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Full text of "Il tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, nuovamento pubblicato secondo l'edizione del MDXXXIII. .."

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^From  the  Ewald  Fliigel  Library 

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BHUNETTO  LATIM 

VIIMIAIIImTU 

DI  »OSbG«MB0»X  ■W 


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BIBLIOTECA  CLASSICA 


ITALIANA 


DI  SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 


DISPOSTA  E  ILLUSTRATA 


DA  LUIGI  CAREER. 


Classe  U.  —  Vol.  I. 


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I. 

Baccolte  anteriori,  e  ragione  della  presente. 


L 


le  molte  raccolte  di  classiei  autori  fólte  a^  dì  no- 
stri, come  provano  Pamore  novellamente  germoglia- 
to DegP  Italiani  di  scrivere  correttamente  la  propria  linr 
gaa,  potrebbero  fai*  parere  inopportune  altre  consimili 
imprese.  Chi  voglia  per  altro  guardare  attentamente  in 
quelle  raccolte,  non  le  troverà  talmente  perfette  da  ri- 
spondere ad  ogni  qualsbia  desiderio,  e  non  saprà  quindi 
credere  male  impiegate  le  cure  di  novelli  compilatori. 
Alcune  in  fatti  non  si  propongono  un  fine  determina- 
to, e  quindi  procedendo  con  incertezza  ed  ineguaglian- 
za, sovrabbondano  in  alcune  parti,  mentre  in  alcune 
altre  riescono  oltremodo  mancanti.  Altre,  tulio  che  si 
proponessero  un  fine  determinato,  o  tale  non  se  lo 
proposero  quale  sarebbe  stato  conveniente,    o  quan- 


6 

d' anche  tale  se  lo  fossero  ijròposlo,  il  perdettero  di 
mira  a  mezza  via,  o  non  ^p{tero  giorarsi  de^  mezzi  pia 
proprii  per  consegfiirlo.Ove  rinsufficiente  dottrina,  OTe 
la  preoccupazione  ddir intelletto;  quando  una  in  som- 
ma, quando  altra  cagione,  che  il  noverarle  tutte  eia- 
scunpf «per .'ciascuna  tornerebbe  fòstidioso,  impedirono 
\2he  grtsgnessero  a  perfezione  quelle  ancora  che  meglio 
sembravano  incamminate.  La  raccolta  stessa  già  (atta 
dalla  Tipografia  dei  Classici  italiani  in  Milano,  e  quella, 
pur  milanese  e  più  recente,  del  Silvestri,  tutto  che  non 
manchino  di  molti  pregi  e  siano  belP  ornamento  a  qual- 
sivoglia biblioteca,  non  cessano  il  bbogno  di  questa 
nuova  che  da  me  si  propone.  Del  che,  spero,  non  po- 
trà rimanere  dubbio  alcuno,  esposto  che  io  m^abbia 
le  ragioni  che  mi  mossero  ad  idearla,  e  i  modi  onde 
penso  condurla. 


U. 


Accuse  <rinsufficieiixa  date  alla  lingua  italiana. 

Una  felsa  opinione  erasi,  già  tempo,  radicata  nel- 
le menti  degli  scrittori,  specialmente  di  materie  scienti- 
fiche, che,  dopo  aver  dato  ogni  più  attento  studio  alla 
giustezza  de^  ragionamenti,  poco  o  nulla  fosse  da  con- 
cederne alla  lingua,  come  a  cosa  di  poco  o  nessun  mo- 
mento. Poniamo,  dicevano  i  più  discreti,  poniamo  che 


la  parila  e  Teleganza  dello  scrÌTere  siano  pure  di  qual- 
die  giovamento  alla  maggiore  e  più  rapida  di£fusione 
delle  Tenta  da  noi  professate,  non  può  mai  questo  es- 
sere proporzionato  al  tempo  e  alla  fetica  neoessarii  per 
insignorirsi  di  tali  doti.  La  lingua  nostra,  continuavano 
fdlrì,  attesa  T  indole  de^  suoi  primi  scrittori,  quanto  co- 
piosa, e  quasi  soverchia,  6no  a  che  non  si  oltrepassino 
i  limiti  della  mera  letteratura,  si  h  difettiva  e  poco 
meo  che  meschina  ove  sventri  nel  regno  delle  scienze. 
£d  altri,  trasferendo  alP  essenza  d^essa  lingua  ciò  che 
i  primi  si  contentavano  di  credere  difetto  non  più  che 
accidentale,  soggiugnevano:  essere  la  lingua  italiana 
per  sua  natura  insofferente  delle  sottili  e  severe  dis- 
quisoioni  filoso6che;  pomposa,  sonante,  varia,  o  che 
altro  si  Toglia,  ma  non  suscettibile  di  quella  brevità, 
aggiustatezza  ed  evidenza,  che  tanto  conferiscono  al 
linguaggio  scientifico,  e  per  cui,  a  nominare  una  delle 
luoderne,  tanto  ammirabile  è  la  francese.  Quella  è  chia- 
rezza, forza  e  logico  ordinamento  di  discorso  !  A  noi  la 
sintassi  stravolge  P  ordine  naturale  delle  idee,  gli  usi 
vani  de'  verbi  cagionano  perplessità,  le  particelle  infi- 
nite, e  bisognose  di  perizia  indicibile  ad  essere  appro- 
priatamente allogate,  sono  dMrapaccìo^  senza  contare  le 
figure  grammaticali  presso  che  innumerabili,  le  non 
meno  iunumerabili  licenze,  i  modi  proverbiali  o  ab- 
breviativi, e  tutta  in  somma  quella  suppellettile  d'ele- 
ganze, che  a  comprenderla  intera  è  appena  bastante 


o 


una  lunga  vita.  A  sifKilte  accuse,  evidentekiiente  i 
sisteati,  e  multo  facili  ad  essere  rìbattule,  altri  ne  ag* 
giugnevano  allre  di  maggior  momento,  almeno  nelP ap- 
parenza. Che  è  cotesta  tirannia  de^ puristi?  Chi  ha  dato 
loro  autorità  di  morliQcare  una  lingua  tuttavia  in  fio<- 
ro?  A  nuove  idee  nuove  parole.  La  dottrina  dovrà  albk* 
re  al  dettato  delP  ignoranza?  Chi  ha  buone  gambe  per 
fare  da  sé  rapido  e  diritto  cammino,  dovrà  porsi  in  coU 
lo  al  rattratlo  per  andarne  non  più  che  di  passo  e  a 
sghimbescio?  La  lingua  delle  ciancie  non  risponde  al 
bisogno  de^  fatti.  Cadute  le  formule  aristoteliche  del 
ragionare,  è  bene  che  siano  tolte  del  pari  le  pastoie  «I 
linguaggio.  Non  so  se  tutte,  ma  erano  pur  qoeste  le 
principali  dicerie,  onde  uomini  per  altri  rispetti  com« 
mendevolìssimi  scusavano  la  loro  trascuranu  nelP 
posizione  de^  pi'oprii  concetti. 


UL 


Come  fosse  risposto  loro,  e  che  ne  seguisse. 

A  queste  censure  non  era  difficile  il  rispondere  con- 
venientemente, e  convenientemente  fu  da  più  d'o^ 
no  rbposto.  Il  nuovo  desiderio  entrato  anche  negli 
scienziati  di  scrivere  per  lo  meno  correttamente,  se  non 
finamente,  può  credersi  effetto  di  quelle  risposte.  Sti- 
merei nulladimeno  che  ciò  si  avesse  non  poco  ancora  a 


9 
ripetere  dalla  forza  innovatrice  del  tempo,  e  dalla  legge 

costante  e  generale  per  cui  le  opinioni^  gionte  che  sia- 
no ad  ua^  ultima  estremità,  è  necessario  che  si  ritrag- 
gano di  per  loro  verso  T estremità  opposta.  £  nel  vero 
tanta  era  Fambiguità,  la  stranezza,  T  arbitrio  nella  più 
parie  delle  scritture  mandate  fuori  sul  fine  del  secolo 
scorso,  che  per  poco  la  lingua  italiana  d^  allora  non 
poteva  credersi  tanto  dissomigliante  da  quello  ch'era 
stata  in  antico,  quanto  la  lingua  di  Omero  da  quella 
degli  Uroni  e  de'  Seminoli.  Ma ,  o  pel  frequente  de- 
stino delle  cose  umane  dì  non  torsi  a  un  eccesso  senza 
incorrere  nell'  eccesso  contrario,  o  perchè  la  mutazio- 
ne non  avesse  avuto  conveniente  fondamento  di  esami 
e  di  confronti^  quello  che  doveva  essere  un  gran^ 
avvkànamento  al  perfetto  rimase  poco  piò  che  sem- 
plice tentativo,  e  al  difetto  della  trascuranza  fu  sosti- 
tuito l'altro  dell' a£fettazione,  forse  non  meno  fune- 
sto. Quanto  a  me  non  dubito  punto  di  errare  nel  cre- 
derlo tale.  Fino  a  che  non  istudiavasì  dagli  scienziati 
la  lingua,  ma  scrivevasi  a  casaccio  e  come  gettava  la 
penna,  poteva  presumersi  che  il  ditetto  di  bontà  che 
in  questa  parte  vi  aveva  ne'  loro  scritti  fosse  colpa  di 
quel  nessuno  studio  e  di  quel  loro  dettare  come  vien 
viene^  ma  dacché  mostravano  di  aver  avuto  il  debito 
riguardo  alla  lingua,  cercando  di  conformarsi  il  più 
che  potevano  alle  sue  leggi,  facevasi  naturale  che  assai 
gente  accagionasse  del  disgusto  arrecato  dalle  affettale 


n 


r 

II 

tissima  smania,  specialmente  quando  prende  di  mira 
materie  che  raggaardano  il  gusto  !  In  felto^  perniziose 
por  sempre  le  contese,  se  ne  può  tuttavia  sperare  qual- 
che buon  frutto  quando  mirino  a  soggetti  che  hanno 
una  qualche  consistenza  loro  propria,  e  ne'  quali  la  di- 
mostrazione può  &rsi  in  guisa  talmente  sensibile^  ma 
trattandosi  di  ciò  eh' è  sommamente  sfuggevole,  versa- 
tile, impercettìbile,  non  altro  danno  che  lotta  di  ven- 
to ooa  vento,  lo  cui  mdto  è  il  fracasso,  e  solo  spera- 
bile eflfetto  lo  schiantamento  di  qualdie  util  germoglio. 
•Noo  voglio  condannare  con  questo  indistintamente  i 
bvorì,  che  nel  calore  delle  controversie  in  fetto  di  lin- 
gua veoDero  in  hice  a'  di  nostri;  non  sono  né  tanto 
leìocoo,  né  tanto  prosuntuoso:  vo'dire  che  tali  lavori, 
non  che  soli  bastare,  non  sono  nemmeno  i  più  efficaci 
al  fine  desiderato.  No  i  Muzii,  i  Ruscelli,  i  Gigli  e  sif- 
fiitti,  ma  gli  storici,  i  poeti,  gli  oratori,  i  filosoQ  costi- 
tuirono le  più  solide  basi  e  i  più  propri!  suoi  lioeamenti 
alla  lingua;  e  similmente  a  difenderla  dalla  corruzio- 
ne e  ridurla  alla  sua  nobiltà  primitiva,  meglio  che  friz- 
zi, e  contumelie,  e  sottigliezze  da  causìdici,  ci  vo- 
gliono piene,  efficaci,  animate  sciitlure  d'oratori,  di 
storici,  di  filosofi,  di  poeti.  Le  opinioni  d'un  solo,  espo- 
ste con  quanto  ingegno  e  quanta  grazia  si  voglia,  irri- 
tano ad  impugnarle;  l'esempio  tranquillo  e  diuturno 
dell'universale  mette  rispetto,  e,  senza  farne  le  viste, 
irresistibilmente  trascina. 


12 


Veglio  d*ogiii  teorica  e  controTenia  gioTare  gli  esempi. 

Posto  che  sia  l'esempio  d'eccellenti  scrittori  il  mes- 
so più  atto  a  promuovere  il  miglioramento  della  lia«> 
gua,  ne  segue  l'importanza  d'una  raccolta  di  chiari 
modelli  fecile  ad  essere  dilTusa  per  l'intera  nazione, 
11  dissi  a  principio,  molti  a  ciò  mirarono  prima  di  noi, 
ma  non  con  bastante  ampiezza  di  vedute  e  perseve^ 
ranza  di  volontà.  Noi  ci  accingiamo  a  questa  impresa 
con  fisrmo  proponimento  che  Tltalia  debba  avere  nel* 
la  nostra  B3)lioteca  una  bella  messe  d'  esempi  a  cui 
possano  ricorrere  gli  studiosi,  qualunque  sia  il  ramo 
dello  scibile  cui  intendono  di  consacrarsi.  À  bastanza 
w  è  finora  conteso  intorno  le  recondite  origini  della 
lingua,  e  quantunque  la  quistione  non  sia  per  anco  de<- 
fiaita,  non  è  a  desiderare  che  continui  più  oltre.  Pro* 
babilmente,  meglio  che  all'imperizia  o  alle  passioni  de' 
contendenti,  alla  natura  medesima  della  cosa  vuoisi  at« 
Iribuire  il  non  essere  venuti  a  capo  di  una  netta  dimo^ 
strazione.  Dicasi  lo  stesso  dell'altre  quistioni  di  premia* 
nenza  fra  contrada  e  contrada  in  ciò  che  riguarda  l'au- 
torità, non  che  delle  più  misere  ancora  intorno  al  no* 
me.  E  ad  ogni  modo,  quanto  poteva  bastare  ai  prudenti 
s'è  già  posto  in  chiaro;  il  di  più  sarebbe  &tica  gettata^ 


IO 

e  da  spendersi  invece  utilmente  in  altri  soggetti.  Se 
qualche  ingegno  si  sente  peculiarmente  chiamato  a 
questi  aridi  studii^  o  Te  lo  induce  la  scoperta  di  nuovi 
e  veramente  importanti  documenti,  rientri  pure  Far- 
rìngo  già  da  tanti  percorso,  apporti  nuova  luce  in  si- 
mili controver^  e  se  fosse  possibile  le  definisca  per 
sempre,  non  chiameremo  per  questo  malamente  spe- 
si da  esso  il  tempo  e  T ingegno^  ma  T università  degii 
scrittori  attenda  alPintrìniseco  anziché  all'esteriore,  ^1- 
reffettivo  anziché  alle  speculazioni.  Il  secolo  d'oro  per 
una  lingua  non  è  ordinariamente  quello  della  filologia, 
e  in  cui  il  prìncipal  campo  delle  lettere  sia  occupato 
dalie  polemiche.  Giova  che  a  quando  a  quando  si  ri- 
corra agli  astratti  prìncipii  e  alle  origini  ^  ma  ciò  che  più 
ifluporta  è  la  pratica,  e  questa  vuol  essere  generale.  An- 
che nelle  lettere  avvezziamoci  a  &r  molto  capitale  de' 
hai.  La  venerazione  che  da  molti  Italiani  si  nutre  per 
la  propria  letteratura  è  fanatica^  fanatica  é  pure  la  com- 
passione onde  da  molti  altri  si  guarda  alla  sua  presunta 
gramezza.  Riduciamo  le  cose  entro  a'  giusti  confini. 
In  cambio  di  deplorare  enfaticamente  le  imperfezioni 
della  lingua,  operiamo  a  riempierne  i  vóti  e  ad  esten- 
derne i  limili  il  più  che  si  possa. 


l'i 

VI. 

Impotrtanxa  dello  studio  della  lingua;  lodi  della  lìngua  italiana. 

La  lingua  è  parte  iutegrante  della  letteratura.  £  ìne-^ 
«atta  la  similitudioe  onde  s'usa  comunemente,  cioè:  che 
la  lingua  sia  la  veste  de'  nostri  pensieri.  Fino  a  che  la 
similitudine  si  prende  così  alla  buona,  può  stare;  ma 
quando  si  volessero  trarne  conclusioni  e  precetti  biso- 
gna cercare  qualche  cosa  di  piò  intimo  e  congiunto  con 
la  natura  delPMomo,  che  non  è  la  veste.  Forse  parlereb- 
be più  esatto  chi  trovasse  una  rassomiglianza  nel  colore 
delle  carni^oode  viene  non  poco  indizio  del  suo  tempe- 
ramento e  della,  sua  vigoria;  ma  uè  anco  ciò  bastereb- 
be. Lasciando  stare  le  similitudini,  è  la  lingua  cosa  più 
essenziale. e  importante  che  taluno  non  crede.  Risoo- 
nano  in  essa  le  varie  afiezioni  di  un  popolo^  vi  si  di- 
pingono le  sue  consuetudini  più  inveterate;  lo  ve^ 
di  fremere  o  folleggiare  secondo  più  suole,  e  puoi  da 
questo  solo  dato,  il  più  delle  volte,  studiandovi  at^ 
tenlamente,  desumere  se  più  sia  fantastico  o  medila^ 
tivo,  se  più  impetuoso  o  capace  di  lente  deliberazioni, 
se  altro  in  somma  ovver  altro,  per  qualsivoglia  ri- 
spetto. Quindi,  come  ogni  letteratura  nel  genenile,  o- 
gni  lingua  in  particolare  ha  vizii  e  virtù  inseparabi- 
li dalla  sua  natura  e  dalle  circostanze  onde  fu  accom- 


10 
pigliato  il  suo  nascere  e  il  suo  maluinre.  CkKisideiìila 
a  questo  modo  la  cosa  nel  suo  maggior  pieno,  nulla 
abbiamo  che  invidiare  noi  Italiani  alle  lingue  straniere, 
messe  pure  in  conto  le  antiche.  Quanto  hanno  di  lim- 
pido il  nostro  cielo,  di  soave  il  nostro  aere,  di  ridente 
il  nostro  suolo^  di  ammirabile  le  nostre  arti,  di  reve- 
rendo le  nostre  memorie,  tutto  troviamo  fedelmente 
ràratlo  nel  vario,  abbondante,  efiicace,  dolcissimo  idio- 
ma nostro.  È  musica  molle  e  malinconiosa,  ma  pur  an- 
co elevata  e  gagliarda.  L'altezza  de'  pensamenti  acqui* 
sia  da  essa  nobiltà  a  £irsi  rispettabile,  evidenza  a  fiirsi 
credula^  V  imiiiaginazione  trova  di  che  abbellire  e  ia- 
fiirmare  sifibUamente  i  suoi  parti,  fhe  l'impressione  da 
essi  cagionata,  se  non  avanza,  per  poco  non  uguaglia 
quella  del  Tero.  Decoro,  vaghezza,  armonia  sono  ad 
essa  costanti,  o  gema,  o  scherzi,  o  ammaestri,  o  mi- 
nacci: più  o  meno  apparenti,  sono  inseparabili  tali  do- 
li da  ogni  qualsivoglia  piega  che  i  tempi  diversi  o  la 
diversità  degl'ingegni  le  faccia  prendere.  In  un  di- 
scorso che  deve  precedere  molli  e  molli  volumi  d' e- 
sempi  sarebbe  inutile  il  produrne  taluno.  Ma  non  inu- 
tile sarà  forse  una  riflessione.  Come  si  tiene  per  ada- 
gio inibii  ibile,  che  non  v'  abbia  corruzione  peggiore  di 
quella  che  accade  nell'ottimo,  un  nuovo  e  molto  con- 
cludente argomento  della  bontà  della  nostra  lingua  può 
trarsi  da  ciò,  che  all'estremo  della  confusione,  dell'o- 
sTurità^  della  gofieria  si  conduce  essa  dagli  scrittori  che 


i 


i6 

o  sono  digiuni  delle  sue  virtù,  o  si  recano  a  vanto  il 
disprezzarla,  o  per  ultimo,  volendo  senza  ingegno  oè 
studio  autorevolmente  maneggiarla,  sconciamente  la 
travisano.  E  che  il  ragionato  fin  qui  non  siano  fi^egi 
retorici  e  millanterìe  il  proveranno  cento  volumL    * 


VII. 


-    CoDtinuasioiie  di  eccellenti  scritture  italiane  in  ogni  secolo. 

>  Ne^  quali  non  potrà  non  apparire  manifestissitiia* 
mente  avere  in  ogni  tempo,  e  per  ogni  ramo  deH^ li- 
mano sapere  esercitato  la  nostra  lingua  una  benefica 
influenza.  Quanto  ai  tempi,  cominciò  essa  a  mostrarsi 
bamlnna,  e  quasi  dissi  a  vagire,  nelle  cronache  e  ne^pie- 
cioli  trattatelli,  o  in  versi  o  in  prosa  che  fossero,  come 
a  principio,  abbisognando  alle  rozze  menti  più  sensibile 
ed  effettivo  discorso,  presso  ogni  nazione  si  vede  ave- 
re la  poesia  preoccupate  le  parti  che  furono  poi  della 
prosa.  £  V  eleganza  di  que^  primi  scrittori,  che  malff- 
mente  vorrebbe  confondersi  colla  saivatichezza^  moke 
ritrae  delP  ingenuo  discoi*so  de'&nciuUi,  dal  quale,  chi 
volesse  sottilmente  studiarvi,  potrebbero  farsi  aperte 
molte  verità,  che  la  successiva  sapienza,  meglio  che 
dichiarare,  intorbida  ed  avviluppa.  Distendendosi  a 
più  larghi  confini  le  osservazioni,  e  V  arte  del  ragio- 
nare essendosi  più  sempre  acuita,  ne  venoeit)  storici, 


»7 
<Mratori  e  filosofi  di  maggior  polso;  e  se  mioore  si  fece 

riogeooità,  e,  didaiiioto  pure^  quella  schietta  elegaoza, 
die,  cooie  inaTTertitamente  ha  da  produrre  il  suo  el^ 
fetto  ueMeggitori,  ywA  essere  felice  rìsaltameDto  spoo- 
taoeo  di  benigoa  natura  e  di  acconcie  abitudini,  mag- 
giore a  dismisura  si  fece  Findustria,  e  dai,  quasi  dissi, 
indoTinamenti  del  primo  tempo  si  Tenne  alle  sapienti 
avvertenze.  Con  che  ognun  vede  riferirsi  il  mio  discor^ 
so  alla  stagione  che  dai  semplici  accozzamenti  delPuso 
furono  le  costruzioni  ridotte  a  certezza  di  regole,  per 
quanto  può  avervi  di  certo  in  siffiitte  cose.  Ne  mancò 
di  fersi  palese  la  bontà  dell'  ingegno  e  dei  linguaggio 
italiano  anche  quando  dechinarono  le  nostre  lettere, 
e  gU  empiti  della  fentasia  sregolala  entrarono  invece 
del  vero  calore  e  della  sublimità  vera.  Tristo  fetto, 
onde  potè  sembrare  più  misera  la  condizione  della 
nostra  Italia,  che  stata  non  fosse  in  antico  quella  della 
Grecia.  Che  laddove  ai  Greci  il  Romano^  imponendo 
catene,  concedeva  il  diritto  di  farla  da  maestri  quanto 
al  sapere;  era  a  noi  tolto,  in  quel  mentre  che  Turru* 
ganza  spagnuola  ci  ventava  in  &ccia  i  suoi  amari  dileg- 
gi, di  conservare  intatta  P  espressione  de^ nostri  pen- 
sieri; queli'e^ressione  che,  come  prodotto  naturale, 
tanto  era  mostruoso  T  imbastardire,  quanto  lo  sterpare 
i  fiorì  da^  nostri  giardini,  e  volerli  fecondi  di  quanto 
hanno  di  più  insolito  i  climi  abbruciati,  non  sorrisi, 
dal  sole.  Non  mancò,  ripeto,  allora  puie  chi  si  mostras- 


i8 

se  inen  lordo  della  maledetta  pece,  o  ben  anco  del  (uKo 
illeso.  Ne  andò  guarì  che,  rìcomposte  le  menti,  torna- 
rono neir  antico  cullo  i  buoni  modelli,  e  a  quella  oscu- 
rità temporalesca  successe  la  serenità  consueta,  con  ra- 
gionevole indizio  che  quante  volte  rivenissero  quelle 
misere  condizioni  del  nostro  cielo,  e  tante  riprendereb- 
fae  tosto  o  tardi  vigore  il  buon  germe  infuso  in  noi  da 
natura  e  da  essa  continuamente  aiutato. 

Vili. 

Eccellenti  scrittori  italiani  d^ogni  materia. 

Mirabile  e  consolante  catena  di  storici  efiètti,  che 
non  sf  vorrà  da  chicchessia,  se  non  forse  da^  pazzi,  con- 
traddire! Ma  da  chi  pur  non  è  pazzo,  e  forse  anzi  ne 
va  a  ribocco  di  scienza,  mi  verrà  per  avventura  ne- 
gato che  la  lingua  italiana,  come  vegeta  e  bella  man- 
teunesì,  almeno  in  parte,  ad  ogni  stagione,  secondasse 
ogni  guisa  di  umana  sapienza.  E  sì  ch^egli  è  questo  un 
vero  incontrastabile  non  meno  delP altro.  I  nostri  vo- 
lumi, mentre  mostreranno  non  interrotta  la  successione 
de^  buoni  scrittori,  mostreranno  del  pari  V  estensione 
loro  a  quanti  erano  i  bisogni  bielle  scienze  e  delle  arti, 
non  pure  incinti,  ma  cresciute  a  floridezza  ed  impor- 
tanza. E  come  altro  fu  lo  stile  della  cronicheltada  quel- 
lo della  grave  storia,  diverso  esser  quello  onde  furono 


'9 
Tcslile  le  piacevolezze  deiriogegDo  e  le  semplici  esposi- 

zioaì  deirafiètto^  da  quello  adoperalo  nelle  sottili  indagini 
del  laziocinio  e  ne^  trattati  profondi.  Non  s'knpaorìsoe 
no  la  lingua  nostra  delle  aridità^  né  (ra  le  astrazioni  sì  fii 
difettiva  ;  infiora  bensì,  quanto  conviene  a  non  adulte- 
rarle, le  prime,  e  dà  alle  seconde  quel  tanto  di  consi''- 
stenza  e  non  piò,  che,  senza  renderle  materiali,  le  fii 
meglio  appressabili.  Lasciando  il  fingere  e  il  dilettare^ 
narra  e  ammaestra,  ma  riniane  pur  sempre  la  medesi- 
ma, come,  siami  permessa  la  similitudine,  dalla  prima 
fuggevole  avvenenza  della  gioventù  passando  le  uma- 
ne sembianze  a  virilità,  non  alterano  in  tal  modo  i  li- 
neamenti essenziali,  che  non  sia  dato  discernere  nel- 
V  uomo  feito  il  garzone.  Di  che  e  a'  letterati  torna 
giovevole  lo  studio  de^  libri  scientifici,  e  agli  scienziati 
quello  delle  amene  scritture;  i  primi  ad  invigorire  e 
come  a  dire  rimpolpare  la  Iqro  dizione,  i  secondi  a 
rammorbidire  e  colorare  la  propria. 

IX. 

Bfetodo  della  nostra  Biblioteca. 

In  tanta  vastità  di  disegno  era  indispensabile  Io  sce- 
gliere un  metodo  che  più  evidente  rendesse  la  ve- 
rità di  quanto  s' è  fino  a  qui  esposto.  E  volendo  che 
ciò  principalmente  apparisse  che  meno  era  fecile  ad  es- 


seme  accordato,  anziché  prendere  a  guida  le  varie  età 
della  lingua,  abbiamo  atteso  a  dar  nlievo  al  suo  vai'ìo 
attemperarsi  a  quante  sono  le  materie  in  cui  può  eser- 
citarsi rumano  intelletto.  La  divisione  fu  dunque  fatta 
per  classi,  comprendenti  ciascuna  quella  data  genera- 
zione di  studii  che  avevano  fra  loro  una  maggiore 
connessila.  Qualunque  per  poco  si  feccia  ad  esaminare 
r  università  del  sapere,  mentre  il  vede  scompartito  in 
moltiplici  rami,  deve  accorgersi  non  essere  punto  age- 
vole rassegnare  i  precisi  punti  delle  divergenze j  e 
quindi  sarà  ben  lungi  dal  pretendere  che  la  nostra  di- 
visione sia  condotta  a  quelP  ultima  aggiustatezza  che 
rimuove  ogni  controversia.  Non  presumiamo  già  noi  di 
costituire  un  snbero  genealogico  alle  scienze,  ma  bensì 
di  scompartirle  per  modo  che  sia  dato  a  ciascuna  d^esse 
di  fare  una  conveniente  comparsa,  ed  accertare  che 
nessuna,  anche  delle  meno  importanti,  fu  dinwnticata. 
Vuoisi  ancora  notare  che,  mentre  s^  è  detto  aver  tutte 
bisogno  di  esprimersi  con  precisione,  nettezza,  e  con 
certa  spezie  di  eleganza,  sarebbe  stoltezza  il  negare  che 
questo  bisogno  in  quale  non  sia  maggiore,  in  qual  meno. 
Certo  minor  suppellettile  di  tal  (atta  domandasi  dalle 
pure  matematiche,  che  non  è  richiesto  dalla  morale,  e 
lo  splendore  a  cui  può  aggiugnere  il  naturalista  nella 
descrizione  de^  prodotti  mirabili  ond^è  disseminata  la 
feccia  del  mondo,  mal  si  cercherebbe  in  chi  tratta  del 
cambio  e  delle  severe  ragioni  de^  banchi.  Sooovi  per 


31 

ultimo' alcune  partÌGolarì  dottrìoe,  anzi  interi  corpi  di 
scienza,  che  per  la  natura  loro  non  potrdsbero  dare 
alle  Tod  e  alle  frasi  tutto  ad  esse  proprie  che  una  in- 
certa e  frigace  ammissione  nel  tesoro  della  lingua.  Vo- 
caboli oggi  sorti  e  possibili  ad  essere  domani  aflàtto 
dimenticati,  o  per  lo  meno  notabilmente  alterati  quan- 
to al  senso,  sono  a  mo'  d'esempio  i  più  della  chimica. 
Ond'  è  che  uno  de'  nostri  pia  riputati  filologi,  e  nel- 
r  accettare  Yod  noYelle,  quando  necessarie  o  m^lio 
dichiarative  dell'antiche,  non  punto  rìtix)so,  l'abate 
Colombo,  nel  suo  catalogo  di  alcune  opere  attinenti 
alle  scienze,  alle  arti  e  ad  altri  bisogni  dell'uomo,  le 
quali,  non  citate  nel  vocabolario  della  Crusca,  merita- 
no per  conto  della  lingua  qualche;  considerazione,  di 
nessun  trattato  o  scrittura  particolare  ragguardante  una 
tal  scienza  fe  cenno,  e  nell'assennato  discorso  pre- 
messo alPanzidelto  catalogo  ne  rende  molto  buona  ra- 
gione. Non  diremo  per  questo  che  la  nostra  raccolta 
abbia  ad  essere  di  sifEilti  modelli  del  tutto  mancante: 
abbbmo  ciò  voluto  accennare  soltanto  perchè,  dove  a 
taluno  sembrasse  in  questo  soverchia  la  nostra  parsi- 
monia, non  si  creda  in  noi  trascuratezza  ciò  che  venne 
da  consiglio,  e  dietro  così  autorevole  esempio. 


3U 


X.  ■ 

Sua  ìndole* 

Ciò  premesso,  potremo  francamente  promettere  che 
la  tini  venalità  del  sapere,  e  di  quanto  toma  prati- 
camente utile  alla  vita,  non  che  di  quanto  Tale  a  no- 
bilmente consolarla,  sarà  tutta  abl^cciata  dalla  nostra 
raccolta;  cominciando  cioè  da  quello  che  le  scienze 
hanno  di  più  dimostrato  fino  a  quelle  arti  Tane  e  spe« 
culazbni  che,  secondo  T  usalo  da  dotti  uomini,  chiame- 
remo col  vocabolo  complessivo  di  mateologia.  Anche 
la  storia  degli  errori  torna  utile,  chi  sappia  profittarne. 
Oltre  che  lo  stesso  linguaggio  che  altri  senza  pro'usaTa 
per  le  folli  ipolesi  e  per  P  errate  dottrine  può  adope- 
rarsi Tantaggiosamente  nella  ostensione  delle  realtà  e  a 
difesa  del  vero.  ÀI  qual  proposito  mi  giova  avvertire^ 
che  male  mostrerebbe  di  aver  penetrato  nelP  intenzio- 
ne della  presente  raccolta  chi  si  avvisasse  di  trovare 
in  essa  quanto  meglio  toma  necessario  a  sapere  sul 
conto  d'una  o  d'altra  scienza.  No,  non  è  questo  che 
da  noi  si  prometta.  Quanto  concerne  la  miglior  so-r 
stanza  e  l'ampiezza  delle  dottrine  s'impari  dagli  scien- 
ziati in  que'  libri  che  ne  sono  depositarìi,  qualunque 
sia  il  modo  e  il  linguaggio  in  essi  adoperato;  ma  fólto 
eletta  dei  principii  e  delle  relative  dimostrazioni,  trag- 


a5 
gasi  dalla  classica  Biblioteca  onde  pulire  il  discorso^  e 
dare  alle  idee  aoche  più  gravi  una  forma  che  le  ren<^ 
da  il  pia  the  si  può  appressabili  ed  allettanti.  Per  altra 
parte  non  voglia  credersi  che  sia  nostra  intenzione  di 
attenerci  alla  scrupolosa  strettezza  degli  Accademici, 
o  di  qde^  che  per  qualche  parola  o  frase  men  che  pu- 
rissima torcono  gli  occhi  da  tutto  un  libro  abbondante 
di  proficoo  sapere.  Senza  eccedere  nella  licenza,  ci  sta- 
dieremo  di  tenerci  lontani  da  siffatto  rigore;  non  da- 
remo mai  luogo  ndla  nostra  Biblioteca  a  scrittori  scor- 
retti nella  lingua,  tuttoché  slimabili  per  la  dottrina, 
ma  r  importanza  del  soggetto  ci  fera  talvolta  arren- 
devoli nella  scelta  con  opere  non  immuni  da  qualche 
negligenza. 


XI. 


In  quali  modi  sarà  scompartita. 

Parlando  poi  più  specificatamente  delle  divisioni  del- 
la Biblioteca,  appena  una  quinta  parte  d^essa  sarà  data 
sJla  poesia,  e  delle  quattro  restanti,  non  tutta,  un^  altra 
alle  lettere.  E  questa  sarà  fatta  importante,  oltreché 
dal  meglio  delle  grammatiche  e  delle  regole  spettanti  al 
magistero  della  lingua  date  fuori  in  vani  tempi,  da  un 
dizionario  assai  Éicile  a  maneggbre,  compilato  sui  già 
noti,  risecando  il  soperchio,  spezialmente  d^  esempi,  e 


^4 

aggiugnendo  quanto  da  varie  òpere,  e  da^  particolari 
miei  spogli  mi  verrà  alPuopo  somministrato.  Delle  al- 
tre parti  parlando,  ciascheduna  classe  di  dottrine  scien- 
ti6che  o  artistiche  avrà  il  suo  dovuto,  prima  in  uno  o 
piò  trattati  compiuti,  quindi  in  alcuni  discorsetti  o  trat- 
tateli! estratti  da  opere  non  opportune  per  la  troppa 
mole,  o  per  altre  ragioni,  air  intènto  nostro,  e  da  ulti- 
mo in  notizie  storiche,  elogii  e  biografie  di  quelle  date 
arti  o  scienze  e  degli  uomini  che  in  esse  si  resero  in- 
signi. Dal  che  si  vede  che  all'ordine  generale  regolatore 
della  Biblioteca  vuoisi  aggiugneme  un  altro  che  pre- 
siederà alle  singule  parti  dì  essa.  Per  esempio,  nella 
storia.  Dopo  aver  dato  una  o  due  storie  nella  loro  in- 
terezza, darò  una  storia  d' Italia  tratta  da  varii  autori, 
di  maniera  che,  senza  nulla  interporre  del  mio,  veg- 
gansi  i  Éàìiì  principali  a  necessarii  a  sapersi  della  ùostra 
bella  contrada  colPordine  stesso  onde  accaddero.  Il  che 
fera  un^  opera,  sé  mancante  da  un  lato  di  quel  colore 
d'unità  che  le  sarebbe  venuto  dalP uscire  da  sola  una 
penna,  notabile  dall'altro  per  efficace  varietà,  e  per 
quella  nuova  guisa  di  sempre  vivo  calore  che  non  al- 
tronde potrebbe  provenire,  salvo  da  una  moltitudine 
di  scrittori,  narranti  ciascuno  quel  &tto  onde  fii  più 
fortemente  commosso,  e  cui  nel  dipingere  riuscì  più 
eccellente.  Dicasi  il  somigliante  d'un  epistolario,  nel 
quale  si  avranno  per  brevi  cenni,  e  porti  sempre  dagli 
autóri  stessi,  le  vicende  più  notevoli  della  nostra  ielte- 


a5 
Falora  e  de*  suoi  coltorì  pia  celebi-atL  Nelle  materie 
fiiosoficfae  yecialmenle,  ma  e  talvolta  apcora  nelle  iet- 
lerarìe,  non  ini  fiurò  coscienza  di  usare  dì  £imigerate 
tradmiaDi,  senza  che  possa  essermene  dato  taccia  air 
cona,  stante  che  Peperà  che  propongo  non  tanto  vuole 
rappKseatare  Punico  sapere  italiano,  quanto  il  come 
ìtaliaQBinente  ogni  guisa  di  sapere  Cosse  esposta,  e  deb- 
ba esporsi  da  chi  non  barbaro,  ma  italiano  voglia  es- 
sere giustamente  chiamato. 

Coaclttsione. 

Confesso  tchietlamente che  a  questaimpresa  mi  por- 
ta la  speranza  di  un  utile  che  ne  può  ridondare  alPI- 
talia,  senza  che  io  creda  di  levarmi  perciò  a  grande 
altezza  di  merito,  se  non  forse  di  un  intenso  volere 
e  di  una  diligenza  aflfeltuosa.  Mi  piace  inoltre  pensare 
che  una  tale  impresa,  salvi  i  consigli  che  mi  saranno 
dalia  mano  a  mano,  e  de' quali  andrò  in  cerca  io  me- 
desimo, potrà  essere  condotta  da  me  tutta  quanta,  se- 
condo P  intendimento  finora  esposto,  e  adoprando  in 
essa  tutte  le  mie  forze  e  tutti  gli  studii  da  me  fatti 
fin  oggL  Girando  lo  sguardo  alle  letterature  straniere 
non  parmi  vedere  neppure  in  queste  una  collezione 
che  possa  dirsi  corrispondere  esattamente  alla  mia. 

b 


a6 

Tutte  queste  consideraziom  mi  danno  animò  a  non 
perdonare  a  fiiticé,  è  a  pormi  coraggioso  nelle  indagini 
che  saranno  continoamente  richieste  fino  al  termine 
deir  edizione.  Nulla  di  ciò  che  io  crederò  necessario  al 
buon  ordinamento  di  essa  sarà  da  me  lasciato  in  dis- 
parte. Oltre  alla  perseveranza  nel  consultare  tattf  qoe- 
~g1i  scrittori  che  possono  yenire  opportoni  al  mio  inten- 
to per  ater  ottenuto  il  suggello  delP  approvazione  dal 
prìucipal  tribunale  in  &tto  di  lingua,  o  per  essere  stati 
proclamati  degni  di  ottenerlo  dal  diuturno  consenso 
d'uomini  nella  lingua  eminentemente  versati;  e  oltre 
al  cefcare,  ove  la  messe  degli  esempi  raccolti  mi  suc- 
ceda abbondantes  di  aticoppiare  air  eccellenza  del  det^ 
tato  la  varietà,  ogni  possibile  cura  sarà  da  me  posta  nel- 
la scelfo  dèlie  più  riputate  edizioni,  affinchè  quanto  da 
me  venga  proposto  agli  studiosi  sia  propriamente  qua- 
le usci  della  penna  dello  scrittore,  non  quale  il  resero 
l'ignoranza  o  l'incuria  de'^ successivi  editori.  Dove 
trattisi  d'antichi,  e  in  proporzione  della  maggiore  vir- 
tà,  non  lascierò  di  cercare  tra  le  varie  lezioni  le  più 
ragionevoli  ed  accreditate.  Di  che>  come  pure  delle 
ìDOtizie  spettanti  all'indole  degli  autóri  é  dell' i^>er%  Uh- 
h>,  darò  contezza  in  apposite  pre&zionceile,  non  già 
per  magnificare  i  miei  lavori,  ma  per  dimostrazione 
che  il  carico  da  me  preso  il  portai  con  amore,  come 
soave  e  promettente  per  parte  de' miei  connaziona- 
li la  gratitùdine,  che  non  viene  da  nessun  gentile 


27 
gata  agii  otili  lateodimeDti.  Certo  egli  è  questo  uo  por- 
«  a  lungo  cammiao,  e  sparso  di  iioii  poche  malagevo- 
lezze^ certo  a  ciò  si  richiede  molta  alacrità  e  molta 
pauensa.  Ma,  e  non  sarà  qaesto  uq  aggirarmi  per 
quella  compagnia  di  amici  immancabili  tra  cui  ho  de- 
liberato di  vivere,  e  in  cui  trovo  le  mie  più  care  dol- 
cezze? Oltre  al  resto,  potrò  raccogliere  tra  via  sempre 
nuovi  documenti  a  quella  storia  della  letteratura  ita- 
liana di  cui  da  più  anni  ho  formato  il  disegno,  e  che, 
quasi  compimento  della  classica  Biblioteca,  mi  laro  ad 
ordinare  quando  questa  sia  terminata.  Che  se  verrò 
accorgendomi  che  questa  mia  prima  ^ica,  direi  quasi 
prq)aratorìa  deir altra,  trovi  &vorevole  il  giudizio  de^ 
buoni,  quanta  lena  non  mi  sarà  aggiunta  ad  intrapren- 
àere  la  seconda,  meno  laboriosa,  ma  incomparabil- 
mente più  arrìschievole!  Possa  io,  giunto  al  termine 
del  &ticoso,  e  pur  assai  lietamente  intrapreso  cammi- 
no, dire  a  me  stesso:  ho  dato  al P Italia  un^ opera  utile, 
ond'en^  mancante,  e  in  cui  con  orgoglio  riguardi  qua- 
lunque le  è  figlio,  e  con  invidia  qualunque  straniero  ; 
ho  agevolato  ajgl'Italiani  il  modo  di  esporre  con  nazio- 
nale colore  que'  sublimi  concepimenti  onde  furono, 
sono  e  saranno  in  ogni  tempo  capaci. 


PROSPETTO 


DBI.1.A 

BIBLIOTECA  CLASSICA  ITALIANA 

DI  9CIEH2B,  tXTTEBS  ED  AETL 


Class*  Phiha. 


I.*  Un  trattato  geimrale.' 

2.*  Trattatelli  Tarii. 

3.^  Esempi  di  yìviik  crìstiane  e  di  riti. 

4**'  Stona  ea:lesiastica. 

5.*^  Orazioni  sacre. 

6.**  Tratti  eloquenti  di  scrittori  ascetici,  e  affetti  di  voli. 

Classe  Seconda. 

Fik>so6a  speculativa  e  pratica. 

i.**  lotrodoziooe  alla  filosofia,  o  priocipii  generali  in- 
torno air  uomo  e  alle  cognizioni  umane. 
3.°  Trattatelli  morali  di  vario  genere. 


5o 

m 

3.^  £sempì  e  pararelli  tratti  da  Tarii  scrittori. 
4.^  Vite  ed  elogii  di  filosofi  antichi  e  moderni. 

Glasse  Tbbzà. 

Matematiche  pure  e  applicate. 

I.**  Assiomi  e  teoremi  generali. 
2.^  Meccanica. 
5.^  Idraulica. 
4«^  Astronomia. 
5.**  Arte  militare. 

6.'  Elogii  e  biografie  di  matematici  insigni,  e  lodi  delia 
scienza. 

Classe  Quarta. 
Tisica  e  sciense  naturali. 

i.^  Trattatelli  di  vario  argomento. 
2.^  Otlica  ed  acustica. 
3.^  Esperienze  naturali. 
4*^  Descrizioni  di  animali. 
5.**  Descrizioni  di  vegetabili  e  di  minerali. 
6.^  Lodi  della  iNrienza^  ed  elogii  di  fisici  e  naturalisti 
famoii». 


3i 


Quiiss  Quinta. 
Legislaxioiie,  politica  e  commercio. 

I.*  Trattatelli  generali  di  legislazioi;ie. 

x°  Discorsi  politici  di  vani  autori. 

3.*^  Storia  dei  commercio,  e  notizie  de^  cambi. 

4.^  Modelli  di  suppliche,  .testameoti,  arringhe  forensi, 

ed  altre  tali  scritture. 

5.^  Elogii  e  biografie  d^  insigni  politici  ed  economisti. 

j' 

Glasse  Sesta. 

Economia  domestica,  agrìcohuia  ed  arti  meccaniche. 

I  *  Discorsi  sopra  vani  soggetti  di  domestica  economia. 
1?  Trattati  vani  spettanti  alF agricoltura. 
3.**  Notizie  d' arti  meccaniche  antiche  e  moderne. 
4.**  Trattati  relativi  a  varie  arti  meccaniche. 
5.^  Lodi  deir  agricoltura,  ed  elogii  d^  uomini  insigni  in 
questa  e  nelle  arti  meccaniche. 

Classe  Settima. 

Medicina   e  chirurgia. 

i.^  Varie  desciizioni  anatomiche, ed  elogii  delia  scienza. 
a.°  Consulti  medici  di  varii  autori. 


5a 

5.°  Estratti  di  ricettarìi  antichi  e  moderni. 

4.°  Elogi!  e  biografìe  di  medici  e  chirurghi  famosi. 

Classe  Ottava. 
Storia,  geografia  e  viaggi. 

1.^  Esempli  varìi  tratti  da  vani  storici. 

3.*^  Storia  d^ Italia  composta  di  tratti  presi  da  varii 

scrittori,  ed  ordinati  cronologicamente. 
3.°  Brevi  storie. 
4**^  Gronichelte,  ed  esempi  tratti  da  cronache  più  e^ 

stese. 
5.*^  Tite  di  prìncipi  e  capitani  celebri. 
6.°  Descrizioni  geografiche. 
7.^  Relazioni  di  viaggi,  ed  ebgii  di  celebri  viaggiatori. 

Glasse  Nona. 

Letteratura. 

1.°  Dizionario  abbreviato  della  lingua  italiana. 

a.^  Grammatiche,  ed  altri  scritti  spettanti  alla  lingua. 

3.°  Orazioni  e  discorsi  varii. 

4.**  Novelle,  e  dialoghi. 

5.^  Scrìttici  polemica,  ed  altri  di  piacevole  argomento. 

6.*^  Epistolario  diviso  per  età. 

7.*^  Elogii,  vite  e  biografie  di  prosatori  e  poeti. 


t.°  I  quattro  principali  poeti. 

1.°  Teatro  fraglco. 

3.°  Tealro  comico. 

4.°  Teatro  melodra minatimi  sei 

5.°  Lirici  antichi. 

6.°  Lirici  moderni. 

7.°  Epici  e  romaniesrl 

S."  Didascalia,  beniies 

Classe  LJnde 


1 


I.*  Tiattatelli  e  dis^ertaeioni  di  archeologia. 
a.°  Storie  di  cos'.umi  antichi  e  di  avveaimentl  prodi- 
giosi. 
3."  Staeose  arcane,  dchimÌB,  a9tTol(%ÌB  e  simiU,  e  loro 

confulazionL 
^.'  Tite  ed  ek^ìi  d'arijteolc^  insigni. 
5.°  Vite  cT  uombi  singolari. 


34 

Classe  Duodecima. 

Arù  belle. 

i.*^  Trattateli!  estetici  generali. 

a.^  Discorsi  yarii  intorno  la  prospettiva,  il  colorito,  ed 

altro. 
3.^  Regole  di  pittura.  .^ 
4.**  Regole  di  architettura. 
5.°  Regole  di  scultura,  e  delP  arte  deir  intaglio. 
6.^  Discorsi  yarii  intorno  la  mùsica  e  il  baUo. 
7.**  Biografìe  ed  elogii  di  celebri  artisti 


t. 


# 


IL  TESORO 

D  I 

BRUNETTO   LATINI 

TOLCAMZZATO 

DA    BONO    GIAMBONI 

HUOYàllBKTIS  POBBLICATO 
8BGOKDO  l'sDIZIOHB  DBL  MDXXXIII. 


Volume  I. 


VENEZIA, 

CO^   TIPI   DBL   GONDOLIERE. 


Il  DCCC  XXXIX. 


.*:< 


AI     LETTORI 


LUIGI   CAREER. 


I. 


e, 


Ihi  conosca  T  mtendìmento,  da  me  dìdiiarato 
nd  discorso  proemiale,  che  mi  fa  guida  ad  knmag»- 
nare  e  disporre  la  presente  raccolta^  troverà  conYe- 
niente  il  dar  ad  essa  principio  con  quesi'  opera  del 
Latini  Parrebbe  quindi  inutile  eh'  io  di  ciò  parlassi  ^ 
ma  poiché  devo  pure  tenerne  discorso  co' miei  lettori, 
per  r  obbligo  assuntomi  di  premettere  all'opere  alcu- 
ne  succinte  notizie  decloro  autori,  e  le  avvertenze  da 
me  avute  nella  scelta  deirediziooi,  con  altro  ancora  ove 
il  richiedesse  il  bisogno,  spenderò  anche  sopra  di  ciò 
due  parole^  tanto  più  che  non  sempre  i  discorsi  proe- 
miali si  leggono,  e  tra  quelli  eziandio  che  gli  leggono 
non  pochi  sono  che  se  ne  dimenticano  quando  ven- 
gono a  dar  giudizio  degli  editori,  compilatori,  o  akri 


IV 

che  siano.  Se  ne  devono  forse  incolpare  le  bugie  e  le 
superfluità  onde  sono  per  lo  più  infarciti  simiglian- 
ti  discorsi?  Non  è  questo  il  punto  ch^  io  debba  trat- 
tare. 

Tolendo  offrire  alP  Italia  una  Biblioteca  classica,  da 
cui  fosse  rappresentata  la  non  interrotta  successione 
de^  buoni  scrittori,  dal  tempo  in  cui  la  lingua  volgare 
cominciò  ad  avere  lineamenti  proprii  fino  aMi  nostri, 
e  la  suscettibilità  di  essa  lingua  a  tutte  le  materie  su 
cui  può  aggirarsi  Fumano  ingegno,  nessuna  opera  ve- 
niva  più  opportuna  di  questa.  E  questa  di  fatti  lavoro 
del  maestro  delP  AUighierì,  ossia  di  quel  primo  e  so- 
vrano scrittore,  da  cui  ebbe  cominciamento  Pera  no^ 
stra  letteraria^  e  sta  in  essa  raccolto  quanto  a  quei 
tempi  antichi  era  noto,  cosi  nelle  umane  discipline, 
come  nelle  severe.  Potrebbe  opporre  taluno  che  la 
traduzione  non  è  forse  lavoro  di  tanta  antichità  quan- 
ta ne  vanta  r  originale,  e  che  quindi  la  ragione  cro- 
nologica della  nostra  scelta  è  violata^  ma  quantunque 
ciò  potesse  esser  vero,  la  distanza  delPetà  del  tra- 
duttore, che  non  fosse  il  Giamboni,  da  quella  del  La- 
tini non  è  tanta  da  &rne  caso,  non  trattandosi  qui  di 
assegnare  colla  cronologia  i  limiti  certi  ad  un  avveni-: 
mento,  o  di  comprovarne  la  realtà.  Da  nessuna  obbie-^* 
zione  può  essere  poi  combattuta  V  altra  parte  della 
proposizione  nostra.  Che  nessun' opera  in  vero  può 
rendere  più  vicina  immagine  delle  moderne  enciclo* 


pe^  oonàe  quésto  'Tesòro,  ideato  da  no  itaKabo  al 
prìiDo-diradàrn  della  barione  eangek. 

Al  qnal  prqpOBito  non  voglio  tacere^  die^  cotìnde-'f 
nudo  il  Tesoro  come  opera  iotermedia  fra  Paotic»  m 
il  moderilo  sapere,  aojoista  esso  agli  occhi  degP  iiitel4 
ligenti  un'  importanza  sonpre  maggiore.  E  che  tale  si 
possa,  anzi  debbesi  considerare^  è  manifesto  da  ciò,  dhe 
Éseotte' Tiene  dèAiarando  le  Tane  parti  ddla  dottrina 
eontemporanea  eoa  qne'  modi  eh'  erano  eonoedoti  al^ 
rin&nBB  ddla  crnltà  intellettuale^  seiin  in  s&  PinH 
BM^oe' dell' antiea  sapienxa.  La  quale,  attesi  gl'ima 
pedimìmti  che  «yerano  i  lumi  a  diffiNodersi  da  indi^ 
fìdoo  a  individuo,  non  che  da  nazione  a>  nazione,  e 
più  Ione  eerta  particolare  tendenza  delle  menti,  aiù^ 
tata  da  cagioni  che  non  è  qui  luogo  d' esporre,  non 
era  cosi  divisa,  anzi  sminuzzolata,  come  a'  di  nostri^ 
ma  procedeva  raccolta,  e  come  a  dire  complessa  in 
un  grande  corpo.  Pòco,  tolte  alcune  rare  eccezioni, 
possiamo  carpire  da'oostri  poeti  intorno  le  scienze,  la 
politica,  e  la  individuale  civiltà  del  tempo  e  della  con^ 
trada^  quanto  più  all'incontro  si  risale  verso  gli  anti- 
dii,  tanto  meno  si  fa  sentire  questo  difetto,  fino  a  che 
si  giogne  a'  primitivi,  i  fantastid  lavori  de'  quali  per 
poeo  non  possono  aversi  quasi  trattati  scientifici  es- 
posti per  mezzo  di  splendide  allegorìe.  E  tuttavia  la 
.semplicità  e  la  chiarezza  (  intendo  la  chiarezza  fi>nda- 
mentale  ed  intrinseca  de' concetti,  non  l' accidentale 


VI 

dell'espressione)  sodo  doti  invidiabili  negli  antichi,  e 
rarfimente  possedute  da^ moderni!  Qual  maraviglia? 
Fondamento  del  semplice  non  è  forse  il  reale  ?  Torno 
al  Tesoro, 


n. 


Comprende  adunque  il  Tesoro  quanto  ai  tempi 
deir  autore  era  soggetto  alle  meditazioni  de^savi.  £  se 
considerato  lo  avessero  soltanto  sotto  questo  rispet- 
to come  precursore  della  Dwvia  Commedia  il  Ti- 
rstboschi  e  quelli  che  lo  copiarono,  avrebbero  parlato 
con  più  verità,  che  non  fecero  accennando  al  Tesa^ 
rettOy  magra  frottola,  e  appena  degna,  se  pur  avesse 
riscontro  alcuno  colla  trina  cantica ,  di  credersene 
stucchevole  parodia.  Potè  benissimo  lo  scolaro  sug- 
here dalle  lezioni  del  Latini  V  amore  per  la.  scienza 
universale,  e  pel  volgere  gli  allettamenti  delle  lettere 
al  ministero  di  agevolare  la  diflusione  delle  utili  ve- 
rità. Se  non  che  non  è  da  prendere  questa  relazione 
tra  scolaro  e  maestro  come  s^  Usa  ordinariamente  al- 
Pétà  nostra.  Forse  ne^colloquii  familiari,  o  passeg- 
giando, potè  rAlligbierì  udire  le  lezioni  di  cui  pai'lia- 
mo  ^  e  forse  meglio  che  dalla  viva  voce  del  Latini  potè 
venirgli  il  vantaggio  da  noi  testé  ricordato  dalla  let- 
tura delle  sue  opere.  £  la  vita  politica  di  lui,  e  le  tra-* 
versie  onde  fu  accompagnata,  dovettero  stamparsi  nel- 


'deU?eBeBD|kìo  (era  3. Latini  il  prìnio  uomo  àe^sam 
9Miciii).potcei  é&ce.roffiì^tOy  vm  mi  oonteoterà  di  dise 
tdkrante,  deUe  sventure  cb'ipdi  fl  perooséera  IToa 
▼eniviano  da  uóa  stiessa  origine  i  mali  ?  non  erano 
d^uno  stesso  taglio  le  armi  adoperate  dagli  aTrersa- 
rìi?  E  il  Latini  stesso,  quasi  non  bastasse  la,  miseria 
ddP.esilio  alla  gioia  ^'suqì  nemici, fu  tacciato- di  bar 
valteria.  Accusa,  direbbe  taluno^  non  maravigliosain 
ima  repubblica  ch^  indi  Teone  ad  essere  maneggiata 
da  mercatanti^  ma  io^  «^endo  T ordinario  procedi*' 
meolo  ddle  comu  mi  maatàkoà}  d'ayrotire  che  i  de- 
lini  poHtiea  per  lo  pia  non  si  affibbiano  solL  L^ao* 
eiaa  di  fidsario  al  Latini  è  data  dal  Boocacdo^  e  dopo 
questo^ -da  Benvenuto  da  Imcia  e  dal  Landino^  sfb- 
bene^  stando  il  fatto  come  si  legge  nel  comeoto  del 
Certaldese  alla  Divina  Gnnmedia,  prevarrebbe  l'or- 
goglio alla  perfidia  nella  cagione  ond'  egli  fu  indotto 
air  esilio.  Ma  di  ciò  ancora  basti,  avendo  a  tutto  che 
si  può  accampare  in  danno  dell'esule  plausibilissi- 
mamente risposto  r abate  Zannoni  nella  sua  dotta- 
pre&zione  al  Tesoretto,  face,  su,  xiu.  Poche  parole 
dd  Malespini  danno  netta  la  cagione  del  bando,  che  fu 
la  rotta  di  monte  Aperti,  onde  i  Guelfi,  non  si  tenendo 
più  sicuri  dallo  sdegno  di  Manfredi  e  dei  loro  confra- 
telli, sempre  peggiori  dei  barbari  nelle  vendette,  cer- 
carono asilo  sotto  cielo  straniero,  fino  a  che  le  sorti 


mutale  della  patria  facessero  loro  possibile  il  riveder- 
la. J)ì  qui  viene  aperta  la  frase  di  Filippo  TillaDi,  che 
dice  di  lui  essere  quasi  per  volontaria  separazione 
andato  in  Francia  (i). 

E  in  Francia  compose  il  Tesoro.  Il  quale,  dettato 
in  lingua  straniera,  fu  cagione  per  questo  appunto  di 
censure  e  di  lodi,  secondo  volle  T  amore  o  l'  avver- 
sione degli  scrittori,  e  in  generale  la  passione  ond^  er- 
rano spirati.  £  chi  vuole  magnificare  i  meriti  del  La* 
tini,  tiene  dietro  al  Villani  sopra  citato,  che  fu  le  ma- 
raviglie come  il  Fiorentino,  così  attempato  ch^egli  era, 
si  rendesse  capace  a  maneggiare  la  lìngua  d^oltramonti, 
e  a  comporne  opera  di  tanta  vastità  ed  importanza.  Àt* 
tempato  qui  per  altro  s^  intenda  in  proporzione  air  ap- 
prendere lingua  forestiera,  e  impratichirsene  per. mo- 
do da  scrìvere  in  essa  lungo  libro  di  universale  dot- 
trina 5  che  non  si  traesse  per  avventura  da  ciò  cagione 
a  pensare  che  assai  vecchio  lasciasse  il  Latini  la  patria 
e  le  cose  dilette,  come  fecero  alcuni  biografi  poco  ac-, 
corti.  Ma  che  stupire  ?  S' altri  meno  accorti  il  voglio- 
no morto  nel  pieno,  o  nel  meglio  che  si  dica,  della 


(1)  Chi  più  ne  volesse,  Tegga  nel  Tesoro,  lib.  I,  cap.  XXXVII, 
sul  fine,  ore  dopo  aver  parlato  del  pianeta  Marte  e  delie  influenze 
guerriere  da  esso  condotte,  concbiude  pietosamente  :  E  di  ciò  sa  il 
maestro  Brunetto  veritade,  che  Ju  nato  di  quella  terra  (Firenze). 
E  allora  eh*  egli  compilò  questo  libro  sì  n*  era  egU  caccictio  di 
JUori  per  la  guerra  de*  Ftorentini.  E  nuovamente  io  àlcro  looga 


vita,  non  per  allro  che  per  le  parole  messegli  ia  boc- 
ca dal  cantore  dell'  Inferno:  fi.t"  io  non  fossi  si  per 
Icinpo  morto,  ec.  {Inf.,XT).  Le  quali  parole,  non  alla 
Illa  di  Brunetto,  nta  si  vo^ioasi  considerare  rispetto 
a  quella  di  Dante;  poteadu  io  dire  che  Malulasemine 
è  morto  assni  per  tempo  per  darmi  un  consiglio,  sen- 
ra  che  se  ne  debba  inferire  per  questo  scemala  d' un' 
ora  la  lunghissima  vita  talriarca.  Né  manco  avva-  ' 
lorano  l'opinione  del!  satura  morte  di  Brunetto 

quegli  altri  versi  del  (  stesso,  in  cui,  preodendo 

h  parola  egli,  l'AUigf  ,  protesta  affettuosamente, 
che ,  ove  fosse  stato  v  voie  il  suo  voto,  il  maestro 
;uo  non  sarebbe  ancora  Dell'  umana  natura  posto 
in  liando.  Che  s'io  vedessi  curvo  sotto  il  peso  di  mol- 
li secoli  un  capo  a  me  caro,  non  ne  ven'ebbe  eh'  io 
cessassi  dai  voti  per  la  continuazione  della  sua  vìLaj  e 
1*  ora  che  me  lo  togliesse  dagli  occhi  non  mi  sembre- 
rebbe maT  meno  intempestivR,  fosse  pure  protratta 
oltre  ogni  termine  naturale. 

A  viluperare  l'autore, che  scrivesse  il  trattato  suo 
principale  in  lingua  straniera,  furono  più  altri  mossi 
da  carità  di  patria.  E  quanto  maggiore  tcovarmo  l'im- 
portatua  del  libro,  e  più  furono  corrivi  nel  biasimo  ; 
tanto  pili  che  in  que'  tempi,  'essendo  ancora  pargoletta 
la  lii^ua  del  si,  maggiormente  bisognavate  il  socoh'so 
degli  scrittori  che  la  illustrassero  non  solo,  ma  l' ati- 
■Dcntassero  cogli  esetDpL  E  non  maacò  chi  a  questa 


X 

j*agione  atlribuisse  rinesoraHlità  usata  al  Latini  dal 
<liscepolo  suo,  che  nel  caccia  a  dolorare  tra  i  sodomi- 
ti, bollando  la  sua  memoria  d^  incancellabile  infamia. 
Se  non  che,  ancora  che  convinto  come  sono  e  deve 
essere  qualunque  abbia  letto  le  opere  delPAllighieri, 
che  assai  in  questo  potesse  V  amore  delV  idioma  ita- 
liano, non  so  persuadermi,  che  il  grande  poeta  air  offe- 
sa fatta  a  quell'idioma  volesse  si  duramente  immolata 
la  gratitudine  verso  il  maestro.  E  più  mi  avvalora  in 
questa  mia  incredulità  il  modo  nobile,  e  dirò  anzi  en- 
comiastico, onde  nella  cantica  immortale  si  fa  ricordo 
del  Tesoro,  Erano  altre  passioni  che  bolUvado  più 
ardenti  nelP  animo  iracondo  dell'  Allighieri;  é  quan«- 
do  il  si  voglia  pure  instigato  da  queste  ad  essere  in^ 
sorabìle  nelle  punizioni  infernali,  e  facile  a  'schiudere 
le  gioie  del  paradiso,  parmi  più  ragionevole  il  pensa- 
re che  al  Ghibellino  giovasse  deprìmere  K  memoria 
del  Guelfo,  mostrandone  imperdonabili  h  colpe.  Ma 
e  r  animo  generoso  di  Brunetto,  che  non  piegò  mai,  e 
il  non  aver  voluto  ritornare  in  patrìa  se  non  quando 
gliene  aperse  le  porte  V  abbassamento  de'  suoi  nemici, 
dovevano  parlare  con  qualche  efficacia,  per  conformi- 
tà d'indole,  nell'indomito  Ghibellino.  Che  che  ne  sia, 
questa  non  è  quistione  da  trattarsi  ricisamente^  e  gio- 
verebbe, anziché  arrestarsi  a  quest'  unico  fatto,  ba-* 
dare  come  adempisse  il  grande  poeta  le  parti  della  gia~ 
siizia  eoo  que' lutti  che  tennero  la  sua  setta^  o  sé  le 


'waaiAmooo  avvcr&L  ftuoctto  ioImlQ^  ^pnn  indafi- 
uMe  k  «ocoie  di»  da^oontem^oraMi  eda^poelmiiì 
«rabhem -fnioto  pd  800  dMtato»oQiiehi^^ 
-aào  del  Tesow  rendendo  due  ragioDi  per  coi  egli  e*- 
Mmfcf  éP  ItaUa  (èqui  flofiai  k  feue  d^JiaUo^  naa  di 
FMkeo di  Toteama)  msnwmte il  Ubro.  m  lingua 
i/kmthmk  WAtmaai  FjestertvgUinFrundaipm 
odlqDMi-tiB  tacito  riuy tivem  dk  prtria»  dbe  teii»- 
^m  dmoétgffOo  il  pnmsìpde  del*  eooi  eìUadiIli^)^  e 
^enten  Im  farìaturafinamcésca pia  dUettmfohe'pùt 
mmmtmmhw  ùtUi ^^imUri UnguiMggi,f9e  questa  prò»- 
Tiirnia  ddk  parìatmm'^fiwióesca  «wvfoeiì  al  teot> 
fc^  pa,.oh*  ta  1Wp«»  G»«p«*a,  a.  2fec«mm«e  e  M 
4iSiiH0fii0inB  per  Lmiraiioii  avevano  anoora  dato  dlV 
taHana  £1  vanto  della  più  nobik  e  soave  lingua  fra  k 
moderne.  Ed  ora  tuttavia,  trascorsi  che  sono  da  drea 
sd  secoli,  non  dovrebbe  fiirse  scrivere  francese  dù 
vdesse  ùink  intendere  più  diletlesfolmente  e  più  C(h 
nmnemente^  non  dirò  oltr^alpe,  ma  di  qua  pure?  Ma- 
teria piuttosto  da  gemerne,  che  da  allungarvisi  sopra 
discutendo! 


ni. 


Abbiamo  parlato  del  Tesoro  come  d^  opera  scrit* 
ta  originalmente  in  francese,  ma  non  si:cr8da  che  nott 
vi  fease  cootrovema  andwdi  dòfira  gli  eruditi.  A  non 


XII 

imbrogliarsi  oltre  il  dovere,  ricorrano  qóeMettorì  che 
fossero  vaghi  di  simili  dispute  alla  nota  qainta  che  il 
Mazzuchelli  sottopose  alla  vita  del  Villani  teste  rìcoT' 
data.  Noi  non  ne  diremo  altro,  e  perchè  alieni  da  sif- 
fette  contese,  e  perchè  il  nostro  intendimento  princi- 
pale è  rivolto  al  volgarizzamento  di  Bono  Giaild)oni. 
A  prederlo  lavoro  di*lui  concorrono  le  testimonianze  ; 
de^ biografi  e  bibliografi  più  accreditati^  per  modo  che 
stimerebbesi  con  ragione  superfluo  qualunque  discór- 
so nel  quale  ci  distendessimo  a  confutare  la  opinione 
^ntraria.  Toole  piuttosto  ogni  convenienza  cogli  ob- 
blighi da,  me  presi  col  pubblico  che  io  parli  delP  edi- 
zioni di  questo  volgarizzamento,  del  perchè  mi  attenni 
ad  una  anziché  ad  altra,  e  delle  cure  da  me  usate  af- 
finchè questa  moderna  ristampa,  non  potendo  tutte 
sanare  le  piaghe  àeWe  antiche,  a  qualcuna  ponesse  rime- 
dio, e  si  guardasse  dal  recarne  di  nuove.  La  prima  e- 
dizione  di  questo  volgarizzamento  che  m  ^sonosca  è  la 
trivigiana  in  foglio  del  Flandrìno  (i474)-  ^^  giova  il 
domandare  come  un  libro  di  tanta  utilità  non  solo,  ma 
ben  anco  oltremodo  comodo  e  piacevole,  non  foss^  al- 
tro per  la  varietà  delle  materie  e  pel  modo  sucdnto 
della  trattazione,  dovesse  aspettare  tant^anni  a  vedere 
la  luce.  Ogni  secolo  può  fornire  consimili  esempi;  e 
il  nostro  né  più  né  meno  degli  altri.  Ben  è  da  stupire 
piuttosto,  che  un  volgarizzamento  cui  il  Salviati,  quel 
Minosse  che  tutti  sanno  in  ùXio  di  lirtgua,  esalta  sr  cielo 


come  contenente  somma  Hcchezza  di  lai  genere  {^■iv~ 
ver/.,lib.n,C3p.  i^),  sia^i  lanciato  finora  andante  mac- 
chialo dì  tante  scorrezioni,  e  che  avendone  gli  Acca- 
'lemici  a  lare  quel  frequente  uso  cfae  può  vedersi  nel 
loro  Dizionario,  si  conteDlassero  di  un'ediiione  che  ti 
Minosse  poc'anzi  allegato  non  dubitò  di  ctuamare  am- 
modernala o  smoijjiicala  da  chi  che  sia  (ivi,  lib.  XI, 
cup.  1  a).  E  questa  1^  edizione  veneziana  procurala  da 
Mardiio  Sessa  nel  i  533,  e  sulla  quale,  per  rispetta 
non  foss' altro  airautorità  della  Crusca,  deve  cammi- 
nare fedele  la  nostra. 

Anteriore  a  questa  havreue  un'  altra  di  cui  ebbero 
il  merito,  quel  merito  che  si  ha  di  stampare  libri  scor- 
reltaniente,  i  Fratelli  da  Sabbio,  e  \ide  la  luce  pure 
in  Venezia,  nel  i5^S(i)  In  proposito  delle  quali  edi~ 
zioni,  vedi  confusione  nel  Mazzuchelli,  che  fa  latina 
la  trivigiana,  e  lascia  dubitare  che  fosse  pure  latina  la  _ 
veneziana  del  l  5u8  ;  iNitlo  in  eirure  pei  la  prima  dal 
HaìUaire,per  la  seconda  da  mons.  FontanÌDÌ.  Ma  chi 
Ci  le  maraviglie  di  qualche  bibliografica  inesattezza,  an- 
cbe  aà  piò  dotti  e  diligenti,  dica  pure  che  iu  tali  stu- 
(K  sa  poco  pili  che  vagire.  L' edizione  adunque  del 
533  è  ben  lungi  dal  conleatare  la  voglie  di  un  di- 

(i)  Ho  potuta  ooniulurB  mII*  Hiicùbi  bd  ctcmplirc  di  que- 
lli edjòo«  mutilo  aeì  StottùspuìOf  che  potrebbe  tiarre  ìd  errore 
cbi  non  Ti  pfaleMe  mnite.  Ha  mi  poco  d' Umuione  è  snffieitnte 


XIV 

screto  lettore  3  e  dico  discreto  perchè  trattandosi  di 
dettati  antichissimi,  come  si  è  questo  del  Giambo- 
ni, troveremmo  discrepanze  e  lezioni  varie  quando 
anche  s^  imprimesse  un  qualche  libro  io  Giosafalte 
la  vigilia  del  giorno  finale.  Ma  non  è  discrezione  che 
possa  reggere  a  fronte  dello  sciagurato  governo  che  fu 
fatto  della  scrittura  del  Giamboni,  da  chi  che  sia,  di- 
remo col  cavaliere  fiorentino,  in  questa  vituperosa 
ristampa  del  Sessa»  E  se  cosi  fosse  stato  mite  quel  ca« 
valiere  nelle  sue  censm'e  alla  Gerusalemme,  come  fu 
coir  editore  di  cui  parliamo,  la  morte  che  rubò  al  som* 
mo  epico  la  meritata  corona,  sarebbe  da  tenersi  non 
più  che  savia  castigatrice  delle  mondane  ingiustizie, 
come  non  è  quasi  mai.  Non  potendo  i  bibliografi  in 
questa,  quantunque  rara  edizione,  arrestarsi  con  com-* 
piacenza,  ricorrono  col  desiderio  a  quella  del  secolo 
decimoquinto.  Capitanati  da  mons.  Bottari  danno  bìa-* 
Simo  alla  Crusca  di  avere  preferito  la  vlneziana  ^  e 
peccato  !  che  la  trivigiana  le  sta  innanzi  di  tanto.  Fat- 
to sta  che  la  vecchia  edizione,  da  me  consultata,  fu 
trovata  poco  men  che  gemella  alla  posteriore  nelle  le- 
zioni errate,  e  in  ciò  solo  portar  diritto  di  preminen- 
za come  primogenita,  eh' è  più  difficile  a  leggersi,  ed 
ha  qualche  menda  tipografica  soprammercato  che  dal- 
la seconda  fu  tolta.  A  carta  poi  e  a  caratteri  è  miglio- 
re :  ma  vogliamo  noi  ristampare  quella  o  questi  a  be- 
nefizio degli  studiosi  di  nostra  linfi^a?  Cosà  s'imparas- 


«  tempre  dt  du  sfwdopa  essere  primo  pregila  à^ntm 
eilìÉioiie  le  InMibe  lencmì  é  la  oarnaooe^  seo(N^ 
■Mpni,  i  tipi,  le  legatore.  La  nostra,  grane  a  0ìo^ 
no»  sarii  affitto  aflatto  k  fiuote,  ma  potendo  mostranti 
gentil»  sì  stndierà  af^parìr  tale  nen^^ìntrìnsecb,  ànodià 
ndls  ^^^este.  La  trvfigiatm  io  somma  è  bnon  ornamene 
lo  &  bibliotedie^  e  ftadbè  non  si  esamini  bene^peoo 
«Panttichìtà  da  intnonarri  antifone'  i  sacerdòti  delb 
raggine  e  de*  ftmnmenti  (i):C!o^  avesse  pMnto'gicN 
Tsra  k-  posteriore  dei  1 553,  anidi^  essa,  come  lèibiaiiio 
delto^  -soorrelta  non  aseno  ddl'  altra  !  LÌ'^interBiedk 
Im  k -stesse  mende,  o  di  poQÒ  minori. 

Millo  più  ragionerrolmente  di  qneBo  ai  fiffiOBsé  an&- 
kndo  ai-  risoonlri  coìk  edixbné  dd  secolo  decimo^ 
qniato^  notò  il  Zeno,  e  con  esso  qnantì  reggono  il 
▼ero,  che  una  glande  utilità  potrebbe  derivare  ai  snc* 
cessivi  editori  dal  riscontro  colP  originale  francese  che 
conservai  della  reale  biblioteca  di  Parigi,  in  quella  di 
Torino  per  testimonianza  del  marchese  Maffei,  e  nella 
Vaticana,  come  abbiamo  dal  Manni  (2).  E  non  meno 


(■)  Ifon  fanno  contro  n  questo  giodisio  alcune  poche  farianti 
cbe  qua  e  là  siamo  Tenuti  razzolando,  e  di  cui  rimarranno  aTTer- 
thi  i  lettori  nelle  note.  Queste  varianti  non  sono  presso  che  mai 
di  segnalata  importanza.  E  non  mancanq  air  incontro  alcuni  Iuo> 
ghi  Biei  qnali  la  edieione  veneta  corregge  la  trivigiana. 

(%)  Gnglielmo  Libri^  uomo  di  quel  sapere  e  di  queir  amore 
alla  gloria  letteraria  italiana  che  a  tutti  ^loto,  promise  è  già  un 
anno  per  le  stampe  {Bistoire  ées  màemcei  mathémaiiques  en  Ha- 


XVI 

ra^onevolmente  polevasi  cons^iare  Pesame  di  parec- 
chi codici  del  Tolgarìzzamento  del  GiamboDi,  che  stan- 
no DeHe  pubbUche  e  private  biblioteche  io  Firenze. 
Ma  sono  oggimai  dieci  anni  che  il  benemerito  Gaspa- 
re Bencini  si  arrabatta  fra  que' codici,  e  che  il  suo  col- 
lega ab.  Zannoni,  altrove  citato  colla  debita  gratitu- 
dine, dava  Pannunzio  di  una  imminente  edizione,  se 
non  afl&tto  purgata  dagli  antichi  errori,  incomparabil- 
mente migliore  di  quante  videro  sinora  la  luce  3  sono 
dico  dieci  anni  e  più  forse  di  tal  lavoro  e  di  tali  pro- 
messe, né  si  venne  per  anco  alP  effetto,  e  nenuileno 
un  indizio  è  comparso  che  ne  annunzi  più  vicino  Pa- 
dempimento  di  quello  fosse  in  allora.  Che  dunque? 
Deporre  il  pensiero  di  far  pubblico  il  Tesoro^  o  ripe- 
tere la  s^mpa  del  i533.  E  poiché,  attese  le  ragioai 
allegate  poc^  anzi,  nessun'  altra  opera  poteva  tornare 


lie,  Paris,  Renouard,  18 38,  tome  deuxième,  pag.  i5a)  dì  pub-' 
blicare  T  originale  francese  nella  CollecHon  desdocumens  teloH/s 
à  Phistoire  scientifique  de  laFrance,  dì  cui  gli  è  commessa  la  di- 
rezione. Possiede  egli,  oltre  a  quelli  della  biblioteca  reale,  un  ma- 
nuscritto  che  sembra  del  principio  del  secolo  XIV,  e  fu  della  bi- 
blioteca di  d\4guessau.  In  esso  Topera  è  dirisa  in  tre  libri,  e  con- 
tiene capitoli  379.  Questa  divisione  in  tre  libri  si  accosterebbe  a 
quella  delP  edizione  trivigiana,  in  ciò  diversa  dalla  citata,  che  per 
r opposto  divìde  T  opera  in  tre  parti  e  queste  in  libri.  Per  altro 
anche  P edizione  trivigiana  nel  titolo  del  capitolo  primo,  disel- 
lo che  sarebbe,  secondo  la  posta  divisione,  libro  secondo,  ha  : 
ffui  comincia  la  secondeu^rte  dei  Tesoro,ec,  Se  non  che  le  sono 
inezie  da  non  immorarvi  sopra  più  avanti. 


XVJI 

più  opportiina  all'intento  nostro^ abbiamo  stiinato  qod 
meritare  censura  da  chi  non  Tiiok  oensnrare  ciò  die 
ha  qoalcfae  &ocia  di  ragionevolesza,  attenendoci  a 
qodl' antica,  e  diremo  andie  unica  stampa.  Potevamo 
si  ingefpurrci  di  aver  copia  dell' origioale,  o  dei  codici 
fiorenlini,  o^  che  sarebbe  stato  presso  a  poco  la  stessa 
fitfica,  tentare  cbe  fossero  raffirràtati  con  quell' origli 
naie  e  con  qae' còdici  i  passi  controyersÌ3  ma  ciò  non 
ne  si  concedeva,  oltreché  da  molti  altri  iiùpedimenti, 
dalla  vasta  mole  dell'opera,  di  cui  il  Tesoro  non  è 
die  minima  parte.  E  se  le  biblioteche  circostanti  a  Te» 
oena  di  avessero  fÌH'nito  codici,  non  diciamo  del  testo 
ftanoese,  che  sarebbe  stato  troppo  ardita  speranza,  sì 
ddla  traduzione  italiana,  era  npstra  intenzione  di  pro- 
fittarne ^  ma  vana  riusd  la  nostra  .diligenza  nel  rintrac* 
darlL  Pensanmio  quindi  non  inutile,  toltoci  il  poter 
meglio,  un'accurata  ristampa  delP edizione  del  i533, 
avuta  per  canonica  fìno  a  qui  dalla  Crusca. 


IV. 


Nel  qual  caso  non  intendiamo  per  accurata  ri- 
stampa una  copia,  come  si  usa  con  quelle  edizioni  che, 
non  in  forza  dell'accidente,  o  della  necessità,  ma  sali- 
rono in  alta  fama  per  intrinseco  pregio  3  la  nostra  ac- 
curatezza è  riposta  nel  farci  modello  dell'edizione  an- 
zidetta, per  non  iscostarci  da  essa  quando  eravamo 


XVUI 

dubbiosi,  ma  alterandola  sempre  che  o  l'aiuto  d'alilo- 
rilà  irrepugnabili,  o  il  consiglio  della  sana  critica  ce  ne 
resero  capaci.  Prima  però  di  più  minutamente  dichia^ 
rare  il  modo  di  queste  nostre  alterazioni  ci  permettere- 
mo una  domanda  agli  onesti  lettori.  Poniamo  che  Tedi- 
.  zione  nostra  non  altro  &cesse  fuorché  ricopiare  esat- 
tamente quella  del  1 553,  dovrebbe  credersi  inutile  il 
nostro  lavoro?  Ci  sembra  che  no.  Importantissimo  di 
fatti  è  un  tale  volgarizzamento,  e  l'edizione,  tuttoché 
censurabilissima,  molto  rara.  Quelli  ancora  che  la  pos- 
-seggono  hanno  un  bel  logorare  gli  occhi  siji  quelle  ab- 
breviature, e  su  qnegP  indebiti  dislogamenti  e  congiu- 
gnimenti  di  parole  3  ond'  è  che  la  fòtica  non  picdola 
dell'  intelletto  è  raggravala  dalla  materiale  della  lettu-* 
ra.  Nop  sarebbe  egli  dunque  poco  servigio  il  rendere 
più  agevole  l'acquisto  del  libro,  e  il  restringere  a 
quello  solo  della  mente  il  doppio  travaglio  di  questa 
e  degli  occhi  per  chi  vuole  attingere  a  si  antica  fonte 
del  sapere  italiano  e  dell'italiana  favella.  Non  è  però 
che  a  ciò  solo  siasi  voluta  limitare  la  cura  da  noi  po- 
sta nel  riprodurre  quest'edizione.  Per  procedere  con 
ordine,  dirò  prima  d'una  mìa  speranza  fallita.  Al  ve- 
dere come  frequentemente  fosse  citato  il  Tesoro  dagli 
Accademici  nel  loro  Dizionario,  mi  nacque  pensiero 
di  raccogliere  quelle  moltiplici  citazioni,  e  giovarme- 
ne, se  mai  qualcheduna  cadesse  sopra  i  luoghi  di  stra- 
volta lezione.  Ma  mi  trovai  nel  caso  di  que' buoni  let- 


lori  che  studiano  negli  antichi  classici  colla  scorta  de' 
comi>ieiit;itiiri;  questi,  iulendo  della  più  parte,  sciori» 
mino  acume  ed  erudizione  niinibile  quando  il  bisogn* 
è  nullo  o  pochissimo,  e  laddove  occorrerebbe  pai'Iare 
p  lederue  un  po'  jmii  là  che  lu  Toce  non  suona,  staa 
rJiiotlL  Ed  io  pure  poco  o  nulla  potei  trari'e  dalle  Ini)' 
le  citanonì,  che  mi  giovasse  a  raddi'iizare  pur  uno  de> 
gli  storpi  del  viziato  mio  testo.  Colla  stessa  speranza 
cercai  nelle  annotazioni  apposte  al  Tesoretlo  dal  Zan~ 
noni,  docchù  quivi  ancora  erano  spe^  i  vichiuiui  ai 
passi  consimili  del  Tesoro:  ma  il  mio  cercaie  fu  con 
(juel  frutto  medesioio  che  nella  Crucca. 

fjitn  altro  pertanto  mi  rimaneya  fuorché  l'attener- 
mi  alla  stampa  del  Sessa,  riscontrandola,  meglio  per 
tranquillità  di  coscienza  che  per  ragionevole  spei'iinza 
di  jpmtiUo  alenilo,  coUe  due  anteriori  de>  Fratelli  d* 
SaUùo  e  del  Flandrìno.  Ciù'qaanb)  alla  generalità  de) 
Ubroj  driB  poi  ad  una  parte  di  esso,  cioè  al  comin- 
daiBflnto  della  seconda  parte  (riferendomi  all'edizioDe 
)553)f  ove  M  tratta  dell'Etica,  dne  lavori,  di  due  non 
■MDo  eq>ertì  che  crebri  fiorentini,  mi  Tennero  in  aiu- 
to; E  il  primo  quel  Iacopo  Corbinelli  che  nel  secolo 
X1B  motto  fotioò  3^  miglioramento  de' testi  antichi; 
de)  quale^  sopra  un  manoscritto  somministratogli  dal 
mantovano  <^o.  Francesco  Posteria,  abbiamo  coi  ti|» 
di  Giovanni  de  Tornes,  Lione,  anno  i568,  Tf/ica 
dir  ..AuMeir  ««tfoOo  incantpeiutio  da  ter  Bnmetto 


XX 

Latini^  ed  altre  traduzioni  e  scritti  di  quei  tempi, 
con  alcuni  dotti  avvertimenti  intomo  la'Ungua.  Basta 
una  rapidissiooia  occhiata  ad  accertare  che  quest'ittica 
ridotta  in  compendio  non  è  altro  che  il  principio  della 
seconda  parte,  o  libro  sesto,  della  veneta  edizione  dei 
Tesoro.  V  altro  che  nel  secolo  scorso  si  mise  sulPor- 
me  del  Corbinelli  è  Domenico  Mai'ia  J^nni,  da^  cui 
torchi,  nel  1754?  usci  con  la  Retorica  di  Tullio  e  il 
Libro  de^  Costumi  di  Catone^  V  Elica  d^  Aristotele^ 
volgari%%amento  antico  toscano.  Queste  due  stampe 
non  si  corrispondono,  anzi  chi  ascoltasse  il  più  recente 
editore,  la  lionese  si  dovrebbe  poco  meno  che  gettare 
alle  fiamme  in  confronto  della  fìorentinsu  Avvezzo  pe- 
rò da  gran  tempo  alle  amplificazioni  degl:  editori,  volli 
vedere  il  male  co' miei  proprii  occhi,  e  dopo  diligente 
esame,  trovai,  che,  quantunque  vere  in  gran  parte  le 
accuse  date  dal  Manni  alla  stampa  del  Corbinelli,  non 
era  tuttavia  da  perderla  d'  occhio  ripubblicando  il 
Tesoro,  E  cosi  mi  sono  appunto  deliberato  di  &re.  Se 
non  che,  oltre  le  discrepanze  che  avevano  fra  loro  le 
due  edizioni,  v'  erano  quelle,  più  iòrse  frequenti,  tra 
ambedue  esse  e  la  veneziana  die  mi  sono  proposto  a 
modello.  Che  dunque  fare?  Non  arrischiandomi'||oii 
si  pochi  sussidi]  di  por  mano  nel  testo  benedetto  dal* 
la  Crusca,  pensai  di  giovarmi  delle  edizioni  C<HÌn- 
nelliana  e  Mannesca,  solo  in  quanto  Terrore  della  Tf^ 
nefca  fosse  evidente,  e  nel  resto  registrare  per  in»  éi 


BOta  le  vflfjBBlij'  pcrdièi  lettori  do  potcsBcro  &re  quel- 
Poso  étneéiÈpraprìo  gindkìo/vefiisBè  loro  suggerito. 
•Ma  il  breve. ^nrsgUa di  luce  die  ad  scorgeva ~a 
reDdere  meno  aooiTetto  il  Vibro  sesto  éeì^TesaroyTe^ 
aiva  a  mancanm  dd  tatto  n^  altiì  l&rL  Ed  ecco  la 
via  da  me  scelta.  Sono  d^  avviso^  e  credo  aver  com- 
pagni tnttì  quanti  i  prudenti^  che  in  qaesta  materia 
di  testi  antidìi  il  primo  fimdamóito  d' una  plausfliile' 
ediópoe  sia  P,  autorità,  e  quindi,  non  ■  avendo  codici,' 
oame  ho  :dettoi,  a'  miei  sen^  e  poco  giovandoisii  i 
dsoodtii  delle/varie  iesiooi  stampate,  presso  che  nulla 
mi  sono  arrìsdiiato  dijnatare  quanto  aldettato.  For- 
se ddie.  venti  volte  che  avessi  avventato  alla  cieca  la' 
mia  correzione,'  d^sarefabe' stata  qoella  in  cm  mi  fosse 
avvenuto  imberciarvi,  ma  e  avrebbe  dà  compensato 
le  diednoYe  in  cui  alle  perplessità  delle  antidie  edi- 
zioni avrd  aggiunte  quelle  della  mia  ?  Oh  se  si  fosse- 
ro contentati  di  copiare  gli  antichi  errori  quelli  de' 
successivi  editori  che  non  avevano  sicuri  documen- 
ti alla  ccMTezione,  di  quanto  minore  non  sarebbe  la 
messe  degli  spropositi  venuta  dì  secolo  in  secolo  a 
noi ,  non  meno  eredi  delle  glorie,  che  delle  vergo- 
gna degli  antenati  !  Dopo  Pautorità  entra  Fuso  del  ra- 
ziodnio  in  soccorso  delPeditore. Dissi  adunque  :  lasciati 
stare  come  sono  i  luoghi  viziati  nella  dizione,  userò  lo 
stesso  scrupolo  in  quelli  che  ragguardano  la  sostanza 
dd  ccmoetto?  Qui  c'è  meno  delP  arbitrario  che  nel 


isLìto  delia  pura  liogua.  ì\  ragionamento,  posto  il  pon- 
to onde  parte  e  quello  a  cui  tende^  ba  la  sua  'via  pre- 
scritta ed  inalterabile:  coU^akitD  quindi  deibnente 
mi  sarà  dato  yedere  ciò  che  manchi  o  ciò  che  vi  sia 
di  soperchio.  Ma  nemmed  questo  canone  di  buona 
critica  mi  fa  bastante,  dacché  esso  può  ben»i  valere  < 
ove  trattisi  di  dottrine  conformi  e  fuori  di  controver-^ 
sia,  ma  qui  abbiamo  idee  inesatte  o  monche  di  scien- 
za, e  assai  spesso  errori  effettivi  :  ora  se  la  verità  è  una,  ' 
moltiplice  è  T  errore,  e  chi  ne^  molti  rami  in  cui  può 
distendersi  la  mala  pianta  sì  crederà,  afferrandone  uno, 
di  aver  dato  nel  segno  ?  À  ciò  non  seppi  trovare  mi- 
glior espediente  che  ricorrere  alle  fonti  onde  V  autore 
attinse  più  di  sovente  il  proprio  sapere,  ristrìngendo** 
mi  nel  resto  a  ripetere  fedelmente  gli  errori  dell^  edi- 
zione antica  senz^  accrescerne  la  derrata.  Cinque  fra 
gli  antichi  autoii  sono  quelli  che  più  spesso  vennero 
consiglieri  a  Brunetto  nella  composizione  del  suo  li- 
bro :  Aristotele,  Plinio  e  Solino  ^  per  quanto  ha  ri-» 
guardo  alle  cose  sacre,  la  Bibbia;  e  ne^  particolari  del- 
l' eloquenza,  Gcerone.  L' esame  di  questi  autori  mi  ba 
dato  di  poter  a  quando  a  quando  ridurre  intelligibile 
qualche  nome,  e  talvolta  qualche  frase  ;  awertèndo 
che  anche  in  ciò  sono  andato  molto  a  rilento,  ben  ac- 
corto che  quei  classici  autori  non  tali  si  leggevano  ai 
giorni  del  Latini  quali  a'  nostri  Àncora,  in  luogo  de^ 
gli  originali,  mi  sono  più  volte  giovato  delle  antiche 


xxHr 
tcadoBOiii  ddfe  loto  op€K^  pnrandooii  dw  «1  wcco^ 
sUmiil  .pupofBbytabTooeoBiodo  diàk^pfo*: 
fadhSÉfealB  iMili  da  BkaaMlto.  ooofanHO  il  veden  cn^^ 
ìnd  onodi  di  din  si  crrinwi^  coiTiiy  idiPi  nttt^ìUH 
liflBo  d  tetto  gneo  o  kcioo^  in  lampi,  se  non  cgnfi, 
pocodoKno  diffiwti  ^»  di  ciò  tallo  pia  dbboImmii^ 
te  MBcm  dirlo  lagionB  ndfe  noteraUe  porte  apprown 

f  iliftllH  HbfDu 

Deqoerte  core  ne  "venne  Tedinone  che  piesento 
a|^'  itefivii,  non  altro  che  come  rìstanipa  della  veneta 
del  i55S,  lesa  più  agevole  alla  lettura;  di'ò  quanto 
a  dir^  non  contando  per  nidia  i  risoontrì  d^  altre  e- 
diùoni  dame  firtti,e|^  esami  di  ordinali  e  di  tra- 
dnsiQni  onde  ntlini|l  il  Latini  le  sne  dottrine.  H  quale 
nessnn  conto  de*  mìei  laTori  non  si  ascriva  ad  affet- 
tate modestia,  die  soobi  tahroha  da  chi  è  pui  copido 
di  gloria  spendere  coraggiosamente  per  esserne  rìcam* 
biato  ad  osora,  ma  a  sentimento  profondo  e  leale  di 
quanto  resta  a  fare,  chi  dar  voglia  all'Italia  conve- 
nientemente corretto  questo  prezioso  monumento  del- 
P  antico  sapere.  £  siavi  pure  quest'  uno  ;  se  già  il 
Bendni,  in  quel  mentre  die  da  noi  si  fii  questo  voto, 
non  ha  condotto  a  termine  la  sua  nobile  e  molto  desi- 
derata fatica.  La  sorte  che  toccò  al  Latini  vivente, 
tocchi  pure  al  suo  libro.  Costretto  dalle  infelici  scis- 
sure della  patria  a  ramingare  sotto  delo  straniero,  ren- 
dendo rispettabile  colla  sapienza  la  propria  svaitura. 


XXIY 

rivide  attempato  la  terra  natale,  e  si  posò  al  sonno  e- 
terno  nel  cimitero  degli  avi  5  questo  Tesoro,  a  cui  L'e- 
silio die  veste  francese,  rìcoinparisca  italiano,  e  tale 
che  si  possa  conversare  con  esso  familiarmente  e  a  fi- 
danza. L'affrettare,  poiché  mi  è  tolto  il  compirla, una 
tale  impresa,  mi  farà  credere  cominciata  con  ottimo 
auspicio  un'edizione  in  tutto  diretta  ad  utile  véro  del- 
l' italiana  letteratura. 


•    1^ 


# 


IL   TESORO 


D  I 


BRUNETTO   LATINO. 


PARTE  PRIMA. 


Latini,  f^oì,  I. 


■-> 


^-        LIBRO    PRIMO.      -^2 

^^  Capitolo  ^^^ 


'i  come  il  signore  die  vuole  in  un  luogo  am- 
Li'e  cose  di  grandissimo  \aloie,  non  solamente 
uo  diletto,  ina  per  crescere  il  suo  potere  e  per 
ao  stato  in  guerra  ed  in  pace,  vi  mette 
le  più  care  e  le  più  preziose  gioie  che  puote  secondo 
la  sua  bona  intenzione;  cu«i  è  il  corpo  di  questo  li- 
bro compitato  di  sapienia,  siccome  quello  ch'è  istrat- 
to  di  tutti  li  membri  di  filosofia  in  una  $umma  In-e- 
vemente.  E  la  prima  polle  di  questo  tesiiro  è  come 
danari  contimi! ,  per  ispendere  tutto  gitproo  in  cose 
bisognose,  óoè  a  dire,  «h'  egli  tratta  dd  ccHnincì>~ 
mento  dd  -nondo,  e  ddle  vecchie  istorie,  e  dello  stabi- 
HmeBlo  dd-  mondo,  e  ddla  natura  di  tutte  le  cose  in 
nnma.  E  siò  ■{^wriiene  alla  prima  icienia  della  fi- 
laaaés,  cioè  teorìa^  «econdo  ciò  fh»^  libro  parìa  qui 
iftpitiiu.  E  ncMUDR  seiaa  danwì  non  avrebbe  veru- 
no meno  tra  l'opere  ddle  genti  die  dirizzasse  Tuao 
oontTB  r  altro,  altresì  non  potrebbe  l' uomo  avere 
Mrahre  cose  pienamente,  se  non  sapesse  quella  pri- 
ma parte  dd  Uhro.  La  seconda  parte,  che  tratta  de' 
WvM'dftte  niiidì,  si  è  di  premose  pietre  che  daa- 


4  IL  TESORO. 

no  altiiii  diletto  e  virtudi:  cioè  a  dire,  che  cose  dee 
Fuomo  fare,  e  che  no.  E  di  ciò  mosti*a  la  ragione  e  il 
perchè.  E  questo  appai'tiene  alla  seconda  e  alla  tena 
parte  della  filosofia,  cioè  a  pratica  e  a  logica.  La  ter- 
za parte  del  libro  del  tesoro  si  è  di  oro  fino,  cioè  a 
dire,  ch^  ella  insegna  parlare  alP  uomo  secondo  la  dot- 
trina della  retorica,  e  come  il  signore  dee  goremare 
la  gente  che  ha  sotto  di  lui,  e  spedalmente  secondo 
r  usanza  d^  Italia.  E  tutto  ciò  appartiene  alla  seconda 
scienza  della  filosofìa,  cioè  a  pratica.  Che  siccome 
Poro  transcende  tutte  maniere  di  metalli,  così  la  scien- 
za di  ben  parlare  e  di  governare  la  gente  che  P  uo- 
mo ha  sotto  di  se,  è  più  nobile  che  nulla  altra  scienza 
del  mondo.  E  però  che  1  tesoro  eh'  è  qui  non  dee 
esser  dato  se  non  a  persona  sufficiente  a  si  alta  ric- 
chezza, lo  darò  io  a  te,  bel  dolce  amico,  che  tu  ne  se^ 
ben  degno  secondo  lo  mio  giudicamento.  E  non  dico 
io  niente  che  questo  libro  sia  tratto  del  mio  povero 
seno,  né  della  mia  ignuda  scienza,  anzi  è  come  una 
massa  di  mele  tratta  di  diversi  fiori.  Che  questo  li- 
bro è  compilato  solamente  de'  mai'avigliosi  detti  de* 
gli  autori,  che  dinanzi  al  nostro  tempo  hanno  trattato 
di  filosofia;  ciascuno  della  parte  della  filosofia  di  che 
s' intendeva,  che  tutta  non  la  può  sapere  uomo  tei^ 
reno.  Per  ciò  che  la  filosofìa  è  la  radice  di  cui  crescono 
tutte  le  scienze  che  uomo  puote  sapere,  così  come  una 
fontana  onde  escono  molti  rivi,  e  corrono  qua  e  là^ 
sì  che  r  uno  bee  d' uno,  e  V altro  bee  d'  un  altro:  e 
ciò  è  in  diverso  modo,  che  V  uno  bee  più,  e  T altro 
meno,  senza  stagnare  la  fontana.  Per  ciò  che  dice  Boe- 
zio nel  libro  ddla  Consolazione ,  che  egli  la  vide  ut 


LIBRO  PRIMO.  5 

sendnanza  di  donna,  in  tal  abito  e  in  à  maraTÌgliosa 
potenza,  die  crescerà  quando  le  piaceva,  tanto  die  H 
sao  capo  agg^inngeva  disopra  alle  Stelle  e  sopra  il  de- 
lo^  e  preyedeva  ai  monti  e  sdle  valli  secondo  dirìttu^ 
rsL  Che  appresso  al  buono  cominciamento  sì  n^  esce 
boona  fine.  H  nostro  imperadore  disse  in  un  libro  di 
logica:  lo  comindamento  è  la  maggicnr  parte  della  co- 
sa. £  se  alcuno  domandasse ,  perchè  questo  libro  è 
scaritto  in  lingua  francesca,  poi  che  noi  siamo  d^  Italia  ^ 
io  1^  rìsponderd  che  dò  è  per  due  cose?  Tuna  per- 
thè  noi  siamo  in  Frauda,  e  P  altra  per  dò  che  la  par- 
latura firancesca  è  più  dilettevole  e  più  comune  che 
lutti  gli  altri  linguaggi 

Capitolo  H. 

Come  h  materia  dì  tutte  le  cose  è  dirisata  in  tre  maniere 

secondo  teorica. 

Filosofia  è  verace  cognoscimento  delle  cose  naturali, 
delle  divine  e  delle  umane,  tanto  quanto  Puomo  è  pos- 
sente d^  intenderne.  Onde  avviene  che  alquanti  savi 
che  si  studiano  a  richiedere  e  cercare  di  queste  tre  co- 
se die  son  dette  di  filosofìa,  doè  a  dire  della  divinità* 
de^  ddie  cose  naturali  e  delle  cose  umane,  furo  det- 
ti figliuoli  di  filosofia,  e  perciò  furo  elli  appellati  filo- 
sofi. Egli  fu  vero  che  al  cominciamento  del  secolo  le 
genti  solcano  vivere  a  legge  di  bestie.  Conobbero  pri- 
mamente la  dignità  delle  ragioni  e  della  conoscenza 
die  Dio  avea  loro  data,  sì  vollero  sapere  la  verità  del- 
le cose  che  sono  in  filosofia.  Elli  caddero  in  più  que- 
stioni. £  Puna  si  fu  di  sapere  le  cose  celestiali  e  ter- 


6  IL  TESORO. 

rene.  La  seconda  e  la  terza  fu  di  sapere  delle  umane 
cose.  Onde  la  prima  e  la  secónda  si  è  di  sapere  che 
cose  r  uomo  dee  fare,  e  che  no.  E  la  terza  è  di  sapere 
ragione  e  provare  perchè  Puomo  dee  Tuna  fere  e  Tal- 
ira  no.  E  poi  che  queste  tre  questioni  furo  trattate  e 
pensate  largamente  tra  gli  uomini  letterati  e  in  tra 
filosofi,  trovavano  in  filosofia  loro  madre  tre  princi- 
pali membri,  cioè  a  dire  tre  maniere  di  scienze  per  in- 
segnare e  provare  la  verace  ragione  delle  tre  questio- 
ni chMo  haggio  divisate  qua  dinanzL 

Capitolo  IH. 
Delle  cose  che  Puomo  dee  fare  e  che  non,  secondò  teorica. 

La  prima  si  è  teorica,  ed  è  quella  propria  scienza 
(!he  a  noi  insegna  la  prima  questione  di  sapere  e  di 
conoscere  la  natura  delle  cose  celestiali  e  terrene.  Ma 
per  ciò  che  queste  nature  sono  varie  e  divei*se5  per  ciò 
che  altra  natura  è  delle  cose  che  non  hanno  niente  di 
corpo  e  non  conversano  tra  le  corporali  cose,  e  unM- 
tra  natura  è  delle  cose  che  hanno  corpo  e  Conversano 
colle  corporali  cose,  e  un^  altra  natura  è  delle  cose  che 
non  hanno  niente  di  corpo  e  sono  in  tra  le  cose  corpo- 
rali 5  per  ciò  fu  bene  ragionevole  cosa,  che  questa  scien-* 
za  di  teorica  facesse  del  suo  corpo  tre  altre  scienze,  per 
dimostrare  le  tre  diverse  nature  che  io  ebbi  divisate.  E 
queste  scienze  sono  appellate  in  loro  lingua  teologia, 
fìsica  e  matematica.  La  prima  è  la  più  alta  di  queste  tre 
scienze  che  sono  state  di  teorica,  cioè  teologia,  che 
trapassa  il  cielo  e  mostra  le  nature  delle  cose  che  non 
hanno  punto  di  corpo,  né  non  conversano  in  tra  le 


LIBHO  PRIMO.  ^ 

corporali  cose.  E  ciò  è  in  tal  maniera,  che  per  lei  co- 
Dosciaiiio  Dio  onnipotente,  per  lei  crediamo  noi  la 
santa  Trìoitade  del  Padre,  del  Figlio  e  dello  Spirito 
santo  in  una  sola  sostanza.  E  per  lei  ayemo  noi  la  fede 
cattdica  e  la  legge  di  santa  Chiesa.  E  brevemente  ella 
c'insegna  tutto  ciò  che  a  divinitade  appartiene.  La  se- 
conda si  è  fisica,  per  cui  noi  sappiamo  la  natura  delle 
0)se  che  hanno  corpo,  e  conversano  con  le  corporali 
cose,  cioè  a  dire  degli  uomini,  delle  bestie  e  degli  uc- 
celli, de** pesci,  delle  piante,  delle  pietre  e  dell'altre 
corporali  cose  che  sono  in  fra  noi.  La  terza  è  mate- 
matica per  cui  noi  sapemo  la  natura  delle  cose  che 
non  hanno  punto  di  corpo.  E  sono  quatti'o  scienze 
nel  corpo  della  matematica,  che  sono  appellate  per 
diritto  nome,  V  una  arismetrica,  P  altra  musica,  la  terza 
geometrìa  e  la  quarta  astrologia.  La  prima  di  queste 
quattro  scienze  è  arismetrica  che  e'  insegna  a  contare 
e  annumerare  e  aggiungere  Funo  numero  sopra  Pai- 
ti'o,  e  trarre  l'uno  dell'  altro,  e  multiplicare  l'uno  con 
r altro,  e  paitire  l'uno  per  l'altro,  e  numero  sano  e 
numero  rotto.  £  di  ciò  son  gl'insegnamenti  dell'ab- 
baco e  dell' algorismo.  La  seconda  si  è  musica,  che 
r'^ insegna  a  fare  voci  di  canti  in  celere,  in  organi  ed 
in  altri  strumenti,  e  accordare  1'  uno  con  l'altro,  per 
diletto  delle  genti,  e  per  far  canti  in  chiesa  per  l'offi- 
cio del  nostro  Signore.  La  terza  si  è  geometria,  per 
cui  noi  sappiamo  le  misure  e  le  propiietà  delle  cose 
per  lungo  e  per  alto  e  per  ampiezza.  Questa  è  la  scien- 
za per  cui  i  filosofi  antichi  si  sforzaro  per  sottigliezza 
di  geometria  di  trovare  l' altezza  del  cielo  e  la  gian- 
(lezza  della  teira  e  l'altezza  eh' è  dall'uno  all' alti  o,  e 


X  IL  TESORO. 

moke  allrc  cose  e  proporzioni  molto  da  maraYÌgUare. 
La  quarta  scienza  è  astrologia,  la  quale  c^  insegna  tutto 
r ordinamento  del  cielo,  del  firmamento,  delle  stdle, 
e  del  corso  dei  sette  pianeti  per  lo  zodiaco,  ciò  sono 
li  dodici  segni ,  e  come  si  muove  il  tempo  al  caldo  e 
al  freddo,  o  a  piova,  o  a  siccità,  o  a  vento,  per  ragio^ 
ne  ch^è  istabilita  nelle  stelle. 

Capitolo  IV. 

Qui  dice  perchè  Tuomo  dee  Cure  Puna  con,  eTtltra 
non,  secondo  la  pratica. 

Pratica  è  la  seconda  scienza  in  filosofia,  la  quale 
e''  insegna  che  Tuomo  dee  fare,  e  che  nO.  £  alla  verità 
dire,  egli  può  essere  in  tre  maniere.  Che  Puna  ma* 
niera  è  di  fare  alcune  cose  e  schifare  altre  per  gover-* 
nare  altri  e  lui  medesimo  ;  un^  altra  maniera  è  di  go- 
vernare la  sua  fhmiglia  e  la  sua  magione,  il  suo  avere^ 
il  suo  retaggio  3  e  un^  altra  maniera  è  per  governare 
gente,  regno,  o  popolo,  o  una  cittade  in  pace  o  in 
guerra.  Ma  poni  che  i  filosofi  antichi  conobbero  que^ 
8te  diversitadi,  e  convenne  che  eglino  trovassono  in 
pratica  tre  maniere  di  govemai'e  se  e  altrui,  ciò  sono 
elica,  economica  e  politica.  La  prima  di  queste  tre 
scienze  si  è  etica ,  la  quale  e'  insegna  governare  noi 
primieramente,  e  a  seguire  via  onesta,  e  fare  virtuose 
opere,  e  guardare  da\izii,  che  nullo  potrebbe  al  mon- 
do vivere  bene  e  onestamente,  ne  fare  prò  ne  a  sé,  ne 
ad  altrui,  se  non  goventia  la  sua  vita  e  non  dii-izza  sé 
medesimo  seccmdo  vutude.  La  seconda  si  è  economi- 
ra,  la  quale  c^  insegna  nosli^a  gente  e  nostri  figliuoli 


LIBRO  PRIMO.  g 

medesimi  goYemare,  e  insegnaci  a  guardare  ed  a  cre- 
scere le  nostre  possessioni  e  nostre  ereditadi,  e  avere 
iiKd>fli  e  rendita ,  per  dispendere  e  ritenere  secondo 
che  il  luogo  e  1  tempo  muove.  La  terza  è  politica,  e 
senza  fallo  questa  è  la  più  alta  scienza  e  del  più  no- 
bile mestiero  che  sia  in  tra  gli  uomini.  Che  eUa  con- 
segna governare  genti  e  li  regni  e  popoli  delle  cittadi, 
e  un  comune  in  tempo  di  pace  e  di  guerra,  secondo  ra* 
gione  e  secondo  giustizia.  £  sì  c^  insegna  tutte  le  arti  e 
mestieri  che  sono  hisc^poo  alla  vita  dell^uomo.  E  ciò  è  in 
due  maniere,  che  Funa  è  in  opere,  e  Taltra  è  in  parole. 
Quella  eh' è  d'opere  son  i  mestieri  che  l'uomo  ado- 
pera tutto  die  con  le  mani  e  con  i  piedi.  Ciò  sono 
fabbri ,  drappieri ,  cordovanieri  e  altri  mestieri ,  che 
sono  bisogno  alla  vita  dell'  uomo ,  e  sono  appellate 
meccaniche.  Quelle  che  sono  in  parole ,  sono  quelle 
che  l'uomo  adopera  della  sua  bocca  e  della  sua  lin- 
gua. E  sono  in  tre  scienze,  ciò  sono  grammatica,  dia'- 
lettica  e  retorica.  La  prima  si  è  grammatica ,  che  è 
fondamento  dell'altre  scienze.  E  questa  c'insegna  par- 
lare, leggere  e  scrivere  senza  vizii,  o  di  barbarismo, 
o  di  solecismo.  La  seconda  è  dialettica,  la  quale  e'  in- 
segna a  provare  li  nostri  detti  e  nostre  parole  per  ra- 
gione e  per  arti  d'argomenti,  che  danno  fede  alle  pa- 
role che  noi  avemo  dette,  sì  che  elle  paiono  vere  e 
probabili  d'essere  vere.  La  terza  scienza  è  retorica, 
cioè  nobile  scienza ,  eh'  ella  e'  insegna  trovare ,  ordi- 
nare e  dii'e  parole  buone,  belle  e  piane,  secondo  che 
la  natura  richiede.  E  io  vi  dico,  eli' ella  è  lumiera  di 
«hiaro  parlare,  ella  è  insegnamento  di  dettatori.  EUa 
'•  la  scienza  che  drizzò  prima  il  mondo  a  ben  fare,  e 


1* 


IO  IL  TESORO. 

ancora  il  drizza  per  la  predicazione  de^  santi  uòmini^ 
per  la  divina  Scrittura,  e  per  la  legge  onde  raomo 
si  goveiTia  a  dritto  e  a  giustizia.  Ella  è  1^  scienza  di 
cui  Tullio  dice  nel  suo  libro,  che  colui  ha  altissima 
cosa  conquistata ,  che  passa  gli  altri  uomini ,  ciò  è  ad 
intendere  della  parlatura  delP  uomo.  E  per  ciò  do- 
vrebbe ciascheduno  brigarsi  di  sapere  ben  parlare, 
secondo  che  la  sua  natura  ne  prende,  che  senza  dot- 
trina non  la  puote  alcuno  acquistai*e.  £  al  vero  di- 
re, di  lei  avemo  noi  mestieri  in  tutti  i  nostri  bisogni 
tuttora.  E  molte  cose  grandi  e  picciole  potiamo  noi 
fare  solamente  per  bene  parlare,  che  non  le  potrem- 
mo fare  per  forza  d^arme,  o  per  altro  ingegno. 

Capitolo  V. 
Perchè  Tuomo  dee  fare  Tuna  cosa,  e  Paltra  no,  secondo  Ic^ca. 

Logica  è  la  terza  scienza  di  filosofia.  Questa  propria» 
mente  e'  insegna  provare  e  mostrare  ragione,  perchè 
Tuomo  dee  fare  Puna  cosa,  e  Faltra  no.  E  questa  ra- 
gione non  può  Tuomo  ben  mostrare,  se  non  per  pa- 
role. Dunque  è  logica  scienza ,  per  la  quale  V  nomo 
puote  provare  e  dire  ragione,  perchè  e  come  ciò  che 
noi  diciamo  è  così  vero  come  noi  mettiamo  innanzi.  E 
ciò  è  in  tre  maniere ,  che  s' intende  per  tre  scienze 
che  escono  da  lei,  cioè  dialettica,  fisica  e  sofistica.  La 
piima  è  dialettica  la  quale  c^  insegna  tenzonare,  con- 
tendere e  disputare  V  uno  coàtra  P  «litro,  e  fare  que- 
stioni e  difese.  La  seconda  si  è  fisica,  la  quale  evinse- 
gna  a  provare  che  le  parole  che  V  uomo  dice  son  ve- 
re^  e  che  le  cose  sono  in  sé  come  1  dice  per  dritta  ra- 


UBHO  PHIMU.  1  1 

gione  9  e  per  veri  argomenti.  La  terza  è  sofistica ,  la 
quale  c^  insegna  a  proyare  che  le  parole  che  V  uomo 
diee.  sono  vere,  ma  ciò  prova  egli  per  mal  ingegno,  e 
per  false  ragioni,  e  per  argomenti  che  hanno  simì* 
gUanza  e  covertui*a  di  vero  nelle  medesime  cose  se 
fìi  vero  o  no.  Infino  a  qui  ha  avvisato  il  conto  assai 
brevemente  e  apertamente  come  filosofia  è  madre  e 
fontana  di  tutte  scienze  :  oggimai  si  vuole  tornare  alla 
sua  materia,  cioè  a  teorica,  eh' è  la  prima  paite  della 
fìbsofia,  per  dimostrare  un  poco  la  natura  delle  cose 
del  cielo  e  della  terra.  £  ciò  lava  più  brevemente 
che  1  maestro  potrà. 

Capitolo  VI. 

Qui  dice  come  Dio  fece  tutte  le  cose  ai  coarìuciamento. 

Li  savi  dissero,  che  1  nostro  Signore  Iddio,  eh'  è 
cuminciamento  di  tutte  le  cose,  egli  fece  e  creò  il 
mondo  in  quatti^o  maniere.  Che  in  primamente  egli 
ebbe  in  pensiero  e  in  sua  volontà  le  imagini  e  le  fi- 
gure, come  egli  farebbe  il  mondo  e  le  cose  tutte  che 
vi  sono.  E  ciò  ebbe  egli  tuttavia  eternalraenle,  sicché 
quel  j>ensiero  non  ebbe  mai  cominciamento.  E  que- 
sta imaginazione  è  appellata  mondo  archetipo,  cioè 
a  dii'e  mondo  in  similitudine.  Appresso  fece  di  nien- 
te una  grossa  materia,  la  quale  non  era  d'alcuna  fi- 
gura né  d' alcuna  similitudine,  ma  era  di  sì  fatta  nor- 
ma e  sì  apparecchiata,  ch'egli  ne  poteva  formare  e 
ritrarre  ciò  ch'egli  volea.  E  questa  materia  è  appel- 
lata hyle.  E  poi  ch'egli  ebbe  ciò  fatto,  sì  come  a  lui 
piacque*  mise  egli  in  opera  e  in  tatto  il  suo  proponi- 


I  2  IL  TESORO. 

mento,  e  fece  il  mondo  e  le  sue  altre  creature  secon- 
do la  sua  provvidenza.  E  con  tutto  che  egli  il  potesse 
fare  tosto  e  speditamente,  già  niente  vi  ydle  correre^ 
anzi  vi  mise  sei  giorni;  il  settimo  si  posò.  La  Bibbia 
noi  conta  che  al  comincìamento  lo  nostro  Signore  co- 
mandò che  '1  mondo  fosse  fatto,  cioè  a  dire  delo,  ter- 
ra, acqua,  giorno,  chiarezza  e  gli  angìoU.  E  che  la 
chiarezza  fosse  divisata  dalle  tenebre.  E  poi  che  ^li 
lo  comandò,  sì  fu  fatto  di  niente.  £  ciò  fu  il  primo 
giorno  del  secolo.  Del  qual  giorno  dicono  mohi  savi, 
che  fu  quattordici  di  del  mese  di  marzo.  Ài  secondo 
giorno  fu  stabilito  il  firmamento.  E  al  terzo  giorno  co- 
mandò che  la  terra  fosse  divisata  dal  mare  e  dalle  altre 
acque.  E  tutte  cose  che  sono  radicate  sopra  terra  furo 
fatte  in  quel  giorno^  E  al  quarto  giorno  comandò  che 
1  sole  e  la  luna  e  le  stelle  e  tutte  le  altre  limmiarie 
fossero  fatte.  Al  quinto  dì  comandò  che  fossero  filiti  i 
pesci  in  acqua,  e  le  bestie  in  terra,  di  tutte  le  maniere 
che  vi  sono.  Il  sesto  giorno  fece  Adamo  alla  imagine 
e  alla  similitudine  sua.  E  poscia  fece  Eva  sua  compa- 
gnia delle  coste  di  Adamo.  E  creò  allora  anime  di 
niente,  e  misele  ne^  corpi  loro.  U  settimo  di  si  posò^ 
che  non  fece  nuli' altra  cosa. 

Capitolo  VII. 
Come  alcune  cose  furo  fatte  di  nientek 

Per  queste  parole  potiamo  noi  intendere  che  Dio 
fece  solamente  l'uomo,  e  di  tutte  le  altre  comandò  che 
fossero  fatte.  E  più  è  a  fare,  che  a  comandare.  Ma  oo^ 
me  ch'egli  fosse,  era  due  maniere,  che  alcune  cose  furo 


N^- 


i3 

^  Jalle  di  iiieBil%  nonne  faro  file  glt  angbli,  1  mondo 
e  k  dóinB^  e  fe  nume  creò  egti  anoora  di  nienle; 
e  qnò  ogni  ^'Mvelle  ankne  dì  niente.  L^ahra  um- 
mora  è^  dwinlte  le  altie  cose  fino  fiilte  d^aknna  ehm 

nHHnB*  ■» 

W-       CàrmsJo  TUL  .  * 

'  '.^^  DilTolfeio  ddh  nttiin. 

Onritvète  itofilo  in  due  maniere  come  Dio  fisoe  tutte 
le  cose.  La  tena  maniera  fii,  dbe  quando  e^  ebbe 
fìtte  tutte  le  oose^  e;^  ordinò  la  natura  di  tutte  le 
cose  per  flò.  E  aUora  stabili  cato  eorso  a  ciasdieduna, 
sì  come  doveano  nascere  e  viroe  e  morire  e  finire^  e 
la  fom  e  la  proprietade  e  la  natura  di  ciascuna.  E 
sappiate  che  tutte  là  cose  che  hanno  cominciamento, 
cioè-  dUijÉÉir  firtte  d'alcuna  materia,  si  aranno  fine. 
Ifa  fjttMhìAe  fiupon  fiitte  di  niente,  non  aranno  fine, 
questa  materia  e  sopra*  1*  officiò  ddla  natura 
sovrano  padre,  dbè  e^fi  è  creatore  ed  ella  è 
creatura',  egli  è  senza  comindamento  ed  ella  con  co- 
minciamento,  egB  è  oomdndatore  ed  eUa  ubbidisce, 
egli  non  averà  mai  fine  ed  ella  finirà  con  tatto  il  suo 
lavoro^  egli  è  del  tutto  potente  ed  dia  non  ha  poten- 
za se  non  quella  che  Dio  le  ha  data ,  egli  sa  tutte  le 
cose  passate  e  presenti  e  quelle  che  debbono  essere, 
ed  ella  non  sa  se  non  qudle  che  egli  gli  mostra,  egli 
ordinò  il  mondo  ed  ella  eseguisce  il  suo  ordinamento. 
E  cosi  potemo  vedere  e  conoscere  che  ciascuna  cosa 
è  o(Mnmessa  a  sua  natura.  E  non  pertanto  che  tutto> 
fece  e  tutto  creò,  e^puote  rimutare  e  cambiare  ii  corso 
di  natura  per  divino  miracolo,  sì  come  fece  nella  glo- 


l4  li'  TESORO. 

riosa  Vergine  Maria,  che  concepette  il  figliuolo  di  Dio 
senza  conoscimento  cai*nale ,  e  fu  vergine  e  pura  óìr 
nanzi  e  dappoi.  Ed  egli  medesimo  resuscitò  da  morte 
come  a  lui  piacque.  Questi  ed  altrì  divini  miracoli  non 
sono  contra  natura.  E  se  alcuno  dicesse  che  Dio  or- 
dinò certo  corso  alla  natui-a,  e  poi  fece  contro  al  corso, 
e  rimutò  suo  primo  volere,  dunque,  non  è  egli  perma- 
nevole  ^  io  li  dirò  che  natura  non  ha  che  fare  nelle  co- 
se che  Dio  si  serbò  in  sua  podestate,  che  sempre  ebbe 
il  padre  in  volontade  lo  nascimento,  la  passione  e  la 
morte  e  la  natui*a  e  la  resurrezione  del  suo  figliuolo. 

Capitolo  IX. 
La  ragione  come  Iddio  non  ha  nullo  tempo. 

L^  eternità  di  Dio  si  è  anzi  a  tutti  i  tempi,  ed  a  lui 
non  è  nulla  divisione  del  passato  tempo  al  presente  e 
a  quello  che  dee  venire.  Ma  tutte  cose  sono  presenti 
a  lui,  per  ciò  ch^egh  le  abbraccia  tutte  per  la  sua  etor- 
nitade^  ma  questi  tre  tempi  sono  in  noL  Ragione  co* 
me  Tuomo  dice  del  tempo  eh'  è  passato,  io  donato^ 
e  del  tempo  che  ha  a  venire  dice  Puomo,  io  donerò^  e 
del  tempo  ch^è  presente,  dice  io  dono.  Ma  Dio  li  eom» 
prende  tutti  si  universalmente,  che  tuttociò  che  fece 
e  che  fa  e  che  faih  è  a  lui  come  presente.  E  sappiate 
ohe  tempo  non  appartiene  niente  alle  creature  db» 
sono  sopra  'l  cielo,  ma  appartiene  a  quelle  che  sono 
disotto  ^  che  dinanzi  al  cominciamento  del  mondo  non 
era  nullo  tempo,  per  ciò  che  tempo  fu  fatto  e  stabilito 
per  cominciamento,  che  tutte  cose  furo  allora  comin" 
ciate,  che  '1  tempo  non  ha  nulla  parte  corporalmente. 


LIBRO  PAIMO.  I  5 

che  a  poco  a  poco  vanno  e  vengono,  e  per  ciò  non  ha 
in  loro  nulla  fermezza ,  ciie  tutti  tempi  si  muovono 
tostamente  e  lievemente.  Per  ciò  dico  io  che  tutti  que- 
sti tre  tempi,  cioè  il  preterito,  il  presente,  il  futuro, 
non  50D  se  non  pei*  sapere  che  V  uomo  si  sovvegna 
defle  cose  andate,  e  isguardi  le  presenti  e  prevegghi 
ipteHe  che  sono  a  venire. 

Capitolo  X. 
Qai  dice  come  io  Dio  non  è  nullo  mutamento. 

Ciò  non  è  niente  così  in  Dio,  anzi  è  a  tutti  tre  i 
tempi  insieme  presenzialmente.  Perciò  fallano  quelli 
rhe  dicono  che  in  lui  è  il  tempo  mutato,  quando  gli 
venne  novello  pensamento  di  fare  il  mondo.  Ma  io 
dico  bene  che  questo  facimento  fu  nel  suo  consiglio 
eiemalmente  ^  e  che  dinanzi  al  cominciamento  non 
era  nullo  tempo ,  ma  era  nella  sua  etemitade ,  che  ^1 
tempo  fu  cominciato  [)er  le  creature  e  non  le  creature 
[ler  lo  tempo.  Alcuno  puote  domandare,  che  facea  Id- 
dio anzi  ch'egli  facesse  il  mondo?  E  come  gli  venne 
subitamente  in  volontade  di  fare  il  mondo  ?  Che  egli 
volesse  alcuna  volta  cosa ,  che  egli  non  volea  in  pri- 
ma. Ma  io  dico  che  novella  volontade  non  gli  venne 
'li  fare  il  mondo,  e  poniamo  che  'l  mondo  non  fosse 
nnque  fatto,  tutta  fiata  era  egli  nel  suo  eternai  consi- 
glio. E  dall'altra  parte  Dio  e  la  sua  volontade  è  e- 
Iemale  senza  mutamento.  Quella  materia  di  cui  quelle 
n)se  furo  formate,  e  la  varietade  delli  nascimenti  fu- 
lon  nel  suo  eternai  proponimento ,  e  non  ha  niente 
di  tempo.  E  sì  ne  potrete  intendere  una  simiglianza. 


I  6  Iti  TESORO. 

Lo  suono  si  è  innanzi  al  canto,  per  ciò  che  la  dolcezza 
del  canto  appartiene  al  suono,  ma  il  suono  non  ap^ 
partiene  niente  alla  dolcezza  del  canto,  e  non  per  tanto 
amendue  sono  insieme,  e  di  quella  materia  fu  detto  a 
dietro  disella  non  avea  imagine,  ne  similitudine,  né 
figura  alcuna,  per  ciò  eh'  elle  non  erano  formate  an- 
cora le  cose  che  doveano  essere  fatte.  Ma  quella  ma- 
teria era  fatta  di  niente.  Io  dico  che  la  chiarezza  al  co- 
minciamento  fu  divisa  dalle  tenebre.  Conciossiacosa- 
ché Dio  disse  per  la  bocca  del  profeta  :  i'  son  colui 
che  faccio  la  chiarezza  e  creo  le  tenebre.  Non  debbia 
perciò  nìuno  credere,  che  le  tenebre  abbino  corpo. 
Ma  la  natura  degli  angioli  che  non  trapassano  la  vo- 
lontà di  Dio  è  chiamata  chiarezza,  e  la  natura  di  co- 
loro che  trapassano  è  appellata  tenebrea.  E  per  ciò 
dice  la  Bibbia,  che  al  principio  fu  divisa  la  chiarezza 
dalle  tenebre,  cioè  a  dire  che  Dio  creò  tutti  gli  an- 
gioli, e  de' buoni  fece  la  chiarezza  e  de' rei  le  tenebre. 
Li  buoni  angioli  creò  egli,  e  appressorsi  a  lui,  e  i  rei 
creolli  buoni ,  ma  elli  non  si  appressaro  a  luL  Dio 
lece  tutte  cose  molto  buone.  Nulla  cosa  è  ria  per  na- 
tura, ma  se  noi  le  usiamo  malvagiamente,  elle  diven- 
tano rie.  E  cosi  si  cambia  buona  natura. 

Capitolo  XL 

Qui  dice  come  il  male  fu  trotato. 

Lo  male  fu  trovato  per  lo  diavolo  e  non  innanzi,  e 
f  >crciò  è  egli  nulla,  perchè  la  cosa  senza  Iddio  è  nulla  ^ 
che  Dio  non  fece  mai  io  male.  Ma  gii  eretici  credono  e 
dicono  che  Dio  facesse  il  bene,  «il  diavolo  il  male.  E 


LIBRO  PROia  I  ^ 

COSÌ  credono  che  siano  due  nature,  una  di  bene  e 
r  altra  di  male.  Ma  elli  son  ingannati  per  ciò  che  U 
male  non  è  niente  per  natura,  anzi  fu  Irò  veto  per  lo 
diavolo.  E  ciò  fu  allora  che  V  angiolo  ch^  era  buono 
diventò  rio  per  la  sua  superbia ,  e  trovò  lo  male.  £ 
die  1  male  non  sia  per  natura,  egli  appare  tutto  chk- 
lamente,  che  tutte  le  nature  o  elle  sono  permanevoli 
cioè  Iddio,  o  ella  è  rimutevole,  cioè  la  creatura^  ma  il 
male  non  è  creatura,  però  che  se  il  male  viene  sopra 
la  bona  creatura  sì  la  &  viziosa,  e  quando  egli  se  ne 
diparte  la  «natura  dimora,  e  questo  male  non  è  niente 
in  nullo  luogo ,  e  anche  nulla  cosa  cambia  ch^  è  na- 
turale. Alcuno  domanda,  perchè  lascia  Dio  nascere  le 
male  cose  ?  Dico  che  egli  lo  fa  perchè  la  bellezza  della 
bona  natura  fosse  conosciuta  per  lo  suo  contrario,  che 
due  cose  contrarie  quando  sono  insieme  V  una  con- 
tra  r  altra  sono  più  conoscenti.  Se  ti^  levassi  li  peli 
delle  ciglia  d^  un  uomo,  tu  ne  leveresti  picciola  cosa, 
ma  tutto  il  corpo  ne  sarebbe  più  laido.  Così  è  se  tu 
biasimi  in  tra  tutte  le  creature  un  picciolo  vermicello 
che  sia  malvagio  per  natura,  certo  tu  fui  torto  a  tutte 
le  creature.  Tutti  i  mali  sono  venuti  sopra  l' umana 
generazione  per  lo  peccato  del  primo  uomo,  e  perciò 
tutti  mali  che  sono  in  noi,  o  elli  sono  per  nascimento, 
o  elli  sono  per  nostra  colpa.  Molti  dicono  che  i  mali 
sono  nelle  creature,  cioè  nel  fuoco  però  clie  arde,  e 
nel  ferro  però  che  taglia,  ma  elli  non  considerano 
che  queste  cose  sono  buone  per  natura ,  ma  per  lo 
peccato  del  primo  uomo  diventaro  nocevoli.  Che  anzi 
che  quel  peccato  fosse,  tutte  le  cose  erano  sottomesse 
air  uomo  che  nulla  cosa  li  potea  nuocere.  £  cosi  sono 


I  8  IL  TESORO. 

le  cose  Docevolì  ali'  uomo  per  lo  suo  peccato,  e  non 
pei'  natura.  Sì  come  la  chiarezza  è  buona  per  natura, 
cusì  è  eUa  ria  agli  oochi  infermi,  e  ciò  avviene  per  li 
vizii  degli  occhi  e  non  dalla  chiarezza.  L' uomo  fii 
male  in  due  maniere,  o  nel  pensiero,  o  nell^  opera. 
Quello  che  nel  pensiero,  è  appellata  iniquitade,  ed  è 
in  tre  maniere,  o  in  tentazione,  o  in  diletto,  o  in 
consentire.  Quello  che  in  opera,  è  appellato  peccato. 
Ed  è  altresì  in  tre  maniere,  o  in  parole,  o  in  &tto,  o 
in  perseveranza.  Ma  il  profeta  Davite,  nel  cominciCH 
mento  del  psultero ,  nomina  tre  maniere  di  peccata 
Lo  primo  è  mal  pensiero,  che  viene  per  tentazione  e 
per  malvagio  consiglio.  Lo  secondo  è  in  opera.  Lo 
terzo  si  è  nella  perseveranza  del  male,  onde  P  uomo 
dà  agli  altri  esempio  di  mal  fare.  Questi  tre  peccati 
significano  li  tre  morti  che  Cristo  resuscitò.  L' uno 
eh'  era  dentro  alla  magione,  cioè  io  peccato  occulta 
L'alti'o  che  era  nel  mezzo  della  via,  ciò  fu  il  figUucdo 
della  donna  vedoa,  che  significa  coloro  che  fanno  il 
peccato  nel  cospetto  della  gente.  Lo  terzo  fu  Lazzaro 
di  quattro  giorni,  ciò  significa  coloro  che  perseverano 
nel  male  infìn  alla  vecchiezza. 

CA.prroi.0  XII. 

Qui  dice  della  natura  degli  angioli. 

Angioli  sono  spiiili  naturalmente,  e  la  natura  loro 
è  vitale,  ma  la  carità  durabile  li  guai'da,  senza  corru- 
zione. E  così  sono  elli  peimanevoli  pei'  gi'azia,  e  non 
l>er  natura.  Che  se  fosseno  per  natura,  gli  angioli  che 
divonnenj  rei  non  sarebbeno  mai  caduti.  Ma  quegli 


LlUiO  PRUUO.  ]  Q 

eh'' ebbe  nome  Lucifer,  a  cai  Iddio  avea  futto  tanto 
onore,  che  ayea  istabilito  sopra  tutti  gli  altri,  egli 
montò  in  oi^oglio,  per  ciò  eh'  e'  si  assicurò  delia  signo- 
rìa ch'egli  ebbe  sopra  gli  altri.  E  per  ciò  ch'egli  peccò 
sona  nulla  cagione,  cadette  di  cielo  in  terra  senza  ri- 
tòmo con  tutti  coloro  che  lui  ubbidirò,  che  furo  be* 
ne  un  ordine,  di  tutti  gli  ordini  mischiati.  E  così  per 
io  peccato  della  sup»J>ia  gli  angioli  divennero  di- 
monL  Chi  mi  domandasse  quanto  tempo  stette  Luci** 
kro  in  cielo  poi  che  fu  creato  con  tutti  gli  altri  an- 
gioli, io  gli  risponderei,  che  non  dimoraro  un'ora 
compilata  che  egli  montò  in  orgoglio  con  gli  altri,  e 
caddero  sì  come  è  detto.  E  poi  che  fu  caduto  ingan- 
nò egli  Adam  ed  Eva,  lo  primo  uomo  e  la  prima  fé- 
mina  nel  paradiso  delitiarum.  Fece  loro  mangiare  Io  * 
pomo  vietato,  contra  il  comandamento  di  Dio.  Ma 
Adam  trovò  in  Dio  mercede,  però  eh'  egli  si  pente,  e 
sì  conobbe  eh'  egli  era  sotto  a  Dio.  Ma  Lucifcr  disse 
eh'  era  pari  a  Dio,  e  grande  come  Dio.  E  per  ciò  che 
Don  si  pente  niente ,  non  ebbe  egli  perdono.  Ed  io 
dico  che  l' uomo  trovò  perdono  per  ciò  che  la  fallenza 
del  peccare  venne  in  lui  da  parte  del  corpo  eh' è  del 
limo  della  terra.  Ma  gli  angioli  cacciati  peccaro ,  che 
non  ebbero  caricamento  di  nulla  carne,  né  dì  nulla  ma- 
lizia. E  poi  che  lì  malvagi  angioli  furon  caduti,  li  buoni 
furon  confirmati  in  ben  fare  in  tal  maniei*a ,  che  mai 
non  poterò  peccare.  E  di  ciò  dice  la  Bibbia,  che  al  se- 
condo giorno  fu  istabilito  il  firmamento,  e  fu  il  cielo 
appellato  firmamento.  Nove  son  gli  ordini  de'  buoni 
angioli,  e  tutti  sono  istabiliti  per  gradi  e  per  dignita- 
dì.  E  ciascuno  ordine  ubbidisce  all'  altro,  secondo  il 


20  li,  TESORO. 

SUO  officio.  Questi  sono  lì  ordini:  angioli,  arcai^p<^) 
troni,  dominazioni,  virtudi,  principati,  potestati,  che* 
rubini  e  serafini.  Gli  angioli  sanno  tutte  le  cose  per 
parola  di  Dio ,  anzi  che  elle  sieno  fatte.  £  sanno  an- 
cora le  cose  che  sono  a  venire  agli  uomini.  E  tntto 
sia  che  gli  angioli  che  caddero  perdessero  la  lor  bel- 
lezza, elli  non  perderò  niente  la  virtude  del  senno  che 
fu  loro  dato.  £  ciò  che  possono  sapere  delle  cose  fa- 
ture  si  è  in  due  maniere,  o  per  isperanza  del  tempoi, 
o  per  rivelazione  di  podestade  che  £ai  loro  disopra. 
Quando  Iddio  si  corruccia  al  mondo,  egli  manda  li 
rei  angioli  in  vendetta,  ma  tuttavia  egli  li  constrìn^ 
che  non  facciano  tanto  di  male  quanto  desiderana 
Ma  i  buoni  angioli,  egli  manda  in  officio  di  salute 
*  degli  uomini.  E  perciò  dicono  molti,  che  ciascun  uo- 
mo ha  seco  un  angiolo,  ch^è  ordinato  a  guardarla 

Capitolo  Xm. 

Qui  parla  deiruomo  perche  egli  fu  ùitto. 

Tutte  cose  dal  cielo  in  ^uso  furo  fatte  per  V  uoniQ^ 
ma  r  uomo  fu  fatto  per  sé  medesimo.  £  che  ruonió 
sia  in  più  alta  dignitate  che  nulla  altra  creatura,  ap- 
pare chiaramente  per  la  riverenza  di  Dio.  €2hè  di  tu^ 
te  altre  cose  comandò  Iddio  sia  fòtto  così  e  cosi,  mi 
delPuomo  mostra  che  vi  pensasse  nel  suo  ccmsiglio  di- 
ligentemente, quando  egli  dbse:  facciamo  Tuomo  aUa 
imagine  e  similitudine  nostra.  Iddio  fece  Adam,  iim 
ia  femina  fu  fatta  della  costa  delFuomo.  LUiomo  fa 
fatto  alla  imagine  del  Signore  Iddio:  ma  la  femina  fu 
fatta  alla  imagine  dell^  uomo,  e  perciò  sono  le  feBuae 


IJBRO  PRIMO.  2  r 

sottomesse  all^  uomo  per  l^ge  di  natura.  Anche  fa 
fililo  r  nomo  per  sé  medesimo,  e  la  femina  fa  fìitta 
per  aintare  lui.  L^  uomo  pel  suo  peccato  fu  dato  al 
diavolo,  quando  gli  fu  detto  tu  sei  di  terra  e  in  terra 
toraendL  Allora  fu  detto  al  serpente,  cioè  al  diavolo: 
tal  manglerai  la  terra,  cioè  a  dire  li  malvagi  uomini  e 
le  mal^'Bgie  lemine. 

CkpiTOLO  XIV. 
Qui  dice  della  natura  deir  anima. 

L^ anima  è  vita  dell^uomo,  e  Dio  è  vita  delF anima: 
ma  r  anima  dell'  uomo  non  è  uomo,  ma  il  suo  corpo, 
che  fu  fìitto  di  terra  umida,  è  solamente  uomo.  L'a- 
nima si  abita  dentro  dal  corpo,  e  per  questo  con- 
giongimento  della  carne  ella  è  appellata  uomo.  Che 
secondo  che  l'apostolo  dice,  P anima  fu  fatta  nella 
carne  alla  imagine  di  Dio.  E  per  ciò  sono  quelli  in  er- 
rore, die  credono  che  P  anima  abbia  corpo,  che  ella 
è  fatta  alla  imagine  di  Dio,  ma  non  è  niente  in  tal  ma- 
niera eh'  ella  sia  mutabile,  ma  ella  è  senza  corpo  si 
come  sono  gli  angioli,  i  quali  sono  fatti  alla  imagine 
di  Dio  altresì  come  l' anima.  E  sappiate  che  le  anime 
hanno  cominciamento,  ma  elle  non  avranno  giammai 
(ine.  Che  elle  son  cose  in  tre  maniere.  L' une  che  sono 
corporali,  le  quali  cominciano  e  finiscono.  Le  altre  sono 
perpetuali,  che  cominciano  e  non  finiscono,  e  ciò  sono 
gli  angioli  e  le  anime.  Le  allre  sono  sempiternali,  che 
non  cominciano  né  non  finiscono,  cioè  Iddio  e  la  sua 
divinitade.  L'anima  non  è  divina  sostanza  ne  divina 
natura,  e  non  è  fatta  anzi  che'l  suo  corpo,  ma  a  quella 


32  Ili  TESORO. 

ora  medesima  è  creata,  che  ella  è  messa  dentro  dal  suo 
corpo.  Molte  nobilita  sono  neir  anima  per  natura,  ma 
ella  isoema  la  sua  nobilita  per  lo  meschiamento  del 
corpo,  eh'  è  fiebole  e  debile,  onde  la  fa  peccare. 

Capitolo  XV. 

Deir  uflìcio  e  de^  nomi  del  corpo  e  delP  anima. 

Noi  aTanziamo  li  altri  animali,  non  per  forza,  né 
per  senno,  ma  per  ragione.  £  la  ragione  è  nell^  anima, 
ma  senno  e  forza  sono  nel  corpo.  Ekl  alle  corporali 
cose  basta  bene  lo  senno  della  carne,  ma  alle  cose  non 
corporali  è  mestiere  la  ragione  delP  anima.  E  sappia- 
te che  ragione  è  nelP  anima,  e  V  anima  per  molti  o^ 
fìci  è  appellata  per  tal  nome  come  a  quello  uflicia 
s^  appartiene.  Che  in  ciò  eh' è  la  volontà  d^  alcuna  oo^ 
sa  si  è  appellata  coraggio.  E  per  ciò  che  ella  giudica 
drìtlamente  ella  è  appellata  ragione.  E  per  ciò  ch^dla 
spira  ella  è  appellata  spirito.  E  per  dò  ch^ella  sente 
ella  è  appellata  senso.  Ma  per  ciò  ch'ella  ha  sapienza 
si  è  appellata  intendimento.  E  al  vero  dire  V  intefr- 
dimento  è  la  più  alta  parte  dell'  anima,  che  per  lui 
noi  avemo  ragione  e  conoscimento,  e  per  lui  V  uomo 
è  appellato  immagine  di  Dio.  Ragione  è  un  mon" 
mento  dell'anima,  che  assottiglia  la  veduta  dello  in- 
tendimento e  sceglie  il  vero  dal  falso.  Ma  il  corpo  ha 
cinque  altn  sensi,  cioè  vedere,  udire,  odorare,  gnitfr- 
re  e  toccare.  E  sì  come  l' uno  avanza  l' altro  e  ha 
orranza  di  stallo,  così  avanza  l' uno  l' ahro  per  virtn- 
de.  Che  odorare  sormonta  il  gustare  e  di  luogo  e  di 
viriude,  eh'  egli  è  più  in  alto  e  opera  sua  virlà  più 


LIIBO  PRmO.  25 

dalla  luDga.  Altresì  udire  sormonta  V  odorare,  che  noi 
odiamo  più  dalla  lunga  che  non  odoriamo.  Ma  lo  ve- 
dere  sormonta  tutti  gli  altri  di  luogo  e  di  yirtude.  Ma 
tutte  queste  cose  sormonta  F  anima,  la  quale  è  assisa 
odia  mastra  fortezza  del  capo,  e  si  guarda  per  suo  in- 
tendimento, senza  ch^  ella  il  corpo  non  tocca,  e  che 
non  Tiene  ìnfino  agli  altri  sensi  del  corpo.  Per  ciò  di- 
cono li  savi,  che  1  capo,  ch^è  magione  dell^  anima,  ha 
tre  celle,  una  dinanzi  per  imprendere,  P  altra  nd 
mezzo  per  conoscere,  e  la  terza  diieto  per  memoria  ^ 
per  ciò  sono  molte  cose  nella  intenzione  dell^  uomo 
che  non  le  potrebbe  dire  lingua.  E  questa  è-  la  ragio- 
ne perchè  li  fendulli  sono  innocenti  del  fare,  e  non 
dd  pensare.  Per  ciò  che  non  hanno  potere  di  compi- 
re il  movimento  del  suo  coraggio  5  e  cosi  hanno  essi 
fralezza  per  etade,  ma  non  per  intenzione. 

Capitolo  XVI. 
Della  memoria  e  della  ragione< 

Memoria  è  tesoriera  di  tutte  cose,  e  guardatrìce  di 
tutto  quello  che  V  uomo  truova  novellamente  per  sot- 
tigliezza d^  ingegno,  o  che  V  uomo  imprenda  d^  al- 
trui. Che  tutto  ciò  che  noi  sappiamo  si  è  per  quelle 
due  maniere,  o  che  noi  troviamo  di  novello,  o  che 
ci  sia  insegnato.  La  memoria  è  si  tenente,  che  se  al- 
cuna cosa  si  leva  dinanzi  del  corpo,  ella  serra  in  sé 
la  similitudine  di  quella  cotal  cosa.  Ma  della  beatitu- 
dine si  sovviene  ella  per  immagine,  e  d^  altre  cose  per 
sé  medesima  :  se  non  fosse  per  lei  medesima,  ella  si 
dimenticarebbe.  La  memoria  é  comune  agli  uomini  e 


24  II'  TESORO. 

agli  altri  animali,  ma  intendimento  di  ragione  non  è^ 
in  niuno  altro  animale  che  nell'uomo;  che  tutti  gli  al- 
tri animali  sono  quasi  una  cosa  ne'  sensi  del  corpo^ 
ma  non  hanno  nulla  per  intendimento  di  ragione. 
Per  ciò  fece  Domenedio  V  uomo  in  tal  maniera,  che' 
la  sua  veduta  isguardi  tuttavia  in  alto,  per  significan-*^ 
za  della  sua  nobiltade.  Ma  gli  altri  animali  fece  egli 
tutti  chinati  inverso  la  terra,  per  mostrare  lo  podere 
di  sua  condizione,  che  non  fanno  altro  che  seguire  la 
loro  volontà  senza  niuno  sguardo  di  ragione. 

Capitolo  XYII. 

Qui  dice  come  le  leggi  fur  primieramente. 

Poi  eh' e'  malvagi  angioli  ebber  trovato  il  male,  ed 
ebbe  fatto  il  primo  uomo  il  suo  peccato,  si  radicò  so» 
pra  l'umana  generazione  in  tal  maniera,  che  le  geo* 
ti  che  nacquero  appresso  erano  più  correnti  al  male 
assai  che  al  bene.  E  per  restringere  lo  male  che  £bh 
ceano  contra  la  reverenza  di  Dio  in  distruzi(ȓe  dd* 
l'umanitade,  convenne  che  le  leggi  fosser  fatte  in  ter* 
ra.  E  questo  fue  in  due  maniere,  cioè  legge  divina  e' 
legge  umana.  Moises  fu  il  primo  uomo  a  cui  Iddio 
desse  la  legge,  ed  egli  la  diede  agli  ebrei.  Il  re  Fon>* 
neus  fu  il  primo  che  la  desse  a'  Greci.  E  Mercorìas' 
a  quelli  d' Egitto.  E  Salathiel  la  diede  a  Darteniai 
E  Licurgus  a'  Spartani.  E  Numa  Pompilius,  che  r^ 
gnò  in  Roma  dopo  Romulo,  fece  legge  e  didla  i^'Ho^  . 
mani  in  primamente.  Ma  dieci  savi  nomini  traiulatftì* 
ron  poi  il  libro  di  Solon  in  la  l^;ge  di  dodici  tavole. 
Ma  quella  legge  invecchiò  poi  tanto^  che  non  era  iiieiH: 


«  umAnqro.  a$ 

te  Mi  cmte..|fc  b  iiMpiiiiiiiiii  OaitWitino  rioofMofaH 

fmmkn^mdmù  al  tMupo  dett^iaipendioni  CiuiifeiiiHH 
■%4Ehfttntte  k  Mm  .«d  ordinò  me^tìf^  e  pi&  jirtiot 
mmmoÈ^d^  ohm  Jtre  iiii|p^i>ikiii  che dJainri  •  ku 
Cm»  JiMtt.  E  foniolb  «id  oon^cUa  è  «aconu 


CAffiTpibXYIIL 

<^  dk»  adii  ai^M  le^.  ^ 

Lm  dram  ^89^  "  ^  P''''^  mtariiy  db  non  per  tanni 
db  fa  flMflfa  ni  npìrilo^  e  confermata  primiennienle 
por  li  prafetiy  e  cìb  è  il  Teochio  Tes^amoito.  Poi  fu  il 
novoTeaianiaito,  isonfiinnato  per  GresùCrìstose  per  li 
9éÀ  dinepolLMa  .unafnaaniefa  di  gente  la  bìanni»- 
no^<pciò  che  TI  <fioea  altre  oose  che  nel  nuovo.  Ma 
non  caaaideffano  e^^iino  che.  Iddio  per  lasoagraide 
potema  diede  all'  un  tempo  e  all'  altro  ciò  dhie  con- 
vcnerele  Al  C3bè  ndla  Tecchia  legge  comandò  egli  il 
matrimonio,  ma  né.  Tangdio  predicò  egli  la  virginità^ 
de.  JRiella  vecchia  le^^  comandò  egli  cavare  occhio 
per  ocGhk)^  ma  nel  vangelio  comandò  di  parare  V  al- 
tfa  goÈtL  quando  V  una  fosse  ferita.  E  al  vero  dire, 
cotale  fu  la  vecdua  legge  per  la  fralezza  delle  genti,  e 
tale  la  nuova  per  loro  perfezione.  Che  al  primo  tem- 
po era  fl  peccato'  di  minore  colpa  che  non  è  ora,  per 
dò  .die  ancora  non  era  saputa  la  veritade,  anzi  la  ft- 
gara  della' veritade.  E  per  ciò  è  la  legge  più  fòrte  che 
db  non  sade  eaifiPi'Egli  avvenne  ndl'  antico  ten^ 
pò  che  quando 'aMno  uomo  salutava  V  angelo,  egli 
non  ^  rendea  Hano salato,  anzi  il  dispregiava.  Bla 

Laiim,  VoU  J.  a 


36  Ui  TESORO. 

nel  nuovo  Testamento  leggiamo  noi  che  Grabrìelló  sa- 
lutò Maria.  E  quando  GioTanni  salutò  V  angelo,  egli 
li  rispose  in  cotal  maniera  :  guarda,  dissali,  non  fe- 
re, eh'  io  sono  tuo  servo  e  delli  tuoi  frati.  Ora  v'  ho 
divisato  il  conto  del  vecchio  Testamento  e  del  nuovoj 
e  della  legge  divina  e  della  legge  umana.  Ma  per  ciò 
che  comandare  o  stabilire  legge  poco  vale  in  tra  gli 
uomini,  se  non  vi  fosse  alcuno  che  la  potesse  costrin- 
gere; sì  convenne  che  per  esaltare  giustizia  e  per 
mortificare  il  torto,  fossero  istabiliti  in  terra  re  e  si- 
gnori di  molte  maniere.  Perciocché  è  buono  a  visita- 
re lo  cominciamento  e  1  nascimento  de'  re  e  de'  loro 
reami. 

Capitolo  XIX. 

Come  i  re  e  reami  furo  iitabillti  primamente. 

Due  regni  furono  in  terra  principalmente,  che  d'al- 
tezza e  di  fortezza  e  di  nobiltade  e  di  signorìa  sor- 
montano tutti  gli  altri  in  tal  maniera  che  tutti  altrì  re 
e  reami  erano  quasi  pendenti  da  questi  due  :  ciò  fu  il 
regno  degli  Assirìani  primieramente,  e  poi  qndlo  dei 
Romani.  Ma  elU  furo  divisati  in  tempo  e  in  luogo. 
Che  innanzi  fu  quello  degli  Assirìani  e  poi  alla  sua  fr* 
ne  fu  quello  de'  Romani.  Quello  degli  Assirìani  fa  in 
Egitto  in  Orìente,  che  tutto  è  uno  regno  ;  cioè  qudk> 
degli  Assirìani  e  quello  di  quelli  d'Egitto.  Ma  il  r&- 
gno  de'  Romani  si  è  in  Occidente,  tutto  che  ciascu- 
no di  loro  tenesse  la  monarchia  di  tutto  il  mondo.  ÌSb 
perciò  chel  mastro  non  potrebbe  ben  dire  il  nasci- 
mento delli  re,  se  non  comincia  li  lignaggi  del  primo 
uomo,  sì  tornerà  egli  a  quella  parte  il  suo  conto,  se* 


UBKO  PUIIO.  37 

condo  rordine  ddl'  elade  del  secolo,  per  più  aperta- 
mente mostrafe  lo  stato  éi  comìnciameiito  delle  genti, 
in  fino  al  nostro  teni|x>.  Sappiate  die  Petade  del  se*- 
colo  foro  sei.  Onde  la  prima  fii  da  Adam  infino  a 
Noè.  La  seconda  fu  da  Noè  infino  ad  Abraam.  La 
terza  fa  da  Abraam  infino  a  David.  La  quarta  da  Da- 
vid infiao  al  tempo  di  Faraone^  quando  egli  disfece 
lerusakm  e  prese  li  Giudei.  La  quinta  fu  d^  allora 
infino  al  nascimento  di  Cristo.  La  sesta  durerà  dal 
nascimento  di  Cristo  infino  aUa  fin  dd  mondo. 

Capftoix)  XX. 

Qui  dice  delle  cote  die  furo  nèh  prima  eiade  del  secolo. 

Nella  prima  etade  fisoe  il  nostro  sovrano  Padre  il 
mondo,  cielo  e  terra  e  tutte  le  altre  cose,  secondo 
che  il  conto  divisa  qua  a  dietro.  E  sappiate  che  pas- 
sati trentanni  poi  che  Dio  ebbe  cacciato  Adam  di 
paradiso  terreno,  ingenerò  egli  in  una  sua  oK^lie 
Cha]^^!.  £  poi  una  figliuola  ch^  ebbe  nome  Chal- 
manaon.  E  quando  Adam  fue  nell^  etade  di  trentadue 
anni,  ingenerò  egli  Abel.  E  poi  una  figliuola  ch^bbe 
nome  Delcora.  Quello  Abel  fu  uomo  di  buona  vita 
e  fu  grazioso  a  Dio  e  al  mondo,  ma  Chaym  suo  fra 
tello  l'uccise  con  ferro  per  invidia.  E  ciò  fu  quando 
Adam  loro  padre  ebbe  compiuto  cento  e  trent'  anni. 
£  allora  ingenerò  Adam  un  altro  figliuolo,  lo  quale 
ebbe  nome  Seth.  E  di  suo  lignaggio  nacque  Noè,  se- 
condo che  l'uomo  potrà  vedere  in  questo  conto  me- 
desimo. Poi  alquanto  tempo  che  Chaym  uccise  Abel 
suo  frate,  ingenerò  egli  Enoch.  Queir  Enoch  suo  fi- 


28  II,  TESORO. 

gliiiolo  fece  una  città  di'  ebbe  nome  Efraim.  Ma  mol- 
ti rappettaTano  Enoch,  per  Io  nome  di  Enoch.  E  sap- 
piate che  quella  fu  la  prima  città  del  mondo.  Quello 
Enoch  figliuolo  di  Chaym  ingenerò  Irad.  Di  Irad  nac- 
que M attusalael.  Dì  Mattusalael  nacque  Lamech.  Quel- 
loLamech  ebbe  due  mogli,  ciò  fìi  Sella  e  Ada.  E  di  Ada 
ingenerò  labal.  E  labal  e  coloro  che  di  loro  uscirò,  fe- 
cer  primamente  tende  e  loggie  per  loro  riposare.  labal 
suo  frate  fu  il  primo  uomo  che  troTÒ  cetera,  e  org»* 
ni,  e  altri  stnuienti.  La  seconda  femmina  di  Lamech 
ebbe  nome  Sella,  e  di  lei  ingenerò  egli  Tubalchaim 
che  fu  il  primo  fabbro  del  mondo.  E  di  lui  poi  usci- 
rò molti  malvagi  lignaggi ,  che  abbandonaro  Iddio 
e  li  comandamenti  suoi.  E  poi  che  Lamech  fu  di  si 
gran  vecchiezza  che  non  vedn  nulla,  ucoise  e^  per 
ventura  Chaym  con  una  saetta,  ditegli  li  trasse  d'u- 
no aroo.  Ma  chi  questa  storia  vorrà  sapere  più  ttpec- 
tamente,  si  se  ne  vada  al  grande  conto  del  vecchio 
Testamento,  e  quivi  il  troverà  diligentemente.  E  sap- 
piate che  quando  Adam  fu  in  etade  dì  aSo  anni,  dn 
be  egli  un  altro  figliolo  della  sua  moglie,  die  anche  è 
appellato  Seth.  E  quando  Adam  fu  in  etade  di  930  wat- 
m  egli  mono,  sì  come  piacque  a  Dio  che  Pavea  fiitlo 
di  vile  terra.  Di  Seth  figliuolo  d' Adam  nacque  Enos, 
d'Enos  nacque  Chainam,  di  Ghainam  nacque  HHaLa- 
leel,  di  Malaeel  nacque  laret,  di  laret  nacque  Eòodi, 
di  cui  nullo  uomo  seppe  suo  fine,  che  Dio  lo  menò  là 
ov'egli  volse.  E  egli  sarà  suo  testimonio  al  dì  M  ghi- 
dìzio.  E  dicono  molti  ch'egli  è  ancora  vivo,  nel  luogo 
medesimo  onde  Adam  fu  cacciato  quando  il  nimico 
deìPumana  generazione  l' ingannò  per  lo  pomo.  Di  quel- 


IJUO  PBIMO.  29 

lo  Enoch  naeque  Matasala,  di  Matasala  nacque  La^ 
mech,  che  fa  padre  di  Noè.  Quel  Noè  fu  prode  uomo, 
e  di  buona  fede.  Credette  in  Dio  e  amolio  forte,  tanto 
che  Dio  lo  scése  per  lo  migliore  uomo  del  mondo, 
quando  e(jiì  mandò  il  diluvio  sopra  la  terra,  per  di- 
stnuione  della  gente  che  non  faceva  se  non  male.  E 
aUora  fu  la  fine  della  prima  generazione  del  secolo  che 
durò  Modxii  anni  secondo  che  la  Scrittura  testimonia. 

CAPnoLO  XXI. 

Qui  dice  delle  cote  che  foro  nella  seconda  generasìone 

del  secolo. 

Noè  che  fu  il  nono  discendente  di  Adam  lo  prìmo 
uomo,  visse  ottocent'anni.  E  quando  egli  fu  nell^eta- 
de  di  seicent^anni,  ingenerò  egli  tre  figliuoli,  Sem,  Cham 
e  lafiet  E  poi  db^c^  fu  vivuto  seicent'  anni,  sì  fece 
egli  la  grande  arca,  per  comandamento  del  nostro  Si- 
gnore. E  dentro  a  quéU^  arca  campò  egli  e  la  sua  fa- 
miglia. Onde  elli  furo  otto  tra  uomini  e  femine.  E 
\i  voglio  dire  eh'  ^li  ebbe  dentro  in  quell'  aica,  per 
la  volontà  di  Dio,  di  tutte  maniere  bestie  e  uccelli, 
maschi  e  femine  una  coppia,  acciò  che  le  seme  degli 
animali  non  si  perdesseno  sopra  la  terra.  E  sappiate 
che  quell'arca  fu  lunga  trecento  cubiti,  e  per  larghez- 
za cinquanta  e  per  altezza  trenta.  £  piovve  acqua  dal 
cielo  quaranta  dì  e  quaranta  notti.  £  durò  centocin- 
quanta giorni  anzi  che  la  cominciasse  a  menomare. 
K  quando  il  diluvio  fu  trapassato,  e  b  terra  fu  sco- 
(»erta,  si  che  ciascuno  animale  poteva  andare  ove  egli 
voleva,  allora  cominciò  la  seconda  età  del  secolo.  E 


3o  IL  TBSOEO. 

Noè  ingenerò  un  altro  figliuolo,  di^  ebbe  nome  Gio- 
nitus,  e  quegli  tenne  la  terra  Deritenta  ch^  è  allato  al 
fiume  di  Eufrates  in  Oriente.  £  fu  il  primo  uomo  che 
trovò  astronomia  e  che  ordinò  la  scienza  del  corso 
delle  stelle.  Ma  di  lui  si  tace  ora  il  conto,  die  più  non 
è  da  dire  in  questa  parte.  E  quando  il  diluvio  fu  tra- 
passato, li  tre  primi  figliuoli  di  Noè  partirono  tutta 
la  terra  del  mondo.  £  fu  in  cotal  maniera,  che  Sem, 
primo  figliuolo  di  Noè,  tenne  tutta  Asia  ^  e  laffet  tut- 
ta Europa  ;  e  Gham  tenne  Afiìca,  si  com^uomo  potrà 
vedere  qua  innanzi  là  ove  il  maestro  dirà  delle  parti 
di  tutta  la  terra. 

Capitolo  XXIL 

Qui  dice  delle  genti  che  nacquero  del  primo  figliuolo  di  Noè. 

Sem  ingenerò  dnque  figliuoli,  li  quali  ebbero  così 
nome:  Elam,  Assur,  Ludin,  Aram  e  Arfasad.  Di  Aram 
figliuolo  di  Sem,  uscirò  tre  figliuoli,  ciò  furo  questi: 
Hus,  Cesar,  Messa.  Di  Arfasad  diretano  figliuolo  di 
Sem,  nacque  Salem.  Di  Salem  nacque  Ebur.  Di  Ebnr 
nacquero  due  figliuoli,  Fabet  e  lattam.  Di  lattam  nac- 
quero dodid  figliuoli,  Elmada,  Fafet,  Samot,  lare, 
Haduram,  Izab,  Elam,  Ebal,  Ebomilet,  Saboa,  Fir  e 
y  ila.  Di  Fabet  suo  frate  figliuolo  di  Ebur  nacque  Reus. 
Di  Reus  nacque  Serus.  Di  Serus  nacque  Nachor.  Di 
Nachor  nacque  Fares.  Di  Fares  nacquero  Abraam, 
Aram  e  Nachor.  Di  Aram,  nacque  Loth,  quegli  che 
scampò  di  Sodoma  e  di  Gomora  per  la  volontà  di  Dio. 


'■-■.,■* 


.umomato.  3i 

Cafitolo  XXHL 

Dalie  gMrti  die  Moqueco  del  eeoondo  figfiàolo  di  Hoè..' 

ij  ■  .  ■ 

y  .  j».      .' 

GiMiqi  lo  seoondofif^iudo  di  Noè^  si  ingeoerò  qoat^ 
tfofi|^wM>.Chus,l|etiÌMinyFuteCh 
primo  fii^ioolo  di  Chanb)  oacquaro  sei  fi|^uoli,  Sab- 
bi^ Eyìb,  SobirtBtfa,  Aepn,  Sabatadia  e  Nembrat  W 
gettile,  che  fii  il  primo  re.  E  di  Begma  'fi^^ioolo  dì 
Clw%  mmoquoDO  Sabba  é  Dadam.  Di  Mesndm  figjUucH 
loifi  .Omm  moqaerp  set  fi^^uoli,  Ludin,  Ansnsnaà, 
Labim,  NefeUm^  Utisiiii  e  Celpsim.  IH  Ghanoan,  fi* 
fiaok>  di  Gbai^  naoqpiero  undici  fi^uoli,  Sados, 
Eonos,  Zdi>iiseafli,  Amoneiis,  Gerseus,  Ekitiis^  Aratus, 

SbnabfB,  àxadiaasy  ^f^pnrìtus  e  Amatheus. 

•  ■* 

CimoLo  XXIY. 

MIé  genti  dbe  nacquero  èA  terso  figliuolo  di  Noè. 
*  • 

'  lafiet  lo  terao  figliuolo  di  Noè  ingenerò  sette  fi- 
gliuoli, Ck»dier,  Magog,  Meral,  luman,  Cubai,  Masot  e 
Tires.  Gómer  lo  figliuolo  di  laffet,  ingenerò  Senos, 
Ba&in  e  T^^oman.  luman  figliuolo  di  laffet,  ingene* 
rò  Elasam,  Tarsi,  Seton  e  Domanin.  Ma  in  ciò  si  tace 
ora  il  conto  di  parlare  delli  figliuoli  di  Noè  e  (Iella  lor 
generazione,  che  egli  vuole  seguire  la  sua  materia,  per 
•divisare  il  conunciamento  delli  re  che  furono  di  prir- 
ma,  onde  gli  altri  sono  discesi  in  fino  al  nostro  tempo 
presente.  Toi  avete  bene  notato  ciò  che  H  i^onto  ha 
divisato  dinanzi,  come  Nembrot  nacque  di  Chus  fi- 
gliuolo di  Cham,  che  fu  figliuolo  di  Noè.  E  sappiale 


03  IL  TfiSOHO. 

che  al  tempo  di  Salem,  che  fu'  della  schiatta  di  Sem, 
quel  Nembrot  edificò  la  torre  di  Babel  in  Babilonia, 
ove  addivenne  la  diversità  del  parlare  e  confusione 
del  parlare,  o  vogli  deUinguaggi.  E  Nembrot  medesimo 
mutò  la  sua  lingua  di  ebreo  in  caldeo.  £  alF  ora  se 
n^  andò  egli  in  Persia.  Ma  alla  fine  e^  ritornò  ne) 
suo  paese^  cioè  in  Balulonia.  E  insegnò  alla  sua  ^en- 
te novella  legge.  £  facea  loro  adorare  il  fuoco  come 
Dio.  E  d^  allora  indrieto,  cominciò  la  gente  adorare 
idoli.  E  sappiate  che  la  città  di  Babilonia  gira  intor- 
no sessanta  milia  passL  E  la  torre  di  Babel  era  in  eia- 
sruD  quadro  dieci  leghe^  e  ciascuna  lega  era  quattro 

passi.  E  aveva  le  mura  di  larghezza  cinquanta  gO" 

mìta,  e  duecento  avea  d^  altezza.  Onde  ciascun  gomito 
era  quindici  passi.El  passo  era  pie. . .  .Epoi  cominciò 
il  regno  degli  Assirìanì,  ciò  sono  quelli  d^gitto.  Onde 
Selus  che  fu  della  generazion  di  Nembrot,  e  fu  il  prì*- 
mo  re.  E  tenne  la  signoria  di  quello  reame,  in  tutta 
la  vita  sua.  Ma  dopo  la  sua  morte,  sì  ne  fu  uno  suo 
figliuolo  chiamato  Nino,  e  fu  vero  che  Àfar  iG^uolo 
<li  Sem,  che  fu  figliuolo  di  Noè,  aveva  cominciato  in 
quéi  paese  una  città,  la  qua!  città  il  re  Nino  si  la 
compieo,  e  feceb  bella  alla  grande  guisa,  e  fecene  ca- 
pò  del  suo  regno,  e  per  il  suo  nome  fu  appellata  Ni- 
iiive.  E  quello  re  Nino  fu  il  primo  uomo,  che  mai  as- 
semblasse gente  in  oste  per  voler  far  battaglia,  o  ve- 
ro gueri*a,  che  elli  si  lasciò  Babilonia,  e  prese  la  tor- 
re di  Babel  per  vera  forza,  e  allora  re  Nino  fu  ferito 
(V  una  saetta,  della  qual  ferita  egli  morio,  e  venne  a  fi- 
ne. Ma  anzi  ch^  ei  fusse  morto,  e  che  già  avea  tenuto 
il  suo  regno  quarantatre  anni  integramente,  Ghaus  il 


UBAO  fAUlO.  SS 

figUndb  di  IMbor  ddOb  %ia§^o  di  Sen^  fii^liiiofe 
di  Hoè^  ìp^aiarò  tre  ÉiigHudB,  ciò  fa  Abnam,  IMnr 
e  ÀjmOf  i  ^pM^ft  tdótBomo  lo  yoto  Iddio^  e  dK  Aria 
ftile  di  AbfMii^  lonqtt  Lotih,  e  due  f^&^ 
Sln^inf||fe  iPMàmm,  emààuamoijtìè  di  Krtor. 
E  dalpo  il  uiawdHwmo  tf  Abraam^  viwe  Bìrib  quindici 
ÉÉar  od  suo  régno^  e  in  quel  tempo  conunciò  1  rè* 
yaMiSidani».  E  in  qad  ten^  uno  nnstro  die  mwgè 
MMÉe  SEoroaftO'  tidvò'  V  arte  magica  de^  incanfai- 
iiMl%è'ddP  altre  ÌDalYÌB(pe  cose.  Qoeste  eioolteal- 
In  «fliae  fioro  adle  dne  prime  etadi  ddi  seodo'die 
SatoiMl  twBpo  di'  Ahraam.  Onde  alquanti  diòooo  che 
teeooditeladf  del  èecofo  doro  ottoooitoqua- 
aainiy  e  altH  dBcono  che  dorò  miUediciotto 
ik-WÈ^qaM  die pl&Vmcessatio atta T«ritade^  dir 
maù^  dm  dri  dtiano  ii&o  Abraem  ai  ebbe  n^Ue- 


Caprolo  XXY  . 

Qui  £oe  il  conto  delle  cose  che  furo  nella  iena  età 

éA  secolo. 

La  terza  età  del  secolo  oomincìò  dalla  natiyitade 
di  jàlnraam,  secondo  P  opinione  di  certi  maestri.  Al- 
tri dicono  di'  ella  cominciò  a  settantacinque  anni  del- 
ia soa  TÌta^  quando  Iddio  gli  parlò,  ch^  egli  fu  d^no 
ddla  sua  grazia  ricevere.  Che  Dio  li  promise  e  a  lui 
ed  al  suo  lignaggio  la  terra  di  promissione^  e  altri  di- 
oono  di'  ella  cominciò  a  cent'  anni  di  Abraam,  allora 
eh' egli  ingenerò  Isach  di  Sara  sua  moglie,  che  al- 
tmì  era  dk  H  grande  teaqpò,  di' dia  aveva  novan- 


34  1I«  TESORO. 

ta  anni.  £  sappiate  che  innanzi  che  Isach  fosse  inge- 
nerato di  Abraam  e  della  sua  mc^lie  Sara,  perchè 
ella  non  portava  figliuoli,  né  non  n^area  anche  avuti,  si 
giacque  carnalmente  con  la  sua  cameriera,  con  volon- 
tà della  sua  donna,  ed  ebbene  un  fì^^iuolo,  il  quale  eb- 
be nome  Ismael.  £  questa  cameriera  avea  nome  Agar; 
e  chi  vorrà  sapere  tutta  P  btoria,  chi  fu  questo  £h 
gliuolo  bastardo,  e  della  sua  madre,  e  come  Alnraam 
li  cacciò  fuori  di  casa  sua  ambedue  senza  possedere 
nulla  del  suo  retaggio,  cerchi  nel  primo  libro  ddla 
Bibbia,  e  quivi  troverà  apertamente.  Ora  dice  il  con- 
to che  quando  Isach  fu  nato,  il  suo  padre  Abraam 
lo  fece  circoncidere,  agli  otto  di  dopo  la  sua  nativitar 
de,  e  ancora  lo  fanno  li  Giudei.  Tale  ora  fece  egU  cir- 
concidere Ismael,  eh'  egli  era  in  età  di  tredici  anni,  e 
ancora  lo  fanno  li  Saradni,  e  quelli  che  abitano  in 
Arabia,  che  sono  discesi  della  generazione  di  Ismael. 
E  questo  circoncidimento  fu  poi  che  Abraam  era  già 
vissuto  settantadue  anni.  £  sappiate  eh'  ^li  fece  pri- 
mamente un  altare  all'  onore  di  Dio  vivo  e  vero.  Di 
Abraam  e  li  suoi  figliuoli  non  dice  più  quello  conto. 
Anzi  tornerà  al  re  Nino  ed  al  suo  reame,  che  a  lai 
fònno  l' istorie  capo  del  primo  re. 

Gapitoi.0  XXVI. 

Del  re  Ifioo  e  degli  altri  re  che  Tennero  dopo  Ini. 

n  re  Nino  tenne  in  sua  signoria  tutta  la  terra  d'A- 
sia e  gran  parte  d' India,  e  quando  egli  passò  dì  que- 
sto secolo ,  egli  lasciò  un  giovane  fìgliucdo  cii^  dibe 
nome  Saratiel.  Ma  egli  fu  appellato  Nino  per  nome 


uMòMmo.  35 

di  fluofNidi^e  poi  die  ib  ttiorto^  alla  ioa  madre  ri- 
il  Kgno-  e  b  aignorié  lotto  il  tempo  deUa  vita 
E  èva  fti  pia  adda  e  più  Cara  che  miQo  uoibo, 
e  jypremofa  la  pia  crudele  feauna  del  mondo.  E 
^piando  dla^jnorta,  3  mo  regno  nmaie  senn  tx^ 
de.  E  attom  qaéìi  di  VmtUL  sorsero  un  re  di'  ebbe 
none  Arsariney  aA  e|^  fa  appdlato  Diastone.  E  per 
lai  fimo  poi  dnamati  tutti  fjiì  ahri  re  d' Egitto  Di»^ 
stone.  £  qndQo  IKattone  diwb  in  fin  a' dodici  re  die 
loro  appretto.  E  elioni  eandnò  il  nome  di  Diastone. 
E  ftrrono  ^  diri  re  appdlati  Thebey.  E  ancora  fìi 
juawahMitri,  imagto  nottie*  e  forono  diiamati  Pbstor.  M^ 
aBafiaefbièoHnBmaHFaraonLEdiqQdnomeia^ 
quarantadue  re,  cbe  durerò  infino  al  tempo  di  Arto- 
fcrae»^  figliuolo  di  CSro  re  di  Persia,  oolni  die  prima- 
mente prese  Egitto^  e  sottomiselo  alla  sua  signoria.  E 
caodonne  fuori  lo  re  Wattanabo,  die  fu  poi  mastro  di 
Alessandro  magno.  Ed  allora  rimase  Egitto  senza  pr6^ 
pria  re,  doè  die  rimase  sotto  k  signoria  dd  re  di 
Persia.  E  questo  Alessandro  magno  fu  morto  per  ve- 
leno. E^  li  dodid  suoi  prìndpi  divìsero  poi  la  terra 
tra  loro,  come  Alessandro  lasciò  nd  suo  testamento, 
E  Septor  fu  re  d'Egitto,  ed  ebbe  sopranoome  Ptdio- 
meo.  £  dopo  lui  regnò  il  secondo  Ptolomeo,  che  a« 
vea  nome  FiUdelfo.  Dopo  lui  r^paò  il  terzo  Ptolo^ 
meo^  die  aveva  nome  Evergetes.  E  dopo  lui  regnò 
il  quarto  Ptolomeo,  doè  appresso,  ch'ebbe  nome  Fi- 
lopater. Ed  allora  era  Antioco  lo  primo  re  e  signore 
d'Antiochia,  che  per  viva  forza  vinse  tutta  la  terra 
d'Egitto  e  di  Persia  e  d'India.  E  ucdse  Filopater 
Ptolomeo,  di' era  allora  re  d'Egitto,  e  regnò  ventisei 


56  IL  TESOAO. 

anni.  £  dopo  la  morte  del  re  Antioco ,  regali  Sileu- 
co  eh'  ebbe  soprannome  Epifanes.  E  nel  suo  tempo 
furo  le  battaglie  de'  Maccabei,  delle  quali  si  legge  nel- 
la Bibbia.  £  dopo  il  re  Sileuco  regnò  Eupater  suo 
figliuolo.  £  quando  Eupater  fìi  morto  teqne  il  regno 
Demetrio  figliuolo  di  Gomfer.  E  al  suo  tempo  fu  mor* 
to  Griuda  Maccabeo  in  battaglia.  Mora  xeaae  Ales- 
sandro ch'era  signore  grande  e  d'alta  potenza  in- 
contra Demetrio,  e  si  lo  uccise  e  vinse  in  batta^ia, 
ed  ebbe  la  signoria  del  suo  regno.  E  tennelo  sugget- 
tamente  tanto,  che  Demetrio  figliuolo  del  soprascrìfr* 
to  Demetrio,  uccise  Alessandro  e  tenne  la  signoria 
di  tutti  suoi  regni.  Poi  venne  Antioco  fif^uolo  dì 
quello  Alessandro,  che  per  lo  consiglio  e  per  l' aiuto 
di  Trifon,  uccise  Demetrio  eretico  e  cacdollo  fuori 
del  regno.  Ed  egli  fu  poi  re  e  signore.  Ma  quel  Trifon 
l'uccise  per  tradimento.  Ed  egli  ne  fu  poi  re^  al  ieaat- 
pò  di  Simone  Maccabeo.  E  sappiate  che  ancora  vivea 
Demetrio,  cu  Antioco  figliuolo  d'Alessandro  aveva 
cacciato  fuori  del  regno,  sì  come  il  conto  drriia  di- 
nanzi. E  Trifon  in  sua  signoria  non  dimorò  gonri^.emi 
fu  cacciato  fuori,  e  quel  Demetrio  eretico  fu  ricevu- 
to nella  signoria,  e  tennela  siccome  re  e  imperadore. 
Allora  Giovanni  Ircano,  figliuolo  di  Simone  Maccar* 
beo,  era  sovrano  principe  in  lenisalem,  e  il  suo  fi- 
gliuolo fu  chiamato  re  de'  Giudei,  e  ciò  fu  appresso  al- 
la trasmigrazione  di  Babilonia,  ai  quattrocentosessan- 
taquattro  anni.  E  quando  Aristobolo  fu  motto,  Ales- 
sandro fu  re  de'  Giudei.  E  dopo  lui  fu  Aristobolo  suo 
figliuolo.  E  questo  Aristobolo  fu  morto  per  la  irarw 
di  Pompeo,  che  allora  era  egli  consolo  di  Roma.  E 


LIBRO  PRIMO.  57 

stabilio  per  curatore  io  Giudea  Ghiopetre  padre  d^E- 
rode.  Antiochia  era  già  conquistata,  e  sottomessa  alla 
signorìa  de'  Romani.  E  quando  Ghiopetre  fìi  morto, 
Erode  suo  figliuolo  fu  eletto  per  li  Romani  re  de' 
Giudei.  Al  cui  t^npo  nacque  il  nostro  signore  Gesù 
.  Grìsto  in  R^eem. 

Gapitolo  xxvn. 

Qaì  Sicé  del  regno  di  Babilqnia  e  à"*  Egitto. 

B  r^no  di  Rabìlonia  è  contato  sopra  quel  d' E- 
gitto  e  d^li  Assiriani.  Ma  egli  addivenne  cosa,  che  Na- 
bucodònosor fu  re,  e  non  a  diritto,  che  egli  non  era 
di  schiatta  regale,  anzi  fu  un  uomo  istrano,  sconosciu-' 
to,  che  nacque  d'adolterio  celatamente.  E  al  suo  tem- 
po cominciò  il  regno  dì  Rabilonia  a  venire  in  al- 
tezza. Ond'  ^li  si  orgoglio  verso  Iddio  e  verso  il  se- 
colo tanto  ch'egli  distrusse  lerusalem,  e  impregionò 
tutti  li  Giudei  e  molte  altre  perverse  cose  fece  egli,  che 
per  divina  potenza  perde  egli  subitamente  la  «uà  si- 
gnoria. Il  suo  corpo  fu  mutato  in  bue  secondo  che 
a  lui  pareva.  E  abitò  sette  anni  nel  diserto  con  le  be- 
stie salvatiche.  Dopo  lui  regnò  Nabucodònosor  suo 
figliuolo,  e  poi  regnò  Evilmeradiap,  che  fu  figliuolo 
del  primo  Nabucodònosor.  E  dopo  lui  regnò  Ragiosas 
suo  figliuolo.  Poi  Labuzar  figliuol  dì  Evilmeradiap, 
e  poi  Raltasar  suo  frate.  Quel  fìaltasar  re  di  Babilo- 
nia fu  morto  per  Dario  re  de'  Mediani,  e  per  Ciro 
suo  nepote  re  di  Persia,  che  conquistaro  il  regno  di 
Babilonia.  E  dopo  la  morie  del  re  Ciro  ebbe  tredici 
re  nel  suo  regno  l' uno  dopo  l' altro,  in  fin  al  tempo 

L<t/ini.  rol.  I.  3 


58  IL  TESORO. 

che  Dario  ne  fu  re.  Non  dico  di  quel  Dario,  di  cui  lo 
conto  ha  fatto  menzione  di  sopra,  che  fu  al  teo^  del 
re  Giro,  ma  e'  fu  Dario  figliuolo  del  re  Arcamis,>che 
fu  re  e  signore  di  Persia,  e  aveva  grandissimo  po- 
dere di  gente  e  di  terre.  Ma  Alessandro  magno  lo 
vinse  in  battaglia,  e  fu,  ucciso  da'  suoi  medesimi  per 
tradimento.  £  Alessandro  tenne  tutto  lo  suo  regno,  e 
prese  la  figliuola  Rosana  per  moglie.  E  sappiate  che 
Alessandro  regnò  dodici  anni  signore  del  mondo^  e 
poi  mori  di  veleno  in  Babilonia,  che  li' diede  un  suo 
cavaliere  in  beveraggio.  E  poteva  allora  essere  in  e- 
tade  di  trentasei  anni.  E  sappiate  che  Alessandro  fu 
figliuolo  del  re  Filippo  di  Macedonia.  E  Olimpiades 
sua  madre,  per  alzare  natura  di  suo  figliuolo,  disse, 
che  r  aveva  conceputo  d' uno  Iddio,  chiamato  lo  Dio 
Amone,  cioè  doverete  intendere  d'uno  idolo,  lo  quale 
appellavano  così,  e  disse  eh'  era  giaciuto  (nm  lei  ih 
sembianza  di  dracone.  E  certo  egli  menò  sì  alta  vita, 
ohe  non  è  meraviglia  s'eglino  il  chiamavano  figliuolo 
d'uno  Iddio,  perchè  egli  andò  frustrando  tutto  il  mon- 
do, ed  ebbe  per  maestro  Aiistotile  e  Calistené,  e  fii 
virtudioso  sopra  tutte  genti,  ma  egli  si  lasciava  vincere 
al  vino  e  alle  femine.  E  vinse  dodici  nazioni  di  bar- 
bari e  tredici  di  greci,  e  alla  un  morì  di  tossico,  com'è 
detto  disopra.  E  sappiate  che  Alessandro  nacque  ai 
trecentottantacinque  anni  poi  che  Roma  fa  edificata. 
E  contano  le  storie  che  da  Adam  insino  aUa  morte 
di  Alessandi'o  si  ebbe  cinquemiha  centocinquantasette 
anni.  E  quando  egli  fu  morto  si  fu  Ptolomeo  figUuo* 
lo  di  Lago  lo  primo  re  d'Alessandria  e  di  tutta  terra 
d' Egitto,  siccome  il  conto  divisa  qua  d  dietro.  E  ai 


LIBRO  PRIMO.  59 

ebbe  dodici  re  V  un  dopo  l' altro,  e  ciascuno  aveTa 
per  s<^prannoiiiePtoloiiieo,per  lo  nome  del  primo  Pto* 
lomeo,  che  ne  fu  re.  E  dopo  la  morie  d'Alessandro  e 
di  questi  altri  dodici  re,  fu  il  diretano  Ptolomeo  di 
Cleopatra.  E  quando  egli  ebbe  tenuto  il  reame  in- 
torno dì  tre  anni,  Giulio  Cesare  fu  imperadore  de' 
Romani,  per  cui  tutti  gli  altri  imperadori  de'  Roma- 
ni ebbero  nome  Cesari.  Oramai  si  tace  il  conto  di 
parlare  di  quelli  d' Egitto,  per  ciò  che  qui  finisce  la 
lor  signoria,  e  veiinero  alle  mani  de'  Romani,  e  se- 
guita la  sua  materia. 

Capitolo  XXVIIL 

Qui  dke  il  cominciamento  dei  re  dj  Grecia. 

Nembrot,  quel  medesimo  che  fece  la  mala  torre  di 
Babel,  ebbe  molti  figliuoli.  Onde  il  (^'imogenito  fu  ap- 
paiato Cres,  che  fu  il  primo  re  di  Grecia,  e  per  lo 
suo  amore  fu  appellata  l'isola  dei  Creti  Grecia,  che 
si  è  verso  Romania.  E  dopo  lui  fu  luppiter  suo  fi- 
gliuolo, che  fu  signore  della  città  d' Atene,  e  egli  la 
fece  e  la  fondò  primieramente.  Saturno  e  luppiter, 
che  sono  delle  sette  pianete  le  due,  credeano  le  genti 
che  allora  erano  che  elle  fossero  cadauna  Iddio.  E 
però  era  questo  luppiter  appellato  Iddio.  E  ancora 
hanno  cosi  nome  queste  due  pianete.  Poi  fu  il  re  Cer- 
tas.  E  sappiate  che  luppiter  ebbe  due  figliuoli.  Da- 
rio e  Dardanus.  Quel  Dario  fu  re  di  Grecia,  e  dell'  i- 
sola  di  Messina  e  di  Grecia  là  intomo  ebbe  guerra 
contra  al  re  di  Troia,  ciò  fu  contra  Iluni  e  Camede. 
Onde  nacque  il  primo  odio  tra  li  Troiani  e  Greci.  Ap- 


4o  IL  TESORO. 

presso  la  morte  di  questo  Dario,  regnò  Filo  suo  fi- 
gliuolo. E  poi  fìi  re  Menelao  suo  figliuolo,  che  fu  ma- 
rito d^  Elena.  La  quale  fu  furata  da  Paris  figliuolo  del 
re  Priamo  di  Troia.  Dappoi  la  morte  del  re  Menelao, 
fu  re  Agamennone  suo  fratello.  E  tanto  andò' poi  di 
re  in  re,  che  Filippo  di  Macedonia  fu  re  e  imperado- 
re  di  tutta  Grecia.  E  d^  allora  innanzi  quelli  di  Gre-^ 
eia  furono  chiamati  imperadori  e  non  re. 

Capitolo  XXIX. 
Qui  dice  del  regno  di  Stssione. 

Lo  regno  di  Sissione  cominciò  al  tempo  di  Pacor^ 
che  fu  avolo  d' Abraam.  E  Agilerus  ne  fii  il  primo 
re.  E  durò  quel  regno  ottocènto  settantaun  anno,  in- 
fino  al  tempo  d^  un  profeta,  di  cui  il  conto  dirà  qua 
innanzi,  tra  gli  altri  profeti  E  furo  insomma  trentun 
re  in  Sissione. 

Capitolo    XXX. 

Del  regno  delle  femine. 

Lo  regno  delle  femine  cominciò  allora  che  il  ne  di 
Stinto  andò  con  tutti  gli  uomini  sopra  quelli  d^  Egit- 
to, ove  egli  furo  tutti  uccisi.  E  quando  le  loro  femine 
lo  seppero,  sì  fecero  una  di  loro  reina  di  tutti  loro 
paesi.  E  ordinaro  tra  loro  che  ne  Romani,  né  altra 
gente  potessero  abitare  in  loro  terra.  E  che  loro  fi-» 
gliuole  fossero  nudrite  tra  loro.  E'  figliuoli  maschi  fos- 
sero nudriti  cinque  anni,  e  poi  fossero  dati  alli  lor 
padri,  che  abitavano  in  altro  luogo  che  le  femine.  £ 


mioisiMo.  4> 

te  feooone  noo  d  ÒÉtaaoaxeimio  se  ioKm  d^arme  e  di 
cvraHìy  per  podere  defendere  loro  paese^  e  ti  oanimi 
non  si  intrametteaiio  se  non  di  layorare  teire^  per 
iknn  eiJ&BO  e  le  laio  donne  riccamente.  £  stabitira! 
cfaePloro  mariti  s'assembrassero  mia  yolta  Panno  con 
loffo^  e  diniQcare  nn  mese  per  avere  fi^uoli  e  più  e 
■iaia^4Bcondo  cbe  atta  .loro  reina  piacesse^  e  che  cia^ 
fcima  di  loro  dovesse  avere  ta^^Liaia  la  dritta  man»-. 
BidDa  per  portare  k>  sondo  atte  battage,  se  mestiere 
freesse.  E  pm  sono  dUb  q>peUBte  amaixm^  cioè  « 
&n  ODO  una  mammella.  E  tatto  questo  ordinamento, 
teofono  anocMra,  secondo  di'  e' si  dioe^  e  queste  don- 
ne YeoDoro  a  toccorTCre  Troia^  qqando  fa  assediata 
da'GrecL  E  fowiPantpsilea  bro  reìni^  di  coi  si  dis- 
se^, che  amò  Ettore  filminolo  ad  re  Priamo  di  felle 
annra:  llb  di  ciò  non  si  sgppe  mai  certanza,  fuori  di 
tanto,  disella  vi  morì  con  grande  qoantitade  delle  sue. 
donasdte,  E  sappiate  ch'elle  portano  treccie  dietro 
molto  grandi 

'Capitolo    XXXL 
Del  regno  ddll  Argino». 

Lò  regno  delU  Àrginois  comindò  in  quell'anno 
medesimo  che  lacobbe  e  Esaù  figliuoli  di  Isac  furon 
aatL  Defcnrencas  fu  il  primo,  che  die  legge  alli  Gre- 
ci, nella  città  d'Atene,  e  che  stabilì  che  le  cose  e  li 
gindìcanienti  fossero  dinanzi  a  giudici,  e  '1  luogo  ove 
si  6oeano  giudid  fosse  appellato  ferone,  per  lo  nome 
soo,  e  sappiate  che  il  regno  ddh  Argìnois  durò  due-^- 
cento  sessantoqoattro  anni.  E  fu  distrutto  al  tempo 


4  2  IL  TESORO. 

di  Dario  re  di  Grecia,  di  cui  il  conto  parla  qui  di- 
nanzi. 

Capitolo   XXXII. 

DelU  re  di  Troia. 

Lo  conto  dice  qua  a  drieto  che  lo  re  luppiter  eb- 
be due  figliuoli  Daiìo  e  Dardanus.  Di  quel  Dario  ha 
detto  il  conto  tutta  la  generazione.  Ora  dice  il  conto 
che  quell^  altro  figliuolo  Dardanus  edificò  una  città  in 
Gi'ecia  che  ebbe  nome  Dardania,  per  lo  nome  suo.  E 
ciò  fu  alli  tre  milia  duecento  anni  al  cominciaiiiento 
del  mondo.  E  di  Dardanus  nacque  Arcanus,  che  do- 
po lui  ne  fu  re.  E  d'Àrcanus  nacque  Torrens,  ower 
Tros,  quelli  che  fece  la  città  di  Troia,  e  per  lo  suo 
nome  fu  ella  appellata  Troia.  Del  re  Torrens  nacque 
Dub,  ovver  Do,  che  fece  la  maestra  fortezza  di  Troia, 
e  per  lo  suo  nome  era  appellata  Dion.  Onde  airvenne 
poi  che  lanson  e  Ercules  con  tutta  Poste  de^Crred 
entrò  in  Troia,  e  disfecero  la  cittade,  e  uccisero  il  re 
Laumedon,  che  allora  n^era  signore,  e  menonne  Esìo- 
na  figliuola  del  re  Laumedon.  Di  Laumedon  nacque 
Priamo  e  Anchises  padre  di  Enea.  Quel  Priamo  che 
fu  re  di  Troia,  si  fu  padre  del  buono  Ettor,  ch^  era 
tenuto  a  quel  tempo  il  migliore  cavaliere  del  mondo. 
E  fu  ancora  padre  di  Paiis  e  de^  fratelli.  Quel  Paris 
fu  quello  che  furò  Elena  moglie  di  Menelao.  Onde  il 
re  di  Grecia  e  di  molte  altre  parti  del  mondo  per 
vendetta  di  questo  misfatto  si  vennero  a  Troia  ad 
oste,  e  assediarla  grande  tempo,  che  là  disfecero  in 
tutto.  E  così  fu  Troia  due  volte  disfatta.  Il  re  e  li  suoi 
figliuoli  furono  tutti  morti,  seccmdo  che  si  può  tre- 


1^       uno  muK).  4^ 

y/an  n^  gwde  libro  dì  Troia,  die  ne  fa  memùone 
-n^  comiiicìameBto  ia^Do  alla  fine  molto  bene  e  otfì^ 
naitamefite.  £  questa  distmùone  fìi  ottocento  sesian^ 
tà  kmd  poi  Ae  Trm  £b  doo^ipata. 


ff   _ 


Cafctplo  .xxxnr.         ^^, 

.    Gmém  Encv  ci^lò  in  Italìt.     t 

Qonido  Troia  A  présa  è  messirà  fuoco  ^ 
■a  Enea  figlìòc^o  d'Axidiises  e  Ascbmó  4Ìh6  figHuo^ 
lo^  ftqgjiplro  éBnon  di  Tròia.  £  p(»to  con  seco  grande 
afèra.'  E -moka -gente  di  Troia  lo  9egw!tiaoy  tuorlo 
étfi^  'acatadpb  ckOe  kìanni  detti  inimici  suoi  e  yenne 
ili  luogo  sdm  Onde  disse  akWo  autore,  perdi^  égli 
inÉBOpo'  con  cosi  grande  tesoro,  die  egli  sejppe  il  fra- 
^w^iitp  ifi  Troia.  E  altri  dicono  die  non  ne  «eppe 
noUa  se.  non  alla  fine,  die  non  si  poteva  tornare  in> 
dielro.  Ha  come  che  la  cosa  fòsse,  ^i  andò  tanto  per 
mare  e  per  terra,  ungerà  in  qua  e  un'ora  in  là,  che 
^li  con  la  sua  gente  arrivò  in  Italia. 

Capitolo  XXXTV. 

I 

Come  Enea  fu  ita  Italia  con  suo  figliuolo  appresso. 

Egli  fu  vero  che  Italus,  figliuolo  che  fu  di  Nem- 
brol,  £he  fece  la  torre  di  Babel,  venne  in  Italia  e  fu 
sonore  tutto  il  tempo  della  vita  sua.  £  poi  la  tenne 
il  fi^iuolo.  Ora  avvenne  secondo  che  le  storie  conta- 
no^ die  Saturno  ce  di  Grecia  fu. cacciato  del  suo  re-« 
gno^  e  vennesene  in  Italia,  e  funne  re  e  signore  in 


44  n^  TESORO. 

tulio.  Poi  la  tenne  il  re  Ficus  suo  figliuolo,  e  poi  re 
Samus  suo  figliuolo.  Del  re  Samus  nacque  il  re  Lat- 
tino, che  allora  era  egli  in  Italia,  quando  Enea  con  la 
sua  gente  v'  arrivare.  E  tutto  fosse  il  re  Latino  al 
cominciamento  dolce  e  di  buono  aere,  fece  guerra 
contro  ad  Enea.  E  la  cagione  si  fu  perchè  non  gli  die- 
de Lavina  sua  figliuola  per  moglie.  E  tutto  non  aves- 
se il  re  Latino  più  figliuoli,  si  gliela  avrebbe  ben  da- 
ta, ma  la  reina  sua  donna  non  volle  consentire  al  ma- 
ritaggio :  però  che  la  voleva  dare  ad  un  altro  gran 
barone  del  paese.  E  perciò  fu  tra  loro  odio  grande  e 
mortai  guerra.  E  alla  fine  vinse  Enea,  per  forza  d^  ar- 
me, e  prese  per  moglie  Lavina,  che  detta  è  di  sopra, 
E  fu  re  in  Italia  tre  anni  e  sei  mesi.  E  quando  egli 
morì,  si  lasciò  uno  piccolo  garzone  della  sua  femina, 
lo  quale  ebbe  nome  lulius  Silvius.  E  questo  sopran- 
nome ebbe  però  che  la  madre  lo  facea  nutricare  in  sei* 
ve,  per  paura  di  Ascanio  suo  frate.  Ma  egli  non  face- 
va mestieri,  che  egli  l' amò  teneramente.  E  ciò  fu  al 
tempo  del  re  Davit,  al  cominciamento  della  quarta 
elude  del  secolo. 

Capitolo   XXXV. 
Qui  dice  della  schiatta  del  re  d**  Inghilterra. 

Quando  Ascanius  re  d' Italia  fu  morto,  Silvius  suo 
frate  fu  re  dopo  lui.  E  ebbe  due  figliuoli.  Enea  e  Bru- 
ton.  E  quando  il  re  Silvius  morì,  Enea,  suo  maggiore 
figliuolo,  tenne  la  terra  dopo  la  sua  morte.  E  Bruton 
suo  frate  passò  in  una  contrada,  che  per  lo  suo  nome 
fu  poi  chiamata  Bretagna,  la  quale  è  ora  chiamata  In- 


f       uAon«ò.  45 

^bfltàrfsl  EdiB|^  fiieooinmciaiiientbflegtire  gàn 
Bnliigna^-e  dteBa  ràs  {generazione  nacque  il  bnoniMre 
jbtaydidaìii  BoBÉamtantoparìano^Ghenefareu»» 
Màio.  EeiòfbaqinfttrooiBÌJilÌ^  ottmCatre  anriKidel- 
^écànÙDÒooe  di  Gesà  Cristo,  al  tempo  che  ^mo  fb 
ionpevadòre  di  Boomu  E  r^^  intonio  di  dd^luite 
uni  Dopo  fl  we  Ènea,  r^nò^il  re  Silvins^ji  di  Ini  nao- 
^  il  re  Latino.  Dd  re  Latino  nacque  u  re  AUieni. 
Dd  reJklbani  imii||ULÌl  re£9Ìtta4P>d  re  Egitto  nao* 
qaèìi  re  CàrpaaatàcB,  Del  re  Carpttnncijfenacqae  il 
ne  Tbàrio.  Dd  re  TS>erìo  nacque  À^npptt,  E  d'A- 
gqppa  -nacque- Ayentinns.  Del  ré  ÀTentinns  nacque 
2  rePtoca.  Ddi  reProca  nacque  Nomitor,  e  fa  re 
dopo  la  morte  dd  s)do  padre.  Questo  re  Nomitor  non 
dbbe-aenon  òna  fi^^iook  fenadna,  la  qoale  ebbe  nome 
W^mAam.  Ma  Un-  barone  Amnlio  si  gli  tolse  il  regno^ 
e  cacciò  Ini  e  la  sua  %liaola'TÌa,  e  fecesi  ùre  re.  In 
qiid  mezzo  qaeQa  Emolua  figlinola  .di  Nomitor  ctm- 
cepette  due  figliuoli,  de'  quali  Puno  ebbe  nomcRomu-^ 
lo  e  Paltro  Remolo.  E  ebbeli  in  tal  maniera,  che  nul- 
lo potè  sapere  chi  fu  loro  padre.  Ma  molti  dicevano 
che  Mars  Iddio  ddle  battaglie  T  ingenerò.  E  da  qu^- 
l' ora  inanzi  fa  quella  donna  appellata  Rea.  E  poi  fe- 
ce dia  nna  cittade  nd  mezzo  d' Italia,  che  per  nome 
di  Id  fii  appellata  Reata,  o  Ter  Rieti  E  perciò  che 
molte  storie  dipono  che  Romolo  e  Remolo  furo  nu- 
triti da  nna  lupa,  è  ragione  ch'io  ne  dica  la  verìtade. 
E  fa  vero,  che  quando  elli  furon  nati,  furon  posti  al 
lato  ad  ona  riviera  d' acqua,  perchè  le  genti  pensas- 
sero, se  fossero  trovati,  che  elli  venissero  di  strana 
oontada,  o  die  vi  fossero  menati  Intorno  a  quella  ri- 


46  IL  TESORO. 

Tiera  si  staila  una  meretrice  comune,  la  qnal  femina  si 
chiamaTa  in  latino  Lupa,  Trovati  da  costei  li' due  &n- 
ciulU,  preseli  e  nutrìcoUi  molto  dolcemente.  £  per  ciò 
fu  detto^  che  ellino  fioro  figliuoli  della  Lupa.  £  chi 
dice  che  una  lupa  li  nutricò^  ma  né  V  uno  né  V  altro 
aoD  può,  esser  vero,  se  non  nella  maniera  ch^è  detto. 

Capitolo  XXXVI. 

Qui  dice  di  Romulo  e  delli  Romani. 

» 

Bomulo  fu  molto  fiero,  e  di  grande  coraggio.  £ 
^ando  egli  fu  in  etade,  egli  usava  con  giovani  che  se*- 
guissero  il  suo  volere:  cioè  con  uomini  mal&ttorì,  e  di 
mala  qualitade.  £d  egli  era  capitanio  di  tutti.  £  quan- 
do egli  seppe  il  suo  nascimento  non  medio  mai  di 
raunare  gente  di  diverse  maniere,  e  di  guerreggkQre 
contra  Amulio  che  avea  tolto  il  regno  al  suo  avola  £ 
tanto  fece  per  sua  prodezza,  che  egli  il  vinse,  e  tobeli 
il  regno,  e  rendello  a  Numitor  che  era  ancora  vivo. 
Ma  poi  non  guari  tempo  lo  fece  molrire,  ed  egli  fu  re 
in  suo  luogo.  £  lui  edificò  Roma,  la  qual  fu  cosi  chia- 
mata per  suo  nome.  Poi  fece  morire  Remolo^  ch^  era 
suo  finte,  e  poi  il  padre  della  moglie,  che  era  signore 
del  teo^io  degli  ìàcAì  e  di  tutti  li  sacrificai  del  piaese, 
e  a  luì  rimase  P  eredità  di  ogni  cosa.  £  aopra  tutti  gli 
altri  ebbe  la  signoria  dì  Roma.  £  fu  Roma  iofiomindaH 
ta  quattromilia  trecento  ventiquattro  amù  dopa  la  di- 
struzione di  Troia.  £  quando  Romulo  passò  di  questa 
vita,  rimasela  signoria  aNumaPompìHus  suo  figliaodo. 
£  poi  regnò  TnliusOstilus^£  poi  regnò  AncusMartos. 
Vin  Tarqpiinus  primo  re.  £  poi  lo  re  Serviiis.  E  poi  re- 


gnb  TarquiD  orgof^&oao,  che  per  siìooltraggb  efMT 
sm  siqperina  feoe4)ite  a  una  gentOè  doniur  di  Boma, 
e  d'alio  lanaggio,  per  giacere  con  lei  carnalmente.  E 
qndbi  doinia  area  ncvne  Lnci^evia,  dhe  ara  una  ddlk 
wijftin  .donne  ddi  mondo,  e  ddie  pia  catte;  E  per 
cpeila  jcagioae  fii  e|^  caooiato  ddi  8aoi>egn6i'  E..j|a 
ftdiilào  per  li  Bomani,  dbe  giwnnnai  non  t'  a?ea8e  re, 
um  loii^'la  città  di  Booia  e  tatto  il  sno  n^no  gover- 
nalo per  seoatqnj^  perj^iiiinli  e^ijff^  Iribani  e  per 
fkii  tiffidali  MOMido  che  le  cose  BMsgKO^  E  qoeUa 
i^gndffpa  divo  ^[aattroeento  ses«aatacincpK(  anni  ìo' 
ùao^tuOoà»  Catdiina  fece  la  ciwgiivanooe  in 
BotMh  ^!Wbnt.  a^olo^  che  govonamno  Bonn.  Ma 
qMd|i^cqiigi|vamDefiidÌ9Govsrta,  parlo  grande  ta- 
im>  liaroo  Ti#>  lo  m^  pariante  nomo  del  mondo 
e aifMtio  dfr  ratocica.  E aUcira  era  «^  coniobdiBjo^ 
am  qnando  qneUa  gtaia  si  £boe.  E  ^H  por  lo  600  gra»- 
de-tapno  ti  U- vinse,  e  pres^.e|Bceli  tatti  gaastare.e 
distmggere  delle  persone,  e  par  lo  consiglio  ddi  buo* 
no  C^one  che  li  giadicò  alla  morte^  Ma  non  furono 
presi  tutti,  che  molti  ne  camparo.  £  Giulio  Cesare 
non  li  volle  giudicare  a  morte,  ma  consigliò  che  fot* 
sero  messi  in  forti  prigioni  di  fìiorì  dì  Roma.  E  però 
dissero  mditi  che  «egU  fii  compagno  di  queUa  gìnra.  £ 
al  vero  dire,  egli  non  amò  mai  né  senatori,  né  gli  altri 
nfikaali  di  Roma,  né  ellìno  amavano  lui,  però  che  ^U 
era  stato  del  lignaggio  d^  Enea..  £  appresso  di  ciò,  si 
era  ef^i  di  si  grande  coraggio  e  si  forte,  che  egli  ave^ 
va  grande  part^  de^la  signoria  di  Roma,  siccome  li 
suoi  antecessori  aveano  avuto. 


.0 


48  Ili  TBSOBO. 

Capitolo  XXXVIL 
Qui  dice  della  congianoìone  di  Catellioa. 

Quando  la  congiorazione  fu  scoperta,  fl  podere  di 
Gatellina  fu  ìndebìlito.  Egli  si  fuggi  in  Toscana  a  una 
città  che  aveva  nome  Fiesole,  e  feccia  ribellare  con- 
tra  Roma.  Ma  li  Romani  vi  mandaro  grandissimo  oste 
e  trovaro  Gatellina  a  piede  d'una  montagna,  con  tut- 
ta la  sua  oste  e  con  tutta  la  sua  gente.  E  ciò  fu  in 
quella  parte  ov^  è  la  città  di  Pistoia.  E  ivi  fu  Cata- 
lina vinto  in  battaglia  e  morti  molti  di  suo',  e  anche  una 
grande  parte  di  Romani.  E  per  quella  grande  pesta 
di  quella  grande  uccisione  fu  appellata  la  città  di  Pi- 
stoia. Poi  assediaro  li  Romani  la  città  di  Fiesole  tanto 
che  la  vinsero,  e  messerla  a  distruzione.  E  allora  fe- 
cero eglino  nel  piano,  eh'  è  presso  alla  montagna,  ove 
la  sopraddetta  città  di  Fiesole  era,  un'altra  città  la  qua- 
le è  ora  appellata  Fiorenza.  Della  terra  ove  Fiorenza 
si  è,  fìi  già  appellata  magione  di  Marte,  cioè  a  dire^ 
casa  di  battaglie.  Che  Mars,  la  quale  è  una  stella  ddle 
sette  pianete,  si  soleva  esser  chiamata  da' pagani  dio 
delle  battaglie,  e  ancora  la  chiamano  così  moke  genti; 
per  ciò  non  è  meraviglia  se  i  Fiorentini  stanno  sempre 
in  briga  e  in  discordia,  che  quella  pianeta  regna  tut- 
tavia sopra  loro.  E  di  ciò  sa  il  maestro  Brunetto  La- 
tino la  diritta  veritade,  che  fìi  nato  di  quella  terra.  E 
allora  eh'  egli  compilò  questo  libro,  sì  n'  era  ^li  cac- 
ciato di  fìiorì  per  la  guerra  dei  Fiorentini. 


mio  wKOÈO.    ,^  49 

XXXVHL 

Comt  Giòfio  Genra  ta  pcinumciitt  inpendor  di  Rona. 


ì 


fW  Vile  Giolb  Cernie  ^bé  mdite  Thtorie,  e  1^^ 
f  {Mai  lottamesà  alk  algiiom  di  Roma,  ^  procioni 
tmlo  cb  monte  e  da  valle,  db'  e^  combattè  contra 
a  Ponpeio^  ébe  allora  era  consolo  dì  Roma,  e  contra 
a^  altri  ètte  alloni  goy|Jp|i^Taiio  Roma,  che  egli  fi 
noae^  e  cacciò  fborì  di  Bòma  V  inimici  suoi  tatti  E 
c|^  iolo  'ebbe  k  sigooria  di  Roma,  e  chi  Toole  salie- 
re eoaie|^,finae^  edove,  cerdba  nel  grande  libro  ddi-r 
le  glorie  di  RonAi^  e  troverallo  apertamente.  E  per  ciò 
die  li  Bomani  non  potevano  avere  re,  per  li  statati 
di*  «i^  «verino  fiitto  nd  tempo  dì  Tarqaino  oi|[o*- 
^oao^  di  coi  lo  conto  ha  fìrtto  memoria  qua  a  dietro^ 
n  H  leooro  chiamare  knperadcH^  ddH.  Romani,  e  ten- 
ne lo  suo  imperio  tre  anni  e  seimesL  Ma  egli  fìi  poi 
ucciso  sotto  il  Campidoglio  da  grandi  uomini  di  Roma, 
che  aveano  grande  invidia  di  lui.  Dopo  la  morte  di 
CiioBo  Cesare  Ottaviano  suo  nipote  fu  imperadore, 
die  regnò  quarantadue  anni  e  sei  mesi.  £  al  suo  tem- 
po nacqoe  Gesù  Cristo  nostro  signore,  neUe  parti  di 
ferosalem.  E  regnò  tredici  anni  dopo  il  suo  nasci- 
mento. £  tenne  la  signorìa  di  tutto  il  mondo,  che 
eg^  fìi  bdlo,  savio  e  prode  maravigliosamente.  Ma 
^be  questo  vizio,  che  fu  molto  lussimoso.  E  alla  fine 
distmsse  ^li  tutti  quelli  che  furo  a  uccidere  Giulio 
Cesare.  Qui  si  tace  il  conto  di  parlare  di  lui  e  degli 
ùnperadorì  di'  Roma,  e  toma  aUa  sua  materia. 


ni 


5o  |I«  TESORO. 

Capitolo  XXXIX. 
Delli  re  di  Fnim. 

Quando  la  città  di  Troia  fu  disfatta,  e  che  l' uno 
fìiggi  qua  e  V  altro  là,  secondo  che  la  ventura  li  por"» 
taya,  si  avvenne  che  Priamo  figliuolo  della  suora. del 
re  Priamo  di  Troia,  e  un  altro  barone  die  aveva  qo- 
me  Àntenor,  si  andaro  tanto  per  mare  e  per  terra,  be- 
ne con  tredici  milia  uomini  d^arme,  che  eglino  arri* 
varo  là,  ov^è  ora  la  città  di  Yenegia.  E  loro  fur  queU 
li  che  la  cominciaro  imprimamente,  e  fondarono  deiK* 
tro  del  mare,  e  ciò  fecero  essi  per  non  abitare  in  terra 
che  fosse  di  signore.  Poi  si  partì  Antenor  e  Prìamo 
con  grande  compagnia  di  gente,  e  andonsene  nella 
marca  di  Trìvigi,  e  ivi  fecero  un'  altra  città,  la  quale 
si  chiama  Padoa,  poco  di  lungi  da  Yinegia,  e  ivi  giace 
il  corpo  d' Antenor,  e  ivi  ancora  è  il  suo  sepolcro.  E 
di  là  si  partirò,  e  fecero  un'  altra  città  in  fine  di  quel 
paese,  che  era  appellata E  dopo  certo  tem- 
po si  se  ne  andarono  in  Germania,  e  là  fecero  re  e 
signore  di  loro  Prìamo,  il  quale  era  del  lignaggio  di 
Priamo  re  di  Troia,  lo  giovano  che  fu  morto  ndla 
battaglia  che  fece  con  li  Romani.  E  lasciò  un  figliuo- 
lo ch'eblic  nome  Gomedes.  E  di  Gomedes  nacque  Ca- 
ramot  che  poi  fu  re  di  Grermahia.  Dopo  lui  regiikb 
LicarniitUH  kuo  figliuolo.  E  allora  cominciò  Roma  ad 
abbuMitrn  o  ti  nuiirere.  E  Fi-ancia  cominciò  a  crescere 
e  a  innttluiro  tanto,  che  elli  cacciaro  li  Romani  che  al- 
lora abitavano  allato  al  fiume  del  Nie.  E  quando  il  re 
Liconmtns  fu  morto,  sì  fii  re  Gildibert.  £  ingenerò 


uniOnLno.  5i 

odk  rema  BeMJiia  GroldoYBno,  che  fu  re  di  Francia. 
Dopo  kùy  jr^pQÒ  HiiY^iièiis  sno  figKuob.  Dopo  lui  re*. 
1^  3.  re  Idms  eoo  figfioolo.  £  dopo  lui  regòò  il  re 
CioUopreo  eoo  figfiuolo^olie  fti  il  primo  re  di  Prenda 
cmlHAo^  dbè  santo  Eemigio  il  betteEià  EgB  éottomi- 
wEAlumiuii  aHa  sua  fligDoriB,  e  vinse  gUCknicpoL 
Eei&  fa  dafia  incamasìeme  di  Cristo  a  settecento  eiiv* 
fritatom  anno.  E  allora  oomindò  Podb  dd  signore 
C  Aniieia.Onde  Amelii»  tà  il  primo  vesoofo.  Dopa 
kà  Rgnò  Ànt^ìof  si»>  pciniofpenito^'rti'ebbe  sopnooK' 
aaiw  OrointiSb  Dopo  hù  regnò  il<re  Pipino^  padre  di 
Qrio'ii^pio,  i:lie  farediFranda^  e  ìaipjaradcHr  di 
fama,  secando  dbe  fl  oraito  diviserà  più  imwnsL  Ma 
ffci  Et  iaee'  31  eonto  d^  re,  e  ddle  loro  tenrec  e  di 
loiliftifiBmi,  per  eiòehé  fha  divisato  molto  diiaramen- 
Mj-ttMÉM  fnro  li  prinn  re^  e  dù  foro,  e  li  loro  nomi,  e 
Romani  medesmamente  ha  divisato  la  diritta 
,  insino  al  comindaaiento  di  loro  imperlo  ^  e  per* 
A  non  ne  dirà  ^;ii  ora  più,  and  ritornerà  alla  sua 
oiatenB,  cioè  a  dire  della  terza  età  del  secolo  di  che 
e|^  ha  felinamente  taduto. 

Capitolo  XL, 

Qoi  dice  delle  cose  che  furo  odia  tena  etade  del  secob. 

Ora  dice  lo  conto,  che  quando  la  terza  etade  fu 
romindata,  nel  tempo  d*Ahraam,  che  nacque  nd  tem- 
po di  Nino,  Abraam  ingenerò  Isach.  £  Isach,  Esaù 
e  laéob.  E  ancora  era  vivo  Abraam,  ma  egli  aveva 
bene  cento  dnquanta  anni.  E  lacc^  ingenerò  losefo  e 
suoi  frati,  siconfme  la  Scrittura  dice.  E  di  quelli  fratelli. 


53  IL  TESOEO. 

che  dodici  furo,  furo  tratte  le  dodici  schiatte,  le  quali 
si  chiamano  li  figliuoli  d^  Israel.  Che  egli  fu  vero  che 
lacob  combattè  una  notte  con  un  angelo,  tanto  che 
alla  fine  vinse  lacob.  E  allora  fu  benedetto,  e  fulli 
cambiato  lo  suo  nome,  e  fu  appellato  Isdrael,  doè 
prìnce  di  Dìo.  losef  fu  venduto  per  li  suoi  fi^ti,  e 
infine  fìi  grande  mastro  nella  coite  di  Faraone  re  d^ 
gitto  ^  e  quando  la  grande  feme  fu  in  terra,  si  vi  fece 
egli  venire  il  padre,  con  tutti  i  suoi  fi^atelli,  che  poi  di- 
moraro  in  Egitto,  infino  al  tempo  di  Moises,  secondo 
che  il  conto  dirà  qui  appresso.  losef  figliuolo  di  la- 
cob, ingenerò  Gapet,  di  Gapet  nacque  Aram.  Di  Aram 
nacque  Moises,  e  quando  Moises  fu  nato,  la  madre  il 
rinchiuse  diligentemente  in  uno  Vassello,  e  gittoUo  in 
uno  fiume  corrente,  lo  quale  li  era  presso^  e  questo 
fece  ella,  perchè  un  altro  re  Faraone,  ch^era  stato  di- 
nanzi, aveva  comandato  che  tutti  li  figliuoli  maschi 
delli  Ebrei  fossero  gittati  nel  fiume,  e  le  figliuole  fe- 
mine  tutte  fussero  nudrite  e  guardate.  E  alla  riviera 
di  quel  fiume  lo  trovò  la  figliuola  di  Faraone,  che  lo 
cavò  deir  acqua,  e  fecelo  nutricare  come  se  1  fosse  sta- 
to suo  figliuolo.  Che  Moises  tanto  vale  a  dire  quanto 
acqua.  E  quando  Moises  fu  in  etade  di  trenta  anni, 
elli  menò  tutt^il  popolo  d^ Israel  fuori  d'Egitto,  nd- 
la  terra  che  Dio  aveva  promessa  ad  Abraam,  doè  la 
terra  di  promissione.  E  sappiate  che  dall'ora  che  Dio 
pronuse  la  terra  ad  Abraam  infin  all'uscita  di' e' fi- 
gliuoli d'Israel  fecero  d'Egitto,  si  ebbe  quattrocen- 
to trenta  anni.  E  cosi  Mobes  fu  maestro  e  signore  del 
popolo  d'Israel,  per  la  volontà  di  Dio.  E  a  lui  diede 
egli  la  legge  in  monte  Sinai,  e  comandò  che  ella  fosse 


uqmowuMo.  53 

bene  osfiefvat^  e  dopo  la  sua  morte  furo  molti  altri 
goWnatori  àà  popob  d'Israel,  infìoo  nel  tempo  di 
Ikn^dbe  ne  ifii  rea  sonore.  Edo  fu  sdoento  tren- 
ta anni  iqppressp  aQ'osdta  d'Egitto,  e  allora  eU>e  fine 
la  tan^  ddi  secxilo^  e  già  era  Troia  presa  e  dis&t- 
la^  e.JBnea  e  lo  suo  figliuolo  aveva  fpàoonquistBto  il 
ngap  d^.re  Latina  E  «fifàatedie  la  tana  etade,  die 
jb^d^  JUnraam  infino  a  Dafìt,  dnrò  novecento  settan^ 
taipiattro  anni 

CàSJTOLO  XU. 
Qoi  dies  dille  6M»  dhe  foto  ndk  quarta  «ladte  dd  Moòlo. 

La  quarta  «tade  oomindò  allora,  die  Saul  re  di  Gè* 
ranboime  fu  morto,  e  Davit  nefu  re  e  signore^  e  do- 
po b  sqa  uKnrte^  ne  fu  re  Salomone  suo  fig^uolo,  cor 
lui  cbeiu  così  pieno  di  senno  e  di  sapienza,  e  che 
fondò  e  fece  il  tempio  di  lerusaleoL  Poi  ne  furo  molr 
ti  altri  re  Puno  dopo  P  altro,  infino  a  tanto  che  E- 
zechia  ne  fu  re.  E  quando  egli  ebbe  regnato  intomo 
a  ventidue  anni,  Nabucodònosor,  dì  cui  lo  conto  par- 
la qua  a  dietro,  lo  prese,  e  cavoli!  gli  occhi  della  testa, 
e  menollo  prigione  in  Babilonia  lui  e  tutti  gli  altri  Giu- 
dei Ciò  furo  le  genti  che  erano  della  schiatta  d^  Israel, 
e  lo  ten^io  di  Salomone  ne  fu  allora  arso,  e  ìnfìam- 
mato^  che  non  durò  quattro  cento  anni.  E  allora  fini  la 
quarta  etade  dd  secolo,  e  nella  quinta  etade^  furo  li 
profeti,  £  cui  le  Scritture  parlano,  e  Romulus  fu  si* 
goore  di  Roma.  E  sappiate  che  Tarquino  Priscus  era 
re  di  RoTiffi>T'ì  quando  li  Giudd  erano  in  prigione  in 
Babiloiiia.  £  questa  etade  durò  cinquecento  annL 


54  Ih  TESORO. 

Capitolo  XLIL 
Qui  dice  delle  cose  che  faro  nella  quinta  etade  del  mondo. 

La  quinta  etade  cominciò  la  transmigrazìone  di  Ba- 
bilonia, cioè  a  dire  quando  li  Giudei  furo  menati  in 
prigione  in  Babilonia.  £  quando  elii  erano  in  prigio- 
ne, Cirus,  lo  primo  re  di  Persia,  uccise  Baltasar  lo  re 
di  Babilonia,  e  prese  la  sua  terra  e  il  suo  regno,  se- 
condo che  '1  conto  ha  divisato  indietro.  Quel  re  Cims 
deliberò  di  prigione  li  Giudei,  che  furo  bene  cinquan- 
ta milia  uomini  per  acconciare  lo  tempio.  Ha  poi  Ten- 
ne il  re  Dario,  che  tenne  la  terra  appresso  di  lui,  e 
liberoUi  tutti  interamente.  Ciò  fu  a  settantadue  anni 
poscia  che  furo  presi,  e  allora  fu  quel  Tarquino  so^ 
perbo,  re  de^  Romani,  secondo  che  '1  conio  ha  diTisato 
qua  addietro.  £  questa  etade  durò  infìno  al  nasdmfio- 
to  di  Cristo.  £  in  questa  etade  furo  molti  filosofi,  sic* 
come  Platone  e  Aristotile,  che  furo  li  sovrani  di  tutti 
gli  altri,  e  in  questa  etade  regnò  Alessandro  magna 
£  li  Romani  conquistaro  Grecia,  Spagna,  Africa,  So- 
na, e  molte  altre  terre,  e  in  questa  etade  medesima 
die  Marco  Tulio  la  retorica  alli  Romani.  £  Pompeo^ 
ch^  era  consolo  di  Roma,  conquistò  la  terra  di  Giudea. 
£  Catenina  fece  la  giura  in  Roma.  £  Giulio  Cesare 
divenne  imperadore  di  Roma.  Dopo  lui  fu  signore 
Ottaviano,  nel  cui  tempo  nacque  Cristo,  e  ciò  fu  à 
cinquemilia  cinquecento  anni  del  comindamento  ad 
mondo.  Ma  molti  dicono  che  non  ebbe  di  tempo  pia 
che  cinqueùiilia  duecento  e  cinquantaquattro  anoi. 


libro  primo.  55 

Capitolo  XLIII. 
Della  sestai  ttade  del  secolo. 

^  La  sesta  etade  del  secolo  cominciò  del  nasduiento 
di  Gresà  Cristo,  e  dorerà  inBno  alla  fine  del  mondo. 
E  sappiate  che  quando  il  nostro  signore  Gresù  Cristo 
fii  in  terra  con  li  suoi  discepoli  si  finì  il  vecchio  Te- 
sbollento^' e  cominciò  il  nuovo ^  che  alli  trenta  anni  di 
soa  etade  si  fece  egli  battizzare  nel  fiume  Giordano  a 
santo  Giovanni  Battista,  per  mostrare  la  salvazione  di 
tutti  cristiani.  E  sappiate  che  senza  battesimo  non  si 
può  nomo  salvare,  siccome  egli  medesimo  dice  ndi 
▼u^dio;  e  là  ove  la  vecchia  legge  leceva  la  circun- 
cisioiie,  li  cristiani  fanno  lo  battesmo.  E  perchè  noi 
dobiMaaio  servare  la  nuova  legge,  la  vecchia  non  fu 
perciò  mutata.  Ora  bene  è  ragione  che  '1  mastro  di- 
visi ddli  maestri  di  quella  legge,  e  di  ciascuno  in  que- 
sta maniera. 

Capitolo  XLIV. 

Di  DaTÌt^  come  fìi  sopra  gli  altri  profeti. 

Davit,  figliuolo  di  Gresse,  fu  nato  della  schiatta  di 
Giuda.  E  nacque,  e  uccise  Golia  il  grande  gigante,  che 
era  nimico  del  re  Saul,  che  fu  re  di  lerusalem,  e  di 
tutti  li  Giudei.  Lo  nostro  signore  Dio  li  dava  grazia 
che  egli  uccideva  e  vinceva  li  leoni  e  li  orsi  senza 
alcuna  arme,  che  egli  squarciava  le  mascelle  con  le  ma- 
ni molto  leggiermente,  e  di  lupi  faceva  il  simiglìan- 
te,  e  d^ogni  altra  fiera  bestia.  Egli  vinse  lì  giganti,  e 


56  '  IL  TESORO. 

molte  altre  cose  fece  egli.  Perchè  Saul  V  odiava  mor- 
talmente, che  dubitava  ch^'egli  non  li  togliesse  il  regno. 
Ma  siccome  piacque  a  Dio,  Saul  morì  e  Davit  fa 
fatto  re  dopo  lui.  E  fu  molto  vittorioso,  e  Dio  volse 
che'  fosse  re  e  profeta.  E  tutto  fosse  peccatore,  die 
cadde  in  adulterio  e  omicidio,  egli  ritornò  tosto  al- 
la penitenza,  e  fu  il  più  vero  ripentitore  che  uomo  sa- 
pesse. In  questi  due  peccati  cad^e  egli  siccome  io  ne 
dirò  brevemente.  Egli  amò  di  folle  amore  una  foni- 
na  che  avea  nome  Bersabe,  e  era  moglie  d'un  suo  ca- 
valiere che  avea  nome  Uria.  E  fecelo  andare  ad  una 
battaglia,  perchè  dovesse  morire,  e  egli  vi  morì^  e  dò 
lece  egli  perchè  egli  aveva  già  conosciuta  la  mo|^ 
carnalmente  ;  che  non  volea  che  altri  lo  sapesse,  nò 
che  Uria  se  ne  avvedesse.  E  tanto  V  amava  che  dopo 
k  sua  morte,  cioè  di  Uria,  egli  la  fece  moglie,  e  di  lei 
ebbe  egli  Salomone,  lo  grande  savio,  e  un  altro  figliuo- 
lo, ch'ebbe  nome  Absalone,  che  fu  il  più  beUo  uomo 
del  mondo,  e  li  capelli  suoi  pareano  oro.  veramente. 
Ma  egli  si  rubellò  contra  di  lui,  e  -contra  lui  fece  mol- 
ta guerra,  e  molta  persecuzione  li  diede.  E  chi  vorrà 
sapere  la  diritta  storia  per  che  fu  quella  guerra,  e  co- 
me Absalone  morì,  cerchi  nella  Bibbia,  e  là  lo  tro- 
verà tutto  apertamente.  E  sappiate  che  Davit  fu  il  so- 
vrano profeta  di  tutti  gli  altri,  che  egli  non  profe- 
tò niente  alla  maniera  degli  altrì.  Che  profezie  sono 
in  quattro  maniere,  o  in  fatto,  o  in  detto,  o  in  vi- 
sione, o  in  sogno.  In  fatto  fu  P  arca  che  Noè  leoe, 
che  significò  santa  chiesa.  In  detto  fu  quando  l'ange- 
lo disse:  Àbraam,  nel  tuo  seme  saranno  benedette  tut- 
te le  genti.  In  visione  fu  quando  il  rovo,  ovvero  il 


.  uno  imnip.  Bj 

spioQy  che  Moìmì  TÌde  ardere,  e  non  peggioraTa  nul- 
la, se  non  come  nottaidette.  In  sogno  fu  le  sette  Tao- 
che  e  le  sette  spighe,:  che  Faraone  sognò^  cmdelosef 
pxtsA  qndlo  dhe  àffnScò,  e  qoello  die  doTeva  aT* 
T0nraLlbiDaT?t{a0&tò  foori  di  queste  quattro  ma- 
meve^(>jbè  c|^  profetò  per  somma  interpretaaone  di 
Dìoac:di  Santo. S^pirìlo^chfe(.r]^^  tuttala  nati- 
filBde  di  GnatOs  Gb^-  egi»  scopri  quello  che  ^  altri 
pqqAfi«¥eTanQ  detto  copertamente^  seconda  c^  Fuc^* 
mó  pmote  Tedore  neljsuo  libjro,  ch'è  appaiato  psal-. 
teiìo,  ia  aairibianaa  47inKKstromento  dùamato  altreià 
p«ll(9)p^.il;qiiale.h9  dieci  Toei,  che  significano  dieci 
oovaandanHPti  della  legge^  che  Db  die  aMoises.  Il 
psjharo  ne^parU.mobp  di  qò  in  oentocinqnanta  «Jk 
■ttodfta  iGlspno..E  sappiate  che  Davit  r^ò  quaranta 
aoni^je  passò  di  questo  secolo  4^  età  compiuta  di  set-. 
tanti  anni  in  ottanta.  £  Salomone^  suo  figliuolo,  regoòi 

dopolni.. 

Capitolo  XLV. 

Del  re  Salomone* 

Lo  re  Salomone^  figliuolo  dd  re  Davit,  si  fu  nomo 
l^orioso,  pieno  di  tutta  sdenza,  ricco  di  tesoro^  e  di^ 
tenrec  e  di  molta  cavallerìa.  Dio  V  amò  assai  al  comin-' 
damento,  ma  poi  Podio.  Po:  ciò  che  adorò  gV  idoli^ 
per  folle  amore  che  mise  io  una  femina.  Egli  fu  re  di 
lemsdiem  soprale  dodid  sdiiatte  de' figlioli  d'Israel 
quaranta  amiL  £  fu  alla  sua  morte  sepolto  in  Betleem 
con  li  suoi  antecessori 


58  IL  TESOBa  ' 

Capitolo  XLVI. 
Di  Elia  profeta  e  della  tua  vita. 

Elia  fu  molto  grande  profeta,  e  fion  Tolea  stare  tra 
le  genti,  anzi  abitala  in  monte  Carmeli,  e  in  Inogfai 
diserti.  E  ciò  faceva  perchè  le  genti  non  li  togliessero 
lo  buono  intendimento,  che  egli  aveva  in  Dio.  Egli 
fu  pieno  di  fede,  e  di  santa  penitenza,  e  di  puro^  pen- 
siero. Egli  uccise  li  tiranni,  e  risplendea  di  grande  in- 
segnamento e  di  virtude.  Che  egli  chiuse  tre  anni  il 
cielo,  e  non  die  piova.  Egli  risuscitò  un  uomo  morto^ 
per  sua  virtude.  Non  menovò  la  farina  della  scoddla 
della  povera  femina  che  tanta  non  ne  potea  cavare,  e 
fece  d^uno  vasello  d'oliò  una  fontana,  che  tuttavia 
n'usciva  olio.  Per  sua  orazione  discese  il  fuoco  dal  cie- 
lo sopra  uno  sacrificio.  Per  sua  parola  arsero  tre  prin- 
cipi, con  tutti  loro  cavalieri.  Egli  aperse  il  fiume  Gior- 
dano, epassoUo  a  piedi  oltra,come  per  terra  secca.  Egli 
montò  in  ver  lo  cielo  in  un  carro  di  fuoco.  Malachia 
profeta  disse,  che  egli  non  moria  mai,  anzi  è  ancora 
vivo  in  paradiso  delitiarum  egli  ed  Enoch,  che  fu' un 
altro  profeta  innanzi  il  diluvio,  e  questi  due  debbano 
apparire  .per  la  volontà  di  Dio,  nel  tempo  che  Anti- 
crìsto  si  farà  adorare,  come  se  fpsse  Iddio,  e  predi- 
cheranno la  santa  Trinità,  e  la  fede  santa  cattolica,  e 
faranno  grandi  miracoli.  Allora  Anticristo  li  fiirà  ood- 
dere,  e  gittare  la  loro  carne  nella  via  senza  nulla  se- 
poltura. Ma  lo  nostro  Signore  li  resusciterà,  e  <£- 
struggerà  Anticristo,  e  il  suo  regno  con  tutti  qudli  che 
r  avranno  servito,  o  creduto.  Questo  Elia,  di  cui  lo 


LIBRO  PRIMO.  5^ 

conto  parla,  fu  del  lignaggio  di  Aaron,  €  quando  ven- 
ne lo  suo  nascimento,  Sobia  suo  padre  sognò,  che 
uomini  vestiti  di  drappi  bianchi  prendevano  Elia,  e 
involgeanlo  in  drappi  molto  bianchi,  e  davangli  poi 
fuoco^  a  mangiare,  e  quando  Sobia  fu  isvegUato,  di- 
mandò a^  profeti,  quello  che  ciò  poteva  essere,  e  egli- 
no li  dissero  :  Non  temere  niente,  che  la  nazione  del 
tuo  figliaolo,  sarà  vero  lume  e  giudicherà  il  popolo 
d'Israel,  con  gaudio  e  letizia.  Questa  visione  del  pa- 
dre di  Elia,  fu  profezia  aperta,  che  religione  dovea 
nscire  di  lui  in  abito  bianco,  la  quale  senza  dubbio 
è  rordine  de'carmeliti,  e  questo  si  mostra,  perchè  il 
detto  ordine  ebbe  suo  principio  nel  tempo  dTElia  e  di 
Eliseo,  in  monte  Garmeli,  dove  essi  sempre  abitaro, 
e  perchè  la  chiesa  di  Roma  per  questa  profezia  li 
mutò  r  abito  profetico,  lo  quale  elli  ebbero  da  profe- 
ti, in  quello  abito  che  ellino  ora  portano. 

Capitolo  XLVII. 

Dì  Eliseo  profeta  e  della  sua  vita. 

Eliseo  vale  tanto  a  dire,  quanto  figliuolo  di  Dio. 
Egli  fu  profeta  e  fu  discepolo  di  Elia.  E  fu  d' uno  ca- 
stello che  avea  nome  Àmelmoat  E  fu  della  schiatta 
di  Ruben.  E  allora  che  egli  nacque,  una  piccola  vac- 
ca d'oro,  che  era  in  Galgana,  muggiò  sì  fortemente 
che  la  sua  bocca  risonò  insino  in  lerusalem.  E  al- 
lora disse  uno  profeta  :  Oggi  è  nato  in  lerusalem  uno 
pix)feta  che  distruggerà  gì'  idoli.  E  certo  egli  fece  al- 
te meraviglie,  eh'  egli  divise  il  fiume  Giordano,  e 
fecelo  tornare  contra  al  monte,  e  passò  per  mezzo  il 


6o  IL  TESORO. 

fiume  di  là  con  Elia.  Egli  risanò  le  acque  di  Gierìco^ 
che  erano  corrotte,  e  fece  correre  acque  di  sangue  per 
distruggere  V  inimici  di  Dio.  Una  femina  giudea,  che 
mai  non  avea  portati  figliuoli,  fece  egli  per  sue  ora- 
zioni portare  uno  figliuolo.  E  colui  medesimo  resu- 
scitò poi  da  morte.  Egli  temperò  P  amaritudine  delle 
vivande.  Egli  satollò  cento  uomini  di  dieci  pani  d'cn*- 
zo.  Egli  guarì  Naaman  della  lebbra.  Egli  fece  notare 
la  secure  del  ferro  per  lo  fiume  Giordano,  e  fece  rim-*..i. 
mici  di  Soria  annichilare  al  signore  di  Sammaria,  e. 
disseti  la  sua  morte  innanzi  tratto.  Egli  cacciò  via 
r  oste  delli  suoi  inimici,  li  quali  erano  quasi  senza 
numero.  Egli  cacciò  via  in  un  giorno  la  fame  grande 
ch'era  in  quel  paese.  Egli  risuscitò  la  carogna  d'uno 
uomo  morto.  Eliseo  mori  nella  città  di  Sabat,  e  qui 
ne  è  il  suo  sepolcro  ancora.  D'Eliseo  si  disse,  eh'  egli 
avea  due  spiriti,  cioè  il  suo  e  quello  d'Elia,  e  perdio; 
fece  egli  più  meraviglie  che  Elia.  Ch'Elia  suscitò  un 
morto,  ma  Eliseo,  eh'  era  già  morto,  ne  suscitò  un  al- 
tro. Elia  fece  venire  fame,  siccitate  e  caro  :  ma  Eliseo 
in  un  giorno  deliberò  tutto  il  popolo  da  grande  fame. 

Capitolo  XLVIII. 

Di  Isaia  profeta  e  di  sua  Tita. 

Isaia  vale  tanto  a  dire,  quanto  saluto  del  Signore* 
Egli  fu  figliuolo  di  Amos.  Non  dico  di  Amos  profeta^ 
che  fu  uno  delli  pastori ,  ma  Amos  padre  di  Isaia  fa 
nobile  uomo  di  lerusalem.  Ed  Isaia  fu  uomo  di  gran-* 
de  santitade ,  che  per  lo  comandamento  del  Signore 
conversava  tra  '1  popolo  tutto  nudo  dalla  cintola  in 


IJBRO  PRIMO.  6l 

SU,  e  tuttavia  andava  iscalzo.  E  per  sua  preghiera  al- 
loQgò  Iddio  la  vita  al  re  circa  quindici  anni,  che  do- 
vea  allora  morire.  Ma  un  tiranno  che  avea  nome  Na- 
tos,  si  '1  fece  segare  per  mezzo  il  corpo.  E  di  Isaia 
diooDo  li  Giudei,  che  fu  messo  a  morte  per  due  cagio- 
na h*  uoa  perch^  egli  lo  chiamò  lo  popolo  di  Sodoma, 
e  fNrioeipe  di  Gomora.  L'  altra,  che  quando  Iddio 
dibe  detto  a  Moises,  tu  non  vedrai  la  mia  faccia,  e 
Isaia  osò  dire,  ch'egli  aveva  veduto  la  fiakccta  di  Dome- 
nedio.  Ed  è  la  sua  sepoltura  sotto  la  quercia  di  Bpgd. 

Capitolo  XLIX. 
Di  Geremia  profeta  e  di  sua  TÌta. 

Geremia  fu  nato  di  schiatta  di  profeti.  E  fu  nato 
in  un  castello  che  avea  nome  Ànatot,  presso  a  quattro 
le^ie  a  lerusalem.  Egli  fu  profeta  in  Giudea,  e  fu  sa- 
grato. A  lui  fu  comandato  da  Dio  che  egli  mantenesse 
virginitade.  Ed  egli  si  fece  ndla  sua  fanciullezza  co^ 
mindare  a  predicare  e  trarli  del  peccato,  e  conducei4i 
a  penitenza.  Molti  mali  gli  furo  fatti  dal  crudele  po- 
polo. Egli  fu  messo  in  carcere,  e  fu  gittato  in  un  lago, 
e  fu  fatto  mordere  alli  cani.  Ed  alla  fine  fu  lapidato  in 
Egitto,  e  fu  seppellito  là  ove  il  re  Faraone  stava,  e  la 
sua  sepoltura  è  in  grande  riverenza  tra  quelli  d'Egit- 
to. Imperciò  che  egli  liberò  quelli  d' Egitto  dai  ser- 
penti. 


latini  roì.  I.  4 


6  a  IL  TBsoBa 

Capitolo  L. 
Di  Ezeehiel  profeta  e  di  sua  Tita^ 

Ezechìei  vale  tanto  a  dire ,  quanto  forza  di  Dio.  E 
fu  buono  sacerdote  e  buono  profeta.  Ma  egli  fu  preso 
per  Gioachin  suo  re,  e  menato  in  Babilonia.  E  biar 
simò  quelli  di  Babilonia  della  loro  malvagitade.  Ma 
lo  popolo  d'Israel  Puccisono  a  tradimento,  però  die 
egli  U  rìprendea  di  male  cose  dbe  elfi  faceano.  E.  fii 
messo  nel  sepolcro  del  figliuolo  di  Noè,  eh'  ebbe  no- 
me Arfasat,  nel  campo  delli  morti. 

Capitolo  LI. 

Di  Daniel  profeta» 

Daniel  tanto  è  a  dire,  quanto  gindicìo  di  Dio,  nomo 
amabile.  Egli  fu  nato  di  lignaggio  di  Giuda.  E^snoi 
antecessori  furo  nobili  sì  come  re  e  sacerdoti.  E  fa 
menato  in  Babilonia  con  lo  re  Gioachino,  quando  e* 
gli  fu  preso  con  li  tre  fanciulli.  E  là  fu  egli  signore  e 
prìncipe  di  tutti  i  Caldei.  Egli  fu  uomo  graziosa  e  di 
gran  bellezza.  Ebbe  un  nobile  coraggio,  e  fu  perfetto 
nella  buona  fede  e  in  conoscenza  di  sacre  cose.  E  si 
vedea  per  virtù  di  Dio  quelle  che  venire  doveano. 

Capitolo  LII. 
Di  Achias  profeta. 

Achias  profeta  della  cittade  di  Elia.  Egli  disse  di 
lungo  tempo  innanzi  al  re  Salomone,  eh'  egli  abbaia* 


LIBRO  PEIMO.  65 

donerebbe  la  legge  di  Dio  per  una  femina.  E  quando 
fu  morto  si  fu  seppellito  in  terra,  a  lato  ad  una  quer^ 
da  in  Silo, 

Capitolo   LIU. 

Di  laddo  profeta. 

laddo  profeta  nacque  in  Samaria.  Egli  fu  mandato 
a  leroboam,  che  sacrificava  il  vitello  a  Dio,  e  fugli 
detto  che  egli  dimorasse  con  lui,  ma  egli  non  lo  fece. 
E  per  ciò  egli  avvenne,  che  quando  egli  tornava,  un 
hoDe  lo  strangdiò,  e  poi  si  fu  sepolto  in  Betel 

Capitolo  LIV. 
Di  Tobia. 

Tobia  vale  tanto  a  dire,  quanto  bene  di  Dio,  e  fu 
del  lignaggio  di  Neptalim,  e  nacque  della  terra  di 
Chial,  e  delle  regioni  di  GalQea.  Salmanasar  lo  prese 
e  perciò  fu  egli  cacciato  della  città  di  Nini  ve.  Egli  fu 
giw^to  in  tutte  cose.  Egli  dava  ciò  che  poteva  ai  po- 
veri e' a' prigioni.  Egli  seppelliva  li  morti  con  le  sue 
mani.  Poi  acciecò  per  sterco  di  rondine,  che  li  venne 
negli  occhi,  ma  in  fine  Dio  li  rendè  la  veduta,  da  ivi 
a  dieci  anni ,  e  dielli  grande  ricchezza ,  e  quando  tu 
morto,  fu  seppellito  in  Ninive. 


64  IL  TESOEO. 

GAPTtOLO  LV. 

Delli  tre  fancioUi  che  Nabucodònosor  fece  lùettere 
oclk  fornace  ardente. 

Li  tre  fanciulli  furo  tutti  tre  nati  di  schiatta  reale, 
e  furo  di  graziosa  memoria,  e  savi  di  scienza ,  e  par- 
lanti della  fede  diritta.  E  quando  Nabaoodonosor  Ir 
fece  gittare  nel  mezzo  deUa  fornace  ardente,  non  ar-* 
deano  elli  niente,  anzi  si  spense  3  fuoco,  cantando  e 
glorificando  Domenedio,  e  non  fece  loro  nuKo  nude. 
£  quando  elli  passaro  di  questa  vita,  furo  seppelliti  in 
Babilonia ,  e  questi  fanciulli  erano  appellati  per  loro 
nomi  Ànanias,  Azarias  e  Misael.  Ma  poi  Nabucodòno- 
sor gU  appellò  Sidrac,  Misac  e  Àbdenago,  cioè  a  dire^ 
Dìo  glorioso  e  vittorioso  sopra  li  reami. 

Capitolo  LVI. 

Di  Eforat  profeta. 

Eforas  vale  tanto  a  dire,  quanto  edificatore  di  lenn 
salem,  e  molti  dicono  che  egli  ebbe  nome  Malachiel, 
cioè  a  dire  angelo  di  Dio.  Egli  fu  sacerdote  e  profeta. 
Egli  acconciò  le  storie  della  santa  Scrittura,  e  fa  il  ie- 
condo  uomo  che  die  la  legge  alla  gente  dopo  MofHS.  Egli .  , 
rinno  vello  la  legge  del  vecchio  Testamento  ch^erastatvijp 
arsa  per  li  Caldei  al  tempo  che^  Giudei  erano  in  pri- 
gione in  Babilonia.  Egli  trovò  le  lettere  degli  Ebrei,  e 
fìgurolle,  e  insegnò  loro  a  scrivere  per  diritto  verso, 
e  lasciare  lo  sinistro.  Che  prima  iscrivevano  ora  in- 
nanzi ora  indietro ,  sì  come  fanno  li  buoi  che  arano 


UBRO  PRIMO.  6^ 

la  terra.  Egli  riinenò  il  popolo  d^  Israel  di  caltiyitade, 
e  léce  rìfòre  lenisalem,  e  quivi  è  seppellilo. 

Capitolo  LVII. 

Di  Zorobabel  e  di  Neemias  profeti. 

Zorobabel  e  Neemias  furo  dello  lignaggio  di  Giuda, 
e  furo  sacerdoti  e  profeti.  Elli  reedificaix)  lo  tempio 
di  Dio,  nel  tempo  che  Dario  figliuolo  di  Stapis  fu  re 
di  Persia.  Ellinolfecero  rifare  le  mure  di  lerusalem,  e 
rìtomaro  Israel  nel  suo  stato,  e  ristororon  li  conleni- 
menti  ddla  loro  prima  r^one  de^  sacerdoti,  e  alla 
morte  furo  seppdUiti  in  lerusalem. 

Capitolo  LTIU. 

Di  Ester  regina. 

Ester  fu  reina,  e  fu  figliiiola  del  frate  di  Mardocheo, 
e  fu  menata  in  prigione  di  lerusalem  nella  città  di 
Suzi ,  e  per  la  sua  grande  bellezza  fu  ella  menata  ad 
Leres  re  di  Persia.  E  sofferse  amarlo  per  lo  popolo 
salvare,  e  crucifisse  Aman,  perchè  voleva  distruggere 
il  popolo  di  Israel,  e  cosi  lo  liberò  di  morte  e  di  sér- 
vitude,  e  poi  tu  seppellita  in  Suzi. 

Capitolo  LIX. 
Della  valente  femina  di  ludit. 

ludit  fu  una  donna  vedova  figliuola  di  Meraude 
dello  lignaggio  di  Simeone,  e  fu  di  grande  coraggio, 
e  più  for^e  di  nullo  uomo.  Ella  non  temè  niente  la 


66  IL  TESORO. 

forza  di  Oloferne,  anzi  si  mise  a  rischio  di  morte,  per 
scampare  lo  popolo,  e  si  Tuccise  mentre  ch'ali  dor- 
mia  senza  onta  del  suo  corpo,  e  portò  il  capo  suo  alli 
suoi  cittadini,  per  la  qual  cosa  ellino  ebbero  vittoria 
contro  a  quelli  delP  oste  ^  e  visse  centocinque  anni,  e 
fu  seppellita  nella  spelonca  di  Manasse  suo  marito, 
nella  città  di  lusmapulia  nella  terra  di  luda  in  terra 
Doctohalim. 

Capitolo  LX. 
Di  Zaccaria  profeta. 

Zaccaria  vale  tanto  a  dire,  come  jnemoria  del  Si- 
gnore Iddio.  Egli  fu  profeta  e  sacerdote,  e  fu  figliodò 
di  londe  sacerdote,  che  per  soprannome  era  chiamato 
Baracchias,  che  fu  lapidato  dal  popolo,  per  lo  coman- 
damento del  re  Inda,  a  lato  li  altari  del  tempio.  Ma 
altri  preti  lo  seppellirò  in  Giel. 

Capitolo  LXI. 

De^  Maccabei  e  dì  loro  TÌta. 

Maccabeo  vale  tanto  a  dire,  quanto  nobile  trionfìin- 
te.  Elli  furo  cinque  Maccabei  figliuoli  di  Matatia,  e  so- 
no questi  li  nomi,  Gaddis,  Thapi,  Abaron,  MaooRbeo, 
lonatas.  Chi  vonà  sapere  le  vittorie  che  ellì  ebbero  % 
sopi*a  lo  re  di  Persia,  e  le  grandi  osti  che  elli  fecero, 
legga  le  storie  della  Bibbia,  e  là  le  troverà  di  cosa  in 
cosa  diligentemente. 


uUMnnHK  67 

Gàntoi4>  LXIL 

Oci  libri  M  «ecduo  TettamcBio. 

Ora  afabo  io  coniato  de^  santi  padri  éA  Teochio  Te- 
slaiwnto,  e  h  loro  vHa  brevemente,  ma  chi  più  hr- 
gamenle  la  vorra  vedere,  rà  se  ne  vada  aUa  Bibbia  ove 
è  flcritto'  fl  tutto  apertamente.  E  sappiate  che  antica- 
meole  qoando  li  CUdei  presero  li  Giudei,  e  che  li 
nenvo  in  cattivitrfEfe  e  in  prigioDe,  ri  foro  arsi  allora 
toni  li  Ebri  ddk  veodna  legge.  ìb  Elbras  profeta,  per 
lo  JnwyHwnenio  del  Santo  Spirito-  quando  il  popolo 
de^CMndei  rilomaro  di  qodla  cattivitade,  rivelò  loro 
Ìinalalèg9e,enBsdain  scrìtto,  e  feccia  diventidne 
vdomi,  tod  come  le  lettere  sono  vènttdoe.  Ed  allora 
soMse  lo  Uvo  di  sapiema  di  Salomone.  Ma  lo  libro 
Eulu  liailiro  scrisse  Giesa  Sìrac,  die  1  parìare  latino 
ebbe  indito  inriverenia,  però  die  egli  fo  somigliante 
a  Sakmioiie  in  sdensa.  Mia  dd  libro  di  Davit  e  di  To^ 
bia  e  de*  Maccabei,  non  si  sa  chi  gli  scrìsse. 


()8  ANNOTAZIONI 

ANNOTAZIONI  AL  LIBRO  PRIMO. 


Scrivo  queste  noterei  le  lontano  da  ogni  pret 
ne  3  che  ben  so  di  quali  sussidii  mi  sarebbe  stato  uopo 
a  Tolere  illustrare  un  libro  di  tanto  viziata  lezioney  e 
ragguardante  niente  meno  che  intera  la  uoiverselita 
del  sapere.  Gioveranno  esse  bensì  a  dimostrare  eon 
quanta  timidezza  io  mi  diportassi  nel  tentare  mntatio** 
ni  in  un  dettalo  di  cui  non  mi  si  offrivano  codici  <||K 
portuni  a  consultare,  ne  altre  edizioni,  toHe  le  dde 
del  i474  ®  ^^^  i538,  cui  non  fece  che  ricopiare  h  ci- 
tata del  i555.  Ma  di  ciò  credo  aver  toccato  safl&oMiH 
temente  nella  prefezione^  onde  che  tutto  ciò  ch'io  ne 
dicessi  in  questo  luogo  sarebbe  soverchio.  Mi  giova 
solo  avvertire  che  delle  desinenze  troppo  vicine  al  dia? 
letto  veneziano,  e  delP  ortografia,  che  ho  creduto  con- 
veniente di  alterare  pressoché  ad  ogni  perìodo,  non 
fòro  cenno  minutamente,  ma  in  queMuoghi  solamente 
che'  per  la  singolarità  loro  mi  sono  sembrati  meritare 
una  speciale  attenzione,  e  una  volta  per  tutte  in  que- 
sto avvertimento  proemiale.  Dicasi  il  somigliante  de' 
nomi  proprii  di  personaggi  o  di  contrade,  ond'è  fittlo 
ricordo  nel  Tesoro,  i  quali  a  tutti  voler  correggere  sa- 
rebbe fatica  disperata  :  né  sola  disperata,  ma  forse  al- 
cune volte  dannosa.  E  né  meno  intendo  raddrizzare 
le  storte  idee  disseminate  pel  libro,  il  che  stimo  egual- 


aM  UBM»  mmo.  69 

■lente  vaDo^  e  per  chi  n  eh  gè  meàesmoHhoeroen 
k  fthMi  loro,  6  pttdi  ^^fanmi  #ffoote  tanto lemola 
per  •ttu^nm  il 'nsfo.  A'priimrìincireiiOTefdiio^  »' 
teooadi  amtSeu  Ghieerca  in  serBranetlodoCtrìiie  ooq- 
komtìk  d  Moolo  decsaioiMMio  è  presomìbQe  die  noo 
alwdiyoabbii  pcriUftcilt  doltrìoe oppotle  «quel- 
le del  dedmoteno.  li  baoo  senno  geniale  à  hoègr 
mmàù  Me  togaaiom  ipeciaK.  Kcoqaegto  cdh  tduet- 
■wdentta  con  eni  ho  protestato  dbe  qnefl'oper^ 
piar  ijgnaflrdo » lenyi^  •  diepoche 
^ooiMpeterieeoQ'eeNiy  cDfittdeiBta  cpiil  wouupt 
^^Uk  dffltà  itaKune^  epoHMui  dmeoropeiyiD- 
WfiAìo  ttmpQj  E  non  dink 


I9  peg.  4*  -6  ff^ii  à'co  io  mtnU  che  quesio 
Wni  ria  tnao  del  mm  povero  smio. 
*  <9onr  ^eimof  n»  ItovaDdo  coniqpondenli  aEa  le- 
dane ^deSe  stampa  i535  qoella  delle  due  anteceden- 
ti iSoMy  1474?  ^'^'^^  "^^  ^  matazione.  H  senso  ci 
sta  ad  ofpai  modo. 

O^.  I9  pag.  5.  £  prei^desHi  ai  monti  e  alle  valli 
tecondo  dirittura. 

'  Nd  hbro  di  Boezio  non  ci  ha  nulla  di  ciò.  Anche 
il  prevedere  &  sospettare  errore,  ma  non  avendo  an- 
lorita  akuna  che  mi  confortasse  alla  correzione^  lasciai 


Gap.  n,  pag.  6.  E  poi  che  tfueste  tre  questioni^  ec. 

Ecco  fl  perìodo  quale  si  legge  nelle  tre  stampe  con- 
cordi, sciagurata  concordia  !  E  poiché  queste  tre  que- 
stiom  Jurono  trattate  e  pensate  largmnente  tra  gli 
uomini  letterati  e  in  trajilosqfi  che  trosHwano  inji- 


yo  ANiroTAzioin 

losqfia  loro  madre  tre  principali  membri^  doè  a  dire 
tre  maniere  di  scienze,  per  insegnare  e  provare  la 
verace  ragione  delle  tre  questioni  ch'io  haggio  divi^ 
sate  qua  dinanzi.  Ho  levato  vìa  il  primo  che  per  ri- 
durre il  periodo  ad  un  qualche  senso  ^  avrei  potato 
similmente  levar  via  P ultimo^  ma  né  P una,  né  Paltra 
è  forse  la  vera  lezione. 

Gap.  ni,  pag.  6.  JS  un'altra  natura  è  delle  cose 
che  hanno  corpo  e  conversano  colle  corporali  case. 

Tutto  questo  ce  lo  aggiunsi  io,  senza  che  si  ìefggà 
in  nessuna  delle  tre  stampe  antiche.  Non  credo  aver 
fatto  male.  Dlcesi  indi  a  poco  essere  ragionevole  cosa 
che  questa  scienza  di  teoria  facesse  del  suo  corpo, 
tre  altre  scienze,  per  dimostrare  le  tre  diverse  mn 
tare  divisate,  quando  secondo  le  tre  stampe  anzidet- 
te le  diverse  nature  divisate  sarebbero  due.  La  mia 
giunta  non  ammette  nessuna  parola  nuova,  e  appunto 
questa  corrispondenza  delle  parole  medesime  rende 
presumibilissimo  P  errore  del  tipografo.  Per  poca  pra* 
tica  che  si  abbia  delle  tipografìe  ciò  è  manifesto. 

Gap.  lY,  pag.  io*  JElla  è  la  scienza  di  cui  Tullio 
dice  nel  suo  libro,  che  colui  ha  altissima  cosa  can-^ 
quietata,  che  passa  gli  altri  uomini,  ciò  è  ad  inten-^ 
dere  della  parlatura  dell'  uomo, 

n  costrutto  vacilla,  e  credo  ci  abbia  a  mancare  al" 
cuna  cosa. 

Gap.  y,  pag.  IO.  Dialettica,  Jisica  e  sofistica,  E 
indi  a  poco:  la  seconda  si  è  Jisica,  la  quale,  ec 

NelPun  luogo  e  nelP  altro  per  Jisica  intendi  meta-' 

Jisica,  E  per  quanto  i  trìvii  e  quadrivii  scolastici  del 

medio  evo  differissero  dalle  partizioni  usate  da  noi 


AL  LIBRO  PRIMO.  yi 

nello  scibile,  non  credo  si  possa  mai  intendere  per^*- 
sica  dò  che  qui  troviamo  indicato  con  tal  nome.  Non 
cangiai  tuttavia,  perchè  concordi  le  tre  edizioni,  ripe- 
tuta la  parola,  e  senza  limiti  le  inesattezze  in  certi 
tempi 

Cap.  YI,  pag.  11.  E  questa  materia  è  appellata 
hyle. 

Voce  di  greca  origine,  che  Tale  limo^  materia^  e  al- 
tro tale.  Se  ne  &  ricordo  nelle  Confessioni  di  s.  Ago- 
stino, lib.  Xn,  cap.  4- 

-  Gap.  Vii,  pag.  i5.  U  altra  maniera  è,  che  tutte 
le  altre  cose  Jvro  fatte  d^  alcuna  altra  materia. 

Il^^<n>  manca  nelP  edizione  del  1 533  3  ce  1  posi  di 
tutto  buon  animo^  avendolo  anche  risccmtrato  in  quel» 

la  del  i474- 

Cap.  Vili,  pag.  i^.E  non  pertanto  che  tutto  foce 
e  tutto  creòy  e^pub  rimutare,  ec. 

Quest^e^,  al  quale  io  posi  il  segno  de' pronomi,  po- 
trebbe essere  particella  rafforzativa  significante  tutta- 
via o  simile,  n  senso  ci  sta  ad  ogni  modo. 

Cap.  XII,  pag.  19.  Per  ciò  eh' e' si  assicurò  della 
signoria,  ec. 

Chi  leggesse  cogli  occhi  solamente  nella  edizione 
i533  stamperebbe  eh' essi  assicurò,  ec.  Il  cambia- 
mento da  me  fatto  mi  sembra  secondo  ragione. 

Cap.  XVI,  pag.  25.  Ma  della  beatitudine  si  sov- 
viene ella  per  immagine,  e  d'altre  cose  per  sé  me- 
desima: se  non  fosse  per  lei  medesima,  ec. 

Le  antiche  stampe  hanno  medesimo.  Ed  io  ho  cam- 
biato, quantunque  non  manchino  esempi  di  consimili 
sgrammaticature.  Altri  cangiamenti  di  tal  genere  meno 


73  ÀumoTàMion 

importanti  dod  gK  aooennerò  d'ora  inDaDU^  per  noo 

aumentare  soverchio  il  sopraccarico  delle  anootaziom. 

Cap.  Xyn,  pag.  24*  Salathiel  la  diede  a  Dar- 
tenia. 

La  edizionedel  i533,  e  similmente  Paltra  del  iSaS^ 
hanno  D^artenia^  ma  la  lettera  maiuscola  data  ali*  ar- 
ticolo, e  la  minuscola  al  sostantivo^  mi  fiinno  sospetta-) 
re  d'errore^  tanto  più  die  leggo  Dartenia  nella  edi- 
zione del  i474-  Potrebbe  forse  leggersi  ad  Artema. 
Ma  neppur  ciò  può  contentare. 

Cap.  Xyn,  pag.  a4-  ^^  dieci  savi  uomini  trans- 
lataron  poi  il  libro  di  Solon  in  la  legge  di  dediti 
tanfole, 

L'ecGzioni  del  i533  e  i5a8  hanno:  ma  dieci  savi 
uomini  translataron  poi  in  libro  di  Solon  la  legge 
di  dodici  tavole,  Qual  senso  se  ne  cava  ?  Panni  ra- 
gionevole la  correzione.  La  edizione  i474  ^  Saion, 
in  luogo  di  Solon  ^  nel  resto  come  le  posteriorL 

Cap.  XX,  pag.  38.  Quello  Lamech  ebbe  due  mo- 
gliy  ciò  fu  Sella  e  Ada,  E  di  Ada  ingenerò  lahaL  E 
labal  e  coloro  che  di  loro  uscirò^  ec. 

La  stampa  del  1 533,  e  con  essa  le  altre  due,  por- 
tano: ciò  fu  Cubabel  e  Anon.  Quella  Cubabel  e 
coloro  chcy  ec.  Nomi  strani,  e  sconcordanza  tra  Cu» 
hahel  e  di  loro.  Mutai  dunque  dietro  la  scorta  della 
Bibbia.  Siccome  poi  la  stranezza  dei  nomi  è  frequen- 
tissima, mi  guarderò  dalle  mutazioni,  tranne  in  raris- 
simi casi,  ne'  quali  fero  avvertito  il  lettore  come  al 
presente. 

Cap.  XXI,  pag.  29.  Acciò  che  le  seme  degii  ani^ 
mali^  ec. 


AL  IJBRO  PRIMO.  ^5 

Non  SO  di  seme  in  genere  femminino;  tuttavìa  non 
ToUi  cangiare. 

Gqp.  XXI,  pag.  3o.  E  Noè  ingenerò  un  altro  JL- 
gìmolo  ch^ebbe  nome  Gionitus, 

La  Scrittura  ne  tace^  ne  se  ne  ha  vestigio  in  niun 
libro  autentico.  Solamente  un  lonitus^  o  lonichus  è 
ricordato  da  chi  dettò  un  libro  sotto  il  nome  di  Me- 
todio  vescovo  pratense.  Dice  costui  esser  lonitus  nato 
3 109  anni  innanzi  disto,  e  aver  ottenuto  dal  padre 
io  dominio  la  terra  d^Etan. 

Gap.  XXI,  pag.  3o.  JE  Cham  tenne  Africa^  sì 
eom^uomo  potrà  vedere^  ec. 

La  stampa  del  1 533  ha:  ^  Cham  tenne  Àfrica  sio- 
come  potrà  vedere^  ec.  Cangiai,  incoraggiato  dalla  con- 
venienza e  dalla  stampa  del  i474  ^^^  porta  sichiiomo. 

Gap.  XXn,  pag.  3o.  «Sem  ingenerò  cinque Jigliuor 
lij  li  quali  ebbero  cosi  nome:  Elam^  Àzzur^  Ludin^ 
Aram  e  Arfasad, 

Nella  stampa  del  1 533,  e  nelle  antecedenti,  leggia-* 
mo  £lemazury  con  che  si  fa  uno  solo  dei  due  primi 
figli.  E  il  quinto  in  allora  come  si  nomina  ?  Ecco  sot- 
tigliezza del  traduttore,  o  editore  che  fosse;  nomina- 
tine quattro,  soggiugne  :  e  un  altro  del  guai  non  dico 
il  nome.  Questo  taccone,  frutto  evidente  dell'igno- 
ranza o  della  negligenza,  ho  pensato  di  torlo  via  af- 
fatto. Ne  fu  questo  il  solo  luogo  In  cui  mi  convenisse 
tentare  sifiàtti  tagli.  Ne  darò  sempre  avviso.  Segue 
una  litania  di  nomi  spropositati,  che  lasciai  correre 
per  le  ragioni  altrove  esposte. 

Gap.  XXIV,  pag.  3a.  Onde  ciascun  gomito  era 
quindici  passim  E  7  passo  era  pie. 

La/ini.  rol  1.  5 


74  AlfNOTAZIOm 

L^ edizione  1 555,*  confoime  alle  altre  due,  porta: 
onde,  ciascun  gomito  era  quindici  il  passo  era  pie. 
Ho  lasciato  in  bianco  le  misure.  Similmente  misi  lo 
spazio  bianco  nella  linea  anteriore,  sebbene  V  edizio- 
ni antiche  diano  netto  ciascuna  lega  era  quattro  pas- 
si. Quattro  passi  una  lega? 

Gap.  XXT,  pag.  54*  -^  ancora  lo  Janna  li  Giu- 
dei. Tale  ora  fece  egli  circoncidere^  ec. 

Mi  sembrava  di  poter  correggere:  e  ancora  lo  Jan- 
no  li  Giudei  tale.  Ora  foce  egli  circoncidere^  ec^ 
ma  non  essendo  infrequenti  gli  esempi  di  cofttFUzìoni 
più  ancora  intralciate  della  presente,  lasciai  correre; 

Gap.  XXY,  pag.  34*  Che  a  luijanno  l*  istorie 
capo  del  primo  re. 

Costruzione  inesatta,  ma  che  lascia  tuttavia  indo- 
vinare il  senso,  e  però  lascio  stare. 

Gap.  XXYI,  pag.  56.  E  dopo  il  re  Sileuco  regnò 
EupateVy  ec. 

Nella  edizione  i533  Sileuco  è  sempre  Silebeo^  nò 
lo  avrei  mutato,  se  l'edizione  del  i474  iH>n  mi  desse 
Sileuco  per  l'appunto. 

Gap.  XXVI,  pag.  ^37.  Stahilio  per  curatore  in 
Giudea^  ec. 

La  edizione  i533  ha  in  cambio  di  Giudea  India. 
Io  coiTessi  V  errore  evidente,  quantunque  India  leg- 
gessero anche  le  altre  due  edizioni  anteriori,  del  1  S%$ 
e  del  1474*  Forse  India  era  scritto,  secondo  erano 
chiamati  ludH,  o  %udii  in  antico  i  Giudei  nel  dialet- 
to veneziano. 

Gap.  XXTm,  pag.  39.  Poi  fu  il  re  CertaSy  ec. 

Nessun  lume  mi  fìi  dato  ricavare  dall'edizioni  aiH 


AL  UBRO  ramo.  y5 

teriorì  per  la  eoofusìone  e  aiterasìone  manifesta  dì 
nomi  che  vi  ha  in  tutto  questo  capitolo. 

Gap.  X.X.X,  pag.  4o.  //  re  di  Stiufo,  ec. 

Ripeto  quanto  scrìssi  ndla  nota  antecedente,  e  d'ora 
innanri  in  passi  consimili  mi  starò  citto,  pr^ando  il 
lettore  di  credere  che  non  ho  mai  lasdato  di  riscon- 
trare neMnoghi  dubbi  la  edizione  citata  dalla  Crusca 
coUe  antecedenti. 

Gap.  XXXn,  pag.  ^n.  Del  re  Torrens  nacque 
lìuby  ec 

Il  nacque  cel  posi  io^  nessuna  edizione  ddle  tre 
da  me  consnltate  lo  reca. 

Gap.  XXXm,  pag.  43.  Evenne  in  luogo  salsfo. 

L^  edizione  1 5  55  ha  i^ago  con  evidente  ofièsa  del 
senso  comune.  Ho  sostituito  luogo^  come  nell' edizio- 
ne dd  i474- 

Oqp.  XXXY,  pag.  44*  Q^'  ^*^  della  schiatta  del 
re  éP  Inghilterra. 

Tanto  si  può  intitolare  questo  ci^itolo  in  tal  mo- 
do, quanto  storia  di  Pilato  il  simbolo  degli  Apostoli. 
Ma  non  volli  mutare.  E  siccome  non  mancano  altri 
esempi  di  simili  inopportune  intitolazioni,  intendo  die 
questa  nota  abbia  a  servire  per  tutte. 

Gap.  XXXTI,  pag.  46.  Poi  Tarquinus primo  re,  ec. 

L'edizioni  antiche  hanno  concordi  Tortunius.  Non 
ricomparendo  questo  pazzo  nome  nel  resto  dell'  o- 
pera,  ma  leggendo  visi  il  proprio  di  Tarquinus ,  ho 
creduto  poter  correggere  come  feci. 

Gap.  XXXIX,  pag.  5o.  Che  era  appellata  . . .  ec. 

Go6Ì  partano  tutte  tre  l' edizioni,  ne  io  mi  sono  at- 
tentato d'indovinare  per  empir  la  lacuna. 


y6  ANlfOTAZIONI 

Gap.  XL,  pag.  5a.  Che  dodici  furo y  furo  traUt  le 
dodici  schiatte^  ec. 

Nella  ediz.  i553,  non  meno  che  nelle  due  anteSe- 
denti,  il  verbo  non  è  ripetuto.  Pensai  che  fosse  errore 
tipografico,  facilissimo  ad  avvenire  nella  ripetizione 
della  parola  stessa.  Ma  il  verbo  potrebbe  forse  anco 
nel  pnmo  caso  essere  sottinteso. 

Gap.  XLIV,  pag.  55.  E  nacque,  e  uccise  Golia  il 
grande  gigante,  ec. 

Pensai  a  principio  che  dovesse  stare,  e  nacque  che 
uccise  ec,  ma  trovando  concordi  nella  lezione  citabi 
le  due  antecedenti,  non  osai  metterle  mano. 

Gap.  XLYI,  pag.  58.  Non  menovò  la  farina  della 
scodella  della  poif era  f emina,  che  tanta  non  ne  po~ 
tea  cavare,  ec. 

Anche  qui  confusione.  Ma  come  cangiare  senza  ca* 
dere  in  colpa  d^  arbitrio  ?  Mi  basti  aver  accennato  le 
mie  dubbiezze. 

Gap.  XLVli,  pag.  Sg.  Ija  sua  bocca  risonò  insino 
in  lerusalem,  ec. 

Bocca  hanno  pure  P edizioni  i528  e  1474?  ^  ^ 
senso  ci  sta.  Pure  potrebbe  credersi  errata  la  lezio- 
ne, e  doversi  leggere  boce  al  modo  antico,  che  da- 
rebbe frase  più  semplice,  e  più  naturale  a  questo  det- 
tato. 

Gap.  LTn,  pag.  65.  Li  contenimenti  della  loro 
prima  regione  de*  sacerdoti,  ec. 

La  citata  ha  ragione.  Dubitai  a  principio  die  stes- 
se per  guisa,  specie^  o  simile  5  ma  poi  mi  deliberai 
per  la  correzione,  dietro  la  scorta  delle  dae  edkiom 
iSaS,  i474' 


▲L  Luao  paiMo.  ^^ 

Gap.  LXI,  pag.  &6,  £  sono  questi  li  nomi,  ec. 
Anche  qui,  come  al  cs^.  XXII,  pag.  3o,  il  due  è 
UBO.  I  dnqae  figli,  nell^  edizione  i533,  e  nelle  due 
antecedooti,  son  quattro:  Incanuis,  Belemas,  Maccch 
beo  e  lanata.  £  poi  il  solito  taccone  della  stessa  stoffii 
deir altro:  delV altro  non  dico  suo  nome  perché  noi 
so.  Ho  tolto  Tia  il  taccone,  e  corretti  i  nomi  colP  aiu- 
to della  Bibbia. 

Gap.  LXn,  pag.  67.  Cltè  ^l  parlare  latino  ebbe 
molto  in  rii^renza. 

Qui  latino  merita  particolare  attenzione.  E  sareb- 
be finrse  da  aggiugnere  ai  varii  esempi  che  reca  la  Cru- 
di questo  Tocabolo  in  varii  significati 


7  8  IL  TESORO. 

LIBRO    SECONDO. 


Capitolo  I. 

Qui  comiacia  la  nuova  legge. 


A, 


ppresso  ciò  che  1  conto  ha  detto  <klla  lesge 
vecchia  si  è  bene  diritto  che  dica  della  nuova ,  che 
cominciò  quando  Gesù  Cristo  venne  in  terra  per  nói 
liberare  dalle  pene  delF  inferno  e  per  noi  dare  para- 
diso. Ma  innanzi  che  divìsi  altre  cose,  diviserà  egli  lo 
suo  lignaggio  e  H  suo  parentado,  da  parte  della  sua 
madre  ^  e  poi  dirà  di  ciascheduno  discepolo,  si  com^egli 
ha  detto  de^  santi  padri  antichi  del  vecchio  Testamen- 
to. Noi  troviamo  nello  evangelio  di  santo  Matteo  lo 
cominciamento  della  generazione  di  Gesù  Cristo,  cioè 
d^Abram,che  fu  prince  delli  santi  padri,  che  fu  nel  co- 
minciamento della  terza  etade  del  secolo;  e  chi  vom 
sapere  lo  nascimento  d^Abram  egli  il  troverà  qua  die- 
tro nel  conto  del  primaro  uomo  e  de'  Bgliuoli  di  Noè. 
Abram  ingenerò  Isac.  Isac  ingenerò  lacob.  Di  lacob 
nacque  Giuda,  e  di  Giuda  nacque  Fares,  e  di  Fare» 
nacque  Esron,  e,  di  Esron  nacque  Aram,  e  di  Aram 
nacque  Aminadab,  e  d^Aminadab  nacque  Booz,  e  di 
Booz  nacque  Obet,  e  di  Obet  nacque  lesse,  e  di  lesse 
nacque  Davit  re,  di  Davit  nacque  Salomone,  di  Salo- 
mone nacque  Roboam,  e. di  Roboam  nacque  Abiam, 


IJBRO  SECONDO.  yq 

di  Abiam  nacque  Assa,  di  Àssa  nacque  Giosafat,  e  di 
Gio6a&t  nacque  loras,  di  loras  nacque  Gionatam,  di 
GionataiD  nacque  ÀtaU  e  di  Atat  nacque  Ezeehias,  di 
Ezechias  nacque  Manasses,  di  Manasses  nacque  Amon, 
e  di  Amen  nacque  Iosia,idi  losia  nacque  leconia,  di 
leconia  nacque  Salatici,  e  di  Salatici  nacque  Zoroba- 
bel,  di  Zorobabel  nacque  Abiud,  di  Abiud  nacque 
Eliachim,  dì  Eliachim  nacque  Azor,  e  di  Azor  nacque 
Sadoch,  di  Sadoch  nacque  Achim,  di  Achim  nacque 
Eliud,  di  Eliud  nacque  Eleazar,  e  di  Eleazar  nacque 
Matam,  di  Blatam  nacque  lacob,  e  di  lacob  nacque 
Giosef  QMrito  di  santa  Maria,  della  quale  nacque  Cri-, 
cto  Gresu  nostro  Signore.  E  sappiate  che  tutte  ge- 
neiwoai  d' Abram  insiao  a  Cristo  furo  ventiaove. 
E  fé  alcqiio  domandasse  perchè  la  scrittura  divisa  il 
parentado  di  Giosef,  poi  che  egli  non  fu  padre  di 
CrìstOy  che  Gesù  Cristo  era  e  sarà  Iddio  vivo  e  vero, 
e  Giotef  non  gli  appartegneva  nulla,  fuori  ch^era  ma- 
rito di  santa  Maria,  senza  nullo  carnale  assembiamea- 
to,  e  che  non  divisa  il  parentado  di  santa  Maria  sua 
madre;  io  li  direi,  che  nella  vecchia  legge,  li  Ebrei 
non  maritavano  loro  femine  che  elli  non  mettessero 
in  iscritto  loro  parentado,  ed  anche  lo  fanno  li  Giudei 
che  sono  al  nostro  tempo.  E  alla  verità  dire,  santa 
Maria  fu  di  quello  parentado  stesso,  da  parte  del  suo 
padre.  Ma  gli  antichi  Giudei  non  mettevano  in  scrìtto 
le  Cernine,  anzi  gli  uomini  solamente,  e  per  ciò  che 
santa  Maria  non  ebbe  frate  carnale,  sì  misero  il  li- 
gnaggio di  SDO  maiitO)  che  fu  tutto  uno  con  quello  di 
santa  Maria,  e  perciò  la  storia  nomina  Giosef,  e  non 
la  sua  moglie,  che  il  lignaggio  delFuomo  è  più  degno 


8o  IL  TESORO. 

che  quello  della  femina  3  e  non  riman'à  però  ch^  io 
non  dica  un  poco  del  parentado  di  santa  Maria  dal 
lato  di  sua  madie,  in  tal  maniera  che  ciascuno  potrà 
sapere  li  parenti  e  li  cugini  di  Gesù  Crbto. 

Capitolo  IL 

Qui  dice  del  parentado  di  nostra  Donna  dalla  {>arta 

di  sua  madre. 

Or  dice  lo  con^o^  che  Anna  e  Smerìa  furon  due 
suore  carnali.  Di  questa  Smerìa  nacque  Elisabet  e 
Eliud ,  che  fu  fratello  d' Elisabet.  Di  Eliud  nacque 
Eminan.  Di  Eminan  nacque  santo  Cervagio,  di  cui  lo 
corpo  giace  in  terra  disopra  lo  verceri  d' Egitto.  Di 
Elisabet  moglie  di  Zaccaiìa  sacerdote  nacque  santo 
Giovanni  Battista.  Dell^  altra  suora,  cioè  Anna  moglie 
di  Gioachino,  nacque  santa  Maria  madre  di  G^ù 
Cristo.  E  quando  Gioachin  suo  marito  fu  morto,  An* 
na  si  rimarìtò  a  Cleofa,  e  santa  Maria  sua  figHuc^  db- 
posò  a  Gipsef  frate  di  Cleofa,  ch^  è  detto.  E  di  Anna 
nacque  Y  altra  Maria,  che  fu  moglie  di  Alfeo,  di  cui 
nacque  Iacopo  Alfeo,  eh'  è  la  sua  festa  per  calende  di 
maggio,  e  Giosef,  e  Simone,  e  Tadeo.  Per  ciò  dicmio 
li  vangelisti  Iacopo  Alfeo,  cioè  figliuolo  d' Alfeo,  e 
la  sua  madre  è  appellata  Mai*ia  di  Iacopo,  per  ciò  che 
ella  è  sua  madre.  Altresì  la  fu  appellata  madre  di  GixH 
se^  e  tutto  questo  avviene  per  diversità  delli  vango* 
lii.  Quando  Cleofa  fu  morto,  Anna  si  maritò  a  Salome 
di  cui  nacque  P altra  Maria,  di  cui  nacque  Giovanni 
evangelista,  e  Iacopo  suo  frate,  e  per  ciò  ella  è  appel- 
lata Maria  Salome,  ciò  è  per  lo  suo  padre.  Anoora  è 


LIBRO  SECONDO.  8l 

ella  appellata  madre  de' figliuoli  di  Zebedeo,  per  le 
diversitadi  di  Tangeli,  e  cosi  potete  vedere  che  Anna 
ebbe  tre  mariti^  e  di  dascano  ebbe  una  jQgliuola  gp- 
pdlata  Maria ,  e  così  furono  tre  Marie.  La  prima  fu 
Blarta  madre  di  (xesùu  La  seconda  fu  madre  di  Iaco- 
po e  di  6iose£  La  terza  fìi  madre  dell'  altro  Iacopo, 
e  di  Giovanni  vangelista. 

Capitolo  m. 
]Mk  prima  santa  Haria  madre  di  Cristo. 

La  prima  Maria  figliuola  di  Gioachin,  della  schiatta 
dì  Davit.  Lo  suo  nome  vale  tanto  a  dire,  come  stella 
di  mare^  e  donna,  e  chiarezza,  e  luminare.  L' angelo 
Gabriel  la  salutò,  e  le  annunziò  che  Dio  prenderebbe 
carne  in  lei,  ed  all'ora  medesima  le  disse  egli,  che  Eli- 
sabet  sua  cognata  era  pregna  di  sei  mesi,  e  che  ella 
avrdsbe  figliuolo.  L' angelo  disse  tali  parole  d' Elisa- 
bet,  perchè  la  nostra  Donna  si  maravigliò,  perchè  non 
avea  cognosciuto  uomo ,  sì  come  ella  medesima  disse 
all'angelo.  Ed  Elisabet  non  aveva  mai  portati  fi- 
gliuoli^ e  perciò  ch'ella  era  sterile,  e  dall'altra  parte 
era  dia  sì  vecchia  che  secondo  natura  ella  non  potea 
fare  figliuoli,  che  ella  si  assicurasse^  e  che  ella  cre- 
desse, che  a  Dio  non  è  impossibile  nulla  cosa.  Ed  a 
queste  parole  la  nostra  Donna  credette  veracemente, 
e  si  umiliò  molto  foite.  E  rispose  all'angelo  e  disse, 
che  era  ancilla  di  Dio ,  e  che  fosse  di  lei  secondo  la 
sua  parola.  E  sappiate  che  la .  nostra  Donna  morì  al 
secolo  corporalmente,  e  portaronla  gli  Apostoli  a  sep- 
pellire nella  valle  di  Giosa&it  facendo  sì  grandi  li  canti 


r>» 


82  IL  TESORO. 

li  angioli  in  cielo ,  che  non  si  potrebbe  né  dire  ne 
contare,  e  quel  canto  udirono  K  Apostoli,  e  molti  altri 
per  lo  universo  mondo.  Ma  poi  ch'ala  fa  seppellita, 
al  terzo  cU,  li  Apostoli  non  vi  trovaro  il  ooipo  suo. 
Onde  doTemo  credere,  che  Domenedio  la  resuscitò, 

ed  è  con  lui  nella  gloria  del  paradisa. 

• 

Capitolo  IV. 
Di  santo  Giotanni  Battifta. 

Elisabet,  cugina  di  nostra  Donna,  ingenero  di  ZacoH 
ria  suo  marito  uno  figliuolo,  chiamato  GioYannì.  £ 
quelli  fu  annunciatore  di  Gresù  Cristo,  e  fu  la  fine 
delti  profeti.  E  profetò  Iddio  anzi  ch^  e^  nascesse.  E 
salutoUo  dentro  del  corpo  della  sua  madre.  Egli  mo- 
strò Cristo  a  dito  e  disse,  eh'  egli  era  F  agnello  di  Dio 
che  tollera  il  peccato  del  mondo.  E^i  il  conobbe 
quand'egli  il  battezzò,  quand'egli  disse  :  come  t'oserò 
io  toccare  la  testa  con  le  mie  mani  ?  Egli  vide  la  co» 
lomba  bianca  sopra  la  sua  testa,  allora  eh'  egli  lo  bat- 
tezzò. Egli  udì  la  voce  di  Dio  padre,  che  testimoniò^ 
come  egli  era  lo  suo  diletto  figliuolo^  sì  come  l'evan- 
gelio lo  dice  apertamente.  Egli  menò  la  più  aspra  vi- 
ta, che  giammai  menasse  uomo,  eh'  egli  andava  ve» 
slito  di  panno  di  pelo  di  cammello^  e  mangictv»  mele 
salvatiche  e  locuste,  e  abitava  nel  diserto  solo  tema- 
compagnia.  Alla  fine  uscì  del  diserto,  e  andava  predi-' 
rando  lo  battesimo  e  la  penitenza.  Ma  &ode  re,  che 
ancora  era  re  di  quel  paese  per  li  Romani,  se  1  prese 
e  miselo  in  carcere^  perciò  ch'egli  lo  riprese  del^ 
la  moglie  del  suo  frate  Filippo,  cui  egli  teneva  car- 


UMO  SECONDO.  85 

naimente.  Un  giorno  te  figliuola  di  questo  Eix>de  bai* 
lava  iti— nfi  a  questo  Erode  suo  padre,  e  fece  assai 
gìoooo  6  soUaoxk  Or  (nacque  tanto  a  Erode,  eh'  egli 
disse:  se  ta  dimanderai  eziandio  la  metà  del  mio  re»- 
me,  si  r  avrai.  Allora  ella  lo  disse  alla  madre,  ed  ella, 
che  odkva  Giovanni  Battista  perchè  aveva  biasmato 
Erode,  che  la  tenea  contra  ragione,  sì  disse  :  chiedi 
Io  capo  di  Giovanni,  e  portalo  a  me.  Ed  ella  sì  glie 
lo  mandò  immantinente,  che  Erode  sì  glie  lo  tolse.  E 
iu  sepolto  in  Sebastia  di  Palestina,  la  quale  città  fu 
già  appellata  Sammaria,  e  fecda  Erode,  e  Antipater  la 
appdHava  Angusta  in  Greco,  per  revei-enza  di  Cesare 
Angosto,  che  fu  il  secondo  imperadore  di  Roma. 

CupiToiiO  y. 

Di  Giacopo  iJfeo  apostolo. 

Giaoopo  Alfeo  apostcdo  si  fìie  figliuolo  della  secon- 
da Maria,  suora  della  madre  di  Cristo,  e  però  fu  ap- 
pellato frate  di  Cristo  in  soprannome,  ch^egli  lo  so- 
megliava  fortemente.  Lo  suo  nome  vale  tanto  a  dii'e 
quanto  Giusto.  E'oon  era  chiamato  in  soprannome  al- 
cuna fiata.  Egli  fu  vescovo  di  lerusalem,  e  fu  dì  sì 
alte  virtudi,  che  a  schiera  andava  il  popolo  per  toc- 
carli lo  dosso  ^  e  alla  fine  li  Giudei  Puccisono  crudel- 
mente, e  fii  seppellito  allato  al  tempio,  e  dicono  molti, 
che  per  quella  cagione  lerusalem  fu  distrutta.  Che  da 
ivi  a  certo  tempo  vi  vennero  di  Roma  due  impera- 
dori  Tito  e  Tespasiano,  eh'  era  Tuno  pad]*e,  e  F  al» 
tro  figliuolo,  con  grandissima  gente,  e  assediaro  leru- 
salem quattro  anni,  e  condusserli  a  (al  fame^,  che  la 


84  IL  TESORO. 

madre  nianìcò  il  figliuolo,  e  alla  fine  li  presero,  e  fe« 
cero  di  loro  granale  uccisione,  e  grande  strano.  Che 
sì  come  Iddio  fu  venduto  trenta  danari,  cosi  ne  die* 
dero  ellino  trenta  a  danaro.  E  la  festa  del  suo  nasci* 
mento,  cioè  della  sua  fìne,  che  la  fine  de'  santi  è  det-< 
la  nascimento,  fu  per  calende  di  maggio. 

Capitolo  VL 
Di  Giuda  apostolo  frate  di  Giacopo. 

Giuda  fu  frate  di  quesU)  Giacopo,  e  chi  lo  chiama 
Tadeo.  Egli  fu  de'  dodici  apostoli,  e  frate  di  Dio.  E- 
gli  andò  a  predicare  lo  evangelio  in  Mesopotamia,  e 
in  Pontea,  e  converti  quelle  crudeli  genti  e  malvage 
che  v'erano,  e  alla  fine  fu  martoriato,  e  ucciso,  e  poi 
fu  seppellito  nella  città  di  Ninive,  che  ha  nome  Er^^ 
con,  cinque  giorni  innanzi  la  festa  di  tutti  li  santL 

Capitolo  VII. 

Di  santo  GioTanni  apostolo  e  rangelista. 

Giovanni  evangelista  fu  figliuole^  di  Zebedeo  della 
terza  Maria,  e  fu  frate  di  Giacopo.  H  suo  nome  vai 
tanto  a  dire,  come  grazia  di  Dio.  Questo  Giovanni 
evangelista  si  è  figura  e  similitudine  d' angelo,  e  so^ 
prastette  tutti  gli  altri  in  altezza.  Che  allora  eh'  egli 
si  riposò  in  sul  petto  di  Cristo,  allora  beve  egli,  come 
d' un  fonte,  della  divinità  di  Dio,  e  della  sottigliezza 
del  vangelio.  Iddio  P  amò  molto,  che  in  fra  gli  altri 
discepoli  raccomandò  a  lui  solo  la  madre  sua  quando 
ogli  pendea  in  su  la  croce  inchiavellato.  E  quando  e- 


LIBRO  SECONDO.  85 

gli  fu  scacciato  nell'isola  di  PaUnos,'sì  fece  egli  lo  lì» 
bfo,  dw  sì  diiama  lo  Apocalipsi,  e  poi  che  PimpenH 
dorè  Domiziaiio  mori,  quegli  che  lui  iscacdò,  egli  se 
ne  partì,  e  vennene  in  Efeso,  e  là  fece  egli  lo  direta- 
no vangelo.  Lì  suoi  miracoli  furo  colali  eh'  egli  mutò 
le  verghe  del  bosco  in  fino  oro,  e  fece  le  pietre  del- 
l'acqua  corrente  preziose.  Una  donna  vedova  eh'  era 
morta  risuscitò,  e  dò  fece  egli  per  la  preghiera  del 
popolo^  e  andìe  resuscitò  uno  giovane,  ch'era  morto. 
E^  beve  il  veleno  senza  alcuno  danno.  E  suscitò  un 
uomo,  dì' era  morto  di  quel  medesimo  veleno.  E  sap- 
piate dì'  egli  vìsse  novantanove  anni.  E  quando  ven- 
ne al  morire,  si  entrò  vivo  nella  sepoltura.  E  ivi  si 
corìoò  come  in  uno  letto.  E  dò  fu  alli  sessantasetle 
anni  dopo  la  passione  di  Gresù  Oìsto.  Onde  dicono 
molti,  eh'  egli  non  morì  giammai,  anzi  si  riposa  dor- 
mendo nd  monimento.  Che  uomo  vede  manifesta» 
mente  queUo  luogo  ov'  egli  si  mbe  crollare  e  move- 
re lo  suo  sepolcro  in  suso,  e  levare  la  polvere  in  alto 
sì  come  per  ispiramento  d'uomo  che  vi  fosse  dentro. 
E  sappiate  ch'egli  si  coricò  in  questa  maniera  che'l 
conto  ha  divisato.  La  festa  sua  si  è  a' dì  sei  presso  ad 
anno  nuovo.  Cioè  due  dì  dopo  la  nativitade  di  Cri- 
sto Gesù. 

Capitolo  Vili. 

Di  Iacopo  Zebedeo  apostolo. 

Iacopo  figliuolo  di  Zebedeo  fu  fì*ate  di  questo  Gio- 
vanni, dì  cui  detto  disopra.  E  fu  anche  de'  dodici  apo- 
stoli Egli  scrisse  le  epistole  alli  dodid  lignaggi,  che 
sono  nella  diversità  del  mondo.  Egli  predicò  il  van- 


-i 


86  IL  TESORO. 

gelo  nelle  parti  di  Spegna  e  nelle  parti  verso  Occi- 
dente. Poi  Erode  crudelissimo  lo  fece  uccidere  con 
uno  coltello,  sette  giorni  anzi  calendi  dì  agosto. 

GìlPITOLO  IX. 
Di  santo  Pietro  apostolo. 

Pietro  ebbe  due  nomi  :  ch^  egli  ebbe  nome  Simon 
Pietro  e  Simon  Bariona.  Simon  tanto  è  a  dire,  come 
obbediente.  Per  ciò  ch'egli  ubbidì  bene  a  Dio 5  che 
quando  egli  gli  dissìe,  seguiscimi,  io  ti  farò  pescatore 
d\ioinini,  egli  tanto  tosto  lassò  le  reti,  e  seguì  luL  E 
anche  Pietro  tanto  vale  a  dire,  quanto  conoscente,  per 
ciò  eh'  egli  conobbe  Iddio,  quando  egli  disse  :  tu  se' 
Cristo  figliuolo  di  Dio  vivo.  Egli  nacque  inGralilea,  in 
una  villa  che  ha  nome  Betsaida.  Egli  è  il  fimlamento 
della  pietra,  che  'l  nostro  Signore  li  disse:  sopra  que- 
sta pietra  fonderò  io  la  chiesa  mia.  Egli  fu  principe 
delli  Apostoli.  Egli  fu  il  primo  confessatore,  e  disce- 
polo di  Cristo.  Egli  tiene  le  chiavi  del  cielo^  qoanck) 
il  nostro  Signore  li  disse:  io  ti  darò  le  chiavt  del 
lo  3  che  colui  che  tu  ligarai  in  terra,  sera  ligato  in  àn 
lo,  e  colui  cui  tu  iscioglierai  in  terra,  sarà  sciolto  in 
cielo.  Egli  predicò  lo  vangelo  in  Mesopotamia,  in  Grft- 
lilea,  in  Bitinta,  in  Asia  e  in  Italia.  Egli  andò  per  lo 
mare  con  li  suoi  piedi,  come  per  terra.  Egli  risuscitò 
morti  solamente  con  la  sua  ombra,  quando  passò  ap- 
presso ad  essi.  Egli  risuscitò  una  femina  vedova  da 
morte.  Egli  resuscitò  un  fanciullo  eh'  era  stato  mor- 
to di  quattordici  anni  passati.  Egli  fece  inghiottire  al- 
la ten-a  Naman.  E  fece  cadere  a  terra  Simone  mago, 


LIBKO  SBCOKDO.  87 

che  1  portavano  li  diaT<^  per  suo  incantamento  Ter- 
so lo  cieio.  Egli  tenne  P  officio  del  pontificato  sette 
anni  in  Antìodii%  e  venticinqae  anni  fu  sonnno  pon- 
tifice  in  Roma.  Ma  alla  fine  Nerone  imperadore  lo 
fece  cmcìfiggeré,  col  capo  di  sotto  e^  piedi  di  sopra. 
Egli  vìsse  trentaotf'  anni^  dopo  la  passione  di  Cristo, 
e  due  giorni  ed  un  mese,  e  alP  uscita  di  giogno  rendè 
lo  girilo  a  Dk>.  E  fa  sepolto  in  Roma,  in  verso  il 

sole  levante. 

CAFrroLo  X. 

Di  santo  Paulo  apostolo. 

Pàolo  Ifàìe  tanto  a  dire,  come  meraviglioso.  Che  in 
prìmieranaente  egli  aveva  nome  Saulo.  Egli  fu  angelo 
tra  g(ti  nomini,  e  avvocato  delli  Giudei;  e  quando  Id* 
dio  lo  chiamò,  egli  cadde  in  terra,  e  perde  la  viste 
detti  occhi.  Ma  egli  vide  la  volontà  di  Dio,  e  l^  ve» 
rìtà.  Egli  per  volere  di  Dio  riebbe  la  sua  vista.  E  co^ 
me  egli  era  prima  persecutore  della  chiesa,  così  fue 
poi  vasello  di  elezione.  Egli  fue  lo  più  novello  intra 
li  apostoli,  ma  in  predicazione  fu  egli  lo  primo  el  so- 
vrano. E  fu  nato  in  Giudea,  della  schiatta  di  Beniamin, 
e  fu  battezzato  due  di  appresso  alF  ascensione  di  Cri-* 
sto.  Egli  predicò  da  lerosalem  infino  in  Spagna,  e 
jjer  tutta  Italia,  ed  a  molti  scoperse  lo  nome  di  Dio 
che  non  lo  sapeano.  Lo  nostro  Signore  gli  mostrò 
grande  partita  del  suo  segreto,  eh'  egli  fu  portato  in- 
fino al  terzo  cielo.  E  dic^  che  vide  tali  cose,  che  non 
è  convenevole  a  parlarle  agli  uomini.  Egli  risuscitò 
un  &nte,  ch'era  morto.  Egli  fece  avocolare,  o  ver  par- 
lare una  imagine.  Egli  liberò  molti  nomini  e  femine^ 


88  IL  TESORO. 

li  quali  erano  indemoniati.  Egli  sanò  Basii.  Egli  non 
temette  li  morsi  della  vipera,  anzi  gli.  ardea  col  fuo- 
co. Egli  sanò  per  la  sua  orazione  lo  padre  di  Basii 
delia  febbre.  Egli  convertio  alla  fede  cristiana  uno 
grande  filosofo  in  Grecia,  lo  quale  avea  nome  Dio- 
nbio,  che  fu  poi  martoriato  in  Francia  predicando  ed 
esaltando  il  nome  dì  Gesù  Cristo.  Egli  sofferse  per  lo 
nome  di  Cristo  ùme^  sete  e  nuditade.  Egli  dimorò  nel 
profondo  del  mare  un  giorno  e  una  notte.  Egli  sof- 
ferse la  rabbia  delle  bestie  salvatiche,  e  molti  freddi 
e  tormenti  di  carcere.  Li  Giudei  lo  tradirono,  e  vol- 
sero lapidarlo.  Egli  fu  incarcerato  in  una  prigione, 
ond'  egli  fu  deliberato,  e  messo  fuori  del  muro  in  una 
sporta.  Alla  fine  lo  fece  Nerone  imperadore  dicolla- 
re in  Roma,  e  ciò  fu  il  dì  medesimo,  che  san  Pietro 
fu  crocifisso. 

CjLPrroLo  XI. 

Di  Muto  Andrea  apostolo. 

Andrea  vale  tanto  a  dire  in  greco,  quanto  bello,  o 
fortezza.  Egli  fue  lo  secondo  in  tra  gli  apostoli  Egli 
predicò  in  Acaia,  e  là  fu  egli  crocifisso,  quando  egli 
avea  già  fatti  molti  miracoli,  come  è  di  morti  susci- 
tare, e  d' altre  infermitade  sanare,  che  sarebbe  lungo 
a  contarlo.  Egli  morì  il  secondo  di  di  novembre.  Il 
suo  sepolcro  si  è  a  Patrasso. 


Limo  SECONDO.  89 

Cartolo  XII. 
Di  santo  Filippo  apottolo. 

Filippo  tanto  vaie  a  dire,  come  bocca  di  lampanai 
e  fu  nato  in  quella  medesima  città,  che  Pietro.  Egli 
predicò  da  Gralilea,  infino  entro  al  mare  Oceano.  Ài" 
la  fine  fu  e^  lapidato,  e  crocifisso  in  Girolfe,  ch^  è 
una  citta  d^  Àfìrica,  e  ivi  morì  egli,  lo  primo  di  di 
BiaiffpOj  e  fu  seppellito  col  suo  figliuolo. 

Capitolo  Xm. 
Di  unto  Tomaso  apostolo. 

• 

Tomaso  vale  tanto  a  dire,  come  abisso,  ed  ebbe  in 
soprannome  Didimo,  che  vale  tanto  a  dire  come  dot^ 
tante,  o  ver  gemdlo,  ch'egli  dottò,  e  temè  della  resur- 
rezione di  Cristo  in  sino  a  tanto  che  mise  le  mani  nel- 
le sue  piaghe.  Egli  predicò  in  India,  in  Media,  in  Per^ 
sia,  ed  in  Media  e  in  Giudea  verso  Oriente.  Alla  fi- 
ne fu  egli  ferito  di  lance,  tanto  che  morì  M  secondo  dì 
all'  uscita  di  decembre,  in  una  città  d' India,  che  avea 
nome  Calamia,  e  là  fii  egH  seppellito  per  li  cristiani 
onorevolmente. 

Capitolo  XIV. 

Dì  santo  Bartolomeo  apostolo. 

Bartolomeo  predicò  inlra  Giudei,  etranslatò  li  van** 
geli  di  greco  in  loro  lingua,  ed  alla  fine  fu  scorticato 
per  la  grande  invidia  delli  barbari. 


90  IL  TESOBO. 

Capitolo  XV. 
Di  tanto  Matt«Q  tpotlola 

Itfalteo  apostolo  e  vangelista  ebbe  in  sopraDoome 

Levi.  Egli  fece  il  suo  vangelo  in  Giudea.  Poi  pred^ 

oò  egli  in  Macedonia,  e  sofferì  martirio  in  Persia,  e 

fu  morto  alli  monti  delli  pastori,  dieci  dì  airuràa  (^ 

settembre. 

Capitolo  XVI. 

Di  Mnto  Mattia  apottolo. 

Mattia  fu  uno  de^  settantadue  discepoli;  ma  poi  fu 
messo  uno  delli  dodici  apostoli,  in  luogo  di  Giuda  tra- 
ditore, di  colui  che  tradì  il  nostro  Signore.  £^  pre- 
dicò a^  Giudei,  e  la  festa  sua  si  è  cinque  dì  all^  uscita 

di  febbraio. 

Capitoijo  XVH. 

Di  santo  Simone  apostolo. 

Simone  Zelot  vale  tanto  a  dire,  come  cananeo,  o 
possessione.  Molti  dicono  ch^  egli  fu  pare  di  Pietro 
in  conoscenza  e  in  onore.  Ch'  egli  tenne  la  dignitade 
in  Egitto.  Dopo  la  morte  di  Giacopo  Alfeo,  egli  fu 
vescovo  di  lerusalem,  ed  alla  fine  fu  egli  crocifisso. 
Il  suo  corpo  è  a  Soffre.  E  la  sua  nativitade  è  cinque 
dì  innanzi  Ognisanti. 


9» 


lAHft  tate  v«b  «  din^  41W1I0  im^^ 
B«Bv  "ferità  din,  ^AiInioiio  fisico^  e  mollò  aep* 
^  kernel  «MÌifiiin;  e  fa  aito  dfe  Siiii,  «itt^Kao  di 
^<iofhM  E|^:iip|^  beaetaaiIitaPi  9  ^fcoofrio  di 
y^aohlrtmowlhìdCTiio  JhiedbefbpfOMlN%e^<^ 
nen-tqppe  ft  linginggi^  dA  EbicL  Ma  egK  fa 
polo  di  Paulo  apoil(]t|Q|  e  semprQ  ìo  aoconqpagnò^  e 
■ìnri  d*  etade  di  ottanlidóe  amn,  e  fa  seppdUito  in 
■allBBia  «*  tradiddà  «Smmì  (%ni«^  Ha  ^ 
Àfav»  portate  jnGoitairtinopofiiid  tempo  deik>  in^ 
p«Éte,€oitaftnuu  :  Ó-.    '. 

CAnKMLoXDL 

IH  HiiTO  emiftli^. 

Marco  tanto  yale  a  dire,  come  grande.  Egli  fa  fr* 
glìolo  di  Pietro  in  J^a^tesìmo,  e  fa  suo  discepolo.  Però 
dioone  molti,  che  A  suo  vangelo  fa  dettato  per  bocca 
di  Pietro  in  una  chiesa  d^Egitto,  e  mori  nel  tempo 
di  "SetQO»  imperadore  a^  di  sei  innanzi  alP  uscita  d^  a- 

prile. 

Capitolo  XX. 

Di  tanto  BarnalM. 

BaniaiMi  ayeTa  nome  in  prìmieraniente  losef^  che 
vaie  tanto  a  dire,  come  fedele.  Egli  fa  nato  in  Cipri, 
e  lenoe  lo  apostolato  con  PmiUk.  Pòi  b  lasciò,  e  ao* 


93  IL  TESORO. 

dò  predicando.  La  festa  della  sua  natività  si  è  undici 
di  air  entrata  di  giugno. 

Capitolo  XXI. 
Di  Timoteo  diteepolo  di  nnto  PauIo. 

Timoteo  fu  deMue  discepoli  di  Paulo,  e  insino  pÌD* 
colino  lo  menò  con  seco.  Egli  1  battezzo,  e  guardò  la 
sua  virginitade,  e  fu  nato  della  città' di  Lbtoneis,  e  fo 
seppellito  in  Efeso,  dieci  di  all^  uscita  d'agosto. . 

« 

Capitolo  XXIL 
Di  Tito  discepolo  di  unto  Fkulo. 

Tito  fu  discepolo  di  santo  Paulo,  e  suo  figliuolo  di 
battesimo^  e  fu  nato  di  Grecia,  e  fu  solamente  circon- 
ciso per  mano  di  Paulo.  E  poi  ch'egli  V  insegnò  li  e- 
yangeli,  egli  lo  lasciò  per  distruggere  gP  idoli  di  Gre- 
cia, e  per  edificare  le  chiese.  E  là  morL  Ma  egli  fa 
poi  seppellito  in  Persia. 

CiprroLO  XXin. 
Delubri  del  Tetunwnto  naoTO. 

Ora  v'  ho  io  contato  li  maestri  del  nuoTO  Testa- 
mento. E  sappiate  che  li  vangeli  furo  fatti  per  lì  quat- 
tro vangelisti.  Ma  Paulo  fece  sue  pistole  5  onde  e|^ 
ne  mandò  sette  a  certe  contrade  e  città.  Le  altre  man» 
dò  a' suoi  discepoli,  sì  come  fu  Timoteo  e  Tito  e  P(k- 
lomeo.  Ma  di  quelle  che  furono  mandate  alli  Ebra, 
li  Latini  ne  sono  in  discordia.  Che  alcuni  dicono  che 


Lino  SECONDO.  93 

Barnaba  le  fece,  ed  altri  dicono  che  le  fece  Ghìmento. 
Pietro  fece  dne  pistole  in  suo  nome.  Iacopo  fece  la 
sua.  Giovanni  ne  fece  tre  pistole.  Ma  alcuni  dicono, 
die  un  prete,  ch^  ebbe  nome  Giovanni,  ne  fece  due 
di  qadUie  tre.  Giuda  fece  la  sua,  ma  non  intendete 
Giuda  Scarìotto  traditore,  anzi  fu  Giuda  fratello  di 
Iacopo  Àlfeo.  Luca  vangdista  scrisse  le  vite  degli  a- 
postbB,  secondo  quello  che  egli  vide  ed  uc^  Giovan*- 
ni  iscrìsse  il  libro  dell^Apocalissi,  nell^  isola  di  Patmos. 
GascoDO  di  loro  scrisse  per  imo  inspiramento,che  elli 
oirdinaro  tutto  come  noi  dovessimo  vivere.  E  sappiate 
die  fi  comandamenti  della  legge,  che  Iddio  die  a 
Moises,  fiinm  dieci.  Li  quali  vuole  ch^  essi  debbano 
tenere  e  osservare  per  tutte  genti  cristiane.  Lo  primo 
dice:  annte  un  solo  Dia  Lo  secondo  dice:  non  ri- 
cordare il  nome  dd  tuo  Dio  in  vano.  Lo  terzo  dice  : 
sacrìBca  lo  di  di  Dio,  dò  s^  intende  guardare  e  ono- 
rare lo  di  della  domenica.  Lo  quarto  :  onora  lo  tuo 
padre  e  la  tua  madre.  Lo  quinto  ì  non  £u:e  adulterio. 
Lo  sesto:  non  uccidere.  Lo  settimo  dice:  non  furare. 
L'ottavo  dice:  non  fare  falsitade.  Lo  nono  dice:  non 
desiderare  le  cose  del  tuo  prossimo.  Lo  decimo  dice: 
non  desiderare  la  moglie  del  tuo  prossimo.  Tutto  sie- 
no  questi  comandamenti  divisi  in  dieci  parti,  lo  nostro 
Signore  Gresù  Cristo  li  comprese  in  due  solamente, 
quando  disse  nel  vangelo  :  ama  lo  tuo  Iddio  di  tutto 
lo  tuo  cuore,  di  tutta  la  tua  anima  e  dì  tutta  la  tua 
mente.  E  questo  h  lo  primo  e'I  maggiore  romandaraen- 
to.  Il  secondo  è:  ama  il  prossimo  come  te  medesi- 
mo. E  poi  disse:  in  questi  due  comandamenti  pende 
tutta  la  leg^e  e  tutte  le  profezie.  Un  altro  comanda- 


94  U'  TBSOAO. 

meato  è  neHa  santa  Scrittura,  <ke  comprende  aitrcsi 
tutti  li  altri,  cioè:  UiBcìale  lo  male,  e  fate  lo  bene.  Ed 
un  sdtro  a'  è  timìgUante  a  questo,  che  dioe  cosi  :  quello 
che  tu  non  tuoIì  che  sia  fatto  a  (e,  noi  hre  tu  ad  al*^ 
truL  Qui  si  tace  lo  conto  di  parlare  piò  la  TÌta  de^  pa- 
dri del  nuoTO  Testamento  e  delli  altri  E  tornerà  alla 
sua  materia  là  oTe  lascio  Crfuiio  Cesare  e  Ottaviano, 
die  Atfo  U  primi  imperadorì  di  Roma. 

Capitolo  XXIY. 

Qui  dice  come  la  nuova  legge  fa  cominciata. 

Qui  òkx  il  conto  che  1  nostro  Signore  Gesù  Cristo 
Tenne  in  questo  secolo  per  ricomperare  Pcunana-ge^ 
neratione  della  servitudine  in  che  elia  tOL  drili  de^ 
moni  dellMnfemo.  E  ciò  fu  al  tempo  d^  Ottaviano  bii- 
peradore  di  Roma.  E  sappiate  che  1  primo  anno  del 
«uo  nascimento,  li  tre  re  lo  vennero  adorare.  E  al 
terzo  anno  furo  dicollati  li  fenciulti  innocenti;  e  la 
nostra  Donna  con  Giosef  e  col  fenciullo  beato  si  «t  fìi^ 
giro  di  Betleem  in  Egitto,  per  paura  d'Erode,  dbe  1 
voleva  uccidere,  e  quivi  dimorò  sette  anni  Poi  morto 
Erode  si  tamaro  a  Nacaret,  la  cittade  onde  nostra 
Donna  fìi  nata,  e  salutata  dalPangelo  Gabriello.  £  poi 
che  'i  nostro  Signore  ebbe  dodici  anni  d'etade,  fa  «gli 
al  tempio  in  lerusalem,  ove  egli  mostrò  la  sua  sapiaiH 
Ea,  che  tutti  ii  maestri  del  tempio  se  ne  maravegli»» 
rono,  e  aUi  trenta  anni  fu  egli  battexsato.  Ed  aUon 
cominciò  egli  a  predicare  la  nuova  legge  aUa  dbritta 
credenza,  ed  alla  oonesoenza  della  diritta  e  santa  to» 
rilade,  cioè  a  dire,  la  unita  delle  tre  persone,  del  Fa- 


LIB&O  SBOORDO.  95 

dre,  del  F%lhio]o  e  dello  Spirito  santo.  Al  Padre  è 
attribuita  la  potenza,  al  FigUnolo  la  sapienza,  ed  allo 
Spirito  santo  la  benivolenza.  Però  dovemo  credere 
fermamente  die  queste  tre  persone  sono  una  sostai>- 
za,  la  quale  è  del  tutto  potente,  del  tutto  sapiente  e 
del  tutto  beniYolente.  Quando  lo  nostro  Signore  fu  in 
etade  di  trentadue  anni  e  mezzo  egli  fu  morto  per  li 
Giudei,  per  lo  tradimento  del  suo  discepolo,  secondo 
die  ^  vangelo  testimonia.  £  cosi  fu  il  nostro  Signore 
Gesù  Cristo  vescoTo  apostolico,  insegnatore  e  maestro 
ddla  santa  legge,  e  ddla  santa  scrittura.  £  quando  il 
nostro  Signore  Gresù  Giisto  se  ne  andò  in  cielo  egli 
lasciò  santo  Pietro  suo  vicario,  in  luogo  di  lui,  e  dielli 
polere  di  legare  e  di  scic^liere  gli  uomini  e  le  femine 
in  terra.  £  così  tenne  santo  Pietro  quattro  anni  la  se- 
dia pontificale  ndle  parti  d'  Oriente.  £  poi  se  ne 
renne  in  Antiochia,  e  fuvvi  tcscoyo  e  papa  sette  anni 
E  là  predicò  e  mostrò  alle  genti  la  legge  di  Gresù  Cri- 
sto^ e  fi  fu  maestro  e  vescovo  di  tutti  cristiani  venti- 
dnqne  anni,  sette  mesi  e  sette  dì,  insino  al  tempo  di 
Nerone  imperadore,  che  per  la  sua  grande  ciiideltade, 
lo  fece  crocifiggere,  e  fece  dicollare  santo  Paulo,  tutto 
in  un  giorno.  £  quando  santo  Pietro  venne  a  morte, 
^Hii  ordinò  un  suo  discepolo,  che  avea  nome  Ghimen- 
to,  a  tenere  la  cattedra  in  suo  luogo  dopo  di  lui.  Ma 
egli  non  la  volle  tenere,  anzi  constituì  Lino  suo  com* 
pagno,  die  la  tenne  tanto  quanto  egli  visse.  E  poi  con* 
stitui  egli  Cleto,  che  altresì  tennela  tutta  sua  vita. 
£  quando  ellino  furono  morti  amendue ,  Chimeuto 
stesso,  che  detto  è  di  sopra,  la  tenne,  e  fu  apostolico 
di  Roma^  e  ciò  fu  appresso  la  molte  di  Tito  impei  a- 


i 


gS  IL  TESORO. 

dorè  di  Roma,  e  fu  quel  Tito  medesimo  che  al  ten^ 
di  Vespasiano  suo  padre,  che  regnò  appresso  a  Nero- 
ne, e  conquistò  la  città  di  lerusalem,  e  uccise  li  Giu- 
dei, e  r^nò  dopo  la  passione  di  Cristo  quarant'amù. 

Capitolo  XXV. 
Come  santa  Chiesa  innalzò  nel  tempo  di  unto  Silfestro. 

E  per  do  che  la  natura  non  sofferà,  come  che  V  uo- 
mo sia  grande  ed  abbia  alta  dignitade,  che  egli  tra- 
passi il  dì  della  sua  fine,  convenne  che  gV  imperadorì 
di  Roma  andassero  alla  morte,  ed  altri  fossero  riposti 
in  loro  luogo.  E  però  che  la  legge  de^  cristiani  era  iu>* 
yellamente  venuta,  sì  che  V  uno  era  in  paura  e  in  dub» 
bio  e  r  altro  era  iscredente,  avvenne  molte  fiate,  che 
gV  imperadori  e  gli  altri  che  governavano  le  dttadi  &- 
cevano  persecuzione  contra  li  cristiani,  e  facevanli  so- 
stenere diversi  tormenti  e  duri,  infino  al  tempo  del 
buono  Costantino  imperadore,  e  che  Silvestro  fìi  fiitto 
vescovo  ed  apostolico  de^  Romani.  £  sappiate  che  do- 
po Cristo  Gesù  e  dopo  Giulio  Cesare,  infino  a  questo 
Costantino,  erano  stati  trentacinque  imperadorì.  Or 
avvenne  che  papa  Silvestro  con  molti  altri  cristiani 
erano  fuggiti,  per  cessare  la  persecuzione,  su  in  una 
alta  montagna.  £  Costantino  imperadore,  che  allora 
era  infermo  di  lebbra,  sì  mandò  per  lui,  per  quello 
che  egli  aveva  tidito  di  lui  e  de'  suoi  ante«*e88orì| 
e  volea  udire  lo  suo  consiglio,  E  sì  andò  la  cosa  in- 
nanzi che  Silvestro  il  battezzò,  secondo  la  fede  delti 
cristiani,  e  mondollo  della  sua  lebbra.  E  battesato 
egli,  tutti  li  suoi  fecero  il  simigliante.  E  per  esallart 


LORO  SECONDO.  97 

egiì  il  nome  di  Gesù  Cristo,  diede  egli  a  santa  Chiesa 
tutte  le  imperiali  dignitadi  eh'  ella  ha.  £  ciò  fu  fatto 
neiranno  della  incarnazione  di  Cristo  nostro  Signore 
trecentotrentatre  anni.  E  già  era  trovata  la  santa  Croce 
di  poco  dinanzi.  Ed  allora  se  n'  andò  Costantino  in 
Grecia  ad  una  ricca  teiTa,  che  avea  nome  Bisanzio,  e 
fecela  pnì  grande  e  migliore  che  non  era.  E  volse  che 
la  fosse  chiamata  Costantinopoli  per  lo  suo  nome.  E 
tenne  quello  imperio  che  noi  sottomise  all'  apostolico, 
sì  come  fece  quello  di  Roma.  E  sappiate  che  la  perse- 
emione  delli  cristiani  durò  infino  al  tempo  di  questo 
Silvestro  papa,  che  detto  è.  E  però  santificaro  molti 
apostolici  innanzi  a  lui,  perchè  sofferironò  martini  e 
tormenti  per  mantenere  la  diritta  fede.  Ma  quando 
rimperadcnre  Costantino  die  sì  grande  onore  a  Silve^ 
stro  e  alli  pastori  di  santa  Chiesa,  tutte  le  persecuzioni 
foroao  finite.  Ma  allora  cominciaro  gli  errori  delli  ere- 
tici, e  divisersi  contro  a  Silvestro  molti  imperadori 
appresso.  E  specialmente  li  re  di  Lombardia  furo 
corrotti  di  mala  credenza ,  infino  al  tempo  di  Giusti- 
niano, che  fu  di  molto  senno  e  di  grande  avvediraen-' 
to.  Che  egli  abbreviò  la  legge  del  codico,  e  dello  di- 
gesto, che  in  prima  era  in  tanta  confusione  che  nulla 
persona  ne  poteva  venire  a  capo.  E  tutto  al  comiu- 
ciamento  delli  enori  delli  eretici,  al  fine  riconobbe  lo 
suo  errore,  per  lo  consiglio  di  Agabito,  che  allora  era 
apostolico.  Ed  allora  fu  la  cristiana  legge  confermata, 
e  dannata  la  miscredente  e  li  eretici,  secondo  l'uomo 
puote  vedere  scritto  nel  libro  delle  leggi  che  egli  fece. 
Egli  regnò  trentaott'  anni.  E  sappiate  che  innanzi  lui 
erano  stati  diciassette  imperadori  in  Roma,  ìnfino  a 
Latini.  Fol.  I.  6 


9^  IL  TESORO. 

Costantino  che  ne  fu  imperadore.  £  da  Sìlvesti'o  iniV- 
no  a  questo  Agabilo  furono  diciassette  apostolici. 

Capitolo  XX VT^ 
€ome  la  chiesa  di  Rona  innalzò. 

D^  allora  innanzi  crebbe  la  forza  della  chiesa  dap" 
presso  e  da  lunga  di  là  dal  mare  e  di  qua  infino  al 
tempo  d^Eraculo  che  fu  imperadore  dopo  la  incarna- 
zione settecentoTentotto  anni.  £  regnò  trentun  anno, 
da  Costantino  e  lui.  Il  suo  figliuolo  regnò  dopo  lui. 
Al  tempo  loro  li  Saracini  di  Persia  ebbero  grande 
forza  contra  li  cristiani,  e  guastarono  lerusalem,  ed 
arsero  le  chiese,  e  portarono  lo  legno  della  santa  Cro^ 
ce,  e  menaronne  il  patriarca  e  molti  altri  in  prigione^ 
Ma  £raculo  v^andò  alla  fine  con  oste  e  uccise  il  re  di 
Persia^  e  menonne  li  prigioni,  e  la  saiita  Croce  ritornò 
in  lerusalem  onoratamente,  e  sottomise  li  Persiani  al* 
la  legge  di  Roma.  Poi  vi  fu  il  malvagio  predicatore  di 
Macometto  che  li  trasse  della  fede,  e  miseli  in  errore 

malvagio,  

Capitolo  XXVII. 

Come  il  re  di  Francia  fu  imperadore  di  Roma. 

Ora  avvenne,  come  piacqtfe  al  nostro  Sonore,  che 
la  Chiesa  innalzò  di  giorno  in  giorno,  e  ciò  fu  per  b 
forza  e  per  la  signoria  che  fu  acquistata  nel  tempo  di 
santo  Silvestro  papa^  E  gPimperadori  che  furono  do-* 
pò  Costantino  non  furono  si  dolci,  né  sì  dì  buon  aere^ 
come  fu  egli  3  anzi  avrebbero  volentieri  ricoveratp  eia 
che  Costantino  aveva  dato,  se  eglino  avessero  avuto 


UBRO  SECONDO.  gg 

\o  potere.  Ma  Iddio  non  sofferse  niente,  e  non  pote- 
itmo  venire  a  loro  intenzione.  Or  avvenne  cosa,  che 
gP  imperadorì  che  furono  dopo  Costantino  quale  di- 
venne buono  e  quale  malvagio,  e  teneano  Funo  im- 
perio e  Pakro,  cioè  quel  di  Roma  e  quello  di  Costan- 
tinopoli, e  durò  infìno  al  tempo  di  Leone  imperadore 
e  Costantino  suo  figliuola  Quello  Leone  imperadore 
prese  tutte  le  imagini  delle  chiese  di  Roma  e  portolle 
tutte  in  Costantinopoli,  per  dispetto  dell^apostolico,  e 
fecele  ardere  in  fuoco.  £  fece  allora  giura  con  kii  Con>^ 
k)fre  re  de'  Lombardi,  però  che  Stefano  ch'era  papa 
allora  gli  aveva  iscomunicati  però  che  Leone  impe- 
radore gH  aveva  tolta  Puglia  ed  Italia,  che  dovevano 
essere  di  santa  Chiesa.  E  quando  l'apostolico  vide  che 
non  poteva  avere  contra  a  loro  lunga  durata,  egli  se 
n'andò  in  Francia  al  buono  Pipino  dt'era  allora  re 
di  Francia,  e  eonsecrò  lui  e  suoi  figliuoli  ad  essei'e 
tutto  tempo  re  di  Francia.  E  maladisse  e  scomunicò 
tutti  quelli  che  mai  fossero  re  d'altro  lignaggio,  che 
di  quelli  di  Pipino.  Poi  se  n'  andò  il  papa  e  il  re  con 
tutto  lo  suo  oste  in  Lombardia .  E  combattè  con 
Conlofre  re  de'  Lombardi ,  tanto  che  egli  lo  vinse,  e 
feceli  fare  V  emendo  a  santa  Chiesa,  secondo  che  'l 
papa  e  suoi  frali  li  volsero  comandare,  e  per  forza 
fu  istabilito  lo  reame  di  Paglia    del  patrimonio  di 
santo  Piero  in  quella  maniera  eh'  elli  divisero.  Ma 
quando  Pipinp  se  ne  fu  andato  nel  suo  paese,  non 
dimorò  molto  che  Costantino  figliuolo  di  Leone  im^ 
peradore,  quando  fu  imperadore,  dopo  la  morte  del 
suo  padre,  fece  peggio  che  egli  mai  potè  contra  a  santa 
Chiesa  di  Roma.  E  Desiderio  re  delli  Lombardi  rico- 


100  IL  TESORO. 

niinciò  dal r  altra  parte  la  guerra  maggiore,  che  Ccm- 
lofre  suo  padre  non  aveva  mai  fatto  nella  sua  vita. 
Tantoché  alla  fine  il  papa  pregò  tanto  Garlomano, 
figliuolo  di  Pipino,  che  allora  era  re  di  Francia,  che 
egli  venne  in  Italia,  e  vinse  Pavia,  là  ove  il  re  d^  Ita- 
lia istava,  e  prese  il  re  e  la  moglie  sua,  e  a^suoi  figliuoli 
fece  giurare  fedelità  di  santa  Chiesa,  e  poi  li  mandò 
prigioni  in  Francia,  e  così  fu  preso  Desiderio  re  di 
Lombmdia  da  Garlomano,  come  voi  avete  inteso  di 
sopra.  Mu  Algifer  figliuolo  di  Desiderio  sì  si  fuggì  in 
Costantinopoli,  e  fece  molta  guerra  contra  santa  Chie- 
sa. E  quando  Carlomano  ebbe  tutta  Lombardia  con- 
quistata, e  tutta  Italia  sottomessa  a  santa  Chiesa,  egli 
se  ubando  a  Roma  con  grande  trionfo,  e  là  fu  egli  ìih 
coronato  imperadore  di  Roma.  E  tenue  la  dignitade 
deir  imperio  tutta  sua  vita.  E  poi  ebbe  egli  molte  al-< 
tre  vittorie  contra  i  Saracini,  e  contra  i  nimici  di  santa 
Chiesa.  E  sottomise  alla  sua  signorìa  molti  altri  paesi 
E  quando  Leone  papa,  che  fu  papa  innanzi  Adriano, 
fu  scacciato  per  li  Romani,  Carlo  lo  rimenò  a  Roma  in 
sua  dignitade,  ed  allora  gli  confermò  egli  ciò  che^suoi 
passati  avevano  fatto  e  stabilito,  di  tutti  li  bisogni  di 
.santa  Chiesa,  e  dello  imperio,  e  delli  cherici,  e  delli 
laici.  E  diede  a  messer  santo  Pietro  lo  ducato  di  Spu- 
leto  e  di  Benevento.  E  poi  ch^  egli  ebbe  tutto  questo 
fatto,  e  molte  altre  cose,  egli  trapassò  di  questo  secolo 
iielli  anni  della  incarnazione  del  nostro  Signore  Gesù 
Cristo  ottocento  ventitre  anni.  E  sappiate  che  davanti 
a  lui  erano  stati  sedici  imperadori,  infino  a  Giusti- 
niano, e  quaranta  papi  da  Agabito  infino  a  questo 
Leone  papa. 


LIBHO  Se^OYPO.  I O  I 

Capitolo  XXVIU. 

Come  r  imperio  di  Roma  rìrorr»c$  n 'quelli  d* Italia. 

*   « 

.  Io  qaesta  maniera  che  1  conto  hd^  di  visito  qui  di- 
nanzi, Tenne  la  dignità  dello  im[>eiio  dlAoma  a^ 
Franceschi,  e  li  Romani  la  perderono  in  i^l»  maniera 
die  giammai  non  la  riebbero,  come  eglino  aveaoo  in- 
oaiiEi.  E  quando  Garlomano  passò  di  questo  jjecr^lo, 
Alois  suo  6gliuolo  fu  re  dopo  lui,  e  imperadore.  E>i:<^- 
gnò  venticinque  annL  E  quando  egli  morì  lasciò  dó^ 
pò  a  sé  tre  figliuoli  Alois,  Carlo  calvo  e  Pipino.  Ma 
innanzi  ch'egli  morisse,  divise  il  suo  avere  intra  suoi 
Sgliuoli,  e  lasciò  che  Cario  calvo  dovesse  avere  lo 
reame  di  Franda,  e  Alois  T  imperio  di  Roma,  e  Pi- 
pino dovesse  avere  Alamagiia  ed  Equitanea.  Ora  di- 
venne cosa,  che  quando  Alois  ebbe  la  signorìa  dello 
imperio,  egli  si  pensò  e  mise  sua  forza  e  suo  podere 
d*  andare  in  Francia,  per  conquistare  lo  reame  del 
suo  padre.  E  così  se  ne  andò  con  tutta  l' oste  d' Ita- 
liii,  e  passò  li  monti,  e  vinse  Li  terra  infuio  a  una  cit- 
tà fli  Rcns.  E  là  trovò  egli  Carlo  suo  frate  che  li  ve- 
niva incontro  con  sì  grande  stuolo  di  gente,  eh"'  egli 
\i:le  apeilamente,  ch'egli  noi  poteva  vincere.  E  quan- 
do ^li  conobbe  che  lo  inteudiiiiento  suo  ora  fallito, 
sì  si  fece  monaco  neir  abhadia  di  santo  Marco  di  Zo- 
nii.  E  lasciò  T  imperio  di  Roma  a  uno  suo  figliuolo 
che  avea  nome  Al(jis.  E  visse  nello  imperio  due  an- 
ni. E  quan<lo  fu  morto  non  rimase  di  lui  se  non  una 
(emina  figliuola  che  fu  maritata  al  re  di  Puglia.  Al- 
lotta venne  a  Roma  Carlo  calvo  re  di  Francia,  e  fu 


I02  ìh'TVS^KO. 

ìtuperadore  un  anno.  Ma  però  che  le  guerre  ciebbero 
diversamente  in  It^ììai^,  lasciò  Carlo  calvo  Fimperio  di 
Roma  ad  Alois  jgio.vaQio  figliuolo  della  nipote,  moglie 
del  re  di  Puglia^  di  cui  lo  conto  parlerà  più  innanzi. 
E  dicono  molti  «he  uno  angelo  li  comandò  dalla  par- 
te di  Dìq;'^^!  égli  non  si  intrameltesse  più  dello  im- 
perio o  delle  Romani;  e  che  il  lasciasse  al  re  giovane 
di  Puglia.  E  sopra  ciò  finì  lo  suo  intendimento.  Onde 
p^ .questa  cagione  dissero  alquanti  che  sì  poco  tem- 
{>d"tehne  P  imperio;  e  anche  p^-chè  Franceschi  non 
•aiutavano  l' imperio  contrà  a  quelli  d' Italia. 
.  *  In  tale  maniera  come  io  vi  dico  venne  l'imperio  di 
Roma  da'Franceschi  a'  Lombardi.  Onde  il  detto  Alois 
di  Puglia  fu  il  primo  dopo  lui.  Furono  cinque  altri 
F  un  dopo  r  altro  insino  al  tempo  di  Belinghierì,  e 
d'  Alberto  figlinolo,  che  furono  li  diretani  Italiani 
che  Fimperio  tenessero.  E  Agabito  ch'era  allora  papa 
sì  combattè  molte  volte  contra  li  Romani,  per  man- 
tenere lo  diritto  di  santa  Chiesa.  Ma  dopo  a  lui  fu 
papa  Giovanni  figliuolo  di  questo  Alberto  imperado- 
re.  E  sappiate  che  innanzi  lui  erano  stati  undici  impe- 
radori  infino  a  Carlomano,  e  quarantaun  papi  da 
Leone  insino  a  questo  Giovanni  papa. 

Capitolo  XXIX. 

Qui  dice  come  V  imperio  di  Roma  Tenne  a  mano 
agli  Alamaoi. 

Ma  poi  che  F  altezza  e  la  signoria  dello  imperio  di 
Roma  crebbe,  e  avanzò  sopra  tutte  le  dignitadi  dei 
Cristiani,  e  che  la  invidia  crebbe,  e  geneiò  mortale 


TJBRO  SECUNUO.  TOO 

odio  tra  li  nobili  rf  Italia,  e  nullo  era  che  s*  intramel- 
lesse  a  mantenere  la  cosa  comune,  si  furono  istabiliti  i 
prìncipi  di  Lamagna  come  per  diritta  necessitade,  che 
il  nascimento  e  la  elezione  dello  imperio  fosse  fatta  per 
loro,  e  che  elli  ne  fossero  difensori  e  guardiani  E 
cosi  venne  V  altezza  di  eleggere  imperadori  a  sette 
principi  di  Lamagna.  Onde  uno  ch^  ebbe  nome  Otto, 
fu  il  primo  scelto  e  coronato  per  li  Romani,  con*eD- 
do  la  incarnazione  di  Gresù  Cristo  noTecentotrentasei 
anni.  Onde  y'  ebbe  poi  tredici  impei-adori,  insino  al 
secondo  Federico,  che  fu  coronato  per  mano  di  Ono- 
rio papa,  corrente  la  incarnazione  milleduecentoyenti 
aonL  E.  sappiate  che  dinanzi  a  questo  Onorio  a  Gìo- 
Yanni  papa,  si  furono  quarantadue  papi,  cioè  di  quel 
Giovanni  di  cui  lo  conto  parlò  alla  fìne  degF  impera- 
dori italicL  Questo  Federico  imperadore  regnò  qua- 
rantatre anni,  e  nel  suo  imperio  fece  briga  con  la  san- 
ta Chiesa,  tanto  che  egli  fu  iscomunicato  per  sentenza 
dell'apostolico  che  allora  era,  e  alla  fine  fu  egli  ispo- 
gliato  della  sua  dignitade  per  sentenza  di  papa  Inno- 
cenzio  quarto,  per  comune  consiglio  del  generale  con- 
cilio. E  quando  passò  di  questo  secolo,  siccome  a  Dio 
piacque,  T  imperio  vacò  lungamente  senza  re  e  senza 
im|)eradore.  E  tutto  avesse  questo  Federigo  assai  fi- 
gliuoli madeniali  e  bastardi,  che  rimanesser  dopo  lui, 
non  farà  lo  conto  menzione  se  non  d'  uno,  lo  quale 
ebbe  nome  Manfredi,  lo  quale  non  fu  legittimo.  Que- 
sto Manfredi  crebbe  tonto,  rh'  ebbe  il  reame  di  Pu- 
glia e  di  Cecilia.  Onde  molti  dissero  rli'  egli  V  ebbe 
«'ontra  Dio,  e  contra  ragione,  sì  che  fu  del  tutto  con- 
trario a  santa  Oiiesaj  e  però  fece  egli  molte  guerre,  e 


I  o4  ■!.  TESORO. 

diverse  persecuzioni  contra  a  tutti  quelli  d"  Italia  che 
sì  teneano  con  santa  (Chiesa,  e  contra  a  gramle  partita 
di  Firenze,  tanto  che  ellino  furo  cacciati  di  loro  terra, 
0  le  loro  case  fìiron  messe  a  fuoco  ed  a  fiamma  e  a  di- 
sfnizione.  E  r/)n  loro  fu  cacciato  mastro  Brunetto  La- 
tino, ed  allora  se  ne  andò  egli  per  quella  guerra  sì 
come  iscacdato  in  Francia,  e  là  compilò  egli  questo 
libro  per  amore  del  suo  amico,  si  come  egli  dice  nel 
prologo.  Ma  di  ciò  tace  lo  conto,  e  ritorna  a  sua  ma- 
teria. 

Gapitoix)  XXX. 

Qui  dice  come  natura  r  nelli  elementi,  e  nelP altre  cote. 

Olia  a  dietro  dice  il  conto,  che  la  sua  principale 
niutoria  è  a  trattare  in  questo  libro  della  natura  deQe 
cose  del  mondo.  La  quale  è  stabilita  per  le  quattro 
complessioni,  cioè,  caldo,  freddo,  secco  e  umido,  on- 
de tutte  cose  sono  complessionate.  £  quattro  elemen- 
ti, che  sono  altresì  come  sostenimento  del  mondo,  so- 
li) conformati  di  queste  quattro  couiplessionL  Chel 
fuoco  è  caldo  e  secco.  U  acqua  è  fredda  e  umida.  La 
lena  è  fredda  e  secca.  L' aere  è  caldo  e  umido.  Al- 
tresì sono  complessionati  i  coipi  degli  uomini  e  del- 
le beslie,  che  in  loro  sono  quatli'o  umorì.  Colera,  che 
t'  calda  e  secca.  Flegma,  die  è  fredda  e  umida.  San- 
^ue,  che  è  caldo  e  umido.  Melanconia,  che  è  fredda  e 
secca.  E  r  anno  incdesiniamente  è  diviso  in  quattro 
t.(M))p],  che  sono  similmente  complessionati.  E)cco  la 
pr inumerà  eh"  è  calda  e  umida.  L**  estate,  calda  e  sec- 
ca. Autunno,  freddo  e  secco.  Il  verno,  freddo  e  u- 
niido.  E  così  potete  conoscere,  che  1  fuoco  e  Testate  e 


Limo  SECONDO.  iu5 

ia  colera  sono  d^  una  complessione,  e  V  acqua  e  la 
flegma  e  3  verno  sono  d^un^allra.  Ma  V  aei*e  el  san- 
gue e  la  primavera  sono  mischiati  dell'*  una  e  delKal- 
^  natura.  £  perciò  sono  elli  di  migliore  complessio- 
ne^ che  non  sono  tutti  gli  altri,  e  loro  contrarli  sono 
b  terra,  la  malinconia  e  F  autunno,  e  però  hanno  clli 
malvagia  natura.  Ora  è  leggier  cosa  ad  intendere,  co- 
tte r  ufficio  di  natura  è  d' accordare,  e  d^  agguaglia- 
re le  uguali  in  tal  maniera  che  tutte  le  diversitadi  tor- 
nino in  una.  £  gli  è  così  che  assembli  in  uno  corpo 
e  in  una  «istanza,  o  in  altra  cosa,  ch^  egli  faccia  na- 
scere tuttavia  nd  mondo,  o  in  piante,  o  in  semente, 
o  pari  congiungimento  di  maschio  e  di  femina.  Onde 
una  partita  ingenerano  ova  che  sono  ripiene  di  crea- 
tore, e  un^ altra  partita  ingenerano  carne  figurata, 
secondo  che  lo  conto  diviserà  più  innanzi,  là  ove  egli 
sarà  luogo  e  tempo.  Per  questa  parola  appare  ora  chia- 
ramente, che  la  natura  è  a  Dio,  come  il  martellojè  al 
fabbro,  che  ora  forma  una  spada,  ora  un  elmo,  ora  mi 
chiovo,  ora  una  cosa,  ora  un^  altra,  secondo  che  il 
iabbro  vuole.  E  com^  egli  opera  una  maniera  di  for- 
mare una  cosa,  così  adopera  Iddio  nelle  stelle  e  nel- 
le pianete.  E  altre  maniere  adopera  la  natura  in  uo- 
mini e  in  bestie  e  in  altri  animali. 

Capitolo  XXXI. 

Come  tutte  le  cose  furo  fatte  del  mischiamento  delle 

complessioni. 

• 

Egli  fu  vero  cheH  nostro  Signore  al  cominciamen- 
to  fece  una  grossa  materia.  E  fu  senza  forma,  e  senza 


; 


I06  IL  TESORO. 

figura,  ma  eUa  era  di  tal  maniera,  ch^  egli  ne  poteTa 
formare  e  fare  ciò  eh'  egli  Toleva.  E  senza  fallo  di 
quella  fece  egli  tutte  le  cose.  E  però  che  quella  ma^ 
teria  fu  fatta  di  niente,  sì  avanzò  ella  tutte  le  oose^ 
non  dico  di  tempo,  ne  di  etemitade,  anzi  di  nasci-' 
mento,  così  come  il  suono  avanza  il  canto.  Che  Ino^ 
stro  Signore  fece  tutte  cose  insieme,  come  è  ragione. 
Quando  egli  creò  quella  grossa  materia,  onde  sono 
stratte  tutte  le  altre  cose,  fece  egli  tutte  cose  insieme*^' 
Ma  secondo  la  divisione  di  ciascuna  cosa,  le  fece  tat«' 
te  in  sei  dì,  sì  come  il  conto  dice  qua  a  dietro.  E  ivi 
medesimo  dice  che  quella  materia  è  chiamata  hyle.  Pé-^ 
rò  che  li  quattro  elementi  che  l'uomo  puote  vedere 
son  fatti  di  quella  cotale  materia.  E  però  sono  elli  ap- 
pellati elementi  per  lo  nome  di  quella  materia,  doè 
per  hyle.  ^  E  cosi  si  mischiano  questi  elementi  nello 
creature,  eh'  elli  due  elementi  sono  leggieri,  cioè  il 
fuoco  e  r  aere,  ma  gli  altri  due  sono  gravi,  si  come  la 
terra  e  l'acqua,  e  ciascuno  di  loro  ha  due  istremitade 
ed  un  mezzo.  Ragione  come  lo  fuoco  che  è  disopra 
si  ha  una  istremitade  che  tuttavia  va  insuso,  e  quel- 
la è  la  più  delicata  e  la  più  leggiera.  L' altra  istremi- 
tade è  disotto,  eh'  è  meno  leggiera  e  meno  delicata  ohe 
l'altra.  Il  mezzo  si  è  intra  due,  eh'  è  mischiata  dell'u- 
na e  dell'  altra.  Così  è  anche  degli  altri  tre  elementi 
nelle  quattro  complessioni.  Queste  cose. si  miscolano 
nelli  corpi  degli  uomini,  e  in  alti'e  creature,  Che  in  ciò 
che  'l  grave  si  congiunge  col  lieve,  il  caldo  col  fred-* 
ào,  il  secco  con  l' umido,  in  alcune  a*eature  si  con- 
viene che  la  forza  dell'  uno  sopraslia  a  tutti  gli  altri. 
Non  dico  delle  stelle,  che  elle  sono  di  tutto,  e  in  tut- 


.t 


todi.natDiB.dilbooarlla  an!dtre  creatore)  otegfi 
tàfanm*^  e  Je  altre  odm^^essioiii  sono  ìntraimsdiìate, 
«mneniB  td  on  cM  ievrtreniitadi  dì  sotto  sof^raitanDO 
b  ailM  ki  «bmw  creatara.  E  aU  -  ora  ocaTieoe  egli  die 
yeDaqytmca  8Ìa.[n&  Iq^ia  e  [hù  isnetta,  ^  {mtcìò 
volano  -per  aera  (fi  vcóàll  Ma  ^  lia  difTaredia  intra 
lof€^  cfaè  eeai.oome  |^  ooeelti  ^(Hniioiitazio  tutte  le  altre 
njiaHiMl  ,i1i  Ifgperensaj.  per  le  estremitadi  delti  de^ 
iKpti  àÌÉOgg^  Ae  aWKmdan  inkaro^  oom  Fimo  uocel-. 
l^aoKiooota  rdtrou  Eperdò  die  la  e^ttremìtade  le^*. 
9erB4B  isodla  abbonda  pà  io  la%  per  dò  yok  pia  air 
to.l? mip^iKfleUo  die  Tabro.  Si  .come  è  P aqidla,  dm 
«loia  pia  ili  alto  die  nono  altro  oocello.  E  qddlo  uo- 
edlo of^e  diboa^  lo  i)ii9BEano.iioQTolai,rìki  alto^d 
caaieè  to  grDe.E.qBeUiinca>abbQ^  Festaemità 
d»i|illl^.iQ9Q  {MI  gt«n  e  pjù  pesamti,  ^  comeéPo' 
ca.  E.ood  dovete  tqì  inteadere  io  tutti  ^trì  aniinati 
e  pesd  eaiborì  e  |naute  seooodo  il  diTÌsamento  ddli 
uoceUL 

Capitolo  X^XH. 

DeHe  quattro  complessioni  delT  domo,  e  d*  ahre  eose. 

Altresì  avviene  delle  quattro  complessioni,  quando 
si  tramiscfaiano  in  alcuna  creatura^  che  ciascuna  segui" 
soe  la  natura  del  suo  elemento.  E  perdo  conviene  egli 
che  al  tramischiare  delli  umori  Y  uno  soperchi  F  al^ 
tro,  e  ch^  sua  natura  vi  sia  e  di  maggior  podere.  Per-^ 
dò  avviene  che  un'erba  è  più  fredda  e  pia  calda  che 
F  altra;  e  die  F  una  natura  è  di  complessione  sangui- 
nea^  F  altra  malinconica^  o  flegmatica^  o  colerica^  se** 
Gopdo.  che  H  umori  soperdiiana  più.  E  però  sono  li 


lo8  ,  IL  TBSOBO. 

fratti  e  r  erbe  e  le  biade  e  le  sementi  rum  più  me- 
lanconica  che  V  altra,  o  più  colerica.  £  cosi  dell^  al- 
tre doe  complessioni.  Altresì  dico  io  di  uomini  e  dc^- 
li  uccelli  e  delle  bestie  e  di  pesci  e  di  tutti  altri  ani* 
mali.  Qnd^^li  avvenne,  che  unaVx>sa  è  buona  di  man- 
giare ed  un^  altra  no,  e  che  P  una  è  dolce  e  P  altra 
amara,  Fona  verde  o  rossa,  T altra  bianca  o  nera^ 
secondo  il  colore  delli  elementi  e  delli  umori  ahe  sh 
gooreggiano  nella  cosa^  P  una  è  velenosa  e  Paltra  Tale 
a  medicina.  Che  tutto  che  in  ciascuna  cosa  sieno  fi 
quattro  umori  tutti  mischiati  e  li  quattro  elenienti  e 
le  quattro  qualitadi,  si  conviene  che  la  forza  ddl^ano 
sia  più  forte,  secondo  che  più  v^  abbonda,  e  per  qo^ 
la  natura  che  più  v^  abbonda  è  chiamato.  Ba^kne 
come  se  flegma  abbonda  più  in  un  uomo  egli  è  chia- 
malo flegmalico,  per  la  forza  ch^  ella  ha  in  sua  natu-^ 
ra.  Che  però  che  la  flegma,  e  fredda  e  umida,  si  è  di 
natura  d^  acqua  e  di  verno,  conviene  che  quel  cotale 
uomo  sia  lento  e  molle,  pesante  e  dormiglioso,  e  die 
non 'si  ricordi  bene  delle  cose  passate.  Questa-^  la 
complessione  che  più  appartiene  a^  vecchi  che  altre 
genti,  e  ha  il  suo  sedio  al  polmone,  ed  è  purgata  per 
la  songia^  ch^ella  cresce  di  verno,  perciò  ch^ella  è  di 
sua  natura,  e  però  sono  in  quel  tempo  disagiati  e  fra- 
gili i  vecchi  flegmatici.  Ma  li  colerici  sono  prosperosi 
e  giovani  altresì.  E  le  malattie  che  sono  per  cagione  di 
flegipa  sono  lie  di  verno  troppo  duramente,  sì  come 
sono  febri  cotidiane.  Ma  quelle  che  sono  per  colera 
sono  meno  rie,  sì  come  sono  le  terzane,  perciò  è  bene 
che  li  flegmatici  usino  di  verno  cose  calde  e  seoehe. 
Lo  sangue  è  caldo  e  umido,  ed  ha  il  suo  sedio  adi  fé- 


LIBRO  SECONDO.  K1C) 

gaio,  e  cresce  nella  prìmaTera.  Per  ciò  sino  alUra 
molto  malva^  le  malizie  da  parte  del  sangue,  cioè 
fisbbre  sinoche^  e  in  quel  tempo  sono  più  prosperosi 
i  Yecdii  che  li  giovani;  per  ciò  sono  da  usare  cose  fred- 
de e  seodie,  e  P  uomo  a  cui  questa  complessione  ab- 
bonda, si  è  appellato  sanguineo,  ciò  è  la  migliore  com- 
plesHone  che  sia,  ch^  ella  fa  P  uomo  cantante,  grasset^ 
to  e  lieto,  ardito  e  benigno.  Colera  è  calda  e  secca,  ed 
ha  il  suo  sedio  nel  fiele,  ed  è  purgata  per  li  orecchi. 
Questa  complessione  è  di  natura  di  fuoco  e  di  state  e 
di  calda  gioventudine.  E  però  ùl  V  uomo  rosso  e  in* 
gegnoso^  acato,  fiero  e  leggieri,  e  movente,  e  cresce  in 
itfaDAe.  £  per  ciò  sono  allora  IL  colerici  meno  prospe- 
rari»  cfae'flegmatìci,  e  meno  li  giovani,  che  li  vecdii  : 
però  debbono  ^lioo  usare  cose  fredde  ed  umide . 
Quando  le  malizie  vengono  per  colera  sono  molto  pe^ 
ricolose.di  state,  più  che  quelle  che  sono  per  la  flegma. 
Malinconia  è  un  umore  che  molti  chiamano  colera 
nera,  ed  è  fredda  e  sicca,  e  ha  il  suo  sedio  nello  spi- 
no, ed  è  di  natura  di  ten*a  e  d^  autunno.  E  però  fa  gli 
uomini  malinconici  e  pieni  d^  ira  e  di  malvagi  pen- 
sieri e  paurosi,  e  che  non  possono  bene  dormire  al- 
cuna fiata.  Ed  è  purgata  per  li  occhi,  e  cresce  nel- 
r  autunno.  Però  sono  in  quel  tempo  più  prosperasi 
li  sanguinei  che^  malinconici  3  e  più  e  meglio  li  garzoni 
che  li  vecchi.  Ed  allora  sono  purgale  le  malizie  che 
vengono  da  malinconia,  che  quelle  che  sono  per  san-* 
gue.  Però  è  bene  ad  usare  cose  calde  ed  umide,  colui 
ch^  è  di  tale  complessione. 


tMtìni,  P'oì,  t. 


I  1 0  11.  TESORO. 

Capitolo  XXXUI. 

Delle  quattro  TÌrtadì  che  sostengono  gli  animali  a  rita. 

Sappiate  che  in  ciascnno  corpo  che  iia  sofficienti 
membri  sono  qaattro  Tirtudi,  istabilitate  e  formate  per 
h'  quattro  elementi  e  per  loro  natura,  cioè  appetitiva, 
relentiva,  digestiva  ed  espulsiva.  Che  quando  li  quat- 
tro elementi'  sono  insieme  raunati  in  alcuno  corpo 
Compilato  di  diritti  membri,  lo  fuoco,  però  eh*  egli  è 
caldo  e  secco,  fa  la  virtude  appetitiva.  Questa  (fò  vo- 
glia  di  mangiare  e  di  bere.  E  la  terra,  eh*  è  fredda  e 
secca,  fa  la  virtude  retentiva,  cioè  quella  che  ritiene 
la  vivanda.  È  lo  aere,  eh*  è  caldo  ed  umido,  fa  la  vir- 
tù digestiva,  ciò  è  che  fa  cuocere  ed  umidire  la  vìlraoH 
da.  L*  acqua,  che  è  fredda  ed  umida,  fa  la  virtude  è^ 
pnlsiva,  ciò  è  ch*ella  caccia  fuori  la  vivanda  quand'dla 
è  cotta.  Queste  quattro  virtudi  servono  a  quella  virtude 
che  nutrica  e  pasce  il  corpo.  E  la  virtù  del  nutncw- 
mento,  serve  a  natura  che  ingenera.  Onde  P  uno  io» 
genera  V  altro,  secondo  loro  natura,  e  loro  similitit- 
dine.  E  si  come  il  temperamento,  che  accorda  le  di- 
versità di  essi  elementi,  e  fa  li  corpi  ingenerare  e  na- 
scere e  vivere,  cosi  il  distemperamento  di  loro  li 
comimpe  e  li  fa  morire.  Che  se  il  corpo  fosse  d*  un 
elemento  senza  più,  egli  non  potreU^e  istemperarsi 
mai,  però  che  non  avrebbe  mai  contrario.  Qui  si  tace 
il  conto  della  natura  degli  animali,  e  ritornerà  alla 
sua  diritta  via,  eh*  è  di  dire  prima  delle  cose  die  pri- 
ma furon  fatte.  E  perciò  tornerà  a  dire  dd  mondo^  e 
del  fermamento  dd  cielo  e  della  terra.  ./ 


LIBRO  SECONDO.  Ili 

CàffTQLO  XXXIY. 
D«I  quinto  ekmcBto. 

• 

-  n  oooto  ha  dÌTisato  qua  a  dietro  della  natura  delli 
qoatlro  elementi,  e  dei  fìioco,  e  dell'aere,  deiP  acqua 
e  della  terra.  Ma  Aristotile  lo  grande  filosofo  disse,  die 
«{gli  è  aa  altro  elemento  iìiori  di  questi  quattro,  che 
non  ha  in  «è  ponto  di  natura  ne  di  complessione,  come 
hanno  h  altri,  anzi  è  si  nobile  e  si  gentile,  che  non 
piote  essere  mosso  né  corrotto  come  li  altri  elemen- 
4L  £  pero  disse  egli,  che  se  natura  avesse  furmato  il 
«IO  corpo  di  quello  elemento,  che  si  terrdibe  sicuro 
della  morte,  però  die  non  potrebbe  mai  morire  in  nul- 
h  BianienL  Qne^  elemento  si  è  appellato  oihis,  doè^ 
<m  delo  ritondo,  il  quale  circonda  e  rindiiude  intra  sé 
tnUì  li  altri  elementi  e  tutte  le  altre  cose  che  sono, 
fuori  della  divinitade,  e  altresì  il  mondo,  com'  é  il  gu- 
scio deir  uoYo  che  inchiude  e  serra  dò  che  va  den- 
tro. E  perdo  eh'  egli  e  tutto  tondo,  si  conviene  per 
diritta  forza  che  la  terra  e  la  forma  del  mondo  sia  ri- 
Umda. 

Capitolo  XXXV. 

Come  il  ipondo  è  tondo,  e  li  quattro  elementi  sono  stabiliti. 

À  ciò  fu  natura  bene  provveduta,  quando  ella  fe- 
ce il  mondo  tutto  ritondo,  che  nulla  cosa  puote  essere 
sì  firmamente  serrata  in  se  medesima  siccome  quella 
eh*  é  ritonda.  La  ragione  perchè  guarda  li  maesti'i  che 
fanno  le  botU  e  le  tine,  che  non  potiebbero  in  altra 
maniera  formare  né  giungere  se  non  per  rìtondezza. 


1 1  a  n.  TESORO. 

Medesimamente  una  volta  quando  Tnomo  ùk  in  una 
sua  magione  un  ponte,  si  conviene  che  sia  fbrmtfo 
per  suo  rilondo,  e  non  per  lungo  ne  per  lato,  né  m 
alcuna  forma  che  potesse  tante  cose  sostenere,  nh  conH 
prendére,  come  quella  ch^  è  ritonda.  La  ragioiie  co- 
me ei  non  sarà  già  sì  sottile  maestro  die  tanto  st 
sapesse  assottigliare,  che  sapesse  fare  un  vasefto  lun- 
go o  quadro  o  d^  altra  forma,  ove  si  potesse  metter 
tanto  di  vino,  quanto  in  uno  tondo.  Dall^ahra  parte, 
non  è  niuna  figura  tanto  apparecchiata  a  movern,  né 
a  girare,  come  la  ritonda.  E  conviene  che  il  cielo  it 
mova  e  giri  tuttavia^  e  se  non  fosse  tondo  oonvev- 
rebbe  per  forza  che  egli  tornasse  ad  altro  dbe  al  prh* 
mo,  onde  si  mosse  in  prima.  DalF  altra  parte  conviene 
per  vera  forza  che  1  mondo  sia  tutto  pieno  dentro 
da  se,  sicché  Tuna  cosa  sostegna  V  altra,  ch^  senza  so- 
stegnimento  non  potrebbe  stare  niente.  E  se  ciò  fosie 
che  ^l  mondo  avesse  forma  lunga  o  quach-a,  non  po- 
trebbe essere  tutto  pieno,  anzi  li  converrebbe  esaere 
voto  in  alcuna  parte.  Per  queste  ragioni  e  per  molte 
altre  altresì,  come  per  propria  necessità,  conviene  cfae^ 
mondo  sia  tondo,  e  che  tutte  cose  che  sono  rinchiuse 
dentro  da  lui  vi  fossero  messe  e  btabilite  ritonda- 
mente; e  fosse  in  tal  maniera,  che  Tuna  cosa  intor- 
niasse V  altra,  e  la  rinchiudesse  dentro  da  sé  sì  egud- 
mente  e  si  a  diritto,  che  non  toccasse  più  da  una  par- 
te che  dair  altra.  E  così  è  egli  dirittamente.  E  perciò 
potete  voi  intendere  che  la  teira  é  tutta  ritonda.  £ 
altresì  sono  li  altri  elementi  che  si  tegnono  in^me 
in  questa  maniera.  Che  quando  una  cosa  è  rìnchin- 
sa  e  intorniata  dentro  deU^  altra  conviene  che  quella 


LIBRO  SECOKfiO.  1 1 5 

die  rinchiude  tenga  qadia  rinchiusa  3  e  conviene  che 
quella  di^  è  rinchiusa  sostegna  quella  che  la  rinchiu-- 
cku  La  ragione  come  se  ^1  bianco  dell^uoyo  che  aggi^ 
la  il  tuoiio  non  tenesse  e  non  lo  rinchiudesse  dentro 
da  fé,  egli  cadrebbe  in  sul  guscio;  e  se  '1  tuorlo  non 
sostenesse  V  albume  certo  egli  cadrebbe  nel  fondo 
dell'  noTO.  E  perciò  conviene  in  tutte  cose,  die  quel- 
lo M  è  più  duro  e  più  grave  sostegna  tutti  gli  altri, 
e  sia  nd  mezzo  di  tuttL  Però  che  come  la  cosa  è  di 
fMÙ  adda  e  dura  sostanza,  tanto  può  m^lio  sostenere 
le  altre  oose  che  sono  d' intomo  da  lei;  e  com^  ella  è 
più  grave,  tanto  si  conviene  die  la  si  tragga  nel  mez- 
n^  o  nel  Ibndo  ddl'  altre  che  intomo  di  lei  sono,  doè 
ìa  td  Inofo  ch'ella  non  potesse  più  montare^  né  più 
Mcndere,  né  andare  ne  qua  né  là.  £  questa  è  la  ragio- 
ne perdiè  la  terra,  eh'  è  il  più  grande  elemento  e  la 
più  saMa  sostanza,  è  assisa  nd  miluogo  di  lutti  i 
cerdki  e  di  tutti  i  tomiamenti,  doè  il  fondo  de'  cieli 
e  detti  dementi.  E  perciò  che  l'acqua  è  il  più  gi-ave 
demento  secondo  la  terra,  sì  è  assisa  in  su  la  terra, 
4gw*  db  si  sostiene.  Ma  l' aria  intornia  e  rinchiude  tut- 
ta la  terra  in  tal  maniera,  con  l'acqua  insieme,  che 
ne  V  acqua  ne  la  ten'a  si  possono  movere  del  luogo, 
ove  natura  li  ha  stabiliti.  Intorno  a  quest'  aria,  che 
rinchiude  la  terra  £  l' acqua,  è  assiso  il  quarto  de- 
mento, doè  il  fuoco,  eh'  è  sopra  tutti  gli  altri.  Dun- 
que potete  voi  intendere  che  la  terra  è  nel  più  basso 
Inogo  di  tutti  gli  altri  elementi,  cioè  nel  miluogo  del 
finnamento.  E  di  sopra  il  fuoco  si  è  il  quinto  elemen- 
to, che  Aristotile  dice,  eh' è  appellato  orbis,  che  in- 
diiode  tutte  le  dtre  cose.  E  dia  verità  dire,  la  tena 


1  1 4  IL  TESORO. 

è  come  la  punta  d^uno  compasso,  che  sempre  sta  w3^ 
mezzo  del  suo  cerchio,  sicché  non  si  dilunga  più  d^u- 
na  parte  che  dalP  altra.  E  perciò  è  ella  necessaria  eosa 
che  la  terra  sia  ritonda:  che  se  la  fosse  d^ altra  forma, 
ella  sarebbe  più  presso  al  cielo  e  al  fìrmamento  dal- 
l''uno  luogo  che  dall^ altro.  E  ciò  non  puote  essere^ 
die  se  fosse  cosa  possibile  che  Puomo  potesse  ca- 
vare la  terra,  e  fere  un  posso  che  andasse  dall^  uno 
lato  della  terra  all^  altro,  e  per  questo  pozn)  gittesse 
poi  Tuomo  una  grandissima  pietra  o  altra  cosa  grave, 
io  dico  che  quella  pietra  non  andrebbe  oltre,  anzi  si 
terrebbe  nel  mezzo  della  terra,  cioè  nel  punto  del 
compasso  della  terra,  sicché  non  andrd)be  né  innanzi 
né  indietro.  Perciò  che  Tarla  che  intornia  lai  tcmra 
intrerebbe  nel  pozzo  da  una  parte  e  dall^altra,  e  non 
sofiererebbe  che  andasse  oltre  lo  miluogo,  ùé  ch^db 
ritornasse  indietro,  sé  non  forse  un  poco  per  la  fom 
del  cadere,  ma  incontanente  si  ritornerebbe  al  suo 
miluogo:  altresì  come  una  pietra,  se  fosse  gittata  in* 
verso  Paria  insuso,  si  ritornerebbe  ingiuso  verso  la 
terra.  E  dalP  altra  parte  tutte  le  cose  si  traggono  e 
vanno  tuttavia  al  più  basso.  E  la  più  bassa  cosa  e  le 
più  profonda  che  sia  nel  mondo  si  é  il  punto  della 
terra,  cioè  il  mezzo  dentro,  eh' è  appellato  abisso. 
Tanto  quanto  la  cosa  è  più  pesante,  tanto  si  trae  più 
verso  P  abisso^  e  perciò  avviene  egli  che  quanto  P uo- 
mo più  cava  la  terra  dentro,  tanto  la  trova  più  grave 
e  più  pesante.  E  ancora  un'  altra  ragione,  perchè  k 
terra  è  tonda  ^  che  se  non  avesse  in  sulla  focda  ddla 
terra  ninno  impacciamento,  picchè  un  uomo  potesse 
andare  per  tutto,  certo  ^i  anderd>be  dirittamente 


LIBKO  SECONDO.    '  1 1 5 

iatoino  alla  terra,  tanto  che  torn^'ebbe  al  luogo  me 
desuDo  ond^egli  ia  partito.  £  se  due  uomini  d^uno 
luogo  ad  una  ora  si  movesseix),  e  andasse  V  uno  tan^ 
lo  quanto  P  altro,  e  Tuno  andasse  verso  levante  e 
r  altro  verso  ponente^  e  ancbssero  dirittamente  Tuno 
a  rìnocmtroraltro,  certo  eglino  si  riscontrarebbero  dal- 
r  altra  parte  della  terra  per  mezzo  quel  luogo  onde 
fossero  mossL  E  se  pure-  andassero  oltra,  elli  torne- 
rebbero a  cpiel  luogo  onde  si  partirono. 

Gapitoi^  XX.XYL 

Come  le  acque  corrono  per  le  caverne  di  sotto  terra. 

Suso  la  terra,  di  cui  lo  conto  ha  tenuto  lungo  par- 
lamento, è  assisa  Pacqna,  cioè  il  mare  maggiore,  il 
qoale  è  appaiato  mare  Oceano,  di  cui  tutti  gli  altri 
mari,  e  bracci  di  mari,  e  fiumi  che  sono  sopra  la  ter*- 
ra,  escono,  e  tutte  le  fontane  indi  nascono,  e  quindi 
nacquero  primieramente,  e  li  medesimo  ritornano  al- 
la fine.  Ragione  come  la  terra  è  tutta  cava  dentro  di 
luogo  in  luogo,  ed  è  piena  di  vene  e  di  caverne.  E  però 
le  acque  che  di  mare  escono,  vanno  e  vegnono  per  la 
terra,  e  surgono  dentro  e  di  fuori,  secondo  che  le  ve- 
ne le  menano  qua  e  là  ^  così  come  il  sangue  deir  uo- 
mo si  sparge  per  le  sue  vene  sì  che  cerca  tutto  il  corpo 
da  monte  a  valle.  Ed  egli  è  vero  che  ^1  mare  si  è  in 
sulla  terra  secondo  che  ^1  conio  divisa  qui  a  dietro 
nel  capitolo  delli  elementi.  E  se  ciò  è  vero  che  F acqua 
s^gia  in  sulla  teiTa,  dunque  è  ella  più  alta  che  la  ter- 
ra. E  se  il  mare  è  più  alto  che  la  terra  dunque  non  è 
maraviglia  delle  fontane  che  escono  su  nelPalte  mon- 


T 1 6  'il  tesoro. 

tagne  ;  che  egli  è  propria  natura  dell'  acqua,  fhe  ella 
monti  tanto,  quanto  ella  scende.  E  sappiate  cheracqoa 
muta  sapore,  colore  e  qualitade  secondo  la  natuni 
f Iella  terra,  ond'  ella  corre.  Che  la  terra  non  è  tutta 
d^un  colore,  anzi  è  di  diversi  colori  e  di  diverse  coiik> 
plessioni:  che  in  uno  luogo  è  ella  dolce  e  in  un  altro 
è  amara,  o  salata;  in  uno  luogo  è  bianca,  in  un  altro  è 
nera,  o  rossa,  o  biadetta,  o  d'altro  colore.  £  in  uno 
luogo  son  Tene  di  solfo,  in  un  altro  d' oro,  o  d' al* 
Iro  metallo.  Una  terra  è  molle,  ed  un'altra  è  dura.  E 
cosi  sono  le  vene  varie,  e  diverse,  onde  le  acque  cor- 
rono. E  secondo  la  natura  della  via  conviene  die 
le  acque  rimutino  loro  qualitade,  e  divegnano  del  sar 
pore  delia  via  onde  passano,  e  di  sua  natoira.  DalP  al- 
tra parte  egli  ha  in  alcuna  parte  della  terra  caverne 
putride,  o  per  sua  natura,  o  per  alcuna  mala  bestia 
che  ^-i  dimora.  £  però  è  alcuna  fiata  che  l'acqua  è  M 
o  velenosa,  che  corre  tra  le  vene  della  terra.  '  E  per 
quelle  caverne  onde  le  acque  vegnono,  conviene  per 
dibattimento  d'acqua  che  vento  vi  si  muova.  E  quan* 
«lo  egli  fiede  nelle  vene  solforate,  lo  solfo  isoalda  e 
apprende  di  sì  gran  calore,  che  l'acqua  che  corre  per 
quelle  vene  diventa  calda  come  fuoco.  E  di  ciò  sono 
li  bagni  caldi,  che  l' uomo  trova  in  diverse  terre.  E 
quando  quel  vento  dibotta  l' aere  eh'  è  rinchiuso  per 
quelle  caverne,  egli  fa  dibattere  l'acqua  e  la  terra  di 
tal  forza  e  di  tale  virtude,  che  conviene  per  qoello 
dibottamento,  che  la  terra  rompa  e  fVacassi,  si  che 
l'aere  n'esca  fuon,  ed  allora  conviene  che  la  tlnra 
raggia,  e  affondi  con  tutte  le  mura  e  con  tutti  li  di^ 
ficii  che  vi  sono  sopra.  Ma  se  la  terra  è  si  grossa  0  sì 


.    unanoosfto.  %0fr 

i»te  cVcU*  Bon^feada^  elioni  oanvìene  per  Tcra  fona 
4ìfndky  dibntUminla  dell^aere,  e  delle  Tene  dell^do- 
.ips/dioaonQl^  distrattela  deotro^  feccia  tremafe  e 
noEfave  tolte  hrtenm  ehe  Ve  d'ìotonio^  e  li 
ck0'^flonofopnu- 


<■  •.• .-.  1 . 


jfiUTMnf  e  di&  ptèéi  è  M  Teolb  è  ddle  oofé'die  fono    - 
■fu"*'    '  -adPtcMU 

t      ■  .       ..  . 

t 

-  Iiooopto  dice  qpi:  a-.'dklfo  die  P  aiia  intoniiìa 
tmfgm^htu^  e.k.ruMliiiide  e  sostiene  dentrò.da; 
if^  e  asiqoni  ffi  QQmiiii.e  ^animaìi  vìyoqo  per  Paere 
^m.wgaiLb^^         pasci  n^'acqua.  E.ciò  poo 

.^^n(»dii(aBM.cl|N*]?.aipw,  non  fossespes^jd^ip  li  dirai, 
iP^Vai^  msnaasa  «oa^forgetta  di  l^egno  per  raep% 
àSa'^aBBaasfah^  a  sìadienlibeii  inuKiaiitiiieiite.  oer  la 
^jìrssawa  dell^acaet  L?ariai.aoptÌBPjp:gli  uccelli,  goan^. 
dfi.TelaQO^  che.se  Paere  non.fo^se  spesso  nonpo- 
Irdbbero  Yolare,  e  Pale  li  Tarrebbono  molto  poco.  la 
qpKSlo.  aera  nascono  i  nuvoli,  le  pbve,  lì  baleni,  i 
toanli  ed  aitra  cose  sJmigliantL  E  udirete  ra^one  co- 
■MI  lo  conto  dice,  qua  a  di<ctrQ,  che  Parìa  intornia  tutta 
PaoqpiiL.e  la  terra,  e  rinchiude  e  sostiene  dentro  da  sé 
e  gli  ooooini  e gU  animali^  e  che  la  terra  è  coperta  e. 
«piena  di.diYerse.  acque..  Ora  viene  che  quando  il 
caldo,  del  sole,  il  quale  è  capo  di  tutti  calori  e  fonda- 
mcntoy  ^e|^  fipde  neli^  umidore  della  terra,  e  medesi- 
mamenle  Qede  .nelle  cose  bagnate,  e  le  asciuga  e  cavane 
futin.riimdQrey.CQOie  jK^ssa  w  dpippo  bagnato,  allora 


f  1  8  IL  TESORa 

n^esce  fuori  uno  gran  sapore,  come  un  fumo^  e  vanne 
nelParia  a  nxmte,  là  ov' eglino  s'accolgono  a  poco  a 
poco,  e  ingrossano  tanto,  eh'  elli  diventano  ofcori  e 
spessi,  sì  che  ci  togliono  la  veduta  del  sole,  e  queste 
sono  le  nuvole.  Ma  elle  non  hanno  in  loro  si  grande 
oscuritade,  ch'elle  ci  tolgano  il  chiarore  del  gioma 
Che  '1  sole  riluce  di  sopra,  sì  come  una  candela  che 
fosse  in  una  lanterna,  che  allumini  di  fuori,  e  non  la 
può  Fuomo  vedere.  E  quando  la  nuvola  ò  ben  cre- 
sciuta e  nera  ed  umida,  e  che  non  puote  più  soffrire 
l'abbondanza  dell'acqua  che  v'è  evaporata,  è  meslìfr* 
re  che  debbia  cadere  sopra  la  terra,  e  questa  è  la  pio» 
va.  Ed  allora  ritratto  l'umidore  della  nuvola,  immaiK* 
tinente  diviene  bianca  e  leggiera,  e  'i  sole  sparge  li  suoi 
raggi  per  la  nuvola,  e  fa  del  suo  splendore  nn  oercliio 
di  quattro  colori  diversi.  E  dascono  demento  vi  mefr* 
te  del  suo  colore.  E  questo  suole  avvenire  quando  hi 
luna  è  piena.  E  quando  la  nuvola  è  alquanto  ismois» 
e  leggiera,  ella  monta  in  alto,  tanto  cha  1  calor  del=  sole 
la  confonde,  e  guastala  m  tal  maniera,  che  Tuomo 
vede  l'aria  chiara  e  pura,  e  di  bel  colore.  E  sappiate 
che  l'aere  eh'  è  sopra  noi  in  alto  è  più  freddo  tati»* 
via  che  quello  eh' è  in  basso.  Ragione  come  tanto 
quanto  la  cosa  è  di  più  spessa  natura  tanto  vi  si  ap- 
prende il  fuoco  più  forte^  per  ciò  l'aere  eh' è  in  basso 
e  più  grosso  e  più  spesso  che  quello  di'  è  in  alto,  lo 
calore  del  sole  vi  si  apprende  più  che  in  alto.  Diali' al- 
tra parte,  i  venti  muovono  e  fuggono  più  ispesso  in 
aere  basso  che  in  allo,  e  tutte  le  cose  che  stanno  ch^ 
te  sono  più  fredde  che  quelle  che  si  muovona  Dal- 
l'altra parte,  nel  verso  il  sole  si  dislunga  sotto  aneiy 


LUKO  SECONDO.  1 1 9 

per  ciò  è  Vuere  a  monte  assai  più  freddo  che  dinanzi. 
E  per  ciò  avviene  egli  che  l'umidore,  anzi  che  sia  in^ 
grossato^  diviene  in  qnello  aere  fireddo  e  gelato,  e  dò 
è  la  neve,  die  non  cade  mai  in  alto  mare.  Ma  d'istate, 
quando  il  sole  ritoma  e  approssima  alFarìa  fredda, 
se  egli  tmova  alcnno  vapore  gelato,  egP  il  serra  e  in- 
dora, e  fimne  gragnnola  molto  grossa,  e  cacciala  per 
lo  foo  caloreinfino  entro  la  terra  ;  ma  al  cadere  che  fa, 
per  la  spessezza  delFaere,  sì  si  trita  e  diventa  minata, 
e  spesse  volte  si  di^,  anzi  che  sia  in  sulla  terra.  Or 
viene  alcune  fiate,  che  li  venti  si  scontrano  insieme 
di  sopra  da'nnvoli^e  si  fuggono,  e  percuotono  spesso  in 
loro  venire,  onde  fuoco  nasce  ndP  aria.  Ed  allora,  se 
qoesto  vento  truova  li  vapori  montati  e  ingrossati, 
egli  rinfiamma  e  fìilli  ardere,  e  questa  è  la  folgore 
the  le  genti  dicono.  Ma  li  forti  percotimenti  decenti 
li  strìngono  e  cacciano  sì  fortemente,  che  elli  passano 
la  nuvola^  e  &  tonare  e  balenare,  e  cade  giù  di  tal 
forza  per  li  grandi  venti  die  la  cacciano,  che  alcuna 
cosa  non  ha  contra  lei  fortezza.  £  sappiate  veramente 
che  quando  dia  si  muove  a  venire,  ella  è  sì  grande 
ài*  è  una  meraviglia.  Ma  ella  menoma  nel  suo  venire 
per  lo  percotimento  delF  aere  e  de'  nuvoli.  £  molte 
6ate  avviene  che  quando  ella  nasce  nella  prima  che 
la  non  è  grande  ne  troppo  dura.  £  che'  nuvoli  sono 
ben  grossi  e  umidi  e  caricati  d'acqua,  che  la  folgore 
non  ha  potere  di  passare  li  nuvoli,  auzi  vi  si  spegne 
dentro,  e  perde  il  suo  fuoco.  £  quando  li  venti  che  si 
combattono  sì  maravigliosamente  entrano  dentro  a 
nuvoli,  e  sono  rinchiusi  dentro  loro  corpi,  dii  si  muo- 
vono, e  fanno  ferire  l'uno  contra  l'altro.  E  perdo  che 


120  IL  TESORO. 

loro  Datura  non  sofferà  che  ellìno  siano  rinchiusi,  si  li 
rompe  per  forza,  ed  allora  si  fanno  li  toni.  Ed  egli  ò 
nalura  di  tutte  le  cose,  che  si  possono  ferire  e  per* 
cuotere  insieme  che  fuoco  ne  può  nascere*  E  quan- 
do quél  forte  iscontramento  è  de^  nuvoli  é  de^  venti 
e  dello  ispesseggiare  de'  tuoni,  natura  ne  fa  nascere 
fuoco  il  qtiale  getta  grandissima  chiarezza  secondo 
che  voi  vedete,  quando  li  baleni  gettano  loro  lume. 
E  questa  è  la  propria  cagione  perchè  sono  e  bale- 
ni e  tuoni.  E  se  alcuno  mi  domandasse  perchè  T  uo- 
mo vede  più  tosto  li  baleni,  che  non  ode  i  toni  ?  io 
li  direi,  per  ciò  che  1  vedere  è  più  presto  che  l' in- 
dire. Anche  avviene  altresì,  che  alcun  vapore  secco^ 
quando  egli  è  montato  tanto  che  s^  apprende  per  lo 
caldo  che  è  a  monte,  egli  cade  immantinente  ch^egli  è 
appresso  in  ver  la  terra,  tanto  che  si  spegne  e  amox>rti- 
scesi.  Onde  alcuna  gente  dice,  eh'  è  U  dragone,  e  che 
ciò  è  una  stella  che  cade.  E  sappiate  che  neir  aere 
sono  intorno  alla  terra  quattro  venti  principali,  di 
quattro  parti  del  mondo,  e  ciascuno  ha  sua  natura  e 
suo  ufficio.  Onde  ellino  adoperano,  secondo  che  li 
marinarì  lo  sanno,  che  '1  preveggono  di  dì  e  di  notte. 
Ma  de'  nomi  e  della  diversità  de' venti,  non  dirà  ora 
più  il  conto,  però  che  le  genti  del  mondo  cambiano 
nomi,  secondo  la  diversità  delle  usanze,  e  de^  linguaggi 
'  £  dall'  altra  parte,  l' uomo  truova  e  vede  assai  6ate 
che  un  vento  medesimo  fìa  in  un  luogo,  ed  in  un  al- 
tro no,  secondo  che  '1  vento  viene  di  profondo  mare 
presso  di  quella  cotal  terra.  E  nientedimeno  l' uomo 
dice  comunemente,  che  quel  vento  che  viene  di  verso 
levante  diritto,  e  quello  che  li  vien  rincontro  del  di- 


LUmO  flEOOHDO.  121 

ritto  ponente  non  sia  di  grande  perìcolo,  per  ciò  che 
loro  venuta  fiere  piuttosto  in  terra  che  in  mare.  Ma 
quello  che  Tiene  di  diritto  tramontana  e  quello  che 
viene  di  diritto  mezcodi  sono  di  fiero  perìcolo,  che  H 
corpo  delPuno  e  dell'altro  fiere  nel  mare  molto  do- 
nmente.  £  questi  sono  li  quattro  venti  principali  del 
moDdOri  E  ciascuno  di  loro  n'  ha  due  altrì  intomo  da 
ha,  die  sono  come  bastardi  Che  '1  vento  di  levante, 
eh'  è  temperato  secondo  che  '1  conto  ne  divisa  dinanzi, 
ha  di  verso  tramontana  uno  vento  che  secca  tutte  cose, 
ed  è  appaiato  vultunio,  ma  li  marìnarì  lo  chiamano 
greco,  per  ciò  che  viene  di  verso  Grecia.  DalP  altra 
parte  di  verao  megxodì  si  n'  è  un  altro  eh'  ingenera 
nuvoli,  ed  ha  nome  euro,  ma  li  marìnarì  lo  chiamano 
scilocoo:  ma  io  non  so  ragione  perchè  elli  lo  chiamano 
così.  E'  altro  principale  di  verso  mezzodì  si  è  caldo 
e  umido^  e  spesso  fa  folgori  e  tempeste  ^  e  da  ciascuna 
parte  d'intorno  lui  ha  venti  caldi,  che  tutti  fanno 
spesso  tempesta  in  terra.  L'altro  principale  che  viene 
di  verso  ponente  caccia  il  freddo  e  '1  verno,  e  mena 
fiorì  e  foglie  e  primavera.  E  di  mezzodì  viene  un  ven*« 
to  eh'  è  della  natura  dell'  altro  di  mezzodì,  ed  ha  no- 
me afnco,  ma  li  marìnarì  lo  chiamano  af ricino.  Ed 
anche  l'appellano  per  due  altrì  nomi:  che  quando  egli 
è  dolce  e  soave,  l'appellano  garbino,  per  ciò  che  quel 
paese  che  la  scrittura  chiama  Africa  chiama  l' uomo 
vnlgaimente  garbon^  ma  quando  egli  viene  di  grande 
fmtuna  e  di  grande  rapina,  sì  '1  chiamano  li  marinari 
libeccio.  E  dì  vei'so  tramontana  v'ha  un  altro  eh' è  più 
di  buon'aria,  che  ha  nome  coiiis^  questo  appellano  li 
marìnarì  maestro,  per  sette  stelle  che  sono  in  quel  me- 


laa  Hi 

denmo  kiogo^  cbe  tono  rhinmitft  di  nolli  lo  carniL- 
L^  altro  principale  cbe  Tiene  di  tfmrtMiai  là  dà 
voli  e  freddura.  E  qnello  cbe  ffk  ò  riupuBim 
ponente,  dà  neve  in  gragnuob,  ed  ha  noow  arcie.  Ma 
Taltro  ch^è  di  verso  levante  itttringe  pioggM  e  n»- 
volL  E  ciò  puoCe  Tnonio  oonoicare  brevemente  cbs 
tutti  i  venti  che  vcgnono  d'Orienta  veno  ilmeaodiy 
infino  in  Occidente  hanno  temperta,  o  piova,  o  cotali 
cose  wmigiianti,  fecondo  il  luogo  e  «aoondo  il  tempoj 
e  gli  altri  che  tono  da  Oriente  veno  trtunnnlana  u^ 
fino  in  Occidente  fono  il  contrario  dq^  altri.  Con 
ciò  f ìa  cosa  che  la  natura  di  daidìcdnno  poote  cna- 
biare,  secondo  diversi  paesL  Ma  ooms  di*  egli  ria,  il 
Filosofò  dice  che  vento  non  è  altro  che  dibattimento 
d^aere.  Ma  la  veritade  è  in  Dio,  cbe  non  ri  pnole  m- 
pere  chiaramente.  Che  di  tutte  oosedifseio  li  filonA 
più  aperte  ragioni  da  credere,  che  de' ventL  E  però  li 
lassano  a  colui  che  vede  tatto,  e  sa  tntto^  e  pnofee-in 
tutto.  Bene  dicono  li  filosofi,  che  sono  due  altri  v«nli^ 
che  sono  del  fragile  movimento  dell'aere.  Onde  Tnoo 
è  appellato  oria,  e  Taltro  aleamj  ma  la  oerteua  del 
vero  è  nel  nostro  Signore. 

Capitolo  XXXVm. 
Qui  dice  delT  demento  éA  fuoco. 

Appresso  V  intomiamento  dell'  aere  ri  è  afsiio  il 
quarto  elemeoto,  cioè  il  fuooo^  il  quale  è  un  aere  di 
fuoco,  senza  nullo  umidiure.  E  stenderi  iofino  entro  la 
luca,  e  aggira  questo  aere  dove  noi  siamo.  IK  sopn 
a  questo  fuoco  ri  è  la  luna  in  priipa,  e  tutta  le  altre 


UBBO  SBOONVO.  laS 

tMty  die  tono  di  oatora  di  fìiooa.  II  fuoco  ch^  è  co- 
silo sopra  agK  altri  elementi  non  tocca  niente  agli  al- 
tri ekmenti,  uè  a  quel  quinto  elemento  die  si  cbiama 
oAm.  Cbè  di  sopra  il  fuoco  è  on  aere  poro  e  chiaro 
e  DeHo^  die  "vi  sono  le  sette  pianete.  E  ancora  di  s(v* 
pn  a  qoeUo  aere  è  il  firmamento,  die  tuttavia  tornea, 
e  gira  lo  mondo  con  tutte  stelle  da  Oriente  in  Deci- 
dente,  n  oome  il  conto  diviserà  {hù  innanzi^  quando 
nra  luogo  e  tempo.  E  sappiate  die  sopra  il  firmamen» 
iaè  tm  dfflo  moHo  bello  e  duaro  e  lucente,  e  ha  co- 
idra  come  di  cristallo;  e  per  ciò  ò  egli  appellato  il 
Orio  crìstalliDOL  E  sopra  quel  cielo  n  è  il  delo  empi- 
reo^ onde  caddero  li  maWs^  angeli.  E  in  quel  cielo 
dimora  la  santa  Trinità  divina,  con  tutti  li  suoi  angeli, 
e  li  suoi  segretL  Di  cui  il  maestro  non  si  iotcamette 
in  qoesto  ìSbco  più,  anzi  lo  lascia  alli  maestri  divini, 
ed  alti  signori  di  santa  Chiesa,  a  cui  egli  appartiene  a 
sspeM.  E  tomera  al  suo  conto,  cioè  al  divisamento 
del  mondo. 

Capitolo  XXXIX. 

Come  Bono  assise  le  sette  pianete. 

U  conto  divìsa  qua  indietro  che  sopra  li  quattro 
elementi  è  un  aere  puro,  chiai'o  e  netto,  senza  nulla 
oscuritade,  che  ìnlproia  il  fuoco,  e  gli  altri  tre  ele- 
menti dentro  da  se,  e  si  stende  iofino  al  firmamento. 
Ed  in  questo  puro  aere  sono  assisi  li  sette  pianeti, 
Puno  sopra  V  altro.  Onde  il  primo  ch^  è  più  presso 
alla  terra,  ch^è  sopra  M  fuoco,  si  è  la  Luna.  Di  sopra 
la  liuna  si  è  Mercurio.  Di  sopra  a  Mercurio  si  è  Yenus. 


I  a4  IL  TE80B0. 

Di  sopra  a  Yenus  si  è  il  Sole. Di  sopra  al  Sole  si  èMars.. 
Di  sopra  a  Mars  si  è  lappiter.  Di  sopra  luppiter  si  è 
Saturno,  ch^è  assiso  sopra  tutti  gli  altri  pianeti  E  sap» 
piate,  che  ciascun  pianeta  ha  suo  cerchb  dentro  a 
quello  aere  puro.  E  ciascuno  ùl  suo  corso  intonio  «Da 
terra,  Tuno  più  alto  e  F  altro  più  basso,  secondo  die 
sono  assisi  Fun  cerchio  dentro  alF  altro.  li  conto  dioe 
apertamente  qua  a  dietro  che  '1  mondo  è  tatto  rìtondo 
e  compassato  diligentemente.  E  sì  come  il  punto  è  nel 
(HTofondo  della  terra,  cioè  nel  mihiogo,  il  quale  ò  chia- 
mato abisso,  così  sono  compassati  li  cerchi  delti  ele- 
menti, e  delle  pianete  e  del  firmameota  Sìocli&  sono 
tutti  ritondi  P uno  dentro  all'altro,  e  Tono  intorno 
air  altro.  Il  cerchio  eh'  è  dentro  è  minore  che  qodUo 
ch'è  di  sopra  a  lui,  per  ciò  non  è  meraviglia,  se  Funo 
pianeto  corre  più  tosto  che  F  altro,  che  tanto  quanto 
il  suo  cerchio  è' più  piccolo,  tanto  il  puote  correre. più 
tosto.  E  quel  che  va  iutomo  al  più  grande  sì  pena|ttù 
a  correrlo,  si  come  il  conto  dirà  più  innanzi  là  ov'.cgU 
tratterà  delli  pianeti  ciascuno  per  sé. 

Capitolo  XL. 
Della  grandezsa  della  terra  e  del  cielo. 

E  se  ciò  è  la  veritade  che  li  cerchi  della  terra  ^  gli 
altri  cerchi,  sieno  compassati,  dunque  conviene  elU, 
come  per  necessitade,  ch'elli  sieno  fatti  a  numero  e  a. 
misura.  E  se  ciò  è  vero,  noi  doviamo  ben  credere  che 
li  antichi  filosofi  che  sapeano  arismetica  e  geometrìa, 
cioè  iscieuza  di  numero  e  di  misura,  poterono  ben 
trovare  la  grandezza  de'  cei'chi  e  delle  stelle.  Senia 


UBRO  SECONDO.  125 

&IIÒ  lo  cerchio  è  intorno  sei  fiate  tanto,  come  il  conn 
passo  ha  di  larghezza,  cioè  a  dire,  che  egli  gira  tre 
ootanti,  e  anche  uno  settimo  com^egli  ha  di  diame- 
tro, cioè  mirando  il  cerchio  per  mezzo  diritta  linea  di 
m  io  gioso,  o  di  giù  in  suso.  E  per  questa  ragione 
immantinente  che  elli  troyaro  quanto  la  terra  girava, 
poterono  bene  trovare  e  sapere  quanto  la  terra  è  gros- 
sa per  diametro,  cioè  misurandolo  per  mezzo,  come  io 
ho  detto  del  compasso.  E  per  li  corsi  delle  pianete  e 
delle  stelle,  come  Puno  cerchio  è  più  alto  che  T  al- 
tro, e  la  grandezza  di  ciascuno.  Ragione  come  la  terra 
gira  tutta  intomo  ventimilaquattrocentoventisette  le^ 
gfae  lombarde.  Yero  è  che  quelli  d'Italia  non  dicono 
leghe^  anzi  dicono  miglia  di  terra,  per  ciò  che  in  uno 
m^lio  di  terra  sono  mille  passi,  e  ciascun  passo  con- 
tiene cinque  piedi,  e  ciascun  piede  contiene  dodici 
ponse,  ovvero  dita.  Ma  la  lega  fìrancesca  è  bene  due 
cotanti,  o  tre  cotanti,  che  non  è  il  miglio.  Poi  ch^elli 
separoro  la  grandezza  del  cerchio  della  terra,  allora 
fu  cosi  provato  che  'l  suo  diametro,  cioè  la  sua  gros- 
sezza, è  la  terza  parte  della  grandezza  sua  ed  uno  set- 
timo. Il  suo  compasso  è  la  metade  del  suo  spesso,  cioà 
la  sesta  partita  del  suo  cerchio.  Egli  è  vero,  che  le 
pianete  che  sono  nel  puro  aere,  e  tutte  le  stelle  che 
sono  nel  firmamento,  corrono  tuttavia  per  li  loro  cer- 
chi intomo  alla  terra  senza  riposo.  Ma  ciò  non  è  nien- 
te d^una  maniera.  Che  M  firmamento  coire  tra  dì  e 
notte,  da  Oriente  in  Occidente  una  fiata  sì  rattamen- 
te e  sì  forte,  che  M  suo  peso  e  la  sua  gi*andezza  lo  fa- 
rebbero tutto  trasalire,  se  non  fossero  li  sette  pianet'*, 
che  corrono  centra  al  firmamento  temperatamente  se- 


1 36  IL  TESORO. 

conda  suo  corso  e  sccoodo  suo  ordine.  E  però  nou  è 
maraviglia  se  le  piacete  vaono  lentamente,  che  la  loro 
andatura  è  assoungliata  ad  una  formica,  quando  .ella 
andasse  intorno  ad  una  grande  ruota  girando.  Ma  die 
corrono  pm  forte,  che  alcuno  uomo  non  potrebbe  sti- 
mare. Che  bene  potete  pensare,  che  qusundo  la  ruota 
volgesse  molte  volte,  la  fòrmica  non  averebbe  potuto 
andare  una.  £.  in  cotal  maniera  corrono  i  pianeti  dì  « 
notte  contra  il  corso  del  firmamento. 

Capitolo  XLL 
Del  firmamento  «  del  cono  de* dodici  fégni. 

Sopra  Saturno,  ch^è  il  settimo  pianeto,  si  è  il  fir^ 
mamento  ove  le  altre  stelle  sono  affisse.  E  sappiate  che 

da  terra  infino  al  firmamento  sonq  dieeimila  e  sessan^^ 

I 

tasei  fiate  tanti,  come  la  terra  ha  di  grossezsa  per  dia* 
metro.  £  per  T  altezza  eh' è  si  grande  non  è  nieoii 
maraviglia  se  le  stelle  parono  si  piccole.  Ma  alla  v^ 
rilade,  non  è  dal  firmamento  infino  al  Sole  nessuna 
stella,  che  non  sia  maggiore  che  la  terra,  fuori  che  la 
Luna  e  Mercurio  e  Yenus,  le  quali  sono  di  sotto  ai 
Sole.  E  sappiate  che  le  stelle  che  P  uomo  puote  cono- 
scere nel  firmamento  non  sono  più  che  milleventidue^ 
secondo  che  Fuomo  trova  nel  libro  delP  Àlm^^estOi 
Ma  infra  le  altre  sono  dodici  stelle,  che  soq  chiamalt 
li  dodici  segni,  cioè  :  Aries,  Taurus,  Cremini,  Ganoer^ 
Leo,  Virgo,  Libra,  Scorpio,  Sagittario,  Gaprìconio^ 
Aquario  e  Pesce.  Questi  dodici  segni  hanno  nel  &tt 
mamento  un  cerchio,  in  cui  eHino  intoroeaiio  il  mai»'' 
do^  eh'  è  appellato  Zodiaoa  E  oìascuno  segno  ha  trenta 


LIBRO  SEGORDO.  137 

gradi,  che  e!U  vi  ^a  dodici  fiate  trenta,  che  mootaoo 
trecentofessaota  gradi.  Questo  cerchio  si  è  il  canumno 
delli  pianeti,  per  lo  quale  a  loro  conviene  andare  per 
b^nnameoto,  Tuna  parte  in  basso  e  Paltra  in  alto^ 
ciascuna  secondo  la  sua  via  e  suo  corso;  Che  Saturno, 
il  quale  è  di  sopra  a  tutti,  e  crudele,  e  ieUone,e  di  fred* 
da  natura,  va  per  tutti  dodici  segnali  in  un  anno  e 
tredici  dL  £  sappiate  che  alla  fine  di  quel  tempo,  egli 
non  toma  al  luogo  né  al  punto,  ood^egli  si  mosse,  anzi 
ritorna  nelPaltro  -segnale  appresso,  e  lì  ricomincia  la 
sua  via  e  1  suo  corso.  E  co^  ùk  tuttavia  infino  alli 
trent'anni  poco  meno.  Allora  se  ne  va  egli  al  primo 
punto  medesimo,  onde  si*  mosse  il  primo  di  del  primo 
annoi,  e  rifa  il  suo  corso  come  dinanzi.  E  per  ciò  puote 
ciascuno  intendere,  che  Saturno  compie  il  suo  corso 
in  trent'anni,  poco  vi  falla,  cioè  che  ritoma  al  primo 
punto  onde  si  mosse.  luppiter,  ch^  è  di  sotto  lui,  è 
dolce  e  pietoso,  ed  è  pieno  di  tutto  bene.  E  va  per  li 
dodici  s^nt  in  un  anno  ed  un  mese  e  quattro  giorni, 
poco  vi  falla,  ma  il  suo  corso  compie  egli  in  diciotto 
anni.  Mars,  ch^è  di  sotto  lui  altresì,  è  caldo  e  batta- 
gliere e  malvagio  ;  ed  è  chiamato  Iddio  delle  batta- 
glie. E  va  per  li  dodici  segni  in  due  anni  ed  un  mese 
e  venti  dì,  poco  vi  falla,  ma  egli  fa  suo  corso  in  tre- 
dici anni.  Lo  Sole,  eh'  è  buono  pianeto  imperiale,  va 
per  li  dodici  segni  in  un  anno  e  sei  ore.  Ma  il  suo 
corso  fa  egli  in  ventotto  anni,  poco  vi  falla.  Yenus, 
ch^  è  di  sotto  di  lui,  va  per  li  dodici  segnali  in  dieci 
mesi,  poco  vi  falla,  ma  il  suo  corso  compie  egli  col 
Sole,  e  segutsce  sempre  il  Sole.  Ed  è  bella  stella  e  dol- 
ce e  di  buodo  aere;  e  per  la  bootade  ch^è  trovata  in 


128  IL  TLSORO. 

lui;  si  è  appellato  Iddio deiramore.  Merciirio^ chièdi 
solto  a  lui,  va  per  li  dodici  segnali  in  tre  me»  ed  otto 
dì,  poco  vi  folla.  E  compie  il  suo  corso  in  otto  aiM& 
E  mutasi  di  leggieri  secondo  la  boutade  e  la  maUni 
del  pianeta  che  si  accosta.  La  Luna,  che  gli  è  di  sotto^ 
va  per  li  dodici  segni  in  Tcfntisette  di  e  diciotto  ora 
e  la  terza  parte  d'un^ora,  ma  il  suo  volare  &  efla 
tanto,  ch^ella  appare  in  yentotto  di  e  sette  ore  e  me»; 
za  e  quinta  parte  d^un^ora.  E  co^  comune  tutto  il 
suo  corso  in  diciolt^anni  ed  otto  mesi  e  sedici  di  e 
mezzo,  in  tal  mainerà  che  la  ritoma  al  punto  ed  «I 
luogo  onde  ella  era  stata  mossa  al  oomiaciameQlo  del 
suo  corso. 

Capitolo  XLIL 

Del  corso  del  Sole  per  li  dodid  legai. 

t 

Toì  potete  intendere  che  'l  Sole,  ch^è  il  più  bello  e 
il  più  d^no  degli  altri,  è  ordinato  ad  essere  in  meno 
delti  pianeti,  che  li  yan  tre  di  sopra  da  hii,  e  tre  <fi 
sotto.  E  va  ciascun  dì  poco  meno  d^un  grado,  perchè 
li  gradi  del  cerchio  sono  tra  tutti  insieme  trecentoses- 
sanlacinque  dì  e  sei  ore,  e  ciò  è  un  anno.  £  per  le  sei 
ore  che  sono  in  ciascun  anno  nel  corso  del  sole  òltra 
aili  dì' interi,  si  avviene  che  di  quattro  in  quattro  an- 
ni fanno  un  dì  intero^  che  è  ventiquattro  ore.  Ed  al^ 
lora  ha  quello  anno  trecentosessantasei  di,  che  not  ap- 
pelliamo bisesto.  E  quello  di  si  è  messo  nel  mese  di 
febbraio  cinque  di  alP  uscita,  ed  allora  febbraio  ha 
ventinove  dì.  E  per  ciò  conviene  dimorare  nel  caliD- 
dario  undici  di  in  una  lettera.  Ed  è  lo  f  che  è  la  qnb- 


LISRO  SECONDa  1  39 

tfl  lettera  air  usata  dì  febbraio.  E  quando  il  Sole  ha 
fitliì  sette  bisesti  nel  suo  corso,  ia  tal  maniera  che  cìsh 
SCODO  delH  sette  di  della  settimana  sia  istato  in  bise- 
sto^ allora  ha  il  Sole  tutto  suo  corso  compiuto  intera- 
mente, e  ritorna  al  suo  primo  punto  per  le  prime  vie  ^ 
E  pereiò  è  detto  che  egli  compie  il  suo  corso  in  ven- 
totto  anni,  che  allora  haiatli  sette  bisesti.  E  sappiate 
cfae  1  primo  di  del  secolo  «ntrò  il  Sole  nello  primo 
sq;oo,  cioè  in  ariete.  E  dò  fu  quattordici  dì  all^  uscita 
di  mano,  ed  altresì  ùl  egli  ancora.  E  quando  egli  ha 
^lel  segno  passato,  egli  entra  neir  altro,  tanto  che 
oompie  on  anno,  che  a  lui  couTiene  in  ogni  segnale 
dimorare  un  mese,  cioè  traita  dì,  o  poco  più.  Ma  per 
ciò  che  egli  si  è  grave  alle  comune  genti  a  sapere  quel 
poco  ch^è  oltre  li  trenta  dì,  fu  ordinato  per  li  savi  an- 
tìdiì,  che  una  parte  di  mesi  ne  avesse  trenta  dì,  e 
un'altra  parte  n'avesse  treni' uno 5  totto  che  febbraio 
non  abbia .  <^e  veototto  quando  non  è  bisesto.  E  ciò 
fa  fatto  per  lo  dispensamento  de^  dì  salvare. 

Capitolo  XLIII. 
Dd  di  e  della  notte,  e  del  caldo  e  del  freddo. 

La  via  del  Sole  e  il  suo  corso  è  d'andare  ciascuno 
dì  da  Oriente  in  Occidente  per  Io  suo  cerchio  intorno 
alla  terra  in  tal  maniera  ch^  egli  fa  intra  notte  e  gior- 
no uno  torneo.  E  sappiale  che  ciascun  luogo  del  mon- 
do ha  suo  diritto  Oriente  in  ver  la  parte  dove  M  Sole 
si  leva,  il  suo  Occidente  è  di  verso  ponente.  Che  là 
ovunque  tu  se'  sulla  terra,  o  qua,  o  là,  tu  dei  sapere 


l5o  IL  TESORO. 

che  da  te  infine  al  tuo  Oriente  ha  novanta  gradi,  e 
altrettanto  ha  da  te  iufino  al  luo  Occidente;  e  dal  tuo 
Occidente  infino  di  sotto  rincontro  a^tuoi  piedi  dirit- 
tamente ha  altretd  novanta  gradi,  ed  altrettanto  a- 
vrebbe  da  ivi  air  Oriente,  che  è  lo  tuo  levante.  E  così 
sono  quattro  fiate  novanta  gradi,  che  montano  treoen* 
tosessanta  che  sono  nel  cerchio,  si  come  noi  avea» 
divisato  qua  a  dietro.  E  per  ciò  dovete  credere  che 
tutta  fiata  è  dì  e  notte:  che  quando  il  Sole  è  di  sopra  a 
noi,  egli  allumina  qui  ove  noi  siamo.  Ma  ^K  non  pub 
alluminare  dalP altra  parte  della  terra;  e  quando  ^ 
allumina  di  qua  egli  non  può  alluminare  di  le,  per  la 
terra  ch^è  in  mezzo  tra  noi,  cioè  tra  noi  e  quelli  che 
sono  di  là  di  sotto  da  noi  E  dalT altra  porte  il  mio 
Oriente  è  P  Occidente  di  quelli  che  abitano  ooQira  ai 
miei  piedi,  se  fosse  vero  che  gente  v^  abitasse,  e  lo  mio 
Occidente  sarebbe  lo  loro  Oriente.  Dunque  eonvieoe 
egli  che  tutta  fiata  sia  dì  e  notte,  che  quando  noi  a- 
vemo  il  giorno,  elli  avrebbero  la  notte.  Che  d)  non 
è  altra  cosa,  che  essere  lo  Sole  sopra  la  terra,  che 
passa  tutti  gli  altri  lumi.  E  per  lo  suo  grandissimo 
splendore,  non  potemo  noi  di  dì  vedere  le  stelle, 
perchè  loro  lume  non  ha  nulla  potenza  dinanzi  alla 
chiarezza  del  Sole,  ch^  è  fontana  di  tutti  lumi,  e  di 
tutto  chiarore,  e  di  tutto  calore.  E  perciò  che  la  sua  via 
tragge  più  per  quella  parte,  che  noi  appelliamo  mezzo- 
dì, avviene  che  quel  paese  è  più  caldo  di  nullo  altro  : 
onde  v^  ha  molte  terre  diserte,  ove  nullo  abita  per  lo 
gran  calore  che  in  là  è.  DalP altra  parte,  come  ì  Sole 
si  tira  più  verso  M  mezzodì  e  si  dilunga  da  uoi,  tanto 
avemo  noi  più  grande  freddo,  e  più  grande  notte.  Ha- 


LIBRO  SBGONDO.  ]  3  X 

gìone  come  io  quelle  parli  di  sotlo  si  è  allora  piccola 
notte  e  caldo  grande. 

Aiicora  di  cid  medesimo. 

Li  cerchi  de^  dodici  segni  che  iotorneano  tatto  1 
mondo  sono  divisi  in  quattro  parli,  si  ch^elli  hanno 
tre  s^nafi  in  ciascuna  parte.  Il  primo  segno  si  è  Aries, 
nel  quale  il  Sole  entra  quattordici  dì  al  Suscita  di  mar- 
zo^ e  quel  fu  il  primo  di  del  secolo.  E"per  ciò  che  Dio 
fece  aHoni  tutte  cose,  in  quel  buono  e  diritto  punto 
fu  il  dì  così  grande  come  la  notte,  si  che  non  ebbe 
in  Ira  loro  nulla  differenza.  Ed  allre^  è  egli  tuttavia 
in  quiel  dL  E  lo  stabilimento  dì  Aries  e  degli  altri  due 
segnali  che  li  yegnono  dietro  non  è  in  basso  Terso 
mezsodi,  né  non  è  in  alto  verso  mezzanotte,  sopra  i 
capi  nòstri,  ciò  è  verso  la  tramontana,  che  si  è  di 
verso  settentrione,  anzi  è  in  mezzo  tra  due,  per  tiò 
è  il  tempo  più  temperato  e  più  naturale  alP  ingenerare 
di  tutte  cose.  In  questa  maniera  comincia  il  Sole  lo 
suo  corso,  e  vanne  tuttavia  più  in  alto  sopra  il  firma- 
mento, cioè  verso  ^I  più  alto  luogo  del  firmamento.  E 
però  cominciano  allora  li  di  a  crescere  ed  a  menomare 
le  notti,  tanto  ch^egli  passa  questi  tre  segnali  primi, 
infino  a  quindici  di  alP  uscita  del  mese  di  giugno.  Al- 
lora è  corso  la  quarta  parte  del  cerchio,  cioè  per  arie-* 
te,  per  tauro  e  per  gemini»  L^  altro  dì  comincia  egli 
ad  andare  per  F  altra  quarta  parte,  ed  entra  nel  quar- 
to segno,  cioè  io  cancro.  Allora  è  egli  sì  alto,  comVgli 
puote  andare.  Onde  conviene  che  quel  dì  sia  il  più 
grande  di  tutto  Tanno,  e  la  notte  la  più  piccola.  £  noi 


l52  IL  TESORO. 

ayemo  allora  grande  calore.  Ma  nel  profondo  mescodì 
il  Sole  si  dilunga  quanto  più  può  da  noi,  e  vasseoe 
verso  settentrione.  Ed  allora  yegnono  li  dì  meoomao- 
do,  e  le  notti  crescendo,  sì  che  nel  verno  sono  le  notti 
grandissime,  e  così  se  ne  va  il  Sole  facendo  suo  corso^ 
avvallando  tuttavia  d^alto  in  basso,  a  poco  a  poco.  £d 
è  in  tal  maniera,  che  cosi  conte  il  di  cresce  quando  il 
Sole  va  per  ariete  infìno  a  cancro,  per  lo  montare  che 
fa  sopra  a  noi,  così  ricomincia  il  di  a  menomare  per 
lo  divallamento»  che  1  Sole  fa  tanto,  quanto  va  per 
cancro  e  per  leone  e  per  virgine,  infimo  a  quindici  di 
air  uscita  di  settembre.  E  Taltro  dì  dopo  entra  egli 
neir  altro  quartieri,  cioè  in  libra.  Ed  allora  è  egli  nel 
diritto  mezzo  del  cerchio,  cio^  al  settimo  segno  dirilto 
ad  ariete.  E  però  conviene  egli  che  quel  di  aia  ^;aale 
alla  notte,  sì  come  fu  dall^  altra  parte  rincontro  a  lui. 
Bla  ciò  è  diversamente,  che  questa  equali. a  viene  in 
settembre  per  lo  menomamento  del  di  e  per  lo  accre- 
scimento della  notte.  Ma  P  altra  equalilà  viene  in  mar* 
zo  per  lo  abbreviamento  delle  notti  e  per  lo  accre- 
scimento del  dì.  E  cosi  come  il  Sole  per  libra,  per 
scorpione  e  per  sagittario  tuttavia  va  abbassando  e  ààr 
lungandosi  da  noi  ;  e  così  declina  il  tempo  verso  lo 
freddo,  come  nel  marzo  verso  ^1  caldo.  E  questo  tempo 
dura  per  li  tre  segni  dinanzi  nominati,  infino  a  qaùi- 
dici  di  all'uscita  di  dicembre.  L'altro  di  dopo  entra 
^li  nello  diretano  quartieri,  cio>  in  capricorno,  eh' è 
tutto  contrario  a  cancro.  E  per  ciò  conviene  che  cosi 
come  viene  allora  è  il  più  grande  dì  dell'anno^  cosi 
allora  è  la  più  grande  notte,  e  più  piccolo  il  di.  E  però 
che  '1  Sole  è  dilungato  da  noi,  è  mestiere  che  noi  ?!>• 


Limo  SECOIHK).  l33 

tHano  diflMta  dì  di  e  di-calore,  e  li  grandi  di  sono 
allora  nel  profondo  mezzodì,  «  le  grandissime  notti 
SODO  idlora  in  selteoUioiie  con  lutto  il  grande  freddo. 
E  cosi  ai  pasta  U  Sole  per  capricorno,  e  per  acquario 
e  per  peice,  menomando  la  notte  a  poco  a  poco,  tanto 
cbe-  alla  fine  delPanno  viene  alla  fine  del  cerchio.  E 
poi  rkomincia  il  corso  per  ariete,  secondo  che  ^1  conto 
divisa  qua  dietro. 

CAPrroLO  XLIT. 

Della  differenia  eh*  è  intn  menogiorao  e  settentrione. 

E  dò  paletto  noi  conoscere,  che  come  nel  mezzodli 
«QB  molte  lerre  diserte  per  la  prossimità  del  Sole  che 
va  per  qudle  partì,  cosi  sono -altrettanti  o  più  diserti 
in  settentrione,  cioè  sotto  la  tìMmontana,  ove  nulla 
gente  abita  per  la  grande  freddura  die  y^è,  cioè  per 
lo  allungamento  del  Sole,  ohe  si  dilunga  da  quelle  ter- 
re. Ciò  medesimo  è  la  cagione  perchè  avviene  alcuna 
6ata  die  in  tramontana  non  dura  il  giorno  se  non 
molto  pocoKno,  tanto  che  appena  vi  si  potrebbe  can- 
tare una  messa.  Ed  allora  dura  altresì  pòco  la  notte, 
verso  il  profondo  mezzodì.  £  tal  fiata  dura  il  dì  nel 
mezzogiorno  presso  ad  un  anno,  e  in  tramontana  dure 
la  notte  altrettanto.  E  cosi  alcuna  fiata  il  dì  sei  mesi, 
e  la  notte  altrettanto  3  e  nella  contraila  parte  diviene 
il  contrario.  E  tutte  queste  differenze  perchè  e  come 
elle  awegnono  puoteno  apertamente  vedere  ed  inten- 
dere quelli  che  diligentemente  considerano  il  corso  del 
Sole  per  lo  suo  cerchio,  secondo  che  il  suo  conto  divisa 
apértamante.  E  tutto  che  ^1  conto  dica  che  noi  abbia- 


1  54  XI'  TESOAO. 

mo  alcuna  fiala  maggiore  il  dì  che  la  nolle,  ed  alcuna 
fiata  maggiore  la  notte  che  1  di,  tuttavia  io  dico  che, 
comunque  si  sia,  egli  ha  tante  ore  la  notte  quante  lA 
dì,  e  U  dì  quante  la  notte,  che  ciascuno  ha  dodici  ore, 
cosà  la  notte  come  ii  dì.  Ter'  è  che  quando  il  dì  è 
grande,  e  V  ore  son  grandi,  e  quando  il  dì  è  piccolo^ 
e  r.oi*e  sono  piccole,  e  così  della  notte. 

Capitolo  XLV. 

Delh  grandenu  del  fole  e  del  corso  della  luna. 

Or  sappiale,  che  1  sole  e  tulle  le  pianele  e  le  stel- 
le che  sono  di  sopra  da  lui  assise  sono  maggiori  che 
tulta  la  terra  ^  che  '1  sole  è  più  grande  die  la  ter- 
ra centosessanlasei  volte  e  tre  ventesimi,  secondo  che 
tutti  li  filosofi  provano  per  molte  ragioni  diiitte  e 
necessarie  ^  e  dalla  terra  infìno  al  sole  è  rinquecen- 
iottantacinque  cotanti,  come  è  1  grosso  della  terra.  Ma 
elli  dbsero  bene  che  altre  pianele  che  son  dal  sole  in 
giuso,  cioè  Yenus,  Mercurius  e  la  Luna,  sono  più  pic- 
ciole  che  la  terra.  E  la  terra  è  più  grande  trentotto 
cotanti  che  la  luna  e  un  poco  più,  e  in  alto  è  venti- 
quattro cotanti  e  mezzo  e  cinque  duodecimi,  come 
la  terra  è  grande  per  sua  grossezza,  o  vogli  per  lo 
diametro.  E  dicono  che  la  luna  è  ti^  rìtonda.  On- 
de molli  dissero  che  la  metà  del'suo  corpo  è  risplen- 
dente, e  r altra  metade  è  oscura;  e  secoìido  ch'ella 
corre  intorno  dimostra  ella  sua  chiarezza  e  sua  osco- 
rilade,  una  fiata  più  e  una  meno,  secondo  che  ella 
gira.  Ma  al  vero  dire,  ella  non  ha  niente  di  luce  da  se, 
ma  ella  è  chiara  in  tal  maniera,  eh'  ella  può  ricevere 


IJBRO  SECONDO.  1  55 

illuimoamento  d^  altrui,  come  una  spada  bi^unita,  o 
cristallo,  o  altra  cosa  somigliante.  Così  fa  la  luna  che 
per  sé  non  luce  tanto,  che  noi  potessimo  vedere  sua 
chiarezza.  Ma  quando  il  sole  la  vede,  sì  la  illumina, 
come  noi  polemo  vedere,  e  falla  altresì  risplendente, 
com'  ella  pare  a  noi.  Ragione  come  la  luna  si  rìno- 
velia  tuttavia  in  quel  segnale  medesimo,  duve  ^1  sole 
rimane^  ella  corre  ciascun  dì  tredici  gradi,  E  voi  a- 
vete  bene  udito  qua  indietro,  che  un  segno  ha  trenta 
gradi ,  e  cosi  passa  la  luna  uno  segno  in  due  di  e 
mezzo,' poco  vi  falla.  E  quando  ella  viene  in  un  se- 
gno col  sole,  ella  è  alluminata  di  sopra,  laonde  ^1  sole 
la  sguarda.  E  per  ciò  disella  corre  di  sotto  da  lui,  non 
la  poterne  noi  vedere.  Ma  al  terzo  di,  quando  ella 
esce  di  quello  segnale,  è  alquanto  dilungata  da  lui,  ed 
egli  la  guarda  discosta,  ed  allora  appare  alla  nostra 
veduta  eoo  due  coma.  E  tanto  quanto  ella  si  dilunga 
più  dal  sole,  tanto  più  cresce  ch^ella  viene  al  settimo 
segnale  dall'  altra  parte  del  cerchio,  tutto  al  diritto 
contra  'l  sole,  cioè  presso  ali!  venticinque  dì.  Ed  al- 
lora vede  il  sole  tutta  chiaramente,  e  però  diviene 
ella  tutta  risplendente,  quando  ella  è  litonda.  E  quan- 
do ella  ha  ciò  fatto,  immantinente  comincia  ad  avval- 
lare dall'altra  parte  del  cerchio,  e  tornasi  in  verso  ^l 
sole.  Ed  allora  comincia  prima  a  scemare  da  quella 
parte  onde  '1  sole  non  puote  mirare,  tanto  di'*  ella 
\iene  al  suo  fatto.  Ed  entra  nell'altro  segnale  dopo 
quello  che  ella  ha  lasciato.  Che  tanto  quanto  lo  sole 
|R'na  ad  andare  per  uno  segnale,  sì  va  la  luna  per  tul- 
li dodici  intorno. 


I  5G  IL  TKsomo. 

Capitom)  XLYI. 

Come  la  luna  riceve  il  no  lame  dal  sole,  e  com^elb  oscura. 

Che  sia  così  vero,  cioè  die  la  kma  accatti  3  soo  ht- 
me  dal  sole  e  la  sua  chiareKta,  e  chedla  sui  minore 
<M  lui  e  della  terra,  è  provato  certameòte  per  U  oscu- 
rameuti  dell' uno  e  delT  altro.  Bacone  come  tw  ve- 
dete entrare  la  luna  in  qod  medesimo  segnale,  in 
che  1  sole  rimane.  Ed  allora  è  ella  intra  hii  e  la  ter- 
ra, ma  non  luce  di  verso  noi  E  puote  essere  tè  dvitr 
taroente  in  quel  segnale  tra  la  terra  e  1  soIe,di^eUa 
cuupre  il  sole  ai  nostri  occhi  in  tal  mmiera,  che  noi 
non  ne  potemo  del  sole  vedere  niente^  e  la  sua  diia- 
rezza  non  ha  nessun  podere  sopro  wù.  Ma  però  che  ^ 
sole  è  più  grande  che  la  luna  o  che  b  terra,  e  però 
che  la  terra  è  maggiore  che  la  luna,  non  ha  il  sole 
quella  oscuritade  per  tutta  la  terra,  se  non  è  in  tanto 
come  r  ombra  della  luna  puote  coprire^  e  contrastare 
a' raggi  del  sole.  E  quando  la  luna  ò  andata  al  settimo 
segnale  dell'altra  parte  del  cerchio,  puote  essere  al- 
cuna fiata  che  ella  è  si  dirittamente  contra  allo  scAe 
che  r  ombra  della  terra  entra  in  mezzo,  e  ritiene  i 
raggi  del  sole,  in  tal  maniera,  che  la  bina  oscura  e 
perde  lo  suo  lume  a  quel  punto  che  ella  ne  dee  più 
avelie.  E  la  cagione  si  è  perchè  l'ombra  della  terra 
iiede  dirittamente  contra  allo  luogo  ove  la  luna  ri- 
mane, si  come  r  uomo  puote  vedere  di  lui  e  dd  ftio- 
va  apertamente  all'ombre  che  sono  loro  incontro.  E 
voi  dovete  credere  che  1'  ombra  della  terra  scema 
tuttavia  tanto  com'ella  si  dilunga,  però  ch'ella  è  mi- 


LIBRO  SBCOKDO.  lòy 

norè  die  1  sole,  die  egli  manda  li  suoi  raggi  tutto  in- 
torno^ ed  a  dò  polemo  noi  intendere  die  Poscurar 
mento  dd  sole  non  può  essere  se  non  è  a  luna  nuo- 
va; e  Foscnramento  deUa  luna  non  puote  essere  se 
non  da  die  è  piena  e  rotonda.  £  per  questo,  e  per 
altre  ragioni,  provano  li  savi  die  ki  luna  accatta  dal 
sole  lo  risplendente  lume  die  viene  infino  a  noL  Che 
per  d»  che  la  luna  è  una  stella,  si  credono  le  genti, 
che  ella  abbia  suo  proprio  lume,  perchè  tutte  sono 
rìhioentL  Bl^  T  albore  della  luna  non  sarebbe  suffi- 
ciente die  alluminasse  scopra  alla  terra  se  non  fosse 
da  parte  dd  ade. 

Càfitoi^o  XLTD. 

Dd  cono  deOa  Inna  per  lo  tuo  cordilo. 

Ma  per  dò  che  la  luna  corre  più  basso  che  Paltre 
stdle^  ed  è  più  presso  dia  terra  die  nulla  dell'  altre, 
à  pare  a  noi  disella  sia  maggiore  di  tutte  le  altre  sd- 
vo  lo  sole^  che  la  nostra  vista  non  puote  bene  soffe- 
rìre  di  vedere  la  cosa,  eh' è  a  lungi  da  noi,  e  tutte  co- 
se, quando  elle  ne  sono  lungi,  mostrano  d' essere  mi- 
nori eh'  elle  non  sono.  E  d'altra  parte  sì  vediamo 
apertamente  die  la  luna,  per  la  prossimitade  che  ella 
ha  con  la  terra,  ella  sempre  adopera  nelle  cose  che 
sono  qua  giuso  più  apertamente  che  l'  altre.  Che 
quando  ella  cresce,  si  conviene  che  tutte  midolle  cre- 
scano dentro  dall'osso,  e  arbori  e  piante,  e  tutti  ani- 
mali, e  pesa  a^escono  loro  midolli.  £  medesimamente 
lo  mare  ne  cresce;  che  allora  gitba  grandissimi  fran- 
genti. E  quando  ella  menoma,  tutte  le  cose  che  sono 


1 58  IL  1S80RO. 

sopra  la  terra  minomano,  e  diventano  minori  che 
dinanzi.  E  d^altra  parte,  noi  vediamo  disella  corre  più 
tosto  che  gli  altri  pianeti,  e  ciò  non  potrebbe  essere 
se  ^1  cerchio  della  sua  via  non  fosse  minore  d^|li  al- 
tri, e  minore  non  potrebbe  essere  se  n<Hi  fosse  più 
giù  che  gli  altrL  Ragione  come  la  luna  va  per  tutti 
li  dodici  segni,  e  &  il  suo  corso  in  trecentosessanta 
gradi  che  sono  in  loro  cerchio  in  ventisette  di  e  dì- 
ciott'ore  e  terza  parte  d^un^ora.  Il  sole  vi  pena  ad 
andare  uno  anno,  secondo  che  1  conto  ha  divisato 
qui  indietro.  Bla  noi  dovemo  sapere,  che  Tanno  è  in 
due  maniere^  che  Puno  è  secondo  il  corso  del  sole  in* 
trecentosessantacinque  di  e  quarto  d'un  di,  e  P altro 
è  della  luna,  cioè  quando  ella  ha  corso  per  li  dodici 
segnali  dodici  volte,  e  ciò  fa  ella  in  ti'ecentocinquan- 
taquattro  dì. 

Capitolo  XLTIIL 

Qui  divisa  la  composta  della  luna  e  del  sole^  e  del  prinno  di  del 
sole,  e  del  primo  dì  del  secolo,  e  del  biseito,  e  delle  pttMf  e 
d*  altre  ragioni  della  luna. 

Noi  leggiamo  nella  Bibbia,  che  al  cominciamepto 
del  secolo,  quando  il  nostro  Signore  creò  tntte  le  cose, 
tutte  le  stelle  furono  fatte  al  quinto  di,  cioè  a'  di  venti 
air  uscita  di  marzo.  E  per  ciò  dicono  molti  che  è  e- 
guale  il  di  con  la  notte,  e  per  questo  è  chiamata  luna 
prima  da  alcune  genti.  Ma  secondo  V  usanza  di  santa. 
Chiesa,  è  ella  appellata  prima  nove  di  alF  uscita  del 
mese  di  marzo,  cioè  a  dire,  quando  P  uomo  la  puote 
vedere,  eh'  ella  esce  di  quel  segno,  là  ov'  dia  era  col 


umnomooKoa.  i3g 

mAt^mmm/Bo  dhel  conto  ha  divisato  di  qua  a  dietra 
EtappìÉto  dbe  |^  Jumbi  dicono  dbc  lo  d^  comincia  a 
qtmlX!iX9i  quando  la  kma  appare^  cioè  quando  dia 
fifiinfia  a  viadflni.il  sole.  E  voi  avete  bene  udito  di- 
n^  che  dalPuna  aooessiooe  aU^  aHr%  ha  ventinove  dà 
e.  actle  ere  e  nenni  e  la  qnmta  parte  d^  uii^  ora.  E 
oi&  à.  il  diritto^  mise  ddla  kma.  E  tutto  sia  dw  li 
ooaIflMi  dr  santa  Quesa  dicano  db^  dia  ha  ventoUa 
Af€ marmi  e  per:risdiiarare  il  numero  dicono,  die 
Fimo  OMse ha  trenta  di  eV altro  venlinove.  E  di  dò 
nidinaDecsIi»  die  fi  dodid  mesi  ddla- luna  sonò  tre- 
esrtlir MMifMìntiagn ntrr n  di  E  eod  è  Fanno  dd^sole 
magpen  die  quello  della  luna  uodid  di  interi.  E  per 
fesplitmdid  dà  di  dnmienla  addiviene  lo  cembolÌH 
mo^,cioè addire  Tanno  die  hatredid  lunari  Bagìo* 
ne  come  intre  anni  va.  dirittamente  trentatre  «fi,  che 
sono  una  Juna^  tre  dà  pia.  E  dtresà  stanno  d^  uno  woh 
no  in  P  dtro,  tanto  die  compiono  sette  dmholiumi 
per  li  sette  dà  ddla  settimana.  E  tutto  dò  &nno  ìa 
dwjÌDtto  anni}  e  nove  mesi,  e  sedia  dà  e  mezzo,  secon- 
do ti  ArabL  Ma  secondo  U  contatori  di  santa  Chiesa, 
dhe.  vogliono  ammendare  tutti  dispensamenti,  sono  di-. 
taanioveanni,ed  uno  dì  che  è  olirà  ed  rimanente.  Ed 
\^  .aUora  toma  la  luna  d  suo  ^anmo  punto,  ond^dla  era 
BMMsa  prima,  e  ritoma  come  idnanzi.  Or  vedete  che 
.tutta  il  conto  deUa  luna  e  le  sue  ragioni  difiniscono 
t'Oompionp  il  suo  corso  in  diciannove  anni.  E  ciascu- 
no' anno  deUa  luna  è  minore  che  qudlo  del  sole  un- 
dBd  dL  Onde  gli  addiviene,  chela  ove  la  luna  è  Puoo 
anno  prima,  ella  sarà  T  anno  che  dee  venire  undici 
dì  pia  a  dietro,  a  ritroso  del  calendario  e  delP  anno. 


i^o  n«  rascno. 

E  di  questi  medeMmi  undici  dì  nasce  un  conto,  ch^  è 
apficllalo  la  patta,  per  trovare  la  ragione  della  hioa. 
Ragione  come  il  primo  anno  del  secolo^  die  le  piane- 
te  cominciaro  loro  corso  in  uno  medesimo  dà^  non 
ebbe  nullo  rimanente  delP  anno  della  luna  a  quello 
del  sole.  E  per  ciò  dicono  che  ^  primo  anno  de^  dician- 
nove detti  innanzi  le  patte  sono  nulla.  Ed  in  quell^an* 
no  è  la  luna  prima  a^  diciannove  di  alP  uscita  di  mar* 
zo,  sì  com'  ella  fu  al  comindamento,  e  tutto  quelFàiH> 
no  come  allora.  Al  secondo  anno^  ohe  H  rimanente  co- 
mincia da  prima,  sono  le  patte  undici,  ohe  tanto  ore* 
sce  la  luna,  là  ov^  elleno  fue  lo  primo  anno  prima.  Al 
secondo  avrà  undici  ÙL  Al  terso  sono  le  patte  ven» 
tidue.  Al  quarto  anno  montano  trentatre.  Ma  per  do 
ch^  egli  ha  in  una  dmbolismo  doò  in  uno  lunare,  tu 
ne  dei  cavare  li  trenta  dì^  per  dò  che  tutte  lune  di 
dmbolismo  hanno  trenta  dL  E  dd  ritenere  lo  rima- 
nente, doò  tre  dì,  che  sono  le  patte  del  quarto  anna  E 
così  dd  tu  inunantanente  sapere  le  lun^  che  tu  giun- 
gerai ogni  anno  undid.  E  quando  il  numero  monta 
sopra  trenta,  tu  ne  caverd  li  trenta  e  riterrd  lo  rìnuh 
nente.  E  dò  farai  iofino  alti  diciannove  anni,  die  le 
patte  sono  dicioito^  quando  sono  finiti  quelli  undid 
del  rimanente  è  uno  dì,  secondo  che  detto  è  dinan^ 
zi,  che  sono  appellati  li  salti  della  luna,  allora  tu  dd 
prendere  quel  dì,  e  li  undid  del  rimanente,  e  giunga 
re  sopra  a^  didotto,  e  son  trenta,  doò  una  luna  dm- 
holisma,  che  dee  esser  messa  udranno  didannovesi^ 
mo.  E  tu  non  hai  alcuno  rimanente^  però  <;he  le  patte 
son  nulle  come  dinand.  E  sappiate  che  le  patte  si  nm- 
tano  tuttavia  in  settembre,  ma  la  sua  sedia  è  died  <fi 


LOULO  SBOOUDO.  l4l 

all'uscita  di  mano.  Ed  ip  quel  di  che  la  luna  noo  era 
ancora  veduta,  santa  Chiesa  uoo  la  mette  in  conto,  sì 
come  avete  udita  E.  che  le  sue  giornate  erano  nulle,  si- 
gnifica che  quelk>anno  sono  le  patte  nulla.  Ma  lo  secon- 
do anno  che  la  luna  ebbe  a  quello  giorno  undici  j,'  e 
cosi  sarà  tuttavia  tanto^  quanto  la  luna  ha  d' etade  a 
quel  dì,  saranno  le  patte  a  quelP  anno.  E  sappiate  che 
il  primo  anno  del  secolo,  si  fu  il  primo  giorno  della 
luna.  La  luna  ebbe  il  primo  dì  d' aprile  dieci  dì,  ed 
in  maggio  undici,  e  io  giugno  dodici,  di  luglio  tredi-^ 
d,  d^Qgosto  quattordici,  di  settembre  cinque,  e  in  ot- 
tobre cinque,  e  in  novembre  sette,  e  io  decembre  set- 
te, e  io  gennaio  nove,  e  in  febbraio  dieci,  e  in  marzo 
nove  dL  Questi  conti  è  appellati  concorrenti,  a  cui 
noi  d  doviamo  attenere  tuttavia  lo  primo  anno,  quan- 
do le  patte  sono  nulle.  Bla  dal  primo  innanzi,  tu  dei  ag- 
giungere le  patte  di  queir  anno  al  concorrente  di  quei 
mese  che  tu  vorrai,  e  cotanto  avrà  la  luna  il  primo  dì 
di  quel  mese, salvo  che  se'l  numero  monta  più  di  tren- 
ta, tu  nel  caverai  e  riterrai  il  rimanente.  Ma  guardati 
nel  diciannovesimo  anno  del  salto  della  luna,  cioè  a  dire 
del  die  che  cresce  io  tutti  diciannove  anni,  secondo  cheM 
conto  dice  qui  sopra.  Che  di  ciò  addiviene  uno  errore 
del  mese  di  luglio:  che  quando  la  luna  dee  essere 
giudicata  di  trenta  di,  secondo  le  patte,  ed  ella  è  pri- 
ma. Cosi  ti  conviene  guardare  nello  ottavo  anno,  e 
nello  undecimo,  per  dò  che  la  ragione  delle  patte  vi 
laUano  in  due  lunai'i  per  cagione  del  cimbolismo.  E 
sappiate  che  la  pasqua  della  resurrezione  del  nostro 
signore  Gresù  Cristo  si  muta,  secondo  il  corso  della  lu- 
na. Ragione  come  egli  fu  vero  nello  tempo  passato 


l4'Ì  IL  TESORO. 

che  quando  il  popolo  di'  Israel  fa  menato  in  prigione 
,  in  Babilonia  quelli  furo  deliberati  un  di  di  piena  lu- 
na, cioè  a  dire  com*  ella  avea  quattordici  dì.  £  ciò 
fu  poi  che  M  sole  era  intrato  in  Ariete.  £  voi  avete 
ben^  udito  qua  a  dietro  perdhè  la  sedia  della  patta  è 
ciascuno  anno  dieci  di  alP  uscita  di  marzo,  e  cosi  la 
osservano  li  Giudei  ^  ch>  in  quel  dì  in  che  loro  deli- 
beramento  Tue,  là  ov^egli  tro^'aro  la  luna  quattordici, 
elli  celebraro  la  loro  pasqua,  in  memoria  della  loro 
deliberazione.  Ma  la  santa  Chiesa  fa  la  sua  pasqna  la 
prima  domenica  che  viene  dopo  la  luna  piena,  però 
che  Cristo  risuscitò  da  morte  in  quel  dL  £  sappiate 
che  la  vecchia  legge  guardava  lo  settimo  di  che  Dk>  si 
riposò,  quand^  egli  ebbe  fatto  il  dì,  il  mondo,  e  tutte 
le  altre  cose,  cioè  lo  sabbato.  Ma'  nella  nuova  legge 
guardiamo  noi  P  ottavo  di,  cioè  la  domenica,  per  rive- 
renza della  resurrezione  di  Cristo.  £  sappiate  che  ai 
quaranta  dì  dopo  la  sua  resurrezione  il  nostro  Signo- 
re montò  in  cielo  ^  e  però  celebriamo  noi  la  festa  del-* 
r  Ascensione.  £  da  indi  a  dieci  dì  venne  lo  Spirito 
Santo  sopra  li  discepoli,  perchè  noi  celebriamo  la  so^ 
ìennità  della  Pentecoste.  £  però  queste  e  molte  altre 
cose  puote  Puomo  sapere  per  ragione  della  luna  e  del 
sole.  £  però  è  buono  a  saperlo.  Ma  chi  vorrà  sapere 
come  gli  anni  corrono  nel  corso  delli  ventotto  anni 
del  sole,  prenda  gli  anni  del  nostro  Signore,  e  gingna- 
vi  nove  anni,  che  cotanti  n^  erano  già  andati,  quando 
nacque,  e  di  tutta  quella  somma,  cavi  tutti  li  ventotto 
che  vi  sono,  il  rimanente  sarà  il  suo  conto.  Cosi  chi 
vuol  sapere  che  anni  corrono  nel  mondo  delli  ventot- 
to anni  della  luna,  prenda  gli  anni  del  nostro  Signore 


LIBRO  SECOKDO.  l43 

ed  un  anno  più,  e  poi  ne  cavi  tutti  li  yen  tatto  ch^  e- 
gli  puote,  il  rimanente  è  quello  ch^egli  chiede. 

Capitolo  XLIX. 

I>€^iegiii,  e  delle  pianetei  e  di  due  tramontane,  che  stanno 
in  meicodi  e  settentrione. 

Ora  è  leggier  cosa  a  sapere  in  che  segno  rimane  Io 
sole.  £  poi  che  V  uomo  sa  ciò  e^  può  leggiermente  sa-< 
pere  oy'  è  la  luna,  e  che  ella  si  dilunga  ciascun  dì  dal 
sole  tredid  gradi,  poco  tì  falla.  DalPaltra  parte,  se  tu 
raddoppi  il  tempo  della  luna,  e  giungivi  cinque,  e  la 
somma  parti  in  cinque,  sappi  che  tante  volte  quanto 
tu  troverai,  tanti  segni  ha  corso  la  luna  di  quello,  ov^ 
ella  si  linovella,  e  tanto  quanto  va  dirittamente,  tan- 
to è  ella  già  dentro  a  quel  segnale  in  cui  lo  sole  ri- 
mane  quando  si  lieva  tuttavia  al  mattino,  cioè  alla 
prima  ora  del  di,  e  coricasi  col  sole  la  prima  ora 
della  notte.  Ragione  come  lo  sole  gira  tuttavia  da  o- 
rìente  in  occidente,  secondo  che  'l  firmamento  gira 
con  tutti  li  dodici  segnali,  e  con  tutte  le  altre  stelle,  e 
ciascuna  secondo  il  suo  corso.  Ma  il  sole  e  gli  altri 
pianeti  s^uiscono  tuttavia  il  cerchio  delli  dodici  se- 
gni :  per  ciò  conviene  egli  che  quando  il  sole  è  in 
Ariete  lo  sole  si  corichi  e  lievi  secondo  che  fa  Ariete. 
E  così  si  lieva  Aries  la  prima  ora  del  dì,  e  Tauro  la 
seconda,  e  Gemini  la  tei*za,  e  poi  tutti  V  uno  dopo 
r  altro  tanto  che  sono  tutti  lievati.  E  quando  il  segno 
sezzaio  è  levato  allora  si  corica  il  primo,  e  va  tutta 
notte,  d' ora  in  ora,  tanto  eh'  egli  ritorna  al  suo  le- 
vante. Ma  per  ciò  che  U  cerchio  del  sole  è  minore  che 


l44  n.  TBSOKO. 

quello  de^  segni,  li  oooTÌe&e  egli  fiacre  più  tosto  lo  suo 
corso,  tanto  che  passa  tuttavìa  innanzi  al  suo  segqa  E 
per  ciò  guarda  che  tanto  quanto  il  sole  ha  passato  il 
suo  corso,  o  vero  avanzato  dentro  al  suo  segnale,  al- 
trettanto lieva  quello  segnale  innanzi  lo  sole,  cioè  a  di- 
re innanzi  alla  prima  ora  del  gicHtio.  Ragione  come 
se  ^1  sole  è  ora  entrato  nel  capo  d^Àriete,  egli  comincia 
a  levdrenel  còminciamento  della  prima  ora.  Bla  quando 
egli  è  corso  infìno  al  miluogo  d'Ariete,  allora  è  la  me- 
tade  d' Ariete  già  levata  quando  il  sole  si  leva.  E  co- 
sì dico  io  in  ver  la  fine,  e  di  tutti  gli  altri  ugnali.  Ora 
avete  udito  a  che  ora  del  dì  e  della  notte  si  leva 
ciascuno  segnale.  Ora  è  buono  a  sapere  diì  è  lo  si- 
gnore di  ciascuna  ora.  In  somma  sappiale,  che  la  pri- 
ma ora  di  ciascuno  dì  è  sotto  quella  pianeta  per  cui 
quel  di  è  nominato.  Ragione  come  la  prima  ora  del 
sabbato  è  sotto  Saturno  e  quetta  di  domenica  è  del 
Sole,  e  quella  di  lunedì  è  della  Luna,  e  così  sono  gli  al- 
tri. Onde  conviene,  che  se  la  prima  ora  è  di  Saturno, 
che  la  seconda  sia  di  Inppiter,  e  la  terza  di  Mars,  e  la 
quarta  del  Sole,  e  la  quinta  di  Yenus,  e  la  sesta  di 
Mercurius,  e  la  settima  deUa  Luna.  Poi  comincia  an- 
che da  capo,  che  1*  ottava  è  di  quel  'medesimo  che  1 
primo,  e  la  nona  ha  quello  della  seconda.  E  così*  va 
per  ordine  tutti  i  tempi  e  giorni  e  notti,  secondo 
che  1  firmamento  gira  tuttavia  senza  finare  da  orien- 
te in  occidente,  sotto  li  due  occhi,  li  quali  sono  due 
stelle,  che  V  una  è  in  mezzodì,  e  V  altra  in  setten- 
trione. E  quelle  sì  non  mutano  niente,  se  non  oo- 
me  uno  chiovo  d'una  ruota.  Onde  per  ciò  navicano 
i  marinai  al  s^gno  di  quelle  stelle,  le  quaU  appellano 


LIBHO  SECONDO.  l45 

tramontana  analmente  le  genti;  e  quelli  d^  Europa  e 
dì  Africa  navicano  a  queUa  tramontana  di  settentrio- 
ne, e  l'altra  gente  di  verso  mezzodì  liavicano  a  quel- 
la tramontana  di  ver  mezzodì.  E  che  ciò  sia  la  verità, 
prendete  una  pietra  dì  calamitta,  voi  troverete  disel- 
la ha  due  fìiccìe,  V  una  che  giace  verso  Puna  tramon- 
tana, e  r  altra  verso  V  altrd;  e  però  sarebbero  li  ma- 
rinai befl&ti,  se  ellino  non  ne  prendessero  guardia.  E 
però  che  queste  due  stelle  non  si  mutano,  avviene  che 
le  altre  stelle  che  sono  nel  firmamento  corrono  per  li 
pio  pìccoli  cerchi,  e  le  altre  per  li  maggiori,  secondo 
che  ^e  sono  più  appresso,'  o  più  lungi  a  quelle  tra- 
montane. E  sappiate  che  a  queste  due  tramontane  vi 
si  apprende  la  punta  dell' aco,  ver  quella  tramontana 
a  coi  quella  faccia  giace. 

Capitolo  L. 

Della  natura  che  cosa  è,  e  coni''eIla  adopera  nelle 
cose  dtl  mondo. 

Per  queste  ragioni  che  '1  conto  divisa  qua  dinanzi 
e  più  indietro,  potete  voi  intendere  come  il  firma- 
mento gira  tuttavia  il  mondo,  e  come  li  sette  pianeti 
corrono  per  li  dodici  segni.  Ond'  elli  hanno  sì  grande 
potestade  sopra  alle  cose  terrene,  che  conviene  ch'el- 
le vadano  e  vegnano  secondo  lo  loro  corso,  che  al- 
triménti non  avrebbero  elle  nulla  forza  di  nascere,  ne 
di  finire,  ne  d' altre  cose.  E  al  vero  dire,  se  '1  firma- 
mento non  volgesse  d'intorno  alla  terra,  si  come  '1  fa, 
e'  non  è  nulla  creatura  al  mondo  che  si  potesse  mo- 
vere per  nulla  maniera.  E  ancora  più.  che  se'l  firma- 

Laiini  Fol.  l.  <j 


1^6  IL  TESORO. 

mento  non  si  volgesise,  e  ritenesse  on  punto  che  non 
andasse,  conTerrebbe  cbe  tutte  le  cose  si  dìs&oessero, 
Però  noi  doTcmo  amare  e  temere  il  signore  Gtesù 
Cristo  eh*  è  Signore  di  tntli,  e  senza  cai  nnllo  bene, 
né  nulla  podestate  non  pnote  essere.  Egli  stabili  na- 
tura di  sotto,  à  che  ordina  tutte  cose  dal  cielo  in  gin- 
so  secondo  k  Tolontade  del  soprano  padre.  Onde  A- 
rislolìle  disse,  che  natura  è  qoeUa  virlù  per  la  quale 
tutte  cose  si  mutano  e  si  riposano  per  loro  medesi- 
me. Ragione  come  la  pietra  si  posa  tuttavia  per  sé  me- 
desima, e  il  fuoco  va  tuttavia  in  su  per  sé  medesimo. 
Ma  chi  rinchiude  lo  fìioco  che  non  possa  montare,  o 
dn  gitta  la  pietra  in  alto,  quello  è  per  forza  e  per  al* 
trui,  e  non  per  se  medesimo,  dunque  non  è  secondo 
natura.  E  sopra  ciò  disse  il  filoso^  che  V  opere  del- 
la natura  sono  in  sei  maniere,  ciò  sono  :  generazio- 
ne, corrozione,  accrescimento,  diminuzione,  altera- 
zione e  mutamento  d^uno  luogo  in  P  altro.  Ragione 
come  generazione  è  quella  opera  di  natura  per  cui 
tutte  cose  sono  ingenerate,  che  ella  fa  d^uno  uovo 
uno  uccello,  che  non  lo  ^ebbero  tutte  le  genti  del 
mondo,  se  per  forza  di  natura  non  si  facesse.  E  così 
dico  degli  uomini,  e  dell^  altre  cose.  Corrozione  è  queir- 
la  opera  di  natura,  per  cui  tutte  cose  sono  menate  a 
defìnìmento.  Che  la  nnurte  degli  uomini  e  d^li  altri 
animali  non  avviene,  se  non  perchè  li  suoi  umori  che 
tengono  in  vita  sono  corrotti  in  tal  maniera,  eh*  elli 
non  hanno  più  niente  di  potenza.  Ed  allora  conviene 
che  quella  cosa  vegna  alla  sua  fine.  Ma  quando  V  uo- 
mo V  uccide  a  forza  quello  don  è  mutamento  di  na- 
tura. Accrescimento  è  quella  opera  di  natura,  che  fa 


LIBRO  SECOIIDO.  l^J 

crescere  il  piccolo  faDtino,  o  altra  cosa  dì  sua  gene- 
razione, infioo  a  tanto  difetta  dee  crescere.  ChèJLat- 
te  cose  sono  per  lei  nate  dentro  dal  suo  termine,  sì 
che  non  possono  più  crescere.  Diminuzione  è  quelFo- 
pera  di, natura,  che  fa  menomare  Tuomo,  o  altra 
cosa,  di  quello  ch^egli  è.  Che  quando  Pnomo  è  cresciu- 
to infino  alla  sua  buona  etade,  e  eh'  e^  è  compiuto 
lo  -corpo  come  dee,  allora  comincia  a  menomare  la 
Ibrza  sua,  infìno  alla  sua  fine.  Alterazione  è  quella  o- 
pera  di  natura,  che  muta  un  colore  in  altra,  ed  una 
cosa  in  altra,  si  come  noi  vediamo  una  figura,  o  altra 
cosa,  che  nascono  di  colore  verde,  e  natura  li  muta,  e 
&lli  di  colore  nero,  o  rosso  o  d' altro  colore,  st  come 
è  li  firuttL  Ed  un'  altra  figura  muta  simiglianiemente, 
diel  bruto  che  xMfece  del  cavallo  sì  fa  divenire  fer- 
£dla,  e  dalli  ale,  e  va  volando.  Mutamento  è  qnell'  o- 
pera  di  natura  che  fa  mutare  lo  firmamento,,  e  le  std* 
le,  e  li  venti,  e  T  aequa,  e  molte  «lire  cose  d' un  luo- 
go in  un  altro  per  loro  medesime.  Queste  sono  le  ope- 
re di  natura.  Tutto  che  1  conto  divisi  queste  poche 
cose  per  esempio,  ma  egli  basta  bene  al  buono  inten- 
ditore per  tutte  cose  che  per  natura  sono.  E  però  è 
cosa  provata  a  sapere,  che  natura  e  che  no.  Qui  si  ta- 
ce il  conto  di  parlare  dello  firmamento  e  delle  stelle  e 
ddle  cose  di  suso,  e  ritorna  a  divisare  la  natura  delle 
cose  che  sono  in  terra.  Ma  egli  diviserà  prima  le  parti 
ed  abitazioni  della  terra. 


i4S  MnroTAzioin 

/NNOTAZIONI  AL  LIBRO  SECONDO. 


Gap.  n,  pag.  80.  Disopra  lo  verceri  d'  EgiUo» 

Che  significa  verceri?  L'edizione  del  1474  <^  <''^- 
cìerì^  nn  è  tatt'  uno  quanto  aUa  scorrezione  eridente 
della  parola. 

Cap.  y,  pag.  83.  E  condusserli  a  tal  fame,  ec* 

La  edizione  i533  ha  condusselL  Ho  corretto  la 
sgrammiUcaturà.  Non  cessa  però  che  il  lettore,  con- 
tro r  ordine  naturale  delle  parale^  debba  riferirsi  ai 
Giudei  del  periodo  antecedente  quando  Toglia  tro- 
Tai'e  la  relazione  del  costrutto.  ' 

Cap.  IX,  pag.  86.  Quando  egli  gli  disse,  seguisci" 
mi,  ec. 

Le  due  edizioni  i474  ^  i533  hanno  P  erroneo  5e- 
guissimi:  ho  corretto  col  seguiscimi  antiquato,  e  di 
cui  troveremo  esempio  nel  singolare  sul  principio  del 
cap.  XXXn  di  questo  medesimo  libro. 

Cap.  X,  pag.  88.  Zo  padre  di  Busil. 

Bosu  con  evidente  errore  ha  la  edizione  i533.  La 
1474  BuiiL 

Cap.  XXm,  pag.  93.  Ciascuno  di  loro  scrisse 
per  uno  inspiramento, 

L^  edizioni  antiche  danno  concordemente  isperi" 
mento  ^  ma  che  gli  evangelisti  scrivessero  per  isperì- 
mento  non  parmi  die  possa  stare.  Inspiramento  non 


▲L  UBEO  fiBGQWDO.  l49 

è  registnito  odia  Crusca;  tuttavolta  il  r^islra  P Al- 
berti oon  UD  efiefnjModel  toscano  Gorì.  EkCnnca 
finn  et  dà  inspirare,  inspirato,  inspiratore  e  inspir- 
nmone.  Sarebbe  molto  of^portnno  Pesempìo  dd  Te-* 
toro  se  la  lesioDe  fosse  aeoertala  da  qualche  codice. 
Dnro  però  confessare  che  la  seconda  parte  del  pe* 
lio^  ocm  mi  lascia  punto  tranquilk>  cipca  la  muta- 


Gap.  XXni)  pag.  93.  Tutto  Steno  questi  comcak* 
^mm^mtiy ec  ^,.  0 

I/edisdone  1535,  non  meno  che  Ja  iSa8  hamip 
MCì^  fao  oorr^to^  avendo  per  me  farèdiaone  più  an- 
tìn.  Tutto  per  tutto  che  ncna  è  punto  nuovo  nelle 
fcnttore  de'dasfiidu  ^m,-:. 

€^  XXIY,  iMM^-  OfifàUresì  temSk  tutta 
smavitau  T" 

CSonoordi  le  tre  edizioni  hanno  tenne  tutta  la  sita 
vita$  mi  parve  manifesta  la  trasptyxione,  e  corressi. 

Gap.  XXY,  pag.  96.  EJbcevahU  sostenere  diver^ 
si  tormenti,  ec. 

Cosi  appunto  nelle  due  edizioni  1474?  '^^^3  ^^^ 

nta  quella  del  i533,  che  [eggejbcevali.  Noto  queste 

VMferenze  minute  perchè  servano  di  misura  a  chi 

mancasse  o  di  veglia  o  di  tempo  pei  confrónti  neces-^ 

saru  a  giudicare  del  relativo  merito  delle  tre  edizioni. 

Cap.  XXV,  pag.  97*.  Che  egli  abbreviò  la  legge 
del  codico,  e  dello  digesto,  ec. 

La  edizione  1 553  ha  codigo.  Codico  invece  ha  quel-. 
la  del  1474 •  ^  scegli  è  vero  che  questa  correggesse  il 
codigo,  guasto  il.  digesto  mutandolo  in  digesto. 

Cap.  XS^Yn^  ps^.  99.  £  qucmdo  V  apostolico 


1 5o  AHlffOTAKIOin; 

ifide  che  non  potestà  avere  contra  a  loro  lunga  du- 
rata^ ec. 

Concordi  le  tre  edizioni  hanno  allora  in  luogo  di 
a  loro.  Farmi  di  non  ayer  errato  correggendo. 

Gap.  XX VII,  pag.  99.  /n  quella  maniera  ch'elli 
dwisero. 

Fui  per  cangiare  il  dwisero  in  divisaroy  ma  non 
trovando  edizione  che  mi  confortasse,  e  accorgendomi 
ohe  il  senso  ci  stava,  me  ne  astenni. 

Gap.  XXVni,  pag.  101.  Che  'l  conto  ha  divisato 
qui  dinanzi^  ec 

Gon  errore  manifesto  la  edizione  citata  legge  quel 
dinanzi.  Ho  corretto  secondo  T  altra  del  i474* 

Gap.  XXYIU,  pag.  102.  /n  tale  maniera  come  io 
ifi  dicoy  ec. 

Qui  le  tre  edizioni  incominciano  concordemente 
un  altro  capitolo  che  ha  per  titolo:  di  dò  medesi- 
mo. Ho  stimato  bene  di  torre  questa  inutile  divisio- 
ne; tanto  più  che  in  nessuna  delP  edizioni  non  ha  un 
numero  proprio.  Avremo  altri  esempi  di  simili  biz- 
zarrie. 

Gap.  XXIX,  pag.  10^.  ji  sette  principi  di  Lor- 
magna, 

Ghi  volesse  starsene  colP  edizione  del  i474  ^^ 
vrebbe  leggere  d^  Alamagna^  che  m^lio  risponde- 
rebbe agli  atamani  del  titolo.  ' 

Gap.  XXIX,  pag.  io3.  Figliuoli  mademaU  e  ba- 
stardi che  rimanesser  dopo  luiy  ec. 

Rimanesse  hanno  concordi  le  tre  edizioni.  La  Cru- 
sca poi,  riportando  questo  passo  alla  voce  moderna-- 
le,  corregge  la  s^mmaticatura.  Uno  dei  rarissimi 


1^ 

▲L  !UMO  SBCOHDO.  l5l 

fMttfiì^^tn  1^  óymoBk  speasissime  del  Ti^jorv  regi- 
strate nel  Tocabolario,  che  giovino  ad  emendarne  la 


.  Gap.  KUX,  pag.  io4*  Compilò  egli- questo  libro 
per  €Bnore  del  suo  amicoy  ec  . 
-  Nimico  hanno  F  antiduMima  rtamjpa  del  i474  ^  ^ 
dof  sdmie  postenQjri,  ripugnando,  oltre»,  che  ^id  buon 
fou^  a  ciò  die  à  lej^nd  proemio.  Qoaldie  sofistipo, 
senza  quella  parc^  del  proemio,  pob«bbe  credere  che 
qù.  mimco  yalesse  stranierQ;  oppure  che  intendesse 
eoa  dò  accennare  al  nobile  modo  con  cui  irenficavasi 
d^.ii^ii  nemici  oopcktadim  usando  V annro  tempo 
ddOC  esilia  a  comporre  opera  che  ne  U  ammaestrasse. 
11%  r^prto,  CIO  sarebbe  sofisticare. 

Gap.  XXX,  p6(g^^|o4-  Sono  conformati  di, queste 
qaaaUrp  eon^lesshhL 
*    Cm^rmati  d^  accordo  le  tre  edizioni. 

Gap.  XXX,  pag.  io5.  i?  gli  è  così  che  assenU>li 
in  uno  corpo ^  ea 

Assemblare  non  ha  esempio  nel  dizionario  della 
Crusca;  bensì  T  Alberti  registra  assemblanut^  ccd  di- 
stintivo di  i'oce  antica  (Y.  A.)  e  colla  dichiarazione 
assen^raglia. 

Gap.  XXX,  pag.  io5.  O  pari  congiungimento  di 
maschio  e  dijèmina. 

Qui  manca  alcuna  cosa,  ma  P  edizioni  ccmcordano 
sdaguratamente  in  tale  difetto. 

Gap.  XXXI,  pag.  107.  Per  le  estremitadi  delli 
elementi  .  .  .  che  abbondan  in  loro,  ec. 

Le  tre  edizioni,  sgrammaticate  ad  un  modo,  hanno 
abbonda. 


V 


I  52  .  ANVOTAZIONI 


Gap.  XXXn,  pag.  108.  Ciascuna  seguUce  la  na- 
tura del  suo  elemento. 

Le  due  edizioni  posteriori  seguisse^  la  più  anti-* 
ca  seguisele.  Vedi  qui  addietro  ]A  nota  al  cstp.  IX, 
pag.  86. 

Gap.  XXXII,  pag.  108.  Che  tutto  che  in  ciascu- 
na cosa^  ec. 

Erroneamente  la  edizione  citata  ha  che  tutto  cKè^ 
corressi  colla  scorta  della  edizione  i474* 

Gap.  XXXn,  pag.  109.  Cioè  Jèhbre  sinoche,  ec. 

Sinocoy  aggiunto  di  febbre,  non  è  registrato  dalla 
Crusca,  sì  dall^  Alberti,  come:  aggiunto  di  alcune 
Jehhri  continue^  nelle  quali  le  Junzioni  del  sistema 
nervoso  o  di  qualche  parte  di  esso  sieno  notabibnenr 
te  alterate,  Gon  questo  esempio  del  Tesoro  si  mo- 
strerebbe italiana  e  di  antica  data  una  Toce,  che  PAl-^ 
berti  dà  come  usata  da  poco  e  senza  recarne  esempio 
nessuno. 

Gap.  XXXn,  pag.  109.  Fa  Vuomo  cantante^  ec. 

Aveva  cangiato  il  cantante  in  aitante^  ma  trovan-* 
do  cantante  in  tutte  tre  V  edizioni  mi  astenni  dalla 
correzione;  tanto  più  che  bizzarrie  di  ben  altro  genere 
s**  hanno  a  tranghiottire  i  lettori  di  questo  Tesoro, 

Gap.  XXXV,  pag.  112,  Quando  Vuomo Ja  in  una 
sua  magione  un  ponte^  ec. 

Non  intendo  che  significhi  questo  ponte.  L^edizio> 
ne  i^y^hdi  o  uno  ponte,  variante  che  noto  perdiè 
serve  a  meglio  far  sentire  la  scorrezione  del  passo. 

Gap.  XXXV,  pag.  11 3.  L^  acqua  è  il  più  grave 
elemento  secondo  la  terra, 

E  da  notare ,  parmi ,  questo  avverbio  secondo. 


Eh  umtomcomò.  i53 

0QRÌi[KNEidc9tia  Mml  ooo  ^odlo  del 
319)  citato  dalla  CSrusca:  (^umdo 
1  QuMi tmonM  numd^e  stamdo 


Cm^  XXXYI,  [m^.  116.  Ccfummut  per  d&aiU^ 
mento  é^ aequa  (Aevenlo  vi  ti  muova,  ec. 
-  L'adnme'  i533,  copiando  qodla  àà  1^749  In: 
eomfdenecheperdibaUimenù}fec,Bio9opgi^^ 
ito  cfttf  acrvrabbondaiite; 

CSip.  XXX.TII9  pi^  119.  EJa  Umore  e  haUena* 
f^.eiBm 

Qoi  d  dev'essere  socnreiioii^  ma  non  avendo  aio-" 
lódbano  d'antorità  lascio  stare.  Potcdibe  darsi  die 
Paiidoe  stesse  neUa  mmla,  qoantanqoe  la  finse  mi 
rinsdrAbe  nn  po'  strana.    ... 

Oep.  XXX'^nH,  pag.  lao.  Ed  egli  è  natura  di 
ÈMe  ìè  case,  ea 

Correggo,  appoggiato  alla  edizkme  1474?  ^^  vwta 
lenone  1 555,  che  reca  :  E  de  la  natura  di  tutte  le 
case,  ec 

Gap.  XXXYH,  pag.  lao.  E  sappiate  che  nelPae^ 
re  eonoy  ec. 

La  edizione  i474  1^  oria. 

Gap.  XXXYn,  pag.  laò.  Che  'l  preveggono  di 
diedi  notte. 

Così  la  edizione  1747?  errata  quella  del  i555,  che 
]e^  proveggono. 

Gap.  XL9  pag.  125.  Dodici  ponse,  ovvero  dita, 

Là^  ovvero  dita  non  è  nell^  edizione  1474?  ®  ^^  ^^^ 
mincìa  a  leggere  soltanto  in  qudia  del  i528,  copiata 
dalPahra  i535. 

9* 


1 54  ARHOTAUOHI 

Gap.  XL,  pag.  ia5.  £Ui  separoro  la  grande^' 
%a^  ec. 

Spropositatamente  V  edizione  i474  legge  separo^ 
e  noto  questo  errare  perchè  sì  vegga  che  se  queil^an-  ■ 
tica  edizione  giova  talvolta  a  correggere  le  posteriori 
i528,  1555,  viene  essa  a  vicenda  da  queste  ourretta. 
E  potrei  citare  più  luoghi,  ma  basti  questo  per  sag- 
gio di  quanto  ho  aflfermato  nel  discorso  proemiale. 

Gap.  XL,  pag.  i  a6.  La  formica  non  anserebbe  po^ 
tuta  cmdare  una^  ec. 

Concordi  le  tre  edizioni  l^gono  dare  in  cambio  di 
andare:  ho  creduto  poter  correggere  senza  timore, 
confortato  anche  dall^  andasse  che  si  trova  poche  ri- 
ghe addietro. 

Gap.  XLI,  pag.  137.  E  lì  ricomincia  la  sua 


iwiy  ec. 


L'edizione  i533  lascerebbe  credere  che  dovesse 
leggersi  elli  per  egU^  ma  il  trovare  in  quella  del  i474 
eli  con  una  sola  Z  mi  ha  indotto  alla  correzione  qui 
sopra  notata,  che  rischiara  il  senso  non  poco,  e  rende 
più  naturale  V  andamento  del  discorso. 

Gap.  XLn,  pag.  ia8.  Del  corso  del  sole  per  li 
dodici  segniy  ec. 

Spropositatamente  Fedizione  1 53  5  ha  del  suo  cor-- 
so^  ho  tolto  r indebito  suo^  come  nell'edizione  del. 
1474. 

Gap.  XLin,  pag.  i3o,  i3i.  Ragione  come  in 
quelle  parti^  ec. 

Goncordi  tutte  tre  Tedizioni  danno  :  in  quelle  par^^ 
ti,  ec,  e  ficcano  il  ragione  come  dopo  ceddo  grande,. 
per  guisa  che  non  se  ne  cava  senso  alcuno.  Ho  sti- 


AI.  LOBO  SBCOHDO.  l55 

naàù  opportn»  di  tfaspanre  il  n^MNié  come  a  ^le- 
sto moda 

Ca^  XLin^pag.  i^i.  j^noora  di  dò  medesimo, 

non  so  che  signifinhi  funesta  ìotitolaiìoiie,  sema  die 
il  capitolo  sia  munerata  Lascio  UiUavia  stare  coti  per^ 
die  al  lettore  noo  tornerà  inopportuno  questo  riposo, 
attesa  la  hinghena  dd  capitolo.  Le  tre  edizioni  sono 
copcocdi  in  questa  partizione. 

Gap.  XLIII,pag.  1 55.  Djffhlta  di  eli  e  di  calore,  ec. 

DiffhliaiOy  con  errore  evidente,  ha  P  edizione  dia- 
la. Corrugo  con  quelk  del  i474- 

Cap.  XLY,  pag.  i54-  Che  'l  sole  è  più  grande 
che  la  terra,  ec. 

Questo  che  la  terra  è  ripetuto  in  tutte  le  tre  edi- 
zwiii  dopo  le  parole  e  tre  ifentesùni  ;  ho  stimato  ra- 
gionevole di  torlo  via. 

Gap.  XLTD,  pag.  i58.  Treceniocinquantaguattro 
dhyec 

Dopo  queste  parole,  con  le  quali  sembrerebbe  con- 
diiuso  il  capitolo,  trovasi  in  tutte  tre  T  edizioni  un 
ragione  come  che  non  si  sa  a  che  s^ attacchi^  il  levai. 
Ma  giovava  avvertirlo,  perchè  esso  è  forse  indizio  d'u- 
na qualche  lacuna  che  vi  ha  nel  testo. 

Gap.  XLym,  pag.  i58.  ^41  cominciamento  del 
secolo,  ec. 

Gosì  nella  stampa  i474-  ^^  citata  ha  per  errore 
il  cominciamento. 

Gap.  XLYni,  pag.  it^i.  Cavi  tutti  li  ventotto  che 
vi  sono,  ec. 

Go«  ndla  stampa  i474  9  ^^  ^^^  posteriori,  con  e- 
vidente  scorrezione,  hanno  vinsono. 


1 56  AVioTAzioin 

Gap.  L,  p.  147.  Crescere  il  piccolo  Jantìno^ec 

L^edizionei535,non  che  Tantica  1474?  daimo  pie- 
colino  ;  ma  b  Crusca,  che  reca  questo  passo  alb  Toce 
JhntinOy  cambia  in  piccolo  il  poco  grazioso  piccolino 
togliendo  il  mal  suono. 

Gap.  L,  pag.  147.  Cosa  provata  a  sapere,  ec. 

Così  la  edizione  1474?  errata  la  lezione  1 535,  pri- 


i5j 

LIBRO    TERZO. 


Capitolo  I. 

Qui  ccMninc»  il  mappamuiidì. 


L 


la  terra  è  cinta  e  intorniala  dal  mare,  secondo 
die  1  conto  ha  divisato  qua  a  dietro,  là  ove  parla  del- 
li  elementi.  E  sappiate  che  questo  è  il  grande  mare,  il 
quale  è  chiamato  mare  Oceano,  del  quale  sono  istrat- 
ti  tutti  gli  altri  mari,  che  sono  sopra  la  terra  in  diver- 
se parti;  e  sono  tulli  quasi  come  bracci  di  quello.  On- 
de quel  che  viene  per  Ispagna  e  per  Italia  e  per  Gre- 
cia è  maggiore  degli  altri,  e  per  ciò  è  egli  detto  mare 
maggiore  3  ed  anche  chiamato  Mediterraneo,  per  ciò 
che  surge  per  lo  mezzo  della  terra,  infìn  in  verso  O- 
riente,  e  divide  le  tre  parti  della  terra.  Ragione  come 
tutta  la  terra  è  divisa  in  tre  parti,  ciò  sono,  Asia,  A~ 
frica  ed  Europa.  Ma  ciò  non  è  diviso  a  diritto,  per 
ciò  che  non  sono  eguali,  anzi  è  Funa  delle  parti  mag- 
giore deir  altra.  Che  Asia  tiene  bene  la  metade  di  tut- 
la  la  terra,  ch'^è  infino  dal  luogo  ove  il  fiume  del  Nilo 
cade  in  mare  in  Alessandria,  infino  al  luogo  ove  il 
fiume  Cairo  cade  in  mare,  al  braccio  di  santo  Gior- 
gio  verso  oriente,  tutto  infino  al  mare  Oceano  e  al 
paradiso  terreno.  Le  altre  due  parti  sono  il  rimanen- 


l58  ILTESOBO. 

te  della  terra  verso  ocòideote,  per  tutto,  infino  al  ma- 
re Oceano.  Ma  queste  due  parti  sono  divise' dal  mare 
maggiore,  eh'  è  oltre  ambedue.  E  quella  parte  eh'  è 
verso  meixoòì  infino  in  occidente  si  è  Africa,  e  P  al- 
tra parte  eh'  è  verso  tramontana,  cioè  verso  setten- 
trione infino  ocddenle^  si  è  Europa.  E  per  meglio  di- 
mostrare li  paesi  e  le  genti  del  mondo,  tratterà  il  con- 
to brevemente  di  ciascuna  parte  per  sé.  E  primiera- 
mente dirà  d' Asia,  che  è  la  prima  e  la  maggiore  par- 
te. E  comincerà  da  quello  capo,  eh' è  inverso  mezzodì, 
là  onde  ella  si  parte  dall'Africa  al  fiume  del  Nilo, 
e  al  fiume  del  Tlgro  eh'  è  in  Egitta 

^    Càpitoix)  n. 
Della  parte  d*  Oriente,  ch^è  appellata  Aua. 

In  Egitto  si  è  la  città  di  Babilonia,  il  C»ro  e  Ales- 
sandria, e  molte  altre  cittadi  e  terre.  E  sappiate  che 
Egitto  si  è  di  contro  al  mezzodì  e  stendesi  verso  levan- 
te, dh'è  diritto  lui,  e  Etiopia.  E  sopra  di  lui  corre  il 
fiume  del  Nilo,  cioè  Geon,  che  comincia  disotto  al  ma- 
re Oceano,  e  fa  qui  immantinente  uno  lago,  eh' è  ap- 
pellato Nilides,  ed  è  in  tutte  cose  simile  al  fiume  del 
Nilo.  E  dall'altra  parte  quand'ali  ha  emalaritane  gran- 
di pioggie  e  grande  neve,  che  caggiono  in  questo  Itiogo, 
allora  cresce  il  Nilo,  e  bagna  la  terra  d'Egitto,  e  però 
dicono  molti  che  quel  fiume  esce  di  quello  laga  Ma 
l'acque  del  lago  si  entrano  sotto  terra,  e  corrono  chiu- 
se, e  per  fori  privati  dentro  dalla  terra.^  tanto  eh'  elle 
apparooo  in  Osarea,  e  là  si  dimostrano  tutte  sìmi- 
gHanti  al  primo  lago,  e  poi  entrano  quelle  acque  anche 


LIBRO  TERZO.  l5g 

da  capo  sotto  terra,  e  sì  ne  vanno  per  lontane  terre. 
Ch^  elle  uoQ  estono  fuori,  infino  alle  terre  d^  Etiopia, 
e  là  apparisoooo,  e  &nno  un  fiume,  che  ha  nome  Ti- 
grìdes,  di  cui  il  conto  dice  die  divide  Afìica  da  Asia,. 
e  alla  fine  si  parte  egli  in  sette  parti,  e  vassene  tutt^ol- 
tre  periDoezzocU  nel  mare  d'Efpitto,  e  esce  un  fiume 
di  loro  die  bagna  tutta  la  terra  d'Egitto^  che  non  Ta< 
altro  fiume^  né  non  vi  piove.  Ragione  come  quando 
il  sole  entra  nel  segno  di  canoer,  ch^è  a'  died  di  alPu-' 
scita  di  giugno,  quel  fiume  comincia  a  crescere,  e  du- 
ra infino  air  entrata  di  leone,  e  quando  il  sole  è  den- 
tro a  leone,  ^H  ha  sì  grande  forza,  tre,  di  anzi  calendi 
d'agosto  infino  a  undid  di  all'entrata,  eh'  egli  esce 
oltre  lo  letto  del  suo  corso  qua  e  la,  tanto  ch'egli  ba- 
gna tutta  la  terra^  e  così  fk  tanto  quanto  il  sole  dimo- 
ra in  leone,  e  quando  egli  entra  in  virgine^  egli  comin- 
cia a  scemare  dascuno  giorno  più,  tanto  che  '1  sole 
entra  in  libra,  e  che  '1  dì  e  la  notte  sono  eguali,  doè 
a  mezzo  settembre,  e  allora  toma  il  fiume  dentro  alle 
sue  ripe,  e  riachiudesi  nel  suo  letto.  E  però  dicono 
qudli  d'Egitto,  che  quando  il  Nilo  cresce  tanto  trop- 
po che  nd  suo  accresdmento  si  dismisura  oltre  did- 
otto piedi,  che  li  loro,  campi  non  rendono  assai  frutto, 
per  l' umidore  dell'acque,  che  vi  giace  entro  troppo 
lungamente  3  e  quando  cresce  meno  di  quattordici  pie- 
di li  loro  campi  non  si  possono  bagnare  tutti  siccome 
bisogna.  £  perciò  vi  viene  la  fame  e  'l  caro  in  quella 
terra,  e  la  difialta  delle  biade.  Ma  s'egli  è  quindid  pie- 
di, o  da  iodi  intomo,  allora  è  ella  doviziosa  drogai  be- 
ne. Questo  fiume  d' Egitto  credono  che  'I  suo  nasci- 
mento non  può  essere  trovalo,  eh'  egli  sia  oltre  quello 


i6o  n<  TBiomo. 

luogo  ove  ^  fintile  del  Tigro  si  parte  in  sette  parti.  E 
là  ove  1  fiume  dd  Nilo  comincia  sua  via  è  il  paese  di 
Arabia,  die  si  appartiene  al  mare  rosso.  E  sappiate  die 
quel  mare  è  rosso  non  per  natura,  ma  per  accidente, 
doè,  per  la  terra  e  per  le  pietre  d^onde  corre,  die  so- 
no rosse.  E  questo  è  uno  golfo  del  mare  Oceano,  ch^è 
divisato  in  due  braccia,  Tuno  che  viene  di  verso  Per- 
sia, e  r  altro  che  viene  di  verso  Arabia.  E  sappiate  che 
nella  riviera  del  mare  rosso  è  una  fontana  di  cotale 
natura,  che  li  montoni  che  ne  beono  incontanente  co- 
minciano a  mutare  la  lana  di  colore,  iosino  a  dentro 
alla  pelle.  E  dò  addiviene  delti  tugioni  e  dura  insino 
ch^  elli  li  tugia  ^  e  quando  è  tugiate,  si  va  via  quel 
colore.  In  quel  paese  cresce  V  incenso  e  la  mirra  e  la 
cannella.  E  qui  nasce  uno  uccello,  che  ha  nome  Peni- 
ce,  che  non  è  più  che  uno  in  tutto  M  mondo,  secondo 
che  noi  troveremo  qua  innanzi  nel  libro  degli  uccelli. 
E  ancora  io  quel  luogo  medesimo  è  Montecasse,  là  ove 
già  fu  la  (nu  anziana  città  del  mondo,  siccome  quel- 
la che  fu  (atta  dinanzi  al  diluvio.  Ancora  v^è  Su- 
rìa  e  Giudea,  doè  una  grande  provincia,  e  là  nasce 
lo  balsamo.  E  si  v^  è  la  città  di  lerusalem,  e  quelb 
di  Betleem,  il  fiume  Giordano,  eh'  è  cosi  appellato 
per  due  fontane  ond'egli  esce,  che  Puna  ha  nome 
Geor  e  P  altra  Dan,  che  si  aggiungono  insieme  e  fan- 
no quel  fiume  ;  e  nascono  sotto  il  monte  detto  Liba- 
no. E  divide  il  paese  di  Giudea  d'Arabia,  e  alla  fine 
cade  nel  mare  morto,  presso  in  Grerico.  E  sappiate 
che  '1  mare  morto  è  appelbto  morto  per  dò  che  non 
ritiene  uè  ingenera  alcuna  cosa  vìvente^  e  tutte  cose 
che  sono  senza  vita  caggbno  in  lui  nelfoodo.  Vento 


a6i 

noJ  pole  MQivcic;  ed  è  tolto  ccmk  ìÌ  butuff%>  teoftce»  «r 
per  cm»  Fappcb»  salti  i  BBre  sdfanaane.  £  jì  \'*«  k> 
bg>^  kìhi  K  sappMie  che  1  butovu  «fi  quelk>  fta^  r 
à  teoenle  e  àa^ficatìcào,  die  se  Tuona  ne  preo- 
dcsK  ma  ■Boola,  eli  oim  se  dc  ^nedicrebbe  paui- 
inai,  and  se  ne  «rroneiìbe  tuttai  kfesìeBie  b  mam)  a  che 
cUafogeaiyncalai,  se  ^|K  oon  toccasse  Io  sangue  me- 
stnole  detti  femina  che  tosto  io  spezia.  QueUo  ki^^ 
è  alle  parti  di  Giudea.  Appresso  v*  è  I^llestilM^  là 
aw^è  la  città  di  Scaloni,  die  furo  già  appelbti  qud- 
li  di  quella  terra  li  Filistei.  A  hioga  a  lenisalenì 
trenta  giornate  sono  le  dnque  cittadi  che  profondin» 
per  lo  peccato  contro  natura,  doè  Sodoma  e  Gonion, 
e  Taltre  tre.  Tutta  dentro  di  Giudea  verso  occidente 
sono  SasCTìfs,  che  per  la  loro  grande  sapienza  sì  (ìor- 
tono  ddle  genti  per  schiBure  diletta  Che  intra  lont  noti 
è  nessuna  femina^  e  moneta  nulla  non  v*è  conosciuta. 
ElU  vivono  di  palme;  e  tutto  sia  che  là  non  vi  nusoa 
nulla  persona,  nientedimeno  la  moltitudine  della  gen- 
te non  vi  falla;  e  se  alcuna  gente  vi  va  che  voglia  es- 
sere di  loro  conversazione,  non  vi  possono  liniaucrc 
longamente,  se  castìtade,  fede  e  innocenza  non  è  con 
loro,  che  Dio  non  soffrirebbe.  Appresso  viene  Io  piìesu 
di  Selvizie,  che  va  un  monte  oh' è  detto  Muntccasse, 
eh'  è  sì  alto,  che  Puomo  potè  vedere  lo  sole  lu  <[uur~ 
ta  parte  della  notte.  £  così  può  Fuouio  vedere  lo  le- 
vare del  sole,  anzi  che  lo  dì  appara.  £  per  quello  luo- 
go corre  il  fiume  d'£ufrates,  che  corre  per  Armonia, 
e  movesi  dal  paradiso  terreno,  e  passa  a  piì:  del  nujnto 
Gatantrese  per  Babilonia,  e  sì  ne  va  in  Mesopotainia, 
e  bagna  e  infonde  tutto  quel  paese,  così  come  il  Nilo 


l6a  11^  TESORO. 

bagna  Egitto.  Salustio  dice  che  Tigris  ed  Eufrates^  che 
possano  per  Armenia,  escono  d^una  medesima  fontana. 
Tigris  è  un  6ume  che  leva  Io  sno  capo  in  Armenia,  d^u- 
na  noUle  fontana  che  al  cominciamento  corre  lenta- 
mente, se'^non  è  quando  tocca  la  marca  di  Mediani, 
che  allora  immantanente  corre  forte,  tanto  ch^egli  cade 
in  uno  lago  eh' è  appellato  Arecuso,  eh' è  di  tal  natura 
che  sostiene  le  cose  che  Tuomo  tì  mette  dentro,  quan- 
tunque elle  sian  gravi  e  pesanti,  e  quelli  pesci  ch'egli 
mena  non  possono  vivere  in  altro  lago,  e  corre  sì  for- 
te eh' è  una  meraviglia.  Il  colore  di  quel  fiume  è  divi- 
sato da  quello  del  lago.  In  questa  maniera  se  ne  va  il 
Tigro  correndo  come  folgore,  tanto  che  '1  trova  Mon- 
tor  all'incontra.  E  allora  entra  sotto  terra,  e  esce  dal- 
l' altra  parte  di  Azomode.  Poi  entra  sotto  terra  e  cor- 
re tanto  ch'egli  rappare  nella  terra  delli  labinesi  e  delti 
Arabi.  Poi  viene  Cilicia,  eh' è  una  grande  terra,  là  ove 
Montor  siede,  che  guarda  a  destro  verso  settentrione. 
Da  quella  parte  è  Graspia,  edUrtania  a  sinistra.  E  guar- 
da verso  mezzodì,  che  in  quella  parte  è  il  regno  delli 
Amazoni,  il  regno  delle  femine,  cioè,  chaie  e  scite.  E 
le  sue  fronti  guardano  da  occidente,  e  in  mezzodì 
iscalda  egli  forte  per  lo  sole.  Ma  dall'altra  parte,  che 
guarda  in  verso  settentrione,  non  v'ha  altro  che  venti 
e  piova.  Là  è  la  terra  di  Scithe,  là  ov'  il  monte  di  Gi- 
Dere,chedi  notte  ùl  grandi  lumi.  Ed  evri  la  terra  d'A- 
sia minore,  ov'è  Efeso  e  Troia,  e  la  terra  di  Galata,  e 
di  Bitinia,  e  la  terra  di  Pafegrouia,  e  quella  di  Capa- 
docia,  e  la  terra  di  Assiria.  In  contra  v'  è  la  terra  di 
Arbclite,  cioè  la  terra  ove  Alessandro  vinse  Dario  re. 
E  SI  v'è  la  terra  di  Medi.  Aacora  è  a  destra  di  Mon- 


Lnao  TEBzo.  i65 

tor  le  parti  di  Gaspe,  là  oTe  noo  paù  andare  nomo, 
se  non  per  uno  piccolo  sentien,  che  fu  ùAìo  per  for^ 
za,  per  mano  d' uomini,  che  per  lungo  bene  otto  pas^ 
à  si  ya  uno  spazio  di  terra  di  diciotto  milia  passi  per 
lungo,  là  ove  non  è  pozzo  ne  fonte.  E  sappiate,  che 
immantanente  che  H  buono  tempo  viene,  tutti  i  ser- 
penti del  paese  limono  a  quella  parte,  però  noo  si 
puote  andare  alle  porte  di  Gaspe  se  non  di  verno.  Ed 
è  la  terra  di  Gaspe  verso  Oriente.  Evvi  un  luogo  dì* 
vizioso  di  Tutte  cose  che  sono  in  terra,  e  quel  luogo  si 
è  appellato  Dieu.  Ed  ivi  presso  è  la  terra  di  Termige- 
re,  che  si  è  dolce  e  sì  dilettevole,  che  il  re  Alessandro 
vi  fece  la  prima  Alessandria,  ed  ancora  è  appdlati  Ge^ 
lartem.  Appresso  si  v^è  Bauzia,  un  paese  contra  alla  ter- 
ra di  Giudea.  Oltra  alla  Bauzia  si  è  Bande  una  cittade 
Isodiames,  ove  Alessandro  fece  la  terza  Alessandria, 
per  dimostrare  la  fide  del  suo  andamento,  cioè  lo  luo* 
go  ove  primieramente  Liber,  e  poi  Ercules,  e  poi  Se- 
minunis,  e  poi  Grò  fecero  altari,  per  segno  eh'  elli  a- 
veano  conquistata  la  terra  infino  là,  e  che  più  innanzi 
non  avea  nulla  gente.  E  quindi  se  ne  va  lo  mare  dì 
Scithe,  e  quel  di  Caspe  in  Oceano,  e  fevvi  al  comin- 
ciapiento  quando  viene  grandi  onde  e  grandi  tempe- 
ste, E  poi  v'è  n  grande  diserto.  E  poi  vi  sono  Antro- 
po&i,  cioè  una  gente  molto  aspra  e  fiera.  Ed  appresso 
v'  è  una  grandissima  terra,  ch^  è  tutta  piena  di  bestie 
salvatiche,  sì  crudeli  che  P  uomo  non  vi  potè  anda- 
re. E  sappiate  che  quella  grande  malaventura  addi- 
viene per  le  grandi  onde,  che  M  mare  vi  £i,  che  li  bar- 
bari appellano  Tabi.  Appresso  sono  le  solitudini  gran- 
dissime, e  le  terre  disabitale  verso  Levante.  Dopo  quel- 


,64  „.,a,m,. 

l'I  luogo,  olirà  Uitte  abìUiuotiì  di  genie,  si  trovano  uo- 
mini che  sono  tippellatì  Scir,  avver  Scres,  rhe  di  foglie 
e  di  scoree  d' arbtirì,  [wt  Garza  d'acqua,  fanno  una 
tanflj  ond'elli  vestono  loro  corpi;  e  sono  umili  e  paci- 
fici tea  loro,  e  rifiutano  compugiiia  d'altra  gente.  Ma  li 
nostri  mercadanti  passano  uno  loro  fiume,  e  Iruovano 
in  sulla  riviera  di  lulte  maniere  mercanzia  che  là  à 
posMDD  trovare,  e  senza  nullo  parlamento  ci  guarda- 
noe  danno  con  gli  occhi  lopregio  di  cìascnna.E  quando 
elli  l'banno  venduta,  elli  purlano  di  ciò  che  vogliono,  e 
lasciano  lo  valsente  nel  luogo  medesimo  in  questa  mer- 
caniia.  N^  della  nostra  non  vt^liono  né  poco  né  assai. 
Appresso  v'  è  la  terra  di  Àracic,  che  sta  sul  mare,  ed 
evvi  r  nere  molto  temperato.  Ed  intra  quella  terra  ed 
India  si  è  il  paese  di  Simicoine  intra  due.  Appresso 
quella  terra,  si  è  India,  che  dura  dalle  montagne  <Ii 
Media  insino  al  mare  di  mezzodì.  Là  è  l' aere  molto 
buono,  che  &  due  volte  islute  in  un  anno.  E  nel  tem- 
pò  di  verno  A  v'è  un  vento  dolce  e  soave  a  maravi- 
glia, si  che  non  sentono  alcuna  treddura.  In  India  è 
bene  cinque  niilia  citladi,  ben  popolate  ed  abitate  di 
gente.  E  non  è  maraviglia  se  gì'  Indiani  non  furono 
mai  mutati  di  loro  terra,  per  ciò  che  vivono  ad  uno 
signore,  e  s»iza  nulla  guerra.  Lì  grandi  fiumi,  che  so- 
no in  India,  sono  questi,  Guagut,  Indus,  Ispamia.  Quelli 
è  nobile  fiume,  che  ritiene  l'andare  d'Al^sandro, 
secondo  le  colonne  eh'  i^li  ficcò  sulla  riviera,  cbc  '1 
dimostra  apertamente.  Li  Guabadirì  sono  il  più  diri- 
lano  popolo  che  sia  in  India.  Neil'  isola  di  Gange  al- 
la leiTS  Dapes  e  Dipaliporle  è  monte  Marcello.  E  la 
gente  clic  ubitauo  intorno  al  Gumc  di  Indus,  dì  verso 


iG5 
die,  SODO  ^  diurne  legge.  Fuori  d' India  sooo 
doe  soie,  Eride  ed  Aiigite,  or'  dli  ha  sì  grande  oo8a 
di  Beialli,  die  crede  la  gente  cbe  tutta  la  terra  sia  pie- 
ad'oro  e  d*arìenta  E  sappiate  che  in  India  e  in  quei 
{eoi  là  (^tra  è  molta  diversità  di  gente,  che  ▼'  è  di 
liE  die  non  tìvooo  d*ahro  die  di  pesci,  e  tali  Tlia  che 
ODcidaoo  i  loro  padri,  aba  che  morano  di  yecchiezza 
<rd'ÌDleniiita,  e  d  li  mangiano,  ed  è  tennto  tra  loro 
con  di  grande  pleiade.  Quelli  che  abitano  nel  monte 
Rbes  si  hanno  i  piedi  a  rìTersdo,  cioè  b  pianta  diso- 
pia e  hanno  otto  dita  nel  piede.  Altra  gente  t'  è  che 
hioDo  la  testa  a  mo(k>  di  cani^  ed  altri  che  hanno  li 
ooda  ndle  spalle,  per  ciò  che  non  hanno  capi  lineai- 
tn  gente  Ve  die  immantanente  che  nascono,  li  loro 
opdUi  tk  diventano  bianchi  e  canuti,  ed  in  loro  tcc- 
daena  anneriscono.  Altri  ▼'  è  che  non  hanno  più  che 
I     ori  ooduo  nella  fronte.  Ed  altri  V  è  che  hanno  pure 
OD  pie,  e  si  chiamano  cidoplei,  e  corrono  come  folgo- 
re. Ma  loro  piedi  non  sono  &tti  come  quelli  delli  uo- 
mini, anzi  è  un  piede  sì  ampio  e  sì  fello,  che  quando 
ad  alcono  Ùl  caldo,  ^li  si  pone  a  sedere,  e  poaselo  so- 
pra capo  e  fiassene  ombra.  Sì  v'  ha  Temine  che  por- 
tano figliuoli  in  cinque  anni,  ma  elli  non  vivono  olirà 
che  otto  anni.  Tutti  li  arbori  che  nascono  in  India  non 
perdono  mai  fi:^iie.  Al  cominciamento  d"  India  si  (;  il 
monte  Caucaso,  che  montando  in  sulla  cima  può  uo- 
mo vedere  grande  parte  del  mondo,  e  dalF  una  parte 
del  monte,  verso  il  sole  levante,  nasce  il  pepe.  Anche 
v'  è  in  India  una  isola,  ch^  è  appellata  Essorobame,  ed 
è  dentro  lo  mare  rosso,  che  vi  corre  per  lo  mezzo  un 
grandissimo  fiume.  E  dalP  una  parte  sono  li  leofanti,  e 


I  66  TL  T£SORO. 

altre  bestie  salvatiche,  e  d*  altra  parte  vi  sono  uomini 
eoa  grandissima  qaantitade  di  pietre  preziose^  e  sap- 
piate che  in  quel  paese  non  luce  nulla  stella,  se  non 
una  ch^è  grande  e  chiara  che  ha  nome  Canapes,  e  me- 
desimamente non  veggiouo  ellino  la  luna  sopra  la  ter- 
ra, se  non  dalP  ottavo  <U  infino  al  sestodecimo.  Quel- 
le genti  sono  dritto  al  sole  levante.  E  quando  vogliono 
andare  per  mare,  ellino  portano  uccelli  che  sono  nu- 
driti  in  quelle  parte,  là  ov^  elli  vogliono  andare,  e  poi 
vanno  secondo  che  li  uccelli  lo  dimostrano.  E  sappiate 
che  quelli  d' India  sono  la  maggiore  gente  del  mondo, 
e  grande  parte  di  quell'isola  è  disabitata  per  lo  gran- 
de calore  che  y^  è.  Dopo  V  Indiani  sono  nelP  altra 
montagna  una  gente  che  si  chiama  icthyphagi  che  non 
mangiano  altro  che  pesci  ^  ma  quando  Alessandro  lì 
conquistò  vietò  che  mai  non  mangiassera  Oltra  quel- 
te  gente  è  lo  deserto  di  Cannane,  che  v'ha  una  terra  ros- 
sa, e  non  v'ha  nulla  gente,  che  nulla  cosa  vivente  v'en- 
tra che  non  vi  mora  immantenente.  Poi  v'è  la  terra  di 
Persida,  eh'  è  intra  India  e  '1  mare  rosso,  ed  intra  Me- 
dia e  Garmenia.  Poi  v'  è  tre  isole,  là  ove  nascono  le 
calcatrici,  le  quali  mangiano  a  retro,  cioè  che  menano 
le  mascelle  di  sopra,  e  quelle  di  sotto  tengono  ferme. 
Poi  v'  è  la  terra  di  Parta  e  di  Caldea,  ove  la  città  di 
Babilonia  siede,  che  gira  sessantamilia  piedi  d'intorno, 
e  correvi  il  fiume  d'  Eufì'ates.  In  India  è  il  paradiso 
terreno,  là  ove  son  tante  maniere  di  fi'utti,  e  d' arbo- 
ri, e  di  pomi,  e  si  v'è  l'albore  della  morte,  che  Iddio 
vietò  al  primo  uomo,  che  non  manicasse  del  suo  frut- 
to. E  sì  v'  è  l'albore  della  vita,  che  non  morrebbe  mai 
chi  mangiasse  del  suo  fratto.  La  non  v'ha  né  ireddo,  né 


'  i 


u^aoTiBso.  167 

OlU^  M'ODn-p^ipBtaide  InnqcnUitade  e  tempcranu. 

K^^l^n^nq»^  IpIffMIaaB  che  to^ 

9;^.  fMÌ|ÌL  |h|||b»*«moooo  li  quattro  fiumi  che  voi 

OTpÌ».gJìfe.<faè  fiMMib  fi«Ma,  Tigris  ed  Enfiretet.  E 

4l|figta|  r^- AipQ'l^  del  primo  uomo  quello 

^  htByliil^^wa^  tutte  0eotL  Queite  e  molte  altre  ter- 

il^^apnoJa  Jbidia  m  ▼ano  levaote^  ma  il  conto  non  ne 

^dit  detto  abbia,  and  dirà  la  seconda  per- 

^iSivofB^  Sappiale  che  In  quella  parte  orìen- 

nostro  signore,  che  fa  Dio  ed 

\l  e  ciò  £u  in  una  proTinda  ch'è  appel« 

^fft^ffmè/^^^gnmi àk  lerusalem,.  fuori  d^ una  cittade 

lljpHllik  BeCleem^  e  però  oomiociò  la  legge  deferisti»* 

li;fÉMÌwpnMDte  in  qoA  paese^  secondo  che  lo  conto 

4Wn'-9f>!ft$tK  dietro,  là  ot'ìI  conto  parla  di  lui  e  de' 

^HÌdlll^ljlioii;  ed.itt  ^pidlo  paese  son  molli  patriarchi  ed 

ippivenovi-e  yesoovi,  secondo  lo  stabilimento  di  santa 

(!ÌM%  ehe  «ODO  per  conto  centotreotatre.  Ma  la  for* 

n-delUSeraeini  miscredenti  hanno  la  maggior  parte 

oecnpftfii  perchè  la  santa  Chiesa  non  vi  poole  essere 

OMNsata* 

Capitolo  IIL 

Qui  dice  di  Europa,  e  delle  sue  contrade. 

'  Europa  è  una  parte  della  terra  ch^è  divisa  da  quel- 
la d?Asia,  là  ove  è  lo  stretto  del  braccio  di  santo  Gior- 
gio, odle  parti  di  Costantinopoli  e  di  Grecia.  E  viene 
verso  settentrione  per  tutta  la  terra  di  qua  dal  mare 
infino  in  Spagna  su  la  terra  Oziana.  fu  questa  parte 
d-  Europa  si  è  la  citta  di  Boma,  cV  è  capo  di  tutta  la 
crìftiamtade.  E  però  dirà  il  conto  innanzi  di  tutta  Ita- 


l68  IL  TESORO. 

lia,  cioè  il  paese  dove  Roma  siede,  che  ha  inverso' 
mezzodì  il  mare  Maggiore^  OTTei*  MediterraDeo^  in  co- 
sta, e  in  verso  settentrione,  è  il  mare  di  Tinegia,  ch^è 
appellato  lo  mare  Adriano,  per  la  città  di  Adria,  che 
fu  fondata  dentro  Io  mare.  Il  suo  miluogo  è  nelli  campi 
della  città  di  Reate.  E  sappiate  che  Italia  fu  chiamata 
la  grande  Grecia,  quando  li  Greci  la  tenevano.  E  fi- 
nisce verso  ponente  alle  montagne  che  sono  verso 
Provenza,  e  verso  la  Francia,  e  verso  Alamagna.  E  là 
è  una  grande  montagna  in  fra  le  altre  che  ha  due  fon- 
tane. Deir  una  verso  Lombardia  nasce  un  fiume  mol- 
to grande,  che  passa  per  Lombardia,  e  riceve  ib  se 
trenta  fiumi,  ed  entra  nel  mare  Adriano,  presso  alfa' 
città  di  Ravenna,  e  chiamasi  il -Po,  il  quale  i  Greci 
appellavano  Eridano,  ma  in  latino  è  appellato  Padus. 
Dair  altra  montagna  di  verso  Francia  esce  P  altro  fiu- 
me detto  Rodano,  che  se  ne  va  per  Rorgogna,  e  per 
Provenza,  tanto  che  egli  entra  nel  mar  Maggiore,  cioè 
nel  mare  di  Provenza,  si  fortunosamente,  che  se  ne 
porta  le  nave  ben  cinque  miglia,  o  più,  ed  è  dolce  al- 
lora l'acqua  altresì  come  se  fosse  in  terra.  E  però  di- 
cono molti,  eh'  egli  è  uno  de'  maggiori  fiumi  d' Eu- 
ropa. In  Italia  son  molte  provincie,  delle  quali  To*- 
scana  è  la  prima,  là  ove  è  Roma  primieramente.  E 
per  Roma  corre  un  fiume  che  si  chiama  Tevero,  die 
entra  nel  grande  mare.  E  sappiate  che  l' apostolico' 
di  Roma  ha  sotto  lui  sei  vescovi,  che  sono  cardinali, 
cioè  quello  d'Ostia,  quello  d'Albano,  quello  di  Porto, 
quello  di  Sabina,  quello  di  Tusculano  e  quello  di  Pe- 
nestrino.  E  queste  furono  buone  cittade  anticamente, 
ma  Roma  le  sottomise  alla  sua  signoria,  ond'elle  sono 


Ltaau  TBBEA.  169 

te  guaste-  Dentro  alla  città  di  Roma  si  m»  ■f"""ti- 
ei  (jiiese  cardio  alane,  delle  quali  v'ha  ventotto  pnifa»< 
Unti,  cioè  che  banno  il  cardinale  prete,  «  lÌMMMti 
diòolto.  Anche  sono  in  Toscana  veni  uno TMwwi,  «a»» 
a  la  città  di  Pisa,  ch'è  arcivescovo,  e  ti  «  vewxm  lotto 
lui;  e  sappiale  cbe'l  primo  vescovo  di  Tcwanaè  quella 
liiLuna  che  marca  con  li  Genoresi.  Oltra  Ri»m  i  !■ 
Ima  di  Caaipagna,  ove  è  la  città  dAlagnia  e  di  Ga»- 
taeliavvi  sette  altri  vescavL  Poi  Ve  la  temd'A- 
Irnm,  là  ave  ha  sette  vescovi,  Ap|>i'CHO  v'è  il  du- 
olo dì  Spuleto,  ov'  è  la  città  d'  ktaki  e  di  Bìeti,  Ik 
«'  elli  ha  sette  altri  vescovi.  Appresso  t*  è  la  Hma 
J  ÀnoMta,  ov'  è  la  città  d' Ascoli  e  d' Urinaci,  e  htn- 
li  due  vescovi.  Appresso  *'  è  Terra  di  lavoro,  Ui  en 
f  la  città  di  Benevi?nto,  e  Salerno,  e  milite  altre  tenv 
grandi  ov^  elli  ha  sette  arcivescovi,  e  dnquaatnno  ve- 
Kovi.  Appresso  t'  è  Io  regno  di  Puglia,  ov'  è  la  dttà. 
ili  Taranto,  sa  net  sinistro  corno  ci'  Italia;  e  saggiata 
che  ìd  Puglia  v'è  otto  Ercivesnovi,  e  treotasei  vew»-- 
n.  AfpreMo  v'  è  la  Calavria,  là  ov'  è  l' arcivescoro 
Sfidàaa,  e  due  ahri  arcive«covi  e  sedici  vescovi.  Fai 
1*1  TmoI»  di  SdUa,  trai  mare  Adriano  e  1  nostra, 
0^A  r  anàvewxiTO  dì  Palermo,  di  Messina  e  di  Mot- 
nah^wi  otto  veKOvL  Ed  ewi  Mongìbello,  che  tutta- 
via pUa  foooo  per  due  bocche,  e  niente  meno  tut- 
taiia  v'ha  oeve  •»{»«;  e  si  v'  è  la  fonte  di  Arethusa, 
dTi  aieravi^osa  cosa.  E  sappiate  che  tra  Sicilia  e  la 
Italia  i  tu  pionJo  bracóo  dì  mare  in  mezzo,  ed  è 
^f^>iiHirt/t>  Faro  di  Hesuiia,  onde  molti  dicono  che 
Iknm  mm  è  m  Italia,  ami  à  paeee  per  sé.  Nel  mare 
a  HeMkM  o  -vero  eli  Sicilia,  tono  l'isole  Ynlcaoie, 
Xa&m.  rol.  I.  "> 


IJO  IL  TESORO. 

ehe  sono  di  natura  di  fuoco.  E  tutta  la  terra  di  Sici- 
lia non  è  più  di  Ire  milia  stadii^  e  lo  stadio  è  in  gre- 
co quello  che  noi  appelliamo  migliaro,  e  che^Fran- 
cesdii  chiamano  leghe  ^  ma  elle  non  sono  però  pari. 
Anche  è  in  Italia  la  terra  di  Romagna  in  sul  maie 
Adriano,  ove  sono  alquante  cittadi,  cioè  Arimino,  Ra- 
Tenna,  Forlì,  Imola,  Cervia,  Faenza,  Forlimpopoli  e 
Cesena,  ed  havvi  uno  arcivescovo^  e  dieci  vescovi.  Ap- 
presso v^  è  Lombardia,  ov'  è  Bologna  la  grassa,  e  tre 
altri  vescovadi.  E  sì  v'  è  l' arcivescovo  di  Milano,  che 
dura  il  suo  arcivescovado  in  fino  al  mare  di  Genova, 
ed  alla  città  di  Saona,  e  diArbigliana,  e  poi  in  fino  al-» 
la  terra  di  Ferrara,  ove  ^liha  diciotto  vescovi.  Poi  v^è 
la  marca  di  Trevigi,  ch^  è  nel  patriarcato  d^  Aquilea, 
là  ov^egli  ha  diciotto  vescovi,  che  toccano  le  parti  di 
Lamagna^  e  di  Zara,  e  di  Dalmazia  su  1  mare.  Anche 
in  ItaUa.è  F  arcivescovo  di  Genova,  e  sette  vescovi. 
Poi  v'  è  P  isola  di  Sardigna  e  V  isola  di  Corsica  con 
tre  arcivescovi  e  quindici  vescovi.  E  qui  finisce  Ita- 
lia, In  fino  entro  nel  mare  di  Yinegia,  sì  v?  è  la  terra 
d' Istria  dall'  altra  parte  del  mare,  che  v'  è  l' arcive- 
scovo di  Zara,  e  due  altri  arcivescovi,  e  diciotto  -ve- 
scovi. Appresso  v'è.la  terra  di  Schiavonia,  là  ov'egli 
ha  due  arcivescovi,  e  dieci  vescovi.  Appresso  v'  è  la 
terra  di  Spolano,  Ut  ov'  egli  ha  quattro  arcivescovi. 
Ma  di  ciò  non  dirà  più  lo  conto,  anzi  ritornerà  a  sua 
materia,  là  ov'egli  lasciò  Sicilia,  eh'  è  l'altra  fine  d'I-, 
talia.  Oltre  Sicilia  si  esce  d'Europa.  E  dentro  Europa  si 
è  la  terra  di  Grecia,  che  comincia  al  monte  Ceraunes 
e  finisce  su  l' Espovis^  là  è  la  terra  di  Tessaglia  ove 
Giulio  Cesare  combattèa  contra  Pompeo,  e  Macedo- 


171 

«aJìr^yi^  k  taHà.dft' Alene,  e  moole  Olimpo^  die 
rihKi^  ed  èfi&  aito  die  qnesto  aere  ove  gli 
tmaudo  die  lì  Aiiaai  dissero^  die  tì 
J^Ptìnà-è  k  tarmdì  IWda,  ore  sono  li  Baa^ 
h<Viii*M*Blk  '^  CtoiteutfnupdL  E  sappiate  die  neHar 
ÈMJtii^tàA  fenó  vMtantrione  corre  fl  Danubio, 

finme  di  Lomagna.  Poi  ^  Ve  dentro 
F  isoh'dr  Gieeia,'  ove  lo  re  Àes  regnò 
»  l' conto  dioe  qaa  a  dietro  nd  cfr« 
le  di  Greda  Poi  si  t*  è  Calistos  e  Pisolar 
I,  di?  è^^'pdBala  Ortigia,  ia  oye  le  ootur^ 
in  prima  troTate.  Poi  v*  è  P  isola  di 
e  Paiamo,  e  Mdo^  e  Carpacen,  eLìni- 
itjppittA rtcnteAthoiydi^pià alto,  die^nuvolì.  A  ciò 
iMte^r  vomo  inteiwtere^  die  in  Grreda  son  sei  paesi. 
to|HÌìnn  Mìnlmniiii  Terso  ooddente.  Lo  secondo  è 
BUk^'I^  tienDO  Ektos.  Lo  quarto  Tessaglia.  Lo  quia* 
la  ttioodioouu  Lo  sesto  Achaia.  Ed  in  mare  sono  due 
jnie,  dbè  Creta  e  Gidades.  £  si  è  in  Grecia  cinque 
difeni^  di  linguaggL  Quivi  cominda  ud^  altra  parte 
d^Eorapa,  in  suso  PElle^nto,  cioè  uno  luogo  do- 
ym  il  mare  divide  Asia  da  Europa,  e  non  ha  più  di 
ktjl^iesaEa  che  sette  stadii.  E  quivi  fece  lo  re  Xerse  un 
ponte  -di  navi,  ove  passò.  Poi  sì  allargò  dismisurata- 
flKOle^  ma  ora  non  è  guari,  che  un  poco  dira  diviene 
«stretto,  che  non  è  oltra  dnquecento  passi,  ed  è  ap- 
pdfaito  U.Grdiro  di  Tracia.  £  quivi  passò  re  Dario, 
eon  grande  abbondanza  di  cavalieri.  £  sappiate  chel 
Daaobio  è  un  grande  fiume,  ch^  è  appellato  Istres, 
die  naaoe  di  grandi  monti  in  Alamagna,  in  ocddente 
verso  If&mbardia^  e  riceve  sessanta  fiumi  sì  grandi 


172  IL  TESORO. 

che  navi  vi  possono  andare^  tanto  che  si  parte  in  selle 
fiumi,  ed  entra  in  mare  verso  oriente,  onde  li  quat- 
tro v'entrano  si  rapinosamente,  che  le  loro  acque 
roantegnono  dolcezza  ben  venti  leghe  anzi  che  sì  me^ 
scolino  con  acque  di  mare.  Olirà  quello  luogo  alP  en-* 
trata  d'oriente  è  la  terra  di  Scilhe,  di  sotto  il  monte 
Rifeo  e  Hyperboreì,  ove  gli  uccelli  grifoni  nascono. 
Ma  egli  è  trovato  per  li  savii  che  la  terra  di  Scilhe  è 
in  Asia,  secondo  chel  conto  divisa  qua  dinanzi,  tutto 
che  r  isole  di  Scithe,  die  sono  di  qua  dal  Danubio, 
sono  settanta  passi  dilungi  dal  golfo  dì  Tracia,  là  ove  il 
mare  è  congelato  e  vischioso,  che  la  più  gente  lo  diia- 
ma  il  mare  Morto.  Appresso  la  terra  di  Scithe  è  A- 
lamagna,  che  comincia  alle  montagne  di  Genu,  suso 
lo  Danubio,  e  dura  infino  a  Daurim.  Questo  diparti- 
va già  Alamagna  da  Francia,  ma  ora  dura  infino  Lau-« 
renne.  E  sappiate  che  in  Alamagna  è  l'arcivescovo  di 
Maganza,  e  di  Treveri,  e  sette  altri  arcivescovi,  e  be- 
ne dnquantaquatlro  vescovi,  infino  a  Mesenverdon. 
E  nelle  contrade  d' oriente,  dopo  Alamagna,  oltra  lo 
Ren,  si  è  Francia,  che  già  fu  appellata  Gallia  ;  là  ove 
primieramente  è  Borgogna,  che  comincia  alle  monta- 
gne, tra  Lamagna  e  Lombardia,  al  fiume  di  Urene,  e 
ha  l' arcivescovado  di  Tarentasmo,  e  di  Bisenso,  e  di 
Yienna,  e  di  Ombron,  là  ov'egli  ha  sedici  vescovi. 
Poi  comincia  la  diritta  Francia  da  Leone  sopra  Ro- 
dano, e  dura  infino  in  Fiandra  ed  al  mare  d' In- 
ghilterra, ed  in  Piccardia,  ed  in  Normandia,  ed  alla 
piccola  Bretagna,  e  Ansoi,  e  Emporio,  infino  in  Bor- 
della,  ed  al  fiume  della  Gironda,  infino  al  Poggio  di 
Nostra  Donna,  là  ov'  egli  ha  sette  arcivescovi,  e  bene 


.,5 
v'à  Piovana  infiDo  al  m»- 

>  di  Niui  e  quelb  cTlrii  eoo 
iLdici  vescovi-  Dall'oltni  [KUii:  v%  QuBiCognB,  U  ov^ 
uu  arcivescovo  e  dieri  vescovi,  e  confina  con  lo  nv 
civescuvadu  rlt  Neibona,  ov'è  k cgnlncla  di  Toloai 
e  di  UompulJei-e,  e  huvvi  nov*  laaoon.  AfpgBwo 
ifueQc  coniìiicìa  lo  \iaesa  di  S[Kifpaa,diedimp«rtiA- 
la  la  terra  del  re  di  Ragona,  e  del  m  di  NavHTa,  e 
di  Foi-togallo,  e  di  Cartiglia  inlloo  al  mara  oceano,  Ih' 
or'  è  la  città  di  Tolelci ,  f  Ctm^NMlcUD,  là  ove  ^ks 
il  carpo  di  mescer  san  lantpo  apiMlulo.  E  wf^te  che 
eili  sono  iu  Is|)agiiii  quaLtru  artàvaMori)  é  venlÌMUA 
TCscuvi,  senza  li  Siiracìni  die  vi  aooo.  b  qnaUo  liM^ 
è  la  fine  della  l«fra  ove  Ercole  Sm  ìm  Dolonne  quan- 
do l'gli  cooquislù  la  terra  ;  e  ciò  li  [uova  per  li  lavi 
valichi  che  medesimainente  lo  tndtanmno,  ov'  i  il 
I  pouLe  di  Caspe  e  di  ÀlibÌD;i.  Quivi  è  il  luogo  ove  il 
■Mm  non»  oaae  dd  mare  Oceano,  e  ti  ne  viene  per 
fHlU'Aw  inonli,  ere  sono  V  ìaoìe  di  Gadde,  e  le  oh 
k^aa  £Ei«ele.  E  dò  è  in  tal  maniera  ch'ali  latcia 
Utab  terra  d'Africa  a  destra,  e  tutta  Europa  eia 
finMia  a  ^ónislra,  ov'  e^  ha  novo  milia  pasgi  dì  lai*- 
gg^  e'^oindici  milia  (U  lungo.  E  non  fina  infino  alle 
parti  éP  Aw,  e  di'  ^  «  congiugne  al  mare  Oceano. 
E  ptr  ciò  vi  fiie  già  la  fine  delle  terre  disabitate,  in- 
piw  a  tflntoi  che  Le  genti  crebbero  e  molliplicaro,  e 
.paMara  in  una  sola  isola  eh' è  in  mare,  la  quale  lia 
per  lungo  oUo  milia  passi,  cioè  la  gran  Brit^na,  che 
««  è  detta  Inghillerrii.  E  là  è  l' arcivescovo  di  Con- 
lurbia,  e  quel  d' Abruis,  e  diciotto  vescovi.  E  si  v'  è 
IHtnda,  là  ov^  è  l'arcivescovo  di  Hardiia,  e  dì  [hi- 


174  IL  TESORO. 

cielU;  e  di  Castella,  e  di  Tuen,  con  trentasei  vesco^ 
vi.  Appresso  -v^è  Scozia,  là  ove  ha  nove  vescoTi.  Ap- 
presso v'  è  la  terra  di  Nerbe,  là  ov'egli  ha  un  ar- 
civescovo con  dieci  vescovi.  E  la  più  grande  parte  di 
tutte  queste  isole  che  vi  sono  è  Irlanda,  e  non  v'  ha 
nessuno  serpente.  Onde  dicono  molti  che  chi  por- 
tasse deUa  terra,  o  delle  pietre  del  paese  d' Irlanda  in 
altro  paese  dove  avesse  serpenti,  che  non  potrebbe- 
ro istare.  Queste  e  molte  altre  terre  ed  isole  sono  ol- 
tra  Brettagna,  ed  oltra  la  terra  di  Nerbe.  Ma  V  isola 
di  Ghile  è  la  diritana,  che  è  si  duramente  nel  pro- 
fondo del  settentrione,  che  d^istate,  quando  entra  il 
sole  nel  segno  di  cancro,  che  li  di  son  grandi,  e  lì  la 
notte  pare  all'  uomo  così  piccola  eh'  è  quasi  niente^ 
e  di  verno,  quando  entra  il  sole  in  capricorno,  che  le 
notti  son  grandi,  lo  dì  v'  è  sì  piccolo  che  non  ha  nes- 
suno spazio  intra  levare  e  1  coricare  del  sole.  £  ol- 
tra Thilem  v'  è  il  mare  congelato  e  tegnente ,  e  là 
non  ha  nullo  divisamento,  né  nullo  accorgimento  di 
levante  del  sole,  ne  del  ponente,  secondo  che  'l  conto 
dice,  là  ove  parla  del  corso  del  sole.  Ancora  v'  è  l' ir- 
sola  di  Budes,  e  quella  gente  che  V  abita  non  han- 
no nulla  biada,  anzi  vivono  di  pesci  e  di  latte.  An- 
che vi  sono  r  Isole  d'Orcades,  ove  nulla  gente  abita. 
Qui  si  tace  il  conto  a  parlare  d' Europa ,  che  finisce 
in  Ispagna,  e  dirà  della  terza  parte,  cioè  d' Africa. 


Capitolo  IV. 

D*  Ifrìca  e  ddle  sue  ootttndè. 

.  D' Ispagna  è  il  tnjpaeao  in  Libia,  doè  una  terra 
d'Afincfl^  là  or'è  la  regioiie  di  llBnnlBnia,  e  tali  Tap- 

-  pdbno  la  teira^de^  morti  Elle  sono  tre  Manritanie, 
Puna  oYe  fa  k  città  di  Sedn^  F altra  o¥^è  Cesarea, 
la  tena  ore  fa  la  città  dì  TingL  £  Hanritania  finisce 
ndlPalto  mare  d'Egitto,  e  comincia  qoeUo  di  LiK% 
0¥^^  ha  troppo  fiere  manm^^  che  1  mare  V  è 
aini  pia  alto  che  la  terra,  e  tiensi  à  in  fira  sè^  die 
nao  cade  né  corre  soprala  terra.  In  qodllQ.  paese  è  il 

^mqnte  Atlante  e  Milesaret,  ch'è  pia  alto  die  li  nuvoli, 
e  dora  infino  al  mare  Oceana  Poi  n  vi  son  le  tene  di 
Nomidia»  Seppiate  <'^¥^  tofttar  Afirìca  comincia  svi  ma- 
re Oceano,  alle  colonne  d'Ercole,. e  quivi  ritoma 
verso  Tonisi,  e  verso  Bdggea,  e  verso  la  città  di  Setti, 
tatti  contro  a  Sardigna,  e  infipo  alla  terra  ch'è.con- 
tnialla  ^Kàlìa.  Quivi  si  divide  in dueparti,  una ch'è 
iqSpdlata  la  terra  Cane,  e  Paltra  che  se  ne  va  oltra 
contra  all'isda  dì  Creti,  ìnfino  nelle  parti  d'Egitto,  e 
sì  ne  va  intra  le  due  Syrte,  ove  sono  le  terre,  là  ove 
nessuna  persona  per  nulla  maniera  può  saldare  per  lì 
maroù  dd  mare,  che  un'ora  crescono  e  un'altra  me- 
nomano, in  tal  modo  e  si  pericolosamente,  che  navi 
non  vi  potrebbero  andare  per  la  diversità  delti  ma- 
rosi che  non  vegnono  ordinatamente.  Ed  in  questa 
maniera  dura  tutta  la  parte  d'Africa.  Ed  intra  Egit- 
to è  1  mare  d' Ispagna ,  tuttavia  in  coste  lo  nostro 
mare.  Ma  drìeto  verso  mezzfjdì  sono  ti  diserti  d' E- 


.*♦.: 


176  Ui  TESORO. 

tiopia  sui  mare  Oceano,  e  H  fiume  del  Tigro,  che  in- 
genera allume,  che  divìde  la  terra  d^  Africa  da  quella 
d^  Europa,  ove  gli  Etiopeni  abitano.  E  sappiate  che 
tutta  la  terra  che  non  guarda  verso  mezzodì  è  senza 
lontane,  e  nuda  d^  acque,  e  povere -terre,  ma  verso 
mezzodì  sono  le  terre  grasse,  e  piene  d'ogni  bene. 
Dentro  le  due  parti  d'Africa  che  sono  contate  è  Ci- 
renes,  di  cui  il  conto  fece  menzione  qui  di  sopra,  e  sì 
v'è  risola  di  Menne,  làov'è  lo  fiume  Lete,  di  cui 
r  antiche  storie  dicono,  che  egli  è  il  fiume  4'  inferno, 
e  r  infedeli  dicono  dbe  le  anime  che  ne  becmo  per- 
dono la  memoria  delle  cose  passate,  in  tal  maniera, 
che  non  se  ne  iricordano  mai  quando  elle  entrano  in 
altro  corpo.  Ma  in  ciò  sono  elli  beffati  malamente 
dallo  diavolo,  che  l'anima  è  creata  alla  imagine  ed 
alla  similitudine  di  Dio,  e  per  ciò  non  può  mai  per- 
dere la  memoria.  Il  nostro  signore  Gesù  Grìsto^  che 
vide  gli  errori  che  erano  stati,  e  quelli  che  erano,  e 
quelli  che  doveano  essere,  sì  ammaestrò  ciascuno  nel 
suo  vangelio,  cfae  si  guardassi  d'errore,  là  ov'^di 
dice:  io  sono  via,  veritade  e  vita.  Ed  in  altro  luogo 
dice  :  io  sono  luce  del  mondo.  £  David  dice  nel  psal- 
terio,  che  l'uomo  non  segga  nella  cattedra  della  pesti- 
lenza, cioè  nello  errore.  Or  torniamo  a  nostra  mate» 
ria.  Là  son  le  genti  di  Nasamoni,  e  di  Trogondite,  e  le 
genti  di  Liamanti,  che  (anno  le  lor  case  di  sale.  Poi 
v'è  Gai'emas,  cioè  una  città,  là  ove  si  trova  una  fon- 
tana maravigUosa,  che  ha  l'acqua  sì  fredda  di  di  che 
nullo  ne  potrebbe  bere,  e  la  notte  è  si  calda  che 
nullo  non  la  può  toccare.  Anche  v'è  la  terra  d'Etio- 
pia, il  monte  Atlante,  là  ove  sono  le  genti  nere  come 


■*??' 


177 


-«««o  **  ^««  «anno  *«  "f  ^Irò  oO0«»'«- 
ATiStt»  «**^  Sia  «P»W  •**^.    K.  AJ«b«-  ®' 


^''tT  «aare  «rwi*-—  .^tornare  <"".      «  g-^ 
^IP^-l^^^'ptrtì  tflBaia lo ^J^^ perciò 

ehè  a  ««^  ^dì  e  notte  due  >roltó  ^^ 

^i  U  ti»»''  "t-^b'  toono  detto,  cbe  ^ 


iy%  IL  TESORO.  ■ 

e  stare  come  monte  e  poi  tornare  in  entro  secondo 
che  '1  suo  espiramento  th  entro  e  fuori.  Ma  gli  astro- 
loghi dicono  che  non  è  se  non  per  la  luna,  per  ciò 
che  Puomo  vede  li  marosi  crescere  e  menimare,  se- 
condo  il  crescere  e  \  mpnimare  della  luna  di  sette  in 
sette  di,  che  la  luna  fa  le  quattro  Tolte  in  Tentotto  di 
per  li  quattro  quartieri  del  suo  cerchio,  di  cui  lo 
conto  ha  detto  tutto  Tessere^  Or  sappiate,  buona  ge]> 
te,  che  1  nostro  signore  Iddio  fece  in  terra  e  in  mare 
molte  maravigliose  cose  che  P  uomo  non  le  puote 
chiaramente  sapere,  per  ciò  ch^egli  Pha  reserrato  a  sé. 
£  P  apostolo  c^  insegna  in  questa  maniera  ad  imprenr 
dere  :  non  sapere  più  che  non  ti  fa  mestiere  di  sapere, 
brigati  di  sapere  a  sobrìetade,  cioè  né  poco  ne  troppo. 
Onde  quelli  che  disse  che  ^l  mondo  aveva  anima  non 
imprese  a  sobrìetade,  ma  oltra  a  sobrìetade,  cioè 
troppo.  Sappiate  che  i  savi  antichi  dissero  molte  cose 
dell' afiàre  del  mondo,  e  di  molte  dissero  la  veritade^ 
e  molte  cose  dissero  di  che  non  mostraro  niente  la 
veritade,  per  ciò  che  non  lo  poterono  sapere,  che  ella 
rìmase  nel  nostro  Signore,  e  rimane  tuttavia.  Ma  tut- 
tavia si  è  ben  ad  intendere  li  savi  detti  di  filosofi  an-» 
tichi  che  furono  nella  vecchia  legge,  che  molti  furon 
quelli  che  erraro  per  lo  troppo  sapere  e  per  lo  poco. 
Ma  tuttavia  per  li  filosofi  conosciamo  noi  meglio  la 
vera  credenza  di  Gesù  Cristo,  e  delli  apostoli,  a  cui 
noi  dovemo  credere  fermamente  sopra  tutti  altri  savi 
che  furon  e  che  saranno  giammai^  però  che  1  senno 
ch'elli  ebbero  se  ^1  trassero  della  fontana  di  tutte  scien- 
ze, cioè  del  nostro  signore  Gesù  Cristo. 


Caiae  raomn  dtr  iicrglicre  Mrn  di  §m»ii^in. 

Da  poi  rhc  1  nostro  crtnto  ha  drrÌM  le  terre  ■»- 
randu  la  sua  abilaiiune,  sì  tuole  ati  poco  dne  defla 
krra  mede^ma  secondo  che  ella  A  a  gnadagiNK  die 
rosa  perchè  )a  vila  di  uomini  li  mantiene.  E  peróò 
è  ben  senno  a  mostrare  che  can^  l'oooto  dee  iioe- 
flierv,  e  ■□  che  maniera.  Palladio  ditM  tht  Pnooo 
ice  cardare  quattro  rose,  rioèPgria^  Tacqna,  la  Ui^ 
n  e  la  maestria.  Onde  ie  tre  Mao  per  natnn,  e  li 
quatta  è  in  rolontade  ed  in  podob  La  nMnni  i  <fte 
noi  doTemo  guardare  l'aria,  chena  WKOO  fl  netto  e 
dolce,  e  che  l'acqua  sia  buona  e  le^ìeri,  e  la  tena 
fruttifera  e  bene  servente.  Ed  adirete  T^one  come 
3  uno  e  netto  aere  dee  essere  cattOKÌato  in  questa 
■naniera,  die  lo  luogo  non  sia  io  [arrfbnda  Tidle,  e  <ho 
sia  puro  dì  tenebrosi  nuvoli,  e  die  la  gente  che  ti 
abita  sia  bene  sana  delli  Inro  corpi,  e  beo  diiari  ed 
aperti,  e  che  la  veduta  e  l'ufiita  e  la  voce  loro  sia 
ben  chiara  e  purificala.  La  boutade  dell'acqua  puoi 
In  bene  cognoscere,  cioè  che  la  non  esce  di  palude^ 
o  di  malo  «lagno  o  di  solfo  o  di  rame,  che  1  suo  co- 
lora aia  lucente,  il  sapore  dolce  e  di  boooo  odore,  che 
■on  abbia  nollo  limaccio  dentro,  e  che  sia  di  Temo 
oUa  ed* ÌBlale  fredda,  e  che  lo  nascimento  dd  sno 
ceno  aia  verso  oriente,  un  poco  chinando  verso 
letlentrione,  e  ben  corrente  su  per  pianole  pietre,  o 
sa  per  bella  rena,  o  almeno  su  per  terra  creta  bea 
nuoda  die  aM>ia  il  suo  ctdore  rosso  o  nero,  li  quali 


l8o  IL  TBsoao. 

sono  segni  che  T  acqua  sia  ben  sottile  e  leggera,  che 
tosto  iscalda  al  fuoco  ed  al  sole,  e  tosto  si  fredda,  e 
quando  ella  n*  è  dilungata,  che  la  sua  leggierezza  la 
fa  bene  movente  dalP  una  qualitade  all^  altra.  E  quan- 
do questo  avviene  all'acqua  si  mostra  ch'ella  non 
abbia  in  se  cosa  terrestra.  Ma  sopra  tutte  maniere 
d'acqua  si  è  quella  che  novellamente  è  colta  di  piova, 
se  ella  è  bene  monda  e  messa  in  cisterna  ben  lavata 
nettamente,  senza  alcune  lordure^  per  ciò  che  ella  ha 
meno  d' umidore  che  tutte  le  altre,  ed  è  un  poco  isti- 
cica,  ma  non  tanto  eh' dia  noccia  allo  stomaco,  anzi 
il  conforta.  Appresso  a  questa  si  è  quella  che  viene 
di  lungi  dalle  terre  ove  abbia  gente,  che  sia  fiume  ben 
corrente  su  sad)bione,  e  ben  diiara,  ma  quella  che 
corre  per  pietre  è  migliore  acqua  per  lo  percuotere 
ddle  pietre  che  la  fen  più  delicata.  E  quella  che  cor- 
ré  su  per  netto  sabbione  è  migliore  che  l'acqua  veo* 
chìa  di  cisterna,  per  ciò  che  prende  male  fumositadi 
dalla  terra  per  troppo  lungo  dimoro  die  v'  ha  fatto. 
E  tutti  fiumi  che  corrono  verso  levante  sono  migliori, 
di  quelli  che  corrono  verso  settentrione.  E  sappiate 
che  l'acqua  nuoce  al  petto  ed  allo  stomaco  ed  a' nervi, 
e  ùi  ddiori  nel  ventre,  e  fa  istretto  petto.  Onde  se  ne 
debbe  guardare  d'acque  salse  e  nitrose,  per  ciò  che 
elle  scaldano  e  seccano  e  peggiorano  il  corpo.  Ma 
l'acqua  di  mare  eh' è  così  salsa  e  pungente,  però 
monda  lo  ventre  di  flemma  grossa  e  viscosa.  E  general*^ 
mente  sono  fredde  ed  umide,  e  però  non  danno  al 
corpo  nullo  nutrimento  né  nulla  crescenza,  se  élla 
non  è  composta  d'altra  cosa.  E  la  sua  boutade  potia- 
mo noi  conoscere  per  le  genti  che  abitano  nel  luogo, 


i8i  - 

e4hft4iMidk»l»db90BQ^  té  elH  hanno  le  bocdie  sane 
«nM'dh4lMbr.-eÌMeiB4feirte|  e  che  .abbiano  sane  le 

.di»:naa  abbiano  More  né  flenh* 

•  la  ràcka  netta  senza  ¥izii.  La 

dMKnuì  sia  bianca,  omida 

;:4L  nugrotabbione,  sema  nrì- 

fMiikl^Lm»miaofe^  di  polvere  gKta, 

di  pietrje,  e  che  non 
e  jJJKinoaùà  umida,  ne  gemente^ 
.]aè^jB|||>^'4a  in  oscura  ialite  troppa 
;.e  nette^  e  che  sia  baa  suffi- 
Mti^scQMnli  e  cadici,  e  ciò  che  vi 
4^  ^ritcrto^  ma  ingenen  che 
igi^qmQBfL  dee ,  P  vaino  guardare 
■49Ì)B^^<fCNMrosar  die  del  colore  non 
^#MBWI»#  {K9^!W».se  la  terra  ^.grassa,  tu  pk- 
di'tena  e  inmKiUeraalabeDe  d^ac- 
t|é.poii  se  dia  à  tenace  o  viscosa,  sappi  che 
Anche  se  vogU  §ue  altra  prova,  tu  farai 
IPS^fila  Ibssa^  e  poi  la  riempirai  della  terra  me- 
die tu  ji^ avrai  cavata,  e  se  v'ha  rimanente, 
safifndie  la  teorei  è  grassa,  e  s'ella  vi  manca,  si  è  la 
l9mniagr%e.ae„jnon  ve  ne  rimane  e  non  ve  ne  manca 
qodlft  terra  tiene  intra  grassa  e  magra  ;  e  quando  tu 
Tiarrai^  sapere  di  terra  dolce,  tu  ne  metterai-  un  poco 
ifl-jono  vasello  con  acqua  dolce,  e  poi  l'assaggerai 
cxm' la  lingua,  e.  saprai  s'ella  è  dolce  o  amara  odi 
qiialj(nanieFa  ella  è,  e  secondo  le  sue  maniere  ch'ella 
è:eo6Ì  divegnono  le  sue  semenze  e  'l  suo  frutto.  Ed 
aoioora  lo  Iw^o  del  tuo  campo  non  sia  in  luogo  che 
(acciai  lago,  né  sì  pendente  che. corra  troppo  l'acqua, 

Latini,  f^ol  I.  1 1 


1^2  IL  TESOaO. 

iiè~3Ì  alto  che  liceva  tutti  i  caldi,  né  tutte  ie  tempe- 
ste, ma  dee  tenere  lo  mezco,  in  tal  maniera  che  sia 
fruttìfero  e  baie  istante.  £  se  tu  se^-in  fredda  terra 
tu  dei  iscegliere  tal  campo  che  sia  contro  ad  oriente  e 
contro  mezzodì^  senza  impedimento  che  li  tegna  li  rag- 
gi del  sole.  £  se  tu  se^  in  caldo  paese,  egli  è  buono 
che  *1  tuo  campo  sia  contra  settentrione. 

Capitolo  YI. 

I 

Come  Tuomo  dee  fare  magione  in  ogni  luogo. 

P^  ciò  che  le  genti  lanino  spesso  magioni  sopra  la 
buona  terra,  Torrà  il  maestro  insegnare  c«ne  F  uo- 
mo lo  dee  fare.  L' nomo  dee  innanzi  guardare  che  '1 
ano  edificio  non  trapassi  la  dignilade,  ne  oltra  alla 
ricdiezza  sua,  il  che  è  grande  perìcolo,  secondo  che  1 
conto  diviserà  qua  innanzi,  nel  1Smx>  delle  TÌrtudi,  nel 
capitolo  delle  ricchezze.  £  perciò  non  dirà  egli  nien- 
te di  quella  materia.  Anzi  dice  lo  maestro,  dei  in  pri- 
mamente la  natura  del  luogo  guardare  e  deilo  usare, 
per  conoscere  sua  natura.  Che  V  uomo  dee  ischi&re 
mala  acqua  e  paduli,  e  stagni  medesimamente  se  sono 
contro  a  occidente,  o  contro  mezzodì,  e  se  eUi  hanno' 
in  costume  di  seccarsi  la  state,  però  che  haimo  pesti-^- 
lenze  che  generano  malvagi  ammali.  £  la  firpnte  delh' 
tua  magione  dee  essere  contra  a  mezzocfi,  in  Xsì  mah 
niera  die  1  primo  cantone  sia  volto  contra  lo  sole 
levante,  e  TsJtra  parte  contra  a  ponente.  £  ^  dee 
la  magione  mitigare  verso  lo  sole  di  verno,  perchè 
quella  magione  che  cosi  è  composta  avrà  tuttavia  lo 
calore  del  sole  di  verno  e  d^istate  noi  sentirà.  £  tnt- 


uno  TBRZO.  lS5 

te  le  travi  e  gli  «reali  del  tuo  edificio  sìa  tagliato  di 
tSbftbàntey  o  aliaeìid  infiiio  a  Natale^  in  tal  maniera 
<iie  n*esea  tutto  rmnidore  che  è  neQe  vene  del  le- 
gntti'E  sappiate  che  tutto  il  l^name  che  rnomo  ta- 
1^  dl'teinb  ttieiBoifi  Mno  migliori  Yeió  è  dbe  Terse 
teitHilricMié  ^  pia  alto,  ma  egli  diviene  vinoso  più 
kggoninente.  E^la  caidoa  sia  di  pietre  biandie  e  dò» 
WBf  O  foise  o  libiirtìiie,  o  pmigente  o  almeno  canute^ 
o  dia  fine  nere^  ehe  soao  peggióri.  E- guarda  non  la 
OQD  la  rena  di  mere  che  la  fiirebbe  tro|[^ 
ma -dee  essere  prima  degnata  d'acqua  dcdce, 
Anni  \  ■#*  Patowitrofiii»  del  mare.  E  guarda  che  1 
MH  edHMo'ntm^  fiitto  tutto- msieme^  che  dò  sareb^ 
ti'epawyardiit».  Lo  tuo  odOiere  dee  essere  contro  a 
freddò  e  scuro,  e  lungi  da  bagno  e  da 
^(Sàt'fyrotì  e  da  cìstenia  e  da  acqua,  e  da  tutte 
'etMr^die-faamKO=  fiero  ol(»e.  Lo  granaio  del  signore 
#My.^tiéére*in  <pieUa  parte  medesima,  acciò  die  na 
lÌAgi^dÉ'iiugò  e<ia  tutti  umìdcnri.  Lo  luogo  dell'olio 
■e  onftro  a  mezzodì  e  sia  ben  coverto  per  lo  fifeddo. 
L»  alalia  de' cavalli  e  de' buoi  debba  guardare  verso 
UMiaodì,  ed  abbia  alcuna  finestra  per  alluminare  ver» 
m  ietlentrìone,  in  tal  maniera  che  tu  la  possi  di  ver* 
Bb-  chiudere  per  la  freddura,  e  di  state  aperire  per 
riafreicare^  e  si  dee  essere  la  stalla  pendente  per  di»* 
eomre  tatti  gli  umori  che  nascono  a' piedi  delle  be- 
stie. 


1 84  11'  TEsoao. 

Capitolo  VII. 
Come  Tuomò  dee  fare  pozzi  e  fontane. 

Se  cosa  fos«e  che  noa  avesse  acqua  intorno  aila 
tua  magione  tu  la  dei  troTare  in  questa  maniera.  La 
mattina,  anzi  che  lo  sole  si  levi,  d'agosto,  tu  metterai 
contro  air  oriente  P  occhio  creato  in  terra,  e  riguar* 
derai  tutto  diritto,  là  oye  tu  vederai  l'aere  crespo, 
quasi  come  una  sembianza  di  spargimento  di  rugiada, 
che  ciò  h  segno  d'acqua,  eh' è  riposta  sotto  terra,  sal- 
vo se  egli  fosse  luogo  ove  solesse  avere  lago  o  stagno 
od  altro  umidore,  secondo  che  dimostra  il  giunco,  o 
salce  salvatico,  e  tutti  arbori  che  di  umidoi^  nascono. 
£  quando  tu  averai  veduti  questi  s^ni,  tu  dei  cavare 
la  tarra  tre  piedi  per  larghezza,  e  cinque  per  altezza* 
£  quando  il  sole  è  coricato,  tu  dei  mettere  sotto  terra 
un  vaso  di  rame  o  di  piombo,  che  sia  unto  dentro,  e 
poi  covrire  la  fossa  molto  bene  di  foglie  d'arbori  e 
di  terra,  e  la  mattina  levarne  queste  cose,  e  scoprire 
la  fossa.  £  se  1  vasello  suda  dentro,  o  tu  vi  trovi 
goccie  d'acqua,  non  dottare,  che  quivi  avrai  buono 
pozzo.  ¥A  anche  se  tu  metti  su  quella  cotal  fossa  una 
pentola  di  ten^a  secca  e  cruda,  se  v'avrà  vena  d'ac- 
qua, egli  sarà  bagnato  la  mattina.  £d  anche  se  tu  vi 
metti  uno  vello  di  lana,  e  tu  la  truovi  la  mattina 
bagnala,  o  una  lucerna  accesa,  e  la  malUna  sia  speu" 
ta,  sappi  che  v'  è  acqua  assai.  Or  puoi  poscia  cavare, 
e  fare  lo  pozzo  tuo.  Ma  nelle  parti  di  settentrione  ab- 
bondano le  acque  in  grande  efiiisione,  e  sono  più  sane. 
E  però  che  la  terra  ingenera  ispesse  volte  solfo  e  al- 


i95 

lume,  e  colali  cme  pericoiasc,  oiide  l'utiufi  die  h 
puzzo  dee  avere  inlomo  Aa  %k  una  lucerna  ardente^ 
e  «e  la  ilura  senza  ùpegncisi  à  é  buono  seffto,  m 
ie&a  non  dura  e  spegnei  spesso  questo  ù  segno  di 
fakoLì,  die  '1  cavatore  del  pua^i  ]H)lri.-blie  hMto 
uurìre,  e  leggiermente.  La  bontà  dell' ticquH  dee  et- 
sseprovBlS  ia qtiesta  maniera.  Tu  la  metli'i-u  in  nn 
m^D  di  rame  bene  nello,  e  s'  dia  gerKia  dama 
uh  lecca  in  fra  tre  di,  quella  acqua  nuo  è  buon&.  Ai^ 
the  vi  dirò  altra  prova.  Quando  Tncquu  è  cotta  ia 
HD  picciol  vasello  di  rame,  te  ella  non  fu  lìmo,  tè  r»- 
oa  in  ibndo,  sì  è  buona,  che  tuoce  tosto  li  legwnij  • 
m  luceals  senza  ouvuli  e  senza  ogii'alba  loi'dgra.  - 

CvpiTOLo  Tin.  , 

Come  l'uDa»  de?  km  ciiliin<. 

Se  1  luogo  è  tale,  che  non  vi  si  possa  truvore  acqm 
aè  cavare  pozeo,  tu  farai  una  cisterna,  clie  àa  per 
la^pt  pUtcbe  per  i*tff>>  '^  ùa  ben  nun-ata  in  alto,  e 
■iB^aaò  dì  btWB  tordo  cotto.  E  quando  ella  è  befi' 
■ii>wl  uw.iiiHi»  Inu^geBuente,  l'acqua  vi  si  metta  poi 
4mÌ«r«'«V^  e  peni  di  fiumi  che  per  loro  ntu- 
MViAfanriBnomnoTere  Tacqua  diev'èdentro.Estt  ■ 
P«C^HtD*e*ee.da  nnU>  port^  prendi  di  buona  pece 
"^ — '^  ed'  altro  tanto  di  butm  lardo  o  di  sevo,  e  là- 
..ollir»  inHsnoe,  tonto  dte  si  Bchiumino,  e  pcM  li 
é  dal  Amko,  e  quando  fieno  freddali,  metteraivi 
di  bnona  fai-*»^  trita,  e  meacerai  inueme,  e  poi  mel- 
Uraì  >d:hioHO  onde  Tacqua  esce.. 


l86  .IL  TESORO. 

Capitolo  IX. 

Qui  dice  come  Tuomo  dee  fornire  la  sua  magione. 

Quando  la  tna  magione  è  oompiuta  e  fornita  dell! 
suoi  edifidi,  secondo  lo  stato  del  luogo  e  del  tempo, 
tu  dei  fare  camera  e  sala,  là  ove  T  ampiezza  della  casa 
ti  mostra  che  meglio  stia.  E  se  penserai  di  molino,  di 
forno,  di  vinaio,  e  di  columbaia,  e  di  staUa,  e  di  pe- 
core, e  di  porcdli,  e  di  galline,  e  capponi,  ed  oche,  e 
isceglieraile,  seccmdo  che  1  mastro  insegnerà  qui  in- 
nanzi nel  capitelo  deUa  natura  delli  animali.  Ma  alla 
magione  conviene  vedere  de  1  tempo  e  1  luogo  è  in 
guerra  o  in  pace,  o  se  ella  è  dentro  alla  città  o  dilun- 
gi da  gente.  Che  qudli  d'Italia,  che  spesso  guerreg- 
giano tra  loro,  si  dilettano  di  fere  torre  o  altra  magio- 
ne di  [Helre  molto  forte,  cioè  fuori  delle  dttadi:  e 
fanno  vi  fossi  e  palancati,  o  mura  e  merli,  e  ponti  leva- 
toi, e  porte  con  cateratte.  E  fomisoonsi  di  pietre^  e  di 
mangani,  e  di  saette^  e  d^'ogni  fornimento  che  a  guer*- 
ra  appartiene,  per  oflfendere,  o  per  difendere,  per  la 
vita  delli  uomini  dentro  e  di  fuori  immantinente.  Ma 
li  Franceschi  fanno  ms^oni  grandi  e  piniere  dipinte, 
per  avere  gioia  e  diletto,  senza  noia  e  senza  guerra, 
e  però  hanno  ellino  miglior  £are  prati,  e  verzieri,  e 
pomierì  in  tutti  i  loro  abitacoli,  che  altra  gente,  la 
quale  è  cosa  che  molto  vale  a  diletto  d^  uomo.  E  si 
dee  avere  lo  signore  grandissimi  mastini  per  guardia 
delle  sue  pecore,  e  cani  piccioli  per  guardia  della  sua 
magione.  £  dee  avere  levrieri,  e  bracchi,  ed  ticcelli 
[>er  uccellare  e  per  cacciare,  quando  volesse  a  ciò  in- 


tendere  per  suo  soUazio.  £  sia  la  magione  fornila  d^o- 
gni'coia  db?  è  mÌBtiero  alla  Guciiia  ed  a  tutte  altre 
iMMogn^  seooodo  die  al  signore  si  oonTÌene.  E  la  fìt- 
miglìa  sia  bene  ordinata,  e  insegnata  a  &re  quello 
^rè  da  ftrey.si  die  dascuno  abbia  suo  dàcio  dentro 
«.4^,fiiorì9  in  tal  waniera  che  1  agnore  sia  maestro 
«Q|m.  tutti,  e.dbe  vegffSL  ispesso  come  vanno  le  cose 
A«nmf^iaQe^  sa  d»e  i]udU  possa  menare  onesta  vi- 
ImpPammfra.  dw  1  maestro  nos^ia  qua  innnnì 
Mi  I0XO  ddk  virtodL  Ha  ooine  ìì  sigoore  dee  guar- 
4v«Jl  MIO  pedere^^  ooui*^li  dee  &re  lavorare  le  sue 
iPTf  -^  léjinimtgne,  e  piantare  arbori,  e  seminaone^  e 
ljieQ|^Qr%  egoardace  suebiade^  e  tosare  le  sue  pe- 
cora e lolalte  e  forma^^gio,  e nudrire  poledii  dì  ea- 
WfBif:  e  «anescere  suo  mobile^  Io  maestro  non  ne  dirà 
<ini.pi3udie  detto  n^abbiai  perchè  Tuno  lo  terr^^ 
«I  tlqiiiffno^  e  FalUro  ad  avanua.  £  per  do  ^  lasda 
qiyitn. materia,  e  rìtonia  d  suo  conto,  doQ  a  divisan? 
la  iM^ÈDra  delli  animali.  £  primieramente  delli  pesci, 
die  prima  fiiron  &tti,  secondo  l'ordine  ddli  sd  giorni. 


l88  AHHOTAZIONI 

ANNOTAZIONI  AL  LIBRO  TERZO, 


<    »    ■  ■■■III» 


Cap.  II,  pag.  i58.  E  dalV  altra  parte  quand'egli 
ha  emalaritane  grandi  pioggie  e  grande  ne^y  ec 

Questo  mostruoso  emalaritane  è  la  Mauritania^ 
secondo  il  seguente  passo  di  Solino,  yisibilmeDte  co- 
piato da  Brunetto.  Igitur  protinus  lacum  efficit^  quem 
Nilidem  dicunt.  Nilum  autem  jam  inde  esse  con- 
jectantf  quod  hoc  stagnum  herbas^  pisces^  belluas  ni- 
hilominus  procreet^  quam  in  Nilo  videmus  (oel  Te- 
sarò  abbiamo  invece  la  frase  compendiosa  in  tutte 
cose  simile).  Ac  si  quando  Mauritania^  unde  eiori* 
go  estyoutnivibusdc'nsioribusyaut  imbribus  largio'- 
ribus  irrigatur^  inde  incrementa  exundationis  in 
Aegypto  augeantur  (cap.  XXXV). 

Gap.  II,  pag,  i58.  Per  Jori  privati  dentro  dalla 
terra,  ec. 

Erroneamente  la  edizione  1 535  ha  pridati^  cor- 
reggo  suU^  esempio  delle  due  anteriori  i5a8,  i474* 
Nel  capo  di  Solino  citato  nella  nota  anteriore  si  legge  : 
Sed  cffìtsus  hoc  lacu  arenis  sorbetur,  et  cuniculis 
caecis  absconditur,  e  segue  quasi  lettei'almente  come 
nel  Tesoro, 

m 

Gap.  II,  pag.  160.  E  sappiate  che  nella  riviera  del 

mare  rosso,  ec. .,.  E  ciò  addiviene  delti  tugioni^  ec. 

Anche  questo  passo  è  tradotto  da  Solino,  che  reca 


AL  LIBEO  TKHZO.  l8i^ 

Paatorìtà  di  Yah'ooe:  Qui  qffììinat  in  littoribus  mei- 
rìs  istmsjòniem  esse^  quem  si  os^s  biberinf,  mutent 
s^lìerum  (j^aliiatem  ^  et  antea  candidae  amittant 
qwiodfuerint  usque  ad  haustum,  acJuìsHypostmodwn 
nigrescant  colore  (cap.  XXXVl).  Quanto  poi  al  tu-* 
gioni^  non  che  al  tugiare  e  al  tugiato^  che  si  leggono 
cdncordemente  nelle  tre  edizioni,  è  questa  una  corru^ 
zìon^  probabilmente  vernacola,  del  tosone,  tosare  e 
ta$tik>  datid  dalla  Crusca.  H  primo  de^qiuili  vocaboli 
si  ^Ì€^  nel  §  II  per:  chi  è  tosato. 

Gap.  11^  pag.  i6i.  j^nzi  se  ne  aworrebbe  tutta  in-- 
sieme  la  mano,  ec. 

L'edizione  del  i474  ^^  invece  vorrebbe,  H  voca- 
bolo della  citata  non  si  registra  dalla  Crusca,  e  quindi 
non  so  qoal  senso  attribuirgli  3  ma  neppure  correggen- 
do col  vorrebìk  se  ne  trae  suifficiente  evidenza.  Lascio 
dunque  intatta  la  lezigne  i533,  e  mi  contento  riferire 
il  passo  di  Solino,  onde  tolse  Brunetto  questa  bizzarra 
notizia.  Bitumen  nascitur  in  Jùdaea,  quod  Asphal-- 
iites  gignit  lacus,  adeo  lentum  mollitie  glutinosa,  ut 
a  se  nequeat  separari,  Mnimvero  si  abrumpere  par-- 
tem  sfelis,universitas  sequaiur,scindiquenonpotest, 
quoniani  in  quantum  ducatur  extenditur.  Sed  ubi 
admotaj'uerint  cruore  ilio  (  il  menstruo  di  cui  tratta  ) 
pollata  Jila,  sponte  discerpitur  etc.  (cap.  IV). 

Cajf.  II,  pag.  161.  Tuttu  dentro  di  Giudea  s^rso 
occidente  sono  Siasenes,  ec. 

Così  anche  nelle  due  più  antiche  edizioni  3  ma  pro- 
babilmente si  deve  leggeie  tutto  dentro,  E  dico  pro- 
babilmente, perchè  potrebbe  essere  una  maniera  dì 
dire,  quantunque  iusolila,  non  straniera  alla  lingua. 


Il' 


1 90  ANROTAZIOilI 

Quanto  ai  Siasenes^  intendansi  per  essi  gli  Esseni,  a 
cui  Plinio  consacra  un  capitolo  appartato  nella  sua 
Storia  (il  decimosettimo  del  libro  quinto),  e  ne  parla 
pure  Solino,  cap.  XXXYIH,  pressoché  colle  parole 
medesime  del  Tesoro. 

Gap.  II,  pag.  i6a.  Che  in  quella  parte  è  il  regno 
delli  jimawniy  ec. 

Ck)stante  questa  sgramnàaticatura  in  tutte  tre  F  edi- 
zioni. Non  la  corressi,  perchè  forse  potrebbe  avervi 
un  intendimento  nel  porre  ad  Àmazoni  P  articolo  ma- 
schile. Ed  uomini  si  vogliono  da  Palefato  le  Àmazoni. 
Confesso  per  altro  che  questa  supposizione  non  mi  a- 
vrebbe  punto  sedotto,  se  avessi  trovato  in  una  sola 
delle  tre  edizioni  corretto  V  errore. 

Cap.  U,  pag.  i63.  Ze  parti  di  Gaspe,  là  ove^  ec. 

Probabilissimamente  bassi  a  leggere  le  porte  di  Cor- 
spe^  o  meglio  le. porte  Caspie.  Un  capitolo  intero  nel 
libro  di  Solino  tratta  di  ciò,  e  sentitola  De  Caspiis 
portis.  È  il  cinquantesimo  3  e  chi  vorrà  leggerlo  vi 
troverà  distesamente  quanto  raccontasi  nel  Tesoro, 
così  della  strettezza  del  passo,  come  de^  serpenti.  E 
vedi  anche  Plinio,  libro  YI,  cap.  14. 

Cap.  II,  pag.  i65.  Quel  luogo  si  è  appellato  Dieu. 

Questo  nome  Dieu^  che  tal  quale  si  legge  in  tutte 
Ire  l'edizioni,  è  errato,  e  deve  leggersi  invece  Direo. 
Ecco  il  passo  di  Solino  ( cap.  \A)i  a  Caspiis  ad o- 
rientem  s^ersus  locus  est  quod  Diteum  appellatur^ 
cujus  ubertati  non  est  quod  uspiam  comparari  queat 
eie. 

Cap.  n,  pag.  i63.  Bande  una  cittade  Isodia- 
meSf  ec. 


▲L  uno  movo.  191 

.  9fampni*«kri^  ^P^«^  um  cUtà  deSog4ia- 
9J^^3dif!rtrpiPflnrtiorità.diSo^  cap.LIL E  dd badare 
ioliltd  i  nomi,  aodbe  erronei,  che  mi  accade  di  rìsoon- 
tnpie*  9d  Zl^joniy  ho  già  reso  altrove  ragione. 

Gi^  IL  pag.  164.  E  quando  elU  Vhanno  vedu- 

Patduk^  ha  Pedizione  i474-  Ecco  a  dìchiarazio- 
IPL^  tatto  il  {i^asso,  il  passo  consimile  di  Solino,  cap. 
hB^JMmfon  eerumfliMfium  mercatores  ipd  trans- 
mt^in  Oijus  ripU,  nullo  inier  paries  Unguae  com-- 
witfjB¥h  ^s^  deposiUarum  rerum  pretta  oculis  aesU- 
mt^Ues^  sua  tradunt^  nostra  non  emunt 

jCap-II,  ps^  x65.  EdaUri  ^è  chehannopure  un 
piif  e  si  ckiéÈkmo  ddopleiy  ec. 
.  CS^iùpki  in  tutte  dedizioni;  ma  da  Solino  si  dna- 
msBO  monosceìif  cap.  LY.  £  da  questo  autore  è  tratto 
ilfjà^eUe  &Yole  dbe  Brunetto  racconta.  Se  ne  può 
iPfà^ilpilTisoontro  di  molte  anche  in  Plinio,  nel  libro 
TI»  cap.  So,  dal  quale  però  si  narrano  come  fievole.  . 

.Gip.  n,  pag.  166.  P^ietò  che  mai  non  numgias" 
sera  fise 

E  da  porre  un  ne  dopo  il  non^  a  togliere  il  ridicolo 
senso  che  il  conquistatore  avesse  condannato  que' po- 
poli a  morirsi  di  fame.  Anche  qui  viene  opportuna  Tau- 
tonta  di  Solino,  cap.  LYU:  Post  Indos  montanas 
regiones  Ichthyophagi  tenente  quos  suhactos^  Ale- 
xander Magnus  svesci  piscibus  vetuU,  Ancora  dove 
dice  nell'altra  montagna^  sarebbe  da  corriere  nel- 
ralla  montagna, 

Cap.  n,  pag.  1 66.  Ot^e  nascono  le  calcatriciy  le 
quali  mangiano  a  retro^  cioè,  ec. 


193  AMMOTAZlOIfl 

Nelle  tre  edizioni  concordemente  alletto^  e  ci  vo- 
leva altro  che  il  cioè  a  dichiarare  il  significato  di  que~ 
sto  mostruoso  vocabolo. 

Gap.  Ili,  pag.  168.  Il  suo  mihiogo  è  nelli  campi 
della  città  di  Reale, 

Cosi  in  tutte  tre  P  edizioni.  E  intendi  Rieti^  leggén-* 
dosi  in  Solino,  cap.  Vili  :  UmbiUcum^  ut  Varrò  tra- 
dita in  agro  Reatino  hahet  Onde  Fazio  degli  liberti 
nel  DiHamondOf  lib.  Ili,  cap.  XI,  descrivendo  P  Ita- 
lia in  persona  di  Sqììqo: 

E  se  '1  mezzo  del  tutto  trovar  deggio, 
Proprio  nei  campi  di  Rieti  si  prende: 
Così  si  scrive,  ed  io  da  me  lo  veggio. 

Gap.  m,  pag.  170.  Oltre  Sicilia  si  esce  d'Euro- 
pUf  ec. 

La  edizione  i533  ha:  ^  é  l'Europa^  lezióne  evi- 
dentemente scorretta.  Hassi  a  leggere  dunque  si  esce 
d'Europa^  e  tanto  più  coraggiosaimente  feci  questo 
mutamento,  che  la  edizione  i474  ^^  ^^  ^  ^^  Euro- 
pa, Vidih  indizio  del  verbo  scomparso  per  inavver- 
tenza tipografica,  e  di  cui  non  rimase  che  la  prima 
lettera. 

Gap.  m,  pag.  170.  Comincia  al  monte  Ceraunes 
e  finisce  su  V  Espovis^  ec. 

Questo  brutto  espovis^  riprodotto  in  tutte  le  tre  e* 
dizioni,  è  r  Ellesponto,  E  dove  non  bastasse  il  buon 
senso,  verrebbe  in  aiuto,  secondo  il  solito,  Solino,  che 
dà  cominciamento  al  capitolo  Xm  colle  seguenti  pa- 
role :  Tertius  Europae  sinus  incipit  ab  Acrocerau- 
niis  montibusy  dejinit  in  Hellespontum, 


▲L  LIBBO  TERZO.  I95 

Gap.  ni,  pag.  lyi.E  non  ha  più  di  larghe%%a  che 
sette  stadii. 

La  edizione  del  i474  ^^  stacchias  :  e  noto  questa 
variante  perchè  potrebbe  forse  servir  di  lume  ad  al- 
tri libri  ove  fosse  adoperata  questa  strana  voce  in  sen- 
so di  stadio.  Se  già  non  è  mero  sproposito. 

Gap.  m,  pag.  171.  Poi  si  allargò  dismisurata- 
mente.  ec.  ' 

Questo  passo  è  assai  guasto  in  tutte  e  tre  P  edizio- 
ni. C!orreggerebbesi  forse  la  viziata  interpunzione, 
cangiando  in  allarga  V  aliar gò^  e  tolgendo  via  afiat- 
to  P  ora  preposto  al  non  è  guari.  In  queste  muta- 
ziom  ebbi  a  sicura  scoria  Solino,  cap.  XYII,  che 
cosi  scrive  :  inde  diffusus  acquare  patentissimo  rur- 
sus  stringitur  in  Propontidem^  max  in  quingentos 
passus  coarctatur^Jitque  ^Bosphorus  Thracius,  qua 
Darius  copias  transportavit 

Cap.  IV5  pag.  175.  Ed  in  tra  Egitto  è'I  mare 
à^  Ispagna^  tuttavia  in  coste  lo  nostro  mare. 

Non  sono  punto  contento  di  questa  lezione,  ma  non 
so  correggerla.  La  stampa  del  i474  ^  congiunzione 
P  è  verbo,  e  parmi  ciò  peggiore  di  quello  dà  P  edi- 
zione citala,  e  che  seguo.  £  polche  siamo  agli  errori 
della  edizione  del  1474?  ^"  ^^^^  ^^  maggior  peso  se 
ne  trova  indi  a  tre  righe,  dandosi  V Europa  per  abi- 
tazione degli  etiopeni, 

Cap.  IV,  pag.  177.  Oceano,  tutto  eh''  e'  muta  no- 
rncy  ec. 

Cosi  nella  edizione  i474?  ^^  nelle  antiche  i528, 
1 555  leggiamo  :  Oceano  tutto  ma  el  muta  nome,  ec. 
E  chi  bada  al  senso,  Puna  e  P  altra  di  queste  lezioni 


194  ANHOTAZlOni 

può  Stare  ^  sicché  mi  sarebbe  piaciuto  che  gli  editori 
posteriori  al  trivigiano  avessero  allegato  alcun  motivo 
del  perchè  alteravano  il  primo  testo. 

Gap.  rV,  pag.  178.  Li  quattro  quartieri  del  suo 
Qerchioy  ec. 

Ho  potuto  correggere  a  questo  modo  colla  scorta 
delPedizione  1474;  mostruosamente  si  legge  scorret- 
to questo  passo  nella  citata:  li  quattro  quartieri  del 
suo  dì  circa.  E  in  ciò  ebbe  ad  esempio  là  stampa  del 
i528. 

Gap.  Y,  pag.  1 79.  Secondo  che  ella  dà  a  guada* 
gnare  che  cosa^  ec. 

Concordemente  nelle  tre  edizioni  secondo  che  ella 
è  da  guadagnofCy  ec.  A  principio  mi  parve  assoluta- 
mente errata  questa  lezione,  e  pensai  che  V  è  fosse 
stato  tolto  al  dae^  che  gli  antichi  usavano  per  dà  $ 
m' avvidi  poi  che  potea  non  avervi  errore,  ma  piutto- 
sto uno  di  que^  modi  eleganti  frequenti  negli  antichi, 
e  che  hanno  fàccia  d^  inesattezza.  //  che  cosa^  onde 
si  genera  una  costruzione  alquanto  duretta,  rimane  in- 
tatto in  tutti  e  due  i  modi. 

Gap,  V,  pag.  1 79.  £  ben  chiari  ed  aperti^  ec. 

Qui  ci  manca  occhi^  o  alcun  che  siffatto.  Nessuna 
delle  tre  edizioni  cel  dà.  Leggo  bensì  nel  Palladio,  ci- 
tato dall^ autore,  lib.  I,cap.  5,  che  ha  per  titolo:  come 
sipruova  e  conosce  il  buono  aere^  le  seguenti  parole: 
La  sanità  delV  aere  si  dimostra . . .  guardando  accor- 
pi degli  uomini^  se  sono  di  colori  sani^  e  se  '/  capo  loro 
è  bene  asciutto^  e  chiaro  il  s^edere  degli  occhia  e  V  u- 
dire  pure^  ec  Gito  la  traduzione,  poiché  ne  abbiamo 
una  ottima,  del  beato  secdo,  e  approvata  dalla  Grusca. 


Ali  uno  Tuuo.  1^5 

-  G|ip>  ▼#  JW  f^o.  Ornile  se  ne  debbe  guardare, 

.JPalse  hapao^  tipo  j&ka  lesuone,  tutte  tre  k  antiche 
it$mft»B/^etfienliJU>coDÙcwKa^  ancora  odi 

yifjtuwamìp  PàUadioy  Ub.  I,  cap.  4  :  é  anco  da  guar^ 
ittf'ii  da  ifgni  acqua  «alfa,  o  in  die  regna  alcwna 


Gqx.  Y,  pag.  i8i.  Che  non  sia  coperta  di  polvere 


CoA  in  tutte  tre  V  edìadom.  Quando  fiisse  acoert»* 
tvMflle  ^nesta-  lesione  se  ne  arrdbbe  V  a^^YO  gre- 
iB^«faedalfai  Crusca  ne  si  da  sostantivo  soltanto,  e  per 
P^g§ialtit!ft  lia  greÉoscMà  seguendo  Tautore  in  que- 
lli ìwvertHriiii^  passo  passo  il  IS^ro  del  Palladio,  sono 
iavM»  A  «aredere  djiequi  d^iba  leggersi  polvere  cre^ 
4i;-ÌK  isbe  poMono  esaminare  quelli  cbe-  ne  avessero 
iPi0Uli>3  €ap.  y,  lib.  I  di  queir  autore,  che  vi  trove- 
ìMiofei  dal  prìncipto:  Nelle  terre  si  vuole  attendere 
U^niUifioare^  e  che  le  ghwve  non  sieno  bianche^  os^ 
mro  ignude^  ovvero  sabbione  sama  mischiama  di  (er- 
ra buona  y  ne  terra  creta  sola^  né  arene  ismorte^  né 
ghiaia  digiuna,  ec.  S^uo  nel  citare^  così  questo  come 
tigni  altro  passo  del  Palladio,  la  edizione  veronese  1810, 
procurata  dal  benemerito  D.  Paolo  Zanootli. 

Gap.  YI,  pag.  1^2.  Si  dee  la  magione  mitigare 
verso  lo  sole  di  verno. 

Concordi  le  tre  edizioni^  ma  il  senso  non  mi  viene 
abbastanza  netto.  Nel  cap.  XII  del  lib.  I  del  Palladio, 
tra  gli  altri  avvertimenti,  trovo  :  che  la  casa  . . .  per 
parti  risponda  a  diversi  tempi  delV  unno . . .  Quella 
delìn  state  sia  aperta  e  risponda  al  settentrione , 


]  9^  AimOTAZlOlifl 

quella  del  iberno  al  meriggio^  ec.  Io  penserei  che,  ia 
luogo  di  mitigare^  si  potesse  leggere  mirare, 
'  Gap.  Vn,  pag.  184.  L^occhio  creato  in  terra,  ec. 

Concordi  le  tre  edizioni  nel  leggere  creato,  quan- 
tunque apertamente  erroneo.  Forse  corcato  stana  a 
dovere  :  vegga  il  lettore. 

Gap.  VII,  pag.  184.  O  tu  w  trovi  goccie  d*  ac- 
qua, ec. 

Giozzi  ha  l'edizione  i533,  evidente  scorrezione 
vernacola. 

Gap.  IX,  pag.  1 86.  E  se  penserai  di  molino,  di 
forno,  di  vinaio,  ec. 

Non  trovando  vinaio  nella  Crusca  in  senso  di  luo- 
go da  fare,  o  riporre  vini,  come  sembra  che  qui  deb- 
ba significare,  cosi  messo  a  lato  a  forno,  fui  per  so- 
stituire vivaio.  Poi  mancando  d' autorità  me  ne  asten- 
ni. Provata  legittima  la  lezione  vinaio;  sarà  da  fame 
appartato  paragrafo  nel  Dizionario.  P^ivaio  ha  T  edi- 
zione i474* 

Gap.  IX,  pag.  186.  Magioni  grandi  e  piniere  dir- 
jnnte,  ec. 

Piniera  è  citato  dalla  Grusca  con  quest'unico  esem- 
pio, e  spiegato,  in  modo  per  altro  dubitativo,  per  gal- 
leria. L'edizione  i474  ^^  e  piniere  e  dipinte^  non 
potrebb' essere  che  piniere  fosse  aggiunto  a  magioni, 
scorretto  bensì,  come  tante  altre  voci  di  questo  Teso- 
ro? La  congiunzione,  premessa  all'aggiunto  dipinte, 
che  vien  subito  dopo,  me  ne  fa  sospettare. 


LIBUO    QUARTO. 


#«    ^,»    ■•#* 


;.,.;.■-     E  -  *-    /. 


XlàntOLo  I. 

dalli  tnJBMiK,  e  prima  delti  pesci. 


Li 


•  f , 


pesci  tono  feon  miinefo,  con  tutto  che  PJìaio 
■Qfci^e^eiili  tetiìcm  oeoiloqpiar^  per  nome. 

B-MiajdÌìd|fen6  muaiere.  Chò  Vxxoà  generazione 
tkRpivttìB»  ave  màuÈeataj  ed  altri  conrersano  in  ter- 
A.  ed.  in  acqp%  •  tìtobo  secondo  suo  luogo.  HavTi 
^BépvnipBi  che  temo.  noTa,  e  gittank  in  acqua,  e 
^mxfsut  k  cxittseFTa,  si  che  ne  nascono  li  pescL  Ed  ^ 
ynengioneebe  yì\ì  escono  di  corpo,  si  come  sono  le 
Mene  e  il  dalfino,  e  molte  altre  generazioni.  E  quan- 
do la  madre  li  Tede  nati,  eUa  li  va  guardando  molto 
4olceBiente  e  molto  teneramente.  E  quando  ella  vede 
akun  pesce  che  sìa  di  preda,  per  temenza  che'suoi  fi- 
glioli non  li  siano  tolti  e  divorati,  si  li  si  ritoma  in 
quel  luogo  medesimo  ov^ella  gli  ha  conceputi^  equan-* 
do  vede  che  non  ha  alcun  dubbio,  ed  ella  gli  mette 
foori  al  tempo  el  luogo.  E  sappiate  che^  pesci  non 
anno  the  sia  lussuria,  imperciò  che  in  nulla  maniera 
sk  oongiunge  Puno  con  P  altro  carnalmente,  secondo 
che  fa  rasino  con  la  cavalla,  o  1  cavallo  con  P asina, 
uè  alcuno  puote  vivere  che  sia  di  lungi  dal  suo  li- 


I^B  IL  TESORO. 

gnaggio.  E  sonne  che  si  nutricano  in  diversi  modi  ^ 
che  tali  sono  che  si  nutricano  mangiando  li  minori 
di  loro,  e  tali  che  vivono  di  vermicelli  di  fondo  di 
mare.  La  balena  è  di  maravigliosa  grandezza,  che  gitta 
r  acqua  più  alta  che  niuna  generazione  di  pesce,  il  suo 
maschio  quando  concepe,  e  maschio  concepe.  Sara  è 
uno  pesce  ch^  ha  una  cresta,  ch^  è  alla  maniera  di  ser- 
re, onde  rompe  le  navi  di  sotto,  e  le  sue  ali  sono  sì 
grandi,  ch'egli  ne  fa  vela,  e  va  bene  otto  leghe  cen- 
tra alle  navi,  ma  alla  fine  eh'  egli  non  puote  più  sof- 
ferire,  se  ne  va  in  profondo  di  mare.  Porco  è  d' una 
ragione  pesce  che  cava  la  terra  di  sotto  V  acqua  per 
cercare  dood'egU  viva  cosi  come  i  nostri  porci  ^  e  la 
loro  bocca  hanno  sotto  la  gola,  per  tale  modo  ch^elU- 
no  possano  rugumare,  che  altrimenti  non  si  potreb* 
bero  pascere.  Glave  è  uno  pesce  che  ha  il  becco  co* 
me  una  spada,  con  che  egli  pertiisa  le  navi,  e  falle 
perire.  Scarpione  è  appaiata  una  generazione  di  pe- 
sce, li  (piali  si  magagnano  altrui  le  mani.  Anguilla  è 
un  pesce  die  nasce  di  limaccio  di  terra,  cioè  di  mola, 
e  però  quando  la  pigli,  quanto  più  la  stringi,  più  ti 
fugge  5  di  cui  gli  anziani  dicono,  che  chi  bevesse  del 
vino  ov'ella  fosse  annegata  non  avrebbe  mai  più  vo- 
glia di  bere.  Morena  è  una  generazione  di  pesci,  di 
cui  li  pastori  dicono  che  elle  concepono  di  serpenti^ 
e  però  li  fanciulli  le  chiamano  sufulando,  sì  come  le 
serpi,  elli  vegnono  e  sono  prese;  e  la  loro  vita  è  nella 
coda,  e  chi  la  fiede  nel  capo  o  nel  dosso  non  ha  male, 
ma  chi  la  fiede  nella  coda  immantinente  è  morta.  Chi- 
mus  è  un  pesce  di  mare,  ma  egU  è  sì  savio  eh'  egli  co- 
gnosce  quando  dee  essere  la  fortuna,  innanzi  che  egli 


>99 


k  £«liM  è,  egli  k 
edopo 


Capitolo  IL 


i^quiUfo  piedìy  e  di 
OTuiwi.  KoMoend  fiamedM 
■Kpi^ibè  qadb  dK  eoffie  iMlk  feri»  d'Egitto,  s  00» 
«ie4lcDM|0  k»  dhiMto  ■  dielnv  tt  01^  pnk  di  qodk 
cMitwfcf  ode  ÌM§p  Tenti  piedi,  od  è  amato  di  yaa 
di  darti  e  di  grwidi  oni^iie.  n  soo  cBoìo  è  à  doro^  die 
colpo  di  pieln  die  vobk>  li  pttaae  eoo 
Udì  iteìntBRe,  e  h  notte  ritama  od  fiume^ 
¥Ì  pQoie  ire^  e  «filiate  di'cf^  non  ha  lin- 
B  OOQ  è  anniBl  d  moodo  se  ooo  questo  che  moo- 
fn-lnansedla  disopra,  e qndla  di  sotto  rìmaDgafer- 
MBbBse  vedeakono  nomo  ^li  lo  piglia  e  a  lo  mangia^ 
e  poi  die  P  ha  mangiato  egli  lo  piange.  Or  avviene 
die  qaando  uno  noodlo  chiamato  sooofìiioos  voole 
iffwiyi  va  a  qnesto  animale,  e  ponesi  alia  boeca,  e 
grandi  k  gola  si  dolcemente  ch'egli  apre  k  bocca. 
4dkra  viene  un  altro  animale  oh'ha  nome  calcaUrice, 
ed  cBtrdi  dentro  lo  corpo,  ed  esceli  dall'altra  parte^ 
nmpenddo  lotto  io  lai  modo  ch'ella  Tncdde.  Il  si- 
nijglkntefii  il  dalfìno,  che  quando  il  vede  venire  sì 
se-  K  &  a  rincontro,  e  gettaseli  addosso  e  poi  gli  entra, 
è  iedalo  in  tal  modo  eh' dia  l'uccide.  E  sappiate  che 


t 


200  IL  TBSOEO. 

la  calcatrìce,  con  (ulto  ch'ella  nasca  ìq  acqua  e  viva 
nel  Nilo,  ella  non  è  pesce,  anzi  è  serpente  d'acqua, 
che  ella  uccide  Puomo  se  'i  puole  ferire,  se  f^to  dì 
bue  non  lo  guarisce.  Ed  in  quella  contrada  abitano  uo- 
mini mollo  piccioli,  ma  elli  sono  si  arditi  eh'  elli  la 
contrastano  col  coccodrillo,  eh'  è  di  tal  natura,  ch'egli 
caccia  chiunque  fugge.  E  quelli  che  fuggono  gridano, 
e  &nno  in  modo  ch'ellino  il  pigliano  alcuna  volta,  e 
quando  e'  l'hanno  preso,  elli  perde  tutta  la  sua  fie- 
rezza, e  diviene  si  umano  che  'i  suo  signore  lo  puote 
cavalcare  se  vuole,  e  fallo  ùxe  ciò  che  vuole.  E  quan- 
do è  dentro  dal  fiupie  vede  poco,  e  quando  è  in  terra 
vede  molto  bene.  E  nel  fondato  verno  non  mangia,  e 
non  fa  lordura,  e  quattro  mesi  deli'  anno  sta  senza 
mangiare. 

Capitolo  nL      . 

Della  balena* 

La  balena  è  di  maravigliosa  grandezza,  e  molte  gen- 
ti la  chiamano  graspios.  E  molte  volte  rimane  in  sec- 
co, per  basso  di  fondo.  E  questo  è  perchè '1  mare  cre- 
sce e  scema  trenta  piedi,  sì  come  n(H  avemo  detto 
di  sopra.  E  questo  è  il  pesce  che  recevetté  Giona  nel 
ventre  suo,  secondo  che  le  storie  del  vecchio  Testa- 
mento ne  contano,  che  li  parca  essere  ito  in  inferno, 
per  lo  grande  luogo  eh'  egli  era.  E  questo  pesce  si  sal- 
ta tanto  dall'  acqua,  che  1  suo  dosso  si  pare  di  sopra 
a  tutte  Tonde  del  mare,  poi  il  vento  vi  rauna  suso  re- 
na, e  nasoonvì  erbe,  tanto  dhe  molte  volte  ne  sono 
ingannati  li  marinari,  die  quando  vegi^ono  ciò  si  ère- 


Ane  e  b  Menif  ÌBglttaiii- 


è.-  ■■  pena  di  ■■n^  lo  quale  sta  dun- 
iwiywM^  ed  wpn  •  ciinide,  e  sta  in 
faida  di  aMm^  •  h  MMiDa  e  k  sarà  Tiene  a  sooHnOy 
•  to^a  la  l'iyada.  E  poi  sia  al  sole,  e  indarano  al- 
qaamÈo  qocsie  gocciole  ddb  rugiada,  dascuna  seoon- 
dnpCli^lajona^iMintanloch'dlasia  compiala  difer- 
Miia]  J[WM  niiiiMln  innn  rm  ili  di  queste  oocIiilledUe 
ÌMhn(lO|y«  qneste  sono  qoeUe  die  ruomo  diìama 
pptfa^  la  quali  son  pietre  dì  grande  nobiltà,  e  spedal- 
■Ml&iiinBadidaa;  e  oome  la  rugiada  è  pura  e  netta, 
codi  ìQBO  le  perle  Imndie  e  nette  simigtiantemente, 
à  wL  TOgGono  caTare  per  diiaro  tempo.  Andie  è  in 
m'aitni  oodnlla  d'on^  altra  maniera,  die  si 
.monodie,  e  le  più  genti  le  chiamano  ostri- 
ca^  in  dò  die  qoando  V  uomo  gli  taglia  intomo,  e^- 
KOtaaaaqno  k^nana^  di ch^ ruomo  tigne  le  porpori.di 


202  IL  TESORO. 

diversi  colorì,  e  quella  tintura  è  delle  sue  camL  Ed 
un'  altra  codiilla  è  che  V  uomo  la  chiama  cancro,  però 
che  Tha  gambe,  ed  è  nimica  dell'ostrìce,  ch'ella  man- 
gia la  loro  carne  par  grande  ingegno,  ch'ella  porta 
una  piccola  pietra,  e  va  di  sopra  all'  ostrìce,  e  quan* 
do  ella  apre  la  bocca,  ed  ella  lascia  cstdere  questa  pie- 
tra  tra  le  sue  ossa  con  che  ella  si  chiude,  e  quando 
ella  vuole  non  si  può  richiudere,  si  ohe  ella  la  si  man- 
gia in  questo  modo. 

Capitolo  V. 
Del  dalfiao.  ^ 

Dalfino  è  un  grande  pesce,  e  molto  leggiere,  che 
salta  di  sopra  dell'acqua  ;  e  già  sono  stati  di  quelli  che . 
sono  saltati  di  sqpra  delie  navi,  e  volentierì  segnisco- 
no  le  navi,  e  le  boci  delli  uomini,  e  non  vanno  se  non 
a  molti  insieme,  e  cognoscono  lo  mal  tempo  quando 
dee  essere,  e  vanno  contro  alla  fortuna  che  dee  esse- 
re. E  quando  li  marinari  veggiono  ciò,  si  si  antiveg 
giono  della  fortuna.  E  sappiate  di' ^li  ingenera  e  por- 
ta dieci  mesi.  E  quando  gli  ha  fòtti,  ed  ella  li  nutrica 
del  suo  latte.  E  quando  dia  vede  pesci  di  che  li  fi- 
gliuoli temano,  ella  se  li  mette  in  corpo,  e  tanto  li  vi 
tiene,  di' ella  vede  luogo  sicuro.  E  vivono  trenta  anni, 
e  muoiono  di  piccola/edita  ch'elli  abbiano.  E  mutano 
la  lingua.  Ed  a  nullo  altro  animale  d'acqua  addiviene 
quello  che  a  lui,  che  mentre  ch'egli  sta  sotto  P  acqua 
non  può  inspirare.  E  però  ispesso  viene  dì  sopra  del- 
l' acqua,  secondo  che  l' uomo  lo  puote  vedere  quando 
lo  traeva  in  mare.  Alla  primavera  vanno  al  mare  di  pcy- 


«VAETO.  ao5 

per  rabbondauB  del- 

^       éAWNmMJki  iiniitTO  wte peggio  die  lo  di- 

lilliywKlirJhaw^yed»  bene;  E  tappiate  die  dal  fiame 

di  dalfini  die  hanno  sotto 

itpim  eoo  di' e^  uccide  lo  cocco» 

«1^  «i  trova  iidQe  storie  antidie  che  ano 

mo  dalfino  col  pane,  ed  anorvalo 

I  -lo  c^fwtarva  e  gioocaTa  con  Ini 

«1»1  gaiapaeinort;  ede^  stimando  die  1 

tr«MHl%  fli  ÌaMÌ&  morire.  Ed  andie  in  Egitto^  un 

m  anro^  cne  iwingiiantcmente  io  ca- 

con  loL  Addivenne  che  questo  gar« 

;ft.fai|^iMrad?anof%aorey  sì  lo  lece  uscire  fuori 

^0llg0ÌMiltìlt^fèmtm9-e  qodli  lo  nocisera  E  saldiate 

#ligt<kiriqpal  papee^-  dte  più  amore  porta  aU^uomo, 

dbilWMnriinBMfe  die  d?  acqua  sia. - 

..4-^--k.  .  CAPrroi.0  YL 

'•"'*'■'  Delle  portarne. 

.POrlanie  è^  un  pesce^  eh'  è  dùamato  cavallo  fiuma^ 
tioo^ però  che  Inasce  nd fiume  del  Nilo.  £  lo  suo  do»^ 
m^  Bsiioi  crini  e  la  sua  boce,  è  come  di  cavallo.  E 
la  am  UB^iie  son  fesse,  come  d^uno  grande  porco  sai- 
mÌÈùy  E  ha  la  coda  come  cane  bretone  ritonda.  E 
'm*-jdietro  ^taodo  vede  P  uomo,  per  paura  che  non- 
MÌM50ÌB. alcuno  aguato,  e  questo  ùl  per  sua  guardia^ 
F-yàniiir  mangia  troppo,  e  conosce  eh'  è  rinfuso  per 
trippe  in|ngiare,egli  va  suso  per  le  canne  che  sono 
i^taftfte  di' novello^  tanto  che  '1  sangue  li  esce  de'piedi 
"^fcfpaiwk!  ah^'^'^''y«^j  {^  le  canne  che  sono  tagliate 


2o4  Ih  TESORO. 

che  li  tagliano  ì  piedL  E  in  questo  modo  si  medicina 
della  sua  malattia. 

Capitolo  VII. 

Della  serena. 

Serene  furono  tre,  secondo  che  le  stoi4e  antiche 
contano.  £  aveano  sembianze  di  femine  daà  capo  in- 
fino alla  coscia,  e  dalle  cosde  in  giù  hanno  sembian- 
za di  pesce,  ed  aveano  ale  e  unghie.  Onde  V  una  can- 
tava molto  bene  con  la  bocca,  e  V  altra  di  flauto,  e 
r  altra  di  cetera,  e  per  loro  dolce  canto  e  suono  fa- 
cevano perire  le  navi,  che  andavano  per  mare  uden- 
dole. Ma  secondo  la  verità,  le  serene  furono  tre  me- 
retrici, che  ingannavano  tutti  i  viandanti,  e  mettevan- 
li  in  povertade,  e  dicono  le  storie  che  le  aveano  ale 
e  unghie,  a  similitudine  dello  amore  che  vola  e  fie- 
de.  £  conversavano  in  acqua,  perchè  la  lussuria  fu 
fatta  a  modo  delF acqua,  che  così  come  nell^acqua  non 
si  truova  fine,  cosi  nella  lussuria  non  si  trova  fine.  E 
alla  verità  dire,  in  Arabia  è  una  generazione  di  ser- 
penti bianchi,  che  Tuomo  appella  serena,  che  corrono 
sì  maravigliosamente,  che  molti  dicono  ch^elli  volano, 
e  loro  ferite  sono  sì  crudeli  che  s' elli  mordano  alcuno 
conviene  che  muoia  anzi  ch^egli  senta  alcuno  dolore. 
Della  diversità  dei  pesci  e  di  loro  natura  non  4irà- 
ora  più  il  maestro  che  detto  ha,  anzi  dirà  degli  altri 
animali  che  sono  in  terra,  e  prima  dirà  delli  serpen- 
ti che  sono  in  molte  cose  più  simigliane  a^  pesci. 


ao5 


AHHO^OHI  IL  UBBO  QUIETO. 


1    » 


tìtfi  VpBg-  197*  Che/mmo  uova,  ec 
«  ^^tàkti&àoa»  citata  hamcno,  apertiMÙnocnrore  tn 
fwgiafiiiiu.  J^'iiOMi  neUVduione  i474- 
•  Vkfh  ],  pif .  19S.  //  suonuuehio  quamk  eoneepCf 


A  qpmte  maniftiiai  geonwpooc  non  seppi  comcfrt- 


♦  *'<d(fel)  pag.  t^%..ElUno  possano  rugumarOf  ec. 
""■^JbjfiMMrvlMiredinoiie  i553;  io  oorresii  secondo 
Aia  dh'la  Gnisca  odia  citazione  di  questo  passo. 
^  '  Oip.  I,  p^.  198.  Zi  gua/i  si  magagnano  altrui  le 

Corressi  b  Tizi^ta  lezione  delle  tre  stampe  antiche^ 
chft  danno  concordi  mangnanono.  Di  questa  corre- 
^dne  To  debitore  alla  Crusca  che  cosi  reca  il  passo 
dfa  voce  Scarpiàne  §. 

Cap.  II,  pag.  199.  Del  coccodrillo, 

'  |j^  edisdone  de.  i474  ^  cancro  in  luogo  dT  cocco- 

'drìDo;  nel  resto  del  capitolo  non  e'  è  disparità  colla 

Qlata  del  i533,  fuorché  pel  perìodo  ove  si  parla  del 

Oitito  della  mascella.  Eccolo,  quale  cel  dà  P  edizione 

.  Imigiana:  E  non  è  animai  al  mondo  che  pia  muove 

^Ètia  mascella  di  sopra^  e  quella  di  sotto  rinume.  La 

edizione  iSaS  fu  prima  a  cangiare. 

Latini.  Fot.  I.  la 


2o6  anuotazioni 

Gap.  H,  pag.  1 99.  Or  <wsnene  che  quando  uno  uc- 
.  cello  chiamato  sconfiUons^  ec. 

Di  qui  al  termine  del  capitolo  la  confusione  è  gran- 
dissima. Prenderò  a  scorta  Solino  cap.  XXXV,  e  Pli- 
nio lib.  VIII5  cap.  25.  Ambidue  chiamano  trochih 
Inanimale  che  leggiamo  sconciato  in  questo  sconfi- 
lions.  E  la  calcatrice^  che  TÌene  dopo,  è  detta  da  So- 
lino Enidro  { alterwn  ichneumonum  genus  %,  e  da 
Plinio  Ichneunum  semplicemente. 

Cap.  n,  pag.  199.  //  simigUanteJa  il  dal/ino. 

Il  fòtto  del  dalfino  è  tntt^  altro  da  ciò  che  suona,  se- 
condo la  lezione  citata,  che  dà  :  il  simiglianteja  del 
dalfinOf  ec.  Ecco  il  testo  di  Solino:  est  etdelphinum 
genus  in  Nilo;  quorum  dolosa  serratas  habent  cri- 
stas.  Hi  delphines  Crocodiles  studio  eliciunt  ad  no" 
tanduiìij  demersique  astujraudulento  tenera  ivn- 
trium  subtematantes  secante  et  interimunt,  Skchè  i 
dalfini  sono  compagni  alla  così  detta  cakatrìce  nel- 
Puccidere  il  coccodrillo,  non  die  rimangano  essi  pure 
uccisi  da  lei,  come  parrebbe  secondo  k  viziata  lezione 
del  Tesoro,  Quindi  corressi  francamente:  il  sinu^ 
glianteja  il  dal/ino.  Forse  volle  alludere  al  dalfìno 
di  cui  parliamo  Cecco  d^Ascoli,  cantando  né.  XXXY 
dell'  Acerba^  ove  descrive  il  crocodillo  : 

Crestato  pesce  sempre  a  lui  fa  guerra. 

Cap.  n,  pag.  200.  Ed  in  quella  contrada  abitano 
uomini  molto  piccioli^  ec. 

Praeterea  habitant  in  insula  Nili  homints  forma 
perexigui  ec,  abbiamo  da  Solino,  nel  luogo  sovracci- 
t«ito.  E  Plinio  ci  jda  anche  il  nome  delP  isola,  ch^  è 
Tcntira,  da  cui  dice  dhe  s^  intitolassero  gli  abilanti. 


AL  UBEO  QDAATO.  207 

Gap.  n,  p9g.  !ioo.  E  quelli  che  Juggono  grida- 


noy  ea 


Qui  vi  dev^  essane  Dna  lacuna,  e  la  dimostrazione 
n^  è  facaliiwioìa.  Dice  Solino  (loc.  càL\  parlando  deaero- 
oodiDi  :  haec  monstrajugientes  insequuntwr^  formi" 
doni  resisientes,  E  questo  dice,  dopo  aver  detto  in 
pn^pooto  di  qu^li  uomini  piccoletti  Tentiriti  audacia 
eo  usque  praeditiy  ut  crocodilis  se  offerant  ohvios,  il 
che  non  sta  ponto  col  fuggire.  Sicché  io  direi  che  do- 
po il  caccia  chiunque  Jugge  ci  dovesse  essere  e  teme 
cbiju  resisteraa,  o  simile  che  risponda  éìjhrmidant 
nsistenies.  Tiene  poi  P  altro  inciso  e  quelli  chejug^ 
gtmo  gridano,  e  qui  giova  ricorrere  a  Plinio  (loc.  cit.), 
ehe  dice  di  quegli  abitanti  di  Tentira,  che  spaventano 
il  croGodillo  colle  grida,  fino  a  coslriagerlo  a  gettar 
*  fiiora  i  corpi  inghiottiti  di  fresco,  tanto  da  potergli 
seppellire,  voce  etiam  sola  territos,  cogunt  evomere 
recèntia  corpora  ad  sepulturam.  E  non  è  raro  P  e- 
sempio  di  belve  che  s^  impauriscano  delle  grida. 

Cap.n,  pag.  200.  EJarino  in  modo  ch'ellino  il 
pigliano,  ec. 

Ho  cangiato  ih  tutto  il  periodo  in  maschile  il  ge^ 
nere  femminino,  che  si  legge  costante,  né  so  perche, 
nelle  antiche  edizioni. 

Gap.  IV,  pag.  201.  Che  si  chiamano  moriccìie. 

Intendi  murice. 

Gap.  V,  pag.  202.  £*  quando  gli  ha  fitti,  ed  ella  li 
nutrica  del  suo  latte,  ec. 

Qui  dal  maschio  passa  alla  femmina.  Uherihusjoc- 
tus  alunt,  scrive  Solino,  cap.  XYU,  e  Plinio  le  asso- 
miglia in  ciò  alle  balene,  lib.  IX,  cap.  8. 


3o8  AimoTAzioin 

Gap.  y,  pag.  202.  JE  mutano  la  lingua^  ec. 

Perchè  non  tì  sìa  qui  errore  maDÌfesto,  tuoIsì  in- 
tendere mutare  per  macere,  di  che  un  qualche  ap- 
poggio si  dà  dalla  Crusca  nel  §  I  di  questa  voce,  pur 
con  un  esempio  del  Tesoro^  che  parla  delle  anguille, 
che  col  loro  mutare  hanno  a  muovere  T  acqua  della 
cisterna  (lih.III,cap.  8).  £,-ciò  posto,  sarebbe  da  nota«- 
re  questo  verbo  usato  qui  attivamente.  Grca  poi  al 
doversi  intendere  mutare  i^  muovere^  abbiamo  P  au- 
torità di  Solino  che  ce  ne  ùl  certi  (loc  dt.)  ove  dice: 
cantra  naturam  aquaiilium  soli  Unguas  mos^enU  £ 
Plinio  usa  presso  a  poco  le  stesse  parole. 

Gap.  T,  pag.  ao3.  E  lo  diritto  s^de  bene. 

Questo  lo  diritto,  che  manca  nelle  antiche  edizioni 
per  manifesta  inavvertenza  tipografica,  cel  posi  io.  Sa- 
lino così  ne  scrive  (loc.  cit.)  :  dextris  ocuUs  acutius 
^emunt  quam  sinistrisi 

Gap,  YII,  pag.  204.  £  V  altra  dijlauto,  e  V  altra 
di  cetera,  ec. 

Dijiuto  hanno  le  antiche  edizioni,  e  che  sia  que- 
sta musica  di  fiuto  chi  l'intende  mei  dica.  Ma  la  Cru- 
sca corresse  al  modo  ohe  sì  vede,  recando  P  esempio 
del  Tesoro  alla  ^oce  flauto.  Soggiugne  poi  che  alcuni 
testi  a  penna  hanno  leuio. 


aog 

LIBRO    QUINTO. 


Capitolo  I, 


;Qiii  conaiiKla  fl  trattato  ddli  wrpenti,  e  loro  natura. 


s, 


Serpenti  sono  di  molta  generazione,  e  hanno  di* 
verse  Datare^  ma  tutti  serpenti  sono  di  fredda  natura. 
B  non  fiedooo,  se  primo  elli  non  sono  riscaldati,  e 
pero  esce  di  loro  più  veleno  di  di  che  di  notte,  per- 
chè di  notte  si  ricoglie  e  ùl  bolge  per  la  rugiada,  e 
tutto  Temo  giacciono  nelle  loro  tane,  e  la  state  n^  e- 
scoilo.  Tutti  i  veneni  son  freddi,  però  addiviene  che 
V  nomo  n'ha  paura,  quando  egli  n'è  ferito,  però  che 
r  uomo  è  di  calda  natura,  e  però  fugge  la  freddura 
dA  veneno.  Egli  è  appellato  veneno  però  che  li  en- 
tra dentro  dalle  vene,  e  non  avrebbe  podere  di  mal- 
fore  se  non  toccasse  lo  sangue  delPuomo,  e  quando  il 
tocca,  tutto  V  arde  infino  che  V  uccide,  se  non  vi  si  fa 
argomenti.  Le  nature  dei  serpenti  son  tali  che  quan- 
do egli  invecchia,  li  suoi  occhi  diventano  torbi  e  te- 
nebrosi, perchè  elli  sono  coperti,  ed  elli  s' il  conosce 
bene.  Ed  allora  dimagra  tanto  che  la  sua  pelle  gli  è 
molto  grande  e  larga,  ed  allora  egli  entra  per  forza 
tra  due  pietre,  e  spoglia  la  sua  pelle  vecchia,  e  diviene 
giovane  e  frescOy  e  di  buono  colore  e  ritornali  il  buo- 


2 IO  IL  TESORO. 

no  vedere,  e  mangiano  finocchi  per  avere  chiara  ve* 
dota.  E  quando  elii  vanno  a  bere,  elli  lasciano  il 
veneno  in  alcuno  luogo  sicuro^  e  la  sua  bocca  è  pic- 
cola, e  han  la  vita  nel  capo;  che  sMli  è  riciso,  e  ri- 
manga pure  due  dita,  non  more,  e  per  ciò  mette  tut-* 
to  il  suo  corpo  in  difesa  del  capo,  e  per  la  grande 
guardia  ch^  egli  &  del  capo,  non  vede  guari  bene.  E 
non  ha  gli  occhi  nel  capo,  ansi  gli  ha  dallato  dalli 
orecchi,  e  non  vede  guari  bene  dinanzi,  ma  vede  ben 
traverso,  e  se  è  ferito  trai  capo  e  1  collo  non  può 
andare  se  non  poco,  e  scegli  mangia  di  corpo  d^  uo- 
mo a  digiuno  si  more,  e  nascono  due  uova.  E  por 
che  le  serpi  hanno  fatte  le  uova,  sì  te  covano  sotter- 
ra, e  nascono  di  quelle  uova,  sì  come  gli  uccelli. 

Gafitoix)  n. 

» 

Deir  aspido. 

Aspido  è  una  generazione  di  velenosi  serpenti  che 
con  suoi  denti  uccide  V  uomo.  Tutto  che  ne  sono  di 
più  maniere,  e  ciascuno  ha  per  propria  maniera  di  mal 
fare,  che  quel  ch^  è  chiamato  difìse  fa  con  suo  fiato 
morire  P  uomo.  L^altro  ha  nome  prialis,  che  fa  tanto 
dormire  V  uomo  che  more.  L^  altro  ha  nome  emori,  e 
fa  tanto  sangue  uscire  all'uomo  che  1  ùl  morire.  E  quel- 
lo che  ha  nome  presto,  va  tutto  die  con  la  bocca  aper- 
ta, e  quando  egli  istrigne  alcuno  con  li  suoi  denti,  si 
enfia  tanto  eh'  egli  se  ne  more,  e  puzza  subitamente, 
sì  eh'  è  .orribile  cosa.  E  sappiate  che  V  aspido  porta 
in  capo  una  pietra  preziosa,  che  ha  nome  carboncalo, 
e  quando  V  incantatore  vuole  quella  pietra,  dice  sue 


^^p^  LiBBO  quinto.  31 1 

panie,  e  quando  I'  aspi  do  «e  ne  avvede,  incinlanenU- 
ficca  l^  una  orecchia  in  Utib,  e  T  altra  ii  tura  con  la 
roda,  si  che  non  ode  le  parole  dello  incanlntorai.  Nel 
regnofìelle  lémiue  sod  serpenti  che  hanao  daa.lefto, 
V  una  conte  debbono,  e  l'altia  nelb  coda^  •  n-,d> 
riascuoa  parte  e  corre  prestamente;  isuoi  occUmoo 
lucenti  come  candela  accesa.  E  sappiate  die  qfteito 
serpeate  solo  è  quello  che  sta  alla  freddura  tutto  iìf 
e  va  dinanzi  a  tutti  gli  altri  eume  guerriere  4  ca^if 

Capitolo  III. 


Basìliscbio  si  e  nna  generazione  di  serpanà  e  là 
peno  di  veleno,  che  ne  riluce  Lullo  di  fuori,  esiaodia 
non  che  sub  il  veleno,  ma  il  puzzo  avvf  Icua  da  praa- 
Hi  e  da  lungi,  perché  egli  corrumpe  l'aria  e  gonta 
gli  arbori,  e  ''1  suo  vedere  ucciile  gli  uccelli  p«  i'  aria 
volaado,  e  col  suo  vedere  attosca  I'  uomo  quando  lo 
»rtii  I  tnlln  ebe  gli  unnùni  anziani  dicono  che  non 
aaod»  m-t^  io  vede  in  prima.  E  la  sua  grandezza,  e* 
«Mi  jpiedì,  «le  tacche  biancfae  snt  dosso,  e  la  cresta 
•mao  proprie  cerae  di  gallo,  e  va  la.metà  diritto  so- 
f>K-|MT%«  l'altra  laetà  va  per  l^ra  come  gli  altri 
■ApaBlà^E  eoa  tutto  eh'  egli  sia  co^  fiero,  It  lo  uc~ 
«AklB'bdlHla.  E  sappiate  che  quando  Aleuaodro  lì 
[i  .ièce  Gire  ai&pdle  di  vetro  colato  dove  gli 
a  à  che  vedeano  gli  uomini  ■  terpeo- 
-41)  BH  li  wipecrti  noD  vedeamo  gli  uomini  e  eoa  gli 
MMilHiiii  con  nette,  e  per  colale  iogegno  oe  fii  de- 
'Ubaabk  V  oste;  e  que«U  i  qualità  del  batiliscJtto. 


9  I  a  IL  VBSOAO. 

Capitolo  IV. 

Della  natura  di  pia  dmgoin. 

Dragoni  è  maggiore  generazione  di  tutti  serpenti,  ed 
eziandio  ò  maggiore  che  nessuna  bestia  del"  mondo, 
ed  abitano  in  India  nel  paese  d^  Etiopia,  là  ove  sem- 
pre è  grande  btate.  E  quando  ^Ui  esce  del  suo  luo- 
go^ egli  corre  per  Paria  sì  ismisuratamente  e  per  si 
grande  forza,  che  Paere  ne  riluce  dopo  lui,  sì  come 
ardente  fiamma.  E  ha  piccola  cresta  e  bocca,  e  ha  un 
buso  aperto  quindi  onde  cava  la  lingua  il  suo  spiri- 
to. E  la  sua  forza  non  è  nella  bocca,  anzi  è  nella  co- 
da, onde  ùl  peggio  per  battere  con  la  coda,  che  per 
tnordere  con  la  bocc^.  E  la  forza  della  sua  coda  è  si 
grande,  che  §essuno  animale  n^  è  si  grande,  n'  è  si 
Ibrte,  che  s' ella  lo  stringe  con  la  coda,  non  lo  uccida. 
Ed  eziandio  lo  leo&nte  uccide  istrìngendolo,  ed  è  in~ 
tra  loro  odio  mortale,  secondo  che  lo  maestro  dirà 
più'  inpan^i}  colà  ove  parlerà  dei  leofante, 

Cìjp;tolo  V, 

Della  natura  dello  isitalis. 

IsitaUs  è  una  generazione  di  serpenti,  che  vanno 
lentamente,  ma  egli  è  si  bene  tacoato  di  diversi  colo- 
rì chiarì  e  lucenti,  che  le  genti  lo  veggiono  volentierì 
tanto  eh'  elli  se  li  appressano,  e  per  la  sua  paura  non 
Il  possono  partire,  e  co^  li  prendono.  E  sappiate  che 
cgh  è  di  calda  natura,  che  eziandio  di  verno  si  spor- 
gila la  fm  pelk,  per  calura  eh'  è  in  lui. 


-    ■  ^■•^    ■   ■ 

CajpxtoloYL 

IMDanptrm* 

(■^^CM^:^ nnft  fjfiOfiXÈaàoo» ^  serpenti,  dk'  è  Àfiera 
fljjlWlTP**!  T**^  4pi0D^  il  maadiio  ù  ooogiaoge  con  la 
IpillN^'^if^™^^  ^  ^^H^  dentro  alla  booca  ddlb  fe^ 
flU^ÌDUmurTrlltì  Mata  fl  diletto  della  lussuria,  ékà 
ooo^dinti-  e  matd&  via  il  «apo^  e  qudUp  capo 
dénlfo  dal  suo  corpo.  E  quando  li  figliuoli 
JIIPH  ja  lempo  che  ne  yogUono  uscire  fbori,  etti  le 
Hmtunnn  diffnrri  dalla  sduena  per  diritta  feria,  ed 
mipipp  fiuni  in  til  maniera,  ch'elli  veggicKDO  la  lor 
ilìl^fa^.IM.iqpieflo  serpente  dice  santo  Ambrogio,  cbe 
mt0^  A  la  pù  cpidde  bestia,  che  sia  ai  mondo,  e  più 
'^  jMlaQa.sen^  pietUde,  £  sappiate  ohe  queUo  ser- 
llfnCe,  quando  e^  ha  talento  di  lussuria,  mette  il  capo 
nftta  bocca  ddla  femina,  ond'  ella  F  uccide^  à  come 
4ÌE|to  è  di  sopra, 

cufitolo  vn. 

Del  lusardes  e  della  salamandra. 

■ 

•  Lusardes  sono  di  più  maniera,  tali  grandi  e  tali 
pàscoli,  r  una  specie  quando  è  caldo  sì  morde  Pnomo 
con  d€«iti  malamente,  ma  quando  lusardes  invecchia^ 
e^  entra  per  uno  buso  di  muro  stretto,  contr'al  sole, 
e  spogliandosi  la  sua  veste,  lascia  tutta  la  si|b  tcc- 
dbiezza.  E  simigliasi  sdla  salamandra,  di  colore  va^ 
nato,  n  suo  veleno  è  più  trafittivo,  che  tutti  gli  al-* 
tri  veleni,  ch^  egli  nuoce  a  molte  cose,  ijoà  sV^  av- 


21 4'  IL  TESORO. 

velena  tutti  li  pomi  dell'  albore,  uccide  tutte  le  per- 
sone che  ne  mangiano,  e  s^  ella  cade  in  un  pozzo,  egli 
BTTelena  chiunque  ne  bee.  E  sappiate,  che  la  salaman- 
dra vive  entro  nel  mezzo  del  fuoco,  senza  alcuno  do- 
lore, e  senza  alcuno  dannaggio  di  suo  corpo,  anzi  ispe- 
gne  il  fuoco  col  suo  vento.  Qui  fa  fine  la  storia  e  '1 
parlare  di  serpenti  e  di  loro  natura  e  di  vermini,  co- 
Aie  sono  di  diversa  maniera  e  come  nascono  in  terra 
e  in  acqua  e  in  mare  e  in  caverne  e  in  foglia  e  in  le- 
gno e  in  drappi  e  in  uomo  e  in  altri  animali,  dentro 
e  di  fuori,  senza  congiungimento  di  maschio  e  di  fe- 
mina.  Anche  che  alcuni  ne  nascono  per  generazione, 
non  ne  dirà  più  il  conto,  però  che  sarebbe  lunga  ma- 
teria, senza  grande  profitto,  e  seguirà  altra  materia, 
per  pwrlare  de^li  altri  animali,  e  primieramente  del* 
l'aquila,  eh' è  podestà  di  tutti  animali,  cioè  uccelli. 

Capitolo  VIDi, 

DeUa  natura  dell*  aquila. 

L' aquila  è  con  la  migliore  veduta  che  nessuno  al- 
tro uccello  del  mondo.  £  vola  sì  in  alto,  che  V  uo- 
mo perde  la  sua*  veduta,  e  vede  si  chiaramente  che 
conosce  in  terra  ogni  piccola  bestia  che  vola,  e  li  pe- 
sci nell'  acqua,  e  quando  vi  si  abbatte  sì  li  piglia.  E 
dura  di  guardare  verso  il  sole  sì  fissamente,  che' suoi 
occhi  non  muove  niente,  E  però  piglia  li  suoi  figliuo- 
li, e  volgeli  versoli  raggi  del  sole, e  quello  che  vi  guar- 
da dirittamente  senza  mutare  suoi  occhi,  sì  è  ricevu- 
to e  nutricato,  sì  come  degno,  e  quello  che  muta  li 
suoi  occhi,  sì  è  nfutato  e  cacciato  del  nido,  si  come 


I 


LIMO  QDIIITO.  ai 5 

istardo.  £  ciò  non  addiyieDe  per  crudellà  di  natura, 
Ma.  per  giodicainento  dì  dirittura,  che  non  lo  ha  per 
lOO  figliuolo^  amd  come  uno  strana  E  sappiate  che  un 
v3e  noodlo^  ch^  è  chiamato  fortezza,  ricoglie  quello 
db'  è  cacciato^  e  mettelo  tra  suoi  figliuoli,  e  nutiìcalo 
come  MIO.  E  sappiate  che  F  aquila  ha  lunga  ^ìta,  che 
dia  rinordOa  e  spoglia  sua  vecchiezza.  E  dicono  mol- 
ti, eli*  dia  Tola  si  alto  che  le.  sue  penne  ardono,  e  le 
ne  scorze  d^[li  occhi,  tanto  s' appressa  al  calore  del 
iiooo.  £d  allora  si  lascia  cadere  in  una  fontana,  ov^el- 
la  si  bagna,  ed  immantinente  toma  giovane  come  dal 
tao  poanncìanìRnto.  Àndie  dicono  molti,  die  quando 
cDa  inveochia  il  becco  gli  cresce  tanto  che  si  volge  in 
gjoso^si  A^  ella  non  può  beccare  cosa  che  prode  le 
&Bda.  Ed  ella  va  ad  una  pietra,  e  tanto  ella  vi  per- 
eooCe^  die  quello  eh'  è  cresduto  si  parte  dall'  altro,  e 
in  tal  maniera  die  toma  così  bello  e  così  tagliente,  co^ 
me  egli  era  quando  era  gio'\*ane. 

,  Capitolo  IX. 
Deir  astore. 

L'astore  è  uno  uccello  di  preda  che  l' uomo  tiene 
per  diletto  d' uccellare,  sì  come  l' uomo  tiene  ispara- 
viere  e  falconi,  ed  è  di  fazione  e  di  colore  simiglian- 
le  allo  sparaviere,  ma  è  maggiore  del  falcone.  E  sap- 
piate che  astori  e  falconi  e  sparvieri  ed  altri  uccelli 
di  preda,  che  l'uomo  tiene  per  diletto  d'uccellare,  sono 
molto  fieri  ai  loro  figliuoli^  che  quando  elli  sono  in  a- 
ria  die  possano  volare,  elli  li  cacdano  da  loro  in  tale 
maniera,  che  mai  quasi  non  si  ritruovano  con  loro, 


3l6  IL  TESORO. 

perchè  vogliono  ch^  elli  medesimi  si  pascano,  non  vo- 
lendo che  lascino  quello  che  debbono  fare  per  natu- 
ra,  e  perchè  non  diventino  nighittosi,  e  per  queste 
cagioni  li  dipartono  da  loro.  E  sappiate  che  astori  so^ 
no  di  tre  maniere,  grandi  e  mezzani  e  piccoli.  Li  mi- 
nori sono  a  guisa  di  terzuolo,  ed  è  prode  e  maniero,  e 
bene  volenteroso  di  beccare,  ed  è  leggiere  da  uccel- 
lare. Lo  mezzano  ha  ale  rossette  e  piedi  e  corpo  ed 
unghie  piccole  e  malvagie  e  gU  occhi  grossi  e  scurì. 
Questi  sono  molto  durì  a  farli  manierì,  e  però  non 
vagliono  guarì  lo  prìmo  anno,  ma  al  terzo  anno  sono 
buoni  e  di  bona  aria.  Lo  grande  astore  è  maggiore  che 
gli  altri,  e  più  grosso  e  più  maniero,  e  migliore,  e  gli 
occhi  ha  begli  e  chiarì  e  lucenti,  e  grossi  piedi  e  gran- 
di le  unghie  e  lieto  viso,  ed  ardito  che  per  nessuno 
uccello  si  trae  addietro,  ed  eziandio  dell'  aquila  non 
ha  paura.  Però  dice  il  maestro  che  quando  V  uomo 
vuole  cognoscere  il  buono  astore,  V  uomo  dee  guar- 
dare che  sia  grande,  e  ben  fornito  di  tutto.  Ed  alla 
verìtà  dire,  in  fra  tutti  gli  uccelli  cacciatori  li  maggio- 
ri sono  le  femine,  e  li  minorì  sono  li  maschi,  ciò  sono 
li  terzuoli,  e  sono  sì  caldi  per  la  maschiezza  e  sì  or- 
gogliosi, che  appena  prendono  se  non  ne  viene  loro 
voglia.  Ma  la  femina,  eh'  è  fredda  per  natura,  è  tutto 
giorno  volonterosa  di  prendere,  però  eh'  ella  è  fred- 
da, e  la  freddura  è  radice  di  tutla  cupidità,  e  ciò  è  la 
cagione  perchè  li  grandi  uccelli  rapaci  sono  migliori, 
per  ciò  che  non  hanno  nullo  desdegno  di  prende- 
re, anzi  desiderano  sempre  la  preda,  e  più  1'  un  dì 
che  l'altro^  in  tal  maniera  che  alcune  fiate  prendono 
mal  ^ìzio,  ma  nella  muda  lo  lasciano,  e  megUorano 


unto  QmNTo.  2 1 7 

le  penne,  e  li  mali  terzuoli  vi  prendono  molte  (late 

Tizio. 

Capitolo  X. 

Anche  degli  astori, 

E  quando  vuoi  scegliere  astore  grande,  guarda  chV 
ffi  abbia  la  testa  lunga,  a  guisa  d^  anguilla  e  che  la 
SUB  ciera  sia  allegra,  e  un  poco  chinata  infino  ch^  egli 
è  concio.  E  poi  dee  essere  lo  suo  viso  come  malinco- 
nioo  e  cruciato  e  pieno  d^ira,  e  abbia  le  nare  ben  gìal-* 
le^  il  mezzo  eh' è  in  tra  gli  occhi  sia  ben  lungo,  e  so- 
lva il  ciglio  sia  ben  pendente,  e  gli  occhi  sieno  in 
inori  e  grossi,  e  ben  per  ragione  coloriti  dirittamente, 
die  ciò  è  segno  cheH  sia  figliuolo  d'astore  che  abbia 
pia  di  tre  mude:  onde  vive  più  lungamente  quando 
ìè  ingenerato  da  padre  che  sia  vecchio.  D  suo  collo  sia 
Inngo  e  serpentino,  il  petto  grosso  e  ritondo  come  co- 
lombo, e  che  le  due  penne  dell'ale,  le  quali  le  più 
genti  chiamano  ispade,  sieno  serrate  con  V  ale,  sì  che 
le  non  li  paiano  di  fuori,  e  l'ale  brune,  e  ben  tenente, 
e  gli  artigli  grossi  di  nerbora,  e  non  di  carne,  e  l'un- 
ghie grosse  e  bene  forti.  E  tanto  sappiale  che  quelli 
che  hanno  le  gambe  lunghe  prendono  più  leggier- 
mente, ma  non  tegnono  così  bene  come  quelli  che 
le  hanno  corte. 

Capitolo  XI. 

Degli  sparvieri. 

Sparvieri  vogliono  essere  di  questa  maniera,  ch'el- 
li  abbiano  la  testa  picciola,  e  gli  occhi  infuori  e  gros- 

Latìni.  Fo}.  I.  i3 


2 1 8  IL  T£»oau. 

si,  il  petto  ben  toado,  i  piedi  bianchi  e  aperti  e  gran- 
di, e  le  gambe  grandi  e  corte,  e  la  coda  lunga  e  sotti- 
letta, e  V  ale  lunghe  infìno  alla  terza  parte  della  coda, 
e  la  piuma  di  sotto  la  coda  sia  taccata.  E  se  egli  ha  li 
piedi  rostigiosi,  ^  è  simiglianza  che  siano  boni.  £ 
quelli  che  hanno  tredici  penne  nella  coda,  debbono 
essere  migliori  che  gli  altri.  E  se  t' avviene  bono  lo 
sparvieri,  guardati  di  non  ^li  prender  colombo  in 
su  torre,  però  che  spesse  volte  se  ne  guasta,  per  la 
grande  caduta  che  elli  fanno.  E  sappiate  che  tutti 
gli  uccelli  feditori  sono  di  tre  maniere,  cioè,  ramacie, 
grifagni  e  nidacie.  ìì  nidacie  è  quello  che  V  uomo  car 
va  di  nido,  e  che  si  nutrica  e  piglia  per  sicurtade.  Ra- 
macie è  quello  che  già  è'  volato,  e  ha  preso  alcuna  pre- 
da. Grifagni  son  quelli  che  son  presi  all'entrata  di 
verno,  che  sono  mudati,  e  che  hanno  li  ocehi  rossi  co- 
me fuoco.  E  sappiate  che  uccello  giovane  ingenera 
uccello  rossetto,  e  occhi  di  colore  ardito,  ma  elli  non 
vivono  a  mano  d'uomo  più  di  cinque  anni.  Isparvier 
vecchio  ingenera  isparviere  bruno  con  minute  tacche, 
e  occhi  coloriti,  e  sono  migliori  e  di  lunga  vita. 

Capitolo  XII. 

Dei  falconi. 

Falconi  sono  di  sette  generazioni,  el  primo  lignag- 
gio sono  lanieri  che  sono  siccome  vani  in  fra  gli  altri. 
E  questi  medesimi  sono  divisati  in  due  maniere  :  on- 
de quelli  che  hanno  la  testa  piccola,  non  vaglionu 
ntilla;  e  quelli  che  hanno  grosso  il  capo,  e  Pale  lun- 
ghe, la  coda  curta  e'  piedi  grossi  e  formati,  sono  buo- 


r'rf 


*"9 

ai^  %Éttlà^yM^  M'mào  dori  a  ooociare,  ma  chi  lo  fii 
' rindwe  tre  ^dle^  riè'pafrpftnAre  ogni  uoceno.  Lu 
rteaiHlff  *^"1BC^*  mb  qneBi  ebe  Pnomo  appdh  p^ 
fcgrioiy  pQpdaè  pcnona  oon  può  troTare  Io  loro  nido, 
ÉÉJfjM  f»iwi  jìbuom»  ia  peBegrinitggio,  e  sono  mcA- 
trtm^|#<ttiQÌriBW^  ecorlMi,  e  di  boon^ara,  e  va- 
iMNfe^llditic  Iso  teR»  KgwwMpw  lon  fidooni  matìtià' 
Ìft%.JÌ  ViiMniiiiìnnn  j  r  Tiilf  'iflTi^  e  poi  ch'e^ 
<l«l»iiili»  ii[»BÌtagyA^giamnMÌ  Lo  quarto  lignaggio 
ttMÉ  'fcbrmi  gf  utili  cba  prawkno  kt  gnie,  e  Tagliano 
jfMtaNIfMMonR  ciiA  oa  «ena  caTallo,  però  che  fiomu 
^    '^    -luigD  ¥ohrt;  E  tappiate  che  di  questi  qoat- 
ppfp>  TOi  dovete  isoegUere  quelli  che  hanno 
tfrtHiir  piia>òl|i.  Iw.  quinto  li^iaggio  sono  gerfidchi,  i 
iì^mM  {MwaiOD,  tutti  ^  uoodliddla  loro  grandezza,  ed 
MMft  e  fiero  e  ingegnoeo,  bene  arvrenturato  in  cac- 
"CÌHe  e  in  prendere.  Lo  sesto  lignaggio  è  lo  sagro,  e 
•^dfeBi'aono  molto  grandi,  e  somigliauti  alFaqaìla,  ma 
4efjà  occhi  e  ed  becco  e  dell'  ale  e  delF  orgoglio  sono 
-mm^iantf  al  girMco,  ma  troyansene  pochi.  Lo  setti- 
mo lignaggio  si  è  falcone  randione,  cioè  lo  signore  e 
re  di  tutti  gli  uccelli,  che  non  è  ninno  che  osi  volare 
appresso  di  lui,  né  dinanzi,  che  caggiono  tutti  stesi 
in  tal  maniera  che  Toomo  lì  puote  prendere  come 
ìTo  morti.  Ed  eziandio  V  aquila  non  osa  volare  co- 
dov'  egli  sìa,  e  per  paura  di  lui  non  appare  cola 
dove  sia. 


'2  20  Ili  TESORO. 

Capitolo  Xm. 
Delti  smerli. 

Smerli  sono  di  tre  maniere.  L'uno  che  ha  la  schie- 
na nera,  e  V  altro  che  ha  grìgia,  e  son  piccioli  e  sot- 
tili uccelletti.  L' altro  è  grande  e  somiglia  al  falcone 
laniere  bianco,  ed  è  migliore  di  tutti  gli  altri  smerli, 
e  più  tosto  si  concia.  Ma  egli  addiviene  loro  una  ma- 
lizia, che  si  mangiano  tutti  piedi,  se  Tuomo  non  li  ri- 
tiene deir  uccellare  al  tempo  della  sementa  del  lino 
e  del  miglio.  Qui  lascia  il  conto  il  parlare  degli  uccel- 
li di  caccia,  e  vuol  seguire  la  natura  e  la  maniera  de- 
gli altri  animali,  cioè  d'altri  uccelli  che  non  son  da 
caccia. 

Capitolo  XIV. 

Della  natura  delli  alions,  oyrero  alcioni. 

Alions  è  uno  uccello  di  mare,  a  cui  Iddio  ha  do- 
nata molta  grazia.  E  intendete  com'  egli  pone  le  sue 
uova  in  sulla  rena  presso  al  mare,  e  ciò  fa  egli  nel 
cuore  del  verno  quando  le  orribili  tempestadi  soglio- 
no essere  nello  mare.  Ed  egli  compie  il  nascimento  de' 
suoi  figliuoli  in  sette  di,  e  in  altri  sette  gli  ha  allevati, 
ciò  sono  dì  quattordici,  secondo  che'marinari  che  usa- 
no quel  paese  testimoniano,  e  hanno  tanta  grazia,  che 
in  quelli  quattordici  di  non  è  tempesta,  né  mal  tem- 
po, anzi  è  sereno  e  dolce  tempo. 


LIBRO  QUINTO.  23  1- 

Capitolo  XV. 

Deir  ardes. 

Ardes  sóao  generazione  d^  uccelli  che  più  genti  li 
diìainaiio  tantalus,  e  tali  ìmairon.  £  tatto  ch'ali  pren- 
da sua  vivanda  in  acqua,  niente  meno  fa  suo  nido 
pure  in  arbcnre.  E  la  sua  natura  è  tale  che  inconta- 
nente che  tempesta  dee  essere,  egli  vola  in  alto,  cioè 
in  aria,  e  si  alza  su  in  aere  che  la  tempesta  non  ha 
podere  di  £arli  noia  o  male.  Per  lui  cognoscono  molte 
gfloti  che  tempesta  dee  essere  quando  il  veggiono  le- 
Tare  in  aria. 

Capitolo  XVI, 

Deir  anatre. 

Anatre  e  oche  quanto  sono  più  bianche  tanto  son 
migliori,  e  più  dimestiche.  Oche  o  anatre  che  sono 
taccate,  o  nere,  sono  nate  di  salvatiche,  e  però  non 
ingenerano  siccome  le  bianche.  E  sappiate  che  anitre 
e  ixhe  non  potrebbero  vivere,  se  non  dove  avessero 
acqua  o  erba,  ma  molto  danno  fanno  con  loro  becco 
alle  biade,  e  molto  guastano  tutte  erbe  con  loro  u- 
scitp.  Il  tempo  ch^  elle  si  congiugnono  carnalmente  si 
è  dal  marzo  ii^no  aggrandì  dì  d'istate.  E  alle  boci  dei- 
Poca  puote  r  uomo  conoscere  tutte  le  ore  della  notte. 
E  non  è  nessuno  altro  animale  che  sì  senta  1'  uomo 
come  fa  l'oca.  E  alle  lor  grida  furono  sentiti  li  Fran- 
ceschi quando  voleano  imbolare  lo  castello  di  campi- 
doglio di  Roma. 


2  33  IL  TESORO. 

CipiTOLo  xvn. 

Dell^ape. 

Ape  son  quelle  che  fanno  il  mele  e  la  cera,  e  na- 
scono senza  piedi  e  senza  ale,  e  poi  le  mettono  quan^ 
do  sono  grandi.  Queste  api  portano  grande  diligenza 
a  fare  lo  mele  e  la  cera,  la  quale  elle  cogliono  di  di- 
versi fiorì,  e  fanno  elleno  diverse  magioni,  e  diverse 
camere,  onde  ciascuna  ha  suo  proprio  nome  e  luogo 
quivi  dov'  elle  tornano.  Elle  fanno  re  e  oste  e  bat- 
taglia. £  fuggono  per  lo  fumo,  e  raunansi  per  suono 
di  ferro,  o  di  pietre,  o  di  cosa  che  faccia  grande  ro- 
more.  E  cotanto  sappiate  che  tra  tutti  gli  altrì  animali 
del  mondo  solamente  V  api  hanno  loro  lignaggio,  e 
tutte  le  cose  comunalmente,  per  ciò  ch^elle  abitano 
tutte*  in  una  magione,  e  quindi  escono  e  vanno  pa- 
sturando per  la  contrada^  e  il  lavorio  d^ alcune  è  co- 
mun  a  tutte.  E  tutte  raunanze  e  fnitti  e  pomi  sono 
comuni  a  tutte.  E  anche  più  che  loro  figliuoli  sono 
comant  a  tutte.  Elle  sono  tutte  caste  e  vergeni,  e  sen- 
za nulla  corruzione  di  loro  corpo  di  lussurìa.  E  fanno 
figliuoli  in  grande  quantità.  Elle  ordinano  loro  popo- 
lo e  loro  comune.  Ed  eleggono  loro  re  5  e  non  eleg- 
gono per  sorte,  anzi  chi  è  più  nobile  ne^  costumi  e  più 
bello  e  maggiore  e  di  miglior  vita,  quelli  è  eletto  re 
e  signore  delP  altre.  E  perchè  egli  sia  re  e  signore,  di 
ciò  egli  è  più  umile  e  di  grande  pìetade.  Ed  eziandio  lo 
suo  pungiglione,  ovvero  spina,  non  usa  contra  alcuno 
malvagiamente.  £  non  pertanto  ch^  egli  sia  signore, 
r  altre  sono  tutte  franche  «  hanno  di  loro  libera  signo- 


Lono  qvato.  ^  a  a  5 

ria.  Bla  la.  buona  vohintà  ch^  elle  hanno,  le  fii  amare 
insieme  e  ubbidire  ti  loro  maggiore  in  tal  modo,  che 
niano  esce  di  sua  magione  infino  tanto  che  il  loro 
signoi^  non  è  iaapj  e  piglia  la  scoria  del  volare  dove 
li  giace. ,  Ma  le  loro  api  novelle  non  si  osano  posarsi, 
iafiafk  a  tanto  i^^loro  mastri  non  son  posti  E  quan- 
do èÌMifeto»  le  giovane  si  posano  intorno  di  loro  e  os- 
1^  vana  dUigeiiteBiente  loro  1^^  e  quando  alcuna  di 
loco  '&  akunà  cosa  che  sia  cootra  a  loro  signore,  fa 
«Uà  medesinia  vendita  di  ^^^  die  ella  si  leva  e  rorn^ 
p^lLaoo  pui^p^ione,  secóndo  die  solcano  £are  quelli 
4yB!nKi,  dbe  se,  alcuno  rompea  la  sua  legge,  non  at- 
tiwbjra  •sentenza  di  sé,  anzi  si  ucddeva  egli  medesi* 
mopor  Teodetta  di  suo  fallo.  £  in  somma  sappiate 
che  le  a{M[  amano  il  loro  re  si  ferventemente  e  di  tenu- 
ta fede^  quanto  die  hanno  intenzione  che  ben  sia.  e 
mettcHisi  alla  morte  per  aiutare  e  per  difendere  il  loro 
re.  E  tanto  quanto  lo  re  è  con  loro  sano  e  salvo,  non 
sanoo  mutare  fede  né  pensiero.  Ma  quando  egli  è 
morto  e  perduto,  elle  perdono  la  fede  e  ^I  giudica- 
mento*  in  tal  modo,  ch^elle  non  empiono  il  loro  mele, 
e  guastano  loro  abitazione.  E  sappiate  che  ciascuna 
sia  al  suo  officio,  che  tale  va  per  ricogliere  la  rugia- 
da del  fiore,  e  tali  iscelgono  la  c^ra  dal  mele,  e  mel- 
tonlo  per  le  camere.  E  tali  istanno  a  guardare  lo  re 
il  xli  e  la  notte,  il  tempo  che  sia  dolce,  ne  no  con  nu-. 
voHj  né  con  vento.  E  quando  nasce  alcuna  tra  loro 
die  sìa  negligente,  cioè  che  non  voglia  stare  a  niu- 
no  di  questi  ofhciì,  lo  re  la  fa  cacciare  di  fuora  da  \i>- 
ro  magione,  in  tal  modo  che  non  ve  la  raccolgono 
più.  E  se  r  uomo  fa  loro  male,  o  poco  o  assai,  si  se 


2^4  IL  f£SO&0. 

ne  mettono  alla  morte  per  vendicarsi  di  quello  ch^  « 
loro  fatto. 

Capitolo  XVIII. 
Della  calandra. 

Calandra  è  un  uccello  piccolo,  e  '1  suo  polmone 
schiara  li  occhi  a  chi  gli  ha  turbati  Elle  sono  di  co> 
tal  Qalura,  che  se  uno  uomo  infermo  la  ya  a  vede- 
re^ s^  ella  li  pone  mente  diritto  nel  viso,  egli  è  certo 
di  guarire,  e  s'ella  non  li  pone  mente,  sì  è  significan- 
za  che  dee  morire  di  certo  del  male  eh'  egli  ha  a  quel 
punto.  E  sono  molti  di  quelli  che  dicono,  che  quando 
ella  il  guarda  per  lo  viso,  sì  li  leva  tutto  il  male  e  va 
in  aria,  e  '1  calore  del  sole  consuma  quel  male,  sì  che 
non  rimane  appo  lui. 

Capitolo  XIX. 
Dei  colcMiibL 

Colombi  sono  uccelli  di  molte  maidere  e  di  molti 
colori,  che  usano  intorno  agli  nomini,  e  non  hanno 
niente  di  fiele,  cioè  il  yeleno  che  hanno  gli  altri  ani- 
mali appiccato  al  fegato .  E  movono  la  lussuria  per  lo 
baciare,  e  piangono  in  luogo  di  canto,  e'  loro  nidi  sono 
in  grotte  di  pietre,  o  in  fori  di  muro,  e  non  in  arbori. 
E  quando  perdono  la  veduta  per  vecchiezza,  o  per 
alcuna  malizia,  elli  la  ricovrano  poi  per  grande  studio. 
E  volano  a  grande  turma  insieme.  E  la  loro  natura  è  co- 
tale, che  se  gli  uomini  che  li  tegnono  fanno  una  bella 
figura  di  colombo  quivi  do v' elli  hanno  a  stare,  quan- 


m 


do  elfi  smontano,  se  elli  le  pongono  niente,  li  figliuo- 
li die  &nno  somtgiiano  qnella'  figura.  E  se  P  uomo 
prende  li  funi,  con  che  F  uomo  è  stato  impiccalo,  e 
gittale  dinanzi  dft  loro,  indi  mai  non  si  partirebbono 
d'intorno.  £  se  rnomo  dà  loro  beccare  cornino,  e  an*- 
géi  Tale  di  balsamo,  elli  menano  grande  torma  di  co- 
InnM'ttd  albeifp  aj  kmi  colombaia  E  se  Tuomo  dà 
hir»  beccare  orzo  cotto  eoaldo^  elli  mgenerano  figliuoli 
E  TQolsi  mettere  per  li  cantoni  delle  colombaia 
e  altre  cdse^  si  che  mala  bestinola  non  ti  po^ 
i/Èfàtìàin.  EwppOB  dieti  trova  nella  santa  Scritta- 
M'.'bo  colombe  :  Fnna  che  portò  Polivo  a  Noè,  quan- 
do en  nell'arta^  Paltra  a  Dainit^  e  P  altra  die  si  ao** 
oOne'dd.battesimo  del  nostro  signore  Gresù  Grìsto. 

Capitolo  XX. 

Del  corbo. 

'  CSorbo  è  uno  uccello  grande,  ed  è  tutto  nero.  E 
quando  Tede  nascere  i  suoi  figliuoli  con  le  calugini 
iHadche,  si  non  credè  che  sismo  suoi  figlinoli^  e  par- 
tesi  dal  nido  e  poi  a  pochi  dì  ti  toma.  E  vedendo 
che  quelle  penne  vegnono  annerando,  sì  li  comincia 
éà  capo  a  nudrirli:  Elli  vivono  di  carogna,  e  quando 
trovano  la  carogna  la  prima  cosa  che  beccano  sono 
gli  occhi,  e  dopo  Pocchio  beccano  il  cervello.  E  sap- 
piate che  ^1  corbo  fu  quello  uccello  che  Noè  mandò 
per  cercare  la  terra,  e  non  tornò.  E  molti  sono  che 
dioono,  che  egli  rimase  per  beccare  carogna.  E  altri 
dìoooo  ch'egli  annegasse  {ter  la  grandissima  mdtitu- 
dine  delP  acqua. 


236  IL  TESORO. 

Ca.pìtolo  XXI. 
Della  coraacchia. 

CorDacchie  sono  di  molto  grande  vita.  E  dicono  mol- 
ti uomini,  ch^esse  indovinano  quello  che  dee  addive- 
nire air  uomo.  E  questo  solcano  molto  dire  gli  anti- 
chi, e  mostravanlo  per  molte  ragioni.  Se  V  uomo  n^  è 
maestro  di  conoscere  quelle  dimostrazioni,  ch^elle 
fanno  alle  fiate,  puote  P  uomo  conoscere  quando  dee 
piovere,  che  le  gridano  molto,  e  fanno  grande  sbatte- 
re d^ali.  E  amano  tanto  li  loro  figliuoli,  che  poi  che 
sono  grandi  usciti  del  nido,  si  li  vanno  molto  segui- 
tando, e  imbeccando  siccome  fossero  piccoli. 

Capitolo  XXH. 
Delle  cotornici  o  ver  quaglie. 

Cotomice  è  uno  uccello  che^  Franceschi  chiamano 
greoce,  però  che  fu  prima  trovato  in  Grecia.  E  Tasto- 
re  piglia  tuttavia  la  prima  ch^  esce  e  si  dimostra  di- 
nanzi air  altre.  E  però  eleggono  per  lor  capitano  e  per 
lor  guida  un  uccello  d'altro  lignaggio,  perchè  Pastore 
abbia  che  prendere,  e  ch'elle  vadano  a  salvamento.  E 
sappiate  che  le  loro  vivande  sono  velenose  semenze, 
per  ciò  li  savi  antichi  hanno  vietato  che  nullo  uomo  ne 
mangi,  per  ciò  che  quello  solo  è  quello  animale  il  quar 
le  cade  in  parlasia,  e  cade  sì  come  ut  Puomo  paralitico. 
Elle  ardono  molto  del  vento  all'ostro,  sì  com'elle  mo- 
strano; e  mollo  s**  adagiano  del  vento  a  tramontana, 
perchè  è  secco,  e  molto  leggiero. 


uuo  QcmTo.  337 

Capitolo  XXIII. 

Ddh  dcogBM. 

Cioognìa  è  ano  grande  uccello,  e  soou  senza  lingua, 
e  per  ciò  frono  gran  remore  col  becco,  battendolo  mol- 
lo iimfi^  E  sono  nimiche  delle  serpi  ^  e  perù  dissori) 
S  savi  antichi  che  nessuno  ne  mangiasse.  1^  tornuuu 
deDe  parti  di  Europa  alla  primavera.  JB  fònno  loro 
nidi  sofica  alle  grandi  abitazioni.  E  mettono  grande 
ftodio  a  natrìcare  loro  figliuoli,  che  ad  alcune  caggio- 
DO  tante  p^nne  che  non  puote  volare,  sì  che  ooavie- 
De  €^  li  figliuoli  nutricano  lei,  oom^  ella  ha  nutricati 
loro^  infino  ch'ella  ha  remesse  le  sue  penne.  £  questo 
à  è  spesse  volte.  L^arcivescovo  di  Milano  mise  uno 
novo  di  corbo  in  uno  nido  di  cicognia:  quando  que- 
sto file  nato,  il  maschio  vi  menò  una  grande  quantità 
di  cicognie.  E  quando  lo  videro  così  divisato  u  loro 
natora)  elle  corsero  addosso  alla  femina,  e  ucciseria 
villanamente.  £  la  state  quando  elle  si  partono  della 
contrada  di  Europa  a  grande  compagnia  insieme,  e 
vannosene  in  Mauritania  cioè  in  Africa  dalla  parte  di 
mezzodì.  E  quelle  che  giungono  troppo  dietro  all'al- 
tre sono  prese  e  spennate  e  percosse  dalF  altre  nui- 

lainent^. 

Capitolo  XXIV. 

DeHi  ibes. 

B>es  è  uno  uccello  simigliante  alla  cicognia,  ed  usa 
in  Egitto  per  lungo  il  fiume  del  Nilo.  E  non  si  pasco- 
no se  non  di  pesci  che  trovano  morti,  e  d' uova  di 


338  IL.TJSSOaO.    ■ 

serpenti,  e  di  bestie  morte,  ch^  elle  trovano  lungo  la 
riviera.  E  questo  addiviene  perchè  non  mette  piede 
in  acqua,  che  noft  sa  notare.  £  quando  si  sentono  al- 
cuna malizia  nel  lord  corpo,  per  le  vivande  ch^elle 
mangiono,  sì  se.  ne  vanno  al  mare  e  beono  dell^acqua, 
ed  empiesene  bene  la  sua  gorgia,  e  mettesi  il  becco  di 
dietro  a  modo  di  cristeo,  e  caccia  sì  queir  acqua  in 
corpo,  e  in  quel  modo  pui^a  la  sua  malizia.  £  però 
dicono  che  Ipocras,  io  grande  medico,  trovasse  il  cri- 
steo a  quello  esempio.  £  però  potemo  noi  conoscere 
che  uccelli  e  bestie  hanno  oognosdmento,  secondo  che 
loro  natura  gli  ammaestra. 

Capitolo  XXV. 
Del  cecino. 

Cecino  è  uno  molto  grande  uccello,  con  te  penne 
tutte  quante  bianche,  e  con  la  caiiie  nera,  ed  usa  a 
fiumi,  ed  a  tutte  acque  grandi  notando.  £  portano  il 
capo  alto  che  non  lo  mette  in  acqua,  e  quando  li  ma<- 
rinarì  lo  trovano  dicono  ch^è  buono  iscontro^  e  han- 
no il  collo  molto  lungo,  e  cantano  molto  dolcemente, 
e  volentieri  ascolta.  Quando  oda  cantare,  o  sonare  suo- 
no di  zampogna,  dolcemente  vi  si  raunano^  e  quando 
.  viene  al  morire  una  penna  del  capo  gli  si  rìzxa  al  cer- 
vello, ed  egli  lo  cognosce  bene,  ed  allora  comincia  a 
cantare  infino  che  muore,  ed  in  questo  modo  finisce 
sua  vita. 


CàrmojoXJLYL 


Pmàté  è  a»  moeUo  il  qarie  è  io  Arabii,  e  non  è 
fin  in  tiffonoiido^  ed  è  di  gnodesBa  d^sqnila.  E  Imi 
ItrlÉrtK  dfae  ereste,  cioè  ima  da  dascono  lato  sopra  le 
M^pie^  e  le  penne  del  eoDo  sono  molto  lihioenli  00- 
niè^di  ftaaej  diBe  spalle  infino  alla  coda  ha  ookxe  di 
foipixà,  elt^ldb  è  di  colore  di  rose^  secondo  die 
dBtoBo  ^odDt  die  abitano  in  Ardua,  die  per  loro  è 
frfuto  molte  ToHe.  E  dicono  dconi  eh*  egli  ynwt 
cmqoecentoqoaranta  anni.  Ma  li  più  dicono  eh*  efjÌM 
■DiTeodiia  in  cinquecento  amiL  Ahri  sono  che  dicono 
di'  dia  Tiye  mille  anni  E  quando  ella  è  cotanto  tì- 
imta,  ed  ella  cc^nosceaDasoa  natma'  che  la  sua  mor- 
ie a'iqppressa,  ed  dia  per  aTer  Tita  si  se  ne  Ta  a'boo- 
saTorod  e  dì  bone  odore,  e  fanne  un  mon- 
e  ùrrvi  apprendere  il  fìioco.  E  quando  il  fuo» 
496  è  bene  acceso,  ella  Ventra  dentro  dritto  al  sole  le- 
ttnle,  e  quando  è  arso,  in  quel  dì  esce  della  sua  ce- 
nere uno  Termicello.  Al  secondo  dì  è  creato  come  uno 
pìoetolo  pulcino.  Al  terzo  dì  è  grande  si  come  dee  e»- 
sere^  e  vola  in  quel  luc^o  ove  usò,  ed  ov^  è  la  sua  a- 
lutazione,  e  si  dicono  molti  che  quel  fuoco  fa  un  pre- 
te d*  una  dttà  che  ha  nome  Eliopolis  là  ove  la  fenice 
sì  arde,  si  come  il  conto  ha  divisato  dinanzi. 


# 


n.^' 


25o  IL  TESORO. 

Capitolo  XXYH. 

Delb  grae. 

Ginie  sono  una  generazione  d'uccelli  che  vanno  a 
schifa,  come  i  p$yaiieri|  che  vanno  a  battaglia,  e  sem- 
pre vanno  F  uno  dopo  F  altro,  sì  come  vanno  i  «ava- 
lieri  in  guerra.  E  sempre  ne  va  uno  dinanzi,  sì  come 
/  confaloniere,  e  quello  li  mena  e  conduce  con  la  sua  ho- 
cei  Egli  gastiga  tutti  quelli  della  sua  schiara,  ed  ellino 
Ji  ci'edono,  ed  ubidiscono  alla  sua  volontade.  E  va  in- 
nanzi, e  dair  una  parte  e  dalP  altra  gli  vanno  appres- 
so. E  quando  questo  eh'  è  capitano  è  stanco  di  guar- 
darle, che  la  sua  bdòe  è  arantolata  e  roca,  non  si  ver- 
V  gogna,  che  un'altra  ne  vegna  in  suo  luogo,  ed  ella 
toma  a  schiera,  e  vola  con  le  altre.  E  quando  v'è  al- 
cuna che  sia  stanca,  che  non  possa  volare  con  l'altro, 
elU  r  entrano  allora  sotto,  e  tanto  la  portano  in  que* 
sto  modo,  eh'  ella  ricovera  sua  forza,  tanto  che  la  vo-r 
la  con  l'altre.  E  la  state  abitano  in  Asia  verso  la  tra- 
montana. E 1  verno  abitano  verso  le  marine,  perchè 
non  v'  è  così  grande  freddo,  e  molto  grande  quantità 
di  loro  ne  passano  in  Africa,  e  quando  vegnono  a  pas- 
sare lo  mare,  ellino  inghiottiscono  molto  sabbione,  per. 
potere  meglio  volare  incontro  al  vento,  e  piglia  cia- 
scuna di  loro  col  pie  una  pietra,  per  potere  meglio 
^  volare  incontra 'l  vento  e  contra  'l  monte,  e  quando 
hanno  passato  mezzo  il  pelago,  elle  si  lasciano  cadere 
la  pietra  secondo  che  dicono  li  marinari  che  hanno 
molte  volte  veduto.  Ma  l'arena  non  lasciano  infìnp  a 
tanto  ch'elle  non  sono  in  luogo  ov'elle  possano  aye- 


LDSOQUIHTO.  oSl 

ve-f&àxau^e  quando  sono  in  terra  dov^elle  vogliano 
aÌiilaiB4Ìnng|ÌBnteiiMiite.«  si  tengono  buona  oom{NH 
gnk  €  aicnreu  Ghàla  noUe^  delle  dodici  V  una,  preo- 
doaoaBii  pietre  col  pìede^ e  vegghiano,  ed  altre  ve  n^è 
cbe^iJrHMDoiiitorBO  guardando  quelle  che  dormono,  e 
qHHid(>.-<lfe.8eQtono  alcuna  cosa  diselli  possa  temere 
àmmOf  «HtffgridBDO  tutte,  e  quando  queste  hanno  tan- 
t»<iÉgghiai"j  quanto  è  loro  costume,  elle  si  vanno  a 
e^r  altre  ve^^^iiano  in  loro  luogo,  e&nno  loro 
laooBdpioto  ordine  0  loro  oostume  e  loro 
lffa|M'B  paoÉM'tpcrtaBieqteoQnoacere^Qh^elle  anoe^ 
iÌMMWi»quido  vegmmo  nd  iempa 

^t^^      .    ;  CaPITQLO    XX Vili. 

Dilla  upupa. 

i-^l)|p«ipa  è  uno  uccello  con  ua^  cresta  in  capo,  e  vi- 
di cose  putride  e  laide,  e  però  ^  il  loro  fiato  pnz- 
mollo.  E  quando  le  loro  madri  invecchiano 
Intb  1^  rion  possono  bene  volare,  e  li  loro  figliuoli 
te  jprandono  e  mettonle  nd  nido,  e  spennanle  tutte  ed 
«ngono  loro  occhi,  e  teogonie  coperte  con  le  loro  ale, 
e-InMo  le  portano  beccare,  infino  ch^  elle  possono  he* 
le- volare  sì  come  è  mesliero. 

■■*    ■•         ■'     ' 
...  Capitolo  XXIX. 

'    ^  Ddle  rondine  o  ver  ceselle. 

Bondiua  è  uno  piccolo  uccello,  ma  ella  vola  alla 
Trita  diversamente,  e  la  sua  pastura  prende  volando, 
c|iM  po^ndo,  e  si  e  preda  degli  altri  uccelli  caccia-. 


353  IL  TESOEO. 

dori.  Tuttavìa  per  sicurtà  abitano  tra  uomini,  e  li  loro 
nidi  fanno  sotto  le  case  e  sotto  tetti  e  sotto  altre  co- 
perture, e  noD  mai  di  fuori  ^  e  sì  dicono  i  più  ch^elle 
non  entrano  in  case  che  debbiano  cadere,  e  fauno  Lo- 
ro nido  di  loto  e  di  paglia,  per  ciò  ch^  ella  non  è  di 
tanto  podere  ch^  ella  possa  portare  lo  loto,  anzi  si  ba- 
gna neir  acqua  le  penne  dell'*  ale,  e  poi  le  mette  nella 
polvere,  e  quello  che  vi  si  appicca,  porta  ed  edifica  il 
suo  nido.  E  quando  li  suoi  fìgliucdi  perdono  la  veduta 
per  alcuna  cagione,  ella  porta  lof  o  d^  uQ'erba  che  ha 
tìome  celidonia,  e  danne  loro  beccare,  ericevono  la  ve- 
duta secondo  che  molti  dicono.  Sia  Puomo  dee  guar- 
dare li  suoi  occhi  da  loro  uscito  e  sterco,  \)eT  ciò  che 
Tobia  ne  perde  la  veduta,  à  come  conta  la  Bibbia. 

Capitolo  XXX. 
Del  pellicano. 

'  Pellicano  è  ano  uccello  in  Egitto  di  cui  li  Egiziani 
dicono  che  li  figliuoli  tradiscono  i  padri,  e  fedisconlo 
con  r  ali  per  mezzo  il  volto,  ov^  egli  se  ne  crucia  in 
tal  maniera  ch^  elli  gli  uccide,  e  quando  la  madre  li 
Tede  morti  sì  li  piange  tre  di,  tanto  eh'  alla  fine  si  fìe- 
de  nel  costato  col  becco,  tanto  che  ne  fa  uscire  molto 
sangue,  e  fallo  cadere  sopra  agli  occhi  de'  suoi  figliuo- 
li, tanto  che  per  lo  calore  di  quel  sangue  risuscitano  e 
tornano  in  vita.  Ma  altri  sono  che  dicono  che  nascono 
quasi  senza  vita,  e  il  padre  li  guarisce  col  suo  sangue 
in  tal  maniera  eh'  egli  non  muoi*e.  Ma  come  si  sia,  la 
santa  Chiesa  lo  testimonia,  là  ove  David  per  bocca  di 
Cristo  disse  :  Io  sono  a  simiiitiidine  del  pellicano.  E 


.■  • 


late  ebe  dì  peOicwii  sono  due  maoiere.  L^uoa  che 
•He  rrrieve^  exivouo  di  pQKÌ,  »  gli  altri  che  sono 

m  boadii^  io  canpestr^  e  tìtooo  di  Incerte  e  d^al* 

tra  ieciiì  e  Uboa 

Capitolo  XXXI. 

..    •  '      •     ■ 

Delbr  peroioe. 

^  -  -  ,  ■ 

••«flesaioe  è  imo  noceOo  die  per  bontà  di  sua  carne 
è  caodala  per  ^  ooodOatorì.  Ma  molto  sono 
rici  per  lo  calore  dalla  losaoria.  Elle  si  comJjat^ 
par- le  online  in  tal  maniera  eh' die  perdono  la 
ddk  sua  natura.  Ed  usano  li  maschi  in^ 
sieome  eoo  le  femina  E  n  dicono  molte  genti, 
die  qnan|do  le  ifemine  sono  di  calda  natura,  elle  con- 
oepmo  di  vento,  che  Tiene  da  bto  del  maschio.  £  sì 
dicono  mc^di  loro  malizie,  eh' die  furano  Tuova 
Tona  all'altra,  e  quando  sono  nate,  udendo  la  boce 
«UBa -diritta  madre,  sì  si  partono  da  quella  che  V  ha 
ocmte,  e  vannosene  con  lei.  E  sappiate  che  la  pernia 
oe  &  suo  nido  di  spine  e  di  piccoli  stecchi,  e  le  loro 
qova  cuoprono.di  polvere,  E  spesse  volte  la  madre 
tramuta  li  suoi  figliuoli  d'un  luogo  in  un  altro  pev 
paura  del  suo  maschio,  e  quando  alcuna  s'approssima 
al  nido  loro,  ella  si  moslra  di  presso  e  fa  sembianza 
che  non  possa  volare,  infino  a  tanto  che  l' è  allungata 
dal  nido. 


a  54  IL  TESORO. 

^Capitolo  XXXIL 

Del  pappagallo. 

Pappagallo  è  una  generazione  d' uccelli  verde,  e 
hanno  il  becco  torto  a  modo  di  spai^yiere,  e  hanno 
maggior  lingua  e  la  più  grossa  che  nessuno  altro  uc- 
cello, secondo  la  sua  grandezza,  perchè  egli  dice  pa- 
ròle  articolate,  sì  come  l'uomo,  se  gli  è  insegnato  Pan- 
no ch'egli  nasce,  perchè  dal  primo  anno  innanzi  sono 
%i  duri  e  sì  ingrossati,  che  non  imprendono  cosa  che 
8Ìa  loro  insegnata,  e  sì  'l  debbe  V  uomo  castigare  con 
una  piccola  verghetta  di  ferro.  E  dicono  quelli  d'In- 
dia, che  non  ha  in  nessuna  parte  se  non  in  India.  E 
di  sua  natura  salutano  secondo  il  linguaggio  di  quella 
terra.  E  quelli  che  hanno  cinque  dita  sono  più  nobi- 
li; e  quelli  che  hanno  tre  sono  di  vile  lignaggio.  E 
tutta  sua  forza  hanno  nel  beccò  e  nel  capo.  E  tutti 
i  colpi  e  cadute  ricevono  nel  capo  s'elli  non  li  pos- 
sono isdiifare. 

Capitolo  XXXIII. 

Del  paone. 

Paone  è  uno  uccello  grande,  di  colore  biadetto  la 
maggior  parte,  ed  è  semplice  e  molto  bello,  ed  ha  le- 
sta di  serpente,  e  yoce  di  diavolo,  e  petto  di  zaffiro  e 
molto  ricca  coda,  e  di  diversi  colori,  ove  egli  si  diletta 
maravigliosamente,  tanto  che  quando  vede  gli  uomini 
che  guardano  la  sua  bellezza,  ed  egli  rizza  la  coda  in 
suso  per  avere  lode.  E  tanto  la  dirizza  che  mostra  la 


porle  di  àkàro  Yflliomente,  e  bk^o  ha  a  dispetto  la 

lairifiw  de*  suoi  piais-  e  la-  sua  carne  è  molto  dora 

iuaia f  JI^BowMif  uff  ^  e  di  saaràsimo  odore. 

•  

.Cahtqix)  XXXIY. 

DcOt  tmrtob. 

.Jjflih  è  UDO  uordOo  di  gran  castìtade^  che  dimo» 
aiàii?  barin  deOi  artxv^  e  Tokbtieri  diinorano  dflongì 
dMgiiAflu  S  ifanido  le  penne  le  aono  cadute,  ft  cinqoe 
i(.iado  dentini  fif^Undli,  e  questo  nido  uhi^ 
mmao  d?ana  erba,  che  ha  nome  saechiely 
fmtìik  ilcqpa  coia  dbe  oontraria  «a  loro,  non  vi  pao- 
Ui  anda^B.  E  sappiale  die  la  Icnric^  è  d  iauoiabile  al  sua 
'.che  spando  dia  il  perde  per  alcona  cagione, 
Éiioos^aoDoslaaiiesMuioaltro^percastilade,  opar 
d^'eUp  non  lonù^'chè  per  certo  die  il  Tanno 
cercandf^  e  quando  non  lo  possono  troyare,  die 
è  perdalo^  aUora  osserva  castitade,  e  più  non  bee 
aoipa  diiara,  e  non  si  posa  mai  in  alcun  ramo  verde, 
ami  sempre  in  secco. 

Capitolo  XXXY. 
Dell*  arohcno. 

.Avoltoio  è  uno  uccello  molto  grande  simigliante 
dT  aquila,  e,  secondo  die  dicono  molti,  egli  sente  do- 
rè più  che  niun  altro  animale^  ch'ali  sente  la  cai*o- 
gna  più  di  cinquecento  miglia.  In  qudla  parte  ov'  elli 
usano  di  stare  è  molta  uccisione  d^  uomini,  o  grande 
mortalità  di  bestie.  E  concepono  senza  congiungìmen- 


j56  il  tesuuo. 

to  di  maschio  e  di  femioa,  e  fanao  li  figliuoli  che  vi- 
vono più  di  cento  anni.  E  sappiate  che  elli  non  bec- 
cano di  nessuna  carogna,  snelli  non  la  levan  piima  di 
terra.  E  volentieri  vanno  per  terra  per  li  grandi  un- 
ghioni ch^elli  hainno. 

Capitolo  XXXVI. 

Dello  struzsolo. 

Strnzzc^o  è  uno  uccello  grande,  tutto  che  molti 
nomini  T  assomigliano  a  una  bestia,  ed  ha  le  penne 
sì  come  uccello,  e  gambe,  e  piedi,  sì  come  cammello, 
ma  egli  non  vale  niente,  ma  egli  sta  grande  di  sua 
complessione,  ed  è  dimentico  molto,  che  non  li  sov- 
viene delie  cose  passate,  però  gli  avviene  sì  come 
per  molestamento  di  natura,  e  non  è  si  pesante,  che 
txn  buon  cavallo  non  abbia  assai  di  giungerlo,  di  tal 
guisa  corre.  Edi  state,  intomo  al  mese  di  giugno,  quan- 
do li  conviene  pensare  della  sua  generazione,  egli 
isguarda  in  una  stella  che  ha  nome  Yergilia,  e  quando 
ella  si  comincia  a  levare,  egli  posa  le  sue  uova,  e  cuo- 
prele  di  sabbione,  e  vassene  a  procacciare  di  sua  pa- 
stura in  tal  maniera  che  mai  non  se  ne  ricorda,  né 
poco  ne  molto.  Ma  il  calore  del  sole,  e  M  temperamen- 
to deiraria,  gli  fa  venire  a  compimento,  che  scalda 
ciò  che  la  madide  dee  scaldare,  tanto  che  suoi  pulcini 
nascono  sì  grandi  che  incontanente  procacciano  lor 
vita,  n  padre  loro,  quando  li  truova,  che  dovrebbe  lor 
far  bene  e  nudrìrli,  egli  &  loro  male  e  noia,  e  fa  loro 
di  crudeltà  tanto  quanto  più  puote.  £  sappiate,  contro 
a  quelli  che  dicono  che  gli  è  bestia,  cioè  perch^egli 


LIBRO  QUINTO.  aS^ 

httum  due  cmgfaìe  come  le  bestie,  egli  hanno  ale,  onde 
sì  fiede  e  batte  sé  tnedesimo,  come  con  due  sproni, 
quando  ^i  ha  grande  fretta  di  correre.  Lo  suo  sto- 
maco è  fofte,  più  che  stomaco  di  ninno  altro  animale. 
£  tatto  che  beccano  biade,  è  molte  altre  cose,  niente 
meno  elli  beccano  lo  ferro,  e  sonne  molto  vaghi,  e  sì  1 
ooosmnano  come  un  sottile  pasto.  E  questi  uccelli  a- 
bitano  nelle  parti  di  -verso  mezzodì,  sì  come  a  verna 
detto  di  sopra,  quivi  ove  si  dice  delle  parti  del  monte 
Chiaro^  e  sappiate  che  1  suo  grasso  giova  molto  a  tutte 
doglie  che  suole  avvenire  agli  uomini 

Capitolo  XXX VBL 

Del  cuculo  e  di  sua  riltade. 

Cuculo  è  uno  uccello  di  colore  e  di  grandezza  di 
smiglianza  di  sparviere,  salvo  che  è  più  lungo,  ed  ha 
il  becco  teso,  ed  è  sì  niglìgente  e  sì  pigro,  che  ezian- 
dio le  sua  uova  non  vuole  covare.  E  quando  viene  il 
tempo  di  fere  le  sue  uova,  egli  va  al  nido  d'un  pic- 
colo uccello  che  ha  nome  scerpafolea  che  de' maggiori 
ha  paura,  e  bee  uno  de' suoi  uovi,  e  favvi  entro  uno 
de'  suoi  in  quel  cambio.  Ed  in  questo  modo  pone  le 
sue  uova,  e  così  ha  li  suoi  figliuoli  che  non  vi  dura  fa- 
tica. E  sappiate  che'l  cuculo  non  canta  di  slate,  poi  che 
le  cicale  cominciano  loro  canto,  che  lo  odiano  molto, 
che  quando  le  cicale  l'odono  cantare,  incontanente 
vanno  ov'  egli  è,  ed  entranli  sotto  l' ali,  e  non  ha  po- 
dere di  levarsile  da  dosso,  e  tanto  li  fanno  noia,  mor-^ 
dendoli  le  sue  carni,  che  non  sta  in  luogo  fermo,  anzi 
va  volando  di  uno  arbore  in  altro,  e  non  becca  mai, 


a$8  IL  TESOEO. 

e  sì  si  lascia  mmire.  In  cpiesta  maniera  ha  la  cicala 
potere  d' uccidere  il  elicalo. 

Capitolo  .XXXYIII. 

Del  rigogolo. 

Rigogolo  è  ano  uccello  della  grandezza  del  pappa- 
gallo, e  y  olontierì  usa  ne^  giardini  e  ne^  luoghi  freschi 
e  inarborati,  e  chi  va  al  nido  loro,  e  tronca  la  gamba 
ad  uno  de^  figliuoli  loro,  la  natura  gli  dà  tanta  cono- 
scenza ch'egli  va  per  una  erba,  e  portala  al  suo  nido, 
e  la  mattina  li  truoya  Tuomo  sanf;  e  simigliantemente 
se  Tuomo  lega  bene  li  suoi  pulcini,  Taltro  dì  li  truova 
isciolti,  non  sarebbono  stati  legati  si  fortemente.  £  non 
puote  V  uomo  sapere  con  che  erba  egli  li  guarisce,  ne 
con  die  ingegno  egli  li  scioglie. 

« 

Capitolo  XXXIX. 
Del  pìcchio. 

Picchio  è  uno  uccello  della  grandezza  della  ghian-* 
daia,  ed  è  molto  lungo,  secondo  le  sue  membra,  ed  è 
di  diversi  colori,  e  U  suo  becco  è  sì  fermo  che  in  qua- 
lunque arbore  egli  vuol  fare  suo  nido,  per  covare  le. 
sue  uova,  egli  vi  fe  col  becco  un  gran  buco,  e  quivi 
fa  le  sue  uova,  e  covale.  E  chi  li  chiude  con  una  ca- 
viglia ben  duramente  e  forte,  e  serrì  quanto  puoi  la 
detta  buca,  P  altra  mattina  la  retroverai  fuori  ^  e  non 
si  può  sapere,  se  ne  la  cava  con  erba,  o  con  altro  in- 
gegno. 


uno  QDIHTO.  339.- 

Càmoio  XL. 

Ddgrila. 

1 

GdQo  è  UBO  oocello  diniestioo,  il  qiàle  abita  e  yive 
ooD  le  ponone.  E  per  b  sua  -voce  pnote  Puomo  co-' 
qual  ora  ch'è  di  dì  e  di  notte^  ed  eKbndio  lo 
dd  tempo;  e  tMtodbe  la  notte  caoti  più 
•pia  orgo^ioBO^Teno  Incanta  più  chiaro  e  piò' 
«ori  che  eomiiM^a  esaltare  batte  il  sao  cor* 
Pai,  di  dhe  li  buoni  prendono  esemplo,  cioè 
ittal  dw  oonniiidar  «  badare  il  nome  di  Dio,  ^  si  dee 
exdfpare  dé'sooi  peccati,  per  ciò  che  ninno  è 
essi.  E  qoest'è  rncoeUo  solo,  a  cui  li  ooioiini 
camtfio  i  coglioni  per  far  li  capponi,  che  sono  molto 
booni'  e  sani  di  state.  E  le  galline  non  sono  migliòri* 
di  siate  che  di  Temo,  per  ciò  oh^elle  sono  tutte  co- 
tatioeie,  ed  intendono  più  a  covare  ed  a  nutrire  li  suoi 
figliaoli,  e  per  lo  dolore  di  loro  e  di  loro  piuma,  che 
perdono  per  cagione  dì  loro,  dimagrano  elle  mala- 
mente. E  perciò  dee  il  signore  della  casa  scegliere  gal- 
line nere  e  bigie,  e  schifare  le  banche,  e  le  taccate,  e 
dee  dare  loro  beccare  orzo  bollito  e  cotto,  per  farli 
ingenerare  più  aTacdo.  E  quando  il  verno  passa,  e  H 
signore  vuole  pulcini,  egli  dee  insegnare  alla  sua  fa- 
mi§^  quando  debbiano  porre  V  uova,  cioè  ch^  essi 
pongano  a  luna  crescente,  ed  in  numero  caffi).  Ora  si 
tace  il  conto  di  parlare  delli  uccelli,  e  di  loro  natura, 
per  dire  alquanto  della  .natura  delle  bestie^  e  diremo 
prima  della  natura  del  leone,  che  ne  è  signore. 


34o  'IL  TESORO. 

Capitolo  XLI 

Del  leone  e  di  sua  natura. 

Leone  è  appellato  secondo  la  lingua  de^  Greci,  che 
vale  tanto  a  dire  come  re,  che  il  leone  è  appellato  re 
di  tutte  le  bestie.  E  però  là  ov'egli  grida  fuggono 
tutte  le  bestie,  si  come  la  morte  le  cacciasse,  e  là  ove 
egli  fa  cerchio  con  la  coda,  nulla  bestia  non  osa  poi 
passare.  E  sappiate  che^  leoni  sono  di  tre  maniere. 
L'una  maniera  son  corti,  e  li  velli  crespi,  e  quelli  non 
sono  molto  fieri.  E  li  altri  sono  lunghi  e  grandi,  e  li 
velli  distesi,  e  quelli  sono  di  maravigliosa  fierezza.  E 1 
suo  coraggio  si  può  conoscere  nel  suo  piglio  e  nella 
coda,  e  la  sua  forza  è  nel  petto,  e  la  sua  fermezza  è 
nel  capo.  E  tutto  ch'egli  sia  temuto  da  tutti  animali, 
niente  meno  egli  teme  il  gallo  bianco,  e  le  grida  delle 
alte  voci^  il  fuoco  teme  molto,  ed  anche  lo  scorpione 
li  fa  gran  male  se  il  fiede,  ed  eziandio  lo  veleno  del 
serpente  l'uccide.  E  quegli  che  non  volse  che  nessuna 
cosa  sia  senza  contrario,  volle  bene.  Il  leone,  eh' è  forte 
e  orgoglioso  sopra  tutte  le  cose,  e  per  la  sua  fierezza 
è  sì  fetido  ciascun  dì,  che  ispezza  la  sua  grande  cru- 
deltade,  onde  non  ha  podere  che  si  defenda,  onde 
per  ciò  è  malato  tre  dì  della  settimana  di  malattia  sì 
come  di  febbre,  che  molto  abbassa  lo  suo  orgoglio. 
Ma  nientemeno  nattua  gì'  insegna  a  mangiare  lo  sugo 
che  'l  guarisce  delle  sue  malattie.  E  tutto  che  '1  leone 
sia  di  sì  grande  coraggio  e  potenza,  nientedimeno  egli 
ama  l'uomo,  e  sta  volentieri  con  lui;  e  se  avviene  che 
egli  si  crucci  con  l'uomo,  gran  maraviglia  è  la  sua  pie- 


f 

tade;  cU  qmmAntiJàè  pucroociato  incoatro  all^uo- 
ao  e^pià  d'ora  pMpai. •  di  mal  talaato  contro  a  lui, 
Itlfln^ perdona  pin tallo  f^e^  si  gitta  in  terni  eia 
Illa  di  iBamiiifaili  mnrmrli^  ;  éà  appena  si  cruccia  con- 
<B!l#;<W!ÌP%tjBt  copfap»  a^feuoqUi,  e  non  li  tocca  mai, 
^^ipfp'jfif  .frniìrlr  tdenb»  di  maogiare.  E  Pordiae  di 
^#Ì!IFÌ;.jfl.>  M  >M<Dgiire  Punodì  e  Pallro  bere, 
|pj^|l|^iQ|^^  À  ^  srande  pasto  che  appena  lo  può 
^Ifà^jfg^-Pli'a^  onde  la  bocca  gli  pule  mol-^ 

.  fq^li^inaeiKe.  Ila  quando  egli  si  conosce  che  1  pasto 
4j|f^ÀlJ||ri4|p  009^  dentro  alle  sue  forcelle.,  sì  gli 

if^^M^JiP  tf^  il  pn»de  con  le  sue  unghie,  e  cavalo 
|pp|i  4d|a  sua  gorgia.  E  quando  e^  ha  mdtpman* 
gUl^.f -«bai  1  ano  Tenere  è  bene  siAoUo^  e  Ucaccìato- 
l|  J^isppciano^  ^  gitta  inori  tutto  il  suo  pasto,  per 

-  ^%4JÌb|PF^  ^M^9^^6><>^  ^  ff^  corpo.  E  così  si  fii 
9ijjiliffgmi$fi^àk  ha  troppo  mangiato,  per  sanità  del  suo 
'fUgHi^  e  non  mangia  Palbro  di  pè  poco  né  molto.  E 
wp;  Boangia  .carne  che  sia  di  bestia  stata  morta  da  un 
A  jnnayigj.  E  quando  egli  va  di  notte  per  procacciare 
m%  Tivanda  ed  alcuno  lo  sente,  sì  gli  Ta  dietro  mug- 
gjilipndo,  facendoli  noia,  e  se  1  leone  li  puote  porre  ma- 
no per  ninno  modo  non  P  uccide  però,  ma  rompeli  le 
inpbe,  e  scompiscialo  per  farli  più  onta.  £  sappiate 
che  1  leone  giace  con  la  femina  a  rivescio  come  fa  il 
hipo  cerviere,  e  come  il  cammello  e  come  il  leofante  e 
Fonioorno  e  come  il  tìgro.  Lo  leone  ingenera  la  pri- 
ma Tolta  cinque  figliuoli,  ma  la  fierezza  ch^elli  hanno 
odi' unghie  e  neMenti  sì  guasta  la  matrice  della  loro 
madre,  tanto  come  tì  sono  dentro  al  corpo  della  loro 
madre.  E  quando  n'escono  n^escpno  arresi  in  tal  modo 

Latùti.  Foì.  L  14 


'2^'2  Ih  TESOBO. 

che  alla  seconda  volta  quivi  ove  coiicepe  il  seme  del 
maschio  non  ha  potere  di  concepere  se  non  quattro  fi- 
«  glìuoli,  alla  terza  volta  tre,  alla  quarta  due,  ed  alla  quin- 
ta uno,  e  poi  niunp,  però  che  quello  luogo  è  sì  guasto 
che  non  ritiene  il  seme  più;  e  però  dicono  alcuni-  che 
per  lo  grande  dolore  ch'e^  leoni  hanno  al  nascimento, 
nascono  quasi  tutti  isgomentati,  ch^elli  giacciono  tre  dì, 
quasi  come  tramortiti,  sì  come  s^  elli  non  avessero  vita, 
il  quarto  dì  viene  il  loro  padre,  e  grida  loro  sì  forte- 
mente, e  sì  fieramente  in  capo,  ch^elli  si  levano  in  loro 
natura.  L'altra  maniera  di  leoni  sono  ingenerati  da 
una  bestia  che  ha  nome  Prende,  e  questi  leoni  sono 
senzar  velli  e  senza  nobiltà,  e  sono  conti  in  tra  P  altre 
vili  bestie.  Ma  tutte  maniere  dì  leoni  tegnono  li  occhi 
aperU  quando  dormono,  e  là  ovunque  vanno  cuopro- 
no  le  orme  decloro  piedi  con  la  loro  coda,  e  quando 
cacciano  ù  saltano  e  corrono  molto  isn'ell^nente,  e 
quando  son  cacciati  non  hanno  podere  di  saltare,  e  le 
loro  unghie  guardano  in  tal  maniera,  che  non  le  por- 
tano se  nonne  a  rìvescio,  e  il  loro  tempo  è  conosciuto. 

Capitolò  XLII. 
Anteleus. 

Anteleus  è  una  fiera  bestia,  la  quale  non  può  pi- 
gliare ninno  uomo  per  alcuno  ingegno,  e  le  sue  corna 
sono  grandi,  e  son  fatte  a  maniera  di  sega,  e  tagliano 
con  esse  grandi  arbori.  Ma  egli  avviene  che  elli  vanno 
a  bere  al  fiume  di  Eufrates,  là  ove  è  un  piccolo  bo- 
sco di  piccoli  arbuscelli  lunghi,  che  si  menano  e  pie^- 
gano  a  tutte  parti,  sì  che  per  la  loro  fiebolezza,  non 


LIBRO  QUINTO.  245 

li  possono  tagliare,  sì  come  cosa  che  non  sta  ferma  al 
loro  colpo.  £  perchè  non  li  puote  tagliare,  sì  vi  ini- 
quitìsce  suso,  e  mescolasi  con  essi,  ed  impacciatisi  in 
gaene  verghe,  che  non  ne  puote  uscire,  ne  non  si  può 
^irtire,  credendole  poter  tagliare.  E  quando  egli  co- 
nosce che  non  sì  può  partire  ne  andare,  grida  molto 
forte,  credendosi  aver  aiuto.  E  quando  gli  uomini  Po- 
dono  gridare,  ellino  Vi  corrono,  e  sì  Tuccidono,  e  così 
il  pigliano. 

Capitolo  XIHI. 

Arnes,  OTTero  asino  saWatico. 

Arnes  sono  di  due  maniere,  cio^  dimestiche  e  salva- 
tiche.  Di  dimestiche  non  è  cosa  da  conlare,  se  non  la 
spa  negligenza,  e  del  suo  allentamento,  che  gli  uomi- 
ni ne  contano  molti  proverbi,  che  danno  molti  esem- 
pli altrui  di  ben  fare.  L^  altra  eh?  è  salvatica,  che  si 
trova  in  Africa,  è  sì  fiera  che  Puomo  non  li  puote  di- 
mesticare. E  si  è  sufficiente  uno  maschio  a  molte  fe- 
mine.  E  quelli  ha  sì  quell^  uso,  che  quando  vede  che 
nessuno  figliuolo  li  nasca  maschio,  incontinente  li  cor- 
re a  dosso,  per  levarli  li  coglioni,  se  la  madre  non  se 
ne  prende  guardia,  sì  ch^  ella  lo  legna  nascoso  in  luo- 
go salvo  e  ri[iosto.  E  sappiale  che  questo  arnes  sai  va- 
lico, che  r  uomo  chiama  onagro,  a  ciascuna  ora  del  dì 
e  della  notte  grida  una  volta,  sì  ohe  P  uomo  può  bene 
conoscere  le  ore,  e  sapere  cerlanienle  quando  e*  pare 
il  di  con  la  notte  e  quando  no. 


a44  JI'  T£SORO. 

CapitoIìO  XLIV. 

De^  buoi. 

Buoi  sono  di  molte  maniere.  Una  che  nasce  nellS 
parti  d'Asia,  ed  ha  chioma  e  crini  come  cavallo.  E*  le 
sue  corna  sono  sì  grandi^  eh' die  si  avvolgono  intomo 
alla  testa,  ai  che  nullo  lo  può  ferire,  se  non  sullo  cor- 
no. £  quando  Puomo,  o  altra  bestia  lo  caccia,  egli 
scioglie  lo  suo  ventre,  e  gittasi  da  dietro  una  feccia, 
una  grande  pezza  di  lungi  da  lui,  sì  putente,  che  arde 
come  bragia  ciò  che  tocca.  Un'altra  a' ha  India, ^ che 
non  ha  se  non  un  corno,  e  le  sue  unghie  sono  intere 
come  di  cavallo.  Uno  altro  bue  salvatico  nasce  in  Ala- 
magna,  che  ha  sì  gran«le  corna,  che  son  buone  per  so- 
nare e  per  portare  vino.  Li  altri  sono  chiamati  bufali, 
e  dormono  ne'£>ndi  dì  grandi  fiumi,  e  vanno  così  be- 
ne per  lo  fondo  dell'acqua,  come  per  terra.  Ma  i  buoi 
che  80Q  dimestichi,  e  lavorano  la  terra,'  son  dolci  e 
pietosi,  ed  amano  loro  compagnoni  teneramente,  e  di 
buona  fede,  secondo  che  mostrano  al  grido  che  fanno 
ìif)esse  volte,  quando  lo  suo  compagno  è  perduto.  E 
però  eh'  elli  sono  mo)to  utili  a  lavorare  la  terra  del 
signore  deUa  magione,  sì  si  vogliono  iscegliere  buoi 
rhe  sieno  giovani  e  che  abbiano  tutte  le  membra  bel- 
le, e  sieno  grandi  e  quadrati,  e  grandi  occhi  ed  allegri, 
e  le  coma  nere  e  ferme,  e  non  sieno  avvolte,  ne  a  mo- 
do di  luna,  e  le  nare  aperte  e  lai*ghe,  e  la  pagliolaia 
molto  pendente^,  e  largo  petto,  e  grandi  spalle,  e  lar- 
ghissimo ventre,  e  lunga  la  schiena,  diritta  e  piena,  le 
gambe  lunghe,  e  dure  nerberà,  e  piccole  unghie,  e 


LIBRO  QCrUf tu.  345 

coàBL  grande  e  pilosa,  e  tutti  i  polsi  del  corpo  bene 
disposti,  cioè  corti  e  sj^essi.  E  sia  di  pelo  rosso.  Ma  le 
yncdbe  dere  Pucnno  scegliere  molto  alte,  e  lunghe  di 
grandissimo  corpo,  che  abbian  la  fronte  alta,  ed  occhi 
-^jKNMt  «nKri,  e  fai  gorgia  pilosa^  la  coda  grandis^ma, 
^  BnogUe-piiMBole,  iegaidie  corte  e  nere^  e  siano  di 
4ftMB|kQ^di  tipe^anoi  ^  tafioo  a  dieci  anni  porteranno 
fiff^fooK.  mii^iori  die  aoai  poi  e  prima.  £  dicono  li 
JShnd^hè  te  di  questa  bestia  tuTum  fòr  &re  nascere 
fl^SmaìL  maacfaio^  »  si  vuol  legare  fl  oo^ione  manco  al 
^too  qÌBiido  ^1^  Ta  alla  vaoca,  e  se  Tuoli  ch'cffli  in- 
■§ÈaBiaà4BmmBÌe§BÌ^  il  diritto. 


.^  <i- 


........  Capitolo  XLV. 

'.•ti*.'  fc 

^^'     *^-  Ì>^d01llldt. 

■.!•'•:'. y  ;-;■-■■'  ...       : 

t  iDeooola  è  una  besttuola  piccola,  più  lunga  akuoa 
'joué  csbe  *1  topOy  e  odiala  il  topo  moltc^  e  la  serpe,  e 
lerliolta;  E  quando  si  combatte  con  loro,  ed  ella  è 
noriia  da  loro,  ella  incontanente  corre  al  finocchio,  ov- 
.iM«o>aUa  cicerbita,  e  maogiaoe,  ovvero  ch^  ella  ne  den- 
teodbìa,  E  quaodo  ha  presa  questa  sua  medicina,  ella 
iilcontaoente  torna  alla  battaglia.  E  sappiate  che  le 
donnole  sono  di  due  maniere,  Puna  che  usa  nelle  case 
con  ^uomini,  ed  un^ altra  ch^è  campestrai  Ma  cia- 
scheduna ingenera  per  li  orecchi,  e  figlia  pei'  la  bocca 
secondo  che  molti  dicono^  ma  li  più  dicono  ch'elli  di- 
cono ùlso.  Ma  come  si  sia,  spesse  volte  tramutano  li 
loro  figliuoli,  perchè  Puomo  non  li  sappia,  e  se  T  uo- 
mo li  ti'o  va  morti,  ella  li  fa  resuscitare^  e  non  può 
P  uomo  sapere  come  si  fa,  se  con  erba  o  con  altra  cosa. 


246  IL  TE801L0. 

Capitolo  XLTI. 

Del  cammello. 

Cammelli  sì  sodo  di  due  maniere.  L'una  maoiera  so- 
no più  piccoli  che  gli  attrì,  li  quali  si  chiamano  dro- 
medaiì.  E  sono  molto  grandi,  e  portano  si  grande  peso 
che  n'avrebbero  assai  dae  cavalli  di  portarlo.  E  quan- 
do l'uomo  li  vuole  incaricare,  elli  si  corìcano  in  terra, 
e  stanno  cheti  e  soavi,  infino  a  tanto  che  sono  caricati  ; 
e  con  la  soma  »  levano  senza  alcuno  aiuto.  Ed  è  di 
piccolo  pasto,  secondo  la  sua  grandezza,  e  secondo  la 
sua  potenza.  £  vivono  di  pasture  sì  come  e'  buoi^  e 
più,  che  mangiano  spini  e  cordi  e  quello  che  alcuna 
bestia  non  osa  toccare.  E  simigliantemente  mangiano 
noccioli  di  datteri,  e  stanno  senza  bere  più  di  dieci  dì. 
E  quando  trovano  alcuna  acqua  beono  molto,  tanto 
quanto  egli  avrebbe  bevuto  in  quelli  di  che  è  stato 
senza  bere.  Anche  bee  più  per  la  sete  che  dee  venire 
e  che  aspetta.  E  quando  egli  ha  molto  bevuto,  se  Tuo- 
mo  li  fende  la  pelle  delle  coste  e  pone  la  bocca,  e  tiri 
a  sé  come  una  mammella,  si  ne  esce  acqua  dùara  e -fre- 
sca, come  d' una  fontana.  E  più  ama  acqua  torbida 
che  chiara;  e  se  la  truovano  chiara  la  intorbidano 
con  i  piedi  snelli  possono.  E  sono  molto  umili  bestie 
e  soavi,  salvo  che  nel  tem[)o  da  congiungersi  con  le 
loro  femine,  che  allora  mordono  fieramente.  E  li  lor 
piedi  sono  quasi  callo,  ed  hanno  poca  unghia,  ed  è 
sfessa,  e  non  si  guastano  per  cammino  eli'  elli  facciano. 
Ma  in  loro  cammino  non  vogliono  trovare  pietre  ne 
fango.  E  molto  temono  neve  e  grande  freddo.  E '1  gran- 


u«AO  QcrifiTo.  a47 

de  scrigno  ch'elli  haimosal  dosso,  lì  Arabi  che  ^  ten- 
gono, fendono  la  pieUe  per  mezso  la  schiena,  e  scorti- 
Canio  ìnfino  al  terzo  ddie  coste,  e  cavano  quello  scri- 
gno, ch^è  tutto  grasso,  e  quello  insalano,  e  serbanlo 
WiolltOj  etxmdisoono  loro  vivande.  Secondo  li  savi  an- 
liehjr  questi  cammelli  erano  ^ere  bestie,  e  divoravano 
ogni  OQsa,  anzi  che  1  popolo  d'Israel  uscisse  del  rea- 
nfrd»  Faraone.  E  quando  Moises  ne  li  cavò,  e  me- 
paHì  in  terra  di  promession^  cioè  in  lerusalem,  sì  do- 
IBHMÌò  a  Dio^  dbe  desse  loro  bestie  che  portassero 
levo  fancìnlli  eloto  masserìzie.  E  che  portassero  as- 
mì  e  mangiassero  poco.  E  Dio  dette  loro  queste  fiere 
bcttie  cmne  avete. inteso.  E  vivono  lungamente. 

Capitolo  XLYD. 
Del  Castore. 

.  ■  CSMtore  è  una  bestia  che  conversa  nel  mare  di  po- 
nente^ chiamato  can  pontìco,  perch'  ef^-.  è  quasi  simi- 
gliante  di  cane.  £  suoi  coglioni  sono  molto  caldi,  ed 
nlìU  in  medicina.  £  pm>  li^  prendono  i  cacciatori.  Ma 
natora  che  insegna  tutte  proprìetadi  agli  animali,  V  in- 
segna la  cagione  perchè  Puomo  li  caccia^  e  quando 
vede  che  non  possa  foggiìre,  egli  stesso  se  li  schianta 
ce'  denti,  li  coglioni,  e  gittali  dinanzi  a'  cacciatori,  e 
cosi  campano  loro  corpi.  E  d^allora  innanzi  se  Puomo 
lo  caccia  ^li  apre  le  coscie,  ^  mostra  apertainente 
com^^  non  ha  coglioni. 


u48  ^^  TESORO. 

Cafitolo  XLVIII. 

Del  caTriuolo. 

Cavriuoli  sono  una  maniera  di  bestie  di  nobile  co^ 
nosceuza,  che  da  lunga  conoscono  le  genti  per  sotti- 
gliezza di  Telata,  se  sono  cacciatori  o  no^  e  così  cono- 
scono le  buone  erbe  e  le  rie,  solamente  per  lo  vedere, 
E  sappiate  che  se  Tuomo  il  fedisse  in  ninna  maniera 
incontanente  va  ad  una  erba  che  ha  nome  dittamo,  e 
toccane  le  sue  piaghe,  ed  incontanente  è  guarito  e  sano. 

Capitolo  XLIX^ 
Del  cerTÌo. 

Cervio  è  una  bestia  salvatica  di  cui  li  savi  dicono 
che  non  ha  mai  febbre  in  vita  sua,  per  ciò  sono  alcu- 
ne genti  che  mangiano  ia  sua  carne  ogni  di  innanzi 
mangiare,  «  sono  sicuri  di  non  avere  febbre  in  loro 
vita,  e  certo  vale  assai  prendendone  un  poco  senza 
più  \  e  nel  core  ha  un  osso  molto  medicinale,  secondo 
ch^e^  medici  dicono.  Lo  cervio  medesimo  c'insegna  la 
dieta,  ch'ellino  non  mangiano  quando  Puomo  gli  ha 
fediti,  che  la  virtù  di  quelle  erbe  leva  loro  da  dosso, 
e  gnarisceli  delle  loro  fedite.  £  tutto  che  1  cervio  sia 
gi-ande  nimico  del  serpente,  nientemeno  il  serpente  li 
vale  molto  a  medicii^a.  Or  intenderete  come  egli  va 
alla  buca  del  serpente  con  la  bocca  piena  d'acqua,  e 
gìttavela  entro,  e  quando  egli  ha  ciò  fòtto,  egli  la  trae 
a  se  per  ispiramento  di  suo  naso  e  di  sua  bocca,  tanto 
<'h'*egli  ne  fa  uscire  fuori,  a  suo  mal  grado,  e  poi  Tue- 


màm  €ù*fiiBÌL  E  quando  il  cervio  vuole  lasciare  la  sua 
iMiehfeniai»  aMOAmiÈMài  egU^nungia  lo  serpente,  e 
pm  i*  ptOEKft  ad  Telmo  te  ne  va  ad  una  fontana  e 
liwi  «olio.  Ed  m  qaìttla  maniera  muta  suo  pelo,  e 
fflftàj$  JWli  jginliiftj  ■■»lari«icìiktBm;  e  però  vìyoqo  lun- 

àm  AfaBsaandro.  provò,  quando  fi^jà 

A^eriiiiet.feQe.  mettere  a  eiaschedu-* 

jm  «fmhiad^Qfo  o  d'arìento,  che  poi 

pl#  Inorvi^  .per  ipnwQi  tem^  ajf^res»o  di  een-* 

IfctfBji.  J^ljjjpyjptflfifc^  fflaodo^   cervio  tiene  le oreo^ 

jÌffl!ipmato«.£  qimdo  dlfi  pas«Bio  per  akuao  gran 
§mm} ipiiillin^di drirto.poctgi  ilini» sopra  alla  groppa 
.  4tipr4  dinante  e  ooA  il  sostiene  ^  e^i  si  travagliasse 
.  «aMla^'EqinBdo  il  cervio  è  ammalato,  e  commosso 
j|d|piiai  tipniiiiii  ifinnrln  l  tiipnni^  la  fismina  non  con- 
oidi» if  HQQ  ai  l«va  una  stella,  eh'  è  ehiamata  Arturo 
^l0l!KfJii<€astQw.  E  >  quando  è  la  stagione  ch'e'figUui^ 
jMaboPO  nascere,  dli  vanno  a  &re  lo  loro  letto  nel  più 
apjBjOfo  luogo  ch'eUi  possono  trovare,  là  ove  il  bosco 
èfiià.  patofiuoido  e  più  spesso,  e  qui  insegna  a^suoi  fì- 
l^ikiqlji  correre  e  fuggire,  ed  andare  per  ripe  e  per  monr 
taipa?.  E  loro  natura  è  dbie  là  ov'  elli  sentono  abbaiare 
cifli  che  li  caccino  lì  dirizzano  la  loro  andatura,  acciò 
4Ìl0\k  cani  non  sentano  loro  odore,  £  non  per  tanlo 
dbt  Ki,ov'è  U  cacciatori  che  li  cacciano  li  tengono  sì 
corti  e  disparì,  che  non  conta  di  più  potere  salvarli, 
egli  ritorna  indietro  correndo  e  battendo  quella  parte, 
là  onde  li  cacciatori  vegnono  pef  morire  dinanzi  da 
loro  più  leggermente. 


2bO  -        IL  TBsoao. 

Capitolo  L. 

Del  zerere. 

Zevere  sono  una  generaidone  di  bestie  che  abitano 
nelle  parti  di  Spagna,  cioè  di  Castiglia  yecchia,  e  sono 
maggiori  che  cervi.  Ed  hanno  li  loro  orecchi  molto 
lunghi.  Ed  hanno  una  lista  su  per  le  schiene  infino  in 
sulla  coda,  come  mulo.  Ed  hanno  li  loro  piedi  fessi.  E 
la  loro  carne  è  molto  buona  da  mangiare.  E  sono  sì 
correnti  che  P  uomo  non  li  potè  prendere  in  alcun 
modo,  se  non  che  sono  molto  vaghi  del  fuoco.  E  però 
quando  li  cacciatori  li  trovano  al  bosco,  elli  vanno  in- 
tomo di  loro  di  notte,  e  fanno  gran  fuochi  e  ben  chia- 
rì in  quella  parte  onde  possono  esser  veduti  meglio. 
E  quando  elle  il  veggono,  si  n^  sonò  sì  vaghe,  che  non 
pongono  bocca  in  terra  per  pascere,  e  quando  li  cac- 
ciatorì  li  hanno  tenuti  quasi  iV  tei'zo  dì,  elli  vanno  in 
verso  di  loro,  e  vann(^li  traviando  in  verso  quella 
parte,  ove  dee  avere  acqua.  E  quando  elli  gli  hanno 
condotjti  all^  acqua,  elli  li  danno  tanto  di  spazio,  che 
elli  possono  bere,  e  beono  molto  volentieri.  E  quando 
hanno  ùiolto  bevuto,  ed  elli  le  cacciano.  Ed  elle  allo- 
i^p  sono  sì  lasse  per  lo  grande  digiuno  che  hanno  fat- 
to, e  per  la  molta  acqua  che  hanno  bevuta,  eh'  elle  non 
possono  guarì  correre.  Allora  li  cacciatori  le  prendo- 
no leggermente. 


Likfto  QDiirro.         %.  25 1 

Capitolo  LL 

jjpella  naton  di  più  cani. 

Gani  non  v^ono  quando  joBSCono^  ma  poi  licore^ 
loro  Tednta  seeondo  V  ordine  di  sua  natura,  e 
tmto  di^  dtino  aman  Paomo  più  die  niun  altro  ani- 
iMle  ddi  Biondo,  elU  non  conoscono  le  strane  genti, 
m  amt  coloro  con  cui  usano,  e  si  conoscono,  bene  lo- 
m.  HOMO  alla  boce  di  loro  signore.  Le  sue  piaghe  gna- 
fold)endo]e  con  la  sua  lingua  spesso.  £  gitla  il 
pasto,  e  poi  il  nmai^a.  Equando  dUi  porta  car- 
ila bocca,  e  egU  ^da.  sopra  acqua  die  t^^  la  sua 
nobra  ndl'  acqua  di  quello  die  ha  in  bocca,  incupita*- 
inulte  lascia  quello  che  porta  per  quello  che  yede  nd« 
IRéoqiia.  E  sappiate  che  quando  si  congiungono  insie* 
ém^  cane^e  lupo  egli  ne  nasce  uim  maniera  di  cani, 
dil^è^ molto  fiera.  Ma  li  molto  fieri  cani  nascono  di  ca- 
gna e  di  tigro.  E  sono  sì  leggieri  e  sì  aspri,  che  dò  è 
lotte  maraviglia.  Gli  altri  cani  che  sono  di  dimestica 
ragione'  sono  di  molte  maniere.  Che  ci  nascono  di 
piccoli,  che  sono  molto  buoni  a  guardare  case.  E  sì  ne 
sono  d^  altri  piccoli  che  sono  buoni  a  cacciare,  e  quel- 
li che  sono  generati  di  picdolo  padre  puote  V  uomo 
nutrire  in  loro  gioventude  in  questa  maniera,  ch^egli 
k)  metterà  in  una  piccola  paniera,  e  nutrichilo  di  po- 
ca vivanda,  e  tirigli  spesso  gli  orecchi  contra  a  terra, 
che  allora  sono  più  avvenevoli  quanto  son  minori  co- 
gli orecchi  pendenti  e  grandi.  E  cognoscono  al  fiato 
ove  passa  o  bestia  o  uccello,  e  quelli  che  si  dilettano 
del  cacdare  h  debbono  guardare  molto  da  falsi  sem- 


p5;2  ^  IL  T£60aO.  . 

bianti  ^  che  i  cani  non  hanno  la  conoscenza  del  fiato 
,  per  lignaggio,  e  niente  meno  dice  il  proverbio  del  vil-^ 
lano,  che^l  cane  caccia  per  natura.  Gli  altri  sono  cani 
che  seguita  la  bestia  infino  alla  fine,  e  che  la  cacciano, 
e  chiamansi  segugi.  Onde  \e  n^  è  di  tali  che  acciò  che 
Puomo  gli  nudrisca  seguitano  che  ne  sono  di  quelli 
i^he  sono  conci  a  currere,  e  ad  altre  bestie  che  usano 
in  .^Msqua.  Gli  altri  sono  maggiori  e  più  isndli  a  corr 
xere  per  prendere  bestia  di  sua  bocca.  Gli  altri  sono 
mastini  grandi  e  grossi  e  di  molto  grande  fòrza,  e  pi* 
gliano  orse,  porci  salvatichi  e  altre  grandi  bestie;  e 
«eu^ndio  contro  all'  uomo  combatte  molto  fieramente» 
Serò.  troviamo  noi  nelle  storie  antiche,  che  uno  re  en 
«tato  preso  da'  suoi  nimici,  sì  che  li  suoi  cani  rauna-* 
4Kmo  grande  moltitudine  d' altri  cani,  e  combatterò 
■con  coloro  che  teneaoo  il  re  si  fortemente,  eh'  e'  lo 
jtqlseix)  loffo  per  £<m»*  £  sì  non  è  gran  tempo  che  di 
«ani.  di  campagna  e  del  paese  si  raunarono  insieme  in 
4mo  luogo  dove  si  combatterò  si  aspramente,  che  al^ 
la  fine  non  ne  campò  ninno  che  non  fosse  meato 
Però  divisa  dinanzi  che  'l  cane  ama  più  V  uomo  che 
bestia  che  sia.  £  sì  vi  dirò  alcuna  cosa  che  nostri 
maestri  iscrissero  ne'  loro  libri.  Sappiate  che  quando 
lasel  fu  morto  lo  suo  cane  non  voke  mangiare,  e 
cosi  morio  di  dolore.  £  quando  il  re  Litamante  fu 
messo  nel  fuoco  per  li  suoi  peccati  che  fatti  aveva,  lo 
suo  cane  vi  si  gittò  entro  con  lui,  e  lasciovvisi  ardere 
con  luL  £  un  altro  cane  entrò  col  suo  signore  in  prir 
gione  in  Roma,  e  quando  lo  suo  signore  fu  gittato  nei 
fiume  del  Tevero  di  Roma,  egH  vi  si  gittò  con  kti,  e 
tanto  [Sorto  la  carogna  del  suo  signore  quanti)  egli  pò*- 


UMo  Qmrfo.  2  53 

tei.  '  E  qoeste  e  móke  altre  nature  sono  trovate  ne'  ca- 
ni, ma  [wà  non  ne  dice  il  conto  per  abbreviare  Io  suo 

f  Capitolo  LII.  , 

Beila  Datura  del  cameleonta. 

■i       ..      ■         «■  ...  .     ■ 

CamMleonte  è  tma  bestia  che  nasce  in  Asia,  ed  in 
gritide  mcdtitàdine,  e  la  sua  fauone  è  alla  someglian- 
n  ddPtBardo^  e  le  sue  gambe  sono  lunghe  e  ritte  e 
Itaqglie,  ed  ha  unghie  fiere  e  acute  e  molto  grandi,  e 
VA'  teatamente  come  tairtuche,  e  la  sua  pelle  è  dura 
tóme  di  coccodrillo,  ed  i  suoi  occhi  son  fieri  duramene 
te,  e  fitti  dentro  nella  testa,  e  non  mira  né  in  qua  né 
m  Ih  per  traverso,  anzi  guarda  sempre  dinanzi  da  sé. 
E  sitti  natura  è  fioionente  maravigliosa  eh'  ella  non 
mangia  né  bee  cosa  del  mondo,  anzi  vive  solamente 
ddParia  che  trae  a  sé.  H  suo  colore  è  sì  mutabile,  che 
incontanente  che  tocca  ninna  cosa  si  perde  il  suo  co- 
lore, se  non  se  vermiglio  o  bianco,  che  questi  due  co- 
lori non  può  ella  pigliare.  E  sappiate  che  '1  suo  corpo 
é  senza  carne  e  senza  sangue,  se  non  se  al  cuore  che 
ve  n'ha  poco.  E  di  verno  ista  in  luogo  di  riposo  e  la 
slate  ritorna.  E  s'egli  mangia  d'uno  uccello  lucido  che 
ha  nome  foras,  si  li  conviene  morire  ^e  le  foglie  di  al- 
lòro non  lo  deliberano. 

Capitolo  LIII. 

Della  natura  de^caralli. 

Cavallo  è  una  bestia  di  troppo  grande  cognoscenza, 
iiiiperò  ch'egli  usa  intra  le  genti.  Ed  han  t^^nto  senno 

Latini.  Fui.  I.  1 5 


a54  4L  TESORO. 

%  discrezione  ch'ellino  cognoscono  il  loro  signore.  £ 
spesso  mutan  modi  ed  atti  quando  mutan  signori.  £ 
fremita  nella  battaglia.  £  rallegrasi  per  lo  sono  delW 
tix)mbe.  £  sono  lieti  quando  hanno  TÌttoria,  e  sono 
tristi  quando  hanno  perdita.  £  puote  V  uomo  bene 
conoscere  se  la  battaglia  si  dee  perdere  o  vincere  alla 
yista  che  fanno  i  cavalli  di  rall^arsi  o  di- contristarsi^ 
E  sonne  assai  di  quelli  che  conoscono  il  nimico  d^ 
loro  signore  e  mordonlo  duramente,  fi^di  tali  sono  che 
non  portano  se  nonne  il  loro  signore  dii'itto^  secondo 
che  fece  il  cavallo  di  Giulio  Cesai'e,  e  Buce^las  d'A« 
lessandro,  che  in  prima  si  lasciò  toccare  come  angelica 
bestia,  e  poi  che  1  re  vi  montò  suso,  e^non  degnò  poi 
mai  di  lasciarsi  toccare  ad  altro  uomo  per  cavalcare.  E 
sappiate  che  Bucefalas  aveva  testa  di  toro,  e  molto  fìera 
guardatura,  ed  avea  due  corna.  Ed  il  cavallo  di  Gin- 
Pareto  duca  di  Galazia,  Antioco,  montò  poi  che  el^e 
Tinto  il  duca  lo  cavallo,  e  lo'ca vallo  corse  al  chino  in.  tal 
modo  ch^egli  uccise  sé  ed  il  re  Antioco.  £  quando  lo  re 
de'  Sciti  combatteva  col  nimico  suo  a  corpo  a  cor- 
po, ed  egli  fu  morto,  T  altra  gente  il  voleva  spogliare, 
e  tagliarli  la  testa,  lo  cavallo  suo  lo  difendè  iufìno  alla 
sua  molte,  che  non  volle  mai  mangiare.  £  sappiate 
ch'egli  è  cosa  provata  che  '1  cavallo  lagrima  per  amo- 
re di  suo  signore,  e  non  è  niun' altra  bestia  che  1  fac- 
cia. £  sappiate  che'cavalli  mischiali  sono  di  lunga  vita  ^ 
che  noi  troviamo  scrìtto  d'uno  cavallo  che  visse  set- 
tanta anni.  Ma  le  giumente  vivono  lungamente,  e  la 
lussuria  loro  la  può  V uomo  ristiignere  se  V uomo  li 
rade  li  crini.  £  del  suo  parto  nasce  una  cosa  d'amore 
nella  fronte  del  puledro,  ma  la  madre  gliele  cava  co' 


LIBRO  QUINTO.  3 55 

denti  ehe-iKm  Tuole  che  rimanga  tra  mano  d^uomo. 
S  ae-Fuomo  gliele  lerasse  la  madre  non  gli  darebbe 
fK»  del  suo  latte.  £  sua  natura  è  che  tanto  quanto  il 
carallo  è  più  sano  e  di  miglior 'cuore,  tanto  più  mette 
la- bocca  e  '1  naso  nell'acque  quando  bee.  Ed  al  ca- 
Tallo  dee  l'uomo  guardare  in  quattro  cose,  secondo  lo 
detto  de' savi  antichi,  cioè,  forma,  beltade,  boutade  e 
colore.  CShè  nella  forma  del  cavallo  dee  V  uomo  con- 
cideiBre  che  la  sua  carne  sia  forte  e  dura,  e  ch'egli  sia 
beir  alto  secondo  la  sua  fi>rqia,  le  coscie  debbono  es^ 
sere  larghe  e  piene,  la  groppa  ritonda  e  largo  petto, 
di  bella  guisa,  piedi  secchi  e  ben  cavati  di  sotto.  In 
beltà  dei  guardare  che  abbia  piccola  testa  e  secca,  si 
die  Fuomo  vi  sia  suso  bene  stante,  poi  abbia  gli  occhi 
grassi,  e  larghe  le  nare^  e  orecchi  piccoli  e  diritti  e 
«aldj,  e  la  testa  diritta,  il  sembiante  a  testa  mcmtanina, 
evenni  sieno  bene  spessi,  e  la  chioma  ferma,  e  la  pan^ 
nocchia  della  coda  grande,  l'unghie  salde  da  tenere  beite 
%  ferri,  e  sian  tonde.  £  in  bontade  guarda  ch'egli  ab* 
bia  ardilo  coraggio  e  andatura,  e  membri  non  stipi, 
e  bene  corrente  alla  sua  voluntade.  £  sappiate  che 
l'isnellezza  del  cavallo  si  cognosce  agli  orecchi,  e  la 
sua  forza  alle  membra,  chi  le  balisca  bene.  £  in  colore 
dei  tu  guardare  lo  baio,  il  ferante  rotato,  o  nero,  o 
bianco,  o  fallago,  o  d'altra  maniera  che  tu  potrai  tro- 
'  vare  più  avvenevole.  Per  ciò  che  sono  cavalli  di  mol- 
te maniere,  che  tali  sono  destrieri  grandi  per  combat^ 
tere,  e  tali  sono  palafreni  da  cavalcare  per  agio  del  cor- 
po, e  tali  sono  ronzini  per  portare  soma  o  muli  fatti 
di  giomenta  e  d'asino.  E  dei  tu  bene  avere  a  memoria 
di  scegliere  quello  cavallo  jche  ti  sia  bisogna  a  tuo 


a  56  IL  TESORO. 

seiTÌgio,  che  alcuno  conviene  bene  correre  ed  alcu- 
no bene  ambiale,  o  trottare,  o  andare  al  passo  o  altfè 
cose  che  altra  natura  richiede.  Generalmente  guarda 
in  tutti  cavalli  che^  suoi  membri  sieno  bene  ordinati 
che  risponda  Puno  alP  altro.  E  ch^egli  abbia  li  suoi 
occhi  e  tutti  gli  altri  membri  ben  sani,  che  egli  non 
sia  troppo  giovane  né  troppo  vecchio,  però  che  i  vizii 
de' cavalli  sono  dentro,  e  di  fuòri  che  si  paiono,  si  che 
nullo  non  è  che  non  abbia  o  poco  o  assai.  £  sappiate 
che  quelli  sono  i  migliori  che  meno  vizio  hanno*  *    ' 

Capitolo  LIV.  • 

Del  leofante. 

'  Leofante  è  la  maggiore  bestia  che  Tuomo  sappia. 
E  li  suoi  denti  sono  avorio.  H  suo  bécco  si  chiama 
promusce  eh' è  simigliante  al  serpente,  e  eoa  quello 
becco  prende  egli  la  sua  vivanda,  e  mettelasi  in  bocca', 
però  che  quel  becco  è  fornito  di  buono  avorio.  Ed 
egli  è  di  sì  ^n  forza  ch'egli  il  rompe  ciò  che  fiede,  è 
sì  dicòno  li  Grìmonesi  ch'elli  videro  fedire  un  carro 
caricato  sì  forte  ch'egli  gittò  in  su  una  casa.  E  ciò  non 
è  gran  maraviglia  per  la  grandezza  che  hanno,  secondo 
che  molti  testimoniano.  Innanzi  ne  sono  veduti  di  sì 
grandi  che  portano  soma  che  pesa  novantotto  ruotóli, 
che  sono  ben  settemila  e  quaranta  libbre.  E  già  &  egli 
molto  fiero,  non  per  tanto  che  viene  molto  nascoso,  e 
molto  tosto.  E  non  entra  mai  in  nave  per  mòdo  di  pas- 
sare lo  mare,  se  1  maestro  non  li  impromette  di  ritor^ 
narlo  in  quel  medesimo  paese.  E  sì  lo  puote  l' uomo 
cavalcane  e  menare  in  qua  in  là,  lioh  con  freno,  ma 


UBi^o  QUINTO.  a57 

oon  trocchelti  di  feno.  E  ély vi  T  uomo,  su  castella  di 
kgnanie  per  combaltere,  e  maoganette.  Ma  Alessan- 
dro, fece  ùa:e  una  imagiae  di  rame,  ed  empierla  di  car« 
boni  io  tal  maniera  che  arse  loro  e  li  loro  becchi,  si 
die  non  ferìron  più  con  essi  per  paura  ddi  fuoca  Ed 
Q|ggi£  si  trovano  mxÀbe  dell- ossa  in  quel  luogo  ove  fu 
la  battaj^  tra  lui  e  Porro  re  d'India.  E  saj^iate  che 
■d  leofimte  è  grande  senno,  ch'eUi  osservano  la  disd-; 
pyoa  del  sole  e  della  luaa^  si  come  fanno  gli  uomini 
E^snno  a  grande  torma  insieme,  ed  a  schiera.  Il  più. 
vecchio  va  dinanzi  a  tntti  gli  altri  ^  e  quel  eh'  è  dopo 
a  lui  di  tempo  va  dopo  a  tutti,  e  tutti,  gli  altrì  vanno 
secondo  che  elli  capitaneggiano.  £  quando  elli  sono 
in  battaglia  non  fedono  se  non  con  uno  delli  denti, 
TaUro  guardano  a  grandi  bisogni.  E  se  fossero  vinti  elli 
adoperano  V  altro  per  difesa  La  natura  dei  leofanti 
è  che  la  femina  in  fin  a  tredici  anni  ed  il  maschio  infino 
i:  quindici  anni  non  sanno  che  lussuria  si  sia.  E  nou 
per  tanto. che  elli  sono  casti  animali,  che  per  lussuria 
non  han  mai  briga  tra  loro,  che  ciascheduno  ha  la  sua 
a  die  egli  si  tiene  tutto  il  tempo  della  viLa  sua.  In  tal 
maniera  che  quando  alcuno  perde  sua  mogliere,  o  al-, 
cuna  perde  suo  msirito  elli  non  si  congiungono  mai 
oon  altro  ne  con  altra  tutto  il  tempo  della  vita  sua, 
anzi  vanno  tuttogiorno  soli  per  la  foresta,  però  che 
lussuria  non  è  in  loro  grande.  £  non  è  sì  calda  eh' elli 
si  congiungano,  come  altre  bestie  che  si  congiungono 
per  molestamento  di  natura,  ma  saviamente  li  due 
compagni  se  ne  vanno  insieme  verso  oriente  appres- 
so^ al  paradiso  delitiarum,  tanto  che  la  femina  trova 
una  erba  ch^l'uomo  chiama  mandragora,  e  mangiane 


:258  IL  TESORO. 

ella,  e' fa  sì  che  ne  mangia  il  maschio  con  lei,  ed  iffi- 
contanente  riscaldano.  Alla  volta  ingenerano  ano  fi-^ 
gliuolo  e  non  più,  cioè  ima  Tolta  tutto  '1  tempo  della 
loro  vita.  E  si  vivono  bene  trecento  anni.  £  quando 
tiene  il  tempo  del  parto,  cioè  due  anni  dopo  loro  as^ 
sémblamento,  elli  se  ne  vanno  dentro  ad  un  fiume, 
Enfino  entro  il  levante,  e  qui  la  madre  posa  il  suo  fi- 
gliuolo. Il  padre  sta  presso,  e  prendelo  per  paura  òéL 
dragone  eh' è  loro  nimico  per  volontà  ch^egli  ha  di 
loro  sangue,  che  ^1  leofante  ha  più  freddo,  ed  in  HKig- 
gior  copia  che  bestia  del  mondo.  E  dicono  molti  che 
quando  giacciono  non  si  possono  mai  ievare  per  loro 
podere,  perchè  non  hanno  ginocchi,  né  ninna  giuntu- 
ra^ ma  la  natura  che  tutto  guida  sì  gP  insana  a  gri^ 
dare  ad  alta  voce  tanto  che  uno  altro  li  sente,  e  gri- 
dano con  loro  insieme  si  fortemente  che  tutti  quelli 
che  sono  in  quelle  parti  li  sentono,  e  vegnono  tanti 
che  sono  instno  a  dodici  che  gridano  insieme.  Ed  un 
piccolo  leofante  mette  il  suo  becco  sotto,  e  con  la  sua 
forza  s^  aiuta  levare,  tanto  che  intra  la  forza  di  quello 
^li  si  conforta  per  li  gridi  degli  altri,  che  egli  si  leva 
Sliso. 

Capitolo  LV. 

Della  formica. 

Formica  è  un  picciolo  animale,  ma  ella  è  di  grande 
pròvidenza^  che  ella  procaccia  la  state  di  che  ella  vive 
il  verno,  e  scéglie  il  grano,  e  rifuta  P  orao,  e  conoscelo 
al  fiato.  Il  grano  e  P  altre  sementi  ch^elle  ripognono 
si  lo  dividono  per  mezzo,  perchè  non  nascono  per  io 
grande  umidore  del  verno.  E  si  dicono^!  Etiopiani 


LUtto  f^pvno,  a59 

die  nesoD  in  una  isola  foraiM^  grandi  oome  caiv» 
cht>fs«Tanararo  dd  yabbioqe  con  loro  piedi,  e  guar» 
lianio  ai  jfivtemaite,  ehe  nessuno  né  puote  avere  senza 
lirte»  ib  quelli  di  quel  pa^e  mettono  in  su  quella 
jiohi^miettte.  che  abbiano  po}edri,  e  pongonle  due 
jCQcbdb  addosso  senza  il  puledra  £  (]piando  queste  ùxr 
nadM^.fipggonoquesle  corbelle,  si  vi  mettono  Poro 
.jpfrcb&-ti  «redono  mettere  in  luogo  salvo,  ,e  quando 
éffL^  «era  ehe  la  giumenta  ò  pasciuta  elli  portano. il 
lliriadcp  delP  altra  parte  della  riviera,  e  quando  eliia 
Itde  a  nitaire  il  figliuolo  ella  viene  alla  riva,  e  mettonla 
jia..|orQ  navicelle  senaa  prendere  alcuno  dannp  dalle 
4eHe  formiche.  In  questa  maniera  hanno  di  quello  orp 
dbe  ialite  modo  JDOB. Ite  possoQo.avare.. 

•*■•-■.■■■  -  -.  .  / . 

,.-.    .  ..Capitolo  LVL 

*  1  -  ■  *   ■  ■       ■*  -■•     -      ... 

'    '"*  '' DeHahyeiie. 


f  •  * 


-r.-fiyene  è^una  bestia  che  Puna  volta  è  maschia  e 
Fi^tca  è  femma,  ed  abita  cpiivi  ove  abbia  presso  cìr< 
onlero  di  uomini  morti,  e  cavano  li  corpi  degli  uom»* 
m,  e  mangianli,  e  P  osso  ddla  sua  schiena  è  sì  dura 
ebe  non  può  piegare  il  collo,  e  s*  egli  entra  per  alcun 
luogo  stretto  non  ne  può  uscire  se  non  è  a  culo  in-» 
dietro,  sì  come  egli  è  entrato.  Ma  li  più  dicono,  ch'e* 
§U  non  ritorna  quindi  ond^  egli  è  entrato,  ed  usano 
nelle  case,  ove  son  stalle,  e  contra£&nno  la  boce  del- 
Tuomo  e  del  cane,  e  divoranti.  £  molti  dicono  che  nelli 
atioi  occhi  è  una  pietra,  ch^  è  di  tal  virtù  che  se  Può- 
mo  r  avesse  sotto  la  lingua,  egli  potrebbe  indovinare 
le  cose  die  debbono  venire,*  però  che  la  bestia  che 


36o  IL  TESORO. 

tocca  di  8ua  ombra  non  si  può  movere  di  quello  luo- 
go. E  dicono  gli  antichi  che  questa  bestia  è  ripiena 
d^ incantamento  e  .d'arte  magica.  £  sappiate  che  in 
Etiopia  giace  questa  bestia  con  la  lionessa,  ed  inge^ 
nera  una  bestia  che  ha  nome  cooocie,  o  Ter  corococté 
che  contrada  altresì  la  boce  dell'  uomo,  e  nella  sua 
bocca  non  ha  niùna  gengia  né  denti  partiti,  come  le  al- 
tre bestie,  ma  ha  tutto  uno  dente,  e  strigne  come  be^ 
stia. 

Capitolo  LVII. 

Dì  più  inaniere  di  lupi. 

Di  lupi  ha  molti  Italia  e  molte  altre  provincie,  e  la 
sua  forza  è  nella  bocca,  e  nel  petto,  ma  nelle  rene  non 
ha  punto  di  forza.  Il  suo  collo  non  puote  piegare  a 
dietro.  £  sì  dicono  molti,  eh'  elli  vivono  alcuna  voU 
ta  di  piova,  ed  alcun'  altra  di  terra,  e  alcun'  altra  di 
vento.  E  quando  il  tempo  della  lussuria  loro  viene 
mohi  lupi  vanno  dopo  la  lupa.  Alla  fine  la  lupa  si  da 
al  più  laido  ohe  vi  sisi.  E  non  si  congiungono  se  non 
dodici  dì  dell'anno.  E  non  ingenerano  se  ncm-  del 
mese  di  maggio.  E  per  guardia  deMoro  figUuoli  ncm 
prende  preda  in  quelle  parti  vicine  al  suo  nido.  E  sapr^ 
piate  che  quando  egli  vede  l' uomo  prima  che  l'uomo 
veggia  lui,  l' uomo  non  ha  podere  di  gridare.  E  se 
l' uomo  vede  prima  lui,  egli  perde  tutta  sua  fierezza, 
e  non  può  correre.  E  nella  sua  coda  ha  una  lana  d'a-< 
moie,  che  la  si  lieva  co'  denti  suoi,  quand'  egli  cono-« 
sce  eh'  egli  sia  preso.  E  quando  egli  urla,  egli  si  met-» 
te  li  suoi  piedi  dinanzi  la  bocca  per  mostrare  che  sie-^ 


Lutata  QiiiJN  IO.  u  6  i 

no  molti  lupi.  Un^  altra  maniera  di  lupi  sono  che  s^ 
chtaBiaDO  cervieri,  che  sono  laccati  di  nero  come  leon-i 
za^ed  in  altre  cose  sono  simiglianti  al  lupo,  e  hannOi 
sì  diiara  veduta  che  b*  loro  occhi  passano  li  monti,  e 
li  Inurì,  e  non  portano  se  non  un  figliuolo,  ed  è  più 
dimentica  cosa  del  mondo,  che  quando  egli  mangia  il 
suo  pasto,  ed  egli  vegga  un'  altra  cosa,  incontanente 
dimentica  ciò  che  mangia  e  non  vi  sa  ritornare,  e  co* 
ù  il  perde.  E  dicono  quelli  che  li  hanno  veduti  che 
del  suo  piscio  nasce  una  pietra  preziosa  che  si  chiama 
Ugnres.  E  questo  cognosce  bene  la  bestia  medesima, 
secondo  che  gli  uomini  V  hanno  veduto  coprire  col 
gabbione,  per  una  invidia  di  natura  che  cotal  pietra 
non  vegna  a  mano  d' uomo. 

GAPrroLO  LVlIl. 

Del  loccotus. 

'   Loccotus  è  una  bestia,  la  quale  dimora  nelle  parti 

d'India,  che  d' isnellezza  passa  tutti  gli  altri  animali, 

formata  come  asina  e  ha  groppa  di  cervio,  e  gambe 

di  leone  e  testa  di  cavallo  e  pie  di  bue  e  ha  la  bocca 

grande,  infino  agli  orecchi,  e'  suoi  denti  sono  d'  un 

osso. 

Capitolo  LIX. 

Del  menticore. 

Menticore  è  una  bestia  in  quello  paese  medesimo, 
con  faccia  d' uomo,  e  colore  di  sangue,  ed  occhi  gial- 
li, e  corpo  di  leone,  e  coda  di  scarpione.  E  corre  si 
forte  che  nessuna  bestia  li  campa  dinanzi.  Ma  sopra 

i5* 


263  IL  TESOBO. 

tutle  vivande  ama  la  carne  delP  uomo.  £  ha  quallro 
gambe  di  sopra  e  quattro  di  sotto.  E  tal  fìata  corre 
con  quelle  di  sopra,  e  tale  con  quelle  di  sotto,  tutto 
ohe  siano  fatte  quelle  di  sopra  come  quelle  di  sotto. 
Ed  avvicendasi  sì  come  li  piace  quando  v^  ha  alcuna 
stanchezza,  od  alcun  cotso  ch^  egli  faccia  od  abbia 
fatto. 

Capitolo  LX. 

Della  pantera. 

Pantera  è  una  bestia  taccata  di  piccole  tacche  bian- 
che e  nere,  sì  come  piccoli  occhi.  Ed  è  amico  di  tutti 
animali,  salvo  del  dragone.  £  la  sua  natura  si  è,  che 
quando  ella  ha  presa  sua  vivanda  sì  entra  nel  luogo 
della  sua  abitazione,  ed  addormentasi  e  dorme  tre  dì. 
E  poi  si  leva  ed  apre  la  sua  bocca,  e  fiata  sì  dolce- 
mente che  le  bestie  tutte  che  sentono  quello  odore 
traggono  dinanzi  a  lei,  se  non  il  dragone  che  per  pau^ 
ra  entra  sotto  terra,  perchè  sa  bene  che  morire  gliene 
conviene.  E  sappiate  che  la  pantera  femmina  non  porta 
figliuoli  più  che  una  volta.  Ed  udirete  perchè.  Li  fi- 
gliuoli, quando  sono  crésciuti  dentro  al  corpo  delle  ma- 
dre, non  vogliono  soffrire  di  starvi  infino  all'  ora  della 
diritta  natività,  anzi  sforzano  la  natura  sì  che  guasta- 
no la  mati'ice  della  lóro  madre  con  V  unghie,  ed  escono 
fuori  in  tal  maniera  che  mai  la  non  porta  più  figliuoli. 


LIBRO  QUlNtO.  a65 

Capitolo  LXI. 
Del  parendres. 

Parendres  è  una  bestia  ch^è  in  Etiopia,  e  ha  capo 
come  cervio,  e  ha  colore  di  rosa.  Ma  quelli  del  paese 
dicono  ch'ella  prende  suo  colore  diritto  per  paura  se- 
condo la  tìnta  che  Tè  più  presso.  E  questo  medesimo 
fanno  i  polpi  in  mare,  e  come  lo  leone  in  terra,  di  che 
lo  conto  ià  menzione  addietro. 

Capitolo  LXIL 
BeHa  simia. 

Simia  è  una  bestia  che  di  molte  cose  somiglia  Tuo? 
mo,  e  volentieri  contraffa  quello  che  la  vede  fare  al- 
l' uomo,  e  molto  s'allegra  della  luna  nuova,  e  della 
tonda  si  conturba  maravigliosamente.  £  sappiate  che 
la  simia  porta  due  figliuoli,  l' uno  ama  molto  tenei'a- 
mente,  e  l' altro  odia  ;  e  quando  li  cacciatori  la  caccia- 
no, ella  prende  il  figliuolo  ch'ella  molto  ama  in  brac-* 
ciò  per  meglio  camparlo,  e  quello  che  non  ama,  sì  sei 
gitta  alle  spalle.  E  quando  i  cacciatori  s'appressano,  si 
eh'  ella  vede  bene  che  non  puote  campare,  ella  lascia 
lo  figliuolo  ch'ella  ama  più  per  guarire  la  sua  perso- 
na, e  quello  eh'  ella  non  ama  le  s' attiene  alle  spalle. 
e  quello  scampa  da'  cacciatori  con  la  sua  madre,  e 
quello  che  più  ama,  è  preso  da'cacciatori.  E  sappiate 
che  la  simia  passa  del  gusto  tutti  altri  animali.  Nelle 
pai'ti  di  Buggea  ne  son  molti  mali,  e  gli  Etiqpiani  di- 
cono che  in  loro  paese  ve  n'  è  di  diverse  maniere. 


9^4  fh  T^&uao, 

Capitolo  LXIII. 

Del  tigl'Q. 

Tigix>  è  uno  aaiiuale  che  nasce  nelle  parti  d' Or-" 
gania,  ed  è  laccato  di  varie  tacche*  £  senza  fallo  egli 
è  una  bestisi  molto  corrente,  e  di  gran  fieritade.  E  sap-> 
piate  che  quando  egli  va  alla  sua  abitazioae,  ed  ella 
"'tmoY^  che^  rocciatori  lì  hanno  tohi  suoi  figliuoli,  ella 
corre  prestamente,  e  seguisce  i  cacciatori  che  gliene 
portano.  £  l' uomo  che  gli  ha  si  dotta  molto  d^a  sua 
fierezza  e  crudeltà,  ch^egli  sa  bene  che  1  fuggire  di 
cavallo  o  d*  altra  bestia  noi  potrebbe  da  lui  scampare, 
£d  egli  gitta  per  la  via  molti  specchi,  uno  di  qua^ed 
uno  di  ih,  £  quando  il  tigro  vede  nelli  specchi  la  sua 
imagine,  crede  chel  sia  il  suo  figliuolo,  £  va  allo  spec-^ 
dtno  intorno  intomo,  e  vedendo  che  non  sono  1»  suoi 
figliuoli,  »  si  parte,  e  corre  per  trovare  li  cacciatori 
ehe  ne  portano  suoi  figliuoli,  £  quando  ^li  à  assai 
ccnrso,  ed  egli  trova  ancora  di  questi  specchi,  che  li 
cacciatori  v^  hanno  posti  simigliantemente,  gli  va  d'io^ 
tomo  credendo  trovare  suoi  figliuoli.  £  tanto  fa  cosà, 
cb^H  cacciatore  iscampa  la  persona. 

Capitolo  LXJV, 
Pella  talpa, 

Talpa  è  una  piccola  bestiuola  che  sempre  abita  sot-^ 
to  terra,  e  la  cava  per  diverse  parti,  e  mangia  le  ra-< 
did  (h^  ella  trova.  Anco  che  molti  dicono  ch^ella  vi- 
ve pure  4^  ferra,  £  sappiate  che  la  talpa  qon  vede 


I.I9RO  QUINTO.  2G5 

lume,  che  nalum  uon  volle  adoperare  in  lei  d'  apiiie 
le  pelli  de'  suoi  occhi  si  che  non  vede  niente,  perchè 
iiop  sono  aperti.  Ma  ella  vede  con  la  mente  del  cuore^ 
Unio  eh'  ella  va,  come  s' ella  avesse  occhi, 

Capitolo  LXV. 
PeH*  unicorno. 

Dell'  unicorno  voglio  dire,  il  quale  è  bestia  fiera, 
ed  ha  il  corpo  simigliante  al  cavallo,  ed  ha  li  piedi  del 
leofante  e  coda  di  cervio,  e  la  sua  boce  è  fieramente 
ispaventevole,  e  nel  mezzo  della  sua  testa  sì  ha  un- 
corno  di  maravìglioso  splendore,  ch'è  lungo  ben  qoat** 
tro  piedi.  £d  è  si  forte  e  si  acuto,  dbe  egli  fiede.  £ 
sappiate  che  l'uoicomo  è  sì  forte,  e  sì  fiero,  che  l'uo-* 
mo  noi  puote  giungere  se  non  è  in  una  maniera,  uè 
•prendere,  e  ciò  puote  bene  essere.  Il  modo  è  questo, 
che  quando  li  cacciatori  lo  sentono  per  la  foresta,  ed 
eUino  vi  mandano  una  ^nciulla  vergine,  e  quando 
1'  unicorno  vede  la  fanciulla,  natura  gli  dà  che  incon- 
tanente se  ne  va  a  lei,  e  pone  giù  tutta  sua  forza,  e 
ponle  il  capo  in  grembo,  e  addormentasi,  e  dorme  si 
forte,  per  la  glande  sicurtà  eh'  egli  prende  sopra  li 
panni  della  fanciulla,  eh'  è  foite  cosa.  Allora  vegnono 
li  cacciatori  e  fanno  di  lui  loro  volontade. 

Capitolo  LXVI, 
Dell'  orsa. 

Orsa  è  una  grande  bestia,  ed  ha  molto  fiale  testa. 
o  la  sua  forza  è  nelle  gambe  e  V  unghie,  però  va  ella 


266  ih  Tesoro. 

molte  volte  ritta.  E  sappiate  che  quando  Porsa  è  dis- 
agiata d^alcuna  malattia  o  di  colpi,  ella  mangia  d'un^ 
erba  che  ha  nome  flonius,  che  la  guarisce.  Ma  s^  ella 
mangia  pome  di  mandragora,  le  convien  morire,  se 
subito  non  mangiasse  formiche.  Ma  lo  mele  mangia 
eUa  volentieri  sopra  tutte  le  altre  cose.  E  sua  natura 
si  è  ch^  ella  non  è  iscaldata  di  lussuria.  £  giacciono 
insieme,  come  il  leone,  il  maschio  con  la  femina.  E  non 
porta  suoi  figliuoli  più  di  trenta  dì.  E  per  brevità  di 
tempo  non  può  natura  compiere  la  loro  forma  ne  la 
loro  fazione  dentro  dal  corpo  della  madre  loro,  anzi 
nascono  come  un  pezzo  di  carne  disfigurata,  se  non 
che  ha  due  occhi.  Ma  la  madre  li  conforma,  e  dirizza 
con  la  lingua,  secondo  la  sua  similitudine  nelle  sue 
braccia,  per  darli  calore,  e  spirito  di  vita.  £  cosi  s^  ad- 
dormenta la  madre,  e  dorme  con  essi  in  braccio  quat- 
tordici dì  senza  mangiare  e  senza  bere.  £  dorme  sì 
forte  che  V  uomo  la  potrebbe  innanzi  uccidere  che  la 
si  svegliasse.  In  questa  maniera  istà  la  madre  ben 
quatti'o  mesi  perchè  i  suoi  occhi  sono  sì  tenebrosi  che 
non  vede  se  non  poco.  E  questo  le  addiviene  per  li 
suoi  figliuoli.  Ben  son  molti  che  dicono  ch^  ella  non 
ne  fa  più  che  uno.  Di  questa  bestia  dicono  i  più  che 
ella  ingrassa  per  essere  battuta,  ma  non  eh'  ella  si  di- 
letti d' essere  battuta,  anzi  gliene  pesa  molto  niquito- 
samente.  Che  quando  ella  va  sotto  ad  alcun  pero  o 
melo  per  mangiare,  ed  alcuna  gliene  cade  addosso,  el- 
la vi  monta  su  con  grande  niquitade,  e  rompelo  e 
fiaccalo  tutto. 


IJBRO  QUINTO.  ai)7 

GÀFiTai.o  LXVli. 

Qui  finisce  la  prima  parte  di  questi  libri. 

Qui  finisce  la  prima  parte  dì  questi  libri  che  divi- 
sa brevemente  la  generazione  del  mondo,  e  P  inoo- 
minciamento  de^re,  e  lo  stabilimento  dell'  una  legge 
e  dell'altra,  e  la  natura  delle  cose  del  cielo  e  della 
terra,  e  V  antichità  delle  vecchie  istorie.  E  brevemen- 
te conta  di  ciascuna  cosa  Io  suo  essere.  Che  se  '1  ma&« 
slro  avesse  più  lungamente  scrìtto,  e  mostrato  di  eia-' 
scnna  cosa  lo  perchè  e  come,  lo  Hbro  sarebbe  senisaF 
fine,  di'^  aedo  bisognerebbero  tutte  arti  e  tutte  filo- 
sofie. E  però  dice  il  maestro,  che  la  prima  parte  del 
suo  Tesoro,  si  è  come  danari  contanti,  sì  come  le  gen- 
ti non  potrebbero  accivire  lo  bisogno  senza  moneta, 
così  non  potrd>be  l'uomo  sapere  ciò  che  questa  pri- 
ma parte  conta.  Qui  tace  il  maestro  delle  cose  che* 
apparlegnonoa  teorica,  ch^  è  la  prima  sdenza  del  cor- 
fio  della  filosofia,  e  WioXe  tornare  all'  altre  due  sden- 
ze,  doè  a  pratica  ed  a  loica,  per  ammassare  la  secon-- 
'da  parte  del  suo  Tesoro,  che  dèe  essere  di  pietre  pre- 
ziose. Ed  in  questo  sesto  libro  parla  di  vizii  e  vir- 
lucfi. 


26^  ANNOTAZIONI 


ANNOTAZIONI  AL  LIBRO  QUINTO. 


Cap.  I,  pag.  aog.  £  non^fiedonop  se  primo  elli  non 
sono  riscaldati^  ec. 

Era  fecile  sostituire  primay  ma  non  ne  fui  conforta- 
to da  veruna  delie  tre  edizioni.  Confermata  vera  que- 
sta lezione  dalP  autorità  dei  codici,  servirebbe  il  pas- 
so ad  esempio.  Abbiamo  veduto  (lib.  II,  cap.  55,  pag. 
1 15  )  dirsi  dallo  stesso  Brunetto  secondo  per  dopo^  in 
secondo  luogo,  E  al  primo  registra  la  Crusca,  come 
locuzione  che  significa  subitamente^  a  prima  giunta. 

Cap.  IT,  pag.  aia.  Ha  un  buso  aperto  quindi  on- 
de cava  la  lingua. 

..'Bu^so  k  parola  usata  da^  Veneziani  per  buco.  La 
Crusca  ha  buso  addiettivo  per  bucato^  e  il  corrispour- 
dente  verbo  busare  ;  ora  non  potrebbe  adottare  an- 
che il  sustantivo  ?  Quando  si,  ecco  V  esempio  che  ce 
ne  porge  in  questo  luogo  Brunetto,  e  un  altro  sopm 
mercato  nel  principio  del  capo  VII  di  questo  medesi- 
mo libro. 

Cap.  y,  pag.  aia.  Della  natura  dello  isitalis. 

Questo  isitalis  è  detto scy  tale  da  Solino  cap.  XXX. 
E  poiché  il  breve  capitolo  che  tratta  di  questo  anima- 
le è  molto  intralciato,  riferirò  a  dichiarazione  le  parole 
del  testé  i*icordato  Solino,  a  cui  si  vede  aver  attinto 
Brunello  :  scy  tale  tanta  praefulget  tergi  x^arietate, 


AL  LIBRO  QUINTO.  269 

ut  notarum  gratta  Oidentes  retardet^  et  guoniam  rep^ 
tondo  pigrior  esty  quos  assequi  nequit^  miraculo  sui 
capiat  stupente^. 

Gap.  TU,  pàg.  a  1 3.  //  suo  veleno  è  più  trafitti- 
\>Oy  ec. 

.    La  edizione  1474  ^^  '  ^  ^^  P^^  trqfittiifo. 

Gap.  Vili,  pag.  21 5.  Che  non  lo  ha  per  suo  Jir 
gliuolò, 

•  lì  toh  oella  sola  edizione  14749  ^^  io  me  negioraf 
a  metter  lume  nella  dizione.  Questo  costume  delP  a^ 
quila  ha  fornito  materia  a  un  bel  sonetto  delP  Ariosto, 
che  taluno  vorrebbe  delP  Accolti,  Incomincia'; 

Perchè  simili  siano  e  degli  artigli, 
E  del  capo,  e  del  petto^  e  delle  piume, 
Se  manca  in  lor  la  perfezion  del  lume, 
Riconoscer  non  Tuol  V  aquila  i  figli,  ec, 

•  '  > 

Gap.  Vili,  pag.  a  1 5.  Le  sue  scòrze  degli  occhi,  ec. 

Questo  scorze  adoperato  figuratamente  merita  at- 
tenzióne; e  quando  se  ne  accertasse  la  genuina  lezióne, 
potrebbe  registrarsi  nel  Dizionario.  Non  per  questo  dirò 
ch'ei  sia  molto  bello. 

Gap.  IX,  pag.  216.  IjÌ  minori  sono  li  maschi,  ciò 
sono  li  terzoli. 

La  Grusca  nportando  questo  passo  pone  cioè  in 
luogo  di  ciò,  lezione  che  non  mi  è  paruto  di  dover  se- 
guitare. 

Gap.  XI,  pag.  218,  £  se  egli  ha  ti  piedi  rostigio- 
si,  sì  è  simiglianza  che  siano  boni. 

Questo  passo  si  cita  dalla  Grusca,  sopprìmendo  il 
che,  ne  seppi  vederci  ragione.  .         » 


270  ASNOTAZIORI 

Gap.  XV,  pag.  221.  i*a  suo  nido  pure  in  arborea 

Puro  ha  P  edizione  i553,copiaodo  quella  del  i529. 
Corressi  colla  scorta  della  i474- 

Gap.  XVI,  pag.  221.  Sono  nate  di  salvatiche* 

State  mi  dava  dedizione  i474* 

Gap.  XVI,  pag.  221.  Molto  guastano  tutte  erbe 
con  loro  uscito. 

Un  ridicolo  asciutto  è  in  tuUe  le  tre  edizioni.  Cor- 
ressi colla  scorta  del  Palladio,  lib.  I,  cap.  XXX,  che 
èk  :  son  nimiche  de^  luoghi  seminati^  e  degli  orti^ 
itnperocclìé  col  becco  rodono^  e  nuoce  il  loro  stereo. 
Uscito  per  sterco  troviamo  in  questo  medesimo  ^ibro 
j^óinto,  cap.  XXIX  E  la  Crusca  il  registra  con  un 
solo  esempio  di  Pier  Crescenzi.  AI  quale  potrebbons^ 
parmi,  aggiugnere  questi  due  di  Brunetto. 
-  Cap.  XVir,  pag.  ^22.  Hanno  di  loro  libera  si" 
gnoria. 

iHaunoloro  di  libera  signoria,  recanale  due  edi- 
zioni 1528,  i533;  Pantica  del  secolo  XV  ha  loro  di- 
Iwera  signoria  /  ho  creduto  poter  correggere  nel  mo- 
^o  sopra  notato ,  aspettando,  però  sempre  la  lezio- 
ne legiltima  somministratami  da  qualche  codice  repu- 
tato. 

Gap  XVn,  pag.  223.  Né  no  con  nui>oli,  ec. 

li  no  è  dell'edizione  i474* 

Gap.  XVIII,  pag.  224.  ^  chi  gli  ha  turbati. 

Qui  si  legge  nelle  tre  edizioni  concordemente:  per-^ 
ehè  la  Bibbia  ne  comanda  die  nullo  debba  menUre 
di  vero,  né  disdire  quello  che  sia  prode  e  non  puote. 
Mi  parve.che  questo.pezzo  stesse  meglio  appartato  in 
una  nota,  che  lì  nel  testo  dov^era.  Ci  troverà  miglior 


AL  t^BAO  QUARTO.  S7I 

kKjgo  du-OTiÀ  modo  dì  coosuilare  1*  ongiiwle  •fimnce- 
sa^  o  qualche,  buon  codice  del  volgarìscamealai 

Gap.  XIX,  pag.  224.  Quwi  dov'ciU  hanno  a  stare, 

E  quivi  è  deir  edizione  i474* 

Cap.  XXn,  pag.  226*  £Ue  ardano  moka  del  ven- 
to alt  ottros 

Vento  alostria  ha  T  edizione  i^y^yvaa  liiUe  lr« 
concordaDo  néT  ardono,  che  deve»  aTere  per  erro- 
•jMi.  metsnD  lome  mi  dà  il  passo  di  Solino,  che  rispoa- 
de  a  questo:  Austro  nvmquam  exeunt^  <nam  me*^ 
hùsni  vimjlatas  Jumidioris  (cap.  XYII). 

•  Gap»  XXIII,  pagi  327.  È  la  state  quando,  ec.    ' 
CorreflH  cofla  scorta  delia  edizione  1474?  '^  cilat% 

e  quella  del  i5a8,  hanno  pewtolew  . 

Cap.  XXVI,  pag.  93^.-  E  ha  la  testa  'due  creste» 
La  Citata  e  Pedizìone  i5a8  hanno  cresce}  creste  è 

della  i474»  '    > 

Caqpw  XXYH,  pag.  aSi.  Aksana  cosa  ch^eUi  pos-- 
sa  temere  danno, 

•  Temere  cel  posi  io,  in  luogo  del  tenere  die  si  Ieg<* 
gè  in  tutte  ie  tre  edizioni 

•Gftp.  XXIX,  pag.  a5i.  Delle  rondine  o  ver  ce- 
selU. 

Questo  o  ver  ceselle  non  era  nelP  edizione  del  se- 
colo XY,  prima  Tel  pose  Fediz.  i5a8,  copiata  da- 
quella  del  1 553. 
'  Gap.  XXIX,  pag.  aSa.  Sotto  altre  coperture, 

•  Copemere  hanno  F  edizioni  iSaS  e  i553:  corresà 
coir  autorità  della  1 4  7  4  • 

Gs^  XXXTn,  pag.  337.  Ed  è  sì  nigUgente  e  «è 
pi^ro,  ec. 


272  .     AHHOTAZIORI     ' 

Pegro  hanno  le  tre  edizioni  ^  corressi  coir  autorità 
della  Crusca  che  cita  il  passo. 
.  Cap.  XXXYIII,  pag.  238.  UaUro  dì  li  truova 
isciolH}  ec.  . 

-  L^  articolo  li  fu  posto  nella  edizione  i528,  ed  om- 
messo  nella  citata.  Quella  del  i474  ^^  erroneamente 
un  si  truova.  Ad  ogni  modo  il  periodo  rimane  som- 
mamente difettoso.  .  j 
'  Cfip.  XXXIX^  pag.  238.  Echi  li  chiude  con  una 
ctwigUa,  ec. 

Questo  passo  è  molto  $correlto  in  tutte  le  tre  edi- 
'  zloni  ;  quella  del  sècolo  XT  ha  invece  del  serri  un 
inintelligibile  agra.  Non  osando  metter  mano  a  caso 
nella  lezione,  reco  il  passo  di  Plinio  (lib.  X,  cap.  18) 
die  sparge  lume  sul  senso  generale  del  periodo:  ada- 
ctos  cavemis  eorum  a  pastore  cuneosp  admota  qua^ 
dam  ah  hìs  herha^  eìabi  ereditar  vulgo,  . 

Cap.  XLI,*  pag.  240.  Per  la  suaji€re%%a  è  siJeU" 
do  ciascun  dì, 

.Lenone.. che  non  intendo.  L^ adotta  tuttavia  la 
Crusca,  recando  il  passo  ad  esempio  della  yocejètido, 
pisf^pu^zòlente^  pieno  dijetore,  \j  antica  edizione  del 
secolo  XY  hàjèdito'y  lezione  che  non  parmi  da  tras- 
curare. 

'  Cap.  XLI,  pag.  241*^  quando  n^  escono^  n*  esco- 
no altresì^  ec. 

n  secondo  n*  escono  cel  posi  io  di  mio  capo,  pa^ 
rendomi  ragionevole  il  supporre  un^  ommissione  ti- 
pografìca  delle  più  consuete. 

^  Cap.  XLII,  pag.  243.  £  perchè  non  lipuole  ia- 
gliarcy  ec. 


AL  timo  QUAATO.  3^3 

'  Questo  passò  non  si  dà  punto  migKorato  dall^  Gia- 
sca,  che  lo  c!ta  alla  Toce  iniqidtiì^.  Il  che  rìoordo  non 
per  accasar  la  Crusca,  ma  per  giustificar  me,  che 
dovetti  fare  il  somigliante  le  tante  volte.  E  dico  Io 
stesso  d^un  altro  [i^asso  spropositato  che  s^  incontrerà 
indi  a  poco  nel  cap.  XLVI,'  in  proposito  dello  seri-- 
gho  dei  cammello.  Vedi  la  Crusca  a  questa  voce. 

Cap.  XLVin,  pag.  24^*  ^^  ^  uomo  il  fedisse  in 
ninna  maniera^  ec.  '•*... 

In  una  erroneamente  legge  la  edizione  citala  ^k  cor- 
regione  è  secondo  la  stampa  del  i474* 
•  Cap.  XLIX^  pag.  249.  Non  conta  di  pia  potere 
sàlwirliy  ec.' 
'    Guarentire  ha,  in  luogo  di  salvarli^  Tedizione  1 4  74  • 

Cap.  LII,  pag.  353.  Sappiate  che  *l  suo  corpo  è 
sen%a  carne^  ec. 

L' edizioni  hanno  concordi  capù.  Io  corressi,  e  par- 
mi  con  buona  ragione.  Ecco  il  passo  di  Piinio  che  mi 
ha  suggerita  la  correzione  (lib.  Vili,  cap.  33):  caro 
in  capite  et  maxillis^  et  ad  commissuram  caudae 
admodum  exi^ua^  nec  àlibi  tota  carpare  ,•  sanguis 
in  corde,  ec.  Ora  come  poteva  scrivere  Brunetto  che 
il  capo  fosse  senza  canie  ?  Non  sarebbe  improbabile 
che  la  vera  lezione  fosse  :  sappiate  che  'l  corpo,  fuo-^ 
ri  che  ^l  capo,  è  senza  carne,  e  che  la  rassomiglian- 
za delle  parole  avesse  prodotto  V  ommissìone  del  ti- 
pografo. Non  mi  arrischiai  tuttavolta  di  aggiugner 
nulla. 

Cap.  Ln,  pag.  253.  Uno  uccello  lucido^  che  ha 
nomejbras, 

«S'orai,  l'edizione  1474 •  ' 


3^4  '   àvwytàxÈbm   • 

CBp;  Lni,  pag.  ^B^.JE  sappiate  che  Bucefafaf,  ec 
.  Questo  passo,  miàto  nelP  edizione  citata,  è  viziatisi 
simo  in  quella  del  1474^  CintaretrOf  è  cangiato  in  re 
telaif  e  cosi  nel  resto  ti  discorso  cammina  alla  peggio* 
A  dichiarazione  del  passo,  che  non  mi  è  dato  correg- 
gere come  Torrei,  trascrivo  i  due  luoghi  di  Solino, 
cap..  XLYII,  che  si  riferiscono  a  Bucefalo  e  al  ca* 
stallo  di  Gntareiro.  Ecco  il  primo  :  Alexandri  magni 
equus^  Bueephaìus  dictus^  sis^  de  aspectu  torvitate^ 
eenLetc,  ...  cum  ab  equario  suo  alias  etìam  molliter 
sederetur,  accepto  regio  sfratu^  neminem  unquam 
alium  praeter  dominum  veliere  dignatus  est  Ecco  il 
secondo  riferibile  al  cavallo  di  Cintaretro:  Cuinprae" 
Ha  Antiochus  Galatas  subegisset,  Centaretrii  no^ 
tnme  ducis ,  qui  in  acie  ceciderat  equum  ovatu- 
rus  insiluit  Isque  adeo  sprevit  lupatoSyUt  de  indu^ 
stria  curvatus,  ruina  et  se  et  equitem  pariter  affi" 
geret 

'  Cap.  LUI,  pag.  25^.  £  quando  lo  re  de' Sciti  com- 
hfdteva^  ec. 

La  edizione  del  1 533  ha:  e  quando  lo  re  discara 
rea  combattendo.  Dal  che  poteva  sembrare  che  si 
eontinuAsse  a  parlare  di  Antioco  o  di  Cintaretro;  ma 
traltasi  d^allro,  come  si  può  vedere  dal  passo  di  Soli- 
no che  riferirò.  Ora  la  edizione  i474  ^^^  dischure  in 
luogo  di  discorrea^  e  combatteva  in  luogo  del  com-- 
battendo f  datoci  dall'edizione  posteriore.  Simili  dis* 
crepanze  nella  lezione,  e  il  sospetto  che  di  schure  sia 
de'  Scitif  mi  fecero  coraggioso  a  correggere  nel  modo 
suaccennato.  Ed  ecco  il  passo  di  Solino  (cap.  XLYII) 
che  mi  fu  guida  :   Regem  ScyUiarum  cum  singula^ 


ri  teriatnint  inUrtmptum  adiférsariut  wàor  àpo^ 
Uare  wellety  ad  equo  ejus  caleibus  morsugue  ionia* 
tus  est.: 
Gap.  Lin,  pag.  354*  Che  nonvoUe mai  mangia^ 

...  Qui  solito  die  ci  sia  ooa  -b^pna,  poiché  altri  à 
il  re  scita,  il  cui  cadavere  fii  difeso  dal  proprio  caTal-' 
loy  jBjtrì  Nkomede  a  cui  il  cavallo  noa  volle  soprar-t 
"ViTerey  Jasciandosi  a  tal  fine  naorire^di  fame.  Setn[Hre 
Solino  (cap.  XLYII):  demque,  interfeeto  Niootnedm 
règey  equus  ejus. inedia  vitam  expulU. 

Gap.  LIU,  pag.  a  5  5.  Membri  jton  stipi^  ec  ^ 

Il  nfm  fcovare  registrato  quest'aggettivo  stipo  ndb 
Cnisca  micoafemia  nel  sospetto  che  sia  voce  erro»' 
nea,  quantunque  cencordemente  riprodotta  da  tutlit 
tee  F  edizioni.    .  . 

-  Gap.  LHI^pag.  355.  Ferante . .  ^fcdlaga . . .  ec 

Ri(;eto  quanto  scrissi  nella  nota  precedente. 
•  Gap.  LlV^-pag.  a57«  Infijio  i  quindici  anni  non 
sanno  che  lussuria  si  sia.  In  quindici  ha  V  edizione 
citata  5  seguo  la  lezione  trivigiana  de.  i474* 

Gap.  LIV,  fiag.  357,  258.  £  mangiane  ella. 

Nelle  tre  edizioni  mangiano^  panni  ragionevole  la 
correzione. 

Gap.  LIV,  pag.  258.  Infino  entro  il  levante^  ec. 

Qui  ci  dev'essere  scorrezione.  Ecco  il  passo  di  So- 
lino che  riscontrasi  col  Tesoro:  luna  nitescente  gre^ 
gatim  amnes  petunt^  mox  aspersi  liquore^  solis  ex^ 
ortum  motihusy  quihus  possunty  salutanty  deinde  in 
saltus  reverluniur  (cap,  XXYUI).  Vedi  anche  Pli- 
nioylib.  YIII9  cap.  i. 


276  Alf  NOTAZIONI 

Gap.  LV,  pag.  2  58.  Sceglie  ìlgrano^  e  rjfuta  Vor- 
«>,  ec. 

fìifutare  si  dà  dalle  Giunte  Veronesi  con  parec- 
chi esempi  del  buon  secolo. 

Gap.  LIX,  pag.  262.  Ed  a\^\ncendasi^  ec. 

Awicendosi  hanno  Pedizionè  citata  e  la  trivigiana. 
Non  so  come  stia  bene  P  avvicendasi.  Quanto  dice 
I^nio  (lìb.  Tin,  cap.  21)  della  mantìcora  (manticho^ 
ran%  dietro  la  testimonianza  di  Gteisia,  non  mi  diede 
alcun  lume  per  questo  menticore  del  Tesoro. 

Gap.  LXU,  pag.  363.  JSlla  lascia  lo  JigUuolo 
ch^  ella  ama  piùf  ec. 

-  Di  questo  costume  della  simia  cantò  quel  d^  Ascoli 
w^  Acerba^  cap.  45.  E  distintamente  il  racconta  So- 
Ikio,  cap.  XXX. 

Gap.  LXH,  pag.  265.  iVe  son  molti  malij  ec. 

Qui  dev^  essere  errore.  E  forse  che  4o^^se  signi- 
ficare esservi  molti  di  siffatti  animali  in  Buggea,  tutto 
che  corra  voce  (vedi  Plinio  e  Solino)  che  non  ne  pro- 
diìra  che  P  Etiopia. 

Gap.  LXIU,  pag.' 264.  E  seguisce  i  cacciatori  che 
gliene  portano^  ec. 

Erroneamente  la  citata,  ch'egli  ne  portano.  Ho  se- 
guito Pedizionè  del  i474< 


/ 


TAVOLA 

PARTE  paimA. 


.     ..  .  Libro  Primo.  * 

Parla  del  nascimento  e  della  natura  di  tutte  le 
co«(B Pag.       S 

O^iie.ia  fDa|erì^  di  tutte  le  cose  è  divisata  ia 
tre  maniere  secondo  teorica      .     .     .     .     ii       5 

Delle  cose  che  Tuomo  dee  &re  e  che  non.  secon- 

•     ■••••  /      . 

4o  teorica h  6 

Qlii  dice  perchè  Fuomo  dee  fare  Funa  cosa,  e 

r  altra  non,  secondo  la  pratica ......  S 

Perchè  Puomo  dee  fare  l'una  cosa,  e  T  altra  no, 

secondo  logica ii  io 

Qui  dice  come  Dio  fece  tutte  le  cose  al  comin« 

ciamento .mix 

G)me  alcune  cose  furo  fatte  di  niente     .     .11  la 

Deir  officio  della  natura i)  i5 

La  ragione  come  Iddio  non  ha  nullo  tempo.     »  14 

Qui  dice  come  in  Dio  non  è  nullo  mutamento.  »  1 5 

Qui  dice  come  il  male  fu  trovato  ....     d  16 

Qui  dice  della  natura  degli  angioli    .     .     .     i)  1 8 

Qui  parla  deir  uomo  perchè  egli  fu  fatto     •     n  ao 

Qui  dice  della  natura  dell'anima       .     .     .     i>  ai 

Latini.  Voi.  I,  16 


278 

Deir  affido  e  de'  nomi  del  corpo  e  delP  a- 

nima Pag.  22 

Della  memorìa  e  della  ragione      ....     >i  35 

Qui  dice  come  le  leggi  fur  primieramente   .     »  24 

Qui  dice  della  divina  legge »  35 

Come  i  re  e  reami  furo  istabiliti  primamente    i>  36 
Qui  dice  delle  cose  che  furo  nella  prima  etade 

del  secolo »  27 

Qui  dice  delle  cose  che  furo  nella  seconda  gene- 
razione del  secolo »  29 

Qui  dice  delle  genti  che  nacquero  del  primo  fi- 
gliuolo di  Noè I)  5o 

Delle  genti  che  nacquero  del  secondo  figliuolo 

di  Noè ))  3i 

Delle  genti  che  nacquero  del  terzo  figliuolo  di 

Noè »  ivi 

Qui  dice  il  conto  delle  cose  che  furo  nella  terza 

età  del  secolo i>  53 

Del  re  Nino  e  degli  altri  re  che  vennero  dopo 

lui »  54 

Qui  dice  del  regno  di  Babilonia  e  d'Egitto.     >)  57 

Qui  dice  il  cominciamento  dei  re  di  Grecia  •     m  59 

Qui  dice  del  regna  di -Sissione     .     .     .     .     »  4^ 

Del  regno  delle  femine        m  ivi 

Del  regno  delli  Àrginois »  4  ' 

Delli  re  di  Troia »  4^ 

Come  Enea  capitò  in  Italia »  4^ 

Come  Enea  fu  in  Italia  con  suo  figliuolo  ap- 
presso   .  -  .  '  .     .     •    •     .     .     •     .     .     »  ivi 
Qui  dice  della  schiatta  del  re  d' Inghilterra.     »  44 
Qui  dice  di  Romulo  e  delti  Romani .     .     .    *»  4^ 


379 

Qui  dice  della  congiurazione  di  GateUina.    Pag.  4^ 
Come  Giulio  Cesare  fu  primamente  imperador 

di  Roma '*  49 

Delli  re  di  Pranza     .     . »  5o 

Qui  dice  delle  cose  che  fìirq  nella  terza  etade  del 

secolo     .     .    ••     .     • 5i 

Qui  dice  delle  cose  che  furo  nella  quarta  etade 

del  secolo »  55 

Qui  dice  delle  cose  che  furo  nella  quinta  etade 

del  mondo »  54 

Ddla  sesta  etade  del  secolo »  55 

Di  Davit,  come  fu.  sopra  gli  altri  profeti      .     n  ivi 

Del  re  Salomone  • ìì  5y 

IH  Elia  profeta  e  della  sua  vita     .     ,     .     .     ii  58 

Di  Eliseo  profeta  e  della  sua  vita      ...»  59 

Di  Isaia  profeta  e  di  sua  vita )>  60 

Di  Greremia  profeta  e  di  sua  vita  .     .     .     .     i)  61 

Di  Ezechiel  profeta  e  di  sua  Tita  .     .     .     .     »  62 

Di  Daniel  profeta »  ivi 

Di  Àchias  profeta »  *  ivi 

Di  laddo  profeta m  65 

Di  Tobia   . »  ivi 

Delli  tre  fanciulli  che  Nabucodònosor  fece  met- 
tere nella  fornace  ardente d  64 

Di  Eforas  profeta      .........  ivi 

Di  Zorobabel  e  di  Neemias  profeti    ...     m  65 

Di  Ester  regina »  ivi 

Della  valente  femina  di  Judit »  ivi 

Di  Zaccaria  profeta »  66 

De^  Maccabei  e  di  loro  vita    ...     .     .     .     »  ivi 

Dei  libri  del  vecchio  Testamento      .     .     .     »  67 


Libro  Sficosrno. 

Qui  comincia  la  nuova  legge  ....  Pag.  7S 
Qui  dice  del  parentado  di  nostra  Donna  dalla 

parte  di  sua  madre »  80 

Della  prima  santa  Maria  madre  di  Cristo          »  81 

Di  santo  Giovanni  Battista »  8  a 

Di  Giacopo  Alfeq  apostolo »  85 

Di  Giuda  apostolo  frate  di  Giacopo       .     .     »  84 

Di  santo  Giovaiini  apostolo  e  vangelista      .     »  ivi 

Di  Iacopo  Zebedeo  apostolo »  85 

Di  santo  Pietro  apostolo »  86 

Di  santo  Paulo  apostolo     .     .     .     .     •     .     »  87 

Di  santo  Andrea  aposlola  .     .....>>  88 

Di  santo  Filippo  apostolo ^  ^9 

Di  santo  Tomaso  apostolo  .     • u  ivi 

Di  santo  Bartolomeo  apostolo .     .     .    '.     .     »  ivi 

Di  santo  Matteo  apostolo    .     .     .     .     .     .     »  90 

Di  santo  Mattia  apostolo »  ivi 

Di  santo  Simeone  apostola »  ivi 

Di  santo  Luca  vangelista "91 

Di  Marco  evangelista »  ivi 

Di  santo  Barnaba .     .     .     »  ivi 

Di  Timoteo  discepolo  di  santo  Paulo     .     .     1»  93 

Di  Tito  discepolo  di  santo  Paulo .     .     .     .     »  ivi 

De'  libri  del  Testamento  nuovo    ....     w  ivi 

Qui  dice  come  la  nuova  legge  fu  cominciata,  m  94 
Come  santa  Chiesa  innalzò  nel  tempo  di  santo 

Silvestro >'  96 

Come  la  chiesa  di  Roma  iimakò  .     ...»  98 


a8i 
Come  il  re  di  FVancia  fu  tmperadore  di  Ro- 
ma      Pag.     98 

C!ome  r  imperio  di  Rom»  ritornò  a  qaelli  d^  Ita- 
lia      »  lói 

Qui  ^cè  come  P  imperio  di  Roma  Tenne  a  mano 

agli  Alamani »   102 

Qui  dke  come  natura  è  nelli  elementi  e  nelt^  al- 
tre cose  ,....* »   I  o4 

Come  tutte  le  cose  furo  fatte  del  mischiamento 

delle  complessioni >i  loS 

D^He  quattro  com^essioni  delFuomo^  e  d^  altre 

cose »   107 

Delle  quattro  virtudi  che  sostengono  gli  animali 

a  vita »   1 1  o 

Pel  quinto  elemento »   ni 

Come  il  mo«do  è  tondo^  e  li  quattro  elementi 

sono  stabiliti .     .     .     »     ìtì 

Come  le  acque  corrono  per  le  caverne  di  sotto 

terra m   ii5 

Deir  aere  e  della  piova  e  del  vento  e  delle  cose 

che  sono  neir  aria »   117 

Qui  dice  dell'elemento  del  fuoco  .  .  .  .  »  laa 
Come  sono  assise  le  sette  pianete  .  .  .  »  i25 
Della  grandezza  della  terra  e  del  cielo  .  .  »  1 24 
Del  firmamento  e  del  corso  de' dodici  segni.  »  126 
Del  corso  del  Sole  per  li  dodici  segni  .  .  »  128 
Del  dì  e  della  notte,  e  del  caldo  e  del  freddo.  »    1 29 

Ancora  di  ciò  medesimo »   1 3 1 

Della  differenza  eh'  è  intra  mezzogiorno  e  set» 

tentrione »   i35 

Della  grandezza  del  sole  e  del  corso  della  luna.  »>   t  34 


382 

Come  la  luna  riceye  il  suo  lume  dal  sole,  e  cò- 
ni^ ella  oscura Pag.  1 56 

Del  corso  della  luna  per  lo  suo  cerchio  .     .     »  157 

Qui  divìsa  la  composta  della  luna  e  del  sole^  e 
del  primo  dì  del  sole,  e  del  primo  dì  del  Se- 
colo, e  del  bisesto,  e  delle  patte,  e  d"  altre  ra- 
gioni della  luna     »   i38 

De^  segni^  e  delle  pianete,  e  di  due  tramontane, 
che  stanno  in  mezzodì  e  settentrione  .     .     »  i45 

DeUa  natura  che  cosa  è,  e  cornicila  adopera  nel- 
le cose  del  mondo »  1 4  5 

Libro  Terzo. 

Qui  comincia  il  mappamundi »  1 57 

Delhi  parte  d'Oriente,  ch^è  appellata  Asia  .     »  i58 
Qui  dice  di  EuropO^  e  delle  sue  contrade    .     >»  167 

D^ Africa  e  delle  sue  contrade »  175 

Come  Fuomo  dee  iscegliere  terra  da  guada- 
gnare      »>  J79 

Come  r  uomo  dee  fare  magione  in  ogni  luogo   n  1 8a 
Come  Tuomo  dee  fare  pozzi  e  fontane  .     .     »>   184 
Come  r  uomo  dee  fare  cisterne     .     .    ..     .     »  iB5 
Qui  dice  come  Puomo  dee  fornire  la  sua  ma- 
gione       w   186 

Libro  Quarto. 

Qui  comincia  le  nature  degli  animali,  e  prima 

delli  pesci    .     .     . »   197 

Del  coccodrillo ...»  199 


a85 
Della  balena    .     .     .     .     .     ...     .     .     Pag.  aoo 

DeUa  cochìlla u  301 

Del  dalfioo ...»  aoa 

Delle  portanie      .                         .     .     .     .     »  ao5 
Della  serena n  ao4 

Libro  Qihnto. 

Qui  comincia  il  trattato  deUi  serpenti,  e  loro 

natura    .  • n  309 

DelPaspido »  aio 

Della  natura  del  basilischio »>  aii 

Ddla  natura  di  più  dragoni naia 

Della  natura  dello  isitalis »     ivi 

Della  vipera .     .  >i  3i5 

Del  lusardes  e  della  salamandra    .     .     .     .  u     i^ 

Della  natura  delP  aquila »  314 

Dell'astore .     .     .  • .  »  31 5 

Anche  degli  astori »  317 

Degli  sparvieri ...»     ivi 

Dei  falconi »  3 1 8 

Delli  smerli »  330 

Della  natura  deHi  alions,  ovvero  alcioni       .  »     ivi 

Deirardes »  331 

Dell'anatre .  »     ivi 

DelPape n  333 

Della  calandra .  »  334 

Dei  colombi »     ivi 

Del  corbo »  335 

Della  coniacchia »  336 

Delle  cotornici  o  ver  quaglie »     ivi 


^84 

Eklia  dnàgnia Pag.  327 

IMÌì  ibes  .     .  • »     ivi 

Del  cecina .     .     * »  228 

Della  fenice »  229 

Della  grue ... »  25o 

Della  upupa »  25 1 

Delle  rondine  o  ver  oetelle »     ivi 

Del  pellicano »  252 

Della  pernice .  »  255 

Del  pappagallo 7  . .  u  254 

Del  paone ..•...■.     .  »     ivi 

D«lla  tortola »  255 

D^^  avoltoio , »     ivi 

Dello  atruzzolo 11  256 

Ddcueulo  e  di  sua.viUade »  257 

Del  rigogolo M  258 

Thì  pìcchio »    ITI 

D9I  gallo    .     ...     .     •  .  .     .     *     .     .     .  »  259 

Del  leene  e  di  sua  natura n  240 

Anteleus »  242 

Ames^  ovvero  asino  selvatico u  245 

De*  buoi ìì  244 

D^la  donnola :     •     .  u  246 

DA  cannAellg .     .     .     ..........     •  »  246 

D^  castole .  ))  247 

Del  cavriuolo »  248 

Del  cervio ....    .    . .    .  »    ivi 

Del  zevere .  »  25o 

Delta  natura  di  pia  cani   ,.     .     »  261 

DeUa  natura  del  caxneleonte     ...     .     .  »  255 
Della  natyra  de*  cavalli       .......  255 


285 

Del  leofonte Pag.  356 

Della  £)ni]ica »  358 

Della  hyene »  35g 

Dì  più  maniere  di  lupi  ....*..})  360 

Del  coccotus »  361' 

Del  menticone »  ivi 

Della  pantera ,.....»  363 

Del  parendres »  365 

Della  simia »  ivi 

Del  ligro »  364 

Della  talpa »  ivi 

Deir  unicorno »  365 

DelP  orsa n  ivi 

Qui  finisce  la  prima  parte  di  questi  libri           n  367 


/ 


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L  3  è'r  9 


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BIBLIOTECA  CLASSICA 

ITALIANA 
DI  SCIENZE,  LETTERE  ED  ARTI 

DA   LUIGI  CARRER. 

Cl,*5!E  11.  —  Voi,,  il 


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IL  TESORO 

BRUNETTO    LATINI 

tolgabiizàto 
DA    BONO    GIAMBONI 


V.; 


.    IL   TESORO 

* 

BRUNETTO  LATINO. 


PARTE   SECONDI 


PRO  LO  GO. 


Q. 
uando  il  maestro  ebbe  compiuta  la  prìma  par- 
te del  siib  libro,  e  eh'  egli  ebbe  messo  in  scritto  di 
teorica  ciò  che  se  ne  apparteneva  al  suo  proponimen- 
to, egli  vuole  immantinente  seguire  alla  stia  materia, 
secondo  la  promessa  che  feccjdinanzi  nel  suo  prolo- 
go, per  dire  delle  due  altre  iscienze  del  corpo  della 
filosofia,  cioè  di  pràtica  e  di  loica,  che  insegna  al- 
l' uomo,  che  cosa  e'  dee  fare,  e  che  no,  e  perchè  l'uo- 
mo dee  fare  l'una  e  l'altra  no.  £  di  queste  due  scien- 
ze tratterà  lo  maestro  miscolatamente,  per  ciò  che  loro 
argomenti  sono  sì  miscelati,  che  appena  potrebbero 
essere  divisati,  e  ciò  è  la  seconda  parie  del  Tesoro, 
che  dee  essere  di  pietre  preziose,  ciò  sono  le  virtudi, 
li  motti  e  li  ammaestramenti  delli  savi.  Onde  ciascun 
vale  alla  vita  delli  uomini  per  boutade  e  per  diletto 
e  per  virtude,  che  nulla  pietra  è  cara  se  non  per  que- 
ste tre  cose.'  Questo  insegnamento  sarà  sulle  quattro 
virtudi.  Onde  la  prima  si  è  provvidenza,  che  signifi- 
ca per  lo  carbonchio,  che  allumina  la  notte  e  risplen- 
de sopra  tutte  pietre.  La  seconda  è  temperanza,  che 
significa  lo  zaffiro,  che  ha  celestiale  colore  ed  è  più 
graziosa  che  pietra  del  mondo.  La  terza  si  è  fortez- 
za, la  quale  è  assomigliata  al  diamante,  eh'  è  sì  forte, 


8  *  IL  TE^OIU). 

che  rompe  e  pertusa  tulle  pietre,  e  tutti  li  metalli,  e 
quasi  ngu  è  cotti  che  ^1  diamante  dotti.  La  quarta  vir- 
tude  è  giustizia,  la  quale  è  significata  per  lo  smeral- 
do, eh'  è  la  più  usata  pietra  e  la  più  bella  che  occhio 
d'uomo  possa  vedere.  Queste  sono  le  carissime  pie- 
tre del  Tesoro,  con  tutto  eh'  egli  sia  pieno  tutto  d'al- 
tre pietre,  le  quali  hanno  ciascheduna  alcuno  ispeziale 
valimento,  secondo  che  l' uomo  eh'  è  buon  intendi- 
tore potrà  vedere  e  conoscere  alle  parole  che  mae- 
stro Brunetto'  Latino  scrisse  in  questo  libro.  Ma*  in- 
nanzi vuole  fondale  suo  edificio  sopra  lo  libro  d' A- 
ristotile,  lo  quale  si  chiama  Etica,  e  sì  lo  trasmuterà 
di  Ialino  in  romanzo,  e  porrallo  al  cominciamento  del- 
la seconda  parie  del  suo  libro. 


LIBRO     SESTO. 


Capitolo  I. 
Etica  d*  Arìsiotìle. 


o, 


gni  arte,  ed  ogni  dottrina,  ed  ogni  operazione, 
ed  ogni  elezione,  pare  che  addimandi  alcun  bene. 
Dunque  ben  dissero  lì  filosofi:  bene  è  quello  lo  qua- 
le ogni  cosa  lo  desidera.  Secondo  diverse  arti  sono 
diversi  fini.  Che  sono  alcuni  fini  che  sono  opera- 
zioni, ed  alcuni  che  non  sono  operazioni.  Con  ciò 
sia  cosa  che  sono  molte  arti  e  molte  operazioni,  cia- 
scuna ha  uno  suo  fine.  Yerbigrazia:  la  medicina 
ha  uno  suo  fine,  cioè  dare  sanitade^  e  l'arte  della 
cavalleria  sì  ha  uno  suo  fine,  cioè  vittoria  5  e  P  ar- 
te di  fare  navi  ha  un  suo  fine,  cioè  fare  navi  per  na- 
vicare ^  e  la  scienza  che  insegna  a  reggere  la  casa  sua, 
si  ha  per  suo  fine  le  ricchezze.  Sono  alquante  arti  che 
sono  generali,  ed  alcune  che  sono  speziali.  Verbigra- 
zia  :  la  scienza  della  cavalleria  si  è  generale,  sotto  la 
quale  si  contengono  altre  scienze  particulari,  si  come 
è  r  arte  di  fare  freni,  selle  e  spade,  e  1'  altre,  le  quali 
insegnano  fare  cose  che  sieno  mestiero  a  battaglia  5  e 
queste  arti  universali  sono  più  degne  e  più  nobili  che 
({uelle  particulari.  Però  che  le  particulari  sono  fatte 


1» 


IO  IL  TESORO. 

per  le  universali,  si  come  nelle  cose  fatte  per  natura,  è 
uno  ultimo  intendimento  fmale,  al  quale  sono  ordinate 
tutte  le  operazioni  di  quel!'  arte.  Si  come  V  uomo  che 
saetta  ha  1  segno  per  suo  dirìzzamento,  cosi  ciascu- 
na arte  ha  un  suo  finale  intendimento,  lo  quale  diriz- 
za le  sue  operazioni.  Adunque  Parte  civile,  che  inse- 
gna a  reggere  le  cittadi,  è  principale  e  sovrana  di  tut- 
te altre  arti  per  ciò  che  sotto  lei  si  contengono  molte 
altre  arti,  le  quali  sono  nobili,  si  come  1'  arte  di  fare 
oste,  e  di  reggere  la  famiglia.  E  la  relonca  è  anche 
nubile,  imperciò  ch'ella  dispone  ed  ordina  tutte  l'al- 
tre che  si  contengono  sotto  lei,  e  il  suo  compimento  e 
'1  suo  fine  si  è  compimento  e  fine  di  tutte  le  altre.  A- 
dunque  il'bene  che  sisegaita  di  queste  scienze,  si  è 
il  tiene  dell'  uomo  per  ciò  che  lo  costringe  di  non  fa- 
re male.  La  dottrina  dritta  si  è  che  l'uomo  proceda  in 
essa  secondo  che  sua  natura  può  sostenere.  Yerbigra- 
zia:  r  uomo  che  insegna  geometrìa  si  dee  procedere 
per  argomenti  forti,  li  quali  si  chiamano  dimostrazio- 
ni, e  Io  retorico  dee  procedere  per  argomenti  verisi- 
mili,  e  questo  si  è  però  che  ciascuno  artifice  giudichi 
bene  e  dica  la  venta  di  quello  che  appartiene  alla  sua 
arte.  La  scienza  di  reggere  la  città  non  si  conviene  a 
garzone  ne  aduomocheseguisca  le  sue  volontadi,  però 
che  non  sono  savi^  e  nota  che  garzone  si  dice  in  due 
modi,  cioè  quanto  al  tempo,  e  quanto  a' costumi,  che 
puote  l' uomo  essere  vecchio  del  tempo  e  garzone  de' 
costumi,  e  tal  fiata  garzone  del  tempo  e  vecchio  de^ 
costumi.  Dunque  a  tale  si  conviene  la  scienza  di  reg- 
gere le  città,  che  non  è  garzone  dì  costumi,  e  che  non 
seguita  le  sue  volontà,  se  non  quanto  si  conviene,  ed 


LIBRO  SESTO.  1 1 

ove  e  quando  e  come.  Sono  cose  le  quali  sono  mani- 
feste alla  natura,  e  sono  cose  che  sono  maniCeste  a  noi. 
Onde  questa  scienza  si  conviene  cominciare  dalle  co- 
se die  sono  manifeste  a  noL  L^  uomo  che  dee  stu- 
diare in  questa  scienza  ed  imprenderla,  si  dee  adusare 
nelle  cose  bone,  giuste  ed  oneste.  Onde  si  conviene 
aver  r  anima  sua  naturalmente  disposta  a  scienza.  Ma 

V  uomo  che  non  ha  ninna  di  queste  cose,  sì  è  inutile 
in  questa  scienza. 

C  A  P  I  T  o  L  o    IL 

« 

Delle  tre  rite. 

Le  vite  nominate  e  famose  sono  tre.  L^  una  si  è 
vita  di  concupiscebza.  L^  altra  si  è  vita  civile,  cioè  la 
vita  d^  onore  e  di  prudenza.  La  terza  vita  è  vita  con- 
templativa. Egli  sono  molti  uomini  che  vivono'secondo 
la  vita  bestiale,  la  quale  si  chiama  vita  di  concupi- 
scenza, però  che  seguitano  tutte  le  loro  volontadi.  E 
ciascuna  di  queste  vite  si  ha  suo  fme  proprio  divisa- 
to dall'  altre,  sì  come  l' arte  della  medicina  ha  diviso 
fine  dair  arte  della  cavalleria  ^  che  la  fine  della  medi- 
cina si  è  fare  sanitade,  e  'l  fine  della  cavalleria,  o  ve- 
gli delle  battaglie^  si  è  fare  vittoria. 

Capitolo  III. 
Del  bene. 

Bene  si  è  secondo  due  modi^  che  un  Ijene  è  quello 
che  Toomo  vuole  per  sK  ed  un  altro  bene  è  quello  che 

V  uomo  vuole  per  altrui.  Bene  per  se  si  è  la  beatitu- 


13  IL  TEsoao. 

dine^  bene  per  altri  sono  detti  li  onori  e  le  viitu- 
di:  e  perciò  vuole  l^uomo  queste  cose  per  avere  bea- 
'  titudine.  Naturai  cosa  è  a\V  uomo  eh''  egli  sia  cittadi- 
'  no,  e  che  ei  costumi  con  gli  uomini  ai'tefìci,  ed  anche 
non  è  naturale  alF  uomo  abitare  ne^  diseiti,  né  quivi 
dove  non  sono  genti,  perchè  V  uomo  naturalmente 
4ima  compagnia.  Beatitudine  si  è  cosa  compiuta ,  la 
qual  non  ha  bisogno  d^  alcuna  cosa  di  fuori  da  sé, 
per  la  qual  la  vita  delP  uomo  si  è  laudabile  e  glorio- 
sa. Dunque  la  beatitudine  è  lo  maggior  bene,  e  più 
sovrana  cosa,  che  V  uomo  possa  avere. 

Capitolo  IV. 

Qui  dìrìsa  delle  tre  potenze  delP  anima. 

L^  anima  dell'  uomo  si  ha  tre  potenze.  La  piima  si 
chiama  potenza  vegetal^ile,  nella  quale  participa  Tuomo 
con  gli  arbori  e  con  le  piante,  però  che  tutte  le  pian- 
te hanno  anima  vegetabile,  sì  come  V  uomo.  La  secon- 
da potenza  si  chiama  anima  sensibile,  nella  quale  par- 
ticipa r  uomo  con  le  bestie,  però  che  tutte  bestie  han- 
no anima  sensibile.  La  terza  si  chiama  anima  raziona- 
le^ per  la  quale  V  uomo  »  diverso  di  tutte  le  altre  co- 
se, però  che  nalP  altra  cosa  ha  anima  razionale  se  non 
V  uomo.  E  questa  potenza  razionale  si  è  talora  in  at- 
to, talora  in  potenza.  Onde  la  beatitudine  si  è  quan- 
do ella  è  iu  atto,  e  non  quando  è  in  potenza.  Ogni  o- 
perazione  che  V  uomo  fa  o  ella  è  buona  o  ella  è  rea, 
A  queir  uomo  che  fa  buona  la  sua  operazione  si  è  de- 
gno d'avere  la  perfezione  della  virtù  della  sua  opera- 
zione. Yerbigrazia  :  lo  buono  ceteratore,  quando  ce- 


LIBHO  SESTO.  l5 

tera  bene,  sì  è  degno  ch^eglt  abbia  com^nmento  di 
quelParte,  e  lo  reo  dee  avere  tutto  il  contrario.  Dun- 
que se  la  vita  dell' uomo  è  secondo  P  operazione  della 
ragione,  allora  fìa  laudabile  la  sua  vita,  quand'  egli  la 
mena  secondo  la  sua  propria  viitude.  Ma  quando  mol- 
te virtudi  si  raguoano  insieme  nelP  anima  dell'  uomo, 
allora  si  è  la  vita  dell'  uomo  ottima  e  molto  onorata 

-  e  molto  degna  sì  che  non  può  essere  più.  Però  che 
una  virtù  non  può  fare  V  uomo  beato,  né  perfetto,  sì 
come  una  rondyia,  quando  ella  appare  sola,  non  fa 
perfetta  dimostranza  che  sia  venuta  la  primavera.  On- 
de per  ciò  in  piccola  vita  dell'  uomo,  né  in  picciolo 

t  tempo  eh' egli  faccia  buoQ^  operazioni,  non  potemo 
dicere  che  l' uomo  sia  beato. 

Capitolo  V. 

Di  tre  maniere  di  bene. 

Lo  bene  si  divide  in  tre  parti,  l' uno  è  bene  dell'a- 
nima, e  r  altro  è  bene  del  corpo,  e  l'altro  è  bene  di 
fuori  dal  corpo  j  e  di  questi  tre  beni,  lo  bene  dell'ani- 
ma è  lo  più  degno  di  nullo,  e  la  forma  di  questo  non 
si  cognosce,  se  non  all'  operazioni,  le  quali  sono  con 
virludi.  La  beatitudine  si  è  io  acquistare  le  virtudi,  e 
nello  uso  loro.  Ma  quando  lu  beatitudine  è  nelP  uomo 
in  abito,  e  non  in  atto,  allora  si  è  virtuosa,  come  l'uo- 
mo che  dorme,  la  cui  virtù  e  la  cui  opera  non  si  ma- 
nilesta.  Ma  V  uomo  beato  di  necessilade  è  bisogno  che 
adoperi  secondo  l'atto,  ed  è  simigliante  di  colui  che  sta 
nel  linvito-  a  combattere,  e  ^ince,  e  ha  la  corona  del- 

r  y 

la  vittoria:  e  se  ninno  è  più  forte,  che  colui  che  vin(»e 


l4  IL  TESORO. 

non  ha  però  la  corona,  perchè  egli  sìa  più  forte^  se  e- 
gli  non  combatte,  addivegna  chVgU  abbia  la  potenza 
di  vincere^  e  così  il  guiderdone  della  yirtude  non  ha 
uomo  s"*  egli  non  adopera  la  virtude  attualmente.  E 
questo  si  è,  però  che  lor  guiderdone  si  è  la  loro  beati" 
tudine,  ch'egli  hanno  infino  a  tanto  eh'  egli  operano  le 
opere  della  virtude.  Che  'i  giusto  si  diletta  nella  giusti- 
zia, il  savio  nella  sapienza,  il  virtuoso  nella  virtù.  Ed 
ogni  operazione  la  quale  sì  fa  per  virtude  si  è  bella  e 
dilettevole  in  sé  medesima.  Beatitudine  si  è  cosa  dilette- 
vole e  giocondissima  e  dilettabilissima.  La  beatitudine 
la  qual  è  in  terra,  sì  abbisogna  delti  beni  di  fuori  ^  però 
chVgli  è  impossibile  all'uomo  ch'egli  faccia  belle  opere 
e  ch'egli  abbia  arte  la  quale  si  convegna  a  buona  vita, 
ed  abbondanza  d' amici  e  di  parenti,  e  prosperità  di 
ventura,  senza  li  beni  di  fuori  ^  e  per  questa  cagione  è 
mestieri  che  abbia  de'  beni  di  fuori,  che  facciano  ma- 
nifestare lo  suo  onore  e  '1  suo  valore.  Se  alcuno  dono 
è  fatto  all'  uomo  del  mondo  da  Dio  glorioso,  degna 
cosa  è  credere,  che  quella  sia  la  beatitudine,  imperò 
ch'ella  è  la  più  ottima  cosa  che  possa  essere  nell'uo- 
mo, perù  eh'  è  cosa  onorevole  molto,  e  compimento  e 
forma  di  virtude.  Nulla  generazione  di  animali  posso- 
no avere  viitù  ne  beatiludine,  se  non  l'uomo;  e  nin- 
no garzone  e  ninna  bestia  punte  avere  beatitudine  pe- 
rò che  ninno  di  loro  adopera  secondo  virtude.  Beati- 
tudine è  cosa  ferma  e  stabile^  secondo  vera  disposi- 
zione, nella  quale  non  cade  v^età,  ne  permutazione 
alcuna,  e  non  ha  talora  bene  e  talora  male,  ma  tutta- 
via «bene.  E  questo  si  è  per  ciò  che  la  bontà  e  la  vir- 
tù si  è  neir  operazione  dell'  uomo*  La  colonna  della 


LUtaO  SESTO.  %5 

beetitadioe  si  è  V  operaziooe  che  uomo  fa  secoada 
Tirtnde,  e  la  colonna  del  suo  contrario  si  è  quella  che 
Fuomo  fa  secondo  vizio  5  questa  operazione  si  è  fer- 
ma e  stante  nelP  anima  delF  uomo.  £  P  uomo  virtuo- 
so non  »  move  ne  si  turba,  per  contraria  cosa  che  li 
possa  addivenire,  però  che  già  non  avrebbe  beatitu- 
dine s'egli  si  conturbasse,  per  ciò  che  la  tristizia  e  la 
pam^  tolle  altrui  V  allegrezza  della  beatitudine.  Sono 
cose  le  quali  sono  forti  molto  a  sostenere,  ma  quando 
Fnomo  le  ha  sostenute  pazientemente,  si  dimostra  la 
grandezza  di  suo  core.  E  sono  altre  cose  che  sono  leg-> 
i;iere  a  sostenere,  che  perchè  V  uomo  le  sostegna  non. 
mostra  però  che  sia  grande  prudenza  in  luL  Forti  co- 
se sono  a  sostenere  morte  di  figliuoli  e  loro  infirmi- 
tL  £  avvegna  che  siano  forti  non  mutano  però  Fuomo 
della  sua  beatitudine.  La  beatitudine  e  V  uomo  av- 
Tenturato  sono  cose  tanto  degne  che  vegnano  da  Dio 
glorioso,  e  sono  tanto  da  onorare,  che  le  loro  laude 
non  si  possono  dicere.  E  specialmente  si  conviene  a 
noi  di  venerare,  magnificare  e  glorificare  Domenedio 
sopra  tutte  cose.  E  dee  Fuomo  pensare  in  lui,  che  nel 
suo  pensiero  ha  F  uomo  tutto  bene  e  tutta  felicitade, 
però  che  gli  è  cominciamento  e  cagione  di  tutto  bene. 
Felicitade  e  beatitudine  sono  uno  atto,  il  quale  proce- 
de da  perfetta  virtude  delF  anima  e  del  corpo.  E  sì 
come  il  perfetto  medico  cerca  sollecitamente  la  natura 
del  corpo  delF  uomo,  acciò  che  si  conservi  in  sanita- 
de,  e  medicalo  provedutamente,  così  conviene  che  lì 
buoni  reggitori  delle  citladi  sì  veggano  e  stiano  in- 
tenti e  studiosi  di  conservare  la  forma  della  felicità 
delF  anime  delli  loro  cittadini,  e  confortarli  a  fare  be- 


l'6  IL  TESORO. 

ne  le  opere  di  Tirtudi,  Io  frutto  delle  quali  si  è  feli- 

citade. 

Capitolo  VI. 

Delle  potenze  deir  anima. 

L' anima  delPuomo  si  ha  molte  potenze.  L^una  si 
è  potenza  irrazionale,  cioè  non  ragionevole,  nella  qua- 
le comunica  Fuomo  con  le  piante  e  con  gli  animali 
bruti.  E  però  non  è  questa  propria  potenza  nelP  uo- 
mo^ che  per  questa  potenza  puote  fare  dormendo 
r  uomo  la  sua  operazione.  L' altra  è  potenza  intellet- 
tiva, secondo  la  cui  opera  al  modo  detto  è  buono  e 
reo.  E  questa  potenza  non  fa  la  sua  operazione  nel 
sonno,  ma  manilestamente.  E  però  si  dice  che  Fuomo 
misero  non  è  diverso  dal  buono  nella  metà  della  sua 
vita  'j  che  nel  tempo  che  P  uomo  dorme,  tale  h  il  buo- 
no quale  è  '1  reo.  E  questo  si  è  perchè  l' uomo  si  ri- 
posa dell'opere  per -le  quali  elio  è  detto  buono  e  reo. 
Ma  questo  non  è  vero  generalmente,  però  che  l' anime 
de'  buoni  uomini  veggiono  tal  ora  in  visione  in  sonno 
molte  buone  cose  ed  utili,  le  quali  non  vede  V  anima 
del  reo.  L'altra  potenza,  la  quale  ha-  l'anima,  addive- 
gna  che  non  sia  razionale,  nientemeno  si  participa  con 
la  ragione,  però  eh'  ella  dee  ubbidire  alla  virtù  razio- 
nale. E  questa  si  chiamala  virtude concupiscibile. L'uo- 
mo dee  sapere  che  nell'  anima  sono  tal  ora  contrarii 
movimenti,  altresì  come  nel  corpo;  che  quando  un 
membro  si  move  nel  paralitico,  quello  conviene  che  '1 
mova  contra  natura;  ma  qu^ta  contrarietà  è  manifesta 
nel  corpo,  e  nell'anima  è  occulta.  La  potenza  razio- 
nale si  è  detta  in  due  modi:  l'una  è  la  potenza,  la 


LIBRO  9BST0.  I^ 

quale  è  veramente  razìoQale,  la  quale  a{^preiide,  dt* 
sceme  e  giudica^  T  altra  potenEa  è  non  razionale,  ckA 
la  potenza  ooncupìseilHle,  ed  h  detta  razionale  ìnfino 
a  tanto  ch'ella  sta  ubbidiente  e  sottoposta  ax]aeUa 
potenza  la  quale  è  veramente  razionale,-  sì  come  ùl  il 
buono  figliuolo  al  suo  padre  che  riceve-il  suo  castiga* 
mento. 

Capitolo  TII, 

Dì  due  maniere  di  rirtudi. 

Due  sono  le  virtudi.  L'una  si  è  detta  intellettuale, 
sì  come  è  sapienza,  scienza  e  prudenza.  L'altra  si 
chiama  morale,  sì  come  è  castità,  laidezza  ed  uimlità. 
Onde  quando  noi  volemo  laudare  niuno  uomo  di  vir- 
tude  intellettuale,  diciamo:  questi  è  un  savio  uomo, 
intendente  e  sottile.  £  quando  noi  volemo  laudare  un 
altro  uomo  di  virtù  morale,  cioè  di  costumi,  noi  di-> 
ciamo:  questi  è  un  casto  uomo,  umile  e  largo. 

Capitolo  YIII. 

Come  la  virtù  nasce  nell*  uomo. 

Con  ciò  sia  cosa  che  sieno  due.  virtù,  V  una  intellet^ 
tuale  e  T  altra  morale,  la  intellettuale  si  si  ingenera  e 
ci'esce  per  dottrina  e  per  insegnamento,  e  la  morale  sì 
s'ingeneia  e  cresce  per  buona  usanza.  £  questa  virtù 
morale  non  è  in  noi  per  natura,  però  che  la  cosa  na- 
turale non  si  può  mutare  delia  sua  disposizione  per 
contraria  usanza.  Yerbigrazia  :  la  natura  della  pietra 
si  è  d'andare  in  giù^  onde  non  la  potrebbe  l'uomo 
gittare  ne  in  un  modo,  né  in  un  altro,  ch'ella  impren- 


1 8  IL  TESORO^  'H'.' 

■■■* 

4esse  ad  andare  io  su.  E  la  natura  del  fuoco  si  ò  ad 
andare  in  suso,  onde  noi  potrebbe  tanto  Puomo  tmr 
re  in  giù^  eh'  egli  imprendesse  ad  andare  ia  giù.  E 
universalmente  ninna  cosa  naturale  puote  naturalmea** 
te  fare  lo  contrario  di  sua  natura.  Onde  addivegna  che 
queste  virtudi  non  sieno  in  noi  per  natura,  la  potenza 
di  riceverle  si  è  in  noi  per  natura,  il  compimento  si  ò 
in  noi  per  usanza.  Onde  queste  virtù  non  sono  al  po- 
stutto in  noi  per  natura,  ma  le  radici  e'I  cominciamene 
to  di  riceverle  è  in  noi  per  natura,  e  1  compimento  e 
la  perfezione  di  queste  cose  si  è  in  noi  per  usanza.  Ogni 
cosa  eh'  è  in  noi  per  natura  si  è  in  noi  prima  per  po- 
tenza, e  poi  viene  ad  atto,  si  come  avviene  delli  sensi 
dell'uomo^  che  prima  ha  Tuomo  la  potenza  di  vedere 
e  dell'  udire,  e  poi  per  quella  potenza  ode  e  vede,  e 
non  vede  né  non  ode  l'uomo  prima  ch'egli  abbia 
la  potenza  del  vedere  e  dell'  udire.  Dunque  vedemo 
già  che  nelle  cose  naturali  la  potenza  va  dinanzi  al* 
l'atto.  E  nelle  cose  morali  tutt'  il  contrario,  che  l'ope- 
razione e  l'atto  va  dinanzi  alla  potenza.  Verbigrazia: 
l'uomo  si  ha  la  virtù  che  si  chiama  giustizia,  per  aver 
fatte  molte  operazioni  della  giustizia  ;  ed  ha  l' uomo  la 
virtù  della  castità,  per  avere  fatte  innanzi  molte  opere 
di  castità.  E  così  addiviene  delle  cose  artifìcialL  Che 
l' uomo  ha  l' arte  di  fare  le  case,  per  aver  fatte  prima 
molte  case,  che  altrimenti  non  potrebbe  l'uomo  ave-> 
re  quell'arti,  se  non  le  avesse  molte  volte  operate  di- 
nanzi. E  similmente  addiviene  d'un  sonatore  d'uno 
strumento,  per  averlo  molte  volte  sonato  dinanzi.  E 
1'  uomo  è  buono  per  fare  bene,  ed  è  reo  per  fare 
male.  Per  una  medesima  cosa  s'ingenerano  in  noi  la' 


UraO  SESTO.  f  g 

wtodi,  e  si  corrompono  se  quella  cosa  si  fii  ia  divenf 
nodi^ed  addÌTiene  della  -virtù  come  della,  saokà,  che 
ma  laedesima  cosa,  in  dÌTersi  modi  fòtta,  ùl  saoììk  o 
ooiTott^peku  Terbigrazia:  la  fatica  se  ella- è  lemperate 
ut  sanità  nelFuomo,  e  snella  è  più  o  meno  che  ponsi 
convegma,  si  la  corrompe,  che  per  troppo  e  per  poco 
si  corrompe,  e  per  tenere  lo  mezco  »  conserva.  Ter- 
bigrazia :  paura  e  ardimento  corrompono  la  prodezza 
dell' nomo,  però  che  Tuomo  pauroso  fogge  per  tutte 
le  cose,  e  P  ardito  assalisce  ogni  cosa,  e  credesele  me- 
nare al  fine,  né  P  uno  ne  P  altro  non  è  prodezza.  Ma 
prodezza  si  è  a  tenere  lo  mezzo  tra  ardimento  e  paura, 
che  P  uomo  dee  fuggire  e  dee  assalire^  -quiTi  ove  è  da 
fuggire  e  d'assalire.  £  così  dei  intendere' in  tutte  al* 
tret  virtudi,  come  tu  hai  inteso  nella  prodezza,  cb&  tut- 
te le  virtù  s'  acquistano  e  si  salvano  per  tmere  lo 
mezza 

Capitolo  IX. 

Come  raomo  è  virtuoso. 

Ora  è  mestieri  che  noi  distinguiamo,  e  poniamo 
differenza  in  tra  V  abito  lo  quale  è  con  virtude^  e 
Pabito  k)  quale  è  senza  virtude,  per  tristizia  o  per  al- 
legrezza, le  quali  si  fanno  nelP  operazione  lora  Terbi- 
grazia  :  1'  uomo  che  sostiene  la  volontà  carnai^  e  di 
quella  astinenza  si  tiene  allegro  si  è  detto  casto,  e  Puo- 
mo  che  sostiene  le  volontà  carnali  si  è  detto  lussu- 
rioso s'egli  n^  è  dolente^  e  spezialmente  dii  sostiene 
molto  terrìbili  cose  e  non  se  ne  turba  si  è  detto  pru- 
dente e  forte,  e  Puomo  che  sostiene  cose  pericolose  e 
turbasene  si  è  detto  pauroso,  e  ad  ogni  operanone  e 


30  IL  TESOHO. 

ad  Ogni  costume  seguita  o  allegrezza,  o  tristezza.  Dun- 
que ogni  virtù  è  con  diletto,  o  con  tristezza,  e  però 
lì  rettori  delle  città  sì  onorano  le  dilettazioni  ed  alle- 
grezze fatte  debitamente,  ed  affliggono  di  diversi  tor- 
menti le  dilettazioni  non  fatte  debitamente. 

Capitolo  X. 

!•£  tre  cose  che  ruomo  desidera. 

Le  cose  che  Puomo  desidera  e  vuole  sono  tre.  L'Anna 
si  è  utile,  r  altra  dilettevole,  la  terza  buona.  Le  cose 
contrarie  sono  anche  tre,  cioè  non  utili,  non  dilette- 
voli e  non  buone.  Chi  usa  ragione  in  queste  cose  si  è 
buono,  e  chi  non  usa  ragione  in  queste  cose  è  reo, 
é  specialmente  nella  dilettazione,  però  che  la  è  nutrita 
(ìon  noi  dalla  nostra  natività.  E  per  ciò  grandissima 
cosa  è  che  Puomo  abbia  misura  e  dirittura  nelle  di- 
lettazioni. Dunque  tutto  lo  intendimento  di  questo 
nostro  libro  si  è  avere  dilettazione  con  ragione.  E  per 
tenere  ragione  si  è  detto,  che  nelle  gravi  cose  dee  Puo- 
mo avere  arte.  Dunque  lo  intendimento  delP  artefice 
della  scienza  civile  si  è  che  faccia  dilettare  i  suo'  cit- 
tadini nelle  cose  le  quali  si  convegnono,  e  come,  e 
dove,  e  quando,  e  quanto.  E  chi  usa  bene  queste  cose 
secondo  che  egli  dee  si  è  buono.  E  chi  fa  il  contrario 
si  è  reo. 


UBRO  SESTO.  a  1 

Capitolo  XI. 
Come  Tuomo  è  virtuoso. 

A  domandare  come  l'uomo  è  giusto,  secondò  l'opere 
della  giustizia,  e  com'egli  è  temperato,  facendo  l'opere 
della  temperanza,  si  potrebbe  l'uomo  dicere,  oh' è  si- 
migliante  a  queste  due  virtudi  si  come  della  grama - 
tica.  E  quell'uomo  è  detto  gramatico  che  favella  se- 
condo gramatica.  Ma  in  verità  non  è  simigliante  del- 
l'arte delle  virtudi,  però  che  nell'arti  acciò  che  l'uomo 
sia  bono  non  è  mestiero  se  non  sapere^  ma  nelle  vir- 
tudi non  basta  lo  sapere  senza  operare,  però  che  '1  sa- 
pere senza  l'operazione  vale  poco.  E  simigliante  a 
questo  si  è  l'infermo  lo  quale  intende  tutti  li  coman- 
damenti del  medico  e  però  non  ne  fa  niuoo,  onde  co- 
me cotali  infermi  sono  dilungi  dalla  sanità,  oosi  sono 
li  uomini  di  lungi  dalla  beatitudine  s'elli  hanno  la  vir- 
tude  e  non  la  operano. 

Capitolo  XII. 

Che  le  TÌrtù  sono  in  abito. 

Nell'anima  dell'uomo  sono  tre  cose,  abito,  potenza 
e  passione.  Passioni  sono  queste  :  allegrezza,  desiderio, 
amore,  invidia,  amistade  ed  odio.  Le  potenze  sono 
dette  nature,  per  le  quali  noi  potemo  fare  le  sopra 
dette  cose.  L' abito  è  detto  quello  per  lo  quale  l' uo- 
mo è  laudato  e  vituperato.  Dunque  dico  che  la  virtù 
non  è  potenza  ne  passione,  anzi  è  abito,  però  che  per 
la  passione  ne  per  la  potenza  non  è  l' uomo  laudato 


32  n.  TESORO. 

Ile  vituperato,  anzi  per  T  abito  permanente  e  stante 
neir  anima  delPuomo. 

Capitolo  Xllt. 

Qui  dice  delb  TÌrtù,  quello  che  è  e  come. 

La  virtnte  si  trova  nelle  cose  che  hanno  mezzo  e 
stremitadi,  cioè  più  e  meno,  e  questo  mezzo  si  dice  in 
due  modi.  Uno  secondo  natura,  e  V  altro  per  compa-^ 
razione.  Ed  è  detto  il  mezzo  secondo  natura  quello 
che  in  tutte  le  cose  è  una  medesima  cosa.  Yeii^igrazia  : 
se  dieci  è  troppo  e  lo  sei  è  poco,  lo  due  è  ad  essere 
mezzo,  per  ciò  che  ^1  sei  è  tanto  più  che  '1  due,  quanto 
è  meno  del  dieci.  Lo  mezzo  per  comparazione  a  noi  è 
quello  che  non  è  né  troppo  né  poco.  Yerbigrazia  :  se 
pigliare  una  gran  quantità  di  nutrimento  é  trop{K>,  e 
pigliarenjna  piccola  quantità  é  poco,  il  mezzo  si  dee 
intendere  a  noi  manicare  né  troppo  né  poco.  Ed  ogni 
artefice  nella  sua  arte  si  si  sforza  di  tenere  il  mezzo  e 
lasciare  li  stremi.  E  la  virtù  morale  é  in  quelle  opera- 
zioni, nelle  quali  il  troppo  e  1  poco  é  da  vituperare, 
e  'l  mezzo  è  da  laudare.  Dunque  la  virtude  è  abito 
volontario,  che  sta  nel  mezzo  a  noi,  con  determinata 
ragione. 

Capitolo  XIV. 

Ancora  di  ciò  mede&imo. 

Lo  bene  si  fa  solamente  in  uno  modo,  e  ^1  male  si 
fa  in  molti  modi,  e  però  grave  cosa  e  faticosa  è  ad  es- 
sere buono,  e  leggier  cosa  e  agevole  è  ad  essere  reo, 
e  per  ciò  son  gli  nomini  più  rei  che  buoni.  Sono  cose 


ir 


uno  maro.  'a3 

oéìe  quali  npn  sì  può  trovare  mezzo,  per  vàò  die  sono  ^ 
tutte  ree  si  come  è  in  fare  furto,  omicidio  o  adii|^erk% 
e  soo  cose  che  non  tv  si  trova  estremo  si  come  nelle 
TÌrtudL  Yerbigrazia:  temperanza  e  fbrtitudkie  non 
hanno  estremitade,  però  che  1  mezzo  non  ha  estre^* 
mitade  in  fra  sé.  La  fortezza  è  meiftlD  tra  b  paura  e 
rardimeoto,  e.  la  castità  è  mezzo,  tra  '1  seguire  Tikk 
mo  le  sue  volontadi  e  al  tutto  lasciarle.  Larghezza 
è  mezzo  tra  avasizì||j{|.  prodigalitade,  però  che  '1  pn>* 
digo  Tiene  meno  m  ricevere  e  soperdiia  in  dare,  e 
Fayaro  fa  tutto  il  contrario»  Ma  P  uomo  di'  è  lai|^ 
tiene  il  mezzo  in  tra  questi  due  estremi,  la^  liberaUtè^. 
e  r  avarizia  e  la  prodigsditò  sono  nelle  cose  piccole  0 
nelle  cose  mezzane,  ma  nelle  grandi  cose  si  si  chiama 
lo  mezzo  magnificenza.  La  suprabbondanza  non  ha  no« 
me  in  latino,  ma  in  greco  si  dbe  pleonasmon,  eU  pckx» 
à  chiama  parvenza.  Mezzo  nella  volontade  e  nelP  o;-' 
Bore  H  è  equanimitade,  cioè  eguaglianza.  Equanimo 
si  è  quegli  che  non  vuole  troppo,  anzi  tiene  lo  mezzo. 
Magnanimo  si  è  quegli  che  vuole  lo  troppo,  e  quello 
che  non  vuole  è  delto  pusilianimOk  L'uomo  che  s'  adi*> 
ra  delle  cose  che  si  conviene  e  quando  e  quanto  e  co* 
me,  è  mansueto.  E  quel  che  s'adira  di  quel  che  non 
dee  troppo  si  è  detto  iracondo,  e  quello  che  s'adira, 
meno  che  non  dee,  è  detto  inirascibile.  La  verità  si  k 
mezzo  in  tra  due  estremitadi,  ciò  è  lo  soperchio  e  1 
poco;  quegli  che  tiene,  mezzo  tra  queste  due  cose  si 
è  detto  verace,  e  quegli  che  soprabbonda  è  detto  van- 
tatore, e  quegli  che  viene  meno  si  è  detto  umile.  Qnel-;' 
lo  che  tien  il  mezzo  nelle  cose  di  sollazzo  e  giuoco  ca- 
detto in  greco  metrocalos,  e  quegli  che  sopeidiia  in 


a  4  IL  TESORO. 

ciò  è  detto  giullare,  e  quegli  che  viene  meno  si  è  detto 
campaÌDO.  L^uomo  che  tien  lo  mezzo  in  sapere  vivere 
con  le  genti  si  è  detto  amico  •  dvile,  e  V  uomo  che 
soperchia  in  ciò,  s*  egli  io  fa  senza  utilitade,  sì  si  chia- 
ma piacevole,  e  scegli  lo  &  per  utile,  si  è  detto  lusin- 
ghiero^ e  quelli  die  vien  meno  in  ciò  sì  si  chiama  uo- 
mo di  discordia.  Yergogna  è  passione  d'anima  e  non 
è  virtude,  e  quegli  che  tiene  lo  mezzo  della  vergogna 
è  detto  vergognoso,  e  quegli  che  si  vergogna  più  che 
non  dee  si  è  detto  in  greco  recoples,  e  quegli  che  si 
vergogna  meno  che  non  dee,  è  detto  isvergognoso. 

Capitolo  XV. 

Qui  in^gna  il  maestro  a  cognosrere  le  virtudi. 

•  Tre  sono  le  disposizioni  nelP  operazioni  delPuomo, 
cioè  più,  meno  e  mezzo.  E  tutte  queste  tre  cose  son 
contrarie  in  fra  se.  Che  '1  poco  è  contrario  al  troppo, 
e  lo  mezzo  si  è  contrario  ad  ambedui,  cioè  al  poco  e 
al  troppo.  Onde  se  tu  vuoti  &re  comparazione  tra  lo 
mezzo  e  'l  troppo,  lo  mezzo  sì  puoi  dicere  troppo,  e  se 
vuoli  fare  comparazione  intra  '1  mezzo  e  '1  poco^  lo 
mezzo  puoi  dicere  poco.  Onde  se  tu  vuoli  fare  compa- 
razione tra  la  prodezza  e  la  paura,  la  prodezza  sarà  det- 
ta ardimento,  e  se  tu  vuoli  comparare  tra  prodezza  ed 
ardimento,  certo  la  prodezza  sarà  detta  paura.  Ma  sappi 
che  maggiore  contrarìetade  ha  dalPuno  estremo  alPaltro 
che  non  ha  dal  mezzo  agli  stremi,  che  sono  più  presso 
al  mezzo  che  gli  altri.  Yerbigrazia  :  Tardimento  è  più 
presso  alla  prodezza  che  non  è  la  paura,  e  la  prodiga- 
litade  si  è  più  presso  alla  larghezza  che  T avarizia.  Ma* 


UBRO  SESTO.  a  5 

la  sensibilità  delia  colonia  carnale  si  è  piò  presso  alla 
castità,  che  non  è  alla  lussuria  ^  e  questo  si  è  per  due 
ragioni,  Funa  ragione  sì  è  secondo  la  natura  della  cosa, 
l'altra  si  è  dalla  nostra  parte ^  per  natura,  e  questo  si  è 
la  ragione,  perchè  la  paura  è  più  contraria  alla  fortez* 
za,  che  non  è  Tardimento^  dalla  parte  nostra,  però  che 
restremìtade  alla  quale  noi  siamo  più  acconci  a  cade- 
re per  natura  si  è  più  dilungi  dal  mezzo,  e  però  ca-* 
<liamo  noi  più  acconciamente  alli  desiderii  carnali  che  , 
noi  non  facciamo  al  contrario.  Dunque  conciossiacosa 
che  la  Tirtù  sia  in  pigliare  lo  mezzo,  ed  a  pigliare  lo 
,  mezzo  sieno  bisogno  tante  considerazioni,  grave  cosa  è 
air  uomo  a  diventare  virtuoso.  £  pigliare  lo  mezzo  in 
ciascuna  arte  non  appartiene  a  ciascuno  uomo,  se  non 
se  solamente  a  colui  eh'  è  savio  e  sperto  in  quell'arte. 
Yerbigrazia:  ogni  uomo  non  sa  trovare  lo  punto  dd 
mezzo  del  cerchio  se  non  solamente  colui  eh' è  savio 
in  giometria.  E  così  in  ciascuna  operazione  ^  che  saper 
fare  la  cosa  e  volerla  fare  si  è  lieve,  ma  farla  con  de- 
bito modo  e  debite  circunstanze  non  s'appartiene  se 
non  al  savio  di  quell'  arte.  Ed  ogni  operazione  che  tie- 
ne lo  mezzo  è  bella  e  degna  di  merito.  E  per  questa 
cagione  dovemo  noi  inchinare  l' anime  nostre  al  con- 
trario nostro  desiderio,  infin  a  tanto  che  vegnamo  al 
mezzo,  tutto  che  sia  grave  cosa  ad  appressarsi  a  cosa 
diritta.  Dunque  in  tutte  cose  è  da  lodare  lo  mezzo,  e 
da  biasimare  l'estremità. 


Laiini,  F'ol,  I. 


2G  IL  TESORO. 

Capitolo  XVI. 

Come  Tuomo  fa  bene  e  male. 

Sono  operazioni  le  quali  Tuoino  fa  senza  la  sua  to- 
lontà,  cioè  per  forza  o  per  ignoranza,  sì  come  'l  vento 
levasse  un  uomo  e  portasselo  in  un  altro  paese.  E  so« 
no  altre  operazioni  le  quali  Puomo  fa  per  sua  volontà 
e  per  suo  arbitrio,  si  come  Puomo  che  fa  una  opera^ 
zione  di  virtude,  o  di  vizio  per  sua  propria  volontà. 
£  sono  altre  operazioni,  le  quali  son  parte  per  sua  vo* 
lontà  e  parte  non  secondo  sua  volontà,  sì  come  Tuo*, 
mo  ch^  è  in  mare  in  tempo  di  tempesta,  e  gitta  fuori 
suo  arnese,  per  campare  la  persona  ^  e  sì  come  addi- 
viene delli  comandamenti  delti  signori,  che  comanda- 
no alli  loro  sudditi  che  uccidano  il  padre  o  la  madre. 
£  queste  cotali  operazioni  sono  composte  d'operazio- 
ne volontaria,  e  d^ operazione  non  volontaria;  ma  più 
presso  è  alP  operazione  volontaria  che  non  è  alla  forza. 
Onde  se  lo  re  ti  comanda  che  tu  debbi  uccidere  il  pa- 
dre e  la  madre  sotto  pena  della  vita,  o  lo  tuo  figliuolo, 
dicoti,  se  tu  gli  uccidi,  tu  'l  fai  per  tua  volontà,  avvegna 
che  tu  il  facci  per  comandamento  altrui.  E  però  cotali 
operazioni  si  hanno  lode  e  vituperio.  Però  si  dee  l'uo- 
mo dare  innanzi  alla  morte,  che  fare  così  sozze  cose 
come  uccidere  padre  o  figliuolo,  o  simiglianti  cose  fare. 
Povertà  dì  senno  e  discrezione  si  è  cagione  del  male, 
che  ogni  uomo  ch'è  rio  sì  ha  poco  senno,  perchè  non 
cognosce  quello  che  'l  dee  fuggire,  uè  quello  che  '1  dee 
fare.  E  per  questo  modo  si  multiplicano  gli  uomini  rei. 
Questo  cognoscere  dovete  intendere  che  non  vede 


LIBRO  SESTO.  37 

nella  mente  la  ria  fama  ot'  egli  viene,  ne  il  pericolo 
ov'egU  corre.  Pensa  l'uomo  dello  ebbro  e  dell'  irato 
quando  egli  fa  alcuno  rio  fatto,  ch'egli  lo  faccia  per 
ignoranza  e  per  non  sapere^  ed  avvegna  ch'olii  sieno 
ignoranti  nelli  loro  fatti,  tuttavia  la  cagione  della  ma- 
lattia non  è  di  fuori  da  loro,  però  che  la  scienza  del- 
l'uomo non  si  può  partire  da  loro.  Dunque  la  cagione 
di  queste  male  concupiscenze  non  è  se  non  nel  mal- 
littore,  che  segue  la  sua  volontade.  Ch'  egli  è  impos- 
sìbile, che  l' uomo  faccia  le  bone  operazioni  per  vo- 
lontà, e  le  ree  senza  volontade.  Similmente  la  vo- 
lontade è  più  comune  e  più.  generale  che  non  è  la 
elezione,  però  che  V  operazione  della  volontade  si  è 
eomune  agli  animali  ed  ai  garzoni,  ma  la  elezione  non 
appartiene  se  non  a  colui  che  si  astiene  da  concupi- 
scenza. Tal  ora  vuole  l'uomo  cosa  eh' è  possibile,  ma 
non  la  elegge  perchè  ella  gli  è  impossibile.  Anche  la 
volontade  è  fine,  e  la  elezione  si  è  antecedente  al  fìne^ 
perciocché  la  opinione  va  dinanzi  e  di  dietro  la  ele- 
zione. Ed  è  detto  l' uomo  buono  e  reo  per  la  elezione, 
ma  per  la  opinione  non  è  detto  oè  buono  ne  reo.  Anche 
l'opinione  è  di  verità  e  di  falsità,  ma  la  elezione  è  di 
bene  o  di  male.  Anche  l'opinione  è  di  quelle  cose  che 
l'uomo  non  sa  per  fermo,  ma  la  elezione  è  di  quelle 
che  l'uomo  sa  per  fermo.  Anche  non  è  da  eleggere 
Q^oì  cosa,  se  non  quelle  di  che  l' uomo  ha  avuto  con- 
siglio  dinanzi.  Anche  non  dee  l'uomo  fare  consiglio 
di  ogni  cosa,  se  non  di  quella  della  quale  fa  consiglio 
lo  savio  uomo  e  l'uomo  discreto.  Ma  di  quelle  cose 
delle  quali  si  consigliano  li  matti  e  li  semplici  non  è 
da  fare  consiglio.  Ma  quelle  cose,  le  quali  sono  gravi 


28  lìl^  TESORO. 

e  pofsoqsi  fare  per  Doi,  ed  haono  dubbioso  o^men- 
to,  cioè  dubbioso  fine,  sono  cose  delje  quali  si  dee  fare 
consiglio,  sì  come  è  di  dare  una  medicina  ad  uno  in- 
fermo, od  altre  simili  cose;  e  delle  cose  le  quali  non  si 
appartengono  a  noi  non  è  da  fare  consiglio,  siccome 
nella  teiTa  dìGedemonia  nullo  si  consiglia  in  che  modo 
dsbiano  buona  conversazione.  Anche  non  dee  P  uomo 
'tonsigliare  delle  cose  che  sono  necessarie,  o  perpetue. 
Non  dovemo  consigliare  se  H  sole  si  leva  la  mattina,  o 
se  '1  piove  o  se  non.  Anche  non  dovemo  consigliare 
delle  cose  che  addi vegnono  per  avventura,  sì  come  tro- 
vare o  avere  tesoro.  Anche  non  dee  Puomo  consiglia- 
re del  fine,  anzi  di  quelle  cose  che  vanno  innanzi  la 
fine.  Lo  medico  non  si  consiglia  della  vita  delP  infer- 
mo, ma  consigliasi  come  'i  potesse  guarire.  Ne  il  reto- 
rico non  si  consiglia  di  persuasione.  £  colui  che  fa  la 
legge  non  si  consiglia  della  beatitudine;  anzi  si  consi- 
glia ciascuno  di  questi  delle  cose  per  le  quaU  possono 
venire  a  quel  fine  che  fa  mestieri  alle  loro  arti,  o  per 
loro,  o  per  loro  amici  ;  perciocché  le  cose,  le  quali  l'uo- 
mo fa  per  gli  suoi  amici,  sì  le  fa  per  se.  La  volontà  si  è 
la  fine,  secondo  eh' è  detto  di  sopra.  Onde  pare  ad  al- 
quanti uomini  che  sia  buono  quello  eh'  egli  vuole.  £d 
altri  sono  a  cui  pare,  che  quello  che  vuole  comunemen- 
te la  gente,  sia  buono.  Ma  secondo  la  veritade  non  è 
così.  Che  bene  è  quello  che  pare  al  buono  uomo  che 
giudica  le  cose  com'elle  sono,  e  giudica  come  l'uomo 
sano  di  sapori,  che  giudica  lo  dolce  per  lo  dolce,  e  l'a- 
maro per  l'amaro.  Ma  l'uomo  eh' è  infermo  fa  lutt'  il 
contrario,  che  a  lui  pare  l'amaro  dolce,  e  *l  dolce  ama- 
ro. E  cosi  all'uomo  reo  li  pare  l'operazione  buona  rea 


*■■■  •^ 

e  la  riBl^iraon6^>  quello  addiviene  perchè  all'  uomo  reo 

H  per&dò  the  li  diletta  bucrao,  e  quello  che  non  li  dn- 
leCta  reo.  Obde  molti  nomini  sono  infermi  di  questa  in* 
*^  fermità  perversa,  per  ciò  che  P  operazione  del  bene  tt 
del  male  sono  in  suo  arbitrio.  Onde  se  fare  lo  bene  è 
in  noi,  &re  lo  male  è  anche  in  noi.  Ed  addiviene  tal  orfr 
ddll' operatone  dell^uomo^  si  come  de'figlinoli,  à»  po- 
sto che  1  figliuolo  sia  reo^  si  pere  al  padre  bnono.  E 
come  fere  lo  bene  e  '1  male  sia  in  noi,  egli  si  mostra  per 
eoloro  che  fecero  le  legjgi,  die  affiggono  di  molte  pe>- 
tte  coloro  che  fanno  il  male,-  ed  onorano  colofo  che= 
fono  il  bene.  Le  leggi  si  confortano  gli  uomim  di  fiire 
lo  bene,  e  costringonli  di  non  lare  lo  male^  E  ninnò 
ttomò  conforta  altrui  ddle  cose  che  non  sono  m  sua 
|lodestade.  L'uno  uomo  non  conforta  P altro  che  tt 
deft  dolere  di  quelle  cose  di  che  dee  avere  dolore.  Né 
iiol  conforta  che  noi  sì  scaldi  del  fuoco^  se  egli  vi  Sta 
appresso,  e  che  non  abbia  sete  e  fòme.  Coloro  che 
.  fecero  la  legge  sì  puniscono  gli  uomini  della  igno- 
ranza della  quale  elli  son  colpevoli.  E  debbe  P  uomo 
sapere  eh'  egli  è  doppia  ignoranza.  L'una  si  è  quella 
della  quale  P  uomo  non  ha  cagione,  sì  come  è  la  igno* 
ranza  del  pazzo,  e  di  quella  non  dee  P  uomo  essere 
punito.  Un'  altpa  ignoranza,  della  quale  P  uomo  ha  ca- 
gione, sì  come  è  P  ignoranza  delPuomo  ebbro,  e  di  quel- 
la dee  Puomo  essere  punito.  Che  ogni  uomo  che  passa* 
i  comandamenti  della  ragione  e  della  legge  secondo 
volontà,  sì  dee  essere  punito,  e  ciascun  uomo  il  quale 
è  giusto  e  reo  si  è  cotale  però  che  egli  vuole  essere. 
Ma  quando  Puomo  è  fallo  ingiusto  e  reo^  non  diventa 
per  ciò  giusto  perch'egli  voglia  essere,  si  come  addi- 


5o  IL  TESORO. 

yiene  delF  uomo  che  soleva  essere  sano  e  diventa  ìn- 
fenno,  che  non  diventa  sano  perchè  egli  n'abbia  vo- 
lontade,  da  ch'egli  non  vuole  credere  al  medico,  ne 
usare  le  cose  le  quali  lo  conservano  in  sanìtade.  E  si- 
migliante  si  è  a  colui  che  getta  la  pietra,  che  innanzi 
ch'egli  l'abbia  gittata  si  è  in  suo  potere  di  gittarla  o 
no,  ma  quando  egli  l' ha  gittata  non  è  in  suo  potere 
di  ritenerla  né  in  sua  volontà.  E  cosi  addiviene  dell'uo^ 
mo  il  quale  diventa  reo  dal  comìnciamento,  che  fu  in 
suo  arbitrio  di  diventare  buono.  Non  solamente  sono 
malattie  nell'uomo  per  volontade,  ma  eziandio  elle 
sono  nel  corpo,  si  come  è  essere  l' uomo  cieco  e  zoppo. 
E  queste  malattie  possono  essere  in  due  modi.  L'uno 
per  natura,  si  come  colui  che  nasce  cieco  e  zoppo.  L'al- 
tro se  colui  che  ha  quel  male,  o  altro  lo  ha  per  sua 
colpa,  come  quegli  che  accieca  per  troppo  bere,  o  per 
furto,  o  per  altre  mal  fatte  cose.  Di  colali  genti  non 
dee  l'uomo  avere  misericordia,  s'elli  non  si  pentono  * 
e  castigaDsi.  Dunque  ciascun  uomo  è  cagione  della  sua 
imagiaazione  e  del  suo  abito,  però  che  T  uomo  ha  na- 
turale intendimento  di  conoscere  bene  e  male.  Dun- 
que dee  volere  fare  lo  bene  e  fuggire  lo  male.  Ed  è 
ottima  cosa,  e  non  impossibile,  a  pigliare  consuetudine 
e  dottrina  di  fare  bene.  E  chi  la  piglia  al  comincia- 
mento  e  perseverala,  quel  cotale  uomo  ha  buona  na- 
tura e  perfetta,  e  chi  piglia  il  contrario,  si  ha  mala 
natura.  Ma  perchè  egli  P  abbia  ria,  sì  la  può  1'  uomo 
fare  buona  se  egli  -vuole,  che  è  in  lui  di  pigliare  qua- 
lunque vuole.  Dunque  le  virtù  e'  vizii  sono  secondo 
la  volontà  dell'uomo.  E  nota  che  l'operazione  e  l'a- 
bito non  sono  secondo  la  volontà  dell'  uomo  in  uno 


LIBRO  SESTO.  5l 


modo,  ma  in  diversi  5  però  che  Toperazione  dal  comin- 
ciamento  suo  intìno  alla  fine  sua  è  nelP  arbìtrio  e  nel~< 
la  volontà  delPuomo.  Ma  T  abito  non  e  nelF  arbitrio^, 
ne  nella  volontà  delPuomo,  se  non  al  suo  comincia- 
mento. 

Capitolo  XVII. 

Delia  fortezza. 

Diciamo  oggimai  di  ciascuno  abito,  e  cominciamo 
alia  fortezza.  Dico  che  fortezza  si  è,  secondamente  ch^^ 
detto  di  sopra,  mezzo  tra  la  paura  e  Pardimento^  ()erò 
che  sono  tali  cose  che  V  uomo  dee  temere  ragione* 
voimente,  sì  come  sono  vizii,  ed  ogni  cosa  che  po- 
ne Tuomo  in  mala  nominanza.  £  quelli  che  non  ha 
paura  di  queste  cose,  sì  è  svergognato  e  degno  di  vi-, 
tupero,  e  chi  ha  paura  di  queste  cose  sì  è  da  lau- 
dare. Elli  sono  uomini,  li  quali  sono  arditi  in  batta- 
glia, e  sou  di  quelli  che  sono  liberali  in  ispendere  pe- 
cunia^ ma  Tuomo  forte  qon  tiene  né  più  ne  meno  che 
faccia  bisogno,  ed  è  apparecchiato  di  tutte  quelle  cose. 
che  fa  bisogno  di  sostenere.  Ma  l' uomo  eh'  è  ardito  si 
soperchia  in  queste  cose,  e  '1  pauroso  viene  meno.  Le. 
cose  che  sono  da  temere  non  sono  d' una  materia,  anzi 
sono  in  molte  guise.  Che  le  sono  molte  cose  che  son  da 
temere  ad  ogni  uomo  che  abbia  sano  intendimento, 
però  che  colui  che  non  teme  il  tuono  o  l' onde  del 
mare  si  è  matto.  £  sono  altre  cose,  le  quali  non  teme 
ogni  uomo,  e  queste  cose  sono  secondo  e  più  e  meno, 
cioè  secondamente  che  V  una  cosa  è  più  da  temere  che, 
r  altra.  £  sì  come  dico  delle  cose  paurose,  così  inten- 
dete deir  ai  dimento,  però  che  sono  uomini  che  si  mo>: 


^7 

-t  ■ 


5  a  IL  TESORO. 

strano  ardili  anzi  che  Tegoano  aili  fetti,  e  fanno  gran-'  ' 
de  Tista,  e  quando  vegnono  alli  fatti,  sì  si  portano  vil- 
mente, ma  V  uomo  prode  e  forte  fa  tutto  il  contrario, 
che  prima  ch'egli  vegna  alli  fatti  si  sta  cheto,  e  da  che 
egli  è  a^  fatti  si  sta  prode  e  forte.  Fortezza  è  detta  in 
cinque  modi.  Lo  primo  modo  si  è  fortezza  civile,  però 
che  gli  uomiai  della  città  sofierano  molti  pericoli,  per 
avere  onore,  e  per  non  essere  vituperati  dalli  loro  cit- 
tadini. Lo  secondo  modo  si  è  per  senno,  e  per  iscal- 
trìmento  che  Tuomo  ha  in  quello  ufficio  ch'egli  si 
adopera,  sì  come  noi  vedemo  degli  uomini  che  sono 
bene  ammaestrati  delle  battaglie,  che  fanno  opere  di 
gran  prodezza,  confidandosi  della  loro  scienza,  avv&* 
gna  che  non  sieno  forti,  secondo  la  verìtade,  però  che 
quando  veggono  i  pericoli  nella  battaglia,  sì  si  fuggono, 
avendo  maggiore  paura  della  morte  che  della  vergo- 
gna. Ma  V  uomo  eh'  è  forte  secondo  la  verità,  debbo 
fare  tutto  il  contrario,  che  quando  viene  alla  battaglia 
si  sta  forte,  e  teme  più  la  vergogna  che  la  morte.  Lo 
terzo  modo  si  è  per  furore,  si  come  noi  vedemo  nelle 
fìere,  che  sono  forti  e  ardite  per  lo  gran  furore  eh'  è 
in  loro.  Questa  non  è  vera  fortezza,  però  che  chi  si 
mette  ad  un  gran  pericolo  per  ira  o  per  furore,  non  è 
detto  forte,  ma  quegli  che  si  mette  a  grandi  pericoli 
per  dritto  intendimento  quegli  è  forte.  Lo  quarto  mo- 
do è  per  forte  movimento  di  concupiscenza,  sì  come 
noi  potemo  vedere  nelli  animali  bruti  nel  tempo  della 
lussuria,  e  così  vi  si  lasciano  cadere  molti  uomini  leg-* 
germente^  e  quegli  che  allora  si  tiene  bene,  quegli  è 
forte.  Onde  molti  uQmini  £)nno  grandi  ordinamenti  per 
lussuria.  Lo  quinto  modo  si  è  per  sicurtà  che  l'uo^ 


LIBRO  Si^TO.  55 

DIO  ha  spesse  volte  per  avere  vinto,  sì  come  addiviene 
r  a  colui  che  combatte  con  quello  che  ^U  è  usato  di 
vincere,  ma  quando  combatte  con  un  altro  sì  perde  il 
suo  ardimento.  E  questi  cinque  modi  non  sono  di  vera 
fortezza.  La  fortezza  si  è  più  degna  cosa,  che  non  è  la 
castità,  però  che  più  lieve  cosa  è  ad  astenersi  dalle 
concupiscenze  carnali,  che  non  è  dalle  cose  triste. 

Capitolo  XVIII. 
Delia  casti tade. 

esastila  si  è  mezzo  intra  seguire  le  dilettazioni  cor- 
porali tutte,  o  non  seguirne  nulla.  Però  che  dilettarsi 
r  uomo  delle  cose  che  si  convegnono,  e  dove,  e  quan- 
do, e  quanto,  non  vi  bisogna  quivi  castità^  però  che 
vedere  l'uomo  di  belle  cose,  ed  udire  di  belle  novel- 
le, ed  odorare  di  belli  fiori,  come,  quanto  e  quando 
si  conviene,  non  vi  bisogna  quivi  castitade.  Che  ca- 
stità non  t'  è  mestiero  se  non  in  due  sensi  del  corpo, 
cioè  nel  gusto  e  nel  tatto,  ne'  quali  noi  comunichia- 
mo con  li  animali  bruti  fortemente,  sì  come  dilettarsi 
nelle  cose  che  si  mangiano  e  che,  si  beono,  e  nelle  co- 
se che  si  toccano.  E  specialmente  nel  tatto  è  grande 
dilettazione.  E  però  è  bestiai  cosa  seguir  troppo  la 
dilettazione  del  tatto.  Che  nel  gusto  non  si  diletta 
tanto  1'  uomo  quanto  nel  tatto  5  che  solamente  la  di- 
lettazione del  gusto  è  quando  P  uomo  esamina  li  sa- 
pori. Sono  dilettazioni  naturali,  nelle  quali  P  uomo 
puote  aver  mezzo,  sì  come  di  non  mangiare  e  non  be- 
re troppo,  e  questo  mezzo  si  può  dire  castitade  3  chò 
la  non  castità  si  è  nelle  dilettazioni  corporali  9  e  non 


54  Uj  TESORa 

nelle  cose  triste,  però  che  nelle  cose  triste  sì  s^  inten- 
de lo  sao  mezzo  la  fortezza.  Tal  fiata  è  P  uomo  non 
temperato  e  non  casto  quando  si  diletta  più  che  non 
dee,  e  quando  egli  puote  aver  la  cosa  eh'  egli  deside- 
ra. À  gran  pena  si  trova  uomo  che  si  diletti  meno  che 
non  dee  nelle  dilettazioni  carnali,  ed  a  questo  colale 
non  è  posto  nome.  Dunque  quegli  è  casto  che  tiene  lo 
mezzo  nelle  dilettazioni,  cioè  che  non  si  diletta .  trop- 
po d'averle,  e  non  si  contrista  ti'oppo  di  non  averle, 
ma  dilettayisi  temperatamente,  secondo  che  basta  alla 
bona  vita  dell'  uomo.  Gonviensi  che  V  uomo  contrasti 
alli  desiderii  delle  dilettazioni,  però  che  se  V  uomo  si 
lascia  vincere,  la  ragione  rimane  di  sotto  al  desiderio 
ddl'  uomo.  Però  conviene  che  P  uomo  abbia  maestro 
infino  da  garzone,  secondo  il  cui  comandamento  egli 
viva,  ed  allrimeoti  rimarrà  con  lui  lo  desiderio,  infìno 
die  sarà  grande.  £  però  ci  conviene  ben  studiare,  ao« 
ciò  che  la  ragione  rimagna  di  sopra  al  desiderio  ov« 
vero  alla  concupiscenza. 

Capitolo  XIX. 

Bella  larghezza. 

Larghezza  è  mezzo  in  dare  e  in  ricevere  pi^cunia. 
Dunque  colui  è  liberale  che  usa  la  pecunia  convene- 
volmente, cioè  quello  che  dà  quello  che  si  convie- 
ne, e  dove  e  quanto  e  quando  ed  a  cui  si  conviene. 
Prodigo,  ovvero  distruggitore  si  è  quello  che  soper- 
chia in  dare,  e  viene  meno  in  ricevere.  E  P  avaro  fa 
tutto  il  contrario.  £  degna  cosa  è  che  larghezza  sia 
più  in  dare  che  in  ricevere,  però  che  più  lieve  cosa 


UBRO  SESTO.  55 

è  il  non  ricevere  che'l  dare.  £  più  da  lodare  è  colui 
che  dà  le  cose  che  si  conviene,  che  non  è  colai  che  ri- 
ceve le  cose  che  si  conv^nono.  E  generalmente  è  più 
degna -cosa  neUa  virtude  operare  la  cosa  dritta  e  buo- 
na^ che  non  è  astenersi  da  quello  di  che  V  uomo  si  dee 
astenere.  Ma  tuttavia  in  queste  cose  vuole  avere  vìa 
d^  eguaglianza.  Poco  è  da  laudare  quegli  che  riceve 
temperatamente^  ma  quegli  che  dà  temperatamente  è 
molto  da  laudare  per  la  utilità  che  n^  ha  quegli  a  cui 
è  dato.  Non  è  largo  quegli  che  si  contrista  di  quel  che 
dà,  pierò  eh'  e'  non  dà  per  larghezza,  anzi  dà  per  ver- 
gogna, o  per  altra  cagione.  Dunque  quegli  è  largo  che 
dà  con  sdlegrezza.  L' uomo  largo  si  è  contentò  a  se 
di  pocb,  acciò  che  possa  fere  a  molti  ^  assai,  o  poco, 
eh'  egli  posseggia,  sempre  si  sforza  di  fare  opere  di 
krghezza,  secondo  la  sua  facultade.  Rade  fiate  si  tro- 
va l\iomo  largo  essere  ricco,  però  che  la  larghezza  non 
cresce  per  donare,  ma  cresce  per  raunare  e  per  rice- 
vere. Ed  è  usanza  che  la  ricchezza  che  l'uomo  ha  sen- 
za fatica  sì  '1  fa  esser  più  largo  ^  e  grande  maraviglia 
è  quando  l'uomo  è  ricco  con  gran  fatica  s'egli  è  lar^ 
go.  L' uomo  prodigo  è  meo  reo  che  l' avaro  5  perchè 
l' avaro  non  fa  prò'  a  nessuno,  né  a  se,  e  per  questa 
cagione  ogn' uno  gli  vuol  male.  Anche  lo  prodigo  si 
può.  correggere  in  molli  modi,  ma  l'avaro  non  si  può 
mai  medicare,  e  naturalmente  l' uomo  è  più  acconcio 
all'  avarizia  che  alla  prodigalitade,  e  sì  si  parte  più 
dal  mezzo.  E  sono  molti  modi  di  larghezza.  E  rade  vol- 
te sì  si  possono  trovare  in  un  uomo.  Che  tal  volta  è 
l' uomo  avaro  in  tenere  le  cose  sue,  che  non  è  avaro 
fti  desidei*are  l' altrui.  E  sono  tali  che  son  avaii  non 


56  IT.  TESORO. 

per  teiere  le  loro  cose,  ma  per  desiderare  le  altrui  ^  in 
questi  colali  è  il  loro  desiderio  insaziabile,  e  sforzaosi 
di  guadagnare  d^  ogni  sozzo  guadagno,  si  come  di  man- 
tenere bordello,  e  di  ritenere  ruffiani  e  puttane,  e  da- 
re ad  usura,  e  ritenere  giuoco.  E  questa  cotale  ma- 
niera d^uomini  pecca  più  gravemenle  che  in  prodtgSH 
litade. 

Capitolo  XX. 

Della  magnificenza. 

Magnificenza  si  è  una  Tirtù  che  si  adopera  nelle  rie** 
chezze,  e  solamente  nelle  grandi  ispese.  £  la  natura 
deir  uomo  magnifico  si  è  ch^egli  è  maggiormente  sol-* 
lecito  acciò  che*  suoi  fatti  si  facciano  con  grande  ono* 
re,  e  con  grandi  spese,  che  in  fare  piccole  spese.  Che 
quelli  che  Tuole  fare  piccole  spese  e  ristringersi,  noni 
è  magnifico,  anzi  è  parvifico.  Questa  virtù  detta  ma- 
gnificenza si  s' intende  nelle  grandi  cose  maravìgliose^ 
sì  come  in  fare  tempii  e  chiese,  ove  s^  adori  Dio,  da 
cui  è  mandato  e  viene  ogni  bene,  e  simigliantemente 
è  in  fare  gran  nozze,  e  ricchi  conviti,  e  dare  altrui 
grandi  albergherie,  e  in  fare  grandi  presenti.  Lo  ma- 
gnifico non  pensa  solamente  delle  sue  spese,  ma  egli 
pensa  anche  di  fare  altrui.  Nella  magnificenza  non  è 
solamente  mestieri  che  vi  sia  abbondanza  di  cose,  ma 
evvi  mestieri  con  essa  uomo  il  qual  sappia  ordinare 
e  spendere  quelle  cose,  sì  come  si  conviene,  o  egli  per 
se,  o  uomo  di  sua  schiatta.  Onde  qualunque  uomo  ha 
meno  una  di  queste  cose,  o  amendue,  s' egli  vi  si  in- 
tramette  si  è  da  schernire,  o  scegli  s' impaccia  di  ma- 
gnificenza. L'uomo  che  soperchia  a  quello  eh'  è  detto  di 


LIBRO  SESTOk  67 

sopra  si  è  quello  che  spende  in  queste  cose  più  che 
non  dee^  e  che  non  si  conviene.  E  colà  ove  può  fare 
la  [»coda  spesa  sì  la  vi  fa  grande,  sì  come  sono  colo- 
ro die  danno  il  loro  a  giucolarì  ed  a  buffoni,  e  come 
Goloro  che  gittano  le  porpori  nella  via  ^  e  questo  non 
feoQO  per  amore  della  Tirtude,  ma  solamente  per  pa- 
rer maraviglioso  e  glorioso  alle  genti.  Parvifìco  si  è 
colui  die  nelle  cose  grandi  e  maravigliose  si  sforza  dì 
spender  poco,  e  corrumpe  la  bellezza  del  &tto  suo  per 
pocQ^  rìsparmiamento,  e  perde  grandi  spese  e  grande 
onore.  £  queste  sono  due  estremità  della  magaificen- 
la,  ma  non  sono  da  vituperare,  da  che  elle  non  fan- 
no dsHino  secondo  i  loro  viziì.  Magnanimo  è  colui  ch^  è 
aoGoncio  a  grandissimi  fatti,  e  rallegrasi,  e  gode  di  &r 
gran  cose.  Ma  colui  che  s^intramette  di  fare  gran  iàt- 
ti  e  non  è  acconcio  a  ciò,  si  è  detto  vanaglorioso.  E 
ooloi  ch^è  degno  d' onore  e  di  dignitade,  ed  egli  ha 
paura  di  riceverla,  o  d^  inframettervìsi,  si  è  detto  uo- 
mo piccolo.  £  magnanimità  si  è  estiemo  per  compa-f 
razione  delle  cose,  ma  quanto  alla  operazione  si  è 
mezzo.  La  vera  magnanimità  si  è  solamente  nelle  cose 
grandissime,  cioè  nelle  cose  per  le  quali  Puomo  ser- 
ve a  Domenedio  glorìoso.  E  la  dritta  beatitudine  si  à 
pensar  di  quelle  così  altissime  cose,  e  cosi  grandi  e 
così  onorevoli,  che  di  questo  pensare  nasce  tutto  be- 
ne, e  poi  viene  in  maggiore,  lo  qual  non  si  punte  esti-? 
mare.  L^uomo  eh' è  magnanimo  si  è  il  maggiore  uo- 
mo ed  il  più  onorato  che  sia.  E  non  si  move  per  pic- 
cola cosa,  e  non  china  la  magnanimità  sua  a  veruna 
sozza  cosa.  Dunque  la  magnanimitade  si  è  ornamento 
e  corona  di  tutte  le  virtudi.  E  però  non  è  lieve  cosa 

Laliiti.  Foì.  IT.  3 


58  IL,  T£SURO. 

a  trovare  V  uomo  magnamino,  anzi  è  molto  forte,  però 
che  noo  è  solamente  buono  a  sé,  anzi  è  buono  a  molti 
allrL  E  se  alcun  nomo  è  magnanimo,  non  si  ralleapra 
troppo  per  grandi  onori  che  li  siano  fatti.  £  sappmte 
che  tanto  onore  non  li  può  esser  fatto,  che  risponda 
alla  sua  bonarita  ed  alla  sua  grandezza.  Anche  il  ma- 
gnanimo non  si  rallegra  troppo  per  cose  prospere  che 
li  avyegnano,  e  non  si  conturba  mai  per  cose  adyerse. 
Nobilita  di  sangue  e  ricchezza  antica  sì  aiuta  Tuomo  a 
esser  magnanimo.  £  quelli  è  veramente  magnaaimo 
che  ha  in  sé  due  cose  per  le  quali  egli  debbia  esser 
onorato,  ciò  son  quelle  che  sono  dette  di  sopra.  £  la 
sicurità  e  la  buonarìtà  dell^uomo  magnanimo  si  è  tan- 
ta, eh'  egli  ha  per  nulla  li  pericoli,  però  eh'  e'  non  da- 
bila  trar  la  vita  sua  con  buon  fine.  £  rallegrasi  di  &r 
bene  altrui,  e  vergognasi  di  riceverlo  da  altrui,  però 
che  più  nobile  cosa  è  dar  che  ricevere.  £  quando  e- 
gli  ha  ricevuto  beneficio,  sì  si  studia  di  render  cain- 
bio.  £d  è  pigro  nelle  piccole  spese,  ma  nelle  cose  ove 
aian  grandi  onori  e  grandi  fatti,  sì  come  si  convegno- 
no,  non  -è  pigro.  L' uomo  magnanimo  ama  altrui,  e  se 
vuol  male,  sì  '1  vuole  manifestamente  e  non  celata- 
mente,  però  che  li  pare  gran  viltade  celare  la  sua  vo^ 
lontade.  £d  è  austero,  e  rendesi  crudele,  se  non  nel- 
le cose  di  sollazzo.  £  conversa  con  gii  uomini  in  cose 
di  sollazzo  e  d' allegrezza.  £  ha  in  odio  tutti  i  lusin- 
ghieri, sì  come  gente  mercenaia,  imperò  che  ciascu- 
no che  lusinga,  sì  è  ser^o.  £  tiene  bene  a  mente  Fin- 
giurie,  ma  disprezzale,  e  non  cura.  £  non  si  loda,  e 
non  loda  altrui.  £  cura  più  delle  care  cose,  che  delle 
vili,  sì  come  uomo  che  basta  a  se  medesimo.  £nel  suo 


LIBRO  SESTO.  Sq 

mòyinientò  è  tardo  e  grave.  E  nella  parola  è  fermo. 
E  qiiesta  è  la  diflioizione  del  magnanimo.  Colui  che 
soperchia  m  queste  cose  è  detto  vanaglorioso.  E  quelli 
che  s*  inframetlono  dì  grandi* onori,  e  di  fatti,  si  come 
rie  fossero  d^ni,  conciossiacosa  ch'egli  non  sìeno  degni, 
siócome  fere  belli  panni,  ed  altre  cose  di  grande  ap- 
jpàrenza,  e  credono  per  questi  essere  esaltati,  io  dico, 
che  li  savi  uomini  li  hanno  per  matli  e  per  bestiali. 
PnsiUanimo  si  è  quegli  eh'  è  degno  delle  grandi  cose, 
e  dì  grande  onore,  e  ha  paura  di  riceverlo,  ed  ascon- 
desi  da  lui.  E  questo  è  male,  però  che  ciascuno  dee 
desiderare  onore  e  beneficio  convenevole  a  lui.  Dun- 
que dascun  uomo  erra  quando  si  parte  dal  mezzo  5  ma 
non  sono  molto  rei.  Nell'onore  si  tmova  mezzo  ed 
estremi,  e  nelle  cose  minori,  però  che  in  queste  cose 
si  trova  più  e  meno  e  mezzo,  però  che  P  uomo  può 
desiderare  più  onore  che  non  dee,  e  questi  non  han- 
no nome,  se  non  comune.  Egli  è  detto  di  sopra  le 
(Comparazioni  tra  lo  largo  e  1  magnanimo,  e  tra  li  lo- 
ro estremi,  però  che  queste  sono  le  maggiori  cose,  e 
quelle  le  minorì;  e  lo  mezzo  è  da  onorare,  e  li  estre- 
mi da  vituperare. 

Capitolo  XXI. 
DelPira  e  della  mansuetudine. 

Nell'ira  si  è  mezzo  ed  estremo,  e  hanno  proprii  no- 
mi li  estremi  ^  e  chiamasi  lo  mezzo  mansuetudine,  e 
l'uomo  che  tiene  lo  mezzo  si  chiama  mansueto;  è 
quelli  che  sopr'abbonda  nell'ira  si  chiama  iracondo,  è 
quelli  che  s' adira  meno  che  non  dee  sì  si  chiama  ini- 


4o  IL  TESORO. 

rascibile^  e  quello  eh' è  Teramente  mansueto,  si  si  ad- 
ira (ii  quello  che  dee,  e  con  cui,  e  quanto,  e  come  e 
quando  e  dove;  e  quello  è  iracondo  che  passa  il  mez- 
zo in  quelle  cose,  e  tosto  corre  in  ira,  e  tosto  rìtoma; 
è  questo  è  lo  meglio  che  è  in  lui,  però  che  se  tutte  le 
cose  ree  si  raunassero  in  uno,  non  sarebbe  da  soste- 
nere. L' uomo  che  non  si  adira  dove  si  conviene,  e 
quando,  e  quanto,  e  con  cui,  e  come,  questi  si  è  da 
non  lodare,  però  che  sostenere  vitupero  che  non  è  giu- 
stamente fatto  a  se,  o  a'  suoi  amici  si  è  yituperabile 
txfset.  Tal  fiata  lodiamo  noi  questi  cotali  uomini  die 
non  fìinno  grandi  minaode  ^  e  tal  fiata  lodiamo  noi  gPi- 
racondi,  dicendo  che  sono  forti  uomini  ed  arditi  ^  e 
c^o  grave  cosa  è  a  determinare  per  parole  le  ciroon- 
stanze  de^Pira^  ma  cotanto  doyemo  sapere  che  tenere 
lo  mezzo  si  è  cosa  da  laudare,  e  tenere  lì  estremi  è 
cosa  da  vituperare. 

Capitolo  XXII. 

Della  conTersasione  degli  uomini. 

Dopo  questo  dovemo  dire  delle  cose  che  advegno- 
no  nelle  compagnie  degli  uomini,  e  nelle  conversazio- 
ni e  ne'  parlari  ;  però  che  teYiere  lo  mezzo  in  que- 
ste cose  si  è  cosa  da  laudare,  e  tenere  li  estremi  si  è 
cosa  da  vituperare.  A  tenere  lo  mezzo  si  è  che  l' uo- 
mo sia  piacevole  in  parlare  ed  in  conversare  ed  in 
usare  con  le  genti  3  e  conviene  che  sia  uomo  comu- 
nale e  di  bella  compagnia  nelle  còse  che  si  convengo- 
no, ed  a  .cui,  e  quanto  e. quando  e  come  e  perchè.  E 
questa  conversazione  è  quasi  somigliante  all'amistà,  ed 


LIBRO  S£STO.  4  > 

evvi  dififereoza  in  questo  :  nell^  amistà  per  necessitade 
si  è  amore,  ma  in  questa  conTersaziooe  no,  però  che 
roomo  puote  bene  conversare  con  Puomo  che  noQ 
cognosce,  E  Tuomo  che  soperchia  in  queste  cose  si  è 
qn^S  che  s^  inframette  e  rendesi  trattabile  più  che 
Doa  dee  con  Puomo  strano,  e  con  P  uomo  che  non 
cognosce,  e  col  vicino,  e  col  non  vicino.  Questo  co- 
tale si  ha  nome  piace^^le  se  &  però  queste  cose  per 
modo  die  la  natura  Paccoq|ia  a  ciò  ^  ma  quegli  che  ?1 
fa  per  cagione  di  guadagnare,  si  è  detto  lusioghere; 
e  roomo  che  viene  meno  in  queste  conversazioni  si 
è  detto  agreste  e  rustico,  e  può  esser  detto  disoor-> 
devole. 

Capitolo  XXm. 
Della  verità  e  della  bugia. 

La  verità  e  la  bugia  sì  àono  contrarie  più  che  cose 
che  siano  al  mondo  ^  ed  usaasi  nel  detto  e  nel  fatto. 
L^uomo  onorevole  e  d^  animo  grande  usa  la  verità  nel 
detto  e  nel  fatto ^  e  Puomo  vile  e  di  piccolo  animo  & 
tutto  il  contrario.  L^  uomo  verace  si  è  quegli  che  tie- 
ne lo  mezzo  intra  1  vantatore  che  si  vanta,  e  mostrasi 
distendersi  più  che  non  è,  e  intra  'l  dispregiatore,  e  Pu- 
mile,  lo  qual  cela  lo  bene  ch^è  in  lui  e  meno  vaio:  però 
che  P  uomo  verace  sì  concede  ed  afferma  quello  ch^  è 
in  lui  di  bene,  ne  più  né  meno^  ma  P  uomo  che  si 
dispregia  è  meglio  disposto  che  quello  che  si  vanta, 
imperciò  che^l  vantatore  niente  in  detto  e  in  fatto.  Peg- 
giore di  questi  sopra  delti  è  quegli  che  non  conosce  sé 
medesimo,  e  però  è  più  da  vituperare  che  nessun  al- 


4  2  IL  TXSOBO. 

ti'o.  L^  uomo  veiitiere  è  da  lodare,  e  T  uomo  bv^iarr 
do  si  è  da  vituperare^  però  che^l  bugiardo  dice  colali 
parole  come  gli  è  fatto  oel  cuore.  L'  uomo  ch'è  ved- 
tiere  per  amore  della  Tenta  è  migliore  che  colui  ch^  è 
veritiere  per  amore,  o  per  guadagno  che  n^aspetti^ue- 
gli  che  si  vanta,  o  che  presume  quello  che  non  dee,  non 
per  guadagno  che  ne  faccia  d^  oro  o  d' ariento,  è  da 
vituperare  sì  come  uomo  vanaglorioso.  Ma  colui  che 
si  vanta  per  onore,  o  pe^^tilità,  non  è  così  da  vitu- 
perare. Uomini  sono  che  dicono  bugie  e  raU^ranse- 
ne  3  e  sono  altri  che  dicono  bugie,  per  esser  tenuti 
grandi,  o  per  guadagnare.  IP  uomo  che  si  dispregia, 
si  è  umile,  e  cessa  da  sé  le  gran  cose,  per  fuggire  lite  et 
bi'iga,  sì  come  fece  Socrate,  per  avere  vita  quieta.  £ 
r  uomo  che  si  esalta  nelle  piccole  cose,  si  è  detto  nulla. 

Capitolo  XXIV. 
Come  l"*  uomo  sì  cognosce  per  Io  suo  moTÌmento. 

L^  uomo  che  ride  troppo  si  è  vituperevole  ^  e  T  uo- 
mo che  non  rìde  mai  si  è  detto  crudele  ed  agreste. 
Ma  l' uomo  ch^è  tratte vole  al  suo  compagno  come  si 
convene,  noi  contrista  con  sozza  cera,  e  non  commo- 
ve altrui  a  sozzi  giuochi,  però  che  '1  giuoco  dichina 
talora  Puomo  a  vituperio  ed  a  comiocìamento  di  lus- 
surìa,  ed  è  cosa  vietata  dalla  legge ^  ma  in  buona  com- 
pagnia si  dee  trattare  d^amure  e  da  concordia.  La  ver- 
gogna si  è  passione  che  s^  ingenei-a  come  la  paura,  però 
(;he  colui  che  si  vergogna  sì  si  arrossa  per  ogni  cosa,  ed 
anche  tal  fiata  colui  che  ha  paura.  £  la  vergogna  è  sen- 
no nelli  adolescenti,  e  non  è  sconvenevole  nelli  garzoni, 


LIBRO  S£STO.  4^- 

però  che  la  vergogna  li  ritrae  dalli  peccati.  Ma  la  ver- 
gogna si  è  da  biasimare  negli  uomini  vecchi,  però  che 
r  uòmo  vecchio  non  dee  far  cosa  onde  si  debba  ver- 

gogoare. 

Capitolo  XXV. 

Della  giustizia. 

m 

Giustizia  si  è  abito  laudabile,  per  lo  quale  V  uomo 
•sì  è  fetto  giusto,  e  fa  opere  di  giustizia,  e  vuole  e  ama 
le  cose  giuste,  conciossiacosa  che  sia  abito  di  giustizia, 
lo  quale  è  virtude.  Così  la  ingiustizia  è  abito  di  vizio 
per  lo  contrario.  La  giustizia  si  à  detta  in  tre  modi,  e 
la  ingiustizia.  E  così  Fuomo  giusto  e  lo  ingiusto  è 
«letto  anche  in  tre  modi.*  £ -detto  ingiusto  quegli  che 
&  ccmtra  -alla  legge,  e  quegli  che  passa  la  natura  del^ 
Peguaglianza,  e  quegli  che  si  mette  a  guadagni  non  li- 
citi ne  onesti.  E  simiglian temente  V  uomo  giusto  è  in 
tre  modi,  però  che  in  quanti  modi  sì  si  dice  Tuno  con- 
trario^ in  tanti  modi  si  dice  Peltro;  sì  che  Puomo  giu- 
nto è  quegli  che  osserva  le  leggi,  e  la  natura  dell'egua- 
glianza, e  quegli  che  si  contenta  alli  liciti  guadagni  e 

«Ili  giusti. 

Capitolo  XXVL 

Della  legge. 

La  legge  si  è  giusta  cosa,  e  tutte  le  cose  della  legge 
sono  giuste  5  però  eh'  ella  comanda  operazioni  di  vb*^ 
tù,  le  quali  operazioni  fanno  V  uomo  beato,  e  conser- 
va r  opere  della  beatitudine  in  lui.  E  vieta  tutte  le 
cose  rie  della  cittade.  E  comanda  alli  buoni  le  grandi 
opemiooi  delle  cittadi,  sì  come  è  stare  ordinato. e  fer- 


44  li'  TESOAO. 

ino  nella  schiei'a  alla  battaglia.  E  comanda  the  gii 
mìni  si  guardino  dalle  foniicazioni  e  dalla  lussuria.  E 
comanda  che  Tuomo  stia  pacificamente,  e  che  noo  per- 
cuota r  uno  r  altro.  £  comanda  che  V  uomo  non  pmy 
li  incontro  all'altro  in  mala  parte,  e  guardisi  da  ogni 
sozzo  parlare.  £  sommai'iamente  ella  comanda,  che 
Tuomo  faccia  opere  di  giustizia,  e  guardisi  da  opere  £ 
vizio.  La  giustizia  è  la  più  nobile  cosa,  e  la  più  fixte 
virtù  che  sia  ;  e  tutti  gli  uomini  savi  amano  Tempere  del- 
la giustizia,  e  maravigliansi  della  bontà,  più  che  dola 
stella  lucida,  o  del  sole  quando  si  conca,  o  quando  a 
Jieva,  però  ch'ella  h  perfetta  virtude,  più  che  ninne 
dell'altre.  £d  usa  V  uomo  giusto  la  giustisia  in  sè^  e 
nelli  altri  suoi  amici;  però  che  l'uomo,  che  non  è  bond 
né  a  se  ne  ad  altri  suoi  amici,  si  è  pessimo^  die  ao*' 
ciò  che  l' uomo  sia  buono  non  basta  esser  buono  pu- 
re a  sé,  anzi  conviene  eh'  e'  sia  buono  per  sé  e  per  li 
suoi  amici.  La  giustizia  non  è  parte  di  virtù,  anzi  è 
tutta  la  virtù.  E  la  ingiustizia  non  è  parte  di  vizio,  an- 
zi è  tutto  lo  vizio.  Elli  sono  specie  di  vizii  vietati  ma- 
nifestamente, sì  come  furto,  adulterio,  incantaÌQento, 
fulso  testimonio,  tradimento,  frode  e  inganno  d'uo? 
mini.  E  sono  altre  specie  di  vizii  le  quali  sono  ingiu- 
riose molto,  si  come  ferire,  uccidere,  ed  altre  cose  si- 
miglienti a  quelle.  L'uomo  giusto  è  agguagliatore  tal 
fiata,  e  tal  fiata  ammezzatore  in  comparazione;  è  detto 
agguagliatore  infra  due,  e  ammezzatore  in  tra  molte  co- 
se, e  poche.  Ed  è  in  relazione  in  quattro  cose,  però  che 
l' uomo  giusto  non  può  esser  in  meno  di  quattro  cose, 
imperò  che  due  sono  le  persone  in  tra  le  quali  si  & 
la  giustizia,  e  due  sono  le  cagioni,  cioè  agguaglianza  e 


*  LIBRO  SESTO.  4^ 

disgnagfiianzà  :  ed  ia  quelle  medesime  còse  puote  es- 
sere agguaglìanza,  però  scegli  non  pnote  essere  dì^aa- 
glknza'non  tì  sarebbe  agguagliaoca.  £  così  la  giustizia 
è  in  proporzione  di  numero.  E  così  come  la  giustizia 
è  cosa  eguale,  così  la  ingiustìzia  è  cosa  ineguale^  però 
d  signore  della  giustizia  si  sforza  di  agguagliare  le  cose 
che  sono  ineguali,  onde  costui  uccide,  colui  percuote, 
t  Paltro  manda  in  pellegrinaggio  insino  a  tanto  ch'egli 
al>bia  Fenduto  cambio  allo  infelice  e  abbia  soddisfatto  a 
colai  eh' è  stato  isforzato^  e  forzasi  il  signore  della  giù* 
sticia  di  recare  a  mezzo  il  soperchio  e  '1  meno  nelle 
còte  utili,  e  però  toglie  all'uno  e  dà  all'altro  infìno  a 
tanto  ch'elli  sono  agguagliati,  e  però  li  conviene  sapere 
la  modo  com'egli  toglia  al  maggiore  e  dia  al  minore,  e 
ocHii'egli  faccia  soddisfare,  acciò  che  i  sudditi  suoi  viva- 
no  in  bona  fermezza  di  metade. 

Càfitoi^-o  XXVBL 

Anche  della  giustizia. 

Gli  abitadori  delle  cittadi  sono  insieme,  e  tolle  l'u- 
no dall'  altro,  e  dà  uno  alF  altro,  e  rendoosi  guider- 
done, secondo  la  quantitade  delle  cose  loro,  infìnoche 
elli  vengono  alla  diritta  metade.  Poniamo  che'l  ferra^ 
tore  abbia  cosa  che  vaglia  uno,  e'I  calzolaio  abbia  co^ 
sa  che  vaglia  due,  e'I  maestro  della  casa  abbia  cosa 
che  vaglia  tre  ;  dunque  è  mestiero  che  'l  fabbro  to«- 
fjUsi  dal  calzolaio  l' opera  sua,  e  '1  calzolaio  toglia  dal 
Aiaestro  l' òpera  sua,  imperò  che  l' opera  dell'  uno  è 
migliore  che  quella  dell'  altro  ^  onde  è  mestiero  che  vi 
sia  <JaaIche  agguagliamento,  sì  che  tornino  al  mezzo.  E 


4^  Ili  TESORO. 

però  fu  trovato  il  danaio,  sì  come  giastizia;  imparò  che 
il  danaio  si  è  mezzo  per  lo  quale  V  uomo  reca  ogni 
cosa  ineguale  ad  eguale  ^  e  puote  V  uomo  dare  e  to- 
gliere cose  grandi  e  piccole  per  lo  danaio  ;  ed  è  istni- 
mento  per  lo  quale  chi  è  giudice  puote  fare  la  giusti- 
zia. Il  danaio  si  è  legge  la  quale  non  ha  anima,  ma  il 
giudice  e  la  legge  hanno  anima  ^  e  Domenedio  glorio- 
so si  è  legge  universale  a  tutte  cose  ^  lo  vigore  della 
agguaglianza  si  sta  fermo  per  lo  osservamento  della  leg- 
ge della  cìttade.  E  li  abitatori  delli  campi  e  delle  cui-* 
ture  sì  ne  crescono  simigliantemente;  e  per  le  ingiurie 
le  quali  si  fanno  nelle  citta<|i  addiviene  tutt'  il  con-* 
trario  ^  ed  alP  ultimo  vanno  alli  diserti  ed  alli  bosdu. 
Lo  principe  si  è  osservatore  della  giustizia,  e  simi- 
gliantemente  osservatore  dell'aggnaglianza  ;  e  però  non 
dà  a  se  medesimo  del  bene,  il  quale  egli  ha  in  signo- 
ria, più  che  agli  altri  5  e  però  è  detto  che  li  onori  e 
le  signorie  fanno  Puomo  manifesto.  Lo  popolo  sì  pro- 
pone che  la  liberalitade  si  è  cagione  del  principato  e 
della  signoria.  E  tali  sono  che  dicono  che  la  ricchezza 
è  la  cagione  ;  e  tali  sono  che  pongono  nobiltà  di  san- 
gue :  ma  V  uomo  savio  si  dice  e  crede  che  la  cagione 
per  la  quale  l' uomo  è  degno  d' esser  principe  e  signo- 
re, si  è  la  virtù  che  l'  uomo  ha  in  se.  E  questa  si  è  la 
vera  ragione.  La  giustizia  è  in  due  modi,  V  una  si  è 
naturale,  e  P  altra  è  secondo  la  legge.  La  legge  natu^ 
relè  si  ha  una  medesima  natura  in  ogni  uomo,  sì  come 
è  il  fuoco,  lo  quale  là  ove  sia,  sì  va  pure  in  alto.  L'ai-   ,  , 
tra  giustizia^  la  quale  è  secondo  la  legge,  si  ha  molte 
diversità,  sì  come  noi  vedemo  nelli  sacrifìcii,  li  quali 
si  fanno  diversamente,  quali  per  animali  morii,  quali 


LIBRO  SESTO.  4? 

per  generazione  d^  arbori,  ed  amendue  queste  giusti- 
zie s^  intendono  agguaglianza.  Quelli  che  rende  la  cosa 
eh'  è  disposta  appresso  lui,  non  per  sua  volontà,  ma 
per  paura,  non  è  giusto  per  sé,  ma  per  altrui.  Ma  co- 
lui che  rende  per  cagione  d' onestà  e  di  suo  proprio 
Tolere,  si  è  giusto^  X<i  danni  che  Tengono  nelle  compa«- 
gnie  degli  uomini  sì  sono  in  tre  modi.  L'uno  si  è  per 
errore  e  per  ignoranza^  l'altro  si  è  per  ignoranza  con 
volontà  di  nuocere  ;  lo  terzo  modo  si  è  per  pensata 
malizia  e  per  volofità  di  nuocere.  Danno  per  igno- 
ranza &  V  uomo  quand'egli  ne'  suoi  fatti,  come  negli 
altrui,  non  è  sì  studioso  come  si  conveiTebbe.  Ed  a- 
mendue  questi  non  sono  al  postutto  ingiusti,  però  che 
li  loro  fatti  non  procedono  da  malizia.  Ma  quando 
*r  uomo  fa  danno  per  malizia,  la  quale  egli  ha  pensa- 
ta dinanzi,  o  per  propria  volontade,  non  è  nessuna 
circostanza  che  possa  scusare  la  sua  malizia,  e  però  si 
è  veracemente  reo,  e  da  vituperare.  L'ignoranza  si  è 
in  due  modi.  Ch'  è  una  ignoranza  la  quale  ha  cagio- 
ne naturale.  La  cagione  naturale  si  è  di  quelle  cose, 
le  quali  sogliono  addivenire  agli  nomimi,  sì  com'  è 
V  uomo  eh'  è  pazzo  per  natui'a.  Ed  un'  altra  ignoran- 
za, della  quale  l'uomo  è  cagione,  sì  come  l'uomo  eh' è 
ignorante  per  non  voler  studiare  le  cose  le  quali  s'ap- 
partengono a  conoscimento  di  verità  o  di  bene.  La 
sopi*aggiustizia  sì  è  meglio  che  non  è  la  giustizia,  ma,  se- 
condo la  verità,  nel  vero  mezzo  non  si  può  dividere. 
E  rotai  giustizia  vera  non  è  quella  eh'  è  nella  legge, 
ma  quella  giustizia,  la  quale  è  in  Domenedio  glorio- 
so, ed  è  data  agli  uomini:  per  la  quale  giustizia  l'uo- 
mo si  fa  simigliante  a  Dio. 


48  IL  TESOEO. 

Capitolo  XXYIEL 

Della  prodezza. 

Due  sono  !e  specie  delle  vìrtudi.  L^  una  si  chiama 
morale,  la  quale  s^  appartiene  all'  anima  sensibile,  la 
quale  non  ha  ragione.  Ed  è  un'  altra  virtude  intellet- 
tuale, OYTero  razionale,  la  quale  è  intendimene  e  di- 
screzione. Dunque  P  anima  sensibile  sì  fa  e  fhgge  e 
perseguita  senza  deliberazione  niftna.  £  però  è  detto, 
che  questa  Tirtù  desidera  concupiscenza,  ma  lo  intel- 
letto sì  afferma,  e  non  si  fa  nulla  elezione  senza  lui. 
Dunque  il  principio  della  elezione  si  è  desiderio  io* 
tellettuale,  per  cagione  d' alcuna  cosa.  £  ninno  uomo 
usa  la  elezione  nella  cosa,  la  quale  è  passata  dinanzi, 
però  che  quello  eh'  è  fatto  non  puote  essere  non  fat^^ 
to.  Domenedio  non  ha  potenza  di  ciò.  £  non  cade  e^ 
lezione  in  quella  cosa  eh'  è  di  necessità,  sì  come  nel 
sole,  ohe  si  corica  e  leva  per  natura. 

Capitolo  XXIX, 
Di  ciò  medesimo. 

Neil'  anima  sono  cinque  cose,  delle  quali  dice  Toro 
affermando  e  negando,  cioè  arte,  scienza,  /prudenza, 
sapienza  ed  intelletto.  La  scienza  si  è  per  tali  dimo^ 
straiioni,  che  non  puote  essere  altrimenti,  e  non  si  in- 
genera, e  non  si  corrumpe.  £d  ogni  scienza  e  disd- 
plina,  e  ciò  che  si  fa,  si  si  può  insegnare.  £d  ogni  co-> 
sa  che  s' imprende,  sì  è  mestiero  che  s'imprenda  per 
[HÌncipii,  li  quali  sono  manifesti  per  loro.  £  la  dima*' 


t 


LIBRO  SESTO.  49. 

Strazione  si  è  sempre  vera,  e  non  mente  mai,  però  ch^ 
ella  è  di  cose  necessarie.  La  disposizione  delP  arte  si 
è  con  verace  ragione.  L^uomo  prode  e  savio  si  è  que- 
gli, che  può  consigliar  se  ed  altrui  nelle  cose  buone  e 
ree,  le  quali  appartengono  agli  uomini.  Dunque  la  pru- 
denza si  è  abito  con  lo  quale  P  uomo  può  consigliare 
con  verace  ragione  nelle  cose  degli  uomini  buone  e  ree. 
La  sapienza  si  è  avanzamento,  accrescimento  e  gran- 
dezza di  scienza  negli  artefici.  E  quando  è  d^tto  di 
ninno  egli  è  savio  nell'arte  sua,  si  si  mostra  la  bouta- 
de e  la  grandezza  sua  in  quell'  arte.  Lo  intelletto  si  è 
quello,  che  prende  lo  comandamaato  delle  cose.  La 
ragione  e  la  scienza  e  V  intelletto  si  sono  di  quelle  co*- 
se  che  sono  naturalmente  nobili.  E  trovansi  adolescen- 
ti  savi  di  disciplina ,  ma  non  in  prudenza  :  che  esser 
savio  in  prudenza  si  vuole  avere  per  lungo  conosci- 
mento di  molte  cose  particulari,  le  quali  non  si  pos- 
sono avere  se  non  per  lungo  temporale.  £  P  uomo  a- 
dolescente  e  giovane  si  ha  poco  tempo.  La  prudenza 
sì  misura  li  comandamenti  e  li  uscimenti  delle  cose.  E 
la  solerzia  e  avacciamento  per  lo  quale  si  giudica  avac- 
ciatamente  in  diritto  o  giudicio,  e  tostamente  si  ac- 
consentisce  ad  un  buono  consiglio.  Astuzia,  cioè  scal- 
trimenlo,  è  di  prudenza,  col  quale  Puomo  viene  a  fi- 
ne con  grande  sottigliezza  de\<iuoi  intendimenti  nelle 
cose  buone  ^  ma  questa  sottigliezza  è  detta  qualitade 
nelle  cose  ree,  sì  come  sono  li  incantamenti  e  gP  indo»* 
vinamenti^  e  questi  cotali  non  sono  detti  savi,  ma  sqn 
detti  consiglianti  e  briganti  ed  aslutL  La  felicità  non 
è  cosa  da  eleggere  per  altrui,  ma  per  sé  medesimo, 
come  la  sanitade.  Le  azioni  dell'  anima  sono"  secondo 


r>0  IL  TESORO. 


-x' 


la  misuracene  virludi  morali,  e  secondo  misura  di 
prudenza  e  di  sottiglianza  e  di  brigata  e  di  scaltrimen*- 
to.  Dunque  la  virtù,  drizza  lo  proponimento  delP  uo- 
mo a  diritto,  e  la  prudenza,  cioè  lo  sapere,  sì  gliele  con- 
ferma e  fallo  buono,  e  conducelo  alla  giustizia.  Le  vir-* 
tu  morali  sì  intendono  a  fare  gli  uomini  forti  e  casti  e 
giusti  infìno  alla  loro  adolescenza,  siccome  ne^  garzo- 
ni ed  iq  alquanti  animali.  Dunque  queste  virtudi  sono 
per  natura  e  non  per  intelletto  ^  ma  la  signorìa  di  tut- 
te le  yirludi  sì  si  conviene  allsTvirtude  intellettuale, 
per  ciò  che  non  si  puote  fare  elezione  senza  Pintellet- 
to,  e  non  si  puote  compire  senza  virtù  morale  ;  e  così 
la  prudenza  insegna  a  fare  quello  che  si  conviene  ^  ma 
la  virtù  morale  mena  lo  fatto  a  compimento  d^  ope^ 
razione, 

*     Capitolo  XXX, 

Delia  fortezza. 

La  fortezza  si  è  abito  laudabile  e  buono  ^  e  V  uomo 
lo  quale  veracemente  è  forte,  sì  so:»liene  molto  teni- 
bili cose  e  di  soperchio,  o  grandi  j  e  spregia  la  mor- 
te in  assalire  quelle  cose  che  si  convegnono,  e  fa  l' o- 
pere  della  fortezza,  non  per  ragione  d'  onore,  ne  per 
cagione  di  dilettazioni,  ma  per  cagione  di  virtudi.  Gli 
uomini  sì  adoperano  fortezza  di  citlade  costretti  da 
vergogna  e  per  fuggire  rimproverio,  e  per  accattare 
onore  si  pigliano  innanzi  di  esponere  se  ad  un  grande 
pericolo  che  vivere  con  vita  vergognosa.  La  forza  del- 
le fiere  si  è  quella  che  V  uomo  fa  pei-  furore  quando 
r  uomo  e  fortemente  angosciato  per  danno,  o  per  in- 


LIBRO  SESTO.  5  I 

i;iiina  ch^  egli  i*iceva,  ed  ^lì  si  muova  a  rifarne  ven- 
detta. Fortezza  d' animale  si  è  quella  la  quale  V  uo- 
mo fa  per  compire  suo  desiderio,  lo  quale  ardente- 
mente desidera.  Fortezza  ispirituale  si  è  quella  la  qua- 
le Puomo  fa  per  acquistai-e  fama,  onore  e  grandezza. 
Fortezza  divina  si  è  quella  che  gli  uomini  forti  amano 
naturalmente,  e  gli  uomini  di  Dio  sono  ben  forti. 

Capitoi-o  XXXI. 
Della  castitade. 

Castitade  è  temperamento*  in  mangiare  e  bere  ed  in 
altre  dilettazioni  corporali^  e  quello  lo  quale  adopera 
teo^ramento  in  queste  cose  si  è  molto  da  lodale,  eU 
soperchio  in  queste  cose  si  è  molto  da  biasimare,  ma 
poco  si  truova  e  rade  volte.  La  castità  si  è  bella  co-* 
sa,  però  che  V  uomo  si  diletta  in  quello  che  si  con-< 
viene,  e  quando  e  quanto  e  dove  e  come.  Anche  è 
una  dilettazione  secolare,  la  quale  è  partita  dal  mo- 
vimento della  natura,  ed  è  senza  comparazione  cosa 
più  vituperevole  che  la  fornicazione,  o  l' adulterio, 
cioè  giacere  V  uno  maschio  con  T  altro.  La  incastita- 
de  è  in  molli  modi  ed  in  molte  maniere,  però  ch^  ella 
[>uò  essere  in  mangiare  ed  in  bere,  ed  in  altre  sozze 

cose. 

Capitolo  XXXII. 

Della  mansuetudine. 

La  mansuetudine  è  abito  laudabile  iotra  U  soper-r 
rhio  deir  ira  e  lo  menimamento,  e  così  è  malinconia, 
pei'severamento  di  lungo  tempo.  La  maliziosa  ira  addi- 


53  IL  TESOHO. 

manda  grande  vendetta  per  piccola  offesa,  ma  colui 
che  non  si  commove  e  non  si  adira  per  ingiurie,  o 
per  offesa  che  sia  fatta  a  lui,  o  a^suoi  parenti,  è  uo- 
mo lo  cui  sentimento  ^  morto. 

CÀPrroLO  XXXin. 

Della  liberalitade. 

(ja  liberalitade  e  la  magnificenza  e  la  magnanimitade 
si  hanno  comunitade  tra  loro,  però  che  tutte  sono 
in  ricevere  ed  in  dare  pecunia,  come  si  conviene,  e 
quanto  e  quando  e  da  cui  si  conviene.  E  più  è  bèlla 
cosa  dare,  che  ricevere.  E  questo  cotale  uomo  fugge 
li  sozzi  guadagni.  E  V  uomo  avaro  si  li  disidera  for- 
temente. £  cosi  addiviene,  che  V  uomo  largo  non  ha 
tante  possessioni,  come  P  uomo  avaro. 

Capitolo  XXXIV. 

Della  magnanimitade. 

L^  uomo  magnanimo  si  merita  virtudi  e  grandi  o- 
nori,  li  quali  s^avvegnono  a  lui;  apparecchia  Panima 
sua  a  cose  grandi,  e  dispregia  le  cose  piccole  e  vili. 
Ma  colui  che  dispende  le  cose  come  non  dee,  si  è  det- 
to prodigo.  Invidioso  è  quello  che  s'attrista  delle  prò* 
spenta  de'buoni  e  delli  rei,  senza  differenza  ninna.  H 
contrario  a  questi  si  è  quegli  che  si  rallegra  della  pro- 
sperità de'buoni  é  de' rei.  Il  mezzo  intra  questi  si  è 
quegli  che  si  rallegra  della  prosperità  de'  buoni,  e  con- 
tristasi di  quella  délli  rei.  Chi  d'ogni  cosa  si  vei^o- 
gna  si  è  detto  non  pronto,  cioè  vergognoso.  Quegli  che 


IJBRO  SBSTO.  55 

si  Tanta  e  mostrasi  d^  avere  ogni  bene,  e  spiesua  gU 
altri,  sì  è  detto  superbo. 

Capitolo  XXXV. 
Delle  compagnie. 

Sono  uomini  con  li  quali  è  grave  cosa  a  vivere, 
però  che  hanno  natura,  la  quale  non  si  puote  tratta- 
re. E  sono  altri  li  quali  sono  lusinghieri  a  ciascuna 
persona.  E  sono  altri  uomini  li  quali  tegnono  lo  mez- 
zo, e  questi  sono  quelli  che  si  danno  ad  usare  con  le 
persone  con  cui  si  conviene,  e  dove  e  quando  e  quan?* 
io  si  conviene  ;  e  questo  cotale  uomo  è  veracemente 
da  laudare.  Lo  giullare  si  è  quel  che  conversa  con  le 
genti  con  riso  e  con  giuoco,  e  &  befik  di  sé  e  della  mo- 
glie e  delli  figliuoli^  e  non  solamente  di  loro,  ma  e- 
ziandio  degli  altri  uomini;  E  contrario  a  costui  si  è 
quello  lo  quale  mostra  sempre  la  faccia  turbata  e  cru- 
dele, e  non  si  rallegra  con  le  genti,  e  non  favella,  e 
non  istà  con  loro  che  si  rallegrano.  E  quegli  che  tie- 
ne lo  mezzo  tra  costcH'o  si  è  quegli  che  usa  in  queste 
cose  lo  mezzo.  L^  uomo  giusto  si  è  quello  ch^  è  detto 
eguale  o  agguagliatore.  E  Tuómo  giusto  si  agguaglia  in 
due  modi.  L'  uno  modo  si  è  in  partire  pecunia  ed  o^ 
non.  L^  altro  modo  è  di  sanare  gli  uomini  che  hanno 
ricevuta  ingiuria,  ed  uomini  che  hanno  a  fare  insie^ 
me,  imperò  che  le  fatiche  degli  uomini  ch^  hanno  si  fa- 
re insieme  sono  in  due  modi.  L^uno  si  è  per  volontà, 
cioè  quando  il  cominciamento  delli  fatti  è  in  nostro 
arbitrio  ;  e  fuore  di. volontà  è  quello  quando  V  uo- 
mo ha  a  fare  con  un  altro,  e  v<^e  fare  |>er  for^  e  per 


54  IL  TESORO. 

inganno,  sì  come  rapina  e  furto  ed  altre  cose  simi- 
glìanti. 

Capitolo  XXXVI. 

Della  giustizia. 

Lo  fattwe  della  legge  à  agguaglia  li  contralti,  lì  qua- 
li sono  intra  il  poco  ed  il  soperchio.  Il  giusto  aggua* 
gliatore  sì  parte  k  pecunia  e  P  onore,  e  fa  divisio- 
ne intra  due  almeno.  E  la  giustizia  parte  intra  quat^ 
ti*o  cose,  nelle  quali  cose  ha  proporzione  dal  primo  al 
secondo,  e  dal  terzo  al  quarto  ^  e  Fagguagliamento  di 
coloro  si  è  secondo  la  proporzione  a  sé  medesimo  ;  e 
giudica  la  giustizia  tra  loro  secondo  la  qualitade  della 
virtù  e  del  merito.  Lo  senatore  lo  quale  sana  li  modi 
delli  fatti  che  sono  intra  gli  uomini,  si  è  colui  che  fece 
la  legge;  e  questi  discerne  e  fa  giustizia  intra  coloro 
che  fanno  V  ingiurie,  e  coloro  che  le  ricevono;  e  ren»* 
de  la  eredità  a  coloro  di  cui  dee  essere,  e  tollela  a  co- 
loro che  la  posseggono  ingiustamente;  ed  alquanti  con- 
danna in  la  persona,  ed  alquanti  in  avere,  e  cosi  ag- 
guaglia il  poco  col  troppo,  però  che  colui  che  riceve 
la  ingiuria  è  menovato  da  colui  che  la  fa  di  quello  che 
a  lui  s^ appartiene;  il  giudice  agguaglia  tra  costoro  se^ 
condo  misura  d' arismetrica,  e  però  vanno  gli  uomi- 
ni a^  giudici,  perchè  il  giudice  è  detto  per  similitudine 
giustizia  animata,  però  ch'egli  ordina  la  giustizia  se- 
condo il  moderamento  ch^è  possìbile.  £  la  giustizia  non 
è  in  ogni  luogo  in  tal  modo,  che  a  colui  che  ha  fatto  sia 
fatto  tanto  quanto  ha  fatto  lui,  ^  a  colui  che  ha  tol- 
to sia  tolto  tanto  quanto  ha  tolto  lui,  però  che  lo 


IJXRO  SESTO.  55 

morleramento  della  agguaglìanza  non  è  sempre  in  ciò. 
E  sf  come  P  uomo  giusto  è  contrario  all'ingiusto,  cosi 
r  equale  è  contrario  al  non  equale  3  e  1  mezzo  è  tal 
fiata  più  contràrio  alP  uno  estremo  che  alP  altro  ^  e 
Puno  degli  estremi  è  più.  contrario  all'  allro  che  non 
è  al  mezzo.  La  giustizia  della  città  si  è  mezzo  intra 
perdere  e  guadagnare,  e  non  si  puote  fare  senza  dare 
e  togliere  cambio,  si  come  colui  che  tesse  panni  per 
altre  cose  che  li  sono  mestieri,  e  il  ferratore  sì  dà  li  fer- 
ri per  altre  cose  che  gli  bisognano.  E  però  che  questi 
cambi  erano  grande  brigarsi  fu  trovata  cosa  che  aggua- 
gliasse le  cose  insieme,  quella  che  Tale  più  con  quella 
che  vale  meno,  e  questa  cosa  fu  il  danaio,  il  quale  £à 
agguagliare  F  opera  di  colui  che  fa  la  casa  con  quella 
di  colui  che  fa  li  calzari.  Sopraggiustìzia  è  più  che  giù- 
stinga. Dunque  F  uomo  eh'  è  migliore  che  l'uomo  buo- 
no, si  è  buono  in  tutti  modi  che  essere  può  ;  e  colui 
ch'è  più  giusto  che  colui  eh' è  giusto,  si  è  giusto  in 
tatti  modi  che  esser  puote.  La  giustizia  naturale  si  è 
migliore  che  quella  che  è  posta  dagli  uomini,  si  co- 
me il  mele,  il  quale  è  dolce  per  natura,  è  migliore  che 
non  è  l'ossimele,  il  qual  è  dolce  per  arte.  L'uomo  giù-- 
sto  TiTe  per  vita  divina,  per  la  grande  dilettazione 
ch'egli  ha  alla  giustizia  naturale,  ed  usa  le  cose  giuste 
amandole  per  se  medesime.  Non  si  conviene  che'l  pu- 
nitore della  legge  la  ponga  generale  in  tutte  le  gene- 
razioni, però  che  è  impossibile  che  le  regole  geoerali 
si  eseguiscano  e  sì  tegnano  in  tutte  le  cose  le  quali  non 
sono  universali.  Dunque  le  parole  •  della  legge  deb- 
bono essere  particulari,  però  che  giudicano  delle  cose 
corporali. 


50  IL  TfiSOEO. 

Gapitoix)  XXXV  li.  • 

Delti  TÙii. 

Li  vìziì  delli  costumi  aono  tre  molto  rei,  dalli  quali 
dee  r  nomo  fuggire,  doè  malizia,  crudeltà  e  lussuria.. 
E  le  virtù  contrarie  a  questi  vizli  sono  ancora  tre^ 
cioè  benignitade,  demenza  e  castità.  Sono  alquanti 
uomini  che  sono  di  natura  divina  per  V  abbondan» 
delle  virtudi  che  sono  in  loro  ^  e  cotale  abito  è  U^ 
talmente  contrario  alla  crudeltà:  e  colali  uomini  sono 
detti  angelici  o  divini  per  la  grande  abbondanza  ddJe 
virtudi  che  sono  in  loro  ;  e  son  così  le  virtudi  loro 
sopra  alle  bontà  degli  altri  uomini,  sì  come  le  virtù  di 
Dio  sono  sopra  tutte  le  virtù  d^li  uomini.  Sono  altri 
uomini  crudeli  nelli  loro  costumi,  e  sono  di  natura  di 
fiera  ^  e  questi  cotali  sono  molto  di  lungi  dalla  virtù. 
E  sono  altri  uomini  li  quali  sono  di  natura  di  bestia 
in  seguitare  loro  desiderìi  e  loro  dilettazioni^  e  que- 
sti cotali  sono  da  assimigliare  alla  simia  ed  a'  porci.  E 
li  uomini  che  seguiscono  le  loro  volontadi  sono  detti 
Epicurii,  cioè  uomini  che  non  pensano  se  non  del  cor- 
po. Uomini  che  sono  detti  divini,  ed  uomini  che  han- 
no costume  di  fiera  sono  pochi  nel  mondo,  e  special- 
mente quelli  che  hanno  costumi  di  fiera,  però  se  ne 
trovano  nelle  estreme  r^ioni  nelle  quali  elli  abitano, 
cioè  nelle  parti  di  mezzodì,  là  ove  si  tro\  ano  li  schia- 
vi. Dicesi  delP  uomo  divino  ch'egli  è  casto  e  conti- 
nente, però  che^l  s'  astiene  dalle  concupiscenze  ree 
secondo  la  potenza  della  virtude  intellettiva.  L'uomo 
ha  suoi  tei*mini  alli  quali  si  move  naturalmente,  infra 


LIKRO  §BSTO.  57 

ì  quali  egli  si  volge  intra  il  mezzo,  se  non  addiviene 
cagione  alla  sua  natura  la  quale  lo  inchini  a  natura  di 
bestia;  li  quali  però  che  sono  sciolti  seguitano  i  mo- 
vimenti di  loro  propri  desideri],  e  discorrono  per  le 
pasture,  e  non  si  astegnono  di  nissunacosa  alla  quale 
li  conduca  la  natura  loro:  ed  in  questo  modo  sì  esce 
r  uomo  dello  spazio  de'  suoi  termini;  e  questo  cotale 
uomo  si  è  peggio  die  la  bestia  per  la  ria  vita  eh'  egli 
ha  eletta,  però  che  la  scienza  dell'  uomo  sì  è  vera. 
L'uomo  che  imprende  scienza  secondo  la  natura  del* 
la  vìrtade  morale  e  delle  virtù  divine  ed  intellettuali, 
questo  uomo  si  move  verso  il  suo  termine,  ed  usa  pro- 
posizioni universali  le  quali  lo  conducono  alla  cogni* 
zione  vera*. 

Capitolo  XXXVm. 

Del  diletto. 

Sono  cose  dilettevoli  le  quali  son  dilettevoli  per 
necessità.  E  sono  cose  dilettevoli  per  elezione  ;  e  di 
queste  son  tali  da  eleggere  per  sé,  e  sono  tali  che  si 
eleggono  per  grazia  d'altrui.  Le  dilettazioni  necessarie 
ahe  l' uomo  ha  sono  in  mangiare  ed  in  bere  ed  in  lus»- 
suria  ed  in  tutte  le  altre  dilettazioni  corporali,  là  ove 
non  è  misura.  Quelle  le  quali  l'uomo  elegge  per  se 
stesso  son  queste,  cioè  intelletto,  certezza,  sapere  e  ra- 
gione divina.  Le  dilettazioni  le  quali  l'uomo  elegge 
per  grazia  l' uno  dall'  altro  son  queste,  vittoria,  ono- 
re, ricchezza  e  tutte  le  altre  cose  buone  nelle  quali 
comunicano  con  noi  le  bestie.  Chi  tiene  lo  mezzo 
in  queste  cose  si  è  da  laudare,  e  quegli  che  viene  a 
meno  in  queste  cose  è  da  vituperare.  Sono  dilettazio- 


-    à 


58  Ih  TESORO. 

ni  naturali,  e  sono  dilettazioni  bestiali,  e  sono  dilet- 
tazioni fìerali,  e  sono  dilettazioni  pei*  cagione  di  tem- 
po, e  sono  altre  dilettazioni  per  cagione  d^infimnt»- 
de,  e  sono  altre  per  cagione  d' usanza,  e  sono  alti^per 
male  nature.  Dilettazioni  fierali  son  quelle  di  colorucike 
si  dilettano  di  fare  fendere  femine  pregne,  acciò  die 
Imo  vegghìno  il  loco  delli  figliuoli  ch'elle  hanno  in  edi'- 
pò,  e  sì  come  coloro  che  mangiano  carne  d' uomini  e 
carne  cruda.  Dilettazioni  d' infermità  o  di  mala  uraon 
è  di  pelarsi  ciglia  o  di  rodersi  P  unghie  o  di  mangiu» 
fiaingo  o  carboni.  Dilettazioni  per  mala  natura  si  è  giace- 
re Tun  maschio  con  V  altro,  e  tutte  le  altre  cose  TÌHi- 
perevoli  di  lussuria.  E  sono  alquante  malizie  «  léodo 
di  fiere,  le  quali  sono  nelli  sfrenati  e  nelli  pazzi  e  me- 
lanconici ed  in  simiglianti  a  loro.  L^uomo  furibondo 
tiene  per  sentenza  ciò  che  piaccia  a  lui  tutto  che  sia 
centra  agli  altri  uomini^  e  s' egli  ha  cagione  d' adirar- 
se  un  poco,  incontinente  corre,  e  fa  come  il  servente 
matto  che  si  afiìretta  di  fare  le  cose  innanzi  il  tempo 
che  U  signore  suo  gli  comandi;  e  fa  come  il  cane  che 
latra  per  ogni  voce  d'amico  e  d'inimico  ;  e  questa  in- 
continenza che  è  neir  ira  si  è  per  molta  cupidità  e  per 
Telocità  di  movimento,  e  però  si  è  da  perdonare  pia  a 
costui  che  non  è  a  colui  che  incontanente  vole  seguire 
sua  concupiscenza,  però  che  costui  incontanente  che^ 
Tede  cosa  che  li  diletti  non  aspetta  lo  giudicio  della  ra- 
gione, anzi  soprastà  ad  avere  quello  che  desidera.  Dun- 
que la  incontinenza  dell'  ira  è  più  naturai  cosa  che  la 
incontinenza  della  concupiscenza,  e  sì  addimanda  luo- 
ghi oscuri,  e  per  ciò  è  detto  della  concupiscenza  ch'el- 
la abbatte  lo  figliuolo  e  trade  lui.  L'uomo  lo  quale  la 


LIVIDO  SESTO.  59 

male  e  non  si  pente,  non  si  puote  correggere;  ma  doti* 
r  uomo  che  ùl  male  e  pentasì  sì  può  P  uomo  avere 
speranza  che  si  possa  correggere.  Quelli  che  non  han- 
ny  iotelletto  sono  migliori  che  quelli  che  V  hanno  e 
non  Tadc^perano,  però  coloro  che  si  lasciano  vincere 
alla  concupiscenza  per  diletto  ddil'intelletto  sono  simi- 
li a  coloro  che  .si  inebriano  di  poco  vino  per  debilità 
di  celebro.  L' uomo  continente  che  ha  intelletto  sì  si 
fisrmft  e  persevera  nella  ragione  vera  e  nel^  elezione 
sana,  e  non  si  parte  del  moderamento  diritto.  Mutare 
1!  usan^  è  più  leggiera  cosa  che  mutare  natura  ;  forte 
cosa  è  però  mutare  usanza,  perchè  P  usanza  è  simile 
alla  iialura.  Sono  uomini  alli  quali  pare  che  nulla  di- 
lettazione aia  buona,  né  per  sé  né  per  altrui.  £  sono 
altri  alli  quali  pare  che  alcune  dilettazioni  sìeno  buo- 
ne, ed^lcune  rie;  e  tali  sono  a  cui  pare  che  tutte  di- 
lettazioni sien  buone.  La  dilettazione  detta  senza  ri- 
spetto non  è  buona,  però  eh'  è  di  sensualitade.  Dun- 
que non  è  ella  simiglianle  alle  cose  compiute  ;  e  Puomo 
casto  fugge  le  dilettazioni,  però  eh'  elle  imbriacano  lo 
intelletto,  e  fanno  all'uomo  dimenticare  lo  bene  :  e' 
fanciulli  e  le  bestie  fÀ  dimandano  dilettazioni.  E  sono 
alquante  dilettazioni  che  fanno  Pu(»no  infermare,  ed 
inducono  loro  molestia.  Dunque  P  uomo  eh?  è  di  buo- 
no intelletto  non  dimanda  dilettazioni  corporali  se  non 
con  moderato  uso. 


Cu  IL  TESORO. 

Capitolo  XXXIX. 

Della  castità. 

• 

La  castità  e  la  continenza  non  sono  una  com;  però 
che  la  castità  è  tin  abito  io  quale  è  attaccato  nelP  Mi»* 
nio  dell'  uomo  per  avere  lungamente  vinti  li  desìdefii 
delhì  carne,  si  chMli  non  sente  alcuno  assalto  di  teiH 
fazione  :  ma  la  continenza  è  abito  per  lo  quale  rdomo 
sostiene  gravi  tentazioni  e  molte  molestie^  ma  tolte- 
via  non  si  consente  a  ciò,  tanto  ha  in  sé  ragiona  [hm- 
que  non  sono  una  cosa  castità  e  continenza.  La  ioca- 
stitade  si  è  abito  per  lo  quale  V  uomo  pecca  nelle  oO» 
se  dilettevoli  senza  grande  instanza  di  tentanoni,  si 
come  r  uomo  che  non  è  constretto  e  va  cercando  le 
dile|Éflizioni.  Dunque  V  uomo  eh'  è  incontine^  si  è 
quegli  il  quale  è  vinto  dalle  tentazioni  le  quali  lo  sti- 
molano fortemente;  ma  V  uomo  non  casto  si  è  qndUd 
che  si  lassa  vincere  alle  diletlazioni  le  quali  non  k>  fti-' 
molano.  E  T  uomo  incontinente  si  è  cotale  per  d^M- 
lità  di  ragione,  o  {^er  poca  sperienza.  Dunque  non  è 
reo  in  tutto,  ma  sta  mezzo  reo,  e  ^uotesi  correggere  se 
la  virtù  e  la  sperienza  si  correggono  insieme;  ma  l'tKH 
mo  incasto  non  si  puofe  già  mai  correggere,  che  la  vlr- 
tu  non  ha  potenza  nella  malizia  troppo  usata,  che  la 
ragione  si  corrompe  spesse  volte  per  troppa  coneupH 
scenza.  E  V  atto  della  malizia  si  cognosce,  però  che  la 
virtù  è  nella  ragione  sana,  e  nella  malizia  si  è  la  ra- 
gione corrotta. 


LlUaO  SESTO.  6l 

Capitolo  XL. 
Della  constabza. 

Tre  sono  lì  modi  di  fermezza.  L*uno  sì  è  che  Tuo- 
mo  sta  fermo  in  ogni  stia  operazione,  o  vera  o  Mm 
che  I4  sia.  Il  secondo  modo  sì  è  contrario  a  questo. 
Lo  terzo  modo  è  deW  uomo  che  del  bène  e  del  0137 
le  si  parte  leggiermente.  Ma  generalmente  Tuomo  con- 
stante si  è  meglio  che  ^1  mobile,  però  che  U  mobile  si 
moYe  ad  ogni  vento,  ma  Puomo'constante  non  si  mo- 
ve per  fòrti  desiderii,  ma  tal  fiata  per  la  buona  e  no- 
bile dilettazione  si  move  dalla  sua  falsa  credenza  e 
consente  alla  veritade.  Impossibile  è  che  Fuomo  sia  sa- 
-vio  ed  incontinente  insieme,  però  che  la  prudenza  non 
è  se  non  solamente  in  operare^  spesse  volte  sono  insie- 
me lo  scaltrìmento  e  la  incontinenza  ^  e  però  ohe  lo 
scaltrimento  è  diviso  dalla  prudenza,  sì  è  la  prudenza 
pure  nelle  buone  cose,  ma  lo  scaltrimento  è  nelle  buo- 
ne e  nelle  rie.  E  l'uomo  savio  che  non  adopera  secondo 
la  sua  scienza  è  simile  a  colui  che  dorme  ed  è  ebro,però 
che  neir  uomo  lascivo  l'abisso  delli  desiderii  carnali  sì 
Paflfogano,  e  tranghiottiscono  Toperazione  della  ragio- 
ne^ ed  è  così  di  lui  come  dell'uomo  ebro,  lo  quale  ha 
legato  il  senno  suo,  ed  è  affogato  nel  suo  celebro  per 
molti  vapori  di  vino  che  li  sono  montali  nel  capo,  e 
però  bere  vino  di  soperchio  perverte  il  diritto  giudi- 
ciò.  L'  uomo  frodolente  è  colui  che  fa  ad  altri  ingiu- 
ria per  consiglio  dinanzi  pensato,  e  per  ira  fa  elezioni 
di  fuor  di  ragione,  li  quali  sono  si  rei  che  non  vi  si 
puote  avere  rimedio  nessung. 

Latini.  Fot,  IL  4 


*  • 


6i  IL  TESORO. 

Capitolo  XLI. 
Come  V  amistade  è  TÌrtude  che  regna  nell^  uomo. 

L^  amistade  è  una  delle  virludì  di  Dio  e  delP  no- 
mo,  ed  è  molto  bisognósa  alla  vita  delP  uomo,  e  ròo- 
mo  ha  bisogno  d^  amici  sì  come  di  tutti  gli  altri  ht^ 
ni  ^  e  gli  uomini  ricchi  e  potenti  e  principi  di  terre  À 
hanno  bisogno  d' amici  alli  quali  ellino  facciano  bene 
e  da' quali  ellino  ricevano  servigio,  onore  e  grazie.  E 
grande  securtade  defP  uomo  è  quella  eh'  egli  ha  per 
li  amici,  però  che  quanto  il  gi'ado  deUa  grandezza  è 
più.  alto,  cotanto  è  più  agevole  a  cadere  e  la  sua  caduta 
più  pericolosa.  Dunque  vi  sono  molto  mestieri  gli  a- 
mici  nelle  brighe,  nelle  angustie  e  nelle  avversità  che 
ha  r  uomo,  e  però  è  buono  e  sicuro  rifugio.  E  V  do- 
mo eh'  è  senza  amico  è  solo  nelli  suoi  fatti  3  e  quando 
l'uomo  è  con  l'amico  si  è  accompagnato,  ed  hanne  per- 
fetto aiuto  a  compire  le  sue  operazioni,  però  che  di  due 
.ipersone  perfette  viene  perfetta  operazione  ed  inten- 
dimento. Lo  fattore  delle  leggi  sì  conforta  li  suoi  df- 
tadini  ad  avere  caritade  insieme  con  giustizia,  perd 
che  se  ogni  uomo  fosse  giusto  anche  farebbe  mestiere^ 
caritade  ed  amistà  5  ma  se  ogni  uomo  fosse  amico  l'u- 
no dell'  altro  non  farebbe  mestiero  giustizia,  però  che 
essa  distrugge  ogni  lite  ed  ogni  discordia  che  puòté 
essere. 


loulo  sesto.  65 

Capitolo  XLU. 
Delle  specie  delP  amistade. 

Le  specie  dell'  amistà  sì  si  conoscono  per  le  cose 
che  Puomo  ama,  che  sono  tre,  cioè  bene,  utile  e  di- 
lettevole^ e  non  quello  ch^è  cotale  secondo  la  verità, 
ma  quello  che  gli  pare.  Le  specie  dell' amistà  sono  tre. 
L'una  si  è  amistà  per  bene,  V  altra  si  è  per  utile,  e 
r  altra  si  è  per  dilettazione.  Ed  in  ciascuna  è  mestieri 
di  manifestare  tribulazione^  però  che  coloro  che  s'a- 
mano si  vogliono  bene  a  se  comunalmente^  e  coloro 
che  s' amano  per  cagione  d' utilidate  o  di  dilettazione 
non  s'amano  veracemente,  ma  amano  le  cose  per  le 
quali  elli  sono  amici,  cioè  dilettazioni  ed  uUlitadL  Onde 
tanto  basta  tra  costoro  l'amistade  quanto  basta  la  di- 
lettazione e  r  utilitade,  e  però  si  fanno  costoro  amici 
6  nimicL  Questa  amistade  della  utilitade  si  è  tra  vec- 
chi, e  l'amistà  della  dilettazione  si  è  tra  giovani;  ma  la 
perfetta  amistade  si  è  solamente  tra  gli  uomini  che  son 
buoni  e  sono  simili  in  virtudi,  e  voglìonsi  bene  per  la 
similitudine  eh'  è  intra  loro  delle  virtudi,  e  questa  co- 
tale amistà  si  è  amistà  divina  che  contene  tutti  i  beni, 
ed  intra  loro  non  ha  detrazione,  né  ninna  cosa  di  rio. 
E  però  cotale  amistade  non  puote  essere  fra  l'uomo 
bono  ed  il  reo,  anzi  solamente  tra  li  buoni.  Ma  l'ami- 
stade eh'  è  per  dilettazione  e  per  utile  puote  essei'e  tra 
li  buoni  e  li  rei,  ma  tuttavia  basta  poco.  L' amisi  à  è 
ornamento  laudabile,  eh'  è  intra  coloro  che  conversa- 
no insieme  e  hanno  compagnia;  ed  è  bellissima  vita  per 
la  quale  vivono  in  tranquillilado;  e  la  tranquillitade  che 


64  W-  TESORO. 

è  intra  loro  non  si  parte  per  diversità  dì  luogo,  e  per 
non  istare  insieme^  ma  se  fosse  molto  lungo  questo 
partimento  fa  raffreddare  ed  uscire  di  mente  Pamblade, 
e  per  ciò  si  dice  ne' Proverbi,  che  li  pellegrinaggi  e  le 
lunghe  vie  partono  Pamistadi.  La  cosa  amata  ^  ha  al- 
cuno nobile  bene,  e  però  li  amici  sdamano  si  tra  loro 
non  per  cagione  dì  passione,  ma  per  cagione  d^  abito, 
e  ciascuno  degli  amici  ama  il  suo  bene,  è  retrìboisGe 
Tuno  all'altro  secondo  agguaglianza. 

Capitolò  XLIII. 
Come  quello  delli  boni  amici  dee  esser  comune  tra  loro. 

La  participazione  di  coloro  che  participano  insieme 
nel  bene  ^  nel  male,  ed  in  mercanzie  ed  in  conversa- 
mento  tra  loro  sogliono  essere  cominciamento  d*  ami- 
stade^  e  secondo  la  quantità  di  queste  cose  cosi  è  la 
quantità  delPamistade,  e  quello  ch'hanno  gli  amici  dee 
essere  comune  tra  loro,  però  che  l'amistà  si  è  una  cosa 
di  comunitade ,  e  ciascuna  cosa  di  comunità  desi- 
dera cose  simiglianti  a  concupiscenza,  e  però  si  fóndo 
le  solennitadi  delie  pasque  ed  oblazioni  ed  offèrte  del- 
la cittade,  acciò  che  di  queste  cose  nasca  compagnia 
ed  amore  intra  li  prossimi,  dalla  qual  rosa  procede  ò- 
nore  ed  esaltamento  da  messerDomenedioj  esolean- 
si  fare  nel  tempo  antico  quelle  solennitadi  dopo  la  ri- 
colta del  grano  e  delle  biade,  per  ciò  che  di  quel  tem- 
po sono  più  acconci  gli  uomini  ad  aiutare  amici  ed  a 
rendere  grazie  a  Dio  de'beneficii  ricevuti. 


libro  sesto.  65 

Ca.pitolo  XLIV. 

*     Delli  tre  principati. 

• 

Li  principati  sono  tre.  L^uno  è  principato  di  re. 
L^  altro  è  principato  delle  comunitadi,  e  questo  è  ot- 
timo in  tra  gli  altri.  Il  terzo  si  è  il  principato  del  pa- 
dre sopra  i  figliuoli.  E  ciascuno  di  questi  prindpati  lia 
il  suo  contrario  ^  perciocché  il  principato  del  re  si  ha 
lo  suo  contrario,  cioè  la  signorìa  del  tiranno  \  percioc- 
ché il  re  e  'l  tiranno  soiio  contrarii  insieme.  Che  lo  re 
si  pena  di  fare  solamente  quelle  cose,  (e  quali  sono 
utili  al  popolo  ch^  egli  regge,  e  non  quello  ch^  é  utile 
a  sé;  e  questo  cotale  si  é  veracemente  re;  e  quando 
lo  re  comincia  a  lasciare  le  udlitadì  del  [.opolo  e  in- 
tendere alla  sua,  sì  diviene  del  re  tiranno,  e  così  la 
tirannia  non  è  altro  ohe  corruzione  di  principato.  E 
simigliantemente  li  buoni,  ovvero  li  grandi,  quando 
lasciano  di  curare  le  cose  che  son  buone  a  loro,  ac- 
ciocché la  loto  signoria  non  esca  della  loro  schiatta,  e 
non  considerano  lo  loro  onore,  e  il  loro  merito,  e  la 
loro  dignità,  sì  si  muta  lo  loro  principato  al  principa- 
to della  comunità  \  e  il  principato  della  comunità  sì  si 
corrompe  per  partirsi  dall'uso  delle  leggi  civili,  le  qua- 
li sono  buone  e  laudabili.  E  lo  reggimento  dell'uomo 
alla  sua  famiglia  si  è  simigliante  al  reggimento  del  re 
al  suo  popolo,  perciocché  la  conversazione  del  padre 
alli  suoi  figliuoli  sì  è  simigliante  al  re  cogli  uomini  del 
suo  regno.  E  perciò  si  dice,  che  il  principato  del  re 
SI  è  principato  del  padre,  e  lo  principato  dei  grandi 
uomini. ovvero  dei  buoni,  sì  è  principiato  dei  fratelli j 


66  IL  TESORO. 

perciocché  li  fratelli  non  sono  divisi  insieme  se  non 
per  Tetade.  E  ciascuno  di  questi  due  modi  di  vivere, 
cioè  di  signoria  e  di  suggezione,  sì  ha  la  giustizia,  se- 
condo la  misura  della  sua  bonità,  e  delli  buoni;  per- 
ciocché il  signore,  quand^  egli  è  buono  di  fare  bene 
alli  suoi  sudditi,  ed  é  studioso  di  procurare  lo  ano 
buono  stato,  si  come  il  pastore  é  studioso  delle  sue 
gregge.  £  ha  di£krenza  tra  la  signoria  del  re  e  quella 
del  padre  in  questo,  che  'l  re  é  signore  di  più  genti 
che  non  è  il  padre;  il  padre  è  cagione  d^  ingenerare  li 
suoi  figliuoli  e  di  nutrirli  e  di  Castigarli.  Dunque  il  pa- 
dre è  signore  de^  suoi  figliuoli  naturalmente,  ed  aman- 
si  di  grande  amore,  e  però  dee  essere  onorato  d^  ono- 
re il  quale  si  conviene  a  lui.  La  giustizia  di  ciascuno  è 
secondo  la  quantità  della  sua  virtude.  Dunque  a  qusK 
lunque  é  maggiore  si  si  conviene  più  d' amore  e  d^o« 
nore  e  di  bene,  che  a  ninno  altro.  L^  amore  dei  finati^ 
li  è  come  quello  di  compgni,  però  eh'  elli  sono  'gra- 
nuli insieme  e  hanno  similitudine  di  passione.  Ove  so- 
pravviene tirannia  lo  signore  e  M  subditcT  hanno  rela- 
zione insieme,  sì  come  Parlìfice  e'I  suo  strumento,  e  si 
come  il  corpo  e  V  anima.  £  colui  che  usa  lo  strumen- 
to sì  si  fa  prode  con  esso,  però  Fama;  ma  lo  strumen- 
to non  ama  colui  che  V  usa,  e  simlgliantemente  lo  cor- 
po non  ama  F  anima  ;  lo  strumento  si  è  come  il  servo 
lo  quale  non  ama  lo  signore.  Lo  padre  ama  il  figliuolo, 
il  figliuolo  il  padre,  però  che  V  uno  è  £atto  delP  altro; 
ma  V  amore  del  padre  si  è  più  forte  che  quello  del  fi- 
gliuolo, e  la  ragione  sì  è  che  '1  padre  conosce  essere  di 
lui  vie  via  che  gli  é  nato;  ma  lo  figliuolo  non  cognosce 
il  padre  per  padre  se  non  di  grande  tempo  poi,  cioè 


LIBRO  SESTOw  67 

(yaaoclo  U  seaui  sono  compiuti,  e  là  discrezione  con- 
forta. Ancora  cheU  padre  ama  il  figliuolo  come  se,  ma. 
il  figliuolo  il  padre  sì  come  cosa  ulta  da  lui.  Li  Oratel- 
li  s^  amano  insieme  si  come  coloro  che  sono  nati  d^un 
principio,  e  perciò  si  dice  che  li  fi^telli  sono  nati  da 
una  ereditade  e  sono  una  cosa,  addivegoa  ch'eUi  sieuo 
{nriiti^  è  quello  clie  conferma  V  amore  tra  fratelli  si  è 
che  sooo  nutriti  insieme  e  conversati,  e  sono  d^una  e^ 
tade.. 

Capitolo  XLV. 

Deir  amore  che  V  uomo  ha  con  Dio.- 

Lo  amore  che  Tuomo  ha  con  Dio  e  V  amore  che 
ìhaomp  ha  al  padre  si  è  d^una  natura,  però  che  ciascu- 
no di  questi  amori  è  per  ricordamento  di  grazia^  ma 
r  amore  di  Dio  dee  passare  V  amore  del  padre,  che  'i 
beneficio  che  V  uomo  ha  da  Dio  è  maggiore  e  più  nor 
bile  che  quello  c^  ha  ricevuto  dal  padre.  L^  amistà  de^ 
parenti  e  delti  amici  e  delli  vicini  e  delli  strani  si  è  mag-r 
giore  e  minore  secondo  la  diversità  della  cagione,  per 
la  quale  Tuomo  vole  bene  V  uno  alP  altro  ^  però  che 
quelli  che  sono  nutricati  insieme  e  disciplinati  e  d'un 
lungo  tempo  conversati  insieme,  sì  si  vogliono  grande 
bene.  L'amore  lo  quale  è  tra  la  moglie  e'I  marito  si  è 
amore  naturale  e  più  antico  amore  che  non  è  quel  de' 
cittadini  intra  loro^  ed  in  questo  amore  è  grande  uti- 
litade,  però  che  l' operazione  dell'  uomo  si  è  diversa  da 
quella  della  femina,  e  quello  che  non  può  (are  l' uno 
si  &  l' altro,  e  così  si  compie  il  loro  bisognamento.  Li 
figliuoli  sono  legame  lo  quale  lega  la  moglie  col  marito 


•<> 


68  -IL  TESORO. 

in  uno  amore,  però  che  'I  figliuolo  si  è  comune  bene 

d^amendui 

Capitolo  XLVI. 

'  Come  Pamore  è  comunicazione  intra  li  amici. 

La  comunicazione  si  congiunge  li  buoni  in  uno  a- 
more  per  cagione  di  virtude,  li  quali  veramente  s*  a- 
mano  insieme^  e  non  è  tra  loro  calogna  niuna,  né  Con- 
tenzione, né  volontà  di  vincere  V  uno  V  altro,  se  non 
solamente  in  servire,  però  che  grande  allegrezza  è  all'uo- 
mo quando  ha  fatto  servigio  all'  amico  suo^ono  «mi- 
sta le  quali  son  dette  questionali,  e  queste  amista  sono 
negli  uomini  che  ricevono  servigio  P  uno  dall'altro,  e 
hanno  intra  l'uno  e  l'altro  grande  accusamento,  e  dice 
l' uno  all'altro  io  t'ho  fatto  cotale  servigio  e  non  ho  ri- 
*  cevuto  cambio  veruno;  cotale  amistà  può  poco  durare, 
L' amistà  è'  simile  alla  giustizia,  onde  secondo  che  k 
giustizia  è  in  due  modi,  cioè  naturale  e  legale,  e  così  è 
in  due  modi  l'amistà,  cioè  naturale  e  legale;  e  lega- 
le è  delta  quell'  nmistade  eh'  è  particnlare  e  mer- 
cimutale,  sì  come  quella  che  sta  pure  in  dare  e  in 
ricevere  manualmente  senza  dimoranza.  Ma  vi  sono 
molti  uomini  alli  quali  piace  il  bene  e  la  cosa  conve- 
nevole, ma  tuttavia  lasciano  il  buono  e  prendono  quel- 
lo eh'  è  utile.  Cosa  buona  è  fare  ad  altrui  senza  spe- 
ranza d' avere  cambio,  ma  utile  si  è  fare  altrui  con  i- 
speranza  d'avere  maggiore  guiderdone;  e  questo  ser- 
vigli) è  quello  che  l'uomo  fa  a  colui  eh' è  polente  di 
rendere  guiderdone  e  cambio  del  servigio  fatto. 


luro  sesto.  69 

Capitolo  XLVII. 

Deir  amore  che  dee  essere  tra  gli  uomini. 

Lo  amore  è  pregio  di  vìrtude  e  mercede  dì  rice^u- 
to  beneficio.  Il  guadagno  è  suvvenimento  di  indigenza. 
£  gli  uomini  maggiori  debbono  dare  a'mioorì  guadagno, 
e^  minori  debbono  fare  ai  maggiori  onore  e  reyerenza  ^ 
e  questo  dee  essere  secondo  li  meriti  d' amendui  :  io 
questo  modo  si  conservano  le  amistà.  £  li  onori  li  qua- 
li P.uomo  dee  fare  a  Domenedio  ed  al  suo  padre  nou 
sono  simiglianti  alli  altri  onori  ^  però  che  non  può  Tuo- 
mo  sufficientemente  rendere  onore  a  Domenedio  ed 
al  suo  padre,  addivegna  ch^egli  si  sforzi  quanto  puote. 
Il  convenevole  agguagliamento  si  è  agguagliare  le  spe- 
cie delPamistà  che  sono  diverse,  sì  come  addiviene  negli 
ordinamenti  delle  cittadi,  che  '1  calzolaio  vende  i  suoi 
calzari  secondo  che  vole,  e  simiglìantemente  degli  al- 
tri artefici  intra  loro,  ed  una  cosa  amata  per  la  quale  si 
agguaglia  e  conferma  mercatanzia,  cioè  oro  ed  ariento. 
Quando  lo  amico  ama  la  .sua  amica  per  dilettazione,  e 
quella  ama  lui  per  utilità,  non  ama  V  uno  V  altro  per 
diritto  bene;  colale  amore  tosto  si  disparte,  ed  ogni  a- 
mistà  eh' è  per  cosa  lieve,  tosto  si  disparte 5  ma  ìe  ra- 
gioni che  sono  ferme  e  forti  &nno  lungo  tempo  du- 
rare r  amistà,  che  per  la  virtude  e  per  lo  bene  basta 
lungo  tempo.  Però  che  la  virtù  non  si  puote  lievemen- 
te rimutare,  ma  V  utile  si  disparte  quando  Tutilitade  è 
tolta  di  mezzo.  L'uomo  che  canta  per  guadagnare  se 
V  uomo  li  rendesse  cantare  per  cantare  non  sarebbe 
contento,  però-ch' e' si  aspetta  d' avere  altro  guider- 


JO  IL  TBSOBO. 

done.  Dunque  dod  sm  concordia  nelle  meccataoBÌe,  se 
non  t'  ha  concordia  di  Tolontade^  la  qua!  cosa  addi* 
Tiene  qoando  Fuomo  riceve  per  quello  che  dà  quel* 
lo  ch^  egli  Tole.  E  talora  è,  che  per  quello  che  Pnonio 
dii  noo  Tole  se  non  onore  e  rìrerenza,  à  come  fìcea 
Pitagora,  lo  quale  da^sooi  discepoli  per  cagione  di  dol«» 
Irina  non  yolea  se  non  onore  e  riverenai;  e  tdkm  è 
che  per  cagione  di  dottrina  Tok  Tuomo  danari,  sleo-f 
me  addiviene  ndrarti  meccaniche;  ma  non  è  eoa  in  fi* 
losofia  ;  però  colui  ch^insegna  altrui  sapere  si  dee  noe* 
vere  dalli  suoi  discepoli  onore  e  soggezione  si  come 
padre  e  signore.  Bisogno  è  che  V  uomo  cognosca  b 
dignità  degli  uomini,  acciò  che  ciascuno  uomo  possa 
vendere  onore  secondo  il  suo  debito^  e  però  altro  obo-i 
re  dee  fere  V  uomo  al  padre,  altro  al  popolo,  ed  altro 
al  signore  dell*  oste,  ed  altro  al  compagno,  od  altro  ai 
Ticini,  ed  altro  alli  strani.  L'uomo  il  quale  usa  frode 
nell'  amistà  è  peggio  che  colui  che  usa  frode  oell'  oro 
e  nell'  argento;  che  tanto  quanto  T  amistà  è  più  pre« 
ziosa  delPoro  e  delPargento,  tanto  peggiore  è  colui  che 
frodi  damista,  di  colui  che  frodi  V  oro  e  T argento.  £ 
cosi  come  M  Mso  danaio  tosto  si  rompe,  così  la  fìlsa  a- 
mbtà  tosto  si  disparte. 

Capitolo  XLVIII. 

Come  Domenedio  è  partitore  de^  beni. 
•  .  -- 

Lo  eguale  partitore  de' beni  si  è  Domenedio,  lo  qua- 
le dà  a  ciascuno  secondo  che  la  sua  natura  è  acconcia 
a  ricevere.  L' uomo  eh'  è  buono  si  diletta  in  sé  mede- 
simo avendo  allegrezza  delle  buone  operazioni;. e  &'•- 


LIBMO  SESTO.  7I 

^i  è  bncxio  molto  allegrasi  ocm  V  upko  suo,  lo  qnalo 
egli  tiene  come  un  altro  sé  ^  mail  reo  fii^  dalle  buo- 
ne e  nobili  operaiioiii.  E  scegli  è  moko  reo  sa  fogge  da 
aè  medesinio,  però  che  quando  sta  solo  à  il  riprende 
fl  rìoordaniento  delle  male  opere  ch^  egli  ha  fiitte,  o& 
orna  sé  né  altmi,  per  dò  che  la  natura  del  bene  è  tolta 
mortificata  in  lui  nel  proibodo  della  iniquità^  né  non 
li  diletta  pienamente  nel  male  ch'egli  &,  però  che  la 
BBtnn  del  bene  si  trae  alla  dilettazione,  ed  è  diriso  ia 
•è  medesimo,  ed  imperò  è  in  peipetna  &tÌGa  ed  angustia 
e  pieno  d'amaritudine,  ed  è  ebbro  di  sonora  e  di  di^ 
venitiu  Dunque  a  qudib  cotale  uomo  nearano  puole 
easere  amico,  però  die  Tamico  dee  a^ere  in  sé  con 
d' amare,  e  questo  cotale  ha  in  sé  tanta  miierìa,  clv(^ 
non  è  rimedio,  niono  eh'  egli  possa  Tenire  a  felìdtadÀ 
Dunque  nnllo-uoino  caglia  in  questo  pdago  d'iniqui-» 
tade;  ansi  si  dee  sforare  di  yenire  a  fiue  <£  bonlè,  pev 
la  quale  egli  abbia  dilettazione  edallegrena  in  sé  me-* 
desimo.  Looonfortamenlo  non  è  amistà, addivegna  che 
la  somigli.  Lo  comiDciamento  dell'amistà  si  è  dilelta- 
«ione  aTuta  dinanzi,  ^  come  l' amistà  d'una  femina  del* 
la  quale  l' nomo  ha  dUellazione,  e  si  è  legame  ddl'a* 
mislade  e  seguitala  ioseparabilmente. 

Capitolo  XXJX. 
Onde  procede  il  conforto. 

La  disposizione  delb  quale  procede  lo  confiurta- 
mento  puote  essere  amistade  per  similitudine  insino  a 
tanto  che  piglia  accresdmento  per  usanza  di  tempo  ^  e 
l' uffido  di  confortare  s' appartiene  a  colui  che  ha  in 


7  4  IL  TESORO. 

animo  ed  un  sangue,  e  tutte  le  loro  cose  sono  co- 
uiuiii  egualmente,  sì  come  il  naso  alla  &ccia,  il  ginoc-. 
chio  alla  gamba,  il  dito  alla  mano,  e  però  dee  P  uomo 
amare  P  amico  suo,  però  che  amando  lui  ama  se  3  e 
debbelo  amare  non  per  onore  o  per  dilettazione  fibr- 
porale,  anzi  per  verace  amore  di  virtù  ^  e  V  uomo  lo 
quale  ama  V  amico  suo  in  questo  modo  è  verace  a- 
mico,  e  sopportalo  e  con  pecunia  e  con  tutte  pos- 
sessioni e  con  la  vita  del  corpo  se  bisogna.  Lo  com- 
pimento della  felicità  umana  si  è  in  acquistare  amici, 
però  che  niuno  uomo  vorrebbe  avere  tutti  i  beni  del 
mondo  per  vivere  solo.  Dunque  V  uomo  felice  ha  bi- 
sogno d'amici  a  cui  egli  faccia  bene  e  coi  quali  egli 
comunichi  V'  uso  della  sua  felicitade,  però  che  naturai 
cosa  è  air  uomo  vivere  cittadinescamente,  e  necessa- 
ria cosa  è  alPuomo  compire  i  suoi  bisogni  e  le  sue 
necessitadi  per  li  suoi  vicini  e  per  li  suoi  amici  le  qua- 
li egli  non  può  compire  per  sé.  Il  fare  bene  è  in  tutti 
modi  cosa  nobile  e  dilettevole^  e  gli  eletti  virinosi 
li  quali  ÙLuno  bene  sono  pochi  ^  ma  li  utili  e  dilet- 
tevoli sono  molti.  Li  amici  che  sono  per  dilettazione 
debbono  essere  pochi,  però  clr  egli  debbono  essere  si 
come  condimento  del  cibo;  ma  T amico  virtuoso  non 
può  essere  se  non  è  uno,  sì  come  non  può  l'uomo 
avere  più  che  una  amica  la  quale  egli  ami  verace- 
mente, però  che  quello  amore  è  per  sopr' abbondanza, 
lo  quale  si  con  vene  ad  un  solo,  ma  convenevolezza  e 
consiglio  ed  onestade  si  dee  ad  ogni  uomo  per  debi- 
to di  virlude.  L^uomo  ha  bisogno  d' amici  nel  tempo 
della  prosperità  e  delP  avversità  :  nella  prosperità  ac- 
ciò che  comunichi  con  loro  il  suo  bene  ed  abbia  eoa 


LIBRO  SESTO.  j!} 

loro  TÌla  ed  allegrezza,  acciò  che  diventino  gli  nomini 
migliorì  l'uno  per  l'altro;  nell'avversità,  acciò  che 
l' uomo  dall'amico  sia  sovvenuto  e  consigliato. 

Capitolo  LI. 

Come  la  dilettazione  è  naturale. 

-•  La  dilettazione  si  è  naia  e  nutricata  con  noi  dal 
cominciamento  della  nostra  natura,  però  dee  l' uomo 
ammaestrare  li  garzoni  insino  dal  cominciamento  di  di- 
lettarsi nelle  cose  che  si  conviene  e  nelle  opposite  si- 
migliantemente  attristare,  però  che  questo  è  uno  fon- 
damento della  virtù  morale,  e  nello  procèsso  si  co- 
gnosce  e  si  cresce  la  beatitudine  della  vita,  però  che 
quando  l'  uomo  si  diletta  nella  cosa  sì  la  elegge,  e 
quando  se  ne  contrista  sì  la  fugge.  E  sono  uomini  li 
quali  sono  servi  delle  dilettazioni,  e  però  le  loro  di- 
lettazioni sono  distrutte  al  contrariò  di  quello  eh'  el- 
li  debbono.  Li  uomini  li  quali  vituperano  le  dilet- 
tazioni e  fannole,  dicono  contra  di  loro  «nimo,  e  non 
dicono  male  di  loro  secondo  la  virtù  te,  perchè  le  pa- 
role vere  sì  giovano  sempre  ed  a  migliorì  li  costumi 
che  la  vita  migliore;  e  l'operazione  si  adopera  più 
che  non  &  la  parola,  e  però  l' uomo  buono*  sì  informa 
la  Tita  sua  di  buone  parole  e  di  buone  opere.  La  co- 
sa eh' è  disiderata  per  se  medesima  si  è  ottima,  e  la 
trìsta.  si  è  ria,  però  eh"' ella  è  conlrarìa  alla  dilettazio- 
ne. Ed  anche  ogni  cosa  è  buona  la  quale  aiuta  V  al- 
tra e  falla  buono,  ma  la  dilettazione  sì  aiuta  le  altre 
cose  e  falle  migliori.  Dunque  è  ella  buona.  Platohe 
disse,  che  la  dilettazione  non  era  biiona,  e  forse  che 


yCì  n,  TESORO, 

non  disse  vero,  pero  che  in  ciascana  còsst  è  natorai- 
iiiente  alcuna  cosa  di  bene,  dunque  nella  dilettazìooe 
o  alcuna  cosa  di  bene.  Impossìbile  cosa  è  che  V  uno 
l)ene  sìa  contrario  alF  altro,  ed  impossìbile  è  che  To- 
no male  non  sia  contrario  air  altro,  ed  amendai  sood 
da  fiiggìn*.  Ma  due  beni  non  sono  contrarii  insieme, 
an/.i  sqn  simiglìanti,'ed  amendui  sono  da  eleggere 3  ma 
l>enc  può  essere  T  uno  meglio  delP  altro,  sì  còme  Fa- 
no uomo  può  essere  più  savio  che  V  altro  e  più  gin-» 
sto.  La  dileltatione  non  è  movimento,  però  che  cia- 
scuna cosa  che  si  può  movere  ha  tardamente  ed  af* 
frctlamento,  ma  le  cose  relative  non  hanno  movi- 
mento per  sé.  Dunque  la  dilettazione  non  è  movi- 
mento. 

Capitolo  LII. 

Della  dilettazione  sensibile  ed  intellettuale. 

La  dilettazione  o  essa  è  sensibile  o  intellettoale^  e 
cola  dov'  è  il  sentimento  ivi  è  la  dilettazione.  I>nn- 
que  è  mestiero  che  questa  dilettazione  sia  nelP  anima 
sensibile.  E  colà  dov^  è  lo  intelletto  si  è  V  operazio- 
ne  sensibile,  dunque  è  bisogno  che  questa  dilettazio- 
ne sia  nelP  anima  intellettuale.  E  spesse  volte  innanzi 
alla  dilettazione  sensibile  si  è  tristezza,  sì  come  dinan-« 
zi  alla  dilettazione  dello  mangiare  Tuomo  ha  fame,  e 
dinanzi  alla  dilettazione  del  bere  V  uomo  sì  ha  sete  ; 
ma  dinanzi  alla  dilettazione  delPudire  o  del  vedere  o 
dello  odorare  non  ha  tristizia,  simigliantemente  in  tut* 
te  le  cose  delle  dilettazioni  intellettuali.  Le  cose  di- 
lettevoli agli  uomini  che  hanno  la  natura  perversa  non 
sono  da  dire  dilettevoli  secondo  la  vcriiade  ^  sì  come 


moto  SESTO.  77 

le  cose  che  paiono  amare  a^P  iofemn  ooa  sono  da  dire 
amare  secondo  la  Teritade,  cosi  di  ciascuna  operazio- 
ne^ sì  come  r  nomo  giusto  si  diletta  nelF  operazio- 
ne della  giustizia,  e  Puomo  savio  nelP  opera  delia  sa- 
pienza 5  ciascuno  si  diletta  deli^  operazione  nella  quale 
egli  si  diletta,  però  che  la  dilettazione  ùl  ben  &re  tutte 
le  sue  operazioni.  Là  dilettazbne  si  è  compiuta  forma, 
la  quale  non  ha  bisogno  al  suo  compimento  né  di  tem- 
po) uè  di  moTunento^  cioè  che  ninno  movimento  non 
è  òompiuto  secondo  la  sua  forma  nel  tempo,  ma  coni** 
pwsi  inora  del  tempo,  s^^li  non  fosse  movimento  cir-: 
calare.  La  dilettazione  sensibile  si  è  secondo  la  quan- 
titade  del  s^ntkoento  e  nelk  \K)sa  cbe  sente  e  nella 
ounperazione  tra  V  uno  e  V  altro.  Dunque  quando  il 
sentimento  è  forte,  e  le  cose  che  si  sentono  sono  più 
dilettevoli  3  quindi  sì  lascia  forte  dilettamento,  però 
che  k  bontà  delP  operazione  si  è  nella  fortezza  della 
cosa  che  fk  e  nel  cominciamento  della  cosa  che  pa- 
tisce. 
V  Capitolo  LEO. 

Della  più  diletteToIe  dilettazione. 

• 

La  più  dilettevole  dilettazione  che  sia  si  è  quella 
la  quale  è  più  compiuta  e  più  perfetta,  e  quella  la 
quale  compie  tutte  le  dilettazioni  delPuomo.  E  tanto 
dura  la  dilettazione  delPuomo  quanto  dura  la  virtù  del- 
la cosa  per  la  quale  Puomo  si  diletta,  sì  come  addiviene 
del  giovane  quando  egli  ha  le  cose  che  gli  piacciono, 
e  però  non  possono  bastare  le  dilettazioni  dell^uomo 
ch^elle  non  vegnano  meno,  sì  come  addiviene  nella  vec- 
chiezza, però  che  gli  viene  meno  la  virtude.  L' uomo 


78  IL  TESORO.  ! 

che  disidera  vita  disidera  dilettazioDe,  però  che  la  di- 
lettazione si  compie  della  vita.  La  dilettazione  intelli- 
gibile si  è  diversa  dalla  sensibile,  e  ciascuna  diletta- 
zione multiplica  e  cresce  la  sua  operazione,  e  per  que- 
sto modo  sono  moltiplicate  le  arti  e  le  scienze,  per- 
chè r  uomo  si  diletta  in  esse.  Ma  sono  dilettazioni 
ìT  operazioni  le  quali  impediscono  alquanto  le  altre 
dilettazioni  ovvero  operazioni,  sì  come  P  uomo  che 
si  diletta  in  ceterare  tantoiche  li  escono  di  mente  le  al- 
tre operazioni  le  quali  egli  ha  per  mano.  La  diletta- 
zione la  quale  è  nelle  nobili  operazioni  si  è  nobile,  ed 
è  mollo  da  seguitare^  e  quella  ch^è  nelle  vili  è  vile 
ed  è  da  non  seguirla.  Quelle  dilettazioni  sono  diver- 
se in  genere  le  quali  sono  nelle  operazioni  diverse 
in  genere,  sì  come  la  dilettazione  intellettuale  e  sen*« 
sibile;  e  quelle  dilettazioni  sono  di  diverse  specie  le 
quali  sono  nelle  operazioni  di  diverse  specie,  sì  co- 
me quelle  del  viso  e  del  tatto.  Ciascuno  animale  lia 
la  dilettazione  nella  quale  egli  si  diletta  ;  ed  in  tutte 
le  altre  dilettazioni  la  intellettuale  è  la  più  dilettevole^ 
però  dissero  li  antichi  che  questa  è  più  nobile  tra 
le  altre  dilettazioni  che  non  è  l'oro^tra  gli  altri  metal- 
li. Secondo  la  diversità  degli  uomini  sono  diverse  le 
loro  dilettazioni^  ma  quella  e  verace  la  qual  pare  al 
buono  uomo  ed  al  diritto  e  non  al  vizioso,  sì  come 
quella  cosa  è  da  dire  dolce  ed  iimai^a  la  quale  pare 
air  uomo  sano  e  non  alP  infermo. 


LIfcftO  SESTO.  79 

i. 

Capitolo  LIV. 

Come  la  beatitudine  è  compimento  delle  TÌrtudi* 

Poi  che  nói  a  verno  trattato  della  vìrtude  e  del  di- 
letto, *si  conviene  dire  di  felicità  e  di  beatitadine,  le 
quali  sono  compimento  d^  c^ni  bene  che  Puomo  ia^  e 
questa  felicità  non  è  abito,  anzi  è  atto  al  quale  V  uo- 
mo intende  di  yenire  per  sé  e  per  altro  non,  però  che 
la  beatitudine  si  è  cosa  di  fuori  da  sé;  e  Puomo  lo  qua- 
le non  ha  assaggiata  la  dolcezza  di  questa  beatitudine, 
nella  quale  è  il  dilettamento  dello  intelletto  delP  uo- 
mo, si  rifugge  alla  dilettazione  corporale  della  qua- 
le egli  ha  prese  P  esperienze.  £  non  debbono  essere 
dette  cotadi  dilettazioni  beatitudine,  si  come  non  sono 
da  eleggere  le  còse  le  qnaji  eleggono  li  garzoni;  quel- 
la cosa  è  veracemente  dilettevole  la  quale  pare  di- 
lettevole al  buono  uomo.  La  felicità  non  è  in  gioco 
né  in  operazione  giocosa,  anzi  è  in  quelle  cose  che 
s' hanno  per  studio  e  per  fatica  e  per  sollecitudine. 
£  manifesta  cosa  dell^  uomo  beato  che  s^afi&tica  con 
virtù  nelle  cose  ordinate  e  non  nelle  cose  focose;  e 
però  è  delto  che  P  intelletto  è  più  nobiflRosa  che 
non  è  il  naso,  però  che  M  più  nobile  membro  fa  più 
nobile  operazione  ;  e  P  uomo  lo  quale  è  migliore  si  & 
migliori  opere,  per  la  qual  cosa  è  degno  che  la  felir 
cita  sia  operazione  della  più  nobile  virtude,  la  qual 
è  naturalmente  propesila  a  tutte  le  cose  che  sono  da- 
te da  Dio  agli  uomini;  e  non  è  altra  felicità  se  non  fer- 
mezza di  queste  virtudi  nelle  sue  operazioni.  La  più 
perfetta  dilettazione  che  sia  si  è  nelP  atto  della  feli- 


8o  IL  TESOBO. 

citade,  e  mirabili  dilettazioni  tono  trovate  nella  filo- 
so6a  per  la  certezza  e  per  la  verilade  la  quale  t»i  tro- 
va nella  legge.  E  più  saporosa  dilettazione  si  è  quella 
che  r  ugmo  ha  quando  sa  la  cosa,  che  quella  quando 
V  uòmo  si  pensa  di  sapere.  Dunque  V  operazione  di 
questa  virtù  si  è  ultima  e  suprema  felicìtade.  L'uomo 
savio  si  ha  bbogno  delle  cose  necessarie  alla  vita  sì 
come  un  altro.  E  le  virtù  si  bisognano  nelle  cose  di 
fuori,  sì  come  giustizia  e  castità  e  fortezza,  e  le  altre  le 
quali  sono  ordinate  ad  operazioni,  però  che  la  mate- 
ria deir  operazione  si  è  di  fuori  ;  ma  P  operazione  del- 
la sapienza  ha  dentro  ciò  che  le  fò  bisogno^  ma  tut- 
tavia se  Pnomo  ha  chi  V  aiuti,  si  adopera  più  perfet-^ 
tamenle  ne^  suoi  pensieri.  Dunque  questa  felicitade 
non  è  altro  se  non  speranza  di  sapere  e  di  pensare 
La  felicitade  rappresenta  battaglia  per  cagione  di  sa- 
lute e  di  pace  ^  e  questo  si  pare  manifestamente  nelle 
cittadi  le  quali  fanno  battaglie  per  avere  pace  e  ri- 
poso^ e  così  addiviene  a  tutte  le  altre  virtudi  di  bat- 
taglie che  sempre  intende  V  uomo  ad  alcuna  cosa  di 
fuori,  ma  lo  intelletto  ispeculalivo  sempre  è  in  pace 
ed  in  trajmuillitade,  ma  sì  ha  bisogno  di  spazio  di  vita, 
però  chMbn  si  conviene  alla  felicitade  avere  ninna 
cosa  imperfetta  5  e  l'  uomo  quando  viene  a  questo 
grado  di  felicità  non  vive  per  vita  d' uomo,  ma  vive 
per  quella  cosa  divina  la  quale  è  nell'  uomo.  Dunque 
la  vita  che  s' appartiene  a  quell'  atto  è  vita  divina  ^ 
ma  la  vita  che  s'appartiene  alPatlo  dell'altre  virtù 
si  è  vita  umana,  però  che  non  si  conviene  al  buono 
che  la  sua  sollecitudine  sia  umana,  e'I  suo  desiderio 
non  sia  morale,  avvegna  che  para  così;  anzi  è  tenuto 


LIBRO  SESTO.  /  8l 

<li  sforzarsi  d' essere  inorale  secondo  la  saa  potenza,  e 
sempre  si  dee  sforzare  di  TÌvere  per  la  più  nobile 
vita  eh'  è  in  lui,  però  che  avvegna  che  ('uomo  sia  pic- 
ciolo di  persona,  è  sopra  posto  a  tutte  le  altre  creatu- 
re. Onde  la  più  dilettevole  vita  che  V  uomo  ha  si  è 

per  intellelto. 

Capitolo  LV. 

'  Della  virtù  morale,  e  delP  nomo  beato. 

Le  virtù  morali,  o  vuoli  le  civili,  sono  in  maggiore 
turbazione  ed  in  maggiore  sollecitudine  che  le  intellet* 
Uiali,  [)erò  che  la  liberalità  si  ha  bisogno  di  ricchezza  ;  e 
r  nomo  giusto  è  a£&ticato  da  coloro  che  comandano  la 
giustizia,  e  simile  è  dell'uomo  forte  e  dell'  uomo  casto; 
ina  le  yirtù  intellettuali  non  han  bisogno  per  compi- 
mento di  loro  operazioni  di  cose  di  fuori,  anzi  molte 
^té  gli  uomini  perfettissimi  sono  in  queste  viri  udì 
spediti  delle  cose  di  fuori;  ma  l' uomo  lo  quale  non 
puole  pei'venire  a  questa  perfezione  di  vita  dee  eleg- 
gere modo  da  vivere,  secondo  il  quale  viva  alla  leg- 
ge comunalmente,  però  che  l'operazione  dell'  intelletto 
speculativo  si  è  fìne  della  vita  dell'uomo,  ed  esempio 
della  verace  beatitudine;  ed  è  l'uomo  assimigliato  a 
Dio  ed  a' suoi  angioli;  però  che  le  altre  operazioni  non 
sono  degne  d' assimìgliare  a  Dio  ne  alle  cose  celestia- 
li. £  Iddio  e' suoi  angioli  hanno  nobilissima  vita,  e 
però  sono  sempre  in  ottima  speculazione,  e  però  la 
loro  ispeculazione  non  si  affatica  e  non  viene  meno  ; 
e  l' uomo  il  quale  si  sforza  più  continuamente  d' in- 
tendere e  di  pensare  a  quelle  cose  si  è  più  simiglian- 
te  a  coloro  die  sono  nella  verace  beatitudine. 


8:?  il  tesoro. 

Capitoix)  LVI. 

Del  qpgnoscìinento  delle  rirtudi. 

L^  uomo  il  quale  è  beato  in  questo  mondo  sì  ha  bn 
sogno  di  moderato  conducimento  nelle  cose  di  fuori, 
[jerò  che  la  nalura  non  diede  a  sufficienza  dentro  di 
quelle  cose,  sì  come  sazietà  di  pane  e  di  Tino  e  d' al- 
tre cose  che  son  bisogno  alla  vita  delP  uomo^  ma  non 
è  bisogno  però  che  sia  signore  del  mare  e-  della  terra. 
E  dei  ancora  vedere  in  quelli  che  sono  in  minore  gra- 
do di  ricchezze,  di  questo  sono  più  accorti  d'  esset>e 
beati  che  non  sono  li  signori  dì  queste  cose.  E  pefrò 
disse  bene  Anassagora,  che  felicità  non  è  nelle  ricchez- 
ze e  nelle  signorie:  il  detto  suo  si  è  bene  da  ccederej 
però  che  '1  <lelto  di  colui  è  d' allegare,  le  cui  ppere 
s' accordano  col  suo  dire.  L' uomo  lo  quale  fa  le  sue 
orazioni  secondo  P  ubbidienza  e  T  ordinazione  dello 
intelletto  sì  è  amato  da  Dio.  Se  Domeuedio  ha  cura 
delt^  uomo,  la  qual  è  degna  cosa  da  credere,  maggior 
cura  ha  di  quelli  che  più  si  sforzano  d^assimigliarsi  a 
luì,  e  dà  loro  maggiore  guiderdone,  e  dilettasi  a  loro, 
cioè  con  loro  come  fa  l' uno  amico  con  V  altro.  Dun- 
que secondo  quel  detto  noi  dovemo  pensare  che  sia  ab- 
bastanza ad  accattare  felicitade  solamente  in  sapere  le 
cose  dette  in  questo  libro  delle  viitudi  ed  amìsladi  e 
delP  altre  cose^  ma  il  compimento  è  nelle  operazioni^ 
però  che  quella  cosa  che  di  sua  natura  è  da  esser  fet- 
ta, non  basta  solo  a  dirlo,  ma  è  mestiero  che  si  feccia, 
ed  in  questo  modo  si  compie  la  bontà  dell'  uomo. 


lASAO  SESTO.  85 

.    Capitolo  LVII.       ^ 

Anche  di  simigliante  materia. 

U  eorioscìmeDto  delle  virtù  €à  V  uomo,  potente  ad 
aoimoiiire  alle  buone  operazioni  coloro  ohe  hanno  bona 
natura,  e  mutargli  per  ammonimenti  a  &r  bene.  Anche 
la  pena  fa  guardare  da^vizii  per  paura  d^esser  punito; 
però  non  si  guardano  da'  TÌzii  per  amore  delle  virtù, 
ma  per  la  paura  della  pena,  e  non  pensano  bene  non 
ch^^li  lo  facciano,  però  che  non  è  pussibUe  che  quel- 
li che  sono  indurati  neUa  malizia,  ch'elli  si  possano 
^mreggef e  per  parole.  E  sono  uomini  che  sono  buoni 
per  dottrina,  e  quegli  nomini  chef  sono  buoni  per  na- 
tura non  rhanno  da  loro  ma  hannolo  per  grazia  divi- 
na, la  quale  è  delta  veracemente  buona  natura.  Dun- 
que V  anima  di  colui  eh'  è  vestita  di  bene  ama  diritto 
ed  odia  il  male,  e  Tammonimento  geiiera  in  lei  virtù, 
sì  come  (a  il  seme  eh' è  seminalo  in  bona  terra.  Con- 
viene a  ciò  che  l'uomo  abbia  dal  cominciamcnto  buoni 
costumi,  e  d'avere  in  usanza  d'amore  lo  bene  e  d^avere 
in  odio  il  male;  però  dee  essere  il  nutricamento  da  gar- 
zone, secondo  la  nobil  legge,  ed  usarli  ad  operazioni 
di  virtù,  e  questo  dee  essere  per  modo  di  continenza; 
però  che  l' uso  della  continenza  non  è  dilettevole  a 
molti  uomini,  e  non  si  dee  ritrattare  la  mano  di  ca- 
stigare il  fanciullo  via  via  dopo  la  fanciullezza,  anzi  dee 
durare  insino  al  tempo  che  l' uomo  è  compiuto.  E  so- 
no uomini  li  quali  si  possono  correggere  per  parole;  e 
sono  di  quelli  che  non  si  possono  correggere  per  pa- 
•role,  anzi  è  mestieri  la  pena  :  e  sono  altri  che  non  si 


84  IL  TESORO. 

correggono  in  nessuno  di  questi  modi,  e  questi  cotali 
son  da  torre  dì  mezzo.  Lo  buono  e  nobile  reggitore 
della  città  fa  buoni  e  nobili  cittadini  che  osservano  la 
legge,  e  fanno  l^opera  ch'ella  comanda;  e  sono  avvei'* 
sari  a  coloro  che  non  osservano  la  legge  e  li  suoi  co* 
mandamenti.  In  molte  città  è  ito  via  via  lo  reggimento 
degli  uomini,  perchè  vivono  dissolutamente  e  seguitano 
le  loro  volontadi.  Lo  più  convenevole  reggimento  che 
sia,  o  che  ponere  si  possa  nella  città,  *  sì  è  quello  db^è 
temperato  provedimento  io  tal  modo  che  si  possa  ot*» 
servare,  e  non  ò  troppo  grave,  e  quello  il  quale  desi* 
dera  Puomo  ch'egli  osservi  m  se  e  ne'  sucm  figliuoli  e 
nelli  amici  suoi.  Il  buono  ponitore  della  legge  ^ì  è  qofK 
lo  il  quale  &  regole  universali,  le  quali  sonodetemi*' 
nate  in  questo  Ubro,  e  sannole  congiungere  alle  cose 
parliculari  le  quali  vengono  infra  le  mani,  però  che  a 
ben  ordinare  la  legge  si  è  mestiero  ragione  ed  etpe* 
rienza,  Qui  finisce  l'Etica  di  Aristotile. 


85 
ANNOTAZIONI  AL  LIBRO  I^SSTO. 


In  questo  libro,  come  ho  ayreitito  nella  prefazione, 
^ibi  a  scorta  per  le  corresioni  le  due  edizioni  firent^ 
nft  1754*9  lionese  i568 1  noto  però  le  sole  Tarianti  dì 
ipialche  conto. 

.  Gap.  ly  pag.  IO.  Si  come  V  uomo  che  saetia  ha  'l 
^%no  per  suo  dtrù^zamerUa,  ec. 

Questa  ieadone  mi  è  data  daU'ediùone  fnrentina  del 
17545  le  tre  antiche  avevano  concordi  P  altra  erro- 
«lea:  saetta  al  segnQ^  ee. 

Cap.  I,  pag.  IO.  Però  che  non  sono  saw^^e  noia 
che^ec. 

Anche  qui  fino  a  si  dice  mi  sono  giovato  delP  edi- 
sdone  17545  le  tre  antiche  avevano:  però  che  non 
sono  savi  dico  in  due  modi.  Ed,  era  pur  acuto  chi 
giogneva  ad  inteodere! 

Gap.  IV,  pag.  12.  Nella  quale  participa  V  uomo 
con  gli  arbori^  ec. 

Così  legge  anche  P  edizione  del  17545  hawi  però 
una  noia  a  pie  di  pagina  che  reca  la  variante  di  un 
codice  della  Mediceo-Laurenziana  :  comunica, 

Cap.  y,  pag.  l'ò,  È  simigliante  di  colui  che  sta 
nel  travilo  a  combattere^  ec 

L^  edizione  del  i555,  copiando  quella  del  iSsS, 
lui  travolto.  Ma  tra^nio  leggo  ndl^  antichissima  del 


86  ANNOTAZIONI 

colo  XY,  e  nella  moderoissima  del  XYII.  E  travUo 
si  registra  dall'  Alberti  nel  suo  Dizionarìo*eon  questo 
esempio.  La  Crusca  non  ha  né  V  uno,  né  Taltro,  ben* 
61  travata  per:  unione  di  trassi  congegnati  insieme 
per  riparo^  o  per  reggere  gagliardamente  checché 
sia.  Né  voglio  lasciar  di  notare  a  questo  passo  quan- 
to sia  preferibile  la  lezione  della  stampa  adottata  dal^ 
la  Crusca,  a  quella  del  i754)  che  dà:  cohU  cheAtt^ 
nel  tradito  a  combattere^  e  vince  quegli  alla  corom 
della  vittoria.  Questo  e  alcun  altro  consionle  paise 
doveva  rendere  V  editore  men  prodigo  di  vantameoti. 

Cap.  y,  pag.  i5.  <5£  veggano  e  stiano  intenti^  ec 

f^eggino  ha  la  citata,  e  forse  può  correggersi  n^ 
gionevolmente  con  vegghino^  per  vegghiare.  Veg- 
gano ha  r  edizione  1734. 

Cap.  y,  pag.  16.  Le  opere  di  virtudi^  lo  frutìo 
delle  quali  si  èjelicitade. 

Cosi  Pedìzione  17549  la  citata  ha  le  quali  è  ilpre^ 
ziosojruttoy  che  esce  della Jelicitade  ,•  quella  del  se- 
colo Xy,iZ  quale,  e  quella  del  1 528,/t>  qualche  cor- 
rezione mi  parve  ragionevole. 

Cap.  yill,  pag.  1 8.  Ma  le  radici  e  'l  comincia^ 
mento,  ec. 

Cominciamento  porta  l'edizione  1734$  le  tre  an* 
tiche  invece  hanno  erroneamente:  compimento. 

Cap.  yill,  pag.  19.  Ma  prodezza  si  è  a  tenere 
ec. ...  come  tu  hai  inteso  nella  prodezui. 

Neir  un  luogo  e  nell'  altro  T  edizione  citata  ha  pru" 
denza.  Ma  F  errore  si  fa  manifesto,  oltreché  dal  seu- 
fto,  dal  confronto  colle  anteriori  edizioni.  Prodezza 
ha  quella  del  i^y/^^ddi  cui  erroneamente  deviò  €JiìiA^ 


AL  UBAO  SBSTO.  87 

]a  del  1528  leggendo  prodewba.  La  citata  intese  cor- 
reggere quest^  ultima.  Prode%TM  ha  pure  la  firentina 
1754. 

-  Gap.  Vm,  pag.  1 9.  Quivi  ove  è  dajuggire  e  d^as-- 
taUrCy  ec: 

i^mXoJuggire,  che  calza  cosi  bene  col  precedente, 
manca  nelle  tre  edizioni  antiche,  e  mi  fu  suggerito  da 
quella  del  1734* 

-  CSap.  IX,  pag.  19.  U  abito  lo  quale  è  con  snrtu-- 
dey  e  r  abito  lo  quale,  ec; 

-  i  •  Così  la  edizione  1 754*  La  citata,  copiando  le  due 
precedenti,  ha:  V àbito  il  quale  è  sema  virtude^  ec. 
LMnaTTertenza  tipografica  che  ha  cagionato  Tominis- 
sione  è  manifesta. 

Gap.  X,  pag.  20.  E  chi  non  usa  ragione,  ec 
•    Così  la  edizione  17549  le  tre  antecedenti  invece 
erroneamente  hanno;  chi  non  v' ha  ragione,  ec. 

Cap.  X,  pag.  20.  E  per  tenere  ragione  si  è  detto,  ec. 

La  edizione  del  1764  ha  dì  più:  disse  Eraclito, 

Gap.  XIII,  pag.  22.  «Se  dieci  è  troppo  e  lo  sei  è 
poco,  ec. 

M^lio  la  firentina  del  1734:  se  dieci  è  troppo  e 
lo  due  è  poco,  lo  me7,zo  si  è  sei,  ec.  Continua  poi  que^ 
sta  edizione  con  allargare  d^  assai  a  parole  il  senti- 
mento. 

Cap.  XIII,  pag.  22.  Con  determinata  ragione. 

Così  la  firentina  1734*  Le  tre  antiche  hanno  in- 
vece F  erroneo  :  o/u/e  è  terminata  cagione, 
'    Cap.  XIV,  pag.  23.  La  liberalità  e  Vavarizia  e  la 
prodigalità,  ec. 
:  in  luogo  óì^  avanùa  \a  citata  e  le  due  antecedenti, 


ftm  cnxx«  ««ideate,  liHBio  «vrà^  2  oonDOBioolksoor- 

Cafv.  Xnr.  £!•£.  a5.  £1  ffCKo  si  chiama  parvaaa. 

U  edinroe  del  «roto  XT  In  parviania^  f^ 
crmmi  \es^  T  ecfiooDe  1 7^4*  ^  ^  s^onà  stilo  teotito 
a  sccoiiia.  se  h  Omca  imo  dtasie  quert!'  tatofio 
del  /«Somalia  xoct pantna^  %1Bj^cr pochaua,ìi 
Bmsaacùù  repstra  la  voce  pan^fitaua  fra  qndfe  di 
9s^Mìeoen  al  Diiìonancy  Ha  noo  reca  eseDOpio  alen- 
ilo. Ndisi  che  Pcseinfiio  del  Tesoro  è  Panioo  alle- 
gato dalb  Crusca  a  sostegno  di  questa  ^rooe  io  àffir 
6oalo  di  prtche^ui. 

Gap.  XIT.  pa^.  23.  Inetto  in  greco  mdroeaiot. 

L*edizioDe  firentina  ha  Tstxt^;;  OKglio  «w^itL 

Gap.  XIV,  psK:.  24.  £  ^*^g^^  ^Jà  per  ttiik. 

Così  la  firentiiia.  La  citata:  e  F  uomo  che  soper^ 
chia  in  ciò  s*  egli  lo  fa  per  uiHe^  ec. 

Cap.  XIV,  pag.  24.  Detto  in  greco  reoopies^  ec 

La  firentina:  nc^ii/iw*. 

Cap.  XT,  pag.  24.  Onde  se  tu  vuoli^  er. 

Io  questo  perìodo  due  volte  è  ommesso  lo  meuo 
nelle  tre  edizioni  antiche,  con  evidente  errore  tipogra- 
fico. Ce!  rimisi,  gioTandomi  della  firentina. 

Cap.  XY,  pag.  25.  Appartiene  a  ciascun  uomOy 
se  non  se  solamente,  ec. 

Erroneamente  le  tre  antiche  :  appartiene  a  ciascun 
uomOf  e  debbasene  brigare  di  prenderlo  se  non  se 
solamente.  Il  taglio  è  della  edizione  firentina. 

Cap.  XYI,  pag.  26.  £  queste  cotali  operavuh 
ni,  ec. 

Qucfto  perìodo,  rìdotto  come  si  vede,  coUa  scorta 


AL  LIBAO  SEStO.  89 

dell'  edizione  trentina,  leggevasi  nelle  tre  antìch#  al 
modo  seguente  :  E  queste  cotali  operazioni  non  sono 
composte  ad  operazione  volontaria  che  non  e  isfor- 
zata.  Forse  invece  di  fòrza  vorrebbesi  leggere  Jbr" 
zata, 

Cap.  XVI5  pag.  27.  ClfC  egli  è  impossibile,  ec. 

Leggesi  nelle  citala,  e  conformemente  nell'altre  due 
iSaS,  1474  •  ^^*  ^§^''  ^  impossibile  che  Vuomojut- 
eia  le  sue  volontadi  buone,  ossero  le  bone  operazio- 
ni, ec.  Qui  mi  par  trovare  un  poco  grazioso  ripieno, 
e  credetti  che  si  dovesse  attribuire  alla  perplessità  del 
traduttore,  che  forse  non  avrebbe  lasciato  a  quel  modo 
il  manuscrìtto,  quando  ne  avéfese  preseduto  alla  pub- 
blicazione egli  stesso.  Gorreissi  colla  scoria  della  edi- 
zione firentina. 

Cap.  XVI,  pBg.  27.  Perciocché  la  opinione,  ec. 

Qui  ho  seguito  la  firentina  5  ecco  come  questo  pe- 
riodo si  legge  nella  edizione  citata,  conformemente 
alle  due  antecedenti  iSaS,  i^y/^:  però  che  la  ele- 
zione va  dinanzi  alP  operazione,  e  V operazione  va 
addietro.  Ed  è  detto  V  uomo  buono  e  reo  per  V  ope- 
razione, che  per  la  elezione  non  è  detto  né  buono, 
né  reo, 

Cap.  XVI,  pag.  28.  Lo  medico  non  si  consiglia,  ec. 

Il  non  è  della  edizione  1474  5  quella  del  1628 
r  ommìse,  e  la  citala  le  si  accompagnò  nell'  errore. 

Cap.  XVI,  pag.  28,  Le  cose,  le  quali  V  uomo  fa 
per  gli  suoi  amici,  sì  leja  per  sé. 

Così  la  fìréhlina.  EiToneamente  le  tre  antiche:  o 
per  loro  amici  se  Ja  per  se.  Solo  che  nella  i474  ** 
ha  di  più  :  silieja  per  56,  indizio  del  mancamento. 


QO  AMNOTAZIONI 

Cap.  XVI,  pag.  29.  Onde  sejhre  lo  bene, ec. .. . 

l£d  addiviene,  ec. 

Questi  due  periodi,  opportuDemente  separati  ndla 
edizione  citala,  si  hanno  congiunti  nella  fìrentina  d€l 
1734.  E  ne  fo  ricordo  affinchè  sempre  più  si  vegga 
come  a  dare  un'  esatta  lezione  del  Tesoro  non  è  pds* 
sibile  attenersi  esclusivamente  a  nessuna  edizione  dd^ 
\&  finora  comparse.  v  * 

Cap.  XVI,  pag.  5i.  iVe  non  al  suo  cominciamento. 

Questa  lezione  è  do\iita  all'  edizione  lionese  per 
Giovanni  de  Tornes,  i568  (Vedi  la  prefazione).  La 
citata  e  consorti  hanno:  sì  non  è  al  suo  cominciamene* 
fo.  La  fìrentina  finisce  a  volontà  delV  uomo. 

Cap.  XVII,  pag.  3i.  Dico  che  fortezza  si  e... 
mezzo  tra  la  paura  e  Vardìmento. 

Erroneamente  nella  citata  :  dico  che  fortezza  si  è  ,,. 
che  in  mezzo  tra  la  paura^  ec.  La  correzione  è  del- 
l' edizione  fìrentina,  a  cui  corrisponde,  come  quasi 
sempre,  la  lionese. 

Cap.  XVII,  pag.  3i.  Sono  d'una  materia,  ec 

Così  la  citata.  La  fìrentina  ha  :  maniera. 

Cap.  XVII,  pag.  32.  Grandi  ordinamenti. 

Cosi  la  citata.  La  fìrentina  e  la  lionese  :  ardimenti. 

Cap.  XVIII,  pag.  33.  Ne'  quali  noi  comunichia-* 
mo  con  li  animali^  ec. 

Nella  citata  cominciamo^  ma  comunichiamo  hanno 
d'accordo  le  due  antecedenti  i528,  i^y/\. 

Cap.  XVIII,  pag.  34.  Tal  fiala,  ec. 

Notabile  è  la  variante  che  danno  concordi  la  lio- 
nese e  la  fìrentina  :  tal  fiata  è  V  uomo  intemperato 
e  incasto,  perch* egli  s'attrista  pia  die  non  dee, 


ÀI.  LIBRO  SESTO.  9I 

quand'egli  non  puote  avere  la  cosa  ch'egli  desi- 
dera. 

Gap.  Xyni^pag.  54*  iS'e  l'uomo  si  lascia  vincere^ 
la  ragione  rimane  di  sotto^  ec.  '  . 

Cosi  la  lionese  e  la  fìrentioa.  Ma  la  citata  ha  erro- 
neamente: se  V  uomo  si  lascia  vincere  alla  ragione 
rimane  di  sotto.  Corretta  quella  del  i474' 

Cap.  XIX5  pag.  55.  Acciò  che  possa  fore  a  màltìn 

Sovvenire^  in  luogo  àìjarey  haono  concordi  la  lio- 
nese e  la  firentina.  Ma  non  toIU  scostarmi  dalla  cita- 
ta. Tanto  più  che  un  modo  consimile  di  dire  si  legge 
nel  capitolo  seguente:  lo  magnifico  non  pensa  soìa-^ 
mente  delle  sue  spese ^  ma  egli  pensa  anche  di  fare 
altrui, 

Cap.  XIX,  pag.  36.  JS  ritenere  giuoco, 

À  questo  passo  soggiungono  la  lionese  e  la  firenti- 
na :  e  di  questa  maniera  sono  gli  grandi  uomini, 
che  guastano  le  cittadi  e  rubano  le  chiese^  e  simi- 
gliantemenfe  i  ruhatori  di  strada, 

Cap.  XX,  pag.  58.  Ed  è  pigro  nelle  piccole  spe-- 
se^  ma  nelle  cose  ove  sian  grandi  onori^  ec. 

Le  tre  antiche  edizioni  erroneamente  hanno  pegno 
in  luogo  di  pigro ^  e  in  cambio  di  ove  sian  hanno  che 
s'Iva.  L'uno  e  l'altro  errore  fu  corretto  colla  scorta 
della  edizione  1754. 

Cap.  XX,  pag.  38.  £  tiene  bene  a  mente,  ec. 

Jl  niente  ha  l'edizione  1754?  e  così  nel^esto pro- 
cede alquanto  diversa  dalla  citata,  in  modo  però  ria 
non  meritare,  almeno  per  mio  avviso,  di  essere  pre- 
ferita. 

Cap.  XX,  pag.  59.  Ma  non  sono  ìndio  rei. 


(/3  ANNOTAZIONI 

Moltiy  le  Ire  antiche.  Ho  seguito  il  molto  della  lio- 
nese  e  della  firentina. 

Gap.  XXII9  pag.  4i.  NelV amistà  per  necessitade 
si  è  amore^  ec. 

Così  ha  r  edizione  Brentina.  La  citata,  e  le  altre 
due  antecedenti,  hanno  invece  :  che  V  amistà  convie- 
ne avere  compassione  ed  umile  coraggio^  la  conver- 
sazione no. 

Gap.  XXn,  pag.  ^1,  Esser  detto  discordevole. 

Gosi  la  firentina.  La  citata  e  consorti  :  discredevole. 

Gap.  XXIII,  pag,'  ^i,  L*  uomo  verace  si  è  gue- 
gliy  ec. 

Intralciata  è  la  prima  parte  di  questo  perìodo:  la 
lasciai  come  nella  citata,  non  avendo  trovato  modo  a 
correggere  con  sicurezza.  Preferirei  la  lezione  lionese  : 
/'  uomo  verace  si  è  quegli  che  tiene  mezzo  in  tra  lo 
vantatore  che  si  vanta  e  mostrasi  di  fare  grandijat- 
ti,  e  grande  dicesi  più  ch'egli  non  e,  e  in  tra  lo  disr 
pregiato  e  V  umile,  lo  quale,  ec. 

Goncorda  a  questa,  con  tenue  diversità,  la  firentina. 

Gap.  XXX,  pag.  5o.  E  di  soperchio,  o  grandi. 

Gosi  la  firentina.  Erroneamente  le  tre  antiche:  e  le 
soperchia  o  grandi. 

Gap.  XXXV,  pag.  55.  Efuore  di  volontà. 

La  lionese  e  la  firentina,  in  luogo  àìfuore,  hanno 
furore. 

Gap.  X^XVI,  pag,  55.  Migliore  che  non  è  V  os- 
simele, ec, 

.  Gosi  la  lionese  e  la  firentina.  Ridicolosameute  nelle 
tre  antiche,  in  luogo  di  V  ossimele,  si  legge  :  lo  si- 
mile. 


Ah  LIBRO  SESTO.  9  5 

Gap.  XXX VI5  pag.  55.  U  uomo  giusto  piW  per 
vita  divina. 

Così  l'edizioni  lionese  e  firentìna^  le  più  antiche: 
vive  per  vita  di  vita. 

Gap.  XXXVIII5  pag.  59.  Si  lasciano  vincere  alla 
concupiscenza^  ec. 

Cosi  la  citata.  Invece  la  firentina  :  alle  concupiscen^ 
ze  piccole. 

Gap.  XL5  pag.  61.  IjO  terzo  modo  è  delV  uomo 
che  del  bene  e  del  male  sì  parte  leggiermente. 

La  firentina  ha:  è  dell'uomo  ch'èjermo  nel  bene 
e  dal  male  si  parte»,  ec. 

Gap.  XL,  pag.  61.  Però  die  nelVuomo  lascivo^  ec. 

Così  la  firentina.  La  citata  ha  :  V  uomo. 

Gap.  XLI,  pag.  62.  E  più  agevole  a  cadere^  ec. 

Così  la  firentina  5  la  citata  :  più  eguale. 

Cap.  XLI,  pag  62.  Però  che  di  due  persone. 

Il  di  manca  nella  citala,  lo  ha  per  altro  V  edizione 
1474. 

Gap.  XLII,  pag.  65.  E  non  quello  eh'  è  cola- 
le^  ec. 

Ho  seguito  redizione  lionese.  La  citata  mi  dava  :  e 
quello  eh'  è  cotale  secondo  la  verità  ama  quelli  che 
li  pare. 

Gap.  XLII,  pag.  63.  Manifestare  retribu.zione. 

La  citata  ha  :  Manifestare  le  tribulazioni.  La  firen- 
tina invece:  manifesta  retribuzione. 

Gap.  XLII,  pag.  63.  E  coloro  che  s'amano^  ec. 

Quanto  ci  ha  fi:a  questo  primo  amano  e  il  secondo 
iridi  a  una  riga  ce  lo  posi  colla  scotta  delP  edizio- 
ne firentina  9  la  citata  aveva  soltanto  :  s' amano  insie" 


94  ANNOTAZIONI 

me  veracemente  amano^  ec.  Lezione  evidentemente 
monca. 

Cap.  XLII,  pag.  63.  Si  è  amistà  divina^  ec. 

Così  la  firentinaj  la  citata  :  si  è  via. 

Cap.  XLII,  pag.  64.  Ma  se  fosse  molto  lungo  ^  ec. 

Così  la  fìrentina  5  la  citata  :  e  non  starebbe  sefos- 
sero  molto  di  lungi.  * 

Cap.  XLIV,  pag.  65.  -£  ciascuno  di  questi  prin- 
cipati ha  il  suo  contrario^  ec. 

Qui  le  tre  antiche  edizioni  hanno  una  lacuna  mol- 
to notabile,  che  ho  potuto  empire  colla  scorta  delle 
edizioni  lionese  e  fìrentina.  Dicono  adunque  quelle  tre 
dopo  il  suo  contrario  :  però  che  il  signore  sforza  li 
suoi  sudditi  diforebene^  ed  è  studioso  di  procura- 
rcy  ec.  Di  che  vedi  a  pag.  66  della  noslra  edizione. 

Cap.  XLI V5  pag.  66.  Lo  signore  e  'Z  subdito  han- 
no relazione  insieme^  ec. 

Così  la  fìrentina.  La  citata  e  consorti  hanno  inve- 
ce :  religione.  E  anche  F  ortografìa  è  molto  guasta. 

Cap.  XLVI5  pag.  68.  JS  hanno  infra  l'uno  e  Val- 
trOy  ec. 

L'  uno  è  aggiunto  colla  scorta  dell'  edizione  fìren- 
tina 5  le  tre  antiche  ne  sono  mancanti. 

Cap.  XLVII5  pag.  69.  Lo  amore  è  pregio  di  vir- 
tude^  ec. 

La  fìrentina  invece  (V  amore  ha  enore  ^  male,  par- 
mi.  La  stessa  sconvenienza  si  trova  nella  lionese. 

Cap.  XLIX5  pag.  7 1 .  La  disposizione  della  qua- 
le procede^  ec. 

Così  la  fìrentina.  En'oneamente  quella  del  secolo 
XV,  e  le  due  seguaci  hanno  invece  :  disperazione. 


AL  LIBRO  SESTO.  ^  9 5 

Gap.  LI,  pag.  y5.  Al  contrario  di  quello^  ec. 

Così  la  firentina.  Le  Ire  antiche,  a  cohtra  Dio^  ed 
è  facile  l' intendere,  che  si  voleva  dire  al  contradio, 
come  usarono  talvolta  gli  antichi. 

Gap.  LII,  pag.  77.  Ninno  movimento  non  è  com- 
piuto secondo  la  sua  forma  nel  tempo^  ec. 

Il  non  è  compiuto  è  aggiunto  colla  scorta  dell'  edi- 
zione fìrentina.  Le  tre  antiche  ne  sono  mancanti. 

Gap.  LII,  pag.  77.  Quindi  si  lascia^  ec. 

Le  tre  antiche  edizioni  hanno  quando.  Quindi  è 
della  fìrentina. 

Gap.  LUI,  pag.  78.  La  quale  pare  alV  uomo  sa- 
no, ec. 

La  quale  pare  è  giunta  fatta  alle  tre  antiche  edizio^ 
ni  colla  scorta  della  firentlDa. 

Gap.  LIV,  pag.  79.  JE  non  nelle  cose  giocose. 

Il  non  è  della  edizione  fìrentina.  Le  tre  antiche  lo 
hanno  erroneamente  ommesso. 

Gap.  LV,  pag.  81.  Si  è  fine  della  i>ita  dell'  uo- 
mo, ed  esempio,  ec. 

Così  la  firentina.  Ecco  come  ci  danno  questo  passo 
le  tre  antiche  edizioni  :  si  è  infine.  Dà  V  uomo  esem- 
pio, ec. 

Gap.  LVI,  pag.  82.  Non  diede  a  siifflcienza,  ec. 

Così  la  fìrentina.  Le  tre  edizioni  antiche,  in  luogo 
di  diede,  hai) no  dee. 

Gap.  LVII,  pag.  83.  £  V  ammonimento  genera 
in  lei  virtù,  sì  come  fa  il  seme  eh'  è  seminato  in  bona 
terra.  Conviene  a  ciò  che  V  uomo,  ec. 

Così  la  fìrentina.  Molto  diversamente  la  edizione 
citata,  e  le  due  consorti  :  o  movimento  genera  in  lei 


gG  AimÒTAZioin . 

virtù^  sì  comeja  il  seme  cK  è  seminalo  in  bona  ter- 
ra^ acciò  che  V  uomo,  ec.  E  cosi  nel  resto  del  perio- 
do sonovi  cambiamenti  notabili,  che  lo  peggforaDO  da 
quello  ch^  esso  è  presentemente. 

Gap.  LVn,  pag.  84.  -^  coloro  che  non  osseTwi- 
no  la  legge  e  li  suoi  comandamenti. 

A  coloro  manca  nelP  edizione  citata  e  consorti^  si 
trova  neir  edizione  firentina.  In  questa  poi,  per  cohh 
penso,  manca  :  addwegna  cW  egli  facciano  bene. 

Gap.  LYIl,  pag.  84.  //  hwmo  ponitore  della  leg- 
ge, ec.  • 

La  citata  ha  punitore,  ma  erroneamente,  copiando 
r  edizione  del  1628.  La  lezione  genuina  da  me  scelta 
è  delP  edizione  più  antica,  i474-  ^  ^i^  questa  una 
delle  molte  pruove  che  la  citata  ricopiò  Pantecedente, 
poco,  e  forse  nulla,  badando  a  quella  del  secolo  XY. 


97 

LIBRO  Settimo.      • 


Capitolo  J. 

Qui  comincia  li  ammaestramenti  delli  rizii  e  delle  virtudi 

del  Tesoro. 


A, 


-ppresso  che  '1  maestro  ebbe  messo  in  iscritto  il 
libro  dell'Etica  d' Aristotile,  eh'  è  quasi  fondameal  o 
di  questo  libro,  vuole  egli  seguitare  la  sua  materia  su  li 
insegnamenti  delle  moralitadi  per  meglio  dischiarare 
li  detti  d'Aristotile 5  secondo  che  1'  uomo  trova  per 
molti  savi:  che  tanto  quanto  l' uomo  ammassa  ed  ag- 
giunge più  di  buone  cose  insieme,  tanto  cresce  quello 
bene  ed  è  di  maggiore  valuta.  E  ciò  è  per  l'opera  che 
tutte  le  arti  e  tutte  le  opere  ciascuna  vuole  alcuno  bene: 
ma  secondo  che  le  operazioni  sono  diverse,  così  son  al- 
cuni beni  diversi,  che  ciascuna  cosa  richiede  lo  suo  bene 
che  è  proveduto  al  suo  fìne.  E  tra  tanti  beni  quello  è 
più  nobile  di  tutti  che  richiede  più  bontà  ed  ha  mag- 
giore valore.  Che  così  come  l' uomo  ha  la  signoria  di 
tutte  le  creature,  così  l'umana  compagnia  non  può  esser 
'altro  che  d'uomo^  e  così  è  di  tutti  gli  uomini  ch'egli  sono 
sopra  ad  altrui  o  egli  sono  sotto  altrui  3  e  così  come 
tutte  le  creature  son  signoreggiate  dall'  uomo,  così  o- 
gni  uòmo  è  signoreggiato  dall'  uomo,  che'l  signore  ò 
Latitti,  Foh  IL  6 


98  IL  TESORO. 

per  guardare  i  suoi  beni,  ed  ellì^ono  per  ubbidire  al 
loro  signore  ;  e  l' un  e  V  altro  cresce  a  profiUo  del- 
la comune  compagnia  di  gente  senza  torto  e  senza 
onta.  E  già  addiviene  che  Tuomo  è  chierico,  donde 
mostra  la  religione  e  la  fede  di  Gesù  Cristo  e  la  glo- 
ria de'buoni  e  l'inferno  deVeij  l'altro  è  giudice,  o  me* 
dico^  o  altro  maestro  di  chieiicìa,  e  l'altro  è  laico,  che 
fa  1'  uno  la  magione,  9 1'  altro  lavora  la  terra  per  suo 
frutto,  e  l'altro  è  fabbro  o  cordovaniere  o  d'altro  me- 
stieri che  sìa.  Io  dico  eh'  elli  sono  tutti  Tolonterosi  a 
quel  bene  che  appartiene  alla  paziebza  comune  de- 
gli uomini  e  delle  cittadi,  perche  elli  appartiene  qoel 
bene  dove  intende.  II  governatore  degli  altri  è  più  no- 
bile e  più  onorevole  degli  altri,  che  elli  dirizza  tutti^e 
tutti  sono  per  .dirizzare  lui. 

•  a 

Capitolo  II. 

Delle  maniere  di  beni. 

Dall'  altra  parte  egli  sono  tre  maniere  di  beni.  Una 
dell'  anima,  ed  una  del  corpo,  ed  un'  altra  di  ventu- 
ra 3  ma  sì  come  l' anima  è  la  più  nobile  parte  dell'oo- 
mo  che  gli  dona  vita  e  conoscenza  e  memoria,  secón*' 
do  che'l  maestro  disse  nel  primo  libro  del  sapore 
dell'anima,  così  sono  questi  beni  sopra  tutti  gli  altrt^ 
che  ciascuno  ufficio  ha  in  sé  la  natura  di  suo  mestie** 
ri.  Aristotile  dice,  ch^egli  è  nèll'  anima  due  potenze. 
Una  eh'  è  senza  ragione,  e  questa  è  comune  a  tcftti 
li  animali.  Ed  un'alti:a  per  ragione,  eh'  è  nello  ioten-» 
dimento  dell'uomo  in  cui  è  la  potenza  della  Tolootà^ 
che  può  esser  chiamata  ragionevole  tanto  com'ella  è 


LIBBO  SETTIMa  99 

«bliìdieD'te  fldk  ragione.  Dairaltra  parte  o  egli  è  onesto 
m^egfi  èprofittabOe  o  egli  è  nel  mezzo  luogo  dell' u- 
no- e  édH^  akro;  ma  come  che  si  sia,  o  il  bene  è  desi- 
tevlo  per  sé  medesimo  o  egli^è  desiderato  per  altra 
cosa  <iie  per  lui^  che  ciascuno  desidera  la  virtù  per  a-« 
vere  beatitudine,  cioè  l'onore  e  la  gloria  che  esce  del- 
le virbfdi  e  delle  opere  virtuose,  ed  è  la  fìne  il  com- 
punente  perciiè  Tuomo  opera  le  opere  di  virtude^  ma 
qnella  beatiladine  non  è  desiderata  per  altro  fine  che 
per  fiè  medesimo;  ma  quella  non  è  già  compiuta  per 
vdk»tà  solamente,  anzi  conviene  ch'ella  abbi  compi- 
OMOto  d' opera  dopo  la  buona  volontà,  che  si  coma 
qHegU  die  h  opere  di  castità  contro  al  suo  volere  noa 
dee  «ssefe  contato  casto,  cosi  non  perviene  V  uomo  a 
beatitodine  per  opere  di  virtù  che  faccia  contro  al  suo 
grado  ^  così  quegli  che  tiene  sua  volontade  senza  fre- 
no di  fagione  vive  a  modo  di  bestia  senza  virtù. 

Capitolo  III. 
Come  YÌitude  è  migliore  bene  di  tutti. 

Per  questo  e  per  molte  altre  ragioni  pare  chiara- 
mente che  intra  tutte  le  maniere  di  bene,  quello  ch'è 
onesto  è  migliore,  si  come  colui  che  governa  e  man- 
tiene vita  onorevole;  che  virtù  ed  onestà  sono  una 
medesima  cosa  che  noi  allieva  per  sua  dignità.  Tullio 
dice,  che  virtù  è  si  graziosa  cosa  che  nullo  reo  può 
soffrire  di  lodare  le  migliori  cose,  però  dee  1'  uomo 
■scegliere  ed  imprendere  virtudi.  E  per  lo  compimen- 
to della  ragione  dee  V  uomo  di<%pregiare  ciascuna  cosa 
tanto  com'dla  si  vuole  dis[)regiare;  che  la  moralità  ha 


I  OO  IL  TESORO. 

tre  parti.  Una  che  divisa  la  dignità  e  la  valenza  me- 
désioìàmentedi  cose  profittevoli.  L'altra  che  ritragge  le 
convenenze.  E  la  terza  che  governa  le  virtudi.  Se- 
neca dice^  che  ninna  ^osa  è  più  bisognosa  che  conta- 
re ciascuna  cosa  secondo  la  sua  valenza.  Tullio  dire, 
colui  è  onesto  che  non  ha  ninna  laidezza,  che  onesta 
non  è  ninna  cosa*  altro  che  onestade  e  permanenza. 
Seneca  dice,  virtù  è  del  tutto  accordare  a  ragione.  S. 
Bernardo  dice,  virtù  è  uso  della  volontà  secondo  lo 
giudicamento  della  ragione.  Seneca  dice,  la  regola 'del- 
la virtù  si  è  la  diritta  ragione.  Tullio  dice,  lo  comìn- 
ciamento  di  virtudi  è  radicato  intra  noi  in  tal  manie- 
ra, che  s'elle  potessero  crescere  certe  nature  ne  me- 
nerebbero a  beatitudine,  ma  noi  istendiamo  lì  bran- 
doni  che  natura  n'  ha  donali.  S.  Bernardo  dice,  tutte 
virtù  sono  nell'  uomo  per  natura,  e  però  che  virlnde 
è  per  natura,  s'aggiunse  con  essa  P anima.  Seneca  di- 
ce, virtù  è  secondo  natura,  ma  i  vizii  sono  suoi  ni- 
mici.  Aristotile  dice,  virtù  è  abito  di  governare  ja  vo- 
lontn  per  ammonimento  secondo  la  virtude,  e  l'ammo- 
nimento intra  due  malizie  del  sopra  più  e  del  meno. 
Boezio  dice,  virtù  tiene  gli  uomini.  Agostino  dice,  vir- 
tù è  la  buona  maniera  del  coraggio  perchè  nullo  non 
taccia,  male,  che  Dio  fece  noi  senza  noi,  cioè  a  dire  che 
egli  la  mette  in  noi  senza  nostro  aiuto,  ma  l'opera  v'è 
per  noi,  sì  come  tu  aprissi  una  fenestra  che  la  chia- 
rezza che  la  gitta  è  senza  tuo  aiuto.  Seneca  dice,  sap- 
piate che  quello  non  è  virtuoso  che  somiglia  d' essere, 
ma  quegli  eh'  è  buono  in  suo  cuore,  che  '1  savio  pro- 
vede tutte  le  cose  dentro  da  sé.  Addivenne  un  dì  che 
un  buono  uomo  sì  fuggiva  sdlo  ed  ignudo  di  sua  cit- 


a  In  scHnoBoa  <■  oBpsuudKS  ooaie  ■ 
ke^ao  seco»  o  Yogl&  £nnio>9aB;jlB  cfae  npleBda  nel 
loo^  OKOBOu  con  è  b  boooa  opoa  ooolia  takiifto. 
iperò  dine  sailo  Mattea,  senia  looena  a  è  tcnelKei  le 
tenefape  dice  che  sannaou  Su  Beftmdo  dipe.  Meglio  è 
tenebre  di  foori  che  riliicaite  dnasa.  Alb  Terìlà  diie, 
r  anaia  di  oohii  che  &  colale  open  si  è  come  il  cor- 
po seoca  Tita.  e  cume  V  uomo  riooo  cbe  ooo  ha  nulla. 
Boezio  disse,  che  oollo  tìzio  è  senza  pena,  e  noUa 
vHiù  senza  lode.  Seneca  dice,  le  lealude  delle  oneste 
cose  son  in  coloro  medesimi,  cioè  a  dire  la  gioia  del 
cuore.  Seneca  dice^  Terace  firutto  delle  cose  ben  fet- 
te si  è  intra  loro  cbe  di  fuori  non  han  nulla  suflln 
dente  alki  virtude.  S.  Bernardo  dice,  noi  non  perdia- 
aio  lo  diletto,  ma  sono  rimutato  di  cuore  ali*  anima,  e 
rli  senno  alla  conscienza.  Agostino  <lisse«  V  essei'e  di 
virtù  si  è  altresì  come  la  fontana M'altegreztii  die  na- 
sce, dentro  la  casa.  Senera  dice,  tu  credi  ch^io  ti  tolki 
aioUi  diletti  perchè  ioli  biasimi  le  qoms  di  foilima.  ma 


IOa  IL  TBSOEO. 

non  è  coù,  anzi  ti  doQO  io  perpetua  allegrezza  quando 
io  veggio  che  ella  non  sia  in  tua  magione,  cioè  in  tuo 
cuore.  Seneca  dice,  tu  credi  che  quello  sia  lieto  per- 
chè ride,  ma  lo  cuore  conviene  che  sia  gioioso.  Salo- 
mone disse,  egli  non  è  niuno  diletto  maggiore  che 
quello  del  cuore.  Anche  disse,  dispiacerai  quelle  co- 
se che  risplendono  di  fuori,  ed  allegrati  di  te.  Dlacca- 
beo  dice,  virtudi  fanno  solamente  uomini  bene  ope- 
rando. Seneca  dice,  diritta  ragione  concupisce  la  buo- 
na vita  dell'  uomo.  Yirtù  è  chiamata,  però  ch^ella  dn 
fende  suo  signore  a  forza ^  però  non  inviò  Gesù  li  suoi 
discepoli  dopo  la  sua  passione,  anzi  che  le  loro  virtù 
fussero  mentovate.  Santo  LUca,  non  venite  nella  città 

infìno  a  tanto  che  voi  siate  vestiti  di  virtude.  Sene- 

• 

ca,  nullo  muro  è  difendevole  del  tutto  contra  fortuna  3 
però  si  dee  V  uomo  armare  dentro,  però  che  s^  egli  è 
gueiTeggiato  dentro,  ibdito  può  egli  essere,  ma  non  vin- 
to. Tullio,  lo  corraggio  del  savio  si  è  barca  di  virtude 
si  come  di  muro  e  di  fortezza.  Agostino,  sì  come  or- 
goglio ed  odio  od  altro  vizio  abbatte  un  regno,  cosi 
il  mette  virtù  in  pace  ed  in  gioia;  che  virtù  fa  be- 
ne,, aggiungonsi  movimenti  air  anima  che  la  fan  sta- 
bilire, e  h  diserti  fa  prati  verdicanti.  Santo  Bernar- 
do disse,  io  trovo  che  se  le  bestif  parlassero  elle  di- 
rebbono  ad  Adamo,  fate  come  uno  di  noi.  Però  disse 
lo  maestro,  che  la  beata  virtù  sormonta  il  sole  e  la 
luna,  ma  egli  v^  ha  nere  cose,  che  Agostino  disse  che 
lo  rio  ha  tutte  le  belle  cose;  però  fece  bene  Diogenes, 
quando  uno  laido  tomo  mostrò  sua  casa  ornata  di 
oro.  e  di  pietre  preziose  in  tutti  li  luoghi,  ed  egli  lor- 
do con  loro,  elisegli  non  vide  pio-vii  cosa.  Salomone  dù^ 


LIHBIO  S£TTUf O.  I  a5 

SO,  V  uomo  sayk>  ha  prezioso  spìrito;  ed  allora  disse 
egli  medesimo,  meglio  vale  un  pròde  uomo  che  uno 
malvagio.  Salomone  disse,  meglio  vale  cervio  vivo 
due  leone  morto. 

Capitolò  IV. 
•     .   .  .*. 

Qui  divisa  il  maestro  delle  rirtodi. 

•  

Tirtude,  dice  Tullio,  che  anticamente  non  fu  co- 
gnosciuta,  perchè  la  debilezza  delPuomo  non  sapea 
ancQi'a  niente  delli  autori,  ma  tuttavìa  fu  tenuto  buo- 
«lo  uomo  quello  che  bene  si  mantenea  contra*alli  di^ 
lori^  ma  apprava  li  avvenimenti  delle  cose  che  avve^ 
gnono  di  tempo  in  tempo,  insegnò  poi  agli  altri,  e 
le  antiche  storie  testimoniano  primieramente.  Abel 
venne  per  dimostrare  la  nostra  usanza  ed  a  dimostra* 
re  netta  yia.  Enoch  venne  per  dimostrare  fermezza  di 
fede  e  d^  opera.  Noè  a  dimostrare  castità  di  matri- 
monio. Isaach  venne  a  dimostrare  franchezza  contra 
lo  travaglio.  lacob  a  rendere  bene  per  male.  losef 
a  mostrare  mansuetudine.  Moisè  a  mostrare  fidanza 
cootra  le  disavventure.  losuè  a  mostrare  pazienza 
contra  il  tormento.  lob  a  mostrare  umiltà  e  carità. 
Yenne  Gesù  Cristo,  in  santo  Matteo,  e  disse:  Appren- 
dete da  me  che  son  umil^.  Santo  Giovanni  divisa  la 
carità  di  Cristo,  e  la  sua  umiltà,  quando  egli  lavò  gli 
piedi  alli  apostoli.  £  però  che  virtù  è  sì  bidono  inse- 
gnamento, che^suoi  frutti  sono  di  tanto  profìtto,  co- 
me tutti  li  savi  lo  testimoniano^  dico  io  che  V  anima 
che»ne  è  bene  ripiena,  è  interamente  nella  gioia  del 
paradiso  terreno:  che  in  luogo  di  quattro  fiumi  ha 


Io4  n-  TSSOAO. 

r  amoB  (|iBttro  TÌiiiidì  die  V  aiiitaoo.  e  le  danno 
m  «Iti  soGcorn  ^ontra  aDa  Tolantà  della  carne,  ne^oo- 
ghi  che  la  Bibbia  dice,  qoegli  si  è  mollo  in  ;dto  per 
ma^iore  forza  arere.  Anche  è  P  anima  alta,  «*'«*'nii» 
che  Seneca  dice,  lo  cuore  del  savio  è  come  il  moii-? 
ónfj  eh'  ^li  ha  sopra  la  luna  là  q\e  ha  tallo  dicfaift!- 
rato.  cosi  poote  essere  tale  anima  somigflanle  al  pa-r 
radiso  celestiale.  L' una  cagione  eh'  eQa  è  magion  di 
Dio,  secondo  che  santo  Giovanni  disse^  che  nulla  cx>? 
sa  non  è  più  chiaara  ne  più  pura  <^1  cuore  ove  Id- 
dio abita, ch'ali  non  si  diletta  in  grande  mostramen- 
t^d'  oro  e  di  pietre  preziose,  ma  in  anima  ornata  di 
virtude,  e  V  altra  parte  di'  dia  è  in  luogo  di  chiarez- 
za, lob  dice,  sapete  la  ria  che  \iene  dùarezza,  cioè 
per  la  rirtà,  però  che  quello  è  luc^o  d'all^prezza.  Lo 
secondo,  che  Seneca  dice,  il  conto  medesimo  Tha  del-r 
lo  assai  innanzi,  e  dirà  ancora  qui  appresso. 

Capitolo   V, 
Come  r  uomo  dee  osare  la  TÌrtude. 

Tutti  grinsegnamenti  che  confortano  V  uomo  ad 
operare  di  virtude  diviene  per  quella  medesima  via 
a  guardare  se  da  vizii,  specialmente  giovano  che  ap» 
pi'ua  può  essere  savio  o  virtuoso,  secondo  che  Ari- 
stotile disse,  però  eh'  egli  non  può  essere  savio  sen- 
za lungo  cgrcameoto  di  molte  rose,  e  lungo  cercemento 
richiede  lungo  temjpo,  però  troviamo  noi  il  primo  libro 
rifila  Bibbia,  che  senno  senza  pensato  d'uomo  è  simile 
ai  vizii  de'  giovani.  Salomone  disse,  guai  alla  ten^a^che 
ha  giovane  re,  egli  non  può  valei*e  s' egli  è  giovane 


LIBRO  SETTIMO.  Io5 

per  tempo  o  per  povertà  di  virtude,  ed  è  somigliante 
al  re  Roboam,  che  si  tenne  più  al  consiglio  de' giova** 
Iti  che  ài  buono  de'  vecchi,  e  ce|to  volontà  non  dee 
Ifpere  donna  sopra  la  ragione,  eh'  ella  è  sua  serva. 
Sàlómopedice  che'l  servo  non  dee  avere  signorìa  so- 
pra li  principi,  e  però  diss'  egli  medesimo,  il  malva- 
gio è  pifcso  per  le  noie  e  per  le  iniquità,  e  ciascuno 
è  legato  alle  corde  del  suo  peccato.  Agostino  diSse,  io 
piangerò  l^rto  non  dalle  altrui  catene,  ma  per  mio 
grado,  che  quivi  ove  la  mia  volontà  è  donna,  ella 
cre9(*e  e  diletta,  poi  ritorna  a  necessità.  Che  quando 
l'uomo  usa  la  sua  vita  ne'vizii,  egli  li  pare  troppo 
grave  lo  giogo  delle  virtudi,  ed  è  somigliante  a  colui 
eh'  esce  del  luogo  tenebrosb,  che  non  puote  sostenere 
la  luce  del  sole.  Gregorio  disse,  i  rei  son  tormentati 
dentro  dal  loro  cuore  per  le  male  volontà.  Agostino 
disse,  cuore  tdlte  ordinato  si  è  pena  di  sé.  Seneca  disse, 
già  che  'l  mio  misfatto  non  sia  saputo  dagli  altrì,  non 
però  il  travaglio  del  tuo  cuore  non  se  ne  posa,  però 
eh'  egli  sente  suo  male.  Il  poeta  disse,  la  prima  ven- 
detta è  che  ciascuno  incolpi  se  del  suo  vizio.  La  cor- 
scienza  del  malfattore  è  tuttavia  in  pena,  però  che  le  o- 
pere  di  virtude  sono  mezzane  cose,  e  natura  medesima 
si  conforta  mezzanamente,  e  si  conturba  del  sopra  più 
.  e  del  meno  ;  si  come  il  vedere  si  conforta  del  colore 
verde,  perchè  è  mezzo  tra  lo  bianco  e'I  nero,  si  come 
la  valente  femioa  si  rallegra  quando  ha  conceputo  bel- 
lo figliuolo,  e  contristasi  se  fosse  una  cosa  centra  na- 
tura, così  si  allegra  l' anima  del  prò'  di  virtude,  sì  co- 
me di  suo  frutto,  e  si  smaga  de'  vizii  che  sono  conira 
lei,  usa  tutto  giorno  di  ben  fare.  Che  Tullio  disse,  che 


Io6  n.  TB90&0. 

1^  nomò  dee  scegliete  la  più  mi^iore  cosa  della  TRtii* 
de,  die  Taomo  la  &  pio  leggiere,  però  che  la  fievole»- 
sa  deli^  aomo  si  è  essere  poco  resistente  a^  tìzìL  Se« 
neca  dice,  ah!  coinè  Paomo  è  vile  e  dispr^vole cfl||i 
se  non  si  aliena  da^ vìiii  V  amane  cose;  e  quando  arà 
è,  egli  allora  è  gentile  e  di  troppo  alta  natura  quando 
soa  volontà  è  ubbidiente  a  ragione,  allora  dico  io  che 
la  nobile  partita  e  colui  sia  donna  e*  reina  del  reame 
del  cuore;  e  questo  uomo  è  chiamato  pobile  por  le 
nobili  operazioni  di  virtù,  e  di  ciò  nacque  in  priDna 
nobiltà  di  gentil  gente,  e  non  di  quelli  antichisàmL 
E  ad  essere  di  cattivo  cuore  e  di  gran  legnaggio  si  è 
come  cosa  di  terra  coperta  di  fino  oro  di  fuori;  e  di 
ciò  disse  Salomone,  bene  avventurata  è  la  terra  che 
ha  nobile  signore,  perchè  la  ragione  che  dà  nobiltà, 
abbatte  tutte  malvagità.  Seneca  dice,  nobfle  sarà  egli 
colui  cb'  è  per  natura  istabilito  a  virtcì^. 

Capitolo  VL 

Di  dae  maniere  di  TÌrtudi. 

Tirtù  si  è  in  due  maniere.  Una  contemplativa,  ed 
una  di  memoria;  e  sì  come  Arìstotile  dice,  tutte  le 
cose  desiderano  alcuno  bene,  che  ha  il  suo  fine,  io 
dico,  che  la  virtù  contemplativa  stabilisce  l' anima  al- 
la sovrana  fine,  cioè  al  bene  de^  beni.  Ma  le  memo- 
riali virtudi  islaJ)iliscono  il  cuore  alla  virtù  contem- 
plativa ;  e  però  vuole  il  maestro  prima  divisare  della 
virtù  memoriale,  però  eh'  ella  è  come  materia,  per 
che  Puomo  viene  alla  contemplativa.  Ragione  coman- 
da: vedete  un  maestro  che  vuole  aver  uno  strumento 


umo  sBTTfxo.  107 

per  meniona,  e  or  {Mrende  materia  dì  cosa  dora,  cioè 
ferro^  e  poi  lì  fò  punta  per  pensiero,  che  altrimenti  se 
la  materia  non  fosse  dora,  ed  ella  non  avesse  pcmta, 
C|^  non  potrebbe  yenìre  a  fine,  cioè  a  quello  di^  egli 
ha  memoriato.  E  tutti  gli  uomini  che  vogliono  alcuna 
cosa  fitre^scelgono  prima  quella  memoria  e  quella  ma- 
ter»,  eh?  è  convenevole  alla  fine  della  sua  operarne; 
eoù  dee  ciascuno  la  vita  ch^  è  compresa  per  virtù  del- 
la memoria,  per  governare  sé  intra  le  corporali  cose, 
die  poi  sìa   ordinato  ed  apparecchiato  a  Dio  servir^ 

ed  amare  e  seguire  sua  divìnitade. 

• 

Capitolo  VII. 
Della  TÌrtù  morale. 

4 

<  Tutti  i  savi  s' accordatK),  che  virtù  contemplativa 
ha  tre  parti,  cioè,  fede,  speranza  e  carità,  e  la  virtù 
di  memoria  si  è  divisa  in  quattro  membi'a,  cioè  pru- 
denza, temperanza,  fortezza  e  giustizia.  Ma  a  bene  co- 
gnoscere  la  verità,  troverai  che  prudenza  è  fonda- 
mento delF  una  e  dell'  altra,  che  senza  senno  e  senza 
sapienza  non  puote  V  uomo  bene  venire  né  a  Dio, 
né  al  mondo  ^  però  disse  Aristotile,  che  prudenza  è  la 
virtù  delP  intendimento,  e  della  cognoscenza  di  noi, 
ed  è  la  fortezza  e  il  govemamento  della  ragione  ^Iba 
le  altre  tre  memorie  sono  per  drizzare  la  volontà  e  le 
opere  di  fuori,  e  ciò  non  pu5  P  uomo  fare  senza  il 
consiglio  della  prudenza;  ma  tutte  queste  quattro  vir- 
tù sono  raggiunte  insieme,  cl\è  nullo  uomo  del  mon- 
do puote  avere  P  una  perfettamente  senza  le  altre  uè 
le  altre  senza  ciascuna.  E  come  può  P  uomo  essere 


Io8  IL  TESORO. 

^avio  che  non  sia  fòrte,  e  temperato,  e  giusto?  £  co- 
me può  r  uomo  essere  giusto,  se  non  è  savio,  e  Ibrte, 
e  temperato  ?  Altresì  non  può  Tuomo  essere  forte,  né 
temperato,  se  non  ha  le  altre.  Or  è  ciò  dunque  una 
massa  quadrata,  per  guardare  V  uomo  intorno  intor- 
no, che  di  ritto  non  ci  sono  posate  le  dottose  cose,  dae 
noi  iy)D  possiamo  vedere  apertamente.  Di  quelle  cose 
ci  guarda  prudenza,  che  tosto  istabilisce  per  suo  sen*^ 
no,  e  dirizza  suso  le  ragioni,  allegrezze,  e  tutte  buone 
opere.  Contra  ciò  apparecchia  la  temperanza,  che 
non  lassa  dismisurare  per  orgoglio,  ne  per  allegrexsa, 
anzi  ne  trae  seco  posate  le  avversità,  e  li  dolori,  gob-, 
tra  cui  noi  difende  forza,  che  ci  conforta  ed  assicura 
contra  tutti  li  pericoli^  ma  tutte  le  cose  che  V  uomo 
sa  e  vede  senza  nulla  dottaoza,  sono  quasi  dinanzi  ^ 
nostri  occhi,  però  giustizia  passata  pare  dinanzi,  da 
noi,  perchè  'sua  viitù  non  è  se  non  certana. 

Capitolo  Vili. 
Della  prima  virtù;  cioè  della  prudenza. 

Per  queste  virtù  possiamo  noi  intendere  che  questa 
virtù,  cioè  prudenza,  non  è  altro  che  senno  e  sapien- 
za, di  cui  Tullio  dice,  che  prudenza  è  cognoscenza 
d  A  bene  e  del  male  e  delP  uno  e  dell'altro  5  e  però 
disse  egli  medesimo,  ch'ella  va  dinanzi  all'  altre  vir- 
tù e  porla  la  lucerna  e  mostra  all'altre  la  via;  ch'ella 
dà  il  consiglio,  ma  le  altre  tre  fanno  le  opere.  11  consi- 
glio dee  andare  sempre^  innanzi  al  fatto,  sì  come-Sa* 
lustio  dice,  innanzi  che  tu  cominci  ti  consiglia,  e  quan- 
do tu  se' consigliato  ùk  tosto  l' opera;  che  Lucano  di- 


UWkO  SBTTUIO.  109 

ec^  eaccìa  tutti  V  mdugiì,  che  saaopre  fa  male'  P  atten- 
dere a  ec^ui  che  è  apparecchiato.  Saloioooe  dice,  li 
tuoi  occhi  yadano  dinanzi  a'  tuoi  piedi,  cìoh  a  dire<:he', 
tuoi  consigli  vadano  dinand  alle  tue  opere.  Tullio 
dice^  poco  vale  V  aqrmadura  di  fìiori  sei  consiglio  non 
è^  dentro.  Il  conto  dice  qua  a  dietro,  che  prudenza  è 
eognoscensa  di  buone  cose  dalle  rie,  e  dell^una  e  ddl-^ 
l' altra,  che  per  (preste  virtudi  sa  V  uomo  divisare  lo 
iMsne  dal  male,  e  V  uno  dall^  altro.  Di  cui  disse  Glia-. 
am,  che  .la  cc^oscenaa  del  male  noi  ammaestra  per 
guardare  che  nullo  puote  il  bene  cogoosoere  se  non^ 
per  la  cognoscenea  del  male;  e  tùascuno  che  &  il  be^ 
ms^  per  la  cognosceiiza  del  male  il  fa:  pesò  dico  io,  seo^ 
no  è  degna  cosa,  che  non  è  ninno  uomo  che  non  de- 
sideri d' essere  savio.  Avviso  che  bella  cosa  n  è  so- 
prestare  gli  altri  di  senno,  e  parmi  malf  cosa  e  laida 
di  garrire  e  di  folleggiare,  e  d'essere  non  saputo,-  a 
d' essere  dicreduto.  Salomone  dice,  per  tutte  le  tue 
possessioni  accatta  sapienza  ch'è  più  preziosa  cosa  che 
nullo  tesoro.  Anche  dice,  più  vale  sapienza  che  tutte 
le  ricchezze,  e  nulla  cosa  amata  puote  essere  eguaglia- 
ta a  lei. 

Capitoix)  IX. 

Qui  parla  Seneca  della  prudenza. 

Chi  vole  prudenza  seguire,  ed  egli  anderà  per  ra-> 
gione,  viverà  dirittamente  s'egli  pensa  tutte  le  cose  di- 
nanzf,  e  s'egli  mette  in  ordine  le  dignità  delle  cose 
secondo  loro  natura,  e  non  secondo  che  certi  uomini 
pensano  ;  che  cose  sono  che  paiono  buone  e  non  so- 
no, ed  altre  cose  son  buone,  che  paiono  rie.  Tutte 

Latini.  Foì.  II,  7 


irò  IL  TBSOBO. 

le  cose  che  to  ìm  Iransilohe  dob  le  credei^  gm- 
di.  Cose  che  ta  hai  in  te  non  le  guardale  niente  e»- 
me  se  le  fossero  d^  altroi,  ma  per  tue  come  tiié.-Se 
tu  ^-uoli  arere  prudenza  sii  uno  in  tutti  li  luoghi, 
non  morere  te  per  lo  isvariar  delle  cose.nia  guarda  le 
si  come  la  mano  la,  che  tutto  il  giorno .  è  una  mède- 
sima,  e  quando  ella  è  chiosa,  e  quando  dUa  è  aperta.** 
La  natura  del  savio  è  d^  esaminare  e  di  pensare,  in- 
suo  consiglio  ÌDoanzi  che  corra  die  cose  ùAse  per  ag- 
gela credenza.  Delle  cose  che  sono  da  dottare  non 
dare  la  sentenza,  ma  tienila  pendente,  e  non  la  fermi-: 
re,  però  che  tutte  le  cose  vensimili  non  son  vece^  e 
ciascuna  cosa  non  verisimile  non  è  &lsa.  La.  verità  ha 
molte  volte  £M3CÌa  di  menzogna  e  coperta  in  simigtian- 
za  di  verità,  e  come  e^  lusinghieri  che  cuoprono  loro 
raentellamenti  per  bella  cera  di  suo  viso,  poote  la  fis- 
sila ricevere  colore  e  simigtiama  di  sì  alta  verità  per 
meglio  diservire.  Se  tu  vogli  esser  savio  tu  hai  a  ooi^' 
siderare  le  cose  che  sono  a  venire,  e  pensare  in  tuo 
coraggio  tutto  ciò  che  addivenire»  può.  Nulla  sulnta 
cosa  V  addivegna  che  tu  non  abbi  in  prima  prevedu- 
ta, che  nullo  prode  uomo  non  dice,  così  non  crede- 
va io  ancora,  né  non  dottava.  Al  cominciamento  di 
tutte  le  cose  pensa  la  fine,  che  V  uomo  non  dee  tal 
cosà  cominciare  che  sia  male  a  perseverarla.  Lo  savio 
nomo  non  vole  ingannare  altrui,  e  non  puote  essere 
ingannato.  Le  tue  operazioni  sieno  come  sentenze.  Li 
vani  pensieri,  che  sono  simigliaoti  a  sogni,  non  li  rice- 
vere; che  se  tu  te  ne  dilettarai  quando  tu  pensarai  tutte 
le  cose,  tu  sarai  tristo.  Ma  tua  cogitazione  sia  ferma 
e  certa  in  pensare,  ed  in  consigliare,  ed  in  chiedere. 


LIBRO  SBrmO.  Ili 

T^a  parola  non  sia  vana,  ma  per  insegnare,  o  per  co- 
mandare. Loda  lemperatamente,  e  pra  temperatamente 
biasàna,  però  che  '1  troppo  lodare  è  altresì  biasimato, 
etsmiB  il  troppo  biasimare  3  che  in  tn^po  lodare  potrd>- 
be' avere  sospizione  dì  lusinghe,  ed  in  troppo  biasimare 
poò  essere  sospezioni  d^odio.  Dà  lo  tuo  testimonio  alla 
venta.  La  tna  promissione  sia  con  grande  detiberazione, 
e  sia  il  dono  maggiore  che  P  impromessa.  Se  tu  se'savio 
dèi  ordinare  tuo  coraggio  secondo  tre  tempi,  in  questa 
maniera.  Tu  ordinerai  le  presenti  cose,  e  provederai 
a  cpelle  che  sono  a  venire,  e  licorderaHi  di  quelle  che  * 
sodò  passate;  che  quelli  che  non  pensano  le  cose  pas- 
«ftte  perdono  loro  vita,  si  come  non  sono  savi,  e  quegli 
rhe  non  provede  le  cose  che  sono  a  venire,  si  è  in 
itMo  non  savio,  sì  come  colui  che  non  si  guarda  ;  pen- 
aa  nel  tuo  cuore,  le  cose  che  sono  a  venire,  e  le  cose 
buone,  e  le  rie,  sì  che  possi  sofferìre  le  rie,  e  tempe- 
rare le  buone.  Non  sii  sempre  in  opera,  ma  alcuna 
volta  lascia  posare  tuo  coraggio  ;  ma  guarda  che  quel 
posare  sia^pieno  di  sapienza  e  di  onestade.  Lo  savio 
non  p^giora  di  riposare,  anzi  è  alcuna  volta  il  suo 
cuore  istato  un  poco  istanco,  e  non  sarà  però  disie- 
gato,  né  non  averà  però  rotti  li  legami  del  senno  ; 
ch^^li  avaccia  le  cose  tardate,  e  le  impacciate  ispedi- 
sce,  però  eh'  egli  si  è  da  quale  parte  Puomo  dee  co- 
mindare  le  cose,  e  coramelle  debbono  essere.  Per  le 
aperte  cose  dei  tu  intendere  le  scure;  e  per  le  piccio- 
le  le  grandi  ;  e  per  le  prossimane  quelle  dalla  lunga , 
é  per  una  parte  dei  tu  intendere  tutto.  Non  ti  ismo- 
va  V  autorità  di  colui  che  dice,  ma  guarda  ciò  ch'egli 
ha  detto.  Dimanda  tali  cose  che  possano  essere  tro- 


f  f  2  IL  TBSOaO» 

•vate.  Desidera  a  te  tali  cose,  che  tu  le  possi  «iisiare  d»^ 
nanii  ad  ogni  uomo,  e  noa  moatare  in  sì  alto  laogjd^ 
donde  ti  conyegna  iscendere.  Allora  ti  bisogna  cobsit 
l^io  quando  tu  bai  vita  di  prosperità^. e  se  ti  iiiaii4ocè 
tua  prosperità  in  buono  luogo  fermamente  ^  nou-ti 
movere  troppo  tostamente^  ma  guarda  il  luogo  ov^  In 
.dei  andare^  e  per  che  cosa.  ,r 

Capitolo  X. 
Ancóra  di  sìmigliante  materia. 

£  però  che  in  queste  virtudi  sono  messi  tutti  i  foo* 
ni  e  tutti  ammaestramenti,  appare  egli  oognoscere- tutti 
i  tempi,  cioè  lo  tempo  passato  per  memoria,  di  cfat 
Seneca  dice,  chi  non  pensa  niente  delle  cose  passate 
ha  la  vita  sua  perduta;  e  del  tempo  presente,  per  oo* 
gnosoenKa;  e  del  tempo  che  è  a  venire,  per  provvt? 
denza.  E  però  dicono  i  tavi^  che  prudenza  ha  qoal- 
tro  membra  per  governare  sua  virtude,  e  ciascuno  ha 
secondo  il  suo  officio,  ciò  sono  providenza,  sguardo^ 
cognoscenza  ed  insegnamento.  Il  maestro  diviserà  l-u& 
ficio  di  tutti,  e  prima  della  providenza. 

Capitolo    XL 

Della  prorìdenza. 

Providenza  si  è  un  presente  senno,  che  ricerca  le 
venute  delle  future  cose,  e  ciò  è  a  dire  che  provi-^ 
denza  si  è  in  due  maniere,  e  ch^ella  ha  due  officii; 
L' uno  si  è  eh'  ella  pensa,  e  rimira  le  cose  che  sono 
presenti,  e  dà  il  consiglio,  e  vede  dinanzi  ciò  che  ne 


Luao  simiio,  1 1 5 

può  addhénire^  e  qod  può  esa«re  k  fine  del  bene^  q 
ed  nak;  e  poi  ch^  egli  ha  ciò  isitto^  sì  ti  iunùtee,  e 
oonsiglk  per  suo  sapere  contro  alla  dìsaYveotura  ohe 
•ddirieBe;  però  dee  roomo  proyedera  dhianii  lo  male 
die  addÌTenirepnò,  che  se  egli  li  viene,  si  il  potrà  più 
IcggeruHBHc  passare  e  soffirire.  Gregorio  dice,  però 
non  può  Tnomo  ischi^ure  lo  pericolo,  perchè  non  fa 
proTednto  dinanri.  Giovenale  disse,  tu  hai  acquista- 
ta grande  dignità,  se  prudenza  è  con  teoo,  che  quello 
è  bene  scoralo  che  puote  cognoscere  la  fine  delle  co* 
se.  BocBO  dice,  non  k  da  maniTigliare  dell^uonio  che 
mede  e  eonosoe  le  cose  ch^  egli  he  dinansi  agli  oochi 

b  fine  delle  cose.  Tullio  àmx^ 
a  rtahiirv  dinanzi  ciò  elle 
alFnne  porte  «dalFalIra,  e  ciò  che  d 
nuaÉm,  si  die  r  nono  non 
<ktt  fi  ^fmm^tgm^  dk€^  io  moà  erede«^  fc^ 
^wf arimi  4Aéwo  ^oomigtiiMre  gli  uo- 
vi ixdmtif  4i  ^M>^  tMton'cHOK.  e  «he  cac- 
cinn  la  iub;- rz«:ótnin  «ab' <lli  iiaonv  di  kev  p>(^^^ 
ia^cAte  ^mem^^amyvr'.  ^  'QiidBi  f'wmi^%ìùA^ 43Ue tutte 
lecaMrcuf.^aaiutvfUi  ssi -oalftr  f«HK/  smiuiuUjl  «  ^ùjit  je 

t«  <alic  ÌM.   IMhac^  l>i  4M:  t^^oU^  <«^>       ^  '^ 

(»«M:  -ImC:  OH^    MU,   «Wì^A^*  ''i-    «- 

\3tu^  .MtaiU'^  f#Wr*«  i«M#3^  ^    *A«V 

sMwii.  ^^^i^^ié^   %mmxfi*    f^vM^iy^*   ^ 
4i    i<jMU*»<»  *y.^  '«'««u    *^'^00>^éi^ 


Tl4  IL  TMOBO. 

laidamente.  Seneca  dice:  però  sono  pia  volle  che  non 
conoscono  di  loro  fatti,  e  quando  elK  credono  «spec 
così  grandi  come  si  tengono,  o  com^  elli  odono  dife^ 
dli  cominciano  guerre  e  cose  superbe^  che  poi  ritor: 
nano  a  grande  pericolo.  Lo  maestro  disse:  però  si  dee 
ciascuno  provedere  dal  parlare  di  false  parole  e  di  Mt 
sita,  elisegli  non  sa  che  di  ciò  addiviene  ch^  elH  sono 
sì  come  il  dolce  suono  del  snfolo  che  lusinga  ITnccel-» 
lo  tapto  ch^  egli  cade  preso.  E  molte  yóLte  il  mortale 
veleno  è  sotto  lo  mele,  però  li  mali  coperti  di  bene 
sono  peggiori.  Cato  dice,  non  credere  di  te  medesimo 
più  ad  altrui  che  a  te  medesimo.  Salomone  dice,  a 
pena  gitteran  giù  lagrime  gli  occhi  del  tuo  nimico^  e 
quando  vedrà  suo  tempo  non  si  potrà  satollare  del  tuo 
sangue.  Ma  Giovenale  dic^:  egli  piange,  quando  vede 
lagrimare  suo  amico,  ma  del  suo  male  non  si  doc^ 
niente. 

Ca'pitolo  XIL 

Qui  dice  della  guardia. 

Guardia  è  guardarsi  daVizii  contrarli  ^  suo  officio  si 
è  ch^  egli  adoperi  il  meglio  di  tutte  cose,  cioè  a  dire 
che  Tuomo  sì  dee  guardare  suo  avere,  che  per  fare  a- 
varizia  non  diventi  guasto^  e  ch'egli  sì  dee  partire  da 
folle  ardimento,  ch^egli  non  caggia  in  paura  ^  che  quel* 
lo  è  veracemente  ardito  che  provede  ciò  che  dee,  e 
che  imprende  ciò  eh' è  da  imprendere,  e  che  iugge  ciò 
eh'  è  da  fuggire,  ma  lo  pauroso  non  fa  né  l' uno  né 
l' altro.  Salomone  dice,  guarda  tuo  cuore  in  tutte  tue 
guardie;  egli  disse  in  tutte  guardie,  che  tu  non  cre- 
da aUi  tuoi  amici.  Dunque  dall'una  parte  gli  chiude  1q 


LIBBa  SETTIMO.  Il5 

porte,  *e. dall' j^irà  gli  apre  P  entrata^  cioè  a  dire  ehe 
per  guardare  te  d'un  vizio,  tu  non  ne  &ccì  un  al- 
tro pia  grandej;  ch'egli  non  è  bene  a  sooprii^e  uno 
per  neoprìré  un'altro.  €ruardati  dunque  di  tutte  Le 
fltremotadi,  e  non  desiderare  smisurata  prudenza  che  sia 
più  che  convenevole,  ma  sì  tanto  €he  sia  sufficienlìe. 
Altresì  ti  guarda ,  d' ignoranza,  chà  quelli  che  non  sa 
né  bÌBiie  -  né  male  ha  il  suo  cuore  vocdio  e  non  ve- 
niente, -egli  non  jpuò  consigliare  ne  sé  né  altrui:  che 
ae:  un  'vocolo  volé  guidare  un  altro,  certo  egli  cade 
xMdia  fossa*  innanzi,  eP  altro  dopo  lui^  é  così  dunque 
pi'odenza  ch'*^  luogo  mezzo  intra  due  estremi,  die 
jeoqtrappesa  e  dirizza  le  cose  non  pesate,  e  tempera 
Topere,  e  misura  le  parole  ^  che  sì  come  dell!  opere 
che  iKMa  9ono  stabilite  per  virtudi,  così  Ùl  ella  del 
parhre  quando  non  é  secondo  ordine  di  ragione^  e 
però  innanzi  che  tu  dichi  tu  dei  considerare  princi- 
palmente sei  cose:  chi  tu  se',  che  tu  voli  dire,  e  a  cui 
tu  di',  e  perchè,  e  come,  e  quanto  ragione  comanda.  . 

Capitolo  XIII. 

Delle  cose  di  che  ruomo  si  dee  guardare  quando  vuole 
parlare,  od  alcuna  cosa  fare. 

j     .        »     •     .     • 

Innanzi  che  tu  dica  parola  considera  nel  tuo  cuore 
chi  tu  se',  che  voli  dire,  ed  in  primamente  guarda  se 
la  cosa  tocca  a  te  od  altrui^  e  se  l' è  cosa  che  la  ap- 
partenga ad  un  altro,  non  te  ne  intramettere,  che  se- 
condo la  legge  egli  è  incolpabile  chi  s' intrameite  di 
cosa  che  a  lui  non  s' aspetta.  Salomone  dice,  quello 
che  s.'intramette  dell' alti'ui  briga,  è  simile  a  colui  che 


tt6  IL  TtSOBO» 

pf«ad«  la  scienza  per  1»  oreodii.  £  lerii  fliradi^diei: 
della  cosa  ohe  noQ  tigrata,  iraa  ti  dei  ^oolld»ltOM 
4p(>re9so,  guarda  se  ta  se'  in  tuo  bado  aeiuio  e  {mih 
satamonte,  senza  ira  e  senza  luriMoioiie^-déi  pst  tiÈcm 
e  striDgere  tuo  cuore.  TulHo  dire,  che  gH  è  grandt 
Tirtude  a  sapere  costringere  li  moTÌmenti  del  ooóff 
turbato,  e  fare  tanto  che^suoi  desiderii  siend  a  tagia  • 
ne.  Seneca  dice,  quando  P  nomo  è  pieno  d'èm^  e|^ 
non  Tole  ridere.  Gato  dice,  ira  impecfooe  l' aniìnKi^ 
che  non  può  giudicare  lo  Tero^  e  però  disse  uno  sa** 
vio,  la  legge  vede  bene  Puomo  irato,  ma  egli  ami 
▼ede  la  legge.  Ovidio  dice,  vinci  tuo .  oaraggio  e  tot 
ira,  tu  che  vinci  tutte  le  cose.  Tutte  PiDeatem»  di 
lungi  da  noi,  che  con  lei  ninna  cosa  punta  essèrt  ben 
fatta,  né  bene  pensata,  e  ciò  che  1*  uomo  fa  in  ira^ 
non  puote  esser  dnralnle.  né  piacevole  a  totti^  parò 
Alfonso  dice,  dò  è  nelP  umana  natara,  che  quando*  il 
coraggio  è  commosso  per  alcuno  modo,  egli  perdagli 
occhi  della  conoscenza,  intra  il-  vero  ed  ii  fiilso.  Ap» 
presso,  guarda  che  tu  non  sia  corrente  per  desiderio 
di  parlare,  in  tal  maniera  è  che  tua  volontade  non  con- 
senta a  ragione,  ch^  Salomone  dice,  quello  che  non 
può  constringere  il  suo  spirito  in  parlare  è  simigliane 
te  alla  cittade  che  non  ha  mura.  Lo  maestro  dice,  chi 
non  sa  tacere,*non  sa  parlare.  £  uno  fu  dimandato, 
perchè  egU  stava  così  tacente,  se  per  senno,  -o  per 
follia;  ed  ^li  disse,  che  il  folle  non  può  tacere.  Sa- 
lomone disse,  metti  freno  alla  tua  bocca,  e  che  la  tua 
lingua  non  ti  faccia  cadere,  e  che  la  caduta  non  aia 
a  morte,  senza  guarirne.  Gato  dice,  sopra  virtù  «  ooiv* 
stringere  la  lingua;  e  quello  è  prossimano  di  Dio  die 


libuo  settimo.  1 1 7 

sa  tacere  a  ragione.  Saiomoue  dice,  chi  guarda  la  sua 
liooca,  sì  guarda  la  sua  anima,  e  quello  di'*  è  incon- 
siderato nel  dire,  sentirà  male.  Se  tu  voli  biasimare 
io  rispondere  altrui,  guarda  che  tu  non  sia  magagna- 
io  dì  quello  medesimo^  che  istrania  cosa  è  di  Tedei-e 
il  buflco  Deir  altrui  occhio,  e  nel  suo  non  vedere  La 
Irave.  Li  Apostoli  dissero,  o  tu  uomo  che  giudichi,  in 
rio  ohe  tu  giudichi  gli  altri  danni  te  medesimo,  che 
In  fin  ciò  che  tu  giudichi.  ^Allora  dice  egli  medesimo, 
la  giudichi  gli  altri,  e  non  insegni  a  te  ^  tu  di'  che  lo 
iiomo  Doo  dee  imbolare,  e  tu  imboli  ;  tu  di'  che  Tuo- 
iDO  noli  &ccia  adulterio,  e  tu  il  fai.  Gato  disse,  ciò  che 
tu  hiaiiimi,  ti  guarda  di  &re,  che  laida  cosa  è  quan- 
do la  colpa  cade  sopra  lui.  Agostino  dice,  ben  dire, 
è  flnle  operare,  non  è  altro  che  sì  con  sua  boce  dan- 
Dare.  Appresso,  guarda  ciò  che  tu  vuoi  dire,  se  tu  il 
sai)  o  Do^  che  altrimenti  non  lo  potresti  tu  ben  dire. 
Uno  uomo  dimandò  suo  maestro,  come  egli  potreb- 
be ben  dire,  ed  essere  buono  dicitore.  £'1  suo  mae- 
stro gli  disse,  di'  solamente  quello  che  tu  ben  sai.  lesù 
Siradi  dice,  se  tu  hai  lo  intendimento,  rispondi  im- 
HUDtinente,  altrimenti  sia  la  tua  mano  messa  sopra 
k  tua  bocca,  che  tu  non  sìa  ripreso  per  vane  parole, 
e  pensa  tuo  diritto,  e  quello  che  ne  puote  addiveni- 
re, che  molte  cose  hanno  simiglianza  di  essere  buone 
nei  principio,  che  hanno  mala  fine.  lesù  Sìrach  disse, 
il  tuo  bene  ha  doppio  male,  però  considera  il  comin- 
eiainento  e  la  uscita.  Panfilo  disse,  se  l'uomo  pruova 
tu  lo  capo,  e  la  fìiie  insieme,  ma  alla  fine  parrà  lo  o- 
nere  ed  il  biasimo.  Là  ove  tu  dotti  che  di  tua  paro- 
la non  vegna  n*  l)en<%  >i>'  male,  io  lodo  che  tari;  pe~ 


4i* 


]  1 8  n.  TBsona 

rò  Alfonso  dice,  ritirali  di  dire  cosa,  donde  la  li  pao- 
tissi,  che  il  savio  fa  meglio  di  tacere  per  se,  cbe  él 
parlare  contro  a  sé;  ma  niuno  uomo  tacente,  e  imì 
molto  parlante,  è  ripreso,  e  certo  le  parole  sono  tt- 
miti  alle  saette,  le  quali  l'uomo  può  balestrare  1^ 
germente,  ma  ritenere  no,  cosi  è  la  parola  che  ytL  len- 
za ritornare.  Tullio  disse,  non  fere  la  oosa  di  che  la 
dubiti  se  è  o  bene  o  male,  chÀ  bontà  riluce  ^per  aè 
medesima,  e  dottanza  ha  segno  di  malvagìfcsu  Sweoi 
dice,  follia  non  sia  di  tuo  consiglio. 

Capitolo  XIY. 

Come  ta  dei  pensare  quello  che  to  foll-din. 

Tutto  quello  che  tu  Toli  dire  considera,  cioè  le  è 
vero  o  menzogna,  secondo  che  c'insegna  lesù  Siradb^ 
dinanzi  alle  tue  opere  veritiere  parole  e  durabile  cono 
siglio;  però  dee  l'uomo  guardare  venta  sopra  tutte 
le  cose,  perocché  ci  fa  prossimani  a  Dio  eh'  è  tutto 
verità.  Dunque  di'  tu  sempre  la  veritade,  e  guaixlali 
dalla  menzogna.  Salomone  dice,  lo  ladro  fa  più  da  lo- 
dare che  non  fa  quelli  che  mente  tutto  dì.  Appeosa* 
te  alla  veritade^  quando  ella  è  detta  per  una  bocca, 
o  per  altrui.  Gassiodoro  dice,  eh' è  pessima  cosa  a 
dispregiare  la  veritade,  che  verità  è  stella  netta  sen- 
za alcuna  falsitade.  Seneca  dice,  che  le  pai*ole  di  co- 
lui a  cui  piace  verità  debbono  essere  semplici  sema 
coveitura  nulla.  DP  dunque  la  verità  in  tal  manie- 
ra che  la  sia  come  sacramento.  Seneca  dice,  lo  cui 
detto  non  ha  fermezza  di  sacramento,  vile  cosa  è  per 
ceito  lo  sacramento  suo,  che  tut^o  che  tu  non  chia- 


LIBRO  SETTIMO.  I IQ 

mi  il  nome  di  Dio,  e  non  vi  abbia  tesdmoni,  n'^  per 
tanto  grande  virtù  è  non  trapassare  la  legge  di  giu- 
stizia. &  se  ti  conviene  rendere  la  verità  per  men- 
zogna tu  non  mentirai,  ma  iscuserai  là  ove  ha  onesta 
cagione,  che  ^1  buono  uomo  non  vi  cuopre  suo  segre- 
lo,  ma  tace  quello  che  non  ùl  bisogno-  dire,  e  dice  ciò 
che  si  conviene.  Salomone  dice,  io  ti  prego  Iddio  di 
dne€Ose,^ck)>  die  vanità,  e  parole  di  menzogna  sieno  di 
kiBgi dame. Li  Apostoli  dissero, ncm  &re niente contra 
alla  verità,  ma  per  la  verità.  Lo  maestro  disse,  di^  tal 
verità  che  ti  sia  creduta,  cioè  credibile^  che  verità  in- 
credibile non  è  creduta,  ed  è  in  luogo  di  menzogna,  al- 
tresì come  menzogna  cresciuta  tiene  luogo  di  verità  3  e 
quelli  che  mente  e  si  crede  vero  dire  non  è  menzogne- 
re, dhe  per  lui  non  dice  menzogna,  ma  chi  mente  cono- 
Seendok^  quello^  bene  menzognere^  però  dico  che 
le  somrsette  maniera  di  menzogna.  La  prima  si  è  sen- 
za insegnamento  delk^  fede  e  di  religione,  cioè  tra  mal- 
vagi. La  seconda  si  è  per  nuocere  altrui  senza  giovare 
tfd  edcuno.  La  terza  si  è  per  cuocere  altrui  per  giova- 
re ad  alcun  altro.  La  quarta  si  è  per  volontà  di  fal- 
lire, ciò;  dirittamente  menzogna.  La  quinta  si  è  per 
bel  dire,  o  per  ingannare,  o  per  piacere  alla  gente.  La 
sesta  si  è  per  utilità  d^alcuno  senza  danneggiare.  La 
settima  è  senza  danno  di  nullo,  ma  se  la  s^  è  detta  per 
guardare  Tuoroo  che  non  caggia  in  peccato.  In  queste 
sette  maniere  di  bugie  quella  è  di  maggior  peccato  che 
più  s^  accosta  alla  prima,  e  quella  è  di  minore  che  più 
s'accosta  all' ultima,  che  nulla  è  senza  peccato.  Ap- 
presso guarda  che  le  tue  parole  non  sieno  frodolenti, 
pei'ò  che  nullo  dee  dire  parole  che  non  sieno  profittc- 


I  ao  ih  TBSOAO. 

voli  io  alcuna  parte.  Seneca  dice,  la  tua  parok  boohI 
per  nieute,  od  ella  sìa  per  consigliare,  od  ella  tm  per 
comandare,'  u  per  ammonire.  L^  Apostolo  diee,  acU 
(a  le  malvagie  parole  e  le  vane^  appresso  guarda  m  b 
tue  parole  sono  per  ragione,  o  senxa  ragione,  ohe  oo* 
i»a  che  non  è  ragionevple  non  è  durabile;  però  disM 
un  savio,  se  tu  voli  vincere  tutto  il.uoDdo<aottoiMt« 
Uti  alla  ragione,  che  chi  se  ne  scaverà  cada  io  emn 
re.  Appresso,  guarda  che  '1  tuo  detto  non  sia  aaproi- 
amì  sia  dolce  e  di  buona  aria.  lesu  Sirach  dio^  ohm 
e  viole  fanno  molte  melodie,  ma  amendue  le  «or* 
inonta  la  'ngiuria^  se  hon  v'  è  la  dolce  parola  umltH 
plica  li  amici  ed  indolcisce  li  animi.  Panfilo  dioe^  ÒBHf 
ce  parola  chiede  e  nutrisce  li  amici.  Sakwioiie  dioe^ 
che  la  molle  risposta  rompe  Tira,  e  la  dura  aaèra» 
ta  furore.  Appresso,  guarda  ohe  tua  parola  sia  Immh 
na  e  bella,  e  non  laida,  ne  lia^  eh  j  l' Apostolo  dioO) 
che  le  male  paix>le  corrompoiio^i  buoni  eostumi^ad 
allora  disse  egli  medesimo,  niuna  mala  parola  esea  di 
vostra  bocca.  Anche  di^e  egli  medesimo  in  un  altro 
luogo,  che  U  buono  uomo  non  dee  ricordare  laidi  e 
iblli  detti.  Seneca,  astenetevi  da  laide  parole,  che  elle 
nutiisoono  follia.  Salomone  dice,  che  V  uomo  che  ha 
usate  le  parole  di  rimproverare,  poco  ammenda  tutto 
il  tempo  della  vita  sua.  L*  Apostolo  dice,  le  vostra 
parole  sieno  sempre  condite  di  quelle  di  grazia,  in 
tale  maniera,  che  voi  sappiate  a  ciascuno  rispondere, 
ikppresso,  guarda  che  tu  -non  dica  oscure  parole,  an 
btfne  intendevoli,  di  che  la  legge  dice,  non  ha  difie* 
renza  dal  dire  al  tacere,  nel  lispondere  oscuramente, 
•»e  cnlui  che  rimane  non  rimane  cerlano;  che  la  ^ùriir 


JABRO  SETTIMO.  *  12  1 

tura  dke,  che  più  sicura  cosa  è  ad  esser' mutolo,  che 
dicere  parole  che  nullo  lìoii  rinteoda.  Appresso,  guai- 
fla  che  le  tue  parole  non  sieno  sospettose,  <aoè  non 
abbiano  sotto  alcuno  male  ingegno  da  diservire.  lesù 
Sirach  dice,  chi  parlerà  sospettosamente,  il  sarà  via** 
to  da  tutti  gli  uomini,  e  sai^à  fallante  in  tutte  le  cose, 
e  Dio  non  gli  darà  sua  grazia.  Appresso,  ti  guarda, 
che  tu  non  dichi,  né  non  facci  torto,  ni>  danno,  né  noia; 
che  gli  è  scritto,  che  molti  minaccia  chi  ad  uno  fa 
torto.  lesù  Sirach  dice,  non  ti  ricordi  di  cose  che  ap-* 
partengono  a  noia.  Gassiodoro  dice,  per  uno  tortorfat- 
to  SODO  più  vile  conosciuto.  L^  Apostolo  dice,  chi  fa 
noia  averà  ciò  che  farà  di  male;  attendi  dagli  altri 
ciò  che  tu  farai  ad  altrui.  Tullio  dice  :.  e  non  è  nullo 
certato  fatto,  come  di  quelli  che  allor^  il  fauno,  vo- 
gliono somigliare  che  elii  sieno  buoni.  lesù  Sirach  di*- 
ce,  la  l^ge  è  trapassata  di  gente  in  gente,  per  li  mali 
e  per  li  torti  3  ma  F  uoino  non  se  ne  dee  guardare  so>* 
lamente,  anzi  dee  contraddire  a  quelli  che  lo  fanno  ad 
altrui.  Tullio  disse,  che  due  maniere  sono  di  faie  tur- 
tiy  V  una  che  lo  fa,  V  altra  chi  non  contraria  a  quelli 
che  lo  fanno,  e  ciò  è  altresì  biasimo,  come  quello  di 
colui,  che  non  aiuta  il  suo  figliuolo,  n'^  la  sua  città,  e 
non  per  tanto  se  V  uomo  ti  dice  male,  o  noia,  tu  dei 
tacere.  Che  Agostino  dice,  che  più  bella  cosa  è  a 
schifare  un  torto  fatto  tacendo,  che  vincere  respon- 
dendo.  Appresso,  ti  guarda,  che  tuo  detto  non  sia  pei* 
seminare  discordia,  elisegli  non  ha  si  mala  cosa  intra 
gli  uomini.  Appresso,  guarda  che  tuo  detto  non  ti  gabr . 
bi  malamente,  n>  di  tuo  uuùco,  ne  di  tuo  nimico,  né 
di  nullo,  che  gli  è  iscritto^  che  non  si  conviene  gab- 


1  aa  Hi  TESOEO. 

bare  tuo  amico,  che  egli  si  croccia,  che  se  la  gli  fili  noia, 
più  forte  il  tuo  nemico,  se  tu  lo  scherni  viene  toslo  alle 
battaglia,  che  non  è  alcuno,  a  cui  non  dispiaccia  di  e»- 
ser  gabbato.  Amore  è  cosa  mutabile,  ed  appena  ritor- 
na ;  e  se  egli  muove,  tosto  falla.  Salomone  dice,  chi  dà 
sentenza  d^  altrui,  per  quelli  medesimi  Pavera  di  lai ^ 
e  ciò  medesimo  conferma  Bfansiale,  là  cyve  dice,  dii 
scuopre  gli  altrui  vizii  per  temporale,  si  scherne,  e  se 
è  schernito  a  sua  colpa  non  ha  più  generale  cosa  al 
mondo.  Appresso,  guarda  che  tu  non  dica  male  i  tuoi 
mofti,  che  il  profeta  dice,  Dio.  distrugge  le  opere  ma- 
liziose, e  lingua  vantalrice.  Appresso,  guarda  che  tb 
non  dichi  orgogliosi  motti,  che  Salomone  dice,  làm 
quivi  ove  è  orgoglio  si  è  molta  fi>llia,  e  quivi  ove  è 
molta  umilitade  si  è  senno  ed  allegrezza.  Ich  disse^  off^ 
goglioso  va  su  al  cielo,  il  capo  suo  tuttavia  toora  gii 
nuvoli,  alla  fine  gli  conviene  cadere,  e  tornare  a 
poco,  ed  a  nulla.  lesù  Siradi  dice,  orgoglio  è  citato 
dinanzi  a  Dio  e  dinanzi  agli  uomini,  e  tutte  le  iniquiUi 
con  esso.  Ed  allora  diss^  egli,  che  V  orgoglio  e  il  torto 
fanno  distruggere  le  sustanze,  e  grandi  ricchezze  torna- 
re a  niente  per  superbia.  Alla  fine,  guarda  che  le  tue 
parole  non  sieno  oziose,  ch'egli  te  ne  converrà  rendere 
ragione  di  tutti  li  insegnamenti,  cheè  mestierodi  guar- 
dare di  parlare;  ed  in  somma  di  ciò  che  peggiora  l'o- 
nore di  noi,  e  che  sia  contra  buono  amore,  nullo  non 
dee  dire  laide  parole,  né  metterle  in  opera.  Socrate  di- 
(^e,  ciò  eh'  è  laido  a  fare,  io  non  credo  che  sia  onesto  a 
dire,  però  dee  l' uomo  dire  oneste  parole  là  ov'  egli 
sì  sia,  che  chi  vole  onestamente  parlare  intra  li  stra- 
ni, non  dee  però  parlare  disonestamente  con  li  ami- 


UBRO  SETTIMO.  I  25 

ci;  e  che  onestà  è  necessaria  in  tutte  le  partì  della 
Tita  deir  nomo. 

Capitoi^  XV. 

Come  tu  dei  guardare  a  cai  tu  parli. 

Or  tt  dei  guardar  a  cni  parìi,  scegli  t'è  amico,  o  no  ; 
che  od  tao  amico  puoi  tu  parlare  bene  e  dirittamen^ 
te,  però  die  non  è  sì  dolce  cosa  al  mondo,  come  ave^ 
re  uno  amico  a  cui  tu  possi  parlare,  altresì  come  a  te  5 
nn  non  dire  cosa  che  non  debba  essere  saputa  s' e- 
gli  ti  diventasse  nimico.  Seneca  diee,  parla  con  lo.  tuo 
amico  come  se  Iddio  te  udisse,  e  yiyi  cogli  uomini 
come  se  'Dio  te  vedesse.  Ed  anche  disse,  tieni  il  tuo 
amico  in*  tal  maniera  the  tu  non  temi  :  oh'  egli  ti  ve- 
gna  inimico  5  e  pero  Alfonso  disse^  delP  amico  che  tu 
hai  assaggiato,  si  ti  provedi  una  volta  come  d' inimi- 
co» Lo  maestro  dìsse^  tuo  segreto  di  die  tu  non  ti  dei 
eonsigliare  non  dire  ad  uomo  vivente.  lesù  Sirach 
dke,  a  tuo  amico,  ne  a  tuo  nimico  non  ne  iscoprìre 
ciò  che  tu  sai,  ispecialmente  il  male,  eh'  egli  scherni- 
rà- in  sembianza  di  difendere  tuo  peccato.  Il  maestro 
disse,  tanto  quanto  tu  ti  rìtieni  tuo  segreto,  e^i  è  co- 
me in  tua  carcere,  ma  quando  tu  hai  iscoperto,  egli 
ti  tiene  in  sua  prigione,  che  più  sicura  cosa  è  tace- 
re, che  pregare  un  altro  che  taccia;  però  disse  Seneca, 
se  tu  non  comandi  a  te  di  tacere,  come  ne  pregherai 
tu  un  altro?  E  non  per  tanto, -se  t'è  mestiero  di  con- 
sigliare di  tuo  segreto,  dillo  al  tuo  buono  amico  di- 
ritto e  leale,  di  cui  hai  provata  dii'itta  benevolenza. 
Salomone  disse,  abbbte  amici  in  più  quantità,  n^  con- 


I  a4  1^  TESORO. 

sigliero  ti  sia  uno  in  mille.Cato  dice,  dP  il  tuo  «egre^ 
lo  a  leale  compagno,  e  il  tuo  male  a  feafe  woeékù^ 
Apprèsso,  guarda  che  tu  non  parli  troppo  a  tuo  nir 
mico,  che  in  lui  non  puoi  avere  nulla  fidanza,  né  an- 
f  x)ra  s^  egli  fosse  pacificato  teco.  Isopo  dice,  non  vi 
fidate  in  coloro  con  cui  voi  avete  guerreggiato,  eh' et- 
ti hanno  sempre  nel  loro  petto  lo  fuoco  dell'  odia 
Seneca  dice,  là  ovMl  fuoco  è  dimorato  luoganNBqil% 
tutto  dì  va  fiioGo  e  fumo.  Allora  disse  egli  medesimo^ 
meglio  vale  a  morire  per  lo  tuo  amioo^  che  vivei» 
con  lo  tuo  nimico.  Salomone  dice,  non  credere  a  toot 
antico  nimico,  e  sia  ciò  che  si  vole,  però  che  aon  è 
per  amore,  ma  per  prendere  ciò  ch'egli  ne  puoto  »• 
vei'e  da  te.  Ed  allora  diss'  egli  medesimo,  lo  tuo  ikk 
mi  co  piange  dinanzi  a  te,  ma  s'egli  vede  il  tempo,  #- 
gli  non  si  potrà  satollare  del  tuo  sangue^  però  AUcMh> 
so  dice,  non  ti  accompagnare  col  tuo  nimico,  che  «e  tu 
uà  male,  egli  il  ti  crescerà,  e  se  tu  fiurai  bene,  egli  il  ti 
menimerà.  £  genei^lmenle,  intra  tutte  genti  tu  àéi 
guardare  a  cui  tu  dichi,  che  più  volte  tali  sono  che 
mostrano  sembianza  d' amici,  e  sono  nimicL  E  però. 
Alfonso  disse,  tutti  quelli  che  tu  non  cognosct  estima 
che  sieno  tuoi  nimici^  e  scegli  vogliono  camminare  con 
teco,  o  dimandare  là  ove  tu  vai,  fa  sì  che  tu  vadi  puÌL 
lungi,  e  s' egli  portano  lancia,  tu  va  da  lato  diritto, 
e  se  portano  ispada,  tu  va  da  lato  sinistro.  Appresso^ 
ti  guarda  che  a  folle  tu  non  paili,  che  Salomone  di- 
ce, agli  orecchi  del  folle  non  dire  molto,  ch^  egli  dis- 
pregia r  insegnamento  di  tua  parola.  Ed  allora  dice 
il  medesimo,  lo  savio  se  tenzona  col  folle,  e  eh'  egli 
l'idu,  Q(»ii  troverà  riposo.  Il  lolle  non  riceve  il  tìeiUf 


LIBKO  SKmMO.  125 

del  sayio^  b'  egli  non  dice  cosa  che  li  sìa  grato  m  soò 
4saan,  lesù  Siiach  dice,  quelli  parla  ad  uomo  che 
dorme,  che  parla  allo  stolto  sapienza.  Appresso,' goai^ 
dati  che  tu  non  parU  ad  uomo  isdienutore,  e  f«i^ 
il  suor  detto  come  yeleiio,  che  la  oranpagpia  di  lui  è 
laida  a  te»  Salomone  dice,  dob  t»stigare  uomo'  gai^- 
belore,  eh'  egli  t'odierà^  castiga  il  sayio^  die  ti  amerà. 
Seneca  dice,  chi  bmsima  lo  sdiemitorfr  &  nota  a  aè 
«nedèsimo,  e  chi  biasima  il  maivagio  ricfeiedi  le  sue 
intaoBiom.  lesù  Sirach  dice,  no»  ti  constare'  col 
folle,  eh'  egh  non  consiglia  se  non  quello  che  li  piace 
di  feve.  Appresso,  guarda  che  tu  non  parli  Jid  uooso 
lusingatore  e  pieno  di  disctN'dia,  chèl  -Profeta  'dice, 
Puomo  dbe  ha  lingua  kisinghìem  non  sani  «nato  so^ 
pra  la  terra.  lesù  Sirach  dice,  spaventevole  è  in  cit- 
tade  uomo  discprdìoso  e  folle  di  parole.  Ed  allora  di- 
ce egli  medesimo,  chi  è  lusinghiere  stende  malizie. 
Guarda  dunque  che  tu  non  parli  ad  uomo  discordio»- 
•o^  -e  che  non  metta  legna  in  suo  fuoco.  TuUio  dice, 
k  via  de'cani  dee  Puomo  del  tutto  ischifare,  cioè  gli 
nomini  che  tutto  dì  abbaiano  come  cani.  Che  di  quel- 
li e  di  altri  simigiianti  dice  nosti^)  Signore,  non  gitta«- 
re  pietre  pi^ziose  intra  porci.  Appresso,  guardati  da 
tutti  li  rei  uomini^  che  Agostino  dice,  che  sì  come  il 
fooco  che  cresce  sempre  per  crescervi  l^na,  così  il 
malvagio  uomo,  quando  ode  maggiore  ragione,  cresce 
in  più  fiera  malizia,  che  in  mala  anima  non  eatra  sa- 
pienza. ApjM'esso,  guarda  che  di  tuo  segreto  tu  non 
parli  a  ubbriaco,  né  a  mala  femina»  Che  Salomone 
dice,  che  dove  r^na  ebrietà  non  v'è  occulto  nulla. 
Lo  maestro  dice,  le  Cernine  sanno  celare  quello  ch'el- 


1  a6  n^  TBsoEO.  : 

le  non  sanno.  Ed  in  somma,  ti  guarda 
cui  tn  se\  e  mólto  bene  considera  lo  lu<^^  die  ha  ma- 
stiero  di  dire  altre  cose  a  oxìe,  ed  --altre  a  nozicy  ed 
altre  cose  al  dolore^  ed  altre  a  magione,  -ed  idtre  co- 
se con  compagni  con  cui  sei  in  piazsa,  però  che  U'prò" 
Terbio  dice,  chi  è  in  quésta  via  non  dica  follia.  Por- 
ta del  parlatore  è  prendere  guardia  ch^e^  ooq  diea 
alcuna  cosa  malvagia  se  alcuno  fosse  ingannerohnairte 
appresso.  Guarda,  se  tn  parli  al  signore,  che  tu  ì 
ri  e  reyensci  secondo  la  sua  dignità,  che  V  uomo 
tu  cognoscere  diligentemente,  la  dignità  e  il  grado  di 
ciascuno,  che  altrimenti  dei  tu  parlare  a  prìncipi  dw 
a  cayalieri,  ed  altrimenti  aUuo^parì  che  a^tooi  nwi»- 
ri,  ed  altrimenti  al  religioso  che  al  laico. 

Capitolo  XVL 

Come  tu  àéì  guardare  come  tp  parli. 

• 

Appresso  .dei  tu  guardare  perchè  tu  parli*  dòè  a 
dire  la  cagione  del  tuo  detto.  Che  Seneca  comanda, 
che  tu  cheggia  la  cagione  di  tutte  le  cosie.  Cassiodoro 
dice,  che  nulla  cosa  puote  essere  fatta  senza  cagione, 
e  cagione  è  in  tre  maniere.  L^  una  che  fa!.  La  secon- 
da è  la  materia  di  che  tu  la  fai.  La  terza-  è  la  fine  a 
che  tu  la  fai,  E  tu  dei  guardare  per  cui  tu  di',  che  al- 
trimenti dei .  parlare  per  lo  servigio  di  Dio  -che  per 
lo  servigio  degli  uomini,  ed  altj^imenti  per  tuo  pto^: 
ma  guarda  che  tuo  guadagno  sta  bello  e  convenevole, 
che  la  legge  vieta  il  laido  guadagno  come  la  perdita.  Lo 
maestro  dice,  guadagno  che  viene  con  mala  nominan- 
ze è  rio  :  amerei  più  iscapìtai*e  che  laidamente  guada- 


LIBRO  SETTIHO.  137 

gnare,  e  sì  dee  lo  guadagno  essere  misurato^ che  Gas<- 
siodoro  dice,  die  se  il  guadagno  esce  di  conveoevole 
misura  non  averà  la  forza  di  suo  nome^  e  sì  dee  es- 
sere naturale,  cioè  a  dire  del  buono  nomo  alP  altro  ^ 
die  la  legge  dice,  ch'egli  è  diritto  di  natura,  die  nulla 
non  ardisca  di  altrui  danno.  Tullio  dice,  né  paura,  uè 
dolore,  uè  morte,  né  nulle  altre  cose  di  fuori  è  si  fìe* 
itiniente  oontra  di  natura,  cernie  arricchire  deiraitcui 
goadagno ,  e  specialmente  deDa  povertà  de'  poveri. 
Gassiodòro  dice,  sofnra  tutte  le  maniere  di  cruddtade 
e  di  arricchire  ddla  povertade  Bbbbognosa,  e  per  ca- 
gione ddlo  tuo  amico  dei  tu  bene  dire^  ma  die  dò  sia 
buono.  Tullio  e'  insegna,  che  la  legge  della  amistade 
comanda,  che  egli  non  si  intrametta  di  cosa  villana,  e 
quello  eh' è  peccato  non  lo  faccia^  che  amore  non  è 
difensa  di  peccato,  che  l'uomo facda  per  suo  amico; 
che  molto  pecca  qu^li  che  dona  opera  al  peccato.  Se- 
neca dice,  peccare  è  cosa  laida,  e  da  prendere  Dio 
flue  volte.  Gassiodòro  dice,  quelli  è  buono  difendilo- 
re  che  difenda  senza  torto. 

Capitolo  XVIL 

■    Come  ti  conTÌene  pensare  quando  voli  parlare. 

-  Or  ti  conviene  considerare  come  tu  parli,  che  non 
p  nulla  cosa  che  non  abbia  mestiero  di  sua  maniera  e 
Hi  sua  misura,  e  ciò  che  dismisura  è  male,  e  tutto  dò 
che  sopra  misura  torna  a  noia  ;  e  la  misura  del  parla- 
ne è  in  cinque  cose,  doè  in  parlatura  soave,  e  chiara^ 
ed  in  tarda,  ed  in  quantitade,  ed  in  qualitade.  Parla- 


1  a8  IL  TEMMO. 

tara  è hdigntii del  oKHidoiy  elapuiiJUmdì corposa 
coodo  file  materìa  rìrfaiede;  e  ciò  è  un»  con,  cbe  «al- 
to Tale  a  bene  dre.  Tullio  dice,  già  àa  diel  tao  detto 
noQ  sia  di  qoelli  belli,  oè  goarì  polito^  te  ta  1  peoftr» 
rai  gentilmente,  e  di  bella  materia,  e  di  bel  pnrtiMfa 
ta  n  sarà  egli  lodato;  e  s^egU  è  boono,  e  ta  non  did 
beHaaneote,  sì  sarà  bìaHmato.  E  però  dèi  tu  tenan  a 
temperare  tna  bocew  e  Ino  spirito-  tatto  i  mniiaMii»! 
del  corpo  e  delb  Kngoa,  ed  amasendare  le  parole  i^ 
r  oscire  di  bocca  in  tal  maniera  ch^elle  non  sìeno  «h 
fiate,  né  dicassate  al  palato^  né  troppo  rìaonante  di 
fiera  boce,  ma  presso  alla  Terità  dell'  opera,  dm  siena 
intendeToU  e  sonanti  per  bdk  proferenza  soara  e 
chiara,  sì  die  dascuna  letteraT  abbia  suo  snono,  e  cà 
scon  motto  suo  cenno;  e  non  ti  ponere  qoando  ta 
eomÌDCBire  più  basso  cbe  alla  fine,  ma  tatto  dò  t' è 
roestiero  movere  secondo  il  moTÌmento  dd  Inogo^  d^ 
le  cose,  ddla  ragione  e  del  tempo;  ch3  una  cosa  dea 
Tuomo  contare  semplicemente,  T  altra  a  disdegno^  Tal» 
tra  per  pietà,  in  tal  maniera  cbe  tua  boce  e  tuo  detto 
è  tuo  portamento  sia  sempre  accordevole  alla  materia, 
e  tua  portatura.  Guarda  che  tegna  tua  facda  diritta 
e  non  alta,  occhi  fìtti  in  terra,  non  torcere  le  labbra 
laidamente,  non  crollare  sopra  loro  lo  capo,  e  non 
levare  le  mani,  e  non  sia  in  te  nullo  portamento  biar 
simeTole,  ed  isnelletto  e  tardetto  di  parlare.  Guarda 
mesca  via  sempre,  che  a  parlare  dee  essere  nullo  uo- 
mo corrente,  ma  alquanto  lento  ed  avvenevolmente. 
L^  Apostolo  dice,  sii  tosto  alPudire,  e  tardo  al  parlare, 
e  tardo  alPàra.  Salomone  disse,  quando  tu  vedi  un 
uòmo  ratto  a  parlare,  sappi  ch^^li  ha  meno  senno  che 


UliaO  SSTTtMO.  »39 

follia.  Gassiodoro  dice,  ciò  è  senza  fallo  reale  yirtade 
ad  andare  lentamente  al  parlare,  e  ratto  ad  intendere. 
Io  penso,  dice  un  savio,  che  quegli  sia  buon  giudice 
che  tosto  intende,  tardi  giudica;  che  dimora  per  con-- 
siglio.prendere  è  molto  buona  cosa,  che  chi  tosto  giu^ 
dica  corre  a  suo  dispregio.  D  proverbio  dice,  indugio^ 
noia,  ina  egli  Ùl  Puoipo  savio,  dunque  è  ^U  buona| 
iiqpecblmente  a  consigliare  3  die  ciò  è  bucno  eonsigUo 
<M  che  tu  se^  consigliato  e  pensato  Inogamente,  cài 
dopo  breve  consiglio  viene  pentimento.  Lo  maestra 
dice,  tre  cose  sono  contrarie  al  consiglio,  cioè  fretta^ 
iva  e  volontà;  ma  dopo  lo  consiglio  dee  V  uomo  esse-» 
re  ratto.  Seneca  dice,  di  mene  che  tu  non  fai,  e  lungfrt 
mente  ti  consiglia  ;  ma  &  tosto  ed  avaccia.  Salomone* 
dice,  quelli  eh' è  isbrìgato  in  tutte  le  sue  opwe^  di-» 
mora  dinanzi  al  re,  e  non  tra  il  minuto  popolo.  lesa 
Sirach  dice,  sii. isbrìgato  in  tutte  le  tue  opere;  ma 
guarda  che  tu  per  prestezza  non  perdi  la  perfezione 
di  tua  qpera  ;  che  '1  Villano  disse,  cane  frettoloso  fa^ca* 
tdli  ciechi.  E  la  quantità  di  tuo  detto  dei  sopra  tutte 
cose  guardare  di  tr(^po  parlare;  eh;  non  è  ninna 
cosa  che  tanto  dispiaccia  quanto  lungo  parlare.  A-» 
scolta,  tu  piacerai  a  tutti;  ciò  dice  Salomone:  però 
che  lungo  detto  non  può  essere  senza  peccato,  dei 
tu  abbreviare  tuo  conto,  il  più  breve  che  tu  puoi;  ma 
quello  abbreviare  non  vi  generi  oscuritade.  La  qua-*- 
lità  di  tuo  detto  guarda  che  tu  dichi  bene,  che  U  be- 
ne è  la  cagione  delP  amistà,  e  il  mal  dire  è  principio 
d' inimistade.  Dunque  buone  parole,  liete  ed  oneste  e 
chiare,  semplici  e  bene  ordinate  a  piena  bocca,  lo  vi- 
so chiaro  senza  troppo  ridere  e  senza  ira.  Salomone 


1 5o  .     D.  TBSOBO.    . 

dice,  che  le  parole  bene  ordinate  sono  baci  di  dolcez- 
za  secondo  Iddio. 

Capitolo  XVHI. 

Come  tu  dei  guardare  tenpo  di  parlare. 

• 

9  Altresì  dei  guardare  tempo  ipme  ta  voli  parkve^e 
quando^  che  lesù  Siradi  dice,  il  saTio  tace  iafino  uk 
tempo,  il  folle  non  guarda  tempo  uè  stagione.  Sibn 
mone  dice,  egli  è  tempo  da  parlare  e  da  tacere.  &b* 
neca  dice,  tanto  dei  tacere  infìno  che  tu  hai  mestìttP 
di  parlare.  Lo  maestro  dice,  tu  dèi  tanto  tacere-  die 
gli  altri  odano  tua  parola.  leau  Sirach  dice,  non  spc»f 
*dere  tuo  sermone  dove  non  sei  udito,  e  non  mostnH 
re  tuo  senno  a  forza,  che  ciò  è  tanto  come  eetera  in 
pianto^  anche  non  dei  tu  rispondere,  JBaaxi  che  la  d^f 
manda  sia  fatta  ^  che  Salomone  dice,  che  quello  fhé 
risponde  innanzi  eh'  egli  abbia  udito  si  è  fc^e,  e  obi 
parla  anzi  che  P  imprenda  cade  in  ischemo^  che  leiìi 
Sirach  dice,  comanda  che  tu  imprendi  innanzi  che  hi 
giudichi,  e  che  tu  imprendi,  anzi  che  tu  parli,  innafizi 
si  taccia.  Lo  maestro  dello  insegnamento  del  parlarenoii 
dirà  ora  più  infìno  a  tanto  eh'  egli  non  verrà  al  terzo 
libro  ov'  egli  insegnerà  tutto  P  ordine  della  retorico, 
e  tornerà  alla  terza  parte  di  prudenza ,  cioè  cono- 
scenza. 


LUaO  SETTIMO. 


l3l 


Capitolo  XIX. 
Come  V  uomo  dee  coooscere  il  tempo  di  parlare. 

Conoscenza  è  conoscere  e  sapere  divisare  dalle  vir- 
ludi  i  vhu  che  hanno  colore^  virtude,  e  dì  ciò  ci 
oonviene  guardare^  però  dice  Seneca,  lo  tìùq  entrr 
setto  Bome  di  virtude,  ohe  H  Mso  ardimoato  entra  in 
simiglianza  di  fortezza,  e  malvagità  è  tenuta  tempera- 
mentoi»  e  lo  codardo  è  teooto  savio,  e  per  fìillìre  in 
qpeste  cose  siamo  noi  in  grande  pericolo;  e  però  vi 
doremo  mettere  certo  s^no.  Isodcnro  noi  mena  alFo^ 
fido  di  questa  virtude  quando  dice,  scaccia  i  vicii  che 
portano  simiglianza  di  virtude,  perchè  elli  diservono 
più  pericolosamente  che  quelli  che  segniscono  quello 
che  dimostrano,  però  si  cuoprono  sotto  la  coperta  di 
virlude;  che  sotto  coperta  di  virtude  e  di  giustizia  sia 
ÙLÌtà  crudeltà  e  ipocrisia  chiamata  di  buoaarità.  Tul- 
lio disse,  nullo  agguato  non  è  si  riposto  come  quello 
eh*  è  appiattato  sotto  ispecie  di  servigio.  Lo  maestro 
dice^  uno  cavallo  di  legno  distrusse  Troia,  però  che 
aveva  simiglianza  di  Minerva  eh'  era  loro  Iddea. 

Capitolo  XX. 
Come  r  uomo  dee  guardare  in  conoscenza. 

Insegnamento  ad  imprendere  iscienza  a'  non  sa- 
puti, suo  ufficio  si  è  che  V  uomo  dee  primieramente 
insegnare  a  sé  medesimo,  poi  agli  altri,  secondo  che 
Salomone  disse,  quando  disse,  bevi  P  acqua  di  tua  ci- 
sterna, e  ciò  che  surge  del  tuo  petto,  «  li  ruscelli  del- 


l53  o 

le  tue  fontane  Tadvio  fiiorì,  e  rodi  b  tmìimdìipcr 
ineuo  le  piazie.  Lo  maestro  àmtj  beri  Paoqpa  di  tn 
dstema  e  di  tuo  pozzo,  ciò  è  a  dire  che  P  aomo  im- 
prenda senno  disoo  pensiero;  e  mettere  Inori  li  tuoi 
rufodli  delle  tue  fioiilmic^  dò  è  a  dire,  ohe  dei  iipv- 
gere  tua  iscienia,  ins^gnandob  ad  altroL  Salomont 
disse,  io  ti  priego  Iddio  che  tu  mi  doni  cnore  ipiinpcu 
Tole.  Seneca  disse^  e^  è  già  gran  parte  in  bontà  chi 
Tooie  divenire  buono,  e  bontà  di  cuore  non  è  già 
prestata,  né  venduta.  Seneca  dice,  virtnde  non  pnà 
essere  senza  studio  di  se,  che  malvagità  noo  pranda 
leggiermente.  Yirtude  è  acquistata  per  grand*  atndb 
e  travaglio,  ella  desidera  governatore  ;  ma  i  vian  ìm^ 
prende  V  uomo  senza  maestro.  Gregorio  dìoe,  il  ti 
eonviene  i^>esso  ricordare  delle  cose  cbe  1  mondo  €i 
la  dimenticare.  Seneca:  non  giova  troppo  detto  mmk 
Agostino,  quelli  sono  malaugurosi,  cbe  tegnono  a  ynh 
ciò  sannoi  e  sempre  diiegja^ono  nuove  coee.  Togli  Uà 
ben  saper  insegnare,  cbè  cosà  si  presta  dottrina,  s'ella 
à  sparta  cresce,  e  s' ella  è  tenuta  discresce  $  ansi  A 
danno  di  sé,  cui  so  &tto  aperto  riviene.  Sei^^ca  disse, 
insegnar  (Juello  che  tu  non  sai  non  è  firutto.  Cato  ditr 
se,  laida  cosa  è  al  maestro  quando  la  colpa  il  ripren- 
de. Lo  maestro  disse,  la  natura  degli  uomini  è  tale  che 
elli  giudicano  più  tosto  le  altrui  cose  che  le  loro  ;  e 
dò  addiviene  perchè  nella  nostra  cosa  noi  siamo  in 
pecca  o  in  troppo  grande  gioia  o  in  troppo  grande 
dolore  o  d^  altre  cose  simiglianti,  perchè  noi  non  pò-* 
temo  giudicare  la  cosa  secondo  ch^  ella  èé  Però  co- 
manda la  legge  romana  ohe  Tuomo  deldm  aver  awo^ 
cato  nella  sua  propria  causa;  ma  egli  addiviene,  non 


LIBBO  SETTIMO.  l55 

SO  come,  che  noi  vediamo  in  altiiii  far  male  più  tosto 
che  in  noi,  e  che  nell^  occhio  d' un  altro  puote  Iluo^ 
mo  vedere  pù  tosto  un  picciol  busco  che  nel  suo  u- 
na  gran  trave:  e  cosi  vede  V  uomo  lo  male  del  suo 
vicino  o  di  suo  compagno  che  gli  va  dinanzi,  che  il 
sao4^^è  dirieto  a  lui.  Ed  in  tutte  queste  cose  è  virtude. 
Tallio  dice,  che  V  uomo  dee  schifare  due  vizii.  L^uno 
è  che  noi  imprendiamo  le  cose  che  noi  non  sapemo 
per  diritta  saputa;  e  che  noi  non  ci  assentiamo  folle- 
moate,  che  ciò  è  presunzione;  egli  converrà  che  chi 
vorrà  ischil&re  questi  vizii  ch^  egli  vi  metta  tempo  e 
pensieri  a  conàderate  le  scure  cose.  L^  altro  vizio  è 
flMttere  grande  istudio  nelle  oscure  cose  e  gravi  che 
non  sono  necessarie  ;  e  questo  vizio  è  chiamato  cu- 
riositade,  cioè  quando  V  uomo  mette  tutta  sua  cura 
nelle  cose  di  che  non  ha  pro^e  tutto  suo  intendimen- 
tc^  si  come  tu  lasciassi  la  scienza  di  virtude,  e  mettessi 
un  grande  studio  a  leggere  astrologia  ed  in  agurìe.  Se- 
neca disse,  egli  è  meglio  se  tu  tieni  un  poco  d' inse- 
gnamento di  sapienza,  e  Phaì  prestamente  per  uso,  che 
se  tu  n'avessi  impresa  molta  e  non  T  avessi  per  mani 
Lo  maestro  disse  :  così  come  Tuomo  chiama  buono  (at- 
tore, non  colui  che  fa  molte  arti  di  che  usa  poco,  ma 
colui  che  in  una  o  in  due  si  travaglia  diligentemente, 
e  non  v'ha  forza,  conviene  ch'egli  sappia  pur  tanto 
ch'egli  n'abbia  ;  così  è  egli  in  disciplina,  che  v'  ha  mol- 
te cose  che  poco  aiutano  e  molto  dilettano;  che  tutto 
sia  ciò  che  tu  non  sappi  perchè  ragione  lo  mare  si 
sparge,  e  perchè  i  fanciulli  piccoli  sono  conceputi  in- 
sieme, e  perchè  in  diverso  destino  nascono,  non  si  con- 
viene guarì  a  trapensare  ciò  che  non  è  lecito  a^sepore 

Latini.  Fdl.  IL  8 


1 34  n.  TÉsoKo. 

e  che  non  è  perfelto.  Tullio  disse,  senno  di'  è  sen- 
za giustìzia  dee  essere  meglio  chiamato  malizia  die 

scienza. 

Capitolo  XXI. 

DelP  insegnamento. 

In  prudenza  si  dee  Puomo  guardare  del  tròppo  e 
del  poco  e  seguire  lo  mezzo,  secondo  che  fu  detto  a 
dietro  nel  libro  di  Aristotile,  che  là  ove  virtude  si  for- 
za oltra  suo  potere  senza  riteiìimento  di  ragione,  al- 
lora cade  ella  pericolosamente  ;  mira  li  raggi  del  sole 
ed  abbaglia  sì  che  non  vede  niente.  Salomone  dice, 
chi  non  ha  previdenza  distrugge  il  suo  tesoro  ^  nia  guar- 
dali di  provedere  ciò  che  a  noi  è  vietalo  e  non  di  no- 
stra licenza,  disto  disse,  non  è  da  sapere  a  voi  lo 
tempo  e'  momenti  che  '1  padre  ritenne  nella  sua  pò- 
destade.  L'Apostolo  disse,  lo  senno  della  carne  è  ni- 
mico a  Dio,  e  la  sapienza  del  mondo  è  sloltizia  a  Dio. 
Seneca  disse,  se  prudenza  passa  oltra  le  cose  buone  tu 
sarai  tenuto  per  ingeneratore  di  spaventevoli  sotti- 
gliezze. Se  tu  richiedi  le  cose  scerete  e  ciascuna  cosa 
minuta  vorrai  sapere,  tu  sarai  tenuto  invidioso, sospet- 
toso e  pieno  di  paura  e  di  pensieri.  E  se  tu  metterai 
tutta  tua  sottigliezza  in  trovare  una  piccola  cosa  o  due, 
l'uomo  ti  mostrerà  a  dito,  e  diià  ciascuno,  che  tu  sei 
molto  ingegnoso  e  pieno  di  malìzia,  e  nimico  de'sem- 
plici,  e  generalmente  malvagio  da  tutti  gli  uomini,  ed 
in  tali  malvagitadi  ti  mena  la  dismisura  di  prudenza. 
Dunque  dee  V  uomo  andare  per  lo  mezzo,  sì  che  non 
sia  troppo  grosso,  ne  troppo  sottile. 


Gjìpitolo  XXIL 

DeUa  prudenza  e  di  sua  manien. 

Appresso  Pìosegnameoto  della  prudenza^  ch^è  la 
prìma  delle  altre,  ch^  è  donna  ed  ordinalrìce,  si  come 
quella  che  per  forsa  di  ragione  divisa  le  cose  V  una 
dall^  altra,  ora  dirà  il  maestro  di  temperanza,  e  di  for~ 
teista,  e  di  giustizia,  però  che  V  una  e  V  altra  è  per  di- 
rizzare il  cuore  dell'  uomo  all^  opere  di  ^ustizia,  Ra* 
gione  comanda  volontade,  e  paura  gV  impaccia  VuÈàr 
ciò  dì  giustizia^-se  non  jEbsse  temperanza,  che  constrio*' 
gè  runa  forza  e  T altra;  e  tuttavia  dice  il  maestro 
della  temperanza,  innanzi  che  di  fortezza,  però  che 
temperanza  stabilisce  il  cuore  alle  cose  che  sono  eoo 
noi,  cioè  la  bocca  serve  al  corpo.  Ma  &rza  istabilisoa 
alle  cose  contrarie;  e  dalP altra  parte  p^  temperanza 
governa  V  uomo  se  medesimo,  per  forza  e  giustizia 
governa  gU  altri;  e  meglio  è  governare  se  che  altrui. 

Capitolo  XXID. 

Della  flecooda  TÌrtiide  eh*  è  eonlemplatiTa. 

T^nperanza  è  quella  signorìa  che  P  uomo  ha  con- 
tra  lussuria,  e  centra  agli  altri  movimenti,  che  sono 
disavvenevoli;  cioè  la  più  nobile  virtù  che  rifrena  il 
carnale  diletto,  e  che  ci  dona  misura  e  temperamento 
quando  nói  siamo  in  prosperità,  sì  che  noi  non  mon- 
tiamo in  superbia,  uè  seguiamo  la  volontà,  e  quando 
la  volontà  va  innanzi  al  senno  V  uomo  è  in  mala  via. 
Tullio  dice,  che  questa  virtù  ornamento  di  tutte  vite 


1 56  n.  TBSomo. 

è  rappagamento  deHaoì  turbameoti  ;  però  dee  dasi»- 
no  votare  il  suo  cuore  della  volootà  del  desklerìo  dèi 
carnale  diletto,  che  altrìmeoti  virtade  noi  può  aìola- 
re,  secondo  che  Orazio  disse,  se  ^  vasello  non  ^  netto 
ciò  che  tu  vi  metterai  inagrerà  ;  però  dèi  tu  dÌ9|tte- 
giare  diletto,  che  troppo  ci  nuoce  diletto,  eh*  è  eoBH 
parato  per  dolore.  Li  avari  hanno  sèmpre  Inogo  ;  doA- 
que  metti  alcun  fine  al  tuo  desiderio.  Lo  invidiofo 
sempre  addolora  delle  cose  graziose.  Chi  non  tempera 
sua  ira,  egli  averà  il  dolore,  e  vorrebbe  ch^  ^;li  noli 
avesse  fatto  quello  ch^^li  avea  pensato.  Ira  è  contro 
alla  volontà,  e  che  tu  dèi  governare  tua  volontà,  cliè 
se  non  la  fai  ubbidire  ella  comanda;  rifrenala  danqnè 
ul  freno,  o  alla  catena.  Lo  maestro  disse,  sotto  teoÉpe-' 
ranza  sono  tutte  le  virtù  che  hanno  signoria  sopra  altre 
maggiori,  e  sopra  li  malvagi  diletti  ohe  nuocono  e^ 
uomini  troppo  pericolosamente,  eh*  elli  sono  cagionÉe 
spesso  di  morte  e  di  malattia.  Seneca  dice,  per  lo  de- 
siderare periscono  la  maggior  parte  dei  ccMpi^  T  altra; 
parte  si  dà  a^  suoi  desiderii,  ed  è  sottomesso  sd  luogo 
del  servo,  egli  è  orgoglioso,  egli  ha  Iddio  perduto,  egli 
perde  suo  senno,  e  sua  avventura,  e  sua  virtude.  San 
lomone  disse,  sapienza  non  è  già  trovata  della  terra  di 
quelli  dilettevolmente. 

Capitolo  XXIV. 
Della  vita  conteroplatÌTa. 

Diletti  e  desiderii  sono  compiuti  e  messi  in  opera 
per  li  cinque  sensi  del  corpo,  donde  assaggiare  e  toc- 
<*are  sono  principali,  ma  li  altri  tre  sono  stabiliti  per 


LIBRO  SETTIMO.  1 57 

li  due  detti  di  sopra^  che  noi  conosciamo  la  cosa  da 
lungi  per  udn*e  e  per  vedere  e  {ler  fiutace,  ma  per  l'as- 
saggiare e^l  toccare  non  si  può  conoscere  la  cosa  se  non 
d'appresso,  però  sono  tutti  gli  uccelli  di  prati  di  gran» 
de  veduta,  che  li  conviene  da  lunga  conoscere  sao  pa- 
sto, altresì  vide  la  prima  femina  il  frutto  prima  eh' 
«ella  ne  toccasse  ^  e  David  vide  Bersabea  ignuda  anzi 
ch'egli  fecesse  l'adolterio.  Se  noi  leggiamo  nel  libro 
della  natura  degli  animali  troveremo  che  toccare  e  as» 
saggiare  sono  più  possenti  nel  corpo  dell'uomo  che  in 
nulla  bestia 5  ma  lo  vedere  e  l'udire  e  1  fiutare  sono 
più  deboli  e  di  minore  podere  nell*  uomo  che  negli 
altri  animali^  e  perciò  dico  che  li  diletti  che  sono  per 
toccare  e  per  assaggiare  sono  più  pericolosi  che  gli  al- 
tri ;  e  le  virtudi  che  sopo  contrarie  allora  sono  di 
maggiore  valore  ^  e  per  ciò  ohe  diletto  è  nell'  animo 
dì  noi  per  li  cinque  sensi  del  corpo,  e  ciascuno  diver- 
samente secondo  suo  oflicio,  addiviene  che  quella  vir* 
tu  è  che  temperanza  divisa  per  numero  di  più  mem- 
bri per  costringere  la  virtù  concupiscibile  e  la  virtù 
irascibile,  cioè  l' uomo  vivente  ontoso  ed  adirato  per 
governare  l'autorità  de'cinque  sensi;  e  questi  membri 
sono  cinque,  misura,  onestà,  castità,  intendere  e  ri^ 
tenere. 

Capitolo  XXV. 

Del  diletto  e  del  desiderio. 

Misura  è  una  virtude  che  tutti  i  nostri  ornamen- 
ti e  tutto  nostro  allure  fa  essere  senza  difetto.  Ora- 
zio dice,  in  tutte  cose  è  certa  misura  e  certa  inse- 
gna, sì  chc'l  retto  non  può  £ire  ne  più  né  meno.  Tnl- 


i58  IL  Tuoao. 

lio  dice,  dimentica  li  tuoi  ornamenti  che  sono  indegni 
air  uomo,  pei;p  che  Seneca  dice,  che  '1  malvagio  cm^ 
namento  di  fuori  è  messo  di  mahragi  pensieri.  Tdlio 
disse,  tua  nettezza  dee  essere  che  ella  non  sia  agio  per 
troppo  ornamento,  ma  tanto  che  tu  cacci  le  sairatiche 
negligenze  e  la  compassione  laida.  Egli  si  ha  due  mo- 
vimenti, r  UDO  del  corpo  e  P altro  del  cuore;  e  quii 
del  corpo  dee  Puomo  guardare  che  sua  andatura  non 
sia  troppo  molle  per  tardezza,  che  ciò  è  segno^  di  su- 
perbia ;  né  tenenza  troppo  presta  tanto  ch^ella  ti  fac- 
cia ingrossare  la  lana  e  mutare  il  colore  ^  e  queste  co- 
se sono  segno  di  poca  stabilità^  il  movimento  del  coch 
re  è  doppio.  L' uno  t*  pensiero  di  ragione.  Xi'  altro  è 
desiderio  di  volontà.  Pensiero  si  è  a  dimandare  il  va- 
ro, e  desiderio  fa  fói*e  le  cose^  Dunque  dee  V  uomo  cu- 
rare che  la  ragione  sia  donna  dinanzi  che  ^l  desiderio 
ubbidisca  ^  che  se  volontà,  che  è  naturalmente  sotto- 
messa a  ragione,  non  gli  è  ubbidiente,  ella  fa  ispesse 
volte  turbare  il  corpo  e  ^1  cuore.  L' uomo  può  cono- 
scere i  cruciali,  o  i  smagali  (>er  paura,  o  chi  ha  gi'an 
volontade  d^  alcuno  dileLlo  a  ciò  ch'egli  muove,  cam- 
bia lo  volto  e  '1  colore  e  la  boce  e  lutto  suo  atto  ;  che 
il  cuore  ch'è  iriliammato  (Fira  batte  fortemente,  lo  coi'- 
po  triema,  la  lingua  balbetta,  la  faccia  iscalda,  gli  oc- 
chi istende  celando  sì  che  noi^  puote  conoscere  li  suoi 
amici.  La  faccia  moslm  ciò  eh'  è  dentro,  però  Giove- 
nale dice,  riguarda  lo  tormento  e  la  gioia  del  cuore  e 
la  faccia  che  sempre  mostra  suo  abito.  Per  le  parole  ' 
che  sono  dette  può  T  uomo  intendere  che  1  desiderio 
della  volontà  è  ristretto  ed  acchetato  col  bisogno  ;  che. 
li  afEiri  sono  diversi  secondo  la  diversità  di  maggiori 


Lnio  SBTmio.  159 

e  di  pari  cose,  si  oome  ha  di  corpi  grande  diver- 
sitade,  che  1^  uno  è  leggiere  per  correre,  e  F  altro  è 
fijrte  per  giostrare,  altresì  ha  egli  nel  cuore  maggiore 
diversità;  che  Tuno  lia  cortesia^  T altro  ha  letizia,  Tal- 
tro  crudeltà,  V  altro  è  savio  di  celare  soo  pensiero,  ed 
altri  semplici  ed  aperti  che  non  vogliono  celare  loro 
£Mto,  anzi  amano  verità  e  guardano  amistà.  Che  dirò 
io?  altrettante  sono  le  volontà,  come  sono  le  figure, 
per  questo  detto  ;  egli  ci  ha  mille  maniere  d^  uomini 
che  delle  loro  usanze  sono  dissimiglianti;  dascuno  ha 
suo  volere,  e  le  genti  non  vivono  ad  una  volontà. 
Tullio  dice,  ciascuno  dee  mettere  sua  intenzione  a 
cosa  che  li  sta  convenevole,  e  già  sa  ciò  che  le  altre 
cose  saranno  migliori  e  più  onorabili,  tuttavia  dee  egli 
misurai'e  sua  invidia  secondo  sua  regola;  e  la  ragione 
eomanda  s^  egli  è  debile  suo  corpo,  ed  egli  ha  buono 
ingegno  e  viva  memoiia,  che  non  sia  cavaliere,  ma 
cliasi  a  studio  di  lettera,  che  nullo  dee  andare  contra 
a  natura,  ne  seguire  quello  ch^  egli  non  può  seguita- 
re, ma  se  bisogno  non  fa  misdire  a  cose  che  non  ap- 
partengono a  nostro  ingegno,  noi  dovemo  operare  che 
noi  facciamo  bello  senza  laidezza,  o  più  a  disnore.  Ne 
noi  non  dovemo  tanto  sforzare  lo  bene  comune  a  noi 
donato  come  di  fuori  li  vizii,  le  proprietadi,  lo  tempo  ; 
che  ne  conta  Orazio  in  questa  maniera,  lo  fente  ha  tan- 
to ch'egli  sa  parlare  ed  andare  a  giuocare  là  dov'egli 
vole,  e  si  cruccia,  e  si  giostra,  e  si  muta  per  divei*sc 
ore.  lii  giovani  che  non  hanno  oggimai  guardia  si  di- 
lettano a  cavallo,  ed  in  iicx*.elli,  elli  si  corrompono  leg- 
germente a'  vizii,  e  si  crucciano  ;  quando  V  uomo  si 
castiga,  egli  si  promuove  tardi  da  sua  opera^  e  guasta 


l4o  IL  TESOHO. 

MIO  retaggio,  egli  è  orgoglioso,  ed  ontoso,  e  laida  tcH 
sto  ciò  ch^  egli  ama,  che  giovane  uomo  non  ha  pmrto 
<li  fermezza,  e  quando  vien  in  tempo^  e  di  coraggio 
<V  uomo,  egli  muta  la  sua  maniera,  e  rìchieggonoamt- 
ci,  e  ricchezza,  ed  onore,  e  si  guarda  di  (are  cote  che 
li  convegoa  mutare.  Li  vecchi  hanno  molte  angofcoi 
elli  chieggono  le  cose,  e  quando  le  hanno  acquistate^  li 
temono  d^  usarle^  egli  &  tutte  queste  cose  gelalamea* 
te  e  codardamente;  egli  pensa  in  chiedere,  e  vole  ciò 
M  è  anche  addivenire,  egli  compiange  ciò  che  per- 
de, e  loda  il  tempo  passato,  e  vole  castigare  li  giovani 
(i  giuocare  con  le  giovane.  Massimiano  dice,  li  vecchi 
lodano  le  cose  passate,  e  biasimano  le  presenti,  per  fio 
che  nostra  vita  peggiora  continaai&ente  ;  lo  tempo  del 
padr«  è  peggio  ohe  quello  delPavolo;  il  nostro  tempo  è 
peggiore  che  quello  del  padre  3  ed  anche  saranno  i  no* 
stri  figliuoli  più  pieni  di  vizii.  Giovenale  dice,  terra 
multiplica  ora  malvagi  uomini  e  rei;  e  anche  di  que- 
sta materia  dice  Tullio,  cheU  giovane  uomo  dee  por- 
tare reverenza  al  vecchio,  e  intra  loro  amare  le  mi- 
glioii  pruove,  ed  usare  di  loro  consigli.  Seneca  dice, 
che  le  onoranze  e  le  follie  de^  giovani  debbono  essere 
onorate  per  lo  consiglio  de^  vecohL  Terenzio  dice , 
mentre  che  il  cuore  è  dottoso,  egli  va  qua  e  l«h.  Tullio 
dice,  in  gioventute  è  grande  debilezza  di  consiglio,  di^ 
:illora  crede  ciascuno  che  debba  vivere  secondo  che 
più  gli  piace,  e  così  egli  è  soppresso  dà  alcuno  suo  cor- 
so di  vivere,  anzi  eh'  egli  possa  lo  migliore  iscegliere, 
però  che  debbono  li  giovani  mirare  la  via  degli  altri, 
rosi  come  in  uno  ispecchio,  e  di  ciò  pigliare  esemplo 
di  vivere.  Seneca  dice,  buona  cosa  è  guardwe  in  al- 


'*■ 


LIBRO  SISTTIMO.  '  l4l 

trui  qudlo  ch'égK  dee  fare.  Giovenale  dice,  quegli  è 
bene  agurato  che  sa  gualcare  se  per  altrui  perìcolo. 
Quando  il  fuoco  è  appreso  in  casa  del  tuo  vicino,  ^ 
dei  fornire  la  tua  d^  acqua.  lil  questo  tempo  si  dee' 
1^  uooio  guardare  sopra  tutte  cose  di  lussuria  e  d'al- 
tre levità,  e  fare  sì  come  Giovenale  dice,  quando  tu 
fei  le  villane  cose  sieno  piccole,  e  ritaglia  i  tuoi  crini 
a  tua  prima  barba.  Tullio  dice,  li  giovani  si  debbono 
travagliare  di  cuore  e  di  corpo,  si  che  lo  loro  insegna- 
mento vaglia  ad  officio  della  loro  città,  cioè  a  dire, 
ch'egli  si  deano  adusare  da  giovani  a  ben  fare  sì  che 
elli  lo  ritegnano  tutto  tempo  della  loro  vita,  che  '1  va- 
sello guarderà  e  manterrà  l'odore  ch'egli  prese  quan- 
do fu  nuovo.  Orazio  Hisse,  lo  fante  apprende  sofierire 
povertà,  ed  a  menare  cavalleria  e  migliori  cose.  Tul- 
lio disse,  quanto  vale  a  rilassare  suo  coraggio,  e  met-^ 
tere  a  intendere  a  diletto  grande,  sia  dotto  di  tem- 
peranza, sovvegna  loro  di  vergogna,  e  ciò  saranno  più 
leggeri  s'egli  sofferranno  ch'egli  hanno  sieno  un  giuo- 
co ^  e  loda  bene  a  giuocare  alcuna  volta  per  riposa- 
re sé,  altresì  come  di  dormire,  che  natura  non  ti  fé  né 
per  giuoco,  né  per  sonno.  Orazio  disse,  profittabile  co- 
sa è  a  giovani  fanciulli  e  fanciulle  eh' elli  si  studino 
ad  avere  senno,  però  che  non  ci  vale  giuocare,  che  'l 
giuoco  ingenera  briga  ed  ira  ed  odio  e  mortale  bat- 
taglia. Tullio  disse,  due  maniere  sono  di  giuocare,  l'u- 
na  é  villana  e  malvagia  e  laida,  e  l'altra  é  leale  e  cor- 
tese ed  ingegnosa.  L' ufficio  dell'uomo  che  ha  passato 
gioventudine  sono  quelli  che  Orazio  nominò  qua  a 
dietro,  di  che  egli  non  ha  qui  a  ricordare,  però  se  ne 
passa  ora  lo  conto  brevemente.  Al  vecchio  dee  l'uomo 


l4a  *  IL  TESCNia 

menomare  la  briga  dd  corpo  e  crescere  qadki  de&V 
nima  ed  io  prendei*e  od  in  ^tigare  o  in  servire. Iddio; 
Terenzio  dice,  nullo  non  fu  unque  sì  pteno  di  aeoiio^ 
che  là  ove'!  tempo  e  P  usanza  non  richj^ga  sempre  di 
alcuna  novella  cosa,  ech^eglioon  creda  sapere  di  quel- 
lo ch^  egli  non  sa,  e  che  P  uomo  non  rifiuti  ciò  che  io 
prima  li  piacea,  e  quando  egli  le  pruova  che  molte  co- 
se somigliano  d^essere  buone  innaou  che  ruoitto  Ta»^ 
saggi;  ma  quando  Puomo  le  assaggia  Puomo  le  trota 
malvagie.. Tullio  disse,  li  vecchi  debbon  laettere  Vkt* 
tendimento  a  consigliare  gli  amici  giovam.  Tecchb 
uomo  non  si  dee  tanto  guardare  neUe  cose,  oeme  àh^ 
bau  donare  asprezza,  altrimenti  li  dirà  V  uomo  quello 
che  Orazio  dice,  tu  imprendi  invidia  e  lasci  virLudL 
Tullio  dice,  lussuria  è  laida  in  tutto  agio  di  tempo;  ma 
troppo  laida  è  in  vecchiezza,  e  se  intemperanza  è  con 
essa,  ciò  è  di  più  male,  che  a  vecchio  simiglia  Tonta,  e 
la  intemperanza  del  vecchio  ùl  il  giovane  meno  savMK 
E  di  ciò  Giovenale  disse,  gli  esempi  de^nostri  primi  pa- 
dri che  furo  dinanzi  a  noi  ci  corrompono  più  tosto, 
che  noi  siamo  leggeri  a  seguire  laidezza  e  malvagità; 
Tullio  disse,  gli  offici  de^  bisognosi  sono  molto  diversi, 
che  'i  signore  dee  mantenere  li  bisognosi  della  città,  e 
guardare  la  legge,  e  ricordarsi  che  la  legge  è  data  in 
sua  mano,  ma  non  di  sua  guardia  ;  ma  un  altro  bor- 
ghese dee  vivei'e  dritto,  donde  gli  altri  vivono,  eh'  e^ 
gli  non  faccia  troppo  alto,  né  troppo  basso,  ma  guai^ 
di  il  comune  bene  in  paee,  ed  in  onestà,  sì  eh'  egli 
non  caggia  nel  peccato  di  Gatellina,  di  cui  Salustio  di- 
ce, quelli  che  sono  poveri  nella  città  hanno  tempre  in- 
vidia de'rìcchi^  e  segniscono  lo  malvagio,  ed  odiano 


UBKO  SETTIMO.  ì/^0 

le  vecchie  cose,  ed  amano  le  novelle  per  la  inalavo*- 
glieota  delle  bro  cose.  Desiderano  che  lo  stato  della 
città  »  tramoti  tutto  giorno.  Tullio  disse,  li  savi  non 
sì  debbono  intramettere  di  nessuna  cosa,  se  non  di 
loro  bisogna,  eh'  elli  non  si  intramettino  delP  altrui 
bisogno.  Villano  officio  ha  quegli  che  compera  mer^i- 
catanzie  dal  mercatante  per  rivenderle  incontanente, 
che  non  può  nulla  guadagnare  senza  tormento^  e  nul^ 
la  coéa  non  è  più  laida  che  vanità,  e  però  Fuomo  dee 
richiedere  dò  che  gli  è  mestiere  senza  laido.  Tullio 
dice,  che  non  è  sì  grande  guadagno  come  di  guada<^ 
gnare  ciò  che  Fuomo  ha.  Medicine  e'  specierie  sono 
oneste  a  quegli  che  li  conviene,  ma  mercatanzia  s' el^ 
la  è  piccola  Fuomo  la  tiene  a  laido^  s'ella  è  grande  • 
dà  guadagno  e  dà  utilità  senza  vanità  ella  non  dee 
essere  biasimata.  Nullo  mestiere  è  più  buono  che  la«^ 
Vorare  terra,  ne  più  crescevole,  ne  più  degno  d' uomo 
franco;  di  cui  Orazio  dice:  quelli  ha  bene  operato  che 
lascia  tutti  li  mestieri,  sì  come  fecero  gli  anlichiche  col^ 
tivavano  ;  e  queste  cose  sono  senza  laidezza  e  senza 
usura. 

Capitolo   XXVL 

Come  r  uomo  dee  dite  pesate  parole. 

Onesta  è  guardare  onore  e  parole,  e  da  maggiore^ 
cioè  a  dire  cosa  onde  si  convegna  più  vergognare  che 
natura  medesima;  quando  ella  la  fa  l'uomo  volse  ella 
medesima  guardare  onestà.  £lla  mise  in  apeito  nostra 
figura  in  che  ha  onestà  sembianza,  e  ripose  le  parli 
che  sono  date  al  bisogno  dell' uomoj  però  elle  sareb-* 
bero  laide  a  vederle,  e  li  onesti  nomini  schifano  di- 


l44  U'  TESORO. 

ligentemente  queste  forze  dì  natura,  e  ciò  è  oneiU 
cosa  che  V  uomo  onesto  non  mostri  suo  membro.  Al- 
tresì dee  Puomo  avere  vergogna  in  parole,  c^^elii  non 
dee  ricordare  suo  membro,  perch^egli  è  riposto  e  soi^ 
zo,  e  altr^è  a  dire  in  modo  di  sollazzo^  che  quando  F»^ 
rides  e  Goflodes  erano  compagni  in  una  parte^  elfi 
trattavano  di  loro  officio,  un  bello  giovane  passò  di- 
nanzi a  loro,  Goflodes  disse,  vedi  bello  giovane.  -  Vtr 
rides  rispose,  piovano  d'avere  vergogna,  non  tanlD 
nelle  mani,  ma  nelli  occhi  ;  ma  se  Goflodes  ciò  ayesie 
detto  di  mangiare,  elli  non  dovrebbe  essere  biasÙDMie 
niente.  Giò  disse  Orazio,  che  ad  uomo  tristo  si  con-; 
viene  tristo  parlare  ;  a  corrucciato,  parole  di  cruccio 
e  di  minaccìe;  a  quelli  che  si  sollazzano,  parole  di  sp- 
iazzo ;  al  savio,  parole  savie;  ma  se  la  parola  è  divisata 
e  dissimigliata  dall'  essere  di  colui  che  la  dice,  tutte  le 
genti  se  ne  gabberanno.  Orazio  disse,  non  cercare  il 
segreto  di  alcuno.  Lo  quinto  ufficio  disse  Orazio  mer 
desimo,  se  alcuno  ti  dice  suo  segreto,  tu  il  celerai,  é 
non  lo  iscoprirai,  né  per  ira,  né  per  giuoco.  Guarda 
che  tu  dichi,  a  cui  e  di  cui,  e  si  ti  guarda  da  quello' 
che  ti  dimanda  se  gli  é  lusingatore  sgolato,  eh'  egli  non 
può  celare  quello  ch'egli  ode,  né  ritener  quello  che  li 
entra  per  li  orecchi,  che  poi  che  la  parola  è  uscita  del- 
la bocca  ella  vola  in  tal  modo  che  mai  non  si  può  ri- 
chiamare. Lo  maestro  disse,  non  scoprire  il  tuo  spre- 
to, che  se  tu  medesimo  noi  vuoi  celare  tu  non  dei 
comandare  ad  altrui  che  lo  celi.  Terenzio  disse,  tieni 
io  te  ciò  che  tu  odi  più  volontieri  che  tu  non  parli. 
Salomone  disse,  in  molto  parlare  non  falla  peccato. 
Sopra  tutte  le  cose  sì  fuggi  tenzone,  che  dottosa  cosa 


LIBRO  9BTTIH0.  l45 

è  ad  astrìngere  contro  B  suo  pari,  e  faori  ^i  sienno  è 
tenzonare  a^  suoi  maggiori,  e  laida  cosa  e  più  folle  chi 
si  pone  a  tenzonare  con  folle,  o  con  ebro.  • 

Capitolo  XXYII. 

Come  Puomo  dee  usare  parole  oneste. 

Castità  è  a  dottare  lo  diletto  per  temperamento  dì 
ragione.  Salostio  disse,  se  la  v^ontà  di  lussuria  pro- 
cede, lo  coraggio  non  ha  podere  di  ben  fare.  Seneca 
dice,  diletto  è  fragile  e  corto,  e  di  tanto  come  fa  più 
volonterosamente,  dispiace  più  tosto,  e  alla  fine  con- 
Tiene  che  egli  si  penta,  o  elli  abbia  onta  ;  e  lussuria 
non  ha  nessuna  cosa  che  sia  avvenente  alla  natura 
deiruomo,  anzi  è  bassa  e  cattiva,  però  che  viene  dal- 
F  opera  del  villano  membro.  Tullio  dice,  laida  cosa  è 
che  molto  si  fa  biasimare  lo  inchinare  la  franchezza 
deir  uomo  alla  servitù  del  dilettò,  e  fare  di  suo  tra- 
vaglio altrui  volontà.  Egli  s' avviene  tuttodì  al  forte 
uomo  e  savio,  che  bene  la  natura  d^  uomo  sormon- 
ta alle  bestie,  che  elle  non  amano  se  non  diletto,  e  a 
ciò  mettono  tutto  loro  sforzo.  Ma  cuore  d'uomo  in- 
tende ad  altre  cose,  cioè  a  pensare  e  a  comprendere  5 
e  però  se  alcuno  è  troppo  richiesto  di  diletto  guardisi 
che  non  sia  di  tignalo  di  bestia,  e  s'  egli  è  savio,  e 
volontà  Passale,  egli  si  riprende  u  pf)co  a  poco  per 
vergogna.  Guardate  dunque  che  '1  diletto  non  abbia 
signoria  sopra  di  voi,  ch^;  fa  molto  sviare  P uomo  di 
virtude^  però  disse  la  santa  Scrittura,  se  tua  opera  non 
h  casta,  sia  privala.  Lussuria  e  vizii  confondono  la 
scienza  dell^  uomo,  «  mettonlo  in  errore  della  fede, 

Latini,  Voi.  II.  9 


i46  ■ 

rh'  certo  di  hent  c<WBÌikii  b  iHlDni  «li  cartilì^  che 
^  per  cioltarc  i  «fletto  dri  toccare,  e^  trofqrji  dbel 
«fileito  è  in  doe  nmiierr.  uno  ch'è  per  losBorìa^  od  d^ 
tro  rhe  è  tleiraitre  membra:  e  sirrome  ornare  di  robe* 
e  bascL  e  di  gnioco  «fi  dare  e  tollerc  e  d'altre  coiedie 
rorrooipooo  la  TÌta  dell*  uomo  se  le  sono  dismisanle 
queste  cose^  ma  dù  le  £i  alcima  Tolta  e  trmyifralit- 
menle  e  senza  malTa^  Tolomà,  Fiioaio  lo  deve  bene 
sofièrire,  s^  ellì  non  p^^;ia  ne  questi  onori,  ne  qoesle 
cose. 

GàFTTOLO  XXYHL 

Come  r  nomo  dee  usare  parole  caste. 

Altra  maniera  di  diletto  che  è  per  lussuria  è  Tera- 
mente  contra  buona  TÌta,  se  ciò  non  è  castamente  fat- 
to. E  ciò  puote  essere  per  doqoe  ragioni  L'ona  die 
Io  aggiugnimento  sia  d^uomo  con  femina.  La  secon- 
da che  non  sieno  parenti.  La  terza  che  sieno  in  dirìito 
matrimonio.  La  quarta  che  sia  per  ingenerare.  La 
quinta  che  sia  fallo  secondo  natura.  Per  queste  paro- 
le potemo  intendere  che  matrimooio  è  santa  cosa,  e 
piacente  a  Dio  e  agli  uomini.  L^  una  però  che  Iddio 
lo  stabilì  primieramente.  La  seconda  per  ia  dignità 
del  luogo  OY^  egli  fu  fatto,  cioè  in  paradiso.  La  terza 
che  ciò  non  è  per  nuovo  istabilimento.  La  quarta  che 
Adamo  ed  Eva  erano  netti  di  tutti  i  peccati  quando 
fu  fatto.  La  quinta,  però  che  Iddio  salvò  questo  ordi- 
ne neir  arca  del  diluvio.  La  sesta  che  nostra  donna 
volse  essere  di  questo  ordine.  La  settima  perchè  Cri- 
sto andò  alle  nozze  con  sua  madre  e  con  suoi  disce- 
poli. La  ottava,  però  che  Cristo  nelle  nozze  fece  del- 


LIBRO  SETTIMO.  l^J 

V  acqua  TÌno^  per  stgnificaoza  del  yantaggio  che  viene 
del  matrimonio.  La  nona,  per  lo  frutto  che  ne  nasce, 
ciò  sono  i  figliuoli.  La  decima  è,  perchè  è  de'  sette  sa- 
cramentì  della  chiesa.  L'midecìma^  per  lo  peccato  che 
l'uomo  schifa  per  lo  matrimonio,  e  per  molti  altri  pe- 
rò che  sono  acquistati  alP  anima  e  al  corpo.  £  tutti 
quelli  che  vogliono  fare  matrimonio  deU>ono  consi- 
derare quattro  cose.  L'una  è  per  avere  figliuoli.  La 
seconda  ch'ali  s'aggiunga' con  suoi  pari  <di  lignaggio  e 
dì  ccHrpo  e  di  tempo.  La  tef  za  eh'  elli  sienp  stati  di 
buona  gente  nati  e  che  sia  stato  buon  uomo  il  padre, 
e  buona  femina  la  madre.  La  quarta  ch'elle  sìeno  buo- 
ne e  savie,  che  ricchezza  è  donata  dal  padre,  e  senno 
da  Dio.  Guarda  dunque  tutti  i  chierici^  tutti  gli  al» 
tri  che  sono  istabiliti  al  servigio  di  Dio,  e  le  vedove 
donne,  e  le  pulcelle  che  non  caggiano  in  questo  pe-- 
rìooloso  vizio,  che  danna  il  corpo  e  l'anima. 

Capitolo  XXIX. 

Ancora  parla  qui  del  diletto. 

Sobrietà  è  a  dottare  lo  diletto  dell'  assaggiare  4el- 
la  bocca  per  temperanza  di  ragione.  A  questa  virtù 
c'induce  la  natura  quando  fece  si  piccola  bocca  a  co- 
si grande  corpo.  E  dall'altra  parte  li  fece  due  occhi' 
e  due  orecchie,  e  non  li  fece  più  che  una  gola  e  una 
bocca.  Ma  molto  ci  spone  sobrietà  il  diletto  della  go- 
la, che  non  dura  se  non  tanto  quant'  egli  passa  per  la 
gola,  e  '1  dolore  della  malizia  che  te  ne  dee  venire  dura  ' 
lungamente.  Considera  dunque  che  ogni  cosa  imman- 
teneàte  che  l' è  mangiata  si  è  corrotta  3  che  non  è  cosi 


liB 


T 


£  *:imàvnt.  La 


|«cr  viviaey  e  ooo  TiTcre  per 
zìr#  «iior:  e' ma  e  cesa  dbe  T  cbineiia  ooo 
Mmof«ei  fcorctflueib  meoai  9  disamato 
^  *Ìi^ì^f^  Y  Zite.  GieTonimo  dice,  che  dù  è  ì 
i^f  k  morto  e  seppeUito.  Agostino  dice,  quando  F 
MOcsrtfdeberedTiiioiyeeglìèbeviilodaliii.  Lo 


LIBBO  SETTIMO.  l49 

Siro  disse,  più  onorevole  cosa  è  che  ta  ti  lamenti  di 
sete,  cbe  essere  ebbro.  Lo  poeta  disse,  yirtude  è  a  sof- 
ferìrsi  delle  cose  che  dilettano  in  mala  parte.  Lo  quar- 
to oificio  è,  che  per  mangiare  tu  non  dispenda  dis- 
crdinatamente^  die  ciò  è  laida  cosa  che' tuoi  vicini  ti 
mostrino  a  dito,  e  dicano,  tu  sei  divenuto  povero  per 
iQB  ghiottomia.  Orazio  disse,  abbiate  misura  secondo 
lo  borsa  nelle  grandi  cose  e  nelle  picriole.  Guardati 
dimqtie  di  taverne,  e  dì  tuo  grande  apparecchiamen- 
to di  mangiare,  se  non  è  per  tue  .nozze,  9  per  tuoi  amn 
d,  oper  alzare  tuo  onore  secondo  la  dottrina  della 
magnifioenza. 

Capitolo  XXX: 
Delle  parole  di  sobrìetade. 

.  Ritenenza  è  a  costrìngere  il  diletto  degli  altri  sensi, 
cioè  del  vedere,  delP  udire  e  delP  odorare,  e  in  tutto 
ciò  che  sia  vizio.  Salomone  dice,  non  guardare  mala 
femina.  Isaia  profeta  disse,  chi  chiude  li  suoi  orecchi 
Gontra  al  male  abiterà  in  cielo.  Salomone  disse,  non 
udire  femina  cantando.  Anche  dice,  chiudi  i  tuoi  o- 
recdii,  non  ascoltare  lingua  malvagia.  Seneca  dice, 
egli  è  dura  cosa  a  non  udire  il  diletto  del  sonatore. 
Isaia  profeta  dice,  in  luogo  di  suave  odore,  sarà  gran- 
dissima puzzura.  Qui  si  tace  ora  lo  conto  di  parlare  dì 
temperanza,  ciò  che  Seneca  disse  nel  suo  libro  di  que- 
sta virtude  medesima,  che  è  chiamata  contenenza,  ciò  è 
tolto  una  cosa. 


1 5o  IL  TBSOIO. 

Capitolo     XXXL 

Di  parole  di  ntteoimoito. 

Se  tu  ami  contenenza  cacm  il  sopra  più  e  1  trop- 
po, e  costrìngi  lì  tuoi  desiderìi  in  istretto  luogo.  Gm- 
sidera  con  te  medesimo  quanto  è  sofficiente  d  toi  na- 
tura, e  non  come  desidera  tua  concopisoeina.  Se  ta 
se^  contenente,  attendi  infino  a  tanto  che  ta  sia 
tato  e  contento  di  te  medesimo,  che  quelli  ch'^è 
tento  di  sé  egli  è  sofficiente,  o  gli  è  nato  con  le  fio- 
chezze. Metti  il  freno  alla  tua  concupiscenza.  Parti  da 
le  tutti  li  diletti  che  privatamente  ismuovono  lo  co- 
raggio a  desiderare.  Tanto  mangia  che  tu  ti  satolli,  e 
tanto  ]>e\'i  che  tu  non  t^  inehrì.  Quando  tu  sei  in  com- 
[)agnia  di  gente,  guarda  che  tu  non  misdica  d^alcimo 
che  non  sia  di  tuo  volei'e.  Non  ti  aggiugnere  a.  pre« 
sente  diletto,  e  non  desiderare  quelU  che  presenti  non 
sono.  Sostieni  tua  vita  di  poca  cosa.  Non  seguire  la 
volontà  della  vivanda.  Tuo  appetito  si  muova  per 
fame,  e  non  per  sapore.  Tu  dèi  desiderare  poco  3  cbè 
tu  dei  pensare  solamente  ch^  elli  vegna  allo  esem- 
plo divino  composto.  Partiti  dal  corpo,  e  congian- 
giti  allo  spirito.  Se  tu  istudii  in  continenza,  tu  ali- 
terai in  abitazione  profittabile;  e  non  sìa  conosciuto 
il  signore  per  la  casa,  ma  la  casa  per  lo  signore.  Non 
ti  fere  d'essere  quello  che  tu  non  se",  ma  vogli  parere 
chi  tu  se'.  Sopra  tutte  le  cose  dei  guardare  che  tu 
non  sia  povero  di  laida  povertà,  e  che  tu  non  abbi 
inferma  la  vita,  ne  laida  scarsità.  Se  tu  hai  poche  co- 
se, non  sieno  btrette^  tue  cose  non  piangere^  del- 


LIBRO  SETTIMO.  l5l 

r  altrui  non  ti  fare  maraviglia.  Se  tu  ami  contenenza 
fuggi  da  tele  laide  cose  innanzi  ch'elle  vegnano.  Credi 
tutte  le  cose  che  possono  essere  sostenute,  se*  ciò  non 
è  laidezza.  Guardati  da  laide  parole,  e' tuoi  delti  sie- 
no  profittabili  più  che  coilesi^  che  gli  nomini  amano 
ben  parlare,  ma  più  amano  il  parlare  diritto.  In  fra 
tuoi  detti  mischia  un  poco  di  giuoco,  sì  temperata- 
mente ch'egli  non  abbia  abbassamento  di  dignità,  ne 
di  falsità  di  riverenza,  che  riprendevole  cosa  è  non 
rìdere.  Dunque  se  tempo  è  di  giuocare,  portati  secon- 
do tua  dignità  saviamente,  sì  che  nullo  ti  riprenda  che 
tu  sia  aspro,  ne  nullo  ti  tenga  vile,  dispeltandoli  per 
troppo  fare.  Di  te  non  sia  udito  nulla  villania,  anzi 
avvenevole  cortesia.  Tuoi  giuochi  sieno  senza  levità, 
e  tuo  riso  senza  voce,  e  tua  voce  senza  gridare,  e  tua 
andatura  senza  romore,  e  tuo  riposo  non  sia  con  ne- 
gligenza. Quando  gli  altrì  giuocano  innanzi  a  te,  pensa 
alcuna  cosa  onesta.  E  se  tu  vogli  essere  contenente, 
tu  ischiferai  tutte  lode,  e  abbi  per  altre  tale  essere 
lodato  dalli  rei  come  esser  lodato  per  ree  cose.  E 
quando  elli  pensano  e  dicono  male  di  te,  allora  ne  dei 
tu  essere  lieto,  e  credere  che  ciò  sia  tuo  pregio.  La 
più  grave  cosa  che  sìa  nella  contenenza,  è  di  guardarti 
dalle  parole  che  lusingano  quella  cosa  ch'invita  il 
enore  a  grande  diletto.  Non  chiedere  Y  amistà  d' al- 
cuno uomo  per  lusinghe.  Non  essere  ardito,  ne  rigo- 
glioso. Umiliati,  e  abbassati,  e  non  ti  vantare  gravo- 
samente. Insegna  volontieri  agli  altri.  Rispondi  bel- 
lamente se  alcuno  ti  riprende  per  diritta  cagione,  e  ' 
sappi  eh'  egli  lo  fa  per  tuo  prode.  L' aspre  parole  non 
dottare,  ma  abbi  paura  delle  umili.  Caccia  da  te  tutti 


1 52  n.  TBsomo. 

li  yizìi,  ne  degli  altrui  non  unprenderé  troppo.  Hon 
sii  riprenditore  troppo  aspro,  ma  insegna^enxa  rmH 
procci,  in  tal  maniera  die  sempre  abbi  aUegretza  di- 
nanzi tuo  castigamento .  Quando  Tuomo  fella  per* 
donagli  leggormente.  Quelli  che  parlano  chetamente 
ritegnono  fermamente  (dò  che  odono.  Se  alcano  ti  do- 
manda d'alcuna  cosa,  tu  dei  rispondere  isbrigatamen- 
te.  À  colui  che  contende  dà  luogo  tosto^  e  partiti  di 
lui.  Se  tu  sei  contenente,  distruggi  tutti  i  malvagi 
movimenti  del  tuo  corpo  e  della  tua  anima,  e  non  ti 
caglia  se  gli  altri  non  veggono,  cb^  assai  è  che  tu  lo 
veggi  tu.  Non  essere  corrente  di  mano,  e  sii  costante, 
ma  non  pertinace.  Tu  crederai  che  tutti  gli  uomini 
sieno  tutti  pari,  se  tu  non  dispetti  li  più  poveri  per 
oi'goglio,  e  se  tu  non  dotti  li  più  grandi  per  dirittura 
di  vita.  Non  essere  negligente  a  rendei'e  benefidi,  e 
non  essere  pronto  a  ricevere.  A  tutti  gli  uomini  si  tu 
benigno,  e  a  nullo  lusinghieri.  Sii  a  pochi  familiare^ 
e  a  tutti  diritto.  Sii  più  fiero  in  giudicamento  che  in 
parole,  e  più  in  tua  vita  che  in  tua  faccia.  Sii  pietoso 
in  vendicare,  e  indi  spiacdai\ti  tutte  crudeltadi.  Conta 
pregio  d'  altrui,  e  di  te  no.  Sii  sempre  contrario  a 
coloro  che  si  assottigliano  d' ingannare  altrui  sotto 
spede  di  semplicità.  Sii  lento  alP  ira,  e  tosto  alla  mi-  ' 
sericordia,  e  nella  avvereità  sii  fermo  e  savio.  Tu  dei 
celare  le  tue  virtudi  altresì  come  gli  altrui  vizii.  Spe^ 
gni  vanagloria,  e  del  tuo  bene  non  essere  crudele  alH 
altri.  Non  avere  in  dispetto  lo  poco  senno  d'alcun 
uomo.  Parla  poco,  e  intendi  chetamente  quelli  che 
parlano.  Sii  felino,  e  sicuro,  e  lieto,  e  ama  sapienza. 
Ciò  che  tu  sai  guarda  senza  orgoglio,  e  dò  che  non 


LIBRO  SETTIMO.  l55 

sai  addimanda  chetamente  che  ti  sia  insegnato.  Con- 
tenenza sia  costretta  dentro  da  te  bene,  che  tu  non 
sia  troppo  iscarso,  né  troppo  ispendente.  E  non  met- 
tere tuo  pensiero  troppo  nelle  cose  minute  e  picciole, 
che  ciò  è  vergognosa  cosa  molto.  Dunqpe  in  questa 
maniera  mantieni  contenenza,  che  tu  non  sii  dato  alla 
carnale  volontà.  Qui  tace  il«conto  di  temperanza,  e 
toma  alla  virtude  della  fortezza. 

Capitolo  XXX  II. 
Qui  dice  la  terza  TÌrtù,  doè  della  fortezza. 

Fortezza  è  virtù  che  fa  T  uomo*  forte  contra  a!P  as- 
salto dell'  avversità,  e  dà  cuore  e  ardimeijto  di.  fare  le 
grandi  cose;  di  cui  lo  conto  ha  detto  qua  a  dietro, 
che  la  guarda  Puomo  a  sinistro  come  uno  iscudo  dalli 
mali  che  vegnono.  Veramente  ella  è  scudo  e  difesa  del- 
Tuomo,  cioè  suo  osbergo  e  sua  lancia,  eh'  ella  fo  l'uo- 
mo defendere  e  offendere  quello  che  dee.  Di  questa 
virtù  troviamo  noi  nellibro  dei  Re:  Tu  m'hai  forni- 
to di  fofza  alla  battaglia,  e' miei  nemici  sottomessi  a 
me.  Santo  Luca  disse,  se  l'  uomo  forte  guarda  la  sua 
magione,  in  pace  è  ogni  cosa  che  possiede.  Salomone 
disse,  la  mano  del  forte  acquista  ricchezze,  è  tutti  i 
paurosi  sono  in  povertà.  La  mano  del  forte  ha  signo- 
rìa, e  la  mano  del  codardo  serve  altrui.  Santo  Matteo 
disse,  forte  uomo  acquista  lo  regno  di  Dio.  £  sap^ 
piate  eh'  egli  ci  ha  dodici  cose  che  confortano  noi  in 
questa  virtude.  L' una  è  la  diritta  feile  di  Gesù  Cristo. 
La  seconda  è  l'ammaestramento  de' grandi  e  degli an- 
ikbl  nostrì.  La  terza  è  la  memoria  di  prodi  uomini  e  di 

9* 


i54  IL 

loro  opera.  La  qoarta  è  vokMità  e  oso.  La  qaiola  è  il 
guiderduoe.  La  sesta  è  paura.  La  «^^™a  è  speraim. 
La  ottaTa  è  buona  compagnia.  La  noaa  è  la  yerità  e  ì 
diritta  La  decùiia  è  il  senoa  La  niuWàma^  è  la  de* 
hilità  del  tuo  nimico.  E  la  doodedm»  è  la  Iona  me- 
desima. Codardia  è  in  due  maninre.  L^una  per  paura 
del  male  cKe  ha  a  Tenise,  o  per  paura  dd  male  che 
è  presente.  L^  altra  per  lo  cuore  oh^  è  permaueTole,  e 
|ier  confi  >rtare  tutte  maniere  di  fievole  cuore.  E  que- 
sta virtù  è  divisa  in  sei  parti,  cioè  magnificenza,  fi- 
danza, sicurtà,  magnanimità,  pazienza  e  costanza  d'ira. 
Alcuna  cosa  dirà  lo  conto  di  ciò  eh'  egli  appartiene^ 
ma  innanzi  dirà  egli  ciò  che  Seneca  disse  di  questa 
viitù^  cioè  d\  forza,  la  quale  egli  chiama  magnanimità 
in  questa  maniera. 

Capitolo  XXXÌTT. 
Della  mafpianìmitade. 

Magnanimità,  che  è  chiamata  forza,  s' ella  intra  in 
tuo  coraggio,  tu  viverai  a  grande  speranza  fi^anco  e  si- 
curo e  lieto.  Grandissimo  bene  è  all'  uomo  non  dotta* 
re,  ma  essere  permanente  a  sé  medesimo,  e  attendere 
lo  fine  della  sua  vita  sicuramente.  Se  tu  se'  magnam- 
mo tu  non  giudicherai  per  nessun  tempo  che  onta  ti 
sia  fatta  ^  e  del  tuo  nemico  dirai  :  questi  non  mi  noe* 
que ,  ebbe  animo  di  nuocermi.  E  allora  die  tu  '1  ter- 
rai iu  tuo  podere  tu  crederai  avere  vendetta  pre- 
sa, però. che  hai  podere  di  te  vendicare.  Però  che  la 
[)iii  nobile  maniei'a  di  veudetta  si  è  perdonare,*  quan- 
do r  uomo  può  fare  sua  vendetta.  Tu  non  dèi  assali- 


LIBRO  SETTIMO.  I  5  5 

re  privatamente  nessuno  uomo,  ma  palesemente  ìa 
tutto.  Non  fare  battaglia  se  tu  non  la  dici  innanzi,  pe- 
rò che  tradimento  e  inganno  non  si  affa,  se  non  è  a 
malvagio  e  a  codardo.  Non  mettere  tuo  corpo  a  peri- 
colo come  folle,  e  non  dottare  come  pamx)so,  se  la 
conscienza  di  vita  biasimevole  non  è. 

Capitolo    XXXIV. 
Delle  sei  maniere  di  forza. 

Ora  è  bene  convenevole  che  'l  conto  dica  delle  sei 
maniere  di  forza,  e  primamente  di  magnanimitade. 
Questa  parola  vale  altrettanto  a  dire  come  grande  co- 
raggio, ardimento,  o  prodezza,  ch^ella  ne  &  per  nostro 
grado  ragionevolmente  pigliare  le  grandi  cose.  Io  dico 
ragionevqlmente,  però  che  nessuna  persona  dee  pren- 
dere cosa  alcuna  contra  a  diritto.  Che  chi  impigliasse 
uno  religioso,  ciò  non  saria  prodezza.  À  questa  virtù- 
de  ci  ammonisce  Virgilio,  quando  dice,  ordinate  vo- 
stro coraggio  a  grandi  opere  di  virtude  e  a  grandissi- 
mi travagli.  Orazio  disse,  questa  virtude  apre  lo  cielo, 
e  assaggia  di  andare  per  la  via  che  gli  è  divietata,  e 
sprezza  le  minute  genti,  e  disdegna  le  terre,  e  non  dot- 
ta pena.  Tullio  disse,  tutto  che  virtù  faccia  P  uomo 
coraggioso  all'aspre  cose,  tuttavia  guarda  egli  più  a 
comune  bene  che  al  proprio.  Scienza  eh'  è  dilungata 
da  giustizia  dee  essere  chiamata  malizia,  e  non  senno. 
Il  coraggio  che  è  appareggiato  al  pericolo,  s'egli  è  con- 
viziosó  di  suo  prò'  più  che  del  comune,  egli  ha  nome 
follia,  e  non  forza,  che  questa  virtude  è  codardia  o 
cattività.  Lucano  dice,  caccia  tutti  i  dimori,  eh'  egli 


1 56  n.  TBsoRO. 

sempre  nuoocioiio  a  quelli  che  sono  appareocfaiatL  Ora- 
zìo  disse,  se  tu  prolunghi  P  opere  dd  ben  &re^  tu  saia' 
cornei  villano,  che  tanto  vok  attendere  a  passare  1- ac- 
qua del  fiume,  ch^ella  sia  tutta  corsa  ^  ma  ella  correrà 
sempre.  Però  disse,  quando  T  uomo  dice  domane  sa* 
rà  fatto  una  grande  cosa,  tu  non  doni  altra  cosa  dio 
un  giorno  viene,  e  allora  avemmo  guasto  quel  dima- 
ne. L^anno  passa,  e  sempre  rimane  un  poco  ollra. 
Tullio  disse,  quelli  debbono  essere  tenuti  prodi  uo- 
mini e  di  grande  coraggio,  che  tornan  addietro  lo  tor- 
to &tto,  e  non  chi  noi  fa.  Bla  però  ohe  questa  TÌrtà 
dà  alP  uomo  sicuro  cuore  e  ardimento,  e  gli  fa  avere 
grande  coraggio  in  tutte  le  altre  cose,  conviene  ch'ef^ 
si  guardi  di  tre  vizii,  che  tosto  lo  irebbero  traboocsH 
re  di  suo  ardimento,  e  cadere  di  sua  pensata.  Lo  pri- 
mo vizio  s' è  avarìzia,  che  laida  cosa  sarebbe  che  quel- 
li che  non  si  lascia  rompere  per  paura,  sia  vinto  per 
avarìzia  o  per  cupiditade.  Lo  secondo  s*  è  volontà  di 
dignità,  sì  che  quelli  che  non  può  essere  vinto  per 
travaglio  si  lasci  frangere  per  volontà  di  dignità^  che 
per  grave  travaglio  acquista  l'uomo  carità,  e  ciò  ch'è 
più  faticoso  acquista  all'uomo  maggior  pregio,  e  appe- 
na si  può  trovare  chi  di  sua  fatica  non  desiderì  gloria» 
altresì  come  il  suo  lodo.  Seneca  disse,  lo  savio  mette 
il  frutto  di  sua  virtude  in  conscienza,  ma  1  folle  il 
mette  in  vanagloria.  Tullio  disse  :  e'  sono  alquanti  che 
credono  montare  in  grande  dignità  per  sua  nomanza, 
ma  quelli  che  è  veramente  di  grande  coraggio  vuole 
innanzi  essere  principe  che  famigliare.  L'uomo  non 
dee  niente  acquistare  le  dignità  per  la  gloria,  eh'  egli 
ne  saiebbe  cacciato  leggermente.  Perciò  Orazio  disse. 


UBRO  SETTIMO.  iBj 

che  virtude  non  sarà  cacciata  leggermente  né  villana- 
mente^ ella  risplende  a  grande  onore,  e  non  lieva  sua 
boce  per  grido  di  popolo,  e  non  sarà  già  mossa  per 
un  poco  di  vento.  Lo  terzo  vizio  è  folle  ardimento, 
cioè  a  dire  quando  un  uomo  è  ordito  a  fare  una  folle 
battaglia,  che  ciò  non  è  prodezza,  anzi  è  follia.  Tullio 
disse,  chi  follemente  corre  agli  assembiamenti  a  com* 
battere  di  sua  mano  contra  alli  suoi  nimiqi,  egli  è  si- 
migliante  a  bestia  selvatica^  e  così  loro  follia  sarebbe. 
Non  per  tanto  se  necessità  lo  richiede,  anzi  che  soffri- 
re morte  o  disonore,  noi  non  dovemo  fuggire,  che  sa- 
rebbe malvagità,  in  che  non  cade  nullo  senno,  e  vie- 
ne per  diffalta  di  cuore.  E  non  per  tanto  noi  dovemo 
bene  fuggire  quando  un  grande  pericolo  sopravviene, 
che  non  potemo  sostenere  ]  e  allora  è  grande  prodezza 
bene  fuggire,  secondo  che  Tullio  disse,  non  vi  abban- 
donate a  pericolo  senza  ragione;  che  maggior  follia 
non  può  essere  fótta.  Lo  maestro  disse,  quelli  che  è  in 
pace  e  va  cercando  guerra,  è  pazzo.  Ma  il  savio  si 
mantiene  in  pace  tanto  quanto  puote,  e  quand'  egli  è 
costretto  d' aver  guerra,  egli  fa  direttamente,  così  co- 
me U  buono  medico  fa,  che  aiuta  V  uomo  sano  mante- 
nere sua  sanità,  e  sVgli  è  ammalato  leggermente,  egli 
il  cura  con  leggier  medicina,  e  nelle  più  gravi  infermi- 
tà mette  più  gravi  medicine  e  più  dottose.  A  sua  ma- 
niera dee  r  uomo  usare  sua  forza  e  suo  senno,  e  non 
senza  ragione;  che  Orazio  disse,  forza  senza  consiglio 
discade  per  sua  pesanza.  Li  degni  accrescono  forza, 
e  acquistano  li  templi.  E  così  vanno  quelli  che  per 
loro  sicuitade  osano  prendere  le  cpse  grande  folle- 
mente. 


1 58  IL  TESORO. 

Capitolo  XXXV. 
Della  fora. 

Forza  è  una  virtude  che  dimora  intomo. alla  spe- 
ranza del  cuore,  ch^egli  possa  menare  a  fine  ciò  ch^e- 
gli  incomincia.  Suo  ufficio  è  avacciare  e  proseguitare 
le  cose  cominciate,  sì  come  Lucano  dice  di  Giulio  Ce- 
sare, che  non  gli  pareva  aver  fatto  nulla  ùientre  ch'e- 
gli aveva  a  fare  nulla  cosa.  E  sì  poco  avvenente  è 
quelli  che  sono  già  avanti  ili  come  disperati  di  venire 
a  buon  fine. 

Capitolo    XXXVI. 
Della  franchezza  e  sicurtà. 

Sicui*tà  è  non  cogitare  li  danni  che  vegnono  nella 
fine  delle  cose  cominciate.  £  sicurtade  di  due  manie- 
le.  L^  una  ch^ è  per  follia,  sì  come  è  combattere  senza 
tue  armi  appresso  di  serpenti.  L^  altra  per  senno  e 
per  viitù^  e  suo  ufficio  è  di  dare  conforto  contilo  alla 
speranza,  o  di  fortuna,  secondo  che  Orazio  disse, 
(juelli  che  ha  bene  apparecchiato  suo  petto  sarà  si« 
curo  in  avversità,  e  temerà  nella  prosperità;  e  Dio  vi 
mena  gioco,  e  egli  io  piglia.  Le  cose  che  fui'ono  e  che 
son  male  non  le  lasciare  mica  sempre,  ma  una  buona 
opera  di  che  P  uomo  avrà  speranza.  Contra  a  questa 
viitù  combatte  paura  in  questa  maniera.  Paura  dice 
uir  uomo,  tu  morrai.  E  sicurtà  risponde,  ciò  è  umana 
cosa  e  non  pena.  Io  intrai  nel  mondo  per  tale  con- 
vento, e  io  Io  osserverò.  La  legge  comanda,  che  ciò  che 


m 


LIBRO  SETTIMO.    .  I  Bg 

i  '  uomo  accatta  si  renda,  e  quando  l' uomo  ha  iatto 
un  grande  pellegrinaggio  sì  si  posa.  Paura  dice,  tu 
morrai.  Sicurtà  rispondcj^io  credea  che  ti|  dicessi  no- 
vella cosa,  ma  per  morire  vivo  io,  e  a  ciò  umana  na-* 
tura  mi  mena  ciascuno  giorno^  che  cosi  tosto  compio 
nacqui  mi  mise  ella  questo  termine,  sì  che  io  non  ho 
di  che  mi  cruccia,  ma  io  dico  per  mio  sacramento, 
che  folle  cosa  è  di  temere  quello  che  Tuomo  non  può 
schi&re.  Lucano  dice,  morte  è  pena,  ma  non  la  dee 
r  uomo  dottare.  Orazio  disse,  morte  è  lo  diretano  ter^ 
mine  di  tutte  cose.  Seneca  disse,  chi  prolunga  la  mor- 
te non  scampa.  Paura  dice,  tu  morrai.  Sicurtà  rispon- 
de, io  non  sarò  né  'l  primo,  ne  'l  sezzaio.  E  uomi- 
ni sono ^  iti  dinanzi  a  noi,  e  uomini  ci  seguiteranno, 
ciò  è  la  fine  dell'umana  generazione.  Nullo  savio  dee 
essere  dolente. di  morte,  eh'  è  la  fìne  del  male.  Io  non 
so  ch^  io  sia  altro  che  uno  animale  ragionevole  che 
dee  moiire.  Nulla  cosa  è  grave  che  non  addiviene  più 
che  una  volta.  Per  queste  condizioni  sono  tutte  cose 
ingenerate,  che  tutle  cose  che  hanno  cominciamento 
hanno  fine.  Egli  non  è  strana  cosa  il  morire.  E  se  io 
so  bene  che  io  debbo  morire,  a  ciò  non  posso  con- 
traddicere.  Iddio  fé  troppo  bene  che  uiuno  il  può  mi- 
nacciare, che.  morte  agguaglia  il  signore  al  servo,  e  '1 
coronato  al  pazzo,  e  tutti  li  porta  in  una  maniera 
quelli  che  sono  molti  diversi.  Paura  dice,  tu  sarai  di- 
collato.  Sicurtà  risponde,  di  ciò  non  curo,  però  che  io 
morrò  più  tosto.  Paura  chce,  tu  avrai  molte  ferite.  Si- 
curtà risponde,  a  me  che  pesa  ?  D' una  mi  conviene 
morire.  Paura  dice,  tu  morrai  in  istrano  paese.  Sicur- 
tà risponde,  nulla  cosa  è  stiaoia  all'  uomo  morto,  nò 


l6<^  IL  TEMUUX 

la  morte  non  è  più  grave  dì  fuori  che  in  casa.  Paura 
dice, .tu  morrai  giovane.  Sicurtà  risponde:  altresì  vi»- 
ne  la  morte  al  giovane  con^  al  vecchio  ^  ella  non  fii 
nulla  differenza.  Ma  tanto  dico  io  bene,  che  allora  è 
bello  morire  anzi  che  tu  desideri  la  morte,  per  av- 
ventura la  morte  mi  scampa  d^  alcun  male,  ma  alme^o- 
mi  scampa  di  vecchiezza,  la  quale  è  molto  grave,  se» 
condo  che  dice  Giovenale  :  questa  pena  è  donata  a 
quelli  che  lungamente  vivono,  che  loro  pestilenxà  ri- 
nnovano lutto  giorno,  elli  invecchiano  in  dorabili 
pene  o  dolori,  e  periscono  in  lorde  vestiture.  Però 
disse  Seneca,  ch^egli  è  bono  morire,  tanto  oom^e^ 
piace  a  vivere.  Lucano  dice,  che  se  H  diretano  di  noo 
venisse  appresso  la  morte  fine  del  bene,  e  egli  né  tri- 
sto per  isnella  morte,  avrà  tristizia  di  sua  prima  £br* 
tuna,  e  metterassi  in  ventura  di  disperamento,  se  egli 
non  attende  la  morte.  Però  non  mi  cale  se  muoio  gio- 
vane, eh'  egli  non  è  sì  pesante  male  come  vecchiezza. 
Giovenale  dice,  cruda  morte,  ne  agro  difiinimento  non 
dee  essere  temuta,  ma  vecchiezza  dee  esser  più  te- 
muta che  morte.  Seneca  dice:  e'  non  mi  può  calere  co- 
tanti anni  avere,  ma  di  quanti  io  ne  presi,  che  s^  io 
non  posso  più  vivere  quello  è  la  mia  vecchiezza  ^  chi» 
unque  addiviene  al  suo  diretano  giorno,  egli  muore 
Vecchio.  Paura  dice,  tu  morrai,  e  non  sarai  seppellito. 
Sicurtà  risponde,  picciolo  danno  è  non  avere  sepol- 
cro. Lucano  disse:  e''non  fa  forza  se  la  carogna  infinsH 
cida,  né  s'ella  è  arsa,  che  natura  prende  tutto  a  grado 
a  cui  li  corpi  divisano  senza  fìne,  morte  non  ha  che 
fare  di  ventura,  la  terra  che  tutto  genera  tutto  rice- 
ve, e  chi  non  è  coperto  dalla  terra  sì  è  coperto  àal 


LIBRO  SETTfUO.  l6l 

cielo,  di  che  ^l  corpo  non  sa  nulla,  non  li  caglia  s^  ^li 
è  in  fossa,  e  scegli  sì  sentisse  ogni  sepoltora  li  darebbe 
tormento,  che  sepolture  non  furon  fatte  in  prima  per 
li  morti,  ma  per  li  vivi,  però  che  la  è  carogna  fracida, 
però  è  messo  Pnno  in  torra,  e  P  altro  in  fuoco,  e  ciò 
non  è  se  non  per  mirare  gli  occhi  dei  tìtì.  Paura  dì* 
ce,  tu  sarai  malato.  Sicnità  risponde^  or  veggio  bene 
che  la  sicurtà  dell^  uomo  non  si  mostra  in  mare,  o  in 
battaglia  solamente,  ma  ella  si  mostra  in  un  picciolo 
letto.  O  io  lascìerò  la  febbre,  o  ella  lascerà  me.  La  bat-< 
taglia  è  tra  me  e  la  infermità.  O  ella  sarà  vinta,  o  vin- 
cerà. Paura  dice,  le  genti  dicono  male  di  te.  Sicurtà 
risponde,  io  mi  turberei  se  li  sa  vii  dicessero  male  di 
me,  e  dispiacere  avrei,  ma  lodo  e  pr^o,  che  quella 
sentenza  non  è  punto  d^  autorità,  anzi  quelli  biasima 
che  dee  essere  biasimato  ^  egli  non  mi  biasima  per  lea- 
le giudicamento,  ma  per  sua  malvagità,  e  dice  male  di 
me,  però  che  non  sa  dire  bene.  Bili  dicono  quello 
ch^  elli  sogliono,  e  non  quello  che  io  servo,  che  elli 
son  cani  che  hannosi  impresa  ad  abbaiare ,  eh'  elli 
non  fanno  per  verità,  ma  per  costume.  Giovenale  dis^ 
se,  r  uomo  savio  non  dotta  lo  mal  detto  del  folle. 
Paura  dice,  tu  sarai  cacciato  molto  alla  lunga.  Sicurtà 
risponde,  li  paesi  non  mi  sono  vietati,  ma  tutf  il  luo- 
go eh'  è  sotto  il  cielo  è  mio  paese,  unque  tu  troverai 
borghi  o  città,  sì  che  tutte  le  terre  sono  paese  al  pro- 
de uomo,  sì  come  '1  mare  al  pesce,  ove  io  ovunque 
vado  sarò  nella  mia  terra  3  che  nulla  terra  non  è  scella, 
sì  che  ovunque  io  dimoro  sarò  in  mio  paese,  che  U 
buon  essere  appartiene  all'uomo  e  non  al  luogo.  Pau- 
ra dice,  dolore  ti  viene.  Sicurtà  risponde,  ciò  è  pie- 


fiigy IMO  lo dcfatic  SicBrta  risponde,  poche?  EgK  te 
fallir Ji  OfumiiK  fanL.  raon  oace,  id  sani  porrcnu 
f^ìcarù  risponde.  lovnioooD  è  nella  povertà,  aa  ■£! 
pirero^  e^  é  porcro  perche  c§fi  si  crede  csHRL  Fasa 
dkie;  fo  $ono  impofseote,  Sicurtà  risponde,  abbi  giaia, 
fa  far»  poifenle.  Paura  ^ee,  quelli  ha  danarL  Situila 
riftpoode,  e^i  ooa  è  nomo,  ne  signore,  anzi  è  una 
feoce:  nollo  nomo  dee  aver  invidia  di  borsa  piena. 
Paora  dice,  oohii  è  molto  ricco  nomo.  Sicartà  rispon- 
de, effì  è  araro,  n  die  non  ha  nalla:  egli  è  guastato- 
re,  e  non  li  arerà  lungamente.  Paura  dice,  molte  gen- 
ti iranno  di  poi  loL  Sicurtà  risponde,  le  mosche  ran- 
no appresso  al  mele,  e'  lupi  alla  carne,   e  le  fiormiche 
al  grano  ^  dli  seguitano  il  pro^,  e  non  V  nomo.  Paura 
dice,   io  ho  perduti  i  miei  danari.  Sicortà  rispon^ 
de,  per  avventura  elli  averebbero  perduto  te,  ch^  elli 
hanno  molti  nomini  menati  a  perìcolo,  ma  di  questa 
imrtita  ti  è  bene  avvenuto,  se  tu  hai  avarizia  perdu- 
ta. Ora  tappi  che  innanzi  che  tu  gli  avessi  questi  da- 
nari altri  gli  avea  perduti.  Paura  dice,  ho  perduti  gli 
occhi.  Sicurtà  risponde,  ciò  è  per  tuo  bene,  che  la 
vista  è  tosto  chiusa  a  molte  volontà.  Molte  cose  saranno 
che  tu  dovresti  cessare  nei  tuoi  occhi,  perchè  tu  non 
le  veggi.  Tu  sai  bene  di'elfè  una  partita  di  nocenza» 


LIBRO  SETTnO.  l65 

che  gli  occhi  mostrano  a  uno  1^ adulterio  che  fa  disfa- 
re le  magioni  e  le  cittadi.  Paura  dice,  io  ho  perduti 
i  miei  fìgliooli.  Sicurtà  risponde^  folle  è  chi  piange  la 
morte  ai  mortali.  Morti  sono,  perchè  morire  dovea- 
Do.  Iddio  non  averla  tolti  ma  ricevati.  In  questa  ma- 
niera Paura,  che  ovunque  non  dà  buono  consiglio,  si 
combatte  con  Sicurtade;  ma  Tuomo  sicuro  non  dotta 
niente,  secondo  che  dice  Orazio,  la  maliaùa  de'citladini 
che  danno  esemplo  di  mal&re^  ne  a  volto  tiranno  in- 
stante non  si  muove  il  prode  uomo  eh' è  di  vero  pro- 
ponimento e  di  forte  coraggio.  Lucano  disse,  paura  di 
male  addivenire  ha  messe  più  persone  a  pericolo  gran- 
de, ma  quelli  è  tra' forti  che  può  soiferire  le  cose  dot-* 
tose,  ch'egli  appartiene  a  forte  coraggio  e  a  fermo,  non 
sia  abbattuto  di  suo  stante  avanti  che  la  temuta  ve- 
gna,  anzi  usd  delle  presenti  consiglio,  e  non  disperarti 
dalla  ragione.  Seneca  disse,  elle  sono  più  le  cose  di 
che  noi  ispaveotiamo,  che  quelle  che  ci  giovano,  e 
che  noi  siamo  più  spesso  in  paura  per  pensieri  che 
per  fatti.  £  però,  non  sia  cattivo  innanzi  il  tempo^ 
che  ciò  che  tu  credi  non  avverrà  per  avventura  giam- 
mai. Contro  alla  paura  di  morie  noi  assicurano  sei  co- 
se. L'una  è  la  morte  del  corpo  eh' è  nimico  di  virtù. 
La  seconda,  eh'  ella  pone  fine  al  pericolo  del  secolo. 
La  terza  è,  la  necessità  del  morire.  La  quarta,  che  noi 
vediamo  morire  gli  altri  tutto  dì.  La  quinta  è,  che 
Iddio  morì.  La  sesta  è,  la  peipetuale  vita  che  è  dopo 
essa.  Qui  tace  il  conto  di  parlare  di  sicurtade  e  di 
paura,  di  chi  egli  ha  lungamente  parlato,  e  mostrate 
molte  buon^  ragioni  che  si  hanno  ad  avere  in  memo- 
ria, e  tornerà  all'ultra  paite  di  ^rza,cioè  magnificenza. 


l64  tL  TBSOROi. 

Capitolo  XXXVBL 

Della  magnifioenau 

Magnificenza  vale  tanto  a  dire  come  grandezza,  e 
ciò  è  una  virtude,  che  noi  fa  compire  le  grandi  cose  e 
nobili  di  grande  a£&re.  E  suo  ufiicio  è  in  dae  mam»'' 
re.  L^uno  è  in  tempo  di  pace;  T  altro  in  tempo  dì- 
guerra.  In  cose  di  pace  dee  tenere  lo  signore  li  tre  co- 
mandamenti, che  Platone  disse,  Tuno  è  che  egli  gu»r- 
di  lo  profitto  a^ cittadini  che  egli  hanno,  e  ciò  ch^  egli 
fanno  non  intendano  al  loro  prode  proprio,  e  ch^egfi 
istudi  ch^  egli  abbiano  dovizia  ed  abbondanza  di  tì- 
Tand<s  e  delle  cose  che  bisognano  alla  vita  della  gen- 
te. L'  altro  comandamento  è,  ch^  egli  sia  sollecitudine 
di  tutti  li  corpi  della  città,  e  ch^egli  guardi  le  cose  co- 
muni, e  le  possessioni,  e  le  rendile  del  comune  al  bi- 
sogno di  tutti,  e  non  d^  alcuno  singolare.  Lo  terzo  co-' 
mandamento  è,  ch^  egli  tegna  giustizia  tra  li  suoi  sot- 
toposti, e  ch'egli  renda  a  ciascuno  quello  eh'  è  suo,  e' 
ch'egli  guardi  l'una  parte  in  tal  maniera  ch'egli  non 
abbandoni  i'  altra,  eh j  quelli  che  aiuta  l' uno  contra 
all'altro  semina  nella  città  pericolosa  discordia.  An- 
che debbouo  i  signori  delle  città  guardare  che  non  sia 
contenzione  tra  una  parte  e  l'altra;  che  Platone  disse, 
che  quelli  che  sono  contenditori  sono  nella  città  cosi 
come  li  marinari,  eh'  essi  adastiano  intra  loro  di  go- 
vernare la  nave  meglio,  che  la  conducono  a  mortale 
pericolo. 


LIBMO  flBTTUiO.  l65 

CàPiTOLo  xxxvm. 

Come  r  uomo  si  dee  proTedere  in  tempo  di  guerra. 

À  tempo  di  guerra,  qaando  li  oonTiene  fare  batta- 
glia, elU  dd)bono  prima  oomuoioare  la  guerra  a  tale 
intenzione  che  dopo  la  battaglia  possano  viTere  in 
pace  senza  torto.  £  poi  debbono  guardare  che  innan- 
zi ch^  elli  comincino  la  battaglia  elli  sieno  apparec- 
chiati compiutamente  di  tutte  cose  che  bisognano  a 
difendere  ed  assalire  li  suoi  nimici.  Seneca  dice,  lun« 
go  apparecchiamento  di  battaglia  fa  subita  Tittoria,  e 
questo  apparecchiamento  è  in  battaglia  ed  in  fortezza, 
e  per  avviso,  e  per  arme.  Terenzio  dice,  lo  savio  dee 
prendere  tutte  le  cose  innanzi  ch^  egli  combatta,  che 
meglio  è  a  provedere  che  a  ricevere  danno.  Lo  terzo 
ufficio  ;è^  che  tu  non  ti  spregi  troppo  per  codardia,  ne 
non  ti  fidi  troppo  per  volontà,  che  la  smisurata  vo^ 
lontà  d' avere  mena  V  uomo  a  pericolo,  secondo  che 
Orazio  dice,  V  oro  fa  andare  per  me  li  suoi  nimici,  ed 
è  più  fiero  che  1  fuoco,  o  folgore.  Li  doni  allaccia- 
no li  folli  prìncipi.  Lo  quarto  ufficio  eh' è  in  battaglia 
è,  che  Tuomo  dee  più  schifare  laide  codardie  che  la 
morte,  ed  intendere  più  a  bontà  che  a  profìtto,  né 
scampare,  che  meglio  è  morire  che  laidamente  vivere^ 
nientedimeno  V  uomo  non  dee  lasciare  suo  salvamen- 
to per  gridare,  cioè  per  cessare  lo  biasimo  che  V  uo- 
mo ti  lieva  a  torto  per  richiedere  grande  nominanza. 
Il  quinto  ufficio  è  aJOfalicare  spesso  suo  corpo  a  cose 
che  sono  a  fare.  Lucano  dice,  V  uomo  ozioso  muove 
spesso  diversi  pensieri.  Ovidio  dice,  l' acqua  la  quale 


1 66  n^  TBsoiio. 

spesso  non  si  muta,  pigHa  vizio.  Così  convien  alP  uo- 
mo per  cattivo  essere  otioso.  Lo  sesto  ufficio  è,  che 
r  uomo,  poi  che  viene  a  combattere,  egli  dee  mettere 
grande  giustizia,  ed  ammonire  cavalieri  e  pedoni  a  ben 
fare,  é  a  lodarli  di  loro  prodezze,  e  de^icnro  aot«ce^90- 
ri,  e  dire  tanto  ch^egli  li  disponga  ad  ardire  ed  a  fbg* 
gire  codardia.  Lo  settimo  ufficio  è,  ad  andare  ài  pri- 
mo assalto  e  soccorrere  ad  aiutare  quelli  che  sodo  infìfBf 
boi  iti,  ed  a  sostenere  quelli  che  cambiano  e  fuggono. 
Lo  ottavo  umcio  è,  che  quando  egli  ha  vittoria  egli 
dee  riguardare  e  risparmiare  quelli  che  non  faron 
crudeli  nimici.  Lo  nono  ufficio  è,  che  se  V  uomo  fìi 
alcuna  promissione  alli  suoi  nimici  egli  la  guardi  e 
mantegna;  e  non  credere  quello  che  si  dice,  cioè  che 
r  uomo  dee  vincer  lo  nimico  o  per  forza,  o  per  tradi- 
mento. Ciò  ne  mostra  uno  cittadino  di  Roma,  che  fa 
preso  in  Cartagine  quando  i  Romani  vi  fiirono  ad 
oste;  che  quelli  di  Cartagine  lo  mandaro  a  Rofaa 
per  fare  iscambiare  li  prigioni:  elli  lo  fecero  giu- 
rare ch'egli  ritornerebbe,  e  quando  fu  a  Roma  non 
ottenne  eh'  essi  cambiassero  i  prigioni  ;  e  quando  li 
suoi  amici  lo  volsero  retenere,  egli  volle  più  tosto  tor- 
nare a  suo  tormento  che  mentire  di  sua  fé.  Ma  il 
grande  Alessandro  dice,  che  non  ha  punto  dì  difie^ 
renza  come  che  V  uomo  abbia  vittoria  o  per  forza,  o 
per  baratto  5  femina  dee  avere  pietà  de'  suoi  nimici,  e 
quello  è  nimico  di  se  medesimo  che  prolunga  la  vita 
al  suo  nimico. 


9 

LIBRO  SETTIMO.  167 

•   Capitolo  XXXIX. 
Della  guerra  e  della  pace. 

Ora  ha  divisato  il  conto  in  due  maniere  di  guarda- 
re, ed  in  guerre  ed  in  pace.  Ma  per  mentOTare  la  cru- 
deltà di  coloro  che  dicono  che  F  afi^e  di  guerra  è 
maggiore  che  quello  della  città,  lo  maestro  dice,  che 
pace  è  P  afiSire  di  cittade  mantenuta  per  senno  e  per 
consìglio  di  cuore;  ma  le  più  volte  hanno  cosi  batlax^ 
glia  per  alcuna  volta.  Ma  alla  verità  dire  poco  vaglioa 
r  armi  di  fuori,  se  1  senno  non  è  dentro.  Però  Salu- 
slio  disse,  tutti  gli  uomini  che  studiano  in  avanzare  gli 
altri  animati  debbon  guardare  di  non  menare  loro  vÌt 
ta  in  maniera  di  bestie  che  naturalmente  sono  ubbi- 
denti al  ventre  ;  ma  tutta  nostra  fortezza  è  al  cuore  ed 
al  coraggio,  che  H  coraggio  comanda  al  corpo  di  ser- 
vire, ed  egli  è  più  diritto  che  P  uomo  chieggi  più  glo- 
ria per  ingegno  che  per  forza.  Tullio  dice,  tutte  cose 
oneste  l'uomo  chiede  per  altro  coraggio  e  non  per 
forza  di  corpo;  non  per  tanto  Fuomo  dee  menare  suo 
corpo  per  modo,  eh'  egli  possa  cedere  a  consiglio  di 
ragione. 

Capitolo  XL. 

Come  r  uomo  dee  usare  parole  costanti. 

Costanza  è  una  stabile  fermezza  di  cuore  che  si  tie- 
ne a  suo  proponimento.  Suo  ulfìcio  è  a  ritenere  fer- 
mezza nelP  una  fortuna  e  nell'altra,  sì  che  l'uomo  non 
si  avvisi  troppo,  ma  tenga  lo  mezzo,  che  nobile  cosa  è 
avere  in  ciascuna  fortuna  forza  ed  un  medesimo  voi- 


te  leffne^fBMdo  pio  iKBe  ti 
tA.  ^'  ì  «m  e  (^  arU  jp|MÌoir> 
ronLOrnwdlkis,  Fuomm  forte  lito Jgffi ai 
to  «n  Tcfa  •  «fmonT  db  è  troppo  cnfiila:  li 
d'ìoliimntà  ^  tale,  dbe  mi  ooo 
le,  n>  nKFTeoli  al  bene,  fai  oal 
allora  mio  é  eOa  ivtwle,  ciò  è  die  Orano 
fjarte  4«gfi  uoinini  h  s  raOe^raDo  de*TÌziL  però  m  rf> 
Unnsmf^  il  mal  &re:  on'^altra  partita  Tanno  iirtaniirriir 
«^  una  Viltà  (a  bene.erahra  male.  Giovenale  disse,  b  na- 
tura dellì  oaltìri  «  tattaTia  Tana  e  mobile  ijiibiiIii  dfi 
nrnùtnoOf  ancora  hanno  lermezza  tanto  die  < 
bene  e  male.  E  quando  etti  hanno  £rtte  le 
ture  M  il  ùecano  in  morte  dannata,  e  non  se  né^ 
rimiitare.  Chi  è  quelli  die  mette  fine  in  peccare,  poi 
diel  c^ilfire  della  Tergogna  se  n^è  ito  tìb  una  ToHa  di 
Mia  fronte?  Qual  uomo  vedi  tu  che  si  tegna  ad  uno 
M>lo  itecÀ*aU)^  [loi  che  sua  Ciccia  indura,  e  non  cura 
vergogna?  A  questa  virtù  è  contrario  un  vizio  che  ha 
funne  niobi lit'i,  cioè  a  dire  del  coraggio  che  non  ha 
tiulla  fffrmffzza,  anzi  ispesso  si  move  in  diversi  pen- 
sieri, h  son  alquanti  si  pieni  di  questo  vizio  che  delti 
ali  ri  creflono  che  sieno  mutabili.  Alcuno  ne  fia  si  po- 
ro stabile  che  immantinente  che  gli  viene  un  poco  di 
male  si  li  ispiacciono  tutti  diletti,  per  dolore  indebi- 
lisce  s*',  dispregia  vanità,  e  sono  vinti  per  mala  rìno* 
mala.  Ut  dò  dice  un  savio,  quando  son  anunalato  io  a- 


UBBO  SETTIMO.  1 69 

mo  Iddio  e  santa  chiesa,  ma  quando  io  sarò  guarito 
quello  amore  è  dimenticato.  Però  dice  Orazio,  mia 
sentenza  si  combatte  con  meco,  che  ella  rifiuta  ciò  che 
Tayea  rifiutato.  Orazio  dice,  orali  dispiacciono,  ora 
Yole  le  cose  quadrate,  ora  le  fa  ritonde.  Quando  io 
son  a  Roma,  io  amo  Tivoli,  e  quando  sono  a  Tivoli, 
io  amo  Roma^  che  nulla  volta  fu  sua  volontade^  quel- 
li  che  vanno  oltra  mare  mutano  loro  regione,  ma  non 
loro  cuore  ^  per  quello  intendo  io  uomo  senza  fermez<* 
za,  che  tutto  dì  cambia  suo  volere.  Lo  maestro  dice,  di 
questo  vizio  addiviene  che  nullo  uomo  si  tiene  appa- 
gato di  sua  ventura,  né  di  suo  essere.  Orazio  dice,  cia- 
scuno disira  cose  diverse,  che  ^l  bue  disia  fileno  e  sel- 
la, e  '1  cavallo  arare  3  ora  giudico  che  ciascuno  si  te- 
gna  a  quello  ch^  egli  è  allevato.  À  questa  virlude  ap- 
partengono cinque  cose.  L^una  è  la  fermezza  dello 
intendimento,  che  si  suole  mutare  in  diversi  pensieri. 
La  seconda  è  uno  medesimo  coraggio  al  bene  ed  al 
male.  La  terza  è  fermezza  intomo  le  cose  desiderate. 
La  quarta  è  fermezza  contra  la  tentazione.  La  quinta 
è  permanenza  nell'  opere. 

Capitolo  XLI. 
Come  pazienza  è  bona. 

Pazienza  è  una  virtù,  per  cui  nostro  cuore  sofferà 
gli  assalti  della  avversità  e  li  torti  &tti.  Suo  ufficio 
mostra  Lucano  quando  dice,  pazienza  gioisce  nelle 
dure  cose.  La  più  grande  allegrezza  eh'  ella  possa  a- 
vere  si  è  quand'  ella  può  operare  sua  virtù.  Lo  mae- 
stro disse,  questa  virtù  è  remedio  di  torto  fatto.  Ora- 

Latini.  VoU  11.  io 


*•. 


"7* 


sio  dfaK;tHltifi 


Il  sKa  b  scnpKi  pn  «pn  cke  m 

noi  apporta,  cbè  Cìifiacdì 
In.  Sf"^*^  dnCy  FiofienBoaoa  nbbidieote  fii 
lelo  ■edfeosoo^cb^mlacosicsìl^gpaedie 
ti  fla  grarc  se  tn  la  £m  ad  iniìdia.  £  però  che  qnodi 
TÌrtùè  copifa  paannnf  che  ¥Ìeoe^  è  a  sapere  die  Fan 
sia  per  Tolonlà, e Taltia  no. £ tnCto  che  Fiioaao& per 
soo  {rado  SODO  cose  biidafaili  e  degne  di  merito.  Mi 
r  ona  e  P  altra  die  sono  deatro  o  di  Ikion,  s  come  è 
era  allcgrezzai  e  speranoa,  paura  e  dolore.  QoeOe  die 
sono  di  (bori  sono  le  mne  estorti  &ttL  Io  tutte  ngio- 
nidi  trìbolazioiie  ta  dei  iioagioare  la  passione  di  Cò- 
ste», e  le  tribolazioni  di  Job  die  le  seppe  si  bene  aof- 
fierìre.  Poi  to  da  considerare  le  pene  le  qodi  li  id 
portano  per  compire  loro  malvagità.  Appresto  consi- 
dera se  to  avevi  di  prima  servito  che  quello  male  dor 
▼essi  avere  è  maggiore.  E  considera  la  maniera  del 
male  che  viene,  e  di  colai  che  te  ^1  fa  ^  che  in  *^<ì:^vf< 
di  queste  cose  puoi  tu  pigliare  confòrto,  e  bène  soflfe- 
rire  tutte  tribolazioni  dd  secolo. 

Capitolo  XLII. 
Della  foitezsa. 

In  questa  virtù,  cioè  fi>rza,  ed  io  tutte  sue  parti,  di 
cai  voi  udite  dò  che  1  conto  n^  ha  dello,  si  dee  Tuo- 
mo  ammisorare  e  guardare  del  troppo  e  dd  poco^  se^ 
condo  che  Seneca  dice,  se  jnagoanimitade  è  fuor  di 


y 


LIBRO  SETTIMO.  1 7  I 

sua  misura  ella  fa  nomo  minacciatore,  ed  enfiato,  e 
crucciato,  e  senza  riposo,  e  corrente  a  grandi  parole^ 
s&3za  nulla  onestade,  per  picciola  cosa  s'allieta  ed  in- 
grossa, e  sale  sopra  quelb',  e  commove  altrui,  e  caccia 
e  fiere.  E  tutto  ch^  egli  sia  ardito  e  fiero  ^li  avrà  cat- 
tivo fine,  e  corto  nelle  grandi  cose,  e  lasclerà  di  sé  pe* 
rìcolosa  memoria.  Dunque  la  misura  di  magnanimità 
è,  che  non  sia  troppo  ardito  ne  troppo  pauroso.  Qui 
tace  il  conto  di  parlare  di  forza  e  di  soa  maniera,  • 
tornerà  alla  quarta  virtù,  cioè  giustizia. 

Capitolo  XLIII. 
Della  quarta  TÌrtù,  cioè  giustizia. 

Giustizia  viene  appresso  tutte  le  altre  virtù  ^  e  cer- 
to giustizia  potrebbe  nulla  finre  se  le  altre  virtù  non  la 
facessero;  che  al  cominciamento  del  secolo  quando 
non  era  al  mondo  ne  re,  ne  imperadore,  uè  giuslizia' 
non  era  conosciuta,  la  gente  ch'era  allora  vivea  a 
modo  di  bestia,  V  uno  in  uno  riposto,  e  V  altro  in  un 
altro  senza  legge,  e  senza  comunità,  gH  uomini  guar- 
davano volontìeri  la  franchezza  la  quale  natura  gli  a- 
vea  donala,  e  non  avrebbero  messo  loro  collo  a  gio- 
go di  signoria,  se  non  fosse  che  le  malizie  multiplica- 
rono  pericolosamente,  e  li  malfattori  non  erano  casti- 
gati. Allora  fu  alcun  buono  uomo  che  per  suo  senno 
assembrò  e  raunò  la  gente  ad  aiutarsi  insieme,  ed  a 
guardare  l'umana  compagnia,  e  stabilirò  giustizia  e 
dirittura.  Dunque  pare  certamente  che  giustizia  è  quel^ 
la  virtù  che  guarda  umana  compagnia  e  comunità  di 
vita;  ch'ò  ciò  che  gli  uomini  aiutano  insieme,  ed  uno 


173  IL  TESORO. 

ha  terre  fruttifere,  o  altre  possessioni,  ch^  egli  ha  bi- 
sogno d^  un  altro,  però  saremo  mossi  per  invidia  e  por 
discordia  se  giustizia  non  fosse.  Questa  virtù  sonaoi- 
ta  r  aspre  cose,  che  in  ciò  che  Tuno  è  cavaliere,  e  Ind- 
irò mercatante,  V  altro  lavoratore,  il  procaccio  delPti- 
no  impedisce  il  guadagno  dell'altro,  le  guerre  e  li  o£ 
nascono,  e  sarebbero  alla  distruzione  degli  nomiiii,  se 
giustizia  non  fosse,  che  guarda  e  difende  la  comumlti 
della  vita^  di  cui  la  forza  è  si  grande,  che  quetti  thb 
si  pascono  ,di  fellonia  e  malifido  non  possono  vivere 
senza  alcuna  parte  di  giustizia,  che  li  ladroni  che  in»- 
bolano  insieme,  vogliono  che  giustizia  sia  guardata 
intra  loro.  £  se  lo  maggiore  loro  non  parte  egnalmei^' 
te  la  preda,  li  suoi  compagni  V  uccidono,  ed  egli  lo 
lasciano.  Tullio  disse,  nullo  può  essere  giusto  die  te- 
ma morte,  o  dolore,  o  d' essere  cacciato,  o  povertà,  o 
chi  fa  contro  a  lealtà  le  cose  che  sono  contrarie  a  que^ 
sta  virtù,  cioè  a  dire,  chi  è  sì  disidioso  d' avere  vita, 
o  sanità,  o  ricchezza,  od  altre  cose  ch'egli  ne  faccia 
contro  a  lealtà,  egli  non  può  essere  giusto.  Tutti  K 
stabilimenti  di  vita  son  fatti  per  aiutare  V  uomo  per 
forza  di  giustizia.  Primieramente,  che  l' uomo  abbia  a 
cui  il  possa  dire  sue  private  parole,  e  da  quelli  che 
vendono,  e  comprano,  e  pigliano,  e  danno,  ed  alluo- 
gano,  e  che  si  intramettono  di  mercatanzia  è  giustiz» 
necessaria  ^  di  cui  Seneca  disse  in  questa  maniera,  giu- 
stizia è  giunta  a  natura,  trovata  per  lo  bene,  e  per 
mantenimento  di  molte  genti,  e  non  è  ordinamento 
d^  uomini,  anzi  è  legge  da  Dio,  e  mantenimento  d' n- 
mana  compagnia.  E  in  questo  non  conviene  ad  uomo 
pensare  che  convenevole  sia  ma  ch'ella  dimostri  e  dise- 


■'9 


LIBEO  SETTIMO.  1^5 

gna.  Se  tu  voli  s^uire  giustizia,  primieramente  ama  e 
credi  Iddyio  nostro  signore,  sì  che  tu  sii  amato  da  lui^ 
e  lui  pam  tu  aliare  in  questa  maniera,  cioè  che^u  Cic- 
cia bene  a  ciascuno,  ed  a  nullo  male.  Allora  ti  chia- 
meranuo  le  genti  giusto,  e  ti  seguiranno,  e  iranno* re- 
verenza, e  t' ameranno.  Se  tu  voli  esser  giusto,  non 
è  assai  a  non  fare  male  altrui,  anzi  ti  conviene  essere 
contrario  a  quelli  che  vogliano  &rlo,  però  che  non 
danneggiare  non  è  giustizia.  Non  («rendere  a  forza  le 
altrui  cose,  e  rendi  quelle  che  tu  hai  preso,  e  casti- 
ga quelli  che  le  pigliano.  Nulla  discordia  che  sia  di- 
nanzi da  te  non  diitinire  per  doppie  parole,  ma  guar- 
da la  qualità  dèi  coraggio.  Una  cosa  sia  tuo  affermare 
e  tuo  giurare,  che  già  non  sia  lo  nome  di  Dìo  chiama- 
to tuttavia  in  testimonio  3  però  non  trapassare  la  verità, 
acciò  che  tu  non  trapassi  la  legge  di  giustizia.  E  se  al- 
cuna volta  dirai  bugia,  non  per  falsità,  ma  per  verità 
riavere.  Sì  ti  convien  usare  la  verità  per  menzogna,  tu 
non  dèi  mentire,  ma  scusare.  Che  là  ove  è  onesta  ca- 
gione, Tuomo  giusto  non  ìscuopre  le  segrete  cose,  anzi 
tace  quello  che  è  da  tacere,  e  dice  quello  che  è  da  dire. 
L^  uomo  giusto  è  così  ap[)arecchiato  e  presto  a  segui- 
re tranquillità,  che  quando  gli  allri  sono  vinti  per  mal- 
vagie  cose,  egli  le  vince.  Dunque  se  tu  farai  tali  cose 
tu  attenderai  tuo  fine  lieto  e  senza  paura,  quote  vedrai 
cose  di  romore,  e  sicuro  mirerai  la  povertà.  E  però 
che  giustizia  è  il  compimento  delPaltre  virtù,  chiamia-- 
nio  le  più  volle  tutto  bene  e  tutte  virtudi  insieme,  per 
questo  nome,  ciò  è  giustizia  chiamala.  Ma  il  maestro 
chiama  giustizia  lolamente  quella  virtù  che  a  ciascuno 
rende  suo  diiilLo.  A  cui  opera  noi  siamo  in  natura  in 


«r 


174  ih  TESORO. 

tre  modi.  L^uoo  è,  die  Dio  fé  T  uomo  tutto  diritto  per 
significare  lo  diritto  di  giustizia.  Lo  secondo  modo  che 
cosa  c]||S  i^>partieQe  a  giustizia  è  scrittq  in  nostro  co-; 
raggio  come  per  natura.  Lo  terzo  modo  è,  die  tatti 
li  altri  animali  guardano  a  giustizia,  e  ad  amore,  e  pietà 
intra  quelli  di  sua  maniera.  Altresì  noi  seguiamo  lo  ìor 
segnamento  dd  savio  Salomone,  che  dice^  amate  giu- 
stizia voi  che  giudicate  la  terra.  Anche  disse,-  dinann 
alla  sentenza  apparecchiate  la  giustizia.  Santo  Matteo 
disse,  beati  que'  che  patiscono  persecuzione  per  la  giù- 
stiàa.  Salomone  disse,  giustizia  innalza  i  bisognosa  Da* 
vid  disse.  Dio  serra  la  bocca  del  leone,  perchè  ha  to- 
lontade  di  giustizia.  Salomone  disse,  tesauro  ne  malizie 
non  £inno  pro\  ma  giustizia  libera  da  morte.  David  dice^ 
mia  giustizia  mi  merrà  securamente  dinanzi  da  te.  Sa- 
lomone dicey  giustizia  ^  perpetua  senza  morte.  Seneca 
disse,  giustizia  è  grande  risplendimeoto  di  \irtude.  A 
giustìzia  appartiene  due  cose.  Volontà  dì  pro^  intra  tut* 
ti,  e  di  non  nuocere  a  nullo,  che  ciò  sono  li  coman- 
damenti della  legge  natui-ale.  Santo  Matteo  dice,  fate 
agli  uomini  ciò  che  voi  volete  che  facciano  a  voL  Lo 
maestro  disse,  giustizia  dee  seguire  lo  senno.  Ma  duo 
volontà  impacciano  V  ufficio  di  giustizia,  cioè  paura  e 
cupidità  j  e  due  venture,  cioè  prosperità  ed  avversità, 
doè  a  dire,  se  gli  è  alcuno  che  per  suo  senno  sia  de- 
gno che  tu  li  facci  alcun  bene,  e  li  altri  ti  dicono  che 
tu  noi  facci  che  tu  n^  averai  V  odio  d^  alcuno  possente 
uomo;  vedi  che  paura  ti  farà  cessare  dalf  ufficio  ddb 
giustizia.  Dall'altra  parte,  se  è  alcuno  verso  cui  tu  dei 
esser  largp^  e  tu  voli  guardare  tuo  avere,  vedi  allora 
che  cupidità  va  coatm  9  giustizia^  però  conviene  che 


^ 


LIBRO  SETTIMO.  1^5 

giustizia  sia  appoggiata  di  due  mora,  cioè  di  fortezza 
coatra  paura  e  centra  avversità,  e  di  temperanza  con- 
tra  cupidità  e  prosperità.  E  di  .ventura  at  diparte^  che 
contra  prosperità  si  dee  V  uomo  mettere  a  temperan- 
za, e  coatra  ad  avversità  si  dee  Tuomo  mettere  ad  i- 
spersoìza^  la  prosperità  alzerebbe  troppo  raomo,  e 
r  avversità  V  abbasserebbe  troppo,  sì  come  il  conto 
be  detto  apertamsente  qua  in  dietra  Però  pub  inten^ 
dere  ciascuno  che  chi  temperanza  e  fortezza  mettono 
al  sedio  di  giustizia,  egli  lo  tiene  sì  fermamente,  che 
non  è  in  orgo^o  per  prosperità,  né  non  isgomenta 
per  aviversitade.  La  legge  di  Roma  dice,  che  la  l^ge  è 
forma  e  perpetuale  volontà  in  donare  a  ciascuno  suo 
diritto^  e  però  possiamo  noi  intendere  che  tutte  virtù 
e  V  opere  che  rendono  ciò  che  elle  debbono  sono  sot- 
to giustizia,  e  sono  le  sue  parti.  Ma  egli  ci  ha  cose  che 
noi  dovemo  a  tutti  uomini,  doè  amore,  fede  e  verità; 
e  cose  sono  <^  noi  non  dovemo  a  tutti  nomini,  ma  ad 
alcuno,  sì  come  il  maestro  diviserà  in  suo  conto  dili- 
gentemente. Ola  innanzi  dice  egli,  che  giustizia  è  di- 
visata principalmente  in  due  parole,  ciò  sono  rendi-* 
toro  e  liberalitade. 

• 

Capitolo  XLIV. 

Della  prima  branca  di  tirtude. 

Renditore  è  una  virtù  che  ristora  li  danni  e  litor- 
ti  fotti  per  degno  tormento.  E  ha  tre  uffici.  Il  primo 
è,  che  nullo  non  nuoce  altrui  innanzi  ricevuto  lo  tor" 
to  fotto.  Il  secondo,  che  Tuomo  usi  le  comuni  cose 
come  comuni,  e  le  proprie  per  le  proprie.  E  tutto  che 


176  n.  TESORO. 

nulla  cosa  sia  propria  per  natura,  ma  per  comune,  tut- 
tavia ciò  che  ciascuno  ha  è  suo  proprio  ^  e  se  alcuno 
ne  dimanda  più  lascia  dirittura  d' umana  compagnia  ; 
e  di  ciò  vegnono  tutte  discordie,  e  tu  ti  sforzi  di  tor- 
nare le  mie  cose  in  tua  proprietà.  Seneca  dice,  meglio 
vivrebbero  gli  uoonni  in  pace  se  queste  due  parole  mio 
e  tuo  fossero  levate  del  mezzo.  Tullio  dice,  Io  terzo  a^ 
fìcio  è  dipartire  li  rei  dalla  comunità  degli  uomini^  » 
^ome  ùi  Tuomo  d'alcuno  corrotto  membro,  perdbè  non 
fiiorrompa  li  altri ^  così  dee  l'uomo  la  fellonia  e  la  cn»- 
deità  degli  altri  malvagi  dividere  dalla  compagnia  de^ 
buoni,  ch'elli  sono  uomini,  non  per  opera,  ma  per  no- 
me tanto;  qual  differenza  ha  egli  dunque  se  alcuno  sì 
mula  in  fiera  salvatica,  o  egli  ha  sembianza  d'uomo,  e 
«crudeltà  di  bestia  ?  Le  piaghe  che  non  sentono  sanità 
per  la  medicina,  debbono  essere  tagliate  dal  ferro. 
Dunque  non  dee  l'uomo  perdonare  a  tale  uomo.  Se- 
neca dice,  lo  giusto  è  dannato  quando  n  malfattore  è 
assoluto.  Tullio  disse,  lo  giudice  si  dee  guardare  d' ira 
quando  giudica,  che  in  ira  non  potrebbe  vedere  lo 
mezzo  tra'l  poco  e  il  troppo.  Cato  dice,  l' ira  impe- 
rlisce  lo  animo  sì  che  non  puoi  disoernere  il  vero.  O- 
1  ozio  dice,  quando  l' uomo  non  è  signore  della  sua  ira^ 
egli  è  ragione  che  ciò  che  fa  non  sia  per  fetto. 

Capitolo  XLV. 

Delia  giustljBÌa,  e  dei  giudici. 

Li  giudici  debbono  sempre  seguitare  la  verità,  ma 
li  avvocati  alcuna  volta  seguitano  quello  che  pare  ve- 
rità, e  voglionla  difendere  tutto  ch^  ella  non  sia  veri- 


^ 


UBRO  SETTUiO.  1 77 

là.  SalustìQ  dice,  quelli  che  giudicano  delle  cose  dot- 
tose,  ciò  è  a  dire,  quelli  che  sono  per  lare  giustizia,  dd>* 
bono  essere  voti  d^  odio,  e  d'amistà,  e  d'ira,  e  di  mi- 
sericordia; che  i  cuori  a  colali  cose  nocdono,  ed  appe- 
na possono  Ted«:«  guari  di  verità;  Tullio  dice,  che' 
giudici  togUono  spesse  -volte  al  ricco  per  invidia,  e 
donano  al  povero  per  misericordia.  Seneca  dice,  im- 
maateoeiite  che  P  uomo  veste  pemna  di  giudice  dee 
egli  vestire  persona  d'amico,  e  guardare  che  sua  per- 
sona non  fìdchi  l' altra,  cosi  come  fosse  venuto  in  sua 
possànxa.  Egli  dee  usare  comunità  'm  sua  parola  cosà 

come  altm  cose, 

• 

CapitoIìO  XLVI. 

Come  Ilberalitade  fa  benefici!  air  uomo. 

Liberalità  è  una  virtù  che  dona  e  ùl  benefici!.  Que- 
sta medesima  virtù  è  chiamata  cortesia.  JVIa  quand'el- 
la  è  in  volontà,  noi  la  chiamiamo  benignità.  E  quando 
ella  è  in  fatto  ed  in  opera,  noi  la  chiamiamo  larghezza. 
Questa  virtude  è  tutta  in  donare  ed  in  guiderdona- 
re. Per  queste  due  cose  siamo  noi  religiosi  verso  no- 
stro signore  Iddio  sovrano  padre,  ed  a  nostra  madre, 
ed  a' nostri  parenti,  ed  a  nostro  paese,  e  siamo  ama- 
bili a  tutti,  e  reverenti  allo  più  grande,  e  mbericor- 
diosi  alli  bisognosi,  e  non  nocenti  a'nostri  vicini.  Dun- 
que pare  bene  che  liberalitade  è  divisa  in  sette  parti, 
cioè  dono,  guiderdone,  religione,  pietà,  carità,  reveren- 
za e  misericordia.  E  però  che  ciascuna  rende  ciò  che 
dee,  sono  elle  veracemente  preziose,  e  membra  di  giu- 
stizia. 


I  jS  Hi  TESORO. 

Capitolo  XLYIL 

Di  ciascuna  parte  di  liberaliti,  e  primo  di  dono. 

I 

Ora  dirà  il  conto  di  ciascuna  partii  di  liberalitii-per 
sè^  e  prima  di  dono,  dove  ^i  ha  iosegpaameato  come 
V  uomo  si  dee  contenere  a  donare.  Seneca  disse^  i» 
donare  guarda  che  tu  non  sia  veloce,  ma  chi  è  IVxh 
mo  a  cui  tu  doni;  basta  d^ essere  pregato  leggermente 
a  una  sola  volta.  Chi  è  quegli  che  quand^  egli 
de  che  tu  lo  vogli  domandare  d^  alcuna  cosa,  non 
ga  sua  fronte,  e  non  indurì  sua  faccia,  e  fa  8emkian-> 
ti  ch^  egli  è  in  bisogno  ?  Ciò  che  l'  uomo  donar  il  dee 
tenere  dono  per  altre  tale  coraggio  com^  egli  è  dona* 
to  ;  e  però  non  dee  V  uomo  negligentemente  dona- 
re, né  nullo  non  guiderdona  volontierì  ciò  che  non  ha 
ricevuto  di  bon  grado.  £  queste  cose  dee  T  uomo  dot- 
tare a  se  medesimo,'  eh'  egli  riceve  dal  non  savio.  Lo 
maestro  dice,  appresso  guarda  d' indugiare  tuo  dono, 
che  quelli  è  diceduto  che  crede  avere  guiderdone  di 
quelli  eh'  egli  ha  tenuto  in  indugio,  e  lasciato  in  lungo 
aspettare.  Dunque  non  dei  tu  indugiar  quello  die  tu 
dei  donare,  ma  debbilo  donare  immantinente  ;  che  chi 
dona  tosto  dona  due  volte.  L'una  volta  dona  la  cosa 
per  sembianza.  L' altra,  che  1  dono  li  piace.  Seneca, 
dice,  r  uomo  non  sa  grado  del  dono  lungamente  di- 
morato intra  le  mani  del  donatore,  perchè  dii  tosto 
dona  è  prossimano  a  nascondere,  e  chi  tardi  dona,  lun- 
gamente pensa  di  non  donare.  Di  tanto  menimi  tue 
grazie  quanto  tu  metti  dimoro,  però  che  la  faccia  di 
colui  che  ti  priega  arrossisce  per  vergogna  ;  ma  qu^li 


LIBRO  SETTIMO.  I  y^ 

che  non  si  fa  dimandare  lungo  tempo  multiplica  suo 
dono  i  che  molto  buona  cosa  è  d' avacciare  lo  deside- 
rio di  ciascuno.  Seneca  dice,  quelli  che  non  ha  nien«- 
te,  promette  la  cosa  che  per  preghiera  la  richiede. 
Nulla  cosa  costa  più  cara  che  quella  che  è  comperata 
per  preghiera.  Lo  maestro  dice,  ciò  è  amara  parola  6 
noiosa,  in  cui  dee  Puomo  bassare  lo  volto  che  dice: 
io  pn^o;  Tobia  dice,  preghiera  è  boce  di  miseria,  e 
parola  di  dolore^  però  sormonta  tutte  maniere  di  do- 
no quelli  che  yiene  a  rincontro,  e  ch^  è  fatto  senza  ri- 
chiesta. Tallio  dice,  più  è  graziosa  un  picciolo  dono 
ulto  tostamente,  che  un  grande  ch^è  a  pena  donato.  E 
la  grazia  di  colui  che  dona  menima  s^  egli  fa  pregare 
agli  altri.  £  nulla  cosa  è  sì  amara  come  è  lungamente 
attendere.  Ed  a  molti  uonùni  Aprebbe  migliore  gra- 
do il  disdire  tosto,  che  metterlo  in  indugio.  TulUo  di-^ 
€6,  guarda  che  H  tuo  dono  non  sia  di  colui  a  cui  tu  9 
doni,  o  d^  altrui  ;  che  chi  dona  V  altrùi  cosa  egli  non 
ùi  beneficio,  anzi  malifìcio  ;  però  sono  persone  si  yo*^ 
lonterose  di  gloria,  che  togliono  ad  uno  ciò  che  dona- 
no all'altro.  Chi  prende  il  mal  dono  per  bene  spen- 
dere, più  fa  di  male  che  di  bene,  che  nulla  cosa  è  sì 
contraria  a  liberalità.  Seneca  disse,  quelli  dona  a  va-* 
nagloria,  e  non  a  me.  Tullio  dice,  usiamo  dunque  li- 
beralilà  in  tal  maniera  che  vaglia  a'  nostri  amici,  ed  a 
niuno  non  nuoccia.  Lo  maestro  disse,  guarda  che  tuo 
dono  non  sia  maggiore  che  tuo  potere.  Tullio  disse,  chi 
è  in  tal  liberalità  nop  conviene  che  abbia  in  se  mali- 
zia di  tollere  Paltrui  per  donare.  Lo  maestro  disse,  poi 
ti  guarda  di  non  rimproverane  altrui  cosa  che  tu  adibi 
donato,  che  tu  il  dei  dimenticare;  ma  quegli  che  rice- 


1 8o  IL  TKSORO. 

ve  lo  dee  tenere  a  mente.  Tullio  disse,  la  legge  èà 
ben  fere  intra  due  è  in  quella  che  rane  dee, tanto 
tosto  dimenticare  quello  che  dona,  ed  alP  ahro  dee 
sempre  ricordare  di  ciò  eh'  egli  ha  rìoeTUto.  E  non 
sovviene  punto  a  buono  uomo  di  ciò  ch^egli  ìm  ddos- 
to  se  quegli  che'l  guiderdona  non  li  fò  sovvenire.  Edi-- 
rittamente  fa  quegli  che  si  di  buona  aria  dona,  die  gii 
pare  avere  guadagnato  quello  ch^egli  dona  senta  spe- 
ranza di  guiderdone^  e  ricevono  come  quegli  che  non 
avesse  mai  donato  quelli  che  rimproverano  asprameoi* 
te  o  leggermente,  o  ch'egli  si  rimpentono  di  loro  dono, 
disfanno  tutta  la  grazia.  A  cui  Tullio  dice,  a  nullo 
uomo  piace  nulla  prendere  dal  tuo,  che  tu  commopi 
ciò  che  tu  doni.  Lo  maestro  dice,  appresso  ti  guarda 
di  malizioso  ingegno  .di  nascondersi  come  fece  re  An- 
tigono, che  disse  al  povero  che  li  dimandava  pia  chea 
lui  non  si  oonvenia.  E  quando  gli  domandò  uno  da- 
naio, à  disse:  a  re  non  conviene  si  piociol  dono  lare. 
Quelli  ebbe  maliziosa  scusa,  eh'  egli  poteva  beo  do- 
nare uno  bisante,  però  ch'egli  era  re,  e  potevali  dona- 
re un  danaio,  però  che  quelli  chel  dimandava  era  po- 
vero. Ma  Alessandro  la  fece  meglio  quando  donò  una 
città  ad  uno  uomo,  e  quegli  disse,  ch'egli  era  di  f  roppo 
basso  affare  ad  avere  città.  Alessandro  li  rispose  :  io 
non  pongo  cura  che  cosa  tu  debba  avere,  ma  qual 
cosa  io  debba  donare.  Lo  maestro  dice,  appresso  ti 
guarda  che  tu  non  ti  lamenti  di  colui  che  non  ti  sa' 
grado  di  quello  che  tu  hai  servito:  egli  è  meglio  se  tu 
te  ne  ridi,  ma  se  tu  ti  lamenti,  ed  egli  n'abbia  ira,  egli 
starà  sempre  dottoso  di  iqa  vergogna.  Ma  immantinen- 
te che  tu  te  ne  lamenterai  sua  vergogna  è  andata,  e 


IJIIRO  SETTIMO.  1 8  1 

dlia  ciascuoo,  queUi  non  è  tale  come  noi  credevamo. 
Non  sia  slmlgliante  al  ioi'o^  scegli  non  ti  sa  grado  d^un 
dono&tto,  egli  ti  saprà  d^un  altro.  E  s'egli  dimentica 
le  due,  lo  terzo  gli  ricorderà  quelli  ch^eglì  dimentica. 
Che  ragione  ha  di  «crucciarsi  colui  a  cui  tu  hai  donate 
grandi  cose,  sì  che  quelli  che  è  tuo  amico  ti  diventa  nv* 
mico?  Sii  largo  in  donare,  e  non  esser  agro  in  do- 
mandare, che  quando  li  disdegni  montano  più  alto  che 
i  meriti,  colui  a  cui  egli  piace  sì  ne  dimentica  che  sua 
diffidta  ne  menima.  Lo  maestro  disse,  in  liberalità  dob- 
biamo noi  seguire  Iddio  eh' è  signore  di  tutte  .cose;  e- 
gli  comincia  a  donare  a  quelli  che  non  sanno,  e  non 
cessa  di  donare,  e  sua  volontà  è  di  profittare,  che  lo 
sole  luce  sopra  li  scomunicati,  il  mare  è  abbondante 
a'IadronL  Dunque  se  tu  voli  seguire  Iddio,  dona  a  chi 
non  ti  sa  grado,  che  se  alcun  non  ti  sa  grado  di  ciò 
che  li  doni,  e' non  ti  fa  però  torto  a  te,  ma  a  lui.  Ma 
quegli  che  è  senza  grado,  dilettan  sempre  li  benefìcii  ', 
ma  colui  che  ti  sa  grado,  non  li  diletta  più  d'una  vol- 
ta. Che  non  è  grande  cosa  donare  e  non  perdere,  ma 
perdere  e  donare  appartiene  a  grande  coraggio.  Virtù 
è  donare  senza  attendere  lo  cambio.  Io  amerei  più  non 
ricevere  che  non  dare.  Quegli  che  non  dona  quello 
ch^  egli  promette  averà  più  che  non  ha  quegli  che  non 
sa  grado  di  quello  che  ha  ricevuto.  Ricevere  dono  non 
è  altro  che  vendere  sua  franchezza.  E  se  tu  impro- 
metti a  colui  che  non  è  degno,  donagli  non  per  dono, 
ma  per  tener  tua  parola  ferma.  Lucano  disse,  franchez- 
za non  sarebbe  ben  venduta  per  tutto  Poro  del  mon* 
do.  Tullio  dice,  già  sia  che  tu  debbi  donare  a  ciascu-^ 
no  com'egli  ti  domanda,  tuttavia  l'uomo  dèe  scegliere 

Latini,  Fo!.  IL  1 1 


•^■' 


1 8'J  ih  TESORO. 

chi  n^è  degno.  In  ciò  ruomo  dee  guardare  li  costo- 
mi  eli  colui  a  cui  egli  dona,  e  che  cuore  ha  irerso  Un, 
e  con  che  gente  egli  usa,  e  con  che  compagnia  cgi| 
viene  ne)  servigio  eh'  egli  fa,  e  se  qudili  con  4901  egli 
viene  al  servigio  sieno  perfetti,  od  abbiaoo  sembitD- 
ca  di  virlude.  Ch'  io  non  credo  che  nullo  ddbba  es- 
sere dispregiato,  in  cui  appare  alcun  segno  di  virtad& 
E  tu  dei  credere  che  ciascuno  è  buono,  se  ^1- contrario 
non  è  provato.  Lo  maestro  dice,  ciascun  dee  essere 
«morato  tanto  come  gli  è  ornato  di  pia  leggier  virtù, 
•cioè  misura,  e  temperanza,  ch3  forte  coraggio  e  pia 
ardente  è 'in  colui  che  non  è  troppo  savio.  La  priniii 
cosa  in  servire  è,  che  noi  semo  più  obbligati  a  colui  ths 
più  ne  ama.  Ma  egli  ci  ha  più  gente  che  fanno  molr 
te  cose  per  innalzare  s\  come  se  fossero  ismossi  per 
un  poco  di  vento  3  chi  è  ben  fatto  non  dee  essere  te- 
nuto così  grande  come  se  fosse  (atto  temperatamente. 
Egli  è  altrimenti  di  colui  che  ha  povertt>,  che  di  ocM 
che  ha  tutto  bene  e  dimanda  meglio.  L'uomo  dee  più 
tosto  far  meglio  a  coloro  che  sono  in  povertà,  s'  elli 
non  sono  degni  d' avere  povertà.  Ma  noi  dovemo  tutr 
to  ascondere  a  quelli  che  vogliono  montare  più  alta 
Anche  credo  bene  che  ben  fatto  sia  meglio  a  doppio 
in  buon  povero  che  ^  malvagio  ricco.  Quelli  che  so<- 
no  ricchi  non  credono  essere  dimenticati  per  bene- 
fatti,  anzi  credono  a  te  fare  grande  bene  quando  rice- 
vono da  te,  che  egli  non  crede  che  tu  attenda  alcuna 
cosa  da  luL  Se  tu  fai  bene  al  rio  ricco,  tu  non  averai 
grado  se  non  da  lui  e  da  sua  famiglia.  Ma  se  tu  fitt 
bene  al  buono  povero,  egli  è  avviso  che  tu  riguarde- 
rai a  luì  non  a  sua  ventura,  ed  averaine  grado  e  gra- 


'M 


MBaO  SETTIMO.  lS5 

ua  da  tutti  gii  oomini  poTeri,  chè*ciascano  lo  terrà  io 
siao  aiuto.  £  però  se  la  cosa  Tiene  in  constaoza,  se- 
guirai Demostene,  die  disse,  quando  Tolea  maritare 
sua  figliuola,  io  amo  uomo  che  abbia  scarta  di  dir 
JMri,  più  che  se  li  dinari  aUùa  sofferta  di  lui.  Noi  do- 
Temo  tale  dono  donare  die  non  sia  niente  vizioso,  che 
a  femina  non  si  dee  donare- arme  da  raYaIieri<  Seneca 
diee,  non  donare  tali  c^se  che  dispiacdano  alP  uomo, 
e  che  non  li  rimproveri  sua  malizia,  ciò  è  a  dire  che 
Poome  non  dee  donare  vino  ad  uomo  ebra  Ora  ha 
detto  il  .conto  d^  insegnamento,  oramai  dirà  egli  di 
guiderdtMUure^  dove  ha  cinque  ammaestranfoitL 

Capitolo  XLVUI. 
Del  guiderdone. 

^^oando  V  uomo  ha  ricevuto  dono  od  altro  bene- 
ficio per  k>  quale  egli  è  obbligato  a  rendere  guiderdo- 
ne, ni:iUa  cosa  k  à  necessaria  come  a  rendere  grazia  ; 
Ciò  è  a  dire,  che  tu  riconosci  lo  bene  che  tu  hai  rice- 
vuto, non  per  parole  solamente,  ma  per  (^)ere,  per- 
diè  Isidoro  comanda  che  tu  renda  guiderdone  in  mi- 
sitfa,  che  tu  ne  hai  improntato.  Che  dovemo  noi  fa- 
re, quando  alcuno  ci  fa  ben  di  suo  grado  ?  Certo  noi 
doviamo  seguire  mercatanti  guadagnatori,  che  rendo- 
no molto  più  che  V  uomo  a  loro  non  dh.  Che  se  noi 
dottiamo  a  servire  a  quegli  che  noi  crediamo  che  ne 
valerà,  che  doviamo  fare  a  quelli  che  a  noi  hanno 
già  valuto  ?  Egli  è  in  nostra  podestà  donare,  o  noa 
donare.  Ma  io  non  lodo  a  buono  uomo  chVgli  non 
refida  guiderdone  di  ciò  ch'egli  ha  noevoto^  s*  ^li  lo 


I  84  n.  TESORO. 

puote  fare.  Sopra  tutte  cose  ti  guarda^  che  tu  non  di- 
mentichi lo  bene  che  altri  t' ha  fatto,  che  ad  ogni  gen- 
te paiTebbe  che  'l  bene  ch^  egli  ti  doTCssero  fare  ta  il 
dovessi  dimenticare.  Qaelli  è  malTagio  ch«  dimèotidi 
lo  bene  eh'  egli  ha  ricevuto.  Seneca  dice,  quello  è  ml- 
vagio  che  non  fò  sembiante,  ma  più. è  malvagio  dà 
non  rende  guiderdone,  e  oltra  malvagio  è  dii^d»^ 
mentica.  Quello  non  può  graflo  saper  del  bene  che 
gli  è  fatto,  che  tosto  il  dimentica,  e  pare  eh*  egli  non 
pensi  guari  a  rendere.  E  quegli  che  dimentica  sonai* 
glia  colui  che  gitta  lo  dono  si  a  lungi  eh'  egli  non  te 
possa  vedare,  ch>  V  uomo  non  dimentica  se  non  qn4- 
li  eh'  egli  non  vede  spesso.  E  però  dico  io,  che  tu  nen 
dimentichi  lo  beneficio  passato.  Nullo  tien  beneficio 
quello  ch'è  trapassato,  anzi  lo  tiene  come  cosa  perdu- 
ta. Se  tu  non  dessi  iscritto  dinanzi  al  giudice  in  coitè^ 
allora  non  è  muta.  Dunque  ben  fatto  è,  anci  coann^ 
eia  ad  essere  si  come  preso  in  presto.  Con  ciò  sìa  egK 
onesta  cosa  a  rendere  grazia,  egli  addiviene  disone^ 
sta  s'ella  è  fatta  per  forza.  Appresso,  ti  guarda  che 
tu  non  ti  affretti  a  benefìcio  per  tuo  fatto,  eh'  elli  so^ 
no  alcuni  che  rendono  troppo  grande  grazia,  si  come 
quelli  malvagi  che  vorrebbono  che  quelli  a  cui  sono 
tenuti  avessero  alcun  bisogno  per  mostrare  com'elli 
si  ridano  del  bene  che  hanno  ricevuto  per  loro  co- 
raggio; sì  come  quelli  che  sono  altresì  di  malvagio  a- 
ihore,  elli  desiderano  che  loro  amiche  sieno  discac- 
ciate per  fargli  compagnia,  quando  si  fuggirà,  o  ch'elle 
sieiio  povere,  per  donarli  a  loro  bisogno,  o  che  sieno 
malate,  per  ispendere  con  loro  ciò  che  suo  amico  var^ 
rebbe.  E  per  questo  la  fìne  è  come  dal  malvs^  amo* 


LIBRO  SETTIMO.  l85 

re,  che  strania  f<itioDÌa  è  di  spegnere  il  fuoco  nelP  ac  . 
qua  per  trarnelo  fuorì,  che  la  fine  di  torto  fatto  non 
è  beneficio  e  ciò  non  è  servigio,  per  disfare  lo  male 
che  altri  fa.  Appresso  guarda  quello  che  Tullio  disse, 
che  tu  non  affretti  troppo  di  mostrare  che  tu  sappi  gra» 
do  del  bene  che  l'uomo  t^ha  fatto.  Quelli  cheti  stag-* 
gisce  lo  tempo  del  guiderdonare,  pecca  più  che  quel- 
li che  '1  passa.  Che  cìj  che  tu  non  voli  che  dimori  in* 
torno  a  te,  pare  che  sia  cambio,  e  non  dono  3  ed  è  se- 
gno di  gìttaisi  dietro  il  dono,  quando  l' uomo  ne  di- 
manda un  allro  immantinente  in  quello  luogo;  ed  a 
cui'pensa  ch'eg'inon  ha  anccMra  guiderdonato  né  ren- 
duto,  si  ripeute  del  dono  ch^  egli  ha  ricevuto.  Ap- 
presso,- ti  guarda  che  tu  non  rendi  grazia  in  riposto 
luogo,  che  quelli  non  sa  grado  del  bene  ricevuto^  che 
ne  rende  grazia  in  modo  che  nessun  non  V  ode.  Ma 
sopra  tutto  guarda  che  ricevi  benignamente  a  cui  tu 
bai  renduto  grazia.  Ma  non  credere  tu  però  essere 
quietato,  anzi  sei  più  sicuramente  tenuto  a  rendere. 
Che  noi  doviamo  rendere  volontà  contra  volontà,  e 
cosa  contra  cosa,  e  parole  contra  parole. 

Capitolo  XLIX. 
Delle  due  maniere  della  liberalitade. 

Ancora  di  liberalità  divisala  in  altra  maniera,  chò . 
r  una  è  in  opera,  e  T  altra  in  pecunia.  £  chi  ha  lo  po- 
dere di  serskire  di  ciascuna,  o  delPuna  o  dell'altra.  E 
quella  eh'  è  in  pecunia  è  più  leggiere,  e  speckilmente  al 
liceo  uomo;  ma  quella  eh' è  in  opera  è  più  nobile,  a 
più  di  grado  a  buono  uomo;  di  cui  Seneca  4ÌMe,  vir- 


iSO  IL  TESORO. 

tade  non  è  chiusa  a  nullo  uomo,  ella  h  lotta  aperta^ 
ella  non  chiede  magione,  ni  campi,  ella  si  tiene  por 
pagata  delP  uomo  nudo^  e  tutto  che  Tuna  e  P  altra 
maniera  di  liberalità,  qualunque  sia  o  in  opera,  ^quel^ 
k  ch^è  in  pecunia,  fii  Tuomo  piacente  e  graaJ<jao,tMMi 
per  tanto  P  una  viene  dolce,  e  V  altra  da  virCudi.  B 
quello  eh*  è  di  pecunia  menima  più  tosto  in  sua  beni» 
gnità^  che  di  tanto  come  tu  usi  più,  di  tanto  la' potrai 
meno  usare.  Chiunque  più  dona  e  dispende  di  auol 
danari,  tanto  n*  avrà  egli  meno.  L'altra  manicn^  dM 
Tiene  da  virtude,  fa  IHiomo  più  degno  e  più  apporee^ 
chiato  di  fere  bene  di  tanto  conoe  T  uomo  vi  ai  ooitii^ 
ma  più.  Quando  Alessandro  si  procacciava  d^aveM 
la  buona  volontà  di  quelli  del  suo  regno  di  suo  pa- 
dre, cioè  di  Macedonia,  per  danari  ch^egli  donava  loray 
siuo  padre,  cioV  il  re  Filippo,  sì  man^  lettera  in  tal-OBa» 
niera.  Quale  errore  ti  ha  mosso  in  qucfsta  apcraaaiy 
che  tu  credi  che  coloro  sieno  leali  inverso  di  te,  ch« 
tu  hai  conrotto  per  danari  ?  Tu  fai  tanto  che  qiotillì  di 
Macedonia  non  ti  terranno  niente  per  re,  ma  per  mi- 
nistratore  e  per  donatore.  Quelli  che  riceve  ne  diven« 
ta  proprio,  che  sempre  sta  intento  che  tu  li  doni,  non 
per  tanto  V  uomo  non  si  dee  del  tutto  ritrarre  def  do- 
nare a  coloro  che  hanno  bisogno.  Dee  V  uomo  dona- 
re bene,  ma  diligentemente,  però  che  più  persone 
hanno  guasto  loro  patrimonio  per  donare  follemente. 
Lo  maestro  dice,  nulla  ha  maggiore  follia  che  £ire  tan- 
to ad  una  volta,  che  P  uomo  non  possa  durare  a  fere 
lungamente  quello  ohe  fe  volontieri.  Appresso  li  gran* 
di  doni,  le  rapine.  E  quando  V  uofBOo  viene  povero  e 
bisognosoper donare,  egli  è  ooslretto di  prendere  1^ 


LIBRO  SETTIIfa  1 87 

trui  i  ed  allora  ha  egli  maggiore  odio  da  quelli  asciti 
toglie,  ch'egli  non  ha  amore  da  coloro  a  cui  egli  dozui. 
Gato  dice,  chi  guasta  le  sue  cose  chiede  altrui  quau?- 
do  non  ha  più  che  guastare.  Lo  maestro  dice,  però 
che  donare  oon  ha  fondo,  dee  ciascun  guardare  sua 
agio  e  suo  podere.  £  generalmente  più  sodo  qaM 
che  si  penton  di  troppo  donare,  che  di  troppo  strìn^ 
gere.  Ma  intomo  questa  materia  sono  tre  maniere4 
L\ino  è  distruggitore;  T altro  è  avaro,  e  P altro  libe»- 
vale.  Distruggitore  è  quello  che  giuoca  a' dadi,  e  spen- 
de in  vivande^  e  dà  a'giucolari.  Il  distruggitore  di- 
spende ciò  ch^  ^li  ha,  che  non  ne  rimane  memorìa,  ^ 
in  somma  egli  spende  quello  eh'  egli  dovrebbe  tenere 
e  guardare  Avaro  è  qu^li  che  guarda  quello  che  do* 
yiéshe  donare  e  spendere.  Liberale  è  a  dir  largo,  cioè 
quegli  che  di  suo  capitale  raccatta  prigioni,  ed  aiuta 
suoi  amiei  a  maritare  le  loro  figliuole,  sì  come  deb-* 
bono  gli  uomini  aiutare  V  uno  alP  altro  e  di  consiglio 
e  di  parole  se  gK  è  mestiero.  Ma  egli  si  dee  guardare 
d^alutare  in  tal  modo  ad  un,  che  non  nuoccia  ad  un  al- 
tro, ciiè  molte  volte  gravano  di  quelli  che  non  dove- 
rebbero  gravare.  £  s'egli  Io  fanno  a  folle  si  è  negli- 
genza, e  se  '1  fanno  a  savio  è  follia. -Quando  tu  gravi 
alcuno  a  mal  tuo  grado,  dettene  scusare  e  mostrare 
oome  tu  non  puoi  altro  fare,  e  ristorare  loro  per  altro 
servigio  di  quello  che  tu  gli  hai  gravati.  Ma  però  che 
tulte  cagioni  sono  in  accusare  ed  in  difendere,  io  di- 
co che  meglio  è  difendimento.  E  non  per  tanto  si  può 
V  uomo  alcuna  volta  accusare,  ma  ciò  è  una  sola  via 
senza  più.  Tullio  dice,  che  quello  è  uomo  crudele,  od 
^li  noD  è  uomo,  che  più  gente  accusa  di  cose  di  che 


1  88  IL  TESORO. 

ellitfono  io  peiiculo.  Yile  nomìoanza  è  d^  essere  -ac^ 
cusatore.  Guarda  dunque  diligentemente  che  tu  non 
accusi  uomo  senza  colpa  di  cosa  onde  égli  sìa  in  pe- 
ncolo, che  ciò  noD  può  esser  fatto  senza  fellonia.  Tul- 
lio dice,  e' non  è  nulla  disumana  cosa  come  di  volere 
usare  alla  gravezza  de^  buoni  uomini  la  parlatura  che 
fu  data  per  salute  delP  uomo.  Lo  maestro  dice,  guar- 
da che  tue  parole  non  mostrano  d^  avere  vizio  intra 
morte.  E  ciò  suole  addivenire,  quando  alcuno  ditratta 
altrui,  e  quando  si  gabba,  e  quando  si  misdice.  Tullio 
dice,  noi  dovemo  fare  atto  di  dottare,  e  d^amare  quel- 
li a  cui  noi  parliamo.  £  molte  volte  convienegli  castt* 
gare  le  genti  che  sotto  lui  sono  per  necessità.  Allora 
dee  Tuomo  parlare  grandemente,  e  dire  agiate  parole. 
£  questo  dovemo  fare  acciò  che  non  paia  che  siamo 
aidirati,  o  per  castigare,  o  per  vendicare.  Non  per  tanto 
a  questa  maniera  di  castigamenlo  doviamo  noi  venire 
poco  e  non  lietamente.  Ma  ira  sia  di  fuori  di  noi,  però 
ohe  con  essa  nulla  cosa  si  può  fare  a  diritto.  Lo  ma^. 
stro  disse,  Tuomo  dee  mostrare. che  la  crudeltà  ch^e- 
gli  ha  nel  castigamento  sia  per  V  offesa  di  colui  cui  e» 
gli  castiga.  £  per  onta  che  noi  avessimo  con  nostri 
nimioi  doviamo  noi  soffrire  di  dire  di  gravi  parole, 
che  è  diritta  cosa  di  tenere  temperanza,  e  cessare  ira, 
e  le  cose  che  Puomo  fa  con  alcuno  turbamento  non 
possono  essere  dirittamente  fatte.  Non  lodare  di  quel- 
li che  lodano  i  cavaheri  che  chieggono  vanagloria  ;  e 
tulte  queste  cose  conviene  egli  seguire  le  maggiori  alli 
uomini,  non  a  loro  natura,  ne  loro  ventura.  Ma  chi  è 
quello  che  più  volontieri  sostiene  la  cosa  del  povero 
('he  quelb  del  ricco  o  del  possente?  Che  nostra  vo- 


# 


LIBRO  SETTIMO.  I  89 

iontà  si  rìtragge  più  là  ove  noi  crediamo  avere  gui- 
derdone, e  più  tosto. 

Capitolo    L. 
Della  religione. 

lofioò  a  qui  lo  conto  ha  divisato  di  due  parti  pri- 
miere di  liberalità,  cioè  di  donare,  e  di  guiderdonare, 
e  che  lo  uomo  dee  fai*e,  e  che  no,  e  V  u^o  e  F  altro. 
Ora  vole  andare  oltra  alle  sette  parli.  Ma  tuttavia  di- 
tk  egli  di  religione,  però  eh'  ella  è  più  degna  a  tutte 
cose  di  tutte  viilù  che  appartengono  a  divinità,  e  che 
ci  mena  a  fai*e  opera  che  ci  meni  a  vita  eterna  sor- 
montante tutte  le  altre  cose.  Religione-  è  quella  virtù 
diecijk  curiosi  di  Dio,  e  facci  fare  suo  servigio.  Que- 
sta virtù  è  chiamata  fede  di  santa  Chiésàpi;ioe  la  cre- 
denza la  quale  gli  uomini  hanno  in  Dio.  E  chiunque 
non  è  forte  e  fìero  in  sua  legge  e  in  sua  religione,  ap- 
pena potrebbe  essere  leale  uomo.  Chi  chi  non  è  lea- 
le verso  suo  Dio,  come  potrebbe  essere  agli  uomini? 
Il  primo  officio  di  religione  si  è  pentirsi  di  tutto  suo 
peccato.  Orazio  disse,  quando  egli  è  bene  ripentito  si 
diparte  dal  suo  cuore  malvagia  volontà,  e  pensieri  che 
fanno  troppo  perdere,  dee  l' uomo  informai'e  di  più 
aspro  studio.  Lo  secondo  officio  di  religione  si  è,  di 
poco  pregiare  la  mutabilità  delle  cose  temporali,  che 
dopo  bello  giorno  viene  la  nera  notte.  Orazio  dice, 
Puu  giorno  caccia  F altro,  e  la  nova  luna  sempre  cor- 
re a  suo  fine,  però  non  dei  tu  avere  speranza  nelle 
mortali  cose,  che  Tuno  anno  tolle  alF  altro,  e  una  ora 
fa  perdere  lutt'  il  dì.  Noi  siamo  dati  alia  morte,  noi  e 


II» 


è 


I  go  0'  TESORO. 

nostri  fìgtiuoli  e  nostre  cose.  Però  se  tu  hai  oggi  gio- 
ia, per  venlura  domane  morrai.  H  terzo  officio  si  è 
ch^  ella  dee  commetlère  il  suo  officio  a  Dio ,  secondo 
che  dice  Giovenale,  se  tn  vogli  consiglio,  tu  V  aTerai 
da  Dio  dispensatore  del  tempo,  e  però  vede  che  a  noi 
conviene,  e  ch^  è  utile  a  nostre  cose:  che  in  luogo  di 
gioiose  cose  non  si  conviene  la  aconvenevole,  ed  ane* 
più  r  anime  che  lei  medesima  non  fa^  però  dovemo 
noi  pregare  che  nostro  pensiero  sia  sano.  Ghè  Salo-' 
stio  dice,  che  lo  aiuto  di  Dio  non  è  guadagnato  per 
solamente  desiderare,  e  per  avere  femine^  anzi  per' 
vegghiare,  e  per  fare  bene,  e  per  prendere  buono  coih 
sigilo  vegnono  tutte  buone  virtudi.  Quando  tu  sarai 
abbandonato  a  cattività  e  a  malvagità,  non  piaci  a 
Dio,  ch^  egli  è  crucciato  ver  te.  Seneca  disse,  sappi 
che  tu  ^rai  lordo  delP  opere  di  volontà,  quando  ta 
non  pregherai  Iddio  di  nulla  cosa.  Se  tn  vuoli  nulla  co-, 
se,  dimandala  tutto  apertamente,  egli  è  grande  disva- 
glio deir  uomo  consigliare  a  Dio  di  villano  desiderio. 
E  se  alcuno  ne  viene  ascoltarlo,  egli  si  tace,  e  diman- 
da a  Dio  quello  ch^  egli  non  vole  che  gli  uomini  sap- 
piano; però  dei  tu  vìvere  con  gli  uomini,  come  se  Dio 
ti  vedesse,  e  parlare,  a  Dio  come  se  gli  uomini  udisse- 
ro. Lo  quarto  ufficio  di  religione  si  è  guardare  verità 
e  lealtà.  Seneca  disse,  che  lealtà  e  verità  discevra  Tno- 
mo,  e  trae  franco  da  quella  del  servo,  ma  menzc^poa 
V  odia,  e  misdice.  Tullio  dice  :  però  crede  alcuno  che 
questa  virtude  sia  chiamata  fede  e  lealtà,  però  che  per 
lei  fa  Puomo  ciò  ch'egli  dee.  Non  per  tanto  V  uomo 
non  dee  sempre  &r  ciò  che  egli  impromette,  quando 
la  cosa  eh'  egli  ha  promtsso  non  li  mette  bene,  o  se 


LIBRO  SETTIKO.  1 9 1 

la  cosa  è  noioaa  a  te  eh'  egli  non  vale  a  luì,  di^  egli  è 
pia  difìtto  a  schifare  il  maggior  daiino  che  '1  minore. 
Che  se  ta  hai  promesso  ad  mio  uomo  d^  esserli  adiu- 
tore io  una  sua  cosa,  e  infra  '1  termine  incoglie  a  tuo 
figliudb  grande  malattia,  non  è  ancora  P  ufficio  della 
fede  contra  lealtà,  se  tu  non  fai  ciò  che  tu  dèi.  E  se  al- 
cuna li  fia  accomandata  in  guardia^  ella  poò  bene  tale 
essere  che  tu  non  la  dei  rendere  sempre.  Ch'i  se  alcn- 
no  quando  egti  è  savio  e  di  buono  pensiero  egli  ti  dà 
a  guardare  uoa  lancia,  e  poi  quando  egli-  è  pazzo  te  la 
domanda,  tu  saresti  peccatore  se  fu  gliela  rendessi,  ed 
è  virtude  se  tu  non  rendi  nulla.  £  se  quelli  che  t^  ha 
dato  danari  comincia  guerra  con  tuo  paese,  non  glieli 
nendere,  che  tu  faresti  contra  tuo  comune,  cioè  con- 
tra '1  cooMioe  di  tua  città,  o  di  tuo  paese,  il  quale  tu 
dei  avere  molto  caro.  Àncora  addiviene  che  molte  co- 
se paiono  oneste,  e  per  natnra  divengon  disoneste 
per  trapassamento  di  tempo..  E  contra  qnesta  virtude 
fanno  mortalmente  gV  infingardi,  e  li  falsi  ipocriti,  che 
mostrano  quello  che  non  sono  per  ingannare  Iddio 

e  ^1  mondo. 

Capitolo  LL 

Ora  TI  conterà  di  pietade. 

Pietà  è  una  virtù  che  ci  fa  amare  e  servire  diligen- 
temente nostro  paese  e  nostri  parentL  E  ciò  viene  in 
noi  per  natura,  eh*:  noi  nasciamo  prima  a  Dio,  poi  a 
nostro  paese  e  nostri  parenti.  L^uomo  dee  far  tutto 
suo  podere  per  lo  comune  profitto  di  suo  paese  e  di 
sua  città4  e  a  queste  cose  ci  mena  forza  di  natura,  e 
ÌK>n  forza  di  legge.  Seneca  dice,  così  come  nullo  dee 


ICj'ix  IL  TESORO. 

essere  dislretto,  se  così  non  comanda  b  l^ge,  che  Tuo- 
ino  ami  padre,  e  madre,  e  suoi  figlinoli,  che  dàkiiareb- 
he  sozza  cosa,  che  V  uomo  fosse  contrario  di  hre  quel- 
lo che  fa.  Lo  maestro  dice,  sopra  tutte  le  cose  ci  do- 
>  emo  guardar  che  noi  non  ci  faccia«no  alcuno  male,  ne 
alcun  torto  ci  sia  fatto.  Salustio  dice,  se  tu  sei  nimi- 
VM  al  tuo  comune,  saranno  tuoi  amici  li  strani.  Teren^  • 
zio  disse,  chi  osa  di  disservu'e  suo  padre,  che  ùsxk  agli 
altri  ?  Chi  non  perdona  ai  suoi,  come  perdonerà  agli 

aliri  ? 

Capitolo  LU. 

Della  innocenza. 

Innocenza  è  purità  di  coraggio  che  aiuta  a  fare  tutti 
i  torti  fatti.  Per  questa  virtù  appaga  V  uomo  Iddia 
Orazio  dice,  non  ti  dimentichi  che  nuocila  coloro  che 
fanno  torto  ^  cavane  Pattare.  Nullo  sacrificio  è  ^à  di- 
lettevole ad  appagar  Iddio.  Tullio  disse,  chi  vorrà 
guardare  bene  questa  viilù,  tenga  tutti  mis&tti  per 
grandi  come  eh'  elli  sieno  piccioli.  Orazio  dice,  che 
nullo  nasi^e  senza  vizio,  ma  quelli  è  più  buono *il  qua^ 
le  è  meii  viziato.  Giovenale  dice,  nullo  creda  che  de 
sia  assai,  s'  egli  misfà  tanto  come  gli  ha  anzi  in  pre- 
senza ciascuno  largamente  lo  podere.  L'ufficio  di  que- 
sta virtù  è  andare  in  più  luoghi  senza  gravezza  d'al- 
cuno. Tullio  dice,  chi  fa  torto  a  uno,  minaccia  più 
persone,  e  fa  paura  a  molte  genti.  L' altro  ufficio  è, 
non  fare  vendetta.  Seneca  dice,  che  laida  OQsa  è  per- 
dere innocenza  per  l'odio  d'un  nocente.  E  fellonia 
non  dee  essere  vendicata  per  fellonia.  Saluflio  dice , 
quelli  mette  più  persone  sotto  isuoi  piedi  che  ti*oppO' 


LIBRO  SETTIMO.  196 

agramente  volle  vendicare.  Orazio  dice,  in  vendicare 
divieQff.r  uomo  troppo  nocente. 

CAPITOLO  LEU. 
Deir  ufficio  della  carità. 

Carità  è  la  fine  delle  virtù,  che  nasce  di  fino  cuore 
e  di  diritla  conscienza  e  non  di  falsità  di  fede.  Suo  co» 
mandamento  è  tale  :  Ama  Iddio  e  'I  prossimo  tuo  cò- 
me te  medesimo,  a  ciò  ti  conforta  più  volte  ragione. 
Primieramente  santa  Chiesa  che'sempre  grida,  ama  il 
prossimo  e  li  strani  come  te.  La  seconda  ragione  è 
V  amore  che  ciascuna  bestia  porta  alla  bestie  di  sua 
genei*azione.  La  terza  ragione  è  il  parentado  che  è  in 
tra  noi  per  natura,  che  siamo  tutti  descendenti  da 
Adamo  e  da  Eva.  La  quarta  per  lo  parentado  dello 
s|>irito,  cioè  per  la  fede  di  santa  Chiesa,  ch^  è  madre 
di  tutti  noi.  La  quinta  è  la  morte  di  Cristo,  che  volse 
morire  per  nostro  amore.  La  sesta  si  è  Pesempio  ^  che 
poniamo  che  tu  ami  il  figliuolo  del  tuo  amico,  lu  Fa- 
mi perchè  1  somiglia  lo  tuo  amico,  però  dei  tu  amare 
tolti  ^i  uomini,  perchè  sono  fatti  alla  similitudine  di 
Dio.  La  settima  è  per  frutto  che  esce  d^  amore  e  di 
compagnia.  Salomone  dice,  meglio  è  ad  essere  due  in- 
sieme che  un  solo,  che  ^l  frate  aiutato  dal  frate  è  co- 
me una  ferma  città.  Ambrosio  dice,  quanto  è  impre- 
so da  comune  volontà  acquista  vittoria.  Però  dunque 
r  uuo  aiolà  in  cambio  dell'altro,  che  solamente  disse, 
che  cuore  si  diletta  per  buono  ammonimento,  e  per 
buone  ifiecie  V  animo  si  allegra  del  buono  consiglio 
di  suo  amico.  Tullio  dice,  che  si  procaceia  Tannstade 


194  ^i  TESORO. 

àegìì  uominL  Che  però  che  le  umane  cose  scilo 
e  debili,  noi  dovemo  sempre  acquistar  anici  ohe  d 
amano  e  che  siano  amati  da  noi,  però  che  là  ove  la 
carità  delP  uomo  è  cacciata,  tolte  le  allegrezze  di  vita 
sono  morte.  E  già  sia  che  amare  ed  essere  amato  sia 
buona  cosa,  tuttavia  è  più  utile  amare  che  esser  ama- 
to^ però  die  la  è  maggiore  virtù  donare  che  prendere. 

Capitolo  LIV. 
Come  noi  dobbiamo  amare  noi  medesimi. 

E  però  questa  virtù  vale  alla  vita  delP  uomo  piò 
che  tutte  ricchezze.  Lo  maestro  dice,  che  sono  molle 
ragioni  che  ci  aiutano  acciò  che  V  nomo  sia  amato.* 
Prima  avere  misura  in  parole.  Salomone  dice,  quello 
ch^  è  savio  in  parole  acquista  amici,  e.  la  grazia  del 
Mie  è  perduta.  La  seconda  è  virtù  e  bontà.  TulUÒ 
dice,  non  è  più  amabile  cosa  che  vìrtnde.  E  nuUa  co- 
sa è  che  tanto  ci  sia  nociva  ad  amare  nostri  amici,  e 
quelli  che  noi  non  vediamo  ancora  amiamo  per  me- 
moria di  sua  valenza.  La  terza  è  umilila.  Salomone  di* 
ce,  fa  opere  d^  umilila,  e  sarai  amato  sopra  lutti  La 
quarta  è  lealtà.  Salomone  dice,  se  ^l  tuo  servo  è  leale 
saratti  come  amico.  E  allora  disse  egli  medesimo,  che 
leale  amico  è  medicina  di  vita.  La  quinta  è,  incomin- 
ciare. Seneca  disse,  ama  se  vegli  esser  amato.  La  sesta 
e,  a  servire^  ma  io  non  dico  che  1  servire  mantegna 
r  amore,  se  non  è  fatto  saviamente,  ch^  sapMMza  è  ma- 
dre di  buono  amore.  Salomone  dice,  e' conviene  avere 
senno  a  servire  gli  amici.  Seneca  dice,  qnef^  ehe  si 
fida  solamente  de^  suoi  servigi  non  ha  nuUo  si  perì-ò 


LiBKo  dETTiaro»  195 

ceroso  male,  come  qaelló  che  crede  dbe  (faeììì  siano  li 
suoi  amici  cni  ^H  non  ama  niente. 

Capitolo   LV. 

Della  vera  amistade. 

Noi  dotemo  Amare  tutti  gli  uomini,  e  massimamen-' 
te  quelK  che  si  contentano  di  noi,  in  tre  maniere.  La 
(urima  è,  che  noi  li  amiamo  di  buon  grado,  non  per 
lode,  o  per  pompa,  ne  che  noi  li  amiamo  solamente  per 
lo  profitto  di  noi,  ma  per  lo  bene  di  nostra  contmen- 
zd.  Seneca  dice,  poco  è  amico  acquistato  come  profit- 
tàbile. Ambrosio  dice,  amistà  è  virtù,  don  mercatanzia. 
Geronimo  dice ,  amistà  non  chiede  cose  di  volontà, 
ciò  è  a  dire,-  bene  facendo  e  cessando  vfzn.  Ch?  sì 
come  Tullio  dice,  ciò  non  è  ragionevole  scusa  che  tu 
facci  male  per  cagione  d^ amistà.  E  che  noi  Tamiam^  di 
molto  gran  cuore  e  amore,  che  non  è  nullo  maggior 
diletto,  che  metter  tua  anima  per  tuo  amico.  E  che 
liof  ramiamo  perfettamente,  e  di  lingua,  e  d^  opera 
insieme.  Amistà  fa  aiuto  di  detto,  e  di  larghezza,  che 
l'opera  è  piena  d'amore,  e  che  noi  P amiamo  durabil- 
meote.  Gregorio  dice,  quando  uomo  aguroso  è  amato, 
ciò  è  molto  dubbiosa  cosa  a  sapere,  s'egli  è  amato,  sua 
persona  o  sua  ventura.  Seneca  dice,  ciò  che  tu  puoi 
sapere  per  tuo  beneficio  non  saprai  per  tua  povertà. 
Boezio  dice,  scuopre  la  certezza  degli  amici,  che  là 
ore  ella  ai  va  ella  ti  lascia  il  tuo,  e  seco  ella  porta  quello 
che  tuo  non  è.  Tullio  dice,  non  isehifare  li  vecchi  a- 
mici  per  H  nuovi.  Tullio  dice,  e  non  è  nolla  cosa  sì 
I,  eome  combattere  contra  a  quelli  che  hanno  ami- 


I  i)(y  IL  TESORO. 

Sta  con  noi.  La  seconda  manièra  è,  che  noi  anruamaat- 
tietlanto  come  noi  medesimi,  e  non  più  ;  che  nulla  1^ 
gè  comanda  che  tu  ami  altrui  più  di  te,  ma  chi  ooa 
sjprà  amare  sé,  non  saprà  amare  altrui.  Ama  dunque 
il  tuo  amico  oltre  alle  cose  dispare  voli,  non  oltra  il 
t(io  Dio,  e  oltre  a  te.  La  terza  maniera  è,  che  noi  ci 
amiamo,  sì  come  nostre  membra,  interamente  Ttm 
r altro.  E  prima  che  Puno  membro  non  ha  invidia 
deir  altro,  e  che  ciaschedun  mèmbro  fa  suo  ufi&do 
air  altro,  e  se  T  uno  fa  male  alP  altro,  P  altro  non  fii 
vendetta,  che  P  uno  si  duole  del  male  delP  altro,  e 
così  si  allegra  del  bene,  che  Puno  si  lira  innadzi  per 
j^  difendere  P  altro,  e  che  tutto  il  corpo  si  duole  delk 
'  perdita  d'  uno  dei  membri,  e  ciò  che  P  uomo  riceve 
sì  lo  parte  con  P  altro  e  1  pro^e  1  danno. 

Capitolo  LVI. 

4 

Della  prima  branca  di  rirtude. 

Amisth  con  carità  è  di  tré  maniere.  L^  una  è  per 
diretta  fede  e  per  verace  amore  di  benevolenza,  e 
però  dura  sempre  in  sua  fermezza,  e  non  può  essere 
partila  per  avversità,  né  per  cosa  che  addivegna,  e 
questa  >  ale  tutto  il  tesoro  del  mondo,  però  che  nul* 
lo  uomo  può  venire  a  compimento  di  ben  fare  per  se 
solamente.  E  tale  amistà  non  è  altro  che  buona  volon- 
tà verso  alcuno  per  cagione  di  lui.  Sallustio  dice,  Puf- 
fìcio  di  questa  virtù  è  volere  e  disvolere  una  mede- 
sima cosa,  ma  ch^ella  sia  onesta.  Seneca  dice,  che  suo 
uliicio  è,  castigare  in  secreto,  e  lodare  in  aperto.  Tulr* 
Ho  dice,  la  legge  d^  amistà  è,  che  noi  uou  diinaudiamo 


LIBRO  SETTIMO.  I97 

villane  cose,  e  che  ooi  non  le  ^Kxàamo,  se  alcuno  ce 
ne  priega.  Seneca  disse,  T  altra  legge  si  è,  che  tu  ti 
consigli  di  lulte  le  cose  col  tuo  amico,  ma  primamen- 
te ti  consiglia  da  te.  Lo  terzo  ufficio  è,  che  tu  non  ti 
sfom  di  sapere  quello  chVgli  li  vuole  celare.  Più  uma* 
na  cosa  è  non  ùxre  sembianti  della  cosa,  che  mettere 
intenzione  a  sapere  cosa  perchè  tuo  amico  ti  vuole  ma- 
le. Lo  quarto  ufficio  è,  che  disavvenlm'a  non  parla 
amistà,  secondo  che  Lucano  dice,  non  è  convenevole 
die  r  uomo  fallisca  al  suo  amico  nella  avversità^  che 
fede  non  volle  dimorare  col  cattivo  amico.  Lo  quinto 
uffido  è,  la  comunità  delle  cose.  Però  disse  il  filosofo, 
quando  udì  dire  di  due  uomini  ch^  elli  erano  amici, 
perchè  è  dunque  quello  povero  quando  V  altro  è  ric- 
co? £  non  per  tanto  Tullio  disse:  dona  secondo  tuo 
podere,  e  non  tutto  il  tuo,  ma  tanto  che  tu  possi  so- 
stenere r  amico  tuo.  Ma  laida  cosa  è,  dice  Tullio,  di 
dimettere  il  servigio  al  bisogno  Puno  per  V  altro.  Lo 
sesto  uffizio  è,  di  guardare  equaliln,  che  amistà  non 
sostiene  alcuno  isuaglio.  Tullio  dice,  grande  cosa  è 
amistà,  che  fa  il  grande  pare  del  minore.  Salomone 
dice,  chi  dispetla  suo  amico,  egli  è  povero  di  virtù. 
Lo  settimo  è  perpetualità.  Salomone  dice,  sempre  ama 
quegli  che  t^  è  amico.  Egli  medesimo  disse  appresso, 
mantieni  tuo  amico  in  sua  libertà.  L'ottavo  è,  non 
scoprire  il  segreto  del  tuo  amico,  e  celare  suo  peccato. 
Lo  nono  è,  a  fare  tosto  sua  preghiera.  Salomone  dice, 
non  dire  all'  amico,  va  e  torna  dimane.  Lo  decimo  è, 
a  dire  ciò  che  li  dee  profittare,  più  che  ciò  che  li  deb- 
ba piacere.  Salomone  dice,  lo  malvagio  uomo  lascia  il 
suo  amico,  e  gli  disdice  di  sua  bocca.  Della  verace 


9 


lyò  a  tesoro/ 

amistà  4ice  Salomone,  bene  è  agantto  chi  troya  Pa^ 
mico  suo.  Tullio  dice,  amistade  dee  esser  messa  in- 
nanzi a  tulle  umane  cose.  Di  dò  dice  anchie  TuUlo^  in 
tanto  è  meglio  amistà  che  parentado,  che  amore  può 
perìre  nei  parenti,  e  sempi*e  rimane  il  parentado,  ma 
se  r  amistà  perisce  nelP  amico,  k>  nome  deir  amistà 
perisce  con  esso.  Salomone  dice,  V  uomo  amabile  in 
coQipagDÌa  t' è  più  amico  che  'l  fratello.  Tullio  dice, 
veder  tuo  amico  e  ricordarti  di  lui,  è  come  vedere  te 
medesimo  in  uno  specchio.  £  di  ciò  addiviene  dm 
quelli  ch^è  di  lungi  da  te  è  come  quello  d^  appresso; 
e  quelli  ch^  è  morto,  allresìcome  vi  venda  Pecò  Vju/y 
mo  che  vuole  acquistare  amici  dee  considerare  qual*. 
tro  cose.  Prima  scegli  è  savio.  Chi  Salomone  dice,  b 
amico  del  folle  è  simigliaote  a  luL  Poi  guarda  scegli  à 
buono,  che  Tullio  disse,  io  so  bene  che  amistà  non 
dura  se  non  tra  buoni  Poi  guarda  s^^li  è  di  buona- 
ira,  che  Salomone  dice,  non  sii  amico  d^uomo  iracon-* 
do,  che  r  ira  arde  e  punge.  Appresso,  ti  guarda  che 
sia  umile.  Salomone  disse,  quivi  ov^è  orgoglio,  è  cruo* 
oio  e  odio. 

Capitolo   LVII. 
Di  quello  che  traina  per  sua  propria  utilitade. 

•  Quegli  che  t^ama  per  suo  profitto  è  somigliante  al 
corbo  e  alP  avoltoio,  che  sempre  seguitano  la  carogna^ 
Egli  t'ama  tanto  quanto  egli  puote  avt^re  del  tuo. 
Dunque  ama  egli  le  tue  cose,  e  non  te^  e  se  le  tue 
cose  fallano,  che  tu  vegni  in  povertà,  o  in  avversità, 
egli  non  ti  conosce,  anzi  e'  fa  alla  maniera  delP  usigno- 


Liiuio  siTTmo.  igg 

lo,  che  nella  primayera  quando  il  sole  piglia  la  sua 
forza,  e  vegnono  lì  fiori  e  V  erbe  rerdicanti,  egli  di- 
mora intomo  a  noi,  e  canta  e  sollazza  spesso,  ma  quan- 
do il  freddo  viene,  egli  si  parte  da  noi  tostamente. 

Capitoix)  LVIII. 

IK' quello  che  ama  per  suo  diletto. 

Qaegli  che  ama  per  suo  diletto  fe  come  il  terznolo 
disoa  femma,  che  immantinente  ch^egli  ha  suo  vo- 
lere camidmente,  si  fugge  più  tosto  due  può,  e  mai  non 
Fama.  Ma  egli  interviene  molte  volte,  che  amore  il 
sospende  si  forte,  ch'egli  non  ha  podere  nullo  di  sé 
medesimo,  anzi  abbandona  cuore  e  corpo  air  amore 
d'una  femina.  In  questa  maniera  perdono  ellino  il 
loro  senno,  sì  che  non  vagìiono  nulla,  à  come  Adamo 
fe  per  sua  femina,  per  cui  tutta  Fumana  generazio- 
ne è  in  pericolo,  e  sarà  sempre.  David,  che  per  la 
beltà  <£  Bersabea  femina  fece  omicido  e  adulterio. 
Salomone  suo  figliuolo  adorò  gl'idoli,  e^lsò  sua  fede, 
per  amore  d'una  Idumea.  Sansone  discoperse  alla  sua 
amica  la  sua  forza,  ch'egli  avea  nei  capelli,  e  perde 
poi  la  forza  e  la  vita,  e  mori  egli  e  tutto  lo  senno.  Di 
Troia  com'  ella  fu  distrutta  sa  ogni  uomo,  e  d'altre 
terre,  e  molti  prìncipi  che  sono  distrutti  per  falso  amo-* 
re.  Anche  Aristotile,  così  grandissimo  filosofo,  e  Mer- 
lino, furono  ingannati  per  femine,  secondo  che  le  bto- 
lìé  contano. 


300  IL  TBSomo. 

Capitolo  LIX. 

Della  rererenza  e  di  sua  materia. 

Reyerenza  è  quella  virtù  che  ci  fa  rendere  onore 
ai  nobili  uomini,  e  a  quelli  che  hanno  alcuna  signorìai 
ed  è  suo  ufiicio  porlare  reverenza  ai  vecchi  e  ai  mag- 
giori. Seneca  dice,  troppo  è  buona  cosa  seguire  lo  àn- 
dare  de^ maggiori  snelli  sono  alla  diritta.  Noi  dovemo 
scegliere  un  buono  uomo,  e  averlo  sempre  dinanzi  da» 
gli  occhi,  sì  che  noi  viviamo  così  come  se  tf^  ci  ve» 
desse,  che  grande  paii;e  del  peccato  rimane^  se  vi  hi 
testimoni.  Tullio  dice,  tu  dei  sapere,  che  nullo  luogo 
sia  senza  testimoni  Ma  pensa  quelUr  che  Giovenale  dis" 
iie,  quando  tu  voli  fare  villane  cose,  non  credere  esser 
veduto  senza  testimoni  £  noi  doviamo  appresso  Dio 
e  appresso  i  suoi  ministri  onorare  coloro  che  sono -in 
più  alta  dignità,  secondo  quello  che  gli  apostoli  co- 
,  mandano,  che  Tuomo  renda  onore  a  colui  che  dee  , 
esser  onorato.  Santo  Pietro  disse,  £ite  onore  ai  re. 
Allresì  dovemo  noi  onorar  li  più  vècchi  Nel  Levitico 
si  comanda,  leva  te  inconlra  al  capo  canuto,  e  onora 
la  persona  elei  vecchia  Altresì  dovemo  noi  onorare 
per  dignità  di  natma.  Nell'Esodo  si  comanda,  onora 
il  tuo  [ladre  e  la  tua  madre.  £  generalmente  noi  do- 
vemo onorare  quelli  che  sormontano  in  grazia,  o  in 
alcuna  bontà.  Però  che  noi  dobbiamo  credere,  che 
ciascuno  sia  migliore  di  noi,  o  in  lulto,  o  in  paite,  do- 
viamo noi  rendae  onore  convenevolmente.  Jla  Tuo- 
rao  che  serve  dee  servire  e  obbedire  volentieri,  che 
non  e  dubbio  che  colui  che  s^ofTera  a  servire  dimandi 


unto  sBTTiiia  aai 

ciò  che  Tuomo  gli  comandi,  che  non  acquisti  più  di 
grazia  che  quello  ch'egli  fa  appresso  il  comandamen- 
io.  Santo  Bernardo  disse,  che  la  ubbidienza  del  grave 
comadfdamento  è  più  laudabile,  che  la  contumace  non 
sardsbe  condanaevole.  Ma  a  leggiere  comandamento 
la  contumace  è  più  dannabile,  che  la  ubbidienza  noh 
è  laudabile.  Che  la  contumacia  dà  danno,  per  tanto  in 
ella  più  dannabile,  in  quanto  il  comandamento  fu  leg- 
giere, e  senta  nulla  gravezza.  Appresso  dee  Fuomo  ub» 
hidirè  semplicemente,  e  senza  noia,  e  senza  questióne. 
Santo  Bemai*do  dice,  quando  tu  hai  udito  il  coman- 
damento, non  £sir  nulla  dimanda.  Deuteronomio,  fa  ciò 
eh'  io  ti  comando,  e  non  fere  né  più  né  meno.  Ap-^ 
presso,  dee  l'uomo  servire  lietamente.  Gli  Apostoli 
dissero^  ama  chi  lietam^te  dona.  lesù  Sirach  dice,  iaf 
tuo  dono  sia  lieta  la  cera  e  in  tuo  visaggio.  Appresso 
dee  r  uomo  ubbidire  prestamente,  sì  come  santo  Pie- 
tro fece,  il  quale  subito  lasciò  sue  reti,  e  seguì  Gesù 
Cristo.  E  si  dee  ubbidire  ciascuno  umilmente,  e  giu- 
stamente, e  perseverando  in  tal  maniera  eh'  ellino 
acquistino  grazia,  e  che  la  mantenga  quando  l'ha  ac-^ 
quislata.  Che  assai  può  l' uomo  acquistare  amici,  ma 
poco  vagliono  se  V  uomo  non  gli  sa  guardare. 

Capitolo    LX. 

DeHa  concordia. 

Concordia  è  una  virtù  che  lega  in  uno  diritto  e  in 
un  altro  e  in  una  abitazione,  quelli  d'  una  città  e  di 
un  paese.  Platon  disse,  noi  non  semo  nati  pur  per 
noi  solamente,  ma  per  una  parte  di  nostro  paese,  e  di 


un^  altra  dei  nostri  amicL  E  dissono  una  manièra  di 
filosofi,  i  quali  furono  chiamati  Stoici:  tutte  cose  sono 
create  alPuso  delPuomo,  e  gli  uomini  P  uno  per  ca- 
gione déT  altroy  cioè  a  dire  che  V  uno  yale  aà^altio. 
Péro  dovemo  noi  seguire  natura,  •  mettere  maoii 
tutto  il  comune  profitto,  e  guardare  le  compagnie  d^- 
gli  nomini  per  servire,  cioè  donando,  e  pigliando  di 
suoi  mestieri,  e  di  sua  arte,  e  di  sua  riocfaesza,  e  do- 
nare, e  lasciare  agli  altri  di  suo  diritto  di  buono  aeiiL 
Che  donare  il  suo  alcuna  Tolta  non  è  sotomente  cor* 
tesia,  ma  può  essere  grande  profitto.  Lo  maeitro  dio^ 
che  pace  fia  molto  bene,  e  giKrra  la  guasta.  Sdnslìs 
dice,  per  concordia  crescono  le  piccole  eoae^  e  por 
discordia  distruggono  le  grandissime.  Saloaaone  éka, 
regno  che  è  partito  in  sé  medesimo  sarà  dnlmtlo. 

1 

Capitolo  LXL 

Della  mìierìcordia.  ' 

MiserìcordÌB  è  una  virtù,  per  cui  lo  cuore  è  BMMSa 
sulle  disaT  Tentare  e  sulle  poyotà  dei  tormentL  Te<- 
renzio  dice,  questa  TÌrtii  non  crede  che  nessuna  con 
umana  sia  strana  da  lei,  e  tiene  gH  altrui  dannaggi 
per  suoi  profìtti.  Virgilio  dice,  voglio  soccorrere  li  tor- 
menti. Seneca  disse,  chi  ha  misericordia  delle  mabtt** 
tie,  ha  misericordia  di'sè^  ma  le  opere  delle  altrui  cose 
sono  gravose. 


LURO  SETTIMO.  ac>5 

Capìtolo    LXII. 

Dì  due  maniere  di  torto. 

.  In  addietro  ha  dil^ìsato  il  conto  di  giustizia  e  di 
latte  sue  membra,  com^  ella  è  divisala  in  due  modi 
prÌDCÌ[)almente,  «noè  rendere,  e  liberalità.  £  diciascor 
no  ha  detto  suliìciaalemente^  secondo  che  ha  trovato 
per  autoiiià  di  savi  antichi.  Dunque  è  bene  consene»- 
Tole  di  dire  di  due  maniere  di  torto^  che  sono  contrae 
rie  a  giustizia ^  da  quali  si  conviene  guardare  molto, 
ciò  sono  crudeltà  e  negligenza.  Crudità  è  un  torto, 
che  dislealmente  fa  torto  a  colui  che  non  ha  dbservì- 
to.  Negligenza  è  quando  Fuomo  può  tornare  addietro^ 
e  vendicare  il  torto  £itto,  e  non  £15  e  ciò  è  contrario 
al  rendere.  Che  difendere,  e  non  difendere  sono  due 
contrarii^  cosi  crudeltà  è  contrario  a  liberalità.  Tullio 
dice,  diritto  fatto,  e  torto  fatto  sono  due  contrarii.  E 
ci  ha  tre  cose  perchè  T  uomo  fa  crudeltà,  cioè  paura^ 
avarizia,  e  volontà  di  dignità.  Per  paura  fa  Tuomo 
crudeltà,  che  1  crede  se  non  fa  male  ad  un  al  ro  ch'ali 
ne  dee  ricevere  da  lui.  Per  avarizia  fa  Tuomo  crudel- 
tà, secondo  che  dice  Sa' usi  io,  quando  egli  (à  torto  ad 
mio  per  avere  quello  ch^  egli  ha.  Per  volontà  di  di* 
gnità  fa  r  uomo  torto,  secondo  che  dice  Salomone, 
quand^  egli  sia  costretto  più  volte  mortale  di  diven- 
tare falso,  ch^  elli  portano  una  cosa  rinchiusa  nel  pet- 
to, e  un^  altra  nella  bocca.  Elli  non  sanno- iscegliere 
amistà,  o  odio,  per  la  cosa,  per  V  opera,  amano  più 
volte  che  la  volontà,  né  ingegno.  Tullio  dice,  malizia 
è  una  cosa,  la  quale  molte  volte  la  volontà  di  dignità 


'J04  II'  TttOftO. 

sopprende  Pardito,  e  lo  largo  noma  Ch^  ardimeoto  h 
r  uomo  più  presto  a  guerreggiare,  e  larghezza  li  dona 
grande  aiuto,  e  però  spesso  viene  di  loro  volontà  gran- 
de tormento.  Lucano  dice,  intra  due  re  d'  un  reame 
non  ha  ponto  di  fè,  che  nullo  che  sìa  in  podestà  non 
può  sofferire  compagnia  di  compiano.  Volontà  di  dign»- 
là  è  cosa  pazza  e  cieca,  ne  nulla  Ce,  ne  nulla  pietà  è  in 
quelli,  che  se  questa  gli  manca,  non  intendono  se  non 
a  vendere,  e  non  credono  che  sia  diritto  il  donare.  Lo 
maestro  dice,  il  torto  è  padre  e  nutritore  delle  malva- 
gie cose,  egli  riceve  i  malvagi  altresì  come  li  giusti,  e 
li  onesti  come  i  disonesti.  Crudeltà  è  divìsa  in  due 
maniere.  L^una  è  foi-za,  e  P altra  è  bugia.  Ffnrza  è  co* 
me  di  leone,  bugia  è  come  di  simia^  Tuna  e  F  altra  è 
pessima  cosa  e  inumana.  Ma  bugia  dee  essere  più  o- 
diata,  che  in  tutta  malvagità  non  ha  più  pestilente  cosa 
che  quelli,  che  quand^elli  istudiano  e  afibrzano  di  par 
rer  buoni.  Nullo  agguato  è  si  pericoloso  come  qn^ 
ch^è  coperto  sotto  similitudine  di  servigio.  Orazio  dis- 
se, guarda  che  non  inganni  lo  coraggio  che  si  mette 
sotto  la  simia.  Giù  venale  dice,  le  membra  di  colui  e 
le  dure  sue  braccia  mostrano  la  durezza  e  la  crudeltà 
del  cuore,  e  la  fronte  non  ha  nulla  fede  che  non  sia 
piena  di  vizii  tristi  e  rei.  Lo  maestro  dice,  guardati 
dalP  acqua  quieta,  e  nella  corrente  entra  sicuramente. 


•  LIBRO  SBTTIMO.  !lo5 

Capitolo  LXIU. 

Della  negligenza. 

Altresì  sono  tre  cose  in  negligenza,  cioè  in  non  di- 
fendere il  torto  Éitto.  Ch'egli  v'  è  alcuno  che  non  vuole 
avere  odio,  né  travaglio,  ne  spesa  per  difendere,  o  essi 
sono  »  occupati  nel  loro  bisogno,  o  sono  sì  pieni  d'o- 
dio che  essi  n'  abbandonano  quelli  che  dovrebbono 
aiutare  e  difendere.  Tullio  dice,  più  sicura  cosa  è  di 
essere  n^ligenle  verso  li  buoni  che  li  rei.  Lo  maestro 
dbse,  che  il  buono  iie  viene  più  volonteroso  a  ben  fa- 
re, ma  il  reo  ne  viene  più  in  grado*in  &r  male.  Lo 
maestro  disse  :  altresì  dico  io  che  più  sicura  cosa  è  es- 
sere negligente  inverso  il  ricco,  che  inverso  il  povero 
sciagurato.  Terenzio  si  disse,  che  tutti  quelli  che  in 
questo  mondo  hanno  avversità  e  sciagura,  e  non  san- 
no perchè,  istimano  che  ciò  che  V  nomo  fa,  tutto  sia 
per  loro  male,  sempre  li  pare  che  P  uomo  li  dispetti 
per  loro  impotenza.  Tullio  disse,  in  tutte  dislealtà  e 
grandi  differenze  se  il  torto  è  fatto  per  turbamento  è 
breve,  e  non  dura  un'  ora.  E  tutte  cose  che  avven- 
gono per  subito  movimento,  son  più  leggere  che  le 
pensate  dinanzi. 

Capitolo  LXIV. 

•  Della  giustizia. 

Giustizia  guarda  di  fare  troppo  e  poco,  e  di  servare 
lo  mezzo ^  secondo  che  dice  Seneca:  in  giustizia  ti  con- 
viene avere  misura,  però  che  tu  dei  essere  negligente 

Latini.  Fot.  lì,  i% 


2o6  IL  TBSOBO.  ^ 

in  goTeroare  nelle  grandi  cose  e  nelle  piccole.  Ti 
feccia  non  dee  essere  troppo  amile,  ne  troppo  cmdekl 
Tuo  reggimento  non  sia  tanlo  aspro,  <^e  odo  pwck 
lu  abbi  in  te  niente  d^ umilia.  Dunque  dét  ta  Wdgi 
V  ordinamento  di  giustizia  in  tale  maniera,  die 
dottrina  non  divegna  vile  per  troppa  lunililad^  nei 
dura  che  lu  ne  perdi  la  grazia  delle  geolL 

Capitolo  LXV. 

Tifi*  beni  die  tono  più  onesti. 

Lo  conto  ha  divisato  qua  addietro,  die  io  qudh 
scienza,  ch^  insegna  a  governare  se  e  altrui,  paote  e^ 
avere  bene,  che  V  uomo  vi  desidera  onestà.  Che  m 
uomo  è  più  onesto  che  Taltro.  E  egli  ha  mostrato  ia- 
fino  a  qui,  quali  beni  sono  onesti,  ciò  sono  le  qml- 
tro  virtudi,  e  li  loro  membri  brevemente  e  aperta- 
mente. Or  dirà  de^  beni  che  sono  più  onesti  dxs  fi 
altri.  Il  maestro  ha  detto  alPincominciamento,  che 
prudenza,  e  senno,  e  conoscenza  dee  sempre  andare 
innanzi  alP  opere,  e  dice  che  le  altre  tre  virtù  sono 
per  fare  le  opere.  Ma  egli  ci  lia  cose,  nelle  quali  le  opere 
debbono  vantaggiare  lo  senno.  Però  che  la  loro  è  pia 
onesta  ragione.  Come  se  alcuno  desiderante  di  sapere 
la  natura  delle  cose,  e  com^egli  vi  mette  in  ciò  sapere 
tutto  suo  senno,  on  altro  viene  e  portali  novelle  che 
sua  città  e  suo  paese  sono  in  grande  pericolo,  siegli  non 
r  aiuta,  e  quelli  ha  il  potere  d^  aiutarli.  Dunque  è  egli 
onesta  cosa  ch'egli  lasci  suo  studio,  e  vada  a  soccorrere 
sua  città.  In  questa  maniera  vedi  tu  che  prudenza  ha 
a  reggere  l'altre  virtù.  Intra  le  altre  virtù  dee  tempe- 


LIBRO  SETTIMO.  207 

raoza  essere  messa  innanzi  alle  altre  due;  che  per  lei 
governa  Tuomo  se  medesimo.  Ma  per  forza  e  per  giu- 
stizia governa  V  uomo  sua  famiglia  e  sua  città.  E  me- 
glio vale  alPuomo  avere  signoria  di  sé,  che  d^  altrui, 
secóndo  che  Orazio  disse,  più  grande  regno  governa  chi 
allaccia  sua  volontà,  che  chi  avesse  la  signoria  da  occi- 
dente infino  in  oriente,  e  da  mezzodì  infino  settentrio- 
ne. Seneca  dice,  se  tu  voli  sottomettere  innanzi  te  alla 
ragione,  e  con  essa  ti  governerai,  tb  sarai  governatore 
di  più  cose,  ma  nullo  è  buono  ad  altrui,  s*  egli  non  è 
buono  innanzi  a  se.  Tullio  dice,  Tnomo  non«dee  nulla 
fere  contra  a  temperanza  per  amore  delP  altra  virtù. 
Ma  alcune  cose  son  si  villane,  che  nullo  savio  le  &- 
rebbe,  aè  eziandio  per  guardare  suo  paese,  che  in  ri- 
eordare  sono  elleno  laide.  Intra  le  altre  due  vale  me- 
glio giustizia,  la  quale  ha  tre  nfficii.  Lo  primo  è  a  Dia 
Il  secondo  è  al  paese.  Il  terzo  è  a'  parenti  e  agli  al- 
tri. Appresso,  secondo  ciò  che  ^1  conto  divisò,  là  ove 
disse  delle  parti  di  giustizia,  intorno  alla  fine  di  libe- 
ralità. In  somma,  in  quella  virtù  ch^  è  chiamata  forza 
se  alcuna  è  di  sì  grande  cuore  che  gli  dispetti  la  co- 
mune gente,  cioè  crudeltà  e  ferità,  s' egli  non  facesse 
giustizia  a  diritto.  Dunque  è  giustizia  più  onesta  che 
forza.  Qui  tace  il  conto  a  parlare  di  cose  oneste,  di* 
ehe  egli  ha  molto  parlato,  e  tornerà  a  sua  parola,  a 
dire  de'  beni  del  coipo,  e  del  dono  di  ventura. 


3o8  IL  TSSOBO. 

Capitolo  LXTL 

■ 

De^  beni  del  corpo  quanti  fono. 

Li  beni  del  corpo  sono  sei,  cioè  beltà,  nobfltii^  U^ 
gerezza,  forza,  grandezza  e  sanità  ^  questi  sono  li  beni 
da  parte  del  corpo,  de^  qoali  V  uno  n^  ha  più,  e  P  al- 
tro meno.  E  tali  sono  che  molto  sì  sforzano  e  si  dilet- 
tano a  queste  cose,.  V  uno  più  dell^  altro  ;  ma  ispesso 
ne  può  addivenire  più  male  che  bene,  die  di  male  è 
più  onta  che  onore;  che  per  diletto  di  loro  egli  refiH 
tano  e  cacciano  le  virtudi.  Però  dice  Giovenale^  die 
beltà  non  si  accosta  guari  bene  con  castità,  e  che 
pregio  di  beltà  non  diletta  li  casti  ;  ma  egli  dice,  che 
<pello  è  casto,  che  non  fa  richiesto,  Danqae  pare 
l)ene  che  beltà  di  corpo  noa  è  amica  di  castità.  E  qiie^ 
lo  che  si  diletta  ìd  nobiltà  di  grande  lignaggio,  e  st 
vanta  d^  alta  antichitade  di  antecessori,  s^  egli  non  fii 
le  buone  opere,  quel  vanto  li  torna  più  a  vitupero 
che  ad  onore.  Che  quando  Catellioa  faceva  la  congiu- 
ra di  Roma  privatamente,  e  non  adoperava  se  non 
male,  ed  egli  disse  dinanzi  a' senatori  la  bontà  di  suo 
padre,  e  Faltezza  di  suo  lignaggio,  e  quello  die  fecero 
alla  comunità  di  Roma,  certo  egli  diceva  più  sua  on- 
ta che  suo  onore.  Ed  in  ciò  dioe  Giovenale,  che  tanto 
r  uomo  è  più  biasimato  di  mal  fare,  come  ^  gente 
crede  che  sia  di  più  gi*ande  altezza.  .Seneca  dice,  la 
vita  delli  antecessori  è  come  lumiera  a  quelli  che  vi- 
vono, appresso  tale  loro  male  non  sofferà  che  sia  ri- 
posto. Lo  maestro  dice,  tuo  vizio  è  tanto  più  sozzo 
quanto  tu  che'l  fai  sei  grande.  Ma  della  diritta  nobiU 


LlkAO  SETTIMO.  aOQ 

tà  Orazio  disse,  che  V  è  virtù  solamente.  E  però  Àles-^ 
Sandro  dice,  che  n(d)ilta  non  è  altro  se  non  quello  che 
adorna  il  cuore  in  buono  amore.  Dunque  in  colui  non 
è  nulla  nobiltade  che  usa  yita  disonesta.  E  però  Gio- 
Tenale  dice,  io  amo  meglio,  che  tu  gii  figliuolo  di  Ter* 
sites  e  tu  somigli  Ettor,  che  se  fossi  figliuolo  dì  Et- 
tor,  e  tu  somigliassi  Tersttes,  che  fu  più  cattiTO  uomo 
del  mondo.  Lo  maestro  dice,  però  io  dico  che  ^1  mi-^- 
glior  firuUo  che  in  nobiltà  di  antecessori  sia,  si  è  quel- 
lo che  Tullio  disse,  le  grandissime  reditadi,  che^fi-» 
gliuoli  hanno  de'  loro  padri;  che  sopra  tutti  patrimoni 
si  è  gloria  di  yirtude,  o  d*  opere  ch^  elli  hanno  fatte. 
Or  T*  ho  io  detto,  come  beltà  e  gentilezza  sono  con- 
trarie ad  opere  di  virtude.  Ora  vi  dirò  d' altezza  dì 
corpo,  di  cui  Boezio  dice,  voi  non  sormontate  lo  leo- 
£mte  per  gran  corpo,  né  i  Uni  per  forza,  né  lo  tigro 
per  gagliardia.  La  scurità  della  morte  mostrerà  che 
SODO  lì  corpi  degli  uomini,  e  come  sono  disparevoli, 

Capitolo  LXVil, 

Del  bene  della  ventara. 

Li  beni  di  ventura  sono  tre,  ricchezza,  signoria  e 
gloria.  E  veramente  sono  elli  beni  di  ventura,  eh'  elli 
vanno  e  vegnono  d' ora  in  ora,  e  non  hanno  punto  di 
fermezza;  che  ventura  non  è  ragionevole  in  suo  cor- 
so, né  non  é  per  diritto,  né  per  ragione,  si  com'  ella 
mostra  sempre  di  molti  uomini  che  sono  nulla  di  sen- 
no e  di  valore,  e  montano  in  grandissime  ricchezze, 
ed  in  grandi  dignitadi  di  signore,  od  in  grande  lodo  e 
pregio,  ed  un  altro  che  sarà  il  più  valente  uomo  del 


3 1 0  IL  TESORO. 

mondo,  e  non  potrà  avere  un  solo  [ùocìolo  bene  di 
venluL'a.  Però  dicono  più  pei-sune,  che  Tentura  è  to- 
cola  e  cieca,  e  ch^ell'a  sempre  diviene  errando^  e  noo 
vedente^  ma  noi  ne  doviamo  tenere  quello  che^  Santi 
ce  ne  mostrano  per  la  scrittura,  che  Dio  abbassa  li  pos- 
Kenti,  ed  alza  li  umili.  E  tuttavia  vi  dira  il  maestro  al- 
cuna cosa,  tanto  come  conviene  a  boa  uomo. 

Capitolo  LXVIIl. 
DelU  ricchez/j. 

Ricchezza  è  avere  li  reditaggi,  e  li  servi,  e  pecunia. 
Li  reditaggi  sono  contadi,  editici,  e  terre,  e  belli  gua- 
dagni. Di  ciò  e'  insegna  Tullio  :  guarda  se  tu  edifichi, 
che  lu  non  fucci  troppo  grande  spesa,  che  Puomo  vi 
dee  guardare  lo  mezzo.  Che  Orazio  dice,  chi  ama  il 
mezzo  dirittamente,  non  faccia  troppo  vile  magioiie, 
riè  troppo  grande.  Tullio  dice,  lo  signore  non  dee  es^- 
sere  onorato  per  la  magione,  ma  la  magione  per  loL 
Seneca  disse,  nulla  magione  è  troppo  picciola  che  ri- 
ceve assai  amici.  Che  grande  magione  ove  nulla  noo 
entra,  è  onta  al  signore.  Medesimamente,  se  più  per- 
sone v'entravano  al  tempo  delP altro  signore,  villa* 
na  cosa  è  quando  li  viandanti  dicono,  ahi  magione, 
come  tu  hai  malamente  cambiato  signore  !  Però  Ora- 
zio disse,  non  ti  caglia  di  grande  magione,  che  in  pio 
ciola  magione  puoi  tu  tenere  leale  vita.  Lucano  dice 
di  Giulio  Cesare,  eh'  egli  non  volle  mangiare  se  non 
per  vivere,  e  per  sua  fame,  né  magione  se  non  per  lo 
freddo.  Ma  Fuomo  dee  lodare  grande  vasellamento 
ili  picciola  magione.  Non  cessa  mica  la  febbre^  seooo- 


LORO  8BTTIHO.  211 

do  che  Orazio  dice,  se  tu  se' si  ricco  che  tu  avessi  tut- 
ti i  danari  del  mondo,  e  sii  di  nobile  lignaggio,  nulla  ti 
vale  alla  fine,  più  che  se  tu  fossi  di  bassa  gente,  po^ 
vero,  e  senza  magione,  che  tu  morrai,  e  noi  può  con- 
traddire nessuno  sacrifìcio.  Tutti  venemo  alla  morte  o 
per  tempo,  o  tardL  Già  magione,  né  terra,  ne  mone- 
te d'oro  trarranno  la  febbre  del  corpo,  che  quando  e- 
gli  è  malato,  quegli  eh'  è  sollecito  di  guadagnare,  ha 
paura  di  perdere,  altresì  della  vita,  magione,  o  suo  a- 
vere,  come  le  tavole  dipinte  aiutano  colui  e'  ha  male 
negli  occhi.  La  nera  morte  si  gitta  egualmente  alla  ca- 
sa del  povero  ed  a  quella  del  re. 

CapitoIjO  LXIK. 

Della  seconda  materia  di  riochezca. 

Poi  che  avete  udito  di  reditaggi,  ora  potrete  udii*e 
della  seconda  maniera  di  ricchezza,  cioè  di  servi,  e  ciò 
che  li  servi  debbono  fare.  Primieramente  il  signore 
dee  fare  al  servo  ciò  eh'  egli  è  mestiere,  e  poi  li  co- 
manda il  servigio.  Seneca  dice,  il  signore  è  ingannato 
s'egli  crede  che'l  servigio  discenda  in  tutto  l'uomo,  ma 
la  miglior  parte  non  è  sottoposta.  Li  corpi  sono  te- 
nuti al  signore,  ma  il  pensiero  è  franco,  che  non  può 
essere  tenuto  in  carcere  ov'  egli  è  rinchiuso,  eh'  egli 
non  vada  a  sua  volontade.  Lo  maestro  disse,  tu  di^i  vì- 
vere dunque  con  esso  colui  eh'  è  più  basso  di  te,  così 
come  tu  vorresti  che  quegli  eh' è  piò  alto  vivesse  con 
teco.  £  tutte  le  volte  che  ti  sovverrà  come  tu  hai  di 
[X)dere  sopra  tutti  sergenti,  sovvegnati  che  altro  lai 
podere  ha  tuo  signore  sopra  te.  L' ufiicio  del  sei^nte 


2  13  li.  TESORO. 

è  conformare  sé  parimente  alla  maniera  del  signorey 
secondo  che  Orazio  dice,  li  tristi  odiano  li  lieti,  e  K 
lieti  li  tristi,  li  aitanti  li  grayi,  e  li  grayi  li  aitanti,  e  M 
bevitori  odiano  quelli  che  non  Togliono  bere.  Non  ai 
dunque  orgoglioso,  che  li  smisurati  si  misarano  molta 
volte,  e  gPimpazienti  prendono  simigliansa  di  folfis. 
Quelli  che  crederà  ciò  che  tu  confiderai,  a  soa  mt- 
lìiei'u  tUoderà  ed  amerà  più.  Orazio  dice,  lo  servino 
«lei  possente  è  dolce  a  quelli  che  non  P  hanno  mn 
provato,  quelli  che  P  hanno  provato  lo  credono.  Però 
guarda  quando  tu  hai  nave  in  alcun  mare,  che  ta  k 
governi  in  tal  maniera,  che  se  ^1  vento  cambia,  e'  non 
la  porti  in  pericoloso  luogo.  Lo  secondo  ufficio  è  di 
lodare  il  buono  signore,  e  guardarsi  dal  reo.  Orazio 
disse,  guarda  cui  tu  lodi,  e  che  V  altrui  peccato  non  ti 
faccia  onta.  Noi  semo  alcuna  volta  ingannati,  quando 
noi  lodiamo  colui  che  non  è  degno  ^  lascia  difendere 
dunque  colui,  che  sa  che  la  commette  ;  che  per  awen» 
tura  quando  egli  vole  alcuno  male  fere,  egli  si  fida  in 
tua  difesa.  Ma  la  tua  magione  è  a  pericolo  se  Xo.  non 
la  soccorri  quando  tu  vedi  ardere  quella  del  tuo  vi- 
rino. Lo  terzo  ufficio  è  di  frenare  avarizia  e  lussuria. 
Di  che  Tullio  disse,  non  ti  smuova  volontà,  e  non  de- 
siderare la  bella  donna  mischina,  ed  uno  fante.  Lo 
quarto  ufficio  è  cessare  orgoglio,  e  di  ciò  Tullio  dice, 
non  lodare  tue  opere,  e  non  biasimare  le  altrui  ;  sii 
soave  in  servire  tuo  possente  amico.  Lo  quinto  ufficio 
è,  che  non  si  lamenti  niente.  Oraiio  dice,  quelli  che 
dinanzi  al  suo  signore  si  tace  di  sua  povertà,  ne  por- 
ta più  che  quelli  che  dimanda  sempi'e.  Egli  ci  ha  di^ 
ferenza  intra  prendere  onestamente,  e  ricevere.  Che 


LIBRO  SETTnO.  2 1 5 

sc'l  corbo  potesse  tacere  quand'egli  mangia,  ^i  man- 
gerebbe più,  e  con  meno  noia  ed  invidia.  Lo  sesto 
ufficio  è,  compire  ciò  che  suo  signore  comanda,  e  eh  V 
gli  non  abbia  alcuna  indugia.  Locano  dice,  il  bisogno 
del  9ervente.non  è  grave  a  lui^  ma  al  signore,  e  Io  ser- 
vente si  dee  guardare  di  non  essere  lingoato.  Giove-* 
naie  dice,  la  lingua  è  la  maggior  parte  del  malvagio 
servo.  Seneca  dice:  ma  egli  dee  tale  signore  sc^liere 
eh*  egli  sia  degno  che  V  uomo  lo  serva,  che  per  la  no- 
biltà del  signore  sono  in  nobiltà  li  servigiali  e  ser* 
gentL 

Capitolo  LXX. 

Della  terza  parte  di  rìcchesxa. 

Ora  ha  detto  il  conto  delle  due  parti  di  ricchezza  ^ 
ora  dirà  della  terza,  cioè  di  pecunia.  In  pecunia  sono 
contanti  danan,  e  sono  ornamenti,  e  tutti  mobili.  Di  che 
dice  Tullio,  nulla  cosa  è  di  si  picciol  cuore  come  è  a- 
mare  ricchezze.  Seneca  dice,  però  ch'egli  è  grande  che 
usa  d' oro  come  di  vasellamento  di  terra,  né  di  quel- 
li non  è  minore  chi  usa  vaseilamenti  di  terra  come 
d' oro.  Giovenale  dice,  nulla  è  più  alta  cosa,  né  più 
onesta  che  dispregiare  pecunia  a  chi  non  ha,  e  d'  es- 
sere largo  quegli  che  Tha.  Di  troppo  desiderare  que- 
ste cose  ne  vielan  sei  speciali  cagioni.  La  prima  è,  pe- 
rò che  la  vita  d'uomo  è  corta.  Orazio  dice,  la  bre- 
vità della  vita  ci  mostra  che  noi  non  doviamo  comin- 
ciare cosa  di  grande  speranza.  Tu  non  sai  se  tu  vive- 
rai  domattina^  non  pensare  dunque  di  domane,  che 
Dio  non  vole  che  noi  sappbmo  quello  ch'è  addiveni- 
re, ma  ordina  le  cose  preseotL  Che  Ipiegli  dee  essere 


3l4  IL  TESORO. 

lieto,  che  puote  dire,  io  8oa  bene  vÌToto  an  giorno, 
che  ^1  di  d^  oggi  è  chiaro,  e  quello  di  domane  sarà  sco- 
ro. Ch;  nulla  cosa  è  bene  operata  da  tutte  partL  Se» 
neca  dice,  in  ciò  semo  noi  tutti  ingannati,  che  noi  ooa 
pensiamo  alla  morte,  che  gran  partita  n^  è  già  pasnti. 
Ed  ella  tiene  tutto  ciò  ch^è  passalo  di  nostro  tempo, 
però  pensati  tuttavia  che  tu  morrai  immantinente. 
Morte  ne  portò  il  nobile  Ettore,  quando  vivea  gk>* 
riosamente,  e  vecchiezza  menima  la  nominanza  del 
grande  Catone.  La  seconda  è  che  volontà  di  rìccho- 
za  abbatte  la  virtù.  Orazio  dice,  quegli  perde  suaaii>> 
ma  e  la  virtude,  che  sempre  si  studia  di  crescer  suo 
castello;  egli  discade  per  avere  gioia  e  letizia,  e  non 
viene  tanto  a  ricchi  uomini,  né  quelli  non  visse  male 
che  si  morì  mangiandosi.  Giovenale  dice,  nulb  di- 
manda quello  ch^  egli  ha,  ma  quello  che  pensa  avere. 
Orazio  disse,  né  lignaggio,  ne  virtude  non  è  pregiata 
senza  ricchezza.  Nulla  cosa  non  è  assai,  che  tu  vedi 
che  ciascuno  ha  tanto  di  se  com^  egli  ha  danari.  Nulla 
più  dura  cosa  è  in  povertìi,  che  ciò  che  Tuomo  se  ne 
gabba.  Orazio  disse,  ricchezza  dona  beltà  e  gentilezza, 
però  che  virtù  e  fuma  ed  onore  ed  uomini  ubbidisco* 
no  a  ricchezza.  E  chi  Favrà  sarà  nubile,  leale,  savio, 
forte  e  re  ;  ma  ciò  lo  toma  incontra,  che  pecunia  por* 
ta  vizio,  e  mala  fama  in  luogo  di  virtude.  La  terza  co- 
sa è,  che^  danari  fanno  Puomo  vizioso,  secondo  che 
dice  Giovenale,  ricchezza  mena  primamente  a  malva- 
gia morte.^  e  riempie  il  mondo  d^  oltraggio.  Che  quelli 
che  ebbero  primamente  le  ricchezze  sono  le  parenle* 
le,  maritaggi,  e  lignaggi,  e  magirmi,  donde  poi  sono  av- 
venuti diversi  péticoli  al  popolo  ed  a' paesi.  Ola  Ora- 


LIBRO  SETTIMO.  2  I  5 

zio  dke  apertamente,  che  nobiltà  non  addiviene  per 
avere,  là  ove  disse,  sia  si  che  ta  vadi  orgogliosamente* 
per  tao  avere,  ventura  non  muta  gentilezza,  che  se  un 
vasello  di  terra  fosse  tutto  coperto  d^  oro,  non  rima- 
ne però  diVgli  è  pure  di  terra.  La  quarta  cosa  è,  che 
nullo  conquisto  sia  a  volontade.  Orazio  dice,  ricchez- 
ze crescono  ìngrossamente,  e  sempre  manca  alcuna 
cosa  5  cosi  come  l'avere  cresce  la  ventura,  e  la  volon- 
tà che  molto  chiede,  molto  li  falla;  quegli  è  ben  ricco 
che  si  tiene  appagato,  e  quegli  è  povero  che  aspetta 
grande  ricchezza  ;  quegli  non  è  povero  a  cui  soddisfa 
ciò  ch'egli  ha  a  sua  vita.  Se  tu  se' ben  calzato  e  ben  ve- 
stito, hai  saltate  tutte  le  ricchezze,  che  un  re  non  ti 
puote  nulla  accrescere.  La  quinta  cosa  è,  la  paura  che 
l'avere  ti  reca.  Giovenale  disse,  se  addiviene  che  tu 
vséà  di  notte,  tu  averai  paura  di  ladroni,  e  se  tu  vai 
alla  luna,  e  un  picciolo  ramo  si  muova,  si  averai  pau- 
ra; ma  quegli  che  non  porta  nulla,  va  cantando  innan- 
zi alli  ladroni.  La  sesta  cosa  si  è,  che  pecunia  vote  che 
l' uomo  sia  suo  servo.  Orazio  dice,  la  pecynia  o  ella 
serve,  o  ella  è  servita,  ma  egli  è  più  degna  cosa  ch'el- 
la seguisca  la  corda  del  suo  signore,  ch'ella  tiri  lui.  E 
però  Orazio  disse,  io  non  voglio  sottomettere  me  alle 
mie  cose,  ma  le  mie  cose  a  me:  imperò  non  è  da  cre- 
dere, che  quegli  che  molte  cose  possiede  sia  bene  ven- 
turato,  ma  quegli  che  usa  saviamente  quelle  che  Dio 
gli  ha  donato,  e  quegli  che  bene  sofferà  sua  povertà, 
che  più  scusa  vizii  che  la  morte;  e  ricca  cosa  ed  one- 
sta è  lieta  povertà  ;  e  doloroso  usare  è  grande  pover- 
tà. Seneca  dice,  quelli  non  è  povero  che  è  lieto  ;  e 
quelli  che  bene  s'accorda  a  sua  povertade  è  rieco;  e 


a  1 6  n<  TESORO. 

qaegli  non  è  povero  che  ha  poco,  ma  quegli  die  pìn 
•  Yole.  Seneca  dice,  se  ta  voli  arricchire,  tu  non  dèi  em* 
scere  tuo  castello,  ma  menovare  tua  Totonta.  La  eat- 
ta  via  d^  arricchire  è  dispregiar  le  ricchene,  che  Ti»* 
mo  può  bene  tatto  spendere,  ma  non  lotto  airare.  E 
però  Tullio  disse,  lo  povero  fu  più  ricco  che  ^  grande 
Alessandro,  che  più  vale  qaello  ch^  egli  non  Tole  ri- 
cevere, che  qaello  che  Alessandro  potea  donare;  che 
{>oco  valea  in  sua  boce  od  in  saa  grandezza,  puì  che 
egli  non  avea  se  Hon  V  altrui,  e  non  cootaYa  qodo 
ch^egli  avea  acquistato,  ma  quello  che  rìmanefa  ■ 
conquistare.  E  se  alcuno  dimanda  quale  è  la  misora 
di  ricchezza  ?  io  dirò,  che  la  prima  è  ciò  che  neces- 
sità rirhiede.  La  seconda  è,  che  tu  t^appaghi  di  qaello 
che  ti  basta,  che  ciò  che  natura  richiede  è  bene,  se  ta 
non  le  dai  oltraggio.  Boezio  dice,  natura  si  tiene  ip* 
pagata  di  poca  cosa.  Ma  ora  tace  il  conto  di  parlare 
di  ricchezza,  e  tornerà  a  dire  del  secondo  bene  di 
ventura,  cioè  di  signoria. 

Capitolo  LXXI. 

Deir  ufficio  della  signoria. 

Signorìa  è  uno  de^  beni  di  ventura,  tutto  che  sieno 
signori  di  più  maniere,  sopra  le  altre,  e  la  più  degna  è 
quella  del  re,  e^di  governare  citta  e  gente.  Questo  è 
il  più  nobile  mestiere  che  sia  al  mondo,  ed  intomo  a 
ciò  è  la  scienza  pratica,  ch^è  chiamata  politica,  si  co- 
me il  maestro  divisa  qua  a  dietro,  al  secondo  della  fi- 
losofia. E  di  questa  scienza  non  dirà  ora  il  conto  più, 
se  non  quello  che  a  moralità  se  ne  appartiene.  Ma 


LIBEO  SETTIMO.  3 1  7 

innanzi  dirà  il  majestro  quello  che  si  appartiene  a  si- 
gnoria  ed  a  goYernaniento  di  città,  secondo  che  ri- 
chiede V  uso  di  suo  paese,  e  la  legge  di  Roma.  E  se- 
condo il  comandamento  di  moralità  e  di  viitù,  P  uo- 
mo dee  temperare  il  desiderio  della  signoria.  Lucano 
dice,  V  ordine  di  destinazione  è  invidioso,  ch^  egli  è 
divietato  alle  tre  cose,  ch^elle  non  durano  lungamenr 
te^  egli  è  grave  cadere  pesante  colpo,  le  grandi  co^ 
discaggiono  per  loro  medesime,  e  ciò  è  il  termine  infi- 
DO  che  Dio  lascia  crescere  le  letizie.  Ed  egli  dona  leg-. 
gemente,  le  grandi  cose,  ma  appena  le  guarentisce. 
Seneca  dice,  tu  troverai  più  leggermente  ventura  che 
tu  non  otterrai.  Orazio  dice,  che  '1  grande  arbore  è 
spesso  crollato  dal  vento,  e  le  alte  torri  caggiono  più 
pesantemente,  e  la  folgore  cade  sopra  alte  montagne. 
Altresì  fa  ventura  che  spesso  cambia  e  viene  in  dolo- 
re, eùi  dì*  alto  basso  quand^  ella  abbatte,  e  mi  con- 
viene lasciare  ciò  ch'ella  m^ha  dato.  Seneca  disse,  ah 
ventura,  tu  non  se'durabilmente  buona  !  Appresso,  dee 
r  uomo  attemperare  li  desiderii  di  signoria,  però  che 
discuopre  fanciullezza  e  puerizia,  ch'egli  è  grande  co- 
sa ubbidire  alla  signoria  di  quelli  eh'  elli  mostrano 
d' essere  buoni,  per  volontà  d' avere  quella  signoria. 
Egli  addiviene  più  volte  che  alcuna  volta  sono  umili, 
ed  altre  volte  orgogliosi,  e  ciò  è  secondo  ventura,  e 
non  secondo  cuore.  Terenzio  dice,  egli  è  così  di  noi, 
che  noi  siamo  grandi  e  piccioli  secondo  che  natur^  ci 
porta.  L' ufficio  di  signoria  è,  eh'  egli  tragga  il  popolo 
al  loro  prode.  Tullio  disse,  e'  non  è  cosa  che  tanto  fec- 
cia a  tenere  signoria,  che  d'essere  amato,  né  nulla  più 
straniera  che  d'  esser  odiato.  Salustio  dice,  più  sicura 

La  fini,  f^of.  IT.  \  3 


a  1 8  IL  TESORO. 

cosa  è  a  comaDdare  a  coloro  che  TOgliono  obbidire, 
che  a  coloro  che  ne  sono  costretti.  Seneca  dice,  K  sot- 
tomessi odiano  colui  ch^  ellì  temono^  e  ciascuno  di 
quelli  desidera  che  quegli  perisca.  Gioirenale  disse,  pau- 
ra non  guarda  lungamente  suo  signore.  Tullio  dice, 
che  pochi  tiranni  muoiono,  che  non  sieno  uccisi^  mi 
beiievoglienza  è  buona  guardatrìce  di  suo  signore,  e 
pirpetualmente  il  fa  amare  dopo  la  sua  morte.  Qnel- 
li  che  vole  esser  temuto  convien  che  lema  colui,  ds 
cui  vole  essei'  temuto.  Boezio  disse,  non  credere  che' 
quegli  sia  possente  che  sempre  mena-  gnaidie  iotar- 
no  a  s^,  ch^  egli  teme  colui,  a  cui  egli  fa  paura.  Tal- 
Uo  disse,  che  uno  che  avea  nome  Dionisio  temea  tan* 
to  il  rasoio  delli  barbieri,  perchè  li  levava  i  suoi  pelL 
£  Alessandro  tiranno  siciliano  quando  volea  giacere 
con  sua  femina,  egli  mandava  H  suoi  sergenti  innanzi 
per  cercare  che  in  suo  letto  ed  in  suoi  drappi  non  a- 
Tesse  coltello'  riposto^  ciò  era  malvagità,  a  fidarsi  più 
in  uno  sergente,  che  nella  femina  sua  ^  ne  per  questa 
sospezione  non  fu  egli  tradito  per  sua  femina,  ma  da' 
suoi  sergenti.  Sovvegna  al  signore,  elisegli  fu  senza  di- 
gnità. Seneca  disse,  che  quelli  che  son  montati  a  quel- 
lo ch^elli  non  speravano,  lor  viene  spesso  malvagie 
spei^nze.  Terenzio  disse,  noi  compiremo  tosto,  quan- 
do noi  avemo  lo  desiderio.  Orazio  disse,  nulla  cura  è 
sì  grande  air  uomo  come  lunga  speranza.  Qui  tace  il 
conio  a  parlare  di  signoria,  infìno  che  ne  dirà  più  a- 
pertamente,  eh'  egh  vole  prima  dire  del  terzo  bene  di 
ventura,  cioè  gloria. 


libro  sbttiho.  31 9 

Capitolo  LXXII. 

Della  nominanza,  e  di  sua  materia. 

Gloria  è  nominanza  che  corre  per  molte  terre  d'ai- 
cnoa  persona  di  grande  affare  e  di  sapere  bene  sua 
arte.  Questa  nominanza  desidera  ciascano^  però  che 
senza  lei  saa  yirtù  non  sarebbe  conosciuta,  secondo  che 
Orazio  dice,  virlude  celata  non  è  divisata  da  pigrizia 
nascosta^  e  quelli  che  trattano  di  grandi  cose  testimu- 
Diano,  che  gloria  dona  al  prode  uomo  una  seconda 
Tita,  ciò  è  a  dire,  che  dopo  la  sua  morte,  la  nominan- 
za che  rimane  di  sue  buone  opere  mostra  eh'  egli  sia 
ancora  in  vita.  Orazio  disse,  la  gloria  disfa,  che  quel 
Don  sia  morto,  che  è  degno  di  lode.  Ma  contro  a  glo- 
ria egli  medesimo  Orazio  disse,  quando  tu  sarai  bene 
conosciuto  alla  piazza  di  Àgrippa,  e  ndla  yia  Àppia, 
anche  ti  converrà  andare  là,  ove  andò  Numa  e  Anco, 
ciò  è  a  dire,  quando  tua  nominanza  sarà  andata  qua 
e  là;  anche  ti  converrà  andare  a  loro,  cioè  alla  morte. 
Boezio  dice,  morte  dispelta  tutte  glorie,  e  inviluppa 
gli  alti  e  bassi,  e  pareggiali  tutti.  Ma  noi  chiediamo  glo- 
ria  dismisuratamente,  che  noi  vogliamo  più  tosto  pa- 
rere buoni,  che  essere;  e  più  tosto  essere  rei,  che  pa- 
rere. Però  disse  Orazio,  falso  onore  diletta,  e  nomi- 
Danza  bugiarda  dispayenta.Lo  frutto  di  gloria  è  spesso 
orgoglio,  di  che  Boezio  disse,  in  molle  migliaia  di  uo- 
mini non  è  se  non  uno  udire  d'orecchi;  ma  in  gloria 
non  v'ha  punto  diTrutto,  se  egli  non.  v'ha  altro  bene 
con  essa  ;  secondo  che  Giovenale  dice,  tutto  che  gloriéT 
sia  grande,  non  vale  nuUa  se  ella  è  sola.  £ciò  disse  Tul- 


aaO  IL  TESORO. 

lio,  chi  vuole  avere  gloria  feccia  che  sìa  tale  come  egli 
vuole  polvere.  Che  quelli  che  crede  guadagnare  gloria 
per  false  dimostranze,  o  per  false  parole,  o  per  fìilse 
sembianze  di  sapere,  è  villanameote  iogannato^  però 
che  la  vera  gloria  si  radica  e  forma  ^  ma  la  falsa  cade 
tosto  come  il  fiore,  però  che  nulla  cosa  falsa  può  du- 
rare lungamente.  Lo  maestro  disse,  al  mondo  dod  è 
più  né  sì  falsa  cosa  come  voce,  mar  menzogna  ha  tor- 
to pie. 

Capitolo  LXXIII. 
Dei  beni  di  fentura. 

Voi  avete  udito  in  questa  parte  quello  che^l  conto 
ha  divisato  de^  beni  di  ventura,  e  in  addietro  ha  di- 
visato de^  beni  del  corpo,  e  Tuno  e  l'altro  sodo  pn>- 
filtubili  della  vita  dell'uomo.  Ma,  si  come  egli  ha  di- 
visato altre  volte,  Puno  è  più  utile  che  l'altro.  Che 
se  tu  vuoli  accompagnare  li  beni  del  corpo  a  quelli  di 
ventura,  io  dico  che  sanità  è  meglio  che  ricchezza.  Dal- 
l'altra  parte  dico,  che  ricchezza  è  meglio  che  fortezza 
di  corpo.  E  se  voli  agguagliare  i  beni  del  corpo  intra 
loro,  io  dico  che  buona  sanità  è  migliore  che  grande 
fortezza,  e  che  ardimento.  E  se  voli  comparare  li  beni 
di  ventura  intra  loro,  io  dico  che  gloria  è  m^lio  che 
ricchezza^  e  rendita  di  città  è  meglio  che  rendite  di 
terre. 


LIBRO  SETTinO.  22  1 

CaUtolo  LXXIV. 

Dell'*  onestà  e  delP  utile. 

Appresso  ciò  cheM  maestro  ha  ammaestrato  aperta-* 
mente  quali  beni  sorro  onesti,  e  quali  utili,  er quali  so- 
no più  onest^  e  qnali  sono  più  utili  Tuno  che  l'altro, 
anche  rimane  la  quinta  questione  intra  onestà  e  utile,> 
alla  quale  Tuomo  si  dee  tenere  b  al P  una,  o  alP  altra. 
Che  se  il  chiedere  è  utile  e  donare  è  onesto,  egli  vie- 
ne spesso  che  nostro  cuore  è  in  doltanza,  quale  egli 
farà.  Di  che  Giovenale  disse,  forza  e  possanza  fanno 
persone  mal  fere;  ma  tanto  come  il  cielo  si  divisa  dàlia 
terra,' e  '1  fuoco  dalP  acqua,  tanto  si  divisa  lo  utile  dalla 
dirittura.  Che  tutta  la  forza  del  signore  cade  immanti- 
nente che  egli  comincia  a  perdere  giustizia  e  virtude^ 
e  signorìe  non  vi  si  accordano  guari  bene.  Ma  in  que- 
sta maniera  Tullio  dice,  che  queste  tre  cose,  bene, 
onestà  e.  utile,  sono  qui  in  mezzo  loro  :  che  tutto  quel- 
lo che  è  buono,  è  tenuto  utile;  e  tutto  quello  che  è 
onesto^  è  tenuto  buono;  e  di  ciò  si  sicura  egli,  che 
t«tte  cose  oneste  sono  utili.  Tieni  dunque  per  cer- 
tO)  e  non  dottare  che  onestà  è  utile.  Che  nulla  cosa 
non  è  ntile  s'ella  non  è  onesta;  né  non  ci  è  nulla  dif- 
ferenza nella  genèralitade  di  queste  due  cose,  ma  in 
kiro  proprietà.  Ragione  comanda  questo.  L' uomo  è 
ciò  che  è  animale  in  generalità,  non  in  conoscenza. 
Che  aid  essere  animale  non  è  mestière  altra  cosa,  se 
non  tanto  eh'  egli  è  sostanza  morale,  e  .ha  anima  e 
sentimento;  ma  acciò  che  egli  sia  uomo,  conviene  che 
egli  conosca  ragione  e  sia  mortale.  Dunque  è  la  dif- 


aia  n.  tesoro. 

ferenza  nella  jproprìetà  solamente.  Cosi  onesta  e  utile 
sono  in  genei'dlità  una  cosa^  ma  acciò  che  alcuna  cosa 
sia  utile,  conviene  clie  egli  abbia  fratto.  E  anzi  che  la 
sìa  onesta,  conviene  ch^ella  ci  attragga  per  sua  dignità^ 
ciò  è  dunque  una  medesima  cosa^  perchè  egli  se  ne 
discordi,  thè  nulla  cosa  è  utile  che  discordi*  da  TÌrtà.- 
Perciò  pare  egli  manifestamente,  che  non  ha  ponto  di 
contrario  intra  utile  e  onesto^  ma  però  che  le  persone 
credono  che  sia  utile  ad  usare  le  cose  temporali,  e  che 
egli  ne  lasci  affare  conlra  ad  onestà,  però  è  proposta 
la  questione  tra  futile  e  T  onesto.  Tullio  disse^  egli 
pare  alF  uomo  che  utile  sia  a  crescere  lo  uomo  suo  prò' 
del  danno  d^  un  altro,  e  che  Puuo  toglia  air  altro.  Ma 
ciò  è  più  contra  a  diritto  di  natura  che  non  è  povertà, 
o  dolore,  o  morte.  Ch^egli  caccia  in  prima  lo  comune 
vivere  degli  uomini.  Che  se  per  guadagnare  noi.  aTemó 
volontà  di  sforzare  e  di  spogliare  altrui,  e* conviene 
che  la  compagnia  delPuomo,  che  è  cosa  secondo  na- 
tura, sia  dispartita.  Ragione  comanda  che  se.  alcuno 
membro  crede  meglio  valere,  scegli  traesse  a  sé  la  sa^ 
nità  del  prossimano  membix),  e^ converrebbe  che  tutto 
il  corpo  indebilisse  e  morisse.  Altresì  è  del  bene  d^cb 
mana  compagnia.  Che  altresì  come  natura  vole  che 
ciascuno  richieda  ciò  che  gli  è  mestiero  per  suo  mi* 
gliore  che  per  altrui^  altresì  vuole  natura  che.  noi  fSb- 
crcsciamo  le  nostre  ricchezze  per  spogliare  le  altrui. 
E  colui  che  aggrava  altrui  per  conquistare  alcun  bene, 
non  crede  fare  contra  natura.  Ovvero  egli  è  ad  avviso 
che  r uomo. si  dee  guardare  più  da  povertà,  che  da 
£ire  torto  altrui^  ma  scegli  crede  fare  contra  natura, 
quello  non  è  umano.  E  se  alcuno  mi  domandasse:  se 


LIBRO  SETTIMO.  225 

alcuno  savio  muore  da  fame,  dee  egli  togliere  ad  altrui 
sue  vivande,  che  niente  non  vale?  io  dico  che  no, 
perche  la  vita  non  è  più  profìltabile  che  la  volontà^ 
per  quello  mi  guardo  di  fare  torto  altrui  per  mio  prol 
Quando  V  uomo  perde  la  vita,  lo  corpo  è  -corrotto  dal- 
la morte 5  ma  se  lascio  quella  volontà,  io  cader-ò  ne} 
vizio  del  CHore,  che  è  più  grave  a  quello  del  corpo. 
Altresì  li  beni  del  cuore  sono  migliprì  che  quelli  del 
corpo,  che  meglio  vale  virtù  che  vita,  e  non  conviene 
al  buon  uomo  dire  bugia,  uè  meno  per  guadagno.  Tu 
non  dei  dunque  tanto  apprezzare  nulla  cosa,  né  tanto 
volere  tuo  pro\  che  tu  perda  nome  di  buono  uomo, 
perchè  quello  guadagno  non  ti  può  valere  tanto  quaur 
to  tu  perdi,  per  perdere  il  nome  di  buono  uomo,  e 
amenuire  tua  ^e  e  giustizia.  Perchè  dunque  voglio- 
no gli  uomini  le  grandi  cose,  e  non  vogliono  le  grandi 
pene  della  le^?  Lasciamo  dunque  '  questi  pensieri, 
e  guardiamo  se  le  cose  che  noi  vogliamo  sono  one- 
ste, perchè  dove  solamente  il  pensiero  è  contra  virtù, 
chiaro  è  che  la  opera  è  viziosa^  La  sola  volontà  del 
male  pensato  soffre  tal  pena,. come  se. Patto  fosse  com- 
pito. E  in  mal  pensiero  non  dee  nessuno  a^edere, 
che'l  suo  pensiero  sia  lungamente  celato,  pècheM  possa 
celare  a  Dio,  sì  che  nessuno  dee  ^e  male  per  avari- 
zia, né  per  volontà,  ne  per  altre  cose.  '  Tullio  disse, 
nulla  cosa  eh'  è  corrotta  di  viziij  non  può  essere  pro- 
fittabile; gli  buoni  uomini  devono  cercare  cose  one- 
ste, e  non  disoneste,  che  al  prode  uomo  non  conviene 
che  'l  Ciccia  peccato.  Lo  maestro  dice,  «e  tu  ti  astieni 
di  mal  fare,  acciò  ch^  la  gente  non  sappia,  tu  non  ami 
ki  bontà,  ma  tu  temi  la  pena,  e  in  quello  tu  costrìngi 


22.4  "'  TESORO. 

la  natura.  Ciiè  Orazio  dice,  li  malvagi  fasciano  di  pec- 
care p(T  paura  della  pena,  e  i  ))uoni  per  amore  del- 
la virtù.  E  perchè  detto  è  apertamente  qui  addietro, 
che  sodamente  la  cosa  onesta  è  profittabile^  perciò  la 
cosa  che  porta  sembianza  di  profìtto  è  compecata  a 
quella  che  ha  sembianza  di  oneslà.  Certo  la  sem- 
bianza del  profitto  dee  perire,  e  quella  della  onesti 
dee  valere,  per  ciò  che  la  oneslà  è  virtù  di  cuore  e 
d^  anima,  che  ti  rimana  sempre  appresso,  ma  bene  di 
ventura  è  vano,  senza  alcuna  fermezza.  Per  ciò  dice  Io 
Apostolo,  buona  grazia  è  stabilire  lo  cuore.  lesù  Siradi 
dice,  se  tu  sei  ricco,  tu  non  sarai  senza  peccato.  Sene- 
ca dice,  grave  cosa  è  non  essere  corrotto  per  la  md- 
tiludine  di  ricchezza.  Lo  maestro  dice,  la  gente  del 
nostro  tempo  non  ha  alcuna  cura  di  sua  bontà,  ma 
rbe  le.  sue  cose  siano  buone.  Seneca  dice,  li  uomioi 
han  nulle  più  vili  cose  che  le  sue.  lesùfiirach  dic^  ric- 
chezza- è  buona  a  chi  non  ha  mala  intenzione.  Salo** 
mono  dice,  il  folle  desidera  ogni  giórno  ciò  che  gli  è 
dannevole.  Seneca  dice,  non  è  buono  di  vivere,  ma 
l)(»ne  vivere.  Tullio  dice,  credo  che  colui  sia  buono 
c:h'  è  giusto  e  onesto,  perchè  virtude  sono  li  beni  no- 
s'ri  propriamente  5  ma  gli  heùì  divcptura  sono  varia- 
bili. Tullio  dice,  tutte  le  altre  cose  sono  mutabili^  ma 
la  '^irlù  è  ficcata  nel  profondo  del  nostro  cuore.  £ 
cosi. è  da  credere  che  le. cose  umane  sono  minori  che 
le  virludi.  Senera  disse,  e'  non-ò  tuo  ciò  che  ventura  ti 
dà:  certo  è  di  perire 5  non  è  sì  follo  cosa  come  di  lodare 
se  dell' aHrni  oose;  e  nitUo  è  sì  laido  pensamento,  co-- 
me  rimirare  ciò  (rhc  incontinenlo  se  ne  può  mutare, 
che  freno  d'oro  non  fa  migliore  cavallo.  Abacuch  dis-' 


IJBHO  SETTIMO.  225 

se,  ismamto  è  colui  che  amasse  ciò  che  noti  è  suo. 
Seneca  disse!  ciò  che  tu  desidererai  a  ciò  dirizza  tuo 
pensare,  che  tu  sia  appagato  di  te,  e  di  ciò  che  di  te 
nasre.  Che  quando  P  uomo  procaccia  delle  cose  di 
fuori,  iumiantinente'conifficia  ad  essere  sottomesso  al- 
la Tentura.  Che  Seneca  disse,  égH  è  meno  che  servo 
chi  créde  al  sei^^o.  Ch^  'i*  savio  non  si  tiene  appagato 
di  vivere,  ma  del  bene  vivere.  Boezio  disse  :  ove  è 
stretta  e  cattiva  rìcchezzia  quando  le  pia  genti  non-  la 
possono  avere  tra  tutti,  la  non  viene  ad  uno  senza  po- 
vertà d'un  altro.  lesù  Sirach  dice,  fondamento  è  di 
boon  onore  non  dilettarsi  se  non  in  cose  divine.  Gre- 
gorio disse,  e' non  ha  tanto  diletto  in  vizii  come  in  vir- 
tù. Boezio  dice,  l'onore  di  virtù  non  fu  acquistato  per 
le  dignità  ;  ma  le  dignità  addivengono  per  le  virtudi. 
Che  virtude  ha  sua  propria  dignità.  E  se  alcuno  mi 
dimandasse,  perch^Dio  volse  ch^e'beni  temporali  fos- 
sero comnni  abbuoni  e  alli  rei?  io  dico  che  Agostino 
ifese,  die  Dio  lo  volse  però  che'  beni,  che  i  malvagi 
hanno  spesso,  non  fossero  troppo  desiderati  ;  e  che  li 
mali,  die  addivegnono  abbuoni,  non  fossero  troppo  in 
8isp€ftto»  Però  è  grandissimo  senno  di  pregiare  poco 
il  bene  e  il  male,  che  sono  comnni  abbuoni  e  a 'rei. 
Chiederò  lo  bene  eh'  è  propriamente  dei  malvagi?  A- 
gostino  dice,  però  dona  Iddio  beltà  alli  rei,  acciò  che' 
bnoni  non  credano  che  sia  troppo  gran  bene.  Ora 
lasda  il  conto  di  parlare  dei  beni  dell'  anima  e  del 
corpo,  e  di  quelli  di  ventura,  e  della  compaVazione  del- 
Puno  e  dell'altro,  di  ch'egli  ha  molto  parlato,  é  tor- 
nerà air  altrp  conto. 


i3' 


t2jG  IL  TESORO. 

Gapitoix)  LXXV. 

Della  prudenza  e  della  giustizia. 

Lo  conto  divisa  qua  addiftro,  la  ove  comincia  a  dn 
re  di  viltà  primieramente,  che  prudenza,  e 'giustizia, 
e  forza  sono  virtudi  attive,  per  dirizzare  lo  amore 
dell^  uomo,  e  per  adoperare  quello  che  a  onesta  rita 
appaiiiene  ^  di  ciò  ha  egli  detto  assai  diligentemente. 
Dic^  egli,  che  le  sono  tre  altre  virtudi  contemplative^ 
cioè  fede,  e  speranza,  e  carità.  Però  è  egli  bene  ragio- 
ne che  egli  ne  dica  alcuna  cosa.  L^una  vita  è  attiva, 
e  r  altra  è  contemplativa.  La  vita  attiva  ^,  innocenza 
di  buone  opere,  secondo  quello  che  ^1  maestro  ha  det- 
to inGno  a  qui  nel  conto  delle  quattro  virtù.  Lai^oo- 
templativa  è  li  pensieri  delle  celestiali  cose.  La  vita 
attiva  usa  bene  le  mondane  cose;  fk  contemplativa  rn 
fiuta  loro,  e  dilettasi  in  Dio  solamente.  Che  dii  bene 
si  prova  nella  vita  attiva  può  bene  montare  poi  alla 
contemplativa.  Ma  quelli  che  anche  desidera  la  gloria 
del  mondo  e  la  cai^nale  volontà,  è  divietato  dalla  vita 
contemplativa;  però  che  gli  conviene  tanto  dimorare 
alla  civile  eh*  egli  sia  purgato.  La  dee  fuggire  tutti  i 
vizii  per  usanza  di  buone  opere,  sì  eh* egli  abbia  l'in- 
tenzione e  '1  pensiero  puro  e  netto  quando  egli  verrà 
a  contemplare  Iddio;  che  così  come  quelli  che  è  nella 
vita  attiva  si  i*itrae  dagli  eterni  desideri!,  così  quelli 
(  h*  è  nella  vita  contemplativa  si  ritrae  di  tutte  cose 
attive.  E  però  vedi  tu  che  la  vita  attiva  sormonta  la 
nionduna  ;  e  la  contemplativa  sormonta  alP  attiva.  E 
sì  come  V  aquila  fìcea  li  suoi  oechi  conlra  li  raggi  del 


LIBRO  SETTIMO.  2^7 

• 

sole^  e  non  gliene  ficca  se  non  per  suo  pasto,  così  li  san- 
ti uomini  si  tornano  alcuna  volta  alla  vita  attiva,  però 
ch^  è  di  bisogno  agli  uomini.  Ma  questi  due  vizii  sono 
malvagi  tra  essi.  Che  se  V  uomo  si  disvia  dalla  con- 
templativa alcuna  volta^  e  poi  vole  rivenire  e  rinno- 
vellare  sua  diritta  intenzione^  egli. è  bene  ricevuto. 
Ma  scegli  si  diparte  d<illa  vita  attiva,  immantinente  è 
egli  sorpreso  indivisamente  da\izii.  Li  due  occhi  del- 
V  uomo  significano  questi  due  vizii,  e  però  quando  Id- 
dio comandò  che  quando  il  destro  occhio  si  scanda- 
lizzasse fosse  cavato  e  gittato  fuori,  si  disse  egli  della 
vita  contemplativa,  s^  ella  corresse  in  errore,'  però  che 
meglio  è  a  campare  P  occhio  della  contemplativa,  e 
guardare  quello  della  attiva,  sì  ch^^li  abbia  a  sue  ope- 
re la  vita  durabile,  innanzi  che  andare  al  fuoco  d^  in- 
ferno per  errore  della  contemplativa.   Dio  abbassa 
molte  volte  molti  uomini  nelle  carnali  cose  per  sua 
grazia.  Quelli  avanza  nella  grandezza  di  contempla- 
zione, e  molti  altri  cessa  egli  di  contemplazione,  per 
diritta  salienza,  e  egli  abbandona  le  terrene  cose. 

Capitolo    LXXYI. 

Ancora  di  ciò  medesimo. 

• 

Li  santi  uomini  sono  quelli  che  questo  mondo  rifiu- 
tano, e  lasciano  il  secolo,  in  tal  manient  eh'  elli  non  si 
dilettano  se  non  in  opere  di  Dio.  E  tanto  quanto  eglino 
si  disceverano  dalla  conversazione  del  secolo,  tanto  con- 
templano eglino  la  poteoza  di  Dio,  e  la  veduta  di  là 
[lér  sé  medesimo  dentro.  Ma  le  perverse  opere  e  mal- 
va^e  sono  sì  maniteste,  che  quelli  che  desiderano  le 


228  IL  TBSORO 

paciQche  opere,  friggono  loro  amore,  e  lorooompagoìe  si 
dipartono  da^  malvagi,  però  che  don  sono  ioviliippati 
e  di  loro  malvagitò.  Ma  più  yolte  sono  che  tutto  che 
non  si  pensino  partire  da  loro  compagnie  corporair 
mente,  tuttavia  se  ne  dipartono  spedalmente  con  IHn- 
tenzione.  E  se  la  compagnia  è  comune,  lo  cuore  e 
V  opere  sono  divise.  E  tutto  che  Dio  difenda  la  vita 
de'  santi  uomini,  e  le  carnali  cose,  appena  sarà  alcuno 
che  nel  diletto  del  secolo-perseveri  senza  tìzio.  Però 
è  egli  bene  che  l'uomo  si  parta  corporalmente  del 
mondo,  -e  meglio  è  a  separarne  la  Tolontà,  ma  quelli 
che  ne  parte  lo  corpo  e  la  volontà  è  tutto  compiuto. 

Capitolo  LXXVH, 
Anche  di  fimili  oomandamemi. 

.  Altri  comandamenti  sono  dati  a' buoni  che  dimo*- 
rano  alla  vita  comune  del  secolo,  ed  altri  sono  dati 
a  quelli  che  del  tutto  lo  rifiutano.  Che  a  Quelli  che 
sono  al  secolo  è  comandato  generalmente  ch'elli  fec- 
ciano  bene  in  tutte  loro  cose,  ed  ancora  fenno  elli 
più.  Che  acciò  eh'  elli  sieno  più  perfetti  non  basta 
pure  eh'  elli  rinegano  le  sue  cose^  ma  gli  conviene  ri^ 
negare  sé  medesimo.  E  rinegare  sé  medesimo  non  é 
altro  che  rifiutare  sua  volontà,  in  tal  maniera  che 
quegli  che  è  superbo  divegna  umile,  e  quegli  che  è 
pieno  d'ira  divegna  mansueto.  Che  chi  rifiuta  sue  cose, 
e  non  rifiuta  sua  volontà,  egli  non  è  discepolo  di  Dio. 
Però  .disse,  chi  vole  essere  mio  discepolc»|  e  venire 
dopo  me,  rineghi  sé  medesimo.  Di  ciò  tace  ora  lo  cen- 


LIBAO  SBTTIMO.  .^^9 

to^  e  litoroà  a  dii*e  di  tre  virtù  contemplative,  e  prima 

dirà  di  fede. 

Capitolo  LXXVIII. 

DeHe  tre  TÌrtù  contempIatiTe,  e  primo  della  fede. 

Nullo  uomo  può  venire  alla  beatitudine,  se  non  per 
fede.  E  quegli  è  dirittamente  beato,  che  crede  dirit- 
tamente, e  guarda  ]a  diritta  fede.  Ed  allora  è  bene  Id- 
dio lodato  e  glorificato,  quando  egli  è  bene  creduto 
veramente;  ed  allora  puote  egli  essere  bene  richiesto 
«  pregato.  Senza  fede  non  può  nullo  ucnno  piacere  a 
Dio,  che  tutto  quello  che  non  è  per  fede  è  peccato.  Sì 
come  V  uomo  che  ha  d' arbitrio  e  di  lìbera  signoria 
per  sua  volontà  si  diparte  da  Dio,  così  ritorna  egli  * 
per  diritta  credenza  di  suo  cuore.  Ma  Dio  guarda  la 
tede  per  mezzo  il  cuore,  laonde  quelli  non  si  può  scu- 
sare, i  quali  mostrano  simiglianTa  di  virtù,  e4ìanno  in 
cuore  malizie  di  grande  errore.  E  sì  eome  la  fede  che 
è  nella  bocca,  e  non  è  creduta  dentro  dal  cuore,  non 
&  prò'  nullo,  così  la  fede  che  è  nel  cuore,  non  vale 
nulla,  se  non  si  dimostra  per  la  bocca.  E  quella  fede 
h  senza  opera.  E  però  sono  più  quantitàdi  d^  uomini 
che  sono  cristiani  solamente  per  fede^ma  nelle  opere 
si  discordano  molto  dalla  cristiana  verìtade. 

Capitolo  LXXDC. 
Della  carità. 

Già  sia  che  alcuni  paiano  b«>ni  di  fede  ed  opere, 
io  dico  eh'  elli  non  lianno  punto  di  virtù,  snelli  sono 
vuoti  di  carità  ed  amore  agli  uomini.  Di  ciò  dissero 


35o.  IL  TESORO. 

li  Apostoli,  se  io  dessi  mio  corpo  ad  ardere,  non  mi 
varrebbe  niente  se  io  non  ho  carità  ^  e  senza  amore  di 
carità  non  pu*)  venire  alcuno  a  beatitudine,  tutto  che 
egli  abbia  diritta  credenza.  Però  che  la  virtù  della  ca- 
rità è  sì  tragrande,  che  nullo  guiderdone  si  puote  ap- 
pareggiare  a  lei.  Ella  è  donna  e  reina'  di  tutte  virtudi, 
ed  è  legame  delle  altre  perfezioni,  ch^ella  lega  le  altre 
virtudi.  Carità  è  amare  Domenedip  e'I  prossimo; Fa- 
more  di  Dio  è  simile  alla  morte.  Salomone  disse,aiiiore 
è  altresì  forte  come  la  morte,  perchè  così  come  la  mor- 
te diparte  V  anima  dal  corpo,  così  V  amore  di  Dio  di- 
parte Tuomo  dair amore  del  mondo,  e  dall'amore  car- 
nale. Quelli  non  ama  Dio  che  si  parte  da'suoi  couq^n- 
*  damenti.  Altresì  non  ama  lo  re  quelli  che  gitta  sue 
leggi.  Quegli  ama  e  guarda  la  carità  che  ama  il  suo 
prossimo.  Messer  lesù  Cristo  è  Iddio  ed  uomo^  ^luo* 
que  chi  «dia  Puomo  non  ama  del  tutto  Cristo.  Ma  la 
conscienza  del  buono  uomo  è  di  non  odiare  le  persone, 
ma  di  odiare  la  loro  colpa. 

Capitolo  LXXX. 

Della  speranza. 

Quelli  che  non  fiaano  di  mal  fare  per  niente  han* 
no  ispei'anza  nella  pietà  di  Dio,  e  nella  suaT  misericor- 
dia richiedere.  Ma  s' egli  sì  cessa  dalle  male  opei^,  e- 
gli  lo  potrà  bene  pregare.  Alloi-a  dee  avere  V  uomo 
speranza  in  Dio  eh'  egli  gli  perdoni  suo  peccato  ;  ma 
Puomo  dee  molto  teiaere,  che  per  isperanza  che  Dio 
promette  di  suo  perdonamento,  egli  non  sia  perseve- 
ralo nel  peccato.  Alti*esì  non  si  dee  Tnooffo  dispera- 


LlimC?  SETTIMO.  25 1 

r»',  [wrch^  i  tormenti  sieno  istabiliti  secondo  il  pecca- 
lo ;  ma  debbe  schifare  l'  uno  pericolo  e  l' altro,  in  tal 
maniera  che  si  guardi  di  mal  fare,  e  ch^egli  abbia  spe- 
ranza alla  misericordia  di  Dio.  Li  giusti  sono  sempre 
in  paura  ed  in  isperanza  della  perpetuale  allegrezza, 
un^  altra  volta  dottano  per  paura  del  fuoco  etemale. 

Capitolo    LXXXL 

Del  peccato  e  delli  tì/.ìL 

• 

Qua  addietro  è  mostrato  che  sono  virtudi  attive  e 
contemplative.  Ma  delle  contemplative  brevemente, 
pén>  che  richiede  grande  solennità.  Ora  è  convenevo- 
le a  dire  un  poco  del  peccato  e  de'viziij  che  se  l'uo- 
naò  conoscesse  suo  nascinjento,'  e  loro  nutrimento,  e- 
gli  se  ne  potrebbe  meglio  guardare.  Però  io  dico,  che 
peccalo  non  è  altro  che  passare  divina  l^ge,  e  disub- 
bidire al  celestiale  comandamento,  che  peccato  non 
sarebbe  se  '1  ^ivietamento  non  fosse.  Se  peccato  non 
fosse  non  sarebbe  virtude,  non  sarebbe  malizia,  e  non 
potrebbe*  essere  se  alcuna  semenza  di  lui  non  fosse. 
Noi  non  udiamo  li  celestiali  comandamenti  con  li  o- 
recchi  del  corpo,  ma  per  l' opinione  del  bene  e  del 
male  viene  in  noi.  Glie  noi  sapemo  naturalmente,  che 
noi  dovemo  fare  bene,  e  schifare  lo  male.  Dunque  di- 
co io  bene  che  '1  comandamento  di  Dio  non  ci  è  scrit- 
to a  noi  con  lettere  d'inchiostro,  ma  egli  è  fitto  den- 
tro al  nostro  cuore  per  divino  spirito.  Però  puote  cia- 
scuno intendere  che  F  opinione  dell'  uomo  diviene 
divina  legge.  E  però  addiviene,  che  immantinente  che 
V  uomo  [ìeosA  di  far  male,  suffire  egli  la  pena  e  '1  tor- 


l33  IL  TESdKo. 

mento  dì  sua  cooscienza;  che  tutte  cose  può  P  uomo 
fuggire,  ma  suo  cuore  no,  però  die  nullo  uomo  puff 
sicorare  sé  dì  sé  medesimo^  die  la  mali»  delh  con- 
sdenza  non  lo  abbandona  maL  E  tatto  die  alcimo  die 
male  faccia  scampì  dd  giadido  degli  oomim,  egli  non 
scamperà  del  giudìcìo  di  sua  oonsdenza^  che  a  Ini  od- 
io può  celare  quello  ditegli  oda  agli  altri.  Eg^  sa  bene 
che  egli  &  male,  e  cade  sopra  lai  doppb  sentenia,  Ta- 
na in  questo  secolo  <klb  sua  consdenza,  e  rdtra  dalh 
eternale  pena.  E  però  io  dico,  die  la  intensione  dei- 
r  opere  è  lucerna  ddP  oomo^  Che  se  la  intendone 
deir  opera  è  buona,  certo  è  F  opera  boona,  ifta  le  o- 
pere  ddle  malvagie  intenzioni  non  possono  essere  se 
non  rie.  Già  sìa  dò  ch^dle  paiano  buone,  però  che 
ciascuno  è  giudicato  buono  o  reo^  secondo  che  è  soa 
intenzione^  quelli  che  fenno  buone  opere  o  rie,  loro 
intendimenti  sono  avocolati  e  accecali  per  quelle  ope- 
re donde  elli  possono  essere  allaminali.  Dunque  eiiH 
senno  feccia  lo  bene  per  buona  intenzione,  che  altrì- 
menti  sarebbe  egli  perduto.  Da  poi  chel  conto  ha  det- 
to come  r  uomo  si  dee  guardare  che  sua  «opinione 
non  sia  corretta,  e  che  abbia  buona  inteniicMie,  si  tuo- 
le  dire  quante  sono  le  opere  di  peccato. 

■  • 

Capitolo  LXXXII. 

De*  peccati  criminali. 

Li  peccati  sono  sette,  superbia,  invidia,  ira,  lussu- 
ria, voluttà,  miscredente,  avarizia.  Anche  sono  molti 
{litri  peccati  che  nascono  tutti  di  questi  sette,  che  io 
vi  ho  nominati.  Ma  di  questi  peccati  è  superbia  ma- 


LIBRO  SETTIMO.  233 

dre  e  radice,  che  tulli  gli  ha  ingenerati.  È  non  per 
tanto  ciascitno  dì  questi  sette  ingenera  altri  peccati. 
Che  di  superbia  viene  orgoglio,  e  dispetto,  e  vanta- 
mento,  ipocrisia,  contenzione  e  discordia,  perdurabi- 
lità  e  contumacia.  Da  invidia  nasce  letizia  del  .male  del 
prossimo,  e  tristizia  del  suo  bene,  maldicente,  ed  ab- 
bassare Io  bene.  Da  ira  si  muove  tenzone,  e  grosso 
cuore,  e  con  pianto,  gi^da,  disdegno,  biasimo,  torto, 
non  so£ferenza^  crudeltà,  follia,  malignità  e  mutabilità. 
Da  lussuria  viene  cecità  di  cuore,  e  non  fenuezza,  a> 
more  di  sé  medesimo,  ira  di  Dio,  volontà  di  questo 
secolo,  e  dispetto  delP  altrui  fornicazione,  adulterio  e 
peccato  contra  natura.  Di  volontà  nascono  cattive  air 
legrezze,  molte  parole,  vanti  di  parole,  fomicaria,  prò» 
digalità,  dismisuranza  disonesta,  svergognamento.  Di 
miscredenza  nasce  malizia,  picciol  cuore,  disperanza, 
cattività,  conoscenza,  non  provedente  compagno,  e  di* 
letto  del  male.  DalP  avarizia  MÌene  tradimento,  ialsità, 
pergiuri,  forza,  duro  cuore,  somma  usQra,  ladroneccio, 
menzogne,  rapina,  ingiustizie  e  discadimento.  Questi 
peccati  e  molti  altri  sono  ingenerati  per  superbia  prin^ 
cipalmente.E  si  come  la  virtude  mantiene  umana  com- 
pagnia e  buona  pace  e  buono  amore,  e  mena  T  ani- 
ma a  salvamento,  così  li  peccati  corrompono  la  com- 
pagnia dell'  uomo,  e  l' anima  (conducono  all'  inferno. 
Che  orgoglio  ingenera  invidia  5  ed  invidia  menzogna  5 
menzogna  discadimento  5  e  disradimento  ira  5  ira  ma- 
lavoglienza^  malavoglienza  nimislà^  nimistà  battaglia, 
e  battaglia  dirompe  la  legge,  e  guaita  la  città. 


t236  AIIirOTAZtOHt 

fatti  una  parte  del  libro  seltìpio  del  Tesoro,  tradotto 
con  notabili  varianti  dalla  lezione  adottata  dalla  Cru- 
sca. E  perchè  si  vegga  di  che  guisa  sia  la  confiisioiie 
accennala,  darò  la  dosa*izione  di  queste  sette  pagine. 
Dulie  parole  qualunque  huomo  (pag.  $7)  fino  a  eh 
i>c  dei  andare  e  infino  dove  (pag.  69)  abbiamo  tutto 
il  capitolo  IX.  Vedi  pag.  107  e  segg.  della  nostra  edi- 
zione. Dalle  parole  la  magnanimità  la  quale  (pag.59)) 
fino  a  r.iprove\>o1e  srìta  (\à.\  abbiamo  il  cdp.  XXXIO. 
Vedi  nella  nostra  edizione  pag.  i54-i55.  Dalle  paro- 
le: se  tuame  la  continenu»  (p.  69)  fino  a:  che  ti  sia- 
no insegnate  (  pag.  6a  )  retrocediamo  al  cap.  XXXIy 
di  cui  troviamo  dal  prii^cipio  fino  a  <|aasi  il  termine. 
Vedi  nella  nostra  e<lizione  da  pag.  lao  a  i53,  Un.  i. 
Dalle  parole  :  la  giustizia  si  è  congiugnimerUo  (p.  fia) 
fino  a:  elli  le  vince  (pag.  6 5) -abbiamo  «I  principio dd 
.capitolo  XLIII^  pag.  171  della  nostra  edizione  fino  a 
due  terzi  della  pagina  175.  Poi  torniamo  indietro  al 
capitolo  XLII,  colle  parole  :  la  magnanimità  se  e^ 
■  la  esce  (pag.  63)  fino:  o  vuoli  secato  (pag.  64)* 
Vedi  la  nostra  edizione  pag.  1 70-171.  Per  ultimo  ah- 
biapnp  il  capitolo  LXIV,  tolta  una  riga  e  mezzo 
del  principio  3  e  ciò  .dalle  parole:  JVe  la  giusHùa 
(pag.  64)  fino  a:  perde  la  grafia  della  gente  (idem). 
Vedi  pag.  2o5,  206  della  nostra  edizione.  Voglionsi 
aggiugnere  a  ciò  alcuni  periodetti  disseminati  fra  i 
"  brani  da  me  descritti,  che  potrebbero  forse  appartene- 
re ossi  pure  al  Tesoro^  ma  che  sfuggirono  al  mio  esa- 
me. Giudichisi  da  ciò  che  governo  facessero  gli  editon 
ed  il  tempo  di  questo  libro!  E  se  nulla  meritano  que- 
ste mie  diligenze,  mi  giovino  a  scusare  i  moltissimi  al- 


AL  LIBRO  SETTIMO.  HÒy 

tri  luoghi  ne' quali  ho  dovuto  lasciare  la  lezione  spro- 
positata come  in  antico.  Sempre  che  nelle  annotazioni 
di  questo  libro  nominerò  Pedizione  lionese,  s'intenda 
il  contenuto  delle  sette  pagine  e  mezzo  qui  sopra  de- 
scritte. Così  avessi  potuto  esaminare  con  più  agio  i 
passi  tutti  degli  autori  allegati  tutto  lungo  il  libro  !  Ma 
forse  che  io  mandi  ad  effetto  questo  mio  desiderio  altra 
volta.' 

Gap.  I,  pag.  98.  £  già  addwiene. 

La  edizione  1474?  ci^viene. 

Gap.  IH,  pag.  99.  Cosa  che  noi  alUewi  per  sua 
dignità^ 

L'Alberti  ha  nel  suo  Dizionario,  aZZiei'arfi  per  venir 
su  crescendo. 

Gap.  Ili,  pag.  99*  Nullo  reo  può  soffrire  di  lodare 
le  migliori  cose. 

La  Grusca  spiega  la  voce  soffrire  (§111)  per  con^ 
fenereiy  astenere^  potrebbesi  aggìugnere  quest' esem- 
pio- .        :  . 

Gap.  Ili,  pag.  1 00.  Li  hrandoni  che  natura  n'  ha 

donatL 

'Non  so  che  significhi  propriamente  qui  una  tal  voce, 
che  senza  divei^tà  alcuna  si  hgge  anche  nell'altre  due 
edizioni  i5a8,  1774*  La  Crusca  ha  orandone  sempli- 
cemente per  branoy  brandello. 

Gap.  Ili,  pag.  102.  Che  la  Jan  stabilire. 

La  edizione  i474!i  eh' ella  Ji  stabilire. 

Gap.  IV,  pag.  104.  Ch'ella  è  niagion  di  Dio. 

Maggiore  leggono,  con  evidente  scorrezione,  le  tre 
lezioni.  E  quando  non  bastasse  il  lume  della  critica, 
abbiamo  anche  un  qualche  indizio  deli'erronàtà  della 


258  AmfOTAnoHi 

parola  nella  più  antica  slampa,  che  .da  magiare  cqd 
un  solo  g. 

Gap.  y,  pag.  io5.  Non  dee  essere  donna  sopn  Is 
ragione. 

La  citata  unitamente  air  altre  due:  rum  dee  esten 
sopra  donna  la  ragione.  Parvemi  vedere  V  errore  né- 
la  trasposizione,  e  corressi. 

Gap.  T,  pag.  io5.  //  ndo  misfatto  non  sia  safsàs 
dagli  altri. 

La  citata  e  le  due  antecedenti  hanno  ^ofe  in  (am- 
bio di  saputo. 

Gap.  Yi,  pag.  io6.  Della  virtù  memoriale. 

Erroneamente  sono  concordi  k  tre  edizioni  nd  dare 
invece  ifirtù  contemplativa^  £icendo  per  giunta  plo- 
rale il  singolare. 

Gap.  VII,  pag.  io8.  Contra  dò  apparef^ùa  h 
temperanti. 

La  citata  e  Taltre  due  hanno  appareeehiata  la  iemr 
peranza.  Ma  forse  che  in  l^iogo  d^  altro  il  traduttore 
scrivesse  apparecchiati,  e  il  copista  secondo  il  solilo 
apparecchiate^  se  non  volea  dire  apparecchiati. 

Gap.  VII9  pag.  10%,  Ne  trae  seco  posate  le  avversità, 

Gosi  la  citata^  quella  del  secolo  XY  ha  strassero ^ 
e  dove  più  sotto  la  prima  legge  che  ci  coi^rta,  P  al- 
tra: che  ciò  conforta. 

Gap.  IX,  pag.  no.  Cose  che  tu  hai. 

La  edizione  lionese  ha  :  quella  cosa  che  tu  hai  a 
te  nolla  serbare  come  s' ella  fosse  d^  cdtrui^  ma  per 
te  come  tua. 

Gap.  IX,  pag.  I  IO.  Ma  guarda  te,  ec. 

La  lionese  :  acconciati. 


JLh  LIBRO  SETTIMO.  230 

Gap.  IX,  pag.  no.  JS'  lusinghieri  checuoprono 
loro  mantellamenti, 

Mantellamenii  è  voce  strana,  data  per  altro  con- 
cordemente da  tutte  tre  l'edizioni.  Io  crederei  che  in 
cambio  di  mantellamenti  si  avesse  a  leggere  mali  in- 
tendimentiy  o  simile.  E  mr  conferma  in  questa  opinio- 
ne  il  trovare  questo  passo  nella  edizione  lionese  mu- 
tato come  segue:  lo  lusinghew>le  uomo  cuopre  la  rea 
volontà  colV  allegra  Jaccia, 

Gap. IX,  pag.  I  IO.  Nullo  prode  uomo  non  dice,  ec. 

La  edizione  lionese:  nullo  prode  uomo  dice:  io 
non  pensai  questo,  anzi  aspetta  e  non  dubita. 

Gap.  IX,  pag.  I  IO.  Simiglianti  a  sogni. 

La  edisione  lionese  in  luogo  di  sogni  ha  suoni.  E 
noto  questa  variante  per  sempre  più  dimostrare  come 
non  sia  da  starsene  alla  cieca  a  veruna  edizione  escki-i 
sivamente. 

Gap.  IX,  pag.  III.  Tua  parola  non  sia  wina,  ec. 

La  citata  ha  non  sia  sola  j  corressi  colla  scorta  del- 
la edizione  lionese.  E  avrei  potuto  porre  in  vece  in- 
tero il  periodo  nel  modo  seguente,  che  tale  appunto 
nella  preiata  edizione  si  legge  :  non  sia  vana,  ma  sem^ 
pre  od  ella  ammonisca,  o  elki  pensi,  o  ella  comandi. 
Quel  pensi  mi  sa  tuttavia  un  po' strano. 

Gap.  IX,  pag.  III.  £  pia  temperatamente, 

£  della  edizione  lionese^  le  altre  tre  ne  mancano 
afi&tlo. 

Gap.  IX,  pag.  III.  Dà  lo  tuo  testimonio  alla  ve- 
rità. 

Go»  nella  edizione  lionese,  le  altre  tre  :  dona  la  tua 
testa  air  amistà. 


24u  AlIKUTAUOIII 

Gap.  IX,  pag.  III.  Lo  studio  non  peggiora^  ec. 

L"*  edizione  lionese  ha  invece  :  non  mariisce  de  rir 
)»oso*  e  talora  ha  V  animo  rimesso  ma  non  disotto 
(disciolto).  E  laddove  la  diala  non  ha  olire  ispedisce^ 
essa  continua:  le  dure  immollay  e  ìe  grandi  raggM- 
f(lia. 

Gap.  IX,  pag.  Ila.  Desidera  a  te  tali  case,  che  tu 
ìe  possi  disiare  dinanzi  ad  ogni  uomo. 

Cosi  r  edizione  lionese  ^  la  citata  e  consorti,  in  cam- 
bio di  disiare^  ha  usare. 

Gap.  IX,  pag.  1 1  a.  Allora  ti  bisogna,  ec 

Ecco  lo  stesso  periodo  secondo  la  lesioiie  lionese  : 
allotti  ti  sono  bisogno  li  consigli  quando  tu  ài  twbi 
di  prosperità  f  e  allora  ti  riterrà  la  prosperità  nel  ho- 
g(>  disdotto  JertììOj  non  ti  muos^re  tostamente,  ma 
fMmi  mente  colà  doxw  dei  andare^  e  infino  dove. 

Gap.  XI,  pag.  1 14*  ^l  dolce  suono  del  sitfoh. 

La  citata  e  consorti  hanno  sttfilo  ;  ma  sufòlo  ha  la 
Grusca  Veronese,  e  stifolare  la  Firentina  con  esempio 
tolto  dal  Tesoro  ^,  i,  Sufilo  è  certo  voce  errata. 

Gap.  XII,  pag.  1 1 5.  Che  sia  più  che  conveneifole. 

Il  secondo  che  manca  nella  citata,  ma  si  legge  nelle 
due  antecedenti. 

Gap.  XII,  pag.  1 1 5.  //  suo  cuore  shkoìo. 

f'iKolo  si  reca  dalla  Grusca  con  questo  esempio, 
panni  molto  conforme  alP  aveugle. 

Gap.  XIU,  pag.  117.  SeV  uomo  pruova  su  lo  capo. 

Gosi  la  citata,  e  certo  male^  ma  niente  meglio  le 
due  antecedenti,  che  hanno  suo  capo. 

Gap.  XIV,  pag.  118.  Opere  veritiere,  ec. 

Gosi  la  edizione  1474)  ^^  ^^^  posteriori  parole^ 


AL  LnmO  SETTIMO.  ^^l 

Gap.  XIV,  pag.  119.  Che  inerita  incredibile  non  è 
creduta. 

Questa  correzione  è  dì  mìo  capo,  ma,  pormi,  con 
ragione.  La  citata  e  consorti  :  cioè  credibile^  che  non 
è  creduta f  ed  in  luogo  di  menzogna. 

Gap.  XV,  pag.  126.  Richiedi  le  sue  intenzioni, 

Gosì  la  citata;  le  due  edizioni  antecedenti  :  richiede. 

Gap;  XVII,  pag.  128.'  »Sc  tu'l  profSrrai^  ec.' 

Gosì  la  14  74)  le  posteriori  :  se  tu  proferirai. 

Gap.  XVII,  pag.  128.  Dicassate  al  palato, 

L^  antichissima  edizione  :  dicasate. 

Gap.  XVII,  pag.  128.  Ma'presso  alla  sfcrità^  ec. 

Erroneamente  nell'edizione  antichissima  :  né  prezzo. 

Gap.  XVII,  pag.  128.  Non  torcere  le  labbra^  ec. 
•  Le  tre  stampe  hanno  concordi  tornare^  prossimo 
troppo  al  francese.  Torcere  il  lessi  manoscritto  sopra 
la  stampa  dell*  esemplare  da  me  consultato  nella  Mar- 
ciana. 

Gatp.  XX,  pag.  i35.  Tanto  eh'  egli  n'abbia^ 

Dopo  queste  parole  nelU  edizione  i474  ^  ^^g^ 
inttoria. 

Gap.  XX,  pag.  1 55.  Conceputi  insieme, 

Gbncordi  le  tre  edizioni.-  Fui  per  correggere  :  in 
semcy  che  parmì  sia  la  vera  lezione. 

Gap.  XXV,  pag.  137.  In  tutte  cose  ...sì  che  'l 
rettOy  ec. 

La  citata  ha  :  in  tutte  queste  cose.^  tolsi  V  intruso 
queste^  prendendo  a  scorta  le  du^  edizioni  anAaceden^ 
ti.  Mi  fu  poi  scorta  lo  stesso  Orazio  a  mutare  in  retto 
il  detto  che  aveano  concordi  tutti  tre. 

Gap.  XXV,  pag.  i58.  Né  tenenza  troppo  presta. 

LcUini.  Fol.  il.  *      14 


349  kfmoTknom 

La  edkione  1474?  ^  •  contenenta^  senta' il  nèJ 

Gip.  XXY,  pag.  1 59.  E  di  pari  cose. 

Così  la  1 474  9  ^Q  citata,  copìaado  la  1 538,  ìrnye^ 
pari  o  di  cose. 

Gap.  XXY,  pag.  t4o.  Cose  che  U  oommgnè  mu- 
tare» 

Erroneamente  la  i474  ^  ùa  luogo*  dt  mmlan, 
morire. 

€ap.  XXY,  pag.  lifi.  Né  per'giaoca^  me  per 
sonno. 

Erroneamente  le  antiche  edinoni  hanno;  ne  per 
senno. 

Gap.  XXYI;  pag*  i44*  Compagni  m  tuta  parte. 

La  edizione  del  1474?  9eDUL  correggere  per  nulla 
questo  spropositato  perìodo,  ha  solo  :  ir  tma  parte 
ditta, 

Cap.  XXIX,  pag.  i47*  Sobrietà  è  a  dotkare  h 
diletto^  ec. 

Nelle  stamele  si  legge:  sobrietà  è  euiduttore  è  h 
diletto^  ec.  La  frase  da  me  sostituita  ha  nn  riscontro 
nella  facciata  antecedente,  lin.  2  :  per  doUaret  il  di" 
letto  del  toccare^  ec.  . 

Gap.  XXIX,  pag.  i^%,  Infino  a  tanto  che  natu- 
ra si  muova. 

La  citata  ha  si  nuova  ;  ho  seguito  le  due  ediaiooi 
antecedenti,  come  voleva  ragione. 

Gap.  XXX,  pag.  149.  Grandissima  pteKutnu: 

Le  edizioni  fin  qui  hanno  pudore  :  poteva  stare  ? 

Gap.  XXXI,  pag.  i5o.  Costringi  li  Mwi  desi'' 
derii, 

Gosi  la  edizione  lionese;  le  altre  tre:  distendi,  E 


'  kh  MURO  SETTIMO.  2^'5 

piik  soiU>  guanto  è  soffìciente^  e  indi  non  cornsy  si^ 

milmeote  conforine  la  leziooe  lionese.  Le  altre  hanno 

• 

il  franciaso  come  hency  e  il  peggiore  con  bene. 

Gap.  XXXI,  pag.  1 5o.  Tu  dei  desiderare^  ec 

Quesii  due  periodetd  sono  quali  ce  li  dà  la  edizio- 
ne lionese.  Eccoli  secondo  V  altre  tre,  e  chi  sa  inten- 
defe  mi  sgridi  per  k  sostituzione:  tu  dei  desiderare 
poco,  che  tu  dei  pensare  solamente  eh*  ellijallano 
allo  esemplo  d^iino  composto^  parte  dal  tarpo  e  non 
ti  congiungere  col  tuo  spirito.  Solo  che  la  edizioqe  lio- 
nese dopo  il  vegna  ha  un  meno  che  qm  parve  oppor- 
tuno di  ommettere. 

Cag.  XXXI,  pag.  i5a  Che  tu  non  abbi  inferma 
la  i^itUy  né  laida  scarsità. 

Qui  pure  abbiamo  la  lezione  lionese.  Ecco  P altra: 
che  tu  non  abbi  abbandonata  povertà^  né  simplicità^ 
ne  laida  scarsità. 

Cap.  XXXI,  pag.  i5i.  Profittabili^  pia  che  cor- 
iesL 

n  pui  che  cortesi  è  della  sola  edizione  lionese. 

Gap*  XXXI,  pag.  1 5 1 .  Tuoi  giuochi  sieno  sen%a 
levità. 

OasÀ\à  edizione  Ikmese;  le  altre  :  ftioi  occhi  siano 
sen%*  allegrezui. 

G^p.  XXXI,  pag.  i5i.  E  se  tu  itogli  essere  con- 
tenente f  ec 

Sempre  secondo  V  edizione  lionese.  Ecco  quella 
della  citata  e  consorti  :  e  se  tu  itogli  essere  conte- 
nenie,  tu  ischiferai  tutta  lode,  e  altre  tali  ti  parrà  es- 
sere  biasimato  dalle  male  genti  come  essere  lodato 
per  le  buone  opere  di  dispiacere  a.  rei  uomini» . 


a44  ANNOTAZIONI  * 

Gap.  XXXI,  pag.  1 5 1 .  jébbi  paura  delle  umUL 

Così  r  edizione  liooesé  ^  rìdicolosameote  le  altre  : 
abbi  paura  delV  uomo. 

Gap.  XXXI,  pag.  i52.  Quelli  che  parUmo.,  ec. 

Melte  conto  di  trascrivere  la  lezione  lioaese,  per- 
chè notabilmente  diversa:  sie  tacito  uditore  di  colo- 
ro die  Javellano^  e  delle  cose  che  tu  odi  sie  pnmio 
rileni  Core, 

Gap.  XXXI,  pag.  1 52.  Ma  non  pertinace. 

Così  r  edizione  lionese  \  le  altre  hanno  peariefict. 

Gap.  XXXI,.  pag.  1 5 a.  5»  a  pochi JhmUiare, 

A  pochi  è  della  edizione  lionese. 

Gap.  XXXI,  pag.  162.  Più  in  tua  vita,  ec.  - 

La  edizione  lionese  :  in  tua  vista. 

Gap.  XXXI j  pag.  i52.  Ciò  che  tu  sai,  ec. 

Così  la  edizione  lionese 3  le  altre:  ciò  che  tu  vedi. 

Gap.  XXXIII,  pag.  i54*  Attendere  lo Jine  della 
sua  vita  sicuramente. 

Questa  è  la  lezione  lionese  ^  udite  le  altre  :  aften" 
dere.  alla  virtù  di  suo  Jine  sicuramente. 

Cap.XXXlII,pag.  i54«  Questi  non  mi  nocque^ec 

Così  la  edizione  lionese  \  le  altre  tre  :  eh'  egli  ha 
cuore  di  danneggiare  te,  ma  noi  fare  niente. 

Gap.  XlftLVI,  pag.  1 58.  Quelli  die  ha  bene  ap- 
parecchiato suo  peitOy  ec. 

Le  stampe  hanno  concordi:  suo  peccato.  La  corre- 
zione mi  pare  necessaria. 

Gap.  XXXVI,  pag.  160.  Se  la  carogna  infracida. 
.  La  sola  citata  legge  così.  Le  due  antecedenti  han- 
no infra  città. 

Cai».  XX  XVI,  pag.  1 63.  JVè  a  volto  tiramip  instante. 


AL  LIBRO  SETTIMO.  ^4^ 

£  traduzione  del  notissimo  passo  oraziano  ;  era  for- 
se meglio  di  tiranno.  Le  stampe  hanno  concordi  vòl- 
to tirante. 

Gap.  XL,pag.  1 68.  La  legge  à^ infermità  è  tale^ec. 

Forse  dee  leggersi^èrm/tó.  Ma  in  tanta  dovizia  di 
spropositi  non  tentai  coiTezione  alcuna. 

Gap.  XL,  pag.  1 6^.  Mutano  loro  regione^  ec. 

Le  stampe  hanno  loro  re.  Ma  il  passo  latino  notis- 
simo mi  fece  coraggioso  alla  correzione.  Regione  per 
eoelum  mi  par  naturale,  assai  più  che  re. 

Gap.  XLIII,  pag,  i/ji.E  in  questo  non  conviene  ... 
ma  ch^ella  dimostri^  ec. 

Nella  citata  e  consorti  mancano  l' in  e  il  ma,  Gor- 
ressi  colla  scorta  della  lionese.  Oltre  a  ciò,  mette  conto 
che  si  legga  tutto  questo  tratto  quale  si  ha  nella  sud- 
detta edizione,  cominciando  da  giunta  a  natura,  — 
La  giustizia  si  è  congiugntmento  tacito  de  natura 
trovato  in  aiutorio  de  molti,  e^non  è  ordinamento 
^uomoy  ma  è  legge  di  Dio,  e  legame  de  Fumana 
compagnia^  et  in  questa  non  ti  conviene  pensare 
quello  chejhre  si  convegna,  ma  ella  dice  e  dimostra 
ciò  chejhre  si  conviene.  La  edizione  i474  a"vanza 
in  questo*  passo  la  scorrezione  de  P  altre. 

Gap.  XLin,  pag,  173.  Non  danneggiare  non  è 
giustizia.  Non  prendere  ajbrza^  ec. 

Gosi  1&  lionese.  Erroneamente  le  altre  :  non  è  giù- 
stizic^g  ma  non  prendere  aforza^  ec. 

Gfop.  XLIII,  pag.  1 75.  E  se  alcuna  volta  dirai 
bugia,  ec. 

Questo*  ^le^ia  è  della  edizione -lionese^  manca  in  tut- 
te le  altre. 


a  4^  AimoTASMHa 

Gap.  XLIP,  pag.  175.  Che quatuhgU àUri iùno 
,    vintiy  ec.  . 

Così  la  lionese;  erroneamente  le  altre:  ma  qttaiido 
gli  altri  son  vinti  per  malvagie  eose^  egli  è.  vinto. 

Gap.  XLm,  pag.  173.  Quete  vedrai  le  cose  di 
,    romorej  ec. 

Anche  qoi  secondo  l'ediiione  Ikmese^  la  ctoie 
compagne:  JVoì\  dire  le  ooee  di  remore^  ptemmtm 
un  punto  fermo.  • 

Gap.  XLni,  pag.  174.  Lo  iecondo  modo  cAe  co- 
sa,  ec. 

La  citata  e  consorti  hanno:  per  cosa^  e  tqlIfllViitpo- 
trebbe  stare.  * 

Gap.  XLIY,  pag.  176.  Levate  del  meMo.' 

Le  stampe  tutte  hanno  dannate.  Sarebbe  frase  mi 
po' nuova.  Gosì  gli  uomini  ddla  riga  anieoedenle  cel 
misi  del  mìo. 

Gap.  XLV,  pag.  1^7.  Togliono  spesse  volte  al  ric- 
co per  invidia^  ec. 

Le  stampe  :  il  diritto  per  invidia. 

Gap.  XLYII,  pag.  i83.  Seguirai  Demostene,  ec 

La  edizione  i474*  seguire. 

Gap.  XLYIII,  pag.  1 84.  «$«  come  preso  in  presto. 

La  .edizione  i474*  ''^  posto*  £  anche  questa  pei 
soverchi  lodatori  delP  antichissima  stampa.  B  perìodo 
poi  susseguente,  che  nella  nostra  edizione  CDmiiicta: 
con  ciò  sia  egliy  ec.  si  legge  in  tutte  Fediziom  co- 
minciare così  :  Già  sia  egli.  Il  cambiamento  fa  da  aie 
fatto  per  amore  di  chiarezza,  in  libro  dì  tanta  invin- 
dlnle  oscurità. 

Gap.  XLIX,  pag.  \%%.  Ma  ira  siajtioridinoij  ec. 


▲L  UMO  SETTIMO.  ^ìjfj 

'  liDclé  qoi  alla  stampa  anlichìssima:  il^or/  è  in  essa 
solamente.  La  citata  e  dedizione  del  i528,  ne  manca- 
no afl^ta 

Gap.  L^  pag.  190.  Egli  è  grande  dtswtgUo  del- 
Vuomo^  ec. 

G)nforme  a  questo  disifOgUo  abbiamo  (cap.  LYI, 
pag.  197)1  amistà  non  sostiene  edeuno  isvagUo,  Ma 
Bel  prìiDO  caso  starebbe  per  errare^  svarione;  te  già 
il  senso,  come  pare,  non  sia  monco*  Nel  secondo  evH 
dentemente  significa  diversità,  disuguaglian%a, 

'Cap.  LI,  pag.  191.  Seneca  dice,  così  come  nullo 
dae  essere  distrettoy  ec. 

Meglio:  Seneca  dice  così:, come  nidlo^  et. 
•  Gap.  LIY,  pag.  194.  Ma  io  non  dico  che  *l  servi- 
re, ec 

n  fiof»  manca  nell^  edizione  citata,  ma  si  legge  nelle 
due  antecedenti  i5a8,  i474* 

Cap^  LYI,  pag.  197.  Ma  primamente  ti  consiglia 
date. 

Così  nel?  edizione  del  secolo  decìmoqninto;  le  sue- 
cessÌTa  hanno  da  lui. 

Cap.  LYI,  pag.  197.  Amistà  non  sostiene  alcuno 
isifoglio,'  Yedi  la  nota  cap  L.  pag.  190. 

CtqfK  LYI,  pag.  197.  Ciò  che  li  dee  pro/Oéure^  più 
ek^  eiòfCC.  * 

liCilMDpe  in  luogo  óipOt  che  ciò,  hanoa:  anocraciò. 

Cap.  LSI,  pag.  aoa.  Misericordia  delle  makUtie. 

La  ediaione  1474)  malizie.  '    - 

Cap.  LSJY,  pag.  ao6.  Tuo  reggimento  non  sia 
tanto  aspro,  ec. 

L^  edizione  lionese  ha  riso  in  luogo  di  reggimento. 


^4^  AimoT  Azioni 

Gap.  LXV,  pag.  307.  Chi  allaccia  sua  volontà,  ' 

Le  stampe  Iuiddo  :  lascia.  Corressi  STverteodo  al 
domare  oraziano. 

Gap.  LXVI,  pag.  209."  Ne  i  tori  perjòr%a. 

Ledile  slampe  i5a8,  1 535,  hanno:  né  e^iorri^e 
chiaramente  la  i/^y^:  le  torrm  Corressi  e,  spero^  bene. 
hajbrza  è  data  ai  tori  ùao  da' tempi  d' Apacreonte, 
Oltrechò  qui  fassi  paragone  con  bestie,  e  ie  farri  oi 
starebbero  come  le  pantofole  in  proposito  di  vege- 
tabili. 

Gap.  LXXy  pag.  21 4*  La  seconda  è  che  voknàà 
ili  riccìiezui  abbatte  la  virtà. 

Qui  corressi  dielro  Iq  scorta  dell^  edizione  i474* 
Nelle  posteriori  leggesì  :  che  è  volontà  di  riccheir 
zuy  ec. 

Cap.  LXX,  pag.  ai 4-  Sono  le  parentele,  maritag- 
gi, ec. 

Nelle  stampe!  parehtevbe,  voce  da  poter  aggiugnere 
agli  esempi  dMle  antiquate. 

Gap.  LXXII5  pag.  219.^  nella  ifia  jéppia. 

Gorressi  colla  scorta  del  lesto  oraziano,  di  ohe  veg- 
gasi  V  epistola  6,  lib.  I.  Le  stampe  tutte  tre  hanno  er- 
roneamente: vìa  ampia. 

Gap.  XXXIV,  pag.  223.  iVe  meno  per  guadagno. 
E  correzione  mia  5  le  stampe  hanno  :  né  male  per 
guadagno.  Non  che  non  ci  potesse  stare  anohe  V  altra 
lezione,  ma  la  sostituita  mi  sembra  più  esatta. 

Gap.  LXXIV,  pag.  226.  Chiederò  h  bene  cK  è 
propriamente  de'  malvagi  ? 

L' interrogativo  cel  posi  io,  a  far  intelligibile  la  le- 
zione^ ma  forse  il  testo  è  monco. 


▲L  LIBRO  SETTIMO.  sSg 

Gap.  1X9  pag.  no.  E^  lusinghieri  checuoprono 
loro  numiellamenti. 

Mantelkunenii  è  voce  strana,  data  per  altro  con- 
cordemente  da  tutte  tre  P  edizioni.  Io  crederei  che  in 
cambio  di  mantellamenli  si  avesse  a  leggere  mali  in- 
iendimentìy  o  simile.  E  mi-  conferma  in  questa  opinio- 
ne il  trovare  questo  passo  nella  edizione  lionese  mu- 
tato come  segue:  lo  lusinghew^le  uomo cuopre  la  rea 
volontà  colV  allegra  foccia. 

Gap. IX,  pag.  I  IO.  Nullo  prode  uomo  non  dice^  ec. 

La  edizione  lionese:  nullo  prode  uomo  dice:  io 
non  pensai  questo^  anu  aspetta  e  non  dubita. 

Gap.  IX,  pag.  I  IO.  ShnigUanU  a  sogni. 

La  edizione  lionese  in  luogo  di  sogni  ha  suoni.  E 
noto  questa  variante  per  sempre  più  dimostrare  come 
non  sia  da  starsene  alla  cieca  a  veruna  edizione  escili* 
sivamente. 

Gap.  IX,  pag.  III.  Tua  parola  non  sia  wma^  ec. 

La  citata  ha  non  sia  sola  ^  corressi  colla  scorta  del- 
la edizione  lionese.  E  avrei  potuto  porre  in  vece  in* 
tero  il  periodo  nel  modo  seguente,  che  tale  appunto 
nella  prefata  edizione  si  legge  :  non  sia  vana^  ma  sem^ 
pre  od  ella  ammonisca^  o  ellcL  pensi,  o  ella  comandi. 
Quel  pensi  mi  sa  tuttavia  un  po^  strano. 

Gap.  IX,  pag.  III.  £  più  tempenUamenie, 

E  della  edizione  lionese;  le  altre  tre  ne  mancano 
affitto. 

Gap.  IX,  pag.  III.  Dà  lo  tuo  testimonio  alla  ve- 
rità. 

Gosì  nella  edizione  lionese,  le  altre  tre  :  dona  la  tua 
testa  air  amistà. 


a4u  ARKOTAUONI 

Gap.  IX,  pag.  111.  Lo  savio  non  peggiora,  ec. 

L^  edizione  lionese  ha  invece  :  wm  martìsce  de  ri- 
posoy  e  talora  ha  V  animo  rimesso  ma  non  discolto 
(disciolto).  E  laddove  la  citata  non  ha  olire  ispedisce, 
essa  continua  :  le  dure  immolla,  e  le  grandi  raggu»' 
glia. 

Gap.  IX,  pag.  1 1  a.  Desidera  a  te  ioli  cose,  che  tu, 
le  possi  disiare  dinanù  ad  ogni  uomo. 

Così  r  edizione  liònese  ^  la  citata  e  coosorti,  in  casH 
bio  di  disiare,  ha  usare. 

Gap.  IX,  pag.  1 1  a.  ^allora  ti  bisogna,  ec 

Ecco  lo  stesso  periodo  secondo  la  lezione  Uoaèse  : 
allora  ti  sono  bisogno  li  consigli  quando  tu  ài  ^ta 
di  prosperità,  e  allora  ti  riterrà  la  prosperità  nel  luo- 
go disdotto  pernio,  non  ti  muovere  tosteanente,  ma 
poni  mente  colà  dove  dei  andare^  e  infino  dove. 

Gap.  XI,  pag.  1 14-  Il  dolce  suono  del  sufolo. 

La  citata  e  consorti  hanno  sufdo  ;  ma  sufblo  ha  la 
Grusca  Veronese,  e  sufolare  la  Firentina  con  esempio 
tolto  dal  Tesoro  4*  <•  Sufih  è  certo  voce  errata. 

Gap.  XII,  pag.  1 1 5.  Che  sia  più  che  convenevole. 

Il  secondo  che  manca  nella  citata,  ma  si  legge  nelle 
due  antecedenlL 

Gap.  XII,  pag.  1 1 5.  //  suo  cuore  vocolo, 

F^ocolo  si  reca  dalla  Grusca  con  questo  esempio, 
parmi  molto  conforme  all'  aveugle. 

Gap.  XIII,  pag.  117.  Se  r  uomo  pruova  su  lo  capo, 

Gosi  la  citata,  e  certo  male  5  ma  niente  meglio  le 
due  antecedenti,  che  hanno  suo  capo. 

Gap.  XIV,  pag.  118.  Opere  veritiere,  ec. 

Gosi  la  edizione  i^y^^ìe  due  posteriori  ^ro^^ 


AL  LIBBO  SETTIMO.  ^4  I 

Gap.  XrV,  pag.  119.  Che  irrita  incredibile  non  è 
creduta. 

Questa  correzione  è  di  mio  capo,  ma,  pormi,  con 
ragione.  La  citata  e  consorti  :  cioè  credibile^  che  non 
è  creduta^  ed  in  luogo  di  menzogna. 

Gap.  XV,  pag.  12  5.  Richiedi  le  sue  intenzioni. 

Così  la  citata  ^  le  due  edizioni  antecedenti  :  richiede. 

Gap;  XVII5  pag.  111%:  Se  tu  'l  profSrrai^  ec.' 

Gosì  la  1474  9  le  posteriori  :  se  tu  proferirai. 

Gap.  XYII,  pag.  128.  Dicassate  al  palato, 

là  antichissima  edizione  :  dicasate. 

Gap.  XVII,  pag.  128.  Ma' presso  alla  {ferità^  ec. 

Erroneamente  nelPedizione  antichissima:  ne  prezzo. 

Gap.  XVII,  pag.  ia8.  Non  torcere  le  labbra^  ec. 
•  Le  tre  stampe  hanno  concordi  tornare^  prossimo 
troppo  al  francese.  Torcere  il  lessi  manoscritto  sopra 
la  stampa  dell'  esemplare  da  me  consultato  nella  Mar- 
ciana. 

Gap.  XX,  pag.  1 33.  Tanto  eh*  egli  n^ abbia. 

Dopo  queste  parole  nell'edizione  i474  ^  l^g^ 
vittoria. 

Gap.  XX,  pag.  i33.  Conceputi  insieme. 

Goncordi  le  tre  edizioni.-  Fui  per  correggere  :  in 
seme^  che  panni  sia  la  vera  lezione. 

Gap.  XXY,  pag.  137.  In  tutte  cose  ...  3ì  che 7 
retto,  ec. 

La  citata  ha  :  in  tutte  queste  cose.^  tolsi  P  intmso 
queste,  prendendo  a  scorta  le  da^  edizioni  anteceden-^ 
ti.  Mi  fu  poi  scorta  lo  stesso  Orazio  a  mutare  in  retto 
il  detto  che  aveano  concordi  tutti  tre. 

Gap.  XXY,  pag.  i38.  Né  tenen%a  troppo  presta. 

Latini,  Voi.  II.  '4 


!25a  11/  TBSOHO. 

za  t>  congiunta  ni  parlare,  chi  ti  dirà  che  ne  possa  na- 
s(Tere  se  non  bene  ?  Tullio  dice,,  che  al  comincianienlo 
gli  uomini  vivevano  come  bestie  senza  propiìa  rosa, 
sen7a  ronosriniento  e  sen/a  conoscenza  di  Dio,  per  K 
bosriii  e  per  li  lur)ghì  riposti  senza  pastore,  sì  the 
nullo  guardava  matrimonio,  e  non  conosceTa  padre, 
ne  figliuolo.  Allora  fu  un  savio  parlante  che  tanto  con- 
sigliò, e  tanto  mostrò  la  grandezza  dell'  uomo,  e  la  di- 
gnità della  generazione  e  della  discrezione,  rh'  egli  li 
trasse  di  quello  malvagio  nido,  e  ragunógli  ad  abitare 
in  uno  luogo,  ed  a  mantenere  ragione  e  giustizia.  E 
così  per  lo  b(^llo  parlare  che  in  lui  era  col  senno,  fo 
questo  uomo  quasi  secondo  Iddio,  che  rilevò  il  miln- 
do  por  r  ordine  delP  umana  compagnia.  È  ciò  ne  fii 
manifesto  V  istoria  d' Amfion,  che  fece  la  città  di  Tebe, 
che  faceva  venire  le  pietre  e'  muratori  per  dolcezta 
del  suo  canto,  cioè  a  dire,  che  per  le  ^ue  dolci  parole 
entrasse  gli  uoniini  da' malvagi  luoghi,  ov'elli  abitava- 
no,  e  menolli  ad  abitazione  di  quella  città.  E  dalPaU 
■  tra  parte  s'accorda  bene  Tullio  con  quello  che  dice 
Aristotile  del  parlare  senza  sapienza^  che  quando  l'uo- 
ifìo  ha  buona  lingua  di  fuore,  e  non  ha  punto  di  con- 
sìglio deAtro,  la  sua  [)arola  è  fieramente  pericolosa 'alla 
città  ed  agli  amici.  Dunque  è  provato  che  la  scienza 
della  retorica  non  è  in  tutto  acquistata  per  natura  e 
per  uso,  ma  per  insegnamento  e  per  arte.  E  per  ciò 
dico  che  ciascuno  upmo  dee  istudiare  il  suo  intelletto 
e'I  suo  ingegno  a  saperla.  Che  Tullio  disse,  che  l'uo- 
mo che  ha  molto  delle  cose  minori,  è  più  fievole  degli 
altri  animali  per  la  disusanza  di  questa  una  cosa,  che 
può  parlare  manifestament^.  Che  quelli  acquista  nobi- 


LIBRO  OTTAVO.  253 

le  cosa  che  dì  ciò  avanza  gli  uomini  di  che  V  uomo 
soimonta  le  bestie.  Ne  per  niente  non  disse  il  prover- 
bio, che  nudrìlura  pasce  natura,  che,  secondo  quello 
che  noi  troviamo  nella  prima  e  nella  seconda  parie  di 
questo  libro,  T  anima  d^ogni  uomo  è  buona  natural- 
mente 3  ma  ella  muta  la  sua  natura  per  malvagità  del 
corpo,  nel  quale  ella  sta  rinchiusa,  cosi  comeM  vino  si 
guasta  per  la  ria  botte.  E  quando  il  corpo  è  di  buona 
natura,  la  sua  anima  signoreggia  ed  aiuta  la  sua  bontà. 
Ed  allora  li  vagliono  V  arte  e  V  uso,  però  che  arte 
insegna  li  comandamenti  che  a  ciò  si  conviene,  e  lo 
uso  li  fa  presto  ed  aperto  all'  opera.  E  però  vole  lo 
maestro  incordare  al  suo  amico  le  circostanze  e  V  in- 
segnamento dell'arte  della  retorica,  che  mollo  aiute- 
ranno alla  sottilità  ch'è  in  lui  per  la  buona  natura.  Ma 
tuttavia  vi  dirà  innanzi  eh' è  retorica  e  sopra  cui  ella 
è  'y  poi  del  suo  ufficio,  e  della  sua  materia,  e  delle  sue 
parti.  Che  chi  bene  sa  ciò,  egli  intende  meglio  il  com- 
pimento di  questa  arte. 

Capitolo  II. 
Della  retorica,  che  cosa  è,  e  di  suo  ufficio,  e  di  sua  arte. 

Retorica  è  una  scienza  che  insegna  dire  bene  pie- 
namente le  cose  comuni  e  le  private.  E  tutta  sua  in- 
tenzione è  a  dire  parole,  in  tal  maniera,  che  lo  uomo 
feccia  credere  lo  suo  detto  a  quelli  che  l' odono.  E 
sappiate,.che  retorica  è  sopra  la  scienza  di  governare 
la  città,  seconi]^  che  disse  Aristotile  qua  addietro  nel 
suo  libro,  si  come  1'  arte  di  fare  freni  e  selle  per  l'ar- 
te di  cavaUeria.  L' ufficio  di  questa  arte^  secondo  dbe 

Latini.  Fot,  IL  i5 


254  ^^'  TESORO» 

dice  Tullio^  è  di  parlare  pensatameote,  per  &re  cre- 
dere lo  $uo  detto.  E  la  sua  fìae  è  far  credere  quello 
che  dice,  in  tal  maniera  che  sia  onesta.  Intra  Tuf- 
fìcio  e  la  fìne  è  questa  differenza,  che  neir  ufficio  ha 
a  pensare  lo  parlatore  ciò  che  si  conviene  alla  fine, 
ciò  è  a  dire,  che  parli  in  tal  maniera,  che  sia  creduto; 
e  nella  fìne  pensare  ciò  che  si  conviene  a  suo  oflido, 
cioè  a  farsi  credere  per  suo  parlare.  Ragione  cooie 
r  ufficio  dd  fisico  si  è  di  fare  medicine  e  cure  per 
sanare.  E  U  suo  fìne  si  è,  sanare,  e  però  è  medidoa.  E 
brevemente  Tufficio  di  retorica  è,  di  parlare  appensa- 
tamente,  secondo  lo  insegnamento  delFarte.  Il  fine  è 
quella  cosa,  perchè  egli  parla.  La  materia  dì  retorica 
è  della  cosa  di  che  il  parlatore  dice,  sì  come  P infer- 
mità è  materia  di  fìsici.  Onde  Gorgia  disse,  che  tutte 
le  cose  di  che  si  conviene  parlare  sono  materia  di  que- 
sta arte.  Ermagoras  disse,  che  questa  materia  9Ì  è  le 
cause  alle  questioni.  E  disse,  che  cause  sono  quelle^ 
sopra  le  quali  li  parlatori  sono  in  contenzione  d^aloQ- 
na  certa  gente,  o  di  altra  cosa  certa,  e  di  ciò  non  dis- 
se egli  male.  Ma  disse  egli,  che  questione  è  quella  so- 
pra che  li  parlatori  sono  in  contenzione,  senza  nomi- 
nare certa  gente.  In  altre  cose  che  appartengono  a  cer- 
to bisogno  sì  come  della  grandezza  del  sole  e  della 
forma  del  fìrmamento,  E  di  ciò  dice  egli  troppo  male, 
che  tali  cose  non  si  convegnono  a^  governatori  dì.cit- 
là  ^  anzi  conviene  a^fìlosofì,  che  studiano  in  proCbnda 
scienza,  E  però  sono  fuori  della  via  quegli ,  che  peiH 
sano  contare  fevole,  od  antiche  istorie.  E  ciò  che  Tao- 
mo  può  dire^  è  della  materia  di  retorica.  Ma  ciò  che 
r  uomo  dice  di  sua  bocca,  comanda  per  lettera  pensa- 


IJBHO  OTTAVO.  a55 

tamente  per  &r  credere,  o  per  contenzione  di  lodare, 
o  di  biasimare,  o  d^  avere  consìglio  sopra  alcuno  biso- 
gno, o  di  cosa  che  dimanda  gìudicio.  Tutto  ciò  è  del- 
la materia  di  retorica.  Ma  tutto  ciò  che  V  uomo  non 
dice  artificialmente,  ciò  è  a  dire,  per  nobili  parole, 
gravi,  e  ripiene  di  buone  sentenze,  o  per  alcuna  delle 
cose  dinanzi  dette,  è  fuori  di  questa  scienza,  e  lungi 
delle  sue  circostanze.  E  però  dice  Aristotile,  che  la 
materia  di  questa  arie  è  sopra  tre  cose  solamente,  cioè 
dimostramento,  consiglio  e  giudicio.  Ed  in  ciò  mede- 
simo s^  accorda  Tullio,  e  dice,  che  dimostramento  è, 
quando  i  parlatori  biasimano  uomo,  od  altra  cosa  ge- 
neralmente, o  particularmeqte.  Io  lodo  molto  beltn  di 
femine,  disse  Tuno;  ed  io  biasimo,  dice  P  altro  5  que- 
stue detto  generalmente.  Ma  particularmente  dice  Tu- 
no:  Giulio  Cesare  fu  prode  uomo^  dice  P altro:  non 
fu,  anzi  fu  traditore  e  disleale.  E  questa  questione  non 
ha  luogo  se  non  nelle  cose  passate  e  nelle  presenti. 
Che  di  quello  ch^  è  addivenire,  non  può  essere  loda- 
to, ne  biasimalo.  Consiglio  è.  quando  li  parlatori  con- 
sigliano sopra  una  proposta,  ch^è  posta  dinanzi  da 
loro  generalmente,  o  particolarmente,  per  mostrar  qual 
cosa  sia  utile,  o  no.  Dice  un  de^cardinali  di  Roma  :  ge- 
neralmente utile  cosa  è  a  metter  pace  tra^crisliani^non 
è,  dice  r  altro.  E  particularmente  dice  Funo,  utile, 
cosa  è  la  pace  tra  U  re  di  Francia  e  quello  d' Inghil- 
terra; dice  r  altro,  non  è.  E  questa  questione  non  ha 
luogo  sopra  alle  cose  che  sono  addivenire.  E  quando 
ciascun  ha  dato  lo  consiglio,  V  uomo  s^  attiene  a  colui 
che  mostra  più  ferme  le  sue  ragioni.  E  più  credevola 
giadicamento  si  è  in  accusare  o  difendere,  o  in  dcH 


356  IL 

tncasa  geaeialmeote,  o  partiraiM  ■mi Ji  ^  ili*  de  «i- 
DO  giusCe,  o  no.  Io  dico,  generalaKote  F  oa  dne,  ck 
taUi  ib^droni  debbono  efKT  inipiocati;  dice  rakn^sM 
debbono.  Dice  V  uno,  quegli  che  gOTeru  tiene  fadì- 
tà  dee  aver  booo  guiderdone  ;  dice  mitf— inii  Fd- 
trO)  non  dee.  Sia  particalarmenle  dice  rano^die  GoEh 
dee  esfcre  im[>iocato,  però  ditegli  è  ladrone;  ooa  è,  dk 
ce  r  altro.  Ho  dimandalo  guiderdone,  però  che  kàh 
pro^del  comune;  non  hai,  dice  V  altro.  O  risponde  per 
avventura,  tu  hai  discrvito  pena.  £  questa  qnestioae 
non  Ita  luogo,  se  non  nelle  cose  passate.  Che  nuUodoe 
essere  dannalo,  né  guiderdonato,  se  non  per  le  cote 
{[lassate.  Ma  di  ciò  si  tace  il  maestro  per  divisare  lepa- 
role  di  retorica. 

Capitolo  UL 

Delle  óaqpit  ptrti  delh  retorict. 

Tullio  dice,  che  in  questa  scienza  ha  cuoqoe  parti, 
cioè  trovamento,  ordine,  elocuzione,  memoria  e  par- 
lare. Boezio  disse,  che  queste  cinque  cose  si  sono  del- 
la sustauza  del  parlare,  che  se  alcuna  ne  mancasse,  non 
sarebbe  compiuto.  Così  comeH  fondamento,  le  pareti 
e*l  t(ìlto  sono  parli  della  casa,  senza  le  quali  non  è 
compiuta  la  casa.  Trovamento  è  uà  pensamento  di 
trovare  nel  suo  cuore  cose  vere,  o  verisimili  a  prova- 
re sua  materia,  e  questo  è  fondamento  e  fermezza  di 
tutta  questa  scienza.  Che  innanzi  che  V  uomo  dica,  o 
scriva,  dee  trovare  la  ragione  e  li  argomenti  per  pro- 
vare suo  detto,  e  per  farli  credere  a  colui  eoa  cui  par- 


LIBRO  OTTAVO.  257 

la.  Ordine  è  istabilire  suoi  detti  e  snoi  argomenti,  che 
ha  1  rovai i  ciascun  in  suo  luogo,  acciò  che  possano  me- 
glio valere,  cioè  a  dire,  che  innanzi  dee  mettere  le  for- 
ti ragioni  intomo  al  cominciamento,  e  nel  mezzo  le 
fragili,  e  nella  fìne  li  argomenti,  ne'  quali  egli  più  si  fi- 
da che  il  suo  avversario  non  vi  possa  dire  parola  con- 
traria. Elocuzione  è  lo  ritorno  del  parlare,  e  di  sen- 
tenze avvenevoli,  a  ciò  eh'  egli  trova.  Che  trovare  e 
pensare  poco  vanebbero,  senza  accordare  le  parole  a 
sua  materia.  Che  le  parole  debbono  seguire  la  mate- 
ria, e  non  la  materia  le  parole,  però  che'l  motto,  o  una 
buona  sentenza,  o  proverbio,  o  una  similitudine,  od  uno 
esempio,  eh' è  simile  alla  materia,  conferma  tutto  il  suo 
dello,  e  fililo  bello  e  credevole.  E  però  il  parlatore,  quan- 
do (ralla  di  oste,  o  di  fornimento,  dee  dire  parole  di 
guerra,  o  di  vittoria.  Ed  in  dolore,  parole  di  cruccio. 
Ed  in  gioia,  parole  d'allegrezza.  Memoria  si  è,  ricordarsi 
fermamente  di  quello,  eh'  egli  ha  pensalo,  e  messo  in 
ordine,  però  che  lutto  sarebbe  niente  se  non  se  ne  ri- 
cordasse quando  egli  è  venuto  a  parlare.  E  non  pensi 
nessuno  che  ciò  sia  naturale  memoria,  eh'  è  una  virtù 
dell'  anima,  che  si  ricorda  di  ciò  che  noi  apprendiamo 
per  alcun  senso  del  corpo  ^  anzi  è  memoria  artificia- 
le, che  l' uomo  imprende  per  dottrina  di  savi,  a  rite- 
nere ciò  che  pensa  ed  apprende  per  l' opera,  ed  a  di- 
re ciò  eh'  egli  ha  trovato  e  stabitìto  nel  suo  pensiei'o, 
e  nella  av  venevolezza  del  corpo,  e  della  voce,  e  del  mo- 
vimento, secondo  la  dignità  delle  parole.  Ed  al  vero 
dire,  quando  il  dicitore  viene  a  dire  il  suo  conto,  egli 
dee  mollo  pensare  sua  materia  e  suo  essere.  Altri- 
menti dee  portare  sue  membra,  e  sua  cera,  e  suo 


258  IL  TESORO. 

Sguardo  in  dolore  che  in  letizia';  ed  altrìmeali  in  mi  luo- 
go che  in  un  altro.  E  però  dee  ciascuno  guardare  chV 
gli  non  levi  la  mano  verso  gli  occhi,  né  la  finonte,  in 
maniera  che  sia  rìprensjbile.  £  sopra  questa 
vale  la  dottrina,  eh'  è  qua  addietro  nel  libro  de* 
e  delle  virtù,  nel  capitolo  della  guardia. 

Capitolo  IV. 
Di  due  maniere  di  parole,  con  lettere  e  con  bocca. 

Appresso  dice  il  maestro,  che  la  scienza  della  rcA- 
torica  è  in  due  maniere.  L' una  si  è  dire  con  bocca; 
r  altra  si  è  mandare  per  lettere.  Ma  V  una  e  P  altia 
maniera  può  essere  diversamente,  s' ella  è  per  conten- 
zione, e  senza  contenzione,  non  appartiene  a  retorica, 
secondo  che  Aristotile  e  Tullb  dissero  apertamente. 
Ma  Gorgias  disse,  che  tutto  che  li  parlatori  dicono  a- 
pertamente  è  retorica.  Boezio  disse,  eh' e' si  accorda  a 
ciò,  che  ciò  che  a  dire  si  conviene,  puote  essere  ma- 
teria del  dettatore.  E  chi  ben  vole  peosare  la  sottilitìi 
di  quest'  arte,  sì  trova  che  ta  prima  sentenza  è  di  mag- 
gior valore.  Però  chiunque  dice  di  bocca,  o  manda 
lettere  ad  alcuno,  egli  il  fa  per  muovere  il  cuore  di 
colui,  od  a  credere,  od  a  volere  quello  che  dice,  o  no. 
£  s' egli  no  '1  &,  io  dico  che  suo  detto  non  appartie- 
ne alla  scienza  di  retorica  ;  anzi  è  del  comune  parlare 
delli  uomini,  che  sono  senz'  arte,  o  maestria.  E  questo 
sia  dilungato  da  noi,  e  rimanga  alla  semplicità  de'  vo- 
lani e  del  minuto  popolo,  però  che  a  loro  non  af>- 
partengono  le  cittadine  cose.  Ma  s' egli  fisi  artificial- 
mente per  muovere  lo  cnore  di  colui,  a  cui  egli  par- 


LIBRO  OTTAVO.  369 

la,  o  manda  lettera,  eoo  viene  che  ciò  sia  in  pregio, 
od  in  dimandare  alcuna  cosa,  o  per  consiglio,  o  per 
minaccie,  o  per  conforto,  o  per  comandamento,  o  per 
amore,  o  per  a' tre  simiglianti  cose,  egli  sa  bene,  che 
colui  a  cui  manda  lettere  ^arà  defensìone  oontra  quel 
eh'  egli  manda.  E  però  li  savi  dettatori  confermano  le 
loro  lettere  con  buone  ragioni  e  con  forti  argomenti^ 
che  V  aiutano  a  ciò  eh'  egli  vole,  sì  come  fosse  alla 
contenzione  dinanzi  lui.  E  cotal  lettera  appartiene  a 
retorica,  cosi  come  le  canzoni,  nelle  quali  Tun  amante 
parla  all'  altro,  sì  come  si  fosse  dinanzi  a  kii  alla  con- 
tenzione. E  però  potemo  noi  intendere,  che  conten- 
zione sono  in  due  modi,  od  in  aperto,  quando  Tuomo 
si  difende  per  bocca  o  permettere,  o  non  in  aperto, 
quando  V  uomo  manda  lettera  fornita  di  buoni  argo- 
menti contra  alla  difesa  che  pensa  che  P  altro  abbia. 
£  tutte  le  contenzioni  appartengono  alla  retorica,  cioè 
delle  cose  cittadine,  e  delle  bisognose  a  principi  delle 
terre,  e  delle  altre  genti  ^  e  non  di  favole,  né  del  mo- 
vimento deir  anno,  ne  del  compasso  della  terra,  ne 
del  movimento  della  luna,  né  delle  stelle,  però  che  di 
tale  contenzione  non  s'intramette  questa  scienza. 

Capitolo  V. 
*  Del  conteadimento  che  nasce  delle  parole  scritte. 

Però  appare  che  tutte  le  contenùoni,  od  elle  tono 
per  parole  scritte,  od  elle  sono  per  parole  a  bocca,  se- 
condo che  Tullio  disse.  E  quello  eh'  è  per  parole  scrit- 
te, puote  essere  in  ciuque  modi.  Che  alcuna  volta  il 
parlare  non  si  accorda  alla  sentenza  di  colui  che  la 


26o  .  IL  Tisoao. 

scrìve.  Ed  alenila  volta  due  parole  in  due  ìnoi^tp»' 
so  si  discordano  iotra  loro.  Ed  alcuoa  volta  pare,  che 
quello  clì^  è  scritto  signiGchi  due  cose,  o  più.  £d  di- 
cuna  volta  addiviene,  die  di  quello  ch^è  scritto  l'uo- 
mo trae  senno  ed  esempio  di  quello  che  debba  fiirfrin 
alcuna  cosa  che  non  sia  scritta.  Ed  alcuna  volta  4  b 
contenzione  su  la  forza  d'  una  parola  scrìtta,  per  sa- 
per quello  ch'ella  significa. 

Capitolo  VI. 
Come  tutte  contenzioni  nascono  in  quattro  cote. 

Da  altra  parte  e'  insegna  Tullio,  che  tutte  conten- 
zioni, o  di  bocca,  o  di  scritta  nascono  del  fatto,  o  del 
nome  di  quel  fatto,  o  di  sua  qualità,  o  di  suo  muta- 
Hicnto.  Perchè  se  V  una  di  queste  quattro  oose  noff 
fosse,  non  vi  potrebbe  nascere  contenzione.  Io  dico^ 
ohe  tu  hai  alcuna  cosa  £itta,  e  sì  li  mostrerò  alcun  se- 
gno per  provare  che  tu  V  abbi  fatto  in  questa  manie- 
ra. Tu  uccidesti  Giovanni^  che  io  ti  vidi  trarre  lo  col- 
tello sanguinoso  del  suo  corpo.  Ma  tu  di',  che  non  vi 
fosti,  (^  dici,  che  non  P  hai  (alto,  ne  ucciso  3  e  così  na- 
sce la  conlcnzionc  del  fatto  intra  me  e  te,  che  è  mol- 
to grave  e  forte  a  provare,  però  che  l' uno  ha  altresì 
forti  argoqaenti  come  P  altro.  La  contenzione  che  na- 
sce del  no  si  è,  quando  ciascuna  delle  parti  conosce  il 
fatto  3  ma  egli  son  iu  discordia  del  no  in  questa  ma- 
niera. Io  dico,  che  questo  uomo  ha  fatto  sacrilegio, 
però  che  ha  involato  uno  cavallo  dentro  ad  una  chie- 
sa. Dice  r  altro,  questo  uomo  non  è  sacrilego,  anzi  è 
ladrone,  e  così  nasce  la  contenzione  per  lo  no  del  fat- 


LIBRO  OTTAVO.  a6l 

to/  E  sopra  ciò  si  convien  pensare,  che  h  V  uno  e  l'al- 
tro. Che  sacrilegio  si  è  furare  le  cose  sagrate  di  luo^ 
go  sagrato^  ma  tntte  maniere  d' involare  è  ladronezzo. 
Ed  a  questa  contenzione  conosce  l' uomo  lo  fatto  ^  ma 
egK  sono  in  discord]5  del  nome  di  quel  fatl!b  solamen- 
te. La  contenzione  che  nasce  della  qualitade  si  è  quan- 
do r  uomo  conosce  il  fatto  e  lo  nome,  ed  egli  si  di- 
scorda dalla  maniera  del  &tto,  cioè  della  forza,  e  del- 
la quantità ,  e  della  comparazione.  Ragione  come  io 
dico*,  che  questo  è  un  crndel  fiitto,  o  che  è  più  crude- 
le, che  non  è  queir  altro,  o  che  questo  è  ben  (atto,  se- 
condo ragione  e  secondo  giustizia^  e  l'altro  dice,  che 
non  è.  E  quando  CateUina  disse  a  Tullio,  che  non 
era  tanto  valuto  al  comune  di  Roma,  come  egli.  E 
quando  il  senatore  dicea,  meno  vale  a  distruggere  Car- 
tagine, che  lasciarla.  E  quando  Giulio  Cesare  diceva, 
io  cacciai  Pompeio  giustamente.  Io  dico,  che  le  que- 
stioni tutte  nascono  della  qualità  del  fetto,  e  non  del 
fatto  e  del  suo  no.*  La  contenzione  che  nasce  del  mu- 
tamento si  è  quando  un  comincia  una  questione  3  e 
l'altro  dice,  che  la  dee  essere  rimossa,  però  che  non 
si  mutò  contra  colui  a  cui  doveva,  o  no,  davanti  quel- 
la legge,  o  di  quel  peccato,  o  di  quella  pena.  La  con- 
tenzione che  nasce  della  qualità  del  fatto,  come  che  il 
fatto  sia,  Tullio  dice,  ch'ella  si  divide  in  due  parti. 
L'una  si  è  diritto,  che  pensa  delle  cose  pi*esenti  e 
dello  future,  secondo  l'uso  del  diritto  del  paese.  Ed  a 
[•10 vare  ciò  sì  si  travagliano  i  parlatori  [>er  la  compa- 
razione che  a  loro  cade  a  far  delle  simiglianti  cose,  o 
delle  contrarie.  L'altra  si  è  di  legge,  chb  considera 
solamente  nelle  cose  passate  secondo  I^gc  scritta.  Ed 

i5* 


363  li.  TflfOlO. 

in  ciò  basta  a  dire  quello  eh*  ò  scritto  odia  ìeggBj  le- 
coodo  uso  delle  cose  giudicale,  snelle  sono  g'^fftfwf-, 
le  filile,  o  oontra  a  giustizia.  E  d^mi  uomo  s'  e|^  è 
degno  di  pena,  o  di  merito.  E  questa  medesìnB  di*i 
della  leggasi  è  doppia  diiani.  Che  par  sua  cìmrbi 
Ibostra  immanliDenle  se  la  cosa  è  buona,  o  ria,  o  di 
ragione,  odi  torta  Ed  è  un'altra  impronlena,  che pff 
sf  non  ha  nulla  difesa  s'ella  non  V  impronta  di  fimi 
E  suo  impronto  è  in  quattro  maniere,  o  per  cono- 
scenza, o  per  rìmutamea,  o  per  vendetta,  o  per  aosn 
[«razione.  (Conoscenza  si  è  quando  non  n^a,  uè  doo 
difende  lo  fiitto;  anzi  dimanda  che  Puomo  K  perdoaL 
E  può  dò  essere  in  due  maniere.  L' una  senza  col- 
pa, e  V  altra  per  preghiera.  Senza  colpa  è,  quand'e- 
gli dice,  che  noU  fece  scientemente  ;  anzi  per  non  sa- 
pere, o  per  necessità,  o  per  impacdamento^  e  preghie- 
ra; e  qoand'  egli  prega  che  li  perdoni  la  sua  oftia, 
.  e  questo  non  addiTiene  spesse  Tolte. 

• 

Capitolo  VIL 

Di  rimutamento  di  molte  maniere. 

Rimutanza  si  è,  quando  T  uomo  si  vole  cessare  del 
mìs&tto  eh'  egli  non  fece,  e  ch'egli  non  v'  ebbe  col- 
[)a  anzi  lo  mette  sopra  un  altro.  E  cosi  si  sforza  di 
rimutare  lo  fatto  e  la  colpa  da  sé  ad  un  altro.  E  dò 
può  essere  in  due  maniere,  o  mettendo  sopra  l' altro 
la  col[)a,  o  la  cagione  ;  e  mettevi  lo  &tto.  E  certo  la 
cagione  e  la  colpa  mette-  egli  soj)ra  all'  altro,  quando* 
(lice,  dò  eh'  è  addivenuto,  è  addivenuto  per  la  forza 
e  |)or  la  signoria  «che  quell'altro  avea  sopra  colui  che 


LIBRO  OTTAVO.  265 

si  difende.  Lo  fiitto  poof  egli  mettere  sopra  un  altro, 
quand^  egli  dice,  che  no^l  fe^  ne  non  fa  &tto  per  col- 
pa, né  per  cagione  di  Id.  Ma  egli  mostra,  che  quelPal- 
tro  lo  fece,  però  che  potea  e  dovea  &rlo.  Vendetta 
si  è  quando  Puomo  conosce  bene  ch^egli  fé  ciò  che 
r  uomo  dice  di  lui  ^  ma  non  mostra  che  ciò  fu  fatto 
ragionercdmente,  e  perciò  è  Yendetta,  perdiè  dinanzi 
avea  egli  ricevuto  lo  perchè.  Comperazioiie  è  quando 
conosce  che  fé  quello  che  V  uomo  gli  oppone  ^  ma  egli 
non  mostra  di'  egli  lo  feoesse  per  compire  un'  altra 
cosa  onesta,  che  altrimenti  non  potrebbe  essere  me* 
nato  a  buon  fine. 

CikPiTOLO  Ym. 

Di  che  r  uomo  dee  considerare  in  sua  materia. 

Anche  ne  insegna  Tullio  che  noi  pensiamo  sopra 
questa  nostra  materia,  della  quale  noi  dovemo  paria- 
re,  o  scrìvere  lettere,  s'ella  è  semplice,  d'una  cosa  So- 
lamente, o  di  molle.  E  poi  che  noi  avemo  considerato 
diligentemente  lo  conoscimento  della  contenzioAe,  e 
tutto  suo  essere,  e  le  sue  maniere  ^  anche  ci  conviene 
sapere,  che,  e  come  è  Id  questione,  e  la  ragione,  e  'l 
giudicamento,  e  '1  confermamento  della  contenzione. 

Capitolo  IX.        • 
dome  dee  enere  stabilito  V  intendimento. 

Per  questo  insegnamento  che  'l  maestro  divisa  qua 
a  dietro,  dovete  voi  intendere,  <^  contenxione  non  è 
altra  cosa  chela  disoordia  ch'è  intra  due  parti, ointra 


:ì64  '''  TESOHO. 

due  deltalori,  si  come  V  uno  dice  ch^  e^lì  ha  detto,  e 
r  ullro  dice,  aon  Im.  E»  quando  sono  a  ciò  veooti,  aU 
loia  si  convien  vedere  s^  egli  ha  diritto,  o  se  no;  e 
quesl'  è  la  conteiìzionc  della  questione.  Ma  però  che 
})04*o  si  vale  a  dire^  ch^egli  iia  diritto,  se  non  moslia 
lagioiie,  pcrdìè  conviene  che  dica  immantinente  k 
))ro|iria  ragione  per  la  quale  egli  sì  si  credea  aver  di- 
rilto  nella  sua  questione,  però  che  s^  egli  non  dicesse 
iminaiitinenle,  sua  questione  per  mala  difesa  sarebbe 
iìevole^  e  quando  egli  lia  detto  la  sua  ragione,  perchè 
egli  ferì  lo  suo  avversario,  dice  altri  suoi  argomenti 
per  infievolire  la  ragione  che  Paltro  mostra,  e  per  avvi^ 
lire  sua  difesa.  Ed  allora  nasce  il  giudicio  sopra  fl  det- 
to deir  uno  e  delP  altro,  per  giudicare  se  quegli  ha 
diritto  per  la  ragione  ch^  egli  ha  dimostrata.  E  quando  , 
sono  a  ciò  venuti,  immantinente  dicono  loro  confer- 
luameuto,  ciò  è  a  dire,  U  forti  argomenti  e  le  buòne 
ragioni  die  più  vagliono  a  giudicamento.  In  questa 
maniera  ordinano  li  savi  le  lettere  e  le  paix>le  per  mo- 
strar il  diritto,  e  per  conformare  la  ragione.  £  sap- 
pila lef  che  tutte  maniere  di  contenzione,  tanto  quanto 
egli  hanno  discordia  e  di  capitoli  questionali,  altret- 
tanto vi  conviene  avere  di  questione,  e  di  ragione,  e 
di  giqdido,  e  di  confermamento  ^  salvo  che,  quando 
la  contenzione  nasce  del  fatto,  di  che  V  uomo  conosce, 
lo  certo  giudicio  non  può  essere  sopra  la  ragione,  pe- 
rò ohi  nega,  e  non  assegna  nulla  dì  sua  negazione,  al- 
lora il  giudicamento  è  sopra  la  ragione  solamente,  ciò  è 
a  dire  s'^egli  fece  dò,  o  no.  E  non  dee  .l' uomo  pen- 
sare, che  questo  insegnamento  sia  follemente  donato 
in  su  le  contenzioni,  che  sono  in  piato,  od  in  corte  j 


LIBRO  OTTAVO.  265 

anzi  sono  in  lutti  i  fatti  che  V  uomo  dice,  consigliane 
(io,  o  pregando,  od  in  messaggio^  od  in  altra  maniera. 
Ed  in  lettere  che  V  nomo  mandi  altrui,  osservi  que- 
sto medesimo  ordine,  perchè  non  ti  dimanda  egli 
quello  che  vole  ;  e  questo  si  è  come  questione,  per- 
chè egli  è  in  questione,  ed  in  paura  che  P  altro  si  di- 
fenda per  alcuna  ragione  contra  sua  richiesta.  B  però 
dice  egli  la  ragione  immantinente,  per  la  quale  P  altro 
debba  fiire  ciò  ehe  chere.  £  perchè  P  altro  non  possa 
infievolire  con  quella  ragione,  mette  egli  forti  argo- 
menti, de'  quali  egli  si  fida  più.  Ed  alla  fine  della  sua 
lettera,  fò  egli  lo  accoglimento,  là  ove  dimanda,  che 
s'*egli  fa  quello  ch^egli  richiede,  che  ne  nascerà  que- 
sto e  quello.  E  ciò  è  in  luogo  di  giudicio  e  di  con- 
iermamento.  Ma  di  questo  divisamento  tace  il  conto, 
per  dire  delP  altre  parli  di  buona  parlatura,  che  è  bi- 
sogno nel  conto.  Che  alla  verità  dire,  P  uomo  non  dee 
pensare  solamente  quello  che  dee  contare  dinanzi  ;  ma 
conviene  stabilire  le  primaie  parole  e  le  diretane,  se 
('gli  vole  che  il  suo  detto  sia  bene  accordante  a  sua 

materia. 

Capitolo  X. 

Di  (lue  maniere  di  parlamenti,  cioè  iu  prosa  «ed  in  rima. 

La  divisione  di  tutti  parlatori  si  è  in  due  maniere. 
L*  una  è  in  prosa  e  P  altra  in  rima.  Ma  la  dottrina 
(Iella  retorica  è  comune  ad  amènduc  ;  salvo  che  la  vìa 
di  prosa  è  larga  e  piena,  sì  come  la  comune  parlatura 
(Iella  gente.  Ma  lo  sentiero  di  rima  è  più  stretto  e  più 
forte,  sì  come  quello  eh'  è  chiuso  e  fermato  di  muri  e 
di  palagi ,  cioè  a  dire  di  peso  e  di  mispra  e  .di  nu- 


266  IL  TESORO» 

mero  certo,  di  che  V  nomo  non  può  e  noD  dee  tn- 
passare.  Gh^^  chi  voi  bene  rimare,  dee  ordinare  le  sfl- 
labe  in  tal  modo,  die  emersi  siano  aooordeToli  in  no- 
merò, e  che  TuDo  non  abbia  pia  che  F  altro.  Appre- 
so ciò  gli  convien  misurare  le  due  dìretaoe  sìIUm 
del  verso,  in  tal  maniera,  che  tutte  le  lettere  delle  di« 
retane  sillabe  sieno  simili,  ed  almeno  le  vocali  deUs 
sillaba  che  va  dinanzi  alla  diretana.  Poi  li  conviene 
cootrappesare  la  intenzione.  Che  se  tu  accordi  le  let- 
tere e  le  sillabe  per  rima,  e  non  sia  diritto  alla  inten- 
zione, si  discorderà.  £  se  ti  conviene  parlare,  o  per 
rima,  o  per  prosa,  guarda  chel  tuo  detto  non  sii 
magro,  ne  semplice,  anzi  sia  pieno  di  diritto  e  di  seo- 
no,  ciò  è  a  dire  di  diritto  e  di  sentenza.  Gruarda  che^ 
tuoi  motli  0on  sieoo  lievi,  anzi  sieno  di  gran  peso  ;  ma 
non  di  sì  grande,  che  feccia  traboccare.  E  guarda  che 
non  apportino  laido  nullo,  anzi  abbia  bel  colore  den- 
tro e  di  fuore.  £  la  scienza  di  retorica  sia  nelle  tue 
dipinture ,  per  dare  colore  in  rima  ed  in  prosa.  Bla 
guarda  di  troppo  di[>ignere,  che  alcuna  fiata  è  colore 
lo  schifare  de^  colori. 

Capitolo  XI. 

Ora  dirà  il  maestro  delTordine. 

In  questa  parte  passata  ha  divisato  il  maestro  il 
fondamento  e  la  natura  di  questa  arte,  e  come  V  uo* 
mo  dee  stabilire  sua  materia  per  ordine  e  per  parte. 
Ma  per  meglio  schiarare  ciò  ch^  egli  ha  detto,  dirà 
delle  circostanze  che  appartengono  alP  ordine  di  que- 
sta art^.  Ch'  egli  non  volse  fere  come  fece  Ciclico, 


LIBRO  OTTkVO.  267 

ili  coi  parla  Orazio,  egli  non  vole  tornare  la  lumiera 
in  fomo,  anzi  del  fumo  farà  lumiera.  Che  tutto  quel- 
lo die  dice  per  circostanze,  mostrerà  per  esem[Ho.  E 
Toi  avete  nel  comindameoto  di  questo  libro,  che  poi 
che  Tuomo  ha  trovato  nel  suo  cuore  quello  che  ^1  vole 
dire,  sì  dee  ordinare  suo  detto  per  ordine,  ciò  è  a  dire 
ch^  egli  dica  ciascuna  cosa  in  suo  luogo.  E  questo  di- 
re ordinato  è  in  due  maniere.  L' una  è  naturale, -e 
\to-9rtì&dale.  La  naturale  se  ne  va  per  lo  gran  cann 
mino,  né  non  esce  ne  d' una  parte^  ne  d^  altra,  dò  è  a 
dire^  le  cose  secondo  di' elle  fuco  del  ooininciamento 
alla  fine,  quel  dinanzi  dinanzi,  qud  di  mezzo  di  mez- 
zo, e  qud  ddla  fine  dietro.  £  questa  maniera  di  par- 
lare è  senza  grande  maestrìa  d^arCe,  e  però  non  se  ne 
intramette  questo  libro. 

Capitolo  XII. 

Del  parhre  artifiGialinente. 

L^  ordine  dd  parlare  artificiale  non  si  tiene  al  gran 
cammino,  anzi  ne  va  per  sentieri,  e  per  dirizzamento^ 
vhe  1  mena  più  avacciamente  là  ov^  egli  vole  andare. 
Qiè  egli  non  disse  ciascuna  cosa  secondo  eh'  ella  fu  ; 
uDzi  muta  quel  dinanzi  nel  mezzo,  o  dietro  nel  suo 
dire,  e  non  disavvedutamente,  ma  con  senno,  per  af- 
fermare sua  intenzione.  E  però  muta  il  parlatore  spes- 
se volte  il  suo  prologo,  e  sue  condizioni,  e  P  altra  par- 
te del  suo  conto,  e  non  le  mette  nd  naturale  luogo  ^ 
anzi  là  ove  eglino  più  vagliono.  Però  die  le  più  fer- 
me cose  si  vogliano  mettere  al  cominciamento  ed  alla 
fine,  e  le  più  fragili  nd  mezzo.  E  quando  tu  voli  rì^ 


sGS  Us  TBSOKO. 

AjKHidere  a  tuo  avversano,  tu  dei  cominciare  tuo  conio 
alla  sua  dirctana  lagione,  nella  quale  egli  per  avreo- 
tura  più  si  fida.  Simtgliantemenie  è  dì  colui  clie  voie 
contare  una  vecchia  istoriale  gli  è  buono  lasciare  Io  suo 
diritto  corso,  e  variare  suo  ordine,  io  tale  mòdo,  che 
paia  nuova.  £  questo  medesimo  vale  mollo  io  sarmo- 
nai^,  ed  in  tre  cose,  clie  V  uomo  dee  guardare  alla  fi- 
ne, ciò  che  più  piaccia,  e  ciò  che  più  si  muova  gli  aa- 
ditori.  E  questo  ordine  artificiale  è  diviso  in  otto  mt- 
iiiere.  La  prima  si  è,  a  dire  al  cominciamento  qudhi 
che  fu  alla  fine.  La  seconda  è,^  cominciare  a  qud  che 
fu  nel  mezzo.  La  terza  si  è,  fondare  lo  tuo  conto  ad 
uno  proverbio.  La  quarta  si  è,  fondare  secondo  che 
sogna  lo  mezzo  del  proveii)io.  La  quinta  si  è,  fondare 
la  fine  del  proverbio.  La  sesta  si  è,  fondare  tuo  conto 
ad  uno  esempio,  scc(mdo  che  significa  il  cominciamen- 
to (Idr  esempio.  La  settima  si  è,  fondare  secondo  la 
significuzioue  del  mezzo  delP  esempio.  La  ottava  si  ^, 
fondare  tuo  conto  secondo  la  significazione  dclb  fine 
deir  esempio.  La  fine  della  cosa  comincia  quegli  che 
dire:  addivegna  che'l  sole  quando  si  colca  ri  lasri 
iscura  notte,  la  mattina  torna  chiara  e  lucente.  E  que- 
gli rl;e  dice:  Abraam,  quando  volea  uccidere  lo  fi* 
gli  nulo,  per  rendere  sacrificio  a  Dio,  T  angiolo  gli  recò 
un  montone  per  fare  lo  sacrificio.  Il  simile  fece  Virgi- 
lio, (piando  cominciò  la  istorìa  di  Troia  e  di  Roma, 
(;lic  cominciò  lo  suo  libro  da  Enea,  quando  egli  fuggì 
dalla  distruzione  di  Troia.  Nel  mezzo  della  cosa  co- 
mincia  quegli  che  dice:  Abrdam  lasciò  lo  suo  serva 
col  somiere  a  pie  del  moni  e,  perchè  non  volea  eh'  egli 
sapesse  sua  volontà.  La  similitudine  del  cornine iamcn- 


LIBRO  OTTAVO.  269 

te  del  proverbio  comincia  quegli,  che  dice  :  molto  ^r- 
ve  grande  merito,  chi  ha  buona  fede  serve  volentieri 
e  avaccio,  si  comeÀbraam  fé,  che  quando  Dio  gli  co- 
mandò ch^  egli  uccidesse  lo  suo  figliuolo,  incontinente 
andò  a  compire  lo  suo  comandamento.  Alla  signifì- 
canza  del  mezzo  del  proverbio  comincia  quegli  che  '^■ 
dice  :  lo  servo  non  dee  sapere  lo  secreto  del  suo  si- 
gnore^ e  però  lasciò  Àbraam  lo  suo  servo,  quand'egli 
andò  sul  monte  per  fare  suo  sacrificio.  Secondo  la  fi- 
ne del  proverbio  comincia  quegli  che  dice  :  non  è  de-* 
gna  cosa,  che  intera  fede  perda  suo  merito^  e  però  li- 
berò Dio  Abraam  del  suo  sacrificio,  che  già  era  il  fi- 
gliuolo legato,  e  posto  sulP  aliare  del  sacrifìcio.  Se- 
condo che  significa  lo  cominciamento  d' un  esempio, 
comincia  quegli  che  dice  :  buono  arbore  fa  buon  frut- 
to; e  però  vuolse  Iddio,  che'l  figliuolo  d' Abraam  fos- 
se messo  sopra  al  suo  altare,  che  non  vi  morisse.  Alla 
signìfìcanza  del  mezzo  dell'  esempio  comincia  quegli 
che  dice  :  Tiiomo  dee  trarre  del  grano  ogni  mal  seme, 
acciò  che'l  pane  non  sia  amaro;  e  però  lasciò  Abraam 
lo  suo  servo,  perchè  non  U  impacciasse  lo  suo  sacrifi- 
cio. Alla  signìfìcanza  della  fine  dell'esempio  comincia 
quegli  che  dice:  si  come  il  sole  non  perde  la  sua  chia- 
rezza per  la  notte,  cosi  il  figliuolo  d'  Abraam  non 
perde  sua  vita  per  lo  sacrificio  del  suo  padre;  anzi 
turno  bello  e  chiaro,  sì  come  il  sole  quando  si  leva. 
Or  avete  udito,  diligentemente  come  il  parlatore  può 
dire  il  suo  conto  secondo  ordine  naturale,  come  egli 
puote  dire  secondo  ordine  artificiale  in  olio  manie- 
re. £  sappiale,  che' proverbi  ed  esempi  che  si  accor- 
dano alla  materia  sono  molto  buoni;  ma  non  siano 


2^0  IL  TESORO. 

troppo  spessi,  percliè  allora  sarebbero  elli  gravi  e  so- 
spetti. 

Capitoix)  XUL  . 

Come  lo  parlatore  dee  considerare  la  lua  materia 
dinanzi  che  dica,  o  scriva  suo  conto. 

Appresso  conviene  che  tu  guardi  in  tua  materia 
quattro  cose,  se  tu  voli  essere  buon  parlatore,  o  bea 
dettare  saviamente  lettere.  La  prima  si  è,  dbe  m  tu 
hai  materia  lunga,  o  scura,  che  tu  la  debbi  abbrevia- 
re per  parole  brevi  ed  intendevoli.  La  seconda  si  è, 
che  se  tu  hai  materia  e  breve  ed  oscura,  che  to  b 
debbi  a^escere  ed  aprire  bellamente.  La  terza  «  è,  che 
se  tu  hai  materia  lunga  ed  aperta,  tu  la  dei  abbrevia- 
re, e  rinforzare  di  buoni  motti.  La  quarta  si  è,  che  se 
tu  hai  materia  breve  e  lieve,  tu  la  dèi  allogare,  ed  or- 
nare a  v  vene  volmente.  Ed  in  questa  maniera  dèi  tu  pen- 
sare in  te  medesimo,  e  conoscere  se  la  materia  è  lun- 
ga, o  breve,  o  scura,  sì  che  tu  possi  ordinare  ciascuna 
secondo  suo  ordine.  Che  materia  si  è  come  la  cera, 
che  si  lascia  menare,  crescere,  e  mancare  a  voloatade 

del  maestro. 

Capitolo  XIV. 

Come  lo  uomo  può  accrescere  il  auo  conto 
in  otto  maniere. 

■ 

Se  tua  materia  è  da  crescere,  puoila  crescere  in  ot- 
to maniere,  che  si  chiamano  colorì  di  relorica;  Onde 
la  prima  sì  chiama  ornamento,  che  tutto  ciò  che  T uo- 
mo può  dire  in  tre  modi,  od  in  quattro,  in  poche  pa- 
role, elli  Taccrescono  per  parole  più  lunghe  e  più  av- 


KIBRO  OTTAVO.  ^Jt 

Tene  voti,  che  dicono:  lesa  Cristo  nacque  della  Ter- 
gine Maria.  Lo  parlatore  che  vole  ciò  adornare,  dirà 
così  :  Lo  benedetto  figliuolo  di  Dio  prese  carne  della 
gloriosa  Tergine  Maria;  che  tanto  vale  a  dire^  come 
quel  poco  dinanzi.  O  se  io  dicessi  :  Giulio  Cesare  fa 
imperatore  di  tutto  il  mondo.  Il  parlatore  che  ^  suo 
detto  Torrà  crescere,  dirà  così:  Lo  senno  e 'I  valore 
del  buono  Giulio  Cesare  sottomise  tutto  il  mondo  a 
sua  suggestione,  e  fu  imperadore  e  signore  in  terra.  La 
seconda  sì  chiama  tomo,  che  là  ore  tua  materia  è 
tutta  breve,  tu  cambierai  li  propri  motti  e  muterai  li 
nomi  delle  cose  e  delle  persone  in  Hiolte  parole  bel^ 
lamente  intorno,  e  &rai  punto  al  tuo  detto,  e  ripose- 
rai il  tuo  spirito,  tanto  quanto  tu  allogherai  tuo  detto, 
ed  4n  senno  ed  in  parole.  £  questo  può  essere  in  due 
maniere,  o  ch^  egli  dica  la  verità  chiaramente.  Ed  al- 
lora se  voli  dire,  il  si  fa  di,  dirai  :  e^comincia  già  il  sole 
a  spandere  i  raggi  suoi  sopra  la  terra.  O  ch^egli  lascia 
la  verità  per  suo  ritorno,  che  tanto  vale  secondo  VlL- 
postolo,  che  dice,  egli  hanno  rimutato  V  uso  ch^  è  di 
natura,  in  quelPuso  eh' è  contra  natura;  perciò  ritor- 
nò r  A  postolo,  e  schiva  una  laida  parola,  ch'egli  volea 
dire;  e  disse  quello  che  tanto  vale.  Lo  terao  si  è  co- 
lofe  per  accrescer  tuo  detto,  e  chiamasi  comparazione, 
e  questo  è  il  più  bello  accrescere  e  'l  più  avvenevole 
che  'l  parlatore  faccia,  ma  egli  è  diviso  in  due  manie- 
re, cioè  coverta  e  discoverta.  Che  discoverta  si  fa  co- 
noscere per  tre  motti,  che  significano  comparazione, 
cioè  più^  e  meno,  e  tanto.  Per  questo  motto  più,  dice 
V  uomo  così,  questo  è  più  forte  che  U  leone.  Per  que- 
sto motto  meno,  dioe  roomo  cosi,  qdbsto  è  meno  crac- 


373  Hi  TESORO. 

cevole  che^l  colombo.  Per  questo  motto  tanto,  dìee 
raomo  così,  questo  è  tanto  codardo  quanto  lepre.  Li 
seconda  maniera  ch^  è  coverta,  non  si  (a  conoscere  a 
questi  segni,  ed  ella  non  Tiene  in  sua  figura  3  anzi  mo- 
stra un^  altra  sìgnifìcanza  di  fuori,  ed  è  quasi  giuolt 
con  la  verità  dentix>,  come  s^  ella  fosse  della  matsrìa 
medesima.  D^  un  uomo  pigro  io  dirò,  questo  è  una  te« 
sloggine.  E  d^  un  isnello  io  dirò,  questo  è  an  Tento.  £ 
sappiate,  che  questa  maniera  di  parlare  è  molto  buo- 
no, e  molto  cortese,  e  di  buona  sentenza.  E  pooHa 
r  uomo  molto  trovare  ne^  detti  de^  savi*  Lo  quarto 
colore  si  chiama  lamento,  però  che  T  uomo  parla,  sì 
come  gridando,  e  piangendo  di  croccio,  o  per  disde- 
gno, o  [)cr  altre  cose  simigliantì.  Ragione  come:  Ahi 
natura  !  perchè  facesti  tu  loro  giovane  sì  pieno  di  tutti 
buoni  alti,  quando  il  dovevi  cosi  tosto  lasciare?  Ahi 
mala  murte!  or  fossi  tu  disfatta,  quando  tu  n^hai  por- 
tato lo  fiore  del  mondo!  Lo  quinto  colore  ha  nome 
fattura,  però  che  V  uomo  fa  una  cosa  che  non  ha  po- 
dere, né  cura  di  parlare,  sì  come  se  la  paiiasse.  Si  co- 
me noi  polcmo  vedere  delle  genti  che  ciò  dicono  di 
bestie,  o  d'altre  cose,  sì  come  avessero  parlalo.  E  que- 
sto è  sì  inlcodevole,  che  '1  maestro  non  intende  a  ciò 
porre  alcuno  esempio.  Lo  sesto  colore  si  chiama  tra- 
passo, però  che  quando  il  parlatore  ha  cominciato  suo 
detto  per  dire  suo  conto,  egli  se  ne  parte  un  poco  e 
trapassa  ad  un'altra  cosa  di' è  simigliante  a  sua  mate- 
ria, ed  allora  è  egli  buono  ed  utile.  Ma  se  quel  tra> 
I  tasso  non  è  bene  accordante  a  sua  materia,  certo  ella 
sarà  malvagia  e  dispiacevole.  E  però  fé  bene  Giulio 
Cesare,  quando  egli  volse  difendere  quelli  della  con- 


LIBRO  OTTAVO.  273 

giarazione  di  Roma,  egli  fé  suo  trapasso  al  perdono,  il 
quale  i  loro  aotichi  avevano  per  addietro  fatto  a  quegli 
di  Rodes  e  di  Cartagine.  E  così  fé  egli  quando  li  vol- 
se giudicare  a  morte,  egli  contò  Maolio  Torquato,  co- 
me egli  giudicò  a  morte  suo  figliuolo.  Altresì  trapassa 
V  uomo  spesse  volte  alla  fìne,  od  al  mezzo  di  sua  ma- 
teria, pei;rinnovare  quello  che  parea  vecchio,  o  per  al- 
tra buona  ragione.  Lo  settimo  colore  si  chiama  dimo- 
stramento,  e  dice  la  proprietà  e' segni  della  cosa  e  del- 
r  uomo  che  si  appartenga  di  provare  a  sua  materia  ; 
si  come  la  Scrìtlura  dice  :  egli  avea  nella  terra  di  Hus 
uno  uomo  che  area  nome  lob,  semplice,  diritto  e  te- 
mente Iddio.  Che  fé  Tristano  quando  divisò  la  beltà 
di  Isotta?  Suo'capigli  (disse)  risplendono  come  fila  d^o~ 
ro,  la  sua  fronte  sormonta  sopr^al  giglio,  sue  nere  ci- 
glia sono  piegate  come  piccoli  arcoucelli,  ed  una  pie- 
dola  via  le  dipaite  mezzo  lo  suo  naso,  e  sì  per  misu- 
ra, che  non  ha  più,  né  meno;  suoi  occhi  sormontano 
tutti  smeraldi  lucenti  nel  suo  viso  come  due  stelle;  sua 
faccia  seguita  la  beltà  delP  aurora,  perchè  la  ha  di  ver- 
miglio e  di  bianco  insieme,  che  V  un  colore  con  P  al- 
tro non  risplende  malamente  ;  la  bocca  piccola,  e  la- 
bra  spesse,  ed  ardenti  di  bel  colore  ;  e  denti  più  bian- 
chi che  avorio,  e  sono  posti  per  ordine  e  per  misura; 
né  pantera,  né  pesce  non  si  può  comparare  al  suo  dol- 
ce fiato  della  sua  dolce  bocca;  lo  mento  è  assai  più 
pulito  che  marmo  ;  latte  dà  colore  al  suo  collo  ;  e  cri- 
stallo risplende  alla  sua  gola;  delle  sue  spalle  escono 
due  braccia  forti,  e  lunghe,  e  bianche  mani,  e  le  dita 
grandi  e  ritonde,  nelle  quali  risplende  la  beltà  délFun- 
ghie  ;  lo  suo  petto  è  ornato  di  due  belli  pomi  di  pa- 


a^^  IL  TESORO. 

radiso,  e  sono  com^  una  massa  di  neve^  ed  è  sì  isnella 
nella  cintola,  che  Puomo  la  potrebbe  avvincere  con  le 
mani.  Ma  io  tacerò  dell^  altre  parli  delle  membra,  den- 
tro delle  quali  lo  cuore  parla  m^Uo  cbe  la  lingua. 
L' ottavo  colore  si  chiama  addoppiamento,  pero  dici 
parlatore  addoppia  il  suo  conto,  e  dicelo  due  volte  in* 
sieme.  E  questo  è  in  due  maniere.  L^  una  ^  è,  die 
dice  sua  materia,  ed  immantinente  la  ridice  per  il 
contrario  del  suo  detto.  Io  voglio  dire  d^  un  oooro 
eh'  egli  è  giovane,  ciò  è,  raddoppierò  mio  dire  in  que- 
sta maniera  :  questo  giovane  non  è  vecchio,  e  questo 
dolce  non  è  amaro.  L' altra  maniera  dice  sua  mate- 
ria, ed  immantinente  ridice  altre  parole,  che  cessano 
il  contrario  di  quello  ch'egli  avea  detto  in  questa  ma- 
niera: vero  è  che  quest'uomo  è  giovane,  ma  e*  non  h 
folle  3  e  tutto  che'l  sia  nobile,  egli  non  è  orgoglioso  ; 
egli  è  largo,  e  non  guastatore.  Or  avete  udito  come 
r  uomo  puote  accrescere  la  sua  materia,  ed  allungare 
suo  detto,  che  di  poco  si  cresce  molta  biada,  e  pio- 
ciola  fontana  comincia  gran  6ume;  e  però  è  ragione, 
che  1  maestro  mostri  come  V  uomo  può  abbreviare 
suo  conto,  quand'  è  troppo  lungo.  E  ciò  mostrerà  egli 
qui  innanzi,  là  ove  egli  dirà  del  dire.  Qui  tace  lo  mae- 
stro delia  dottrina  del  gran  parlare,  ciò  è  a  dire  d'un 
conto,  e  d'una  pistola,  che  tu  voli  dire,  o  fare  sopra 
alcuna  materia  che  viene.  Che'l  maestro  chiama  par- 
latura lo  generale  nome  di  tutti  delti.  Ma  tutti  i  conti 
sono  messi  in  uno  solo  detto,  od  in  una  sola  lettera, 
od  altre  cose  che  l' uomo  s' usa  in  materia. 


LIBRO  OTTAVO.  2^5 

Capitolo  XV. 

Delle  parti  del  conto,  e  come  il  parlatore  dee  stabilire 
li  suoi  detti  per  ordine. 

Le  parti  del  conio,  secondo  che  Tullio  c^  insegna, 
sono  sei.  Il  saluto^  il  prologo,  il  dLyisamento,  il  confer- 
mamento^  il  disfermamento,  e  la  conclusione.  Ma  i  det- 
tatori, che  dettano  le  lettere  per  arte  di  retorica,  dicono, 
che  in  una  lettera  non  è  mai  che  cinque  parti,  cioè  sa- 
lute, prologo,  (atto,  la  dimanda,  e  la  conclusione.  E  se 
alcun  dimanda,  perchè  è  discordia  tra  Tu'lio  e' detta- 
tori ?  Io  dico,  che  la  discordia  è  per  sembianza,  e  non 
per  Teritù.  Che  dove  i  dettatori  dicono  che  lo  saluto  è 
la  prima  parte  della  lettera,  Tullio  intese  e  volse,  che 
saluto  fosse  sotto '1  prologo.  Che  tutto  ciò  che  Puomo 
dice  dinanzi  al  fatto,  è  come  apparecchiare  chiara 
sua  materia,  ed  è  prologo.  Ma  li  dettatori  dicono,  che 
la  salute  è  porta  del  conto,  e^suoi  occhi,  e  però  g^ì 
danno  P onore  della  prima  parte  di  lei,  e  ambasciata^ 
però  che  mandare  lettere,  o  messi  tutto  va  per  una 
via.  E  d^altra  parte,  che  Tullio  chiama  il  divisamento, 
li  dettatori  la  comprendono  sotto  il  fatto.  E  quella  che 
Tullio  chiama  confermamento,  li  dettatori  la  (^mpreniil 
dono  sotto  loro  dimanda.  E  per  meglio  intendere  li 
nomi  deir  uno  e  delP  altro,  e  per  conoscere  la  inten- 
zione di  Tullio  e  degli  altri  dettatori,  volse  il  maestro 
dichiarare  ora  le  significazioni  delFuno  e  delPaltro,  e  di 
ciascuna  parte  lo  saio  nome. 


■I. 


•2y6  IL  TESORO. 

Capitolo  XVL 

Delle  sei  pnrti  del  conto  a  parlare  di  bocca. 

Prologo  è  cominciamento  e  la  prima  parte  del  con- 
to, che  dirizza  e  apparecchia  la  via  e  '1  cuore  a  coloro^ 
a  cai  tu  parli,  ad  intendere  ciò  che  tu  diraL  Lo  fìitto  si 
è  a  contare  le  cose  che  furono,  e  che  noo  furono,  à 
com^  elle  fossero.  £  questo  è  quello,  quando  P  aoma 
dice  quello  su  '1  quale  egli  ferma  suo  conto.  Divisa- 
mento  si  è,  quando  V  uomo  conta  lo  fatto,  e  poi  eo- 
mincia  a  divisare  le  partì,  e  dice,  questo  fu  in  tal  ma- 
niera, e  questo  in  tal  maniera  ^  e  accresce  qudle  parti 
che  sono  più  utili  a  luì,  e  più  contrarie  al  suo  avver- 
sario, e  ficcale  lo  più  ch^  egli  può  nel  cuore  di  colui  a 
cui  parla.  £  allora  pare  che  sia  contra  al  i&tto.  £  que* 
sta  è  la  cagione,  perchè  li  dettatori  contano  il  divisa- 
mento  sotto  '1  fatto.  Confermamento  è  la  ove  il  det- 
tatore mostra  le  sue  ragioni,  e  assegna  tutti  li  argomenti 
che  può  approvare  sue  ragioni,  e  accrescere  fede  e 
credenza  al  suo  detto.  Disfermamento  è  quando  il  det- 
tatore mostra  le  sue  buone  ragioni,  e^suoi  forti  argo- 
menti, e  che  indebiliscono  e  distruggono  il  conferma- 
mento di  suo  avversario.  Conclusione  è  la  direttiva 
parte  del  conto.  Queste  sono  le  parole  del  conto,  se- 
condo la  scienza  di  Tullio.  Ora  è  buono  contare  le 
parti  che  i  dettatori  dicono.  £  dirà  prima  della  salate. 


libro  ottavo.  277 

Capitolo  XVIL 
Della  salutazione  delle  lettere  mandate. 

Salute  è  comindamento  di  epistole,  die  nomina 
quegli  che  manda,  e  quegli  che  riceve  le  lettere,  e  la 
dìgnitò  di  ciascuno,  e  la  volontà  del  cuore,  che  quegli 
che  nmnda  ha  contrario  di  colui  che  riceve,  ciò  è  a 
dire,  che  se  gli  è  suo  amico,  si  li  manda  salute;  e  al- 
tre parole,  che  tanto  vagliono,  e  più.  E  se  gli  è  nimi- 
co, egli  si  tacerà;  e  manderalli  alcuna  parola  coperta  e 
discoperta  di  male.  E  se  gli  è  maggiore,  sì  li*  manda 
parole  di  riverenza.  E  cosi  dee  Puomo  fare  a  pari  e 
a  minori,  come  si  conviene  a  ciascuno  ;  in  tal  maniera, 
che  non  abhia  vizio,  né  di  più,  né  di  falsità,  né  di  meno. 
E  sappiate  che  '1  nome  di  colui  ch^é  maggiore  e  di  più 
alta  dignità,  dee  sempre  essere  posto  innanzi,  se  non 
è  per  cortesia,  o  per  umiltà,  o  per  altre  cose  simi- 
glianti.  Del  prologo,  e  del  fatto,  e  della  forza  ha  detto 
lo  maestro  qui  dinanzi  la  signifìcanza  ;  e  però  non  di- 
rà più  ora.  Però  che  i  dettatori  se  ne  accordano  bene 
alla  sentenza  di  Tullio.  Ma  della  dimanda  dice  il  mae- 
stro che  l'è  quella  parte  nella  quale  quella  lettera  e'I 
messaggio  dimanda  ciò  che  vuole,  pregando,  o  coman- 
dando, o  minacciando,  o  consigliando,  o  in  altra  ma- 
niera di  cose,  in  ch'egli  spera  d'acquistare  il  cuore  di 
colui  a  cui  egli  manda.  E  quando  il  dettatore  ha  fini- 
ta sua  dimanda,  o  mostra  suo  confermamento,  o  suo 
disfermamento,  egli  fa  la  conclusione,  cioè  la  fme  del 
suo  detto,  nel  quale  egli  conclude  la  forma  del  suo 
detto  com'egli  è,  e  che  ne  può  addivenire. 

LaHni.  Fot.  IL  16 


»-* 


e  A  r  I Y  o  L  •>  3L  Y  DL 


^t»mA0»  «Ik  Tullio  dinp  nel  suo  liin^  caMfettoi 
csMii  ^.  cIk'  ftofjfa  dv  db  lo  ww  iMi>  la  so»  doUrÌBL 
INcliirTiiUiridiiie.cfaefiffulQgo«aD  dello  die  acqoi^ 
ftU  avT^iMniUmHile  fl  cnofe  di  colui,  a  ciò  lo  pori^ 
ad  fvlire  dù  che  tu  dini.  E  questo  può  euere  io  due 
maoii.'re,  o  per  acquistare  sua  lyfoeTolenza,  o  per  «far- 
ti \tAfmù  d' urlire  tuo  detto.  E  però  io  dico,  cbe  quaiH 
óif  tu  voli  ìftM  ùtr  tuo  prulugo,  il  ti  convieo  ionaoii 
ciriM'l'rrare  tua  ontcria,  e  conusciTc  b  natura  dd  fiit- 
U»9  i:  la  taa  maoieni.  Fa  dunque  come  colui  che  vole 
mÌMirarf',  che  non  corre  aviiccio  dcll^opera,  anzi  la  im- 
sura  nella  lingua  del  suo  cuore,  e  comprende  nella  sua 
memoria  tutto  P  ordine  della  figura.  E  tu  guarda  ciie 
tua  lingua  iKm  sia  corrente  a  parlare,  n^  la  oaoo  a 
scriv(;re,  né  non  cominci  ne  V  una,  né  PaUra  a  riirso  di 
Ibrtuna;  ma  il  tuo  senno  legna  in  mano  T  ufficio  di 
ciascuna  :  in  tal  maniera,  che  la  materia  sia  lungamen- 
te nella  bilancia  del  tuo  cuore,  e  dentro  lui  prenda 
r  ordine  di  sua  via  e  di  suo  fine.  Però  che  i  bisogni 
del  ^h:o\ì)  sono  diversi.  E  però  conviene  parlare  di- 
viTsumcnte  in  ciascuno,  secondo  lor  maniera.  Tallio 
dice,  che  tutti  detti  sono  in  cinque  maniere,  o  egli  è 
oncislo,  o  contrario,  o  vile,  o  dottosò,  o  oscura  £ 
piTÒ  pensa,  che  tu  dei  altrimenti  cominciare  e  segui- 
ne tuo  conto  nell'una  clic  nclP altra,  e  altrimenti  ac- 


LIBRO  OTTAVO.  279 

c{iiìstare  sua  bcncTolenza  e  la  volontà  su  V  una  mate- 
ria che  su  l' altra.  E  sappiate  che  onestale  è  quello 
che  incontanente  piace  a  quelli  che  l'intendono,  senza 
prologo,  e  senza  alcuno  ordinamento  di  parlare.  Con- 
trario è  quello  che  immandnente  dispiace  per  sua  ma- 
lizia. Yile  è  quello  che  dee  intendere  e  non  intendere 
guarì  per  la  viltà.  E  per  la  picciolanza  delle  cose  dot- 
tose,  in  due  maniere,  o  perchè  Puomo  si  dotta  di  sua 
sentenza,  o  perchè  gli  è  da  una  parte  onesta,  e  dal- 
l'altra  disonesta^  in  tal  maniera  che  la  ingeneri  bene- 
volenza e  odio,  e  non  può  intendere,  o  perchè  non  è 
bene  savio,  o  ch'egli  è  travagliato^  o  perchè  tuo  detto 
sia  si  oscuro,  o  coperto,  o  avviluppato^  che  egli  non 
può  bene  conoscere. 

Capitolo   XDL 

Di  due  maniere  di  prologhi,  coverti  e  discoTertì. 

Per  la  diversità  dei  detti  e  delle  cose  sono  li  pro- 
loghi diversi.  E  sopra  ciò  dice  Tullio,  che  tutti  i  pro< 
loghi  sono  in  due  maniere,  l'uno  si  chiama  comincia- 
mento,  e  l' altro  copertura.  Cominciamento  è  quello 
che  in  poche  parole  acquista  la  benevolenza  e  la  vo- 
lontà di  coloro  che  l' odono.  Covertura  è,  quando  iL 
parlatore  mette  molte  parole  intorno  al  fiitto,  e  fa  vi- 
sta di  non  volere  quel  che  vole,  per  acquistare  cover- 
tamente  la  benevolenza  di  goUm^  a  cui  parìa.  E  però 
si  ronvien  sapere  qual  delle  due  parole,  o  prologhi  .dee 
essere  sopra  ciascuna  materia  di  nostro  conto. 


39il  B*  TB9CMO. 

Capitolo   XX. 

Qoak  prolofo 

La  nostra  nnleria  è  d*  onesta  cosa,  sì  che  noo  ▼aok 
«■o^efftuia  Diifla :  nn  inocmlancnle  oomìnciare  nostro 
conto,  e  divisare  nostro  afl&re;  die  la  onestà  ddh 
oo»  abbia  già  arqnislala  la  volontà  degli  aoditori,  m 
tal  maniera  che  per  coverta  non  abbino  a  tfatagfc- 
re.  E  non  pertanto  alcuna  fiata  è  buono  un  belio  pro- 
logo, non  per  acquistare  grana,  ma  per  accresecrk 
E  se  noi  Totemo  lasciare  lo  prologo,  egli  è  buono  a 
cominciare  ad  un  buon  detto,  o  a  mio  acoro  wgih' 

mento. 

Capitolo   XXf . 

Quale  prolo^  cooTÌene  sopra  contraria  materia. 

Quando  la  materia  è  contraria,  o  crudele,  o  centra 
diritto,  che  tu  voli  dimandare  una  grande  cosa,  o  ca- 
ra, o  strana;  allora  dei  tu  pensare  se  Pnditore  è  codh 
11KJ5SO  contra  te,  o  s^  egli  ha  proposto  nel  suo  cuore 
f\i  non  fare  niente  di  tua  richiesta.  Che  se  ciò  fosse, 
ri  ti  conviene  uggire  alla  covertora  e  colore  di  parole 
nel  tuo  prologo,  per  abbassare  suo  cruccio,  e  addolci- 
re sua  durezza:  e  in  tal  maniera  che  suo  cuore  sia  ap- 
pagato, e  tu  n'*aoquisti  sua  grazia.  Ma  quando  suo  cuo- 
re non  è  guari  turbai  contra  te,  allora  ne  potrai  tu 
{lassare  leggermente  per  un  poco  dì  buon  comincia- 
mento.  E  quando  la  materia  è  vile  e  pìcciola,  e  che 
r  uditore  non  intende  a  ciò  se  non  poco,  allora  con- 
viene che  tuo  prologo  sia  ordinato  di  tali  parole  che 


LBHO  OTTAVO.  28 1 

diano  piacere  d^udire,  e  che  n'affini  tua  materia,  e  che 
lo  levino  di  sua  intenzione.  E  quando  la  materia  è  dot- 
tosa,  perchè  tu  dimandi  due  cose,  e  Tuomo  dotta  del- 
la sentenza  la  quale  di  due  cose  dee  essere  affermata^ 
allora  dei  tu  cominciare  tuo  prologo  alla  sentenza  me- 
desima della  cosa  che  tu  voli,  o  alla  ragione  in  che  tu 
più  ti  fidL  E  s'ella  è  dottosa,  perchè  la  cosa  è  d' una 
parte  disones!a,  allora  dei  tu  ornare  tuo  prologo  per 
acquistare  Pamore  e  la  grazia  degli  auditori  ;  in  tal  ma- 
niera, che  paia  loro  che  tutta  la  cosa  è  tornata  one- 
sta. E  quando  la  materia  è  oscura  a  intendere,  allora 
dei  tu  cominciare  tuo  conto  per  parole  che  diano  ta^ 
lento  agli  auditori  di  sapere  quello  che  tu  voli  dire  ; 
e  puoi  divisare  tuo  conto,  secondo  che  tu  penserai  che 
sia  lo  meglio. 

Capitolo    XXIL 

Di  tre  cose  che  sono  bisogno  a  ciascun  prologo,  che  non  può 
essere  buono  senza  V  altro. 

Per  questo  insegnamento  puotemo  sapere,  che  in 
tutte  maniere  di  prologhi,  sopra  qualunque  materia  elli 
sieno,  ci  convien  fiatre  una  delle  tre  cose,  o  d'acquista- 
re la  grazia  di  colui  a  cui  noi -parliamo^  in  donarli  ta- 
lento di  udire  lo  tuo  detto,  o  di  saperlo.  Che  quando 
nostra  materia  è  d' onesta  cosa,  o  maravigliosa,  o  dot- 
tosa,  nostro  prologo  dee  essere  per  acquistare.  Ma  se 
tua  materia  è  vile,  allora  dee  essere  per  darli  talento 
di  udire.  £  quando  la  materia  è  oscura,  allora  dee 
essere  per  darli  talento  di  sapere  quello  che  tu  gli  di- 
rai. E  però  è  ragione  che  '1  maestro  ci  dica  come  ciò 
può  essere,  e  in  che  maniera. 


aSa  IL  TssoBO. 

CAPrTDLO  XXIIL 

DeUa  dottrina  per  acquistare  benetoleiiBa. 

Benevolenza  s^  acquista  da  quattro  parti,  .doè  pec 
nostro  corpo,  o  per  lo  corpo  di  nostro  avversario^  o 
dagli  auditori,  o  dalla  materia  medesima.  Dal  corpo  no- 
stro s^  acquista,  quando  noi  ricordiamo  nostre  opere, 
o  nostre  dignitadi  cortesemente,  senza  nullo  or^oglìp 
e  senza  nullo  oltraggio.  E  quando  Toomo  mette  sopra 
noi  alcun  biasimo,  o  alcuna  colpa,  se  noi  diciamo  cfae 
noi  no  ^1  facciamo,  e  che  ciò  non  fu  da  parte  nostra) 
e  se  noi  mostriamo  lo  mBJie  e  le  disavventure  che  so*- 
tio  state,  e  che  possono  addivenire  a  noi  e  a^  nostri, 
e  se  nostra  preghiera  è  dolce,  e  di  buona  aria,  e  di 
pietà,  e  di  misericordia,  e  se  noi  non  proferiamo  di 
buona  aria  agli  auditori,  per  quest^  altre  sembrabìli  ca- 
se e  proprietadi  di  noi  e  de^nostri,  s^  acquista  benevo- 
lenza, secondo  quello  che  a  retorica  s^  appartiene.  E 
sappiate  che  ciascun  uomo  in  ciascuna  cosa  ha  sua 
proprietà,  per  la  quale  V  uomo  può  acquistare  grazia, 
o  disgrazia.  E  di  ciò  dirà  lo  maestro  qua  dinanzi,  là 
ov'  egli  sarà  luogo  e  tempo.  Per  lo  corpo  di  tuo  av- 
versario acquisterai  tu  grazia,  se  tu  conti  la  proprìelà 
di  lui,  che  il  metta  in  invidia,  o  in  dispetto  degli  au- 
dìtorL  Che  senza  fallo  tuo  avversario  è  in  odio,  se  tu 
vedi  che  quello  ch^  egli  ha  fatto  è  contra  diritto,  e 
contra  natura,  e  per  suo  grande  orgoglio,  o  per  sua 
fiera  crudeltà,  o  per  tioppo  malizia.  Altresì  cade  in  in- 
vidia, se  tu  conti  la  forza,  e  l'ardimento  di  tuo  avver- 
sario e  sua  possanza,  e  sua  signorìa,  e  sue  ricchezze, 


LIMLO  OTTAVO.  !)85 

e  suoi  uomini,  e  suoi  parenti,  e^uo  lignaggio,  e  suoi 
amici,  e  suo  tesoro,  e  suoi  danari,  e  la  sua  fiera  natu* 
ra,  che  non  è  da  sostenere,  ch^egli  usa  senno,  e  suo 
podere  in  malizia,  e  elisegli  si  fida  più  di  quello  ch'è 
di  suo  diritto.  Altresì  vien  egli  in  dispetto,  se  tu  mo~ 
stri  che  tuo  avversario  sia  vizioso,  senza  senno  e  sen- 
za arte,  e  uoiao  lento  e  pigro,  e  che  non  si  studia  se 
non  ndle  cose  frodolenti,  e  che  ^;li  mette  tutto  il  suo 
tempo  in  levità,  in  lussuria,  io  gioco  e  in  taverne. 
Per  lo  corpo  degli  auditori  s^  acquista  benevolenza,  se 
tu  dici  li  buoni  costumi,  e  le  proprietà  di  loro  bontà, 
e  lodi  loro^  e  le  loro  opere,  e  dici  che  sempre  è  stato 
loro  costume  di  fare  tutte  loro  cose  saviamente  e  ar- 
ditamente, secondo  Iddio,  e  secondo  giustizia,  e  che 
tu  ti  fidi  di  loro,  e  ch'è  tutto  ^I  mondo  in  buona  ere*- 
denza,  e  quello  che  faranno  ora  di  questa  bisogna  sa^ 
rà  sempre  in  memoria  e  in  esempio  degli  altri.  Per  la 
materia  acquisti  tu  grazia,  se  tu  dici  la  proprietà  e 
le  appartinenze  della  cosa  che  tu  parli,  che  afforzano 
e  alzano  tua  parte,  e  a£fondino  la  parte  del  tuo  av- 
versario, e  mettanla  in  djlspetto.  Qui  tace  il  conto  a 
{tarlare  della  grazia,  per  mostrare  come  Tuomo  dà  tar 
lento  agli  auditori  d' udire  il  nostro  detto. 

Capitolo    XXIV. 
Deir  insegnamento  per  dare  talenti  di  udire  agli  auditori. 

Quando  tu  paioli  davanti  ad  alcuna  gente,  o  davanti 
u  femina,  o  tu  le  mandi  lettere,  se  li  voli  dare  ta- 
lento ch^  egli  intenda  tuo  detto,  però  che  se  tua  ma- 
teria è  picciola  e  spazievofóy  tu  dèi  dire  al  .comincia- 


3ft4  n. 

tmaàoàd  {««lavo  che  In  dfaai^nofi  micie  e^ 
tif»t,  o  cìkt  imo  poÓDo  uedevuli,  o  che  bob  IoocUw 
a'  tuoi  iKMni.  e  qodli  che  soo 
ti  oooKi  di  ^nnde  nnae.  o  di 
nf9  pro^:  o  ce  lo  |)«xMBdti  che  In 
prjche  panile  :  o  «e  ta  toochi  od 
^Myj  'Ma  razirjiie  m  cm  In  ti  confiilì.  £  ^jp— mLì  |b 
%(jll  rlie  Tauditore  abfab  talento  di  sapere  qod  che 
tu  v'Aì  dire  :  perù  che  b  loalcria  è  oscun.  o  per  ibb 
cat^joe.  o  fier  nn*  altra:  alloffa  dèi  ta  eonnocnfe  tao 
Oiiito  aUa  sonma  della  toa  intenziooe  brereBeole^ 
cvjè  a  dire,  in  qód  ponto  in  cfa^  è  la  ftm  grande  di 
toUa  bisogna.  £  sappiale  che  ogni  nomo  che  ka  ta- 
lento di  sapere,  oerto  ha  talento  d^udire.  Ma  «gai  u»- 
mo  che  ha  talento  d*  udire,  non  ha  talento  di  sipen 
E  questa  è  la  diflferenia  tra  T  nn  e  Tallio  ^lf"*i^ 


Capitolo  XXT. 
Del  prolo^  di*  è  per  cofCtUua, 

Lfifin  a  qui  ha  divisato  il  maestro  come  rnomo  dee 
cominciare  senza  prologo,  che  non  abbia  ooTertun 
nulla  ^  ora  vuol  divisare  come  Tnomo  dee  fere  suo 
prologo  per  maestria  e  per  covertura.  Alla  verità  di- 
re, quando  la  materia  del  parlatore  è  onesta,  o  vile, 
o  dottosa,  o  scura,  egli  ne  può  leggermente  passare 
oltre ,  e  cominciare  suo  conto  per  poca  di  covertura, 
9t*cAmd(ì  chel  maestro  divisa  qui  di  sopra.  Quando  la 
materia  è  contraria  e  laida,  che  'l  cuore  dell'auditore 
i*  commosso  contra  a  luì,  allora  ci  conviene  tornare 
alla  maestrale  coverta.  E  ciò  può  essere  per  tre  cagio- 


LIBRO  OTTÀYO.  285 

ni  :  o  perchè  la  materia,  o  qaellcpdi  ch^  egli  Tolle  par- 
lare non  si  fìi  a  colui^  anzi  gli  dispiace  ;  o  perchè  tuo 
avversario,  o  altro  <jual  che  sia,  gli  fa  intendere  al- 
tra cosa,  si  ch^egli  la  crede  in  tutto,  o  la  maggior 
parte;  o  perchè.  P  auditore  è  travagliato  di  molti  altri 
che  hanno  a  Ini  parlato  dinanzi. 

Capitolo-  XXVL 

Come  I^  uomo  dee  cominciare  suo  prologo  quando  la  materia 

spìace  agli  auditori. 

E  se  tua  materia  dispiace,  il  ti  conviene  coprire  tao 
prologo  in  tal  maniera,  che  s'egli  è  corpo  d'uomo,  o 
altra  cosa  che  li  dispiaccia,  o  che  non  ami,  tu  te  ne 
tacerai  e  nominerai  un  uomo,  o  altra  cosa  che  gli  sia 
grazioso  e  amabile  a  Ini.  Si  come  fé  Gatellina,  quan- 
do nominò  gli  antichi  suoi,  e  loro  buone  opere  di- 
nanzi li  senatori  dì  Roma,  quando  egli  si  volea  rico- 
prire della  congiurazione  di  Roma.  E  quando  egli 
disse  a  loro,  che  ciò  non  era  per  male,  anzi  per  aiuta- 
re li  debili,  e  li  meno  possenti  ;  sì  com'  egli  avea  sem- 
pre in  costume,  ciò  dicea  egli.  E  cosi  dei  tu  bellamente 
fingere  tua  volontà,  e  in  luogo  delPnomo  che  dispiace, 
trovarne  un  altro  uomo,  o  un'  altra  cosa  buona,  pia- 
cevole, in  tale  maniera,  che  tu  li  ritraggi  suo  cuore  da 
quello  che  non  li  piace,  acciò  che  gli  debbia  piacere. 
E  quando  ciò  sarà  fatto,  tu  dei  mostrare  che  tu  non 
voglia  ciò  che  l'uomo  pensa  che  tu  vogli,  o  che  tu 
non  difendi  ciò  che  tu  voli  difendere,  secondo  che 
fece  Giulio  Cesare,  quando  il  volse  difendere  quelli 
della  congiura,  allora  commcìò  egli  addolcire  li  cuori 


a86  u^  TEso&o. 

degli  auditori.  E  tu  dei  immantinente  a  poco  a  poco 
aocoDciare  tua  intenzione,  e  mostrare  tutto  quello  che 
piace  agli  auditori  piaccia  a  te.  £  quando  averai  ap- 
pagato coloro  a  cui  tu  parli,  tu  dirai  che  di  quella  bi- 
sogna a  (e  non  appartiene,  ciò  è  a  dire,  che  tu  doo 
fiicesti  lo  male,  che  un  altro  lo  fece  5  si  come  disse  h 
prima  amica  di  Paris  nelle  lettere  eh*  ella  gli  mandù 
poich^ella  lo  perde  per  Pamore  di  Elena.  Io  non  di- 
mando (diss^ella)  tuo  argento,  né  tue  gioie  peromn 
mio  corpo.  E  questo  vale  tanto  a  dire  come  snella  dioe»- 
se,  tutto  quello  chiese  Elena.  Appresso,  dèi  tu  n^^ 
che  tu  non  dici  di  luì  medesimo,  che  tu  ne  did;  seooiH 
do  ciò  che  Tullio  disse  contra  Terre  :  Io  non  diso  che 
tu  furasti  lo  castello  di  tuo  compagno,  né  nihailicBie^ 
né  ville.  E  questo  vale  tanto  a  dire  come  se  dicesse,  tol- 
to questo  hai  tu  fatto.  Ma  tu  dèi  molto  guardare  che  tu 
non  dichi  né  Fun,  né  Taltro,  in  tal  maniera,  che  sia  dis» 
oovertamente  contra  la  volontà  degli  auditori,  o  contn 
quelli  che  lo  amano,  anzi  siasi  iscovertamente  ch^  el* 
Uno  stessi  non  si  adirino,  e  che  tu  dilunghi  i  loro 
cuori  da  ciò  diselli  hanno  proposto,  e  commovigli  a 
tuo  desiderio.  E  quando  la  cosa  sarà  a  ciò  venuta,  tu 
dei  ricordare  uno  esempio  simile  a  proverbio,  q  a  sen^ 
tenza,  o  autorità  de'  savi,  e  mostrare  che  tua  bisogna 
sia  simile  a  coloro^  sì  come  disse  Gaio  a  quelli  ddla 
congiura,  che  voleano  struggere  Roma,  però  che  han* 
no  fatto  peggio  di  colui . . . 


Limo  ottàto.  287 

Capitolo  XX VH 

Come  V  uomo  dee  cominciare  suo  prologo  quando  gli  auditori 
credono  al  suo  aTfersario. 

Quando  colui  a  coi  tu  parli  crede  ciò  die  tuo  ay- 
Tersarìo  gli  ha  fatto  veduto,  allora  dei  tu  al  comin- 
damento  di  tuo  conto  promettere  che  tu  voli  dire.  E 
dirai  quello  medesimo  nel  tuo  avversario  medesima- 
mente di  ciò  che  gli  auditori  hanno  creduto,  o  tu  co- 
minci tuo  conto  a  una  delle  ragioni  di  tuo  avversario, 
o  a  quello  ch^  egli  dice  nella  fine  del  suo  conto,  o  tu 
di' che  tu  sei  timoroso  come  tu  dei  cominciare,  né  an- 
che a  fere  sembiante  d\ma  maraviglia,  però  che  quan- 
do gli  auditori  veggiono  che  tu  sei  fermamente  appa- 
recchiato di  contraddire^  la  ove  tuo  avversario  pen- 
sava avere  turbato,  elli  penseranno  d^  avere  folle- 
mente creduto,  e  che  il  diritto  sia  verso  te. 

Capitolo  XXTm. 

Come  r  uomo  dee  cominciare  suo  prologo  quando  gli  auditori 

sono  in  traragKo. 

E  se  gli  auditori  sono  in  bisogno,  o  travagliati  da 
altri  parlatori,  allora  dèi  tu  promettere  innanzi  di  non 
dire  se  non  p<Ko,  e  che  tuo  conto  sarà  più  breve  che 
tu  non  avevi  pensato,  e  che  tu  non  voli  seguire  la 
materia  degli  altri  che  parlano  lungamente.  £  alcuna 
fiata  dèi  tu  cominciare  ad  una  novella  cosa  che  li  fec- 
cia rìdere,  sì  ch^  ella  sia  apertamente  a  tuo  conto,  o  a 
una  febula,  o  a  un  esempio,  o  a  on'  altra  parda  pen- 


a 88  IL  TESORO. 

aata,  o  non  pensata,  che  sia  di  riso  e  i£  soUaxso.  Ma  9. 
è  |ier  cruccio,  allora  sarà  buono  comìnciBre  una  do- 
lorosa novella,  o  altro  orribili  parole;  che  si  come  b 
stomaco  carico  di  vivanda  n  si  scarica  per  una  eoa 
amara,  o  contraria  per  una  dolce,  così  il  cuore  tran- 
gliato  per  troppo  udire  si  rìnovella,  o  per  maravigii*, 
o  per  rìso.  Qui  tace  il  conto  a  parlare  di  prolo^  ^ 
sono  per  copertura,  o  senza  copertura,  però  che  par- 
titamentc  n^  ha  detto  tutta  la  dottrina  delPano  e  del- 
r  altro  per  sé.  Ora  vole  mostrare  il  comone  insegna- 
mento di  ciascun  insieme. 

GafitoIìO  XXIX. 

Deir  insegnamento  di  tutti  i  prologhi  insieme. 

In  tutti  i  prologhi,  in  qualunque  maniera  aieno,  dei  lo 
mettere,  secondo  che  disse  Tullio,  assai  di  buoni  motti 
e  di  buone  sentenze.  E  per  tutto  dèi  tu  esser  fbmilo 
d^awenevolezza,  però  che  sopra  tutte  cose  ti  convien 
dire  cose  che  ti  mettano  in  grazia  degli  auditori  ^  ma 
egli  dee  avere  poca  di  duratura,  e  di  giuoco,  e  di  con- 
sonanza, però  che  dì  tali  cose  nasce  spesse  volte  ona 
sospezione,  come  di  cose  pensate  per  grande  mae- 
strìa; in  tal  maniera  che  gli  auditorì  si  dottino  di  te, 
e  non  credano  le  lue  parole.  Certo  chi  bene  conside- 
ra la  materia  del  prologo,  il  troverà,  che  non  è  altro 
che  apparecchiare  li  cuori  di  coloro  che  debbono  udi- 
re ad  udirti  diligentemente  tuo  detto,  e  crederlo;  e 
eh'  egli  faccia  alla  fine  quel  che  tu  li  fai  intendere.  £ 
però  io  dico  che  dee  esser  fornito  di  motti  intendevoli, 
e  d'intenzioni,  ciò  è  a  dire  d' insegnamento  di  savi,  o 


LORO  OTTAVO.  289 

dì  proverbi,  o  di  buoni  esempi,  ma  noD  vogliono  esser 
troppi,  ch^egli  noa  vole  esser  dorato  di  lusinghe,  uè  di 
motti  coverti,  sì  che  non  paia  cosa  pensata  naliziosa- 
mente,  e  non  di  troppe  parole  di  gioco,  né  di  vanità, 
anzi  ferme,  e  di  buon  sapore.  E  guarda  che  non  ab- 
bia consonanza,  ciò  è  a  dire  più  motti  insieme  V  un 
dopo  r  altro  che  finiscano,  o  comincino  tutti  in  una 
medesima  ietterà  o  sillaba,  però  che  quella  è  laida  ma- 
mera  di  contare. 

Capitolo  XXX. 
Di  sette  Tizii  di  prologhi,  e  primo  del  generale. 

•  Appresso  la  virtù  del  prologo  è  convenevole  cosa 
da  dire  de^  suoi  vizii,  che  son  sette,  secondo  che  disse 
Tullio,  cioè  generale,  comune,  mutabile,  lungo,  stra- 
no, diverso,  e  senza  insegnamento.  Generale  è  quello 
che  Fiiomo  puole  mettere  in  molti  convenevolmente. 
Comune  è  quello  che  T  avversario  può  altresì  ben  di- 
re come  tu.  Mutabile  è  quello,  che  tuo  avversario  per 
poca  mutazione  può  adoperare.  Lungo  è  quello,  là  ove 
è  troppo  di  parole  e  di  sentenze  oltra  a  quello  ch^  è 
convenevole.  Strano  è  quello  che  in  nulla  maniera 
appartiene  a  tua  materia.  Diverso  è  quello  che  &  al- 
tra cosa  che  tua  materia  richiede,  cioè  che  là  ove  tu 
dèi  acquistare  grazia,  tu  no  H  fai,  anzi  doni  talento 
d^  udire,  o  di  sapere  quanto  tu  dei  parlare  per  cover- 
tura  parole  tutto  discoveite.  Senza  insegnamento  è 
quello  che  non  fa  niente  di  quello  che  1  maestro  in- 
segna, né  acquista  grazia,  né  non  dà  talento  d'  udffe, 
né  di  sapere,  anzi  §à  il  contrario,  che  vale  p^ia  Da 

Latifii.  Fol  TI,  17 


ago  IL  TESORO. 

tutti  questi  sette  ci  conviene  guardare  femtanKnte,  e 
seguire  lo  insegnamento,  in  tal  maniera,  che  sahite 
ne  alcuna  parte  di  prologo  sia  da  biadmare,  anzi  « 
graziosa,  e  di  buona  maniera. 

Capitolo  XXXI. 

D*  uo  antico  «scmplo  di  grande  autorità  lo  qnate  fm  àtoo 

per  più  safi. 

Ora  avete  udito  T  insegnamento  che  appartiene  al 
prologo,  e  come  il  parlatore  dee  cominciare  suo  oonfeo^ 
secondo  la  diversità  delle  maniere  che  addi  vegnonon^': 
bisogni  del  secolo.  Ma  per  ciò  che  1  maestro  vuol  mo- 
strare più  apertamente  quello  che  dice,  dirà  egli  im 
veccliio  esempio  di  grande  autorità,  lo  quale  fii  detto 
per  più  savi.  Vero  fu,  che  ^^ndo  Gatellina  fé  la  con- 
giura in  Roma,  secondo  che  le  btorie  divisano,  Tnfiio, 
che  fé  questa  arte  della  retorica ,  e  che  per  suo  gran 
senno  trovò  la  congiura,  e  prese  più  di  quelli  della 
congiura  de^  maggiori  uomini  di  Roma,  e  di  più  pos- 
senti e  miseli  in  carcere,  e  la  congiurazione  fu  sco- 
perta, e  saputa  certamente.  Tullio  fé  ragunare  li  se- 
natori e  U  consiglio  di  Roma,  per  consigliare  che  si 
dovesse  &re  de^  prigioni.  Salustio  dice,  che  Decio  Sti- 
lano, cioè  un  nobile  senatore,  ch^  era  eletto  ad  essere 
consolo  V  anno  dopo,  disse  prima  sua  sentenza,  che' 
prigioni  doveano  esser  giudicati  a  morte,  e  gli  altri  ^he 
si  prendessero  simigliantemente.  £  quand^  egli  d)be 
quasi  compiuto  suo  conto,  e  die  tutti  gli  altri  s^ accor- 
davano quasi  a  sua  sentenza,  Giulio  Cesare,  che  volea 


LIBRO  OTTATO.  29 1 

difendere  li  prigioni  per  covertura,  maestreirolmente 
su  questa  maniera  disse. 

Capitolo    XXXII. 

Come  parlò  Giulio  Cesare. 

Signori  padri  consc;rìtti,  tutti  quelli  che  TOglion  con- 
sigliare dirittamente,  e  dare  buon  consiglio  delle  cose 
dottose,  non  debbono  guardare  ira,  ne  odio,  ne  amo- 
re, ne  pietà,  perchè  queste  quattro  cose  posson  i^r 
partire  V  uomo  dalla  via  della  dirittura,  e  partire  dal 
dritto  giudizio.  Senno  non  Tale  là  ove  l' uomo  vuol 
:«eguire  in  tutto  suo  yolere.  Io  potrei  nominare  assai 
principi  che  diritta  via  lasciano  senza  ragione,  e  però 
che  ira,  o  pietà  gli  ha  presi  s^iza  ragione.  Ma  io  to- 
KIìo  meglio  parlare  di  ciò  che  i  savi  uomini  anziani 
hanno  fatto  di  questa  città  alcuna  Tolta,  quando  la* 
sdavano  la  volontà  di  loro  cuori,  e  teneano  quello 
che  il  buon  ordine  insegna,  e  che  trova  lo  oomun  pro- 
fitto. La  città  dì  Rodes  era  contra  noi  in  battaglia  che 
noi  avevamo  contra  Perseo  lo  re  di  Macedonia  ;  e  quan- 
do la  battaglia  fu  finita,  il  senato  e  1  consiglio  giudicò 
che  quelli  di  Rodes  non  fossero  distrutti,  acciò  che 
nullo  dicesse,  che  cupidità  di  loro  ricchezze  li  distrug- 
gesse più,  che  la  cagione  di  loro  fallimento.  Quelli  di 
Cartagine  ci  &lliro  nel  tempo  della  guerra  tra  noi  e 
quelli  d^  Africa,  e  ruppero  tregua  e  pace^  e  per  tutto 
ciò  nostri  maestri  non  guardarono  a  quello,  ch^elli  li 
poteano  ben  distruggere,  anzi  li  ritennero  dolcemente. 
E  quel  però  medesimo,  signori  padri,  do vemo  noi  prov- 
vedere, che  la  fellonìa  e  H  &Uo  di  coloro  die  son  presi 


aus  iL'ntsofto. 

non  sormonti  nostra  dignità  e  nostra  dolceEnu  E  pia 
do  verno  noi  guardar  nostra  urna,  ch^a  noaiio  enum 
Quelli  che  hanno  dinanzi  a  me  sentenziato  hanno  beUa- 
mente  mostrato  ciò  che  può  di  male  addivenire  per  lo- 
ro congiura.  Crudeltà  di  battaglia  è  prendere  paeQea 
forza,  togliere  i  garzoni  di  collo  ai  padri  e  alle  madii 
sue,  &r  forza  e  onta  a  donne,  dispogliar  templi  e  ma- 
gioni, ardere,  empiile  la  città  di  carogne^  e  corpi,  e  di 
sangue,  e  di  pianto.  Di  questo  non  ci  con  vien  più  par* 
lare;  però  che  più  può  muovere  il  cruccio  di  colai 
£attto  il  cuore,  chel  ricordo  delP  opere.  Nullo  wm  è^ 
a  cui  non  pesi  suo  dannaggio.  E  tali  sono  che  portaoo 
più  gravi  ch^egli  non  è;  ma  egli  si  fa  ad  unoqoeflo 
che  non  si  fa  ad  un  altro.  Che  s^io  son  un  basso  no* 
mo,  e  io  misfaccio  in  alcuna  cosa  per  mio  cruccio^  pochi 
lo  sapranno.  Ma  molti  sanno  se  un  grande  uomo  miifii 
o  in  giustizia,  o  in  altra  cosa.  Che  se  11  basso  uoibo 
misfò,  gli  è  imputato  ad  ira  ;  ma  quello  del  grande  OS- 
mo  è  imputato  ad  orgoglio  ;  e  però  dovemo  noi  guar- 
dare nostra  fama.  E  dico  bene  in  diritto  di  me,  chel 
forfatto  di  quelli  della  congiura  sormonta  tutte  pene 
Ma  quando  Puomo  vuole  tormentare  alcun  uomo,  sei 
tormento  è  aperto,  tali  ci  sono  che  sanno  ben  pensare 
e  biasimare  lo  tormento  3  ma  del  fallo  non  fanno  pa- 
rola. Io  credo  che  Decio  ciò  ch^egli  ha  detto  per  bea 
del  comune,  ch^egli  non  guarda  ad  amore,  ne  a  odiO) 
e  tutto  conosco  il  suo  temperamento,  né  sua  sentenza 
non  mi  pare  crudele,  che  uomo  non  potrebbe  nulla 
crudeltà  ^e  contra  tal  gente.  Ma  tuttavia  dico  io  che 
sua  sentenza  non  è  convenevole  a  nostro  comune.  E 
tutto  sia  che  SiUano  è  forte  uomo  e  nobile  eletto  eoo*- 


uno  ottàto.  395 

solo,  egli  ha  giudicato  a  morte,  per  paora  di  male  die 
addivenire  oe  potrebbe,  chi  gli  lasciasse  vivere.  Paura 
non  ha  qui  punto  di  loro,  che  Cicerone  nostro  con- 
solo è  discreto,  e  fornito  d^arme  e  di  cavalieri,  che 
noi  non  dobbiamo  temere  nulla.  Della  pena  dirò  io, 
si  come  '1  succede.  Morte  non  è  già  tormento,  anzi  è 
fine  e  riposo  di  pianto  e  attività.  La  morte  consuma 
tutte  pene  terrene  ^  di  poi  la  morte  non  curare  gioia. 
Però  disse  Sillano,  se  vuole  che  uomo  li  battesse  e 
tormentasse  avanti,  se  alcuna  legge  vieta  che  alcuno 
uomo  non  frusti  uomo  giudicato  a  morte;  alcuna  leg- 
ge dice,  che  uomo  non  uccida  cittiidini  dannali,  anzi 
ne  vede  Puomo  tuttodì  scampare.  Signori  padri  con^ 
scritti,  guardate  quello  che  fate,  che  Tuomo  ùk  tal  cosa 
per  bene,  di  che  addiviene  gran  male.  Poi  che  li  Ma-- 
cedoni  ebbero  preso  Atene,  elli  ordinarono  trenta 
uomini,  ch'erano  mastri  del  comune,  e  quelli  al  co- 
roinciamento  uocideano  li  pessimi  e  disleali  uomini, 
senza  giudicamento,  e  di  ciò  era  tutto  il  popolo  allegro, 
e  diceano  che  buon  e  santo  ufficio  era  questo  ;  poi 
crebbe  il  costume  e  la  licenza,  si  che  poi  uccideano- 
buoni  e  malvagi  a  loro  volontà,  tanto  che  gli  altri  n'e- 
rano ispaventati,  e  fu  la  città  in  tal  servaggio,  che  ben 
s'accorgeano,  che  lor  gioie  li  tornavano  in  pianto.  L. 
Siila  fu  molto  lodato  di  ciò  che  giudicò,  e  uccise  Da- 
masippo  e  altrì,  li  quali  erano  stati  contra  1  comune 
di  Roma  ;  ma  quella  cosa  fu  cominciamento  di  gran 
male,  che  poi  sì  come  ciascun  coooscea  voleano  le  a- 
bitazioni  della  città,  li  vaselli  e  la  roba  d'altrui,  e 
egli  si  sforzava  di  dannar  colui,  le  cui  cose  egli  volea 
avere.  E  erano  molti  buoni  dannati  a  torto,  più  per 


3  94  1^  TBSORO. 

cagione  di  lor  avere,  che  di  lor  fililo;  e  cosi  fecero 
niente  della  morte  di  Damasippo,  che  chi  furooo  Heti, 
iKf  furono  poi  crucciosi,  sì  che  Siila  non  fini  in  que- 
sta maniera  d^  uccidere,  fin  a  tanto  che^  suoi  cavalieri 
uon  furono  tutti  pieni  d'avere  e  di  ricchezze;  ma  noo 
per  tanto  di  tali  cose  non  ho  io  dot^oza  in  questo 
tem[)o,  e  specialmente  che  Tullio  è  consolo.  Ha  in  sì 
gran  citta  a  molti  diversi  uomini  e  pieni  d^  ingegni, 
altri  potrebbe  metter  altro  consiglio.  £  se  il  ooos^^ 
ucciderebbe  per  lor  detto  del  senato  uomo  in  colpa  a 
torto,  certo  mal  ne  potrebbe  avvenire  ;  quelli  che  fii- 
rono  dinanzi  a  noi  ebbero  senno  e  ardimento;  ne  or- 
goglio non  tolse  loro,  eh'  elli  prendessero  buoni  ese»- 
pi  di  ragioni  de'  strani,  quando  elli  trovavano  ne'kxo 
nemici  alcnna  taccia;  elli  sapeano  ben  naettere  in  (h 
|>era  ne' loro  alberghi,  e  meglio  amavano  s^^ire  il  bene 
ch'averne  noia.  Elli  frustavano  li  cittadini  ch^aveano 
misfatto,  al  modo  di  Grecia,  quando  li  mali  comincit- 
ro  a  montai*e  allora  furono  le  leggi  date,  che  li  dannati 
andassero  in  cattività.  Dunque  prenderemo  consiglio 
novello;  così  fecero  i  nostri  antichi,  e  maggior  virtù  e 
più  sa[)ienza  è  in  noi,  che  in  loro.  Elli  erano  pochi,  e 
sì  conquislaro  con  poca  ricchezza  quello  che  noi  ap- 
pena potiamo  tenere  e  guardare.  Dunque  che  fìnremo 
noi  ?  Lascieremo  noi  questi  prigioni  andare  per  accre- 
scer Poste  di  Catellma?  Dico  di  no;  anzi  è  mia  sen- 
tenza che  lor  avere  sia  pubblicato  al  comune  e  ripo- 
sto, e  li  loro  corpi  siano  messi  in  forti  castella  fuori  di 
Roma,  in  diverse  prigioni  ben  guardate,  che  nessuno 
{>arli  per  loro  al  senato,  ne  al  popolo;  e  chi  fa  contro 
a  questo,  sì  sia  messo  in  prigione  come  un  di  loro. 


UBBO  OTTAVO.  296 

GiJPITOLO   XXXQI. 
Come  parla  Cesare  secondo  cpiesta  arte. 

Per  qaesta  sentenza  potemo  noi  vedere,  che  il  prì- 
mo  parlatore,  cio^  Decio  Sillano,  passò  brevemente 
senza  prolc^o  e  senza  covertora  nulla,  però  che  soa 
materia  era  ad  onesta  cosa,  cioè  a  giudicare  a  morte 
li  traditori  del  comune  di  Roma^  ma  Giulio  Cesare 
che  pensò  altra  cosa,  si  tornò  alla  covertura  con  motti 
dorati,  però  che  soa  materia  era  contraria^  ch^egli  sa- 
pea  bene  che  i  cuori  degli  auditori  erano  commossi  con*> 
tra  sua  intenzione,  e  però  li  convenia  acquistare  lor 
grazia;  e  dair altra  parte  era  sua  sentenza  dottosa  per 
più  sentenze  e  covale,  ch'egli  volea  consigliare.  E 
sopra  ciò  li  conveniva  dare  talento  agli  auditori  d'u- 
dire e  di  sapere  quello  ch'egli  volea  dire.  Ma  però  che 
doratura  di  parole  è  sospettosa  cosa,  non  volle  egli  a 
cominciamento  iscoprìrM  di  benevolenza  acquistare, 
anzi  toccò  la  somma  di  sua  intenza,  per  dar  agli  audi- 
tori talento  di  udire  e  intendere  suo  detto,  là  ove  dis- 
se delle  quattro  cose  che  il  buon  consigliatore  si  dee 
guardare;  e  non  per  tanto  suo  prologo  non  fu  senza 
benevolenza,  là  ov'egli  chiamò,  signori  padri  conscrit- 
ti, e  là  ov"  egli  innalza  sua  materia,  e  la  conferma  .per 
belle  parole,  e  per  esempi  di  vecchie  storie  che  ri- 
cordò. E  così  in  luogo  della  cosa  che  dispiacea  nominò 
cose  che  dovessero  piacere,  per  ritrar  li  cuori  degli  au- 
ditori da  quello  ch'era  laido  a  quello  che  fu  onesto 
e  ragionevole.  E  in  questa  maniera  passò  a  dire  il  &X- 
to,  nel  qual  volea  fondare  il  suo  conto,  ciò';  del  con- 


3C)G  IL  TESOaO. 

sìglio  che  (lovea  esser  sopra  1  misfatto  di  coloro  delli 
congiura:  e  fé  tìsU  di  dod  voler  difendere  loro  male, 
ma  (li  guardare  la  dignità  e  T  onore  del  senato.  Mon 
cominciò  la  terza  parte  di  suo  conto,  cioè  divisamento, 
e  divisò  li  detti  e  le  crudeltà  degli  altri  sopra  fiitti  per 
parte,  e  mise  quelle  parti  che  più  T  aiutavano  contro 
a  a)loro  che  aveano  parlato,  e  accostolle  a'  onori  d^ 
auditori  tanto  quanto  egli  potè  più.  E  quando  <^ 
ebbe  così  contato,  cominciò  la  quarta  parte,  cioè  eoo- 
fermamento,  là  ove  disse  che  doveano  guardare  loco 
fama;  e  mostrava  di  lodar  la  sentenza  d^li  altri,  mi 
molto  la  biasimava;  e  sopra' ciò  confermò  soo  detto 
per  molte  ragioni  che  davano  fede  a  suo  consiglio^  e 
toglievanla  alla  sentenza  degli  altrL  £  poi  eh'  egU,  ebho 
fermato  suo  conto  per  buoni  argomenti,  egli  se  ubando 
alla  quinta  parte,  cioè  al  disfermameoto,  per  infralire 
e  distruggere  li  detti  di  coloro  che  aveano  parlato  ip- 
nanzi  da  lui^  lìi  ove  disse,  guardate  che  voi  fate;  e  i|n- 
mantinente  ricordò  più  esempi,  e  più  sentenze,  e  au- 
torità di  savi,  eh'  erano  simili  a  sua  materia  ;  e  poi 
(|uando  y'ume  verso  la  fine,  egli  conferma  suo  detto 
con  migliori  argomenti  e  per  le  più  forti  ragioni  ch^egli 
[)ui).  E  viene  alla  sesta  parte,  cioè  alla  conclusione,  e 
(lice  sentenza,  e  mette  line  al  suo  conto.  E  poi  che 
Cesare  ebbe  così  parlato^  l'uno  dicea  uno,  e  l'altro 
(licea  un  altro,  tanto  che  Cato  si  levò  e  disse. 


LIBRO  OTTAVO.  2y7 

Cafitoix>  XXXIV. 
G)me  fu  il  giudicamento  dì  Calo. 

Signori  padri  conscrìtti,  quando  riguardo  la  congia- 
ra  e  lo  pericolo,  e  penso  in  me  medesimo  la  sentenza 
di  coloro  che  hanno  parlato^  io  penso  altra  cosa  che 
Cesare  non  ha  detto,  né  alcuno  degli  altri.  Egli  han^ 
no'  parlato  solamente  della  pena  di  coloro  della  con- 
ginra,  che  hanno  apparecchiata  battaglia  in  loro  paesi, 
ed  alloro  parenti,  ed  alloro  templi  e  magioni  dlntrug* 
gere,  ma  maggior  mestieri  è,  che  V  uomo  si  conigli 
come  si  possa  guardare  da  loro  e  dal  pericolo^  che 
prendere  consiglio  come  siano  dannati  a  morte.  Se 
r  uomo  non  si  proTede  che  non  vegna  sopra,  niente 
Tale  V  uomo  a  consiglio,  quando  sarà  venuto.  Se  la 
città  è  presa  a  forza,  li  vinti  non  hanno  punto  d' in- 
tendimento; tutta  fia  umiliata.  Ora  parlerò  a  voi  che 
avete  intendimento,  avete  magioni,  e  ville,  ed  inse- 
gne, e  tavole  d^  oro.  e  più  che  al  pro^  del  comune.  Se 
voi  queste  cose  che  voi  tanto  amate  volete  guardare, 
e  ritenere,  e  mantenere  vostri  diletti  per  ordine  e  ri- 
{)oso,  isvegliatevi,  e  pensate  di  guardare  il  comune,  e 
liberare.  Sei  comune  pericola,  come  Lscamperete  voi? 
questa  bisogna  non  è  di  tuo  luogo,  né  di  tuo  paraggio^ 
ma  di  vostra  franchezza,  e  di  vostri  corpi,  che  sono  in 
pericolo.  Signori,  io  aggio  molto  parlato,  e  con  pianto 
dinanzi  a  voi  della  avarizia,  e  lussuria,  e  cupidità  dei 
vostri  cittadini.  Io  aggio  la  malevoglienza  d^  alcuno, 
però  ch^  io  non  perdono  volentieri  altrui  lo  misfatto, 
di  che  io  non  sent<>  nulla  taccia  in  me.  E  di  nullo 


39S  IL  TBSOBO. 

forfiitto  perd^mare  k>  noo  dimando  akmi  gnrà.  To- 
stre  riorbezze  fiicea  a  voi  molte  cose  mettere  in  non 
calere  ;  tuttaTÌa  stava  il  comune  in  diritto  stato,  e  fer- 
mo. Oramai  in  diritto  non  parliamo  noi  di  nostro  ben 
vivere,  né  di  nostro  mal  vivere,  nò  della  iignona 
de^  Romani  accrescere ,  od  innalzare  ,  ansi  ci  ccxh 
viene  pensare  se  quello  che  noi  avemo,  ci  può  rìam- 
nere,  ed  essere  nostro,  o  se  sarà  de^  nostri  vìgìdl 
Qui  non  dee  nullo  parlare  di  buonarità  e  di  misefi- 
cordia,  eh'*  noi  avemo  assai  perduto  il  diritto  noaie 
di  pietli  e  di  mcrc^  :  che  donare  ad  altrui  bene^  ciò  è 
nostra  bonarìtà  ;  ed  esser  cessati  da  ben  fare,  ciò  • 
nostra  virtù;  e  però  va  nostro  comune  sì  come  al  di- 
chino.  Or  potete  dunque  essere  di  buon  aere,  e  met- 
ter lo  popolo  a  ventura.  Or  potete  esser  pietosi  in  cth 
loro  che  non  ci  lasciavano  nulla  a  guastare,  e  peme- 
vano  lo  comun  tesoro  rubare;  doniamo  loro  il  nostro 
sangue,  si  che  tutti  li  prodi  uomini  vadano  a  perdizio- 
ne; e  sì  come  voi  vedete,  pochi  de^  malfattori  distra^ 
gano  turba  di  buona  gente.  Cesare  parlò  bello,  ed  as- 
settatamente, udenti  noi,  della  vita  e  della  morte, 
quando  disse^  appresso  la  morte  non  curare  gioia.  Ma 
quand^  egli  parlò  cosi,  credo  eh'  egli  pensava  falso,  di 
quegli  si  trova  air  inferno,  dove  li  malvagi  sono  di- 
visi dai  buoni  ed  entrano  in  neri  luoghi  orribili  e  pu- 
tenti e  spaventevoli.  Appresso,  giudicò  il  loro  avere 
fosse  pubblicato  al  comune,  ed  elli  fossero  guardati  in 
diverse  prigioni  fuori  dì  Roma  in  diverse  castella  e 
forti  ;  perchè  si  dubitava  che  se  P  uomo  li  guardava 
in  Roma,  che  quelli  della  congiura,  od  altra  gente  pre- 
giata li  caveranno  a  foi'za  di  prigione.  Non  ha  dunque 


LIBRO  OTTAVO.  299 

mala  gente  se  non  è  io  questa  città  3  per  tutte  parli  si 
può  trovare  malvagi  uomini.  Da*  niente  ci  dotta  Ce- 
sare, s^  egli  crede  che  V  uomo  non  si  possa  guardare 
dentro  in  Roma  come  di  fuoiì.  E  scegli  solo  non  ha 
pauraehe  li  fuggissero  delle  prìgioni^ov^elli  disse  ch^el- 
li  siano  messi,  egli  non  crede  il  perÉklo  del  comune. 
Io  son  quello  che  ho  paura  di  me,  e  di  voi,  e  degli 
altri  ^  e  però  dovete  voi  sapere,  che  ciò  che  voi  giu- 
dicherete di  questi  prigioni  dee  esser  giudicato  di  tutti 
quelli  della  compagnia  di  Catellina.  Se  voi  fete  di  que- 
sti aspra  giustizia,  tutti  quelli  delP  oste  di  Catellina  oe 
saran  spaventati.  E  se  voi  ne  fate  fievolmente,  voi  li 
vedrete  venire  crudeli  e  fieri  contra  di  voi.  E  non 
pensate  che^  nostri  antecessori  accrescessero  la  signoria 
di  Roma  solamente  per  arme.  Che  snelli  andassero 
cosi,  dovunque  la  possanza  ne  migliorerebbe  che  più 
avemo  compagnia  di  cittadini,  e  maggiore  abbondan- 
za di  cavalli  e  d^  arme,  ch^elli  non  aveano.  Ma  elli  eb- 
bero in  loro  altre  cose,  perchè  elli  fiirono  di  gran  no- 
minanza e  di  gran  pregio,  che  non  ha  guarì  in  noi. 
Elli  erano  in  loro  fatti  savi  ed  accorti,  ed  aveano  di- 
ritti comandamenti  a  quelli  di  fuori.  Li  cuori  aveano 
sani  e  liberi  a  dar  consiglio,  senza  suggestione  di  pec- 
cato eh'  elli  credessero,  e  senza  seguire  malvagie  vo- 
luntà.  In  luogo  di  ciò  può  l'uomo  trovare  in  noi  lus- 
suria, od  avarizia,  comune  povertà,  e  private  ricchez- 
ze. Noi  non  facciamo  differenza  da  buoni  a  malvagi^ 
tutto  tornato  a  cupidezza,  questo  è  da  lodare  di  virtu- 
de.  In  questo  non  è  maraviglia  che  ciascuno  tiene  sua 
via  e  suo  consiglio  per  s>  medesimo.  Voi  intendete  in 
vostre  magioni,  e  voslrì  diletti,  e  vostra  voluntà 


3oO  IL  TESORO. 

guire.  Fuori  di  vostre  magbni  cercate  dVimmunre  f- 
vere,  ed  allegrezza  d^altnii  acquistare.  Da  dò  addivn- 
ne  che  Tuomo  guerreggia  lo  comune,  e  tutti  i  oongio- 
rati  lo  vogliono  distruggere.  Ma  di  queste  cose  cKe  yqì 
fdte,  io  non  dii*ò  ora  più.  Nobili  cittadini  ikimo  insìe* 
me  congiura,  Ift^elli  arderanno  la  città,  e  recano  t 
loro  la  gente  di  Francia  per  movere  battaglia,  che  nieiK 
te  amano  la  signorìa  e  V  onor  di  Roma.  Cateliina  de- 
ca de^  nostri  nimici  ne  vien  sopra  le  teste  eoo  tntto 
suo  sforzo.  State  dunque  in  pensiero  che  toi  fiirete  di 
vostri  nimici,  i  quali  avete  presi  dentro  a  queste  mv- 
ra?  E  tutto  chMo  giudichi,  che  voi  non  abbiate  metók 
Dite  clic  giovani  sono,  e  per  follia  e  per  mala  cupida* 
tà  r  hanno  fatta,  e  lasciateli  andar  tutti  arnoati.  Bb  per 
certo  io  vi  prometto  che  questa  pietà  e  questa  dokxi^ 
za  vi  tornerà  in  pianto  ed  in  tormento  ed  in  amarìtn- 
<line.  Della  cosa  aspra  e  pericolosa  non  avete  voi  te^ 
menza?  E  sì  avete  raalempiezze  la  malvagità,  le  bri- 
ghe de*  vostri  cuori,  fate  che  V  uno  si  tiene  alP  aitnk 
Voi  mettete  vostra  speranza  neVoslri  Iddeì,  e  dite  ch'eli 
li  hanno  guardato  il  comune  .di  diversi  pericoli.  L'a* 
luto  di  Dio  non  viene  a  quelli  che  voglion  vivere  co- 
me femmine;  ma  tutte  cose  vegnono  a  quelli  che  vo- 
gliano vegghiare  in  ben  fere,  ed  in  dare  buoni  consigli. 
Ma  chi  si  mette  in  disperazione,  cade  in  malvagità. 
Manlio  Torquato,  uno  de'nostri  anziani  duca,  coman- 
dò che  fosse  ucciso  un  suo  figliuolo,  solamente  perchè 
romba!  tea  una  battaglia  in  Francia  centra  a'  suoi  ini- 
mici, centra  al  suo  comandamento.  Per  tale  forfatto 
mori  quel  nobil  giovane.  E  voi  dimorate  a  far  giusti- 
zia di  qiiesti  crudeli  giovani  [«ergiuri,  che  voleano  la 


LIBRO  OTTAVO.  5oi 

città  distruggere.  Lasciale  voi  loro  per  la  buona  vita  ? 
Non  morrà  Lentulo  per  la  dignità  di  suo  lignaggio  ? 
Scegli  amòunque  castità,  scegli  amò  buona  nominanza, 
s^  ^li  amò  unque  Iddio,  scegli  sparagnò  unque  uomo. 
Non  morrà  Cetego  per  pietà  di  sua  gioventù^  s^  egli 
non  mosse  mai  briga  ne  battaglia  in  questo  paese.  6a- 
bino  e  Statilo  e  Ceparìo  che  ne  debbono  dire?  S' egli 
avessero  in  loro  ragione  né  misura,  egli  non  avreb-^ 
bero  tal  consiglio  preso  al  diritto  contra  il  comune. 
A  voi  dico,  signori  padri,  che  per  Dio  non  li  lasciate 
scampare^  io  non  li  lascerei,  ben  sofiressi  che  voi  ne 
foste  castigati  per  lor  oltraggio,  quando  voi  consiglio 
non  volete  credere,  Ma  però  io  dico,  che  noi  siam6 
rinchiusi,  ed  in  pericolo  da  tutte  parti.  Cdtellina  con 
tutta  sua  oste  ci  è  innanzi  agli  occhi  là  di  fuori,  e  pen- 
saci inghiottire.  Li  altri  sono  dentro  alla  città  d^ogni 
parte.  Non  potemo  nulla  consigliare,  ne  apparecchia* 
re  che' nostri  uimici  non  sappiano.  N<n  ci  dovemo  a- 
vacciare,  però  ne  darò  io  cotal  sentenza.  Vero  è  chel 
comune  è  in  pericolo  per  lo  maladetto  consiglio. di 
cittadini  isconvenevoli  e  disleali  ]  questi  hanno  rab~ 
bia,  e  son  conventati  per  lo  detto  di  messaggi  di  Fran- 
cia, che  voleano  la  città  ardere,  ed  uccider  li  migliori 
uomini,  lo  paese  distruggere,  donne  e  pulcelle  vitu* 
perare,  ed  altre  crudeltà  fare^  e  però  dico  io,  e  do 
questa  sentenza,  che  V  uomo  faccia  di  loro  come  di 
traditoli,  e  di  micidiali,  e  di  ladroni. 


Ì<n  IL  TESO&O. 

Capitolo  XXXV. 

Come  Cato  parlò  secondo  questa  arte. 

Questa  è  la  sentenza  di  Cato  per  m^lio  .intendere 
suo  detto  'y  e  come  parlò  secondo  questuarle.  Delibarle 
delP  ordine  di  retorica  ne  convien  guardare  dioanù 
la  maniera  di  suo  detto  e  la  natura  di  sua  materia.  Di 
che  molti  dicono  ch^elPè  dottosa,  ed  un  poco  oscura, 
però  che  sua  materia  è  da  una  parte  onesta,  ch^è  a 
dire,  lo  proMel  comune  ed  a  difendere  lo  buono  stato 
di  Roma,  e  distruggere  li  rei,  ed  onesta  cosa  è,  giudi- 
care a  morte  una  gran  gente  di  cittadini  ^  ed  a  dire 
contra  Cesare  che  uvea  sì  felinamente  stabilito  suo 
giudicio,  che  appena  il  potrebbe  uomo  contraddire  ^  e 
che  gli  auditori  erano  quasi  accordati  a  suo  detto.  Cor* 
io  e"*  parca  crudel  cosa  e  maravigliosa,  e  però  egli  era 
mestiero  dorare  suo  prologo,  sì  ch^egli  acquistasse 
la  grazia  degli  auditoii,  o  gh^  egli  desse  loro  talento  di 
sapere  quel  ch^  egli  volea  dire,  per  levarli  della  sen- 
tenza di  Cesare,  secondo  chel  maestro  divisa  qui  die* 
Irò,  là  ov'  egli  insegna  la  diversità  de'  prologhi  5  e  pe- 
rò toccò  egU  nel  cominciamenlo  suo  brevemente  e  par- 
titaraente  ed  apertamente  lo  punto,  in  che  era  tutta 
la  forza  della  bisogna,  cioè  quello  che  gli  auditori  a- 
veano  creduto,  quando  disse,  ch'egli  pensava  altra 
rosa  che  Cesare  non  avea  detto,  ne  alcun  degli  altri, 
così  di  talento,  di  sapere  e  d'udire  quello  ch'egli  vo- 
lea dire^  e  fé  sembiante  di  voler  consigliare  solamen- 
te della  guardia  del  comune,  e  non  della  morte  de' 
congiurali^  ed  immantenente  procacciò  d'  avere  la 


LIBRO  OTTAva  3a3 

grazia  degli  auditori,  per  appagare  lor  cuori,  e  per 
tornare  la  cosa  a  onestà,  e  per  accrescere  la  grazia 
ch^  egli  avea,  però  che  sua  materia  era  onesta,  secon- 
do che  '1  buon  intenditore  potrà  sapere,  o  conoscere, 
scegli  considera,  o  sguarda  diligentemente  P insegna- 
ménto, il  quale  è  addietro^  e  però  ne  tace  ora  k>  mae* 
stro,  però  che  '1  vorrà  dire  d'altre  dottrine  buone  ed 
utili. 

Capitolo  XXXYI. 

Deir  insegnamento  della  prima  parte  del  prologo. 

Appresso  la  dottrina  del  prologo  se  ne  viene  Id  se* 
cooda  parte  del  conto,  cio*^  il  fatto.  Di  che  Tullio  dis- 
se, che  '1  fatto  è,  quando  il  parlatore  dice  il  fatto 
come  '1  fu,  o  come  non  fu,  ciò  è  a  dire  quando  egli  la*- 
scia  il  prologo,  e  viene  al  fatto  é  dice  la  pròpria  cosa, 
di  che  è  la  materia  di  suo  conto  ;  e  questo  è  in  tre 
maniere.  L' una  è  cittadina,  che  dice  propriamente  il 
fatto  e  la  cosa,  di  che  è  contenzione  e  là  questione,  e 
divisa  le  ragioni,  perche  quella  cosa  può  essere  pro- 
vata^ e  questa  maniera  appaitiene  dirittamente  acco- 
stumi, però  eh'  egli  insegna  tenzonare  V  un  parlatore 
con  Faltro  nel  cominciamento.  Ma  qui  si  tace  lo  mae- 
stro, e  non  dirà  più,  però  che  dirà  Pargomento  qui 
appresso,  anzi  vole  dire  delle  due  altre  maniere  del 
fatto,  che  non  appartegnono  si  propriamente  a  questa 
arte. 


5o4  IL  TESORO.    ' 

Capitolo  XXX  Y  li. 

Qui  comincia  a  dirisare  che  trapasso  è  faorì  della 

sua  materia. 

La  seconda  materia  del  fìttto  si  è,  quando  T  nomo 
si  diparte  nn  poco  dì  saa  propria  materia,  e  trapassa 
ad  altre  cose  di  fuori  a  sua  principale  cosa,  cT  per  1»- 
situare  lo  corpo  o  la  cosa,  o  per  accrescer  il  male  od 
il  bene  ch^  egli  disse,  o  per  mostrar  che  due  cose  sie- 
no  sì  mischiate  insieme,  o  per  fare  sollazzare  gli  ao^ 
tori  d' alcun  gabbo,  che  sia  simìgliante  a  sua  materia. 
E  questa  maniera  di  dire  lo  fatto  tiene  spesso  il  par- 
latore per  meglio  provare  ciò  che  Tole  del  oofpo  o 
della  cosa. 

Cafitolo  XXXYffl. 

Del  conto  eh*  è  per  giuoco  e  per  sollasso. 

La  terza  maniera  di  dire  lo  fòtto  non  appartiene 
alle  cose  cittadine,  anzi  è  per  sollazzo  e  per  giuoco  j 
ma  niente  meno  egli  è  buona  cosa  che  P  uomo  s^  ac- 
costumi a  ben  contare,  che  Tuomo  ne  diventa  meglio 
parlante  al  gran  bisogno,  e  però  ne  dirà  il  maestro  la 
natura.  Tullio  dice,  che  ciò  che  Puomo  dice  in  que- 
sta diretana  materia,  quivi  ove  divisa  la  proprietà  del 
corpo,  ed  ove  dice  le  proprietà  d^  una  cosa  in  altra, 
egli  conviene  a  forza  che  'l  suo  detto  siano  favole,  od 
istorie,  od  argomenti  ^  e  però  si  fanno  elli  a  sapere  che 
monta  Tuna,  e  che  monta  F altra.  E  certo  fabula  è  un 
(!onto  che  l' uomo  dice  delle  cose  che  non  sono  ve- 
re^ né  a  vero  somigliano,  sì  come  la  tabula  della  neve 


LIBRO  OTTANO.  5o5 

che  vola  per  aere  lungamente.  Storia  è  a  raccontare 
le  antiche  cose  state  veramente,  le  quali  furono  fuori 
di  nostra  memoria.  Argomento  è  a  dir  una  cosa  falsa 
che  non  sia  stata  ;  ma  può  ben  essere,  e  dicela  per  si- 
militudine d^  alcuna  cosa.  E  se  1  parlatore. divisa  la 
proprietà  del  corpo,  e^  conviene  che  per  suo  detto  lo 
riconosca  le  nature  e  le  proprietà  del  corpo  e  del  co- 
raggio insieme,  ciò  è  a  dire  se  gli  è  vecchio,  o  giova- 
ne, e  scegli  è  cortese,  o  villano,  od  altre  ootali  pro- 
prietà. Ed  a  cotali  cose  conviene  avere  grande  orna- 
mento die  siano  forti.  Ma  della  diversità  delle  cose  e 
della  similitudine  de^coruggi,  e  della  fierezza,  di  bua- 
narìlà,  di  speranza,  e  di  paura,  e  di  sospezione,  di  de- 
siderio, d^  infìgnìtudine,  d^  errore,  e  di  misericordia, 
di  mutamento,  di  subita  allegrezza,  e  di  fortuna^  di 
pericolo  che  V  uomo  non  pensi,  e  di  buona  fine,  se- 
condo questo  libro  diviserà  qui  dinanzi,  là  ov^egli  in- 
segna a  conoscere  li  argomenti  e  la  beltà  del  parlare  ; 
e  però  non  ne  dice  ora  più  che  detto  n'  ha  5  anzi  tor- 
nerà alla  prima  materia  del  fatto  del  dire,  ch^  è  chia- 
mato cittadino. 

Capitolo  XXXIX. 
Del  conto  ch*è  chiamato  cittadino. 

Dice  lo  maestro  che  la  cittadina  maniera  di  dire  è, 
che  divisa  la  cosa  propriamente  dee  avere  tre  cose, 
cioè  eh'  ella  sia  breve,  e  chiara,  e  ricordevole.  Di  tut- 
ti dii;à  lo  maestro,  e  prima  della  brevità. 


3o6  n*  TESORO. 

Capitolo  XL. 
Qui  e*  insegua  egli  a  contare  lo  conto  breTemeote. 

TulHo  disse,  che  allora  è  il  &tto  contato  breve- 
mente, quando  il  parlatore  s^  incomincia  al  diritto  oo- 
minciamento  di  sua  materia,  e  non  di  lunga  oomin- 
ciarla,  che  non  fa  utile  a  suo  conto,  si  come  fece  S»* 
lustio  volendo  contare  la  storia  di  Troia,  che  oomin- 
ciù  alla  creazione  del  cielo  e  della  terra,  che  li  bastava 
cominciare  a  Paris,  quando  furò  Elena.  Altresì  sareb- 
be breve,  s^  ella,  od  egli  è  assai  a  dire  la  somma  del 
fatto,  senza  divisar  per  parti;  che  basta  ben  dire  co»: 
quest^  uomo  uccise  quelFaltro;  e  non  dire:  egli  lopre* 
se,  e  miseli  man  alla  gola,  e  così  fu  questo,  e  così  fa 
quell^  altro;  che  le  più  volte  basta  a  dire  quel  eh'  è 
fatto,  senza  dire  il  come,  od  in.  che  maniera.  Altresì  è 
breve  s^  egli  non  dice  più  cose  che  mestiere  sarebbe 
di  sapere,  e  non  trapassa  a  dir  altre  cose  strane,  che 
di  nulla  non  appartiene  a  sua  materia,  e  s'egli  non 
dice  quel  che  V  uomo  può  intendere  per  quel  ch'egli 
avea  detto,  e  se  tu  dici,  egli  andaro  là  ove  poterò,  ma 
egli  basterebbe  a  dire,  egli  non  andaro  là  ov'  egli  non 
poterò.  E  se  io  dico,  Aristotile  dice  cotal  cosa,  egli 
non  si  conviene  che  V  uomo  dica,  egli  lo  disse  di  sua 
bocca,  che  bene  lo  può  ciascuno  intendere,  per  quel^ 
lo  eh'  è  dinanzi.  Altresì  è  egli  breve,  se  conta  ciò  ch'e- 
gli può  nominare,  o  quel  che  non  può  aiutare,  ne  no- 
iare;  e  se  dice  ciascuna  cosa  ad  una  volta,  e  non  più, 
e  s'egli  non  comincia  spesso  alla  parola  ch'egli  ha 
detta.  E  sì  come  il  parlatore  si  dee  guardare  della 


LIBRO  OTTATO.  Zoy 

moltitadine  de'  motti,  e  che  non  dica  troppe  cose,  per- 
chè molte  genti  ne  sono  ingannate,  che  si  studia  in 
poco  dire,  dicono  tròppo,  però  eh'  egli  si  procacciano 
di  dire  poche  cose  tanto  quanto  li  bisogna,  e  non  più. 
Tu  penserai  brevemente  dire  se  tu  dirai  in  questa 
maniera  :  io  andai  a  richiedere  voi,  ed  io  richiesi  vo- 
stro garzone^  ed  ^li  rispose,  quando  dimandai  di  voi^ 
non  vi  eravate.  E  tutto  che  tu  dirai  brevi  motti,  tu 
conti  più  cose  che  mestieri  non  t' è  ^  che  assai  basta- 
va a  dire  :  V  uomo  mi  disse  che  voi  non  eravate  in 
vostra  casa.  Però  si  dee  guardar  ciascuno,  che  sotto  lì 
brevi  motti  non  dica  tante  cose,  acciò  che  suo  conto 
sia  noioso  a  ascottare. 

CapitoI/O  XLI. 

Quf  e*  insegna  a  contar  Io  fatto,  e  vedere  cliiarameotc. 

Appresso  ciò  dee  il  parlatore  studiar  di  dire  chia- 
ramente quello  che  dice,  e  che  suo  detto  sia  aperto 
ed  iotendevole.  Tullio  dice,  che  1  fatto  è  contato  chia- 
ramente quando  il  parlatore,  od  il  dettatore  comincia 
suo  detto  a  quel  eh' è  detto  dinanzi,  e  segue  V  ordine 
della  cosa,  e  della  stagione,  cosi  com'ella  fu,  o  com« 
ella  può  essere,  in  tal  maniera,  che  suo  detto  non  sia 
turbato,  né  confuso,  né  inviluppato  sotto  strane  pa- 
role, e  che  non  trapassi  ad  altre  cose  dissimili,  o  di- 
lungi da  sua  materia,  e  che  non  coininci  a  troppo  lun- 
ga incominciaglia,  e  che  non  prolunghi  la  fine  di  suo 
runto,  tanto  com'  egli  potrebbe  dire,  e  che  non  lasci 
nulla  di  ciò  che  a  contare  feccia.  Ed  in  somma  egli 
dee  guardare  tutto  quello  che  '1  maestro  insegna  qui 


5o8  IL  TISOKO. 

dimuEÌ  sopra  la  brenta  del  fatto,  perdiè  e^  addivie- 
ne molle  fiate  che  1  conto  n^ò  pia  goqìoso  per  molto 
porbre,  che  per  la  scurità  ddle  parole.  £  sopra  totto 
ciò  dee  il  parlatore  usare  motti  propri,  e  bdli,  e  co- 
iitmnati,  secondo  che  ^1  maestro  diyisa  qaà  do^aatioei 
capitolo  ddi  parlare. 

Capitolo  TCT^ÌT, 

Qui  c^iniegoa  a  Gootire  il  fatto  che  aia  feiÌMiiiHc« 

• 

appresso  dee  il  parlatore  contare  il  fiitto^  in  td  idbk 
miera,  che  sia  yerìsimìle,  dò  è  a  dire  che  gli  auditori 
possano  credere  quelle  cose,  e  ditegli  dica  la  verità. 
Tullio  dice,  che  a  ciò  fare  li  conviene  dire,  per  le  pio- 
prielà  del  corpo  scegli  è  vecchio,  o  giovane,  o  pasien- 
te,  o  uomo  che  si  cruccti,  o  d^altre  simili  proprietà 
che  sieno  testimonio  a  suo  detto.  Appresso,  gli  con- 
viene mostrar  k  cagione  del  fiitto,  ciò  è  a  dire,  la  n^* 
gione  perchè,  e  come  le  potea,  e  dovea  far  quelle  co- 
se^ e  colga  oonvenevol  tempo  a  ciò  fere^  e  che  fu  buo- 
no, e  sufficiente  a  far  ciò  che  il  parlatore  mette  dinanzi 
Appresso  dee  mostrare  che  Puomo^  o  la  cosa  di  ch^e^ 
dice  sia  in  tal  natura  ch'egli  potrebbe  e  saprebbe  beo 
fare,  e  la  nominanza,  e  la  voce  del  popolo  n^è  sopra  lui, 
e  che  ha  tal  fede  e  ha  tale  credenza  e  talopiniouQ  ch'egli 
farà  bene  una  sì  fatta  cosa. 


Lnao  OTTAYO.  3o9 

Capitolo    XLIII. 
De^  wmi  del  dire  lo  htto. 

Ofa  avete  udito,  come  il  parlatore  ad  &tto  dee 
dire  in  tal  maniera  che  sia  breve,  e  chiaro^  e  veriai* 
mile.  Gbè  queste  tre  cose  sono  fieramente  bisogno  a 
ben  dire.  E  si  come  il  parlatore  dee  s^uire  le  virtù 
che  appartengono  a  ben  dire^  così  dee  guardare  da^ 
vizii  che  disornano  suo  dire,  che  sono  quattro.  L'uno 
si  è,  quando  egli  è  suo  danno  a  conlare  lo  &lto.  Lo 
secondo  è,  quando  non  gli  &,  pro^  niente  a  dirlo.  Lo 
terzo  si  è,  quando  il  fatto  non  è'  contato  in  quella  ma-* 
niera  ch'egli  è.  Lo  quarto  è,  quando  egli  non  dice  ia 
quella  parte  del  conto  ciò  che  è  mestiere  a  sapere^ 
Onde  fìa  lode  maggiore  al  parlatore  contare  lo  fatto 
secondo  ch'egli  è  stato.  Quando  quella  cosa  dispiace 
agli  auditori,  che  elli  sieno  contra  lui  molto  ad  ira,  o 
a  mal  talento ,  se  dli  non  si  addolcissero  per  buoni 
argomenti  che  confermino  sue  cose.  E  quando  quello 
addiviene,  tu  non  dei  contare  lo  fatto  tutto  a  motto 
a  motto  insieme,  sì  come  fu,  anzi  il  convienti  divisa- 
re per  parte,  una  branca  qua  e  un'altra  là^  e  imman- 
tinente giugnere  la  ragione  di  ciascuna  parte  in  suo 
luogo  ^  in  tal  maniera,  che  ciascuna  colpa  abbia  sua 
medicina,  e  la  buona  difensa  addolcisca  li  cuori  tur- 
bati degli  auditori.  Anche  sappiate  ch'egli  non  è  prò' 
contare  lo  fatto,  quando  tuo  avversario,  o  altri  davanti 
a  te  abbia  parlato  e  detto  tutta  la  cosa  e  la  ragione^ 
in  tal  maniera,  che  non  bisogni  che  tu  la  rìdichi,  né 
cosi,  né  altrimenti  di  lui,  quando  colui  a  chi  tu  parli 


5lO  IL  TESORO. 

sa  la  cosa,  in  tal  maniera,  che  non  ha  bisogno  di  mo- 
strare ch'ella  sia  d'altra  guisa.  E  quando  questa  oca 
addiviene,  Tullio  comanda  che  tu  taccia,  e  non  didn 
lo  fatto.  Lo  terzo  si  è,  quando  il  j&tto  non  è  contilo 
in  quella  maniera  che  dee,  cioè  quando  dee  fìur  prode 
a  tuo  avversario,  tu  medesimo  lo  divisi  bene  e  beflo^ 
o  quando  che  dee  giovare  a  te,  tu  1  dici  turbalo  e 
crucciatamente.  Tullio  dice,  che  per  schifere  qoedn 
vizio  tu  dei  recare  tutte  cose  ad  utile  di  tua  ragioae^ 
e  tacere  il  contrario  tanto  quanto  potrai  £  se  ti  eoa- 
viene  nulla  dire  di  quello  che  appartiene  alPaltra  ptf- 
te,  tu  ne  passerai  leggermente,  e  tuttavia  dirai  b  tn 
parte  diligentemente.  Lo  quarto  vizio  ai  .^  quanda  il 
fetlo  non  è  detto  in  quella  parte  del  conto  eh' è  me- 
stieri; e  questa  è  una  cosa  che  appartiene  ad  ordine. 
E  però  se  ne  tace  ora  lo  maestro  in6no  là  ove  tm- 
ter  a  dell'  ordine,  come  Puomo  dee  stabilire  suo  conio 

e  sue  parti. 

Capitolo  XLIY. 

Della  teria  parte  del  conto,  cioè  diTÌsamento. 

Appresso  la  dottrina  del  fatto  viene  la  terza  parte 
del  conto,  cioè  divisamento.  Di  che  Tnllio  dice,  che 
divisamento  e  quando  lo  parlatore  Io  dice  secondo 
suo  diritto.  Certo  egli  n'  è  più  ordinato,  e  più  bello, 
e  più  intendevole,  e  meglio.  E  lutto  che  queste  bran- 
che, cioè  il  fatto  e  'l  divisamento,  si  sono  per  dire  b 
cosa,  nondimeno  infra  loro  ha  differenza  ^  che  il  di- 
visamento dice  tutto  a  certo  lo  punto  in  che  lo  par- 
latore si  ferma,  e  eh'  egli  vole  provare,  ma  il  fiitto 
non  dice  così.  Le  parti  del  divisamente  sono  due. 


LISBO  OTTAYO.  3 1 1 

L^una  che  divisa  ciò  che  rairYersarìo  ooiiosGe,  acciò 
ch^  egli  dica  in  tal  modo  e  in  tal  maniera  che  eia- 
scon  può  ben  intendere  Io  punto  che  il  parlatore  voie 
prosare.  L^  altra  è,  quando  il  parlatore  divisa  breve- 
mente per  parte  tutto  'I  punto  ch'egli  vorrà  provare, 
»  che  Tuditore  lo  sa  in  suo  cuore,  e  intende  ben  che 
egli  ha  detto  tutta  la  forza  di  sua  cosa.  E  però  si  con- 
vien  dividere  la  dottrina  delF  un  divisamento  e  del- 
Falti'o,  come  '1  parlatore  lo  dee  usare. 

Capitolo  XLV, 
Come  il  parbtore  dee  divisare  suo  conto. 

Nel  primo  divisamento  che  conta  ciò  che  Tawersa- 
rio  conosce,  e  de  ch'egli  nega,'  dee  il  parlatore  prima 
recare  quella  riconoscenza  al  pro'djpsua  cosa,  sì  come 
r  avversario  d'  Oreste  che  non  disse  che  Oreste  co- 
noscesse che  egli  avesse  morto  sua  madre,  anzi  disse 
altre  parole,  che  più  affermaro  la  cosa  contra  ad  Ore- 
ste. Egli  ha  ben  conosciuto,  diss'egli,  che  la  madre  fu 
morta  per  man  di  suo  figliuolo;  che  a  dire,  che  il 
figliuolo  uccise  sua  madre,  è  più  crudel  cosa,  che  a 
dire  il  nome  delFun  e  dell'altro.  Ck)^  fece  Gato  in  sua 
sentenza:  egli  non  disse,  che  ellino  avessero  conosciirta 
la  congiura  solamente,  che  molte  genti  diceano,  qh'elli 
non  l'avevano  fatta  contra  il  comune  di  Roma,  ma 
contra  alquanti  che  governavano  male  il  comune;  però 
recò  Cato  la  loro  conoscenza  all'utile  della  cosa,  e 
disse  contra  loro  fiere  parole,  e  maravigliose,  cioè  che 
elli  voleano  la  città  ardere,  e  uccidere  i  migliori,  lo 
paese  distruggere,  e  vituperare  donne  e  donzelle.  À 


5 1  a  IL  TESOBO. 

questo  ye&i  tu  che  Può  e  Paltro  disse  ciò  di^  eia  ri- 
conosciuto, ma  dascuD  lo  torna  a  suo  migliore.  E 
quando  tu  avrai  quel  medesiiiio  fiilto  in  tuo  oonto^  In 
dei  dire  ciò  che  tuo  avversario  oega,  e  stabilir  b  qat- 
5tione  sopra  1  giudiùo  per  sapere  lo  diritta  Orale 
rioonoscea  Pomicidio,  ma  egli  negava  chVgli  no  1  te 
a  torto,  anzi  a  diritto.  Ma  qui  sta  la  questione  che  li- 
mane  sotto  U  giudizio  per  sapere  scegli  fece  a  tarto^s 
a  diritto. 

Capitolo  XLYI. 

Come  il  parlatore  dee  divisar  sao  Ditto  hreteiucme. 

Nel  secondo  divisameoto,  che  menerà  per  parte  lo 
punto  chVgU  vorrà  provare,  dei  tu  guardare  ch*c^ 
sia  breve.  £  quando  tu  ne  dici  aloon  motto^  se  qui 
non  bisognavanogi  tua  cosa,  che  tu  non  dèi  travagiÌBe 
li  cuori  agli  auditori  per  parole,  o  per  maraviglio- 
si  argomenti,  quando  tu  divisi  tuo  fiitlo,  o  tua  parte. 
Tu  deliberi,  quando  tu  dici  generalmente  tutto  die 
comprende  tutte  cose  di  che  tu  voli  dire  5  e  sopra 
ciò  ti  conviene  fieramente  guardare,  che  tu  non  lasci 
mentovare  nulla  general  cosa  che  ti  sia  utile,  e  che  tu 
noi  dichi  tardi,  cioj  fuori  di  tuo  divisamento^  che  là 
ove  tu  dici  lo  generale  motto  della  tua  causa,  tu  non 
dei  ^dire  Io  speciale  motto  ch^è  compreso  sotto  il 
generale  che  tu  avevi  già  detto.  £  sappiale  che  gene- 
rale motto  è  quello  che  comprende  molte  cose  sotto 
il  suo  nome;  che  questo  motto  animale  comprende 
uomo,  e  bestia,  e  uccello.  Speciale  motto  è  quello  dbe 
è  compreso  sotto  un  altro  ;  che  questo  Pietro,  Carlo, 
Giovanni  è  ben  compreso  sotto  general  nome,  cioè 


LIBRO  OTTATO.  5 1  3 

uomo.  Ma  egli  ci  ha  molli  gertemlì  che  sono  sotto  Puno, 
e  sono  speciali  sotto  un  altro,  che  questo  motto  uomo 
è  speciale  sotto  questo  motto  animale;  ma  egli  <'*  gene- 
rale sopra  questo  molto  Pietro  e  Giovanni.  Questa 
dottrina  del  generale  dee  il  parlatore  sì  guardare  nel 
suo  generale  divisamento,  ch^egli  non  metta  la  special 
parte,  che  quelli  divisa  il  fatto  suo4u  questa  maniera. 
Io  mostrerò,  diss'egli,  che  per  cupidità,  e  per  lussu- 
ria, e  per  Favarìzia  dei  nostri  nemici  tutti  i  mali  sono 
addivenuti  a  nostro  comune.  Egli  non  è  che  nel  suo  di-' 
visamento  egli  mischia  li  speciali  motti  appresso  li  ge- 
nerali ^  che  senza  fallo  cupidità  è  general  nome  di  tutti 
li  desiri,  e  lussuria  e  avai'izìa  sono  partiti  da  lei.  Guar- 
da dunqae  t;he  quando  tu  hai  divisato  lo  generale,  che 
tu  non  dichi  quelle  parti  sì  compie  fossero  altre  cose 
strane^  ma  nell'altre  branche  vengono  appresso,  cioè 
del  fermamento,  potrai  ben  mettere  le  speciali  parti 
delle  generali  dette  innanzi  per  meglio  fermare  lo  tuo 
divisamento.  Tu  vuoi  provare  che  Oreste  fece  omici- 
dio* Di'  dunque,  uccise  egli  CHtemnestra,  dunque  fece 
omicidio.  Appresso,  guarda  in  tuo  divisamento,  che 
tu  non  divisi  più  parte  che  mestieri  sia  a  tua  cosa^ 
che  se  tu  divisassi  in  questa  maniera,  io  mostrerò  bene 
die  mio  avversario  aveva  bene  lo  podere  di  ciò  fere, 
e  ch'egli  volea,  e  ch*egli  lo  fé  5  certo  cotale  divisamento 
è  grave,  perchè  v'  ha  entro  troppe  cose  5  e  basterebbe 
a  dire,  io  mostrerò  ch'egli  lo  fece.  Altresì,  guarda  che 
la  tua  cosa  sia  semplice,  e  una  cosa  senza  più,  e  non  vi 
conviene  se  non  poco  divisare,  eh'  egli  è  assai  a  dire 
lo  punto  della  questione.  E  non  per  tanto  egli  addi- 
viene spesso  che  una  cosa  può  essere  provata  per  più 

Latini.  Fol.  II.  18 


5l4  IL  TBS<mO 

i-agioni.  E  quando  questo  è,  lo  parlatore  à  dee  dÌTÌ- 
sare  la  sua  [>roTa,  in  tale  maniera.  Io  mostrerò  che  (o 
lucesti  la  ciital  cosa,  ()ei'  tale  ragione,  e  per  carte,  e 
\tQr  testimoni.  Sopra  questa  branca  dice  TuiUo,  die 
egli  trova  in  filosofìa  molti  insegnamenti,  ma  egli  b- 
^tcia  quelli  che  sono  si  bene  insegneiroli  a  ben  porfare 
come  quelli  che  qui  sono.  E  ancora  ne  comanda  ms 
altra  cosa,  che  Poomo  non  dee  dimenticare  in  s» 
conto.  Quando  egli  avrà  finito  suo  divisamento,  efi 
comincia  Tiiltra  branca,  cioè  confermamento,  per  pro- 
vare ciò  che  egli  ha  detto.  Sovvengagli  ch'egli  confermi 
dinanù  ciò  che  divisa  dinanzi,  e  poi  ciascuna  parte  m 
suo  luogo,  in  tal  modo,  che  quando  vorrà  finite  soo 
conto,  egli  non  abbia  dimenticato  niente  di  suo  coda* 
mamento,  ch^egli  sarebbe  laida  cosa  a  ricominciaft 
un  altro  piato  appresso  la  fine  del  suo  parlamento. 

Capitolo  XLYII. 

Qui  dice  della  quarta  branca  del  conto, 
cioè  del  confermamento. 

Appresso  la  dottrina  del  divisamento  viene  la  quarta 
parie  del  conto,  cioè  confermamento,  di  clie  Tullio 
dice,  confermamento  è,  quando  il  parlatore  dice  buor 
ni  argomenti  che  accrescono  autorità  e  fermezza  a  sua 
cosa  5  perchè  diverse  cose  richiedon  di  diversi  conlèr- 
mamenti,  vorrà  lo  maestro  innanzi  mostrare  e  inse- 
gnare i  luoghi  pa*  li  quali  i  parlatori  possano  rìtenere 
suoi  argomenti,  e  poi  quando  sarà  luogo  e  tempo  egli 
dirà  come  Puomo  dee  formare  suo  confermamento 
sopra  ciascuna  maniera  delle  cose.  E  sappiate  che  nuHa 


LIBRO  OTTAVO.  5 1 5 

scienza  insegna  luogo  di  provare  suo  detto,  se  non 
dialettica  e  retorica.  Ma  tanto  ha  diflferenza  tra  Funa 
e  Taltra,  che  retorica  considera  speciali  cose,  secondo 
il  suono  del  nome,  e  secondo  la  voce  solamente.  Ma 
dialettica  considera  le  generali  cose  secondo  la  signi- 
ficazione de^nomi  e  delle  voci.  E  addivegna  che  quelli 
che  sanno  leggi,  e  divinità,  e  altre  arti  bedano  prova 
per  luogo,  io  dico  che  ciò  è  per  dialettica,  o  per  re- 
torica. 

Capitolo  XLVIH. 

Qui  divisa  li  argomenti  per  provar  ciò  che  il  parlator  dica. 

Tutte  cose^ono  confermate  per  argomenti  che  sono 
retralti  dalla  proprietà  della  cosa.  E  sappiate  che  si 
chiama  corpo  colui,  per  lo  cui  detto,  o  per  lo  cui  fatto 
nasce  la  questione.  Ma  cosa  si  chiama  quel  detto,  o 
quel  fatto  di  cui  la  questione  nasce.  Di  queste  pro- 
prielh  dirà  il  maestro  l' insegnamento  lutto,  e  prima 
dirà  del  corpo. 

Capitolo  XLIX. 

Qui  divisa  le  proprietà  del  corpo  che  daouo  argomento 

e  prota. 

Le  proprietà  del  corpo  son  tali,  che  per  loro  può 
lo  parlatoi'e  dire  e  provare  quel  corpo,  e  tornar  a  fare 
alcuna  cosa,  o  non  iàre.  Tullio  dice,  che  queste  prò- 
prìetà  sono  undici,  lo  nome,  la  natura,  la  nodritura, 
la  fortuna,  T  abito,  la  volontà.  Io  studio,  lo  consiglio,. 
V  opera,  lo  detto  e  la  cosa.  Non  è  una  propria  e  certa 
voce,  ch'è  posta  a  ciascuna  cosa  com'^a  sia  chiamata. 


ti  1 0  IL  TBSOftO. 

Onde  Timo  è  1  nome,  l'altro  ^  il  soprannome,  e  àtà- 
Fun  e  «ieir  altro  pu)  il  parlatore  fermare  sooà  jvgu- 
menli.  Io  dico  che  quesC  uomo  debbe  esser  £itto  ut- 
IO,  che  egli  ha  nome  lione.  Così  dice  la  santa  Scrittu- 
ra, io  elico,  dice  Tangelo  ch'egli  avrà  nome  Gesà,peiò 
chVgli  avrà  nome  di  saWare  lo  popolo.  Natura  è  motto 
gl'ave  c«)sa  a  scrìver  suo  essere,  che  uno  dke^  cbe 
natura  »-  cominciamenlo  di  tutte  cose,  Taltro  dke,  dtt 
non  I-  ^  eh*',  se  ciò  fosse,  dunque  avrebbe  avuto  Iddio 
cominciamento  di  parte  da  natura.  Ma  Platone  dice^ 
che  natura  (*  la  volontà  di  Dio,  e  però  può  essere  die 
Dio  e  natura  siano  insieme;  ma  natura  è  doppia,  uni 
che  fa  nascere,  un'*altra  di  quel  eh'  è  nato.  Delle  cose 
(*.he  sono  nate,  altre  sono  divine,  altre  sono  mondane. 
E  delle  rose  mondane,  Puna  appartiene  agli  uomini, 
e  Taltra  alle  bestie.  Di  ciò  che  appartiene  agli  uomi- 
ni  per  natura  sono  sei  luoghi,  per  li  quali  lo  parlatore 
può  prendere  suoi  argumenti.  Lo  prìmo  si  è  scegli  è 
maschio  o  femina  :  voi  non  dovete  credere  che  ma- 
donna facesse  la  battaglia,  però  che  questo  non  è  o- 
[)era  di  feuiina.  Lo  secondo  luogo  si  ò  suo  paese:  noi 
doverne  creder  che  quest^uomo  sia  savio,  però  che  è 
gl'eco.  Lo  terzo  si  è  una  terra  :  noi  dovenao  crede- 
re che  questo  sia  buon  dra{)piere,  poich'egli  è  di  Proi- 
no.  Lo  quarto  si  è  suo  lignaggio:  ben  dee  Carlo  esser 
leale,  per  ciò  ch''è  figliuolo  del  re  di  Francia.  Lo 
quinto  si  è  suo  tempo:  e  non  è  maraviglia  se  questi  è 
leggieri  e  aitante,  però  eh'  è  fortemente  giovane.  Lo 
sesto  luogo  è  lo  bene  e  1  male,  che  P  uomo  ha  per 
natura  del  suo  corpo,  o  nel  suo  cuore.  Nel  corpo, 
s'egli  è  sano  o  malato,  grande  o  piccolo,  bello  o  soz- 


Lai»  OTTAVO.  5 1 7 

zo,  veloce  o  lento.  Nel  cuore  si  è  s'egli  è  duro  cuore, 
o  sollHe,  o  )4olre,  o  aspro,  o  soffereate,  o  orgoglioso. 
E  in  somma  tutte  le  cose  che  V  uomo  ha  per  natura 
nd  corpo,  o  nel  cuore  son  contate  sotto  luogo  di  na- 
tura; ma  quelle  che  son  acquistate  sotto  insegnamento, 
son  contate  sotto  il  luogo  dell'abito,  sì  come  il  mae- 
stro dirà  qui  appresso.  Nodritura  dimostra  come,  e  tra 
che  gente,  e  per  cui  l'uomo  h  stato  nodrìto,  cioè  a  dire, 
chi  furono  suoi  maestri,  e  chi  suoi  amici,  e  suoi  compa- 
gni, che  arti  egli  fa,  e  di  che  s'intramette,  e  com'egli 
governa  suoi  amici,  e  come  mena  sua  vita  ;  e  queste 
e  altre  simiglienti  proprietà  appartengono  a  nodritu- 
ra, e  di  tutti  può  prendere  suoi  argumenti.  Alessandi*o 
dovea  ben  esser  savio,  però  che  Aristotile  fu  suo  mae- 
stro. Questo  prete  non  dee  esser  vescovo  perchè  mena 
sua  vita  in  lussuria.  Fortuna  comprende  ciò  che  ad- 
diviene all'uomo  di  bene  o  di  male,  ciò'*  a  dire,  que- 
st'  uomo  è  servo,  o  libero;  ricco,  o  povero;  proposto, 
u  senza  propostia;  o  s'egli  è  ben  agurato,  o  di  buona 
nominanza,  o  no;  o  che  GgUuoli  egli  ha,  o  che  femina. 
Ma  se  tu  parli  d'uomo  morto,  considera  le  sue  pro- 
prietà, ciò?  a  dire,  che  uomo  egli  fu,  e  come  morì; 
che  di  tutte  queste  cose  puoi  tu  prender  argomento 
per  luogo  di  fortuna.  Sì  come  disse  Giovenale  :  e'non 
ha  nel  mondo  (diss'egli)  sì  grave  cosa  come  ricca  fé- 
mina.  Abito  si  è  un  compimento  che  1'  uomo  ha  d'u- 
na cosa  permanente  nel  suo  cuore,  o  nel  suo  corpo, 
^iel  cuore  si  è  il  compimento  delle  virtù,  che  son  di- 
visate nel  secondo  libro,  il  compimento  dell'arti  e 
delle  scienze  che  l'uomo  sa  adoperare,  le  quali  l'ap- 
prende nel  suo  cuore.  Nel  corpo  ^ono  li  compimenti 


5 1  8  IL  TBSOKO. 

che  Tuomo  non  acquista  per  natara,  ma  per  suo  stu- 
dio, o  per  insegoamento,  sì  come  di  ben  cnmbÉttPW^ 
e  di  ben  bagordare,  e  di  beo  cavalcare.  Yolaiità  si  è 
un  leggier  mutaoieato  che  alcuna  yolta  yiene  al  ooq» 
e  al  cuore  per  alcuna  cagione,  si  come  allegretn,  co* 
pidilà,  paura,  cruccio,  malizia,  fieTolesza,  e  altre  sì- 
miglianti  cose.  Studio,  si  è  una  cootiQua  impresa  che 
il  cuore  fa  con  grande  volontà,  sì  come  è  studiare  n 
filosofìa  e  in  altre  sciente.  Di  ciò  può  il  parlatore  fiir- 
inare  suoi  argomenti  in  questa  maniera  :  qnest^  ooo» 
è  buon  avvocato,  ch^egli  studia  soUecitamemte  in  leg- 
ge. Consiglio  è  una  scienza  lungamente  pensata  sopia 
a  fiire  alcuna  cosa  ^  ma  egli  ha  differenza  tra  consìglio  e 
pensamento,  che  pensamento  è  a  considerare  tra  ani 
parte  e  P  altra,  ma  consiglio  si  è  la  sentenza  quando 
prende  Tuna  delle  due  patrti:  però  conviene  a  tutti  i 
consigli,  che  la  materia  del  consigliatore  e  ^1  tempo 
siano  convenevoli  a  ciò  che  Tuomo  vole  provare^  che 
s^  io  dicessi,  quest^uomo  ha  ben  barattato  di  suo  ca- 
vallo, però  che  se  ne  consigliò  col  suo  prete,  certo  lo 
consigliatore  non  è  convenevole  ;  ma  se  io  dico,  que- 
sl^  uomo  è  ben  confessalo,  però  che  s^  è  molto  consi- 
gliato col  suo  prete,  questo  è  argomento  buouo  e  cre- 
devole.  Opera  in  questo  conto  non  è  la  propria  ca- 
gione, sopra  die  Fuomo  parla,  anzi  è  una  usanza  che 
Puomo  ha  di  fare  alcuna  cosa,  o  di  non  fare,  e  di  ciò 
può  il  parlatore  prendere  suoi  argomenti  a  mostrare 
s'egli  fé  quella  cosa  incontanente,  ovvero  s'  egli  lo 
farà  'y  sì  come  uno  delli  cavalieri  di  Catellina  disse,  io 
credo  (diss'  egli)  Catellina  farà  la  congiura  contro  noi, 
pei'ch'egli  n'è  usato  di  tutte  l'usanze  che  l'uomo  suole 


UBAO  OTTAVO.  3 1 9 

avere  d^croa  cosa  dire  e  non  dire,  e  così  di  tutta  la 
materia  che  è  divisata.  Dall^  opera  qui  di  sopra,  V  ar- 
gomento &  Puomo  in  questa  maniera:  io  non  credo 
che  quest'  nomo  dica  di  me  male,  però  che  non  saole 
dire  male  d^altrui.  Lo  detto  è  delle  cose  che  sono  per 
ventura,  non  pensatamente,  e  seguisce  la  natura  del- 
r  opere.  Adunque  il  detto  che  Puomo  può  trarre  suo 
argomento  di  ciò  ch^  è  addivenuto,  e  di  ciò  eh'  è  a 
divenire,  in  questa  maniera  :  vm  dovete  ben  creder  che 
quest^uomo  uodse  quest'altro,  però  ch'egli  avea  il 
(Xiltello  in  mano  sanguinoso;  o  in  questa  maniera:  e' 
non  è  maraviglia  se  quest'  uomo  ride,  ch'egli  ha  tro- 
vato un  gran  monte  d' oro.  Qui  tace  il  conto  delle 
proprietà  del  corpo  per  divisare  della  cosa. 

Capitolo  L. 
Della  proprietà  della  cosa. 

E  dire  il  maestro,  che  le  proprietà  della  cosa  son 
tali,  che  per  loro  può  il  parlatore  dire  e  pi*ovare  la 
tensione  di  quella  cosa.  Tullio  dice,  che  queste  pro- 
prietà snn  in  quattro  maniere.  L'una  si  è,  che  tiene 
la  cosa;  l'altra  si  è  nella  cosa  facendola;  la  terza  si  è 
giunta  alla  cosa;  la  quarta  si  è  intomo  alla  cosa.  Le 
proprietà  che  si  tengono  con  la  cosa  sono  in  tre  ma- 
niere, cioè  la  somma  del  fetto,  la  cagione,  e  l'apparec- 
chiamento del  fatto.  La  somma  del  fatto  e  della  cosa  che 
è  £itta,  o  ch'è  presente,  o  ch'è  a  divenire  in  una  somma 
brevemente,  in  questa  maniera:  quest'uomo  Ùl  ornici- 
rHo,  quest'altro  fa  ladronezzo,  e  quest'altro  fe  tradi- 
gjone.  La  oagion  della  cosa  si  è  doppia,  l'una  pensata. 


Trio  11^  TESORO. 

«  Taltra  non  pensata.  La  cagion  ch^  è  pensata  fi  è 
4|iian(lo  Tuomo  &  una  cosa  pensatamenle  con  consi- 
^\ìo.  La  ragion  non  pensata  si  è.  quando  alcun  si  mno* 
ve  a  fare  alcuna  cosa  per  alcun  subito  movimento 
senza  consiglio.  L'apparecchiamento  è  in  tre  maniere. 
L^una  ch%>  innanzi  al  fatto,  in  questa  maniera:  questo; 
nomo  apposto  caccialo  lungamente  con  La  spada  igoo' 
rlii  in  mano.  L^altro  apparecchiamento  si  è  in  sul  fiitto, 
in  questa  maniera:  quand'egli  Pcbbe  giunto,  egli  ilgit- 
tò  in  terra,  e  diégli  tanto  che  morì.  Lo  terzo  apparec- 
chianienlo  si  è  dopo  il  &tlo,  in  (juesla  maniera:  quan- 
dVgli  Tcbbe  morto,  e  egli  lo  seppellì  nel  bosco.  Questi 
u  altri  sembianti  si  tengono  con  la  cosa  fermamente, 
che  appena  può  una  cosa  essere  fetta  senza  loro,  e 
però  non  può  il  parlatore  stabilire  suoi  argomenti  a 
provar  la  cosa  bene,  e  fermamente.  Le  proprietà  cbe 
sono  nelle  cose  facendo,  sono  cinque,  luogo,  tempo, 
modo,  la  stagione  ed  il  prode.  Lo  luogo  è,  quella  par- 
te, là  ove  la  cosa  fu  fatta  ;  e  certo  egli  si  fa  molto  a 
provar  suo  detto,  che  "1  parlatore  si  guarda  bene  tut- 
te le  proprietà  del  luogo,  ciò'»  se"l  luogo  è  gi-ande,  o 
picciolo,  o  da  lungi,  o  presso,  o  diserto,  od  abitato, 
o  di  che  natura  è  il  luogo,  e  lutto  il  paese  d' intomo, 
ciò  è  a  dire,  s'egli  v'  ha  monti,  o  valli,  o  liviera,  o 
fiume,  o  senz'  acqua,  e  se  T  aiia  è  buona,  o  ria,  e  seM 
luogo  è  sagrato,  o  no,  e  s'egli  è,  o  fu  detto  di  lui,  che 
fé  la  cosa,  o  no.  Tera[)o  è  lo  s[>azio  che  l' uomo  ha 
di  l'are  la  cosa,  ciò  è  a  dire,  per  anno,  o  [)er  mese,  o 
per  settimana,  o  per  dì,  o  per  ora,  o  novellamente^ 
o  anticamente,  o  tosto,  o  lardi,  che  l'  uomo  dee 
guardare  se  una    gran  cosa  può  esser  latta  in  quel 


LIBRO  OTTAVO.  5a  I 

lempò.  E  sappiale  che  queste  due  proprietà,  cioè  luo- 
^o  e  tempo,  sono  sì  utili  al  provare  la  cosa,  che  prò- 
pri  quelli  che  misero  in  scritto  l'anziane  istorie  e  quel- 
li che  fanno  carie  e  lettere,  scrivono  il  luogo  ed  il 
:empo  per  meglio  affermare  la  bisogna.  Stagione  è 
compresa  sotto  il  tempo,  ma  tanto  ha  differenza  tra 
'  un  e  l'altro,  che'l  tempo  sguarda  lo  spazio  e  la  quan- 
ità  del  tempo  passato,  e  del  presente,  e  di  quel  eh'  è 
I  divenire.  Ma  la  stagione  sguarda  la  maniera  del  tem- 
po, ciò  è  a  dire,  s'egli  è  notte,  o  giorno,  o  se  mostra 
tempo  chiaro,  o  scuro,  o  s'è  festa,  o  feria,  o  s'è  tem- 
po di  seminare,  o  di  segar^'^  o  se  quell'  uomo  dorme, 
ù  se  grida,  o  seppellisce  suo  padre.  Vedi  dunque  ch'u- 
na stagione  appartiene  a  tutto  un  paese,  sì  com'  è  se- 
care. Un'  altra  appartiene  a  tutta  una  città,  sì  come  è 
il  di  della  festa,  e  dì  luoghi  costumati  opere  leggieri, 
lo  proposto,  o  vescovo,  od  un  altro  appartiene  ad  un 
solo,  cio^  a  chiese  e  sepolture.  Maniera  è  a  mostrare 
come  quell'uomo  fece  quella  cosa  ed  a  che  cuore,  ciò 
è  a  dire  se  'l  fe  scientemente,  o  noj  o  per  suo  gra- 
do, o  contra  suo  grado.  Podere  si  è  in  due  maniere  : 
l'una  è  che  aiuta  a  fer  la  cosa  più  leggiermente^  ed 
un'altra  senza  la  quale  non  può  esser  fatta.  Di  ciò  può 
Io  parlatore  stabilire  suoi  argomenti,  in  questa  manie» 
ra  :  egli  non  è  maraviglia  se  questo  cavaliere  vinse  Ja 
giostra,  però  che  gli  è  meglio  a  cavallo  che  l' altro  ^  e 
così  quest'  uomo  non  fera  la  giostra,  però  che  non  ha 
cavallo  ^  e  questi  non  fe  il  coltello,  però  che  non  avea 
ferro.  Delle  proprietà  che  sono  aggiunte  alla  cosa  fe  il 
parlatore  suoi  argomenti  in  questo  modo,  quand'  egli 
li  tixie  d'un' altra  cosa  più  grande,  o  più  picciolai,  e 


Saa  Uj  tbsoeo. 

simigliante  ad  una  contraria,  o  del  generale,  o  dello  spe- 
dale, o  della  fioe  della  cosa.  £  sappiate  che  cosa  pari 
si  è  più  grande,  e  più  picciola,  si  è  considerata  per  b 
forza,  e  per  lo  nuniero,  e  per  la  figura  di  laL  Fona  è 
in  due  maniere.  L'Anna,  ch^  è  nel  corpo,  si  è  b  fona 
quando  suo  nome  significa  la  proprietà  di  hii^  ch^e»- 
sere  cliiamato  Salomone  non  signiGca  altro  che  sa- 
pienza ;  ed  a  essere  chiamato  Nerone  non  signiBca  al- 
tro che  crudeltà  e  follia.  Nella  cosa  è  la  forza  quando 
il  nome  della  cosa  significa  la  proprietà  di  lui,  però 
che  a  dire  patricida  significa  di  gran  crudeltà  a  Dio  e 
agli  uomini.  Altresì  considerare  lo  numero  quando  il 
parlatore  dice  uno,  due,  o  tre  genti.  Altresì  conside- 
rare la  Ggura  del  corpo  quando  V  uomo  dice,  egli  è 
grande,  o  picciolo^  e  la  figura  della  cosa  quand'ella 
ha  più  di  proprietà.  Che  più  è  a  dire,  quest^uomo 
uccise  un  prete  su  Pattare  nel  giorno  di  pasqua,  che 
è  a  dire,  egli  uccise  un  uomo  privatamente.  Simil  cosa 
non  è  pari  cosa,  che  pari  cosa  significa  la  grandezza  e 
la  misura^  ma  simile  non  significa  altra  cosa  che  la  qua- 
lità^ che  simiglianza  è  la  proprietà  che  fa  due  diverse 
cose  essere  simiglianti  tra  loro.  Ragione  come  qoest* 
uomo  è  leggiere  come  il  tigro^e  questo  prete  dovrebbe 
sermonare  al  popolo  come  san  Piero.  Contrarie  così      II 
son  quelle  che  sono  dirittamente  Tuna  conti-a  Fattra, 
siccome  freddo  contra  a  caldo,  e  morte  contra  vita,  e 
male  contra  bene,  e  vegghiai^e  contra  dormire,  e  orgo- 
glio contra  umiltà  ;  di  che  il  parlatore  può  suoi  ai^o^ 
menti  f€U*e  in  questa  maniera:  se  tu  danneggi  colui  che 
ti  liberò  da  morte,  che  farai  dunque  a  colui  che  ti  vole 
uccìdere?  Generale  cosa  è  ciò  eh'  è  di  sopra,  ciò  è  a 


LliaO  OTTAVO.  Ò'2Ò 

dire  quello  che  compreode  molte  cose  sotto  sé.  Che 
virtù  è  generale,  però  che  compreode  giustìzia,  sen- 
no, temperanza,  e  molte  altre  bontà  sotto  sé.  Special 
cosa  é  quella  che  ò  sotto  la  generale.  Che  avarìzia  è 
speciale,  però  che  P  è  sotto  cupidità;  e  senno  é  sotto 
virtù.  La  fine  della  cosa  é  ciò  che  già  n^addiviene,  e 
che  n^è  a  divenire  ;  e  di  queste  cose  sì  trae  lo  parlai 
tore  suoi  argomenti  qnaudo  mostra  quello  che  dee 
addivenire,  o  che  addivenire  ne  suole  delle  cose  si- 
miglianti.  In  questa  maniera  per  orgoglio  vìen  oltrag- 
gio, e  per  oltraggio  viene  odio.  La  quarta  maniera 
delle  proprietà  delle  cose  son  quelle  che  addivegnono 
intomo  la  cosa,  non  cosi  dentro  come  le  altre  dette 
dinanzi.  In  che  V  uomo  dee  innanzi  guardare  come 
quella  cosa  é  chiamata,  e  di  qual  nome,  e  chi  fu  il  ca- 
pitano, od  il  trovatore  della  cosa,  e  chi  V  aiutò  a  far 
re.  Appresso,  dee  egli  guardare  qual  legge,  o  quale  uso, 
che  giudicamento  è  sopra  a  quella  cosa,  o  quale  arte, 
quale  scienza,  o  qual  mestiere.  Altresì  dee  egli  guardare 
se*cotali  cose  sogliono  addivenire  spesso^  o  per  na- 
tura, o  no,  e  proprietà  e  molte  altre  cose  che  soglio- 
no addivenire  appresso  il  fatto  presente,  o  tardi  ;  e  se 
ciò  è  onesto,  o  utile,  dee  considerare  lo  parlatore,  in 
tal  maniera,  che  di  tutte  le  proprietà  egli  sappia  cod^ 
formare  suo  detto,  e  ritrarre  suoi  argomenti  a  provare 
la  cosa,  però  che  male  s^  intramette  di  parlare  chi  non 
prova  sue  parole  ragionevolmente,  sì  che  sia  <nreduto 
di  quel  che  dice,  o  della  maggior  parte;  e  però  vole 
il  maestro  mostrare  come  il  parlatore  dee  fare  suoi  ar- 
gomenti. 


5*^4  ii'  tbsoro. 

Capitolo    LL 
Di  due  maniere  di  tutti  argomenti. 

Tutti  argomenti  r.he'l  parlatore  fa  per  proprietìi  ^ 
vanitade,  Tullio  disse,  eh'  egli  dee  esser  necessario,  o 
verisimile 5  che  argomento  si  è  un  detto  trovalo  so- 
pr' alcuna  materia  che  la  dimostra  verisimUmente,  o 
che  la  prova  necessariamente. 

Capitolo  LII. 

Degli  argomenti  necessari. 

Necessario  argomento  si  è  quello  che  mostra  la  (»- 
sa  in  tal  maniera,  che  altrimenti  esser  non  può.  Ra- 
gione come:  questa  femina  giace  in  parto,  dunque 
giacque  quella  con  Tuomo.  £  sappiate  che  argomento 
che  prova  la  cosa  di  necessità  può  esser  detto  in  tre 
maniere,  o  per  rimproccio,  o  per  numero,  o  per  semplice 
conclusione.  Rimprocciamento  si  è,  quando  il  parlatore 
divisa  due,  o  tre,  o  più  parti,  delle  quali  se  suo  av- 
versario conferma  l'una,  quegli  ch'egli  ha  si  è  certo 
eh'  egli  sarà  concluso.  Io  dico  che  Tommaso  o  egli  è 
buono,  o  egli  è  reo.  E  se  tu  dicessi  che  '1  fosse  buo- 
no, io  dirò, dunque  perchè  'l  biasimi  tu? E  se  tu  dices- 
si che  fosse  rio,  io  dirò,  perch''  conversi  tu  con  lui? 
E  così  va  di  rimpjrocciamento,  che  qualunque  parte  tu 
prenderai,  io  metterò  mio  argomento  che  ti  conclude 
per  necessità.  E  sappiate  che  questo  argomento  è  in 
tre  modi.  L' uno  è  per  foi'za  di  due  contrarie  cose,  che 
l' uomo  dee  dire  tutto  insieme  l' una  dopo  l' altra,  sì 


LIBRO  OTTAVO.  020 

come  Tesempiochebo  dello  di  sopra.  L^allrosi  è  per 
forza  di  due  cose  che  son  contrarie  tra  loro  per  forza  di 
due  negazioni  in  questa  maniera:  io  dico  che  questo 
uomo  ha  danari,  od  egli  non  ha  nullo.  Cotale  argo- 
mento fé  santo  Agostino  alli  Giudei,  quando  disse  loro: 
lo  santo  dei  santi,  od  egli  è  Tenuto,  o  no^  scegli  è  ve- 
nuto, è  perduto  vostro  nocimento,  e  se  non  è  venuto, 
«on  è  il  nocimento  perduto.  Dunque  avete  voi  re, 
dunque  v'  è  Cristo,  o  un  altro  5  ma  altro  re  non  ave- 
te voi,  dunque  egli  è  Cristo.  Numerò  nel  suo  detto 
molte  cose,  immantenente  le  trae  tutte  via,  se  non  una 
solamente,  la  qual  è  prova  per  neces^itade.  Io  dico 
così:  e' conviene  per  viva  forza,  che  quest' uomo  uc- 
cise queir  altro,  ch^  egli  lo  fé  per  odio  che  intra  loro 
fu,  o  per  paura,  o  per  isperanza,  o  per  amore  d' al- 
cun suo  amico.  E  s^  egli  non  ha  nulla  di  queste  cagio- 
ni, dunque  non  V  uccise  egli,  che  senza  cagione  non 
può  esser  fatto  cotal  malifìcio.  Ma  io  dico  che  intima 
loro  non  avea  odio  alcuno,  ne  paura,  nò  speranza  d^es- 
ser  suo  erede,  o  di  aver  alcun  altro  utile  di  sua  mor-< 
te,  né  egli,  né  alcun  suo  amico.  Dunque  io  dico  eh  V 
gli  non  r  uccise.  Questa  maniera  d^  argomento  é  per 
numero  proprietabile  a  colui  che  difende  sua  bisogna, 
si  come  r  esempio  dimostra  di  sopra.  Altresì  è  quel- 
la utile  a  colui  che  accusa  :  io  dico  che  mio  argento  o 
egli  fu  arso,  o  egli  é  nella  fonda,  o  (u  Phai  imbolato  ; 
ma  arso  non  fu  egli,  né  nella  fonda  non  é,  dunque  ri- 
mane questo  che  tu  V  hai  imbolato.  Semplice  conriu- 
sione  è  quando  il  parlatore  conclude  necessariamente 
ciò  eh'  egli  vole  provar  per  forza  d'  una  cosa  eh'  é 
detta  dinanzi  :  tu  di'  eh'  io  feci  questo  omicidio  d' a- 

Latini,  Fof.  TI.  tg 


526  IL  TESORO. 

gusto,  ma  in  quel  tempo  era  io  oltra  mare,  dooqne 
pare  egli  per  necessità  che  io  non  il  iècL  Ora  afele 
udito  le  tre  maniere  de^  necessarìi  alimenti,  lì  qoai 
lo  parlatore  si  dee  fieramente  guardare  che  suo  aifo- 
mento  non  abbia  solamente  il  color  e  la  sùnigliaimdi 
necessità,  anzi  sia  di  si  necessaria  ragione,  die  TaTTcr- 
sario  non  possa  nulla  contraddire. 

Capitolo   LUI. 

Qui  dice  come  si  ditisano  li  Terisimiglianti  argomentL 

Lo  verisimigliante  argomento  è  quella  cosa  che  e 
usata  di  venir  spesso,  o  delle  cose  ch^elli  hanno  alcu- 
na simiglianza,  ovvero  simili.  Delle  cose  usate  di  Tesi- 
re,  prende  il  parlatore  suo  argomento,  in  tal  maniera: 
Se  questa  femina  è  madre,  dunque  ama  ella  suo  fi- 
gliuolo j  e  questo  è  desperato,  dunque  non  tiene  e^ 
sacramento.  Delle  cose  che  V  uomo  pensa  che  sieno 
prende  il  |[>arlatore  argomento  in  tal  maniera,  se  que- 
sta uomo  t'  peccatore,  la  sua  anima  anderà  alla  eter- 
nale morte;  e  se  quest^  uomo  è  filosofo,  dunque  oon 
crede  egli  negP  idoli.  Delle  cose  che  hanno  alcuna  si- 
miglianza prende  il  parlatore  suo  argomento  in  tre 
modi,  o  per  contrario  suo,  o  per  sue  parole,  o  per 
quelle  che  sono  d^una  medesima  ragione.  £  perTo 
contrario  fa  V  uomo  suoi  argomenti  in  questa  manie- 
ra :  se  i  peccatori  vanno  in  inferno,  dunque  li  giusti 
vanno  in  paradiso.  Per  le  simiglianti:  sì  come  luogo 
senza  porto  non  è  sicuro  alle  navi,  così  lo  cuore  sen- 
za fede  non  è  durabile  alF  amico.  Che  luogo  senza 
porto,  e  cuore  senza  fede  sono  simili  a  mutabili  ^  e  na- 


Limo  OTTAVO.  527 

\e  e  amico  sono  simili  in  fìgura.  Per  stabilimento  de- 
gli uomini  si  è  quand^  elli  stabiliscono  per  loro  mede- 
simi sopra  una  cosa  dottosa  che  ne  debba  essere.  Per 
le  cose  che  sono  d^una  medesima  ragione  prende  il 
parlatore  suoi  verìsimili  argomenti  in  questa  maniera: 
s'egli  non  è  laida  cosa  a'  cavalieri  donare  le  robe, 
dunque  non  è  laida  a  ministrarli  s' elli  lo  vestono.  Or 
sappiate  che  questi  argomenti  e  altri  sembrabili  sono 
necessari!  in  questa  maniera:  s' egli  andò  mal  grado, 
dunque  egli  fu  ferito^ ma  il  verisimile  si  è  cosi:  s'egli 
ha  molta  polvere  su'  calzari,  dunque  è  egli  ito  lunga 
via.  Cotali  argomenti  sono  probabili  ;  ma  elli  non  so- 
no necessarìi.  Però  che  potrebbe  venire  molta  polve- 
re su'  calzari  senza  essere  ito  lunga  via;  ma  mal  grado 
non  potrebbe  avere  l'uomo  senza  inavventura.  Per- 
ch'io ho  detto  che  tutti  argomenti  verisimili  o  elli  son 
segni,  o  elli  sono  credevoli,  o  son  slabiliti,  o  son  si- 
migliane. Segno  si  è  una  dimostranza  che  dà  presun- 
zione che  la  cosa  fu,  o  sarà  secondo  la  significanza  di 
colui.  Ma  ella  non  è  vera  prova,  e  però  richiede  mag- 
giore confìrmamento.  E  questi  segni  sono  secondo  lì 
cinque  sensi  del  corpo,  cioè  del  vedere,  dell'udire,  del 
fiatare,  del  saporare  e  del  toccare.  Che  se  io  dico, 
egli  ha  d' intomo  a  qui  carogna,  perchè  ci  è  grande 
puzza ,  certo  questo  è  segno  ;  ma  non  è  sì  certo  che 
non  vi  bisogni  ancora  maggiore  prova.  Crede v  ole  è 
quello  che  senza  testimonianza  dà  fede  e  credenza  in 
questa  maniera  :  e'  non  è  nullo  che  non  desideri  che 
suo  figliuolo  sia  santo  e  ben  aguralo.  Stabilimento  è 
in  tre  maniere,  o  per  legge,  o  per  comune  uso,  o  per 
btabilimento  d'uomini.  Per  legge  è  stabilita  la  pena  de' 


7t'ì%  il.  TESORO. 

ladroni  ed  oniicìdiàli.  Per  comune  uso  è  stabilito  che 
Fuomo  renda  onore  a^  Tecchi  e  a"*  maggior  di  luL  Per 
istabilimento  degli  uomini  s^è  quando  gli  uomini  isb- 
bilissero  per  loro  medesimi  sopra  una  cosa  dottossi  che 
debba  essere.  Ragione  come  Gates  quando  fa  seni- 
tore  di  Roma  non  fé  nulla  senza  il  senno  desino*  com- 
pagni, quali  gli  tomavano  a  senno,  e  quali  a  follia.  Hi 
la  comunità  del  po[)olo  stabili  cb^egli  fosse  console 
Fanno  appresso,  e  così  fu  fermato,  egli  area  fiitto  gran 
dissimo  senno.  Simile  s'^è  quello,  che  mostra  alcum  si- 
mile ragione  in  tra  due  diverse  cose;  e  ciò  è  per  tie 
ragioni  ]  o  per  imaginazione,  o  per  comparazioiie,  o 
per  esemplo.  Imagine  s^  è  ciò  che  dice  che  due  o  pi& 
diverse  cose  hanno  alcuna  similitudine  tra  lóro  secon- 
do la  proprietà  del  corpo  e  della  natura,  in  questa  ma- 
niera :  quest^  uomo  è  più  ardito  che  un  leone,  e  qne^ 
st'  altro  è  più  codardo  che  lepre.  Comparazione  è,  die 
mostra  che  alcune  diverse  cose  abbiano  in  tra  loro  si- 
roiglianza  secondo  le  proprietà  del  cuore,  in  questa 
maniera  :  questo  uomo  è  ingegnoso  come  Aristotile  ; 
e  quest^  altro  è  grosso  come  asino.  Esemplo  è  quello 
argomento  che  mostra  alcuna  simiglìanza  nelle  cose 
per  lo  detto  e  per  lo  comandamento  che  Puomo  tro- 
va ne'  libri  de'  savi,  e  però  eh'  è  addivenuto  a'  savi 
uomini,  o  alle  cose  che  furon  di  quella  simiglianza. 
Ma  di  questi  argomenti  A  tace  ora  lo  conto,  perch'e- 
gli  ritornerà  alli  altri,  li  quali  appartengono  a  confir- 
mamento. ' 


UBEO  OTTAVO.  529 

Capitolo    LTV. 
Deirargomento  io  due  maniere,  o  da  presso,  o  da  lungi. 

Appresso  ciò  che  1  maestro  ha  mostrato  lì  luoghi, 
e  li  argomenti,  e  la  proprìetà,  e  la  ragione  come  il  par- 
latore può  prendere  argomenti  di  provare  sua  ipate- 
ria  e  suo  detto,  a  lui  parve  che  scegli  divisasse  questi 
argomenti  per  parli,  la  ragione  sarebbe  più  bella  e  più 
intendevole.  Simigliantemente  però  che  -questa  è  una 
scienza  che  pochi  parlatori  sanno,  perchè  la  è  grave  a 
sapere  e  mostrare^  e  però  dice  egli  in  questa  manie- 
ra, che  tutte  maniere  d^argomenti,  di  qualche  proprie- 
tà o  di  qualunque  ragione  elli  sieno  certi,  e  convien 
eh'  elli  siano  dappresso,  o  da  lungi  per  alcuna  fiata. 
La  materia  del  parlatore  si  è,  ch'egli  no  '1  potrebbe 
provare  sVgli  non  prendesse  da  lungi  ^  e  però  è  drit- 
to a  divisare  P  insegnamento  deW  un  e  delP  altro. 

Capitolo  LV. 
Di  quello  argomento  cfa*  è  da  lungi. 

Da  lungi  è  quello  argomento  che  per  la  simiglian- 
za  delle  certaue  cose  dìi  lungamento  a  suo  avver- 
sario a  conoscer  quella  cosa  che'l  parlatore  voi  mo- 
strare. Ragione  come:  io  parlai  ad  Aldobrando  che 
non  amava  sua  moglie,  né  ella  lui,  in  questa  maniera  : 
Dinmie,  Aldobrando,  se  1  vostro  vicino  ha  miglior  ca- 
vallo di  voi,  qual  vorreste  voi  innanzi  o'I  suo,  o'I  vo- 
stro? Lo  suo,  diss'eglL  E  s' egli  avesse  più  bella  casa 
di  voi,  qual  vorreste  voi  innanzi,  o  la  sua,  o  la  vostra? 


53o  IL  TKSOEO. 

I^a  sua^  diss^eglL  E  scegli  avesse  miglior  fisnmiadi 
voi,  qual  vorreste  voi  innanzi  ?  A  questo  motto  wm 
disse  nulla.  E  io  andai  alla  moglie,  e  dimandaib  m 
questa  maniera  :  Se  vostra  vidna  avesse  maggior  te- 
soro di  voi,  qual  vorreste  voi  innanzi  tra  ^1  soo  o1 
vostro?  Lo  suo,  diss^  ella,  O  s^  egli  avesse  migliorìe 
più  belli  drappi  e  più  ricchi  arnesi  di  voi,  qoali  vor- 
reste voi,  o  su  ai,  o  vostri  ?  Li  suoi,  diss^ella.  E  s' eRa 
avesse  miglior  marito  di  voi,  qual  vorreste  voi  piò 
tosto  tra  1  suo,  o  H  vostro?  A  questa  parola  si  vei|{^ 
gnò  ;  e  non  disse  nulla.  Quando  fui  a  ciò  venuto,  iin- 
mantinentc  dissi  loro,  però  che  nullo  non  rispose  a 
ciò  che  voleadire,  io  dirò  che  ciascun  pensa.  Yor  vor- 
reste aver  buona  moglie,  e  voi  buon  marito  ^  perdo  io 
dico  die  se  voi  fate  tanto  che  dascuno  sia  lo  miglio- 
re, voi  non  finirete  giammai  di  quel  che  V  uomo  sia. 
Dunque  vi  convien  pensare  che  voi  siate  buona  mo- 
glie e  buon  marito.  Guardate  dunque  che  per  la  si- 
miglianza  delle  terrene  cose  da  lungi,  io  recava  a  con- 
sentire ciò  ch^  io  volea;  che  se  io  dimandassi  sempli- 
cemente se  quelli  volesse  migliore  moglie,  e  quella 
miglior  marito,  certo  elli  non  sarebbero  consentiti  a 
mia  dimanda.  Colali  argomenti  usa  molto  Socrate  io 
suoi  detti  5  e  tutte  volte  eh'  egli  volea  nulla  provare, 
mcttea  egli  innanzi  cotal  ragione  che  V  uomo  non  pò- 
tea  negare^'  e  allora  Iacea  egli  sua  conclusione  di  dò 
eh'  era  nel  suo  [)rologo  e  nel  suo  proponimento.  Dee 
il  parlatore  guardar  tre  cose.  Prima  che  quella  cosa 
eh'  egli  prende  da  lunga  per  simigUanza  di  sua  cosa 
sia  celta  e  senza  dottanza,  che  cosa  dottosa  dee  esser 
[trovata  per  certe  ragioni.  Appresso,  dee  egli  guarda- 


UBRO  OTTJkVO.  55 1 

re  ch^  ella  sìa  nel  tutto  simìgliante  a  quel  che  volle 
provare,  che  snella  fosse  strana,  o  non  simile,  egli 
non  potrebbe  formare  sua  prova.  Appresso,  dee  egli 
guardare  che  gli  auditori  non  sappiano  iu  che  lo  par-, 
latore  intende,  ne  perchè  faccia  sua  dimanda,  chiè 
s"*  egli  se  n^  accorgesse,  egli  si  tacerebbe,  o  egli  neghereb- 
be, o  egli  risponderebbe  per  contrario.  E  quando  tu 
sverai  a  cicT  menato  tuo  avversario,  e^  conviene  che 
faccia  una  di  queste  tre  cose,  o  ch^egli  taccia,  o  ch^e- 
gli  nieghi,  o  che  confermi  sua  prova.  E  s*  egli  la  niega, 
e  tu  la  prova  per  la  simiglianza  di  quel  che  tu  avevi 
dinanzi  detto,  o  d^  altre  simili  cose  che  tu  dichi  im- 
mantinente. Ma  s^  egli  conferma,  o  egli  si  tace,  imman- 
tinente dei  tu  concludere  la  dimanda,  e  poner  fìne  al 
suo  detto.  Che  Tallio,  dice,  quelli  argomenti  potete 
voi  intendere,  che  in  questo  argomento  da  lungi  con- 
viene avere  tre  cose.  La  prima  s*h  la  simiglianza  cheU 
parlatore  dice  innanzi.  La  seconda  s^  è  la  propria  cosa 
ch^  egli  vole  provare.  La  terza  è  la  conclusione  che 
mostra  ciò  che  si  segue  di  suo  argomento,  o  mostra 
prova.  Ma  acciò  che  sono  molle  genti  di  sì  duro  cer- 
vello,  che  per  V  insegnamento  che  sia  posto  sopra  al- 
cuna scienza  no^l  potrebbe  intendere,  se  egli  no  M  ve- 
desse per  mostrarlo  per  esempio^  volle  lo  maestro 
mostrare  anche  uno  esempio  del  piato,  che  durò  lun- 
gamente tra^  Greci,  che  avevano  una  legge,  che  se  U 
vecchio  contestabile  non  rimandasse  tutti  li  cavalieri 
al  novello  contestabile,  eh'  egli  dovesse  perdere  la  te- 
sta. Ora  venne  che  Epamìnunda  non  rimandò  tutti  li 
cavalieri  al  contestabile  novello  quando  dovea,  anzi 
se  n'  andò  con  tutta  la  sua  oste  contra  a'  Macedoni, 


jda  IL  T£SOBO. 

c  vìnsdi  per  furza  (rarmc^  e  quando  «^li  ne  fu  uccti- 
sato,  egli  (licea  che  quelli  che  fece  la  legge  intese  chel 
vecchio  contestabile  ritenesse  li  cavalieri  per  lo  pro 
del  comune,  e  ch^(^li  non  fosse  di  ciò  dannalo.  E  su» 
avversario  facea  suo  argomento  centra  lui  in  tal  ma- 
niera :  signori  giudici,  ciò  che  Epaminunda  volle  giun- 
gere alla  legge  fuori  di  ciò  che  voi  trovate  scritto,  sof- 
ferestclo  voi?  No;  e  se  ciò  fosse  che  non" io  soffriste 
[ler  b  vittoria  elisegli  ha  avuto,  questo  sarebbe  coa- 
tra la  dignità  di  voi  e  contra  vostro  onore.  £  pensa- 
te voi  chol  popolo  il  sofferi?  Certo  non  sarà.  E  se 
cjuesto  è  ch^  egli  sia  diritto  a  farlo,  certo  io  conosoo 
tanto  senno  in  voi,  che  non  vi  parrebbe^  per  ciò  iodi- 
co, se  la  legge  non  può  essere  emendata,  uh  per  doI, 
uè  per  altrui,  dunque  non  potete  voi  rìmutare  la  sen- 
tenza, poi  che  voi  non  potete  rimutare  un  solo  motta 
Qui  tace  lo  maestro  a  [)arlare  dello  insegnamento  da 
lungi,  di  cli^  egli  ha  detto  assai,  e  toma  allo  argumcn- 
te  da  presso. 

Capitolo  LVI. 
Deli^  argomento  da  preiao. 

Da  presso  è  quello  argomento  che  per  alcuna  pro- 
prietà del  corpo,  o  della  cosa  mostra  che  ^1  detto  sia 
verisimile,  e  confermalo  per  sua  forza,  e  per  sua  ra- 
gione, senza  nullo  argomento  da  lunga.  Di  questo  ar^ 
gomento  dice  Aristotile  che  si  fa  cinque  parti.  La  pri- 
ma è  [)ro£H)iiimcnto,  ciò  è  a  dire,  quando  tu  procioni 
brevemenle  la  somma  di  tuo  argomento.  Ragione  co- 
me: tu  dici  che  tutte  cose  son  meglio  govciiiute  con 


t- 


LIBRO  OTTAYO.  555 

consiglio  che  senza  consiglio,  questo  è  tuo  poponi- 
mento,  ed  è  la  prima  parte  di  tuo  argomento.  Or  ti 
conviene  andare  alla  seconda,  cioè  a  conferiÉBrla  per 
molte  ragioni  in  questa  maniera:  la  magione  ch^è  sta- 
bilita per  ragione  è  meglio  governata  di  tutte  cose, 
che  quella  che  è  governata  follemente.  L^  oste  che  ha 
buon  capitano  e  buon  signore  è  più  saviamente  menata 
di  quella  ch^ha  folle  capitano  e  signore.  La  nave  fa  be- 
ne suo  corso  quando  ha  buoni  governatoti.  Ora  è 
compiuta  la  seconda  parte  deir  argomento,  cioè  il  con^ 
fermamento  del  primo  proponimento.  Ora  ti  convie- 
ne andare  alla  terza  parte,  cioè  apprendere  ciò  che  tu 
▼oli  provare  per  la  prima  proposta  in  questa  manie- 
ra :  nulla  cosa  non  è  sì  ben  governata  per  consiglio 
come  tutt^  il  mondo.  Quest^  è  Pimpresa  che  tu  vuo- 
ti provare.  E  immantinente  ti  conviene  andare  alla 
quarta  parte  dell'  argomento,  cioè  a  confermare  V  im- 
presa per  molte  ragioni  in  *  questa  maniera  :  noi  ve- 
demo  che  M  corso  del  sole,  e  delle  piaikiete,  e  di  tut- 
te le  stelle  è  stabilito  in  loro  ordine,  K  movimenti  del 
tempo  sono  per  ciascuno  anno,  o  per  necessità,  o  per 
la  utilità  di  tutte  terrene  cose,  né  V  ordine  del  dì  e  del- 
la notte  non  sono  per  danno  d'alcuno.  Tutte  queste 
cose  son  segni  che'l  mondo  governato  è  per  grandissi- 
ma providenza.  Ora  è  compiuta 'la  quarta  parte  del- 
r argomento,  cioè  Paffermamento  dell'impresa.  Ora  si 
convìcn  andare  alla  quinta  parte  dell'argomento,  cioè 
alla  conclusione,  che  può  esser  detto  in  due  maniere. 
O  senza  ridire  niente  del  primo  proponimento,  né 
dell'  impresa,  in  questa  maniera  :  dunque  io  dico  che 
il  mondo  è  governato  per  consiglio.  O  ridicendo  il 


■9* 


?i34  ^  TESORO. 

primo  proponimento,  e  la  impresa  io  questa  manien: 
se  tutte  le  cose  son  meglio  gOTemate  con  coosì(^ 
che  senza  consiglio,  e  nnlla  cosa  non  è  sì  ben  gover- 
nata per  consiglio  come  tutto  ^1  mondo  5  dunque  èm 
cheM  mondo  è  goTemato  per  consiglio.  Queste  son  le 
cinque  parti  dell^  argomento  da  presso,  cioè  il  pro- 
punimento,  il  confirmamento,  V  impresa,  il  suo  cod- 
fermamento  e  la  conclusione.  Ma  sono  mcJtegend 
che  dicono  che  in  questo  argomento  non  è  mai  che 
quattro  parti  senza  più  ;  ch^elli  credono  chel  propo- 
nimento eM  confermamento  Steno  una  cosa  medesima, 
e  r impresa  e  H  suo  confirmamento  è  una  cosa,  e  k 
conclusione  è  un^  altra  còsa.  Ma  elli  sono  malamente 
ingannati.  Ragione  perchè  :  senza  che  una  cosa  non 
può  essere,  non  è  quella  cosa  medesima,  anzi  è  nn^al* 
tra  cosa  per  sé,  e  così  sono  due  cose,  e  non  una.  Se 
io  possa  essere  uomo  senza  sapere  leggere  ^  dunque 
sono  io  una  cosa,  e  leggere  è  un^  altra.  Cosi  d^un  pro- 
ponimento che  può  essere  fermato  in  questa  maniera: 
sei  dì  che  fu  fatto  questo  omicidio,  fu  fatto  a  Roma, 
io  era  a  Parigi  ]  dunque  non  fui  io  a  quest^ omicidio. 
Qui  non  ha  mestieri  nullo  confermamento  3  immanti- 
nente farai  tua  impresa,  e  dirai  in  questa  maniera:  a 
Parigi  era  io  senza  fallo.  Quando  tu  avrai  ciò  detto, 
dei  confermare,  e  provare,  e  fare  poi  tua  conclusione, 
e  dire  :  dunque  non  fui  io  a  questo  omicidio.  E  altre- 
sì una  impresa  può  essere  fermata  e  stabilita  senza 
nullo  confermamento,  in  questa  maniera  :  se  tu  voli 
essere  savio  dei  tu  istudiare  in  filosofìa.  Questo  è  il 
primo  proponimento  che  richiede  d' essere  confirma- 
to, però  che  molte  genti  pensano  che  lo  studio  della 


LIBRO  OTTAVO.  335 

filosofia  sìa  no.  E  quando  tu  V  avrai  confermato  di 
buone  ragioni,  tu  farai  tua  impresa  in  questa  maniera: 
tutti  gli  uomini  desiderano  essere  savi.  Questa  ìmpre- 
sa  è  si  certa  che  non  si  convien  confermare  ;  ma  im- 
mantinente fa  tua  conclusione  in  questa  maniera  : 
dunque  dee  ciascuno  istudiare  in  filosofia.  Per  queste 
ragioni,  per  questi  esempli  puoi  tu  ben  conoscere  che 
sono  tali  proponimenti,  e  di  tali  imprese  che  vogliono 
essere  confermate,  e  di  tali  che  no.  E  però  s^  accorda 
Tullio  alla  sentenza  d'Aristotile,  e  dice  che  in  que- 
sta argomento  è  cinque  parti.  E  quelli  son  in  erro- 
re die  pensano  eh'  elle  sieno  tre  parti  tanto  ^  ma 
non  per  tanto,  e'  può  ben  esser  alcuna  volta  che  V  ar- 
gomento è  di  tal  natura  che  non  usano  se  non  le  quat- 
tro, o  le  tre  parti  senza  più.  E  alla  venta,  Targomento 
ha  tutte  cinque  le  parti,  quand'  egli  dice  lo  proponi- 
mento e  lo  suo  confermamento,  e  l'impresa,  e  la  con- 
clusione; ma  quando  il  proponimento  e  l'impresa  so- 
no stabiliti,  che  l'un  di  loro  non  ha  mestieri  di  nullo 
confermamento,  non  ha  che  quattro  parti.  E  se'i  pro- 
ponimento e  l' impresa  sono  tali  che  l' un  ne  l' altro 
non  dimanda  confermamento,  allora  non  ha  l'argo- 
mento ma  che  tre  parti,  cioè  confermamento,  impresa 
e  conclusione.  Ma  vi  sono  molte  genti  che  dicono  che 
questo  argomento  può  essere  da  due  parti,  che  se  1 
proponimento  e  la  impresa  sono  stabiliti  che  la  con- 
clusione avea  niente,  si  che  non  la  conviene  dire,  al- 
lora non  ha  egli  ma  che  due  partì.  E  se  '1  proponimen- 
to è  sì  forte  che  '1  parlatore  non  può  formare  sua  con- 
clusione senza  impresa,  allora  non  ha  ma  che  due  par- 
ti in  questa  maniera  :  questa  femina  partorì,  dunque 


536  Hi  TESORO. 

conobbe  ella  uomo.  £  se  1  pro{>oiii  mento  è  sì  forte 
stabilito  che  Puomo  intende  ben  la  conclusione  sena 
udirla,  allora  non  ha  egli  ma  che  una  parte.  Che  seta 
di\  questa  femina  è  grossa,  ciascuno  intende  eh'  elTha 
conosciuto  maschio,  sì  che  non  li  resta  nulla  a  dire  so- 
pra queste  parole.  E  dice  Tullio,  ch^egli  non  pensa 
che  diritto  argomento  possa  esser  latto  secondo  qoe- 
sf  arte  di  meno  di  tre  parti.  E  tutto  che  diverse  sdeo- 
ze  abbiano  diversi  insegnamenti,  non  per  tanto  la 
scienza  di  retorica  vole  argomenti  chiarì  e  certi  che 
si  fòcciano  credere  agli  auditori.  E  però  ha  il  maestro 
divisato  diligentemente  tutte  maniere  di  provare  qaei^ 
lo  che  r  uomo  vole  dire  a  confermare  suo  detto  se- 
condo che  appartiene  alla  quarfe  parte  del  conto,  cioè 
a  confirmamento,  e  ritorna  a  sua  materia  per  dire  del- 
la quinta  parte  del  differmamento. 

Capitolo  LVII. 

Della  quiuta  parte,  cioè  del  diflfermamento. 

Appresso  la  dottrina  del  confermamenlo  viene  la 
quinta  parte  del  conto,  cioè  del  differmamento.  Di  che 
Tullio  dice,  che  'l  <liffermamento  è  chiamato  quan- 
do M  parlatore  menima  e  strugge  l'argomento  del  suo 
avversario  in  tutto,  o  in  maggior  parte.  E  sappiate 
che  differmamento  esce  di  quella  medesima  fontana 
che  'l  confermamento.  Che  come  una  cosa  può  esser 
confermata  per  la  proprietà  del  corpo  e  della  cosa, 
così  può  essere  differmata  ;  e  però  dei  tu  prendere  gli 
argumentì  medesimi  che  '1  maestro  divisa  in  addietro 
nel  capitolo  del  confermamento.  E  nondimeno  egli  ne 


LIBRO  OTTATO.  357 

daà  alcuno  per  meglio  dimostrare  la  forza  e  la  natu- 
ra* del  confermamento.  E  ciascheduno  può  intendere 
più  leggermente  quando  V  un  contrario  è  messo  ap- 
presso r  altro.  Tutti  argomenti  difiermano  in  quattro 
maniere.  La  prima  è  se  tu  voli  negare  Timpi'esa  del 
tuo  avversario,  quel  medesimo  cH'  egli  vole  provare. 
Appresso  ciò  che  '1  confirmi  tu  nieghi  la  conclusione. 
Appresso  che  se  tu  dici  che  suo  argomento  sia  vizio- 
so. Appresso  che  contra  suo  argomento  tu  ne  dichi 
uno  altresì  fermo,  o  più.  £  però  vole  lo  maestro  mo- 
strare la  dottrina  che  si  conviene  a  ciascuna  di  queste 
quattro  maniere. 

Capitolo  LVffl.  ' 

Delle  quattro  maniere  di  difièrmamento. 

Lo  primo  differmamento  è  a  negare  ciò  che  tuo 
avversario  prende  a  provare  per  argomenti  necessarìi, 
e  per  argomenti  verìsimili.  E  se  quello  eh'  egli  dice  è 
argomento  verisimile,  tu  '1  potrai  negare  in  quattro 
maniere.  L'una  è,  quand'egli  ha  detto  una  cosa  veri- 
simile, tu  dici  che  non  è,  che  suo  detto  è  chiaramente 
falso  in  questa  maniera  ^ùo  avversano  dice,  che  non 
è  nullo  che  non  sia  piùxupido  di  danari  che  di  sen- 
no. Certo  di  ciò  non  dice  egli  lo  vero,  ch'elli  ne  sono 
molti  che  più  amano  senno  che  danari.  O  se  '1  suo  det- 
to è  tale  che  '1  *  suo  contrario  sia  altresì  credevoLe,  co- 
me 1  suo  detto  in  questa  maniera  3  tuo  avversario  dice 
che  non  è  nullo  che  non  sia  più  desideroso  di  signo- 
ria che  di  denari,  C«erto  altresì  puoi  tu  dire  fermamen- 
te il  suo  contrario,  che  non  è  nullo  che  non  desideri 


338  IL  Tsso&o.  • 

più  denari  che  sigoorìa.  O  se  U  suo  detto  nfm  è  ce- 
devole in  questa  maniera:  un  uomo  ch^è  fierameete 
avaro  dice,  che  per  un  picciolo  servigio  d'un  sao  a- 
mioo  lasciò  un  suo  grandissimo  pro\  £  se  ciò  che  suo- 
le addivenire  alcuna  volta,  tuo  avversario  dice  ch\^' 
addiviene  tutto  diversamente,  in  questa  maniera:  e^ 
dice  che  tutti  i  poveri  desiderano  più  danari  che  si- 
gnoria, ma  elli  ne  sono  d^  altri  che  amano  più  la  si- 
gnoria, sì  come  in  alcun  luogo  diserto  fa  Puomoo- 
micidio,  e  non  in  tutti;  e  se  quel  che  addiviene  alcu- 
na volta,  tuo  avversario  dice  che  non  addiviene  mai 
in  questa  maniera:  Egli  dice,  che  nullo  uomo  puoes* 
sere  preso  d'amore  per  femina  per  un  solo  isguardo^ 
perchè  questa  è  una  cosa  che  può  avvenire,  die  per 
un  solo  isguardo  e  per  una  sola  veduta  Puomo  l'ama 
per  amore.  La  seconda  maniera  di  negare  il  detto  di 
tuo  avversario  è  quando  dice  T insegnamenti  d'una 
cosa,  e  tu  li  difiermi  per  quella  medesima  voce  chV 
gli  conferma  con  tutti  insegni  ;  conviene  mostrare  due 
cose.  L'una  che  quel  segno  sia  vero;  l'altra  che  sia 
proprio  segno  della  cosa  che  vole  provare  :  si  come 
sangue  eh'  è  segno  di  mislea,  e  carbone  è  segno  di 
fuoco.  E  poi  conviene  mostrare  che  sia  fetto  quello 
che  conviene,  o  che  non  è  tSto  quello  che  si  convie- 
ne; e  che  l'uomo  di  cui  il  parlatore  dice  sapea  la  leg- 
ge e  il  costume  di  quella  cosa,  che  tutte  queste  cose 
appartengono  a  segni  e  a  simiglianze.  E  però  quando  tu 
voli  differmare  li  segni  di  tuo  avversario,  tu  dei  guar- 
dare com'  egli  lo  dice,  che  s' egli  lo  dice  che  ciò  sia 
segno  di  quella  cosa,  tu  dei  dire  che  non«è;  in  questa 
maniera  :  egli  dice  che  la  tocca  sanguinosa  che  tu  por- 


LIBRO  OTTAVO.  SSq 

ti  è  segno  che  tu  fosti  alla  mislea,  e  tu  di^  che  questo 
è  leggier  segno,  che  la  tocca  sanguinosa  può  esser  se- 
gno che  tu  sei  sanguinato.  O  tu  di' che  quel  segno  ap- 
partiene più  a  te  che  a  lui.  Che  se  dice  che  sia  fatlo 
quello  che  non  si<;onTÌene,  in  questa  maniera:  tu  hai 
rosso  nel  volto,  però  che  tu  ìm  colpa  in  quello  mis- 
fatto ;  e  tu  di',  che  ciò  non  fu  per  male,  anzi  per  o- 
nestà  e  per  diritto.  O  tu  di'  che  quel  segno  s' è  del 
tutto  falso,  che  s'egli  dice  che  tu  avevi  il  coltello  san- 
guinoso in  mano,  tu  di'  che  sanguinoso  non  era  egli 
già,  anzi  era  rugginoso.  O  tu  di'  che  quel  sia  apparte- 
nente all'altra  sospezione  che  tuo  avversario  non  dice. 
Che  se  dice  che  non  è  fatlo  quello  che  si  conviene,  in 
questa  maniera  :  tu  te  n'andasti  senza  prendere  commia- 
to, questo  è  simigliante  al  ladroneccio^  e  tu  di'* che  ciò 
non  fu  per  male,  anzi  fu  perchè  tu  non  volevi  isve- 
gliare  lo  signore.  La  terza  maniera  di  negare  lo  detto 
di  tuo  avversario  s' è  quando  egli  fa  nel  suo  detto 
una  comparazione  contra  due  cose,  e  tu  di' che  quel- 
la cosa  non  è  simile  a  quell'  altra,  però  eh'  elle  sono 
diverse  maniere.  Ch'egli  dice,  tu  vorresti  aver  miglior 
cavallo  che  tuo  vicino,  dunque  vorresti  aver  miglior 
femina^  e  tu  nieghi  suo  detto,  perchè  femina  è  d' al- 
tra ragione  che  cavallo,  e  però  che  son  diverse  na- 
ture. Che  s'  egli  dice  che  V  uomo  dee  lottare  come 
leone,  e  tu  nega  suo  detto,  però  che  l'uomo  è  d'al- 
tra natura  che  '1  leone,  però  che  son  di  diversa  forza. 
E  s' egli  dicesse  che  Pirro  dee  essere  dannato  a  morte 
per  la  moglie  d^ Oreste  ch'egli  furò,  sì  come  Paris  che 
furò  Elena;  e  tu  ni^hi  suo  detto,  però  che  '1  forfatto 
di  Paris  fu  maggiore  che  quel  di  Pirro,  e  però  eh'  elli 


7)4u  II'  TESOAO. 

noD  sono  d'una  grandezza.  Che  s^  egli  dice,  qual'oih 
mo  dee  essere  giudicato  a  morte,  però  che  ha  ocdio 
un  uomo  cosi  come  quest^  altro  che  n^  ha  morti  due; 
e  tu  nieglii  suo  detto,  per  ciò  che  non  fé  cosi  gran  m- 
le  come  quell^  altro.  Altresì  dico  io  della  diversità  del 
luogo  e  del  tempo,  del  corpo  e  deli^  opinione^  e  di 
tutte  le  diversità  che  sono  nelli  uomini  e  ndle  co»; 
che  di  ciascuna  può  il  buon  parlatore  riprendere-  sud 
avversario,  e  differmare  suo  confermamento.  La  qov- 
ta  maniera  eli  negare  U  detto  di  suo  aTrersarìo  s*  è 
quand'egli  ricorda  alcun  giudicio  di  savio;  che  ootaK 
argomenti  possono  elli  confermare  in  quattro  mame- 
re.  O  per  la  lingua  di  colui  che  dà  il  giudicio,  si  come 
Giulio  Gasare  disse,  che  li  anziani  di  Roma  aveano 
{)cr  lo  lor  gran  senno  perdonato  a  quelli  di  Rodes. 
()  egli  lo  può  confermare  per  la  simiglianza  di  quel 
giudicamento  alla  cosa  di  cui  egli  parla  ;  sì  come  fisoe 
un  predicatore  di  Roma,  quando  disse,  sì  come  i  nostri 
antichi  perdonaro  a  quelli  di  Cartagine,  così  dovemo 
perdonare  a  quelli  di  Grecia.  Altresì  lo  può  egli  con- 
fermare, per  ciò  che  dice  che '1  giudizio  ch'egli  men- 
tovò fu  confermato  per  tutti  quelli  che  l'udirò,  cchel 
doveaiio  confermare.  Altresì  il  polca  egli  confermare, 
[)erò  che  quel  giudicio  fu  maggiore  e  più  grave  che 
la  cosa  di  ch'egli  parla,  sì  come  Cato  quando  disse, 
che  Manlio  Torquato  giudicò  a  morte  il  figliuolo,  solo 
{>erchè  combattè  con  Franceschi  con  tra  suo  comanda- 
mento. Queste  sono  le  quattro  maniere  per  confer- 
mare lo  giudicio,  e  tu  sii  immantinente  apparecchiato 
a  differmare  ciò  che  per  lo  coutrario  di  suo  difTerma- 
mento,  se  tu  unquo  puoi,  ciò  è  a  dire,  s\'gli  lo  loda. 


UBRO  OTTAVO.  54  I 

e  tu  lo  biasimi,  e  se  dice  che  M  giudicameoto  fu  con- 
lermato,  e  tu  di^  che  non  £14  altresì  di  tutte  le  ragioni. 
Ma  però  che  V  insegnamento  del  parlatore  dee  esser 
comune  a  un  parlatore  e  all^  altro,  dice  il  maestro, 
che  ^1  parlatore  che  ricorda  del  giudicio  debbe  molto 
guardare  cheU  giudicio  non  sia  dissimile  da  quello 
che  parla,  però  che  suo  avversario  lo  potrd}be  leg- 
germente riprendere.  E  poi  dee  guardare  di  non  con- 
tare tale  giudicio  che  tocchi  ad  alcun  degli  auditori 
però  che  gridano  immantinente,  e  dicono  che  ciò  fu 
contra  giustizia,  e  che  1  giudice  ne  dovrd>be  esser 
dannato.  Appresso  dee  egli  guardare  che  quand^  egli 
può  mentovare  -molti  buoni  giudici  lodati  e  saputi, 
ch^egli  non  mentovi  strano  e  sconosciuto,  che  quelFè 
una  cosa  che  '1  tuo  avversario  può  leggeimente  ri- 
prendere, e  infermare  tuo  detto.  Ora  avete  udito  co- 
me Tuomo  dee  infermar  tutti  verisimili  argomenti, 
dunque  è  da  dire  del  dilTermamento  degli  argomenti 
necessurii. 

Capitolo  LIX. 

Del  differmamento  degli  argomenti  necessarìi. 

Se  il  tuo  avversario  fa  sopra  il  suo  detto  argomenti 
necessari!,  tu  dei  immantinente  considerare  s^  elli  sono 
necessarìi,  o  elli  paiono.  E  s*  elli  sono  veramente  ne- 
cessaiii,  tu  non  hai  podere  di  conti*addirli.  Ma  s^  el- 
li pai'eno  necessarii  e  non  sono,  allora  potrai  tu  dif- 
fcrmare  per  quelle  medesime  vie  che  sono  dette  di  so- 
[>ra  nel  capitolo  de^  necessarii  argomenti,  cioè  pei'rim- 
procciamento,o  per  semplice  conclusbne.  Rimproccia- 
mento  è  quando  il  pai'latot*e  divisa  due,  o  tre,  o  più 


54^  IL  TESORO. 

partì,  delle  quali  se  tu  coofermi  V  una,  quale  che  h 
sia,  certo  il  te  conclude  s^  ella  è  vera,  ma  s^eUa  è  Él- 
sa tu  puoi  dificrmare  Pana  senza  più.  Ragioiie co- 
me, tuo  avversario  vole  concludere  che  tu  dei  ca- 
stigare lo  tuo  amico,  e  sopra  ciò  divisa  due  parti  io 
questa  maniera.  O  egli  teme  vergogna,  o  no.  Sceglila 
teme,  non  castigare,  che  non  è  buono.  E  se  non  la  te- 
me, no  'l  castigare,  ch^  egli  ha  per  niente  tuo  castiga- 
mento.  Quest^  argomento  non  è  necessario,  ma  pare  ; 
tu  dei  immantinente  difFermare  amendue  le  parti  in 
questa  maniera:  Anzi  lo  debbo  castigare,  che  s'^ 
teme  vergogna  e  non  dispregia,  tanto  il  debbo  io  più 
tosto  castigare,  però  che  non  è  ben  savio.  E  se  tu  di- 
rai parte  senza  piii,  tu  dirai  così:  s^  egli  non  la  teme 
veracemente,  il  debbo  castigare,  ch'egli  si  ammenderà 
per  mio  detto,  e  lascierà  suo  errore.  Numero  è  quan- 
do il  parlatore  conta  nel  suo  conto  molte  cose  per 
provarne  una,  secondo  che  U  conto  divisa  nel  capita- 
lo de'  necessarii  argomenti.  Allora  ti  conviene  difTer- 
niare  tuo  numero  che  può  avere  tre  vizii.  Lo  primo 
sì  è,  s' egli  numera  quella  parte  che  tu  voli  afiermare^ 
tuo  avversario  dice  così:  o  tu  hai  comperato  questo 
cavallo,  od  egli  ti  fu  donato,  od  egli  fu  allevato  in  tua 
casa,  od  egli  ti  rimase  per  retaggio,  e  non  ti  nacque  b 
casa,  dunque  P  hai  tu  imbolato  senza  fallo.  E  quando 
egli  è  sì  concluso,  tu  dei  immantenente  dire  la  parte 
cip  egli  lasciò  in  suo  numero,  e  di' che  tu  V  hai  gua- 
cTagnaln  al  torniamento.  E  suo  argomento  è  tutto  dif- 
fermato,  se  ciò  è  la  verità,  eh'  egli  non  avea  contato. 
Lo  secondo  vizio  è,  quand'  egli  numera  una  cosa  che 
tu  puoi  contraddire.  Che  se  dice  che  quel  cavallo  non 


LIBRO  OTTAVO.  343 

ti  rimase  per  redkà,  tu  puoi  dire  che  si  fece  ^  certo  suo 
argomento  è  tutto  spezzato.  LfO  terzo  vizio  si  è  quan- 
do una  delle  cose  ch^egli  numera  tu  la  puoi  ricono^ 
scere  e  fermare  senza  laidura.  Ragione  come  tuo  av- 
versario.dice  così:  o  tu  stai  qui  per  lussuria,  o  per 
agguato,  o  per  lo  pro^  di  tuo  amico.  Semplice  conclu- 
sione è,  quando  il  parlatore  conclude  quel  che  vole 
per  la  forza  d^  una  cosa  ch^  è  detta  innanzi.  £  questo 
è  in  due  maniere  :  che  s^  egli  prova  per  necessità*,  tu 
non  puoi  contraddire  ;  che  se  dice,  questa  femina  è 
grossa,  dunque  giacque  con  uomo^  e  se  quest'  uomo 
fiata,  dunque  è  egli  vivo  ;  certo  non  potrai  dire  con- 
tra.  Ma  s'egli  pare  di  necessità  si  è  in  questa  maniera  : 
s'ella  è  madre,  dunque  ama  ella  i  figliuoli^  certo  tu  '1 
potrai  ben  riprendere,  e  mostrare  che  ciò  non  sia  per 
necessità,  anzi  può  essere  per  maniera. 

Capitolo  LX. 
Del  secondo  differmamento. 

Lo  secondo  difièrmamento  si  è,  quando  tu  conosci 
che'l  proponimento,  o  l' impresa  di  tuo  avversario  sia 
vera,  tu  nieghi  la  conclusione,  però  che  quella  non 
nasce  di  quel  che  tu  avevi  conosciuto,  anzi  conclude 
altra  cosa  che  non  dee,  ne  può.  Ragione  come  :  le 
genti  della  citlade  andarono  nell'oste,  e  addivenne  che 
quando  tu  andavi  una  infermità  ti  prese  nella  via  che 
non  ti  lasciò  andare  infin  all'oste,  si  che  tuo  avversa- 
rio te  ne  accusa,  e  conclude  in  questa  maniera  :  se  tu 
fossi  venuto  nell'  oste,  nostro  contestabile  vi  t'avreb- 
ì^  veduto,  ma  egli  non  ti  vide,  dunque,  non  vi  vole- 


j44  U.  TB80A0. 

sti  tu  vemre.  Or  guarda  che  ia  questo  argooMiilD  ti 
affermi  bene  il  proponimento  di  tuo  avversario,  cioè 
che  se  tu  vi  fossi  stato  li  contestabili  vi  i^avrdilKfo 
veduto,  ed  afferma  i^  impresa,  cioè  ch^  ellì  non  ti  n- 
dero^  ma  la  conclusione  non  nasce  di  ciò,  che  là  ovV 
gli  dice,  ciie  tu  non  vi  volesti  andare ,  ^1i  non  dioe 
vero,  però  che  tu  vi  volesti  ben  andare^  ma  tu  ubo 
potesti.  Ma  questo  esemplo  è  sì  chiaro  e  si  aperto^dhe 
gli  è  leggier  cosa  a  conoscere  lo  suo  vizio  ^  e  però  vi 
vole  lo  ma(*stro  mostrare  la  ragione,  ed  un  altro  ese»* 
pio  più  scuro  ad  intendere,  per  meglio  insegnare  queir 
lo  che  appartiene  al  buon  parlatore.  Che  là  ove  li  vi- 
zii  SODO  scuri  ad  intendere,  e^può  ben  essere  provato 
sì  come  s*  egli  fosse  vero;  e  ciò  può  essere  in  due  ms- 
iiiere:  o  perchè  egli  crede  che  tu  affermi  al  certo  ooa 
cosa  dottosa;  o  perchè  crede  che  non  ti  sovvegna  di 
quello  che  tu  hai  affermato,  o  riconosciuto.  Che  scegli 
crede  che  tu  abbi  affermata  uua  cosa  dottosa  perchè 
tuo  avversarlo  ti  conclude,  allora  ti  conviene  mostra- 
re r  iiiteudimento  che  tu  avevi  quando  tu  feimasli 
quella  cosa,  e  dire  eh'  egli  ha  recato  suo  argomento 
ad  altra  cosa.  Ragione  come  tuo  avversai'io  dice  così: 
tu  hai  bisogno  d' ai'gento,  e  tu  affermi  che  si,  secondo 
la  tua  intenzione,  ciò  è  a  dire,  che  tu  ne  von*esti  avere 
più  gi-an  somma  che  tu  non  hai  3  ma  tuo  avversario 
pensa  altra  cosa,  e  dice  così:  tu  hai  mestiero  d'argen- 
to, che  se  ciò  non  fosse  tu  non  faresti  mercanzia^  dun- 
que se' tu  povero.  Guarda  dunque  eh'  egli  ti  convie-  . 
ne  per  altra  intenzione;  e  però  puoi  tu  difièrmare  tuo 
argomento  eh'  egli  pieghi  e  muti  ciò  che  tu  intendi. 
Ma  s' egli  pensa  che  tu  abbi  dimenticato  quello  che 


LIBRO  OTTAVO.  54  5 

tu  hai  conosciuto,  come  egli  ne  farà  una  malvagia  con- 
clusione contra  te  in  questa  maniera  :  se  il  reditaggìo 
del  morto  appartiene  a  te,  cìa<;cuno  dee  credere  che 
tu  Fuccidessi^  e  sopra  questo  motto  tuo  avversario  di- 
ce molte  parole,  ed  assegna  più  ragioni  da  provare 
sua  cosa.  E  quando  egli  ha  ciò  fatto,  e  prende  suo  ar-* 
gomento,  e  dice  :  senza  fallo  lo  reditaggìo  appartiene  a 
te,  dunque  P  hai  tu  ucciso  ;  guardati  dunque  che  que- 
sta conclusione  non  esce  di  ciò  che  il  reditaggio  ap* 
partiene  a  te  ^  e  però  ti  conviene  diligentemente  guar- 
dare la  forza  di  suo  argomento,  e  come  egli  lo  ritragiò. 

Capitolo  LXI. 
Del  terzo  differmame  nto. 

Lo  terzo  diOèrmamento  è  quando  tu  dici  che  F  ar- 
gomento di  tuo  avversario  è  vizioso.  E  può  essere  in 
due  maniere.  O  perchè  il  vizio  è  nelP  argomento  me- 
desimo, per  ciò  che  non  appartiene  a  quel  che'l  par- 
latore lo  propose.  E  sappiate  che  vizio  è  tutto  o  fal- 
so, o  comune,  od  universale,  o  leggieri,  o  lontano,  o 
male  appropriato,  o  dottoso,  o  certo,  o  non  affermato, 
o  laido,  o  noioso,  o  contrario,  o  mutabile,  od  avversa-» 
rio.  Falso  è  quello  che  dee  appartenere  a  menzogna. 
Ragione  come  :  nullo  potrebbe  essere  savio  che  dis- 
pregia i  danari;  Socrate  dispregia  i  danari,  dunque 
non  fu  egli  savio.  Comune  è  quello  che  non  appar-« 
tiene  più  a  te  che  a  tuo  avversario.  Che  se  tu  dici  co- 
si :  io  dirò  brevemente,  perciò  eh'  io  aggio  diritto,  al- 
tresì lo  può  dire  tuo  avversario  come  tu.  Universale  è 
quello  che  può  essere  retratto  sopra  alcuna  altra  cosa 


546  IL  TESORO. 

bhe  noo  è  verace,  in  questa  maniera  :  Signori  giadki, 
io  non  mi  sarei  messo  in  Toi  se  io  non  credessi  avere 
lo  diritto.  Leggiero  si  è  in  due  maniere.  L^  una  ch^è 
detto  taixli,  si  come  lo  villano  che  dice  :  s^  io  avesà 
creduto  che^  buoi  mi  fossero  imbolati^  io  averci  serra- 
ta la  stalla.  L^  altra  maniera  è  a  coprire  una  laida  cosi 
di  leggiere  covertura,  sì  come  fé  lo  cavaliere  che  ab- 
bandonò suo  re  quand'egli  era  in  su  alta  signorìa^  e 
quando  lo  re  fu  disertato,  suo  cavaliere  lo  scontrò  on 
dì,  e  disse  :  signore,  voi  mi  dovete  perdonare  perchè  b 
v^  abbandonai,  però  eh'  io  m' apparecchio  di  venire, 
io  son  al  vostro  soccorso.  Lontano  è  quello  argomento 
che  è  preso  troppo  Inngi,  sì  come  fé  la  cameriera  £ 
Medea,  che  disse:  Dio  volesse  chèl  legname  non  fos- 
se tagliato  di  che  le  navi  furon  fatte.  Male  appropriato 
si  è  in  tre  maniere.  Una  che  dice  le  proprietà,  che  al- 
tri sa  che  sono  comuni  ad  un'  altra  cosa.  Che  ta  mi 
domanda  delle  proprietà  dell'  uomo  che  son  discorde* 
voli,  io  dico  che  discordevoli  son  quelli  che  son  mal- 
vagi, e  noiosi  intra  gli  uomini.  Certo  queste  proprietà 
non  sono  più  discordevoli  che  V  orgoglio  d' un  folle 
che  d'un  altro  uomo.  La  seconda  maniera  è  di  taU  pro- 
prietà che  non  son  vere,  anzi  false.  Che  se  tu  diman- 
dassi delle  proprietà  di  sapienza,  ed  io  dicessi  che  sa-' 
pienza  non  è  altro  che  guadagnare  argento,  io  ti  direi 
falsa  proprietà.  La  terza  maniera  dice  alcuna  proprie- 
tà, ma  non  tutte.  Che  se  tu  mi  dimandassi  delle  pro- 
prietà di  follia,  ed  io  dicessi,  che  follia  è  desiderare 
alta  nominanza,  certo  già  si  è  ciò  follia  d' alcuna  parte, 
non  dico  di  tutte  le  proprietà  di  follia.  Dottoso  è 
quell'argomento  che  per  dottose  cose  vole  provare 


I,"' 


LIBRO  OTTAVO.  34? 

una  dottosa  cosa  iisr  qaesta  maniera  :  Signori  prìncipi 
della  terra,  voi  non  dovete  avere  guerra  Tun  con 
Paltro,  però  che  li  Dei  che  governano  i  movimenti 
del  cielo  non  cambattono.  Certo  è  quelP  argomento 
quando  il  parlatore  conclude  quel  medesimo  che  suo 
avversario  conferma,  e  lascia  hiò  che  si  dovrebbe  pro- 
vare, si  come  fece  P  avversario  di  Orestes  quando 
dovea  mosti*are  che  Orestes  avea  morta  sua  ihadre 
a  torto,  egli  mostrò  ch^egli  Tavea  uccisa  5  e  ciò  non 
bisognava,  però  che  egli  no  1  negava,  anzi  dicea  ch'e- 
gli V  avea  uccisa  a  diritto.  Non  affermato  argomen- 
to è  quando  il  parlatore  dice  molte  parole  di  con- 
fermamento  sopra  ad  una  cosa  che  suo  avversario 
ni^a  pienamente.  Ulisse  fu  accusato  ch'egli  avea  mor- 
to Aiace,  ma  egli  dicea  che  non  avea,  e  tuttavia  suo 
avversario  iacea  gran  romore,  e  ciò  era  laida  cosa  mol- 
to, che  un  villano  uccidesse  un  così  nobil  cavaliere. 
Laido  argomento  è  quello  eh'  è  disonesto  per  ragione 
del  luogo,  ciò  è  a  dire  motti  innanzi  P  altare.  O  per 
ragione  di  colui  che  li  dice,  cioè  se  un  vescovo  pària 
di  femine,  o  di  lussuria.  O  per  ragione  del  tempo,  cioè 
se  il  dì  di  pasqua  V  uomo  dicesse,  che  Cristo  non  re- 
suscitò. O  per  ragione  degli  auditori,  cioè  se  dinanzi 
a  religiosi  V  uomo  parla  di  vanità  e  di  diletti  del  se* 
colo.  O  per  ragione  della  cosa,  ciò  è  a  dire,  che  chi 
parla  della  santa  croce  non  dee  dire  ch'ella  sia  for- 
che. Noioso  è  quello  che  noia  la  volontà  degli  audi- 
tori, che  se  dinanzi  a'  predicatori  io  lodassi  la  legge 
clie  danna  lussuria,  certo  mio  argomento  noierebbe  »- 
gli  auditori.  Contrario  è  quello  quando  il  parlatore 
dice  contra  quello  che  gli  auditori  fisurdbbero.  Io  vo 


i 


54^  li'  T£soao. 

dinanzi  ad  Alessandro  ad  accusare  alcun  prode  uomo 
che  avesse  viola  una  città  per  fora  d'arme  a  dire:  che 
al  mondo  non  è  si  crudel  cosa  come  è  a  vìncere  un 
cillà  per  fi)rza  e  guastarla .  Certo  colale  argomento  è 
molto  contrario^  però  che  T auditore,  cioè  Alessandro, 
distrusse  più  città  e  castella.  Mutabile  si  è  quando  il 
parlatore  d^  una  medesima  cosa  dice  due  diverntà  che 
sono  Tuna  contra  T  altra,  secondo  ciò  che  Tuomo  di- 
ce che  la  virtù  non  ha  mestiere  d^alfcrui  a  ben  vivere; 
e  poi  appresso  disse  egli  medesimo  che  nullo  puu  ben 
vivere  senza  sanità.  Ed  un  altro  quando  ebbe  detto 
oh^  egli  seguiva  suo  amico  per  amore,  e  poi  appresso 
disse,  ch^  egli  attendeva  di  lui  gran  servigio.  Avver- 
sario è  quello  argomento  che  più  fa  contra  il  parlato- 
re, che  per  lui^  che  se  io  volessi  confortare  li  cavalieri 
a  battaglia,  ed  io  dicessi  :  vostri  nimici  sono  grandi  e 
forti  e  ben  agurosi,  cerio  questo  sarebbe  più  contra  me, 
che  per  me.  Or  conviene  di  dire  dell^  altre  maniere 
d^  argomenti  viziosi,  cioè  quando  egli  non  appartiene 
a  quello  clie^l  parlatore  propose.  E  questo  può  essere 
in  molte  maniere,  cioè  sei  parlatore  promette  che  dirà 
più  cose,  e  poi  non  dice  se  non  una  ;  o  scegli  dee  mo- 
strare tutto,  e  sì  non  mostra  più  che  Tuna  parte.  Ra- 
gione come  se  1  parlatore  volesse  mostrare  che  tutte 
femine  sien  avare,  ed  egli  non  mostra  se  non  d^  una, 
o  di  due.  O  s^  egli  non  si  difende  di  quel  che  gli  è 
biasimato,  secondo  che  fé  Paces  quando  volse  difen- 
dere musica  biasimata  per  più,  egli  non  la  difese,  ma 
egli  lodò  molto  sapienza.  Così  fé  quegli  ch^era  biasi- 
mato di  vanagloria,  ch^egli  era  molto  fiero  ed  ardito 
d^  arme.  O  se  la  cosa  è  biasimata  per  lo  vizio  delP  no- 


LIBRO  OTTAVO.  549 

mo,  sì  come  fanno  quelli  che  dioono  male  delia  santa 
chiesa  per  la  malvagità  de^  prelati.  O  se  io  volessi  lo* 
dare  un  uomo,  ed  io  dicessi  ch'egli  fosse  molto* ricco 
e  bene  aguroso,  e  non  dicessi  eh'  ^li  avesse  niuna 
virtù.  O  s'io  &CCÌO  comparazione  intra  due  uomini,  od 
intra  due  cose,  od  in  altra  maniera  eh'  egli  non  creda 
ch'io  possa  r  una  lodare  senza  biasimare  l'altrai.0 
s' egli  loda  l' una,  e  non  fa  dell'  altra  menzione,  come 
noi  fossimo  al  consiglio  per  provedere  qual  è  meglio 
o  la  pace,  o  la  guerra,  e  io  non  finis»  di  lodare  la  pace, 
ma  della  guerra  non  facessi  altra  men^one.  O  se  io 
dimandassi  d' una  certa  cosa  e  tu  mi  rispondessi  d'u- 
na generale  ;  che  se  io  ti  dimandassi  dell'  uomo  se  1 . 
corre,  e  tu  mi  dicessi  eh'  un  animale  corre.  O  se  la  ra- 
gione che'l  parlatore  rende  è  falsa,  che  s'egli  dice  che' 
danari  sono  buoni,  però  che  danno  più  felice  vita  che 
cosa  del  mondo,  certo  la  ragione  è  falsa;  però  che' da- 
nari danno  id  altrui  grandissimo  travaglio  e  mala  ven- 
tura, secondo  Iddio  e  secondo  il  mondo.  O  se  il  par- 
latore rende  fievoli  ragioni  di  suo  detto  si  come  fece 
Plaustro;  ed  egli  non  è  buono  (diss'  egli)  che  l'uomo 
castighi  il  suo  amico  del  misfatto  anzi  tempo,  e  però 
non  voglio  io  oggi  castigar  lo  mio  amico  del  mal  ch'e- 
gli ha  fatto.  O  se  il  parlatore  rende  tal  ragione  di  suo 
detto  che  sia  quel  detto  medesimo  ;  che  se  dice  die 
avarizia  è  troppo  mala  cosa,  però  che  cupidità  d' ar- 
gento ha  fatto  già  molti  dannaggi  a  molte  genti;  certo 
avarizia  e  cupidità  sono  una  cosa.  O  se  il  parlatore 
rende  picciole  ragioni  là  ov'  egli  le  potrebbe  rendere 
più  grandi;  che  se  dice,  buona  cosa  è  amistà,  però  che 
l'uomo  n'  ha  .molti  diletti,  certo  egli  può  rendere  mi- 

LaHni,  FoL  II.  20 


584  "'  TKSORO. 

do,  noi  per  la  sola  fidanza  di  lui,  e  non  per  nostra 
bontà,  nel  "nome  del  sovrano  Padre,  per  lo  comune 
consiglio  di  tutti  i  nostri  amici,  e  V  onore,  e  V  uffiò) 
riceviamo  di  vostro  govemamento,  secondo  0  dÌTÌsa- 
mento  di  vostre  lettere,  specialmente  sopra  qaella  fi- 
danza che  noi  crediamo  veracemente^  che'l  senno  df' 
cavalieri  e  del  popolo,  e  la  fede  e  la  lealtà  di  tatti  i 
cittadini  aiuterà  portare  parte  di  nostro  carico,  per 
buona  ubbidienza.  E  quando  egli  ha  a  rimandare  le 
lettere  indietro,  e  lo  messaggio,  allora  immanteoeole 
apparecchi  suo  fornimento,  ed  allora  si  procacci  d'a- 
vere cavalli  ed  arnesi  buoni  ed  onorevoli.  Ma  sopn 
tutte  cose  si  brighi  d^  avere  buon  giudice,  e  suo  asses- 
sore discreto,  savio  e  provato,  che  tema  Iddio,  e  sii 
buon  parlatore,  e  non  duro,  che  sia  casto  di  suo  cor- 
po, né  non  sia  orgoglioso,  ne  cruccioso,  né  pauroso, 
ne  bilingue,  e  non  desideri  pregio  di  fierìtà,  ne  di  pie- 
tà, anzi  sia  forte,  giusto  e  di  buona  fé,  religioso  a  Db 
ed  a  santa  chiesa  3  che  nella  legge  è  chiamato  il  giud- 
ee sacramento,  al  cominciamento  della  digesta,  là  ove 
egli  ti  dice,  l' uomo  ti  chiama  degnamente  prete,  ed 
uomo  che  ha  dentro  a  se  giudicamento  ;  ed  in  molti 
altri  luoghi  dice  la  legge  che  1  giudice  è  come  sagrato 
della  presenza  di  Dio,  e  eh'  egli  è  in  terra,  come  un 
Iddio  5  ma  se  non  il  trova  così  compiuto  di  tutte  cose, 
per  ciò  che  tutti  li  antichi  uccelli  non  sono  cecini,  sia 
almeno  leale,  proamabile,  che  non  possa  essere  cor- 
rotto, e  sia  di  buona  fé,  ma  non  semplice,  non  sia  in- 
viluppato di  vizii  rei.  Guardi  duilque  il  signore  di  non 
lasciare  buon  giudice  per  danari,  là  ove  egli  lo  trove- 
rà ;  riiè  gli  è  scrìtto,  male  a  colui  che  va  solo,  che  se 


LIBRO  NONO.  585 

cade,  non  è  chi  'I  rilevi.  Perchè  io  dico,  che  'l  signo- 
re che  va  nella  signoria  per  onore  più  che  per  mone- 
ta, e'  dee  guardare  per  cui  lo  diritto  sarà  governale  : 
che  sì  come  la  nave  è  governala  per  li  timoni,  così  è 
governata  la  città  per  lo  savere  di  giudici.  Altresì  dee 
egli  avere  suoi  nolari  buoni,  e  savi  di  legge,  che  sap- 
piano ben  parlare  e  ben  scrivere  carte  e  lettere,  che 
sian  buoni  dettatori,  e  casti  di  suo  corpo  ;  che  mollo 
la  bontà  del  notaio  ammenda  e  cuopre  il  fallo  del  giu- 
dice. Anche  dee  menare  a  sua  compagnia  savi  cava- 
lieri, e  ben  costumati,  che  amino  T onore  di  loro  si- 
gnore, e  siniscalco  buono,  e  valenti  sergenti,  e  tulta  la 
famiglia  savia  e  temperata,  senza  orgoglio,  e  senza  fol- 
lia, e  che  volentieri  ubbidiscano  a  lui  ed  a  quelli  di 
suo  albergo.  Appresso  ciò,,  suole  P  uomo  fare  nuove 
robe  per  lui  e  per  suoi  compagni,  e  vestire  tutta  sua 
famiglia  ad  una  taglia,  e  rinnovare  sue  armi,  e  sue  ban- 
diere, e  sue  altre  cose  che  vegnono  alla  bisogna  ^  e  poi 
quando  il  tempo  appressa,  egli  dee  mandare  suo  sini- 
scalco, per  fornire  la  casa  di  quelle  cose  che  bisogna. 
Che  il  savio  dice,  meglio  è  accorgersi  dinanzi,  che  di- 
mandare consiglio  dopo  la  fine  del  fatto. 

Capitolo   IX. 

Della  compagnia  che  il  signore  dee  menare  per  il  cammino 

con  seco. 

Or  suole  addivenire  che  nel  tempo  che  '1  signor  è 
per  andare  a  sua  via,  lo  comune  della  città  gli  suol 
mandare  delli  onorevoli  cittadini  insino  al  suo  alber- 
go per  fargli  compagnia  per  il  cammino,  o  per  pregare 

Latini.  Voi.  II.  aa 


7»Hf»  m  TEsoBo. 

il  comune  di  sua  città  che  ^1  lascino  andare  alla  loro 
signoria,  o  per  altra  cagione';  ma  come  si  sia,  egli  lì 
dee  onorare  e  congioire  maravigliosamente,  e  mandare 
loro  grandi  presenti,  ed  andarli  a  vedere  al  loro  al- 
bergo. Ma  guardisi  bene  che  egli  non  parli  ad  alcun 
di  loro  in  privato,  eh-';  di  tal  parlamento  nasce  spesso 
mala  sospezione.  E  però  è  ora  lasciato  queir  uso.  che 
poche  città  gli  manda  tali  ambasciatori  airincontro  ;  e 
quando  si  mcllc  alla  via,  nel  nome  del  Terace  corpo 
di  Dio,  egli  se  ne  va  tutto  diritto  a  suo  ufficio,  infie- 
rendo sempre,  e  spiando  del  r  usa  e  delle  condiiion 
della  città,  e  della  natura  delle  genti,  si  ch^  egli  sappii 
innanzi  di'  egli  entri.  E  quando  egli  è  appresso  alh 
città  ad  una  giornata,  egli  dee  mandare  innanzi  swi 
siniscalchi  con  tutti  li  cuodii  che  governino  la  magio- 
ne e  Talbergo;  e  dee  altresì  mandare  alla  città  le  let- 
tere di  sua  venula,  e  la  mattina  eh'  egli  dee  entrare 
nella  città  dee  senza  fallo  udire  V  ufììcio  e  la  messa 
del  nostro  signore  Gesù  Cristo.  DalP  altra  parte  il  suo 
antecessore,  ciò  è  a  dire  quello  che  tiene  la  signorìa 
della  città,  immantenenle  che  riceve  le  lettere  del  no- 
vel  signore,  la  sua  venuta  facci  bandire  per  h  città, 
che  tutti  i  cavalieri  e  borghesi  che  hanno  cavallo  va- 
dano incontra  al  podestà,  ed  egli  medesimo  vi  dee  an- 
dare con  messer  lo  vescovo,  s'  egli  v'  è,  o  s'egli  vole 
andare.  E  cerio  il  novo  signore  quando  si  trova  con 
r  altro  debbono  cavalcare  amendue  per  cavare  tutta 
la  sospezione  alla  gente,  e  salutare  la  gente  di  buon' 
cuore,  ed  in  questa  maniera  debbono  andare  tutti  deiH 
tro  alla  mastra  chiesa,  ed  andar  dinanzi  all'  altare  in- 
ginocchione  e  pregare  Iddio  umilmente  con  tutto  suo 


ÌAhKO  NONO.  587 

cuore  e  con  lulta  sua  fede,  ed  offerir  onorevolmeate, 
e  poi  andare  là  oy^  egli  dee. 

Capitolo    X. 
Come  il  signore  deBbe  parlare  il  giorno  della  sua  venuta. 

A  questo  punto  ha  più  diversità^  che  le  son  alcune 
terre  che  hanno  a  costume,  che  ^1  signore  se  ne  va  al 
suo  albergo,  e  Puomo  li  porla  il  libro  degli  statuti 
della  città,  anzi  ch^egli  faccia  suo  sacramento^  e  in  ciò 
ha  egli  gran  vantaggio,  che  si  può  meglio  provvedere 
contra  li  capitoli  che  sono  contra  di  lui.  Altri  sono 
che  hanno  in  usanza,  che  immantinente  che  U  signofie 
è  dentro  alla  città,  e  che  gli  è  stato  dinanzi  alP altare,  è 
menalo  dinanzi  al  consiglio  della  cittade,  dinanzi  alla 
comunità  della  gente,  là  ove  sono  assembrati,  e  quivi 
fanno  giurare  Idi  e  li  suoi  ufficiali  innanzi  che  '1  Ubro 
de^  capitoli  sia  aperto,  né  che  sia  portato  a  lui,  né  a^ 
suoi  giudici.  Ma  lo  signore  ch^  è  savio  richiede  lo  co- 
mune, che  li  dieno  arbitri  sopra  li  rei  statuti,  e  non 
per  suo  prò',  ma  per  il  meglio  della  città,  e  per  il  male 
delii  malfattori.  Se  Tuomo  li  dà,  ciò  è  buono  ^  e  se  ciò 
non  è,  egli  li  prieghi,  che  se  avesse  alcun  malizioso 
capitolo  contra  lui,  o  contra  '1  comune,  o  contra  san- 
ta chiesa,  egli  possa  essere  ammendato  per  lo  buon  con- 
siglio 5  ed  è  buono  s'  egli  lo  fa  scrivere  in  carta  pub- 
blica ^  e  se  ciò  non  è,  egli  &rà  lo  sacramento,  secondo 
chVgli  saia  divisato  da  parte  del  comune.  La  Cbrma 
del  sacramento  è  tale:  voi,  messere,  giurerete  al  santo 
vangelo  d"*  Iddio,  di  governare  le  cose  e  la  bisogna  di 
questa  cittn,  le  quali  appartegnono  al  vostro  ufficio,  e 


549  n. 

di  ^uklve.  oMidnoere  e  ■antcnere  ìm  città,  e  1  cn 
taflo.  e  tulio  MIO  distretto,  e  tutti  ■■■■■»■  e  feaifl 
caTaberL  e  borehesi:  e  kiro  diritto  ■■■ntcìMH,  defa 
dcre.  e  euardare  ciò  die  'I  conone  oidiiwiento  a 
manda  di  lare,  che  sia  fitlto  per  tutte  genti  :  spedi 
meute  sii  oiiaDi.  e  le  TcdoTC.  e  le  ali  ve  genti  che  si 
r^oivi  io  piaUi  dinanzi  da  toì  e  dalli  Tostrì  giudici  : 
di  guardare  chiese,  spedali,  e  toUe  altre  ongioai  e 
religiosi,  e  di  pellegrìni,  e  di  mercatanti,  e  di  6r  qn 
che  è  sciitlo  io  questo  libro  delti  ordinamenti  ifi  qoe 
sia  ritta,  nel  quale  voi  giurate  in  leale  oonsaena,  li 
mrjsso  amore,  odio,  e  prego,  e  Intte  ntnìwwi^^  aeoood 
la  vostra  verace  intenzione,  da  questo  prossimo  d 
d^ogni  santi  ad  un  anno,  e  tutti  li  giorni  di  qoesl 
«igni  santi.  In  questa  maniera  dee  fere  il  sonore  su 
sagramento  ^  salvo  ciò,  s'egli  v^ha  nulla  cosa  die  deb 
ba  essere  cavata  del  sagramento,  che  se  ne  cavi  pri 
ma  che  pena  la  mano  in  sul  libro.  E  quando  egli  h 
giurato,  immaotenente  debbano  giurare  tutti  li  gÙicì 
cavalieri,  notarì,  e  ciascuno  in  diritto  di  se,  di  fo 
ììene  e  lealmente  il  loro  ufficio,  e  di  dare  al  s^nor 
buono  consiglio,  e  di  tenere  credenza,  ciò  ch^è  da  te 

nere  privato. 

Capitolo  XI. 

Che  lo  signore  debbe  fare  quando  è  venuto  alla  cittade. 

A  questo  punto  ha  più  diversità  di  cittadini^  son 
cIk;  hanno  in  coslume,  clic  immantinente  che  ^1  signo 
ha  futU)  suo  sagramento,  egli  parla  dinanzi  alle  geni 
<lellu  città  ^  e  altri  son  nelli  quali  non  fa  niente,  ana 
se  tic  va  L)e]lamente  al  suo  albergo,  ispecialmente  s 


UBRO  NONO.  589 

la  città  è  in  buona  pace.  Anche  v'ha  altre  diversita- 
di,  che  o  ella  ha  guerra  di  fuori  contra  suoi  nimici,  o 
ella  ha  guerra  dentro  con  suoi  cittadini,  o  eli' è  in  pa- 
ce dentro  e  di  fuori.  Per  la  qual  cosa  io  dico  ohe  M  si- 
gnore si  dee  tenere  alli  savi  del  paese;  che  se  Fuso 
della  città  richiede  ch^egli  dica,  egli  potrà  ben  dire 
cortesemente  le  parole,  senza  comandare  alcuna  cosa  ; 
che  tanto  quanto  egli  è  il  suo  antecessore  in  sigtioria^ 
egli  convien  mettere  la  mano,  ma  non  comandare  al* 
trui  nulla;  ma  e*  può  ben  pregare  e  ammonire  la  gen** 
te  senza  alcun  comandamento,  e  divietare  alcuna  co- 
sa ;  o  se  la  terra  è  in  pace,  egli  può  parlare  in  questa 
maniera:  Al  cominciamento  del  mio  dire  chiamo  io  il 
nome  di  Gesù  Cristo,  lo  re  che  può  tutto,  e  che  dona 
tutti  i  beni,  e  tutte  potesladi,  e  la  gloriosa  Vergine 
Maria,  e  messer  santo  Giovanni,  eh'  è  capo  e  guida  di 
questa  città,  che  per  loro  santa  pietà  mi  dieno  grazia 
e  podere  ch'io  oggi  in  questo  dì,  e  tanto  com'io  sarò 
al  vostro  servìgio,  dica  e  faccia  quel  che  sia  laude  e 
gloria  di  loro,  e  reverenza  di  messer  lo  Papa,  e  di  mes- 
ser rimperadore  della  santa  Chiesa,  e  dell'  imperio  di 
ISoma;  e  che  sia  Onore  e  pregio  di  messere  ;  a  che  j^ 
stato  vostro  signore,  ed  è  ancora;  e  che  sia  accresci-^ 
mento,  e  ammendamento,  e  stato,  e  buona  ventura  di  voi 
e  di  questa  città  e  di  tutti  vostri  amici.  Se  io  volessi 
fermare  la  materia  di  mio  parlamento  di  sì  nobile  cit- 
tà come  è  questa,  e  ricordare  il  senno,  e  'l  podere,  e 
r  altre  buone  opere  di  voi  e  de'  vostri  antecessori, 
certo  io  non  potrei  venire  a  capo,  tanto  è  alta  la  ca- 
valleria e  'I  franco  popolo  di  questa  città;  però  mi  ta- 
cerò io  anche  di  messere  A.  medesimo,  e  delle  sue 


Sgo  ii<  HBSORO, 

buone  opere  ch^  egli  ha  fiilto  qoesl^  anno  in  vostra  si- 
gnorìa e  al  goTemamento  del  cornane,  e  di  tutte  gen- 
ti, non  dirò  io  niente,  ch^  egli  risplende  per  il  mon- 
do come  la  chiarezza  del  sole.  Egli  è  vero  che  Toi 
m^avete  eletto  vostro  signore  e  podestade  di  voi,  tat- 
to che  di  ciò  non  sia  degno  per  miei  meriti,  ne  per  mia 
bontà,  non  però,  alla  fidanza  di  Cristo  e  dei  buoni 
uomini  di  questa  città,  io  ricevetti  P  onore  che  voi  mi 
faceste  con  tal  cuore  e  con  tal  intenzione  ch^  io  metto 
[ler  voi  cuore  e  corpo,  senza  schifare  del  corpo  dan- 
naggio  d^  a  vere.  E  poi  che  voi  m^  avete  fatto  il  più 
grand^  onore  che  gente  possa  fare  io  questo  secolo^ 
cioè  a  far  me  signore  e  conducitore  di  voi  per  vostra 
voluntà,  io  spero  veramente*  che  voi^  starete  fermi  e 
obbedienti  al  mio  onore  e  al  mio  comandamento^  spe- 
cialmente per  il  pro^  e  per  il  governamento  di  voi  e  di 
vostra  citta  ^  e  tanto  sappiate  che  tutti  quelli  che  del 
consiglio  saranno,  io  li  amerò,  e  farò  loro  grande  ono- 
re ;  gli  altri  che  faranno  torto,  e  fuori  di  ragione,  a 
qualunque  sia  grande,  o  picciolo,  io  li  condannerò  e 
tormenterò  della  persona  e  dell'  avere,  in  tal  maniera, 
che  la  pena  d' uno  sarà  paura  a  più.  Io  non  son  ve- 
nuto per  guadagnare  argento,  ma  per  acquistare  laude 
e  pregio  e  onore  a  me  e  a'  miei  amici  ;  però  me  ne 
anderò  io  per  lo  diritto  e  per  lo  corso  di  giustizia,  in 
tal  maniera,  che  io  non  penda  ne  a  destra,  né  a  sini- 
stra ;  che  tanto  conosco  io  bene,  e  ciascun  il  dee  sa- 
pere che  la  città  dee  essere  governala  secondo  ragio- 
ne, e  secondo  dinlto,e  secondo  vii'tude,sì  che  ciascun 
abbia  ciò  che  dee  avere;  che  quando  li  malfattori  siano 
l'uno  cacciati  fuori,  e  l'altro  liveralo  a  pene,  certo 


•  LIBRO  NOMO.  3pl 

ellu  cresce  e  multìplìca  di  gente  e  d^  avere,  e  dura 
sempre  a  buona  pace,  alP  onore  di  luì  e  de^suoi  ami- 
ci. Perchè  io  mi  torno  a  colui,  al  quale  io  incomin- 
ciai, cioì  a  Dio  onnipotente^  che  dia  a  yoi  e  a  me  e  a  . 
tutti  li  cittadini  e  abitatori  di  questa  città  che  qui  so- 
no e  altrove,  grazia  e  potere  di  ^e  e  dire  quel  che 
sia  accrescimento  di  voi  e  del  comune  e  della  città  e 
di  tutti  quelli  che  ci  amano  di  buon  cuore.  In  questa 
maniera  può  il  nuovo  podestà  dire  parole  di  sua  ve- 
nula. Ma  il  savio  parlatore  dee  molto  guardare  T  uso 
e  lo  stato  e  la  condizione  della  città,  sì  che  potesse  mu- 
tare queste  parole,  e  trovare  altro,  secondo  luogo  e 
tempo.  Ma  se  la  città  ha  guerra  dentro  per  la  discordia 
che  fosse  tra  loro,  allora  conviene  che  ^1  signore  parli 
^  questa  maniera.  £  sì  può  bene  seguire  quel  che  è 
dinanzi,  e  là  ove  egli  vede  che  meglio  sia  a  suo  delto^ 
puote  egli  rammentare  come  nostro  Signore  coman- 
dò, che  pace  e  buona  voluntade  fosse  tra  la  gente,  e 
come  egli  sarebbe  lieto  di  averli  trovati  in  pace  e  buo- 
no amore  ^  che  si  conviene  molto  che  suoi  suggelti 
sieno  in  concordia,  e  se  elli  non  sono,  che  li  torni  ^  e 
come  concordia  innalza  le  cittadi,  e  fa  arricchire  li 
borghesi,  e  guerra  li  distrugge^  e  rammentare  Roma 
e  delle  altre  buone  citta,  che  per  guerre  dentro  sono 
menovate,  e  andate  male,  e  come  la  guerra  de^  citta- 
dini ùi  molti  mali,  sì  come  di  rubare  chiese,  cammini, 
ardere  case,  malefìcii,  ladronecci,  adulteiìi,  tradimen- 
to, e  perdizione  di  Dio  e  del  mondo.  Queste  altre  pa- 
role dirà  il  signore  nella  sua  venuta,  pregando  e  am- 
monendo la  gente  d^ avere  pace,  e  lasciare  Podio,  e  di 
fare  bene,  e  dire^  come  non  lasrierà  lo  consiglio  de^ 


;>C|3  IL  TESOEO. 

suvi  uomÌDi,  e  slalNlirà.  la  bisogna   bene  e  onorevol- 
loente.  E  quando  la  città  ha  guerra  con  un^ altra  città, 
certo  il  signore  nella  sua  venuta  può  ben  s^uitare  b 
*  materia  eh*  è  divisata  qua  innanzi,  là  ove  egli  vede 
f'he  meglio  stia,  e  giungere  tra  P altre  parole:  egli  h 
\  ero  che  tutto  '1  mondo  il  sa,  che  per  lo  torto  fàtto^ 
che  non  potea,  né  dovea  essere  pia  soffèrto,  guerra  è 
venuta  in  tra  voi  e'  vostri  nimici  a  gran  torto,  e  a 
(;ran  dislealtà  di  lor  parlare.  £  già  sia  questa  bisogna, 
ella  richiede  di  molte  cose,  non  per  tanto  io  non  par- 
lerò se  non  poco,  che  si  conviene  che  sia  più  il  fallo 
che  U  detto  ^  ma  scegli  ha  in  questo  secolo  vivente  co- 
sa ov(>  r  uomo  potesse  operar  sua  forza,  o  suo  potere 
ad  acquistar  la  nominanza  di  sua  virtù,  dico  io,  in  ciò 
la  guerra  passa  tutte  bisogne,  ch^  ella  fa  V  uomo  prqi 
dell'  arme,  ardito  di  cuore,  vigoroso,  e  pieno  di  virtù, 
e  forte  al  travaglio,  sollecito  agli  aguati,  e  ingegnoso 
in  ogni  cosa  ^  studia  ciascuno  dunque  in  sé  medesimo, 
se  in  queste  cose  dinanzi  dette  sia  cresciuto  fornimea- 
to  di  belle  armi,  e  di  buoni  cavalli,  che  tali  cose  dan- 
no air  uomo  talento  di  combattere,  e  sicurtà  di  vitto- 
ria, e  fanno  ai  nimici  paura,  e  voiuntà  di  fuggire:  siate 
d'un  cuore  e  d'una  voiuntà;  siate  fieri  e  fermi  alPas- 
.«-embramenlo;  andate  slrelti  alla  battaglia,  e  non  con- 
viene sceverare  senza  comandamento;  sovvegnavi  de' 
vostri  antichi,  e  delle  vittoriose  battaglie;  e  io  mi  fido 
tanto  nel  valore  e  nella  bontà  di  voi,  e  di  vostra  gen- 
te, e  al  diritto  che  voi  avete  conlra  vostri  nimici,  che 
avrete  la  vittoria  e  l' onore  con  voi.  Tali  e  altre  jte- 
rolc,  che  'i  savio  parlatore  saprà  dire  e  trovare  alla 
niaiiiera.  dee  egli  dire  in  Ira  suoi  cittadini,  in  tal  ma- 


LIBRO  NONO.  593 

niera,  eh'  egli  Teggia  che  sia  più  loro  a  grado,  e  poi 
far  fine  al  suo  detto  ^  e  quando  egli  è  assiso,  il  suo  an- 
tecessore dee  immantinente  levare  suso,  e  fare  suo 
prologo  breve,  e  saviamente,  e  rispondere  a  quello 
che  r  altro  ha  detto,  e  lodare  lui,  e  suo  detto,  e  suo 
senno,  e  sue  opere,  e  di  suo  lignaggio,  e  farli  grazia 
dell'onore  ch'egli  gli  ha  fatto  in  suo  detto ^  e  alla  fine 
di  suo  parlare  sì  debbe  egli  comandare  a  tutti,  che 
ubbidiscano  al  novo  signore  3  «  quando  egli  ha  ciò 
detto,  ^a  comiato  alla  gente  tutta,  e  ciascun  se  ne 
vada  a  sua  magione.  Or  suole  addivenire  alcuna  vol- 
ta che  col  novel  signore  vegnono  alcuna  volta  gentili 
uomini  di  sua  terra  per  lo  comune  di  sua  città  che 
[>arlano  in  quel  luogo  medesimo,  e  portano  salute,  e 
divisano  1'  amore  eh'  è  in  tra  P  un  e  l' altro  comune,  e 
lodano  la  città  e'  cittadini,  e  il  podestà  vecchio  e  sua 
signoria  ^  e  lodano  il  signore  novo,  e  suo  lignaggio,  e 
le  lor  buone  opere;  e  mostrano  come  tutto '1  comune 
di  lor  città  si  tiene  a  grand' onore,  e  a  grand'  amore 
ciò  eh'  elli  hanno  eletto  loro  governatore  5  e  dicono 
che  '1  comune  di  loro  città  e  '1  signore  li  comandaro,  a 
pena  della  persona  e  di  suo  avere,  che  faccia  e  dica 
quel  ch'egli  torni  onore  e  utilità  della  città  eh'  egli  ha 
a  governare;  e  però  pregano  le  genti  della  città  ch'el- 
lino  l' ubbidiscano,  e  diengli  aiuto  e  consiglio,  in  tal 
maniera  che  possa  onorevolmente  finire  suo  ufficio.  E 
quando  eg^i  ha  così  detto,  il  vecchio  signore  dee  fai*e 
onorevole  responsione  in  questo  parlamento  medesi- 
mo eh'  egli  risponde  al  novello  signore,  così  come  il 
conto  qui  dinanzi  conta,  ovvero  in  altra  maniera,  se 
la  condizione  porla. 


5^4  '''  TESORO. 

Capitolo   XH. 
Come  debbe  (are  il  signore  quando  egli  ha  fatto  il  sacnmeoto. 

Appresso  il  parlamento  deiruno  e  delF  altro  e  del 
sacramento  se  ne  dee  andare  il  signore  al  suo  albergo 
e  aprire  il  libro  delli  statuti  e  dei  capitoli  della  città, 
nelli  quali  i  suoi  giudici  e  suoi  notari  debbono  legge- 
re e  studiare  dì  e  notte  quel  che  hanno  a  fare,  quel  di- 
nanzi dinanzi,  e  quel  di  dietro  didietro^  chè^uestaè 
grandissima  bontà  di  gludicL  E  rìtegnano  e  leggano  li 
statoli  sì  spesso,  e  in  tale  maniera,  ch^  elli  li  tengano 
in  tutto  loro  bisogno.  E  al  signore  medesimo  si  coo- 
vicne  ch^  egli  si  sappia  bene,  e  specialmente  tutti  li 
punti,  che  quanto  più  lo  leggano  più  se  ne  ricordano 
tutto  di.  E  quand^  elli  hanno  diligentemente  riguar- 
dato, allora  debbono  elli  immantenenle  notare  la  for- 
ma del  sacramento,  e  li  ufficiali  debbono  giurare  d'es- 
sere leali  alla  signoria,  e  mandare  per  tutti  queUi  che 
sono  rettoli  in  ciascuna  cappella,  ch'olii  giurino  innan- 
zi, e  poi  facciano  giurare  tutti  quelli  che  sono  da  por- 
tare arme,  e  scrivano  i  nomi,  e  diengli  iscritti  alli  nota- 
ri. Appresso  ciò,  debbe  egli  eleggere  suo  consiglio  se- 
condo la  legge  della  città  :  ma  debbono  procacciare 
che' consiglieri  siano  savi,  e  buoni,  e  di  buon  talento: 
che  da  buona  gente  viene  buon  consiglio  ;  poi  li  altri 
ufficiali  e  sergenti  della  corte  buoni  e  leali,  che  gli  aiu- 
tano a  portare  il  pondo  di  suo  ufficio,  e  mettere  col  si- 
gnore e  albergo,  eh'  egli  fa  questi  e  quest'  altri  appa- 
recchiamenti. E  anzi  che  monti  in  su  l'albergo  del  co- 
mune, né  che  sia  in  sua  propria  signoria,  egli  si  dee 


LIBRO  SONO.  3y5 

Spesso  consigliare  a^  savi  della  città;  e  se  la  città  ha 
nulla  discordia  dentro,  o  di  fuori,  egli  si  dee  molto 
sforzare  di  mettere  pace  :  e  se  ciò  non  fosse,  di  tal  ma- 
niera che^  suoi  cittadini  non  volessero  ch^  egli  vi  si 
obbligasse,  il  signore  si  dee  molto  guardare  ch^eglì 
non  dica  già  ne  V  odio,  ne  la  discordia  di  sua  gente. 

Capitolo    XIII. 

Come  il  signore  dee  ammonire  li  suoi  ufficiali  quando  egli 
entra  prima  in  sua  signoria. 

E  quando  il  dì  è  venuto,  che  P  uomo  dee  comia^ 
ciare  il  suo  ufficio,  egli  dee  la  mattina  primamente  an* 
dare  alla  chiesa  a  udire  V  ufficio,  e  a  orar  Iddio  e  li 
suoi  santi,  poi  immantenente  se  ne  vada  al  palagio  dd 
comune,  e  tegna  la  sedia  di  sua  signoria.  E  però  ch'e» 
gli  è  venuto  al  sedio,  dee  V  uomo  lasciare  al  governa- 
tore la  provvidenza  di  stabilir  le  pene,  specialnoente 
sopra  le  picciole  colpe;  dee  il  signore  stabilire  suo  ban- 
do per  lo  consiglio  de^  savi,  e  suoi  ordinamenti  tali 
che  sieno  accordevoli  air  uso  della  terra,  che  non  con- 
traddicano a'  capitoli  della  terra  ch^egli  giura.  In  pri-» 
ma  che  il  primo  dì  di  festa,  che  viene  egli,  si  faccia  as- 
sembrare tutte  le  genti  delia  citlade,  nel  luogo  che  ha 
costumalo,  e  dinanzi  loro  dee  egli  parlare  sì  alto,  che 
tutti  lo  intendano ,  e  tegna  suo  detto  per  quella  ma- 
niera medesima  ch^  egli  tenne  il  primo  dì,  salvo  che 
ora  dee  parlare  più  fìeramente,  e  comandare,  e  divie- 
tare come  signore,  e  pregare,  e  minacciare,  e  ammo- 
nire, sì  come  egli  vederà  che  bene  sia.  E  quando  egli 
ha  finito  suo  conto,  e  suo  notaio  dica  ad  alte  voci  in- 


596  IL  TESORO. 

tendevolmente  gli  ordinameoti  ;  e  non  dee  sofftrire 
niente  lo  signore,  che  nullo  uomo  della  cittade  si  lie?i 
nel  parlamento  :  che  se  uno  vi  dicesse,  l' altro  vi  di- 
rebbe, e  così  sarebbe  un  grande  ìmpacciamento,  e 
ispecialmente  s"*  egli  ha  nella  cittade  due  parti. 

Capitolo    XIV. 

Come  il  signore  dee  ammoDire  i  suoi  ufficiali 
quando  è  in  signoria. 

Appresso  debbe  il  signore  suoi  giudici  e  suoi  noia- 
ri  e  suoi  compagni  e  gli  altri  suoi  ufficiali  del  suo  al? 
bergo  pregare  e  ammonire  .di  ben  fare,  il  più  dolce- 
mente ch^egli  può  :  e  dopo  il  prego  comandare  ch^e- 
gliiio  guardino  Tonor  suo  e  del  comune,  e  che  vegghi- 
no  e  studino  ciascuno  a  suo  ufficio,  e  che  rendano  a 
ciascuno  suo  dritto,  e  sbrighino  tutte  cose  il  più  tosto 
che  possono,  e  salvare  V  ordine  della  ragione,  e  che 
si  guardino  da  tutti  i  vizìi,  e  dal  biasimo  della  gente, 
e  che  non  si  cruccino  con  gli  uomini,  e  che  non  va- 
dano in  taverna  con  un  uomo  ne  per  mangiare  ne  pec 
bere,  e  che  a  nullo  siano  famigliari,  e  che  guardino 
che  non  siano  corrotti  per  moneta,  ne  per  femina,  né 
per  allra  cosa  3  e  se  altrimenti  facessero,  io  dico  eh'  io 
li  debbo  punire  vie  più  gravemente  che  gli  altri  ;  che 
più  grave  pena  cade  sopra  i  nostri,  e  sopra  quelli  che 
debbono  guardare  li  nostri  comandamenti. 


ijbho  ?roffo.  597 

Capitolo   XV. 
Come  il  signor  novello  dee  onorar  il  suo  antecessore. 

■ 

In  tra  le  altre  cose  che  con  regnano  al  signore  si  è, 
ch^egli  addolciste  il  cuore  del  suo  antecessore,  e  che  gli 
faccia  onore  e  amore- quaat^  egli  può 3  e  quand^cgU 
TÌon  a  rendere  sua  ragione,  non  sofferi  che  gli  sìa  fat- 
to Aèonla  né  torto.  Che  si  convien  al  signore  di- 
struggere r  iniquità  de^  rei  sotto  buona  giustizia  ]  o  sa 
egli  ch^egli  veiiii  a  quel  punto:  e  sì  come  egli  avrìi 
misurato  al  stto  padre^  così  mìsnrera  a  lui  1  suo  fi- 
gliuolo 3  ch'egli  è  scritto  che  tali  doycmo  essere  a'  no- 
stri padn,  che  noi  Tolemo  che  sieno  a  noi  i  nostri  fi- 
gliuoli. 

Capitolo   XVI. 

Come  il  signore  dee  ragunare  il  consiglio  delia  terra. 

Quando  '1  signore  è  venuto  a  sua  signoria  tenere, 
c^  dee  molto  pensare  di  di  e  di  notte  delle  cose  ch'ap- 
partegnono  a  suo  ufficio  e  a  suo  govemamcnto  ;  e  tut- 
to che  sia  guardia  e  capo  del  comune,  nientemeno  ne* 
gran  bisogni  e  ne'dottosi  debb'  egli  assembrare  il  con- 
siglio della  citte,  e  proporre  dinanzi  da  loro  la  biso- 
gtia,  e  dimandare  eh'  eglino  il  consiglino,  acciò  che'l 
buono  sia  f>er  il  bene  della  ciltò,  o  udire  quel  che  di* 
iianno.  E  se  la  bbogna  fosse  grande,  egli  se  ne  dee  con- 
sigliare una  Tolta  e  più,  e  se  è  mestieri  nel  picciolo 
consiglio  o  nel  grande  agglugnere  al  consiglio  degli  al- 
tri savi  e  eie'  giudici  e  de'i-eggilori  dell'arti  e  dell'al- 
tra buone  genti  ^  ch'egli  è  scritto,  che  di  gran  consiglio 

LuUiù.  fof.  ti,  ai  3 


39B  IT'  TESORO. 

Tiene  gran  salule.  E  al  -vero  dire,  il  signore  può  sictH 
ramente  andare  secondo  lo  stabitimento  del  ^XMisigliof 
che  Salomone  dice,  ogni  cosa  fa  con  consiglio^  e  do- 
po ^1  fatto  non  te  ne  pentirai.  Ma  guardi  bene  il  si- 
gnore che  la  proposta  che  fa  innanzi  al  consiglio  ^ 
breve^  e  sia  scritta  a  pochi  capitoli  ^  cbè  la  moltitudi- 
ne delle  cose  ingenera  impaccio,  e  scura  li  cuori,  e 
fievoiisce  il  miglioi'e  senno,  perchè  il. senno  che  pen- 
sa molte  cose  è  minore  in  Ciascuna  eosa.  E  .quando  il 
notaio  ha  letta  la  proposta  dinanzi  aVconsiglieiij  il 
signore  si  lievi  e  ridica  la  bisogna  com\ella  è,  e  co' 
m^  ella  fu  ^  poi  guardi  bene  ohe^  suoi  d#li  siano  nodi 
e  semplici,  in  tal  maniera,-  che  -nullo  possa  .dire  che 
voglia  più  r  una  cosa  che  P  altra,  io  non  dico  niente 
che  ^1  signore  non  poàsa  dire  alcuna  Volta,  se  ciò  n^ 
fosse  cosa  che  generi  sospezione,  che  vi  ba  molte  gea- 
ti,  che  per  invidia  e  per  odio  dicono  più  coatra  al  sh 
-goore.  E  quaud^  egli  ha  detto  sua  proposta  e^  dee  in»- 
mantenente  comandare  che  non  si  dica  d^  altre  Cose, 
se  non  dì  quelle  che  son  proposte,  e  che  nxdlo  si  bri- 
ghi di  lodare  né  lui,  né  li  suoi,  e  che  ascoltino  quelli 
che  parlano;  allora  dee  egli  comandare  alli  «iuoi  nc^ 
ch^  eglino  immanteneàte  mettano  in  iscritto  il  detto 
delli  dicitori,  e  non  tutto  ciò  che  dicono,  ma  qtìel  che 
tocca  al  punto  del  consìglio,  E  quando  elli  hanno  det^ 
to  e  d^  una  parte  e  d^  altra,  lo  signore  si  leti,  a  divisa- 
re lì  detti  per  partire  V  uno  dalP altro:-  e  quello  a  che 
s^  accorda  la  maggior  parte  della  gente  che  sono  nel 
consiglio  debba  essere  fermo  eslabile,  e  così  dee  scrì- 
vere il  notaio  ;  e  se  è  mestieri  per  meglio  chiarire  la 
bisogna,  egli  può  scrìvere  li  consiglieri^  e  oom!elli  s'ac- 


LIBRO  HOVO.  599 

cordano  air  una  parie  e  alPaltra.E  quao^^o  quest^  è 
fallo  bene  e  diligentemente,  ii  signore  sì  dia  loro  co- 
miato:  e  s^è  mestieri  sì  comandi  di  tenere  credenza,  e 
chi  non  la  tiene,  sì  debba  essere  procondannato  co- 
me traditore.  E  infra  P  alt  re  cose  debbe  il  signore  o» 
norare  quelli  del  consiglio,  ch^elli  sono  suoi  membri: 
e  ciò  ch'elli  fermano  sì  dee  essere  fermo  senza  muta- 
zione, se  quello  non  fosse  per  il  m^ltoramento  del 
comune.  Ma  P  uomo  non  dee  raunare  il  consiglio  per 
ogni  òisa,  ma  per  quelle  solamente  ch^hanno  mestieri. 

Capitolo  XVII. 

Come  il  signore  dee  onorare  gli  ambasciatori. 

E  quando  gU  ambasciatori  delle  strane  t^rre  ve- 
gnono  a  Ini  per  alcuna  bisogna  che  tocca  all'  una  ter-* 
ra  e  all'altra,  il  signor  li  debbe  Totentieri  vedere  e 
onorare  e  ricevere  lietamente.  E  innanzi  eh'  egli  dia 
loro  il  consiglio  sì  dee  molto  procacciare  di  sapere  per^ 
che  sono  venuti,  se  può  :  che  potrebbono  venire  per 
tal  cosa  che  non  sarebbe  da  darli  consiglio  :  e  tal  po- 
trebbe es!$ere  eh'  egli  lo  Tannerebbe  il  picciolo  consi- 
glio senza  più,  o  per  ventura  il  grande,  o  tutto  '1  co- 
mune della  città.  Mas'dlisono  legati  di  messerloPapa, 
o  di  messer  loImperadorediRoma  o  di  Costantinopoli,- 
o  d'altri  grandi  signori,  egli  non  dee  niente  vietare  il 
consiglio,  anzi  lo  dee  andare  a  rincontro,  e  accompa- 
gnarli, e  onorarli  in  tutto  suo  podere.  E  quando  egli 
hanno  parlato  al  consìglio,  il  signor  dee  rispondere, 
e  dire  ch'elli  sono  signori  dell'andare  e  del  stare,  e 
li  savi  della  città  penseranno  quello  che  sia  coovene- 


4oO  ili  TESORO.   . 

Tole.  E  quando  li  ambasciatori  sono  in  fuori  del  con- 
siglio, sì  dee  egli  intender  le  voluntà  delli  consiglieri, 
e  com^  eglino  stanziano  di  far  lo  fatto  e  la  risposta. 

Capitolo  XVIU. 

Come  il  signore  dee  mandare  gli  ambasciatori . 

Qoando  addiviene  che  1  signore  abbia  a  mandare 
ambasciata  fuori  della  terra,  se  la  bisogna  ne  fosse  di 
gran  peso,  egli  si  dee  legger  per  pulizie  in  Ira  ixmisì- 
glieri  della  città,  o  altramente  secondo  l'uso  della  cit- 
tà :  ma  s^  elli  debbono  esser  mandati  a  messer  lo  Papa, 
o  a  messer  l'Imperadore,  o  in  altra  parte  che  richieg- 
gia  gran  sollecitudine,  io  lodo  chel  signor  medesimo 
li  elegga  tra  tutti  li  migliori  della  città,  s'egli  è  volere 
del  consiglio. 

Capitolo  XIX. 

Come  il  signor  dee  udire  le  cose  e  gli  aTTOcatì. 

Per  udir  il  desiderio  della  gente,  e  per  appareggiare 
il  romore  de'  cittadini  si  conviene  eh'  egli  sia  spesso 
ad  udire  le  slraordinate  cose  che  si  fanno,  e  eh'  impe- 
disca e  menimi  li  piati  di  tutti:  che  questa  è  gran 
bontà  che'l  signor  costringa  li  suoi  suggetti  intra'  ter- 
mini del  diritto,  eh'  egli  non  vegliano  in  discordia  ; 
però  che'l  fuoco  che  non  è  spento  prende  alcuna  vol- 
ta gran  forza.  Ma  s' elli  addiviene  alcun  forte  ponto 
onde  egli  dotti,  io  lodo  ch'egli  vi  meni  uno  de^suoi  giu- 
dici, ed  usi  loro  consiglio,  o  eh'  egli  vi  ponga  fine  tan- 
to eh'  egli  ne  sia  consigliato.  E  molto  è  bella  cosa  ed 


LIBRO  KOKO.  4^1 

onesta  al  signore  quando  siede  a  banco  ch^  egli  inlen- 
da  volentieri  P  un  e  T  altro,  e  specialmente  gli  avvo- 
cati e  principali  delle  cose,  che  gli  scuoprono*la  forza 
de'  piati,  e  manifestano  la  natura  delle  questioni  :  per- 
chè la  l^ge  dice,  che  loro  ufficio  è  molto  buono  ed 
utile  agli  uomini  ed  a  loro  vita,  tanto,  o  più  come  s'e- 
gli combattessero  con  la  spada,  (MCol  coltello,  per  lo- 
ro parenti,  o  per  loro  paesi,  che  a  noi  non  crediamo 
oescientemente.  Disse  Pimperadore,  che  solamente  co- 
loro fossero  cavalieri  che  usano  lo  scudo  e  lo  sbergo, 
ma  nella  cavalleria  li  avvocati  e  padroni  delle  cause  : 
e  però  dee  lo  signore  ben  provedere,  che  se  alcun  po- 
vero, od  altro  si  lamenta  dinanzi  da  lui,  che  non  pos- 
sa avere  avvocato,  o  per  fievolezza,  o  per  potenza  dei 
suo  avversaiio,  egli  dee  costringere  alcun  buono  av- 
vocato che  sìa  in  suo  aiuto,  e  che'l  consigli,  e  dica 
sua  ragione  e  sua  parola.  £  quando  il  signore  ha  udi- 
re le  parti,  allora  debbe  molto  ben  pensare  com'  egli 
risponda  ^  né  non  debbe  nulla  cosa  fai*e  co.me  folle,  an- 
zi siivlamenle  ciò  ch'egli  dimanda^  e  quello  che  stabi- 
lisce sia  per  consiglio  e  per  stabilito,  sì  che  sia  di- 
ritta e  savia  opera  e  palmola:  altrimenti  suo  detto  sa- 
rebbe in  luogo  di  stultizia,  e  ciascuno  V  intenderebbe 
per  niente  :  perchè  io  dico  che  se  trapassa  alcuna  voi- 
ta  il  bene,  od  in  suo  detto,  od  in  suo  fatto,  egli  non 
ha  onta  s'egli  l'ammenda,  anzi  è  grande  virtù  che  cia- 
scun errore  torni  al  diritto^  e  quel  debbe  il  signore 
fai'e,  secondo  che  la  legge  comanda. 


4 02  IL  TESOEO. 

Capitolo  XX.  ^ 

Come  il  signore  dee  (are  sopra  li  malefici. 

Sopra  latte  cose  debbe  il  podestà  fiire  che  la  città 
elle  ha  suo  goreiTiamentQ  sia  in  buon  stato,  senza  bri- 
ga e  senza  forfatto.  'Er  questo  non  può  fare,  scegli  noa 
fii  che- li  malfattori,  ladroni  e  falsatori  sieno  fìiori  del 
paese  :  che  la  legge  comanda  bene  che  ^1  signore  pos-> 
sa  purgare  il  paese  detta  mala  gente.  Pero  faa  egli  la 
signoria  sopra  li  forestieri  e  sopra*  cittadini  che  fìinno 
*  li  peccati  nella  sua  iuridizione,  e  non  per  tanto  egli 
non  giudicherà  a  pena  quelli  ch^è  senza  colpa:  ch^e^ 
gli  è  più  santa  cosa  a  solrere  un  peccatore  che  dan- 
nare un  giusto  ;  e  laida  cosa  è.  che  tu  peixia  ti  nome 
d^  innocenza  per  odio  d^un  nocente.  Sopra  li  malefi- 
ci debbe  il  signore  e  suoi  ufficiali  seguire  il  modo  del 
paese,  e  \  ordine  di  ragione,  in  questa  maniera:  pri- 
ma debbe  quelli  cne  accusa  giurare  sopra  il  libro  di 
dire  il  vero  in  accusando  ed  in  difendendo,  e  che  non 
vi  mena  nullo  testimonio  a  suo  sciente:  allora  dee  dare 
r  accusa  in  iscritto:  ed  il  notaio  la  scrìva  tutta  a  pa- 
rola a  parola,  si  come  egli  la  divisa  :  e  dee  inchiedere 
da  lui  medesimo  diligentemente  ciò  ch^  egli,  q  li  giu- 
dici, od  il  signoi'e  crederanno  apertamente  die  sia 
del  fatto,  o  della  cosa:  e  poi  si  mandi  a  ridiiedere 
quelli  che  è  accusato  del  maleficio  :  e  s' egli  viene  sì 
lo  facci»  giurare  e  sicurare  la  corte  de^  malfattori:  e 
metta  in  scrìtto  sua  confessione  e  sua  negazione,  sì 
come  egli  dice:  e  se  non  da^malfòttori,  o  che  H  male- 
ficio sia  troppo  grande,  allora  debbe  il  s^^oore,  ed  il 


MBRO  NONO.  49^ 

giudice  porre  il  9ì  da  provare,  e  da  ricevere  li  testi- 
moni che  vegliano,  e  costringere  qudli  che  non  ve- 
gnono,  ed  esaminar  ogni  cosa  bene,  e  saviamente,  e 
toettere  li  detti  in  iscritto^  e  quando  i  testimoni  sono 
i>ene  ricevuti»  ^  giudice  ed  il-  notaio  debbon  far  ri- 
credere le  parti  dinanzi  da  loro 3  e  snelli  vegnono,  si 
deU}oo  aprire  li  detti  de^  teslimoai^  e  darli  a  ciascun 
no,  perchè  si  possano  consigliare  e  mostrar  loro  ra- 
gione. Ora  addiviene  alcuna  volta  ne^  grandi  malefici, 
die  non  possono  essere  provati  interamente,  ma  V  uo- 
mo trova  ben  contra  quelli  ch^  è  accusato  alcun  segno, 
e  forti  ai^omenti  di  «ospezione  ;  a  quel  punto  il  può 
Ttiomo  mettere  alla  colla  per  farli  confessare  la  colpa, 
altrimenti  no;  e  sL  dico  io,  ch^alla  colla  il  giudice  non 
dee  dimandare  se  Giovanni  fece  maleficio,  ma  gene- 
ralmente dee  dimandare  chi  ^1  fece. 

IS  A  PIT  o  L  o    XXI.  • 
Come  il  signore  debbe  condannare  ed  a.ssolrere  gli  accusati. 

In  questa  maniera  dee  V  uomo  ricevere  le  accuse  e 
prove  de^  malefìoifE  quando  amendue  le  parti  hanjoo 
mostrato  ciò  che  vogliono,  allora  immantenente  deb- 
be il  signor^  in  una  delle  camere  avere  li  giudici  suoi, 
e  li  notari,  e  vedere,  e  cercare  tutto  piato,  e  da  mon- 
te e  da  valle,  tanto  che  conoscano  la  verità  quello  ch^è 
mostrato  dinanzi  da  loro.  E  se  sono  cei*ti  del  maleficio 
per  la  confessione  del  mal&ttore  medesimo,  per  sua 
voglia,  senza  tormento,  per  testimonio,  o  per  batta- 
glia di  cam[)o,  o  per  contumacia,  elli  lo  debbono  con- 
dannare di  persona,  o  d^ avere  secondo  la  quantità 


4o4  li'  TESOBO. 

della  oolpa,  e  secondo  la  legge  delToso  del  paese,  sì 
che  non  sia  né  jpiù  agramente,  ne  più  mollemente  che 
Toglia  la  natura  della  colpa  per  nominanza  di  fierez- 
za, o  di  pietà.  E  tutto  che  nelli  gravi  malefìzii  conve- 
gna  grave  pena,  nientemeno  il  signore  dee  avere  al- 
cuno temperamento  dì  benignità  :  ma  quelli  che  fu- 
rono al  nostro  tempo  non  fecero  così ,  ch^  elli  dava- 
no li  tormenti  al  più  fieramente  che  poteano.  Ma  quel- 
li che  non  sono  colpevoli  V  uomo  li  dee  assolvere  5  e^ 
Dotari  debbono  mettere  li  condannati  dair  una  parte 
del  quatemo,  e  li  assoluti  dalF altra.  Appresso  ciò  dèh- 
be  il  signore  raunare  lo  consiglio,  con  nullo  romore, 
ne  grida,  e  se  vole  può  ben  un  poco  parlare  per  ammo- 
nire le  genti,  che  si  guardino  che  a  sì  picciole  pene 
come  egli  dà  allora  a  quel  malfattore,  che  un^  altra  fia- 
ta egli  le  darebbe  più  fiere  5  e  che  sempre  le  crescerà 
insino  alla  fine  del  suo  ufficio.  Allora  dee  egli  manda- 
re per  quelli  che  sono  condannati  in  persona,  che  sie- 
no  quivi  presente  per  udire  loro  sentenze:  però  che 
sentenza  di  persona  non  può  essere  data  contra  nullo, 
se  non  presente.  ATlpra  il  notaio  si  lievi  su,  e  legga  la 
sentenza,  e  li  condannati  :  e  quandis:  egli  ha  tutto  let- 
to, lo  signore  P  affermi,  e  comandi,  che  quelli  della 
persona  imraantenente  sieno  giudicati^  e  li  altri  pa- 
ghino a  certo  termine  assignato,  e  diane  copia  al<ra- 
merlingo  del  comune,  e  dia  commiato  alle  genti. 

Capitolo  XXII, 
Come  il  signore  dee  guardare  le  cose  del  comune. 

E  quando  il  signore  trapassa,  che^  condannati  deb* 
bouo  pagare  loro  condannazione,  snelli  non  pagano. 


LIBRO  NONO.  4o5 

lo  signore  sì  dee  costringere  molto  a  pagare:  cìiè  poco 
vale  il  condannare,  s^  egli  non  il  fa  pagare.  E  dalP  al- 
tra parte  il  camerlingo  del  comune  dee  studiare  che 
sia  ben  fornito  di  moneta,  per  fare  gran  spese,  e  pie- 
ciòle,  che  vegndno  sopra  il  comuQe.  E  spesso  e  minu- 
to vedere  ragione  del  camerlingo^  è  l'  entrata,  e  1'  u- 
scita,  e  che  Paver  del  comune  non  sia  spèso  mal  ordi- 
natamente :  che  se^l  dee  guardare  se  medesimo  di  trop- 
po largamente  spendere,  certo  eMee  assai  meglio  ri- 
sparmiare le  cose  del  comune,  però  che  laida  cosa  è 
all^uomo  ad  essere  del  suo  avaro,  e  delP  altrui  largo  5 
e  tutto  che  fosse  spenditore  del  suo  ayei'e,  sì  dee  es- 
sere guardatore  di  quello  del  comune,  e  salvare  e  man- 
tenere lo  diritto  del  comune,  le  date,  e  le  giustizie  del 
signore,  le  castella,  e  le  magioni,  e  ville,  le  corti,  gli  uf- 
ficiali, le  piazze,  e  le  vie,  li  cammini,  e  tutte  cose  che 
appartengono  al  comune  della  città  dee  guardare  in 
tal  maniera,  che  ^1  prò'  e  V  onore  del  comune  non  me- 
nomi, anzi  accresca  ed  augmenti  nel  suo  tempo.  Altre- 
sì dee  il  signore  guardar  .e  fare  méflesimamente  dentro 
e  di  fuori,  e  di  di  e  di  notte  per  li  ladroni,  e  per  li  al- 
tri malfattori. 

Capitolo  XXIII. 

Come  il  signor  dee  guardare  le  cose  del  suo  albergo. 

Dentro  dal  suo  albergo  dee  il  signor  ordinare  sua 
fòmiglia  bene  e  saviamente,  ciascuno  in  suo  luogo  e 
in  suo  ufficio,  e  castigare  V  uno  di  [carole,  e  V  altro  di 
verga,  e  ammonire  suo  siniscalco  che  sia  temperato  nel- 
le spese,  ma  non  in  tal  maniera  eh'  egli  ne  sia  biasi- 
mato d' avarizia,  nìa  che  mantegna  P  onore  di  lui,  e 

2.y 


4^)6  IL  TESORO.  .     • 

che  sìa  sufficienle  alla  genite  di  sua  casa,  sì  che  nulla 

cosa  manchi  alla  famiglia  :  pei^ò  che  *l  bisogno'  delle 

rose  necessarie  potrebbe  menare  alimi  a  villano  pen^ 

siero. 

(Capitolo  XXIV. 

.  .Come  il  ^igoor  si.dee  toosiglisre  pon  li  sudi  savi. 

Péro  dee  egii  onorare  ed  amare  tutti  quelli  di  sua 
famigUa,  e  ridere  e  sollazzare,  alclinà  fiata  con  loro,  ma 
sopi-a  tutti  (tee  àmafe  ed  otiordreli  giudici  e  notaridi 
sua  corte,  ch^  ellr  hanno  in  maho'la  maggior  parte  dt:! 
suo  ufficio,'  e  di  suo  onore,  e  dì  sua  bontà.  E  però 
débbe  lo  savio  podési  ade  a  minilto  e  spesso,  special- 
mente li  giorni  delle  feste,  ed  -alle  '  fuocorsi  di  Terno 
tulli  raunare  in  sua  camera,  od  in  altra  luogo,  e  par- 
lare con  loro  delle  cose  che  appart^nono  al  loro  uf- 
ficio, e  cercare  eh*  etti  fanno,  e  che  questione  ha  di- 
nanzi a  loio,  e  vedere  ' delle  nature  de' piati,  ed  im- 
prendere così  delle  cose  che  debbon  ferej  che  quesl'è 
una  cosa  di  gran  serfno  sovvenirsi  dèlie  coseandate,  ed 
ordire  le  presentì,  e  provedei'é  queUe  che  son  addi-- 
venire.  Anche  li  debbe  pregare,  ebollì  sieno  la  dirit- 
ta bilancia  che  Contrappesi  il  diritto,  secondo  Iddio  e 
giustizia,  e  eh'  elli  guardnqo  che  1  dirìtlo  non  sia  ven- 
duto per  moTaeta,  né  per  amore,  ne  per  odio,  ne  per 
altra  cosa  del  mondo ^ma  sovvegna  loro  che  nostro  Si- 
gnoi*e  comanda:  amatela  giustizia  voi  che  giudicate  ha 
terra.  Di  questo  si  tace  il  maestro  ora,  e  torna  ad  qU 
tre  cose. 


LiBiio  Nono.  4^7 

Capitolo     XXV. 

Della  discordia  di  loro  che  Togtiono  esser  temuti,         * 
e  ili  quelli  che  voglion  essere  amati. 

Iq  questa  parte  dice  il  conto,  che  tra^  governatori 
della  città  suole  avere  una  cotale  differenza,  che  V  un 
ama  più  d^  esser  temuto  che  amato,  T  altro  desidera 
più  d^  esser  amatQ-^pbè  temuto.  Quegli  che  ama  più 
d^  esser  temuto  che  amalc^  desidera  d^avere  nome  di 
gran  fierità;  e  però  quegli  voie  mettete  fiere  pene  ed- 
aspri  tormenti  e  crudeli,  che  Fuomo  li  tema  più  che 
le  città  ne  sieno  più  in  pace  ;  e  ciò  provano  per  il  det- 
to di  Seneca,  che  dice  :  che  scarsità  di  pene  corrompe 
la  città, e  Tabbondanza  de^ peccatoi'i  mene  Toso  di  pec- 
care^ e  quelli  perde  T  ardimento  di  sua  malizia  ch^  è 
fortemente  tormentato^  e  cheH  signore  sofferente  con- 
ferma li  vizii,  e  la  dolcezza  del  signore  lieva  la  ver- 
gogna de^ malfattori^  e  più  teme  la  pena  posta  per  suo 
6Ìgnoi*e,  che  la  pena  posta  per  suo  amico  ^  e  tanti  quan- 
ti  U  tormenti  sono  più  aperti  tanti  son  più  utili  per 
esemplo  ;  e  tutto  il  mondo  teme  le  pene  degli  arditi 
signoi'i;  e  le  pene  delP  uno  sono  paura  di  più.  Gontra 
questo  dice  P altro:  ehe  più  vale  ad  essere  amato  che 
temuto^  che  amore  non  può  essere  senza  timore,  ma 
timore  può  ben  esser  senz'  amore.  Tullio  dice  :  che  al 
mondo  non  ha  più  sicura  cosa  a  difendere  sue  cose 
chVssere  amato,  che  ciascun  odia  quegli  cui  egli  teme, 
e  chi  da  tutti  è  odiato  perire  li  conviene^  che  nulla 
ricchezza  può  contrastare  alPodio  di  più,  lunga  pau- 
ra manda  guardia,  e  crudeltà  è  nemica  di  paura;  egli 


4u8  IL  TESORO., 

conviene  che  ciascun  tema. colui,  da  cui  egli  vole  es- 
sere temuto,  e  forse  che  paura  non  avrà  già  lunga  du- 
rata ^  e  tutte  pene  debbono  essere  mosse  senza  torto, 
non  per  il  signore,  ma  per  il  bene  del  comune  ^  né 
pena  non  dee  essere  maggiore  che  la  colpa;  né  nullo 
dee  esser  condannato  per  tema  d'  un  altro  ;  tutti  i  go- 
vernamenti  debbono  essere  senza  follia  e  senza  negli- 
genza. Tullio  dice  :  guarda  che  lu  non  faccia  cosa  che 
tu  non  possi  rendere  ragione  del  perché.  E#  Seneca 
dice;  che  mal  fa  chi  piace  più  a  sua  nominanza  che  a 
sua  conscienza  ^  crudeltà  non  è  altro  che  6erità  di  pe- 
ne, perchè  io  dico,  che  quello  è  crudele  che  non  ha 
misura  in  condannare  quand^  egli  ne  ha  cagione.  Pla- 
to dice,  che  nullo  savio  dannò  il  peccato  perchè  fosse 
fatto,  ma  acciò  che  non  sia  fòtto  più  per  innanzi.  Qoal 
di0èr«nza  è  tra  il  re  ed  il  tiranno?  elli  sono  pari  di 
ventura  e  di  podere,  ma  il  tiranno  &  opere  di  cra- 
deltà  per  sua  voglia,  che  no  'l  ùi  gi'i  il  re  senza  neces- 
sità; P  un  é  amato,  e  V  altro  é  temuto;  quel  è  temuto 
reo  padre  che  sempre  batte  i  figliuoli  aspramente  ;  Io 
più  sicuro  fornimento  è  T  amore  di  cittadini  ;  quale  è 
più  bella  cosa  in  questo  secolo,  che  ciascuno  desideri 
che  tu  viva?  Per  queste  parole  può  l' uomo  ben  co- 
noscere questa  questione,  che  è  «lemenza  che  conta  e 
un  temporale  ch^  egli  può  stabilire.  Tullio  dice  :  che  la 
più  bella  cosa  ch^  essere  possa  a  signoria  si  è  clemen- 
za e  pietà,  s' ella  è  giunta  al  diritto,  senza  il  quale  la 
città  non  può  essere  governata.  Seneca  dice  :  quand**  io 
sou  a  governare  ed  a  curare  la  città,  io  trovo  tanti  vi- 
zii  intra  tanta  gente,  che  per  guarire  il  male  di  cia- 
st  uno  il  conviene  che  Funo  sia  sanato  per  ira,  l'altro 


LIBHU  NONO*  4^9 

Der  mellerlo  fuore  per  pileggìo,  l' altro  per  dolore,  e 
y  altro  per  poverlò,  e  V  altro  per  ferro  :  e  tatto  che 
jni  convegna  andare  per  lo  dannare,  io  non  andrò  già 
a  furore,  ne  a  crudeltà,  ma  io  andrò  per  una  vìa  di 
l^ge,  per  opera  di  savie  voci,  senza  orgoglio.  Giudi- 
camento  senza  ira,  è  fare  alti  rei  tal  vista  chente  fan- 
.no  lì  serpenti  ad  altre  bestie  che  portano  veleno:  e 
non  si  conviene  che  ^1  signor  sia  del  tutto  crudele^  ne 
in  tutto  pieno  di  clemenza  :  che  altresì  è  crudeltà  per- 
donare aWidi  come  perdonare  a  nullo:  ma  questa  è 
opra  d^  altra  clemenza  a  confonder  li  mali,  e  non  per- 
donarli :  però  io  dico,  che  niun  dee  perdonare  li  mali 
fetti:  il  giudice  è  condannato,  perchè  ^1  malfa ttor  è  as- 
soluto ^altresì  non  dee  esser  troppo  crudele,  però  che 
nulla  pena  dee  esser  maggiore  che  la  colpa,  ne  cader 
■sopra  V  innocente^  che  s^  ella  è  pena  corporale,  egli* è 
omiddiale;  e  s^è  de'  danari,  è  tenuto  di  restituirli. 

Capitolo   XX VI.    , 

4>elle  cose  che  *1  signore  debbe  considerare  nella 

sua  signoria. 

Sovvegnati  dunque  che  governi  la  città  del  sacrar 
mento  che  facesti  sul  libro  quando  tu  prendesti  V  uf- 
ficio di  tua  giustizia  e  signoria,  sovvegnati  della  legge  e 
de' comandamenti,  e  non  dimenticare  Iddio,  e' suoi 
santi,  anzi  va  spesso  alla  chiesa,  e  prega  Iddio  per  te 
e  tuo' soggetti 3  che  David  profeta  disse:  che  se  Dio  non 
guarda  la  città,  per  niente  s' affaticano  quelli  die  la 
guardano.  Onora  il  Pastore  di  santa  chiesa,  che  Iddio 
disse  di  sua  bocca:  clii  voi  riceve  è  religioso  ^  e  mo- 


4  1  O  IL  TESORO. 

slra  diritta  fede,  però  che  non  è  più  diritla  cosa  ne^ 
BÌgbor  della  terra,  che  avere  diritta  ùde  e  verace  cre- 
denza :  ch^  egli  è  scritto,  quando  il  giusto  siede,  sul  se- 
dio  suo,  nullo  male  può  cadere  contra  lui.  £  però 
guarda  le  vedove  femine  e  li  oifenl:  ch^egli  è  scritto, 
siate  difenditori  delii  orfani  e  delle  vedove,  questo  è 
che  tu  difendi  il  diritto  contra  lar  malvagità  de^  poten- 
ti; non  però  in  tale  maniera  che  M  potente  perda  suo 
diritto  per  le  lagiìme  delle  fievoli  femine,  però  che  tu 
hai'  in  tua  guardia  li  grandi,  li  piccioli  €  li  mezzani. 
Dunque  ti  conviene  dal  comandamento  che  tu  prenda 
r  ufficio  a  netto  cuore  e  pura  intenzione,  che  le  tue 
mani  sieno  nette  a  Dio  ed  alia  legge  di  tutti  i  guada- 
gni oltra  il  salaiio  del  comune;  e  che  tu  difenda  bene 
1&  cose  del  comune,  e  dia  a  ciascuno  quel  ch^  è  suo  e 
prov  végghi  intra  i  tuoi  sudditi  che  non  abbiano  tra  loro 
alcuna  discordia;  e  snella  v'è,  che  tu  non  sìa  pi^to 
più  datr  uno  che  dall'altro,  ne  per  moneta,  né  per  co- 
sa che  sia;  e  che  tu  intenda  diligentemente  li  piati  e 
li  lamenti  ;  e  che  tu  debbi  determinare  picciole  que- 
stioni, tosto,  e  leggermente  e  senza  scritto  isbrighi  ;  e 
che  tu  facci  tutto  quello  ch'è  scnito  nel  libro  delle  con- 
stil  azioni  della  citlà;  e  che  tu  mantenghi  l*  opre  e  gli 
ediQcii  del  comune,  e  facci  ben  racconciare  li  ponti,  e 
le  vie,  e  le  porte,  e  le  mura,  e'  fossi,  e  P altre  cose;  e 
non  sofTerir  già  che'  malfattori  scampino  senza  pena, 
che  nullo  del  paese  li  tenga  ;  li  falsatori,  e  li  li^ditori, 
e  quelli  che  sforzano  le  pulcelle,  e  che  fanno  gli  altri 
pessimi  peccati  d^i  tu  condannare  fieramente,  secondo 
la  legge  e  T  uso  del  paese:  tieni  li  (uoi  ufficiali,  in  tal 
maniera, che  non  facciano  altrui  ne  torto,  nò  noia:  ab- 


LIBRO  NOSO.  4  *  ' 

hi  inlorno'a.te'Ial  consiglio  «he  sia  buono  e  savio  a 
te:  ed  a  ragione  sia  lale  che  tu  paia  a'  rei  lenibile,  ed 
a^  buoni  grazioso.  In  somma  guarda  la  seconda  parte 
di  questo  libro,  ih  ove  paria  qui  addietro  de^  %  izìi  e 

delle  virtudi  :  guarda  cbe  tu  sii  foraito  di  virtù  e  non 

d.  •  •  ••  •         .      . 
I  vizn. 

Capitolo  XXVIl. 

•''■■.. 

Delle  cose  di  che  il  signore  si  dee  guardare  per  cagione  di  sé  stesso. 

"  '  ,  •  •  • 

•  ■  Ora  dice  il  conto j  che  non  vòle  in  questa  diretana 
fMiiie  nominare  la  virtù  della  quale  dee  esser  fornito 
il  signore,  però- che  n^ha  assai  detto  lungamente  nel- 
la seconda  ^rte  del  gi^n  libro^  però  se  né  tare.  E  non 
per  tanto  egli  dirà  alcuno  deVizìi,  dalli  quali  il' signo- 
re si  dee  guardare'  veramente  egli  e  li  suoi  savi;  che 
senza  rullo' egli  si  dee  mollo- guardare  delle  cose  che 
l'uomo  comanda  che  si  guardi  ;  secondo  che  T  Apo- 
stolo dice:  io  gastigo  il  mio  corpo,  e  recolo  in  servi- 
tude,  acciò  ch^  io  non  sia  giudicato.  Ed  anche  dice  il 
poeta,  laida  cosia  è  quando  il  maestro  torna  la  colpa 
sopra  lui^  ma  il  ben  dii^  si  è  da  lodare  quando  fa  quel 
die  dice,  che  ben  dire  e  mal  fare  non  è  altro  se  non 
condannare  se  con  la  sua  parola.  Appresso  $i  dee  egli 
guardare  dà  ebbrezza,  e  da  orgoglio^  è  da  ira,  e  da  a-^ 
varizia,  e  da  invidia,  é  da  lussuria,  che  ciascun  dì  que- 
sti peccati  è  mortale  a  Dio  ed  al  mondo,  e  fa  il  si- 
gnore leggermente  cadere  del  suo  sedio.  Ma  molto  si 
dee  guardare  di  Iroppo  parlare,  ch'i  s'è'  parla  legger- 
mente poco  e  buono  P  uomo  lo  tien  più  savio;  molto 
parlare  non  è  già  senza  peccato  :  anche  si  dee  guar- 
dare da  troppo  ridere,  ctfegli  è  scrìtto,  che  'i  riso  è 


4 1  a  IL  TEsuao. 

nella  bocca  dello  stolto;  e  non  per  tanto  egli  può  ben 
ridere  e  sollazzare  alcuna  volta,  ma  non  a  modo  dì 
garzone,  nè*di  femina,  ne  che  paia  falso  riso,  ne  or- 
goglioso; e  scegli  è  buono  delP altre  cose  egli  sarà  più 
^muto  scegli  non  mostra  lieto  viso,  ispecialmente 
quando  è  assiso  ad  udire  piati.  Anche  non  debbe  Io- 
dure  se  medesimo,  acciò  che  sia  lodato  da^  buoni  ;  e 
non  caglia  scegli  è  biasimato  da^reì.  £  guardisi  daliuf- 
ioni  che^l  lodano  dinanzi  a  lui,  e  creda  dì  se  più  es- 
sere ched^altrui:  e  sia  altresì  tristo  quando  è  lodato  da 
rei  come  qiuindo  £[isse  biasimalo  da  buoni.  E  deesi 
guai^dare  dalli  spioni  che  non  dicano,  ne  £icciano  cosa 
folle  e  saputa  eh**  egli  ne  fia  biasimato.  Altresì  guardi 
che  giustizia  non  sia  venduta  per  danari,  che  la  l^ge 
dice  :  chi  vende  la  giustizia  per  danari,  che  sia  dan- 
nato come  ladrone;  £  guardisi  di  non  essere  ^miliare 
de^suoi  sudditi,  però  che  ne  cade  in  sospezione  ed  in 
dispetto.  Anche  si  guardi  di  non  ricever  nullo  presen- 
te da  nullo  suo  suddito,  però  che  V  uomo  che  riceve 
ù  dono,  o  presente,  o  servigio  vende  la  sua  franchez- 
za, ed  è  obbligato  come  debitore.  Anche  si  guardi  die 
lion  si  consigli  occultamente  con  alcuno,  ne  non  caval- 
chi con  nullo,  ne  non  vada  a  sua  magione  ne  per  be- 
re, ne  per  mangiare,  uè  per  altra  cosa,  però  che  di 
questo  nasce  sospezione  ed  invidia  tra^ cittadini. 

Capitolo  XXVIII. 

Delle  cose  di  de  il  signore  si  debbe  guardare 
per  cagione  del  comune. 

Altresì  si  dee  il  signore  mollo  guardar  elisegli  in  sua 
guardia  non  faccia  nulla  cijngiuraztone,  ne  compagnia 


LIBRO  NONO.  4  *  ^ 

con  altra  città,  o  gente  del  paese,  e  se  a  fare  li  con- 
viene sì  faccia  per  consiglio  della  città,  e  per  comu- 
ne volere  delle  genti  :  che  in  tali  cose  dee  l'uomo  .pen- 
sare, anzi  eh'  egli  faccia  tale  lega,  che  convegna  poi 
rompere  sua  fede,  o  s' egli  non  la  rompe,  che  perico- 
lo non  ne  vegna  sopra  lui.  Anche  si  guardi  eh'  egli 
non  metta  al  suo  tempo  né  dazio,  né  colta,  e  non  fac- 
cia nulla' carta,  né  debito,  né  nullo  podere  del  comu- 
ne, se  ciò  non  fosse  per  manifesta  utilità  della  città,  e 
per  comune  stanziamento  del  consiglio. 

Capitolo  XXIX. 

Come  Io  signore  si  debbe  proyredere  in  tempo  di  guerra. 

In  questa  parte  dice  il  conto,  che  in  signoria  ha  due 
stagioni.  Una  di  pace  e  l' altra  di  guerra  :  e  però  ch'e- 
gli disse  assai  neiruno  e  nell'altro  libro  de'  vizii  e  del- 
le virtù,  nel  capitolo  della  magniGcenza  3  non  dirà  ora 
altra  cosa,  se  non  di  ciò  che  si  conviene  al  signore 
quando  va  a  governare  la  città.  S' egli  la  trova  in  pa- 
ce, egli  dee  essere  troppo  lieto  e  gioioso,  e  deesi  guar- 
dare eh'  egli  non  cominci  guerra  al  suo  tempo,  s'  egli 
unque  può  fare  altro,  che  in  guerra  ha  molti  pericoli: 
ma  se  ciò  &r  li  conviene,  faccia  di  comune  stanzia- 
mento del  consiglio  de'  cittadini,  e  della  savia  gente 
della  città.  Ma  se  la  guerra  fosse  cominciata  al  tempo 
del  suo  antecessoi^e,  io  lodo  eh'  egli  procacci  la  pace,  o 
almeno  la  triegua  :  e  se  non  può  ciò,  egli  debbe  spesso 
ricogliere  il  consiglio  de' savi,  e  s[)iar  il  podere  della  sua 
gente,  e  de'nimici,  e  studiar  che  la  città  sia  ben  forni- 
ta dentro,  e  di  fuorì,  e  castella,  e  ville  che  sono  date 


4l4  IL  TESUHO. 

io  sua  guardia  5  e  dee  avere  intorao  a  lui  una  quantità 
d^uomim  che  s^  intendano  di  guerre,  e  che  sieno  sem- 
pre al  suo  consiglio  3  e  che  sieno  appresso  di  lui  capitam 
e  guidatori  della  guerra^  e  dee. richiedere  tutti  li  amiei 
e  conypagni  e  li  sudditi  della  città,  V  uno  per  leti»?, 
Taltro  a  bocca,  e  P  altro  per  messo,  che  lienojappa" 
recchiati  d^arme  e  di  foroimeato  da  guerra  ^  appresso 
dee.  egli  rassegnare  alla  piazza  mastra,  o  in  altro  lupgo 
costumato  (iella  ctttày  le  genti  della  citta,  e  dire  di* 
napzi  a  loro  parole  di  guerra^  e.  ricordare  loro  il  torto 
de^  nemici,  e  Io  diritto  de^.suoi,  e  nominare  le  prodez- 
2e  e  n  valore  de^  loro  amici,  9  le  loro  yirtuose  batta- 
glie,  e  commovere  la  gente  alla  guerra  e  alla  battaglia, 
e  comandare  che  ciascun  faccia  grande  apparecchia- 
mento d^arme,  e  di  cavalli,  e  di  tende,  e  padiglioni,  e 
di  tutte  cose  che  sono  mestiere  a  guerra.  Tali  e  simili 
parole  dee  lo  signore  dire  per  aguzzare  li  cuori  de^  cit- 
tadini il  più  ch^egli  unque  puote.:.  ma' ben  si  gyardi 
egli  che  wm  dica  nessuno, motto  fievole,  anzi  sia  suo 
viso  a  cruccio  e  a  ira,  lo  sembiante  terribile,  e  là  voce 
minaccevole;  e  suo  cavallo  annelrìsca,  e  freghi  li  pie  in 
terra  i  e  facci  tanto  che  anzi  che  finisca  suo  detto  monti 
le  grida  e  H  romore  tra  la  gente,  sì  come  fossero  in 
battaglia.  E  non  per  tanto  egli  dee  molto  considerare 
la  maniera  della  guerra,  perchè  altri  sembianti  son 
contra  li  pari.  Appresso  del  suo  parlamento  faccia  leg- 
gere al  suo  notaio,  che  abbia  alta  voce,  e  chiara,  e  in-^ 
tendevole,  i  capitoli,  e  li  ordinamenti  della. guerra:  e 
procacci  quantunque  può  avere  arbitri  sopra  li  qoalifi- 
Oli  delP  osLe:  e  quando  ha  fatto  tutto  questo,  egli  dee 
di  sua  mano  dare  li  gonfaloni  e  le  bandiere  secondo 


LIBRO  NONO.  4  I  ^ 

r  USO  delia  terra.  DalP  ora  io  Danzi  non  fini  io  signore 
ài  apparecchiare  alla  guerra  sé  e'  suoi  soggetti,  in  tal 
maniera  che  nulla  non  vi  manchi  al  punto  delFoste  e 
della  battaglia:  come  dee  egli  guardare  l'oste,  e- porre 
il  t^ampo  e'padigliont,  e  guardare  Toste  intomo  intór- 
no  di  di  e  di  notte,  è  come  dee  ordinare  le  schiere^  e 
come  dee  essere  in  tutti  luoghi,  ora  di  qua  e  ora  di 
là,  e  t:ome  dee  guardare  suo  corpo  ch'egli  non  com- 
batta, se  non  è  gran  necessità,  s'ella  è  assediata.  Edi 
mohe  altre  cose  che  conyègnono  a  guerra,  lo  maestro 
non  dirà  ora  più,  anzi  lo  l^iscia  alla  provedenza  del 
signore  é  del  suo  consiglio. 

Capitolo   XXX. 
Questue  il  generale  insegnamento  delli  podestà. 

Per  lò  insegnamento  di  questo  libro,  può  ben  eia- 
scunb  che  dirittamente  1  riguarda  governare  la  città 
al  tempo  di  pace  e  di  guèrra,  all'aiuto  di  Dio  e  del 
buon  consiglio.  E  tutto  ch'egli  abbia  assai  d'insegna-^ 
mento,  nientemeno  egli  ha  tante  diversità  in  signorìa, 
che  nullo  ne  potrebbe  scrìvere,  ne  dire  con  bócca  :  ma 
in  somuKi  egli  dee  seguire  la  legge  comune,  e  1'  uso 
delta  città  a  buona  fede,  e  conducere  suo  ufficiò,  se- 
condo il  costume  del  paese;  però  che  '1  villano  disse  : 
quando  tu  sei  a  Roma  usa  costumi  di  Romani,  che  di 
tal  terra  tal  porta.  Sopra  li  malèfici  dee  egli  seguire  la 
maniera  del  medico,  che- al  picciolo  male  pone  pic- 
ciolo impiastro,  e  alli  maggiori  più  forti,  e  alti  mol* 
to  grandi  mette  il  fuoco  e  '1  ferro:  così  dee  egli  con- 
dannare li  nfiilBittorì  secondo  la  maniera  di  sua  offesa, 


4 1 6  IL  1  Ksoao. 

seoza  perdonare  a  quelli  che  hanno  colpa,  e  senza  con- 
dannare chi  non  ha  colpa. 

Capitolo  XXXI. 
Come  il  norello  goTerI^ltore  dee  essere  eletto. 

E  quando  viene  il  tempo  che  l'uomo  vogKa  éeg- 
gftre  il  novel  governatore  per  Panno  che  viene  ap- 
presso, lo  signore  dèe  raunare  il  consiglio  della  città, 
è  per  loro  trovare  secondo  la  legge  della  città  li  sa^ì 
che  debbono  mendar  le  constituzioni  della  città.  E 
quando  egli  li  ha  trovati,'  e  elli  hanno  fatto  lór  savi, 
élli  debbono  essere  in  un  luogo  privatamente,  tanto 
eh'  elli  abbiano  fatto  ciò  che  si  appartiene  a  loro  uf- 
ficio. E  immanlenente  che  'l  libro  è  stabilito  e  compiu- 
to, egli  dee  essere  chiuso  e  suggellato  infìno  alla  ve- 
nula del  nòvel  signore,  e  stare  in  guardia.  È  quando 
queste  cose  sono  diligentemente  compiute  e  messe  in 
ordine,  l'uomo  dee  eleggere  il  nuòvo  signore  secondo 
V  ordine  che  divisa  il  maestro  nel  principio  di  questo 
libro.  Ma  se  ì  cittadini  ti  vogliono  per  signore  per  lo 
anno  che  viene,  io  lodo  che  tu  non  lo  prenda,  che 
appena  può  essere  ben  finita  la  seconda  signoria. 

Capitolo  XXXII. 

Delle  cose  che  *1  signore  dee  fare  air  uscita  di  suo  ufficio. 

Appresso  dei  tu  raunare  li  giùdici,  e  li  notari,  e  li 
altri  tuoi  ufficiali,  e  pregarli^  ed  ammonirli,  che  tutti  i 
piati  e  questioni  che  son  dinanzi  da  loro,  elli  li  spC" 
discano  secondo  dirjUo  giudicio,  e  che  non  lascino  ad 
alli'ui  ammendare.  Tu  medesimo  ti  consiglia  eoa  loro,  e 


LIBRO  NONO.  4  '  7 

ti  pensa  nel  tuo  cuore  se  hai  gravato  nullo  più  o  me- 
no che  diritto  voglia:  e  se  hai  lasciato  a  fare  di  quel 
del  libro,  e  delli  capitoli  della  città,  immantenente  ti 
provedi,  sì  che  tu  ammendi  e  rompi  e  torni  a  punto  ciò 
che  tu  puoi^  o  per  té,  o  per  istanziamento  di  consi- 
glio :  che  ^  savio  governatore  si  proved»  dinanzi,  o  per 
quelli  che  ammendano  li  statuti ,  o  per  consìglio  loro 
medesimo,  e  si  si  fa  assolvere  di  tutte  cose  addivenute  al 
camerlingo  del  comune,  e  delli  altri  capitoli  che  sono 
dimorati  a  comprendere.  Altresì  dei  tu  del  tempo  tro- 
var ambasciadori  per  la  volontà»  del  comune,  che  ti 
facciano  compagnia  insino  al  tuo  albergo,  e  portino 
grazie  e  salute  e  buona  testimonianza  di  te  e  di  tue  o* 
pere  al  comune  di  tua  città.  Altresì  ti  provedi  per  con- 
siglio della  città  delF  albergo  dove  tu  dimori  alla  fìa 
del  tuo  ufficio  per  rendere  tua  ragione.  Ma  non  di- 
menticare una  cosa,  che  otto,  o  dieci  dì  dinanzi  aUa  fin. 
di  tuo  termine,  tu  faeci  bandire  spesso  che  chi  avesse 
a  ricevere  da  te  o  da^  tuoi  poco  o  assai,  vegnano  a  farsi 
pagare;  e  fa  che  siano  bene  pagati.  Altresì  guarda  che 
rilenghi  li  esempli  di  tutti  li  stanziamenti  de^  consigli 
che  toccano  a  te,  a  tuo  sacramento,  ed  in  tal  maniera 
che  tu  t6  ne  possi  aiutare  se  F  uomo  il  mettesse  sopra 

nullo  fatto. 

Capitolo  XXXIII. 

Ancora  delle  cose  cheU  signore  debbe  fare  alPuscita  del  suo  uiScio. 

E  quando  viene  lo  diretano  dì  di  tuo  ufficio,  tu  dei 
raunare  la  gente  della  città,  e  dire  dinanzi  a  loro  di 
grandi  parole  e  graziose  per  acquistare  P  amore  deVit- 
tadini  :  e  ricordare  delle  lue  buone  opere,  e  l' onore  e 


4  1  S  If'  TESORO. 

r  utilità  del  comune  ch^  è  addivenuto  nel  tuo  lempo, 
e  di  ringraxìare  lofe  deU'  onore  e  delP  amore  che  han- 
no mostrato  a  te  ed  a^  tuoi,  e  profferire  te  e  tutto  tuo 
potere  air  onore  ed  al  servìgio  loro  sempre  mai;  e  per 
meglio  trarre  li  cuori  delle  genti  a  te,  tu  puoi  dire, 
che  se  alcuna  ha  fallito  nel  tempo  del  tuo  sacra- 
mento^ tu  li  perdoni,  o  per  negligenza,  o  per  non  sa- 
pere, o  per  altra  cagione,  se  ciò  non  fosse  Calskà,  o  la- 
droneccio, o  altri  mal&ttori,  o  condannati  della  città  : 
vofi  tuttavia  toa  signpria  è  infìno  a  mezza  notte,  ove 
to  cominciasti  aUa  fNÌma  entrata.  Appresso  questo  par- 
lamento, il  dì  m^esìmo,  o  Faltro  appresso,  seéondo  b 
usanaa  del  paese,  dei  tu  rendere  al  noyel  signore,  od 
al  camerlingo  tutti  i  libri,  e  tutte  le  cose  che  to  avevi 
del.  comune:  e  poi  te  ne  andrai  alFalbergOi,  ove  tu  dei 
albergare  tanto  qiiaoto  .tu  dimori  a  xendere  tua  ra- 
gione.-  •         -  .    ••     • 

Gapitoix)  XXXiy. 

CoiYW!  il  signor  dee  dimorare  e  render  6uà  ragione. 

Quando  tu  sei  a  ciò  venuto,  che  convien  che  tu  stia 
a  sindacato,  e  renda  ragione  di  tutto  il  tuo  ufficio  e  di 
tutti,  se  nullo  vi  fosse  che  si  lamentasse  di  te,  tu  dèi 
far  dare  le  petizioni  di  sua  dimanda,  ed  aver  consiglio 
da^  tuoi  savi,  e  rispondere  come  ti  cónsiglieranno.  In 
questo  dei  tu  dimorare  nella  città  infino  al  giorno 
che  fu  ordinato  quando  tu  prendesti  la  signorìa  :  allo- 
ra, se  a  Dio  piace,  tu  sarai  assoluto  onorevolmente,  e 
prenderai  commiato  dal  comune  e  dal  consiglio  della 
città,  e  anderai  con  gloria^  e  c<m  onore,  e  con  buona 
ventura. 


4'9 
ANNOTAZIONI- AL  LIBRO  NONO. 


Gap.  m,  pag.  377.  Che  sen%a  fede  lealtà  nm  è 
diritto,  .  .     •     .' 

.  Cosi- nella  edizione  1474  da  me  seguita.  Ma  la  «i- 
tata^copiando  HO  enrore  introdotto  dalla  edizione  1 5a8, 
ha:  che  senza  fede  e  lealtà  non  è  diritto. 

Cap.  VIII5  page  383.  Come  a  tal  cosa  egli  sotto^ 
mette^ec. 

Anche  qui  mi  attenni  alla  edizione  i474«  ^  i5aS, 
copiata  dalla  citata,  ha  erroneamente  sottomettere. 
Tutte  e  tre  poi  sono  concordi  nel  darci  a  91  alto  ca-^ 
ricoy  che  torna  inalile  dopo  tal  cosa, 

Cap.  Ylil,  pag.  383.  Abbattere  le  equalitadi. 

Questa  è  la  correzione  più  ardita  che  tentassi  nel 
Tesoro.  Tutte  tre  P  edizioni  hanno  iniqmtadiy  epo« 
Irebbe  anche  stare.  Tuttavia  mi  sembra  che  la  sosti- 
tuzione meglio  consuoni  al  resto  :  ne  giudichi  il  let* 
tore. 

Gap.  IX,  pag.  386.  Congioire  maravigUosametir 
te,  ec. 

Cosi  la  edizione  14^4  9  qtieUa  del  i5a8  cominciò 
erroneamente  a  leggere  con  gioie^  ed  ebbe  seguace' 
nell' errore  la  citata. 

Cap.  XYII,  pag.  399.  Lo  ùnperadore  di  Roma  o 
di  Costantinopoli. 


4aO  ANNOTAZIONI 

Questo  Costantinopoli  cel  misi  io  5  le  stampe  non 
hanno  che  di  costo,  Qual  senso  se  ne  caverebbe  ? 

Gap.  XXXII,  pag.  417*  degnano  a  farsi  pa- 
gare. 

Le  stampe  hanno  regnano  a  pagare.  Ma  che  raz- 
za di  senso  sarebbe  egli:  che  chi  ha  da  ricevere  ven- 
ga a  pagare?  Forse  altre  parole  dovevano  stare  fram- 
mezzo, ma  per  non  osar  troppo,  mi  contentai  di  quella 
semplice  giunta  del^r^i,  che  raggiusta  ogni  cosa. 


TAVOLA 

DEU.A. 

PARTE     SECONDA 


Prologo Pag.        7 

Libro  Sesto. 

Elica  d' Aristotile »»  9 

Delle  tre  vile »  11 

Del  bene »  ivi 

Qui  divisa  delle  tre  potenze  deiranima  .     .  »  i  ^ 

Di  tre  maniere  di  bene »  1 3 

Delle  potenze  deir  anima »  t6 

Di  due  maniere  di  virludi w  17 

Come  la  virtù  nasce  nelPuomo     ....  »  ivi 

Come  l'uomo  è  virtuoso >'  '9 

Le  tre  cose  che  r  uomo  desidera  .     ...»  20 

Come  V  uomo  è  virtuoso u  a  i 

Che  le  virtù  sono  in  abito »  iiri 

Qui  dice  della  virtù,  quello  che  è  e  come     .  »  2  a 

Àncora  di  ciò  medesimo »  ivi 

Qui  insegna  il  maestro  acognoscerele  virtudi.  »  24 

Come  V  uomo  fa  bene  e  male »  2G 

Della  fortezza »  3e 

Della  castitade      .     .     • »  35 

Latini.  Fot.  II.  ^ 


Della  larghezza     ......:..  Pi^.  54 

Della  mugiiificeoza n  ^6 

Dell^ira  e  della  mansiieliKline             ...»  69 

Della  conTersazione  degli  uomini       .     .     .     m  4^ 

Della  Tenta  e  della  bogia »  4  > 

Come  Puomo  si  cognosce  per  lo  suo  moTt- 

mento          >.  4^ 

Della  gìuslizia »  4^ 

Della  legge           >i  ivi 

Anche  della  giostizia m  4^ 

Della  prodezza »  4^ 

Di  ciò  medesimo »  ivi 

Della  fortezza       . »  5o 

Della  custodia       .........     .     .     .     m  5.i 

D%;lla  mansuetudine  .........     .     .     .     »  iti 

Della  liberalità      ...........     .     .     n  53 

Della  inagnanimitede     .     .     .     ....     tt  m 

Delle  compagnie  ........     *    .     ,     ^     »  55 

DeDa  giustizia      .....     .     .     .     .     .     »>  54 

Delli  vizii  •     . M  56 

Del  diletto       .,,1157 

Della  castità  *.                          ..•...•    ^  60 

Della  constanza .     u  .  6t 

Come  Tamistade  è  Tirtude  che  regna.fidl'wmo  w  6a 

Delle  specie  delF  amistade n  65 

Come  quello  delli  boni  amici  dee  ienar  tXMDODe 

tra  loro m  64 

Delli  tre  principati m  65 

Deir  amore  che  Tuomo  ha  ocm  Dio  ...     m  67 

Come  r  amore  è  comunicazione  inlni  li  amici     n  68 

Deir  amore  cl.e  dee  essere  tni  gli  uoraiai    .     )i  69 


Come  Doménedio  è  partitore  de^beni 
Onde  procede  il  conforto.  .  ...... 

Come  r  uomo  si  diletta  in  molte  cose 
Gomela  dilettazione  è  naturale     .     ,     . 
E>èlla  dilgttaùone  sensibile  ed  intellettuale. 
Della  più  .dilettevole  dilettazione  .     .    •. 
€k>me^(la  J>eatitudine  è  compimento  ddUe 
i    tudi  ........     ,     .     .     •     •     . 

Della  virtù  m«>raley  e  delP  uomo  beato  . 
Del  cogno.scioieiito  delle  yirtudi  .  .  . 
Anche  di  simigliante  materia    .... 


Pag. 


var- 


I) 


4-25 
70 

7' 

7.*»' 
76 

77 

79 

8.1 

82 
8S 


LuRO  Settoho. 

Qui  comicia  li  ammaestramenti  deUi  yizii  e  delle 

'  virtudi.del  Tesoro  . » 

Delle  maniere  di  be.ni  .  .  .  .  »  . ,  , 
Gome^irtude  è  .migliore  bene  di  tutti  ,  . 
Qui  divisa  il  maestro  delle  virtudi  .  .  .  11 
Come  r  uomo  dee  usare  la  virtude  .  .  .  i» 
Dì  due  maniere  di  yirtudi   ....,.» 

Della  virtù  morale     .,     . 

Della  prima  virtù,  cioè  della  prudenza  .     . 
Qui  parla  Seneca  della  prudenza  .... 

Àncora  di  simigliante  materia » 

Della  providenza  .     .     .     ....     •  .  •     .     n 

Qui  dice  della  guardia  . d 

Delle  cose  di  che  Tuomo  si  dee  guardare  quan- 
do vuole  parlare,  od  alcuna  cosa  fare 
G>me  tu  dei  pensare  quello  che  tu  voli  dire  » 
Come  tu  dei  .guardare  a  cui  tu  parli  .  .  » 
Come  tu  dei  guardare  rome  tu  parli      .     .     » 


» 


I) 


97 
9»^ 

99 

io3 

104 
106 
107 
108 
109 
112 

IVI 

1,4 

ii5 
118 
ia3 
126 


424 

Come  ti  conviene  pensare  quando   voli  par- 
lare   .     .     .     .• Pag.  127 

Come  tu  dei  guardare  tempo  di  parlare  .      .     »  1 5o 
Come  Tuomo  dee  conoscere  il  tempo  di  par- 
lare  »  i3( 

Come  i^  uomoT  dee  guardare  in  conoscenza  .     »  ivi 

Deir  insegnamento i>  1 54 

Della  prudenza  e  di  sua  maniera  .          .     .     »  1 55 

Delia  seconda  virtude  ch^  è  contemplativa    .     »  ivi 

Della  vita  contemplativa     ...?..»  i56 

Del  diletto  e  del  desiderio »  157 

Come  r  uomo  dee  dire  pesate  parole     .     .     »  i45 

Come  r  uomo  dee  usare  parole  oneste    .     .     »  i45 

Come  Puomo  dee  usare  parole  caste  .     .     .     >»'  146 

Ancora  parla  qui  del  diletto >>  i47 

Delle  parole  di  sobrietade ''  ^49 

Di  parole  dì  rattenimento »  1 5o 

Qui  dice  la  terza  virtù,  cioj  della  fortezza   .     »  1 55 

Della  magnanimitade .     »  i54 

Delle  sei  maniere  di  tbrza »  1 55 

Della  forza »  1 58 

Della  fVauchezza  e  sicurtà    .     .     .     .     .     .     »  ivi 

Della  magnificenza ».  164 

Come  r  uomo  si  dee  provedere  in  tempo  di 

guerra ...»  1 65 

Della  guerra  e  della  pace »  167 

Come  r  uomo  dee  usare  parole  costanti            m  ivi 

Come  pazienza  è  bona  .  ^ '^1^9 

Dolla  fortezza »  1 70 

Della  quarta  virtù,  cioè  giustizia   .     .          .     »  1 7 1 

Della  prima  branca  di  virtude »  175 


Delia  giuslizia,  e  dei  giudici      .     .     .     .     Pag. 
Come  liberalitade  fa  beaeficii  air  uomo  . 
Di  ciascuna  parte  di  liberalit'-t^e  primo  di  dono 

Del  guiderdone    .     .     . ■ 

Delle  due  maniere  della  liberalitade  .     .     . 
Della  religione      .     .     .     ... 

Ora  vi  conterà  di  pietade    .     .     .     .     .  *  . 

bella  innocenza 

Deir  ufficio  della  carità 

Come  noi  dobbiamo  amare  noi  medesimi 

Della  vera  amislade 

jDella  prima  branca  di  virlude      .... 
Di  quello  che  t^uma  per  sua  pcppria  utilitade 
Di  quello  che  ama  per  suo  diletto     .     . 
Della  reverenza  e  di  sua  materia  .     .     .     . 

Della  concordia 

Della  misericordia 

Di  due  maniere  di  torto 

Della  negligenza 

Della  giustizia .  .  •     • 

De^  beni  che  sono  più  onesti 

De'  beni  del  coi*po  quanti  sono    .... 

Del  bene  della  ventura 

Della  ricchezza 

Della  seconda  materia  di  ricchezza     .  '    . 

Della  terza  (>arte  di  ricchezza 

Deir  ufficio  della  signoria 

Della  nominanza,  e  di  sua  materia      ...     . 

Dei  beni  di  ventura 

Deir  onestà  e  dell'  utile 

Della  pi  udenza  e  della  giustizia     .     r     .     . 


4-^5 

176 
177 
178 
1^83 
i85 
189 

192 
193 

'94 

195 

196 
198 

'99 

200 

201 
202 

2Ò3' 

2o5 

•    • 

IVI 

206 

208 
209 

210 

21  f 
2l3 

216 

219 

220 

22  1 
226 


4a6 

Àncora  di  ciò  tnedesiiQO   '  l    .          .     :     P^.  Sa^ 

Anche  dìsiioili  comandamenti      .     •     .     •     »  aaS 
DeUe  tre  yirtù  ooùlempkitive,  e  primo  dellii 

fede  ...     .....     .....'.     .     M  lag 

DieUa  carità  .  .  .  v     .     .     .     .     .  •   .     .     .     »>  iti 

»  a5Q 

I»-  »5i 

I)  33a 

•  »  a34 


DeUa  speranza  .  .  .  .-.  . . 
Del  peccato  e  delli.  yìvà 
Pe*  peccati  criminali  .     . 
Della  dottrina  del  settimo  libro 


Libro  Oitavo. 


Tratta  della  retorica,  che  c^  insegua  a  ben  palare, 

•   e  di  governare  città  e  popoli-   «...     .     »  35o 

Della  retorica,  che  cosa  è,  e  di  suo  ufficio,  e  di 

.  sua  arte   - )>  a53 

JDelle  cinque  parli  della  retorica  .  .  .  .  »  u56 
Di  due  maniere  di  parole,  con  lettere  e  con 

bocca »  a58 

Del  contendimento  che  nasce  delle  parolescritte  »  aSg 
Come  tutte  contenzioni  nascono  in  quattro  cose  »  260 
Di  rimutamento  e  di  molte  maniere  •  •  .■  »  a6a 
Di  che  r  uomo  dee  considerare  in  sua  materia  »  a65 
Come  dee  essere  stabilito  P  intendimento  .  1*  ivi 
Di  due  maniere  di  parlamenti,  cioè  ia  prosa  ed 

in  rima »  265 

Ora  dirà  il  maestro  dell'ordine     .     ...     .     a  2GG 

Del  parlare  artificialmente »  367 

Come  lo  parlatore  dee  considerare  la  sua  mate- 
ria dinanzi  che  dica,  o  scrìva  suo  conto  »  a 70 


427 

Come  lo  uomo  può  accrescere  il  suo  conto  in 

otto  maniere Pag.  270 

PeHe  parli  del  conio,  e  come  il  parlatore  dee  sta- 

bilice  li  suoi  delti  per  ordine    •     .     .     .     n  nyS, 

Delie  .^ei  parti  del  conto  a  parlare  di  bocca     »  276 

Pella  :^lutazione  delle  lettere  mandate   .     .     »  277 

Petto  insegnamento  del  prologo,  secondo  la  di- 

yersità  delle  maniere       .......  278 

pi  duf$  maniere  di  prologhi, coyerti  e  discoverti  i>  279 
Quale, prologo  conTiene  sopra  nostra  materia     »  280 
Quale  prologo  conviene  sopra  contraria  mate- 
ria.   .     )).    ivi. 

pi  tre  cose  che  sono  bisogno  a  ciascun  prologo, 

che  non  può  essere  buono  senza  r  altro  .     »  281 

pella  dottrina  per  acquistare  benevolenza   .     »  282 
DelP  insegnamento  per  dare  talenti  di  udire  agli 

auditori »  285 

pel  prologo  ch^  è  per  covertura    ....     »  284 
Come  Tuomo  dee  cominciare  suo  prologo  quan- 
do la  materia  spiace  agli  auditori    •     .     .     »  285 
Come  V  uomo  dee  cominciare  suo  prologo  quan- 
do gli  auditori  credono  al  suo  avversario     »  287 
Come  r  uomo  dee  cominciare  suo  prologo  quan- 
do gli  auditori  sono  in  travaglio      ...»  ivi 
Deir  insegnamento  di  tutti  i  prologhi  insieme     »  288 
Di  sette  vizii  di  prologlù,  e  primo  del  generale  d  289 
D^un  antico  esemplo  di  grande  autorità  lo  quale 

fu  detto  per  più  savi »  290 

Come  parlò  Giulio  Cesare »  291 

Come  park  Cesare  secondo  questa  arte  .     .     )i  296 

Cume  lìi  il  giudicumeiito  di  Calo  ....     »  297 


428 

Come  Culo  parlò  secondo  questa  arie           Pag.  3o2 
Deir  inseguamenlo  della  prima  parie  del  pro- 
logo   »  5o5 

Qui  comincia  a  divisare  che  trapasso  è  fuori  dei** 

la  sua  mateiia  ...>.*,...»  3o4 
Del  conto  eh'  è  per  giuoco  e  per  sollazzo  »     ivi  ^ 
Del  conto  ch^è  chiamalo  cittadino     ...»  5o5 
Qui  c'insegna  egli  a  contare  lo  conto  breve- 
mente     n  5o6 

Qui  e**  insegna  a  contar  lo  fatto,  e  vedere  chiara- 
mente    .     .     .     .     s ,'    ìì  3o7 

Qui  e'  insegna  a  contare  il  fallo  che  sia  verisi- 
mile   *  M  3o8 

De'  vizii  del  dire  lo  fatto n  Soq 

Della  terza  parte  del  conto,  cioè  divisamento     )>  3 1  o 
Come  il  parlatore  dee  divisare  suo  conto     .     »  3 1 1 
Come  il  parlatore  dee  divisar  suo  fatto  breve- 
mente    .....' ))   3f3 

Qui  dice  della  quarta  branca  del  conto,  cioè  del 

confermamento »  3i4 

Qui  divisa  li  argomenti  per  provar  ciò  che  il  par- 

lator  dica »  3 1 5 

Qui  divisa  le  proprietà  del  coipo  che  danno  ar- 
gomento e  pix)va w     ivi 

Delle  proprietà  della  cosa .'     »  3 1 9 

Di  due  maniere  di  tutti  argomenti      ,     .     .     ))  3^4 

Dogli  argomenti  necessarii        »     ivi 

Qui  dice  come  si  divisano  li  verisimigUanli  argo- 

inenlì      . »   32fi 

Delt'  argomento  in  due  maniere,  o  da  presso,  o 
da  lungi »   029 


4^9 

Di  quello  argomenlo  eh' è  da  lungi     .     .     Pag.  529 

Dell'argomento  da  presso »  33 2 

Della  quinta  parte,  cio^  del  differmamento        »  336 

Delle^qualtro  maniere  di  differmanieiito  .     .     »  337 

Del  difFermamento  degli  argoiùenti  necessarii     »  34 1 

Del  secondo  differmamento »  343 

Del  terzo  differmamento »  345 

Del  quarto  differmamento »  35o 

Della  sesta  parte,  cioè  conclusione     .     .          »  35i 

Del  ricontx) »  352 

Come  nasce  lo  disdegnamento       .     .     .     .     »  353 

Di  acquistare  pietà »  357 

Della  diversità  che  è  tra  parlatori  e  dettatori,  del- 
la conclusione »  36i 

Come  lo  conto  puote  essere  di  meno  di  cinque 

parti »  ivi 

Delle  parti  che  hanno  luogo  determinato  e  luo- 
go stabilito »  363 

LifiRo  Nono. 


Qui  incomincia  la  politica,  cioè  il  libro  del  go- 

vernamento  delle  ciltà »  37 1 

Di  signoria,  e  delle  sue  parli »  373 

Come  il  signore  dee  essere  eletto  il  governatore 

delle  ciltà  e  delle  terre **  ^74 

In  che  maniera  dee  essere  eletto  il  signore   .     »  377 

Come  si  dettano  le  lettere *>  ^79 

Come  il  signore  debbe  fare  quando  egli  ha  ri- 
cevuto le  lettere »>  38i 


43e 

Di  ciòcie  il. signoro  debbe  fóre  quando  egli  rì- 
fiula  la  signoria     ...     .     .     .     .     Pag.  383 

Di  ciò  che  il  signore  dee  fa^e  quando  lo  riceve 

la  s^Qoria .     .     »  585 

Della  compagnia  che  il'signore  dee  nleoanrper 
cammino  con  seco     ...     .     .     .     .     v  385 

Come  il  signore  debbe  parlare  i!  giorno  dèlia  mxt 
venuta.  .........     .     .     .     .     .     »  387 

Che  lo  signore  debbe  hie  quanuda  è  venuto  alla 

citlade ......,.,..•.     »  388 

Come  debbe  fare  il  signore  quaildo  ^Uha  fìllio 

'   ìi  sacramento .....     .     .     .     »  594 

Come  il  signore'  dee  ammonire  li  suoi  affidali 
-   quando  egli  entra  pi'ima  in  sua  signoria  .     n  SqS 
Come  il  signóre,  dee  ammonire  i  suoi  ufiìcialì 
quando  è  in  signoria  .     .     .......     m  396 

Come  il  signor  novello  dee  onanx  il  suo  aule- 
cessore    ...........     m  597 

Come  il  signore  dee  ragunare  il  consiglio  della 

terra »     ivi 

Come  il  signore  dee  onorare  gli  ambasciatori     »   3c,9 
Come  il  signore  dee  mandare  gli  ambasciatori  »    4^^ 
Come  il  signore  dee  udire  le  cose,  e  gli  avvo- 
cati     ».  ivi 

Come  il  signore  dee  fare  sopra  li  malefici     .     n  ^wi 
Come  il  signore  debbe  condannare  ed  assolvere 

gli  accusati »  4^3 

Come  il  signore  dee  guardare  le  cose  del  co- 
mune       »  4^4 

Come  il  signore  dee  guardare  le  cose  del  suo  al- 
bergo       »  4 "5 


43i 

Come  il  signore  si  dee  consigliare  con  li  suoi 
savi Pag.  4o6 

Della  discordia  di  loro  che  vogliono  esser  temu- 
ti, e  di  quelli  che  voglion  essere  amati    .     »  407 

Delle  cosmiche  1  signore  debbe  considerare  nella 
sua  signoria »  409 

Delle  cose  di  che  il  signore  si  dee  guardare  per 
cagione  di  se  stesso »  4  ^  ' 

Delle  cose  di  che  il  signore  si  debbe  guardare 
per  cagione  del  comune »  4 1  ^ 

Come  lo  signore  si  debbe  provvedere  in  tempo 
di  guerra «...))  4  ^  3 

Quesl^  è  il  generale  insegnamento  delli  podestà  »  4  ^  ^ 

Come  il  novello  governatore  dee  essere  eletto    »  4 1 6 

Delle  cose  che  ^1  signore  dee  fare  air  uscita  di  suo 
ufficio     .•....•....»     ivi 

Àncora  delle  cose  che  ^1  signore  debbe  fare  al- 
l' uscita  del  suo  ufficio "4^7 

Come  il  signore  dee  dimorare  e  render  sua  ra- 
gione       w  4*8 


.-1 


^^■^■p 

^^^^^                         .1  «l'u  v  wi  H|<i  ihl  CumluRnt  »  fnil»i|R 
^^^^L                           E  li.  iwnlL.  ti<JiiiuK>vl>iù,  1  JUiiAilibJoluiii 

^^^H                t  l'Ili  >u.i]rÌH  i>n  i.i  B.I>liiH«cp,  >  «K  [n^^£ 

1.            ^ 

.L35tg 

ITO  di  Brunatto  LAOPSQSr 

Slanliyd  Un)v0r! 


3   6105    044    968    993 


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