i  canti  XX,  XXI,  XXII,  XXIII  e  rimane 
sospeso  alla  ventesima  terzina   del  canto  XXVIII;  nel 
Paradiso  procede  regolarmente  sino  al  verso  dicianno- 
vesimo del  canto  XVI  col  quale  finisce.  Oltre  la  metà 
adunque  d' un  Codice  pregevolissimo  barbaramente  mu- 
tilata. Se  quei  fascicoli  siano  stati  strappati  prima  o  dopo 
che  il  Codice  fu  acquistato  dal  Garampi  non  è  a  nostra 
contezza  per  nessuna  memoria  e  il  catalogo  dei  libri  del 
Garampi  stesso,  compilato  dal  De-Romanis,  non  registra 
le  opere  che  da  quel  prelato  furono  lasciate  in  dono  alla 
Gambalunghiana  e  il  Nardi  nel'  suo:  Elenco  dei  Codici 
e  dei  Manoscritti  esistenti  in  quella  Biblioteca,  lo  descrive 
già  incompleto.  Può  darsi  che  le  pagine  tagliate  e  i  fa- 
scicoli strappati  siano  stati  venduti  da  qualche  ignorante 
per  trarne  una  morale  pecuniaria  ed  ora  si  giacciano  o 
sparsi  0  raccolti  in  qualche  Biblioteca  pubblica  o  privata, 
laonde  il  farne  ricerche  (  e  il  Municipio  riminese  dovrebbe 
darvi  opera)  potrebbe  non  esser  fatica  gettata;  né  sarebbe 
questa  la  prima  volta  che  il  caso  fa  capitar  tra  le  mani 
e  mette  alla  luce  quanto  la  malignità  o  l' ignoranza  hanno 
disperso  o  nascosto. 

Il  proemio  premesso  al  nostro  è  il  solito  di  quasi 
tatù  i  Codici  e  delle  edizioni  più  antiche  e,  tranne  lievis- 
sime varianti,  non  ha  cosa  che  meriti  particolar  attenzione 
ed  esame. 

Il  testo  del  Poema,  come  ho  notato  più  sopra,  non 
é  quello  della  Vindelina,  né  quello  del  Laneo  pubblicato 
^allo  Scarabelli.  Lo  dissero  ricchissimo  di  varianti  e  cosi 


174  ATTILIO  TAMBBLLINI 

è,  se  guardiamo  allo  spoglio  (che  si  conserva  maDo- 
scritto  nella  Gambalunghiana)  cominciato  nel  1838  dal 
Brucalassi  e  continuato  dal  Tonini,  ma  bisogna  notare 
che  fu  fatto  col  solo  raffronto  dell'Edizione  di  Crosca; 
per  ciò  molte  di  quel  considerevole  numero,  sono  di 
altri  Godici  dai  quali  passarono  alle  edizioni  più  recenti; 
moltissime  poi  non  consistono  che  in  lievi  mutamenti  e 
trasposizioni  di  parole,  come  si  può  anche  vedere  dal 
saggio  (quelle  deW  Inferno)  pubblicato  di  sul  manoscritto 
del  Tonini  dallo  Scarabelli  (1)  ;  non  molte  in  fine  le  Ta- 
rlanti che  abbiano  qualche  valore  santattico  o  lessicale. 
Ed  ora  cade  in  acconcio  il  dir  qualche  parola  intoroo 
al  commento.  Lo  Scarabelli  sostiene  (2)  che  :  e  quel  com- 
mento è  senz'altro  il  Laneo  >  e  più  avanti  che:  e  Fau- 
tore del  commento  dantesco  posseduto  dalla  Gambaloo- 
ghiana  non  è  il  Gradenigo,  ma  il  Lana....  perché  l'acrostico 
dice  che  il  Gradonico  scrisse ,  ma  non  dice  che  ne  sia 
l'autore  »  e  cerca  la  ragione  di  ciò  nel  verso: 

com  a  pidufuio  al  provveder  divino 

il  quale,  «  chiaro  avverte  che  ei  scrisse  ciò  che  la  Prov- 
videnza gli  fé'  giungere  alle  mani  >.  Anzitutto  nessoDO, 
eh'  io  sappia ,  (  tranne  vagamente  il  Tiraboschi  in  questa 
nota  (3):  Iacopo  Gradenigo  scrisse  ancora  un  ampio  com- 
mento sulla  Commedia  di  Dante  che  ms.  in  un  codice  in 
pergamena  conservasi  presso  il  sig.  Card.  Garampi)  nes- 
suno ,  dico ,  ha  sostenuto  che  il  Gradenigo  sia  autore  di 
quel  commento.  Però,  lasciato  da  parte  il  significato  troppo 
ristretto  dato  dallo  Scarabelli  al  verbo  scrivere  che  sa- 
rebbe quello  materiale  di  trascrivere,  giova  far  notare  cbe 

(1)  Op.  cit  Voi.  Il,  pag.  679  e  segg. 

(2)  Op.  cit.  pag.  675-676.  Voi.  H. 

(3)  Storia  della  Lett  ti.  Tomo  V.  pag.  594. 


IL  OOmCB  DANTESCO  6RJDENIGHUN0  175 

r  interpretazione  da  Ini  data  a  tntto  il  verso  citato  è  bensì 
ingegnosa,  ma  può  non  essere  esatta,  perocché  si  piega 
facilmente  ad  un  altro  senso  che  sarebbe  questo:  Come 
la  Provvidenza  mi  concesse  di  poter  compiere  il  mio  la- 
Yoro;  ossia  (riportandosi  ai  versi  del  sonetto):  come  la 
Provvidenza  mi  concesse 

intorniarla  de  gloxe  cotante, 

E  però  si  rilegga  tutta  la  terzina: 

Non  ho  lassato  ancor  per  tutto  questo 
Intorniarla  de  gloxe  cotante 
Com  a  piassuto  al  provveder  divino 

ed  apparirà  chiaro  che  la  interpretazione  mia  è  più  esatta 
di  quella  data  dallo  Scarabelli,  la  quale  è  basata  sovra 
una  supposizione;  perché  non  si  può  ammettere  che  per 
caso  (chiamatelo  pure  provvidenza  collo  Scarabelli,  o 
provveder  divino  col  Gradenigo)  siano  giunti  alle  mani 
di  questo  compilatore  e  i  Capitoli  del  Mezzano  e  le  ter- 
zine di  Iacopo  Alighieri  e  quelle  attribuite  al  Boccaccio 
e  l'epitafio  e  il  commento  infine.  Secondo  lo  Scarabelli 
dunque ,  il  Gradenigo  non  avrebbe  che  compiuto  un 
lavoro  manuale ,  non  sarebbe  stato  che  uno  dei  tanti  am- 
manuensi,  uno  sterile  copiatore  del  commento  di  Iacopo 
della  Lana. 

Opportuni  raffronti  varranno  a  dimostrare  che  il  pa- 
trìzio veneto  non  ha  letteralmente  trascritto  il  commento 
Laneo  e  che  se  X  illustre  Tonini  ebbe  ragione  di  asserire 
E^he  il  commento  gradenighiano  è  <  somigliantissimo  a 
qpiello  di  lacobo  della  Lana  pubblicato  già  dal  Vindelino  » 
DOD  fo  troppo  esatto  neir  affermare  :  <  non  differendo 
alcune  volte  da  esso  che  in  poca  parte  della  locuzione  e 
Kìeir  ordine  delle  parole  (1).  »  Io  non  dirò  il  Gradenigo 

(\)  Op.  cit 


176  ATTILIO  TAMBELLINI 

autore  del  Commento,  perocché  troppo  chiaro  appare 
che  fu  copiato  e  per  Y  affinità  somma  che  ha  coi  Codici 
Lanei  e  per  le  frequenti  chiamate  in  margine  o  in  calce 
a  correzione  ed  a  sostituzione  non  di  parole,  ma  di  intere 
proposizioni  e  di  periodi  che,  ommessi,  o  farebbero  zop- 
picar la  sintassi  o  torrebbero  ogni  senso  ai  costrutti  ;  mi 
starò  pago  a  dichiarare  e  a  dimostrare  cogli  esempi,  che  il 
Gradenighiano  è  più  ordinato  del  Laneo,  datoci  dallo  Sca- 
rabelli.  E  dirò  che  alle  note  premette  sempre  il  verso  o  Te* 
mistichio  0  la  parola  dantesca  cui  vuol  fare  il  commento  eli 
fa  precedere  da  una  lettera  per  ordine  alfabetico  (dal 
canto  VII  del  Paradiso  in  poi,  si  serve  anche  dei  namerì, 
perchè  le  note  sono  più  frequenti)  la  quale  serve  alla 
numerazione  delle  note  ed  è  corrispondente  alla  let- 
tera medesima  preposta  alla  parola  o  all'  emistichio  o  al 
verso  che  si  deve  commentare  ;  che  in  molti  luoghi  am- 
pliò il  suo  originale,  aggiungendo,  modificando,  non  dirò 
sempre  ma  molto  spesso,  pel  meglio,  levando  talora  ciò 
che  gli  pareva  superflo;  che  in  molti  altri  con  fine  discer- 
nimento divise  le  note ,  cioè  d' una  sola  lunghissima  del 
Lana  ne  fece  due  o  più  secondo  il  bisogno,  dando  esatta 
corrispondenza  di  commento  a  quei  versi  che  nel  Lana 
non  hanno  particolare  annotazione,  ma  in  nna  complessiTa 
sono  compresi  ;  che  in  alcuni  luoghi  il  Gradenighiano  può 
dare  suilJcienti  lumi  a  chiarire  qualche  passo  dalla  inter- 
pretazione del  Lana  reso  dubbio  od  oscuro;  aggiungerò 
infine  che  tutto  il  Paradiso  è  interlineato  di  richiami  e 
di  brevissime  glosse  in  latino. 

Alcuni  raffronti  spigolati  qua  e  là  varranno  a  dar 
fede  a  quanto  scrissi  e  a  dimostrare  che  il  commento 
Gradenighiano  non  è  assolutamente  il  Laneo  pubblicato 
dallo  Scarabelli  e  che  non  differisce  da  questo  sola- 
mente in  poca  parte  della  locuzione  e  nell'  ordine  delle 
parole. 


IL  CODICE  DANTESCO  GRJDBNIGHUNO 


177 


IACOPO  DELLA  LANA 


IACOPO  GRADENIGO 


Inferno 


Nei  primi  tre  canti  non  tro- 
vansi  differenze  molto  conside- 
revoli; noterò  che  al  verso  28 
del  canto  I  il  Lana  dello  Sca- 
rabelli  legge: 

E  ciò  che  dice  Oilio  in  libro 
De  regimine  ecc. 

Del  verso  101  e  del  105  ha 
tàiio  una  sola  nota. 

Dal  106  al  135  non  ha  che 
doe  note. 

Nel  Canto  II,  dal  verso  10  al 
31  ha  ana  sola  nota. 

Canto  III  —  V.  106: 

da  quel  nochiero,  lo  quale 

avea  occhi  di  fuoco  con  grande 
Samma  incesa  intorno;  e  dà  uno 
•xemplo  quando  saliva  in  nave 
{uando  dice  ecc. 


Canto  IV  —  V.  57  ...  Vero  è 
ch'elli  non  giunse  perchè  lo  ditto 
viaggio  si  doveva  fare  in  XL 
die,  ed  elli  lo  brigò  in  XL  anni. 

Voi.  IV,  Parte  li. 


Credo  superfluo  il  ricordare 
che  al  Gradenighiano  rabbercio, 
solo  quando  è  necessario  pel  sen- 
so, r  ortografìa  e  T  interpunzione. 

n  Gradenigo  corregge: 

Et  cotesto  è  che  dice  Egi- 
dio ecc. 

Due  :  r  una  pel  veltro^  Y  altra 
pel  verso:  E  sua  nazion  sa- 
rà ecc. 

Ne  ha  sei  e  ben  disposte. 

Ragionevolmente  la  divide  in 
cinque. 

da  tale  nochiero  lo  quale 

aveva  gli  occhi  de  foco  con  gran- 
de ruote  di  dama  accesa  dintorno 
et  a  presso  dà  uno  ezemplo  di 
quelle  anime  quando  esse  sa- 
glivano  in  nave  cossi  dicendo  ecc. 

Cosi  è  scomparsa  T ambiguità 
anzi  il  non  senso,  riferendosi  la 
comparazione  :  Come  d!  autun- 
no ecc.  alle  anime,  non  a  Ca- 
ronte. 

....  E  la  cagione  fue  perchè  lo 
decto  viaggio  se  dovevano  fare 
in  quaranta  giorni  et  egli  ne 
ìyrigò  ad  andare  quaranta  anni 

12 


178 


ATTILIO  TAMBELLINI 


>, 


II 
1 

t  ; 

^\ 
li 


E  questo  avvenne  al  ditto  popolo 
per  li  loro  peccati  ch'erano  molto 
obstinati  et  disposti  ad  idolatria 
ecc. 

Ibid:  V.  104:  Sbaglia  la  ci- 
tazione  del  detto  di  Salomone: 
Ih  proverbiia:  laudet  os  alie- 
Dom  non  os  tuum. 

Ibid:  V.  106....  Io  quale  hae 
a  «gnificare  la  disposizione  dello 
intelletto  umano  e  V  abito  alto 
et  abile  a  scienza. 

Ibid:  V.  141.  —  A  cotesta 
nota  è  aggiunta  una  postilla  dello 
Scarabelli  «  Contìnua  con  una 
nota  d'altrui:  Et  anche  per  fra 
Giglio  (Egidio)  in  libro  :  De  re- 
gimine principum  ». 

Ibid  :  V.   1 44  — vero  è 

che  in  molti  luoghi  elli  discrepa 
dalla  scienza  d'Aristotile  ecc. 

Canto  V  —  V.  16 mostran- 
do come  grazia  lo  conduca  (chi?) 
in  quello  viaggio. 

Ibid:  V.  50.  Lo  Scarabelli 
annota  :  Qui  assai  valse  il  Codice 
Riccardinno  impefocchk  man- 
cavano due  linee. 

Ibid:  V.  65. ....  missidava  spro- 
ni 

Ibid  :  V.  id.  Lo  Scarabelli  scri- 
ve in  nota  «  Iblle  parole:  U- 
s-y-ndo  MM  dì  fitora.  6no  a 
^Ks^j«W«ik\  mi  servii  del  R. 
e  do!  Uur:  XG.  121.  Nella 
slMipd  sOQO  dodici  linee  meno 


et  cotesto  adivenne  per  gli 
peccati  che  erano  nel  dect 
polo  il  quale  era  in  tutti 
atinato  et  disposto  ad  yc 
tria  ecc* 

Salomone  ne  soi  prove 
laudet  te  os  alienum  do 
tuum. 

lo  quale  hanno  a  sig 

care  la  dispositione  et  abil 
lo  humano  intelecto  el  qua! 
abile  et  dato  a  scienza. 

—  II  Gradenigo  invece  s( 
nel  corpo  della  nota  :  Et  ance 
frate  Egidio  nel  libro  ecc. 


....  se  discrepa  et  parte  ( 
sententia  de  Aristotile  ecc 

mostrando  Dante  ( 

gratia  divina  el  conduca  a 
cotale  viaggia 

— n  Gradenigo:  ...la  intenl 
de  lo  institutore  de  la  Ic^ie,  si 
no  acdochè  essa  legie  &cci 
huomini  buoni. 

...  et  come  se  alla  giostra 
vesse  andare  calza vasse  gli  sp 

—  Il  Gradenigo  racconta 
molte  particolarità  la  storia 
chille  e  di  Polissena  e  la  veni 
che  ne  trasse  Paride  uccidi 
quell'eroe.  Non  la  trascrivo  pe 
occuperebbe  troppo  spazio, 


IL  CODICE  DANTESCO  GRADEl^IGHlAm 


179 


chiare  e  meno  espressive  ».  II 
commento  si  chiude:  Vero  è  che 
come  pone  Io  troiano  (?),  quelli 
feceno  grandissima  difesa,  si  che 
per  amor  combatterono  e  morti 
furono. 


Ibid:  V.  97:  Et  dice  che 

ancora  il  mondo  P  offende,  cioè 
la  nominanza  e  fama. 


Ibid:  V.  106:  Figliuolo  di 
messer  Malatesta  d'Arimino. 

Canio  VI  —  V.  19  :  Lo  Sca- 
rabelli  in  nota:  Questo  tratto 
dopo  fegato  manca  alla  Vind: 
come  al  Cod:  Bg:  ed  è  ancor 
più  difettosamente  al  Laur:  XC. 
115. 

Canto  VII  —  Nel  Proemio , 
sul  principio,  lo  Scara  belli  an- 
Dota:  nel  R.  manca  sino  alla 
citazione  di  Aristotile  e  cosi  an- 
che nel  L:  XC.  121.  —  E  più 
sotto:  Morbo  sta  nel  R.  e  nel 
L.  XC  121  con  miglior  ragione 
che  male  degli  altri  codici. 

E  sempre  nel  Proemio  annota: 
Come  il  Cod:  R.  hi  difetti,  cosi 
avverto  mancargli  tutio  questo 
perìodo. 

E  ancora  :  Li  Vindelina  e  i 
codici  rispondenti  hanno  estra- 
nea; il  fastidiosa  è  del  Rice 


sendo  essa  circa  due  colonne  di 
fitto  manoscritto.  —  Paris  era 
ivi  per  fare  la  fraterna  vendetta 
et  con  una  saetta  ferio  Achille 
di  tale  feruta  che  di  quella 
morio.  Sì  che  per  amare  fue 
combattuto  et  morto  el  decto 
Achille. 

....  apresso  dice  chel  mondo 
ancor  la  offende,  altro  qui  non 
vole  dire  se  non  de  la  nominanza 
et  fama  et  che  di  tale  cosa 
ancora  el  mondo  mal  ne  ra-- 
giona. 

Figliolo  de  miser  Malatesta 
vechio  de  Arimino. 

U  Gradenigo  è  esattissimo. 


È  esattissimo  ed  ha  anche 
morbo. 


Nel  Gradenighiano  v'  è  per 
intero,  simile  a  quello  recato 
dallo  Scarabelli. 

E  fastidioso  legge  il  nostro. 


180 


ATTILIO  TAHBELLINI 


L' estraneo  non  ha  conseguenza 
di  fetente;  bene  il  fetente  è 
fastidioso. 

Ibid:  V.  31:  ....  s(  diceano 
queir  inno  e  quel  nnetro  overo 
verso.  Poscia  si  rivolgea  ciascuno 
per  r  altra  parte  e  si  scontra- 
vano ciascuno  per  T  altro  mezzo 
circolo. 


Ibid:  V.  64:  Qui  dispregia 
suo  (?)  aiutorio  dicendo  ecc. 

Ibid  :  V.  97  : ....  descendesi  in 
lo  terzo  grado  over  circulo. 

Ibid  :  V.  id che  è  lo  quarto 

del  circolo.  —  A  spiegazione 
del  verso  :  Già  ogni  stella  ca- 
de ecc. 

Ibid: V.  115  ....soggiungendo 
a  sua  notizia  che  anche  sono 
genti  sotto  r  acqua  nera  ecc.  — 
Lo  Scarabelli  annota:  Questa 
voce  genti  fu  restituita  col  testo 
di  Dante  a  bene  intendere. 

Canto  VIII—  Proemio  —  Cir- 
ca la  quale  differenza  di  luogo 
murato  e  non  murato,  è  da  no- 
tare che  la  giustizia  di  Dio  pu- 
nisce li  peccati  che  li  uomini 
fanno  per  incontinenzia,  cioè  che 
si  lassano  vincere  alle  passioni 
corporee,  come  lussuria,  gola  etc. 


....  si  se  dicevano  qnelk)  jdoo 
0  ver  metro  o  vole  dir  verso 
che  dato  è,  ciò  è:  perchè  beoi 
et  perchè  burli  et  cotesto  face- 
vano solamente  a  vergogna  et 
improperatione  V  uno  de  Taltro. 
Poscia  si  rivolgevano  et  si  sooq- 
travano  giascuno  ne  T  altro  noez- 
zo  circulo  et  cosi  mai  quelle 
anime  non  erano  in  riposo. 

Ancora  quivi  dispr^ia  Io  a- 
diutorio  et  favore  delle  rìcbezze 
dicendo  ecc. 

quivi  dissende  nel  qaioto 

grado  over  circolo.  (S  cerchio 
degli  iracondi). 

....  che  è  lo  quarto  del  cir- 
colo, cioè  lo  quarto  de  un  giorna 


—  Con  maggior  chiarena:  ... 
subginngendo  a  sua  notitia  che 
anco  sotto  Taqua  ne  erano  d^Iì 
altri  gli  quali  ecc. 


Circa  la  quale  differeotia  de 
loco  murato  et  non  murato 
è  da  notare  che  la  iustitia  de 
Dio,  secondo  gli  peccati,  poni- 
scono  le  colpe  che  gli  uomini 
suso  nel  mondo  comettooo  et 
cotesto  è  :  perchè  se  lassano  e- 
gli  vincere  alle  piìssioni  corpo- 


IL  CODICE  DANTESCO  GR^DBNIGHJJNO 


181 


0  quelli  li  commettono  per  ma- 
lizia, come  sono  gli  eretici  epi- 
curei ecc.  —  Lo  Scarabelli  in 
nota:  Racconcio  col  codice  Di 
Bagno  ciò  che  non  potei  prima 
con  codice  ninno.  —  Ma  nem- 
meno cotesto  racconciamento  è 
chiaro.  Lo  Scarabelli  poteva  ser- 
virsi del  Gradenighiano. 

Canio  IX.  —  Nel  Proemio 
annota  Io  Scarabelli  (pag.  103): 
Manca  l'eretico:  il  Cod.  L  IX 
121  ha  un  nome  che  sembra 
Viviano. 

—  Nella  stessa  pagina  annota 
lo  Scarabelli:  Questo  e  molti  altri 
passi  sono  confusioni  di  testi  e 
di  luoghi.  Mi  aiutò  il  codice  Di 
Bagno. 


Ed  ancora  a  pag.  194,  Nota  (l  ): 
Corretto  con  R.,  L.  XG.  1 15  e  col 
Di  Rìgno  che  diedero  due  linee 
che  di  netto  mancavano. 

E  sempre  nel  Proemio:  pag. 
196:  —  Lo  terzo  errore  è  di 
quelli  che  dicono  che  la  risur- 
rezione nostra  non  sarà  o- 
punto  con  li  corpi  eh*  hanno 
avuti  in  lo  mondo,  ma  torne- 
ranno l'anime  alcuni  corpi  ce- 
lesti. —  Lo  Scarabelli  tira  il  vo- 
cabolo torneranno  a  signiflcare 
diventeranno  e  forse  doveva 
l^gere:  torranno^  cioè  pren- 
deranno, vestiranno  ecc. 


ree  per  incontinentia  come  è 
lusuria,  gola  etc.  o  veramente 
egli  el  fanno  per  malitia,  come 
sono  gli  eretici  et  epicurei  et 
altre  simili  sorte. 


—  Il  Gradenigo  legge  eviden- 
temente Viviano. 


È  corretto  e  legge  secondo 
la  trascrizione  dello  Scarabelli 
basata  sul  codice  Di  B;igno.  — 
Ciò  prova  anche  una  volta  che 
il  nostro  è  il  migliore  dei  Lanei 
consultati  dallo  Scarabelli  per 
la  sua  edizione. 

Il  Gradenighiano  non  ommette 
le  due  linee. 


Lo  terzo  errore  si  ffece  de  al- 
cuni che  dicevano  che  ne  la 
resuretione  non  scranno  Vanir 
me  unite  con  gli  corpi  gli  quali 
ebbero  nel  mondo,  anzi  le  anime 
toramio  alcuni  corpi  celesti. 


ATTILIO  TAHBEt 


Pia  annti  (pag.  186):^.  in 
lo  regno  lerreDo  sarebbe  tolun- 
iadi  e  dil^  carnati. 

E  a  pagina  197  —  .„  e  io 
questo  eiTore  fu  Uarco  Craio 
Gtfuio  fioreolioo  e  nxtlli  albi 

A  pagina  198-  Eira  io  ona 
dtazioDe  :  Xemo  toUil  aoimafn 
tam  a  me,  sed  tfgì  pooo  eam 
ecc. 

A  pag.  199.  Da  po'  oscaro  è 
questo  passo:  Lo  secondo  errore 
è  qoeDo  che  i  apposto  ad  Orì- 
genes  lo  qual  diceva  cbe  ancora 
rioerefcbbe  iDone  per  salvare  li 
nomÌDÌ  ecc. 

£  casi,  pili  soUo  :  Lo  sesto 
articolo  è  dello  aweaioieaio  al 
giudizio. 

Ibid  :  Caolo  XV  —  t.  63  — 
Goè  d'essere  allìefi  e  dispre- 
gbre  la  ragione  e  di  non  voler 
chinare  lo  collo  sotto  l'arala  del- 
b  gìu^lizia.  Macigno  in  lingua 
lioreDUoa  è  a  dire  stincuruolo 
cioè  iagaooo  e  soiiilitate  di  cau- 
tele io  daooo  altrui. 


ptaU 
naie. 

Curp( 

Futi» 

grane 

II 


Lo 

loel 
rigeo 

C00V( 

sto)  : 
perb 

Lo 
si  è 
Grisù 

E 
cigno 
fanno 
tano 
ondt; 
se  DG 
tìor4.-o 
booo 
biuga 
mode 
tesse 
dere 
dice: 
modo 


IL  CODICE  DANTESCO  GRADENIGHIAHO 


183 


Ibid  :  C.  XXXI  -  v.  1  - 
....  e  però  vele  assomigliare  VaU 
legagione  predetta  di  Virgilio  a 
quella  lancia  che  in  prima  V  in- 
vestio  gridandoli  di  tanta  ver- 
gogna e  poi  dopo  lo  lavò  e 
sì  ve  lo  absolvio.  —  Ed  è 
bravo  chi  capisce!  — 

Ibid  :  V.  34  —  ....  cioè  avvi- 
cinandosi ad  essi  dicerneva  che 
non  erano  torri  e  rafflguravali 
eh*  erano  giganti  e  però  dice: 
fuggémi  errore,  cioè  che  si  cer- 
tificava che  non  erano  torri. 


....  et  però  T  autore  vole  as- 
somigliare la  decta  locutione 
over  parlamento  de  Virgilio  a 
la  lancia  preditta,  la  quale  lo- 
cutione in  prima  con  rumore 
gli  feo  un  brutto  assalto  et 
molta  vergogna  et  poi  adesso 
con  altre  parole  vi  porse  me^ 
dicina. 

Come  quando  la  nebbia. 
Face  quivi  Dante  uiia  cosi 
facta  comparatione  et  dice  cossi 
come  a  poco  a  poco  la  nebbia 
se  vanno  risolvendo  si  che  Fuo- 
mo  dicerne  et  cognosce  quello 
che  prima  el  non  poteva  vedere, 
cossi  a  ponto  apressandose  lui  a 
loro,  dicemiva  quelli  non  essere 
torri  ma  ben  raflSgurava  essi, 
come  è  decto,  essere  giganti  et 
però  dice: 

Fugiami  errore  et  cer.  non 
vole  altro  quivi  Fautore  dire 
se  non  che,  apressandose  a  loro, 
come  è  decto,  el  se  certificava 
che  egli  non  erano  torri  ma  ben 
gli  creseva  paura  cognossendo 
queUi  essere  giganti. 


E  della  prima  Cantica  basti  questo  breve  saggio  di 
raffronti;  in  maggior  copia  ne  traggo  dal 


Purgatorio 


Canto  III  —  V.  103:  ....  e 
giunse  a  tanto  che  la  Chiesa  lo 
scomunicò  e  mandoUi  un  legato 


n  Gradenigo  è  più  esatto  nel 
racconto:  ....  et  lasciasse  a  tanto 
venire  che  *1  summo  pastore  per 


184 


ATTIUO  TAMBELUNI 


il  quale  giurò  che  conveniva 
ch*elli  lo  cacciasse  del  regno 
con  lo  re  Carlo  eh'  era  conte  di 
Provenza  e  re  di  Cicilia.  E  sic- 
conie  è  detto  nel  XXVIII  ca- 
pitolo dell'  Inferno,  lo  re  Man- 
fredi fu  sconOtto  a  Ceperano  con 
sua  gente  et  elli  ecc. 


Canto  IV  — V.  62:  Trattano 
li  poeti  de  uno  gentilissimo  uo- 
mo di  Grecia,  nome  Testio  ecc. 
—  E  cosi  annota  lo  Scarabelli  : 
«  Nei  testi  lanei  è  vacuo,  Io 
riempio  colla  Mitologia  come 
fece  il  Torri.  >►  —  Ma  non  già 
Testio,  bensi  Tindaro  fu  padre 
di  Castore  e  di  Polluce. 

Canto  V  —  V.  1  :  E  dice  che 
seguendo  Torma  del  suo  duca, 
una  anima  gridò:  vedi  che  non 
par  che  luca  il  raggio,  quasi 
ammirando  come  Dante  v*era 
col  corpo. 


tutto  il  mondo  el  fece  scoinuDi- 
care  et  apresso  in  nella  dita  i- 
sola  de  Cicilia  vi  mandò  ano 
cardinale  per  legalo  el  quale  eoo 
molti  et  anco  sanctissimi  sacra- 
menti giuroe  ch'el  conveoiva 
che  esso  cacciasse  el  ditto  Njd- 
fredi  del  regno,  siendo  sempre 
el  ditto  l^ato  coUigato  eoo  Cario 
el  quale  era  conte  de  Provenza 
et  abiendo  el  suo  forze  et  aiuto, 
el  quale  Carlo  per  lo  ditto  car- 
dinale et  legato  de  apostolico 
comandamento  fue  fatto  re  de 
Cicilia.  Ma  sicome  è  ditto  vA 
vigesimo  octavo  capitolo  de  lo 
Inferno  ecc. 

....  tractano  gli  poeti  de  odo 
gentilissimo  huomo  de  Grecia 
nomato  Tindere.  (Tindaro).  - 
Ed  anche  qui  il  Gradeoigo  a- 
vrebbe  servito  m^lio  degli  altri 
codici  Lanei.  — 


Io  era  già  da  qtiel  Dante 
dice  quivi  come  esso  era  gii 
partito  et  aveva  lasciato  quelle 
anime  colle  quali  el  coloquia- 
va  nel  precedente  capitolo  et 
andando  seguitando  le  orme  del 
suo  duce ,  cioè  de  Virgilio, 
una  anima  grìdoe  verso  de  un'al- 
tra ;  vedi  che  '1  non  pare  che  a 
colui  luca  il  raggio  del  sole, 
quasi  admirando  che  Dante,  eoo- 


IL  CODICI  DANTESCO  GR^DENIGHI^NO 


185 


i  :  V.  70.  li  quali  si 

te  approssimare  (?)  che 
0  amici  del  Marchese. 

1:  V.  91 voile  straziare 

Ito  il  corpo  per  sfogarvi 
lo  temporale  poiché  pos- 
Don  avea  sopra  Io  etemo. 


Ito  X VI  — V.  25:  Questo  fu 
darco  da  Vinegia,  il  quale 
mo  di  corte  e  tutto  ciò  che 
gnava,  dispensava  in  ele- 
e. 


:  v.  27  —  Cioè  fossi  an- 
nella  prima  vita,  là  dove 
pò  si  parte  per  mesi,  none, 
e  kalende,  quasi  a  dire: 
i  chi  tu  sei  che  sei  veou- 


d:  v.  47  —  Cioè,  ave  le 
ii  politiche  delle  quali  nulla 
^Mmpaccia  ecc.  —  E  qui 
ISO  va  zoppicando.  — 


tra  r  ordine  usato  ivi  era  cor- 
poralmente. 

....  li  quali  egli  potco  pres-- 
sumere  che  fossero  amici  del 
Marchexe. 

... .  volse  per  isfogarsi  fare 
alquanto  strazzio  del  suo  corpo, 
da  poi  che  *1  non  poteva  avere 
possanza  sopra  le  cose  eterne  la 
volleva  mostrare  sopra  le  tem- 
porali. 

—  Mancano  i  Canti:  V,  VI, 
VII  ecc:  fino  al  XVL  — 

Or  tu  chi  se  eh  el  no. 
Cotesto  il  quale  parla  quivi 
a  Dante  fue  1*  antidetto  Marco 
da  Vinegia  da  Cha*  Lombardo 
il  quale  fue  huomo  di  corte  et 
di  tale  conditione  che  quello 
eh'  el  guadagnava  esso  dispen- 
sava per  r  amore  de  Dio  et  in 
piatose  elemosine. 

—  È  pili  ordinato  :  Partissi 
ancor  io.  L*  autore  mostra 
quivi  come  Y  udio  una  di 
quelle  voce  la  quale  disse  : 
se  tu  fossi  ancora  ne  la  prima 
vita,  là  dove  il  tempo  si  parte 
per  misi,  none,  idi  et  callende, 
come  il  me  pare  che  tu  sei,  eo 
voluntiera  voria  sapere  cui  tu 
sei,  il  quale  sei  venuto  ecc. 

Del  mondo  seppi  e.  An- 
cora dice  quivi  el  decto  Mar- 
co che  esso  seppe  adoperare 
le  virtute  politico  delle  quali  a- 
desso  alcuno  non  se  ne  impaccia. 


186 


ATTILIO  TABfBELLINI 


Ibld  :  V.  97  —  Ora  peggiora 
la  condizione  che  Y  ordine  è  dato 
ma  non  è  chi  lo  osservi. 


Ibid  :  V.  98  —  Cioè  li  chie- 
rici dicono  n)a  non  operano.  — 

Ibid:  V.  100.  Cioè  li  uomini 
guardano  a'  fatti,  non  a*  detti  : 
se  vedeno  li  regolatori  fare  male, 
allora  fanno  male  e  peggio. 


Ibid  :  V.   109 come  elio 

li  fu  licito  (a  Bonifacio  di  farsi 
papa  e  iraperadore)  quel  che  vede 
tutto  la  fa  (?)  e  discerne. 

Canto  XVII  —  v.  13 E 

questo  s' accorda  con  quello  che 
è  detto  nel  quarto  capitolo  di 
questa  Comedia  seconda. 

Ibid:  V.  25 Seppe  la  detta 

Ester  questo  fatto,  inebriò  lo  re, 
poi  li  domandò  per  dono  Mar- 
docheo, il  quale  era  cosi  mal- 


Le  leggi  son  ma  chi.  fì 
bene  che  le  l^;ge  et  rectorì 
sieno  ,  non  giovano  però  al- 
cuna cosa,  perché  niano  non 
ritiene  né  raffrena  del  male  fan^ 
si  che  Tè  la  conditione  del  moi^^ 
do  peggiorata  ;  che,  bene  che  ì| 
mondo  sia  trovato  buono  et  ai^^ 
r  ordine  conformevole  al  mc^JQ 
fosse  dato,  niente  non  vale  p^. 
che  el  non  viene  observato. 

Però  che  l  post  or  che.  QoA 
vi  altro  non  vole  dire  se  mn 
che  sf  il   pastore  sommo  co- 
me  gli  altri  clerici  dicono  buone 
et  sante  parole  et  operano  il 
contrario,  perché  le  gente  le 
quale  nel  mondo  vivono,  ciò  eooo 
gli  omini,  guardando  et  cogoos- 
sendo  loro  facti  et  effecti,  oca 
attendono  ponto  a  soi  ditti  né 
predicatione,  ma  vedendo  loro 
governatori  fare  male,  alora  se 
procacciano  de  fare  male  el  peg- 
gio che  male. 

quanto  et  come  cotesto^ 

fue  licito  et  honesto.  Colui,  il 
quale  vede  il  tutto,  sei  sae,  co- 
gnosce  et  diceme. 

....  E  cotesto  se  accorda  con 
quello  il  quale  è  detto  nel  quarto 
capitolo  di  cotesta  seconda  can- 
tica over  parte. 

....  Seppe  la  dieta  Ester  co-^ 
testo  et  pensosse  de  volerne^ 
fare  vendecta  et  per  fornir^  ' 
il  suo  volere y  essa  inebrioe  f 


IL  CODICE  DANTESCO  GRAIDENI6HI.4NO 


187 


per  Aman:  lo  re  turbato 
Io  Mardocheo  e  liberollo 
;tto  Amaa  fé'  appiccare 
gola.  Or  quello  crocifìsso 
)arve  io  la  immaginativa 
tore,  era  Io  predetto  A- 
iccome  persona  empia  e 
ta. 


:  V.  57. —  Cioè  che  cosi 
i  vivo  e  cosi  fieramente 
3a  morii'C  —  Qui  zop- 
senso. 

:  V.  31.  —  Questa  fu  La- 
{liuola  del  re  Latino;  e 
ad  re  perché  lo  detto  re 
e'  a  Turno,  siccome  è 
lel  primo  capitolo  dello 
s  sé  si  ancise.  —  E  che 
re? 


0  XVIII  —  V.  22:  CSoé 
a  trae  intenzione  di  com- 
si  a  quelle  cose  eh*  hanno 
e  veraci,  cioè  veritade  et 
dine. 


marito  et  poi  trescando  insie- 
me gli  adimandoe  in  dono  Mar- 
doceo  il  quale  era  per  Aman 
cossi  malmenato  et  tractato.  Il 
re  ciò  udendo  molto  se  turboe, 
mandoe  per  Mardoceo  et  libe- 
rollo et  il  decto  Aman  feo  im- 
piccare per  la  gola.  Unde  cote- 
sto crocifisso  il  quale  aparve  in 
nella  ymaginativa  dello  autore, 
altro  non  vole  dire  se  non  che*l 
fue  il  decto  Aman  il  quale  era 
a  quel  modo  tormentato,  cossi 
come  impia  et  dispietata  per- 
sona che  7  fue  vivendo. 

Et  cotal  si  moria.  Altro  non 
vole  dire  quivi  Dante  se  non  che 
cossi  come  vivendo  il  decto 
Aman  fue  feroce^  cossi  fera-- 
mente  il  vedea  morire. 

Ancisa  fhai  per.  (Potestà 
fanciulla  la  quale  Fautore  dice 
quivi  che  gli  aparve  in  nella  sua 
visione  si  fue  Lavina  figliuola 
che  fue  del  re  Latino  et  della 
regina  Amata  sua  moglie.  La 
quale  regina  Amata  fue  si 
compresa  da  dolore  et  da  ira 
perché  il  decto  re  Latino  non 
la  diede  per  moglie  a  TumOy 
cossi  come  è  decto  nel  primo 
capitolo  de  lo  Inferno,  che  essa 
regina  Amata  se  ucise. 

Vostra  aprensiva  da  esser 
verace.  Ora  dice  quivi  che  la 
nostra  aprensiva  ae  sempre  la 
sua  intentione  de  compiacersi 
con  quelle  cose  le  quali  sono 


188 


ATTILIO  TABfBELLINI 


Ibid:  V.  40.  —  Quie  tocca  al 
dubbio,  di  che  è  detto,  cioè  se- 
condo naturale  scienza.  Se  ina- 
nima è  creata  con  tale  disposi- 
zione ecc.  —  n  Gradenigo  è  più 
esplicativo  : 


Ibid  :  V.  82,  —  Lo  Scarabelli 
legge  nel  testo: 
E  queir  ombra  gentil  che  pur 

si  noma 
Pietosa  pili  che  nulla  man- 
tovana 
e  in  una  lunga  nota  s'adopra 
a  tutt*  uonQO  a  difender  cotesta 
lezione,  chiamando  la  comune 
oziosa.  Ben  è  vero  che  conclude: 
Se  il  corretto  audace  e  teme- 
rario non  piaccia^  libero  è 
riporre  la  comune.  Ma  allora? 
La  vindelina  legge:  Bietola  più 
che  nulla  mantovana  (ove  il 
nulla  è  probabilmente  un  erro- 
re, molto  facile  del  resto,  di  tra- 
scrizione, per  villa)  ed  ha  la  se- 
guente nota,  non  sappiamo  per- 
ché creduta  interpolata  dallo  Sca- 
rabelli: Pietola  una  villa  di 
mantuana  nella  quale  naque 
Virgilio.  Ma  il  Gradenighiano 


nel  suo  essere  verace^  ciò  ?olc 
dire  che  anno  in  se  veniate 
et  beatitudiue. 

Le  tue  parole  el  mio  se. 
Quivi  risponde  Dante  a  Vir- 
gilio et  dice,  che  ^a  km 
parole  el  suo  seguace  intel- 
letto ha  ben  compreso  queUo 
il  quale  è  amore;  ma  che  Tè 
piti  pieno  del  dubbio  dectodi 
sopra  che  '1  fosse  mai,  ciò  è 
se^  secondo  naturale  sdenga^ 
V  anima  è  creata  con  tale  Or 
sposùsione  che  efc 


Et  quel  ombra  gentil  Gò 
è  Virgilio  il  quale  fue  del  con- 
tado mantuano,  de  una  villa  no- 
mata Pietola.  Per  che  essa  villa 
ae  piue  fama  de  alcuna  altra 
mantuana. 


IL  CODICE  DANTXSCO  GJiADEtUGHI^NO 


189 


)  nota  che,  stando  allo 
,  noD  recano  gli  altri 

.  106.  —La  noto,  dice 
elli,  è  n)onca  nella  Vin- 
ir  ciò  la  corregge  co' 
;h'  essi  viziati  ;  ed  è  vi- 
he  il  Gradenighiano; 
la  spiegazione  delF  :  e 
non  vi  bugio^  che  non 
a  dello  Scarabelli.  Ecco 
ILana:...  ditene  dov'è 
izio,  cioè  dov'  è  il  pas- 
:ostui,  che  è  vivo,  si 
ar  suso. 

.  118 Perlo  quale 

)  detto  messer  Alberto 
tosto,  cioè  quando  sarà 

130.  -  Qoé  Virgilio 
elli  purgano  accidia, 
d'essa  e  biasimando 


5IX  —  V.  4. ...  s'elli 
)  (le  Sirene)  era  me- 
islarsi  ad  udire.  — 
k^rabelli  annota:  L'Ot- 
ve  fermarsi;  il  Ma- 
ano:  era  loro  me" 
aspettare  a  udire; 
na  :  a  stallarsi  per 
Laurenziano  XC  115: 
sono;  correggo  assai 


...  dov'  è  il  pertugio,  ciò  è 
dov'  è  il  passo  de  andare  su- 
so ;  ditemilo ,  con  ciò  sia  che 
costui  il  quale  è  meco  e  vivo, 
et  de  cotesto  non  ve  dico  men- 
jsogna  che  Ve  cossiy  el  vuole 
andare  suso. 


....  Dice:  tostOj  perchè  come 
è  decto^  gli  era  già  vechio  et 
atempato,  si  che  poco  el  po- 
teva piti  vivere. 

Et  quei  che  m' era  ad  ogn. 
Dice  quivi  Virgilio  a  l'autore 
come  in  nel  loco  dove  essi  erano 
si  se  purgavano  il  peccato  de 
la  accidia  ed  che  ivi  ne  erano 
due  gli  quali  parlavano  del 
decto  vitio  et  molto  imprope- 
ravano  et  mordevano  quello. 

....  Se  udivano,  era  loro  ne-- 
cessario  ristarsi  ad  audire 
quel  canto. 


190 


ATTILIO  TAMBELUNI 


meglio  col  Laurenziano  XL.  26. 

Òr  bene,  il  Gradenighiano  I^- 
ge  appunto: 

Ibid:  V.  31  —  Cioè  la  ragione 
vincea  lo  vizio. 


Ibid:  V.  67  —  E  tal  quanto, 
cioè  non  solo  era  pronto  a  sa- 
lire, ma  andava  dal  lato  per 
avere  meno  contrasto  allo  andar 
suso,  dall^aiere. 


Ibid  :  V.  93  —  -4i  su  mi  di. 
CSoé  perché  soo  volte  le  vostre 
spaUe  al  suo  mezzodie(?!),cioé 
al  cielo;  quasi  a  dire:  perché 
state  voi  bocconi?  — 

E  cosi  anche  la  Vindelina; 
ma  il  Gradenighiano  non  avreb- 
be potuto  mettere  lo  Scarabelli 
sulla  buona  via  della  interpre- 
tazione? 

Ibid:  V.  112  -  ....  felicità 
somma  non  consiste  nei  beni 
temporali,  ma  in  quanto  sono 
ordinati  ad  altro  hanno  boutade 
e  solo  la  contemplazione  è  con- 
giunzione in  Dio;  è  quella  ulti- 
ma beatitudine  in  la  quale  è  no- 
stro perfetto  line  e  felicitade.  — 
—  E  DOQ  è  chiara 


L' altra  prendeva  et  in,  Qò 
è  la  ragione,  la  quale  vince  fl 
vitio,  squarzando  et  fcDdeodo 
gli  panni  di  cotesta  avarizia,  Ri- 
cevane venire  fora  il  peggiore, 
cioè  il  vitio  suo. 

Et  tal  quando{sic)  se  fende, 
quivi  dice  Y  autore  che  noo  por 
solamente  esso  era  disponuto  a 
saglire  anzi  ne  avev*  esso  taotai 
et  si  grande  voglia,  che  esso 
andava  da  quello  lato  dal  quak 
r  aveva  minore  contrasto  et 
ealca  de  anime  per  potere  più 
presto  montare  suso,  secondo 
la  sua  dispositione. 

Al  5U,  mi  di  et  se  voi  che. 
Ciò  è  perché  enno  rivolle  le  to- 
stre  spalle  al  su^  cioè  verso  il 
cielo.  Dimelo  eh*  io  te  ne  preco 
asai. 


....  la  somma  felicitate  non  ri- 
mane né  consiste  negli  tempo- 
rali beni,  con  ciò  sia  che  essi 
beni  fwn  sono  per  se  Medesi- 
mi boniy  ma  in  quanto  essi  sono 
ordinati  ad  altro  anno  bontade; 
e  solamente  la  conU'mplatiO' 
ne  et  cognitione  de  Dio  è  qnella 
la  quale  è  ultima  et  eternale 


IL  CODICE  DANTESCO  GRAÌDENIGHI^NO 


191 


:  V.  136  — ....  in  quello 
ielle  anime  dopo  la  risur- 
3  non  sarà  matrimonio,  né 
igerà,  né  si  beverà,  ma 
itti  li  beni  saranno  nel  Pa- 
,  cioè  a  vedere  la  divini- 
ìd  quella  felicità  penna- 
IO  eternalmente,  siche  li 
suoi  saranno  glorificati  e 
iranno  bisogno  di  queste 
e  ch*elli  hanno  nella  pri- 
ta.  Siche  conclude  ecc.  — 
uf  pure  non  è  chiaro.  Tutti, 
e  cattivi,  godranno  della 
1  eterna  e  saranno  glori- 
Ma  il  Gradenighiano  : 


beatitudine,  in  ne  la  quale  ecc. 
....  quando  le  anime  scranno 
in  quello  stato,  ciò  enno  da  poi 
la  resurretione,  non  sera  matri- 
monio, et  non  se  magneranno, 
non  se  beveranno,  anei  tutti 
coloro  gli  quali  averanno  facto 
gli  comandamenti  de  Dio  bene 
et  servato  la  musaica  lege^  se- 
ranno  in  Parndixo  a  gloriarse 
et  vedere  la  divinitate;  in  la  quale 
gloria  et  beatitudine  eternalmen- 
te scranno  et  staranno.  Undegli 
corpi  de  ognuno  che  bene  arerà 
adoperato,  ivi  eternalmente  se- 
ranno  glorificati.  Si  che  allora 
non  averanno  bisogno  di  coleste 
mondane  tristitie^  né  anco  av- 
veranno cura  di  quello  el  quor 
le  ne  la  prima  vita  si  àppe- 
tisce  et  cerca.  Et  però  con- 
cludendo ecc. 


Mancano  i  canti  XX  -  XXI  - 
XXII  -  XXIII  -.  Il  canto  XX 
ha  solo  l'argomento,  il  XXIV 
ne  è  privo. 


:oXXIV  — V.  19.  — Fue 
onagiunta  da  Lucca  ecc. 


:  V.  20.  —  ....  e  quando 
bene  incerato  dicea:  o 
s  Deus  quanta  mala  pa- 
pro  Ecclesia  sancta  Dei. 
:  V.  58.  —  Cioè  che  vo- 


Questi  et  mostrò  col.  Code- 
sto il  quale  el  dicto  Forexe  mo- 
stroe  col  dito,  si  fue  uno  Buo- 
nagionta  Orbiciani  da  Lucca  ec. 

....  e  quando  elio  era  bene  in- 
cerato et  caduto  nel  visco  el  di- 
cea :  0  Sancte  Deus  quanta  ma- 
la ecc. 

Io  veggio  ben  come  le.  Quivi 


192 


ATTIUO  TAMBBLLINI 


Ibid:  V.  76  —  Non  so,  ri- 
sposi  lui,  quanf  io  mi  viva. 
Chiaro  appare  come  per  lo  vizio 
della  sua  cittade  n'avea  voglia. 
—  E  noQ  è  chiaro. 


stre  parole  sono  d*  amore  et  chi  risponde  Bonagionta  et  dice:  io 
ad  altro  modo  considera  li  stili  ve^io  bene  et  anco  cogoosco 
non  vede  lo  vero.  che  le  vostre  parole  sono  tutte 

amoroxe  et  quale  altramente  con- 
sidera 0  dae  ai  nostri  ^HU 
altro  infellecto,  non  diseene 
né  vede  il  vero. 

Non  50,  rispos*  io  lui,  quan^- 
fio  mi  viva.  L* autore  quifi 
risponde  et  dice,  come  nel  testo 
claro  si  legge,  che  esso  non  sa 
el  termine  de  la  sua  vita  qaaoto 
lungo  essere  debbia;  mae^m- 
siderando  come  la  sua  eUaie 
è  visfiata  esso  voriaeke'lfùs- 
se  adesso  T  ora  del  termitie 
suo,  perché  gli  nogliamtro]^ 
pò  quello  che  de  la  ditta  sua 
citate  vedeva. 

Ove  mai  non  se  scolpa,  Vole 
in  cotesta  parte  quivi  Fautore 
dire  che,  per  pena  la  quale  si 
portano  ne  lo  'nfemo,  non  se 
puote  però  Y  anima  scolpare,  né 
per  marturio  ivi  sostenuto, 
mai  per  tempo  alcuno^  ussire 
se  ne  puote. 

....  tutti  accedano  al  fiume  el 
bevano. 

....  Et  a  comparatione  dice 
che  quello  ventillare  de  le  ale  de 
r  agnolo  el  rifreddoe  et  riìtoroe 
a  quel  modo  cìie  averta  fatto 
la  detta  erba  se  veduta  ffl- 
vesse. 
Canto  XXV  —  v.  22. —  An-  La  lezione  Gradenighiana  è  pili 
nota  lo  Scarabelli  :  Questo  brano    r^olare  e  più  animata  dell'  uoa 


Ibid:  V.  84.  —  Ove  mai.  Cioè 
che  per  pena  che  si  porti  nello 
Inferno  non  si  scolpa  T  anima, 
né  mai  può  uscire  per  tal  mar- 
tirio sostenere.  —  E  qui  il  senso 
zoppica. 


Ibid:  V.  124 tutti  atten- 
dano al  fiume  e  bevano. 

Ibid:  V.  150.  ....  Siche  dice 
che  quell'aura  si  Io  ristora. 


IL  OODICB  DANTESCO  GRADSNlGHIdNO 


193 


da  :  Lo  ditto  re,  fu  racconcio 
in  più  luoghi  coi  Laur.  ecc.  — 
La  lezione  della  Viodelina,  del 
resto,  è  identica  a  quella  dataci 
lallo  Scarabelll  — 

Canto  XXVI— V.  16 Tu 

M>Q  soddisferai  per  tua  risposta 
siire  a  me,  ma  a  tutti  questi 
^he  d'  hanno  tanta  sete  e  voglia 
she  quelli  d*  Etiopia  ovvero  d' In- 
iia,  che  sono  in  queste  regioni 
caldissime,  non  hanno  tanta  vo- 
glia d*  avere  acqua  fredda,  im- 
perocché in  quelli  luoghi  è  molta 
dlschiesta  d'acqua  spezialmente 
di  freddo.  —  Qui  è  un  errore 
di  stampa  e  deve  dire,  colla 
VindeUna,  fredda;  ma  che  si- 
gnifica: dischiesta?  Lo  Scarabelli 
annota  :  Cosi  la  Vindelina,  quasi 
voglia  dire:  dov*  è  impossibile 
chiedere  acqua  per  1*  assoluta 
mancanza  che  ve  ne  sia.  Il  R. 
ha  caristiay  il  M.  disagio^  i  due 
Laurenziani,  malamente  richie- 
sta. La  dischiesta  è  il  suo  con- 
trario. — 

Dunque  quelli  d*  Etiopia  non 
fanno  richiesta  d'acqua  fred- 
la;  ma  allora  come  possono 
iveroe  tanto  desiderio?  Il  Gra- 
lenì^hiano,  poco  mutando  nel 
esto,  ha  un  vocabolo  che  almeno 
lice  qualche  cosa:  Senestro^  e 
>uò  significare  anche:  danno, 
vantaggio,  mancanza  ecc. 


e  dell'altra,  nel  racconto;  sola- 
mente tralascia  i  nomi  dei  dìAC 
harhani  di  Meleagro  :  Plessipo 
e  Tesea.  —  Non  la  trascrivo 
perché  troppo  lunga. 

....  Tu  non  satisferai  con  tua 
risposta  pur  a  me  solo,  ma  gran- 
demente ne  contenterai  tutti  co- 
testi altri  che  sono  meco  quivi, 
gli  quali  ne  hanno  tanta  sete  et 
voglia  di  sapere  chi  tu  sei^ 
che  quelli  de  Ethiopia,  ovver  de 
India,  gli  quali  enno  in  quelle 
caldissime  regioni,  non  hanno 
tanta  voglia  de  avere  de  l'acqua 
de  le  fredde  et  dare  fontane 
per  rinfrescarsi.  Et  ciò  dice  per- 
ché in  neUe  dette  parte  enno  de 
l'acque  et  specialmente  delle 
fredde,  grandissimo  senestro. 


Voi.  IV,  Parte  U 


13 


194 


ATTILIO  TAMBELLINI 


Ibidrv.  126. —  Cioè  fin  che 
la  verità  ha  vinto  tale  nominanza 
e  non  pure  elio  è  stato  vinto  da 
tale  verità,  naa  ancora  molte  al- 
tre persone. 


Canto  XXVn  — V.  1.  —  Lo 
Scarabelli  annota:  Compito  col 
Cod.  Magliab.,  monca  la  Vin- 
delina  e  confuso  il  Riccardiano. 

Ibid:  V.  23.  —  Sicome  apare 
nel  XVin  capitolo  dello  Inferno 
quando  montò  sovra  quella  fiera 
che  hae  per  allegoria  a  signifi- 
care fraudolenzia  ;  quasi  a  dire  : 
noi  siamo  in  luogo  piiì  sicuro 
che  non  eravamo  nel  predetto. 


Fin  che  T  a  vintoUverem, 
Ciò  vole  quivi  dire  che  domeo- 
tre  tanto  che  la  veritatetm 
aiutoe  cotale  nominatusa,  d 
fue  cossi  creduto^  tna  vmtHa 
la  veritate  a  ìuce^  nanpw 
esso  frate  Guitone  è  stato  da 
cotale  veritate  vinto,  anzi  piaxori 
altri  ne  enno  stati  vergognati  ecc. 

n  codice  riminese  è  esattis- 
simo. 


Sopr'  esso  Gerion  A  ^w.  — 
Cossi  come  Y  apare  nel  decimo- 
septimo  capitulo  de  lo  Veno; 
quando  de  consentimento  de 
Virgilio,  Dante  montoe  sopra 
de  quella  fiera  nonuxta  Oerm; 
la  quale  per  alegoria  si  vae  a 
significare  fraudolenza,  quasi  di- 
cat:  Se  in  quello  loco  diJh 
hioxo  cotanto  io  te  guidai,  et 
trassitene  sensta  alcuno  male, 
quanto  maggiormente  ora  àt 
tu  sei  in  loco  buono  et  più 
sicuro  men  te  dei  dubitare 
et  no  aver  paura  che  salvo 
non  te  n^  tiri. 


Il  Gradenigo  neir  ultimo  verso  :  Per  eh'  io  te  sopra  u 
corono  et  mitrio,  interlinea  sul  secondo  te:  al:  (cioè  altri) 
me.  Vale  a  dire,  altri  leggono  :  Per  eh'  io  te  sopra  me  co- 
rono et  mitrio.  Lezione  del  Lana  che  piacque  allo  Scarabelli 


IL  CODICE  DANTESCO  GR/4DENIGHUN0 


195 


al  Portirelli  dal  qaale  fa  resa  nota  fln  dal  1804,  (1) 
tardi,  nel  1822,  dal  Campi  (2). 


0  XXVIII  —  Nel  Proe- 
—  Alla  quinta  cosa  è  da 

che  ali*  autore  nascette  un 
S  com*  era  che  lassii  fosse 
che  facesse  movere  e  so- 
udle  piante  e  arbori  e  fo- 
on  ciò  sia  che  nel  libro 
rgatorio  sìa  dichiarato  che 
mpressione  aerea,  lo  quale 
non  ascende  se  non  fino 

luogo  del  predetto  monte, 
mnota  lo  Scarabelli  :  Rac- 

questo  periodo  col  Lau- 
ìcc.  —  Ma  non  è  troppo 

icconciato.  —  Il  Gradeni- 

• 
• 

:  V.  22 e  però  lo  solco 

adello  eh*  avea  tenuto  non 

•edire.  —  E  che  vuol  dire? 

:  V.  28 e  chiaro  ap- 

om*è  carissima  cioè  spi- 
acqua. 

:  V.  31.  —Cioè cheque- 
la  è  sempre  sotto  lo  re- 
Ueverludie  muovesi  bru- 
asi  a  dire  che  con  alcuno 
e  fatica  si  conviene  acqui- 


A  la  quinta  cosa  si  è  da  sa- 
pere che  '1  nassette  uno  dubbio 
a  r  autore,  il  quale  fue:  come 
il  poteva  essere  che  li  suxo  do- 
V*  egli  era,  fosse  vento  il  quale 
facesse  movere  et  sonare  quelle 
piante  et  arbori  che  ivi  erano, 
con  ciò  sia  che  già  il  sia  decla- 
rato  che  alcuna  impressione 
aerea^  la  quale  altro  non  enno 
che  vento^  non  puote  assen- 
dere  se  non  infino  a  certo  loco 
del  ditto  monte. 


....  et  però  il  solco  over  via 
che  esso  aveva  tenuta  et  facta 
gli  era  ignota  et  non  la  pò- 
teva  vedere. 

....  darò  se  dimostra  come 
queh  fiume  era  clarissimo  et 
necto,  ciò  vole  dire  spirituale 
aqua. 

Avegna  che  si  mova  br. 
Quivi  dice  come  cotesta  aqua 
enno  sempre  sotto  il  r^no  de 
le  virtute  et  movese  bruna,  quaxi 
dicat:  che  con  alcuna  ardua 


Il  testo  della  Nìdobeatina  illustrato  con  note  da  Luigi  Portirelli  e 
,.  Giulio  Ferrano.  (Milano,  1804,  Ediz.  dei  Classici). 

La  Divina  Commedia,  ridotta  a  miglior  lezione  ecc.  (Torino,  Unione 
Oca)  —  Vedasi  la  nota  a  pag.  589,  Voi.  IL^  dlsp.  30. 


196  ATTILIO  TAMBELUNI 

stare.  solieitudine  et  fatka  secoo- 

vene  aquistare. 

Ibid:  V.  41.  — Qui  figura  la        Cantando  et  sceglien,  (ìà- 

comparazione  eh*  ha  bisogno  ad    vi  Y  autore  figura  la  adope- 

avere  perfettamente  quella  vita,    rcuriane  la  quale  è  a  coi  vuole 

—  E  non  v'  è  senso.  perfettamente  avere  quella  eterna 

vita.  —  Cioè  come  deve  adope- 
rarsi ecc. 

Qaf  finisce  nel  Codice  rìminese  il  Canto  XXYm  e 
mancano  gli  altri  della  seconda  Cantica  ;  e  qui  finisco  an- 
ch'io  per  non  annoiare  il  lettore,  sebbene  a  malìDCOore 
mi  tenga  dal  continuare  con  gli  spogli  e  i  raffronti  della 
terza  Cantica.  Chi  poi  abbia  vaghezza  di  fare  uno  stadio 
più  accurato  del  mio  (e  non  sarebbe  inutile)  sa  dove  tro- 
vare il  Codice  ;  a  me  basti  di  aver  confermato  cogli  esempi 
dati  quanto  scrissi  più  sopra,  che  cioè,  il  Gradenighiano 
in  molti  luoghi  corregge  il  Laneo  dato  alle  stampe  dallo 
Scaraboni,  che  pur  aveva  compulsati  e  raffrontati  tanti  Co- 
dici. Poteva  dunque  V  illustre  dantista  tener  nel  debito  coDto 
anche  questo  deUa  Gambalunghiana  (sebbene  uno  fra  g^ 
ultimi  lanei  del  secolo  XIV)  e  servirsene  pe'  suoi  spogli- 
Porro  fine  a  questi  miei  Appunti  coli'  offrire  al  Iettare 
un  breve  saggio  del  testo  del  Paradiso  colle  sue  chiase 
interlineari. 

Paradiso  —  Canto  Vili. 

paganesmo.    animarum  suarum. 

a.  Solca  creder  lo  mondo  in  suo  periclo. 

ventis  que  coUebatur  in  cipro.  a  positive, 

b.  che  la  bela  cyprigna  il  folle  amore. 

e.  rf-  (1)         tercio  ciclo. 

(1)  Le  lettere  maipnali  e  inlerlÌDeate  servono  alla  chiamata  del       e 
mento. 


IL  CODICE  DANTESCO  GRÀDBNIGHIJNO  197 

raggiunse  volta  nel  terzo  epiciclo. 

Perché  non  pur  a  lei  ^  faceva  honore. 

de  sacrificio  et  di  votivo  crìdo. 

l  tempore  paganesmù 
le  antiche  gente  ne  lo  antico  errore. 

duo  (1)      coniunctio  maris  et  f emine,  filius  veneris. 
Ma  dione  honoravano  et  cupido. 

l  dione  L  cupido. 

questa  per  madre  sua  questo  per  figlio. 

L  cupido 
et  dicean  che    sedete  in  grembo  a  dido. 

i.  venus. 
Et  da  costei  onde  principio  piglio, 
pigliavan  il  vocabol  de  la  stella. 

hesperus       8.  lucifer. 
che  1  sol  vageggia  or  da  coppa  or  da  ciglio... 

Ibid:  Canto  XIII. 

Ymagini  chi  bene  intender  cupe. 

«.  illas  duas  coronas  doctorum. 
quel  eh  io  or  vidi  et  ritegno  1  ymage. 
mentre  eh  io  dico  come  ferma  rupe. 
Quindece  stelle  che  indiverse  plage. 

nobiliores  stelle  que  sint  in  celo. 
lo  cielo  avivan  di  tanto  sereno. 

e. 
che  soperchia  de  1  aere  ogni  compage. 

septem  stelle  urse  maioris. 
Ymagini  quel  carro  a  cui  il  seno. 

nostri  emisperi  quia  numquam  deficiunt 
ì)  niegibile. 


198      A.  TAMBELLIKI  —  IL  CODICE  DANTESCO  GRAlDBNIGBUm 

c.     basta  del  Destro  celo  et  nocte  et  giorno, 
si  che  al  volger  del  temo  non  vìcd  meno. 

duas  stellas  urse  minor i8  in  forma  comu. 

f.  Ymagini  la  bocca  dì  quel  corno. 

in  extremitate  septentrionis. 
che  si  comincia  in  punta  de  lo  stelo. 

«.  polo  septentrionali. 
a  cui  la  prima  rota  va  dintorno. 

g.  Aver  facto  di  se  dui  signi  in  celo. 

i.  adriana  conversa  in  consteUat.  qua  voeatur  corona. 
h.    qual  fece  la  figliola  di  minoL 

quando  fuit  derelicta  in  insula  chio  per  teseum. 
alora  che  sentio  di  morte  il  gelo. 
i.     Et  1  un  et  1  altro  aver  li  raggi  sol 

queste  corone. 
et  ambedui  girarse  per  manera. 

unum  versum  alterum.       al  secundo. 
L    che  r  uno  andasse  al  primo  et  1*  altro  al  poL 

a  simili  poter  itinteligeripredittas  duas  coronas  doetorm 
m.    Et  avrà  quasi  1  ombra  de  la  vera. 

n. 
n.     constelatione  et  de  la  doppia  danza. 

0. 

0.     che  circulava  el  punto  dov  io  era. 
Rimini,  1891. 

Attilio  Tambeluni. 


MISCELLANEA 


LA  GAL  ATEA  DI  ALBERTO  LOLLIO 


Id  un  recente  stadio  sol  Teatro  ferrarese  nella  se-- 
conda  metà  del  secolo  decimosesto  (1)  ebbi  occasione  di 
ricordare  la  Galatea  del  Lollio,  secondo  la  breve  indica- 
zione data  dairAntonelli  (2).  Mi  augurava  allora  che  es- 
sendo questa  la  terza  favola  pastorale  in  ordine  di  tempo 
vedesse  presto  la  luce:  poiché  poteva  riuscir  utile  seguire 
nel  suo  primo  sviluppo  questo  genere  letterario,  il  quale 
dal   primo    saggio   dato   dal  Beccari  col   Sacrificio  nel 
1554,  non  conoscendosi  la  sua  Dafne,  dopo  V  Aretusa 
del  Lollio   del  1563,  e  lo  Sfortunato   dell'  Arienti   del 
1567  (3),  giungeva  alla  sua  perfezione  artistica  colV  Aminta 
del  Tasso,  nel  1573.  Ebbi  modo  in  seguito  di  vedere  io 


(i)  Nel  Giùm.  Star,  di  Leti,  ite/.,  yoI.  XVUI,  p.  153. 

(2)  Indice  dei  m$$.  della  civica  Biblioteca  di  Ferrara,  Ferrara,  Tad- 
dei,  1884,  p.  46,  cod.  n®  68;  ove  si  può  vedere  la  descrizione  del  ms. 

(3)  Per  queste  due  pastorali  cfr.  lo  studio  cit,  pp.  151-53  e  pp. 
156-7. 


200  MISCELLANEA 

medesimo  il  manoscritto  che  la  conteneva  (1)  e  poter  cosi 
accertarmi  che  questo  componimento,  se  diminuiva  da  no 
iato  d' interesse  per  non  essere  pienamente  svolta  la  sce- 
neggiatura, poteva  riuscir  curioso  dall'  altro,  ofifreodoci  od 
saggio,  credo  l' unico  finora  noto,  di  uno  scenario  di  pa- 
storale. 

Ma  che  dovesse  rimanere  propriamente  uno  sceDarìo 
non  oserei  afiermare  :  i  richiami  a  Teocrito,  a  Virgilio,  a 
scritti  sulla  caccia,  occorrenti  qua  e  là,  fanno  supporre  che 
il  Lollio  volesse  imitare  quei  passi  verseggiando  il  suo 
canovaccio.  In  versi  non  v'  è  che  un  tratto  piccolissimo 
della  scena  quinta  dell'  atto  primo  :  forse  studiando  la  tela 
questi  vennero  spontanei  alla  penna,  forse  eran  già  scritti 
per  altro  e  V  autore  pensò  d' inserirli  a  quel  luogo.  Ha 
ciò  che  non  può  trascurarsi  di  notare  si  è  come  le  buf- 
fonate, le  burle,  i  lazzi  abbiano  gran  parte  in  questa  pa- 
storale :  sovrabbondava  ancora  V  elemento  della  commedia 
popolare,  dalla  quale  dipende  anche  l'intreccio:  spetta?a 
al  Tasso  di  dare  a  questo  genere  quella  semplicità  signo- 
rile nella  favola,  nei  sentimenti,  nello  stile,  che,  se  potè 
essere  agguagliata,  nessuno  certo  potè  mai  superare. 

Angelo  Solerti. 


(1)  Ringrazio  T  amico  Prof.  Conte  Vittorio  Rugarli  della  copis 
con  somma  cura  volle  fame  per  me. 


MISCELLANEA  201 


GALATEA 


COMEDIA  PASTOHALE  DI  M.  ALBERTO  LOLLIO 


Persone 


Pomona  dea  Prologo. 


ABGUMENTO 

Silvano  rimaso  vedovo,  spiato  dai  tumulti  delle  guerre, 
che  tutto  il  paese  d'Arcadia  guastavano,  per  sospetto  di 
non  essere  amazzato,  con  due  figliuoli  l'uno  chiamato 
Lauro,  al  quale  pone  nome  Amicleo,  l'altra  Glori,  a  cui 
mette  nome  Amarìli,  se  ne  fugge,  et  vassene  ad  habitare 
nelle  selve  di  Napoli,  facendosi  chiamare  Mopso,  dove 
trovandosi  con  quei  fanciulli  piccioli  senza  governo,  tolse 
per  moglie  una  vedova,  la  quale  similmente  haveva  due 
figliuoli,  l'uno  nomato  Selvaggio,  et  l'altra  Filida:  con  in- 
tenzione, come  questi  fanciulli  alla  debita  età  fossero  per- 
venuti, di  maritarli  tutti  e  quattro  insieme. 

Non  andò  molto,  che  questa  seconda  moglie  di  Sil- 
vano mori,  per  il  che  fu  come  disciolto  il  matrimonio  tra 
i  fanciulli,  conciosiaché  Silvano,  cessate  le  guerre  d'Ar- 
cadia, lasciati  i  figliastri  in  governo  de'  parenti,  co'  suoi 
figlinoli  già  grandi  al  proprio  suo  albergo  se  ne  tornò, 
fior  dopo  alquanti  anni,  Selvaggio  divenuto  grande  et  bel- 
lissimo giovane,  per  le  risse  et  discordie  nate  fra  i  pa- 
stori del  paese,  havendo  egli  un  ricchissimo  pastore  amaz- 
zato, fuggendo  dalla  patria ,  per  maggior  sicurezza  mu- 


HI 


202  MISCELLANEA 

tatosi  il  nome  di  Selvaggio,  in  Silvio  :  et  alla  sorella  d 
Filida  in  Clitia  :  venne  sconosciuto  con  il  meglio  delle  sai 
ricchezze  in  Arcadia. 

Quivi  sciolto  luogo  commodo  a'  suoi  armenti,  egli  t 
gli  altri  pastori  babitava  con  la  sorella  :  la  quale  era  i 
si  rare,  et  cosi  maravigliose  bellezze  ornata,  che  moli 
Arcadi  pastori  dello  amor  suo  fieramente  si  accesero  :tF 
J  i  quali  Lauro  si  fortemente  di  lei  invaghì,  che  non  tro 


^  vava  riposo  alcuno. 


Non  passò  molto,  che  il  vecchio  Silvano  s'inesd 
anch^  egli,  non  sapendo  però  alcun  di  loro  cosa  alcuna  d 
ciò  che  r  uno,  o  V  altro  intomo  a  questo  amore  adope 
rasse.  Finalmente  scopertasi  la  cosa,  nacque  fra  loro  gran 
dissima  discordia:  perocché  con  ogni  possibile  industri; 
et  diligenza  si  sforzavano  ambeduo  di  torsi  la  desiata  gio 

^  vino  l'uno  all'altro. 

Lauro  fondava  le  sue  speranze  nel  gran  favore,  ^ 
nelle  grate  accoglienze  che  li  faceva  Clitia  ;  la  quale  scam 
bievolmente  di  core  amarlo  mostrava.  Dall'  altra  parte  Sii 
vano  si  confidava  molto  nel  buono  aiuto  che  in  ciò  li  prò 

^  metteva  Silvio  :  però  che  essendo  anch'  egli  ardentemente 

innamorato  di  Glori,  si  era  accordato  con  esso  lui  di  dar 
gli  la  sorella  :  et  egli  all'  incontro  gli  havea  promesso  di 
dar  la  figliuola.  La  qual  cosa  intendendo  Lauro,  da  soii 
surato  dolore  oppresso,  si  voleva  ammazzare  :  quand'eccc 
a  scoprirsi  per  vero  co  '1  mezo  d' una  Driade,  Silvio  e 
Clitia,  esser  Selvaggio  et  Filida  figliastri  di  Silvano.  Laonde 
le  cose  ritornano  nelli  loro  primi  termini,  come  già  a  Na- 
poli eran  state  ordinate:  ciò  è  che  Lauro  et  Filida:  et 
Selvaggio  et  Clori  allegramente  si  maritano  insieme. 


f- 


MISCELLANEA  203 


ATTO  PRIMO 

SCENA  I. 

Lauro  giovane. 

Egli  si  lamenta,  et  si  afflige,  di  bavere  già  due  giorni  sodo, 
cercato  invano  la  sua  bella  et  bramata  Qitia.  etc. 

SCENA   IL 

Corimbo,  Lauro,  compagnL 

Costui  vien  cantando,  e  sonando  una  lira,  ragiona  con 
Lauro  d*  amore,  et  de'  lor  gregl  Lauro  si  duole  che  suo  padre 
si  partisse  da  Napoli,  dove  egli  si  struggeva  dello  amor  di  Fi- 
lida.  Contagli  come  e*  si  havevano  dato  la  fede  di  torsi  per  mo- 
gliera  etc. 

Da  poi  Corimbo  dice  di  haver  veduto  Gida  con  altre  com- 
pagne lungi  il  fiume  Erimanto.  Onde  Lauro  si  parte  per  an- 
darla a  trovare. 

SCENA  III. 

Corimbo. 

Corimbo  discorre  da  se  de  i  casi  pastorali;  et  dice  alcune 
cose  intorno  allo  amor  de  la  sua  innamorata,  etc. 

SCENA  un. 

Gorgo  capraro,  Corimbo. 

Viene  ridendo,  pigliandosi  spasso  et  facendosi  beffe  di  Sil- 
vano suo  patrone.  Narra  come  egli  è  innamorato  di  Qilia,  a 
lai,  che  ne  mena  ismanie.  Dice  che  egli  Tha  fatto  radere:  et 
liagli  posto  in  cuore  di  montar  suso  un  asino  guarnito  di  fiori, 
frondi  e  ghirlande,  et  li  ha  persuaso  a  portare  a  donare  a  Gitia 


204  MISCBLLANBA 

per  placarla,  un  fiasco  dì  buon  vino,  ddle  schiazzate,  fratti, 
formaggio,  etc. 

SCENA  y. 

Qitia  giovane. 

Ck)stei  si  duole  della  sua  scortesia,  di  aver  lasciato  Lauro 
per  seguitare  la  caccia  d'  ud  cervo,  il  quale  dice  insieme  eoo 
le  compagne  bavere  ammazzato,  et  appeso  la  testa  al  tempio 
di  Diana.  la  quale  dice  baver  mostrato  di  non  a^pradare  il  doso, 
conoscendo  cbe  in  breve  ella  lasciarebbe  il  suo  culto,  per  adiie- 
rirsi  al  servitio  di  Venere,  eie 

Questi  sono  alcuni  versi  del  suo  rammarico. 

Non  ponga  alcun  giaroai  le  sue  speranze 
Nel  variar  fallace,  et  ne  gli  inganni 
Di  fortuna  infedel  :  che  su  '1  pili  bello 
Fiorir  le  tronca:  e  una  sol  alba  chiara 
Mescie  con  mille  tenebrose  notti. 
0  pigra  al  nostro  ben,  veloce  al  male 
C3ie  le  dolcezze  altrui  ratto  avelleni 
Come  in  un  punto  dall*  amata  vista 
Del  caro  idolo  mio  mi  discompagnu 
Ma  di  chi  debbo  lamentarmi,  ahi  lassa, 
Se  non  di  me,  di  me,  che  semplicetta 
Di  Diana  seguir  volsi  la  traccia, 
Et  le  fiere  cacciar  entro  le  selve 
Senza  riposo  alcun:  onde  dovrei 
Odiar  le  fiere,  i  cacciatori,  i  cani 
Gli  archi,  le  reti,  i  strai:  qualhor  sovienmi 
Che  per  quelle  seguir  perdei  me  stessa,  etc. 

ATTO  SECONDO. 

SCENA  I. 

Brusco  custode  d'armenti 

Costui  viene  in  scena,  menandosi  drieto  un  becco  per  k 
coma  :  sopra  le  quali  discorre  anfibologicamente,  dicendo  ch*dle 


MISCELLANEA  205 

SODO  cose  hoDorate:  onde  le  veggiamo  alla  Luna  etc.  come  in 
un  capitolo  in  lode  de  le  corna  se  ben  mi  ricordo. 

Intanto  arriva  Silvano,  et  Brusco  co*l  suo  becco  si  nasconde. 

SCENA  n. 

Silvano,  Brusco. 

Ei  se  ne  viene  su  Y  asino ,  guarnito  di  ghirìande ,  fiorì , 
frutti  etc  et  vassene  alla  capanna  di  Clitia  :  dove  canta  una 
canzone  in  sua  laude  come  Teocrito.  Da  poi  le  offerisce  le 
schiacciate,  il  fiasco,  etc  Brusco  che  di  vicino  haveva  udito  il 
tutto,  sentendolo  trasformato  nell'amoroso  disio,  cosi  pian  piano 
esce  dal  bosco,  et  li  robba  1*  asino  con  le  robbe  :  di  che  accor- 
gendosi Silvano,  si  lamenta  gravemente:  et  si  mette  in  camino 
per  andarlo  a  cercare  Intanto  Tasino  ragghia:  onde  Silvano 
dice  che  egli  debbe  ha  ver  trovato  la  sua  innamorata:  et  li  ha 
invidia  etc 

SCENA  in. 

■ 

Brusco. 

Brusco  havendo  sentito  partir  Silvano,  esce  del  bosco,  et 
rìdesi  della  burla  fatta,  et  si  piglia  spasso  della  sua  scioc- 
chezza etc. 

SCENA  IIIL 

Gorgo,  Brusco. 

Arriva  costui  ragionando  con  se  stesso,  annoverando  di 
molti  negoci  che  gli  ha  imposto  il  patrone.  Si  abbocca  con 
Brusco,  et  egli  lo  intertiene.  tolgonsi  fra  loro  berta  de'  loro  pa- 
troni, et  de'  suoi  amori.  Si  pongono  a  mangiare  insieme.  1*  un 
beve,  et  l'altro  li  dice  forte  non  pid,  non  più  et  colui  mostra 
di  non  lo  udire,  quell'altro  da  poi  beve,  et  colui  fingendo  dir 
forte  apre  apena  la  bocca,  per  darli  ad  intendere,  che  mentre 


206  BnSCELLANEA 

r  huom  beve  non  ode  cos'  alcuna  etc  Alla  fine  à  inebbrìaoo. 
L' un  di  loro  monta  su  Tasino,  dicendo  delle  facezie.  1*  altro  si 
butta  per  terra,  mostrando  di  voler  nodare.  et  dice  o  quanti 
civettoni,  quante  lumache,  quanti  alocchi,  barbagianni  etc  fa 
vista  di  volarli  dietro  per  aria  etc. 


1 

SCENA  V. 


Corìdone,  Tirsi,  compagni. 

Vengono  parlando  fra  loro.  Ck)ridon  dice  haver  trovato  SO- 
vano  come  disperato  di  martello  amoroso,  et  dello  haver  per- 
duto rasino.  Poi  dice  haverli  fatto  intendere,  come  Clitia  è  so- 
rella di  Selvaggio:  et  che  egli  similmente  è  innamorato  di 
sua  figliuola  Glori,  onde  dice  che  Silvano  ha  deliberato  di 
accordarsi  con  esso  lui,  et  di  fare  un  barrato,  pigliando  esso 
Clitia,  et  dando  Gori  a  Selvaggio,  etc. 

ATTO  TERZO. 

SCENA  I. 

Lauro,  Corimbo. 

Comunica  la  sua  allegrezza  con  Corimbo,  di  haver  trovato 
Clitia  sopra  il  monte  Partenio.  parlano  de*  suoi  amori ,  et  delle 
commodità  et  felicità  della  vita  pastorale.  Da  poi  sonano  et  can- 
tano insieme. 

SCENA  n. 

Ranocchio  pescatore,  Lauro,  Corimbo. 

Sopragiunge  Ranocchio,  che  va  cercando  Lauro,  al  quale 
dice,  di  haver  sentito  Silvano  far  Io  accordo  con  Selvaggio  circa 
il  barrato  delle  donne.  Et  che  Selvaggio  haveva  prima  nn  pezzo 
ricusato,  pure  stimolato  dal  troppo  amore  eh'  egli  portava  a 
Cleri,  era  stato  contento.  Costoro  si  partono,  resta  Ranocchio. 


Il 


MISCELLANEA  207 

SCENA  III. 

Ranocchio. 

Quivi  egli  dice  delle  facetie,  ragioDando  con  le  sue  raue, 
quali  uscite  della  rete,  vanno  qua  e  là  saltellando  per  terra: 
egli  le  va  pigliando,  etc 

SCENA  nn. 
Gorgo  ubbriaco,  Ranocchio. 

Costoro  dopo  alquante  parole,  vengono  fra  loro  alle  mani. 
I  ultimo  Ranocchio  avedutosi  che  Gorgo  era  ubbriaco,  lo  la- 
ta e  va  via. 

SCENA  V. 

Gorgo. 

La  virtù  del  vino  che  haveva  in  capo  costui,  lo  faceva  dir 
ise  maravigliose  et  ridicule.  dopo  alquanto  ei  si  addormenta 
Ugo  disteso  in  terra,  havendosi  già  prima  cavato  la  camicia, 
calze  etc.  et  restato  con  un  paro  di  mutande. 

SCENA  VL 

Glori,  Testile,  compagne.  Gorgo. 

Ella  narra  a  Testile  un  suo  sogno,  dapoi  discorrono  sopra 

augurio  d*  un  paio  di  Clolombi ,  eh*  hanno  incontrato  per  la 

rada,  trovano  Gorgo  dormire  :  onde  accostatesi  pian  piano,  con 

more  lo  tingono  tutto:  come  accade  a  Sileno  appo  Vergih'o. 

Alla  fine  egli  si  desta,  et  fugge  via:  et  esse  li  corrono 
ielro  un  pezzo. 


scBNA  vn. 
SelTaggio,  dori,  Testile. 

Racconta  la  somma  felicità  eh'  egli  aspetta  d*  havere  per  il 
barrato  della  sorella  eoo  la  figliuola  di  Silvano.  Oori  seotòidolo 
parlare,  esce  insieme  con  Testile  del  bosco:  et  li  conta  il  suc- 
cesso di  Gorgo  :  et  egli  le  dice  la  conventione  fotta  con  SìIudo: 
Testile  ciò  biasma  grandemente,  dicendo  non  convenirsi  che  h 
bella  Qitia  divenga  moglie  di  quel  brutto  vecchia 

Da  poi  ordinano  di  fare  una  bella  caccia. 

ATTO  QUARTO. 

SCENA  L 

CUtia. 

Costei  si  lagna,  et  si  lamenta  delli  suoi  travagli  di  Napoli^^^;^., 
dcdendosi  della  fortuna,  che  per  le  discordie  nate  fra  qud  pu^^^ 
stori,  le  habbia  abbisognato  abbandonare  la  patria.  Appres^^^^ 
si  ricorda  della  partita  di  là  del  suo  dolce  Amicleo,  coi  el^^ 
amava  pid  che  la  propria.  Appresso  si  ra  manca  grandemet=:^::;7^ 
che  per  lo  accordo  fatto  fra  Selvaggio  suo  fratello,  el  SOva^^^^ 
ella  habbia  a  lasciar  Lauro  suo  caro  innamorato,  el  fi^Si^mi^ 
Silvano  brutto  vecchio  per  marito. 

SCENA  n. 

Glori,  Clitia,  Testfle. 

Questa  dopo  varii  discorsi,  dice  di  non  volere  a  patto  a/- 
cuno  tuor  per  marito  Selvaggio  suo  innamorato,  accioché  Oitk 
cui  ella  molto  amava,  non  havesse  questo  gran  dispiacere,  et 
questo  affanno  di  esser  moglie  di  Silvano.  Qitia  la  rìngntk: 
et  TestUe  la  loda  di  questa  sua  cortesia. 


MISCELLANEA  209 

SCENA   lU. 

Selvaggio,  Clitia,  Glori,  Testile. 

Si  rallegra  con  se  medesimo  dello  accordo  fatto  eoo  Sil- 
vano :  parendoli  un'  bora  mille  che  egli  possa  godere  la  sua 
Qori.  Qitia  vedutolo,  temendo  non  li  replicasse  detto  accordo, 
dette  alcune  parole  sopra  ciò,  destramente  si  parte,  resta  Sel- 
vaggio con  Clorì  et  Testile:  et  la  pr^a  a  oi)erar  coM  padre 
che  il  patto  fatto  fra  loro  habbia  luogo.  Ella  dice  non  esser 
mai  per  consentire  di  accettarlo  per  sposo,  se  egli  all'  incontro 
non  da  sua  sorella  Clitia  a  Lauro  suo  fratello.  Dapoi  ella  con 
la  sua  compagna  si  parte. 

SCENA  un. 

Selvaggio,  Brusco. 

Egli  si  trova  colmo  d' affanni,  et  d'amorosa  passione,  per 
le  parole  intese  da  Glori,  onde  si  duole,  et  si  lamenta,  etc. 

SCENA   V. 

Brusco,  Selvaggio. 

Arriva  costui  a  cavallo  d'un  montone,  cantando  sue  frot- 
tole, et  non  credendo  esser  veduto  dal  patrone,  fa,  et  dice  delle 
buffonerie  da  ridere.  Selvaggio  che  era  fieramente  addolorato, 
di  stizza  li  fa  una  buona  schiavina  di  pugni,  etc. 

SCENA  VL 

Lauro,  Selvaggio,  Brusco. 

Costui  si  lamenta  di  Selvaggio,  dello  accordio  fatto  con 
Silvano  suo  padre,  circa  il  barrato  di  Clitia,  et  di  Cleri,  final- 
mente dopo  molti  contrasti,  rimangono  in  compositione  insieme, 
che  Lauro  abbia  Gitia,  et  Selvagio  Clorì.   poi  si  partono,  per 

Voi.  IV,  Parte  11  U 


210  MISCBLLANSA 

andare  a  trovar  delli  compagni,  per  ordinare  la  caccia  :  e(  b- 
sciano  qui  Brusco,  che  tenda  le  reti,  etc 

SCENA  vn. 
Brusco. 


—  1 


Per  dispetto  delle  busse  datdi  da  Selvaggio,  minaccia  di 
voler  scoprire  a  Silvano  ciò  che  Lauro  e  Selvaggio  hanno  con- 
cluso sopra  le  sorelle  loro.  Intanto  aggiungendo  la   turba  de*  ^t 
cacciatori,  egli  si  va  con  dio. 

Dapoi  segue  una  bellissima  caccia,  tolta  da  lo  Hippolito  di  j  j 

Seneca  :  dall*Atteone  d' Ovidio  :  dalla  caccia  del  Card.   Hadriano  : 
et  da  Gratio  de  Venatione. 

SCENA  YIII. 

SilYano ,  Brusco. . 


i 


Udita  la  cosa  da  Brusco,  sale  in  una  colera  grande: 
delibera  di  nascondere  la  figliuola,  acciò  che  Lauro  non  ha 
bia  il  suo  intento  :  come  ascose  già  Amata   I^vìnia,  per 
la  dare  ad  Enea.  Onde  egli  si  parte  con  Brusco  per  andare 
far  detto  effetto,  eie. 

ATTO  QUINTO. 

SCENA   I. 

Selvaggio. 

Mostra  costui  qualmente  Silvano  in   sua  presenza,  hav^^^va 
pigliato  Glori  per  i  capelli,  per  menarla  a   nascondere.   meK~:ifre 
che  egli  le  appresentava  il   capo  del  cinghiale,  onde   sfor^^Bto 
dall'amorosa  passione,  si  era  deliberato  mancar  di  fede  a  La  Mjro, 
et  compiacere  esso  Silvano,   mandando  ad  effetto  lo  accoit/^) 
prima  fatto  fra  loro.  Et  hoggi  si   havevano  a  far  le  nozze  /  ef 
et  che  Silvano  era  andato  a  mettersi  in  ordine  etc. 


ei 


a 


MISCELLANEA  211 

SCENA  IL       . 

Corìdone,  Selvaggio. 

Interna  Selvaggio  come  passata  sia  la  cosa  tra  Silvano  e 
ilori.  il  che  da  lui  narrato  brevemente,  lo  prega  a  venir  con 
sso  lui,  per  placare  et  indure  Clitia,  a  contentarsi  di  pigliar 
silvano  per  marito  :  affinché,  non  possendo  egli  con  altro  mezo 
•ttener  la  sua  bramata  Glori ,  d'  affanno  e  di  cordoglio  non 
nuoia.  etc 

SCENA  III. 

Silvano,  Gorgo. 

Gommanda  a  Gorgo  che  accolga  de*  fiori  dell'  herbe,  frondi 
etc  et  egli  accostatosi  con  una  ronchetta  ad  un'albero,  per  ta- 
gliar delle  frondi;  sente  con  strepito  tremar  la  terra  d' intorno: 
et  uscirne  una  voce. 

SCENA  im. 

Eudora  Driade ,  Silvano ,  Gorgo. 

Questa  succintamente  discuopre  tutto  il  successo  della  cosa  : 
narrando  come  per  volontà  de  i  Dei  è  necessario  che  di  questi 
maritaggi  ne  segua  quello  appunto,  che  era  prima  stato  ordi- 
nato tra  loro  a  Napoli.  Silvano  ringratia  la  Dea:  et  deponendo 
l*amor  di  Clitia,  si  dispone  a  operare,  che  succeda  quello,  che 
prima  da  lui  era  stato  designato,  etc. 

SCENA  T. 

Lauro,  Glori. 

Ambedue  si  disperano:  Tuno  di  non  potere  haver  la  sua 
Glitia.  Taltra  di  non  saper  in  che  modo  con  suo  onore  et  com- 
inodo  sodisfare  al  padre:  si  per  la  promessa  già  fatta  a  Gitia: 


I 

I 
I . 

I 

I 

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l  . 
I 


212  MISCELLANEA 

et  sf  anco,  accìoché  Lauro  suo  fratello  non  havesse  questo  do 
lore,  di  vedere  Qitia  moglìera  di  suo  padre  Silvano.  Per  il  ch< 
disperati,  et  pieni  di  mal  talento,  d'accordo  s' inviano  per  an 
dare  a  precipitarsi  giù  del  monte  Liceo. 

SCENA  TI. 

Silvano,  Lauro,  dori,  Borgo. 

Intesa  la  cagion  del  fastidio,  et  della  querela  di  costoro 
accostatosi  ad  essi,  li  conta  quello  che  intomo  a  ciò  la  Niofi 
Eudora  gli  ha  rivelato.  Et  riduce  la  cosa  a  buon  termine,  coi 
satisfattion  d'ambedue,  etc 

SCENA  VII. 

Selvaggio,  Clitia,  Silvano,  Lauro,  Qori,  Gorgo,  Giordano. 

Menava  costui  la  sorella  l^ata.  et  udita  la  cosa  da  Sil- 
vano, rapacificati  insieme,  si  congratulano,  et  si  abbraociaix 
r  uno  et  Taltro,  riconoscendosi  tutti  quanti.  Mandano  Gorgo  i 
chiamar  Giordano,  sacerdote  di  Pane:  il  qual  venuto,  si  niDe- 
gra  de*  suoi  contenti  con  esso  loro  :  et  fanno  un  bel  sacrificio 
con  le  precationi  per  la  posterità  che  ha  da  nascer  da  essi  etc 
Da  poi  si  partono  allori  et  giubilanti,  per  andare  a  casa  d 
Silvano,  a  celebrare  le  due  paia  di  nozze. 


Il  Fine. 


rU 


I  DISTICI  SULLA  NATURA  DELLE  FRUTTA 


Oltre  ai  bestiari,  ai  lapidari  e  agli  erbari,  chi  vorrà 
studiare  le  varie  proprietà  e  significati  che  il  Medioevo 
attribuiva  alle  opere  della  natura,  dovrà  anche  conside- 
rare quanto  in  quel  tempo  si  è  scritto  delle  frutta;  le 
quali,  pur  occupando  in  quella  grande  famiglia  dì  scrit- 
ture l'ultimo  posto,  non  meriterebbero  di  essere  trascu- 
rate. Pochi  sono  i  versi  italiani  medioevali,  che  trat- 
tano delle  frutta  ;  ma ,  tra  questi ,  i  distici  che  seguono 
ebbero  certo  una  grande  diffusione,  perché  essi  giun- 
sero a  noi  in  redazioni  affatto  diverse  e  che  mostrano 
assai  bene  la  popolarità  di  questo  componimento  e  il  la- 
vorio della  tradizione  nell'  aggiungere  alcune  parti  e  nel 
toglierne  altre,  fondendo  o  confondendo  il  rimanente. 

Il  dott.  F.  Pellegrini  pubblicò  or  non  è  molto  (1)  i 
distici  sulla  natura  delle  frutta,  servendosi  di  un  codice 
Bolognese  e  di  un  Viennese  ;  nei  quali,  se  la  disposizione 
delle  strofe  è  differente ,  uniforme  tuttavia  è  la  lezione. 
Io  ho  trovato  invece  questi  versi  in  un  codice  Padovano, 
ove  non  solo  il  numero  e  V  ordine  delle  strofe ,  ma ,  ciò 
che  importa  più,  il  testo  stesso  differisce  in  gran  parte 
da  quello  pubblicato  dal  Pellegrini.  Reputando  che  que- 
sta nuova  redazione  non  debba  riuscire  del  tutto  inutile 
a  chi  voglia  indagare  il  concetto  medioevale  sulla  natura 
delle  frutta,  ho  creduto  bene  di  pubblicarla  nella  sua 
interezza. 

(1)  Giornale  storico  della  kit  il,,  voi.  XVl,  pp.  ail-352. 


214  MISCELLANEA 

Si  trova  essa  a  carte  53/-54.*  del  codice  550  dell 
Comanale  di  Padova,  di  provenienza  dalla  famiglia  de'  La: 
zara,  scrìtto  sulla  metà  del  sec.  XY  da  Andrea  Vittari(l 
Non  porta  in  fronte  alcuna  didascalia,  e  tanto  meno 
Vittori  accennò  onde  la  prese  :  tuttavia  essa  è  tanto  di 
versa  da  quella  edita  dal  Pellegrini,  da  fornire  una  prò? 
certa  della  grande  antichità  di  questo  testo,  il  quale  b 
dovuto  percorrere  un  ben  lungo  cammino  prima  dì  ri 
cevere  questa  nuova  veste  anche  più  disadorna  della  prece 
dente  pei  frequenti  errori  e  per  le  oscurità,  che  io  non  hi 
creduto  opportuno  di  emendare  (2),  sebbene  talvolta,  coi 
r  aiuto  dei  codici  di  Bologna  e  di  Vienna,  non  mi  sarebbi 
stato  diflScile  il  farlo.  Questa  nostra  redazione  ha  tre  stro 
fette  in  meno  di  quella  del  Pellegrini:  mancano  cioè 
distici  deUa  mela^  del  dattero,  della  prugna  e  dell' tira 
ed  ha  in  più  quelli  della  mora;  né  sono  certo  (tanto  k 
lezioni  sono  differenti)  se  la  nostra  strofetta  del  citrm 
corrisponda  a  quella  del  c^ro. 

Il  colorito  dialettale  veneto  è  anche  più  spiccato  io 
questa  nostra  lezione  che  non  nella  edita  dal  Pellegrioi. 
Altri  più  minuti  confronti  potrà  fare  chi  vorrà  di  proposito 
j  occuparsi  di  questa  materia  :  io,  per  lo  scopo  che  mi  sono 

,  prefisso,  credo  di  aver  detto  quanto  basta. 


A.  Medln 


il 


(i)  Dì  questo  VitUirì  e  di  allri  codici  da  lui  scrìtti  daK>  ootiiie  tra 
uoQ  oìolto.  Dell* avrertenza  ad  un  lunghissimo,  antico  e  curìoso  Ottlo 
della  Yfiyine^  che  egli  ci  ha  tramandato  e  che  io  puhbUcherò. 

{±ì  Nel  pubblicare  questo  testo  consenrai  b  grafia  del  ms.,  logilendo 
soltanto  le  h  inutili.  I  numerì  arabi,  posti  nel  testo  fra  parentesi  di  fianca 
ai  rumanù  sì  rìferìscooo  ali*  online  che  hanno  le  strofe  nella  redazione 
edita  dal  Peflesgriiiì. 


MISCELLANEA  215 

/.  (6)    Nespolla  io  sod,  nemica  dei  ribaldi, 

che  mal  me  tuoll  per  i  Uopi  calldi; 
alora  me  tuoi  quando  fredo  me  toca: 
calda  son  certa  e  dollze  a  la  boca, 

II.         (18)    E  son  sorbolla  bona,  verde  e  seca; 

chi  me  onfende  serba  zia  non  peca: 

comuna  son  al  suo  fino  secorsso 

a  strenzer  el  corpo  a  chi  à  tropo  discorso. 

'W-  (1)    Nato  in  paradiso  son  el  figo: 

a  zente  umana  io  son  perfeto  amigo; 
onde  ve  chiamo  dolze  el  mio  dileto, 
che  de  dolzeza  paso  ogni  confeto. 

^^-  (11)    Qibo  son  groso  chiamato  castagnia, 

molto  notrico  a  zente  de  montagnia: 

sana  son  per  le  zente  sane; 

inn  ogni  modo  cota  mior  in  pane. 

y 

(15)    E  son  dilitoso  zizolino, 

comun  e  con  dileto  tanto  fino, 
che  desiderato  son  d' ogni  signiore 
per  la  vertù  del  mio  zentil  sapore. 

Vj 

•  (2)    E  io  son  pero,  preso  con  rasone, 

che  don'  conforto  alla  distigione, 

però  che  Ila  persona  sazia  e  dota 

me  manza  crua,  ma  mior  son  cota. 

E  son  mora,  che  per  nome  sisone, 
e  fazio  uno  vino  eh'  à  nome  dio  amorone, 
Io  qual  son  fredo  e  à  vertù  perfeta 
in  contra  el  morbo  ch'à  la  cola  streta. 

"•-  ^  J.  (20)    E  son  armelino  fredo  e  fre[s]ca, 

quasi  de  natura  de  persica: 
da  mie  a  lie  molto  poco  s' afalla, 
la  persica  son  bianca  e  io  dentro  son  zaia. 


r 


216  MISCELLANEA 

IX.  (19)    Persico  son,  frodo  più  eoa  neve; 

senzia  boa  vine  a  manzar  son  grieve: 
chi  torà  la  nuzella  del  mio  dentro, 
calda  se  troverà  l' anima  dentro. 

X.  (8)    Calda  son  nose,  che  de  mi  se  rasona  ; 

che  poi  el  pese  io  son  sana  e  bona: 
de  mi  se  puoi  far  ajo,  e  son  usata 
inn  un  saper  lo  qual  se  chiama  ajata. 

XI.  (7)    Mandolla  son,  che  de  [mi]  son  fate 

vìande  asai  con  bianchisimo  late: 
calda  son  certa,  e  mollto  volentieri 
me  tien  in  botteca  i  boni  spizierì. 

XII.  (9)    E  son  nuzella  bona  e  fresca: 

chi  me  onfende  cierba  zia  non  peca; 
el  mio  saper  si  è  chiamato  fino; 
trovata  son  dove  se  vende  el  bon  vino. 

XIII.  (14)    Naranzia  son,  che  d*ogni  tenpo  è  verde: 

fior  e  fruto  zamai  mi  non  perde; 
fuzito  e  son;  e  vojo  che  zascadun  el  sazia, 
io  son  bon  naranzo  con  vernaza. 

XIV.  (13?)    E  son  zolrom,  che  dentro  e  di  fuori 
j{]  e  ò  de  moliti  boni  saporì: 

preso  in  confeto  e  coto  con  misura 
aconforta  la  debelle  natura. 


■ 

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XV.  (10)    Qibo  son  groso,  e  'I  mio  nom'è  pignia: 

inn  el  confeto  la  mia  sustanzia  è  Gna; 
quela  confezion  si  vien  'pelata 
dai  spezierì  Gna  pigniocata. 

XVI.  (16)    Zeriese  son,  che  per  nome  sisone, 

e  son  asai  bella  frisca  e  bona: 

tuo'  r  oso  dentro  e  tute  F  altro  caza  ; 

più  savio  tegnio  chi  de  mi  non  manza. 


MISCELLANEA  217 

n. (12)    Pome  ingranate  se  chiama  el  mio  nome: 
a  zente  calde  e  son  veraze  pome; 
la  sede  poco  contra  mi  s' apara; 
el  spizier,  s' el  poli,  la  vende  cara. 

[II  (3)    E  son  codognio,  e  con  i  altri  me  scrivo: 
inn  ogni  modo  son  restrenzativo , 
preso  in  confeto  e  con  miei  sia  manzati, 
poco  s' abati  del  mio  fredo  costati. 


Finis. 


ERRATA-CORRIGE 

Si  vegga  Part.  Curzio  Gonzaga  rimatore  del  secolo  XVI  in  questo 
periodico,  voi.  IV,  fase.  19-20  (pagg.  125-162)  e  21   (pagg.  349-386). 


F^.  129  riga  U  invece  di  MDLUI  leggasi  MDLIIII 

la  nota  2  deve  andare  nella  pag.  21  di  seguito  alla  nota  1 


1    144  la  noia  z 
»    147  riga  32  in 

»    350  1 

»    19 

»    353  1 

^   22 

»    355  1 

»    10 

»    355  1 

1    34 

»   365  ] 

>    35 

»    366  1 

►    19 

•    366  1 

»    23 

»   366  1 

►    32 

1    368  1 

►    27 

»   373  1 

►     3 

»    374  1 

^     1 

•    374   1 

»      1 

•    374  1 

»     6 

»    382   1 

1     6 

ece  di  Garamante                leggasi  Garamanto 

ita                                  1 

»      /a 

»     »  serve,  naturalmente        i 

»      serve  naturalmente 

t     ^  dal                               1 

»      (^ 

»      »  iudubitabile                   i 

»      indubitabile 

»      »  somigliano                    i 

>      somigliano. 

»      »  rommen/t                       i 

»      rammentino 

*      1^  dal                               : 

»      cte/ 

»     »  Ctff/to                          1 

»       Curato 

»      •  nella,                            i 

»      nella 

1        i  giMNJ                                         ] 

»      gtioe 

1     >  /tttor^                          1 

►      /alore< 

»     »  isiitutores                      i 

»      tt/t  /titore« 

1     >  vicecancellortum            i 

»      vicecancellarium 

1      »  dtcf                              ] 

»      dtece 

Avverto  per  iscrupolo,  che  in  alcuni  de'  brani  di  documento  inseriti 
entro  il  testo  del  lavoro  ho  scrìtto  qualche  parola  abbreviata  com*  é 
nell'originale,  mentre  poi  nell'appendice  la  scrissi  per  intero.  Si  attri- 
buisca questa  dilTerenza  a  una  semplice  svista. 


A.  Belloni 


LIMITAZIONE  CLASSICA  NELL^  ORLANDO  FURIOSO 


I 


Quanto  abbiano  giovato  ai  progresso,  allo  sviluppo 
e  alio  incremento  della  volgar  lingua  e  della  volgar  let* 
teratura  gli  studi  classici  e  l'erudizione  del  quattrocento, 
potrà  facilmente  persuadersi  chi  consideri  che  se  Y  uma- 
nesimo per  sé  stesso  rappresenta,  specialmente  in  certi 
suoi  stadi  e  momenti,  un  periodo  d'aridità  e  d'interru- 
zione nella  produzione  letteraria  italiana,  può  anche  con- 
siderarsi come  un  periodo  di  feconda  preparazione  e, 
diremo  cosi,  di  assimilazione,  inquantoché  buona  parte 
appunto  della  coltura  e  della  letteratura  classica  greco - 
'omana,  digerita  —  mi  si  permetta  di  continuar  nella  me- 
afora  —  e  assimilata  nel  sec.  XV,  trapassò  nel  cinque - 
ento  a  informar  le  nuove  produzioni  volgari. 

La  nuova  letteratura  rimasta  per  un  istante  soffocata 
[allo  immane  pondo  degli  studi  classici  ed  eruditi,  risorse 
»iù  che  mai  fulgida  e  bella  nel  cinquecento;  più  fulgida 
I  più  bella  di  prima,  perché  la  materia  e  le  forme  delle 
Massiche  letterature  venivano  ora  in  essa  trasfuse,  e,  rav- 
vivate nella  letteratura  popolare  assunta  dai  dotti,  splen- 
ievano  di  luce  propria;  e  appunto  perché  la  letteratura 
volgare  e  popolare  passò  dal  popolo  ai  dotti,  essi,  senza 

Voi.  IV,  Parte  II.  15 


222  CORRADO  ZACCHETTI 

guastarne  la  modesta  bellezza ,  la  ricevettero  come  una 
timida  fanciulla  dalle  mani  del  popolo,  e  adomandoia di 
tutta  la  classica  venustà,  la  resero  formosa  matrona.  Que- 
sto fatto,  che  si  esplicò  in  tutti  i  generi  letterari,  é  più  che 
mai  manifesto  neir  epopea  romanzesca  ;  la  quale  di  rozza 
e  popolare,  divenne  anch'  essa,  nel  sec.  XVI  un  genere 
classico  e  trovò  il  suo  pieno  e  completo  sviluppo;  tanto 
vero  che  dopo  V  Ariosto ,  il  quale  per  entro  le  vene  le 
trasfuse  tutto  il  benefico  succo  de'  suoi  classici  studi,  e 
dopo  il  Tasso,  che  la  rese  classica  addirittura,  non  trovò 
chi  degnamente  la  trattasse. 

II. 

Allorché,  dopo  la  lettura  che  del  Furioso  l'Ariosto 
veniva  facendo  alla  corte  di  Ferrara,  il  cardinal  d'Este 
gli  chiedeva  donde  mai  avesse  scavate  tante  corbellerie, 
egli  non  sapeva  certo,  che  molte,  le  migliori  forse  di 
quelle  divine  corbellerie,  il  poeta  l' aveva  tratte  dall'aurea 
fonte  della  classica  antichità  greco-romana.  Quantunque 
non  fosse  molto  grande  il  numero  degli  autori  che  l'A- 
riosto aveva  conosciuto,  pure  ci  assicura  il  figlio  suo  Vir- 
ginio nei  ricordi  del  padre  (1),  che  lesse  e  cercò  a  fondo 
i  migliori  :  aveva  una  singoiar  predilezione,  oltre  che  per 
Omero,  per  Vergilio,  Tibullo,  Catullo,  e,  in  ispecial  modo, 
Orazio  (2).  Di  tutti  questi  scrittori  e  di  molti  altri  ancora, 

(1)  «  Non  fu  molto  studioso,  e  pochi  libri  cercava  di  vedere». 0 
IUrotti,  Vita  di  Ludovico  Ariosto  e  dichiarazioni^  ecc,  Feri'ara,  Stam- 
peria Camerale,  1773,  pag.  55).  A  noi  pare   che   quel  molto  atudm 
debba  riferirsi  alla  quantità  dei  libri  studiati,  non  alla  intensità  ado[H)- 
rata  nello  studiarli,  giacché  dalla  nostra  ricerca  apparirà  chiaro  quanto 
profondamente  T  Ariosto  conoscesse  i  principali  autori  classici. 

(2)  «  Gli  piaceva  Virgilio ,  Tibullo  nel  suo  dire Grandemente 

commendava  Orazio  e  Catullo,  ma  non  molto  Properzio.  (Rie.  ciL  in  B.\- 
ROTTI,  Op.  cit.). 


l'imitazione  classica  nell* orlando  furioso       223 

vi  sono  evidentissime  traccie  neli' Orlando  Furioso:  epi- 
sodi tolti  e  adattati  alle  circostanze,  versi  ed  immagini 
tradotte,  similitudini  ricopiate,  personaggi  riprodotti.  Co- 
nobbe anche  specialmente,  ed  imitò.  Stazio,  Lucano,  Apu- 
leio, e,  sempre  secondo  l' afTermazione  di  Virginio,  molto 
gli  piaceva  e  molto  leggeva  il  poema  sugli  Argonauti,  di 
cai  non  pochi   luoghi  sono  imitati  nell'  Orlando.  Della 
classicità  adunque,  non  aveva  egli  una  interissima  cono- 
scenza, ma  sentiva  per  essa  —  era  questo  un  frutto  non 
solamente  del  suo  retto  ingegno,  ma   del  secolo  in  cui 
visse  e  dell'  educazione  ricevuta  —  una  stragrande  am- 
mirazione, e  la  parte  da   lui  conosciuta,  era  conosciuta 
profondamente,  senza  incertezze  e  senza  lacune;  il  che 
non  paia  piccola  lode,  considerando  anche  che  Ludovico 
aveva  sprecati  cinque  anni  nell'  arido  e  per  lui  infruttuoso 
studio  delle  leggi ,  e  che  fino  all'  età  di  vent'  anni  ben 
poco  s'era  occupato  di  studi  classici. 

Intorno  a'  quali,  l' autore  stesso  ci  dà  notizie  abba- 
stanza precise;  giacché  nella  satira  VII,  indirizzata  al 
Bembo,  a  cui  raccomanda  il  figlio  Virginio  che  inviava 
allo  studio  di  Padova,  come  si  rileva  anche  da  una  com- 
mendatizia al  Bembo  stesso  (1)  —  commendatizia  di  cui 
la  satira  non  è  che  un'  amplificazione  —  accenna,  lamen- 
tandosene, agli  ostacoli  che  si  frapposero  quale  insormon- 
tabile barriera,  negli  anni  della  sua  prima  giovinezza,  alle 
sue  inclinazioni  artistiche  e  letterarie,  e  al  modo  con  cui 
vennesi  formando  la  propria  coltura  (2). 

Fino  all'età  di  vent' anni,  dicevamo,  lo  studio  degli 
autori  classici  non  occupò  certamente  il  miglior  tempo 


(1)  Opere  di  Ludovico  Ariosto,  Trieste,  1857,  voi.  3.°,  pag.  72. 

(2)  V.  Carducci,  Delle  poesie  latine  edite  ed  inedite  di  Ludovico 
Ariosto,  Bologna,  Zanichelli,  1886.  Capitolo  IV. 


224  CORRADO  ZACCHETTI 

del  poeta,  il  quale,  del  resto  con  tinte  troppo  caricate, 
lamenta  la  sua  ignoranza  in  qaeir  età  : 

4c  Passar  vent'  anni  io  mi  trovavo  e  duopo 
Aver  di  pedagogo,  che  a  fatica 
Inteso  avrei  quel  che  tradusse  Esopo  »  (1). 

Ch'egli  non  intendesse  Fedro?  via,  è  un  po' troppo;  è 
un  eccesso  di  modestia,  una  licenza  poetica.  Noi,  senza 
prendere  alla  lettera  questa  sua  afTermazione ,  possiamo 
credere  col  Carducci  che  il  suo  maestro  di  rettorica,  - 
chiunque  egli  sia  stato,  o  il  Ripa,  o  il  Barbuleio,  o  altri 
che  non  è  chiaro  — ,  e  se  non  dette  a  Ludovico  una 
vera  instituzione  letteraria ,  gli  apprese  a  ogni  modo  no 
certo  uso  del  latino;  perché  a  quindici  anni  appena,  Lo- 
dovico, 0  per  amore  o  per  forza,  si  diede  allo  stadio 
delle  leggi  eh'  era  tutto  cosa  latina  »  (2).  E  quanto  si 
duole  il  poeta  di  questa  sua  sorte!  Erano  gli  anni  mi- 
gliori, gli  anni  in  cui  la  mente  si  vien  formando  ed  in- 
formando agli  studi  da  cui  è  nutrita,  ed  egli  doveva  spre- 
carli e  a  volger  testi  e  chiese  >!  (3)  Consumati  cinqne 
anni  in  quelle  «  dande  »  (4),  il  padre  Io  lasciò  alle  sue 
inclinazioni,  e  fu  allora  che  la  fortuna  gli  offerse  \  insi- 
gne Gregorio  da  Spoleto  (5),  che  già  vecchio  era  venuto 
alla  corte  degli  Estensi  (C).  Che  splendida  fioritura  aves- 
sero avuto  gli  studi  classici  in  Ferrara,  dimostrò  ampia- 
mente il  Carducci  (7):  «  Quando  Ludovico  Ariosto  toc- 

(1)  Salirà  VII,  v.  l(i;i 

(2)  Op.  ciL,  pag.  67. 

(3)  Satira  VII,  v.  158. 
(i)  Id.  id.,  V.  151). 
(5)  Id.  id.,  V.  1G7. 

((>)  Carducxi,  op.  cil.,  paj:.  70.  —  Su  Gregorio  vedi  .modi'  Ha- 
nuFFALDi,  op.  cit.,  pag.  8:2  o  seg. 

(7)  Cahducci,  op.  cit.  Vedi  tutto  il  cap.  III. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       225 

iva  i  ventanni,  la  primavera  dei  rinascimento  classico, 
sminata  da  Leonello  Estense  e  da  Guarino  Veronese,  era 
Ferrara  nella  sua  più  lussureggiante  vegetazione,  e 
ebriava  de*  suoi  colori  e  de' suoi  profumi  gli  animi  di 
Itti:  tutti  amavano,  odiavano,  peccavano,  sognavano  in 
tino  >  (1).  Francesco  e  Malatesta  Àrìosti,  Battista  Gua- 
ni, Lodovico  Carbone,  Ludovico  Pittori,  Tito  Vespasiano 
trozzi  ed  altri  ancora  (2),  o  aveano  tenuto  cattedra 
'  eloquenza  nell'  Ateneo  ferrarese,  o  della  loro  musa  la- 
na avevano  allietato  la  nobile  corte.  Successore  di  cosi 
lustri  uomini  ed  erede  di  tanta  gloria,  Gregorio  da  Spo- 
eto né  fu  inferiore  ai  primi,  né  ebbe  minore  la  seconda, 
'ormò  egli  degli  scolari  che  avrebbero  fatta  invidia  al 
laestro,  e  primo  il  nostro  Ludovico;  il  quale,  con  me- 
aviglioso  progresso,  a  venticinque  anni  poetava  latina- 
lente,  e  con  stringatezza  non  rude,  e  trattando  i  metri 
iù  difficili.  Non  solo  adunque,  prima  di  coltivare  l'ita- 
ana  poesia,  il  nostro  poeta  ebbe  una  profonda  cono- 
cenza  della  miglior  parte  del  parnaso  latino,  ma  egli 
tesso  vi  colse  allori  immortali,  in  un  tempo  in  cui  tutti, 
al  più  al  meno,  i  letterati ,  cercavano  d'  agguantare  pel 
ioffo  le  latine  camene.  E  di  quanta  utilità  fosse  a  lui, 
oeta  italiano,  V  essersi  esercitato  nella  poesia  latina,  os- 
3rvò  già  acutamente  il  Carducci:  «  Lo  studio  e  l'uso 
ella  poesia  latina,  egli  dice,  disciplinò  e  addestrò  l'Ario- 
to,  ridondante,  prosaico  e  rozzo  nei  primi  tentativi  di 
erso  italiano,  a  quella  concinnità  graziosa  nel  libero  an- 
[amento,  a  quella  eleganza  nella  copia,  che  manca  ad 
litri  poeti  italiani  pur  insigni,  ed  è  virtù  singolarissima 
ma  »  (3).  Peccato  eh'  egli  non  possedesse  come  il  latino. 


(i)  Carducci,  op.  cit,  pag.  19. 

(2)  GARDUca,  op.  cit.,  cap.  cit. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  i7i. 


226  CORRADO  ZAOCHETTl 

aDcbe  il  greco  :  il  poeta  stesso  deplora  vivamente  le  cir- 
costanze che  glielo  impedirono: 

«  Non  vuol  la  mia  pigrizia  o  la  mia  sorte 
Che  del  tempio  d'Apollo  io  gli  (1)  apra  in  Delo 
Come  gli  fei  del  Palatin,  le  porte  »  (2). 

Della  letteratura  greca  egli  conosceva  quindi  qael  tanto 
solo  che  poteva  col  tramite  o  della  tradizione  orale,  o 
delle  traduzioni  latine;  e  solamente  appunto  di  qaelle 
opere  greche  che  sono  state  traslatate  in  latino  vi  è  trac- 
cia, nel  Furioso,  d' imitazione.  Tali  adunque  essendo  stati 
gli  studi  dell'  Ariosto  e  tale  la  sua  cultura ,  non  sarà  da 
meravigliarsi  se  nell'  Orlando  Furioso,  eh'  è  l' opera  nella 
quale  il  poeta  pose  tutto  sé  stesso,  l'imitazione  classica 
occupa  un  posto  tanto  importante.  In  nessun' altra  ita- 
liana scrittura,  come  nel  Furioso,  appaiono  tante  traccie 
di  classica  coltura,  da  nessun'  altra  appare  meglio  il  pos- 
sesso pieno  e  completo  della  lìngua  latina ,  dalla  quale 
r  Ariosto  seppe  trarre,  con  arte  mirabile,  un  tesoro  ine- 
sauribile di  schiette  e  vive  locazioni  e  modi  di  dire.  In 
tal  modo  con  l'Ariosto  il  poema  romanzesco  si  sto 
di  raggiungere  le  cime  dell'Epopea  (3);  frutto  questo, 
come  Siam  venuti  Qn  qui  dicendo,  dell' umanesimo,  il 
quale  pare  aver  avuto  rufDcio  di  classicizzare,  mi  si  passi 
la  parola,  la  letteratura  italiana. 


(1)  Al  figlio  Virginio. 

(2)  Satira  VII,  v.  151. 

(3)  Non  voglio  (lare  per  mia  un'osservazione  che  e  siala  già  falla 
da  alcuni  tra  i  nostri  migliori  critici;  come  il  Rajnà  (Le  fonti  dell'Or- 
lando Furioso,  -  che  avremo  occasione  di  citare  più  volle  -;  Firenze, 
Sansoni,  1876,  pag.  126,  160,  163,  225  o  altrove),  e  il  Mazzoni  (7'^« 
Libri  e  Carte,  Roma,  1887;  nello  scritto:  Della  Gerusalemme  Liberata', 
pag.  39). 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       227 


III. 


La  prima  domanda  che  s' affaccia  alla  mento  di  chi 
tratti  r  argomento  dell'  imitazione  classica  nell*  Orlando 
Farìoso,  è  con  quale  concetto  abbia  il  poeta  cosi  stu- 
diosamente imitato  gli  scrittori  dell'  antichità ,  e  quali  li- 
miti, generalmente  parlando,  abbia  questa  imitazione. 

Da  quanto  slam  venuti  fin  qui  esponendo,  apparisce 
chiaro  che  la  natura  e  gli  studi  dell'Ariosto  lo  traevano 
irresistibilmente  verso  il  mondo  classico:  è  quindi  natu- 
rale, come  dicevamo  nel  precedente  capitolo,  eh'  egli  cer- 
casse, entro  i  confini  permessigli  dal  genere  e  dagli  ar- 
gomenti che  trattava,  di  riavvicinare  più  che  fosse  pos- 
sibile il  poema  romanzesco ,  eh'  egli  trovava   adulto  già 
coir  Orlando  Innamorato,  ma,  sempre,  solo  e  semplice- 
mente romanzesco,  a  forma  ed  andamento  più  regolare, 
più  classico  che  fosse  possibile.  Questo  riguardo  alla  ma- 
teria :  riguardo  alla  forma,  la  cosa  gli  veniva  più  naturale 
e  quasi  di  per  sé.  Egli  tutto  imbevuto  di  classicità  e  ado- 
ratore dei  classici  e  scrittore  egli  stesso  d' eleganti  poesie 
latine,  come  non  avrebbe  trasfusa  una  forma  classica  al- 
l' opera  del  suo  ingegno?  È  questa,  della  forma,  la  parte 
dell'imitazione  classica  quasi  affatto  spontanea  (ì) :  l'imi- 
tazione della  materia,  io  la  credo  più  voluta,  più  pensata, 
fatta  con  veri  e  propri  intendimenti  classici. 

Questi  intendimenti,  soggettivamente  coscienti,  io  non 
ritrovo  ne' suoi  predecessori;  per  venire  ai  quali  e  tor- 
nar quindi  all'Ariosto,  mi  sia  permesso  fare  un  breve 
passo  indietro. 

(1)  Quando  dico  imitazione  spontanea,  voglio  dire  imitazione  indiretta, 
riguardo  alla  formr.;  giacché  quando  T  Ariosto  imita  qualche  passo  di 
Virgilio  e  di  Catullo  o  d'altri  direttamente,  riesce  spesso  inferiore  ad 
essi  ;  appunto  perché  V  imitazione  diretta  esclude  la  buona  assimilazione. 


228  CORRADO  ZAOCHETTI 

Come  il  principio  della  lirica  italiana  era  stato  pro- 
venzale, cosi  il  principio  dell'epopea  fu  francese  (l);e 
se  si  può  dire  che  la  lingua  ef  oc  fu  la  madre  della  no- 
stra lirica,  a  più  forte  ragione  si  può  affermare  che  b 
lingua  d' oil  fu  madre  del  romanzo  cavalleresco  italiano, 
cioè  dell'  epica  nostra  ;  e  dissi  a  più  forte  ragione,  perché 
se  la  lirica  nelle  sue  tante  molteplici  trasformazioni  per- 
dette interamente  il  materno  suggello,  V  epica  invece  con- 
servò in  fondo  tutto  il  carattere  che  le  era  stato  impresso 
allorché  primieramente  si  cominciò,  trasportata  di  Fran- 
cia, a  coltivarla  tra  noi,  né  subi  spiegate  influenze  clas- 
siche se  non  coir  Ariosto,  come  andremo  vedendo;  fa 
insomma ,  secondo  il  mio  modesto  parere ,  T  ultimo  no- 
stro genere  letterario  che  subi  l'influenza  dell'umane- 
simo e  si  classicizzò  —  coli'  Ariosto  — ,  diventando  ad- 
dirittura classico  —  col  Tasso.  Il  ciclo  carolingio  e  il 
ciclo  brettone  o  di  Artù,  eh'  erano  —  com'  è  universal- 
mente noto,  i  due  cicli  principali  in  cui  la  poesia  caval- 
leresca francese  si  sbizzarriva,  rimasero  lungamente  se- 
parati in  Italia.  Il  carattere  principale  del  ciclo  caro- 
lingio sono  e  guerre  e  battaglie  e  stragi  e  ribellioni  e 
duelli;  la  nota  predominante  del  ciclo  brettone  le  avven- 
ture nobili  e  disinteressate,  le  cortesie,  l'amore  cieco  e 
fedele  per  la  dama. 

Si  direbbe  che  il  Pulci  abbia  definito  il  ciclo  bret- 
tone nei  due  bellissimi  versi  che  pone  in  bocca  a  Mor- 
gante  : 


(1)  V.  Gaspary,  Storia  della  letL  iU  (trad.  Zingarclli),  Torino, 
1887,  pag.  108.  —  Non  per  nulla  il  Rajna  scrisse  il  bel  libro  Orijj^M 
dell'  epopea  francese,  quasi  naturale  introduzione  allo  studio  dcU' epopea 
nostra. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       229 

«  Noi  andiam  pel  mondo  cavalieri  erranti 
Per  amor  combattendo  e  per  fortuna  >. 

(XIX,  37) 

<  Il  ciclo  brettone,  dice  il  Rajna  (1)  si  propagò  senza 
subire  trasformazioDi  presso  quei  molti  che  sapevano  in- 
tendere i  romanzi  di  Lancillotto,  di  Tristano,  di  Àrtù, 
di  Girone,  nella  loro  favella  originaria,  ed  anche  al  po- 
polo ne  giunse  se  non  altro  l'eco  i^.  Il  ciclo  carolingio 
invece  ebbe  una  diffusione  molto  maggiore,  giacché  Car- 
lomagno  avea  lungamente  occupata  la  mente  e  la  fanta- 
sia degli  italiani,  ed  è  noto  che  egli  diventò  leggendario 
subito  dopo  la  sua  morte. 

La  poesia  cavalleresca  francese,  che  fu  dapprima 
coltivata  neirAlta  Italia,  dove  veniva  diffusa  dai  cantores 
francigenarum,  passò  quindi  alla  Toscana,  dove  ricevette 
la  bella  forma  dell'  ottava  rima  ;  e  se  i  poemi  che  canta- 
vano le  favole  del  ciclo  brettone  andavan  quasi  scompa- 
rendo, quelli  invece  del  ciclo  carolingio  si  moltiplicavano 
prodigiosamente,  senza  però  che  alla  quantità  corrispo- 
desse  la  quaUtd  (2).  A  questo  punto  il  romanzo  caval- 
leresco, cantato  e  diffuso  tra  i  volghi,  fu  assunto  dai  let- 
terati, e  il  Pulci  per  primo  vi  imprese  una  forma  vera- 
mente artistica. 

Questa  rapidissima  scorsa  attraverso  la  storia  del  ro- 
manzo cavalleresco,  ci  era  necessaria  per  giungere  al 
Pulci:  torno  ora  al  concetto  ch'enunciai  di  sopra,  che 
cioè  gl'intenti  classici  che  sono  cosi  manifesti  nell'Ario- 
sto, non  esistono  ne' suoi  predecessori.  E  poiché  non  si 
potrà  negare  che  la  serietà  in  materia  epica  non  sia  l' ul- 
timo dei  classici  elementi,  mi  si  permetta  ora  di  toccare, 
volando,  una  questione  che  ha  un  intimo  legame  col  no- 
stro argomento. 

(i)  Op.  ciL,  pag.  11. 

(2)  Rajna,  op.  cit,  pag.  17. 


230  CORRADO  ZAOCHETTI 

Si  è  più  volte  detto  e  ripetuto  che  l'Ariosto  rice- 
vette dalle  mani  del  Pnlci  e  del  Boiardo  il  romanzo  ca- 
vallaresco  grave  e  serio,  e  ch'egli  lo  ridusse  scherzoso, 
ironico  e  satirico.  Povero  Ariosto  !  dopo  aver  tanto  fati- 
cato per  dare  a'  saoi  eroi  un  belletto  classico,  eccolo  di- 
ventato il  Cervantes  italiano.  Però  T  ultima  autore?ole 
parola  della  critica  gli  ha  reso  in  parte  e  giustizia;  e  il 
Rajna  anch'egli  si  sdegna  e ....  perché  si  commettono  strane 
esagerazioni  ed  abusi  a  proposito  di  questa  benedetta 
ironia.  Chi  ne  fa  addirittura  la  nota  fondamentale  del 
poema  ariostesco,  mi  rassomiglia  un  pochino  a  qael  tale 
che  nello  spettacolo  d'  un  mare  sconfinato  non  mn 
mai  saputo  avvertire  altra  cosa  che  i  pesci  che  tratto 
tratto  si  mostravano  a  fior  d' acqua,  e  a  forza  di  fissarci 
su  r  attenzione  e  la  fantasia  aveva  finito  per  veder  pesci 
su  tutta  quanta  l' immensa  superficie  >  (1).  Che  nn  certo 
sorriso  benevolmente  scherzoso  comparisca  a  volta  a  ?oIta 
neir  Orlando,  non  si  potrebbe  negare  ;  ma  questo  sorriso 
è  tenuissimo:  esso  increspa  a  pena  a  quando  a  qnaodo 
gli  angoli  delle  labbra  di  messer  Ludovico,  né  si  nasconde 
sotto  la  trama  di  tutto  il  poema  come  alcuni  vogliono; 
al  contrario:  quando  questo  sorriso  gli  spunta  quasi  sno 
malgrado  sulle  labbra,  T Ariosto  s'affretta  a  reprimerlo, 
e  a  ripigliare  un  tuono  che  non  di  rado  vorrebbe  essere, 
e  spesso  è,  epico  propriamente.  Nei  punti  più  salienli 
del  suo  racconto,  T  autore  assurge  propriamente  a  una 
grave  maestà. 

Si  vedano  le  descrizioni  delle  guerre  tra  pagani  e 
cristiani  :  tutto  vi  è  come  in  Omero  e  in  Vergilio  :  V  enu- 
merazione delle  forze,  il  nome  e  le  lodi  dei  condottieri. 


(1)  Op.  cil.,  pag.  32.  Mi  pare  che  anche  il  Gaspary  —  sia  dello 
colla  riverenza  dovuta  a  tanto  maestro  —  ecceda  un  pò*  troppo  nel 
determinare  i  limiti  deir  ironia  Ariostesca. 


l'  imitazione  classica  nell'  oblando  furioso       231 

r  interrompere  ad  ogni  tanto  il  racconto  della  mischia 
generale,  per  rivolger  la  mente  a  qualche  singoiar  ten- 
zone ;  il  nominare  gli  eroi  che  cadono  valorosamente  dal- 
l' una  e  dall'  altra  parte  ;  lo  specificare  il  genere  e  il  modo 
della  morte  (V.  ad  esem.  C.  XIV,  C.  XV,  C.  XVI,  C. 
XVII,  ed  in  molti  altri  luoghi).  Il  Tasso  esagerò  anche 
qui  la  tinta  classica,  e  s'abbandonò  ad  enumerazioni  e 
cataloghi  lunghi,  sterili  e  noiosi. 

Mi  si  potrebbe  opporre  che  spesse  volte  nel  mezzo 
di  tali  episodi  appare  la  nota  ridicola  nelle  imprese  so- 
pranaturali  dei  paladini,  che  saltano  fossa  e  muri,  sfondan 
porte,  abbattono  da  soli  centinaia  di  nemici.  Ma  si  con- 
sideri che  anche  in  Omero  e  in  Vergilio,  spesso,  gli  eroi 
principali,  da  soli,  bastano  a  sgominare  interi  eserciti  di 
nemici,  o  a  raffrenare  l'impeto  di  schiere  sopravenìenti. 
E  ciò  appunto  per  il  loro  carattere  d'eroi.  Ora,  anche  i 
paladini  nella  mente  del  popolo  (  e  non  si  dimentichi  che 
r  epopea  ebbe  la  culla  tra  il  popolo  e  per  esso  venne 
ne'  suoi  primordi  cantata  e  scritta  ),  erano  un  poco  più 
d'  uomini,  ed  è  ben  naturale  che  anche  nei  poemi  po- 
steriori ai  popolari,  essi  conservino  il  loro  carattere  eroico 
ed  eminentemente  leggendario.  Modificare  la  tradizione 
sarebbe  stata  una  storpiatura,  ed  è  tanto  contrario  alle 
storpiature,  l'Ariosto!...  Ecco  perché  anche  qui,  come 
altrove,  la  gravità  classica  è  turbata  da  qualche  nota  che 
sembra  eroicomica,  ed  è  tutt'  altro. 

Ed  ora  un'altra  prova  delle  serie  intenzioni  dell'A- 
riosto. Un  punto  che,  volendo,  il  poeta  avrebbe  potuto 
aspergere  di  comico  sale  è  la  narrazione  delle  pazzie 
d' Orlando,  e  queir  episodio  invece  stringe  il  cuore.  Chi 
potrà  mai  dire  d'averne  riso?  chi  ha  riso  alte  pazzie  d'Or- 
lando non  ha  né  cuore  né  sentimento  d' arte  ;  quelle  paz- 
zie potranno  essere  oggetto  di  pianto,  ma  non  di  riso. 
È  r  eroe  idoleggiato  da  tutto  il  medioevo,  è  il  fido  pala- 


232  CORRADO  ZACCHETTI 

dine  del  restaaratore  dell' impero  d' occideDte ,  è 
che  a  Roncisvalle  fece,  quantanqae  iD?aDO,  cosi  magDa- 
nime  prove  di  valore,  è  insomma  il  difensore  della  civile 
cristianità  che  impazzisce  per  le  male  arti  di  una  fem- 
mina: e  in  tutto  l'episodio  non  an  tentativo  dì  spruz- 
zare qualche  tinta  di  ridicolo  su  Orlando. 


Con  che  grado  di  serietà  giunge  all'  Ariosto  il  poema 
cavalleresco  ?  Il  fondo  dell'  epopea  romanzesca ,  quale  ce 
r  avea  tramandato  la  Francia,  era  certamente  grave  e  serio; 
le  chanson  de  gesi,  sono  spessissimo ,  nella  loro  semplice 
maestà,  epiche  e  commoventi  al  sommo  grado.  La  chan- 
son de  Roland,  ad  esempio,  tocca  spesso  le  più  alte  cime 
dell'  epopea  ;  allorché  Orlando  pour  la  trahison  de  Gm 
giunge  presso  a  morte  in  Roncisvalle,  il  racconto  di- 
venta tanto  sublime  nella  sua  schietta  ingenuità,  eh'  io  dod 
credo  abbia  riscontro  nella  letteratura  né  antica  né  mo- 
derna (1). 

Serietà  adunque,  starei  per  dire  inconsciamente  clas- 
sica, ebbe  T  epopea  francese  :  come  si  conservò  questa 
serietà  in  Italia?  C'è  ragione  di  credere,  certamente, che 
i  cantori  popolari  togliessero,  anziché  aggiungere,  parte 
della  gravità  sua  alla  materia  che  trattavano;  inconsape- 
volmente e  fatalmente,  né  e'  è  bisogno  di  dimostrarlo.  Ad 
ogni  modo  la  materia  cavalleresca  non  era  ancora  comica 
0  ridicola:  chi  ad   essa  conferi  una  tinta   più  buffa,  mi 

(1)  Parte  di  questo  episodio  fu  artisticamente  voltato  in  prosa  dal 
Mazzoni  nello  scritto  Epopea  a  pag.  187  deir/w  Biblioteca,  Bologna, 
Zanichelli,  1886.  —  Una  parte  deUa  Chanson  de  Roland,  fu  anche  volia 
in  poesia  ultimamente,  dal  Prof.  Andrea  Moschetti  (//  corno  d'Or- 
lando, Forli,  Bordandini,  1891).  È  un  buon  tentativo,  che  mi  auguro 
veder  proseguito  e  ultimato. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       233 

sembra,  fa  il  Pulci  —  (tornando  a  lai,  che  l'avevamo 
quasi  obliato);  —  il  quale  però,  non  bisogna  per  giu- 
stizia dimenticarlo,  trasse  parte  della  materia  del  Mor- 
gante. da  un  poemetto  popolare,  come  il  Rajna  ebbe  il 
merito  di  scoprire  e  di  dimostrare  (1).  Che  bizzarro  in- 
gegno, quello  del  Pulci!  Comincia  tutti  i  suoi  canti  con 
invocazioni  a  Dìo,  a  Cristo,  alla  Vergine  e  ai  Santi  e  fi- 
nisce col  rìdersela  di  tutti,  col  mettere  in  ridicolo  preti 
6  frati,  dando  in  una  sonora  sghignazzata  nei  punti  più 
gravi,  infischiandosi  d'epica  e  di  religione.  Egli  mi  fa 
r  effetto  di  quei  cotali  eh'  entrano  ad  ogni  istante  in  chieda 
e  appena  ne  sono  usciti  s'  abbandonano ,  sghignazzando, 
al  turpiloquio  e  alla  bestemmia.  E  in  qual  misero  stato 
HDD  ha  egli  ridotto  quel  povero  re  Carlo!  È  vero  che  il 
Karleto  dei  poemi  franco-veneti  non  pecca  di  soverchia 
gravità  ;  è  vero  che  i  poemi  in  ottava  rima  dell'  età  po- 
steriore abbandonano  spesso  la  maestà  di  Carlo  in  balia 
dei  gaglioffi  e  dei  traditori;  è  vero  che  ndV Entrée  de 
Spagne  Carlo  s'abbandona  ad  un  atto  non  troppo  con- 
facente alla  sua  imperiale  maestà  dando  un  sonoro  cef- 
fone a  suo  nipote  Orlando,  che  per  giunta  gli  avea  con- 
quistata una  città  (2);  ma  è  anche  indiscutibile  che  il 
Pulci  ha  ridotto  Carlomagno  in  uno  stato  assolutamente 
compassionevole,  facendone  un  Cariane  al  cui  confronto 
il  suo  discendente  Carlo  il  Grosso  era  un  Salomone.  Lo 
re  Cariane,  nel  Morgante,  è  assolutamente  il  tipo  del  so- 
vrano imbecille,  del  re  travicello)  il  celebre  Gano  della 


(1)  La  materia  del  Morgante,  in  un  ignoto  poema  cavalleresco  del 
sec.  XV.  Nel  Propugnatore,  voL  II,  parte  1.*  (1869).  —  Vedasi  anche, 
sul  Morgante,  T ultimo  lodato  studio  del  Prof.  Foffano  (Studi  sui  poemi 
romanzeschi  italiani  1;  il  Morgante,  di  Luigi  Pulci,  Torino,  Loescher 
189!). 

(2)  Gaspary,  op.  cit.,  pag.  99. 


234  CORRADO  ZACCHETTI 

casa  dì  Maganza  (1)  lo  fa  girare  e  rigirare  come  una  ban- 
deruola; Rinaldo  gli  dà  delle  audaci  mentite  in  faccia  (2); 
Orlando  che  dovrebbe  essere  il  tipo  del  paladino  fedele 
e  obbediente  giura  di  farlo  tapino  (3);  la  sacra  corona 
di  Carlo  —  quella  corona  con  tanta  solennità  posata  solla 
sua  testa  la  notte  del  natale  del  799  — ,  passa  per  od 
momento  sulta  testa  di  Rinaldo  che  gli  si  è  ribellato  (4); 
insomma  Carlo  è  lo  zimbello  del  traditor  GaneUone.ò 
i  suoi  paladini  lo  temono  quanto  i  vispi  scolaretti  del  Gin- 
nasio potrebbero  temere  un  professore  vecchio ,  mezzo 
sordo,  mezzo  cieco  e  brontolone.  Il  Pulci  stesso  deve 
essersi  accorto  d'aver  troppo  attentato  alla  tradizionale 
figura  di  Carlo  (5),  e  nell'ultimo  canto  del  suo  poema, 
tessendone  gli  elogi,  si  giustiflca  di  averlo  per  tanto  tempo 
lasciato  in  balia  del  fellone  Gano  di  Maganza  (6): 


(1)  Noto  qui  per  incidenza  che  nel  popolo  di  Venezia  la  voce  na- 
ganzese  ha  ancora  un  significato  dispregiativo  :  ribaldo,  traditore.  Noq  so 
se  in  qualche  altro  dialetto  si  riscontri  F  eguale. 

(2)  Il  Morgante  Maggiore,  canto  XI,  SL  12. 

(3)  Id.  Xn,  14. 
(l)  Id.  XII,  32. 

(5)  V.  Emiliani-Giudici,  Storia  della  leti,  ital.,  Firenze,  Lcmonnicr, 
1865,  voi.  I,  pag.  417. 

(6)  Di  tal  fatto,  del  fatto  cioè  dei  continui  tradimenti  di  Gano,  in 
tale  rispettoso  modo  il  Pulci  fa  dolersi  il  paladino  Astolfo: 

<r  Di  Carlo  non  m*  incrcsce  rimbambito. 
Che  sempre  ogni  segreto  ti  ragiona, 
E  non  s'  accorge  d*  essere  schernito, 
Mentre  che  sente  in  capo  la  corona: 
E  non  si  crede  al  cacio  rimanere 
Se  non  sente  la  trappola  cadere  ». 

(XXII,  29). 

E  altravolla  lo  stesso  Astolfo   apostrofa   l'imperatore  con   tali  riverenli 
parole  : 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       235 

((  Or  forse  tu,  lettor,  dirai  adesso 
Come  gli  abbi  creduto  Carlomano? 
Io  ti  rispondo:  era  cosi  permesso. 
Era  nato  costui  per  ingannarlo, 
E  convenia  che  gli  credessi  Carlo  (1)  ». 

Danqne,  odo  dirmi,  ha  da  ritenersi  il  Morgante,  come  un 
poema  satirico  ed  ironico?  Ah,  lettore,  Iddio  ti  scampi 
dalla  satira  e  dall'ironia;  altro  è  Io  scherzare  quasi  in- 
consapevolmente e  con  un  riso  bonario  sulle  labbra,  col 
soggetto  che  si  tratta,  altro  è  trattarlo  ironicamente.  In 
fondo  in  fondo,  la  materia  del  Morgante  è  seria;  è  il 
modo  con  cui  questa  materia  viene  svolta  e  trattata  che 
non  sempre  è  serio,  e  ciò  deve  appunto  ricercarsi  nelle 
speciali  e  bizzarre  attitudini  deir ingegno  del  Pulci,  il 
quale  —  chi  vorrà  negarlo?  —  fu  un  grande  originale. 
Del  resto,  per  la  verità,  negli  ultimi  canti  del  poema 
dove  le  fila  vengono  a  riunirsi,  la  nota  predominante  e 
quella  che  dà,  per  cosi  dire,  il  tono,  è  certamente  seria  : 
bellissima,  tra  l' altro,  per  una  non  so  quale  patetica  ma- 
linconia, la  descrizione  della  morte  d' Orlando,  e  la  scena 
in  cui  Carlo  prega  il  fido  paladino,  già  morto  a  volergli 
rendere  Duriìndana: 

«  Rendimi,  se  Iddio  tanto  ti  conceda, 
Ridendo  quella  spada  benedetta, 
Come  tu  mi  giurasti  in  Aspramente 
Quando  ti  feci  cavaliere  e  conte  ». 

4  Tu  non  se'  uom  da  regger,  Carlo,  impero, 
E  fai,  come  si  dice,  V  asinelio 
Che  sempre  par  che  la  coda  conosche 
Quand'  e'  non  l'ha,  che  sei  mangion  le  mosche  >. 

(XXII,  li8). 

(1)  Canto  XXVm.,  15. 


,' 


si  236  CORRADO  ZAOGHBTTI 

Allora  Orlando: 


1 1 


i  '' 


I    I 

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II 


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>    ,  ■ 


• 


li 


€  .  .  .  .  distese,  ridendo,  la  maDa 
E  rendégli  la  spada  Darlindana  ». 


1  ]  Con  tatto  questo,  non  posso  tralasciar  d' osserrare  ci 


la  stramba  fantasia  del  poeta  neppure  a  questo  pan 
culminante  rinuncia  alle  immagini  goffe  e  ai  concetti  e 
confinano  col  ridicolo.  Poco  prima  di  narrare  con  si  ni 
lanconici  e  soavi  colori  la  morte  d'Orlando,  ecco  in  qc 
modo  vuol  dare  un'idea  della  rotta  e  della  strage 
Roncisvalle  : 


i  ((  E  si  faceva  tante  chiarentane 


Che  ciò  eh'  io  dico  è  di  sopra  una  zacchera  ; 

E  non  dura  la  festa  mademane, 

Crai  e  poserai  o  poscrilla  o  posquacchera, 

Come  spesso  alla  villa  le  romane; 

E  chi  suonava  tamburo  e  chi  nacchera 

Baldosa  e  cicutrenna  e  zufoletti 

E  tutti  affusolati  gli  scambietti. 

E  Roncisvalle  pareva  un  tegame 
Dove  fusse  di  sangue  un  gran  mortito, 
Di  capi,  di  peducci  e  d'  altro  ossame, 
Un  certo  guazzabuglio  ribollito  » (1) 

Guarda  un  po'  se  in  un  episodio  tanto  tragico  è  con 
veniente  paragonare  il  campo  di  battaglia  ad  un  legam 
di  spezzatino  !...  E  poi  quel  crai  e  poserai,  e  quei  zuffo 
letti,  e  quelle  nacchere,  e  quegli  scambietti!...  Una  fiera 
insomma,  una  sagra,  come  dicono  nel  mio  veneto. 

Alla  pubblicazione  del  Morgante  tenne  dietro  quell 
dell'  Orlando  Innamorato^  di  Matteo  Maria  Boiardo  conti 

(1)  Canio  XXVII,  Ct  55-56. 


l'  imitazione  aASSiCA  nell'  orlando  furioso       237 

di  Scandiano.  I  dne  cicli,  bretone  e  carolingio,  che  fin 
qui  erano  siali  collivati  a  sé,  trovarono  nel  perfetto  gen- 
tiluomo e  cavaliero  Messer  Matteo,  chi  li  fiise  bellamente 
e  armonicamente  insieme  :  <e  . . .  i  due  fiumi,  dice  il  Rajna 
con  una  bella  immagine,  che  prima  scorrevano  paralleli, 
adesso  si  congiungeranno  in  un  sol  letto  ^  (1). 

Il  Pulci  aveva  attentato  alla  tradizionale  figura  di 
Carlo,  il  Boiardo  attentò  a  quella  del  Conte  e  Paladino 
Orlando:  far  sentire  ed  operare  Orlando  come  un  cava- 
liere della  tavola  rotonda,  far  si  ch'egli  pensasse  e  par- 
lasse ed  agisse  quasi  sempre  dominato  da  un  sentimento 
fino  allora  quasi  ignoto  ad  Orlando,  all'  amore  :  affermare 
che  il  fedele  marito  di  Alda  la  bella,  che  fino  allora  non 
aveva  mai  fatto  spuntare  un  corno  sulla  casta  e  pura 
fronte  della  sposa  sua  (i  freddi  innamoramenti  di  Orlando, 
nel  Morgante,  gli  sono  ispirati  dalla  brama  di  salvezza 
più  che  altro),  affermare,  dico,  che  Orlando  rimase  preso 
a'  begli  occhi  d' Angelica  alla  prima  occhiata  (2) ,  e  in- 
formò poi  quasi  tutto  il  suo  operare  a  quell'amore,  era 
innovazione  non  piccola  e  non  piccola  audacia,  e  come 
il  Pulci  si  giustifica  della  sfigurata  persona  di  Carlo,  cosi 
il   Boiardo  si  scusa  d'avere  alterato  il  severo  carattere 
tradizionale  d'Orlando:  colla  differenza  che  il  Pulci,  a 
cui  forse  la  materia   del  Morgante  si  cambiò  in  parte 
sottomano  durante  la  composizione,  chiede  venia  del  suo 
operato  alla  fine  dell'Opera,  e  il  Boiardo  in  principio, 
subito  alla  seconda  strofa: 

€  Non  vi  par  già,  signor,  raaraviglioso 
Odir  contar  d'Orlando  innamorato, 
Che  qualunque  nel  mondo  è  più  orgoglioso 
È  da  amor  vinto  al  tutto  e  soggiogato; 

(1)  Op.  cit.  pag.  21. 

(2)  L  Ori,  /fi».  P.  I,  C.  St.  29. 

Voi.  IV,  Parte  II  16 


238  OOBRADO  ZAOCHBITI 

Né  forte  braccio,  né  ardire  animoso 
Né  scudo  0  maglia,  né  brando  affilato, 
Né  altra  possanza  può  mai  far  difesa 
Che  alfin  non  sia  da  amor  battuta  o  presa  ». 

Questa  la  giastificazìone  diremo  cosi,  morale;  ma  T au- 
tore non  se  a'  accontenta  e  cerca  anche  ona  difesa  ch'egli 
vuol  far  apparire  storica: 

<  Questa  novella  è  nota  a  poca  gente. 
Perché  Turpino  istesso  la  nascose. 
Credendo  fors'  a  quel  conte  valente 
Esser  le  sue  scritture  dispettose, 
Perché  contro  ad  amor  fu  pur  perdente 
Colui  che  vinse  tutte  l'altre  cose  ». 

(Sl  3). 

Inoltre  tutti  i  personaggi  dell*  Innamorato ,  dal  più  al 
meno,  hanno  una  tinta  di  comico;  comico,  insiste  il  Rajoa, 
non  ironico  (1);  comico  del  quale  il  Rajna  stesso  dà 
questa  ragione:  che  lo  spirito  del  Boiardo  imbevuto  dì 
coltmra  classica  non  poteva  rappresentare  il  fantastico 
mondo  cavalleresco  senza  mai  prorompere  in  uno  scop- 
pio di  riso  (2).  Nel  Boiardo  quindi,  bench'egli  semini 
d' imitazione  classica  il  suo  poema ,  non  vi  è ,  come  non 
vi  era  nel  Pulci,  un  intento  consciamente  classico,  né  in 
quanto  riguarda  la  materia,  né  in  quanto  riguarda  la 
forma,  che,  è  risaputo,  è  tutl' altro  che  tornita  e  limala, 
tanto  che  il  Borni  volle  lui,  rifacendo  V Innamorato  del 
Boiardo,  renderlo  classico  aUneno  da  questo  lato.  Vi  po- 
tranno essere,  nel  Boiardo,  dei  luoghi,  degli  episodi  imi- 
tati dai  classici,  ma  il  fondo  del  poema  resta  schietta- 
mente e  prettamente  romanzesco. 

(i)  Op.  cil.  pag.  26. 
(2)  Op.  cit  pag.  25. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       239 

Neir Ariosto  invece  —  da  troppo  tempo  l'avevamo 
lasciato  —  tale  intento  come  cosciente  e  voluto,  è  spic- 
catissimo: i  personaggi  del  Boiardo  accolti  dall'Ariosto 
acquistano  e  non  perdono  di  gravità  (1).  Servano  alcuni 
pochi  esempì.  Il  personaggio  di  Estout  (2)  che  nella  Prise 
de  Pampelune  è  un  mezzo  buffone  della  corte  la  quale 
rìde  volentieri  alle  sue  spalle,  un  timido  che  consiglia  la 
prudenza  e  la  cautela,  <t  senza  che  però  gli  manchi  il 
valore  »  (3)  diventa  nel  Boiardo  il  famoso  Astolfo.  Astolfo 
è  diverso  in  questo  da  Estout,  che  è  diventato  un  te- 
merario: ma  ha  sempre  poca  fortuna  e  le  sue  disdette 
fanno  ridere  l'imperatore  e  i  paladini  che  seguitano  a 
divertirsi  alle  sue  spalle,  come  nella  Prise  si  divertivano 
a  quelle  di  Estout;  basta  esaminare  i  primi  canti  dell' /n- 
namorato:  Astolfo  è  introdotto  con  una  spacconata  e  con 
uno  smacco.  Anch' egli,  acceso  d'amore  per  Angelica: 

€  Dimanda  l' armi  e  non  fu  sbigottito 


Esso  parlava  si  com'  uom  ardito 
Ch'  in  poco  d' ora  finirà  la  guerra , 
Gittando  Uberto  al  primo  colpo  a  terra  ». 

(I,  I,  59). 

Ma  r  autore  fa  subito  una  maligna  osservazione 

«  La  forza  sua  non  veggio  assai  palese 
Che  molte  fiate  cadde  dal  ferrante  ».  ' 

(id.  id.  60). 


In  quanto  a  lui ,  ad  Astolfo  : 

(1)  Cfr.  Raina,  op.  cit  pag.  22-33. 

(2)  Vedi  Gaspary,  op.  cit.  pag.  101. 

(3)  Id.  id.  pag.  101. 


240  CORRàDO  ZAOCHBTTI 

€ solea  dir  eh* egli  era  per  sciagura, 

E  tornava  a  cader  senza  paara  ». 

(id.  id.  60). 

Appena  comiDciata  la  sflda: 

< com'  Astolfo  fu  tocco  primiero 

Voltò  le  gambe  al  loco  del  cimiero  ». 

(id.  id.  64). 

Ma  credete  eh'  egli  ne  resti  mortificato?  Ohibò!  doq 
avendo  potato  ottenere  Angelica  perdente ,  se  ne  giusti- 
fica con  questa  bella  ragione: 

<  Negar  noi  puoi  che  s'io  stava  in  arcione 
Io  guadagnavo  questa  dama  bella  ». 

(id.  id.  65). 

In  quanto  air  essere  caduto ,  la  ragione  è  anche  beOa  e 
pronta  ! 

<  Questo  fu  per  difetto  de  la  sella  ». 

(id.  id.  65). 

Orlando,  chiedendo  ad  Astolfo  della  battaglia,  nulla  gli 
dice  dell'amor  suo: 

«  Perché  vano  il  conosce  e  cianciatore  ». 

(  I,  II,  21  ). 

Arriva  il  giorno  della  giostra  indetta  da  Carlo:  ecco 
Astolfo  alle  prese.... 

«  Ma  egli  incontrò  grandissimo  perìglio 
Che  il  destrier  sotto  gli  fu  traboccato. 
Tramorti  Astolfo  e  lume  e  ciel  non  vede 
E  dislogossi  ancora  il  destro  piede  ». 

(id.  id.  41). 


L*  IMITAZIONE  CLASSICA  NELL'  ORLANDO  FURIOSO         241 

Il  feroce  Graadonìo  rovescia  e  ferisce  i  migliori  paladini 
cristiani:  Astolfo,  che  intanto  s'era  fatto  racconciare  il 
piede,  tornato  nella  lizza,  si  propone  di  por  fine  air  ar- 
roganza del  pagano: 

«  Ma  color  tutti  che  T  ban  conosciuto 
Diceano:  0  Dio!  deh  mandaci  altro  aiuto!  » 

(id.  id.  66).  (1) 

Quanto  è  differente  T  Astolfo  del  Furioso  !  V  AstoVo  del- 
r  Ariosto  è  un  personaggio  grave  e  serio,  il  saggio  duca 
degF  inglesi,  che  opera  prodigi  di  valore  ed  è  predesti- 
nato dal  cielo  ad  aiutare  i  paladini  :  egli  scioglie  Y  incanto 
del  palazzo  d'  Atlante  e  libera  Ruggero  (XXII,  st.  23  e 
seg.);  è  creduto  dal  Senapo  della  Nubia  uno  spirito  ce- 
leste (XXXIII,  114);  chiude  le  arpie  in  una  spelonca 
(XXXIV,  46);  infine  egli  ascende  nel  paradiso  terreste 
dove  è  accolto  da  S.  Giovanni  Evangelista  (XXXIV,  54) 
che  gli  serve  di  guida  nel  cielo  della  luna:  quivi  egli 
rintraccia  il  senno  d'Orlando  —  (si  vuole  missione  più 
seria  di  questa  e  più  degna  di  un  uomo  quasi  divino  ?  )  — 
(XXXVIII,  23)  e  tornato  sulla  terra  lo  restituisce  al  pa- 
ladino (XXXIX,  57).  Né  ancora  hanno  fine  le  missio- 
ni a  cui  Dio  l'ha  destinato  sulla  terra:  che  prima  di 
scomparire  dalla  scena  dell'Orlando  Furioso  restituisce 
la   vista   al  Senapo]  (XXXVIII,  24),   espugna   Diserta 

(t)  Anche  nel  Morganle  Astolfo  ha  lo  stesso  carattere,  sebbene  con 
tinte  meno  vivaci,  che  nell*  Innamorato.  Anche  il  Pulci  dice  che  é  solito 
miotar  l'arcione: 

e  Ma  perchè  la  sua  regola  non  falli 
Astolfo  si  trovò  sopra  l'erbetta. 

(XXI,  58) 

Tedi  anche,  in  proposito,  le  strofe  63,  64,  65  69  del  medesimo  G.  XXL 


242  OOBRàDO  ZUCCHETTI 

(XL,  14)  e  toma  in  Francia  glorioso  e  trionfante  (XLIV, 
29).  Sempre  grave,  sempre  epico  (forse  il  personaggio 
più  classicamente  epico  dell'  Orlando  )  ;  non  ìscberza  mai, 
non  ride,  entra  nel  Furioso  serio,  e  ne  esce  serissimo. 
Chi  riconoscerebbe  in  esso  Y  Estoni  della  Prise  e  l' Astolfo 
del  Boiardo  ?  E  poi  si  venga  a  dire  che  V  Ariosto  cosparse 
d' ironia  i  gravi  personaggi  del  Boiardo  ! 

Anche  Y  Orlando  del  Boiardo  è  molto  meno  gra?e 
e  molto  meno  paladino  che  quello  dell'Ariosto:  già  Del- 
l' Innamorato ,  il  conte  va  in  bestia  con  CariomagDO  per 
un  nonnulla ,  e  tratto  tratto  te  lo  pianta  in  asso.  Poi  gli 
ha  un  certo  modo  dì  parlare  alcune  volte,  che  sembra 
tolto  dal  trivio: 

<  Vii  ribaldello  figlio  di  p » 

(I,  in,  26), 

grida  egli  a  Ferraguto.  Vedasi  un  po'  se  si  ritrova  il  cor- 
rispondente nell'  Ariosto. 

Anche  l' imperatore,  nell'  Innamorato,  seguita  ad  es- 
sere come  nel  Morgante,  sebbene  meno  spesso  e  con 
tinte  meno  cariche,  un  Cartone  (I,  1,  33)  rimbambito. 
Anch' egli,  appena  vista  Angelica,  se  ne  accende  pazza- 
mente (oh!  gravità  del  sacro  romano  imperatore!),  e 
conduce  in  lungo  il  discorso  con  lei  per  potoria  rimirare 
a  suo  bell'agio: 

«  Mira  parlando,  e  mirando  favella  » 

(I,  I,  35). 

Il  suo  discorso  assomiglia  a  quello  che  talvolta  erompe 
dalla  bocca  del  conte;  il  quale  assente  —  dietro  Ange- 
lica —  cosi  viene  apostrofato  dall'  imperatore  allorché 
Grandonio  fa  strage  de'  suoi,  e  Cario  cerca  invano  la  di- 
fesa del  suo  valoroso  campione: 


l'imitazione  classica  nell' orlando  fubioso       243 

«  Fìglìuol  d'una  p ,  riDnegato, 

Che  s'  tu  ritorni  a  me  possa  io  morire 
Se  con  le  proprie  man  non  t  ho  impiccato  ». 

(I,  n,  65). 

Questo  è  an  modo  di  parlare  che  si  converrebbe  più  a 
no  bécero  che  a  Garlomagno;  alla  cui  gravità  quanto 
conferisca  il  volere  lui  stesso  far  da  boia,  altri  giudichi. 
Ma  s'egli  non  impicca  veramente  Orlando,  un  di  che  i 
paladini  s'azzuffano  tra  loro 

«  Giunse  il  re  Carlo  a  questo  inconveniente, 
Dando  gran  bastonate  a  questo  e  a  quello, 
Ch'  a  più  di  trenta  ne  ruppe  la  testa  ». 

(  I,  III,  23-24  ). 

Alla  grazia  !  —  Non  cosi  opera  certo  il  re  Carlo,  il  buon 
re  Carlo  dell'Ariosto,  e  anche  chi  abbia  letto  il  Furioso 
senza  grande  attenzione  si  accorgerà  di  quanto  abbia  qui 
guadagnato  in  serietà  e  gravità  l' imperatore  romano  (1). 
Si  noti  poi  che  non  sono  andato  più  in  là,  nell'esame 
dell'Orlando  Innamorato,  dei  primi  quattro  canti:  chi 
volesse  studiarlo  tutto  con  questo  criterio,  avrebbe  da 
raccogliere  una  bella  messe. 

Serietà  molta  adunque  conferi  il  nostro  Ludovico 
a'  personaggi  eh'  ei  ricevette  dal  romanzo  cavalleresco ,  e 

(1)  Neir  innamoralo  V  imperatore  non  é  troppo  coraggioso.  Mancante 
d'Orlando,  egli  si  butta  tra  le  braccia  di  Ranaldo: 

e Figlio,  ti  Yuo*  ricordare 

Ch*io  pongo  il  regno  mio  ne  le  tue  braccia. 


n  stato  mio  a  te  F  arraccomando. 

Questo  gli  disse  ne  l'orecchio  piano. 

(I,  IV,  18-19). 


A- 


244  COBRiDO  ZAOCHETTI 

poiché  DOD  si  potrà  negare,  come  dicevamo,  che  la 
rietà  DOD  sia  odo  dei  più  importaDti  elementi  deli'ei 
aDche  ìd  ciò  potremo  scorgere  la  perpetua  tendenza  i 
l'Ariosto  di  ravvicinare  il  romaDzo  cavalleresco,  e 
generale  e  nei  particolari ,  a  on  tipo  classico  ;  —  n 
stancheremo  dal  ripeterlo.  Certo  egli  faceva  ciò  nei 
miti  che  la  materia  gli  concedeva,  né  si  proibisce  a  qua 
a  quando  un  certo  suo  risolino  a  fior  di  pelle,  ma 
ne'  luoghi  in  cui  vuole  veramente  ascendere  le  cime  i 
l'epopea:  questo  contrasto  di  serio  e  di  umorìstico 
classico  e  di  romanzesco,  sembra  a  noi  una  delle  p 
cipali  ragioni  che  rendono  tanto  piacevole  la  lettura 
Furioso,  nel  quale,  come  abbiam  tentato  di  dimostr 
vennero  a  confluire  i  tesori  del  romanzo  cavalleresc 
degli  studi  classici  coltivati  con  tanta  passione  in  1 
nel  sec.  XV. 


IV. 


Il  Pigna  osserva  ne'  suoi  Romanzi  (1) ,  che  anch 
titolo  dato  dall'  autore  al  suo  poema  d'  Orlando  Fur 
è  classico,  giacché  abbiamo  una  commedia  d'Eorìi 
intilolata  *HpaxXin^  Matvdjievo^,  ed  una  di  Seneca  inlitc 
Hercules  Furens.  «  E  perché,  aggiunge  lo  stesso  Pif 
è  Orlando  come  Hercole,  ne  poi  una  inscrittione  riui 
simile  a  quella  eh'  è  in  Euripide  e  in  Seneca,  che  è  E 
cole  Furioso  »  (2).  In  quanto  al  non  corrispondere  il 
telo  del  libro  alla  materia  che  vi  si  svolge,  la  quali 
troppe  più  cose  parla  che  della  sola  pazzia  d'Orlao 
il  Pigna  trova  anche  di  ciò  una  ragione  classica,  ad 
cendo  l'esempio  dell'Iliade,  la  quale  mentre  preme 


(i)  Venezia,  Valgrisi,  1554,  Libro  IL* 
(2)  Op.  cit  pag.  78. 


l!  IMITAZIONE  CLASSICA  NELL*  ORLANDO  FURIOSO  345 

ebbe  di  cantare  la  deceDnale  guerra  di  Troia,  si  aggira 
oitanto  intorno  air  ira  di  Achille  e  agli  effetti  di  questa  : 
i  mantiene  cioè  meno  di  quello  che  si  promette;  nel- 
'  Orlando  la  medesima  anomalia  si  risolve  in  un  efFetto 
ipposto,  giacché  si  mantiene  molto  di  più  di  quello  che 
i  promette  nel  titolo,  e  Orlando,  i  suoi  amori,  e  le  sue 
lazzie  non  occupano  certo  il  posto  principale  nel  poema 
riostesco  :  e  giacché  gli  opposti  si  toccano,  il  Pigna  crede 
'  assegnare  ad  una  medesima  categoria  due  fatti  diversi  (1). 

Tralasciando  l'inane  questione  del  titolo,  è  un  fatto 
he  il  principio  del  poema  s'ispira  all'Iliade;  che  la  con- 
esa  tra  Ferraù  e  Rinaldo  per  Angelica,  donde  piglia  le 
Qosse  r  Orlando,  corrisponde  in  certo  modo  alla  contesa 
ra  Achille  e  Agamennone  per  Griseide,  contesa  colla 
[uale  s'inizia  il  greco  poema. 

Come  classico  è  il  titolo  e  il  primo  episodio  onde 
figlia  le  mosse  il  racconto,  cosi  classicissima  è  anche 
'  introduzione  o  protasi  che  voglia  dirsi  :  classicissima  non 
olo  per  la  forma  esteriore  elevata  e  maestosa  e  tutta 
;onsentanea  alla  materia  di  un  epico  poema,  ma  anche 
)er  il  contenuto.  La  protasi,  i  cui  primi  versi  ricordano 
Qolto  da  vicino,  com'  è  noto,  una  terzina  di  Dante  (2) , 
la  proprio  il  tono  solenne  con  cui  i  greci  e  i  romani 
lominciavano  i  loro  poemi,  e  i  versi: 

(1)  Del  resto  anche  il  Pulci  cade  nella  stessa  colpa,  s*essa  è  una 
lolpa,  ch'egli  intitolò  Morganle  un  poema  che  avrebbe  dovuto  nomare 
isclusivamente  da  Orlando;  giacché  il  grosso  e  badiale  Morgante,  ne  è 
ina  Ggura  secondaria,  che  abbandona  T  azione,  morendo  per  il  morso  di 
in  gambero,  dopo  poco  più  che  la  metà  del  poema. 

(2)  e  Le  domie  e  i  cavalìer  gfi  aflanni  e  gli  agi 

Che  ne  invogliava  amore  e  cortesia > 

(Purg.  XIV,  HO). 

<ion  sarebbe  inutile  fatica  chi  studiasse  la  parte  dell'imitazione  dantesca 
;he  v'è  nel  Furioso. 


246  OOBRADO  ZAOGHKTTI 

Le  donne,  i  cavalier,  ranni,  gli  amori 
Le  cortesie,  le  audaci  imprese  io  canto 

non  vanno  molto  discosto,  panni,  per  V  alta  intonazioni 
del  vecchio  Omero  e  dal  rimbombante 


Arma  viromqae  cane. 


di  Vergilio.  Né  vogliamo  tralasciar  d'osservare,  che 
primo  poema  in  terza  rima  inmìaginato  dairArìosti 
onore  di  Obizzo  da  Este,  il  poeta  comincia  con  no 
non  molto  diverso: 

«  Canterò  Parme,  canterò  gli  affanni 
D'amor  che  un  cavalier  sostenne  gravi  »  (1). 

I  predecessori  dell'Ariosto,  i  quali,  come  facemmo 
servare,  non  avevano  le  sue  velleità  classiche,  non  s' e 
punto  curati  di  cominciare  con  un  esordio  solenne 
il  Pulci  manca  anzi  di  protasi,  giacché  comincia  snbi 
tirare  in  ballo  Dìo  e  il  Verbo,  e  l' introduzione  del  Boi 
non  può  chiamarsi  protasi  nel  senso  classico  della  pa 
perchè  manca  appunto  di  quella  gravità  e  maestà 
della  protasi  è  tutta  propria.  E  certamente  anche  nel 
dicare  il  proprio  lavoro  ad  un  Mecenate,  messer  Li 
vico  aveva  in  mente  gli  antichi,  molti  dei  quali  raccon 
darono  le  loro  opere  al  nome  di  prìncipi  benefattoi 
artisti  e  letterati.  Basterà  ricordare  la  dedica  che  ^ 
irilio  fece  ad  Augusto  delle  Georgiche,  il  lavoro  più  i 

vi)  Il  VI  dei  capitoti  arìosteschi. 
(t)  RjUNA,  op.  cìt,  pag.  5a 


i 


L*  IMITAZIONE  CLASSICA  NELL'  ORLANDO  FURIOSO  247 

fette  del  sommo  latino.  Ma  v'ha  qnalcbecosa  di  più:  come 
r  Eneide  era  stata  scritta  per  la  glorificazione  della  casa 
d' Aagosto,  cosi  uno  degli  scopi  che  V  Ariosto  si  propose 
nello  scrivere  l'Orlando  fa  quello  di  esaltare  la  nobile 
prosapia  del  sao  ducal  Mecenate.  Pur  troppo,  Augusto 
fa  un  po' più  grato  a  Vergilio  di  quello  che  gli  Estensi 
all'Ariosto;  e  il  poeta  se  ne  duole  e,  quando  gli  capita 
l'occasione  opportuna,  non  tralascia  di  lagnarsene,  fingendo 
di  addebitare  ad  Apollo  e  alle  Muse,  cose  che  tornavano 
tatte  a  disdoro  de' suoi  padroni: 

—  «  Apollo,  tua  mercé,  tua  mercé,  santo 
Collegio  de  le  muse,  io  non  possiedo 
Tanto  per  voi  eh'  io  possa  farmi  un  manto. 

—  Ohi  il  Signor  t'ha  dato:  —  io  vel  concedo. 
Tanto  che  fatto  m' ho  piti  d' un  mantello 

Ma  che  m' abbia  per  voi  dato  non  credo. 

Egli  rha  detto,  io  dirlo  a  questo  e  a  quello 
Voglio  anche  e  i  versi  mìei  voglio  a  mia  posta 
Mandar  al  Guliseo  per  lo  suggello  »  (1). 

E  nella  stessa  satira  rivolgendosi  ad  Andrea  Marone 
bresciano,  valente  poeta  latino  estemporaneo: 

«  Fa  a  mio  senno,  Maron;  tuoi  versi  getta 
Con  la  lù*a  in  un  cesso  e  un'arte  impara. 
Se  beneficii  vuoi,  che  sia  piiì  accetta  »  (2). 

Il  cardinal  d'Este  non  avea  fatto  alcun  conto  delle 
stapende  creazioni  dell'Ariosto;  egli  avrebbe  voluto  che 
V  Ariosto  tutto  si  fosse  dato  alle  cose  amministrative  e 
al  servizio  della  sua  persona:  o  che  gliene  importava  a 

(1)  Sat  n,  V.  88. 

(2)  Id.,  V.  Ii5. 


248  CORRADO  ZAOCHETTI 

lai  di  latte  quelle  corbellerie?  e  forse  non  era  un  pas- 
satempo per  il  poeta  io  scriverle? 

« 

«  S*  io  r  ho  con  arte  ne'  miei  versi  oiesso 
Dice  eh*  io  r  ho  fatto  a  piacere  e  in  gioia  ; 
Più  grato  fora  essergli  stato  appresso  »  (1). 

Ma,  comanque,  tomaDdo  a  noi,  il  poema  ariostesccs 
è  certamente  un'  esaltazione  di  casa  d' Este ,  ed  od'  esal- 
tazione di  stampo  classico:  da  Enea,  il  protagonista 
poema  che  da  lui  prende  il  nome,  discende  la  schiatta, 
degli  Juli  e  la  casa  d'Àagasto;  da  Raggerò  e  Brada- 
mante,  due  dei  personaggi  più  importanti  del  Furioso, 
orìgine  la  casa  d' Este  :  <  Da  questo  congiungimento , 
serva  il  Pigna,  la  stirpe  da  Este  ne  segue,  per  cui  e^^^ij 
a  scrìvere  si  mosse;  et  ne  venuta  una  cotal  somiglianz^^^ 
che  come  nella  morte  di  Turno  finiscono  li  fatti  d*  En^^^^ 
et  come  ciò  avviene  perché  a  questo  modo  Lavinia  ^^    ^j. 
cnramente  d' esso  Enea  sarà  ;  et  come  questo  dar  co^^^tai 
a  questo  troiano  è  per  conto  dell' orìgine  del  sangue         ^^i 
patrono  d' esso  compositore  di  tal  poesia  (sic)  ;  cosi  si.    ap- 
punto il  medesimo  è  in  tutta  questa  parte  di  M.  ^Ka- 
dovico  (2)  ». 

Come  classico  è  il  principio  e  il  primo  episodio  -«^de/- 
r  Orlando ,  cosi  classica  ne  è  la  fine  e  V  ultimo  racco  ^mto; 
r  Eneide  termina  con  un  combattimento  tra  Enea  e  T^uroo 
e  colla  morte  di  quest'ultimo;  T Orlando  col  coml>^///. 
mento  fra  Ruggero  e  Rodomonte,  e  la  morte  del  (t^roce 
pagano;   anzi   i   due  poemi  finiscono   quasi  colle  st^^^;^^ 
parole  : 


(i)  Sat  n,  V.  106. 
(2)  Op.  cit..  Libro  U. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       249 

<  Alle  squallide  ripe  d' Acheronte 
Sciolta  dal  corpo  pili  freddo  che  ghiaccio, 
Bestemmiando  fuggi  Palma  sdegnosa 
Che  fu  si  altera  al  mondo  e  si  orgogliosa  ». 

Cosi  r Ariosto;  e  Vergilio  un   migliaio  e  mezzo   d'anni 
prima  : 

«  ....  ast  illi  solvontur  frigore  membra 
Vitaque  cum  gemitu  fugit  indignata  sub  umbras  ». 

Cosi  i  due  più  grandi  poeti  dell'antichità  classica 
presiedettero  all'aprirsi  e  al  chiudersi  dell'azione  ario- 
stesca,  la  quale  viene  a  trovarsi  come  rinchiusa  da  due 
argini  classici:  Omero  apre  le  serie  degli  episodi,  Ver- 
gilio la  chiude;  <  la  tela,  osserva  il  Rajna  con  felicissima 
espressione,  alzata  forse  a  un  cenno  d' Omero,  cala  come 
Virgilio  suggerisce  »  (I). 


V. 


Abbiamo  detto  poco  fa  che  l' Ariosto  tentava  in  tutti 
i  modi  d' innestare  il  classico  nel  romanzesco:  a  tal  con- 
cetto si  riannoda  una  questione  molto  importante  per 
quanto  noiosa.  Infatti  ci  par  di  sentire  uno  de' nostri  due 
lettori  che  ci  domanda  :  0  V  unità  d' azione ,  della  quale 
il  mondo  classico  fece  tanto  caso,  dove  me  la  lasciate  ?  Qui 
dovremmo  entrare  in  un  laberinto  dal  quale  non  sarebbe 
tanto  facile  uscire;  e  però  ben  volentieri  faremmo  a 
meno  anche  di  accostarcisi,  se  l' argomento  stesso  non  ci 
spingesse;  del  resto,  perché  non  abbiano  quei  due  let- 
tori a  spaventarsi  e  a  ritirarsi  inorriditi  lasciandoci  cosi 

(1)  Op.  clt.,  pag.  526. 


I 


( 


250  OOVRADO  ZAOCHBm 

soli  a  predicare  al  deserto,  facciamo  una  promessa 
esser  bre?i  e  di  non  dire  che  quanto  è  puramente 
cessano. 


Fin  da  quando  si  pubblicò  per  la  prima  ?oll 
poeuia  dell*  Ariosto,  fu  gran  discutere  fira  i  dotti  e  ai 
pur  troppo,  fra  gl^  ignoranti,  se  esso  avesse  o  no  un'i 
d' azione.  Nel  1585  usciva  a  Verona  il  e  Dialogo  ( 
nuova  poesia ,  ovrero  deDe  difese  del  Furioso,  del  si 
Giuseppe  Halatesta  >;  nel  quale  e  non  pur  à  rispi 
alle  oggettioni  che  si  muovono  contro  questo  poem; 
si  mostra  eh'  egli  è  composto  secondo  i  veri  e  legì 
precetti  poetici ,  ma  si  fa  toccar  con  mano  che  d' art 
e  d'eccellenza  supera  l'opere  migliori  di  Virgilio  < 
Homero,  et  si  discorrono  molte  cose  intomo  alla  n 
poesia  >.  Udo  degli  interlocutori  del  dialogo  accusa 
riosto  dì  errori  e  che  fiedono  di  mortai  colpo  il  cuc 
l'anima  di  tutta  la  poetica,  et  danno  attraverso  ne 
legittimi  precetti  d' Aristotile  ed  degli  altri  approvati  s 
tori  >  (1).  La  colpa  principale  dell'Ariosto  è  del  not 
scontrarsi  nel  suo  poema  l' unità  d' azione.  Un  altro  | 
sonaggio  del  dialogo,  che  parla  Daturalmente  per  b 
dell'autore  e  ne  espone  le  idee,  incomincia  la  difeì 
meglio  UDa  gonfia  apologia  del  Furioso,  e  vuol  dimosl 
che  nel  poema  romanzesco  non  v'è  punto  bisogno  d'i 
d'azione.  Ma  se  tali  erano  le  idee  del  signor  Giosi 
Malatesta,  non  cosi  era  apparso  alcuni  anni  innaiu 
Pigna,  nei  già  citati  Romanzi:  il  Pigna  si  sforza  a  l 
suo  potere  di  trovare  nel  poema  un'  azione,  se  non  a 
almeno  principale ,  e  gli  pare  d' averla  rintracciata  i 

(1)  Op.  cit  in  principio. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       251 

amorì  e  nel  matrimonio  di  Ruggero  e  Bradamente.  Si 
scatenava  in  seguito  contro  l'Ariosto  Camillo  Pellegrino  (1), 
il  quale  voleva  per  forza  adagiare  il  Furioso  nel  letto  di 
Procuste  delle  regole  Aristoteliche.  Sciocchissimo  il  Pel- 
legrino colle  sue  regole  aristoteliche;  Aristotile,  egli  dice 
tra  r  altre,  non  insegna  a  fingere  i  nomi  dei  re  !  Vedete 
un  po' fino  a  che  punto  erano  capaci  di  sottilizzare  certi 
ingegni  !  —  Manco  a  dirsi  che  anche  lui  non  trova  alcuna 
unità  neir Orlando,  e  che  anche  lui  grida  quindi  allo 
scandalo,  alla  profanazione,  al  sacrilegio.  Ma  Camillo  Pel- 
legrino fu  servito  a  dovere  dal  Salviati,  nella  difesa  che 
costui  fece  del  Furioso,  (2)  —  e  noi  non  ce  ne  occupe- 
remo quindi  altrimenti.  Tra  i  moderni,  la  maggior  parte 
piuttostoché  ne^re  air  Orlando  un'  unità  d' azione,  anda- 
rono rintracciando  quale  essa  si  fosse  o  potesse  essere, 
e  a  chi  parve  di  scorgerla  in  uno,  a  chi  un  altro  tra  gli 
argomenti  più  importanti.  Il  Ginguené  (3)  credette  col 
Pigna  che  il  fondo  del  soggetto  fossero  gli  amori  tra 
Ruggero  e  Bradamante;  l'Emiliani  Giudici  (4)  pure  ac- 
costandosi a  questa  opinione,  inclinava  a  trovare  il  nucleo 
del  poema  nella  pazzia  d' Orlando  ;  il  Settembrini  (5)  fece 
dei  due  Orlandi  —  l' Innamorato  e  il  Furioso  —  un  solo 
poema,  il  cui  soggetto  fondamentale  sarebbe  la  guerra  tra 
Carlo  e  Agramante,  tra  il  paganesimo  ed  il  cristianesimo  ; 
anzi  questa  lotta  di  due  civiltà  egli  —  con  la  sua  fantasia 
meridionale  —  la  trova  riprodotta  anche  nella  fine  dei 

(1)  Discorso  dell'  epica  poesia  ctc,  Vico  equense  1585. 

(2)  Difesa  dell'  Orlando  Furioso  fatta  dagli  accademici  della  crusca, 
contro  il  discorso  dell'  epica  poesia  di  Camillo  Pellegrino.  Firenze,  1584. 

(3)  Histoire  littéraire  d' Italie  ;  tomo  IV,  pag.  285. 

(4)  Storia  della  letteratura  italiana,  Firenze,  Lemonnier,  Voi.  II, 
pag.  87. 

(5)  Lezioni  di  lett.  ital.  dettate  nell'  Università  di  Napoli.  Napoli, 
Morano.  VoL  li,  cap.  XLVI. 


252  COBRADO  ZACCHETTI 

dae  personaggi  principali  del  poema:  Orlando,  cristiano, 
si  libera  dair  amore  di  Angelica,  pagana,  che  cade  tra  le 
braccia  d'an  meschino  idolatra,  Medoro;  Bradamante, 
cristiana,  sposa  Raggerò,  pagano,  convertito  al  cristiane- 
simo. Il  De  Sanctis  (1)  rigetta  tutte  queste  opinioni;  per 
Ini  l'unità  dell' Orlando  è  e  tutto  il  mondo  cavalleresco 
nel  suo  spirito  e  nel  suo  sviluppo  >.  Il  Rajna  trova  doq 
l'unità,  ma  la  trama  del  poema,  e  o  piuttosto  un  tronco 
nascosto  in  gran  parte  dai  rami  e  dalle  fronde  >  nella 
guerra  tra  Agramante  e  Carlomagno.  A  quale  di  queste 
opinioni  dovremo  noi  attenerci?  vorremo  o  non  vorremo 
ammettere  un'unità  d' azione  nell' Orlando?  (2)  Ecco:  che 
l'Ariosto  volesse  scrivere  un  poema  epico  secondo  le 
regole  d' Aristotile  e  d' Orazio ,  mi  par  controversia  da 
lasciarsi  discutere  a  quei  buoni  nostri  nonni  Intronati, 
Balordi,  Lincei,  Insensati,  Imperfetti  etc.;  disputare  in 
buona  fede  se  scrivendo  un  poema  di  cosi  varia  tessi- 
tura, e  per  di  più  un  poema  di  materia  romanzesca  e 
cavalleresca ,  l' autore  volesse  assolutamente  partire  da 

(1)  Storia  della  leti.  ital.  voi.  2,  p.  24.  Puoi  trovare  queste  opinioni 
in  parte  confutate  nel  Cannello,  St.  della  leti.  ital.  nel  set.  XY.  Milano, 
Vallanli,  1880.  Egli  poi  il  Cannello,  a  sua  volta,  impiega  dieci  pagine  in 
quarto  per  dimostrare  e  dar  valore  a  quelle  parole  che  il  Voltaire,  rab- 
bioso detrattore  del  nostro,  aveva  detto  in  un  momento  di  buona  dige- 
stione :  «  Le  pocme  de  X  Arioste,  e*  est  à  la  fois  1*  Iliade ,  P  Odissèe  et 
Don  Quichotte  ».  Altri  giudichi  se  valeva  la  pena  di  scriver  tanto  per 
dimostrare  una  tosa  perfettamente  falsa.  E  che  di  più  falso  che  ritroTare 
un  Don  Quichotte  nel  Furioso? 

Non  intendo  con  queste  mie  parole,  tengo  moltissimo  a  dichiararlo, 
mancar  di  rispetto  alla  memoria  del  povero  Cannello,  critico  inteiiigente 
ed  erudito,  e  che  recò  un  buon  contributo  agli  studi  sulla  poesia  pro- 
venzale, e  tanto  meno,  —  Dio  me  ne  guardi!  —  al  signor  di  Voltaire. 
Ho  voluto  semplicemente  far  notare  una  cosa  che  urta  un  po'  colle  ul- 
time ricerche  della  critica. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  35. 


l'imitazione  classica  nell' orlando  furioso       253 

una  imprescindibile  unità  classica,  mi  pare  in  tatto  an 
faor  d' opera.  0  non  io  dice  egli  stesso  il  poeta  nei  prin- 
cìpio del  suo  cantare,  che  svolgerà  una  materia  molte- 
plice, trattando  di  varie  cose?  Le  donne,  i  cavalier, 
r  armi,  gli  amori,  le  cortesie ,  le  audaci  imprese ,  i'  ire  e 
i  giovanili  furori  d'Agramante,  Orlando  che  per  amore 
venne  in  furore  e  matto,  quel  Ruggero  che  fu  della  casa 
Estense  illustre  ceppo  :  —  tutto  ciò ,  dichiara  senza  am- 
bagi l'Ariosto,  sarà  materia  del  suo  canto.  S'aggiunga 
che  due  volte,  nel  corso  del  poema,  vien  fatta  una  espli- 
cita dichiarazione,  della  quale  non  ci  sarebbe  del  resto 
stata  necessità.  La  prima  volta  quasi  in  principio,  al  canto  II  : 

«  Ma  perché  varie  fila  a  varie  téle 
Uopo  mi  son 

e  la  seconda  volta  nel  canto  XIII: 

Dì  molte  fila  esser  bisogno  parmc 
A  condur  la  grar^  tela  eh'  io  lavoro. 

Ma  d'altra  parte  è  anche  chiaro  ch'egli  tentava  di 
ricondurre  la  materia  cavalleresca  sopra  uno  stampo  clas- 
sico, e  per  questo,  senza  potere  né  volere  obbligarsi  ad 
un'  unità  d' azione,  è  manifesto  eh*  egli  non  volle  già  porre 
insieme  un  accozzo  di  fatti  e  d'avventure,  senza  uno 
scopo ,  senza  un  legame.  Ora ,  s' è  opera  vana  l' andar 
cercando  nel  Furioso  un'unità  d'azione,  e 'tanto  meno 
un'  unità  d' azione  quale  l' intendono  gli  autori  dell'  arti 
poetiche,  se  opera  vana  è  lo  affaticarsi  a  dimostrare  che 
questo  piuttostochè  quello  episodio,  questo  piuttostoché 
queir  altro  filo  dell'  azione  deve  prendersi  come  immede- 
simante in  sé  questa  benedetta  unità,  non  è  però  egual- 
mente vano  r  andar  cercando  non  un'  unità  d' azione,  ma 

Voi  IV,  Parto  II.  17 


254  CORRADO  ZAOCHETTI 

ud'  unità  di  concetto ,  la  quale,  chi  consideri  attentamente, 
non  sarà  difiScile  ritrovarsi  negli  stessi  intendimenti  arti- 
stici dell'  autore  che  con  dilettevole  varietà  veniva  fog- 
giando sopra  classici  modelli  episodi  romanzeschi  ;  episodi 
che  vanno  poi  tutti  quanti  a  riunirsi  nella  trama  princi- 
pale ,  eh'  è  principale  in  quantoché  è  scopo  del  poema, 
degli  amorì  e  del  matrìmonio  di  Ruggero  e  Bradamaote. 
Io  vorrei  paragonare  l'Orlando,  in  quanto  a  questa  be- 
nedetta unità,  al  Po  in  riva  del  quale  fu  scrìtto  :  che  cosa 
sarebbe  il  Po  senza  i  suoi  affluenti  di  destra  e  di  sinistra 
che  ne  alimentano  il  corso?  —  E  cosi  che  cosa  sarebbe 
il  solo  episodio  di  Ruggero  e  Bradamante,  che  dod  è 
neppure  il  più  vivificato  dal  calore  poetico,  senza  gli  epi- 
sodi, i  quali  quasi  tutti,  in  fin  dei  conti,  contribuiscono 
dal  più  al  meno  al  diverso  andamento  e  al  diverso  at- 
teggiarsi dell'episodio  principale?  —  Nel  Furìoso  adunque, 
insisto,  non  unità  d'azione,  ma  unitd  di  concetto ;m\i 
la  quale  non  si  potrà  negare  che  sia  classica  della  miglior 
lega,  se  porremo  mente  che  le  Metamorfosi  d'Ovidio,  ad 
esempio,  sono  affatto  prive  d' unità  d' azione,  e  che  i  vari 
racconti  i  quali  potrebbero  slare  ognuno  a  sé  (  mentre  non 
cosi  potrebbe  dirsi  di  quelli  dell'  Orlando  ) ,  sono  tra  loro 
legati  (la  una  unità  di  solo  concetto ,  concetto  che  qni  e 
da  ritrovarsi  nella  potenza  trasformatrice  che  gli  Dei  eser- 
citano sugli  uomini;  e  nel   nostro  nella  rappresentaziom 
classica  della  materia  cavalleresca,  rivolta  in  parte  alla 
glorificazione  di  casa  d'  Este  (1).   Una  parte  considere- 
vole quindi  della  materia  del   Furioso,  specialmente  in 
principio,  quando  le  fila  si  devono   legare,  e  in  fine, 
quando  si  devono   sciogliere,  è  dedicata  agli  amori  di 
Ruggero  e  di  Bradamante,  agli  intoppi  che  vi  si  oppon- 
gono^ alle  felici  circostanze  che  li  riuniscono,  in  propor- 

(1)  Anche  le  meUimorfosi  fioiscono  coir  essere  V  apoteosi  di  Augusto. 


L*  IMITAZIONE  CLASSICA  NELL*  ORLANDO  FURIOSO         255 

zìonì  maggiori  dì  quelle  date  singolarmente  a  ciascun 
episodio  (1).  Di  questo  non  vorrà  metter  dubbio  chi  dia 
od'  attenta  occhiata  alla  nota  a  pie  di  pagina  ;  e  del  resto 
r  Ariosto  stesso  chiama  sé  non  il  cantore  d' Orlando,  ma 
il  cantore  di  Ruggero  e  della  sua  discendenza: 

«  Ruggier,  se  alla  progenie  tua  mi  fai 
Si  poco  grato,  e  nulla  mi  prevaglio 
Che  gli  alti  gesti  e  il  tuo  valor  cantai 

Che  debbo  far  io  qui? »  (2). 

In  quanto  ad  Orlando,  egli,  in  tutto  il  ciclo  Carolingio,  è 
il  paladino  costituito  da  Dio  in  difesa  di  sua  santa  fede: 
come  avrebbe  adunque  potuto  mancare  in  un  poema  in 
cui  è  tratteggiata  una  guerra  fra  pagani  e  cristiani?  e 
come  avrebbe  potuto  mancare  in  un  poema  di  materia 
cavalleresca,  egli  che  era  la  personificazione  della  caval- 
lerìa, il  cavaliere  dei  cavalieri?  e  dovendo  necessaria- 
mente entrare  nel  poema,  come  il  gran  paladino  non  vi 
avrebbe  occupato  uno  dei  posti  principali? 

Riepilogando  adunque  questa  parte:  gF intendimenti 
e  r  ordito  del  poema  sono  classici  ;  lo  varie  parti  for- 
mano un  armonico  tutto  mediante  un'  unità  di  concetto; 
gli  amorì  di  Ruggero  e  Bradamante  sono  il  fiume  mag- 

(1)  Si  veda  la  quantità  dì  materia  dedicata  a  Ruggero  e  Bradamante, 
e  la  proporzione  con  cui  è  sparsa  in  tutto  il  poema: 

Canto  II,  Stanza  31;  76  —  HI,  intero  —  IV,  1;  51  —  VI  17;  81 
—  VII,  intero  —  VIII,  1;  21  —  X,  35;  115  —  XI,  1;  21  —  XII,  17; 
33  —  XIII,  44;  83  —  XXII,  20;  98  —  XXV,  intero  —  XXVI,  3;  29 
e  55;  136  —  XXVII,  varie  ottave  impiegate  qua  e  là  pel  canto  —  XXX, 
i8;  95  —  XXXII,  intero  —  XXXIII,  1;  78  —  XXXV,  31;  80  —  XXXVI, 
intero  —  XXXX,  61;  82  —  XXXXI,  1;  25  e  46-68  —  XXXXII,  24; 
^8  —  XXXXIII,  19i;  199  —  XXXXIIII,  intero  —  XXXXV,  intero  — 
XXXXVl,  intero. 

(2)  Sat  II,  V.  139. 


I 


256  CORRADO  ZAOCHETTl 

giore  in  cai  vanno  ad  inflnire  i  minori,  ed  occupano 
terìalmente  e  moralmente  una  importantissima  parte 
sendo  loro  ufiQcio  di  fare  dell'Orlando,  per  rispel 
casa  d' Este,  qaello  che  V  Eneide  di  Yergilio  per  la 
d' Angusto. 

Prima  però  di  chiudere  questo  capitolo,  mi  res 
buon  conto,  di  fare  una  dichiarazione:  non  Torreì 
dall'  aver  noi  più  volte  detto  e  ripetuto  la  frase  glor\ 
zione  di  casa  ^  Este  alcuno  inducesse  essere  no 
coloro  che  all'  Ariosto  danno  accusa  di  strisciatore  e 
tigiano.  Al  contrario;  se  vi  fu  spirito  libero  e  iodi 
dente,  ci  pare  che  questo  sia  proprio  l'Ariosto:  v 
con  quanto  poco  entusiasmo  egli  fa  l'apologia  dei 
ducali  padroni  !  Com'  è  fredda,  scolorita,  monotona  1; 
lata  dagli  spiriti  che  dovranno  incorporare  i  discen 
di  Ruggero  e  Bradamante,  nel  canto  III!  E  come 
venzìonali  e  prive  d'ogni  calore  d'entusiasmo  le 
delle  donne  estensi  del  canto  XIII!  —  E  d'altra 
r  Ariosto  rifiuta  sdegnosamente  di  farsi  servo  e  sch 

« piuttosto  eh'  esser  servo 

Torrò  la  povertade  in  pazienza  »  (1). 

Crede  forse  il  cardinale  Ippolito  che  si  possa  compi 
l'umana  libertà?  — : 

« se  il  sacro 

Cardinal  comperato  avermi  stima 

Con  li  suoi  doni,  non  mi  è  acerbo  ed  acro 

Renderli,  e  ter  la  libertà  mia  prima  »  (2). 

E  del  resto  il  povero  Ariosto  a  cui  il  padre  mor 

(1)  SaL  n,  V.  245. 

(2)  Id.  id. ,  V.  262. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       257 

lasciò  dieci  fratelli  sulle  spalle  (1) ,  come  avrebbe  dovuto 
fare  a  procacciar  onesta  vita  a  sé  e  agli  altri,  se  non 
si  fosse  piegato  a  prestare  i  suoi  servigi  a  qualche  po- 
tente signore?  Oh  se  fosse  stato  solo  non  si  sarebbe  egli 
inchinato  dinnanzi  ad  alcuno!  Se  fossi  stato  solo,  dice, 

«  La  pazzia  non  avrei  delle  ranocchie 
Fatta  giammai,  dMr  procacciando  a  cui 
Scoprirmi  il  capo  e  piegar  le  ginocchie  »  (2). 

Ecco  qual'era  il  servilismo  di  cui  fu  accusato  l'Ariosto. 


VI. 


Data  cosi  un'  occhiata  generale  al  poema  e  veduto 
come  alle  linee  fondamentali  abbia  l' autore  cercato  d' im- 
primere un  carattere  classico,  nasce  spontanea  la  do- 
manda: e  particolarmente  o  meglio  partitamente ,  che 
posto  occupa  neir Orlando  l'imitazione  classica,  e  quale 
ne  è  l'estensione? 

Non  ci  peritiamo  a  rispondere  che  questo  posto  è 
molto  grande,  più  grande  di  quello  che  esso  appaia  a 
prima  vista.  Cade  qui  in  acconcio  dichiarare  e  quindi 
illustrare  come  questa  imitazione  si  può  dividere  nelle 
seguenti  categorie: 

/  personaggi,  foggiati  su  stampo  classico. 

GU  episodi  tolti  dal  mondo  greco-romano. 

Le  tradizioni  classiche  e  mitologiche  modificate  e 
adattate  alle  circostanze. 

Le  immagini,  i  concetti,  le  similitudini  tolte  o  imi- 
tate dai  classici,  sparse  qua  e  là  per  tutto  il  poema. 

(1)  Satira  IV,  v.  17. 

(2)  Id.  id.,  V.  19. 


258  CORRADO  ZAOCHETTI 

Vediamo  d' intrattenerci  brevemente  e  separatamente 
su  ciascuna  di  queste  categorie,  cercando  d'esser  più 
brevi  che  potremo  e  cominciando  appunto  dai  personaggi. 


Molti  dei  personaggi  che  l'Ariosto  fa   operare  n^ 
suo  poema,  sono  una  copia  o  una  trasformazione  più 
meno  lontana ,  o  una  contaminazione  dei  personaggi  cT] 
la  classica  antichità  ci  tramandò  nelle  opere  dei  s^ 
sommi  (1).  E  si  badi  che  dicendo  questo  non  voglia^)] 
cadere  nelle  esagerazioni  di  alcuni  i  quali  in  ciascun  per. 
sonaggio  dell'Orlando  vedono  una  riproduzione  fedele  dì 
qualche  classico  personaggio.  Fausto  da  Longiano,  aj 
esempio,  nelF Orlando  Furioso  e  con  le  annotationì,  gli 
avvertimenti  et  le  declarationi  di  Gerolamo  Ruscelli  i, 
edito  a  Venezia  nel  1558,  pei  tipi  del  Valgrisio,  asserisce 
che  e  per  Carlo  re  di  Francia  ritrasse  Latino;  per  Agra- 
mante  Turno  ;  per  Orlando  e  Ferraù,  Messapo  et  Achille; 
per  Rodomonte  Mesenzio;  per  Marfisa  et  Bradamaote, 
Pantasilea  e  Camilla;  per  Alcina,  Circe;  per  CloridaQoet 

Medoro ,  Niso  et  Eurialo  ; per  Melissa ,  luturna  ;  per 

Brandino  balio  di  Brandimarte,  Acete  balio  di  Palante...... 

Come  si  vede,  pochi  personaggi  del  poema  sono  siali 
dimenticati;  ma  che  abbiano  a  fare  re  Carlo  con  Latino, 
e  Agramante  con  Turao ,  e  Ferraù  con  Messapo ,  se  lo 
saprà  messcr  Fausto  da  Longiano  ;  noi  no.  Un  altro  che 
rivede  le  buccio  air  Ariosto  con  un  accanimento  degno 
di  miglior  causa,  è  Udeno  Nisiely  (Benedetto  Fioretli) 
ne'  suoi  Proginnasmi  Poetici  (2).  Il  Proginnasma  152  ha 

(1)  Alcune  contaminazioni  sono  di  personaggi  classici  tra  di  loro, 
altre  di  personaggi  classici  con  romanzeschi. 

(2)  Firenze,  Cecconcelli,  1627. 


l'imitazione  classica  nell' orlando  fubioso       259 

qaesto  poco  lusinghiero  titolo:  e  Diversi  scrittori  aperti 
usurpatori  delie  cose  altrui  e  delle  proprie,  specialmente 
Virgilio  e  r  Ariosto  »,  e  comincia  anche  in  una  maniera 
poco  riverente,  come  potrà  vedere  chi  ne  abbia  la  cu- 
riosità. 

Ma  veniamo  all'esame  dei  personaggi  e  cerchiamo 
di  non  peccare  né  per  sovrabbondanza  né  per  difetto.  E 
cominciamo  da  quello  che  io  vorrei  chiamare  il  protago- 
nista del  poema,  Ruggero.  Ruggero,  e  per  il  fine  col 
quale  è  introdotto  nel  racconto  e  per  altre  estrinseche 
ed  intrinseche  rassomiglianze,  è  proprio  una  riproduzione 
ieìV  Enea  Vergiliano.  In  lui  vanno  a  riunirsi  le  fila  del- 
l' Orlando,  come  in  Enea  quelle  dell'  Eneide  ;  i  suoi  amori 
contrastati  sono  un'  ampia  parte  dell'  Orlando ,  come  quelli 
d'Enea  per  Lavinia  dell'Eneide;  colle  nozze  agognate  da 
Ruggero  ha  fine  il  poema  italiano,  con  quelle  desiderate 
da  Enea  il  poema  latino.  Modello  Ruggero  del  buono  e 
galante  cavalìero  e  uomo  di  squisita  gentilezza  e  quasi  per- 
fetto, troppo  perfetto;  appunto  come  Enea  era  l'esem- 
plare del  duce  saggio,  del  pietoso  figlio,  del  fedele  (e 
nulla  più)  amante;  invescato  per  arti  soprannaturali  Enea 
neir  amore  di  Didone,  invescato  Ruggero  per  arti  magiche 
in  quello  di  Alcina;  che  più?  anche  gli  appellativi  che  i 
due  autori  danno  ai  loro  personaggi  si  corrispondono  (1)  ; 
che  nell'Eneide  abbiamo  quel  monotono  e  freddo  pius 
Aeneas ,  e  nell'  Orlando  il  buon  Ruggero ,  anch'  egli ,  se 
vogliamo,  un  po' monotono  colla  sua  eterna  bontà.  Ma 
non  quanto  il  pius  Aeneas;  sebbene  anche  Ruggero  sia 
un  po'  troppo  perfetto  per  uomo ,  pure  egli  è  più  uomo 
di  Enea ,  è  un  po'  più  di  lui  agitato  dalle  passioni  umane, 
e  un  po'  più  di  lui  vive,  sente  e  s'  agita.  Ma  il  personag- 
gio di  Ruggero  non  risulta  composto  di  un  solo  classico 

(i)  Hajna,  op.  ciL 


l'  imitazione  classica  nell*  orlando  furioso       961 

in  due  parti:  la  parte  che  diremo  estema  e  circostan- 
ziale è  andata  a  far  parte  principalmente  del  personaggio 
di  Roggero  ;  la  parte  interna  o  morale  e  del  carattere  ha 
contribuito,  per  quanto  poteva  contribuire,  alla  creazione 
del  personaggio  d' Orlando. 

Curiosa  spezzatura,  e,  ci  sembra,  non  difiQcile  ad 
essere  veduta ,  e  tuttavia  non  mai  osservata ,  eh'  io  mi 
sappia. 

Anche  alle  donne  guerriere  del  Furioso ,  quantunque 
non  ne  manchino  nel  mondo  romanzesco,  non  si  può 
negare  una  certa  parentela  classica,  e  non  so  dar  torto 
a  messer  Fausto  da  Longiano  (1) ,  quando  in  Bradamante 
trova  alcune  somiglianze  con  Camilla  ;  come  non  ha  torto 
di  dire  che  il  millantatore  Rodomonte  ritrae  qualchosa 
del  Mesenzio  di  Vergilio  sulla  cui  bocca  le  parole  e  le 
disfide  non  corrono  meno  fiere  che  su  quella  del  feroce 
pagano. 

In  quanto  ad  Angelica,  naturalmente  non  vi  è  né  può 
esservi  alcun  classico  riscontro  :  Angelica  è  la  donna  leg- 
gera e  sensuale,  ornata  di  molti  pregi  fisici  e  macchiata 
di  molti  difetti  morali ,  quale  ce  l' avea  tramandata  il 
Medio-Evo  e  qual'era  ancora  ai  tempi  dell'Ariosto:  in- 
costante, infedele,  capricciosa;  fa  ammattire  per  i  suoi 
begli  occhi  cento  cavalieri  e  lascia  cogliere  il  puro  fiore 
della  sua  verginità  da  un  imberbe  ed  umile  giovinetto, 
dai  pagano  Medoro,  che  ne  fa  ogni  sua  voglia  per  prati, 
per  boschi  e  per  caverne.  Tuttavia,  chi  volesse  essere 
proprio  scrupoloso,  potrebbe  trovarle  questa  circostanziale 
somiglianza  con  Criseide:  che  come  di  Criseide  si  serve 
Omero  per  far  nascere  discordia  tra  combattenti  della 
medesima  fazione,  nello  stesso  modo  si  serve  l'Ariosto 
d'  Angelica;  (e,  tra  parentesi,  anche  il  Tasso  farà  in  se- 

(1)  Op.  cit.  loc.  cìt. 


262  CORRADO  ZUCCHETTI 

guito  della  sua  Armida,  il  pomo  di  discordia  tra  ì  ca?a- 
iieri  del  pio  Buglione  ).  —  Ma,  come  si  vede,  è  questo  un 
ravvicinamento  del  tutto  esteriore  e  secondario  e  che 
non  tocca  affatto  il  carattere  e  V  indole  della  donna  (1). 
Quanto  ai  personaggi  secondari ,  anche  qui  si  pos- 
sono venir  notando  delle  classiche  somiglianze:  Alcioa 
che  converte  gli  amanti  in  pesci,  in  fonti,  in  piantela 
animali  (2)  è  certo  una  seconda  edizione  della  Circe 
classica  e  T  insegnamento  morale  che  si  deve  rilrarre 
dalle  due  allegorie  è  il  medesimo  :  che  gli  sfrenati  pia- 
ceri sensuali  imbestialiscono  l'uomo;  Gabrina,  la  scelle- 
rata vecchia  amica  dei  malandrini,  i  cui  casi  s'iDlrec- 
ciano  con  quelli  della  dolente  Isabella  (3),  è  tolta  dal 
libro  IX  delle  Metamorfosi  d'Apuleio  (4);  e  infine  la 
saggia  e  prudente  Melissa ,  che  tanta  cura  si  prende  di 
Bradamante ,  oltre  che  ritrarre  generalmente ,  come  pare 
al  Bajna  (5),  gli  dei  protettori  degli  uomini,  pare  a  me 
che  abbia  particolarmente  una  grande  rassomiglianza  con 
Mentore,  il  duce  e  il  consigliere  di  Telemaco,  Minerva 
insomma,  cioè  la  sapienza  sotto  umane  forme:  giacché 
anch'  essa  prende  le  forme  di  Atlante,  precettore  di  Rug- 
gero, per  rimproverarlo  mentre  nell'isola  d' Alcina s' ab- 
bandona in  braccio  alla  voluttà,  come  Minerva  prende  le 
sembianze  di  Mentore,  precettore  di  Telemaco;  e  come 
Telemaco  non  dà  un  passo  e  non  formula  si  può  dire 
un  pensiero  senza  consigliarsi  con  Mentore,  cosi,  per  un 
cerio  spazio  di  tempo,  Bradamante  si  lascia  ciecamente 
guidare  da  Melissa. 

(1)  Non  vogliamo  lacere  che  neirinnamoralo  pure  Angelica  serve 
allo  stesso  fine. 

(2)  C.  VI,  51  e  seg. 

(3)  C.  XXI. 

(4)  Hajna,  op.  cit.,  pag.  Ì97. 

(5)  Op.  cit. 


l'imitazione  classica  nell* orlando  furioso       263 


VII. 


Ud  larghissimo  campo  di  ricerche  e  di  confronti  da- 
rebbero gli  episodi,  giacché  non  piccola  parte  di  quelli 
che  formano  T intreccio  dell'Orlando  sono  tolti  da  fonti 
classiche,  e  in  ispecial  modo  da  Ovidio,  da  Yergilio  e  da 
Omero,  che  io  non  esiterei  a  chiamare  la  triade  più  amo- 
rosamente studiata  e  più  profondamente  conosciuta  dal 
nostro  autore.  Ma  come  l'esaminare  tutti  gli  episodi  ario- 
steschi  imitati  dai  classici  sarebbe  troppo  lungo  ed  anche 
noioso,  ed  anche  inutile  da  parte  nostra  perchè  fatto, 
sebben  con  altro  concetto,  da  altri,  io  mi  limiterò  a  di- 
stribuirli in  categorie,  a  seconda  del  vario  modo  con  cui 
si  esercitò  l' imitazione ,  dando  per  ciascuna  categoria  gli 
esempi  più  cospicui. 

Gli  episodi  del  Furioso  che  risalgono  ad  una  fonte 
classica,  si  possono  primieramente  dividere  in  due  prin- 
cipali categorie. 

I.  Puri  (1). 

II.  Contaminati. 

La  seconda  categoria  può  a  sua  volta  dividersi  in 
due  sotto  categorie: 

1)  Episodi  resultanti  da  contaminazione  di  due  o  più 
fonti  classiche. 

2)  Episodi  resultanti  da  contaminazione  di  fonti  clas- 
siche con  fonti  romanzesche. 

Questa  seconda  sottocategoria  può,  a  sua  volta,  di- 
stinguersi in  altre  due: 

(1)  Dicendo  puri,  intendo  di  dire,  naturalmente,  episodi  tolti  da  un 
autore  in  grandissima  parte  ;  nei  quali  però  vi  sien  pure  anche  immagini 
0  concetti  tolti  da  altri:  essendo  molto  difficile  che  T  Ariosto  imiti  un 
autore  in  modo,  da  non  lasciare  adito  che  qualche  altro  faccia  almeno 
capolino 


264  CORRADO  ZACCHETTI 

a)  Contaminazioni  classico -romanzesche  con  preio- 
minio  dell'  elemento  classico. 

b)  Contaminazioni  classico-romanzesche  con  predo- 
minio delV  elemento  romanzesco. 

Ora,  secondo  la  nostra  promessa,  daremo  per  ogni 
categoria  ano  o  più  esempi  tra'  pia  cospicai  (1). 

Dicevamo  che ,  innanzi  tatto ,  v'  ha  neli'  Ariosto  epi- 
sodi classici  fmri.  A  questa  classe  appartiene  il  racconto, 
abbastanza  freddo  e  scolorito,  in  cui  si  fa  la  genealogia 
degli  estensi.  Bradamante  per  il  tradimento  di  Pinabello 
precipitata  nella  spelonca  di  Merlino  (2) ,  si  sente  predire 
dallo  spirito  di  quel  mago,  che  parla  dalla  tomba,  le  sorti 
della  sua  schiatta,  di  quella  cioè  che  uscirà  del  suo  ma- 
trimonio con  Ruggero,  che  sarà  poi  quella  degli  Estensi. 
É  un  episodio  noioso,  se  vogliamo,  per  i  lettori,  ma 
di  cui  ad  ogni  modo,  dovette  prendersi  cura  il  poeta, 
che  doveva  in  questo  punto  far  gli  elogi  de'  suoi  Mece- 
nati. Ed  ecco  che  T  Ariosto  crede  di  non  potere  in  altro 
modo  dar  lustro  al  suo  racconto  che  conducendolo  sopra 
un  modello  classico  ;  ed  eccolo  sulle  orme  di  Vergilio.  Nel 
libro  VI  dell'  Eneide  si  legge  che  Enea,  sceso  per  divino 
volere  all'  inferno,  ode  dall'  ombra  del  padre  Anchise  le 
imprese  degli  spiriti  più  insigni  che  illustreranno  Roma 
ed  il  sangue  d'Augusto,  spiriti  che  il  padre  viene  indi- 
cando al  figlio  di  mano  in  mano  che  gli  passano  davanti: 
la  sfilata  degli  spiriti  avviene  in  modo  e  in  condizioni 
eguali  nell'Eneide  e  neir  Orlando.  Anchise  dice  ad  Enea: 


(1)  In  questa  parte  della  mia  ricerca  mi  fu  naluralmenle  di  molla 
utilità  r  opera  più  volle  citala  del  Hajna,  Le  fonti  dell'  Orlando  Furm- 
Dichiarandolo  qui  mi  dispenso  dal  citarlo  ogni  qualvolta  dovrei  ciò  f-^re 
per  obbligo  di  giustizia. 

(2).  Canto  III 


l'  imitazione  classica  nbll'  orlando  furioso       ?65 

«  Nune,  age,  Dardaniam  prolem,  quae  deinde  sequatur 
Gloria,  qui  maneant  itala  de  gente  nepotes 
Illustris  animas  nostrumque  in  nomen  ituras, 
Expediam  dictis  et  te  tua  fata  docebo  »  (1). 

E  lo  spirito  di  Merlino  grida,  appena  Bradamante  ha  var- 
cate le  soglie  del  sacro  speco: 

«  0  casta  e  nobilissima  donzella 
Dal  cui  ventre  uscirà  il  seme  fecondo 
Che  onorar  deve  Italia  e  tutto  il  mondo  »  (2). 

Comincia  quindi,  in  entrambi  i  racconti,  la  sfilata  degli 
spiriti.  Il  primo  che  si  presenta,  nel  poema  latino,  è  cosi 
indicato  da  Anchise  ad  Enea: 

«  Illa  vides,  pura  iuvenis  qui  nititur  basta, 
proxima  sorte  tenet  lucis  loca  primus  ad  auras 
aetberias,  italo  commixto  sanguine  surget  »  (3). 

E  da  Melissa  a  Bradamante: 

«  Vedi  quel  primo  che  ti  rassomiglia 
Ne*  bei  sembianti  e  nel  giocondo  aspetto  ? 
Capo  in  Italia  fia  di  tua  famiglia, 
Dei  seme  di  Ruggero  in  te  concetto  »  (4). 

Fin  qui,  non  c'è  che  dire,  i  due  poeti  camminano  di 
pari  passo.  Durante  il  passaggio  degli  spiriti,  pare  fac- 


(1)  v.  75. 

(2)  St  16. 

(3)  V.  775. 

(4)  SU  24. 


266  CORRADO  ZAOCHETTI 

ciano  a  chi  le  sballa  più  grosse  nel  glorificare  ranoÀo— 
gusto  e  i  Romani,  l'altro  il  cardinale  Ippolito,  il  duca 
Alfonso  e  la  prosapia  estense.  Allorché  tatti  gli  spiriti  sono 
spariti,  Bradamante  domanda  a  Melissa: 

« chi  son  li  due  si  tristi 

Che  tra  Ippolito  e  Alfonso  abbiamo  visti?  »  (1). 

Proprio  qaello  che,  qaasi  colle  stesse  parole,  Enea  ad 
Anchise  : 

«  Atque  hic  Aeneas,  una  namque  ire  vìdebat 
Aegregiuro  forma  ìuvenem  et  fulgentìbus  armis 
Sed  frons  laeta  parure  et  deiecto  lumina  voltu, 
Quis,  pater,  Ole,  viruro  qui  sie  comitatur  cuntem 
Filius  anne  aliquis  magna  de  stirpe  nepotum? 
Qui  strepitus  circa  comitum!  quantum  instar  in  ipso, 
Sed  non  extra  caput  tristis  circumvolat  umbra  »  (2). 

Il  padre  Anchise  piange  a  calde  lagrime;  Melissa  poi 
ne  sparge  addirittura  un  torrente.  Vergilio,  con  modera- 
zione : 

«  Tum  pater  Anchises  lacrymis  ingressus  oborlis: 
0  gnate,  ingentem  luctum  ne  quaere  tuorum  >  (3). 

E  l'Ariosto,  rinforzando  la  dose: 


«  Pai've  che  a  tal  domanda  si  cangiassi 
Li  maga  in  viso  e  fé' dagli  occhi  rivi  ». 


(1)  V.  855. 
(i)  V.  855. 
(3)  V.  862. 


l'  imitazione  classica  nell'  orlando  furioso       267 

«  Statti  col  dolce  in  bocca  e  non  ti  doglia 
Ch'amareggiare  al  fin  non  te  la  voglia  »  (1). 

Come  si  vede  in  questo  episodio  il  modello  latino  è 
proprio  ricopiato  sulla  falsariga  ;  e  il  medesimo  deve  dirsi 
di  alcuni  altri  (2). 

(1)  Si.  61-62. 

(2)  Quantunque  nel  Boiardo  vi  sia  rassegna  di  eserciti,  pure  io  cre- 
derei che  la  doppia  mostra  che  si  trova  nel  Furioso  (Tuna  degli  aiuti 
d'Inghilterra,  d'Irlanda  e  di  Scozia,  a  cui  assiste  Ruggero  (X,  75-89), 
r  altra  delle  genti  saracine  sotto  Parigi  (XIV,  11,  28)  sia  proprio  una 
derivazione  di  rassegne  classiche,  perché  ha  il  tono  solenne  ed  uggioso 
delle  rassegne  di  Omero  e  di  Vergilio,  nei  quali  vi  sono  due  riviste  dif- 
ferenti. Argutissimo  è  quanto  scrive  il  Rajna  a  questo  proposito  (op.  cit. 
p.  159  e  seg.).  Altri  episodi  tolti  da  una  sola  fonte  classica,  non  man- 
cano. La  venuta  di  Rinaldo  a  Parigi  (II,  26)  e  T  incarico  datogli  da 
Carlo  di  andare  in  Inghilterra  per  aiuti  e  la  sconGtta  eh'  egli  dà  ad  Agra- 
mante  nel  ritomo,  fa  pensare  ad  Enea,  il  quale,  dopo  aver  ricorso  per 
aiuti  ad  Evandro,  al  suo  ritorno  mette  in  rotta  le  genti  di  Tarno.  In 
quanto  alla  burrasca  da  cui  Rinaldo  è  sorpreso  in  viaggio,  il  Rajna  vor- 
rebbe vedervi  un'influenza  romanzesca;  noi,  specialmente  per  la  forma 
esteriore,  vorremmo  confrontarla  alle  tante  tempeste  che  ci  offre  l'anti- 
chità classica.  Chi  non  ricorda  quante  volte  l'astuto  Ulisse  fu  sul  punto 
di  servir  di  pasto  a' pesci?  ed  anche  il  padre  Enea  non  è  egli  spesso 
minacciato  di  andar  a  fare  un  tuffo  in  acqua?  —  Rodomonte,  che  stanco 
dalla  strage  fatta  a  Parigi  si  bulla  in  acqua  e  sfugge  ai  nemici  (XVIII, 
17)  ha  il  suo  riscontro  in  Turno  il  quale  affaticato  anch' egli  dalle  pro- 
dezze operate  nel  campo  troiano,  ne  esce  buttandosi  a  nuoto  nel  fiume 
(IX,  785).  Naturalmente  Turno  é  un  po' meno  feroce  di  Rodo(|^ontc,  e 
non  uccide  i  nemici  a  migliaia  e  migliaia  come  il  terribile  pagano.  — 
Come  Enea  e  Inalino  (XII,  1  3),  Carlomagno  ed  Agramante  (XXXIX,  51) 
giurano  di  rimettere  la  decisione  della  guerra  ad  un  singoiar  certame.  A 
chi  non  vengono  (jui  in  mente  Tito  Livio  e  il  combattimento  tra  gli  Grazi 
e  i  Curiazi,  fatto  per  risparmiare  sangue?  —  Le  esequie  di  Brandamante 
e  l'elogio  funebre  a  lui  recitato  da  Orlando  (XLIII,  165)  richiamano 
molto  da  vicino  gli  onori  che  Enea  rende  a  Pallante  e  l'elogio  funebre 
recitato  dal  duce  troiano  per  l' amico  estinto  ;  e  il  dolore  e  le  lagnanze 
che  Fiordìligì  fa  sul  corpo  del  morto  amante,  sono  parallele  al  dolore  e 
ai  lamenti  di  Evandro  per  la  morte  del  flgliuolo.  Infine,  come  avemmo 


268  CORRADO  ZACCHETTI 

Ma  più  spesso  di  an  solo  classico  modello,  T au- 
tore ne  ebbe  davanti  parecchi,  e  ne  trasse  delle  belle 
e  audaci  contaminazioni.  Chi  non  conosce  Taffettaoso 
episodio  di  Gloridano  e  Medoro  ?  (1)  E  chi  non  sa  che 
deridano  e  Medoro  discendono  in  linea  direttissima  dai 
Vergiliani  Eurialo  e  Niso?  (2).  Quello  però  che  non  a 
tutti  è  noto ,  si  è  che  qui  1'  Ariosto  non  imitò  il  solo 
Vergilio,  ma,  come  il  Bolza  ha  minatamente  esami- 
nato, (3)  anche  Stazio:  là  dove  l'esemplare  VergiliaDO 
era  o  pareva  in  qualche  modo  deficiente,  il  nostro  autore, 
non  invano,  si  rivolge  a  Stazio  (4)  :  altra  prova  del  finis- 
simo gusto  di  quel  sommo,  il  quale  non  imitava  a  ca- 
saccio, ma  come  V  arte  gli  dettava.  Prendiamo  brevemente 
in  esame  l'accennato  episodio  co' suoi  modelli.  Eurialo  e 
Niso  compiono  la  loro  impresa  notturna  per  infonuare 
Enea  intorno  alle  cose  del  campo;  Gloridano  e  Medoro 
per  seppellire  il  cadavere  dell'  amato  loro  signore  Dar- 
dinello  :  a  primo  tratto,  per  il  nobile  scopo  che  li  guida, 
i  due  personaggi  ariosteschi  diventano  più  simpatici  di 


jj'ià  occasione  di  dire,  il  combatlimento  finale  tra  lUiggero  e  Rodomonle 
è  fatto  sul  modello  di  Vergilio.  Se  non  che  l' indole  diversa  dei  duo  au- 
tori e  il  nìodo  differente  col  quale  essi  conducono  i  loro  racconlj,  appa- 
iono qui  manifesti:  che  Vergilio  prepara  lungamente  il  lettore  alla  ca- 
tastrofe, mentre  la  comparsa  e  la  dislida  di  Rodomonte  turbano  impro^- 
visamenj^  la  gioia  delle  nozze  tra  Uuggero  e  Bradamanle.  Enea,  ad  imi- 
tazione degli  eroi  (P  Omero,  assalta  con  fieri  e  mordaci  rimproveri  Turno; 
cui  l'appressarsi  del  fato,  manifestatogli  da  segni  sovrannaturali,  renti< 
privo  di  baldanza:  buggero  e  Rodomonte  vengono  subilo  alle  roani st'iu*' 
tanti  preamboli:  per  Enea  combatte  il  favore  degli  Dei,  Ruggero  ik« 
poteva  confidare  che  nella  buona  tempra  della  sua  spada  e  nel  vi^'oro 
del  suo  braccio  (Vedi  Bolza,  Manuale  Ariosiesco,  Venezia,  1SG8). 

(1)  C.  XVIH,  lOi  e  reg.  —  XIX,  1  e  seg. 

(:2)  IX,  176. 

(3)  Op.  cil.  pag.  XXXI. 

(4)  Theb.  X,  3i8. 


l'  imitazione  classica  nell'  gelando  fukioso       269 

quelli  di  Vergilio.  Questa  circostanza  importante,  l' autore 
l'ha  ricavata  da  Stazio,  presso  il  quale  Opleo  e  Dimante 
si  muovono  per  ricercare  il  morto  Tideo,  loro  signore. 
Eurìalo  e  Niso  non  partono  che  col  consenso  dei  loro 
capi;  Cloridano  e  Medoro  di  propria  volontà  e  senza 
chiederne  il  permesso  si  avventurano  alla  morte:  Eurialo 
è  impedito  nella  fuga  dal  fatto  bottino,  Medoro  dal  peso 
del  corpo  del  morto  signore.  Anche  queste  circostanze, 
chi  non  lo  vede  ?  —  sono  tutte  a  vantaggio  dei  due  per- 
sonaggi ariosteschì,  e  anch'esse  sono  tratte  da  Stazio. 

Venendo  ad  altri  episodi  non  meno  noti,  che  s'ha 
a  dire  dell'isola  d'Alcina  e  del  soggiorno  che  Ruggero 
vi  fa?  (1).  Sarei  tentato  di  dire  che  alla  formazione  di 
questo  episodio  ha  concorso  tutto  il  parnaso  classico. 
L' isola  assomiglia  alle  isole  dei  beati  (at  tójv  puxxoEpeov  v^aoi) 
degli  antichi;  il  mirto  che  per  le  stratte  dell' ippogrifo 
che  vi  sta  legato  sparge  sangue  e  si  lamenta  e  narra  la 
sua  storia,  ha  un  perfetto  riscontro  nel  Polidoro  di  Vir- 
gilio (2);  Alcina  che,  simbolo  della  voluttà,  converte  gli 
amanti  in  sassi,  fonti,  fiere,  è  fatta  ad  immagine  e  somi- 
glianza della  Circe  dell'  Odissea,  che  muta  i  suoi  ganzi  in 
maiali:  ma  come  troppo  sarebbe  spiaciuto  al  lettore  ve- 
dere il  saggio  Astolfo  grugnire  col  grifo  entro  il  brago, 
cosi  l'autore  pensa  bene  di  convertirlo  in  una  nobile 
pianta.  Le  altre  trasformazioni  sono  cosi  manifestamente 
copie  esatte  di  quelle  che  si  trovano  nelle  Metamorfosi, 
che  non  ci  sarebbe  neppur  bisogno  di  avvertirlo.  L' an- 
sia di  Ruggere  che  scoppia  dal  desiderio  di  stringere 
tra  le  sue  braccia  la  formosa  Alcina,  è  ricavata  da  alcuni 
versi  dell'epistola  d'Ero  a  Leandro  nelle  Eroidi  d'Ovi- 
dio (3)  ;  lo  stesso  Ruggero  che  in  preda  alla  voluttà  scorda 

(1)  V,  17  e  seg.;  Vili,  3  e  seg.;  X,  48  e  seg. 

(2)  i  En.  H!,  19.  Cfr.  anche  Dante,  Inf.,  XIII,  31. 

(3)  Epist  XIX,  y.  41-54. 

Voi.  IV,  Parte  li.  i8 


270  CORRADO  ZAOCHETTI 

sé  Stesso  e  il  mondo,  è  od  impasto  cosi  ben  riuscito  di 
tanti  elementi  classici,  che  mal  si  potrebbe  dire  qual  più 
e  qual  meno  v'  abbia  contribuito  ;  basterà  ricordare  Ulisse 
presso  Circe,  Ulisse  presso  Galipso,  Enea  presso  DidoDe, 
Ercole  presso  Omfale  ;  e  come  Melissa,  viene  sotto  false 
sembianze  a  Ruggero,  cosi  Mercurio  libera  Ulisse  in 
Omero,  Enea  in  Vergilio. 

La  stessa  molteplice  contaminazione  si  ha  nel  rac- 
conto di  Angelica  esposta  all'  orco  (1)  :  quand'  ella  è  tratta 
per  mare  contro  sua  voglia  dal  cavallo,  ella  è  modellata 
su  Europa  rapita  da  Giove  quale  ce  la  descrive  Ovidio 
(Met.  II,  870).  Discesa  a  terra,  cessa  di  essere  Europa 
per  pigliare  le  sembianze  di  Arianna  abbandonata  da 
Teseo,  come  ce  la  descrissero  Catullo  (Epital.,  60)  e 
Ovidio  (Her.  X).  Quand'essa  sta  per  essere  sacrificata 
alla  fiera  orca  che  esige  il  tributo  di  sangue  dall'  isola  di 
Ebuda  —  e  qui  il  racconto  s' accosta  anche  al  mito  del 
Minotauro  dell'  isola  di  Creta  — ,  e  vien  salvata  da  Rog- 
gero suU'ippogrifo  e  col  mezzo  dello  scudo  incantato, 
divien  simile  ad  Andromeda  che  Perseo  salva  dal  mostro 
marino,  come  narra  Ovidio  (Met.  Ili,  663).  Il  Rajoa  fa 
anche  notare  che  insieme  all'  Andromeda  di  Ovidio  ci  son 
qui  parecchi  sfumature  deir  Esione  di  Valerio  Fiacco  (il 
Non  basta:  recentemente  il  sig.  G.  Merici  in  un  arlico- 
letto  della  Vita  nuova  (Anno  li,  n.  23),  ci  ha  fatto  sa- 
pere che  alcune  tinte  e  alcune  circostanze  sono  tolte  da 
Manilio  che  nel  V  libro  dell'  Astrotwmicon  descrive  An- 
dromeda esposta  all'  orco  marino  e  liberata  da  Perseo. 

Resta  ora  a  dire  qualchecosa  dell'  altro  genere  di 
contaminazione,  cioè  di  quello  di  fonti  classiche  con  ro- 
manzesche. Chi  ci  è  venuto  fin  qui    pazientemente  se- 

(1)  VHI,  35  e  seg.;  X,  3  e  seg. 

(2)  Op.  cil.,  p.  i68. 


L*  IMITAZIONE  CLASSICA  NELL'  ORLANDO  FURIOSO  271 

gnendo  —  (certo  della  pazienza  ne  dovrà  avere  avuta 
pia  che  Sant'Antonio)  —  si  sarà  accorto  che  messer 
Lodovico  aveva  per  gli  autori  antichi  un  rispetto  fin 
eccessivo  ;  è  quindi  naturale  eh'  egli  preferisse  contami- 
nare due  autori  classici  e  due  autori  romanzeschi,  tra 
di  loro,  piuttostochè  gli  uni  cogli  altri.  E  cosi,  quando 
si  serve  di  una  fonte  classica  e  di  una  romanzesca,  la 
romanzesca,  per  solito,  fornisce  la  tela  del  quadro,  la 
classica  i  colori.  Cosi  l' episodio  della  famosa  caverna  alla 
quale  capita  Orlando  (1)  è  tolto  in  parte  dall'il^mo  d'A- 
puleio (2),  e  la  storia  d' Isabella  che  vi  s' intreccia ,  ha 
una  certa  somiglianza  con  un  racconto  del  Guiron  (3); 
anzi  questa  contaminazione  ci  porge  il  destro  di  fare 
un'osservazione  che  non  avevamo  fatta  fin  qui:  la  prima 
parte  dell'episodio,  tolta  da  una  fonte  classica,  è  ricono- 
scibile a  prima  vista ,  l' imitazione  della  seconda  parte, 
ispirata  ad  una  fonte  romanzesca  richiede  per  essere 
ravvisata  l'occhio  d' un  agente  di  pubblica  sicurezza,  come 
dice  il  Rajna  (4):  tanto  Io  spirito  dell'Ariosto  era  con- 
forme  alh  spirito  classico  ed  alieno  dal  romanzesco. 
Nello  sterminio  che  Orlando  fa  dei  ladri  della  spelonca,  noi 
torniamo  al  classico,  e  Ovidio  e  Stazio  si  contendono  il 
campo.  Io  classificherei  quindi  questo  episodio  tra  quelli 
in  cui  il  classico  predomina  sul  romanzesco.  Un  episodio 
in  vece  classificabile  tra  quelli  in  cui  il  romanzesco  pre- 
vale sul  classico,  è  quello  del  gigante  Orrillo  (5),  episo- 
dio a  cui  è  fornita  molta  materia  dal  Boiardo  che  tratta 
quest'  episodio  senza   compirlo  (6),  e   molte   circostanze 

(4)  XII,  86. 

(2)  I,  IV 

(3)  F.  334. 

(4)  mi,  35. 

(5)  XV,  43. 

(6)  in,  in. 


272      ^  OOBRADO  ZACCHETTl 

dal  mondo  antico,  come  quella  del  capello  incantato  (Si. 
79)  dal  quale  dipende  la  vita  del  gigante  e  che  non  è 
difficile  rintracciare  nel  fatale  capello  di  Ptelerao  (1). 

Potrei  seguitare  ancora  un  pezzo  in  questa  classifi- 
cazione, ma  dissi  fin  da  principio  che  mi  sarei  accon- 
tentato di  accennare  agli  esempi  più  cospicui  D'altn- 
parte,  chi  volesse  trarsi  la  curiosità,  lo  rimandiamo  al 
bel  lavoro  del  Rajna  più  volte  citato:  in  esso  troTerà 
esaminati  nelle  loro  fonti  tutti  gli  episodi,  e  non  gli  sarà 
quindi  diflScile  assegnare  ciascuno  ad  una  delle  categorie 
che  a  noi  piacque  farne:  servendosi  di  questa  nostra, 
qualunque  si  sia,  fatica,  come  d'uno  stampo  a  cai  a- 
dattare  del  materiale  con  un  altro  criterio  ordinato. 


VIU. 


Veniamo  da  ultimo  alle  tradizioni  classiche  e  mito- 
logiche, le  quali,  addattate  e  trasformate  secondo  i  tempi, 
i  luoghi  e  le  circostanze,  abbondano  anch'  esse  nel  Fu- 
rioso ;  e  qui  basterà  una  rapida  scorsa,  per  le  ragioni  coi 
acx!ennammo  in  principio  del  capìtolo  precedente. 


Le  due  fontane  dell'  amore  e  del  disamore  sono 
ispirate  dalle  forze  prodigiose  che  gli  anticlii  altriboivanu 
alle  acque,  come  si  può  rilevare  anche  da  un  passo  di 
Ovidio  (Met.  XV,  307).  Inoltre  nel  ApaiJLanxw  di  Giara- 
blico  è  nominata  al  capo  X  una  ^<ytì  eportxti  la  quale  pro- 
duce gli  stessi  effetti  di  quelli  della  selva  d' Ardenna  (2'. 
Non  è  anche  innaturale  ammettere  col  Rajna  che  Tidea 


(1)  Rajna,  op.  ciL,  pag.  226. 

(2)  Op.  ciL,  pag.  81. 


l'  imitazione  classica  dell'  orlando  furioso       273 

delle  dae  fontane  potesse  venire  dalle  due  specie  di  saette 
di  Cupido,  le  dorate  indacenti  amore,  le  plumbee  che 
lo  scacciano,  secondo  sappiamo  da  Ovidio  (Met.  I,  468). 
Abbiamo  inoltre  in  Glaadiano,  che  le  saette  acquistano 
le  diverse  loro  virtù  coir  essere  in  diverse  fonti  tuffate  (1). 
L'ippogrifo,  checché  ne  paia  al  Bolza  (2),  il  quale  lo 
riavvicina  ai  grifoni  delle  novelle  orientali,  ha  il  suo  pro- 
totipo nel  Pegaso  degli  antichi  ;  lo  scudo  di  Ruggero  il  cui 
barbaglio  fa  cader  tramortiti,  ha  certo  relazione  collo 
scudo  di  Minerva  in  mezzo  a  cui  stava  il  capo  di  Medusa 
che  pietrificava  chi  lo  guardava;  anche  questo  scudo  era 
tenuto  coperto,  e  lo  si  scopriva  solo  al  bisogno,  come 
da  Ovidio,  lY,  644.  L'anello  incantato  che  toglie  alla 
virtù  dei  mortali  chi  lo  mette  in  bocca,  è  una  deduzione 
fatta  dall'  anello  che  il  pastore  Gige,  divenuto  poi  re,  trovò 
nella  caverna  ;  né  so  perché  Fausto  da  Longiano  (3)  vada 
qui  a  scavar  fuori  la  nuvola  che  sottrasse  Enea  alla  vista 
dei  nemici.  Le  arpie  sono  quelle  che  si  ritrovano  in 
Omero,  Vergilio,  Ovidio,  Dante.  L' otre  in  cui  è  rinchiuso 
il  Noto  (XXXVIII,  30)  è  quasi  il  medesimo  di  quello  che 
Eolo  dà  ad  Ulisse  nell'Odissea  (II,  19);  infine  i  sassi 
mutati  in  cavalli  ricordano  Deucalione  e  Pirra  che  nelle  me- 
tamorfosi fabbricano  uomini  e  donne  collo  stesso  metodo. 


IX. 


Le  cose  adunque  fin  qui  dette,  ci  dimostrano  che 
l'Ariosto  conosceva  i  migliori  scrittori  latini  negli  origi- 
nali, e  i  più  grandi  scrittori  greci,  specialmente  Omero, 
nelle  traduzioni  latine  ;  dimostrano  che  delle  opere  di  quei 

(i)  Epital.  di  Onorio  e  Maria,  v.  69-71. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  XXII. 

(3)  Ed.  cit.  del  Valgrìsio. 


274  OORRiDO  ZAOCHETTI 

sommi  egli  coDOSceva  gV  intrecci ,  i  racconti ,  gli  avveoi- 
menti.  Ma  se  V  aver  imitato  gli  antichi  nelle  lìnee  princi- 
pali delle  loro  opere  prova  che  l' Ariosto  li  aveva  letti 
attentamente  e  che  ne  aveva  un'  ampia  conoscenza,  T  a- 
verli  anche  imitati,  com'  egli  fa,  nella  forma  esteriore,  Dei 
pensieri,  nelle  immagini ,  nelle  idee ,  nei  concetti ,  nelle 
movenze,  negli  atteggiamenti,  nelle  similitudini,  dimostn 
eh'  egli  l'aveva  studiati  e  ristudiati  con  grandissimo  amore, 
e  ricercati  profondamente ,  e  quasi ,  direi,  sviscerati  col 
coltello  anatomico.  E  di  tanta  classica  vivanda,  egli  non 
aveva  fatta  un'  inconsulta  scorpacciata,  ma  l' aveva  dige- 
rita e  assimilata  ;  e  come  un  cibo  ben  digerito  entra  a 
far  parte,  ne'  suoi  elementi  vitali  e  sostanziali,  dei  nostro 
organismo,  cosi  essa  era  andata  a  costituire  parte  intrin- 
seca del  modo  di  pensare  e  di  sentire  dell'Ariosto.  Star 
qui  a  raffrontare  tutti  i  singoli  passi  che  l'Ariosto  imitò 
dai  classici,  sarebbe  opera  inutile,  perchè  quasi  compio- 
tamente  fatta  da  Ludovico  Dolce  fin  dal  1543  (Ediz.  del 
Giolita)  e  dal  Ruscelli  nel  1556  (Ediz.  del  Valgrìsi),  e 
tra  i  moderni  da  molti  studiosi  e  commentatori  dell' A- 
rìosto,  tra  cui  il  Bolza  (op.  cit.)  e  il  Racheli  (Ediz.  di 
Trieste  del  1857).  Raccogliamo  invece  le  vele  e  riassu- 
miamo :  r  educazione  e  gli  studi  dell'  Ariosto ,  come  la 
sua  stessa  indole,  lo  portavano  a  riavvicioare  quanto  più 
poteva  il  poema  cavalleresco  air  epica  classica  ;  i  suoi 
classici  modelli ,  alle  volte  li  riproduce  tali  e  quali ,  più 
spesso  ne  contamina  due,  tre,  quattro  e  più  assieme,  e 
ne  ricava  un  tutto  organico  ed  armonioso  da  cui  non  si 
scorge  affatto  la  diversa  provenienza  dell'ispirazione  ;  meno 
spesso  fonde  insieme  fonti  classiche  con  romanzesche. 
Dove  un  esemplare,  fosse  pure  Vergilio,  gli  sembra  de- 
ficiente, egli  lo  abbandona  e  ne  prende  un  altro  :  le  fonti 
classiche  alle  quali  attinge  maggiormente  sono  T  Iliade, 
l'Odissea,  l'Eneide,  le  Metamorfosi,  la  Tebaide,  gliAr- 


L*  IMITAZIONE  CLASSICA  DELL'  ORLANDO  FURIOSO  275 

gonaati.  Da  Ovidio ,  Vergilio  ed  Omero  trae  in  abbon- 
danza immagini  e  concetti;  da  Vergilio  e  Catullo  molte 
delle  sue  bellissime  similitudini.  Il  grande  uso  della  con- 
taminazione che  si  riscontra  nel  nostro  poeta,  e  la  grande 
maestria  con  cui  se  ne  serve,  dimostrano  cb'  egli  non  imi- 
tava ciecamente  e  servilmente,  ma  raccoglieva  il  meglio 
donde  lo  trovava,  e  ne  formava  un  tutto  perfetto,  nel 
quale  non  si  può,  senza  acutezza  di  sguardo,  distinguere 
le  singole  parti.  Imitò  il  mondo  classico  non  solo  nel 
concetto,  ma  anche  nella  forma,  e  gli  autori,  non  super- 
ficialmente, come  poco  fa  argomentavamo,  ma  profon- 
dissimamente conosceva,  e  il  suo  spirito  ne  era  tutto 
imbevuto  ;  per  questa  ragione,  T  imitazione  classica  nel- 
r  Orlando  Furioso,  non  è  sforzata ,  ma  spontanea ,  natu- 
rale; essa  è  parte  essenzìalissima  del  poema,  come  era 
stata  parte  essenziale  dell'educazione  e  della  vita  del- 
l' autore,  dalla  cui  anima  cotesta  imitazione  sgorga  quasi 
da  fonte  novella,  serena,  limpida  e  pura;  e  perciò  essa 
piace,  e  perciò  fu  sempre  considerata  uno  dei  grandi 
meriti  del  Furioso.  Quello  che  in  altri  avrebbe  facilmente 
potuto  essere  difetto,  nell'  Ariosto  è  pregio  ;  prova  anche 
questa,  se  ve  ne  fosse  bisogno,  dell' altezza  e  della  sere- 
nità di  quel  divino  ingegno. 

Corrado  Zacghetti 


t 


,i 


LE  SCRITTURE  IN  VOLGARE 

DBI    PRIMI    TRB    SECOLI    DBLLA    LINOUJ) 

RICERCATE  NEI  CODIQ 

DELU  BIBUOTECA  NAZIONALE  DI  NAPOLI 


(ContiinBUDODe  da  Pag.  151,  N.  S.,  Voi.  1,  Parte  11). 


xui.  e.  1. 

Codice  membranaceo  della  prima  metà  del  sì 
XV,  alto  cent  37  e  largo  26  Vs.  di  carte  314.  Man 
16  carte,  alcune  in  prìncipio  e  altre  fra  la  3.^  e  la 
donde  comincia  la  foliazione  antica  in  cifre  roman 
rosso,  e  segue  senza  ordine,  ma  senza  altre  manca 
lj  a  questo  modo:  xviiij-cxxxj  (4-115);  clxxxxij-cclx  ( 

184);  cxxxij-clxMxj  (185-244);  cclxj-cccxxx  (245-1 
É  scritto  in  carattere  semigotico  di  bella  forma,  più  gr 
nel  testo  e  meno  nel  commento  a  due  colonne,  fra 
quello  è  racchiuso.  Ha  le  rubriche  in  rosso ,  le  in 
I  minori  rosse  e  azzurre  alternate,  adorne  con   freg 

■  nearì  dell'  un  colore  con  T  altro.  Le  iniziali  maggiori 

miniate  su  riquadri  d' oro  lucidissimo,  con  ornati  a 
gliame  di  vani  colori.  A  car.  90  r. ,  119  v.,  12C 
133  r.,  137  r.,  157  v.  son  diverse  figure  min 
che  saranno  indicate   a  suo  luogo.    La    legatura 


SCRITTUBE  VOLGARI  NEI  CODD.   NAPOLETANI  277 

1  secolo  XVIII,  ed  é  di  pelle  non  tinta,   con  fregi  a 

0  e  carte  di  guardia  impresse  a  fiori  colorati  e  dorati. 
)ila  faccia  interna  della  carta  di  guardia  posteriore  è 
sottoscrizione  autografa  :  Dominici  Cotunnii,  che  incon- 
isi  pure  in  altri  codici  nostri  già  appartenuti  all'illu- 
•e  medico  napoletano  Domenico  Cotugno  (1736-1822). 

Il  presente  codice  contiene  la  Divina  Commedia  col 
mmento  di  Francesco  da  Buti. 

Dopo  una  nota  di  carattere  recente,  che  sta  nella 
x)nda  delle  due  carte  di  guardia,  messe  innanzi  al  co- 
^e,  e  si  riferisce  al  turbamento  dei  fogli  ed  alle  man- 
nze,  segue  una  carta  in  pergamena  con  V  indice  dei 
ati,  scrìtto  a  tre  colonne  in  corsivo  tondo  della  fine 

1  XV  secolo.  Comincia: 

«  Capitulo  primo  della  prima  Cantica ,  dove  tracia  de 
aricia.  » 

«  Capitulo  ij.''  doue  se  tracta  corno  trouo  Virgilio  il  quale 
fece  securo  del  camino  ...» 

Finisce  : 

«  Capitulo  33  et  ultimo  come  sancto  bemardo  in  Ggura 
1  autore  fa  oracione  a   la   Vergine  Maria   che  la  diuina 
lesta  visibilmente  si  lassa  videre.  » 

Segue,  mutilo  di  principio ,  il  testo  dantesco  e  il 
mmento.  Il  primo  comincia  dal  verso  34  del  canto  III 
ir  Inferno  : 

«  Et  elli  ad  me  questo  misero  modo 
Tegnon  I  anime  triste  di  coloro 
Che  uisson  senza  fama  et  senza  lodo  ...» 

li  commento  comincia: 

«...  che  in  questo  spatio  allato  alla  grosta  della  terra 
ntro  da  la  porta  siano  puniti  coloro  che  sono  uissutì  in  questo 


278  A.  moLA 

mondo  sensa  operar  bene  o  male.  Et  conueoientemente  G  pone 
in  questo  luogo.  Imperoche  costoro  non  sì  possono  disdota- 
mente  ponere  socto  alcuna  spetie  di  peccato  ...» 

Il  testo  del  detto  canto  resta  interrotto  a  car.  3  v. 
col  verso  87: 

«  Nelle  tenebre  eteme  in  caldo  e  *n  gelo  ....  » 

A  car.  4  r.  segae  il  canto  V,  a  cominciare  dal 
verso  16: 

«  0  tu  che  uieni  al  doloniso  hospitio  ...» 

Seguono  regolarmente,  fino  a  car.  88  r. ,  il  testo  e 
il  commento  della  prima  cantica. 

A  car.  90  r.,  dopo  tre  pagine  bianche,  comincia  la 
seconda  cantica. 

A  capo  del  testo,  in  un  rettangolo  largo  80  mill.  e 
alto  50,  è  rappresentato  in  miniatura  il  monte  del  pur- 
gatorio con  tre  fignre,  cioè  Catone,  Virgilio  e  Dante. 
Nella  capolettera  P ,  dorata  e  miniata,  è  dipinta  una  na- 
vicella. Il  commento  comincia: 

«  Se  ne  la  seconda  cantieri  della  comedia  di  dante  alle- 
gheri  fiorentino  poeta  iiulgare  io  franciesco  da  butì  citadioo 
di  pisa  mi  sono  messo  a  sponerla  secondo  1  ordine  della  prima 
letta  da  me  publicamente  ne  la  detta  cita  di  pisa  ben  chi  non 
compiesse  la  lectura  impedito  da  due  grani  infermitidi,  cacone 
me  n  anno  dato  i  preghi  de  cari  amici  ....  » 

A  car.  115  v. ,  a  causa  del  turbamento  dei  fogli,  di 
cui  innanzi  ho  fatto  cenno,  il  canto  IX  del  Purgatorio 
rimane  interrotto  al  verso  72: 

«  Non  ti  merauilliar  s  io  la  rincalso  .  .  .  > 

A  car.  116  r.  ricomincia  col  verso  88  del  canto 
XXVIII  : 


SC31ITTUBE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  279 

«  Ond  ella  io  dicero  come  procede  .  .  .  > 

A  carte  119  r.  resta  interrotto  il  testo  al  verso  81 
del  canto  XXIX. 

Le  car.  119  v.  e  120  r.  sono  in  tutta  la  loro  su- 
perficie assai  vagamente  dipinte.  Nell'una  pagina  sono 
rappresentati  i  sette  candelabri  d' oro  apparsi  al  poeta, 
entro  i  quali  sono  scritti  i  dieci  comandamenti  del  de- 
calogo, e  sulle  basi  e  intorno  ai  lumi  i  nomi  delle  virtù 
e  dei  vizii  e  quelli  dei  sacramenti.  Nella  pagina  opposta 
è  il  seguito  della  visione  descritta  nel  detto  canto,  cioè 
le  genti  vestite  di  bianco  coi  ventiquattro  seniori^  il  carro 
tirato  dal  grifone  e  circondato  dai  quattro  animali  sim- 
bolici a  sei  ali,  e  in  fine  coronate  di  fiori  le  figure  di 
S.  Luca,  di  S.  Paolo,  dei  quattro  in  umile  paruta,  cioè 
gli  apostoli  Giacomo,  Pietro,  Giovanni  e  Giuda,  e  il  veglio 
solo  disteso  in  terra  e  dormente. 

A  car.  133  r.  in  fine  del  canto  XXXII  del  Pur- 
gatorio è  un'altra  miniatura  racchiusa  in  un  rettangolo 
largo  165  mill.  e  alto  90,  rappresentante  il  carro  col 
Gigante  e  la  Meretrice  e  con  le  altre  figure  e  simboli 
di  cui  è  parola  nel  detto  canto. 

A  car.  137  r.  comincia,  dopo  una  pagina  bianca,  la 
terza  cantica,  al  principio  della  quale  in  uno  spazio,  ret- 
tangolare, alto  50  mill.  e  largo  75,  son  dipinte  le  figure 
di  Dante  e  di  Beatrice  che  contemplano  la  gloria  di 
colui  che  tutto  muove. 

Un'ultima  figura  miniata,  rappresentante  Costantino, 
s*  incontra  a  car.  157  v.  entro  alla  capolettera  P,  onde 
comincia  il  canto  VI  del  Paradiso, 

Il  testo  dell'ultima  cantica  segue  regolarmente  fino 
a  car.  184  r. ,  dove  rimane  interrotto  al  verso  117  dei 
canto  XI: 


280  A.  IflOLA 

«  Et  al  suo  corpo  non  uolse  altra  bara  ....  » 

Segue  a  car.  185  r.  il  canto  IX  dei  Purgatorio,  a 
cominciare  dal  verso  73: 

«  Noi  ci  appressammo  et  deriuammo  in  parte  ...» 

Così  contìnua  fino  ai  verso  87  del  canto  XXVUI: 

«  Di  cosa  eh  io  udi*  contraria  ad  questa  ...» 

che  sta  a  car.  244.  v. 

A  car.  245  r.  ricomincia  il  Paradiso  dal  verso  118 
del  canto  XI: 

«  Pensa  hormai  qual  fu  colui  che  d^o  ...» 

e  finisce,  senz' altra  interruzione  a  car.  313  v. 

Alla  stessa  pagina  cosi  finisce  il  commento: 

«  Et  qui  finisce  il  canto  xxxiij.*  della  tersa  cantica  delh 
comedia  di  dante  composta  pelle  Insigne  et  Egr^io  doctore  io 
Triuio  ben  che  sofficienteroente  admaestrato  in  ogni  facculta, 
come  appare  in  questa  sua  opera,  Maestro  Franciesco  da  buti 
hoDoreuile  citadino  di  Pisa  ». 

A  car.  314  r.  leggonsi,  nello  stesso  carattere  del 
testo  dantesco  e  senza  nessun  titolo,  le  tre  epigrafi  falle 
pel  sepolcro  di  Dante,  cioè  quella  di  Menghino  da  Mez- 
zano: 

«  Inclita  fama  cuius  uniuersura  peneirat  orbem  .  .  » 
r  altra  di  Bernardo  da  Canastro: 

<  lura  monarchie  superos  flegetonta  lacusque  ...» 
e  la  terza  di  Giovanni  del  Virgilio: 

«  Theologus  dantes  nullius  dogmatis  expers  ...» 


SCRITTURE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  281 

Confrontate  con  le  edite  nel  volumetto:  //  Sepolcro 
di  Dante ,  pubblicato  nel  1889  da  L.  Frati  e  G.  Ricci 
[Scelta  di  Curiosità  letterarie.  Dìsp.  CCXXXV)  vi  si  ri- 
scontrano, specialmente  nella  prima,  diverse  varianti. 

Ora  darò,  come  s'incontra  nel  presente  codice,  la 
lezione  di  quei  luoghi  del  testo  di  Dante ,  che  furono 
designati  dal  eh.  prof.  Monaci  come  punti  di  confronto 
per  una  classificazione  generale  dei  codici  danteschi  (V. 
Atti  della  R,  Accad.  de  Lincei,  1888,  ser.  IV:  Rendiconti. 
Voi.  IV,  2.°  sem.  pag.  228.) 

Ili  V.  59:  «  Uiddi  et  conobbi  ...» 

V  »  59:  «  Che  succedette  ...» 

V  »  83:  «  Con  I  ale  alsate  ...» 
VI  »  18:  * ...  et  ingolla  et  isquarta.  » 

Vili  »  101:  «  Et  se  1  passar  ...» 
IX  »    64:  «  .  .  .  torbid  onde.  » 
X  »  136:  « .  .  .  spiacer  suo  le^o.  » 
XI  »    90:  «  La  diuina  uendecta  ...» 
XI  »    91:  <^  0  sol  che  sani  ogni  uista  . .    » 
XII  »  125:  «  Quel  sangue  si  che  cocca  . .  .  » 

XIII  »    41:  «  Dall  un  dei  capi  ...» 

XIV  V    70:  «  Dio  in  disdegno  ...» 
XV  »  121:  «  Poi  sì  riuolse  ...» 

XVI  »  135:  «  Ad  scollio  ...» 
XVII  »  115:  «  Ella  sen  uà  notando  ...» 
XVIII  »  104:  «...  col  muso  sbuffa  » 

XIX  »    12:  «  Et  quanto  iusta  ...» 
XXIV  »  119:  <  0  potentia  di  dio  ...  » 
XXV  »  1 44:  «  La  nouita  se  fior  la  penna  . .    » 
XXVI  »    57:  «  Ala  uedetti  {sic)  uanno  ...» 
XXIX  »  120:  «  Danno  Minos  ad  cui  fallar ...» 
XXX  »    31:  «  .  .  .  rimase  tremando.  » 

XXXI II  »    75:  «  Possa  più  eh  el  dolor  potè  . .    » 

XXXIV  »   82:  «  .  .  .  colali  scale.  » 


Inferno  Canto 

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28?  A.  HIOLA 

Brevi  notizie  di  qaesto  codice  furono  date  la  prima 
volta  nel  catalogo  deli'  Esposizione  Dantesca  in  Firme, 
Maggio  MDCCCLXV.  (Un  voi.  in  8.^  s.  n.  t.) ,  a  pag. 
49  :  indi  nell'  Appendice  prima  alla  Notizia  deUa  Biblio- 
teca Nazionale  di  Napoli,  di  Vito  Pomari  (Napoli,  Det- 
ken  e  Rocholl,  1874,  a  pag.  52). 

XIII.  C.  2 

Codice  membranaceo  del  secolo  XV  (1411),  alto 
cent.  34  e  largo  25,  di  carte  197.  Tra  le  carte  14  e  15 
ne  manca  qualcuna.  È  scritto  in  bel  carattere  gotico  con 
le  rabricbe  rosse,  i  paraflEi  rossi  e  verdi  alternati,  le  ini- 
ziali minori  azzurre  con  fregi  lineari  rossi,  e  le  maggiori 
miniate  su  riquadri  d' oro  e  adorne  con  fogliame  di  vani 
colorì  che  si  spande  lungo  i  margini  delle  carte.  La  ca- 
polettera N,  a  car.  1  r.,  non  è  fatta  come  le  altre.  Essa 
è  di  forma  latina  in  azzurro  chiaro  su  fondo  d'oro,  ed 
è  intrecciata  con  foglie  e  fiori,  donde  partono  e  riem- 
piono il  margine  altri  fiori  azzurri  e  rossi  misti  a  glo- 
betti  d'oro  e  foglioline  verdi.  Credo  che  tutto  ciò  sia 
stato  aggiunto,  alla  fine  del  secolo  XV,  nello  spazio  che 
era  rimasto  bianco.  Un'altra  iniziale,  che  sta  a  car.  10 
r.,  ed  è  dorala  sopra  un  fondo  quadro  ripartilo  a  spic- 
chi e  dipinto  in  verde  e  in  rosso ,  sembrami  fatta  nel 
secolo  XVI. 

In  due  delle  iniziali,  cioè  a  car.  62  r.  e  124  v.  son 
figure  miniate  come  dirò  appresso.  La  legatura  in  pelle, 
coi  gigli  d'  oro  impressi  sul  dorso,  è  di  quelle  che  hannu 
i  codici  farnesiani.  Contiene  la  Divina  Commedia  con 
l'aggiunta  di  talune  rime. 

A  car.  1  r.  comincia  senza  alcun  titolo: 

«  Nel  mezo  del  camin  di  nostni  uita  ...» 
A  car.  2  V.,  in  rubrica: 


SCRITTURE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  283 

«  Incomincia  il  secondo  Canto  della  prima  cantica  della 
Comedia  di  Dante.  Nel  quale  Canto  I  autore  proheroicca  a 
questa  prima  Cantica  d  inferno  toccando  come  1  auctore  du- 
bitaua  di  seguire  questa  impresa  come  appare.  » 

Innanzi  a  ciascun  canto  è  V  argomento  scritto  in 
rosso.  Quando  nel  testo  s' incontra  alcuna  similitudine, 
vedesi  segnato  a  margine  quel  luogo  con  la  parola  in 
rosso:  comparatio. 

A  car.  14  v.  il  canto  Vili  si  arresta  al  verso  112: 

«  Udir  non  potei  quel  eh  a  llor  si  porse  ...» 

Segue  a  car.  115  r.  il  canto  IX  dal  verso  55: 

«  Volgiti  in  dietro  et  tieni  il  viso  chiuso  ». 

A  car.  61  v.: 

«  Explicit  prima  Cantica  Comedie  Dantis  Allegerii  que 
dicitur  Infernus.  » 

A  car.  62  r.  : 

«  Incomincia  il  primo  Canto  della  seconda  Cantica  della 
Comedia  di  Dante  Allighieri  da  Firence.  Nel  quale  Canto  1  au- 
ctore prohemicca  singularmente  questa  seconda  parte  dieta  pur- 
gatorio. Et  tracta  qui  della  honestate.  Ponendo  eh  el  primo 
che  trono  uscendo  d  inferno  fu  Cato,  lo  quale  significa  1  one- 
stade.  Pero  che  fue  homo  molto  honesto  et  molto  uirtuoso.  Et 
pero  tracta  delle  quactro  uirtu  cardinali  de  le  [quali]  elli  fu  il- 
luminato. Ciò  e  Prudentia  lusticia  Temperanza  et  Fortitudo. 
Et  da  questo  canto  tracta  dell  anime  punite  fuor  del  purgatorio 
indugiando  d  entrare  a  purgarsi  in  quello  per  che  indugiare  a 
pentirsi  troppo  in  questa  uita  di  peccati.  » 

La  capolettera  P,  onde  principia  il  testo ,  alta  64 
mill.  e  larga  50,  è  dipinta  e  dorata,  e  racchiude  una  mi- 


284  A.  MIOLA 

niatura  rappresentante  Dante  e  Virgilio   sedati  io  una 
barca  circondala  da  anime  purganti. 

A  car.  124  r.  : 

«  Explicit  Seconda  Cantica  Gomedie  Dantis  AJlegerii  de 
Florentia.  Per  me  lohannem  de  gambis  de  Burgo  sancii  do- 
ninii.  Hcccc^xj  die  quarto  mensis  octiibris.  » 

A  car.  124  v.: 

«  Incomincia  Io  primo  Canto  della  ter^  Cantica  della  Co- 
media  di  Dante  Allighieri  da  Firence.  Nel  quale  Canto  I  auctore 
prohemicca  a  questa  ter^a  et  vltima  Cantica  dieta  et  appellata 
Paradiso.  Si  come  nel  resto  chiaramente  si  contiene.  » 

Nella  capolettera  L,  alta  60  mill.  e  larga  55,  é  di- 
pinto in  alto  la  Trinità  con  la  Vergine  coronata  dal  divin 
Figlio,  e  tutto  intorno  una  cerchia  di  beati.  Al  basso 
Dante  e  Beatrice  contemplano  la  scena. 

A  car.  186  r.  : 

«  Explicit  Tertia  et  ultima  Cantica  Comedìe  Dantis  Alle- 
gherii  de  Florentia.  Per  me  lohannem  de  gambis  de  Burgo 
sancti  donini.  Mcccc^'xj  die  xviiij'*  Novembris.  > 

«  Benedicamus  domino.  Deo  gratias.  Amen.  » 

Le  lezioni  dei  trenta  punti  critici  son  queste: 

4:  «  Et  quanto  a  dir  ...  * 
28:  «  Et  riposato  un  poche  ...» 
48:  «  Si  che  parca  che  I  aere  ne  le- 

[messe.  > 

60:  «...  quanto  1  moto  .  . .  > 
93:  «  Né  fiamma  .  .  .  > 
59:  «  Vidi  et  conobbi  ...» 
95:  €  Di  quel  signor  .  .  .  > 


Inferno  Ginto 

Iv. 

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»          » 

I» 

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II» 

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II» 

»          » 

III  » 

>          » 

IV  » 

SCRITTUBE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  285 

Inferno  Canto  V  >   59:  «  Che  succedete  ...» 

»  »  V  »   83:  «  Coli  ale  alzate  .  .  .  > 

»  »  VI  »    18:  «  .  .  .  ingoia  et  disquatra.  » 

»  »  Vni  »  101:  «  Et  se  1  passar  ...» 

»  »  IX  >   64:  «  .  .  .  turbide  onde.  » 

»  »  X  »  136:  «  .  .  .  spicciar  suo  lecco.  » 

»  »  XI  »    90:  «  La  diuina  uendecta  ...» 

y  »  XI  »   91:  «  0  sol  che  sani  ogni  uista ...» 

»  »  XII  »  125:  «  Quel  sangue  si  che  coccea ...» 

»  »  XIII  »   41:  «  Dall  un  dei  capi  ...» 

»  »  XrV  »    70:  «  Dio  in  dispregio  ...» 

»  >  XV  »  121:  «  Poi  si  riuolse  ...» 

»  »  XVI  »  135:  «  A  scoglio  ...» 

»  »  XVII  »  1 1 5:  «  Ella  sen  uà  notando  ...» 

»  »  XVni  »  104:  «...  col  muso  stuffa.  » 

»  »  XIX  »    12:  «  Et  quanto  giusto  ...» 

»  »  XXIV  »  119:  «  0  potentia  di  dio  ...  » 

»  »  XXV  »  144:  «  La  nouita  se  fior  la  penna ...» 

»  XXVI  »    57:  «  Alla  uendecta  uanno  ...» 

»  »  XXIX  »  120:  «  DanopnoMynos  a  cui  fallar. . .  » 

»  V  XXX  »   31:  «  .  .  .  rimase  tremando.  » 

»  »  XXXIII  %   75:  «  Poscia  più  eh  el  dolor  potè ...» 

»  >  XXXIV  »   82:  «  .  .  .  cotali  scale.  » 

A  car.  186  r.,  dopo  Y  explicit,  cx^minm  senza  titolo 
la  Canzone  del  Petrarca: 

«  Vergine  bella  che  de  sol  uestita  ...» 

scritta,  come  tutte  le  cose  aggiunte  che  andrò  indicando, 
in  carattere  più  piccolo;  ma  della  stessa  forma  com'è 
quello  del  testo  di  Dante.  La  detta  canzone  finisce  a  car. 
187  V. 

Da  car.  188  r.  a  189  v.  è  una  poesia  senza  titolo 
in  terza  rima,  che  comincia: 

«  Imperatrice  suroa  alta  regina 
Vergine  donna,  madre,  figlia  e  sposa 
Chiara  diana  stela  matutina  ...» 

Voi.  IV,  Pane  II.  19 


286  A.  HIOLA 

Finisce  : 

«...  Io  mi  getto  e  trabocco  io  le  tue  braccie: 
Guardarne,  dolce  madre,  da  mina: 
Sempre  toa  uoglia  io  pensi  e  dica  e  facia, 
Imperatrice  summa,  alma  reina.  » 

È  il  Capitolo  dì  Malatesta  dei  Malatesti  di  Pesaro, 
che  sotto  il  nome  di  costui  leggesi  nel  Codice  VaticaDo 
3212  (a  car.  131  v.),  e  fu  stampato  fra  le  Laudi  poste 
in  fine  dei  Capitoli  della  Schola  de  Madonna  Santa 
Maria  della  Misericordia  in  la  città  de  Pesaro  (Pesaro, 
per  Baldassarre  de  Francesco  Gartbularo  Perusioo,  a  di 
18  de  novembre  1531).  Fu  ristampato  come  inedito  e 
anonimo  da  M.  A.  Parenti  nel  voi  XV  della  Conttrm- 
zione  alle  Memorie  di  Religione  (Modena,  Soliani,  1843), 
e  dì  nuovo,  in  un  opuscolo  per  nozze  di  pag.  8,  da  G. 
Vanzolin  (Pesaro,  1857,  pe'  tipi  del  Nobili),  che  lo  ri?eD- 
dico  al  suo  autore.  (Y.:  Zambrini.    Op.  volg.  a  stampa 

de'sec,  XIII  e  XIV,  4.'  ed.) 

• 

A  car.  189  v.,  in  rubrica: 

«  Ad  sumroum  pontifìeem  Martinum  papam  quintum.  > 

Segue  un  Capitolo,  che  comincia: 

«  Aue  pastor  de  la  tua  santa  madre, 
Et  catolico  tempio  al  nostro  mondo, 
Aue  supremo  a  noi  pastore  e  padre  ...» 

Finisce  : 

«...  Perche  nel  grado  si  che  far  lo  puoi 
Per  la  tua  santità  giusta  e  famosa 
Dio  te  dia  gratia  saluarte  et  noi, 
Et  cosi  sia  comò  el  dir  chiosa.  » 


SCRITTURE  VOLGARI  NEI  OODD.  NAPOLETANI  287 

Autore  di  questo  capitolo  è  Nicolò  Cieco  d'Arezzo: 
fa  stampato  dal  Lami  a  pag.  295-97  del  suo  Catalogus 
codicum  manmcriptoum  Bibl.  Riccard.;  da  F.  M.  Mi- 
gnanti  (Roma,  1857  -  Opusc.  citato  dal  Biiancioni);  da 
L.  Lenzotti  [Poesie  inedite  di  M.  Niccolò  Cieco  da  Fi- 
renze.  Modena,  tip.  dell'  Immacolata ,  1867  ).  —  V.:  F. 
Flamini.  La  lirica  toscana  del  Rinascimento  anteriore  ai 
tempi  del  Magnifico  (Pisa,  Nistri,  1891,  pag.  701). 

A  car.  191  ?. ,  sotto  la  rubrica  e  Simonis  de  Senis  » 
comincia  il  Capitolo: 

«  Come  per  dricta  linea  I  occhio  al  sole  ...» 

composto  in  lode  di  Dante  da  Simone  Serdini  da  Siena, 
detto  il  Saviozzo.  Fu  stampato  più  volte ,  e  falsamente 
attribuito  ad  altri,  come  può  vedersi  negli  Appunti  Bi- 
bliografici, cbe  stanno  in  fine  della  monografia  di  Gu- 
glielmo Volpi:  La  Vita  e  le  Rime  di  Simone  Serdini 
detto  il  Saviozzo,  (Nel  voi.  XV  del  Giornale  Storico  della 
Letteratura  Italiana.  Torino,  1890,  pag.  43  e  61). 
Finisce  a  car.  193  v.: 

«...  Con  Beatrice  a  ritrouar  le  stelle.  » 

Il  presente  testo  vien  pure  indicato  dal  Flamini  {Op. 
cit,,  pag.  740). 

A  car.  194  r.,  col  titolo:  e  Simonis  predicti.  »  è 
la  Canzone  inedita  del  Saviozzo,  cbe  comincia: 

«  L  inclita  fama  et  le  magnifiche  opre 
De  Ihonorata  e  gratiosa  donna  ...» 

(V.  :  Volpi.  Op.  cit. ,  pag.  60  —  Flamini.  Op  dt.  pag.  740). 
Finisce  a  car.  195  r.  : 

«  .  .  .  Et  io  son  certo  eh  el  t  aura  a  grato.  » 


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288  A.  HIOLA 

A  car.  195;  in  rubrica: 

€  Gapitulum   siue  Teniariain   Magnifici  domioi  Con 
Àotonii  MoDtisfere&ì  DrbiDL  » 

ComìDcia  : 

«  0  sommo,  eterno  et  infinito  bene 
Da  cui  dipende  tutto  1  universo 
Onde  omne  dono  et  omne  gratia  uene ...» 

Finisce  a  car.,  196  v.: 

«...  E  pregoti  e 


«  Àmen.  » 


Segoe  ivi: 

«  Sonectnm  eiusdem  domini  Gomitis.  » 
Comincia  : 

<  I  saoi  piedi  1  una  et  1  altra  palma  .  .  .  .  > 

Intorno  ai  suddetti  versi  di  Antonio  da  Mootefe 
il  Litta  (Famiglia  Monte  feltro,  tav.  IL),  dopo  la  biogr 
di  Antonio,  che  morì  nel  1404,  nota  quanto  segue: 
Coltivò  le  muse,  e  le  sue  rime  vissero  a  pie  di  un  coi 
della  Divina  Commedia,  che  si  conserva  nella  biblioi 
di  Napoli,  ed  ora  nel  1819  furono  pubblicate  in  Rim 
sono  di  argomento  di  divozione, 

A  car.  197  r. ,  cioè  nell'ultima  carta  del  codi' 
che  è  macchiata  e  consunta,  è  scritto  d'altra  mano 
carattere  corsivo  in  parte  svanito,  una  Canzone  che  ( 
mincia  : 

«  Nel  tempo  che  saturno  regno  in  terra 
Regnaua  pudicitia  et  castitade 
et  con  grande  honestade 
viuea  il  mondo  or  pieno  di  brutura  ...» 


SCBITTURE  VOLQARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  289 

In  fine,  a  car.  197  v.  è  il  nome  dell'  autore  :  e  Ro- 
sellQS  de  Rosellis.  ì>  Sta  anche  nel  codice  Riccardiano 
1098,  a  car.  168  r.  (V.  :  Flamini  Op.  cit. ,  pag.  728.) 

Dei  descritto  codice  si  fa  cenno  a  pag.  20  del  Catalogo 
deir  Esposizione  Dantesca,  e  a  pag.  52  della  Notizia  della 
Biblioteca  Nazionale  di  Napoli.  Il  Batines  ne  dà  notizia 
sotto  il  numero  405  della  Bibliografia  Dantesca  (Tom. 
2.''  pag.  220)  —  In  una  lettera  di  Urbano  Lampredi, 
che  sta  nel  voi.  IV  (pag.  171-175)  della  Div.  Comm. 
edita  in  Roma  dal  De  Romanis  nel  1815-17,  si  parla  di 
questo  nostro  codice  a  proposito  di  una  variante  che  vi 
s' incontra  nel  verso  134  del  canto  XXVI  del  Paradiso. 

Vien  pure  citato  da  Luciano  Scarabelli  nel  voi.  I 
(pag.  LXI)  dell'  Esemplare  della  D.  C.  donato  da  Papa 
Benedetto  XIV  allo  studio  di  Bologna  etc.  (Bologna,  Ro- 
magnoli, 1870.  In  Coli,  di  op.  ined.  o  rare).  Ivi  son  ri- 
portate, giusta  la  lezione  del  presente  codice,  le  prime 
sei  terzine  del  canto  XIV  dell'  Inferno. 

Il  Copista  Giovanni  De  Gambis  di  Borgo  S.  Donnino 
è  menzionato  sulla  fede  dell' Andres  dal  Pezzana  (Con- 
tinuazione delle  Memorie  degli  Scrittori  Parmigiani. 
Parma,  1827.  Tom.  VI,  par.  2."  pag.  272.) 

XIII.  C.  3. 

Codice  cartaceo  del  secolo  XV,  alto  cent.  33  7?  e  largo 
23,  di  carte  208,  le  quali  a  cominciare  dalla  car.  156 
sono  macchiate  per  umido.  La  scrittura  è  corsiva  can- 
celleresca tutta  in  nero.  Lo  spazio  per  le  iniziali  mag- 
giori e  per  le  rubriche  fu  lasciato  in  bianco.  Alla  prima 
e  all'ultima  carta  (1  r.  e  208  v.),  nel  margine  inferiore, 
è  scritto  in  carattere  presso  che  illegibile,  che  pare  del 
secolo  XVII  : 

<  Per  Inventario.  N.'  Gennaro  Antonio  Zorlosia.  » 


290 


A.  moLk 


Qaest'  ultima  parola  è  ripetuta  in  carattere  chiaro  a 
pie  dell'ultima  faccia. 

Contiene  la  Divina  Commedia,  mancante  dei  primi 
48  versi  dell' /»/ì?nio. 

Comincia  : 

<  .  .  .  Ed  ana  lupa  che  di  tutte  brame 
semblaua  carcha  nella  sua  magrezza 
et  molte  gente  fé  già  uiuer  grame  ...» 

A  car.  21  v.  rimase  interrotto  il  canto  X  deWInfemo 
ai  verso  120.  Altra  mano  di  poco  posteriore  aggionse 
l'ultimo  verso;  mentre  a  margine  è  notato  in  carattere 
moderno  : 

<  Qui  mancano  cinque  terzine.  » 

A  car.  205  v.  finisce  l'ultimo  canto   del  Paradiso. 
Dopo  è  aggiunto  in  carattere  che  pare  del  secolo 

xvm. 

€  Fine  deDa  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri  sovrano 
Poeta  fiorentino.  Deo  Gratias  Beataeque  Marìae  semper  vi^im.  > 

La  lezione  dei  punti  critici,  secondo  il  nostro  testo, 
è  la  seguente: 


Inferno  Canto 

n  V.  60: 

» 

» 

D  »   93: 

> 

» 

m  »   59: 

> 

» 

IV  >   95: 

» 

> 

V  »   59: 

» 

» 

V>   83: 

» 

» 

VI  »    18: 

» 

» 

Vm  *  101: 

» 

> 

IX»   64: 

» 

» 

X  »  136: 

» 

» 

XI»   90: 

«...  quanto  1  moto  ...» 
«  Et  fiamma  ...» 
«  Uidi  et  conobbi  ...» 
«  Di  quel  singnor  .  .  .  > 
«  Che  succedette  ...» 
«  Con  1  ali  alzate  ...» 
« .  .  .  ingoia  edisquatra.  > 
*  E  se  il  paxar  ...» 
«...  torbide  onde  » 
< .  .  .  face  spia  con  suo  leco.  > 
«  La  diuina  uendetta  .  .  .  > 


SCRITTUBB  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  291 

NFERNO  Caoto  XI  »   91:  «  0  sol  che  sani  ogni  cosa  ...» 

»  »  XII  »  125:  «  Quel  sangue  si  che  cocca  ...» 

»  »  XIII  »    41:  «  Da  1  un  de  capi  ...» 

»  »  XIV  »    70:  «  Dio  in  disdegno  ...» 

»  »  XV  »  121:  «  Poi  si  riuolse  ...» 

»  »  XVI  »  135:  «  0  scoglio  ...» 

»  »  XVII  »  115:  «  Ella  sen  uà  rotando  ...» 

»  »  XVIII  »  104:  «...  col  muso  iscuffa  » 

»  »  XIX  »    12:  «  Et  quanto  insto  ...» 

»  »  XXIV  »  119:  «  0  potentia  di  dio  ...  » 

»  »  XXV  »  144:  «  La  nouita  se  fior  la  lingua ...» 

»  »  XXVI  »    57:  «  Alla  uendetta  uanno  ...» 

»  »  XXIX  »  120:  «  Danno  Hìnos  ad  cui  fallar ...» 

»  »  XXX  »   31:  << .  .  .  rimase  tremando  » 

»  V  XXXIII  »   75:  «  Poscia  più  che  1  dolor  potè ...» 

»  XXXIV  »   82:  «...  si  facte  scale  ...» 

Da  car.  206  r.  a  208  r.  è  il  Capitolo  più  volte 
)obblicato  di  Iacopo  Alighieri.  Gomincia: 

«  0  voi  che  sete  dal  verace  lume 
alquanto  inluminati  nella  mente  ...» 

Ha  questo  titolo  scritto  dalla  stessa  mano  che  ag- 
l^iunse  la  sottoscrizione  in  fine  del  codice. 

€  Capitolo  di  Iacopo  figliuolo  di  Dante  Alighieri  scrìtto 
sopra  la  Divina  C!ommedia  di  Dante  suo  padre.  » 

(V.  :  Catalogo  dell'  Esposizione  Dantesca  in  Firenze, 
pag.  76.  —  Notizia  della  Bibl.  Naz.  di  Napoli,  pag.  54.) 

XIII.  C.  4. 

Codice  membranaceo  del  secolo  XIV,  alto  cent.  30  V2 
e  largo  22Vs«  di  carte  44  tutte  più  0  meno  macchiate 
e  consumate  negli  orli  per  il  lungo  uso.  Talune  carte 
sono  rotte,  fra  cui  le  ultime  tre  mostrano  i  segni  d' es- 


I , 


l'i 


i 


292  A.  MIOLA 

sere  stato  il  codice  tenuto  od  tempo  senza  legata 
luogo  umido.  Forse  rimonta  a  quel  tempo  la  dispe 
dei  quaderni  ora  mancanti;  mentre  quelli  che  ava 
credo  sieno  stati  messi  insieme  e  rilegati  tra  la  fio 
XVII  e  i  principii  del  XYI1I  secolo.  La  scrittura  ( 
tìca  dai  tratti  angolosi  e  dall'  andamento  svelto  e  s( 
Le  iniziali  minori  son  piccole  e  spesse,  e  sono  < 
sobriamente  in  rosso  e  azzurro  :  le  maggiori  son  co 
e  dorate  con  parsimonia.  La  legatura  è  in  semplici 
gamena  senza  alcun  segno  di  provenienza. 

Contiene  frammenti  della  Divina  Commedia,  acc 
guati  da  disegni  a  penna,  che  sono  76,  ed  occupano  il 
gine  inferiore  delle  carte  da  1  r.  a  38  v.  Le  car.  39-4 
hanno  disegni.  Il  genere  poi  di  essi,  i  tipi,  i  costumi,  n 
ingenuo  non  scompagnato  da  una  certa  vigorìa  di 
li  rivelano  non  posteriori  al  tempo   in  cui  fu  seri 
codice,  cioè  al  XIY  secolo.  Nel  mal  governo  che  fi 
del  codice  anche  i  disegni  ebbero   a  sofflrire  la 
loro  :  molti  ne  furono  deturpati  e  alterati  nei  coi 
con  sovrapposizioni  d' inchiostro  :   altri   furono  in 
parti  tinti  di  rosso. 

La  numerazione  delle  carte,  quando  il  codic 
integro,  ricominciava  da  capo  in  ciascuna  delle  tre 
tiche:  essa  fu  posta  da  chi  scrisse  il  codice  nel  e 
del  margine  superiore  in  cifre  romane  maiuscole  d 
[or  rosso.  Quel  che  rimane  di  tale  antica  numera 
è:  XXI-L  (Inferno);  XIl-XVIIII  (Purgatorio);  LI 
(Paradiso),  e  in  fine  II-IIII,  la  quale  ultima  serie  ( 
sponde  ai  Capitoli  di  Iacopo  Alighieri  e  di  Bosod 
Gubbio.  Rifacendoci  ora  dalla  1/  carta,  secondo  la 
merazione  attuale,  nel  margine  superiore  di  essa  è  s 
in  carattere  del  XVII-XVIII  secolo  : 

«  Comincia  il  Canto  XIV  dell'Inferno  e  siegue  s 
quasi  tutto  il  Canto  XXXII.  > 


SCBITTUBE  VOLOABI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  293 

Simili  Dote,  indicanti  le  parti  esistenti  delle  tre  can- 
(^he,  SODO  a  capo  di  ciascun  frammeDto,  e  dimostraDO 
^oipre  più  che  le  lacuDe  non  sono  posteriori  al  tempo 
idicato. 

Il  frammento  dell'  Inferno  comincia  dunque  dall'  ul- 
mo  verso  del  cauto  XIII: 

«  Io  fei  giubbecte  a  me  de  le  mie  case.  » 

Segue  : 

€  Capitulo  xiiij.^  » 

«  Poi  che  la  carità  del  Datio  loco  .  .  .  > 

Finisce  a  car.  30  v.  col  verso  132  del  canto  XXXII  : 

«...  che  qui  (sic)  facea  il  teschio  et  1  altre  cose.  » 

A  car.  31  r.  comincia  il  frammento  del  Purgatorio 
)I  verso  118  del  canto  VII: 

<  Che  Don  se  puote  dir  de  1  altre  rede  ...» 

Finisce  a  car.  38  v.  col  verso  126  del  canto  XII: 

«  .  .  .  ma  fie  dilecto  lor  esser  sopiDti.  »  . 

A  car.  39  r.  comincia  il  frammento  del  Paradiso 
il  verso,  100  del  canto  XXXI: 

«  Et  la  regina  del  ciel  ond  io  ardo  ...» 

Finisce  a  car.  41  v.  col  verso  72  del  canto  XXXIII  : 
«...  possa  lasciare  a  la  futura  gente.  » 

A  car.  42  r.  comincia  ud  frammoDto  del  Capitolo 
[  Iacopo  Alighieri  dai  versi: 


294  A.  HIOLA 

«  Et  propriamente  nel  secondo  a  lesi 
gì  inuidiosi  cum  insta  uendecta 
nel  ter^  gli  iracundi  fa  palesi  ...» 

Finisce  a  car.  42  v.,  e  ivi  segue  il  noto  Capitolo 
attribuito  a  Bosone  da  Gubbio.  Comincia: 

Capitulo  IL  » 

«  Peroche  fia  più  fructo  et  più  dilecto 
a  quei  che  si  dilectan  di  sauere 
de  1  alta  comedìa  il  uero  intellecto ...» 

Finisce  : 

«...  Fortificando  la  cristiana  fede.  » 

Accanto  al  testo  dantesco  s' iacontrano  talune  Dote, 
otto  in  tutto,  scritte  in  latino  in  carattere  corsivo  gotico, 
ossia  curialesco  della  fine  del  XIY  secolo  o  dei  prìncìpii 
del  XV.  Stanno  nei  margini  delle  carte  1  r. ,  2  v. ,  3  r.  e 
3  V.  Ecco,  per  darne  un  saggio,  la  prima  che  si  riferi- 
sce ai  versi  13  e  seguenti  del  canto   XIV  deìV  Inferno. 

«  Hic  ponit  lucanus  in  viiij  libro  post  mortero  pompey. 
Fuit  capitaneus  gentis  romanorum  Cito  et  ibi  in  libia  puogna- 
uit  cuno  cesare  et  perdidit  :  tunc  iratus  cato  fuit  ad  vnum  ca- 
strum  et  ibi  fuit  obsessus  a  cesare:  lune  videns  se  non  posse 
euadere  sumpto  veneno  se  necauit.  Ille  locus  in  libia  erat  io 
libia  (sic)  ubi  fuit  dieta  pungna  :  erat  ualde  arenosus  sic  dìcit 
quod  erat  iste  locus  in  inferno.  » 

Le  lezioni  dei  punti  critici,  cioè  di  quei  pochi  che 
offre  il  franunento  della  prima  cantica,  contenuto  in  questo 
codice,  sono  le  seguenti: 

Inferno  Canto      XIV  v.   70:  «  Dio  in  disdegno  ...» 
»  »  XV  »  121:  «  Poi  si  riuolse  ...» 

»  »  XVI  »  135:  €  0  scolilo  ...» 


SCGEUTTUBE  VOLGARI  NEI  OODD.  NAPOLETANI  295 

^nnsBNO Canto      KVII  »  115:  «Ella  sen  uà  notando  .  .  .  > 

(U  prisi  n  di  notando  è  eiputo  e  soititiiU  di  a  r) 

>  »  XVIII  »  104:  «...  col  muso  stuffa.  » 

»  »  XIX  »    12  «  Et  quanta  iusta  ...» 

»  »  XXIV  »  119:  «  0  potenza  di  dio  ...  > 

»  »  XXV  >  144:  «  La  nouita  se  fior  la  pena  ...  » 

»  >  XXVI  >   57:  «  Ala  uendecta  uanno  ...» 

»  )^  XXIX  »  120:  «  Dano  minos  a  cui  fatar  ...» 

»  »  XXX  »    31:  «  .  .  .  rimase  tremando.  » 

Un  breve  cenno  del  presente  codice  trovasi  nel  ci- 
ato Catalogo  ìqIY  Esposizione  Dantesca  in  Firenze  (pag. 
9)  e  nell'Appendice  alla  Notizia  della  Bibl,  Naz.  di 
VapoU  (Ed.  cit.  pag.  53)  —  Lo  Scarabelli  (Ed.  cit. 
[ella  D.  C.  pag.  LXI)  riporta  le  prime  sei  terzine  del 
^IV  canto  AeìV  Inferno,  tratte  da  questo  codice. 

[in.  e.  7. 

Codice  cartaceo  del  secolo  XV,  alto  cent.  ^  e  largo 
1,  dì  carte  175.  Le  prime  e  le  ultime  carte  sono  mac- 
biate.  Il  carattere  è  corsivo  di  forma  tonda  e  ritta.  Le 
nbriche  sono  in  rosso,  e  la  prima  iniziale,  a  car.  1  r., 
dorata  e  intrecciata  con  fregi  leggermente  colorati,  che 
rendono  lungo  il  margine.  Il  luogo  destinato  alle  altre 
lizìali  maggiori  rimase  in  bianco.  L'  antica  legatura  in 
tgno  col  dorso  di  pelle  è  in  cattivo  stato.  Nella  faccia 
ìterna  della  guardia  anteriore  si  leggono  ,  fra  varii 
gorbii,  i  seguenti  nomi,  scritti  in  rozzo  carattere  del  XVI 
ecolo,  dai  quali  si  può  trarre  qualche  indizio  intorno 
gli  antichi  possessori  del  codice. 

«  io  sonno  mesere  nicholone  de  chasa  del  baldescha.  » 
^  io  sonno  mesere  alberto  de  chasa  del  conte  gulino  da 
larsano.  » 

«  io  sonno  mesere  baldo  de  casa  de  ubal[d]is.  » 
«  io  sonno  mesere  dardeno  de  casa  de  baldescha.  » 


296  A.  MIOLA 

«  io  SODDO  I  sere  ceco  de  la  duco  de  I  acerbe.  » 
«  io  so  madoDDa  ciance  crispolti.  » 

Nel  codice  si  coDliene  la  Divina  Commedia,  cod 
rare  note  marginali  in  latiDO,  di  carattere  più  piccolo  e 
alquanto  diverso  da  quello  del  testo;  ma  del  medesimo 
tempo. 

A  car.  1  r.,  in  rubrìca: 

«  iDComcDcia  la  comedia  di  Daote  Alleghieri  de  fioreme 
[dc]  la  quale  si  tracia  de  le  pCDC  et  poDimeoti  de  vidi  et  de 
meriti  et  premii  de  le  virtù.  GaDto  primo  de  la  prima  parte  la 
quale  se  chiama  luferao  nel  quale  1  auctore  fa  prohemio  a  to- 
cta  1  opera.  » 

Comincia  : 

«  Nel  meczo  del  camin  di  nostra  vita 
He  ritrouai  per  vna  selua  scura 
Cbe  la  denota  strada  hauìa  ismarrìta  ...» 

Innanzi  a  ogni  canto  è  l'argomento  in  volgare, 
scritto  in  rubrica. 

A  car.  59  r.  finisce  la  prima  cantica.  Seguono  tre 
pagine  bianche,  neir  ultima  delle  quali  è  una  nota  bio- 
grafica su  Dante  scritta  in  latino.  Comincia  : 

«  Dantes  Aldigfaerìus  poeta  florentinus  fuit  maiorum  san- 
guine vir  generosus  de  aldigfaeriis  nobilibus  de  ferrarìa  ...» 

A  car.  61  r.: 

<  Comen^a  la  seconda  commedia  di  dante  chiamata  Pur- 
gatorio doue  se  purgano  li  commessi  peccati  di  quali  1  omo  e 
confesso  e  contrito.  Questo  primo  canto  tracta  de  I  honesta  doue 
se  introduce  Catone  homo  honestissioio  et  tracta  de  le  quatro 
virtù  cardinale.  » 


SCRITTUBE  VOLGARI  NEI  OODD.  NAPOLETANI  297 

A  car.  118  v.  fìnisce  la  seconda  cantica,  e  dopo  due 
carte  bianche  comincia  la  terza  a  car.  121  r.,  con  la 
rubrica  : 

<  Gomenza  la  terza  caDtica  di  Dante  chiamata  Paradiso 
nella  quale  I  autore  tracta  de  la  celestiale  gloria  et  de  1  anime 
beate  et  de  li  meriti  et  premii  dei  sancti.  Et  in  questo  primo 
canto  se  fa  prohemio.  » 

Finisce  a  car.  175  v. ,  dove  in  fine  è  questa  sotto- 
scrizione : 

«  Expletum  scribi  die  xiij.^  lulii  1463  in  castro  plebis.  » 
Le  lezioni  dei  trenta  punti  critici  son  queste  : 

Inferno  Canto  I  v.     4:  «  Hay  quanto  a  dire  ...» 

V  »  I  »   28:  «  Poi  che  posato  un  poche ...» 

Comtti  :  eh  ebbi  ripotato. 

y>  »  I  >»  48:  <  Si  che  paria  che  1  aier  ne  temesse» 

»  »  II  »  60:  « .  .  .  quanto  I  moto  ...» 

»  »  II  »  93:  «  Ne  fiamma  ...» 

»  »  III  »  59:  «  Uiddi  et  conobbi  ...» 

»  >  IV  »  95:  «  Di  quei  signori  ...» 

V  »  V  »  59:  «  Che  succedecte  ,  ,  ,  > 
»  V  »  83:  «  Con  I  ale  alzate  ...» 

»  »            VI  »    18:  «  .  .  .  ingoglia  et  disquadra.  » 

»  »  Vili  »  101:  «  Et  se  I  passare  ...» 

»  »  IX  »   64:  «  .  .  .  turbide  onde.  » 

»  »             X  »  136:  «...  sentir  suo  lezo.  » 

»  »  XI  »   90:  «  La  diuina  vendetta  ...» 

»  »  XI  »   91:  «  0 soleche  sane  ogni  vista  ...» 

»  »  XII  »  125:  «  Quel  sangue  si  che  copria  ...» 

»  »  XIII  »   41:  «  Da  vn  dei  capi  ...» 

»  »  XIV  »   70:  «  Mio  a  sd^no  ...» 

»  »  XV  »  121:  «  Poi  se  riuolsi  ...» 

»  »  XVI  »  135:  «  A  scoglio  ...» 

V  )»  XVII  »  115:  «Ella  sen  va  notando  ...» 


MKSA 


ivm 


XXX 

xxxm 

IXXIY 


lOi:  «...  eoi  naso  sdiiifi 
1%  <  Et  qnurto  giusti  .  .  . 

119:  «0  poCeotn  de  dio  .  . 

144:  e  La  DOinta  si  f  oor  la  pei 
S7:  <  A  h  TeodecCa  fanoo 

130b  <  Dnoo  Mnios  ad  coi  £d 
31:  « .  .  .  rimase  tremaodo 
75c  e  Pòscia  pio  eh  d  dolor  pò 
82:  «.  .  .  eolak  sdiale.  » 


iT.:  Catdogo  deT  E^osùitme  Damiesca  in  F 
paf  .  31.  —  AbAtMi  ddla  BM.  Sax.  di  NapoU,  p 


xm.  e  9. 

Codke  cartaceo  della  Gne  dei  secolo  XV,  aU 
32  e  tarso  21.  dì  carte  77,  scritte  io  corsi?o.  £  h 
oartooe  rivestito  di  tela.  Nella  faccia  interna  della 
anteffìore  è  scritlo: 

«  Di  som  PbBleaieoL  HDLXXX.  > 

ed  ÌD  qKfta  deBa  guardia  posteriore: 

^  Mi  eoisia  lire  8  di  moneta  di  Genova.  » 

A  car.  I  r: 

<  Vita  nona  dei  Prechrissìmo  Poeta  Dante  Alighi 

«  b  qneBa  parte  del  libro  de  b  mia  memoria  din 

qinie  px^bo  si  pocrebe  leg\?r^  si  trooa  una  rubrica  Ia( 

hoipìt  aiti  Qooa  sono  h  qoal  rubrica  io  trono  scritte 

k  quali  è  mio  intendimento  d*  assempiare  in  questo  libr 

A  car.  27  r.  finisce: 

«...  spero  di  dir  di  lei  quello  che  mai  ooo  fu  dette 
Cina,  e  p>i  piaccia  a  colui  ebe  è  sire  de  b  cortesia  cb 
anima  se  ne  poiea  f^ir  a  nedere  b  gloria  de  b  sua  do 


SCRITTURE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  299 

di  quella  beDedetta  Beatrice  la  quale  gloriosamente  mira  ne 
faccia  di  colui  cui  est  per  omnia  secula  benedictus.  » 

«  Finis.  » 

A  car.  27  v.: 

«  Canzoni  del  preclarissimo  Dante  Àldigierì.  » 
«  Cosi  nel  mio  parlar  uoglio  esser  aspro  ...» 

Segue: 

«  Canzone  seconda.  » 
«  Voi  che  intendendo  '1  terzo  ciel  monete  ...» 

«  Canzone  terza.  » 

«  Amor,  che  ne  la  mente  mi  ragiona  ...» 

«  Canzone  quarta.  » 

«  Amor  che  moni  tua  uertu  da  '1  cielo  ...» 

«  Canzone  quinta.  » 

«  Le  dolci  rime  d' amor  eh'  io  solia  ...» 

«  Canzone  sexta.  » 

«  Io  sento  si  d' amor  la  gran  possanza  ...» 

«ir  Canzone  septima.  » 
«  Al  poco  giorno  et  al  gran  cerchio  d*  ombra  ...» 

«  Canzone  octaua.  » 

«  Amor  tu  uedi  ben  che  questa  donna  ...» 

«  Canzone  nona.  » 

«  Io  son  uenuto  al  punto  de  la  rota  ...» 

«  Canzone  decima.  » 

«  E  me  incresce  di  me  si  malamente  ...» 

«  Canzone  undecima.  » 

«  La  dispietata  mente  che  pur  mira  ...» 


<  Gaunone  qoaita  decima.  » 

«  Amor  da  che  ooooieQ  pur  eh'  io  mi  ( 

«  Gunooe  quinta  decima.  » 

e  Posda  che  amor  de  1  tatto  m' ha  la 

A  car.  47  ?.: 

«  Flnise  k  Canzone  di  messer  Dante.  > 

A  car.  48  r.: 

«  Sonetti  dd  medesimo  Dante.  » 
e  So.  L  » 


« 


0  dold  rime  die  parlando  andate  . 

e  So.  ij.  » 
E^  non  è  l^no  de  si  forti  nocchi  . 

e  So.  iij.  » 
«  Beo  dico  certo  che  non  è  riparo  . 

«  So.  iiij.  » 
«  Io  son  si  nagho  de  la  bdla  luce  . 

<  So.  V.  » 

«  Ne  le  man  nostre  dolce  donna  mia 

<  So.  fj.  » 

<  Oli  guaniarà  giamai  senza  paura  . 

<  So.  TÌj.  » 


SCRITTURE  YOLOARl  NEI  CODD.   NAPOLETANI  301 

Segue  : 

«  Risposta  di  manoel  giudeo.  » 

«  Io  che  trassi  le  lagrime  dal  fondo ,  .  .  * 

«  Del  medesimo  Manoel  Giudeo.  > 

«  Amor  non  lesse  mai  Taue  Maria.  » 

«  Risposta  del  medesimo  Messer  Bosone  al  Sonetto  di 
tsser  Gino  essendo  morto  Dante  et  Manoel  Giudeo.  » 
«  Manoel  che  mettete  in  quello  anello  ...» 

A  car.  50  v.  : 

«  Cose  di  Miser  Gino  da  Pestoia.  » 
«  Di  Zampa  Ricciardi  sopra  la  morte  di  messer  Gino.  » 
«  Morto  è  colui  eh'  era  arca  della  legge  ...» 

«  Messer  Mula  de  Muli  a  Messer  Gino.  » 

«  Homo  saccente  a  de  maestro  saggio  .     .  » 

A  car.  51  r.  : 

«  Ganzoni  di  messer  Gino  da  pistola.  » 

«  La  dolce  uista  e  M  bel  sguardo  soave  ...» 

Segue  : 

«  Ganzone  2.*  » 
«  Non  spero  che  giamai  per  mia  salute  .  .     » 

«  Ganzone  3.*  » 
^  Degno  son'  io  di  morie  ...» 

«  Ganzone  quarta.  » 
«  Io  che  ne  1  tempo  reo  ...  » 

«  Ganzone  quinta.  » 

«  Angel  di  deo  somiglia  in  ciascun  atto  ...» 
Voi.  IV,  Parte  II  20 


SCBITTURE  VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  303 

«  So.  VJ.  » 

«  Questa  donna  che  andar  mi  fa  pensoso  ...» 

€  So.  vij.  » 
«  Voi  che  per  nona  uista  di  fierezze ...» 

<  So.  viij.  » 
«  Lo  fin  piacer  di  quel  adomo  uiso  ...» 

«  So.  ix.  » 
^  L'anima  mia  che  si  uà  |)eregrina  ...» 

«  So.  X.  » 
«  Se  mercè  non  me  aita  il  cor  si  more  ...» 

«  So  xj.  > 
<x  In  disnor  e  uergogna  solamente  ...» 

«  So  xij.  » 
«  Ohymie  lasso  hor  sonni  tanto  a  noia  ...» 

«  So.  xiij.  » 
«  Gli  uostri  occhi  gentili  e  pien  d' amore  ...» 

«  So.  xiiij.  » 
«  hi  bella  donna  che  'n  uertu  de  amore  ...» 

«  So.  xiiiij.  » 
^  Vedut'  han  gli  occhi  miei  si  bella  cosa  ...» 

«  So.  xvj.  » 
'<  Bene  è  forte  casa  M  dolce  sguardo  ...» 

*<  So.  xvij.  » 
«  Una  donna  mi  passa  per  la  mente  ...» 

«  So.  xviij.  » 
«  Auenga  che  crudel  lanza  intra  uersi  ...» 


304  A.   MIOLA 

«  So.  xix.  » 

^  C^dì  alegro  penser  che  alberga  meco  ...» 

«  So.  XX.  » 
«  Madonna  la  beitè  oostra  infollio  .  .     » 

A  car.  64  v.  : 

«  Finiscono  e  sonetti  di  messer  Gino  da  Pistoia.  » 

Segue  : 

«  Del  Medesimo.  » 
«  Madonna  la  piotate  ...» 

A  car.  65  r.  : 

«  Canzoni  di  Guido  di  messer  Gaualcante.  » 
«  Donna  mi  priegha  per  eh'  io  uoglia  dire  ...  « 

Segue  : 

«  Canzone  2.  > 
<K  La  forte  e  nona  mia  disauentura  ...» 

«  Canzone  3.  » 
«  Veggio  ne  gli  occhi  de  la  donna  mia  .  .  .  >» 

«  Canzone  4.  » 
«  Poi  che  di  doglia  1  cor  conuien  eh'  i  |)Orti  .  ■  ■  * 

«  Canzone  5.  » 
«  Quando  di  morte  mi  conucn  trhar  uira  ...  * 

«  Canzone  0.  » 
«  Io  priego  noi  che  di  dolor  parlate  ...» 

«  Canzone  7.  » 
<(  Gli  occhi  di  quella  gentil  forosetta  ...» 


SCRITTURE   VOLGARI  NEI  CODD.  NAPOLETANI  305 

«  Canzone  8.  » 

«  Io  non  pensaua  che  Io  cor  già  mai  ...  » 

«  Canzone  9.  » 

<  Era  in  penser  de  amor  quando  trouai  ...» 

A  car.  70  v.: 

«  Finischono  le  canzoni  di  guido  di   messer  Caualchante. 
minciano  e  sonetti  del  medesimo.  » 

Seguono  i  sonetti: 

«  Per  gli  occhi  fere  un  spirito  sotile  ...» 

«  Morte  gentil  rimedio  de  cattiui  ...» 

«  Voi  che  per  gli  occhi  mi  passaste  il  core  ...» 

<  Veder  poteste  quando  ui  scontrai  ...» 
«  Vn  amoroso  sguardo  spiritale  ...» 

«  Se  mercè  fusse  amicha  a  miei  disiri  ...» 

A  car.  72  r.: 

«  Finiscono  e  sonetti  di  Guido  di  messer  Caualcante.  » 

A  car.  72  v.  : 

«  Canzone  di  Guido  Guinicelli  Bolognese.  » 
«  Madonna  M  fm  Amor  eh'  io  ui  porto  .     .  » 

Segue  : 

«  Canzone  ij.  » 

<  Al  cor  gentil  ripara  sempre  amore  ...» 

A  car.  74  r.  : 

«  Canzoni  di  Guiton  da  Rezzo.  » 
^  Se  de  uoi  donna  agente  ...» 


(Continua) 


BIBLIOGRAFIA 


SUPPLEMENTO 

ALLE 

OPERE  VOLGARI  A  STAMPA  DEI  SEC.  XIII  E  XIV 

INDICATB  B  DESCRITTE 

DA  FRANCESCO  ZAMBRINI  (*) 


PnbbUcBZlonl  del  1889. 

1.  //  cantico  del  sole  nel  XV  secolo  [pubblicato  da 
M.  Faloci  Pulignani  nella  Miscellanea  Francescana^  voi. 
IV,  1889,  pp.  87-88]. 

Rida  il  testo  del  cantico  secondo  un  ms.  della  Francischina  del 
coDTento  di  S.  Marìa  degli  Angeli  presso  Assisi. 

2.  Amedeo  Crivellucci  ,  /  codici  della  libreria  rac- 
colta da  S.  Giacomo  della  Marca  nel  convento  di  S.  Ma- 
ria delle  Grazie  presso  Montepradone.  Livorno,  tip.  Giusti, 
1889;  8^  pp.  HO. 

Dal  codice  41  riporta  (p.  74)  il  cantico  attribuito  a  S.  Francesco: 
In  foco  l'amor  mi  mise  (ci.  1888  n.  4).  —  Ree.  N.  Antologia,  CIV, 
384;  Giorn.  stor.,  XIH,  425. 

3.  Ballata  di  fra-  Jacopone  [pubbl.  da  G.  Biadego 
per  la  laurea  di  Felice  Bertoldi].  Verona,  tip.  Franchini, 
1889;  8^  pp.  13.  —  Ed.  n.  v. 

Jesu  nostro  amatore ,  Tu  prehendi  et  nostro  core:  dal  cod.  517. 
519  della  Comunale  di  Verona,  ms.  del  sec.  XV.  «  Di  questa  lezione  si 
servi  il  p.  Bartolomeo  Sorio  nella  sua  Laiula  di  fra  Jacopone  da  Todi 


(*)  La  direzione  del  Propugnatore  sarà  grata  agli  studiosi  che  vor- 
ranno contribuire  a  questo  Supplemento,  inviando  giunte  e  correzioni,  e 
le  nuove  pubblicazioni  contenenti  antiche  scritture  volgari,  le  quali  d'ora 
innanzi  si  potranno  spedire  direttamente  al  compilatore  doti  S.  Morpurgo 
{Firenze,  Via  de' Conti,  ii). 


308  SUPPLE|[ENTO  ALLO  ZAMBRINI  PEB  IL   1889 

non  registrata  nella  ediz.  del  TresatH,  tratta  dai  manoscritti  {Ofucà 
religiosi  e  letterari  di  Modena,  V,  221-33). 

4.  [Landa  di  Jacopone  pubblicata  da  Alessakdro 
Bellucci  per  le  Nozze  Sebastiani' Parenti].  Rieti,  tip. 
Faraoni,  1889;  4^  pp.  4.  —  Ed.  n.  v. 

Jesu  nostro  Signore,  Prendi  i  nostri  cory:  dal  cod.  G.  IL  5  del 
monastero  di  Fonte  Colombo  presso  Rieti,  dove  la  sacra  ballata  s' uni- 
tola Laus  de  coreis  Paradisy, 

5..L.  Leònij,  Cronaca  dei  vescovi  di  Todi,  Todi» 
F.  Franchi,  1889;  16^  pp.  V-215. 

Vi  si  legge  (p.  72)  una  ballata  attribuita  da  taluno  a  Jacopone, 
e  composta  per  la  traslazione  delle  ossa  di  S.  Fortunato  in  Todi  (^297). 
Comincia  : 

Laudamo  de  bon  core, 

Todini,  con  alegranza 

padre  nostro  e  speranza 

Fortunato  pastore. 
L'editore  non  indica  la  fonte  onde  Tha  ricavata. 

6.  Laudi  dei  disciplinati  di  Gubbio  [pobbL  da  G. 
Mazzatinti  nel  Propugnatore ,  N.  S. ,  voi.  II ,  p.  i].  Bo- 
logna, tip.  Fava  e  Garagnani,  1889;  8"*,  pp.  54. 

Da  un  ms.  raembr.  del  sec.  XI V,  posseduto  già  dall'editore,  ora 
passato  alla  Biblioteca  Landau.  1.  Venete  a  pianger  coni  Maria;  t  io 
so'  Christo  salvatore  ;  3.  Torniamo  a  ppenetenza  ;  4.  0  superbo  e  rego- 
glioso;  5.  Venne  Christo  humiliato;  G.  L'  alto  Dio  si  n'abbi  ghvto; 
7.  Puoi  che  facto  ave  lamento;  8.  Dio  te  salvi.  Maria;  9.  0  fratfUi, 
or  ce  pensate  (segue  nel  codice  una  considerazione  sulla  PassioDe,  io 
latino);  10.  Levate  li  occhi  e  ressguardate ;  11.  Or  ve  piaccia  rf'flicol- 
lare;  12.  0  discipoli  della  croce;  13.  Ciascheuna  anima  devota.  Al* 
r  infuori  deir  Vili  e  dell'  ultima,  che  sono  ballale,  si  compongono  di  sestine 
d'ottonari  più  o  meno  regolari,  rimate  ababcc.  Le  prime  tre  (per  errore 
il  Mazzatinti  scrive  quattro)  erano  già  stale  edite  da  G.  Padovan  (ci. 
1884,  n.  4),  la  VI,  VII  e  Xll  avea  pubblicale  il  Mazzatinti  nel  Gitw«' 
di  filologia  romanza,  n.*»  6,  pp.  99-101  (cf.  OK.  Ap.  82),  la  X  egli 
stesso  nel  Serto  di  olezzanti  pori  raccolti  da  F.  Zambrini  {0^.  •'!/'■ 
147).  Di  mano  più  moderna  sono  nel  dello  codice,  e  furono  riprodotte 


POESIA  REUGIOSA   E  MORALE  309 

qui  oelle  premesse,  due  laudi  di  S.  Tommaso:  0  beiacto  Tomasso  (3 
strofe:  sirventese?),  e  Laudiamo  con  humillà  Sanclo  Tomasso  beato, 
la  quale  ultima  riproduce  la  stessa  materia  della  lauda  XIII.  Notiamo 
ancora  lo  scenario  di  una  rappresentazione  di  S.  Mariano  e  di  S.  Jacopo, 
data  a  Gubbio  nel  1447,  che  il  Mazzatinti  ricava  da  un  ms.  cinquecentista 
della  Sperelliaoa. 

7.  Laudi  Francescane  dei  disciplinati  di  Cortona 
[pubbl.  da  G.  Mancini  nella  Miscellanea  Francescana,  voi. 
IV,  1889,  pp.  4«-54]. 

Dalla  prima  parte  del  cod.  cortonese  91  pubblica  le  laudi  XIX, 
XIX  bis,  XXXVIII-XL  (cf.  1890,  n.  1);  dalla  seconda  ristampa  quella  del 
b.  Guido  Vagnotelli  (cf.  1884,  n.  3)  e  ne  produce  una  per  S.  Marghe- 
rita di  Cortona  :  Allegramente  e  de  buon  cor  con  fede.  Per  le  laudi  XIX 
e  XXXIX-XL  soggiunge  le  varianti  dei  mss.  magliab.  II.  I.  122  e  212, 
onde  ricava  anche  tre  altre  sacre  ballate:  1.  Sancto  Francesco,  luce 
della  gente;  2.  Radiante  lumera;  3.  Sancta  Chiara,  nova  stella, 

8.  Frammenti  di  laudi  sacre  in  dialetto  ligure  antico 
pubblicate  da  Paolo  Accame  (Estr.  dagli  Atti  della  So- 
cietà ligure  di  storia  patria,  voi.  XIX,  serie  II).  Genova, 
tip.  Sordomuti,  1889;  8'',  pp.  28,  con  tav.  litografica. 

Tre  coperte  membranacee  dell*  archivio  parrocchiale  di  Pietra  Ligure, 
donate  da  quell'  «  ottimo  prevosto  »  air  editore,  contengono  10  laudi-bal- 
late frammentarie,  sei  delle  quali  già  note  secondo  altro  testo  genovese, 
ma  più  moderno,  edito  da  V.  Crescini  e  G.  D.  Belletti  nel  Giornale  Li- 
gustico (cf.  OV,  Ap.  83).  1.  «  abrazando  lo  segnor,  per  la  boca  lo 
baiava  »,  iramm.  corrispondente  alla  laude  XXV  della  edizione  cit. ;  2. 
Zoane  da  De  mandao  ;  3.  Salve  regina  sovre  li  angeri  exaitata 
(ed  cit ,  lauda  IX)  ;  4.  Laudemo  lo  creatore,  Ancoi  nasce  Maria;  5.  Lau- 
dato sea  Christe,  E  la  Vergem  Maria  (ed.  cit,  XIV);  6.  Madona  santa 
Maria,  Maire  sei  de  li  peccaor  (ed.  cit ,  X)  ;  1.0  vergem  gloriosa,  sem^ 
pre  seai  laudata  (ed.  cit,  XI);  8.  e  ...  0  spirito  biao.  Pregai  per  li 
peccaor  »  (framm.  acefalo:  lauda  di  S.  Maria  Maddalena);  9.  0  Sam 
Francesco  glorioso,  Paire  de  li  Frai  menor  (ed.  cit.,  XIII);  10.  Quando 
tu  t'  akgri,  homo,  da  iatura,  la  notissima  laude  attribuita  a  Jacopone  ; 
ma  qui  non  va  oltre  il  v.  12.  Anche  la  II,  IV  e  Vili  sono  rifacimenti  di 
laudi  iacoponiche.  La  IX  fu  riprodotta  nella  Miscellanea  Francescana, 
voL  V  (1890),  p.  72. 


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310 


SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBRINI   PER  IL   1889 


9.  Lauda  inedita  di  Matteo  Griffoni  [pubbl. 
Casini  nel  Propugnatore,  N.  S. ,  voi.  II,  1889,  p. 
300-303]. 

Ballata,  che  comincia:  Beyna  preciosa,  Matre  de  Yes 
omnipotente ,  e  finisce  :  e  Piacciate  de  chiamare  Mattheo  G 
Et  farli  dare  perdono  Dal  tuo  figliuol  benigno  d*ogni  cosa  ».  D 
Riccardiano  1121. 

10.  Lauda  di  San  Francesco  composta  da  S 
stofano  di  Gano  Guidini  da  Siena  [pubbl.  da  M. 
PuLiGNANi  nella  Miscellanea  Francescana^  voi.  FV 
pp.  129-32]. 

Un  codice  della  Biblioteca  Comunale  di  Rieti,  scrìtto  nel 
Pagolo  di  Jacopo  di  Guido  Puccini  da  Castel  S.  Giovanni,  notai 
ciale  di  Cristofiaino  Bugliaffo  Bugliaffì  podestà  per  Firenze  a  l 
guano,  contiene  78  leggende  «  sobrevità  ridotte  in  rima  »  otta? 
Crìstofano  di  Gano  Guidini  (cf.  OV.  497),  notaio  dell' ospcds 
Scala,  che  le  verseggiò  nel  1404.  Per  saggio  di  questa  raccolta 
Pulignani  pubblica  la  leggenda  di  S.  Francesco,  che  com. :  Frc 
servo  et  amico  di  Dio,  e  consta  di  19  ottave. 

11.  V.  De  Bartholomaeis  ,  Ricerche  abruzzei 
Bullettino  delV Istituto  storico  italiano,  num.  8, 
pp.  75-173]. 

In  appendice  al  primo  capitolo,  dove  descrìve  /  codici  cap 
che  si  conservano,  in  numero  di  61,  nel  reliquiarìo  di  S.  Gio^ 
Capistrano,  pubblica  tre  laudi-ballate:  1.  Spiritu  sanctu amore.  Coi 
eterno;  2.  Vergene  matre  pia  Omne  homo  se  inclina  ad  te  der 
(dal  ms.  19);  3.  Festa  facciamo  di  tutti  gli  sancii  (dal  ms.  31), 
passi  di  laude  iacoponiche  citate  in  due  sermone 
24  e  30).  Nel  cap.  11  descrive  Un  codice  del  convento  di  San 
d'  Ocre,  ora  nella  Bibliot.  V.  Emanuele  di  Roma  (num.  37),  e  r 
un  sermone  drammatico,  nel  quale  sono  riferite  sette  qui 
volgare.  Nel  cap.  HI  pubblica  dal  codice  Corsiniano  43.  B.  31 
fico  poemetto  sacro  abruzzese ,  sulla  storia  della  Passione ,  com 
137  quartine  monorime,  che  forse  sono  da  attribuire  allo  stessa 
della  Leggenda  di  S.  Margherita  d' Antiochia  pubblicala  dal 
(cf.  1885,  n.  7).  Comincia: 


I 


Ji 


POESIA  RELIGIOSA  E  MORALE  311 

Eterno  dio  che  '1  del  firmasti 
Tucti  elementi  diprese  allocasti 
E  lucibello  allora  creasti 
Per  la  superbia  tu  lu  cacciasti 

Nel  cap.  IV,  Sui  sermoni  semidrammatici  abruzzesi,  presenta  una  laude 
dialogata:  Oymè  dolente  sconsolato,  dal  ms.  D.  2.  24  delP  Angelica  di 
Roma,  e,  dando  conto  di  due  prediche  abruzzesi  drammatizzate,  riporta 
alcuni  saggi  delle  liriche  religiose  che  infarciscono  quei  sermoni.  —  Gf. 
Giom.  star,,  XV,  313. 

12.  Un  Bestiario  moralizzato,  tratto  da  un  mano-- 
scritto  eugubino  del  sec.  XIV  a  cura  del  doti,  G.  Maz- 
zATiNTi:  nota  di  E.  Monaci  [negli  Atti  della  R.  Acca- 
demia dei  Lincei,  anno  CCLXXXVI,  1889,  serie  4.*,  voi. 
V  dei  Rendiconti  (r  semestre),  pp.  718-29  e  827-41]. 

Da  un  codice  membr.  dei  primi  anni  del  trecento,  onde  il  Mazza- 
tinti  pubblicò  già  alcune  Poesie  religiose  (cf.  OV.  Ap,  126).  Il  bestiario 
consta  di  64  sonetti,  che  ciascuno  moralizza  sopra  un  animale;  e  primo 
il  leone  :  Lo  lion  è  de  si  nobile  natura.  Ancora  il  leone  nel  son.  %^  ; 
poi  Talifante,  l'unicorno,  la  yenna,  la  serta,  la  volpe,  lo  riccio,  il  ca- 
storo, la  formica,  T  antalupo,  la  capra ,  il  satiro ,  il  cervo ,  la  pantera , 
la  tigra,  il  mosteto,  Torsa,  il  bonatio,  il  linceo,  la  donnola,  la  lam- 
mia,  la  scimmia,  la  mantiocora,  la  ale,  lo  lupo  (2  son.),  lo  cane, 
Taignello,  lo  porcelletto,  la  pontecha,  lo  raigno,  lo  grifone,  l'aquila,  la 
tortore,  lo  corbo,  la  perdice,  li  falcomcelli,  il  calandro,  lo  pellicano,  lo 
lampo,  l'ales,  la  noctola,  le  serene,  la  gallina,  lo  paone,  l'aucello  ca- 
melon,  la  luppica,  lo  stru^,  le  api,  la  mosca,  l'arzillo,  lo  gufo,  lo  par- 
palione,  la  lodola,  lo  nibbio,  l' usignolo ,  l' avolloio ,  la  balena ,  la  sala- 
mandra, la  vipera,  lo  dragone,  V  aspido,  e  il  tiro.  La  composizione  risale 
al  secolo  XIU  (i  sonetti  hanno  le  quartine  a  rime  alterne):  le  forme  dia- 
lettali accennano  alla  regione  umbro-aretina,  e,  secondo  il  Monaci,  più 
particolarmente  al  territorio  di  Città  di  Castello;  però  in  appendice  si 
producono  a  confronto  tre  laude  dei  disciplinati  di  Sanse- 
polcro,  da  un  codice  dell'ospedale  di  S.  Bartolommeo  di  quella  città, 
ms.  del  sec.  XIV:  1.  Laudiamo  nocte  e  dia;  2.  Saludiamo  Jhesu  Xpisto; 
3.  Ave  Maria  de  gratta  piena.  Stella  serena  del  nostro  Signore,  Tutte 
e  tre  ballate.  —  Ree.  liiv.:  Crit.,  VI,  17;  Zeitschr,  fUr  rom.  PhiL, 
XIII,  601. 


312 


SDPPLGIIGNTO  ALLO  UMBRI  NI  FSft  IL   1889 


I 


I 


I 


I 

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13.  //  Tesoro  di  Brunetto  Latini  versificato  :  m 
di  Alessandro  D'  Ancona  (Estr.  dalle  Memorie  della 
di  scienze  morali,  storiche  e  filologiche  della  R, 
dei  Lincei,  serie  IV,  voi.  IV,  p.  i).  Roma,  tip.  d( 
cademia  dei  Lincei,  1889;  4"",  pp.  166. 

Indica  e  descrìve  due  differenii  redazioni  del  Tesoro  Yersifii 
più  antica,  sebbene  rappresentata  dal  codice  più  recente,  cioè  il 
679  (sec  IVI) ,  1*  altra  più  moderna  e  più  ampia ,  conser 
cod.  Pandatichiano  28,  ms.  del  sec  XIV,  che  negli  ultimi  Tei 
la  data  del  1310  e  il  nome  di  Fra  Mauro  da  Poggibonzi, 
sitore,  0  fors*  anche  semplice  trascrìttore  di  queste  rime.  Ent 
Tersioni  constano  di  Tersi  irregolari,  che  qua  e  là  paiono  end< 
ma  che  più  spesso  son  fuorì  d'ogni  giusto  ritmo  italiano;  rimani 
pie,  e  le  rime  danno  certo  indizio  della  preesistenza  di  una 
poetica  francese,  dalla  quale  bisogna  credere  che  deriTassero  qo 
in  Tolgar  nostro.  Assai  spesso  esse  si  scostano  affatto  dall*orig 
Tesoro  per  ampliare  o  aggiungere  varie  leggende;  e  su  queste  : 
tiene  particolarmente  il  D*  Ancona,  riportando,  oltre  a  minori  s; 
hu^  squarcio  sulla  storia  di  Alessandro  Magno  (pp.  27-32),  \ 
relatÌTo  alla  legenda  di  Costantino  e  S.  SilTestro  (pp.  34-52)  < 
troTamento  dei  corpi  di  S.  Piero  e  S.  Paolo  (pp.  54-62),  un  I 
Maometto  (pp.  68-69),  onde  toglie  occasione  a  uno  stadio 
irggfmda  di  ìhùmetlo  in  Occidente  (pp.  70-119),  che  fu  s 
anche  a  parte  nel  Gior»,  stor,  d.  lett.  il.,  Xlll,  199-281.  In 
molli  sagjH  della  parte  storia  del  Tesoro  (pp.  120-51),  e  in  ap 
riproduce  da  tutti  gli  antichi  commenti  danteschi  le  chiose  re 
Mjometlo  {hf.  XXVIU).  —  Kec.:  .V  Anto!.  CV,  795;  Riv.  Crii., 
Arck,  trodtz.  pC'p..  Vili.   111. 

14.  i>  antiche  rime  volgari  secondo  la  lezion 
codice  vaticano  3793,  pubblicate  per  cura  di  A.  D'A 
f»  D.  CuMPARETTi.  Voi.  V,  con  aggiunta  di  annoti 
chtick^'  del  prof.  T.  Casini.  Bologna ,  RomagDoli-Ds 
qua.  1888  [1889];  8*,  pp.  541. 

or.  ISS»\  lì.  V».  Ou^^"^  volume,  col  quale  si  compie  la  pubbli 
dei  JTin  taaioniere  valicano,  contiene  297  sonetti,  numerati  DCClll-C 
uoi  quali  46  x^do  attribuiti  a  Chiaro  Davanzali,  1  alla  Coo 
Romelia,  t  i  Federigo  Guaiterottl,  20  a  Guitton  d*A 


ì; 


URICI  DEL  SEC.    XIU  313 

i  a  Lapo  del  Rosso,  2  a  Maglio,   1  al  Guinizelli,  6  a   Mess. 
Lnmberluccio  Frescobaldi,  1  a  Mess.  Piero  Asino,  8  a  Mess. 
Ubertino  Giovanni  del  Bianco  d^Àrezzo,    1    a   Minotto  di 
Naldo  da  Colle,  44  a  Monte  Andrea,  4  a  Pacino   di  Ser   Fi- 
lippo Angiulieri,  1  a  Petro  Morovelli,  1  a  Puccio  Belondi, 
57  a  Rustico  Filippi,  1  a  Schiatta  di   Mess.   Albizo  Palla- 
villani,  1  a  ser  Beroardo  notaio,  1   a  ser  Bonagiunta  da 
Lucca,  5  a  ser  Gione  notaio,  3  a  ser  Jacopo  da  Leona,  i  a 
ser  Mino  da  Colle,  2  a  ser  Monaldo  da  Sofena,  e  finalmente 
82  anonimi.  Fra  questi  sono  singolarmente  notevoli  quelli  che  portano 
i  Dum.  935-95  e  formano   una  corona  che  tratta  dell'amoroso 
servire,  la  quale  per  buone  ragioni  si  può  sospettare  opera  di  Guido 
Cavalcanti.  In  fine  al  volume  sono  le  Annotazioni  del  Casini,  che  intomo 
a  ciascuna  poesia  raccolse  emendazioni  del  testo  e  altri  utili  schiarimenti 
proposti  da  altri  o  da  lui  durante  il  corso  della  pubblicazione,  e  ripro- 
dusse anche  in  miglior  forma  alcuni  componimenti.  Seguono   gli   indici 
degli  autori  e  dei  capoversi  di  tutto  il  canzoniere.  —  Ree.  N.  Anlol. , 
CI V,  352,  dove  F.  Torraca   riprodusse  i  1  son.  di  Chiaro  Davanzati: 
Io  non  posso,  madonna,  ritenere,  e  quello  di  Rustico:  Quando  Diomesser 
Messerin  fece.  ^ 

15.  [Sonetto  di  Pier  dalle  Vigne  pubbl.  dall' ab.  G. 
Guadagnici  per  Nozze  Pisanello-Guadagnini],  Bassano, 
tip.  Pezzato,  1889;  16°,  pp.  5.  —  Ed.  n.  v. 

Però  eh'  Amore  non  si  può  vedere;  e  è  il  sonetto  più  antico  che 
si  conosca,  perché  (!)  ne  fu  autore  il  celebre  Pier  delle  Vigne  >. 

16.  Die  Doktrin  der  Liebe  bei  den  italidnischen  Ly- 
rikern  des  13.  lahrhunderts  :  inaugurai  Disserlation  von 
LoTHAR  GoLDSCHMiDT.  Breslau,  Koebner,  1889  ;  8",  pp.  56. 

Riporta  parecchi  luoghi  de*  nostri  antichi  che  toccano  della  teorica 
d'amore,  e,  commentandola,  quasi  tutta  la  canzone  di  Guido  Caval- 
canti: Donna  me  prega  (p.  29  e  segg.),  e  il  sonetto:  Otto  comandamenti 
face  amore  (p.  47  n.:  cf.  1884,  n.  10).  —  Ree.    Giom.  stor  XIII,  407. 

17.  I.  Del  Lungo,  //  disdegno  di  Guido  (Estr.  dalla 
N.  Antologia,  voi.  CVIII,  pp.  37-67).  Roma,  tip.  della 
Camera  dei  Deputali,  1889;  8%  pp.  34. 


314  SUPPLEMENTO  ALLO  ZAUBRINl   PER  IL   1889 

Vi  si  leggono,  oltre  a  minori  saggi,  frammentarì,  due  son.  di  Dante 
(lo  mi  sentii  e  Guido  vorrei )j  due  dei  Cavalcanti  {Ftfe^'l 
giorno  e  Una  figura\  e  uno  del  Musei  a  {Écd  venuto  Guido  Cm- 
postello),  A  pag.  24  n.  1  è  la  bibliografia  della  questione  del  e  dis- 
degno ». 

18.  [La  Divina  Commedia  col  commento  di  Tommaso 
Casini].  Firenze,  Sansoni,  1889;  8^  pp.  VIII-820. 

Forma  il  secondo  volume  del  Manuale  di  letteratura  itaUana  ad 
uso  dei  licei  (cf.  1886,  n.  44);  fu  pubblicata  in  due  dispense:  la  seconda, 
contenente  il  Paradiso,  venne  fuori  nel  1891. 

19.  Dante  's  GóttUche  Komódk  bearbeitet  fUr  An- 
fànger  in  der  itaUenischen  Sprache,  von  Alberto.  Italie^ 
nischer  Text  mit  deutschem  Commentar.  Zweibrucken, 
M.  Ruppert,  1889;  3  voli,  in  8^  pp.  LVIII-175;  XI-IW; 
XlI-172. 

20.  E.  MooRE,  Pontribution  to  the  textual  criticim 
of  the  Divina  Commedia,  incltiding  the  complete  cotta- 
tion  troughout  the  Inferno  of  ali  the  mss.  at  Oxford  ani 
Cambridge.  Cambridge,  University  Press,  1889;  8',  pp. 
LVI-723. 

11  testo  deir  Inferno  è  dato  secondo  la  lezione  del  Witte.  Nell'Ap- 
pendice III  (p.  706)  sono  riportate  le  sei  terzine  interpolale  nel 
XXXIII  deir  Inferno  (cf.  1885,  n.  18),  secondo  il  testo  dei  mss.  Cano- 
niciano  103,  Chigiano  L.  VHI.  292  e  Parigino,  Riserve  5. 

21.  Lezioni  espositive  popolari  sulla  Divina  Commedia 
dedicata  ai  maestri  elementari  italiani  dal  prof.  Longoni 
Baldassare.  L  Inferno,  Padova,  tip.  Salmin,  1889;  8\ 
pp.  XV-504. 

Contiene  il  testo  della  prima  cantica. 

22.  La  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri  con 
note  dei  più  celebri  commentatori,  raccolte  dal  sue,  prof- 
Gio.  Batt.   Francesia.  Ottava  edizione.  Voi.  1:  Inferno; 


DANTE  315 

Voi.  II:  Purgatorio.  Torino,  tip.  Salesiana,  1889;  voli.  2 
in  2^:  pp.  286,  297. 

23.  //  Purgatorio  dichiarato  ai  giovani  da  Angelo 
De  Gubernatis.  Firenze,  Niccolai,  1889;  24°,  pp.  VIII414. 

Cf.  1887,  n.  42;  e  1890,  n.  16. 

24.  F.  Pellegrini,  Le  chiose  all'  <  Inferno  »  edite  da 
F.  Selmi,  e  il  cod.  Marc,  ital.  ci  IX,  n.  179.  [Nel  Giorn. 
star.  d.  lett.  it.,  voi.  XIV,  1889,  pp.  421-31]. 

Pubblica  la  sposizione  del  1  canto  dell*  Inferno  secondo  il  detto  cod. 
Marciano,  premesse  alcune  osservazioni  sui  rapporti  che  questo  com- 
mento mostra  con  le  chiose  edite  dal  Selmi. 

25.  La  Vita  Nuova  di  Dante  Alighieri.  Milano, 
Guigoni,  1889;  24^  pp.  64. 

26.  //  sepolcro  di  Dante:  documenti  raccolti  da  Lo- 
dovico Frati  e  Corrado  Ricci.  Bologna,  Romagnoli-Dal- 
r Acqua,  1889;  8^  pp.  XXX Vili- 152.  (Della  Scelta  di 
curiosità  letterarie,  disp.  135). 

Di  questi  documenti  spettano  alla  presente  bibliografia:  un  sonetto 
d'anonimo  e  minimo  dantista  »  (Menghino  da  Mezzano?)  in  lode 
di  Bernardo  da  Canatro  o  Catenacci,  autore  dell* epigrafe  dura 
Monarchiae  i»:  Vostro  si  pio  ufficio  offerto  a  Dante  (p.  13),  con  la  ri- 
sposta del  Catenacci  :  Quando  7  turbato  volto  al  bel  Pattante  (p.  1 K) , 
entrambi  già  pubblicati  nel  Catalogo  della  Bodlejana  (cf.  OV.  232); 
-  la  nota  prosopopea  del  Boccaccio:  Dante  Alighieri  son.  Minerva 
oscura  (p.  15);  -  sei  terzine  del  canto  LV  del  Centiloquio  (p.  16);  •  i  ver- 
setti fatti  mettere  da  frate  Antonio  di  Cipriano  Neri  d'Arezzo 
lettore  della  Commedia  sopra  un  ritratto  di  Dante  ch'era  in  S.  Maria  del 
Fiore  (1430-32),  e  una  breve  nota  dichiarativa  premessa  a  questi  versi 
da  Bartolonmieo  Ceffoni  (non  frate,  come  dicono  gli  editori),  il  quale  li 
trascrisse  nel  cod.  Riccardiano  1036;  -  il  son.  in  lode  di  Dante  Correndo 
gli  anni  del  nostro  Signore  (p.  19:  cf.  1890,  n.  29);  -la  novella  CXXI 
di  Franco  Sacchetti,  riferita  per  intero.  In  fine  al  volume  é  un  Saggio 
bibliografico  per  la  storia  del  sepolcro  di  Dante.  —  Ree.  :  Riv.  Crit.,  VI,  19. 


316  SUPPLEMENTO  ALLO  Z^MBEIl^I  PER  IL    1889 

27.  Selvaggia  Vergiolesi  e  la  lirica  amorosa  di  Cmo 
da  Pistoia:  studio  di  Umberto  Nottola.  Bergamo,  tip. 
Fagnani  e  Galeazzi,  1889;  16%  pp.  64. 

Vi  sono  rìslampati  per  intero  cinque  sonetti  di  Gino:  Lasso,  penssnéo 
(p.  27),  Io  fui  'n  suir  alto  (38),  Come  non  è  con  voi  (43),  Poi  eh'  io  ftd, 
Dante  (50),  Deh  non  mi  domandar  (58);  e  uno  del  Petrarca:  Piangek 
donne  (64).  —  Ree:  N.  AntoL,  CVI,  786. 

28.  Della  irreligiosità  tribuita  al  Boccaccio:  ragio- 
namento del  marchese  Gaetano  De  Felice.  Napoli,  tip.  Fi- 
Unto  Cosmi,  1889;  4\  pp.  26.  —  cl  es.  n.  v. 

Anzi  é  una  irragionevole  cicalata,  dove  sono  ristampati  cinque  so- 
netti boccacceschi:  Non  treccia  d' oro  (p.  12),  Volgiti^  spirto  (M),  0 
regina  degli  angioli  (15),  0  luce  etema  (19),  0  glorioso  re  che  il 
del  governi  (25). 

29.  //  cantare  di  Fiorio  e  Biandfiore ,  edito  ed 
illustrato  da  Vincenzo  Crescini.  Voi.  I.  Bologna,  Roma- 
gnoli-Dair Acqua,  1889;  8%  pp.  XI-506.  (DeUa  Scelta 
di  curiosità,  disp.  233). 

In  questo  primo  volume  è  soltanto  i*  introduzione  dell' editore:  tot- 
tavia  indichiamo  a  p.  48  e  segg.  alcune  noterelle  cronologiche  riportale 
dal  ms.  trecentista  del  cantare  (  magliab.  VII!.  1416),  e  più  qua  più  là 
alcune  ottave  del  testo  riferite  per  gli  opportuni  raflronti.  —  Ree:  Giorn. 
stor.,  XIV,  438. 

30.  E.  Costa,  //  codice  Parmense  1081.  [Nel  Giom. 
stor.  d.  letL  it.,  voi.  XII  (1888),  pp.  77-108;  XIII,  70-100; 
XIV  (1889),  31-49]. 

Ouesto  codice  contiene  un'amplissirtìa  raccolta  di  rime  treccntisie,  tra- 
scritta sul  principio  del  quattrocento  da  Gaspare  lotti,  probabilmente  Pipa- 
no; Pietro  Vitali,  che  la  possedeva  prima  che  passasse  alla  Palatina  di  Panna, 
ne  avca  dato  (jualche  notizia  e  pochi  saggi  in  una  Lettera  all' ab.  M.  Colombia 
(Parma,  1820:  cf.  OV.  Ap.  93-9i);  ora  il  CosUi  ne  comunica  tutta  la 
tavola,  con  le  varianti  di  alcuni  componimenti,  e  con  un'  appendice  di 
poesie  inedite,  0  credute  tali  da  lui.  Eccone  i  capoversi:  quelli  cui  non  si 
aggiunge  altra  indicazione  sono  di  sonetti,  e  quasi  tutti  adespoti  e  nne- 
pigrali:  taluno  attribuito  colie  iniziali  F.  P.  al  Petrarca,   più  altri  Tram- 


LIRICI   DEL  SEC.   XIY  317 

misti  senz'alcuna  nota  ai  petrarcheschi.  1.  Levasi  il  sol  talvolta  in 
oriente;  2.  0  eh*  amor  sia,  o  sia  lucida  stella;  3.  Passa  per  via  la  bella 
giovinetta  ;  A.  Parme  nel  chonvivio  de  Phenissa;  5.  Se  l'aguta  mai  pun- 
seme  sarissa;  6.  Colui  che  per  viltà  sul  grande  extremo;  7.  Quando 
talora  i  miei  pensier  nascosti  (F.  P.);  8.  Si  mi  fa  risentir  a  V  aura 
sparsi  (F.  P.);  9.  Non  è  piaggia  diserta  in  questa  terra;  10.  Solo  una 
cosa  m'è  conforto  e  scudo  (F.  P.);  11.  Homo  che  poco  di  liggier  lo 
spende;  12.  Perché  ti  volgi  colli  occhi  in  terra;  13.  Omni  fortuna  chiama 
in  cui  si  vede;  ìi.  Per  liti  e  selve,  per  campagne  e  colli;  15.  Cosi  pò* 
irei  io  viver  sanza  amore;  16.  Io  son  si  altamente  innamorato;  17.  Giu- 
sta speranza  nel  terrestro  mondo;  18.  Eran  passati  ne  l'inverno  i 
giorni;  19.  0  aspectata  in  sino  alla  vecchiezza;  20.  Mesto  mi  trovo  e 
di  dolor  si  pregno;  21.  Occhi  miei,  qua  è  posto  il  Paradiso;  %2.  Che 
fai ,  animo  tristo,  che  pur  pensi;  23.  Occhi,  vedete  innanzi  che  si 
stingua;  24.  Donne  crudeli,  quella  man  m'  avi  tolta;  25.  Sano  benigno 
al  mio  grave  cotiforto;  26.  Non  è  si  freddo  alcun  dente  di  serpe;  27. 
Non  volge  si  nimphate  al  corso  i  sassi  ;  28.  La  gran  virtù  d'amor  che 
'n  cor  gentile;  29.  Amor,  anzi  che  V  ultima  ora  prema  ;  30.  Aprimi 
usci  e  finestre  anzi  eh'  io  mora;  31.  Dove  abandona  amor  si  ce  n  an- 
dremo; 32.  Cor,  io  ti  lascio,  e  non  so  del  tornare;  33.  Lingua  che  parli 
per  dieci  altre  in  vano;  34.  l ò  più  fuoco  stretto  alla  mia  mente;  35. 
CAt  sera  quello  che  contar  con  sermone;  36.  Costante  cuor  più  che  tutti 
altri  cuori;  37.  A  quella  parte  ov  io  fui  prima  accesa;  38.  Era  il  tuo 
ingegno  divenuto  tardo;  39.  Amor  m' à  posto  sotto  suo  stendale;  40.  Che 
ci  è  nel  mondo  più  beato  regno;  41.  Al  tradimento  non  può  riparare; 
42.  Non  fusti  atraversati,  o  monti  alteri;  43.  Ad  uno  altare  dinanzi 
ginocchione;  44.  Occhi  miei  lassi,  che  piangendo  stanchi  ;  45.  Perch'  al 
faitor  dello  universo  piacque;  46.  Quando  udio  stasera  la  partita;  47. 
Ben  potete  celarmi  il  chiaro  sguardo;  48.  Io  sono  stato  e  sono  ancora 
in  forse;  49.  Tutto  il  sai  eh'  è  in  Grosseto  e  intomo  a  l'  alpi;  50.  Ai 
lassa  sconsolata  la  mia  vita;  51.  Langue  l'idolo  mio,  langue  la  stella; 
52.  Bella,  leggiadra,  nobil  creatura.  [Fin  qui  sono  quasi  tutti  frammisti 
a  componimenti  atlribuìli  al  Petrarca:  si  avverta,  in  aggiunta  alle  note 
bibliografiche  dell'  editore,  che  anche  i  num.  6  e  45  erano  a  stampa  col 
nome  del  poeta].  53.  Poi  che  Vuccel  di  Jove  concedette,  e  contro  i  pa- 
stori diventati  malvagi  per  avaritiat;  54.  Poiché  a  Saturno  Jove  succe- 
dette, e  risposta  al  sopradelto  son.,  laudando  e comendando Costantino»; 
55.  Dal  viso  bel  che  fa  men  chiaro  il  sole,  atlrib.  a  Dante  [edito  dal  Witte, 
Dante- Forschungen,  li,  563];  56.  De  qual  pianeta  o  qual  nimpha  o  idea; 
57.  Lo  splendor  chiaro  del  tuo  vago  viso;  58.  Correr  suol  all'  aitar  colm 

Voi.  IV,  Parte  li  21 


318  SUPPLEMENTO  ALLÒ  ZjMBRINI  PER  IL    1889 

eke  teme:  59.  Rimase  impaurito  Gino  e  Barthóto;  60,  0  tu  che 
questa  nostra  tomba;  61.  Per  te  m'  à  posto  Amor  nella  sui 
62.  Più  lieto  non  fu  già  quel  che  riprese;  63.  Amore,  io  ti 
mille  volte;  64.  De  quanto  fortemente  tu  se*  errata;  65.  Un  \ 
pe'  Bardi  andò  in  Vignone:  i  primi  6  versi  [in  più  altri  test 
completo,  e  talora  attribuito  ad  Antonio  Pucci];  66.  Io 
il  punto  e  V  ora  e  7  giorno;  67.  La  figlia  di  Tiresia  non 
e  al  signor  di  Verona,  inanzi  che  si  cominciasse  la  guerra  dal 
Virtù  a  lui  »;  68.  Dov' è  il  gran  senno,  l'ardire  e  7  valore, 
prascrìtlo  signore  t;  69.  L'alta  risposta  del  ser  di  vertute; 
vi  conobbi  mai  se  non  per  fama,  e  mandato  a  mess.  Joanni  del 
quando  era  signor  di  Pisa  >;  71.  Omè  ch'io  moro,  e  morte  n 
cide;  72.  Di  questo  mondo  ognun  si  faccia  beffe ,  ballata  ;  73. 
savio  più  che  non  son  stato;  li.  Io  non  credo  che  mai  d'ami 
frammisto,  come  i  due  precedenti,  a  rime  petrarchesche  ;  7 
leggiadre,  cui  d'amor  la  spera,  canz.  [di  Antonio  degli 
già  a  stampa  fra  le  sue  rime,  ediz.  Bonucci,  Bologna,  1863 
76.  Se  da  te,  donna  idea,  non  son  soccorso;  77.  Qual  cosa 
mondo  tanto  greve;  78.  Mancando  alla  cicala  che  mangiare 
mente  d'Antonio  Pucci:  fu  attribuito  anche  al  Burchie 
Spirto  gentil,  da  quel  gremio  sciolto,  canz.  mutila  in  fin< 
sentisi  quel  che  sento,  ball.  ;  81.  Ministra  e  donna  delti 
reni,  canz.  sulla  Fortuna;  82.  S  io  il  pensai  mai,  che  chi  il 
pensi;  83.  Quella  leggiadra  e  lieta  novellizia  ;  84.  Veder  ti 
vecchia  stomacosa  ;  85.  Oro  affinato  mai  non  prende  ruggì 
86.  Mai  bona  stacia  fé  coda  asinina;  87.  Lo  amor  si  me 
ball.;  88.  Non  più  dirò,  ornai  chosi  farò,  ball,  t  di  ser 
del  Proposto  »;  89.  Amore,  in  cui  pietà  nulla  si  ire 
di  cNiccholòsoprascripto  >;90.  Non  è  altrui  ogni 
chiama  amico,  canz.  di  Niccolò  Soldanieri;  91.  D'i 
faremo  •  son  stato  servito,  madrigale;  92.  Però  che  non  è  i 
che  donna,  canz.  di  Niccolò  Soldanieri  e  da  San  Mi 
93.  lo  riguardo  costui  col  viso  lieto;  94.  Cosi  del  mondo  a  sì 
ti  fida,  canz.  del  Soldanieri;  95.  Di  tutte  cose  mi  senti 
11  versi,  dei  quali  era  facile  accorgersi  die  non  formano  un 
mento:  i  primi  6  appartengono  a  un  nolo  sonetto  di  Cecco 
li  eri,  gli  altri  sono  il  congedo  della  canzone  di  Dante:  Coi 
parlar  ;  96.  Tu  eh'  ài  la  busca  neW  occhio  risponde.  In  nota 
scrizione  il  Costa  riporta  intera  la  frottola  :  Mentre  io  d'  amor 
udii  gridare,  lesto  diverso  e  assai  più  breve  di   quello   edito 


LIRICI  DEL  SEC.   XIV  319 

chi,  II,  100,  e  che  in  altre  buone  fonti  porta  il  nome  di  Giannozzo 
Sacchetti.  —  Ree.  N.  Antologia,  GVI,  580,  dove  fu  riprodotto  il 
son.  41. 

31.  Questioni  di  geografia  petrarchesca  :  memoria  di 
Francesco  D'Ovidio.  [Negli  Atti  della  R.  Accademia  di 
scienze  morali  e  politiche  di  Napoli,  voi  XXII,  1889, 
pp.  35-83,  con  carta  geogr.]. 

Riporta,  commentandoli  rispetto  ai  luoghi  cui  accennano,  i  sonetti 
petrarcheschi  :  Rapido  fiume  (38),  Non  Tesin  (41  ),  Apollo,  s' ancor  (42), 
Valle,  che  de'  lamenti  (52),  /'  ho  pien  di  sospir  (53),  Cercato  ho  sem- 
pre (57),  Dell'  empia  Babilonia  (59),  Almo  sol  (60),  È  questo  il  nido 
(61),  Sento  /'  aura  (62),  A  pie  dei  colli  (64),  Stiamo,  Amor  (66),  Fresco 
ombroso  (66) ,  i4mor  che  meco  (67) ,  L'  aura  gentil  (68) ,  Se  7  sasso 
ond'  è  (69),  Quella  fenestra  (71),  Qui  dove  mezzo  son  (72),  Anima  bella 
(82).  Cf.  nello  stesso  voi.  degli  Atti:  Ancora  di  Sennuccio  del  Bene,  e 
ancora  dei  lauri  del  Petrarca  (pp.  141-50). 

32.  Pio  Rajna,  Una  canzone  di  maestro  Antonio  da 
Ferrara^  e  F  ibridismo  del  lingtuiggio  nella  nostra  an- 
tica  letteratura.  [Nel  Giom.  stor,  d.  lett.  it.,  voi.  XIII, 
1889,  pp.  1-36]. 

Pubblica  la  canzone  Prima  che  'l  ferro  arossi  i  bianchi  pili,  se- 
condo il  testo  del  magliab.  VII.  1035,  aggiungendo  dappiede  la  lezione 
del  Laurenziano  122  della  SS.  Annunziata,  e  le  varianti  del  Barberi- 
niano  XLV.  129,  del  Vaticano  3213  quale  fu  riprodotto  da  T.  Bini  nelle 
Rime  e  prose  del  buon  secolo,  e  d' un  ms.  onde  G.  M.  Barbieri  ricavò 
il  principio  e  la  fme  di  questo  componimento.  Il  testo  magliabechiano, 
scritto  in  Gne  a  un  Boezio  copialo  nel  1342,  e  seguito  da  una  lunga  e 
particolareggiata  didascalia  con  la  data  8  aprile  1354,  mostra  a  que- 
sti e  ad  altri  indizi  di  essere  assai  probabilmente  autografo  o  almeno 
vicinissimo  air  originale;  però  è  buon  documento  della  lingua  poetica 
adoperata  dal  ferrarese,  di  cui  il  Raina  analizza  gli  elementi  e  nota  i 
caratteri. 

33.  Giacomo  Lumbroso,  Memorie  italiane  del  buon 
tempo  antico.  Torino,  Loescher,  1889;  8®,  pp.  266. 

A  proposilo  Dei  viaggi  e  dell'ospitalità  d'una  volta,  riporta  (pp. 
112-14)  la  canzone  di  Antonio  Pucci  :  Un  gentiluom  di  Rotna  una 


320  SUPPLEMENTO  ALLO  ZJUBIUNI  PER  IL  1889 

fiata,  rìproduceDdola  àaUT  Etruria  (D,  124).  --  Ree:  N.  AwloL  CSW, 
395;  Giom,  stor,,  XIV,  45i;  Areh.  tradiz.  pop..  Vili,  442. 

34.  Canzone  di  Maestro  Bartolomeo  da  Castel  della 
Pieve  [pabbl.  da  G.  Mazzatinti  per  le  Nozze  Soleri- 
Saggini  ].  Foligno ,  tip.  SgarìgUa ,  1889  ;  8^ ,  pp.  12.  - 
Lxx  es.  n.  y. 

Benché  il  cielo  à  nel  tuo  prato  eoncUuo;  dal  cod.  Vaticano  3313, 
dove  reca  questa  didascalìa:  e  mostra  pariare  ed  papa,  et  pregalo  gi 
piaccia,  poi  che  è  piaciato  alla  fortuna  che  lui  habbia  sotlomesia  b  dita 
di  Perugia  alla  Chiesa  [23  noTembre  1370],  quella  raccomandati,  et 
tractarla  come  Ggliola  et  non  come  figliastra;  et  a  presso  cooforta  i  Pe- 
rugini a  esser  patienti  ». 

35.  Epistole  di  Pier  Paolo  Vergerio  seniore  da  Ca- 
podistria  [pabbl.  da  R.  Sabbadimi  nei  Giom.  star.  d.  leti 
it.,  voi.  XIII,  1889,  pp.  295-304]. 

Con  la  lettera  del  Vergerio  a  Ognibene  della  Scola  edita  già  (bi 
Casini  (cf.  1888,  n.  46)  ripubblica  i  due  sonetti  del  Vergerlo:  Rfm 
che  fu,  e  Virtute  e  zientileza.  Ma  avendoli  troTall  scrìtti  nel  coè'ce,  se- 
condo il  solito,  su  due  colonne,  lesse  e  stampò  ciascuna  colonna  da  sé; 
accortosi  poi  che  cosi  i  versi  non  davano  senso,  li  ordinò  con  nooien, 
lasciando  ai  e  colleghi  che  studiano  la  poe^a  volgare  il  risolvere  se 
questa  tras|)osizione  di  versi  sìa  un  capriccio  personale  o  una  consue- 
tudine ». 

36.  T.  Casini,  Notizie  e  documenti  per  la  storia  deUa 
poesia  italiana  nei  secoli  XIII  e  XIV.  II  :  Due  antichi 
repertori  poetici.  [Nel  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  II,  1889, 
p.  I,  pp.  197-271,  e  p.  II,  pp.  356-405]. 

11  primo  di  questi  repertori  è  nel  ms.  magliab.  VII.  10.  1078,  del  quale 
il  Casini  comunicò  altra  volta  la  tavola  e  alcuni  pochi  saggi  {OV.  Ap. 
134).  Riprendendolo  ora  in  più  minuto  esame,  ne  pubblica  tutti  i  com- 
ponimenti di  carattere  popolare,  dei  quali  diamo  qui  i  capoversi,  avver- 
tendo che  quelli  senz*altra  nota  sono  di  ballate:  delie  più  curiose  ac- 
cenneremo anche  la  materia.  1.  Ben  aza  quela  zota^  con  rime  disoneste 
sottintese;  2.  Kyrie,  kyrie^  pregne  son  le  monache;  3.  D*  amor  si  dol'^ 
aspeto  da  ti  aparse;  4.  Adoro  te,  amor  mio,  dolce  mia  vita;  5.  Amor. 
a  ti  me  inclino^  e  dico:  vita,  distici   a  rima   baciata  ;  6.  A  dirle  '^ 


RIME  POPOLARI  E  STORICHE  321 

vero  dolce,  sirventese  duato?;  7.  Adorote^  aazoleta;  8.  Adoro  te,  amor, 
dohe  anzolina,  sonetto?;  9.  A  d'irte  tuto  quel  che  7  mio  cuor  dice; 
10.  Adoro  te,  amor  caro  mio  conforto,  son.?;  11.  Adoro  un  dio,  e  amo 
Hy  mia  vita ,  distici  a  rima  baciata  (  sembra  probabile  che  i  compo- 
nimenti 3-11  siano  d*uno  stesso  autore);  12.  De  ben  feci  la  gran 
pacia:  lamento  del  monaco;  13.  Done,  siatene  pregate:  contro  le  fogge 
femminili;  si  legge  anche  nel  ms.  Palatino  201,  ma  in  lezione  assai  di- 
versa, che  comincia  e  Fanciulle,  siate  avizate  »  e  che  è  qui  pure  ripro- 
dotta; ìi.  De  toma,  eh'  i'  t'aspeto;  15.  La  dona  mia  voi  eser  el  mi^ 
siere:  lamento  del  marito;  16.  Perché  sospecto  non  sia:  lamento  di 
partenza,  e  contro  i  malparlierì;  17.  Tolto  m'di  col  to  parlare;  18.  Oi 
me!  streto  fose  io;  19.  Valeto,  per  cortesia;  20.  Or  ve  fazo  asapere:  la- 
mento per  la  Quaresima;  21.  Lassa  mi!  comò  farazo:  lamento  di  fanciulla 
monacata,  come  il  successivo;  22.  Do!  lassa  mi,  topina  sagurata;  23.  Ren- 
dime  el  mio  core;  24.  El  conven  pur  che  rosone  :  rassegna  dei  caratteri 
delle  donne  delle  varie  città  d' Italia;  giù  era  stata  edita  dal  G.  nel  Pro- 
pugnatore, V.  S. ,  XV,  II,  346-49  :  qui  n*  é  dato  un  testo  più  corretto 
colPaiuto  del  cod.  Laurenziano  122  della  SS.  Annunziata;  25.  Amor  amar, 
quanto  me  fai  languire;  26.  0  mia  guerera ,  o  mio  deslruzimento  (cf. 
1884,  n.  43);  27.  Già  perch'  io  penso  ne  la  tua  partita;  28.  Cita  d'A- 
rimin  bella  ;  29.  E'  seiò  sempre  del  core;  30.  Post' à  nel  tuo  vo- 
lere,  mio  signore;  31.  Come  può' tu  fare.  Amore;  32.  5i  in  cende 
la  mia  mente  el  tuo  parlare  ;  33.  Dolze  mio  signor ,  cun  pur  a  fede  ; 
34.  A  ti,  segnor ,  la  mia  vita  comando;  35.  Mercede  è  la  parola 
che  più  chiama;  36.  Quanto  di  prova  vede  mio  inteleto;  37.  Amor  mi 
prega  nel  voler  talora;  38.  Alma  lizadra  del  tuo  viso  pio  (e  secondo 
altro  miglior  testo  dato  dal  cod.  Palatino-Panciaticbiano  26,  canzoniere 
musicale  del  sec.  XV);  39.  Piacèse  a  Dio  che  e'  non  fosse  mai  nata  :  la- 
mento della  mahnaritata,  come  i  tre  successivi,  a  confronto  dei  quali  il 
C  pubblica  dal  cod.  laurenziano  XLll.  38  (cf.  1889,  n.  37)  una  curiosa 
canzonetta  meridionale  {Bella  ch'ai  lo  viso  clero)  in  figura  dell'amante  che 
consiglia  la  bella  d'avvelenare  il  marito,  e  ristampa  la  ballatina  Strenzi 
le  lapre  piano,  l'amor  mio  (cf.  1884,  n.  43);  40.  Ch'io  me  so  mal  ma- 
ritata; 41.  Dona  che  sia  dozella;  42.  De*  bàsame,  misere,  bdsame  la 
boca:  quattro  distici  a  rime  baciate;  43.  Laso!  per  mia  fortuna  post' ò 
amore;  44.  Guarda  una  volta  in  za  verso  7  tuo  servo  (collazionata  col 
Panciatich.  26);  45.  Amor,  io  me  lamento;  46.  Desdegno  in  dona  non 
è  convenevole;  47.  Sia  maledeta  l' ora  e  7  di  eh'  io  vini  (  coUaz.  col 
Panciatich.  26);  48.  Chi  fiso  guarda  in  questa  margarita;  49.  Donna, 
sperar  pass'  io:  tenzone,  probabihnente  manchevole;  50.  De  questa  donna. 


Amore:  51.  Como  partir  da  lì  me  deb'  io  fflai';52.  L'atpeto  coifri»,  dm', 
è  mio  eonforlo;  53.  La  maio  leagua  é  d'ogni  mal  radice .  mutiti;  ai., 
Ochi,  pianstli,  e  lu,  cor  tribolato;  55.  Cam  lagreme  umpiro;  56,  C$m 
dotasi  martiri;  57.  Piango  'l  partire,  H  i' andar  mi  ronforle;  58.  Df» 
i;ii>ar  sovente:  leazone  rramineniaria  (cf.  Cantilene  r  ballale,  n.  wy, 
59.  Amor!  che  m'ài  coadata  in  l'vllim'ora:  CO.  Dona,  h  mtnlt  niaf 
si 'nvaghita  {coWai.  col  Pancialich.  26);  61.  La  vecchia  d'amer  m  i 
biasrmata  (rìcosiniiia  con  l'aiulo  d'un  allro  testo  cli'é  nel  cod.  nugliiL 
li.  n.  61  :  al  pari  delle  due  successive  è  una  Torle  ìnTettiva  contro  II 
vecchie,  che  l' editore  illustra  ricordando  altri  documenti  di  questo  MB 
motivo  della  poesia  seni  ipopolare,  e  riportando  intero  il  son.  di  Cwa 
Angiolieri;  De!  guata,  Ciampol ,  ben  questa  veeehiuisa);  GÌ.  Dq.  nati 
vechia,  lo  mal  fuogo  l'arda;  63.  Laida  vecchia  ttomegosa;  (Si.  £J  M 
bel  viso,  dolie  l'alma  mia  (cf.  1881,  n.  43);  65.  taso!  eh' .'  mn  -w- 
atrtta;  66.  Contenta  sei  che  moro;  67.  Or  sì  disparte  la  spetanioma. 
—  Conti  nupi-à. 

37.  Ballate  d'  amore  e  di  cos/ume  del  secolo  XIV 
[pubbl.  da  U.  Brilli,  T.  Casihi,  S.  Febhaiu.  S.  Hoh- 
PUKGO  e  A.  Zenatti  per  le  Nosze  Carducci- Masi].  Bo- 
logna, lip.  Zanichelli,  1889;  4"  pp.  9.  —  Ed.  n.  ?. 

1.  Si  mi  tira  vaghelta;  2.  Non  posso  l'amor  calare;  3.  Nm, 
lu  pur  vao'  eh'  i'  sia.  l.a  11  è  una  tenzone  fra  Messere  e  Nadoua,  li 
III  contrasto  fra  suocera  e  uuura  :  tulle  Ire  ricavate  dal  cod.  laureili.  lUl 
38,  risalgono,  per  l'eli  del  ois.  e  per  altri  indizi',  ai  tempi  boccatasài' 

38,  Sonetti,  ballale  e  strambotti  tf  amore  dei  seaM 
XIV  e  XV  [pubhl.  da  Tommaso  Casini  per  le  A'o:» 
LoU-Magnoiìi].  Firenze,  lip.  Camesecchi,  1889;  8°,  pp. 
[23J.  —  Ed.  n.  V. 

1.  Quel  vivo  sol  che  agli  occhi  miei  Inda;  1.  l'ossa  la  nsit  M 
corca  li'  amore;  3.  Già  mai  non  fa  veduto  un  si  bel  uisn;  i.  Voi  ■<* 
guardale  questa  giovinetta;  5,  Io  non  m,  giovinetta,  se  tn  senti;  6,  S 
incendi  la  mia  mente  il  tuo  parlare;  T.  Se  voi  sapeste  ijwmle  bt*  •) 
voglio;  8.  Ss  voi  l'edesle  dentro  ilal  mio  core;  9.  0  chiara  luce,  «  m 
leggiadro  fiore;  10.  Dimmi,  brunella  dal  polito  viso,  t  I  sonetti  M* 
gli  slramliotti  7-9  si  leggono  nel  coil.  valicano  Regina  1793,  p«A 
raccolta  di  rime  toscane  e  lombarde  del  tre  o  (|uattroconlo;  le  tnlliu 
4  e  5  provengono  dal  co<l.  Vaticano  4823,  dove  le   Inscrìsse  di  s«|0 


RIME  POPOLABI   E   STORICHE  3^ 

un  esemplare  più  antico  il  cinquecentista  Angelo  Colocci;  la  ballata  6  o 
lo  strambotto  10  fanno  parte  di  un  noto  repertorio  di  poesie  treceniiste 
contenuto  nel  cod.  magliab.  VII.  1078  »  (ci.  n.  36). 

39.  Sonetti  e  ballate  di  antichi  petrarchisti  toscani 
[pubbl.  da  Francesco  Flamini  per  le  Nozze  Palmarini- 
Matteucci],  Firenze,  tip.  Camesecchl,  1889;  16^  pp.  12. 
—  e  es.  n.  V. 

Due  sonetti  di  Bonaccorso  da  Montemagno:  Amor  con  le  sue 
man  compuose  te  (dal  cod.  chigiano  M.  IV.  79),  e  Lasso!  dappoi  che  per 
amor  tanto  arsi  (dal  cod.  A.  IV.  30  della  Biblioteca  di  Mantova)  ;  due  ballate 
di  Ser  Niccolò  Tinucci:  Che  giova  *n?imorar  di  questa  dea,  e  fata 
per  Piero  di  Cosmo  de*  Medici  e  per  la  Giovana  degli  Stroci  »;  S*  a 
le*  X*  andrà  le  lagrim'  e  sospiri,  e  fata  per  raiser  Ruberto  Adimari  ad 
instanza  de  Piero  di  Paci  e  per  TAlesandra  de  misier  Pala  degli  Stroci  », 
entrambe  dal  Riccardìano  1154;  un  sonetto  di  Neri  Carini,  purga- 
tore,  e  fatto  a  stanza  d*  uno  inamorato  che  pigiava  consiglio  con  Gino 
di  messer  Francesco  Rinucini  »  :  L'arco,  la  corda  e'  grevi  colpi  et  doppi, 
dai  Riccardiani  1154  e  2735  (è  anche,  adespoto,  nel  Rice.  1118,  e  col 
nome  di  Ricciardo  da  Battifolle  nel  Vaticano  3213);  la  risposta  al  Ca- 
rini fatta  per  le  rime  da  Gino  Rinuccini:  Se  tutto  el  stil  d' Homero 
inseme  achioppi,(ìn\  cod.  1739  della  Biblioteca  Universitaria  di  Bologna. 
In  fine  si  aggiunge  una  letteruzza  volgare  del  Rinuccini  a  Mess.  Donato 
Acciaioli  (s.  data),  dal  cod.  ashburnhamiano  1830. 

40.  Ballata  della  Fortuna  tratta  da  un  codice  ma-- 
gliabechiano  a  cura  di  Antonio  Medin  (Estr.  dal  Pro- 
pugnatore, N.  S.,  voi.  II,  p.  i).  Bologna,  tip.  Fava  e 
Garagnani,  1889;  8^  pp.  46. 

Incomincia  : 

Da  po'  che  Ha  Fortuna 

m*  à  dato  in  parte  e  'n  dota 

di  sotto  ne  la  rota, 

grazie  ne  rendo  a  chi  fé*  la  luna  ; 

e  seguita  per  39  stanze  (AB  AB  bcc  X,  ma  non  sempre  regolari)  con  esempi 
classici  e  più  spesso  moderni,  grazie  ai  quali  si  può  assegnare  la  com- 
posizione ai  primi  anni  del  sec.  XV.  È  opera  di  due  autori,  perché  dopo 
la  strofe  xviii  il  codice  avverte:  e  questo  che  segue  arrose  don  Zenobiot; 
ossia,  come  si  crede,  Za  n  obi  Tanti  ni  monaco  degh  Angeli,  da  non  con- 


324  SUPFLKMElfTO  ALLO  ZéUBRim  PSR  IL   1889 

fondere  eoo  romommo  e  contemporaneo  copiatore  dd  ms.  (magfiabechiiiio 
YIL  9.  375),  Zanobi  di  Pagolo  Perini.  D'altre  rime  del  Tanlini  eonserrate 
nello  stesso  codice  ledi  Smppl.  1888,  n.  53.  Si  afrerta  che  le  strofe 
XXI  e  xxn  di  qaesu  ballata  erano  già  state  messe  in  luce  da  Gasimiro 
Stolfi  nella  prefazione  al  Y(4garìaamento  De'  rimedii  dtW  urna  e  del- 
r  altra  Fmiuna  del  Petrarca  (Bologna,  Romagnoli,  1867,  p.  3l)i 
Nele  ìDistrasiooi  premesse  il  Medin  riporta  dal  ood.  Riccardiano  1607 
H  sonetto:  Per  aie  non  volse  mai  la  mia  tonda  (p.  7),  e  in  appeidice 
ristampa  la  nota  e  popolarissima  ballata  di  frate  Stoppa:  Se  laFv- 
fMM  e  7  wumdo^  qnak  si  legge  nel  cod.  Marciano  IX  iL  486,  che  ne  pre- 
senta nn  testo  assai  corrotto,  e  rimaneggiato  e  cresciuto  di  40  noovi  imi 
Ricordo  qui  che  questa  ballata  fu  inserita  anche  dal  Sercambi  nella  seconda 
parte  deOa  sua  Cronaca  (cap.  GCCXXXI:  ed.  Bongi,  voi.  Ili,  274)  premessi  li 
seguente  notìzia:  e  Fu  al  tempo  che  messer  Ghastruccio  Interminelfi  sigoonf- 
gian  la  dptà  di  Locha  uno  conierso  de'  frati  di  Santo  Augustine,  homo  & 
grande  sdentia:  avendolo  la  Fortuna  molto  percosso,  dispuose  a  dani 
patienlìa,  e  fece  una  cosa  morale,  la  quale  volse  che  fusse  palese  aedo 
che  se  ne  prendesse  exemplo.  E  quella  disse  cantando  in  suQi  piana  di 
Santo  Michele  in  mercato,  dove  vi  fu  a  udirla  gran  parte  di  Lncba,  di- 
cendo m  questo  modo,  doé:  Se  la  Fortuna  o  7  tempo.  Mi  vwbì  fm 
eoiUraMtare  t. 

41.  SirveiMse  d  amore  [pobbl.  da  G.  Hiizzoia  e  S. 
HoRPOBGo  per  le  Nozze  Venezian-De  Sanetìs\.  Roma,  tip. 
Metastasio,  1889;  4*,  pp.  xj.  —  Ed.  n.  v. 

Dal  riccardiano  1580,  ms.  della  fine  del  tre  o  del  principio  del 
quattrocento;  né  molto  più  antica  dev'essere  la  poesia.  Comincia:  /^r- 
che  con  più  effetto,  amanti  e  donne ,  e  consta  di  47  tetrastici  incate- 
nali, che,  come  già  fu  notato  (Riv.  Crii,,  VI,  149  n.),  mostrano  moitissioK 
somiglianze  con  la  cosi  delta  Ruffianella  attribuita  al  Boccaccio  (  rrnr> 
pulzellette), 

42.  Un  dialogo  d'amore  [ballata  di  Lionardo  Gia- 
stiniaD  pubbl.  da  G.  Mazzoni  nella  Strenna  Nuziale  t  a 
Giovanni  Targioni-Tozzetti  nel  giorno  delle  sue  Dozze 
colla  signorina  Rosa  Comparìni-Rossi  >].  Livorno,  tip. 
Giusti,  1889;  16^  pp.  56.  —  Ed.  n.  v. 

Dio  te  dia  la  bona  sera  ;  era  già  stata  pubblicata  da  B.  Wiese  eoo 
le  altre  Poesie  edite  ed  inedite  di  L  G.  (p.  185):  qui  fu  riprodotta  se- 
condo il  testo  del  cod.  Marciano  IX  it,  486. 


RIME  POPOLARI   E   STORICHE  325 

43.  Francesco  Novati,  Studi  critici  e  letterari.  To- 
rino, Loescher,  1889;  8^  pp.  310. 

Nel  IV  di  questi  studi  {La  parodia  sacra  nelle  letterature  mo- 
derne )  sono  riportati  due  brevi  componimenti  bilingui  :  Per  omnia  secula 
seculorum  -  0  vagha  anima  mia  -  Alla  tua  Signoria  -  Dirò:  e  beati  quo- 
rum^ ballata,  dal  cod.  Corsiniano  43.  B.  30;  e  un  e  soneltuccio,  che 
potrebbe  spettare  fors*  anche  alla  fine  del  sec.  XIV  >  :  Dilexi  quoniam 
che  io  te  vidi  bella,  dal  cod.  Ambrosiano  N.  95  sup.  Sì  avverta  che  i 
primi  quattro  versi  del  sonetto  sono  comuni  a  un  altro  componimento 
pubblicato  già  da  Vittorio  Gian  {Suppl.  1884,  n.  43).  —  Ree.  Riv.  Crit., 
V,  178.         > 

44.  A.  D'Ancona,  Misteri  e  sacre  rappresentazioni. 
[Nel  Giom.  stor.  d.  lett.  it.,  voi.  XIV,  1889,  pp.  129- 
203]. 

Riporta  dal  codice  panciatichiano  26  un  madrigale  marinaresco. 
Cofi  dolce  brama  e  con  gran  disio  (p.  190)  a  confronto  d'altra  antica 
barcarola  ch*é  riferita  nel  dramma  sulla  Passione  recitato  in  Revello 
sulla  fine  del  sec.  XV  e  pubblicato  da  V.  Promis  (Torino,  Bocca,  1888: 
cf.  1887,  n.  5).  Ma  probabilmente  anche  la  barcarola  risale  più  in 
su  della  sacra  rappresentazione;  però  notiamo  che  comincia:  0  Zanella, 
Zanella,  dal  viso  rosalo,  e  consta  di  nove  coppie  di  endecasillabi  irregolari 
a  rima  baciata. 

45.  Rime  di  anonimo  sulla  sollevazione  di  Trento 
nel  1435  [pubbl.  da  G.  Papaleoni  ue\V Archivio  Trentino, 
anno  Vili,  1889,  pp.  167-207]. 

Da  un  ms.  della  Biblioteca  del  Convento  di  S.  Bernardino  di  Trento 
produce  intera  la  lunga  frottola  anonima:  Che  statu  a  far,  che  pensi 
pulisela  (  892  versi  ),  di  cui  aveva  già  pubblicato  due  frammenti  (  cf. 
1886,  n.  38). 

46.  Di  un  ignoto  poema  d'imitazione  dantesca  [no- 
tizia di  M.  Cornacchia  e  F.  Pellegrini,  nel  Propugna- 
tore,  N.  S.,  voi.  I,  1888,  p.  ii,  pp.  185-225;  voi.  II, 
1889,  p.  I,  pp.  335-86]. 


3%  SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBRim  PER  IL   1889 

Questo  poema  iratta  nel  libro  primo  dei  vizi,  nel  secondo  e  od 
terzo  delle  Tìrtù:  in  gran  parte  è  parafrasi  deDa  Sttmina  rnrfiihMi 
et  vitiorum  di  Guglielmo  Péranlt,  cui  si  aggiunsero  dall'anonimo  ler- 
siflcatore  esempi  storici  e  digressioni  varie ,  ddle  qnali  qui  si  offitno 
copiosi  saggi.  Il  primo  libro  comprende  29  canti ,  il  aeooodo  32,  3 
terzo  30:  ciascun  canto  ha  44  terzine.  Comincia,  in  figura  del  poeta  die 
si  rivolge  alla  sua  anima , 

Molte  fiate  i'  ho  parlato  in  rima, 
seguendo  l' appetito  di  mia  carne, 
di  morte  iion  facendo  alcuna  stima. 

Si  legge  intero  nel  cod.  magliab.  11.  11. 24,  copiato  nel  1497 ;niancfaeTole 
della  terza  parte  e  mutilo  in  principio  e  in  fine,  è  anche  in  un  più  lo- 
tico apografo  delU  Biblioteca  Universitaria  di  Bologna  (cod.  205).  li) 
compoBÌzione  rìsale  ai  primi  anni  del  sec.  IV:  l'autore  a  molti  indio  pare 
aretino,  e  Vincenzo  Pollini,  che  ne  scrìsse  lungamente  in  una  disierta- 
zione  legata  col  cod.  magliab.,  inclinava  non  senza  probabilità  a  ideodfi- 
cario  con  ser  Gorello  d'Arezzo  (OF. 484-85).  ^  ^ec  N.  JM 
CVll,  575. 

47.  Crestomazia  italiana  dei  primi  secoU ,  con  pro- 
spetto delle  flessioni  grammatìcaU  e  ylossario ,  per  Er- 
nesto Monaci.  Fascicolo  primo.  Città  di  Castello,  Lapi, 
1889;  S\  pp.  V-184. 

Ordinata  cronologicamente,  contiene:  1.  Carta  capuana  del 
960,  edita  prìma  dal  Gatlola  (Accessiones  ad  hist,  Cassinensem,  ^M), 
poi  dal  Tosti  (Storia  dell' ahadia  di  Montecassino.  1,  220):  ce  il  più  antico 
documento  finora  conosciuto  ove  s*  incontri  non  soltanto  qualche  parola  o 
frase,  ma  un  periodo  intero  scritto  in  volgare  »,  cioè  questa  fonnub  di 
testimonianza  ripetuta  quattro  volte  :  e  Sao  co  kelle  terre,  per  keOe  iìiu 
que  ki  contenè,  trenta  anni  le  possette  parte  Sancti  Beoedictì  i  (cf.  P. 
Raina,  /  più  antichi  periodi  più  risolutamente  volgari  nel  dominio  italid' 
no,  nella  Romania  XX,  385)  —  2.  Iscrizione  romana  anteriore 
al  1084,  grafGta  sopra  un  affresco  della  basilica  inferiore  di  S.  ClemeDie. 
—  3.  Carta  sarda  anteriore  al  1086,  daUa  pergamena  ori- 
ginale dell*  Archivio  di  stato  in  Pisa  (già  edita  nell*i4rcA.  star,  il,  S.  3*, 
Xlll,  363).  —  4. Formola  di  confessione,  dal  cod.  VallìcellianoB. 63 
(cf.  Facsimili  per  le  scuole  di  filologia:  1887,  n.  88).  —  5.  Carta  Rossa- 
nesc  del   1104  e  1122,  secondo  il  testo  dell' Ughelli,  Mia  Sm^ 


ANTOLOGIE  327 

1X^385.  —  6.  La  iscrizione  ferrarese  del  1 135.  —  7.  Canti- 
lena di  un  giullare  toscano,  cioè  il   noto  ritmo  laurenziano  (cf. 
1885,  n.  36,  e  1887,  n.  88).  —  8.  Carta  sarda  dei   1173,  edita 
prima  nelle  Memorie  istoriche  di  Pisa  del  Tronci,  poi  nella  Rivista  di  filoL 
romanza  I,  53,  124.  —  9.  Carta  Fabrianese  del  1186:  da  per- 
gamena originale  dell'archivio  di  Fabriano.  —  10.  Sermone  in  dia- 
letto gallo-italico,  dal  cod.  D.  VI.  10  della  Nazionale  dì  Torino 
(cf.  Facsimili  ciL).  —  11.  Il  contrasto  bilingue   di   Rambaldo  di 
Yaqueiras.   —   12.    La    cantilena    bellunese    del    1193.   — 
13.   Carla  picena  del  1193  (cf.  1890,  n.  57).  —  14.  Il  ritmo 
Cassinese.  —  Frammenti  di  un  libro  di  banchieri  fiorentini 
scritto    nel    1211    (cf.  1887  n.  45).  —   16.   Carta  sarda  del 
1212,  edita  prima  neW  Arch,  stor.  it.,  S.  3*,  voi.  XIII,  364.  —  17. 
Il  cantico  di  S.  Francesco  (per  le  fonti  cf.  1888,  n.l).   —   18. 
Carta    sangemignanese   del   1227,  edita  nel  Giom.  stor. ,    X, 
194.  —  19.   Formole  epistolari  del  maestro  Guido  Fava, 
estratte  dalla  Doctrina  ad  inveniendas  incipiendas  et  formandas  mate- 
rias,  secondo  i  codd.  23497  e  16124  della  Biblioteca  di  Monaco.—  20. 
Lauda  del  1233,  dalla  cronaca  di  Riccardo  di  S.  Germano.  —  21. 
Ricordi  di  Matasala  di  Spinello  sanese:    1233-43  (cf.  OV. 
531).  —  22.  Frammento  di  un  libro  toscano  di  ricordi  del 
1235-36  (ed.  nel  Giorti,  stor.,  X,  195).  —  24.  Documento  ferra- 
rese  del  1242,  ed.  Borsetti,  Hist.  almi  Ferrariae  Gymnasii,  11,447. 

—  25.  Iscrizione  veneziana  del  1249  (ma  vedi  al  n.  71).  — 
26-44.  Rime  di  Giacomo  da  Lentino,  Pier  della  Vigna,  Jacopo 
Mostacci,  Abate  di  Tiboli,  Arrigo  Testa,  Pagjanino  da 
Serczano,  Rugieri  d'Amici,  Re  Giovanni,  Federigo  11,  Odo 
della  Colonna,  Ruggerone  da  Palermo,  Tiberto  Galliziani, 
Percivalle  Doria,  Folcacchiero  de' Folcacchieri,  Rinaldo 
d'  Aquino,  Giacomino  Pugliese,  Compagnetto  da  Prato, 
e  7  poesie  anonime,  secondo  i  testi  dei  canzonieri  vaticani  3793  e  3214, 
del  Laurenziano  Rediano  9,  del  Palatino  418,  del  Cbigiano  L.  Vili.  305  e 
del  Barbcrìn.  XLV.  47.  —  45.  Saggio  dello  Splanamento  del  Pateg 
(cf.  1886,  n.  1).  —  46.  Il  contrasto  di  Cielo  dal  Camo  o  d'Alcamo. 

—  47.  Saggio  del  Libro  di  UguQon  da  Laodho  (cf.  1884, 
n.  1),  —  48,  Poemetto  didattico  (OV.  815-16).  —  49.  Lettera 
senese  del  1253 (OV.  601).  —  50.  Estratti  dal  Liber  ystoriarum 
Romanorum  (cf.  n.  69)  secondo  il  ms.  d'Amburgo  e  il  Lau- 
renz.-gadd.-rcl.  148.  -^  51.  Volgarizzamenti  dei  distici  di  Ca- 
tone:  saggi  paralleli  del  testo  veneziano  dato   dai  Tobler  {OV,  Ap, 


328  SUPPLEMENTO  ALLO  ZéiMBRINi   PER  IL   1889 

174-75)  e  dei  tre  tesU  toscani  editi  da  3L  Vannocd  {OV.  238).  —  51 
Parafrasi  lerseggiata  del   Paternostro  (cL  1886,  n.  U — 
53.  ProTerbia  que  dicuntur  saper  natora  feminaram  (cL 
1886,  n.  2):  i  primi  232  Tersi.  *  54.  Saggio  del  Panfilo  in  antico 
feneiiano  (cf.  1887,  n.  46).  —  Saggio  del  Sermone  di  Pietro 
da  Bascapé,  secondo  il  cod.  Braidense  AD.  Xlll.  48  (et.  1887,  n. 
88).  —  Ricordi  domestici  del   1255:  da  un  ms.  delTÀrch.  fior., 
di  cui  diede  già  notizia  e  qualche  saggio  C.  PaoG  (cf.  1886,  n.  29).  — 
57.  Saggio  del  Fiore  di  Retorica  di  fra  Guidotto,  secondo  fl 
testo  del  cod.  magliab.  U.  IV.  127.  —  58.   Docnmenlo  pistoiese 
del   1259  (cf.  OV.  923).  —  59.  Lettera  senese  del  1260  e  a 
Jachomo  Guidi  CaciaconU  t  {OV.  594  e  601^  —  60.  Trattato  di 
pace  fra  i  Pisani  e  l'emiro  di  Tunisi:   1264  (cf.  OF.  367, 
e  correggi  quanto  iti  si  dice  dei  Diplomi  arabi  t»  voigwrt  deimcXBr 
XIV  pubblicsU  dall*  Amari,  avvertendo  che  questo  dd  1264  é  il  prìBO 
Tolgaiiiato  contemporaneamente,  mentre  tutti  i  precedenti  furono  in- 
dotti nel  1422).* 61.  Rime  e  prose  di  Guittone  d'Areno:  5camiMi, 
un  sonetto  e  tre  lettere ,  secondo  i  testi  del  Laur.nrediano  9  e  dd  li- 
ticano 3793.  —  Ree.:  iV.  Antoiogia,  CIU,  410;  Uteraiurblati.  1  Hm 
col  297  ;  Zeiisekr.  fur  rom.  Pkil, ,  lUI,  343. 

48.  Letture  italiane.  Il:  Poeti  antichi  e  moderm: 
scelta  corredata  di  note  da  Thor  Sundby.  Copeoagheo, 
Libreria  Gyidendai,  1889;  8^,  pp.  VI-515  (coli.  1090). 

Antologia  poetica  di  tutti  i  secoli  della  nostra  letteratura.  Per  il  XlII 
comprende  rime  di  Cielo  dal  Como,  Federigo  II,  P.  delle  Vigne,  Enzo 
re,  Giacomino  Pugliese,  Giac  da  Leotioi,  G.  delle  Colonne,  R.  d*  Aquino, 
Odo  delle  Colonne,  Mazzeo  di  Ricco,  Guittone,  Giovanni  dalF Orto,  Fol- 
cacchiero  Folcacchierì,  fk)nagiunta  da  Lucca,  Retto  Mettifuoco,  Galletto 
da  Pisa,  Paolo  Zoppo,  U.  Buzzuola,  Dante  da  Maiano,  Ciacco  dell'  Aoguii- 
laia,  Chiaro  DavanzaU ,  Maestro  Francesco  da  Fu^nze,  Compiuta  Donzella, 
Dondie  Dietaiuti,  G.  Guinicelli,  Onesto  da  fk)logna,  R.  Latino,  D.  Compagni, 
G.  Cavalcanti,  Lapo  Gianni,  Folgore,  Cene  dalla  Chitarra,  Rustico  di  Fi- 
lippo, C.  Augiolierì.  —  Per  il  secolo  XIV:  Dante,  F.  da  Rarberino,  Cioo 
da  Pistoia,  Cecco  dWscoli,  B.  Bonichi,  D.  Cavalca,  P.  Tedaldi,  Miiahio 
da  Lucca,  Rosone  da  Gubbio,  Franceschino  degli  Albizù,  Sennucdo  del 
Rene,  Matteo  Frescobaldi,  Frate  Stoppa,  F.  degli  liberti,  F.  Petrarca,  0. 
Boccaccio,  B.  da  Montemagno,  Andrea  Orcagna,  A.  Pucci,  F.  Sacchetti- 
Per  i  dugentisii  l'editore  si  é  giovato  delle  Rime  antiche  del  cod.  va- 
ticano e  del  Manuale  del  Nannucci  ;  per  i  trecentisti,  delle  antologie  del 
Trucchi,  del  Carducci,  ecc.  —  Ree.  Zeiitchr.  f.  rom,  Philol.,  XIIL  <fU- 


PROSA  DEL  SEC.   XIII  329 

49.  Ernesto  Monaci,  Sul  «  Liber  Ystoriarum  Roma- 
norum  »  :  prime  ricerche  (  Estr.  dall'  Archivio  della  R. 
Società  Romana  di  storia  patria,  voi.  XII).  Roma,  For- 
zani,  1889;  8°,  pp.  74,  con  7  tavole  in  eliotipia. 

Questa  compilazione  di  storia  antica ,  e  dapprima  scritta  in  latino , 
forse  da  un  maestro  del  dodicesimo  secolo,  fu  nel  secolo  successivo  vol- 
garizzata in  romanesco,  e  dovette  per  qualche  tempo  godere  di  una  certa 
popolarità ,  specie  in  Toscana ,  dove  ne  furon  fatte  più  copie  e  diede 
materia  a  tutta  una  parte  dei  Conti  antichi  cavalieri,  che  di  qui  deri- 
varono le  loro  narrazioni  di  storia  romana,  mentre  se  ne  traeva  profitto 
anche  per  qualche  altra  opera.  L'opera  consiste  in  una  magra  cucitura 
di  brani  di  Isidoro,  di  Darete,  di  Orosio,  di  Solino,  d'  Eutropio,  di  Paolo 
Diacono,  e  di  qualche  mitografo;  é  rozzìssima,  e  presto  andò  dimenti- 
cata. La  data  del  volgarizzamento  par  sia  da  circoscriversi  negli  anni  in 
cui  fu  senatore  di  Roma  Brancaleone  degli  Àndalò  (1252-58).  >  Cosi 
altrove  lo  stesso  editore  (Crestomazia  it.  dei  primi  secoli,  p.  118).  Qui 
ne  descrive  i  codici:  uno  della  biblioteca  civica  di  Amburgo  (sec.  XIII), 
con  illustrazioni,  di  cui  pubblica  le  leggende  dichiarative;  il  Laurenziano- 
gaddiano-rel.  148  (sec.  XIII),  onde  produce  le  145  rubriche  del  libro;  il  Ric- 
cardiano  2034  (sec.  XIV),  e  uno  posseduto  già  da  G.  C.  Colombini,  e 
ora  perduto,  ma  del  quale  Celso  Cittadini  nel  Trattato  della  origine 
della  volgar  lingua  ne  conservò  un  brano,  che  il  Monaci  mette  a  con- 
fronto con  la  lezione  degli  altri  tre,  e  col  testo  latino  (cod.  Laurenz.- 
Strozziano  85).  Un  altro  maggior  saggio  riporta  in  appendice:  parecchi 
estratti  ne  diede  poi  nella  citata  Crestomazia  (cf.  n.  47). 

50.  E.  G.  Parodi,  Le  storie  di  Cesare  nella  lettera- 
tura italiana  dei  primi  secoli.  (Negli  Studi  di  filolologia  ro- 
manza, voi.  IV,  237-503).  Roma,  Loescher,  1889;  8^ 
pp.  267. 

Nell'introduzione  e  nel  capitolo  I  presenta  alquanti  estratti  dell'an- 
tica traduzione  dei  Faits  des  Romains  secondo  i  codd.  Riccardiano  2418 
e  Hamilton- Rerlinese  67,  che  contengono  le  due  parti  d*uno  stesso  ms.; 
mette  a  confronto  altiù  passi  di  questa  traduzione  con  vari  testi  dei  Fatti 
di  Cesare,  e  offre  anche  qualche  saggio  del  Libro  Cesariano  {OV,  634). 
Nel  cap.  II  riporta  a  fronte  parte  dei  prologhi  delle  Allegorie  sulle  Me- 
tamorfosi di  Ovidio  e  del  Libro  Imperiale  di  Giovanni  dei  Ronsi- 
gnori  da  Città  di  (ostello;  pubblica  anche  altri  passi  àeW Imperiale ,  e 
dà  notizia d* un  poemetto  in  52  ottave  sulla  morte  di  Cesare, 
che  si  legge  nel  cod.  laur.-ashburnh.  549  :  e  Nostro  Signore  che  fece 


330  StlPPLEIIRNTO  kU.0  Z4lftlllIHl  Wh  It   l889 

il  mondo,  Cosi  comincia  la  Lucana  Lìslorìa  *.  FiDilmenle  nel  ap.  Ql 
aUmpa  secondo  il  coi),  laur.  LXXXIS.  50  alcuni  luoghi  della  Fiorila 
d'Ifalia  derivali  dai  Fallì  di  Crsate,  e  della  Farsaglia,  poema  io  ouava 
rima,  dot  quale  si  conoscono  Lre  stampe  quattrocentine  che  si  doindi- 
bero  ag^ungere  al  Catalogo  dello  Zambrìni,  perché  questa  Tersìficauone, 
sia  0  no  di  Domenico  da  Honlichìello,  risale  cerio  alla  tecomìi 
meli  del  sec.  XIV. 

51.  F.  Tocco,  Il  Fior  di  Rettoriea  e  le  sue  prìtia- 
pati  redazioni  secondo  i  codici  fiorenlim.  [Nel  Gtorn. 
stor.  d.  leti,  it.,  voi.  XIV,  1889,  pp.  338-64]. 

Riconosce  noi  codici  riorealini  quattro  redaiioui  della  ReioHea,  dil- 
fei'cnii  dalla  guidoniana  :  una  che  tuUora  serba  il  nome  di  GuidoUo,  due 
allrc  anonime,  la  quarta  col  nome  di  Bono  Giamboni.  «  Sono  ben  <1i- 
verse  l' una  dall'  altra,  ma  lutte  possono  considerarsi  come  corrr'iioiti  « 
emendazioni  o  complemento  della  redazione  guidoniana  >.  Ter  gli  op- 
portuni raffronti  reca  in  mezzo  alquanti  jiassì  del  Fiore  secondo  ì  codd. 
Hagliab.  II.  IV.  133  e  127,  Riccurdiani  1S70  e  1538,  e  laurcniianu-pl- 
diaoo  65,  del  quale  ultimo  pubblica  anche  la  (avola  de' capitoli. 

52.  G.  Ceciom,  n  Secrelam  Secrelorum  atlribuilo 
ad  Aristotile,  e  le  sue  redazioni  volgari.  [Nel  Propugna- 
tore, N.  S.,  voi.  II,  1889,  p.  II,  pp.  72-102]. 

Nelle  ullime  pagine  lìono  rirerìle  le  rubriche  e  alcuni  brevi  (oììi 
del  •  U^slatamento  del  libro  d'Arestotano  di  Ialino  in  volgare,  ddn- 
gimento  dei  Signori  »,  come  si  lejge  nel  cod,  maglìab.  XII.  i,  di'  il 
Cecioni  ritiene  •  la  redazione  più  ampia  e  originale  >  del  Sarrlim. 

53.  Fioretti  di  San  Francesco  (f  Assisi  raffrontai 
col  tesco  delia  Biblioteca  Angelica  e  coi  codici  della  Lau- 
renziana  e  Vaticana  per  cura  di  Mons.  LeurOLuo  Ahom. 
Roma,  tip.  Vaticana,  1889;  8",  pp.  XIl-400. 

11  lesto  dell'Angelica  è  Li  stampa  dei  Fiortiii  del  U77  (cf.  l8St 
n.  56);  dei  codici  della  Laurenuana  e  Vaticana  non  ìndica  che  l'Otloti» 
niano  S61.  —  Ree  Mincell.  Feancticana,  IV,  30. 

54.  Ammaestramenti  degli  antichi  raccolti  e  volga- 
rizzati  da  F.  Bartolomeo  da  S.  Concordio  pisano,  postulati 
per  comodo  de'  giovani  da  L.  Matteucci.  Torino,  tip.  Sa- 
lesiana, 1889  ;  24°,  pp.  464. 


PROSA  DEL  SEC.   XUI  E  XIV  331 

55.  Aeltere  Novellen,  Herausgegeben,  mit  Einleitung 
und  Anmerkungen  versehen  von  Z)/  I.  Ulrich.  Leipzig, 
Rengersche  Bachhandlung,  1889;  8^  pp.  XX-157.  (Della 
ItaUenische  Bibliothek  herausgg.  von  L  Ulrich,  voi.  I). 

Questa  raccoltina  comprende  saggi  dal  Novellino,  dal  Libro  de'  Sette 
savi,  dai  Conti  di  antichi  cavalieri,  dai  Conti  morali  di  anonimo  senese, 
e  più  altri  brevi  racconti  ed  esempi  ricavati  da  varie  opere  morali  o 
ascetiche,  ma  già  tutti  compresi  nel  Libro  di  novelle  antiche  tratte  da 
diversi  testi  del  buon  secolo  della  lingua  a  cura  dello  Zambrini  (OV, 
622).  —  Ree.  N.  Antol.  CVI,  370;  Literaturblatt ,  XI  (1890),  313; 
Deutsche  Literaturzeitung,  1890,  n.^  17. 

56.  Novelle  inedite  di  Giovanni  Sercambi,  tratte  dal 
codice  Trivulziano  CXCIII,  per  cura  di  Rodolfo  Renier. 
Torino,  Loescher,  1889;  8^  pp.  LXXV-436.  (Della  BibUo- 
teca  di  testi  inediti  o  rari,  voi.  IV). 

Il  libro  del  Sercambi  secondo  V  apografo  sopraindicato,  l'unico  che 
ora  se  ne  conosca,  consta  di  155  novelle,  collegate  da  intermezzi  che 
fingono  la  solita  brigata  boccaccesca,  la  quale  fugge  da  Lucca  per  la  peste 
del  1 374  e  gira  tutta  Italia  trattenendosi  con  questi  racconti.  Ma  V  editore 
credette  bene  di  tralasciare  gì*  intermezzi,  ad  eccezione  del  proemio,  e  di 
pubblicare  soltanto  108  novelle,  escludendo  quelle  già  edite  sparsamente  e 
raccolte  poi  dal  D*Ancona  (cf.  OV.  933-34,  e  Suppl.  1886,  n.  54),  e  di  altre 
1 1  troppo  sconce  e  di  tre  frammentarie  dando  in  appendice  un  riassunto. 
In  fìne  al  Proemio  (p.  8)  é  un  sonetto  con  1* acrostico  del  nome  dell'au- 
tore {Già  trovo  che  si  die  pace  Pompeo);  nella  nov.  XXV  é  riferita  una 
lauda-ballata  (Dimmi  per  tuo  onore)',  cioè  un  dialogo  tra  la  Vergine 
e  un  Giudeo ,  che  forma  tutta  T  intessitura  del  racconto  ;  altre  rime 
sono  negl'intermezzi,  ma  dal  brevissimo  saggio  che  il  Renier  ne  riporta 
nella  prefazione  (p.  uv)  non  pare  siano  componimenti  del  Sercambi,  si 
piuttosto  noti  proverbi  o  simile  roba  accattata  da  altri,  come  usò  gene- 
ralmente lo  scrittore  lucchese  nella  sua  Cronaca.  Nella  prefazione  sono 
anche  portati  in  mezzo  (pp.  xxvin-xxx)  brevi  brani  di  questa,  e  alcune 
terzine  della  Divisione  della  Commedia  di  Jacopo  di  Dante  (p.  xxxvi) 
come  si  leggono  nel  cod.  Laur.-med.-pal.  LXXIV,  che  contiene  il  Para- 
diso col  commento  lanéo  copiato  dal  Sercambi.  Il  testo  delle  novelle  fu 
prodotto  con  assai  poca  intelligenza:  cf.  Riv.  crit.,  VI,  38,  154;  Zeitschr, 
/•.  rom.  Phil,  XIH,  548;  iV.  Antol.,  CIV,  352. 


332  srPPLE]fE5T0   ALLO  Z^éMBRINi   PER   IL    1889 

57.  [Monito  ai  Guinigi  di  Giovanni  Sercambi,  pnbbL 
da  Pietro  Vigo  per  le  Nozze  Targioni^Comparini.  Li- 
Torao,  tip.  Vigo,  1889;  »*,  pp.  28  (pp.  5-18)].  —  Ed.  o.  ?. 

Nola,  0  brefe  ricordo,  come  lo  cfaiamò  Tautore,  dato  a  IHoo,  Michde, 
Lazario  e  Lazaro  Guinigi  sul  modo  di  reggere  la  città  di  liocca;  assai 
ooteTole,  perché  in  poche  parole  riassome  praticamente  tutto  un  pro- 
gramma di  goTemo  militare,  ciiile  ed  economico.  Incomincia:  e  Veduto, 
et  continuamente  si  vede  quante  inconvenienze  et  fatiche,  perìcoli  et  di- 
spiacere inneUa  nostra  città  et  contado  ocorreno  ».  Già  era  stato  edito 
odia  Miscellanea  del  Baluzio  (IV,  81-83:  cf.  OV.  933-i);  qui  fu  ri- 
pubblicato in  assai  miglior  forma  dall'autografo,  che  si  consenra  nel!' ar- 
chino di  Stato  di  Lwxa  (GoTemo  di  Paolo  Guinigi,  Uh.  38). 

58.  Poemetti  popolari  italiani  raccolti  ed  illustrali  da 
Alessandro  D'Ancona:  La  Storia  di  S.  Giovanni  Bocca- 
doro '  La  Storia  della  Superbia  e  morte  di  Senso  -  Attila 
flagellum  Dei  -  La  Storia  di  Ottinello  e  Giulia.  Bologna, 
ZanicbeUi,  1889;  8",  pp.  560.  (Della  Biblioteca  di  scrit- 
tori italiani,  voi.  XI). 

Della  storia  di  S.  GioTanni  Boccadoro  ripubblica  la  redazione  poe- 
tica più  moderna,  e  doé  il  cantare  in  36  ottave  stampato  più  Yohe  anti- 
camente e  che  non  risale  oltre  il  sec.  XV  :  tralascia  invece  quello  piiì 
antico  edito  nel  1865  {OV,  555);  nella  prefazione  (pp.  16-26)  riproduce 
la  leggenda  di  Sani*  Albano  dal  cod.  Riccardiano  273i  Gli 
altri  tre  poemetti  non  spettano  a  questa  bibliografia:  notiamo  soltanto 
nelle  illustrazioni  premesse  air^//f7a  flagellum  Dei  un  brano  dello  Zi  bal- 
do ne  di  Antonio  Pucci  (pp.  193-91)  sulla  leggenda  fiorentina  di 
Allila-Tolib ,  dal  cod.  Riccardiano  i922  (cf.  OV.  Ap.  130).  —  Hec.: 
Romania,  XVIII,  508;  Arck.  tradiz.  pop..  Vili,  i27;  iV.  Antoi.,  CV, 
391. 

59.  La  storia  di  Apollonio  di  Tiro:  versione  tosco- 
veneziana  della  metà  del  sec.  XIV,  edita  da  Carlo  Sal- 
vioxi  [per  le  Nozze  Solerti-Saggini],  Bellinzona,  tip.  Sai- 
vioni,  1889;  4**,  pp.  IX-50.  —  e  es.  n.  v. 

<  Clomenza  la  hvstorìa  de  miser  Apollonio  de  Tyri.  Un  re  lo  quale 
nouieva  Antiocho  fo  in  la  cilUìde  de  Antiocia,  lo  quale  re  ave  una  muier 
b  quale  nomeva   Parochia,  della  quale  muier  elio  ave  una  bellitissiou 


PROSA  NEL  SEC.  XIV  333 

figlia  virghene  i.  Dal  cod.  N.  Y.  6  della  Nazionale  di  Torino,  che  pre- 
senta un  testo  Yeneto,  corretto  da  una  seconda  mano,  la  quale  tentò  di 
raddurre  le  forme  più  Yemacole  a  un  tipo  toscano  o  aulico.  Delle  cor- 
rezioni costanti  l'editore  ha  tenuto  conto  nel  testo,  ha  relegato  invece 
in  nota  le  emendazioni  isolate ,  e  aggiunto  in  fine  alcune  annotazioni  gram- 
maticali, un  glossario  e  una  taYola  de'  nomi  propri.  —  Ree.  :  Literaturblatt, 
XI  (1890)  col.  32;  ZeiUchr.  f,  rom,  PhiL,  XUI,  344;  Archiv  f.  d.  Si. 
d.  neuer,  Sffr,  u,  Lit,  LXIXIV,  i-2. 

60.  La  Cronica  di  Dino  Compagni  delle  cose  occor- 
renti né  tempi  suoi,  e  la  Canzone  morale  e  del  pregio  » 
dello  stesso  autore.  Edizione  scolastica  per  cura  di  Isi- 
doro Del  Lungo.  Firenze,  Succ.  Le  Monnier,  1889;  16^ 
pp.  XXIII-224. 

Con  copiosi  commenti.  Delia  canzone  del  pregio  {Amor  mi  sprona 
e  mi  sforza  volere)  vedi  un  rifacimento  in  ottave  indicato  in  questo  SuppL 
1881,  n.  41. —  Ree.:  N.  AntoL,  CIV,594;  i4rcA.  stor.  il,  S.  5*,  III,  464. 

61.  La  Cronica  fiorentina  di  Dino  Compagni,  delle 
cose  occorrenti  né  tempi  tuoi,  riveduta  sopra  i  mano- 
scritti e  commentata  da  Isidoro  Del  Lungo,  con  una 
prefazione  e  appendici  illustrative.  Milano,  Paolo  Carrara, 
[1889]  ;  16^  pp.  204. 

Giunterìa  del  libralo,  che  tenta  di  rimettere  in  corso  un  vecchio 
fondo  di  magazzino,  ossia  la  stampa  dei  primi  due  libri  della  Cronica, 
procurata  dal  Del  Lungo  nel  1870-72  per  1*  editrice  Amalia  Bottoni  (cf. 
Dino  Compagni  e  la  sua  Cronica,  I,  903,  n.  2),  aggiungendo  ora  il  libro 
terzo,  secondo  la  vecchia  vulgata  del  Manni,  e,  s* intende,  senza  le  note 
del  Del  Lungo.  Della  prefazione  e  delle  appendici  illustrative  promesse 
dal  frontespizio  non  v'ha  traccia. 

62.  Introiti  ed  esiti  di  Papa  Niccolò  III  (1279-1280): 
antichissimo  documento  di  lingua  italiana  tratto  dalt  ar- 
chivio  vaticano,  corredato  di  due  pagine  in  eliotipia,  de- 
g Vindici  alfabetici,  geografico  e  onomastico,  e  di  copiose 
note,  per  cura  di  Gregorio  Palhieri.  Roma,  tip.  Vaticana, 
1889;  8^  pp.  XXXVII-133,  con  tav. 

Voi.  IV,  Parte  II  22 


334  SUPPLEMENTO  ALLO  ZJMBRINI   PER   IL   1889 

È  il  primo  dei  libri  d'Introito  e  d'esito  deDa  corte  pontificia, e 
che  r  anico  scritto  in  volgare,  certo  da  un  toscano  ;  però  buon  docum 
di  storia  e  di  lingua,  ma  non  di  quella  straordinaria  importanza  che 
ditore  imagina,  dicendo  perfino  che  varrà  a  far  dubitare  dell' 
tenticità  del  De  vulgari  eloquentia  (?!:p.  xvn  n.).  Ivi  stesso,  il  Pali 
riporta  le  soscrizioni  di  quattro  toscani  a  uno  stromento  n^to  in  Lo 
il  12  marzo  1278.  Le  note  dell'editore  sono  spesso  inutili  o  ridico! 
testo  non  fu  invece  riprodotto  come  si  dovrebbe.  Ecco,  per  es.,  la  p 
partita  dell'Esito:  <  Donno  papa  Nicola  terzo  de  dare  soldi  ventai 
ravignani  in  calcndi  maggio  pagai  nel  libro  che  io  feci  per  iscri 
questi  fanti  »;  dove  non  si  tratta,  come  annotando  crede  il  Pahnier 
fanti  0  soldati  da  arruolare,  ma  più  semplicemente  di  questo  s 
registro  che  abbiamo  innanzi,  perché  la  grafia  fanti  per  fatti  (e 
fanta  per  fatta)  è  frequentissima  in  tutta  questa  scrittura.  *  Ree 
AntoL.  evi,  381. 

63.  Lettere  volgari  del  secolo  XIII  a  Gerì  e  ai 
do  Montanini,  pubblicate  per  la  prima  volta  [da  Ài 
SANDRO  LisiNi  per  le  Nozze  PezzttoU-Curzil.  Siena, 
L  Lazzerì,  1889;  16^  pp.  45.  —  e  es.  n.  v. 

La  prima  a  Gerì,  le  altre  a  Cuccio  suo  figliolo  ;  tutte  scrìtti 
dìvoie  persone:  le  prìme  due  daUa  b.  Cristiana  Menabuoi,  e» 
dd  monastero  di  Santa  Marìa  NoveUa  da  Sancta  Coree  »  (croce);  L 
da  suora  Michelina,  badessa  nello  stesso  convento,  la  lY  e  la 
frate  Dvonìsio  de*  Predicatori,  le  ultime  due  da  fra  Ba 
torneo  de  la  Verna.  *  Si  conservano  originali  in  un  fascio  di  e 
qu»>i  tutte  in  volgare  e  per  la  massima  parte  riguardanti  la  fan 
tie'  .VimkmiÌQÌ,  pervenute  al  r.  archivio  di  stato  in  Siena  co*  docui 
uutiìbnn^ceì  delPantia»  convento  di  San  Francesco.  Non  hanno 
etTU,  nui  dal  carattere,  dal  contesto  e  da'  rìscontrì  fatti  con  altre 
UK>rìe^  rimane  il  convincimento  che  furono  scritte  neir  ultimo  venU 
liei  $ec  Xlll  ».  Nelle  illustrazioni  premesse  T editore  riporta  (p.  8 
tttu  curìiK^  lettem  btina  conclusa  da  alcuni  leonini,  scrìtta  da  Gìo^ 
di  Mji<!^sUo  HandìDO  a  Guorio  per  ringraziarlo  di  certe  pere  mandi 
in  (k>iKK  p(ù«  un  sa^>  deila  nota  dì  e  spese  fatte  per  chagione  ( 
U^he  »  da  un  !Ìoiitamnì  che  viaggiò  in  Francia  (p.  15,  n.),  e  il  prin 
del  tessumento  in  xv4pLrv  dì  monna  Vanna  sorella  di  Cuccio  (p.  18, 

tV4.  Stamto  tki  discipUnaii  di  Pomarance  nel  1 
l^^miiN>:  ksto  di  limgmi  del  secolo  XIV  pubblicato  per  e 


DOCUMENTI  335 

di  Pietro  Vigo.  Bologna,  Romagnoli-DaU' Acqua,  1889; 
8°,  pp.  XXII-64.  (Della  Scelta  di  curiosità  letterarie,  disp. 
132). 

Dopo  la  consueta  invocazione:  e  Questi  sono  gli  stanziamenti  et  or- 
dinamenti della  compapia  di  cboloro  che  si  raguneranno  a  fare  disci- 
plina in  memoria  della  passione  del  nostro  signore  Jesu  Cristo  crucifisso, 
nella  cappella  del  beato  sancto  Giovanni  Baptista  di  Ripomarancia.  Co- 
minciato a  di  tre  di  maggio  anni  di  Dio  Mcccxlviij,  a  tempo  di  Michele 
Barzetti  priore  della  detta  compagnia,  et  di  messer  Ranuccio  per  la  gratia 
di  Dio  vescovo  di  Volterra  nostro  padre  spirituale,  et  di  messer  lacomo 
piovano  della  pieve  di  Ripomarancia  ;  la  quale  conpagnia  Cristo  lesu  la 
mantenga  >.  Consta  di  39  rubriche,  fra  le  quali  notiamo  la  36*:  e  Che 
nessuno  de'  fratelli  non  giuochi  al  sozo  o  a  perde  e  vincko  i.  L'origi- 
nale, trovato  nel  1885  in  una  latrina,  si  conserva  ora  nell'archivio  munici- 
pale di  Pomarance. 

65.  /  capostipiti  dei  manoscritti  della  Divina  Com- 
media: ricerche  di  Carlo  Tauber.  Winterthur,  tip.  Ziegler, 
1889;  8^  pp.  XI.148. 

Io  appendice  (pp.  131-36)  pubblica  alcune  ragioni  di  pasqua  e 
della  luna  che  si  leggono  nel  cod.  laur.-strozziano  CLIII,  contenente 
la  Comedia  copiata  da  Francesco  di  Ser  Nardo.  —  Ree.  Nuova  Anto- 
loffia  evi,  190;  Riv,  Cnt  VI,  129. 

66.  Giovanni  Acuto  (Sir  John  Hawkwood):  storia  d'un 
condottiere,  per  G.  Temple-Leader  e  G.  Margotti.  Fi- 
renze, Barbèra,  1889;  8^  pp.  305. 

Fra  i  documenti  che  corredano  questo  bel  volume  sono  in  volgare  due 
note  0  istruzioni  dei  Dieci  di  balia  agli  ambasciatori  Go- 
rentini  all'Aguto  nel  1389  (doc.  LXV  e  LXVII:  dall' Arch.  Fior.),  e  una 
breve  partita  dello  stesso  anno  cavata  dai  libri  di  Bicchema  dell'Archivio 
di  Siena  (doc.  LXVI).  Nel  testo  del  racconto  si  riporta  (p.  215)  una  breve 
lettera  volgare  di  Corrado  Prospergh,  genero  dell' Aguto, 
a  Donato  Acciaioli  (dal  carteggio  Acciaioli,  cod.  ashburn.  1830),  alcuni 
versi  dei  cantari  di  Antonio  Pucci  sulla  guerra  Pisana  (pp.  17,  18, 
25,  31), -delle  ottave  d'anonimo  per  la  guerra  degli  Otto  santi  (pp.  70, 
80:  cf.  OV,  216),  e  d'un  sonetto  (L'alto  rimedio  di  Firenxa  magna 
p.  55)  e  di  una  canzone  (Hercole,  già  di  Libia  ancor  risplende  :  p.  98) 
di  Franco  Sacchetti.  —  Ree.:  Arch,  Slor.  it,,  S.  5*,  voL  V,  127; 
Biv.  star,  it.,  VII,  559. 


SF?«2K3n7>   àlÀ^   LéWMUM  PCB    IL   1889 


>'.   L  ?xi?!.  ZL  art  iei  wtercanli  di  Calimakin 
^  i  mo  wm  mata  tmmto,  TorìDO,  Bocca,  1889; 


-  1  Jtt»    vét  jijMJM'  fl  FIEppi  riporta  (p.  53)  dal  coi 

c^.ze.*!  '].{ir«  4eì  consoli  di  Calimalaa 

**n:  é    ..-cLii:'.'.  sr  •rt^^rtmBMMhi^'i  Tarte  che  corren  rìschio  di 

Sm  3SL  •  J3Ci  d'anno  ;  ma  dalla  fonna  deOa 
<&  «(repo  ai/fYi'  domino  D.  A.)  ooo 
sa  2  Cmmko  Donato  di  Iacopo  baodiio 
amt  iacfinerebbe  a  credo'e  TeditoR. 
—  Jt  fc  «r.   t  T  ar. 

^    1   "■K.wsat  ■  M    Tb  florfntino  del  secolo  XV  e 
à  m  TccriBK?  lumsat-siif.  [Nel*  ^rA.  5fór.  lY.^  Serie  5^ 


1   X— JK<*<- i.i   iisfsiìco  dì  Luca  di   Matteo  di 
:tr«^«    .ili.  ^.-"iiiJ  CI  ?  112130  <f393-ii61) recandone  alqQaDti 

^  asDHi  i  peio  die  narra  d*  una  vendetta  ooo- 
-atL  L«fÙ  pò.  T-tl).  DaDo  stesso  libro  riporta  anche 
•^•jfT-^  JT*.  1  BBBR  VI  e  bruchi  de  Torto  e  de  le  vigne  >, 
SEirr  ■■  ^am  i  itPi  S7>  ».  e  a  fare  restare  el  sangue  a  uno 
m  m  wm  '  per  I  nu  c£.  Smppi,  1887,  n.  !fó).  L*  orìginak 
~Tiiwi  -f   f)«er^   leTlrsL   Ì   Slato  in  Firenze:  seconda  seri? 


"St-      '•T" 


•V  Tc  »rf^.  Ì4.:t:€xel  I  àfwoiii,  te  /brm^  e  le  parole 
CI-'  ••ierii  àuuf^:  ùfua  città  di  Bologna:  studio  se- 
-tti^'    A£    imi   ^rv   À  'jMtichi  testi  bolognesi  inediti,  in 

^;:3fc.   »  'VHi'C-f.  aft  iialitto.  Bologna,  tip.  Fava  e  Ga- 

-^-^  LSJb    t-r.  ;c.  LM.292. 

win:!:»:    T«;$7mii  mcrtrài  tesa  bofegnesì  in  volgare  :    I.  Parlamenti  ed 

jis^jii:   JH  a  :  f '^-  •  j  -ìlio  Fava,  dal  cod.  vaL  5107.  -  II.  FrammeDii 

.cìd    >p#!s:a>ifc   nxnpc^  i*i  trattato  diarie  notarìa  di  Rainerio  da  Pe- 

•-Ti     .£    iSi   .-jiL   iiftla  Comunale  dì  Siena  H.  V.   30.  -  IH.  Parb- 

ar'v:    «1    -f.'isuH?  ;uit;.   ili  cod.  strozziano  della  Biblioteca  Nazionale  di 

■  -•«?     II.     **i  -  [V.  Parfamento  ed  Epistola  tolti  dal  libro  n.  51 

jTM    cx!w  irt  Twdi  f  banditi  dell' arch.  di  stato  di  Bologna  (anno  ii93). 

'.  »rtta  Isa  lìir.  idk  riformagioni  del  consiglio  del  popolo  di  Bo- 


DOCUMENTI  337 

logna:  anni  1302-88.  -  VI.  Estratti  di  uno  statuto  della  compagnia  dei 
Cabbrì  dell*  a.  1397  tolti  da  un  cod.  dell'  arch.  dì  stato  di  Bologna. 
-  VII.  Estratti  paralleli  delle  due  cronache  Bolognesi  contenute  nei  mss. 
della  Biblioteca  Universitaria  di  Bolopa  n.  1456  e  n.  431.  —  Ree: 
Giom.  star.,  XVI,  376. 

70.  Documenti  per  la  storia  del  governo  visconteo  in 
Bologna  nel  secolo  XIV  [pabbl.  da  Lodovico  Frati  nel- 
r  Arch.  star,  lombardo.  Serie  2*,  a.  XVI,  1889,  voi.  VI, 
pp.  525-80]. 

Sono  in  volgare  :  il  doc.  I,  contenente  i  patti  fra  il  Comune  di  Bologna 
e  gli  zecchieri  MafQolo  e  Lorenzino  de'  Erotti  (1350):  e  In  prima  che  li 
dicti  Maiìolo  e  Lorenzino  posano  e  debano  fare  batere  bolognini  grosi  de 
la  liga  che  sono  li  pepolixi,  fati  al  tenpo  de  la  bona  memoria  miser 
Tadeo  de'Pepoli  conservadore  de  Bologna  »;  e  il  doc.  Il,  cioè  un  bando 
del  9  febbraio  1351  contro  gli  spacciatori  di  bolognini  fabi:  e  Che  neguna 
persona,  citadino,  forastero,  né  d' altra  condicione  o  stado  chel  se  sia,  de 
la  dita  moneda  falsa  osi  né  presuma  de  spendere  >.  Entrambi  ricavati 
dalle  Provvisioni  del  Comune  di  Bologna. 

71.  Antiche  iscrizioni  veneziane  in  volgare  [pubbl. 
da  G.  Ferro  nel  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  II,  1889,  p.  i, 
pp.  444-53]. 

Accennati  i  dubbi  sull'iscrizione  del  1249,  che  anche  il  Monaci 
riprodusse  ultimamente  nella  sua  Crestomazia  (cf.  num.  47)  come  la 
più  antica  con  data  certa,  mentre  é  assai  probabile  sia  posteriore 
d'un  secolo,  riporta  dodici  antiche  iscrizioni  già  edite  qua  e  là,  ma 
ora  nuovamente  rilette  sugli  originali.  Spettano  agli  anni  1310,  1344-47, 
i360-6!2,  1375  e  1377:  particolarmente  lunghe,  una  del  1347,  per  ri- 
cordo del  terremoto  e  della  peste,  e  una  del  1362,  contenente  la  tradu- 
zione di  un  breve  di  Urbano  V. 

72.  Bartolomìieo  Gegghetti,  Giocolieri  e  giuochi  an- 
tichi in  Venezia,  [mv Archivio  Veneto,  voi.  XXXVIII,  1889, 
p.  n,  pp.  423-28]. 

Dai  libri  Conunemoriali  riporta  un  breve  documento  in  volgare,  cioè 
le  deposizioni  di  alcuni  testimoni  in  un  processo  per  giuoco  del  1300  (?). 
Gom.:  e  Eo  Polo  Foscarìn,  consiier  de  la  Chania  digo  per  sagramento 


, 


338  SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBRINI   PER  IL    1889 

\  de  lo  foto  de  Io  zogo  che  cusi  é  la  verìtbade:  plusor  fiade  ser  M 

Dolphin  rector  de  la  Cbaoia  si  disea  a  mi  Polo  Foscarìn  che  eo  di 
zugar  cum  ser  M.  Gradonico  >. 


n 


'  73.  T^to  antico  in  volgare  siciliano  :  comunicazi 

;  del  can.  Isidoro  Carini.  [Neil'  ArcA.  star,  siciliano,  N. 

,\  a.  XIV,  1889,  pp.  108-114]. 

i^  e  Lu  ordini  a  Sari  li  monachi  secundu  la  regula  dì  Sanctn  Basii 

cioè  un  rituale  per  monacazioni,  che  comincia:  e  In  primis  ?eni,  b 
naca  chi  si  foli  fari  a  li  scaluni  di  lu  altaru  di  la  ecclesia,  bella  pa 
portata  cum  alcunu  nobili  homu,  et  comu  esti  a  li  scaluni  di  la  e» 
si  tegnanu,  et  veni  la  abbatìssa  cuin  li  monachi  cum  la  cruchi  », 
Il  ms.,  che  l'editore  non  indica  precisamente  in  quale  monastero  oi 
trovi,  appartiene  alla  metà  del  trecento  ;  ma  il  testo  risale  anche  pii 
dietro. 

I  74.   Un  diploma  di  grazie   e  privilegi  munici^ 

concessi  nel  1393  dm  magnifici  conti  di  Peralta  i 
città  di  Calatafimi  [pabbl.  da  Andrea  Guarneri  Dell'  A\ 
stor.  siciliano,  N.  S.,  a.  XIV,  1889,  pp.  293-314]. 

Da  una  copia  quasi  contemporanea,  dove  s*  intitola  :  e  Quatem 
li  mandri  et  parichati  di  lu  terrìtoriu  di  la  terra  di  Calathafimi,  cussi  e 
anticamente  foni  divisi  et  limitati,  ac  etiam  altri  gratii,  privilegii  et 
ceptioni  facti  et  conchessi  et  dati  per  li  magniGki  signuri  conti  Guilic 
et  Nicola  di  Paratia  ».  Contiene,  prima  le  sopradette  grazie  e  prìti 
poi,  come  appendice,  tre  liste:  1.*  e  li  mandri  di  affidamentudi  lai 
di  lu  terrìtoriu  di  la  terra  di  Calalafìroi  »  ;  2/  e  li  mandrì  di  li  burgi 
Calathafimi  >  e  3.*  e  li  cbensuali  di  la  curti  di  la  terra  di  Calatbafin 

75.  Alcuni  privilegi  accordati  da  Re  Martino  e 
città  di  Messina  [pubbl.  da  G,  Travali  neir  Arch.  5i 
siciliano,  N.  S.,  a.  XIV,  1889,  pp.  183-86]. 

Otto  e  Capituli  et  peticioni,  li  quali  li  jurati  di  Missina  pelini 
supplicanu  a  la  Clementia  regali  per  utilitati  et  benefìciu  di  la  chitai 
Missina  »  ;  ricavati  dal  registro  del  Protonotaro  del  Regno  per  gii 
1104-5  (Arch.  di  stato  di  Palermo). 


DOCUMENTI  339 

76.  L.  T.  Belgrano,  Di  un  codice  genovese  rigtmr" 
dante  la  medicina  e  le  scienze  occulte.  [Negli  Atti  della 
Società  ligure  di  storia  patria,  voi.  XIX,  1887  (ma  1889), 
pp.  625-52]. 

Dà  notizia  del  cod.  Pallavicino  913,  ora  nella  Biblioteca  comunale 
di  Genova,  ms.  miscellaneo  della  One  del  XV,  che  contiene  fra  altro 
e  una  copiosa  raccolta  di  trattatelli  igienici,  ricette  mediche,  formole  e 
segreti  empirici,  incantesimi  e  scongiuri  >,  dei  quali  pubblica  uno  per 
sanar  le  ferite  (e  Trei  boni  fradelli  per  una  via  se  ne  andavan,  in  mese 
lesu  Chrìste  se  intopavan  >),  mettendolo  a  confronto  con  un  testo  toscano 
della  stessa  orazioncella  secondo  il  cod.  magliab.  IL  68  (cf.  n.  68  di 
quest'an.,  e  1887,  n.  25).  In  appendice,  al  n.  II,  ricava  dal  notulario  di 
Maestro  Salomone  (arch.  notarile  di  Genova)  una  incantagione  se- 
mivolgare, notevole  per  la  data  (1222). 

77.  Di  un  antico  anconetano,  scolaro  nello  Studio  bolo- 
gnese, lettera  volgare  e  risposta  relativa  [pabbl.  da  Naz- 
zareno Angeletti  per  le  Nozze  Palloni-Marchetti].  Iesi, 
tip.  Razzinì,  1889;  8^  pp.  13.  —  e  es.  n.  v. 

Queste  due  pistolette,  assai  più  che  veramente  mandate,  come  mostra 
di  credere  V  editore,  sembrano  estratte  da  qualche  formulario.  Ciascuna  ha 
accanto  la  sua  traduzione  latina:  la  prima,  scritta  in  figura  di  Martino  di 
Bartolomeo  d* Ancona,  studente  a  Bologna,  che  chiede  aiuto  al  suo  concit- 
tadino ser  Antonio  de  Giuvàgni,  comincia  :  e  Concissiacosaché  deggia  essere 
comuna  ciascheuna  cosa  de  ramici,  volendo  io,  quale  vivo  in  miseria 
nellu  studio  de  Bolognia,  privato  dell'  amore  et  de  lo  iutorio  paternale, 
captare  benivolentia  nel  mio  exordio  >.  Furono  ricavate  dal  cod.  Corsi- 
niano  43.  E.  23,  ms.  del  sec.  XV. 


310         supruassno  allo  zàmbmini  psa  il  1890 

PiliHeidfii  dd  INO 

1.  Lmdi  CorUmm  del  secolo  XHI,  edile  da  (km 
Habocq,  cam  um'  a/q^endiee  e  /  prooerti  di  Ghane i  A' 
CiKLO  Appbl  (Estr.  dal  PropugtuUore,  N.  S. ,  toU.  IMII). 
Boiogna;  Fava  e  Garagnani,  1890;  8*,  pp.  140. 


Il  IfaaoM  pdhhica  Wii  li  prin  pvte  del  col  91  ddh  KUtai 
£  Corion  (et  Sappi.  1884,  o.  3  e  1887,  d.  75),  «ù  k  i7 

segDcstiy  fiHnpiHif  eerto  inun  al  1297  e  aytaj  probobilneBle  m 
MÈO  éopo  fl  1Ì60L  1.  Vemùe  m  Indire;  2.  Laude  mmdlm  nm  cmUsk; 
9L  Am^  émmm  ttmimimm;  k.  Umàmmm  SMMia  Maria;  5.  Awe  Mariapnit 
pkma.  Virpem  main  keaia;  6.  Awe  regima  piorioea;  1,  Da  M  nam 
acne  maeelk;  8.  AUissiaàa  Imce  col  pnmde  $pUadore;  9.  Fami  tnkr 
Tamar  éilaheala;  10.  0 Maria.  d^caìeUa m' fimlaaa; ÌL  Regina smen 
ée  gram  pielaie:  li.  Awe.  Dei  gemtrix;  13.  0  Maria,  Dei  'téle;  li 
Am  wergeme  gaaàmie;  IS.  0  iànma  vtryo,  flore;  10.  Siine,  téie, 
wirgo  pia:  17.  Tergerne  demfello  da  Dio  aatala;  18.  Beeealriee  nm- 
mala;  19.  Omm  è  malo  el  kmmamalo;  19.  6»  e  ...  Moki  mesi 
avo  maaànà  >;  20  e  . .  .  gru  profioido  Dognò  naire»  per  noi  sofrin, 
U  Mite  donna  >  ;  21.  Gkria  im  deh  e  pace  'm  terra;  21  SfcOi 
mwaea  'm  fra  la  gemk;  23.  Piamgiaaio  gael  erwdel  baodare;  2i.  Bn 
è  crudele  e  spietoto;  &  De  ia  crude!  morie  de  Cristo;  S6.  Dém 
conforto,  Dio^  et  al^graufo;  27.  Onue  homo  ad  alta  voce;  3^  Jen 
Cristo  glorioso;  29.  Laudawko  la  rtsumctione;  30.  ^ritu  Sencki, 
dolce  amore;  31.  Spirito  sando  glorioso;  32.  Spirito  saneto  da  serrirt: 
33.  Alta  trinità  beata;  34.  Tn^po  perde  7  tempo  ki  ben  non  f  ama: 
35.  Stonimi  allegro  et  latioso;  36.  Oiwù  lasso  e  freddo  lo  mio  wr: 
37.  Chi  rote  lo  mondo  desprecfore  ;  38.  Laudar  voUio  per  amort: 
39.  Sta  laudato  san  Francesco;  40.  Ciascun  he  fede  sente;  41  Mag^ 
dalena  degna  da  laudare;  42.  L  alto  prence  Archangelo  lucente;  43. 
Foriamo  laude  a  tue  fi  sancii;  44.  Soji  Jovanni  al  mond'  è  nato;  45. 
Ogn  om  canti  nord  canto;  46.  .4iiior  dolce  senca  pare.  Sooo  tutte  bal- 
hte;  moltissime  composte  di  tenetti  monorìmi  codcIusì  dalla  rima  deb 
ripresa:  prevale  rottooarìo,  frequentissima  é  anche  la  rimalmezza  Già 
erano  state  pubblicate  secondo  questo  ms.  la  U,  VI,  VII,  XIX,  XII 
6,  XXXn,  XXXVUI-XL  (cL  1888,  n.  6,  e  1889,  n.  7);  poco  di 
poi  furono  ristampate  h  I,  lU,  Vili,  XVII,  XVIH  (cf.  art  s^pieflie); 


POESIA  REUGIOSA  E  MORALE  341 

secondo  altro  testo  erano  anche  note  la  KIV,  XXXI  e  XXXVII  (cf.  1885, 
n.  38);  parecchie  altre,  ma  in  lezione  diversa  e  generalmente  più  abbre- 
viata e  moderna,  sono  comprese  nei  laudari  pubblicati  da  E.  Gecconi  {OV, 
551-52)  e  da  G.  MazzatinU  {Suppi  1888,  n.  17).  In  fine  alle  laudi  Vili, 
XIV,  XXXI  e  XLVI  il  poeta  si  nomina:  Gar(o  doctore;  e  avendo  ri- 
guardo al  tempo  e  all'  affinità  della  materia,  sembra  ragionevole  ammettere 
che  il  laudese  sia  tutt'uno  con  Tomonimo  compositore  dell'  Alfabeto  di 
proverbi  qui  pubblicato  in  appendice.  Di  questi  proverbi  avea  già  dato 
qualche  saggio  il  Palermo  (OF. 425),  poi  tutta  la  serie,  ma  assai  scor- 
rettamente, G.  Giullari  (07.840);  ora  TAppel  ne  presenta  un  testo  mi- 
gliore, giovandosi  del  ms.  laurenziano  XG  inf.  47,  raflrontato  col  Pala- 
tino GVII  e  coi  Riccardiani  2183  e  1764,  il  quale  ultimo  si  discosta  molto 
dagli  altri,  ossia  sostituisce  spesso  nuovi  proverbi.  La  serie  originale  ne 
conta  240,  cioè  12  per  ciascuna  lettera,  eccettuate  x  ed  y  che  ne  hanno 
un  solo:  ogni  proverbio  è  compreso  in  un  verso  con  rimalmezzo,  o,  se 
si  vuole,  in  un  distico  senza  misura  fissa.  L'alfabeto  comincia:  Amore  già 
non  cura  -  ragione  né  misura  ;  innanzi  vanno  alcuni  versi  del  compilatore» 
che  annunzia  la  sua  opera  : 

A  ciò  che  sia  piacere  -  lo  bello  proiTerere 
conviensi  che  sia  -  con  molta  cortesia: 
se  '1  ben  fare  m'accusa  -  lo  ben  voler  mi  scusa; 
però  Garzo  dice  -  l'omor  della  radice,  ecc.; 

e  cosi  in  fine  s'aggiungono  alcuni  versi  di  chiusa.  Ghe  Garzo  possa  es- 
sere una  stessa  persona  col  bisavolo  del  Petrarca  (di  Ser  Petiaccolo,  di 
Ser  Parenzo  dall'Incisa,  figlio  di  Garzo)  è  ipotesi  che  non  repugna  af- 
fatto alla  cronologia  e  ai  luoghi  dove  dimorarono  i  parenti  del  Poeta,  il 
quale  in  una  delle  lettere  familiari  (III,  6)  ricorda  questo  suo  antenato 
con  parole  che  convengono  troppo  bene  a  un  laudese  e  dettatore  di  sen- 
tenze (cf.  A.  Zenatti,  //  bisnonno  del  Petrarca,  nel  Propugnatore,  N. 
S.,  IV,  I,  415). 

2.  E.  Bettazzi,  Notizia  di  un  laudario  del  sec.  XIIL 
Arezzo,  tip.  Beliolli,  1890;  8^  pp.  64. 

Ridescrìve  l'antico  laudario  di  Cortona,  non  sapendo  della  pubblica- 
zione che  contemporaneamente  ne  facea  il  Mazzoni  (cf.  art  prec^ente),  e 
dà  notizia  d'  un  altro  codice  di  laudi,  ora  nella  Biblioteca  delia  Fraternità 
dei  laici  in  Arezzo,  ma  anch'  esso  di  origine  cortonese:  scritto  nel  1367 
da  un  Joannes  Nuti  Giuseppi ,  contiene  76  componimenti ,  33  dei  quali 
comuni  alla  raccolta  più  antica.  Da  essa  trae  in  luce  cinque  laudi,  cioè 


342  SUPPLEMENTO  ALLO  ZJMBBIM  PER  IL   1890 

queQe  che  portano  i  nom.  I,  HI,  YUI,  lYU  e  XYIII  ndl'edìiioiie  dd 
Manooi,  aggiungendo  le  farìanti  del  db.  arediio;  per  saggio  di  qnto 
pubblica  in  fine  un  Lamento  della  Madonna  in  45  strofe decaslidie 
di  endecasillabi,  tutte  incatenate  con  h  prima  e  Y  dtìma  parola.  Cos.: 
Un  piangere  amonm  lamentando^  e  si  legge  aoche  od  ms.  di  Cortola. 

3.  Laudi  volgari  trascritte  da  un  codice  del  sec.  XIY 
che  si  conserva  nella  Biblioteca  della  Fraternità  de'  Laici 
in  Arezzo  [pnbbl.  da  Enrico  Bettazzi  per  le  Nozze  Cai- 
vmo-Bozzol  Arezzo,  tip.  dell'  Appennino,  1890;  24^  pp.  10. 
—  Ed.  n.  ?. 

Due  ballate,  dal  laudario  del  1367,  di  cui  Tedi  all'art  precedente: 
1.  Genie  pietosa,  amirate  a  Maria;  2.  Ave,  donna  gloriosa,  Soirra  ogm 
altra  pretiosa, 

4.  [Dae  laudi  antiche  pubblicate  da  Ccurrado  Zìc- 
CHETn  Nelle  nozze  del  professor  Nazareno  SignoretU  coUa 
nobile  signorina  Maria  Falcinelli  Antoniacà,  in  Issòt]. 
Rieti,  tip.  Trinchi,  1890;  8",  pp.  5.  —  Ed.  n.  ?. 

1.  Anima  peregrina^  Che  dello  amore  senti  lo  xeh;  2.  ì4iimm  do- 
lente^ Resguarda  con  pietade.  Dal  ood.  G.  II.  50  del  monastero  di  Foote 
Colombo  presso  Rieti:  entrambe  in  forma  di  ballata. 

5.  Laudi  e  devozioni  della  citta  di  Aquila  [pnbbl. 
da  Erasmo  Pèrcopo  nel  Giom,  stor.  d.  lett.  it. ,  voi.  XY, 
1890,  pp.  152-79]. 

Continuazione:  cf.  1888,  n.  8.  37.  0  prencepe  dell'  angelif  in- 
coronata (de  sanctu  Angelo);  38.  0  papa  CeUstin  da  Dio  electu  (de 
sanctu  Petro  confessoro);  39.  0  Yhesù  Cristo  singnort  verace  (bada  per 
la  pace);  40.  Sisto ^  papa  verace  (laude  de  Sisto  IV);  i\,  AtMf  et 
Cristo^  quanto  day  diUcto  (del  divino  amore);  42.  Martyre  glorificaio 
(di  sanato  Marcho  evangnelista);  43.  Santo  Jacobo  ìnato  (di  Saodo 
Philippo  &  lacobo);  44.  0  Vergen  Maria,  piena  de  pietate  (oraziooe 
per  1  Aquila);  45.  Ave  gratia  piena  (per  1*  Annunziazione);  46.  Vergene 
matre,  piena  de  dolciore  (alla  B.  V.).  Tutte  ballate.  La  pubblicaziooc 
continua. 

6.  Frammento  del  «  Lamentum  Virginis  >  poema 
del  sec.  XIV  [pnbbl.  da  B.  Morsolin  negli  Atti  del  B. 


POESIA  REUGIOSA  E  MORALE  343 

Istituto  Veneto  di  scienze,  lettere  ed  arti,  voi.  XXXVIII 
(Ser.  VII,  lo.  I),  1889-90,  pp.  933-65]. 

Da  un  registro  notarile  delio  Spedale  dei  Battuti  di  Vicenza,  copiato 
nel  idSi  (Oggi  neir Archivio  della  casa  degli  Esposti  di  codesta  città)  e 
pubblica  gli  ultimi  due  capitoli  (il  penultimo,  mutilo)  del  Pietoso  lamento 
0  Pianto  divoto  della  B.  Vergine,  notissimo  poemetto  in  ternari  che  il 
Morsolm  vorrebbe  ora  attribuire  a  un  Biagio  di  Jacopo  Saraceni 
sottoscrìtto  in  fine  a  questa  copia  vicentina.  Ma  più  altrì  ms.,  e  più  com- 
pleti, e  le  antiche  stampe  (cf.  OF.  386  e  Ap.  52)  s*  accordano  nell*al- 
trìbuirlo  a  frate  Enselmino  da  Montebelluna. 

7.  Antichi  proverbi  in  rima  [pubbi.  da  M.  MENGfflNi 
nel  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  III,  1890,  p.  ii,  pp.  331-43]. 

Risalgono  probabilmente  molto  addietro,  sebbene  arrivati  a  noi  in 
due  copie  assai  recenti,  cioè  nel  cod.  Riccardiano  2924,  ms.  del  sec. 
XV  in  fine,  che  li  presenta  adespoti,  e  nel  Vaticano-Regina  1603, 
dove  furono  trascritti  col  nome  di  Brunetto  Latini  da  SertorìoQuat- 
tromani,  dotto  cinquecentista  da  Cosenza.  Sono  228  alessandrìni  divisi 
in  57  tetrastici  mononimi.  11  primo  dice: 

Chi  lava  el  capo  a  l'asino      perde  il  ranno  e  *1  sapone: 
Chi  predica  in  diserto      vi  perde  el  sermone: 
Soffia  due  e  tre  volte      quando  è  caldo  il  boccone: 
Non  te  fidare  in  homo      che  aggia  rotto  el  groppone. 

L'editore  segui  il  testo  riccardiano,  ch'é  più  corretto  e  completo. 

8.  F.  Pellegrini,  Rime  inedite  dei  secoli  XIII  e  XI V, 
tratte  dai  libri  dell'  archivio  notarile  di  Bologna.  [Nei 
Propugnatore,  N.  S.,  voi.  Ili,  1890,  p.  ii,  pp.  113-78]. 

Continua  la  nota  spigolatura  iniziata  dal  Carducci  (OV,  878-79;  e 
cf.  in  questo  Supplemento,  1885  n.  8,  1886,  n.  11,  e  1888,  n.  U),  pub- 
blicando le  seguenti  rìme  nelF  ordine  cronologico  dei  memoriali,  o  delle 
pergamene  e  carte  che  le  contengono.  Dopo  i  capoversi  riportiamo  le  date 
delle  fonti.  1.  0  rossa  tempestina  -  del  magur  messe,  ball.?  (1284)- 
2.  Doglo  d'amor  sovente,  ball  (1296);  3.  Perché  murir  me  fati,  ball.? 
(1286);  4.  Dona,  vostr*  adome^e,  baU.  (1286),  già  edita  dal  Carducci  se- 
condo altro  testo  notarile,  ma  senza  l'ultima  strofe;  5.  D' un  amorosa 
vogla,  ball,  di  Albertuccio  delk  Viola  (1286),  ed.  dal  Carducci  se- 
condo altre  copie;  6.  S eo  trovasse  incarnata  la  pietanza,  framm.  di 


i«4         rnmsMSSTO  allo  zambrini  per  il  1890 

*  (12»);  7.  JCnu  opponentis  egei  moffno  dono,  qoartjae 

MÌ86);  8L  &M  cà'è  saco  rum  corre  Ufero,  il  Dolo  soft. 

YtuiM  t^iiiìcelli  seeoodo  due  nuovi  testi  (1287  e  1293);  9.  Se- 

-  r^^M  e  Im  msAv  </ajH^  ripresa  di  balL  (1287);  10.  Ì7- 

priso^  quartioe  di  son.?  (1293);  11.  0 
.  fnmm.  dì  5  vr.  (1293);  12-13. /offlccM 
A*  pttmk  e  Z)to  /k»  dk«  /»ac6  a//'  ff//^  /^0  ^  ^<'^' 
i  prMo  di  19,  il  secondo  di  i5  strofe,  di  materia  amo- 
H-loL  h  tutti  t  tempi  della  vita  mia  e  Ben  posso  din 
(dd  secondo  le  sole  quartine),  entrambi  com- 
scrittore  del  libro  (1300)^:  ser  Salimbeoe 
rjatiiis  i^c  ft£C£«b*ii  de  Florentia;  i6  e....  Launcbe  passa, 
ì^  am.ns^M's.  ^  ««fraan.  del  soo.  di  Dante:  Negli  occhi  porta 
nyftkt^.Sm  td pmggr  éeiU  aùu  danna  amore, son. di  Gino  da  Pistoia 
tlìÈÈK  ^  4  Ik  pmi  ii^Miwir  ^,  cannone»,  congedo  della  cam  Donna 
%i.4#  Cavalcaiti  (1300);  19.  Io  mi  son  tucto  dato  a 
attriboito  in  altri  mss.  a  Gino  da  Pistoia 
isturiatamente  e  Qual  hom  riprende  aitm 
<fi  Giacomo  da  Lenlino  e  dell'Abate 
dì  una  notissioaa  tenzone;  22.  Amor, 
di  baL?  (1301);  23.  Chusi  digl'  odi  tot 
frainm.  (1301);  2i.  Dea,  lassatim'  andare, 
r  -  mora  lo  malvas  mari,  balL  (1302); 
le  felù$o,  ball.  (1302);  27.  Dona,  mercé  de- 
m^otàf^  kìL  !3L>f^;  ±^  Al  nome  di  Dio  è  btiono  incuminciare,  le  prime 
me  jcrwf  uà  ìl^  SLr^^^:ese  dello  Sch  iavo  di  Bari  (1306);  29.  Quel 
-tr'  i  .7<7^;^  j*rr  tt/nfcf  f>iT  Ocio,  son.  framra  (1306);  30.  Vostr'  amisUi 

ii^hj^T-i  r^'cmruf    qurìine  dì  son.  (1309);  31.  &  bazio  cho Per  la 

:iia  >Kviu  ±'  1  s  òok*  tasto  >,  soo.  framra.?  (1309);  32.  Bisliccio 
>acri.v  a'd.xtsw*  di  oa  ooUh>  sui  nomi  de'  suoi  colleghi  :  e  Ser  CioDte 
CIAC  ,"ca  tf  :  >«•  Nten  à  nera  la  nòra  ;  Ser  Nello  denallo  à  nulla  i  eoe 
«•j!t  :  ;vx  V.'jO^-  ftvrorN),  signor*  Fiorentini,  Agli  Lucchesi  fi  troppo 
uiit:jL^'.\  5^xL  ^^dco  1131Ì;  cf.  Giov.  Villani,  IX,  59);  3i.  i  versi  103-li 
ieì  V  àiu  l^rfrn^'i  n^oii;  35-39.  La  mia  sagura  m'  d  dà  si  de  peto: 
Mtr:^  S:*n.sM.It>  a  la  dolce  spercm^n;  T  ne  rengracio  l' alto  Beo  Signore; 
L  im^y  n'  2  preso  e  le' me  st  al  desota;  Dolce  amor  meo,  nu  sen  luti 
ftAj  r.xr;«f,  doque  sonetti.  l'ultimo  caudato,  da  un  foglio  volante  (1332?) 
s<XH:rino  ser  Bernardi  de  Cassangnanis,  foi-se  autore  di  queste  rime; 
iO.  AV  r  ùtr  chiaro  un  zirfalco  zentile.  madrigale,  da  un  quaderno  del 
loSo  (nìs.  52  della  Bibl.  Universitaria  di  Bologna). 


URia  DEL  SEC.  XIU  345 

9.  Di  un  giuoco  popolare  nel  secolo  XIII:  illustra' 
zione  di  L.  Di  Giovanni.  Palermo,  tip.  del  Giornale  di 
Sicilia,  1890;  8^  pp.  26. 

Ripubblica  la  piccola  cantilena  : 

Turlù,  turlili,  turlù, 
questo  non  sapivi  tu, 

già  edita  dal  Carducci  fra  le  Rime  cavale  dai  memoriali  bolognesi,  e 
tenta  di  rìcostruirne  il  metro  e  di  spiegarla;  ma  in  Terità  per  cosi  pic- 
cola cosa  spende  troppe  parole.  —  Ree:  Riv.  Crii,,  VI,  119. 

10.  T.  Casini,  Un  poeta  umorista  del  secolo  decimo- 
terzo.  [Nella  N.  Antologia,  voi.  CIX,  1890,  pp.  4«6  508]. 

Cioè  Rustico  di  Filippo,  del  quale  il  Casini  tratteggia  il  profilo  let- 
terario e  riporta  i  seguenti  sonetti  secondo  il  testo  del  canzoniere  vaticano: 
1.  Unquaper  pene  eh'  io  patisca  amatuio;  2.  Io  non  oso  rizzar,  chiarita 
spera;  3.  Amor,  onde  vien  V  acqua  che  lo  core  ;  4.  Dovunque  io  vo  o  vegno 
0  volgo  0  giro;  5.  Ah!  voi,  che  ve  ne  andaste  per  paura;  6.  Fastel  messer, 
0  fastidio  della  razza;  7.  Due  donzei  nuovi  ha  oggi  in  questa  terra  ;  8. 
Su,  donna  Gemma,  con  la  farinata;  9.  D'una  diversa  cosa  eh'  è  ap- 
parita; 10.  Una  bestiuola  ho  visto  molto  fera;  11.  Chi  messer  Ugolin 
biasma  e  riprende;  12.  Quando  Dio  messer  Messerin  fece, 

11.  Dante  da  Majano:  dagli  ^/udi  e^t  Ranieri  àjazzi 
sui  poeti  del  primo  secolo  della  lingtm.  Firenze,  tip.  S. 
Landi,  1890;  16^  pp.  26. 

Contiene  due  sonetti  del  Maianese  {La  lode  e  7  pregio;  Di  ciò  eh' audivi) 
e  il  responsivo  della  Nina  Siciliana:  Qual  sete  voi,  si  cara  prefe- 
renza, accompagnati  da  una  canzonetta  dell'  editore,  pel  quale,  purtroppo, 

la  promessa 
ricambiata  da  lontano 
fra  la  sicula  poetessa 
e  il  poeta  di  Majano, 
caro  idillio,  vive  ancor 

12.  La  canzone  di  Guido  Cavalcanti  e  Donna  mi 
prega  »  ridotta  a  migliore  lezione  e  commentata  massi-- 
mamente  con  Dante  [da  G.  Pasqualigo]  ne  L'Alighieri  a.  II, 
1890,  pp.  241-62  e  315-44]. 


346  SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBItlNI  PER  IL  1890 

Noo  dlchian  l'editore  di  quali  testi  si  sia  giovato  per  migfiortre  h 
leDone:  nel  commento  riporta  un  son.  dì  Gaido  Orlandi  (Ondenmm 
e  éTonde  natot  Amort\  ano  di  Dante  {Amon  e  cor  gmOl^  e  odo  del 
Gaialcanti  {0  tu  che  porft).  »  Gontinoa. 

13.  Dante  AUghieri:  la  Commedia.  Londra,  Rivin- 
gton,  1890;  8",  pp.  VIII-SOO. 

Edizione  corata  da  A.  I.  Butlbr.  D  testo  é  fondato  so  qaeflo  dd 
Wìtte:  innanà  la  h  rubrìca  dantesca  del  ViOanL 

14.  La  Dwma  Commedia  ridona  a  migUor  lezim 
con  V  aiuto  di  ottimi  manoscritti  italiani  e  forestieri,  e 
corredata  di  note  edite  e  inedite,  antiche  e  moderne,  dal 
prof.  G.  Campi.  Torino,  Unione  tipografica  editrice,  1889- 
90;  3  YOU.  in  8^. 

b  corso  di  stampa. 

15.  La  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri  wU 
tata  m  prosa,  col  testo  a  fronte  di  Mario  Voixesi.  2* 
ediz.  riveduta  e  corretta.  Firenze,  Salani,  1890;  8",  pp. 
957  e  ritratto. 

Gt  1886,  n.  21. 

16.  L  Inferno  dichiarato  ai  giovani  da  Angelo  Dk 
Gubernatis.  Firenze,  Niccolai,  1891  [ma  1890];  24^  pp. 
VIII-508. 

Cf.  1889,  n.  23.* 

17.  Commento  alla  Divina  Commedia  del  re  Gio- 
vanni di  Sassonia  (Filalete)  tradotto,  [Ne  L  Alighieri, 
a.  I,  1889,  pp.  65-81,  129-39,  193-211,  361-67;  a.  II, 
1890,  pp.  38-43,  123-29,  262-69]. 

È  il  seguilo  della  pubblicazione  interrotta  nel  Propugnatùn  (cf. 
1887,  n.  41):  comprende  finora  i  canti  XV-XXIV  ùeW  Inferno. 

18.  Piccolo  commentario  scolastico  della  Divina  Cbm- 
media,  del  p.  G.  G.  Berthier.  [Nel  Rosario:  Memorie 
domenicane  di  Ferrara,  a.  VI  e  VII,  1889-90]. 

Finora  sono  stali  pubblicati  22  canti  dell' bfemo. 


DANTE  347 

19.  Frammento  di  un  codice  della  Divina  Commedia, 
scritto  sulla  fine  della  prima  metà  del  secolo  XIV,  che 
si  conserva  nelF  archivio  notarile  di  Sarzana ,  pubblicato 
per  cura  di  Roberto  Paoletti,  e  seguito  da  sei  fotografie 
che  ritraggono  Poriginale.  Sarzana,  tip.  G.  Tellarini,  1890; 
8"*,  pp.  68,  con  6  tav.  fotogr.  e  il  ritratto  di  Dante. 

Tre  fogli  membranacei,  che  già  servivano  di  guardia  a  un  protocollo 
notarile,  contengono  i  versi  XXV,  àO  a  XXYII,  78  del  Purgatorio,  e  li,  7  a 
III,  21  del  Paradiso,  qui  fotografati,  stampati,  e  accompagnati  da  parec- 
chie inutili  note.  La  scrittura  del  frammento  sarzanese  somiglia  a  quella 
di  Francesco  di  Ser  Nardo  (cf.  art.  seg.). 

20.  /  Danti  e  del  Cento  >  :  studio  del  prof.  Um- 
berto Marchesini  (Estr.  dal  Bullettino  della  società  dan-- 
tesca  italiana,  n.  2-3).  Firenze,  Landi,  1890  ;  8'',  pp.  22. 

È  corredato  d' un  facsimile  del  cod.  laurenz.  XC  sup.,  125  conte- 
nente la  Divina  Commedia  trascritta  nel  1347  da  Francesco  di  Ser  Nardo 
da  Barberino,  copista,  come  si  crede,  dei  cento  Danti.  Cf.  nello  stesso  Bui- 
lettino  (n.  4):  Ancora  i  Danti  e  del  Cento  i. 

21.  F.  Pellegrini,  Di  un  commento  poco  noto  del 
secolo  XIV  alla  prima  cantica  della  Divina  Commedia 
(Estr.  da  una  pubblicazione  per  Nozze  Cipolla- Vittone). 
Verona,  tip.  Franchini,  1890;  8',  pp.  20.  —  Ed.  n.  v. 

Ripubblica  le  osservazioni  sul  commento  dantesco  del  cod.  mare.  it. 
IX,  179  (cf.  1889,  n.  24),  e  ne  presenta  un  nuovo  saggio,  cioè  le 
chiose  ai  canti  IV  e  XXIX  deW  Inferno. 

22.  La  Vita  Nuova  di  Dante  Alighieri,  con  intro- 
duzione, commento  e  glossario  di  Tommaso  Casini.  2.^ 
ediz,  riveduta  e  corretta.  Firenze,  Sansoni,  1890;  16^, 
pp.  XXXI-229. 

Cf.  1885,  n.  13. 

23.  La  Vita  Nuova  di  Dante  Alighieri,  con  prefa- 
zione  su  Beatrice  di  Aureuo  Gotti.  Firenze  ,  Civelli , 
MDCCCLXL;  4^  pp.  XXXIV-79,  con  tav.  e  illustr. 


348  SUPFLEIIEIITO  ALLO  ZAMBBIHI  PfiR  IL  1890 

PubbiicaU  in  oecmne  del  ?I  eeotenarìo  di  Beatrice.  Doe  \xvk 
cromoUlognficbe  rìprodooooo  h  figm  di  Dune  ebe  è  od  eoifiee  Lur. 
ftroo.  174,  e  no  busto  dì  Beatrice  da  una  iiuìale  dd  Riecardìaiio  1005. 

24.  GioTAma  FRAHaosi,  il  taìuto  di  Beatrice.  Ro- 
Tigo,  tip.  Minelli,  1890;  V,  pp.  10.  —  gcg  es. 

laoaim  aDe  parole  dd  Fhuieiott  n  cL'vuiio  e  Faite  di  Dune  ad 
sonato  del  saluto  >  é  anche  il  testo  della  poesìa  io  caratteri  golid  die 
Torrdbbero  contrafbre  gli  antichi 

25.  Akune  fonti  provenzali  dMa  e  Vita  Nuooa  i 
di  Dante:  memoria  di  BIighele  Scsdbbillo.  [Negli  AtH della 
R.  Accademia  di  archeologia,  lettere  e  belle  arti  di  Na- 
poU,  ?ol.  XIV»  1889-90,  p.  n,  pp.  201-316]. 

Riporta  i  soliti  sonetti  di  Dante  da  Maiano:  Di  dò  die  9lé$ 
$d  dimandaion  (p.  803),  Provvedi,  Maggio  ad  està  viskme  (Si6);  di 
Cecco  Angiolieri:  Dante  AUagkier(pìi);^  Francesco  da  Bar- 
berino: r  ion  n  fatto  tT  una  vinone  (212);  di  Gino  da  Pistoia: 
Vinta  e  lana  (215),  e  In  fra  gli  altri  difetti  dd  Ubdlo  (22^ 

26.  Studi  danteschi  di  Vittorio  Imbriaio,  em  prefa- 
zione di  Feuge  Tocco.  Fireoze,  Sansoni,  1891  (1890)  ;  8^, 
pp.  XV-538. 

Nel  primo  di  questi  studi,  Sulla  rubrica  dantesca  dd  ViUani  (edito 
altra  volta  nel  Propugnatore,  V.  S.,  toU.  III-XIII)  é  anche  il  testo  dì  quei 
capitolo  della  crooica  secondo  i  codd.  Riccardiani  1532-34,  magliab.  L 
114,  Palatino  E.  B.  10. 6,  ed  Ambrosiano,  con  le  varianti  d'alrrì  l3co<ld. 
fiorentini,  tutti  indicati  e  descritti  (pp.  21-25),  premessa  anche  la  bibliognfia 
delle  stampe  del  Villani,  e  (pp.  18-19)  il  testo  abbreviato  del  necrologio 
dantesco  come  si  legge  nel  cod.  laurenz.  LXIl.  6.  —  Nel  penultimo  stu- 
dio Sulle  canzoni  pietrose  di  Dante  (pubbL  prima  nel  PropugMtort, 
y.  S.,  volL  XIV-XV)  riporta  intoro  il  son.  attribuito  a  Danto:  Ddi  pian^ 
meco,  tu  dogliosa  pietra  (p.  455),  e,  analizzandola,  la  canzone:  loto» 
venuto  al  punto  della  rota  (470-75),  oltre  a  parecchi  passi  delle  altre 
rime  pietrose. 

27.  F.  Pellegrini,  Di  un  sonetto  sopra  la  torre  Ga- 
risenda  attribuito  a  Dante  Alighieri.  Bologna,  Zanichellit 
1890;  8^,  pp.  25.  —  Gxx  es.  n.  v. 


DAirrE  349 

t  Pubblicato  il  di  XIV  maggio  MDGCGXG,  quando  d'intorno  alla  torre 
Garìsenda  si  demolirono  gli  ediflzi  che  ne  ingorabrayano  la  base  >,  con- 
tiene un  testo  critico  del  noto  sonetto:  Non  mi  portano  già  mai  fare 
amenda,  con  le  Tarìanti  del  memoriale  bolognese  69,  e  dei  cod.  Ghigìano  L. 
Vili.  305,  Magi.  IV.  1U,  Trìvulziano  36,  e  2448  della  UniTersitarìa  di 
Bologna,  i  quali  tutti  lo  attribuiscono  a  Dante;  mentre  il  ms.  824  della 
capitolare  di  Verona  lo  presenta  senza  nome  d'autore.  — Ree.  N,  AntoL 
CXI,  773;  Riv,  star.  ital..  VII,  556;  Giorn.  stor,,  XVI,  461. 

28.  Canzone  di  Messer  Gino  da  Pistoia  a  Dante  per 
la  morte  di  Beatrice:  riproduzione  fototipica  in  ce  esem- 
plari del  dono  offerto  a  S.  M.  la  Regina  d' Italia  dalle 
gentildonne  fiorentine  nella  primavera  del  MDCCCXC, 
sesto  centenario.  Testo  riveduto  sui  manoscritti  da  I.  Del 
Lungo,  illustrazioni  e  fregi  in  miniatura  di  N.  Leoni. 
Firenze,  fototipia  Ciardellì,  1890;  8  tav.  eliotipiche. 

Gome  avverti  altrove  il  Del  Lungo  (N.AntoLy  GXl,  p.  430,  n.  1),  e  i 
manoscritti  sui  quali  la  canzone  è  stata  riletta  con  notevole  vantaggio  dalle 
precedenti  lezioni  sono  sette:  due  barberiniani  [XLV.  47  e  XLV.  129],  uno 
vaticano  [3213],  uno  chigiano  [M.  VII.  142],  due  riccardiani  [1118  e 
1156],  uno  marciano  [Zanetti  63]  ».  Si  avverta  che  T attribuzione  di  questa 
poesia  al  Guinizelli  nella  raccolta  dell'  Allacci  e  in  altre  che  la  seguirono 
(cf.  Gasini,  Rime  dei  poeti  bolognesi  del  secolo  X/i/,  p.  328)  fu  effetto 
di  un  materiale  equivoco  di  quel  primo  editore,  che  trovandola  nel  bar- 
berìniano  XLV.  47  in  seguilo  a  una  del  Guinizelli,  la  diede  a  lui,  senz'ac- 
coi^ersi  del  nome  di  Gino,  che,  sebbene  smezzato,  si  può  leggere  tuttavia 
in  cima  alla  pagina.  •—  Ree:  N.  Anlol.,  GXUI,  555. 

29.  Poesie  di  mille  autori  intorno  a  Dante  Alighieri 
raccolte  ed  ordinate  cronologicamente,  con  note  storiche, 
bibliografiche  e  biografiche  da  Cablo  Del  Balzo.  Roma, 
Forzani,  1889-90;  2  voli,  in  8^  pp.  XV-569;  568. 

Il  volume  primo  contiene:  Dante  Alighieri:  i4  ciascun  alma 
(p.  2),  Guido  vorrei  (54),  Donne,  che  avete  (64),  con  la  risposta:  Ben 
aggia  l'  amoroso  nostro  core  (66);  Tanto  gentile  (71);  la  tenzone  con 
Forese  Donati  (84-92);  Oltre  la  spera  (120),  Poi  eh'  io  non  trovo 
(128),  Io  mi  credea  del  tutto  (131),  lo  sono  stato  con  amore  (133), 
Tu  che  stanzi  lo  colle  (302).  —  Guido  Gavalcanti:  Vedesti  al  mio 

Voi.  IV,  Parte  11.  23 


I 


SDPM.GIIEf(TO   ALLO  ZAMBniNI   PKn   IL    1890 

parere  (3),  S  io  fosse  quelli  (35),  Se  vedi  Amore  (58),  Dante  .  uh  m- 
<piVo  (59), /■  tiejno'/ jiorno(80),  —  Cioo  da  Pisloia:  iVa/waJmenh 
cAere  (30),  Avi>egna  i"  m'  abbia  (72),  Conte  w  non  odo  (129),  Poi'  e*'  io 
fui  Dante  (t30),  Nomllamente  Amor  (131),  Oonte,  quando  per  coni 
(132),  Signor,  e'  non  ^mm  (135),  DanU.  io  ho  prwo  (136),  Deh  quando 
rivedrò  (136),  0  voi  che  siete  voix  (138),  Si*  per  la  costa.  Amor  {Ì31). 

—  F  Petrarca:  Piangete  donne  {3i).  —  Guido  Orlandi:  Pm  i^kt 
traesti  (100),  —  S  io  /o«i  della  mente   lucia  libero,  sod.  aoon.  (1(8). 

—  Dante  da  Haiano:  Di  ciò  che  stato  sei  (iì);  Per  pfuati 
di  saper  [con  la  risp.  di  D.  Aljgb.  :  Quel  che  voi  siate]  ;  Lo  vcslrv 
fermo  dir  [risp.:  A'on  cotiojeenrfo];  Lasso,  lo  do(  ;  Amor  mi  fa  ti 
fedelmente  [risp.:  Savere  e  eortesia]^  Provvedi .  saggio  [risp.:  Sin>rlr 
giudicar]  (107-115).  —  Dante  a  Giovanni  Quirini:  Nulla  mi 
parrà  mai  più  crudel  cosa,  con  la  risp.  del  Quirini:  A^in  stgvf  Kumanita 
(  103  )  ;  Qjirìni  :  Lode  di  Dia  ;  con  la  risposta  :  Lo  re  che  merla 
(117-48).  —  Giovanni  Oiirini  conlro  Cecco  d'Ascoli:  .  .  .  Qui  si  ra- 
giotta;  Com'egli  errò:  Ben  che  talvolta  ;  Non  vi  dovrebbe;  Per  altra 
campwn  (35Ì-57).  —  Onesto  Bolognese:  Sete  va'  meurr  Cm 
(116).  ~  AgatOD  Droai:  &  'ì  grande  avolo  mio,  che  fu  'I  primiero 
(118).  —  Cecco  Angiolieri:  Dante  Alighier,  Cecco  tuo  seno  i 
amico;  Dante  Alighier,  l' io  son  buon  liegolardo  (121);  Lassar  non  co' 
lo  trovar  di  Bichina  (123).  —  Pieraccio  Teda  Idi:  SoneJlo  pien  di 
doglia,  iscapigtialu  (271).  —  Cecco  d'Ascoli  :  passi  dell' /Icrrfru  re- 
lativi a  Darne  (150-151,  327-*Ì).  —  0  spirilo  gentile,  o  vero  dante. 
son.  allribuilo  a  Pietro  Fajlinelli  (277).  —  Bosone  daGulibio: 
Due  lumi  son  di  novo  sparli  al  mondo  (299),  e  il  (^pilolo  sulla  Comedii  : 
Però  che  sia  più  fruclo  e  più  diluto  (358).  —  Emanuele  Giudeo  ;i 
Bosone:  lo  eAe  trassi  le  lagrime  dal  fondo  i^Oi). —  Jacopo  Alighieri: 
La  Divisione  della  Gomedia:  0  voi  che  siete  (317),  il  son-:  Acciò  cb 
le  helleize.  Signor  mio  (322),  e  ì  capp.  LV-LH  del  Dottrinale  (366-76). 

—  Pietro  Aligbicri:  Quelle  sette  arti  liberali  in  versi,  canzooe, 
dal  cod.  Riccardiano  lOOt  (377).  —  Mino  di  Vanni  d'Arcuo:  i 
25  sonetti  snII'  Inferno  (383-00)  e  l' esposizione  in  lena  riina  della  Co- 
medìa,  già  attribuita  a  Bosone  (151-92:  cf.  188i,  u.  18).  —  Li  Di- 
chiaraiione  di  frate  Guido  da  Pisa  (401-32:  et.  1888,  n.  27).  — 
Somoiario  della  Ckimedla  in  ti-c  capitoli,  edili  già  dal  Roediger  1136-19: 
ci.  1888,  a.  27).  —  Due  sonetti  sul  Pui^atorìo  e  sul  Paradiso,  dal 
cod.  Olivcriano  della  Comedia  :  Chotor  che  posson  vivi  operar  bene .  A 
la  luna  si  dà  verginitade  (399-100:  et  Datines.  Il,  217).  —  Antonio 
Pucci:  Dante  Alighier  nella  tua  Commedia,  son.  (101). 


URia  DEL  SEC.  XIV  351 

n  voi.  n  contiene:  Gino  da  Pistoia  (pp.  55-59):  M»5er  B(»on, 
lo  vostro  Manoello,  con  la  risposta  di  Bosone:  Manoel  che  mettete  in 
queir  avello;  In  fra  gli  altri  difetti  del  libello;  In  verità  queato  lihel 
di  Dante,  con  la  rìsp.  di  G.  Vitali:  Contien  sua  Comedia  parole  sante 
(cf.  1888,  n.  26,  e  OV,  1076).  —  Menghino  Mezzani  (?):  Vostro 
si  pio  ufficio  offerto  a  Dante,  con  la  risp.  di  Bernardo  Gan accio: 
Quando  'l  turbato  volto  al  bel  Pollante  (73-74:  cf.  1889,  n.  26).  — 
n  compendio  della  Gommedia  in  terzine  attribuito  a  Gecco  di  Meo 
Mellone  degli  Ugurgieri  (82-98).  —  G.  Boccaccio:  Dante, 
se  tu  (101);  Dante  Alighieri  son;  S' io  ho  le  Muse;  Se  Dante  piange; 
Già  stanco  m'hanno;  Io  ho  messo  in  galea;  Or  se' salito  (243-53),  e 
il  Raccoglimento  della  Gomedia  (220-42)  con  alcune  terzine  proe- 
miali già  edite  dal  Roediger  (cf.  1888,  n.  27).  »  F.  Petrarca: 
Sennuccio  mio  (102).  —  Antonio  da  Ferrara:  Se  a  legger  Dante 
(137).  —  Franco  Sacchetti:  0  fiorentina  terra,  son.  (191),  Ora  è 
mancata  ogni  poesia,  canz.  (457),  Secche  eran  V  erbe ,  gli  arboscelli  e 
fiori,  son.  (474),  Lasso,  Fiorenza  mia,  eh'  io  mi  ritrovo,  ternario  (535).  — 
Antonio  Pucci:  ottave  de  La  Guerra  Pisana  (198),  terzine  del 
Centiloquio  dov'  è  nominato  Dante,  e  tutto  il  canto  LV  contenente  il  ne- 
crologio del  Poeta  (203-15),  e  il  son.:  Questo  che  veste  di  color  sangui- 
gno (216). —  Francesco  di  Simone  Peruzzi:  Qual  fora  più  a  grato 
a  te,  Pesdone,  son.  (200).  —  Due  terzine  della  Pietosa  fonte  diZenoneda 
Pistoia  (254).  —  La  Leandreide,  stampata  per  intero  dal  cod.  3270 
del  Museo  Correr  di  Venezia  (257-456).  —  Pandolfo  M  a lates ta:  Fkot 
di  speranza,  e  nudo  di  conforto,  son.  (475).  —  Argomenti  in  terzetti  stac- 
cati (abb)  a  ciascun  canto  dell'  Inferno  e  a  quattro  del  Purgatorio,  dal  cod. 
laurenz.  XL.  25  (500-505).  —  Natura,  ingegno,  studio,  esperienza,  canz. 
anon.,  stampata  due  volte,  secondo  il  testo  del  Ghigiano  L.  IV.  131  e  del 
Glassense  di  Ravenna  137.  4.  R  (507-13).  —  La  gloria  della  lingua  uni- 
versale, prosopopea  di  Dante,  da  una  notissima  corona  di  sonetU-epitafQ 
sugli  illustri  trecentisti  florentini,  la  quale  appartiene  probabilmente  a  Gio- 
vanni di  Gherardo  da  Prato,  dal  cod.  laurenz.  XLl,  34  (514).  —  Fu 
il  nostro  Dante  di  mezza  statura,  son.  anonimo  delle  fattezze  di  Dante,  stam- 
pato secondo  due  diversi  testi  (518-19). — Tre  sonetti  sulle  tre  cantiche,  dal 
cod.  laur.  ashb.  184  (520:  cf.  1888,  n.  27).  —  Stan  le  città  lombarde  con 
le  chiave,  son.  anonimo  (534).  —  Due  ternari  sull*  Inferno  e  sul  Purga- 
torio, dal  cod.  D.  II.  41  della  Gambalunghiana  (543-56:  cf.  1884,  n.  18).  — 
Sonetto  di  Jacopo  Gradenigo  dal  detto  cod.  gambalunghiano (557:  cf. 
1887  n.  16).  —  Chi  e  costei.  Amor,  che  quando  appare,  son.  di  Gino 
Rinuccini.    —   La   raccolta   vorrebb'  essere  in  ordine  cronologico: 


I 


SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBtHHI  PER  IL   1890 

di  Étto  é  disordinatissitna  :  accoglie,  senzu  distiuguerìe,  poEsìe  gmume 
e  apocrife,  con  aitribuàoat  spesso  erronee,  con  nomi  sloq>iati  dal- 
l' edilora,  con  dale  alTallo  cenellolielie  ;  Irasciira  compooiraenti  wi- 
[issimi,  e  in  quella  vece  s'ingrossa  con  la  stampa  di  tuUa  la  Leandniit 
con  ceni' altre  cose  che  hanno  ben  poco  a  (are  con  la  forUioa  di  Danlt, 
con  Tersioni  insigni  Oca  atissim  e  di  questi  comgiouìiiieDli,  con  rìdevoli  iUuBlra- 
lioni  biograliche  e  bibliogratìche  malamente  nibacchiate.  —  Ree.  S. 
Antologia,  CVIII,  575,  e  Vita  Nmva  di  Firenze,  a.  Il,  n.  34.  doM  G, 
Volpi  pubblica  dal  cod.  Palatino  321  il  son.  bit^raAco  di  Dante  :  CormHe 
gli  anni  del  notlro  Signore,  eh'  è  gemello  dell'  altro:  Fu  7  nostro  Danti 
(cf.  OY.  9*3,  e  in  questo  Suppl.  1889.  n.  26).  Non  so  se  alth  atów 
già  osservalo  cb'enirambi  questi  soneiU  sono  materiale  paralraù  deb 
prosa  boc^ccesca  nella  Vita  di  Dante:  in  pailicolar  modo  il  secondo 
riproduce  le  stesse  parole  del  capitolo  sulle  faltrxse,  tuanit  «  «Mm 
di  Dante. 

30.  [Il  codice  Vaticano  3196  pabbl.  da  Ernesto  Ho- 
NAa  m\Y  Àrch.  paleografico  italiano,  voi.  I,  fase.  v-vi. 
Roma,  Martelli,  1890]. 

Nelle  tav.  52-71  sono  ritratti  in  eliotipia  i  18  logli  del  ms.  sofn- 
detto,  cbe  contengono  le  noUssimc  boac  del  Canzoniere  peirarcbeMO. 
Quasi  conlem [Mini neam ente  lo  slesso  autografo  veniva  riprodollo  per  le 
stampe  da  Carlo  Appel,  in  una  pubblica ;iÌone  che  descriveremo  con  qudle 
del  1891. 

31.  Di  due  poesie  del  sec.  XIV  m  t  la  natura  deUt 
frutta  t  :  comunicazione  da  manoscrtlli.  [di  F.  PBLLKfiEDil. 
Nel  Giom.  suir.  d.  lelt.  il.,  voi.  XVI,  1890,  pp.  341-52]. 

La  prima  è  un  poemetto  in  H  quartine,  composle  di  endecasil- 
labi a  rima  baciala.  In  ciascuna  quartina  parla  un  rmlto;  e  prima  il  fico: 
Fico  som  io.  nolo  nel  Paradiso,  furono  ricavale  dal  cod.  U7  della  Bi- 
blioteca Uoiversìtarìa  dì  Bologna,  ralTrontato  col  n.  3121  delb  Palalinidi 
Vienna;  ma  l'editore  avrebbe  potuto  facilmeole  giovarsi  di  più  altre  C4^ 
che  sono  nelle  biblioteche  fiorentine.  La  seconda  poesia  é  un  sooetlo  che 
GL'I  in  séguito  all' altro  ma^ior  componimento  in  quello  slesso  cod-  bo- 
lognese (Uva,  rum  fighe,  pere,  mele  e  fraglie),  ma  ch'era  a  stampa  da 
assai  tempo  nelle  edizioni  quattrocentine  del  U  '  '  " 
di  Londra  1767,  a  p.  201. 


,.-i,  —  !< 1 I 

del  Ikircbiello,  e  andie  iaimh^ 

J 


LIRia  DEL  SEC.  XIV  353 

32.  0.  Zenatti,  Una  canzone  capodistriana  del  se- 
colo  XIV  sulla  pietra  filosofale  (Estr.  dall'  Arch.  stor.  per 
Trieste,  V  Istria  e  il  Trentino,  voi.  IV).  Verona ,  tip.  Fran- 
chini, 1890  ;  8^  pp.  37. 

Comincia  :  e  El  me  dilecta  de  dir  brievemente  Tuct'  i  secreti  dei* 
Tarte  felice  »;  e  li  dichiara  in  i8  stanze,  la  penultima  in  Tersi  latini.  Fu 
prodotta  secondo  il  cod.  marciano  CGGXXVI  (della  seconda  metà  del  se- 
colo XIV),  raffrontato  col  Riccardiano  3247,  col  ms.  173  della  Bibliot. 
Landau  di  Firenze,  col  Senese  L.  X.  29,  e  col  testo  che  ne  offrono  due 
antiche  stampe,  cioè  un'  edizione  quattrocentina  (s.  n.  t)  della  Summa 
perfecHonis  Geberi,  e  il  libro  Della  Tramutatione  metallica  :  sogni  tre  di 
G.  B.  Nazari  bresciano  (Brescia,  Marchetti,  1572  e  1599),  dove  però  man- 
cano le  ultime  due  stanze.  Nel  congedo  Y  autore  si  nomina  :  e  quel  che 
bui  mi  manda  De  Justinopoli  è  '1  nostro  Gdele,  Grammatice  professor  Da- 
niele >;  e  sarebbe  slato,  secondo  si  legge  nel  libro  del  Nazari,  un  <  Ht- 
gifw  Danielli  Justinopolilano  >,  se  pure,  come  sembra  assai  probabile, 
codesti  due  nomi  non  sono  una  grossolana  trasformazione  della  didascalia  : 
e  Rithmus  Danielis  de  Justinopoli  »  che  la  canzone  porta  nel  cod.  Ric- 
cardiano (nel  marciano  e  nella  prima  stampa  è  anepigrafa).  Nella  edi- 
zione quattrocentina  del  Geber,  sfuggita  finora  ai  bibliografi  delle  antiche 
rime  volgari,  innanzi  alla  canzone  si  leggono,  e  furono  riprodotti  dallo  Ze- 
Datti  (pp.  14-15),  due  sonetti,  anch*  essi  di  materia  alchimistica  :  attribuito 
l'uno  a  frate  Helia  e  ripetuto  due  volte  in  diversa  lezione:  Solvete 
li  corpi  in  acqna^  questo  dicOy  l'altro  a  Gioco  de  Ascoli:  Chi  sol- 
vere non  sa  né  assoctigliare,  11  primo  era  stato  pubblicato  dal  Oescim- 
beni  (III,  23),  poi  dal  Libri  nel  Journal  des  Savants  (1841,  pp.  551-52) 
secondo  il  ms.  H.  493  della  Biblioteca  di  Montpellier,  che  lo  attribuisce 
a  Dante;  di  là  fu  riprodotto  più  esattamente  nella  Revue  des  lan» 
gues  romanes ,  3^  S. ,  voi.  IV,  76  ;  ora  lo  Zenatti  ne  indica  altri  tro 
mss.  (il  Senese  cit.,  e  i  Riccardiani  689  e  984),  che  ad  ogni  modo 
crescono  fede  alla  antichità  e  sincerità  del  componimento,  mentre  T  at- 
tribuzione a  frate  Elia  si  spiega  benissimo  con  la  fama  che  gli  soprav- 
visse di  grande  alchimista.  L*  altro  sonetto  era  stato  stampato  ultima- 
mente da  F.  Bariola  secondo  il  cod.  magi.  XVI.  3,  nel  saggio  su  Cecco 
d'Ascoli  e  l'Acerba  (Firenze,  1879,  p.  60).  —Ree.:  iV.  i4»to/.,  CX, 565. 

33.  A.  Medin,  //  Duca  d' Atene  nella  poesia  con^ 
temporanea.  [Nel  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  Ili,  1890, 
p.  I,  pp.  389-418]. 


354  SUPPLEMENTO  ALLO  ZAMBRIKI  PER  IL  1890 

Vi  sono  riferiti  parecchi  brani  dei  sinrentesi-lamenti  del  Pucci  per 
la  morte  di  Carlo  di  Calabria:  Grave  dolore  che  lo  cuore  mi  cuoce 
(et,  OV.  Ap,  77),  per  la  perdita  di  Lucca,  per  il  Duca  d' Atene, 
e  della  ballata  per  la  sua  cacciata;  di  una  canzone  di  Agnolo  To- 
rini {OV.  1004,  e  i4p.  167)  e  deUe  ottave  di  Pagolo  dall' Abbico. 

34.  Serventese  amoroso  tratto  da  un  manoscritto 
del  Collegio  di  S.  Carlo  [e  pnbbl.  da  G.  Vandelli,  nella 
Rassegna  Emiliana,  anno  II,  1890,  pp.  306-11]. 

Consta  di  13  strofe,  che  cominciano: 

Non  ho  ventura  come  io  solla  avere, 
che  più  che  a  Dio  a  tal  solia  piacere, 
e  'n  questo  punto  non  mi  vele  vedere: 

però  suspiro; 

ma  la  catena  delle  rime  qua  e  là  resta  interrotta.  Il  ms.  sopraiodicaio 
spetta  al  sec.  XV,  e  e  presenta  una  raccolta  di  rime  del  tre  e  del 
quattrocento,  dove  primeggiano  sonetti  del  Petrarca,  e  canxoni,  ter- 
nari, frottole,  ballate  e  componimenti  di  altra  maniera  di  Antonio  da 
Ferrara,  Leonardo  Giustiniani,  e  del  ferrarese  Giovaoni 
Pellegrini  i.  Di  questo  codice  diede  già  una  notizia  sommaria  il  prol 
Yenceslao  Santi  nella  Gazzetta  della  Domenica  dell' 8  gennaio  1882. 

35.  Passatempi  poetici  S  antichi  notai  [pubbl.  da 
G.  B.  Ristori  nella  Miscellanea  fiorentina  di  erudizione 
e  storia,  a.  I,  1886  (1890),  n.  12]. 

Da  foglietli  volanti  trovati  in  volumi  notatarili  della  Gne  del  tre- 
cento ,  pubblica  due  poesie  amorose  :  In  un  broletto  ,  all'  alba  del 
chiar  jorno ,  i  distici  a  rima  baciata ,  e  //  primo  di  eh'  io  ebbi  tua 
notitia,  due  quartine,  forse  di  sonetto. 

36.  Egidio  Gorra,  L  autore  del  e  Pecorone  > .  [Nel 
Giom,  stor.  d.  lett.  it.,  voi.  XV,  1890,  pp.  216-37]. 

Ripubblica  un  sonetto  di  Franco  Sacchetti:  Io  non  vorrei  en- 
trar nel  Pecorone,  già  edito  dal  Bilancioni  (Dieci  sonetti  di  F,  S.:  cC 
OV,  898),  una  parte  del  proemio,  e  il  sonetto  del  Pecorone:  Mille 
trecento  con  settantotf  anni,  e  la  rubrica  738  della  Storia  fiorentina  di 
Marchionne  Stefani,  che  narra  €  come  da' Dieci  di  libertà  fu  con- 
dannalo mess.  Giovanni  di  Ser  Fruosioo  »,  nel  quale   il  Gorra   vorrebbe 


URICI  DEL  SEC  XIV  355 

riconoscere  V  autore  delle  novelle.  Ma  l' ipotesi  ha  troppo  debole  fonda- 
mento: cf.  Zeitschr.  f,  rom,  Phil,  XIV,  253-4,  e  Giom,  sior.,  XVI,  353-60. 

37.  G.  Volpi,  La  vita  e  le  rime  di  Simone  Serdini 
detto  Saviozzo.  [Nei  Giom.  stor.  d.  lett.  it.,  voi.  XV, 
1890,  pp.  1-78]. 

Secondo  la  bibliografia  raccolta  in  fine  a  questo  studio,  il  canzo- 
niere del  Serdini  (n.  1360?  m.  U19?)  comprende  52  sonetti,  32  can- 
zoni, 6  sirventesi  tetrastici,  5  teroari,  2  madrigali,  e  alquante  ottave 
sui  Salmi  penitenziali  ;  non  computate  le  rime  di  dubbia  autenti- 
cità, fra  le  quali  il  Volpi  ripone  i  dieci  componimenti  editi  nel 
1879  da  G.  Ferrare  (  OV,  Ap.  142-43  )  e  il  popolarissimo  ternario 
Cerbero  invoco  (07.428),  che  assai  più  probabilmente  spetta  a  Maestro 
Antonio  da  Bacche  reto.  Di  parecchie  di  queste  rime  il  Volpi  reca 
in  mezzo  al  suo  discorso  saggi  frammentari  e  le  lunghe  didascalie 
che  esse  portano  nei  migliori  apografi  (cf.  SuppL  1886,  n.  26);  pubblica 
anche  interi  quattro  sonetti  :  1.  Esser  non  può  che  nel  terrestre 
sito  (p.  14),  dal  magliab.  IL  III.  335;  2.  Bene  è  verace  l'amor  ch'io 
ti  porto  (p.  28),  dal  Senese  G.  IV.  16;  3.  /  non  servati  voti  e  i  molti 
errori  (p.  32),  dal  cod.  1739  dell'  Universitaria  di  Bologna;  4.  Deh  not$ 
v'  incresca  la  spesa  e  V  affanno  (p.  36) ,  già  edito  altre  volte  con 
svariate  attribuzioni  (cf.  SuppL  1884,  n.  35).  In  appendice  raccoglie  tre 
disperate:  1.  0  specchio  di  Narciso,  o  Ganimede,  popolarirsimo  sir- 
ventese, dal  cod.  laur.  XG.  sup.,  56;  2.  Corpi  celesti  e  tutte  l'  altre 
stelle,  ternario,  dal  Riccardiano  2823;  3.  Le  'nfastidite  labbra  in  cui 
già  posi,  canzone,  dallo  stesso  Riccardiano.  —  Ree.  Riv.  Crii.,  VI,  140, 
e  N,  Antoi,  GX,  567,  dove  fu  pubblicata  una  ballata  {Lucia  la  tua  beltà 
d'ogni  piacere)  attribuita  forse  al  Saviozzo  dal  cod.  Vaticano-Reg.  1973.  Gf. 
anche  F.  Flamini,  La  lirica  toscana  del  Rinascimento  anteriore  ai  tempi  del 
Magnifico,  Pisa,  1891,  p.  739  n.,  dov'è  pure  qualche  aggiunta  e  correzione 
alla  bibliografìa  raccolta  dal  Volpi.  Qui  vogliamo  ancora  ricordare  che  dei 
Salmi  penitenziali  in  ottava  rima  attribuiti  al  Serdini  da  un  codice  Ginori- 
Venturì,  esiste  un'antica  stampa  popolare,  una  copia  della  quale  si  conserva 
nella  miscellanea  riccardiana  112:  sono  4  carte,  s.  n.  t  né  titolo  alcuno, 
che  portano  in  ciascheduna  faccia  otto  ottave  su  due  colonne.  (k)mincia- 
no  :  Io  chiamo  A  prego  el  mio  eterno  idio,  e  finiscono  : 

lo  ho  e  septe  psalmi  scripti  in  rima 
a  riuerenza  dello  eterno  idio. 


356  SUPPLEMENTO  ALLO  ZÀUBRINI  PER  IL   1890 

signore  ìdio,  oom'io  dissi  prima, 
io  so  ch'io  bo  fallito  nel  dir  mio; 
ma  non  di  meno  dal  pie  alla  cima 
ogni  intdiecto  A  ogni  mio  disio 
ch'io  ci  ò  messo:  io  non  so  me'  fiue: 
Francesco  petrarca  (1)  mi  fo  chiamare. 

38.  Due  canzoni  dC  Andrea  da  Pisa  (f  argtmento 
storico  [jpabbl.  da  F.  Flamini  nel  Giom.  star.  d.  letL  it., 
voi.  XV,  1890,  pp.  238-5Q1. 

ì.  Se  per  cantar  friù  alto  ancor  mi  Ike^  a  Filippo  Maria  Tisoood 
per  la  nascita  di  Bianca  (1425),  dal  cod.  1739  deU'  Uni?ersitaria  di  Bo- 
logna; 2.  Signore  illustre  exceUo  éb  glorioso,  e  a  comendatione  et  lode 
per  la  morte  de  lo  illustrissimo  signor  Braxo  >,  dal  Riccardiano  1154: 
ma  di  questa  seconda  non  dà  che  alcune  stame.  In  entrambi  i  codici 
il  poeta  è  chiamato  Andrea  de' Vettori. 

39.  F.  Flamini,  V  imitazione  di  Dante  e  delio  stài 
novo  nelle  rime  di  Gno  Binuccini  (Estr.  da  L'Alighieri, 
voi.  I  e  II).  Verona,  tip.  CiveUi,  1890;  4^  pp.  30. 

Per  dimostrare  la  persistema  di  codesta  maniera  poetica  nefle  rime 
del  Rinuccini,  riporta  di  lui,  oltre  ad  alcuni  minori  saggi,  tre  sonetti  in- 
teri :  CIU  guarderà  mia  donna  attento  e  fiso  ;  La  fé  ck'  d  posto  den- 
tro il  mio  signore;  Dolenti  spirti,  ornate  il  vostro  dire;  e  due  ballate: 
Qual  maraviglia  è  questa;  Tutta  salute  vede, 

40.  F.  Flamini,  Le  rime  di  Gino  Binuccini  e  il  testo 
della  Raccolta  Aragonese.  [Nel  Giom.  stor.  d.  leti.  t>., 
voi.  XV,  1890,  pp.  455-59]. 

Ripubblica  dal  magliab.  VIL  1035  la  sestina  del  Rinuccini:  Quando 
nel  primo  grado  il  chiaro  sole,  ravvicinandone  il  testo  a  quello  dato  da 
S.  Bongi  (Or.  881-82)  secondo  la  lezione  della  raccolti)  Aragonese,  la 
quale  al  confronto  sembra  fortemente  rimaneggiata.  Soggiunge  in  nota 
un  son.  :  Io  veggio  bene  si  come  il  gran  disio,  che  col  titolo  e  risposta 
a  Gino  »  tien  dietro  nel  detto  codice  alla  sestina. 

41.  Serventese  d' amore  di  Giacomo  de'  Sanguinazzi 
da  Padova  {secolo  XV J  [pubbl.  da  Awstide  Ravà  e  Fi- 


ANTOLOGIE  357 

Lippo  RoFFi  per  le  Nozze  Orlandi- Buldrini],  Bologna, 
Regia  Tipografia,  1890:  8^  pp.  [8].  —  Ed.  n.  v. 

Qual  ninfa  in  fonte,  o  qual  in  del  mai  dea,  dal  cod.  Isoldiano 
(1739  della  UoÌYersitaria  di  Bologna).  Fu  già  attribuito  malamente  a 
Franco  Sacchetti  (07.  899,  e  Suppl.  1887,  n.  33). 

42.  Carlo  dott.  De  Stefani,  Il  canto  P  della  Leandrei- 
de,  secondo  il  codice  veneziano  n.  3270  e  n.  di  ubicazione 
2345  del  Museo  Civico,  ed  il  codice  Trevisano  n.  336 
della  Biblioteca  Comunale:  saggio  di  pubblicazione.  Pa- 
dova, tip.  Randi,  1890;  8^  pp.  8. 

Presentando  questo  saggio,  TA.  promette  un  suo  maggiore  studio 
su  tutto  il  poema,  che  nel  frattempo  é  stato  pubblicalo  per  intero  nella 
gran  raccolta  dantesca  di  Carlo  del  Balzo  (cf.  n.  29). 

43.  Angelo  Marghesan,  //  codice  trevigiano  della 
€  Leandreide  >:  poemetto  inedito,  Treviso,  tip.  Turazza, 
1890;  8^  pp.  22. 

Premesso  un  cenno  suir  età  e  sull'  autore  della  Leandreide,  e  il  som- 
mario del  contenuto,  pubblica  dal  cod.  trivigiano  336  i  canti  I  e  II  del 
lib.  Ili,  ma  tralasciando  i  versi  dove  il  testo  è  corrotto  o  altrimenti  oscuro: 
metodo  in  verità  assai  commodo  e  commendevole. 

44.  //  libro  delf  Amore:  poesie  italiane  raccolte,  e 
straniere  raccolte  e  tradotte  da  Marco  Antonio  Canini. 
Voli.  IV-V.  Venezia,  tip.  dell'Ancora,  1889-90;  S\  pp. 
XXXVI.271  ;  XXIII-295. 

Cf.  1888,  n.  54.  Il  voi.  IV  (che  raccoglie  le  poesie  sullo  Sdegno, 
infedeltà,  riconciliazione;  amore  in  larda  età;  nuovo  amore)  contiene  di 
antiche  rime  la  ballata  anonima  :  Fuor  della  bella  gaiba  (p.  9),  e  il  son. 
anon.:  Tapina  me,  che  amava  uno  sparviero  (12);  la  ballata  del  Boc- 
caccio: lo  non  ardisco  di  levar  più  gli  occhi  (12);  due  madrigali  di 
N.  S  0 1  d  a  n  i  e  r  i  :  Amor,  s  %  son  dalle  tue  man  fuggito;  U  aguglia  bella 
nera  pellegrina,  e  la  ball.:  Non  temo,  donna,  di  pianger  giammai  (ìZ)\^^t\A 
della  canz.: //  capo  mio,  tu'l  sai.  Amore,  è  cono,  dì  Senn uccio  (217); 
la  ball,  del    Sacchetti:  Poi  che  Amor  vuol,  tempo  non  è  né  fia 


358  SUPPLEMENTO   ALLO  ZAUBRINI  PER  IL   1890 

(217).  —  D  ToL  V  (ìkrte  dell'amante,  del  coniuge;  ricordi)  contiene: 
ooa  cau.  di  Giacomino  Pugliese:  Èforte ,  perché  m  hai  faXta  » 
gran  ^ruerra  (12),  e  una  di  Pacino  Angioiieri:  Qual  é  che  per  amar 
t'allegri  o canti (ìZ);  quattro  sonetti  di  Dante:  Piangete  amanti; 01- 
tre  la  spera;  Deh  pellegrini;  Era  venuta  (li-15);  tre  di  Gino  da 
Pistoia:  Deh  non  mi  domandar;  Io  fui  in  iuiT alto;  Signor,  e'  «m 
pauò  (15-16);  uno  di  Arriguccio:  Apparvemi  amor  tubitamaUi 
(16);  uno  di  Bartoiommeo  da  Gastel  della  Pie?e:  Quel  teurtUo 
che  la  larga  mano  (23);  una  cani,  e  19  sonetti  del  Petrarca  (16-23), 

45.  Donato  fioca,  Breve  stotia  deUa  letteratura 
italiana,  a  cui  vanno  uniti  i  brani  scelti  dei  più  celebri 
scrittori,  per  lettura  ed  esercizio  di  memoria  ad  uso  deUa 
gioventù  studiosa.  Volume  primo:  sec  XIH,  XIV  e  XV. 
Torino,  Paravia,  1890;  16^  pp.  XII-292. 

Gontiene  saggi  poetici  da  Giacomino  da  Verona,  Oddo  ddle  Colonne, 
Jacopo  da  Lentino,  S.  Francesco,  G.  GuiniceUi,  Dante  da  Maiano,  Goit- 
tone,  B.  Latini,  C.  Angioiieri,  Ciacco  dell'  Angiiillara,  G.  Cafalcanti,  Gino, 
Lapo  Gianni,  Dante  Alighieri,  e  Fr.  Petrarca.  E  brani  di  prosa  da  Matteo 
Spinelli,  dal  Malespini,  dal  Novellino^  dai  Fioretti  di  S,  Francesco^  dal 
Convivio,  da  D.  Compagni,  da  S.  Caterina,  dal  Milione^  dalle  Vite  dei 
SS,  Padri,  dagli  Ammaestramenti  degli  antichi,  da  Giovanni  e  Matteo  Vil- 
lani, dalla  Vita  da  Dante  del  Boccaccio,  dalle  Novelle  dei  Sacchetti  e  di 
Ser  GioYanni  fiorentino,  e  dallo  Specchio  di  penitema  del  PassavantL  — 
Ree.:  N.  AntoL  CXII,  553. 

46.  Frammenti  di  redazioni  italiane  del  Buovo  d^An- 
tona  [pubbl.  da  P.  Rajna  nella  Zeitshchrift  f.  rom.  Phii, 
voi.  XII,  1888,  pp.  463-510;  XV,  1891,  pp.  47-87].  Il: 
Avanzi  di  una  versione  toscana  in  prosa. 

Questa  versione,  che  sì  legge  incompiuta  nel  cod.  Riccardiano  1030, 
ms.  della  seconda  metà  del  quattrocento,  certo  risale  al  princìpio  del 
sec.  XIV,  e  deriva  da  un  originale  poetico  franco-italiano,  che  il  Rajna 
inclina  a  identificare  con  la  prima  parte,  ora  perduta,  del  noto  cod.  mar- 
ciano XllI  0  con  altra  consimile  compilazione;  é  probabile  anche  che  a 
sua  volta  servisse  di  modello  ai  Reali  di  Francia  di  Andrea  de'  Magna- 
botti.  Incomincia:  t  All'uscita  d'aprile,  lo  maggio  entrante,  uccìeUi  e 
bestie  si  ssi  rinovellano  del  forte  tenpo  ch'egli  anno  passato;  erbe  e  ar- 
bori si  ssi  rinfrescano  :  nonn'é  si  nero  pruno  non  rendi  il  bianco;  e  ogni 


PROSA  DEL  SEC.  XIU-XIV  359 

uccielletto  canta  per  amore;  donne  e  donzelle  prendono  piaciere;  e  duchi 
e  conti  e  cavalieri  si  stanno  in  grande  piaciere;  e  donzelli  giostrano  e 
bigordano,  e  ogni  altra  giente  si  ssi  rallegra.  —  Piacciavi,  signiori,  d' u- 
dire  un  bel  dire  di  Costantino  inperadore,  come  in  suo  corte  aveva 
conti  e  duchi  e  marchesi,  cattani  e  lonbardi  e  cavalieri,  donzelli  e 
mercatanti,  borgiesi,  e  forestieri  che  sono  d'altri  paesi.  —  In  piedi  si 
levò  r  alto  inperadore  Costantino;  e  manda  inn'  Inghilterra  dodici  messag- 
gieri,  inn*  una  cittade  che  Inghia  si  fa  chiamare  ». 

47.  LVII  ricette  d' un  libro  di  cucina  del  buon  se- 
colo della  lingua  [pubbl.  da  Domenico,  Cesare  e  Giacomo 
Zanichelli  e  Salomone  Morpurgo  per  le  Nozze  Franchetti' 
Enriques],  Bologna,  tip.  Zsinichelli,  1890;  4"*,  pp.  28.  — 
Ed.  n.  V. 

Da  un  ms.  fratmnentario  del  secolo  XIV  contenuto  nel  cod.  miscel- 
laneo Riccardiano  107i.  La  prima  (ch'era  xvj.''  del  trattato  completo)  e 
r ultima  sono  mutile;  la  seconda  comincia:  €  Se  vuoti  fare  una  torta 
parmigiana  per  xxv  persone,  togli  otto  libre  di  bron^  di  porco,  e  togli 
xij  casci  freschi,  e  togli  vj  casci  passi,  e  xl  uova,  e  mepa  libra  di  spetie 
dolci,  e  vj  pollastri  o  iiij  capponcelli  » .  —  Mentre  scrivo,  V  amico  dott.  Carlo 
Frati  mi  avverte  che  nel  cod.  Gasanatense  255  (già  A.  VI.  45)  ha  tro- 
vato completo  codesto  ricettario,  e  che  lo  pubblicherà  quanto  prima. 

48.  Vittorio  Pinzi,  Di  uri  inedita  traduzione  in  prosa 
italiana  del  poema  <  De  lapiditus  praetiosis  >  attribuito 
a  Marbodo,  vescovo  di  Rennes,  contenuta  in  un  codice 
della  R.  Biblioteca  Estense,  scritto  verso  la  fine  del  se- 
colo XIV,  seguita  da  tre  capitoli  di  un  bestiario  in  vol- 
gare. [Nel  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  Ili,  1890,  p.  i,  pp. 
188-224]. 

Il  lapidario  qui  pubblicato  dal  codice  Estense  VII.  B.  5  com- 
prende 77  pietre  disposte  in  ordine  alfabetico,  da  alabastro,  ametisto, 
alletorio  a  sillenito,  silex,  smeraldo  e  topalio.  Alla  descrizione  delle 
loro  virtù  va  innanzi  un  lungo  prologo  che  comincia:  e  Per  proverbio 
antigamente  se  disse,  che  in  le  prete  et  in  eie  parolle  et  in  eie  erbe  si 
sonno  le  vertute  ;  e  che  ciò  sia  ventate,  eli'  é  manifesto  sufficientementre 
a  presso  li  savi]  di  questo  mundo  desfacievole  et  destrucievole».  Al  lapi- 
dario seguita,  e  qui  fu  riprodotto,  un  frammento  di  bestiario  che  conta  le 


360         supPLEHBirro  allo  z^ubrìni  per  n.  1890 

nrté  del  lw§fOj  del  fnmbioh  e  édToMgMUU:  e  Li  vertuta  del  lopo  s*  è: 
dil  beverà  d  suo  sangue  defentari  rabioso,  et  per  alduiiio  modo  no  se 
pooe  saonare.  Q  suo  oglo  dexiro  portato  atcowBimefite  farà  grandi  fKtì 
de  sua  persona  i. 

49.  //  Novellino,  ossia  Fiore  di  parlar  gemile,  emen- 
dalo ed  annoiato  ad  uso  della  gioventù  dal  sac.  dottore 
Francesco  Cerruti.  Settima  edizione.  Torino,  tip.  Salesiana, 
1890;  24*,  pp.  214. 

50.  Fioretti  di  San  Francesco.  Edizione  sesta.  TorìDO, 
tip.  Salesiana,  1890;  voU.  2  in  24^  pp.  192;  195. 

51.  /  fatti  S  Enea:  libro  secondo  della  Fiorita  d^I- 
talia  di  frate  Guido  da  Pisa,  carmelitano  scalzo.  Ot- 
tava edizione.  Torino,  tip.  Salesiana,  1890;  24^  pp.  200. 

52.  //  libro  S  amore  di  Carità  del  fiorentmo  b.  Gio- 
vanni  Dominici  deK  ordine  di  Predicatori:  testo  inedito 
di  lingua  pubblicato  per  cura  del  dott.  Antonio  Cbrruti. 
Bologna,  Romagnoli-Dair  Acqna ,  1889  [1890];  8°,  pp. 
XLI-557. 

11  testo,  edito  verameote  più  volte  io  passato  (07.  374),  qui 
fu  riprodotto  secondo  la  lezione  di  n  un  codice  cartaceo  dell*  Am- 
brosiana scritto  Tanno  1505  t,  e  raffrontato  con  più  altri  mss.  fio- 
rentini che  r  editore  indica,  ma  molto  inesattamente,  alle  pp.  xxxj-xxiviij 
della  sua  prefazione.  L' opera  del  Dominici  consta  di  45  capitoli,  i  primi 
due  proemiali,  il  terzo  contenente  la  divisione  della  materia,  i  seguenti  la 
trattazione:  secondo  un  antico  ras.  fu  indirizzata  dall'autore  a  quella 
stessa  Bartolommea  moglie  di  Antonio  degli  Alberti  cui  egli  dedicò  anche 
il  Governo  della  famiglia.  Il  Cerniti  contraddice  quest'opinione,  accolta 
già  dal  Palermo;  ma  le  ragioni  che  perciò  adduce  sembrano  in  verità 
assai  deboli  :  certo  e  adatto  vana  quella  che  la  gentildonna  t  dovea  abitare 
Padova,  perché  il  b.  Giovanni  accenna  al  Santo,  chiesa  frequentata  da 
lei»,  che  il  testo  non  parla  aflalto  della  cattedrale  di  Padova,  ma  di 
un  santo,  d*  una  chiesa  qualunque  :  €  Or  questa  carità  sia  tua  compa- 
gna quando  vai  al  santo,  e  quando  tomi  a  casa  »  (p.  14). 


PROSA  DEL  SEC.  XIV  361 

53.  Vittorio  Lami  ,  Di  un  compendio  inedito  della 
Cronica  di  Giovanni  Villani  nelle  sue  relazioni  con  la 
Storia  Fiorentina  Malispiniana.  ^éiV  Arch.  stor.  it.^  se- 
rie 5%  voi.  V,  1890,  pp.  369-416]. 

Pubblica  parecchi  brani  di  codesto  compendio,  contenuto  nel  cod. 
magliab.  II.  I.  252,  raffirontandoli  coi  luoghi  corrispondenti  del  Villani  e 
dei  Malespini,  e  dimostrando  che  con  assai  probabilità  esso  dovette  de- 
rivare direttamente  dalla  Cronica  del  Villani ,  e  servire  di  fonte  a  206 
capitoli  della  Malispiniana,  coi  quali  coincide  letteraknente. 

54.  Le  origini  cf  una  famiglia  e  d' una  via  nella 
vecchia  Firenze.  Dalla  cronica  domestica  di  messer  Do- 
nato Velluti  restituita  sull'  autografo  e  commentata  [da 
Isidoro  Del  Lungo.  Per  le  Nozze  Enriques-FranchetU], 
Firenze,  tip.  Carnesecchi,  1890;  8®,  pp.  10.  —  e  es.  n.  v. 

Cf.  1887,  n.  62.  È  un  altro  bel  saggio  dell*  edizione  che  il  Del 
Lungo  prepara  delia  cronaca  vellutiana:  comprende  i  capitoli  II -IV. 

55.  Antiche  cronache  veronesi  [edite  da  G.  Cipolla 
nei  Monumenti  storici  pubbl.  dalla  r.  Deputazione  veneta 
di  storia  patria.  Serie  Terza,  voi.  II].  Tomo  I.  Venezia, 
tip.  Visentini,  1890;  4^  pp.  LXIII-568. 

Contiene  una  ero nac betta  in  volgare  (pp.  479-81  )  ricavata 
dal  cod.  Marciano  Zanetti  401,  dove  é  scritta  a  due  riprese,  da  una 
mano  della  seconda  metà  del  sec.  XIV.  Ck)mincia  :  t  Mcclviiij  mori  miser 
Yzirìno  da  Roman,  e  fo  fato  capitanio  miser  Mastim  de  la  Scala  in  Ve- 
rona, che  fo  Golo  del  conte  lacomin  delitaficani  ».  Finisce:  e  1354  miser 
Fregnan,  fradelo  del  dito  miser  Gan,  bastardo,  cum  conseyo  de  miser 
Àzo  da  Gorezo  tolse  Verona,  seando  miser  Can  in  Alemagna,  di  17  de 
febraro  del  1354,  corno  delo  é  de  sora  ». 

56.  Epistolario  di  Cola  di  Rienzo,  a  cura  di  Ajnni- 
BALE  Gabrielli.  Roma,  Forzani,  1890;  8^  pp.  XXVII-271. 
{Fonti  per  la  storia  d' Italia  pubblicate  dall'  Istituto  sto- 
rico italiano.  Epistolari:  secolo  XIV). 


362  supPLEMCi<rro  allo  z^mbrini  per  it  1890 

Ài  num.  LI,  LII  e  LIV,  il  testo  volgare  delle  due  lettere  di  Cola 
a  Giannino  di  Guccio  in  data  18  settembre  e  7  ottobre  1354,  e 
della  conferma  dei  diritti  di  Giannino  (cf.  1888,  n.  53);  in  appendice,  al 
n. I,  il  testo  volgare  della  lettera  del  24  maggio  1347  al  Co- 
mune di  Viterbo  (€  Per  factura  del  misericordiosissimo  nostro  à- 
pore  lesu  Gbristo  noi  Nicbolaio  giusto  e  misericordievoie  tribuno  ddla 
libertà  »)  secondo  i  codd.  laurenz.  XLH.  38,  XL  49,  e  Parigino  557. 
Notiamo  ancora  i  versi  22-30  del  canto  I  del  Paradiso^  riportati  nella 
nota  delle  corone  ricevute  da  Gola:  €  Quarta  corona  fuit  de  lauro;  on- 
de Dantes  in  princìpio  secunde  partis  sue  Comedie:  0  divina  virtù  y^  eoe. 
—  Ree.  Riv,  star.  it„  VI,  750. 

57.  C.  Paou,  Di  una  carta  latina-volgare  delFanno 
1193.  [NeirircA.  stor.  it.,  Serie  5.%  voi.  V,  1890,  pp. 
275-78]. 

Ripubblica  la  carta  picena,  edita  già  da  G.  Levi  nel  Giom,  di  lUol. 
romanza^  I,  234,  e  riprodotta  da  Emesto  Monaci  nei  Facsimili  per  le 
scuole  e  nella  Crestomazia  italiana  (1887  n.  88,  e  1889,  n.  47),  di- 
mostrando che  la  parte  in  volgare  che  vi  si  legge  non  é  già,  come  cre- 
dette il  primo  editore,  effetto  dell'  ignoranza  del  notaio,  ma  una  scrìtta  o 
cedola  privata  intrusa  nell'atto  notarile. 

58.  L  antico  manoscritto  delle  spese  fatte  dai  Goti 
per  F  edificazione  della  chiesa  di  S.  Giovanni  Evange- 
Usta  in  Firenze,  negli  anni  1349-50-51  [pubbl.  da  A. 

Angelelli  per  le  Nozze  Gori-Moro].  Firenze,  Salani,  1890: 
16^  pp.  15.  —  Ed.  n.  V. 

Pubblica  alcune  brevi  partile  del  ms.  sopradetto  secondo  gli  estrani 
che  ne  fecero  il  Richa  nelle  Notizie  storiche  delle  ehiese  fiorentine,  il 
Baldinucci  nella  Vita  di  B.  Ammannati,  e  Leopoldo  Del  Migliore  e  Co- 
simo Della  Rena  nei  loro  zibaldoni  (magi.  XXV.  412  e  XXVI.  2:20).  Ma 
avrebbe  potuto  giovarsi  a  dirittura  all'originale  del  libro,  che  non  è  smar- 
rito, come  egli  crede,  anzi  si  conserva  nel  cod.  C.  1 30'  della  Marucelliana. 

59.  Serrungarina  nel  secolo  XIV:  curiosità  storiche 
[pubbl.  da  Ruggero  Mariotti  per  le  Nozze  Serafini- 
Lucchetti].  Fano,  tip.  Sonciniana,  1890;  16^  pp.  46.  — 
Ed.  n.  V. 

Neir  articoletto  su  La  fortezza  di  Serrunganaa  nel  secolo  XIV 
(1344-72)  sono   riportate  (pp.  37-39)  dal   voi.   IV   della   Depositeria 


DOCUMENTI  363 

nell'archivio  di  Fano,  alcune  brevi  partite  in  volgare,  relative  a  spese 
fatte  nel  1348  per  la  costruzione  di  due  cisterne. 

60.  S.  BoNGi,  Ingiurie,  improperi,  contumelie:  saggio 
di  lingua  parlata  del  trecento,  cavato  dai  libri  crimi- 
nali di  Lucca  (Estr.  dal  Propugnatore,  N.  S.,  voi.  Ili, 
p.  i).  Bologna,  tip.  Fava  e  Garagnani,  1890;  S"*,  pp.  62. 

Raccolta  di  frasi  e  brevi  discorsi  che  si  trovano  riferiti  testuahnente 
in  processi  lucchesi  degli  anni  1330-84;  assai  curiosa  per  la  lingua  e 
per  la  storia  del  costume.  Di  tali  estratti  da  libri  criminali  fiorentini 
recò  qualche  esempio  anche  I.  Del  Lungo  nei  suo  discorso  sopra  //  volgar 
fiorentino  nel  Poema  di  Dante  (negli  Atti  della  R.  Accademia  della 
Crusca,  1889);  più  altri  ravvicinamenti  tra  le  frasi  dantesche  e  queste 
della  viva  parlata  lucchese  furono  proposti  da  A.  Zenatti  nella  Riv,  Crit,, 
VI,  120. 

61.  Studi  pisani  di  Luigi  Simoneschi.  I:  //  giuoco 
in  Pisa  e  nel  contado  nei  secoli  XIII  e  XIV.  Pisa,  tip. 
Mariotti,  1890;  16^  pp.  XLVIlI-38. 

Fra  i  documenti  é  (XVII)  una  breve  lettera  volgare  scrìtta  il  18 
aprile  1362  dagli  Anziani  di  Pisa  al  castellano  della  rocca  di  Marti: 
e  Sentiamo  che  del  continuo  tu  giuochi  a  zara  colli  tuoi  sergenti....  ». 
Fu  tratta  dal  Registro  3  delle  Lettere  degli  Anziani  nelFArchivio  di  Stato 
in  Pisa.  —  Ree.  Arch.  star,  it.,  S.  5*,  voi.  V,  454;  iV.  AntoL,  CXI,  178. 

62.  La  prostituzione  in  Perugia  nei  secoli  XIV,  XV 
e  XVI:  documenti  editi  da  Ariodante  Fabretti.  Torino, 
coi  tipi  privati  dell'  editore,  1890;  8**,  pp.  99.  —  Ed.  n.  v. 

Seconda  edizione:  cf.  1885,  n.  60. 

63.  Antichi  testamenti  tratti  dagli  archivi  della  Con-- 
gregazione  di  carità  di  Venezia.  Per  la  dispensa  dalle 
visite  1891.  Serie  nona.  Venezia,  tip.  di  M.  S.  fra  Com- 
positori-Impressori, 1890;  8*",  pp.  45. 

Cf.  1887,  n.  63,  e  1888,  n.  72,  avvertendo  che  nella  Serie  ottava 
(1889)  non  si  contengono  testi  volgari.  In  questa  IX  notiamo  il  testa- 
mento II,  che  dentro  alla  solita  formula  notarile  ha  la  cedola  autografa 
in  volgare  veneziano:  t  Mccclxviiìj,  a  di  xv  de  mazo.  Io,  dona  Betha 
Sanudo,  fia  che  fo  de  Misser  Nicolò  Sanudo  de  la  contrà  de 


364  SUPPLEMENTO  ALLO  ZàMBRlNl   PER  IL   1890 

San  Genrasio  si  ordeno  el  mio  testamento  >,  ecc.  Questa  utile 
cazione  viene  curata  dall'  ab.  Jacopo  Bernardi. 

64.  L  arte  degli  orefici  in  Verona:  memoria  di 
GrosEPPE  BuDEGO  (Estr.  dal  voi.  LXVI,  Serie  III,  del- 
r Accademia  d^ Agricoltura,  Arti  e  Commercio  di  Verona), 
Verona,  tip.  Franchini,  1890;  8^  pp.  55. 

Dei  documenti  che  corredano  questa  memoria  il  secondo  è  un  inven- 
tario di  beni  mobili  appartenenti  all'ospedale  di  Santa 
Maria  della  Misericordia,  compilato  nel  1396-97.  Comin- 
cia :  e  L' enfrascrìte  consse  à  dà  ser  Bartholomeo  prìoro  de  lo  spealo. 
Primo:  iij  para  de  lin^li  frué,  de  pigolo  valoro,  de  quigi  da  i  leti  de  lo 
spealo,  i  quali  auo  maistro  Lazarìn  oreuexo  gastaldo  de  1396,  i  quali  eb 
de  per  l'amor  de  Deo  >.  L'originale  si  conserva  negli  antichi  archìvi  an- 
nessi alla  Biblioteca  Comunale  di  Verona  :  Arte  degli  orefici  :  registro  di 
stromenti  segnato  B,  Anche  i  documenti  successivi  sono  in  volgare ,  ma 
spettano  a  tempi  assai  più  moderni. 

65.  L.  T.  Belgrano,  Tumulti  in  Genova  nel  1392. 
[Nel  Giom.  Ligustico,  a.  XVII,  1890,  pp.  142-45]. 

Da  una  copia  sincrona  del  R.  Archivio  di  stato  in  Modena  pubblica 
una  lettera  anonima  in  volgare,  che  ragguaglia  minutamente  dei  tumulti 
accaduti  in  Genova  fra  il  19  e  il  21  aprile  1392. 

66.  Lettere  inedite  di  Celso  Cittadini  senese:  1598- 
1625  [pubbl.  da  Gaetano  Milanesi  per  le  Nozze  Strom- 
boli'Rohr],  Firenze,  tip.  S.  Landi,  1890;  ì^,  pp.  31.  — 
Ed.  n.  V. 

Nella  leltera  IX,  indirizzata  a  Carlo  Strozzi,  il  Cittadini  riporta  te- 
stualmente alcuni  brani  della  Storia  di  Giovanni  di  Bindino  da 
Travale.  «  Di  lui  (avverte  il  Milanesi)  si  conosce  una  curiosa 
cronaca ,  tuttavia  a  penna,  scritta  parte  in  prosa  e  parte  in  bruiti 
versi,  che  va  dal  1310  al  1384;  il  cui  originale  cartaceo,  consenato  un 
tempo  presso  i  conti  D' Elei  ài  Siena ,  passò  poi  per  eredità  nei  nobili 
signori  Finetli,  ed  oggi  appartiene  ai  conti  Piccoloinini-Clementinit.  Dai 
passi  riferiti  in  questa  lettera  del  Cittadini  sembra  però  che  la  cronica 
si  continuasse  fino  ai  primi  anni  del  liOO:  ma  pare  che  questa  seconda 
parte  sia  ora  perduta.    —  Ree:  Riv.  Crit.  VI,  91. 


INDICE 


del  Volume  IVA  Parte   11/ 


L.  A.  Bresciani:  Intorno  a  una  canzone  dì  Fra  Guiltonc 

d'Arezzo Pag.  5 

G.  Vanzolini:  La  Draga  de  Orlando  di  Francesco  Tronnba    »  65 

A.  Belloni:  Di  una  poesia  anonima  del  sec.  XVII.    .    .    »  103 

A.  GiovaneLli:  Sul  disdegno  di  Guido  Cavalcanti  ...»  134 

A.  Tambellini:  Il  Codice  Dantesco  Gradenighiano .    .    .    »  159 

C.  Zacchetti:  L'imitazione  classica  neir Orlando  Furioso    »  221 

Misoellaii0a. 

A.  Solerti:  La  Galatei  di  Alberto  Lollio Pag.  199 

A.  Mbdin:  I  distici  sulla  natura  delle  frutta »  213 

Bibliografia. 

C.  e  L.  Frati:  Indice  delle  carte  di  Pietro  Bilancioni. 
Contributo  alla  bibliografia  delle  rime  volgari  dei 
primi  tre  secoli.  (Continua) Pag.  25 

A.  Miola:  Le  Scrìtture  in  volgare  dei  primi  tre  secoli 
della  lingua,  ricercate  nei  Godici  della  Biblioteca 
Nazionale  di  Napoli.  (Continua) »  277 

S.  MoRPURGO:  Supplemento  alle  Opere  volgari  a  stampa 
dei  sec.  XllI  e  XIV  indicate  e  descritte  da  Fran- 
cesco Zambrini »  307 


lunini 


\ 


(DeUa  Raccolta  toI.  XXIY)  Nnova  Serie,  voi.  lY,  fase.  19-20 


IL  PROPUGNATORE 


NUOVA  SERIE 


PERIODICO  BIMESTRALE 

DIRETTO 


DA 


GIOSUÈ  CARDUCCI 

COMPILATO 

DA 

A.  BACCHI  DEUA  LEGA,  T.  CASINI,  C.  niATI,  G.  MAZZONI, 
S.  NORPCRGO,  A.  ZEKATH,  0.  ZENATH 


Voi.  IV.  —  Fase.  19-80. 

GENNAIO  -  APRILE 


BOLOGNA 
PRESSO  ROMAGNOLI-DALL' ACQUA 

Libninditon  dtUa  K.  CoDniissitM  pe'  Tasti  di  Liigu 

1891 


I,  Bicnii  «Eiu  IBI,  t  asili,  e.  [Rin,  g.  luniii, 
s.  «omBt»,  1.  imn,  o.  itiiTn 


Tol,  IT.  -  Fase.  84 
NO  VEMDRE  -  niCEMBRE 


BOLOGNA 

PRESSO  ROMAGNOLI-DALL' ACQUA 

ljbraiu.cjjl<jrt  élla  R.  CjnmioH  pe'  Tuli  di  Lro^a 

18'JI