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Full text of "Istria [microform] : studj storici e politici"

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CARLO COMBL 


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STRIA. 


STUDJ STORICI E POLITICI. 



MILANO, 


TIP. BERNARDONI DI C. REDESCHINI E C 


1886. 


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ISTRIA. 


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CARLO COMBL 


ISTRIA 


STUDJ STORICI E POLITICI. 



MILANO, 


TIP. BERNARDONr DI C. REBESCHINI E C. 


1886. 


IL 



AI NOSTRI GIOVANI 
DEDICHIAMO Q.UESTI SCRITTI 

DI 

CARLO COMBI 

PERCHÈ DA ESSI APPRENDANO 

AD AMARE OPEROSAMENTE LA PATRIA 

A DIFENDERNE SEMPRE E IN OGNI MODO 

LA INSIDIATA ITALIANITÀ. 


NEL SECONDO ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE 
XI SETTEMBRE MDCCCLXXXVI. 


AL. LETTORE. 


VJfli scritti, che qui compariscono per la prima volta 
riuniti in un solo volume, furono pubblicati in epoche 
diverse, a seconda dell'occasione, che consigliava al- 
l' autore di illustrare questo o quel lato della storia, 
della geografia, della etnografia, dell'importanza mili- 
tare e marittima della sua provincia nativa, l'Istria. 
Tuttavia il concetto, a cui essi si inspirano, è unico; 
e fa veramente meraviglia il vedere come in un pe- 
riodo di tempo di quasi 25 anni — che tanti corsero 
dalla pubblicazione del primo di codesti studj a quella 
dell'ultimo — l'autore non perdesse mai di vista lo 
scopo, che fin da principio egli si era proposto : segno 
evidente di un concetto fortemente pensato e maturato 
via via collo studio e colla esperienza. Cosicché ne esce 
un tutto omogeneo e logicamente sviluppato; perocché 
da un rapido e generale abbozzo della storia della pro- 
vincia si passa alla descrizione della sua conformazione 
geografica per scendere poi a illustrarne, almeno par- 
zialmente, le condizioni di vita civile. Si discorrono indi 
più minutamente le origini della popolazione, che vi 
abita, e il valore, che questo paese ebbe in passato e 


vili Al lettore. 


potn^ avere in avvenire per la difesa del confine orien- 
tale d'Italia. Infine, dopo un rapido e vigoroso riassunto! 
della storia civile della provincia inteso a metterne in 
evidenza l'indole schiettamente e permanentemente ita- | 
liana, si svolge il modo, secondo cui, a mente dell'au- 
tore, ristrla potrebbe essere ancora ricongiunta all'Italia, 
dalla quale rimase distaccata per effetto degli insuccessi 
del i8é6. 

Come abbiamo detto, questi scritti vennero pubblicati 
in epoche diverse e per diverse occasioni; dal che con- 
segue che vi si' trovano necessariamente delle ripetizioni, 
che l'autore avrebbe certamente evitato, se a lui fosse 
bastato il tempo di raccogliere in un solo volume quanto 
il suo ardente amore di patria gli era venuto dettando 
nel corso degli anni in difesa della sua provincia. Noi 
non ci siamo voluti arrischiare a por mano nelle cose 
sue e, volendo ora raccoglierle, abbiamo preferito ri- 
pubblicarle tali le quali, non solamente pel rispetto^ ^che 
si deve all'opera intellettuale degli altri, ma anche per- 
chè ci è parso che codeste ripetizioni potessero anzi gio- 
vare, siccome prova evidentissima, ch'esse sono, della 
sincerità e della profondità delle convinzioni dell'autore 
e anche perchè, trattandosi di verità — tali esse son 
per noi — pur troppo ignorate ancora dai più, o per lo 
meno poco note, troverà forse qui applicazione l'antico 
adagio: bis repetita juvant. 

Un'altra osservazione dobbiamo fare : chi vorrà leggere 
si avvedrà agevolmente che tra i primi scritti, che sono 
quelli estratti dalla Porta Orientahy e gli altri pubblicati 
dappoi corre una grandissima differenza d'intonazione; 


Al lettore, ix 


quanto i primi sono cauti e guardinghi e lasciano inten- 
dere assai più che non dicano, akrettanto gli altri parlano 
chiaro e allo, proclamando vivamente la italianità delle 
nostra provincia e la sua indomita aspirazione a essere 
ricongiunta colla madre patria: la spiegazione è presto 
trovata^ solo che si badi alle date : i primi furono pub- 
blicati in Istria, sotto l'occhio vigile e sospettoso dell'Au- 
stria, che non avrebbe tollerato si afiermasse da noi il 
nostro amore di patria; gli altri invece videro la luce 
nel Regno, quando i fortunosi e fortunati eventi del 
1859 e del 1860 avevano dischiuso anche nell'animo 
nostro la speranza della liberazione, e quando le delu- 
sioni del 1866, ribadendo le catene della nostra ser- 
vitù resero più cocente il dolore di tutto un po- 
polo. Il lettore avveduto troverà rispecchiato, per cosi 
dire, in ciascuno di codesti scritti il carattere speciale 
del momento, in cui essi vennero messi in carta; e come 
1 in quelli anteriori al 1859 si scorge una aspettazione 
vaga e indeterminata di prossimi eventi, la cui speranza 
si concreta apertamente nei successivi, cosi nell'Appello 
degli Istriani all'Italia il dolore degli abbandonati erompe 
in una pagina splendila di alta eloquenza, mentre nella 
Rivendica:(ione dell'Istria agli studi italiani, la rassegna- 
; zione tempera le espressioni, senza modificare i propo- 
siti e in quell'ultimo scritto, che noi abbiamo intitolato 
La soluzione, l'ingegno si assottiglia, frenando le la- 
grime, a suggerire un modo, certo non indegno di me- 
ditazione, per riparare al già fatto e ottenere per altra 
; via il conseguimento di quello, che per l'autore era, come 
è per noi, lo scopo supremo della vita, l' Istria libera 
finalmente dalla dominazione straniera. 


ISTRIA. 


CARLO COMBL 


ISTRIA 


STUDJ STORICI E POLITICI. 



MILANO, 


TIP. BERNARDONr DI C. REBESCHINI E C. 


l8 8é. 


XIV Al Ultore, 


degli intrusi, coloni veneti venuti al tempo della Sere- 
nissima, i quali col di lei favore abbiamo invaso lo 
città e le campagne, spossessandone le antiche popola- 
zioni slave. Ma oggimai la cuccagna è finita, e a noi 
invasori non resta che di rilasciare le nostre terre agli 
Slavi, che le reclamano, assoggettandoci ad essi, ovvero 
tornarcene là, donde siamo venuti. 

Questo si afferma burbanzosamente nei conciliaboli 
panslavisti di Zagabria e di Lubiana, e questo si lascia 
dire dall'Italia, ove anzi non è mancato taluno, e di 
quelli, che vanno per la maggiore, che escogitò una 
certa teoria per le provincie di confine con popolazione 
mista, secondo cui noi saremmo spacciati, e non ci re- 
sterebbe proprio altro che farci slavi, oppure far fagotto 
e rientrare in Italia, lasciando l'Istria in piena balia 
degli Slavi. 

Ora che gli Slavi, pei quali sembra ora imbiancarsi 
l'alba di un gran giorno, nelle loro ancora con- 
fuse aspirazioni agognino anche all'Istria, e con essa 
agli azzurri flutti dell'Adriatico, è cosa, che fino a un 
certo punto si può capire. E si può capire che i loro 
tribuni, facendo scempio della geografia e della storia, 
mettano innanzi il fatto che nelle nostre campagne abi- 
tano sparse varie tribù di origine slava, poveri e rozzi 
avanzi di quelle colonie, che improvvidamente la Re- 
pubblica Veneta trapiantò fra noi per ripopolare le cam- 
pagne disertate dalle guerre e dalle pestilenze, per de- 
durre da ciò con audace illazione che tutto il paese è 
slavo. Ma non si può capire e non si capisce che pub- 
blicisti italiani, i quali quotidianamente s' impancano a 


AI NOSTRI GIOVANI 
DEDICHIAMO QUESTI SCRITTI 

DI 

CARLO COMBI 

PERCHÈ DA ESSI APPRENDANO 

AD AMARE OPEROSAMENTE LA PATRIA 

A DIFENDERNE SEMPRE E IN OGNI MODO 

LA INSIDIATA ITALIANITÀ. 


NEL SECONDO ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE 
XI SETTEMBRE MDCCCLXXXVI. 


XVI Al lettore. 


Ma noi non siamo irragionevoli, e non abbiamo mai 
preteso che l'Italia, senza tenere alcun conto delle con- 
dizioni della politica generale, avesse hic et nunc a di— 
chiarare la guerra all'Austria per tentare il conquisto 
dell'Istria. Sono venti anni oramai, che sopportiamo 
rassegnatamente la sventura di vederci esclusi dal grembo 
della nazione, aspettando che la giustizia si compia an- 
che per noi. In tutto questo lasso di tempo — e per noi 
esso fu lungo davvero — nessuna manifestazione d'im- 
pazienza parti da noi, e le quante volte i nostri concit- 
tadini emigrati nel Regno ebbero occasione di parlare 
pubblicamente in nome nostro, essi non fecero che ri- 
petere r affermazione della nostra italianità e dichiarare 
che ponevano ogni fiducia nel Governo nazionale. Pe- 
rocché noi non abbiamo nulla di comune coi cosidetti 
irredentistiy radicali di più tinte, pei quali le provincie 
irredente servono solo di pretesto a combattere il Go- 
verno monarchico. 

I nostri propositi sono adunque assai temperati : aspet- 
tiamo e confidiamo in un avvenire, che alla nostra fede 
apparisce immancabile. 

Ma ci sarà lecito almeno di chiedere che in questo 
periodo di aspettazione, il quale per noi è periodo di 
lotta, i nostri sentimenti più intimi non vengano offesi 
da chi ci vorrebbe senz'altro abbandonare alle pretese 
slave, o da chi, soddisfatto dall'aver finalmente ottenuto 
il proprio posto alla mensa nazionale, tratta da importuni 
quelli, che, come noi, ne sono ancora esclusi. Gli Italiani 
liberi non sanno quanto male facciano a noi i giudizi 
avventati di certi giornali del Regno, che mostrano di 


Al lettore. xvii 


conoscere il nostro paese, quanto conoscono V ultima 
Tuie; e per contro quanto ci riescano graditi una pa- 
rola benevola, un ricordo affettuoso, che di quando in 
quando ci venga a salutare da parte loro. Esso ci inor- 
goglisce e ci infonde coraggio. 

E di coraggio noi abbiamo varamente bisogno per 
continuare nella lotta, che da alcuni anni combattiamo 
qui prò aris et focis. La propaganda slava, della quale 
abbiamo parlato più sopra, inferocisce ogni giorno più. 
Le leggi fondamentali della monarchia imporrebbero per 
verità al Governo Austriaco di difendere la nostra na- 
zionalità italiana contro le crescenti pretese degli Slavi; 
ma, senza dire che V Austria ci fece sempre 1* onore di 
trattarci come paese di conquista, chi non sa che in 
Austria le leggi non servono che per far buona figura 
all'estero, e che all'interno, prevale invece l'arbitrio? 
Chi non sa che è qui antica arte di governo quella di 
aizzare una nazionalità contro l'altra e dominarle cosi 
entrambe? A Vienna governa oggidì il partito slavo, e 
però agli Slavi di tutte le provincie della monarchia è 
lecito qualsiasi ardimento. Occorre appena di ricordare 
m proposito la lotta tra gli Czechi e i Tedeschi in 
Boemia, tra gli Sloveni e i Tedeschi in Carniola, tra i 
Croati e gli Italiani in Dalmazia ove si vorrebbe estir- 
pare, se fosse possibile, fin la memoria del nome ita- 
liano. 

E nell'Istria si tenta fare altrettanto. Un nugolo di 
preti, di maestri, di impiegati, di avventurieri d' ogni 
specie, scesi dalla Carniola o rimontati dalla Croazia, in- 
vade le nostre città, le borgate, i villaggi più umili, oc- 


xvni Al lettore. 


cupa i posti migliori, spadroneggia dalle chiese, dall 
scuole, dagli ufEci pubblici; adultera le elezioni, ent 
nelle rappresentanze cittadine e in quella della provincia^ 
combatte /)^r/^5 g per nefas tutto ciò, che sa d'italiano, 
tentando imbastardire persino i cognomi delle famiglie 
e i nomi delle località, pretende imporre la sua lingua 
nelle pratiche religiose, nell'insegnamento, nel foro; lo 
tentò, invano finora, anche nella Dieta Provinciale. E 
costoro aizzano contro di noi i contadini slavi e ci di- 
pingono agli occhi di que' villici rozzi e fanatizzati 
come forestieri, invasori delle loro proprietà, e scher- 
zando col fuoco, sotto la protezione del gendarme au- 
striaco, non rifuggono dall'eccitarli alla rapina e al sangue. 
E vari disordini sono già avvenuti in alcune terre dell'in- 
terno della provincia, e altri maggiori scoppieranno, se 
questo andazzo continua. 

I comuni maggiori, nei quali meglio si accentra il 
pensiero e la vita civile, resistono e, se Dio voglia, 
resisteranno sempre a codesta onda selvàggia, che ci 
assale. 

Ma nelle campagne, presso al confine colle terre della 
Liburnia 1' amministrazione di alcuni piccoli comuni è 
già nelle mani dei nostri nemici : Pisino, un grosso centro 
di vita italiana nel cuore della provincia, è caduta an- 
ch'essa. Dove s'arresteranno costoro, se noi non abbiamo 
forza sufficiente a fronteggiarli? 

Noi siamo poveri, pochi, sparpagliati nelle nostre pic- 
cole città; siamo osteggiati in ogni modo dal Governo, 
che spalleggia invece apertamente i nostri nemici. Tut- 
tavia noi lottiamo e lotteremo fino all'ultimo; abbiamo 


Al kttore. xix 


un posto d'onore da difendere, e lo difenderemo, fin 
che avremo sangue nelle vene. 

Ma r Italia non si ricorderà essa mai di questa sua 
sentinella avanzata? L'Italia, che la mise qui a tutelare il 
più geloso confine della nazione, non avrà una parola 
di simpatia per lei che adempie coraggiosamente al pro- 
prio dovere ? Continuerà essa a far le viste di non accor- 
gersene e lascierà che muoja senza soccorso? Ai pub- 
blicisti italiani, agli uomini politici, a tutti coloro, che 
hanno una responsabilità nella condotta della pubblica 
cosa, il rispondere. 

Noi abbiamo fatto il nostro dovere, segnalando al- 
l'Italia quanto avviene su queste ultime balze italiane. 
Compiano gli Italiani il loro, facendoci almeno com- 
prendere che non siamo dimenticati. 

Ci pare di non essere soverchiamente esigenti. 

DaW Istria, agosto iS86. 


CARLO COMBI. 


COMMEMORAZIONE LETTA NELL'ATENEO VENETO 

il 21 Maggio i88s 

TOMASO LUCIANI 


« Virtus frangi nescit, vinci non potest; se4 co semper 
fortior ac major occnrrit, qno graviora sunt vul- 
nera, qnae casus inflixU » . . • 

« Qoos tristis foruina vincere non potuit, cos plernmque 

laeta sublioiAt. » 

P. P. Vérgbrio. * 


Signori e Signore, 

Carlo Combi vivente sarà stato forse men noto a più di 
uno di voi, Onorevoli Signori, che siete qui convenuti ad 
ascoltare la mia parola : Carlo Combi morto certo é no- 
tissimo a tutti. 

La sua più che rara, meravigliosa e direi quasi fenome- 
nale modestia lo sottraeva, vivente, all'attenzione di quanti 
non avessero opportunità di avvicinarlo, e a loro stessi col 
suo contegno imponeva tacitamente un rispettoso riserbo. 
Ma la di lui scomparsa prematura ed inopinata dal novero 
dei viventi dispensò da ogni riguardo e sciolse ogni freno. 


^ Così scriveva Pietro Paolo Vergerio il seniore di Capodistria a Belegno di 
Genova in lettera datata da Padova, 5 febbraio 15^7. 


xxn Carb CombL 


— Al grido di dolore, che fu varamente generale in Istria 
e fra noi, è succeduta una gara nel commemorarne i meriti 
e le virtù, nello analizzare il pensiero, gli scritti, le azioni, 
le aspirazioni, la dottrina, i patimenti, gli affetti; gara no- 
bilissima, consolantissima gara, non solo perchè fa giustizia 
a un defunto degno davvero di tanto onore, ma anche per- 
chè dimostra che la società contemporanea non è poi tutta 
demoralizzata, non è totalmente corrotta, come alcuni eterni 
laudatori del tempo che fu, e non pochi poveri di ^spirito, 
e troppi avversari d'ogni progresso incessantemente vanno 
predicando. 

In una grande società, che, uscita appena da secolari op- 
pressioni, risorge a vita nuova, libera, indipendente e si 
ricostituisce in nazione, certe esorbitanze sono inevitabili, 
certi attriti sono quasi a dir necessari. 

Ora in mezzo a coteste esorbitanze, a cotesti attriti, o, 
dicasi pure, in mezzo al generale risveglio e ribollimento di 
aspirazioni, di passioni rimaste lungamente, forzatamente 
soffocate ed inerti, è impossibile che le virtù timide trion- 
fino sempre in confronto dei vizi audacissimi. Però, se la 
virtù vera trova cosi pronti e caldi e numerosi lodatori ed 
ammiratori, egli è certo che tale società non è guasta nel 
fondo, ma serba anzi in sé abbondanti germi di preziosi e 
generosi elementi, i quali, superato il periodo critico, che 
succede sempre alle grandi innovazioni, si svilupperanno in 
modo eh' essa piglierà sicuramente 1' aire sulle orme di un 
passato per molteplici riguardi altamente glorioso. 

Queste cose io le vengo qui rammentando colla ferma 
lusinga che voi, Onorevoli Signori, avrete il medesimo con- 
vincimento; ma ad ogni modo per mettervi subito dinanzi 
alcuni alti ideali, che servirono costantemente di guida al- 
l'amico defunto e negli studi patri e nell'ardua e spinosa 
palestra della politica militante. 


Cario Combi. xxiii 


\ 


Carlo Combi, per quanto messo talvolta di malumore 
dalle esorbitanze, dagli attriti, dai ribollimenti dianzi accen- 
nati, per quanto scosso e addolorato, (in un momento ve- 
ramente solenne dell'epoca nazionale), da successi, o insuc- 
cessi non rispondenti alla accarezzata e ragionata sua aspet- 
tativa; per quanto amareggiato altre volte da atti pubblici, 
che a molti parve peccassero d'imprevidenza e d'incon- 
gruenza ; da intemperanze di partiti o troppo soddisfatti del già 
operato, o troppo impazienti di riguadagnare occasioni per- 
dute, ritentando arditezze vecchie in tempi e condizioni nuòvi ; 
per quanto, dicevo, amareggiato talvolta da questi e da al- 
trittali fatti, Carlo Combi non avversò mai la politica del 
governo nazionale con inopportune opposizioni, recrimina- 
zioni, lamenti, né perdette un solo istante la fede nell'av- 
venire dello Stato e della nazione. 

E non la perdette, perchè • convinto e persuaso che la 
gloriosa dinastia ci Savoja sa opportunemente andare avanti 
e opportunemente aspettare; perché convinto e persuaso 
che al di sopra delle volontà e delle passioni individuali e 
transitorie, che cozzano, v' é il senno, la coscienza, la vo- 
lontà della nazione, la quale un di o l' altro non potrà non 
sentire il bisogno di vivere, in casa e fuori, rispettata e si- 
cura per raggiungere il fine supremo della sua prosperità. 
— Non perdette mai la fede, come dicevo, nell'avvenire anche 
perchè v'è la legge del progresso, che necessariamente e 
incessantemente si svolge, v'è la forza dell'equilibrio, che 
governa il mondo morale cosi, come il fisico; v'è in fine 
diceva colle parole di Dante : 

« La somma sapienza e '1 primo amore. » 

che non si fa giuoco degli umani, ma regge e mantiene, 
con legge necessariamente provvida la universalità delle cose. 
V'è la Cagione, la Ragione prima (ripeteva) ìmperscruta- 


XXXV Carlo Combi. 


bile, ma certa, che fin dai crepuscoli dell'umano pensiero 
tutti i popoli hanno intuito; la quale, se Jerofanti, Filosofi 
e Scuole, speculando, hanno, in buona od in maU fede, de- 
finito Q dinominato ciascuno a loro modo, fu ed é però nella 
coscienza di tutti, dell'ignorante come del dotto: la Cagion 
prima (continuo le sue espressioni) provvida, sapiente, be- 
nefica, che, a guardar bene, viene implicitamente ammessa 
da coloro stessi, che della negazione fecero e fanno un si- 
stema. 

Perdonate, Signori, se vi ho staccato cosi dalle cose sen- 
sibili e trasportato addiritura nel mondo delle idee, nei campi 
deir infinito. Non avrei potuto non farlo, perché fu appunto 
da cotesti alti ideali che Carlo Combi trasse la costante se • 
renità dello spirito in mezzo alle più svariate e dolorose 
vicende della travagUata sua .vita; fu da cotesti ideali che 
Carlo Combi trasse la virtù e la forza per tenersi ritto 
dal 1848 (epoca, nella quale incominciò veramente la $ua 
vita di pensiero e d'azione) fino al 1884, nel quale cotesta 
vita si spense piena ancora di pensiero e d'azione. Fu da 
cotesti ideali ch'egli nei giorni della reazione cruenta e del 
maggiore scoraggiamento (per molti anche della dispera- 
zione e del voltafaccia) trasse la calma previdente per 
preparare nel suo paese le giovani generazioni colla pa- 
rola, coir esempio, cogli scritti, coli' opera alla cognizione 
ed all'esercizio dei diritti nazionali, alla resistenza passiva, 
in disperazione d' altro, contro ogni violazione dei mede - 
simi; alla costante serietà dei propositi in ogni atto della 
vita pubbUca e della privata; alla religione del dovere e del 
sacrificio per il proprio paese; alla devozione illimitata, in- 
condizionata verso la grande patria, l'Italia, Fu da cotesti 
ideali eh' egh trasse più tardi la forza per sfidare con sicura 
fronte e colla gioia nel cuore i più gravi, i più immanenti 


Carlo Combi. xxv 


perìcoli, pur di servire la nazioac, che, auspice e animatore 
il gran Re, preparavasi a lotta immane per integrarsi ; fu in 
fìne da cotesti alti ideali ch'ei trasse quel fine discernimento, 
che gli fu guida sicura in mezzo agli anfratti dei dogmi 
politici e religiosi, coi quali vengono governate le moltitu- 
dini; fine discernimento, che lo rese quasi suo malgrado 
una individualità spiccata nel campo appunto dei combinati 
principi politico-religiosi e lo costituì insieme nella opinione 
e nel fatto antesignano di una sacra legione di patriotti e 
di esuli, i quali, fedeli alla parola d'ordine' del compianto 
loro capo, sempre alacri cioè, ma lontani da impazienze e da 
intemperanze, vigileranno, in pieno accordo, io lo spero, coi 
cittadini più seri fino a che le sorti della patria non sieno 
intieramente compiute ed assicurate. 

Dopo quanto scrissero di Carlo Combi egregi e rispetta- 
bilissimi uomini, non solo qui in Venezia ed in Istria, ma a 
Milano, a Torino, a Genova, in Roma ed altrove; dopo 
quanto fu stampato nella Rivista mensile di questo Ate- 
neo, dopo le affettuosissime commemorazioni fatte nel- 
l'oratorio del patrio Orfanotrofio e nella sala dell'Istituto 
Manin; dopo gli splendidi discorsi letti nelle aule maggiori 
della R. Scuola Superiore di commercio e del R. Istituto 
Veneto di scienze, lettere ed arti, io spero che quanto ho 
finora detto di Carlo Combi con sincero spirito di verità 
non sembrerà punto esagerato. — Ma se mai a taluno ba- 
lenasse il pensiero ch'io, illuso dall'affetto, abbia portato il 
modesto uomo troppo in alto sulla scala dei pensatori e 
fattori politici, citerò la testimonianza di fatti subcessivì, ai 
quali nessuno potrà negar fede e valore, perché, raccolti 
dalle effemeridi contemporanee, sono entrati già irrevoca^ 
bilmente n^l dominio della stona. 

La Deputazione Municipale di Capodistria, commossa al- 


XXVI Carlo CombL 


l'annunzio della perdita inaspettata e immatura dell' atDato 
concittadino, dispone e decreta funebri onoranze da tenersi 
nel duomo di quella città con rito ecclesiastico, e le rap- 
presentanze e i sodalizi delle tre provincie sorelle, Gorizia, 
Trieste ed Istria, commosse non meno, si accingono a 
prendervi parte. Anche Venezia (e l'Istria vincolata a lei 
da care, secolari, indestruttibili tradizioni gUene seppe assai 
grado) anche Venezia aveva inviato colà un suo ufficiale 
rappresentante. Tutto era ormai regolarmente disposto; 
quando un ordine calato dall'alto interdisse in modo asso- 
luto la mesta e pia cerimonia . . . L' Istria pianse e tacque ! 

Alquanto dopo la Rappresentanza cittadina, raccolta in le- 
gale sessione, delibera di collocare nella sala del Municipio 
fra i già esistenti ritratti di altri benemeriti cittadini premorti 
anche quello di Carlo Combi o il suo busto, e delibera in- 
sieme (cosa non nuova nei fasti recenti delle comuni istriane) 
di intitolare dal nome di lui la via, ove nacque, ove con 
poche intermittenze visse fino al memorabile anno i8é6, 
ove, giovane ancora, si rese benemerito della città, aiutando 
dell'opera sua il padre, che tenne lungamente, in tempi dif- 
ficili e con molto coraggio ed onore il governo di quel- 
l'importante comune, — ove, appena raggiunta l'età legale, 
eletto egli slesso pubblico rappresentante, ideò ed attuò pra- 
ticamente non poche innovazioni economiche e civili ri- 
spondenti a bisogni, pericoli, condizioni e rapporti locali. 
— Se non che, mentre la cittadina rappresentanza aspet- 
tava con pieno diritto la approvazione dei suoi deliberati, 
cala dall'alto un secondo decreto, che, senza alcuna moti- 
vazione espressa, addiritura la scioglie. — La città tacque 
ed aspetta! 

Né basta. Per parecchi giorni, anzi per settimane di se- 
guito furono colpiti di sequestro ed incriminati a Capodi- 
stria e a Trieste non pochi giornali e periodici, i quali, fa- 


Carlo Combi. xxvii 


cendo eco ed omaggio alla voce pubblica, ripeterono le 
lodi del Combi. . . 

Oh Signori ! Di fronte a questi semplicissimi, ma signifi- 
cantissimi fatti, io spero che non esigerete altre prove da 
me a giustificazione di quanto ho asserito dianzi e trove- 
rete anche giusto e prudente che io mi astenga, oggi, qui, 
dal recitarvi le molte particolarità della sua vita militante, 
la quale necessariamente s'intreccia colla vita di altri egregi 
patriotti morti e viventi, colla vita del suo e mio paese, 
dell'Istria, che, come emerge dai suoi giornali, lotta tutti 
i giorni con costanza e coraggio mirabili fino all'estremo 
limite della legge per mantenere puro ed illeso l'avito suo 
carattere nazionale italiano contro le audacie e le insidie 
di un partito esotico suscitato e alimentato dal di fuori, 
partito, che tenta, (indarno certo), di trarre la campagna nel- 
r orbita del panslavismo, tenta, cioè, di snaturare il paese, 
o, per lo meno, di farlo credere in faccia all'Areopago eu- 
ropeo diverso da quello, che sempre è stato, che é, che non 
potrebbe non essere, e che per alte ragioni di equilibrio in- 
ternazionale é utile, è necessario che sia. 

E giacché v'ho condotto col mio discorso nella patria 
del Combi, nell'Istria mia, compiacetevi, OnorevoH Signori 
e Signore, di rimanervene meco alquanto a sentire i lamenti 
di quei nostri fratelli per la inaspettata sua morte. 

» Abbiamo le lagrime agli occhi; abbiamo nell'animo 
vuoto angoscioso; i pensieri ci turbinano sconvolti nella 
mente. Come scrivere ora degnamente, meditatamente di Lui ? 

« Ma abbiamo bisogno di dare sfogo al dolore grande, 
che ci riempie il cuore, e sia acconsentito di farlo anche 
con disadorne parole. 

« Il giorno II Settembre 1884 sarà data nefasta per 
r Istria. 


XXVIII Carla Conthi, 


<f Da quasi quattro lustri Carlo Combi non era con noi ; 
gli era vietato di essere con noi : il suo spirito però ci aliava 
sempre d'intorno, e ne avevamo conforto ed incoraggia- 
mento nelle ore, in cui ci abbandonavamo sfiduciati per le 
miserie, che ci si affollano addosso. Noi sapevamo che il 
grande patriotta stava là, in ascolto di ogni voce gli arri- 
vasse da questa spiaggia da lui tanto amata, sapevamo che 
nei nostri bisogni noi avremmo avuto da lui un consiglio, 
una parola, che ci dirigesse, ci rinfrancasse. 

« Ora quelle labbra sono mute per sempre; é come si 
fosse spento il nostro genio tutelare. 

a Tanto enorme è la sventura, che ci ribelliamo a pre- 
stare fede alla ferale notizia: se nonché la desolazione, che 
ci fa groppo all'anima, ce ne afferma la tremenda realtà. 

« Noi, che lo abbiamo veduto nascere e crescere fra noi, 
noi, che abbiamo assistito giorno per giorno ammirando, 
esultando allo spettacolo di quella esistenza, che fu serie di 
sacrifizi non interrotti, e alla quale unico conforto e soddis- 
fazione era l'esercizio del bene, noi più che altri, sentiamo 
tutto lo spaventoso e duro senso dell'annunzio: Carlo Combi 
è morto. 

« Passando dinanzi a quella casa, dove per tanti anni 
egli visse, dove per tanti anni indimenticabili, nelle fami- 
gliari conversazioni, la sua parola fu verbo di rigenerazione 
per tanta gioventù nostra da lui educata all'amore dei più 
puri ideali, dove egli lavorò all'utile degli altri, al perfezio- 
namento di sé stesso, logorandosi il corpo e martoriando 
lo spirito in battaglie interne, che gli strappavano il grido: 
« triste sino a morte é l' anima mia » ; guardando a quelle 
finestre, dove per si lunghi anni il chiaro della sua lampada 
tradiva le prolungate affannose sue veglie, ci prende am- 
bascia indefinibile e dinanzi al luogo consacrato da cosi 
sante fatiche ed affanni chiniamo reverenti i ginocchi della 
mente, come passando dinanzi ad un tempio. 


Carh CombL xxix 


ff Noa sappiamo se fra gli altri nostri illustri trapassati 
altri abbia avuto mente piò vasta e più profonda della mente 
di Carlo Combì; ma si, ci pare di poter osservare che non 
vi fu nostro uomo illustre, il quale abbia accoppiato, al pari 
di Carlo Combi ad un grande ingegno un grande carattere, 
un grande cuore, che abbia posseduto tante virtù civiche 
insieme a tante virtù private e domestiche, che abbia dato 
ad ogni. sua azione, ad ogni suo pensiero, costantemente, 
fine si celestialmente puro. 

€ Sarà che altro istriano abbia fama più largamente 
estesa, Carlo Combi V avrebbe guadagnata non minore, qua- 
lora non avesse fatto sacrificio anche della gloria sull* altare 
della patria, dedicandosi per amore di questa a studi più 
modesti; ma al suo nome rispondono e risponderanno ad 
ogni modo meglio le fibre dei nostri cuori. 

« Carlo Combi fu un vero vaso d'elezione, fu un mira- 
colo di purità e di eroica abnegazione. 

« Amò i suoi genitori d'amore sviscerato, ebbe per i suoi 
amici affetti, che le distanze non intiepidivano, i bisogne- 
voli compassionò e prontamente secondo le sue forze, sol- 
levò. 

« La sua esistenza fu un'aspra lotia d'ogni giorno alla 
conquista della verità, sia nel campo delle scienze, che nel 
campo della morale, e questa lotta fu che, lo atterrò e lo 
rapi improvvisamente al suo paese. 

« La sua ànima cosi diuturnamente travagliata aveva bi- 
sogno di pace, e pace gode egli soltanto ora che, riposa a 
canto dei genitori adorati. 

a Oh, spirito eletto, oh, amico nostro verace I non ci sarà 
dato di più vedere il tuo nobile volto, l'occhio tuo mite, 
non ci sarà dato d'udire la tua parola amorosa, che era 
luce ai nostri passi; ma la tua santa memoria rimarrà fra 
noi e fra i nostri figli imperitura. La tua città, la tua prò- 


XXX Carh CombL 


vincia sono orgogliose dì te quanto di altro loro fìglio mai, 
e non sarà mai che dimentichino quanto hai per loro ope- 
rato e sacrificato. 

a II nome tuo sarà Stella, che ci animerà, ci guiderà nel 
buio dell'avvenire. Cada quel giorno, in cui tale stella non 
sia più veduta: sarebbe l'ultimo giorno della nostra esi- 
stenza civile. » * 

Un antico, universale proverbio confermato da mille fatti 
della storia e della vita contemporanea dice: Nemo propheta 
in patria. — Or dunque uno, che lascia appunto nel pro- 
prio paese cosi vivo desiderio di sé, o, a dirla con frase 
divenuta celebre, — cosi ricca eredità d' affetti — certo de- 
v'essere stato altamente benefico in patria e ricco d'ogni 
virtù. 

E Carlo Combi lo fu davvero! 

Incarnazione vivente della mitezza del padre, della ener- 
gia delle madre, degli istinti generosi di entrambi, fin dai 
più giovani anni s' inspirò alle nobili tradizioni dell' Istria 
sua, ne meditò i bisogni, si commosse ai suoi patimenti, 
né mai si perdette d'animo per soflerte disillusioni non in- 
frequenti, pur troppo, in paese, non corrotto, ma travagliato 
da seduzioni e torture, che voi per amara esperienza ben 
conoscete. — Se non che gli stessi fatti, che lo rattristavano, 
non lo accasciavano punto, che anzi . ne ringagliardivano 
l'animo generoso. — Fiutando l'avvenire prossimo, e spin- 
gendo r acuto sguardo nel più remoto, fortificava di più in 
più lo spirito in lotte aperte o coperte contro le peggiori 
influenze. — In fine deliberò, perché gli parve assoluta- 
mente necessario, l'intiero sacrificio di sé; abnegò, quasi a 


^ Cosi la Provincia^ giornale di Capodistrla, del t6 Senembre 1884, Naturalmente, 
qael numero venne sequestrato. 


Carh ComhL xxxi 


dire, la propria personalità e, sebbene fosse tenero e su- 
perbo della sua famiglia, fece sua la massima del suo Ver- 
gerio. — « Non in filiis, sed in virtuie est quaerenda poste- 
ritas. » 

Da quel momento non pensò ad altro che ad elevare lo 
spirito, a praticare la virtù, a perfezionare, come diceva, sé 
stesso, coordinando pensieri, affetti, studi ed azioni unica- 
mente al bene della sua città, della sua provincia, della pa- 
tria sua nel più largo significato della parola. E tanta ab- 
negazione, tanto annientamento di sé fu (bene voi, signori, 
l'avete compreso) non ottusità di senso o di sentimento, 
non deficienza o difetto, non pregiudizio cieco, ma propo- 
sito deliberato, ma energia, ma vittoria in seguito a lotte 
soprammodo ^spre, ma devozione e concetto lungamente 
meditato; fu vera vocazione, fu vero sacerdozio, fu sacrifi- 
cio insomma, che non da tutti può essere apprezzato, che 
da pochi forse potrebb' essere sostenuto, ch'egli stesso non 
osò mai consigliare ad alcuno, per quanto fosse richiesto 
del suo consiglio. 

Quest' ultima affermazione, che io, a parte, come sono, di 
molti secreti della sua vita, mi sento in diritto di pronun- 
ziare, é insieme un omaggio, che la coscienza m'impone di 
rendere alle stanche ceneri dell'amico defunto. 

Ho detto dianzi che Carlo Corabi s'inspirò alle nobili 
tradizioni dell'Istria sua. 

L'Istria, voi già lo sapete, diede alle lettere, alle arti, alle 
scienze non pochi grandi; a tacere di mohi ingegni minori, 
diede Pietro Paolo Vergerlo il seniore, filosofo, diplomatico, 
storico, oratore, all'umanismo, — Vettore Carpaccio alla 
pittura, — Mattia Flacio e Pietro Paolo Vergerio il giuniore 
alla riforma, — Giuseppe Tartini all' arte e alla scienza del- 
l' armonia, — Santorio Santorio alla scienza e alla pratica 

III 


XXXII Carlo Comhi. 


della medicina, — Gian Rinaldo Carli alle scienze storiche 
ed economiche. 

Cresciuto in un ambiente sàturo di queste memorie, fi- 
glio a Francesco Combi, che collo studio delle pandette e 
dei codici alternò quello della Bibbia e dei classici, che legò 
alla letteratura italiana la versione poetica dei Martiri e delle 
Georgiche, che portò, raro esempio, le virtù cristiane nel 
foro e assunse, con proprio rischio, più volte, per puro spi- 
rito di patriottismo e d' umanità, la causa dei deboli e degli 
oppressi, — Carlo Combi non poteva fallire a gloriosa meta. 

Predestinato dalle condizioni e dalle tradizioni della fa- 
miglia allo esercizio dell' avvocatura, le condizioni penose 
del suo paese, passate appena le care e fuggevoli fantasie 
della adolescenza, lo resero melanconico e serio; le fatuità 
di singole persone o di qualche ordine di persone gli spin- 
sero sulle labbra ancora giovani le severe brucianti ironie 
del Parini e del Giusti; il risveglio delle italiche sorti ac- 
compagnato da deplorevoli dimenticanze e da giudizi erro- 
nei suir Istria lo impegnò ad illustrarla e in breve lo fece 
divenir autore appassionato e lodato di scritti storici, etno- 
grafici, statistici, bibliografici, e mano mano di studi topo- 
grafici, politici e perfino militari e strategici. — Gli avve- 
nimenti del 1866 trabalzandolo fuori del suo paese, staccan- 
dolo dalla famiglia, minacciarono di spostarlo. Ma di spirilo 
pronto com'era, s'acconciò presto alla situazione nuova e 
nell'intelletto ricco di lumi e nel cuore ardente di patriot- 
tismo e di carità trovò presto nuove risorse. 

Eletta per sua dimora stabile questa illustre città tanto 
cara a noi Istriani, nel cui seno riposavano fin dal 1856 le 
ossa di un suo fratello giuniore, e jiella quale abitava già 
da più anni la beneamata sorella sua Anna Sossich, richiamò 
e ricompose intorno a sé la famiglia dei genitori (che dis- 
uniti non potevano vivere) e da uomo di tenace proposito. 


Carlo CombL xxxiii 


rìusd ad assicurar loro una esistenza comoda e lieta col 
suo non mai stanco lavoro. 

Dopo oltre due anni di sconfortante aspettativa e incer- 
tezza, conquistò (non lo dico a caso), conquistò con uno 
splendido esame sostenuto a Firenze la cattedra di diritto 
civile e commerciale in questa allora appunto inaugurata 
Scuola superiore di commercio. 

Se non che aveva incominciato appena a gustare la pace 
e la gioia della nuova sua posizione privata e pubblica, che 
la sventura batté crudamente, iteratamele alle parte della 
suz casa. 

Nel 1870 perdette in famiglia una sorella, — nel 1871 
il padre! 

Se fu grandemente addolorato per la prima perdita, per 
questa del padre fu inconsolabile. Né si die pace, fino a che 
non gli compose colle stesse opere sue un monumento ve- 
ramente perenne. 

Tratta dai molti lavori rimasti inediti del defunto una 
lungamente accarezzata versione .delle Georgiche in ottava 
rima, la pubblicò preceduta da un suo dotto e coscienziosa- 
mente affettuoso discorso sulla vita e gli scritti di lui. — 
Essa fu un vero successo ! 

Premiata dal Congresso pedagogico italiano raccolto al- 
lora (1872) in Venezia, lodata dai più autorevoli giornali 
di tutta Italia, strappò al Tommaseo, al Settembrini e ad 
altritali illustri parole più che di lode, di ammirazione e di 
applauso. 

Questa fu per 1' amorosissimo figlio, una grande soddisfa- 
zione, ma non ancora un sufficiente compenso al dolore, 
che lo straziava. La immagine santa del padre perduto non 
più uscitagli dalla memoria e dal cuore aggiunse nuova 
tinta di melanconica serietà al suo carattere già per natura 
e per casi patiti abitualmente serio e pensoso. 


xxxiv Carlo Combì. 


In capo a due anni gli mancò anche una zia, sorella del 
padre! — Restavagli, ultimo conforto, la madre, veneranda 
vecchia più che settuagennaria, ma che perciò appunto oc- 
cupava, anzi preoccupava ogni suo pensiero ed affetto e^ 
se gli rendeva cara, gli rendeva insieme agitata per eccesso 
di trepidante affetto la vita. — Venne il di che la natura^ 
generosa, ma inesorabile, reclamò i suoi diritti. Superata la 
età d'anni 8i e mezzo, al di 5 novembre del 1880, anche 
la madre, addolorata non per sé, ma pel figlio, chiuse gli 
occhi all'eterno sonno. Il figlio rimase impietrito; che gli 
parve essere ormai solo nel mondo. 

L'unica sorella Anna e la famiglia di lei, per quanto a 
lui care, non bastarono a riempire il vuoto del suo cuore 
sanguinante, spezzato, annientato. L' eccesso del dolore anz» 
lo cacciò, quasi a dire, fuori della casa e della famiglia: sentì 
il bisogno di affetti nuovi, il bisogno di espandere l' animo 
in campo più libero e vasto E fu allora che, senza smet- 
tere studi e ricerche già da lungo tempo avviati per bene 
concepiti lavori su Pietro Paolo Vergerlo il seniore, il suo 
epistolario, i suoi scritti politico-religiosi, i suoi tempi, fu 
allora che si interessò con insolito fervore delle più vitali 
questioni cittadine, s'interessò più particolarmente delle que- 
stioni, che riferivansi alla pubblica beneficenza. 

Poco a poco, s' accostò ai fanciulli orfani, poveri, dere- 
litti, viziati raccolti nei principali Istituti della città e, im- 
ponendosi la missione di protettore, di tutore, quasi di pa- 
dre, s'industriò in mille guise a che gl'infelici venissero di bene 
in meglio sorvegliati, provveduti, istruiti, a che ne fosse edu- 
cato il cuore, nobilitato lo spirito, instaurato il carattere^ 
assicurato l'avvenire col lavoro. 

Chiamato nella direzione amministrativa del benedetto Isti- 
tuto Coletti, presieduta dall'esimio conte Giuseppe Valma- 
rana, e della quale già formavano parte altri egregi, impiegò 


Carlo Cambi. XX XV 


ogni ingegno, ogni possa per superare dilficoità, per vin- 
cere ostacoli ognor ricrescenti, per iscongiurare perìcoli, che 
ne minacciavano perfin la esistenza. 

Eletto consigliere e assessore municipale, e come tale as- 
sunta la sopravegiianza delle civiche scuole, non é a dire 
quanto si adoperasse a migliorare e la materiale condizione 
dei locali, e più ancora il pubblico insegnamento in ogni 
riguardo, morale, disciplinare, didattico. — Sorpasso molte 
cose, che ridonderebbero a di lui lode; ma non posso ta- 
cere, come, colpito dolorosamente alla vista di fatti, ch'erano 
^^"ggiti ai suoi predecessori, d'altronde assai benemerìti, 
facesse subito caldissimo appello alla cariti cittadina perché 
venissero provveduti almeno di pane i fanciulli poveri, che 
nell'ora della ricreazione erano condannati ad assistere di- 
giuni alle colazioni spesso appetitose dei loro più fortu* 
nati compagni. La provvidenza del pane proposta dal Combi 
trovò pronto favore nel Comune e nei cittadini, attecchì^ 
prosperò ed é ormai costituita stabilmente in opera pia, 
cui s'ebbe il gentile pensiero d'intitolar dal suo nome. 

Dopo le scuole, si prese a cuore le raccolte Correr, Ci- 
cogna, Zoppetti, Zanardini, Dolfin ecc., il Museo Veneziano 
insomma, cotesta creazione d'un illuminato patriottismo 
arricchita di più in più dalla indeficiente generosità dei cit- 
tadini, cotesto tesoro della città, che racchiude tante e si 
preziose memorie del suo glorioso millenario passato e dei 
memorabilissimi avvenimenti di questo secolo. Si prese a 
cuore, dicevo, il Museo, e, anche ritiratosi dal posto di as- 
sessore, non cessò di adoperarvisi, fino a che non gli vide 
assicurati sede e assetto, più convenienti. Il compimento, la 
inaugurazione di quest'opera cittadina veramente preclara 
toccarono in sorte ad un suo benemerito e operosissimo 
successore e collega d' ufficio, tanto più giovane di lui, ma 
che, lagrimevole a dirsi I lo segui nell'eterno silenzio del 
sepolcro alla distanza di poche ore! 


XXXVI Carlo CombL 


Entrato a formar parte della Congregazione di carità in 
momenti di reclamate riforme, s'inspirò ai nuovi tempi, ai 
nuovi bisogni e .trasfuse subito il suo fervore nei bea di- 
sposti colleghi, potè far guerra a vecchi pregiudizi con esito 
buono. Riesci di fatto a coordinare alle mutate condizioni 
cittadine e sociali gli statuti di parecchie veramente sante, ma 
ormai troppo obsolete opere pie e, avuto il mandato di prov- 
vedere specialmente agi' Istituti maschili, attuò nell' Orfano- 
trofio detto dei Gesuati e nell'Istituto Manin riforme tali, 
da renderli altamente e praticamente proficui al paese. — 
A fare un confronto tra il passato anche prossimo e il pre- 
sente dei detti Istituti, si rimane ammirati. Sotto la vigi- 
lanza assidua, illuminata, benefica di Carlo Combi secon- 
dato (é dovere il ripeterlo) dagli egregi colleghi e dall' il- 
lustre presidente della Congregazione, essi sono addivenuti 
un vero modello per ordine, decenza, moralità, attività e 
lavoro. 

Insomma Carlo Combi in tutti gli stadi della operosa 
sua vita, in tutti gli uffici pubblici e privati da lui assunti 
ed esercitati pose tutta la sua coscienza, tutta l'anima sua 
e, dimentico di sé, d'ogni suo personale interesse, visse per 
gli altri, pel paese nativo, per la società, visse negli ultimi 
anni per questa Venezia, che si era eletto a seconda patria, 
che amò come l' Istria sua, e dalla quale (è consolante il 
dirlo a me istriano), dalla quale fu riamato in vita e ono- 
rato in morte come suo figlio. 

Però di Carlo Combi non é morto che il corpo. Il suo 
spirito vive tuttora fra noi, vivrà lungamente nelle opere 
sue e, giova sperarlo, anche nella gratitudine dei benefi- 
cati, nella tradizione del buon popolo nostro. 

Nel suo paese poi, nell'Istria, il ricordo di lui, (sento di 
potermene fare garante), rimarrà come di un ideale di virtù, 
di sapere, di patriottismo. Lo si dirà il grande esule, forse 


Carlo Cambi xxxvii 


il martire, il santo; lo si proporrà ai tardi nepoti come il 
tipo dell'uomo costante nel bene, energico nelle lotte, im- 
perterrito nei pericoli, come un tipo raro di forte, intemerato, 
intero carattere. 

' E dalle sue ossa, che fremono amore di patria, non tar- 
derà, io lo spero, ad uscire una voce di giustizia, di con- 
cordia, di pace tra le genti, che circondano e popolano la 
travagliata sua terra. 

Designata cosi, a larghi tratti (per non abusare troppo 
della vostra attenzione) questa rara figura d'uomo, di cit- 
tadino, dì patriotta, di dotto, resterebbe a dire di non po- 
chi particolari veramente caratteristici della sua vita privata ; 
ma la sua vita privata, o militante, come ho già detto, si 
intreccia con quella di altri patriotti tuttora viventi, le cui 
azioni non mi é lecito di portare in pubblico oggi. 

D'altronde quanto potevasi dire sotto molti aspetti di lui 
l'hanno già detto con intelletto d'amore, con efficacia di 
frase, con forme elettissime il prot. Paolo Tedeschi, l'avv. 
De Kiriaki, il prof. Carlo Oddi, il prof. Vincenzo De Ca- 
stro, il prof. Daniele Morchio, il prof. Enrico Castelnuovo, 
mons. Jacopo Bernardi ed altri. 

I cenni, le commemorazioni, le dissertazioni di questi 
egregi, di questi illustri sono già tutte stampate nella Pro- 
vincia dell* Istria, nella Rivista mensile di questo Ateneo, nel 
Vittorino da Feltre di Milano, nel Giornale della Società di 
letture e conversaiioni scientifiche di Genova, negli Atti del R, 
Istituto veneto di sciente lettere ed arti ed in separati fasci- 
coli. 

II prof. Tedeschi si diffuse più particolarmente intorno 
alla vita e agli studi, che fece in Capodistria prima del 1859; 
l'avv. cav. de Kiriaki con pochi magistrali cenni, ommesso 
ogni dettaglio, ne pose in rilievo il valore, il carattere, i 


XXXVIII Cai'lo Comhi. 


meriti complessivi; i professori Oddi e Castelnaovo ce lo 
rappresentarono al vivo nella scuola e nel comitato di col- 
locamento, fra' colleghi professori e in mezzo ai suoi, non 
so se dire discepoli, figli del cuore od amici; il chiarissimo 
Castelnuovò ci rappresentò al vivo, come sa egli, anche iZ 
pensatore, lo scrittore, l'uomo. Il professore Vincenzo De 
Castro, che l'ebbe giovanetto sotto il suo domestico tetto 
in Padova, a Genova e a Milano, e il prof. Daniele Mor- 
chio, amico suo costantissimo fin dai più giovani anni, toc- 
carono di alcune particolari vicende di Milano e di Genova 
e rilavarono il merito e l'importanza di alcune sue speciali' 
pubblicazioni geografiche ed orografiche; monsignor Ber- 
nardi, poi, nelle ripetute sue commemorazioni esuberanti di 
eloquentissimo affetto disse quanto più e meglio potevasi 
dire dell' intelletto di lui, del cuore, del costume, del senno, 
della dottrina, delle opere di carità. E da tutti insieme co- 
testi scritti emerge una viva pittura del giovinetto e del- 
l'uomo, del patriotta, del pensatore, del letterato, del pub- 
blicista, del giureconsulto, del benefattore ; emerge una con- 
solante pittura della sua vita di famiglia, di studio, d" azione. 
E si ha vivo dinanzi il cittadino, l'esule, l'educatore, il 
maestro, l'amico: si sente, dirò cosi, la sua voce, si ascol- 
tano i suoi ragionamenti legati a filo di logica e inspirati 
sempre a scopo di pubblico bene nei consigli del Comune, 
dell'Istituto Coletti, della Congregazione di carità; si vede 
la sua figura, di tanto modesta apparenza, nelle scuole pub- 
bliche e nelle private, nelle palestre della ginnastica, nelle 
officine d€Ì caritativi Istituti. 

Si aggiunga a tutto ciò quanto, nel primo sfogo del do- 
lore dissero sul feretro ancora caldo l'onorevole Sindaco 
della città, monsignor Jacopo Bernardi, il prof. Castelnuovò, 
chi presentemente vi parla e il dott. Galli del Tempo; quanto 
dissero sull'umile fossa il prof. Giroto e l'avv. Garabini, 


Carlo CombL xxxix 


podestà di Capodistria, venuto qui a dargli l'estremo vale 
ia nome della sconsolata, della desolata sua terra. Si ag- 
giunga quanto scrisse di lui il vice-segretario dell'Istituto 
cav. Trois, annunziandone la morte ai colleghi; quanto ac- 
cennarono di lui il prof. Carlo Cipolla nella Rivista storica 
di Torino; il compianto nostro professore Fulin nt][* Archi- 
vio Veneto; il prof Scaramuzza in un giornale di Vicenza. 
Si aggiunga infine quanto fu stampato a Roma nell' O^/nibii^, 
a Milano nella Perseveranza, altrove in altri autorevoli gior- 
nali del regno e di fuori. * 

Ora per non ripetere con forme meno elette cose, che 
vanno già per le stampe, e che ciascuno di voi o ha ve- 
lluto, o potrà facilmente vedere nel gabinetto dì lettura, o 
nella biblioteca di questo Ateneo, o procurarsi altrimenti, 
nii restringo a darvi in chiusa per sommi capi gli estremi, 
dirò cosi, statistici deUa sua vita. 

Nato nel di 27 luglio del 1827, studiò grammatica nel 
ginnasio di Capodistria (1858-1842), umanità in quello di 
Trieste (1842-44^, entrambi, non parrebbe vero, completa- 
mente, rigorosamente tedeschi. — Passò quindi a studiare 
flosofia (1844-46) e scienze politico-legali (1846-48) nella 
università di Padova. Chiusa l'università nel 48, prosegui 
il corso delle leggi sotto la direzione del padre autorizzato 
ad impartirne privatamente l'insegnamento, e nel 1849 passò 
a compierlo nella università di Genova, dove il di 3 agosto 
del 1850 fu insignito della laurea dottorale. — Per ubbi- 
dire al desiderio del padre, che, intento alle cose del co- 


^ Q.nando lessi la presente all'Ateneo non sapevo ancora che il chiarissimo prof. V. ' 

De Castro avesse pochi giorni prima letto altra commemorazione del Combi alt'Ac- i 

caderoia fisio-medico-statistica di Milano, né che ntW Anntiario biografico univertalt di* 1 

retto dal prof. A. Bmnialti. (Unione tip. eiit , Torino 1885, disp. $* e 6*) fosse stats I 
stampata nna biografia molto particolareggiata e affettuosa del Combi stesso. 


XL Carlo Combi. 


raqne, non poteva tenere in corrente gli affari dello studio! 
d'avvocato sempre in aumento, si restituì in famìglia, vnt3t 
non istette fermo a Capodistria cosi che non frequentasse 
anche studi e tribunali di Trieste per impossessarsi delle 
leggi e dei metodi forensi nelle questioni commerciali, cam- 
biarie e marittime. — Visto però che il diploma piemontese 
di Genova in Austria non gli era valido, risolse di ripetere 
gli esami di rigore in una università dello Stato. Prescelta 
a tal uopo quella di Pavia, fissò dimora nel gennaio del 
1853 in Milano e, superate le difficoltà, non dello studio, 
ma del tempo e del luogo veramente eccezionali, ai 19 del 
maggio successivo (1853) potè finalmente avere confermato 
0, come dicevano e dicono in Austria, twstrificato il diploma 
di Genova. — Ritornato ancora per affetto al paese e per 
necessità domestiche in Istria, superò nell'aprile del 1854 
con distinzione anche l'ultimo esame presso la Corte d'ap- 
pello di Trieste e fu quindi registrato nell'albo degli abi- 
litati all'avvocatura. Se non che, per ragioni facili a com- 
prendersi, non potè mai ottenere in Austria carattere e po- 
sto di avvocato carattere e posto, che ottenne poi facilmente 
qui in Venezia nel gennaio del 1868. — Superato, come di- 
cevo, 1* esame d' appello, entrò subito in qualità di concepi- 
sta nello studio di un distinto avvocato di Trieste, del 
dott. Giuseppe Milanich (Milani-ch) e vi rimase a tutto l'ot- 
tobre del 1856. — Allora la generosa e- civile Capodistria, 
che era riuscita a rimettere in piedi col proprio denaro 
il suo patrio ginnasio italiano, invitò l'amato e già chiaro 
cittadino a portarvi come insegnante il contributo della sua 
dottrina e del suo patriottismo. Messo al bivio tra la pro- 
spettiva di una libera e brillante carriera in Trieste e le 
spinosità di un ufficio nobile, ma dipendente e inceppato da 
regolamenti pedanteschi e peggio, non tardò ad optare per 
questo, perché convinto di prestare cosi opera moralmente. 


Carh Combi xli 


civilmente politicamente più utile al suo paese. — Entrò 
nel ginnasio italiano di Capodistria in sul cadere del 1856 
come professore supplente di letteratura e di storia. Funse 
contemporaneamente da bibliotecario e da segretario della 
Giunta di sorveglianza, ed esercitò molta influenza» non 
solo su tutta la scolaresca, ma sullo stesso corpo .insegnante» 
tanta influenza che in sul finire del 1859 ^^ dall'imperiale 
regio governo consigliato di abbandonare la cattedra per 
provvedere alla salute, che dicevano scossa dalla soverchia 
applicazione. 

Fra le non poche instituzioni da lui in quel torno pro- 
mosse nella sua Capodistria si fu quella delle scuole serali 
per gli adulti, nelle quali fra gli altri erasi egli offerto per 
l'insegnamento gratuito della storia e materie ausiliarie, ma 
la imperiale regia Luogotenenza, pure accordando in mas- 
sima la istituzione delle dette scuole, cancellò dalla lista de- 
gli insegnanti il dottor Carlo Combi per vari e fondati mo- 
tivi (cosi). 

Da questo momento non esercitò più in Capodistria che 
uffici esclusivamente municipali. Però, durante tutte queste 
vicende e più tardi, potè istruire privatamente, all'ombra 
del padre, nelle scienze politico-legali non pochi giovani di 
Trieste e dell' Istria. 

Passato di qua nel 66, due anni appresso ottenne e fino al- 
l'ultimo giorno della sua vita coperse e illustrò, come abbia- 
mo veduto, la cattedra di diritto civile e commerciale in questa 
Scuola superiore di commercio. E fu, non solo consigliere 
comunale fin dal 1878, e assessore col referato della pub- 
blica istruzione nell'anno 1878-79, e membro dell'ammini- 
strazione dell'Istituto Colletti fin dal 1876 e della Congre- 
gazione di carità dal 1881, — ma fu per decreti ministeriali 
anche membro della Giunta centrale per gli esami degli 
Istituti tecnici e ispettore delle scuole commerciali private 


XLir Carlo CombL 


della provincia. Inoltre fece parte dei Consigli scolastici co- 
munale e provinciale e di molte Commissioni municipali e 
governative, particolarmente nei rami scuole, biblioteche, 
archivi ed opere pie. Fu oltrecciò fino dal 1877 socio di 
questo patrio Ateneo, che nell'anno 1882 l'aveva nominato 
anzi suo vice-presidente, carica, dalla quale per eccesso di 
delicatezza si dispensò, onde non sottrarre tempo e lavoro ad 
altri studi e ad altri uffici, nei quali s'era impegnato. Fu con- 
temporaneamente membro del R. Istituto veneto di scienze, 
lettere ed arti, della R. Deputazione veneta di storia patria 
e di non pochi altri Corpi letterari e scientifici di Genova, 
di Padova, di Prato, di Vicenza, di Udine. Ebbe finalmente 
ancora nel 1871, la distinzione del cavalierato dei SS. Mau- 
rizio e Lazzaro con dichiarazione ministeriale, che la riferiva 
all'opera prestata nel pubblico insegnamento, distinzione 
più che meritata, ma della quale non fece mai uso, né 
vanto. 

Durante il suo soggiorno in Genova come studente col- 
laborò assiduo a quel Corriere mercantile^ onde non essere 
di peso alla famiglia e, seguendo l'impulso del cuore diede 
fin d' allora scritti patriottici al Giovanetto italiano^ a\Y Edu- 
catore, al Pio IX, 2LÌV Avvenire d'Italia. Fu nel 1866 e 1867 
corrispondente assiduo della GaTj^etta del popolo di Firenze; 
direttore del Corriere di Venezia nel 1868; fu per anni di 
seguito corrispondente della Perseveranza ; e fra il 1859 e 
1866 e più tardi ancora, mandò ad amici ed a comitati no- 
tizie politiche e scritti patriottici che furono inseriti in al- 
tri riputati giornali di Milano, di Torino, di Firenze, di Na- 
poli, e scrisse allora e poi d'interessi cittadini in giornali 
di Venezia, di Trieste e dell'Istria. — E i più di questi 
scritti uscirono senza il suo nome, molti invero per neces- 
sità dei tempi, ma altri per puro effetto di sua modestia. 

All'occasione del terzo Congresso geografico internazio- 


Carlo Comhi. xliii 


naie tenutosi in Venezia nel 1881 diede larghissimo con- 
tributo (oltre 700 schede) alla Cartografia veneziana; pre- 
parò per la stampa, ridotto sapientemente alla più giusta 
lezione, l'Epistolario di Pietro Paolo Vergerlo il seniore e 
raccolse preziosi e copiosi materiali per altre desideratissime 
opere, il cui concetto, pur troppo ! é chiuso irrevocabilmente 
con lui nella tomba. 

Concludo, usurpando in parte quanto argutamente con- 
densò in una pagina dcW Archeografo Triestino un assai eru- 
dito, coscienzioso e autorevole critico, il chiarissimo Attilio 
Hortis: ^^Carlo Comhi ebbe alta vigoria di cuore e d'intelletto, 
ingegno presto ed idoneo alle più svariate teoriche e pratiche e 
in tutta la sua vita non fece studio lavoro letterario scien- 
tificoy che non avesse intendimento civile, » 

Air annunzio della sua morte, fra i molti, che meco se ne 
condolsero, un caro e rispettabile amico suo e mio, lagri- 
mando mi scrisse: « È un'altra vittima del lavoro, é un 
ff altro martire della patria. L'abbondanza del cuore lo uc- 
« cise prematuramente. Se avesse palpitato e lavorato meno 
« per la famiglia e la patria, egli sarebbe ancora vivo. Se 
« avesse obbedito alla sua prima naturale vocazione, e si 
« fosse dedicato esclusivamente alle lettere ed alle scienze^ 
« sarebbe uno dei riostri immortali. » 

Risposi: « Chi ha, non solo mente, ma cuore, non può 
« non servire ai bisogni della patria e del tempo. Ecco la 
« vera vocazione, la vera missione dell'uomo intero. — 
a Carlo Combi la senti, l'accettò, l'adempì. — Noi lo ab- 
« biamo, é vero, prematuramente perduto, ma egli non è 
« morto e non morrà cosi facilmente ; anzi m' impegno che 
a cogli anni crescerà la sua fama e si potrà dire, forse più 
a giustamente di lui che non d' altri : dopo morto è più vivo 
« di prima. » — I fatti, s'io non traveggo, incominciano a 
darmi ragione. 


XLiv Carlo Comhi. 

— . .■ •< ■ 

Mi affretto a finire ; ma non so distaccarmi dalla memo- 
ria deir amico defunto, e da voi, Signori, che mi avete ono- 
rato della vostra attenzione benevola, senza farvi udire una 
breve poesia, ch'egli stampò nella sua Porta Orientale (strenna, 
il cui solo nome vale un programma), nella Porta Orientale 
<iel 1858. Sono poche strofe, nelle quali rappresenta sé stesso 
e la sua difficile posizione, e dichiara il suo proposito fermo, 
che poi mantenne di latto fino alla morte. 

La breve poesia ha per titolo: 


LA SCOLTA. 


Cupa è la notte, gelido il vento, 

Né raggio splendemi dal firmamento; 

Tutto d'intorno spirami orrore. 

Mi stringe il core. 
Animo, o scolta, giorno farà: 

Air erta, olà ! 

Lungi dall'altre scolte compagne, 
Solo su queste nude montagne, 
Voce non odo, che mi conforti, 

Parlo coi morti. 
Animo, o scolta, giorno farà: 

All'erta, olà! 

Larve raccoltesi in lunga schiera 
Rompon le masse deH' aria nera, 
Ed affissandomi sinistramente, 

Girano lente. 
Animo, o scolta, giorno farà: 

All'erta, olà! 


Carlo Combi. xlv 


Oh! quante volte nii par la bella 
Veder nell'etera luce novella, 
Ed un saluto pieno le invio 

Dal petto mio! 
Animo, o scolta, giorno farà: 

All'erta, olà! 

Allertai II posto, che qui mi è dato, 
Posto è da prode, posto onorato: 
Saprò soffrire, né cederò, 

Finché vivrò. 
Animo, o scolta, giorno farà: 

All'erta, olà! 

La scolta del 1858, della Porta Orientale^ è morta! morta 
il di II settembre del 1884, senza vedere la luce del nuovo 
giorno da lei con ansiosa fiducia aspettato; ma la luce del 
nuovo giorno verrà. Piangiamo la morta scolta, ma ser- 
biamo viva la fede nella necessaria concatenazione degli 
eventi, nel tardo spesso, ma immancabile trionfo della giu- 
stizia, nella dignità, nel senno, nel valore, nella fortuna 
della nazione! 


> 


PRODROMO 
DELLA STORIA DELL'ISTRIA' 

(Dalla Porta Orientale, 1857.) 


s, 


>enza perdersi in vane disquisizioni intorno ai popoli ori- 
ginari dell'Istria, basti notare che i più ammettono essere 
stati gli Etruschi o i Pelasgi. Altri vorrebbero invece che 
neir interno dell'Istria si fossero stabiliti anco i Celti. 

Meno incerto si é che una tribù grecanica passasse dalla 
penisola d' Istria, situata sulla foce dell' Istro, alla nostra pro- 
vincia fra il Timavo e l'Arsa, trasportandovi il nome del 
paese nativo, e le tradizioni della nave d'Argo, di Medea, 
di Giasone. 

A questi nuovi abitatori si attribuisce la fondazione delle 
città di Trieste, d' Egida (Capodistria), di Emonia (Cittanova), 
di Parenzo, di Fola e di Nesazio. Dietro l'occupazione dei 
Grecanici, i popoli primitivi si ritrassero, a quanto sembra, 
all'interno verso i monti, e i nuovi occupatori, stanziati di 
preferenza in sulle coste, si dedicararono alla navigazione. 

Quali fossero gli ordinamenti di questi popoli é mal noto. 
Sorpassando quindi que' tempi, e notando che nell'anno 


1 Si attende ancora una'Storia dell' Istria, né a darla noi, ci basta l'animo. Ma se mo- 
viamo il primo passo ajatato dalle opere del Carli e d'altri eruditi, tra cut special- 
mente il dott. Kandler, giova sperare che il compatimento non ci verrà meno. (Vedi 
tu fine del presente articolo.) 


Prodromo 


202 a. C. il dominio di Roma toccava già con la Venezia 
i confini dell' Istria, ci portiamo all' epoca, in cui i Romani 
vengono a contatto con gl'Istriani ed aspirano a renderli 
essi pure soggetti. Già nell'anno 184 a. C. ottenne il Console 
Marcello la permissione di romper guerra agli Istriani. Ma 
questa non segui subito, che si pensò prima a fondare la 
città di Aquileja come punto d'appoggio. Gli Istriani, presone 
sospetto, pongon opera ad impedire il nuovo stabilimento 
dei Romani e muovono all'estrema frontiera occidentale 
della provincia. Presso il Timavo segue battaglia sanguinosa 
col console Manlio avanzatovisi da Aquileja. I Romani da 
prima rotti, vincono poscia, e Livio dà lunga decrizione di 
questa pugna, come di grosso fatto d'arme. (179 a. C.). 

La guerra contro gì' Istriani continua e il .console Claudio 
la compie sotto le mura di Nesazio, ove gì' Istriani col loro 
re o condottiero Epulo si danno la morte nelle fiamme. 

Passata cosi l'Istria in dedizione dei Romani, fu presidiata 
da Socj latini, e in Roma (178 a. C.) se ne menò trionfo: 
indizio questo che l'Istria, qual parte d'Italia, veniva stimata 
di grande importanza. Vi fu anzi il poeta Hostio, il quale 
ne fé' argomento d'un poema, che andò perduto. 

Cresciuti per tal modo i Romani nel dominio dell'Adria- 
tico, formarono in Ravenna un naviglio a custodirlo. 

I Giapidi intanto, che stavano a tergo degli Istriani, su- 
scitarono tra questi una rivolta, e Sempronio Tuditano la 
represse colla sconfitta degli stessi Giapidi (128 a C ). 

Dal monte Re sino a Fiume si costruì allora un vallo mu- 
rato a rafforzare viemmeglio la barriera naturale delle Alpi, 
e Trieste e Pola fiorirono come colonie di diritto latino, 
sebbene la prima si trovasse posta a sacco dai Giapidi non 
ancora all' intutto domati. 

Mentre l' Istria andava ordinandosi alla romana e strin- 
gendosi ognor più alla patria italiana, al pari della Venezia 


della Storia dell* Istria, 3 


e più deir Insubria, T Italia civile si estendeva sino al For- 
mione o Risano, presso Capodistria. La nostra provincia per 
altro, unita alla Transpadana, era stata già da Giulio Cesare 
condecorata della romana cittadinanza (45 a. C.)* 

Nelle guerre civili di Roma parteggiò prima per Pompeo, 
poi per Antonio. Ond'é che Ottaviano fé' smantellar Fola, 
e rinnovarne la colonia, chiamata quindi Pietas Julia. 

Regnando Augusto, l'Istria si arricchì di colonie e alla 
marina e nell'interno. Cosi a lato dei nomi di Trieste e 
Fola figurarono quelli di Egida, di Emonia, di Pirano. 

Soggiogati poi Giapidi e Liburni, limitrofi degli Istriani 
a settentrione ed a oriente, la nostra provincia venne assieme 
con la Venezia ascritta (14 a. C.) alla decima regione d'Italia 
detta Venetice et Hiistrice^ od anche solo Venetice con l'unica 
distinzione geografica di Venezia superiore ed inferiore. 

Fin da quel tempo adunque suonò il nome del fiume Arsa 
qual confine orientale d'Italia, e l'Istria, popolatasi di vete- 
rani, crebbe sempre più in importanza pel dominio di Roma 
oltralpe. 

Sontuosi edifizi sorgono in questa e quella città, e Fola 
entra innanzi alle altre per ogni maniera di grandiosi abbel- 
limenti, tra cui specialmente il famoso Anfiteatro, opera, che 
gareggia con le migliori d'Italia. 

Da ciò e da molti altri dati, che in questi cenni si tralascia 
di memorare, può dedursi che fiorente fosse la condizione 
della nostra provincia, la quale era di tanta rilevanza anco 
per le ragioni della navigazione nell'Adriatico, che, institui- 
tasi sotto l'Imperatore Trajano la flotta d'Aquileja (105) 
con la stazione a Grado, se ne estese la giurisdizione ma- 
rittima dalle foci dell'Adige a quelle dell'Arsa, lasciata la 
custodia dell' Adriatico inferiore al naviglio di Ravenna. 

Ed havvi argomento a giudicar bene altresì, e dell' indu- 
stria, e del commercio. Riguardo a quella, basti accennare 


Prodromo 


alla Cissense tintoria di porpora, e riguardo a questo por 
mente alla floridezza di Aquileja, che avvolgeva, e la Ve- 
nezia, e l'Istria nel movimento de' suoi traffici, anco verso 
l'Oriente e l'Africa. 

Quanto al governo, giovi ricordare, che da Ottaviano 
Augusto fino a Costantino l'Italia tutta non ebbe mai al- 
cun particolare governatore, eccettuato il prefetto al Pre- 
torio di Roma. Ne conseguita che ogni città col civico or- 
dinamento repubblicano da sé medesima si reggesse. Sotto 
r impero d' Adriano e più tardi, si trova anche menzione di 
consolari, di giuridici e di correttori inviati ora nell'una ora Del- 
l' altra parte d'Italia a provvedere, quantunque senza ben 
precisi e stabili poteri, alle ragioni della pubblica economia, 
delle costruzioni e della giustizia, salva per questa l'appel- 
lazione al prefetto del Pretorio. 

Trasferita (328) la sede imperiale a Costantinopoli, e ri- 
partito l'impero romano in quattro prefetture suddivise in 
diocesi e quindi in provincie, l'Istria segui le sorti della 
prefettura ed anzi provincia d' Italia, continuando a rimanere 
unita alla Venezia e costituendo con quella una delle dicias- 
sette nuove regioni italiane. 

Anche nella divisione di Valentiniano l'Istria con la Ve- 
nezia rimaneva all'Italia, né mai ebbe parte nell' lUirio, che 
secondo i varj tempi più o meno si allargò al di là dei 
confini italiani. 

Ma già incominciano le invasioni de' Barbari, e qui é da 
riferirsi che i Quadi e i Marcomanni penetrati in Italia per 
le Alpi Giulie devastarono parte del Friuli e della Venezia 
(372) e che i Goti ricalcarono la stessa via sotto il loro 
re Alarico (400}. Pure dalla parte orientale d'Italia slancia- 
vasi/ quell'Attila, che menò tante stragi. 

Tutti questi Barbari non vi fermarono stanza: ma il bel 
paese soggiaceva alle più crudeli sventure. 


r 


della Storia dell'Istria. 


5 


L'Istria, secondo gli uni risparmiata, e secondo gli altri 
manomessa ella pure dalle orde di Attila, sembra per lo 
meno non aver molto sofferto. Ove infatti si consideri la 
descrizione, che ne dà Cassiodoro, scrittore e ministro di 
poco posteriore a que' tempi, chiamandola bella così da tor- 
nare ad ornamento d* Italia^ ^ non può certo dedursi altra 
conseguenza. E d'altronde par ben naturale che i Barbari, 
superata la catena delle Alpi Giulie e calatisi nella valle ser- 
rata dalle Alpi stesse e dalla Vena, che ne é una dirama- 
zione e forma il confine settentrionale dell'Istria, preferis- 
sero di spingersi più oltre da quel lato, ove più largo si 
schiudeva loro l'orizzonte e più aperto all'avanzarsi ve- 
deano il cammino. 

Nuova invasione dalle Alpi Giulie scendeva nell'anno 476. 
Odoacre con grande esercito di Turcilingi, Eruli, Rugì, Sciti 
ed altri Barbari occupò V Italia, e sembra che l' Istria corresse 
la coraun sorte. 

Quando infatti, nell'anno ^^89, Teodorico, re degli Ostro- 
goti, mosse al conquisto d'Italia, Odoacre fu in armi all'I- 
sonzo. Ivi restò sconfitto, e l'altro si fece padrone d'Italia: 
regno, in che entrava certo anco V Istria, e che governavasi 
allo stesso modo dell' Impero d' Oriente. Anzi il reggimento 
repubblicano d'ogni singola città prese tosto più spedito 
andamento. 

E qui cade in acconcio il notar cosa, che non solo si 
riferisce alla storia dell'Istria sotto il regno di Teodorico, 
ma che porge mezzo altresì a chiarire la provinciale costi- 
tuzione cosi dei tempi addietro, come pure di quelli succe- 
dutisi fino a Carlo Magno, e più oltre ancora fino al can- 
giamento della fraternità ed alleanza con la Venezia in pro- 
tettorato, e quindi in dominio di questa su quella. 


^ Vedi in fine. 


Prodromo 


La nostra provincia fu bensì parte, com'è detto, del regno 
italiano di Teodorico, ma ritenne non meno delle altre d'I- 
talia il proprio democratico reggimento, in un medesiaio 
che al pari dello stesso re serbava all' imperatore d'Oriente 
una sembianza di soggezione d'onore. Siccome poi il reg^- 
gimento Veneto-Istriano era più libero che ogni altro d'I- 
talia, cosi si spiega la maggior libertà goduta dalle Venezie 
ed Istrie, e sotto Teodorico, e sotto i mutati governi dei 
tempi posteriori. Esse non avevano a capo alcun regio ma- 
gistrato o governatore, e cessata era pure la giurisdizione dei 
consolari e dei correttori. Pagavano il tributo, ma ogni pub- 
blico affare veniva discusso e deciso indipendentemente in 
un generale convocamento : ed il popolo eleggeva Vescovi, 
Magistrati, Tribuni, Vicari, Locopositi, ed anche Ipa'ti o Con- 
soli, oltre al ricordato Maestro dei Militi residente in Fola. 

Ma già altre vicende dovevano incalzarsi, Belisario, gene- 
rale di Giustiniano, riconquista (539) anche l'Istria sui Goti, 
che distruggono quanto non valgono a difendere, e l'assog- 
getta agli Esarchi di Ravenna congiunta alla Venezia marit- 
tima e governata al pari di essa da un Maestro dei Militi 
con Tribuni per ogni città e con Vescovi rivestiti, come 
portavano que' tempi, anco di poteri civili. 

Richiamato Belisario, Narsete (552) rafferma il dominio del- 
l'impero d'Oriente in Istria, quando nelle vicine provincie 
dell' lUirio cominciavano a comparire le torme degli Slavi e 
nelle confederate Venezie s'erano avanzati i Franchi. Ma né 
questi, né quelli penetrarono nella nostra provìncia, poiché 
gli uni furono sconfìtti, gU altri rattenuti ancora dai monti. 

A Narsete, tolto al governo d'Italia, subentrò (565) Lon- 
gino col nome di Esarca. Fu a quel tempo" che Alboino 
condottiero de' Longobardi, chiamato o meno da Narsete, im- 
prese la conquista d'Italia, disceso dal monte Re, che s'erge 
sopra Trieste (568). 


ì 


della Storia delVhtria, 


V Istria, al pari di molte altre provincie d' Italia, fu bensì 
corsa da Alboino e molto danneggiata, specialmente nella 
parte superiore, ma non occupata. Anzi la sua popolazione, 
come avvenne pure nella Venezia marittima, si aumentò 
allora di nuove genti italiane qui riparatesi, e specialmente 
in Capodistria, città, che a quel tempo aveva cangiato il suo 
nome di Egida in quello di Giustinopoli datole dall'impe- 
ratore Giustino II. 

Fu nel 588 che il re Autarì, aspirando alla signoria di 
tutta la provincia delle Venezie ed Istrie, si avanzò pure 
contro di queste con esercito guidato da Evino duca di Trento. 
Ma la spedizione non ebbe compimento, avendo gFIstriani ot- 
tenuto una tregua, la quale portò per conseguenza che Evino 
si ritirasse, fortificando l' isola Amarina presso Monfalcone. 

Causato quel pericolo, altro ne insorse (604Ì da parte degli 
Slavi venuti sull'orme dei Longobardi, né contro questo ba- 
starono tanto gl'Istriani da impedire che l'Istria interna ve- 
nisse saccheggiata con eccidio della popolazione. Gli Slavi 
non vi si soffermarono a quel tempo, ma si diedero a mole- 
stare il vicino Friuli. 

Anco gli Avari corsero l'Istria senza dimorarvi (615), e 
mentre il resto d'Italia veniva sempre più signoreggiato dalle 
genti barbariche, l'Istria e la Venezia marittima si accre- 
scevano nuovamente e sempre più di genti italiane. 

Ed era appunto con la Venezia marittima che la nostra 
provincia si per l' abbandono, a cui l' impero d' Oriente la- 
sciava i nominali suoi possedimenti d' Italia, si per la costi- 
tuzione cittadina più sopra notata, costituiva pressoché uno 
stato indipendente coi reciproci nodi di fraternità e di al- 
leanza. 

Fin d'allora infatti l'Istria era soggetta allo stesso doge : di- 
gnità instituita in luogo di quella del Maestrato dei militi sulle 
proposte del patriarca Cristoforo da Fola (697). E convien 


8 Prodromo 


credere che i Veneto-Istriani fossero già saliti a rinomanza 
di potere, avendosi dalla storia, essere stato da papa Gre- 
gorio II, quando i pontefici tenevano il carattere di vicari iru- 
periali d'Italia, confermato loro (726) il dominio dell' Adria- 
tico in nome dell'imperatore d'Oriente: altro indizio che la 
signoria di Bisanzio era di sola apparenza, né toglieva che il 
grande pontefice si ponesse a capo di città libere contro 
l'ereticale tirannide dei teologi di Costantinopoli ed iniziasse 
quindi il sistema perfezionatosi poi nel Comune italiano. 

Ma se da tutto ciò può argomentarsi che l'Istria, quan- 
tunque infestata essa pure e depredata da scorrerie di bar- 
bari, fosse rimasta abbastanza forte, non poteva non tro- 
varsi alquanto decaduta dalle pristine sue condizioni, e per le 
passate vicende, e per terremoto certo fortissimo, se l'Isola 
di Cissa non lunge da Rovigno sprofondava (740) cosi che 
la vetta del suo colle rimaneva a quindici tese sott'acqua. 
Poco dopo di questo infortunio i Longobardi, già impa- 
dronitisi di Ravenna e di tutto l' Esarcato, si conducono anco 
in Istria guidati dal loro re Astolfo (752). Ma tutta non la 
occuparono, che Giustinopoli con altri luoghi specialmente 
marittimi continuano a restarsene collegati a Venezia. Il 
ponteficie Stefano V, scrivendo al patriarca di Aquileja e ri- 
confetmando l' unione della Venezia e dell' Istria in una sola 
provincia, fa sperare che Pipino sarebbe venuto a liberarle. 
Intanto i Longobardi posero nella parte occupata dell'I- 
stria un duca, e fu appunto duca d'Istria quel Desiderio, 
che segui Astolfo nel regno con lui caduto sotto la spada 
dei Franchi. 

Ed ecco, e Franchi, e Longobardi, e Greci, gli uni, quali 
nuovi invasori d'Italia, gli altri pel ducato dell'interno del- 
l'Istria e i terzi per la nominale loro signoria, scendere ad 
accordi circa la nostra provincia, riconosciuta allora, e di ap- 
partenenza bizantina, e soggetta al doge di Venezia, e da con- 


della Storia dell* Istria. 


segnarsi coli' Esarcato al pontefice. Basti rammentare quanto 
si é notato più sopra riguardo all'apparente dominio di Bi- 
sanzio, alla reale unione della Venezia e dell'Istria e al vi- 
cariato imperiale dei papi, per trovare una spiegazione di 
questi strani avvolgimenti proprj soltanto di quel tempo. 

Al cadere pertanto del regno de' Longobardi (774"^, l'I- 
stria si trovò in quella stessa condizione d' indipendenza, di 
che avea per lo addietro goduto. 

E qui prima di proseguire la storia profana con l'epoca 
di Carlo Magno, arrestiamoci a riguardare alcuni fatti no- 
tevoli della chiesa nella nostra Provincia, la quale, giusta 
le tradizioni, aveva cominciato a convertirsi al cristianesimo 
fino dall' anno 50 dell' èra volgare per opera di Santo Er- 
magora ed aveva veduto parecchi de' suoi martiri della 
fede fino al compiersi del III secolo. 

Allorché Costantino nel 313 die libertà al cristianesimo, 
esistevano già molte comunità cristiane nell' Istria, si erige- 
vano chiese e si trasformavano in templi cristiani i pagani. 

Il vescovo di Aquileja ebbe da prima per diocesi l'unita 
provincia della Venezia e dell'Istria: fatto questo, che con- 
viene rammentare come origine delle pretensioni della chiesa 
d' Aquileja, e quindi di non poche ecclesiastiche scissure. 
Quando poi s'instituirono anco nell'Istria i vescovati nel- 
l'anno 524, quello di Aquileja era già fino dal 369 arcive- 
scovato, ma non metropolitico, dell'istriana provincia. Sol- 
tanto verso la metà del VI secolo, la chiesa di Grado, a cui 
di solito rifuggivansi gli arcivescovi di Aquileja nelle inva- 
sioni dei Barbari, venne riconosciuta nel Concilio Laieranense 
metropolitica dell' Istria. 

Tali sono le precedenze da indicarsi a meglio discorrere 
della importanza del cosi detto Scisma istriano. Esso ebbe 
origine dalla nota- decisione del V Concilio Ecumenico (II 
Costantinopolitano) che condannava i tre famosi capitoli. 


IO Prodromo 


sorpassati nel IV Concilio tenutosi in Calcedonia. I vescovi 
deir Istria e molti altri segnatamente della Venezia e della 
Liguria non accettarono la condanna e spinsero tant' oltre 
la dissidenza, da separarsi dalla comunione del pontefice e 
degli altri vescovi assenzienti, dopo radunatisi presso Paolo 
metropolita d'Aquileja, ed eletto questo a loro patriarca in 
luogo di pontefice (loco pontificis). 

Nacque cosi lo scisma, il quale dalla maggior resistenza 
dei vescovi istriani, avvegnaché comune a molti veneti e a 
parecchi d'altre provincie d'Italia, prese nome di scisma i- 
striano. 

A stornarlo fu l'esarca con apposita flotta l'anno 586 a 
Grado, ove risiedeva Severo, patriarca di Aquileja, e fattolo 
prigione coi vescovi di Trieste, di Parenzo e di Cissa, Vi 
tradusse a Ravenna. Durava ancora la opposizione degli 
altri vescovi istriani, quando S. Gregorio Magno ne ricon- 
dusse alcuni alla cattolica unità (604). Cosi tra gli stessi vescovi 
dell'Istria vi fu scissura. I convertiti per opporre altro pa- 
triarca a quello di Aquileja conferirono un tal carattere a 
Candidiano e gli assegnarono a sede patriarcale quella di 
Grado, da cui era stato tolto il prigioniero Severo. Di sif- 
fatta guisa ebbero origine i due patriarcati di Aquileja e di 
Grado, distinzione, che durò anche dopo l'adesione al V Con- 
cilio Ecumenico degli altri vescovi dissidenti seguita nel 
698 con la fine dello scisma. Anzi i due patriarcati si tro- 
varono per secoli a conflitto di giurisdizione, durante il quale 
i vescovi dell'Istria propendettero quasi sempre per quello 
di Grado esteso sulla Venezia, e che veniva riconfermato 
più volte metropolitico dell'Istria dai pontefici e dai concilj. 
Avvertasi per ultimo non aver lo scisma istriano lasciate 
all' infuori di questi litigi altre conseguenze religiose; che 
anzi sorse calda l' opposizione della Venezia e dell' Istria al 
decreto dell'imperatore Leone Isaurico l'iconoclasta, ema- 
nato nel 726 contro le imagini de' Santi. 


1 


della Storia dell' Istria. ii 


Riavviandoci ora negli avvenimenti della Storia profana, di- 
remo come Carlo Magno, 'dichiaratosi re de' Longobardi (,789) 
movesse ad occupar T Istria, ed occupatala, vi ponesse un 
duca, unendola al regno longobardico ed assogettandola a 
quelle fogge di governo, quasi fosse terra educata a straniere 
istituzioni, illuso dalla effimera signoria esercitata dai re 
Astolfo e Desiderio. Imperocché si sa bene, che Carlo Ma- 
gno non distrusse da prima il regno longobardico, ma vi 
lasciò i duchi, e ne mutò solo il re, che fu egli. 

Giustinopoli però e alcune altre città marittime non can- 
giarono modo nel governo. 

L' Istria si trovò divisa nelle sue sorti. L' interna con parte 
della marittima aggregata al regno longobardico seguiva 
gì' imprendimenti del suo conquistatore, e l'altra parte ma- 
rittima serbavasi nella solita sua condizione con la Venezia. 
Ma l'una e l'altra aveano comune quella popolazione ita- 
liana, che le rendeva distinte tra le provincie della nuova 
Longobardìa. Questo fatto é di grande storico momento, 
poiché da esso soltanto può spiegarsi il ritornare, che fece 
l'Istria, non appena compresa nel regno longobardico di 
Carlo Magno, al primiero suo reggimento dietro il placito 
dell' 804 al fiume Risano, tenuto dai messi di Carlo Magno, 
allo scopo di udire i lagni degli Istriani, e contro il nuovo 
governo, e contro l' introduzione di qualche tribù slava se- 
guita allora la prima volta per volere del duca Giovanni, 
il quale avea posto opera a creare il feudalismo longobar- 
dico, e ad allargarlo secondo i costumi de'* Franchi. Il po- 
litico conquistatore sapeva bene che le recenti conquiste 
non si assodano col contrastare alle antiche consuetudini 
del paese, e però appunto, come fece in altre parti d'Italia, 
restituì all'Istria, che riconobbe d'indole veneta, e non lon- 
gobardica, la pristina sua costituzione, ritenendola solo ob- 
bligata ad un tributo, che consisteva nella decima, e trasfor- 


12 Prodromo 


mando la patria autorità elettiva del Maestrato dei militi in 
ducato o marchesato pure elettivo, con la stessa sede in 
Fola. 

La nostra provincia cosi ripristinata spettava pel tributo 
all'Italia longobardica, che dicevasi anche regno d'Italia, e 
per ogni altra ragione all' Italia civile nello stesso modo delle 
città marittime venete ed istriane rimaste immuni da ogni 
contribuzione a Carlo Magno. Cotesta distinzione d' Italia 
longobardica e civile é necessaria a far comprendere come 
il vero dominio di Carlo Magno si estendesse ai paesi real- 
mente abitati da Longobardi, ma che sulle provincie esclu- 
sivamente italiane il regno suo riducevasi ad una mera alta 
signoria. Ecco pertanto che nell'Italia civile di quell'epoca 
trovasi annoverata l'Istria, quantunque per la maggior parte 
soggetta a Carlo Magno, in uno alle isole della Venezia, 
all' Esarcato, alla Penlapoli, a Roma, al territorio romano 
fino a Terracina, all'Abruzzo, all'Umbria, alla Toscana, a 
Napoli e alla Calabria. Senza queste indicazioni, chiamate 
dalle eccezionali condizioni di quell'epoca singolare, mal si 
ravviserebbero i veri aspetti della storia nostra provinciale. 

Né ciò basta a comprendere le anomalie di quell' età. Ab- 
biamo già detto, come l'Istria fosse restituita al primiero 
suo ordinamento. Ma siccome a que' tempi tutta la dignità 
d'una provincia stava riposta nelle Municipalità e nei Co- 
muni, cosi vuoisi ben avvertire, non aver tale reintegramento 
degli ordini veneto-istriani compreso le campagne dell'Istria. 
Queste furono tosto volte al nuovo sistema dei pagi o comitati, 
per cui il duca o marchese governava a nome del re, quale 
vassallo, e si dividevano le terre tra i valvassori: sistema 
infrenato solo da placiti o parlamenti , gli uni maggiori 
sotto la direzione dei missi dominici, ch'erano i superiori 
ispettori dei vassalli, e gH altri minori, presieduti dal capo 
della provincia. 


r 


della Storia deW Istria, 13 


Non tutta pertanto Flstria era costituita allo stesso modo. 
Vi avevano alcune città, come Giustinopoli, rimaste libere 
anco dal tributo, altre città e comuni col solo carico di que- 
sto tributo, e campagne ripartite in distretti non solo tribu- 
tari, ma soggetti altresì al governo baronale, ossia dei militi, 
tra cui venivano divise le terre. E qui riguardo alle campagne 
stesse, nuove distinzioni. Se il distretto tributario veniva con- 
ceduto colle regalie, ossia coi poteri maggiori, dicevasi co- 
mitato la terra e conte chi la teneva. Se all'invece il territo- 
rio tributario era dato senza le regalie, ossia coi poteri minori, 
chi lo conseguiva prendeva nome di barone o di signore. 
L' avere infine la semplice percezione del tributo d'un paese 
conferiva il carattere di padrone fondale o censuario. In po- 
teri adunque qua maggiori e là minori e in riscossioni di 
tributi consisteva il governo baronale della campagna. Il 
duca o marchese estendeva poi la sua autorità su tutta la 
provincia, nominale quanto ai non tassati, e reale quanto 
agli altri, ma questa pure distinta quinci tra città e campagna, 
e quindi tra le campagne accordate ai baroni, e quelle a sé 
stesso riserbate. Se non che anche di quest' ultime si affi- 
dava altrui r amministrazione col nome di Comitato o Contea 
d'Istria, detta cosi appunto perché composta di terre non 
costituenti contee di speciale denominazione. Sotto la di- 
gnità adunque del marchese vediamo quella del conte d'I- 
stria. E diciamo di proposito dignità, perché da prima, e 
marchesato, e contea erano officio, a cui per elezione si per- 
veniva, e non l'appannaggio ereditario posteriormente for- 
matosi. 

Da questa condizione di cose convien partire per farci a 
dividere il tempo, che ci resta a scorrere, in alcune epoche, 
dopo le due già riandate del dominio romano e della con- 
tinuata fratellanza con la Venezia. Questa si cangia in pro- 
tettorato, ed ecco la terza epoca, che va suddistinta in tre 


14 Prodromo 


periodi, vale a dire quello del marchesato elettivo fino al 
1026, Taltro del marchesato ereditario fino al 1230, e il terzo 
infine del marchesato dei patriarchi d*Aquileja fino al 1420. 
Con Venezia, che subentra nel marchesato e cangia la pro- 
tezione dell' Istria in signoria, principia la quarta epoca, che 
diremo ultima, entrando la presente, dopo la caduta della 
Repubblica, nella storia contemporanea. 

Cominciando adunque dal i.° periodo dell'epoca del pro- 
tettorato di Venezia, è mestieri avvertire innanzi tutto, come 
in esso le città e i comuni tendessero vieppiù ad affrancarsi 
con propria indipendenza, sempre volgendosi a Venezia, che 
cresceva in potere e quindi in forza e desiderio di proteg- 


gere. 


Quindi nulla meraviglia il vedere i detti comuni liberi od 
affrancati esercitare il diritto di guerra, d'alleanza e perfino 
di sommessione ad altro potentato, e nello stipulare quanto 
loro meglio conveniva, usar per forma frase, che dicesse salvi 
i diritti del re, ma nello stesso tempo promettere di operare 
sciolti dagli ordini suoi (absque jussione imperatorìs). 

Valga questo a comprendere gli avvenimenti, distreccian- 
doli da quelle contradizioni, in cui altrimenti si rimarrebbero 
avviluppati. 

Nella pace formatasi l'anno 813 tra Michele, imperatore 
bisantino, e Carlo Magno, il franco conquistatore rinunciò 
alla Venezia marittima, e questa pace fu confermata con 
Niceforo. L' Istria, quantunque attribuita al regno longobar- 
dico ossia d' Italia nei modi, che già vedemmo più sopra, 
non era certo staccata da Venezia, se continuava a contri- 
buirle navi, vino, olio e canape, e se i comuni marittimi si 
obbligavano verso di essa a tener libero di pirati il mare 
di qua d'Ancona e di Zara. Né questo impediva che l'im- 
peratore Lodovico confermasse neir8i5 agli Istriani ogni loro 
costume di governo. 


r 


della Storia dell' Istria. 15 


Il comune italiano era già vivo fin d' allora nella nostra 
provincia, e se da un canto si piegava alle vicende del con- 
tinente, non dimenticava il passato, e da questo prendeva 
norma all' agire indipendente, tanto più che aveva dinanzi 
il mare non curato dal governo baronale, e ch'era invece 
il vero campo delle sorti istriane. E su questo mare la Ve- 
nezia, fino allora all'Istria alleata, porgevate mano protet- 
trice, poiché già cominciavano ad infestarlo gli Slavi avan- 
zatisi fino al Quarnaro. Difatti, mentre Lottano promette 
contro di questi assistenza, Venezia la dà e batte sotto il 
doge Orso, spintosi nelle acque di Umago, il bano della 
Dalmazia, Domenico, che aveva corso le coste dell'Istria. E 
questa univa le sue forze contro il comun pericolo, che cre- 
sceva per nuovi nemici, i Saraceni, gli Slavi della Dalmazia, 
gli Ungheresi: vinti gli uni sotto Ancona (872), gli altri 
alle spiagge dalmate (887), i terzi in faccia al porto di Al- 
biola (906). 

Mentre nella maggior parte d'Italia correva l'età più po- 
vera di fatti veramente itah'ani tra le contese dei Carolingi 
per la successione nei regni, in che s'era diviso e ridiviso 
l'impero, e mentre succedeva un'altra età, che a condannarla 
per peggiore persuade il nome di quel Berengario, che fé' 
vassalla di Germania la corona d' Italia, la Venezia e 1" Istria 
combattevano valorose contro nuovi attentati di genti stra- 
niere e bene meritavano della patria. 

Ed è invero mala cosa vedere come molti de' nostri scrit- 
tori di storie, negletta la verità, perché schiavi della fatica 
di far disamina circa le condizioni e gli avvenimenti parti- 
colari delle Provincie meno studiate, asseriscano conquiste 
della Venezia sull'Istria, tratti in inganno dalle ostilità del 
magistrato marchesale o da qualche passaggera dissensione 
con qualche singolo comune: sciagure purtroppo, non già 
per anni, ma per secoli, più frequenti e gravi nel resto d'I- 
talia. 


i6 Prodromo 


Ond*é che mentre vediamo il marchese d'Istria, Vinterio, 
officiale del re Ugo di Provenza (926) far uso di sua potestà 
per assoggettare a balzello V antico libero commercio de' Ve- 
neti in Istria, vediamo pure Giustinopoli, che già costituita a 
comune co' suoi consoli di popolare elezione offriva il pri- 
mo esempio in Italia, dopo Venezia, di civico magistrato, tra- 
durre in iscritto l'antica alleanza con la stessa Venezia ed 
esibirsi spontanea a darle contributo (932). E l'anno seguente 
osserviamo altro trattato fra lo stesso marchese d' Istria, i no- 
stri comuni e Venezia, con cui si affranca nuovamente il 
commercio e si riconfermano le somministrazioni al doge. 
Anzi pattuivano gì' Istriani che, ove il re comandasse di far 
guerra a' Veneti, ne darebbero loro contezza, affinché a sé 
provvedessero. 

Questi sono fatti, che rivelano il vero stato delle cose ben 
meglio che la inconcludente baruffa (946) di pochi Triestini 
rapitori di alcune spose veneziane; baruffa, che non sarebbe 
degna di menzione, se non avesse dato origine alla famosa 
festa veneziana detta delle Marie. 

Altri fatti della stessa natura sono ricordati dalle patrie 
memorie in questo secolo, trovandosi nel 976 rinnovati gli 
accordi tra Giustinopoli e il doge Pietro Orseolo I a mo- 
tivo d'incendio, che aveva incenerito il primo trattato, e leg- 
gendosi ancora che nel 992 le città marittime dell' Istria ri- 
confermarono i diritti di Venezia. E quando il doge Pietro 
Orseolo II mosse contro gli Slavi della Dalmazia, ebbe lieti 
accoglimenti nella città di Parenzo (997). 

Passando ora a percorrere il secondo periodo dell'epoca, di 
cui ci occupiamo, n'é d'uopo rammentare come l'imperatore 
Ottone I della casa di Sassonia, la quale é con lui la prima 
di Germania nel regno d' Italia, avesse introdotto nuovi or- 
dinamenti nel sistema baronale. Scemò i grandi ducati e 
franse i marchesati in maggior numero di comitati. Dotò le 


d^lla Storia delV Istria. 17 


città di agri tributari e di semplici castella fé' comitati ru- 
rali. 

Per tal modo Ottone, senza volerlo, affrettò 1* èra dei Co- 
muni italiani. 

Allorché adunque Corrado I il Salico della casa dei Fran- 
coni o Ghibellini primi (da cui l'inizio del presente periodo di 
storia), succedette alla casa di Sassonia nel regno d'Italia, 
trovò anco in Istria accresciute le città di nuove terres e 
più che mai ridivisa la campagna tra baroni intenti a eman- 
ciparsi o ad acquistare più estesi diritti sull'esempio delle 
città stesse. I vescovi pure prendevano loco importante nel 
governo baronale per nuovi possedimenti, e d'ogni parte era 
un agitarsi negli intendimenti accoppiati del predominio e 
della libertà. 

Tali erano le pubbliche condizioni, quando Corrado I prin- 
cipiò a concedere in feudo le grandi cariche ed emanò leggi, 
con cui costituiva ereditari i feudi e sotto-feudi, compiendo 
cosi il vero Feudalismo^ che cozzò a lungo col Comune^ ed 
ebbe gran parte in quelle guerre intestine, che trassero en- 
trambi a caduta. 

11 marchesato d'Istria si fé' quindi ereditario in un Ve- 
cellino. La contea d'Istria invece, per esser tuttavia officio 
marchesale dipendente, non divenne per allora essa pure e- 
reditaria. 

Ma a fianco dei marchesi e dei conti cresceva ognor più 
il dominio temporale dei vescovati e delle chiese, e troviamo 
di qua* tempi registrate molte donazioni a vescovi e a mo- 
nasteri, cosi sotto il regno di Corrado I fino al 1039, come 
altresì sotto quello di Arrigo III fino al 1056, e più ancora 
di Arrigo IV, che nel 1067 conferi molti possedimenti in 
Istria perfino agli stranieri vescovi di Frisinga, e che ac- 
crebbe r ingerenza nella nostra provincia de' patriarchi d' A*- 
quileja, già potenti nel Friuli, col conceder loro non poche 
delle percezioni fiscali istriane (1077). 2 


i8 Prodromo 


Era questa politica di quel re, che fu il pessimo dei ghi- 
bellini, e che si trovò di fronte quell'Ildebrando, che, risoluto 
a toglier di mezzo le simoniache elezioni feudali e purgare 
e francare la chiesa, [fu uomo di grande coscienza, sacer- 
dote d'ianimo invitto, gran papa (1073-1085). 

Regnando Arrigo V (i 106-1 125), la contea d'Istria di- 
venne in un Engelberto ereditaria in conseguenza di con- 
trarie pretese nella casa dei marchesi, le quali riuscirono ad 
aperta guerra, e dietro battaglia presso il Timavo, allo se- 
parazione (11 12) della detta contea dal marchesato, quan- 
tunque sempre con rapporto di vassallaggio. Ecco pertanto 
come i conti d'Istria figurino da quell' epoca in poi nei do- 
curiienti presso ai marchesi, ai vescovi ed ai provinciali. 

Ma i comuni ognor più forti per acquisti di nuovi agri 
tributari, continuavano» a trattare, e senza marchese, e senza 
conte. Ed appunto di questo tempo abbiamo nuove alleanze 
scritte coi Veneziani, confermati (1124) ne' loro rapporti col- 
r Istria dall'imperatore bizantino Giovanni Comneno: docu- 
menti, che dimostrano essere erronea l'opinione d'una guerra 
allora tra Fola e Venezia, e che attestano come le città del- 
l' Istria, le quali associavano già da molto le loro navi (stolo) 
alla veneta flotta per tenere sgombri i mari, promettessero 
nuovamente di «mantenere l'onore di S. Marco» (retinere 
honorem Beati Marci) e di ottemperare al doge, che chiama- 
vano rettore di tutta l'Istria (1150). 

E mentre a quel tempo nel resto d' Italia, sotto il regno 
di Corrado II primo degli Svevi e dei Ghibellini secondi 
succeduto a Lotario, le intestine discordie si agitavano più 
che mai accanite, l'Istria aveva con la Venezia migliori le 
sorti. 

Ma la guerra d'indipendenza contro l'imperatore Federi- 
co I Barbarossa doveva in tutta Italia ridestare nuovi sensi. 
Non é nostro officio ricordare i grandi fatti di quell'epoca. 


della Storia deW Istria. 19 

Ci limiteremo quindi a dire che sotto il nome di Venezia 
molte città anco dell'Istria ebbero parte (1167) nella Lega 
Lombarda, e dietro la battaglia di Legnano, in quella marit- 
tima di Salvore (1177) alle proprie coste, nella quale gl'im- 
periali, guidati da Ottone, figlio di Federico, vennero scon- 
fitti. E nella chiesa di Salvore fii posta lapide, che ricordasse 
ai posteri il memorabil fatto. 

Fu nello stesso anno 11 77 che l'imperatore e il pontefice 
Alessandro III si rappacificarono in Venezia. Per la guerra 
d'indipendenza venne conchiusa una semplice tregua, ma 
già fin d'allora Federico I, quantunque conoscesse l'unione 
degli Istriani co' Veneti e le contribuzioni, che quelli da- 
vano al doge, non solo nulla vi mutò, ma confermò la libertà 
del commercio de' Veneti in Istria e il dominio loro di tutto 
l'Adriatico. 

Stipulatasi poi la pace di Costanza nel 1183, il comune 
italiano restò bensi raffermato, ma ^'strana cosa) le franchi- 
gie furono sempre considerate come ottenuti privilegi dalle 
stesse città della Lega Lombarda, eccettuata la sola Venezia. 
Il perché continuarono anche nell' Istria le libertà cittadine 
e la congiunzione con la Venezia da un canto, e continuò 
dall' altro a nominarsi l' alta signoria dell' imperatore come 
nel resto d'Italia: condizioni, che tra noi si riscontrano u- 
gaali negli altri trattati anteriori fra l' impero e Venezia al 
tempo di Ottone I nel 967 e al tempo .di Ottone III nel 
983. 

Ma fatalmente al movimento di concordia succedettero 
nuove rivalità tra grandi e piccoli nei comuni e nuove o- 
stilità tra quelle parti guelfe e ghibelline, che dopo la morte 
di Arrigo VI, figlio di Federico I, e in conseguenza delle 
lotte tra il ghibellino Filippo I di Svevia e il guelfo Otto- 
ne IV di Sassonia, si trasportarono anche di nome in Italia, 
dov' erano già di fatto, tra imperiali ed antimperiali : parti, 


20 Prodromo 


di cui restano traccie anco nell' Istria, popolata da comuni 
guelfi e da baronie ghibelline. 

E tra le città marittime si aggiungevano le gelosie de' 
traffici. Ma almeno da queste prendeva maggior incremento 
l'attività de' commerci, e se pur troppo nascevan guerre, si 
riannodavano ad un tempo rapporti di amicizia. 

Di questi abbiamo qui pure esempi, e ricorderemo solo 
l'accordo fermatosi tra il comune di Spalato e quello di Pi- 
rano pel migliore andamento delle mercantili loro imprese, 
le quali prima del formarsi della potenza turca erano vivis- 
sime su tutta la costa dell'Istria e della Dalmazia. 

Ma abbiamo in un medesimo anco nella nostra provincia 
a rammentare i dolorosi effetti delle gare tra Venezia ed 
altre città marittime italiane. Fu nel 1195 che i Pisani s'im- 
padronirono di Fola e vennero ricacciati da Giovanni Mo- 
rosini e Ruggeri Remarino, capitani del doge Enrico Dan- 
dolo. Né questo fatto, come si vedrà in appresso, é l'unico, 
di cui l'Istria sia stata spettatrice. 

Convien poi ritenere che la nostra provincia allargasse 
sempre più le proprie libertà tra questi movimenti del com- 
mercio, a cui venivano aperte nuove terre dalle crociate, 
se troviamo memoria com'ella avesse rifiutato di ricono- 
scere, e lo svevo Filippo, e il guelfo Ottone (1198). 

Ed una nuova crociata seguiva a quel tempo dopo le tre 
anteriori, a cui non era rimasta estranea l' Istria, unitasi anzi 
pochi anni prima in quelle occasioni ai Veneti nella presa 
di Traù e Ràgusi e nell' assedio' di Negroponte. Era questa 
quella quarta crociata, che portò alla conquista latina di Co- 
stantinopoli, e quindi alla ristorazione del principato d'Italia 
nel Mediterraneo, altra volta lago di Roma. Alcune navi i- 
striane si accompagnarono a quelle di Venezia, e alle rimaste 
affidò questa l'onorevole incarico di custodire l'Adriatico. 
Trieste pure, eh' era fino dal 948 sotto il dominio e la pò- 


della Storia dell'Istria, 21 


desta de'proprì vescovi, si obbligò (1202) a cooperare contro 
i pirati e dar contribuzione a quel doge Enrico Dandolo, da 
cui principia il primato della potenza marittima di Venezia. 

Ma come nelle altre provincie d'Italia, qui pure succe* 
dono anni di lotte. 

I patriarchi di Aquileja, già potenti anco in Istria per le 
ricordate percezioni fiscali conseguite da Enrico IV nel IQ77, 
e per nuove regalie, sebben minori, avute in dono dalle fa- 
miglie dei marchesi, studiano le occasioni di ingerirsi ognor 
più nella nostra provincia e vogliono vietare ai Veneti il 
riscuotere alcuni tributi. Il patriarca Volchero, fatto ardito 
dal trovarsi il marchese Enrico III avverso allo svevo Filippo, 
spedisce (1207) truppe contro gl'Istriani fermi nel proposito 
di starsene con Venezia. Veduta tanta fermezza, le genti del 
patriarca si ritirano. Ed egli scomunica i renitenti. La pro- 
vincia é in tumulto, e si aggiunge guerra tra Capodistria 
e Pirano da una parte e Rovigno dall'altra. Ne approfitta 
il patriarca e preteiide al marchesato, da cui Enrico III ve- 
niva allora destituito per aver preso parte all'uccisione del- 
l'imperatore Filippo. Manda infatti in Istria qual luogotenente 
col titolo di governatore-marchese Armano Moruccio di Ar- 
cano, quantunque senza effetto per allora, non avendolo ac- 
cettato gl'Istriani sotto colore di volerne uno o istriano o 
friulano (1208}. 

Ma gl'intendimenti del patriarca venivano contrastati dai 
duchi di Baviera, da cui discendevano i marchesi d' Istria, e 
questi venivano pure riconosciuti ne' loro diritti dall' impe- 
ratore Ottone IV (1209). 

I pretendenti si guerreggiarono e, fatta pace, Lodovico di 
Baviera cedette il marchesato col dipendente vassallaggio 
della contea d'Istria allo stesso patriarca Volchero. 

Gli Istriani, che il conoscevano inclinato ad accrescere il 
potere merchesale, e che erano avvezzi ad avere negli an- 


22 Prodromo 


tenori marchesi, quasi sempre lontani, un'autorità di mero 
nome, nimicavano un potere vicino, mal sapendo, educati 
al mare, acconciarsi in terra a feudale governo-. Non lo vo- 
gliono e danno nell'armi contro Engelberto conte d'Istria, 
speditovi dal patriarca scomunicante la provincia per la se- 
conda volta. 

Nuovi dissidi porgono mezzo a Volchero di mettere in 
campo trattative e di farsi riconoscere in via d'accordo, non 
potendolo con le armi. Recatosi personalmente in Istria, e 
adoperatosi di entrare in grazia di Venezia con lo assogget- 
tarsi (1211) ad un tributo di onore, fé' concessioni agli 
Istriani e ottenne cosi momentanea pace. Ma non seppe cu- 
stodirla, che avendo voluto poi estendere i poteri marchesali, 
ebbe di nuovo neihiche, e l'Istria, e Venezia. Ed eccolo trat- 
tare ora con l' una ed ora con l' altra. Con l' Istria, distratta 
dalle guerre di Giustinopoli contro Trevigi e contro Tar-. 
gurio (12 16), venne cedendo a patti l'anno 12 17, e verso 
Venezia il patriarca Bertoldo assunse nuovi obblighi per la 
libertà del commercio veneto-istriano (12 18}, adattandosi 
perfino che una Vice-Dominaria venisse instituita in Aquileja 
a decidere le relative questioni (i222\ 

Né con ciò s' era ancora fatto tutto, che i più prossimi pa- 
renti dell'espulso Enrico III non ismettevano le loro pretese. 
Ma essendo il nuovo patriarca della stessa femiglia dei pre- 
tendenti, facile si fu l' accordo, ed egli venne pure da questo 
riconosciuto nella pace di S. Germano (1230}, in cui lo 
svevo imperatore Federigo II, succeduto ad Ottone IV, in- 
clinando a pacificarsi col sacerdozio , favoreggiò la chiesa di 
Aquileja. 

Qui principia col marchesato de' patriarchi il terzo pe- 
riodo della nostra terza epoca segnata dal protettorato di 
Venezia, che passava mano mano in signoria. 

Credeva il patriarca aquilejese di aver assestato ogni cosa, 


F 


della Storia ielV Istria. 23 


dopo tante guerre e dissensioni, prima di giungere a farsi 
riconoscere marchese d' Istria. Ma in essa doveva per molti 
anni ancora trovare opposizioni, che si continuarono per 
tutto questo dominio di Venezia sul marchesato intero. Ne 
era causa occasionale di diritto, preteso dai patriarchi e de- 
cretato da Federico, di nominar essi i podestà, i consoli e 
i rettori delle città, delle castella e dei villaggi dell' Istria. 

Fola e Capodistria nello stesso anno della pace di S. Ger- 
mano rirornarono a disconoscere l'autorità del patriarca. La 
seconda, impegnata in una guerra con Pirario," transige e, 
quantunque essa fosse il comune più indipendente dal mar- 
chesato, vien fatta sede del governatore della provincia. E 
Fola, benché posta al bando dell'impero, non se ne cura, 
resiste e appena nel 1233 é costretta a piegare. 

Di tutte le rimanenti opposizioni inopportuno é il tessere 
una narrazione, che uscirebbe dalle proporzioni di questo 
compendio. 

Quello peraltro, che dobbiamo notare, si é, che nelle città 
s'erano accresciuti di forza quei partiti, che funestavano tutta 
Italia. Anco in Fola i Sergi, antica famiglia di origine ro- 
mana e posseditrice di molti distretti tributari avuti dai pa- 
triarchi di Aquileja, s'erano dati a sostenere le loro parti, 
dicendosene vicari per imperar essi. I Folensi mal compor- 
tarono quel giogo, e formarono un partito popolare con alla 
testa la famiglia dei Gionatasi. Quando prevaleva questo, era 
Fola insofferente dell'autorità marcbesale, e in uno gelosa 
delle antiche libertà e dell' unione con Venezia. Ma quando 
i Sergi prodominavano, avveniva il contrario nella loro vo- 
lontà. 

Ed erano i Sergi al potere, quando Fola fu tratta a negare 
a Venezia il tributo navale nella guerra contro Federico II: 
imprudenza, che le apportò nuovi disastri, essendo stata presa 
e rovinata nel 1241 dai veneti Giovanni Tiepolo e Leo- 


24 Prodromo 


nardo Quirini. E lo stesso patriarca, compromesso dal suo 
partito di Fola, dovette scendere a nuove concessioni con 
Venezia. Tre anni dono moriva egli, e gli succedeva Gre- 
gorio di Montelongo, quando tutta l'Istria era di nuovo in 
movimento, renitente a riconoscerlo. Il nuovo patriarca venne 
a patti e aggiunse alle antiche nuove restrizioni del suo po- 
tere. Se non che, tranquillati gl'Istriani pel momento, usò 
scaltrezza ad impedire nuove sommosse contro la mal sof- 
ferta autorità marchesale. Sapendo che le città più influenti 
erano Pela e Capodistria, si adoperò a crearsi in queste 
un forte partito. In Fola aveva già sua la famiglia de' Sergi, 
e per garantirle il dominio della città le costruì rocca, che 
tutta la signoreggiasse. Ed é da questa appunto che quelli 
presero il nome di Signori di Castropola. 

In Capodistria poi fu largo nel donar beni della chiesa d'A- 
quileja a' suoi partigiani, tra cui specialmente i Verzi (1254^, 
nella mira di renderli più forti ed arditi. E mentre a tali spe- 
dienti aggiungeva ancora patti col doge Ranier Zeno (1256) 
per acquetarsi con Venezia, gli era forza ad un tempo difen- 
dersi dagli Ungheri (1250'. 

Tutto questo non impediva che gl'Istriani continuassero 
a tener gli occhi fissi su Venezia, seguitando a prestarle i 
soliti contributi e ad averne in ricambio la protezione, che 
anzi cominciarono di questo tempo le formali dedizioni a 
quella potente repubblica. Ciò era ben naturale, poiché l'I- 
stria, d' alleata divenuta protetta col crescere del veneto po- 
tere, si trovava ora costretta dalla vicinanza dell'autorità 
marchesale, che mal comportava, a mutare lo stesso pro- 
tettorato i)i signoria, sostituendo ai tributi vere dedizioni. 

E già cominciano a farsi nel modo più aperto, come quella 
del castello di Valle (1264) e l'altra della città di Rovigno 
(1266). Furono bensi nominalmente ricuperati que' luoghi 
dal Patriarca. Ma l'esempio era dato. E Parenzo lo segui 


della Storia dell' Istria. 25 


tosto (1267), allorché si trovò stretta dalle pretese di pre- 
dominio, che voleva su di essa esercitare la città di Capodi- 
stria posta a capo della provincia e superba del privilegio di 
sciegliere dal corpo dei suoi cittadini i podestà per molti 
comuni istriani. 

Ma nemmeno in Capodistria era spento il partito popo- 
lare contrario al patriarcale, che solo da pochi anni vi si 
era formato. E quello prevalse ancora cosi, che fu mossa 
guerra al patriarca Gregorio (1267) alleato allora di quell'Al- 
berto li, il quale per la parentela, che passava tra i conti 
d'Istria e quelli di Gorizia, aveva per sé avuto nelle divi- 
sioni di famiglia, fattesi in quello stesso anno, ambedue le 
contee. 

La guerra terminò con la peggio del Montelongo, poiché 
il conte Alberto, bramoso di sferrarsi dal vassallaggio mar- 
chesale, si uni a Capodistria. dopo aver abbandonato il pa- 
triarca, che venne fatto prigioniero e tratto a ludibrio per 
le vie. Mori Tanno seguente. 

Alla sua morte segui nella sedia patriarcale una vacanza 
di cinque anni per non essere stata riconosciuta dal pon- 
tefice la nomina di Filippo. In quel frattempo instituivansi 
anco nelle città istriane, al paro che nel resto d' Italia, i ca- 
pitani del popolo, e com'era ben naturale, cotesta autorità 
veniva disputandosi in Capodistria e Fola tra i due partiti 
patriarcale e popolare, nello stesso tempo che nuovi comuni 
istriani approfittavano della vacanza nel patriarcato per darsi 
alla signoria de' Veneti. Cosi fece Umago nel 1269, Cittanova 
nal 1270 e S. Lorenzo nel 127 1. E Pirano l'anno medesimo 
restringeva nel suo reggimento i poteri patriarcali e voleva 
veneto il podestà. 

Tuttociò irritava ognor più i partiti delle città di Fola e 
Capodistria, e in ambedue prevalse nuovamente il partito 
popolare. Mentre questo trascorreva nella prima ad atti a- 


26 Prodromo 


troci contro i Sergi, fino ad ucciderli tutti, meno un fanciullo, 
nella seconda si pronunciava la dedizione a Venezia, e se 
anco per allora non ebbe essa effetto, non mancò d'essere 
un fatto di grande importanza per la provincia, siccome av- 
venuto nella sua capitale, ch'era altresì la città più influente, 
e che di fresco (1268) aveva dato nuovo esempio di vigoria 
col prendersi in protezione e custodia il comune di Buje. 

Tale era la condizione dell' Istria, allorché Raimondo della 
Torre succedette (1273) nel marchesato e nella sedia patriar- 
cale di Aquileja. Uomo di spiriti marziali, educato nelle guerre 
di Lombardia, passò tosto alle aperte ostilità con grande im- 
previdenza, e contro i Veneti, e contro i comuni istriani loro 
soggetti ed alleati, nonché contro lo stesso Alberto, conte 
d' Istria, che, come dicemmo, aspirava a sciogliersi da depen- 
denza. Ma avendo i Veneti agito vigorosamente sotto la 
condotta di Giacomo Contarini, una pace fu tosta conchiusa, 
e con Alberto, e con Venezia (1274). Questa pure era una 
di quelle paci rispondenti piuttosto a tregue, poiché firmata 
appena, Alberto emancipò (1275) dal marchesato la contea 
d'Istria, e il patriarca incorse (1276) in nuove dissensioni con 
Venezia, vietando che da essa prendessero molti comuni 
istriani, come facevano, i loro consoli e podestà. Tutto voi- 
gevasi ormai alla signoria di quella gran repubblica, e ciò ap- 
punto si avversava dal partito patriarcale, che, sebben minore 
di gran lunga del tradizionale veneto-istriano, aveva per sé le 
armi del patriarca e il predominio in quegli anni nella città di 
Capodistria, fiacchi ausili non valevoli certo ad arrestare ciò, 
ch'era voluto dalla necessità de' tempi e dal voto delle po- 
polazioni, né potevano recare che un piccolo ritardo al com- 
piersi dei destini della provincia, e questo medesimo a prezzo 
di sciagure e di sangue. 

Si collegarono col patriarca Capodistria, Trieste, Enrico 
di Pisino (soggiorno per qualche tempo dei conti d'Istria) 


della Storia dell' Istria 27 


e il conte Alberto, che si diceva allora di Gorizia per aver 
ceduto al detto Enrico in altro patto di famiglia la contea 
d' Istria. 

Capodistrìa, dominata dal partito patriarcale, muove con- 
tro Parenzo, tuttoché dedicata a Venezia, e il conte di Pi- 
sino assedia Montona, che in quel mentre s' era pure ai Ve- 
neti assoggettata. E andò tant' oltre l'arditezza, che si entrò 
in Venezia, e se ne rapirono per sorpresa le guardie dei 
porti. I Veneti mandano navi e militi contro Capodistrìa, la 
quale, quantunque abbandonata dai conti di Gorizia e d'Istria 
separatisi dalla Lega, si difende con gagliardia (1279) e cede 
poi alle armi prevalenti di Jacopo Tiepolo dal lato di terra 
e a quelle di Marco Cornaro dal lato di mare. Dietro di ciò 
anche Capodistrìa ridonata al partito popolare, eh' era solo 
da pochi anni spodestato, fé' la sua dedizione a Venezia e 
fu annoverata tra le sette città principali della repubblica. 
La sede marchesale passò allora a Pietrapelosa, e poi ad Al- 
bona. 

La guerra perdura contro Trieste soccorsa (1280) dal pa- 
triarca: e i conti di Gorizia e d'Istria ritornano all'armi, men- 
tre tutte le città istriane manifestano apertamente di non vo- 
ler che Venezia. Anzi Isola e S Lorenzo al Lemme si danno 
a quella signoria, e nello stesso S. Lorenzo vien posto ve- 
neto magistrato con autorità provinciale e col nome di Pa- 
sinatico, che restò poi sempre epiteto del luogo. 

Si conchiude bensi un' altra pace, in cui Trieste promette 
fedeltà e tributo a Venezia (i 281). Ma in quella che Pirano si 
dedicava essa pure alla veneta repubblica, il patriarca Rai- 
mondo uni vasi nuovamente (1283) ai conti di Gorizia e 
d'Istria, alla stessa Trieste, nonché questa volta a Padova 
e a Treviso contro i Veneti e gl'Istriani. Si prende Capo- 
distrìa, e tosto i Veneti la riprendono. L' isola dinanzi al Ti- 
mavo viene da questi occupata (1284Ì: cosi, tornate inutili 


28 Prodromo 


le iniziative di accomodamento (1286), Montecavo, Muggia, 
Moccò presso Trieste, stretta ella stessa d'assedio Tanno se- 
guente da Marino Morosini. Vi accorre ilpatriarca Raimondo 
col conte Alberto, che abbandona la Lega, e poi vi ritorna 
assieme ad Enrico di Pisino. I Veneti e gl'Istriani sono co- 
stretti a ritirarsi. I Triestini prendono Caorle (1289) ^ si 
spingono fino a Malamocco. Né ad arrestare tutte queste 
ostilità vale l'intervento del pontefice Nicolò IV (1290), il 
quale mediante legato dà principio ad un accordo, che non 
ha effetto. Il patriarca infatti vuol trar profitto della guerra, 
in cui si trova Venezia impegnata contro Genova, e per- 
siste nelle ostilità, che riescono a fargli riportare nel 1290 
una vittoria contro i Veneti e gli Istriani. L'anno seguente 
tregua; e Muggia e Montecavo restituiti da Venezia, i'una 
al patriarca, e l'altra a Trieste. 

Questa, durante la tregua, e piecisamente nel 1295 si af- 
francò da quel dominio de' propri vescovi, che venne più 
sopra ricordato, e che si era mano mano ristretto special- 
mente nel 1236 e nel 1253. Cosi Trieste, governata a co- 
mune, si trovò, quasi diremo, anseatica. Rotta poi la tregua, 
venne ella nuovamente assediata dai Veneti e nuovamente 
soccorsa da Alberto. 

Moriva intanto il patriarca Raimondo, e Pietro Gerra succe- 
dutogli (i299\ governava solo due anni, e veniva sostituito 
4a Ottobono de' Rozzi vescovo di Padova. Questi, voglioso 
di quiete, si compromette di nuovo nel Pontefice (1304) e 
dopo lunghe proposte e modificazioni, la pace resta con- 
chiusa nel 13 io: pace, la quale, dopo un secolo di guerreg- 
giamento, fino dal principio del potere patriarcale, nulla 
fruttò allo stesso, che voleva pure estendersi All' incontro 
un tale intendimento porse opportunità alla potente ed ac- 
corta Venezia di aver un debole nemico da vincere, e quindi 
di allargar ella la propria signoria. 


f 


della Storia dell' Istria. 29 

Questa idea di domioare estesamente nella terraferma ve- 
niva ora proseguita, da che il governo della repubblica aveva 
nel 1296 preso forma di pura aristocrazia colla famosa ser- 
rata del consiglio. Né manco vi si prestavano i tempi. Se 
riguardiamo infatti il resto d'Italia, troviamo che, precipitata 
la casa di Svevia con Corrado III e con suo figlio Corra- 
dino, vi si erano introdotti quegli Angioini, che prepotenti 
in Napoli, non arrestarono la libertà vieppiù crescente delle 
altre provincie italiane, ed era succeduto nell' impero romano 
quel Rodolfo d' Absburgo, il quale per la ben calcolata sua 
politica di Germania trascurò l'Italia con esempio seguito 
più o meno per due secoli dai suoi discendenti fino a Mas- 
similiano e Carlo V. 

Se poi ci rifacciamo, con le nostre considerazioni all'Istria, 
ne avviene tosto di vedere come tutto collimasse a com- 
piere la trasformazione del protettorato di Venezia in do- 
minio, vale a dire a prepotenza di signori e ulteriori guerre 
tra comuni e patriarca e conte, tra questo e patriarca, e tra 
l'uno e l'altro e Venezia, la quale per di più era incitata a 
ben istabilire nella nostra provincia il proprio governo anco 
dalle guerre con Genova. 

Proseguiamo ora a toccare di questi nuovi avvolgimenti. 

In Fola era tornata la famiglia de' Sergi a dominare, e 
in Trieste la famiglia dei Ranfi tentava di togliere al co- 
mune il governo: congiura, che fu repressa con tale ferocia, 
da ricordare le maggiori enormezze di quel tempo. 

Morto il patriarca Ottobono, gli succede prima Gastone 
della Torre (13 15) e poi Pagano della Torre (13 19), guelfo 
di partito, quando s'era già da qualche tempo mutata nel 
patriarcato l'anterior politica ghibellina. Si trovò quindi su- 
bito da un canto in opposizione con Arrigo, duca di Ca- 
rintia e del Tirolo, ghibellino e tutore, ch'era, del conte d'I- 
stria, Giovanni Arrigo, figlio del già nominato Enrico, e 


30 Prodromo 


dall'altro ebbe a lottare con nuove agitazioni nei comuni 
istriani. Mentre Barbana, spettante alla contea d' Istria, viene 
distrutta dai partigiani del patriarca (1328), Fola gli si ribella 
e solo a breve quiete é ricondotta. Rovigno rinnova la de- 
dizione a Venezia (1330), e Fola, esiliando i Sergi, ries<?e 
a compierla. Cosi pure Dignano ed altre terre minori. 

Fer tal modo finita appena la guerra col conte di Carintia 
e del Tirolo, altra ne sosteneva il patriarca contro gli Istriani 
e i Veneti per le nuove dedizioni, e in questa coUegavasi 
con Martino ed Alberto della Scala, capitani generali di Ve- 
rona, Vicenza, Trevigi, Feltre e Belluno. ^Entrò egli bensì 
in Istria e prese il castello di Valle, ma tosto fu respinto 
da Giustinian Giustiniani, capitano della repubblica. Cessata 
anche quésta guerra, mercé il vescovo di Concordia, col ri- 
conoscimento del dominio veneto in Fola, Dignano e Valle, 
si riprendevano le ostilità contro la contea d'Istria, in cui 
era succeduto Alberto III, cugino del detto Giovanni Ar- 
rigo. E quindi da una parte il patriarca Bertrando di San 
Genesio, venuto dopo Fagano (1334), muove contro Fisino 
(1338), e dall'altra il conte occupa Duino (1341), in un 
medesimo che quest'ultimo va ad impegnarsi in altra guerra 
Con Venezia pel castello di S. Lorenzo. E come ciò non 
bastasse, l'Istria veniva da prima depredata da una scor- 
reria d' orde croate e poi desolata nuovamente da pestilenza. 
Fu allora che Alberto III, conte d'Istria, e Alberto IV, conte 
di Gorizia, per ajutare il patriarca, destarono in Capodistria 
con un drappello di propri una sommossa, sotto sembianza 
di ristabilire il governo comunale. Ma tenne fermo il suo 
castello, detto Castel-Leone, e, venutivi i Veneti condotti per 
mare da Fancrazio Giustiniani e per terra da Marin Faliero, 
la città fu ripresa. I collegati, che ora si uniscono ed ora si 
sciolgono a brevissimi intervalli, tornano nuovamente a di- 
vidersi, permanente com' era la causa delle scissioni cosi nella 


della Storia dell'Istria. 31 

potenza di Venezia come nel volere dei comuni istriani, i 
quali né di conti né di patriarchi-marchesi voleano saperne. 
Si vede quindi il patriarca in guerra con gli stessi conti di 
Gorizia unitisi a suo danno con molti nobili friulani. Ma 
recatosi nel Friuli, fu colto da una banda di soldati di Go- 
rizia, quando usciva co' suoi da Spilimbergo, e nella mischia 
restò ucciso. 

Egli pure, come i suoi predecessori, vide affrettarsi la dis- 
soluzione del poter marchesale di Aquileja, e alla sua morte 
Venezia era già signora, e del litorale d'Istria, e di molte 
castella nell'interno. 

Succedevagli Nicolò (1350), figlio di Giovanni re di Boe- 
mia e fratello a quel Carlo, che fu anch'egli re di Boemia in 
appresso, e quindi imperatore IV di tal nome. Tosto inse- 
diato, continuò la guerra contro il conte di Gorizia, alla 
quale aggiungeva esca il desiderio di rintuzzare la presa 
d'Albona fatta da esso conte di Gorizia e da quello d'Istria 
di concerto, a quanto sembra, col duca d'Austria (1352). 
Si cerca nuovamente di sommuovere Capodistria; ma il tu- 
multo é tosto sedato, e Venezia, visto il pericolo, che le 
veniva dalle flotte genovesi, fa pace coi conti di Gorizia e 
d'Istria, essendone mediatore Francesco di Carrara, signore 
di Padova. 

I Genovesi, che già da molto essi pure avversavano Ve- 
nezia, ed avevano occupato Fola anco nel 1328, conduce- 
vano ora nuova guerra contro i Veneti per ragione prin- 
cipalmente del commercio di Costantinopoli e di Soria, e 
sotto il comando di Paganino Dorìa aveano impreso ad oc- 
pare Fola, Parenzo, la stessa Capodistria ed altre città, dopo 
aver battuto i Veneti, guidati da Nicolò Pisani, all' isola di 
Sapienza. 

Tale avvenimento infiammò gli sdegni de' solili alleati 
contro l'Istria e la Venezia, e questa volta vi si aggiunsero 


32 Prodromo 


Francesco di Carrara signore di Padova, il duca d'Austria 
e Lodovico re di Ungheria, il quale, senza curare la tregua 
conchiusa in Dalmazia co' Veneti Tanno 1345, scendeva in 
Italia con grande esercito,' invadendo pur l'Istria. E tutti 
secondavano i Genovesi. Ma Venezia, non men forte, che 
prudente, die tosto mano a fermar pace coU'Unghero. Fu- 
rono a lui ceduti i paesi della costa orientale del Quarnaro 
fino a Durazzo ; e restarono a Venezia tanto le isole di quel 
golfo, quanto l' Istria, nella quale venne posta altra autorità, 
di Pasinatico in Grisignana per la parte superiore di qua 
del Quieto. Ma la nostra provincia, benché liberata pel mo- 
mento, doveva soffrire nuove e più gravi sciagure. Da prima 
veniva corsa nuovamente dal patriarca Lodovico della Torre, 
succeduto a Nicolò (1360), assieme ai Triestini: poi si ve- 
deva decimata la popolazione da fiera pestilenza. Né il guer- 
reggiar con Genova cessava, né i collegati posavan l' armi, 
che all'invece cresceva lo scompiglio per nuovi contendenti, 
i duchi d' Austria. Questi, a cui era passato il Carnio fino 
dal 1336, s'erano ognor più avanzati co' loro possedimenti 
alle frontiere istriane e patteggiavano gii con Alberto III, 
conte d'Istria, la successione nella contea pel caso avesse 
egli a morire senza figli. Ma quanto al marchesato, che com- 
prendeva la massima e la miglior parte della istriana pro- 
vincia, vedendo le difficoltà di acquistarlo di fronte a Ve- 
nezia, si tenevano contenti a poter possedere la rada di 
Trieste. Da ciò il voler questa città riconoscere l'alto do- 
minio del duca d'Austria (1367), come aveva fatto l'anno 
prima il signore di Duino. Essa era infatti la città più sepa- 
rata, per l'antico suo isolamento governativo, dal resto della 
provincia. Ed é perciò che la vedemmo più volte ostile a Ve- 
nezia, si che da questa si legge ad ogni qual tratto presa 
e ripresa, come nel 1233, nel 1338, nel 1351 e nello stesso 
1367, oltre che negli anni preaccennati. Ma sembra che quel 


della Storia dell' Istria» 33 

riconoscimento non abbia avuto per allora eflFetto, allo stesso 
modo che non lo ebbe il riconoscimento dell'alta signoria 
deir imperatore Carlo IV votato nel 1354, attesoché, ribel- 
latasi di nuovo Trieste a Venezia, e assediata da Taddeo 
Giustiniani e Paolo Loredan, la scorgiamo darsi priiha ai 
Visconti, poi al Carrarese, e, scacciati i Veneti dai Genove- 
si, novellamente a Carlo IV e alla perfine al protettorato del 
duca d'Austria (1369). Peraltro anche questo partito le tornava 
allora inutile, imperocché quel duca ebbe ne' patti con Ve- 
nezia pecuniario guiderdone. La repubblica spedi quindi in 
quella città Saracino Dandolo ed Andrea Zeno, il primo col 
titolo di podestà e il secondo con quello di capitano. Né 
questa soggezione fu a lungo, che nel 1371 volle Trieste 
darsi al patriarca Marquardo, succeduto a Lodovico, pren- 
dendo occasione dall' avanzarsi dei Genovesi impadronitisi 
diUmago. Ma stava ben presto per ritornare all'alta signoria 
del duca d'Austria, dacché questi, morto Alberto III, era su- 
bentrato nella contea d'Istria (1374) pel già ricordato patto di 
successione : contea (da non confondersi col marchesato) 
che restò poi a quella casa qual provincia distinta, non mai 
immedesimatasi colla Carniola. Caduta e ricaduta infatti essa 
città ai Veneti, si approfittò nuovamente di quella gran 
guerra di Venezia con Genova, detta di Chioggia, che quasi 
condusse la prima a totale rovina, per compiere, dopo es- 
sere stata consegnata invano al patriarca (1380) dall'ammi- 
raglio genovese Matteo Marufio, la definitiva sua dedizione 
ai duchi d'Austria nel 1382. 

Siamo corsi di proposito alcun poco innanzi con la storia 
speciale di Trieste, per dimostrare il carattere delle ostilità 
impegnatesi nel 1375 tra i duchi d'Austria e Venezia cir- 
condata cosi da gran numero di antichi e nuovi nemici. 

E l'Istria doveva dividere con essa le maggiori peripezie. 

I Genovesi battono i Veneti condotti da Vettor Pisani 


34 Prodromo 


nel canale de' Brioni presso Fola (1379), e, arse Fola e 
Farenzo, vanno a Chioggia. Mentre allora la repubblica, 
versava nel maggior pericolo, il patriarca d' Aquileja voleva 
vendere perfino i beni delia chiesa a sostenere la guerra in 
Istria, e, morto Federico conte di Forcia, vicedomino gene- 
rale della chiesa aquilejese, spediva Artico dì Udine nella 
nostra provincia ad occuparla, com'ei fece. 

Ma Venezia doveva sorgere più grande dai suoi pericoli. 
Tolto dal carcere Vettor Fisani (1380) e richiamato dal 
Levante Carlo Zen, riassediò in Chioggia gli stessi Geno- 
vesi e li costrinse ad arrendersi. 

Restavano ancora gli Ungheri, che Francesco Carrara di- 
rigeva sopra Treviso, e un'altra armata genovese nell'A- 
driatico sotto Gaspare Spinola. Questi si volse all' Istria, che 
di nuovo venne desolata da saccheggi e da incendi, per 
quanto vigorosa fosse stata la difesa degl'Istriani. 11 Castel- 
Leone di Capodistria specialmente, comandato da Rizzolino 
Azzone di Trevigi, oppose una resistenza degna di partico- 
lare memoria. 

Vi accorse allora lo stesso Vettor Fisani e, unitosi a 
Farenzo ed a Firano con le navi istriane, si presentò a Ca- 
podistria e, rotto il ponte, che la congiungeva con la terra 
ferma, vi die l'assalto, secondato dalla gente del castello. 
La città fu conquistata ai Genovesi, che vennero con grande 
risolutezza inseguiti, e che, costretti ad abbandonare tutte le 
coste, se ne partirono, portando seco in segno di trionfo i 
corpi Santi rapiti a Capodistria, a Cittanova e a Farenzo. 
Si gran guerra terminò con la mediazione di Amedeo Conte 
di Savoja, e la pace venne firmata in Torino l'anno 1381. 

Circa l'Istria, fu stabilito che rimanessero fermi i patti 
vecchi col patriarca. E nuova particolarità di que' tempi si 
é la convenuta restituzione dei corpi Santi. Cosi nella nostra 
provincia, dopo tanti disastri, di nulla s' erano avvantaggiati 


della Storia deW Istria. 35 


quei patriarchi, che li avevano in gran parte provocati. Suc- 
ceduto a Marquardo Filippo d'Alen^on nello stesso anno 
della pace, ì dissidi, sospesi per poco tempo in Istria, ribol- 
lirono nel Friuli. E fii in quelle guerre che Giovanni di Mo - 
ravia, successore (1387) di Filippo nel patriarcato, restava 
morto (1395)* Antonio Gaetani, detto il cardinale aquilejese, 
subentrato nella sedia patriarcale, governò egli pure brevi 
anni. E quando Antonio Pancera veniva eletto a succe- 
dergli nel 1402, i disordini del Friuli s'erano accresciuti. 
Rimosso nel 1408, venne posto in sua vece Antonio III 
Daponte. Cosi i litigi si raddoppiarono anco per motivi di 
religione tanto più gravi, che allora appunto si disputava la 
cattedra di S. Pietro da Gregorio XII e Benedetto XIII. 
Traendo partito da queste dissensioni, il conte d' Ortemburg 
cominciò a signoreggiare in Friuli. Ma una nuova invasione 
di Ungheri doveva da prima accrescere e in fine risolvere 
(14 12) la questione dell'esistenza del dominio temporale di 
Aquileja. Il re loro, Sigismondo, ch'era stato eletto imperatore 
di Germania, venuto, a suggestione del patriarca Lodovico 
Tech, contro i Veneti per le questioni di Dalmazia, si spinse 
pure contro l'Istria. Pippo Scolari, suo generale, prese Valle 
e Dignano, ma sotto Parenzo e Fola a colpi di cannone 
fu respinto. E tutto l'inverno fu speso a tentare infruttuo- 
samente le piagge d'Istria. Nel Friuli intanto e nel Feltrino 
stava acquartierato il grosso dell'esercito di Sigismondo, 
che continuava a molestare il Trevigiano. 

I Veneziani allora aprirono trattative di pace e conchiu- 
sero una tregua di cinque anni. Ma Sigismondo la violò 
e fece occupare parecchi luoghi dell'Istria da Federico d'Or- 
temburgo (141 3). 

Spirata la tregua (1418}, rinfieri la guerra su quel di Bel- 
luno, e tosto arse in tutto il paese, ch'era stato prima oc- 
cupato dagli Ungheri confederati al patriarca d' Aquileja, 


36 Prodromo 


al conte d' Ortemburgo e a Martino di Carrara. I Veneziani 
sotto il comando di Filippo d'Arcelli entrarono nel Friuli 
e batterono le truppe del patriarca capitanate dal conte di 
Gorizia. Crescendo le vittorie di Venezia, il patriarca sol- 
lecitava Sigismondo a spedirgli soccorso. Ed egli, sebbene 
impegnato in Boemia nella guerra contro gli Ussiti, mandò 
a difenderlo ottomila uomini. Ma non gli valsero, che il 
Friuli fu tutto assoggettato dai Veneti al pari del Feltrino, 
del Bellunese e del Cadorino. Tentò bensi la mediazione di 
papa Martino V, ma pel perduto Friuli dovè accontentarsi 
d'annuo emolumento. 

Gli Ungheri tenevano ancora in Istria alcune terre, e 
Filippo d'Arcelli vi si portò a scacciameli. Unitosi ai militi 
istriani, assalse i nemici e li disfece. Ma in uno di questi 
gagliardi attacchi fu ucciso ed ebbe sepoltura in Capodi- 
stria. 

Taddeo, marchese d'Este, che lo segui nel comando, compiè 
lo sgombro dell' Istria dalle truppe ungheresi e patriarcali, 
accogliendo Albona, ultima sede dell' autorità patriarcale, in 
volontaria dedizione, e conquistando tutto che del marche- 
sato istriano rimaneva al patriarca, vale a dire Pinguente, 
Portole, S. Giovanni del Corneto, Muggia, e Castel Ve- 
nere. 

Di tal maniera aveva fine il governo patriarcale, e il mar- 
chesato d' Istria passava sotto quel dominio della veneta re- 
pubblica, in che s' erano via via mutate 1' antica alleanza e 
la più recente protezione. In compenso delle perdute Pro- 
vincie della Cargna, del Friuli e dell'Istria, ebbe poi il pa- 
triarca, fino allora il più ricco prelato d' Italia dopo il pon- 
tefice, r annuo stipendio da Venezia di 5000 zecchini, cosi 
stabilito nel 1445, e la giurisdizione dei castelli friulani di 
S. Daniele e di S. Vito. 

Ad avvistare il governo de' patriarchi e a darne breve 


della Storia delV Istria, 37 


giudizio non é a tacersi il bene e il male, che recarono alla 
nostra provincia. Fu certo opera lodevole quella di conser- 
vare il parlamento composto del marchese, del conte, dei 
baroni e dei deputati delle città e dei comuni, e se questa 
provinciale adunanza, sia per la separazione della contea 
d' Istria, sia per le dedizioni a Venezia, andò ognor più sca- 
dendo, non sono eglino da accagionarsene. Vuoisi ancora 
che per formarsi una città, la quale avesse a prepotere sulla 
provincia tutta, non solo arricchissero Capodistria di terre 
e di giurisdizioni, ma vi favorissero pure gli studi e appunto 
per diffonderli stabilissero il privilegio a quella città di mandar 
rettori in altri luoghi. Né può passarsi sotto silenzio la pena 
minacciata dal patriarca Ottobono dei Razzi di 100 bisanzì 
per ogni sasso, che dall'arena o dal teatro di Fola si fosse 
levato. 

Ma se ciò vien detto per sola giustizia, esige pur questa 
che si condanni un governo, il quale, agendo contro il voto 
delle popolazioni, tendeva a spogliarle degli antichi loro pri- 
vilegi, il quale fu causa di tumulti nella provincia, il quale 
di fronte ad una potente repubbUca, senza saggezza ostando 
air inveterata unione dell' Istria con quella, rese questa teatro 
di guerre e di sciagure. L' Istria era stata sempre veneta, e 
dopo aver veduto con rammarico stabilirsi nelle sue cam- 
pagne un sistema baronale, il quale non ebbe altro merito 
che d'essere spesato dagli abitatori, comportava ancor meno 
i patriarchi, avversi alla loro libertà, desiderosi di porsi in 
mezzo tra gli . Istriani e i Veneti, e che per giunta aumen- 
tavano gli aggravi con imposizioni del quintuplo più forti 
di quelle sopportate al tempo de' Greci e dei Goti. Fatto 
è che al cessare del marchesato patriarcale, la provincia si 
trovava ridotta alla più misera condizione. Le pestilenze e 
le guerre hanno avuto certo non poca parte alla sua de- 
cadenza. Ma in ogni modo non ne sono incolpevoli quei 


38 Prodromo 


patriarchi, che, oltre gli errori già notati, commettevano 
quello di dare in appalto gli stessi poteri governativi e giu- 
diziari, essendovi esempi, e di arrendatori marchesi, e di ar- 
rendatori vicari (i giudici baronali) e di gastaldi (altri giu- 
sdicenti) e di procuratori e di questori nella pubblica am- 
ministrazione. 

Gli avvenimenti della quarta epoca del nostro racconto, 
ch'é del dominio di Venezia, non sono più fatti speciali 
dell'Istria, ma si fondono con quelli della repubblica. A noi . 
basterà quindi accennar solo quanto ha relazione speciale 
con la nostra provincia. Dobbiamo peraltro premettere alcun 
che, da cui formarci concetto del nuovo governo dell'Istria 
sotto la veneta signoria. Era mente di questa il restringere 
la libertà provinciale, ma nello stesso tempo estendere la 
comunale. Non più dunque parlamenti per quella, né al- 
cun' altra complessiva rappresentanza popolare. Ogni comune 
aveva il suo podestà eletto dal veneto senato, per gover- 
nare, giudicare, punire, vero rappresentante del potere. Il 
governo provinciale adunque di tal guisa diviso in provincia 
non si accentrava che in Venezia. Siccome poi le introdot- 
tesi tribù slave chiamate genti nove, il rispetto de' confini 
della provincia e V importanza dei boschi esigevano parti- 
colari terminazioni, cosi troviamo le altre autorità dei prov- 
veditori o capitani di Raspo, di Fola e di Montona, posto 
quest' ultimo a guardia del bosco di Montona, che chiama- 
vasi di S. Marco, e che pei legnami di costruzione tornava 
tanto utile all'arsenale di Venezia. Quello di Raspo rap- 
presentava, per cosi dire, l'antica autorità marchesale, ed 
era quindi una dignità tenuta in si grande considerazione, 
che vi aspiravano i principali senatori di Venezia. Né tanto 
basta a toccare del veneto reggimento provinciale in Istria, 
che in Capodistria si formò poscia (1584) un magistrato com- 
posto di due consiglieri e del rettore, che accoppiava in sé le 


f 


della Storia delV Istria. 39 

mansioni di podestà e capitano, e ne portava il duplice titolo : 
magistrato, che decidesse in appellazione su tutte le cause 
civili e criminali e su ogni altro oggetto di amministrazione 
e di governo della provincia, meno alcuni argomenti, anco 
giudiziari, riserbati a Venezia. La milizia infine distinta in 
corpi, detti alla veneziana cernidcy ossia cerne^ aveva, oltre ai 
già nominati capitani, i sei di Capodistria, di Pinguente, di 
Buje, di Montona, di Dignano e di Albona. 

Ciò riguardo al governo provinciale. Ciascun comune poi 
godeva di autonomia. Un consiglio cittadino dava le leggi, 
amministrava i beni del comune ed eleggeva non solo i propri 
officiali, ma alcuni pure dipendenti dal governo. Quattro 
erano le città con nobile consiglio, cioè Capodistria, Fola, 
Parenzo e Cittanova. La nobiltà non si acquistava che me- 
diante l'aggregazione ad uno di questi nobili consigli. I ba- 
roni, a cui Venezia concedeva agevolmente i titoli delle 
rispettive terre, erano bensì titolati, ma senza la detta ag- 
gregazione non avevano grado di nobiltà. Venezia in ge- 
nerale favori molto i comuni e poco le baronie. A quelli 
infatti ne assoggettò parecchie. E Capodistria n' ebbe fino 
40, dette anche ville. Le baronie, non soggette ai comuni, 
ritennero le attribuzioni di giustizia civile e criminale. Nella 
campagna pertanto il diritto feudale, le consuetudini e gli 
arbitri. Nei comuni il diritto romano, quale fondamento, lo 
Statuto di Venezia, come analogia, e per le ordinarie appli- 
cazioni, consuetudini e statuti propri. 

Ciò detto, giova osservare, che l'Istria, senza curar qui 
le piccole frazioni montane, attribuite parte alla Carniola e 
parte alla Gorizia, era distinta in tre parti ben diverse tra 
loro. Di gran lunga più colta, più importante e più estesa 
era la veneta, costituita dell'antico marchesato e ordinata 
nel modo, che vedemmo. Notabilmente minore e ristretta 
ai monti su quel di Bellai e di Pisino e in alcune altre 


40 Prodromo 


terre più brevi, era la contea passata all'Austria, che vi man- 
dava un capitano a reggerla secondo il sistema feudale e colla 
legge datale dal nominato conte Alberto III nel 1365. La. 
minima infine riducevasi a Trieste, governata a comune 
sotto l'alto dominio del principe austriaco, che vi era rap- 
presentato da un capitano. 

Ma siccome i reciproci confini non erano ancora ben pre- 
cisi, dovevano nascere discordie tra Venezia ed Austria, e 
già ne troviamo cenno fino dal 145 1. Se dunque vediamo 
i comuni dell'Istria cingersi di mura o rifarle, é questo un 
fatto non immeritevole di menzione, rivelando l'intendimento 
di Venezia intenta a raffermare il possesso dell'Istria e a 
guardarlo dai pericoli d'oltralpe. 

Le prime ostilità si aprirono per motivi di commercio 
da Capodistria contro Trieste. Stavano le truppe di Capodistria 
sotto gh ordini di Santo Gavardo, al dire degli storici veneziani, 
soggetto ardito di quella città, molto esperto negli accorgimenti 
di guerra, e degno erede del nome di quell' altro Gavardo 
Gavardo, che nel 1366, qual sopraccomito della galea di 
Capodistria nella veneta flotta spedita contro Candia ribelle, 
fu primo a scalarne le mura e a piantarvi lo stendardo di 
S. Marco. I nostri infatti andavano ognor più educandosi 
anco alla milizia terrestre, e nelle guerre di terraferma da- 
vano belle prove di sé. Cosi i presidi Capodistriani di Me- 
stre, Padova e Verona tra le occasioni più favorevoli alla 
prodezza; e cosi quel Tiso de Lugnani, che fu contestabile 
di Gatamelata e dichiarato benemerito della repubblica. 

Santo Gavardo * adunque attaccò Trieste e prese Moccò, 
S. Servolo e Castelnuovo. L'imperatore Federico III, che 
patrocinava i Triestini, dirizzò allora sue truppe sopra Ca- 
podistria. Il perché anche la repubblica die nell'armi e, sol- 


* Vedi in fine. 


r 


della Storia delV Istria, 41 


lecitata dai Giustinopolitanì, spedi soccorsi. Ma^ interpostosi 
il pontefice Pio II , eh' era prima Enea Silvio Piccolomini, 
vescovo di Trieste ai tempo dell'assedio, si segnò la pace 
e si riapri il commercio. Trieste dovette cedere ai Veneti 
Castelnuovo e S. Servolo (1463). 

Ma guerre ben più importanti doveano impegnarsi coi 
Turchi, che già infestavano la Dalmazia. Molti villici di quel 
paese ripararono alle isole, e sembra che allora siasi tras- 
portata in Istria dai Veneziani la prima colonia slava presso 
Salvore. I Turchi si avanzavano, ed occupata la Bossina 
(1470), minacciavano l'Istria. Scorrono infatti il Carso, giun- 
gono a Castelnuovo danno alle fiamme Prosecco, Duino, 
Monfalcone, e, varcato l'Isonzo, si spingono fino ad Udine. 
Ritiratisi, ritornano due anni dopo, e nuovi incendi trac- 
ciano il loro passaggio pei territori di Gorizia e di Monfal- 
cone (1472). I Veneziani per difendersi armano Mainizza, 
Gradisca e Fogliano; ma scontrati i Turchi all' Isonzo, An- 
tonio da Verona, generale di quelli, fu sconfitto con grande 
eccidio de' suoi. E l'anno 1477 nuova vittoria dei Turchi 
presso a Fogliano. 

Tutti quelli pertanto, che avevano possedimenti all'Adria- 
tico, si affrettarono, di fronte a tali pericoli, a riconoscerne 
ai Veneziani il dominio. Lo stesso imperatore Federico III 
lo confermò. 

E i Veneziani, non solo provvedevano per mare contro i 
nuovi nemici, ma proseguivano alacri nelle fortificazioni di 
terra, tra cui specialmente Gradisca. 

Fu poi nel 1478 che mentre i Turchi, giunti a Monfal- 
cone, tentarono invano di superare il passo dell' Isonzo, si 
stipulò con essi da Venezia una pace. Ciò non impedi per- 
altro che i Turchi saccheggiassero Rozzo nel 1482, e che 
ritornassero a molestare la frontiera dell' Istria nel 1493, nel 
1499, e nel 1501. 


42 Prodromo 


Né bastavano le guerre coi Turchi, che altra ne insorse 
tra Venezia e l'imperatore Massimiliano. Quella inspirava 
a tutti gelosia, e chi aveva l'alto dominio di Trieste vedeva 
a malincuore ristretto il commercio di questa città a breve 
tratto dell'Adriatico. D'altronde l'Austria, che aveva estesa 
la sua signoria su Fiume e Castua, aspirava ognor più a 
partecipare al commercio. A queste cause vecchie si ag- 
giunsero nuovi incentivi alle ostilità nelle vicende d'Italia. 
Era Massimiliano I avverso ai Francesi e già accordavasi 
col pontefice Giulio II per combatterli. Venezia all' invece 
tenevasi a quelli. E quando l'imperatore scese in Italia, mosse 
contro l'Istria (1506^ scoprendola fino a Fola. Ma i Veneti 
gli si opposero forti. Ricuperarono, non solo quanto posse- 
devano nell'Istria (1508), ma espugnarono altresì Trieste, 
Duino, Pisino ed accolsero in dedizione Piemonte, Visinada, 
Medolino e Madonna dei Campi. Momiano fu occupato dai 
Piranesi per la repubblica. Le vittorie dei Veneti procede- 
vano cosi che la contea d' Istria e Fiume da una parte e la 
contea di Gorizia dall'altra furono loro assoggettate. Aqui- 
leja, tolta agl'imperiali, venne restituita ai patriarchi. 

Se non che in quello stesso anno s' era formata la fa- 
mosa lega di Cambrai contro Venezia. Quindi nuovi cimenti 
per lei. Abbandonò Trieste e quasi tutte le altre conquiste. 
Perduta poi la battaglia di Agnadello contro i Francesi, e 
ridotta all'estremo, ricorse al partito saggio in uno e sem- 
plice di sciogliere dall'obbedienza i sudditi di terraferma, 
afiidando ad essi la propria difesa. 

Noi non seguiremo le vicende della guerra nel resto d' I- 
talia, ma, limitandoci all' Istria, diremo che gli Austriaci die- 
dero il guasto al castello di Raspo (15 io): avvenimento, che 
fé' trasferire a Pinguente la sede di quel capitano. GÌ' Istriani 
peraltro vanno alla riscossa sotto gli ordini di Damiano 
Tarsia, che conquista sugli Austriaci molti luoghi, tra cui 


f 


della Storia deW Istria, 43 


Barbana, Carsano, Sovignacco e Lindaro. GÌ' imperiali, con- 
dotti da Cristoforo Frangipane, ritornano ad assalire, e il 
castello di Moccò, tolto ai Veneti, viene spianato. 

L' antio seguente faccvasi tregua tra Massimiliano e Ve- 
nezia; e gl'Istriani, che s' erano difesi da sé, ne imitarono 
r esempio l'anno IS14. Nel 1516 fu segnata la pace di No- 
yon, e Venezia riebbe tutti gli stati suoi di terraferma. La 
fortezza dì Gradisca peraltro restò all'Austria, già signora 
dal 1501 della contea di Gorizia per patto di successione 
dietro la morte di Leonardo, ultimo di quei conti, 

I dissidi con l'Austria (15 18) non cessarono per questo 
quanto all' Istria. Fu bensì conchiusa la tregua di Andegavia 
ad interposizione del re di Francia, e fu bensi nel 1521 sta- 
bilita dalla convenzione di Worms la restituzione di alcune 
terre all'imperarore; ma in eflFetto non si venne ad un ac- 
cordo. E lo stesso dicasi della libertà di navigazione con- 
voiutasi nella pace del 1523 con molte restrizioni da parte 
della repubblica. 

Scoppiò poscia la guerra tra Carlo V da una parte e la 
Lega di Francesco I re di Francia, del pontefice Clemente VII, 
dello Sforza e dei Veneziani dall'altra: guerra, che durò dal 
1526 al 1529. 

Di quell'anno é la pace detta di Bologna fra l'Austria e 
Venezia. In questa tornarono alla repubblica Piemonte, Vi- 
sinada, S. Maria di . Campo, e Medolino. 

Nemmeno con ciò era tutto composto, che la impreci- 
sione dei confini e le pretese su qualche terra rese confuse 
dagli antichi ordinamenti feudali e del marchesato e della 
contea d' Istria, venivano sempre riaccampate. Per appianare 
ogni differenza Venezia ed Austria aprirono congresso di 
delegati in Trento, e poscia in Gradisca. 

Sì transige bensi, e certe questioni particolari son tolte: 
ma non tutte, ed aggiungevasi l' aflfare d'Aquileja, della quale 


44 Prodromo 


s'erano impadroniti gli Austriaci, I patriarchi la chiedevano 
inesauditi. Erano i tempi delle religiose discordie, che pro- 
vocarono il Concilio di Trento. 

Intanto le incessanti violenze dei Turchi sviavano l'atten- 
zione dalle controversie circa l' Istria, 

Col Turco fermarono i Veneti una pace per la Dalmazl^i 
nel 1540, e fu allora che parecchie colonie di Morlacchi 
vennero trasportate dal territorio di Zara nei contadi di Mon- 
tona, di Umago, di Cittanova e di Pareuzo. 

Dal canto suo l'Austria ordinava una frontiera di popoli 
slavi contro il Turco fino alle coste del Quarnero. E sia per 
meglio contrastare le piraterie dei Turchi, sia per entrare 
ad aver parte nel commercio dell' Adriatico, pose opera a 
mettere assieme una flottiglia a Trieste. In ogni modo questa 
fu adoperata a secondare 1' occupazione da parte degli Au- 
striaci del forte di Maruno, il quale da Pietro Strozzi, di- 
chiarato ribelle, era stato ceduto alla veneta repubblica (i542), 
A favorire poi il commercio triestino ordinavasi che tutte 
le merci dirette dalle provincie austriache verso l'Istria pas- 
sassero per Trieste (1550). 

In tutte queste misure vi era sempre alcun che di ostile 
a quella Venezia, che signoreggiava l'Adriatico, e con cui 
anco nel 1563 fu trattato invano della libertà del mare. Ve- 
nezia, scorsi già 70 anni dalla scoperta dell' America, vedeva 
perduto il suo primato nel Mediterraneo, divenuto lago tur- 
co-spagnuolo; né pensava certo, avvezza a contrastare il mare 
ai potenti, di cedere a chi forze marittime non aveva. Ella 
restò sola a lottare col Turco e prima e dopo la battaglia 
di Lepanto (1571). 

Ad accrescere poi le nimistà tra Venezia ed Austria si 
aggiunsero le depredazioni degli Uscocchi. Questi, riparatisi 
dal Turco alle coste del Quarnero, che formavano un'ap- 
pendice dell' Ungheria austriaca, furono accolti dall' Austria 


1 


della Storia delV Istria. 45 


come gente, buona in allora, da opporsi alle ottomane in- 
vasioni. Ma ben presto mossi della sterilità dei luoghi a la- 
Jroneccio, divennero pirati, e cosi rapaci da non perdonare 
né a Maomettani, ne a Cristiani. Il loro nido era Segna, e 
lì Quarnero sparso d' isole e battuto da fieri venti offriva 
loro ogni opportunità a pirateggiare. Venezia, che soffriva 
molto pel suo commercio in tal modo molestato, e che ve- 
deva, non solo desolate le popolazioni d' Istria e di Dalma- 
zia, ma che dagli stessi Turchi veniva pressata a porvi ri- 
paro, spedi navi sotto gli ordini di Ermolao Tiepolo a bloc- 
car Segna e incaricò Vincenzo Tron suo ambasciatore alla 
corte imperiale di sollecitare la punizione di chi violava il 
diritto delle genti. Ma nulla si ottenne allora, e le rapine 
continuavano più feroci. 

Forse per aumentare le forze della popolazione istriana 
contro si pericolosi vicini, pensò Venezia di trasportare e 
Greci e Slavi nella nostra provincia già decimata dalle pe- 
stilenze. Pola specialmente era ridotta a pochissimi abitanti. 
Leonardo Fioravanti, Sabba dei Franceschi e Vincenzo Dal- 
l' Acqua avevano ottenuto fino dal 1562 di tradurre in quella 
città 124 famiglie per ripopolarla. E di nuovo nel 1578 un 
nobile di Famagosta per nome Francesco Calergi ebbe li- 
cenza dal veneto Senato di trapiantare nella stessa Pola 100 
famiglie greche. E quivi pure passavano T anno seguente 
moltissime famiglie della contea d'Istria devastata più di 
ogni altra terra dalle scorrerie degli Uscocchi. 

Altre colonie di Greci venivano da Candia nel 1580, poi 
di Morlacchi al Promontore nel 1585, e quindi ancora di 
Albanesi nei territori di Parenzo, Pola e Rovigno T anno 
1595, nonché nuovamente di Morlacchi presso Fontane nel 
1596. 

Cosi provvedeva Venezia per le difese dal lato di terra, 
mentre i comuni e le castella munivansi di nuove fortifica- 


46 ^ Prodromo 


zioni. Le navi istriane, unite a quelle di Venezia, correvano 
il mare, sempre in gravissimi cimenti contro le insidie degli 
Uscocchi. 

Il governo austriaco intanto, sia per la lontananza dal 
teatro di tante enormità, sia per la natura selvaggia ed in- 
disciplinata degli Uscocchi, e sia ancora per la corruzione 
di alcuni de' suoi governatori, avversi a Venezia, non ef- 
fettuava con successo alcun provvedimento da infrenare que 
barbari. 

Nuovi malumori adunque tra Austriaci e Veneti, che ve- 
nivano pure inasprendosi pel commercio di Trieste. Vigeva 
patto tra questa e Venezia che il sale triestino non avesse 
ad introdursi nelF Istria E a ciò si contravveniva cosi, che 
Venezia aveva nel 1578 assalite e danneggiate le saline di 
Trieste. Tali discrepanze condussero perfino a nuovo assedio 
di questa città da parte dei Veneziani nel 1599 e nel 1608, e 
a nuove rappresaglie contro le saline nel 1609: anno, in cui 
Trieste dovè privarsi con nuova convenzione della libertà di 
trasportare il sale fuori del proprio territorio. A trarre pertanto 
Venezia ed Austria ad aperta guerra si aggiungevano le sempre 
vive gelosie commerciali alla gran questione degli Uscocchi, 
i quali dal 1599 erano divenuti più arditi ed avevano in quel- 
l'anno dato l'assalto, sebbene senza frutto, alla piazza di 
Albona, saccheggiata Fianona con inaudita crudeltà e spinte 
le loro orde fino a Ro vigno. 

Erano infatti Austriaci e Veneti già venuti all' armi nella 
contea d'Istria l'anno 1600, e da quel tempo in poi gl'I- 
striani doveano resistere agli attacchi e degli Arciducali e degli 
Uscocchi. 

La guerra dichiarata si apri infine nel 16 12. 

Avevano gli Uscocchi fatta irruzione nell'isola di Veglia 
e tradotti a Segna prigionieri il governatore Girolamo Mar- 
cello e il suo cancelliere, che barbaramente trattarono. Ago- 


della Storia deWIstria, 47 


stino Canale, provveditore generale in Dalmazia, ebbe ordine 
di prenderne vendetta, ed egli assediò il castello di Mosche- 
nizza, eh' era uno degli asili più sicuri dei pirati, né avendo 
potuto espugnarlo, piegò contro Lovrana, che diede al sacco. 
Gli Uscocchi allora entrarono nel territorio di Raspo, fa- 
cendo sperpero di molti villaggi. Dal canto loro i Veneti 
posero a ferro e a fuoco altrettanti villaggi della contea au- 
strìaca per rappresaglia- 
In presenza di avvenimenti cosi orribili, che minacciavano 
di far trapassare V Istria da civiltà a barbarie, V arciduca Fer- 
dinando, governatore dall' Ungheria, mosso pure dall' impe- 
ratore suo fratello, comandò punizioni contro gli Uscocchi. 
Ma indarno. 

E nuovo caso orribile venne a concitare gli animi l'anno 
161 3. Con sei barche entrarono gli Uscocchi di notte tempo 
in Mandre, porto dell' isola di Pago, dov' era ancorata la 
galea di Cristoforo Venier. La ciurma, che dormiva, fu tru- 
cidata, e con sevizie venne torturato ed ucciso l'istriano Lu- 
crezio Gravisi dei marchesi di Pietrapelosa insieme col fra- 
tello, col nipote e col cugino. Il capitano poi tradussero a 
Segna per serbarlo a fine» più atroce. Durante un convito, 
come a renderlo più allegro, svenarono l'infelice Venier, e 
cavatogli il cuore, sei mangiarono. 

La notizia di si esecrando misfatto inorridi Venezia, e i 
più commossi discorsi si tennero nel Senato. Dimandossi il 
castigo de' rei; ma questi non si rinvennero, e ognor più 
imbaldanziti, gli Uscocchi traboccavano nell' Istria, lasciando 
ovunque Serissimi segni di nequitosa barbarie. 

Venezia spinse allora sue truppe contro l' Austria. Avan- 
zarono esse contro Trieste, s' innoltrarono verso Gradisca, 
e chiusero il mare (1614). L'Istria, le rive dell'Isonzo, le 
spiagge della Dalmazia e le isole tutte le arrabbiate armi 
dei guereggianti sentirono e ne furono desolate e guaste. 


48 Prodromo 


Il veneto generale Lorenzo Venier assali la fortezza c3i 
Novi, eh' era del conte Frangipane, comandante austriaco <3i 
Segna. La piazza fu presa e la città ridotta in cenere. 

Stringevasi intanto ognor più l'assedio di Gradisca, e l'ar- 
ciduca Ferdinando, temendo di perdere quella fortezza, im- 
plorò il soccorso dell'imperatore Mattia. Ma questi che at- 
tribuiva al fratello la colpa della guerra, si limitò a commettere 
al gran-duca di Toscana e al duca di Mantova l'ufficio di 
patteggiare accomodamento (1615). Anche la Spagna s'in- 
tromise, e, inviato a Venezia il marchese di Lara, pregò il 
Senato a voler richiamare le truppe dall'assedio di Gradisca. 

Venezia, che non voleva inimicarsi la Spagna, potente al- 
lora nella Lombardia, acconsenti di levare l'assedio, purché 
si ponesse termine alla questione degli Uscocchi. Se non 
che veduto che di tale accondiscendenza voleva trarsi pro- 
fitto a scendere a minori concessioni, rigettata ogni istanza, 
prosegui la guerra. Sulle rive dell' Isonzo si affrontarono gli 
eserciti di Venezia ed Austria. Da prima quello ebbe la 
peggio, ma poscia si riebbe e vinse. Il conte di Trautmanns- 
dorf, che comandava gli Austriaci, fu costretto a ritirarsi : 
successo felice, ma amareggiato dalla morte del veneto ge- 
nerale Pompeo Giustiniani. 

Nello stesso tempo in Istria guereggiavasi con ogni fu- 
rore, e i prigionieri uscocchi venivano condannati alle forche 
senza misericordia. 

I mediatori andavano da un capo all' altro per riuscire a 
pace. Ciò non arrestava il blocco di Gradisca, continuato 
da Lorenzo de' Medici contro il conte di Marradas, succe- 
duto al Trautmannsdorf. Militavano per Venezia Istriani, Friu- 
lani, Dalmati ed Albanesi, e nell' esercito austriaco vi erano 
Ungheresi, Croati, Triestini e la stessa cavalleria di Wallen- 
stein. 

Era Gradisca agli estremi (1617), quando si portò la nuova 


diUa Storia delTIsiria^ 49 


della pace firmata in Parigi e ratificata in Madrid. Con essa 
si stabili d'internare tutti quelli degli Uscocchi, ch'erano 
dediti alla pirateria. E difatti furono trasportati a Carlopoli, 
e cessò quel terrore, che aveva si a lungo oppresso le po- 
polazioni dell'Adriatico. I possessi reciproci di Venezia ed 
Austria ritornarono allo stato, in che si trovarono prima 
della guerra. 

Se in questa vennero commesse grandi crudeltà dagli U- 
scocchi per istinto e dai Veneti per rappresaglia, moltis- 
simi furono gli esempi di maschio valore dati dagl'Istriani. 
Ricorderemo solo Francesco Gavardo da Capodistria, che 
pugnò contro gli Uscocchi con un drappello di prodi ar- 
mati e mantenuti a proprio dispendio, e che nelle arditis- 
sime sue imprese giunse a far prigione il famoso capo di 
que' barbari, Giure Misnich. Né si taccia di Giambattista 
Negri di Albona, che fu capitano perpetuo alla sovrainten- 
denza dei confini dell'Istria di fronte agli Arciducali e agli 
Uscocchi, e che fé' a quest'ultimi toccare una grave scon- 
fitta sotto le mura di Àlbona assalita invano da essi, come 
fu già ricordato, nel 1599. Erano questi valorosi degni coe- 
tanei di Giovanni de Giovanni da Capodistria, capitano in- 
trepido alla difesa di Famagosta contro i Turchi, poi go- 
vernatore della repubblica in Candia e molto encomiato 
nelle venete storie. 

La mutua diffidenza, che restò dopo la guerra tra Venezia 
ed Austria, fu cagione che nuove tribù straniere si tradu- 
cessero in Istria dall' una e dall' altra potenza. Tosto T Au- 
stria dispose colonie di Morlacchi lungo il veneto confine. 
E i Veneti trapiantarono nuovamente nei contadi della nostra 
provincia Albanesi nel 1623, Dalmati nel 1624, Dalmati e 
Trevisani nel 1628. E come aveano fatto prima, si diedero 
nuovamente a costruir fortificazioni. L'ingegnere francese 
Deville, che s'era adoperato in questo genere di lavori nei 


50 Prodromo 


possedimenti di Levante, ebbe da Venezia T incarico di eri- 
gere la fortezza di Fola sopra le mine della rocca de' Sergi, 
altra volta Campidoglio romano (1630}. Pur troppo nel- 
l'opera militare si dimenticò la civiltà, e fu veduto distrug- 
gersi il bel teatro, che vantava Fola, e costruirsi colle pietre 
e co' marmi d'insigne patrio monumento le mura di un 
forte. 

Che Venezia guardasse poi con pari gelosia anche i suoi 
diritti sul mare di fronte alle due case austriache di Ger- 
mania e Spagna, desumesi dal fatto, che avendo voluto una 
flotta spagnuola accompagnare a Trieste Maria di Spagna, 
destinata in isposa a Ferdinando III d' Ungheria, vi si op- 
pose e volle condurvela colle proprie navi (163 1\ minac- 
ciando che altrimenti avrebbe data battaglia. Cosi fu rico- 
sciuto di nuovo il veneto dominio sull'Adriatico. 

Desolata l'Istria negli anni 1630 e 163 1 da fierissima peste, 
che fu r ultima, e eh' era stata portata in Italia dalle truppe 
del CoUalto, si continuò a trapiantar colonie nell' Istria per 
ripopolarne il contado. Vennero Morlacchi nel 1635 ^ ^^^ 
1647, Serbi-Montenegrini nel 1657 (stabilitisi in Pedrolo o 
Peroi presso Fola), Trevisani nel 1668, e Veneti-Candiotti 
dopo la caduta di Candia, 1669. 

Di questo tempo, burrascoso per la guerra dei 30 anni, 
terminata colla pace di Vestfalia, l'Istria non fu teatro di 
ostilità, ma i suoi militi presero parte a quelle, ch'ebbe Ve- 
nezia nel resto d' Italia, e specialmente poi in Levante contro 
il Turco, che, sebben vinto in due grandi battaglie navali, 
arrivò a impadronirsi di Candia. E qui dee commendarsi 
Biagio Giuliani da Capodistria, che, comandante del forte 
di S. Teodoro nell'isola di Candia l'anno 1645, sostenne 
da prima l' impeto turco con massimo valore, e poi, quando 
i nemici avevano già invaso il castello, die fuoco alla pol- 
veriera, seppellendo con essi sé e i propri nelle rovine. 


! 


della Stona dell* Istria. 51 


La guerra col Turco viemmaggiormente divampò. Dal 1684 
pugnossi per 1 5 anni con invitta costanza. E g)i Istriani vi 
si distinsero come per lo addietro sotto il comando di quel 
Morosini, che fu per Venezia l'ultimo grand' uomo di guerra 
e di mare, e che, conquistate alla patria la Morea, Egina, Santa 
Maura e parecchie terre in Dalmazia, si meritò il nome di 
Peloponnesiaco. Tali conquiste vennero sancite alla pace di 
Carlovitz, che segnò il primo decadimento dell' ottamana 
potenza (1699). 

L'Istria ebbe in questi anni a combattere, non solo in Le- 
vante, com'è detto, ma anco alle proprie coste e in Dalmazia. 
Quelle venivano infestate da pirati, e narrasi fatto di grande 
arditezza eseguito da due Fuste dulcignotte, che nel 1687 
sbarcarono in Cittanova e ne trasportarono prigioniero in 
Albania il podestà con 36 cittadini. In Dalmazia poi sosten- 
nero militi istriani i maggiori cimenti, e il colonnello Giu- 
seppe dal Tacco da Gapodistria, comandante all' impresa di 
Narenta,ebbe la gloria principale nel conquisto di quella piazza 
e nel successivo governo della stessa contro le forze più 
gagliarde dell'inimico. 

Due anni dopo la pace di Garlovitz scoppiò la guerra della 
successione di Spagna (1701) tra Francia, Spagna, Baviera, 
Savoja, Mantova da una parte, ed Austria, Inghilterra ed 
Olanda dall'altra. Venezia neutrale. Ma non le mancarono 
imbarazzi. Da prima si trasportarono da Trieste per mare 
provvigioni di guerra pegl' imperiali di Lombardia, e poscia 
di riscontro una squadra francese, uscita dal porto di Napoli 
entrò francamente nell'Adriatico per fermare ogni altro con- 
voglio triestino e, presentatasi a Trieste sotto il comando 
del Forbin, la bombardò (1702). Il veneto Senato, che vedeva 
cosi leso il suo dominio suU' Adriatico dalle parti bellige- 
ranti, si lagnò presso le due corti di Vienna e di Parigi, 
protestando che, non fatta ragione alle sue rimostranze, a- 


52 Prodromo 


vrebbe usata la forza. E ad appoggiare quanto prometteva 
spedi flottiglia a Parenzo. Francia ed Austria, interessate a 
non inimicarsi i Veneziani, rispettarono V impero loro del 
golfo. 

Appena assestata la questione della neutralità, tornò a farsi 
temere il nome esecrando degli Uscocchi, che, vista tutta 
Europa in armi, si diedero nuovamente a predare. Ma ven- 
nero tosto incalzati d'ogni parte dagF Istriani, dai Dalmati 
e dai Veneziani, e puniti con tanto rigore che vennero ri- 
dotti impotenti a recare alla navigazione nuove molestie 

(1703). 
Del resto T Istria, meno questi trambusti, fu in pace nei 

13 anni della gran guerra d'Europa, né soffri quelle con- 
tribuzioni, onde le altre provincie d' Italia trovaronsi aggra- 
vate (1705). 

Unicamente nella contea, a modo feudale più volte ven- 
duta e rivenduta (171 2), avvennero tumulti contro il nuovo 
conte Ercole Taurinetto, marchese de Prie, che 1' aveva a- 
vuta in permuta nel 1708, e che s' era dato a gran rigori 
nello esigere i diritti baronali. 

Poste le armi pel trattato di Utrecht (i7i4\ l'imperatore 
Carlo VI rivolse l'animo a Trieste, confermandole privilegi 
commerciali con Napoli e Sicilia. Voleva egli aprire alle 
sue Provincie tedesche un porto di mare, e Trieste ebbe la 
preferenza su Aquileja imprigionata da Grado e dai paduli 
e su Fiume bloccata dal veneto cannone di Cherso e di 
Veglia. ' Carlo VI dichiarò quindi porto franco la città di 
Trieste nel 171 7, a suggerimento del principe Eugenio di 
Savoja, potente nei consigli di Vienna. E il pontefice aveva 
adoperato della stessa guisa riguardo ad Ancona. 

Venezia non era più la robusta dei secoli precedenti. In- 
vecchiava, né reggeva più gli eventi, ma cominciava a su- 
birli. D' altronde in altra guerra col Turco, detta di Morea, 


f 


della Storia dell* Istria, 53 


vede vasi ella impegnata l'anno 1714, né voleva, minore co- 
m'era nei generosi ardimenti, perdere l'alleanza dell' impe- 
ratore, che infatti attaccò subito la Turchia. Si combattè per 
terra e per mare, e non possiamo rimanerci dal ricordare 
il nostro Antonio Benussi da Rovigno, che, essendo stato 
ferito il Flangini, gli succedette nel comando superiore del- 
l'armata, tanto più lodevole, quanto maggiore fu il suo va- 
lore nelle prove di rilevare una scaduta fortuna. 

Nel 1718 si fermò la pace, e la recente conquista di Morea 
andava perduta per Venezia. 

Carlo VI riapplicò la mente al commercio di Trieste, e- 
mettendo ordini per la costruzione di navi da guerra e iii- 
vorendo la formazione di una Compagnia Orientale (1719), 
la quale nel 1722 aveva già un capitale di io milioni e 
stabilimenti alle Indie: fatti, che nel 1726 trassero ad oppor- 
visi le altre potenze, le quali non assentivano all'Austria 
forza marittima. 

Venezia invece non impediva il progredire di Trieste 
sempre pel timore dei Turchi, e cosi limitavasi a semplici 
offici diplomatici, allorché Carlo VI veniva di persona a vi- 
sitare la stessa città di Trieste nel 1728 e ad ampliarvi le 
prese disposizioni. La flottiglia di guerra invero fu aumen- 
tata sotto il comando del genovese Parravicini (1729), si 
apri fiera privilegiata, si comperarono le saline per disporvi 
la nuova città (1730), e la si tolse alla giurisdizione del 
magistrato per meglio dirigerla giusta l' intendimento di 
Vienna (1736). 

Le opposizioni delle potenze per altro debbono aver in- 
fluito sui consigli di Carlo VI, se la flottiglia austriaca fu 
sciolta nello stesso anno 1736, e non si ebbe più di mira 
da quel tempo che di formare un porto commerciale, e non 
un arsenale di guerra. 

Venezia intanto restringevasi a stabilir franchigie pel suo 


54 Prodramo 


porto e a conchiuder trattati di commercio (1739), concor- 
rente e non più dominante nelle ragioni del traffico. 

Succeduta poi nel 1745 Maria Teresa a Carlo VI per la 
prammatica sanzione, e finita la guerra della successione au- 
striaca colla pace di Aquisgrana nel 1748, la imperatrice 
prosegui riguardo a Trieste i divisamenti di suo padre, ani- 
mata da inglesi consigli. Durante il suo impero si vide cre- 
scere Trieste a novella città, moltiplicarsi i suoi bastimenti, 
instituirsi la Borsa mercantile, spedirsi consoli in porti fo- 
restieri ed accogliersene altrettanti. Al privilegio della com- 
pagnia d' Oriente si era sostituita la libertà del commercio, 
e questo prosperava. 

Nel 1749 l'imperatrice sollecitò Venezia a cederle alcuni 
luoghi, che desiderava sulla frontiera del Trentino e del 
Milanese, offrendole in cambio parecchie terre d' Istria. Ma il 
veneto Senato, che temeva di rafforzare il potere imperiale 
in Lombardia, ricusò decisamente la proposta. 

Allora Maria Teresa prosegui con maggiore impegno gli 
ordinamenti legislativi del commercio, normeggiatisi su quelli 
di Francia e di Ragusa. E qui basterà riferire il notorio 
Editto politico di navigazione (1758), che venne poi pub- 
blicato pel litorale austriaco nel 1771. 

Nell'Istria intanto succedeva da un canto nuova aliena- 
zione della contea di Montecuccoli 1766, e dall'altro il Go- 
verno veneto poneva opera ad estendere e migliorare le saline 
istriane (1767). 

Fu di quel tempo che, essendosi levata gran bufera, la quale 
riversò il mare su largo tratto di spiaggia con tale un im- 
peto da denudarla, vennero a disseppelirsi tra Umago e il 
vecchio castello di Sipàr le rovine di antica città accennanti 
a grande ricchezza e vastità di fabbricati (1770). Quale dei 
nomi dell' età grecanica le sia proprio, è ancora ignoto. 

E qui in sul proposito di antichità meritano particolare 


dtlìa Storia delV Istria, 55 


menzione le licerche, che intorno ad essa venivano fatte anco 
in Istria da distinti ingegni. L' inerzia in quel secolo del go- 
verno locale non ispegneva gli studi, che furono anzi fio- 
renti, in ispecie a merito del giustinopolitano Gian Rinaldo 
Carli di fama non meno italiana che europea. In epoca 
morta di fatti di vero storico interesse, ci gode V animo di 
poter almeno segnar progressi della cohura in terra già 
patria ai Vergerì, ai Mnzi, ai Santori, ai Carpacci, ai Tar- 
tini Vi avevano non pochi stabilimenti d'istruzione ed Ac- 
cademie. E specialmente Capodistria vantava un Seminario, 
in coi educavasi la studiosa gioventù cosi nelle ecclesiastiche 
discipline, come nelle umane lettere, altre due facoltà teolo- 
giche presso i Domenicani e i M. M. Osservanti, e un col- 
legio di gran rinomanza diretto dai P. P. Sommaschi, e poi 
dai Piaristi, e che ne' suoi corsi elementari, ginnasiali e fi- 
losofici accoglieva alunni fino dalle isole Jonie. 

E Trieste dal canto suo sviluppava maggiormente le in- 
stituzioni nautiche e commerciali. Nel 1775 la Compagnia 
delie Indie acquistò privilegi, e si tentarono colonie in Del- 
lagoa, nell'Africa, nelle isole Nicobare del Bengala, e sulle 
coste di Malabar. A questa Compagnia si associò la stessa 
Anversa. 

L'anno seguente avveniva novello mutamento nella co- 
stituzione di Trieste (1776), essendo subentrato all'inten- 
denza commerciale formale governo politico. Morta Maria 
Teresa nel 1780, Giuseppe II si adoperò invano a raffermare 
lo stabilimento della Compagnia delle Indie, che questa falli 
nel 1782, e le colonie vennero abbandonate. Quasi a com- 
penso all' incontro, divenne animatissimo in Trieste il com- 
mercio coi Greci, particolarmente dal 1786 in poi. 

Ma già la Rivoluzione di Francia attirava gli sguardi di 
tutta Europa, e nuove sorti felici ed infelici si maturavano 
cosi pegli Stati maggiori, come per le piccole provincie de- 
stinate a subire i grandi eventi. 


56 Prodromo 


Con la caduta della repubblica, che seguiva nel 1797, si 
chiudono questi nostri cenni riassuntivi della storia d'Istria. 
Diremo solo che maggiori dei governanti furono i governati, 
tra cui gì* Istriani, levatisi a gran tumulto alla notizia della 
caduta di Venezia. Eglino non s'erano mai intiepiditi nel- 
r affezione verso la repubblica tra gli errori e le incuranze 
di questa negli ultimi anni della senile sua esistenza. 

}{ aggiungeremo ancora di volo che, passata T Istria nello 
stesso anno 1797 con Venezia e Dalmazia all'Austria, entrò 
nel regno d' Italia 1' anno 1 806, poi nel regno illirico, ideato 
a suo modo dal capriccio di Napoleone nel 18 io e infine, 
occupata dal generale Nugent l'anno 181 3, nell'Impero 
d'Austria, del quale anco in oggi fa parte, ascritta al go- 
verno del Litorale. 

Nò per avvenimenti, né per uomini, che in essi figurarono, 
va inonorata la storia nostra. Nello avervi adunque appli- 
cato r animo, per quanto da noi si poteva, se non ha vanto 
1* ingegno, trova quel conforto. Che gli studi patri recano 
a chi intende, com'essi tornino mai sempre di eccitamento, 
non meno al ben sentire, che al ben oprare. 


1 Perchè il lettore sia posto in grado e di formarsi nn giusto concetto della con> 
ditione dell' latria a que' tempi e di giudicare com' ella pure possa guardare all' av- 
venire colla fiducia^ che viene dalla testimonianza del passato, si dà qui tradotta la 
epìstola XXII del libro XII di Cassiodoro; 

// SetMlore Prefelio del Pretorio ai proviticicUi dell' Islria. 

( I pubblici dispeuiìi, incerti per la varietà dei tempii non altrimenti possono equi- 
lib-Brsì se non col porre le esazioni delle pubbliche imposte in giusta proporzione col 
Tcò^xo dei terreni; perchè facile torna l'esazione, quando copioso è il raccolto e 
T*(?-cbi-, richiedendosi ciò, che la sterilità ha negato, la provincia viene a soflferirc, e 
nm < c^msegue ciò che si aveva in animo di avere. 

PeT»aot^<:\it visitarono la provincia ci hanno riferito, che l'Istria, già in fama per 
«rr*-;tiitta ài. rrodotti, sia stata in quest' anno benedetta da Dio con copia di vino, di 
r>ì', • A <n^tt^tAtù^ Vi concediamo quindi di pagare con altrettanti generi siflatti l'im- 
^.,.* {«fstMn^ ^« in questo primo anno d'indizione vi verrà prescritta; condonando 

.^,^.,»ai^mn ^i iStri tributi alla devota provincia. 


della Storia dell'Istria. 57 


■ Siccome peraltro noi abbisogniamo di questi generi in maggior copia di quella, 
che ci darete in equivalenza dell* imposta dovuta, noi abbiamo spedito altrettanto da- 
naro nella provincia, traendolo dalla nostra cassa, per comperare abbondantemente i 
vostri prodotti senza alcun vostro disagio. Perchè essendo voi costretti di vendere le 
derrate a mercadanti forestieri, grave pregiudizio vi deriva, quando compratori man- 
cano; e senza mercadanti danaro non ne vedete. Miglior cosa è quindi il secondare 
la volontà del principe, che il dare le proprie cose agli stranieri ; preferibile assai è 
il pagare debiti con proprie produzioni, che 1' avere i fastidi inseparabili dal vendere. 
Oltreché equa é al tutto la misura, che prendiamo, non volendo noi né recarvi pre- 
giudizio nei prezzi, né caricarvi delle spese di nolo. 

« La vostra provincia, a noi prossima (a Ravenna), collocata nelle acque dell'Adria* 
ti co, popolata di oliveti, ornata di fertili campi, coronata di viti, ha tre sorgenti co- 
piosissime d'invidiabile fecondità, per cui non a torto dicesi di lei che sia la campagna 
felice di Ravenna, la dispensa del palazzo reale ; delizioso e voluttuoso soggiorno per 
la mirabile temperatura che gode dilungandosi verso settentrione. Ned è esagerazione 
il dire che ha seni paragonabili a quelli celebrati di Baja, nei quali il mare ondoso 
internandosi nelle cavità del terreno, si fa placido a somiglianza di bellissimi stagni, 
in cai frequentissime sono le conchiglie e morbidi i pesci. Ed a differenza di Ba]a, 
non trovasi un solo averno, un sol luogo orrido e pestilenziale; ma all' invece fre- 
quenti peschiere marine, nelle quali le ostriche moltiplicano spontanee anche senza 
che l'uomo dia opera alcuna; tali sono queste delizie, che non sembrano promosse 
con istndio, ed invitano a goderle. Frequenti palazzi, che da lontano fanno mostra di 
sé, sembrano perle disposte sul capo a bella donna; e sono prova in quanta estima, 
zione avessero i nostri maggiori questa provincia, che di tanti edifizi la ornarono. 
Alla spiaggia poi corre parallela una serie d* isolette bellissime e di grande utilità, 
perchè riparano i navigli dalle burrasche ed arricchiscono i coltivatori coU'abbondanza 
dei prodotti. Onesta provincia mantiene i presidi di confine, è ornamento all' Italia, 
delizia ai ricchi, fortuna ai mediocri : quanto essa produce passa nella città reale di 
Ravenna. » 

3 Di questo si ha che, trovandosi egli capitano della cavalleria di Ladislao re di 
Napoli, fu da Rossetto di Capua, condottiere della fanteria, trattato da barbaro istriano, 
come non fosse italiano d' Istria : insulto, che volle rintuzzare in duello alla presenza 
del re e dei cavalieri della sua Corte. Vinse ed obbligò col suo valore l'avversario a 
smentirsi. Fu molto applaudito ed ebbe dal re il privilegio di portare nello stemma 
nna lingua infuocata fra due freni, a significare appunto frenata maldicenza. 


Nota degli Editori. — A distanza di 22 anni dall' epoca, in cui 
il Combi compilava questo primo abbozzo di una Storia dell'Istria, 


58 Prodromo della Storia dell'Istria. 

il desiderio di tutti gli studiosi fu compiuto per opera di un citta- 
dino già per altri motivi benemerito, Carlo De Franceschi» il 
quale sotto il modesto titolo di « L'Istria • Note Storiche » (Pa- 
renzo, Coana, 1879) pubblicò in un grosso volume una completa 
storia della provincia, a cui rimandiamo chi avesse vaghezza di 
maggiori particolari. 


L 


DELL' UNITÀ NATURALE DELLA PROVINCIA. 

(Dalla Porta Orientale, 1858) 


L 


re Alpi Giulie, che al di là del confine settentrionale del- 
l' Istria le girano a tergo dal N O al S E, formando il con- 
fine orientale d'Italia, spiccano dal Monte Nevoso un ramo, 
il quale si protende verso la nostra penìsola e poi alzandosi 
al Monte Maggiore si bipartisce, correndo con un braccio 
fino a S. Giovanni di Duino nel golfo di Trieste e coll'altro 
sino a Fianona nel Qjaarnaro. Ecco pertanto quest'ultima 
parte d'Italia costituirsi in unità naturale, esattamente circo- 
scritta quinci dalle due catene della Vena e del Caldera, 
sproni dell'Alpe Giulia, e quindi dal mare, nel quale s'in- 
oltra acuminata colla sua punta di Promontore, quasi faro 
del golfo di Venezia. 

Ma l'unità naturale della provincia fu pur troppo più volte 
e per lunghi anni sconosciuta dalla polìtica. 

Una sotto il dominio di Roma, quale regione d'Italia, la 
penisola nostra ebbe a fiorire cosi, che torna a vera mara- 
viglia di chiunque si facci:< ad esaminare la storia di quei 
tempi, E all'epoca del regno di Teodorico, egualmente una 
e tutta, conforme alla sua natura, entro ai confini d'Italia 
compresa, poteva dirsi a buon diritto, come fu detta allora, 
delixia ai ricchi, fortuna ai mediocri, piacevolissimo soggiorno per 
tutti. 


éo Deir unità naturale della Provincia. 


Conquistata da Carlo Magno e divisa per opera del feu- 
dalismo, si che da una parte gli stranieri marchesani la vo- 
levano trarre a nuovi interessi, e dall' altra i Comuni istriani 
vi resistevano pertinaci, stringendosi sempre più ai Veneti, 
per conservare l'antico indirizzo alle forze e agli intendi- 
menti, tale contrasto non tardj a dimezzar quelle, e a far 
di questi argomento alle continue avversioni tra il governo 
baronale, signore della campagna, e il cittadino, dominatore 
specialmente della costa. 

E quando ai detti marchesani succedettero i patriarchi di 
Aquile] a, più forti e più vicini, e la lotta si fece più assidua 
e più impegnata, guadagnò bensì terreno anco nell'interno 
dell' Istria il Comune istriano pegli spiriti maggiori che gli 
venivano dall'imminenza del pericolo, ma non toglievasi per 
questo il malaugurato frangimento dell' unità provinciale, né 
quindi il contrario dibattersi delle forze tra gli stranieri, che 
la impedivano, e gli Istriani, che, da prima alleati di Venezia, 
vedevano colla necessità di salvare gli interessi naturali con- 
giunta quella di porsi sotto il protettorato della repubblica, 
transazione alla signoria. 

Né questa, dopo aver tolto di mezzo il dominio temporale 
di Aquileja ed esteso il proprio sovra la maggior parte del- 
l' Istria, potè ricomporla all'unità sua; che la Contea d'Istria, 
da principio mero vassallaggio del Marchesato, poi, intenta 
a fare il conto suo, per lo più neutrale, e quindi, resasi in- 
dipendente, volta a giuocare il partito ora di amica ed ora 
di nemica del Comune istriano, conforme il preponderare 
di esso e del Patriarcato lo richiedeva, era passata per legge 
di successione sotto l'Austria, già d'altra parte divenuta si- 
gnora di Trieste. Se Venezia non avesse trovato in Istria 
altro nemico che il conte, la nostra provincia sarebbe stata 
una già nel quattrocento ; e fino d'allora l' Italia per mezzo 
della repubblica avrebbe rivendicato il suo confine d' oriente. 


Deir unità naturale 6i 


Nel noa essere avvenuto cosi sta il principio, da cui dee 
attingersi il giudizio intorno al veneto governo; imperocché 
le gelosie, le opposizioni, le lotte impedienti ogni stabile 
ordinamento continuarono, si accrebbero e, invecchiata la 
repubblica, e scambiati i magnanimi propositi colle paurose 
astuzie di una politica fiacca, non si mirò ad altro che a 
tener bassa la condizione della provincia per toglier esca 
alle voglie altrui, tarpando perfino le ali alla patria coltura, 
la quale, a giudicare dal suo carattere non mai perdutosi 
e dagli esempi dati tra le avverse condizioni, avrebbe por- 
tato r Istria a grandezza degna del suo passato. Rozze co- 
lonie slave infatti ci vennero su quelle navi, sorelle alle quali 
le nostre, battendo Saraceni, Slavi, Ungheresi, avevano ono- 
rata l'età più povera di fatti italiani corsa tra le contese 
dei Carolingi; avevano custodito l'Adriatico, mentre Venezia 
partiva per l'Oriente a meritarsi la corona di regina del 
mare; e presso Salvore aveano avuto la loro battaglia di 
Legnano. L'Istria peraltro non perdeva di vista, quantunque 
vittima, r onore di esserlo, e fu prode in ogni cimento contro 
i pericoli d'oltralpe; sciolta dall'obbedienza dopo la batta- 
glia di Agnadello, entrò innanzi ad ogni altra provincia nel 
difendere da sé il vessillo, che avea per suo ; si pose argine 
contro le sanguinose invasioni de' Turchi e degli Uscocchi; 
e, caduta la repubblica sotto la spada dell' esordiente conqui- 
statore di Europa, si levò a tumulto, dimostrando che sotto 
il povero abito, a cui era stata ridotta, serbava ancora l' a- 
nirao ricco di generosi sentimenti. 

Ceduta all'Austria colla Venezia nel 1797, continuò ad 
aver forma diversa dalla Contea, e di più entrò per la prima 
volta nella cerchia di quell'idea, che avea già da molto 
tratte alcune parti dell' Istria dalle condizioni loro naturali 
sotto l'influenza delle provincie transalpine. 

Ritornata all'Italia nel 1806, quantunque senza la Contea 


62 della Provincia. 


prese lena; ma tosto, passata a formar parte del regno il- 
lirico di Napoleone, assieme alla stessa Contea, sfidò, né a 
ben progredire ebbe tutto l'impulso dei tempi e delle ri- 
forme. 

Sebbene il secolo delle invenzioni, degli avanzamenti, 
delle conquiste intellettuali sia corso oltre il suo mezzo, 
r Istria, volgendo lo sguardo addietro, vede breve assai il 
cammino consentitole dalla vicenda. 

Né il solco si allarga. Che Trieste possa essere il porto 
principale, il mercato dell' Istria, è questa cosa, che né scio- 
glie, né lega la questione. In ogni tempo lo sarebbe egual- 
mente, se voluto dalla natura, che ormai il commercio af- 
fratella tutte le nazioni, e non si trascina già sulle linee 
degli amministrativi scompartimenti, ma va col torrente 
degl' interessi . universali. Né contra di ciò sta il passato, che 
ben diversi volgevano i tempi, quando, non solo Venezia, 
ma quasi tutti gU stati di Europa guinzagliavano il com- 
mercio. E d'altra parte che ha da fare qui Trieste del se- 
colo scorso, se allora ella era poco più di un'umile bor- 
gata? Si svolgano queste idee, si raccostino meglio, e ben 
di leggieri si farà aperto che ci sarebbe d'uopo passare in- 
vero per molto semplici, se a certe fiabe in giro avessimo 
a prestare orecchio. Andiamo a maggior fretta nel rendere 
il più possibile migliori i nostri prodotti, perché 'possano 
sostenere ai mercati la concorrenza, né ci fallirà il tempo. 

Ma ad altre considerazioni ancora si fa la mente nel ri- 
flettere sopra r unità naturale della provincia. 

Questa da parte di terra é determinata da tale un succe- 
dersi di catene di monti, che difficilmente si saprebbe indi- 
care altra provincia meglio disgiunta dalle regioni d'ol- 
tralpe. 

Un naturale passaggio dal di fuori direttamente nell' in- 
terno della provincia non si apre che sul fianco settentrionale 


Dell* unità naturale 6 3 


del Monte Maggiore. Ma prima di giungere a questo vi ha 
altra barriera da sormontare. Abbiamo detto come dal Ne- 
voso si protenda il tronco di monti, che mette capo al 
Maggiore, nodo della Vena e del Caldera Ora tra il versante 
orientale di questo tronco e del Caldera, il meridionale del 
Nevoso, e l' occidentale di que' monti, che dallo stesso Ne- 
voso si prolungano verso la Dalmazia, havvi la Liburnia, 
regione tutta balzi, spiaggie ed isole. Chi tiene il confine 
orientale d' Istria, eh' é quello d' Italia, può ben dominare 
tutta questa cinta esterna, la quale s'erge alta e scoscesa 
contro le regioni della Culpa, della Croazia e della Slavouia, 
e superata, qua serrasi in forma d' arco teso cosi, che ne 
abbia i capi schiacciati a cerchio, e là dirotta al mare rile- 
vasi in arcipelago e si barra l'ingresso d'isolotti e sco- 
gliere. 

Dal lato del confine settentrionale la* Vena si afforza di 
più trincee parallele, tratto tratto rannate in ridossi e sempre 
dirupate, sempre le une sopra le altre elevate. Essa prospetta 
a settentrionale la valle silvestre del Timavo superiore e la 
stringe agli scoscendimenti orientali del Nevoso e a quelle 
giogaje meridionali dell'Alpe Giulia, che mandano ancora 
le loro acque all'Adriatico attraverso a terra italiana. Ed 
invero l'altra vallata subalpina, che a questa sovrasta, ed ha 
nome di Piuca, piega già al versante della Sava. Quivi a 
settentrione é il varco di Nauporto, secondo dopo quello 
del Monte Maggiore, ma unico, per le cose dette dell'altro, 
che schiuda k via alle provincie del Danubio e della Sava. 
Esso per le valli della Piuca e della Reca si allarga bensì 
a ponente verso il Friuli, dov'è la strada percorsa da molte 
invasioni di Barbari; ma volgendosi verso l'Istria, e imboc- 
cate le gole della Vena, che si aprono petrose all'esterno 
della catena, si divide, si rompe, che quelle di trincea in 
trincea qua vanno a chiudersi, e là riescono ad un altipiano 


é4 d^llà Provincia. 


asserragliato da ripidissime rupi, attraverso le quali non vi 
ha naturale passaggio che pel Monte Spaccato e pel S. Lo- 
renzo, l'uno e l'altro presso a Trieste. L'Istria dunque non 
è aperta che al Friuli e al mare di Venezia. 

Queste condizioni geografiche si prestano facilmente a 
commento della storia. 

Fu per esse che gl'Istriani, prima del dominio di Roma, 
poterono mantenersi indipendenti dai popoli d' oltralpe e 
serbare il carattere di stirpe italica, quantunque limitrofi alle 
tribù estesissime dei Celti. 

E Roma, ben compresa la posizione naturale dell' Istria, 
pose tosto opera a difenderla, qual porta orientale d'Italia, 
Al passo del Monte Maggiore oppose la colonia di Fola e 
a quello del Monte Spaccato e di S. Lorenzo la colonia di 
Trieste. Anzi vi é ragione di credere che, a meglio guar- 
dare il primo, stabilisse un comune militare, dipendente da 
Fola, in quella Valdarsa, dove tuttora si riscontra qualche 
vestigio di lingua romanica. Cosi a meglio coprire il passo 
di Trieste e a trar profitto dal viluppo di monti, che si- 
gnoreggiano il passo di Nauporto e le valli della Finca e 
della Reca, si porta opinione avesse locato altro comune 
militare in Castelnuovo. L' estensione dell' agro polese sino 
a Fiume e del triestino sino a Nauporto viene a conferma 
di questo sistema di difesa ed é solenne documento del- 
l' importanza nazionale già da quel tempo della nostra pro- 
vincia associata alle Venezie, come loro necessaria continua- 
zione e baluardo, e però decorata del bel nome di Venezia 
superiore. 

Gli assalti dei Giapidi, che faceano forza accanitamente 
contro la colònia di Trieste; le prime invasioni dei Barbari, 
scendenti dall'Alpe Giulia, sfuggite o rimosse; la maggior 
libertà di reggimento goduta dall'Istria assieme alla Venezia 
sotto il regno di Teodorico; la indipendenza loro dai Lon- 


della Provincia. 65 


gobardi per quasi due secoli ; V alta signoria di Bisanzio per 
tutto questo tempo nulla, un nome ; fatto, la veneta alleanza ; 
con essa non pochi comuni salvi dal feudalismo di Carlo 
Magno; ma questo, ai monti appoggiato, già padrone dei 
varchi, iniziatore della decadenza dell'Istria, la quale tra i 
nemici di fuori e quelli di dentro ostinata si dibatte; ella 
non di meno contro i primi vincitrice, e sia dai ciglioni 
delle sue rupi, sia sulle prore de' suoi navigli della patria 
italiana benemerente; spossata invece dai secondi, marchesi 
laici, marchesi preti, conti, di qualunque nome; l'alleanza di 
Venezia mutatasi tra gli accresciuti pericoli in protezione e 
quindi in dominio; ma questo tardato dai patriarchi e dall'Au- 
stria, vigile da prima dietro Trieste e dietro la Contea, e poi 
nell'uno e nell'altra ai due ingressi della provincia; quelli tolti 
di mezzo, quando a questa aveano già ben servito coli* in- 
dugiare la repubblica; gli adopramenti dei Veneti a ratte - 
nerla, poi svogliarla; la fortezza di Raspo alla vedetta tra 
il Monte Maggiore e Trieste; il cannone di Veglia colla 
bocca sulle spiaggie della Liburnia ; le questioni pel passaggio 
di S. Lorenzo assidue; le guerre ai commerci di Trieste 
desiderate ; — sono fatti, che legano strettamente la storia alle 
discorse condizioni geografiche della nostra provincia. Tanto 
la provvidenza col porre tra nazione e nazione gl'immuta- 
bili confini della natura fa che per essi in ogni tempo si 
svolga il criterio, onde giudicarne le sorti liete o funeste. 
Imperocché quest' ultime non cancellano mai V impronta 
della natura, e quando pure arrivino talora ad ingannare chi 
ignora, crescono fiamma di affetto a chi sa, dovunque e 
sempre. Ora se il libro della storia dell' Istria fu chiuso 
prima da una mano e poi da un' altra, si con diversi inten- 
dimenti, ma per guisa ch'ella, vittima tranquilla, o vittima 
sdegnosa, ebbe a soffrire il maggiore de' sacrifizi, la patria 
annegazione di sé stessa, la fraterna calunnia, — ben le 


66 Dell' unità naturale 


spetta il diritto all' onore di studi, che dagl' ingegni d'Italia 
prendaao larghezza, e dal cuore della nazione, calore e 
vita. 

COSTITUZIONE OROGRAFICA E GEOLOGICA DELL* ISTRIA. 

Dei monti, che si levano a tergo dell'Istria, si é già toc- 
cato. Ora uno sguardo all'ossatura interna della provincia. 
Per coglierne il vero carattere conviene afFacciarlesi dal 
lato di SO. Quantunque infatti la penisola metta nel mare la 
estrema sua punta di fronte a meriggio, e il convergimento 
a quella dell' una e dell' altra costa sembri secondare a primo 
aspetto questa meridionale direzione, ella scende invece da 
NE a S O, scompartita in tre regioni, la superiore, la media, 
r inferiore. L' alta, già in parte descritta siccome quella, che 
può dirsi tutta a confine dell'Istria ammonticata, declina da 
scilocco a maestro. Appoggiata al Monte Maggiore, corre 
in iscaglioni paralleli e va mano mano allentando, fino a 
cadere presso alle foci del Timavo. La chiamano Carso, e 
dall' antico nome della Vena, Ocra, la distinguono coi nomi 
di Carso di Raspo, di S. Pietro, di Trieste e di Duino. La 
media invece divalla dai fianchi della Vena. I suoi monti, 
sempre trasversali, volgono prima da levante a ponente, e 
più giù si protendono cosi, da determinare l'adagiamento di 
tutta la penisola in verso libeccio. Ha due coste, l'una al 
N O, r altra al S E. Quella tra la punta di Grignano oltre 
Trieste e la punta di Salvore, a largo semicerchio rientrante, 
lacerato da profondi frastagliamenti ; questa tra le insenature 
di Fianona e di Albona ad arco brevissimo, che il Caldera 
si snoda dritto di contro ad ostro, e assottigliando cosi a 
levante la fascia dell'Istria media, le abbrevia la costa là, 
dove col suo dirompere nel Quarnaro la taglia fuori dai lidi 
della Liburnia. Sono i monti di questa regione mediana, che 


della Provincia, éy 


tracciano il movimento alle acque deiristria, delle quali le 
maggiori hanno alla Vena le loro sorgive. Ma il corso loro 
non é originato da un solo elevamento montuoso, che a 
due soli versanti inclini la distesa del suolo. Ve n'ha due. 
Da Socerga, quasi a mezzo il corso della Vena, si svolge 
"uno per S. Antonio fino a Pirano, dirigendosi pure con 
un ramo verso Semi sopra Buje. L'altro, ch'é il maggiore, 
si stacca da Lesischie pressoché al principio della Vena, 
sviluppa tre principali diramazioni, quelle di fianco fino a 
Sovìgnaco e a Galignana, e l'altra di mezzo fino a Pisino, 
centro dell'Istria. Scorre il Risano tra la Vena e le prime 
sue dipendenze; tra queste e le seconde il Quieto; e tra 
le seconde e la barriera del Maggiore e del Caldera l'Arsa. 
Le minori acque si formano nei compluvi. Cosi tra il ramo 
di Pirano e quello di Semi la Dragogna, tra il braccio di 
Sovignaco e quello di Pisino la Bottonegla, e tra il secondo 
e l'altro di Galignana il ruscello della Foiba. La obliqua 
successione adunque dei territori di Pirano, di Buje, di Mon- 
tona, di Pisino, di Pedena e di Albona da Salvore a que- 
&t' ultima città segna il confine dell'Istria media. L'inferiore 
pertanto è di forma triangolare, cogli angoli a Salvore, a 
Promontore e ad Albona, avente lunga costa in faccia al 
golfo di Venezia, breve al Quarnero. Dal rigonfiamento mag- 
giore del centro della penisola ella va deprimendosi a Heve 
discesa fino al mare. I suoi colli l'attraversano senza mo- 
vimento di regolari diramazioni, disordinati e quasi direb- 
besi tumultuari. Quivi non s'inalvea nemmeno un rivolo, 
e solo il Quieto e l'Arsa trovano passaggio al mare, il 
quale, rottosi due lunghi canali, si porge loro in contro ad 
accoglierli. Il terzo canale di Leme e più addentro ancora 
quello di Draga, che accennano ad un sol letto, sembrano 
voler ricevere le acque del Valpisino. Ma esse e molte altre 
si sprofondono in caverne e per vie sotterranee mettono al 
mare. 


68 Dell'unità naturale 


Questo é il più aperto fenomeno, che avverta TafiSinità di 
natura tra il suolo dell'Istria superiore e quello dell' inferiore. 
Nell'una e nell'altra infatti il terreno si squarcia in affon- 
damenti, ora imbutiformi, ed ora tutto al contrario a guisa 
di pozzi allargantisi in basso. L'una e l'altra sono inacquose 
alla superficie e percorse invece da fiumi e da torrenti sot- 
terra, si che da un istante all'altro si veggono in quella 
gemere e fluir copiose le acque dai crepacci delle pareti, e 
in questa inondare ad un tratto i terreni depressi, anche a 
tempo sereno, e per modo da scomparir con la stessa ra- 
pidità, con cui sgorgarono. 

Ma queste assomiglianze delle due regioni dell'Istria si 
fanno ancora più evidenti a chi pon mente ai caratteri loro 
geologici, e rendono legittima l'ipotesi che l'Istria inferiore 
siasi formata nei rivolgimenti della massa terrestre, per vio- 
lento distacco dai monti della superiore ; tanto il lembo set- 
tentrionale dell'una serba e forma ed altezza tale, da poter 
quasi combaciare col lembo meridionale dell'altra. Cosi l'I- 
stria media apparisce cresciuta dalle disgregazioni succes- 
sive della prima e della seconda. E queste sono calcari, quella 
marnosa. 

Il calcare nero, che si presenta schistoso dietro l'ultima 
Vena e bituminoso dietro il Monte Maggiore, fra la dolomia 
sua njodificazione, sembra costituire la roccia inferiore del 
suolo d'Istria, ma fin' ora non fu rinvenuto allo scoperto. 
Soltanto le dolomie di questo calcare formano larga zona 
da Rovigno a Fola, prima per costa e poi più internamente, 
ora cristalline ed ora compatte. Più su si stendono da S. Lo- 
renzo a Villanova. 

Ma il calcare ippuritico, che da svariatissime conchiglie 
di forma allungata ha il nome, occupa in Istria la maggior 
estensione, sviluppandosi largamente nella superiore e com- 
ponendo la formazione calcare dell'inferiore, specialmente 


r 


della Provincia. 69 


alla costa, ov' è per lo più ben sodo. Qui pure notevole dif- 
ferenza dell' Istria media, che ne ha solo frammezzo una 
diramazione ed oppone quindi ai flutti lidi men forti. Questa 
roccia calcarea é per lo più grìgia, spesso bianca e talvolta 
giallastra, ovvero di roseo colore venata. In molti luoghi si 
presta a bel pulimento, come a Sesana, a Santa Croce, a 
Nabresina nell'Istria superiore, e a Veruda nell'inferiore, che 
diede ai magnifici edifizi di Fola romana i bianchi suoi marmi. 
E alle cave, che furono già aperte^ come d'esempio ai Brioni, 
a Rovigno, a Orsera, a Moncalvo, a Barbana, a Castelnuovo 
d' Àrsa, a Novaco di Montona, a Grisignana e in più luoghi 
ancora ben altri bei nomi potrebbero aggiungersi. 

Sovra il calcare ippuritico sta alle volte il nummolitico, 
che é di conchiglie discoidi, ma disgiuntone talvolta da de- 
positi bituminosi e di carbon fossile, come a Carpano, presso 
Albona, a Chersano, presso il lago di Cepich, a Gherdosella 
fra Montona e Pisino, a Berda fra Buje e Portole, a Baso- 
vizza sopra Trieste. 11 carbone di Pinguente non ha per 
letto il calcare ippuritico, ma il nummolitico. 

Questo, di grigio fosco o di una sbiadita tinta giallastra, 
fiancheggiando da prima al nord l' Istria media e poi ricom- 
parendo a cingerla a meriggio, offre altra singolare corri- 
spondenza tra la regione superiore e l'inferiore. 

La media é formata di marne argillose e sabbiose. Ora 
si distendono esse piane o a contorcimenti, in sottili stra- 
tificazioni friabili, ora si addensano a più piedi di spessore 
ed ora si trasformano in pietra arenaria punteggiata di verde 
pei grani di silicato ferroso, a cui si trova unita. Cosi la 
massa terrosa delle marne, delle argille, delle sabbie e del 
tassello, le quali avvicendano il color grigio al celeste, si 
trova attraversata da larghi strati di sassi, che al contatto 
dell'aria imbrunano. 

Qua e là infine suU' arenaria altre nummoliti, dette supe- 


70 Dell* unità naturale 


riori, si aggregano, cementate dal calcare, in roccie duris- 
sime, le quali talora, come sui fianchi del Monte Maggiore, 
si ergono in iscaglioni grandiosi. 

La diramazione ippuritica, la quale, come si é fatto cenno, 
penetra nell' Istria media, taglia questa longitudinalmente in 
due parti, da Salvore sino quasi a toccare il bordo delle 
nummoliti inferiori del Carso. Pinguente, che siede colà a 
cavaliere ed è tra le due sezioni deiristria media, prossima 
cosi alla superiore, come al ramo anzi detto delle ippuriti, 
ricca altresì di nummoliti della seconda formazione e di de- 
positi bituminosi e carboniferi, può dirsi il centro, intorno 
a cui si aggruppano quasi tutti i fenomeni geologici della 
nostra penisola, degna anche sotto questo riguardo delle in- 
vestigazioni della scienza, e specialmente degli studi italiani, 
stretta com' è intimamente alle condizioni geognostiche delle 
altre provincie d' Italia. Congiunta ai calcari, che fasciano 
al nord i terreni d' alluvione della vallata del Po, ella pre- 
senta le maggiori analogie col Nizzardo e col Vicentino. 
Inoltre dalla miglior conoscenza della ricchezza, che ha l'I- 
stria in quelle pietre e in que' marmi, di cui va si bella Ve- 
nezia, verrebbe nuova lena ad aprire nuove strade per met- 
tere ogni cava dell' interno dell' Istria in comunicazione col 
mare. Cava senza via é pozzo senza corda e senza secchia, 
e le vie trarotte o lunghe, specialmente se pesanti sieno i 
trasporti, tolgono di mano la mercede a chiunque vi si 
spenda intorno. 

Le strade, che abbiamo, sono ben lungi dal bastare ai bi- 
sogni della provincia, la quale non dovrebbe certo lasciarsi 
abbandonata, come lo fu, quasi alle sole proprie forze in ar- 
gomento di si grave importanza. 

Se buone vie portassero a cosi dire l'odore dell'Adriatico, 
e con esso gli allettamenti delle lucrose speculazioni ad ogni 
nostra cava, più non si direbbe mancare le braccia a dis- 


della Provincia. 71 


sotterrare i sepolti tesori; che dovunque il lavoro frutti, si 
moltiplicano le attività, le imprese, gli opera], e ben oltre 
alle fortificazioni di Fola, oltre al ponte della laguna, alla 
diga di Malamocco e alle calcare del Polesine si avviverebbe 
il commercio delle pietre e dei marmi istriani. Trieste, sulla 
via del mare, ne manda perfino alla lontana Odessa. 

Ora per rifarci a capo a considerare il suolo nei riguardi 
della vegetazione, noteremo brevemente che le montagne 
appiattite dell' Istria superiore presentano per lunghi tratti 
brulli i fianchi, o solo qua e là tra sasso e sasso da erbe 
smorte o da bassi cespugli brizzolati. Per la marra non é 
che qualche avvallamento, ove maggiore sia la polpa del 
terriccio. Ma colà pure non mette T olivo. Solo ai Carsi di 
Trieste e di Duino, riparati da monti più alti, crescono la 
vite e il gelso. L'Istria media spiega invece rigogliosa ve- 
getazione ; ma V opera dell' uomo vi é voluta assidua, che 
facilmente le acque staccano, travolgono e decompongono 
le marne e le argille. Di qui le coste franose di non poche 
montagne specialmente alla marina, corse di traverso dagli 
strati sporgenti della pietra arenaria; le colline solcate da 
spessi torrenti, che si precipitano al mare ad allargare i fondi 
saliferi ; le sommità tondeggianti e tratto tratto scarnate cosi, 
da svolgere pittoreschi dirupi ; i boschi d' alto fusto nelle 
valli; la necessità di ristorare coi letami i terreni dimagriti 
dalle pioggie, di disporre i campi a ripiani, di ritenere i di- 
velti con muri e siepi. Fertilissima infine, quantunque cal- 
carea, é l'Istria inferiore a valli serpeggianti senz'ordine, 
giusta i diversi andari delle spesse colline, e stesa in alti- 
piani stille coste marittime. Il suolo, coperto da terra ocra- 
cea, rossa per l'ossido di ferro, sviluppa ottimamente i 
germi perfino di piante tropicali, spontaneamente ubertoso. 

Ma se r Istria fu privilegiata dalla natura di fecondi ter- 
reni, cosi che di cento parti non possono aversi che tre re- 


72 DelV unità naturale 


stie a rispondere guadagno al cultore, saranno a dirsi di- 
stribuiti a buona legge di proporzione i generi di coltura ? 

Le seguenti cifre dimostrano il contrario. 

Quasi la metà del suolo è lasciata ai pascoli promiscui, 
dei quali solo due decimequinte parti sono prati. L'altra 
metà si dividono pressoché a porzioni uguali i boschi e i 
colti. Ma di 25 parti non più che sei tolgonsi i boschi di 
alto fusto. Le altre sono pei cedui. 

Donde questo? La risposta a si grave quesito prende ben 
troppe cose intorno a sé, che non per ogni parte della pro- 
vincia nostra potrebbe suonare eguale. Qui adunque solo 
il fatto. L'esame poi delle condizioni, che in tale bisogna 
sono speciali ai vari distretti, verremo mano mano svol- 
gendo, se il potremo, negli anni appresso. 

CONDIZIONI METEREOLOGICHE. 

L'Istria, situata fra il 44 : 46 e il 45 : 55 di latitudine 
boreale, spetta alla zona temperata. Anzi ha clima ben più 
caldo di quello porterebbe la sua posizione atmosferica. Gli 
é però che si fa più brusca la differenza tra questa pro- 
vincia estrema d' Italia e le regioni transalpine bagnate dalla 
Sava, che le stanno a tergo. Di qua l'olivo fino sul lembo 
meridionale del Carso, e di la nemmeno la vite. Quei, paesi, 
ben 900 piedi sopra il livello del mare, sono spesso e 
di primavera e di autunno tristi per rigore di verno, men- 
tre le pendici dell' Istria si allegrano di bella fronzura, la 
rinnovano. Per questo rapido passaggio dal settentrione al 
mezzogiorno, dalle nevi e dai ghiacci delle terre volte verso 
il Mar Nero, alla tepida atmosfera dell'Adriatico viene sor- 
presa al viaggiatore, e se altro non ne lo rendesse avvertito, 
questo solo basterebbe a fargli conoscere il confine italiano. 

L' Istria pertanto sotto questo riguardo é meglio che porta 


della Provincia. 73 


d'Italia. Ma come per ogni provincia il carattere generale 
della regione si trova modificato da speciali condizioni cli- 
matiche, cosi pure avviene della nostra. 

Ella è tutta un grande ammasso scoglioso vestito da 
terre vegetabili di piccola profondità, il quale prima al suo 
confine settentrionale e poi qua e là dagli ondeggiamenti 
del suolo leva brulle e per lo più biancicanti le sue vette 
calcari. Per sua natura adunque deve, e assorbire e riflet- 
tere molto calore. 

D'altra parte le evaporazioni del mare, che cinge larga- 
mente la penisola istriana e s'interna in ogni maniera di 
insenature, non possono non avvolgerla in umida atmo- 
sfera. 

La siccità dovrebbe quindi moderarsi coli' umidità, e se 
questa legge, inerente alla condizione geologica e marit*» 
tima del nostro suolo, avesse sempre suo compimento, av- 
venturosa l'Istria, corsa com'è da venti, che rinnovando 
spesso l'atmosfera, tolgono ai vapori il nuocere con azione 
endemica continuata. Ma niun paradiso in terra. 

Sono appunto i venti, che avvicendandosi in modo da la- 
sciare ora alle pioggie il predominio ed ora all'aria asciutta, 
serena, trasparente, fan si che le regioni della natura secca 
e dell'umida si disaccordino. Di qui le alternative e non le 
contemperanze tra l'una e l'altra. 

La bora, il greco, il maestro dileguano le nubi o le rat- 
tengono; dispongono la pioggia lo scirocco e l'ostro, e 
nel determinarla si associano spesso col ponente e colla 
tramontana; il libeccio la interrompe, ma addensa vieppiù 
le nubi, e cagliando dà luogo a pioggia più sformata; il 
levante infine la tiene in sospeso e, a cosi esprimersi, in aria, 
se spiri moderatamente disteso; ma se rompe in bufera, 
come suole presso al solstizio d'inverno, chiama quasi tutti 
i venti a contendersi l'impero del golfo, e dopo l'acquaz- 


74 Dell'unità naturale 


zone lascia padroni del campo o lo scirocco o la bora, 
quello a spingere dal sud nuòve avvoltolate di nubi, questa 
a spazzarne il cielo in poco d'ora, gagliarda, asciutta, rav- 
vivante. 

La bora, che può chiamarsi vento speciale di questa re- 
gione, mettesi tra il greco e il levante e si forma propria- 
mente sull'Alpe nostra. Ed in vero tra il Nanos e il Ne- 
voso i gioghi degradano di quasi due mila piedi per i8 
miglia air incirca di larghezza. Quivi i due climi del sud 
e del nord si affrontano, l'uno basso, alto l'altro. Naturale 
quindi il precipitarsi dell'aria costipata sulla rarefatta e, 
stretta com'è dai monti, sprigionarsi a rifoli sulle nostre 
terre e sul nostro mare veemente, strepitosa, e quasi di- 
cemmo ingorda. Spesso dalle gole, tra cui si caccia, ne 
vien l'urlo foriero, come grido di scolta d'in sulle vette 
alpestri, in uno coli' affoscarsi della montagna e collo sfu- 
mare delle nubi sparnicciate per l'aria. Vera bufera con fu- 
riosissimi pie di vento nell'Istria superiore, lo è. pure, seb- 
bene con minor forza, nella media. Oltre la punta di Sal- 
vore invece si equilibra a condizione comunale di vento. 
Ma non cosi alla costa orientale, nel tempestoso Quarnero, 
ove mette il mare in fortuna ben oltre il Promontore, ter- 
ribile corrente fra la Dalmazia e l'Istria. 

Però sotto alla punta di Salvore, su tutto il rimanente 
della costa occidentale non meno che su quella d'oriente, 
r ostro e lo scirocco, ancora caldi e rilassanti, sebbene de- 
purati nel loro tragitto per l'Italia penisolare, vanno a gara 
di forze col ponente e col libeccio, gonfiatori del mare, i 
quali sono bensì men caldi, ma più irritanti pei salsi vapori, 
di che s'impregnano, attraversando l'Adriatico. E il mae- 
stro, che soffia più gagliardo nel golfo di Trieste, supera 
quest' ultimi in umidità, che le secche di Aquileja, gli stagni 
della Sdobba ben più delle paludi di Comacchio ci sono 


della Provincia. 75 


vicini. La tramontana invece, il greco, la bora, che ci ven- 
gono da terra, sono eccitanti, freschissimi; e il levante, es- 
sendo breve il tratto di mare, che passa, ad essi in questo 
si agguaglia. Di solito diurni i venti occidentali e gli au- 
strali; notturno il levante; la bora specialmente vernale; e 
più insistente nelle stagioni medie lo scirocco. 

Siccome poi i contorcimenti della costa ora a questo ed 
ora a quel vento pongono ostacolo, non é raro che più 
venti muovano e si scambino ad un tempo attorno la pe- 
nisola: Fenomeno, che si manifesta pure a fìor d'acqua nel 
vario incresparsi dell'onda e nel córrere delle nubi più alte 
e più basse in direzione opposta. Ciò non toglie peraltro 
che gli agitamenti maggiori e più decisivi dell'atmosfera 
la sbilancino cosi, da produrre l'anzidetta alternativa delle 
umidità e dei seccori. 

L'umidità non ha un solo periodo annuale, come nelle 
regioni tropicali. Per l'incalzar dei venti australi suole essa 
regnare prima nei mesi di Febbraio, di Marzo e di Aprile, 
e poi nel Settembre, nell'Ottobre e nel Novembre. Allora 
una fìtta acqueruggiola attrista con monotono piagnucolio 
per più giorni alla dilunga; e non raro accade che la luce 
del sole, smorta o, per dirla con frase nostra popolare, am- 
malata, ora splenda, ora si celi più volte al giorno e per 
più fasi lunari, tra le sospensioni e i ripigli dei brevi ro- 
vesci. 

Ma non è a dirsi che l'umidità vada ogni anno soggetta 
a questa vicenda; che il periodo delle pioggie ora si allunga 
ed ora si accorcia, ora s' interrompe ed ora si trasporta a 
mesi non suoi, secondo il vario imperversare o l' incrociarsi 
dei venti. S'ella forma uno dei due caratteri del clima no- 
stro, quest'è tra per la prevalenza dell'umidità, che breve 
o protratta in ogni autunno e in ogni primavera si appa- 
lesa, tra perchè i più lunghi suoi periodi riprendono il loro 
ciclo meteorico ad ogni terzo o quarto anno. 


76 Dell'unità naturale 


Inoltre e da avvertirsi, non essere T umidità neir Istria 
cosi assoluta, cosi radicale, da non subire, anco a brevis- 
simi intervalli, le opposte influenze dell'atmosfera variabi- 
lissima. Perciò negli stessi giorni piovigginosi lo sparire ad 
un tratto delle traccie d'umidore negli abitati, l'incrostarsi 
dei terreni, le oscillazioni elastiche di nuova corrente tra 
l'aria floscia. D'altra parte le nebbie, per lo più nei mesi 
di Novembre e di Marzo, non sono né lunghe, né fitte. E 
l'Istria non ha stagnanti acque, che la funestino. Vi sono 
bensì vallate le quali, per mancanza di buon governo agli 
sbocchi, rimangono sott'acqua, ove la pioggia ruini, ma non 
immolano che per breve tempo, poiché o altro vento secco 
o il caldo, soccorsi dalla natura calcarea del suolo, le ra- 
sciuga prima che gli effluvi si espandano e le nocive loro 
combinazioni si compiano. Che se ai lidi minori dell'Istria 
marnosa, la quale di sua natura lascia scorrere facilmente 
le acque sulla superficie, si formano sedimenti per le terre 
che quelle menano seco, come a Muggia, a Capodistrìa, a 
Pirano, il danno, che dalle paludi potrebbe venire alla sa- 
lute, é tolto parte dalle saline, in che le melme marine fu- 
rono convertite, e parte dai flussi del mare, il quale, bat- 
tendo limpido a rive scogliose, l'onda viva rinnova, stem- 
pera le sostanze mefitiche e ne corregge le esalazioni, spo- 
gliandole dei più crassi umori. 

Per l'acqua piovana segna qui l'udometro la media di 
circa 990 millimetri; le giornate di pioggia, pure a termine 
medio, sommano a no in un anno. L'Istria cosi fu ascritta 
per tale riguardo all'Italia padana, la quale porta la media 
jetografica di 930 millimetri. Quanto all'Italia tutta, ella 
conta una media di circa 100 giorni di pioggia; ma delle 
sue Provincie ve ne sono alcune, come la Garfagnana, che 
più dell'Istria ne annoverano, e più umide si giudicarono. 
Se poi consideriamo le cifre di 130 giorni piovigginosi ol- 


della Provmcia. 77 


tre l'Alpe nostra, di 140 all'alto Danubio, di 150 all'Oder, 
di 160 al Baltico, di 180 in Olanda, e perfino di 210 sulla 
costa orientale d'Irlanda, dobbiamo confortarci che l'Istria 
sia ben lungi da proporzioni, per cui possa esserle tolto il 
sorrìso del suo cielo d'Italia, sempre bellissimo, quando é 
bello. 

Ed é anche troppo bello, allor che i lunghi giorni di sic- 
cità volgono sulla misera campagna, si eh' ella scolora, arde 
e fa lagrìmevole contrasto col vivo azzurro di un sereno 
oltre ogni dire limpidissimo. 

Questo, specialmente nei mesi di Luglio e di Agosto, si 
ferma in cielo, per cosi dire, implacabile. 1 venti orientali 
ed occidentali, scambiandosi quasi con perìodo diuturno, 
spingono quinci e quindi della penisola i vaporì a formare 
altrove le nubi, che da una parte e dall'altra sorgono alte 
montagne ad attirargli, e quelle dell' Istrìa, diboscate e più 
umili come sono, non vi possono di mezzo. 

E quando lo scirocco o il maestro a vicenda si carìcano 
sull'estremo lembo dell'opposto orizzonte, addensandovi i 
neri nugoloni, e a vicenda l'uno sull'altro si rifa riman- 
dandoli, promettitori di larga pioggia, allora, mentre il 
nembo nell' obliquo suo traversamento sovra il golfo largo 
intorno si dispiega stracciato dai lampi, ad un subito o a 
greco o a libeccio solvesi le più volte nell'aere un gruppo 
di vento, il quale da prima rompe la fitta distesa delle nubi, 
spirandovi di fianco, poi le piega dal loro volo, e toglien- 
dole cosi all'impulso della propria corrente, termina in brevi 
istanti collo sperderle dall' orizzonte. Che se pure si gitta in 
questo cozzo una spruzzaglia sul suolo affocato, più perni- 
ciose ne sono le conseguenze per la maggior evaporazione 
che ne segue e il più vibrato agitamento dell'aria. Né rara 
sebbene non larga, é la gragnuola in si repentini trabalzi 
di temperatura. Cosi lo sperato beneficio o viene rapito o 
torna a maggior danno. 


78 Deir unità naturale 


Per rimediare a tanto male si pone studio da qualcHe 
anno ad imboscare i Carsi, che le povere acque dell'Istria 
non permettono alcun progetto provinciale d'irrigazione. 
L'impresa é lunga, ma il bene, che se attende, sia stimolo 
a proseguirla con assiduità e costanza, degne di un' opera 
grande. 

Le cose dette intorno agli umidori e alle siccità vengono 
a comento della temperatura. Non é vero che l'Istria di 
solito conosca solo due stagioni, la calda e la fredda. Si 
interpongono bensì, sempre per la grande varietà dei venti, 
giornate calde o fredde nelle stagioni medie, ma queste 
hanno buon corso di due ed anche di tre mesi. La prima- 
vera anticipa a spese dell'inverno, e d'ordinario comincia 
a farsi sentire già nel Febbraio, si che in sui primi di que- 
sto mese sì apre la violetta e mettono fiori i mandorli. Da 
altra parte l'autunno, se tarda, continuasi poi innanzi nel 
Decembre, ch'é solo di nome mese autunnale anco in paesi 
più meridionali dell'Istria. Fannosi i maggiori algori dalla 
terza decade di Decembre alla metà di Gennaio, e se pun- 
gono nuovamente nel burrascoso Marzo, tanto più funesto, 
quanto più mite e di bei giorni lieto sia stato il Febbraio, 
poco dimorano, capricciosi o, come qui suol dirsi, matti 
nelle loro vicende. È dunque mite il nostro verno, e la 
neve, che viene apportata dal levante, é rara al piano e non 
si gela mai, che anzi con danno della campagna ben troppo 
presto dimoia. E il forte caldo non ha regno che nei mesi 
di Luglio è di Agosto, ma asciutto, non umido, non sof- 
focante, e a certe ore mitigato dai venti maestrali e levan- 
tini, pei quali non possono dirsi molte le notti di copiosa 
guazza, sendo questa amica a sottil brezza e non a spiro 
più gagliardo. 

La media termometrica in Istria é di + 7^ + 2" d'inverno, 
e di + 23" + 20^ di estate. La barometrica, di 759 milli- 
metri. 


della Provincia. 


Quantunque poi breve assai sia la penis<rfa nostra, porc 
vi ha qualche divario di temperatura ua le due coste e k 
terre centrali. 

Quelle per le sinuosità, dove più difficìlinente si sperde 
il calore, sono men fredde delle seconde nel verno e men 
calde nella state, perchè più aperte ai venti di mare. Gli è 
però che nell'interno dell'Istria si fa più sensibile e rego- 
lare la distinzione delle quattro stagioni. E tra le stesse dae 
coste vi ha differenza, avendo l'orientale, battuu come è 
più presto dai venti freschi di X E, il periodo estivo più 
ristretto. 

Tutto ciò, che fu discorso dell'umido e del secco, del 
caldo e del freddo, porta alla conclusione, che il carattere 
stabile del nostro clima si é la instabiliti, e che da questa, 
e non mai dalle false ipotesi di aria malsana, deve ricer- 
carsi il principio di ogni giudizio intomo alla condizione sa* 
nitarìa della provincia. 

IGIENE* 

Le febbri intermittenti, che travagliano parecchi luoghi 
dell'Istria, sono l'unico morbo, che possa qui dirsi ende- 
mico. Ma lungi dall' aver causa da alcuna infezione atmo- 
sferica, vieu esso attribuito ormai da tutti gli esperti delle 
scienze mediche ai repentini mutamenti di temperatura, ai su- 
biti passaggi dal caldo al freddo nel periodo di poche ore, 
specialmente nei mesi, in cui l'umidità predisponga i corpi a 
sentire più presto i perniciosi effetti. Gli è però che l' au- 
tunno e la primavera, che sono le stagioni umide, si ren- 
dono ad un temporaneo le più fatali per le febbri. E se a 
quella d' autunno segua inverno asciutto, facilmente gli am- 
malati riprendono lena e guariscono. Ma ove continuino 
spessi ì mutamenti di temperatura, e la primavera vada tri- 


8o DelV unità naturale 


ste per pioggia più dirotte, il morbo ricomparisce più grave, 
e le recidive allora tanto maggior nocumento arrecano al 
già infievolito organismo. 

I fatti, che qui furono accertati, corrispondono perfetta- 
mente a quelli, di che in altri paesi di analoga condizione 
fu ampiamente discusso. Le grandi variazioni atmosferiche 
si trovarono da per tutto proprie ai paesi marittimi, e tra 
questi più ai lidi occidentali, e più ancora ai meno elevati. 
Cosi in Istria. La costa occidentale, che va propriamente 
da Salvore al Promontore, è la più soggetta all'insevire 
delle febbri. Per essa bastano le mutazioni ordinarie dell'at- 
mosfera a produrle. Quella invece volta a maestro, e più 
ancora l'orientale, non vi soggiacciono che coli' imperver- 
sare di straordinarie meteore. Mano mano poi che dalia 
costa si avanzi nell'interno della penisola, e in un mede- 
simo più graduali si avvicendino i mutamenti atmosferici, 
anco le febbri intercorrenti smettono, e vi sono molti luo- 
ghi, che non le conoscono, costantemente salubri. 

Ma sugli stessi lidi più esposti e più molestati dai venti 
occidentali, i quali rendono massima la differenza termo- 
metrica dall'ombra al sole, dal giorno alla notte, le città 
patiscono ben poco, sia perché gli aggregati edifizì gli uni 
agli altri fanno schermo contro il diretto soffio dell' aria del 
mare, sia perché più civili sono i costumi, e quindi più nette 
le abitazioni, più diffusi gli accorgimenti preservativi, più 
pronte le mediche assistenze. Parenzo da più di un secolo 
e Pola da parecchi anni ci offrono l'esempio del quanto 
possa contro le febbri intermittenti il moltiplicarsi di buone 
case. La prima, deserta dalle pesti del secolo XVII, ne fu 
per anni oltremodo desolata. Ma rifattasi, migliorò cosi anco 
nei riguardi delia pubblica salute, da potersi dire, già da 
molto uno dei soggiorni più salubri della costa occidentale 
d'Istria. E cosi Pola, accresciuta ora di edifizì, vede farsi 


della Provincia. 8i 


ogaor più ristretto il numero degli ammalati di febbre e si 
avvia a sempre migliore condizione igienica. 

Ma quelli, che sono costretti ad abitare nel contado, in 
vicinanza al mare casolari isolati, raccogliendo spesso, e la 
famiglia e quant' altro hanno fra quattro pareti mal riparate 
e peggio in essere di pulitezza, gì' infelici, che mal si nu- 
trono, che ad acque non sempre pure si dissetano, che di 
vesti disadatte si coprono, e che logorano la vita in aspri 
lavori sotto la sferza del sole, senza darsi pensiero del con- 
trasto dell'ardore, che soflFrono, cogli umidi venti occidentali, 
che freddano loro indosso il sudore, é ben naturale che più 
degli altri sottostieno all' endemia, non essendovi mutamento 
atmosferico, che non trovi tutto pronto ad esercitare su di 
essi ogni maligna influenza. 

Veggasi dunque quale missione abbia anche sotto questo 
riguardo in Istria la civiltà. Non si tratta già di aria mia- 
smatica, a cui venga meno umano provvedimento; si di 
male occasionato, é vero, dalle vicissitudini atmosferiche, 
ma disposto e svolto da un vivere non ancora dirozzato 
o non peranco tolto intieramente a pulirsi. E chi proseguirà 
a dare indirizzo alle molteplici forze dell'incivilimento? 
Forse l'ignoranza di qualche tribù slava, quella stessa, che 
più ha bisogno di soccorso? 

Il bene é in mano di chi lo comprende, della coltura, e 
questo privilegio, fonte di doveri, che sono diritti e di di- 
ritti, che sono doveri (passateci il gergo), pazzo chi sogna 
di rapirlo. 

Fisso adunque lo sguardo in volto alla civiltà, svelto il 
piede, larga la mano. E a tela ordita Dio manda il filo! 

Intanto facciamoci ad alcun che di speciale, alla questione 
dei medici di condotta. Essi mancano affatto alla campagna. 
Ecco pertanto manifestarsi malattia anco d'indole grave, e 
questa trascurarsi, o peggio ancora inasprirsi dai bizzarri 

6 


82 Dell' unità naturale 


suggerimenti delle donnicciuole del villaggio, perché non é 
a mano il medico. Avviene quindi ben di frequente che gli 
ammalati lo chiamino dalla città o da qualche borgo mag- 
giore a guarigione quasi disperata, se pure non preferi- 
scano di dare l'ultimo crollo alla vita col recarvisi in per- 
sona, perfino a piedi, miserevoli a vedersi. E in ogni modo 
come ripetere ad intervalli adequati le visite degli infermi 
di lontani villaggi; e per quanto generosi sieno i mèdici 
della città, come risarcirne per lo meno le spese di viaggio ? 

Le più imperiose necessità vogliono adunque la institu- 
ziorie di medici condotti, esposti pei villaggi d'ogni di- 
stretto nei più grossi comuni rurali. 

I fisici distrettuali, sorveglianti governativi di pubblica 
igiene, e non sempre clinici pei privali bisogni della cam- 
pagna del distretto, non possono certo rispondere allo scopo 
e se, come corre voce, verranno tolti, la pubblica ammini- 
strazione dovrà recarsi sempre più a coscenza l'obbligo di 
metter mano ad altro più efficace provvedimento. 

Né dovrebbe ella rimanersi estranea all' altra questione vi- 
talissima dell'acqua potabile, povera com'è l'Istria di sor- 
give, e bisognevole quindi di ricorrere allo spediente delle 
cisterne, dove accogliere e depurare l'acqua piovana agli 
usi della vita. Colle proprie forze fanno già molto gl'Istriani: 
tanto lo spirito del progresso del secolo, anco senz' altri 
ajutì, valse ad inanimarli. Ma ben molto ancora resta a farsi, 
che gli abitanti di non pochi villaggi debbono recarsi tut- 
tora a più ore di distanza, per attingere acqua non sempre 
buona, talvolta pessima, con che spegnere la sete e cuo- 
cere le vivande; e vi ha qualche luogo non povero di for- 
tuna, dove (cosa orrenda a dirsi) si rinnova lo spettacolo 
degli schiavi di Babilonia, ai quali era in bocca il lamento: 
aquam nostrani pecunia bibimus. E che taluno tardi il bene, 
perché il povero abbia a gettargli ancora nel pozzo qualche 
vile moneta, noi vogliamo credere, né lo crediamo. 


della Provincia, 83 


La cisterna, se scavata senza lusso di apparenze, non 
esige poi tale un dispendio, che possa sembrare troppo ar- 
duo all'associazione di più luoghi, tra cui ella avesse op- 
portuna posizione centrale. 

Ed é questo spirito di associazione, che spetta alla classe 
colta di diffondere e di governare cosi, da francarlo, e dalle 
insidie dell'avarizia, e dalle imprese senza consiglio di chi 
nell' operare non misura quanto dal fare al dire sia che ire. 

Maturo n'é il tempo e il campo si presta a ricevere 
buona semente. N' é prova la necessità dovunque ricono- 
sciuta di condurre nuove strade, di congiungersi alle prin- 
cipali, di scendere al mare. E sia pur tenuto per fermo, che 
a questo si rannoda ogni idea di miglioramento. 

DELLE STRADE. 

Simile a corpo, in cui ristagni il sangue, é terra senza 
strade. Vecchia verità, ma sempre nuova per chi non si 
vede tra' piedi che l'ombra del campanile. 

Ne sono di questi in Istria? No, la Dio mercé, e il po- 
terlo dire é buon conforto a sperare il meglio. 

Pur troppo non sempre le più costose' imprese si videro 
qui riuscire ai migliori risultamenti, non sempre le più utili 
furono prescelte, né avvenne che sempre fossero attenute 
le promesse, fosse posto il buon senno al governo dei la- 
vori, avesse trovato coscienza la fede dell' Istria, che pagava. 
Ed ella fece molto, e si può dir tutto a proprie spese, sia 
per le strade provinciali, sia per quelle di distretto e di co- 
mune, in questo veramente splendida nella sua povertà. 

Ma r errare insegna e il maestro si paga, né senza gravi sa- 
grìfizi si può arrivare ad un bene come quello delle strade, 
il quale abbia a rimanersi fondamento d' ogni morale e ma- 
teriale prosperità per la provincia nostra. S'intreccino le 


84 Dell'unità naturale 


vie di comunicazione in ogni miglior modo e quanto è più 
possibile, e le conquiste della civiltà si allargheranno, ella 
farà suo, nostro, quanto suo e nostro dev* essere, le occa- 
sioni, gli incentivi a più pingui vantaggi cresceranno, si 
avrà riconoscenza, lode, fidanza in casa e fuori. Né chi é 
in umore di fare il grave, spacciandosi per tirato al positivo, 
chiami queste parole che si dicono, poiché basta un girar 
d'occhi a vedere i fatti, li per picca dei contraddicenti. 

£ riandando i tempi, la vita, che auguriamo all'Istria, ci 
viene veduta all'ombra del genio latino floridissima. Allora 
una rete di strade stendevasi dall' un capo all' altro, da mare 
a mare. Da Trieste, ch'era unita alla gran piazza di Aqui- 
le] a, al bacino della Sa va e al golfo Flanatico, scendeva la 
strada principale, passava per Tribano di Buje e, giunta al 
Quieto sotto Grisignana, piegava per Castellier fino a Pa- 
renzo, donde, montata alle alture di S. Martino e condotta 
presso alla punta Barbariga, bordeggiava la costa fino a 
Fola per poi uscirne a raggiungere Albona, Moschenizze, 
Fiume. E le strade intermedie erano volte cosi alla gran via 
del mare, che tutta l'Istria le fosse fianco. 

Ma trascorsi i secoli di prosperità, il feudalismo paralizzò 
la provincia, e nei morti membri fu mestieri si dissolves- 
sero in polvere anco le strade. 

E il male sotto questo riguardo fu ben lungo. Quando 
l'Istria si trovò nel Regno d'Italia formato da Napoleone^ 
poteva dirsi senza strade, tanto le poche, che si segnavano 
quasi da sé, fondandosi, inerpicandosi, cosi da farsi innanzi 
alla meglio, vagavano incerte, interrotte, senza scopo pro- 
vinciale. 

Ai nostri tempi adunque il primo pensiero di una strada 
provinciale fu del governo italico. Ed ella fu condotta da 
Trieste per Zaule, Ospo, Covedo, Luchini, Socerga, Pin- 
guente, lambendo buon tratto dell'Istria superiore, poi per 


della Provincia. 85 


Tattìsanti, Grimalda, Novaco di Pisino e Pisino attraverso 
l'Istria inedia fino al centro della penisola e infine (più 
tardi sotto l'amministrazione illirico-francese) per Cimino, 
S. Vincenti, Dignano a Pola. Questa linea tagliava l'Istria 
pressoché a mezzo, cosi peraltro da tenersi alquanto più ad 
est, specialmente da Pinguente a Pisino, dove afFaticavasi su 
per monti affannosi, arduo passaggio ad ogni men leggiero 
trasporto. 

Fatto era il primo passo, né il tempo lasciava posare. 

Fu quindi applicato l'animo ad altra linea, che meno si 
discostasse dalla via del mare: e sotto il governo austrìaco 
la strada provinciale prese altro cammino più ad occidente 
nel suo tronco superiore fino a Pisino, fermo l'altro da 
questo luogo a Pola. A piccolissima distanza da Capodistria 
presso S. Michele, fu tolta giù dalla strada, che congiunge 
quella città a Trieste, e per S. Antonio e Gradigna fatta 
salire a Portole, scendere alla valle di Montona e quindi 
per questa città, per Novaco di Montona e per Vermo riu- 
scire allo stesso centro di Pisino. Fu detta di Montona, a 
differenza della prima chiamata di Pinguente. 

Ma di nuovo prevalendo l'idea di farsi più presso al mare 
con altra linea ugualmente almeno fino a Pisino, dal ponte 
di S. Nazario, a pochi passi da Capodistria, si fece andare 
con varie ritorte la strada provinciale per Gazone alla Dra- 
gogna e avanti per Castelvenere e Buje al Quieto sotto 
Grisignana; e quivi il pensiero di proseguire il cammino 
più dappresso alla costa anco nell'Istria inferiore avanza e 
dà addietro, tanto é il torcere, che fa la via, spinta da prima 
per Visinada al monte Tizzano, dalle radici di questo fin 
oltre Caroiba sotto Montona, per raggiungere l'altra linea 
provinciale di Novaco e Vermo. 

Questa é al presente la postale, mutata tre volte al di 
sopra di Pisino, nodo di ogni progetto, e sempre la stessa 


86 Dell'unità naturale 


invece al di sotto» con ciò solo che ne fu staccato un ramo 
da Cimino, centro dell' Istria inferiore, il quale si protende 
per Canfanaro fino a Rovigno. Si tornò bensì al piano di 
spingere la via provinciale oltre Tizzano diritta per Mon- 
paderno e S. Lorenzo a Valle, sulla strada, che va da Ro- 
vigno a Dignano, e quindi a Fola. Ma condotta con grande 
spesa a S. Lorenzo del Pasinatico fu lasciata li, strada 
cieca, che aspetta da molto le venga a dar luce il buon 
senso comune. Questo e gli altri tronchi di Montona e di 
Pinguente, abbandonati dalla manutenzione erariale, resta- 
rono strade distrettuali, vale a dire da conservarsi dai sin- 
goli distretti, che percorrono; che T ultima soltanto delle tre 
provinciali o postali, che si vogliano dire, viene ora dall'E- 
rario tenuta in governo. Presentemente poi lo Stato prese 
a condurvi la posta altra strada ancora apertasi attraverso 
la sezione orientale della penisola. Ella va da Pisino a Pia- 
nona, ch'era si triste nella sua solitudine, ed é quasi fune 
(diasi passata all'immagine) gittata agli abitanti di quell'ul- 
tima sponda italiana per toglierli ai fiotti del Quarnaro. 
Dove poi r aspro piede del Caldera si porge in mare, la 
stessa via fa volta e corre su per costa a prendere Mosche - 
nizza, Lovrana, Volosca, la strada dì Fiume. 

Né questa é la sola via, che metta l' Istria in comunica- 
zione coir intimo seno della Liburnia, che antica strada della 
Contea si parte da Pisino, volta a greco, e su per Vragna, 
valicato il Monte Maggiore, a quella regione si cala. 

Fu l'unica, fino a questi ultimi anni, che siasi lavorata 
a spese dell'Erario. Havvene ora una seconda. Al di là 
della Vena presso a Divaccia esce ella dal fianco della strada 
ferrata di Trieste e, preso perciò il nome di commerciale, si 
viene a noi per Rodic, Cernical, Covedo fino a Calanti, sulla 
prima strada provinciale, quasi a mezzo la distanza fra Capodi- 
stria e Pinguente. Ivi tra il continuarsi su di questa o il correre 


della Provincia, 87 


dintta ad infilare poc' oltre la seconda strada provinciale, si 
arrestò in forse. Vuoisi ora decìso il primo partito, e con 
esso stabilito il ritorno alla prima strada provinciale, la quale 
dovrà essere postale e commerciale ad un tempo da Gemi- 
cai in giù; più su propriamente commerciale nel suo tra- 
gittarsi a Divaccia, specialmente postale invece nel giro, che 
ha già fatto per ismontare al Risano ed accostarsi a Capo- 
distria, anziché riprendere il passo per la Noghera. E scopo 
provinciale, scopo commerciale, fu detto avesse pure l'al- 
tra strada aperta a congiungere Pinguente per Vodize a 
Obrou sulla strada, che va da Trieste a Fiume ad oriente 
di Divaccia. Predicevano strette di mano, baci, abbraccia- 
menti fra l'Istria e la Carniola. Non ne fu nulla, e s'in- 
colpò il vino, che marci sulle viti. Ora neanche questo, 
niente, la strada deserta. 

Ma torniamo alla recentissima, postale e commerciale. 

C'è da lanciarsi ad abbajare alle ruote della posta? Non 
ringhiamo per cosi poco. Vedrà il commercio risurrezioni? 
Comunque; una strada verrà ricostruita, corretta, per lungo 
tratto dell'Istria intema più bisognevole di soccorso, ed 
ecco buono in mano, se non a ciò che altri si creda, per 
quello vogliam noi. Il male si fu da principio nel mettere 
il primo scaglione in alto, quando più sotto non vi era al- 
zata. Lo stesso ingegno poi pel secondo scaglione, sempre 
dall' alto al basso, quasi non convenisse prima salire, perché 
si discendesse, e non fosse officio della coltura, spedita della 
persona, lo ascendere a sdormentire la raggricchiata selva- 
tichezza. Si venne alla terza pedata, si andò innanzi quasi 
a mezzo del cammino, si tornò addietro, si tornò ad avan- 
zare, si fé' punto, quando il sagrificio maggiore era già fatto 
e si correva alla meta. Ma era troppo anche cosi, la scala 
andava formandosi in senso inverso, non bene, ma si da 
potersi in qualche modo fare e rifare. Ed ora? Ora anche 


88 Deir unità naturale 


il malfatto è fatto, e meglio cosa fatta che cento da fare^ dice 
il proverbio. Si conservi, si migliori ciò, che si ha, si com- 
pia ciò, che va compiuto, e la provincia avrà di che av- 
vantaggiarsi. Intanto proseguiamo a costringere la mente 
tra le linee delle strade nostre, passando da quelle, ch*eb- 
bero scopo provinciale alle altre più notevoli, e in uno alle 
vicendevoli loro connessioni ed avviamenti a migliore in- 
treccio. 

Abbiamo già detto che l'Istria va distinta dalla stessa 
natura in tre regioni, la superiore, la media, T inferiore. 
Ora al lembo settentrionale di ciascuna di esse vediamo 
formata o presso a formarsi dall' un capo all'altro strada 
continua. L'Istria superiore é fiancheggiata da quella già 
detta, che si muove da Trieste a Fiume. Fra la superiore 
e la media, prima il nuovo tronco fino a Galanti o la via 
di Capodistria per S. Antonio prolungata fino a questo 
luogo medesimo; quindi la prima strada provinciale, che va 
a Pinguente. Da questa città poi vi é battuta per Rozzo e 
Lupoglavo fino a Vragna e merita di essere presa in grande 
considerazione pegli opportuni lavori, attaccandosi ella alla 
via del Monte Maggiore cosi che viene a formare senza in- 
terruzione alcuna la linea più breve e più comoda, che possa 
tracciarsi dalle coste dell'Istria media a quelle di Fiume. 
L'Istria inferiore ha strada già compiuta per tutto il suo 
fianco settentrionale. Pirano infatti si congiunge con Buje 
per' mezzo della distrettale, e da questa città la terza pro- 
vinciale corre fino a Pisino, dove passa direttamente in 
quella, che giunge Fianona. Ciò delle strade, che si succe- 
dono parallele, e orizzontali all'inclinazione da greco a li- 
beccio della provincia. 

Prendendo poi a considerarle pel lungo della penisola, se 
ne presentano cinque, tra cui una già quasi a termine, le 
altre non ancora, divergenti tutte inverso settentrione per 


r 


; 


della Provincia, 89 


attaccarsi a lunga linea da Duino a Fiume, convergenti in- 
vece a meriggio per far capo a Dignano, e di là, unite in 
una, prolungarsi fino a Pola. 

La prima linea più davvicino al mare di Venezia é la 
più spezzata, quantunque apparisca del maggior momento 
a congiungere porto con porto della costa, e sia scolpita 
dalla natura a veicolo tra l' Istria e il basso Friuli; Da Duino 
a Trieste, a Capodistria non interrotta, sta ora inoltrandosi 
lango spiaggia franosa ad arrivar Isola, e continuarsi sulla 
via, che va da questa città a Pirano. Utilissima per Capo- 
distria e Pirano, essenziale per Isola. L'altra strada, che da 
Pirano si dirige a Buje per la valle di Siciole, può dirsi 
costiera fino a questa, non più oltre, quantunque per la 
ottima via di Verteneglio vada a riguadagnare il mare a 
Cittanova. Savio consiglio adunque, se quella in vista al 
Porto Rose si portasse con un ramo per la Madonna del 
Carse a Umago, e di là scendesse per S. Lorenzo di Dalla e 
Dalla al gran porto del Quieto. Dicesi che una strada verrà 
dallo Stato aperta di fianco alla foresta di Montona lungo 
la destra sponda de! Quieto fino all'ultimo corno di quel 
seno di mare. Sarà allora migliore opportunità, partiti per 
questa da Cittanova, di passare il Quieto più su, e tra i 
villaggi di Torre, di Fratta, di Abrega, di toccare il porto 
Cervere, e colla via della Valle di S. Martino a brevissima 
andata di entrare in Parenzo. E Parenzo e Orsera sono già 
unite. Ma ecco frapporsi il canale di Leme. Il passo non 
é facile, ma non é da lasciarsi cadere l'animo. E che in- 
fatti S. Lorenzo si rimarrà sempre lassù? Troppi interessi 
si premono in quel ronco senza riuscita, da non isfondarlo, 
e certo non andrà molto che si verrà giù al chiudersi del 
Leme per passare a Valle. Quivi la linea cade a perpendi- 
colo ed é parallela alla via da Parenzo ad Orsera. Come 
dunque dall'una all'altra estremità meridionale delle due 


90 Dell* unità naturale 


strade al Leme, non si metterà per cosi dire da sé una 
traversale, se poco più oltre il canale, si va quinci a Ci- 
mino e quindi a Rovigno, e di più si procederà diritti per 
Valle a Fola? 

La zona infine, che da Rovigno a quest'ultima città si 
mette di mezzo fra la strada loro e il mare è si stretta, che 
non potrà non farsi più costale, spiccando mano mano, dove 
meglio, tragitti alla costa. Cosi già fece da Dignano a Fa- 
sana, e cosi volevasi facesse da Valle a questo porto me- 
desimo, dove animato commercio di legna ha scalo. 

Cosi, presa pur cura di Medolino, andrebbe a compiersi 
per la lunghezza della provincia la prima linea. 

La seconda, ch'é una colla prima fino a Capodistria, va 
sulla terza provinciale fino a Tizzano e recasi a S. Lorenzo 
su quella, che dovea essere la quarta, e che quinta o sesta, 
provinciale o non provinciale, a Valle, a Fola andrà. 

La terza comincia colla commerciale, in viaggio sui monti 
e da Galanti vuol dar la mano a Gradigna, per correre 
colla seconda provinciale fino a Fola. 

La quarta ha prima la strada da Obrou a Pinguente, essa 
pure presentatasi col nome di commerciale in viaggio, ma 
che sembra abbia finito di viaggiare; prende poi la prima 
provinciale, e con essa se ne va fino a Novaco di Fisino, 
destinata a dirizzarsi un giorno, che affrettiamo col deside- 
rio, a Galignana e a Fedena, e quindi ad attraversare, pie- 
gata a mezzogiorno, il paese più morto dell'Istria fino a 
Barbana, là dove ritorna la vita, e si farà maggiore mercé 
la strada proposta a condursi per questo luogo da Albona 
a Dignano. V abbandono di una buona sesta parte dell'Istria 
degna di miglior sorte, come già altra volta lo fu, le spe- 
ranze di quella costa disertata per cosi dire d'ogni conforto, 
fuorché dall'onore e dal coraggio de' suoi marinai, recla- 
mano (e la civiltà di Albona e di Dignano vi sta presso a 


della Provincia. 91 


guarentigia) questa via di comunicazione, la quale sarà poi 
invito all'altra, che dicemmo, appiglio alle trasversali dal 
mare, nonché parte vitalissima della quinta linea. La quale 
infatti, sulla strada del Monte Maggiore fino a Passo, lascia 
la direzione verso Pisino per mettersi a Chersano, correndo 
via da aversi ben cara; e di là e poi da Vosilla riesce ad 
Albona, a cui per lo stesso tronco vien pur V altra dalla co- 
sta libumica. 

Toccato cosi di ciò, ch'é o dovrebbe essere delle strade 
sia per lo lungo della provincia, sia nel senso del suo ada- 
giamento, prendiamo ad avvistar quelle, che la percorrono 
nella sua larghezza, o tornerebbe utile la percorressero dal- 
l' una all'altra costa nell'Istria inferiore, dal mare alla cinta 
montana più sopra. 

Di presente non havvene ancora alcuna, che compia suo 
uffizio. Ma si spera fra non molto di possederla, e propria- 
mente per mezzo all' Istria. È già da qualche anno infatti 
che fu progettata una strada da Parenzo a Pisino per linea 
diritta, al bivio colà dalle due strade, che vanno Tuna al 
Monte Maggiore, l'altra a Fianona. Ella pertanto al privi- 
legio di essere la più centrale aggiungerebbe quello di ser- 
vire ad un tempo al doppio scopo di condurre e dall'una 
all'altra costa e dal mare ai monti. N'é dunque ben troppo 
grave l'interesse, perché piccole differenze di ondeggia- 
mento a toccare questo o quel luogo, abbiano ad indugiarla. 

A settentrione di questa linea dopo i tronchi notevoli di 
Villanova e Visignano e di S. Domenica, che menano da 
Parenzo alla strada provinciale, altra dal mare ai monti si 
presenta non meno naturale che vitalissima. Fu già detto 
della strada in voce da Cittanova al ponte sul Quieto sotto 
Grisignana. Cosi, secondato questo cammino, suggerito dal 
fiume, s'imbocca la strada della valle di Montona, e per 
quella dei bagni di S. Stefano si approda Pinguente. Da un 


92 Dell* unità naturale 


canto la posizione importante che, va ad occupare questa, 
città al confluire delle vie dai monti, sulla quarta linea lon- 
gitudinale e a mezzo la discorsa strada fra il golfo di Trieste 
e quello di Fiume; e dall'altro ubertose vallate, boschi, le 
sorti del porto Quieto additano alla provincia questa linea 
come voluta da vantaggi di gran prezzo : linea, su cui inol- 
tre per la strada provinciale e per la comunale di Grisi- 
gnana scendono da Buje le altre due di Umago e di Pirano. 

Ancora più su poi é Sterna, che accenna ad altra strada 
trasversale. Ella infatti, a non lunga distanza dalla stessa 
Pinguente, e in comunicazione con Umago per Buje, e con 
Pisino, quantunque non direttamente ancora, per Momiano 
e pel nuovo tronco da Valcastel venere a Valsiciole, mostra 
breve il tratto a conseguire un nuovo pegno di unione tra 
r Istria montana e la costiera. 

Ora a recare lo sguardo sui paesi, che stanno a meriggio 
della detta linea centrale, non è mestieri avvertire che la 
strada progettata da Dignano ad Albona, servirà pure, colle 
sue propaggini di Fasana e di Pola da una parte e di Al- 
bona dall' altra, a congiungere il mare di Venezia col Quar- 
nero. E tra questa e la centrale medesima la postale, che 
va da Rovigno a Cimino, angolata solo ad occidente dalla 
provinciale, aspira ad esserlo pure ad oriente, spinta per 
cosi dire dallo stesso suo andamento a farsi su quella linea, 
che porta i nomi di Galignana, di Pedena, di Chersano, di 
Fianona. E come ora da Canfanaro, quinci per S. Pietro 
in Selve e quindi per S. Vincenti, vi ha buona strada a far 
base ai due triangoli N O e S O di Gimino, si che or dianzi 
vi attirò per qualche tempo la posta, vi ha ragione a spe- 
rare ne verrà imitato l'esempio anco sull'altra convergenza 
di linee ad oriente, per que' luoghi, che non furono certo 
condannati a rimanersi da meno degli altri. 

Molte cose ancora del già fatto e più assai del da farsi 


della Provincia. 93 


resterebbero a dirsi, ma diramandosi esse dall'idea com|rfessa 
della provincia, più specialmente si appartengono aOa vita 
dei distretti, i quali man mano ci richiameranno negli anni 
appresso a speciali ragionamenti. 

Aggiungeremo per altro che se F Istria paga e strade pro- 
vinciali e distrettuali e comunali, dovrebbe avere un centro 
di comune indirizzo, da cui le venisse miglior sicarezza di 
spendere con profìtto. 

La Società Agraria d'Incoraggiamento, l'istituzione della 
quale ci vien detto maturarsi ora da buoni ingegni, a cui 
l'amor di patria é stimolo, ben sarebbe da tanto. Ella infatti 
ad esaminare i bisogni, farli comprendere, valere, interporsi 
mediatrice, associare gli animi, vigilare all'eseguimento dei 
formati progetti e intendere altresì alla partizione e alla 
qualità dei contributi; imperocché alle addizionali sull'im- 
posta diretta potrebbonsi, non solo per le strade comunali, 
ma anco per le distrettuali, sostituire riguardo a questo o 
a quello meno in essere di fortune, le prestazioni di lavoro. 

Le vie di comunicazione si moltiplicano dovunque, e il 
miracolo del vapore toglie le distanze. Da Trieste parte la 
strada ferrata per Vienna, e un ramo ne andrà a congiun- 
gersi con quella del Friuli, a Casarsa. La via del mare, a 
cui l'Istria é chiamata, ci sta di mezzo, e come dall'una 
all'altra sponda ci salutiamo, dall'una all'altra dobbiamo 
animarci a progredire. Il ristarsi per noi sarebbe l'isola- 
mento, la povertà. Produrre viemmeglio e aprire quanto 
più di vie alle produzioni, e non vi avrà timore di gelosia 
verso terra sorella I mercati comuni dividono gl'infingardi, 
gli operosi invece ognor più affratellano: e gl'Istriani, di 
spiriti alacri alla fatica, si mostreranno sempre quai sono, 
e non quai li dipingono, per ignorare o per far che s' ignori, 
i falsatori de' loro intendimenti. 


NOTIZIE STORICHE 
INTORNO ALLE SALINE DELL'ISTRIA 

(Dalla Porta Orientale, 1858) 


L 


ra fabbricazione del sale in Istria rimonta a tempi antichi. 

Ella ne faceva traffico prima ancora del veneto dominio, 
e quando passò sotto di questo, fu lasciata libera di con- 
tinuarlo senza restrizione alcuna, la decima all' infuori, che 
andava alla città. Vendevasi il prezioso prodotto, oltre che 
in provincia, a Venezia, nel Friuli, ed anco alle genti della 
Carniola, della Carinzia e della Stirìa. 

E la repubblica patrocinò T industria con ogni studio, ed 
anzi quando vide che il sale di Trieste faceva concorrenza 
a quello delle altre fabbriche istriane, prese perfino le armi 
ed impose a quella città condizioni restrittive del suo com- 
mercio. 

Fu allora che Capodistria, per dimostrarsi grata a si ener- 
gica protezione, decretò si assegnasse al doge la decima dei 
sali e i dazi tutti. 

Ma a quest'epoca di prosperità per le saline dell'Istria 
segui altra di decadenza, che l'Austria, fatto suo il sale di 
Trieste, e di regio diritto l'altro, che le veniva dal regno 
delle due Sicilie, assoggettò quello d' Istria a grave balzello. 
Cosi ne fu di molto scemato lo smercio, e il prodotto im- 
poveri. 


r 


Notiiie Storiche, ecc. 95 


Venezia allora si appigliò ad estremo partito. Ordinò nel 
1721 si acquistassero per conto della repubblica tutti i sali 
fatti e da farsi, non se ne potesse produrre maggior quan- 
tità di quella, che essa d' anno in anno avrebbe stabilito, se- 
condo i bbogni dello Stato, e fosse proibita la costruzione 
di nuove saline. Comandava poi ad un tempo, si ponesse 
ogni cura a migliorar quelle che erano in lavoro, si perfe- 
zionasse la fabbricazione del sale, e questa si prendesse a tema 
di studi, insegnasse apposita commissione di periti in arte. 
Voleva insomma vincere colla bontà del prodotto. 

Ma i proprietari si tolsero giù d' animo e anneghittirono, 
avvegnaché troppo mal rispondente al guadagno fosse la 
spesa. Fu quindi costretta la repubblica a ridonare, non solo 
le antiche franchigie alle saline d'Istria, ma a persuadere 
altresì, se ne fabbricassero di nuove. E tali disposizioni 
furono accompagnate da generose prestanze. 

Ma quando appunto cosi risorgeva l'industria, la presi- 
denza economica del ducato di Milano si tolse da ogni 
obbligo con Venezia per l'acquisto dei sali d'Istria, di cui 
le venivano tardate le spedizioni. Quindi nuova decadenza 
e nuovi limiti alla produzione. E fu in quegli anni che le 
saline dell'Istria passarono prima all'Austria (1797), poi al 
Regno d'Italia (1805). 

L'Austria tolse la limitazione e, facendo ella pure del sale 
sua privativa, alzò il prezzo, a cui lo avrebbe acquistato dai 
proprietari. U governo poi del Regno d'Italia lo portò più 
alto ancora, né risparmiò sovvenzioni. Ma di ciò e dei 
tempi appresso, nelle osservazioni qui sotto intorno a cia- 
scuno degli stabilimenti saliferi dell'Istria. 

DELLE SALINE DI MUGGIA. 

Lo stabilimento delle saline di Muggia si restò sempre 
addietro a quelli di Pirano e di Capodistria. 


9 6 NoHiie Storiche 


Nel decennio, che si compiva col 1806, esso non contava 
più di 440 cavedini in lavoro, e questi davano l' annuo pro- 
dotto di 3390 centinaja di sale. Segui tempo migliore, che 
ai torrenti Rebujese e Reca fu determinato il corso, mercè 
i molti lavori fattivi eseguire dal governo italico e dagli 
stessi proprietari delle saline per sottrar queste ai rovinosi 
allagamenti. E a ciò si aggiunse la generosità dello stesso 
governo, il quale fu largo di sovvenzioni ai proprietari, 
perchè rifacessero i fondi disertati e quelli già in lavoro 
ristaurassero. Erano questi miglioramenti di grande impor- 
tanza, e tanto più adunque veniva opportuno allo stabili- 
mento il considerevole accrescimento di prezzo accordato 
al sale dal pubblico erario. 

Siffatti provvedimenti non ebbero tutto l'effetto, a cui va- 
levano, ma fruttarono e fruttarono bene. Cosi le saline di 
Muggia presentavano nel quinquennio 181 8- 1822, 907 ca- 
vedini in buona coltura con un prodotto annuale di 11 878 
centinaja di sale. 

Ma il progresso fu tardato nel 1824 da quella legge am- 
ministrativa, per la quale veniva tolta alle saline dell'Istria 
la facoltà di fabbricare quanto sale potessero: facoltà che 
avevano goduta dal 1797 in poi, e ch'era stimolo a farsi 
innanzi sulla via dei miglioramenti. In sua vece venne or- 
dinata nel 1842 una limitazione, vale a dire fu posto il di- 
vieto di far sale in quantità maggiore alla prefissa dal go- 
verno, la quale era stata calcolata sul medio prodotto del 
detto quinquennio 1818-1822. 

Dietro ciò, se le saline di Pirano e di Capodistria pote- 
rono raggiungere il 1842, nel quale sulla base dell'area fu 
stabilita la limitazione meno stringente, che tuttora sussiste, 
sempre variabile d'anno in anno, secondo i bisogni delio 
dello Stato, non furono in grado di fare altrettanto le sa- 
line di Muggia, i proprietari delle quali erano ancora sbi- 


intorno alle Saline dell' Istria. 97 

lanciati dalie gravi spese date ai restauri. La legge del 1824 
fu quindi per esse mortale: avvenimento tanto più deplo- 
rabile che allora appunto cominciavano a consolidarsi i 
fondi e allora vedevasi di giorno in giorno meglio av- 
viato a perfezionarsi il lavoro; si che già non più le sole 
donne, come per Taddietro, ma molti uomini ancora si ado- 
peravano con impegno alla fabbricazione del sale. I pro- 
prietari, che a stento potevano far fronte agli ordinarj di- 
spendi, visto il poverissimo frutto, che andavano a percepire 
dai capitali impiegati, caddero d'animo. Né minore si fu 
r avvilimento degli operai, che si trovarono scemato il la- 
voro, assottigliata la mercede. 

In breve adunque ogni cosa andò a disordine. Non pas- 
sava anno senza che Tuno o T altro dei proprietari abban- 
donasse qualche fondamento. E di ciò, che si continuava a 
coltivare, davasi nuovamente il governo alle sole donne, le 
quali, se non vi erano atte per lo passato, tanto meno al- 
lora potevano esserlo col più di estensione, che i fondi 
saliferi avevano guadagnato. Si trascorse quindi di male in 
peggio fino a non aversi nel quinquennio i823-27^altra ren- 
dita dal cavedine che di 6 centinaja, quando pochi anni prima 
ella passava le 13. Pei proprietarj tutti poi l'introito di 
miseri fiorini 569. 

In si dolorosa condizione di cose venne in mente al go- 
verno di sopprimere nel 1829 le saline di Muggia, indot- 
tovi e dal poco sale, che ne cavava, e dal molto danaro, che 
vi spendeva per vigilare uno stabilimento, il quale, cinto a 
brevissimo andare da campagne, si pr^tava facile assai al 
contrabbando. 

I proprietarj ebbero in compenso una somma di denaro 
conteggiata sulla metà domenicale del reddito netto di sette 
anni, alla media dell'ultimo decennio. Di più furono loro 
rimessi i debiti, che avevano verso l'erario per sovvenzioni 


98 Not'iTJe Storiche 


ricevute dalla Repubblica, dal Regno d'Italia e dall'Austria: 
debiti, che vuoisi sorpassassero il valore di allora di tutte 
quelle saline. 

I fondi furono lasciati a libera disposizione dei proprie- 
tari, e fu loro suggerito se ne vantaggiassero per l'agri- 
coltura. Ma le fortune non erano da tanto. E vasto terreno 
paludoso restò per lunghi anni non più clie scomposto 
avanzo e triste memoria della soppressa industria. Ora per 
altro non é cosi; che il sig. Tonello, proprietario di un 
cantiere sulla riva di Muggia e di campagna limitrofa alle 
antiche saline, ne acquistò i fóndi e merita lode per.l'ado- 
prarsi, che fa a ridurli a peschiere, a prati, a campagne. 

DELLE SALINE DI ZAULE E SERVOLA. 

Di queste, spettanti al territorio di Trieste, non fa parola 
il Rapporto, perchè nel 1806 n'era l'Austria al possesso. 
Esse entrarono si l'anno 1809 nelle provincie illirico -fran- 
cesi, ma ebbero amministrazione disgiunta da quella delle 
saline di Pirano, di Capodistria e ,di Muggia, le quali con- 
tinuarono a rimanersi al Regno d'Italia, non meno che i 
boschi, anche dopo la separazione. Diverso fu quindi fino 
al 18 14 anche il prezzo del sale, che pagavasi ai proprietarj. 

Le stabilimento di Zaule e Servola èra diviso in 37 fon- 
damentl, che avevano lO'^o cavedini 

Unito agli altri dell'Istria nel 1815, ne subi le stesse vi- 
cende fino al 1829, e pei motivi già addotti riguardo a 
quello di Muggia corse ugual sorte e fu soppresso. 

DELLE SALINE DI CAPODISTRIA. 

Quando le saline dell'Istria passarono sotto il governo 
del Regno d'Italia,, quelle di Capodistria non avevano che 
rimproverare a Muggia, tanto n'era l'abbandono, si povero 


intorno alle Saline dell* Istria, 99 

e male inteso il lavoro. Basti ricordare che ben la metà 
dei fondi si stava da molti anni senza coltura. 

Visto quanto poteva tornar utile alla provincia cotale 
industria, e qual ottimo vantaggio ne veniva allo stesso 
governo, il quale aveva da fornir sale alla provincia ve- 
neta, alla lombarda e ad ogni altra parte del regno, la 
pubblica amministrazione pose tosto opera a rilevare le sca- 
dute condizioni delle nostre saline. 

E per Capodistria la misura di maggior momento si fu 
quella di meglio profondare qua e là il Ietto del Risano e 
del torrente S. Barbara, di governarne il corso e di alzarne 
gli argini, per impedire, e il trabocco delle acque correnti, 
e le innondazioni del mare. A mettere poi i proprietarj in 
grado di meglio curare le saline già in lavoro e di ritornare 
in buon essere le abbandonate, il governo largheggiò loro 
ricche prestanze, senza esigerne interesse alcuno e stabilen- 
done la restituzione in rate; e tutto ciò in un medesimo che 
accresceva il prezzo del sale a favore degli stessi produttori 
ben oltre il doppio di quanto fino allora soleva pagarsi. 

Ma tutto questo (cosa singolare a dirsi, ma vera) nulla 
giovò al prodotto delle saline di Capodistria. E n'erano 
cagione le circostanze speciali di questa città. Ella invero 
vedeva tutti i fondi delle stabilimento in mano alle famiglie 
civili, le quali non vi attendendo in persona, non valevano 
certo a dare all'industria quella vita, che sapeva infonderle 
Pirano, dove i più dei proprietarj di propria mano si lavo- 
ravano le saline. Inoltre gli altri abitanti di Capodistria, 
agricoltori e pescatori, sprezzavano tutto ciò, che non sen- 
tisse delle dure fatiche dell' agricoltura o dei disagi e dei 
pericoli della pesca e nutrivano il pregiudizio che la fab- 
bricazione del sale fosse arte da lasciarsi alle donne, come 
sempre per lo addietro s' era lasciata. Inutili quindi le spese 
profuse dall'erario, dal fondo sociale e dai singoli proprie- 


100 Notizie Storiche 


tari, e tanto inutili che lo stabilimento di Capodistria ce- 
dette non solo a quello di Pirano, ma perfino all' altro di 
Muggia. I cavedini, non più che 2200 nel 1806, erano si 
3844 nel quinquennio 18 18-1822; ma è ciò anzi, che di- 
mostra quanto avesse dato addietro l'industria, perchè il 
prodotto del cavedine nel detto quinquennio fu di molto 
minore a quello del 1806. E la prova n'è evidente. Leg- 
gesi nel Rapporto che nel settennio compiutosi col i8o6 
s'erano raccolte 26,375 ™oggJ^ ^i sale, ossia col raggua- 
glio del centinajo a 15 per moggio, annue centinaja 56517, 
delle quali in conseguenza quasi 26 per ciascheduno dei 
2200 cavedini. Ora nel quinquennio 18 18- 1822 vi fu si un 
complessivo prodotto di 444053 centinaja; ma calcolando 
quanto delle annue 88810 centinaja toccasse a ciascuno 
dei 3844 cavedini, vediamo il prodotto del cavedine minóre 
di due centinaja e mezzo a quello del 1806. Ecco gli effetti 
del lavoro delle donne. Se le operaje di Capodistria non 
erano al caso di far proceder bene l'industria con 2200 
cavedini, come lo avrebbero potuto con 3844? 

L'anno 1824 nello stabilimento di Capodistria doveva 
succedere altro fatto singolare, ma per avventura questa 
volta in bene. 

La legge di quell' anno invero fu per esso causa indiretta 
di notevole miglioramento. Capodistria non aveva operai, 
salvo pochissimi, che, venuti da Pirano a fabbricar le nuove 
saline, erano stati presi a stabile servigio da alcuni proprie- 
tari. Pirano invece ne abbondava, e quando le fu ristretta 
la produzione, dovette vedersene buon numero tolti al la- 
voro. Fu allora che questi trovarono impiego in Capodi- 
stria e coir esempio ne trassero altri, si che molte saline 
di quella città poterono cosi affidarsi a lavoratori esperti ed 
operosi. In breve dal confronto tra i fondamenti governati 
da essi e quelli tenuti alla meglio dalle donne fu chiaro 


I 


intorno alle Saline dell'Istria. loi 

quanto la perfezione del lavoro contribuisse all' aumento del 
prodotto. Ne venne quindi che si ponessero a studiar quella 
anco gli operai di Capodistria, né stimassero più cosa vile 
r apprendere e Y esercitare si vantaggiosa industria. È quindi 
di conforto il vedere come in oggi l'opera loro pareggi 
quella dei Piranesi, e la nobil gara si vada facendo ognor 
più viva. 

Quanto in mezzo a questi avanzamenti dovesse tornar 
profittevole la nuova limitazione, di cui si fece parola più 
sopra, e che viene tuttora normeggiata tanto sull'area in 
generale di tutti i fondamenti^ quanto su quella di ciascuno 
in particolare, torna facile immaginare. Ormai le donne non 
dirigono più che qualche trascurato fondamento o vengono 
occupate come semplici adiutrici. E, mentre per lo passato 
non vi avevano case, ove custodire il sale raccolto, si che 
talvolta gli acquazzoni lo sperdevano quasi tutto, ora ne é 
ben provveduto ogni fondamento. 

La perfezione del lavoro avanzò cosi, che ormai il pro- 
dotto del sale, quantunque limitato dalla legge, é ben del 
doppio maggiore di quello si avesse colla medesima esten- 
sione di fondi al tempo, in cui alla fabbricazione non era 
posta restrizione alcuna. 

Valgano in prova le seguenti cifre. 

PRODOTTO IN CENTINAIA 
Qtiinqnennale Annuale Per cavedino 

Ultimo quinquennio 185 2-1 856 (pe- 
riodo di limitazione) sopra 3844. 
cavedini. 889788 177959 46:28 

Quinquennio 181 8-1 822 (periodo di 
libera fabbricazione) ugualmente' 
sopra ^S44 cavedini 444053 88810 23:10 

Diflferenza •. . . . 445735 89199 23:18 


102 Notizie Storiche 


Quanto adunque non andrebbe a farsi maggiore l'au- 
mento di produzione, ove, ammegliorandosi sempre più l'in- 
dustria, potesse ella vedersi un giorno svincolata da ogni 
inceppamento. 

DELLE SALINE DI PIRANO. 

Queste hanno il vanto sopra le altre, e l'ebbero sempre. 

Quando il governo italiano, forse in conseguenza al Rap- 
porto del Bargnani, ingiunse che si ponesse cura a fare il 
sale oltrecché nero e misto, quanto più si potesse bianco 
ancora, e però appunto ne vennero aumentati i prezzi colle 
proporzioni già indicate, l'ordine fu certo meglio incon- 
trato nelle saline di Pirano che altrove. Quantunque là pure 
sieno corsi più anni prima che l'industria vi facesse pro- 
prio un vero miglioramento, nulla meno, conosciutosi da 
tutti che la bianchezza del sale era in ragione diretta della 
buona Uvellatura dei fondi, furono primi i Piranesi, che co- 
miciarono ad attendere alle saline anco nel verno per ri- 
parare sull'istante ad ogni guasto e togliere cosi il danno, 
che deriva alla nettezza del prodotto da recenti ed afFret- 
tati lavori. 

Cosi s'anco le nuove saline, prima di farsi ben sode, non 
poterono dare che sale nerissimo e a Muggia, e a Capodi- 
stria, e a Pirano per parecchi anni, questa parità di condi- 
zioni andò bene a cessare, e noi troviamo che già nell' anno 
1818 la quantità del sale bianco di Pirano superava quella 
del misto degli altri due stabilimenti. Le saline di quella 
città progredirono quindi sempre più fino a non produrre 
che sale bianco; e da esse uscirono quei lavoratori, che 
insegnarono a portare tanto innanzi l'industria anco in 
Capodistria, si che al presente per consegnare la misura di 
sale grigio ordinata dal governo, conviene nell'uno e nel- 


intorno alle Saline deW Istria. 103 


r altro stabilimento rimescolare il bianco tanto, che imbru- 
nisca. Ma perché le saline di Capodistrìa siano poste a paro 
definitivamente a quelle di Pirano, é duopo si livelli ben 
più di qualche fondo ancora, si accresca il numero degli 
operai, si addestrino questi ognor più a mettere in effetto 
quanto vennero a conoscere, e innanzi tutto prendano lena 
i proprietari, e movano. 

Né riguardo allo stesso stabilmente di Siciole può dirsi 
che tutte le vie al progredire siensi ornai lasciate addietro, 
cosi che il bene non abbia più dove mover passo. Si può 
avanzar molto ancora. Non già (come il rapporto ebbe a 
proporre) selciando il fondo delle saline, che l'impresa si 
torrebbe ben io milioni di lire italiane, ossìa il triplo del 
valore jdegli stessi stabilimenti; ma proseguendo alacri a 
sempre più amraegliorare ogni fattore dell'industria sulla 
base del già fatto, e ad allargare il campo alla produzione. 
E niuno può dire a quali grandiose proporzioni potrebbe 
recarsi questa, ove fosse tolta la limitazione e venisse ac- 
cresciuto il prezzo del sale a vantaggio dei proprietari : 
prezzo che ora nella maggior sua misura di carantani 26 ' 
al centinaio pel sale bianco, netto da ogni parte eteroge- 
nea, é inferiore a quello che pagavasi pel nerissimo, con un 
terzo di fango, ancora dalla Repubblica quando la lira di 
oggi aveva per lo meno il valore di un grosso ducato. ' 


1 II carantano, moneta aastriaca ora faori di corso, corrispondeva a quattro cen- 
tesimi di lira italiana. 

3 Riguardo al prezzo che solveva la Repubblica vi ha sbaglio nel Rapporto. Ella 
pagava il sale a venete lire 30 il moggio, e non a lire italiane 20 che corrispon- 
dono a 40 all' incirca di quelle. Ma qnesti e gli altri errori notati possono ben per- 
donarsi a chi afferrò bene, se non tutte le parti, il concetto principale dell'industria, 
e provocò dal governo italico tatti quei vantaggi, di cui fu discorso. 


104 


Notizie Storiche 


Chiudiamo queste osservazioni col pubblicare i seguenti 

CONFRONTI DI PRODOTTO NELLE SALINE DELL'ISTRIA. 

i.o Prodotto fino air anno 1806. 


Negli 

Stabilimenti 

di 

Nel periodo 
di un 

Sopra 

cave' 

dini 

In 
moggia 

In centinaia da 1$ al 

moggio • 
cavedino 

Pirano . . . 
Capodistrìa 
Muggia . . 

decennio 
settennio 
decennio 

4637 
2200 

435 

143265 

26375 

2260 

2148975 
395620 
33900 

214897 
56517 

3390 

46:34 

25:69 

7:79 


2.® Prodotto nel quinquennio 181 8- 1822 con fabbrica libera. 


Negli Stabilimenti 
di 


Pirano 

Capodistrìa . . . . 

Muggia 

Zaule-Servola . . . 


Sopra 
cavedini 


7034 
3844 

907 
1030 


in tutto 
il periodo 

2303472 
444053 

59393 
65125 


Centinaia 
per anno 

460695 
88810 
I1878 
13025 


cavedino 


65 : 49 
23 : IO 
13 : IO 
12 : 64 


3.® Prodotto nel quinquennio 18 s 2-18^6 con fabbrica limitata. 


Negli Stabilimenti 
di 

Sopra 
cavedini 


Centinaia 


in tutto 
il periodo 

per anno 

cavedine 

Pirano 

Capodistrìa 

7034 
3844 

3017365 
889788 

603473 
177959 

85:79 

46 : 28 


Le ultime cifre di questo prospetto non danno la giusta 
misura del divario, che passa tra la producibilità del cave- 
dino di Pirano e quella del cavedino di Capodistrìa, essendo 
diversa la loro grandezza. Ma fatto il calcolo sull'area, ri- 
sulta che su 180 metri vi -ha un prodotto dì 34 centìnaja 
in Pirano, e non più di 25 invece a Capodistrìa. 

Aggiungiamo per ultimo la serie delle limitazioni poste alla 
produzione del sale dal 1824 in poi espresse in centinaia. 


intorno alle Saline dell' Istria, 


105 


Anni 


1824 
[825 
[826 
[827 
[828 
829 
[830 
1831 
[832 

834 

[635 
836 

[837 

[838 
839 
840 

[841 
842 

843 
B44 
845 
846 
847 
848 

849 
850 

851 
852 

853 
854 

:8S5 
[856 

:857 


Limitazione 

complessiva 

Centinaia 


400000 
350000 
330000 
250000 
250000 
209000 
250000 
260000 
300000 
280000 
260000 
240000 
350000 
457000 
550000 
450000 
523000 
532000 
500000 

568000 
660000 
630000 
650000 
620000 
570000 
550000 
400000 
660000 
710000 
800000 
lOOOOOO 

1050000 

IIOOOOO 

1050000 


Limitazione compartita 


per Pinne, Mnggia 
e Zanle-Servola 

fino all'anno 1829; 

pel solo Pirano 

dal 1830 


334018 
286493 

275565 
208761 

208761 

225672 

206858 

215132 

248229 

231681 

215132 

198583 

289601 

378136 

455086 

372344 

432747 
4401 91 

402087 

443438 
500056 
462764 
462245 
440910 

405353 
39II3O 

284458 

469356 

504914 
568917 

7III46 

746704 

782261 

746704 


78 
04 

65 
17 
50 
80 

14 
50 

85 

45 


72 

46 

25 
34 
20 
80 
48 

55 
58 
66 


per 
Capodistria 


65981 
63506 

54434 
41238 

41238 

44372 
43141 
44867 

51770 
48318 

44867 
41416 
60398 
78864 

94914 
77656 

90253 

91809 

97912 

124438 

I 59943 
167325 

187754 
179089 

164646 

158869 

115541 

190643 

205086 

231083 

288854 

303296 

317739 
303296 


22 
96 
48 

24 
24 
35 
83 
50 
20 
86 
50 
15 
55 


28 

46 

77 
66 

80 

20 

52 

45 
42 

34 


Base 
della 
limita- 
zione 


a 

a 
n 
a 

3 
to'» 

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00 

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l-i 

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•1 


io6 NoiÌ7Je Storiche 


Avvertasi per altro che le cifre degli ultimi quattro anni 
furono cosi alte soltanto • allo scopo di formare ricchi depo- 
siti di sale, ov'esso abbia a stagionarsi per tre anni, e ó.i 
togliere cosi i lamenti, c\ìt della umidità del prodotto, po- 
sto in commercio appena raccolto, movevano le ammini- 
strazioni delle venete provincic. Ma, compiti gli ordinati 
depositi, sembra la confezione del sale sarà limitata alle 
ottocentomila centinaia. 

CENNI DESCRITTIVI INTORNO ALLA SALINA D* ISTRIA 
E ALLA RELATIVA AMMINISTRAZIONE. 

Ne fu espresso desiderio di vedere alcun cenno descrit- 
tivo della nostra salina. 11 seguente, fuggevole, speriamo 
ne darà un'idea. Di presente le saline hanno qui due sta- 
bilimenti, quello di Pirano e l'altro di Capodistria. Il primo 
é composto di tre partì, che valli in Istria si dicono : Tuna 
di Strugnano, due miglia circa all'È dalla città, l'altra di 
Fasano, pure a due -miglia S E, e la terza di Siciole, ch'é 
la maggiore dalla stessa parte della seconda, ma presso che 
tre miglia più oltre. Le saline di Capodistria si estendono 
assai vicine alla città da greco a libeccio, solo a brevi tratti 
interrotte, e distinte in contrade coi nomi di Semedella, 
Gome, S. Leone, S, Nazario, S. Girolamo, Ariol, Sermino, 
Fiume, Campi, Oltra. 

L'uno e l'altro stabilimento é suddiviso in serragli. Il 
serraglio, circuito dal suo argine, comprende più fondamenti; 
e il fondamento, che ha pure arginatura od altro separamento 
speciale, é la completa salina. A questa adunque vadstretta 
la descrizione, che ci proponiamo. 

11 fondamento, se ben costruito su fondo rispondente, é 
rettangolare. Immaginiamolo adunque cosi, come salina mo- 
dello, e poniamolo per lo lungo frammezzo a due altri fon- 


a argine b. secondale e. luta d. fosso e Uhatore 
fmoraro di fosse g. Tnorarv di mexxo 


M a 



a 


IT'P 


:l_-JL A\ A 


MP mM 


T 


■^ 


J \jj Kp ul> Olv ^ 


n 



h sopra corbolo. ^ /vasca l corhoU, m servidore 
ìì awediììi a passalyo p. salaw 


intorno alle Saline dell'Istria, 107 


damenti. Avrà pertanto i due lati maggiori appoggiati a 
questi, e gli altri due minori opposti al mare o a qualche 
interno canale, che fa lo stesso. È su questi ultimi che si 
leva l'argine più sodo esternamente murato. Sugli altri più 
lunghi r argine é di sola terra e vien chiamato secondale^ se 
di comune grossezza, se di minore, arginello. Ma in luogo 
del secondale o dell' arginello corre talvolta un canaletto, 
dèto lida. 

Ora distinguasi l'area, che cosi vi resta compresa, in tre 
sezioni parallele le une alle altre, due estreme e brevi ai 
lati minori del fondamento^ e tra queste e i lati maggiori la 
terza, centrale e vasta. Le due prime prendono il nome, 
l'una di fosso, l'altra di libatore. 

Il fosso, da un piede e mezzo a due profondo, toglie dal 
mare l'acqua necessaria alla confezione del sale, mediante 
un'apertura nell'argine (callio)^ la quale chiudesi con pic- 
cola saracinesca (portello). Essa vi rimane per alcuni giorni 
tanto che si presti più facile a evaporare. 

Il libatore riceve le acque inutili o guaste per mezzo di 
due canaletti (lide), l'uno per la lunghezza, per la larghezza 
l'altro della salina. Quello, eh' è per lo lungo, ne bordeggia 
la sezione centrale, sia correndo di fianco ad uno degli ar- 
gini maggiori, sia, come fu detto, tenendone le veci. L' altro, 
che va pel largo del fondamento^ è parallelo e limitrofo allo 
stesso libatore ed ha qui il nome di %pveUo. Per tal guisa 
dal libatore^ che al pari del fosso ha un'apertura nell'argine 
{callio del libatore^, ritornano al mare le acque, che la salina 
rifiuta. 

Questa è propriamente nella sezione centrale del fonda- 
mento^ partita in sei zone, esse pure, se bene ordinante, 
parallele per la larghezza di quello e di eguale dimensione. 
Altri arginelli, dette verghe^ lo dividono. 
La prima zona è detta moraro di fosso. Dal fosso infatti 


/^ 


io8 Notix}e Storiche 


per mezzo di una specie di aggottatoio (xprnador) vi si 
gitta su l'acqua, e la si fa salire circa ad un pollice, perché 
si arrenda alla prima evaporazione. 

Da questo primo terreno fino all'ultimo il fondo della 
salina va leggermente declinando, colla scala di circa pol- 
lici 4, 3, 2 V^j 2, I, ed è levigato colla mazzaranga e col 
rotoh, cilindro di sasso. 

Dal moraro di fosso al moraro di meno passa l'acqua me- 
diante alcune tacche, fatte nell' arginello, e là si riduce a io 
linee, quindi per mezzo dello stesso congegno {bocchette) 
ad 8 nel sopracorbolo, e avanti a 6 nel corbolo, a 4 nei ser- 
vidori e a 2 nei cavedini, dove diventa sale. 

Dei sei terreni ora nominati i tre primi hanno continuo 
lo spazzo; i tre ultimi al contrario sono corsi nel senso 
della lunghezza del fondamento da altri arginelli ancora. Il 
loro numero é determinato dal numero dei cavedini, in cui 
trovasi distribuito l'ultimo terreno. Essi corrono tutti per- 
pendicolari alla verga superiore del corbolo; all'inferiore, di 
ogni due uno; ma e qua e là ad eguali distanze. Però ap- 
punto il corbolo (ove la salina sia p. e. di io cavedini) con- 
terà quattro bocchette dal lato del sopracorbolo, dieci invece 
da quello del servidore, il quale alla sua volta ne avrà al- 
trettante verso l'ultimo terreno della salina. 

Queste suddivisioni servono a meglio assicurare all' acqua 
lo stesso grado di evaporazione, e a condurla cosi con legge 
simultanea, e quindi con vantaggio tanto per l'ordine del 
lavoro, quanto per la bontà del prodotto, a cristallizzarsi 
nei cavedini. 

Al cominciare della fabbricazione gU ora detti passaggi 
consumano più giorni senza dar sale, che l'acqua, la quale 
deve attingersi allora in maggior copia stenta ad evapo- 
rare e filtra nel terreno non ancor bene indurito. Ma^tosto 
dopo, si fa giornaliera la raccolta. E cosi sta bene sia fatta 


intorno alle Saline dell* Istria. 109 

nel mese di Maggio, e per la maggior parte nel Giugno. 
Ma più tardi é miglior consiglio levare il sale a due o tre 
giorni d'intervallo, poiché l'acqua fa miglior deposito su 
strati già cristallizzati, e il sale vi si forma per tal guisa 
più granito e asciutto. 

Che se poi la pioggia minacci di guastare e sperdere 
r acqua della salina, vi ha ad accoglierla, finché passi il pe- 
ricolo, buon numero di fosse, una o due per cavedino^ al 
servizio dei due ultimi terreni, e pei rimanenti altra, detta 
vasca, in sull'orlo inferiore del corbolo. Nelle une, fatta al 
momento piccola rottura al labbro, che la gira, vien deri- 
vata l'acqua per certo quasi insensibile declivio, che ha il 
fondo verso gli angoli; gittasi invece nell'ahra. 

E qui é da notarsi riguardo alle prime, tornar dannoso 
il raccogliervi quell'acqua che, levato il sale, ancor vi ri- 
rimane, e mora chiamasi; sia per forzarla a dare essa pure 
il prodotto, riversata sul cavedino, sia per alimentar questo 
mano mano che vi si va formando la crosta salina. Il sale 
infatti non si fa cosi bene asciutto, ma diventa più o meno 
molliccio e facile alla deliquescenza. 

Ma anche questo difetto va correggendosi, e il sale no- 
stro ogni anno più migliora, ponendosi cura che, raccolto 
a cappuccie sugli arginelli, (il che si fa con rastrello pieno, 
chiamato gavero) scoli bene, prima che sia trasportato nella 
casetta della salina (salaro). Di queste ve n'ha 493 in 
Pirano, 218 in Capodistria. Alla casetta, dove il sale con- 
tinua ad asciugare, mette un argine (passatojo) attraverso 
il libatorey ed ha fendimento nel mezzo, valicabile da co- 
munal passo, perché le acque di quello comunichino tra 
loro. 

Il lavoro più faticoso ferve, com'è naturale, nella state, 
specialmente ove stemperate pioggie portino tratto tratto 
la dura necessità di rinnovare l'acqua di tutta la salina, e 


1*^ ^ ■ < 


no Notiiie Storiche 


quindi, passata la guasta nel libatore^ di ricominciare il la- 
voro, come all'aprirsi della stagione. Ma eziandio nelle 
altre stagioni si richiedono molte cure. Cosi nell* autunno 
le livellature, le cospersioni dei fondi con acqua marina a 
dar loro maggior fermezza; nel verno il tenere sott'acqua 
i cavedini, acciò essi non si aprano in crepacci, e non si 
rendano spugnosi; e in primavera infine i lavacri alternati 
agli asciugamenti, e le ristorazioni degli arginelli. 

Il fondamento non é dappertutto come fu ora descritto. 
Ha bensi sempre la stessa divisione di parti, ma varia di 
forma, secondo la necessità del sito. Cosi diverso assai è il 
numero dei cavedini^ contandone alcun fondamento non più 
di otto, ventiquattro e meglio qualche altro. I 7034 cave- 
dini di Pirano sono distribuiti su 493 fondamenti^ i 3844 di 
Capodistria su 218. Anco a proporzione pertanto lo dimen- 
sioni sono in questa minori. Ad un fondamento che avesse 
a comprendere dieci cavedini^ si darebbe estensione di circa 
4500 metri in Pirano, a Capodistria invece non più che 
di 3420; 

Le saline per la massima parte spettano a privati, pic- 
coli e grandi. Vi é chi possiede perfino 580 cavedini^ altri 
un solo, che molti proprietari hanno più fondamenti, ed 
altri parecchi per lo contrario non ne tengono che uno in 
comune. Tutti per altro sono obbligati a vendere il sale al 
Governo, il quale lo compera a carantani 26 per centinajo 
il bianco, a carantani 18 il nero, e lo vende come oggetto 
di privativa a prezzi diversi, ma di molto maggiori, secondo 
le località, nella Lombardia, nella Venezia, nel Litorale, 
nella Dalmazia. 

Cosi tutti ugualmente vanno soggetti alle stesse disci- 
pline, le quali vengono ordinate dalle autorità amministra- 
tive e notificate dalle due presidenze di Pirano e di Capo- 
distria. L'una e l'altra sono composte di un presidente e 


intorno alle Saline dell' Istria. iii 

di due aggiunti, che i proprietari aggregati in consorzio si 
eleggono dal proprio numero, e ai quali é attribuito V officio 
di guardare e promuovere gl'interessi comuni. 

Quando la produzione aveva, come più volte sotto il ve- 
neto governo, limitazione e prezzi invariabili, vi era pel 
valore dei fondi salini una misura ben determinabile. Cosi 
pure, ed anzi meglio assai durante il periodo della libera 
fabbricazione fino al 1823. Ma da che fu preso il partito 
di limitare d' anno in anno diversamente la quantità del sale 
da farsi, il prezzo della salina diventò prezzo di sorte. Nul- 
ladimeno al presente il più comune* é da fiorini 200 a 250 
il cavedini) in Pirano, da 80 a 100 m Capodistria. Si note- 
vole differenza dipende non solo dal già notato divario 
nella grandezza dei fondamenti, ma altresì della maggior col- 
tura dei fondi di Pirano, dall'essere colà più infrequenti i 
rovesci di pioggia, dalle case, che vi sono di pietra, anziché 
di nudi tavolati, e dalla certezza, che ha quello stabilimento 
di produrre la quantità di sale prestabilita dalla pubblica 
amministrazione. 

Questa limitazione vìen fatta prima in generale per tutti 
e due gli stabilimenti di Pirano e di Capodistria; ma poi 
va (fistinta tra l' uno e l' altro, e quindi ancora tra proprie- 
tario e proprietario, sempre colla proporzione dell'area. 

Chi termina prima la quota assegnatagli deve sospendere 
ogni ulteriore lavoro e attendere gli altri facciano altret- 
tanto. 

Chiusa infine la stagione, il sale si trasporta nei regi ma- 
gazzini, e d'ogni trasporto si tiene esatto registro. E colla 
scorta di questo l'erario eseguisce il pagamento, che deve 
ai proprietari, i quali poi lo dividono a giusta metà coi 
propri operai. 

Le presidenze per altro trattengono dallo stesso paga- 
mento il sette per cento in Pirano, e il dieci in Capodistria, 


112 Notizie Storiche, ecc. 


e questo importo va a formare un fondo sociale per sod- 
disfare a tutte le spese di comune vantaggio, vale a dire 
al mantenimento degli argini, che guardano il mare, all'e- 
scavo dei fiumi dei canali, ed altro. 

Il vantaggio, che si ritrae dalla discorsa industria, potrebbe 
essere maggiore di molto; ma in ogni modo é ben consi- 
derevole, e senza di esso le condizioni economiche di Ca- 
podistria e Pirano avrebbero perdita irreparabile. 


DELLE SCUOLE SERALI IN ISTRIA. 

(Dalla Porta Orientale, 1858) 


Vi 


i sono pur troppo tuttora i nemici dell' intelligenza, che 
vorrebbero il popolo condannato all'ignoranza ed escluso 
perfino dall' assistere alle vittorie dell'umano pensiero. Ma 
la causa loro è perduta^ e il farsi a combatterla sarebbe 
un rendere l'onore della discussione a chi n'é indegno. 

Né meno contraddetta dalla ragione dell'universale é 
l'opinione di coloro, che concedono bensì alcun punto al 
maggior incivilmento del popolo delle città grandi, dove i 
progressi delle arti fanno della coltura una necessità, ma 
si ritraggono dall' ammettere la stessa cosa per le popola- 
zioni dei luoghi piccoli di provincia. 

Con questi pertanto il parlare di scuole serali nell'Istria 
è delirio. 

Ma buon per noi che tutti veggano a quali fortune in- 
viti il mare quelli, che abbiano sviluppato l'ingegno, e come 
d'altra parte il suolo neghi ricchezza a chi tìen chiusi gli 
occhi sugli avanzamenti mirabili, e dell'agricoltura, e in ge- 
nere di tutte le scienze economiche. 

A far ciò sempre più sentire varrà l'esempio di quelli, che 
già entrarono innanzi sulla via dei miglioramenti e delle 
nuove imprese, varrà l'istituzione di una società agraria 
provinciale, co' suoi ammaestramenti, colle sue prove. 

8 


114 • Delle Scuole serali 


Ma per affrettare l'opera della civiltà, per rendere più 
aperto T animo del popolo a suoi insegnamenti, convien 
por mente ad istruirlo. 

L'istruzione in questi tempi è un bisogno generale, e 
senza di essa torna vano il mover lamento che il popolo 
stesso si mostri restio a togliersi dalle antiche abitudini, a 
tentare i nuovi esperimenti, ad accettare i benefizi del pro- 
gresso. Chi ignora non apprezza e rare volte si riesce a 
a buon fine coli' imporgli a viva forza il bene. Far che si 
addomestichi all'idea di correggere quanto ha ricevuto come 
verità tradizionali, far che si renda incontro a chi lo vuol 
migliore, ecco l'opera, che va premessa, e questa deve es- 
sere proseguita appunto coli' istruzione. 

Non é nostro intendimento qui di discorrere tutte le varie 
parti di questo si ampio argomento. Ci faremo solo a quell' i- 
struzione, che può essere più facilmente appHcata, quasi senza 
dispendio, e più generalmente e fruttuosamente d'ogni altra, 
vogliamo dire alle scuole serali, recente invenzione del ci- 
vile progresso e della cristiana pietà, che in mezzo alle 
avare conquiste dell'egoismo non dimenticarono il figlio 
del povero per iscorgergU la via a miglior sorte, allora spe- 
cialmente eh' egli senza consiglio s' inoltra nell' adolescenza 
e va a sentire le prime seduzioni della vita. La moralità e 
la coltura di lui si decidono in quelU anni il più delle volte 
per sempre. 

Egli é però che, postosi in atto il felice pensamento l'anno 
i8ii nella città di Bristol per la prima volta, gU Stati me- 
gho inciviUti dell'Europa ne imitarono tosto l'esempio. Né 
r Italia si tenne ultima, e nella stessa Roma in pochi mesi 
aprironsi non meno di 14 scuole serali. 

Ben altro adunque che una frivola questione d'orario (e 
certo la sera sarà sempre più opportuna a chi sta al lavoro 
durante il giorno) sembrarono esse alla civiltà d'Europa, la 


in Istria, 115 

quale misurò per sicuro tutta V altezza del pensiero nel 
chiamare all'istruzione i giovanetti del popolo dopo le fa- 
tiche della giornata. 

Sono bensi in gran numero le scuole elementari nella no- 
stra provincia; ma senza pur dire quanto spesso i metodi 
male ideati e mal condotti facciano loro fallire lo scopo, 
tutti sanno che T istruzione delle scuole elementari é ri- 
stretta a brevissimo tempo, scomposta dalle esigenze ora 
vere ed ora finte del lavori campestri e amministrata ai 
giovanetti dell' età più tenera e in uno più leggiera e insof- 
ferente dello studio, mentre cessa per quelli, che hanno sor- 
passato di poco il secondo lustro. Cosi é ben chiaro eh' ella 
non può mettere profonde radici, e che la gioventù nostra 
destinata al lavoro delle braccia, trova, uscita dà quelle 
scuole, tutto pronto a disimparare, e pressoché nulla all' in- 
vece onde solo ritenere il già appreso. Non é quindi raro 
il vedere come i già più valenti alla scuola in sui venti 
anni distinguano appena lettera da lettera, e come fatti uo- 
mini si trovino aver perduta anche quest'ultima remini- 
scenza del sofferto insegnamento. È questa una dolorosa 
verità per cui l'istruzione, voluta e in un medesimo con- 
dannata a perire sembra un bugiardo benefizio, un inganno, 
un nuovo genere di pubblica imposizione, una specie di 
novello ingegno a torturare per tempo la crescente gene- 
razione. E tutto questo è ben più che un male negativo. 
Non solo infatti l'insegnamento elementare va sfruttato di 
ogni effetto, che altresì s'ingenera negli animi, anco dei 
più svegliati, la difiidenza di tutto, che ai libri e agU scritti 
si attenga, nuli' altro rimanendo delle memorie della scuola 
che la buona parte di fastidio avutane, e trovandosi quindi 
tanto più alieno l'animo dalla coltura, quanto più fiacca è 
la volontà a rifare il perduto di quello che ad accingersi 
ad opera nuova. 


ii6 Delle Scuole serali 


Ora dunque s'anco le scuole serali, nell' accogliere i gio- 
vanetti, che fossero già assolti dal corso obbligatorio delle 
scuole elementari, valessero solo ad impedire che il terreno 
dell'educazione, dissodato appena alla meglio, nuovamente 
isterilisica e metta anzi maggior ingombro di pruni a sof- 
focare ogni seme di coltura, sarebbe già questo vantaggio 
di gran momento. 

Ma le scuole serali sono chiamate a più ricca messe. 
L'insegnamento loro non é già una mera ripetizione del- 
l' insegnamento elementare. Chi si prendesse quello come 
un duplicato di questo se ne andrebbe di lunge dal vero 
concetto delle scuole in discorso. 

Difatti per quanto magro frutto si fosse raccolto dagU 
avuti ammaestramenti, vi sarebbe sempre alcun che di meno 
squallido della prima inopia. D'altra parte i giovanetti hanno 
già per l'età più avanzata maggiore lo sviluppo dell'intel- 
ligenza; l'istruzione va espedita dalle noje dei più incre- 
pciosi rudimenti, e quindi più desta si fa la voglia dell'ap- 
prendere. 

Ikco pertanto agevolezza di porgere un'istruzione di- 
lettevole, come a guisa d'esempio, far conoscere in qualche 
\W\\o la terra, su cui abita l'uomo, per ischiudere final- 
\\\p\\\o il breve orizzonte del paese nativo; aprire il libro 
{W\h Ntoria dell'umana famiglia, per isdormentire le forze 
ìM pt*n»icro e dell'animo nell'amore di quelli, che furono; 
>»|^ÌrBrtVC le più importanti leggi della natura, sicché il po- 
(h4ìS tn mezzo a tanti progressi scientifici, cessi dall' assi- 
^1^1 tp ulupido ai fenomeni più comuni, che si svolgono intomo 
A \\.\\k ^ rompa una volta la catena di tante superstizioni, 
vk^iè gli Avviluppano il libero movimento e lo imprigionano 
^^ culUj per cosi dire bambolo invecchiato; aver l'occhio 
•-'u^c e principalmente sulle necessità, che lo circondano, 
\W »u quella vita agricola, da cui ha da attendersi il ben 


in Istria. wj 

essere temporale, e con questo nuova lena allo spirito, ad- 
dottrinandolo in quelle tante Tenti ormai condamate, che 
varrebbero a moltiplicare le forze produttive deDa natura 
e della sua attiviti, e che pur troppo sono per lui tuttora 
un mistero avvolto anzi in una neblna di timori e di dif- 
fidenze. 

Basta aver presente questa idea, non più che abbozzata, 
delle scuole serali, ma tale da poter formare la base degli 
speciali ordinamenti, a cui l'applicazione e la pratica met- 
terebbero mano per averne tosto il convincimento, non es- 
servi punto in Istria alcun che di simile per l' istruzione del 
popolo, come si fecero a pretendere alcuni colla parola in 
bocca delle scuole domenicali. 

Queste, stabilite in pochi luoghi, non hanno di mira che 
il rifarsi sulle nozioni elementari del leggere, dello scrivere, 
del far di conto; e l'unico bene, che producono, si é, non 
già d'impedire, ma solo di rallentare lo smarrimento delle 
nozioni stesse, incapaci di spendervi maggior opera intorno, 
interrotte, come sono, di settimana in settimana, anzi tal- 
volta quasi di mese in mese per le maggiori feste religiose, 
che ricorrono appunto di Domenica, e limitate poi sempre 
a breve ora, sia perché i doveri della religione non abbiano 
ad essere intraversati, sia perché stringere soverchiamente 
lo spirito proprio in que* giorni, che lo richiamano ad espan- 
dersi maggiormente, sarebbe grande imprevidenza. D'altra 
parte egli é un fatto che l'istruzione profana, trattata alla 
Domenica, prende sembianze di anomalia per quelle menti 
giovanili, quasi contradicesse alla sacra solennità del giorno, 
e che lo stesso insegnamento religioso porto a mo'di sco- 
lastica occupazione, e non per guisa che nel culto cristiano 
s'immedesimi, perde la maggior sua efficacia: verità ormai 
si ben compresa, che già in quasi tutte le città d'Italia si 
pose opera a fondare gli oratori festivi, e ovunque ap- 


ii8 Delle Scuole serali 


parirono confortevoli esempi di vero avanzamento nella 
religiosa educazione. 

Alle scuole serali pertanto la gioventù del nostro popolo 
troverebbe quel vero alimento dello spirito, di che ancora 
ella va priva, e per di più ne verrebbe occasione altresì di 
dare all' istruzione religiosa un migliore indirizzo, facendone 
argomento speciale degli anzidetti oratori. 

E qui non possiamo rimanerci dal render noto, come 
r autorità ecclesiastica abbia già accolto con favore l'idea 
delle scuole serali, lodevolmente concepita dal Municipio di 
Capodistria, il quale si adopera a mandarla ad effetto ani- 
mato dal migliori intendimenti. E mercè il concetto dell'u- 
tilità sua che ai generosi si fa aperto, non sarà tardato a 
Capodistria il beneficio, che le si vuol rendere. Non pochi 
invero e intelligenti e volonterosi, tra sacerdoti e laici, si 
offrirono a prestrare gratuito insegnamento. Ora chi ose- 
rebbe dire, senza recar onta alla provincia, che nelle altre 
sue città e in parecchi borghi ancora non vi sieno uo- 
mini da tanto? L'Istria vanta, e molti ingegni, ed animi 
informati a si nobile sentire, che basterebbe un appello del 
rispettivo Municipio, per veder certo non pochi valenti le- 
varsi pronti a porre in comune l'opera loro caritatevole. 
Ben poco adunque si richiede ad aprire una stanza e farne 
una scuola, se uomini a tenerla non mancano. Lo ripe- 
tiamo che non mancano, e dimoriamo su di ciò, si perché 
egli è un onore, che a buon diritto spetta alla nostra pro- 
vincia, e si ancora perchè gli arrabbiati censori di ogni 
progetto di miglioramento, gli sciocchi beffeggiatori di 
tutti i divisamenti, che non corrono il ciclo delle loro 
adamitiche abitudini, si traggano dal credere che la qui 
data assicuranza sia attinta a sole speranze, fabbricata in 
teoria, e non a certa scienza fondata. 

Tengasi per fermo che la instituzione in Istria delle scuole 


in Istria. 119 

serali sarebbe non meno vantaggiosa che di facile esegui- 
mento. 

G' Istriani adunque che hanno cuore in petto per la pro- 
pria terra e ne conoscono le condizioni, piglino a propu- 
gnarla, né si lascino venir meno il buon volere per le tar- 
dità di quegli altri oppositori, che si danno per isfiducìati, 
e sono pigri, che vorrebbero sempre si lasciasse andare 
l'acqua alla china, e che se pur si muovono, prendono 
Torma della testuggine. 

Noi per avventura abbiamo sott' occhio un bellissimo e- 
sempio dei prodigii, che sa operare l'alacrità nell* istruire il 
popolo. Questo é Lussino, che ormai si può nominare senza 
l'aggiunto di Piccolo. Sulla fine del secolo scorso non con- 
tava più che un duecento casolari abitati da mille circa tra 
pastori e barcajuolì. Ora invece belle e spaziose case, vi- 
vere agìatissimo, numerosa popolazione, un porto gremito 
di grossi legni, spirito d'intraprendenza per le marittime 
speculazioni e in uno senno, probità, e quindi quel credito 
nel commercio, che n'é la conseguenza. Ne si chieda ra- 
gione a quei solerti isolani, e tutti esalteranno il nome del- 
l'istriano Bernardo Capponi, il quale, ajutato dai generosi 
fratelli Stefano e Giovanni Vidulich, ambidue sacerdoti, ini- 
ziò e prosegui la meravigliosa metamorfosi di Lussino ap- 
punto coir aprir scuole, in cui costumare la gioventù ed 
instituirla nelle lettere, nelle matematiche. 

Oh! si che taluno di quelli, che affibbiandosi la giornea 
d'uomini di consumata esperienza, bronciano ogni consi- 
gliatore di migUorie, o gli danno dell'utopista con ghigno 
beffardo, farebbe colà una singolare comparsa. Potrebbesi 
invero assomigliare, quando si mette in sul lepido, al buon 
umore di quel contadino, che derideva, mostrando tutti i 
denti, certe operazioni algebriche, le quali sembravano a lui 
sgorbi cabalistici. 


120 . Delle Scuole serali 


Ma senza ragionar di loro, pensino gl'Istriani che l'inse- 
gnamento popolare stringe viemaggiormente i vincoli di 
fratellanza tra le classi più colte, da cui escono gl'istruttori, 
gli educatori, e quelle, che abbisognano di pulimento; pe- 
rocché la scuola, specialmente nei luoghi piccoli, é il centro, 
a cui meglio convergono gli affetti di tutti, nonché le spe- 
ranze meno contese, ed é mezzo potentissimo per un paese, 
com'è il nostro, senza città grande, da cui dirami la civiltà, 
a farne toccare buon compenso nell'eguaglianza degli ado- 
pramenti e nel progredir comune dell'amore da portaisi 
più e più alla provincia. 

Ed ora che le scuole tecniche di Pirano, di Rovigno e di 
Lussino vanno preparando la gioventù al commercio e alla 
navigazione j non si diméntichi che dalle scuole serali, as- 
sennatamente condotte, uscirebbero i giovanetti destinati 
all'agricoltura meglio acconci a divenire un giorno utili 
agenti di campagna. E questo tanto più, che per esse anco 
la scuola agraria, si vivamente desiderata,' potrebbe avere 
nascimento, e più facile e di più ricchi vantaggi prometti- 
tore. Siccome poi da bene nasce bene, verrebbe ai ricchi 
altresì maggior animo alla beneficenza, e i più distinti alunni 
avrebbero sovvegni da recarsi fuori ad allargare, compiere, 
rendere operose le loro cognizioni si, da farsi in appresso, 
di ritorno alla provincia, anima d'ogni economico miglio- 
ramento. 

La riconoscenza dell' Istria, a cui non manca né cuore, né 
voce, ecco bel premio ad ogni adopramento per la popolare 
istruzione, che noi eccitiamo colla povera nostra parola. E 
l'ambirlo é virtù cittadina, religiosa, é obbedire alla civiltà 
nostra, é nientemeno che mantenerci la patria. Perde questa 
sol chi vuole perderla, e vuole chi abbandona all'ignoranza 
le proprie sorti. 


STUDJ STORIOGRAFICI INTORNO ALL'ISTRIA. 

(Dalla Arto Orientale, 18J9.) 


A, 


bbiamo promesso, fin da quando ci mettemmo a com- 
pilare questo annuario, di applicarci per quanto da noi si 
poteva allo studio della storia nostra. Iniziato questo col 
Prodromo dell'anno primo, ci facciamo ora a trattare parti- 
tamente i periodi storici, e prendiamo le mosse dai primis- 
simi tempi, che precedettero al dominio romano. Non é no- 
stro divisamento, che noi potremmo avere in mezzo alle 
tante difficoltà, le quali si accompagnano qui alle ricerche 
del passato, Y offrirne le risultanze coli' andamento della sto- 
rica narrazione. Ci faremo adunque soltanto ad investiga- 
zioni, proponendoci cosi di diflfondere sempre più utili no- 
tizie intorno alle cose nostre, nonché ad eccitare a ristudiarle 
e a far meglio. 

PERIODO I. 

Della Storia dell'Istria 
dai tempi più remoti fino alla romana occupazione, 

POPOLI PRIMITIVI. 

Fra gli eruditi corrono diverse le opinioni intorno ai più 
antichi abitatori dell' Istria, di cui possa aversi notìzia. Pa- 
recchi sostennero che questa provincia nei tempi più remoti 


122 Studj Storiografici 


fosse abitata da stirpi celtiche. A ciò ritenere si affidano in- 
nanzi tutto alla credenza che di niun altro popolo d'allora 
abbiasi qui monumento, né materiale, né di qualsiasi altro 
genere. Trovano poi verosimile assai che i Celti, i quali 
occupavano largo tratto di paese intorno a noi, fossero pe- 
netrati a stanziare anco nell'Istria e vogliono che celtiche 
fossero le popolazioni dell' uno e dall' altro versante dell'Alpe 
Giulia estese fino al mare ed anzi fino ai monti Berici dal 
lato nostro» Spingendo poscia più oltre le ricerche, ravvi- 
sano Celti nei Monocaleni del Carso di Duino, dove dura 
tuttora il nome di Moncolano, nei Subocrini presso a Pin- 
guente e nei Secussi intorno a Pedena. E siccome Padova 
e Treviso sono a parer loro di celtica origine, si raffermano 
neir opinione, che portano, riscontrando tai nomi nell' Istria. 
Cosi Muggia, Umago, Buje, Montona, Pinguente, Pisino, 
Pedena, Rovigno, Orsera sarebbero stati luoghi celtici, ninno 
per altro ancor tale da potersi dire città. 

Da ahri invece si dimostra che i Pelasgi, dei quali si co- 
noscono due grandi emigrazioni dall'Italia in Grecia e dalla 
Grecia nuovamente in Italia, e che lasciarono sempre tribù 
nei paesi percorsi, abbiano occupato anche l'Istria. Essi, 
popoli erranti, come ne suonava il nome in loro lingua, te- 
nevano il costume di mandare la gioventù nata nell'anno 
della primavera sacra in cerca di nuovi paesi. Ora, sapen- 
dosi da molti scrittori come i Pelasgi avessero esercitato 
impero sul. mare Adriatico, torna ragionevole supporre che 
il detto costume lì abbia condotti anco nell'Istria, senza 
della quale é impossibile quel deminio. D'altra parte é cosa 
naturale che i Pelasgo-Etruschi, scacciati dalle pianure del 
Po dai Galli di Belloveso e di Elitovio circa Tanno 590 a., 
C , allora che le città di Barra, Spina, Adria ed altre furono 
atterrate, sieno stati sospinti a ricoverare nell'Istria. Per di 
più non pochi nomi di città e di monti in questa provincia 


intorno air Istria. 123 


debbono segnarsi siccome propri allo scorrevole idioma de- 
gli Etruschi. Cosi Mutila e Faveria, due città istriane, di cui 
trovasi memoria in Livio (Lib. XLI). Etrusca o Sabina é 
quella prima vo'ce, e giovi ricordare il nome di Cajo Mutilo, 
generale dèi Sabini nella guerra sociale contro i Romani. Fa- 
veria ha molta analogia con Faleria, città presso ad Arezzo. 
La voce Ocra, eh' era nome comune alle Alpi Gamiche, alle 
Giulie e alla Vena, valeva monte sassoso nella lingua degli 
Etruschi, i quali perciò davano a Giove V epiteto di Ocriper 
cioè di padre montano. E il nome del nostro fiume Arsia 
trova riscontro nella selva Arsia indicata da Valerio Mas- 
simo tra i confini dei Vejenti al tempo della guerra coi Tar- 
quini. Di più, qualche iscrizione dell'Istria porta il nome 
di Lucumone, che non é mestieri avvertire quanto sia etru- 
sco; e simboli etruschi, come delfini, cani, cacciatori, pietre 
quadrate non mancano a monete istriane. Per ultimo, il culto 
di Diomede, di Giunone Feronia e di Diana, dj orìgine pe- 
lasgo-etrusca, ha traccie anche in questa provincia. 

D' altra parte va notato che niun monumento celtico ebbe 
a rinvenirsi nell'Istria; nemmeno le tombe coniche, tanto 
proprie a quella nazione e non infrequenti nel vicino Friuli. 

POPOLI SORVENUTI. 

Le nostre più antiche tradizioni parlano della venuta dei 
Colchi in questa provincia, i quali, inseguendo il fuggitivo 
Giasone e gli Argonauti per riavere Medea, sarebbonsi fer- 
mati, stanchi del lungo viaggio, sui nostri lidi. Ora in ogni 
principio tradizionale, per quanto falsato dal tempo e dal- 
l'ignoranza, v'ha un germe di verità. Sembra adunque che 
un popolo del Mar Nero abbia trasferito la sua dimora 
a queste parti. Ed é probabile che tale passaggio non fosse 
già una fuga, ma qualche movimento commerciale. Molte 


124 S/tti; Storiografici 


poi sono le autorità, per le quali si dimostra che Traci fos- 
sero que' sorvenuti, ossia con altro nome Pelasgo-Jonii, i 
quali soggiornavano alle foci dell' Istro, l'odierno Danubio, 
e ne furono scacciati forse dagli Sciti intorno al 500 a. C, 
cioè qualche anno dopo la guerra di Dario Istaspe contro 
la Scizia. Scimno da Chio, che visitava queste regioni in- 
torno a quel tempo, riconosceva gì* Istriani per Traci, e cosi 
pure più tardi Cleonimo di Sparta (301 a. C.,). Questa si 
fu una delle tante migrazioni pelasgiche parziali; e non è 
assurda l'ipotesi che tale stirpe tracica o grecanica, che si 
voglia dire, avesse ereditato le tradizioni dei Colchi, fuggi- 
tivi alle foci dell' Istro, e recatele in seguito nell'Istria. Ovi- 
dio (Eleg. II Trist.) parla di popoli all' Istro, che portavano 
ancora il nome di Colchi. Da Erodoto (Lib. II, n. 33) ab- 
biamo cenno d' Istriani abitanti il paese presso alle foci dello 
stesso fiume; e che d'Istria avesse questo il nome, n'é te- 
stimonio Isidoro (Lib. XIV, n. 4). Con ciò avrebbero qual- 
che spiegazione le favole di Medea e di Absirto trapiantate 
in questa provincia, ove riscontriamo le isole Absirtidi ed 
altre voci, che vi corrispondono. Lo stesso nome del paese 
vi ha forse relazione; ed anche un fiume Istro ebbe qui fre- 
quenti menzioni. Questo nome, applicato ad uno dei nostri 
fiumicelli, poteva essere rimembranza dell' Istro del Mar Nero, 
e cosi vengono per qualche modo dilucidate le strane cre- 
denze degli antichi sui due rami di quel fiume, l'uno dei 
quali pretendevasi sboccasse superbo d'acque nell'Adriatico. 
Ignorasi dove precisamente raggiungessero questo i Traci, 
se a Fola o ad Aquileja; ma é più probabile al Timavo, 
secondo Plinio e la tradizione. Tergeste, Egida, Pirano, E- 
monia, Parention, Pola, Nesaction furono città loro. Facil- 
mente la stirpe nuova, la quale stanziò di preferenza sulle 
coste, si fuse nella primitiva; e a ciò contribui la lingua, 
perocché i Felasgi, secondo Erodoto e Plutarco, parlavano 


intorno aW Istria. 125 


e r idioma etrusco, e l'ellenico, si che da Tucidide (Libro 
IV, n. 109) furono detti forestieri bilingui. Credesi inoltre 
(V. Cantù, lib, I Storia Universale) che i Traci parlassero 
la lingua cosi detta ellenica primitiva molto rassomigliante 
alla etrusco -pelasga. 

Per giudicare infine, essere sorvenuti, oltre ai Traci, anche 
i Gallo- Celti, non abbiamo prova. In mezzo al grande mo- 
vimento, che propagossi fra le stirpi celtiche dopo l'avan- 
zare delle armi romane nella Gallia Cisalpina, quando allo 
stesso tempo altri Galli, cacciatisi fino alla Macedonia, ne 
-erano stati respinti, forse anche V Istria avrà subito alle sue 
frontiere qualche invasione di quel popolo. 

PRIMA GUERRA DEI ROMANI CONTRO GL' ISTRI. 

Cinque anni dopo la guerra mossa dai Romani alla fa- 
mosa Tenta, regina dell' lUirio, sotto i consoli L. Postumio 
Albino e Gneo Fulvio Centumalo, gli Istri assalirono e pre- 
darono alcune navi romane. La Repubblica spedi contro di 
essi i consoli P.. Cornelio e Minucio Rufo. Argomento a 
ritenere che quella guerra non si fosse condotta dai Romani 
a buon fine, si é il vedere che per la stessa non fu decre- 
tato trionfo alcuno, e che nei Fasti Consolari non se ne 
trova menzione. Più adunque d'Eutropio (Libro III), il quale 
vuole che gli Istri sieno stati allora debellati, merita fede 
Livio (Libro XXI, cap. XVI), il quale narra aver gli Illiri, 
i Sardi e i Corsi, non meno degli Istri, provocate soltanto 
le armi romane piuttosto che esercitate. Riaccesasi l'anno 
seguente la seconda guerra punica, Roma non ebbe tempo 
di prenderne vendetta. 

I GALLI TITTOSSAGI DEVASTANO l' ISTRIA. 

Alcune tribù dei Galli Tittossagi, condotte da Brenno nella 
guerra delfica, si fermarono sulle rive della Sava, là dove 


126 Studj Storiografici 


questo fiume mette foce nel Danubio. Ebbero nome di Scor- 
disci. Cosi Giustino nella sua storia al capo 32. Che il loro 
numero non fosse piccolo, può desumersi da molti dati. Anzi 
risulta ch'essi non si tennero solo alle foci della Sava, ma 
si estesero sotto lo stesso nome di Scordisci dall' alta Brava, 
presso l'odierno Petau, sino al monte Bebio ai confini della 
Dardania Superiore. A questa opinione si accorda bene 
quanto narra Livio nella IV Deca, lib. X, cap. IV. Alcuni, 
facendo argomento della prossimità, pensano che questi Scor- 
disci sieno i Galli Tittossagi, che circa l'anno 201 a. C, 
devastarono l'Istria, spintivi da Filippo III di Macedonia, 
ne' suoi progetti di guerra contro l' Italia. Altri invece, sulla 
fede dello storico Giustino (al luogo già citato) ritengono 
che i saccheggiatori dell'Istria fossero i Tittossagi di To- 
losa. Una terza opinione infine si é quella del Carli, il quale 
mostra di credere non trattarsi dell' Istria nella depredazione 
dei Tittossagi di Tolosa, ma si del ' paese degli Scordisci 
chiamati pure col nome d'Istri. Ma questo non apparisce 
verosimile, ove ricordisi che gli Scordisci, siccome Galli 
(Strab. lib. VII), erano fratelli dei Tittossagi, e si oppone 
inoltre a quanto leggesi in Giustino, il quale parla propria- 
mente di quegli Istri, che abitavano le coste dell'Adriatico. 
L'incursione dei Tittossaggi fu in ogni modo passeggera, 
e tosto se ne andarono essi nella Pannonia a stabilirvi il 
loro soggiorno. 

DEI GALLI O CELTI SULLE ALPI ISTRIANE. 

Vinta Cartagine, la guerra di Roma^ contro i Galli fu di 
nuovo guerreggiata. Convien credere che i Romani, occu- 
pata già la Gallia Cisalpina, avess^o compreso nella stessa 
tutto l'odierno Friuli, perché nel 187 a. C, avendo una 
mano di Galli transalpini, calatisi dai monti, costrutto un 


intorno all'Istria, 127 


castello a breve distanza dal sito, ove poscia sorse Aquileja 
(Plinio lib. Ili, capo XIX), Roma diede ordine a M. Claudio 
Marcello, console, ed a L. Porzio, proconsole, di cacciarli 
colla forza dai domini della Repubblica. I Galli, in cui, die- 
tro le toccate sconfitte, era già entrato alto spavento delle 
armi romane, senza resistenza si assoggettarono. Disarmati 
dal console, ne mossero lagnanza al Senato, adducendo a 
scusa della fatta invasione Tesservi stati spinti dal bisogno. 
Tutto ciò dimostra come sulle Alpi, limitrofe dell'Istria si 
fossero fermate alcune tribù galliche, confinatevi dalla cre- 
scente potenza dei Romani. Ed é probabilmente d'allora che 
il nome di Carso, che vuoisi celtico, restò alle parti più 
brulle della nostra Vena. Più tardi vedremo come nelle bat- 
taglie degl'Istri contro i Romani, i Galli si fossero addimo- 
strati infidi alleati di quelli; e ciò riconferma la distinzione, 
che va fatta tra Celti ed Istriani. 

I ROMANI A CONTATTO DELL* ISTRIA. 

Per impedire che i Galli nuovamente irrompessero nel 
Friuli, ch'era bensi romana provincia, ma spoglia di difesa 
e quasi disgiunta dal rimanente della Calila Cisalpina, il 
Senato ordinò si fondasse la colonia di Aquileja (185 a. C.) 
la quale doveva pur servire di punto d'appoggio ed esten- 
dere la signoria di Roma suU' ultima provincia d'Italia, vale 
a dire suU' Istria. Tremila fanti con 45 centurioni e 240 
equiti vi furono mandati, e tra questi si divise buon tratto 
di terreno coltivabile. Triumviri della colonia furono eletti 
Scipione Nasica, C. Flaminio e L. Manlio Addino. Cosi i 
Romani vennero ad immediato contatto cogli Istri, i quali, 
secondo Strabone (lib. V}, erano contermini degli Aqui- 
lejesi. 


128 Studj Storiografici 


CAUSE DELLA GUERRA ISTRIANA. 

Varie sono le cagioni, che vuoisi abbiano dato origine 
alla guerra dei Romani contro gli Istri. Secondo alcuni, ne 
sarebbe stato un pensiero del console M. Claudio Marcello 
(Liv. lib, XXXIX, e. XL"^, concepito appena respinti i Galli dal 
castello di Aquileja, avendo egli richiesto il Senato del per- 
messo di condurre le legioni contro gì' Istri, ma intimata 
oro la guerra senz' attenderne risposta. Altri accusano l'am- 
bizione di L. Manlio, console, trovandosi scritto di lui, che 
in difetto d'altro argomento di trionfo, abbia cupidamente 
abbracciato l' occasione offertagli dalla fortuna di soggiogare 
l'Istria (Liv. lib. XLI, cap. i). Vuoisi pure che la guerra 
fosse nata pel soccorso recato dagli Istri agli Etolii. Questa 
opinione é appoggiata alle autorità di Floro (Lib. II, cap. X) 
e dello stesso Livio (Lib. XLI, cap. i). Ma il Carli (Antich. 
ItaL part. I, lib. II, § 7) ne muove dubbio, citando 1' auto- 
rità di Giustino, il quale nei Commenti a Trogo (Lib. XXXII, 
cap. I) dice chiaramente che gli Etolii si erano fatti contro 
i Romani soli, disuguali di forze e privi d'ogni soccorso. 
Una quarta opinione, ripetuta da molti, si é che gli Istriani 
avessero insultato le navi di Taranto e di Brindisi; e la 
quinta infine che essi sienp stati i primi a dar nelle armi, 
poi che videro sorgere ai confini della provincia romana 
fortezza. Da questa varietà di pareri crediamo potersi con- 
chiudere che tutti gli accennati motivi abbiano determinato 
la guerra istriana, siccome cause occasionali, mentre la causa 
primitiva e principale dee cercarsi nella romana politica, la 
quala mirava ad estendere ognor più il proprio dominio e 
specialmente ad insignorirsi di tal paese, che per la sua po- 
sizione a piedi dell'ultima Alpe italiana le avrebbe prestato 
il mezzo di opporre più salda resistenza alle eventuali irru- 


tniorno aW Istria. 129 


zioni de* Galli e degli altri popoli d'oltremonte. E che i Ro- 
mani si fossero già qualche anno prima allestiti alla guerra 
contro gli Istri, può giudicarsi dal vederli nell'Adriatico su 
grossa armata, una squadra delia quale posta a guardare il 
mare d'Istria dal porto d'Ancona sino al Timavo. L'anno 
183 a. C. n'era stato affidato il comando a L. Duronio, 
pretore. 

CAMPAGNA DEL I97 A. C. 

Il console Manlio, a cui era toccata in sorte la Gallia 
indeciso fra il desiderio di dar principio ad una guerra, che 
gli meritasse il trionfo, e il timore lo si accusasse d'essere 
ciscito illegalmente di sua provincia, venne a consulta coi 
tribuni militari, tra i quali v'era chi consigliava a non 
metter tempo di mezzo e chi ad aspettare gli ordini del Se- 
nato. Vinse l'opinione dei primi, e il console mosse tosto 
al Timavo. Gli accampamenti furono posti a cinque miglia 
dal mare nella valle presso l'odierna Brestovizza. Cajo 
Furio, preposto all'armata dell'Adriatico superiore, veleggiò 
a quella volta con dieci navi ed altri bastimenti carichi di 
provvigioni. Tutta la squadra si raccolse nel prossimo porto 
ai confini dell' Istria^ vale a dire a Sestìana, cosi che per le 
continue comunicazioni tra il campo e il deposito delle vet- 
tovaglie Atenne in breve a formarsi un vero emporio. Il 
console die subito opera a disporre l'opportuno per la di- 
fesa e per l'assalto. Ora seguiremo Livio a narrare l'avveu 
nuta battaglia. 

A custodia del campo romano furono appostate guardie 
•da tutte le parti. Per dominare poi la via dell' Istria fu col- 
locata una compagnia di Piacentini. Più verso il mare ven- 
nero loro aggiunti due manipoli della seconda legione, circa 
qaattrocento uomini. La terza legione era stata condotta sulla 


130 Studj Storiografici 


via, che va ad Aquileja, perché servisse di scorta ai forag- 
giatorì. Dalla stessa parte, forse a mille passi, era il camper 
dei Galli, in numero di tremila o pochi più, comandati' da 

' Carmelo, luogotenente del re loro. Agli Istri infatti si era 
collegato un corpo di Galli, alleati di mala fede, poiché non 
solo non presero parte alla pugna, ma dimostrarono di vo- 
lersene stare col vincitore. 

GÌ' Istriani erano condotti da Epulo, loro capo, detto re- 
golo dai Romani con termine di sprezzo. Come videro il 
campo nemico muoversi al lago del Timavo, si trassero- 
dietro di un colle in luogo nascosto. Ma poi per vie tra- 
verse, vigili 2. cogliere il destro d'ogni accidente, seguita- 
rono di fianco l'esercito romano. Tutto che si facesse per 
mare e per terra era loro noto, e poiché scorsero deboli le 
guardie del campo e senza difesa la turba dei mercatanti^ 
che popolavano le vie tra il mare e gli alloggiamenti, pre- 
sero il partito di dar primi l' assalto e furono addosso a 
due appostamenti romani, l'uno della coorte piacentina e 
l'altro della seconda legione. Celati da fitta nebbia s'avan- 
zarono, e quando il sole cominciò a diradarla, il non certo- 
chiarore fé' apparire ai Romani maggior che non fosse il 
numero degl' Istri. Le guardie allora, ritrattesi nel campo spa- 
ventate, vi portarono lo scompiglio, credendosi i nemici già 
dentro agli steccati. Al grido : tAlla marina alla marina / tutti, 
come se ciò facessero comandati, e i più inermi, si gettarono 
a precipitosa fuga alla volta del mare. Lo stesso console, 

•adoperatosi indarno a rattenerli, dovette fuggire. Il solo- 
Marco Licinio Strabone, tribuno della terza legione, osò far 
fronte con tre manipoli alle irrompenti schiere degl' Istri. 
Aspra fu la zuffa, né prima ebbe fine che il tribuno e tutti 
i suoi fossero uccìsi. GÌ' Istri, avuto cosi il campo romano,, 
e trovandovi copia grandissima d'ogni maniera di cibi e di 

.vini, furono tutti alla gozzoviglia, dimentichi dei nemici e 


intorno all' Istria, 131 


della guerra. I Romani intanto, affollatisi intomo alle navi 
per avervi salvamento, si trovavano esposti al maggior peri- 
colo. Tra i militi e i marinai si venne alle mani con molte 
ferite e morti. Volevano gli uni ricoverare sulle navi, e te- 
mendo gli altri non si empissero quelle di soverchio, con- 
trastavano loro l'imbarco. Finalmente, per comando del 
console, V armata si allontanò dalla riva e si cominciò a rac- 
cogliere la truppa. Ma di tanta moltitudine non più di mille 
e duecento si trovarono in armi, e quasi tutti gli equiti 
senza cavalli. 

Manlio rianimò i soldati, mostrando quanto facile dovesse 
riuscire la vittoria, ove i nemici venissero tosto con impeto 
assaliti, mentre erano solo a predare intenti ed assonnati, 
e quanto importasse ai Romani il levarsi dal volto la ver- 
gogna di una tanta sconfitta. Richiamò la terza legione ed 
ordinò che, scaricati i cavalli somieri, sovra ciascuno di essi 
montassero due soldati più gravi d'armi, e che tutti gli altri 
cavalieri prendessero in groppa un giovane soldato. Fattosi 
questo con la maggior fretta, il campo occupato dagli Istri 
fu invaso, e ne seguitò non già pugna, ma strage. Ben otto- 
mila degli Istri immersi ancora nel sonno, vi rimasero tru- 
cidati. Gli altri fuggirono, e tra questi lo stesso Epulo. I 
Romani non condussero alcun prigioniero e non perdettero, 
al dire di Livio, che duecento soldati. A fronte di tutto que- 
sto la vittoria di Manlio non fu certo decisiva, poiché in- 
vece d'inseguire il nemico, si tenne nel campo sulle difese 
sino all' arrivo dell' altro console M. Giunio. Questi, sparsasi 
la voce in Roma che tutto l'esercito fosse perito, aveva 
avuto r ordine di recarsi nella Gallia per levarvi quanti più 
soldati potesse e di correre in soccorso di Manlio. Di più 
furono decretate leve straordinarie, e si formarono in Roma 
due legioni cittadine. I latini dovevano prestare io,ooo fanti 
e 500 cavalli; e si ordinò al pretore F. Claudio di racco- 


132 Studj Storiografici 


gliere in Pisa la quarta legione, 500 soci e 250 cavalli. Si 
intimarono infine tre giorni di preghiere. — M. Giunio, ar- 
rivato al campo, e accertatosi che V esercito era salvo, scrisse 
bensì a Roma in modo da tranquillare gli animi, ma visto 
che gl'Istri stavano in gran numero accampati non lungi 
dal Timavo, nulla intraprese contro di essi e ritirò le le- 
gioni a vernare in Aquileja. Anche gl'Istri ritornarono alle 
città loro, e cosi ebbe termine la campagna del 197 a. C. 

• 

OCCUPAZIONE dell'Istria. — campagna del 178 a. c. 

L' anno seguente si raccolsero in Roma i comizi per eleg- 
gere i magistrati. Si cominciò a trattare con grande vee- 
menza r argomento della guerra istriana ; poiché da un canto 
n' era provata la molta importanza da L. Minucio, legato di 
Manlio, e dall'altro la sconfitta toccata dalle legioni d' Aqui- 
leja aveva tutti gli animi accesi d'ira. I più accusavano di 
ogni sciagura l'ambizione e la stoltezza di Manlio, il quale 
aveva osato maneggiare una guerra arrischiata di proprio 
capo, senza punto curare l'autorità del Senato. Marco Giunio, 
eh' era tornato a Roma per la nomina dei magistrati, accre- 
S;ceva lo sdegno del popolo, mostrando piena ignoranza 
delle cose istriane, ed anzi prendendone argomento a scher- 
mirsi dalle inchieste dei tribuni della plebe, Papirio e Lici- 
nio, i quali avrebbero voluto venisse Aulo Manlio tra loro 
a rendere ragione di sua inesperienza. Fra questo l' elezione 
a consoli cadde sopra C. Claudio Pulcro e T. Sempronio 
Gracco. Fatti i sacrifizi e le supplicazioni, i consoli sorti- 
rono le Provincie. A Sempronio Gracco toccò la Sardegna, 
e a Claudio Pulcro l'Istria. Cosi per quella, come per que- 
sta fu stabilito lo stesso numero di soldati, cioè due legioni 
di 5200 fanti l'una, con trecento cavalli, aggiuntivi 12,000 
Itoci latini con 600 cavalli e io quinqueremi. Mentre tali 


intorno air Istria. 133 


cose passavano in Roma, M. Gìunio, reduce dal campo, ed 
A. Manlio, in qualità di proconsoli, entrarono al principio 
della primavera i confini dell' Istria GFIstri, soperchiati dalla 
preponderanza dei due eserciti, indietreggiarono, poco fi- 
denti delle proprie forze; e i Romani ponendo ogni cosa a 
sacco, avanzarono nell'interno del paese fin sotto la città 
di Nesazio *. Altri invece, per essere qui mancante il testo 
di Livio, e vedendo l'esercito romano presso ad una città 
marittima, vorrebbero che Giunio e Manlio avessero mutato 
il piano di guerra, ed anziché assalire gl'Istri a settentrione 
dalla parte del Timavo, come l' anno antecedente, si fossero 
portati sulle navi alla parte opposta dell' Istria. Questo non- 
è possibile, poiché, fatta eccezione degl'imbarazzi molti nei 
trasporti marittimi, tornava meglio ai Romani pugnare in 
terra aperta, come si é quella presso le foci dell' Arsa, che 
tra i gioghi difficili, che si aggruppano alle frontiere supe- 
riori dell'Istria. Ma Livio, esattissimo scrittore e talvolta 
perfino minuzioso, ove ciò fosse proprio avvenuto, non sa- 
rebbesi limitato a dire, che i consoli, svernato in Aquileja, 
condussero nell'Istria l'esercito. Da queste parole si fa aperto 


1 Ignorasi il loogo preciso, ove sorgesse Nesazio. Lo stesso Carli confessò di non 
saperlo fLib. IV, cap. 4, P. I) Manzioli vuole Nesazio presso Capodistria sul monte 
Sennino. Ma in appoggio di questa sna opinione piuttosto strana, non porta altro ar- 
gomento che una vecchia carta geografica, cai egli medesimo non tiene meritevole 
di credenza. Pietro Coppo pretende che Nesazio fosse alla punta Cisana nel Polense* 
Ma alla punta Cisana non v' ha traccia di fiume ; e di un fiume appunto, scorrente 
presso la città, parla la storia di Livio. L' abate Giuseppe Berini, cadendo nella stessa 
dimenticanza, la pone al Promontore. Mons. Tommasini la immagina senza alcun fon- 
damento presso il Quieto. Il Cluverio finalménte la vuole presso Castelnuovo alla 
estremità del canale marittimo dell'Arsa. Il parere del canonico Stancovich su tale 
proposito è per cosi dire quello del Cluverio, poiché dietro alcuni scavi, fatti nel 
luogo detto del Molino di Scaropicchio, poco Inngi da Castelnuovo d'Arsa, s'indusse 
a ritenere, che quello fosse il vero sito dell* antica Nesazio. Le opinioni del Cluverio- 
e dello Stancovich si accordano con quanto disse Plinio al Lib. III, cap. XIX : Jf^i- 
ren^o, la coionia di Poia..., di poi la città di Nesazio, e il fiume Arsa, ora confine d* Italia, 
Così pure Tolomeo al lib. III. cap. I : Parendo, Poi a, Nesazio, fine d* Italia. 


134 5/wtì?/ Storiografici 


che il piano d'attacco non ebbe cangiamento. GFIstri, op- 
pressi da due eserciti, lasciarono libero ai Romani il proce- 
dere fin sotto le mura di Nesazio, e questo é in relazione 
coi vasti depredamenti, di che lo stesso Livio tiene parola. 
Ritiratisi entro le foreste a levante, in tanto pericolo di to- 
tale rovina, raccolsero a tumulto un esercito di tutta la gio- 
ventù atta all'armi. Si venne a battaglia. Gl'Istri da prima 
combatterono con maggior valore e costanza; ma incalzati 
dalle schiere ordinate dei Romani, piegarono e sgominati 
presero la fuga. Ben quattromila ne restarono sul campo. I 
fuggitivi si ridussero nella città; poi domandarono la pace 
e diedero gli ostaggi. — All'annunzio in Roma di si rapidi 
progressi, il console C. Claudio, per invidia dei proconsoli 
e dubitando non gli sfuggisse l'occasione di un trionfo, che 
ormai facilissimo appariva, parti in tutta fretta da Roma e 
per rompere ogni indugio, senza prima soddisfare alle so- 
lennità dei soliti sacrifizi e senza i littori paludati. In Aqui- 
leja s'imbarcò per l'Istria. Giunto al campo, mostrò la stessa 
leggerezza,- con cui si era tolto da Roma. Radunato il par- 
lamento, usò violenti parole, trattò Manlio da vile, a Giunio 
rinfacciò l'essersi fatto collega del primo nell'infamia, e al- 
l' uno e all' altro, minacciandoli perfino di catene, fé comando 
di sgombrare la provincia. 

Tutto questo molto irritò i soldati, imperocché i rimpro- 
veri ricadevano sopra di essi, i quali, spregiando e i comandi 
e le preghiere di Manlio, aveano preso la fuga. Si rifiutarono 
tutti all'obbedienza, protestando ignorare l'esercito chi C. 
Claudio si fosse, scappato ch'egli era da Roma, senza of- 
frire i solenni voti in Campidoglio e senza paludamento, né 
voler quindi riconoscere altra dipendenza, se non da Giunio 
e Manlio. Alle proteste seguirono gli scherni, e Claudio dovè 
partirsene nuovamente per Roma. Il suo viaggio fu si ve- 
loce, che vi arrivò quasi ad una con le sue lettere. Non im- 


intorno all'Istria. IJ5 


piegò più che tre di a compiere le dovute cerimonie, e con 
la stessa celerità se ne tornò in Istria Giunio e Manlio ave- 
vano intanto rotto ogni accordo coli' inimico e dato opera 
ad espugnare la città di Nesazio, in cui s'erano riparati i 
capi istriani. 

Claudio, sospese tosto ogni lavoro, ed arrivate le due le- 
gioni, che per lui erano state coscritte, rimandò il vecchio 
esercito. Si cominciò a combattere la città con macchine 
di guerra. Narrasi pure, aver Claudio deviato il corso del 
fiume, che bagnava le mura della città, togliendo cosi agli 
assediati le acque ed il più forte loro baluardo. Perduta ogni 
speranza di salvezza, gl'Istri al rendere le armi preferirono 
l'uccidersi, gettandosi trafitti dalle mura, perché ai nemici 
fesse la vittoria scena d' orrore. Epulo stesso si passò il petto 
con un pugnale. In mezzo a tanta strage entrarono i Ro- 
mani in città, ove i pochi sorvissuti furono parte presi e 
parte uccisi. Nesazio sembra non sia stata abbattuta, e la tro- 
viamo esistente ancora ai tempi di Plinio. Mutila e Faveria 
air invece furono espugnate e distrutte. I prigionieri ven- 
duti e i caporioni della guerra frustati e poi morti. Dati 
gli statichi da tutte le città, l'intiera provincia fu assogget- 
tata alla romana repubblica l'anno 176 a. C. Né l'essersi 
detto da Livio, che l'Istria fu allora pacata, può dare ar- 
gomento a ritenere che la provincia fosse stata già prima 
soggiogata, e che la ribellione avesse provocato la guerra 
ora discorsa, imperocché né giusta é la questione di lingua, 
a cui si ricorre, né v'ha storico, che di una più antica som- 
missione dell'Istria ci renda fede. 

Portate le novelle della felice vittoria a Roma, furono or- 
dinati due giorni di preghiere a ringraziare gl'iddii: il che 
dimostra quanta fosse l'importanza, in che si teneva il nuovo 
conquisto, certo, come notammo, per aver tutta la frontiera 
d'Italia. Il poeta Ostio cantò la guerra istriana in un poema^ 


136 Studj Storiografici 


che andò perduto. — Claudio, vinti anche i Liguri Tanno 
dopo, ottenne il trionfo dell'Istria e della Liguria insieme. 

INDUZIONI CIRCA IL GRADO DI CIVILTÀ DELL' ISTRIA 
PRIMA dell'occupazione ROMANA. 

Poche sono le notizie rimasteci di tempi si lontani, e le 
poche versano in tante dubbiezze, che vano tornerebbe l'ac- 
cingersi a stabilire con qualche sicurezza di giudizio il grado 
e l'indole della coltura tra i primi abitanti dell'Istria. Pur 
se é vero, come tutti ammettono, che i Pelasgi, dovunque 
fermarono stanza, sieno passati dalle arti della guerra a quelle 
del governare e dell'incivilire, diffondendo specialmente le 
industrie e il culto religioso, non é irragionevole il supporre 
che anco nell'Istria abbiano portato qualche lume di civiltà 
E alcun fatto viene a conferma di tale supposto. Del culto 
di Minerva, dell'insegna della Gorgone Medusa, e d'altre di- 
vinità, comuni agli Etruschi ed ai Pelasgo-Joni, si trovarono- 
vestigia non dubbie nell'Istria. Né mancano le monete, in- 
dizio certo di qualche coltura. E di città murate, che fecero 
fronte ai Romani, già abbiamo parlato coli' autorità di Livio- 
Cosi pure avvertimmo, come il nome di Lucumone, che ac- 
cenna al noto governo federale, proprio delle stirpi pelasgi- 
che, non sia estraneo alle più antiche memorie dell'Istria. 
Vi sono perfino scrittori, però non antichi, che parlano di 
gruppi federativi a que' tempi nella nostra provincia e ne 
vogliono Pola città capitale. Ma siffatte particolarità sono- 
troppo esatte, né si citano le fonti, a cui furono attinte. 
— A primo aspetto la menzione di Epulo, regolo degl'Istri,. 
farebbe contro l'idea di una confederazione; ma pensando 
che pei Romani era quel nome titolo di sprezzo, dato non 
di rado al capo qualunque del paese nemico, non se ne pu6 
trarre giusto argomento in contrario. 


intorno all'Istria. 137 


L'ipotesi adunque di qualche civiltà nell'Istria prìma dei 
tempi romani non è senza fondamento, mentre non sa* 
premmo a che si appoggi quella del Tommasinì, copiata 
oggidì da qualche scrittore, secondo la quale gii abitanti 
dell' Istria fino ai tempi del dominio di Roma sarebbero stati 
del tutto selvaggi, senza qualsiasi principio religioso, ovvero- 
al più adoratori dei tronchi degli alberi. Se discordiamo da. 
questa opinione, non é già per gloriuzza di prosapia, che sa- 
rebbe puerilità, ma perché é buon consiglio accettare nella 
incertezza le probabilità e non isdegnare quegli argomenti,, 
che, sebbene annebbiati dal tempo, valgono pure a confer- 
marle. 

È bensì vero che vi si oppone la pirateria, alla quale 
vuoisi sieno stati dediti gli Istriani. Narrasi infatti come nel- 
l'anno 301 a. C. Cleonimo di Sparta, navigando per l'A-^ 
driatico, diretto alla volta delle venete lagune, si fosse guar- 
dato dalle rive d'Istria per non essere assalito da quei pi- 
rati. Ma ciò, a dir vero, non farebbe gran prova, perchè 
troppo naturai cosa é pensare il peggio d'ignoto paese, ed 
é poi fatto, posto fuor di dubbio, che del mare d'Istria e 
de' suoi lidi tanto i Romani che i Greci avevano allora po- 
chissime e confuse notizie. D' altra parte é già posto in chiaro 
che la pirateria venne esercitata anco da popoli civili, come 
Fenici e Greci, e per qualche tempo tenuta anzi in conto 
di guerresco esercizio. GÌ' Istriani erano potenti in mare fina 
da que' tempi e per l' eccellente legname da costruzione, che 
formava la prima loro ricchezza, e pel gran numero di buoni 
porti naturali lungo tutta la costa. E che non già pirati, ma 
commercianti adoprassero questa forza marittima, abbiama 
chiara testimonianza in Floro al lib. I, capit. 1 8, che tratta 
della guerra tarentina (281 a. C), ove si legge come dalla 
illustre città di Taranto, metropoli della Calabria, dalla Pu- 
glia e da tutta la Lucania partissero navi anco per l'Adria- 


138 Studj Storiografici 


tico a commerciare su tutti i lidi dell' Istria. Il vino e V olio 
della nostra provincia erano molto celebrati fino dall'anti- 
chità più remota. 

Ora ci resta a dire se debba prendersi qual verità la no- 
tizia, ripetuta da alcuni scrittori, che gl'Istrioni avessero 
tratto il loro nome dall'Istria, che di qui fossero passati a 
Roma per la prima volta, e. che per ciò debbano ritenersi 
antichissime tra gl'Istriani le arti della danza, della mimica 
-e della comica recitazione. È vero bensì che ciò si appoggia 
all'autorità di Pesto {In Auct. ling. lat,^ pag. 295) e d'Isi- 
doro {Orig.y lib. XVIII, cap. 48), e che abbiamo di più una 
iscrizione riportata dal Carli {Ant, ital, par. II, Append.) la 
<]uale dà all'arte istrionica il nome d'istriaca; ma nuUadi- 
meno non ci sembrano questi argomenti bastevoli a gua- 
dagnare piena credenza. Derivandosi in fatti, secondo Livio 
(lib. Vili, cap. 2), il nome d'istrione dalla voce Hister^ che 
nell'idioma degli Etruschi significava qualsiasi giuoco^ si che 
più tardi agli stessi attori delle commedie e delle tragedie 
fu applicato (Plinio ed Hsopo), non v'é sicurezza a trarre 
•dall'Istria l'origine dei giuochi italiani. 

NOZIONI GEOGRAFICHE RISGUARDANTI l' EPOCA TRATTATA. 

Tutta r Istria, compresa entro ai naturali suoi confini, vale 
a dire al nord dalla Vena, detta Ocra, e dal Caldera ad o- 
riente, sembra sia stata abitata dai Greco-Pelasgi, e. più esat- 
tamente dalle primitive tribù pelasgiche nell'interno e dai 
•Grecanici al mare. Confinavano gl'Istri coi Veneti al di là 
del Timavo, a settentrione coi Carni sul Carso di Trieste 
^ coi Giapidi sull'opposto versante della Vena; e ad Oriente 
•coi Liburni ai lidi del Quarnero. I fiumi principali, che cor- 
rono la provincia, portavano fin d' allora i nomi di Timavo, 
Formione (il Risano), Istro ed Arsia (l'Arsa). Alcuni vogliono 


intorno all' Istria, 139 


che r antico Istro sia l'odierno Quieto, il fiume maggiore 
dell'Istria, e le stesse favole intorno a quello li raffermano 
in tale opinione. Narra vasi che l' Istro, sboccando nel mare 
con lo stesso impeto del Po, andasse serrato in alveo ad 
incontrarsi con quel fiume, per cui molte volte tutto il mare 
frapposto ne venisse intorbidato. Da ciò, preso all'ingrosso 
il fatto, che la foce del Quieto é più settentrionale di quella 
del Po, e considerato che nei casi di copiosa pioggia il Po 
intorbida veramente buon tratto di mare, deducono che l'I- 
stro fosse propriamente il Quieto. Ma troppo é il divario 
di latitudine fra le due foci, perché alla detta favola si possa 
appoggiare siffatta induzione. D'altra parte più sotto del 
Quieto trovasi il canale di Leme, in continuazione a letto 
di fiume, e forse é più verosimile, come accenna il Carli, 
riconoscere in quello T Istro degli antichi tempi. 

Il mare, che bagna l'Istria, portava da principio il nome 
di Jonio, e lo ritenne anche sotto i Romani. Perciò Dionigi 
d'Alicamasso ebbe a dire (Lib. II. e. 361-Chil Hist.), essere 
Italia tutta quella terra^ che é cinta dal Jonio, dal Timavo 
« dalle Alpi. 

Del vero sito delle Absirtidi non havvi precisa cognizione. 
Sostiene taluno fossero le isole del Quarnero, trovando 
analogia tra VAbsoro di Plinio e l'odierno Ossero. Altri le 
veggono nei Brioni, affidandosi all'autorità di Igino, che le 
^egna dirimpetto a Pola; ed altri in fine, trovandosi scritto 
che le Absirtidi erano isole del Timavo, le cercano nell* e- 
stuario di Monfalcone. 

Fra i luoghi abitati fin da que' tempi vanno nominati 
specialmente i seguenti. Plquentum (Pinguente) Rocium (Roz- 
zo) Petina (Pedena) nell'interno, e sulla costa: Pucinum 
(Duino) Tergeste (Trieste) Aegida (Capodistria) Halietum 
(S. Simone d'Isola) Pyrrhanum (Pirano) Sepomagum (Omago) 
Aemonia (Cittanova) Parenihium (Parenzo) Cissa in isola 


140 Shidj Storiografici 


sprofondata presso ai Brioni, Vistrum (Vestre), Pola^ Mutilcr 
(Medolino),Fat;em( Gradina d'Altura) Ne^aciium (presso Ca— 
stelnuovp d'Arsa) Arsia (S. Ivanaz) Albana e Flanona (Fianona). 

DEI POPOLI CIRCONVICINI ALL' ISTRIA 
AL TEMPO DELLA ROMANA OCCUPAZIONE. 

Dei popoli circonvicini all'Istria, alcuni appartennero alla 
stirpe greco-pelasga, altri alla celtica. Quelli sono i Veneti, ì 
Monocaleni e i Catali; questi i Carni, i Giapidi e i Liburni* 

Veneti, Molte sono le opinioni intorno al ceppo, a cui ap- 
partenessero ; ma non ispetta a noi il ragionarne. Noteremo 
solo che il parere più verosimile ci sembra quello che lì 
vuole di stirpe pelasgo-grecanica e così adunque affini agli 
Istri. I limiti degli antichi loro possedimenti non possono 
con precisione determinarsi. Da principio pare ch'essi ab- 
biano dominato gran tratto di paese intorno alla costa set- 
tentrionale dell' Adriatico. Poi si restrinsero tra 1' Adige, H 
Po e il mare, restando sempre controverso il confine a set- 
tentrione per r incertezza del dominio nel Friuli, ora eser- 
citato dai Veneti ed ora dai Carni. 

Monocaleni. A quale schiatta veramente spettassero, non 
può stabilirsi con sicurezza. La sola etimologia greca po- 
trebbe farceli supporre di stirpe greco-pelasga, venuti forse 
ad abitare questi paesi assieme coi Traci dell' Istro. 

Sembra che il loro territorio si estendesse sui monti, che 
ora direbbonsi il Carso di Duino e di Comen. In seguito, 
oppressi dai Celti, sarannosi fusi con essi, si che ogni traccia 
ne andò perduta. I nomi infatti, che si riscontrano nel detto 
Carso di Duino e di Comen, sono per lo più celtici. 

Catali, Anche dell'origine di questi non resta altro indi- 
zio che la greca etimologia del nome. Sembra che soggior- 
nassero nella valle della Piuca fra Ciana, Adelsberg e il Ti- 
mavo superiore, dove vi ha un monte, che porta ancora il 


intorno ali* Istria. 141 


nome di Catalano. Come i Monocaleni, anco ì Catali avranno 
ceduto alle forze superiori dei Celti, e tra i medesimi sarà 
scomparsa la loro stirpe. 

Carni, I Carnuti erano gallici o celtici. Che i Carni poj 
fossero della famiglia dei Carnuti e debbano quindi aversi 
per Celti, é opinione dei più giustificata da buona tradi- 
zione e dal leggersi nei Fasti Consolari dato il nome di 
Galli ai Carni. Questi Carni o Carnuti discesero in Italia 
assieme alle altre schiatte galliche condotte da Belloveso, 
trovandosi pur essi nominati da Livio (Lib. V. Cap. v). 
Presumesi poi che passassero con Elitovio fino ai confini 
della Venezia, e che di là, cacciati dalle armi romane, si 
fossero ritirati nel Friuli, quindi ridotti ai monti, vale a dire 
alle Alpi Carniche. Fin dove giungessero a settentrione non 
havvi sicura notizia. Può dirsi per altro che tenessero ezian- 
dio delle terre nel Norico e perfino nella Pannonia. Le 
molte incertezze circa il dominio dei Veneti e dei Galli nd 
Friuli e quindi i dubbi intorno al lido carnico furono la ca- 
gione delle disparate opinioni riguardo ai confini dei Carni 
a meriggio. A noi basti sapere, essere stati i Carni, se non 
alla spiaggia fra Duino e Trieste, come vollero alcuni per 
r autorità di Plinio e di Strabone, certo in molta prossimità 
alla stessa, sui monti, cioè, abitati dai Monocaleni e dai Catali^ 
i quali, come dicemmo, cedettero alla prevalenza delle cel- 
tiche popolazioni. 

Giapidi, Essi furono di sangue misto, gallico ed illirico. 
Il contatto e quindi la fusione delle due schiatte origina- 
riamente celtiche, progredienti in senso opposto, generarono 
questo popolo. I suoi confini sono molto incerti. Dal lato 
d'occidente sembra che il paese de' Giapidi toccasse quello 
dei Carni del Carso triestino tra i monti del Timavo supe- 
riore alla Vena. Plinio si richiama all'opinione di coloro, 
che affermavano trovarsi i Giapidi alle spalle degl' Istri. Egli 


142 Studj Storiografici, ecc. 


è però che il Timavo fu detto da Virgilio fiume giapidico. 
Questa Giapidia Transocriana pertanto ebbe nome di Gia- 
pidia prima > ma la parte più importante estendevasi al dr 
là del Monte Nevoso, posto da Strabone fra i Giapidi, toc- 
cava il mare a Tersatica (Fiume) e giù per costa aggiun- 
geva il Tedanio (Zermagna). 

Uburni. Mal note sono le origini dei Liburni. La più pro- 
babile é r umbro-celtica. Nei tempi più antichi pare che ì 
Liburni occupassero grande estensione di costa sull'Adriatica 
e fossero la maggior potenza marittima di questo mare 
(Floro Lib. II, e. v). Ma in terra non erano ugualmente 
forti. Egli é però che dovettero cedere la maggior parte 
dei loro regni alla preponderanza dei Giapidi e ridursi alle 
isole o a brevi spiagge. Questo é pure il motivo per cui 
ne' tempi posteriori andò talora confusa la Giapidia con la 
Liburnia. In seguito sotto i Romani^ e la Giapidia e la Li- 
burnia appartennero all'Illirico, quando i confini politici di 
que$to vennero allargati. Più tardi ancora, la Giapidia fu 
paese di poco conto a tergo dell' Istria, e la Liburnia parte 
di Dalmazia. Valga questo ad evitare le confusioni e a ri- 
tenere, che l'Illirico né allora, né poi ebbe ad abbracciare 
qualsiasi parte dell' Istria, da non confondersi con la Giapidia. 

All'epoca dell'occupazione dell'Istria per opera dei Ro- 
mani, la Liburnia componevasi di due spiaggie continentali 
e di tutte le isole frapposte. La prima spiaggia era confinata 
dal Quarnero (Seno Flanatico), dall'Arsa e dal Monte Mag- 
giore. Cosi l'agro albonese fu liburnico, e non pochi luoghi 
in quel distretto portano nomi, che tale origine rammen- 
tano. La seconda spiaggia stava fra il Tedanio (Zermagna) 
e il Tizio (Kerka). La parte insulare infine succedevasi dalla 
penisola di Zara (Jadera) fino a comprendere tutte le isole 
del Quarnero. 


^r 


DEI PROVERBI ISTRIANI. 

(Dalla Porta Orientale, 1859.) 


V^uanto vantaggio arrechi lo studio dei proverbi, i quali 
scolpiscono il vero le più volte meglio che noi farebbero le 
acutezze dei dotti, e lo vestono delle forme più originali e 
pittoresche, non é certo mestieri che ci facciamo a ripeterla 
ia tanto adoperarsi di pazienti investigatori a raccogliere ed 
illustrare quei documenti della volgare sapienza. Diciamo 
solo che l'importanza di tali studi si fa speciale all'Istria» 
Qui invero a fianco dell'italiana popolazione abbiamo Slavi, 
e Slavi di schiatte varie, e condottici in tempi diversi, e con 
diversi intendimenti. Dai proverbi adunque, i quali chiari- 
scono si di sovente l'indole del popolo, le condizioni di 
sua coltura e moralità nonché talora gli effetti più intimi 
delle pubbliche vicende, potrà cavarsi profitto a meglio com- 
prendere le relazioni delle due stirpi, che abitano l'Istria; 
ed anche da ciò verrebbe lume alla storia, accorgimento 
air operare. Pertanto, e italiani e slavi proverbi dovranno 
cercarsi con uguale impegno. Ma poiché il lavoro di un 
solo in cotale argomentò tornerebbe vano senz'altro, mo- 
viamo preghiera agi' Istriani di voler esserci cortesi d'ajuto. 
Alcuni, e di quelli pure, che intendono lo slavo, ce lo pro- 
misero. Quanto a noi, abbiamo posto mano a raccogliere 1 


144 D^^ Proverbi 


proverbi italiani di alcuni luoghi dell' Istria, e ci venne fatto 
^i averne finora alcune centinaja. Presone confronto coi to- 
scani, molti ne trovammo identici, quali soltanto nel pen- 
siero, e quali nella parola; altri solo di poco variati, ma pur 
talora di più svelta movenza, come a guisa d'esempio: 
Roba de stola la va che la svola (Quel che vien di stola, to- 
sto viene e tosto vola). — Ciacole non fa f rito le fLe chiac- 
chere non fanno farina). — Rosso de pel cento diavoli per 
cavel (Rosso, mal pelo). — Dai segnai de Dio sta cento passi 
indrioy e da un Tpto cento e oto (Guardati da' segnati da Cri- 
sto ecc.) — Proverbi italiani, che spettino unicamente al- 
l' Istria, pochi finora, a nostro avviso. Nuìlameno pensiamo 
che tutti, quanti ne girino qui qual viva parola del popolo, 
simili o no a quelli del rimanente d'Italia e di Venezia in 
particolare, debbano trovar posto in una raccolta di pro- 
verbi istriani. Anche per tal guisa invero si vedrà il torto 
d'ignorare e, peggio, sconoscere una provincia, nella quale 
una famiglia italiana, non solo parla il linguaggio della sua 
nazione, ma ne pensa i più domestici pensieri, e questo in 
ogni azione della vita, anzi in ogni movimento dell'animo, 
sia che ai malvagi imprechi o faccia core agli onesti, tratti 
lo scherzo pungente o l'amorevole consiglio, derida o so- 
spiri, diffidi o sperì. 

Per incominciare, o, come suol dirsi, per rompere il 
ghiaccio e contrarre coi nostri lettori l'obbligo di pro- 
seguire, diamo subito quest'anno un manipolo dei nostri 
proverbi. 

Mancandoci ancora gli slavi, dobbiamo di necessità rimet- 
tere ad altro tempo l'idea principale del lavoro e il coor- 
dinarlo per argomenti. I proverbi, che ora sciegliemmo, 
sono di quelli, che ritraggono alcun che del carattere po- 
polare, e che in uno ci sembrarono o speciali dell'Istria 
o almeno diversi dai toscani. In ogni modo il gentile^ che 


Is Inani. 145 

vorrà occuparsi di questo annuario, ne giovi del suo con- 
siglio. 

Chi no ga timor de Dio, s' el xe andà eh' el torni indrio. 

Niuna impresa di chi sprezza la religione può riuscire a bene. 
Chi ga religion no va in preson. 

Sempre?... Perciò dicono alcuni: 

Ai fati soi chi no voi guai. 

Ma il proverbio suona ai più consiglio di assennate;:za, non 
di viltà. E tutti invero comprendono la importanza del vivere 
sociale e cosi la esprimono: 

Più popolo, più providenza. 

Altrove, all'opposto: Dov'è popolo, è confusione; e questo, 
cosi largo, dà nel falso. L' altro invece, tolto comunque, è 
sempre vero. Ma tutte le volte non basta unicamente il senno 
a tirarsi in casa la provvidenza ; occorrono mezzi, e perciò : 

J^o te ciapa la malora, se ti ga giudizio e roba. 

Avremmo, per altro, e più giudizio e più roba, se più miras- 
simo al mare. Diciamo : 

El mar xe fachin dela tera. 

Ma è da questo facchino che noi Istriani dobbiamo aspet- 
tarci la fortuna. Alla stessa agricoltura verrebbe nuova vita 
colla forza dei capitali, e T'agricoltore non sarebbe condannato 
, a vivere quasi alla giornata, sempre nel timore della miseria 
ad ogni inclemenza del cielo. Cosi, nelle tristi sue condizioni, 
è ben raro gli torni sul labbro l'altro proverbio che 

£1 bon mercà strassa la scarsela. 

All' invece : 

Va in malora el pavolan, che la fa da cortesan. 

Vien detto pavolan il nostro popolano agricoltore, che ha 
dimora in città e recasi ogni giorno al lavori della campagna 
È r antico cultore del libero agro delle colonie e dei muni- 


xo 


146 Dei Proverbi 


cipj romani, cittadino e vìJlico in un medesimo. E tale si ri- 
mase, che i tempi, per incursioni e per guerre malvagi, noi 
fidarono a tradurre la famiglia dai luoghi murati alla campagna. 
Sono si scarsi i suoi proventi, che ogni dispendìo, il quale 
smodasse per voglia di figurare (lo che dicesi da noi farla da 
cortigiano) gli apporterebbe grave dissesto nelle fortune. 

Chi più lavora meno ciapa. 

ovvero 

Chi più strussia meno vadagna. 

A primo aspetto ha del paradosso; ma è lagno veritiero» 
per lo più deir agricoltore, che dall'aspre fatiche ha magra 
mercede, mentre vede non pochi opulenti starsene in panciolle 
e godersela. Ben dice diversamente il toscano: Chi lavora lu- 
stra, e chi non lavora mostra. Ma 

Val più do soldi ben guadagnai che milioni robaì. 

Ed è molto che fra gli stenti lo si ripeta. Né questi piegano 
l'animo a servilità, e però 

Megio paron de caicio (caicco) che mozzo de vasseL 

In famiglia poi 
Quiete e crostini megio che sussuri e colombini. 

Meglio povera la mensa, ma pace, che lautezze e discordia^ 

Donna lesta, fioi vestii de festa, 

E non poche donne del popolo, oneste ed operose, salvano 
la famiglia dall'indigenza. 

Qua la fia, qua la dota. 

Al momento del matrimonio di nulla resti creditore lo sposa 
verso i parenti della sposa. Si usa poi stortamente qual ma- 
niera di dire a significare che ogni servigio vuole immediata/ 
la ricompensa. 

La madonna fa la niora« 

Com' è la suocera, così sarà la nuora. 


Istriani, 1 47 

Madregna poco o gnente s'impegna. 

E a dir del numero, non dell* indole, vi son qui matrigne più 
del dovere. 

Fioi e roba fa cresser la goba. 

Recano in collo nuovi pesi. 
El fio, che no scolta rason, rompe el timon. 

Macda a male il governo della casa. 

Chi no fa ben in Cargna, gnanca in FriuL 

Col mutar paese non si muta cervello. Dal girare, che fanno 
in Istria calderai, arrotini, stovigliai di que' luoghi è tolta solo 
r idea del mutar paese, non quella del vivere scioperato. 

Fradei, cortei; sorele, ladronzele, 

* La prima parte del proverbio è in bocca delle sorelle, le 
quali accusano i fratelli di violenza per boria di comando in 
famiglia. Di rincontro" si fa ad esse rimprovero di poco amore 
all'utile della casa, anzi di avidità nel raggruzzolare per sé 
stesse oggi questo e doman quello da mettere in disparte ^ 
portarsi via assieme alla dote, quando vanno a. marito. 

El bon bocon per el prete de famegia. 

Gli agi migliori, che può dare la casa, vanno di solito go* 
duti da quello della famiglia, che pretò. 

La bona boconada al prete de casada. 

Il prete aderente a famiglia signorile trova sempre qualche 
distinto vantaggia Notevole sarebbe questo detto, se negli usi 
patrizi di altri luoghi non trovasse applicazione. Chi non ri- 
corda la satira impareggiabile del Porta? 

In casa strensì, in viagio spendi, in malatia spandi. 

L'istriano osserva questa e quella parte del proverbio, ma 
l'altra del tenersi corto in casa fa cedere ad ogni costo, e 
sempre, e con lieto volto alle ragioni dell'ospitalità. Per al- 
cuni poi 

Polenta, ma balan 


148 ;Dei Proverbi 


Non è che lo dicano, perchè a tal prezzo amino il ballo, 
si per ismania di apparire, specialmente se ne va di mezzo la. 
vergogna del rimanersi da meno degli altri. 

Bota piena, ciesa voda. 

Nel tripudio oblio della religione, e lo vedemmo. Ora gli 
anni della miseria ci lascino la ricchezza di più temperati co- 
stumi. 

El megio vin volé? Fora de casa andé. 

Anche in Toscana suol dirsi che il pan di casa stufa. Ma 
dicono pure: Chi ha buona cantina in casa non va pel vino 
air osteria. In ogni modo : 

Ogni vin fa alegria, s'el se beve in compagnia. 

E questa allegria va qui di solito in canti dalle lunghe ca- 
denze. 

Stemo saldi in sentimento, che no vegna el pentimento. 

Non perdiamo la ragione per ebrietà, se c'importa non far 
cosa, di che pentircene poi.. 

Intorno al fogolar nissun per mal no nominar. 

Allude al costume di raccogliersi in molti, casigliani e vi- 
cini, intorno al fuoco le sere d' inverno, e qjindi al pericolo 
che di là se ne vada la maldicenza per la città. 

Maledission, tre di in qua, tre di in là, e pò adosso a chi 
le dà. 

Prima de parlar movi la lengua diesa volte. 

Chi parla assai pensa poco. 
El mato canta el so fato. 

E chi non vuol sapere i fatti altrui suol dire : 

No xe sordo più duro de quel, che no voi sentir. 

A coloro per lo contrario, che ne vogliono saper troppo 
per immischiarvisi, sogliono dire i prudenti: 

Troppe comare fa i fioi chilosi (stremenziti). ' 


Istriani 149 

Quello, a cui voglion metter mano troppe persone, o abor- 
tisce si sforma. — E poi si può dar del capo in un ftirbo, 
che faccia le sembianze del semplicione, e 

Mincion fa mincioni. 

Bessi, fede e carità, la metà della metà. 

Intendasi di quello, che ne vieti detto, E della carità di alcuni 
se ne dice assai poco. 

Al ricco mai ghe basta. 

Di questo poi se ne dice troppo. 
El mercante e el porco se pesa dopo morto. 

Per rivedere le bucce a quello, conviene aspettarne la morte. 

Chi magna polpete, ...... saete. 

È per que' certi signori, che mai nulla di dolce hanno in 
bocca, che noi debbano al tegame. 

A chi spendi i soldi d'altri no ghe diol la testa. 
La pena pesa poco. 

Spiccar comunque delle scritte è cosa facile; T arduo sta 
neir eseguire. 

Chi più studia manco sa. 

Per lo più vuol dire il molto, che sempre rimane a sapersi; 
ma qualche volta va a pungere certi saputi, a cui manca la 
esperienza della vita. 

Beati i ultimi, se i primi ga creanza. 

Beati i piccoli, se discreti sono i grandi. Ma a tavola suolsi 
usare per ischerzo da coloro, che son ultimi ad essere serviti. 
E per finirla quest' anno : 

Chi baia senza son xe mato de rason (cioè nel pieno senso 
della parola). . 

Pazzo chi si dà ali* allegria in condizioni non atte a destarla. 


ETNOGRAFIA DELL'ISTRIA. 

(Dqlla Rivista Contemporanea . ^i Torino — 1860 e 1861.) 


JLNon ultima delle italiane sciagure- fu quella d'ignorarci 
tra noi, si. da lasciar agio allo straniero, padrone e calun- 
niatore se ad un tempo, d'invilire ai nostri occhi alcune Pro- 
vincie d' Italia, che, meno aperte o sottratte del tutto alla 
guardia .della civiltà, passarono per tèrre tedesche o slave 
abitate da certe sconciature d'uomini, i quali non avevano 
nome, e incresciosa vicinanza a iioi, che, sconosciute le Alpi 
Giulie, accettavamo dall'Austria per nostro i. r. confine di 
oriente il rigagnolo dell' Isonzo. 

. Tutto fu ignorato per èssi e, dimenticati i fasti di Roma 
e Venezia "alle frontière dell' Adria, accadde ben di sovente 
che gareggiassimo a chi sapes>se ripudiare con più fine 
scherno que' gelosi ed onorati vestiboli di casa nostra. 

È dunque tèmpo, di metter mano alle oneste riparazioni, 
ed. é con questo intèiidimento che cominciamo a svolgere 
U a'rgótiiento dell'istriana etnografia, siccome il più franteso, 
valendoci a tal uopo di un lavoro della Porta Orientale^ an- 
nuario di quella provincia, nonché di parecchi studj, che 
leggemmo in proposito nel giornale V Istria. 

hi questo primo discorso',' preniesso per maggior chiarezza 
un cenno suMa struttura dèlia regione, ci limiteremo a se- 


Etnografia, ecc, 151 


gnarvi l'attuale distribuzione delle schiatte, indicandone as- 
sieme le più notevoli loro differenze. 

I. 

Le Alpi Giulie, che dal Tricorno, al trifinio della Carinzia, 
«della Carniola e dell' Alta Gorizia, scendono in direzione di 
S. E., separando il bacino della Sava da quello dell' Adria- 
lieo, fanno nodo al Monte Nevoso sopra Fiume, e di là pie- 
gando al Sud si elevano all'ultimo gigante alpino, il Monte 
Maggiore, per scendere e morire poi oltre nel Quarnaro 
presso a Fianona. Quanto dalle tumultuarie vette di questa 
catena volge al golfo di Venezia, é terra italiana, e tutta 
alpe della più alta importanza. Quest'alpe va poi divisa in 
tre distinte contrade, perocché dal Monte Maggiore si spicca 
il ramo della Vena, il quale corre verso N-0 in direzione 
opposta alla catena principale e poche miglia più sotto. La 
piccola penisola, che n' é al settentrione conterminata, chia- 
masi Istria : vero campo asserragliato dalla natura di faccia 
alla più depressa nostra frontiera. L'altra regione é la Go- 
rizia, serrata per la maggior parte tra le prealpi friulane e 
il grosso delle Giulie. Di mezzo tra queste, la Vena e l'I- 
■sonzo, sta -la terza contrada, che sotto il nome di Carsia 
rintocca il gran varco orientale d'Italia, il fatalissimo Nau- 
porto. La Carsia, vera strada maestra dei barbari, ha na- 
turalmente gli avanzi più sconvolti dell' etniche sue vicende. 
La Gorizia, incastrata ne' monti, fu la cittadella dello sla- 
vismo, quand'esso irruppe sull'orme dei Longobardi, e solo 
al piano, nelle ridenti campagne dell' Isonzo, rivissero gli 
Italiani. L'Istria infinef posta di fianco a questo gran mo- 
vimento di popoli, se non potè sfuggirne le secolari conse- 
guenze, né salvare parte della campagna dalla immigrazione 
di stranie genti, conservò vergine l'antica stirpe italiana e 


152 Etnografia 


con essa Y italiano indirizzo, e la coltura e la storia e tutto, 
che spetta a nazionale esistenza. * 

Questa provincia cinta, come vedemmo, al nord dalla Vena 
e ad oriente dall'ultimo tronco delle Alpi italiane, che é il 
Caldera, s'inchina tutta al mare, volta a S-O. La regione 
della Vena, ossia l'Istria superiore, é un altopiano dai fian- 
chi dirupati, petroso, senz'acque, spoglio di vegetazione, e 
costituisce quasi una contrada a sé, detta Carso con cel- 
tica o grecanica denominazione a significarne la squallida 
natura. Essa va distinta nei quattro Carsi di Duino, Trieste^ 
S. Pietro e Raspo: i due primi sovrastanti alla spiaggia più 
settentrionale dell'Adriatico, e gli altri due base alla peni- 
sola istriana. Là i varchi riescono tutti a quello di S. Lo-» 
renzo, ch'é sopra Trieste; qua se ne contano due, ai gio- 
ghi di Mune e di Gollaz^ ma solo per pedoni, e rovinosi- 
L'Istria mediana ha il -suo lato orientale appoggiato alla 
estrema fontiera dell'Alpe^ per la quale non v'ha passaggio 
naturale, ed é tutta corsa in vario senso dalle diramazioni 
della Vena. Una linea obliqua, che dal promontorio di Sal- 
vore all'apertura del golfo di Trieste tirasse per Buje e Pi- 
sino al piede del Caldera sul Quarnaro, traccerebbe il limite 
tra i monti marnosi dell' Istria media e i colli e le valli- 
celle calcari, ch'empiono disordinatamente l'inferiore. I po- 
chi e poveri fiumicelli (Risano, Dragogna, Quieto, Arsa) 
nascono tutti in quella, e solo i due ultimi vanno al mare 
per la seconda, volgen4o l' uno di contro a ponente, l' altro 
al sud, ultimo fiume d'Italia. 

Ora, su questa breve provincia abbiamo due stirpi, l'ita- 
liana e la slava; la prima quasi intieramente unigena, inci- 
vilita, padrona di tutta la costa e d'ogni anco più piccolo 
centro di coltura nell'interno; l'altra dispersa nei più umil» 
casolari della campagna, varia d'origine, di costumanze, di 


^ (Per le note, vedi in fine dell' articolo.) 


deir Istria, 155 


linguaggio, senza storia, senza civiltà. Gl'Italiani, compresa 
Trieste, sommano a 160.000; gli Slavi, tra puri e italianiz- 
zanti, a 112.000. * 

GV Italiani, sia che riguardi alle aperte sembianze, al fare 
disinvolto, all'umor gaio, sia che ne esamini lo scorrevole 
dialetto, ti si presentano per la massima parte come fratelli 
dei veneti. Ma tra quei medesimi, che più somigliano ad 
essi, riscontri voci latine speciali del loro dialetto, 3 si che^ 
ignorando pure le istriane vicende, formi l'opinione che 
quel piccolo popolo italiano vi é indigeno fino dai tempi 
di Roma, e che vanno errati tutti coloro, i quali se lo fan-^ 
t^sticarono come una veneta colonia, come una popolazione 
recente tradottavi dalla Serenissima ad occupare italiana- 
mente una terra italiana. Giustizia per tutti — la storia ci 
apprenderà invece che Venezia portò in Istria Slavi, non> 
Italiani. — E l'opinione ti si muta in certezza al vedere 
come un dialetto italico, parlato da circa 18.000 istriani 
tra Rovigno e Galesano, suoni affatto diverso dal veneto * 
e presenti invece una sorprendente somiglianza con quelli 
dell'Italia mediana. 5 Né basta, perocché non pochi voca- 
boli di questo italiano» antichissimo sono tuttora usuali a 
quegli stessi Istriani, che più ti rammentano la verbosa vi- 
vezza del gondoliere della laguna. ^ E cosi pensando alle 
parole del Poeta, che trovava in Istria la lingua del si non» 
già dolce del veneto accento, ma aspra e simile a quella 
del Friuli, ne trarrai, anche senza metter mano alla storia,, 
nuova conferma per l'origine italica del popolo istriano. 

Quantunque a continuo contatto cogli Slavi, esso ne 
ignora affatto la lingua, e non ha traccia di loro usanze. 
Ove qualche abitudine slava accenni volersi apprendere ad 
alcuno, lo scherno la uccide tosto in sul primo nascere. Né 
v'ha tra gl'Italiani più miserabili chi non isdegni unirsi in» 
matrimonio con uomo o con donna slava, qualunque siena 


154 Etnografia 


gli allettamenti della fortuna. Eppure a fronte di tutto questo, 
non vi é, in generale, malevolenza di sorta tra T italiano e lo 
•slavo, avvezzi come sono, e l'uno e l'altro, a considerare 
mori altrimenti che necessità di natura quel geloso purismo. 

Il vestire é il comunale d'Italia, meno a Dignano, dove 
nomini e donne vanno a nero, e le fogge, di che si com- 
piacciono quest' ultime, ti trasportano tra le villanelle di Ci- 
vita Castellana, ed eccettuato pure il berretto rosso alla 
-greca, che i popolani della costa (pavolani) sogliono pie- 
garsi a garbo sul destro orecchio. 

Quanto agli Slavi, essi vanno distinti in due stirpi prin- 
cipali: la serbica e la slovena. Il Serbo, vigoroso di mem- 
i)ra e d'animo, dal colorito bruno olivastro, dallo sguardo 
penetrante, ha ingegno più sveglio e maggior fierezza di 
nazionale orgoglio; lo Sloveno, men alto di statura, dal- 
V occhio azzurro e dalla bianca carnagione, ha mite aspetto, 
ina in uno costumi più fiacchi e minor senso di sua na- 
zione. 

I Serbi, che gì' Italiani dell' Istria chiamano Morlacchi, sono 
in numero di 54,000, e abitano la campagna dell'Istria in- 
feriore tra il Quieto, il mare e l'Arga. 7 Ma prima di toc- 
care le sponde di questo fiume, si frammischiano ad ele- 
menti sloveni, si che la transizione dall'una all'altra stirpe 
(circa 10.000) sta proprio nel centro della penisola. Sulla 
sinistra sponda del Quieto all' invece e presso la costa c'è 
il passaggio dalla schiatta serbica all'italiana, cioè Morlacchi 
italianizzanti, in numero di circa éooo. Altre distinzioni della 
famiglia de' Serbi potrebbero notarsi, sottilizzando le diffe- 
renze; ma se anco, a guisa d'esempio, trovi a Peroi il tipo 
montenegrino, o l'uscocco nei villaggi di Altura e di Ca- 
vriana fra Dignano e il Quarnaro, o l'epirotico nel territorio 
di Parenzo, la fusione delle varie tribù é quasi completa, e 
|)u6 dirsi che tra i Serbi, i quali non italianizzano o non 


deir Istria, 155 


abbiano fatto mistura cogli Sloveni, cioè tra circa 30.000 
-di loro, vi sia unità d'impronta, di modi, di lingua, di ve- 
stito. 

Il vestito, di certi panni rozzissimi, castagni o biancastri, 
che gli Istriani chiamano grisOy è quanto mai caratteristico. 
Se ne foggiano due palandrani o casacche che si vogliano 
dire, e quello di sotto é corto e senza maniche. I bianchi 
calzoni, filettati di cilestro, stanno assettati a tutta la gamba 
ed entrano nella calza, che vi si attacca a certi gangherini 
torno torno al collo del piede. Il sandalo in luogo di scarpa 
é il più sicuro indizio di schiatta serba. 

Ed è con questi Morlacchi, fratelli dei Dalmati, i quali 
si presentano tosto come popolo di recente immigrazione 
alle fresche tradizioni, al puro linguaggio illirico, ai nomi 
di famiglia, che ti senti più facilmente portato ad affezione. 
Franchi, leali, amantissimi della famiglia e maschi educatori 
dei figli, che vogliono indurati a ogni disagio fino dai primi 
anni. Superstiziosi, ma di loro fole soltanto allora tenaci 
che tu le combatta di frohte, arrendevoli invece, ove lo 
scherno indiretto prenda a distruggerle, Ospitalissimi, riser- 
vano pel forestiero il miglior vino; caritatevoli, dividono il 
ioro pane col povero di qualunque nazione, che ne lo pre- ^ 

^hi senza pianti, con ischietta confidenza; irremovibili nel- 
l'amicizia; non mai infedeli, se non quando neghi loro fi- 
ducia; preferiscono la morte all'ingannarti, se mostri di 
:averli in conto di galantuomini, ed hanno spesso sul lab- 
bro il proverbio : Chi ha fede, fede tnerìia. 

Altri 9000 Slavi, d'origine bosniaca, vanno attribuiti alla 
stirpe dei Serbi, e sono distinti in due famiglie. L'una, più 
antica ed originaria dalle rive della Culpa, occupa il centro 
<iella Contea di Pisino ; ^ Y altra, parte liburnica, parte dal- 
matica, é sparsa per le campagne dell' Albonese ed anco 
alla destra sponda dell'Arsa fino in quel di Montona. La 


N 


156 Etnografia 


prima si accosta agli Sloveni, la seconda ai Morlacchi, ma 
tutte e due accusano innesti nel tronco romanico. 9 

Degli altri 58.000 Slavi, ne sono 49.000 tra Sloveni e 
slovenizzati, detti per la maggior parte Besiachi dai Serbi,, 
cioè gente tralignata che mal conosce sua lingua. Ma quale 
diversità fra loro! N'é il grosso (30.000) fra Trieste e la 
Dragogna. Son questi gli Slavi, che più assomigliano a quelli 
del Friuli rispetto al tipo fisionomico, ed hanno il nome di 
Savrini dalle prime loro sedi alle rive della Sava. 11 lin- 
guaggio n'é corrottissimo, e sebbene pochi assai stieno in 
sul farsi italiani, quasi tutti ne intendono la lingua, e i più 
la parlano. Essi infatti appariscono per gli Slavi più antichi 
della provincia. E d'altra parte, quantunque ne rispettino,, 
ed anzi ne esaltino Y italianità, '^ e in ciò ben diversi dai 
Morlacchi, parlino si dimessi della propria nazione, da mo- 
strarne spesso vergogna o da rifiutarla perfino, vantandosi 
vecchi figli di S, Marco, non si peritano a staccarsene, come 
gente voluta slava per lungo tempo dallo stesso signore 
italiano, e cosi né fiera a persistere, né operosa a mutarsi. 
E quanto infelice sia questa condizione, lo si scorge a u» 
girar d' occhio nelle loro campagne, dove la negletta coltura 
e il silenzio rappresentano al vivo la stanchezza dell' avvi- 
lito contadino. Ma, singolare contrasto, la sua donna, che 
amò ed ama solo la famiglia, perdurò attivissima, ed é bello 
vederne la squisita pulitezza delle vestì, e il fervore, che 
mette a lavorare anche per via. Usavano fin da poco que- 
sti Savrini sciogliere sulle spalle la chioma lunghissima e 
portare in capo un capello a larghissime tese. Ora serbano* 
la copertura più umile della callotta di panno a lembo ri- 
piegato air infuori e tagliato in una banda, si da ricevere 
nel cavo della ripiegatura i lunghi capelli rinvoltolati che 
ripugna loro di recidere, e pur cercano di nascondere. Molti 
peraltro abbandonarono anche questa usanza e si accosta- 


dell'Istria. 157 


rono a maniere più comuni, o tolsero dai mandnani del 
territorio di Trieste, che tra gli Sloveni sono i più vaghi 
dalle forme vistose e dai colori smaglianti, il berrettone di 
pelo di martora o di volpe a certa foggia di cimiero. 11 
farsetto é del solito griso castagno, e castagni ugualmente 
i calzoni corti fino al ginocchio, larghi e non allacciati; 
calze di lana o filo a maglia, né mai sandalo, ma scarpa a 
punta ovale. Nelle mostreggiature e in altri adornamenti 
accoppiano sempre il bianco, il rosso e il verde. 

I Pinguentini, circa 8000, accasati nella valle superiore del 
Quieto, parlano si lo sloveno, ma il più spropositato fra 
tutti, specialmente nel verbo e nel declinare i nomi e per- 
fino nel denotare il sesso, e v'inseriscono ad ogni momento 
•voci e maniere latine ed italiane con accenti romantici. Ed 
avrebbonsi per una tribù di Sloveni bene avviata a fondersi 
nella stirpe nostra, se certi sembianti di non comune bellezza, 
•e quasi diremmo parlanti il nostro idioma nella splendida 
«spressione dello sguardo e del sorriso, non ci mettessero, 
^nco senz'altro, nel sospetto che non tutta quella gente 
sia d'origine slava. E se li pensiamo quali antichi Italiani 
slovenizzati, osserveremo con più d'interesse che, mentre essi 
sdegnano il sandalo dei Morlacchi, come tutti gli Sloveni, 
e s'accostano a questi, meno che nel berretto conico di filo 
bianco, in ogni altro costume della persona, non simpatiz- 
zino per nulla con loro, e li pospongono ai Serbi e l'af- 
fetto a noi mettono innanzi ad ogni altro. 

Tutto al contrario gli Sloveni sparsi per la valle dell'Arsa 
(circa 7000) sono i più estranei, non meno agli Italiani, che 
agli altri Slavi dell'Istria. Il linguaggio e certa angolosità 
di lineamenti li dimostrano fratelli della tribù vindica di 
Val Culpa ai confini del Carnio Inferiore. Nel vestimento 
i paramani e il collare di color celeste ne sono il maggior 
distintivo ". 


158 Etnografia 


Altri 4000 Sloveni hanno stanza neiristria superiore, cioè 
negli altipiani della Vena, ossia dei Carsi, ed hanno perciò l'ap- 
pellativo di Carsolini. Non sono già una famiglia dello stesso 
sangue, ma un miscuglio di razze, e il maggiore forse che 
ci venga veduto su tutta la frontiera delle Alpi Giulie. Nei 
Carsi di Duino e di Trieste fisonomie più espressive, mo- 
vimento più sciolto; in quello di S. Pietro 'complessioni 
forti, volti severi, andatura pesante ; nelF ultimo di Raspo^ 
tipi rumeni, nero colorito, animatissimi atteggiamenti, modi 
confidenti, animo coraggioso e bollente. E mentre i più ti 
parlan lo sloveno, riscontri anche il serbo, t V u celtico in 
questo e in quello, e non poche vestigia dell'idioma roma- 
nico: confusione, che ti sembrerà ben naturale su monti dr 
confine e dirimpetto a quel varco, che ci vuotò addosso 
tutti i barbari antichi e moderni. 

Segnate cosi le sedi degli Italiani e degli Slavi in Istria^ 
ci resta aggiungere 12,000 Sloveni italianizzati e 3,000 
Rumeni. 

I primi, raccolti in gruppi dalla Dragogna al Quieto, usano 
lo sloveno nel discorso famigliare, e allora pure con voca- 
boli moltissimi del nostro idioma, ma ciò all'infuori, parlano 
corrente il dialetto veneto e vestono all'italiana, di guisa 
che, a non conoscerne la storia, si crederebbero piuttosto 
italiani slavizzanti che altrimenti. 

I Rumeni sono al presente in tre punti della provincia^ 
affatto divisi tra loro da tribù Slave. I più stanziano nella 
Valle dell'Arsa superione ": gli altri pochi, parte a Sejane 
sul Carso di Raspo, e parte all'estremo opposto della fron- 
tiera in S. Lucia di Schiattazza. Son detti Cici^ perché nel 
loro linguaggio s'ode frequente il ci italiano. Gli Slavi li 
chiamano anche Vlahi, e gì' Italiani Morlacchi, perché affini 
per energia di carattere a que' Serbi. « Se chiedi loro (cosi 
leggesi nella Porta OrientaU) quale sia l'origine, che van- 


dell'Istria. 15^ 


tino, si animano in volto, accennano a tempi lontani di 
gloria, a illustri fratelli, sentono di aver corso lunghe sven- 
ture, di aver avuto una storia; ma tutto questo non é che 
un sentimento, una indistinta ricordanza dell'animo, e nul- 
l'altro, » Ma salvo un avanzo di lingua latina '3, e questo 
pure soltanto tra le pareti domestiche, essi perdettero ognr 
altro segno di loro nazione, e perfino la memoria del nome 
di Rumeni o Rimliani, che altra volta davano a sé stessi,, 
usci loro di mente. Non pochi Slavi di quelli, che indi* 
cammo sui Carsi della Vena o lungo le rive dell'Arsa, sem* 
brano loro fratelli, tanto li accostano per maschia corpora- 
tura, franche maniere, appassionata parola, e l'appellativo 
di dei si dà anche ai pastori del Carso di Raspo ; si che il 
giudizio, che essi tenessero un giorno tutto il confine della 
provincia, coloni e soldati di presidio, ci vien fatto age- 
volmente, anco senza riandare il passato, alla sola vista di 
quesl' ultime reliquie di Roma alle trincee più perigliose 
dell'italiana frontiera *♦. 

Per questa volta poniamo fine, ma non senza richiamare 
nuovamente l'attenzione del lettore sul fatto, che, mentre le 
schiatte slave dell'Istria si presentano tanto varie ed estra- 
nee non solo ai popoli limitrofi d'oltremonte, ma eziandio, 
fra loro, una é la popolazione italiana e sue le città, le bor- 
gate, le terre tutte, ove si accolga qualche elemento di col- 
tura. Adunque anche etnograficamente é l'Istria integrai 
parte d'Italia, 

Vedremo poi in altro discorso le vicissitudini cosi degli- 
indigeni, come dei sopravvenuti, e le troveremo sorpren- 
dentemente conformi alle ora notate differenze. Considerando» 
per ultimo le succe$sioni dei reggimenti, che guidarono le 
sorti istriane, ammireremo la costanza di quella piccola fa- 
miglia italiana a rifiutare ogni straniera infezione, si da sor- 
vivere incorrotta, sebbene esangue, a' suoi lunghi secoli di 


léo Etnografia 

lotta. E se non di rado avviene che Tesser pochi e poveri 
ammezzi le simpatie di men generosi, abbiamo confidenza 
che non sia cosi da noi, dove la scienza politica fa causa 
comune coi voti e cogli interessi di tutta la nazione. E 
fosse pure un nulla il popolo istriano al confronto di fra- 
telli, che per numero e per forze di tanto lo avanzano, re- 
sterebbe sempre vero, a guarentigia del suo avvenire, che 
la sua terra é terra italiana e i suoi monti frontiera nostra, 
€ frontiera gelosissima di contro alla Germania e alla Slavia, 
•e i suoi boschi e la sua marina, arsenale e porto di Ve- 
nezia. 


II. 


Nel precedente studio intorno alla etnografia dell'Istria se- 
ignammo l'attuale distribuzione delle varie schiatte, che l'a- 
bitano, e vedemmo come la italiana popolazione, per numero 
^ per civiltà preponderante alla slava, costituisca indubbia- 
mente la nazionalità della provincia. Ora alcuni cenni sto- 
rici, per quanto rapidi, aggiungeranno valore a codesta 
verità e le daranno anzi la suprema sanzione del tempo. 
. Che pelasgo-etruschi siano stati i primi abitatori di tutto 
l'oriente d'Italia ed abbiano dominato, non meno l'Adria- 
tico che la frontiera, havvi documenti e ragioni, che per- 
suadono a crederlo; e se non temessimo di offendere le 
proporzioni di questo breve scritto, ben volontieri ce ne 
occuperemmo 's, non già per compiacere a gloriuzze di 
prosapia, ma per dimostrare quanta borra di falsità si me- 
scoli troppo spesso con la vantata erudizione di certi 
scrittori alemanni, o ne'sogni dei panslavisti, e qual giudizio 
vada portato d'una scienza, che agli stipendi dell'Austriaco 
imprese a falsare ogni storia men nota, avvegnaché di tutto 
ombrosa e di primigenie sovrastanze puerilmente vana. 


dell' Istria. 161 


Diremo solo, certo essere che Titaliana civiltà fosse perve- 
nuta fino da quei tempi remotissimi all' estremo confine 
orientale della nostra penisola, come rendono testimonianza 
e iscrizioni, e medaglie, e nomi sopravissuti alle lunghe e 
travagliate vicende. 

Ma nello stesso modo che le stirpi ausonie della Venezia 
propriamente detta ebbero a fondersi con le grecaniche 
approdate alle sue rive o scese dal varco di Nauporto, cosi 
fu delle consorelle dell' Istria, in quella provincia, che fin 
d'allora meritò il sacro nome di seconda Venezia, e che, 
formato il suo scorrevole dialetto italico sotto le stesse con- 
dizioni, ha tuttora in esso, mercé i modi suoi propri, il 
documento più bello e più sincero della primordiale italia- 
nità delle sue genti. La civiltà etrusca e la grecanica s'in- 
contrarono alle porte del nostro oriente, non già per com- 
battersi, ma per associare le proprie forze nei primi ardimenti 
dell'italiano commercio. Le città di Ocra, etrusca, e di 
. Segeste, grecanica, fiorenti ai due capi del lungo adito, che 
si apre attraverso l'Alpe Giulia, erano certo empori ai traf- 
fici, che da una parte salivano il Danubio e la Sava, e 
dall' altra recavano i prodotti d' Italia nella gran pianura 
dell' Istro. 

Ma come le Alpi più elevate e più forti di naturaU difese 
non fecero schermo all'Italia padana contro la irrompente 
orda dei Celti, é ben naturale che a salvar l'Adria non 
bastassero i depressi gioghi delle Giulie, e che perciò anche 
l'Istria divfdesse con la Gallia Cisalpina, di cui fu sempre 
parte integrale, le prime comunanze della sventura. È bensì 
vero che non si rinvenne alcun monumento a testimonio 
di quel popolo, nemmeno le tombe coniche, si frequenti 
nel Friuli; ma i nomi di non pochi luoghi accusano le 
celtiche origini, e, quel che più conta, uno speciale dialetto 
parlato da 18,000 Istriani nel mezzogiorno della penisoletta, 

xz 


ié2 Etnografia 


ha tali e tanti segni di fratellanza coi dialetti dell'Italia me- 
diana, dove più profonda é l'impronta dell'elemento umbro- 
celtico, che non è possibile spiegarne lo sviluppo senza am- 
mettere una fusione di sopravvenute schiatte celtiche con 
le greco-etrusche preesistenti: fusione, che d'altra parte ap- 
parisce si verosimile in tanta vicinanza e continuità col ri- 
manente dell'Italia settentrionale. E se nell'Istria, a differenza 
delle vicine contrade, spari del tutto qualunque altro vesti- 
gio dei nuovi ospiti, la cagione più vera sta forse nell^ 
maggior civiltà di quel popolo greco-etrusco, che là stan- 
ziatosi preferibilmente, siccome in paese marittimo, vi assorbì 
ogni diverso elemento. Niun dubbio che esso avesse le 
necessarie forze a tant'opera, ricco e potente com'era pegli 
animati commerci con tutti gli altri porti d'Italia (Floro). 
Cosi la memoria della sua grandezza potè durare secoli e 
secoli nelle istriane tradizioni, fino a parlare ancora nel 
medio evo all'immaginazione degli Slavi, i quali, venutivi 
in quella età delle dimenticanze d'ogni antica cosa, conti- 
nuarono pur nondimeno a chiamar greci gli avanzi dei 
grandiosi monumenti, di che Roma avea decorato le città 
dell'Istria '«. 

E quando il genio militare della città eterna la condusse 
ai baluardi orientali della nostra penisola, ebbe certo un 
popolo non rozzo da combattere oltre le brulle vette della 
Vena, se vero é, come attestano gU annali di Livio, ch'esso 
fu contro alle schiere conquistatrici raccolto in ordinato 
esercito e quasi padrone della vittoria, e che poscia con- 
venne assediarne le munite città con arti e strumenti di 
regolar guerra. Il trionfo dei romani proconsoli sugl'Istrioti, 
contemporaneo a quello riportato sui Liguri, fu il suggello 
alla unità dell' Italia romana : e se l' Istria venne ben tosto 
annoverata tra le più prestanti sue provincie, la causa non 
è soltanto politico-militare in quel maggior nerbo di forze, 


dell'Istria. 163 


che fu colà portato da Roma alla difesa della Porta Orien- 
tale, ma eziandio, e forse più ancora, genetica, avvegnaché 
il tronco, su cui s'innestò il forte ramo latino fosse già 
cresciuto sotto gli influssi di più antico incivilimento. 

Molte latine colonie furono trapiantate in quelle contrade, 
né solo su tutta la cinta e su tutti i contrafforti dell'Alpe, per 
tenere con vigorosa mano il confine contro le orde de'bar- 
bariy che già rumoreggiavano sulle rive dell' Istro, ma nei 
municipi e negli altri comuni ancora per fondere l'antica 
nella nuova schiatta. E l'opera fu ben facile, perocché le 
affinità, più che condurre, traevano alla fusione. Cosi, scorso 
appena un secolo, avvenne che nella gran lotta tra il de- 
spotismo di Cesare e la repubblica di Pompeo, gli Istriani 
parteggiassero gagliardamente per questa, e il loro parteg- 
giare fosse si periglioso al nuovo reggimento, che il fortu- 
nato Augusto ne menò asprissima vendetta. Pola distrutta 
e poi rifatta e chiamata col nome di Pietas lulia da quello 
stesso, che volle domare la repubblicana fierezza coli' offesa e 
col perdono, é il nionumento più insigne della importanza, a 
cui sali l'Istria, tostoché fu congiunta alla gran patria, e in 
uno della maschia italianità de' suoi antichi abitatori, non 
mai soppiantati, come vedremo, dalle più sciagurate etniche 
vicissitudini. 

Fu allora che si formò nell'Istria quella nobiltà decurio- 
naie, a cui spetta si gran parte degli italiani suoi adopra- 
menti, sia nel crescere da prima ad ogni maniera di arti e 
di commercio (e basti ricordare il polense anfiteatro, e le 
porpore di Cissa) sia nel perdurare poi, quando si scatenò 
la tempesta delle barbarie ad abbattere la vecchia società, 
in assidua e valorosa lotta contro ogni straniera invasione. 
Il comune istriano è tra i più antichi dell'Italia cristiana e 
forse quello stesso con pochi mutamenti, che si svolse nel- 
l'Italia romana : onore, il quale contribuì certo all'intima e 


164 Etnografia 


non mai interrotta unione dell'Istria con la Venezia, la glo- 
riosa laguna, che ricettò il fiore delle italiche famiglie, e per 
cui può dirsi non sia scomparso mai dall'orizzonte l'astro 
di Roma. Tutto ciò va tanto più necessariamente rammen- 
tato che il carattere degli Italiani dell' Istria, si tenace a 
serbarsi integro e puro, ad onta di luttuosissimi casi, che 
avrebbero annientato un popolo ben più forte e numeroso, 
non potrebbe altrimenti ripetere dalla storia la sua ragione. 
L'Istriano, divenuto latino, crebbe non solo libero proprie- 
tario del suo campo e libero popolano del suo comune, 
ma eminentemente italiano, perché di stirpe' italiana ancor 
prima del romano dominio e perché, nello stesso tempo 
che cittadino, soldato ancor della più gelosa italiana fron- 
tiera. Oggi pure suonano nei dialetti d'Istria voci e maniere 
dell'idioma di quei primi guardiani delle naturali nostre di- 
fese, assai più che nelle altre provincie del Veneto, e con 
si maravigliosa freschezza che all'udirle, presenti le superbe 
rovine della romana grandezza, ti trovi nell'animo un sen- 
timento di pietà, come a scoprire una vecchia immagine di 
famiglia lungamente obbliata. 

Sfatto l'Impero d'occidente, l'Istria sofferse molte e lagri- 
mevoli devastazioni ; ma fino a Carlo Magno, stranieri non 
vi fermarono stanza. Evvi anzi memoria che non pochi 
fuggiaschi delle più desolate contrade dell' Italia orientale 
quivi cercassero scampo e compensassero in parte le per- 
dite dei barbarici eccidi. Né il governo di Bisanzio, sotto cui 
si considerava posta anche l'Istria assieme a Venezia e a 
Ravenna, vi portò alcun etnico mutamento, perocché quel 
governo non fu che di nome, né scemò l'indipendenza dei 
Comuni, né scosse in alcun modo le abitudini federative 
tra gli Istriani e i Veneti. 

È col franco conquistatore che cominciano le malaugu- 
rate immigrazioni di Slavi nell' istriana provincia. Quel 


dell' Istria. i6$ 


popolo selvaggio, ch'era venuto a noi suU'orme dei Longo- 
bardi, aveva già da due secoli fatte sue le vallate della Sava 
e della Drava, terre, che furono poi la Carinzia e la Car- 
niola. L'Alpe Gamica e la Giulia barravano loro la via 
air Italia: ma l'Italia aveva le porte spalancate a tutti gli 
invasori, e gli ultimi invasori, i Longobardi, s'erano dati più 
volte ad insegnare alle torme oltremontane la strada, per 
cui scendere nella nuova loro patria. Gosi bentosto l'alto 
Friuli andò perduto per la popolazione italiana, e la fron- 
tiera tutta subì mano mano lo stesso destino. Il pericolo 
per r Istria era imminente ; e se la valanga non rotolò giù 
sino alla spiaggia, schiacciando l'italianità degli Istriani, ciò 
devesi in parte al rispetto, che pur ancora incuteva l'impero 
d'Oriente, ma specialmente alla posizione naturale di quella 
provincia, alla quale i monti della Vena fanno secondo ri- 
paro contro chi ha francato il primo, e sopratutto alla vi- 
gile e pertinace resistenza de' suoi abitatori. Ma ciò, a cui 
non valse l'impeto dei barbari, poterono le armi e le insti- 
tuzioni del nuovo imperadore. Soggiogata l' Istria, egli vi 
portò la divisione, e la divisione più sciagurata, che possa 
disgregare le forze di un popolo. Gon la corona di Roma 
in capo egli non potea non rispettare nelle romane loro 
istituzioni gl'istriani comuni, e li rispettò, e ne confermò 
tutti i privilegi e ne sanzionò la indipendenza. E questa é l'I- 
stria, che restò degl'Italiani, e che, erede delle ragioni della terra 
e del diritto storico, nonché unica custode dell'unica civiltà 
della provincia, combatté, perdurò e, sebbene dissanguata 
e ridotta agli estremi, sopravvive ancora incorrotta e spe- 
ranzosa per raccogliere il premio del lungo martirio. Ma 
nelle campagne non soggette alle municipali franchigie, 
stabili Garlo Magno il governo feudale, e i feudatari furono 
stranieri, e siccome questi, cosi per l' indole loro, come pei 
possedimenti, di che s'afforzavano oltr'alpe, pensavano a te- 


léó Etnografia 


nersi forti in sui varchi del nuovo acquisto e a padroneg- 
giare di tal guisa gli eventi, videro bene il vantaggio, a cui 
volgere per proprio conto gli Slavi che avevano alle mani, 
e, sapendoli troppo docili al servaggio per temerli e troppo 
rozzi per non isperare che V italianità istriana ne sarebbe 
rimasta offesa nella prima sua forza, la civiltà, ne traspor- 
tarono fino dai primi anni della franca signoria parecchie 
migliaia proprio sul confine dell'Istria, fino alle sponde della 
Dragogna. Si levarono tosto i più alti lamenti per tanta 
mutazione, e il placito tenuto nella Valle del Risano Fanno 
804 dai missi dominici di Carlo Magno ne rende fede. I 
deputati delle città accusavano il duca di avere condotto 
un popolo straniero sulle loro terre per rapirne i prodotti 
e darne tributo a lui, che minacciavali cosi dell'ultima rovina. 
Convien credere che troppo grave apparisse allo stesso 
feudalismo il delitto di offendere nell'Istria le ragioni della 
terra e della storia, ove si ponga mente che in quell'atto 
medesimo si leggono le scuse fatte dal nuovo signore e il 
patto che solo i terreni incolti fossero dati agli Slavi, e 
questi siccome ospiti vi dimorassero, libero di cacciarli 
quandochessia, se di danno alla provincia. 

Una dodicesima parte della istriana campagna passò di 
tal modo nelle mani di strania gente, selvaggia non altri- 
menti che i deserti petrosi dell'Alpe, da cui veniva tolta, e 
tanto in sé lontana dal movere alla conquista di una glo- 
riosa nazionalità, che sembrava meglio un branco di armenti 
cacciato ad altri pascoli, di quello di un popolo in cerca 
di nuova patria. Pochi e rozzissimi, non furono mai d'alcun 
pericolo alla italianità, e molti anzi si italianizzarono, e 
forse in oggi sarebbero fusi intieramente nella nostra schiatta, 
se il fedualismo, il quale non poteva sperare alcun appog- 
gio, onde tenersi in vita, dall'elemento italiano, non li 
avesse segregati colle più tiranne leggi da ogni civile con- 


dell* Istria. 167 


tatto, e posto ogni studio a rannicchiarli, fiacchi per mi- 
seria e per ignoranza, nel mesto silenzio dei loro villaggi, 
sparsi sulle vette più solitarie dei monti, o nelle fondure 
più celate delle convalli. Ma i latini soldati dei Carsi, già 
amalgamati coi Celti (Catali e Monocaleni), che popolavano 
quell'altipiano da antichissimo tempo, e travagliati poi da 
tutte le barbare genti, che per quella sciagurata via trassero a 
Italia, e fatti cosi meno forti a resistere a straniere infe- 
zioni, furono d'ogni parte asserragliati dalle nuove popola- 
zioni slave, e non é quindi a stupire, se essi tralignarono, 
a gran differenza de' loro fratelli del rimanente dell' Istria. 
Inselvatichiti e pienamente dominati da chi soffocava i loro 
lamenti, non tramandarono memoria del lungo martirio, che 
subirono, prima di lasciarsi strappare di bocca l'idioma del 
Lazio e corrompere le patrie usanze. Ma comeché tanto 
abbia potuto su di essi l'avverso destino, la diversità del 
sangue vi ha tuttora, come vedemmo altra volta, qualche 
traccia, e se gli abitatori dei Carsi di Duino e Trieste si ac- 
costano meglio al tipo friulano, ugualmente celto latino con 
mistura di slavismo, quelli del Carso di S. Pietro, dove i 
Giapidi tennero già ai tempi di Cesare il loro posto avan- 
zato, serbano forse ancora, tra i segni di lontana fratellanza 
con quell'unica famiglia illirica, che abbia toccato il suolo 
dell'Istria, qualche romano vestigio. Gli abitatori infine del 
Carso di Raspo, i cosi detti Cici, i quali non erano stati 
ancora staccati dai compagni dell' interno della provincia, 
poterono salvare più a lungo il loro carattere nazionale, e 
sebbene al presente parlino anch'essi lo slavo e vestano le 
singolari foggie dei Morlacchi, ti presentano tosto la più 
manifesta italiana in>pronta. Ed é presso di loro che trovi 
oggi stesso l'intimo senso di quelle non poche parole ro- 
maniche, le quali suonano tuttora nel volgare istriano e 
danno si chiara prova della grande influenza esercitata sul- 
l'italico idioma dell'Istria dai coloni latini ^7. 


i68 Etnografia 


Ma se degenerarono i romani della frontiera, ciò non 
avvenne, come avvertimmo, del grosso della popolazione 
d'Istria, la quale, immedesimala con Venezia per memorie, 
tendenze, lingua, costumanze, si che tra le famiglie tribu- 
nesche di questa non piccolo era il novero delle istriane, 
imprese a resistere tanto più pertinacemente al nuovo ele- 
mento dei nuovi signori delle campagne, quanto più belle 
e nazionali erano le prove, a cui i suoi destini la chiama- 
vano sul gran canale italiano dell'Adriatico. Le lotte sul 
mare contro gli Slavi, i Saraceni, gli Ungheri a fianco 
delle gloriose navi, che uscivano dalle venete lagune alla 
riconquista dell'onore italiano, rilevarono gli spiriti abbat- 
tuti, e se non rifiori l'età dei classici monumenti, una serie 
di valorose azioni, le quali riusciranno tanto più splendide, 
quanto meglio saranno esplorate dai rinascenti studi storici, 
illustrò la vita municipale e militare dell'Istria in quei se- 
coli di glorie brevi e di lunghissime colpe e sciagure per 
r Italia nostra. E a questo sodalizio con la città dei dogi 
va attribuita la fortunata cagione che il feudalismo, il quale, 
padrone che esso era dei varchi, poteva versar dentro nella 
provincia quanto stranierume approdasse a' suoi fini, fosse 
nella malvagia opera tardato e paralizzato. Vennero si nuovi 
Slavi di quella stirpe bosniaca, che, fattasi indipendente dai 
Franchi, aveva preso stanza nelle isole e sulle coste libur- ' 
niche. Slavi, che ancora si distinguono dagli altri della pro- 
vincia ed abitano sparsamente le terre, che dalle rive del- 
l' Arsa soggiacciono al Monte Maggiore e al Caldera: e 
vennero pure nuovi Sloveni su quel di Pinguente, là dove 
una colonia militare andava superba del nome di Roma, 
tradottivi dai patriarchi di Aquile) a, ma poca era la muta- 
zione dopo quella, che Carlo Magno aveva fatta, e quando 
nuova iniquità di sorti non avesse colpito quel misero 
paese, esso si sarebbe man mano ripurgato d'ogni esotica 
pianta. 


dell* Istria, 169 


Se non che la contea d'Istria, piccola parte della provin- 
cia (Pisino, Bellai), ma importantissima per la sua posizione 
all'estremo confine orientale, era divenuta ereditaria nella 
famiglia di cotai signori, che, potenti nella Carniola e im- 
baldanziti dell'appoggio, che trovavano negli arciduchi di 
Austria, fermarono di trasformare interamente la popolazione 
dei loro dominj istriani, e vi portarono a tal uopo in varie 
epoche nuovi Slavi di stirpe bosniaca, quelli appunto, da 
cui i più antichi vengono differenziati al presente col nome 
di Besiachì, ossia di tralignati. L'empio disegno non riusci 
loro appieno, ma fu ben fatale, se, spenti i latini di Val- 
darsa, di cui non sopravvive che un misero avanzo su quei 
campì, dove, scomparvero perfino le rovine delle antiche 
città di Felicia e Finale, potè consumarsi il tradimento della 
usurpata terra, e con uno dei soliti patteggiamenti di fami- 
glia tra i despoti piccoli e i despoti grandi, insediarvisi 
l'Austria. I pochi comuni italiani di quella poca parte del- 
l' Istria, si esigui che villaggi più ch'altro sarebbonsi detti, 
non valsero a scongiurare il luttuoso avvenimento, avve- 
gnacché impotenti a seguire l'esempio dei più grossi comuni 
Istriani nel darsi sudditi a Venezia. Emigrarono si molti, ma la 
virtù di questi infelici agevolò maggiormente l'opera dell'Au- 
striaco. Il quale, già signore della Carsia, ossia della frontiera 
della Vena (altra contea passatagli per ugual modo) e signore 
altresì di Trieste, per quel concatenamento di effetti, che, 
occupata una volta 1' Alpe Giulia, lo menò poi a imperare 
direttamente o indirettamente a Italia tutta, minacciava di 
ingojarsi l'intera provincia. E benché stessero di mezzo i 
patriarchi di Aquileja divenuti margravi dell'Istria feudale 
e pretendenti all'Istria municipale, gravissimo era il pericolo 
ch'ei ne raccogliesse le spoglie. 

Ma qui gl'Istriani (e toccando di questi fatti storici non 
usciamo dal tema etnografico, se la nazionalità si addimo- 


170 Etnografia 


stra innanzi tutto nel sentimento) meritarono più che mai 
della patria comune; perocché, compresa la gravità dei tempi, 
combatterono per quasi due secoli contro i patriarchi e i 
conti vicini, o austriacizzanti o già austriaci^ e mutarono per 
ispontanea dedizione l'antica alleanza con Venezia e il più 
recente suo protettorato in signoria. L* Istria, . venuta cosi 
sul principio del quattrocento quasi intieramente in essere 
di veneta provìncia, quando i suoi Slavi (minima frazione 
della popolazione totale) erano per la massima parte sulle 
brevi terre dell' Austria, poteva ricoverare le . antiche sue 
condizioni, ove duri eventi e durissime necessità politiche 
non avessero voluto altrimenti. Nelle contrade più disertale 
dalle pesti e dalle sanguinose guerre contro Massimiliano, 
i Turchi e gli Uscocchi, trasportò la repubblica, anziché 
Italiani, Slavi di Dalmazia e d'Albania. Cosi paesi, che 
non avevano albergato ancora un solo straniero (e que- 
sto va detto specialmente di quella maggior porzione del- 
l' Istria, che si estende tra l' Arsa, il Quieto e il mare ) 
furono popolati di genti slave »^. Resta però sempre vero 
che gl'Italiani si conservarono anche per numero preponde- 
ranti, e che lo Slavo noti abitò che parte della campagna, 
né crebbe mai a qualsivoglia civiltà, per quanto si fosse 
tentato dagli oltremontani d'inoculargliela perfino coU'arme 
del protestantesimo. 

Ma come avvenne che quei rozzi Slavi non si trasfor- 
massero in Italiani al contatto della vita nostra? — Quanto 
ai più antichi, vedemmo le scaltrite arti del feudalismo, 
intese a segregarli, né ad abbattere quelle barriere valse 
l'Istria coir armi, né, colpa i tempi, tehtò risolutamente lo 
spediente più proprio delle civili conquiste. Entro alle mura 
de' suoi municipi spiranti ancora la vita romana e col suo 
mare dinanzi, su cui aveva già raccolte ricchezze e poi al- 
lori, correndo in ogni tempo a difendere l'onore del bealo 


dell' Istria, 171 


Marco, imprecò agi' innocenti occupatoli, che non poteva di- 
scacciare, e li spregiò, e ogni qualvolta ne risali le silvestri 
dimore, vi andò guerriera, benefattrice presocché mai. Più 
tardi aveva allargato i suoi agri municipali, e molti Slavi 
italianizzavano, quando vennero le pesti a sperdere in pochi 
giorni l'opera lenta di lunga serie d'anni. Le popolazioni, rifatte 
nel modo, che dicemmo, furono poscia altrettanto più sorde 
agl'inviti della civiltà, quanto più fresche serbavano le ri- 
cordanze della perduta patria. E se via via piegarono qua 
e là anch'esse, piccolo si fu l'effetto a confronto del gran- 
dissimo, che sarebbesi potuto ottenere col favore dei gover- 
nanti. Ma questo mancò ; anzi (e bisogna dirlo) vi fu con- 
trario intento, il quale andò ognor più svelandosi in ragione 
diretta dello infiacchimento degli animi, che sostituì agli 
antichi ardimenti la politica buia e paurosa. Fu si usata 
sempre anche cogli Slavi la lingua italiana come lìngua 
ufficiale, ma non una istituzione fu loro largita. E cosi il 
loro villaggio non si levò mai a forma comunale. Ammini- 
stratore un villico ignaro del leggere e dello scrivere; giu- 
dici in poche questioni altri due villani non più dirozzati del 
primo : assemblee dei capi di famiglia, senza civili ordini, al- 
l'ombra del rustico tiglio, non ospitale, non sistema metrico, 
non iscuola; interdetto il passare ad altro villaggio, ad altra 
condizione *9, E se a fronte di questo gli Slavi pure si affe- 
zionarono tanto al veneto stendardo, da piangerlo perduto 
inconsolabilmente; cotale amore va attribuito, non solo ai 
leggeri tributi, eh' essi solvevano, ma all'amorevolezza altresì, 
che trovarono sempre nei magistrati di S. Marco, all'inte- 
resse, che questi dimostrarono costantemente nel difendere 
le loro costumanze, e infine alla forza. di legge data alle loro 
consuetudini. Facevasi quanto poteva tenerli contenti, ma 
nulla di ciò, che doveva renderli all'istriana italianità, la 
quale, non potendoli né tramutare, né guerreggiare, li con- 


172 Etnografia 


siderò come ospiti comandati, e schiavi o schiavoniy non mai 
Slavi li chiamò. Gli è perciò che oggi pure rarissimi sono 
gl'Italiani, che conoscano lo slavo: ed anzi il popolo sdegna 
di apprenderlo. 

Cosi ristria, che seppe dare all'Italia i Sartorj, i Vergerj, 
i Muzj, i Carli, i Tartini, i Carpacci, i Trevisani e tanti 
altri, che ci tornano ad onore, non ha insegnato il nostro 
alfabeto agli Slavi delle proprie campagne. 

Ma inutile è ora il lamento, e se lo facemmo, ciò fu perché 
dovevamo al lettore una spiegazione etnografica. 

« Concludendo (e qui citiamo le parole di un opuscoletto 
« istriano pubblicato nel 1858}, ecco in Istria due schiatte: 
<E l'una italiana, indigena, civile, padrona intieramente della 
« costa e padrona all'interno d'ogni qualunque luogo, dove 
« s'aggruppi anche la più umile borgata, insomma la vera 
a popolazione istriana; l'altra sorvenuta, varia d'origine, 
« sparsa per le campagne, raccolta in casolari o in piccoli 
«villaggi, d'animo buono, ma non dirozzata ancora. Se 
« gli Slavi soffrirono i lunghi tormenti della servitù del 
« suolo, or tolta alfine, ne sapevano però innocente il co- 
« mune italiano e videro per istinto che solo in esso po- 
« teva star di casa la salute di tutta l' Istria. Non vi è dun- 
« que nelle schiatte slave avversione alcuna dal rimutarsi 
« nella vita naturale e storica della provincia. Ma la roz- 
« zezza non si muove da sé: convien muovere ad essa, 
ce andarla cercare, pulirla cogli amorosi ingegni della civiltà 
« benefica e previdente. Notammo come questo non avve- 
« nisse nel passato; e fu grande sventura. 

« Ora le forze del progresso, per quanto tardate, aprirono 
« già molte breccie alla pacifica conquista della campagna 
« slava, ed é avviato il movimento all'opera della concor- 
cc dia, alla paziente impresa di fondere gli elementi di que- 
« sto paese. 


dell'Istria. 173 


a Certamente che molti sono gli ostacoli da superare; 
ce ma dove non si può mettere a capo della santa missione 
a il diritto del benefizio, la ragione e sue leggi, convien 
« mandare innanzi il tornaconto con le sue lusinghe, i com- 
cc merci, i quali chiamano alla nostra gran via del mare. 

« Pertanto ogni passo, che faccia la civiltà, ha qui dop- 
cc pia importanza, quella cioè, che avrebbe in qualsiasi 
« altra terra da un solo popolo abitata, e Y altra di conqui- 
a stare a nuova vita genti d'altro ceppo, le quali non pos- 
« sono attenderla che dall' italiana coltura, a cui s' infor- 
a mano le condizioni tutte della provincia, e che ha sua la 
ce terra, sue le memorie di ciò, che merita il nome di sociale 
oc esistenza, suoi gli argomenti a maturare tempi migliori, 
a Non v' ha luogo, né a paure da una parte, né a sospetti 
« dall'altra. Vuoisi o no anco tra noi il rifiorire del bene? 
a e se vogliasi (di qual empio il non volerlo?) varrà me- 
« glio del comune indirizzo il divergere o forse più tardi 
« l'opposto cozzare delle forze? Se no assolutamente, l'o- 
ff pera dell'unione spetta a chi può e deve compiere, che 
« é quanto dire, a chi porta civiltà, e non barbarie da dif- 
« fondere. 

ce Quei pochissimi, i quali dalla campagna slava pas- 
« sarono alla vita degli studi, non possono non vedere, 
« come la condizione loro di Slavi inciviliti, é solo indivi- 
cc duale, né fa dare addietro di un sol passo la decisa im- 
cc possibilità di acconciar su in Istria una civiltà slava tra 
« poveri contadini di poco numero, diversi quasi in tutto 
« dagli Slavi d' oltremonte, foglie staccate, che unicamente 
« un miracolo singolarissimo potrebbe ricongiungere e rin- 
€ verdire al ramo, che le crollò, gente insomma dispersa 
« qua e là tra un popolo italiano, su terra italiana, tra le 
« nostre vicende già da molto, che d'anno in anno dirada 
« ognor più le sue file, apprende la nostra lingua, diserta 


174 Etnografia 


« le sue costumanze, né ha veruna città propria, non una 
« borgata, non un solo campanile, il quale abbia inalberata 
^ mai qualunque una bandiera di coltura. » 

Rendiamo giustizia agli Italiani dell'Istria. Abbandonati 
da tutti dal giorno, in cui cadde Venezia, e pochi, e spogli 
d'ogni argomento di forza, e per mille guise martoriati, 
stancarono il braccio dell'aguzzino, senz'arrendersi mai a 
quanto potesse contraddire il loro passato o scemarne co- 
munque la fede nell'avvenire: eroismo tanto più degno di 
ammirazione, quanto è più facile dimenticarlo in chi è pic- 
colo, e che già di per sé solo, anco senza i recenti esempi, 
ci fa non meno sentire nell'animo che comprendere nella 
mente la italiana causa dei fratelli istriani. 

NOTE. 

^ Anticipiamo la notizia storica che fino all' 800 la popolazione dell'Istria fu in- 
tieramente italiana, e che fin oltre alla metà del secolo XV nemmeno una sesta parte 
della stessa campagna era in mano agli Slavi. 

B La popolazione complessiva, secondo l'anagrafe del 18(9, è per l'Istria geogra- 
fica di 290 000, compresi gli assenti dati in numero di 18,000, ma che più veramente 
debbano toccare quasi i 20,000. 

^ Cosi serir (seminare, piantare), ocar (mareggiare), sermentar (fascinare), pastinar^ 
(rivoltar la terra), comodo (in qnal maniera), oh (odora)^ sanlelea (rende beato) ecc. 
ecc. Kè va dimenticato che l' Istria è tra le poche provincie d' Italia, che abbiano con- 
servato il loro antichissimo nome. £ città e borgate suonano ancora come suonavano 
pei Romani. Anzi perfino a contrade campestri restò l' appellazione latina, come a 
Semedela (semitela), Ariolo (ariola), Prade (prata), Tribbiano o Tribano^ Pompeiano o 
Pompìano (da romane famiglie), Paderno, JntiguanOj Ancarano, (nomi frequenti di ro- 
mane campagne). 

* A Rovigno, Valle, Fasana, Dignano> Gallesano. 

Togliamo dal giornale V Istria un saggio dei dialetti di Dignano e Rovigno. Si 
vedrà quello di Dignano il più discosto dal veneto, ma l' uno e 1' altro hanno carat- 
teri indubbi di grande antichità. 

Dialetto di Rovigno. « A giera inverno e friddo grando. La formiga, che siva in- 
« gruma purassè roba d'istà, stiva quita in casa soa. La cigala sutta terra sepelid^ 
« moriva de fam e de friddo. L' ho prigà la /ormiga da daghe un pò de magni, tanto 
« de vivi. Ma^la fnrmiga ghe dis : Ula ti gieri in cor de l' istà ? Parche non sonto 
« ingrumada de vivi ? — In tal istà, ghe rasponde la cigala, mi cantivo e i divertivo 
H i spassizeri. E la formiga, mettanduse a ridi : se ti cantivi de istà, adesso ca xe in- 
« verno, e ti balla. » 


dell'Istria, 175 


Dialttto di Dfgnano» « A giaéro da l' eiavaèrao, e poarasaé Triddo. La £arméiga, 
« che wvA M Catto lo so proaveiste in tal geistà, stiva qaita in casa so. La zeigal« 
« cazMidA znttaterra moréiva de fam e de friddo. La giò prigà doaca la furmèiga, 
« e* a ghe disso òon po' da magni, tanto da veivi. E la farmèiga ghe deis : Valla 
« tèi gis, èri in tal cor d' al geistà ? Parchi uccaziòn mo in quilla stadiòn non tei te 
« gié paricela al to veltto? — Da geistà, giò respondisto la zeigala, i cantivi e i des- 
« vertèivi : spasseizieri ; e la farmèiga culla bacca in rèidi : Se tei da geistà tei can- 
« tivi, adesso c'a xi l' einvaèrno, balla. » 

£ ne piace riprodurre da ana rovignese poesia popolare, di cui leggiamo un brano 
nello stesso giornale, la seguente ottava : 

E noto (oHci) ani za xi che qua drento 

I piùro (pioro) sempre, noto {notte) e dei cantando, 

Par fini s' ì pudisso '1 me turmento, 

C al daventa ugni dei piùu donro e grando 

Cussei menando la me vita in stento, 

Ivàago ugn' ara sempre piùu murando ; 

Ma in brivo i spiro, se ti me vuoi ben, 

Di meti in paz ancùura un può '1 me sen. 

^ Gli infiniti in are terminano coli' a tronco, quelli in ere coll't; la seconda per- 
sona del futuro esce in «, anziché nell'a del dialetto veneto o ncìV ai della lìngua 
corretta; la prima persona del presente ha la desinenza in i; lo scambio tra loro delle 
vocali tt ed spessissimo. La straordinaria copia di dittonghi rammenta i Liguri. E in- 
fatti che nna tribù ligure entrasse a formare la primitiva popolazione italiana dell'Istria, 
v'è il testimonio di qualche lapide e della tradizione. Né possiamo rimanerci dal richia* 
mare alla memoria del lettore quanto esorbitante fosse in parecchi degli antichi dia- 
letti italiani l'uso delle vocali. Ed anche in alcuni dei primi nostri scrittori leggiamo 
p. e. pqopolo, nuobili, miezzo, campituoglio, siella, ecc. ecc. 

* P. e. Asia (adiacenza a casa campestre) arno (cavità in monte), fratta (luogo folto 
d'alberi), j^f IO echio (via sagliente). E parecchi documenti rendono fede che a più 
altre parti della provincia fosse comune quella lingua alcuni secoli addietro. Cìttanova 
e Orsera la parlavano certo ancora nel secolo XV, e se ne ha un resto vivente an- 
che a Muggia, presso Trieste. Eccone un saggio, tolto ugualmente dall' Ir/ria. 

« Dei omin zigua per la so strada. Un de lour gho vedù una manara, e dis : Guarà 
■ ce mi gai chiatta. Quell'alter ghe dis: No ti doves favellar gai chiatta, ma gavom 
« chiatta. Paoe tiemp dopo quel che gavegna perdù la manara, e avendola veduda in 
« man de loi, el ga principia a dierghe ladro. Nons sunon muort, el dis subit : ma el 
« su cumpagn ghe rispuon: Non ti doveres dier: sanon muort, ma son muort, per- 
« che allora za puoc che ti gavegni chiattada la manara, ti disegui: la gai chiatada 
f e no l'avom chiattada. » , 

"* Principalmente nei distretti di Pola, Dignano e Parenzo, e poi anche in quelli 
di Rovigno, Pisino e Montona. 

^ h questa la cosi detta Istria Imperiale, piccola frazione compresa nella Confe- 
derazione Germanica. Il rimanente, che ha nome d'Istria Veneta, e fu già, come ita- 


1/6 Etnografia 


liana in ogni tempo anco politicamente, dipartimento del Regno d' Italia (cioè i di- 
stretti di Capodistria, Pirano, Baie, Parenzo, Rovigno, Dignano, Pola, Albona, Moti- 
tona e Pinguente) non vi appartiene e non vi appartenne mai, e sarebbe ora che fi- 
nalmente lo si imparasse. « 

* Meraviglioso che i luoghi, dov' è più interna, più compatta, più strania la popo- 
lazione slava, si chiamino ancora quasi tatti italianamente. Cosi la prima delle due 
schiatte ora discorse tiene Pisino, Pisino Vecchio, Zares, Gallignana, Lindaro^ No- 
vacco, Ceronglie, Previs, Gollorizza, Passo, Bogliuno; e l'altra, oltreché agnalmente 
Pisino e Gallignana, Gimino, S. Pietro in Selve, Corridico, Antignana, Vermo, Ter- 
viso, Zamasco, Caschierga, Chersiola, Gardosella, Bottonega e Borutto: nomi che 
nnlla hanno di slavo. Ed è lo stesso perfino di molte contrade campestri, anche non 
possedute da italiani, come p. e. nel distretto di Pisino quelle dei Tranzini, Fattori, 
Checchi, Defari, Agostini, Milanesi, Filati, Galanti, Masina, Salamoni, Girolimi, Mor- 
fani, Bettina, Merletti, Lanza, Goitani, Marzani, Lucchesi, Mantovani, Mofferdini, Baffi^ 
Ziganti, ecc. ecc. 

^0 Nel 1848 furono interpellati circa 40 villaggi slavi qual lingua volessero per la 
provincia, e tutti risposero l'italiana. 

^^ È unicamente a un centinaio circa di questi Slavi che spetta il movimento in- 
surrezionale del 181 3; e qui scusi il lettore, se usciamo dall'argomento per narrare 
quel fatto con iscrupolosa esattezza, a confutazione di un grave errore che or da 
ultimo ci toccò leggere intorno allo stesso. 

Il battaglione quarto leggero italiano, comandato dallo svizzero Spring, formava 
in quell' anno quasi l' unica guarnigione dell' Istria, ed era partito da Pola la sera del 
3 Settembre, diretto a raggiungere l'esercito del viceré Eugenio (che già ritiravasi) 
per la via di Pisino. Fiume era stata abbandonata dal generale francese Gamier fino 
dal 28 Agosto, e il generale austriaco Nugent l'aveva tosto occupata e minacciava 
con grosso corpo tutta l' Istria dal lato del Monte Maggiore. Ma non ben certo an- 
cora dei movimenti del principe Eugenio, aveva mandato in avanguardia a Vragna al 
di qui della frontiera il capitano Lazzarich con un distaccamento di Croati e di Ussari 
perchè tentasse un qualche moto tra gli Slavi di quella piccola frazione dell' Istria che 
era già stata sotto l' Austria. Mirava a scoprire se l' attenzione dell' esercito nostro 
si lasciasse a quella parte richiamare, e quindi se il ritirarsi, eh' esso faceva, fosse o 
no definitivo. Ei non sapeva ancora che gli ordini erano già dati perchè l'Istria ve- 
nisse abbandonata. Il capitano Lazzarich, imparentato ai villani di quelle terre, e che 
le conosceva assai bene, e sicuro com' era di potersi mettere al salvo a ogni esitar di 
fortuna per le comunicazioni, che gli erano assicurate in Lovrana tanto colle truppe 
di Nugent, quanto colla flottiglia inglese dell'ammiraglio Fleemantle, imprese tosto 
il giorno 3 a prezzolare alcuni slavi dei vicini villaggi. Avutone un drappello di non 
ben cento, mosse sopra Bogliuno, ma per quanto tempestasse, non gli venne fatto di 
ingrossarlo, sebbene movesse tra gli Slavi più estranei alla provincia. La sera del 3 
Settembre fe'sosu a Ceronglie sulla strada di Fiume e a brevissima distanza da Pi- 
sino, dove giungeva allora il battaglione italiano. Durante la notte, gli uomini del 
Lazzarich occuparono alcuni villaggi, e impadronitisi delle campane, suonarono alla 
distesa per ore ed ore. Alla chiamata non risposero che 1 50 croati, eh' erano aggiunti 


deir Istria, 177 


agli ordini dello Spring: disertarono tutti, e furono nelle file austriache. La mattina 
del 4, il battaglione si rimetteva in marcia. Ma il suo comandante, che, strano a dirsi, 
ìgttoraTa affatto i luoghi, sbandò dalla via diretta e s'internò a sinistra nelle gole 
di Vermo, forse allo scopo di ricondursi più presto tra gì' Italiani dell' Istria, ma con 
tale una mossa che sembrò tradimento, tanto fu sconsigUata. Quelle gole sono un 
bacino angustissimo, asserragliato tutto all' intorno da alti monti. Naturalmente questi 
vennero tosto occupati dall' accozzaglia del Lazzarich, e fu allora che lo Spring osò 
arrendersi. Disse di aver creduto prossimo il corpo di Nugent, e che mezzi del suo 
battaglione, già di sole reclute e nuovissime, erano ammalati per febbri sofferte; 
ma gl'Istriani, che ne discorrono ancora fremendo, non gli sparmiarono mai l'accusa 
di codardia, e la memoria di quei pochi Slavi prezzolati che si lasciarono giocare dal 
Lazzarich, è in tale obbrobrio presso di loro, che dire ad uno Ntgrone (questo fa il 
titolo di spregio dato a quelli) è coprirlo della massima infamia. 

Sorprende adunque come il distinto Mezzacapo abbia parlato d'una insurrezione, 
che avrebbe turbato le operazioni delle nostre armi nel 1813. Chi legge questo, sea- 
z' altro saperne, immagina Dio sa quai colpe a sfregio di quella onesta provincia, e 
tra ch'essa è pur troppo l'ignoto, l'ingiustizia dello scrittore e del lettore può dive- 
nire crudeltà. In una nota non possiamo certo richiamarci alla onorevolissima storia 
del sangue generoso sparso dagli Istri:\ni, a fianco dei Veneti, in lunghe e molteplici 
lotte contro lo straniero, fino a ridursi alla presente povertà di abitanti e di mezzi ; 
ma giacché qui cadde cenno di un tempo recente, ne piace trarre dalle memorie del 
generale Marmont il seguente passo : « In nessun luogo ho visto mai una guardia na- 
zionale si degna d'essere paragonata alle truppe di linea. Degli uomini si può fare 
quel che si vuole, tutto sta nel modo di mettercisi; e se non si riesce, il torto è 
dell' autorità. Da Trieste a Fiume organizzai un corpo di 2 $00 uomini, che serviva a 
meraviglia, costava una inezia e m' assicurava di quelle coste. » 

^* Kei villaggi di Grobnico, Berdo, Susgnevizze, Villanova, Letai, Gradi gne, Se- 
novic, e qualche anno addietro anche a Cosliaco, Possert, Tupliaco e Cherbune. 

is É mista a vocaboli Slavi. Ma i più sono di conio romano, come p. e. calle (cal- 
lis), secura (securis), rogd (rogare), clamd (clamare), Ittcru (lucror), sorér (soror), mulier 
(mulier), senaiu (senatus), dracu (draco, diabolus), leu (leo), compagnus (compaganus), 
fruniga (formica*, hrana (grana) xocd (jocare) ecc. ecc. Vi suonano spiccati 1' 10, il 
tu e il lui della lingua italiana. I numeri sono slavi dal nove in su Un, dot, ire, pa- 
trUf cine, sesse, sepie, opt e poi devet, sece ecc. Quanto alla grammatica, gli esperti la 
trovano molto affine alla daco-romana. 

^^Ke rendono fede anche i nomi di molti luoghi, che hanno le terminazioni ro- 
maniche in e (Dane, Mune, Sejane, Poiane, Sepiane, lelsane, Oscale, Cusiane, Pusane, 
Mersane); in a (Rupa, Ciana, Sia, Burizana, Materia, Furula, Brencella, Braiaca); in 
(Runco, Benco, Zelesco, Giurando, Lenzo, Bellubo); e in ul (Lizzul, Musul, Barul 
ecc. ecc. 

i> Rimandiamo il lettore al voi. I», parte I* delle Antichiid lialiche di Gian Ri- 
naldo Carli, che fu tra i più distinti scrittori di economia ed archeologia nel secolo 
scorso, e che torna ad onore dell'Istria, dove nacque e studiò. 


178 Etnografia^ ecc. 


^* I magistrati al tempo dei Bizantini non furono mai greci, né greca inscrizione 
fn mai rinvenuta. Le tradizioni de' Greci rimontano adunque ad apoche più antiche. 

^^ Non più che due secoli addietro durava ancora l'idioma romanico da Trieste 
all'Arsa. Vedi il Tommasini ed il Padre Ireneo della G-oce. 

^^ Ecco le epoche di colali importazioni: 1463, a Salvore — i)26, nel territorio 
di Rovigno — IS40, nelle campagne di Umago, Cittanova, Montona e Parenzo •— 
1563, nell'Istria bassa — 1576, a Torre del Quieto — 1592, nei territori dì Parenzo 
e Pola — 1S9S, in Fontane — 161 2, nell'interno dell'Istria — 1617, lungo il con- 
fine di contro alla Contea — 1623, a Darceva di Parenzo — 1^24, nell'interno — 
1634, a Filippano di Dignano — 1647, nel territorio di Pola — 1650, a Peroi. Ven- 
nero anche Greci, specialmente in Pola nel secolo decimosesto, e Candiotti nel i 580 
e 1669. 

^B Nella, contea poi soggetta all'Austria ogni male e niun bene. Tanto è vero che 
non avvenne mài che là passasse abitatore dall'Istria veneta. £ conviene udire le 
tradizioni slave di quel paese per apprendere qual fosse il despotismo delle baronie 
sotto il patrocinio dell'Austriaco. 


LA FRONTIERA ORIENTALE D'ITALIA 
E LA SUA IMPORTANZA. 

(Dal Poìiiecnico di Milano. — Maggio, 1862.) 


I 


tempi, che oggi corrono all'Italia, dovrebbero essere di 
gloriosa giustizia e d'amore; ciascuna provincia dovrebbe 
farsi a studiare le condizioni, i bisogni, i voti delle Pro- 
vincie sorelle; € alle provincie più povere, più a lungo e 
più a torto trascurate, dimostrare speciale affetto. Per ciò 
noi oggi volgiamo uno sguardo all' Istria, a questo estremo 
lembo della penisola, che non solo divise con noi i lutti e 
le prove della patria, ma per anni molti subi la maggiore 
di tutte, quella di essere da noi obliata; oblio, che le arti 
della calunnia e i patri studi negletti fecero complice di una 
delle più atroci voluttà della tirannide. Gli Istriani furono 
vittima inosservata di tormenti tanto più crudeli, quanto 
più inflitti nelle tenebre. Adulterare la loro nazionalità per 
deriderli poi come bastardume, combattere ogni coltura, per- 
chè non si alzasse voce, la quale ricercasse le antiche vie 
al cuore della veneta madre e sorella, e per essa al cuore 
d' Italia, ridurli alla più squallida miseria, perchè nelle fiacche 
membra illanguidisse la vita dell'anima, ecco la storia del- 
l' Austria nell' Istria ; ma quei generosi durarono invitti, e la 
lunga tortura non istrappò loro una sola parola, di che 
avessero ad arrossire. — Ricordiamocelo! Ricordiamoci che 


i8o La Frontiera Orientale d'Italia 

la porta orientale d'Italia non sarebbe sicura, senza quel- 
l'ultima frontiera dell'Alpe; né l'Adriatico sarebbe nostro, 
ove fossero d'altri que'lidi portuosi. Pensiamo quale deri- 
soria indipendenza sarebbe la nostra, se sul canale italiano 
dell' Adria, sulla via marittima, che sta per divenire la strada 
maestra dei commerci tra l' Europa centrale e l' Oriente, le 
navi nostre dovessero passare sotto il cannone austriaco. 

Si getti uno sguardo sulla carta d'Italia, e si conoscerà 
l'importanza dell'Istria e dell'Alpe, che le sta a tergo. Le 
Alpi Giulie, spiccandosi dal Tricorno sovra le fonti dell'I- 
sonzo, volgono a sud est, separando il bacino dell'Adria- 
tico da quello della Sava; e, fatto gomito al Nevoso, il 
primo gigante alpino, che saluti il nostro sole, e più oltre, 
aggruppatesi al Monte Maggiore, a quello, che éil nodo 
del sistema orografico dell'Istria, muovono diritte al sud 
contro ai flutti del tempestoso Quarnaro, 

Che Italia chiude e i suoi tennini bagna. 

Questa catena, altissima fino a un terzo del suo corso, 
si allarga in vasto altipiano dalle scaturigini dell' Idrìa al 
labirinto dei monti Albii, che si staccano dal gran cono del 
Nevoso: altipiano tutto a gran massi di brulle roccie cal- 
cari, che 'ripido scende verso la valle del Frigido o Vipacco, 
influente dell'Isonzo, e verso l'alto Timavo, che sotto i 
Romani e poi fu detto veneto. Ivi, a' piedi di que' dirupi, si 
stende un altro altipiano, più squallido del primo, e ove in- 
furia il vento boreale, che dalle alte regioni della Sava pre- 
cipita su quelle dell'Adria per lo spiraglio dei monti più 
deflessi. Fra quelli orrori si apre il più fatale varco d' Italia, 


e la sua importanza, i8i 


colà s' affacciarono gli stranieri avidi di mirare il nostro 
cielo, il quale azzureggia limpidissimo, superato appena il 
dorso della frontiera, come si giungesse d' un tratto dall'aspro 
clima del settentrione ai tepori del mezzogiorno. Dalle sor- 
genti del Vipacco, ai piedi del Nanos o Monte Re, il varco 
s'addentra per le strette della Nanosizza e, corsa la valli - 
cella di Postoina, ossia di Adelsberg, monta i gioghi più 
alti, che si attraversino al suo cammino, là, dove un giorno 
li altari di Roma (arae) segnavano il limite orientale della 
penisola e dove fino al secolo scorso durò il nome di Porta 
d'Itab'a a un umile villaggio, da cui spazia la vista sull'I- 
stria, sul mare, sulla Venezia. Questo varco ebbe il nome 
di Nauporto dalla città, a cui metteva capo dalla valle del- 
l' Unz e dai pianori di Longatico (Loitscb', e che sorgeva 
ai piedi del versante settentrionale della frontiera. Vasti de- 
serti di pietre calcari formano il vestibolo d'Italia, che si 
inchina da un lato alla riva sinistra dell'Isonzo e sovrasta 
dall'altro alla penisoletta istriana, la quale per ciò é uno 
schermo naturale di fronte allo sbocco del passo orientale 
e di fianco alla via, che conduce agli ubertosi piani del 
Friuli. L'orlo del secondo altipiano, o meglio i monti e le 
colline, che in direzione nord ovest vanno dal Maggiore a 
Duino, costituiscono il confine settentrionale dell' Istria, detto 
dei Carsi o della Vena, e anticamente Ocra. È anche que- 
sta un'appendice del nostro versante dell'alpe, la quale si 
appoggia ad oriente all'ultimo baluardo alpino, ossia al 
Caldera; ed ha al nord, tra la Vena e il grosso delle Giu- 
lie, le regioni intermedie dell'alto Timavo, ossia del Reca 
e del Vipacco, che sarebbero ricchissime di ricordi di sven- 
tura, se il turbine degli eventi non avesse quivi svelti an- 
che i ricordi, e che nella loro selvaggia tristezza ùumo 
contrasto singolarissimo coi ridenti poggi istriani inarborati 
d'olivi, di viti, di gelsi. 


i82 La Frontiera Orientale d'Italia 


* 
* * 

Non da oggi l'Italia conosce l'importanza della sua fron- 
tiera orientale. Roma si trincerò nelle Alpi Giulie e le po- 
polò di latini, militi e coloni ad un tempo; e piantò stabili 
accampamenti ad ogni sbocco di via, che conducesse ai 
varchi della frontiera; ed eresse una doppia muraglia, cu- 
stodita da torri e fortilizi, dalla selva Piro alla spiaggia di 
Tarsatico (Fiume). In Fola, Trieste e Forogiulio stavano a 
guardia le legioni; una flotta custodiva il mare da Ravenna 
all'Arsa; l'Istria fioriva per modo che ancora ai tempi di 
Cassiodoro manteneva da sé i presìdj di confine e veniva detta 
campagna di Ravenna e ornamento d' Italia ^ 

Caduta Roma, soli durarono gli Istriani a difendere li 
spaldi italiani in nome proprio e di Venezia, a cui dieronsi 
con intatta fede sin all'ultimo serbata. Venezia tentò esten- 
dere dalle città istriane a tutta la frontiera la propria si- 
gnoria; ma, sebbene stesse per afferrare la vittoria nella 
guerra contro Massimiliano e poi in quella degli Uscocchi 
non potè raggiungere l'intento, perché l'Austriaco s'era af- 
forzato sull'alpe; e già cominciavano per essa i tristi anni 
della vecchiaja. 

Il feudalismo fu il primo germe della servitù istriana. 
L'Istria era surta da antico a governo comunale, sotto la 
scorta della repubblica veneta, e con obedienza non più che 
di nome a Ravenna e Bisanzio. Carlomagno non potè co- 
stringerla tutta a vassallaggio feudale; chiamato dall'Italia 
latina contro l'Italia longobarda e cinto della corona in 
Roma, dovette rispettare le franchigie municipali; ma tentò 
infeudarla a' suoi duchi, costituendo il margraviato dell'Istria 


1 (Per le note, vedi ia fine dell'articolo.) 


e la sua importante, 183 


e nelle contrade più interne, la contea dello stesso nome: 
stranierumi, che si accamparono accanto all'Istria munici- 
pale. Cosi gli stranieri s'impadronirono della chiave della 
nostra porta orientale. 

Questo straniero non era ancora T austriaco, ma fu, come 
esso, intento a signoreggiare l'Alpe Giulia e impadronirsi 
dell'Istria a' danni d'Italia. Da Carlo Magno al primo ap- 
parire deU' Austria su quelle vette nel secolo XIV, fu un 
adoperarsi continuo dell'impero tedesco a quello scopo. 
Scioltosi il franco ducato del Friuli, che a meglio infeu- 
darci estendevasi per largo tratto sulF uno e suU' altro ver- 
sante della frontiera, e ricostruito invano dai Berengari, il 
primo Ottone, il frangitore de' feudi, smenti sé stesso nel- 
r Istria, tanto gl'importo innanzi tutto d'aver pie fermo in 
Italia ; e accozzò quindi quanto più potè di contrade italiane, 
dalla marca di Verona a quella d'Istria, colle straniere re- 
gioni del Carnio e della Carinzia; e fuse l'ampio ducato 
in quello di Baviera; e di tutti fé' duca il fratello. Il solo 
paese, che rimanesse salvo in tanta sventura, fu l' Istria co- 
munale % la quale si tenne salda a Venezia, ed anzi le si 
strinse più fortemente, obbligandosi al doge con annui tri- 
buti di derrate e navi da guerra. 

Ma non avrebbe tardato a soggiacere anch'essa al co- 
mune destino, ove l'informe Stato dei Bavari non si fosse 
ben tosto disgregato per la naturale ripugnanza delle parti. 
Quando Corrado il Salico, seguendo Carlo Magno e Ot- 
tone, immaginò affidare l'officio di custode d'Italia in prò 
di Germania ad un principato elettivo, al famoso patriarcato 
d'Aquileja, ch'era cresciuto militarmente a fianco dei conti 
di Cividale, questo impugnò le armi anche contro Venezia 
per far cessare il dualismo, che regnava nell'Istria, spegnendo 
il municipio nella baronia, l'Istria italiana nell'Istria arte- 
fatta del feudalismo straniero. Ben è vero che più tardi esso 


184 La Frontiera Orientale d* Italia 

fé' mostra di lavorare unicamente per proprio conto e di 
intendere a contrapporsi più forte ai signori d'oltralpe; ma 
siccome ad un tempo munivasi contro Venezia, non fu cre- 
duto; e gli Istriani sostenner accanite guerre per non voler 
né marchesi, né conti, né patriarchi, che sospettavano stru- 
menti di straniero dominio. Volti anzi unicamente alla ve- 
neta repubblica, tradussero le antiche consuetudini, che ave- 
vano con essa da secoli e secoli, in solenni stipulazioni, 
dove giuravano di mantenere T onore del beato Marco (re- 
tinere honorem beati Marci). 

Verso la metà del trecento, comparve l'Austria sull'alpe; 
e fatta signora, non solo del Carnio, ove s'era stabilita 
già da molto in non poche baronie, ma eziandio della 
Carinzia, seconda acropoli alemanna contro la nostra peni- 
sola, minacciò cacciar di seggio i patriarchi aquilejesi, di- 
venuti per l'Impero guardiani inutili ed anzi molesti, dac- 
ché un principale tedesco insediato sul Danubio anelava 
ad assumerne l'officio e a portare cosi la Germania stessa 
in Italia. A' piedi della frontiera e nei fianchi del patriarcato 
duravano ancora indipendenti i conti di Gorizia, ch'erano 
succeduti ai Cividalesi, nonché quelli della Carsia e quelli 
d' Istria. Il margraviato istriano, che Aquileja si adopravi 
di padroneggiare da oltre un secolo, le era dominio assai 
periglioso; giacché sparso di comuni con ampi territori, i 
quali dopo Roma avevano soltanto obbedito ai propri statuti 
e alla veneta alleanza e protezione, rimanendo di tal modo 
costantemente italiani, e tanto più sdegnosi dei marchesi 
preti, perché i marchesi di prima, non preti, erano sttti 
sempre lontani dalla provincia e, quantunque tenessero man 
forte contro l'italianità, non avevano osato assalirne, come 
quelli, le franchigie. L'Austria faceva assegno sui conti, per- 
ché sapeva che li avrebbe avuti a soci contro quel principato 
ecclesiastico, il quale s'era mostrato apertamente desideroso 


t la sua importanza, 185 


di assimilarli ; e se propone vasi di compensarli, levandoli po- 
scia di mezzo e raccogliendone le spoglie, sapeva allora come 
oggi nascondere i propri pensieri. Sciaguratamente Venezia 
sargeva appena allora a potenza di terraferma; e per im- 
pedire o prevenire l'Austria nella conquista del patriarcato 
d'Aquileja, sole forze ausiliarie, che avesse, erano quelle 
delli Istriani, già stremate in lunghe e generose prove. Ve- 
nezia vide il pericolo e fece quanto fu in lei per scongiu- 
rarlo ; ed é a dolere che la storia, per mala negligenza di 
tatto, che spetta alle sorti dell'Alpe Giulia, non abbia tenuto 
il debito conto di ciò. Allora più che mai fu chiaro quale 
studio si ponesse da una parte e dell'altra ad impadro- 
nirsi delle regioni dell'Adriatico. 

Più volte Venezia stette per trionfare appieno : e sempre 
nuovi nemici la assalirono, né soli nemici stranieri, ma ita- 
liani, e fra questi principalmente i Genovesi in quella ma- 
ledizione delle discordie civili. NuUadimeno, se l'Austria in 
mezzo alla lotta arrivò a rapire ad Aquileja i suoi possessi 
vicino al varco di Nauporto e a sopprimere i conti della Car- 
sia e^ fattasi addosso a Trieste, a patteggiarne la dedizione, e 
ad estorcere la successione nella contea dell'Istria, il rimanente, 
ossia il grosso di quella provincia, margraviato e comuni, passò 
a Venezia per ispontanea dedizione insieme al conquistato 
Friuli e compresi Flitsch, Tolmino e Gradisca. Lo stesso 
conte di Gorizia, che fu salvo mercé la sua alleanza con 
casa Tirolo, giurò fedeltà alla repubblica ; e stipulò che, 
estinta la sua famiglia, cadesse a quella la contea. E cosi il 
vessillo di S. Marco e l'aquila austriaca si trovarono soli 
di fronte a proseguire la tenzone per la nostra frontiera 
italiana 3. 

L'Istria, da alleata e protetta divenuta suddita a Venezia, 
durò sua fino al memorando 1797. In questo periodo la 
repubblica veneta giunse a piantare per poco i suoi sten- 


I 86 La Frontiera Orientale d'Italia 

dardi sui vertici dell'Alpe Giulia, quando surse a pugnare 
pe' suoi diritti su Gorizia, che Massimiliano voleva per sé ; 
ma la lega di Cambrai rovinò l'impresa. Non solo non ebbe 
Gorizia, ma perde Gradisca, la guardia dell'Isonzo, e Tol- 
mino e Flisch, che assicurano il passo del Predil. E allorché 
più tardi le atrocità delli Uscocchi, di que' pirati, che aiz- 
zati dalli arciducali, rimeritavano i protettori di turpissimi 
doni lordi del sangue dei trucidati, le rimisero in mano le 
armi a ritentare la prova, riportò una buona vittoria sulle 
rive dell'Isonzo; ma bastò la fortezza di Gradisca a fran- 
gerle l'impresa; e la pace di Parigi del 1617 fermò i de- 
stini di quelle contrade fino alle più recenti e più luttuose 
sciagure italiane. Venuta l' Istria, al pari di Venezia, alli 
Austriaci, vi restò soggetta dai 1797 al 1805, dividendo con 
quella i dolori della prima servitù. Incorporata poscia nel 
regno italico, ne fu disgiunta nel 1809, quando le toccò 
subire, per la prima volta dopo secoli di non interrotta 
unione con Venezia, il nome aborrito, di provincia illirica; 
giacché venne ascritta a quello Stato francese, che abbrac- 
ciò i due versanti delle Alpi Giulie, quasi per frammettere 
la Francia tra il nuovo regno d' Italia e l'Austria *. Napo- 
leone non credeva con ciò, né forse voleva, fondar cosa 
che durasse; giacché non va dimenticato, che, mentre era 
Francia l'Istria, era pur Francia il Piemonte, e ch'egli aveva 
determinato i confini naturali e militari della penisola, allor- 
ché minacciava di escluderne V Austria, portando la linea del- 
l' Adige aW Alpe Giulia^, Dopo la caduta di lui, tutto ri- 
cadde e si confuse nel servaggio. Ma il passato sta a gua- 
rentigia del futuro. 

Se percorriamo la provincia istriana dalle sommità della 
Vena al Promontore, dal Caldera al golfo di Venezia, ve- 
dremo sparso per le campagne a fianco del nostro un po- 
polo non nostro. Interroghiamolo, e udremo da lui che la 


t la sua mportania. 187 


terra, su cui stenta la vita, non é della sua nazione, ch'ei 
vi prese stanza da ospite, e da ospite vuol vivervi, godendo 
i frutti della coltura italiana ^ Ma l'Austriaco, che opprime 
runa e l'altra gente, e la straniera, inculta, vuol fare stru- 
mento di frode contro la indigena incivilita per rapire al- 
l'Italia quanto é suo, mette in questo i propositi più tenaci; 
e tutto sommove per falsare ogni memoria e camuffare a 
suo modo la realtà ; segno evidente del gran prezzo, ch'esso 
pone a stare in Istria per istare in Italia, se per mantener- 
visi si studia d'ogni maniera ad avere casa nostra, senza 
parer di averla. Traendo profitto dalla dimenticanza, a cui 
fu condannato quell'oscuro paese, entrò perfino nei campi 
della scienza a comprarvi menzogne; alcuni etnografi au- 
striaci danno prevalenza a questa o quella nazionalità nelle 
varie Provincie dell'impero, secondo fa comodo al Governo 7, 
Ma contro le studiate menzogne protestano gli usi ed i 
linguaggi viventi. 

L'Istria, nei limiti suoi naturali, che comprendono Trieste, 
novera 290,000 abitanti, tra cui 160,000 Italiani, 15,000 
Slavi italianati e 10,000 Slavi tra puri e italianeggianti. Qual- 
che migliajo di Tedeschi vive pei commerci in Trieste. Vo- 
lendo separare Trieste dal rimanente dell'Istria, spetta alla 
prima più di un terzo dell'intera popolazione italiana della 
provincia e circa un quinto della slava ^. La slava é sparsa 
nella campagna; l'italiana invece s'accoglie nelle città, nei 
borghi e nei villaggi, in cui si manifesta un qualche segno 
di coltura. 

Gli Italiani si danno tosto a conoscere al franco aspetto, 
ai modi spigliati, all'occhio intelligente, al dialetto presso- 
ché veneto, nel quale molte voci e maniere speciali ram- 
mentano al filologo le origini etrusche, umbre e latine. I 
dialetti dei comuni di Rovigno, Dignano, Valle, Gallesano, 
Fasana, di cui sorprende la somiglianza coi dialetti dell'Italia 


i88 La Frontiera Orientale d'Italia 

mediana, sono documenti della primitiva italianità degli 
Istriani. 

Gli Slavi vanno divisi in due stirpi principali, la slovena 
e la serba, numericamente quasi eguali, ma differentissime 
per carattere fisionomico e morale, per lingua, tradizioni e 
abitudini. Li Sloveni, dalla faccia ovale, dall'occhio azzurro, 
dalla bianca carnagione, e che sono fratelU a quelli del 
Friuli, si appalesano subito alla lingua corrotta ed alli usi 
tralignati come i più antichi ospiti della provincia. I Serbi 
al contrario, che per la maggior parte sono Morlacchi di 
Dalmazia, e si riconoscono alla maschia corporatura, allo 
sguardo vivace, al colore bruno, mostrano di primo tratto 
nei loro costumi nazionali e nelle ancor vive ricordanze 
delle anteriori loro dimore d' essere li ultimi stranieri ve- 
nuti neir Istria. Li uni e li altri senza istituzioni proprie, 
senza civiltà, senza storia, senza lingua scritta. Di essi non 
v'era traccia nell'Istria innanzi all'Soo, e fino a quell'epoca 
tutti i nomi topografici suonarono completamente italiani. 
Non v'ha penna alemanna o panslavista, per quanto cupida 
di egemonie, che abbia saputo dimostrare il contrario. Il 
documento della prima introduzione delli Slavi nella pro- 
vincia (e furono Savrini della tribù, che sull'orme dei Lon- 
gobardi aveva occupato nel secolo VI l'alto Friuli) si è il 
placito da Carlo Magno tenuto nella valle del Risano l'anno 
807 9, dove si leggono i gravi lamenti dei municipi e dei 
comuni istriani contro l'arbitrio del duca Giovanni, che a 
loro gran danno aveva chiamato quel popolo straniero nelle 
loro terre '°. Ecco il tristo principio di più tristi eventi. Li 
invasori afferrarono 1' arme più tremenda contro li Istriani 
e l'oriente d'Italia. Formatasi poi la contea d'Istria (Pisino 
e Bellai) e infeudata a signori fatti sicuri e prepotenti dai 
dominj d' oltralpe, dalla Carniola, colà ove essa s' attiene 
alla Croazia, vennero quelli Slavi di schiatta Serbo-Slovena 


t la sua importanza, 189 


divisi in tante famiglie, quante furono le diverse epoche 
della loro forzata immigrazione. E cosi, quando Venezia 
nel quintodicesimo secolo cangiò il protettorato dell' Istria 
in dominio, una sesta parte di quella campagna era occu- 
pata dagli Slavi, e questi Slavi erano schiavi dei nemici 
nostri. £ se non fossero cresciuti anch' essi alla scuola del 
dolore, se l'Italiano dell'Istria, perdute le forze a combatterli, 
non ne avesse disarmato la ferocia col previdente effetto, 
l'aulico confine dell' Isonzo non sarebbe, com' è, una men- 
zogna e un'insidia. 

Quando Venezia divenne signora dell' Istria, la parte infe- 
riore, ch'é la più vasta della provincia, non noverava stra- 
nieri di sorta. Ma sciaguratamente i contagi la spopolarono; 
ed essendo l'Austria padrona dei varchi, la repubblica, già 
fiacca, segui i consigli della paura e vi recò Morlacchi di 
Dalmazia, sopra quelle navi, su cui gì' Istriani avevano tante 
volte combattuto per voler essere tutti della propria nazione! 
Se r invecchiata Venezia avesse ridesta in quella terra di 
confine, oggetto delle inquiete voglie dell'Austria, la vita 
dei tempi antichi, favorendo il genio italiano, avrebbe me- 
glio fatto che non importandovi nuovi stranieri. 

* * 

La Germania mira cupidamente a serbarsi il dominio dell'A- 
driatico e proclama avervi diritto, sebbene da esso la dividano 
due grosse provincie slovene e poscia le Alpi italiane e la sto- 
ria italiana di Roma e Venezia, e le ragioni del sangue e della 
nostra civiltà. La Slavia, anelando al possesso dell'Adriatico, 
vuol sue le spiaggie della Dalmazia, perché fu sua l'opera 
di averle, secoli addietro, imbastardite; e, come vi restò 
vinta dalla coltura italiana, dà nome di usurpazione alla 
più nobile delle vittorie. Né contenta di arrestarsi alle so- 


190 La Frontiera Orientale d'Italia 

glie del nostro confine, assoggettando alla Croazia la città 
di Fiume, accennò un giorno, improvvidamente ingiusta, 
di valicarlo, aspirando alla terra di Albona (*). Ben le augu- 
riamo, che Dio l'assecondi in ciò che i suoi disegni hanno 
di generoso; ma dobbiamo ad un tempo provedere a di- 
fenderci dalle esagerazioni del suo entusiasmo; perocché 
altrimenti la vedremo ben tosto cogliere pretesto da quella 
accozzaglia di Slavi, che il turbine delli eventi gettò qua e 
là nel corso de' secoli sulla campagna istriana, per preten- 
dere all'Istria tutta, e con essa al dominio dell'Adriatico. 
Guai a noi, se, popolo mutilato dietro a due piedi d'ar- 
gine sul fiuniicello dell'Isonzo, vedremo il vessillo della 
vergine Serbia inalberato sovra le vette dell'Alpe Giulia! 
Senza l'Istria, senza la nostra frontiera d'oriente, noi ri- 
nunciamo al primo diritto di un popolo. Forse due imperi 
stanno per iscomparire dalla faccia d'Europa, forse tre nuovi 
regni stanno per surgere a vita potentissima, la Germania, 
la Confederazione Danubiana, la Slavia del Sud; e noi, in- 
vece di occupare le dighe, che provida ci die la natura 
contro l'onda dei popoli d'Oriente, aspetteremo, ch'ella 
irrompa su di noi per le abbandonate chiùse, soffrendo che 


(*) Oggidì, dopo 26 anni, li Slavi chiedon ben altro: per essi 
tutta r Istria è terra slava, e noi, Italiani, che vi abitiamo, non siamo 
che usurpatori da ricacciare in mare. Il peggio si è che alle parole 
seguono i fatti, e che li Slari, favoriti direttamente dal Governo 
Austriaco e indirettamente dalla indifferenza dell' Italia e dalla con- 
seguente debolezza degli Istriani, si allargano ogni di più, mutano 
in slave le scuole elementari state fin qui italiane, vogliono intro- 
durre la loro lingua nelli ufHcj, si sono insediati già in qualche 
municipio minore e si preparano apertamente a conquistare anche 
la Dieta Provinciale. Come non tuonerebbe il Combi, se vivesse, 
alla vista di tanta tracotanza da una parte, di tanta supina ignavia 
dair ahra I (Nota delK Editori) 


e la sua importanza. 191 


sul mare d' Istria, su quel mare, che, meglio di golfo, può 
dirsi porto di Venezia, i patti ci sieno fatti, anzi che far- 
celi noi? Dall'Alpe Giulia soltanto e dalle rive del Quarnaro 
noi daremo la mano a due forti nazioni, l'ungara e la slava. 
H r Istria sarà la sentinella avanzata della civiltà italiana 
nel festoso suo viaggio per le vie dell'Oriente. 

La nostra difesa non é dunque completa, né possibile, 
senza la terra istriana. Quando Napoleone, dopo le batta- 
glie d'Arcole e di Rivoli, dettò a Campoformio infausta 
pace, sappiamo che l'arciduca Carlo reputava più urgente 
coprire Trieste sulla via della Carniola, clie é la più diretta 
ai soccorsi di Croazia e d'Ungheria ". Napoleone gli strappò 
ogni schermo, gittandosì ardito tra le nevi di Tarvis e co- 
stringendolo a sgombrare il versante italiano delle Alpi; 
ma la difesa, a cui l' uno s' era accinto, e l' arte, onde l' altro 
non già di fronte, ma sull'estremo fianco della Carinzia, 
l'ebbe spostato, provano l'alto valore della frontiera. 

E quando il primo pensiero dì un regno subalpino surse 
nella mente della Russia per frammettere ad Austria e Fran- 
cia un forte Stato, tutta l'Alpe Giulia gli veniva assegnata 
siccome condizione indispensabile a dargli sicurezza ". 

Napoleone il giorno, ki cui dalle falde del Tricorno pro- 
spettò le terre di tre nazioni, l'italiana, la tedesca, la slava 
immutabilmente divise da quell'ultimo tratto delle barriere 
italiane, acquistò la certezza che le Alpi Giulie erano ne- 
cessarie alla sicurezza dell'Italia e di Francia; e se nel 1797 
tradì la sciagurata Venezia, la ristorò nel 1805, annetten- 
dola con l'Istria al regno d'Italia. E fu suo concetto, al- 
lora e poi più volte espresso, che a cacciare li Austriaci di 
Italia conveniva aver pie fermo nei dominj, che Venezia 


192 La Frontiera Orientale d' Italia 

aveva tenuto sulF Adriatico *3. Scriveva pertanto con iterata 
sollecitudine a chi, staccato dall'esercito d'Austerlitz, doveva 
condursi alla destra dell'Isonzo, non lo tragittasse fin che 
l'Istria non fosse ritornata all'Italia; e, avutala, tenesse 
occupato Monfalcone, alla sinistra del fiume, per rimanersi 
congiunto a quella provincia ^*. 

Era il primo nucleo dell'unità nostra; e, mentre tante 
contrade lasciavansi incomprensibilmente fuor della nuova 
fortuna d'Italia, non avvenne cosi di quel povero e spo- 
polato paese, mercè la sua positura sulle più gelose porte 
della penisola. Quanti, e non son pochi, erigerebbero sul- 
r Isonzo le colonne d'Ercole della penisola, rammentino 
come ai tempi napoleonici, tuttoché si fermasse per allora 
r Italia a quel fiume, lasciando Gorizia e Trieste all' Austria 
non si sapesse disgiungere queste due idee, che, non meno 
il Friuli coir Isonzo, che l' Istria co' suoi monti, fossero le 
marche del regno 's. 

Già dicemmo che le regioni dell'Alpe Giulia con Ca- 
rinzia, Carniola, Croazia e Dalmazia vennero in seguito 
sconciamente agglomerate per comporre le cosi dette Pro- 
vincie illiriche e farne diretto possedimento francese. Il nuovo 
corpo politico si estendeva per ben 230 leghe in lunghezza 
e offriva, al dire di chi ne fu governatore '^, un amalgama 
di paesi differenti fra loro per clima, lingua^ natura delle pò- 
polaiioniy insomma per tutte le circostante^ che distinguono le 
nazioni, E l'Istria, sebbene per la prima volta, dopo venti 
secoli di vita politica italiana, si vedesse scambiate le ita- 
liane capitali con la straniera Parigi, si accorse appena di 
quel precario disgiungimento dall' Italia, dividendo con Roma 
e Piemonte la nuova dipendenza ^7, e obedendo i suoi militi 
e i suoi marina] al viceré Eugenio, e rimanendone piena- 
mente italiana ogni amministrazione e soggette le princi- 
pali aziende, come quelle dei boschi e degli stabilimenti sa- 


t la sua mportan:ia. 193 


lini, al solo governo di Milano. E se li estremi nostri ap- 
postamenti si portarono allora alle rive della Sava, su terra 
non nostra, ne troviamo nelli atti napoleonici la ragione. 
Le Provincie illiriche, popolate da circa due mìllioni d'abi- 
tanti, erano in complesso misero paese, né bastante a man- 
tenere le truppe d'occupazione, giacché a 15 millioni di 
franchi ascendeva il deficil annuale del bilancio, non con- 
teggiati a diffalco i cinque delle saline istriane *^, i quali si 
versavano nelle casse del regno italiano. Né vi era mezzo 
di sovvenire alle loro finanze nell'urgenza di tanti altri bi- 
sogni e nella necessità di non esaurire le pubbliche risorse 
di Francia e Italia in si continua aspettazione di guerre. Di tal 
guisa, non avendosi né il denaro, né il tempo richiesti a munir 
l'Alpe Giulia di quei soccorsi dell'arte militare, di cui Na- 
poleone s'era fatto apprestare il piano, e che dovevano sur- 
gere a Malborghetto, . Caporetto e Adelsberg con a tergo 
le piazze di Trieste e Fola '9, deliberò allargare il paese della 
frontiera anco nella Slavia, perché esso servisse, non a 
frangere li assalti del nemico, ma a tardarne la marcia; si 
che, indietreggiando grado grado i presidj, fosse agevolato 
al nerbo dell'esercito italiano il raccogliersi frattanto all'I- 
sonzo; e di quivi, con le diversioni d'Istria e Dalmazia, si 
rifacesse la via per riconquistare il perduto ^°, 

Eppure, a fronte di calcoli si studiati, il non aver preso 
a base ferma di difesa la cinta alpina, come già aveva con- 
sigliato il maresciallo Marmont, a cui era stato commesso 
il governo di quelle contrade, fu cagione che i militi no- 
stri non valsero ad arrestarsi suU' Isonzo nemmeno per breve 
istante, e scoprirono il Veneto ^K 

Ognuno adunque può comprendere, che arrestandosi alla 
linea di quel fiumicello, il quale corre per buon tratto in 
. aperta pianura *', ed é in più punti guadabile ed ha note- 
voli alture sulla sinistra sponda, abbiamo sempre l' inimico 

X3 


194 La Frontiera Orientale d'Italia 

in casa. Col possesso delle Alpi Giuiie invece, con Pola da 
ridursi a primissima fortezza, a breve distanza da Venezia 
e da Ancona, noi staremmo nell'Istria, che, come vedemmo 
è tutta asserragliata dalla Vena e dal Caldera, non altri- 
menti che in fortissimo campo, e con le communicazioni 
più acconcie sia a resistere ad oltranza, sia a cedere, senza 
rischio e nella posizione più importante e più felice, guar- 
dando propriamente lo sbocco della strada maestra del- 
l' Austria, e dominando da un lato le vie di Fiuipe e dal- 
l'altro quelle, che menano alla pianura dall'Isonzo. Con 
una marina male addestrata e malfida, con hdi quasi del 
tutto sguarniti, l'Austria intende lo sguardo nell'Adriatico, 
paurosa d'ogni vela nemica *3; e noi ritorneremo ai com- 
pendi di geografia timbrati a Vienna per ricompitare la 
lezione dell'Isonzo? 




L'Italia, che dal centro di Europa si allunga nel bel mezzo 
del Mediterraneo, quasi approdo gittato nel gran porto della 
civiltà di tutti i tempi; con uno sviluppo ricchissimo di 
coste, con le terre dell'Oriente in si fortunata vicinanza, 
che ne raccoglie a cosi dire il profumo, ha dritto, ha debito di 
possedere la costa istriana. Solo l'Istria, la costa orientale, può 
darci quello, che la costa occidentale dell'Adriatico non ci 
dà. Uno scrittore, che dedicò molti anni allo studio dell'A- 
driatico, riassume cosi le differenze tra l' una e l' altra spiag- 
gia: (K Erta, scoscesa e sassosa l'orientale; bassa, piana e 
sabbiosa l'occidentale; mare profondo da una parte, poco 
dall'altra; abondanza di porti, di rade, di seni ed eccellenti 
ancoraggi alla destra; scarsezza di porti, rade malsicure ed 
ancoraggi pochi ed infidi alla sinistra;... una costa insomma 


t la sua importanza. 195 


incerta, instabile, profondamente corrosa e smarginata da 
gran copia di fiumi, di canali, di stagni. » "* Gli é perciò 
che or ora un arciduca austrìaco ebbe a dire, non poter mai 
l'Italia tenersi contenta di un litorale si inospite ai navi- 
ganti, quando, non più che a sei ore di distanza pe' suoi 
piroscafi, trova quanto può convenire a qualunque mag- 
giore marina. Infatti l'Istria, con sole 90 miglia di coste, 
possiede molti porti e ancoraggi naturali *s ; situata nell' in- 
timo seno dell'Adriatico, si trova sullo scalo di quasi tutti 
i suoi commerci e per ricchezza e preziosità di selve, a- 
bondanza di miniere di carbon fossile e insuperata bravura 
di marinai può ordinarsi tutta a grandioso stabilimento 
marittimo ^^. Staccandosi dall'Alpe, da cui è rinchiusa, aban- 
•dona il lido, che va giù alla Dalmazia, per farsi incontro a 
Venezia. Non si ristora Venezia, senza ritornarle la provincia 
istriana; non si provede al suo, avvenire, lasciandola, quasi 
naviglio disarmato, imprigionata nelle sue lagune. 




Ma è ardua troppo l'impresa? Ad un popolo generoso i 
pericoli non devono consigliare i fiacchi abbandoni e le co- 
darde paure. 

La storia apprende che, se all' Isonzo non si serba la fron- 
tiera dell' Alpe, all' Isonzo la si conquista., L'Austriaco, rotto 
nel Friuli, non può tener fermo nell'Istria, ma dee sgom- 
brarla, sotto pericolo di vedersi disgiunto, accerchiato e preso, 
specialmente ove il navigUo del vincitore signoreggi il golfo. 
E s' anco Fola tosto da lui non venisse abbandonata, ei po- 
trebbe tenervisi assai poco contro chi lo assalisse da terra. 
D'altronde l'operare in Istria, anche prima di vedercela 
cadere in mano da sé, assai ajuterebbe le operazioni dell' e- 


196 ^ La Frontiera Orientale d' Italia 

sercito nel Veneto, come pur mostra di temere l'arciduca Mas- 
similiano, chiamando l'Adriatico la parte vulnerabile dell' Au- 
stria e attribuendoci il pensiero di volerla aggredire da questo 
Iato, anziché assalire le forze trincerate nel quadrilatero. 

E l'Europa? Dica che vuole. La Germania, infeudata alle 
paure dei piccoli suoi principi, griderà. Ebbene, dovremmo- 
per questo ristarci? 

Quanto a Trieste, quegli, a cui giova, la va dicendo com- 
presa nella Confederazione germanica; ma non v'è atto 
alcuno, che lo provi. Lo stesso governo austriaco non osò- 
nomarla, quando noverò i suoi paesi alemanni, e se poi vi 
aggregava il territorio di essa, fu arbitrio e peggio ^7, 

E d'altra parte, qual fortuna prometterebbe la Germama 
a Trieste per farsi consentire dall'Europa e perdonare da 
Trieste medesima l'enorme ingiustizia? I fatti attestano 
che il commercio triestino, inceppato da chi più avrebbe 
debito di favoreggiarlo, decade d'anno in anno =^ L'unione 
ad un impero, che non ha certezza di pace, né sicurezza di 
riposo, ma è di continuo travolto in turbamenti e rivolu- 
zioni, non può giovare ad una città marittima. 

Trieste incatenata all'Austria dovrà inevitabilmente assi- 
stere alla ruina de' propri traffici, i quali s' avvieranno negli 
altri porti italiani. 

L'Istria non può, non vuole comportare in pace la schia- 
vitù. Poc'anzi l'Austria medesima dovette abbattere le sbarre 
doganali, colle quali sperava violentemente staccarla dal 
Veneto e germanizzarla '9. A non volerla morta di fame, fu 
necessario riaprirle le vie dell'Italia. Chiuderle queste vie^ 
é farne l'Irlanda dell'Adriatico I L'Italia dovrebbe per com- 
piacere alle voglie tedesche lasciare all'Austria una terra 
italiana ed un popolo italiano? 

Noi non ci facciamo complici di nessuna paura, di nes- 
suna apostasia, ed invochiamo altamente il giorno, in cui 


e la sua importanza, 197 


all'Istria non parrà più sogno la passata prosperità; e di 
nuovo vedrà salire alle cento castella della sua frontiera, 
come a posto d'onore, i militi di Roma. 

NOTE. 

^ C&ssiODORO, Epist. 22 del libro XII (vedi pag. 5^ di questo volarne). 

^ Vedi il trattato del 967 fra Ottone e i Veneziani. 

' A convincersi come Venezia mirasse propriamente ai varchi d'Italia, vedi Raph. 
Cares. pag. 473 presso Muratori - Rerum italicarum scriptores, Voi. XII. 

* Alcune amministrazioni per altro, per esempio quella dei sali e quella dei le- 
:gnami da costruzione navale, restarono al regno d'Italia. 

8 Thiers, Storia del Consolato e dell' Impero. Voi. I, lib. 3, gena. 1801. 

^ Nel 1848 quanti villaggi slavi furono interpellati intorno alla nazionalità, che de* 
«ideravano fosse riconosciuta nell' Istria, risposero l' italiana. 

^ Vedi tra le altre V Etnografia austriaca del barone Carlo Czornig, direttore della 
statistica amministrativa in Austria, che ebbe pagata l'opera dall' imperatore e fa aju- 
tato da tutte le autorità. 

^ Queste cifre furono raccolte sul luogo. Le officiali sono del tutto false. Basti 
4ire che- l'anagrafe del 1851 (l'ultima del 1857 non fé' distinzioni di nazionalità) ag- 
f;iudica A Trieste 12,000 tedeschi! Un nome non italiano di famiglia, un avolo, che 
«bbia parlato lo slavo o il tedesco, l'impiego O altri simili riguardi della persona 
invitata a dichiarare la propria nazionalità sono argomenti sufficienti ad acconciare i 
numeri secondo i desideri del Governo. 

' Il Carli lo riporta per esteso nell'appendice delle Antichità italiane^ pag. 5-ia. 

^^ Si cercò di acquietarli, concedendo alli Slavi le sole campagne deserte fra la 
Vena e la Dragogna, circa una dodicesima parte dell'Istria: Mitlamus eos in talia de- 
serta loca, uhi sine vestro damno valeant summanere. Cosi il placito. E più su : Advenas 
homines, qui in vestro resederigit^ in vestra sint potestate . . . uhi aliquem damnielatem fa* 
<ieni, nos eos e;iciamus*foras. 

^^ « Tre strade conducevano per le Alpi Rezie, le Carniche, le Giulie alla capitale del- 
l'Austria. La prima a sinistra attraversava il Tirolo al Brenner; la seconda al centro sa- 
liva alla Carinzia a Tarvis; la terza a destra, passando il Tagliamento e l' Isonzo, condu- 
ceva nella Carniola. L'arciduca Carlo aveva il nerbo del suo esercito sopra l'Isonzo; per 
guardare la Carniola e coprire Trieste... Si collocò allo sbocco di quella e pose 
solo corpi accessori sulla strada della Carinzia e del Tirolo. E ciò quantunque sa- 
pesse che, volendo conservare la via montuosa della Carniola e coprir Trieste, sì 
«sponeva a perdere la strada della Carinzia. » Thiers, Storia della Rivoluzione Fran- 
^ese^ lib. LII. 

^^ f II Regno Subalpino comprenderebbe tutta l'alta Italia dalle Alpi marittime sino 
alle Alpi Giulie. » E altrove : « Questo Regno Subalpino, formando la maggior parte 


198 La Frontiera Orientale d* Italia 


d* Italia, varrebbe a tenere in equilibrio 1' Aastria e la Francia e sarebbe poi il fon- 
damento della indipendenza italiana. » Così il Thiers, che soggiunge : « Certo questa 
era generosa e sagace determinazione, per cui la Francia avrebbe ben potuto fare 
qualche sagrificio, se i giovani, che tenevano il governo della Russia, fossero stati 
capaci di volere da senno e fortemente una gran cosa. » Storia del Consolato e del~ 
l'Impero, lib. XXI. 

^' A Brunn, Napoleone dichiarava al generale Giulay che non consentirebbe pi^k 
che V Italia, divisa tra Austria e Francia, continuasse a formar tra loro soggetto d> 
diffidenza e di guerra. . . Voleva per tanto ottenere colla pace il completamento del 
regno d'Italia, cioè la Venezia, il Friuli, l'Istria, la Dalmazia, insomma l'Italia fiao 
air Alpe Giulia e le sue costiere dell'Adriatico. Thiers, op. cit., lib. XXIII. 

1^ Vedi la corrispondenza tra Berthier e Marmont nelle Memorie di queste nltimo,. 
lib. IX, lettere da Schònbrunn 28 e 31 dicembre 1805, da Linz 28 gennajo 1806, » 
da Monaco, 5 e 26 febbrajo. 

^<^ Convien prendere assai leggermente la cosa, mostrando di credere che quando 
si dice Isonzo s'intenda esclusione dell'Istria. Vedasi all' invece in Thiers {Consolato 
e Impero, lib. XXVIII), come Napoleone, parlando della linea di quel fiume e ordi- 
nando in pari tempo una strada militare pel regno d' Italia attraverso l' Istria, ben di> 
versamente la intendesse. 

^8 Memorie del duca di Ragusa, lib. XIII, pag. 34 e lib. XIV, pag. 437 e seg. 

1'' Non eravi separazione vera, perchè Napoleone non voleva in Italia appigliarsi 
ad assestamenti, che avessero carattere definitivo, ma lasciarvi invece tutto in cotal 
dubbio, che non interdicesse li ulteriori divisamenti. — Thiers, Consolaio e Impero, 
lib. XXVIII). 

^^ Ora rendono allo Stato otto millioni netti, e potrebbero rendere facilmente il 
doppio, ove fossero riattivate le soppresse saline, e ne venissero incoraggiati i pro> 
prietari, anzi che avviliti col misero prezzo, che si dà loro di 27 soldi austriaci il 
centinajo, quando 1' erario lo rivende a 7 fiorini in Istria, e più caro altrove. 

1® V. Memorie del duca di Ragusa, lib. IX, pag. 369-371, lib. XIV, pag. 437-38- 
756 ecc. 

^ Sebbene adunque l'asservire a prò d'Italia oltramontane provincie sembrasse^ 
come nota il Thiers. politica detestabile e buona tutt'al più per l' Austria, che ha sempre 
voluto possedere V opposta china delle Alpi, molto per noi vantaggioso n' era l' intendi- 
mento ; e può dirsi invero che Napoleone rinnovasse sulle nostre frontiere orientali 
li esempi della antiveggenza romana. « 

3^ Scoprirlo era necessità; e quindi fu accortezza il farlo subito. Disse Napoleone^ 
essersi ottimamente veduto in quella guerra che la difesa era impossibile nel Friuli. 

*2 Da Canale al mare (un terzo del suo corso) è del tutto scoperto, (Marmokt» 
lib. IX pag. 369-71) Che tal linea dovesse difendersi coli' Istria, si vede da lettera 
del viceré al duca di Ragusa in data 27 Settembre 1806. Ivi non si può che noiare 
alcun poco l' inimico, lettera 13 Marzo 1806 di Napoleone al viceré. — Palmanova 
non rende padroni dell'Isonzo. L'Alpe Giulia i il compimento del possesso del Friuli. Nota 
di Napoleone. 


e la sua importanza, 199 


^ Vedi in conferma il recente opuscolo snlla marina austriaca attribuito all' arci- 
duca Massimiliano. 

Si Sono queste le ragiODÌ, che fanno della costa orientale dell'Adriatico la vera 
costa orientale d' Italia. E giova per maggior evidenza analizzare le forze marittime 
austriache del litorale. Queste al principio del 18(9 sommavano, tutto compreso, a 
963$ navi, della portata di 378.;i6 tonnellate con 3;. 4^6 uomini d'equipaggio. Per 
limitarci ai bastimenti di lungo corso e di gran costeggio, confrontando i lidi veneti 
colla rimanente costiera occupata dall' Austria, appare che quelli, appartenenti a paese 
fiorente di popolazione e ricco, avevano 168 navi di 29.148 tonnellate con 1307 ma> 
rinaj, mentre questa, spopolata e povera, ne contava 88; di 252.579 tonnellate con 
8344 marina). La Società del Lloyd, alla fine del 1858, possedeva 70 navi della forza 
di 13.320 cavalli con 39.918 tonnellate. 

^ Tra ancoraggi e porti per grossi navigli se ne contano 69 da Duino a Fianona. 

2" Per l' importanza dei boschi istriani, vedi il rapporto del cons. Bargnani al vi- 
ceré Eugenio. Quanto al carbon fossile potrebbe scavarsi in tutta l'Istria orientale. 

^ Patente del 2 Marzo 1820 nella collezione delle leggi austriache. 

^ Servano alcuni esemp) tratti dalla Porta Orientale^ annuario istriano per l'anno 
1859: 

« Fatalissimo (cosi a pag. 257) fu l'essersi tardata l'apertura della ferrovia. Tutto 
ne sofierse, ma specialmente il commercio dei coloniali .. I Paesi Bassi ed Amburgo 
dominano ormai il commercio del caffè... Quello delli zuccheri è contrastato dai porti 
settentrionali. Amburgo, che nel 1853 importò 425.000 quintali doganali di zucchero 
grezzo, mentre Trieste ne importò 788.000, nel 1857 importò 470.000 quintali e 
Trieste 270.000. A proveder la Germania di cotone bastano ora le città di Amburgo 
e Brema... Quest'ultima, che nel 1853 ebbe una importazione di cotone della metà 
inferiore a quella di Trieste, l'ebbe nel 1857, dopo costanti aumenti, di oltre un 
terzo superiore. » Per altri confronti rimandiamo il lettore allo stesso annuario e al 
Rapporto della Camera di Commercio di Trieste pubblicato or ora. Da questo rile- 
viamo, che il commercio dello zucchero andò perduto per Trieste. Pochissimi ezian- 
dio sono i prodotti industriali austriaci, che prendono la via di Trieste. E se le im- 
portazioni dall'interno di quella monarchia si accrebbero nel 1859 di circa 9 millioni 
di fiorini, ciò va attribuito, come nota la stessa Camera di Commercio, alli approvi- 
gionamenti dell* esercito. Degno di speciale nota invece è il fatto, che le importa- 
zioni per l'interno, calarono d'oltre un millione. Ove si considerino infine le partenze 
e li approdi per la via di mare, abbiamo per le prime una diminuzione di 1 5 millioni 
di fiorini tra il 1857 e il 1859, e di 35 millioni pei secondi tra il 1858 e 1859. 11 
rapporto si chiude colle seguenti parole : « Questo emporio è assai decaduto dal- 
l' anteriore sua floridezza, ed è tuttavia minacciato da ulteriore deterioramento. » 

^ L' Istria importa principalmente dal Veneto, dalla Lombardia e dalle Romagne 
quanto consuma; e colà esporta quasi tutti i suoi prodotti. 


IMPORTANZA 
DELL'ALPE GIULIA E DELL' ISTRIA 

PER LA DIFESA DELL* ITALIA ORIENTALE. 
(Dalla Rivista Contemporanea di Torino — Aprile 1866) 


JL roppo spesso avviene che, discorrendo la questione 
veneta, non si rivolga il pensiero a tutta V estensione del 
suolo italiano, che manca all' integrità del Regno, né si ri- 
levi esattamente ove sia il baluardo de' suoi confini orien- 
tali, il quale, assieme alle provincie della regina dell' Adria, 
vuol essere a noi rivendicato. — Una parte degli Italiani 
(sarebbe debolezza e danno oggi il tacerlo) non è arri- 
vata ancora a disimparare la lezione delle geografie au- 
striache, che serra la Venezia entro ai capricciosi termini, 
che le posero intorno i reggitori di Vienna. La comunanza 
di origini, di favella, di storiche vicende, di coltura, di 
aspirazioni, d' interessi d' ogni maniera non basta ancora 
a rimuovere la inesplicabile reverenza all' aulico confine 
dell'Isonzo o dell'Judrio, quasi una sbarra giallo-nera valesse 
a dividere ciò, che natura e diritto reclamano per la com- 
piuta unione d'Italia. Questo errore o pregiudizio, povertà 
di studi o d'animo che ne sia la. cagione, é ormai tempo 
che cessi, e più non vi abbia Italiano, al quale possa apporsi 
la vergognosa colpa d'ignorare e, peggio, sconoscere casa 
propria. Già parecchie pubblicazioni mirarono a questo scopo, 
e noi qui non ci faremo a svolger di bel nuovo il non 


Importanza dell'Alpe Giulia e dell' Istria, ecc. 201 


breve argomento sotto i molti suoi riguardi. Ci prefiggiamo 
invece di comprovare più dappresso la importanza militare 
della italiana frontiera d* oriente : assunto non meno op- 
portuno per le cose ora dette, che per lo scarso numero di 
scritti, che finora ne abbiano ragionato. Anzi, a dire tutta 
intera la verità, non ve n' ha alcuno, se eccettui gli studi 
del Saluzzo e dei Mezzacapo% il quale contenga più altro 
che cenni fuggevoli e quasi di fantasia. E gli studi mede- 
simi dei due fratelli Mezzacapo sembrano quasi condotti con 
alcuna prevenzione e acconciati più ai mutabili criteri dei 
narratori delle guerre, di cui queste contrade furono teatro 
in sul principio del secolo, di quello che attinti all' esatta 
conoscenza delle cose e al giusto loro apprezzamento sulla 
faccia dei luoghi. Certo che neppur nostro può essere Tin- 
tendimento di esaurire il grave tema : ma pure confidiamo 
che quanto più importa sapere e ritenere a comprendere 
l'importanza della nostra frontiera orientale per la sicurezza 
d'Italia può essere da noi con onesta sicurezza di convin- 
zioni esposto. 

La frontiera orientale d' Italia é quanto dire T Alpe 
Giulia, la quale corre dal monte Canino nel Friuli al pro- 
montorio di Fianona in sul Quarnaro. Essa può distin- 
guersi in superiore ed inferiore, prendendo a punto di divi- 
sione, quasi in sul centro della catena, i monti, che si levano 
sopra le sorgive dell'Idra. La superiore é anche nelle vette 
più continua ed alta ; l'inferiore, digradandosi in terrazze, é 
più depressa. Gira quella nel primo suo tratto per guisa, da 
accogliere in grembo le due orride vallate di Trenta sul 
versante nostro e dì Wohein su quello della Carniola. Le 
più alte vette dell'Alpe Giulia spiegansi lungo questa sinuosa 


* (Per le note, vedi in fine dell' articolo.) 


202 Importanza dell'Alpe Giulia e dell' Istria 

linea come a dire il Mangert (2665 m.^, il Tricorno (3046 m.), 
il Vagatin (2000 m.), il Montenero, quasi à giusta distanza 
tra loro e segnante i termini delle due curve, per cui si 
svolge la imponente giogaia. Dal Montenero ad Idra scende 
essa quasi diritta al sud, dirompendosi ai fianchi nelle valli 
silvestri del Bazza e del Zayer a levante e in quelle del 
Bazza e dell'Idria a ponente. Questa Giulia superiore non 
ha che il solo passo naturale del Predil (1168 metri), quasi 
al suo cominciare tra la vallicella dello Schlizza, che scorre 
per Tarvis nel Gailitz, ossia nel bacino del Drava, e quella 
del Coritenza, influente dell'alto Isonzo. I viottoli rovinosi, 
che mettono nel Valtrenta dai ridossi del Mangert, del Pres- 
nig, del Tricorno e nelle forre del Bazza e dell' Idria dal 
Montenero e dal Plegas, non sono varchi, di cui occorra 
tener conto. Fra la Giulia superiore e l' inferiore, e preci- 
samente air anzidetto limite dei gioghi d' Idria, monta la 
strada, che da Sayrach sulle fonti del Zayer guadagna V al- 
tipiano della Selva Piro (Birnbaumerwald, 840 m.) protesa 
poi nell'altro di Tarnova (791 m.). Ed è questo quel tratto, 
dove l'Alpe più si dilata ed abbassa i suoi gioghi. Quivi i 
monti, sebbene seguano a comporre il dosso della frontiera 
per Godo vie, Velkiverch, Kaltenfeld e Adelsberga, muovono 
a gruppi tumultuari e prendono forma di giganteschi tu- 
muli di mezzo all'ampia terrazza petrosa. Ad essa conducono 
la via già detta di Sayrach e quella di Nauporto (Oberlai- 
bach, 370 m.) Longatico (Loitsch, 915 m), la prima dalla 
valle del Zayer e la seconda da quella di Lubiana. Ambe- 
due riescono all'infossamento di Poldkay e ZoU, che da le- 
vante a ponente taglia l'altipiano e smonta nella valle del 
Vippaco o Frigido poco più sopra di Aidussina. Se non 
che la via maestra, ossia il passo principale dell'Alpe Giulia» 
non valica la Selva Piro, ma continuando 1' adito di Lon- 
gatico, sotto la gira per la conca dell' Unz e poi per la 


per la difesa dell* Italia Orientale, 205 

insellatura di Adelsberga (590 m.) e la vallicella del Piuca 
e del Nanonizza fino al piede del Nanos (1295 m.), in cui 
l'altipiano, del quale ora dicemmo, si appunta, spiccandosi 
alla maggiore sua altezza. Più oltre di Prewald (554 m.), 
posto a cavalliero della strada, che svolta questo monte, 
corre essa da una parte lungo la valle del Vippaco, rag-- 
giungendo la via della Selva Piro fino a Gorizia, e dall'al- 
tra supera per Senosecia e Sessana la seconda terrazza 
calcare dell' Alpe Giulia, cioè il Carso dell' Istria, per poi 
ridiscendere a Trieste, Dalle alture di Adelsberga (673 m.),. 
dove arriva la schiena della giogaia alpina, si alza questa 
verso sud-est a forma di larghissima piramide, agitandosi in 
molteplici accidenti cosi sulla valle del Piuca e dall'alto Ti- 
mavo a ponente, come sulle acque intermittenti dell'Obrecb 
e del lago di Cirknitz a nord-est. La punta delle piramidi 
è quel Monte Nevoso (1686 m.), che sorge ultimo termine 
orientale d'Italia. Sotto di esso, verso Fiume, l'Alpe sfianca 
nuovamente, si, che da Castua ad Adelsberga sale altra 'via 
per Lippa (285 m.), che indi tragitta le anzidette due valli 
del Timavo e del Piuca. Ma ben tosto si rizza maestosa, al 
gruppo del Planich (1268 m.), nodo dei monti dell'Istria e 
principio di quel secondo altipiano, che vedemmo sopra 
Trieste, e che, percorso dalla Vena (1107 m.>, fascia l'i- 
striana provincia poco di sotto al grosso della frontiera» 
cominciando dalle sommità, che dominano il seno di Fiume,, 
sino alle foci del Timavo nelle lagune di Monfalcone. In- 
fine dal nodo di Planic, chinatasi alquanto di sopra a Lo- 
vrana, là, dove passa (950 m.), altra strada, che da Fiume 
volge nel centro dell'Istria, si erge l'Alpe Giulia ancor più 
alta al Monte Maggiore (1394 m.}, e quasi muraglia pro- 
cede di contra al mare, spingendo in esso il promontorio 
di Fianona. 
Il Goriziano e l'Istria sono i paesi italiani, che 1' ora de- 


204 Importanza dell* Alpe Giulia e dell* Istria 


scritta frontiera abbraccia. Oltr'essa vi soggiace la Carniola, 
- per breve spazio al nord la Carinzia - e a sud-est la Croa- 
zia. E a queste tre regioni si schiudono i varchi nella nostra 
penisola, vale a dire quello delPredil dalla Carinzia, l'altro 
di Adelsberga, con cui si aggruppano i due minori dell'alti- 
piano centrale dal. mezzo della Carniola, e il terzo di 
Fiume, Lippa e del Monte Maggiore dalla Croazia. 

La via del Predil non giunge al passo da contrada in- 
tieramente oltrealpina, perché la frontiera naturale d' Italia 
inchiude il Fella, che ha le sue scaturigini alla sella di 
Saifnitz (784 m.) e si scarica nel Tagliamènto. — Errore 
adunque non piccolo dei geografi nostri quello di condurre 
i termini d'Italia pel Montacelo e il Mittagskofel (2083 m.) 
alla Pontebba (633 m. , anziché pel Vischbert e il Luscari 
(1785 m.) all'anzidetta sella di Saifnitz, e quindi alla catena, 
che sorge tra il Gail e il Fella. Questa costituisce il vero 
confine della penisola italiana lungo le Alpi dello Schinoutz 
(1994 m,), dell' Hochwpifel (2182 m.),del Gemskofel (21 14 m.) 
sino al Paralba (2670 m.\ che n' é l'anello diretto, e al cui 
limite consentono tutti. Nostra è la posizione importantis- 
sima, che padroneggia Tarvis (748 m.), ossia il bivio alla 
regione carinziana del Drava e alla carniolica del Sava, il 
qual fiume, nascendo non molto lungi a levante, sotto i con- 
troforti del Mangert, scorre attraverso la Carniola e forma 
la esterna linea naturale di congiunzione del varco centrale 
di Adelsberga con Tarvis, da cui i due ingressi per la Pon- 
teba e pel Predil. 

Questa,' a brevi cenni, è la topografia della nostra fron- 
tiera d'oriente, ed ora ci tornerà, lo speriamo, non difficile 
esporre al lettore le ragioni della grande sua importanza 
per la difesa del Regno. 

Qualunque opera prenda a discutere il modo di guar- 


per la difesa dell' Italia Orientale, 205 

dare Tampia cerchia delle nostre Alpi mette in rilievo come 
la parte loro più esposta e più all'Austria vantaggiosa * 
sia l'Alpe Giulia. E le scientifiche conclusioni conferma la 
storia, mostrandoci ella per tutti i secoli d'onde vennero 
all'Italia i pericoli maggiori. Da Roma, che quivi portò il 
nerbo delle sue forze allo schermo della penisola, come ne 
rendono solenne documento i molti avanzi dei guerreschi 
suoi munimenti sparsi su tutta la estensione della frontiera 
con cura degna di maturo studio, — e poscia dai duchi del 
Friuli e dai patriarchi di Aquileja, che a vigilare l' Italia a 
difesa od offesa, secondo gl'intendimenti italiani o stranieri^ 
a cui obbedirono, tennero fermo in ogni tempo a queste 
alpestri vedette, — e più vicino ai giorni nostri dalla accorta 
Venezia, che sempre e ad ogni costo volle sue le terre istriane 
e iteratamente provò le armi a recare a sé il dominio di 
tutto il baluardo alpino, — sino all'Austria, che pose opera 
si lungamente assidua a signoreggiarlo, — e sino alle po- 
derose guerre napoleoniche, che insanguinarono più volte 
queste contrade nello intento di barrare o schiudere le più 
gelose porte d'Italia, — vi ha un solo giudizio rispetto al- 
l'alto valore per noi di questa estrema cinta dell'Alpe. Né 
basta ; che le previsioni stesse dell'avvenire vi consuonano, 
se l'avversario nostro più temibile sarà pur sempre ancora 
all' oriente o nell' Austria, che sognasse il passato, o nella 
superba Germania, o negli spiriti baldi della futura Slavia. 
Ben a ragione adunque va studiato 1' argomento, quando 
si tratta per esso, non già solo di riconquistare un lembo 
d' Italia, ma altresì di metterle .in mano le più preziose 
nostre difese, e quando a veder ciò (lo ripetiamo per 
chiunque fosse per crederci propugnatori di cosa nuova) 
stanno a prodromo della dimostrazione diretta i fatti di 
ogni età. 
A non dire delle Alpi d' occidente e di quelle tra le 


2o6 Importan:ia dell* Alpe Giulia e dell'Istria 

settentrionali, che vanno dal S. Bernardo allo Stelvio, dove 
abbiamo contermini Francia e Svizzera, tre sono le linee di 
attacco, che si stendono attorno alia nostra frontiera, cioè 
quella dell' Inn, oltre il Brennero, la seconda del Drava di 
là del Toblach, della Ponteba e del Predil, e la terza del 
Sava, lungo l'Alpe Giulia. La linea dell'lnn minaccia il Ti- 
tolo italiano per Sterzinga, Pens e Bressanone nel centro e 
per Raseno a ponente, in suU' alto Adige, e di quivi anche 
la Valtellina per lo Stelvio e pel Braulio. Non è nostro as- 
sunto di versare su questo argomento; ma pur ci sembra op- 
portuno accennare che dalla base di Bolzano, munite d'opere 
ie chiuse di Vilpiano e di Kuntensweg, si può bene, a giu- 
dizio degli esperti, interchiudere al nemico l'ingresso, men- 
tre gli anzidetti varchi della Valtellina con buoni forti a 
presidio ci offrirebbero essi pure ogni sicurezza di buona 
difesa. Dalla linea del Drava può egli avanzare cosi nel Ti- 
rolo pel passo di Toblach (dove, per altro sarebbe fermato 
dalla stessa chiusa di Kuntenweg) e di là pure nel Friuli 
per Colfredo e il Cordevole sul Piave, come per la Ponteba 
sul Tagliamento e pel Predil sull'Isonzo ; varchi tutti, che la 
natura, ben giovata dall' arte, può rendere pressoché insu- 
perabili. 

Per la lìnea del Sava infine può 1' offesa aver di mira 
o la via di Fiume, o quella di Adelsberga e può eziandio 
appoggiare a Tarvis i movimenti della hnea del Drava. E- 
videntemente adunque due linee, dell'lnn cioè e del Drava, 
-e a sussidio una terza in quella del Sava ha il nemico 
contro la frontiera nostra dallo Stelvio al Predil, alla quale 
soltanto voghamo ora ristretto il ragionamento per meglio 
rendere palese quanto va conchiuso dell' altra nell' Alpe 
Giulia. Sono le due prime da difficili monti intercettate, e 
le congiunzioni loro colla terza romperebbe il nostro can- 
none di Tarvis, che per sentenza di Napoleone vuol essere 


per la difesa deW Italia Orientale* 207 


italiana fortezza. Noi all'invece da Verona ad Udine tenia- 
mo una linea sola, la quale è più dal confine discosta che 
non sieno quelle dell'attaccante, ma senza confronto più 
breve e con ottimi scaglioni di contro agi' ingressi, sul 
Piave, sul Tagliamento e suU' Isonzo , e tale per conse- 
guenza, da compensare assai largamente il danno della distan-* 
za. — Or qui si fa aperto, che a noi, raccolto l'esercito tra 
l'Adriatico e l'Adige, torna non poco agevole starci atteg- 
giati a pronta e robusta difesa dallo Stelvio al Predil, si 
da togliere all'aggressore ogni speranza di sorprese da quelle 
parti, poiché tutti que' passi valgono per sicuro a tardarne 
almeno di tanto il cammino, da permettere alle forze nostre 
lo accorrere sul punto più minacciato. E apparisce pur ma- 
nifesto in uno quanto la guardia del Predil si connetta con 
quella dell'intiera cinta, di cui parliamo, coprendo Tarvis e 
il Fella e lo Schlizza, e riuscendo i due aditi, più dentro, 
ai secondi collegati appoggi di Venzone da un canto e delle 
gole di Ternova, di Caporetto e di Starasella dall'altro, 
per Malborghetto e la Chiusa Veneziana il primo e per la 
chiusa di Plezzo il secondo; luoghi tutti capaci di ricevere 
ogni miglior lavoro d'arte, mentre più su i valli del To- 
blac contrastano non meno l'assalto diretto dei ripari del 
Tirolo che i movimenti giranti sulle fonti del Piave, e indi 
sugli slessi baluardi ora discorsi delle Gamiche. 

Ma se questa nostra linea nella pianura veneta é altret- 
tanto vantaggiosa che necessaria a provvedere efficacemente 
alla tutela di si esteso tratto di confine, la nostra destra, 
ove l'Italia sia arrestata all' Isonzo, rimane con grave peri- 
colo scoperta. Difatti, senza mettere a gran rischio le altre 
difese, non ci è dato adunare l'esercito su questo fiume, e 
cosi necessariamente deboli a quel fianco, non reggeremmo 
certo ad inopinato assalto. Ed ecco come quello, che bre- 
vemente riferimmo degli altri aditi all' Italia si attiene a 


2o8 Importatila dell'Alpe Giulia e dell'Istria 


questi importantissimi del suo oriente, perché il nemico, 
mantenendosi padrone dell'Alpe Giulia e della sponda sini- 
stra dell'Isonzo, ben potrebbe, dissimulando dietro alle alture 
suoi movimenti, e valendosi in parte degli altipiani, che 
dominano questo fiume nel suo corso inferiore e, in parte 
di quel suolo piano e facile alle improvvise marcie di grossi 
corpi di esercito, che si allarga tra le radici settentrionali 
dell' ultimo Carso d' Istria e le gole di Salcano giungerci 
addosso all' impensata, forzare il passo dell' Isonzo e girare 
di tal guisa i superiori delle Gamiche e lo stesso di To- 
blach, essendo guadabili e il Tagliamento, e la Livenza, e 
non sicuro il Piave stesso, e di niun valore, egualmente 
pei molti guadi, il Brenta. Basta rammentare le campagne 
del principe Eugenio nel 1809 e nel 18 13 per rimanere 
certi che 1' abbandono della linea dell' Isonzo trae subito a 
quella dell'Adige e lascia cosi tutto il Veneto in mano al 
nemico. E questo abbandono, che infallantemente terrebbe 
dietro ad una sorpresa fatta si probabile dalle imperiose 
necessità del complessivo sistema di guarnimento non sa- 
rebbe già fuori di questione nemmeno allora che l'esercito 
nostro campeggiasse numeroso in sulle rive dell'Isonzo. La 
marcia di Nugent da Fiume su Trieste bastò già a rimuo- 
vere dalla linea del Sava il viceré d'Italia e bastò puranco 
a costringerlo a frettolosa ritirata ben oltre l'Isonzo stesso. 
D'altra parte, quale saggezza a confidare le sorti della fron- 
tiera non ad altro che a battaglia in campo aperto? È me- 
stieri adunque veder modo, per cui le armi nostre trovino 
agio di raccogliersi anche da questo lato, prevenendo il 
nemico almeno sull' Isonzo, e quivi pure non la sola prodezza 
del difensore ne giovi la fortuna. Ora, l'uno e l'altro scopo 
si raggiunge appunto col possesso dell'Alpe Giulia e per 
conseguenza dell'Istria, che n'é l' appendice marittima e la 
naturale cittadella. 


per la difesa dell* Italia Orientale. 209 


Abbiamo già detto come la Giulia superiore non ischiuda 
altro varco che quello del Predil. Fino ad Idria pertanto 
terremmo da quella forte posizione ' ben guardato il con- 
fine. È dunque solo nella Giulia inferiore che vanno per 
noi erette le opere di difesa. L'altipiano da Idria ad Adel- 
sberga fu già irto di militari baluardi nei secoli di Roma, 
che in su quei termini aveva alzato are sacre all' Italia. Avanzi 
di torri e di mura in esteso giro vi si riscontrano ancora, 
e ne viene manifesto come i Romani, con accorgimento 
invero da maestri nell'arte della guerra, avessero chiusi gli 
sbocchi e nella valle dell' Idria, e nei burroni di Podkray è 
ZoU, e nelle strette di Longatico, di Planina e di Adels- 
berga 3. La moderna scienza nulla detta di più giusto alla 
difesa dell'oriente d'Italia. Gli é perciò che il maresciallo 
Marmont, il quale tenne il governo di queste contrade, pro- 
poneva egli pure una fortezza in Adelsberga e minori opere 
all'intorno ad ogni capo di via, non solo sull'altipiano, ma 
anche a Prewald, sul vertice della valle del Vipacco ^. Mu- 
nimenti di guerra pertanto, ben collocati su questa ter- 
razza alpina e lungo gli aditi di fianco, nonché ai piedi di 
essa a ponente sulle rive dell' Hubel, presso alle quali fiori 
già la colonia di Castra signoreggiarne la retta via traversale, 
che va all'Isonzo, darebbero al certo bastevole forza a con- 
tendere lungamente il passo all'invasore, si da permettere 
al grosso dell' esercito ogni miglior movimento. Di più lo 
stesso adito per la valle dell' Idria, che sembra da prima 
il più facile, diviene poi il più duro a vincere, perché 
scende a mezzo il corso dell'Isonzo là, dove i monti, che 
aspri ed alti e intransitabili si levano di fronte in sull'altra 
sponda, forzerebbero l'inimico a ripiegarsi o verso setten- 
trione o sotto a meriggio fra perigliose strette, e dovendo 
superare lungo la prima via i forti di Caporetto e di Stara- 
sela per gittarsi nelle forre del Pulfero sopra S. Pietro e 

»4 


210 Importanza delVAlpe Giulia e dell' Istria 

Cividale, e lungo la seconda quegli altri baluardi di Canale 
e di Salcano, di cui il genio militare francese aflFrettava tanto 
la costruzione. E se i * tempi burrascosissimi, per cui era in- 
terdetto il raccogliersi ad attuare quanto suggeriva prudenza, 
lo avessero permesso, noi non discuteremmo su disegni, ma 
su lavori compiuti, e più luminosa apparirebbe la verità a 
noi, cui mancò finora l'occasione o il volere di applicare 
l'animo a si vitale argomento. Ad ogni modo, per quanto 
riguarda le dimostrazioni storiche di qùell' epoca fortunosa, 
sta, oltre ai progetti delle accennate fortificazioni, il fatto 
che il sommo capitano aveva stimato urgente, a guaran- 
tigia d'Italia, portare al Sava la linea di difesa, creando 
il provvisorio amalgama delle provincie illiriche sotto il di- 
retto reggimento di Francia per meglio tutelare il nascente 
Regno, fino a che tempi più riposati avessero dato comodo 
di costruirgli le piazze di presidio e di rivenire cosi sulle 
naturali frontiere, s Codesto trasporto della linea di difesa 
oltre l'Alpe nel cuore della Carniola mirava solo, e le atte- 
stazioni sono molte e concordi e irrefragabili, ad allentare 
la marcia dell'aggressore, si che rimanesse tempo all'esercito 
di appostarsi ai varchi o almeno all'Isonzo. Il concetto, adun- 
que, che veniamo esponendo in questo nostro scritto, trova 
diretta sanzione anche nei più recenti fatti di guerra e nel 
giudizio dei più autorevoli ingegni. — E nello stesso modo 
che a meglio francheggiare la frontiera mediana delle Giulie 
le armi di Francia occuparono il Sava, cosi a coprire l'ac- 
cesso all'Italia per Fiume e Lippa, con che si viene a cir- 
cuire lo stesso varco di Adelsberga, si tenne la Croazia. E 
se a noi conviene intendere allo stesso fine, non vorremmo 
poi al certo imporci alle genti d'oltremonte ; ma dobbiamo 
proseguire l' idea, che ci chiama nel centro dell' Alpe Giulia 
anche al suo meriggio, per rafforzarci cosi ai ridossi del- 
l'alto Timavo come sui fianchi del Monte Maggiore. Sono 


per la difesa dell' Italia Orientale, 211 

<juesti gli aditi, alla cui guardia Roma, per richiamare an- 
cora una volta la storia, avea condotto le due colonie mi- 
litari di Castelnuovo e di Felicia collegate Tuna con Trieste 
e l'altra con Pola; e fu da queste chiuse che lo straniero 
feudalismo lottò per lunghi anni coli' italiano comune, e, 
strumento di possenti principi d'oltr'alpe, fece testa persino 
a Venezia, comecché signora di quasi tutta V istriana provin- 
cia. Noi, edotti dagli insegnamenti del passato, non meno che 
<ialla chiara intuizione della difesa del nostro confìne, dob- 
biamo proporci di riavere quei gelosi posti e di renderli 
forti propugnacoli d'Italia, acconci come già sono per na- 
tura a tal fine. 

Se ciò non avvenisse, a nulla ci servirebbe tenere in mano 
la stessa rocca di Adelsberga e l'intiero sistema, per cui 
dimostriamo il modo unicamente valido a difendere l'oriente 
del Regno, ne andrebbe distrutto. Vero é bene che il varco 
di Lippa è forse men atto degli altri tutti ad essere com- 
piutamente munito, ma v'ha compenso a ciò nel lungo 
cammino, che fa il nemico per tradursi dalla linea del Sava, 
e precisamente dal suo fianco sinistro di Zagabria, già ben 
discosto dal centro di Lubiana, primieramente nel bacino 
del Culpa e poi attraverso le Dinariche in quello del Quar- 
naro. 

Se non che il possesso dell'Alpe Giulia darebbeci ben 
altro schergio ancora la mercé dell' Istria, come abbiamo 
più sopra avvertito. Quanto essa valga a presidio della 
stessa linea dell'Isonzo, lo abbiamo da Napoleone. Ei la 
chiamava il complemento del Regno d' ItaUa ^, perocché, e lo 
scriveva al principe Eugenio, Palmanova non rende padroni 
■dell' Isonzo 7, ma si V Istria, come notava quest' ultimo al 
duca di Ragusa ^ 

Gli é perciò che nel 1805, dopo la battaglia d'Auster- 


212 Iiìi portanza dell'Alpe Giulia e dell' Istria 

litz, ordinava V imperatore non si ripassasse V Isorizo, la cu* 
sinistra sponda doveva ancora con Trieste rimanere all'Au- 
stria, finché l'Istria, ch'era da congiungere e fu congiunta 
al Regno d'Italia, non fosse occupata, e, occupatala, si te- 
nesse Monfalcone quale anello con essa 9. Egli è per que- 
sto ancora, che, sebbene V Alpe Giulia fosse tuttavia lasciata 
all'Austriaco, veniva ordinata negli intendimenti difensivi 
del Regno una strada militare attraverso l' italiano diparti- 
mento dell'Istria ^°, L'Istria in vero, battuta dal mare per 
quasi due terzi del suo ambito, è vasto campo asserragliata 
dalla natura, cingendola a levante 1' ultimo braccio della ca- 
tena delle Giulie, ch'é il Caldera, e a settentrione il Carso, 
ossia la Vena, che va rinterzando i suoi petrosi filoni dal 
Planic a Duino e per estesi tratti scoscende quasi a piombo- 
o sul mare, o in profondi affossamenti. Le vie di Fianona 
e del Monte Maggiore da un canto e quelle dall'altro di 
Pinguente-Obrou, di Divacia, di Trieste-Sessana e di Mon- 
falcone, che attraversano la elevata regione carsica, sono tutte 
egregiamente difendevoli, quale più innanzi nelle strette dei 
monti, e quale al ciglione stesso del pianoro. 

Le diramazioni poi della Vena da Socerga a Pirano e da 
Lesischine a Montona e sopra Pisino, nonché le alte sponde 
del Quieto, della Draga e dell'Arsa offrono buone linee 
di riserva. Un nostro corpo di esercito pertanto, postato- 
sugli ingressi dell' Istria con le valorose milizie della pro- 
vincia ", potrebbe sostenere ben a lungo gli attacchi di as- 
sai più schiere d' armati e, padrone delle posizioni, che so- 
vrastanno si ai varchi di Fiume, che agli sbocchi dell'adito 
centrale, cui giace proprio di fronte la penisola istriana,, 
. presterebbe opera efficacissima a contenere l' invasore. Inol- 
tre, vinte pure da questo le resistenze, ei dovrebbe o di 
molto affievolire le sue file, distaccando forze contro le no- 
stre della Vena per non lasciarle al fianco e alle spalle fran- 


per la difesa dell* Italia Oiienlale. ,213 

che all'offesa, o, procedendo raccolto, subire il rischio di 
A^edersi mutata la sconfitta all' Isonzo in disastro e ad ogni 
tnodo tagliate o per lo meno gravemente molestate le co- 
municazioni e provvigioni a tergo. E questo deve apparire 
ben chiaro a tutti, se oggi stesso, che non teniamo ancora 
l'Istria, qui si consente pur tanto all'idea di operarvi una 
«diversione, e fu ed é questa dall'Austria e dai pubblicisti 
•suoi cosi temuta. D'altra parte, se Inglesi ed Austriaci stu- 
diaronsi più volte di ferire noi, stabilitici nell' Istria, da que- 
sto lato, come ne rendono fede le spedizioni di Èpine e di 
Montechiari nel 1809 e di Lazzarich nel 181 3 ", la verità 
-da noi esposta trova anche «la conferma dei fatti. 

È dunque impossibile non riconoscere che le condizioni 
topografiche dell'Istria la rendono atta a prestare anche di 
per sé sola ofiicio validissimo a coprire il Regno, senza che 
i soldati nostri possano mai, nel renderlo su quei mirabili 
trinceramenti, correre pericolo alcuno di vedersi tagliati 
fuori con quella vasta piazza di guerra, ch'é il porto di 
Fola alle spalle, dov' essi avrebbero non solo scampo sicuro, 
ma ogni opportunità di essere tradotti, cosi richiedendo le 
sorti infelici della pugna al confine, sulle seconde Unee e 
in ogni caso su quella importantissima del Po propria tanto 
a ristabilire la fortuna delle nostre armi. E con ciò noi en- 
triamo ora a discorrere brevemente dell' importanza militare 
di questa provincia anche sotto i riguardi della difesa ma- 
rittima. 

« Al quadrilatero, in sul confine terrestre, sta esercito 
« degno di un grande Stato, e vi sta pronto alla battaglia. 

« Ma é confine eziandio la costa, e confine di molto più 
« periglioso, perocché il mare sia libero e le navi a va- 
« pore valgano ad assalirlo rapidamente su qualunque punto 
« meglio convenga. Abbiamo si fortificazioni marittime; ma 


214 Importanza dell'Alpe Giulia e dell* Istria 


ce esse son punti e non mura chinesi... E stanziassero pur 
« truppe sui nostri lidi, non potremmo considerarle che 
« quali posti perduti, incapaci d' impedire sbarchi vigoro— 
a samente condotti. » Cosi scriveva, or non é molto, u» 
arciduca aiistriaco fatto poi imperatore di lontano regno^ 
ben giustamente trepido di quanto dee volere l'Italia neB- 
r Adriatico. E ripeteremo anche noi, per nostro conto, che 
pur le coste sono frontiera e frontiera assai difficile a guar- 
dare, se forte naviglio non lo copra. 

Ora tutto il lido orientale d'Italia, da Aquileja a S. Ma- 
ria di Leuca, né ha, né può avere porto di guerra, bassa 
corti' èy piano e sabbioso, con rade malsicure ed ancoraggi pochi 
ed infidi, incerto, instabile, profondamente corroso e smarginato' 
da gran copia di fiumi, di canali e di stagni, nonché esposto cu 
venti levantini, che ne contrastano la navigazione, e colla cor- 
rente dal golfo, che di là volge e non è meno ad essa nemica. 
Gli studj del Menis e del Paleocapa sull'Adriatico, le pub- 
blicazioni politiche del contrammiraglio austriaco de Wùl- 
lerstorf *3j e le gravissime discussioni sòrte nel nostro Par- 
lamento intorno ai lavori del porto di Ancona possono* 
bastare appieno per chiunque più senta il bisogno di au- 
torità, cui conformare il proprio giudizio, a mettere in- 
tieramente fuori di questione quanto abbiamo affermato. La 
natura, e non l'arte schiude un gran porto, e dove non sia 
frastagliata la costa, ma uniforme e per cosi dire allineata,, 
ogni maggior dispendio torna vano a crearlo. Ancona po- 
trebbe si con denaro molto essere accomodata per la ma- 
rina militare a stazione navale di secondo ordine, ma nulla 
più, come per buona ventura (tale essendo per noi ogni 
abbandono dell'impossibile) fu già formalmente dagli inge- 
gni più competenti riconosciuto. D'altra parte, il nostro- 
porto di guerra nell'Adriatico dovrà pur essere ad un tempo 
il nostro arsenale marittimo del golfo stesso, dovendo una 


per la difesa dell'Italia Orientale. 215 

armata, che batta in guerra il mare aperto, avere facili le 
provvigioni e trovare vicino tutto, che meglio le abbisogni 
a prontamente rifarsi, se offesa da burrasche o da battaglie. 
Né si potrebbe le molte volte imprendere il giro della per 
nisola per ridursi agli arsenali dei lìdi d' occidente, ^ ad o- 
gni modo il ritardo porrebbe a estremo rischio le sorti del- 
l'intiero naviglio. 

Ma se a porto militare non è adatta Ancona, e non" lo 
è nemmeno Venezia, a cui approdano soltanto piccoli legni 
da guerra, né quella, né questa, né alcun altro luogo della 
costiera adriatica valgono ad accogliere un grande arsenale, 
che dee sorgere in sito si afforzato che sicure vi stiano da 
colpi di mano e dall' enorme iattura, che ne seguirebbe, le 
ingenti ricchezze, ch'esso custodisce. Venezia, quanto a 
forza di difesa, sarebbe a ciò opportuna; ma i suoi accessi, 
dove non pescano, come dicemmo, che i minori legni, la 
rendono molto inferiore a Fola. Cosi noi, senza porto e 
senza vero arsenale nell'Adriatico, avremmo sguernita di 
ogni difesa tutta quella frontiera marittima, e il nemico 
dall'opposta riva potrebbe a mezzo dei navigli a vapore 
aggredirci nei modi più repentini e micidiali, sbarcandoci 
su punti diversi o truppe o briganti, secondo meglio gli 
tornasse ai nostri danni. Non può esservi adunque chi non 
vegga che^ fermata l'Italia all'Isonzo, non solo non avremmo 
una frontiera terrestre, ma nemmeno la marittima, e il Re- 
gno, che al suo oriente ha i pericoli maggiori da rimuo- 
vere e il più nobile scopo, a cui mirare, porgendo la mano 
alla sorgente civiltà della Slavia del sud e alle belligere 
schiatte del Danubio, starebbesi proprio da quel lato svigo- 
rito ed inerme. L'Istria, adunque, dee compiere le difese 
italiane, non solo in terraferma, ma anche sul mare, essendo 
essa tutta un porto, come già ebbe a dirla il Nelson con 
espressione non al certo poetica, se lungo le sole sue 90 


2i6 Importania dell' Alpe . Giulia e dell'Istria 

miglia di costa vi si noverano pressoché 80 fra ancoraggi 
e porti per ogni maggior flotta, e se Pola tra questi ul- 
timi meritò il nome di Spezia dell'Adriatico. Ben vide 
questo Venezia, che stimò condizione essenziale al suo do- 
minio del mare il possederla, rinnovando cosi quanto prima 
ancora aveva fatto Roma. Là invero a fianco dei nuovi sta- 
bilimenti erettivi dall'Austria si ammirano, ancora i ricordi 
di due altre età, che attestano del pari la importanza per 
l'Italia di quell'avventuroso seno di mare. 

Esso domina all'estrema punta dell'Istria e il golfo di 
Venezia e il Quarnaro. « Pola, cosi il contrammiraglio Wùl- 
« lerstorf nel rammentato suo scritto, ha il più alto valore 
<' per la marina di guerra e per la difesa dei punti più im- 
« portanti della costa. Senza dire che ricetta il nuovo ar- 
« senale marittimo e le riserve dell'armata, copre essa an- 
« Cora ad un tempo e Venezia, e Trieste, e Fiume. Il na- 
« viglio nemico non varrebbe né ad assalire la prima, né 
a a minacciare le altre due, ove tal forza attiva di legni 
.<c fosse accolta in Pola, da poter con essa aggredire il ne- 
« mico alle spalle. » Ma tal forza l' Austriaco non possiede, 
e lo stesso riferito scrittore lo confessa, scongiurando la- 
vori, che solo in parte poterono consentire le finanze au- 
striache. Si per lo contrario quella marina, che non ha, né 
può avere l'Austria, avremo noi, e gli argomenti del nemico, 
con cui egli va esprimendo i desideri suoi di assoluta si- 
gnoria dell'Adriatico, si ritorcono contro di lui. Ove tenes- 
simo noi a Pola una squadra, pur non conseguendo cosi il 
dominio dell'Adriatico tutto, certo avremmo assicurato con- 
tro esterne aggressioni e sorprese tutto quel nostro lido. 
Quando Pola sia in nostro potere, se non è resa impossi- 
bile, certo diviene quasi innocua e a noi, e ad altri l'esi- 
stenza d' altra squadra nell' Adriatico, per quanto appoggiata 
alle fortezze di Lissa e di Cattaro. — In conseguenza Pola 


per la difesa' delV Italia Orientale, 217 


in mano all'Italia assicura un avvenire ^ di pace, ed é ciò 
quindi interesse, più che italiano, europeo. 

a Perduta Venezia (cosi altro ufficiale austriaco in note- 
vole opuscolo *^, vòlto a dimostrare la necessità del Veneto 
per l'Austria e per la Germania) imperioso bisogno di si- 
curezza trarrebbe V Italia nell' Istria. » E ben a ragione, sog- 
giungeremo noi, essendo certo, come ci siamo studiali di 
provarlo, che non si compie l' Italia a Venezia, ma nei porti 
<iell' Istria e sui varchi dell' Alpe Giulia. 

Prima di conchiudere questa breve memoria, cui di pro- 
posito volemmo restringere alle cose, che più interessa ram- 
mentare, non possiamo rimanerci di aggiungere, avere la 
storia d'ogni tempo posto in sodo la verità, che quanto è 
^Ito il valore per l'Italia dell'Alpe Giulia, tanto n'é facile 
la conquista per chi é vincitore nel Veneto. DifFatti l'inva- 
sore, rotto nel Friuli, deve immancabilmente sgombrare tutta 
-quella regione, per non vedersi sopravanzato sulle vie della 
Carinzia. 

É* vogliamo esprimere ancora un voto, che cioè i nostri 
uomini di Stato, i quaU non possono non vedere come la 
questione della Venezia racchiuda in sé V altra dei confini 
naturali e dell' Adriatico, non s' infingano più oltre a mettere 
innanzi un monco o almeno 'ambiguo programma, di com- 
pimento del Regno, quando non v' ha in Europa mente po- 
litica cosi ingenua, da credere dimenticato dal Governo ita- 
liano quello, che esso tace per prudenza, ma dee volere per 
logica ineluttabile dell'italiano risorgimento. 

NOTE. 

»"' 

^ Le Alpi che cingono V Italia, considerate militarmente cosi nell'antica come nella pre- 
sente loro condiiiotie. — Torino, Tip. Mussano, 1845. 

Slvidi topografici e statistici su V Italia , per Luigi e Carlo Mezzacìpo. — Milano, 
Vallardi, 1860. 


2i8 Importania dell'Alpe Giulia e dell'Istria, ecc. 

* V. Tbiers, Storia dflla Rivoluzione franeesty lib. LII, — e Vie politique et tnili- 
iaire de Napoléon racontèt par lui ménte. — Jomini, chap. III. 

' Vedi fra altro, intorno alle fortificazioni delle Alpi Gialle, le Mittheilungen tUs 
hisiorischen Vcrnns fùr Krain, an. IX, pag. 31, e an. X, pag. 13. 

* Rispetto alle opere di gaerra, che progettava l'Aastria sa questi confini, vedi 
Histoire poliiique et nUlittùre du prince Eugènb Napoléon, vice-roi d'Italie, par le general 
De Vaudroncourt, tom. I, pag. 127. — Paris, Mongie, 1828. 

^ V. Thibrs, Storia del Consolato e dell' Impero, lib. 3, 21, 28. 

* TaiERS, loc, cit., libro XXIII. 

' Marmont, Mémoires, lib. XIV, pag. 471. 

* Marmont, Mémoires, lett, 27 Settembre 1806. 

* V. la corrispondenza tra Berthibr e Marmont, loc, cit., Hb. IX, Schoabrunn 
38 e 31 Dicembre 1805; Linz 28 Gennaio; Monaco 5 e 26 Febbraio 1806. 

«> Thiers, loc cit.. lib. XXVIII. 

^^ Ne piace qui riferire il seguente brano delle Memorie del Marmont, lib. XIII, 
pag. 368-369: « Vi aveva già una eccellente gnardia nazionale per la difesa delle 
coste... Io mi occupai particolarmente di quella di Trieste e dell' Istria, e vi riuscii 
al di là d' ogni mia speranza. Straordinario era lo spirito di emulazione fra tutti que- 
sti abitanti. Essere ammessi alla guardia nazionale tenevasi in conto di speciale onore, 
e tutti i doviziosi si affollavano a conseguirlo. Essi si vestivano a proprie spese. 
Una colletta nelle compagnie forni pure il denaro per gli uniformi dei poveri. Tutti 
furono esercitati a trattare il fucile e il cannone. Armai le città di Capodistrìa, Pi- 
rano, Rovigno, Pola, ecc. ecc., e affidai loro le batterie, ch'essi usarono poi con in- 
telligenza e coraggio. Jamais je n' ai vu nulle part, cn aucun temps, une garde nationale 
si digne d'étre eomparée aux troupes de ligne. » 

la É ptir troppo cosa sciaguratamente frequentissima, che le menzogne, le quali 
riguardano paesi piccoli e non abbastanza illustrati da locali studi, trovino copiatori 
o ampliatori devotissimi. Cosi uomini gravi ci narreranno di sollevazioni in Istria con- 
tro il governo di Francia nel 1809 e nel 1813, comecché nulla di vero abbia il fan- 
tastico racconto per ciò che riguarda gli elementi indigeni in quei moti. Il fatto è 
«he nel 1809 ebbero anzi le guardie nazionali dell'Istria a respingere e sperdere i 
rivoltosi sbarcativi dall'Inghilterra, e che nel 181 3 associò bensì il Lazzarich a' suoi 
Croati circa duecento villici d' ohremonte^ come attestano gli stessi Austriaci relatori 
del fatto; ma essi non erano già Istriani. (V. Istria, anno I, pagina. 248.) 

'^ // Mare Adriatico descritto e illustralo con notizie topografiche, idro-geologiche, fisiche 
etnografiche e storiche, raccolte e ordinate dal doli. G. Menis. Zara, 1848. — Considera' 
\ioni sul protendimmUo delle spiaggie e sulV insabbiamento dei porli dell' Adriatico, di P. 
Paleocapa. Nei n. 2 e 3 del Bollettino dell'Istmo di Sue^. Torino, 1856. — U^r die 
Wichtigkùt des Adriaiischen Meeres fùr Oeslerreieh und dessen Vertehidigung, von B, voit 
Wùllerstorf. Wien, 1861. 

** Der Besil^^ Venetiens, Entgegnungen von Aresin, Capitano di Stato Maggiore. — 
Vienna, Gerold, s. a. 


APPELLO DEGLI ISTRIANI 
ALL' ITALIA. * 

(DaUi Atti del Comitato Triestino-Istriano — Firenze - Agosto 1866) 


o 


ggi che alla breve ragione delle armi segue lo studia 
delle condizioni più opportune ad assicurare la pace d'Eu- 
ropa, non v'é interesse italiano, il quale non abbia diritta 
dì farsi udire, non v' ha causa di qualsivoglia parte d' Italia, 
la quale non meriti di essere compresa appieno, perché gli 
uomini di Stato, in tanta maturanza di civiltà, abbiano a 
risolverla secondo il giudizio della pubblica opinione. 
. Noi Istriani, piccola famiglia della nazione italiana, du- 
rata fra mille sciagure sulle rive dell' Adria superiore e ai 
piedi dell'Alpe Giulia, noi pure facciamo appello alla co- 
scienza, alla saggezza dell'Italia; noi pure invochiamo a 
favor nostro e suo il sommo principio nazionale e la so« 
vranità del suffragio del popolo. 

Ma non si tratta già solo di noi. Là questione é ben più 
grave. Trattasi invero di una importantissima regione d'I- 
talia, della frontiera orientale del Regno, della più urgente 
necessità di coprirlo lungo tutto quel confine terrestre e 
marittimo, che va dalle acropoli alpine dell'Austria all' Ionio. 


* Vedi alla fine 1* ano, con coi il presente Appello fu rassegnato al Governo. 


220 Appello degli Istriani 


E cotesta importanza, che risulta dalla storia di tutti i 
secoli, e che eziandio nel presente fu argomento di attente 
disquisizioni tra i maggiori Stati di Europa, non potrebbe 
non essere approfondita dalla nazione italiana, ora ch'essa, 
costituitasi a libero e fortie corpo politico, é chiamata per 
la prima volta a propugnarla e a trarne il suo migliore van- 
taggio. 

D'altra parte l'Austria deve essere rimossa dalle palestre 
delle secolari sue prepotenze, dev'essere esclusa di Germa- 
nia e Italia e ripiegata sul suo oriente, perché riprenda, se 
vivrà, la sua mission-e di regno orientale espressa dallo stessso 
suo nome. Nessuna ragione pertanto, e per nessuno, a con- 
servarla guardiana delle Alpi e padrona dell'Adriatico. Anzi 
lasciarla ancora in posizione si minacciosa contro il cen- 
tro e l'occidente di Europa, sarebbe, ancor più che ingiu- 
stizia e imprevidenza, assurdo anacronismo. 

Ci ascoltino dunque i fratelli italiani; ci ascoltino i ge- 
nerosi, i giusti d'ogni civile nazione e quanti presiedono 
alla stupenda opera della trasformazione europea, combat- 
tendo le pretese- della forza col diritto dei popoli, il cui trionfo 
è gloria dell' età nostra e presagio di tempi ancor più splen- 
didi e compiuti. ' 

« 

Perchè l'Italia sia guarentigia di pace all'Europa, con- 
viene ricomporla a famiglia politica in tutta la sua unità 
tipica ^ Monca, e quindi scontenta e bramosa di altri e- 
venti, ella avrebbe in sé la ragione, la necessità di nuovi dis- 
sidi e conflitti. Ogni signoria cisalpina non italiana sarebbe 
offesa e pericolo a lei, e, peggio ancora, la schiavitù della 
sua politica, impedita nel più largo e più fruttuoso e più 


1 (Per le note, vedi in fine dell' articolo.) 


air Italia. 221 


nobile suo sviluppo, e nominatamente nella libera scelta 
delle alleanze, dal bisogno precipuo d'integrare lo Stato (*)» 

Ora, le Alpi, che formano l'intero confine della penisola 
italiana, girano a tergo dell'Istria non meno che nel Pie- 
monte, nella Lombardia e nella Venezia più propriamente 
detta. Anzi quel tratto, che inchiude nell'Italia queste Pro- 
vincie, dette fino da Roma la Venezia Superiore, pigliò bene 
a ragione il nome di Alpi Venete, mantenutosi assieme a 
quello di Giulie, ch'é non meno italiano e glorioso, attra- 
verso a tutti i tempi. 

Dal Tricorno, il gigante alpino, che si alza sopra le sca- 
turigini dell' Isonzo, corrono esse tra le regioni della Drava,. 
della Sava e della Culpa e quelle dell'Adriatico; fra con- 
trade, che mandano il tributo delle loro acque ai piani del 
Danubio, e quindi al Mar Nero, e le terre, che s'inchinano 
sullo stesso continente italiano, e i cui fiumi si confondona 
nello stesso mare con quelli della vallata padana. La natura 
adunque non fu incerta nemmeno sui termini orientali di 
Italia, elevando si notevole barriera a separare paesi, che in 
tutto il loro aspetto ricisamente si differenziano, si che an- 
che l'occhio profano scorge tosto, allo stesso colore del- 
l'aria, a^la temperatura, alla vegetazione, quanto va dis- 
giunto od unito per legge inalterabile ^, 

L'Isonzo 3, l'aulico confine d'Italia, impostole da Vienna^ 
è fiumicello, che rimarrebbesi pressoché ignorato, ove al- 
l'Austria, ch'é astuta nelle sue previsioni, non fosse caduto 
in mente di formare, poc' oltre alla sua sponda destra, una 
distinta amministrazione per la luogotenenza imperiale di 
Venezia. Allora pure che su quel fiume imperavano i conti 


(*) Il Combi fu veramente profeta : oggi, a venti anni di distanza,. 
\ noi tutti vediamo avverarsi quanto egli allora presagiva. 

Nota delti Editori, 


222 Appello degli Istriani 


di Gorizia e poi gli arciducali d'Austria di faccia alla ve- 
neta repubblica, non era già tutto il suo corso il confine 
dei due domini, ma altre acque ancor minori, e fossati, e 
segni da privati poderi più addentro nella pianura e nei 
monti del Friuli. Quelli adunque, che appresero in confuso 
ad arrestare la Venezia al suo oriente in sui margini di un 
rigagnolo, dovrebbero, per mostrarsi conseguenti alle loro 
reminiscenze storiche, cedere all'Austria anche la riva de- 
stra dell'Isonzo, già accordatale, per la fretta degli ordina- 
menti non definiti, nella prima formazione del napoleonico 
Regno d'Italia, quando pure, a fronte di ciò, si annetteva 
-al Regno stesso il dipartimento dell' Istria +. 

Cessino quindi alla fine tali nozioni di geografia d' Italia, 
le quali non abbiano altro fondamento che nelle insidiose 
mire delle cancellerie austriache. La geografia della nostra 
patria va per noi imparata dalla natura, che ce V ha fatta, e 
non da quanto vorrebbe l'Austria per serbarsi le sue lu- 
singhe di rivincita. E conoscere e volere casa nostra è il 
primo nostro dovere, né le civiU nazioni potrebbero non 
ammettere ch'esso è pure un diritto nostro. 

E quali popolazioni stanziano su questa estrema regione 
d'Italia? Si prendano ad esame le stesse statistiche austria- 
che, e si vedrà, conie, all' infuori di alcune rustiche tribù 
di Slavi sparseci sui monti dal turbine degli eventi, tutto 
sia qui italiano s. Prima ancora che Roma portasse sulle 
vette dell'Alpe Giulia le sue aquile vittoriose, un fiorente 
popolo italico, di cui v' hanno memorie non poche, abitava 
«queste contrade ^: popolo italico, della cui lingua si hanno 
ancora preziosi avanzi nel dialetto di alcune parti dell'Istria, 
« che, fuso da prima col popolo latino e poi col veneto, si 
mantenne cosi saldo nel suo genio nazionale, da durare in- 
corrotto tra i più gravi pericoli, e in sulla porta dei bar- 


air Italia. 223 


bari, e con razze straniere propriamente a ridosso, e nel- 

r obblio sciagurato degli stessi fratelli, in quel lungo periodo 

di schiavitù austriaca, che decorse dai trattati di Vienna 7. 

L'Istria, ch'é una parte distinta della regione italiana di 

oltre Isonzo, né va confusa coli' Istria amministrativa, a cui 

furono aggregate anche popolazioni transalpine, V Istria, nella 

sua unità naturale e storica e colla sua capitale Trieste, 

conta di popolazione italiana ben oltre i due terzi, si che 

per la stessa ragione del numero pretende a buon diritto 

di essere annoverata tra le famiglie etniche d' Italia ^. 

Ma che sono poi gli Slavi, che troviamo sugli ultimi lembi 
del nostro confine, come ne troviamo nel Friuli occiden- 
tale e troviamo Francesi nella valle d' Aosta e Albanesi nelle 
terre napoletane? 

Sono Slavi di venti e più stirpi, non già scesivi a mano 
armata, ma pacificamente importativi dai dominatori di que- 
ste Provincie per popolare le terre disertate dalle guerre e 
dalle pesti. Avvenne appena nell' ottocento il primo tras- 
porto di sififatta gente e poi mano mano fino al secolo 
XVII a più di cento riprese, le cui epoche sono segnate 
con esattezza dalla patria storiografia 9: opera infelice, a 
cui fu intesa particolarmente la repubblica di Venezia, che 
in luogo di permettere si facessero fitti gli Slavi nella slava 
Dalmazia, qui nell' Istria U traduceva, dove tutto era pronto 
a togliere loro la nativa fierezza e italianarli. Stranieri fra 
loro fino a non intendersi e stranieri agli Slavi d'oltralpe, 
essi sono foglie staccate dall'albero di loro nazione, e nes- 
suno per fermo avrà potenza di rinverdirle sul ramo, da cui 
furono scosse. Essi vissero e vivono senza storia, senza 
memorie, senza istituzioni, tutt' altro che lieti di loro ori- 
gine e desiderosi anzi di essere equiparati a noi (*\ Venera- 


(*) Pur troppo ciò non è più vero, dacché i mestatori di Zaga- 


224 Appello degli Istriani 


tori del leone di san Marco e memori di quel mite reggi- 
mento, imprecano all' Austria, che li ridusse all'indigenza, né 
mancherebbero per sicuro, tolta che fosse loro la paura del 
carnefice, di votare tutti e di grand' animo, non meno de- 
gli Italiani, l'unione al Regno d'Italia '^ 

Non sorge invece un villaggio, in cui si agiti un po' di vita 
civile, il quale non sia prettamente italiano. Il carattere nazio- 
nale é spiccatissimo in ogni sua esteriore manifestazione. Il 
vestito, gli usi, le tradizioni, le leggende, i canti, i proverbi 
sono italiani; italiana l'architettura dall'umile casolare al 
palazzo pretorio, alla cattedrale; italiano il pennello e lo 
scalpello, che decorano i tempj e i pubblici edifizi; italiane 
le istituzioni tutte di beneficenza, di istruzione, di chiesa; 
italiane non meno le fraglie del popolo che le accademie 
degli studiosi; italiano il pulpito e italiano il teatro; italiane 
infine le leggi, di cui si hanno luminosi documenti fino dal 
milleduecento in quegli statuti municipali foggiati alla ro- 
mana, che regolavano la vita civile di questi paesi, mentre 
in non poche illustri parti della rimanente Italia non vi 
aveva che signori feudatari e plebe inconscia di sé, del suo 
passato e del suo avvenire ". E bellissimi nomi vanta l'I- 
stria tra i migliori ingegni d' ItaHa. Chi non conosce il 
Vergerio e il Piaccio, tanto celebri nella storia della riforma, 
il Santorio, capo-scuola nelle scienze mediche, il Muzio, 
emulo del Davanzati, l'economista Carli, il Carpaccio e le 
sue tele, le musiche del Tartini, a non dire di cento altri, 
che di qui partirono ai seggi più onorati nelle università 
di Padova, di Pisa, di Bologna e di Roma? " 


bria e di Lubiana, fomentati o per lo meno aiutati dal Governo 
austriaco, che vorrebbe sradicare dall'Istria ogni traccia di italia- 
nità, impresero ad aizzare le rustiche plebi slave contro la popo- 
lazione civile italiana. (Nota delli Editori.) 


air Italia, 225 


La civiltà dunque è tutta nostra, nostro tutto, che costi- 
tuisce la vita di un popolo, il suo decoro, il suo diritto a 
corrispondenza di affezioni e di cure presso i fratelli, e ciò 
dai più lontani tempi fino a noi, dai tempi, in cui sorsero 
qui i grandi monumenti di Roma ^3, fino a questi giorni, 
nei quali, se la povertà fu retaggio di noi Istriani, non ci 
è venuto meno il sentimento per ogni italiana grandezza, 
come lo attestano le costanti nostre aspirazioni associate 
con fatti ad ogni opera patriottica, che sia stata prodotta 
per affermare l' Italia, e punite dallo straniero colle carceri, 
coi bandi, con ogni maniera di tirannie; aspirazioni, di cui 
certo non sono ultima prova gì' iterati scioglimenti delle 
nostre Diete e dei nostri Consigli municipali, con esempio 
superiore ad ogni altro nell'impero austriaco, anche solo 
in ragione di numero, e di confronto a provincie cento 
volte più popolose e alle stesse provincie italiane compagne 
nel servaggio : aspirazioni infine largamente tradotte nel più 
bell'atto nazionale di quella numerosa schiera di giovani no- 
stri, che accorse presta sotto le armi d'Italia, e che già ebbe 
a suggellare colla vita l' amore della patria comune '*. 

In che dunque saremmo da meno degli altri, per subire 
r indicibile sciagura di vederci sacrificati all' Austria, di por- 
tare ancora le catene del secolare nostro nemico, mentre 
ogni altra famiglia italica avrebbe trovato pietà o giustizia? 

Se poi ci facciamo a chiedere alla storia i titoli di que- 
sti paesi ad essere ricongiunti all' Italia, sorgono vanti per 
essi, di cui andrebbero liete non poche delle provincie so- 
relle, comecché più illustri per rumorosi avvenimenti e fatte 
maggiormente oggetto di attenzione all'universale. 

Con Roma essi furono sempre regioni d'Italia, e fuor di 
dubbio la più gelosa, come lo provano i monumenti mili- 
tari, di cui ammiriamo ancora i numerosi avanzi, e che 

15 


226 Appello degli Istriani 


lungo tutta questa frontiera aveva eretto il genio ronaano 
di contro alle nazioni d'oltralpe '5. E quando queste, fiac- 
cata la potenza dell' impero, irruppero di qui a depredare ed 
asservire l'Italia, furono le genti della Venezia marittima e 
dell'Istria, che meglio d'ogni altra ne salvarono il nome, 
costituendosi a reggimento di liberi comuni (i primi comuni 
italiani dell'evo medio) sotto la nominale signoria di Bi- 
sanzio ^^. Continuò poscia sempre generosa la lotta contro 
gli stranieri. Longobardi, Slavi, Avari, Unni, Saraceni, si 
che sappiamo sino d'allora affidato l'onore del veneto ves- 
sillo, o, come dicevasi in que' tempi, Vonore del beato Marco 
alle galee, alle armi alleate degl'Istriani. Né il feudalismo 
della campagna, imposto da Carlo Magno, franse i tradi- 
zionali propositi di questa provincia, che, sebbene italiana 
fosse la corona, a cui ne veniva ascritto il territorio rustico, 
i municipj preferirono Venezia e pugnarono, per lungo 
volgere d'anni, con tanta tenacità e concordia di voleri 
contro la signoria dei marchesi e contro il succedutovi pa- 
triarcato di Aquile) a, che fino dal millequattrocento si trovò 
anche l'Istria marchesale sotto il diretto dominio della re- 
pubblica ^7. 

Che se Trieste segui, per fatale necessità di tempi, altro 
destino, costretta a dedicarsi al protettorato degli arciduchi 
d'Austria quale libero comune, che continuò a governarsi 
da sé, e ad esercitare perfino i diritti internazionali, ciò nulla 
toglie all'indirizzo storico della parte principale di questa 
regione, ch'é l'Istria, e che restò sempre, senza interru- 
zione qualsiasi, legata alla fortuna della più italiana potenza 
d' Italia '8. 

I nipoti dei prodi, che militarono a Legnano e a Sal- 
vore ^9 (le più splendide battaglie della storia degl' Italiani) 
vanno pur essi superbi della più bella e più legittima no- 
biltà, né questa dovrebbe essere disconosciuta da alcuno dei 


air Italia. 227 


fratelli, i quali, a dire senz' ira il vero, non hanno tutti in- 
tieramente pure le memorie dei loro avi, per quella male- 
dizione delle guerre civili e degli invocati stranieri, di cui 
la piccola Istria non si macchiò mai, e senza la quale ver- 
gogna essa potè lunghi secoli brandire armi repubblicane 
per glorie italiane, mentre altrove in Italia si faceva corteg- 
gio a francesi, spagnuoli e tedeschi dominatori. 

Non v'ha fatto d'armi, in terra o in mare, segnato dalle 
venete storie, che non ci rechi illustri ricordi del valore di 
capitani istriani, e vivono ancora le famiglie loro, che, di- 
menticate forse sulle scogliere dell'Istria, non dimenticano 
esse gli obblighi di onore, che vengono da onorate me- 
morie. 

L'Istria cadde sotto il giogo dell'Austria soltanto allora 
che vi soggiacque Venezia e per lo stesso delitto del trat- 
tato di Campoformio. E se la riparazione del 1805, che fu 
comune, come voleva giustizia, alla Venezia e all'Istria, 
andò sperduta sotto le rovine dell'impero del primo Napo- 
leone, essa non deve, non può compiersi ora a metà, senza 
venir meno al sentimento, che non cessò mai di marcare d'in- 
famia queir atto, senza sconoscere l' essere stesso di Venezia, 
la quale non si dirà punto restituita integra all' Italia, quando 
rimanga spoglia delle sue marine e condannata a guardare 
ancora da serva al campo più bello delle sue glorie e del- 
l'esclusivo suo dominio. 

Già ci toccò vedere, ne' suoi arsenali, notati a lettere ale- 
manne i trofei delle cento sue battaglie; ma la stolta offesa 
veniva dalla mano del signore straniero. Ora voi, Regno 
d' Italia, fareste peggio, sottoscrivendo di vostro pugno un 
trattato, che lasciasse austriaci i suoi marinai, i suoi porti, il 
suo golfo, che abbandonasse ai Tegethoff il mare dei Dan- 
dolo e dei Pisani; voi. Regno d'Italia, di tanto più grande 
della repubblica di Venezia e tanto più responsabile dinanzi 
alla storia dell'onore d'Italia. 


228 Appello degli Istriani 


Ma non é già la sola preoccupazione del lustro nazio- 
nale, il solo senso di giustizia verso un popolo non meno 
italiano d' ogni altro cosi nel passato come nel presente, il 
solo concetto dell'integrità d'Italia, che domandi l'unione 
di queste provincie al Regno. Meglio ancóra di tutto ciò la 
vogliono le più urgenti ragioni della sua sicurezza. E que- 
sto é invero tal campo di politica discussione, su cui vor- 
ranno seguirci anche i più positivi, i più rigidi ragionatori. 
Anzi tanta é la nostra fiducia che siffatto ordine di consi- 
derazioni basti di per sé solo a rendere piena ragione al 
nostro assunto, che di nuli' altro facciamo richiesta agli 
uomini di Stato, che non sia lo studio dell' importanza stra- 
tegica della frontiera orientale d'Italia, lo studio della ne- 
cessità, in cui versiamo, di prendere le nostre posizioni sul- 
l'Adriatico per riparare la lunghissima costa della penisola, 
che corre dalle venete lagune a Santa Maria di Leuca. Pos- 
siamo noi ItaHani pretendere meno da Italiani? 

Dalla sella di Saifnitz sopra Tarvisio (la precipua fortezza, 
che Napoleone I proponevasi di edificare allo schermo d' I- 
talia) sino al promontorio di Fianona, eh' é l'ultimo termine 
italiano alle spalle dell' Istria, apronsi tre varchi nel grembo 
dell'Alpe Giulia, cioè quelli del Predil e di Ciana-Fiume ai 
due lati, e il centrale di Nauporto o di Adelsberga, ed è 
attraverso a quest'ultimo che fila la via maestra dell'Au- 
stria verso il mezzogiorno, è di quivi che sull'unica strada 
ferrata, la quale tragittisi oltre la intiera cinta delle Alpi 
nostre, si versa propriamente dal mezzo della monarchia, 
come avvenne pure da ultimo, il nerbo delle sue forze con- 
tro l'Italia. 

Ora la linea dell'Isonzo non copre alcuno di questi passi, 
e nettamente lo disse il gran capitano, che schiuse gli eventi 
dell'età nostra. Se l'Italia non vuole le più gelose chiavi 
del Regno nelle mani dell'Austria, se non la vuole inse- 


air Italia, 229 


diata sul nostro suolo al più esposto suo fianco, signora 
delle alture, che dominano V Isonzo, e della pianura del Fri- 
gido, ossia del Vipacco, eh' é una continuazione naturale di 
quella del Friuli, è mestieri che suU' Alpe Giulia, eh' é quanto 
a dire sul proprio confine geografico, pianti pure il proprio 
confine strategico, come suggeriva e pressava si facesse il 
maresciallo Marmont, già governatore di queste provincie. 
E a tale officio di difesa si presta mirabilmente l'Istria, po- 
sta com'è di fronte allo sbocco del varco principale, e di 
fianco cosi alla vallata del Frigido come all'altro passo di 
Ciana o di Lippa Campo naturalmente asserragliato dai 
monti della Vena e del Caldera, essa ci permette d'impie- 
gare un corpo del doppio minore del nemico per barrargli 
r ingresso nel Regno ; essa può realizzare il progetto di un 
quadrilatero itahano sugli ultimi nostri confini d' oriente in 
quella avventurosa posizione che, mentre comprende tutto 
eh' è nostro, é ad un tempo l' unica per tutta coprire l'Italia 
dal suo lato orientale Bene a ragione dunque il primo Na- 
poleone la segnalava siccome // complemento del regno italiano, 
dopo averla già fino dal 1797 chiamata provincia impor- 
tantissima della Venezia *°. 

E se così giudicava chi tanto sapeva e non era condotto 
a rilevare il bisogno d'Italia dal dovere che stringe noi, 
quale non sarebbe la colpa nostra a non pigliarne cura! La 
cagione non potrebb' esserne che l'inscienza. Ma quando ne 
va la salute della patria, l'inscienza é assai più che colpa. 
E i pubblicisti lo rammentino tutti, essi, che a buon diritto 
si attribuiscono non le ultime mansioni nella grande opera 
del fare l' Italia, ma che ad un tempo contraggono con ciò 
l'obbligo di fare innanzi tutto itaHani sé stessi negli accu- 
rati e coscienziosi studi di tutti gì' italiani interessi. 

Né basta la necessità del sistema difensivo terrestre, che 
l'altra della tutela delle nostre coste è di eguale e forse 


230 Appello degli Istriani 


maggior momento. « Noi (cosi gli Austrìaci in celebre scritto 
di uno de' loro ammiragli, ora imperatore di lontano paese) 
noi abbiamo bisogno di una flotta nell'Adriatico, la quale 
protegga i nostri lidi, se non vogliamo considerarli quali 
posti perduti, abbandonati a subire gli sbarchi del nemico; 
abbiamo bisogno di una flotta, la quale difenda quel lungo 
confine, essendo pur confine le coste, e confine di molto più 
periglioso, avvegnacché il mare sia libero e le navi a va- 
pore valgano ad assalirlo rapidamente su qualunque punto 
meglio convenga, né rispondano all' uopo del coprirlo i for- 
tilizi. Questi sono punti e non mura chinesi, e soltanto mura 
chinesi potrebbero dispensarci dal naviglio di guerra » ''. 

Ora chi non vede, essere questo il preciso ragionamento, 
che dovremmo fare noi? 

Da Aquileja a Lecce quale costa, quale confine marittimo 
non abbiamo noi a difendere ! Sarebbe dunque sommo di- 
fetto il non possedere una flotta nell'Adriatico e sommo 
errore il crederci regno solidamente costituito, senza che 
la nostra flotta superasse di forze l'austriaca. 

Di ciò vanno persuasi al certo anche i più sbadati, anche 
quelli perfino, che stimano degnazione loro l'occuparsi di 
si alto interesse italiano. 

Ma non tutti misurano le conseguenze della indisputabile 
necessità, non tutti pongono mente che noi non terremmo 
flotta nell'Adriatico, senza aver nostro sul mare stesso un 
vero porto, un vero arsenale di guerra, e che questo porto 
e questo arsenale assieme non possiamo lusingarci di con- 
seguirlo né da Venezia, né da Ancona, né da Brindisi, 
che sono pure il meglio, che si abbia a ciò su quel lido: 
lido basso, piano e sabbioso, senati sviluppo d'insenature, con 
rade mal sicure ed ancoraggi pochi ed infidi, incerto, instabile, 
profondamente corroso e smarginato da gran copia di fiumi, di 
canali e di stagni, nonché esposto ai venti levantini, che ne con- 
trastano la navigazione 


22 


air Italia. 231 


Venezia è per sicuro opportunissimo deposito di stro- 
menti da guerra, ma non già porto militare, specialmente 
dopo i grandiosi progressi recati nell'arte delle costruzioni 
e degli armamenti navali, essendone molto difficili gli ac- 
cessi pei banchi di sabbia, che ne avvicinano le ristrette im- 
boccature, pel lido bassissimo, per la poca profondità del- 
l' acqua, pei venti contrari, che vi dominano, per la corrente 
del golfo, che di là volge: impedimenti tutti assai gravi al 
rapido movimento delle squadre cosi nelle operazioni di at- 
tacco in suir uscita, come in quelle di difesa sul prendere 
rifugio. Egli è però che Venezia tenne sempre l'allestito 
naviglio nei porti dell'Istria. 

E rispetto ai porti di Ancona e Brindisi, non fu ormai 
posto in evidenza che, per quanto denaro vi si profondesse, 
non ne otterremmo che stazioni navali di secondo ordine? 
Non sono poi essi, e particolarmente quello di Brindisi da 
serbarsi ai commerci più vitali della penisola? Ed anche 
senza ciò, dove mai vi sarebbe modo, come pur dovrebbesi, 
di formarne fortezze primarie per custodirvi le ricchezze di 
quell'arsenale, senza di cui il porto stesso é pressoché 
nullo ? »3 

Ma è bensì Fola, che ci dà pienamente quanto ci occorre, 
Fola, eh' è testa di ponte di Ancona, come già lo fu di Ra- 
venna e Venezia; Fola, che ben può dirsi la Spezia dell'A- 
driatico, e con posizione strategica ancor più felice, apren- 
dosi il vasto e sicuro e ben difendibile suo porto propria- 
mente sulla punta estrema di quel campo naturale dell' Istria, 
che sta si dappresso ai varchi dell'Alpe Giulia e s'intra- 
mette, come a dividerne il mare, non meno delle terre e 
delle nazioni, che là s'incontrano, fra il golfo di Venezia e 
il Quarnaro, che Italia chiude ^^. 

Occupando quel porto, fossimo pur battuti al confine, noi 
saremmo in grado di rifare le nostre sorti. Fadroni dell' A- 


232 Appello degli Istriani 


dria invero, noi di là ricondurremmo al campo e sui fianchi 
del nemico le nuove schiere, le munizioni e provvigioni no- 
stre e varremmo a tagliargli le vie dei rinforzi, a staccarlo 
dalle basi di Carniola e Croazia. E tutto ciò senza rischio, 
perocché negli ultimi casi è sempre da Pola che riporte- 
remmo in seconda linea, dietro il Po e sull'Appennino, le 
nostre divisioni dell'Istria. 

Questo diciamo non già noi soli. Uomini competenti Io 
hanno veduto e sostenuto, e fu grande sciagura che ad al- 
tri cimenti sia stato chiamato quel prode, che la spedizione 
dell'Istria diceva il suo ideale e l'opera più acconcia ad 
assicurare il trionfo delle armi nostre in uno all'integrità 
d' Italia. 

Di fronte a tale complesso di ragioni, le quali spingono 
al riscatto di queste provincie, che importano i riguardi di 
Germania, e la bugiarda convenienza di tenere avvinta ad 
essa o ad Austria la città di Trieste ? La utilità presunta dei 
Tedeschi dovrebbe prevalere alla ragione, nazionale degli Ita- 
liani, alle necessità della difesa del Regno? 

Ma dimenticando pure tutto ciò, l' Istria non fu mai della 
Confederazione germanica, e sarebbe pur tempo che si ele- 
mentare e si incontrastata notizia, volgarissima tra gli stessi 
Alemanni, non fosse più mestieri di ripetere tra noi ^s. 

Né Trieste medesima, che l'Austria pretendeva legata a 
Francoforte, vi appartenne di diritto, avendovela ascritta una 
semplice dichiarazione dell'imperatore d'Austria l'anno 1818, 
atto unilaterale, all' infuori d'ogni consenso degli altri Stati 
intervenuti al Congresso di Vienna, e però senza efficacia "^. 

Ora poi ch'é veramente morta quella informe istituzione 
politica, a che parlarne? 

Meno ingiusto potrebbe sembrare a taluno quanto viene 
affermato intorno ai rapporti germanici del commercio di 


air Italia, 233 


Trieste. Lo erroneo asserto, messo innanzi nel Parlamento 
italiano da illustre generale e ministro, s'ebbe già contro 
le proteste de' Triestini, e le proteste furono lasciate sussi- 
stere in tutto il loro valore della stessa Dieta di quella città, 
quando, ammonita dal Governo a disdirle, coraggiosa vi si 
rifiutava, e però veniva sciolta. E noi pensiamo innanzi 
tutto che saranno bene i Triestini i giudici» più competenti 
dei loro interessi. 

Che se vogliamo toccare anche in sé la questione, ci 
torna facile, comecché astretti a molta brevità dalla natura 
di questo scritto, di togliere ogni dubbiezza. 

Ormai il gran fatto, su cui é vano chiudere gli occhi, sta 
in ciò che la Germania commerciale va tutta a settentrione. 
Ivi i suoi porti naturali di Amburgo, Brema e Lubecca; ivi 
le relazioni colla Francia, coli' Inghilterra, col Belgio, col- 
r Olanda, colla Scandinavia, colla Russia e coi paesi trans- 
atlantici, dove ha diretti rapporti quasi unicamente per 
mezzo di quegli empori; ivi una triplice linea di strade fer- 
rate, che fanno pendere i suoi mercantili interessi verso il 
Baltico e particolarmente verso il mare del Nord, a tutta 
ragione detto germanico; ivi la defluenza delle principali vie 
fluviatili della patria alemanna; ivi gli aiuti di fianco, che 
già vanno e andranno meglio in appresso, degli stessi porti 
di Marsiglia e Genova; ivi lo sfogo della corrente centrale 
dei commerci italiani, appena siano aperte alla locomotiva 
le Alpi della Svizzera e del Tirolo sull'antica strada vene- 
ziana di Norimberga; ivi infine la Prussia, che terrà l'ege- 
monia politica ed economica della nazione germanica. 

Quale necessaria connessione invece del porto triestino 
con quei paesi, se perfino a Lubiana, a brevissimo tratto 
dall'Adriatico, giungono da Amburgo i coloniali; se i ma- 
nifattori di Boemia e Moravia reclamano quella città come 
il loro principale stabilimento; se gli stessi centralisti di 


234 Appello degli Istriani 


Vienna, instando per la soppressione del portofranco di 
Trieste, fanno palese il loro interesse di piegare a un solo 
versante commerciale anche la Germania austriaca; se in- 
fine non é già la Germania a tergo di Trieste, ma si la 
Slavia colla sua Carniola e con parte di Carinzia e di Stiria? 

E dopo ciò sarà necessario a Trieste di rimanersi con- 
giunta a uno Stato, che ha si poco interesse economico di 
tenerla e si poca voglia e forza di giovarla? 

Questa vieta teoria, a cui rispose qualche fatto allora sol- 
tanto che l'Italia era divisa e serva ed accettava la sovra- 
nità di Vienna anche nelle tariffe, non si accorda più alle 
condizioni del presente, e meno potrebbe accordarsi a quelle 
dell'avvenire. Ragionare in adesso sui rapporti commerciali 
del passato sarebbe assurdo. Adesso abbiamo il regno d'I- 
talia sulla faccia di Trieste; abbiamo un grande Stato con 
ricco sviluppo di marine e ricchissime risorse d'ogni maniera, 
il cui vasto corpo si protende nel mezzo del Mediterraneo, 
quasi approdo gettato dalla natura ai commerci di Levante. 
Questa é la novità importante, che deve entrare nei calcoli, 
quando si voglia rettamente giudicare dell' avvenire dei com- 
merci triestini, i quali, volti per oltre le tre quarte parti al 
Levante e all'Italia, ben potrebbero essere avviati nelle al- 
tre piazze itahane. E cosi, come avrebbe Trieste a lusin- 
garsi di vincere la prova sul regno d'Italia, quando fosse 
un porto austriaco da combattere, anziché un porto italiano 
sulla naturale via marittima dell'Adriatico da favorire? Non 
rimarrebbesi invece sconfitta dalle tariffe, dalle ferrovie, dai 
capitali, dalla concorrenza d'Italia per ogni dove, essa ab- 
bandonata alla discrezione e ai casi di una monarchia, a 
cui non é serbata per lunghi anni che una continua vi- 
cenda di crisi economiche e monetarie? — Ritornata in- 
vece all' Italia, Trieste è l' anello di congiunzione tra i pro- 
duttori italiani e g' industrianti austriaci, tra il Mediterraneo 


all'Italia. 235 


e il Danubio dell'Ungheria, che altrimenti si farebbe tribu- 
tario pressoché unicamente del Mar Nero ^7. 

Sono queste le più indispensabili linee, su cui si disegna 
l'avvenire commerciale di Trieste, ma esse basteranno, lo 
speriamo, a rimuovere giudizi, che più non hanno iscusa, 
perocché le verità per sé evidenti divengono assai facil- 
mente convinzioni comuni. 

Per r Istria poi é questione suprema di vita o di morte. 
Ed invero ben presentiamo noi che l'Austria sarebbe tutta 
nel già tentato divisamento di spegnere la nostra italianità 
per toglierci dal cuore degli Italiani e sopprimere cosi l'in- 
centivo delle affezioni patriottiche alla lóro politica. Quindi 
e scuole e tribunali fatti tedeschi o slavi, e una burocra- 
zia straniera investita di pieni poteri a infliggerci ogni guisa 
di tormenti (*). 

E di tal modo, se la Sia via, la quale é sveglia anch'essa 
e balda di giovanili spiriti va incontro all' avvenire, farà tutto 
suo nell'Adriatico, che potrà o vorrà allora l' Italia? Sostare 
é prudenza, se ciò, che non tocchiamo in presente, non 
ci può mai sfuggite in appresso, ma non cosi, quando urge 
il pericolo di non conseguirlo mai più. 

Né meno dei morali seguirebbe sempre più rapida la ro- 
vina dei materiali interessi, che la massima parte dei no- 
stri prodotti si smercia da noi nel Veneto, e questo ci di- 
verrebbe niente meno che provincia estera. Estero per noi 
il campo quasi esclusivo dei nostri trafiici giornalieri I Estero 
la Venezia all'Istria, dopo duemila anni di vita indivisa, e 
quando l'Austria medesima, visto ch'essa nemmeno econo- 
micamente potevale appartenere, fu costretta, con esempio 
unico, a porla fuori delle sue cinte doganali! 


(*) Anche qui il Combi fu profeta. (Nota delli Editori.) 


236 Appello degli Istriani 


Unita al regno, invece, diverrebbe l'Istria, eh' è tutta un 
porto secondo il giudizio di Nelson ^\ il principale suo sta- 
bilimento marittimo; e noi saremmo condotti finalmente a 
cogliere prospere sorti sul mare, a riprendere il naturale 
nostro officio di traghettieri de' commerci tra il Levante e 
il centro di Europa. Né sono queste esagerate speranze, che 
il Governo italiano porrebbe senza dubbio cura solerte a 
rialzare una si importante provincia di confine," d' onde é il 
mezzo migliore di porgere la mano alle nazioni della Slavia 
e dell'Ungheria, nella tradizionale missione del genio ita- 
liano di spandere sulle terre orientali il lume della civiltà 
dell' occidente. 

Bene avveduti pertanto e diremo anche giusti ci debbono 
apparire quei pubblicisti austriaci, i quali fino a ieri ci ri- 
petevano che, tolta all'Austria la Venezia, doveva andarle 
perduta anche l'Istria: sentenza da scrittori, a cui si uni-- 
formò a cappello la sentenza dei marescialli dell'esercito 
austriaco del Sud in quelle leggi marziali, che compresero 
sotto gli stessi rigori, quasi ad insegnarcelo, precisamente 
ciò, che va rivendicato all'Italia. E gl'interessi nostri, che 
il nemico sa, noi ignoreremmo? 

Difatti l'Italia troverebbe qui, oltre alle già discorse di- 
fese della sua frontiera, spertissimi marinai, ricchi boschi per 
le costruzioni navali, carbon fossile '9. E vedemmo quindi 
l'Istria anche per questo formar parte del primo regno di 
Italia, allora pure che Gorizia e Trieste n'erano escluse, e 
una strada militare esservi stipulata nei trattati interaazio- 
naU e condottavi con molto interessamento da quel Go- 
verno 30. E quando si formarono sotto il diretto dominio 
di Francia le provvisorie provincie illiriche, mostruoso amal- 
gama di genti e di cose disformi, lo stesso Governo ita- 
Uano appoggiava insistentemente i voti e le proteste del- 
l'Istria a non essergli sottratta e otteneva per allora gli fos- 


all'Italia. 237 


sero mantenute almeno le leve dei marinai e le amministra- 
zioni delle saline e dei boschi 3». 

L'Istria inoltre non è già tutta la costa austriaca, ma 
anzi la parte minore, rimanendo senza lei all' Impero il lun- 
ghissimo litorale della Croazia civile e militare e della Dal- 
mazia cogli stupendi porti di Lussino, Fortore, Lissa a 
Cattar o. 

Sì tratta dunque di dividere la signoria dell' Adriatico, 
perché tutto non resti all'Austria e nulla affatto si accordi 
all' Italia ; né ciò dovrebbe parere esorbitante ad alcuno 3». 
Che mai dunque consiglia a ristarsi dal chiedere, se non 
tutta la frontiera dell'Alpe Giulia, almeno l'Istria? Sarebbe 
forse miglior partito vivere sulle armi o, peggio, comprarsi 
la sicurtà mercé di una politica di abdicazioni indecorose 
e di timidi abbandoni? 

L'Austria insiste a voler sue le posizioni più offensive di 
contro l'Italia, e l'Italia invece altro non domanda che le 
naturali sue difese. Chi potrebbe negare adunque che consi- 
derazioni di gran valore, agli occhi della stessa diplomazia, 
parlano per noi, se assurdo é apporle ch'essa brami ali- 
mentare le lusinghe dell'Austria di rifarsi sull'Italia e metta 
suoi gusti a prepararsi lo spettacolo d' altri conflitti e com- 
movimenti europei? 33 

E noi siamo forti, se volenti: abbiamo esercito e flotta, 
il cui valore fu provato, e se ci mancò la fortuna, non su- 
bimmo per nulla alcuno di que' disastri, che costringono a 
ritrarsi dal cimento e permettono di piegare il capo al de- 
stino senza arrossire. Non ci fermeremmo anzi alle spalle 
di un nemico, che, prostrato altrove, leva di qui le tende 
per rivalicare le Alpi? Dove dunque la ragione dell'atteg- 
giarsi a vinti e spandere ignobili lamenti e più ignobili 
consigli di rassegnazione? 


258 Appello degli Istriani 


Più delle sconfitte in ogni modo nuoce le molte volte 
alle sorti di un popolo la esiguità degli spiriti. Il nostro gio- 
vine regno, che tanto ebbe d'uopo del soccorso straniero, 
non può aspirare a potenza, senza glorie assolutamente pro- 
prie. La virtù delle armi, che pure abbiamo pronta a mo- 
strarsi anche negli effetti, è condizione indispensabile a ce- 
mentare r unità della nazione, avvegnacché altrimenti il più 
legittimo orgoglio resti insoddisfatto, e i partiti addoppiino 
passioni e pericoli allo Stato, e il Governo si faccia molle 
nella umiliata sua coscienza e nello spregio, che lo incoglie 
in casa e fuori. 

Noi questo diciamo non per egoismo d'interessi, che a 
tai sensi ne conformi l'animo. No; e lo protestiamo sul no- 
stro onore, non è la carità della terra nativa, pur tanto 
giustificabile e giustificata, che ci detti queste parole. Seb- 
bene schiavi ancora dell'Austria, noi ci vantiamo già, come 
scrivemmo altra volta, concittadini nell'animo dei liberi fra- 
telli - e compartecipi nel comun vincolo nazionale d' ogni 
italiana grandezza. Allo splendore dei nuovi destini d'Italia, 
noi dimenticheremmo le domestiche nostre sciagure, assai più 
lieti della maturità di consiglio, che li avesse assicurati, che 
dei nostri ceppi impazienti. Noi ci sentiamo la virtù di sot- 
toscrivere di gran cuore a qualunque nostra condanna di 
schiavitù, se questo richieda il bene dell'intiera nazione. Ma 
ciò non è. È invece l'interesse appunto della nazione tutta, 
che domanda sia rivendicato al Regno il baluardo dell'Alpe 
Giulia, e non sia esclusa l'Italia dall'Adriatico, né si chiuda 
cosi poveramente la guerra della italiana indipendenza, 
mentre, volendo davvero, volendo ispirarci al genio inizia- 
tore del padre immortale del nostro risorgimento, avremmo 
ancora con noi, se vigorosi aiutatori, i nuovi nostri alleati, 
né certo, per necessità più forti d'ogni gelosia, trasformati 
in Austriaci gli alleati antichi, e assicurato poi in ogni caso 


air Italia* 239 


. y 


il voto del generoso popolo italiano e lo slancio dei prodi 
nostri soldati e il plauso delle civili nazioni. 

Né se in noi parla assieme alla ragione l'affetto, ci 
crediamo men giusti argomentatori di chi impone silenzio 
al cuore, e a questo prezzo, ma non senza offendere in uno 
la logica dell'onore nazionale, si dà pregio di riposato in- 
gegno e di saggezza. Ma tra la cieca passione, che esige 
r impossibile, purché ne venga arma di partito, e la singo- 
lare saggezza di chi pregusta, come pure lo udimmo in 
questi giorni, la buona amistà d'Italia coli' Austria signora 
di Provincie e di frontiere italiane, e i cordiali nostri rap- 
porti coi fucilatori dei naufraghi di Lissa ancor padroni del 
già sempre nostro Adriatico, vi e una saggezza ben diversa, 
la saggezza di chi si rispetta e rispetta meglio la nazione, 
confortandola a non mostrarsi al di sotto del suo nome 
e della sua fortuna, a non abdicare a' suoi più gravi inte- 
ressi, solo perché men facile dell'addormirsi nell'ingloriosa 
quiete ne sia il conseguimento. 

La nazione italiana nella voce de' suoi municipj , delle 
popolari adunanze e della stampa, e il suo Governo negli 
alti consigli della Corona, confidiamo saranno saggi di tale 
saggezza, ed ecco la ragione, per cui proferiamo ancora la 
povera nostra parola in difesa di una causa, ch'é causa 
anch'essa, e non ultima, d'Italia. 

Dall'Istria, il 27 luglio 1866. 


NOTE. 

^ Che l'Italia indipendente nella saa integrità sia pegno di pace all' Europa, lo 
disse anche Napoleone I {Mèm. de Saint Hèlène, Paris, 1823). 

' Tutto questo è perfettamente conforme a quanto alTermarono ed affermano in- 
numerevoli geografi. Vedi, ad esempio, quanto all' epoca romana, Plinio, Tolomeo, 
Dionigi Afro. Sulle Alpi Giulie, quas Venetas appellabat aniiquitas (A. Marceli., libro 
XXXI, cap. XVI), sorgevano are per segnare i confini naturali d'Italia, secondo 
quello che narrano Agostino, Teodoreto e Ruffino. Paolo Diacono {Rer. it, script.. 


240 Appello degli Islriani 


t. I, D« Fast. Long.") scriveva Venetiae et Hislriae prò una provincia habentur^ e più ol- 
tre (lib. II); Terminus Vtnetiaea Pannonìae finihus usqut ad Adduam fiuvium. Dove 
resta dunque la capricciosa opinione di coloro, che vorrebbero oggi l' italianità del- 
l' Istria una importazione della veneta repubblica in sul principio dell'evo moderno? 
Dove 1* altro capitale errore che l' Istria appartenesse all' antico Illirio, quando essa 
non ne apprese per si l'odiato nome che in questo secolo? (Carli, Anitehitd Italiche 

— Istria fuori dell' Illirio^ pag. 194-206 del t. I; Milano, S. Ambrogio, 1788-1791.) 
E dopo Dante, i cui versi ognuno rammenta, il Biondo trattava dell'Istria Del- 
l' undecima regio Italiae, E il veneziano Coppo (Del sito dell' Istria^ Venezia, Biondoni 
e Pasini, i $40) : Due gran montagne, aderenti alle Alpi^ separano P Italia dalla barbara 
nazione j una chiamata Monte Caldiero^ l'altra, sopra il Camer {^Quamaro\ ehiamaià 
Monte Maggiore: confine questo, che dà pure l'Alberti nella sua descrittiòne di tutta la 
Italia et itole ad essa appartenenti (Venezia, Bonelli, 1553, P^S* 443~44^)* ^^ diversa- 
mente il Giambullari, nella cui Istoria dell'Europa leggiamo : V Istria ultima provincia 
d'Italia dalla banda dove il sol nasce; e prima di lui il Sanuto {Itinerario; Padova, 

1483, pag. 146) : L'Istria tJtima regione d'Italia, fine et termine. Il Guicciardini poi, 
nella descrizione d' Italia, che verrà stampata in un prossimo volume delle sue Opera 
inedite, fa menzione di Fola ultima cittd e di Albona e Terranova, ultimi luoghi d'Italia 
e dice l' Istria inclusa tra il mare Adriatico e le Alpi, che dividono Italia da Alemagna, come 
vediamo riferito nel lavoro di Giuseppe Canestrini / confini fra l'Italia e la Germania 
inserito nella Nuova Antologia luglio 1866. 

£ colla stessa chiarezza e certezza discorrono altresì i geografi stranieri d' ogni 
tempo. Per essere brevi, ci .limitiamo a riferire il Cluverio e Luca da Linda tra i 
vecchi, e 1' autorevolissimo Malte-Brunn tra i nuovL Dalla Géogr. Univ. lib. CVI, di 
qnest' ultimo ci piace riprodurre il seguente brano : Considerée dans ses limites natu~ 
relles, la partie septentrionale de celie contrée (J' Italie) comprend tout le versant des Alpes 
depuis la branche appelée Alpes Cotiennes jusqu' d celle, que l'on appelle Alpes Juliennes. 

— A peine arrivis sur le versant meridional des Alpes, nous voyons changée tout-à-eoup la 
végéiation, les hommes et les usaget. Il semble qu' un climat favorable au laurier, au myrt 
et d l' Olivier porte l* homme d l' amour de la gioire et aux bienfaits de la civilisation. 

Citiamo finalmente, dei nostri geografi e statisti più recenti, il Balbi {Scritti geO' 
grafici e statistici — Dell' Italia e d^ suoi naturali confini, voi. V, pag. 87-101), il Mar- 
mocchi {Descrittiòne d'Italia, p. III, lib. V. cap. 2), i fratelli Mezzacapo {Stu^ topogra- 
fici e strategici sull'Italia, P. I. cap. I, § 8), lo Stato Maggiore Piemontese {L4 Alpi 
che cingono V Italia, al capitolo Altipiano Giulio), il Bonfiglio {Italia e Confederazione^ 
germanica, app. I. — I termini d'Italia), l'Amati {Confini e denominaT^ioni della regione 
orientale dell'Alta Italia; Milano, Bernar.doni, 1866}. 

Che più, se la famosa espressione di Napoleone III: dall'Alpi all' Adriatico ha il 
pieno suo commento nelle parole di Napoleone I dettate a Gourgaudet e Montholon, 
e che sono le seguenti : La divisione naturale dei monti passa tra Lubiana e F Ison:{p e 
tocca l' Adriatico a Fiume {Mémoires de 'Hjapolion, voi. II.) 

B Anzi nemmeno l'Isonzo, ad essere esatti, perchè la linea di confine tra il Veneto 
e il Goriziano è ancor più a destra di questo piccolo «corso d' acqua. Ricuperando 
la sola Venezia amministrativa, rimarrebbero all' Austria niente meno che Plezzo, Ca* 
poretto, Starasella, e i distretti di Cormonsio, Gradisca e Cervignano con Aquileja e 
Grado ! 


air Italia. 241 


^ Queste dovrebbero essere notizie volgari. Nondimeno citiamo il trattato di 
Campoformio 17 Ottobre 1797 {Neumann, tota. I. pag. $76, e MarUns, tom. VI, pag. 
423), confermato, rispetto a queste provincie, dal trattato di Luneville 9 febbraio 18 io 
{Neum., tom. II» pag. i, e Mari., tom. VII^ pag. 286), perchè in relazione ai sQcces- 
sivi trattati di Presbargo 26 dicemb/e 1805 e di Fontainebleaa io ottobre 1807 
(^Neum,, tom. II. pag. 18;, I98, e Mart. tom. VIII^ pag. 388) si vegga come l'Au- 
stria possedesse dominj anche sulla destra sponda dell'Isonzo prima del 1797, e ne 
tenesse alcuni anche dopo Fontainebleau, quantunque l'Istria allora, e fino dal 1801, 
fosse stata già ritolta al breve sno dominio e unita colla sua Venezia al Regno di 
Italia. Vedi il decreto di aggregazione 30 Marzo 1806^ n. 34, art. Ili {Bollettino delle 
leggi del regno d'Italia, P. I del 1806, pag. 250), e poi quello di organamento 29 
Aprile 1806, n. $$ (I. e, pag. 388) e l'altro della divisione definitiva dei dipartimenti 
22 decembre 1807, n. 2^3 (I. e, P. Ili del 1807, n. 253 (I. e, P. Ili del 1807, pa- 
gina 1 401).. L'Istria, come all'art. VI, fu divisa nei due distretti di Capodistria e di 
Rovigno, e in setti cantoni, che furono Capodistria, Pirano, Pingnente, Parenzo, Ro- 
vigno, Dignano e Albona. 

Dai riferiti atti risulta poi ancora che, fermato pure il regno d'Italia all'Isonzo, 
non ne rimaneva già esclusa l' Istria. Anche nella peggiore ipotesi adunque confine 
dell* Isonzo non volle mai dire esclusione dell' Istria dall'Italia. Lo stesso Napoleone or- 
dinava una strada militare, che congiungesse, attraverso i possedimenti austriaci di 
Trieste e Gorizia, il dipartimento italiano dell' Istria al maggior corpo del regno, 
quando questo aveva per termine la linea dell'Isonzo (Thiers, Cons. e Imp. libro 
XXVIII) e giudicava an^i necessaria la provincia istriana alla difesa di tal linea {Lettera 
del viceré Eugenio al duca di Ragusa, in data dei 27 Settembre 1806). 

Trieste e Gorizia infine furono staccate dall'impero austriaco col trattato di Vienna 
14 Ottobre 1809 {Neum.^ tom. II, pag. 309, e Mart,, tom. I, pag. 217) assieme a 
parti di Carinzia, di Carniola e di Croazia, colle quali si formarono poscia quelle 
Provincie illiriche, che recarono per la prima volta cotal nome straniero al di qua 
dell'Alpe. Esse per altro, quale governo francese interposto a Italia ed Austria, non 
era una vera separazione dal regno italiano (Thiers, Cons. e Imp., lib. XXVIII), ma 
ordinamento inteso a completare il possesso del Friuli (Note de Napoléon sur les provinces 
illyriennes. Mémoires du marèchal Marmont,yo\. II, lib. IX): ordinamento provvisorio, 
che non doveva togliere all' Italia, nell' ultima sua rifusione, quanto era ed egli stesso 
avea giudicato suo per diritto e per necessità di esistenza (Thiers, I. e). 

^ Attesti ciò ogni pagina dei sette volumi deW Istria vasta e preziosa collezione 
di scritti riguardanti quella provincia eseguita per opera dell* i r. consigliere di luogo- 
tenenza, Pietro D. Kandler. 

* Rimandiamo il lettore al capitolo Istria abitata dagli Etruschi e Pelasgi, e a quelli, 
che seguono nel tom. I delle Antichità italiche di Gian-Rinaldo Carli (Milano, Santo 
Ambrogio, 1 788-1 791). 

'' Bellissimo attestato ci rilasciò lo stesso nemico nell'opuscolo Trieste e U suo av- 
venire (Trieste, 1861), che si sa scritto dal consigliere iaulico signor Pascotini, già 
ff. di luogotenente del Litorale. 

x6 


242 Appello degli Istriani 


^ In conferiuA sta la medesima Etnografia dell' Austria del barone Carlo Ozòrnig, 
direttore della statistica dell' Impero. 

* Vedi Fasti istriani nel voi. V della citata collezione Istria. Il prezioso doca- 
mento poi, relativo alla prima introduzione di Slavi in Istria, è un placito di Carlo 
Magno, tenuto nella valle del Risano l' anno 804 da' suoi missi dominici^ e leggesi 
w^W Appendice delle Antichità itxUche del Carli, a pagg. $-12. 

i<^ Nel 1848 quanti villaggi slavi furono interpellati intorno alla nazionalità, che 
desideravano fosse riconosciuta nell' Istria, risposero V italiana. I relativi protocolli 
sono custoditi neir archivio del Municipio di Capodi&tria. 

H quando il Governo domandò, or sono pochi anni, al villaggi slavi dell* Istria, 
se volessero italiano, slavo o tedesco il Bollettino delle leggi, tutti risposero ita- 
liano. 

Sono questi slavi infine, che, all' annunzio della caduta della repubblica di Venezia 
tumultuarono in più luoghi, mentre fuori di qui. come narra l'Antonini nel suo 
Friuli Orientale (Milano, Vallardi, 1865), si abbatterono i leoni di San Marco. 

1^ Centinaia di scritti comprovano la civiltà esclusivamente italiana dell'Istria, e 
ognuno può convincersi, prendendone cognizione colla scorta della Bibliografia istriana 
(Capodistria, Tondelli, 1864), la quale annovera 3000 .e più opere riguardanti questa 
provincia 

Noi qui ci limiteremo a riprodurre dalla Vènétie en 1864 (Parigi. L. Hachette et 
C.) il seguente giudizio : L' Istrie présente^ avec des proportions réduitcs, le tableau, que 
nous avons trace de Venise. 

l.a stessa Giunta Provinciale dell'Istria, composta d'uomini eminentemente go- 
vernativi, lasciò scritto nella sua Relazione sulle scuole {Atti della Dieta ^ voi. II, pa- 
gina ^84; Rovigno. Coana, 1864) quanto segue: L'Istria non ebbe mai altro indirii^o 
eivile che a meno d' insegnamento italiano e tutto, che costituisce il patrimonio della sua 
coltura così nel passato, come nel presente vale a dire leggi, islitu{ioni, lettere ed ogni altra 
manifcsla:^ione d' intellettuale e morale maturità, appartiene ad esso. — Anche lo scambio dei 
prodotti vedcsi seguire la stessa legge, per poco che si voglia gettare uno sguardo sui pro- 
gressi della coltura italiana nella campagna slava : progressi, che per null'altra operazione si 
compiono, che per quella dai traffici. Secondare dunque la natura é dovere e necessità, perchè 
altrimenti adoperando, si farebbe opera che andrebbe perduta. Né diversamente suonano i de- 
sideri della provincia tutta. L' insegnamento italiano è necessario non meno agli slavi che 
agli italiani abitatori di questo paese, e ad ogni modo è l'unico, che qui si abbia e che for- 
nisca quindi una base certa, su cui fondare il bene comune. 

Nò indegno d'essere riferito crediamo il fatto, che dei duecento studenti all' in- 
circa, i quali frequentano il Ginnasio di Capodistria, gli slavi (di nascita e non di 
cuore) non giungono mai alla decima, come ne rendono fede gli stampati Programmi 
di queir istituto. 

Anche la classe dei doviziosi infine è tutta italiana, e 1' Osservatore Triestino nella 
parte officiale (21 e 22 Marzo i86i) ne contiene la prova, elencando pressoché due- 
cento censiti istriani dei gran possesso, e fra questi non più di quattro o cinque siivi. 

Avvertiremo infine che 1' etnografia dell' Istria è trattata distesamente nella Porta 
Orientale^ anno III (Trieste, Coen. 1838) e nella Rivista contemporanea (fase, di Set- 
tembre 1860, s fase, di giugno 1861). 


all' Italia. 243 


i> V. tra le molte opere, che trattano degli ingegni illastrì dell'Istria, la Biogra- 
phie universdU (Paris, Michand, 1811-1828), e gii Uomini distinti dell'Istria, di P. Sute- 
covich (tre volumi; Trieste, Marenig, 1828-1829). 

18 Pochi ignorano di certo l'anfiteatro di Pola, ed è notoria tra gli studiosi la bel- 
lissinaa descrizione dello splendore delle arti in Istria, che trovasi negli scritti di Gas- 
siodoro (lett. XXII del lib. XII). 

M Un saggio delle costanti dimostrazioni italiane a Trieste e nell' Istria da parte 
di ogni classe di persone trovasi nel citato opuscolo del consigliere Pascotini, ed 
altro, non meno interessantei nella Presse di Vienna del 6 loglio 1862. Ma a che al- 
legar prove? Il giornalismo italiano non portò le cento e più volte a conoscenza 
del pubblico gli onorevoli fatti del patriottismo italiano dell' Istria, tra cui non ultimi 
i generosi contributi in ogni patria soscrizione? £ non leggemmo testé, come pa- 
recchi giovani istriani e triestini, appartenenti a stimabili famiglie, lasciassero la vita 
sul campo dell'onore? 

Rispetto poi agli scioglimenti delle nostre Diet^ e dei nostri Consigli manicipali, 
richiameremo alla memoria del lettore la notevole dimostrazione della Dieta istriana 
del 1861, la quale deliberava ripetutamente che nessuno avesse a rappresentare l'Istria 
nel Parlamento di Vienna, e rifiutandosi in uno a qualunque indirizzo di fedeltà, vi 
sostituiva coraggioso atto di accusa contro le mali arti adoprate dall' Impero nell' I- 
stria. £ però, mentre fu la prima Dieta, che sia stata sciolta nell'Austria, s'ebbe pure 
il vanto della schiettezza ardita sopra ogni altra. Seguirono quindi gii scioglimenti della 
Dieta triestina per due volte e del Consiglio di Pisino, e alla vigilia della guerra 
quelli dei Municipi di Gorizia, Capodistria e Pirano, egualmente tutti per reato d'ita- 
lianità. £ in questi e in molti altri modi, ben più rischiosi ancora, provocammo an- 
che noi, e quanto altrove mai, le ire di Vienna, sebbene non ci sorridessero le spe- 
ranze di un vicino riscatto cosi piene, come alle consorelle provincie della Venezia. 
)tlé ciò tutto è nuovo al governo d' Italia, e se il patriottismo istriano non ebbe 
mai d'uopo di eccitamenti, vero é più che nemmeno questi mancarono, e con essi 
il conforto della richiesta opera nostra. 

^* Rammentiamo fra altro gli Studi intorno alla scoperta delle antiche chiuse d'Italia 
del cavaliere Sacchi, nei Rendiconti del R. Istituto lombardo di sciente e lettere (fase. I 
e II, voi. II, 1864), nonché le Mittheilungen des historischen Vereins fùr Krain (anno 
IX, pag. 31 e anno X, pag 13). 

" Sperante d'Italia, cap VII. 

" V. CarU, Antichità italiche (voi. Ili e IV); la collezione Istria; la Porta Orien- 
taley a. I, II e III. £ i documenti, che in queste opere si ragionano, rimontano ai 
più antichi tempi, come quello di Carlo Magno, tanto bello pel valore degli Istriani, 
ch'é riportato dal Duchesne negli Historiae Francorum scriptores (Parigi, 161 6-1649). 

^ Che la città di Trieste siasi conservata libero comune italiano, estraneo sempre al. 
l'impero germanico, si dà la prova la più docnmcntau e convincente dallo Scussa {Sto- 
ria cronografica di Trieste: Trieste. Coen. 1863) — dal Rossetti {fKedUa\ione storico- 
analitica sulle franchigie della città di Trieste dall'anno ^4^ fino al 184^ : Venezia, Pin 


244 Appello degli Istriani 


cotti, 1816 — e dal Kandler {Storia del consiglio dei patrizi di Trieste dal 1^82 al 
j8o^; Trieste, Lloydj 1858): autori tattile lo si noti bene, distinti per devozione 
all'Aostria. — Il Bonfiglio {Italia e Confederaj;tone germanica) vi aggiunge nuovi e va- 
lidissimi argomenti desunti dagli stessi statisti e atti officiali di Germania. Bene rias- 
sunti si leggono essi nella Memoria sulle condizioni politiche ed economiche di Trieste, 
presentata a S. E, il barone Bettino Ricasoli (Firenze, Barbèra, 1866). 

^^ Riguardo alla battaglia di Salvore e a quanto si ragionò poi del dominio di Ve- 
nezia sull'Adriatico, veggansi i numerosi scritti, che la Bibliografia istriana cita a pa< 
gina 121-125. 

3** L'argomento è svolto largamente, e colle rispettive citazioni dei più autorevoli 
•giudiz!, nella Frontiera Orientale d'Italia {Politecnico, voi. XIII, 1862), nella Impor- 
tanza strategica dell'Alpe Giulia {Rivista contemporanea, ìaìc. di Aprile 1866), e nelle 
anzidette opere del Bonfìglio. 

Che il Veneto senza 1' Alpe Giulia sia scoperto, lo videro tutti anche in passato. 
Leonardo Donato, procuratore d» San Marco (come leggesi nella Storia del Friuli 
del Palladio) ammoniva caldamente il Senato a provvedere alla salvezza della Repub- 
blica, essendo il Friuli non difeso dall'Isonzo, ma porta disserrata agli (^tramontani. 
£ lo stesso Palladio indica il cammino di costoro su quella Strada Hungarorum, che 
da Ciana appunto e per la Carsia, di sopra all'Istria, metteva nel cuore delle venete 
Provincie, e di cui dice anche il Giambullari nella sua Istoria, lib. II. E quindi ben 
ricorda l'illustre Correnti {Annuario statistico italiano, anno II), che la regione più insi- 
diata ali* Italia i la sua porta orientale, l* Istria. 

Perciò Venezia mirò sempre a conquistarsi i confini naturali, e raggiunse lo scopo 
nella guerra contro Massimiliano, e non se ne sarebbe rimossa, ove la lega di Cam- 
bra! non le avesse franto l'impresa. 

A convincersi di questi intenti della Repubblica, che ]^ur era padrona dell' Istria, 
a rivendicare all'Italia tutta la sua frontiera orientale, veggasi, p. e. tra i vecchi sto- 
rici Raffaele Caresino presso Muratori {Rerum, ital. script., voi. XII, pag. 473), e dei 
più vicini a noi, l'austriaco Morelli {Storia di Gorizia, voi. I; Gorizia, Seitz, i8;4- 
185;), il quale narra come l'Austria temesse che Venezia o presto o tardi avrebbe 
tentato estendere il proprio confine dalle rive dell' Isonzo ai sommi vertici delle Alpi 
Giulie per congiungere i suoi dominj di terraferma all'Istria e signoreggiare gli ampi 
varchi della Carsia. E difatti il Luogotenente della Patria Vito Morosini {Relation del 
Magnifico N. Vido Morosini ritornato luogotenente della Patria del Friuli, presentata in col- 
legio a di 2) Febbraio isjo; Udine, Trombetti -Murerò, 1857) scriveva; A ovviare a 
questa furia turchèsca et impedire il suo passaggio, io stimo che non si poisa farlo né più 
facilmente ni più comodamente che alli medesimi passi del Carnio e del Carso... Io tengo 
impossibile il poterli ostare ni al fiume Usonzo, ne in altri luoghi della Patria. 

Che se non rimarranno a Vienna i preziosi documenti, relativi a queste provincie, 
di che si spogliano ora gli archivi della Repubblica, ben altro impareremo a Venezia, 
circa i nostri più urgenti interessi sui lidi dell' Istria. 

E nessuno dei dominj, che toccarono l'Isonzo, si tenne pago di questo confine. 
Cosi il Forum Julii, che imperò a tutta l'Alpe Giulia, e il Ducato e la Marca del 
Friuli, e il Patriarcato di Aquileja e la stessa Venezia, quantunque arrivatavi troppo 


1 


all'Italia. 245 


tardi dì contro agli arciducali, col sao distretto di Monfalcone, a non dire dell'Istria, 
pur sua. 

Se poi veniamo al giudizi dei tempi nostri intorno alla importanza italiana di que- 
sta frontiera, ricorrono autorità ancor più gravi. Rimandiamo quindi il lettore a leg- 
gere quanto ne scrissero il Maresciallo Marmont (Mém., lib. IX, pag< 369-371, libro 
XIV, pag. 437-438, 756 ecc.) — il Thiers {Coiu. e Imp„ lib. 52), — il cav. Annibale 
Salazzo (Propugnacdi dell'Alia Italia nella Rivista Militare di Torino, a. IV, voi. Ili) 
Il Marmont suggeriva, che, essendo del tutto scoperto l' Isonzo, dovesse estendersi lo 
Stato italiano alla linea di que* monti ^ che formano le teste delle valli dell' Idria e del Vi- 
pacco e si prolungano fino a poco oltre Trieste, capo e appoggio di una valida linea mili- 
tare difensiva. E T Austria, che ciò temeva, andava progettando, come progetta senza 
dubbio anche oggi, le sue difese sul nostro suolo, e quali fossero,, lo espone V Hi- 
stoire politique et militaire du prince Eugéne Nopoléon par le general de Vaudroncourt 
(tom. I, pag. 127; Parigi, Mongie, 182K). 

Ma sopra tutto sarà bene Napoleone I che meriterà fede. Fu egli che chiamò la 
Alpe Giulia compimento del Regno Italico (Thiers, lib. XXIII), — che giudicò non sa- 
rebbe l' Austria esclusa dall' Italia ^ sen^a che la linea dell'Adige' fosse portata all'Alpe 
Giulia (corrispondenza tra Berthier e Marmont, nelle Mémoires dì quest'ultimo, libro 
IX, Schonbrunn 28 e 31 Decembre 180$; Linz, 28 Gennaio 1806; Monaco, 5 e 26 
Febbraio), — che disse Palmanova non atta a difendere nemmeno l'Isonzo (Mémoir. 
Marmont, voi. II, lib. IX), — che distingueva 1* Istria pella sua importanza tra le al- 
tre venete provincie {Nota diplomatica di Bonaparte ai plenipotenziari austriaci, in data 
del 28 Luglio 1797, riferita da Daniele Pallaveri nel suo Campoformio (Firenze, Le 
Monnier, 1864) — e che dettò perfino, sia pure con frase esagerata, che l'Istrie l' em- 
pori par la convenance et par la valeur inlrinsèque de beaucoup sur la Lombardie {Mémoi~ 
res pour servir d l'histoire de France sous Napoléon ; Paris, 1825, voi. VI, pag. 54 S). 

Onore quindi al generale Guglielmo Pepe, che nel 1848 scriveva al magnanimo 
Carlo Alberto: Sire, vi saluterò Re d'Italia quando avrete passato l'Isonzo (Antonint, 
Friuli orientale; Milano, Vallardi^ 1865, pagina 463). 

'1 Citiamo in proposito le seguenti opere: Die oesterreichische Marine von einem 
oesterreichischen Seemanne (Vienna, Zamarski e Dittmarsch, 1860); — Betrachtungen, 
eines See-Offi^iers ueber die Verbindung der Donau mit dem t^idriatìschen Meere (Vienna 
Gerold, 1 86 1 ); — Ueber die Wichtigheit des adriatischen Meers fùr Oesterreich und dessen 
Verteheidigung di B. Wìillerstorf. (Vienna, 1861). 

** // Mare Adriatico di G. Menis (Zara, 1848); — Considerazioni sul protendimento 
delle spiagge e sull'insabbiamento dei porti dell'Adriatico, di P. Paleocapa (n. 2 e 3 del 
Bollettino dell'istmo di Sue^; Torino, 1856); — e il citato opuscolo del Wullerstorf. 

** Vedi / termini d'Italia dell'avvocato professore S. Bonfiglio (Firenze, tipogra- 
fia militare, 1866, pag 53 e seg. ); — Confini e denominazioni ecc., del professore 
A. Amati (Milano, Bernardoni, 1866, pag 28 e seg.); — Resoconti delle sedute della Ca- 
mera dei deputati del Regno d'Italia (a. 1861 e 1862; interpellanza del generale Bixio 
sui lavori di Ancona); — Porlo di ^Brindisi ncW Alleanza (Milano, 1862, mesi di mag- 
gio e giugno). 


246 Appello degli Istriani 


*^ Il consigliere dì stato Bargnani, nel memorabile sno Rapporto relativo all' Istria 
presentato l'anno 1806 al viceré d'Italia e pubblicato dalla Porta Orientale (*. II e 
III) scriveva (pag. 17 dell'a. TI): / due porti di Pala e di Nauporto ossia Qmeio men- 
tano di essere annoverati fra quelli di prima elasse^ avvegnaché, aiti come sono per la loro 
ampi«^a e profondiid .a ricevere qualunque ftotta, reggono al confronto dei più celebri di 
Europa. 

E difat'à i porti di guerra di Roma e Venezia erano appunto Pola e Nauporto. 
Quivi sempre, e fino alla caduta della Repubblica armaronsi e svernarono le venete 
triremi, e quivi i nemici di essa facevano forza a ferirla, si che può dirsi ben giu- 
stamente, aver l'Istria, nelle guerre di Venezia, tributato con largo animo non solo 
il sangue de' suoi marinai, ma quello pure delle famiglie loro, su cui cadeva quasi 
intieramente il furore delle stragi. £ il gran sacrificio continua, finché l'Austria 
tiene Pola contro l'Italia, l'Austria che vi sta, non gii a difesa propria, ma in no- 
stra offesa. Come dunque potremmo noi rinunciare a quel naturale baluardo d* Italia, 
noi, che sì bene lo sapevamo nostro, quando vi irrompevano le armi di Pisa e di 
Genova ? Si dovrà cominciare a dirlo non italiano ora che vi andremmo liberatori, e 
non più fratricidi di Venezia? 

L'importanza di Pola ha poi le più autorevoli attestazioni anche da recenti scrit- 
tori P. e il dotto J J. Baude, membro dell'Istituto di Francia, nella sua memoria 
La Marine ile l'Auiriche, Calamola, Trieste e Pola (Revue des deux Mondes, pag. 377-414, 
15 novembre 1856) così si esprìme: La position de Pola, prot^ée par la coufiguration 
du territoire adjacent, dangereuse d attaquer, facile d secourir, couvre mieux qu'aucune au- 
tre les établisseme'its sìtués au fonde du golf e... . Aucune des positions maritimes de l'Europe 
n' est aussi favorisce que celle de Pola par l'abondauce et la qualità des vivres de borJ, 
cette base de la vigueur et de la santi des èquipages.,.. Cette rèuttion d'avanlages straiégiques 
d Pola a fait de cette place, en différents temps, le sfège des principales forces navales de 
l'AdriatiquCf le bui d'ambilions intelligentes et le thèàtre des combats sanglants. 

Veggasi pure il citato opuscolo del Wullerstorp, attuale ministro del commercio 
a Vienna, e il libro di M. Amero, che porta il titolo Italie et ses ressources militaires. 

Evidentemente adunqae Pola vuoi dire per noi l'Adriatico, e ciò non solo nei 
riguardi militari, ma in quelli pure de' commerci e particolarmente della navigazione 
mercantile, che deve poggiare, come poggiò sempre, ai lidi orientali di questo canale 
italiano d'ogni tempo : canale italiano, come lo chiamò il Balbo, che non sapremmo 
invero per quale confusione di idee dovrebbe tramutarsi, e precisamente dopo ('Italia 
fatta, in Mare Germanico del Sud, qaale aggiunta generosissima al Mare Germanico 
del Nord. 

E qui, a confutazione di coloro, che stranamente riputassero, aver l'Italia le spalle, 
anziché la fronte sull'Adriatico, non potremmo certo mettere innanzi argomento più 
calzante di quello, che leggiamo nei Termini d* Italia del Bomfiglio. « Se si osserva 
'I (così egli a pag. 40) primieramente che l'Italia, più che al Tirreno e al Jonio, è 
( inclinata all'Adriatico, a cui volgesi tutta la sua parte settentrionale interposu al- 
« l'Alpe e all'Appennino, e tutta la sua parte orientale del Po ad Otranto, ed in se- 
te condo luogo che quel mare, a cui più l' Italia degrada, va ad essere campo prin- 
« cipale del commercio di duecento milioni di industri europei con trecento di asia- 
« tici abitanti le terre più produttive del globo, ad evidenza si scorge com'e|fU é 


air Italia, 247 


« s-ull' Adriatico ohe noi dovremo avere la masaima nostra po- 
« tenza navale. » 

^^ Vi ha on proclama 26 luglio 1848 dello stesso governatore del Litorale conte 
SA.I.M (riferito per esteso dal Bonfiglio nell'opera Italia e Confederazione germanica, 
pag. 767), il quale dichiara esplìcitamente, non appartenere, né avere mai appartenuto 
r Istria alla detta Confederazione, e ciò per togliere il sospetto, che s'era destato, vo- 
lesse TAustria levare truppe in questa provincia per l'esercito di Germania. 

E però l'Istria, nel chiedere coraggiosamente, sotto lo stato di assedio nel 18 $9, 
con atto scrìtto de' suoi Municipi, diretto all' Imperatore, la propria aggregazione 
alla Venezia e quindi alla immaginata federazione italiana, potè bene richiamarsi al 
fatto del nessun vincolo suo con Francoforte. 

^^ La citata opera del Bonfiglio ragiona largamente delle specchiate verità sto- 
riche, per cui rimane esclusa ogni appartenenza della città di Trieste alla Confedera- 
zione germanica, e riferisce testualmente le importantissime dichiarazioni dei governi 
di Francia, Inghilterra e Russia contro le mire austriache di germanizzare paesi, che 
non erano tedeschi tant sous le rapport de la langue que de l'origine: dichiarazioni dov'è 
detto perfino, e per bocca del Governo russo, « que en Autriche l'élément rèvolntkìn- 
naire c'est l'élément germanique. » 

^'^ Chi vuole rimanersi convinto, sulla base delle cifre, di quello, che abbiamo qui 
detto, ricorra alla più volte rammentata opera del Bonfiglio, alla Memoria sulle con- 
dizioni di Trieste^ al Rapporto della Camera di commercio e d'industria di Trieste al Mini- 
siero di Vienna sul triennio iSsj'iSj^ (Trieste, Lloyd, i86i), e all'altro Rapporto della 
stessa Camera, di cui fu or ora pubblicato un brano nella Triester Zeitung del 23 lu- 
glio corr. Quest'ultimo scritto supplica, che si provveda a conservare il carattere na- 
zionale ai prodotti italiani destinati a rientrare in Italia dai porti dell'Austria. Una 
corporazione austriaca adunque chiede al Governo austriaco che Trieste sia da lui 
considerata « quale porto del Regno d'Italia per ciò che forma una delle più con- 
« siderevoli partite de' suoi traffici ! » 

Il Governo italiano ponga mente a ciò e alle domande, che non mancheranno di 
piovere al gabinetto di Vienna da quelle camere mercantili per un trattato di com- 
mercio coU'Italia. Codesto trattato, ch'è assoluta necessità all'Austria, mentre per noi 
sta nei termini di una mera, e non larga convenienza, può esserci argomento utilis- 
simo ad avantaggiare la questione politica. 

E da siffatte manifestazioni dello stesso ceto commerciale austriaco non può non 
risultare, come risultò altra volta, riprova ulteriore di quanto affermiamo rispetto ' 
all'avvenire dei mercati triestini in questo nuovissimo tempo, che avviò dappertutto 
e allargherà sempre meglio le comunicazioni dirette, ed esige quindi per lo slancio 
delle speculazioni il favore di ordini liberali, politici ed economici. 

Egli è però appunto che perfino i più devoti all'Austria aggradirebbero che Trieste 
fosse città libera. 

Domandiamo quindi anche noi, se questo ordinamento, ove a Trieste toccasse la 
sventura di vedersi ancora disgiunta dalla sua nazione, non risponderebbe a buone 
ragioni internazionali ? Se fiorì tanto, per sé e per ogni Stato vicino la tedesca Am- 
burgo sul Mare Germanico, perchè non potrebbe prosperare snir Adriatico a vantaggio 
non meno d'Austria che d'Italia la città di Trieste, quale Amburgo italiana? 


248 Appello degli Istriani 


^ Vedi Frontiera OrientaU i' Italta nel Politecnico^ voi. XIII. Tra ancoraggi e porti, 
anche per grossi navigli, se ne contano pressoché settanta da Duino a Fianona. 

*' Che ai prodotti dell'Istria fosse pnr nel principio di questo secolo, come per 
lo addietro, quasi esclusivo campo di smercio la Venezia, e che il Regno d'Italia ne 
traesse largo vantaggio anche per lo Stato, espone chiaramente il surriferito Rap- 
porto del Barcnanz {Porta Orientale^ a. II, pag. 23, 26, 29-40, 44, a. Ili, pag. 5-7). 
E i boschi e le saline erano, come sarebbero ora e in proporzione maggiore, di 
sommo profitto al pubblico erario. Le esportazioni poi dei vini^ degli oli, delle pie- 
tre, già considerevoli, prenderebbero ben altro impulso da leggi nazionali e nel con- 
seguente sviluppo dello spirito di associazione. * 

E però il Baudb nell'anzidetto suo scritto, dopo osservato che « un intérèt de 
n premier ordre à considérer dans la fondation d'un port militaire, c'est la facilité 
n des approvisionnements en materiaux de construction, en combustible, en vivres de 
« bord, » assicura, come « sous ce triple rapport le hàvre de Pola laisse peu de chose 
« à désirer ». E nominatamente per ciò che riguarda il legname, nota che « le hlvre 
(X de Pola tirerà de la presqu'ile d'Istrie elle-mème, et notamment de la forèt de 
" Montona, qui en ombrage le centre, des bois de chène aux quels on ne connait, 
« méme i Naples, rien de superieur en force, en souplesse et en durée. » 

Né minori delle materiali sono qui le risorse morali per la marina italiana. « Ses 
H ressources en hommes sont au moins au niveau de ses ressources en matériel. » Cosi 
il Baudb, che chiama inoltre il litorale istriano « pepinière des marins... la première 
« officine d'hommes de mer, qui soit au monde » e conchiude, che « l'empire du 
« golfe ne peut appartenir qu'à ceux qui la possèdent ». 

E gii il maresciallo Marmont {Mémoires^ lib. XIII, pag. 368-369), nel discorrere 
della guardia istituita in Istria per la difesa delle coste, così attestava in generale 
dello spirite della popolazione: « Jamais je n'ai vu nulle part, en aucun temps, une 
« gard si digne d'ètre comparèe aux troapes de ligne. » 

^ Per la strada militare, che congiungeva il dipartimento dell'Istria al Regno, 
vedi la Convenzione di Vienna 16 aprile 1806, il Regolamento di Trieste 29 luglio a. 
tt., e la Convenzione io ottobre 1807, aggiunta al trattato di Fontainebleau (Neumann, 
tom. II, pag. 198, 223 e 239). 

"* Il viceré Eugenio {Mém.^ Paris, Levy Frères, 1858, voi. IV) scriveva a Na- 
poleone in data dei 4 luglio 1810: « Le ministre Aldini me fait connaitre que l'in- 
K tention de Vòtre Majesté était que l'Istrie et la Dalmatie ne fassent plus partie de 
'( son Royaume d'Italie. Vótre Majesté a dèjà compris la Dalmatie dans les provin- 
n ces illyriennes; mais l'Istrie ex-vènitienne en avait été exceptée. Je me permettrais 
« au sujet de cette dernière province d'observer à Vòtre Majesté qu'elle forme un 
'( département organisé à l'instar des autres départements du Royaume, et que cette 
« orgattisation a eu lieu dès la reunion au Royaume des pays ex Vénitiens. En se- 
R cond lieu le Royaume tire de l'Istrie la plus grande partie du sei pour sa con- 
« sommation, et la marine du Royaume tire de l'Istrie tous les bois nécessaires anx 
<« constructions. » 

A chi volesse prendere più esatta cognizione della cura posta dal Governo di Mi- 
lano a governare l'Istria come vero dipartimento italiano, indichiamo dal Bollettino 


air Italia» 249 


deJIe leggi del regno d'ItalU, in. 55, 63, 68, 96, 114, 149, 200, 218, 227 del 1806; 
17, 26, 36, 57, 64, 78, 108, 121, 124, 185, 186, 191, 196, 200, 214, 244, 247, 248, 
280, 283, 284, 285, 286, 289, 291 del 1807; 14-19, 40, 72, 73, 124, i25> 129, 188, 
222, 223, 248, 252, 268, 276, 334, 360 del 1808; 7, 8, 22, 23, 24 del 1809. 

£ un esempio del come fosse qaasi onicamente nominale la separazione dell'Istria 
dal Regno nel 1810, abbiamo nel decreto 12 gennaio 181 2, n. 7 del Bollettino del 
18x2 (P. I, pag. 18), con cai fa « accordata la esenzione dal. diritto di albinaggio 
« ai sudditi delle provincie illiriche ed a quelli del Regno d'Italia per le reciproche 
« successioni nei due Stati ». 

^ L'Austria, comechè padrona anche di Venezia, veniva obbligata col trattato di 
Campoformio (art. XI) a non tenere naviglio di guerra. E ciò egaahnente nel trat- 
tato di Lnneville all'art. XIV. Cosi si comprendeva allora l'importanza dell'Adriatico 
per la sicurezza dell'Italia, e, quantunque non si trattasse che di un principio di stato 
italiano, si ponevano condizioni di tanto valore al potente impero vicino ! 

^ Che l'Austria voglia starsene in Italia, mantenendosi nell'Istria, e speri con 
ciò di non volgere per sempre le spalle alla Venezia, si fa aperto da tutti gli scritti 
delle arruolate sue penne. E penna sua, meritevole di speciale menzione, si è quella 
de) sig. L. Debrauz « (Le rachat de la Vénétie est-il une solution? Paris, Amyoti. » 
No certo, non è questa una soluzione, e conveniamo perfettamente con lai, che la 
Venezia negli attaali suoi confini amministrativi non può bastare in alcun modo al- 
l' Italia, e voglia il Cielo ne convengano pure tutti gì' Italiani, anziché soffrire che 
l'Austria si afforzi per guisa oltre l'Isonzo, da non poternela poi discacciare che a 
largo prezzo di sangue. Già nel 1860 VAllgemeine Zeitung scriveva in articolo signi- 
ficantissimo : « L'Austria, perduto il Veneto, sarebbe costretta a costruire di li dell'I- 
« sonzo nuove fortezze e campi fortificati, i quali dovrebbero ricostruirle un qua- 
« drilatero simile a quello dell'Adige e del Mincio » : concetto svolto più distesamente 
nell'opuscolo Der Besit^ Venetiens, Entgegnuncen von Aresxn, capitano di stato mag- 
giore (Vienna, Gerold, s. a.) — Né ciò tarderebbe a farsi, quando questi non fossero 
i prodromi della fine dell'Impero austriaco. 

La storia del passato invece ne insegna, e potrebbe insegnarcelo anche la storia 
del presente, che il conquisto dell'Istria costa nulla o assai poco al vincitore del 
Friuli, dovendo chi la tiene sgombrarla tosto, come seguì appunto nelle guerre na- 
poleoniche, sotto pericolo di essere disgiunto da ogni aiuto, accerchiato e preso. 
(Thiers, Storia della rivoluzione^ lib. IH. ) 

Dinanzi a tanta giustizia per noi di portare le nostre difese alle naturali nostre 
frontiere e a tanta facilità di tradurla in atto, quando la vittoria ci seguisse fino al- 
l'Isonzo, come potremmo acconciarci ad erigere su quelle rive all'Italia le colonne 
d'Ercole? Ben altrimenti pensava il grande Cavour, se il discorso della Corona al 
Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 usciva fino d'allora in queste memorande 
parole : « La nobile nazione germanica, io spero, verrà sempre più nella persuasione, 
« che l'Italia OOStitoita nella sua unità naturale, non può offendere i di- 
« ritti e gì' interessi delle altre nazioni. » 


DELLA RIVENDICAZIONE DELL'ISTRIA 

AGLI STUDJ ITALIANI. 
(Discorso letto ntW Istituto Veneto - Dicembre 1877.) 


A, 


.mmesso all' onore di formar parte di questo illustre 
Istituto, comincio oggi a recare il mio pìccolo contributo 
di studi a quelli gravissimi con cui esso aggiunge si gran 
pregio alla scienza italiana. 

Non vi dirò quanto io mi senta peritoso per tale con- 
fronto, e come sinceramente invochi la vostra indulgenza. 
Poiché siffatte proteste sono esordi, di cui sogliono valersi 
anche i migliori ingegni, non sarebbe lecito a me prestare 
il linguaggio della loro modestia virtuosa alla mia, la quale 
altro non è che necessaria. 

Professando io in alcuna loro parte le discipline giuridi- 
che, dovrei non dipartirmene. Ma questa volta, e forse più 
altre farò altrimenti, fiducioso che voi non me lo appor- 
rete a colpa, tosto che al vostro patriottismo ne avrò spie- 
gata la ragione 

Mentre la mia provincia nativa, italiana quanto ogni 
altra, si trova non solo disgiunta politicamente dalla sua 
nazione, ma ancora (non ispiaccia la franca parola) mal 
conosciuta da essa, se non anche dimenticata e talora per- 
fino sconfessata, non mi riesce di far tacere nell' animo il 
sentimento di un altro obbligo, la coscienza di un'altra prò- 


Della Rivendicazione dell'Istria, ecc. 251 

fessione, il vivo desiderio di adoperarmi quanto é da me, 
perché quell' estrema nostra regione sia rivendicata almeno 
agli studi nostri. 

Fxcovi adunque manifestato e insieme, lo spero, giusti- 
ficato il mio intendimento. 

Né vi sorga sospetto, ch'io voglia di tal maniera con- 
durre qui la politica, qui, dove tanti e tanto rispettabili mo- 
tivi consigliano di lasciarla da parte. Io mi affretto ad assi- 
curarvi che nulla porrò innanzi, che possa turbare i pacifici 
e sereni vostri offici. Nessun voto verrà da me proferito 
per un'azione qualunque la quale riguardi, palestre diverse 
dalla vostra. In cotesti argomenti rimanga pure ai governi 
tutta la cura di fare o non fare secondo la vicenda delle 
occasioni e degli ostacoli, ch'essi soltanto sono in grado dì 
valutare pienamente. Per voi penso di non pretendere trop- 
po, se credo indiscutibile il vostro diritto di abbracciare 
nei riguardi scientifici ogni famiglia del popolo italiano, 
ossia di riconoscere tutto, che a dispetto di ogni dimenti- 
canza, di ogni divieto, di ogni sinistra fortuna porta il suo 
nome e vive del suo pensiero. 

Che se a taluno paresse opportuno il riserbo anche sotto 
questo rispetto, mi permetterei di soggiungergli, che non 
v'é pretesto, il quale valga a sequestare alla scienza l'eser- 
cizio delle sue ragioni. Essa non ha diplomazie, perché serve 
unicamente alla verità. 

D'altra parte mentre due particolarmente delle nazioni 
straniere, cioè quelle, che ci sono più vicine dal lato d'o- 
riente, gareggiano tra loro nel fare argomento di numerosi 
ed estesi scritti la provincia dell'Istria (ch'é appunto la con- 
trada italiana, su cui mi propongo di richiamare la cortese 
vostra attenzione}, e sembra come una intesa di molti e 
molti de' loro scienziati e pubblicisti tentare cosi di stringerla 
con altri nodi ai loro politici interessi, sarebbe assurdo ed 


252 Della Rivendicazione dell' Istria 

indegno che soltanto gì' Italiani avessero ad imporsi il si- 
lenzio, a condannarsi alla mortificazione d'ignorare o di 
fingere d'ignorare le cose proprie. 

Ed è specialmente la Venezia, che deve sdegnare tale 
vergogna, la Venezia, che sta si dappresso a queir italiana 
regione e forma co'suoi abitatori una sola stirpe per iden- 
tità di lingua, di costumi, di bisogni, di sentimenti e ne 
condivise le liete e le tristi sorti per ogni età fino a pochi 
anni or sono, e serba ne' suoi monumenti, ne' suoi archivi, 
nella ricca letteratura de' suoi avi i più preziosi documenti 
della sempfe onesta e fida loro italianità. 

Non é già ch'io^ nell'esprimermi di qu.esto modo, mi scordi 
dei generosi, che ora pure seguono le vecchie tradizioni, 
movendo coi loro studi come in casa propria, ogni qual- 
volta l'argomento loro si presti anche oltre il nostro confine 
politico e sino alle rive del Quarnaro. 

Ad essi, anzi, di cui alcuni onorevolisìmi appartengono 
a questo Istituto, colgo 1' occasione di porgere i più vivi 

Che Italia chiude e i suoi termini bagna 

ringraziamenti de'miei comprovinciali. 

Ma a fronte di si belle eccezioni, non si tratta appunto 
che di eccezioni, e queste sono troppo rare, perché non 
abbia a dirsi vero quanto deploro. — A me, che natural- 
mente mi trovo spesso condotto a parlare del mio paese 
nativo, accadde assai volte di udire dagli stessi uomini 
colti errori incredibili intorno ad esso. Né questi si dicono 
soltanto, ma si stampano anche, con una sicurezza mera- 
vigliosa, quasi fosse questione di qualche terra perduta nella 
vastità dei mari, della quale si possa narrare quanto meglio 
piaccia con nessuno o assai piccolo rischio di essere smen- 
titi. E non é molto (concedetemi di riferirvi un esempio 
veramente singolare) che avendo io procurato ad una be- 


-H 


agli studj Italiani. 253 


nemerita Società nostra parecchi soci istriani, non senza 
aver fatto loro considerare come ci convenisse far atto di 
presenza anche cosi nella comune patria, questi si videro 
arrivare le pubblicazioni della Società stessa con indirizzi, 
che li cacciavano d' Italia, trapiantando le loro dimore an- 
che più notorie per istorica rinomanza italiana nella slava 
Dalmazia (*). 

Sono ignoranze queste, che destano bensì la ilarità, ma 
non senza disdoro nostro e indignazione di chi, soggetto al 
dominio straniero, si raccomanda almeno alla nostra memo- 
ria e al nostro affetto, e scorge invece con quello strazio 
delle ingenue sue fidanze, che ciascuno può immaginare ben 
facilmente, non essergli amica sicura qui da noi neanche la 
geografia, la innocentissima delle scienze, alla quale perfino 
un celebre cancelliere dei tempi nostri più sciagurati con- 
sentiva di riconoscere l'Italia. 

Perdonatemi, se troppo m'indugiai in questo preambolo 
al breve discorso, che sto per tenervi. 

Senz'altro vengo ora ad accennarvi i titoli dell'Istria per 
la sua rivendicazione agli studi nostri : titoli, che sono le 
prove indiscutibili, non solo dell'italiana sua cittadinanza, 
ma altresì del suo gran prezzo per nazionali riguardi, e che 
rilevano insieme gli svariati argomenti, ai quali può rivol- 
gersi la vostra attenzione negli studi, che per diretto o in- 
diretto modo li riguardino. 

Dai cenni generali di questo mio primo discorso mi por- 
terò poi su temi particolari, quando la vostra benevolenza 
sia per darmi animo di farlo. 


(*) Per una curiosa ironia del caso questo grandioso strafalcione 
fu commesso dalla Società Geografica Italiana. 

{Nota delli Editori.) 


254 Della RivendicaTJone dell' Istria 

Se l'Italia geografica é, come ognuno ripete, // het pae- 
se .. , che il mar circonda e V Alpe, l'Istria ne forma, fuor 
di ogni dubbio, parte integrante. Bastano invero, gli occhi 
della fronte a vedere, come le giri a tergo, non altrimenti 
che ad ogni altra nostra regione subalpina, la gigantesca 
frontiera italiana, senza che filone qualunque interceda a 
romperci da quel lato la continuità del territorio nazionale. 
E due bei nomi nostri, l'uno de' quali rimase sino a questi 
giorni, furono dati a quell' ultimo tratto delle nostre Alpi, 
cioè di Venete e di Giulie. Perciò l'Istria fu già chiamata, 
e per secoli, la Veneiija superiore 'y perciò anche nei tempi 
più oscuri dell'evo medio Paolo Diacono scriveva: Venetiae 
et Histriae prò una provincia habentur ; perciò, a dir breve, 
nessun valente geografo, da Plinio al Balbi e al Daniel, 
dubitò di comprenderla fra le provincie d' Italia. Se qui 
volessi semplicemente citare le autorità nazionali e stra- 
niere in appoggio di quanto affermo (e ne avrei pronto 
r elenco), sarebbe come rinunciare a parlarvi d'altro per 
quest' oggi e mettere a troppo dura prova la vostra pa- 
zienza. 

Meglio dunque ch'io, per quanto concerne questa prima 
ragione della causa, che tratto, mi limiti a richiedere che i 
nostri Corpi scientifici infliggano severa censura, a chi scri- 
vendo dell' Italia geografica, massime in libri destinati a 
farla conoscere alla gioventù delle nostre scuole, copia an- 
cora qualche vecchio testo timbrato a Vienna, ovvero, ri- 
producendo le carte uscite da quelle ofiicine, mostra di cre- 
dere goffamente, che quel po'di colore, il quale segna il 
confine orientale già del Regno Lombardo-Veneto ed ora 
del Regno d'Italia, stia là a scindere anche l'unità, naturale 
della nostra patria, quasi il pennello politico valesse a farle 
sparire i suoi monti o a condurseli dietro sulle proprie 
traccie. 


agli studj Italiani 255 


Né la natura é di tal guisa soltanto che stabilisce colà 
i termini d'Italia. Essi appariscono manifesti da ogni altra 
sua opera ed impronta, e quanti sono i cultori di scienze 
naturali, a qualunque nazione appartengano, i quali abbiano 
esteso le loro ricerche a quella contrada, possono essere 
addotti a rendere di ciò testimonianza. In questi campi delle 
indagini scientifiche la verità corre minor pericolo, peroc- 
ché negli studiosi o suole mancare la passione, che persuade 
ad offenderla, o non é mai tanta la cecità, che tolga loro 
affatto di scorgerla. Ad ogni modo, come l'orografia, cosi 
i caratteri geologici e idrografici di un paese, il suo clima, 
la sua flora, la sua fauna e ogni altra proprietà sua natu- 
rale forniscono documenti, che sfidano la frode, che voler 
qui illudere vale lo stesso che illudersi della peggior ma- 
niera, cioè porsi fra gl'insipienti innoqui, che sono fra tutti i 
più umili e dispregiati. 

Ma anche senza soccorso di scienza, le italiane sem- 
bianze della natura dell' Istria balzano all'occhio di chiun- 
que le riguardi.- Chi dall'opposto versante dell'Alpe Giulia, 
cioè dal bacino della Sava, varca la frontiera e, superati i 
primi suoi divallamenti petrosi, scende sui poggi istriani 
dello splendido bacino dell'Adriatico, vede rimutarsi di un 
tratto ogni scena. Per quanto egli sia cupido di raffigurarsi 
la sua Slavia o là sua Germania su quelle rive incantevoli, 
li vi trova tosto, e lo confessa, tutto il sorriso del cielo 
d'Italia, e i tepori del suo clima, e il nostro olivo fra le 
viti e i gelsi nostri, e quanti sono i vivaci colori profusi 
sul nostro suolo. Considerèe (cosi il Malte -Brunn nel libro 
decimosesto della sua Geografia universale) dans ses limites 
naiurelleSy la partie septentrionale de V Italie comprend tout 
le versant des Alpes depuis la branche appelUe Alpes Cotiennes, 
jusqu à celle, que V on appelle Alpes fuliennes. A peine arri- 
vés sur le versant meridional des Alpes, nous voyons changer 


256 Della Rivendicaitone dell* Istria 

tout-à'coup la végétation, les hommes et les usages. Il semole 
quun climat favorable au laurier^ au myrt et à Volivier porte 
V homme à V amour de la gioire et aux bienfaits de la civili- 
sation. 

Ora che i naturalisti di altre nazioni si rechino per cosi 
dire, a frotte — e il mio Saggio di Bibliografia istriana ne 
dà la prova — ad investigare parte a parte queir estre- 
mo lembo d'Italia, e le loro fatiche vi trovino largo com- 
penso di varietà e novità di tipi, di forme, di fenomeni 
dalle caverne del Carso alle scogliere della marina, non é a 
dolersene per sicuro, ma si invece a goderne pei progressi 
della Scienza. 

Non sarebbe però più lieta cosa ancora, che, mentre al- 
cuni Istriani, sulle orme del loro illustre Biasoletto, sosten- 
gono con onore, di fronte agli stranieri, la nobile gara di 
cotali studi, altri di qua si aggiungessero ad essi per vin- 
cerla, spingendo più oltre o più direttamente al tema, di 
cui ragiono, l'esempio dato in passato dallo Zannichelli, dal 
Bianchi, dal Donati, dal Ginnani, dal Fortis, dallo Spallan- 
zani, dal Naccari, dal Chiereghin, e quello più recente ch'é 
bello dei nomi dello Zanardini, del Nardo, del Visiani, del 
Cornalia e del Tamerelli ? 

Ma se cosi evidentemente nostra è la terra istriana, lo 
é del pari la sua popolazione? Il fatto di alcune rustiche 
tribù di Slavi sparse per la sua campagna, come Io sono 
pure in alcune parti del Friuli, e come vi hanno Teutonici 
nel Veneto, Francesi nel Piemonte e Albanesi su quel di 
Napoli, le toglie forse di vantare pienamente la patria ita- 
liana nei riguardi etnografici? 

Io prendo qui in esame, comecché alla sfuggita, quel- 
l'unica delle condizioni del mio paese nativo, la quale può 
indurre chi ben non lo conosce a credere che una delle 


agli studj Italiani. 257 


sue ragioni di appartenerci non gli sia propria cosi assolu- 
tamente quanto ogni altra. 

L'Istria, o signori, di cui le statistiche austriache ci danno 
r anagrafe, non é già Y Istria, che sola porta questo nome 
nella storia e quale distinta unità topografica; si per lo con- 
trario è l'Istria amministrativa, vale a dire un'aggregazione 
politica operata dai reggitori di Vienna coli' annettere alla 
vera regione istriana parecchi territori, anche d'oltralpe, oc- 
cupati per intiero o quasi da gente slava, e che in ogni 
tempo le furono estranei. 

Non é di questa creazione artificiale e recente che cade 
qui di occuparsi. Qui va considerata unicamente l'Istria del 
suo nome secolare, del suo popolo, della sua patria italiana, 
r Istria, che giace a' piedi della Vena e del Caldera fra 
Duino e Fianona, — e in essa anche la ragione del numero 
sta pegl'italiani suoi abitanti, i quali di un terzo superano 
gli slavi. 

Ma v' é ben altro, che li fa padroni del campo. Quella 
piccola, ma animosa popolazione italica, le cui origini ri- 
montano alla più lontana antichità, e che rinvigorita dall'e- 
lemento latino e dal veneto tenne l' Istria da sola sino al 
secolo nono (come lo attesta il famoso placito deir8o4 del 
codice Trevisan), e quasi da sola sino oltre alla metà del 
decimoquinto serbò sempre incorrotto attraverso ogni vi- 
cenda il suo carattere nazionale, si ch'é tutta una sola fa- 
miglia dalle stesse sembianze e dallo stesso spirito, quando 
invece gli Slavi, che le furono importati in epoche di- 
verse dalle signorie feudali e, pur troppo, anche dalla ve- 
neta repubblica, allo scopo di ripopolare le sue terre più 
interne disertate dalle pesti (i deserta bea dei documenti), 
sono di dieci e più schiatte diverse tanto e fra di loro e 
dalle finitime d' oltremonti che le une colle altre non s'in- 
r tendono né coll'animo, né col linguaggio, e si trovano con- 

17 


258 Della Rivendicazione delV Istria 

sodate soltanto nel desiderio, più volte espresso, di posse- 
dere esse pure e scuole italiane, e italiani commerci, e ita- 
liano avvenire. E non basta ancora, che, mentre quei vil- 
lici sorvenuti altro non sanno mostrare che le loro marre 
a chi della vita loro li ricerca, gì' Italiani possono additare 
con orgoglio i loro municipj, ricchi d'insigni memorie dai 
tempi di Roma ai giorni nostri, e i loro statuti, fra i primi 
d'Italia, come anche Balbo lo scrisse, e una storia tutta 
fusa nella nostra, e stupendi monumenti dell'arte pagana e 
cristiana dall' anfiteatro di Fola alla cattedrale di Parenzo, 
e istituti civili di ogni maniera, e celebrate opere d' illustri 
loro ingegni negli annali delle scienze, delle lettere e delle 
arti, e dovizia di tradizioni, di leggende di canti popolari, 
di proverbi, che ne ritraggono la vita, conscia di un pas- 
sato glorioso da onorare e bramosa di future sorti, che vi 
consuonino, da meritarsi. 

L'etnografia di un tal popolo, che serba reliquie di dia- 
letti italici anteriori all'occupazione latina, — che parla tut- 
tavia non poche voci dell' età di Roma scomparse affatto 
dalle altri parti d' Italia, — che vanta, colonie romaniche 
ancora viventi sulle rovine degli antichi spaldi corrosi dal- 
l'onda delle genti slave nel secolare abbandono di ogni soc- 
corso, — che, sentinella avanzata della nostra nazione sulla 
porta più perigliosa d'Italia, non solo resse all'urto di tante 
forze avverse, ma piegò spesso ai propri usi i coabitatori 
stranieri e fé' penetrare nei loro idiomi molta parte del 
proprio, — è senza dubbio degno argomento di studio per 
qualunque ingegno, ma specialmente per gì' Italiani, che 
troverebbero in esso di che illustrare un episodio di non 
piccolo interesse della loro vita nazionale e tale una flora 
di memorie che per vivacità di tinte e robustezza di fibra 
non è da meno di qualunque altra. 


agli siudj Italiani, 259 


E qui entra la storia a confortare di nuovi argomenti 
il inio assunto. 

Dissi testé che la storia dell' Istria è tutta italiana. Ora 
non vi spiaccia che ne trascorra di volo i momenti princi- 
pali, tanto che anche questo suo vanto suoni qui allo sco- 
po per cui vi parlo. 

Costituita regione d'Italia già sotto il governo di Roma, 
r Istria fiori lungamente della più rigogliosa civiltà latina. 
Le sue colonie, i suoi municipj, come Tergeste, Egida, 
Emonia, Parentium, Fola salirono presto in fama di ric- 
chezza e di forza; — eleganti e magnifici edifici, i cui 
avanzi si ammirano tuttora e contribuiscono largamente, con 
un assieme di oltre mille lapidi scritte a chiarire la civile 
potenza del genio romano, sorsero ad aggiungere i prestigi 
dell' arte a quelli della natura bella di colli e piani uber- 
tosi, che sotto la mano di un popolo intelligente e felice 
« divennero, giusta la descrizione, sia pure rettorica, fattane 
da Cassiodoro, la delixia dei doviiiosiy la fortuna de* meno 
agiati, la campagna di Ravenna e ornamento £ Italia, E in 
me^zo a quest' opera grandiosa, più grande ancora fu lo 
spirito che l'animò, il proposito cioè di rendere quella pro- 
vincia, che sta di contro al varco più geloso della frontiera 
d'Italia, quanto meglio si poteva gagliarda a tenerne la guar- 
dia, come ce lo dimostrano i molti fortilizi e i valli turriti, 
che vi furono costrutti, e le cui tracce restano tuttora cu- 
stodi di un pensiero, che deve risorgere. 

Corsa poi anch' essa, ma non occupata stabilmente, 
prima di Teodorico, dai barbari, potè, quasi più di ogni 
altra italiana provincia, conservarsi ancora per lungo tem- 
po, non solo la vita, ma lo splendore dell' età latina : il 
che avvenne per la ragione della sua postura di fianco 
alla via fatale che, superata l'Alpe, mena tosto ai più lar- 
^ ghi orizzonti dei piani friulani e per la ragione inoltre 


26o Della Rivendicaiione dell' Istria • 

del breve suo ambito, quasi intieramente sul mare il quale 
tutto lo frastaglia di seni, di porti, di rade, e dal quale le 
tornava agevole trarre gli aiuti a resistere o a rifarsi dei 
danni patiti. 

E cosi, mentre allora appena sorgeva entro ai ripari di 
questa laguna la più altera gloria, di che, dopo Roma, siasi 
riconfortata l'Italia, — mentre il nascente potere di Vene- 
zia apparecchiavasi agli alti suoi destini nelle umili sedi di 
Eraclea e di Malamocco, — e la già tanto doviziosa e for- 
midabile Aquileja giaceva estinta sotto i canneti della sua 
maremma, — Fola teneva il primato fra le città dell'Adria- 
tico superiore, e dalla sua Istria, ancora vigorosa sotto le 
armi dell' antica fortuna, venivano qui, più in ausilio dei 
profughi che profughe esse medesime, molte e molte di 
quelle insigni famiglie, i cui nomi ricinsero poi di si lumi- 
nosi raggi il gran nome della loro Repubblica. 

Il turbine dei tristi tempi si rovesciò più tardi anche 
suir istriana provincia ; che anzi influì per sicuro a ricon- 
durre alle avite spiaggie i Veneziani, appena loro crebbe 
l'animo di osare. Ed invero, l' Istria, sebbene desolata an- 
ch' essa dal flagello delle invasioni barbariche nei lunghi 
anni luttuosi, che seguirono dalla guerra gotica al regno 
dei Franchi, era però sempre ricca dei mirabili suoi porti, 
dai quali soltanto potevasi guardare e signoreggiare il gol- 
fo. Ed essa, inoltre, s' era mantenuta quasi tutta e quasi 
sempre indipendente dai Longobardi sotto il nominale do- 
minio di Bisanzio rappresentato dall'esarca di Ravenna, e 
più davvicino dal maestro dei militi, e con liberi ordini mu- 
nicipali, suir antico modello romano, dell'età, in cui il cor- 
rettore, o il preside, od altro consimile magistrato la gover- 
nava assieme con la Venezia. 

Di tal modo la storia dell'Istria da Alboino a Carlo Ma- 
gno è prova continua, che, anche dopo spezzata da quello 


agli studj Italiani, 261 


1' unione amministrativa delle regioni dell'Alpe Giulia col 
Veneto mediante l'occupazione di esso, le città istriane con- 
tinuarono a tenersi collegate in vera società coi fratelli di 
questa laguna, loro ajutatrici da prima, ajutate poi da 
chi già si avviava a ridonar loro una nuova Roma sul loro 
mare. 

Quindi, se con Carlo Magno hanno principio nuove sven- 
ture per r Istria, e prima fra tutte il feudalismo, erettosi 
allora per la prima volta nelle sue campagne, nuovo com- 
penso le fu dato di vita italiana. E questa, volta com' era 
a gran meta, fu piena di dure prove e di generosi ardi- 
menti. L'istriana provincia traduceva da primo il sodalizio 
di fatto, che aveva stretto con Venezia in formale federa- 
zione, regolata da patti solenni, nei quali giurava di retine- 
re honorem beati Marci, di combattere sotto il s\io vessillo 
àbsque jussu imperatoris e prestare tributo di navi, di der- 
rate, di prodotti delle sue industrie. Via via poscia che 
quel baluardo d'Italia rendevasi più forte e di maggiori im- 
prese capace, passava dall' alleanza sotto la protezione e 
dalla protezione sotto il governo dì esso. È questo un 
lungo periodo fortunosissimo, che si svolge dal secolo nono 
ai primi anni del decimoquinto, meritevole di essere pro- 
fondamente studiato, non già solo da storie municipali e 
provinciali, ma da quella ancora di Venezia e d'Italia e 
dello stesso medio evo in generale, i cui fatti di si vario e 
intricato sviluppo hanno bisogno d'ogni loro profilo e d'o- 
gni riscontro di colori e di ombre per essere ritratto con 
verità di disegno e di rilievo. Fu lotta estrema fra 1' ele- 
mento nazionale e lo straniero, le franchigie municipali e il 
despotismo feudale, le città guelfe e le baronie ghibelline, 
la civiltà e la barbarie, il diritto e l'usurpazione. E vinse la 
buona causa per le virtù della saggezza, del coraggio, della 
f perseveranza di Venezia mirabilmente secondate dal patriot- 


202 Delta Rivendicazione dell* Istria 

tismo e dal valore degristriani : virtù, alle quali la storia 
darà encomi maggiori di quelli dati finora, quando i nuovi 
studi sul passato, attinti a tutte le loro fonti in casa e fuori 
avranno ristabilito pienamente questa brillantissima parte 
dell'opera sua millenaria. 

Le nuove sventure, a cui l'Istria tenne fronte nel detto 
periodo, riassumo cosi : — Orde slovene importate dal 
Friuli su alcune delle sue terre montane ; — fatta una mar- 
ca feudale di quelle frazioni della provìncia, che non riusci- 
rono a salvare la propria indipendenza dai nuovi ordini ; 
— ascritte bensi le une e le altre al titolo del Regno (T Italia, 
e non mai a quello del Regno germanico, per modo anzi che 
nella slessa età più infelice del feudalismo alemanno l'Istria 
si trova annoverata fra le regioni italiane obbedienti al di- 
ritto latino assieme con Roma, Venezia, Ravenna, Napoli, 
la Pentapoli, la Toscana, l'Umbria, l'Abruzzo, la Calabria j 
ma franta 1' unità del paese e modus vivendi per esso la 
guerra, a cosi dire, di ogni giorno; — i signori della Mar- 
ca, cioè i comites limitanei o magravi, come furono chiamati 
in appresso, da prima francesi e poi tedeschi tramutatisi da 
elettivi in ereditari, e di tal guisa, sebbene assenti sempre 
nelle loro signorie d'oltremonte, divenuti mano mano più 
ostili a tutti i comuni istriani, dei quali gli uni erano ob- 
bligati al solo tributo, gli altri franchi del tutto da ogni 
soggezione ; — sórta sotto lo stesso nome dell' Istria, ma 
del pari estranea all'Istria comunale o civile, quell'altra fat- 
tura feudale, che fu la Contea, quasi non più che gastaldia 
del marchesato in sul principio, ma poi corpo a sé, temi- 
bile non poco anche nella ristretta sua cerchia, perché in 
possesso del varco del Monte Maggiore ; — costituitesi agli 
altri passi dell' Alpe Giulia le altre contee della Carsia e di 
Gorizia, e alzata quindi, se non dentro agli accampamenti 
della popolazione italiana dell' Istria, bensi sulle linee più 


"1 


agli stiidj Italiani, 263 


importanti della sua difesa, già si lungamente e strenua- 
mente tenute, la bandiera delle genti transalpine; — suc- 
ceduti nel marchesato i patriarchi di Aquileja meno fidi, è 
vero, alle mire straniere e meno stranieri essi medesimi, 
ma non meno avversi all'antico e non mai logoro o stanco 
indirizzo della istriana provincia e più risoluti anzi a com- 
batterlo colle insidie e colla forza, vicini com'erano e quasi 
presenti al campo della lotta: — l'Austria infine o già su- 
bentrata o prossima a subentrare, dalle sue acropoli della 
Carniola e della Carinzia a quelle piccole signorie, che le 
avevano prestato l'officio di avanguardie, l'Austria già spin- 
tasi fino ad una rada dell'Adriatico, vale a dire fino a Trie- 
ste, nella quale, pur lasciandola libero comune italico, stette 
quasi cuneo ' confitto fra l' Istria e il Friuli, le due estreme 
contrade italiane della Repubblica, e potè cosi impedire ch'ella 
riconquistasse a sé e alla nazione la frontiera tutta dell'Alpe 
Giulia secondo che aspirava costantemente dietro la guida 
dei ricordi di Roma. 

Confido non sia il solo amore della patria, che mi fac- 
cia apparire ammirevole e degna dello studio di ogni ricer- 
catore dei fatti italiani, non meno la costanza dell'Istria nel 
pensiero e nell' opera nazionale contro tanto succedersi di 
avversità, di quello che la sagacia di Venezia, che seppe 
valersene, salvando almeno per l'avvenire interessi e desti- 
ni d'Italia, i quali altrimenti sarebbero periti forse per sem- 
pre, e forse ancora senza neanche una voce di postumo 
compianto. — I comuni istriani non cedettero mai né ai 
marchesi laici, né ai marchesi chierici; — tentatosi da que- 
sti ultimi di formare per sé un partito in alcuno di essi, 
dopo quelle volontarie loro dedizioni alla Repubblica, che 
sono succedute fino dal secolo XII, e spintolo anche a 
qualche rivolta (si che certi cronisti veneziani, mal registran- 
do questi singoli fatti, indussero anche storici diligenti a 


264 Della Rivendtcaxione dell' Istria 

narrare conquiste di Venezia, non solo contro il marchesato 
delle campagne feudali, ma anche contro la stessa Istria, 
tanto diversa, dei comuni, il patriottismo italiano trascorsi 
pur là, come portava la fierezza di que'tempi, a sanguinose 
e barbare vendette per furia di plebe, esempio la più atroce 
fra tutte, che fu detta la strage dei Sergi in Fola; — a/sa- 
lito per mare e per terra da Slavi, Saraceni, Ungari el al- 
tre schiere di barbari e di predoni, né risparmiato, pur 
troppo, in quella maledizione delle guerre civili, da Pisa e 
Genova, che a ferire la potenza di Venezia facevmo im- 
peto principalmente contro i lidi istriani, quel jTOpolo fu 
continuamente in armi cosi nelle rocche cittadine, come 
sulle navi degli arditissimi suoi stolta ossia di quelle svelte 
flottiglie, alle quali il Governo di S. Marco commetteva il 
rischio e l'onore di guardare il golfo; — cento e cento 
combattimenti sostenne esso allora nel nome d'Italia, cui se 
la ristretta scena e l'età oscura tolsero le segnalate testimo- 
nianze, è giusto ora salvare dall'oblio, che il merito delle 
azioni generose sta nella virtù loro, e non nel rumore, che 
se ne sia levato; — anch'esso ebbe la sua Legnano a Sal- 
vore, come un egregio storiografo triestino attende ora a 
dimostrarlo contro i dubbi, con che piace a molti di met- 
tere in forse quel lontano avvenimento; — anch'esso van- 
ta esempi molti di eroico valore, di cui alcuni sarebbero 
pari in tutto a quelli dei Mica e dei Bragadin, se loro pure 
fossero toccate in sorte le onoranze della fama seguace, 

illacrimahiles , ignotìque longa mete, carent quia 

vate sacro; — esso infine, e qui esso solo veramente, può 
spiegare sotto gli occhi di ogni più rigido censore tutte 
le sue memorie, provocando a scoprirvi una sola macchia 
per fede mancata all' Italia, mentre tante invece se ne tro- 
vano, pur troppo, in tante altre delle più illustri della sto- 
ria nostra. 


agli studj Italiani. 265 


Ma procediamo solleciti. Con Venezia, impadronitasi nel 
1420 anche del marchesato, comincia per l'Istria un'era 
migliore, nella quale la vita, fattasi più tranquilla e sicura, 
s' ingentilisce negli studi e sviluppasi variamente sotto sa- 
gaci ordinamenti, dei quali non pochi durano tuttavia negli 
usi ed anche in alcuni statuti e regolamenti, su cui non è 
passata ancora la mano del nuovo legislatore. 

L' antica civiltà nostra, non mai spentasi lungo quel- 
la estrema costa d' Italia, vi riprese vigore assai presto sotto 
l'azione delle stesse cause, che la fecero rinascere e fiorire 
si bene per tutta la penisola. Ed é qui, parmi, che cade di 
rilevare, come l' Istria vada superba di una numerosa schiera 
di cultori distinti delle scienze e delle arti belle, della quale 
tutta la nostra nazione si onora e non hanno l'eguale 
molte e molte delle minori provincie sorelle. Preceduta dal 
seniore Vergerio, che appartiene a età più antica, e che a 
ragione il Platina mette primo, per ordine di tempo, fra i 
migliori, i quali abbiano posto mano, dopo il Petrarca, alla 
ristaurazione degli studi classici, questa schiera (a trasce- 
glierne soltanto un drappello e tacere di ogni contempora- 
neo) conta r altro Vergerio e il Piaccio, rinomatissimi nella 
storia della Riforma, — il Muzio, che meritò di essere chia- 
mato l'emulo del Davanzati, — il Santorio, illustre capo- 
scuola nelle mediche discipline, — il Carli, gloria della 
scienza economica italiana e insieme storiografo fra i più 
eruditi del secolo del Muratori, che pur tanti se n'ebbe di 
grandissimo valore, — il Carpaccio, le cui tele sono qui, 
in questa città monumentale, ammirate fra le più degne 
opere del purismo della scuola veneziana e ne contendono 
la palma a quelle del Giambellino e del Cima da Cone- 
gliano, — e inoltre il sommo Tartini, vero genio della mu- 
sica, che legò alla posterità, non solo le immortali sue ar- 
monie, ma dottrine cosi profonde e nuove sulle leggi dei 


266 Della Rivendicazione dell' Istria 

suoni che gli studi recenti riconoscono ogni di più mera- 
vigliose. — Quando pure l' Istria non portasse sul proprio 
scudo altro titolo che questo, lascio giudicare a voi, pro- 
pugnatori delle ragioni dell'ingegno, se non dovremmo, 
meglio che riconoscerle, vantare la italiana sua cittadinanza. 

Ho precorso i tempi, di cui mi resta far cenno, tratto 
da si confortanti ricordi. Rifacendomi ora su di essi, cioè 
sull'ultimo periodo della storia di Venezia nell' Istria (che 
cosi ormai va chiamata la storia di questa provincia), sog- 
giungo tosto, che sebbene a maggiori intervalli, nemmeno 
allora le mancarono memorande occasioni di distinguersi 
per larghi sacrifizi di sangue e di averi in difficili cimenti 
contro lo straniero. I Turchi, gli Austriaci, gli Uscocchi 
più volte la invasero, la depredarono, la coprirono di stragi, 
ed ella trovò in sé l'animo sempre pari al pericolo. E av- 
venne perfino che da sola respingesse talora i fieri as- 
salti con armi proprie e con a capo quel nobilissimo suo 
patriziato, il quale si meritò a storico delle sue gesta, come 
tante ducali di questi archivi rendono fede, lo stesso Go- 
verno della Repubblica. 

Né questa, incontratasi coli' Austria, giusta quello che 
ho già notato, ai confini dell'Istria e del Friuli, dopo aver 
levato di mezzo il principato dei patriarchi di Aquileja, ab- 
bandonò di fronte alla crescente potenza del grande Stato 
vicino, la generosa speranza di allargare il suo dominio su 
tutto il versante italiano dell'Alpe Giulia, come lo compro- 
vano molti pubblici documenti e relazioni dotte e sagaci, 
provocate dal Senato, di celebri uomini d'arme. Anzi, nella 
guerra contro Massimiliano le riusci, comecché per poco, 
di compierla. Inalberato allora il suo vessillo al varco di 
Postoina (le Are Postumie dei Romani), forse non ne sa- 
rebbe stata più rimossa, se la lega di Cambrai non le avesse 
franta l'impresa. E nuovamente più tardi si slanciò alla 


agli studj Italiani 267 


stessa meta in guerra gagliarda, quando le atrocità degli 
Uscocchi, narrate dal Minucci e dal Sarpi, la trassero a ri- 
tentare la prova. Che se questa non fu più felice dell'altra, 
entrambe ci attestano del pari, quanto e per quale ragione 
suprema premesse a Venezia di vincerle. E non tarderà, 
giova sperarlo, chi nell'attuale risveglio degli studi storici, 
si bene promosso e diretto per nuove vie anche tra noi, 
sorga a bene illustrare questo importantissimo indirizzo 
della politica italiana di Venezia fin qui troppo trascurato, 
e pur si meritevole di essere fatto argomento di accurate 
ricerche e di giudizio attento, non solo in omaggio alla 
verità e per giungere onore al senno di quell'accortissimo 
Governo, come richiede la religione del passato, ma ancora 
a nostro ammaestramento nel presente e per 1' avvenire, 
affinché, data l'occasione, l'Italia unita non si mostri da 
meno di ciò, che fu una sola delle sue città. 

Ma é tempo di chiudere questo rapidissimo sommario 
della storia dell'Istria. 

Posseduta da Venezia, quando questa non teneva ancora, 
a cosi esprimermi, i margini della sua }aguna, essa fu la 
prima a brandire le sue armi e fu 1' ultima a deporle; poi 
le sotterrò con tale lamento che fu la sola voce degna le- 
vatasi al tramonto di tanta grandezza. 

Non vi dirò dei brevi anni, nei quali l' Istria fu provincia 
del Regno Italico e provincia preziosa sia per ragioni mi- 
litari del maggior momento, sia per la sua marina, giudi- 
cata dal Bande la première officine d*hommes de mer, e che 
può dirsi col Nelson essere tutta un porto, come pure per 
l'alto valore de' suoi boschi e stabilimenti salini. Troppo 
presto precipitarono que' nuovi suoi destini e ne segui il 
servaggio, che dura ancora per lei. 

Or qui, se potessi indugiarmi, volentieri vi esporrei, con 


268 Della Rivendicazione dell' Istria 

cifre alla mano, come questo servaggio, il quale non valse 
mai a rimutare T animo degl' Istriani, non bastò nemmeno 
a sviarne gl'interessi economici. A stringere su di questo 
molte prove in una sola, basti rammentare, che si è dovuto 
escludere la penisola istriana dalla lega doganale dell' Austria, 
cioè rinunciarla ai commerci nostri. — E se Trieste serve 
ai traffici della Germania orientale, anche Venezia e Genova 
servono a quelli della Germania centrale e occidentale, senza 
che alcuno si lasci perciò cadere in mente di concedere su 
di esse alle signorie d'oltralpe qualsiasi diritto. — Né, ra- 
gionando tale argomento, si male compreso dai più, va di- 
menticato che lo straniero, il quale sta suU' Adriatico, non 
ne sarebbe già escluso, quando lasciasse l'Istria, secondo 
che suolsi credere per grossolano errore, ma terrebbe an- 
cora, oltre ad ottime sue difese sull'opposto versante del- 
l'Alpe Giulia, un litorale, da Fiume a Cattaro, sei volte più 
esteso dell'istriano e portuoso del pari: come non va di- 
menticato inoltre, per quello che riguarda le pretese ad un 
Mare Germanico del Sud nel golfo, già sempre italiano, dei 
Dandolo, dei Pisani, degli Zeno, protestarvi contro anche 
il fatto che nessuna stirpe tedesca s'incontra sulle sue rive 
né dappresso, dappresso essendovi, e per largo tratto di 
popolose Provincie, la sola Slavia. 

Ma, lasciando ciò, conviene mi porti senz'altro a toccare 
di un'ultima ragione, che soccorre alla mia parola, e eh' io 
non potrei passare intieramente sotto silenzio in questo mio 
discorso. 

È ragione, che si riferisce alla sicurezza del nostro Re- 
gno. — Sebbene essa sia tale, da condurre sul terreno della 
politica per ignes cineri suppositos^ io ne la terrò fuori stu- 
diosamente, dichiarando che quanto sto qui per dirne di 
volo non mira ad altro che a provocare studi, sciolti da 


agli siudj Italiani, 269 


ogni carattere officiale , sulle condizioni e sugi' interessi 
d'Italia sotto questo riguardo. Neanche scrupoli di conve- 
nienza possono interdirceli. Sarebbe invero, a dir poco, pre- 
tensione ridicola volere che la nostra nazione, non solo tol- 
leri pazientemente i suoi danni, come fa, non solo desideri 
pace ed accordo contro il comune pericolo con quegli 
stessi, che la costringono a subirli, ma si astenga perfino 
da qualuque atto, che possa condurre a vederli. Pur troppo 
dal vedere al provvedere non è sempre né breve, né piana 
la via. Ad ogni modo, noi qui non si mette piede in essa, 
né io mi rivolgo a coloro i quali, cosi piacendo al cielo, 
potrebbero percorrerla. Che se poi il conoscere é condi- 
zione e può essere avviamento al fare, perché pone in 
grado di vigilarne e coglierne le occasioni, ciò spetta a 
queir ordine naturale, di cui nessuno ha ragione di richia- 
marsi. 

Con questa premessa, affermo, appoggiato alle autorità 
più competenti, che dai piani del Friuli al capo di S. Maria 
dì Leuca é sguernito di ogni valida difesa tutto il fianco 
orientale del nostro Regno, e va ben deplorato un assetto, 
per cui de' due Stati, fra i quali si addentra l'Adriatico, 
l'uno vi abbia ogni potere e punto l'altro, quello stringa 
ogni mezzo di offesa, e questo sia privo invece anche della 
più necessaria offesa. 

E, diffatti, il confine, che abbiamo nel Friuli, corre per 
gran parte jn aperta campagna al di qua dello stesso Isonzo 
e sotto il cannone di chi occupa i contrafforti delle Giulie. 
Tutti e tre i varchi di quella barriera alpina (Predil, Po- 
stoina e Ciana) sono in potere altrui. Senza l'Alpe Giulia 
pertanto, senza l'Istria, che é campo mirabilmente chiuso 
dalla natura di contro alle vie d' oltremonte, molo d'ap- 
prodo proteso verso Venezia, quasi a formarle di quell'ul- 
timo seno dell' Adriatico il suo gran porto esteriore, e perciò 


270 Della Rivendicazione dell* Istria 

testa di ponte e complemento della sua fortezza, — tutto 
il Veneto è scoperto fino all'Adige e al Po, e deve essere 
considerato nei riguardi militari, giusta una celebre frase, 
nulla più che un'anticamera d'Italia^ sen^a imposte ne d' usci, 
né di finestre. 

Né meno infelice è la nostra posizione sull'Adriatico. Il 
nostro litorale (per usare le parole del Menis, che trovano 
piena conferma negli scritti del Paleocapa e del WùUers- 
torf) è basso, piano, sabbioso, sen%a sviluppo d* insenature^ con 
rade mal sicure ed ancoraggi pochi ed infidi^ incerto^ instàbile^ 
profondamente corroso e smarginato da gran copia ^ fiumi, di 
canali^ di stagni^ nonché esposto ai venti levantini^ che ne con- 
trastano la navigandone, — Tralasciando di avvertire i gra- 
vissimi danni, che ne derivano a molti interessi della stessa 
navigazione commerciale per noi che non occupiamo nel- 
l'Adriatico il benché minimo tratto della sua costa di levante, 
alla quale pur si deve poggiare indeclinabilmente, qui mi 
limito a notare che non un solo vero porto di guerra si 
apre nel nostro lido. Venezia medesima, la quale non ha 
pel grosso naviglio che un solo, e non sempre facile adito, 
vale a dire il canale di Malamocco, non é perciò, propria- 
mente, che un arsenale militare, come ben lo riconobbe 
anche la Repubblica, tenendo di consueto nei porti di Pela 
e del Quieto le sue triremi alla guardia del golfo. E basta, 
certo, porsi sott' occhi questi fatti per vedere, che, non po- 
tendosi difendere efficacemente un lungo litorale che me- 
diante una flotta, né destinare flotta a tal fine, senza un 
vero porto di guerra, il quale le serva di base d'operazione, 
da cui muovere, e dove prendere rifugio agevolmente, la 
nostra frontiera marittima dell'Adria sta inerme, si che po- 
trebbe essere aggredita e varcata in più punti ad un tempo 
e nel giro di poche ore, specialmente da chi tiene gli ec- 
cellenti porti del litorale opposto. 


agli studj Italiana 271 


Quello, che da tutto ciò cousegue riguardo all'inapprez- 
zabile valore dell' Istria per le più imperiose ragioni della 
nostra sicurezza, e perché Venezia non resti imprigionata 
nella sua laguna, quasi naviglio in disarmo, non ho bisogno 
di dirlo. Se il buon senso non si stimasse abbastanza si- 
curo delle sue conclusioni, verrebbe a confermargliele am- 
piamente la scienza. A ricercarne i giudizi possono servire 
le citazioni, che si leggono in molti lavori, che trattarono 
in causa istriana e ch'io mi recherò a debito di presentare 
a questo illustre Istituto \ Qui citerò soltanto le Memorie 
del Marmont, la Storia politica e militare del principe Eugenio 
pel l^enerale de Vaudroncourt, i Propugnacoli d' Italia di An- 
nibale Saluzzo, la Marina dell* Austria del Bande e le storie 
del Thiers. La sintesi poi di tutti i ragionamenti sta in una 
memorabile sentenza proferita dal più gran capitano del- 
1*^ età moderna. L* Alpe Giulia^ disse egli, h compimento del 
Regno d* Italia. Perchè questo non s'abbia il nemico in casa^ la 
linea dell* Adige va portata a que^ moniiy à Vlstrie^ qui l*em- 
portey par la convenance et la valeur intrinsèque, de beancoup 
sur la Lombardie. 

Or altro non aggiungo. Se narrassi ancora la lunga serie 
delle prove di patriottismo date dagli Istriani anche in 
questi ultimi anni e in ogni campo del fortunato nostro ri- 
sorgimento, non mi riuscirebbe di stare ai rispetti, che mi 
sono prescritto. Ne ho già raccolte le memorie autentiche 


1 Di quelli tra i miei, che dovettero uscire anonimi e talora farono attribuiti ad 
altri, debbo, per non apparire colpevole di plagio, notare i segnenti : Etnografia istriana^ 
nella Rivista Contemporanea di Torino, settembre 1860 e giugno 1861; — La frontiera 
orientale d'Italia e la sua importanza, nel Politecnico di Milano, voi. XIII, 1862; — Im- 
portanza strategica dell'Alpe Giulia, nella Rivista Contemporanea, aprile 1866, e a parte 
col titolo l'Istria e l'Alpe Giulia, Monza, 1866; — Appello degl'Istriani alP Italia, a 
pag. 19- SO della pubblicazione La Provincia dell'Istria e la Gttà di Trieste, Firenze, 
Barbèra, 1866. 


272 Della Rivendica:^one delf Istria, eu. 

e sto ordinandole in volume, che spero di poter pubblicare 
quanto prima. Quella parte di esse, poi, la quale ritrae il 
movimento intellettuale dell'Istria ai tempi nostri e il fe- 
condo lavoro delle istituzioni e delle riforme civili, che lo 
accompagnò attraverso alle più aspre opposizioni, mi ri- 
servo di rappresentarvi un'altra volta, occorrendone rela- 
zione alquanto diffusa. 

E sarebbe ozioso infine, ch'io facessi perorazioni a voi 
qui, in questa rocca dell'immortale pensiero di Venezia, dove 
affettuosa sempre, e per secoli domestica, suonò la voce 
della mia provincia nativa. 

Possa io, o signori, avervi indotto a ripetere, guardando 
a lei, lo agnosco veteris vestigia flammae. 




LA SOLUZIONE. 

(Dalla Venezia Giulia di Paulo Fambri — Venezia 1880) (*) 


A. 


.vete torto, voi e i vostri connazionali, quando 
desiderate la rovina dell'Austria. Ben sapete quanto io ami 
l'Italia, io, che mi onoro di aver combattuto per la nobi- 
lissima causa della sua indipendenza contro i carnefici di 
Arad e di Mantova. Ma ciò non mi accorcia la vista nel 
considerare i vostri interessi in relazione a quelli del vostro 
vicino di oriente. Forse, anzi, il vivo affetto, che porto alla 
vostra nazione, me la rischiara ed allarga, essendo anche di 
ciò capace il cuore. Lasciate dunque che vi dica, coli' in- 
timo convincimento di dir giusto, che l'impero austro-un- 
garico non può essere più quello di una volta, per quanto 
pure gl'incorreggibili uomini del passato nella Corte di Vienna 
e nel partito militare tentino di negarlo, stoltamente desi- 
derosi di scongiurare la grande trasformazione, a cui già si 
è vòlto quello Stato e dee volgersi indeclinabilmente sempre 
più, se non vuole soccombere. Ritenendo questo per fermo. 


(*) H lettore compreuderà agevolmente la ragione, per la quale 
il Combi nelPesporre sotto forma di lettera al Fambri quella, che 
a lui pareva la soluzione più logica del problema dell'Alpe Giulia, 
si finse Ungherese. (M?to delli Editori.) 

18 


74 I^ Soluzione. 


voi dovete augurarvi che tale trasformazione si compia, 
vale a dire che l'Austria, tramutandosi dal dualismo al fede- 
ralismo, si estenda via via al Mar Nero e all' Egeo ; — voi 
dovete augurarvi ch'essa divenga per tal modo un valido 
antemurale di contro alla Russia, a tenerla lontana dal Me- 
diterraneo ; — voi dovete augurarvi eh' essa se ne stia ben 
ferma e vigorosa anche di fronte alla Germania, la quale 
non mancherebbe certo, altrimenti, di cogliere le propizie 
occasioni, per mettere all' aperto e più o meno direttanaente 
in via le ancora custodite sue aspirazioni all'Adria. Questo 
é supremo interesse, non solo dell'Austria, ma anche vostro, 
e insieme delle potenze occidentali. Naturale pertanto, o pre- 
sto o tardi, oin pace o in guerra, la quadruplice alleanza 
a si gran fine ; e naturale altresì, per conseguenza, che sif- 
fatta lega debba essere da voi considerata non solo come 
il miglior mezzo a salvarvi dal pericolo di avere un giorno 
a ridosso i due immani colossi del nord, ma ancora come 
la occasione più favorevole a ricuperare quanto vi manca 
ai vostri confini di oriente. Lasciando, invece, alle sole po- 
tenze occidentali l' assunto di aiutare l' Austria a ricomporsi 
su altra base, ne avreste immenso danno in ogni caso, sia, 
cioè, che vincessero i suoi e loro avversari, sia che vinces- 
sero esse, perocché nella prima ipotesi sareste ridotti, con 
Germania e Russia sulle vostre porte o' dappresso a tristis- 
sime condizioni di vita politica ed economica, e nella se- 
conda avreste l'Austria forte cosi dall'Adriatico all'Egeo, 
da togliervi ogni speranza di provvedere mai più alla sicu- 
rezza del Regno nell'Alpe Giulia e nei porti dell'Istria. 

Riassunti di tal maniera, sotto si importante riguardo, i 
miei calcoli politici, consentite che ve ne parli un po' par- 
titamele. Il mio pensiero, conforme a quello già molti anni 
addietro adombrato dal vostro illustre Cesare Balbo, é bensì 
ormai comune a molti de' miei compatriotti, ma ancora gli 


La Soluzione, 275 


fanno guerra vecchi pregiudizi. Principalmente pel timore 
di accrescere troppo gli elementi slavi dell'Austria, lo si con- 
trasta tuttora tenacemente al di qua e al di là della Leita. 
E voi, dal canto vostro, dominati sempre dall'idea fissa 
che soltanto il disfacimento della monarchia austriaca vi 
possa giovare, vi associate coi vostri più implacabili nemici 
di qui a temere, e, potendo, ad impedire ch'essa s' inorienti. 
Parlo dunque contro errori vostri e nostri ad un tempo, e 
per amore insieme e della mia Ungheria, e dell' Italia. Oh ! 
arrivassimo presto, italiani e ungheresi ad intenderci e a 
farla intenderei Ci accordassimo presto a camminare di con- 
serva verso la stessa metal 

Comincio col domandarvi, se non sia manifesto che in 
Europa lo Stato più minacciato nella sua sicurezza ed in- 
tegrità e forse pure nella stessa sua esistenza, dopo la 
Turchia, é appunto l'Austria, e che precisamente per que- 
sto si appuntano su di essa le mire più ostili palesi o se- 
grete prossime o remote, da una parte, e i propositi più 
risoluti dall'altra di non lasciarla opprimere, ma di raflfor- 
zarla con tale riordinamento della sua costituzione politica 
e territoriale, da renderla capace di resistere, sia alle insidie 
sia agli assalti de' suoi nemici. Dico che ciò é manifesto. 
Chi,, infatti, non vede i molti pericoli, che corre l'Austria, 
finché non si riesca a darle l'assetto, che può redimerla? 
Chi non vede che questi pericoli derivano principalmente 
dal contrasto delle diverse nazionalità, che la compongono, 
dall'impero attribuito a due sole di esse, dal fatto che le 
stesse due nazionalità imperanti non sono ben collegate in- 
sieme, ma guardano a due obbiettivi diversi, e dall' altro 
fatto, ancora più triste, che non mancano le tendenze in- 
terne le quali armonizzino coli' esterne cupidigie. 

Queste cupidigie, diciamolo francamente, scendono abba- 
stanza scoperte da Pietroburgo, e chiuse ancora nelle neb- 


276 La Solu:(ioneé 


ble di una lontana possibilità da Berlino. Esse sono tanto 
naturali che più noi potrebbero essere. Potrebbe, invero la 
Russia veder adempiuto l'antico suo voto d'insediarsi al 
Bosforo, senza combattere l' Austria ? E potrebbe la Ger- 
mania, senza vincerla un'altra volta, muovere verso il suo 
Bosforo di Trieste, fosse pure, intanto, solo per mezzo di 
im allargamento federale dell'Impero germanico nel mezzo- 
giorno, sulle orme della vecchia confederazione morta a Sa- 
dova? dubitate che gli Alemanni mirino all'Adriatico? oh! 
quanto sarebbe ingenuo, scusate, il vostro dubbio I Esami- 
nate gli interessi tedeschi, tenete conto dello spirito inva- 
sivo di quella nazione, ponete attenzione a certe scappate 
profetiche de' suoi dotti, i quali costumano, là assai più che 
altrove, di prendere la parola d'ordine dalle cancellerie po- 
litiche, né trascurate le vanterie de' suoi avventurieri tra- 
dottisi qua e là sulle rive dell'Adria a pescarvi denari, e 
converrete meco facilmente. Non é molto che un illustre 
uomo della Sprea ebbe a spiattellarmela presso a poco cosi: 
a La Germania, prima potenza militare, che occupa il centro 
dell'Europa ed è grande e animosa per molti rispetti, non 
può acconciarsi a rimanersene vòlta soltanto al freddo set- 
tentrione. Essa pure ha diritto ad uno sbocco nei mari del 
. sud; essa pure deve possedere le sue calate, le sue ban- 
chine e i suoi ridotti e le sue corazzate a proteggerle nel 
gran porto delle genti civili e operose, ch'é il Mediterraneo; 
anch'essa vuole condursi per la via più breve a correre il 
palio del canale di Suez. Questo é, questo dev'essere un 
supremo suo intento. Bisognerà bene che l'Austria ci faccia 
luogo. Noi guardiamo a Trieste, e i signori dell'Italia ir- 
redenta avranno colà a discorrerla con noi, che saremo pei 
loro denti un osso ben più duro di quello dell'Austria. Se 
la nostra prudenza politica allontana ora dall'orizzonte que- 
sto pensiero o ve lo mette fra le nebulose, state pur certo 


La Soluiwne. 277 


che lo vedrete sfolgorare di tutta la sua luce alla prima 
buona occasione. Non ignoriamo che i difensori dell'Austria 
ci staranno contro. Ma, ove non bastassimo da soli, sarà 
con noi altri, ch'é cointeressato a fiaccarla. C'è la Russia, 
che vuole anch'essa, come la Germania, riscaldarsi al sole 
del mezzodì. £ Germania e Russia congiunte, perchè il loro 
voto comune si adempia hanno ferro e fuoco per tutti. » 

Io non yo' dire col fiero mio interlocutore, che la Ger- 
mania s'abbia, come lui, si piena e serena la sicurezza del 
ferro e fuoco per tutti. Chi sa anzi eh' essa, vedendo l' Europa 
bene decisa ad opporsi agli appetiti nordici, non lascerebbe 
la compagna, la quale avesse più fame che giudizio, sola 
nelle peste fino a tempi migliori ! Ma Y accennato indirizzo 
politico non si potrebbe negare seriamente. E vi hanno Ita- 
liani, pur sagacemente persuasi che l'Italia è senza difesa, 
finche non ricuperi la naturale sua frontiera d'oriente, i 
quali cadono nella stranissima contraddizione di cercare per 
tale rivendicazione gli alleati a Pietroburgo e Berlino! 

Perdonatemi l'esclamazione, e torniamo all'argomento, 
cioè all'argomentata unione della Russia e della Germania 
pel grande scopo di estendere o là loro signoria o la loro 
prevalenza e tutela l'una oltre i Balcani, e l'altra oltre le 
Giulie, quando fra le discordie dell'Europa fosse lasciata 
l'Austria dibattersi da sola. 

Non importa qui fermarsi a considerare come sieno in- 
giuste coteste loro tendenze. Su di ciò, per quanto riguarda 
la Russia, io mi limito a farvi notare, che v' è molto mag- 
giore differenza di caratteri nazionali fra gli Jugoslavi e i 
Russi di quello che fra voi Italiani e i Francesi. Chiame- 
reste voi nazionale il dominio della Francia in Italia? Ri- 
spetto poi alle voglie germaniche, nemmeno un'apparenza 
di causa nazionale si lascia immaginare per esse. E mi stu- 
pisco che, mentre nella mia patria questo é veduto, si può 


278 La SoluTJone. 


dire, da tutti, vi siano costà in Italia, né già soltanto fra le 
classi ignoranti, molti e molti, che non lo sanno. Dove mai 
vi hanno Tedeschi indigeni, in qualsiasi punto, dall'Isonzo 
al Quarnaro? E sta forse la Germania almeno dappresso 
sul versante settentrionale dell'Alpe Giulia? Ma quale ra- 
gazzo delle nostre scuole non sa insegnare, che là, fra le 
genti germaniche e la frontiera naturale d'Italia sta larga- 
mente e popolosamente la Slavia con tutta la Camiola e 
con buona parte della Carinzia? Che altro dunque all' in- 
fuori della sola ragione dell'arbitrio e della forza di farlo 
valere potrebbe addurre la Germania a pretendere qualunque 
tratto del litorale adriatico? Nemmeno l'interesse dei com- 
merci (a cui sarebbe del resto assurdo ed iniquo voler sa- 
crificati i diritti nazionali) varrebbe a scusa, perocché Trieste 
può servire egregiamente ai traffici della Germania orien- 
tale, come fa Venezia per la centrale e Genova per l' occi- 
dentale, anche senza appartenerle politicamente, come né 
Venezia, né Genova le appartengono. 

Ma lasciamo la ingiustizia delle dette aspirazioni russe e 
tedesche. Per quello, che intendo di dire basta conoscerle, 
allo scopo di vedere quali Stati si trovino minacciati da 
esse, e quindi necessariamente collegati contro di esse. 

Ora é facile persuadersi che questi Stati (a dir solo dei 
maggiori) sono l'Austria, l'Italia, l'Inghiherra eia Francia. 
Li metto di proposito in quest'ordine, perché cosi mi sembra 
ch'essi si succedano l'uno all'altro nei riguardi della gra- 
vità della minaccia di cui parlo. 

Con una Germania e una Russia padrone o patrone del- 
l'Adriatico e dell'Egeo, e con tanti Tedeschi e Slavi, che 
gli uni a quella e gli altri a questa spianerebbero le vie, che 
conducono alle ambite marine del sud, che mai sarebbe del- 
l'Austria? Essa sarebbe o completamente abbattuta, o, nel 
migliore de' casi suoi, ridotta alle proporzioni e al valore di 


La SoluTJone. 279 


un monumento archeologico decorato a mo' di fregio della 
corona di Santo Stefano, in mezzo al mare magnum del 
pangermanismo e del panslavismo traboccanti e spumanti 
oltre alle loro chiuse secolari. 

Ma se la è questione di vita di morte per l'Austria, 
gravissima si presenta essa anche per l'Italia. Ometto, per 
brevità, di considerare l'ardua posizione, che le sarebbe 
fatta da una Russia, che, sia pure indirettamente, cioè per 
mezzo di principi-prefetti nella penisola dei Balcani co- 
mandasse sulle portuose e formidabili coste della Dalmazia 
e dell'Albania fronteggianti il cosi infeUce e scoperto vo- 
stro litorale adriatico. Astraendo pure da ciò, e fermandosi 
ad esaminare unicamente la vostra condizione di fronte alla 
Germania, quando vi accadesse di averla, comunque, nel 
golfo di Venezia, quale somma sventura non sarebbe questa 
per voi! Non occorre essere profeti per prevedere che la 
gagliarda nazione metterebbe là tutto il suo vigore, tutta la 
sua alterezza, tutti i suoi propositi più ostinati a tenere 
fortemente il dominio o predominio conquistatosi su quelle 
rive e a trarne, sott'ogni riguardo, il profitto maggiore. 
Non sarebbero esse l'unico suo appostamento nel mezzo- 
giorno, dove far punta colle migliori sue forze per muo- 
vere arditamente alle più larghe e promettenti palestre della 
vita dei popoli civili? Quale emporio commerciale non fa- 
rebbe essa di Trieste, e quale fortezza, e porto, e arsenale 
militare di Polal E con siffatto cuneo nel fianco, che diver- 
rebbe l'Italia? Quale la sua sicurezza, spoglia com'è e sa- 
rebbe per sempre di qualsiasi frontiera naturale da quel lato ? 
Quali i suoi commerci nell'Adriatico tramutato in Mare 
Germanico del Sud? Quale la possibilità di una sua politica 
indipendente? E senza libertà d'azione, pur rimanendo in 
figura di Stato a sé, che Stato mai sarebbe il vostro ? Altro 
che grande Potenza! L'Italia meriterebbe appena il nome 


28o La Soluzione. 


dì Regno antonomo, e s'inizierebbe per lei, comecché sotto 
altra forma, una nnova e forse più lunga legge di sog^ge— 
zione allo straniero. 

A me toma oltre ogni dire sorprendente che questo non 
si veda da molti e molti dei vostri pubblicisti, o, peggio 
ancora, vi si guardi con imperturbabile indifferenza. Non mi 
dimenticherò mai di aver letto la espressione di questo in- 
qualificabile sentimento in un giornale di Venezia. Beffardo 
verso ogni aspirazione italiana alla frontiera dell'Alpe Giu- 
lia, esso si accontenta di avere nell'Adriatico i bagni del 
Lido! Siffatti animi a Venezia 1 A Venezia, nella patria dei 
Dandolo, dei Zeno, dei Pisani e d' altri molti dal nome im- 
mortale ! A Venezia, che una Germania contigua condanne- 
rebbe inesorabilmente dalle prore di Trieste e dalle batte- 
rie di Fola al destino di Torcello! 

Ma non soltanto l'Austria e l'Italia, bensì ancora l'In- 
ghilterra e la Francia sono tratte dalle ragioni più gravi ad 
impedire che l'impero austro-ungarico soggiaccia alla pre- 
potenza tedesca e slava, e questa avanzi quindi a conten- 
der loro il Mediterraneo, a rafforzarsi sulle loro linee ma- 
rittime, a turbare profondamente tanti loro interessi com- 
merciali, politici e militari. Se l' Inghilterra mette si grande 
impegno a salvare Costantinopoli dalla Russia, come mai 
noi metterebbe del pari contro la Germania, che volesse af- 
fcftuare, non importa con quale congegno politico, il porto 
di Trieste? Quale differenza, se non in peggio, per la sua 
liti'^l/lonc nel canale di Suez, fra le conseguenze del primo 
e (]Uc11g del secondo evento? E la Francia si lascierebbe 
(^)tfttr tklla Germania anche a mezzodì? Starebbesi colle 
hi ri Iti hi m^no di faccia a tanto pericolo, a tanta estensione 
(li pMlriG della sua nemica capitale? Rinuncierebbe all'al- 
ìi^fWVM dt^ll' Austria, dell'Inghilterra e dell'Italia, quando sor- 
^pi^^if^ il (giorno di unirsi ad esse per la révancheì 


La Soluzione. 281 


Egli è evidente: la irresistibile forza di un sapremo inte- 
resse comune spinge i quattro Stati ad allearsi tra loro. È 
da questo principio che voi dovete partire nei vostri calcoli 
politici; è per questa via che vi conviene andare, se volete 
compiere l'Italia, e procurarle la forza e la sicurezza, che 
le mancano. 

Quei vostri uomini politici, che si mostrano stoicamente 
rassegnati al disastro, più o meno lontano, di avere una 
Germania nell' Adriatico, bisogna credere s'immaginino che 
l'Italia troverebbesi infallantemente sola ad opporvisi, e che 
perciò essa debba lasciare fin d'ora e per sempre ogni spe- 
ranza di sfuggire tanta sventura. È veramente singolare che 
essi, i quali sogliono condannare (come rilevo dai vostri 
giornali) tutte le congetture anche più ragionevoli e vicine, 
giudicando fantastica ogni previsione, che non si risolva in 
un giudizio dei più immediati effetti delle condizioni pre- 
senti, facciano poi pieno divorzio da questo loro sistema, 
quando si tratti di predire, come fanno, l'impero tedesco a 
Trieste. Qui. si ch'é lecito, a loro avviso, ritenere per si- 
curo e indeprecabile ogni più tristo caso, per quanto av- 
volto in ipotesi remote. Di tal modo il futuro non sarebbe 
aperto, secondo essi, che alle loro malinconie e svogliatezze 
infingarde, — e chi altro pretendesse di leggervi, fosse pur 
cauto quanto più lo si può essere, non meriterebbesi il loro 
compatimento ! Ma non vi pare questa una contraddizione 
da menti boriose e ristrette? 

Non mi fate colpa, se esprimo con acre parola il disgu- 
sto, che provo all' udire opposizione cosi poco seria e virile. 
Non poco m' irrita pur l' altra, affatto diversa, di certi otti- 
misti, i quali si attendono dalla Germania ogni ben di Dio, 
dalla musica dell'avvenire all'avvenire del completamento di 
Italia. Oh ! com'essi s' illudono I Vi fosse anche, per inconcessa 
ipotesi, consentita la frontiera orientale qual prezzo di una 


282 La Soluxione. 


vostra alleanza con Germania e Russia, nell'intendimento di 
sottrarvi ad altri accordi, che altro mai, se non precario sa- 
rebbe un tale compenso? È proprio il caso di ricordarsi 
del trito timeo Danaos et dona ferentes. Dopo «ver concorso 
ad inalveare, attraverso alle provincie austriache, la gran 
fiumana germanica sino agli orli del bacino adriatico, corae 
fareste a distoglierla dal riversarvisi? Come dire alla stra- 
potente nazione: « Fin qui, e non oltre; vedere si gli az- 
zurri flutti dell'Adria, ma non toccarli; misurarne coH'avido 
sguardo Y ampiezza rallegrata dalla festa delle sue vele , e 
sentirsi la forza di percorrerla, ma rispettare la paura del 
debole e fermarsi! » 

No, no, a nessun prezzo, può tornarvi profittevole coo- 
perare con Germania e Russia a prostrare l'Austria o a cir- 
cuirla e stringerla cosi, che torni loro facile in altra occa- 
sione di assestarle il colpo di grazia. 

Comprendo bene ciò, che vi tenta ad ascoltare i consigli 
senza dubbio assai naturali dell' odio e dell' ira, anziché della 
ragione, dinanzi alle stolide ingiurie, di che vi onorano gli 
ebeti della decrepita politica arciducale e gli appaltati Juden- 
buben della stampa viennese. — D'altro canto comprendo 
del pari l'avversione alemanno-austriaca, che si aggiunge 
alle vostre renitenze nel contrastare l'intento, che vi con- 
siglio con tanto calore, e sembrami invero assai arduo farla 
capire agli allocchi della Corte imperiale. Ma per quanto 
questo sia vero, e i nostri vicini del nord e dell'est abbiano 
tentato di cavarne vantaggio, cioè di trarsi dietro legata la 
tiionarchla austro-ungarica sotto colore di averla compagna 
irt una ttuovft triplice alleanza, troppo sarebbe triplice la 
cecità del nostro Governo a non accorgersi del giuoco; e 
iiti{ijid é Imperiosa la forza delle cose, perché non sia da 
tntifìtl?*^e di veder vinti finalmente, assieme ai vostri, anche 
1 [\mM [iiegiudUl rispetto ad un'alleanza dell'Italia coli' Austria 
e di ^lUNHil^^ ctdlc potenze occidentali. 


La SoluTJone. 283 


E poiché quest'ultime sono evidentemente interessantis- 
sime di avere con sé l'Italia, cosi per l'importante sua po- 
sizione di fianco alla penisola dei Balcani, come pure per le 
sue armi, che ormai contano anch'esse, e non poco, sarà 
loro la cura, se non lo é già, di accomodare per bene i 
patti fra Vienna e Roma, Abbiamo veduto risolversi in Italia 
ben altre questioni che quelle del Trentino e dell'Istria! 

Ma dunque, direte voi, é la guerra certa dei quattro con- 
tro i due, che prevedete? E vorreste proprio che subito si 
avesse a montare a cavallo e a correre in cam]^o in tanta 
necessità, che hanno tutti di starsene quieti in casa e forse 
anche a letto? 

Nemmeno in sogno, caro amico, mi cade ciò nella 
mente. 

Prima di tutto mi guardo bene dal dire che s'abbia a 
ritenere come certa si gran guerra. Per lo contrario spero 
che l'Austria, l'Italia, l'Inghilterra e la Francia, quando si 
tengano fermamente unite a resistere, occorrendo anche 
colle armi, agi' intendimenti della Russia e della Germania, 
possano riuscire ad evitare all'umanità una tanta sventura. 
Mi lusingo perfino che di tal maniera si giungerebbe forse 
anche a rompere l'alleanza dei due imperi del settentrione 
e a trarre negli accordi dell'Europa la stessa Germania, la 
quale, vista l'impossibilità di procedere coli' aiuto della Rus- 
sia verso il Mediterraneo, potrebbe rimandare a tempi in- 
definiti l'eventuale adempimento di questo suo voto e, fatta 
di necessità virtù, accontentarsi intanto di contribuire ella 
pure a portare l'Austria sui lidi del Mar Nero e dell'Egeo, 
associandosele per modo, da fruire di quegli scali come di 
posti avanzati della propria vita economica, almeno indi- 
rettamente a lei congiunti. 

Voi vedete cosi ch'io non mi sto nella rigida cerchia di 
una sola previsione. Anzi credo l'ultima ipotesi meritevole 


284 La Soluzione, 


di particolare attenzione, potendo derivare per aliam viam 
un pericolo di soverchio intervento tedesco nel campo degli 
interessi orientali, e importando quindi non poco vigilare 
che la Germania, ove fosse per passare dagli abbracci colla 
Russia a quelli coli' Austria, non avesse a stringersi la nuova 
amica troppo affettuosamente al seno, tanto più che questa 
é assai più del bisogno tedesca di là dei confini occiden- 
tali della mia patria e non si poco di qua (sebbene al di 
fuori delle masse) da non allettare a voli pindarici, fosse 
pure soltanto nelle regioni del Kulturkampf, la temeraria 
fantasia teutonica. 

Ma abbordando pure l'ipotesi che cotesta gran guerra 
sia per essere inevitabilmente necessaria, io sono ben lungi 
dal desiderare che la si combatta presto. Desidero invece 
che si ponga ogni studio e direi quasi ogni artifizio a ri- 
tardarla. L'indugio é a tutto vantaggio della causa giusta. 
Mentre, invero, la Russia va incontro a terribili diflScoltà 
interne, né la Germania può guardare all'avvenire delle 
difficoltà proprie senza grave preoccupazione, l'Italia, se avrà 
senno, potrà riordinare le sue finanze e rafforzare il suo 
esercito durante la sosta, — l'Austria prepararsi al federa- 
lismo, prendere salda posizione fra la Serbia e il Montene- 
gro nelle nuove provincie, e di là, riformata radicalmente, 
porsi alla fine a capo della causa nazionale jugoslava, — la 
Francia riguadagnare pienamente la vigoria e gli ardimenti 
di una volta, — e l'Inghilterra attuare, almeno in parte, 
l'alto concetto Che la condusse alle vedette di Cipro. 

Per tutto questo ci vuol tempo, ed io faccio i voti più 
fervidi ch'esso ci sia consentito dalla Provvidenza, 

Comunque, però, é mestieri fin d'ora veder bene quello, 
che si richiede e converrà mandare ad effetto (o prima, 
poi — o nei campi della pace, o in quelli della guerra) per 
conseguire l'importantissimo scopo di salvare l'Oriente, il 


La SoluTJone* 285 


Mediterraneo, l'Europa dall'egemonia delle genti slave e 
germaniche. 

Ora, a ciò rendesi necessaria appunto un'Austria federale 
inorientata, ossia con altro nome, una Confederazione da- 
nubiana. Ponetevi, vi prego, sott' occhio qualsivoglia carta 
geografica di quella si importante parte del nostro conti- 
nente. Non é egli vero che la smisurata conca, la quale, 
attraversata dal Danubio, sta fra le alpi tedesche e italiane 
ad occidente e i Carpazi, i Balcani e le Dinariche agli altri 
lati, costituisce nei riguardi territoriali una regione a sé? 
E questa regione non giace alle porte più gelose dell'Eu- 
ropa, di faccia alla Russia? Non s'interpone fra le nazioni 
nordiche e le meridionali? Come dunque, senza gravissima 
imprudenza, scinderla in più Stati, che tutti sarebbero de- 
boli a tenere validamente si gelosa guardia, anziché costi- 
tuirla in una sola potente aggregazione politica? E poiché 
vi ha una vecchia dinastia militare, che già regge una gran 
parte di essa, perchè correre la ventura con altri principati 
novelli, invece che raccoglierla tutta sotto gli stessi Abs- 
burgo? 

Né vale minimamente l'opporre il fatto delle diverse stirpi, 
come la tedesca, la magiara, la jugoslava e la rumena, le 
quali abitano quel vasto paese. Nessuna di esse vi ha un 
territorio a sé; — bensi tutte si diramano l'una nell'altra 
e si screziano a vicenda là, dove l' onda delle trasmigrazioni 
passò e ripassò più grossa e frequente per secoli; — nes- 
suna di esse basta a sé; — nessuna ha diritto d' imporsi 
alle altre; — nessuna aflSda da sola l'Europa; — nessuna 
da sola sarebbe altro che una dipendenza della Germania 
nella metà occidentale dell'impero e frammenti di Russia 
nell'orientale. Quale ordinamento, pertanto, potrebbe meglio 
di cotesta Confederazione danubiana garantire alle singole 
nazionalità di quella regione la loro indipendenza e servire 


286 La Sobixìonr, 


nello stesso tempo al supremo bisogno dell'Europa di avere 
colà una vigorosa e sicura alleata? 

E qui mi fermo. Voi, Italiani, concorrendo a tanta tras- 
formazione, avreste senza dubbio il compenso della fron- 
tiera delle Retìche e delle Giulie, che tanto vi è necessaria. 
Un'Austria vòlta all'Egeo avrebbe mutato fronte e divi- 
derebbe con voi senza difficoltà, alle sue spalle, il dominio 
dell'Adriatico, essendo appunto nient' altro che un dividerlo 
l'assegnare all'Italia il suo golfo territoriale di Venezia. 

Ragionate e vincerete. 


LETTERE. 


AVVERTENZA. 


Avremmo voluto presentare al lettore un epistolario possibilmente 
completo del Combi, persuasi, come eravamo, che dalla sua vasta 
e interessante corrispondenza l'uomo sarebbe apparso, meglio che 
da qualunque biografia, qual'era, dotto, arguto e tutto d'un pezzo 
nella bella serenità del suo carattere antico. Ma le richieste, che 
facemmo da più parti, non corrisposero che insufficientemente alle 
nostre speranze. Molte delle sue lettere, forse le più importanti, 
dovettero essere probabilmente distrutte dai destinatari tuttora sog- 
getti alla sospettosa vigilanza dell'Austria; altri, che non avevano 
questa necessità, tralasciarono perfino di rispondere alle, nostre do- 
mande, forse, come nota argutamente il Combi medesimo, in una 
di quelle lettere, che pubblichiamo, perchè « pare che sia legge 
« pegli esercenti la professione di uomini grandi di non rispondere ». 

Ringraziando adunque i gentili, che corrisposero al nostro invito, 
e pregandoli di scusarci, se non pubblichiamo per intiero la cor- 
rispondenza da essi trasmessaci, ci limitiamo a render pubblico un 
breve manipolo di lettere del Combi, nelle quali predomina essen- 
zialmente il concetto politico. Vedrà da esse chi legge come nella 
corrispondenza privata, del pari che nelle opere a stampa, uno solo 
era sempre il pensiero, che affaticava la mente dell'ardente cittadino, 
la Patria, e come egli assottigliava, direm cosi, giorno per giorno, 
l'ingegno per tentar di coordinare anche dopo il 1866 l'effettua- 
zione del grande scopo della sua vita a seconda dell'andamento 
delle vicende politiche. Lavoro improbo, in cui si esaurirono le sue 
forze vitali, ma non la fede in lui inconcussa nel sicuro trionfo 
della causa istriana. 


19 


Firenze, io agosto 1866. 
Caro il mio 


s, 


lebbene la carissima tua non chiamasse risposta, sen- 
tiva il bisogno di scriverti. Ma lo avrei fatto con animo si 
nero che mi comandai di tacere. 

Io non mostrai ad alcuno, nemmeno a L..., quanto mi 
hai riferito. Sono cose molto dolorose, che vogliamo dis- 
correre soltanto tra noi due, e non puoi immaginarti quanto 
mi dolga di non esserti appresso per questi sfoghi dell'a- 
nima ad un vero amico. 

Qui oggi tutto suona disfatta diplomatica: il Trentino 
é andato all'aria; non si é in grado di fare la guerra; vi 
é discordia anche tra i capi dell'esercito; la nazione non 
ha fibra ; la flotta é con tutti suoi cannoni in pieno disarmo 
d'intelligenza, e via di questo trotto. 

Se cosi é, pazienza. Io mi lagno per l'Istria; è il com- 
promesso onore nazionale, che profondamente mi addolora. 

Qui lavorai da bestia : tanto é vero che un cane avrebbe 
cavato gli stessi effetti. Oggi abbiamo messo tutto ad ada. 
Se verrà opportuno momento, caveremo fuori ciò, che 
avevo già approntato. 

Ora non rimarrebbe altro che chiedere qualche condi- 
zione riguardo al commercio e alla navigazione tra l'Italia 
e Venezia e l'amnistia, come si fece nei trattati del prin- 


— 1 


Lettere, 291 

■ ■ ■ ■ ■ ■ ■! ^ — ■■■ .^. ■-- ■■-» .l. ™ -■■■■■■ I ■ "■ ■ ' ■ ' ■ 

cipio di questo secolo. Ho steso anche perciò uno scritto, 
e coglieremo un'ora meno ladra della presente per recarlo 
al sig. Bettino. 

Ma lasciando stare i Pettini con tutte le Bette, che con- 
durrebbero forse la politica meglio di essi (ed é tutto dire 

che lo dica iol), scrivimi cosa sia di . • 

P... se n' è andato a mettersi addosso un nuovo strato 
di carnacci^ tra i suoi pievani del Friuli, ma temo che an- 
ch' egli sarà a quest' ora in ritirata, tagliato fuori delle sue 
delizie dal maledettissimo Tagliamento. 

Addio, saluta gli amici, e aggradisci un affettuoso ab- 
braccio 

dal tuo 

Carlo. 

P.S. Mio padre mi scrisse di non ritornare. Vi sarà la sua 
gran ragione. Ebbene, pazienza anche per ciò, e coraggio 
a lavorare in qualunque campo ci ponga la fortuna, ossia 
(come credo io) la Provvidenza. 


Padova, 7 dicembre 1866. 
Caro ... 


Ti sono pure molto grato per la premura, che hai posto 
ad aggiustarmi bene le mansioni di corrispondenza del. . . 

. Ma tu non prenderti soverchio pensiero per 

farmi assegnare una retribuzione eccezionale. Non voglio 
avere compensi superiori al comune apprezzamento di sif- 
fatte cose. Voglio peraltro scrivere di mia scienza propria, 
e quindi da Padova non mando verbo. Quando sarò a Ve- 
nezia, vedrò se mi sarà possibile, come desidero, di spe- 
dirti le mie relazioni gratuite. 


292 Lettere, 

Quanto alle corrispondenze dall'Istria, rimasi stupefatto 
al leggere l'avverti mento, ch'esse non vengono rimunerate. 
E potevi sognare eh' io toccherei denaro per adempiere a 
questo dovere verso il mio paese?... Su questo campo non 
ha Milano abbastanza oro per farmelo aggradire, e di cosa 
tanto naturale non saprei nemmeno compiacermene. 

Avvertii subito il T... di quanto mi scrivesti sul conto 
suo. Egli ti é obbligatissimo e farà domani la sua do- 
manda. 

Di me ho noia a parlarti. Cedendo alle istanze della 
mia famiglia e di molti amici, lasciai che alcuni benevoli 
si adoperassero per farmi ottenere un collocamento nel 
Regno. Io peraltro nulla chiesi, né in iscritto, né a voce, né 
direttamente né indirettamente, come avrei potuto farlo 
senza disdoro. Non lo feci per indole riguardosa e tenera 
del pieno disinteresse, con cui mi recai a debito di trattare 
come poteva la causa della mia provincia. Chi approverà 
questo mio contegno e chi lo chiamerà o superbia o ri- 
dicolo puritanismo. Sia; di questi censori non muoverò 
lamento. Ma se é vero che un amicissimo, a cui non 
possono essere ignoti i modi di condotta, che mi sono 
imposto, abbia avuto a dire, ch'io domandai un impiego, 
questo amicissimo lo chiamerò maligno mentitore e avrò 
cura di disprezzarlo in cuor mio come si conviene. — Ciò 
detto di passaggio, ti confesserò che sono ormai molto in- 
quieto pel mio avvenire. Qui, dopo un gran tuonare di be- 
nevolenze e di promesse agli orecchi de' miei benevoli e 
spontanei mediatori, non s'è veduta goccia di tanto nembo. 
Di là, ossìa oltre l' Isonzo, un drappello di amici, che. mi 
tempesta con lettere, perché mi guardi dal ritornare, se non 
bramo di andarmene in gabbia. Sono specialmente i miei 
genitori, che mi scongiurano a restarmi qui e a domandare, 
come feci, l'espatrio. Se tutto ciò non fosse di mezzo, io 




Lettere. 293 

non esiterei un istante: ritornerei. E aggiungi a tutto ciò 
che i miei vecchi non possono vivere senza di me. Mio 
padre non può tirare innanzi con tutti i suoi affari. Una 
delle due adunque: o io a Capodistria, perché non manchi 
il vitto alla mia famiglia, o la mia famiglia con me qui 
nel Regno. Vedi adunque se avevate ragione di sorpren- 
dervene, tu e M....! 

Queste particolarità, che debbono infastidire chi non é 
tratto dall'affetto a occuparsene, io le scrivo per te solo. Non 
voglio confidenti, che non abbia scelto io. Pur troppo sono 
costretto ax discorrermele queste miserie, ma ci tetogo a 
escludere dal prendere parte a siffatte conversazioni chiun- 
que non sia mio intimo amico. 

In altra mia ti parlerò delle cose patrie. Qui ti dirò sol- 
tanto, che regolai le comunicazioni colla provincia per qua- 
lunque oggetto da spedirvisi, che ci ponemmo d'accordo 
sul contegno legale ed estralegale da tenersi sotto il go- 
verno austriaco, e che qui ho già iniziato conferenze per 
alcune operazioni patriottiche, che avranno certo la tua ap- 
provazione. Delle elezioni municipali di Capodistria, riuscite 
egregiamente, avrai avuto già notizia. 

Addio, credimi il tuo i 

Carlo. 


Venezia, 51 dicembre 1866. 
Carissimo.,. 

Rispondo subito alla tua gradita di ieri. 

Quanto alla corrispondenza, va tutto bene quello, che 
fai tu, a cui demando ogni riscossione e quando e come 
credi meglio. 

Scrissi subito a Padova per ricuperare la circolare, di cui 


294 Lellere, 

mi parli, e non mancherò di farne menzione nella prossima 
mia relazione dell'Istria. Non accusare i X..* di Trieste, 
perché già ti dissi ch'essi manderanno o a te direttamente, 
o a me. Ora in questa seconda quindicina di dicembre ebbi 
da loro due lettere, delle quali mi valsi per comporre le 
corrispondenze, che ti ho spedito. 

Vedrò L... questa sera, e gli dirò quanto raccomandi. 

Il mio espatrio non fu ancora accordato. Si spera che 
lo sarà nella seduta 4i Giovedì. Io quindi non ne avrò il 
decreto che nella ventura settimana, e poi, prima di rina- 
patriare, sarà bene che ottenga la cittadinanza italiana. Anzi 
in questo proposito ti prègo di istruirmi sulle normalità 
relative. 

Tu domandi delle cose mie, e puoi ben credere, se a te 
solo ne parlerei per lungo e per largo, se non temessi di 
annoiare te e me. Siamo sempre alle assicurazioni, ma i 
fatti mancano. Il mio sistema di astensione non può es- 
sermi dannoso, perché vi furono i benevoli, che spontanea- 
mente si adoperarono per me. Non é dunque giusto il 
dire ch'io pretenda che il Governo venga a cercarmi col 
lanternino. Certo che se anche mi fossero mancati i bene- 
voli, non mi sarei per ciò meno astenuto. Ma allora non 
avrei pure pensato ad un impiego. 

I benevoli, che si accinsero a patrocinarmi per un posto 
nella magistratura, furono a Firenze il Correnti e il Gigli, 
e a Padova Cavalletto, Colletti e Pepoli. Io avrei avuto 
assai più voglia per l'istruzione, ma non ebbi coraggio di 
dirlo, al vedere tanti miei amici, come Fiòrioli, Occioni, 
Fichert, Tedeschi ed altri, che battevano la stessa via. E 
poi pensava che sarebbe stato più facile riuscire là, dove 
sono in maggior numero le nicchie. Se fossi slato senza 
famiglia, mi sarei esposto più volentieri ad aver nulla che 
a mettermi in campo che non é di mio genio. Ma... ma 


Lettere, 295 

ho i miei vecchi, a cui pensare, e a pensarvi ci ho gusto, 
anzi il solo gusto, che mi rimanga. 

Adesso il prof. L... ch'é mio amicissimo, vuole muoversi 
di tutta Iena per l'istruzione, cioè perché nii sia affidata la 
reggenza di un ginnasio. Vedremo: io ne andrei certo ar- 
cipiù che pago. 

Non pensare poi che la facenda del mio vivere lontano 
dalla mia famiglia sia di poco rilievo. Mio padre conta i 
73 anni, e non debbo, non posso, non voglio lasciarlo fa- 
ticare in alcun modo. Ora, credilo, i proventi non sono 
tali, da stipendiare un collaboratore. E poi dov'è il collabo- 
ratore? Non saprei trovarne uno opportuno che accettasse, 
e credilo pure per fermo. D'altra parte i contadini dell'Istria 
hanno la loro fede nella persona, e senza la persona, vol- 
tano la terga. Adesso p. e. hanno fede in me. Lo studio 
rifioriva assai bene, e non puoi immaginarti il danno, che 
già ne derivò a me e ai miei della mia lontananza. Dunque 
è impossibile pensare ad altro partito che a quello di ri- 
manere uniti. Le larghissime promesse mi portarono a de- 
cidermi per qui, e quindi a far cose, anche dopo il trat- 
tato di pace e dopo la Risoluzione Imperiale del novembre, 
che non avrei fatte, avendo avuto in mente di ritornarmene. 
Quindi l'espatrio, quindi in una parola la impossibilità or- 
mai di sognare il mio domicilio in Istria. Se potessi ricon- 
durrai al 3 di ottobre, non esiterei un istante a tradurrai 
nuovamente sul mio povero scoglio. 

In ogni modo ho coscienza, che se errai, non errai per 
irriflessione. Fui tratto in errore, e non ultima parte in ciò 
s'ebbero gli ammoniraenti dei parenti e degli amici, i quali 
tutti mi volevano qui, alcuni per la bontà loro di riputarmi 
atto a fare alcunché di bene anche su quest'altra scena, ed 
altri, tra cui in capite mia madre, per la paura di vedermi 
finir male fra i tanti pericoli, che non avrei certo causati, 
come non li causai per lo addietro. 


2^6 Lettere. 

Tu vedi adunque che la matassa é bene intricata, e che 
*non ho tutto il torto di vegliare qualche notte. 

Quanto alle cose nostre, io sono animato dalle più belle 
speranze. Mi diranno ottimista, ma io vedo una guerra con- 
tro la Russia. È sempre Tantica mia ipotesi di una coali- 
zione contro quel colosso, che spinge le sue propagini vi- 
gorose fino nel centro di Europa e nella spiaggia dell'A- 
driatico . — Coiristria le comunicazioni, come ti dissi, sono 
molte e buone. — A Padova il Circolo, sopra domanda 
del comitato di emigrazione (ora sciòlto) si occupò e si 
occuperà a formare una commissione nel suo grembo per 
le cose di Trento e dell'Istria, e farà invito a tutti i cir- 
coli d'Italia di imitarne l'esempio. — Alcuni dotti qui e a 
Padova leggeranno e poi stamperanno memorie su di noi. 
— Un egregio mio amico francese, che si trova ora do- 
miciliato in Padova, si presentò alle principali redazioni dei 
gionali di Francia, munito di un'ampia commendatizia del 
comitato di emigrazione, perché accettino sue corrispon- 
denze intorno alle cose istriane. Col mezzo del capitano A... 
che conobbi qui in novembre, e che ora sta in Londra, c'è 
speranza di vedere accolte le nostre relazioni anche nel 
Times. Egli assicura che la cosa fu già appieno composta. 
Ci vorrebbe ancora un deputato istriano a Firenze. A Pa- 
dova me ne hanno parlato alcuni del Circolo, ed io risposi 
che non ho diritto d'impedire una loro dimostrazione di 
simpatia pel mio paese. Di ciò peraltro ti prego partico- 
larmente di non parlare, finché non si faccia chiaro. Ho 
sempre paura di vedere in tanta moda di ciarlataneria, che 
mi si porti con tali ampollosità, da farmi arrossire. Gli a- 
mici più caldi sono il conte Leoni, il Fiorioli, il Brusoni e 
il Leva, e i voli pindarici dei due primi, a cui li so incli- 
nati per indole, mi mettono la febbre. — Finalmente (e 
non ti garantisco di questo finalmente) c'è un po' di la- 


Lettere. 297 

voro, a cui attendo nella Marciana. Ho per le mani più og- 
getti, vale a dire il libro, di cui già ti scrissi, sullo stampo 
di Baisini, le lettere del Vergerlo Seniore, e il processo del 
-Vergerio apostata, nonché il secondo volume della. Biblio- 
grafia, Troppe cose: convengo, ma non si può lavorarne 
una sola, perché ora per l'una ed ora per l'altra capitano 
inevitabili soste, e allora conviene ripigliare ciò che lascia 
continuarsi. — ; Del resto questo é il programma di lavori 
letterari . presenti e futuri, e non già dell' oggi soltanto e 
subito che vi attendo e tu me ne chiedesti, te lo sciorinai 
intiero. 

Lasciai a Monfalcone una ventina di copie per te del- 
l'opuscolo sui celebri istriani. — Ne vedrai un cenno sul 

Tempo. 

Il tuo 

Carlo. 


Venezia, 3 giugno 1867. 
Amico Carissimo. 

Ebbi la gradita vostra, e siamo in tutto perfettamente 
d'accordo. 

Sono già parecchi anni che a Capodistria abbiamo pro- 
pugnato la opportunità di fonderci colla Società Triestina 
di orticoltura. Ma l'Istria al di sotto del Quieto, e partico- 
larmente Rovigno, dove era il comitato promotore della 
Società agraria istriana, voleva che questa avesse vita. Noi, 
per non sembrare ostili a tale progetto per viste munici- 
pali, abbiamo lasciato fare. Ora per altro mi parvero per- 
suasi anche i rovignesi del nostro concetto. 

La cooperazione del Gigli tornerà fruttuosa e onorevole 
assai. Ottima cosa adunque lo impegnarlo, come avete fatto. 


29^ Letìere* 

T~ ■ r-u — 1 ■— 1^— r ■"■ — T 1 ■ * I -, ■ I ■ 

State pur sicuro, che tutti gli amici comprendono la si 
prema necessità di concentrare gli sforzi a Trieste, eh' 
città popolosa, ricca, intraprendente e in vista di tatto 
mondo. Fu appunto su di ciò che stimai mio debito d'ii 
sistere maggiormente, come non aveva mancato di soste*] 
nere anche per Io passato. A Trieste le parate, oltre a tutto 
il resto; e nelle pròvrncie il continuo lavoro attorno alle 
instituzioni civili, non senza prendere parte, tratto tratto, 
alle attestazioni piò dirette delle nostre aspirazioni. 

Ora qui, dal canto nostro, conviene particolarmente at- 
tendere a risvegliare l'attività della Associazione nazionale. 
È vero bensì, ch'essa non esiste che di nome, e che il suo 
presidente A.., e il suo segretario B... non tengono su che 
l'insegna. Ma appunto perchè non la fu sciolta mai, avremmo 
tutto pronto, purché si volesse. Fino dall'agosto ultimo de- 
corso ne aveva parlato al F..., e l'ultimo atto, che abbiamo 
pubblicato nell'opuscolo, stampato allora presso il Barbèra, fu 
una conseguenza di quelle prime pratiche avviate. La fac- 
cenda peraltro delle trattative di pace ci obbligò a sopras- 
sedere. In seguito ne scrissi al C..., e egli mi rispondeva 
che troppo arduo era rianimare un cadavere. Ora peraltro 
il F... avrebbe qui assicurato, che il governo non disame- 
rebbe una nuova attività della detta associazione, purché, 
conie appunto avevamo proposto noi, essa versasse, non 
già ad agitare in senso rivoluzionario, ma ad illustrare i 
grandi interessi nazionali, che si connettono colla que- 
stione della frontiera e dell'Adriatico. Scrissi quindi imme- 
diatamente a parecchi amici di Firenze, e particolarmente 
al Conte Antonini e al C..., e parlai qui col C..., fl quale 
se ne interessò molto e si propose di trattare la cosa con 
tutto l'impegno a Firenze, dove ritorna quest'oggi. I! Tempo 
di qui sarebbe l'organo specialmente delle nostre regioni 
sull'Adriatico, e cosi andrebbe salvo da quelle altalene, che 


». 


Ledere. 299 

non. fanno onore alla provincia, da cui esso emigrava. Nel 

suo onore, sebbene a torto, é pure un poco impegnato an^ 

che il nostro. L'A,.. é tutto ardore per lavorare anch' egli 

in questo senso, e vuole anzi recarsi di persona a Firenze 

per assicurare l'esito del progetto. Niente di meglio. 

Io di ciò scrivo a voi e agli altri amici di costà col 
mezzo vostro, perché vi poniate voi pure a giovare l'in- 
tento con tutte le vostre influenze e relazioni, e credetemi 

il vostro aff ""» 
C. A. COMBI. 


Venezia, 21 aprile 1877. 
Amico J^arlssimo, 

Che pensate delle possibilità riguardo alla nostra causa, 
ora che la guerra d'oriente sta per cominciare od é già co- 
minciata? , . , , . . 

Il nostro Governo non Ji^ i^ee ancora, a mio credere, 
che ci possano far nascere detle lusinghe* Ma gli avveni- 
menti possono imporgli la saviezza. D' altra parte> s' esso 
venisse meno al debito suo, dovremmo noi starcene inerti ? 
Non dovrenimo, anche senza speranza di riuscita^ richia- 
mare, più strepitosamente che fosse possibile, sulla nostra 
causa la pubblica attenzione? 

Pur troppo, noi non possiamo ancora che mettere ipotesi 
in aria; ma anche sulle ipotesi é bene ravviaire le nostre 
idee circa l'atteggiamento 'da prendere. 

L'amore, che portate all'Istria, mi rende certo che starete 
con noi anche in. questa nuova fase del nostro gran tema, 
e ci soccorrerete intanto del vostro avviso. 

Scrissi ai due magnati pel vostro e nostro aspiro; ma 


300 Lettere, 

pare che sia legge pegli esercenti la professione di uomini 
grandi di non rispondere. Non dubitate della mia insi- 
stenza. 

Mia madre corrisponde ai cortesi vostri saluti, e cosi 
tutti gli altri di casa. Io poi vi abbraccio in ispirilo con 
tutto l'afFetto, e mi riprotesto 

il vostro afF.™o 

C. A. COMBI. 

P.S, Il Memoriale, che presentammo al Depretis, con pa- , 
recchie pubblicazioni relative alle nostre proviìicie, s'ebbe 
il bellissimo effetto di una viva raccomandazione a non 
fare, né dire cosa, che potesse compromettere il Governo. 


Venezia, 21 dicembre 1877. 
Mio ottimo amico» 

Quanto agli affari pubblici, pur troppo l'amore per l'Istria 
del nostro partito é tanto circondalo da cautele, da pru- 
denze, da raccomandazioni di non comprometterlo, che per 
ora abbiamo a sperare ben poco aiuto da esso. Non manco 
però di stargli addosso, perchè data l'occasione, non s'abbia 
a ricominciare ab ovo. 

Il C va sempre meglio, e penso di visitarlo 

quanto prima. L'egregio uomo fece del suo meglio nel di- 
scorso agli elettori suoi per conciliare il programma del 
suo partito coli' affetto, ch'egli ha sicuramente per la nostra 
causa. A dargli un attestato della nostra riconoscenza, volli 
ch'esso fosse stampato a spese del nostro Comitato ed egli 
ci fu gratìssimo di questa dimostrazione della nostra rico- 
noscenza. 


Lettere, 301 

Anch'io m'ingegnai a parlare dell' Istria nell' Istituto Ve- 
neto la scorsa domenica. Trattai della sua rivendicazione 
agli studi italiani, e appena il discorso sarà pubblicato ve 
ne farò tenere alcune copie. 

Io non mi lusingo di prossimi eventi favorevoli alle no- 
stre aspirazioni; ma la possibilità c'è più chiara che dopo 
il 1866, e quindi bisogna rianimare l'azione. 

Anche le stampe, comeché fatte malissimo, dell'Imbriani 
colla sua Italia degli Italiani giovano. Io mi sono recato a 
debito peraltro di avvertirlo che bisogna rendere più as- 
sennati quegli articoli e non confondere la causa nostra 
colla causa repubblicana. La causa nostra sta al di fuori 
delle lotte partigiane e deve essere caldeggiata da tutti i 
partiti, senza invidie puerili fra di loro. 

Del capitombolo del Ministero sono lietissimo...... E poi 

io credo che andiamo presto allo scioglimento della Camera, 
e che il paese non voterà più da pazzo, come fece la volta 
passata. 

Addio, mio carissimo amico. Mia madre, che grazie al 
cielo sta bene, vuol esservi ricordata. E cosi gli altri di 
casa e il L... 

- Salutatemi P..., e voi aggradite assieme agli auguri per 
le Feste e pel capo d'anno un cordialissimo abbraccio 

dal vostro 
Carlo. 


Venezia, 22 gennaio 1878. 
Mio egregio antico^ 

Le commozioni patriottiche di questi giorni mi valgano di 
scusa, se tardai a riscontrare la carissima vostra del 12 
corrente. 


302 Lettere, 

Noi siamo collegati deU*animo ia tutto e per tutto, e* si 
può dire con piena verità, che in quello, che fate voi per 
la nostra causa, entriamo noi, come fossimo presenti e coo- 
peranti, e cosi del pari voi in ogni nostra azione. 

Abbiamo fatto del nostro meglio, perché anche in questa 
circostanza luttuosissima le nostre provincie fossero all'al- 
tezza delle loro aspirazioni. 

Spero che avrete già letto nei giornali gl'indirizzi e le 
altre dimostrazioni spiccatissime al di qua e di al là dell'I- 
sonzo dei compatriotti dell'Alpe Giulia. 

Vostro 
C. A. COMBI. 


Venezia, 5 marzo 1878. 
Caro,,. 

Ti sono gratissimo delle tue premure e del patriottico 
proposito di agitare quanto è più possibile la nostra que- 
stione Il momento é veramente decisivo e bisogna costrin- 
gere il Governo ad almeno produrla nella prossima confe- 
renza. Farmi che l'immediata nostra esigenza debba essere 
questa. Poi andremo avanti secondo le circostanze. 

Per muovere la stampa a nostro favore vorrei che in 
ogni maggior centro taluno di noi raccogliesse intorno a 
sé i migliori pubblicisti (direttori, redattori e corrispondenti), 
li istruisse bene delle nostre ragioni, parte a viva voce e 
parte colle nostre pubblicazioni già fatte, e li impegnasse 
a gridare assieme con noi. Io qui col L... ho già composto 
un primo nucleo a tal fine, e per assorbimento andremo 
via via ingrossandolo. Tu... non potresti fare altrettanto? 
Senza dubbio Milano s'imporrebbe alla nazione molto più 
che Venezia. 


Lettere, 303 

Qualche cosa ai nostri interessi servirà la storia, che sto 
componendo, delle prestazioni patriottiche d'oltre Isonzo 
dal 1859 a questi giorni. L'avrei gii compiuta, se avessi 
potuto raccogliere tutte lie relative niemorie. Invece, lo 
spoglio dei giornali di Trieste, nei quali vi hanno pre- 
ziose confessioni a nostro favore, non é ancora fatto; 
e cosi attendo ancora i documenti, che riguardano il mo- 
vimento civile, sul terreno legale, delle tre provincie del- 
l'Alpe Giulia- Premetto ciò per venirti a pregar di voler tu 
pure ajutarmi. Mi manca lo spoglio della Perseveranza dal 
gennaio all'agosto 1860. T'é possibile averne i numeri di 
quel tempo, dove si parla delle dett^ provincie? 

Su questo argomento e su ogni altro invoco il tuo con- 
siglio, ch'é quello del patriotta altrettanto ardente che as- 
sennato. 

Passo ora a darti relazione di cose intime dei nostri Co- 
mitati e di una grave risoluzione che L... ed io abbiamo 
dovuto pren4ere or da ultimo, riservando però ogni diritto 
di agire diversaniente, pur consigliat^doli vivamente d'imi- 
tarci, ai nostri colleghi ed amici. 

Finp dall'agosto dell'anno scorso. L .., C... ed io ci siamo 
rivolti ai vecchi Comitati del Veneto per eccitarli a rico- 
stituirsi nell'uno o nell'altro modo, come meglio fosse loro 
sembrato, a vantaggio ieìh nostra causa, italiana e veneta 
insieme. Pur troppo, sebbene io abbia poi ripetute le pra- 
tiche col maggiore mio impegno, non si riusci ad alcun 
effetto. Il moderatismo si appalesò tutt'ahro che erede dello 
spirito di Cavour. Ad ogni pigmeo, la cui azione sia pure le 
mille miglia lontana dal compromettere l'atteggiamento del 
Governo, sembra di avere una gelosa missione diplomatica 
di faccia all'estero, e quindi di dover essere ancora più ri* 
servato dei più riservati uomini di Stato. Non volli tras- 
curare di indirizzarmi anche ai campioni della Destra per 


304 Lettere, 

averne, almeno in ombra e per mezzo dei loro confidenti 
più sicuri, una qualche parola, che ci permettesse dì cam- 
minare per la giusta via, di trattare la nostra causa senza 
venir meno al programma del nostro partito. Ma anche 
quest'altro tentativo falli intieramente. Il solo C..., pur di- 
stinguendo l'azione pubblica dalla privata, si mostrò uguale 
a sé stesso.* 

Intanto si rinnovavano da Roma, da Napoli, da Trieste, 
dall'Istria, dove si moltiplicarono i Comitati di colore di- 
verso, le più pressanti istanze per programmi di ogni ge- 
nere, già avanzate fin dai primi moti delle crisi d'oriente, e 
alle quali s'era potuto corrispondere con atti presso il Go- 
verno e presso i capi-partito da acquietare i discordi pro- 
gettisti. Le rinnovate insistenze mostravano poi questa volta 
indubbie velleità di parecchi a mettersi sulla scena. Grande 
era il pericolo che ne uscisse una babilonia da disono- 
rarci. D' altra parte a richiamare energicamente, come si 
sarebbe dovuto, tutte queste schiere variopinte all' ordine 
dei vecchi Comitati, che funzionarono fino dal 1858, si sa- 
rebbe potuto prendere apparenza di volgari ambiziosi di 
faccia al mondo volgare. Infine, era pur d'uopo riconoscere 
che gli uomini di Destra già a capo del nostro movimento, 
e che non fecero mai questione di partito, erano lasciati a 
sé, qui nel Regno dai loro compagni di fede politica, men- 
tre invece i nuovi capitani dei nuovi gruppi vantavano con 
verità di avere dietro di sé partiti nazionali in loro' appog- 
gio. L... ed io abbiamo quindi stimato necessario di pro- 
pugnare una fusione di tutti questi elementi con rinuncia 
reciproca ad ogni idea partigiana e con solo scopo di jgio- 
vare alla nostra causa al di sopra dei nostri partiti. Furono 
quindi costituiti due Comitati centrali, l'uno a Roma e 
l'altro a Trieste secondo questi principii, e i sub-comitati 
vengono ora composti colla stessa norma, avendo noi testé 


Lettere. 305 

eccitato gli amici, dopo averne chiamato qui alcuno a fa- 
vorire siffatta opera. Tutto ciò si succedette con tale furia 
e con tale varietà di casi di per di, che non ci fu possibile 
scrivere a te e a C... prima d'ora. Il più delle volte ci ve- 
demmo costretti a deliberare da un'ora all'altra. 

Senza dubbio, non é più possibile a noi di rispondere di 
ogni atto del nuovo ordinamento, e quindi, pur avendolo 
suggerito, ed essendoci pur prestati a regolarlo nel miglior 
modo mediante l'avv. F..., che mandammo a Roma, a Na- 
poli e a Udine, abbiamo dichiarato di voler essere conside- 
rati d'ora innanzi come semplici gregarii e di riservarci 
soltanto quella qualunque nostra opera individuale, la quale 
senza fare opposizione all'opera altrui, ci fosse suggerita 
dalla nostra coscienza o da commilitoni di una volta. 

Eccoti sommariamente la storia dei nostri imbrogli e del 
modo usato a porvi riparo, per quanto si poteva. 

Sarebbe ora nostro voto che tu pure e C... lasciaste ciò 
fare, tenendoci però uniti noi quattro, a vigilare l'andamento 
del nuovo ordine per adottare opportune misure, quando 
l'ordine degenerasse in disordine. 

E noto ancora che i Comitati, di cui ti parlai, sono af- 
fatto indipendenti dalYAssociaiione per l'Italia irredenta del- 
l'Avezzana e dell'Imbriani. Tutti accettarono di buon animo, 
da una parte e dall'altra, la netta distinzione dei due so- 
dalizio Se tratteranno fra loro, lo faranno sempre come da 
corpo a corpo, e la nostra società promise formalmente di 
guardarsi da ogni atto, che potesse anche solo parere ostile 
alla nostra forma di Governo. 

Ci farai sommo favore a dirci l'animo tuo su tutto que- 
sto, consultando previamente anche il carissimo nostro C..., 
a cui scrivo soltanto due righe, annunziandogli di aver e- 
sposto più estesamente a te lo stato delle cose. 
E se vi sembrasse necessario che ci vedessimo, ditelo 


ao 


3o6 LttUre, 

francamente. Forse, per distribuire equamente il disturbo 
del viaggio» potremmo stabilire di trovarci a Verona o in 
altra città intermedia* 

Oggi mi risponde C. , che, sebbene la interpellanza Ru- 
diiii sia stata una favola, egli si tiene pronto a parlare per 
noi, ove di noi cadesse discorso al Parlamento. Il suo pa- 
triottismo é sempre giovanile e generoso. 

Tuo 
Carlo. 


Venezia, 6 marzo 1878. 
Caro,.. 

Sono pienamente d'accordo colle tue opinioni, per quanto 
esse siano penose per noi tutti. Ma io confido ancora, es- 
sendo il tempo assai bujo. Cogli avvenimenti, per amore o 
per forza, spero che si farà luce anche pei ciechi. 

Tu hai risposto egregiamente al . « . . . ^. . .^ e credi 
pure che gli egoisti non arrivano a confutar tutto, per 
quanto fìngano di crederlo, nemmeno ai propri occhi : bat- 
tono, ma ascoltano, e talora si sentono anche battuti. 

Io pure ho risposto qualche cosa al detto .... in forma 
di corrispondenza da Trieste ntìV Adriatico^ e sebbene qui 
pure gli animi siano male disposti a ricevere le nostre pa- 
role, mi propongo di ripeterle, s'intende nei debiti modi, ad 
ogni occasione. 

Quanto al tuo consiglio, lo abbiamo già in buona parte 
prevenuto con indirizzi e deputazioni parecchie. Dal D. . . . 
non ci vennero che fredde proteste di speranze future. Il 
C... invece ci manifestò tanto interessamento, che più non 
si potrebbe desiderare. Egli arrivò a dirci che si considera 
istriano, e che, conoscendo tutta l'importanza della nostra 


Lettere. 307 

questione, ei vi metterà tutto il suo impegno. Saranno an- 
che queste nient'altro che parole ? È possibilissimo, ma ^ 
noi é tolto il rimorso di non aver fatto quanto si doveva. 

Sarebbe si assai bene che, dopo un ragionevole intervallo 
di tempo, altra deputazione si recasse a Roma. E magari 
che tu volessi assumere questo ufficio! Abbiamo si a Roma 
nostri rappresentanti, che stanno ai fianchi del Governo; 
ma sono tutti del suo colore, e vorrei quindi che anche 
un uomo intieramente nostro andasse a scrutare bene i suoi 
intendimenti. Egli completerebbe senza dubbio le relazioni 
avute particolarmente per mezzo del F... e del V..., che 
mandammo da qui e da Trieste. 

Relativamente allo spoglio della Perseveranza dal dicem-^ 
bre 1859 all'agosto 1S60, il meglio sarebbe ch'id stesso po- 
tessi farlo sopra un esemplare di quei mesi, che mi venisse 
affidato. Qualora ciò non si potesse ottenere, bisognerebbe 
in compendio dire l'argomento, di cui vi sia relazione, e co- 
piare soltanto qualche indirizzo, che vi fosse riprodotto. Na- 
turalmente^ le date non dovrebbero mai mancare. Il nostro 
R... non potrebbe dedicare un'oretta al giorno a questa briga 

patriottica? 

il tuo afF.™» 

Carlo. 
Hai avuto mano nell'opuscolo L'Italia ai confini slavi? 


Venezia, 9 maggio 1878. 
Caro... 

Ecco (poiché lo desideri, e ci é grato trattenerci teco 
comunque) quello, che ci parebbe buono tu facessi e di- 
cessi a Roma. 


3o8 Lettere. 

1. Visitare il C,. ., il C..., il Z .. e possibilmente qual- 
che altro 

2. Presentare al primo, se credi, l'unito indirizzo, ag- 
giungendovi la tua firma, e copia di esso al secondo co- 
gli opuscoli, di cui vi si fa menzione. 

3. Dichiararti mandatario del partito moderato della 
nostra provincia. E qui, se stimi opportuno, o di togliere 
gli equivoci, che potrebbero nascere dal confronto della tua 
deputazione con quelle precedenti del V... e del F.. , o d'im- 
pedire che ci si creda scissi e gareggianti, od anche di ri- 
spondere a domande più o meno esplicite, che ti venissero 
fatte riguardo ai rapporti tuoi e de' tuoi mandanti coi no- 
stri Comitati, fa comprendere, come meglio te se ne of- 
frirà il destro, che il partito moderato delle provincie del- 
l'Alpe Giulia ne diresse il movimento patriottico dal 1858 
sino a pochi mesi or sono, senza far mai questioni di parti 
politiche, ma giovandosi della cooperazione di tutti gli o- 
nesti, e che ha promosso anzi esso medesimo la recente 
ricomposizione, con elementi d'ogni colore politico, dei Co- 
mitati di rappresentanza e di azione per la nostra causa, 
formandone anche in oggi il nerbo al di là dell'Isonzo; si 
che le precedenti deputazioni, lungi dall' essergli estranee, 
furono principalmente opera sua. E se ti cade di farlo ac- 
conciamente, aggiungi che gli uomini più influenti dello 
stesso nostro partito e del paese si tengono uniti a) per 
coordinare l'opera loro collettiva all'azione dei Comitati, 
finché essi agiscono in modo, da onorare la causa, che trat- 
tano, da mostrare piena devozione agli ordini costituzionali 
del nostro Regno e da rimanere fedeli alla norma fonda- 
mentale di non recare mai imbarazzo alcuno al Governo 
nazionale, e h) per fare anche le proprie particolari rappre- 
sentanze ogniqualvolta lo stimino opportuno, com'è il caso 
presente, desiderando cosi di esprimere agli attuali consi- 


Lettere, 309 

glieri quanto confidino pel proprio paese nella 

loro rettitudine e sagacia. Né dire più di cosi nell'argo- 
mento dei motivi di lagno, che abbiamo riguardo alla con-' 
dotta dei Comitati, e ciò per non iscoprire discordie, tanto 
più che speriamo nel nostro C..., il quale metterà certo 
tutto il suo impegno a ricondurre al loro posto i fuorviati. 
Già, del resto, l'atto nostro speciale, che facciamo col tuo 
mezzo basta per sé medesimo a dar a capire che, mentre 
siamo tutti uniti allo stesso fine, possiamo non essere con* 
tenti di tutto ciò, che si opera per conseguirlo. 

4. Svolgere quanto al merito della questione, le idee 
appena abbozzate nell'indirizzo, che ti mandiamo, e insistere 
particolarmente sul grande pericolo di perdere forse per 
sempre l'occasione di provvedere alla sicurezza del Regno 
al suo lato d'oriente, quando non si sapesse cogliere quella, 
che l'odierno sviluppo degli avvenimenti può offrire. E cor- 
reggi due gravi errori assai comuni, cioè a) che l'Austria 
senza l'Istria sarebbe rimossa dall'Adriatico, mentre invece 
le rimarrebbe sempre un litorale sei volte più esteso e por- 
tuoso del pari, e h) che Trieste, per essere un porto, come 
Venezia e Genova, che serve alla Germania, abbia ad ap- 
partenere di necessità all'Austria o alla Germania. Non é 
Trieste fuori della linea doganale austriaca, si che oggi stesso 
é come una città estera appunto nei riguardi commerciali 
di confronto alle ragioni transalpine? Quelli, che con tanta 
pace fanno e risolvono contro di noi la ipotesi della Ger- 
mania a Trieste, non pensan che ciò sarebbe per l' Italia e 
per Venezia una suprema sventura? Che diverrebbe il no- 
stro Regno con quell'immane corpo a ridosso, sulle nostre 
Alpi, sul già sempre nostro Adriatico ? Non vorrebbe e po- 
trebbe esso fare di Trieste il principale porto e di Fola la 
principale fortezza del Mediterraneo? Allora si che Venezia 
potrebbe dirsi condannata al destino di Torcello. E siamo 


3 IO , Lettere. 

noi soli, che abbiamo interessi contrarii a queste cupidigie 
germaniche, o non sarebbe per l'Europa la questione della 
Germania in Istria come quella della Russia sul Bosforo? 
Sono veramente curiosi questi grandi politici alla B... ! Ove 
si tratti degl'interessi nostri, s'è poeti, s'è gente meschina 
e fatua a formare la più piccola congettura, la quale appa- 
risca loro avventurarsi al di là di ciò, ch'essi dicono il campo 
della politica; ma appena guardano agl'interessi delle altre 
nazioni, come vi guardiamo noi, scorgendo pur troppo 
tutti i malanni, che ne minacciano, oh! allora si permettono 
d'immaginare ogni più remoto caso disgraziato come già 
presente e irreparabilmente certo. 

Lascio andare la penna, fuori d'ogni bisogno per te, su 
tale argomento, perché la rassegnazione alla volontà d'oggi, 
di domani e di sempre della nazione germanica è diventata 
legge del pensare e del sentire quasi per tutti in Italia. 
Perciò non si vuole nemmeno conoscere la nostra que- 
stione. E qui sta il pericolo massimo, perché chi non sa 
non vigila, e chi non vigila perde anche le occasioni mi- 
gliori. Possibile che da noi tutti, tutti debbano fare i diplo- 
matici, e che il nostro talento diplomatico pel gravissimo 
argomento delle frontiere orientali d'Italia e dell'Adriatico 
abbia a consistere, non solo nel fingere d'ignorarlo, il che 
pure sarebbe enorme, ma perfino neU' ignorarlo e volerlo 
ignorare davvero? 

Del resto, per dirne ancora una delle molte, che ricor- 
rono alla mente riguardo alla Germania, pesta nel capo a 
taluno de' tuoi interlocutori romani la nozione elementare 
che la Germania avrebbe da passare sul corpo a vasta re- 
gione slava prima di arrivare al nostro golfo, e non ha an- 
cora messo innanzi il proposito arditissimo, che si ama di 
attribuirle, e di cui le si consente de plano come immanca- 
bile la piena attuazione. 


Lettere, 311 

Urge che si veda, che il senno e la fortuna possono ma- 
turare accordi coli' Austria, prima che il più formidabile ne- 
mico avanzi a toglierci ogni avvenire nell'Adriatico. 

5. Per iscandagliare gli animi, offri l'opera nostra ad 
ogni richiesta del Governo, e chiedi, come meglio potrai, 
consiglio sull'atteggiamento, che dobbiamo prendere. 

6. Importa sopra tutto trattare col massimo impegno 
l'affare del trasloco di C .. Il mezzo a ciò ci sembra quello 
del G..-C... non credt;uno adattato all'uopo. Egli potrebbe 
dissentirne, ed ha poi certe idee sul preteso obbligo del no- 
stro C... di attendere soltanto al suo officio didattico, che 
potrebbero renderlo piuttosto avversario che amico del no- 
stro divisamento. Ad ogni modo cerca di capirlo anche su 
di questo, e s'egli entra nel nostro concetto, niente di 
meglio. 

7. Grandissimo vantaggio per noi sarebbe che lo stesso 
G... assumesse le parti, che vogliamo assegnare a C..., Bu- 
che questi non possa portarsi a Roma. Ma dubitiamo forte 
ch'egli voglia prendersi officio maggiore di quello, già pro- 
messoci, di amico della nostra causa nelle personali sue re- 
lazioni. Ad ogni modo, speriamo ch'egli possa lasciarsi per- 
suadere a quanto più desideriamo da lui, e siamo certi 
che tu farai del tuo meglio a ottenere un si utile effettou 

8. Rinfresca a C... la memoria di quanto si é proposto 
di fare per noi, dietro la nostra conferenza di Padova, ri- 
spetto al gruppo di uomini autorevoli da raccogliere intorno 
a sé, perché anche il partito moderato del Regno ci con- 
tinui il suo patrocinio, e non abbiano a dire gli avversari 
ch'esso ci abbandonò intieramente. 

9. Intenditi più che puoi coi migliori giornalisti di costà, 
perché smettano finalmente le indegne ostilità, che ci op- 
pongono e ci lascino dire nei loro periodici almeno qualche 
parola riservata. 


312 Lettere, 

IO. Col Sella erompi in tutti i nostri lamenti e sfor- 
zalo a dire che debbasi fare da noi, che siamo cacciati da 
lui, né possiamo snaturarci tra i radicali. 

M'era proposto di scriverti poche linee, e ne uscirono 
troppe. Comunque, inutiUa non vitiant. 

In questo momento ricevo la tua del 9 e ne sono lieto, 
perchè giudico che il tuo Cesarino stia bene, se hai fer- 
mato di partire sabbato. — Quanto all'opuscolo da affidare 
al S... bisognerà che ne parli prima agli amici di là pel 
cumquibus^ essendo in corso altri lavori. Addio, e a rivederci 

a Padova. 

Carlo Combi. 

P.S. Ti aggiungo alcune copie degli opuscoli accennali nel- 
l'indirizzek, perché, occorrendo, tu le dia a chi ti pare. — 
Fa aggradire un esemplare del mio discorso al G 


Venezia, 30 maggio 1878. 
Amico carissimo, 

Abbiamo lungamente considerato le gravi ragioni, che ci 
avete posto innanzi riguardo alla vostra aspettativa^ e ne 
siamo scossi cosi, che crediamo opportuno di soprassedere 
alcun po' di tempo, tanto da vedere se le previsioni del 
futuro reclamino il grave sacrifizio, che voi siete pronto di 
fare cól solito vostro patriottismo. 

Del trasloco, pur troppo, non è a parlare. Gli amici o 
i benevoli, a cui mi era rivolto tosto dopo i nostri colloquii 
a Pavia, mi fecero vedere pressoché impossibile un tale par- 
tito nel corso dell'anno scolastico. Di questo ebbi a tacere 
a B..., quando gh scrissi. a Roma, pregandolo di adoperarsi 
col G.. allo stesso fine. Stimai ciò conveniente per non 


Lettere, 3 1 3 

iscoraggiarli e avere da essi come un controllo libero da 
prevenzioni dì ciò, ch'era stato fatto credere a me. E dis- 
graziatamente anch'essi giudicarono allo stesso modo. 

Intanto facciamo altro memoriale al Corti, che sarà il 
nostro plenipotenziario al Congresso. Maledetti i memoriaU ! 
Conviene sempre rifarsi da capo, ed ora forse più che mai. 
Chi avrebbe mai pensato che un ministero Cairoli sarebbe 
stato per noi come quello del Lamarmora, e forse peggio ? 
Scriverò anche al G.. , che conosco bene fino dagli anni, in 
cui eravamo compagni di congiura* Ma in verità che il 
consiglio in bocca sua di unirci tutti anche coi più esaltati 
non me lo so spiegare. Promotori dell'unione siamo stati 
noi; ma é pur necessario che almeno un drappello degli 
antichi commilitoni stia raccolto per una duplice azione 
allo stesso intento, cioè l'azione da gregarii nell'ordinamento 
generale dei nostri comitati (ora ridotti ad una vera babi- 
lonia a fronte di ogni nostro impegno a scongiurarla) e 
l'altra tutta sua particolare e personale, come sarebbe quella 
d'ogni singolo patriotta, che s'interessasse nella sua specia- 
lità, senza ombra di gretto separatismo, di comuni interessi 
della nostra causa. Non si tratta di divisione di forze, ma, 
nell'unione, di una cooperazione e vigilanza distinta. 

Sta lavorando il Fambri, che scriverà un articolo coi 
fiocchi nella Nuova Antohgia a vantaggio della nostra que- 
stione.... 

11 vostro 
Carlo. 




'.Vii 




314 Lettere, 


Venexia, io marzo 1880. 
Caro. .. 

Il comune amico L ... desidera ch'io pure ti raccomandi 
vivamente Taffare di P .., di cui egli ti scrisse or da ultimo. 
Io lo faccio ben volontieri. Non é già ch'io mi dissimuli 
le difficoltà dell'assunto; ma penso ad un tempo alla ne- 
cessità estrema di mettere assieme qualche soccorso anche 
noi, di fronte a quanto fanno e ostentano di fare, con gra- 
vissimo danno della nostra causa fra le ignoranti popola- 
zioni dell'Istria, gli Slavi di Lubiana e di Zagabria. E se v'é 
la possibilità di riuscire qui nel Regno a combatterli anche 
sa questo campo, l'unico centro a ciò é senza dubbio Mi- 
lano, e tu la sola persona veramente adatta all'uopo sot- 
t'ogni riguardo. 

Non dico altro, conoscendo il tuo cuore e la tua sa- 
gacia. L'opera tua sarebbe di un altissimo valore politico. 

Una stretta di mano cordialissima 

dal tuo 
Carlo. 


Venezia, 2 maggio 1880. 


Mio carissimo..,. 


Le mando sotto fascia una copia della Venezia GiuUa di 
Fambri e Bonghi e bisogna assolutamente eh' Ella scriva sul- 
r importante volume un articolo da inserire in uno dei gior- 
nali di costà. Il volume merita di essere letto e studiato. 
Dunque i buoni e gl'intelligenti richiamino su di esso Tat- 
tenzione del pubblico. Badi, mio carissimo Carlo, che su 
questo favore conto sicuramente, e tanto più che si tratta 


LttUre. 315 

di un atto patriottico e insieme sagacissimo, essendo il libro 
decisamente contrario a tutte le intemperanze^ a tutto ciò, 
che può recare imbarazzo al nostro Governo nazionale. È 
al Governo soltanto che bisogna lasciare la direzione com- 
pleta dell'azione politica dello Stato. 

Grazie in anticipazione e un affettuoso abbraccio del 

Suo 

COMBI. 


Veuezia, 29 settembre 1880. 
Caro.. .. 

Ti mando sotto fascia un mio libercolo sul seniore Ver- 
gerio, e Dio voglia che presto mi liberi dal lavoro, di cui 
esso é come il programma. Pur troppo, io non posso stu- 
diare queste cose che nei ritagli di tempo, tante sono le 
altre mie occupazioni, parte doverose e parte venutemi ad* 
dosso cosi, da non potermene sciogliere. 

Colgo poi l'occasione per pregarti di volermi dire, se 
codesto Comitato per l'Esposizione Industriale del iBBi é 
in animo di correggere l'enorme suo sproposito. Se lo cor- 
regge, niente di meglio. Se no, bisogna che anche noi mo- 
derati gli facciamo vivissima guerra. Ci vorrebbe altro che 
fossimo esclusi dalla vita nazionale anche nei campi estranei 
alla politica! 

Confido che tuo padre continui a star bene. La lietis- 
sima notizia della sua guarigione l'ebbi da lui medesimo 
fino da principio^ e me ne congratulai con lui e con te di 
grandissimo cuore. 

Io pure fui afflitto da una disgrazia, che poteva essere 
per me la più tremenda. Ai primi del passato agosto mia 


3i6 Lettere. 

madre fece una sciaguratissima caduta e si fratturò il brac- 
cio sinistro Ora, grazie al cielo, la rìcongiunzione può dirsi 
perfetta, ma non ancora, come vorrei, ricomposto l'animo 
delta povera vecchia. 

Dimmi di te e della tua famiglia, cui desidero ogni bene, 

e credimi 

Il tuo aff."^» 

Carlo. 


Venezia, 21 settembre 1882. 


Carissimo. .. 


Non occorre che ci parliamo per essere d'accordo a ri- 
provare altamente la selvaggia follia della bomba scagliata 
contro la bordaglia dei cosi detti veterani triestini. 

Ma é impossibile non riconoscere che il reato fu politico. 
Il movente, che trasse qualche giovine fanatico a commet- 
terlo, fu certo il proposito di protestare contro una dimo- 
strazione ostile alla italianità di Trieste e di salvare a suo 
modo l'onore politico di essa. 

Tanto é ciò vero che l'autorità giudiziaria austriaca, nel 
richiedere l'arresto di alcuni nostri comprovinciali qui do- 
miciliati e creduti complici di quel delitto, parlò di alto tra- 
dimento, e non di omicidio soltanto. 

Ora il trattato fra l'Italia e l'Austria per l'estradizione 
dei delinquenti non va applicato in alcun modo, per espli- 
cita disposizione , ai reati politici. Ed é poi canone di 
giurisprudenza, che, quando non può aver luogo l'estradi- 
zione dell'imputato, non possa aver luogo nemmeno il suo 
arresto. 

Fu dunque illegale l'arresto ordinato qui del Parenzan e 
del Levi, e parécchi giornali di Venezia e di Roma hanno 


Lettere. 317 

protestato giustamente contro Tarbitrio. Anzi i - migliori no- 
stri magistrati se ne lagnano anch'essi e accusano questo 
procuratore generale di leggerezza e vigliaccheria. So da 
sicura fonte eh' essi desiderano che la stampa più seria faccia 
sentire la sua voce a condanna di questa enormità. 

Io ti prego dunque, a nome anche di L...., di muovere 
contro di essa anche i migliori giornali di costà. Un tuo 
articolo vigoroso potrebbe giovare un poco ad impedire che 
si trascorra (e il pericolo non è fantastico a questi lumi di 
luna) perfino alla turpitudine della consegna degli arrestati 
alle autorità austriache. 

Conosco l'animo tuo, e quindi altro non soggiungo. 

Siamo pel disastro delle innondaziohi costernati. Voleva 
mettermi in viaggio e forse visitarti ; ma non so più che 
fare. 

Il tuo 
Carlo. 


Venezia, i febbraio 1883. 


Carissimo..,, 


Gravissime sono le domande, ch'Ella mi fa, e per rispon- 
dere ad esse bisognerebbe ragionare assai lungo e sopra 
tutto a voce. Creda che non le dico questo per pagare il 
mio debito nel modo più spiccio, ma si invece per intimo 
convincimento. 

Quello, che si stia preparando nel segreto dei gabinetti, è 
un mistero per tutti. Ogni ipotesi é possibile in tanto in- 
treccio di mosse e di contromosse. La causa nostra, ri- 
tenga pure, é bene compresa anche da chi sembra tra noi 
volerla avversare. Ma in politica tutto deve obbedire alla 


3i8 Lettere. 

ragione deiropporfunità. Principalmente poi non deve ar- 
rogarsi alcuno di sostituirsi al Governo nazionale nell'arduo 
assunto di condurre la politica e interna, t esterna. Censu- 
rarlo, se stimisi faccia male, é diritto, è dovere di ogni cit- 
tadino ; ma influire su di esso altrimenti che nelle vie legali 
é delitto di offesa patriottismo. 

Più non posso dirle, e mi auguro che ci rivediamo pre- 
sto, perché mi sia dato di effonderle tutto l'animo tMo. 

Mi ricordi con rispetto alla sua sigriora, ed Ella, oraris- 
simo...., aggradisca la più cordiale stretta di mano 

dal suo aff.»"® 

COMBI. 


INDICE 


Al lettore Pag. v 

Carlo Combi » xxi 

Prodromo della Storia dell* Istria » i 

Dell'unità naturale della Provincia ...» 59 

Notizie storiche intomo alle Saline dell'Istria .... » 94 

Delle Scuole serali in Istria » 113 

Studj storiografici intomo all'Istria » 121 

Dei Proverbj Istriani » 143 

Etnografìa dell' Istria » 1 50 

La Frontiera Orientale d'Italia e la sua importanza , . » 179 
Importanza dell'Alpe Giulia e dell'Istria per la difesa del- 
l'Italia Orientale » 200 

Appello degli Istriani all'Italia » 219 

Della Rivendicazione dell'Istria agli studj Italiani ...» 250 

La soluzione » 273 

Lettere » 287 


Bre»zo L. S. 


1. 



ì'Imà 



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